Death Race

di The Custodian ofthe Doors
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Boredom. ***
Capitolo 2: *** Enrollment. ***
Capitolo 3: *** Ticket. ***
Capitolo 4: *** Start Line ***
Capitolo 5: *** Run ***
Capitolo 6: *** Ivy ***
Capitolo 7: *** Moon ***
Capitolo 8: *** Dogs ***
Capitolo 9: *** Seven ***
Capitolo 10: *** Stolen ***
Capitolo 11: *** Mother ***
Capitolo 12: *** Way ***
Capitolo 13: *** Natural ***
Capitolo 14: *** Return ***
Capitolo 15: *** Eye- parte prima ***
Capitolo 16: *** Eye- parte seconda ***
Capitolo 17: *** Haze. ***
Capitolo 18: *** Burn. ***
Capitolo 19: *** Maria. ***
Capitolo 20: *** Hearth. ***
Capitolo 21: *** Bless. ***
Capitolo 22: *** Promise. ***
Capitolo 23: *** Meet. ***



Capitolo 1
*** Boredom. ***


D  E  A  T  H      R  A  C E


 
I. Boredom.

 

Il rumore costante della pendola francese che oscillava nello scandire i secondi lo aveva sempre irritato. Non che al mondo esistesse qualcosa che non lo facesse ovviamente, l'irritazione era alla base della sua vita, lo era sempre stato e lo sarebbe stato per sempre, ma questo era un punto non essenziale della faccenda.
Il punto focale stava nel tempo ormai irragionevole in cui stava aspettando che quel deficiente si degnasse di presentarsi, un ritardo così palese ed enorme che dava solo due possibilità: o si era dimenticato di lui o stava per crollare il mondo.
Forse la prima, se fosse stata la seconda se ne sarebbe fregato e sarebbe comunque andato a fargli visita.
O forse avrebbe dovuto capire che razza di persona era andato a farsi amica quando era ancora un ragazzino di appena tredici anni e si era ritrovato davanti quella figura fine e slanciata che pareva appartenere molto di più ai quartieri altolocati di qualche città del nord e non alle viuzze dissestate dalle radici dei pini della periferia di Roma.
La borgata, così gli avevano insegnato a chiamarla e così avrebbe sempre fatto per il resto dei suoi giorni.
Ad onor del vero, aveva pensato che l'altro ragazzino davanti a lui fosse uno straniero, un invasore o come cavolo li volevano chiamare a quel tempo. La sua pronuncia però era uscita fuori fluida e sicura, come se avesse studiato l'italiano dalla nascita, come se fosse proprio italiano. Di certo non era della sua bella Roma, lui i romani li riconosceva a colpo d'occhio, così, come una schicchera.
Rimaneva il fatto che quel lontano 8 Agosto di troppi anni fa si era ritrovato a dar informazioni stradali ad un ragazzetto di forse quindici anni, vestito come un pinguino, tutto di nero sotto il Sole impietoso della città e tutta l'umidità che il biondo Tevere poteva offrire assieme alle sue spaventose colonie di zanzare; e visto che il tipo si ostinava ad usare nomi di strade che non aveva mai sentito in vita sua e che suonavano tanto come quelle parole che diceva il prete la domenica tutte le volte che Suor Patrizia riusciva a prenderlo per un orecchio e trascinarlo a messa, lui si era rimboccato le maniche e lo aveva trascinato a sua volta di peso verso la Rotonda, rispondendogli malamente e a mezza bocca che no, quella era Santa Maria alla Rotonda, non era il Pantheon o come cavolo voleva chiamarlo lui.
Osservando di sottecchi il braccio dorato dell'orologio continuare il suo moto perpetuo si domandò come avrebbe vissuto se quel giorno il damerino non gli avesse chiesto niente, se avesse fermato il signore dietro di lui o la donna con la carrozzina che era passata prima.
Probabilmente il bastardo lo avrebbe aspettato, sia mai che osasse mischiarsi alla plebe. Avrebbe dovuto decisamente prenderlo per l'orecchio come faceva quella megera Suor Patrizia con lui, e pace all'anima sua che era morta almeno settant'anni fa.
Portò la mano verso la bocca e strinse il sigaro tra i denti, saggiando la consistenza dell'involto di foglie ed il sapore erboso del fumo.
Se quello stronzo non si fosse presentato entro due minuti netti, e aveva la dannata pendola a fargli da cronometro, si sarebbe alzato, gli avrebbe spento il sigaro su quel tendaggio che piaceva tanto a sua moglie e se ne sarebbe andato. Sì, gli pareva davvero un bel piano, avrebbe sentito le urla della signora anche a chilometri di distanza.
Anche se in questo modo poi si sarebbe dovuto sorbire le lamentele dell'altro per almeno un paio di mesi. E vabbé, avrebbe sopportato i borbottii di quel cane per un po', ne sarebbe valsa la pena.
Si alzò dalla sedia e fece un cenno secco con la mano al cameriere che gli si era avvicinato, lo scricchiolio delle giunture fu così forte che l'uomo si aspettò di veder l'altro crollare a terra in frantumi ma sapeva perfettamente che non sarebbe successo, non in quel luogo.
<< Fammi un favore Ambrogio, quando vedi quel coglione del tuo capo digli che mi sono rotto le palle di aspettarlo e che se mi conoscesse davvero come dice di fare mi avrebbe almeno mandato uno straccio di avviso.>>
Il cameriere, che certo non si chiamava Ambrogio, lo guardò con sguardo vuoto e si inchinò come ad affermare che avesse capito.
Il sorriso sbilenco e aguzzo che si andò ad aprire sul volto dell'uomo si fece divertito ed anticipò una pacca forte sulla scapola ossuta del valletto. Se lo lasciò alle spalle e si avviò verso la poltrona preferita dell'amico, il suo trono, come lo chiamava lui con fare stizzito e pomposo.
Come ti pare, replicava ogni volta disinteressato.
Ci si accostò e fissò poi il suo bel sigaro. Mh, gliene avrebbe dovuto uno poi, doveva dirglielo.
Lo spense senza troppe cerimonie contro la lunga stoffa nera che si trovava abbandonata sui braccioli ed immediatamente ebbe l'effetto che si aspettava.
Un vociare concitato invase improvvisamente la stanza, lamentele e mugugnii, gemiti di dolore e grida soffocate.
L'uomo sorrise un po' di più e non mutò minimamente la sua espressione quando si sentì richiamare all'ordine.

<< Gio! Quante volte ti ho detto di non importunarmi le anime!>>

Gio, ancora una volta non che fosse il giusto nome, si girò soddisfatto, avvicinò il sigaro ad una delle lanterne vicino al trono e lo riaccese con la facilità di un abitudinario consumato.
<< Perché? Tanto peggio di così mica gli può andare.>> si strinse nelle spalle e scese i gradini che tenevano quella porzione di pavimento sopraelevato.
<< Abbi un po' di rispetto.>> fece secco l'altro uomo avanzando per la stanza con passo sicuro.
<< Quello che tu non hai avuto con me facendomi aspettare, intendi?>> frecciò l'altro ironico. << Te lo era dimenticato eh?>>
<< Assolutamente no.>> lo guardò come se quella fosse una terribile accusa e l'amico inarcò un sopracciglio.
<< Allora ti ricordavi che ero qui con Alfredo e non hai pensato di avvisarmi?>>
L'espressione di quello che era il padrone di casa si fece improvvisamente spazientita e rassegnata, come se ci fosse ormai abituato a quelle scene.
<< Non si chiama Alfredo… >>
<< Aggiungila alla lista delle cose di cui non me ne frega niente.>> rispose quello con un sorriso irritante. << Su, cosa c'era di tanto importante da farmi aspettare? Topolino ha di nuovo avuto una crisi di mezz'età e voleva per forza giocare con te, Pluto?>>
Il ringhio animalesco che fuoriuscì dalle labbra pallide del suo interlocutore avrebbe messo paura a qualunque creatura dotata di un minimo di intelletto e soprattutto di istinto di sopravvivenza. Ma dato che Gio pareva non avere nessuno dei due, o più semplicemente c'era abituato, si limitò a ridere divertito,
<< Visto? Ringhi pure!>>
<< Non chiamarmi in quel modo!>>
<< Ti ci ha chiamato tutto il mio popolo per secoli, perché io non posso?>>
<< Perché io invece non ti ho ancora ucciso?>>
<< Perché in tutta la tua onorevole vita immortale sono l'unico pazzo abbastanza pazzo da esserti diventato amico. >>
Il sorriso che gli illuminò il viso per un attimo lo fece ritornare il bambino di tredici anni che lo aveva trascinato in giro per Roma tirandolo per un braccio come se fosse un qualunque monello di strada.
Il ricordo gli scaldò il petto come solo poche cose al mondo potevano fare e l'uomo, il dio, scosse la testa e fece cenno al suo amico di sedersi dove era stato seduto per tutto quel tempo e di starlo ad ascoltare come faceva da quando si erano conosciuti.
<< Zeus stranamente non c'entra niente. >> fece un gesto al cameriere e questo sparì in fretta dalla stanza.
<< Strano infatti.>> concordò l'altro sedendosi scompostamente e allungando le gambe verso le sue.
<< Già, per una volta in vita sua si sta divertendo come gli pare senza rompere le scatole a nessuno. Il problema sono tutti quegli altri deficienti che lo circondano.>>
<< Problemi in paradiso?>> soffiò fuori una nuvola di fumo e l'amico lo guardò male.
<< Non mi fumare addosso.>>
<< Dio santo! Sei nel dannatissimo Inferno, tutto fuma qui, le anime, i fiumi, la terra, pure te fumi e io non devo fartelo in faccia?>>
Ade storse il naso e con uno schiocco di dita fece spegnere il sigaro che l'altro riaccese con un simil gesto.
<< Non mi provocare, Pluto.>>
<< Non mi chiamare Pluto, Giordano.>>
Lo scambio di sguardi infastiditi durò il tempo necessario per far riapparire lo scheletrico cameriere con un carrello vecchio quanto le sue ossa ed una campana di metallo.
Il dio si sistemò meglio sulla poltrona e sospirò stanco massaggiandosi le tempie nell'attesa che venissero servite loro le solite ordinazioni di una vita.
<< Se non fossi una divinità e non fossi quella dell'inferno, direi che i miei deprecabili nipoti mi manderanno presto all'altro mondo.>>
Gio afferrò il suo bicchiere di metallo e ne osservò i fregi. << Che hanno combinato sta volta? Andiamo, si è appena conclusa una profezia, che hanno da lamentarsi a parte il solito? >>
L'altro si strinse nelle spalle. << Il solito. >> sentenziò prendendo anche lui il suo calice e bevendo un lungo sorso di un liquido denso e rosso, ricevendo un'occhiata scettica dal compagno.
<< Questa tua dannata fissa per i frutti rossi dura da più di un secolo, lasciatelo dire.>>
<< Ce la fai a rimanere concentrato su un discorso e non perderti in altro?>>
<< E tu ce la fai a non rompermi le scatole e non farti venire un'indigestione? >>
<< Sono un dio non mi può venire un'indigestione!>>
<< Sei una mozzarella, accettalo.>>
<< Non cominciare!>>
<< Non cominciare tu!>>
<< Padrone?>>
I due si voltarono di scatto verso uno scheletro appena arrivato. Indossava un mantello logoro azzurro sporco, i vestiti così palesemente medievali da sembrar esser usciti fuori da uno spettacolo teatrale.
Ade si ricompose immediatamente e si tirò su con la schiena, schiarendosi la gola con un colpo di tosse rivolse al messaggero lo sguardo più glaciale del suo repertorio.
<< Cosa c'è di così importante da disturbarmi in un momento del genere, sai che non tollero intromissioni da nessuno.>>
<< Oh, ma quanto sei dolce… hai detto a tutti di non disturbarti quando sono con te?>>
<< Me ne sto pentendo.>>
<< Mio signore… >> ripeté lo scheletro facendo ballare la mandibola pallida ed un po' sbilenca. Il rumore uscì fuori con un leggero sibilo e Gio dovette premersi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridergli in faccia. O sul teschio, come avrebbe dovuto dire? Ade non glielo aveva mai spiegato…
<< Non oserei mai se non fosse della massima urgenza. È arrivato un messaggio dal vostro illustre fratello.>>
<< Ne hai uno illustre?>> domandò l'uomo rivolto all'amico.
<< Ne ho uno illustre?>> domandò di rimando i dio allo scheletro.
Se fosse stato possibile sarebbe sicuramente arrossito, ma dato che ormai erano secoli che il sangue non irrorava più i suoi vasi sanguigni lo scheletro messaggero si limitò ad abbassare la testa e dare qualche piccolo e sibilante colpo di tosse.
<< Il sommo Zeus… >> provò a bassa voce.
<< Ah! Illustre perché brilla allora!>>
<< Non fare il deficiente e sta zitto!>>
<< Signore… >> provò ancora debolmente il morto, conscio di non volersi trovare tra un battibecco di quei due.
Ade riportò l'attenzione su di lui e gli fece cenno di parlare.
<< Ebbene?>>
<< Pare che ci siano problemi sull'Olimpo.>>
<< Problemi in paradisoooo…. >> cantilenò Gio divertito. Il calcio che gli arrivò da sotto il tavolo lo fece sussultare ed imprecare a mezza voce contro un paio di divinità prese a caso.
<< Ci sono appena stato, quale sarebbe la novità che non poteva dirmi due minuti fa?>>
<< Pare che il Sommo Zeus voglia riunire tutti gli Dei a colloquio.>>
<< Interessante.>> Ade si poggiò contro lo schienale della poltrona e alzò un sopracciglio scuro e fino, giungendo le dita con fare pensieroso, << Ma non mi hai ancora detto qual è il problema, sempre che il mio illustre fratello si sia degnato di farmelo pervenire per missiva.>>
Il messaggero si torturò le scheletriche mani con fare quasi imbarazzato, facendo scricchiolare le falangi e le giunture ormai rovinate. Farfugliò qualcosa di poco comprensibile per Ade, che suonò molto come un: “ Gli Dei vostri fratelli si annoiano ed il Sommo Zeus ha pensato di indire un consiglio per decidere come ingannare il tempo in modo costruttivo…”, ed estremamente divertente per Gio che scoppiò a ridere rovesciandosi quasi dalla sedia.

Umiliante, davvero, ma ormai c'era abituato.

<< Smettila di latrare come un cane!>> lo riprese Ade dandogli uno spintone e lanciandolo davvero a gambe all'aria.
Ma l'uomo non smise di ridere e si rotolò teatralmente da una parte all'altra. Poi tutto d'un tratto si rimise seduto e guardò l'amico dritto negli occhi,
Ade doveva ammetterlo, malgrado fosse passato parecchio tempo da quando il aveva incontrati la prima volta sentiva ancora un brivido freddo scivolargli lungo la schiena e gelargli l'icore nelle vene qualora incontrasse quelle iridi scintillanti, detentrici di ricordi e sensazioni così contrastanti gli uni con le altre che spesso lo lasciavano spaesato, boccheggiante come un pesce fuor d'acqua.

Peccato che non mi necessiti respirare.

<< Te l'ho mai detto che il pollo avrebbe dovuto farmi Oracolo? E che avreste anche dovuto farmi santo?>> chiese l'uomo sorridendo.
<< Hai di nuovo confuso le religioni. >> provò a replicare senza forza. << E se quel pazzo ti avesse fatto Oracolo a questo punto saremmo tutti morti.>>
Gio saltò in piedi e rimise la sedia dritta, lasciandocisi cader sopra con disinvoltura. Afferrò il sigaro che aveva lasciato cadere sul tavolo e se lo rimise in bocca. << Concesso.>>
Ade sospirò ancora e si voltò verso il suo servitore facendogli cenno di andarsene.
<< Come dicevo prima, per una volta Zeus non ha colpe e sono gli altri a crear problemi.>>
L'altro si strinse nelle spalle e si passò una mano tra i corti capelli, scostando qualche ciuffo troppo indipendente che non voleva saperne di stare al suo posto.
<< Il problema per quelli come voi, damerino, è che vivete nell'ozio e nel vizio. Volete qualcosa? Schioccate le dita e la ottenete. Non potete averla così facilmente? Chiamate uno dei vostri pupazzi e lo mandate a fare ciò che avreste potuto far voi con la metà del tempo e solo una briciola di sforzo in più di quello che vi costa uno schiocco e non vi interessa se chi mandate a fare il lavoro sporco siano figli vostri, dei vostri fratelli o di nessuno, non vi importa neanche se andranno a morire o torneranno indietro sani e salvi. E quando non avete nulla da fare, quando non ci sono guerre, non ci sono profezie, vi annoiate e fate danni.>> scosse la testa e riprese il suo bicchiere. Fece roteare il liquido lentamente e poi ne prese un grande sorso.
Ade lo fissò attentamente, colpito da quelle parole come forse non sarebbe dovuto esserlo, forse perché era proprio Gio ad averle dette, forse perché conosceva la storia dietro a quel pensiero, dietro a quelle idee e a quelle opinioni.
Annuì per riflesso e sospirò piano. << Cosa consigli di fare? I miei amabili parenti si staranno cominciando a lamentare, sono come bambini, più si annoiano e più diventano inquieti, sono sicuro che Ares proporrà una qualche specie di gara mortale per semidei e che tutti gli altri saranno più che d'accordo con questo.>>
Nel silenzio della sua stanza privata il dio attese una risposta che avrebbe potuto metter d'accordo le altre divinità e quell'uomo che ora sedeva davanti a lui e in cui il Dio degli Inferi riponeva una fiducia, per le cui idee aveva un interesse, che non avrebbe dovuto avere.
Un mortale teneva per mano la sua volontà da anni, più di quanti non amasse ammettere, lo faceva sentire in colpa qualora lo deludesse, lo rattristava se lo vedeva triste.
Forse Persefone aveva ragione, forse aveva sbagliato quando aveva deciso di accettare l'amicizia di quel ragazzino di tredici anni, lasciandogli libero accesso al suo animo e affezionandosi a lui.
Uno scintillio dorato illuminò la stanza per un secondo, un attimo e nulla più che tinse d'oro ogni nera superficie e la fece risplendere come quell'Olimpo che ad Ade era stato negato, relegandolo nelle profondità della terra.
Gli parve di rivedere il sorriso sfrontato di quel bambino appena cresciuto, quello che gli aveva fatto presagire tutti i guai e tutte le gioie che quella mente laboriosa avrebbe scatenato nella sua immortale vita.
<< Vogliono una gara mortale per distrarsi dalla terribile noia di essere divinità potentissime in grado di modellare il mondo a loro piacimento? >> domandò con l'ironia che lo aveva contraddistinto per tutti quei lunghi anni. << E allora chi sei tu, Ade, Dio degli Inferi, per impedirgli di ottenere ciò?>>
Il dio lo guardò scettico, non poteva aver ceduto così facilmente, senza neanche insultare un po' gli altri Dei, dargli strane idee su come avrebbe potuto ucciderli tutti o semplicemente provare a distoglierli dal loro interesse.
<< Cos'hai in mente?>> si arrese a chiedere alla fine.
Il ghignò di Gio scintillò nell'oscurità del tetro palazzo.
<< Se è la vita altrui che vogliono veder messa in gioco, così sia.>>

 

 


 

 

*

 

Erano pochi gli uomini che gli stavano simpatici.
Davvero, lui ci provava ad avere un minimo d'empatia con il genere umano, ma per ogni singolo essere che gli faceva credere che forse c'era una speranza ne conosceva circa un miliardo, uno in più o uno in meno, che gli facevano rimpiangere il giorno in cui era nato.
E lui era un Dio dannazione, ce ne voleva per fargli rimpiangere la morte.

Specie a me.

Quando lo avevano convocato sull'Olimpo quel pomeriggio aveva avuto la sgradevole sensazione che sarebbe successo qualcosa di terribile e che avrebbe inevitabilmente coinvolto anche gli umani e non umani qualunque, ma semidei, la razza peggiore e più sfigata di tutti a suo dire.
Lo stupido messaggero alato era arrivato anche a lui, uno di quei fastidiosi spiriti del vento gli aveva picchiettato le sue invisibili mani sulla schiena e poi gli aveva porto una lettera scritta su pesante carta color crema con inchiostro oro.
Zeus, collegamento semplice, veloce e scontato.
Per un attimo aveva anche sperato nella serietà di quella convocazione. Magari erano insorti problemi, o magari c'era una nuova e possibilmente sensata richiesta da fare, la proposta di una variazione dal normale svolgimento degli eventi, qualcosa di costruttivo per il Tartaro, era chiedere troppo?
Sì, probabilmente lo era e la stessa identica cosa la concordò suo fratello quando lo raggiunse a casa sua non appena ebbe ricevuto quella stupida lettera, saltandogli vicino con la sua bella faccia pallida come la luna, o forse come uno dei lacchè del loro zio preferito.
<< Hai seriamente pensato che ci avessero convocato per qualcosa di importante?>>
Il dio aveva sbuffato e annuito con veemenza, storcendo il naso quando una cascata di ciocche scure come la pece gli erano ricadute sulla fronte.
<< Non ce l'hai qualcuno che ti leghi quei capelli? Vuoi che ti faccia le trecce? Sono bravo sa!>>
<< Tocca i miei capelli e ti do un pugno sul naso.>> lo minacciò infastidito.
L'altro si strinse nelle spalle, la grande cappa scura che vi portava poggiata sopra sussultò facendolo sembrare il personaggio di un cartone. Il cappello nero a falde larghe che gli copriva il capo certo non aiutava a mitigare l'immagine che dava di sé, così come non lo faceva la piuma che spuntava da suddetto cappello.
<< Come vuoi, la mia era una proposta.>>
<< Ci andrai?>> chiese a bruciapelo all'altro che, ancora si strinse nelle spalle.
<< A quanto pare noi due gli serviamo più degli altri.>>
<< Ares sarebbe felicissimo di gestire la cosa al posto nostro.>>
<< Efesto invece non lo vedo troppo felice all'idea di dover collaborare con il fratello… ma non tutti possono essere come noi, no?>>
Un sorriso soffice e bianco si aprì sulle labbra morbide della divinità che allungò una mano per sistemare meglio il copricapo al suo di fratello.
<< Presumo di no.>> concesse con voce gentile.
L'altro annuì felice di quella risposta e riprese in mano la lettera rileggendo ancora la parole altisonanti che lo informavano di come, dopo un comizio dei grandi dodici, più Ade, gli Dei Maggiori fossero giunti ad una comune decisione -circa- e richiedessero la sua presenza sull'Olimpo per le motivazioni a seguire.
<< Ehi! Però di questo giro non dovrai lavorare troppo, non credo saranno tante le vittime, anzi, tutt'altro. Non me l'aspettavo una proposta del genere da Ade, dici che non ce la fa più e vuole liberarsi di qualcuno?>>
<< Ricordati che qui sulla terra le vite passano, giù negli inferi invece c'è l'accumulo dell'intera era degli uomini. >> si lasciò cadere sul divano pieno di cuscini ricamati e ne prese uno in mano guardandolo distrattamente, come se non lo vedesse davvero. << E poi dubito che sia stata un'idea di Ade davvero… >>
Il fratello gli si sedette accanto, il mantello si gonfiò come la gonna di una dama seicentesca e poi si afflosciò mollemente sulle sue gambe incrociate. Si grattò la testa da sotto il cappello e si tolse qualche ciocca scura che era sfuggita alla presa della stoffa.
<< Beh, io invece un'idea su chi potrebbe aver proposto una cosa del genere ce l'ho...>>
<< Temo che tutti noi l'abbiamo, evidentemente il primo messaggio deve essergli giunto quando era in sua compagnia.>>
<< La cosa sarebbe terribilmente divertente… è un peccato però, ci siamo persi la faccia di Atena quando Ade ha proposto la cosa e le ha detto chi l'aveva pensata.>>
<< Ci siamo risparmiati urla ed indignazione insensate e il disperato tentativo di smontare un'idea grandiosa solo perché l'ha avuta la persona sbagliata.>>
<< Ci sarà da divertirsi allora.>>
Il dio guardò il suo compagno sospirando affranto. << Perché ho la sensazione che deciderai anche per me?>>
<< Andiamo, sarà divertente! E pensa: per la prima volta in vita tua, durante uno scontro all'ultimo sangue, non dovrai preoccuparti di raccattare anime morenti e di portare anzi tempo giovani eroi al traghetto di Caronte. E lui non si lamenterà che ha già tanto lavoro da fare e non gli serve anche altra gente morta per colpa dei nostri- Come li chiama?>>
<< Stupide dispute famigliari su chi ha lo scettro più lungo, è nato peggio, ha ammazzato più gente, avuto figli più deficienti che si sono cacciati in guai peggiori e violentato più esseri random perché non sapeva tenerselo nei pantaloni. Su questo di solito vince papà. >>
<< Esatto!>> l'uomo pallido saltò sul posto e batté le mani come se avesse trovato una cosa che cercava da tanto tempo, tutto quell'entusiasmo prima o poi avrebbe coinvolto anche il fratello, lo sapevano bene entrambi. Così come sapevano che il primo non avrebbe mai detto di no al secondo,
<< Sembra una gara ragionevole… >> sussurrò infatti il moro sotto lo sguardo divertito dell'altro.
<< E ricordati che praticamente l'ha proposta il nostro umano preferito. Vuoi davvero negare al vecchio Gio una gioia del genere. O anche solo rischiare di non vedere la faccia incazzata di Atena? E poi, fratello, è il tuo campo.>>
Il dio guardo l'altro e poi lasciò cadere le spalle. << Lo sapevi da prima che era stato lui, vero?>>
<< Ci siamo fatti una chiacchierata, una chiamata via Skype, niente di ché, mi ha informato di un paio di cosucce… >>
<< Mi hai chiamato solo per assicurarti che avrei accettato.>>
<< L'ultima parola sarà sempre la tua.>>
<< E ti sei tenuto la carta di Gio per ultima per convincermi.>>
<< Possibile.>>
Il sorriso a trentadue denti che il fratello gli rifilò lo fece crollare definitivamente.
<< Quindi cosa hanno in mente?>>
Quello stesso sorriso che si trasformò ben presto in un ghigno sadico che gli ricordò, come se poi potesse scordarlo, quando suo fratello fosse un dio che dava tanto e tanto toglieva.
<< Da quello che mi è stato detto l'hanno chiama Death Race.>>

 

 

 

 

*

 

Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
Si chinò verso l'erba sbiadita come quella di un ricordo sfocato, di una pellicola di altri tempi e fissò quelle linee scure che parevano non aver alcun senso in attesa che ne trovassero uno.
Le parole cominciarono a vorticare con lentezza e si posizionarono nel giusto ordine, mutando sé stesse sino a comporre una frase nella sua lingua e permettergli di capire cosa ci fosse di così importante da ricoprire gli Inferi di volantini.
Lesse con una discreta curiosità quanto scritto, alla fine era solo un'anima, era già morta tempo addietro, non c'era nulla che potesse interessargli davvero, nulla che la riguardasse.
O almeno così credeva.
Gli occhi vacui si allargarono dallo stupore mentre lentamente in lui si faceva largo la consapevolezza di quanto gli era appena stato proposto. Se questo non era un segno divino, un miracolo di un qualche Dio… l'attesa, alla fine, aveva dato i suoi frutti.

 

 

Sei negli Inferi da molto tempo? Lo sei da troppo poco e ancora ricordi com'era quando scorrazzavi libero sulla terra? Ti sei mai chiesto come sarebbe andata la tua vita se solo ti fosse comportato diversamente? Credi di meritare la morte? Sei nel posto giusto o ti manca solo una vita per fine nelle Isole dei Beati? O magari sei nei Campi di Pena e vuoi riscattarti!
Beh, c'è una soluzione a tutto!
Per la prima volta nella storia della creazione ogni anima avrà un'altra possibilità.
Una gara all'ultimo sangue, ambientata nei piani dell'aldilà dove né Semidei né Dei potranno intervenire!
Tre giudici Infernali come Giuria e molti altri come guess-star!
Trasmesso su Efesto-TV in più di 300 lingue!
Tredici prove ad eliminazione ed il premio finale più ambito al mondo per l'anima più capace:

 

LA TUA VITA!
 

Le iscrizioni sono aperte: riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”

 












____

Salve lettore,
Questa storia senza pretese nasce per caso e per nostalgia di un fandom che un tempo esplodeva di storie dalle trame più disparata e che, come ogni cosa che si ama, prima o poi ci riporta da lei.
Il nostro racconto parte dalla più classica fonte di disgrazia dei mortali, la noia divina, e si snoda per i meandri dell'Inferno in tutto il suo splendore. La premessa è tanto semplice quanto scontata: ci sono anime che non meritano di trovarsi nell'aldilà e altre che credono di non meritarlo. Per ovviare al problema la soluzione più “costruttiva” è quella di indire una gara che permetta a chiunque lo volesse di partecipare per poter ottenere il premio più grande che si possa desiderare: la propria vita.

 

Ad affrontare la sfida saranno quindi anime di eroi morti, di ogni età e ogni epoca e la cosa più comoda di questa storia è che i partecipanti non rischiano di fare una brutta fine, insomma, so già morti peggio de così non je po annà.
Le iscrizioni sono aperte fino al 28 Settembre e verrà operata una selezione.
Le regole per partecipare sono poche ma abbastanza basilari:

  • Massimo 2 OC a testa, possibilmente di sesso e genitore divino diverso, se volete farmi dei fratelli potete provare, ma la selezione di uno non implicherà anche quella dell'alto.

  • Sono morti, e fino a qui non ci piove, ma questo non vuol dire che una volta passati a miglior vita si diventi entità supreme dai poteri indicibili, so sempre ragazzini ( più o meno ragazzini, questo starà a voi), non sono armerie che camminano, non detengono il sapere universale, non hanno tutti i poteri dei loro genitori divini.
    Non create dei scesi sotto terra, sono semidei, non sono divinità o a quest'ora non erano morti male. Statece.

  • Gradirei evitare stereotipi troppo forzati, la perfezione non esiste e il mondo è bello proprio perché è avariato. Ai tempi miei il Pantheon era così vasto che spuntava un dio ogni volta che starnutivi, sfruttate l'allergia al polline e spaziate nel campo ampio dell'Olimpo.
    Un bel no va anche a figli di Titani, Giganti, Dee vergini, possibili parenti di eroi canon e anche i morti secondo Riordan. No, non me lo potete proporre un Luke selvatico, ritirate la sfera poké.

  • La storia prevede una certa partecipazione perché al fine dei giochi a decidere chi sarà l'anima fortunata sarete voi, quindi vi chiedo un minimo di costanza nel recensire:
    Mi hanno consigliato, persone decisamente più navigate di me in fatto di interattive, di mette dei punti: non vi dico di recensire ogni capitolo, io sono il primo a non farlo perché sono una brutta persona, ma se non vi farete sentire almeno ogni due capitoli al terzo il vostro pargolo sarà marginale o non sarà in scena e al quarto rimarrà bello che tranquillo nella sua postazione infernale.

  • Nel pieno rispetto delle regole di EFP e dei miei problemi di attenzione a lungo termine vi chiederei gentilmente di inviare le schede per mp, con dicitura [ Nome- figlio di- Death Race]. Vi chiederei anche di prenotarvi con genitore, sesso e periodo storico di morte, così, giusto per evitare una gara elitaria solo tra chi ha partecipato alla disfatta di Crono o chi si è visto i Giganti invadergli casa.

 

Detto ciò, se ci sono domande fatele pure e per il resto, questa è la scheda.

 

Dati anagrafici.
Nome, cognome ed eventuale soprannome:
Data, luogo di nascita e nazionalità:
Età, data, luogo di morte:
Genitore divino e rapporto con esso:
Famiglia mortale e rapporto con essa:

Caratteristiche psico-fisiche.
Aspetto fisico: (e prestavolto)
Descrizione psicologica: (scrivete quanto vi pare, io apprezzo solo. I valori che lo condizionano, la sua concezione della vita, ma ricordatevi dell'epoca in cui avete deciso di inserire il vostro oc, una ragazza dell'epoca Rinascimentale non ha ampie vedute in fatto di sessualità perché se no sarebbe stata considerata una poco di buono, un ragazzo non si sarebbe dimostrato troppo effemminato perché se no l'avrebbero preso di mira, ponderate.)
Paure, fobie e debolezze:
Pregi e difetti: (Difetto fatale)
Orientamento sessuale: ( Di nuovo, ricordate il periodo storico in cui lo avete fatto nascere, ci sono momenti del passato in cui l'essere apertamente gay non era contemplato)
Storia:
Ama e Odia: (passioni, preferenze, hobby e simili)
Come e perché è morto: ( descrivete l'evento in sé, cos'è successo, perché, se lo ha ucciso qualcuno, se è morto da eroe o da vigliacco. Vi prego di non scrivermi di morti assurde come “si è schiantato con l'aereo” e poi mi dite che è successo durante la guerra di secessione.)

Caratteristiche personali e di combattimento.
Abilità e talenti: (sul campo di battaglia e nella vita comune)
Poteri: (ricordatevi che non sono divinità o non sarebbero morti)
Arma: (regolatevi anche qui, non sono delle armerie che camminano)

Caratteristiche sociali:
Relazioni con il prossimo: (tipologia di persona con cui va d'accordo o meno, amici, nemici.)
Come si rapporta e si pone verso gli altri:
Relazioni sentimentali: (tipologia di persona che lo attira ed il contrario, sia fisicamente che caratterialmente; se ne ha avute, se ne ha e simili)
Curiosità: *(tutto quello che vi viene in mente, anche richieste di vario genere o avvertimenti di sorta sul vostro pargolo)
Frase propria del personaggio: (che può essere qualcosa che ama ripetere, che lo rappresenti o che riassume in sintesi ciò che è.)

 

Certo, l'angolo autore è più lungo del capitolo in sé, ma vi assicuro che non succederà più.
Passo e chiude gente.

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Capitolo 2
*** Enrollment. ***













 II. Enrollment.


 

 

Il muro alto e chiaro che costeggiava tutti i Campi Elisi era senza tempo. Le pietre che lo componevano erano monolitiche e su quelle più basse si potevano scorgere disegni più o meno accurati, fatti da quelle anime artistiche che non avevano rinunciato neanche da morte alla loro passione. C'erano piante rampicanti che si alzavano sui loro rami per raggiungere i punti più alti, un'edera coraggiosa, piantata anni addietro da un'anima destinata alle Isole dei Beati come ultimo addio a quei campi sterminati che l'avevano accolta per ben tre volte, era riuscita ad arrivare sino al margine superiore ed ora le sue foglie si potevano ammirare anche dalle Praterie degli Asfodeli.
Tra l'erba chiara serpeggiava un vialetto di terra battuta su cui spesso molte anime passeggiavano.
Non c'era alba e tramonto, non c'era giorno e notte ed il sonno era superfluo e spesso inutile, eppure c'erano ancora delle anime che ricordavano fin troppo bene i rigidi regimi che avevano dovuto tenere da vivi e non riuscivano a rinunciare a qualche piccola abitudine.
Correre lungo il perimetro delle mura, arrivare sino alla vecchia edera e poi tornare indietro verso la propria casa, questo era il programma che l'anima di un giovane uomo replicava sin da quando era arrivato nei Campi Elisi.
Un tempo correva assieme a sua madre che, atletica come lui, lo spingeva sempre a dare il massimo, ad impegnarsi, non batter la fiacca solo perché era morto.
Lo aveva sempre fatto nella vita e poterla sentire ancora mentre lo incoraggiava a fare di più per lui era stato come rinascere. Sciocco vero? Rinascere quando si era morti da così tanti anni.
Era pur vero che nell'Ade il tempo non passava, non era quantificabile, non si riusciva a capire se i moti planetari valessero anche per loro oppure no. Erano i nuovi arrivati a fare da metro di misura, ma anche lì alle volte c'era da stare attenti: non più in là di una settimana prima, circa, era arrivato un giovanotto vestito di tutto punto che alla solita domanda “in che anno sei morto?” Aveva risposto con un sincero e sicuro “ Ma nel 1900, che domande!”.
E niente, l'anima aveva sospirato infastidita e lo aveva guardato malamente, quel tipo non gli sarebbe servito a nulla.
Il problema dei morti era che spesso non raggiungevano la loro destinazione con i giusti tempi. Lui, per esempio, aveva spettato un'eternità prima di decidersi a salire su quel dannato traghetto, tanto che alcuni spiriti che si divertivano a far avanti ed indietro - con grande disappunto dei traghettatori che andavano a lamentarsi di continuo dal capo senza successo- gli chiedevano se non volesse che gli prestassero qualche moneta per il viaggio.
Ma no, aveva di che pagare il passaggio, voleva solo aspettare che arrivasse qualcuno per lui importante. Per di più in sala d'attesa c'erano parecchi schermi che trasmettevano le news del mondo dei vivi e lui era un appassionato de “L'ultima profezia dell'Oracolo”, in cui venivano elencate tutte le varie profezie fatte da tutti gli oracoli del mondo.
Aveva atteso davanti a quegli schermi per anni, letteralmente. Poi aveva deciso di andare finalmente per la sua strada quando aveva creduto che il pericolo fosse ormai scampato.
Se non fosse stato così testardo a quell'ora si sarebbe potuto godere un po' di più la presenza di sua madre, ma era stata solo una manciata di tempo -quanto?- quello in cui aveva potuto godere della sua presenza. Poi un giorno la donna era rinata e lui era tornato ad essere solo nella sua morte.

Grugnì infastidito da quei suoi stessi pensieri e si concentrò sulla corsa, lanciando uno sguardo critico a delle piante che erano state potate con forme di dubbio gusto. Era un lama quello? O una giraffa obesa? La stupidità umana alle volte era disgustosa come poche cose al mondo.
Aumentò il ritmo di marcia e si concentrò sulla sua corsa fino a quando qualcosa non si mosse alle sue spalle.
Anni di addestramento da semidio e poi da militare lo avevano reso estremamente recettivo ad ogni variazione dell'ambiente circostante. Era il sangue divino che lo teneva sveglio, quell'iperattività che aveva sempre sfogato con lo sforzo fisico, con la lotta costante per diventare più forte, per essere degno figlio di suo padre ed essere così apprezzato dal Dio.
Si voltò di scatto afferrando qualunque cosa gli si stesse avvicinando, ma con sua somma sorpresa si rese conto che era semplicemente un foglio, un volantino rosa scritto in greco antico.

<< Ma che cazzo- >> si bloccò di colpo mentre il significato di quelle parole gli diveniva sempre più chiaro. Con un gesto sprezzante strinse il foglio nel pugno e sorrise con fare arrogante, quasi incredulo della fortuna che aveva avuto, dell'opportunità che gli si stava presentando. Se qualche stupida animuncola pensava di poter vincere contro di lui si sbagliava di grosso: Nathan Wright era un vincente, non perdeva mai, neanche da morto.
Gettò via il volantino accartocciato e tornò sui suoi passi, diretto verso il suo bell appartamento, doveva prepararsi al meglio per qualunque prova l'avrebbe atteso oltre le mura bianche dei Campi Elisi.

 

 

*

 

 

L'erba, lì nei Campi Elisi, era morbida e pungente al contempo. Se non fosse stata morta avrebbe detto che le faceva il solletico ma erano anni ormai che si interrogava su questa cosa: un morto poteva soffrire il solletico?
Non c'era qualcuno che potesse risponderle, magari giusto qualche semidio figlio di Ade o di Thanatos, ma in genere quei ragazzi non stavano mai fermi, giravano per gli Inferi all'eterno servizio dei loro genitori, vivendo – ironia della sorte- quelle classiche avventure da semidio che lei si era persa.
Qualche eroe, fin troppo spesso giovane aveva constatato l'anima con tristezza, le aveva raccontato cosa facevano gli aspiranti eroi al Campo Mezzosangue, spiegandole come venissero pronunciate le profezie e come venissero scelti i ragazzi che avrebbero intrapreso le missioni.
Le pareva assurdo sotto un certo punto di vista, essere costantemente in guerra, allenarsi giorno e notte per poter imbracciare un'arma ed andare ad uccidere e rischiare la propria vita in nome di un genitore che spesso li aveva solo messi al mondo e poi abbandonati a sé stessi.
Sfregò i piedi sull'erba e la sentì vagamente umida. Doveva essere rugiada quella, quindi su, nel mondo dei vivi, aveva piovuto abbondantemente e la terra doveva aver assorbito tanta di quell'acqua che il calore degli Inferi aveva fatto evaporare. C'era umidità nell'aria e per un attimo le riportò alla mente una giornata passata a camminare vicino al bordo petroso di un fiume che si divideva in mille canali per una città festosa, come una rete sanguigna che portava linfa ad un essere vivo. Era un'immagine figurata molto bella, si disse saltellando un poco sul posto, spinta da quell'animo giocoso ed un po' infantile che spesso tornava a galla.
Chissà com'era diventata quella città, era così tanto tempo che non aveva notizie da fuori…
Si rimise in marcia, godendosi l'erba candida e le sensazioni di una vita passata, socchiudendo gli occhi chiari ed assaporando quella consistenza discontinua. Sarebbe arrivata sino ai cancelli, come ogni volta che usciva di casa “la mattina”.
La routine era una delle poche cose che le rimanevano, non poteva neanche più rendersi utile visto che i suoi servigi erano l'unica cosa che le anime non necessitavano.
Avvistò da lontano l'imponente entrata rinforzata, le cui sbarre non erano altro che eleganti volute fiorite e floride. Era ciò che c'era di più vicino al Paradiso che tanto predicavano nelle chiese ma non vi erano sconfinate distese di nuvole e angeli troppo belli da guardare che volavano placidi nei cieli accecanti. Nessun santo le avrebbe sorriso nella pace dei sensi ma anime che avevano combattuto e meritato di passare quella soglia. Proprio una di quelle anime gli sorrise dal gabbiotto color crema davanti al cancello di destra.
Vi erano tre entrate ai Campi Elisi: due piccole porte di legno lavorato, sulla cui superficie erano incise piante e vallate, ed una centrale, così alta da superare le mura, la cui sommità forse sfiorava persino la volta rocciosa dell'Ade. Quel cancello non si apriva mai, lo faceva solo per quelle anime che tre volte avevano meritato i Campi Elisei e che all'ennesima, gloriosa morte venivano accolti nelle Isole dei Beati.
La ragazza continuò a camminare tranquilla sul prato, facendo attenzione ad evitare la pista ciclabile e la strada in mattonato, tenendo il naso rivolto verso l'alto per cercare, come sempre, di scorger la punta decorata che sormontava l'entrata.
Una vecchia anima del 700 le aveva detto che vi era un occhio meccanico, uno dei primi costruiti da Efesto, che fungeva da sentinella e che proteggeva il perimetro del muro bianco da possibili invasioni di altre anime o di mostri impazziti. Era una bella storia, peccato che nessuno l'avesse mai vista e che quindi fosse impossibile da constatare.

<< Anche oggi a fare una passeggiata, signorina?>>
Al gabbiotto l'anima del venerabile Shilon Yu, un tempo guardia reale nel Palazzo di Giada, le sorrise cortese come faceva da quanto aveva varcato quel confine la prima volta.
La giovane annuì, sorridendogli di rimando e sistemandosi qualche ciocca corta dietro le orecchie.
<< Come sempre. Che giorno è oggi?>> domandò lei di rimando.
Da dietro l'ampia finestra vetrata il custode dei cancelli girò sulla sua poltroncina e cercò tra gli scaffali che gli erano vicini un rotolo di papiro come tanti altri.
Ne prese uno piccolo e dall'impugnatura di legno, srotolandolo con attenzione e controllando data per data finché non arrivò a quella odierna.
<< Siamo a Maggio da sei giorni, signorina.>>
<< E ci sono anime nuove?>> chiese speranzosa di ricevere finalmente una risposta affermativa.
La guardia reale sapeva chi stava aspettando la piccola anima davanti a lui, ormai aveva imparato il suo nome e anche le sue caratteristiche generali, per quanto un racconto concitato potesse esser preciso, certo. Eppure ancora una volta fu costretto a scuotere la testa.
<< Molte anime nuove, persone che si sono mostrate giuste nella vita, ma non colui che aspettate.>> alla faccia triste della giovane provò come suo solito a consolarla. << Avete preso finalmente in considerazione l'idea che sia rinato? Magari è passato di qui, ma con un altro nome.>> << Forse avete ragione voi, Shilon Yu. Ma so che lo avrei riconosciuto comunque, gli devo molto, vederlo arrivare finalmente nei Campi Elisi è l'unica speranza che mi è rimasta.>>
L'anima annuì e poi parve riscuotersi.
<< Magari non solo quella.>> le voltò le spalle cercando qualcosa a terra, tra le tante carte che vi erano accumulate. << Non avete altri desideri?>> le chiese con voce ovattata.
Lei si strinse nelle spalle. << Nulla che un'anima come me possa realizzare.>>
<< E da viva? Potrebbe realizzarli?>>
Finalmente l'uomo emerse da dietro il parapetto e si sporse oltre la finestra del gabbiotto, le lunghe maniche pendenti, decorate con disegni d'oro di draghi senza ali, sfiorarono quasi terra e la ragazza fece un salto indietro per non calpestarle.
Tra le mani pallide e callose della guardia reale vi era un volantino azzurro sbiadito, su cui delle parole in greco antico si muovevano con lentezza cercando di stabilizzarsi in una lotta continua tra il mandarino arcaico e l'italiano.
L'altro la incitò a prendere il foglio e ben presto il testo divenne chiaro.
La ragazza sgranò gli occhi chiari, incredula di ciò che le era appena stato porto. Non poteva crederci, non era possibile.
<< Cosa mi dice, signorina Lea, potrebbe abbandonare l'attesa per una nuova speranza?>>


 

*

 

 

La porta di legno della sua abitazione era un po' scrostata, come se il tempo - essere astratto per quel luogo- l'avesse logorata lentamente.
Erano passati decenni da quando era giunto in quelle terre, sperando disperatamente di non vedervi entrare la sua famiglia poco dopo. Aveva scrutato la fila infinita di anime che attendevano il loro turno, ormai calme e placide nell'eterno aspettare, ma mai vi aveva scorto visi così tanto famigliari.
Era pur vero, se lo ripeteva spesso, che lui il volto di suo fratello non lo conosceva neanche, chissà com'era diventato, com'era cresciuto, a che età era morto.
Si passò una mano tra i capelli e ve la lasciò sfregando alcune ciocche tra le dita: chissà se aveva i capelli rossi come i suoi.
Scosse la testa per togliersi quei pensieri di mente e si assicurò di aver ben chiuso il battente prima di incamminarsi per il viale pavimentato, quella lunga lingua di mattonelle grandi e chiare come ogni cosa entro quelle alte mura.
Il brutto di essere morti era che si rimuginava sempre sulle stesse cose, che non si poteva scappare, tenersi occupati con altro. Se fosse stato così lui lo avrebbe fatto, rimanendo per sempre nel bosco candido di alti fusti dai colori quasi accecanti verso cui si stava dirigendo.
I boschi lo avevano sempre calmato, dandogli quella sensazione a metà tra la pace di un luogo conosciuto e l'ignoto di una situazione imprevedibile. Era un vero peccato che lì non si aggirassero gli stessi animali che aveva imparato a conoscere nella sua vecchia vita, quagli stessi che tanto lo affascinavano ma a cui non era mai riuscito ad avvicinarsi davvero, non come avrebbe voluto almeno.
Quell'agglomerato di alberi biancastri, quei pioppi che popolavano la selva come tanti soldati che presiedevano un forte, era probabilmente il suo luogo preferito. Non che disprezzasse la casetta che gli era stata assegnata alla sua morte ma la cosa lo aveva un po' lasciato di sasso: l'idea che quando muori guadagni qualcosa invece di perdere tutto gli pareva una nota stonata rispetto a quello che aveva sempre pensato della morte stessa e c'era anche da dire che ritrovarsi in un edificio della sua epoca, quando entrando dal pesante portone di legno dei Campi aveva visto una piccola struttura in uno stile di cui ignorava persino l'esistenza – Mr Shilon Yu era stato estremamente gentile con lui- lo aveva messo a suo agio e gli aveva dato l'impressione che non fosse cambiato poi molto. Eppure era cambiato tutto.
Oltre la morte non c'era che una vita fittizia, fatta di vecchi ricordi e storie passate, di palazzi provenienti da ogni era, da ogni luogo, che si mischiavano tra loro con l'assurda armonia che solo un artista potrebbe riuscire a creare. Si era anche domandato chi decidesse come e quando costruire qualcosa, pensava che vi fosse una divinità deputata a farlo, poi invece aveva scoperto che era tutto ad opera del “Servizio strutture, pavimentazioni e ambiente” dell'Ade.
Sì, a quanto pare ne avevano uno, capeggiato da un certo Bernini di cui lui ignorava l'esistenza, che litigava costantemente con un tale Borromini e che spesso, entrambi, venivano presi a scappellotti da un vecchietto di nome Bramante. Aveva chiesto in giro se prendessero solo artisti con la lettera B, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stata un'occhiataccia e un silenzio indignato.
Non aveva più chiesto nulla.
Attorno a lui decine, forse centinaia e migliaia, di anime, camminavano tranquille, aggirandosi per quegli spazi sterminati che erano i Campi Elisi.
Quando era stato giudicato, in piedi al centro di quella sala circolare contornata di alti scarni su cui sedevano mascherate figure, non si era davvero aspettato tanto: era morto in modo, per così dire, banale, senza riuscire a lottare davvero, senza aver fatto nulla di buono se non dare pochi minuti a coloro che amava. Credeva che questo non sarebbe bastato, che non era gran ché, che non valesse nulla e invece era valso eccome. Il figuro seduto sul trono più altro aveva annuito e gli aveva chiesto beffardo quanto altro avrebbe voluto fare nella sua situazione. Poi un altro aveva borbottato che le sue idee fossero un tantino tragiche ed in fine, l'ultimo, aveva decretato che cercare di fare il meglio e morire nel farlo era tutto ciò che gli sarebbe servito per avere un eterno, sereno, riposo.
Eterno lo sarebbe stato senza dubbio alcuno.
Sereno stentava ancora ad esserlo.
Non li aveva più rivisti, per quante fossero state le case simili alla sua a cui era andato a bussare, nella speranza che uno dei due gli aprisse, per quanto sarebbero state ancora le altre a cui avrebbe atteso, aveva la sgradevole sensazione che non avrebbe mai più incrociato gli occhi di sua madre e che non sarebbe riuscito a riconoscere nel giovane, nell'uomo o nell'anziano che avrebbe aperto quell'uscio suo fratello.
Essere finito nei Capi Elisi era una mera consolazione, malgrado si ripetesse che doveva gioirne, che non avrebbe potuto chiedere di meglio.

La vita, forse solo questo avrei potuto chiedere.

Tenendo la testa bassa cercò di evitare d'avvicinarsi troppo alle altre anime, i suoi poteri, quando era in quello stato, sfuggivano spesso al suo controllo e non aveva intenzione di infastidire o spaventare nessun essere meritevole che calcava quelle stesse pietre chiare su cui lui ora marciava più cupo dei suoi stessi pensieri.
Guardava ancora ostinatamente il terreno quando un ritaglio aranciato gli apparve davanti ai piedi.
Si era dovuto abituare a parecchie cose nel corso dei secoli: alle armi da fuoco sempre più potenti, alle navi più veloci, magari alimentate da altro che non fossero il vento e la forza delle braccia umane. Aveva accettato il progresso medico e quello scientifico, l'era dei Lumi e quella delle Industrie. Si era persino abituato all'idea della psicologia e dell'elettronica, della luce elettrica prima ancora. Certo la comprensione del touch screen gli era ancora oscura, ma c'era un'anima arrivata da poco nel suo quartiere che diceva di essere stato un programmatore e che poteva spiegargli tutto ciò che voleva, malgrado ignorasse ancora il significato di quella parola.
Ma se c'era una cosa che ancora lo disturbava, più delle macchine che agivano senza che nessuno le manovrasse, erano i colori sgargianti e assurdi che il progresso riusciva a dare pressoché a tutto.
Quello che aveva davanti era un foglio di carta, di cartaccia da volantini, avrebbe detto quel pittore che incontrava spesso nel boschetto, intento a dipingere vicino al laghetto delle ninfee, e per uno come lui che era cresciuto in un mondo in cui gli unici supporti scrittori erano ad appannaggio dei più ricchi, dove la pergamena era ritenuta troppo preziosa per esser usata per tutto e la carta dei suoi tempi non era altro che uno spesso foglio ruvido e di un bianco sporco e slavato, vedere qualcosa di arancione, finissimo, pensato per essere utilizzato una sola volta, su cui era scritto qualcosa era ancora sconcertante.
Su quel rettangolo fine e già leggermente rovinato, forse qualcuno vi aveva camminato sopra, delle lettere nere si contorcevano per trovare la giusta dimensione della sua lingua. Quando i caratteri divennero così simili a quelli che i dotti usavano per appuntare nozioni ed eventi, Úranus si accinse a raccoglierlo da terra e si accigliò ritrovandosi a comprenderne il significato.
Gli occhi chiari lessero avidi quelle righe scure, il celeste dell'iride parve esser ingoiato dalla pupilla dilatata dalla stupore.
La sua permanenza in quella gabbia bianca e oro non era serena come gli era stata augurato, ma forse non sarebbe stata neanche eterna.

 

 

*


 

Respirare, espirare. Ripetere.
Fletté la schiena all'indietro e poi si piegò in avanti sino a toccare con le mani le punte delle sue scarpe. Gli alti stivali marroni che indossava erano un po' logori sulle punte, il vecchio calzolaio che abitava di fronte a casa sua, e che per altro a suo tempo aveva lavorato proprio nel suo vecchio quartiere, le ripeteva in continuazione che per allenarsi magari poteva provare un paio di quelle nuove scarpe che andavano tanto di moda adesso tra i vivi.
Scarpe da ginnastica, così le chiamavano, ma lei preferiva di gran lunga i suoi vecchi e logori stivali della divisa. Aveva però ceduto alla proposta dell'uomo di far rivestire la suola con della gomma.
Si sorprendeva ancora di come l'artigiano continuasse ad aggiornarsi malgrado fosse morto. E soprattutto malgrado nessuno pagasse i suoi servigi.
C'erano delle anime che ancora ne offrivano: cuochi che continuavano a cucinare, rendendo per altro difficile per i vivi convocare i loro cari perché neanche lontanamente attratti dal cibo mortale che veniva offerto loro nelle evocazioni. C'era chi faceva scarpe, come il vecchio Ted, chi cuciva vestiti e persino chi apriva empori. Ma se tanto non li si poteva pagare, cosa lo si faceva a fare?
Comprendeva molto di più l'idea di rimanere in forma, di non lasciarsi andare alla morte.
Qualcuno le aveva detto che le sue idee erano assurde: il loro aspetto fisico non cambiava una volta passati all'aldilà a meno che non fosse volontà del defunto farlo. Nei Campi Elisi era situazione comune veder anime vestire abiti nuovi e diversi da quelli con cui erano arrivati, persino lei aveva lavato i suoi sporchi di fango e sangue, ma se anche il loro corpo non cambiava l'attitudine ad una data azione, ad un movimento, il ricordo di un gesto, di come si impugna un'arma e come si va all'affondo erano cose che andavano preservate.
Non erano nelle Praterie, ma questo non significava che prima o poi, abbandonando le loro vecchie abitudini, non potessero anche loro dimenticarle.
Lei, per esempio, anche da viva era sempre stata più che convinta che continuando ad allenarsi sarebbe diventata più forse di moltissimi altri che la circondavano, che un giorno sarebbe stata abbastanza in gamba da poter rendere orgoglioso suo padre di aver avuto una figlia femmina, un giorno sarebbe potuta essere al suo fianco in tutte le missione che l'uomo avrebbe intrapreso.
Purtroppo non era stato così, ma la scomparsa di suo padre l'aveva solo spronata a far di più, a lasciare quella casa che tanto gli ricordava ciò che aveva perso quanto ciò che sarebbe potuta diventare, ed intraprendere la sua strada.
Una strada purtroppo chiusa, ma se anche l'avesse saputo prima, se avesse scorso il lontananza quel cartello che segnalava una via senza uscita, avrebbe comunque tenuto la testa alta e combattuto per ciò in cui credeva, per la giustizia, per la libertà, per la vittoria.
Poggiò i palmi a terra e vi spinse sopra, continuando a respirare anche se ormai non ne aveva più bisogno, se l'ossigeno che entrava nei suoi polmoni poi ne riusciva senza esser stato convertito in fiato caldo e pesante. Era una sua vecchia abitudine, ossigenare i muscoli era la prima regola per non perire in un qualunque sforzo fisico.
Non doveva perdere la concentrazione però, non in quel momento quando tutte le sue convinzioni e attitudini erano risultate giuste e concrete.
Quando quella mattina era uscita dall'appartamentino che somigliava così tanto alla sua vecchia casa d'infanzia non si era certo immaginata di vedersi piovere dal cielo petroso un volantino gemello a tanti altri che si erano posati a terra come se qualcuno li avesse liberati dal punto più alto dell'Ade. L'aveva afferrato al volo con sicurezza, la sua mira ed i suoi riflessi pronti come sempre e forse persino acuiti grazie ai suoi costanti allenamenti; aveva atteso pochi secondi che le scritte in greco antico divenissero un inglese contaminato da mille lingue e pronunce come quello che lei era stata solita parlare in vita e poi vi aveva letto l'arcano, il segno del destino.
Un gara.
Era tutta la vita – forse la morte?- che combatteva per qualcosa, per vincere e riuscire in quello che gli altri asserivano fosse per lei impossibile. Quella era l'occasione per riscattarsi, ancora, per dimostrare per l'ennesima volta a coloro che ancora non fossero convinti, specie le anime dei suoi tempi e di quelli precedenti, che anche una donna poteva ciò che il pensiero comune attribuiva possibile solo ad un uomo.
Aveva dimostrato di essere abbastanza forte da affrontare la solitudine, di poter combattere contro gli imprevisti, di poter sopravvivere ai lutti e alle perdite e di poter imbracciare un arma combattendo per la sua patria, per il suo vero popolo. Nulla le avrebbe impedito di dimostrare di poter riottenere anche la sua vita contro tutto e tutti.
Dopotutto, nelle vene di Eliza non scorreva più sangue da molto tempo, ma da sempre vi era scorsa la vittoria.

 

 

*

 

 

 

Seduto sulla vecchia sedia di quella che poteva definire “casa sua” si ostinava a concentrarsi su ciò che stava facendo senza distogliere lo sguardo.
La lama scivolava lenta ed inesorabile sulla lingua di pelle ormai consunta che aveva teso tra il tavolo e le sue ginocchia. La fissava fare su e giù, lucidando il metallo e lisciandone il filo. L'impugnatura di legno scuro era scheggiata e poi riparata in più punti, forse avrebbe dovuto cercarsi un coltello nuovo, ma quello se lo era portato appresso nell'oltretomba e non lo avrebbe lasciato per nessun motivo. Sapeva che non poteva essergli molto utile lì sotto, il caro vecchi ferro temperato, per quanto potesse far male alle persone comuni, e a quelle semicomuni, non poteva in alcun modo scalfire né le anime né le bestie che si aggiravano fuori da quelle mura candide come la più grande delle bugie.
Lui lo sapeva che oltre quella monolitica barriera non era tutto rose e fiori, Dei, aveva rischiato di finirci lui stesso lì fuori e non voleva riprovare l'ebrezza di sentire i suoi ricordi defluire lenti dalla sua mente, come risucchiati da una corrente fantasma senza pietà.

Ed io di correnti me ne intendo, mica no.

La lama deviò il suo percorso scivolando nel vuoto, il suono della pelle riempì la stanza ingombra di oggetti di ogni tipo, cose che aveva trovato in giro o che aveva “adottato” da altri proprietari. Aveva la vaga sensazione che se si fosse malauguratamente trovato nella versione Cristiana del mondo dei morti a quell'ora sarebbe già stato retrocesso all'Inferno.
Fermò lo sguardo su una catasta di ciocchi di legno, indeciso se prenderne uno e provare il filo del coltello togliendogli la corteccia ma l'idea di affondare la lama nella polpa asciutta ma ancora morbida di quei legni non lo attirava quanto la pila di volantini di tutti i colori raccolti per le strade del suo quartiere.
Li aveva trovati ore prima, ormai neanche provava più a far distinzione tra giorno e notte e doveva dire di andarne molto fiero: c'era gente che stava lì dai tempi delle antiche civiltà eppure si ostinava a crede di star vivendo una vita come quella dei vivi, scandita dal rincorrersi del Sole e della Luna.
Un verso sarcastico gli scivolò fuori dalle labbra al pensiero, lui era andato avanti, non era certo tipo da fossilizzarsi su idee ed eventi.
Fece un gesto vago con la mano ed una bottiglia volò dritta verso di lui, che la stappò con i denti per poi ingollarne il contenuto senza neanche controllare cosa fosse.
Forse questa cosa degli alcolici gli stava sfuggendo un po' di mano, ma tanto era morto, mica poteva ammalarcisi, quindi tanto valeva goderseli.
Voltò di poco la testa, la mano che stringeva ancora il coltello passò tra i capelli corti grattandone la cute mentre la lama scintillava alla luce di una stella fittizia e lui pensava e ripensava.
Era passato un secolo da quando era morto, cosa poteva aspettarsi dall'altra parte? Cosa poteva servirgli tornare tra i vivi? Certo, c'era un mondo da scoprire, una vita da vivere che si era bloccata troppo presto, la possibilità di vedere ciò che restava della sua famiglia…
Abbassò la mano sino a poggiarsela in grembo, scrutando il coltello e trovando a dir poco ironico che qualcosa a lui così congeniale, così famigliare, fosse la causa di tutti i suoi attuali problemi.
Ma non era da lui piangersi addosso, lui era uno che agiva, che faceva, che non restava con le mani i mano e lo aveva dimostrato ampiamente nel corso della sua vita. In quel momento si domandò persino perché avesse scelto di non rinascere e si diede dello stupido per quella decisione.
Ripromise a sé stesso che se non fosse riuscito in quell'impresa, una volta finita la gara, avrebbe preso di petto la situazione e sarebbe tornato ugualmente sul mondo terreno, con o senza i suoi ricordi.
Finì in un sorso ciò che rimaneva nella bottiglia e si alzò in piedi scattante come lo era sempre e sempre lo sarebbe stato.
Aveva poltrito per troppo tempo, aspettando neanche lui sapeva cosa, quando era perfettamente consapevole che la stasi, la tranquillità dei Campi Elisi non faceva per lui, che gli mancava il brivido dell'ignoto e dell'avventura, chiuso per troppo tempo tra quelle mura che sapevano tanto di pace quanto di prigione. Sarebbe tornato alla sua vecchia vita o ad una nuova, di certo non sarebbe mai rimasto ancora sotto quella cupola di roccia che sosteneva il vero mondo.
Perché Cade era come l'aria, ciò di cui necessitava per vivere, indipendentemente da ciò che aveva deciso il fato, era solo la libertà.
E se la sarebbe ripresa ad ogni costo.

 

 

*

 

 

L'erba era nera e l'aria opaca come un vetro appannato di una finestra, quando fuori imperversava il vento freddo e dentro scoppiettava un vivace fuocherello che riscaldava tutto l'ambiente.
C'era stato un tempo in cui sedere sul tappeto davanti al camino di casa sua, parlando con i suoi genitori di una marachella fatta o di una nuova del villaggio, era stato tutto ciò di cui aveva avuto bisogno per esser felice. Un tempo lontano a cui ora sfuggiva persino la data precise.
Le Praterie degli Asfodeli non erano il luogo giusto per ricordare, non erano neanche il luogo giusto per essere se si voleva dir la cruda realtà.
Attorno a lei vagavano senza meta anime di ogni tipo, i volti perennemente sovrappensiero si ricorrevano gli uni con gli altri senza la velocità che quel pensiero le ricordava.
Rincorrere… un tempo lo aveva fatto anche lei, aveva rincorso i suoi amici per le vie della cittadina sino alla piazza in cui più tardi avrebbe visto tanti perire.

Giustiziati.

Quello se lo ricordava bene. Non sapeva la data precisa ma poteva ricollegarlo ad un periodo della sua vita, quanto tutto aveva cominciato ad andare a rotoli, quando ogni cosa aveva perso vivacità e gioia e lei si era spenta come un fuoco morente.
Un brivido le passò sulle morte membra, ormai non pensava di poter provare ancora una sensazione del genere ma a quanto pareva si era sbagliata.
Si era sbagliata in così tante cose…
Non c'era momento, in quel suo vagare assieme a migliaia di altri sconosciuti apatici e dimentichi di loro stessi, che la sua mente non venisse bombardata dai ricordi dei suoi errori.
Quanta ironia vi era in questo? Nel luogo in cui si dimenticava tutto, in cui gli Dei avevano deciso che persino il proprio nome diveniva superfluo, lì lei ricordava.
Alcune cose erano incise nella sua mente in modo indelebile, altre si alternavano ballerine sulla sottile linea che divideva la parte lucida da quella che annaspava per rimanere a galla in quel mare che era diventata la sua follia.
Ribolliva di rabbia al sol pensiero, al ricordo, del perché si trovasse lì, per quale motivo e per colpa di chi. Era l'unica cosa che la manteneva sana, ancorata a quel mondo che non era più suo e che tutti, in quelle steppe scure, dovevano dimenticare.
La causa della sua pazzia era, paradossalmente, ciò che le impediva di impazzire definitivamente.
Quante contraddizioni si agitavano in lei, ma ormai c'era abituata, sapeva che non poteva farne a meno, che facevano parte di lei come tutti i suoi sbagli.
Aveva peccato in superbia, questo è ciò che gli avrebbe detto il prete della sua chiesa, aveva creduto di aver potere su altri esseri e lo aveva fatto per il motivo peggiore. La vendetta era qualcosa che Dio non perdonava, ma lei sapeva che quel Dio misericordioso che rigettava la violenza e non aveva protetto suo padre che era un buono, un giusto, un innocente, non era il suo di Dio. A presiedere il suo culto erano molteplici esseri pregni di pochi pregi ed infiniti difetti, dediti alla menzogna e alla guerra, alla brutalità e ai vizzi.
Erano frivoli e supponenti, credevano anche loro di poter disporre della vita degli altri ma a differenza sua non per la loro discendenza ma solo ed unicamente in condizione di ciò che loro stessi erano. Meschini e iracondi, cattivi e vendicativi, lei ne aveva preso i tratti peggiori, se poi ve ne erano anche di buoni, sia ben chiaro.
Ora che era seduta su quell'erba nera, secca e pungente, con quello stupido volantino blu in mano, si domandò se la fortuna sfacciata fosse un altro dei caratteri degli Dei greci, se rodersi l'anima per secoli comportasse poi l'arrivo di un'opportunità di riscatto.
Forse era davvero un ruota, quella della Fortuna, che girava e rigirava senza posa sino a tornare al punto di partenza. Forse c'erano anche lati positivi nel discendere da quegli esseri infami e disinteressati a tutto ciò che non fosse il proprio sé.
La verità era che non le importava minimamente, così come non le importava davvero cosa pensassero gli Dei, o come sarebbe stata quella stupida gara. Era la sua sola ed unica possibilità per tornare a calpestare quella stessa terra che ora le faceva da cielo.
Sul volto pallido di morte le labbra sottili e screpolate si tesero in un sorriso senza gioia.
Forse era finalmente giunto il momento di mettere in pratica ciò che aveva imparato in quelle landa desolata, Jane non chiedeva nulla di meglio.

 

 

*

 

 

Quando era sceso lungo l'oscuro burrone di roccia grezza che era l'entrata degli Inferi aveva avuto l'opportunità, seppur fugace, di far un'occhiata a tutto l'Ade.
Erano state le Praterie degli Asfodeli ad attirare inizialmente la sua attenzione, una lunga e apparentemente infinita distesa di terreno nerastro su cui si muovevano con lentezza e casualità centinaia di anime sbiadite come i ricordi dei tempi passati.
A distanza di tutti quei secoli si domandava quanto fossero aumentate quelle fumose figure che calpestavano la parte più vasta del Regno di Ade. Non che la cosa gli importasse davvero, ma era un buon modo per distrarsi, per non pensare a ciò che stava vivendo ormai da troppo.
Non era colpa sua, non lo era assolutamente, ci sarebbe dovuto esser qualcun altro al suo posto, qualcuno che avrebbe dovuto pagare non solo per ciò che aveva fatto a lui e alla sua famiglia ma anche a molti, troppi, altri.
Il vero colpevole invece se ne stava tranquillo e beato nel suo mondo dorato. Un mondo che probabilmente solo chi viveva nelle isole che aveva intravisto sul lago argenteo e scintillante poteva comprendere.
Scorgendo quella moneta brillante tra i tetti spioventi delle ville e quelli tozzi di un mondo che non conosceva, si era quasi illuso che sarebbe potuto finire lì, se lo meritava a dirla tutta, ma conosceva la regola delle tre morti con onore. Lui era morto una volta sola, non gli avevano concesso di varcare i portoni di legno dei Campi Elisi – che si sarebbe più che meritato visto la sua vita- e la cosa peggiore era stata che gli avevano vietato persino di tornare in vita.
I muri bianchi dei Campi non lo avrebbero mai accolto ed in un primo momento la cosa gli era andata più che bene, convintissimo com'era che lì dentro prima o poi avrebbe rivisto anche l'altro artefice del suo triste ed infame destino.
Quanti anni erano passati prima che quell'idea indegna gli sfiorasse la mente? Non poteva dirlo, non c'erano dotti che tenevano il conto dei giorni in quel luogo maledetto dalle Parche. Eppure l'aveva fatto, aveva pensato che fosse stato un bene non potersi stabilire tra quei giardini pensili e camminare sino alle sponde del lago, scorgere da lontano le Isole dei Beati, magari malauguratamente avvistarlo far lo stesso ma sulla riva di una di quelle zolle che emergevano dalle acque.
Era stata la follia del dolore, dirsi che fossero meglio le pene dell'Inferno ad una morte eterna di pace e tranquillità, di bellezza, solo per evitare di vederlo. Di vedere entrambi.
Adesso comprendeva quello stupido modo di dire “passare le pente dell'Inferno”, perché era vero, dannatamente vero, agli Inferi si soffriva e basta, quella parte luminosa non era dominio del Signore dei Morti. Non poteva esserlo, era solo uno stupido miraggio, un miraggio che lui non avrebbe mai e poi mai potuto vedere. O almeno così credeva fino a quel momento.
Con mani tremanti per lo sforzo di stringere le catene legate ai suoi polsi e sopportare un po' di più quell'atroce dolore, l'anima raccolse da terra il volantino giallo pur ignorando cosa fosse davvero. Gli era stato detto, da altre anime lì condannate, che il mondo era andato avanti, che c'era stato progresso in ogni ambito della vita, ma a lui di quella vita non interessava più nulla se non il fatto che gli fosse stata ingiustamente strappata.
Per un instante rimase ad interrogarsi su come fosse possibile che una stuoia di papiro fosse così fine, così delicata e gialla come la curcuma, ma subito dopo tutta la sua attenzione fu attirata da quei caratteri scuri che ormai da troppo non vedeva se non sulle arcate delle stanze dei Campi di Pena e su quegli strani oggetti metallici e colorati che gli aguzzini infernali chiamavano “cartelli”.
Sgranò gli occhi pesti di fatica e drizzò la schiena dolorante, aveva letto bene? Lo rifece, ancora e ancora finché quelle parole non gli rimasero impresse a fuoco come marchiati da un ferro rovente simile a quelli che tante volte aveva sentito sulla sua pelle in quei secoli di torture.
Si massaggiò una spalla senza però distogliere lo sguardo da quel foglio che gli prometteva la possibilità di abbandonare quelle terre fin troppo ricordate dagli Dei e di tornare alla vita, a quella vera e non alla fittizia replica eterna a cui era costretto da troppo.
Le iscrizioni erano aperte anche per le anime dei Campi di Pena, c'era scritto chiaro e tondo e probabilmente sarebbe stata la sua unica chance, contrapposta all'infinito pagamento del suo debito.
Una sfida, una gara, una corsa.
Non era mai stato troppo atletico nella vita ma aveva ugualmente sempre ottenuto ciò che voleva.

Sempre.

Era insignificante il numero di morti che avrebbe partecipato, sarebbe stato lui a vincere di sicuro, nessuno poteva sconfiggerlo perché nessuno poteva rifiutargli una richiesta.
La sua carnagione parve riprendere colore e tono, animata a una vita che ormai non aveva più da tempo immemore.
Quelle stupide anime sue rivali potevano solo che tremare e spostarsi dal suo cammino, Cicno il Crudele stava tornando.

 

 

*

 

 

Aveva imparato che le storie raccontategli in vita di come fosse l'Inferno erano giuste ma incomplete.
Nelle profondità della terra si aprivano valli scure come la fuliggine, braci spente e polverizzate di corpi bruciati nei roghi, anime bianche ed inconsistenti come spire di fumo disperse dal vento.
Se si guardava con attenzione, tra tutto il carbone e le sue esalazioni, si poteva scorgere un alto cancello di ferro che come una fibbia lucida teneva chiuse le bianche braccia delle monolitiche mura dei Campi Elisi. A lui avevano insegnato che il paradiso fosse alla luce del sole e a quella delle stelle, la rivelazione che fosse anch'esso sotto terra lo aveva un po' deluso, lasciandolo con un senso di nostalgia in corpo che ormai era abituato a sentire.
Che poi: poteva dire di avere ancora un corpo? Forse sarebbe stato più giusto dire “nell'anima”, ma aveva ancora anche questa? E l'anima che era diventato da morto era la stessa che aveva creduto di possedere da vivo?
Non lo sapeva, come non sapeva se quei Campi fossero belli come le riproduzioni del Paradiso Cristiano dei quadri che aveva scorto su libri di testo e nei musei.
Ma se c'era una similitudine con l'Inferno di Dante, quella stava tutta nelle sofferenze e nelle pene che venivano inflitte ad ogni sporca anima come lo era lui.
Dietro le mura nere, forse delle stesse ceneri che nutrivano l'erba delle Praterie, oltre il filo spinato arrugginito e sporco di sangue – come potessero dei morti aver ancora sangue in corpo gli era ignoto-, dopo la terra battuta ed il fango secco, enormi gradoni di pietra scendevano fino al Tartaro come cupe coltivazioni su una ripa scoscesa.
Erano veri e propri campi rocciosi e di terra fresca e smossa, dove i piedi fantasmi affondavano come nelle sabbie mobili. Ognuno ospitava un crimine diverso, ognuno ne ospitava uno sempre più nefasto, sempre più terribile ed imperdonabile.
Quando aveva sentito il nome di quei luoghi, quando aveva udito la parola “Campi di Pena” aveva creduto il peggio, nella sua mente si erano ripetuti, come in un eco, i racconti dei campi del suo paese e aveva pregato di morire di nuovo, questa volta scomparendo per sempre dalla faccia della terra.
Così non era stato.
Il suo gradone, il suo campo, non era tanto in profondità, forse perché alla fine non aveva fatto poi così male a nessuno sebbene si ripetesse che il suo crimine fosse stato comunque deplorevole. Non aveva neanche qualcuno che lo torturasse per farlo pentire, magari credevano che lo avesse già fatto, o più semplicemente sapevano che la sua tortura era lui stesso ad infliggersela.
Una lunga inferriata lo divideva dal bordo oltre il cui sarebbe precipitato nel girone successivo, le sbarre di ferro nero costeggiavano tutto il perimetro sino alla porta blindata dietro cui si celavano le scale per il basso. A lui era concesso vagare senza una meta, sfiorando altre anime dannate come lui ma condannate ad altri supplizi. Aveva in fine maturato la consapevolezza che lasciarlo a piede libero comportasse altro dolore per tutti coloro con cui divideva l'infame destino, un dolore aggiuntivo che loro gli restituivano guardandolo con odio, con rabbia e disgusto.
Quella era la sua pena, farsi odiare e ricordare per sempre perché quell'odio gli giungeva così forte mentre spandeva le sue spire su ogni anima, senza eccezione alcuna. E se gli altri avevano catene e legacci alle braccia e alle caviglie, lui aveva solo un giogo lucido e scintillante, che feriva lo sguardo di quegli esseri che ormai non ricordavano più cosa fosse la luce se non quella dei fuochi infernali. Il suo collo portava i segni di quel collare ma passavano in secondo piano a confronto con ciò che gli si agitava nel petto.
Il suo supplizio era tutto dentro di lui, non erano ferite fisiche, era solo cupo e sordo dolore. La sua scelta che gli si ripresentava davanti agli occhi ancora e ancora. Un solo gesto che lo aveva condannato all'Ade.
Non c'era neanche una pozza torbida in cui cercare di specchiarsi, non sapeva neanche che aspetto avesse ormai il suo volto, forse non ricordava neanche più com'era, di che colore fossero i suoi capelli e i suoi occhi, non poteva vedere come quel male lo avesse trasfigurato.
Non ricordava e non voleva farlo, quello era il suo destino, la giusta conseguenza di ciò che aveva osato fare.
Allora perché continuava a fissare quel volantino verde che gli era caduto in testa dal cielo?
Quella inaspettata pioggia gli aveva ricordato i fogli che venivano gettati dalle balconate dei palazzi durante le manifestazioni, dopo o prima della guerra. Un macabro memorandum di ciò che era e non sarebbe più stato. Perché lui si meritava quello che stava vivendo. Non doveva sperare in null'altro… non doveva ma lo stava facendo.
Tornare ad avere un vero corpo, calpestare l'erba e respirare a pieni polmoni l'aria aperta sopra cui non vi era una volta rocciosa ma solo il cielo infinito che diveniva sempre più blu.
Sarebbe potuto tornare a casa sua, vedere come stavano le persone che aveva lasciato, cos'era loro successo. Si sarebbe accontentato anche di andar a visitare le loro tombe se il tempo passato fosse stato ormai troppo. Avrebbe accettato tutto, tutto pur di poter tornare a vivere e non pensare più a ciò che aveva fatto, che aveva perso. Forse quei ricordi non lo avrebbero mai abbandonato davvero, forse vi avrebbe dovuto convivere per sempre, ma sarebbe comunque stato vivo.
In passato non era stato all'altezza della situazione, ma questa volta, si disse Jonas sicuro come non lo era da tempo, avrebbe lottato con tutto sé stesso. A qualunque costo.

 

 

*

 

 

Il silenzio lo aveva accompagnato in tanti anni di vita, in tante avventure diverse. Era stato la soffocante colonna sonora dell'attesa, l'assordante voce della guerra e del dolore. Era stato la dolce sinfonia della notte e quella calda del giorno. Eppure, malgrado tutto il tempo, il loro rapporto rimaneva ballerino e incostante.
C'era silenzio nella sua cameretta la notte, quando i suoi genitori non erano in casa, quando solo uno dei due vi era ma non dormiva, il suo respiro lento e costante non riempiva la camera da letto.
Anche casa sua ora era silenziosa mentre un tempo era stata animata da voci alte, allegre e giocose.
Voci fantasma appartenenti ad altrettanti fantasmi, persi per sempre o forse per il lasso di tempo necessario affinché lui non li trovasse più.
Aveva chiesto spesso ad Ade di dargli quanto meno un indizio, ma il dio continuava a ripetere di non poterlo fare, per il suo bene, per il loro.
Tutte cazzate, questa era la sua convinzione, ma ormai Gio sapeva che se l'amico si impuntava su qualcosa difficilmente gli si poteva far cambiare idea. Non che questo avrebbe cambiato la situazione, sarebbe comunque stato seduto nel salotto privato di casa sua ad attendere che qualche essere di una qualunque entità gli portasse notizie.
Gli altri Dei erano stati divisi sulla sua proposta, Atena era andata su tutte le furie quando l'aveva visto entrare nella Sala dei Troni, ma come sempre Gio se ne era sbattuto, divertendosi a ricordarle con sadica calma che non era una sua scelta quella di ammetterlo o meno al loro cospetto. Spettava a Zeus e Gio sapeva che il dio non gli avrebbe mai rifiutato l'ingresso, dopotutto non rifiutava neanche le sue idee.
Era comunque andato via dopo aver sganciato la bomba e aveva lasciato Ade a destreggiarsi tra i suoi amati parenti mentre lui se ne andava a cercare un angolo tranquillo per parlare con un vecchio amico e chiedergli di mettere una buona parola con suo fratello.
Con la benedizione unanime o meno dei grandi capi, il progetto era partito, Gio sapeva che nessuno di loro avrebbe potuto rifiutare un'idea così allettante, di assistere ad uno scontro di anime, nessuno di loro avrebbe rifiutato l'opportunità di tormentare ancora quegli esseri così effimeri che erano gli umani.
Forse non lo avrebbe fatto neanche lui in effetti.
Adesso doveva solo attendere e vedere in quanti si sarebbero presentati a quella gara, perché non vi erano criteri o limiti, l'intero Ade avrebbe potuto partecipare e la cosa sarebbe solo stata più spettacolare e lunga. Questo gioco avrebbe tenuto gli Dei impegnati per molto tempo, forse persino più del dovuto.
Tanto meglio per lui in ogni caso.
Alzò lo sguardo dal pavimento e lo puntò su grande mobile a muro che occupava buona parte della parete di nord. Tra tutti i libri ed i gingilli provenienti dai mille luoghi di quel mondo così grande eppure così piccolo, vi erano lucide cornici d'argento e legno levigato. Dalla fotografia in alto a destra una ragazza di forse diciotto anni ed un ragazzino di una quindicina circa fissavano l'obbiettivo sorridenti, i colori di una vita nascosti dietro al bianco e nero della pellicola.
Gio piegò le labbra di quello che forse sarebbe dovuto essere un sorriso ma che, come gli ripeteva da sempre Ade, pareva più il ghigno di un delinquente.
Che gli Dei giocassero con le anime dei loro defunti, lui sarebbe andato a ricercarne quelle di pochi. Finalmente avrebbe messo un punto a quella storia una volta per tutte.

 

 

 












 

 

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Capitolo 3
*** Ticket. ***
















III- Ticket.

 

 

 

C'era una piccola folla di anime che si agitavano inquiete ed emozionate davanti ai portoni chiusi dei Capi Elisi.
Se in quel luogo di pace fosse sorto e tramontato il sole tutti avrebbero saputo che ben cinque giorni erano passati da quando degli spiriti al servizio di Ade avevano lasciato cadere come pioggia i volantini in giro per l'Inferno.
Tra tutti i presenti vi era chi avrebbe partecipato alla Death Race e chi invece era solo lì per augurare buona fortuna ad amici e cari e sbirciare un po' di quel mondo fumoso che si nascondeva dietro i portoni e che molti di loro neanche ricordavano più.
Di solito erano solo le entrate laterali quelle che venivano aperte, ma per la grande occasione sarebbe stato spalancato il cancello centrale.
O almeno così si credeva.
Davanti al gabbiotto del venerabile Shilon Yu la lunga fila dei partecipanti procedeva a rilento, mentre al suo interno l'anima dell'ex Guardia Imperiale controllava nomi, arrivi, morti e cause di queste. A quanto pareva ai Campi Elisi era stato assegnato un solo controllore, ma si vociferava che per le Praterie erano stati chiamati figli di Ade stesso passati a miglior vita, uniche anime in grado di muoversi in mezzo a quei luoghi di perdizione senza dimenticare a loro volta chi si era. Loro o figli di altri Dei che con la morte avevano fin troppo a ché fare.
Certo, c'era chi giustamente si domandava in quanti nelle Praterie avrebbero accettato la sfida: non ricordavano neanche il loro nome, come potevano decidere di tornare a vivere? Per cosa lo facevano? Non avevano più neanche uno straccio di memoria.
Ma se in tanti si chiedevano ciò, molti altri erano interessati a tutti coloro che invece erano relegati entro delle mura proprio come loro. Solo che le mura in questione erano nere, grezze, minacciose e sormontate da filo spinato e le anime che vi abitavano si erano macchiate delle peggiori nefandezze. Alcuni credevano che chi si trovasse lì dentro non meritasse un'opportunità del genere ma c'era chi ribatteva dicendo che, infatti, a presiedere le iscrizioni nei Campi di Pena sarebbe stata proprio una divinità.
Le scommesse erano aperte ed i più gettonati erano: Ade stesso, per cui si avevano dei dubbi perché al dio non piaceva sporcarsi le mani. Thanatos, ma essendo il dio della Morte magari era un po' occupato a gestire tutta la gara per potersi mettere a controllare una ad una le anime. Ipnos anche era in lizza, solo che con lui le anime temevano che le iscrizioni sarebbero andate all'infinito.
Magari avrebbero chiamato altri semidei, magari quel sadico di Ares, speravano tutti di no o il dio della Guerra avrebbe selezionato solo i più terribili ed efferati criminali della storia del mondo. Ci sarebbe stato di che divertirsi, su questo non c'era dubbio, ma sarebbe stato uno scontro un tantino troppo cruento.
Su chi potessero essere i primi giudici, quindi c'era un gran parlare a tutti aspettavano il momento in cui sarebbero arrivati i primi risultati della convocazione.
Quali erano poi i requisiti per poter esser ammessi? Da quel che diceva il volantino tutti potevano partecipare ad eccezione fatta di chi risiedeva nelle Isole dei Beati. Si presupponeva quindi che le liste sarebbero servite solo ed unicamente per avere un conto e un nome da associare ad ogni singola anima.

Uno dei due portoni laterali cigolò aprendosi lentamente e vi entrò un intero squadrone di scheletri vestiti da operai, con tanto di caschetto giallo e simbolo di Ade stampato in fronte. Sulle loro salopette nere la scritta bianca “ SPIRA”, ovvero Stazione Principale Iris-Radiofonica dell'Ade.
Gli scheletri trasportarono nei Campi Elisi grandi travi scure e pacchi trascinati su carrelli automatizzati Efesto ep, l'industria primaria di automi e marchingegni divini.
Qualche tempo prima anche Apollo aveva cercato di metter su la sua impresa di costruzioni, di mezzi veloci per la precisione, ma tutte le macchine da lui prodotte avevano il brutto vizio di prendere fuoco e puntare dritte verso il Sole, oltre che seguire la sua orbita.
Quell'anno sciagurato i mortali avevano dato fuori di testa, terrorizzati dallo sciame di meteore che si stavano abbattendo sul pianeta. Chissà come l'avrebbero presa se avessero saputo che i loro terribili frammenti rocciosi spaziali erano in realtà costose autovetture mal programmate.
Probabilmente non molto bene.
Le anime lì riunite osservarono con interesse il montaggio di quello che, apparentemente, sarebbe stato un enorme schermo che avrebbe permesso di seguire la gara in diretta costante.
Ùranus fissò gli scheletri discutere muti, vedeva le loro mascelle aprirsi e chiudersi, cigolare come se stessero parlando davvero, muovere le bianche ossa con veemenza l'uno contro l'altro quando si intralciavano a vicenda o rimanevano ingarbugliati nei fili che uno scheletro dall'enorme pettinatura afro stava stendendo a terra, del tutto incurante del disturbo creato ed isolato dal resto del mondo da delle enormi cuffie arancioni.
La prima domanda che gli sorgeva spontanea era: Ma uno scheletro può sentire la musica?
La seconda: Quindi quelle sono le famose “cuffie”?
E per finire: ma a che servono quei fili?
Probabilmente se fosse riuscito a beccare qualcuno dei suoi vicini di casa, di quelli nati negli ultimi decenni, o almeno nel secolo passato, si sarebbe potuto far spiegare molte cose, ma al momento l'unica cosa che riusciva a fare era osservare quegli individui – poteva chiamarli così?- montare una lastra nera gigante su delle travi così grandi da poter sorreggere il cancello d'entrata dei Campi.
La fila davanti a lui era ancora lunghissima, forse avrebbe dovuto decidersi prima ad andare al punto di ritrovo, ma aveva avuto molto di cui pensare.
Si voltò alle sue spalle per scorgere la fine di quella fiumana di anime che come lui attendevano, alcuni calmi nella loro morte, altri impazienti nel tentare di tornare in vita.
Ci stava riflettendo ancora, ad onor del vero, su cosa lo avesse spinto a presentarsi, a credere che potesse esser lui il fortunato vincitore di quella gara. La verità, purtroppo, era che ancora non lo sapeva e vedere così tante persone decisamente più sicure e agguerrite di lui lo metteva leggermente in ansia.
Una strana sensazione si fece spazio nel suo inesistente corpo, come un vecchio ricordo, un eco lontano che gli suggeriva cosa stesse succedendo.
Ùranus si mosse a disagio sui piedi malfermi, mentre quello stato di turbamento si faceva largo in lui sino a straripare dagli argini come una diga.
Vicino a lui anche le altre anime cominciarono a guardarsi attorno come alla ricerca di qualcosa, le vedeva battere le palpebre e cercare di mettere a fuoco, scuotere la testa e tornare a concentrarsi sull'attesa che lì aveva impegnati sino ad ora. Ma erano inquiete tanto quanto lo era lui, forse riuscivano a sentire la sua ansia, forse riuscivano a fiutarla come un potente feromone, come animali a caccia.
Deglutì a disagio, torturandosi le mani e giocando con le pellicine che gli si erano alzate attorno al pollice. Un morto poteva aver problemi di cuticole? Evidentemente sì perché lui ne aveva eccome.
Fissò quei piccoli brandelli di pelle, ostinandosi a non alzare la testa e controllare se qualcuno lo stesse fissando, se se ne fossero accorti oppure no. Probabilmente sì, decisamente sì. Sentiva lo sguardo di quelle anime su di lui, che lo fissavano e non voleva, non voleva proprio vedere i loro volti.
Qualcuno uscì dalla fila, sentì un paio di anime borbottare qualcosa ai loro conoscenti, giustificazioni per andarsene di lì perché stavano aspettando troppo, perché alla fin fine non erano dei combattenti e sapevano di non potercela fare, perché al massimo sarebbero rinati proprio e poi lì non si stava così male. C'erano squittii sorpresi, altri sconcertati, gente che sudava freddo ed Ùranus lo sapeva, lo sentiva.

<< Tutto bene?>> la voce delicata e tentennante di una donna lo costrinse a voltarsi.
Dietro di lui, avanzando forse per via di quelle anime che avevano dato forfait, c'era una giovane di forse una ventina d'anni. La carnagione olivastra era sbiadita dalla morte, da quel velo fumoso che avvolgeva un po' tutti loro e rendeva ogni colore più delicato, meno violento, come se fossero costantemente immersi nella calura estiva. Persino gli occhi verdi della ragazza parevano troppo chiari, tendenti ad una sfumatura che Ùranus aveva scorto solo di sfuggita nelle pietre incastonate nei preziosi gioielli di ricche nobildonne.
Aveva un aspetto grazioso, pareva una persona buona a primo sguardo ed i capelli biondi, corti sino alle guance le davano un'aria sbarazzina. Ad essere onesti li teneva in un taglio molto strano, pareva quasi che un tempo fossero stati più corti e che poi la ragazza li avesse lasciati crescere così, come capitava, un po' come faceva spesso lui in vita, prima che sua madre lo acciuffasse e gli desse una sistemata.
Quel vago ricordo lo fece sorridere, sentì la tensione allentarsi dentro il suo corpo, la schiena rilassarsi e quel groviglio di muscoli tesi sciogliersi.
Annuì educato e si schiarì la voce.
<< Sì, solo un po' d'ansia. Come tutti… credo.>> finì tentennante.
La giovane continuò a guardarlo con attenzione, quelle iridi sbiadite come le acquamarina di un diadema visto una vita fa lo scrutavano in cerca di qualcosa che Ùranus non poteva vedere.

Ringraziando il cielo.

<< E... mh, voi? State bene?>> maledisse quel tono incerto che gli era uscito fuori, mentre l'altra si scuoteva dal suo torpore e s'affrettava a restituirgli il sorriso.
<< Oh sì, perdonami. Solo che per un attimo… ti sembrerà assurdo, ma per un attimo ti ho scambiato per una mia vecchia conoscenza.>>
Il ragazzo annuì tirato. << Capita quando c'è una tale fiumana di anime.>> intrattenere conversazioni non era mai stato un problema prima d'ora, era pur sempre una persona educata, eppure si sentiva a disagio a parlare con quella giovane, forse perché temeva di sapere per quale motivo l'avesse scambiato per qualcun altro e se ne dispiaceva non poco.
Si mise dritto con la schiena, schiarendosi la voce e porgendole la mano.
<< Il mio nome è Ùranus, posso chiedere il vostro?>>
Gli occhi della ragazza scintillarono divertiti. << Piacere di conoscerti, Ùranus. Io sono Elena, ma se sarai così gentile da darmi del tu preferirei essere chiamata solo Lea.>>
Sorrise imbarazzato. << Come preferite, signorina Lea.>>
 

 

Elena guardò il giovane davanti a lei e decise che doveva aver all'incirca la sua stessa età, anche se con quell'espressione bonaria e spaurita lo avrebbe potuto tranquillamente classificare come più piccolo.
Povero ragazzo, chissà com'era morto… non si azzardò comunque a chiederlo, aveva imparato che molte anime, malgrado si meritassero a pieno diritto i Campi Elisi, fossero estremamente suscettibili sulle cause e le modalità della propria morte.
Anche se aveva un così alto livello di sensibilità verso quei suoi pari, Lea non era proprio riuscita a far a meno di avvicinarsi ad Ùranus – ironia della sorte?- e chiedergli se stesse bene.
Le anime di solito di questi problemi non ne avevano, o lei a quell'ora non avrebbe preso in considerazione l'idea di partecipare da una “Gara della morte” per poter tornare indietro ed avere un'altra possibilità, sarebbe stata completamente appagata dal suo lavoro.
Dopotutto erano già morti, non poteva mica perder qualcuno.
Ma così non era stato, si era dovuta metter in coda ad attendere il suo turno da Shilon Yu e quando aveva cominciato a veder le persone allontanarsi dalla fila, accampando scuse di ogni genere, si era incuriosita, aveva allungato il collo e maledetto quei capelli mal tagliati che si ritrovava per tutte le volte che gli andavano a finire davanti agli occhi. Così si imparava a tagliarseli da sola, c'erano centinaia di esperti in quelle mura e lei si improvvisava barbiere e faceva i danni che aveva fatto. Era stata solo una fregatura ed una noia e poi aveva trovato ciocche di capelli sparsi per la casa per giorni.

E lei lo sapeva quanti giorni erano passati perché andava all'entrata a chiederlo ogni singolo giorno.

Poi, mentre si lamentava tra sé e sé dalla sua geniale idea e di come le sarebbero ricresciuti male, un paio d'anime davanti a lei si erano spostate e tra di loro, in uno squarcio tra i corpi dei due, aveva intravisto qualcosa che l'aveva fatta raggelare.
Era di spalle ma non aveva avuto il minimo dubbio su chi fosse, aveva chiesto permesso e si era introdotta a forza tra i suoi predecessori. Questi non avevano fatto la minima replica, anzi, se ne erano andati anche loro, pallidi ed inquieti più di quanto la morte non li avessi sempre resi.
Non si era neanche accorta di aver marciato verso di lui e poi… poi arrivata lì le era bastato un battito di ciglia e la capigliatura nera che aveva avvistato si era palesata come una massa di fili ramati, lunghi e mossi, tenuti legati in un codino di fortuna dietro la nuca.
Si era resa conto che quelle spalle erano troppo ampie e quelle braccia troppo muscolose. Tutta la fisionomia era sbagliata eppure quel gigante che tanto l'aveva allarmata pareva del tutto inoffensivo, mentre a testa bassa si massacrava le mani grattandosi le pellicine con le unghie corte e mangiucchiate.
Aveva scorto la fronte alta coperta da qualche ciuffo scappato alla coda, le sopracciglia chiare, rossicce come la barba che sfiorava gli zigomi, come le leggere efelidi che gli coprivano il naso dritto. Gli occhi azzurri erano stati l'ultima conferma e Lea si era data della stupida.
Non era lui, ovvio che non lo fosse.
Se avesse dovuto dire cosa aveva provato nel fare quella realizzazione non avrebbe saputo dar risposta: da un lato il sollievo, l'immagine orribile cancellata dalla sua mente; dall'altra la delusione di non averlo rivisto entro quelle mura.
Si era riscossa da quei pensieri e non era riuscita a non intervenire, a non mettere un freno a quella tortura apparentemente ingiustificata. Va bene l'ansia e tutto, ma alla fine erano morti, cosa gli sarebbe potuto succedere se non avesse vinto? Cosa aveva da temere quel giovane?
A parlarci, ora come ora, si ripeteva che era stata davvero sciocca a scambiarlo per qualcun altro e che trovava molto divertente il suo modo di parlare.
Riconosceva un vago accento del nord, no, non il suo nord, era lei il suo nord; quello che Lea riconosceva era un timbro anglosassone, lontano miglia e miglia dalla sua città, ma anche lontano da quella Londra che le era sempre parsa irraggiungibile. Era un accento più cupo, più aggressivo, sebbene proferito da quelle labbra non sembrasse altro che la voce di un orso che tenta di parlar educatamente.
Sì, l'anima davanti a lei doveva essere Britannica, forse persino Scozzese. Anche se lei uno scozzese lo aveva incontrato e forse neanche quella era la patria giusta del giovane.
Gli sorrise ugualmente e accettò la sua mano, per poi tenergliela stretta e chiedergli con gentilezza:

<< Posso?>>
Il ragazzo la fissò senza capire e Lea gli sorrise divertita.
Tenne la grande mano dell'altro nella sua, piccola e delicata a confronto, e vi passò l'altra sopra, con attenzione, mormorando parole provenienti da una vita prima, così lontana che credeva persino di aver dimenticato.
Non vi furono scintille o luci colorate, Ùranus avvertì sicuramente il leggero calore che quella presa emanava e Lea si ritrovò a sorrider ancora di più, soddisfatta dello sguardo stupido con cui il ragazzo fissò la sua mano.
Le pellicine e le cuticole maltrattate erano ora nuovamente al proprio posto e Lea sentì una botta d'orgoglio gonfiarle il petto: da quanto tempo era che non aiutava più nessuno? Davvero molto, troppo.

<< Così non va meglio? A me le pellicine bruciano parecchio. O almeno lo facevano quando ne avevo. Bruciano ora?>>
 

Ùranus batté le palpebre sorpreso: lo aveva davvero curato? I morti potevano essere curati? Come aveva fatto? Quella era magia… la ragazza era forse come lui?
Annuì comunque, sorridendole timido. << Sì, vi ringrazio molto.>>
La ragazza sbuffò ed una ciocca bionda le saltellò sul volto. << Non avevo detto di darmi del tu?>>
Un calore molto simile a quello che aveva sentito prima sulla pelle lo colse questa volta sulle guance. Diamine, stava arrossendo? Continuava a farlo anche da morto?
Sua madre gli diceva sempre di comportarsi bene, di aver rispetto delle altre persone e anche delle loro parole, specie se si trattava di signorine. Così, esattamente come la donna gli aveva insegnato, sorrise ed annuì.
<< Giusto. Chiedo scusa, Lea, e grazie per avermi aiutato.>>
L'espressione della ragazza valse quel piccolo sforzo di darle del tu, anche se per tutta la vita era stato abituato a parlare diversamente.
<< Anche v- anche tu vuoi tornare in vita o sei qui solo per supporto?>> le chiese cercando di continuare quella conversazione. Parlare con la signorina Lea lo stava distraendo fin troppo bene.
Lei alzò un sopracciglio. << Intendi supporto morale e tecnico? No, non sono qui per curare le mani mangiucchiate di tutte le anime in ansia.>> gli fece l'occhiolino. << Sono qui per gareggiare come tutti gli altri, attendo il mio turno ma pare che lo stessi facendo molto più tranquillamente di te.>>
Ùranus deglutì a disagio.

Magnifico, aveva appena detto che lo stava distraendo? Non lo stava più facendo.

<< Sì, uhg, ecco… non sono proprio in ansia per la gara in sé, sono tutte queste anime che mi preoccupano, se già noi siamo così tanti non oso immaginare quanti saremo in tutto, quando tutti e tre i domini saranno riuniti.>>
Lea lo guardò sorpresa, poi annuì. << Capisco, in effetti sono davvero molte persone in fila, ma guarda il lato positivo: dalle Praterie degli Asfodeli non potranno venir troppe persone, non si ricordano nulla della loro vita passata.>>
<< Potrebbero esser figli di Dei...>> borbottò senza pensarci.
La ragazza si voltò di scatto verso di lui, guardandolo con gli occhi sgranati. << Cosa hai detto, scusa?>>
Ùranus non c'aveva pensato troppo nel dirlo, credeva che da morti, quando si scopriva tutto l'Inferno e ciò che conteneva, chi lo aveva creato soprattutto, si venisse anche a conoscenza delle dinamiche tra divinità e umanità. Aveva dato per scontato che Lea sapesse dell'esistenza dei semidei, che lo fosse lei stessa, specie dopo la prova di cura “magica” che aveva appena sostenuto. Trovarla così sorpresa ad un'affermazione del genere lo confuse leggermente: non sapeva che alcuni semidei potevano mantenere i loro ricordi anche nelle Praterie?
Si apprestò comunque a spiegarle ciò che intendeva dire. << Dalle Praterie degli Asfodeli potrebbero venir figli di Dei. Le divinità dell'Olimpo spesso hanno figli con mortali e questi- >>
<< So cosa sono i semidei, lo sono anche io. Solo non avevo pensato che loro, noi, potessimo ricordare lì. >>
Il ragazzo sospirò. << Dipende da chi sia il suo genitore divino. Credo che un figlio di Ade potrebbe ricordare, così come uno di Thanatos, magari uno di Ecate o persino di Ipnos.>>
Lei annuì. << Mh, non posso che darti ragione. Sembri piuttosto esperto sotto questo punto di vista.>> gli disse interessata. Non aveva mai conosciuto molti semidei, se non si contava suo fratello e coloro a cui prestavano aiuto, chissà se invece l'altro non fosse addirittura andato al famoso Campo Mezzosangue del suo paese.
O magari era più corretto dire “della sua epoca”.
Ùranus intanto continuò a parlare senza neanche immaginare i ragionamenti dell'altra.
<< Non proprio, ma mio padre mi ha spiegato un po' di cose, ad esser onesti credo di dover a lui e mia madre tutto ciò che so.>>
Il sorriso gentile e nostalgico che gli incurvò la bocca incuriosì ancor di più Lea.
<< Beh, visto che pare dovremmo attendere ancora molto, perché non spieghi “un po' di cose” anche a me? Se per te non è di disturbo, certo. Sotto questo punto di vista sono un po' ignorante, lo ammetto.>>

 

 

 

*

 

 

La fila.
Stava facendo la fila.
Una cazzo di fila.
Da morto.
Nathan grugnì infastidito come lo era sempre da tutto e tutti ma in quel momento avrebbe volentieri preso a pugni qualcosa. Com'era possibile che si ritrovasse a fare una dannatissima fila come se si trovasse alle poste? Gli sembrava di star andando a pagare una bolletta scaduta, la voglia di girare i tacchi ed andarsene era la stessa ma questa volta il pagamento l'avrebbero fatto a lui e non il contrario.
Rimaneva il fatto che da morto, dopo anni di onorata e onorevole morte, doveva stare in fila come un'anima qualunque ad attendere il suo turno, come se non avesse aspettato abbastanza a suo tempo per quel cazzo di giudizio infernale.
Se li ricordava ancora perfettamente, quei tre seduti su dei troni giganteschi, individui di cui tutti conoscevano il nome a che, ugualmente, si ostinavano a tener il volto coperto. Che cazzo ti coprivi a fare se tutti sapevano chi eri?
Non gli interessava davvero, aveva solo trovato irritante che coloro che avrebbero dovuto giudicarlo non avevano la decenza di guardarlo in faccia o che comunque lo facessero da dietro una dorata protezione.
Quelle maschere non li facevano sembrare più minacciosi, mistici o quel che volevano sembrare. Parevano solo tre deficienti con una stupida maschera d'oro in faccia. Punto.
A suo tempo lo avevano fatto attendere un bel po', come se il suo curriculum non fosse abbastanza per fargli guadagnate un biglietto di sola andata per i Campi Elisi. Era stato nell'esercito, aveva combattuto con onore, era stato riconosciuto da suo padre e aveva avuto la sua benedizione, era morto come un vero eroe e loro cosa facevano? Discutevano del suo temperamento e del suo carattere.
Nathan non li aveva mandati a quel paese solo perché alla fine gli era stata data una buona educazione, se no li avrebbe presi a calci in culo sino alla fine dell'Ade.
Scivolare lungo quella specie di tubo aperto fatto di roccia levigata, dove per altro dietro di te scivolava altra gente se era stata smistata velocemente, era stato quasi più fastidioso di sentir quei tre cretini discutere, ma almeno gli aveva dato la possibilità di ammirare in tutto e per tutto quell'immenso mondo sotterraneo che erano gli Inferi. Aveva subito scorto le immense Praterie degli Asfodeli, l'erba nera e quella costante nebbiolina che vi sostava sopra, mossa dalle pigre anime smemorate di chi non aveva fatto né il bene né il male nella vita, che non era stato abbastanza per meritarsi una qualunque fine sensata. A quel punto, invece di lasciarli a marcire per sempre in un luogo dimenticato dagli Dei, potevano disintegrare le loro anime, darle in pasto a qualche mostro o farci sacrifici a divinità sanguinarie e crudeli. Abbandonarle a sé stesse, senza neanche l'ombra di un ricordo era ancora più terribile secondo lui.
Era riuscito poi a vedere, in lontananza, le alte mura blindate dei Campi di Pena, non sapeva per quanto si estendessero e non aveva neanche mai avuto occasione di informasi, il suo “corridoio” si dirigeva dalla parte opposta e Nathan non aveva potuto far altro che fissarlo da lontano e chiedersi, con un fondo di curiosità ed orgoglio, se lì non vi fossero anche i bastardi che aveva fatto fuori nel corso della sua vita.
Poi una curva a gomito lo aveva sballottato lungo una discesa ad elica e gli aveva fatto perdere un po' l'orientamento. Subito dopo si era trovato davanti alle mura bianche dei Campi Elisi ed una delle porte secondarie si erano aperte per farlo entrare, lì dove Shilon Yu lo attendeva per registrarlo ed indicargli dove dovesse andare, quale fosse casa sua.
Con un sorriso sprezzante Nathan si rese conto che era da un po' che non vedeva la vecchia guardia imperiale. Quell'uomo, tra tutti quelli che gli era capitato di incontrare lì, era senza ombra di dubbio una delle persone che gli andavano più a genio.
Non lo aveva mai visto piegare il capo se non in ossequiosi saluti dettati dalla sua cultura ed educazione. L'aveva visto riprendere anime troppo vanitose e ricordar loro che stare nei Campi Elisi non significava che non potessero uscirne, che solo i meritevoli potevano dimorare in quelle mura e che lui non si sarebbe fatto scrupoli a fargli sapere cosa lì attendesse fuori di lì.
Si diceva che l'uomo avesse tenuto legate nelle Praterie, proprio davanti ai Campi, decine di anime che avevano fatto del bene ma che si erano poi montate la testa nella morte.
Era un nemico da non sottovalutare ed un alleato prezioso, dopotutto era stato a capo di uno dei sistemi di guardia, difesa ed attacco più potenti e ben organizzati del mondo e Nathan apprezzava sempre un buon militare, un infaticabile combattente.
Probabilmente il momento in cui sarebbe toccato a lui gli sarebbe convenuto togliersi quella faccia scocciata o Shilon Yu avrebbe trovato un modo per far passargli passar avanti altri finché non lo avrebbe giudicato “abbastanza calmo” per poter affrontare l'iscrizione.
Non aveva dubbi che avrebbe legato anche lui se ne fosse stato necessario e non aveva la minima intenzione di iniziare così la Death Race.
Riusciva a vedere il gabbiotto del “custode” di quel luogo, la sua voce pacata non si poteva udire sopra il concitato ciarlare di tutti coloro che gli erano attorno e Nathan stava quasi per girarsi e dire a tutti quelli in fila dietro di lui di chiudere la dannatissima bocca quando i toni di quelle conversazioni mutarono.
Aggrottò le sopracciglia sorpreso, che il suo fastidio fosse così palese che tutti quegli aspiranti partecipanti si fossero zittiti? No, non stavano zitti, erano più… inquieti?
Voltò il capo per cercare di capire cosa stesse succedendo, la sua altezza aiutava sicuramente, facendolo svettare sopra a molti e permettendogli così di avere un ampia veduta della situazione: Le anime si muovevano sui loro posti a scatti, alcune si erano bloccate, lo sguardo fisso in una direzione precisa.
Seguì le occhiate sbieche che tutti lanciavano dietro le proprie spalle, tutti più o meno curiosi, più o meno increduli e Nathan non ne capiva davvero il motivo, finché non incontrò due sfavillanti iridi verdi.
Il sangue gli gelò in corpo, non riuscì a batter le palpebre, non riuscì a muoversi.
Quegli occhi così limpidi appartenevano ad una giovane donna che, a sua volta, lo fissava intensamente, una linea scura a delinearne la curva dello zigomo sino al meno.
Che diamine stava succedendo? Perché Lei era lì? Non doveva esserci, non poteva, no, assolutamente no.
Fece per muovere un passo in avanti ma un uomo sulla quarantina, sorprendentemente più alto di lui, gli si parò davanti mentre cercavi di uscire dalla fila.

<< Scusa ragazzo.>> gli disse sbrigativo poggiandogli una mano sulla spalla e scansandolo.
Nathan non gli rispose male solo perché colto di sorpresa, il ché era tutto dire, ma non appena riuscì ad avere di nuovo la visuale libera la donna non c'era più.
Tra le altre anime due giovani ragazze parlottavano tra di loro, un ragazzone di colore se ne stava rigido a fissare il vuoto ed un gruppo di vecchietti discorrevano concitati di qualcosa, mentre alle loro spalle una ragazzina bionda e minuta teneva le mani ad un ragazzo pallido, alto e rosso di capelli.
Una smorfia infastidita gli contrasse il volto: la donna era sparita nel nulla e per di più aveva anche visto quell'altra. Sperava vivamente che quella spina nel fianco non volesse partecipare, non sapeva come si sarebbero svolte le sfide ma se avessero dovuto affrontarle divisi per “luoghi”, sopportare quella rompipalle biondiccia era l'ultima delle cose che voleva fare.


<< Il prossimo.>>
La voce di Shilon Yu lo riportò alla realtà: come poteva essere già il suo turno? C'erano decine di persone prima di… lui.
Davanti a sé non vi era più nessuno, spariti come la donna dagli occhi verdi, dissolti come la nebbia delle Praterie degli Asfodeli.
Schiarendosi la voce con un colpo di tosse il giovane si fece avanti sino a poggiare entrambe le mani sul bordo del finestrone da cui si affacciava la guardia reale.

<< Salve, Wright-san, mi stavo giusto domandando quando si sarebbe presentato.>> lo salutò con educazione formale l'uomo.
Nathan si lasciò scappare un sorriso strafottente, il ricordo della donna dagli occhi verdi già lontano, accantonato in un angolo della sua mente.
<< Ho lasciato un po' di vantaggio a tutti quegli altri sfigati.>> affermò con arroganza.
Gli occhi di Shilon Yu erano neri come la pece, non vi si poteva distinguere iride e pupilla, parevano duri e levigati come la pietra, come il marmo pregiato nei luoghi di culto, freddi come quello stesso materiale ma attenti e pungenti. Bastò quel solo sguardo e Nathan si ricordò a scoppio ritardato di ciò che si era detto prima.
<< Allora, Wright-san, si metta pure da parte e lascia altro vantaggio a chi la segue. Dopotutto ha saltato una considerevole parte di fila.>> e così dicendo gli indicò con la mano la sua destra.
L'altro guardò la lunga manica rossa ondeggiare ma ebbe il buon gusto di starsi zitto o presto quella veste avrebbe volteggiato in aria per poterlo legare come un salame, e per quanto gli bruciasse dirlo Nathan non era mia riuscito a sciogliere quegli infernali nodi fatti da quel muso giallo davanti a lui.
Con un grugnito infastidito si spostò di lato, si poggiò con la schiena al muro del gabbiotto e incrociò le braccia al petto, mettendo su la sua miglior espressione incazzata.

Sua madre glielo aveva sempre detto che quella boccaccia, prima o poi, sarebbe stata la fonte di tutti i suoi guai.

 

 

*

 

 

Non aveva capito cosa fosse effettivamente successo: un momento prima la fila era enorme, una fiumana infinita di gente chiassosa, allegra, emozionata… l'attimo dopo mormorii inquieti e fuga generale di almeno un buon quaranta percento di quella porzione di coda.
Eppure, per quanto cercasse di capire dove fosse il problema, cosa avesse spinto tanti alla ritirata prima ancora d'iscriversi, Eliza non ne veniva a capo.
Non c'erano stati avvistamenti di mostri, nessun' anima che sapesse con precisione cosa avrebbero dovuto affrontare, quali pericoli, quanti guerrieri, nulla. Si era solo alzato un vento freddo, assurdo per quel luogo, e poi molti avevano gettato la spugna.
Stringendosi nelle spalle la ragazza sbuffò, molleggiando sui pedi e sorridendo senza accorgersene al suono della pelle conciata che si piegava e distendeva. Quello era il rumore dell'attesa, dell'attimo prima della partenza e non c'era nulla di più bello di quel senso d'aspettativa che ti gonfiava il petto e al contempo ti stringeva i polmoni. Non chiedeva altro, Eliza, che sentir quella sensazione per sempre, come l'aveva avvertita quando usciva di casa per le sue “passeggiate” o quando si allenava; quel groviglio di sentimenti che la facevano sentire diversa, migliore, completa.
Si portò una mano al petto, dove adagiato tra le clavicole sporgenti vi era un ciondolo composto da due specie di virgole saldate sulle loro curve, legate da una corta catenella dai riflessi caldi.
Quando le era stata regalata non era comune a tutti poter sfoggiare gioielli del genere, era un lusso riservato a poche donne agiate, a pochissimi suoi compagni, ma la maggior parte di loro non solo non potevano permetterselo, rischiavano anche di perdere il monile in un qualunque momento, o che questo divenisse motivo di ritorsione, di lotte, di morte.
Per Eliza ormai era solo parte di sé, qualcosa da tenere vicino, tanto nella vita quanto nella morte. Probabilmente se se lo fosse perso avrebbe seriamente rischiato di dare di matto, specie per ciò che rappresentava.
Come una freccia scoccata con precisione un'idea le solleticò la mente, un rivolo di vento che la spinse a voltarsi e fissare il viale che scompariva tra le prime costruzioni. Lì, da qualche parte, a casa loro, suo padre riposava, finalmente, dopo una vita di continue battaglie.
Non si era presentato Philip, non aveva neanche preso in considerazione la gara, ne avevano parlato ed ipotizzato con serietà le prove, ma nulla di più. Aveva vissuto la sua vita, così le aveva detto, ed ora voleva solo godersi la sua meritata pace, senza dover tornare a combattere quotidianamente, che fosse per riuscire ad integrarsi o per andar avanti con la vita, per seguire il progresso che in quegli ultimi decenni sembrava impazzito.
Le aveva ugualmente augurato ogni bene, l'aveva guardata con gli occhi carichi d'orgoglio paterno e le aveva confessato che non si sarebbe aspettato nulla di diverso da lei.

<< Vai e vinci, Elizabeth, sei una guerriera e ciò che le guerriere fanno è proprio questo: combattere e vincere. Hai tutte le capacità per ambire al premio.>>

Quel vago luccichio negli occhi scoloriti di suo padre le aveva dato una marcia in più.
Lui l'avrebbe attesa lì, alla fine di quella prima vita che non era riuscita a completare.
Strinse la mano attorno al ciondolo, concentrata sulle parole che l'uomo le aveva detto, quando un movimento, una macchia di colore ad esser onesti, non le scivolò vicino.
Eliza si voltò di colpo verso i partecipanti in fila ed una smorfia infastidita prese il posto di quella orgogliosa che aveva sfoggiato sino a poco tempo prima.
Davanti a lei, spuntato da chissà dove, se ne stava un ragazzo alto, le spalle larghe parevano rilassate sotto il tessuto spesso della giacca che indossava, scolorito e danneggiato su più punti ma rattoppato con attenzione. Doveva essere un oggetto a lui molto caro, specie quella forma amorfa che vi era ricamata sul risvolto del colletto.
Di lui aveva una visuale a tre quarti, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni usurati come la giacca, il peso poggiato sulla gamba destra, il collo leggermente reclinato all'indietro e lo sguardo smeraldino perso tra la vegetazione circostante: tutto di quel giovane gridava “tranquillità”, come se quello fosse il posto in cui doveva stare.

Peccato che prima tu non ci fossi, ragazzino, e che mi sei bellamente passato avanti.

Oh, ma quel pel di carota non aveva la più pallida idea di cos'aveva fatto, non aveva mica superato una ragazza come tante, che non si sarebbe resa conto della cosa o che non avrebbe avuto il coraggio di affrontarlo su due piedi. Stavano per iscriversi ad una gara in cui avrebbero gareggiato sino alla vita, figurarsi se la spaventava far notare ad un deficiente qualunque che avesse saltato la fila. Fosse pure un solo posto, e non lo era visto che alle sue spalle Eliza aveva ancora la stessa anima, era un questione di principio: non si prendono scorciatoie, di nessun tipo, mai.
Senza il minimo tentennamento la ragazza batté energicamente la mano sulla spalla del tipo e lo guardò in cagnesco.

<< Scusa? Credo proprio che tu debba fare la fila come tutti gli altri comuni mortali.>>

 

 

Quando era vivo la fila l'aveva fatta pochissime volte, la maggior parte di queste quando, in coda dietro ai suoi compagni, attendeva il momento buono per agire. Ma star fermo a girarsi i pollici, consapevole di avere almeno più un centinaio d'anime davanti a lui e che tutti queste dovevano essere esaminate da un solo uomo, gli faceva venire una gran voglia di tornarsene a casa, farsi un goccio o superare bellamente tutti quanti, approfittando di quell'improvvisa brezza fredda che si era alzata e che aveva catalizzato l'attenzione di tutti.
Con la fluidità e la rapidità che gli erano sempre stati caratteristici, Cade aveva superato un gruppo di soldati, qualche coppia, dei trii forse e molte anime che conversavano tranquille tra di loro.
Il trucco stava tutto nel fingersi perfettamente a proprio agio, come se ciò che stesse facendo fosse la cosa giusta, proprio quello che andava fatto. Se non hai una faccia colpevole allora non sei colpevole, questa era una grande massima della sua vita.
Si era passato una mano tra i corti capelli rossi, sorridendo affabile ad un paio di ragazze e facendo anche loro un inchino irriverente, scatenando risolini e sguardi divertiti, superandole di posizione e facendo lo stesso con chi le precedeva.
Aveva infilato le mani nelle tasche dei pantaloni, toccando con la punta delle dita il manico del suo coltellino tascabile e giocherellandoci senza attenzione, scivolando davanti ad una ragazza mora che fissava la prima fila di case, forse indecisa sino in fondo se iscriversi o meno alla gara.
In fin dei conti nessuno sapeva cosa sarebbe successo ai perdenti, se sarebbero tornati al loro posto o se sarebbero finiti al “livello inferiore”, quindi ci stava che una ragazza di- quanto? Vent'anni? Sì, forse venti, poveraccia chissà che aveva fatto per morire a quell'età… non che lui avesse tanto di che parlare eh, ma in ogni caso capiva che qualcuno della loro età potesse essere ancora indeciso.
Peccato che la ragazza non fosse minimamente indecisa.

Sentendosi chiamare con qui colpi secchi ed apostrofare con un “pel di carota”, Cade si voltò per fronteggiare la giovane.
Aveva visto giusto, doveva avere una ventina d'anni, ma aveva un volto serio, un'espressione dura che non prometteva nulla di buono. Era il classico aspetto di chi era dovuto crescere troppo in fretta, di chi si era fatto carico di problemi e battaglie non sue. Era lo stesso aspetto che avevano molti suoi compagni, alcuni dei quali rivisti tra quelle mura, altri mai arrivati, ma tutti con lo stesso sguardo sprezzante e duro. Quella ragazza poi aveva anche una cicatrice che si intravedeva sulla mano sinistra, sotto la manica della camicia candida, stretta in una giubba blu con una linea bianca a dividerle il busto.
I capelli corti alla mascella, scuri e lisci, le davano un aspetto battagliero quasi quanto lo facevano le sopracciglia aggrottate e lo sguardo verde e scintillante che gli rivolse.
Con un pensiero del tutto scollegato dalla situazione Cade si disse che quel colore era molto simile al suo e che forse la cosa poteva volgere al suo vantaggio.
Sorrise ammiccante com'era solito fare, inclinando il capo e lasciando che qualche ciuffo si muovesse liberamente sulla fronte, dandogli un'aria sbarazzina che di solito le ragazze adoravano.

<< Ed in fatti io non sono un comune mortale.>> iniziò affabile, << Sono un semid- >>
<< Non mi importa un accidenti di chi sei figlio, fosse anche Zeus, la fila la devi fare e sono sicura che non eri davanti a me.>> Senza farsi minimamente fregare la ragazza portò le mani sui fianchi e lo squadrò con occhio critico.
Il sorriso di Cade non vacillò neanche un secondo. << Oh, così mi ferisci, come hai fatto a non accorgerti di me? Ho forse perso il mio fa- >>
<< Non mi sono accorta di te perché non c'eri. È l'uomo davanti a te il mio predecessore, non tu.>>

Uhg, osso duro.

<< Beh forse eri troppo intenta a riflettere sulla gara, ma ti assi- >>
<< Quando sono arrivata, e non c'era nessuno dietro di me, tu non c'eri.>> insistette lei.
Okay, non era una che si faceva fregare facilmente, ma se lo avesse di nuovo interrotto-
<< Quindi ti conviene tornare indietro e fare la fila come tutti i comuni mortali ed i comuni “semimmortali” se preferisci il termine. Stiamo tutti aspettando, tu non sei speciale.>>
Cade la fissò sorpreso, quindi aveva capito che era un semidio e la cosa non la toccava minimamente?

Uhg di nuovo, una cugina alla lontana? Tanto sono tutti imparentati lì no?

<< E se ti dicessi che mio padre è un dio importante?>> la sfidò cercando di recuperare la verve di prima.
<< Quindi oltre ad essere un baro sei anche sordo?>> la mora alzò un sopracciglio scettica, << Non mi importa nulla: rispetta-la-fila.>>
<< Insulti tutti quelli che conosci per la prima volta? Non sei molto educata.>>
<< Credimi, se ti stessi insultando te ne saresti accorto, e per inciso, il maleducato sei tu che ti credi superiore agli altri.>>
<< La fila è noiosa e poi mi pare che nessuno si sia lamentato, ragazzina.>>
<< Oh, non ti azzardare a chiamarmi ragazzina, moccioso, potrei essere tua madre!>>
<< Mia madre era molto più bella e gentile di te!>>
<< Ma come ti permetti!>>

 

 

 

 

<< Wrigth- san?>>

Nathan saltò sul posto nel sentire il suo nome. Si voltò svelto verso il finestrone, cercando con lo sguardo un rotolo su cui avrebbe firmato la sua iscrizione, ma tra le mani callose e pulite dell'ex guardia vi era solo un pennino che l'anima davanti a lui gli aveva appena riconsegnato.

<< È il mio turno?>> chiese con una punta di speranza ben nascosta nell'impazienza.
L'altro però scosse la testa in un unico cenno negativo.

<< Non ancora, Wrigth-san, ma potresti aver dei compagni nella tua attesa. Saresti così gentile da farmi un favore?>>

 

 


 

<< Sei davvero scorbutica per essere una donna, scommetto che il tuo promesso sposo ti ha mollata all'altare.>> frecciò con sguardo assottigliato Cade, studiando con attenzione la sfumatura rossastra che stava prendendo il volto della ragazza.
Ma un morto poteva avere un attacco di cuore, o magari di pressione? Perché certo quello sul volto della giovane non era imbarazzo, ma decisamente furia omicida repressa.
<< Non ho bisogno di un uomo per essere felice, ragazzino, e se sei convinto che una donna abbia un pessimo carattere solo perché non ha al suo fianco un uomo ti sbagli di grosso!>>
<< Avresti i nervi molto più distesi però, non so se mi spiego… >> Cade ammiccò divertito.
Sì, insomma, quella aveva l'aria di una che avrebbe potuto ucciderlo una seconda volta ma, primo: era già morto; secondo: importunare la gente era divertente; terzo: non lo faceva da troppo tempo ormai e dar sfogo a tutto il suo animo più irriverente era qualcosa di catartico per lui.
Evidentemente però la ragazza, Elsa, o qualcosa del genere, non la pensava come lui, per lo meno lo deduceva dalla foga con cui controbatteva, parole concise ma taglienti.
<< Questo lo pensate voi uomini, che non riuscita a far ragionamenti più impegnati di quelli di cui necessitate per calarvi le braghe. >>

Ohc! Questo era un bel colpo.

<< Questo lo dici perché non hai mai provato.>>
<< Questo l- >>

<< Che succede qui?>>

 

 

Cade ed Eliza, e anche buona parte di quelle anime che si trovavano nelle vicinanze e stavano assistendo al battibecco, si voltarono all'indirizzo di una voce profonda, roca e spazientita.
Non era neanche arrivato da quei due imbecilli, ma a Nathan quella situazione già aveva stancato.
Perché doveva aver grane con i mocciosi anche da morto? Non aveva fatto la sua parte tempo addietro?
Squadrò con sufficienza prima la ragazza e poi il ragazzo.
Dall'alto del suo metro e ottanta Nathan grugnì un insulto non ben definito verso Shilon Yu e le sue stupide idee di calma e di rispetto, se il giovane avesse potuto far di testa sua avrebbe già appeso entrambi al primo muro disponibile, con tutti il rispetto per la giovane e nel pieno di quello per la parità di diritti.
L'educazione ricevuta da sua madre però e la richiesta neanche poi così velata del cinese di comportarsi da persona “saggia” - leggasi “civile”, le so leggere le cose tra parentesi, sì- lo costrinsero a volarsi per prima cosa verso la ragazza e chiederle, forse con un tono un po' troppo burbero, se ci fosse qualche problema.
La mora parve sorpresa da quella domanda, ma Nathan non poté non notare quella scintilla infastidita che le era brillata negli occhi e che lui conosceva fin troppo bene: l'aveva vista negli occhi di Alexia tanto quanto in quelli di molte sue colleghe, di commilitoni e donne di guerra.

Un militare.

<< Il rosso qui ha fatto qualche danno, soldato?>> gli venne naturale dire.

Eliza guardò l'uomo davanti a lei con un velo di sorpresa.
L'aveva riconosciuta come un soldato e non aveva avuto problemi a chiamarcela, come se fosse normale che anche una donna vestisse la divisa militare. Probabilmente era un soldato anche lui, sicuramente proveniente da un'epoca più recente della sua.
In ogni caso quell'appellativo, quel modo rigido e dritto di tenere le spalle, le mani legate assieme dietro la schiena e lo sguardo attento che aveva gettato a lei e al pel di carota prima di intervenire, glielo fecero andare in un qualche modo a genio.
C'era qualcosa nell'aria, come un odore latente, una sensazione, che le dicevano di potersi fidare di quell'uomo, che le sarebbe andato a genio.

<< Nessuno materiale, in realtà, ha solo pensato fosse giusto saltare la fila.>> si affrettò a dire con tono neutro.
Aveva accettato in un qualche modo l'aiuto che il nuovo arrivato le stava dando, ma non avrebbe mai ammasso di aver bisogno di quello stesso aiuto, anche perché non era così, Eliza era abituata a trattare con uomini di ogni genere.

<< Ehi! Non ho saltato un bel niente! Se la gente se ne va vuol dire che ha lasciato dei posti liberi no? Quindi ho solo occupato un posto vacante.>> si giustificò il ragazzo sorridendo anche all'uomo.
Non era molto imponente fisicamente, ma era comunque minaccioso, con quei capelli biondi tagliati corti che gli gettavano ombre sulla fronte e sugli occhi blu scuro. C'era da dire che non pareva molto contento di trovarsi lì a far da pacere ed il ghigno che gli si dipinse sul volto al sentire le sue parole non lo rincuorò per nulla, ma di certo glielo fece apparire più simpatico.

Temo sia masochismo questo.

<< Salti la fila quindi? Bene, allora porterò tutti e due incredibilmente più vicini alla meta.>>
Nathan si voltò e fece loro cenno di seguirlo, senza neanche controllare che lo stessero effettivamente facendo.
Shilon Yu gli aveva detto di comportarsi da saggio e di riportare la calma nell'attesa e lui l'avrebbe ascoltato, per una volta.
Dopotutto, se lui per aver fatto un po' lo spaccone, con tutto il diritto per altro visto che lì in mezzo era il più dotato e quotato di tutte le anime, era stato “condannato” ad aspettare lì vicino alla linea di partenza finché il vecchio muso giallo non lo avesse reputato abbastanza tranquillo, allora l'avrebbero fatto anche quegli altri due che si erano messi a discutere per delle bazzecole.
Col cazzo che ci sarebbe rimasto da solo, lì come un deficiente ad aspettare.
<< Vedrete che ne avrete di tempo per chiarire il punto.>>

 

 

 

*

 

 

 

Nelle Praterie le ombre erano bianche come le nubi vaporose e basse che carezzavano l'erba nera.
Non vi era luce così come non vi era oscurità, nel Limbo neanche questo era concesso a delle anime che non potevano ricordare neanche di esser tali.
Era la pena che dovevano scontare tutti coloro che si erano astenuti dal prendere una posizione, tutti coloro che avevano vissuto la propria vita solo per dovere, che non avevano mai fatto nulla di più che sopravvivere seguendo il percorso già scelto per loro da delle implacabili filatrici, senza cercare di discostarvisi, senza provare a fare di meglio, a fare la differenza. Per loro e per tutti quegli impazienti e per i codardi che non avevano avuto il coraggio di attendere il divin giudizio.
La tristezza latente che si impossessava delle membra morte di chi veniva brutalmente scaricato nell'immensa prateria era la stessa che si ripercuoteva su coloro che vi entravano per un motivo qualunque. La cosa peggiore era che ad un'anima senziente le Praterie degli Asfodeli toglievano quasi la voglia di vivere, rubando pensieri e ricordi, uno dopo l'altro, inesorabilmente, senza che nessuno se ne rendesse conto.

Avvolto nella sua palandrana nera, con il sigaro stretto trai denti, l'uomo osservava il fumo dell'involto mischiarsi a quello già presente nell'aria, lasciando correre i proprio pensieri ovunque volessero, persi per i meandri di ragionamenti che di solito si imponeva di non fare.
Gli pareva di risentire suoni uditi una vita fa, lontano da tutto e tutti, la voce di una ragazzina che lo chiamava per le strette stradine su cui torreggiavano palazzi scrostati dall'umidità e dal caldo.
Non c'era più, lei, ovviamente. Come non c'erano più quelle giornate passate a camminare tra i vicoli ombreggiati, parlando di senso dell'orientamento, di zanzare e di acqua. Non c'era più nessun sorriso accecante a salutarlo, non ve ne erano di piccole copie ad emularlo. Non vi era più nessuna minuta mano paffuta da stringere, da recuperare dopo una corsa a perdifiato per recuperarla.
C'era solo il fumo, l'erba nera e le bianche anime che vi camminavano sopra ignorando tutto, comprese loro stesse.
Sapeva perfettamente che non avrebbe trovato code infinite di nostalgici della propria passata vita, era ironico che di fatto loro sarebbero invece stati quelli che più avrebbero avuto da guadagnarci in questa gara.
Ma per ora, di nostalgico, c'era solo l'aria ed i suoi pensieri.
Inspirò una grande boccata di fumo e lo trattenne nei polmoni finché non cominciarono a bruciargli, finché la lingua non si intorpidì e gli occhi pizzicarono, fino a quando il diaframma non gli diede una poderosa spinta e gli ricordò di non giocare a quello stupido gioco.
Espirò l'aria soffiandola dal naso, assaporando la consistenza del fumo, il retrogusto che gli lasciò appiccicato alle mucose come l'odore sui suoi vestiti. Quante volte gli avevano detto che puzzava di fumo? Quante volte qualcuno aveva preso le sue difese dicendo che quell'odore, invece, era buonissimo perché proprio suo?
La nuvola biancastra scivolò a terra come se avesse un peso maggiore, afflosciandosi sull'erba e poi rialzandosi. La osservò divenir consistente, strutturata, finché un bambino di non più di tre anni non prese vita davanti a lui.
L'ombra biancastra si voltò e gli sorrise come aveva fatto un tempo, ma senza la luminosità della vita che aveva animato quel volto e quelle labbra.
Mulinò le braccia, girò su sé stesso e poi corse via, lontano da lui.

Ancora.

Fu un attimo, meno di un attimo.
Nelle Praterie degli Asfodeli balenò uno scintillio dorato, per un secondo la fitta nebbia si diradò e milioni di anime si poterono guardare le une con le altre in uno spaccato di lucidità che non bastò che per far ricordare loro qualcosa di caro, qualcosa di perso.
Il bambino tornò indietro, come risucchiato da un vortice. La sua figura si fece incerta e tremante e con un sibilo basso rientrò veloce nel petto dell'uomo.

I ricordi erano ciò che di più importante restava ad uno come lui.

 

 

 

 

Non se lo era immaginata, non poteva essere.
Per un momento le Praterie erano brillate di una luce metallica, come polvere d'oro sparsa nell'aria. La mente affaticata di Jane aveva respirato una boccata d'aria come non faceva da quando era morta, come non poteva prenderne sotterrata centinaia di metri sotto il suolo.
Tutto le era stato chiaro, non c'era più la continua lotta contro quella malefica nebbia, contro la foschia, che la costringeva ad aggrapparsi ad ogni più oscuro pensiero per non cadere oltre il baratro ed entrare a far parte a tutti gli effetti di quell'infinita schiera di anime vaganti e ignare, sole seppur tra migliaia e milioni di altre anime esattamente uguali a loro.
Quanto poteva esser terribile? Come si poteva stare tra tutti coloro che nulla ricordavano? Che ti ignoravano e ignoravano anche sé stesse?
Jane c'era passata anche da viva, quando lentamente si era ritrovata dispersa e desolata in una landa piena di vita, di persone, di popoli.

Di paure, di ipocrisia, di pregiudizi…

Si rimise in piedi a fatica, l'onda dorata le aveva ridato la chiarezza per poi togliergliela con prepotenza, lasciandola sfiancata a terra.
Di cosa potesse trattarsi non ne aveva idea, non aveva mai incontrato anime così potenti da ridare lucidità agli abitanti delle Praterie e questo significava solo una cosa: doveva esserci un dio o un semidio anche lì, qualcuno venuto per controllare se anche in un disperso come quello vi erano anime che volessero voler partecipare alla gara della morte.
Alzò la mano per cacciare indietro qualche ciocca unticcia, incurante delle condizioni in cui versavano tanto i suoi capelli quanto tutta la sua persona. Non c'erano pozzi d'acqua in quel luogo, non vi erano laghi in cui specchiarsi e gli unici fiumi che serpeggiavano infidi tra le collinette scure non erano assolutamente da prendere in considerazione. Era riuscita a mantenere i suoi ricordi fino a quel momento, le mancava solo un bagno nel Lete e allora sì che sarebbe stata a posto.
Aveva camminato per tantissimo tempo, malgrado non fosse in grado di percepirlo e quantificarlo, alla ricerca di qualcuno che le potesse indicare il luogo di “iscrizione”. Apparentemente stava procedendo nella direzione sbagliata.
O almeno così pensava finché non vide un piccolo gruppo di anime camminare concitate verso la sua destra.
Jane alzò un sopracciglio spaesata: da quando le anime si muovevano assieme? Le era capitato di vedere una coppia, massimo un trio, ma… sette? Sette anime tutte assieme no, mai.
Erano ragazzi giovani, portavano delle sporche maglie di uno sbiadito color arancio, proprio come i frutti che crescevano vicino alla sua vecchia scuola. I loro abiti, a dir il vero, non somigliavano a nessuno di quelli che Jane aveva visto in vita e ciò la spinse a pensare che forse dovevano essere morti dopo di lei. Dalle gambe scoperte di una delle ragazze, che indossava pantaloni azzurrognoli lunghi a mala pena sino al ginocchio, quel “dopo” doveva essere davvero lontano.
Un altro invece teneva una lunga lama attaccata alla cinta dei pantaloni, un suo compagno arco e faretra in spalla, una seconda ragazza maneggiava sicura una lunga lancia.
Non erano soldati, questo era poco ma sicuro visto che uomini e donne indossavano la stessa sudicia maglia, visto che la ragazza con la lancia portava fiori tra i capelli e pittura sui pantaloni e che uno dei suoi compagni invece teneva calato in testa un curioso copricapo con solo una piccola porzione di falda. Anche loro dovevano provenire da epoche diverse e sempre distanti dalla sua, ma se impugnavano armi e camminavano sicuri per le Praterie nere, significava che in loro vi era qualcosa di forte che li rendeva immuni al dimenticare.

<< Semidei… >> sussurrò a mala pena.
La sua voce era uscita gracchiante e stonata, era così tanto tempo che non parlava più che forse si era persino dimenticata come fare. E dire che una volta non era mai stata zitta…


<< Lo sono, in effetti.>>

Jane si volse di scatto verso il lato opposto a quello in cui si erano incamminati i ragazzi.
Affianco a lei, ritto in piedi tra le nuvole bianche delle esalazioni terrene, vi era un uomo avvolto in un lungo cappotto nero, con le mani in tasca e lo sguardo distante, puntato vero i giovani ma senza vederli davvero.
Sembrava presente a sé tanto quanto lei, ma Jane non poteva assicurare nulla sulla sanità mentale di quell'uomo di cui non riusciva neanche a stabilire l'età.
Forse non superava i quarant'anni, o non avrebbe avuto quella folta chioma scura, portata pettinata all'indietro, gonfia e apparentemente morbida e compatta.
Sul suo volto le rughe d'espressione non erano molto marcate, pareva una statua di quelle che aveva visto di sfuggita sull'enorme libro che la Suora superiora aveva fatto veder a lei ed altri bambini durante le messe, una statua antica e sorridente, ma fredda e lontana come quel giorno.
Non riusciva ad intravedere il colore dei suoi occhi, che comunque reputò scuro, per lo meno in base ai suoi capelli, alla sua pelle ed a ciò che poteva scorgere.
Certo era strano che un uomo del genere si trovasse lì, che fosse apparso come per magia e che si rivolgesse proprio a lei.

Chi era?
 

<< Come fate a saperlo?>> chiese maledicendo il suo che produsse, come vetri rotti trascinati su di un pavimento di pietra.
L'uomo le lanciò un'occhiata valutativa ed inclinò le labbra in un sorriso storto. << La loro maglia.>> disse solo.
Jane alzò un sopracciglio ed il sorriso dell'altro si allargò.
<< Indossano tutti la maglia arancione del Campo Mezzosangue. Provengono da decadi diverse ma tutti dallo stesso luogo.>> spiegò lui.
<< Campo… Mezzosangue? Cosa sarebbe?>> Quel nome non le piaceva, le pareva dispregiativo ed offensivo. Un modo in cui alcune persone del suo paese erano solite usare per indicare i bastardi.
L'uomo parve quasi leggerle nel pensiero perché scosse la tesa e sbuffò, tornando a guardare i giovani che si allontanavano.
<< Non è male. Non lo era neanche ai loro tempi. È il posto dove vengono portati i figli degli Dei. Quando viene individuato un semidio viene mandato un satiro a prelevarlo e portarlo al Campo, incolume possibilmente. Incolumi entrambi. >> poi sorrise. << Ma credo che al tuo tempo non fosse ancora propriamente attivo. O forse eri solo troppo distante.>>
Jane non gli staccò gli occhi di dosso neanche per un secondo, ascoltando con attenzione tutto ciò che diceva e studiandolo apertamente.
Sapeva chi era? Come l'aveva capito? Probabilmente dal fatto che fosse lucida e viva.
<< Perché stanno assieme se vengono da anni differenti? I- i semidei vengono presi e portati al Campo sin da piccoli?>> domandò ancora.
Quello scosse la testa. << Non si riescono ad identificare immediatamente, alle volte lo si fa prima ancora che nascano e le madri vengono messe sotto protezione. Per i padri si aspetta che il dio di turno scarichi il bambino e poi li si protegge entrambi come si può. Altri vengono individuati solo da grandi, adolescenti, dodici-tredici anni, alle volte prima, altre volte dopo. Dipende molto da come e quando si manifestano i tratti divini, di che divinità. Altri ancora non vengono mai trovati, nessuno sa che esistono e se la devono cavare da soli contro dei mostri che solo loro vedono, mentre il resto del mondo li crede folli.>>
Parlò con una nota tetra nella voce, una scia che Jane non comprese e non interpretò.
<< Come fate a saperlo?>> chiese per la seconda volta, sperando di ricevere una risposta esaustiva anche su quel fronte. Non le era mai capitato di incontrare qualcuno che sapesse così tanto sulla sua gente, non poteva sprecare quell'occasione.
Ma l'uomo si strinse solo nelle spalle. << Si imparano tante cose con il tempo.>>
<< Ve ne è servito molto?>>
<< Più di quanto si possa immaginare e meno di quanto ci sarebbe stato necessario.>>
I ragazzi ormai erano scomparsi dalla loro visuale, spariti nel bianco candore della nebbia.
<< Se stai cercando un posto per iscriverti alla gara della morte devi prendere la loro stessa direzione.>> disse l'uomo di punto in bianco. << Da quella parte, nord-ovest.>>
<< Perché sanno dove andare, loro?>>
<< Perché sanno dove si trova il Palazzo di Ade.>> la guardò con la coda dell'occhio, senza voltarsi. << Quello è un ottimo punto da cui partire, alla fine le iscrizioni arrivano tutte lì.>>
<< Chi glielo ha detto?>>
<< Lo hanno studiato al Campo.>> sorrise. << Sono cose che ogni semidio ben o male sa. O almeno così dicono.>>
Jane annuì con una smorfia sarcastica. << Ovviamente tutti tranne me.>>
<< E tutti coloro che sono morti senza sapere chi erano.>>
Quella risposta la sorprese e la spinse a cercare ancora lo sguardo scuro di quell'uomo sconosciuto che pareva aver voglia di parlare con lei.
Perché proprio con lei?
<< Siete anche voi un anima delle Praterie? Anche voi volete partecipare alla gara?>> s'azzardò a chiedere in fine.
L'uomo non si mosse per del tempo, poi scosse la testa, i capelli neri si spostarono appena.
<< No, non sono qui per partecipare.>>
<< E non siete di qui.>> precisò la ragazza.
Quello sorrise. << Diciamo che sono di queste parti, ma non proprio di qui, no.>>
Il suo sorriso era un taglio obliquo sulla pelle olivastra, qualcosa di canzonatorio e pericoloso al contempo.
Senza volerlo Jane si ritrasse un poco, cercando qualunque segno che le avrebbe potuto indicare le cattive intenzioni di quell'uomo. Poi si diede della stupida: cosa poteva farle? Lei era morta.
<< Se tu invece vuoi partecipare ti conviene muoverti.>> Si voltò finalmente verso di lei e Jane rimase imbambolata a fissarlo dritto negli occhi.

Non erano certo neri.

L'uomo frugò un po' nelle tasche e poi ne estrasse un rotolo piccolo e scintillante come l'oro, come l'onda che aveva scosso le Praterie prima.
Prese l'estremità del rotolo e tirò via un frammento di questo, un rettangolo luminoso che brillava come il metallo levigato.
Sopra vi erano delle scritte in nero, in bianco ed in rosso, ma Jane non ci fece molto caso, un po' perché non comprendeva quelle parole, un po' perché tutta la sua attenzione si focalizzò sull'enorme “1” che vi spiccava al centro.
Non si accorse neanche delle pacche che l'uomo le diede sulla spalla dopo averle infilato il biglietto tra le mani sporche e screpolate.
<< Le iscrizioni sono aperte ma gli Dei vogliono cominciare al più presto. Buona fortuna per le prove, ma forse a te non serve, vero ladybug?>>

Così com'era arrivato se ne andò silenziosamente, con il suo rotolo di biglietti in tasca ed un sorriso come uno squarcio sul volto di pietra.
Così come non si era accorta della sua venuta, Jane non si accorse neanche della sua scomparsa, finché il suo cervello non processò ciò che l'uomo le aveva detto.
 

Ladybug?

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Tra le mura oscure non vi era mai stato così tanto fermento, neanche all'arrivo delle anime più nefaste, quelle che neanche meritavano di esistere dopo, si era mai scatenato così tanto rumore.
Sui gradoni ciclopici, tra le nere trincee, le anime incatenate alzavano il capo per poter respirare, per poter uscire per un momento da quel mefistofelico gas che le terre brulle esalavano e poter cercare colui che avrebbe permesso loro di uscire di lì.
Quando i volantini si erano sparsi per i Campi di Pena molti avevano creduto ad un crudele scherzo: perché gli Dei avrebbero dovuto concedere anche a loro il privilegio di poter tornare in vita? Specie a tutti coloro a cui la “rinascita” era stata proibita.
Tra le loro fila vi erano esseri così rivoltanti, che avevano fatto cose così terribili, che nessuno sano di mente avrebbe permesso che un'anima del genere tornasse sulla Terra: né facendosi un bagno nel Lete né tanto meno con la coscienza di sé stessi.
Era folle, semplicemente folle e incosciente lasciare che un criminale, un mostro, tornasse a calpestare il suolo dei mortali ricordando ciò che era stato di lui in precedenza, il numero di ritorsioni, di omicidi per vendetta, di violenze, sarebbe cresciuto in modo esponenziale.
O almeno questo era quello che tutti quei diavoli torturatori bisbigliavano, quello che pazzi scienziati con menti brillanti e distruttive, che geni del crimine e maniaci complottisti avevano ipotizzato leggendo le “regole”, scorgendo come unica restrizione il divieto alle anime nelle Isole dei Beati di iscriversi.

È pure follia!”
“ Perché ci hanno rinchiusi qui a soffrire se ora ci danno l'opportunità di tornare a far ciò che facevamo prima?”
“ Dov'è la fregatura? Sono sicuro che c'è!”
“ Quali stolte menti hanno redatto questo bando? Se tornassi in vita, alla mia nobile vita, la prima cosa che farei sarebbe cercar vendetta contro quei vili che mi tradirono e mi fecero giustiziare. Dovessi pur andar a ballar sulle loro tombe e deturpane le pietre!”

Tacete, compagni! Se così sciocchi son stati gli Dei non siamo noi a doverli informare!”

 

Aveva sentito quei discorsi per tutto il tempo -quanto?- che era intercorso tra la caduta dei fogli, che a quanto pareva era cartaccia scadente malgrado Cicno ignorasse ancora cosa fosse la carta, e l'arrivo del capo dei secondini che aveva confermato il tutto: Sì, era stata indetta una gara per poter tornare in vita, alla propria vita, e anche loro potevano partecipare.
Cosa avessero detto ai gradoni più bassi, se avesse affermato alla spazzatura della società umana che anche loro potevano partecipare, non gli interessava minimamente.
Il giovane tenne gli occhi ben aperti, senza batter ciglio, come congelato nella sua posa.
Nessuno “Beato” avrebbe partecipato, ma certo ci sarebbero stati moltissimi “Elisii” e qualche poveraccio degli Asfodeli. Sempre che riuscissero a ricordarsi chi erano in tempo per iscriversi.
Era ovvio per chiunque che tutti i prigionieri delle Mura Nere avrebbero partecipato, anche solo per allontanarsi un po' da quelle torture a cui erano condannati da sempre e per l'eternità.
Sarebbero scesi in campo ladri, bari, bugiardi, codardi e insensibili. Criminali di ogni sorta, torturatori e aguzzini al pari se non superiori ai loro, assassini, traditori, tiranni, stupratori, sadici e pazzi.
La cloaca dell'umanità si sarebbe riversata fuori dai cancelli scuri, risalito i gradini monolitici che li dividevano gli uni dagli altri come coltivazioni parassite e malate, superato gradi di dolore, profondità e tormento, oltre il filo spinato e le fruste uncinate dei loro controllori.
Per la seconda volta Pandora avrebbe aperto il suo vaso, ma invece di ogni male del mondo, di ogni sentimento negativo e malattia, sarebbero fuoriuscite le evoluzioni di quelle terribili maledizioni che avevano messo in ginocchio il pianeta millenni fa e che tuttora lasciavano la loro scia tossica, i loro strascichi melmosi, dietro di sé.
Le voci concitate che lo circondavano non erano che un sottofondo lontano, Cicno non le ascoltava davvero, non gli interessava nulla. Potevano uscire le bestie peggiori, le anime più sudice, ma sarebbe stato lui a vincere, lui a tornare in vita, lui a meritarlo più di tutti.
Si sarebbe goduto un poco quella nuova società, poi si sarebbe armato di tutto punto e sarebbe andato a vendicarsi, avrebbe detto a tutti la verità, si sarebbe eretto davanti a uomini e Dei e avrebbe parlato.
Tutti dovevano sapere, tutti dovevano vedere quelle bestie così come riusciva a vederle lui.
Quando si mosse le catene legate ai suoi polsi tintinnarono lugubri, come ogni dannata così lì dentro, ma per una volta non vi sentì peso, non provò sollievo nel sentire il metallo freddo contro le abrasioni sulla sua pelle, nulla. La sua mente ed il suo corpo erano protratti verso un'unica cosa: l'arrivo dei giudici.
Alla fin fine non era poi così in fondo al cratere dei Campi, si trovava all'incirca a metà, forse qualcosa di più, non lo sapeva. Il “crimine” di cui si era macchiato non era così grave, almeno secondo sua opinione, la terrazza in cui era costretto da secoli portava il suo stesso nome: Il livello dei Crudeli, eppure Cicno non comprendeva come si potessero riunire tutte quelle anime sotto un solo vessillo. C'erano centinaia di migliaia di modi di esser crudeli, in ogni situazione. Se tutti coloro che si erano dimostrati “crudeli” durante la vita si sarebbero dovuti riunire lì, allora non sarebbero esistiti né altri gradoni né altri Campi, altre Praterie.
L'uomo era crudele di natura, lo era spontaneamente, ce lo aveva nel sangue.
Se avessero chiesto a lui il suo girone sarebbe stato il primo, proprio davanti ai cancelli, perché tutti nella vita peccano di crudeltà.
Lui ne aveva fatto un po' il suo fiore all'occhiello forse, ma c'era da dire che veniva da un'epoca spietata.
Rimaneva il fatto che i giudici sarebbero arrivati in ordine discendente, dai meno ai più “pericolosi”, che il suo crimine non era suo e non così grave e che i dannati controllori non erano ancora giunti da lui.
Gli venne quasi il dubbio di potersi trovare più in profondità di quanto non credesse, ma scacciò via l'idea non appena il trambusto aumentò e una cupa processione discendere dalle scale che li collegavano alla terrazza superiore.
In poco tempo un capannello di anime tormentate si riunì vicino ai nuovi arrivati e le guardie scheletriche si schierarono attorno a loro come un bianco cordone di sicurezza.
Qualcuno urlò di star indietro ma Cicno non comprese chi di quei teschi l'avesse fatto, non gli interessava ammassarsi come bestiame, mescolarsi a quei suoi compagni di tortura. Avrebbe aspettato, Cicno era bravo a farlo, ad attendere pazientemente che la gente venisse da lui, che esaudisse i suoi desideri o che morisse tentando. Anche quella volta avrebbe atteso che la feccia si stancasse, che i più forti lasciassero cadere le armi, avrebbe atteso che i morti addetti venissero da lui e che gli chiedessero se volesse partecipare.
In breve quattro figure incappucciate si schierarono una di fianco all'altra, mentre le guardie si dividevano tra l'arginare i dannati e il montare banchetti di legno.
Con molta difficoltà riuscirono a far mettere in fila tutte le anime presenti, che spintonandosi a vicenda ed urlando cercavano di superarsi a vicenda per poter essere i primi ad iscriversi, i primi a lasciare quel posto.
Cicno si sedette mollemente a terra, incrociando le magre gambe e storcendo il naso davanti alle penose condizioni della sua veste. Un tempo era stata bianca e pura, giallo come lo zafferano e rossa come le terre. Un tempo la purezza, il sole ed il sangue erano brillati su di lui come ormai non facevano più.
Intento a tirare i fili di quel brandello di stoffa sfibrato Cicno non si rese conto che la più alta figura dei nuovi arrivati si fosse staccata dal gruppo. Un'anima si scostò dalla fila per cerare di trattenerla ma a quella bastò uno sguardo da sotto il nero cappuccio per farla desistere. Tutti gli altri si ritrassero al suo passaggio, tutti tranne il concentrato e infastidito Cicno, che ancora rimuginava su quanto sarebbe stato deplorevole presentarsi davanti a tutti quei morti conciato in quel modo. E dire che era sempre stato tanto bello e in ordine.
 

<< Non scalpiti all'idea di iscriverti, ragazzo?>>
 

Il biondo alzò la testa con lentezza, folgorato dal ricordo di quella voce bassa e vibrante, bella come nulla, seconda solo all'aspetto di quel tetro figuro che ora lo fissava dall'alto.
Sotto il bordo del pesante cappuccio il volto perfetto di una statua d'onice brillava di cupa luce nell'ancor più cupa ombra.
Com'era possibile che nel buio altro buio risaltasse? Eppure era così, nessun miraggio, nessuna magia, solo la realtà.
Quell'uomo era la persona più bella che mai avesse calcato quelle terre e tutte quelle che li circondavano, dalle profondità del pianeta alle alte volte celesti.
Bello più del Sole, più degli astri e delle stelle. Bello più dei liberi venti, della rigogliosa terra e dei cieli suoi sposi. Più bello dell'amore, della vita. Più della morte.

Bello da morire.
 

<< Thanatos… >> disse Cicno umettandosi le labbra secche e spaccate ma ancora piene e rosse come il sangue che più non scorreva in lui.
Erano secoli che non lo vedeva ma non avrebbe mai potuto dimenticarsi della sua voce di seta, morbida come il manto piumato di un angelo, come l'acqua fresca di una sorgente vergine e melodiosa come la risacca del mare ed i canti delle fronde.
Non avrebbe mai potuto dimenticare il suo viso perfetto, la sua pelle nera più della notte, figlia della notte stessa.
Si diceva che Nyx fosse splendida, che in lei brillassero le galassie ed il mistero dell'oscurità, dell'infinito. Thanatos ne era degno e magnifico erede, bello da togliere il fiato, la vita, così come la sua nera madre.

<< È passato molto tempo da quando ci incontrammo, Cicno.>>
<< Non chiedete a me quanto sia, non concepisco più lo scorrere implacabile del volere di Crono ormai.>> rispose amaramente il giovane, senza riuscire a staccare gli occhi da quelli profondi del dio.
<< Millenni, letteralmente millenni.>> soffiò con voce pacata, delicata come una carezza.
Cicno annuì a mala pena, poi sorrise con una punta di sarcasmo. << Mi perdonerete se non sono nelle migliori condizioni per incontrare una divinità, se avessi saputo che sareste venuto voi stesso mi sarei presentato al meglio.>>
<< Noto che il tuo temperamento non è cambiato molto.>>
<< Potevo soccombere alle torture ed impazzire o rimanere fedele a me. Cosa avreste fatto voi?>>
Il dio non cambiò minimamente espressione. << Probabilmente non lo sapremo mai. Non ti iscriverai?>> insistette.
Il ragazzo tirò su le braccia mostrando le pesanti catene al dio. << È faticoso star in piedi con questi addosso, sto solo aspettando che la fila si sfoltisca. Per ora lascio che su quei registri non vi sia ancora il nome del futuro vincitore.>> disse più sicuro.
<< Credi di vincere quindi.>>
<< Ne sono certo.>> Lo sguardo ceruleo dell'anima risplendette nell'aria densa, una scintilla di vita che ancora rimaneva ancorata a quello spirito, che ancora lottava.

Probabilmente il dio non si sarebbe aspettato nulla di diverso da lui, lo ricordava fin troppo bene.
Thanatos ricordava tutti fin troppo bene, era la sua condanna: sarebbe vissuto in eterno per togliere agli altri quella vita che in lui era innata ed immortale e avrebbe ricordato tutti, uno per uno, senza possibilità di scelta.
Certo, alcuni si rendevano più facili da ricordare, come il giovane semidio davanti a lui, ma ben o male tutti i figli degli Dei erano facilmente riconoscibili, avevano sempre fatto qualcosa di particolare per morire: che scadesse nella banalità più assoluta o nel mito.
Cicno, Cicno il crudele, era uno di quelli che si rendevano facili da ricordare per le sue gesta, non per l'assenza di queste.
Thanatos lo scrutò con attenzione, era anche a persone come lui che stavano dando l'opportunità di tornare in vita, era a persone peggiori di lui che stavano dando questa opportunità.
Era giusto?

<< Credi di meritartelo?>> domandò in fine il dio, fissandolo serio.
Il ragazzo lo guardò senza esitazione, aveva imparato in vita a non abbassare il capo davanti a nessuno, non l'avrebbe fatto certo da morto.
<< Sì. È giunto il momento che anche io faccia risentire la mia voce, specie a coloro che l'hanno dimenticata.>>
L'uomo nero non si espresse in nessuna particolare espressione, portò semplicemente una mano davanti a lui e schioccò le dita. Le pesanti catene si aprirono e caddero a terra con un tonfo sordo, sciogliendosi come ghiaccio e poi risalendo verso l'alto come un fluido denso. S'arrotolò su sé stesso sino a creare una lunga corda di ferro che andò a legarsi gentile e leggera attorno al polso scorticato di Cicno, come un bracciale delicato ed elegante, un anello di scintillante ferro dello Stigie.
Girò il polso in un movimento circolare chiudendo la mano a pugno, poi la riaprì con il palmo verso l'alto. Sulla pelle nera di vera un biglietto dorato che il dio porse all'anima.

<< Allora dimostralo.>>

 

 

 

*

 

 

Le anime lo guardavano curiose, domandandosi forse cosa ci facesse ancora lì dopo che gli scheletri esaminatori erano passati al gradone successivo, ma a lui non è che interessasse più di tanto.
Camminando ad agio sulla terra battuta, un uomo vestito da una lunga cappa nera, pareva quasi fluttuare, coperto da un buffo cappello a falde larghe su cui era appuntato un papavero, unica macchia di colore in quel curioso figuro.
Si muoveva ondeggiando, camminando un po' di qua e un po' di là, voltando la testa ma senza lasciar intravedere i proprio volto.
Con la tranquillità di una passeggiata si guardava attorno alla ricerca di qualcosa finché non lo individuò.
Seduto su di una roccia, con il suo scintillante collare stretto alla gola, Jonas teneva la testa bassa, cercando di non guardarsi attorno, tormentato da qualcosa che sperava non si ripercuotesse su ciò che lo circondava.
L'uomo saltellò sul posto felice di averlo scorto, poi gli si avvicinò veloce come un uccello in picchiata, il bordo della cappa che sfiorava a mala pena il terreno, le punte delle scarpe che vi disegnavano sopra una scia dritta e appena accennata.
Le altre anime lo guardarono sconcertate, nessuno aveva il permesso di volare lì, solo i demoni alati potevano permetterselo, persino gli Dei camminavano.
Dopotutto nel dominio di Ade non ci si poteva muovere come si faceva nelle terre di suo fratello. Di nessuno dei due.

<< Ehi! Ragazzo!>> la voce squillante dell'uomo fece sussultare Jonas, che si volse a guardarlo con una nota di terrore negli occhi.
Ne incontrò un paio scuri e densi, lucidi e al contempo profondi, parevano risucchiare tutta la flebile luce che c'era in quel luogo.
Il ragazzo non si mosse, non parlò, conscio che quello davanti a lui non poteva essere un morto qualunque, che non era proprio morto, che poteva essere solo un essere superiore.

Un dio.

<< Ah, sì! Sei proprio tu quello che cercavo. Non è difficile in effetti trovarti, sei l'unico con un giogo anche al collo!>> disse quello con tono leggero. << Però sai che non è male? I punk li apprezzavano tanto i collari e pare che stiano tornando di moda anche ora, o a breve, le Parche dicono che andranno alla grande tra qualche anno, mai quanto l'idromassaggio, ma non si può competere con quello. Certo, non è proprio un collare come si deve il tuo, ma il sunto è sempre quello, no?>> sorrise al ragazzo e si lasciò cadere nel nulla.
Jonas ebbe quasi paura che avesse calcolato male le distanze e credesse di starsi sedendo su qualcosa, si protese anche in avanti per afferrarlo e non farlo rovinare a terra, ma non successe nulla. La cappa si tirò attorno alle gambe incrociate dell'uomo, sollevandosi ulteriormente dal suolo e mostrando null'altro che l'aria sotto di lui.
Stava fluttuando.
<< Oh, tranquillo, non cado, non cado. Anche mio fratello si preoccupa sempre, come se non lo sapesse che sono capace a farlo, neanche a dire che mi conosce da una vita. Ed è mio fratello gemello, ci credi?>>
Jonas deglutì, la gola secca e la mente vuota.
Che voleva da lui?
<< Sei di poche parole? Guarda che anche se sono vecchio di anni sono giovane di spirito, non devi morderti la lingua con me!>>
L'uomo probabilmente gli sorrise ma Jonas non poteva saperlo, non vedeva il suo volto ma solo una striscia di un bianco accecante, chiaro più della luna, su cui spiccavano quei due pozzi neri e null'altro. Persino le sopracciglia erano coperte del bordo del cappello.
Che razza di dio era? Pareva una caricatura di un giornaletto. Non che glielo avrebbe mai detto, certo, lui portava rispetto verso le persone più grandi ed importanti, era quello che gli era sempre stato insegnato, ma… come avrebbe dovuto rispondergli?
Si schiarì la voce, dovendo fare un paio di tentativi prima di riuscire a parlare in modo quanto meno decente.
<< Mi scusi… cosa- cosa posso fare per lei?>> chiese gracchiante.
Il dio, perché su questo non c'erano dubbi, doveva esserlo per forza, saltò sul posto, rimbalzando nell'aria, e batté le pallide mani in uno schiocco sonoro.
<< Non darmi del lei! Mi fai sentire vecchio! Ho solo un- ugh, okay, no, battuta sbagliata. Non sono così vecchio, c'è gente più vecchia di me. Come Gea! Lei sì che è vecchia, io a confronto sono un giovincello!>> disse allegro.
Il ragazzo fece per riproporgli la domanda diversamente allora, ma l'altro lo interruppe.
<< Sono venuto a cercarti perché non hai preso il tuo biglietto! Te lo sei dimenticato? Non si può partecipare senza, non lo sapevi?>>
Jonas inclinò la testa confuso: il suo biglietto?
<< Ma io non ho nessun biglietto.>> soffiò flebile.
L'altro annuì. << Infatti! Sono qui per consegnartelo!>> come per magia, tra le sue mani apparve un rettangolino lucido e dorato che l'uomo porse a Jonas.
Lui l'afferrò con dita tremanti, rigirandosi il cartoncino tra le mani, osservandolo da ogni angolazione. Al centro vi era un numero composto da troppe cifre per esser letto, Jonas neanche ci provò, mentre focalizzò la propria attenzione su quelle lettere che, roteando e scambiandosi di posto, si tramutarono in una frase in perfetto tedesco.

 

Death Race Ticket
Campi di Pena
Ottava terrazza
- Codardi -

N° xxx xxx xxx

anima partecipante

Buona fortuna”

 

<< M-ma… non capisco… io non mi sono ancora iscritto. Come può essere- >>
<< Oh, ma si che ti sei iscritto, non ricordi? Hai deciso che avresti riaffrontato la vita, che saresti tornato sulla terra anche solo per assicurati che i tuoi cari avessero ricevuto degna sepoltura. È il tuo sogno, no?>>
Jonas guardò il dio davanti a lui senza sapere cosa dire.
<< Come fa a saperlo?>> chiese tentennante.
Il bavero alto parve aprirsi per un secondo, tutto ciò che servì a Jonas per vedere il sorriso accecante dell'uomo o forse per immaginarlo.
<< Non saremo il Dio misericordioso che hai conosciuto in vita, ragazzo, ma siamo comunque divinità. Noi sappiamo, anche più di ciò che sarebbe corretto sapere. Ignoriamo anche molto altro, ma questa volta non lo faremo, non possiamo, non io. Hai l'opportunità di lottare ancora, una seconda opportunità che nessuno ha mai avuto fino ad ora. Eri una persona contraddittoria, Jonas Friedrich, ma forse è giunto il momento di diventare la migliore versione di te stesso, non credi?>> Il dio distese le gambe verso il basso, ma i suoi piedi e la sua veste non toccarono terra.
Si sistemò il cappello con un gesto distratto della mano, prendendo il papavero che vi era appuntato sopra ed offrendolo al ragazzo. Quando lui lo prese allungò ancora la mano e gli sfiorò il volto, facendo scivolare le dita sul collo esile, sino al collare argentato. Il metallo si piegò sotto quei pallidi polpastrelli, più chiari della pelle dell'anima davanti a lui, assottigliandosi ed accartocciandosi su sé stesso sino a diventare una morbida collana dalle fattezze di un lucido e raffinato filo spinato.
<< Il vostro Salvatore ne portò una in testa, forse ti aiuterà a non dimenticare e a lottare con ancora più forza.>> il suo sguardo si addolcì. << Che la cieca Tiche ti assista.>>
Gli posò un'ultima carezza sulla gota e poi si voltò, fluttuando via con un fantasma, pallido e nero al contempo, contraddittorio proprio come aveva accusato Jonas di essere stato.
Il biondo lo fissò senza parole, uno strano calore gli avvolgeva le membra morte, come l'eco di un ricordo lontano, di un sogno.
<< Aspetta!>> urlò d'improvviso, quando la divinità era quasi giunta alle scale che lo avrebbero ricondotto verso la parte più alta dell'Ade.
Quello si voltò, inclinando la testa in una muta domanda.
<< Chi sei?>> gli chiese a voce alta, ritrovando un briciolo di quella sicurezza che un tempo era stata ballerina ed altalenante in lui.
Non poté vederlo ma ancora una volta ebbe l'impressione di averlo fatto: l'uomo sorrise dietro all'alto bavero, i suoi occhi assorbirono la luce che loro stessi producevano.

<< Il mio nome è Ipnos e sono il dio del Sonno.>>
<< E perché ti interessi a me?>>
La figura ebbe un sussulto, forse aveva alzato le spalle ma da quella distanza non si poteva dire.
<< Perché non dovrei? Le sfide sono interessanti se ci partecipano tutti, se no poi è una noia.>>
<< Credi che cambierà qualcosa se gareggerò o meno?>>
<< Ma come!>> esclamò quello, un secondo ed era di nuovo davanti a lui. << Credevo che qualcuno proveniente dalla tua epoca sapesse perfettamente quanto nessuno sia indispensabile ma tutti possano far la differenza.>> il suo sguardo penetrante lo inchiodò sul posto e Jonas non riuscì a replicare. << Anche un singolo uomo può far qualcosa di buono, che magari non cambierà il mondo, ma di sicuro sarà importante per qualcuno, magari anche solo per sé stesso, per le sue convinzioni, i suoi ideali. Non credi che sia importante battersi per ciò che ci sta a cuore? Molti prima e dopo di te l'hanno fatto e ad oggi le loro battaglie hanno ispirato altri ad issarsi in piedi e alzare la testa, non rimanere succubi di situazioni e tiranni. Perché non dovrei dare a qualcuno la possibilità di farlo? Di essere un altro volto alto e fiero che fissa il sole e non si nasconde nell'ombra della propria stanza? Pensaci e nel frattempo dirigiti verso i cancelli dei Campi di Pena, ci rimarrei davvero male se non ti vedessi durante la prima prova.>>Gli tolse il papavero di mano e glielo appuntò dietro l'orecchio. << Questo è un fiore molto particolare, con un significato particolare. Spero ti aiuti.>>
Un ultimo e definitivo cenno e questa volta il dio scomparve davanti ai suoi occhi, disperdendosi come fumo nero, risucchiato in un tunnel oscuro che si era aperto vorticando dietro di lui.
Jonas rimase solo in quello spazio roccioso, con un biglietto stretto in mano ed un fiore tra i capelli, senza sapere cosa fare, come fare, con quella voce e quelle parole appena udite che si rincorrevano prepotenti ed infinite nella sua mente.

Colpito ed affondato.

Allungò la mano e sfiorò i petali fragili e sgualciti del fiore.
Una voce lontana, persa nell'aria pesante dei Campi, una voce femminile che mai aveva udito, gli suggerì che quello spartano fiorellino fosse molto più di quanto apparisse.

 

Papavero, oblio, sonno eterno, immaginazione, consolazione.
Crescono tra le terre brulle e dissestante. Sono vita e morte.
Sopiti per anni ed anni, nascono e germogliano nei suoli poveri e dimenticati, nei campi di battaglia di cui nessuno più osa calcare il suolo.
Rossi come il sangue che bagnò la terra in cui nacquero.”

 

 

Jonas alzò allora il capo verso il cielo, alla volta cavernosa dell'Ade e si chiese, in silenzio, se sulle loro teste vi fossero ormai solo sterminati campi di papaveri.

 

 

*

 

 

<< “E lontano e ovunque, come una marea scarlatta,
si propaga il falò dei papaveri.”
Bayard Taylor.>>

<< È bellissima, Gio, ma così triste.>>
<< Lo so, ma questo purtroppo è il ruolo del papavero: rosso e sciupato ricordo di campi di guerra.>>

 















 

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Capitolo 4
*** Start Line ***


 



















IV. Start line.

 

 

L'ampia sala era illuminata da enormi lampadari che oscillavano pigri. Giganteschi piatti d'oro rilucevano delle fiamme che vi ardevano dentro, specchiandosi sul pavimento di marmo levigato e candido, venato da leggere sfumature di grigio che davano a quelle lastre un aspetto ancora più austero ed elegante.
Le imponenti colonne doriche dalla superficie grezza assorbivano quei bagliori riflessi incastrandoli tra le minuscole rientranze date da uno scalpello millenni prima. I basamenti delle colonne formavano piedistalli di quattro gradini che tenevano i monoliti di pietra rialzati dalla lucida distesa di marmo, minuscoli ditali d'oro erano posti come bulloni di sicurezza sugli angoli dei quadrati soprelevati.
Vedendo gli abitanti di quel palazzo camminare vicino a quei magnifici esempi di architettura nessuno sarebbe stato in grado di capire che i piccoli chiodi fossero invece grandi giare di oro battuto e modellato, ricolme di floride piante esotiche che in natura mai avrebbero potuto coesistere nello stesso luogo.
Ugualmente le colonne sarebbero sembrate mastodontiche, come quelle che sostennero e ancora sostenevano il famoso Partenone, ma chi vi camminava in mezzo avrebbe destato uguale stupore e sgomento, se non un sincero e del tutto giustificato panico.
Nella loro vera forma gli Dei si muovevano tra quelle colonne, calcavano quel marmo liscissimo e lucido come uno specchio, così come miliardi di umani pestavano la terra ogni giorno, senza far troppo caso a quale pregiatissimo materiale sostenesse i loro passi.
Le vesti di seta e di pregiate stoffe, intessute di ori e d'argenti, di preziosi materiali e rare gemme, sfioravano il pavimento che riluceva di quei colori eterei e densi che coloravano le toghe ed i mantelli, brillando di luce propria come coloro che li indossavano, come solo un dio poteva fare.
La Sala delle Colonne, lì dove gli Dei tante volte si riunivano per discutere in modo informale o per attendere di poter accedere alla Sala del Trono, era di solito popolata da anime di diverso ardore che conversavano e s'incontravano intrecciando le loro strade, eppure quel giorno era vuota e silenziosa come non lo era da troppo e al contempo da troppo poco.
Il silenzio aveva regnato tra quelle mura colonnate quando l'ultima grande profezia era stata proferita, quando l'Oracolo Rosso aveva enunciato la sua seconda visione di morte e distruzione, avvertendo il mondo che, ancora una volta, gli Dei dell'Olimpo rischiavano di vedersi ridotti in cenere come succedeva periodicamente ogni secolo.
Non vi erano satiri, ninfee ed auree, non vi erano spiriti di nessun tipo , non si sentiva lo scalpitio di zoccoli ed il pigro battere di ali, nulla che stesse a dimostrare che la vita ancora animava quel luogo.
Tra le alte colonne, in una delle tante porte che conducevano nei magnifici luoghi che celava quel palazzo e tutti quelli a lui congiunti, si nascondeva un corridoio scuro e petroso, illuminato da torce di ferro ormai annerito dagli anni, che scendeva a picco verso le profondità di quel monte che si ergeva sopra tutto e tutti.
Nei meandri di quell'intricato labirinto di svolte e porte chiuse vi era un'anticamera ampia e circolare, in cui erano presenti solo due vie: una piccola dalla quale si accedeva al luogo ed una dirimpettaia, grande ed imponente come la Sala delle Colonne.
Sull'enorme portone di ferro rinforzato e borchiato, alto più di venti metri, su cui non vi erano maniglie e serrature, nel buio di una sala le cui uniche torce si trovavano troppo distanti ed illuminavano con troppa poca forza, un grande triangolo bluastro brillava nel centro esatto dei mastodontici battenti.
 

Nella Sala delle Colonne regnava il silenzio.
Oltre le porte di ferro si stava scatenando l'inferno.

 

 

*





 

Jane marciava ormai da tempo indefinito, seguendo un percorso invisibile che l'uomo con il sigaro spento le aveva indicato, lì dov'erano spariti quegli altri come lei.

Semidei.

Solo la parola gli risultava strana ed estranea, quasi non le appartenesse, eppure Jane sapeva bene di far parte di quel popolo, di quella gente, di quegli esseri.
Da viva questo le avrebbe fatto credere di appartenere ad una classe di dannati, da morta aveva scoperto che era esattamente quella la verità.
Non aveva mai conosciuto altri figli degli Dei, ad esser onesti non ne aveva neanche mai sentito parlare se non da Tituba e da quelle strane creature che aveva visto nella foresta troppi anni fa.
Non sapeva nulla di loro, della loro natura, e se tutti quanti fossero stati come lei? Se avessero tutti avuto quelle sue stesse strane inclinazioni, quella follia latente che le solleticava la mente e la pungolava nelle membra morte?
L'uomo misterioso le aveva detto che anche quei ragazzi erano figli degli Dei e malgrado Jane non sapesse quali fossero queste divinità, i loro nomi e le loro caratterizzazioni, aveva ben intuito che fossero molti, forse più dei santi e degli angeli del paradiso. Ecco, questa era un di quelle conclusioni a cui era giunta dopo molto pensare: ogni dio era probabilmente come un angelo, incarnava una virtù o un difetto che era proprio degli uomini. Quindi erano esseri sia benigni che maligni? Erano come gli umani?
Il carattere e la rappresentazione degli Dei non le interessava poi molto, ciò che più le premeva sapere era se avessero tutti dei poteri, proprio come lei ed il suo divin genitore, se quei ragazzi di ogni età, provenienti da tutto il mondo e da ogni epoca, fossero in grado di fare cose sconvolgenti e semplicemente impossibili come tutti si sarebbero aspettati sapesse far lei.
Jane non voleva conoscere l'Olimpo, voleva solo sapere contro chi si sarebbe dovuta scontrare per poter tornare in superficie e finire ciò che aveva iniziato più di tre secoli prima.
Non aveva paura, non pensava di poter fallire. Non le importava davvero neanche di tornare a vivere, quello era solo un mezzo per poter chiudere i conti come non riusciva a fare da lì.
Si era resa conto che la grande volta rocciosa che si nascondeva dietro all'oscurità di quel soffitto cavernoso, che reggeva il mondo sopra la sua testa, quello dei vivi e della luce, schermava quelle stesse contrade popolate da ogni sorta di potere che veniva emanato nell'Ade.
C'aveva provato, anche più di una volta. Con le consunte carte davanti agli occhi, impresse a fuoco nella retina, aveva osato cose che mai avrebbe fatto da viva. Purtroppo per lei sembrava che suo padre non le avesse regalato neanche una briciola delle sue capacità, così come sua madre.
Non si sarebbe lamentata, questo no di certo, le lamentele erano sterili quando eri morta e lei aveva già pianto abbastanza, era già caduta nella disperazione più nera, aveva già toccato il fondo. Non le era rimasto che alzare il volto al cielo e rimettersi in piedi, seguendo una stella inesistente che era divenuta il suo chiodo fisso, la sua cometa che l'avrebbe guidata lì dove era giusto che arrivasse, alla vendetta.

Calpestando l'erba nera Jane si ritrovò a sorridere in modo sinistro senza neanche rendersene conto.
Si era allenata, aveva passato tutte quelle inutili decadi ad impegnarsi, a diventare più forte, sempre più forte, finché non sarebbe stata abbastanza potente da poter alzare le mani ed imporre il suo volere su quegli esseri che le avevano distrutto la vita, che le avevano tolto tutto.
Doveva solo trovare quel palazzo e mostrare a tutti il suo biglietto. Era la prima delle Praterie degli Asfodeli e sarebbe dovuta rimanerlo per tutta la durata della gara, anche se si fosse trovata davanti dei veri eroi, gente che si meritava di aver una seconda possibilità più di quanto lei non avrebbe mai potuto chiedere.
Avrebbe dovuto sfidare anche persone provenienti dal “paradiso”, gente che aveva fatto il meglio nella vita e sapeva che tra di loro avrebbe trovato tanti semidei, così come sapeva che se erano finiti lì dovevano aver fatto qualcosa di buono, magari morendo durante una guerra, per proteggere qualcuno, facendo la cosa giusta… o forse erano semplicemente stati così potenti da esser giunti alla fine dei loro giorni in modo naturale. Questo avrebbe però implicato che forse non si sarebbero presentati, giusto?
Purtroppo non aveva certezze, quel poco che sapeva su ciò che facevano i semidei l'aveva appreso ascoltando di sfuggita le chiacchiere di quelle anime che di tanto in tanto incontrava nel suo vagare, gente sbiadita che parlava di cose che non ricordava o esseri incredibili che volavano pigri per iniziare un nuovo turno di lavoro. Ascoltare i discorsi altrui in questo modo, di sfuggita, spiando, non era una bella cosa, sua madre lo ripeteva in continuazione, ma ormai tanto lei quanto Jane erano morte, quindi valevano ancora le regole dei vivi?
Strinse le mani sul bordo consunto della sua veste, strappata e sporca, dove quei piccoli ricami di cotone bianco ormai non erano altro che fili slabbrati e punti scuciti. I ragazzi di prima indossavano scarpe di tessuto e pantaloni, certo molto più comode delle sue scarpette di pelle consunta e della sua gonna, ma Jane non aveva certo altro con cui cambiarsi e si sarebbe dovuta accontentare. Dopotutto aveva imparato a correre, a saltare ed arrampicarsi con quei vestiti, combattere per vincere quella gara non sarebbe stato tanto differente dall'uscire dalla finestra della chiesetta e poi scavalcare i muretto per sfuggire alla messa. In ogni caso lei non era certo una che si buttava nella mischia, non più almeno, e se voleva usare al meglio i suoi poteri e vincere si sarebbe dovuta tenere ad una bella distanza di sicurezza, proprio come facevano i cacciatori.
Arrotolò un poco la stoffa della gonna nelle mani rovinate dalla terra e dal tempo, sollevandola sino alle sue caviglie ed osservandole pallide e quasi fumose: ai suoi tempi non si sarebbe mai potuta scoprire così tanto senza esser guardata con sconcerto, ma in quel momento non c'era nessuno che potesse giudicarla e con un modo di ribellione tirò ancor più su l'orlo e cominciò a marciare con serietà e convinzione.
Sarebbe arrivata a quel palazzo e avrebbe affrontato tutte le prove fino alla fine, nessuno l'avrebbe fermata. Nessuno ci sarebbe riuscito.

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

Non poteva credere di aver finalmente quel biglietto tra le mani.
Cade alzò il rettangolo lucido e dorato verso il cielo, come se potesse vederlo contro luce ed assicurarsi che fosse vero. Magari poteva morderlo come si faceva con le monete, per vedere se fossero vere o meno? No, non sarebbe servito a nulla probabilmente.
Volse la testa alla sua destra per osservare le espressioni dei suoi “compagni d'attesa”.
Era andata a finire che il vecchio muso giallo con la barba strana aveva fatto passare come minimo un centinaio di anime prima di loro, ma come minimo proprio.
Forse la colpa era anche di lui ed Elga che avevano continuato a bisticciare e del biondastro che imprecava come Cade aveva sentito fare solo a marinai che arrivavano a Binn Eadair quelle volte in cui lui e i ragazzi si spingevano sino alla costa per racimolare qualche soldo per sbancare la giornata.
Rimaneva il fatto che il cinese li aveva fatti aspettare un'eternità, così tanto che davanti a loro erano passati anche uno spilungone con i capelli rossi ed una ragazzetta bionda che aveva guardato non male, malissimo il biondastro che stava con lui e Erika.
Norman e l'altra bionda si erano lanciati uno di quegli sguardi che avrebbero potuto dar fuoco ad una pira di polvere da sparo, mentre lei ringhiava a mezza bocca qualcosa in una lingua che tutti loro ignoravano ed il rosso faceva una smorfia costipata che probabilmente era un misto di scuse e confusione. L'aveva portata via con gentilezza, poggiandole una mano sulla spalla e pregandola di proseguire.
Doveva ammetterlo, non aveva neanche ascoltato come si chiamassero, nessuno dei due, ma sicuramente se avesse chiesto a Elena l'avrebbe saputo, quella pareva non farsi passare nulla sotto il naso. Neanche lui…
Sospirò e si ficcò il biglietto in tasca, sbuffando e guardandosi attorno in attesa che anche Nathan firmasse il dannato pezzo di carta per poter finalmente uscire di lì.
Cade non ricordava neanche più come fosse stare fuori da quelle mura, come fosse il mondo in generale. Un brivido freddo però lo colse quando guardò oltre l'enorme portone spalancato. Aveva fatto di tutto sino a quel momento per non farlo, per non sbirciare, tenendo ostinatamente la testa voltata verso il gabbiotto, ma ora che anche il biondastro si era iscritto a tutti gli effetti, ora che anche lui stringeva nelle mani il suo bel biglietto d'oro, non avrebbe potuto ignorare più ciò che c'era lì fuori.
Rimase fermo impalato senza muoversi, la mano sinistra si serrò attorno al coltellino a scatto che aveva in tasca, mentre la destra salì in automatico a sistemarsi il bavero della giacca, lì dove uno dei suoi vecchi compagni gli aveva disegnato con colori rubati ad una boutique le sagome di un gruppo d'uccelli in volo.
 

I suoi Liberty.

 

Deglutì a disagio, strofinando quel pezzo di stoffa consunto e sbiadito, dove la vernice si era crepata per colpa dei continui movimenti, delle fughe e delle lotte.
Oltre la soglia del portone l'aria era brumosa e sfocata, il lastricato lasciava posto ad un terreno battuto che lentamente andava scurendosi come se vi fosse un'ombra gettata sopra, come se qualcuno lo coprisse. Cade non aveva mai visto dell'erba nera in vita, ma nella morte non era certo la prima volta che la scorgeva, se la ricordava anche troppo bene ad essere onesti.
Ecco, quello sarebbe stato il momento ideale per un goccetto, se le era portate un paio di fiaschette dopotutto, forse poteva subito iniziare a dargli fondo.

<< Ti sei imbambolato, pel di carota?>>
La voce di Ella gli arrivò beffarda alle orecchie ma Cade, per la prima volta da quando l'aveva vista, non aveva tutta questa gran voglia di risponderle come suo solito.
Il biondastro l'aveva chiamata “soldato” e malgrado Cade faticasse a veder una donna nella milizia militare ufficiale, tanto da poter aver un titolo anche se semplice come “soldato”, non faticava minimamente ad immaginare una donna combattere, ne aveva viste tante a suo tempo.
Entrambi i suoi compagni di sventura quindi dovevano essere militari, cosa che per altro Cade disprezzava apertamente ma aveva saggiamente deciso di tenerselo per sé per quella volta, e senz'altro erano finiti dritti dritti nei Campi Elisi senza problemi, di certo non con gli stessi che aveva dovuto passar lui.
Probabilmente non lo capivano e Cade avrebbe fatto di tutto per far sì che non lo facessero mai, non avrebbe offerto a quelli che, a conti fatti, erano suoi nemici, un così grande ascendente su di lui, non era certo stupido checché se ne dicesse in giro.
Doveva solo trovare la forza per uscire di lì, per affrontare quelle Praterie infinite. Se l'era giurato, aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per uscire da quelle mura bianche, vincendo la gara o rinascendo da zero. Era come un falco, aveva bisogno del cielo sconfinato per vivere, vivere davvero, non avrebbe permesso a nessuno di togliergli ancora la sua libertà. Un giuramento era un giuramento, anche se fatto davanti ad una bottiglia di Whisky.

 

 

Eliza aggrottò le sopracciglia dubbiosa: che diamine aveva adesso il ragazzino?
Va bene, non era corretto chiamarlo così visto che aveva venticinque anni a quanto pareva, questo lo portava anche ad essere automaticamente più grande di Nathan, che di anni invece ne aveva ventiquattro, quindi la più piccola era lei che ne aveva ventidue.
La ragazza si grattò la testa pensierosa, tecnicamente però lei risultava essere la più grande dato che era vissuta decisamente prima di entrambi, nell'ultima metà del 1700, quindi poteva comunque chiamare entrambi “ragazzini”.
Guardò ancora Cade e si domandò se valesse di più l'età a cui si era morti o l'epoca in cui lo si era. Qualunque fosse stata la risposta, Eliza non aveva la minima intenzione di farsi mettere i piedi in testa, per nessuna ragione. Doveva rimanere concentrata ed arrivare alla linea di partenza, il famigerato Palazzo di Ade.
In vita non aveva mai avuto molto a che fare con gli altri figli degli Dei, anzi, aveva ignorato l'identità del suo divin genitore per tantissimo tempo, quindi non aveva una così ampia conoscenza di divinità, ruoli e luoghi di culto. Sapeva che un tempo vi erano i templi, dove gli Dei venivano adorati e venerati, ve ne erano un bel numero anche entro i Campi Elisi e lì Eliza aveva imparato i rudimenti di quella religione che non le era mai appartenuta ma a cui, al contrario, lei apparteneva senza possibilità di remora.
Conosceva le principali divinità, sapeva che a governare il pianeta erano Zeus per i cieli e la “legge”, Poseidone per i mari e Ade per la terra ed il sottosuolo in particolar modo. Sapeva anche che i vari elementi erano poi suddivisi per altri Dei, tutti ben o male derivanti dai primi tranne i fratelli dei qusti tre, ma quando poi avevano cominciato a spiegarle i legami amorisi, i figli illegittimi, le violenze e gli accordi matrimoniali quasi sempre infranti, Eliza si era persa e assieme a lei aveva smarrito anche la voglia di imparare qualcosa su quegli esseri che parevano fare il bello e cattivo tempo a loro piacimento solo perché “Dei”. Molte azioni la disgustavano, altre la mandavano su tutte le furie, l'idea che un singolo dio avrebbe potuto fermare la guerra in cui lei era morta e far sì che tutte le parti giungessero a ragione senza spargimenti di sangue le aveva inacidito la bocca. Lei era morta per il suo paese, per ciò in cui credeva, e intanto quegli esseri che tutto potevano sedevano in poltrona a godersi lo spettacolo.
Si domandò di chi fossero figli i due ragazzi con cui aveva condivido l'attesa, se le persone che aveva visto attorno a sé fossero ugualmente semidei o solo gente normale.
Quanti erano? Quanti figli avevano gli Dei? La gravidanza era uguale alla loro? Ci volevano sempre nove mesi?
Erano così tanti i quesiti che Eliza aveva su quella che sarebbe dovuta essere “la sua gente” che forse avrebbe fatto prima a chiedere a Nathan.
Cercò quindi il giovane con lo sguardo e lo trovò impegnato a stringere dei lacci sul suo giaccone, dalle forme squadrate e apparentemente molto resistente. Sul tessuto di una particolare tonalità verde-giallastra, molto simile alla steppa secca, spiccava una targhetta nera su cui era stato ricamato quello che doveva essere il cognome del ragazzo.
“Wright”.
Quindi quelle erano le moderne divise dell'esercito.
Eliza abbassò lo sguardo sulla sua sgualcita giacca di rigido tessuto blu, sulla banda bianca che le divideva il busto e poi alzò la testa per cercarne altre. Chissà se avrebbe rincontrato qualcuno dei suoi commilitoni.
A quel sol pensiero la ragazza si ritrovò a condividere lo stesso sguardo serio e fisso di Cade, mentre i dubbi le scavavano la coscienza che, per la sua epoca, era sporca come uno spazza camini.
Lei in guerra non ci sarebbe dovuta scendere.
Lei, tecnicamente, in guerra non c'era scesa.
Con una smorfia gemella a quella del ragazzo al suo fianco Eliza rimase immobile a ragionare su come comportarsi quando avrebbe avuto la sfortuna di rincontrare qualcuno che conosceva. Perché era ovvio che sarebbe successo. Doveva solo mantenere la calma e comportarsi come sempre, solo questo.

 

 


Assicurate le cinghie nere del porta munizioni alla gamba destra Nathan si toccò la spalla per controllare, in un gesto abituale, che il suo fucile fosse a posto.
Qualcosa di caldo gli si espanse del petto, come una vecchia sensazione dimenticata da tempo che, in verità, non era mai riuscito a cancellare dalla memoria, una di quelle azioni che credi di aver dimenticato e invece è sempre lì.
 

È come andare in bicicletta.

 

Gli era mancato, era questa la verità. Dopo anni passati a vestire la mimetica senza che però facesse il suo effettivo dovere, portandosela dietro come il guscio inutile di un crostaceo che non può più combattere ma che ugualmente tiene calata indosso la sua corazza più resistente e al contempo malmessa, una divisa d'onore, di alto rango che gli ricordava gli scontri passati e vinti, le ferite ed i fallimenti, finalmente quella maglia sporca di terra rossa, la giacca pesante ed il giubbotto antiproiettile, gli scarponi da combattimento e le custodie delle armi, sarebbero servite nuovamente per il loro scopo: per andare in guerra e vincere. Per tornare a casa vittoriosi, tornare davvero questa volta.
Era partito tanti anni prima, si era lasciato alle spalle una famiglia che aveva bisogno di lui ma con cui non poteva rimanere. Nathan era un soldato dell'esercito della Marina Americana, aveva giurato di difendere il suo paese e di scendere in guerra per difendere tutti coloro che non ne erano capaci. Anche se avrebbe solo voluto rimanere tra le mura sicure di casa sua, anche se gli mancava il Campo, malgrado non l'avrebbe mai ammesso, che era l'unico luogo in cui si sentisse davvero di potersi rilassare; Nathan non aveva potuto rifiutare la chiamata, non aveva potuto andar contro l'ordine che lo convocava alla Base Navale Militare di Baltimora, non avrebbe mai potuto sapendo cosa sarebbe successo se avesse rifiutato.


Cosa faceva suo padre ai disertori.

 

Aveva seriamente pensato di non andare, davvero, ma poi sua madre l'aveva preso da parte, inchiodandolo su di una sedia come quando era piccolo e lo sgridava per qualcosa che aveva fatto, come quando in prima media aveva dato un pugno a quel rompipalle di Rick Parker, della terza A. Lo aveva fissato dritto negli occhi e poi aveva detto solo una frase.

<< Ares non perdona mai chi fugge.>>

Quello gli era bastato.
Aveva gettato un'occhiata oltre la porta della cucina, verso la camera da pranzo da cui venivano i suoni ovattati di un programma alla tv. Si era concentrato sul crepitio della stazione, sul rumore che faceva la corrente cercando di stabilizzarsi. Era rimasto in silenzio per una manciata di minuti e poi aveva annuito.

 

<< Lo so. Lo so. Andrò.>>
<< È la cosa giusta da fare.>>
<< So anche questo. Ti prenderai cura di lei?>>
<< Sai anche che farò questo.>>

 

Gli pareva incredibilmente distante quel giorno e forse lo era davvero, forse erano passati secoli e lui neanche lo sapeva, forse attendere così tanto nella sala d'attesa, a fissare gli schermi luminosi e colorati che proiettavano le principali profezie di tutto il globo non era stata una buona idea, ma ormai era andata così.
Alzò la testa e guadò la sconfinata prateria nera che si srotolava davanti al portone spalancato, l'ultima volta che l'aveva vista era stato al suo arrivo, quando il tunnel l'aveva scaricato lì di fronte e solo una delle porte laterali si era aperta per farlo passare. Poi nulla più, non si era neanche affacciato o allungato per sbirciare all'arrivo di una nuova anima, un nuovo morto.
Dio… ma la gente avrebbe mai finito di morire? Si chiese con una nota d'ironico cinismo, come se lui fosse lì per scelta e non per forza. Ma la domanda l'aveva comunque in testa, sebbene diversa dalla prima, sfrontata ed un poco strafottente.
L'Ade li avrebbe mai potuti contenere tutti? Le anime millenarie sarebbero svanite finalmente o sarebbero continuate a “vivere” in eterno lì sotto?
Probabilmente non l'avrebbe mai saputo, ma se avesse vinto – e l'avrebbe di sicuro fatto- quello sarebbe stato un problema di altri, per il momento.
Si sistemò ancora la fascia che reggeva il fucile, quell'amabile mitra semiautomatico che gli avevano dato appena arrivato su quelle terre dimenticate da Dio, o magari dimenticate solo dai suoi di Dei e popolate da altre divinità ancora più sanguinolente e violente degli Dei dell'Olimpo.
Non se ne era separato neanche nella morte, per via della grazia di suo padre, o almeno così gli era stato detto. Poco male, meglio per lui che poteva usufruire di un'arma di precisione e di potenza come quella. Non sapeva però se avrebbe avuto effetto su tutte le anime, se avrebbe avuto effetto e basta visto che loro, tecnicamente, erano tutti morti.
Ma magari neanche avrebbe dovuto “combattere” veramente con qualcuno, chi lo sa.
Drizzò la schiena e controllò che quegli altri due deficienti fossero pronti. Non che glielo avessero detto esplicitamente, sia chiaro, ma aveva come la vaga sensazione che la dannata guardia Imperiale volesse che si portasse dietro, almeno sino alla linea di partenza, la piccola soldatessa che, a quanto pareva dalla sua divisa, era uscita direttamente dalle guerre di Secessione – e lui era un altrettanto dannatissimo figlio del Dio della guerra, quindi era pressoché impossibile che sbagliasse la datazione di un'uniforme- e il mezzo, ma pure intero, teppistello che in quel momento fissava il vuoto come se stesse rivivendo un incubo passato.
Non avrebbe fatto fatica a crederlo, comunque, vedere quei prati stimolava sempre desolazione, tristezza, solitudine, confusione e smarrimento.
Al Campo, un tempo, si diceva che più eri stato mediocre nella tua vita, più aveva militato tra gli ignavi o non ti meritassi i Campi Elisi, più le Praterie degli Asfodeli avevano influenza su di te. Guardando Cade, se era quello il suo vero nome poi, Nathan si era chiesto se meritasse di star lì, cosa avesse fatto di buono, se fosse come lui, ovvero con un carattere di merda ma con un giusto e glorioso passato alle spalle, oppure se fosse riuscito ad ingannare i Giudici.
La verità era che in quel ragazzo c'era qualcosa che non gli quadrava e la cosa lo infastidiva a morte.
Gioco di parole a parte.
Non era come Eliza, che si vedeva lontano un miglio fosse una donna seria, ligia al dovere e ai suoi ideali, coraggiosa e forte, che non si sarebbe fatta spaventare o mettere sotto da nessuno. Non era neanche come Shilon Yu, che si capiva essere una persona tanto pacata, tranquilla, gentile, quasi mistica, quanto pericolosa e letale.
Cade sostava nel limbo, per Nathan, e da come il suo volto morto fosse diventato ancora più pallido, doveva averci sostato molto anche nella vita.

Si chiarì la voce e si avvicinò ai due, ponendosi al centro ed esortandoli, lei con un cenno del capo e lui con un colpetto alla spalla, a camminare.
<< Muoviamoci, dobbiamo raggiungere il Palazzo di Ade e se mi farete perdere tempo vi lascerò nel bel mezzo delle Praterie a perdere il senno, chiaro?>> disse perentorio.
Eliza alzò un sopracciglio per nulla toccata. << Tu sai dove andare?>>
Annuì. << Conoscevo un Figlio di Morfeo, suo padre lo mandava di tanto in tanto a far missioni giù nell'Ade e quindi mi ha spiegato da che parte dovrebbe trovarsi.>>
<< Magnifico! E dove dovrebbe stare rispetto a che punto di partenza?>> chiese Cade riscuotendosi dal suo torpore e sorridendo furbesco ai due. << No, perché presumo che il tuo amico non partisse dai Campi Elisi ogni volta, no? E non abbiamo neanche il Sole per poterci orientare. Quindi che si fa?>>
<< Tu chiudi la bocca, per prima cosa.>> lo fulminò Nathan,<< E per la strada ho le coordinate.>>
<< Quindi ci serve una cartina ed una bussola.>> disse pratica Eliza prendendo una vecchia bussola attaccata alla sua cinta. << La mia dovrebbe ancora funzionare bene.>>
<< Se non ti si è smagnetizzato l'ago.>> sorrise Cade facendo spallucce all'occhiata omicida della ragazza. << Che c'è? Ai tuoi tempi non si sapevano queste cose?>>
<< Perché, ai tuoi sì?>>
<< Mi sono già pentito di avervi rivolto la parola, chiudete quella cazzo di bocca e smettetela di litigare come mocciosi.>>
I due si voltarono verso Nathan, chi sogghignando, chi guardandolo un po' oltraggiata da quell'affermazione.
<< Non sto litigando come- >>
<< Bene, visto che non lo stai facendo puoi stare zitta e ascoltarmi.>> tagliò corto il biondo. Frugò in una delle tante tasche presenti sul suo giubbotto e ne estrasse una bussola di metallo dipinto di verde scuro. Sul bordo però vi erano delle iscrizioni che tutti riuscirono a leggere con facilità.
<< Quello è greco antico?>> chiese Eliza sporgendosi per veder meglio. << Lo so leggere ma non l'ho mai studiato.>>
<< Retaggio divino. Questa la usavo quando andavo in missione per conto di mio padre o di qualche altro Dio.>>
<< Bussola divina? La danno in dotazione a tutti quelli che arrivano al famoso Campo?>> Cade allungò la mano per toccarla ma con un gesto seccò Nathal gliela tolse di portata.
<< No. Solo a quelli abbastanza forti per uscire, portare a termine la missione assegnata e ritornare vivi e possibilmente con tutti gli altri. Per chi aveva una missione sola in tutta la sua vita non si sprecavano certo oggetti del genere.>>
<< Perché? Non uscivate tutti in missione? Quanti eravate?>> domandò curiosa la ragazza.
Il soldato storse il naso. << Dei, no, non uscivamo tutti. Anche se al Campo venivamo allenati non tutti sono in grado di tenere in mano una spada senza farsela cadere, figurarsi uscire fuori dalla barriera e affrontare volontariamente dei mostri. Eravamo pochi eletti, semidei forti e coraggiosi a cui il proprio genitore divino affidava per prima cosa una missione a suo conto. Se eri bravo e tornavi tutto intero, se ti dimostravi all'altezza del tuo ruolo, allora anche altre divinità cominciavano a chiederti missioni. Ma ho conosciuto ragazzi chiusi in quella bolla da più di dieci anni a cui non era mai stata proposta una missione. Quando sono arrivato io, il primo anno, eravamo circa seicento, persona più, persona meno.>> disse con voce quasi schifata da quello sciocco dubbio.
Cade sgranò gli occhi sorpreso. << Cosa? Seicento? Eravate un quartiere popolare in pratica?>>
<< Gli Dei sono tanti, non sono solo i dodici che siedono al trono, più Ade e consorte. Le terre, i cieli, i mari, hanno tutti altri Dei cosiddetti “minori”, divinità altrettanto spietate e potenti che però non hanno avuto la grandissima sfiga di uscire dalla pancia di Crono, o che magari l'hanno avuta ma i dodici troni erano già occupati e quindi niente. Tutta gente che per altro non se lo sa tenere nei pantaloni o non conosce il termine “anticoncezionale”.
Ma non sapete un cazzo di mitologia? Cosa avete fatto tutti questi anni da morti?>> irritato Nathan li fulminò con lo sguardo, adocchiando poi la propria bussola.
<< Non ho mai incontrato altri semidei, o almeno quei pochi che ho visto durante la guerra non mi sono certo fermata a chiedergli se ce ne fossero tanti altri come noi e dove e se si riunissero.>> sbuffò seccata Eliza incrociando le bracci al petto. << Non so neanche dove sia questo Campo!>>
<< Long Island.>>
<< Uh, Inghilterra?>>
Nathan si voltò a guardare il rosso accigliato: << No, Stato di New York.>>
L'altro invece le alzò le sopracciglia. << Ah. Allora io stavo proprio nel continente sbagliato. >>
<< Io ero giusto a qualche Stato di distanza… >> disse sovrappensiero la ragazza.
<< Quindi sto parlando con due coloni?>> chiese divertito Cade, prima di venir fulminato di nuovo dal biondo soldato.
<< Sono cittadino americano e fiero di esserlo, non t'azzardare a chiamarmi colone.>>
<< Preferisci immigrato? Conquistatore? Come la giri la giri, vecchio mio, la tua bella terra è comunque stata popolata da gente di paesi diversi che ha deciso di prendersi una patria non sua. Gli stermini dei pelle rossa li abbiamo sentiti sin da noi.>> rispose con inaspettata serietà e durezza l'altro. << Puoi anche credere che ora siate un popolo unito, ma ne avete sempre massacrato un altro che era proprietario di quei luoghi di nascita, da molto prima che voi nasceste. Ognuno dovrebbe rimanere a casa sua, invece di andare ad invadere quella degli altri.>> concluse amaramente con uno sbuffo di forzata ironia.
 

Eliza fissò il ragazzo senza capire, indecisa se sentirsi indignata, arrabbiata, infuriata o colpita da quelle parole.
Era chiaro che Cade, da dovunque venisse, doveva aver subito l'arrivo di un popolo estraneo, probabilmente nemico, sicuramente un esercito. O forse qualcuno a lui caro era morto per invadere un altro paese e lui ancora vi soffriva. Eppure quelle parole le avevano messo una fastidiosa pulce nell'orecchio, perché ben o male era quello che lei stessa aveva pensato degli Inglesi a suo tempo, che se ne tornassero a casa loro e la smettessero di accampare pretese sulle ex Colonie, su quelli che erano diventati gli Stati Uniti Americani, sui ribelli che avevano finalmente alzato la testa.
Eliza aveva guardato al suo generale con ammirazione e fervore quando questo gridava che forse quel giorno sarebbe stato l'ultimo che avrebbero passato sulla terra, che se l'avrebbero fatto lottando per la libertà del loro popolo.
Cade, nell'arco di quel breve tempo che avevano passato assieme e di quello ancora più infinitesimale che avevano passato davanti alle Praterie nere, aveva cambiato umore ed atteggiamento con una velocità sorprendente, mutevole come poteva esserlo il cielo di primavera, che lasciava filtrare il sole tra le candide nuvole che passeggiavano nel blu terso della volta celeste e l'attimo dopo si sfogava in tuoni, lampi e piogge a dirotto.
Che fosse colpa del suo genitore divino? Che quel tratto fosse eredità di quel padre o quella madre che aveva lasciato in lui un po' della sua forza e del suo temperamento?
Qualcosa sfiorava la sua mente, un sospetto che probabilmente aveva toccato anche Nathan vista l'occhiata di ghiaccio che il giovane aveva lanciato all'altro. Che fosse per le sue accuse neanche così poco velate di appartenere ad un popolo di invasori e assassini – cosa per cui Elizabeth non poteva neanche controbattere- o per il tono e la freddezza con cui l'aveva detto.
Incontrare proprio quei due pareva esser stata una fortuna tanto quanto una sfortuna immane.
Doveva ancora decidere quale delle due fosse la prevalente.

<< State zitti e muoviamoci.>> irruppe Nathan tornando con lo sguardo alla propria bussola, evidentemente intenzionato, per una volta, a non continuare il discorso e controbattere con durezza. Forse sapendo perfettamente che, su quel punto, sarebbero potuti andar avanti per tutta la vita, o la morte, o che, più semplicemente, proprio come lei, aveva tanta voglia di difendere la propria patria ma non poteva dar torto all'altro.
Eliza ebbe improvvisamente una gran voglia di sapere in che epoca erano morti quei due, in che epoca di preciso perché aveva già capito che entrambi avevano visto decenni più recenti dei suoi. Chissà che altre guerre di conquista c'erano state dopo il suo tempo, chissà quanti altri posti inesplorati erano stati scoperti, quante isole alla deriva nei mari.
Con la mente impegnata ad immaginare le vittorie dell'uomo sulla terra, Eliza seguì silenziosa Nathan, che aveva iniziato a marciare verso destra, lasciandosi alle spalle l'enorme portone aperto, una fila ancora chilometrica e null'altro.
Non aveva esitato un attimo, non aveva gettato un'occhiata alle sue spalle per sincerarsi che lo stessero seguendo.
Se mai avessero dovuto far squadra Eliza aveva la certezza che con Nathan al comando sarebbero potuti arrivare davvero lontano. Lei di queste cose ne capiva, ne capiva eccome. Era stata sotto il comando di uno dei più grandi generali che gli Stati Uniti avessero mai avuto e dopo aver visto quell'uomo Eliza aveva imparato a riconoscere un leader, un soldato, un combattente, un guerriero.

Figlio della Guerra.

 

Ora rimaneva solo da vedere se il giovane soldato avrebbe ripagato le sue aspettative o se sarebbe stato una delusione totale.

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Alti ed imponenti, macchiati di terra rossa e bruna, di ciò che poteva essere sangue quanto acqua putrida e vermiglia. Il filo spinato arrugginito pareva aver piovuto i suo sedimenti ramati sul suolo dissestato, sulle inferriate appuntite e sui cancelli neri spalancati da cui stava uscendo ogni sorta di male che la terra avesse mai portato in seno.
Jonas fissò quel marasma di anime rumorose e violente spintonarsi per poter arrivare per prime al di fuori di quelle mura, per poter assaporare un'aria diversa da quella pensante e mefistofelica che si respirava nelle terrazze, tra i gradoni pieni di tutti quegli strumenti di tortura che la mente umana, e divina, era riuscita a partorire sino a quel momento.
Con una certa inquietudine si chiese se anche i mostri che avevano dato il via al tempo buio che era stata la sua epoca stessero uscendo da quelle porte, se a loro non fosse stata data questa seconda possibilità o se, proprio come recitava il foglietto, non ci fossero restrizioni di sorta.
Forse persino lui era iscritto a quella gara, forse l'avrebbe rincontrato durante una prova o un combattimento.
Perché che fosse morto ne aveva avuto la certezza, la prova inconfutabile. Nelle sue orecchie ancora risuonavano le grida, d'insulti o d'acclamazione, che quei pazzi, quegli esseri marci come i legni che crescevano per quelle contrade, avevano lanciato alla vista della sua anima, legata da quello stesso filo spinato che sormontava le mura ed ogni divisorio, quel filo forgiato nello Stige con il Ferro dell'Ade e che dava le pene più dolorose del creato, quando aveva disceso tutte le scale che l'avrebbero condotto alle terrazze più basse, quelle che s'affacciavano direttamente sul baratro oscuro ed infinito che era il Tartaro e la disperazione che impersonava.
Allora aveva provato un brivido di piacere, di felicità, di soddisfazione. Si era sentito forte per un momento, aveva sorriso beffardo a quell'anima che a capo basso, costretto così dalle spine che gli trafiggevano il corpo e gli si stringevano al collo, aveva sfilato per l'Ottava Terrazza, quella dei Codardi, la sua.
Qualcuno aveva detto che si sarebbe meritato di fermarsi tra di loro, perché era scappato e si era nascosto lasciando il suo popolo alla deriva, conscio dell'ormai imminente sconfitta. Ma altri avevano saggiamente detto che, dopo quello spiazzo, ve ne erano altri ancora più bassi e ancora più crudeli e violenti in cui quel bastardo avrebbe avuto ciò che meritava.
La codardia era solo una delle sue pene minori ma, come Jonas aveva imparato presto, nell'Ade ogni anima veniva punita per la sua colpa maggiore, se non per la somma di tutte.
Probabilmente a quell'individuo sarebbe toccata quella sorte, quella di subire tutte le torture, tutte assieme, per sempre.
Se quel giorno di infinite vite prima Jonas era stato felice, se si era ricordato come si sorrideva ed aveva goduto di una sadica vittoria che non era riuscito a vedere in vita, ora l'idea che quello potesse uscire, che potesse partecipare alla gara, che vi fosse la possibilità che se lo sarebbe ritrovato davanti, che magari avrebbe potuto vincere… a Jonas veniva solo una gran voglia di vomitare.
Ed aveva il vago sensore che, per una volta, il modo di dire “vomitare anche l'anima” sarebbe stato estremamente corretto per lui.
Nell'attesa che la massa fuoriuscisse come una diga rotta oltre gli argini delle alte mura nere, Jonas si ritrovò a pregare suo padre di aver torto, per una volta. Pregò che quella gente non avesse una seconda chance.
Che il dio l'avesse sentito o no forse l'avrebbe scoperto in seguito.
Aprì gli occhi e batté le palpebre quando la sua attenzione fu catturata da un ragazzo magro, che dava l'impressione di potersi sbriciolare da un momento all'altro.
Sembrava fatto di ceramica, quella fine e pregiata lavorata dai maestri dell'Asia e arrivata per la Via della Seta, visto che gli sbarchi nei porti erano un po' difficili al tempo.
La sua pelle così chiara era però macchiata di terra, di sangue pesto, di lividi e di abrasioni. Dalla sua posizione soprelevata, guadagnata arrampicandosi su di un albero nodoso e vecchio, privo di fogliame, il ragazzo studiò l'altro con curiosità, sorprendendosi nell'osservare la sua veste che forse un tempo era stata bianca, ma che consisteva unicamente in un gonnellino lungo sin sopra il ginocchio e in una fascia straccia che gli calava sulle cosce e che forse un tempo era stata la parte superiore di quel bizzarro completo.
Ma chi mai si sarebbe vestito in quel modo? Gli unici uomini con la gonna che Jonas avesse mai visto erano gli scozzesi, nelle foto di un qualche giornale.
Solo loro e-

Gli antichi?

Verosimilmente anche le loro anime doveva esser ancora lì e anche loro dovevano aver accettato la Sfida delle Morte. Quindi quel ragazzo, che pareva così delicato, che sembrava esser stato modellato dalla ceramica più pregiata e che portava addosso i segni di una tortura millenaria, quel giovane era un Romano? Un Greco? Un Barbaro?
Le sue conoscenze di storia erano buone, dopotutto aveva frequentato una delle migliori scuole del suo paese, seppur con i suoi problemi, ma gli risultava comunque difficile capire a che epoca appartenesse un'anima solo dal suo abbigliamento.
Certo, l'uomo che gli era passato vicino prima era palesemente un vichingo e quello più a destra indossava una divisa su cui era ricamata la Rosa rossa dei Tudor, mentre la donna che correva reggendosi la grande gonna stracciata doveva appartenere al medioevo, ma di quel giovane avrebbe saputo dar soltanto una stima approssimativa dell'era in cui era vissuto.
Ciò che però l'aveva maggiormente colpito, costringendolo a rimaner a fissare quella figura magra e delicata, più della donna con l'enorme parrucca bianca che aveva appena spinto a terra un uomo anziano e vestito di stracci, erano i bracciali di metallo che il ragazzo portava ai polsi.
Due anelli di lucido metallo grigio, così simili al collare che indossava lui che Jonas si domandò se non avesse ricevuto anche lui la visita di Ipnos.
Senza pensarci portò una mano alla sua tempia, lì dove il papavero sgualcito e rosso ancora era incastrato tra orecchio e capelli. Magari se scrutava con attenzione poteva individuare la macchia colorata del fiore anche indosso a l'altro, o forse no.
Il giovane rimase fermo a fissare il ragazzo senza sapere cosa fare, senza sapere perché l'attirasse tanto, se non fossero solo quei bracciali o anche altro.
Senza rendersene conto cercò con la mano il suo di bracciale, quello di stoffa su cui sua madre aveva cucito le sue iniziali. Le iniziali della sua famiglia ad esser onesti.
Un tempo avrebbe sentito lo schiocco secco della stoffa contro la pelle, avrebbe avvertito il pizzicorio fastidioso dell'epidermide arrossata, ma ora c'era troppa confusione per poter udire un suono così flebile. Il bracciale rovinato e slabbrato non tornava più al suo posto con quella precisa velocità di prima. La sua pelle morta non avvertiva più alcun dolore. Il sangue non saliva più verso l'alto, rimanendo freddo e secco nelle sue vene.
Jonas non ci fece molto caso, continuò ad afferrare il bracciale e lasciarlo senza neanche preoccuparsi che facesse il suo dovere o meno. In lui uno strano senso d'inquietudine si stava facendo largo poco a poco, consumandolo dentro, facendogli chiudere lo stomaco e gonfiare i polmoni in un'alternanza di orgoglio e dolore che gli fece girare la testa. Avvertì distintamente l'ebbrezza del potere e poi il terrore della perdita, della sconfitta, l'odio latente e poi intenso, implacabile.
E tutto proveniva da un solo punto.
Come un miraggio estivo, dettato dalla calura soffocante, onde trasparenti e sfocate s'andavano aprendo in cerchi concentrici partendo proprio dal ragazzo di porcellana.
Ben presto un cono di tremule vibrazione lo colpì con la stessa forza di uno schiaffo ben assestato. La vista gli si sfocò e Jonas si domandò se fosse possibile per un morto aver nausee, giramenti e cali di pressione, mentre la presa sul ramo su cui si era appollaiato si fece più debole e senza che potesse far nulla il ragazzo scivolò a terra, tra la calca, le grida e la foga di quelle anime dannate.
Il mondo divenne oscuro ed un dolore accecante gli si piantò nel petto, la sensazione di aria fresca, salmastra e pulita che gli entrava nei polmoni solo per poco gli recò piacere, poi lo schiacciò al suolo con la forza devastante di ettolitri d'acqua.
Cos'era? Perché si sentiva così? Stava morendo?
Ma poi, un'anima poteva morire ancora? C'era qualcosa di peggio di ciò che aveva vissuto per tutti quegli anni? Una seconda morte sarebbe stata un sollievo, una liberazione, come la prima?
Jonas non ne aveva la più pallida idea e forse non l'avrebbe neanche mai scoperto.

 

Cos'è questo dolore?

 

 

 

 

 

*

 

 

 

I cancelli erano aperti, attorno a lui i Campi di Pena vomitavano fuori dalle proprie fauci tutto il veleno, il contenuto tossico del loro stomaco.
Era uno spettacolo magnifico, milioni di persone di ogni epoca, di ogni estrazione sociale, che correvano verso un'effimera e fittizia idea di libertà. Verso qualcosa che avrebbero solo rimpianto maggiormente una volta persa.
Sentiva le urla furiose e gioiose, le imprecazioni e le bestemmie a quegli esseri che avevano partorito una così crudele idea di oltretomba, di dannazione eterna, lì vedeva muoversi ansiosi come scarafaggi, ugualmente sporchi, disgustosi e repellenti. Li vedeva metter piede sui Prati Neri e poi gioire come bambini, come non facevano dalla loro morte e per tutta questa. Vedeva tutto.
Eppure Cicno non riusciva a muoversi.
Fermo, impalato, le braccia lasciate lungo i fianchi, le spalle basse e lo sguardo spento, spento per sempre.
Un brivido lo scosse da capo a piedi, non pensava certo di poterne provare ancora né tanto meno di saperli riconoscere, ma quello era, un brivido. Un brivido di terrore.
Per un attimo tornò ad essere il ragazzino che correva per le vie battute di Tebe, che aveva quasi paura di svoltare un angolo e trovarsi tra le mani di chi lo elogiava sì, ma lo guardava anche con una luce negli occhi che sempre l'aveva fatto tremare, finché non aveva capito quale fosse il suo valore, quale la sua potenza, la sua forza, finché non era diventato ciò che era destinato ad essere.

Alla stregua di un Dio, ammirato ed adorato.

Ma c'era stato, c'era comunque stato quel periodo che Cicno si ostinava ad ignorare, a rifiutare, quello in cui era debole nel fisico quanto nella mente, quando era un ragazzino tanto bello e delicato quanto incauto e indifeso.
Si sentiva così in quel momento, bloccato sulla soglia di casa sua dopo una corsa a perdifiato per raggiungere sua madre prima che quei ragazzi lo prendessero, prima che sfogassero su di lui la loro invidia, la loro rabbia, la sensazione d'inferiorità che provavano quando sentivano altri elogiare la sua bellezza. Si sentiva privo di forza, stanco, stremato e neanche la voce lontana e sbiadita di sua madre riuscì a dargli un minimo di conforto.

<< Cosa vai dicendo, Cicno. Sei così bello, amore mio, chi mai ti farebbe del male?>>

Il mondo, madre. Chi credevo d'amare. Voi stessa. Mio padre, che sempre sia dannato.

Non si era sentito più così debole, così misero da secoli. Neanche le torture l'avevano distrutto a tal punto, come quello stupido cancello aperto stava facendo.
Deglutì a disagio stringendo i pungi.
No, lui non era così, lui era Cicno il Crudele, che il meglio voleva e tutto otteneva, non era un'animuncola tolta dalla faccia della terra per farle un favore. Lui era superiore a tutti quegli esseri che gridavano la loro gioia, che piangevano la loro libertà, seppur momentanea.
Si costrinse a non battere le palpebre, a fissare il prato nero. Non poteva mollare, non in quel modo, non all'inizio.

Non avrebbe mollato sino alla fine.

Provò ad avanzare, un passo tremante e per nulla degno di uno come lui, ma le gambe gli cedettero, quasi non fossero in grado di sostenere il suo inesistente e morto peso.
Quanto poteva pesare un'anima?
Abbastanza per rovinare a terra se una mano grande, ruvida e salda non gli si fosse stretta attorno al gomito, tirandolo in piedi e rimettendolo dritto.

<< Tutto bene, giovane?>>
La voce dell'uomo era bassa e rombante, calda come lo era la sua mano, quella stessa mano che Cicno stava fissando ad occhi sgranati.
Come poteva essere calda la mano di un morto?
Alzò lo sguardo lentamente, quasi temendo di trovarsi di nuovo davanti Thanatos o un altro Dio, finché non incontrò la figura dritta e scura di una veste pesante e nera, dalle maniche lunghe ed il collo strano. Aveva visto qualche anima con quel coso indosso, doveva essere un “cappotto”, un capo d'abbigliamento moderno inventato ben dopo la sua dipartita.
Ad indossarlo era un uomo dal volto serioso, un curioso legno acceso tra le labbra fini.
Ma furono i suoi occhi quelli che lo fecero tremare nelle sue morte membra.

 

Forse non era Thanatos, ma era decisamente un Dio, non c'era dubbio alcuno.

 

<< Sei presente a te stesso, ragazzo?>>
Cicno batté le palpebre cercando di riprendersi.
<< Sì, son sveglio. Vi ringrazio.>> disse cauto rimettendosi dritto e cercando di sistemarsi inutilmente la veste stracciata.
L'uomo lo guardò fisso, senza paura o alcun sentimento nello sguardo, anzi, sembrava stesse ragionando, mettendo a punto gli ultimi dettagli un piano già presente nella sua mente.
<< Non esci dalle mura?>> gli chiese allora allentando di poco la presa sul suo braccio a senza lasciarlo.
Che anche lui fosse rimasto folgorato dalla sua bellezza? Anche delle divinità l'aveano guardato con cupidigia e stupore un tempo, ma proprio per questo Cicno ebbe la certezza che a quell'essere, qualunque cosa fosse, non interessasse minimamente il suo corpo. Non stava guardando lui come persona, come anima, lo stava valutando come mezzo, come se fosse un'arma ben affilata da scegliere, un destriero su cui puntare, un combattente su cui scommettere nell'arena.
Cicno era abituato a ricever un giudizio ma mai nessuno era stato indirizzato a qualcosa che non fosse il suo corpo, la sua bellezza, la fama delle sue richieste, la loro difficoltà e perfidia.
Il giovane deglutì a disagio. << Certo, uscirò. Non ho la minima intenzione di rimanere in questi luoghi, agogno la liberà più di molti altri.>> la sua voce non uscì sicura e diretta come sempre, ma fu una vittoria già non aver balbettato.

 

Io che balbetto. Io che balbetto! Questa è una stupida battuta da commedia popolare!

 

<< Allora perché tentenni?>>
Cicno si ritrovò a stringersi nelle spalle e anche questa semplice azione lo disturbò: da quanto era così timoroso? Non era lui in sé per sé, era l'uomo che gli sostava davanti, con il suo lungo abito nero, i corti capelli gonfi pettinati indietro con cura, con quel legno pendente dalle labbra, l'espressione seria ed imperturbabile e quegli occhi, quei dannatissimi occhi di quel colore impossibile.
<< Più tardi e più persone troverai davanti a te per raggiungere il palazzo di Ade. O forse cercavi di fare come il ragazzino, aspettando che la massa si dissipasse?>>
Il ragazzino?
Solo in quel momento Cicno si rese conto che dietro l'alta figura dell'uomo vi era quella svenuta e fluttuante di un ragazzetto di forse diciotto anni, con i capelli biondissimi sporchi di terra, il volto giovane ma contratto in una smorfia quasi dolorante. La cosa più sorprendente però fu la collana di levigato filo spinato che aveva attorno al collo, come il giogo di un cane, aderente alla pelle ma non troppo stretto finché il padrone non lo tira.
Fu un gesto automatico quello di portar le mani al petto e toccare quei bracciali d'argento che Thanatos aveva trasformato dalle sue catene. Che quel ragazzo, invece che con manette, fosse tenuto incatenato per il collo? Non vedeva altri bracciali o cavigliere, anche se i pantaloni lunghi coprivano le sue gambe le caviglie fini e pallide erano in bella mostra assieme ai piedi nudi.
<< Chi è costui?>> domandò allora senza distogliere lo sguardo.
L'uomo gettò un'occhiata al giovane e poi si rigirò verso di lui. << Un dannato, proprio come te. Ma la sua pena è decisamente minore della tua. Sostava nell'Ottava Terrazza. >>
<< Un Codardo?>> disse senza pensarci troppo. << La sua codardia l'ha fatto svenir alla sola idea di dover affrontare tutti i bruti usciti da questi cancelli?>> un poco di quella strafottenza che un tempo gli era stata tanto naturale tornò a galla: se non si riferiva direttamente dall'uomo riusciva a comportarsi come sempre e non come una donnetta spaventata.
Eppure bastò che l'altro alzasse un sopracciglio, come se gli stesse silenziosamente dicendo di non cantar vittoria, di non parlare a sproposito davanti a lui e di cose che non conosceva, e Cicno ebbe il fortissimo impulso di abbassar il capo. Non lo fece per pura forza di volontà.
<< Un'intera Terrazza è dedicata al tuo crimine, Cicno il Crudele.>> iniziò lui con la sua voce profonda e cupa. Per un attimo gli parve che risuonasse per tutto quel mondo sotterraneo che era l'Ade. << I vostri crimini sono terribili ma su fronti diversi. Non dubitare neanche per un momento che la tua pena sia paragonabile alla sua, dopotutto c'è un motivo se il tuo girone è ben al disotto dell'Ottavo.>> Si mosse leggermente girandosi verso il ragazzo e Cicno ricordò improvvisamente che l'uomo ancora stringeva il suo braccio: non lo stava semplicemente sorreggendo, lo stava vincolando a quel luogo, a star fermo. Nel frattempo però lo stava anche “proteggendo” da tutta la calca dei Campi di Pena. Non una sola anima infatti si era avvicinata a loro, neanche inciampando e rotolando malauguratamente verso i loro piedi, pareva quasi esservi un'invisibile bolla che li schermava da quei dannati urlanti.
<< Ma anche dopo di me ci sono infinite Terrazze.>> gli fece notare.
<< Solo perché il sangue che ti sporca le mani ti è stato versato direttamente da una giara d'oro dopo che altri avevano eseguito i suoi ordini.>> senza guardarlo l'uomo spostò una ciocca chiara dalla fronte del ragazzino. << I suoi crimini, comunque, non ti interessano.>>
<< Allora perché mi avete parlato di lui. E chi siete voi?>> chiese sempre più confuso ed irritato.
<< Il mio nome neanche è affar tuo.>> disse lapidario. << Quanto a lui, se è svenuto la colpa è tua.>>
Cicno si lasciò sfuggire uno sbuffo sarcastico. << Mi fa piacere sapere che malgrado i secoli il mio aspetto è ancora così incantevole da lasciar le persone senza fiato, ma non è certo colpa mia se- >>
<< È un figlio degli Dei come lo sei tu.>> lo stroncò subito. << I poteri di suo padre, come ogni semidio, sono presenti in lui, ma proprio come te, >> e qui tornò a guardarlo, << si rifiuta di usare tali doni. La sua non è superbia fortunatamente, questo è ancora un ambito che ti compete al massimo, ma è comunque restio a far uso del suo potere divino.>>
<< Ed io come ne sarei responsabile?>> quell'ultima affermazione l'aveva infastidito un poco, ma non poteva certo rispondere male ad un essere come quello, aveva la vaga sensazione che al primo passo falso – veramente falso- l'uomo l'avrebbe incenerito sul posto facendolo scomparire per sempre dalla terra.
<< La tua storia. I tuoi ricordi, il rancore e la crudeltà che ti sono propri. Questi hanno interferito con la sua persona, con i suoi poteri. Se solo tu sapessi cosa significa potrei dirti che lo hai mandato in sovraccarico.>>
<< So cosa vuol dire “sovraccarico”.>> rispose piccato.
<< Elettrico? Non credo proprio.>> a quello Cicno non poté ribattere. << Sei un giovane pieno di risorse, so che troverai il modo per raggiungere la Casa di Ade e soprattutto per farlo in tutta sicurezza. >>
<< Lo farò di certo.>>
<< E con te porterai lui.>>
Quell'ultima affermazione lo lasciò di sasso.
 

Cosa?
 

<< Cosa?>> chiese con voce strozzata.
L'uomo non batté ciglio. << In vita non ti sei mai preso le tue responsabilità, Cicno di Tebe, hai sempre scaricato su altri anche pesi che avrebbero dovuto gravare sulle tue spalle. Ad altri la responsabilità di azioni, impegni, che sarebbero dovuti esser affrontati in due. Vuoi tornare in vita? Allora impara a comportarti come le persone di quest'epoca, perché nessuno bacerà più la terra su cui cammini come accadeva un tempo. Ora gli idoli sono completamente diversi da quelli che tu ricordi ed il potere non è più così facile da maneggiare.
Questo è il giorno dell'inizio, prenditi cura di lui, portalo alla Casa di Ade e assicurati che nulla gli succeda di male. Vedila come la tua prima prova.>>
La sua mano si mosse appena, lasciò a presa sul suo braccio e contemporaneamente fece planare il corpo del ragazzo verso di lui.
<< Il suo nome è Jonas, del mondo degli Dei sa poco o niente. Spiegagli quello che tu sai.>>
Cicno rimase a fissarlo ad occhi sgranai, muovendo in automatico le braccia verso quel corpo che pareva infinitamente più piccolo del suo. Piegò le gambe assecondando il peso di quell'anima sino a portarlo a terra, il capo biondo riverso sulla sua spalla livida.
<< C-cosa? No! Io non farò nulla di ciò! Non lo conosco! Non è colpa mia- >>
<< Lo è.>> disse perentorio l'altro. << Te lo ripeto: è giunto il momento che tu impari a sostenere anche la tua parte di colpa. Non vi sono più uomini pronti a prostrarsi ai tuoi piedi e prendersi oneri che non sono loro, non c'è più nessuno disposto a pagare per gli errori degli altri le loro pene. Per di più, la mia non era una richiesta, ma un ordine: tu ti prenderai cura di questo ragazzo e lo porterai alla dimora di Ade o la tua Death Race sarà finita prima ancora di arrivare alla linea del traguardo.>>
Così dicendo gli diede le spalle e si allontanò, il passo sicuro e cadenzato di chi sa dove sta andando e non ha nessuna fretta di farlo.
Cicno strinse i denti rabbioso. Come poteva pensare davvero che avrebbe eseguito quell'ordine? Chi era lui, poi, per poter accampar diritti sulle sue azioni?
Neanche l'avesse gridato ad alta voce, l'uomo fece schioccare le dita, un suono potente che rimbalzò su ogni superficie entro quelle mura, facendo saltare dal terrore le anime circostanti che si affrettarono con ancor più foga a fuggire. Un luccichio si espanse dal collare spinato del ragazzo, condensandosi in un filo di luce che andò a colpire i polsi di Cicno, i suoi bracciali per la precisione.
Il ragazzo alzò la testa e si voltò verso di lui sconvolto. << Che cosa mi avete fatto!?>>
<< Vi ho legati. Bisogna sempre star attenti ai doni che si ricevono da un gemello, perché anche l'altro avrà sicuramente fatto un dono ad una quarta persona e questa si legherà facilmente a te. >>
Cicno guardò il filo spinato con apprensione e quasi odio: quello era quindi un dono di Ipnos?
Una strana calma fredda gli calò addosso quando si ritrovò a chiedersi cosa avesse fatto quel giovane per meritare una visita di Ipnos, poiché entro quelle mura non potevano certo arrivare doni per i carcerati, e chi fosse per meritarsi un suo regalo.
<< Cosa hai fatto in vita per meritarti lo sguardo diretto del Dio del Sonno?>> domandò piano al ragazzino.
 

Qualcosa che tu stesso hai fatto.

 

La voce lontana e flebile di una donna gli fece chinare in capo verso quello del giovane.
Con mani tremanti e sporche sfiorò i contorni di quel volto ancora acerbo, mentre un sorriso cupo e storto gli tirò le labbra.

 

 

<< Capisco, hai scelto la via più semplice, eh?>>


 

 

 

*

 

 

 

Ùranus si pose una mano sulla fronte cercando di scrutare il più lontano possibile.
Era stupido da parte sua, lo sapeva fin troppo bene, sia perché non vi era Sole da cui schermarsi, sia perché quella fitta nebbia non faceva veder troppo lontano.
Avevano lasciato il portone sicuro delle mura bianche da molto ormai, avrebbe potuto dire “ore” se la concezione del tempo fosse ancora stata presente in lui. La fila davanti a loro si era prima assottigliata – per motivi che lui ovviamente ignorava- e poi era scorsa velocemente verso il gabbiotto del venerando Shilon Yu.
La sua gentile compagna d'avventura, la signorina Lea, sembrava conoscer bene l'uomo dai tratti stranieri e questo si era dimostrato molto educato e solenne in ogni sua azione, persino nella firma del contratto.
Non se l'era aspettato, doveva ammetterlo. Ai suoi tempi i “contratti” erano verbali, erano cerimoniali, non certo scritti su carta con penne di vetro ed inchiostro rosso sangue. Anche questo l'aveva lasciato senza parole: quando Lea aveva firmato l'aveva fatto nella più completa tranquillità, impugnando quella penna senza piuma, quello stilo, e scrivendo sicura il suo nome sul rotolo di carta dorata. Aveva fatto una piccola smorfia infastidita, girando poi il polso una volta posato l'oggetto, e asserendo di aver sentito un pizzicorio, nulla di più.

<< Sono letteralmente secoli che non scrivo più.>>
Aveva detto sorridendo, poi gli aveva ceduto il posto, continuando però a fissare ostinatamente lui e non i tre giovani schierati in fila con le spalle al muro, in attesa di qualcosa.
Ùranus aveva cercato di non farci troppo caso, aveva aspettato che l'uomo dagli occhi allungati prendesse un nuovo foglio e vi scrivesse sopra qualcosa, poi l'aveva posato sul piano e gli aveva porto la penna.

<< Non serve una calamaio per questo stilo?>> aveva chiesto guardando con sospetto l'oggetto.
Shilon Yu aveva sorriso gentilmente. << Con il passare dei secoli sono stati inventati calami che contenevano essi stessi inchiostro, così da non necessitare di intingere la punta ogni volta.>>
<< E questo è uno di quelli?>> la curiosità era stata troppo forte da trattenere, Lea vicino a lui aveva ridacchiato divertita da quello scoppio di infantile emozione:
L'uomo aveva però scosso la testa. << Mi dispiace deludervi, Mjöllson- san, purtroppo non è questo il caso. Siamo pur sempre delle anime nell'Ade e per contratti così importanti l'inchiostro mortale non basta. I contratti nell'aldilà si firmano con il sangue.>>
Così facendo aveva gentilmente tolto la penna dalle sue mani e aveva segnato una x vicino alla linea discontinua su cui Úranus avrebbe dovuto firmare.
Il segno apparve rosso, un colore acceso e vermino che aveva brillato di luce propria, in cui si poteva vedere un riflesso più vivido.
<< Prego, qui vicino il vostro nome ed il vostro titolo nella vostra lingua. Se non sapete scriverlo potete metter un simbolo come il mio od un altro caratteristico del vostro tempo e delle vostra vita.>>
Úranus, tentennando, aveva preso il calamo di vetro e aveva scritto a caratteri tremuli ed incerti il suo nome, una delle cose che doveva a suo padre ad essere onesti, visto che per quanto potesse esser intelligente e colta su molte cose sua madre non aveva certo ricevuto l'istruzione di un nobile o quella di un mercante.
Aveva avvertito anche lui uno strano formicolio alla mano, gli ricordava molto quando passava troppo tempo poggiato da qualche parte e l'arto gli si addormentava. Era però anche simile a quel dolore latente ed irrisorio che si espandeva attorno a graffi e ferite lievi, quel semplice intorpidimento della pelle abrasa.
Lo stilo si era improvvisamente tinto di rosso, dal centro dell'asta, dove Úranus stringeva la presa, sino alla sommità di vetro e contemporaneamente giù sino alla punta fine e trasparente.
Il fluido inchiostro era scivolato sulla superficie liscia ma porosa come avrebbe fatto uno scarpone sul ghiaccio. Úranus era rimasto a fissarlo sconvolto finché Lea non l'aveva riscosso e trascinato via, ringraziando di cuore la guardia che augurò loro buona fortuna, afferrando anche il suo di biglietto.

La ragazza ora camminava al suo fianco borbottando senza posa, neanche i suoi tentativi di raccontargli un po' del mondo degli Dei, del suo e di suo padre l'avevano distratta.
Era stata tutta colpa di un ragazzo, di un giovane uomo ad esser onesti.
Quando era stato il loro turno per l'iscrizione Úranus aveva notato subito i ragazzi in attesa, così come aveva notato la terribile occhiata che Lea ed un giovane biondo si erano scambiati.
Se non fosse stato che la foggia delle loro vesti era palesemente proveniente da epoche diversa, malgrado Úranus non sapesse identificarle poiché entrambe sorte dopo la sua, il ragazzo avrebbe detto con certezza che i due si erano conosciuti in vita e che si erano odiati tanto quanto lo stavano facendo nella morte.

<< Quindi è un tuo conoscente?>> osò chiedere piano, abbassando la mano e smettendo di spiare il confine delle Praterie. Stavano seguendo la massa di anime che camminava sicura verso quella che Úranus suppose esser la direzione in cui si trovava la Casa di Ade.
Lea al suo fianco sbuffò pesantemente. << Purtroppo ho avuto la sfortuna di conoscerlo qui, nei Campi. Un borioso ed arrogante ragazzino troppo cresciuto che si crede chissà chi solo perché è andato in guerra e perché suo padre ne è il Dio.>>
<< Quello è un figlio della Guerra? Non somigliava ad Ares… >> notò gettando uno sguardo alle sue spalle, come se potesse vederlo.
<< Perché? Hai conosciuto anche lui?>> domandò la giovane trovando improvvisamente interesse.
Úranus scosse la testa. << No, ma mio padre mi descriveva gli altri Dei. Per lo meno i più famosi e quelli di cui avevo più probabilità d'incontrare.>>
<< Oh… dev'essere bello, dev'esserlo stato intendo. Io non ho mai incontrato mio padre. >> disse flebilmente.
<< Non è una cosa comune, io sono stato molto fortunato ma ciò lo devo soprattutto al fatto che mio padre non è solito aver figli. Siamo pochi, davvero pochissimi. Per ciò che mi disse lui, nel corso dei secoli, ne aveva avuti appena qualche centinaia.>>
Lea alzò un sopracciglio, arrossendo leggermente. << Che ugualmente non è poco. Non so proprio come facciano, come si può aver dei figli con centinaia di donne diverse?>>
Úranus la guardò con la coda dell'occhio e non ebbe il cuore di dirle che spesso, gli Dei, non facevano figli solo con “donne” diverse ma anche con uomini. Malgrado sembrasse una ragazza molto allegra, spigliata e disponibile a parlare, Úranus aveva la sensazione che anche per la sua epoca fosse sconveniente parlare di queste cose. Per di più aveva appena detto di non aver mai conosciuto suo “Padre”, magari invece il suo genitore divino era una Dea e lei aveva solo dato per scontato che fosse un Dio per pura logica. Effettivamente non sapeva ancora di chi fosse figlia Lea ma chiederlo avrebbe implicato dover dire a sua volta di chi era figlio lui e la cosa non lo entusiasmava particolarmente.
Sorvolò.
<< Sono esseri immortali, noi moriamo prima o poi, ne siamo la prova no? Loro invece rimangono per sempre e credo che sia normale ricercare l'amore dopo averlo perso. Le pene d'amore, i ricordi dolorosi, le paure… cercare qualcuno al cui fianco tutto ciò scompaia è molto umano e credo altrettanto divino.>> Úranus si strinse nelle spalle e continuò a camminare guardando avanti mente Lea invece si voltò a guardar lui.
<< Hai una strana idea di divinità. Sai, ai miei tempi, nel mio paese, non c'era più la religione pagana da secoli. Siamo- eravamo tutti Cristiani e l'idea di aver figli con più persone non era ben vista a meno che non si era vedovi e ci si risposasse. >>
<< Non vorrei essere indiscreto,>> iniziò allora il ragazzo tornando a guardarla, << ma potrei chiederti da che epoca vieni?>> chiese allora curioso.
Anche nelle sue terre era arrivato il Cristianesimo, seppur lentamente e non completamente, c'erano infatti persone ancora fortemente legate ai culti passati, quelli delle lande e dei boschi, i miti degli Dei del Nord, gli spiriti, i folletti. Non era semplice parlare di religione e culti, le vecchie credenze erano reputate favole per bambini dagli enti ecclesiastici ma rimanevano comunque ben radicate nel popolo che continuava a credervi fermamente.
Úranus aveva detto addio alla sua vita, al suo popolo e alla sua terra quando la dottrina di Lutero aveva ormai soppiantato quella della Chiesa di Roma ma non era ugualmente cambiata la situazione: la religione ed i miti del suo popolo vivevano in un limbo, in un equilibrio che lasciava comunque la possibilità di metter in guardi i bambini contro le fate e di raccontare le storie di Thor e degli Dei di Asgard, anche se rimanevano, per l'appunto, solo storie.
Lea aveva però detto che “tutti” da lei erano Cristiani. Che poi, “da lei” dov'era?
La ragazza non si pose troppo problema nel parlarne, anzi, sorrise con un velo di nostalgia nella voce.
<< Vengo dal diciannovesimo secolo. Dalla metà ad esser precisi. Sono morta nel 1848.>> concluse con amarezza, abbassando lo sguardo e sospirando pesantemente. << Non so se conosci la geografia dell'Europa, ma sono Italiana, di Milano per la precisione.>>
Úranus si chiuse in un'espressione concentrata, cercando di ricordare delle vecchi mappe delle zone più a Sud dell'Europa.
<< Mentirei se ti dicessi di sapere dove si trova il tuo paese, ma conosco di nome l'Italia, dopotutto vi venivano e vi andavano molti uomini di fede.>>
Lea abbozzò un sorriso. << Quindi anche tu avevi le chiese?>>
<< Sì, anche se probabilmente non come le avevi tu. Il 1848 è un po' lontano dai miei anni.>> le restituì un sorriso impacciato ma gli occhi di Lea ora erano accesi di curiosità.
<< Davvero? E tu allora? Da che epoca vieni? Sei più grande o più piccolo di me? Quando sei morto? Cioè, scusa, non vorrei essere scortese! Dio, lo sapevo, non riesco a tenere la bocca chiusa. Mi dispiace, non volevo- >>
<< Nessun problema. >> la fermò subito alzando le mani. << Sono più grande, credo. Alla mia morte avevo ventidue anni… >>
<< Io ventuno! Quindi sei più grande anche d'età! E di anno?>>
<< 1621.>>
<< COSA?!>>
Lea lo guardò allibita ed Úranus si ritrovò a ridere sotto i baffi. << Sì, un bel po' prima di te.>>
<< Sono duecento anni prima! Due secoli! E di dove sei? Di che città?>>
<< Città?>> chiese allora Úranus confuso. << La mia non era proprio una città, non come quelle che intendi tu per lo meno. Non so come sia ora, grazie a te so che come minimo sono passati duecento anni, ma ai miei tempi era poco più di un villaggetto. Vengo da Vik, in Islanda.>>
La ragazza continuò a fissarlo sorpresa e lo riempì di domande, facendolo ridere a bassa voce e protestare debolmente di andar piano, di chiedergli una cosa alla volta.
Le stava giusto raccontando come fosse la costa dove di tanto in tanto andava a pescare quando un'anima tagliò loro la strada, camminando svelta e a testa bassa, senza neanche scusarsi per averli quasi travolti.
Lea incespicò sui suoi stessi passi, ripresa la volo da Úranus che si congelò sul posto, voltandosi subito verso quell'anima così affaccendata.
Indossava una veste dalla lunga gonna malmessa, sporca di terra e sbiadita. Non sembrava certo venire dai Campi Elisi e Úranus ebbe il dubbio che potesse venir direttamente da quelli di Pena.
 

<< Una dannata?>> domandò infatti Lea fissando la ragazza che marciava senza posa. << Sono già arrivati fin qui? Credevo che fossero molto più distanti di noi, che vi fossero le intere Praterie a dividerci.>>
Il giovane scosse la testa senza saper dar spiegazioni. << Non so cosa dirti, ma hai avvertito anche tu il vento freddo che si portava dietro?>> chiese inquieto.
<< Un vento freddo, sì, hai ragione. Mi ricorda tanto la nebbia che calava sulla città quando- >> Lea si bloccò e si sporse per guardare meglio quella figura tremula. << Non pare anche a te che si muova con un po' troppa sicurezza?>>
<< In che senso? >>
<< Guardala. >> disse afferrando il ragazzo per un braccio e costringendolo a girarsi nella direzione giusta. << Stiamo tutti andando da quella parte e lei invece va da un'altra.>>
<< Magari non è un anima in gara… >> provò debolmente lui.
<< Sì che lo è. La sua veste è mal ridotta ma il suo portamento, le sue azioni, sono chiare, decise. Non è un'anima delle Praterie, è consapevole di sé, sta volutamente andando da quella parte.>>
<< Lea… >> disse allora Úranus accigliato. << Magari è un'anima al servizio degli Dei, magari proviene dai Campi di Pena- >>
<< Sono troppo lontani, >> insistette. << se fosse una dannata dove sono anche tutti gli altri?>>
<< Cosa pensi che sia allora?>> chiese il ragazzo arrendendosi.
<< Non “cos'è”, ma cosa sa.>>
<< In che senso?>>
<< Come facciamo a sapere che questa è la direzione giusta? Siamo usciti e abbiamo seguito la massa, ma siamo sicuri che sia proprio da quella parte il palazzo di Ade? Chi c'è in cima alla fila? Chi glielo ha detto di andare di là?>>
<< Magari un semidio come noi.>>
<< Ma solo chi è stato al Campo o conosce Ade o una divinità legata a lui sa dove si trova il suo palazzo.>> insistette ancora.
Úranus non replicò e Lea indicò altri ragazzi, piuttosto giovani, che più indietro dalla fila si stavano distaccando dalla fiumana di anime per dirigersi nella stessa direzione della giovane passata prima.
<< Chiamalo intuito femminile. >> disse Lea. << Ma ho come la vaga sensazione che stiamo sbagliando direzione.>> concluse soddisfatta.
<< Cosa proponi di fare? Seguirli?>> era ovvio che se la ragazza fosse andata dietro a quell'anima lui l'avrebbe seguita, Úranus aveva come la sensazione, da quando aveva incontrato quegli occhi verdi, che non se ne sarebbe liberato per molto tempo.
Lea sorrise e rafforzò la presa sul suo braccio. << Andiamo a chiedere a lei!>>
<< Eh?>> chiese molto intelligentemente il rosso, ma la sua nuova amica non lo stava più ascoltando, limitandosi a tirarlo per un braccio proprio verso quell'anima affaccendata che poco prima aveva tagliato loro la strada.

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Continuando a camminare per la sua strada Jane alla fine aveva cominciato ad intravedere un bel po' d'anime. Inizialmente pensava fossero quelle fumose delle Praterie ma si era dovuta ricredere ben presto: tutte quelle persone erano vestite bene, in buona salute, di ogni età ma sempre sorridenti, trepidanti, emozionate.
Stavano bene come lei non stava da tanto, troppo tempo.
Si fermò solo per un secondo a fissare quella massa di persone che chiacchieravano tranquille, puntando in una direzione che si rese ben presto conto esser del tutto sbagliata. Ebbe quasi l'impulso di richiamare a gran voce tutte quelle anime e metterle a parte della cosa ma non lo fece: meno gente avrebbe raggiunto la Casa di Ade e meno sfidanti avrebbe avuto lei nella gara per riottenere la propria vita.
Strinse i pungi e si rimise a camminare, a testa bassa, fendendo la fila e tagliando la strada a chiunque le capitasse davanti.
Quelle dovevano essere le anime dei Campi Elisi, dei beati. Era gente che nella propria vita aveva fatto il bene, il giusto e si sarebbe goduta per l'eternità la gioia e la compagnia degli altri, attendendo i propri cari e sperando di vederli il più tardi possibili, sicuri di poterli aspettare con tranquillità entro le mura bianche.
Un moto d'invidia le invase il corpo esangue, in bocca le esplose il sapore acido della bile e di tutto ciò che poteva ricordarle il disgusto del sentimento dagli occhi verdi.
Lei non era stata graziata come loro, malgrado fosse morta ingiustamente, malgrado le avessero fatto un torto enorme e senza eguali, nessuno le aveva concesso di ritrovare i suoi genitori oltre il grande portone dei giusti, i giudici dalle maschere d'oro l'avevano guardata a mala pena e poi l'avevano gettata nelle Praterie, senza saper cosa farsene di una come lei.

 

<< Non hai fatto il bene, nella vita. Ti sei fatta accecare dalla rabbia e dal dolore. Non hai compiuto grandi azioni, non ne hai compiute di tremende. L'unica cosa che avrebbe potuto decretare la tua destinazione, l'unica che ti avrebbe resa degna di un qualunque gruppo ben definito non è andata a buon fine, non ha fatto il suo dovere e non ha fatto danno. Cosa dovremmo farcene di una come te?>>
<< Non hai mai avuto grandi propositi, non ti sei mai distinta. Non sei riuscita a portare a termine l'unica missione che ti eri prefissata.>>
<< Non sei nel giusto, non sei nel torto.>>
<< Non hai agito e poi non sei riuscita farlo.>>
<< Hai avuto davanti varie opzioni e non le hai viste.>>
<< Avresti potuto lottare e hai scelto il modo sbagliato di farlo.>>
<< Hai creduto e preteso che altri facessero il lavoro sporco al posto tuo e quando questi ti hanno detto che non l'avrebbero fatto ti sei arresa.>>
<< Ti hanno dato i mezzi per riuscire e hai fallito.>>
<< Non sei degna dei Campi Elisi.>>
<< Non sei degna dei Campi di Pena.>>
<< Non hai preso posizione nella vita, Jane Parris e non ne prenderai neanche nella morte. Le infinite Praterie degli Asfodeli saranno la tua eterna dimora.>>
<< Non che abbia la minima importanza, tanto non ricorderai più nulla.>>

 

 

E così era stato. Così il baratro si era aperto sotto i suoi piedi e lei era caduta in un cunicolo di pietra, opprimente e buio, che l'aveva mandata nel panico e l'aveva fatta gridare di terrore, pregare non sapeva bene neanche lei quale Dio che tutto avesse fine il prima possibile.
Non era giusto, non lo era minimamente. Aveva sofferto tanto e ora persino quello, persino la condanna a dimenticare.
Alle volt Jane aveva creduto fermamente che le Praterie fossero solo il primo infernale girone dell'Inferno. Come quello raccontato dalla Chiesa, come i gironi infernali della Commedia che prima ancora delle porte dell'Inferno, in una zona di limbo che neanche i dannati, i criminali e Lucifero in persona volevano, stazionavano gli Ignavi, coloro che non avevano preso posizione nella vita e non l'avrebbero quindi fatto neanche nella morte.
Loro, anime delle Praterie nere, non erano altro che i primi condannati delle Mura nere. Dopotutto, se entrambi avevano quel colore a definirli un motivo doveva pur esserci.
Abbassò lo sguardo sull'erba scura e grugnì infastidita dai suoi stessi pensieri, concentrandosi su quei fili neri che andavano piegandosi sotto il peso della suola di cuoio delle sue scarpe.
Doveva solo continuare a camminare finché non fosse arrivata al maledetto palazzo e poi avrebbe finalmente potuto iniziare quella dannata gara.

 

<<Scusa!>>
 

Una voce alta, femminile e sconosciuta gli arrivò appena alle orecchie, ma Jane non le diede ascolto e continuò a camminare.

 

<< Scusa? Ragazza!>>
<< Signorina?>>


Anche la voce tentennante ma potente di un uomo si aggiunse e a quel punto la curiosità ebbe la meglio su Jane e si voltò pur continuando a camminare.
Dietro di lei una giovane bionda, con una camicia chiara, una giacchetta dal taglio maschile e dei pantalo- dei pantaloni? Sì, erano proprio pantaloni quelli!
Jane rallentò suo malgrado studiando la figura della ragazza che ora sorrideva apertamente e le faceva segno con la mano, come a salutarla.
<< Scusa! Mi spiace disturbarti.>> le disse lei con voce gentile.
Portava i capelli corti, tagliati in modo irregolare e scompigliati, forse un po' dall'affanno di correre verso di lei. Il naso dritto formava una linea netta con la fronte e Jane per un attimo vide in lei i disegni delle statue antiche che adornavano i libri della chiesa, quelli arrivati dalla diocesi e prima ancora direttamente dal vecchio mondo. Sembrava una statua greca, ecco cosa, e quel sol pensiero le fece sorgere il dubbio che forse, di greco, quella ragazza potesse aver ben più dell'aspetto. Sembrava palesemente diversa da quel gruppo di ragazzetti in pantaloncini corti come i bambini e maglie arancioni, ma anche lei non vi somigliava per niente. Emanava però, la bionda, una leggera aura, chiara, come la luce di una candela soffusa, qualcosa che non aveva mai visto in nessun altro. Non aveva la più pallida idea di cosa quella giovane volesse da lei, sembrava piuttosto innocua nel complesso. Lei sì, ma il tipo alto, dal volto squadrato e coperto di barba rossa come i suoi capelli che gli ricadevano morbidi verso le spalle, lunghi e leggermente mossi, decisamente no.
I suoi penetranti occhi azzurri le trasmettevano un'inquietudine che fino a quel momento era riuscita a scacciar via, a tener lontana dalla sua debole e affaticata mente.
Lì fissò per una manciata di minuti, del tutto sorda alle domande della ragazza che ora le chiedeva se stesse bene.
Che domanda stupida, poi, da porre ad un morto.
I gigante invece non aveva spicciato parola dopo quel “signorina” detto a gran voce per richiamare la sua attenzione. Si limitava a restituirle lo sguardo, freddo e cristallino come il ghiaccio, che le riportava alla mente lo stesso scricchiolio sinistro della lastra infida.
Altre voci le sfiorarono le orecchie, le grida di qualcuno che conosceva, il rumore secco di una botola che si apre, quello di un bastone che picchia su qualcosa di morbido e solido al contempo.
Scosse la testa portandosi le mani alla testa, chiuse gli occhi e poi li riaprì, fissandoli di nuovo in quelli del ragazzo.
Un ragazzo con i capelli rossi come le fiamme dell'inferno.

 

<< Chi sei? Sei uno di loro anche te?>> chiese con voce gracchiante.
La bionda alternò lo sguardo da lei al suo amico, confusa da quella domanda che, evidentemente, era stata invece colta benissimo dall'altro.
Il ragazzo abbozzò un sorriso triste. << No, anche se sono morto come uno di loro. Il mio nome è Úranus, sono un figlio degli Dei. Lei è la mia amica Elena, anche lei semidea come me. >>
<< Come me.>> ripeté Jane annuendo. << Da dove vieni? Fin dove si è spinta quella follia?>>
<< Islanda. Il vecchio mondo, ben sopra le isole dell'Impero Britannico.>>
<< Il vecchio mondo… io sono del nuovo. Mi chiamo Jane Parris.>> rispose flebile.
L'altra ragazza aveva seguito con lo sguardo il loro scambio di battute ma a sentir il suo nome si fece avanti sorridendole con educazione e porgendole la mano.
<< Elena Pozzi, ma preferisco Lea, se per te non è un problema.>>
Jane guardò con diffidenza la mano chiara, dalle unghie corte ma pulite, e con riluttanza la strinse. Se erano entrambi come lei allora forse poteva far un piccolo sforzo.
<< Scusa se ti disturbiamo, presumo che anche tu stia partecipando alla Death Race.>> cominciò sicura la ragazza.
Aveva uno strano accento quella Lea e all'improvviso Jane si rese conto di quello che aveva appena detto il ragazzo: veniva dall'Islanda, come poteva parlare la sua stessa lingua?
<< Parlate entrambi l'inglese.>> disse estemporanea rispetto alle parole di Lea.
Lei la guardò incuriosita e poi si voltò di scatto verso il compagno. << Diamine, è vero, ti capisco. Vi capisco.>> esclamò stupita.
<< È l'Ade: non stiamo parlando in inglese né tanto meno in islandese.>>
<< O in italiano!>>
<< Parliamo la lingua degli Dei, stiamo conversando in greco anche se non ce ne rendiamo conto.>> spiegò Úranus. << Probabilmente per noi la cosa è più facile perché siamo semidei.>>
<< Tutti parlano il greco?>> chiese curiosa ed attenta Jane.
<< Quello antico. Il volantino della gara era in quella lingua ed il nostro cervello lo traduce nella nostra natia. Probabilmente se incontrassimo un mortale faremo fatica a comprenderlo, o se io incontrassi un altro islandese potrei parlare nella nostra lingua chiaramente e voi non comprendereste una parola.>>
Jane si ritrovò di nuovo a fissare il ragazzo e assottigliò lo sguardo. << Anche tu sei andato al Campo? Per questo sai così tante cose?>>
Úranus arrossì leggermente. << No, io sono solo stato fortunato, ho potuto conoscere mio padre.>>
Una fitta d'invidia scosse Jane ma lei mandò giù il groppo amaro ed annuì. << Cosa volete da me?>> chiese più rigida, infastidita dall'idea che un Dio si fosse preso la briga di insegnare, di conoscere il proprio figlio quando lei, sua madre, non l'aveva mia vista in vita sua, non le era mai apparsa, non l'aveva mai aiutata. Neanche quando ne aveva avuto più bisogno.
<< Abbiamo notato che andavi in una direzione completamente diversa da quella del gruppo più grande.>> disse Lea.
<< Vengo da un'altra direzione.>>
<< Non sei dei Campi Elisi?>>
<< No. Sono delle Praterie.>>
I due la guardarono stupiti, più lei che lui ma Jane non se ne stupì: forse suo padre gli aveva raccontato che alcuni Dei hanno un legame speciale con la Foschia e sono in grado di contrastarne gli effetti, anche quelli della Foschia Maledetta delle Praterie nere.

 

E la tua di madre non si è neanche preoccupata di dirti chi era davvero la tua famiglia.

 

<< Bene… >> tentennò la bionda. << Quindi tu sai come raggiungere il palazzo di Ade? Sai dove andare?>> le chiese sporgendosi leggermente verso di lei.
Jane si scostò. << No.>> ed era vero, lei non lo sapeva e poi perché avrebbe dovuto dirlo a loro?
Meno persone arrivano meno sono gli avversari, un buon piano ed una buona ragione per non dire loro nulla, specie se erano semidei.
Però lui non era mai stato al famoso Campo, lei neanche sembrava saperne più di loro due.
Jane non riuscì a tener lo sguardo lontano dagli occhi azzurri del giovane, senza notare quel vago rossore dovuto all'imbarazzo d'esser fissato, il modo in cui si era curvato, come aveva piegato la schiena e si era chiuso nelle spalle larghe, cercando di nascondersi al mondo intero o forse solo al so sguardo.
Il vociare concitato di una folla fantasma divenne sempre più forte e Jane sapeva non esser quello delle anime dei Campi. Era nella sua testa, era tutto nella sua testa come sempre, come sarebbe stato per sempre. Erano le voci della gente del suo villaggio, erano le grida d'acclamazione, quelle indignate, il pianto dirotto di una donna che invocava pietà, la botola.
Distolse lo sguardo, una fitta dolorosa le attraversò la mente, le membra morte e anche quei brandelli che erano diventati la sua anima.
Le tremarono le gambe e se non fosse stato per la ragazza, per quell'Elena che la prese al volo con una velocità impressionante e l'accompagnò a terra facendola stendere, probabilmente Jane sarebbe svenuta sul posto.

 

 

 

<< Cos'ha? Cosa le succede?>> chiese Úranus con voce ansiosa.
Lea fissò il volto quasi trasparente della ragazza, sollevandole le palpebre tremule e tastandole il collo per poi darsi della stupida: non aveva senso controllare il respiro ed il battito ad un morto.
 

Questo perché agisci senza pensare. Ti hanno detto che si fa così e tu così fari. Devi imparare a ragionare, Lea, questo fa di un uomo che ha studiato medicina un vero medico.

 

Lea alzò lo sguardo, cercando il proprietario di quella voce senza però trovarlo. Come poteva sentirlo ma non vederlo?
<< Lea? Cos'ha?>> le chiese ancora Úranus.
<< Se fosse viva ti direi che ha avuto un calo di pressione o un forte shock, ma non è questo il caso. Sembra confusa, sfiaccata.>> disse sentendosi lei stessa stanca.
Úranus la guardò preoccupato. << Devono essere le Praterie, più rimaniamo qui e più ci indeboliamo.>>
<< Le sentite?>>
La voce flebile di Jane fece abbassar la testa ad entrambi.
<< Come?>> domandò Lea spostandole i capelli sporchi dal volto.
<< Voi le sentite quelle voci o le sento solo io?>>
<< Quali voci?>> chiese subito guardinga la bionda. Anche lei aveva forse sentito quella voce? Ma lei stessa continuava a sentirne una sola, di una persona ben conosciuta.
<< Ah. Ah, ah… nulla, mi dimentico sempre che sono pazza… >> disse la ragazza cercando di rimettersi in piedi.
<< Aspetta, rimani un attimo a terra, riposati.>>
<< Sono morta. Ho riposato abbastanza.>> così dicendo si sottrasse con stizza alla presa gentile di Lea e cercò di rimettersi in piedi sulle gambe inferme.
Úranus intanto tenne il suo sguardo fisso a terra, cercando in tutti i modi di non incrociare quello delle due ragazze, di non far vedere quanto quella domanda, quella situazione lo stessero angosciando.
Era tutta colpa sua, era sempre colpa sua. Doveva riuscire a calmarsi, a respirare profondamente e calmarsi.
Insomma, respirare non gli serviva a nulla, ma doveva comunque farlo.
La domanda della signorina Parris l'aveva lasciato di sasso, gli aveva fatto tornare in mente quegli ultimi terribili mesi della sua vita, il volto affaticato di sua madre, il dolore nel suo sguardo quando quegli altri erano arrivati, la sua chioma scura, la schiena protesa in avanti, le gambe pallide come ultima immagine di una donna tanto amata, che tanto l'aveva amato e che solo perché da lui stessa costretta l'aveva abbandonato. Gli aveva riportato alla mente i suoi ultimi pensieri, la consolazione che almeno la sua famiglia fosse al sicuro. Poi il calore, quel calore così forte, insopportabile.
Úranus respirò, lo fece anche se non ne aveva bisogno, estraniandosi e lasciando che le ragazze discutessero, che Lea provasse a fermare la signorina Parris, che questa le rispondesse di lasciarla in pace mentre le domandava chi si credeva di essere.

<< Sono una figlia di Apollo, riconosco una persona quando sta male.>>
<< Siamo morti, non mi serve un guaritori!>>
 

Respirare ed espirare. Concentrarsi sui suoni ripetitivi e costanti.
Ma non vi era vento nelle Praterie e neanche il suo cuore ormai fermo poteva scandire il tempo necessario affinché si calmasse. Cercò allora di ascoltare il calpestio dell'erba nera, le chiacchiere delle anime dei Campi, allontanare le voci delle due giovani vicino a lui.
Sentì il vago eco di un fischio, il richiamo di un uccello che viva nei boschi vicino a casa sua.
Un sorriso sincero gli tese le labbra mentre la calma invadeva il suo corpo o almeno ciò che ne rimaneva.

 

Grazie padre.

 

<< Signorina Parris?>> disse con voce più ferma, pacata, propenso a chiarire e sedare quella piccola discussione come sempre era stato solito fare in vita.
<< Uh?>> fece questa voltandosi verso di lui battagliera.
<< Mi dispiace, non volevamo darti problemi.>>
<< Non le abbiamo dato nessun problema.>> fece notare Lea. Úranus però alzò una mano e le chiese silenziosamente di tacere.
<< La direzione che stanno prendendo tutte le anime uscite dai Campi è sbagliata, vero? Sai dove andare? Ti chiedo solo questo, poi se vorrai ti lasceremo in pace o magari potremmo far il viaggio sino al palazzo di Ade assieme, tenendoci compagnia a vicenda.>>
Lea gli fece un cenno con la testa, apprezzando il suo approccio alla situazione, mentre Jane lo fissò per un po' senza dir nulla, riflettendo sulle sue parole.
Poi espirò l'aria in un unico sbuffo.
<< Il palazzo è da quella parte, direzione nord-ovest. Credo ci vorrà ancora un bel po' ma nel frattempo potresti dirmi qualcosa di più sul mondo degli Dei.>> disse con voce ferma e distaccata.
Lea si aprì in un gran sorriso ed Úranus annuì. << Mi sembra un giusto compromesso.>>

 

 

 

*

 

 

 

 

Un uomo grande quanto una colonna, con un ridicolo gonnellino di paglia e la pelle abbronzata macchiata di disegni neri si fermò vicino al giovane come in attesa di suoi ordini.

<< Ho il vago sentore che questo sia la famigerata Casa di Ade.>>
Cicno poggiò le mani sui fianchi, i bracciali di metallo sembravano quasi più caldi delle sua pelle morta ma lui non vi fece caso, concentrato com'era sulla grande struttura che si ergeva dinnanzi a lui.
Una lunga muraglia di pietra scura era sormontata da un'inferriata nera, in quello che pareva essere Ferro dello Stige, modellato e forgiato per creare motivi di uno stile che doveva esser diventato famoso dopo la sua dipartita.
Anche il cancello era di quella stessa fattura ed esso era spalancato, lasciando accesso libero all'enorme giardino di erba nera, proprio come quella delle Praterie, e ad alti alberi nodosi dal legno scuro, come bagnato. Pareva pesante come i rami scheletrici che si dipanavano sulla sua chioma, adornati da foglie di un verde cupo di melma e aghi finissimi come spilli.
Ad almeno dieci stadi di distanza vi era il bordo smussato di un fosso, quello famoso che proteggeva il palazzo e che si dicesse esser pieno di fuoco infernale ed anime urlanti che invocavano pietà e non aspettavano altro che poter afferrare una vita ed ingozzarsene.
C'erano le storie più lugubri che giravano sulla grande dimora di Ade, sul palazzo nero come ogni cosa in quel sottosuolo, le cui pareti di pietra levigata si accumulavano le une sopra le altre crescendo con il passare degli anni, aggiungendo una nuova stanza ogni qual volta nascesse una nuova corrente.
Cicno non aveva mai visto un edificio del genere, con una porta simile e quei decori che parevano floreali ma che in verità non lo erano. Poteva scorgerci in mezzo infatti piccoli teschi d'ogni genere, non dissimili a quello grande e lucido di metallo scintillante che era posto sopra l'ingresso, come il macabro battente di quella casa altrettanto cupa e macabra.
Lanterne di ferro e vetro ospitavano fiamme blu che rendevano l'ambiente ancora più terrificante di quanto già non lo facessero le ossa, i volti deformati dal terrore che si muovevano vivi sulle lastre dell'uscio ed i corvi troppo grandi e con troppi occhi che fissavano loro anime appollaiati sui rami più scarni degli alberi marci.
Dietro alle finestre si aggiravano come spettri figure non ben definite affaccendate in mille e più mansioni; suoni di metalli, di catene, di ruote che macinavano il terreno battuto, schiocchi di frusta e latrati di cani, ombre improvvise che si allungavano da dietro le colonne per prendere vita in silenti servitori di tenebre che come soldati si schieravano poco a poco lungo il perimetro del fosso. Non vi era una sola cosa in quel palazzo, in quel giardino, che non mettesse i brividi, ma Cicno, così come molti dei suoi “compagni” avevano vissuto fino a quel momento le pene dell'inferno e la sola lugubre figura di quella villa non poteva colpirli nel profondo. Non era paragonabile alle loro torture.

<< Quello è stile Gotico.>>
La voce bassa e chiara di Jonas lo fece voltare verso di lui.
Il ragazzo era ancora caricato in spalla al guerriero Maori che li aveva scortati sino a lì.
Si era ripreso quasi verso metà strada, mentre seguivano un vecchio sacerdote egizio del culto di Anubis che diceva di saper perfettamente dove si trovasse il palazzo.
Cicno non aveva impiegato molto tempo a convincere il guerriero in gonnellino ad assisterli, gli era bastato sorridergli e chiedergli di far qualcosa per lui, per lui che era un figlio degli Dei, di uno dei più grandi ed importanti. Le genti di quei popoli così legati agli spiriti e alle divinità guerriere, al Sole e al Mare, erano sempre estremamente facili da soggiogare: bastava citare uno dei loro Dei ed ogni ordine veniva eseguito.
L'aveva allora incaricato di prendere il ragazzino e trasportarlo sino alla linea del traguardo, perché questo era il volere del fratello del Dio della Morte e subito il guerriero si era chinato per prendere quel biondino, giurando di portarlo dove gli Dei volevano che fosse portato e che avrebbe scortato anche lui, sano e salvo, sino a lì.
Nulla di più facile, nulla di più scontato.
Cicno, per altro, sapeva anche come trovare la Casa di Ade, ma fingere di non sapere, fingere l'ammirazione verso quel vecchio, pelato e supponente sacerdote gli era sembrata la cosa migliore da fare, lasciar credere ai propri avversari di esser più deboli era sempre una cosa saggia, Cicno aveva imparato che così la gente tendeva a volerti proteggere solo per dimostrarti quanto fosse forte e che, alle brutte, ti avrebbe sottovalutato quel tanto che bastava per poterla pugnalare poi alle spalle.
Il ragazzino, comunque, Jonas, si era svegliato che ancora marciavano e probabilmente se ne era stato zitto e buono solo perché si era ritrovato al faccia burbera del guerriero davanti quando si era dimenato per scendere dalla sua spalla.
L'uomo non c'aveva messo niente a riprenderlo per l'abito e rilanciarselo in braccio, ribadendo il suo giuramento e la sua fedeltà alla volontà degli Dei.
Il ragazzino aveva taciuto e Cicno si chiese se non l'avesse fatto pensando che fosse stato Ipnos a mandare il Maori da lui. Invece era stata una sua idea, dopo che un Dio che mai aveva visto l'aveva obbligato a portarlo alla partenza perché “per colpa sua” il ragazzino era svenuto.
 

<< Un cosa?>> chiese senza esserne davvero molto interessato, facendo però cenno al guerriero di metterlo a terra.
<< Stile Gotico.>> ripeté lui senza però guardarlo in faccia, sistemandosi i vestiti sgualciti da quella passeggiata. << All'incirca del 1100 dopo Cristo.>>
Cicno si era reso conto che il giovane cercava di parlare con lui il meno possibile, che lo studiava di sottecchi quando credeva di non esser notato e che, con tutta probabilità, non avesse ancora capito come rapportarsi a lui.
Quello che però aveva notato con più soddisfazione era stata la nota di stupore che si era dipinta sul suo volto quando aveva scrutato la sua intera figura. Per una vita aveva ricevuto sguardi del genere, seppur d'intensità diverse, ed ora il Crudele poteva dir con certezza che la sua persona non fosse per nulla indifferente a quel ragazzino. Era però timido, non voleva darlo a vedere, doveva appartenere ad una di quelle epoche in cui manifestare apprezzamento per il proprio genere non era ben visto, non era tollerabile.
Rimaneva il fatto però e questo sarebbe potuto essere un elemento a suo vantaggio, specie se quell'essere aveva detto la verità ed il ragazzo aveva ripreso i poteri del suo divin genitore.
Gli concesse uno dei suoi sorrisi ammiccanti, quelli che facevano rimanere chiunque a guardarlo ammaliati e si compiacque del modo in cui, appena scorto il suo volto, Jonas si girò repentino per non continuare a guardarlo.

 

Imbarazzo, eh?

 

<< Oh, e tu lo sai perché è la tua epoca?>> chiese con voce di velluto. Non aveva ancora dimenticato come si facesse a quanto pare.
Jonas scosse la testa, i capelli biondi parevano azzurrini alla luce delle fiamme delle lanterne.
<< No, l'ho studiato a scuola.>>
<< Interessante, quindi sei un giovane colto, sicuramente di buona famiglia.>> continuò facendo un passo verso di lui.
L'altro si mosse a disagio, facendo anche lui un passo ma in modo rigido e scattante.
Cicno scorse il muscolo del collo guizzare d'energia repressa e si concesse un sorrisetto divertito: evidentemente i riflessi pronti di un semidio non erano facili da gestire per lui, che pareva esser abituato alla disciplina ma ancora incapace di farne uso a piacimento.
<< Lo ero. Non colto, di buona famiglia. Ho studiato in uno dei più famosi licei del mio paese ma non sono certo un genio.>> lo disse con voce dura, cercando palesemente di interrompere quella conversazione ma senza esser maleducato.
Cicno annuì. Molto interessante.
<< Capisco. In ogni caso devi essere ben più giovane di me. Il modo di concepire il calcolo degli anni dev'esser cambiato dalla mia morte, poiché secondo l'anima di un dotto che ho incontrato nella mia Terrazza anche io ho vissuto nel secolo centesimo millesimo, ma evidentemente non stiamo parlando della stessa epoca.>>
A quell'affermazione, quell'informazione gettata così, come se non fosse importante, Jonas si volse a guardarlo con curiosità e Cicno esultò internamente.

 

Quindi oltre al mio aspetto ti interessa anche la mia storia?

 

<< Sì, gli anni vengono divisi tra prima e dopo la nascita di Cristo, il figlio di Dio, il fulcro di una delle religioni più seguite al mondo.>>
<< Quella che ha soppiantato il nostro culto pagano, giusto?>>
L'altro annuì. << Gli anni partono da zero alla nascita di Cristo, da lì si comincia a contarli in ordine crescente, sino ad arrivare all'epoca moderna. Prima della nascita di Cristo invece si conta a ritroso. Probabilmente, se qualcuno datasse la vostra vita ora, voi risultereste nato in un anno numericamente più grande di quello in cui siete morto.>>
Cicno sorrise ancora, sia per quella spiegazione così precisa e formale che per il modo che il ragazzino aveva di riferirsi a lui.
<< Per favore, non darmi del voi, sei un giovane così colto e sapiente, non certo una monello di strada che deve portar rispetto ad un adulto. Ho solo ventisei primavere, dopotutto.>>
Jonas lo guardò senza dir nulla, impassibile e preso dai suoi ragionamenti. Fece un cenno rigido con la testa, un piccolo inchino che non fece altro che divertir ancor di più Cicno.
<< Mi è stato insegnato a portar rispetto per le persone più grandi di me e di dar del lei a tutti coloro che non conosco. Ho sedici anni, sono ben più piccolo di voi.>> disse secco, quasi l'avesse infastidito l'esser ripreso per una volta che si comportava come da etichetta.
Cicno però sorrise gentile e magnanimo. << Questo ti fa onore, ma permettimi di insegnarti una cosa: questa gara è come una guerra e sul campo si da del voi solo ai generali. Il mio nome è Cicno di Tebe, non sono un tuo superiore ma spero di poter diventare un tuo amico.>>
Così dicendo gli porse la mano, senza perdersi il leggero ritrarsi del ragazzo e lo sguardo interessato che gettò ai suoi bracciali. Lo vide tentennare ma poi, forte forse proprio di quell'educazione prima citata, gli strinse la mano in una presa decisa e salda.
 

Quindi ti è stato insegnato a porgere un saluto da uomini.

 

Quel ragazzo nascondeva molte particolarità e sebbene Cicno si fosse già ben reso conto che non era sempre sicuro di sé, che spesso si tratteneva dal dire o dal fare, decise anche che Jonas poteva essere una freccia ben affilata nella sua faretra.
<< Il mio nome lo sapete già.>>
<< Scusa?>> gli chiese senza lasciar che il sorriso scivolasse via dalle sue labbra. Per Zeus, non sapeva quanto tempo era che non sorrideva così tanto e per così tanto tempo, quel ragazzino stava mettendo a dura prova la sua resistenza ma doveva comunque continuare. Aveva la vaga sensazione che rigirarsi di punto in bianco ed ordinargli di andarsene e lasciarlo in pace avrebbe rovinato tutti i suoi sforzi, pensò con ironia.
Lui ed il Maori lì vicino erano attualmente le sue armi più forti, se avessero dovuto intraprendere un combattimento il guerriero l'avrebbe di sicuro protetto mentre il ragazzo invece pareva ben a conoscenza del mondo che era stato dopo di lui, poteva rivelarsi davvero prezioso.
<< Scus- Scusa. Cicno, perdonami, devo prenderci la mano.>> rispose rigido l'altro.
<< Prenditi tutto il tempo di cui necessiti, ma ti prego di accettare di vedermi come un tuo pari, come un amico.>>
Jonas annuì all'ennesimo sorriso di miele di Cicno, ignorando come il sapore dolce ed il colore ambrato nascondessero in verità le stesse spine del giogo che portava al collo, intrise di un veleno amaro come il fiele.
 

 

 

 

 

*
 

 

 

 

<< Quindi è a destra.>>
<< La mia o la tua?>>
<< Perché? Tu ne hai una diversa?>>
<< Non so se hai notato che siamo in posizioni diverse.>>
<< Ma chi cazzo me l'ha fatto fare?>>
<< Stiamo uno di fronte all'altra, quindi se dico destra intendo la mia, perciò la tua sinistra.>>
<< E che ne so io?>>
<< Porca puttana dovevo lasciarvi indietro, dovevo farmi i dannatissimi cazzi miei.>>
<< Quindi destra?>>
<< Sì, destra.>>
<< Perché state decidendo voi se la fottuta bussola ce l'ho io?>>
<< Non da quella parte, cretino! Quella è sinistra!>>
<< Ma no, è destra! Non sai neanche distinguerle ora?>>
<< Ho detto LA MIA destra!>>
<< E questa che è?>>
<< VOLETE TAPPARVI QUELLE DANNATE FOGNE CHE AVETE AL POSTO DELLA BOCCA?>>

Nathan si portò una mano alle tempie, domandandosi che cosa avesse fatto di male in una vita precedente per ricevere un supplizio del genere. Doveva per forza esser successo qualcosa prima, se no i giudici non l'avrebbero mandato ai Campi Elisi ma direttamente nelle Praterie o nei Campi di Pena.
Quindi: in una vita precedente a quella in cui era morto, e di cui aveva memoria, doveva aver fatto qualcosa di davvero brutto e terribile, o magari di molesto, tanto che adesso, nella morte, gli stavano facendo scontare tutto. Quei due coglioni dovevano essere per forza una qualche sorta di punizione divina, per forza. Non poteva essere così sfigato, cazzo.
Cade e Eliza nel frattempo si erano zittiti, fermi a fronteggiarsi ma con i volti rivolti verso il biondo che, ad occhi chiusi, cercava di riprendere un minimo di controllo, di mantenere la calma e aveva deciso di farlo tirando giù tutti i santi del paradiso, o almeno quelli che si ricordava.
Grugnì infastidito da tutta quella situazione, da solo avrebbe fatto prima, avrebbe impegnato la metà del tempo e, se gli Dei volevano, sarebbe già arrivato.
Non poteva perdere altro tempo.

<< Uno di voi ha la bussola?>>
<< No, non me l'hai neanche voluta far ve- >>
<< E allora che cazzo litigate su dove andare! Siamo nella fottuta Prateria, non c'è nulla intorno a noi se non nebbia, foschia e anime del cazzo che non sanno neanche chi sono! Perché state decidendo se andare a destra o a sinistra?>> ringhiò ancora più arrabbiato di prima.
Eliza storse la bocca in un'espressione di disappunto: era stata anche lei in guerra, aveva sentito i modi di parlare dei soldati, le ingiurie e le imprecazioni, ma la infastidiva comunque trovarsi a che fare con gente maleducata.
Che Nathan avesse ragione, che né lei né Cade potevano dir nulla con certezza perché non avevano la famosa bussola divina in mano era vero, ma stavano camminando da tantissimo tempo, sempre dritti, senza incontrare nulla se non, come aveva detto il biondo, nebbia ed anime ed Eliza doveva ammetterlo, la cosa cominciava a darle un po' sui nervi.
Si sentiva più affaticata ogni minuto che passava, le sfuggiva di mente ciò che aveva letto sul contratto d'iscrizione, non ricordava più se la via in cui abitava fosse la 34800 o la 43800. Stava dimenticando cose piccole, non essenziali e anzi, marginali, ma stava comunque dimenticando.
Dal canto suo pareva che anche Cade non stesse meglio: Eliza aveva la vaga sensazione che non lo stesse facendo di proposito, che non andasse a sinistra solo per darle i nervi ma perché veramente non ricordava cosa gli avesse appena detto. E se il ragazzo non riusciva a tener a mente neanche cose del genere significava che dovevano andar via da quel posto il prima possibile.
Gettò un'occhiata lunga a Nathan, un po' per rimproverarlo – aveva capito di essere decisamente più grande di lui e quindi si sentiva del tutto in diritto di dirgli di pulirsi la bocca prima di aprirla- un po' nel tentativo di avvisarlo, di fargli capire che qualcosa non andava.
Ma il soldato aveva già abbassato lo sguardo sulla sua bussola e borbottava imprecazioni a mezza bocca su una moltitudine di divinità miste che la ragazza preferì non indagare.
Sospirò anche se per farlo prima dovette immettere aria nei polmoni, spesso si chiedeva quando le sarebbe passata l'abitudine di fare queste cose così da vivi e si rispondeva quasi sempre che, con tutta probabilità, non sarebbe mai successo.
Allungò una mano mettendola sulla spalla di Cade e lo spronò a camminare.
<< Segui lui, concentrati su dove dobbiamo andare e ripetiti a mente qualcosa che sai bene.>> gli disse con voce bassa, più gentile.
Cade la guardò battendo le palpebre stordito. << Cosa? Perché?>>
<< Su cosa stavamo discutendo?>> gli chiese per aiutarlo, così magari anche lei si sarebbe tenuta impegnata e poi Eliza sapeva che in una squadra, anche se c'era qualcuno che non ti andava a genio, bisognava sempre collaborare e prendersi cura degli altri compagni.
Aver qualcuno su cui fare affidamento ti salva la vita, l'aveva imparato presto.
<< Sulla direzione da prendere, no?>>
<< Tu dove dicevi di andare?>>
Il ragazzo tentennò. << Dannazione.>> sputò tra i denti, << Perché non me lo ricordo?>>
<< Sono le praterie.>> Nathan si era voltato verso di loro e li guardava con serietà. << Ti stanno facendo effetto, è da troppo che siamo qui.>>
<< Voi però non sembrate star come me.>> gli fece notare accelerando il passo.
Eliza lo seguì. << Se ti consola io già non ricordo più cosa c'era scritto sul foglio che abbiamo firmato.>>
<< State dimenticando le cose più stupide, quelle inutili. Le Praterie hanno più influenza su chi, in vita, ha fatto qualcosa di sbagliato, o magari non si meritava del tutto i Campi Elisi.>> gli lanciò uno sguardo da sopra la spalla, gli occhi azzurri lo incenerirono ma Cade non perse il passo. << Quindi quante cazzate hai fatto in vita?>> gli chiese tornando a guardar avanti.
Cade sbuffò. << Abbastanza.>> ride senza gioia. << Così tante che non le ricordo più.>>
<< Ma sei comunque finito dietro le mura bianche.>> gli fece notare Eliza.
<< Solo per come sono morto. Se avessero dovuto giudicare solo come sono vissuto credo che non avrei mai visto gli Elisi. Ma quanto manca? Non arriviamo più? Non è che quella cosa è rotta?>>
<< Non è rotta, funziona benissimo, non rompere le palle.>>
<< Riesci a dire qualcosa senza infilarci un ingiuria dentro?>> chiese sprezzante la ragazza raggiungendo il soldato e marciando al suo stesso passo.
Nathan grugnì. << Mia madre mi chiedeva la stessa cosa. Colpa del mio sangue divino.>>
<< I figli della guerra sputano sempre quando parlano?>>
La voce di Cade gli arrivò più ovattata ma i due militari non si fermarono per permettergli di affiancarli con più facilità.
Il biondo ignorò per metà il suo commento. << Si capisce così tanto che sono figlio di Ares?>>
<< Dio, scherzi? Neanche se te lo tatuassero in fronte sarebbe più ovvio.>> Il ragazzo rise, arrancando dietro di loro come se tutto ciò lo stancasse.
Era impossibile ovviamente, era morto, non poteva mancargli il fiato e non potevano fargli male le gambe, eppure la sentiva davvero quella stanchezza latente che gli invadeva le membra.
<< Tu invece? Sei bella combattiva, anche tu hai a che fare con qualche divinità bellicosa?>>
Eliza annuì, poi però scosse la testa. << Non lo so, non l'ho mai conosciuta mia madre. Ma se ho ripreso un minimo del suo carattere direi che è piuttosto combattiva.>>
<< Chi è?>>
<< La Dea della Vittoria.>>
Cade fischiò ammirato. << Uh, Nike quindi. Giusto?>>
Nathan annuì. << Sì, la Dea della Vittoria è Nike. Ti sarà utile durante le prove, di solito i suoi figli non mollano mai l'osso, parlo per esperienza personale.>>
<< Ti hanno dato rogna, eh?>>
<< No, li ho avuti in squadra al Campo.>> tagliò corto il ragazzo. << In ogni caso non è da sottovalutare avere la Vittoria dalla propria.>>
Eliza si strinse nelle spalle. << Sempre se riusciamo ad arrivarci, a far queste prove.>>
<< Dei dell'Olimpo! Ma manca ancora tanto?>> si lagnò il rosso.
<< Tu eri uno di quei ragazzini che in macchina chiedevano sempre quando sarebbero arrivati?>> l'apostrofò Nathan.
<< Non sono mai salto su una macchina in vita mia, mi dispiace. Ma sono salito su una locomotiva una volta. E su un bel po' di carrozze. Oh, e su delle navi, quelle sì.>>
<< Cos'è una macchina?>>
<< Ares glorioso, ma con chi cazzo sono capitato?>>
<< Ehi! La mia era solo una… domanda…. >>
Eliza si bloccò di colpo, rischiando di far cadere Cade che inciampicò sui suoi stessi passi per non prenderla in pieno.
<< Che hai visto?>> riuscì a mala pena a chiedere.
La ragazza l'afferrò per il collo della giacca e lo strattonò, indicando con il dito un punto indefinito davanti a loro.
Anche Nathan si era fermato, le mani sui fianchi, vittorioso. Un ghigno furbesco si aprì sul suo volto mentre da lontano scrutava la massa nera ed enorme di una magione e delle sue mura di protezione.
Centinaia di anime, puntini indefiniti ma scuri, si dirigevano verso i cancelli spalancati, neri come quelli dei Campi di Pena ma di gran lunga più lussuosi e curati.
<< È quella?>> chiese Cade con un fil di voce.
Eliza a mala pena annuì, un misto di ansia ed eccitazione che le scorreva per le vene fredde e vuote.
<< Esatto.>> intervenne il marine gonfiando il petto d'orgoglio, la fidata bussola stretta nel pugno.

<< Benvenuti alla Casa di Ade.>>

 

 

 

 

 

*




 

 

Ùranus si voltò per controllare che le sue compagne di viaggio fossero ancora alle sue spalle. Le gambe lunghe lo portavano ad avanzare falcate ben più grandi di quelle delle ragazze che spesso non riuscivano a tenergli il passo.
La loro nuova conoscenza – perché Ùranus aveva la vaga sensazione di non poterla chiamare “amica”- aveva fatto loro qualche domanda, chiedendo informazioni su Dei ed Olimpo ed il ragazzo era stato più che disponibile a parlargliene, a spiegare sia a lei e che a Lea ciò che sapeva.
Abbozzò un sorriso storto e fece cenno con la testa davanti a sé.
<< Siamo arrivati, quello è il Palazzo di Ade.>>
Dalla foschia densa emersero i contorni di un edificio gigantesco, con le mira di pietra, le lanterne di vetro e ferro e privo di tetto. L'erba nera delle Praterie continuava nel giardino dell'inquietante villa, che a tutti e tre i ragazzi ricordò le case abbandonate teatro di storie dell'orrore che avevano sentito in vita.
Lea poté riconoscere con facilità gli archi acuti, i decori tetri di un'arte gotica un po' troppo marcata e idealizzata, non si sarebbe certo stupita se Edgar Allan Poe fosse uscito in quel momento dal portone con il battente a forma di cranio per annunciare che quella dimora sarebbe stata lo scenario del suo prossimo racconto.
Tentennando avanzò qualche passo sino a raggiungere Ùranus ed accostarglisi un poco.
<< Non da gran sicurezza.>>
<< È la casa del Dio dei Morti.>> la voce atona di Jane fece sussultare l'altra che si voltò a guardarla di scatto, stringendo il braccio di Ùranus.
<< Hai ragione. Per fortuna non dovremmo passare troppo tempo qui.>>
<< Cosa ne possiamo sapere? Magari tutte le gare si svolgeranno nel palazzo.>>
<< Ne dubito.>> disse il giovane. << Non credo che Ade abbia gran voglia di ospitare tutte le anime del suo regno in casa sua.>>
Jane però gli sorrise in modo inquietante, di quella stessa inquietudine che trasmetteva la villa, l'erba scura, l'aria ferma e densa delle Praterie.
<< Solo una piccola parte, in effetti. Non vi siete resi conto di quante anime si siano perse per arrivare qui?>>
I due elisii si volsero per guardarsi attorno, notando con sgomento che in effetti la ragazza aveva ragione: della fiumana uscita dai Campi non ve ne era neanche la metà.
<< Ma come… ?>>
<< Questa gara è fatta solo per noi figli degli Dei. Le altre anime non possono sapere come raggiungere la Casa di Ade, non hanno sensi sviluppati come i nostri, non percepiscono il potere, la magia. Tutti i morti “mortali” ormai si saranno persi per le Praterie, dimentichi di chi erano e di cosa stessero cercando. Se mai riuscirete a tornare ai vostri Campi credo che li troverete ben desolati.>> Jane si mosse con lentezza, fluida come la nebbia e l'acqua. << Arrivare qui era essa stessa una prova, che ha falciato più anime di quante non abbia fatto la Morte stessa. Forse qualche persona normale ha avuto fortuna ed è arrivata fin qui, ma se c'è una cosa che ho imparato da me è che gli Dei sono crudeli e che una gara della morte con dei semplici umani non li divertirebbe minimamente, non quanto una battaglia tra i loro figli morti.>>
Superò i due senza neanche guardarli in volto, avanzando verso il cancello, le braccia tenute molli lungo i fianchi, penzolanti come i suoi capelli unticci che oscillavano davanti alle spalle curve dal tempo e dalla stanchezza.
Non poterono vedere il suo sorriso sinistro che le incurvò le labbra screpolate e forse, per loro, fu meglio così.
<< Finalmente, inizia questa gara della Morte.>>

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Nell'enorme stanza le torce si erano quasi del tutto spente, al centro della mastodontica porta di pietra il triangolo azzurro brillava di fioche pulsazioni.
Oltre quell'uscio impenetrabile il febbrile moto di migliaia di milioni di ingranaggi, di circuiti, di rotelle. Il rumore dei pistoni, gli sbuffi del vapore, le scintille del fuoco e le luci dei raggi, dei laser e delle lampadine.
La Sala Comandi era immersa nel buio ma ogni tasto, ogni schermo, era tanto luminoso da investire i presenti della luce azzurrina dei loro sistemi.
Sugli schermi, migliaia e migliaia posti uno vicino all'altro, su ogni superficie, su ogni tavolo, sul soffitto, sul pavimento stesso, sotto ai tasti e alle manopole, tutti quegli schermi proiettavano minuto per minuto, attimo per attimo ogni cosa che accadeva al mondo. Sul suolo terrestre e sotto di esso.
Su delle lastre alte più di otto metri apparve l'immagine della Casa di Ade, del palco che era stato allestito nella parte Ovest della giardino, lì dove tutte le anime si stavano andando riunendo.

<< Non sono rimasti neanche la metà di quelli che sono pariti.>> borbottò l'uomo.
<< Furie e mostri vari sono già all'inseguimento di quei dannati che si sono persi. Sarà un bel lavoro da fare, ci divertiremo parecchio. Magari potrebbe essere un buon allenamento per i semidei vivi, eh?>> rispose un altro.
Il primo lo guardò torvo. << La trovi una cosa divertente? A me pare uno spreco di tempo. Potevamo mettere delle regole più ferree, limitare le iscrizioni. Invece abbiamo aperto le porte dei Campi di Pena e fatto uscire tutta la feccia dell'umanità.>>
<< Feccia mortale e semidivina, vecchio mio.>>
<< Sempre feccia rimane. E quegli stupidi scheletri, neanche un dannato televisore sanno montare!>>
<< Guarda il lato positivo.>> disse il secondo mettendo i piedi su uno dei pianali e lisciando delle manopole solo per pura fortuna.
<< Ce n'è uno?>> chiese quello burbero guardando male quei piedi.
<< Avresti potuto doverli montare anche nei Campi Neri e in quelli dei dimenticati.>> il ghigno che si aprì sul volto dell'uomo fece solo venir all'altro una gran voglia di prenderlo a schiaffi, ma il Dio sapeva perfettamente che sarebbe stato del tutto inutile.
<< Se a te pare fortuna questa… >>
<< Lo è. Come siamo messi? Ade sta per fare il suo bel discorso?>> domandò cominciando a dondolarsi sulla sedia.
Il Dio cliccò qualche tasto e poi annuì. << Sì, anche se dalla sua faccia parrebbe proprio che pur di non star lì preferirebbe prendere un tea con i fratelli.>>
<< E chi non lo farebbe? Anche tu preferiresti prendere una birra con tuo fratello piuttosto che- >>
<< Non dirlo neanche per scherzo: stare qui a lavorare è assolutamente meglio che dover passare anche solo un minuto con quel- quel- >>
<< Vuoi un insulto?>>
<< Se. >>
<< Cane? >>
<< Troppo poco.>>
<< Stronzo?>>
<< Pure.>>
<< Figlio di puttana?>>
<< Con quel figlio di puttana di Ares.>>
L'uomo ghignò. << Ammettilo, l'hai scelto solo perché così insulti anche tua madre.>>
Efesto grugnì ancora e tornò a smanettare con i suoi computer. << Sta iniziando se può interessarti.>> disse per distogliere l'attenzione dal discorso.
<< Mh, mh. Conosco già il discorso, me lo risparmio con piacere.>>
Il Dio del fuoco lo guardò accigliato. << Ma come, hai messo su te tutto questo teatrino e ora non vuoi neanche sentirlo?>>
<< Proprio perché è opera mia non mi interessa. So già cosa dirà, non ho bisogno dell'audio, mi basterà vedere tutte le loro facce sconvolte quando Ade dirà loro che hanno appena svolto la prima prova della Death Race, quando capiranno quanti sono rimasti, quanti bilioni di anime si sono perdute. Presto capiranno che tutti coloro che non sono arrivati al palazzo si sono perduti per le Praterie degli Asfodeli, che si dimenticheranno di sé stessi, che saranno perduti per sempre. Capiranno quanto questa gara sia feroce, capiranno che anche da morti si può perdere molto, si può perdere tutto.
Non mi interessa sentire le loro voci sgomente, il silenzio rende meglio l'orrore della consapevolezza.>>
Efesto tacque davanti a quelle parole, fissando con la coda dell'occhio la figura dell'uomo che si dondolava pigramente sulla sedia come un qualunque monello, con i piedi poggiati sul pianale di controllo, le mani in grembo impegnate a giocare con qualcosa, il volto serafico e crudelmente soddisfatto di un predatore che ha appena messo in gabbia la sua preda, illuminato solo dalle luci blu degli comandi.
In cosa si erano imbarcati? Cos'era davvero la Death Race?
<< Se non lo sapessi per certo, affermerei senza dubbio che tu sia il Dio della Crudeltà, Gio.>>
Giordano sorrise, gli occhi puntati verso il panorama di anime attonite che fissavano Ade, in piedi sul suo palco ad annunciare la fine della prima prova.
<< Il Dio della Crudeltà non avrebbe partorito un'opera del genere. Io son molto peggio, vecchio mio, molto peggio: sono un umano.>>
I suoi occhi erano due biglie azzurre, inespressive, specchio perfetto dello spettacolo che le reti televisive dell'Olimpo stavano trasmettendo in tutto il globo.
Nelle sue mani, poggiate pigramente in grembo, un papavero rosso e stropicciato danzava al ritmo delle dita nervose e scattanti dell'uomo, come un insetto finito nella tela di un ragno.
Una tela che neanche gli Dei riuscivano a scorgere nella sua interezza.

 

 

 

 

 

 



















 

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Capitolo 5
*** Run ***












V. Run.

 

 

 

 

Le ere che si erano avvicendate durante la sua vita erano state come mesi infiniti di una stagione che portava solo noia e disguidi. Non c'era stato un periodo che aveva preferito più degli altri, neanche l'antica epoca d'oro, e forse era anche colpa sua che non era mai riuscito a godersi a pieno ciò che il mondo, la natura, l'umanità, gli aveva offerto.
I ricordi immagazzinati nella sua memoria eterna erano sbiaditi, la copia scialba di eventi ed emozioni provate una vita prima che spesso non riusciva a recuperare completamente. Oh, le nozioni c'erano tutte, il sapere, i torti subiti, le guerre ma non le motivazioni per cui erano state fatte. I nomi, quelli erano più difficili da ricordare ma mai quanto i volti e questi a loro volta non erano difficili da ricordare quanto lo erano le voci.
Difficili da ricordare ma non da riconoscere purtroppo per lui.
Se faceva vagare lo sguardo lontano, oltre i prati neri e la nebbia, poteva vedere ancora scene di un'esistenza così lontana da parere mai esistita, eppure così vicina e concreta da sembrar appena accaduta.
Scorse il volto di uno dei suoi figli, di uno dei suoi tantissimi eppure pochi figli. Li vide uno per uno apparire davanti ai suoi occhi foschi come le tenebre del Tartaro, sfumando poi nella nebbia delle Praterie. Volti giovani, alcuni troppo, altri appena neonati che mai sarebbero cresciuti; i volti di quegli uomini e quelle donne che erano riusciti a diventar adulti anche nel corpo e negli anni e non solo nell'apparenza e nel cuore.
Erano tutti persi, tutti, dal primo all'ultimo, condannandolo ancora una volta ad esser solo nell'eternità.
Ade aveva imparato a sue spese che anche dalla terra più fertile non nasce nulla se è il seme quello ad esser sterile e malgrado lui sapesse perfettamente di non esserlo si sentiva proprio così: come il seme residuo di una pianta ibrida che non avrebbe mai dato germogli abbastanza resistenti e forti da crescere e completare il ciclo della loro vita sino a morire sereni -non nella gloria- e soddisfatti della fine naturale dei loro giorni.
Mentre ai suoi piedi il vociare concitato e sconcertato di migliaia di anime si agitava e cresceva come il mare mosso, che s'ingrossa ad ogni onda, ogni volta che torna indietro per poi ricorrere verso la costa più grande e minaccioso di prima, Ade si ritrovò a domandarsi perché. Perché stavano facendo tutto questo? Perché dovevano per forza veder il sangue scorrere per essere felici? Potevano negarlo quanto volevano ma la verità era che tutti loro erano figli di loro padre. Anche chi discendeva dai cinque fratelli era comunque figlio di Crono, nessuno si salvava, neanche la bella Afrodite nata dalla spuma. Anzi, forse lei per certi versi era ancora più crudele e sanguinaria di loro.
Quando Zeus l'aveva convocato per parlare della calma che assaliva quegli anni postumi alla guerra, per dirgli che forse era ora che facessero qualcosa anche loro, qualcosa per distrarsi in modo “costruttivo” e non scadere sempre nelle solite battaglie che portavano la popolazione degli Inferi ad ingrandirsi ulteriormente con maggiore velocità – come se poi non succedesse già di norma- Ade era rimasto sorpreso. Un po' annoiato visto che lui, invece, di lavoro che lo impegnasse ne aveva comunque molto, ma comunque sorpreso che il fulcro della conversazione fosse la noia che tutti loro provavano e non i danni derivati da questa e già impossibili da eliminare.
Poi era tornato a casa sua, aveva trovato un vecchio amico ad aspettarlo come di consueto e si era rilassato raccontandogli di cosa avessero discusso.

 

<< Problemi in paradiso?>>

 

No, nessuno problema sino a quel momento, i problemi questa volta li avrebbe creati quello stesso uomo che si poteva permettere di prenderlo in giro o di mandare al diavolo Atena senza che lei potesse far nulla.
Cercò con lo sguardo gli occhi luminosi di quel dannato che era riuscito a partorire un'idea così contorta eppure così allettante.

Non potrebbe andare meglio di così, no?”

No, non poteva, la gara era stata studiata nei minimi dettagli, filava tutto alla perfezione, l'obbiettivo era preciso, definito. Cos'era che strideva?

Ma allora, perché farlo? Perché dare a tutti l'opportunità di tornare indietro, tornare ad essere sé ma vivi?

Ade rimase con lo sguardo fisso su quella folla vociante senza però vederla.
Doveva mettere fine a quella storia, o meglio, dargli il definitivo inizio o non sarebbero mai riusciti a vederne la conclusione. Non prima che l'Oracolo decidesse di uscirsene con una nuova, grande, terribile e nefasta profezia che avrebbe costretto tutti loro a vestire ancora le armi di battaglia.
Alzò una mano, leggermente, senza arrivare neanche a superare la sua spalla e già tutti tacquero sotto la pressione della sua aura, grazie a quel senso di conservazione che avevano ancora malgrado fossero morti e che gli suggeriva di chinare il capo dinnanzi a qualcuno più potente e più grande di loro.
Se solo pensava che un tempo c'era stato qualcuno che mai aveva abbassato la testa se non per pregare, e neanche loro ma il suo di Dio, Ade quasi aveva voglia di sorridere.

Non avevamo capito niente all'ora e ancora oggi, malgrado tutto, continuiamo a non capire.

<< La prima prova è stata una scrematura per far sì che solo i più idonei arrivassero qui. Un'anima che non è in grado di domandarsi dove stia andando ma segua semplicemente il gregge non è e mai sarà pronta a risalire sulla terra dei vivi.
Molte cose sono cambiate nel corso degli anni, che voi siate morti ieri o millenni fa.
Ad oggi lassù c'è chi governa e chi deve obbedire, come sempre è stato e sempre sarà, ma c'è molta più libertà di quanta la maggior parte di voi ricordi. Non è un mondo per deboli, se volete vivere un'esistenza da pecore allora vi consiglio vivamente di rimanere qui e tornarvene nel luogo a cui vi hanno assegnato i Giudici.>>
Fece una pausa solo per lasciare che il dubbio serpeggiasse tra la gente. Vide qualcuno incassare la testa nelle spalle, domandandosi se fosse davvero pronto per tornare alla propria vita magari in un'epoca completamente diversa dalla sua.
Il fatto che nessuno sapesse con certezza quanti giorni fossero passati dalla propria morte, quanti anni anche, lasciava tutti, dal primo all'ultimo, con un tarlo nella testa: e se il mondo in quel momento fosse stato troppo diverso da quello che ricordavano loro?
Vide un giovane di colore aggrottare le sopracciglia e non gli fu difficile comprendere i suoi dubbi.
 

E se la segregazione razziale si fosse espansa a tutto il mondo?”

 

Una donna si portò una mano alla gola e l'altra alla testa.

 

E se gli uomini avessero ancora il diritto di scegliere della vita e della morte delle donne?”

 

Un uomo dai tratti asiatici, la giacca militare sporca indosso, chiuse per un attimo gli occhi.

 

E se fossero cadute altre bombe sulla sua gente e il suo popolo non esistesse più?”

 

Un ragazzo alto, dai folti capelli rossi con lo sguardo perso nel nulla.
 

E se vi fossero ancora le persecuzioni contro le streghe?”

 

E se non avevano vinto la guerra?”
“ E se la sua nazione fosse stata sterminata?”

E se il suo regno fosse andato distrutto?”
“ Se la sua terra non fosse più esistita?”
“ E se…”

 

C'erano centinaia di migliaia di “se” e di “ma” che si agitavano nella mente di quelle anime ed Ade, per un istante, ma neanche poi così piccolo visto che questo era un suo pensiero ricorrente, maledisse tutta la sua specie per essere in grado di sentire i pensieri altrui.
Una gran rottura di scatole, solo questo.
Attese altri minuti, certo che nessuno avrebbe avuto il coraggio di alzare la mano e chiedere qualcosa e poi sospirò.
Voleva solo tornarsene dentro casa e farsi gli affari suoi, già il fatto che gli avessero invaso il giardino non gli andava troppo a genio.

Già il fatto che tutto sto' casino sia dovuto succedere nel mio Regno non mi va a genio.

<< Per chiunque fosse deciso a non vivere come un suddito obbediente ma di farlo, di nuovo, nel pieno della propria libertà, congratulazioni, avete superato il primo ostacolo della Death Race e ora vi attende il secondo.
All'inizio di questa gara avete firmato un contratto che vi vincola a partecipare ad ogni prova o a tornare da dove venite. Nel caso in cui qualcuno di voi volesse ritirarsi vi consiglio di farlo ora o all'inizio, o alla fine, di ogni prova. Chiunque deciderà di abbandonare la gara in corso d'opera per, non so, vivere da libera anima fuggiasca, è liberissimo di farlo.>> un sogghigno divertito si aprì sulle labbra fini e pallide, << Non darete problemi in ogni caso visto che vi dimentichereste persino chi siete.>>
 

 

A quell'affermazione Lea sussultò, voltandosi di scatto verso Ùranus che invece aveva stretto i denti e gonfiato i polmoni di un respiro inutile e trattenuto.
<< Che vuol dire?>> chiese a voce bassissima la ragazza. << Intende che quelle anime verranno riprese e spedite nelle Praterie?>>
<< Più probabilmente che verranno lasciate nelle praterie. Non credo che ci faranno gareggiare nei Campi di Pena o in quelli Elisi, credo che la maggior parte delle prove, se non tutte, verranno svolte nelle Praterie, quindi- >>
<< Se ti ritiri alla linea del traguardo o a quella di partenza ci sarà qualche essere che ti riporterà da dove vieni, se abbandoni durante la corsa nessuno ti verrà a recuperare e verrai lasciato al tuo destino. Un po' come tutti quelle che non sono arrivati qui.>>
Jane rimase impassibile, parlando con un filo di voce ma in modo estremamente chiaro. Di certo la cosa non la spaventava per niente, non lei che per secoli era stata a vagare tra quelle lande nere e fumose.
Ùranus annuì. << Probabile.>>
<< Ma… è crudele.>> soffiò Lea, facendo vagare lo sguardo dai suoi compagni alla figura scura ed altera di Ade. Come poteva il Dio dei Morti essere così cattivo? Non avrebbe dovuto saper meglio degli altri quanta disperazione già ci fosse nel suo regno? Quanta ce ne fosse anche dove tutto invece era bianco e luminoso?
<< Non lo è anche ideare un luogo vuoto in cui ogni anima diviene lentamente altrettanto vuota e sola, così tanto da non ricordarsi neanche chi è?>> le rispose Jane con più forza di quanta non servisse, con una punta di ferocia che fece venir voglia alla bionda di far un passo indietro ed allontanarsi da lei.
Non lo fece solo per presa di posizione, non si sarebbe fatta spaventare da una ragazzina arrabbiata e con un passato oscuro alle spalle.
<< Sì, lo è ed anche per questo credo che sia troppo crudele.>> disse con durezza.
<< Alle volte dimenticare tutto è molto meglio che ricordare ogni cosa.>>
Le due ragazze si voltarono verso Ùranus, il giovane teneva gli occhi fissi nel vuoto, immerso nei ricordi di una vita passata che avrebbe voluto dimenticare.
Ma era davvero questo ciò che voleva?
C'erano stati momenti in cui aveva desiderato scordare tutto, quando gli ultimi istanti della sua vita, quelli della sua morte ad esser precisi, tornavano prepotentemente a burlarsi di lui nel momento in cui cadeva il quel sonno fittizio che serviva solo per far scorrere più velocemente un tempo che non potevano calcolare e percepire.
Quindi se avesse mollato tutto, se non fosse tornato su, avrebbe potuto dimenticare e basta?
Poteva?
Un'onda di freddo lo distrasse e lo costrinse a lasciar da parte i suoi pensieri per concentrarsi sul Dio che aveva di nuovo alzato la mano per chiamare le anime all'attenzione.


<< Nella zona Est di questo giardino si trova la linea di partenza per accedere alla seconda prova. Essa consisterà, banalmente, nel riuscire ad attraversare un labirinto per giungere poi alla terza prova.
Avete affrontato le Praterie degli Asfodeli, arrivando qui quando la maggior parte di voi ignorava persino l'esistenza di questo stesso palazzo. Sarete avvantaggiati dal fatto che il percorso sarà circoscritto e non potrete quindi “spaziare” ovunque vogliate. Sceglierete una delle entrate- >> un gesto della mano e l'enorme schermo nero che trasmetteva l'immagine del dio diede una panoramica dell'entrata al labirinto. Uno spiazzo circolare erboso, alte mura di edera a formare un arco entro cui si aprivano ben dieci porte diverse. Ogni uscio era nero, scuro come le ombre che nascondeva dietro di sé, davanti ad ognuno di questi uno scheletro in armatura d'onore presenziava come una guardia seria ed impassibile. << percorrerete la vostra strada e arriverete all'uscita.
Nessuna porta vi condurrà ad un vicolo cieco, la scelta dell'entrata porterà l'unico vantaggio di avvicinarvi ad una via più sicura delle altre ma tutte quante si incroceranno prima o poi.
Questa è una gara di intelligenza e d'intuito, di senso d'orientamento e di sopravvivenza.
Ispirato al famoso “Labirinto di Dedalo” questi corridoi ospitano il bene ed il male, potrete trovarvi qualunque cosa al suo interno.>>
Le immagini sullo schermo cambiarono ancora ma questa volta mostrarono il vero Labirinto, con mura di pietra e porte sigillate, archi di fuoco e bestie feroci.
Molte anime sussultarono, alcuni indietreggiarono ricordando come proprio quei cunicoli avessero decretato la loro morte.
Tenendo lo sguardo fisso su quella vista Nathan serrò la mascella ingoiando un'imprecazione.
Il Labirinto di Dedalo, davvero? Volevano togliersi tutti dalle palle subito? Se il loro fosse stato pericoloso anche solo la metà di quello originale sarebbero stati tutti fottuti, dal primo all'ultimo.
Guardando i suoi compagni era lampante che nessuno di loro due sapesse di cosa stesse parlando Ade, ma Nathan invece lo sapeva bene, fin troppo in effetti. Quanti compagni validi aveva perso, caduti per errore in una delle tante e micidiali entrate di quell'inferno? Quanti vi si erano infilati volontariamente, soprattutto sciocchi figli di Atena, convintissimi che la statua della loro divina madre fosse nascosta in una di quelle stanze?
Non aveva mai tenuto il conto.
Il figlio di Ares riportò la sua attenzione sul Dio, senza battere le ciglia, solo tendendo lo sguardo fisso davanti a lui come gli avevano insegnato a fare mentre uno dei suoi superiori parlava.
Ade era pacato nei modi e nelle parole ma Nathan poteva avvertire che c'era qualcosa che non quadrava neanche a lui. Per la prima volta da quando aveva visto quel volantino colorato, il giovane si trovò a domandarsi chi tra i tanti Dei avesse ideato quella gara, chi fra di loro avesse ideato quella prova.
Una gran voglia di alzare la mano e porre quelle domande lo prese ma si trattenne solo perché sapeva fin troppo bene quanto quell'essere pallido come i morti non amasse assolutamente rispondere ai dubbi dei semidei.
Rimaneva il fatto che, per quanto la menzione del Labirinto l'avesse messo in guardia, per tornare a vivere la sua vita e non una nuova, Nathan era pronto a far di tutto, anche infilarsi tra i cunicoli ideati da Dedalo in persona.
 

<< Le regole della prova, ora.>>


Cade aggrottò le sopracciglia. << Come “le regole”? Che vuole dire? Non ha appena detto che dovremo solo passare attraverso quel labirinto ed uscire dall'altra parte?>> chiese rivolto a Nathan che però scosse la testa.
<< Probabilmente ogni prova avrà regole diverse e fatte appositamente per l'evenienza.>>
<< Ha detto che troveremo “il bene e il male”, >> aggiunse Eliza, << Tutte queste anime stipate in un labirinto, il cui unico scopo è arrivare dalla parte opposta per poter riguadagnare la propria vita… secondo te quanta gente finirà per lottare, per intralciarsi a vicenda?>>
Nathan annuì. << Specialmente le anime dei Campi di Pena. Sono sicuro che non vedano l'ora di menare le mani e regalare a tutti i beati un po' dei tormenti che gli sono stati inflitti per tutta la morte.>>
<< Quindi ci dobbiamo anche preparare a far a botte, bello.>> borbottò Cade.

 

 

<< Primo: non c'è limite di tempo. Siete morti, potete metterci quanto vi pare, il vostro unico limite sono gli altri concorrenti.>>

 

 

<< Ed ecco che molto gentilmente Ade mette tutti contro tutti.>> ringhiò Nathan.
<< Come se ti dispiacesse l'idea di dare qualche pugno a quei bastardi. C'è la feccia dell'umanità tra i dannati, magari becchi qualche tuo nemico.>> gli suggerì il rosso ghignando.
Per la prima volta, probabilmente, il figlio di Ares restituì il sorriso al suo nuovo compagno.
<< Ovvio che non vedo l'ora. Se mi dovesse capitare qualche figlio di puttana che ho incontrato in vita non c'andrò certo leggero. Meritano di rimanere qui per sempre a soffrire.>>


<< Secondo: non potete attraversare le mura. Che nessuno provi a distruggere l'edera. Già questa gara è abbastanza fastidiosa in sé, vorrei evitare di doverne indire un'altra perché mia moglie vi ha sterminati tutti.>>

 

 

<< Sua moglie è Persefone vero?>> chiese conferma Lea.
Ùranus annuì piano. << Dea della fertilità, colei che con la sua presenza sopra o sotto la terra ne scandisce le stagioni e l'alternarsi di vita e morte.>>
<< E sarebbe pericolosa perché?>> sbuffò Jane con una nota sarcastica, << Ci farà fiorire i capelli.>>
<< Perché è una Dea e potrebbe disintegrare la tua anima con uno sguardo, darti in pasto al Tartaro o sottoporti a torture peggiori rispetto a quelle che hai già patito in vita.>>
La risposta lapidaria di Ùranus fece storcere il naso alla ragazza, ma non replicò.
La verità era che, malgrado tutto, Jane ancora faticava a vedere in quegli esseri la potenza e la distruzione che li aveva generati e di cui loro erano portatori. Ma cosa poteva farle la Dea delle stagioni? Da morta il passare dell'inverno e della primavera non le interessava più, se i campi non avessero dato frutti non sarebbe stato un suo problema.
<< Davvero?>> si ritrovò a chiedere con una nota ben chiara di scetticismo.
<< Apollo è il Dio delle arti, della musica, protettore dei medici.>> disse il giovane. << Ed è il principale responsabile delle carestie, delle malattie, delle pestilenze della terra. Eppure all'apparenza non è altro che un ragazzo biondo, bellissimo e vanitoso a cui non interessa nulla di niente se non di sé stesso. Diresti mai che è solo una facciata e che in verità dietro questa immagine si nasconde un Dio freddo e spietato?>>
Jane alzò un sopracciglio: non poteva dirlo, ovviamente, ma tutti quegli aggettivi usati per descrivere il Dio del Sole stridevano gli uni con gli altri.
Posò lo sguardo su Lea, che aveva invece abbassato il suo, pensierosa, e si domandò se anche quella ragazzetta, bionda e apparentemente solare e determinata, nascondesse un lato spietato e feroce.
Sapeva creare pestilenze e carestie anche lei? Era così pericolosa e lei l'aveva sottovalutata?
Non rispose ad Ùranus ma il ragazzo sapeva d'aver ragione. Non che la cosa gli facesse piacere: sapere per certo che anche dietro al Dio più apparentemente innocuo si nascondeva una bestia nera non lo rassicurava affatto e lo riempiva di dubbi.
Cosa l'avrebbe aspettato nel labirinto?

 

 

<< Terzo: >>
 

 

<< Terzo? Pure? >>
<< Chiudi quella fogna e ascolta, rosso.>>
<< Sta zitto e ascolta, ragazzino!>>

 

 

<< all'entrata del labirinto dovrete depositare tutte le armi in vostro possesso.>>

 

 

<< COSA?!>>
Eliza e Nathan saltaron su assieme, gli occhi sgranati ed i volti increduli come quelli di molte altre anime che cominciarono a protestare più o meno apertamente.
Cade ghignò: << Chiudete quelle fogne, state zitti ed ascoltate bambini, per favore.>>
<< STA ZITTO!>>

 

<< Tutto ciò che vi servirà per superare la prova è all'interno del labirinto stesso. Non necessiterete di null'altro. Così eviteremo anche che qualcuno abbia subito la bella idea di prendere ad accettate qualche ramo.>> continuò con voce monocorde Ade. << Questo è quanto. Seguite la segnaletica, rimanete sulla strada, non calpestatemi il prato e consegnate le armi agli scheletri.
Non fatevi ammazzare e che Nike possa assistervi.>>
Con queste ultime parole il Dio si voltò, sparendo all'istante in una nube nera e fitta. Quando questa si diradò lo schermo gigante s'accese con una luminosa freccia gialla indicando la direzione da prendere.
Dopo un attimo di esitazione la folla scemò verso l'inizio della seconda prova, le facce stupite, scioccate, qualcuna pensierosa e interdetta.
Alcune anime stringevano convulsamente le proprie armi, le guardavano con il timore più che fondato di non poterle più rivedere, che fosse perché perdute dagli scheletri o perché loro stessi non avrebbero superato la prova.
Jonas poteva capirli: quelli erano sicuramente semidei, o almeno alcuni di loro, con una consunta maglia arancione su cui era ricamato un cavallo alato e la scritta “campo mezzosangue”, dovevano esserlo. Ragazzi più grandi o anche più piccoli di lui, che avevano imparato a sopravvivere e che l'avevano fatto con l'arma che ora gli veniva chiesto d'abbandonare.
Scrollò il polso facendo scendere sul dorso della mano il bracciale sbrillentato e si domandò come si sarebbe sentito se gli avessero imposto di toglierselo, di separarsi anche da quell'ultimo brandello della sua vita.
Lo confortava da una parte pensare che molte di quelle anime lì presenti, quelle che provenivano dai Campi di Pena come lui, non possedevano nulla se non loro stessi e la loro pazzia. Di certo non avevano addosso cose preziose, forse solo lui e Cicno possedevano qualcosa di reale valore.
Il suo collare, così lucido da potercisi specchiare dentro, ora divenuto una collana di filo spinato e quei due bracciali puliti e dal riverbero quasi fastidioso, che contrastavano con la figura sporca e malmessa del ragazzo.
Si ritrovò a spiare il giovane con la coda dell'occhio, cercando di capire, di capirlo.
La verità era che Jonas non si fidava di Cicno, non completamente, non davvero. Sarebbe stato complicato da spiegare a voce ma dentro di sé il ragionamento filava perfettamente: aveva la sensazione che Cicno non l'avrebbe tradito, per un motivo a lui ignoto l'altro aveva un qualche interesse a tenerselo vicino e non avrebbe fatto nulla per metterlo in difficoltà. Non ora per lo meno.
D'altra parte i suoi modi di fare gentili, educati, così confidenziali, pronti a farsi vedere amico e non nemico, non erano riusciti a pieno nel loro intento. Non che lo reputasse una persona cattiva, non ne aveva le prove per farlo e al momento neanche possibili argomentazioni. Cicno si era dimostrato interessato alle sue parole, l'aveva aiutato in un momento di bisogno, ma Jonas non era stupido e sapeva che di gente che fa qualcosa in modo disinteressato non ne esisteva, soprattutto non oltre le mura nere.
Per di più, quel suo modo di fare gli pareva quasi troppo gentile e ciò gli provocava un prurito alla base del collo, il desiderio di grattarsi via quella sensazione di- di- accondiscendenza.
Ecco: Cicno era accondiscendente con lui come lo sarebbe un adulto con un bambino a cui non si può spiegare un argomento troppo complesso. Lo reputava forse debole per via della sua età? Sapeva da quale terrazza proveniva e aveva pietà di lui perché in vita era stato un codardo?
Non poteva dirlo con certezza, da una parte avrebbe voluto fidarsi di lui per avere un alleato in quella stupida gara, dall'altra non avrebbe mai voluto affidare a nessun altro la propria vittoria, la propria sopravvivenza. Era in grado di badare a sé stesso, anche in un mondo che non conosceva.
Incapace di star fermo Jonas cominciò a dondolare sui talloni, infilando le mani in tasca per non muovere anche quelle.
Il suo sesto senso, il suo istinto, gli diceva di rimanere all'erta, di non prendere ancora una posizione ma ti attendere nel mezzo, guardandosi bene dall'esser troppo dipendente da quello che, a tutti gli effetti, si era innalzato a suo protettore, ma rimanendo comunque al suo fianco.
Sospirò infastidito: perché ogni dannata cosa che gli succedeva o che lo riguardava doveva sempre camminare sul filo del rasoio? Perché non poteva esser chiaro e invece continuava ad esser tutto così maledettamente contraddittorio?
Cercando di nascondere al meglio il suo nervosismo Jonas strinse i pugni nelle tasche e seguì i suoi “compagni” verso l'entrata del labirinto.
Affrettarsi ed essere i primi non sarebbe servito a nulla. C'era una voce lontana, che poteva sembrar quella di sua madre ma anche quella di una qualunque donna, che gli ripeteva di tener a mente la prima regola detta dal Dio di quelle terre: Avete tutto il tempo del mondo, siete già morti.
Jonas guardò la fiumana di persone e trattenne l'aria nei polmoni.
Perché più che una regola pareva un avvertimento?

 

 

*

 

 

 

 

Con riluttanza Eliza si era spogliata di tutte le sue armi, posandole tra le braccia di uno scheletro con l'armatura nera e minacciandolo neanche troppo velatamente di star attento a quello che faceva se non voleva finire come concime per le preziose edere della Signora Ade.
Il soldato era rimasto impassibile ed aveva teso le braccia anche verso Nathan che con la stessa felicità di qualcuno a cui avevano appena dato un calcio sullo stinco – Cade era stato molto meno delicato con il suo “Andiamo amico, neanche ti avesse tirato un calcio sulle palle!”- si era tolto il fucile di spalla e l'aveva appeso al collo della guardia.

<< Se si graffia rimpiangerai di non essere diventato concime.>> ringhiò facendo alzare gli occhi al cielo alla ragazza: perché doveva rincarare la dose in quel mondo, sottolineando che quello che lei avrebbe potuto fargli non sarebbe stato neanche lontanamente paragonabile a quello che avrebbe potuto fargli lui?
Piegò il collo a destra e sinistra infastidita. Quando era piccola aveva sentito centinaia di volte quella frase detta dai suoi amici.

 

Se fai così ti picchierò talmente male che rimpiangerai di non esser stato picchiato da Eliza”

 

Come se lei non fosse in grado di procurare lo stesso dolore a qualcuno, come se non fosse in grado di reggere i ritmi e i livelli di un maschio.
Invece l'aveva fatto, l'aveva fatto per anni nell'esercito, dimostrandosi all'altezza dei suoi commilitoni, nascondendo loro una scomoda verità e continuando a lottare nonostante tutto. Era riuscita ad essere un soldato esattamente come lo erano tutti gli altri.
Logicamente sapeva che Nathan non voleva insultarla o sminuirla, ma questo non le impedì comunque di mantenere quell'aria cupa e seriosa.
Voleva solo fare quel dannato labirinto, uscire di lì e riprendersi le sue armi.
Riportò la sua attenzione sugli altri due ed aggrottò le sopracciglia quando vide il biondo con una mano premuta sul pettorale dello scheletro.
Nathan fronteggiava la guardia infernale, l'altra mano allungata dietro di sé, verso Cade che stringeva qualcosa in mano. Pareva quasi che il primo stesse proteggendo l'altro ed Eliza non ne capiva il perché.

<< Cosa c'è?>> chiese facendo un passo avanti.
<< Non è un'arma, andiamo, non sono neanche tre dita!>> protestò Cade.
<< Parli di lame?>>
<< Ai miei tempi se un coltellino superava tre dita di lunghezza non era reputato un'arma vera e propria e non serviva il porto d'armi bianche per averlo, ma non credo che qui la cosa valga.>> sbuffò infastidito Nathan. << Dagli quel coso e facciamola finita.>>
Cade fece una smorfia quasi sofferente. << Devo?>>
<< Vuoi entrare nel cazzo di labirinto?>>
<< Sì ma ques- >>
<< E allora dagli il fottuto coltellino!>>
Eliza storse ancora il naso. << Te lo chiedo di nuovo: devi per forza parlare in questo modo?>>
<< Sì se serve a far recepire meglio il messaggio.>>
<< Okay!>> saltò su Cade prima che i due potessero mettersi a litigare lì, davanti ad una delle entrate.
Scansò Nathan e abbassò lo sguardo sul coltello, promettendosi mentalmente di recuperarlo, qualunque cosa fosse successa. Strinse la presa sull'elsa e poi la consegnò allo scheletro.
<< Stacci attento, non lo graffiare e tutte quelle cose che ti hanno già detto loro, minacce comprese, paiono decisamente incazzati adesso e potrebbero esserlo pure dopo.>>
Quello lo guardò con le sue orbite vuote e poi fece loro cenno di proseguire, le armi svanite con uno schiocco di falangi consunte.
<< Non mi piace questa storia.>> disse Nathan. << Toglierci le armi e farci comunque capire che potremmo dover combattere.>>
<< Lo puoi fare anche a mani nude, no?>> borbottò Cade.
<< Sì, ma questa cosa- >>
<< Ti puzza, l'abbiamo capito.>>
Il biondo lo guardò male ma il ragazzo non diede segno d'essersene accorto, piuttosto portò le mani in tasca ed indicò con un cenno del capo i vari archi. << Quale?>>
<< Non abbiamo nessun indizio su quale sia il più sicuro, quindi uno vale l'altro.>>
<< Se non vi va di scegliere posso sempre farlo io.>> Cade sorrise, flettendo le dita della mano destra sino a sfiorare il palmo.
Respirò a pieni polmoni l'aria degli Inferi, quel vago retrogusto perenne di zolfo, di fumo e polvere. C'era una strana scia, un sentore di aria vagamente più pulita, la traccia di un passaggio che incrociava meno muri, che si srotolava veloce verso la meta.
<< Tu non scegli proprio un cazzo. Ti sei scordato pure da dove vieni, figurati se ti facciamo scegliere dove andare.>> rispose burbero Nathan.
Ancora una volta, Cade lo ignorò. << Il quarto arco. Su, forza!>>
Il figlio di Ares lo guardò male, stringendo i pugni minaccioso ma la mano ferma e sicura di Eliza lo bloccò. << L'hai detto tu stesso, tanto un vale l'altro, se gli ispira il quattro non ci cambia niente prendere quello.>>
La sua voce era decisa come i suoi movimenti ed il soldato non poté che darle ragione, grugnendo infastidito ma avviandosi verso la direzione giusta.
Eliza sospirò e lanciò uno sguardo a Cade che sorrideva vittorioso.
<< Grazie Elza.>>
<< Eliza.>>
<< La “e” era giusta però, mi sono scordato solo la “i”. >> poi ad alta voce. << Visto Norman? Mi ricordo chi sono! Sono le lettere quelle che mi sfuggono!>>
<< Ti sfuggiranno i denti se non la smetti di parlare e non muovi il culo!>>
Il ragazzo rise di gusto e gettò la testa indietro, scuotendola per togliersi i capelli dalla fronte e fissare il buio inteso del soffitto cavernoso.
Sarebbe arrivato anche lì, dove le correnti più calde spingevano i fumi dei fuochi ed il calore delle magie. Cade poteva sentirli sulla pelle, i più piccoli sbalzi termici che si frapponevano tra le celle d'aria, ettolitri cubici di ossigeno e gas proveniente direttamente dal centro della terra, il fiato morto e pesante di tutte quelle anime, dei fuocherelli degli Elisi e dei bracieri dei campi di Pena. Percepiva quell'inconsistente e umidiccia nebbia magica, la famosa Foschia di Ecate che tutto incantava e tutto nascondeva e l'unico desiderio che animava il suo corpo per quello di tornare a respirare aria pulita, a respirare davvero.
Davanti a lui Nathan aveva l'arco, scostando con una spallata un uomo che era poi scappato dentro il labirinto terrorizzato dal suo sguardo assassino. Al suo fianco Eliza guardava con malcelato fastidio il biondo soldato e Cade si ritrovò a sogghignare leggero, avvertendo quella sottile tensione che si stava andando creando tra i due.
Forse Nathan non se n'era accorto, forse neanche Eliza si era davvero resa conto della cosa, ma mettere due soldati, due guardie con lo stesso rango, nella stessa squadra non portava sempre a buone cose. Era ovvio che il figlio di Ares fosse abituato a comandare, retaggio paterno escluso pareva uno che dirigeva la marcia, un vero leader, ma in contrapposizione aveva una figlia di Nike, che non avrebbe abbassato la testa, che conosceva i veri comandanti e che forse non riconosceva in Nathan uno di loro. O più semplicemente c'era qualcosa che la turbava e il comportamento strafottente dell'altro la stava innervosendo.
Aggrottando le sopracciglia Cade si rese improvvisamente conto che se ai suoi tempi era assurdo vedere una donna nell'esercito a quelli di Eliza doveva esserlo ancora di più.
Con noncuranza si fece un po' più vicino alla ragazza, facendo vagare lo sguardo a destra e sinistra, disinteressato.
Apparentemente non funzionò molto.

<< Sento le rotelle nella tua testa che girano, cos'hai in mente, ple di carota?>> gli domandò secca.
Cade si strinse nelle spalle. << Tranquilla, non ho intenzione di candidarmi anche io come capo spedizione, abbiamo già il biondastro che si crede suo padre e tu che ingoi rospi solo perché ti hanno insegnato a farlo.>> sorrise un poco maligno e l'occhiataccia di Eliza gli confermò che la frecciatina era andata a segno. << Mi stavo piuttosto domandando un cosa.>>
<< A cui a quanto pare posso rispondere io.>>
<< Puoi rispondere solo te. Il soldato lì può anche venire da un epoca più recente della nostra e sapere un bel po' di cose, ma dubito che sappia nulla della tua vita.>>
Gli occhi verdi della ragazza scattarono verso di lui, freddi e taglienti come poteva esserlo un coccio rotto. << Cosa vorresti sapere di me?>> chiese con voce calma.
Cade sorrise ancora. << Nulla di troppo personale, tranquilla. Volevo solo sapere come hai fatto.>>
<< A far cosa?>>
<< Credo proprio che tu lo sappia, ma se vuoi te lo chiedo direttamente, non mi faccio problemi, tranquilla.>>
Eliza continuò a fissarlo, lanciando solo di tanto in tanto qualche occhiata a Nathan che intanto avanzava tenendo la testa alta e scrutando con attenzione dietro ad ogni angolo.
<< Sono stata discreta.>> si risolse a dire. << Non mi sono mai spogliata davanti agli altri, non che ci fosse spesso l'occasione, alle volte neanche avevamo tempo per lavarci, figurarsi per cambiarsi una giubba strappata.>>
<< Vuoi davvero farmi credere che nessuno se n'è mai accorto? Insomma, voce? Mercanzia? Quei vostri problemi di donne? Che c'è? Avevo una madre anche io sa, e delle amiche.>> mosse subito sulla difensiva alzando le mani. Le sue tasche vuote, prive del coltello e ora anche del peso dei suoi arti, gli diedero più fastidio di quanto non credesse.
Eliza però l'aveva guardato malissimo, forse perché questo genere di domande non si facevano alle signorine ai suoi tempi. Beh, neanche a quelli di Cade se è per questo, ma lui aveva vissuto a stretto contatto con moltissime persone diverse per anni, tutte con desideri e bisogni differenti, alla fine, volenti o dolenti, anche quelli più basilari, fisici, umani, venivano conosciuti.
<< Mai accorti di nulla.>>
<< Sei stata fortunata.>>
<< Sono stata brava.>>
<< Esattamente due cose che non riusciamo ad essere noi ora.>>
La voce infastidita di Nathan li riportò al presente. Almeno dieci passi davanti a loro il ragazzo era appiattito contro una parete e teneva la mano destra alzata in un chiaro invito a fermarsi.
<< Né fortunati né bravi, questo posto non è solo un cazzo di labirinto, ma ha anche delle pareti fatte con questa merda di edera, non gli si può far un segno, non si distinguono le foglie.>>
Cade alzò un sopracciglio. << E perché ti sei spalmato sul muro?>>
<< Perché ho sentito un rumore, idiota. >> ringhiò l'altro.
<< Continuando ad inveire in questo modo dubito che passerai inosservato.>> Eliza avanzò decisa, si accucciò dietro a Nathan e poi si sporse leggermente.
<< Che cazzo fai?>> bisbigliò irritato.
<< C'è poca luce, sono in basso e a differenza tua che sembri una torcia nel buio sono mora e mi mimetizzo meglio. Ora taci.>> soffiò a voce bassa.
Il soldato borbottò qualcosa di sicuramente contrariato ma lei non se ne curò, intenta a scrutare nella penombra.
Dietro di loro Cade si godette lo spettacolo divertito, forse quel labirinto non era poi così male.
Portò le braccia dietro la testa e si mise a dondolare sui talloni. Lui non sentiva nulla, neanche un rumore, neanche un passo.
Un momento.
Perché non sentiva nulla?
Si volse di scatto verso la direzione da cui erano arrivati, un ammasso nero e brumoso come il fumo di una casa in fiamme. Non c'era nessuno, non c'era anima morta e sorvolando sulla terribile battuta che il suo cervello gli aveva appena proposto Cade non riuscì a non chiedersi dove fossero gli altri.
Si erano lasciati alle spalle ancora centinaia di migliaia di anime, intente a spogliarsi di armi e quant'altro. Alcune sarebbero sicuramente entrare nell'arco quattro, era impossibile che non fosse così, non potevano essere gli unici.
Senza distogliere lo sguardo da quella che doveva essere l'entrata Cade indietreggiò verso i suoi compagni, avvicinandosi anche lui al muro e rimpiangendo di non aver con sé un mantello per potersi coprire al meglio.

<< Non vorrei essere la voce della discordia, o portare sfiga, >> iniziò con un fil di voce. << ma dietro di noi non c'è nessuno, non arriva nessuno, come se dopo la nostra entrata l'arco si fosse chiuso e nessuno potesse più passar di lì.>>
Eliza e Nathan si voltarono quasi in sincrono, per Cade non fu difficile individuare il luccichio cupo degli occhi della ragazza e quello cangiante e freddo del giovane.
<< Che cazzo vuol dire?>> ringhiò Nathan posandogli una mano sulla spalla e spingendolo contro il muro per poter veder meglio la fine del corridoio.
<< Vuol dire che ci siamo solo noi in questo cunicolo, ecco cosa.>>
<< Com'è possibile? Non possono aver davvero chiuso l'entrata dopo di noi.>> Eliza si rimise in piedi e si spolverò le ginocchia dal terriccio umido di quel prato sotterraneo.
<< No, non hanno chiuso un bel niente, ma probabilmente hanno fatto in modo e maniera che tutti i gruppi formatisi venissero divisi gli uni dagli altri.>> ragionò a voce alta il biondo. << La struttura del labirinto è perfetta per dividere le persone. Il terreno d'erba e le pareti di foglie attutiscono i rumori e impediscono ai concorrenti di percepire qualunque suono non sia strettamente nelle vicinanze. La poca luce complica le cose.>>
<< Ma se questo è solo un labirinto, se dobbiamo solo arrivare all'uscita, perché fare tutto questo? Perché impedirci di trovare altre anime, hanno paura che assieme potremmo arrivare più facilmente alla meta?>>
<< Potrebbe essere, Ade ha detto che non abbiamo limiti di tempo, quindi forse mirano a farci distrarre, a rallentarci. Da soli abbiamo meno possibilità di vincere, come in ogni guerra, più l'esercito è esiguo più fatica dovranno fare i soldati.>>
<< Ma alle volte, un esercito intero può rimaner bloccato lì dove pochi uomini passerebbero.>> fece notare Eliza scrutando con attenzione il compagno. << Ha che gioco stiamo giocando davvero?>>
<< Siamo alla mercé degli Dei, ai loro comodi, com'è sempre stato e sempre sarà. Siamo marionette.>> disse seccamente Nathan frugandosi in tasca per estrarne la bussola. << Resta il fatto che non possiamo rimanere fermi, più tempo passiamo qui più sono le anime che potranno superarci. Se Ade non ci vuole uniti vuol dire che questo giocherebbe a nostro favore, partiamo da questo presupposto, altrimenti non avrebbe avuto senso far in modo che nessun gruppo ne incontrasse un altro.>>
<< Dobbiamo organizzare una strategia come si deve.>>


Cade lasciò che i due si mettessero d'accordo sul da farsi, era ovvio che non avrebbero preso in considerazione nessuna delle sue proposte e ad esser onesti neanche gli interessava molto pensarci su.
Quel luogo gli dava i brividi, una sensazione viscida che gli scivolava sottopelle come aveva fatto tanti anni prima. Si sentiva braccato, un topo in trappolato dentro ad una scatola che attendeva solo il momento in cui una porta si sarebbe aperta per mostrargli le fauci del gatto.
Lì stavano fregando, li stavano fregando alla grande e lui non ne capiva il motivo.

È solo un dannato labirinto.

Le regole erano poche, semplici, stupide: nessun limite di tempo, non calpestate le aiuole, posate le armi. Queste ultime Ade aveva dato ad intendere che dovessero essere depositate per evitare che qualcuno le usasse per aprirsi una strada tra i muri, ma Cade non era stupido, Dei dell'Olimpo se non lo era, e gli pareva solo una grandissima fregatura.
Ma dove?
C'era una frase di quella sintetica e pallosa premessa che gli stava solleticando il cervello da quando l'aveva sentita, ma non riusciva a ricordare, a concentrarsi.
Che cosa mancava?
Trovare il bene e il male, arrivare alla fine… i suoi compagni si erano focalizzati sul tempo ma qualcosa gli diceva che non era quello il fattore più importante, che la chiave era da un'altra parte, fuori dalle regole.
Doveva solo concentrarsi, magari poteva farsi un goccetto nel mentre? Oh, quella sì che era una splendida idea!
Si tolse la sacca dalla spalla con un movimento fluido e vi ficcò una mano dentro per cercare la sua fiaschetta. Aveva appena sfiorato il tappo con le dita quando Eliza lo richiamò.

<< Ci stiamo muovendo, che fai? Vieni con noi?>> gli chiese scocciata. Che avessero di nuovo discusso?
<< O possiamo mollarlo qui.>>
<< Poi come fareste senza di me?>> rispose lui sorridendo.
<< Ti conosco da meno di un giorno e già mi stai sul cazzo, direi che faremo entrambi benissimo senza di te.>> ringhiò acido Nathan stringendo la sua bussola in mano.
<< Oh, ci riaffidiamo a quella?>> chiese il rosso senza neanche curarsi della frase detta dall'altro.
Eliza annuì. << Pare che sia utile anche per ricercare delle forti fonti di energia, sicuramente fuori dal labirinto ci sarà qualcuno ad aspettarci, magari Ade stesso, sfrutteremo la cosa.>> poi indicò alla loro destra. << Di qui.>>
<< E i rumori che aveva sentito il ragazzino?>>
Quello lo fulminò con lo sguardo. << Chiamami ancora ragazzino… >>
<< Ehi, per una volta che dico la cosa giusta! Sei più piccolo di me sia di anni che di morte, che ti aspetti?>> sogghignò superandolo e avviandosi verso la direzione indicata dalla ragazza.
<< Che porti un minimo di rispetto a chi ti è superiore.>>
A quella frase Cade si bloccò, girandosi lentamente con un sorriso freddo stampato in volto.
<< E tu lo saresti perché? Per la divisa? Perché sei andato al Campo? O forse perché tuo padre è Ares? Notizia dell'ultima ora, soldato, siamo morti, qui siamo tutti sullo stesso piano, che ti piaccia o no.>>
Nathan lo guardò con aperto disprezzo, pronto a replicare, ma Cade si voltò di scatto verso sinistra, alzando una mano per stroncare qualunque risposta.
Ingoiando il rospo anche il giovane si volse nella stessa direzione, le orecchie tese per sentire ciò che aveva evidentemente percepito l'altro.
<< Cosa c'è?>> chiese Eliza avvicinandosi.
Cade mosse di poco la mano, la richiesta chiara e silenziosa di lasciarlo concentrare.
Una vaga brezza gli carezzò il volto, il suono basso, quasi un fischio, di un rivolo d'aria che passa in uno spazio esiguo, l'aroma di qualcosa di conosciuto mischiato all'erba, all'umidità e all'odore opprimente dell'edera.
Nella sua mente un filo azzurrino s'accese nel buio, srotolandosi veloce e luminoso nell'oscurità di quei cunicoli ingarbugliati come matasse di lana. Tra infinite possibilità, infinite svolte e bivi il filo continuò la sua corsa folle sino ad incontrare un altro punto luminoso, qualcosa di piccolo, una forma regolare che conosceva fin troppo bene.
Sorrise senza neanche rendersene conto.
A quanto pare anche nell'Ade s'insidiavano le correnti dei cieli.

<< Dobbiamo fare una deviazione, da questa parte.>> disse sicuro, già dimentico di quel piccolo alterco, avanzando verso sinistra prima che Nathan lo afferrasse prontamente per un braccio e lo strattonasse indietro.
<< Cosa di “andiamo a destra” non ti è chiaro?>>
<< Tutto visto che non l'avete detto.>> replicò seccato scostandosi con gesto secco. << Ti dico che dobbiamo andare di là.>>
<< E io ti dico che la strada giusta è a destra invece. La bussola- >>
<< Indica i punti cardinali, capta le fonti di magia e di energia e potrebbe portarci verso l'uscita come potrebbe portarci al patibolo.>> gli fece notare.
<< Senti, brutto pe- >>
<< Perché dici che dovremmo andare a sinistra?>> s'intromise Eliza ponendosi tra i due con fare risoluto.
<< Perché è la direzione giusta.>>
<< Argomenta, rosso.>> ordinò perentoria.
Cade alzò gli occhi al cielo. << Il rumore che lui ha sentito prima.>> disse indicando il biondo, << Avete capito cosa fosse? Siamo qui da soli, l'erba e l'edera attutiscono i suoni, ma tu hai sentito qualcosa, no? Cosa?>>
<< Che cazzo c'entra ora? Pensi che non abbiamo controllato mentre tu fissavi l'infinito? Non c'è niente, siamo soli.>>
<< Non me ne frega nulla di quello che avete o non avete controllato, cosa hai sentito?>> chiese con voce più dura. Quello poteva anche essere un soldato o quel che cazzo gli pareva, ma cominciava a dargli i nervi, specie in una situazione come quella.
Dietro di loro, avanti, tutto attorno, odori e suoni fantasma si sovrapponevano per poi svanire, trascinati per un attimo verso di loro per poi venir spazzati via. Sì, decisamente i suoi nervi stavano affrontando una bella prova, era da molto che non sentiva più quelle sensazioni.

<< Nathan.>> Eliza richiamò il ragazzo che si limitò ad una smorfia contrariata. << Diglielo, non ti costa nulla.>> fece paziente. L'ultima cosa di cui aveva voglia era far da balia a quei due cretini, ma a quanto pare non aveva molta scelta visto che il Fato glieli aveva affibbiati senza possibilità di replica.
Il figlio di Ares sputò a terra con fare sprezzante. << Rumore di battaglia, lame che cozzavano. Ma non c'è niente, come hai detto tu prima, siamo soli qui, in questa parte di labirinto, o per lo meno non ci è permesso incontrare altri. Ora tocca a te dirci per quale cazzo di motivo dovremmo andare a sinistra.>> ringhiò poi sul piede di guerra.
Cade annuì un paio di volte, ciò che l'altro gli aveva detto non era stato che una conferma alle sue sensazioni.
<< Non so come possa spiegarvelo senza sembrare un pazzo, ma non penso sia corretto dire che siamo isolati. Possiamo incontrare gli altri concorrenti, eccome se non possiamo, sono abbastanza sicuro che in questo momento centinaia di anime stiano combattendo le une contro le altre.>>
<< Cosa? Che te lo fa pensare?>> chiese Nathan improvvisamente più attento.
<< Le nostre armi.>> disse solo Cade e quando gli altri non capirono al volo sospirò. << Ci hanno privato delle armi, ricordi? Hanno detto che tutto ciò che ci sarebbe servito sarebbe stato all'interno del Labirinto.>>
<< Esatto, penso ce le restituiranno una volta fuori.>> mormorò pensierosa Eliza.
<< Io penso di no, altrimenti perché il mio coltello sarebbe qui nel labirinto ora?>>
I suoi compagni si voltarono a guardarlo accigliati, sospettosi.
<< Che cazzo significa?>> domandò brusco il biondo.
<< Ecco, questo è il punto che mi farà sembrare un pazzo.>>
<< Tranquillo, ho già una pessima opinione di te, non puoi peggiorarla.>>
<< Grazie soldatino, questo si che mi rincuora.>> fece portandosi drammaticamente una mano al cuore.
<< Fai meno il coglione e parla!>>
<< Okay, okay. C'è un filo, che voi non vedete, che va- >>
<< Dei dell'Olimpo! Mi sbagliavo, puoi ancora far abbassare la mia opinione di te! Un filo? Cosa c'è? Hai le allucinazioni ora? Ci stai davvero facendo perdere tempo perché vedi fili inesistenti?>>
<< No, non ho le allucinazioni, il filo c'è.>> ringhiò in risposta facendo un passo verso Nathan, la sua prima vera e propria azione bellicosa da quando si erano incontrati.
<< E allora cosa? Retaggio divino?>> domandò l'altro avanzando anche lui di un passo.
Eliza mise una mano sul petto di entrambi e tirò loro uno spintone per allontanarli.
<< Smettetela di fare gli idioti!>>
Il silenzio li avvolse di nuovo, neanche un respiro smuoveva l'aria, neanche un movimento, ma Cade lo sentiva, lo vedeva, sapeva che invece qualcosa si stava muovendo, che qualcosa era sempre in movimento.
<< Sì, >> si risolse a dire, << chiamiamolo retaggio divino. Questo filo arriva dritto al mio coltello. È a sinistra, due svolte a destra, la terza uscita e poi alla fine del corridoio. Non è così lontano, facciamo una deviazione e poi usciamo di qui alla svelta, okay?>>
<< Ma neanche per sogno!>>

Eliza fissò per un secondo Cade, domandandosi se ciò che stesse loro dicendo corrispondesse a verità.
Perché il suo coltello era lì? Questo significava che anche tutte le loro armi lo erano? Che qualcuno si sarebbe potuto imbattere nelle sue e prenderle? Non avrebbe più rivisto le sue lame, il suo fucile? Qualcuno li avrebbe usati contro di lei magari?
Un brivido la scosse al ricordo del fucile che invece imbracciava il suo compagno, ben più grande e spaventoso del suo, semiautomatico l'aveva chiamato Nathan.
Ma perché avrebbero dovuto disseminare le loro armi per quei cunicoli? C'era gente proveniente da ogni dove, qualcuno che avrebbe potuto malauguratamente trovarsi tra le mani una bomba e farla esplodere senza rendersene conto.
Tornò a guardare Cade, ad osservarlo e valutarlo. Quel ragazzo era ancora una grande incognita per lei, ma qualcosa le suggeriva che stesse dicendo la verità.

<< Smettetela, sono stanca di dividervi e sentirvi battibeccare!>> sbuffò tirando di nuovo uno spintone ad entrambi.
<< Non perderemo tempo per un cazzo di schifo di coltellino!>>
<< Ma ti ho detto che è qui vicino! E poi da lì potremmo uscire in fretta, so dov'è l'uscita, la vedo!>>
<< Che sei? Un figlio di Apollo? Di Hipnos? Hai le visioni?>>
<< Fatti i cazzi tuoi!>>
<< Basta!>>
La giovane guardò male i suoi compagni, serrando i denti tra di loro in un ringhio mal trattenuto.
<< Prima le Praterie che sbiadiscono i ricordi, ora questo labirinto dove pare non ci si possa mai mettere d'accordo. Non so se fa parte della prova o se è semplicemente la situazione che ci sta condizionando, ma dobbiamo smetterla. >> fissò il proprio sguardo prima negli occhi blu del figlio di Ares e poi in quelli verdi dell'altro. << Siamo partiti assieme, forse per volere divino, forse per volere del Fato, non possiamo saperlo, ma siamo arrivati sino a qui e non possiamo perderci in un bicchier d'acqua, non alla seconda prova. Quindi mettiamo in chiaro le cose, il patto è questo: ci aiuteremo a vicenda a superare le prove finché ci sarà possibile farlo assieme, quando poi le sfide saranno uno contro uno ognuno per la sua strada, senza rancore. Ma per ora, >> e qui si fermò di nuovo a fissare gli altri due, << per ora vedete di non fare i ragazzini.>>
Non poteva credere di aver dovuto fare un discorso del genere a due giovani, a due adulti, ma se metter le cose per iscritto era l'unico modo per venir fuori da quella situazione allora andava fatto.
I ragazzi continuarono a fissarsi in cagnesco, ognuno chiuso nel suo mutismo. Poi Nathan alzò la testa e si voltò verso destra.

<< Fate come vi pare, la direzione giusta è quella di destra, quindi io vado di lì. Se da questa merda dobbiamo uscire assieme, allora verrete con me.>> e per lui lì finiva il discorso.
Cade dal canto suo alzò gli occhi al cielo e poi li chiuse, prendendo un respiro profondo.
Eliza non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo ma non riuscì a togliergli gli occhi di dosso, calamitata.
La sensazione di un venticello fresco, quella che si ha quando per molto tempo si era stati chiusi in una stanza calda e poi finalmente si esce all'aperto, solleticò la sua nuca e forse anche quella dei suoi compagni. Nathan si voltò verso di loro, lei gettò un'occhiata al corridoio dal quale erano venuti e Cade, infine, volse la testa verso l'altro lato, verso sinistra.
Fu un momento, nulla di più, il ricordo fittizio di una giornata tersa e arieggiata, quando l'aria diveniva frizzante ma non ancora del giusto tepore che preannuncia l'estate. Una sensazione che lì sotto, nelle terre di Ade, nessuno poteva provare, forse solo i Beati.

<< Cosa… ?>> domandò con voce sommessa la giovane, scostandosi i capelli scuri dalla fronte.
Nathan, vigile e muto, pareva perso in pensieri che non avrebbe mai condiviso con loro.
<< Cade?>> provò allora Eliza, << Che diamine è stato?>>

Il rosso annusò l'aria, prendendo grandi respiri profondi che non gli erano utili a nulla se non ad interpretare quegli odori vaghi che l'edera assorbiva.
Lo sentiva, lo sentiva chiaramente. Era lì e lui non poteva ignorarlo.
Il filo azzurrino si srotolava davanti ai suoi piedi, più in là una scia aranciata correva verso una meta identica ma dal differente tracciato.

<< Andate a destra, ma non continuate a girare da quella parte, cercate di non spingervi troppo ad est, okay? >> Disse deciso sistemandosi meglio la giacca. Le dita passarono leggere sulla vernice crepata che gli decorava il bavero di tessuto grezzo.
<< Andate? Che vuol dire? Che diamine ti salta in mente, vuoi andare da solo a recuperare quel dannato coltello?>> chiese con più fervore Eliza.
<< So la strada, troverò da solo il modo per arrivare all'uscita.>>
<< Ci hai appena cagato il cazzo con la storia che non abbiamo armi e che in giro per il labirinto c'è gente che combatte, ti aspetti davvero che ti lasceremo andare?>>
La voce dura di Nathan costrinse Cade a voltarsi verso di lui, fissando il suo sguardo negli occhi freddi dell'altro con decisione.
Annuì.

<< Sì, è quello che mi aspetto facciate. Nella prova precedente voi eravate avvantaggiati, in questa lo sono io. Non avete armi e per quanto possiate essere forti non poteste competere contro qualcuno che invece ne ha.>>
<< Fammi indovinare, pel di carota, tu invece puoi?>> fece sarcastica Eliza ponendo le mani sui fianchi e scrutandolo con palese disapprovazione ed un pizzico di ironia.
<< Posso evitarli meglio. E in ogni caso so menare le mani anche io, da piccolo mi capitava spesso di trovarmi a dover affrontare gente armata, so come comportarmi.>>
Fece un passo avanti solo per poter mollare una paca sulla spalla alla donna e sorriderle con una faccia da schiaffi degna di nota. << So che ti sei già affezionata a me e che sarà un colpo terribile dovermi star lontana, ma ti assicuro che sarà per poco, se seguirete la bussola, non andrete ad Est e vi farete i beneamati affaracci vostri potreste addirittura arrivare sani e salvi all'uscita. In caso contrario, il Grande Cade verrà a salvarvi mie dolci donz- ahi!>>
Saltò indietro massaggiandosi la testa dolorante ma senza perdere lo stupido sorriso con cui aveva parlato.
Eliza aveva ancora la mano con cui gli aveva rifilato quello scappellotto alzata.
<< Fai poco lo spiritoso, razza di stupido! Tu non vai proprio- >>

<< Fa come ti pare.>>

Fu ancora Nathan ad interrompere il loro battibecco, il volto serio e l'espressione concentrata.
<< Sei un buon combattente, vero? Specializzato nel corpo a corpo.>>
Cade sorrise. << Me la cavo, sì.>>
L'altro annuì. << Sei figlio di una divinità molto forte?>> chiese poi accigliandosi leggermente.
Stringendosi nelle spalle il giovane si infilò le mani nelle tasche con noncuranza
<< Non lo sono forse tutti? >> poi scosse la testa. << Va bene che Ade ha detto che abbiamo tutto il tempo che ci pare, ma direi che noi ne stiamo perdendo parecchio. Andate, ci rincontriamo fuori dal labirinto, alle brutte ci aspettiamo lì?>>

Nessuno dei due conosceva bene l'altro, ma se avesse potuto scommettere, Eliza avrebbe detto che nella sua voce c'era qualcosa che stonava, qualcosa di simile all'insicurezza ma completamente diverso.
Per un attimo, e solo uno, le tornarono alla mente tutte le volte che aveva visto suo padre partire per una convocazione, tutte le volte che era stata ferma impalata davanti allo schieramento di soldati pronti a marciare.

 

<< Ci rivedremo presto, vero padre?>>
 

Il volto di Cade era rilassato, le labbra arcuate verso l'alto, gli occhi vispi, ma c'era quella piccola piega, quella minuscola increspatura all'angolo della bocca che le dava una sensazione di tensione.
Come di qualcuno che per tutta la vita era stato abituato a non essere mai solo.
Come un uccellino che per tutta la vita aveva volato assieme al suo stormo e poi, improvvisamente, si ritrovava a farlo da solo.
Non aveva paura, non di quello che stava per fare, a cui stava andando incontro. La paura di Cade, il dubbio era forse meglio chiamarlo, era quello di non ritrovare più coloro con cui aveva volato.
L'occhio le cadde sul bavero della giacca, su quelle forme stilizzate di uccelli che solcavano l'azzurro crepato di un cielo inesistente.
Cosa si nascondeva dietro a quel ragazzo?

<< Ti conviene uscire prima di noi se ci riesci, perché se quando metto piede fuori da questo fottuto labirinto non ti trovo poi col cazzo che mi fermo ad aspettarti!>>
Strappata di peso dai suoi ragionamenti Eliza alzò gli occhi al cielo quasi esasperata dal comportamento del figlio di Ares. Possibile che non sapesse minimamente parlare?
<< Oh! Ma come!? Credevo che tra di noi ci fosse qualcosa! Non puoi stroncare in questo modo un amore appena nato!>>
O forse era quasi esasperata da quei due assieme.
<< Piuttosto mi faccio tagliare le palle, altro che amore appena nato!>>
<< Non puoi rifiutare così i tuoi sentimenti! >>
O forse era tutta quella situazione a darle ai nervi.
<< Senti, vuoi andare a prendere il tuo cazzo di coltellino? Vai va! Basta che smetti di dar fiato a quella fogna!>>
<< Guarda, soldatino, che lo so che già ti manco...>>
<< Ma voi due, fino a tre secondi fa, non stavate per mettervi le mani addosso?>> domandò lei guardandoli con un'aria decisamente disgustata.
Cade le sorrise. << Era amore represso.>>
<< Ho ancora voglia di mettergli le mani addosso.>>
<< Via, Nathan, non davanti ad una signorina.>>
<< Ma sta zitto, è un soldato, avrà visto più cazzi di te!>>
<< Ehi!>> Eliza avvampò improvvisamente, sentendo le guance andare a fuoco, l'indignazione bloccata in gola come un boccone andato di traverso. Sentì a mala pena Nathan borbottare un “non in quel senso… intendevo che-” prima di decidere di metter fine a quella stupida pantomima.
Marciò verso il biondo afferrandolo per un braccio e strattonandolo verso il tunnel indicatogli dalla bussola. Dietro di loro Cade sghignazzava senza ritegno.

<< Fai quello che devi fare e poi fatti trovare fuori dal labirinto, non fare cazzate e- >>
<< Uh! Nathan! L'hai fatta proprio uscire di testa, ha detto una parolaccia!>>
<< STA ZITTO CRETINO!>>
<< Non ho detto nulla di strano, siete voi ad essere ottusi e non capire quello che intendevo! >> disse quello risoluto a non prendersi nessuna responsabilità.
Perché finivano sempre in quel modo? O litigavano o riuscivano a dir solo puttanate.

 

E stiamo assieme da meno di un giorno forse… se li avessi incontrati al Campo avremmo passato tutti i giorni della nostra vita in punizione.

 

<< E!>> calcò Eliza dandogli un altro strattone per farlo tacere, << vedi di non farti ammazzare!>>

Cade li guardò andar via con un vago fastidio alle guance per le risate che stava trattenendo, salutandoli con la mano e sentendo solo in parte la ragazza ordinare all'altro di tirare fuori la bussola e darsi una mossa, ricevendo come risposta un duro e sentito “non prendo ordini da nessuno io”, seguito prontamente dall'estrazione della bussola richiesta.
Si permise uno sbuffo divertito e poi si girò, la mano alta in segno di saluto anche se i suoi “compagni” non potevano vederla.

<< Tranquilli non- >>

Si congelò sul posto, la bocca gli si richiuse da sola senza il minimo permesso quando il suo cervello decise che parlare non era un'azione così importante dal momento che aveva appena fatto una realizzazione decisamente inquietante.

 

<< Non fatevi ammazzare e che Nike possa assistervi.>>”

 

<< Merda.>>

 

 

*

 

 

 

 

Scivolare via in silenzio non era stato per nulla difficile.
Nell'iniziale confusione che si era creata tra la folla pressante che voleva a tutti i costi entrare nel labirinto per prima, Jane aveva visto i suoi “nuovi amici” rimaner bloccati nella coda di chi doveva lasciare le proprie armi.
Li aveva guardati curiosa, cercando il luogo in cui potevano nascondere una spada, o un arco, ma non avevano con sé nessuno di questi, né una sacca in cui tenerli. Che avessero un coltello o un pugnale nascosto nei vestiti?
Non le era interessato davvero molto, erano poche le cose che ancora destavano la sua curiosità e le armi non rientravano tra queste.
Lei di spade, di lame, di lance, non ne aveva mai toccata una. Non si era allenata da piccola, non erano cose che si addicevano ad una ragazza. Per la sua società lei avrebbe dovuto solo cucinare, rassettare la casa, occuparsi dell'orto magari, delle bestie nel cortile. Doveva rammendare e cucire, accettare l'uomo che suo padre avrebbe scelto per lei ed essergli devota, dargli tutti i figli che lui avrebbe desiderato.
Non era andata così, non ci si era neanche lontanamente avvicinata.
Il sospetto aveva iniziato a dilagare nella sua città, sospinto da venti provenienti da quel vecchio mondo che tanti orrori aveva fatto, da quella gente che poi non era altro che la sua gente, mostri vissuti della guerra e nello scempio che avevano dato alla luce altri mostri in grado di far altrettante orribili azioni. Alle volte il genere umano le pareva così indegno di calcare quelle terre…
Dopo il sospetto erano arrivati i primi sintomi, la paura, le accuse, le condanne. Poi suo padre, che a tutto ciò era estraneo, era morto. Sua madre l'aveva seguito poco dopo, i veri colpevoli erano rimasti impuniti, lei sola, il mondo era crollato senza darle alcun tipo d'avvertimento.
Ripensandoci quei giorni le parevano lontani, quando una lama scintillante era simbolo di nobiltà e di forza, di giustizia; le sembravano così effimeri, come nebbia, come la nebbia delle praterie.
Passando sotto il braccio teso di un uomo di forse trent'anni, la pelle sbiancata dalla morte ma ancora cupa come le gente vissute al sole, Jane non fece neanche caso ai suoi stessi pensieri.
Era una bugia, era sempre tutto una bugia. Un'illusione.
Intravide a mala pena un arco erboso, la gente attorno a lei era moltissima, pressata l'una contro l'altra e Jane cominciava a sentirsi sempre più irrequieta, sempre più stretta.
Non lo sopportava, il contatto umano, esser sfiorata per sbaglio senza che quella stessa persona si rendesse anche solo conto di averla vicina. Lei odiava star in mezzo a molta gente, odiava star in mezzo alla gente e basta e tutti quegli anni, quei secoli, passati in solitaria negli ampi ed infiniti prati neri non l'aiutavano di certo.
Se solo fosse stata viva, lo sapeva, avrebbe cominciato a prendere respiri sempre più rapidi, sempre più profondi.
Persone e piante, un abbinamento davvero pessimo per lei, ma poteva farcela, doveva farcela.
Scivolò tra i morti, aiutata dalla sua piccola statura, tenendosi strettamente la gonna tra le mani chiuse febbrilmente a pugno per non inciampare.
Gli altri non la vedevano, non la vedevano mai, neanche ad viva spesso ci riuscivano e questo era un bene. C'era stato un momento in cui avrebbe tanto desiderato d'esser vista, di esser compresa, ma tutto aveva perso di significato, nulla importava più davvero.
L'arco di edera l'aspettava cupo e terribilmente minaccioso, una bocca di foglie dalla gola nera ed infinita che l'avrebbe potuta ingoiare da un momento all'altro.
Prese un altro respiro, profondo ed inutile e poi, a testa bassa, oltrepassò la seconda linea di partenza.

 

C'era confusione, c'era il vociare continuo ed ininterrotto di tutte quelle anime. C'era odore di zolfo, di terra secca, di pietra e di cenere, l'odore delle fiamme e quello del ferro. C'era la luce azzurrognola delle lampade del palazzo di Ade e quella più calda delle torce dei bracieri del giardino, la luce accecante e così piena di colori di quelle lastre che proiettavano le immagini come uno strano gioco di magia. Come un illusione.
E poi tutto era scomparso.
La confusione era cessata, il vociare si era spento, l'aria soffocante di centinaia di corpi riuniti tutti assieme sparita. L'odore di zolfo, di pietra, di cenere e di ferro solo un vago ricordo ora soppiantato dall'odore dell'erba umida, della terra bagnata, dal profumo soffocante dell'edera che era ovunque, era ovunque e da nessuna parte. Era sopra di lei, sotto di lei, la schiacciava contro le pareti, la risucchiava in un budello di verde tetro ma lucido, rischiarato da un fuoco invisibile che pallido illuminava solo un raggio di tre metri circa attorno a lei. Poi c'era solo il buio ed il silenzio.
Non era possibile, Jane lo sapeva benissimo. Non era stata l'unica ad entrare nell'arco 1, il più vicino, e non era neanche stata l'ultima di sicuro.
Perché non c'era nessuno? Perché era così vuoto?
Mosse qualche passo incerto, tremando come non le succedeva più da troppo tempo.
Quel mondo era sbagliato, non era il luogo in cui era entrata, non era più l'Ade.
Dov'era finita? Perché era lì?
Jane odiava cordialmente i boschi, ne detestava le profondità buie e terrose, quell'odore di vegetazione dolciastra e fredda. Erano brutti ricordi quelli che bussavano alla sua mente e la giovane non riuscì a non piegare le labbra in un risolino divertito ed isterico: ricordare.
Le sarebbe dovuto esser vietato, le era stata tolta quella possibilità, quel diritto, nell'esatto momento in cui i Giudici non l'avevano reputata abbastanza. Ma era da una vita intera che Jane non era abbastanza e forse questo era uno dei motivi per cui la foschia non aveva avuto effetto su di lei.

O forse è per colpa di chi mi diede i natali.

C'erano cose, cose del suo passato e pensieri oscuri di quel presente labile che scivolava via come acqua tra le mani, che Jane avrebbe davvero voluto dimenticare. Tra di questi c'era la sensazione delle radici e del terreno dissestato sotto i suoi piedi, i rami che le ferivano le braccia, che le strappavano i capelli. C'era un fuoco lontano attorno a cui ballavano esseri abominevoli di cui Tituba, la cara vecchia Tituba, le aveva solo accennato.
 

<< Cose oscure, giovane signorina, cose oscure. Creature che solo loro avrebbero potuto creare.>>
 

E quel posto…. Quel labirinto non aiutava, non aiutava per niente.
Con una fitta improvvisa la sua mente la costrinse ad arrestarsi sul posto, lasciando Jane di stucco quando si rese conto che aveva camminato sino a quel momento, la testa persa lontana in ricordi che non voleva ricordare. Dov'era andata? Perché si era allontanata dalla strada principale? Dietro di lei c'era un corridoio rettilineo proprio come quello da cui era entrata ma non poteva dire con certezza di esser ancora lì.
Un fruscio di foglie la fece voltare verso… verso dove? Veniva da quella parte? Oppure dall'altra? Che strada aveva preso?
Un rumore affrettato di passi la costrinse ad avvicinarsi al muro, sino a schiacciarcisi contro, sentiva l'edera pizzicargli la pelle come se il bordo delle foglie fosse affilato, come aghi di pino, come le foglie secche di quel lontano inverno in cui la sua vita era precipitata a picco.
Qualcuno si stava avvicinando e lo stava facendo velocemente e lei non aveva scampo, non poteva difendersi in alcun modo. Non sapeva neanche perché fosse così convinta che chi le stava correndo incontro avesse intenzioni bellicose, lo sapeva e basta. Stava arrivando qualcuno pronto a combattere e lei non lo era neanche lontanamente.
Il tonfo sordo di un corpo che cade la fece indietreggiare ancora di un passo, ormai i rami molli e flessibili della pianta le si erano conficcati nei fianchi come zeppi secchi, contro le sue caviglie nude premevano i rami più grandi e resistenti della pianta, ferendola senza pietà.
Qualcuno urlò, una voce spaventata e affaticata, affannata da una corsa che tecnicamente non avrebbe dovuto necessitagli ossigeno. No, non era una persona ansimante da una corsa quella che sentiva, era una persona terrorizzata, qualcuno che cercava inutilmente di prendere respiro anche se il suo fisico non ne richiedeva per poter sopravvivere.
Erano parole confuse quelle che avvertiva, il tono inconfondibile ma lontano di una supplica, le grida di battaglia di sottofondo, un qualcosa che Jane non aveva mai sentito ma che riconobbe con sicurezza, con precisione, con ovvietà.
Nel suo torace qualcosa si contasse di scatto, il ricordo sbiadito di un cuore affaticato dalla paura e dal dubbio, la ricerca disperata di un organo vitale di calmarsi e non esplodere nella sua confortevole gabbia.
Da dove venivano però quei suoni? Da dove venivano quelle suppliche? Chi era a parlare? Chi stava supplicando?
Il calpestio di erba sovrastò per un attimo le voci lontane e vicine, il sibilo di una lama squarciò l'aria e Jane non ebbe bisogno di veder nulla per sapere che una scure era appena calata su di un'anima sfortunata.
Con le mani ancora strette attorno ai bordi della sua gonna Jane chiuse gli occhi più forte che poté, voltando il viso verso la spalla sinistra cercando di nascondersi dall'ennesima morte che avrebbe macchiato la sua memoria.

Morte?

Una foglia gli carezzò la guancia, come il tocco leggero di una mano che cercava di farla girare per poterla veder ben in volto. Per una frazione di secondo le sembrò di rivivere un sogno, sentì ancora i polpastrelli tiepidi e leggermente rovinati di sua madre sfiorarle l'epidermide per chiederle cosa non andasse.

 

<< Tutto bene, Jane? C'è qualcosa che non va, cara?>>


Le parve di sentire le sue braccia stringerla, la sua voce lontana tranquillizzarla.

 

<< È stato solo un brutto sogno, bambina mia, solo un brutto sogno. Non hai nulla da temere.>>
<< Ma era così vivido madre! Era vero, era tutto vero! È stato terribile, quelle donne… >>
<< Era un sogno, non pensarci più, tra poco sorgerà il sole e porterà via con sé tutti i demoni della notte.>>

<< Torneranno?>>
<< Se succederà ci saremo io e tuo padre. Ma promettimi una cosa, Jane, giurami che non dirai mai a nessuno dei tuoi incubi. Sono tempi scuri bambina, tempi davvero oscuri. Non voglio che ti facciano del male, la gente ha paura e non sai quanto può diventar crudele una persona spaventata.>>
<< Ma sono solo sogni, l'avete detto voi madre.>>
<< Lo so, ma tu promettimelo. Cercano solo qualcuno su cui sfogare i loro timori, una strega da esorcizzare… promettimi che non lo dirai mai a nessuno, giuramelo.>>
<< Ve lo giuro madre.>>

 

Era successo così tanto tempo fa… solo stupidi incubi che la terrorizzavano e non la facevano dormire, che le rubavano il sonno e la tranquillità. Ma non sarebbe più successo, proprio come allora l'abbraccio di sua madre era in grado di sconfiggere ogni dubbio e ogni dolore, ogni paura ed ogni incubo.
Non avrebbe mai immaginato di poterla abbracciare di nuovo, di potersi perdere tra le sue braccia.
Braccia fini e filiformi, cosparse di decine di piccole mani lisce e fredde, dai bordi taglienti come aghi di pino, come le foglie secche del bosco. Braccia che le si stavano arrotolando attorno alle gambe, alle sue stesse braccia, stringendo la presa sulla vita, sul torace, avvolgendole il collo e la testa.
Jane aprì di scatto gli occhi, il terrore che brillava nelle sue iridi come non faceva da secoli, ma quando provò ad aprire la bocca per urlare era troppo tardi.
L'edera gli coprì le labbra con una stretta decisa e quasi soffocante, premendole sulla pelle ed ingoiandola nelle mura del labirinto dell'Ade.

 

 

 

*

 

 

 

Non voleva crederci, non poteva crederci. Non era possibile.
Jonas si guardò attorno con attenzione, volgendo lo sguardo a destra e sinistra, voltandosi di spalle per assicurarsi di non aver qualcuno dietro di sé.
Si era perso. Era davvero riuscito a perdersi? Era davvero riuscito a perdersi una statua greca che camminava ed un gigante nero alto due metri?
Lasciò ricadere le spalle e poi la testa all'indietro, alzando gli occhi al cielo e masticando un paio di imprecazioni in tedesco.
Perfetto, era davvero riuscito a perdersi, cazzo.
Tutto ciò stava sfiorando il ridicolo, i suoi “compagni” erano proprio davanti a lui, dritto per dritto, che marciavano seguendo lo stupido monaco pelato o quel che era. Poi aveva sentito un rumore, qualcosa che gli aveva riportato alla mente il suono di metallo che sfrega contro altro metallo. L'aveva associato al clangore che si espandeva nella palestra quando gli schermisti si allenavano, chiusi nelle loro ridicole tutine bianche, con un braccio piegato dietro alla schiena ed i fioretti che si incrociavano rapidi in una danza di passi che consisteva solo nell'avvicinarsi e poi retrocedere.
Ma perché avrebbe dovuto sentire un rumore del genere?
Si era voltato solo un attimo per controllare che non ci fosse nessuno dietro di lui, un gesto involontario come quello di tamburellare con le dita sul metallo freddo del suo collare.
Non c'era niente, dietro di lui, assolutamente nulla. Forse si era immaginato tutto, forse era anche quello un eco lontano di un ricordo perso della sua vita passata, forse aveva solo sentito male o qualcuno indossava un'armatura medievale e le placche che sfregavano le une contro le altre l'avevano tratto in inganno.
Non vi aveva dato peso, neanche un po', si era rivoltato e poi bloccato di colpo: davanti a lui si aprivano tre strade diverse e Jonas non aveva la più pallida idea di quale di quelle avesse scelto la sua compagnia.
Si era quindi perso un nutrito gruppetto di persone abbastanza agguerrite e battagliere, convinte di saper come uscire di lì, senza neanche sentirle.
Dannazione e dire che il gigante non era così silenzioso, i suoi passi parevano tonfi sordi di sacchi di sabbia che cadevano a terra, di quelli che venivano accatastati per le strade in vista di possibili invasioni.
Con un grugnito chiuse di scatto i pugni, alzandoli come se volesse maledire il cielo per poi batterli solo sulle sue stesse gambe.

<< Dannazione! Dannazione!>> ripeté ancora frustrato.
Sentiva il nervosismo salire sempre di più, facendosi largo nel suo torace e raschiandogli il petto. Come sarebbe uscito di lì adesso? Che ne sapeva lui di quale fosse la direzione giusta?
Chiuse di nuovo gli occhi e prese un bel respiro, imponendosi quella disciplina che gli era stata inculcata in testa per tutta la vita ma che il suo sangue divino, a quanto pare, aveva sempre impedito attecchisse del tutto nel suo animo.
La verità era abbastanza ovvia e semplice: Jonas fingeva continuamente una calma ed un controllo che non aveva ma che tutti pretendevano sfoggiasse con orgoglio e alterigia. In quel momento però l'unica cosa che desiderava era prendere a calci qualcosa, purtroppo per lui Ade era stato più che chiaro nello specificare che i muri d'edera non dovevano essere toccati.
Ora doveva solo calmarsi e trovare il modo per uscire di lì, se poi nel farlo avrebbe incontrato qualcuno con cui poter menar le mani almeno un po', beh, non si sarebbe tirato indietro.
Come avrebbe potuto capire da che parte andare? Jonas avanzò verso i vicoli e si inginocchiò a terra per scrutare con attenzione l'erba scura. Il gigante nero doveva pesare come minimo una tonnellata, doveva essersi lasciato dietro qualcosa, qualche impronta, un filo d'erba rotto. Certo, poteva anche esser stato qualcun altro, ma di lì erano passati loro in quel momento quindi doveva provare. In ogni caso non aveva molto da perdere.
Esaminato il terreno il ragazzo si tirò in piedi spolverandosi i pantaloni per poi fissarsi le mani: sporche di terra e leggermente macchiate di verde, poteva sentirne l'umidità sull'epidermide e quel frescore gli risultò quasi fastidioso.
Gettò un'occhiata in giro, una vecchia abitudine dura a morire, risalente a quando voleva far qualcosa che di solito gli veniva proibito e doveva prima accertarsi che non ci fossero testimoni; poi si pulì le mani sul retro dei calzoni come sua madre gli ripeteva sempre di non fare, che solo la gente di strada si asciugava le mani o se le puliva sui propri vestiti.
Ma sua madre non c'era, non c'era suo nonno, non c'erano gli insegnati o qualcuno che potesse guardarlo, sgridarlo, giudicarlo. Per la prima volta da quando era uscito dai Campi di Pena Jonas si rese conto di essere solo, solo e libero di fare ciò che voleva.
A conti fatti quegli altri non lo conoscevano, non sapevano come fosse stato in vita, non sapevano da che epoca provenisse e come fosse opportuno comportarsi al tempo. Forse avrebbe potuto bestemmiar loro davanti e nessuno avrebbe battuto ciglio. Forse nessuno l'avrebbe fatto perché non c'era una sola anima a cui importasse davvero qualcosa di lui.
Aveva passato la sua intera vita, neanche poi così lunga, cercando di conformarsi a modelli che tutti reputavano perfetti e che lui non riusciva a raggiungere. L'aveva consumato, questo obbiettivo, l'aveva fatto soffrire, gli aveva roduto lo stomaco e fatto urlare frustrato all'apice della sua sopportazione.
Ma ora non era più così, ora poteva davvero far ciò che voleva, far le sue scelte in autonomia.
Con una rinnovata forza Jonas strofinò ancor di più le mani sui pantaloni per poi portarne una al suo orecchio, lì dove avrebbe dovuto esser ancora incastrato il fiore che gli aveva regalato Ipnos.
Una smorfia dispiaciuta gli piegò le labbra quando si rese conto che non c'era più, che probabilmente l'aveva perso nel tragitto sino alla Casa di Ade.
Da lì la mano scivolò sul suo collo, sfiorando il filo spinato che un tempo era servito come catalizzatore del suo dolore, uno specchio lucido in cui gli altri codardi avrebbero per sempre potuto veder ciò che avevano perso e mai avrebbero riavuto indietro.
Era ironico che poi, alla fine, un'opportunità l'avevano avuta anche se molti di loro non sarebbero riusciti neanche a sfiorarla con le dita.
Gli altri, ma lui sì invece.
Gli era stato detto che aver un sogno lo rendeva degno di provare, di aver una seconda possibilità. Jonas ci credeva, ci credeva con tutto sé stesso, era l'unica cosa che gli era rimasta.
Con quella risoluzione che aveva sfoggiato da vivo si voltò fiero, a testa alta, verso il corridoio centrale, pronto ad intraprendere la sua prima, vera avventura da solo.
Se fuori da quelle mura avesse rincontrato i suoi compagni, ben venga, ma se così non fosse stato non si sarebbe fermato.
L'ebrezza della libertà era un profumo fresco e pungente che gli ricordava l'aria nebbiosa della mattina. E non avrebbe rinunciato a respirala ancora.
Avanzò sicuro senza fermarsi, continuando a seguire tracce ed indizi che trovava in giro, cercando comunque di mantenersi sempre nella stessa direzione e di non prendere troppe svolte.
Ce l'avrebbe fatta, sarebbe uscito di lì da solo, non era certo uno stupido, poteva riuscirci e l'avrebbe fatto.

Poi un rumore assordante lo raggiunse, ricordi sbiaditi di esplosioni di vetri e di edifici in fiamme. Passi concitati dei commedianti di una guerra popolare ma non per questo meno sanguinaria.
Una figura alta e massiccia comparve alla sua destra, veloce e letale come un treno, e Jonas riuscì solo a chiedersi se anche da morto avrebbe sentito il dolore atroce delle sue ossa calpestate.

 

 

 

*

 

 

 

Come fossero finiti in quella situazione non le era neanche lontanamente chiaro.
Si erano messi in fila come tutti, avevano lasciato le loro armi con riluttanza ma obbligati a farlo dalle regole. La ragazza che stava con loro, Jane, era sparita nel nulla, inghiottita dalla folla di anime erranti che si accalcavano le une sulle altre.
Avevano varcato l'arco numero 3 assieme e poi tutto ciò che li circondava era scomparso.
Non c'era più un singolo elemento che potesse convincerli di trovarsi ancora nell'Ade, persino il soffitto scuro faceva intuire che vi fosse qualcosa ma impediva di scorgere la pietra della volta rocciosa.
Lea si era avvicinata inconsciamente ad Ùranus e in un secondo momento forse se ne sarebbe anche pentita: continuando di questo passo non avrebbe fatto altro che dar l'impressione di una ragazzetta incapace di difendersi, terrorizzata dagli eventi e dalla brutalità di quella gente.
Lei. Lei sarebbe sembrata una povera fifona. Lei che si era buttata per le strade durante quei maledetti giorni di sommossa, che aveva corso per i vicoli stretti e i palazzi scrostati, imbrattati dai manifesti e da ciò che restava di loro. Lei che aveva aperto quella porta a forza per fare il suo dovere e che era morta per quello, era morta per fare la cosa giusta senza accettare compromessi. La stessa ragazza che si era avvicinata ad un giovane che, seppur le dava infinita sicurezza, non conosceva per niente, che poteva esser stato un assassino in passato, anche se ne dubitava fortemente visto il luogo in cui la sua anima dimorava.
Rimaneva il fatto: Lea non era una codarda eppure era passata per quello, per una povera ed indifesa donnicciola che non sapeva come affrontare il mondo. O almeno, quelle erano le sensazioni che le erano scivolate addosso, mentre i suoi piedi perdevano aderenza sul terreno e slittavano sull'erba bagnata di una brina che non ci sarebbe dovuta essere.
La presa sul suo gomito si strinse. Ùranus la tirò su di peso da terra e la spinse avanti a sé, esortandola a correre più veloce.
<< Destra! Vai a destra!>> tuonò con la sua voce profonda e calda, in pieno contrasto con gli occhi gelidi e l'espressione seria che gli brillava in volto.
Lei inciampicò sui suoi stessi passi, allungando istintivamente le mani davanti a sé per attutire la possibile caduta. Riprese terreno e ricominciò a correre.
<< Chi sono?!>> urlò di rimando cercando di voltare la testa e vedere i loro inseguitori. Ùranus però, proprio dietro di lei, le faceva da scudo con la sua enorme massa, tutta protesa in avanti, nella corsa.
<< Non lo so, ma non è gente affidabile.>> la spinse verso l'entrata più vicina e si gettò anche lui un'occhiata alle spalle. << Sono certo sia un'altra la loro preda ma non credo che- >>
<< Che se malauguratamente dovessimo finire sulla loro strada si farebbero qualche scrupolo?>> chiese lei ironica, una punta d'isterismo a tingerle la voce.
Il suo compagno non disse nulla, semplicemente strinse i denti e si concentrò sulla strada, spingendola e rischiando di farla cadere di nuovo.
<< Ma perché combattono? E dove diamine hanno prese le armi? Sono anime come noi! Sono sicura che fossero tutti nel giardino di Ade! Come ci sono arrivati qui, con quei macete in mano?>>
<< Non lo so. Non ne ho la più pallida idea, ma non mi piace. Ade ci disse che non saremmo potuti entrare con le nostre armi e adesso… >> scosse la testa, l'afferrò per le spalle e la lanciò letteralmente nel cunicolo di sinistra prima di tuffarcisi anche lui. Nel corridoio principale una donna con una specie di sottoveste scura e delle calze nere sfrecciò veloce tirando una ginocchiata dritta in faccia ad un uomo bianco, la divisa militare rossa sporca d'erba e sangue ormai secco.
Ùranus la fissò allibito mentre Lea, tiratasi su in ginocchio, guardò quella che sapeva essere una combattente cinese lottare contro un soldato dell'800.
<< Non capisco perché combattano però. Dobbiamo arrivare all'uscita, è questo l'obbiettivo della gara.>>
<< Ma meno persone ci arriveranno e più si alzerà la possibilità di vincere per gli altri.>> le fece notare il giovane mettendosi in piedi e porgendole la mano per fare altrettanto. << Ho solo il timore che le armi di cui sono riusciti ad impossessarsi rimarranno in mano loro sino alla fine della gara.>>
Lea si ritrasse nell'ombra del cunicolo, il braccio teso davanti ad Ùranus per spingerlo a far lo stesso.
<< Credi siano le armi che ci hanno fatto lasciare, vero? Credi siano le nostre.>> disse sicura.
Lui annuì. << Rivorrei la mia, era un regalo di mio padre.>>
<< Anche il mio era un regalo, se può consolarti in qualche modo.>>
Il sorriso impacciato dell'altro le fece capire che no, non gli dava alcun sollievo, ma che la ringraziava per averci provato, sapeva che lei poteva capirlo.
Elena sospirò e si ritrasse ancora, quella situazione non le piaceva, non le piaceva per niente.
Stavano camminando tranquillamente per la loro strada quando due combattenti li avevano travolti in pieno, mandandoli a gambe all'aria e costringendoli a togliersi di lì il più in fretta possibile.
La ragazza asiatica, con i capelli lunghi e neri legati in una coda alta, aveva atterrato con facilità due uomini bianchi e poi era stata a sua volta scagliata via da un omaccione pallido come Ùranus ma con una folta chioma bionda.
Non si erano curati di loro, nessuno li aveva visti, o per lo meno nessuno dei presenti.
Poi era arrivato quell'uomo, la pelle chiara segnata da strani disegni arzigogolati, i capelli lunghi ed unti appiccicati sulla fronte. Li aveva individuati e fissati con uno sguardo folle, per poi dire qualcosa in una lingua sconosciuta, la voce fine e sibilante, come il rumore acuto di un gesso che graffiava una lavagna. Aveva tirato fuori da dietro la schiena una scimitarra decisamente più vecchia di lui, con il filo irregolare e l'elsa di legno e pelle. Poi li aveva semplicemente caricati ed allora l'unica cosa che erano stati in grado di fare era stato correre.
Stringendo la maglia di Ùranus Lea voltò le spalle al combattivo gruppo e si diresse verso la fine del corridoio, il più lontano possibile da loro.

<< Dove stiamo andando? Non possiamo deviare troppo, rischieremo di perdere la via.>>
<< L'abbiamo già persa, non possiamo rimanere qui, quel folle vuole ucciderci, gliel'ho letto negli occhi.>> disse rabbrividendo. Accelerò il passo, la testa che si girava di continuo dietro di loro per controllare che nessuno li stesse seguendo.
<< Si stanno sterminando a vicenda, vogliono eliminare qui i più deboli, i disarmati. Un luogo circoscritto è più facile da tener sotto controllo.>> fece pensieroso l'altro. Aveva un leggero fiatone, come se quella situazione l'avesse affaticato e Lea ebbe la strana sensazione che non fosse la prima volta che si trovasse in una situazione del genere. Le sfiorò la mente l'idea di chieder conferma ma una vocina nella sua testa le suggerì di non farlo: e se la sua morte fosse stata legata ad una fuga? Se tutta quella corsa gli riportasse alle mente brutti ricordi.
Si sentiva inquieta e non era solo per quei pazzi alle sue spalle. Sin da quando erano entrati in quel labirinto tutto le era parso opprimente, chiuso, buio, stretto, soffocante. E a quello si era unita la strana sensazione di sconforto, di paura, che silenziosa scivolava verso di lei e proveniva proprio dal suo fianco.
Guardò di sottecchi Ùranus, chiedendosi se non fosse lui, se non fosse colpa della sua discendenza divina che per altro ancora non gli aveva rivelato.
Sapeva molto e poco del suo compagno d'avventura, la cosa l'infastidiva parecchio, specie se ricordava quanto fosse stata curiosa ed attenta a tutto in vita.
Quello non era però il momento adatto per pensare alla morsa che le stringeva lo stomaco, dovevano trovare un luogo sicuro ed escogitare un piano per uscire di lì. Possibilmente incolumi.

<< Ci serve un posto riparato.>>
<< Non ne troveremo così facilmente. Il luogo più “sicuro” sarebbe quello con una sola via d'entrata da tenere sotto controllo, ma in quel caso… >>
<< Saremo in un vicolo cieco, quindi non avremmo possibilità di fuggire in caso quei pazzi ci trovassero.>>
Ùranus annuì. << Il problema è tutto qui. Hai in mente qualcosa?>> chiese speranzoso.
Lea si fermò, poggiando le spalle contro il muro d'edera e guardandosi attorno con apprensione.
<< Posso provare, ma non ho la certezza che funzioni.>> disse con sincerità.
Il ragazzo si mise sulla difensiva, le gambe ben piantate a terra, i pugni chiusi e le orecchie dritte.
<< Qualunque cosa sia, prova, se dovesse arrivare qualcuno ti difenderò io.>> la guardò dritta negli occhi e per un attimo Lea ebbe una vertigine. Le parve che il mondo si fosse messo a girare, delle voci lontane urlarono nei meandri della sua memoria, scacciate immediatamente da urla più reali, più vicine, più combattive.
Ùranus allungò il collo e serrò la mascella. << Dobbiamo trovare un altro posto, qui non siamo al sicuro.>> fece allarmato. Poteva sentire quasi dei passi avvicinarsi, non avevano molto tempo.
<< Ma non possiamo neanche continuare a girare a vuoto!>>
<< Non importa! Per ora conta solo rimanere- >> si bloccò, guardò spaesato la sua compagna e Lea, con una prontezza che non le avrebbe dato, l'afferrò per la mano e se lo trascinò dietro, sfruttando quell'attimo d'incertezza per dettar lei la strada da fare.
<< Vivi? Beh, siamo già morti, quindi peggio di così non potrà andarci.>> disse secca ricominciando a correre.
Chiuse la mano che non stringeva quella di Ùranus e se la portò al petto, chiudendo per un attimo gli occhi, solo per prendere fiato – inutilmente – e per pregare suo padre di concederle quella grazia.
In vita c'era riuscita poche volte e debolmente, ma in quel momento non poteva sbagliare.
Un tenue luccichio le illuminò la pelle, come quando da piccola metteva la mano sulla lampadina appena accesa e l'incandescenza della resistenza le faceva brillare le dita.
Era poco, normalmente sarebbe stato appena percepibile, ma in quei tunnel bui e freddi, umidi ed erbosi, sembrava una lucciola nei boschi.
Un segno di luce in mezzo all'oscurità. La scintilla che gli avrebbe mostrato la via.
Aprì di scatto la mano ed il brillio volò via. Fluttuò davanti a loro come un fuoco fatuo. Ùranus, preso alla sprovvista le si schiantò addosso mandandola lunga per terra e da quel groviglio di braccia e gambe che erano diventati, poté osservare rapito una minuscola lucciola che galleggiava a mezz'aria.

<< Co- cosa? Come?>> chiese balbettando.
<< Alzati! Dobbiamo seguirla prima che scompaia! Non so quante volte potrò rifarlo, non ci riesco sempre!>> Lea si districò a fatica dal corpo pesante del suo compagno d'avventura, afferrandolo per un braccio e tentando di tirarlo in piedi mentre l'altro, ancora scioccato, fissava il suo piccolo faro che li attendeva sfarfallando proprio come un insetto.
Dei rumori li raggiunsero in fretta. Lea si voltò verso la loro direzione terrorizzata, se avesse avuto ancora un cuore vivo le sarebbe schizzato in gola, la sensazione, per lo meno, era sempre quella.
<< Muoviti! Non abbiamo tempo!>> bisbigliò guardinga, tirandolo ancora malgrado non sembrasse servir a nulla.
Per fortuna Ùranus sembrò riprendersi. Scosse la testa come a voler scacciare un brutto ricordo e si mise finalmente in piedi. Fece scivolare la mano in quella della bionda bionda e la strinse.
<< Allora facci strada.>>

Forse avevano davvero una possibilità di uscire di lì sani e salvi.

 

 

 

 

*

 

 

 

Correva così velocemente che i suoi piedi a mala pena sfioravano il terreno. Le scarpe di cuoio, logore e sporche di fango, calpestavano l'erba per una frazione di secondo, il tempo necessario per imprimere la forza per un nuovo passo, lasciando dietro di loro un'impronta a mala pena visibile.
Il filo colorato si srotolava davanti a lui, visibile solo agli occhi di chi aveva un legame con il cielo e con i suoi domini, rapido come i venti che soffiavano ad alta quota, come i pegaso che solcavano mari di nuvole con i loro zoccoli perlati.
Cade si sporse leggermente a destra per prendere meglio la curva, la spinta sinuosa e decisa della corrente che lo sosteneva in ogni manovra come avrebbe fatto con il rapace più veloce e scattante della volta celeste.
Da quanto tempo era che non correva più in quel modo? Oh, quando era entro le mura bianche aveva corso parecchio, aveva fatto il giro di quella prigione candida come la bruma mattutina, un luogo di felicità e di riposo che però gli stava stretto, che lo conteneva come un tempo avevano fatto i confini della sua città. Cade si era sentito “punito” anche lì dentro, anche in mezzo ai fortunati, ai giusti, forse perché la convinzione martellante di esser riuscito ad entrare nei Campi Elisi solo per una pura botta di fortuna era rimasta annidata in lui e non si era più smossa neanche di un centimetro.
Ma ora era diverso, completamente ed immensamente diverso. Certo, era sempre bloccato in un percorso circoscritto, ma stava correndo per la sua vita, per la liberà, verso la libertà. E per sentirsi finalmente di nuovo libero come lo era un tempo doveva aver con sé ogni cosa che gli era appartenuta. Specie il suo coltello.
Non era niente di ché, solo un semplice coltellino da intaglio, di quelli che si usavano per tagliare le corde dei pacchi, che si usavano per strappare la stoffa, per cogliere una frutta, per incidere un legno. Non aveva nulla di speciale se non il fatto che era stato con lui da sempre, amico nel momento del bisogno, in ogni sua avventura e missione, anche le meno nobili.
Cade alzò di poco la testa, come a volerla tener dritta, fiera. Era vero, in vita si era macchiato le mani di molte azioni riprovevoli ma l'aveva fatto sempre e soltanto per necessità. Sì, insomma, qualche volta aveva fatto lo spaccone, si era vantato un po', solo per dimostrare agli altri di poter far qualunque cosa loro gli proponessero, però non era una persona cattiva, non lo era mai stata.

Non lo sono. Non lo sono.

E quel coltello, il suo stupido e semplice coltellino da intaglio ne era un promemoria, serviva per ricordargli chi era stato, il ragazzino che aveva imparato ad incidere rose sulla testiera del letto in cui dormivano sua madre e sua sorella, quello che tagliava le reti da pesca agli stronzi che sfruttavano i pescatori più poveri, il giovane che aveva alzato il pugno al cielo, vittorioso, pronto per guidare ancora una volta i suoi Liberty all'azione.
Il ragazzo che era morto senza sapere se quell'ultima missione, la più importante, fosse stata vinta o meno.
Il coltello era importante, era necessario, gli ricordava chi era, gli ricordava chi era stato, gli ricordava com'era morto e perché.
Svoltò veloce seguendo la scia colorata che ormai diveniva sempre più spessa, le foglie d'edera attorno a lui parevano allungarsi nel tentativo di toccarlo, come un eroe attorniato da centinaia di ammiratori urlanti. Ma non era altro che un'illusione, non era altro che la depressione formata dall'aria che gli scivolava dietro come la coda di un fuoco d'artificio.
Dopotutto non poteva esser mica vivo quel labirinto.
Davanti ai suoi occhi il filo luminoso tremolò, ormai delle dimensioni di un cordone da ancora, di quelli che aveva visto al porto una vita fa. Più in là girava a sinistra, sbiadiva per un po' e ritornava spesso e colorato come prima. Cosa c'era lì davanti a dargli fastidio? Ad interferire con la sua ricerca? Non poteva essere un muro, perché Ade aveva specificato che non li si potesse oltrepassare, ma non poteva essere neanche un'anima, non avrebbe avuto la forza giusta per disturbare la sua connessione… a meno ché…

 

 

 

*

 

 

 

Quel labirinto non era ovviamente solo un labirinto. Cicno se ne era reso conto nell'esatto istante in cui aveva visto le molteplici entrate, quei tunnel bui come le tane delle murene, pronte ad ospitare esseri sinuosi e letali.
Forse con il passare dei secoli gli uomini avevano dimenticato la gioia e la crudeltà degli Dei, il loro amore per quei luoghi intricati, che ricalcavano fin troppo bene le loro menti contorte, i loro subdoli intenti. Un labirinto non poteva essere un semplice complesso di muri, il cui percorso portava alla vittoria, no: uscire da uno di quei luoghi infernali significava vivere, tanto per gli uomini quanto per le anime.
Aveva adocchiato i suoi compagni discutere sulla migliore strategia da intraprendere, il vecchio sacerdote aveva mosso il suo bastone da passeggio e aveva indicato una delle entrate. L'unico pensiero che aveva sfiorato le mente di Cicno era stato relativo alla scelta del numero, dispari, ed al fatto che probabilmente il vecchio avrebbe dovuto lasciare il suo bell'appoggio decorativo. Come fosse riuscito a riappropriarsene poi, non voleva saperlo.
Nessuno dei Dannati aveva con sé armi, non era permesso a nessuno di loro ovviamente, non potevano difendersi dalle torture degli spiriti dell'Ade, dovevano soffrire per le loro pene terrene, quindi erano stati i primi e più veloci ad intrufolarsi nei condotti.
Tutti gli altri, che erano partiti ben attrezzati dalla loro piccola fortezza felice, si erano visti costretti a deporre le armi, ad abbandonare una sicurezza che, Cicno sorrise, probabilmente non era che effimera. Dopotutto, se erano già morti, come potevano spade, mazze e lance, ferirli ancora?
Un sorriso divertito gli tirò le labbra, non potevano, le armi non potevano più niente su di loro, era questa la verità.
Con una mano si tirò indietro una ciocca di capelli ed il bracciale di metallo brillò ad una luce fantasma che li seguiva come un raggio divino. Non illuminava molto, solo la zona in cui camminavano, ma tanto bastava per continuare a camminare, per far sì che il sacerdote potesse chiedere al suo Dio dei morti una grazia, in promessa di tornar in superficie e servirlo come aveva fatto un tempo.
Probabilmente il vecchio non sarebbe mai arrivato in superficie ed il Dio, chiunque quello fosse, si sarebbe preso indietro la sua anima dannata come pagamento di quel debito inadempiuto, ma ancora una volta a lui non interessava nulla, non interessava nulla di nessuno di quegli stolti che lo circondavano, né del gigante che aveva giurato di proteggere né tanto meno del ragazzino che quell'essere l'aveva obbligato a prender con sé, che aveva legato a lui proprio tramite quei bracciali.
Il ragazzino però aveva il pregio di essere silenzioso, di farsi gli affari suoi e di portare il giusto rispetto agli altri, forse per il semplice fatto che fossero adulti, forse perché suggestionato dalla lontananza che passava tra la loro vita e la sua.
Senza neanche rendersene conto, con fare quasi svogliato, Cicno si voltò per controllare cose stesse facendo Jonas, il prediletto di Hipnos. Aveva percepito chiaramente una forza interessante, qualcosa che non conosceva ma che si sarebbe potuto rivelare utile, potente, doveva solo guadagnarsi la fiducia del ragazzo e spingerlo a confidarsi con lui. Magari avrebbe potuto iniziare sin da subito. Si era reso conto di non essergli indifferente, dopotutto nessuno poteva sfuggire al suo fascino, era un dato di fatto, avrebbe potuto puntare su quello ma qualcosa gli diceva che il biondino non si sarebbe fatto abbindolare per così poco.
Tutti i suoi pensieri si bloccarono quando si rese conto che il ragazzino non era lì.
Cominciò a guardarsi freneticamente attorno, per vedere se gli fosse passato avanti – ne dubitava fortemente – o se magari fosse nascosto dietro a qualcuno.
Non c'era, non c'era da nessuna parte.

Dei immondi!

Dov'era? Perché non era lì?
L'uomo che glielo aveva affidato gli aveva detto di stargli attento, di condurlo sino alla Casa di Ade o se ne sarebbe pentito amaramente.
Quel semplice ricordo però lo tranquillizzò: gli era stato detto di portarlo sino alla linea di partenza e lui l'aveva fatto, quindi il suo compito era adempiuto.
Un sorriso rilassato si allargò sul suo volto, non era certo colpa sua se il ragazzino si era perso, quel labirinto non era ciò che sembrava, era vivo in un modo in cui loro non lo erano mai stati, era stato progettato per metterli in difficoltà… che colpa aveva lui se la seconda prova aveva fatto il suo dovere e una delle prime vittime era stata proprio il piccolo Jonas?
Nessuna. Cicno non aveva alcuna colpa e quell'essere non poteva fargli niente.
L'unica incognita rimaneva il legame tra i suoi bracciali ed il collare del ragazzo, ma quello non era poi un grande problema, non qualcosa di cui sarebbe dovuto occupare al momento.
Forse non avrebbe mai scoperto quali erano i grandi poteri di Jonas, ma non avrebbe neanche mai dovuto affrontarli.
Un nemico in meno era sempre cosa gradita e lui lo sapeva fin troppo bene.

Poi un rumore strano, conosciuto ma dimenticato da secoli.
Il sacerdote si bloccò ed indicò una delle aperture del labirinto.
Cicno non comprese ciò che stava dicendo ma dalla posa rigida che avevano assunto tutti i suoi compagni non doveva esser nulla di buono.

<< Che succede?>> chiese avvicinandosi di poco al gigantesco guerriero.
L'uomo allungò il braccio, invitandolo a nascondersi dietro di lui.
<< Nulla di buono, figlio degli Déi. Quello che odi è rumore di lame che s'incrociano.>>
Cicno sgranò gli occhi suo malgrado. << Cosa?>>
<< Altre anime. Stanno combattendo. C'è stato detto di deporre le armi ma c'è chi ne ha ugualmente con sé.>>
Qualcuno gridò alla truffa, all'inganno, ma il greco non li stava più ascoltando, completamente concentrato sui suoni della battaglia che si stava consumando poco più in là.
Delle figure uscirono di scatto da dietro uno dei muri, alcune tuffandosi poi dentro al altri cunicoli, altre incespicando e cadendo come una aveva appena fatto, voltandosi avanti a sé e rimanendo impietrita alla sola vista di qualcosa che era a loro celato.
Una massa di grandi dimensioni si slanciò fuori dal muro d'edera e Cicno seppe per certo che l'anima a terra non aveva più via di scampo.
L'unica cosa che fu in grado di scorgere fu il guerriero maori scattare in avanti non prima d'averlo spinto al sicuro in uno dei corridoi.
Cosa successe oltre quelle mura Cicno non ci tenne minimamente a vederlo.

 
























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Capitolo 6
*** Ivy ***


!ATTENZIONE! Capitolo lungo e parecchio articolato. Mea culpa, non me so regolato, leggetelo a pezzi.










VI. Ivy.








La parete era ampia e liscia, perfettamente tirata su dalle mani esperte di manovali provenienti da un'epoca ormai dimenticata da molti, rimasta viva solo grazie ai libri di storia.
Il prato ben curato scintillava luminoso, i fili d'erba si muovevano alla stessa brezza fantasma che aveva scosso migliaia di rami d'edera in tutto il labirinto.
Le piante che costeggiavano il muro erano curate con attenzione, perfette come se fossero state carezzate dalla mano di una dea benevola, da una custode pregevole. E Persefone si sentiva proprio così, come una madre amorevole che cresceva i suoi figli anche nell'oscurità dell'Ade.
Non era stata molto fortunata, non poteva alzare lo sguardo su veri bambini suoi e vederli crescere ed affrontare il mondo, non poteva trovar sotterfugi come Atena, come Artemide… paradossalmente, proprio come suo marito, Persefone era rimasta fedele a delle regole, ad un destino prescritto, senza cercare inutilmente di manometterlo.
Oh, ne aveva avuti di figli, eccome, ma non era così semplice, non lo era per lei come non lo era mai stato per Ade. Trovava ironico che proprio loro due, che abitavano sotto il mondo mortale, che non potevano godere dell'oro dell'Olimpo, fossero stati i i più accondiscendenti, i più “giusti”, quelli che meno volte di tutti avevano infranto regole più grandi di loro, più grandi degli Dei.
Persefone gettò uno sguardo al marito: in quel momento pochissimi, se non nessuno, dei loro figli mortali erano impegnati in quella gara, in quella stupida, sciocca gara indetta solo per passare il tempo. Non uno solo di Ade, dei bastardi del Dio della Morte, che preferiva di gran lunga tenere la sua progenie al proprio servizio. Solo un paio dei suoi di bastardi, invece, correvano tra quelle mura, ma Persefone aveva già fatto in modo che trovassero ciò di cui necessitavano e che l'edera li aiutasse ad uscire di lì: a lei era stata affidata la prima prova, nessuno poteva pretendere che se ne restasse con le mani in mano e che non facesse qualcosa anche solo per il suo puro divertimento.
Ma malgrado nessuno dei suoi figliastri fosse impegnato in quella corsa della morte, Ade pareva più pensieroso che mai e Persefone sapeva il perché, poteva dargli addirittura un nome, un cognome, un volto ed una voce.

<< Cosa c'è che non ti convince?>> domandò tornando a guardare il muro, muovendo pigramente una mano per far sì che il suo maggiordomo le porgesse un calice di cristallo lucido e ambrato.

Davanti a lei nessuno schermo, nessuna immagine, solo un mosaico perfetto di un gigantesco labirinto verde.
Migliaia e migliaia di tessere lucide si muovevano chiudendo passaggi ed aprendone altri, divorando piccoli riquadri colorati, sgretolando altre tessere che venivano presto rimpiazzate da altre lisce e perfette maioliche verdi.
Lungo i dedali le anime si muovevano frenetiche o titubanti, un miscuglio di colori che si sovrapponevano, che si sbriciolavano, che s'illuminavano ogni qual volta riuscissero ad entrare in possesso di piccoli e luminosi punti azzurrognoli, le armi divine sparse per il labirinto.
Non ricevendo alcuna risposta alla sua domanda Persefone si volse di nuovo verso il marito, sollevando gli occhiali dalla montatura affilata, rossi ciliegia come la cinta del suo vestito anni '50.

<< Ade?>> chiamò ancora.

Il dio se ne stava seduto su una grande poltrona di vimini dall'alto schienale intricato e decorato da teschio d'animale, nera come ogni cosa su cui poggiava mano.
<< Non riesco a comprendere e questo mi innervosisce.>> disse solo lui.
Persefone annuì, accennando con la testa al mosaico in movimento, un ricciolo rosso le si mosse morbido sul volto pallido. << Hai visto cosa sta succedendo, non hai la minima idea del perché?>>
<< Mi duole ammetterlo, ma no, non ne ho idea. >> scosse piano il capo ed intrecciò le mani, poggiandovi le labbra contro. << Inizialmente credevo fosse solo per evitare nuove stragi, credo fosse l'idea di tutti. >>
<< Ma conoscendolo devi aver subito intuito che non fosse solo quello il punto.>>
Ade accennò un sorriso. << Lo conosci anche tu. Ti ha convinta.>>
<< Ha convinto anche Ipnos a convincere Thanatos, ricorda. >>
<< Non mi interessano i gemelli della Notte. Ha convinto te.>>
Suo malgrado Persefone si trovò ad annuire ancora. << Non riesco a dirgli di no, temo non vi riuscirò mai.>>
Sospirando Ade chiuse per un attimo gli occhi. << Nessuno di noi ne è capace.>>
<< Gli dobbiamo troppo.>>
<< Non è questione di dovere, neanche di sdebitarsi: la storia è piena della nostra inesistente riconoscenza verso chi ci ha servito, verso chi ci è stato fedele. È la nostra natura, Persefone, chiediamo tutto, otteniamo ogni cosa e non diamo nulla in cambio… >>
< Io sì. >> disse lei sicura, << Io d'ho sempre qualcosa in cambio.>>
<< Perché questa è la legge della Natura.>> il dio sciolse l'intreccio delle sue mani e poggiò le braccia sui braccioli di vimini, abbandonando la testa contro la spalliera. << Ma non siamo tutti così, non siamo tutti nati nel Sole, l'oro che ha baciato la mia venuta non era quello di una stella.>> soffiò in un sussurro.

Nel mosaico una tessera verde si tinse di una calda e metallica sfumatura gialla, un riquadro che lentamente sormontava l'erba ed avanzava inesorabilmente, circondato da una scia di puntini azzurrognoli.
Un muro davanti alla tessera si mosse, pronto ad inglobarla nella sua struttura, ma questa vi passò semplicemente in mezzo, come se nulla fosse.
Attratta da quella stranezza Persefone abbandonò il volto triste e tetro del marito per concentrarsi di nuovo sul mosaico, aggrottando le fini sopracciglia rosse, sorridendo nel costatare con quale cinica ed ironica crudeltà il colore che il fato aveva prescritto per quella tessera fosse proprio l'oro.

<< Non posso dirti quali siano le ragioni che l'hanno spinto ad ideare questa gara, ma posso dirti una cosa con certezza, mio Signore.>> iniziò Persefone sistemandosi meglio sulla sua sdraio e rimettendosi bene gli occhiali sul naso. << Che qui, non son certo io l'unica che ha deciso di giocare.>>

 

 

*

 

 

Davanti a lei fluttuava una leggera luce dai toni caldi. Era un colore indefinito tra il sabbia, il giallo ed il rosa, qualcosa che non aveva la minima intenzione di indagare, non in un momento del genere.
Non l'aveva mai fatto, usare la sua magia per trovare la direzione giusta per fuggire non era una cosa che le era mai tornata utile, ma in quel momento ringraziava gli Dei che suo fratello gliene avesse parlato. Era una delle tante magnifiche cose che un semidio poteva fare, che un figlio di Apollo poteva fare. Essere figli del dio della stella maggiore serviva a qualcosa ogni tanto, o probabilmente sarebbe servito sempre se solo Lea fosse stata addestrata ad utilizzare i suoi poteri.
La verità era che essendo nata lontana dal Campo della sua epoca, decisamente troppo lontana, un continente di differenza da quello che le era parso di capire, ed essendo nata donna, l'idea di esser sottoposta ad un qual si voglia tipo di allenamento per sfruttare le sue potenzialità, per farlo sul campo di battaglia, non le era passato neanche per l'anticamera del cervello. O meglio: non le sarebbe mai stato possibile neanche volendo. Le era stato insegnato come sfruttare le sue magie curative, aveva scoperto di avere una mira eccezionale, ma chi le avrebbe mai permesso di aver un arco con sé e cosa avrebbe mai potuto fare una freccia, seppur semidivina, contro un veloce e letale proiettile?
Non poteva certo lamentarsi, suo fratello le aveva insegnato molto ma… non tutto, non abbastanza credeva spesso, dopotutto aveva sempre cercato di tenerla al sicuro, di farla vivere lontano da quel mondo violento che apparteneva loro. In un qualche modo l'aveva privata della possibilità di essere una versa semidea ma ancora una volta Lea non poteva biasimarlo, non accettava ancora le sue scelte ma no, non poteva dire di non capirle.
Le era stata negata la possibilità di diventare medico, un lavoro prettamente maschile, che una donna non poteva certo sopportare o intraprendere, figurarsi se qualcuno si sarebbe mai azzardato ad insegnarle come tener in mano una spada.
No, le serviva solo sapere come difendersi, non come andare all'attacco volontariamente, come affrontare una missione ed in fin dei conti, in quel momento, doveva solo salvarsi la pelle e arrivare al prossimo punto di partenza, solo questo.
La lucciola deviò infilandosi improvvisamente in un vicolo e fermandosi lì.

<< Di qua!>> gridò afferrando Ùranus e trascinandoselo dietro.
Poco dopo due uomini rotolarono lungo il corridoio superandoli senza neanche rendersi conto della loro presenza.
<< Quindi stanno davvero combattendo gli uni contro gli altri.>> disse con voce spezzata il ragazzo, affaticato da un fiatone che non avrebbe dovuto avere.
Lea annuì. << Non è nulla di buono, dobbiamo uscire di qui il prima possibile, con o senza armi. Spero solo che ci venga data l'opportunità di recuperarle, significa davvero molto per me.>> ammise a mezza bocca, lasciando andare per un attimo la testa e rilassando le spalle.
Ùranus di fianco a lei le sorrise impacciato poggiandole una mano sul braccio. << Non posso dirti con certezza che ci riprenderemo le nostre armi, ma se dovesse capitar l'occasione non ci tireremo indietro, an- >>
Non finì la frase e Lea non riuscì neanche a chiedergli perché si fosse interrotto.
Il ragazzo l'afferrò per la vita, tirandosela contro prima di slanciare in alto la gamba e colpire in pieno petto un pellerossa dal copricapo piumato sporco e logoro.
Il grido sorpreso della ragazza fu sovrastato solo da quello bellicoso dell'uomo che non riuscì comunque a rimettersi in piedi senza difficoltà.

<< CORRI!>>
Ùranus strinse la presa attorno al suo polso e la spintonò davanti a sé, lanciandosi occhiate preoccupate alle spalle, lì dove il guerriero si era ripreso e li fissava con occhi spalancati.
Non li stava seguendo, perché non li stava seguendo?
Ùranus non aveva mai visto un uomo del genere, ma di certo era un combattente di una qualche tribù, forse un cacciatore, dalla massa asciutta, i muscoli scattanti, il passo veloce.
I capelli rossicci gli coprirono per un attimo la visuale, costringendolo a scostarli malamente e riuscire a vedere il loro assalitore portare una mano alla schiena ed estrarre qualcosa di lucido, di metallico.

Un'accetta?

Chi diamine andava in combattimento armato di accetta? Poteva capire un'ascia, ma non un'arma così piccola, non sarebbe stata abbastanza forte per parare un colpo ravvicinato, per fermare una spada.
No, per difendersi no, ma poteva essere un'ottima arma da –

Da lancio!

Con un altro spintone allontanò Lea da sé, spedendola a terra in un vicolo alla loro sinistra.
La sentì gridare ancora per la sorpresa, forse anche per l'indignazione, mentre imprecava contro la sua lucciola scomparsa, contro la gente pazza che li attaccava e contro divinità che non conosceva.
Ùranus invece si fermò, voltandosi verso l'uomo e fissandolo dritto negli occhi.

<< Che fai! Dannato stupido, togliti di lì!>> Lea lo guardò allarmata, tendendo un braccio verso di lui senza riuscire a raggiungerlo.
<< Ùranus! URANUS! >>
L'uomo lo fissò in silenzio, l'accetta in mano, il braccio piegato all'altezza dello sterno. Sembrava interessato, forse domandandosi perché non si fosse nascosto o forse aspettando di vederlo estrarre la propria arma. Non sapeva nulla di lui e delle sua cultura, magari per la sua gente gli uomini dovevano affrontare la morte a testa alta, un po' come per la propria. Non ne aveva la più pallida idea ma in quel momento l'unica cosa che si ripeteva era che non poteva né permettere che quel folle l'inseguisse né che lanciasse a lui, o a Lea, quell'affare in pieno petto. O in testa. Sarebbe stato ugualmente terribile e soprattutto non sapeva che effetto avrebbe avuto su di loro, anime ormai morte da secoli, un colpo del genere.
Si sarebbero disintegrati? Sarebbero scomparsi? Sarebbero diventati cibo per Cerbero o magari gli Déi sarebbero stati magnanimi e li avrebbero rispediti ai Campi Elisi?
Non lo sapeva e non poteva neanche permettersi di ragionarci sopra.
L'uomo continuava a fissarlo senza dir una parola, probabilmente anche se l'avesse fatto non si sarebbero mai potuti capire. Si sarebbero accontentati di quegli sguardi attenti e carichi di una tensione che Ùranus non sentiva più da tanto, troppo tempo, e che aveva sperato di non sentir mai più.

<< Ùranus? >> chiamò piano Lea ora con più calma, la classica voce di chi cerca di far ragionare qualcuno. << Per favore… togliti di lì, forse riesco a rifare la luce, possiamo andarcene di qui il più velocemente possibile e- >>
<< Fallo.>> la interruppe parlando a voce bassissima, la folta barba a coprire il movimento delle sue labbra. << Fai la luce e poi chiudi gli occhi, non guardarmi per nessuna ragione al mondo.>> disse serio, senza distogliere la propria attenzione dalle iridi scure dell'avversario.
<< Cosa? Perché? Che vuoi fare?>> domandò ansiosa, cercando comunque nel contempo di respirare con calma e richiamare di nuovo a sé quella luce flebile ma così essenziale.
<< Tu giura di non guardarmi. Fidati di me.>>
<< Non far nulla di pericoloso… >> azzardò la ragazza, il suo tentativo di calmarsi andato a farsi benedire assieme a tutti i santi che aveva tirato giù poco prima.
Un sorriso piccolo ed invisibile tirò le labbra del giovane. << Non lo sarà, non per me.>>
Non attese di ricevere una risposta, di sentirsi dire d'esser pronta, sperò semplicemente che Lea avesse davvero chiuso gli occhi e che non lo stesse osservando o sarebbe stato davvero difficile riuscire poi a portarla lontana di lì, soprattutto non avrebbe saputo dove andare.
Continuando a guardare l'uomo Ùranus cercò di convogliare in sé tutta quell'energia che normalmente era dispersa nel suo corpo, proprio come gli aveva detto suo padre anni addietro.

 

È dentro di te, è tutto dentro di te, Ùranus. L'energia, lo scorrere delle linee magiche, della vita, il filo eterno ed indistruttibile del destino. Ogni cosa è insita in ogni essere. Concentrati, non perder di vista il tuo obiettivo. Diventa tutt'uno con quell'antica potenza e riuscirai dove nessun uomo mortale può.
Nessuno può piegare il Fato al suo desiderio. Nessuno può piegare la Terra al suo volere od il Cielo, ma tu figlio mio, così come gli Déi, puoi piegare gli uomini e non miseramente nel loro corpo, quanto nel loro animo. Piega la loro ragione, piega la loro mente e avrai un dominio che nessun re o sovrano possiede.”

 

Concentrare tutta la propria forza, piegare non il Fato, non il Cielo o la Terra, ma piegare gli uomini. Non piegare la loro schiena, ma piegare la loro mente.

 

Agli Déi è stato dato il gran dono di possedere un elemento e spesso molti di noi condividono poteri diversi su uno stesso dominio, ognuno interpretando l'antagonista dell'altro, facendoci piatti opposti di una bilancia invisibile. Molti altri oltre a me possono influenzare così pesantemente il cuore di un uomo, ma ricorda: non è amore e dolcezza quella che scaturisce dal nostro tocco, quella che si evince da ogni nostro sguardo. Ricordalo bene, figlio mio, sangue del mio sangue, non siamo destinati a seminar amore ma solo a raccogliere tempesta.
Il giorno in cui deciderai di usare ciò che la vita ti ha donato, sappi a quale alba andrai incontro.”

 

Il rumore del vento che soffiava forte nelle praterie vuote, frustrando l'erba alta, perfetto nascondiglio di piccole prede che si accovacciavano attente e vigili ad ogni vibrazione del terreno, in quelle lande adibite alle corse libere di stalloni dalle zampe potenti, gli zoccoli consumati dal trotto ed i muscoli guizzanti. Poteva sentire quello della coscia di un magnifico esemplare contrarsi sotto la sua mano, sentiva il sapore del fieno fresco in bocca, entrato direttamente dal naso, scivolato lungo la trachea sino ad annidarsi nel suo stomaco. C'era anche un vago aroma di fumo, di legno profumato e bruciato e c'era… c'era odore di sangue.
Davanti ai suoi occhi, per un secondo ciechi al mondo circostante, una giovane donna era riversa a terra, il petto e lo stomaco aperti in un unica linea netta, come le bestie da macello.
Improvvisamente la mano poggiata sulla coscia tonica del cavallo gli parve umida, appiccicaticcia e l'arma che teneva nell'altra – quando era successo? Era sempre stata lì?- assunse forma, struttura, pesantezza.
Avrebbe voluto abbassare lo sguardo per vedere cosa fosse, ma in cuor suo Ùranus sapeva di star stringendo un'accetta dalla lama in pietra levigata e tagliente. La stessa che anche l'altro uomo teneva in mano, la stessa che questo lasciò cadere con un tonfo sordo indietreggiando senza staccargli gli occhi di dosso.
L'ambiente arioso e sconfinato che l'aveva ospitato sino a quel momento cominciò a svanire, un luogo così lontano dalle sue terre e che mai, neanche se fosse rinato a nuova vita, avrebbe più potuto veder con i suoi occhi.
Ma non ne aveva bisogno, avrebbe potuto conservare per sempre quel ricordo, quella frazione di tempo in cui la prateria del vecchio e lontano West gli era apparsa in tutta la sua bellezza e la sua perfezione, prima che il sangue ed il respiro pesante di un uomo a lui sconosciuto infangassero quell'immagine, prima che le grida di preghiera di una donna giungessero alle sue orecchie assieme alle maledizioni che aveva urlato a gran voce prima di morire. Le stesse che ancora rimbombavano nella sua mente, le stesse che il guerriero davanti a lui, ora inginocchiato per terra, sentiva dentro di sé.

Non rimase a guardare cosa sarebbe successo, se il pellerossa – la sua mente gli consigliava quello come termine – si sarebbe ripreso o sarebbe rimasto invece lì, agonizzante sul prato. Ùranus deglutì cercando di scacciare quei suoni molesti dalla sua testa, cercando di ignorare il tanfo di sangue, il puzzo di cavallo ed il nervosismo che l'animale stesso gli trasmetteva e si voltò verso Lea e la trovò ad occhi serrati, a mormorare parole a lui incomprensibili con le mani premute sul petto, sotto di esse le stesse leggere auree luminose viste in precedenza.

<< Forza, dobbiamo andare, non so per quanto funzionerà.>> la prese per le spalle e la tirò su, spingendosela davanti per poterla direzionare meglio verso i corridoio.
Lea rabbrividì, la luce delle sue mani tremulò come una candela esposta al vento, il suono di una porta che veniva accostata con attenzione le solleticò la mente, il ricordo di una voce indefinita che diceva qualcosa, il tono basso, confidenziale… dispiaciuto?

Nel fiume sì-”
- metà, non si s-”
“ terribile,tutto per quella dannata-”

Mi spiace Elena…”

La ragazza impuntò i piedi a terra, il tremore divenne più forte ed un brivido gelido l'avvolse velocemente, come il vento freddo che tirava la mattina davanti al Duomo.
<< No- no io… non posso- >> balbettò senza senso.
<< Cosa? Cosa non puoi? Lea? Non abbiamo tempo!>> provò l'altro spingendola.
La sua forza era decisamente superiore alla resistenza che Lea poteva opporre e ben presto si ritrovò ad inciampicare nei suoi stessi passi.
<< Mi dispiace, mi dispiace tantissimo, ne sono profondamente addolorato, qualunque cosa tu stia provando- ma non possiamo fermarci ora.>> Malgrado le sue parole però Ùranus si bloccò, la fece girare verso di lui e le prese le mani nelle sue, aprendole a forza e liberando quella leggera scintilla di luce calda che tremò davanti a loro come stava facendo la sua padrona.
<< Veloce! Guidaci fuori di qui!>>
L'ordine perentorio del ragazzo sembrò arrivare dritto nella testa di Lea, come una freccia ben scoccata.

Come un pugnale lanciato con estrema precisione.
 

Perché è così che facciamo noi!”
 

Una scossa elettrica sostituì i brividi, le mani di Ùranus strette attorno alle sue divennero improvvisamente più reali, più materiali, calde e quasi sudate.
Elena alzò la testa verso il suo compagno, cercando quegli occhi gentili ma così terribilmente freddi ma Ùranus rifuggì il suo sguardo, abbassando il capo e voltandosi verso le sue spalle, come se stesse controllando che nessuno li avesse seguiti fino a lì.
Lea lo fissò rigida, qualcosa le diceva di eseguire al più presto l'ordine che Ùranus le aveva appena dato o sarebbe successo qualcosa di brutto, qualcosa che avrebbe preferito di certo non accadesse.
Annuì incerta a fece scivolare le mani dalla presa dell'altro.

<< Andiamo allora, da questa parte.>> disse riprendendo quel controllo che le era sempre stato invidiato nelle situazioni più delicate, quello che il semplice tocco di una persona amica gli aveva tolto come un colpo in pieno petto.
Ricominciarono a seguire la lucciola, senza guardarsi o parlare per lungo tempo.
Quella vocina che le aveva suggerito di sbrigarsi ed accontentare le richieste del ragazzo rimase seduta nel fondo della sua mente, isolata ma non nascosta.
Un'altra voce invece, decisamente maschile e sconosciuta, le suggerì con tono sibilante una risposta che avrebbe voluto non sentire

 

Istinto di sopravvivenza. Si chiama istinto di sopravvivenza mia cara.
Incredibilmente potente, non credi?

 

 

 

*

 

 

Eliza aveva imparato a marciare e ad eseguire gli ordini come ogni altro soldato e forse era per quello che non le stava pesando più di tanto seguire Nathan in giro per i corridoi d'edera che si arrotolavano su sé stessi come una matassa di fili erbosi e bui. Ciò che la disturbava invece era l'aspetto completamente identico che aveva ogni singolo cunicolo, la sensazione di essere già passata di lì, di aver già percorso quella via.
Il biondo, davanti a lei, continuava ad osservare attento il vetro lucido della bussola, alzando la testa per controllare che le svolte fossero libere, che dietro ad un muro non si nascondesse nessuna brutta sorpresa, nessuno mostro, nessuna anima armata o bellicosa. Lei invece copriva la retrovia.
Non avevano parlato, non molto e solo del labirinto e delle problematiche che gli stavano creando, ed andava bene, davvero, le avevano insegnato che parlare durante una spedizione era solo spreco di fiato, ma questo non significava che nel mentre non potesse pensare, che non potesse ragionare.
Inevitabilmente tornava sempre a Cade, alla sua decisione di allontanarsi da loro, che avevano un mezzo affidabile per uscire di lì, solo per riprendere un coltellino da intaglio. Non era un'arma vera e propria, non era come l'armamentario suo e di Nathan, ma evidentemente significava ben più di quello che il ragazzo avesse lasciato intendere. Ciò che però la lasciava più sorpresa era l'immagine della sua faccia così sicura e furbesca: Cade evidentemente sapeva come uscire di lì anche senza loro. Ma come?
Era ovvio che il ragazzo dovesse aver un qualche potere di discendenza divina che gli permetteva di orientarsi al meglio anche lì in mezzo, perché allora non aveva usato la stessa tecnica per arrivare al palazzo di Ade? Perché seguire loro? Solo per le parole della Guardia Imperiale?
Avevano parlato per un bel po' di discendenze e di Déi, ma sebbene quello di Nathan, Ares, fosse uscito subito fuori e la sua, Nike fosse stata scoperta fin troppo facilmente, Cade non aveva aperto bocca riguardo al proprio genitore divino.

<< Se pensi ancora un po' comincerai a far fumo dalle orecchie.>>
La voce piatta di Nathan la fece voltare verso di lui. L'uomo se ne stava poggiato con le spalle ad un muro, lo sguardo fisso verso il lato ancora inesplorato di quel corridoio.
Eliza gli si accostò, la spalla premuta contro il braccio solido dell'altro.
<< Ragionavo su Cade. Se n'è andato come se fosse convinto di poter uscire di qui quando e come vuole.>> confessò senza timore.
Lui grugnì. << È un coglione, ma non uno sprovveduto. Non mi convince, non so dirti perché ma ha qualcosa che non quadra secondo me.>>
<< Per quanto era confuso nelle Praterie?>> chiese alzando un sopracciglio.
<< Anche. La conosco la gente come lui, di solito non fa una bella fine, è quel genere di ragazzino che da piccolo imbratta i muri dei palazzi e da grande entra ed esce dalla prigione per furtarelli di ogni tipo, di quelli che i poliziotti ormai conoscono così bene da non dover neanche controllare per chiamare la madre perché l'hanno fatto così tante volte da conoscere a memoria il numero.>> si fermò un attimo e le lanciò uno sguardo valutativo. << Telefoni, non c'erano ai tuoi tempi, vero?>>
Eliza scosse la testa, infastidita dal tono di voce usato dall'altro ma del tutto intenzionata a non far polemica per così poco, non in quel momento.
<< No, ma ho capito il tipo.>>
<< E poi anche per la storia della Prateria. Lo sai, più sei stato uno stronzo in vita e più la foschia ha effetto su di te.>>
<< Ma era con noi nei Campi Elisi.>> gli fece notare.
<< Mh, che ne sai? Magari aveva qualche santo in paradiso.>> sogghignò cattivo e poi tornò a guardare davanti a sé, muovendo alla cieca una mano per togliersi quel prurito fastidioso che l'edera gli stava dando. << Se era così convinto di poter uscire da solo, comunque, buon per lui. Ma non farti illusioni, non credo lo vedremo al prossimo traguardo.>>
Con un verso infastidito Eliza si scostò qualche ciocca di capelli dal volto, maledicendosi per non averli tagliati di nuovo prima di partire, ancora più corti di quanto già non lo fossero in precedenza. Le foglie le pizzicavano il collo, le ricordavano il fastidioso prurito della lama ormai senza il giusto filo che le era stata passata sulla nuca per farle il taglio militare.
<< Come farà ad uscire secondo te?>>
<< Te ne frega davvero qualcosa?>> domandò Nathan scettico come sempre dando un'altra manata a quei dannati ramoscelli che gli grattavano la schiena.
Abbassò lo sguardo sulla bussola e bestemmiò a denti stretti: l'ago oscillava troppo, come se ci fossero più fonti a cui cercava di attaccarsi.

Come una dannata radio che prende due stazioni assieme.

E quelle cazzo di foglie...da quando l'edera era così dannatamente fastidiosa?
<< Poteva esserci utile e poi mi hanno insegnato che non si lascia mai un compagno indietro.>>
Eliza lo guardò con freddezza ma a Nathan non interessava minimamente: quella donna era un soldato tanto quanto lo era lui, conoscevano le stesse regole, gli stessi principi, solo che lui non poteva dare il colpo di grazia ad un commilitone in fin di vita per alleviare le sue sofferenze o sarebbe finito davanti alla corte marziale. O almeno non avrebbe potuto farlo in vita.
<< Non era uno di noi.>> disse secco menando una gomitata al muro.
<< Mi pare che anche lui sia un figlio degli Déi, quindi è decisamente uno di noi.>> ribatté lei.
<< Cazzo, hai capito cosa intendevo. Non aveva un minimo di disciplina e non stava mia zitto.>>
<< Perché parli di lui al passato?>>
<< Magari perché non è più un mio problema?>> sbuffò ironico.
Con uno strattone deciso si scostò dalla parete e la guardò in modo ostile. << E questa cazzo di edera mi sta già abbondantemente sulle palle. Da quando prude a sto' modo?>> ringhiò allontanandosi di un paio di passi. << Andiamocene di qui, per quanto ne sappiano questo labirinto infernale potrebbe anche essere vivo e decidere di mangiarci. >>
Non le diede neanche il tempo di annuire, girò sui tacchi e ricominciò a seguire la bussola, cercando inutilmente di stabilizzarla come poteva.
Eliza chiuse un attimo gli occhi e poi li alzò al cielo nero e roccioso. Da quando aveva conosciuto Nathan oscillava tra la soddisfazione nell'aver trovato un commilitone – seppur di svariati secoli dopo – e la rabbia per aver trovato un tipo del genere, così forte e capace ma anche inspiegabilmente pieno di sé e scontroso con tutti. Che fosse una qualche caratteristica derivata da suo padre, da sua madre, da suo nonno o chi per lui non le interessava, ma le dava così terribilmente fastidio saper di aver davanti qualcuno che la riconosceva e rispettava come soldato ma che al contempo si comportava come se lei non fosse altro che una recluta che doveva seguire il capitano, che doveva solo fargli da coda ed accettare tutte le sue decisioni. E lei non era di certo una sprovveduta alle prime armi, con o senza dannata bussola magica.

<< Ho fatto l'America, ragazzino, se non fosse stato per me e i miei compagni sareste ancora combattendo contro i Sudisti. >> soffiò inviperita.
<< Muoviti, non abbiamo tutto il tempo del mondo!>> la richiamò, ignaro del suo borbottio.
Eliza alzò di nuovo gli occhi al cielo ed espirò pesantemente. << Direi che ne abbiamo anche di più visto che siamo morti, non so se ti è sfuggito di mente.>> Si scostò anche lei dalla parete, districandosi da quei rami flessuosi che le si erano avvolti blandamente attorno alla vita.
<< Sì, beh, vorrei evitare di morirci di nuovo qui dentro, che dici?>>
<< Che sarebbe una liberazione probabilmente.>>
<< Che?>>
<< Che non sarebbe possibile.>> rettificò con impressionante serietà rimettendosi bene la giubba blu.
<< Non darlo per scontato, stiamo sempre parlando degli Déi, il detto “ne sa una più del diavolo” per loro è fin troppo azzeccata. Guarda che merda di posto che hanno partorito le loro menti bacate.>>
<< Ma sì, continua ad insultare gli Déi mentre siamo impegnati in una competizione creata da loro, ci sarà sicuramente utile.>> nel dirlo inciampò in qualcosa, rimettendosi in piedi in fretta e voltandosi indietro per osservare cosa l'avesse intralciata.
Non ascoltò la risposta piccata e infastidita di Nathan, non ascoltò neanche le sue battute sarcastiche su cosa avrebbero potuto fargli gli Déi o sul fatto che, secondo lui, si divertivano a sentirli tirar giù tutte le divinità del cosmo. Eliza tenne gli occhi puntati a terra, mentre in lei si ripeteva una frase detta poco prima dal compagno.

“… questo labirinto infernale potrebbe anche essere vivo e decidere di mangiarci.”

Un ramo d'edera si arrotolò su sé stesso, forse infastidito dal calcio che la donna gli aveva dato per districarsi dalla sua presa. Lentamente, come un essere vivente, come un covo di serpenti che sinuosi si muovono gli uni sopra gli altri, l'edera si spostò, s'arricciò, intrecciò i suoi rami e fece vibrare le sue foglie, scostandosi quel poco che serviva per lasciar cadere un oggetto piccolo ed affusolato, un po' consunto, un po' ruvido.
Eliza si abbassò con attenzione, senza spostare gli occhi dal muro in fermento ed allungando con cautela la mano per afferrare l'oggetto.
Leggero, leggermente bitorzoluto, freddo, bianco.

Una falange?

Un rumore improvviso esplose dalle mura. Nathan, a circa una decina di metri di distanza, si voltò di scatto e tornò verso di lei di corsa, fermandosi al suo fianco e portando in automatico la mano alla vita, dove però non trovò nessuna spada, nessun arma.

<< Cazzo!>> ringhiò tra i denti. << Dimmi che non sei stata tu o potrebbe essere la prima volta che mi ritrovo a far a botte con una donna.>> l'avvertì mettendosi in posizione difensiva.
Eliza lo fulminò con lo sguardo. << Non sono stata io, ma se vuoi possiamo risolvere la faccenda quando vuoi: non sottovalutarmi, ragazzino.>> soffiò minacciosa assumendo una posa palesemente da pugile.
Davanti a loro l'edera si contorceva ancora senza però perdere la sua forma perfetta di muro, come se a sostenerla vi fosse una lastra invisibile. A Nathan ricordò il terrario che c'era nella sua vecchia scuola elementare, quel microcosmo stretto nel plexiglass che ospitava formiche e vermi che si schiacciavano contro la parete trasparente in cerca di fuga, illusi dall'invisibilità del vetro. Un moto di nausea gli serrò la gola: malgrado quegli insetti non lo avessero mai minimamente infastidito, in quel preciso momento, ricordarli lo aveva disgustato in una maniera che non credeva possibile, come la prima volta che un suo compagno era stato ferito, come la prima volta che aveva tagliato in due un mostro, quando le viscere di quello erano cadute a terra in uno sfrigolare di bile e sangue marcio. Come se i muri d'edera fossero la pareti di un organo e loro solo qualcosa da assimilare, muovendo i propri muscoli per sciogliere quel cibo improvvisato, prendendone i nutrienti e risputandone gli scarti. Ad ogni nuovo intreccio un pezzo cadeva a terra, una tibia, dei denti, le costole, una clavicola, altre falangi, una rotula. Sì, pareva proprio che il muro fosse un gigantesco animale che, dopo un laudo pasto, risputava le ossa della sua preda, una ad una, pulite e perfettamente intatte.
A far da sottofondo al frusciare delle foglie c'erano mugugnii, urla trattenute, grida lanciate oltre la morsa serrata che chiudeva loro la bocca. In breve tempo i corridoi si riempirono di queste voci, centinaia e centinaia, imploranti, agonizzanti. Sovrastarono le grida di battaglia, le minacce ed il cozzare delle lame, gelarono le anime nelle loro pose, costrinsero molti a tapparsi le orecchie, a piangere disperati un terrore che non conoscevano e non volevano conoscere, qualcosa che li avrebbe tormentati per la prima volta o forse per la millesima.
Da dove provenivano? Chi erano quelle anime? O forse erano persone, forse erano tutti gli sciocchi che si erano persi nel Regno di Ade, tutti coloro che erano finiti lì per colpa del più famoso e letale Labirinto di Dedalo, forse erano mostri, forse… forse erano loro stessi, coloro che avevano fallito la prima prova e si erano dispersi per le Praterie.
Si ricordò di una vecchia voce che girava al Campo, quando i più grandi si riunivano davanti al falò la sera e raccontavano storie dell'orrore provenienti da un passato mitologico ma maledettamente vero: dicevano che nel Palazzo di Ade, attorno al suo trono fatto delle ossa dei più grandi e di più terribili uomini che avessero mai calcato il suolo terrestre, vi era un tendaggio nero e spesso, fumoso e mutevole come l'acqua, come la scia pallida che si alza dai fuochi sacri. In quel tendaggio, proprio come per il trono, era intessuto tutto ciò che rimaneva di anime che non aveano avuto il privilegio di potersi collocare in una delle tre zone infernali, anime che in vita avevano osato sfidare Ade stesso e che ora vestivano quell'essere immortale che li sfoggiava senza il minimo interesse, come un nobil uomo che non sa apprezzare i preziosi tessuti dei suoi abiti poiché abituato da sempre ad indossarne. Solo che Ade non se ne curava perché quello era un ulteriore trattamento di pena, un ulteriore tortura, vestigia sbiadite e dimenticate di vite di cui l'intero creato ignorava ormai l'esistenza. Esistere ancora ma non esistere, non valere, non sapere ma non poter dimenticare, non essere, non essere più nulla, neanche la trama viva del mantello di un Dio.
Era ipnotico il movimento delle foglie, lo strusciare dei rami gli uni contro gli altri, il rumore che facevano le ossa che cadevano a terra, le grida di tutte quelle anime disperse per il labirinto, nel labirinto, come coloro che componevano il tendaggio nero e mortifero del padrone di quelle lande maledette tanto dagli uomini quanto dagli Déi. Erano anche loro intrappolati lì senza possibilità di fuga? Anche loro erano stati destinati a quella fine?
L'idea di un tradimento lo congelò come aveva fatto quel dannato colpo che gli era costato tutto, pensare di essersi illuso di poter tornare indietro per poi finire in quel modo…
Una presa ferrea e decisa si chiuse sulle sue braccia, nel mezzo di quel cacofonico concerto che stava distorcendo l'aria sulfurea e stantia dei corridoi, rendendo quasi difficile vedervi attraverso, Nathan ricordò le innumerevoli volte che sua madre l'aveva afferrato e ritirato in piedi dopo una caduta, dopo esser andato a terra per non aver parato uno dei suoi colpi.
Il mondo tremò come la superficie di una cassa acustica, con una forza che non le avrebbe mai e poi mai attribuito Eliza lo sollevò di peso e lo scostò dal muro che si stava chiudendo su sé stesso, come un budello.
Nathan batté le palpebre shoccato, i piedi per un attimo privi d'appoggio ondeggiarono nel vuoto prima di ritrovarlo.
<< Non è il momento per farsi prendere da una paralisi, Nathan!>> Eliza gli tirò uno spintone in pieno petto ed il soldato si ritrovò con il sedere a terra. Da quando era così forte?
Con un ringhio infastidito si rialzò in piedi e si massaggiò il torace senza pensarci.
<< Che cazzo vi davano da mangiare?>> domandò sarcastico, senza riuscire comunque ad impedirsi di allungare una mano verso la compagna per invitarla, seppur involontariamente, ad allontanarsi anche lei e mettersi al sicuro nello stesso spiazzo largo in cui lo aveva lasciato.
Eliza gli lanciò un'occhiata fulminea da sopra la spalla ed indietreggiò di poco verso di lui.
<< Probabilmente non le schifezze che mangiavate voi.>> propose con un' alzata di sopracciglia. << In ogni caso, credo che questa non sia altro che la forza della Vittoria, che dici, tu che sai tanto degli Déi e dei loro figli?>>
Il biondo soffiò via una ciocca dalla fronte e sogghignò. << Dico che una figlia di Nike come te non l'ho mai conosciuta, ma forse sarà perché sei vecchia.>>
<< Ricordati sempre con chi stai parlando, moccioso, ti ho anche salvato la vita, vedi di non costringermi a farlo di nuovo.>>
La giovane indietreggiò ancora sino a raggiungere lo spazio libero, le dita di Nathan sfiorarono il suo braccio per poi poggiarcisi sopra ma nessuno dei due disse nulla, rimanendo solo in attesa che quel maremoto di foglie si fermasse.
Davanti a loro il cunicolo in cui si erano fermati era ormai chiuso, le ossa che si erano riversate a terra sparite sotto cumuli di rami d'edera.
<< Quindi è davvero vivo e cerca davvero di dividerci, il rosso aveva ragione.>> Nathan si spostò di lato, dando le spalle ad Eliza per controllare meglio i dintorni.
Schiena contro schiena i due si guardarono attorno attenti, all'erta, pronti a combattere contro qualunque cosa gli si sarebbe scagliata addosso, ogni colpo basso sferrato dall'ormai più che vivo labirinto di Ade.
Non avevano armi, erano del tutto svantaggiati, ma questo non significava che non si sarebbero battuti fino alla fine, fino all'ultimo respiro, se così si poteva ancora dire.
Nathan sentì Eliza posizionarsi meglio dietro di lui, poteva avvertire la scapola pungolarlo in mezzo alla schiena. In un attimo si ritrovò a ragionare su quanto sarebbe stato utile aver ancora il suo mitra e si domandò quando invece avrebbe potuto fare il fucile della ragazza. Le guerre di secessione avevano sempre portato innovazioni, nuove armi, nuovi modi per ammazzare la gente e malgrado sicuramente tra il suo armamentario e quello della ragazza non c'era storia, forse il suo sangue divino le avrebbe permesso di far danni, di far centri, anche con quel pezzo da museo.
Un pezzo da museo che comunque non aveva più.
Quasi si maledì per non aver seguito Cade, per non avergli chiesto di trovare anche la sua di arma, adesso sì che lo capiva... anche se cazzo, lui aveva un fottuto fucile, non uno stupido tirapugni o un coltellino da intaglio.
Quell'attesa poi lo stava snervando: Nathan era un uomo d'azione, da obbiettivo ben chiaro e attacco brutale e veloce, ma certo non era da guerra di posizione, assolutamente no, il Vietnam ne era stata la prova, le lunghe attese di vedetta l'avevano sempre ucciso.
Eliza, invece, sembrava maledettamente a suo agio. Ferma in posizione, la testa incassata nelle spalle, le braccia piegate nella classica posa da pugile.
Non era mai stato un grande amante della storia, ma essendo figlio di Ares per lui era risultato sempre facilissimo riconoscere divise, armi, mezzi, movimenti militari, tecniche. Eliza aveva l'abbigliamento, il portamento e, prima, le armi di un soldato del 1700, della seconda metà per la precisione. Attendere che qualcosa succedesse, che qualcuno sparasse un colpo, che il generale di turno, in sella al suo stallone, chiamasse l'attacco, era una cosa che la donna di certo sapeva fare e per questo motivo Nathan si sentiva ancora più innervosito. Odiava quando qualcuno riusciva meglio di lui in una qualunque cosa che riguardasse la lotta.
Lucy glielo aveva ripetuto all'infinito, prendendolo a scappellotti proprio come faceva sempre Alexia, che quella sua smania di fare, di essere il migliore, di agire sempre e comunque di testa sua “perché sì”, prima o poi gli si sarebbe ritorto contro.
Ed ora lo sentiva tutto, Nathan, quel dannato problemino che di solito lo aiutava e che invece in quel momento lo stava affossando: l'iperattività.
Odiava anche questo. Ad essere onesti Nathan Wright odiava un po' troppe cose, come doversi attenere ad un piano e non poter sfogare tutta la sua forza bruta sul nemico di turno facendolo a pezzi e cancellandolo dalla faccia della terra.
Sentiva i nervi a fior di pelle, vedeva l'edera muoversi lenta come se non avesse nessun altro pensiero – sempre che l'edera potesse pesare! - come la risacca del mare che si muove con il suo tempo, con il suo ritmo, ignorando l'uomo e le sue necessità.
Perché non li stava attaccando? Perché si era limitata a sputare fuori ossa e basta? Dalle urla che erano arrivate dai meandri del labirinto quei dannati rami dovevano aver preso qualcuno ed averlo fatto fuori in un modo atroce e definitivo. Questo era attualmente l'unico punto su cui Nathan era sicuro: se le anime potevano essere torturate nei Campi di Pena significava che potevano soffrire anche lì, nel labirinto e a quanto pare l'edera era una sadica bastarda che disintegrava anime. O che come minimo le intrappolava tra le sue foglie per sempre.
Ma dove finivano poi quelle anime? E quelle ossa, di chi erano visto che i loro corpi, per la maggior parte, erano stati bruciati come da tradizione?
Probabilmente sarebbe rimasto lì a pensare per sempre, impegnando la sua mente con ragionamenti contorti pur di scappare alla stasi dell'attesa, se solo Eliza, di punto in bianco, non si fosse slanciata proprio verso uno dei muri ancora in movimento.

 

 

*

 

 

Il colpo non arrivò mai. Quel colosso non si abbatté su di lui ma qualcosa lo toccò ugualmente.
Dopo tutti quegli anni passati in completo isolamento, senza che nessuno avesse il coraggio anche solo di sfiorarlo, temendo i dolori atroci che un contatto diretto con la sua anima avrebbero potuto provocare, Jonas quasi non registrò il pensiero fugace che era passato per la sua mente:

Mi hanno tirato su.

L'avevano tirato su? Ma chi? Come aveva fatto?
Mosse le gambe in cerca di un appoggio solido su cui issarsi e spalancò gli occhi quando si rese conto che sotto di lui c'era il nulla.
In un istante un ricordo lontano gli sfiorò la mente, sua madre, più giovane e serena di quando l'aveva lasciata, che lo sollevava da un lettino e gli sorrideva, tirandolo su, all'altezza del suo viso, facendo sfiorare i loro nasi assieme. Qualcosa di così raro, di così sfocato… qualcosa che la donna forse non aveva mai più fatto, obbligata dal suo stesso padre a comportarsi “come si deve”.
Jonas chiuse un attimo gli occhi, solo per potersi concentrare su ciò che veramente contava, ovvero che qualcuno l'aveva salvato dalla carica di un'anima decisamente bellicosa e pronta ad ucciderlo di nuovo. Sempre che fosse possibile.
Chi mai poteva esser così altro e così forte da sollevarlo ad una tale altezza con così tanta facilità?

Il guerriero nero!

Quindi l'avevano ritrovato! O forse si erano semplicemente imbattuti in lui ed avevano deciso di andarlo ad aiutare. Non sapeva quali fossero le loro motivazioni, ormai si era fatta strada in lui l'idea che il ragazzo biondo, Cicno, avesse un qualche tornaconto nel prestargli soccorso, ma sinceramente non gli interessava, non finché questo significava rimanere in gara.
Abbassò lo sguardo verso terra, cercando conferma della sua idea, aspettandosi di vedere le gambe muscolose e massicce del guerriero, ma le sue aspettative furono decisamente deluse, perché sotto di lui c'era esattamente-

Nulla? Ma che cazzo… ?

L'improvvisa consapevolezza di star fluttuando a quasi cinque metri da terra lo fece agitare. Jonas provò a muoversi senza successo, ottenendo solo di ondeggiar ancora di più e di ricevere in risposta quelle che, malgrado ignorasse dialetto e provenienza, avevano tutta l'aria di essere imprecazioni di un certo spessore.

<< WOW! Seas go fóill! >>
La voce che gli giunse alle orecchi era chiara e decisa, giovane, maschile e soprattutto veniva dá sopra di lui.
Jonas alzò lá testa, tirando inavvertitamente una capocciata dritta sul naso del suo salvatore che sí esibì in un'altra serie di improperi degni di un carcerato.
<< Cazzo!>> ringhiò trá tutte le bestemmie.
Quello indietreggiò urtando uno dei muri, abbasandosi e poi riprendendo quota. In un su e giù continuo, come il salto di un cavallo imbizzarrito, Jonas sí trovò suo maldrado costretto ad afferrare le braccia dell'uomo per aver un minimo di stabilità in più.
Sotto di loro il colosso stava combattendo contro altre anime appena arrivate e di cui il biondo ignorava l'identità, má in quel momento non era importante, tutto ciò che contava era il suo precipitare verso terra.
Scivolarono in un vicolo secondario, Jonas rotolò via, il piede poggiato al suolo malamente, portandosi dietro anche l'altro che però, a differenza sua, con un salto ben calibrato sí rimise subito in piedi.
<< Diamine ragazzo, te la sei vista brutta! Che gli avevi fatto a quella bestia? Ti senti bene?>>
Jonas scrollò la testa per riprendersi da quel ruzzolone, aveva una vaga sensazione di vertigine che a conti fatti non avrebbe dovuto avere, ma erano così tante le sensazioni che stava provando durante quella gara, da quando era uscito dai Campi di Pena, che tecnicamente non avrebbe dovuto provare, che quel dannato giramento era forse l'ultimo dei suoi problemi.
Si girò, rimanendo seduto a terra ed alzando lo sguardo verso l'alto, verso il suo “salvatore”.
Forse fu la posizione in cui sí trovavano, o il fatto che il ragazzo fluttuasse da terra di un paio di centimetri, ma a Jonas parve estremamente alto.
La mascella ben definita e squadrata lo fecero classificare automaticamente come un giovane uomo, di certo più grande di lui, forse di venticinque anni addirittura, Jonas non poteva dirlo con certezza. Il naso dritto, lá fronte rilassata coperta da qualche ciuffo di capelli rossi e lisci. Era un bel ragazzo, su questo non c'era nulla da dire, ma aveva anche un ché di beffardo, di furbesco. Gli occhi verdi, di un verde vivo ed acceccante, come forse un morto non avrebbe dovuto averne, lo scrutavano con attenzione, lo valutavano così come Jonas stava valutando lui.

<< Stai bene?>> ripeté quello tornando con i piedi a terra ed avvicinandosi di qualche passo.
Era cauto, come se si stesse rapportando con un animale di cui doveva guadagnarsi la fiducia ed un po', Jonas si sentiva così, come un animale selvatico appena salvato dalla carità di un umano ma che ancora non sa se potersi fidare ó meno.
Annuì comunque per buona educazione, il sottile istinto ormai radicato in lui che gli diceva di portar rispetto a chi gli era più grande, qualcosa che sí ripromise di abbandonarsi alle spalle in questo nuovo mondo, in quella nuova ma vecchia vita che si sarebbe guadagnato.
<< Sì, sì, tutto bene, ti ringrazio.>> disse a bassa voce, ancora un po' rintontito da tutto ciò che era successo.
Il ragazzo gli sorrise con una schiera di denti dritti ma leggermente ingialliti, qualcosa che Jonas aveva già visto e che, con una certa curiosità, gli fece sorgere spontaneo il dubbio di potersi fidare o meno di un giovane che doveva esser stato un accanito bevitore, in vita.
Chissà se si poteva bere alcolici anche da morti, chissà se ai Campi Elisi c'erano spacci come nella sua vecchia e cara Berlino.
L'altro continuava a fissarlo, in attesa di una sua mossa forse, o di altre parole. Aveva un'aria un po' crucciata e aprì anche la bocca per dir qualcosa prima che un tonfo e delle grida lo facessero girare verso la direzione da cui erano venuti.
Jonas si alzò in fretta, avvicinandosi al rosso senza rendersene conto, mentre quello allungava la mano verso di lui, schermandolo in parte con il braccio ed in parte facendogli cenno di non muoversi.
Un lungo attimo di silenzio seguì quel suono, nessuna delle altre anime fece un solo fiato, mentre un altro rumore cresceva lento e costante.
Era uno stormir di foglie, un fruscio fine e massiccio, consistente, come se del vento stesse soffiando in un bosco, muovendo tutte le fronde in una sinfonia di crescendo sempre più intensi.
Malgrado di foreste in vista sua ne avesse viste poche, Jonas non ci mise molto ad accorgersi che era proprio quello il rumore che andava diffondendosi tra i vicoli bui del labirinto, ma cosa poteva provocarlo?

<< Cos'è?>> non riuscì ad impedirsi di chiedere all'altro.
Il giovane drizzò meglio le spalle, la logora giacca scura parve tendersi, cercare di opporsi a quella dilatazione improvvisa dovuta forse al gonfiare dei polmoni dell'anima, un'azione inutile che però Jonas non poté certo criticare visto che, anche lui, tendeva ancora a prendere respiri profondi malgrado gli anni di prigionia e tortura.
<< Nulla di buono.>>
Il sussurro dell'altro strappò la sua attenzione dalla schiena ampia alla testa scompigliata di quello.
<< È vento?>>
<< No. No, non è vento. Il vento non fa così.>> disse sicuro.
<< Perché ne sei così certo?>> domandò guardingo. Quella situazione non gli piaceva, non era un grande esperto di lettura del comportamento umano ma era palese che il giovane si fosse irrigidito, che fosse in ansia.
Jonas sentiva la tensione pizzicargli sulla pelle, l'avvertiva nei peli rizzati delle sue braccia, sulla nuca improvvisamente coperta di brividi, su quel frescore fastidioso che gli giungeva alle caviglie. Le spine d'argento del suo collare gli parvero improvvisamente più aguzze, spinte verso la sua carne fredda e morta da una pressione maggiore di quella terrena, come se gli avessero puntato addosso un getto d'acqua invisibile ed impalpabile.
I capelli del ragazzo iniziarono a muoversi inquieti quanto lui, quanto pareva esserlo anche l'altro, animato dalla stessa identica impellenza che Jonas sentiva contrargli i muscoli, pronti a scattare al minimo segnale. Un segnale che, si accorse con sgomento, aspettava proprio dal giovane dai capelli rossi e che questo non tardò a dargli.

<< Riesci a correre?>> soffiò in un fil di voce che gli giunse alle orecchie come un segreto.
Jonas annuì.
<< Allora quando te lo dico io, corri indietro, non ti fermare e segui le mie indicazioni, arriveremo in un punto salvo in poco tempo. Rimani concentrato però, l'ultima cosa che ci serve è sbagliare direzione.>>
Leggermente piccato da quell'affermazione, come se fosse un moccioso che poteva confondere la destra dalla sinistra, Jonas arricciò il naso. << Non sono sordo e nemmeno stupido.>> sputò innervosito da tutta quella situazione.
Il ragazzo si voltò leggermente verso di lui, il naso dritto a dividere il volto pallido nella morte come forse lo era anche nella vita. I capelli rossi parvero improvvisamente più scuri, più pesanti malgrado il vento fantasma continuasse a muoverli. Il sorriso si aprì come uno squarcio tra le labbra morbide.
<< Certo che non lo sei, germanico, ma vorrei evitare che il mio amabile accento Irlandese fosse incompreso proprio in un momento del genere. Non ti sei accorto che non ti sto parlando nella tua lingua, figlio degli Déi?>>
Jonas sgranò gli occhi, fissando a bocca aperta il suo interlocutore senza parole.
<< Tu- cosa? Come- ?>>
<< Come so che sei un semidio? Diciamo che tra simili ci si riconosce?>> disse ammiccando.
<< Sei un semidio anche tu?>>
<< No, mi capita di fluttuare in giro per i labirinti quando sono sovrappensiero.>> sogghignò ironico. Non gli diede neanche il tempo di replicare che immediatamente tornò serio, << Sei pronto a correre?>>
Il biondo tornò rigido e sull'attenti, guardandosi attorno con apprensione ed annuendo debolmente.
<< Credo di sì.>>
<< Perfetto, alle brutte ti do una spintarella, non ti dispiace no?>> l'Irlandese fece un passo indietro, rivolgendo di nuovo il viso avanti a sé e poggiando con delicatezza la mano sul polso di Jonas.
Un brivido lo scosse, quel tipo lo toccava come se fosse una cosa normale, come se si conoscessero da una vita, e Jonas si ritrovò a chiedersi se facesse così con tutti o se si stesse prendendo quelle libertà perché era anche lui un semidio. Ciò che era certo era che la sensazione che il suo tocco gli trasmetteva aveva un ché di elettrico, di fluido e di freddo, uno spiraglio di vento che tira per una stanza chiusa e ti colpisce in pieno mentre il resto del mondo è fermo.
La corrente che tirava per il corridoio divenne improvvisamente nulla a confronto con quella scossa e Jonas si sentì come un uccello che dopo anni rimasto chiuso in una gabbia può finalmente rispiccare il volo e tornare a solcare i cieli con i suoi compagni, con uno storno che non l'ha mai abbandonato, mai, fino alla fine, fino a quanto il sole non è tramontato anche su di loro.
L'aria umida e satura d'edera s'impregnò di polvere da sparo, di fumo, di fogna, di pelle conciata e di pane appena sfornato, il mix di una strada di città sporca ma piena di vita. E pieno di vita si sentì anche lui, colmo di una sicurezza e di una famigliarità che gli era sempre mancata, che solo una persona era riuscita a dargli, un senso d'appartenenza che non aveva mia provato prima. Forte sopra tutto e contro tutti, che non doveva soddisfare aspettative, non doveva adeguarsi ad un'idea di perfezione impossibile da raggiungere, pregno di una forza che non conosceva, pregno di libertà.

 

E rimorsi, rimpianti, la consapevolezza di aver abbandonato chi si amava in uno dei momenti più delicati della loro vita, in un momento in cui sarebbe dovuto esser lì e da nessun'altra parte.

 

<< Anois!>>
Che lingua fosse quella, Jonas lo sapeva solo ed unicamente perché il giovane glielo aveva detto, ma non gli servì alcuna traduzione per capire che doveva muoversi e che doveva farlo anche in fretta.
Si slanciò in avanti eseguendo gli ordini proprio come gli avevano sempre insegnato a fare, con efficienza, senza chiedere perché senza porre ad alta voce tutti quei quesiti che si agitavano nella sua mente.
Il suono distorto di un ramo che si spezzava gli fece alzare gli occhi sulla parete alla sua sinistra, dove l'edera aveva iniziato a muoversi come una massa informe, come i tentacoli di un polipo che si aggrovigliano gli uni sugli altri.
Grida strazianti si alzarono dalle mura, così simili a quelle che aveva sentito nei Campi di Pena che per un attimo Jonas neanche vi fece caso.
Il terreno parve tremare sotto i movimenti improvvisi delle pareti di quel dannato labirinto, pezzi d'osso rotolavano per terra e Jonas rischiò quasi di metterci un piede sopra e cadere rovinosamente se solo un'improvvisa ventata non lo avesse rimesso in piedi. Si sarebbe voluto girare per sincerarsi che fosse stato il ragazzo con i capelli rossi a salvarlo – di nuovo – ma ne era convinto e per di più non poteva permettersi distrazioni.
Da quel poco che era riuscito a capire dai discorsi degli altri, da quelli di Cicno soprattutto, i semidei avevano dei poteri particolari ereditati dai loro genitori divini, che potevano usare a loro piacimento quando più credevano opportuno. Il risvolto della medaglia era la stanchezza fisica che ne derivava se si abusava di questo potere, e per quanto Jonas fosse abbastanza sicuro che da morti fosse difficile stancarsi, anche se a lui era capitato visto che era svenuto, non avrebbe voluto scoprire quanto ci metteva il rosso per finire i suoi poteri, per lo meno non in quella situazione.

<< A destra!>>
Il grido del ragazzo non servì a molto, Jonas abbassò la testa prima che i rami delle due pareti si chiudessero schiacciandolo in mezzo e fu con estremo sollievo che sentì il rumore del suo compagno di corsa che scivolava agilmente sotto l'arco erboso.
Non fece in tempo a girarsi per vedere come stesse l'altro che quello lo riafferrò per un braccio e lo spinse ancora una volta a destra.
<< Di qua, di qua!>> disse con una strana eccitazione nella voce, come se si stessero avvicinando alla maledetta uscita di quel labirinto. I suoi occhi brillavano così tanto che Jonas non poté far a meno di chiederglielo, ricevendo però in cambio uno scuotere di testa.
<< No, non c'è l'uscita, per quella ci vuole ancora molto.>> si piegò sulle ginocchia e fece un salto avanti, afferrandolo da sotto le braccia e tirandolo su per fargli superare con più facilità i muri che si stavano chiudendo, questa volta da basso.
Jonas gli lanciò solo un'occhiata fugace ma fu abbastanza interrogativa per far ridere l'altro di gusto.
Era assurdo: due minuti prima era serio e gli diceva di rimanere concentrato, poi ghignava divertito, poi era di nuovo serio e pronto all'attacco, concentrato come non mai, e poi di nuovo a ridere.

Dio, sono finito con un matto?
Aspetta, ma perché lo sto seguendo?

Se solo avesse potuto si sarebbe fermato nel mezzo del corridoio per prendersi a schiaffi da solo. Un tipo che volava lo salvava da un frontale con un gigante e lui lo seguiva senza problemi per i meandri di un labirinto ideato da una mente sicuramente malvagia e superiore a loro.
<< Non ci pensare ragazzino!>> gli gridò affiancandolo, quel sorriso beffardo ancora ben ampio sul viso. << Pensa solo a correre, non è bellissimo?>>
<< Correre come disperati perché un cazzo di muro d'erba ci si sta chiudendo addosso? Oh, ma sì, certo, è una delle mie attività preferite, ho sempre sognato di morire schiacciato da una massa di foglie!>>
Il rosso rise di nuovo, più forte di prima, i suoi piedi sfiorarono a mala pena il terreno mentre lui gettava la testa indietro e chiudeva gli occhi, neanche fosse in grado di vedere dove andasse.
<< Sarcastico e schietto, mi piaci!>> riaprì gli occhi, un verde accecante, troppo forte, troppo vivo, troppo splendente. Verde come i prati sconfinati dei dipinti, proprio come quelle colline Irlandesi che venivano descritte nei libri di storia, un verde più chiaro e fresco di quelli che poteva scorgere sulle vallate fuori dalla città, dalla zona industriale. Per un attimo a Jonas parve quasi di poter vedere l'Irlanda intera in quegli occhi vivi e felici, eccitati solo per il semplice fatto che il loro proprietario potesse correre. Come se per troppo tempo gli fosse stato proibito farlo.
Jonas perse un attimo per guardare di nuovo i suoi vestiti, per cercare di capire cosa vi fosse disegnato sul risvolto del bavero della giacca consunta, scorgendo macchie di colore crepato e le forme stilizzate di alcuni uccelli in volo, per capire se anche lui era un dannato che per tutta la sua morte era stato condannato all'immobilità, se magari fosse giunto in suo soccorso perché l'aveva riconosciuto anche come compagno di pena.
Alzando lo sguardo sul volto del giovane lo trovò intento a fissarlo di rimando, ignorando completamente il percorso davanti a loro ma evitando ugualmente tutti quegli ingombri che capitavano.
Allungò la mano destra verso la sua e Jonas non poté far a meno di stringergliela, con una naturalezza ed una semplicità che un poco lo lasciarono sconcertato: perché era così facile assecondare le parole e le azioni di quel ragazzo?
<< Hai anche un nome assieme a questo bel caratterino?>> gli chiese tirando giù la mano e facendogli schivare un paio di rami.
Annuì. << Jonas, Jonas Friedrich.>> disse con il suo marcato tedesco. << E tu? Ai pazzi si da ancora un nome?>>
L'irlandese rise ancora. << Stai davvero dando del pazzo a me? Che ti ho salvato la vita e ti sto portando al sicuro, quando sei tu quello che sta seguendo uno sconosciuto? Ne hai di cose da imparare ancora.>> sorrise in modo accondiscendente ma non come facevano tutti gli adulti che incontrava, come se si stessero relazionando con un bambino che non poteva ancora capire: sembrava che si stesse rivolgendo ad un fratello minore che aveva fatto una cavolata, magari anche a fin di bene, e che sapeva per certo si sarebbe reso conto di quanto fosse stato stupido, non sbagliando una seconda volta.
Da quando aveva iniziato quella gara Jonas si sentì per la prima volta libero di parlare, come se invece di aver un ragazzo di vent'anni e passa davanti avesse un ragazzino della sua età, quasi un amico. Non sapeva da dove provenisse l'altro, forse dal futuro, o forse no vista la foggia dei suoi vestiti, ma di certo, dovunque fosse quel luogo, non si faceva distinzione d'età, non come da lui per lo meno.
Si ritrovò a sorridere anche lui ironico. << Cosa vuoi che ti dica? Sono di buona fede e già morto, seguirti pare meglio di niente.>>
Altre risa gli sfiorarono le orecchie, Jonas non si era neanche reso conto che le urla si erano interrotte, tanto era abituato a sentirle, che ora c'era solo il rumore delle foglie d'edera che strusciavano le une contro le altre come serpi nel loro covo.
<< Non mi pari né uno che si fida di tutti, né uno morto, ma neanche io mi sento morto, quindi va bene così. Ad ogni modo, piacere di conoscerti Jonas, io sono Cade Griffith, ma mi chiamavano anche Grifone.>> concluse quello orgoglioso.
Il biondo alzò un sopracciglio, pronto ad una battuta pungente sui suoi dubbi che qualcuno lo avesse davvero mai chiamato così e soprattutto su quale sarebbe dovuto essere il motivo del soprannome, quando Cade gli strinse con più forza la mano destra e gli passò il braccio sinistro attorno alla vita, avvicinandoselo e stringendolo a sé.
<< Pronto a volare di nuovo? Facciamo un salto a prendere una cosa e poi filiamo all'uscita, ho un paio di amici da aspettare per sbattergli in faccia che ce l'ho fatta prima di loro.>>
Non gli lasciò di nuovo il tempo di dir nulla, si diede una forte spinta con le gambe e in un attimo si ritrovarono proiettati nel mezzo di un muro che si stava chiudendo.
Il salto fu di una potenza sorprendente, di un'agilità incredibile, e mentre il vento spingeva indietro i loro capelli, modellandosi attorno alle loro figure come se si stesse aprendo per loro, come quando ci si tuffa in acqua scavandosi un posto a forza in quel liquido denso e leggero al contempo, Jonas ebbe quasi la vaga sensazione che al suo nuovo conoscente fossero spuntate un paio d'ali , che il suo volto proteso in avanti fosse concentrato e sicuro come quello di un'aquila in picchiata, che le sue gambe avessero avuto lo stesso slancio di quelle di un leone.
Non sapeva quale fosse il motivo del soprannome di Cade, se fosse vero o inventato, non sapeva se quelle azioni, quelle “magie”, lo sorprendessero tanto perché non ne aveva mai viste prima d'allora o perché vi sentiva una profonda, incredibile ed intrinseca affinità; quello di cui era certo Jonas era che, in quel momento, la parola Grifone calzasse a pennello al giovane affianco a lui.

 

Quindi è questa la potenza di un figlio degli Dei?
Quindi è questo un semidio?

 

Una voce, dal fondo della sua mente, rise bonaria.

Oh, ragazzo mio, non ne hai idea. Non ne hai idea.

 

 

 

*

 

 

 

 

Il corridoio era vuoto, l'erba schiacciata dal peso di piedi morti che vi erano passati poco prima.
Aveva smesso di gemere, il labirinto, e di muoversi e contorcersi e di reclamare vite passate che si erano aggirate per le sue strade.
Silenzioso era tornato al suo posto, una nuova mostruosa formazione di dedali che aveva gettato nello sconforto anche chi, poco prima, aveva creduto di poter comprendere come uscire di lì.
In quella stasi solo un rumore di passi affrettati rompeva la quiete.
Un ragazzo di circa diciotto anni correva a perdifiato, gettando di tanto in tanto occhiate spaventate alle sue spalle. Il volto giovane era tirato, segnato da qualcosa che aveva visto forse in vita o forse nella morte e che non l'avrebbe mai più abbandonato. Sporco di terra, macchiato del verde della linfa delle foglie, così come lo erano i suoi indumenti, come le snekers usurate, i jeans strappati sul ginocchio e la maglia arancione, arrancava ora zoppicando, ora correndo con più decisione.
Dietro di lui passi secchi e lenti lo seguivano.
Il giovane batté le palpebre per scacciare quelle lacrime che gli offuscavano la vista, non avrebbe mai creduto prima che anche da morti si potesse piangere, ma evidentemente gli Inferi non erano così lontani dalla realtà.
Aveva paura, ne aveva sempre avuta quando andava in missione, ma ci si abituava, si cominciava a capire che quel brivido freddo che ti percorre la schiena è la cosa migliore che ti possa capitare, perché ti rende vigile, perché ti rende attento, perché tira i muscoli pronti a scattare al minimo rumore e mette in allarme quell'iperattività latente che ogni semidio cova in sé. Quando aveva deciso di partecipare, di tornare indietro nella vana speranza di riabbracciare i suoi genitori, pregando che non fosse passato troppo tempo, aveva pensato che sarebbe stato come una missione, come quando il Campo era stato attaccato, come quando aveva visto i suoi fratelli cadere uno dopo l'altro e si era reso conto che aveva mentito a sua madre, che non sarebbe tornato per il prossimo Ringraziamento. Sarebbe stato come allora, solo che questa volta era già morto, non rischiava di ripetere tutta la trafila, la sua sconfitta non avrebbe decretato la morte di altre persone. Doveva solo lottare per tornare su, per vedere di nuovo la sua famiglia, per vedere di nuovo il sole, sentire il calore sulla sua pelle, festeggiare un altro Ringraziamento e litigare con suo cugino su chi doveva prendersi il pezzo di torta più grande. Solo tornare ad una vita che gli era stata strappata troppo presto per colpa di una guerra che non era neanche sua, che lui non avrebbe mai dovuto conoscere, non a diciotto anni.
Ma non stava andando come credeva, ovviamente non stava andando tutto bene, quando mai la vita – o la morte – di un semidio andavano per il verso giusto? E ora rischiava di rovinare tutto, di esplodere in mille scintille, disintegrato dai colpi di un'arma che non avrebbe dovuto ferirlo, non da morto.
Doveva uscire al più presto da lì, se quel pazzo l'avesse raggiunto… lui voleva solo tornare sulla terra, voleva solo tornare da sua madre, dai suoi abbracci soffocanti e dalle pacche divertite di suo padre che lo rimpinzava di caramelle proprio come faceva la nonna.
Un singulto gli sfuggì dalle labbra: non doveva far rumore, ne faceva già fin troppo correndo, se anche altri l'avessero sentito… e non aveva neanche nulla con cui difendersi, cosa avrebbe fatto?
Abbassò la testa per trattenere un altro singhiozzo, doveva resistere a tutti i costi, doveva uscire di lì, doveva farcela, doveva uscire, doveva uscire.
Con un colpo secco però la sua corsa s'arrestò, facendolo cadere a terra.
Il ragazzo rimase immobile, congelato dal terrore. Non aveva sentito nulla, non lo aveva sentito arrivare, neanche un suono, neanche un passo.

<< Stai bene, ragazzo?>>

La voce calma che gli rispose aveva un sottotono roco, caldo, quasi vivo.
Alzò lo sguardo con titubanza, trovandosi davanti la figura alta e scura di un uomo vestito di nero, con una lunga palandrana da becchino. Il bavero alto era chiuso fino al mento, proprio sopra il bordo, neanche fosse poggiato a quello stesso, un sigaro bruciava appena, pigro.
Ma non era il completo dell'uomo a lasciarlo senza parole, non era il volto dai lineamenti decisi, il portamento rilassato, non erano i capelli gonfi e curati, l'altezza invidiabile e neanche il sigaro fumante. Il giovane semidio rimase a fissare l'uomo dritto negli occhi, come una povera vittima di Medusa, impossibilitata a distogliere lo sguardo. Forse, tutti i malcapitati che nel corso dei tempi avevano incontrato lo sguardo maledetto avevano provato la stessa identica sensazione che stava provando ora lui.


Annichilimento.


Non riuscì a parlare, a dire una sola sillaba, non seppe neanche per quanto rimase a fissarlo inebetito ma quando si riscosse era probabilmente già troppo tardi.
Il ritmico rumore di passi che l'aveva inseguito fino a quel momento era giunto sino a lui.
Un terzo uomo comparve nel corridoio d'edera, vestito con abiti quasi moderni, forse degli anni '20, forse dei '30, di sicuro era qualcuno che malgrado non avesse visto l'avvento di fucili come quelli che stringeva in mano, sapeva ugualmente come usarli.
Si fermò davanti ai due, gli occhi opachi di morte scintillarono di una follia che probabilmente gli era appartenuta anche in vita, rimasta marchiata nei proiettili che ancora laceravano la sua carne, che avevano sporcato la sua camicia di rosso ora tetro e terroso.
Non disse nulla, non ce ne sarebbe stato bisogno, erano due persone disarmate contro un pazzo con un fucile semiautomatico in braccio.
Il suono del grilletto fu l'unica cosa che risuonò prima della carrellata di colpi.
Il semidio chiuse gli occhi ormai conscio del suo destino: no, non ci sarebbe stato al prossimo Ringraziamento.



 

*



 

Erano letteralmente secoli che non si trovava più in una situazione del genere, schiena a schiena con un compagno, intenta a sopportare un attacco più violento degli altri.
Eliza si guardò attorno con attenzione, tenendo d'occhio quei muri che parevano quasi rallentare il loro continuo muoversi senza però volersi fermare.
Dietro di sé sentiva Nathan tendersi ad ogni schiocco di ramo, lo poteva quasi vedere sporgersi in avanti e poi tornare in posizione, infermo sui suoi stessi piedi per colpa di un fermento interno che non gli dava pace.
Non aveva la più pallida idea di come fosse la guerra ai tempi moderni, sempre che quelli di Nathan potessero definirsi davvero moderni o fossero già passati in secondo piano soppiantati da nuove invenzioni e nuove scoperte, ma ciò che aveva capito alla perfezione era l'incapacità del suo compagno di star fermo. Nathan aveva bisogno di muoversi, aveva bisogno di buttarsi nella mischia e le ricordò molti dei suoi ex commilitoni, uomini che in un primo momento le erano sembrati solo estremamente battaglieri ma che forse, invece, erano figli di Ares proprio come il ragazzo alle sue spalle.
Usciti di lì avrebbe chiesto al giovane come potesse riconoscere uno dei suoi fratelli, magari gli avrebbe descritto un paio d'azioni eroiche, alcuni loro comportamenti e Nathan avrebbe potuto dirle se erano semplici ma valorosi uomini o dei semidei, ma per il momento quei pensieri non dovevano disturbarla.
Eliza aveva passato settimane e settimane in marcia, aveva dormito in una tenda che era poco più di un panno appeso ad un'asta, aveva condiviso il freddo delle notti e la stanchezza delle giornate con persone che credevano in qualcosa di più grande di loro. Eliza aveva atteso, aveva atteso per tutta la vita, prima di poter esser abbastanza grande da esser rispettata, poi di poter imbracciare un'arma, aveva atteso suo padre di ritorno da qualche battaglia, aveva atteso che gli desse la sua benedizione e poi aveva atteso il ritorno del suo corpo. Aveva atteso il momento in cui nessuno si sarebbe più curato di lei, in cui si sarebbe potuta tagliare i capelli, metter abiti maschili ed imbracciare finalmente un fucile per difendere la sua patria e la libertà che vi regnava sovrana: che fossero Dei o demoni non le interessava, dell'edera maledetta non l'avrebbe tratta in inganno, non sarebbe stata colei che l'avrebbe fatta vacillare.

Sono morta, ho atteso in vita, posso attendere anche il doppio.

E ne era convinta, era convinta fino in fondo che sarebbe potuta rimanere lì, in posizione difensiva, finché l'edera non avesse smesso di muoversi e di contorcersi come vermi in un barattolo, ma così come aveva imparato a star immobile nell'attesa aveva imparato anche ad acuire la vista e scorgere cose che gli altri non riuscivano a vedere.
A posteriori aveva capito che anche quel tratto così sviluppato l'aveva ereditato dalla sua divina madre, il fatto che vedesse più lontano dei suoi ufficiali a cavallo l'aveva sempre resa orgogliosa. In quel momento però si domandò se forse non sarebbe stato meglio per lei veder come tutti gli altri comuni mortali.
Alla sua destra qualcosa si spostò, un movimento diverso da quello dei rami d'edera, che non aveva nulla di sinuoso o di ipnotico, niente del covo di serpi che le erano sembrai quei muri. Pareva quasi che vi fosse qualcosa al loro interno e non le banali ossa secche di qualche povera vittima rimasta lì intrappolata, ma qualcosa di più consistente, di più grande, come… un corpo?
Eliza sgranò gli occhi, la testa scattò di colpo nella direzione del movimento anomalo e non ebbe neanche il tempo di pensare che già il suo corpo si era slanciato verso le mura.
Sentì indistintamente Nathan urlarle ingiurie e domande scioccate ma non si fermò a fronteggiarlo, a spiegarli cosa avesse visto, sapeva per certo che in momenti del genere fermarsi equivaleva a perdere ogni possibilità di vittoria.
Si accucciò a terra, rimanendo in equilibrio sulle caviglie, pronta far leva, a far da contrappeso con il suo stesso corpo pur di tirarne fuori un altro lì intrappolato. Le sue mani si strinsero su qualcosa di freddo ma morbido, così simile alla carne da macello che per un attimo le vennero i brividi: aveva preso in mano tanti arti strappati da bombe e cannonate, riconosceva perfettamente la sensazione di un braccio morto. Ma questo non era come gli altri, era attaccato ad una spalla, ad un busto ed Eliza ci pensò, pensò seriamente che non aveva la più pallida idea di chi stesse tirando fuori, di chi era quella persona, che sarebbe potuto esser un dannato, un mostro, un assassino, uno dei suoi nemici, magari il bastardo che aveva ucciso lei o quello che aveva ucciso Nathan, ma c'era qualcosa che le diceva di impegnarsi con tutta sé stessa e di salvare quell'anima: perché lei aveva sempre combattuto per la parte giusta, aveva salvato vite e non avrebbe smesso di farlo neanche nella morte.
Con uno sforzo non indifferente strinse la presa su quel braccio ed infilò più in profondità il suo tra l'edera per poter prendere anche l'altro e tirar fuori quella persona il più velocemente possibile.
Ignoto o meno non sarebbe rimasta con le mani in mano a vedere un'altra anima mangiata da quel labirinto dannato.
Uno strano formicolio le si diffuse per tutto il corpo, una sensazione che aveva provato anche altre volte nella vita, come quando aveva preso in mano la sua prima spada, quando aveva imparato a sparare, quando sua madre le aveva donato quel ciondolo tanto importante e ora perso. Era la forza degli Déi che le scorreva nelle vene, era la potenza della Vittoria che le gonfiava i muscoli e la rendeva più resistente, più veloce, più divina che umana, la stessa potenza che le aveva permesso di alzare di peso Nathan e scaraventarlo via, la stessa che l'aveva tenuta in vita così tanto, che le aveva permesso di continuare a combattere malgrado le ferite finché non aveva sentito il crono suonare ed annunciare la resa del nemico. Una battaglia vinta, l'ultima a cui lei avrebbe partecipato senza mai poter veder vinta anche la guerra.
Da dietro di lei venne un singulto sorpreso, Nathan si era avvicinato intenzionato a strapparla di lì prima che l'edera divorasse anche lei ma si era fermato a qualche passo di distanza, ancora una volta ammaliato da qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere.
Una nebbiolina dorata avvolse Elizabeth, sprigionata direttamente dalla sua stessa pelle, ora più luminosa e viva di quanto non apparisse da secoli. L'edera parve quasi ritrarsi a quella presenza, mentre la giovane donna stringeva finalmente la presa sul corpo catturato e lo tirava fuori di forza, facendo leva sulle gambe e trascinando fuori dalle mura una figura esanime, svenuta ed un poco sfocata.
Si chinò per prenderla in braccio e allontanarla il prima possibile da lì e rivolse uno sguardo d'intesa a Nathan che si era immediatamente ripreso ed era corso ad aiutarla.

<< Portiamola via da questo cazzo di muro.>> disse con quel suo solito tono nervoso. << Anche se credo che la tua aura funzioni da deterrente per quella merda di edera. Che c'è stronza? Non ti piace la luce? Cresciuta per troppo tempo al buio?>> continuò decisamente più divertito.
Suo malgrado Eliza sorrise a quelle stupide battute, alzando gli occhi al cielo e sistemandosi meglio la ragazza in braccio.
<< Smettila di provocare l'edera.>> lo sgridò comunque.
Nathan alzò un sopracciglio e sogghignò. << Che sei, mia madre? Mi sculacci se continuo a “provocare l'edera”?>> la sfidò beffardo. Malgrado le sue parole però il suo comportamento diceva tutt'altro: la postura era rigida, all'erta, un braccio allungato dietro la sua schiena, senza toccarla, ma comunque pronto a spingerla via se ce ne fosse stato bisogno.
Eliza increspò le labbra in un minuscolo sorriso: quel ragazzo era una rottura di scatole, volgare e pieno di sé, si comportava come se nulla potesse interessarlo ma poi il suo corpo lo tradiva con azioni palesemente protettive.
<< Non so come ti hanno cresciuto, damerino, ma ai miei tempi più che sculacciate ti picchiavano con il bastone o con la cintura, e non si faceva certo attenzione ad evitare la cinghia.>>
Depositarono delicatamente la giovane a terra, facendo attenzione a non farle sbattere la testa, come se potesse ancora darle fastidio.
Era una ragazzetta di forse una ventina d'anni, con la pelle sbiadita come molte altre anime, i capelli castani corti alle spalle e sporchi proprio come i suoi vestiti, strappati e sfilacciati. Portava una paio di logore scarpe di cuoio, le caviglie fine erano macchiate e livide, i segni dell'edera parevano bruciature violacee.
Con uno sguardo i due soldati videro riflesso nel volto dell'altro la stessa domanda: era forse una dannata, viste le condizioni pessime in cui versava il suo abbigliamento e lei stessa? O forse era stato il muro a ridurla in quel modo?
Eliza alzò lo sguardo sulle pareti erbose che li circondavano, cercando una risposta che quelle mai avrebbero potuto darle. Le foglie avevano smesso di muoversi, il suono lamentoso andato a scemare lentamente. Così come tutto quel caos era arrivato se ne era andato ed ora non rimaneva null'altro che una nuova, mostruosa ed intricata rete di canali che aveva divorato anime di ogni tipo e lasciato nello sconforto tutte le altre.
 

<< Secondo te chi è?>>

La voce di Nathan la fece sospirare e tornare a prestare attenzione alla giovane.
Aveva un viso giovane ma proprio come il suo era segnato da qualcosa che l'aveva ferita profondamente.
Scosse la testa. << Non so proprio cosa risponderti, lo sapremo solo quando si sveglierà.>>
Nathan annuì. << Non possiamo aspettare qui però, dobbiamo muoverci.>> si chinò vicino alla giovane e la tirò su per le braccia. << Aiutami a mettermela sulla schiena, la porto io.>>
Eliza sorrise, sorreggendo l'altra. << Mi pare il minimo visto che sono stata io a tirarla fuori.>>
<< Ehi!>> saltò subito su Nathan. << Eri dritta davanti a lei, io non l'avrei mai vista, le davo le spalle.>>
<< Continua a cercare giustificazioni.>> sogghignò divertita dall'aver trovato qualcosa con cui punzecchiarlo.
Quel piccolo scambio di battute stava alleggerendo un aria pesante di troppe cose, e non era solo lo zolfo e la mancanza di una finestra aperta a lasciarli senza fiato, in senso metaforico e non. In poco tempo, quanto non avrebbero saputo quantificarlo, si erano ritrovati chiusi in un labirinto, avevano capito che gli Déi volevano dividerli, si erano divisi a loro volta, si erano persi, la dannata edera si era svegliata neanche fosse uscita dal letargo e avevano trovato una ragazza tra i rami. Quello, almeno per Eliza, era abbastanza per metterla in tensione. Per Nathan, almeno da quello che la mora poteva vedere, era abbastanza per fargli saltare i nervi. Quindi se prendersi per il culo a vicenda sarebbe servito a farli rilassare un minimo, per quella volta Eliza avrebbe tollerato anche le battute più inopportune.
Ora dovevano solo trovare la via per uscire di lì.

 

Piccoli sobbalzi ed un lieve movimento. Un appoggio solido e ampio, qualcosa di ruvido ma resistente sotto la guancia. Le sue mani oscillavano nel vuoto, le braccia poggiate su un appiglio morbido ma sodo. Sentiva qualcosa solleticarle la fronte, i suoi capelli probabilmente, ma le parevano più duri, più corti.
Con fatica Jane aprì gli occhi, la pesantezza che sentiva alla testa le ricordò terribilmente i suoi risvegli in solitaria, dopo quegli incubi terribili o quei malori ingestibili. Lasciò solo per poco che l'ironia di quel pensiero – ricordo – le solleticasse la mente, prima di tornare ad impiegare tutte le sue energie nel capire cosa stesse succedendo.
C'era un brusio di sottofondo, il chiacchiericcio basso di due voci che si ponevano domande e davano risposte a vicenda, la conversazione di qualcuno che si trovava a proprio agio con l'altro. Era con qualcuno dunque? Ma chi mai l'avrebbe raccolta da dovunque si trovasse per portarla con sé? Non conosceva nessuno, o per lo meno non aveva mai incontrato nessuno che tenesse così tanto a lei da preoccuparsi della sua incolumità. Ma poi, quale incolumità? Cos'era successo?
Chiuse forte gli occhi, la testa le doleva come non succedeva da troppo tempo, girava tutto e quel continuo muoversi non l'aiutava per niente.
Cercò di ricordare, di far mente locale: era entrata nel labirinto, non aveva trovato nessuno per le strade e la cosa l'aveva sconvolta. Poi… aveva incontrato degli altri partecipanti forse? No, aveva sentito dei rumori? Si era accostata al muro perché era spaventata da qualcosa, qualcosa che le sfuggiva, che non riusciva proprio a visualizzare. Aveva paura, questo lo sapeva per certo e poi aveva sentito l'abbraccio di sua madre, le sue rassicurazioni… solo che non era sua madre quella che l'aveva stretta, non erano le sue braccia morbide e protettive.
Con un sussulto Jane si mosse rischiando di precipitare a terra.
L'edera. L'edera l'aveva presa, l'aveva trascinata nel muro! Poteva ancora sentire quei rami fini e lisci avvolgersi attorno alle sue gambe, li sentiva risalire il polpaccio e stringere la coscia, serrarsi attorno alla sua vita, comprimerle il petto e legarsi attorno al suo collo, alla sua bocca, impedendole di urlare, di muoversi, di scappare.
Il brusio s'interruppe di botto ma Jane non se ne curò, tenendo gli occhi spalancati nel tentativo di vedere qualcosa, di mettere a fuoco il mondo attorno a lei.
Qualcosa la teneva ancora, non era un ramo, era più consistente, qualcosa come- come delle braccia. Qualcuno al stava tenendo in braccio?
Lo spavento di quella realizzazione le diede la forza necessaria per premere le mani contro quella che ora, a rigor di logica, sembrava una schiena, e spingersi via da quell'uomo sconosciuto che la stava tenendo ferma.
Un grido le proruppe con forza dalle labbra, l'uomo cercò di trattenerla, lo sentì dirle qualcosa che parve molto uno “stai ferma” inframmezzato da imprecazioni che non aveva mai sentito ma che, se non fosse stato per il terrore che l'animava in quel momento, probabilmente l'avrebbero fatta arrossire e lasciata senza parole.
Si rese conto d'aver la gonna tirata su fino alle ginocchia, le braccia del ragazzo erano intrecciate sotto il suo sedere, le sue gambe ora nude e pallide a penzoloni oltre i fianchi del giovane.
Una paura che mai aveva avuto le serrò lo stomaco, la vergogna d'esser così esposta, di trovarsi in simili condizioni, in simili vicinanze con uno sconosciuto la fece agitare con ancora più impeto finché non riuscì a scappare dalle mani dell'uomo e cadere rovinosamente a terra.
Si girò verso il terreno, incapace di alzarsi sulle gambe inferme e fiacche ma del tutto intenzionata ad allontanarsi da quell'individuo, anche a costo di strisciare via.
I polsi le tremarono, poi le braccia ed in fine la forza le venne meno e cadde definitivamente al suolo, la faccia contro l'erba schiacciata ed umida del labirinto.
C'era solo odore di terra bagnata e di linfa, quell'odore opprimente e dolciastro che aveva sentito anche nel bosco, che un tempo le era piaciuto così tanto e che ora invece le faceva solo venir voglia di vomitare, solo voglia di scappare, di morire ancora ed il più velocemente possibile.
Il buio l'avvolse di nuovo e Jane ebbe a mala pena il tempo di distinguere, assieme alla voce alterata dell'uomo, una seconda voce seria e decisa.

 

 

 

*

 

 

Jonas non voleva crederci, gli veniva davvero da ridere in quel momento e non avrebbe mai pensato di poter fare una cosa del genere lì nel labirinto, o anche solo all'inferno.
Si lasciò andare contro il muro d'edera, per poi ritrarsi di colpo. Meglio star attenti, neanche dieci minuti prima quelle stesse mura si erano animate e avevano cercato di ucciderli, magari poteva anche evitare di cascarci in mezzo di proposito.
Riportò lo sguardo sulla scena davanti a sé e non riuscì ad impedirsi di ridacchiare.

<< Fammi questo favore, dai, sii collaborativo amico.>>
La voce cantilenante di Cade era palesemente divertita, almeno tanto quanto lo era Jonas e sicuramente molto di più di quanto non lo fosse l'uomo appeso a testa in giù davanti a loro.
<< Non lo so! Ti ho detto che non lo so!>> ripeté quello con uno strano accento che il ragazzo non riuscì a distinguere.
Cade intanto aveva alzato gli occhi al cielo. << Se, se, come no.>>
Se ne stava poggiato con il braccio alla parete, ignorando il buon senso che aveva detto a Jonas di non toccarle più, una gamba piegata, la caviglia incrociata a quella che sosteneva il peso di tutto il corpo. Stretto nella mano aveva un piccolo coltellino da intaglio che faceva roteare attorno alle dita, lanciava in aria e riafferrava al volo, fregandosene la pericolosità di quella lama che brillava nel cono di luce che pareva seguire ogni singola anima.
Jonas fissò per un attimo il coltellino e poi abbassò lo sguardo su l'arma che aveva consegnato a lui, che gli aveva “prestato” per così dire.
Quando Cade gli aveva detto che avrebbero dovuto fare una piccola deviazione, che c'era qualcosa che dovevano prendere prima di andare dritti all'uscita, Jonas aveva seriamente pensato stesse parlando di un'altra anima, di qualcuno a lui caro. Gli era ancora del tutto ignaro il modo in cui il giovane irlandese riuscisse a spostarsi con così tanta facilità in giro per il labirinto, ma c'era da dire che finché lo portava al sicuro e gli faceva evitare gli scontri diretti con gli altri contendenti, era più che disposto a seguirlo. Certo, c'era quel leggero fastidio di dover sempre e costantemente star dietro a qualcuno per trovare luoghi o uscirvene, ma Cade era completamente diverso dai suoi vecchi compagni d'avventura e questo lo rendeva molto più tranquillo e leggero di quanto non fosse stato in precedenza.
Rimaneva ancora da capire se fosse un dannato come lui o un eliseo, ma chiederglielo avrebbe implicato il sentirsi porre la stessa domanda e per di più, a meno che non li avessero bellamente rubati, il ragazzo aveva delle armi proprie.
Anche se un coltellino a serramanico non era proprio definibile come arma.
Ciò che invece aveva consegnato a lui erano una sottospecie di guantoni metallici, fatti a placche sul dorso della mano come i guanti dei cavalieri medievali. Sulle nocche erano saldati degli spuntoni un po' ammaccati ma che avrebbero sicuramente rotto uno zigomo con facilità; le dita culminavano in affilate riproduzioni di artigli dall'aria vagamente inquietante. Probabilmente i motivi per cui in vita l'avevano chiamato “Grifone” erano svariati e magari c'entravano anche quei guanti dal curioso colore ramato.

<< Con cosa hai detto che sono fatti?>> domandò sovrappensiero, dimentico dell'uomo bloccato per le gambe, sino alle ginocchia, nel muro d'edera, appeso a testa in giù come un salame.
Cade si sporse in avanti per guardarlo meglio, alzando un sopracciglio cercando di ricordare se l'avesse effettivamente informato o meno della cosa.
<< Bronzo celeste, roba utile per ammazzare i mostri, le armi normali non gli fanno niente.>>
<< E perché il tuo coltellino non è fatto dello stesso materiale?>> chiese ancora più incuriosito.
<< Perché ci devo intagliare il legno, non sgozzare manticore.>> disse quello ovvio, stringendosi nelle spalle e tornando poi a guardare l'appeso. << Sai, nei tarocchi saresti una carta vincente. O quello era l'impiccato? Non me lo ricordo proprio, la memoria mi gioca brutti scherzi ultimamente. Quindi, tornando a noi: un uomo con un vestito strano, fatto a righe, che si aggirava con un fucine strano, grosso, che sparava tanti proiettili assieme - >>
<< Si chiama semiautomatico.>> interruppe Jonas mentre giocava con i guanti metallici, chiudendo ed aprendo la mano per sentire che rumore facessero.
<< Sì, sì, quella roba lì. Era grigio ma anche color sabbia. Era grosso, aveva una cinghia e il tipo vestito a righe lo teneva in spalla.>>
<< Ma era vestito a righe grandi o fine?>>
<< Scusa amico, ma ce ne frega qualcosa?>> Cade lo guardò con una buffa espressione in volto, il naso arricciato e le sopracciglia aggrottate.
Joans annuì convinto. << Certo: se erano righe grandi era un carcerato, quindi un dannato sicuro, se invece era a righe piccole magari viene dagli anni venti.>>
<< Gli anni venti del tuo secolo?>> domandò questa volta il rosso incuriosito dalla piega che stava prendendo il discorso.
Jonas annuì una seconda volta. << Sì, 1920. Anche se non so quanto sia meglio, potrebbe essere un mafioso. Sai, credo che esistesse anche la mafia irlandese.>>
Cade gli regalò un sorriso accecante, che fece serrare le labbra al ragazzo per l'imbarazzo: come poteva avere una faccia così palesemente da schiaffi ma al contempo mantenere un aspetto affascinante? Probabilmente se ci avesse provato lui sarebbe solo sembrato ridicolo, magari era perché Cade aveva venticinque anni e lui solo sedici? Magari era dovuto a quello, sì, alla differenza d'età. Ciò che era certo era che Jonas non avrebbe mai scoperto come sarebbe stato una volta cresciuto… o forse sì.
<< Se c'è la mafia irlandese siamo di sicuro i migliori.>>
<< Non saprei.>> disse cercando di ritrovare un minimo di contegno. << Sottovaluti quella italiana.>>
<< Smettetela di parlare dannazione! Tiratemi fuori di qui!>>
L'uomo appeso si agitò senza pace, senza ottenere il minimo risultato se non quello di beccarsi un pugno su una spalla dal rosso.
<< Vedi di starti fermo, mi fai venire il mal di mare cazzo.>>
<< Righe grandi o righe piccole quindi?>>
<< Ce ne frega davvero qualcosa? A me interessa solo sapere da che parte è andato, se quello che aveva con sé era il fucile di Nathan quello stronzo mi dovrà pregare in ginocchio e ringraziarmi fino alla fine della competizione.>>
Jonas avvicinò la mano all'orecchio e mosse ancora le dita, il suono tintinnante del metallo gli ricordava un qualche strumento sentito in passato, così come gli ricordava il rumore del gancio che collegava il suo collare alle catene dell'ottava terrazza.
Rimase a fissare i riflessi rossicci ma al contempo freddi che risplendevano sul guanto di ferro, di bronzo celeste… ed in effetti, contro ogni logica, sul metallo lucido ballavano ombre azzurrognole, qualcosa di magico, di divino.
Rialzò lo sguardo su Cade, impegnato a spremere il tipo e lo studiò con attenzione: la sua posa era rilassata, le spalle larghe morbide, solo le sue mani si muovevano tradendo un nervosismo che Jonas scoprì esser simile al suo. Aveva pensato per molto tempo di essere “agitato”, che fosse un problema suo e di nessun altro, ma forse, invece, era un problema che accomunava tutti i figli degli Déi. Cade, a differenza sua, era solo più bravo a nasconderlo.
Continuò a guardarlo, ad esaminare ogni sua mossa, ogni espressione. Non si fidava ciecamente di lui, questo no, ma gli trasmetteva una sicurezza del tutto diversa da quella che emanava Cicno.
Cade era sicuro di riuscire a trovare un modo per affrontare qualunque situazione, anche se ignorava ancora quali queste fossero.
Cicno era sicuro di riuscire a salvarsi perché sapeva come muoversi, cosa aspettarsi.
Chissà che fine aveva fatto il greco, se avevano trovato un modo per uscire tutti loro o se invece era ancora disperso per quelle mura. Un poco gli dispiaceva per lui, lo incuriosiva terribilmente una persona che era vissuta in un epoca in cui gli Déi erano parte integrante della vita di ogni giorno, ma c'era qualcosa che non lo convinceva, che lo attraeva tanto quanto lo respingeva. Che fossero quei scintillanti bracciali donatigli da Thanatos?

<< Ehi?>>
Cade si staccò dalla parete avvicinandosi a lui, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni logori e quasi camminando sulle punte.
<< Ti ha detto qualcosa?>> chiese sforzandosi di lasciar perdere bracciali o collari magici.
L'altro si strinse nelle spalle, << Sì, ma non credo sia molto utile, il deficiente si è dimenticato di dirci che ha incontrato il pazzo con il fucile prima che si muovessero i muri. Quindi, a meno che tu non abbia qualcosa o qualcuno da recuperare, direi di uscire fuori di qui il prima possibile.>>
Gli batté una mano sulla spalla e poi si voltò verso uno dei corridoi che si aprivano da quello spiazzo.
Per un attimo un vento leggero mosse l'erba, una brezza che non aveva nulla a che vedere con quella fantasma che si aggirava per il labirinto ma che neanche si avvicinava a quella che aveva sentito durante la loro folle corsa.
Jonas osservò ammaliato quel venticello risalire da terra sino a carezzare i capelli rossi del giovane, vide la tela della giacca tendersi sulla schiena, come quando si prendere un respiro profondo, e poté sentire l'aria stessa entrare dritta nei polmoni dell'altro per uscirne con un sospiro pesante.
<< Allora? Hai qualcosa da prendere?>> chiese di nuovo girandosi verso di lui.
Il ragazzo lo guardò perso, battendo le palpebre per cercare di riprendersi, senza riuscire ad impedire ad un velo di tristezza di calargli sul volto.
<< No, non ho niente e nessuno, sono solo.>> lo disse con molta più amarezza di quanto non avrebbe voluto ed il suo sguardo basso gli impedì di notare quello intenso e scintillante di verde del compagno.
Cade strinse le labbra ed annuì, inclinando la testa per poi gettarla indietro.
L'aveva capito, non gli ci era voluto molto per rendersi conto che quel ragazzo era solo e che, a conti fatti, doveva venire dritto dai Campi di Pena. Cosa avesse fatto, perché fosse finito alla tortura eterna non lo sapeva proprio ma neanche gli interessava saperlo, tenendo lo sguardo fisso sul soffitto lontano e buio Cade si disse che se non fosse stato per quella dannata rivolta forse anche lui avrebbe cominciato la gara dai cancelli neri, forse tutto il bene che aveva fatto nel corso della sua vita non sarebbe bastato a sopperire quelle azioni deplorevoli, quei crimini di cui si era macchiato. Sua madre gli aveva sempre detto che ciò che più contava era la motivazione che ci spinge ad agire in un dato modo, ma in cuor suo Cade, per quanto fingesse di crederle e che non gli importasse, sapeva che c'era sempre stata un'altra opzione, che avrebbe potuto agire diversamente, che avrebbe potuto far altre mille cose. Solo… con quelle altre mille cose, sarebbe riuscito a sopravvivere? Sarebbe riuscito a proteggere sua madre e sua sorella? Sarebbe riuscito ad aiutare i suoi amici, quel gruppo completamente mal assortito che era diventata la sua famiglia, la sua banda?
Continuando a tenere il volto rivolto verso l'altro Cade abbassò lo sguardo spiando con attenzione i tratti tesi del viso di quel ragazzino, appena sedicenne, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, con il viso ancora delicato, poco marcato, ancora un bambino che aspetta di diventare uomo. Era piccolo, Jonas, per quanto la sua testa gli dicesse che non doveva sottovalutarlo, che aveva conosciuto bambini molto più piccoli di lui in grado di cavarsela anche meglio di lui stesso, Cade non riusciva a far a meno di pensarlo: era piccolo. Era piccolo ed era finito all'inferno, letteralmente.
Ma cosa poteva aver fatto di tanto male per meritarselo?
Ad esser completamente onesti con sé stessi, Cade si rese conto che non gli interessava. Aveva passato la vita con persone che, proprio come lui, sarebbero stati definiti più criminali che altro, scoprendo un lato umano, una bontà di cuore, una giustizia morale, che spesso neanche i più alti officiali e lord avevano dimostrato d'avere. Se quindi lui era finito nei Campi Elisi per una singola decisione giusta, Jonas poteva esser finito nei Campi di Pena per una singola decisione sbagliata.
Ora era lì, aveva deciso di intraprendere quel viaggio, quella sfida, per poter tornare a riveder le stelle e certo, Cade non l'avrebbe lasciato vincere perché, andiamo, c'erano di sicuro migliaia di anime con storie più tristi e dolorose delle loro e che avrebbero meritato più di ogni altra persona di tornare in vita, ma forse… forse poteva almeno aiutarlo ad andare avanti, a dimostrare quanto fosse forte, a dimostrarlo a sé stesso.
Cade non era mai stato questo gran ché di empatia, era schietto, attento, ironico, alle volte un pizzico cinico e troppo portato a dire ciò che pensava con furbizia, a fidarsi della sua parlantina, mascherando le sue vere parole, ma persino per uno come lui era chiaro che Jonas avesse qualcosa da dimostrare, che avesse bisogno di capire da solo quanto valeva. E, modestia a parte, Cade era sempre stato bravo ad aiutare i suoi uccellini a volare con le loro ali. Era sempre stato bravo a mostrare agli altri un assaggio di libertà, a raccontargli quanto fosse bella sino a spingerli a voler volare con le loro stesse ali. Era sempre stato bravo a dirigere un stormo.
E, cosa da non sottovalutare, Cade era pur sempre un fratello maggiore.

<< Beh, allora sei libero!>> Disse sorridendo e mettendoci forse anche più entusiasmo del dovuto.
Jonas lo guardò accigliato, rialzando il volto da terra e aprendo la bocca per dire qualcosa, qualunque cosa che però non gli riuscì di dire.
Che diamine voleva dire?
<< Io- cosa?>>
Cade rise. << Su, su, ti facevo più spigliato ragazzino! Sei libero! Non devi recuperare nessuno, non hai amici che ti aspettano o cose simili. Io ne ho due, di amici che mi aspettano intendo. Oddio, magari c'è anche qualche mio amico dei tempi d'oro ma non ne ho ancora incontrato neanche uno quindi non so se il calcolo sia al momento giusto, e ad essere sinceri non sono neanche mai andato a scuola, però! Resta il fatto: io ne ho due di amici che mi aspettano e sono abbastanza sicuro che al biondastro andrà il sangue al cervello quando ti vedrà con me!>>
Il ragazzo lo fissò completamente confuso, quel pazzo stava dando ancor più prova della sua scarsa sanità mentale. << Aspetta, che vuol dire?>>
Cade lo afferrò per un braccio e lo trascinò verso l'uscita giusta, ignorando del tutto l'uomo ancora appeso al muro.
<< Hai detto di essere solo, no? C'è questo tipo, Nathan, figlio di Ares, un rompi palle di quelli davvero notevoli, che si crede dio sceso in terra e tutte quelle cose lì. Ecco, già gli rode il culo perché la guardia reale gli ha detto di portarsi me e Elza in giro, poi crede pure di avere le risposte a tutte le domande del mondo e non credeva che io fossi in grado di uscire di qui da solo. È un soldato, non fidarti di lui- >>
<< Tranquillo, vengo da un'epoca in cui i soldati non erano proprio questo gran ché… >> commentò amaramente Jonas.
<< Come in tutte le epoche a parer mio. >> annuì l'altro. << Quindi, non credeva che io fossi in grado di uscire di qui e pensa che io sia un peso o cose simili. Ma quando mi troverà fuori ad aspettarlo allora dovrà rimangiarsi quello che ha sempre detto e non potrà evitare in nessun modo che io ti porti con me!>>
<< Ehi!>> Jonas si fermò discostandosi di colpo da lui. << Non sono un pupazzo che va preso e portato dove si vuole! Chi ti ha detto che ti seguirò?>> chiese sulla difensiva.
Ma Cade, proprio come aveva fatto fino a quel momento, si limitò a sorridergli e allungargli la mano. << Hai completamente ragione, certe cose vanno chieste! Vuoi seguirmi fuori da questo schifo di labirinto e affrontare le prove assieme a me finché non saremo rimasti solo noi per la resa dei conti finale?>> domandò serio. Poi aggrottò le sopracciglia. << Cazzo, sa tanto di proposta di matrimonio… >>
Non appena ebbe detto quelle parole Jonas si sentì la faccia andare in fiamme, come non gli succedeva da troppo, come gli aveva sempre dato fastidio e come la sua pelle bianca aveva sempre fatto veder troppo.
Dio… com'era possibile che si cacciasse sempre in situazioni così imbarazzanti con gente che non conosceva?
<< Sì, è inquietante, evita.>> si limitò a borbottare, almeno finché anche lui non ebbe una mezza illuminazione. << Aspetta, hai detto “figlio di Ares”? Il dio della guerra?>>
Cade annuì, riprendendo la sua solita aria malandrina. << Mh-mh, una rottura di palle, l'ho già detto? Dai! Sarà più divertente affrontare la Death Race con altri semidei! Il biondastro è un pozzo di storia, sa tantissime cose e potrà rispondere a tantissime domande. Allora? Che dici? Ci stai?>>
La mano bianca era tesa verso di lui, il polsino logoro della giacca lasciava intravedere il bordo sfilacciato di una manica di camicia. Cade aveva le dita un po' tozze, classiche di chi ha lavorato per tutta la vita, con le unghie corte e piatte, i polpastrelli pieni di minuscoli taglietti, il palmo pieno di cicatrici e di qualche macchiolina, forse bruciature, forse lentiggini.
Jonas l'osservò per un po', incerto sul da farsi, animato da mille dubbi, da mille domande. Poteva davvero fidarsi? Non stava facendo altro che passare da una compagnia all'altra, tutte piene di gente assolutamente sconosciuta, tutte accomunate dalla presenza di qualcuno che, come lui, condivideva sangue divino.
Però… però Cade gli aveva offerto il suo aiuto in modo disinteressato, non l'aveva trattato come un bambino, o almeno non come avevano fatto gli altri. Gli aveva dato un'arma per difendersi da solo, non gli aveva assicurato che l'avrebbe protetto da tutto e tutti come aveva fatto il gigante nero. Non l'aveva guardato con quello sguardo ammaliatore e curioso come quello di un felino, come quello di Cicno. E soprattutto gli stava offrendo la possibilità di scegliere. Quando gli sarebbe ricapitata un'occasione simile?
Scacciando con forza i suoi dubbi, dicendosi forte e pronto anche ad affrontare in un secondo momento qualcuno in grado di volare proprio come Cade, dicendosi pronto a lottare contro tutto e tutti, Jonas afferrò quella mano e la strinse con vigore, come suo nonno gli aveva insegnato facessero i veri uomini.
Si sentiva un po' confuso, i suoi pensieri si accavallavano gli uni sugli altri, la sua diffidenza raschiava contro le pareti della testa ricordandogli che non c'era da fidarsi di uno con quella faccia, che poteva essere un dannato anche lui, che poteva esser una cattiva persona. Ma c'era anche quell'altra sottile vocina, quell'istinto che tante volte aveva prevalso in lui come una bestia selvatica, che gli diceva di buttarsi e di provare, non a fidarsi completamente, ma ad intraprendere un nuovo viaggio, una nuova avventura, di scegliere di sua spontanea volontà.
Forse stava sbagliando, ma se così fosse stato, per una volta, Jonas avrebbe potuto dire di aver fatto la sua scelta.

<< Usciamo di qui, allora. Sono curioso di vedere la faccia di quel soldato quando ti vedrà fuori di qui prima di lui.>>
Il ghigno di Cade gli sembrò solo la prima di una lunga serie di vittorie.

 

 

*

 

La lucciola volava veloce come una scintilla che rimbalza fuori dal braciere. Lea la teneva sotto controllo il più possibile ma la verità era che si sentiva come un aquilone in balia del vento: tra lei e la lucciola era teso un filo invisibile ed ogni volta che lei vi si avvicinava questa aumentava la sua velocità e la distanziava di nuovo. Come un circolo vizioso era sempre più calamitata verso di lei, sempre più obbligata a seguirla ma di nuovo, non appena succedeva, non appena guadagnava quella vicinanza, la sfera di luce schizzava via.
Se fosse stata ancora viva quella corsa l'avrebbe uccisa, ora che era morta le metteva solo una grande stanchezza addosso, il ché era quasi ironico.
Dietro di lei Ùranus correva facilitato dalle sue gambe lunghissime, il suo volto però pareva quasi più affaticato di quanto non lo fosse lei e ciò era probabilmente derivato dallo scontro con il pellerossa.
Non aveva la più pallida idea di cosa fosse successo, come avesse fatto a sconfiggerlo, ciò che era certo era che da quel momento si era portato dietro una pesantezza, una freddezza, che l'aveva lasciata innervosita e ansiosa.
Lea non lo era, non era minimamente una persona ansiosa, aveva assistito suo fratello durante operazioni normali e cure a semidei sull'orlo della morte, la sua stessa dipartita era stata in un qualche modo frutto di quei nervi saldi che le avevano impedito di scappare, di quella ragione che le aveva ripetuto che si sarebbe tutto potuto concludere al meglio, che bastava solo far ragionare le persone.
Ovviamente si era sbagliata ed era morta, ma questo non significava che la sua capacità di rimaner calma fosse svanita con l'entrata agli inferi.
Si sarebbe voluta girare per vedere come stesse l'altro, per chiedergli se andasse tutto bene, ma ogni volta che incrociava il suo sguardo, che lo fissava per un momento di più, spiacevoli ricordi le tornavano in mente, voci dimenticate a cui non sapeva dare un nome tornavano a darle il tormento. Cosa diamine aveva fatto Ùranus? Perché si sentiva in quel modo? Era ovvio che fosse colpa sua, Lea ne sapeva abbastanza sui semidei da intuire che quello fosse un effetto collaterale di qualche potere, ma la sua conoscenza del panteon greco non era poi così ampia da permetterle di formulare un'ipotesi.
Con uno sforzo non indifferente decise di rimandare a dopo i suoi dubbi e di concentrarsi sull'uscire di lì.
La lucciola era un incantesimo abbastanza semplice ma al contempo molto dispendioso d'energie: consisteva nel raggruppare tutte le “scintille” di luce presenti in un ambiente ed indirizzarle verso una fonte di luce, di calore o di magia, più forte, diversa dalla propria. Non sapeva che altre applicazioni avrebbe potuto avere, una fiammella che cerca disperatamente di ricongiungersi alla sua fiamma madre, ma suo fratello le aveva insegnato che quello era il modo migliore per uscire dai guai.

 

<< Mi porta ovunque?>>
<< No, non ovunque, ti porta vicino ad un fuoco, vicino ad una grande fonte di magia, al sole. Ricordatelo bene Lea, siamo figli di Apollo, è la luce il fulcro del nostro potere, al sole siamo più forti, quando nostro padre ci guarda e brilla sopra le nostre teste siamo in grado di far cose che gli altri neanche immaginano. Qualunque cosa emani luce darà sempre forza ad un figlio di Apollo.>>
Lea lo guardò accigliata, le gambe penzoloni dalla sedia sfioravano il pavimento oscillando lente.
<< Quindi al buio non funziona?>> chiese dubbiosa.
L'uomo le sorrise divertito poggiandole una mano sulla testa.
<< Siamo figli del Sole, Elena, se la luce non c'è la creiamo noi.>>

 

Non avrebbe mai immaginato di dover utilizzare quell'incantesimo da morta e men che meno avrebbe mai immaginato che un'anima passata oltre potesse emanare luce.
Gettando un'occhiata di traverso al suo compagno di corsa Lea deglutì a vuoto: chissà se un figlio del Sole fosse in grado di portare un po' di luce anche negli animi delle persone.

 

 

*

 

 

Nathan imprecò per l'ennesima volta, distante almeno quattro passi dalla ragazza con il vestito medievale e la faccia sporca.
La stavano portando via dal labirinto, perché nessuno avrebbe mai convinto Nathan Wrigth a lasciare sola una ragazza priva di sensi ed indifesa in un posto di merda come quello, quando lei si era svegliata ed aveva iniziato ad agitarsi come un'ossessa finendo per caderle di braccia e schiantarsi a terra. Per un attimo aveva temuto quasi di sentir il suono di vetri infranti, tanto sembrava pallida e quasi trasparente la sua pelle, ma per fortuna il rumore che ne era derivato era stato quello di un sacco di patate crollato al suolo.
Eliza gli aveva dato uno scappellotto fortissimo quando se n'era uscito con quel paragone.
E pace, aveva ragione lei, pure sua madre l'avrebbe picchiato per quella frase così maleducata.
La mora ora era chinata vicino alla giovane sconosciuta, un ginocchio poggiato a terra come un dannato cavaliere e la mano poggiata sul braccio dell'altra. Quella aveva iniziato a muoversi, come qualcuno nel pieno di un sogno, forse di un incubo visto dove si trovavano, ma almeno sembrava si stesse svegliando poco a poco.
 

Con un tremolio di ciglia la giovane aprì a fatica gli occhi scuri, ad Eliza parve quasi di star scrutando dentro un pozzo pieno di nebbia. Si sporse un poco indietro, per lasciarle lo spazio necessario e non opprimerla con la sua presenza, vista la reazione avuta prima con Nathan probabilmente doveva essersi spaventata nel ritrovarsi in braccio a qualcuno che non conosceva. Dalla foggia dei suoi abiti doveva esser vissuta prima di lei e se già per Eliza era assurdo che una donna venisse presa in braccio a quel modo da un estraneo non voleva neanche immaginare cosa avesse provato la poverina.
Quando la vide mettere a fuoco lo spazio circostante si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo e sorridendo gentilmente le si rifece un poco più vicina.

<< Vi sentite bene, signorina?>>
 

Jane batté le palpebre, l'ambiente attorno a lei prese consistenza e colore, una marea verde cupo illuminata solo fiocamente da una soffusa luce calda che non si allontanava di più di tre metri dal suo stesso corpo. Dal suo e da quello della persona al suo fianco.
Era stesa a terra, la testa poggiata su qualcosa di morbido. Sentiva l'erba pungerle sulle caviglie ed una lieve pressione sul braccio. Con un po' di fatica si tirò a sedere, la mano che aveva posata addosso si spostò veloce e sicura dietro la sua schiena e la sostenne anche una volta che si fu sistemata meglio.

<< Signorina?>>

A parlare era stata una voce dall'inflessione seria ma gentile, qualcosa a cui non riuscì immediatamente a dare un genere e che la costrinse a voltarsi per poter dare almeno un volto a chi, da quel che presumeva, l'aveva salvata dal muro d'edera.
Inginocchiato affianco a lei vi era un soldato, o almeno quello che aveva tutta l'aria d'esserlo.
Il volto asciutto era pallido come quello di ogni morto, i corti capelli neri risaltavano ancor di più su quel candore mortifero, accentuando lo sconvolgente e cupo verde smeraldo dei suoi occhi.
Jane non ne aveva mai visti di così vividi e al contempo scuri, non aveva mai visto uno smeraldo in vita sua e associava quel nome a quel colore solo ed unicamente per sentito dire. Eppure era convintissima che se qualcuno le avesse mostrato la pietra preziosa sarebbe stata della stessa identica sfumatura di quegli occhi.
Il giovane indossava una camicia bianca, con i colletto rigido e sporco di quello che forse era fango, forse erba, non avrebbe saputo definirlo con certezza. I bicipiti pronunciati si potevano vedere con chiarezza da sotto le maniche della camicia e in quella posa Jane non poté far a meno di paragonarlo ad un cavaliere.
Il soldato accenno un sorriso ed inclinò la testa, le labbra piccole e fini si tesero leggermente impallidendo ancor di più.

<< Riuscite a sentirmi? Vi sentite bene?>>

Jane annuì, pronta a rispondergli, quando una terza voce si intromise.
<< Sarebbe un miracolo se con la craniata che ha dato fosse ancora vigile.>>
A parlare era stato un altro giovane uomo, dalla stazza più massiccia ma non imponente, indossava degli strani abiti dai colori sabbiosi, quasi in tinta con i capelli biondi. Il naso affilato ed il volto squadrato lo fecero classificare immediatamente come una persona scontrosa e da come le si era rivolto doveva esserlo davvero.
Il moro fulminò il suo compagno con lo sguardo. << Vedi di comportarti come si deve.>> lo ammonì.
Quello alzò gli occhi al cielo scocciato. << Se può camminare dobbiamo andarcene di qui il prima possibile. Ce la fai?>> domandò poi rivolto direttamente a lei.
Jane storse in naso ma ugualmente fece leva sulle mani per cercare di alzarsi. Immediatamente il soldato dalla camicia bianca la sostenne, come aveva già fatto, e per quanto Jane apprezzasse quell'atto di cavalleria, quel comportamento così educato e delicato, aver le mani di qualcuno addosso la rendeva fin troppo nervosa.

<< Posso fare da me, vi ringrazio.>> disse ugualmente rivolta al moro.
Il giovane la scrutò per un attimo, valutando le sue parole, poi annuì, si riabbassò per afferrare qualcosa a terra e lo sgrullò con decisione. La giubba blu, perché questo era, doveva esser servita per farle da cuscino ed il proprietario se la rinfilò con un movimento fluido e consumato, facendo scivolare velocemente tutti i bottoni dorati nelle asole.
Jane osservò quei movimenti con attenzione, cercando nel mentre di ricordare cosa stesse facendo prima che quel muro la inghiottisse, prima che quei due la trovassero e… che cadesse a terra?

<< Mi avete liberata… >> disse a voce bassa, evitando lo sguardo del moro ed ignorando del tutto il biondo.
Il soldato annuì. << Vi abbiamo trovata tra i rami delle mura, non potevamo certo lasciarvi lì. Vi sentite bene? Ce la fate a star in piedi o volete un aiuto?>>
Jane scosse la testa. No, l'avevano aiutata già abbastanza. << Grazie, ma perché sono finita a terra?>>
<< Perché a quanto pare farsi portare in giro da qualcuno è più spaventoso di un frontale con l'asfalto.>> grugnì il biondo.
L'altro gli rivolse un'espressione impassibile. << Smettila di fare il deficiente, e poi cosa sarebbe l'asfalto?>>
<< Roba che fa più male di una facciata sull'erba, sicuro come pochi. Se ce la fa a camminare allora muoviamo il culo e usciamo di qui.>> ripeté ancora avviandosi verso il cunicolo di destra.
Jane osservò l'altro ragazzo chiudere per un attimo gli occhi e fare una smorfia schifata, forse per via della scurrilità del suo compagno.
<< Tu ed il tuo magnifico linguaggio… >> ringhiò infatti, << Almeno la bussola ha ricominciato a funzionare?>>
<< E che cazzo ne so? Ti pare che l'abbia in mano?>>
<< E allora dove diamine stai andando?>>
<< Uh, “diamine”, ti sto facendo di nuovo saltare i nervi?>>
<< Ringrazia tuo padre che c'è la signorina o ti avrei già preso a calci nel sedere.>>

Mentre i due discuteva Jane sfruttò quel momento per studiarli meglio: il biondo era più alto del moro, forse anche più grande, o almeno la sua espressione dura suggeriva questo. Dovevano venire da epoche diverse, sicuramente più recenti della sua perché mai aveva visto o sentito parlare degli abiti del biondo, a meno ché invece non fosse incredibilmente più vecchio, ma ne dubitava.
Avevano un buon affiatamento, si punzecchiavano rispondendosi per le rime ma dovevano essere una squadra e non due che si erano ritrovati per caso nel labirinto.
Ma tutto ciò non aveva importanza, ogni idea che si poteva fare sui due era inutile perché di certo non sarebbe rimasta con loro e se credevano che li avrebbe seguiti solo perché l'avevano salvata…

<< Oh, bruna. Di qui.>>

La voce rude del biondo le fece storcere il naso: il suo amico era gentile ed educato ma lui già la stava infastidendo.
<< Non sono tua sorella.>> sputò velenosa tra i denti, guadagnandosi un'occhiata sorpresa, ma anche divertita?, da parte del moro ed una accigliata dall'altro.
<< Come?>>
<< Ho detto che non sono tua sorella. Presumo che tu sia solito rivolgerti a lei così.>> sfidò alzando un sopracciglio.
Il biondo sogghignò. << Oh, alle mie sorelle mi rivolgevo anche in modi peggiori, ma se ci provassi ora la giubba blu qui mi prenderebbe a calci in culo fino a fuori il labirinto e vorrei evitare di metterci così tanto.>>
<< I miei calci sono abbastanza forti da farti saltare una parete, tienilo a mente.>>
<< Quando usciamo di qui facciamo una gara a chi calcia più forte?>>
<< Stai davvero sfidando una figlia di Nike, ragazzino?>>
<< Il ragazzino è più grande di te, ti vorrei ricordare.>>
<< Di soli due anni e poi io sono morta due secoli prima di te, non mi batti su questo.>>
<< Sono morto da eroe io.>>
<< Perché, secondo te io stavo lucidando gli stivali?>>
<< Eri una contro cinque?>>
<< Ero nel mezzo di un assedio, ero anche una contro venti.>>
<< Scusate?>> li interruppe Jane allibita, << State davvero facendo a gara a chi è morto nel modo peggiore?>>
Il silenzio li avvolse per un minuto, il tempo necessario per far annuire i due senza la minima vergogna.
<< Capisco. Perfetto. Grazie per avermi salvata da quei rami, buon duello.>> gracchiò sempre più sconvolta, girando i tacchi ed allontanandosi nella direzione opposta.
<< Aspettate!>> gridò il ragazzo moro.
<< Aspetta, dove corri! Da quella parte non si passa!>> gli fece eco il biondo.
Ignorandoli bellamente Jane marciò spedita verso la sua direzione. Non voleva crederci: prima incontrava il gigante rosso e la fastidiosa biondina, poi quando riusciva a liberarsene finiva in mezzo all'edera e poi si ritrovava con un soldato moro ed un cretino biondo. Fosse che il Fato le stava suggerendo ti tenersi lontano da persone con i capelli chiari? E poi era lei la pazza che aveva passato tutta la morte nelle Praterie? Quei due parevano messi bene, dovevano essere senza dubbio dei beati visti anche i temi delle loro discussioni, ma erano di certo più folli di lei se si mettevano a far gara per una cosa così futile.
Non era possibile, il moro aveva anche detto d'esser-

 

Figlia di Nike?

 

Inchiodò di colpo, fermandosi davanti ad un bivio e battendo le palpebre confusa. Come sarebbe a dire “figlia” di Nike? Era la dea della vittoria, su questo non vi erano dubbi, era la stessa che Ade aveva citato alla fine del suo discorso ma… figlia?

<< Aspettate!>>

La ragazza si voltò verso la fonte di quella voce che solo ora, alla luce della sua realizzazione, riusciva a sentire come femminile. Guardò di nuovo con attenzione i soldato ed allora vide la curva del fianco un po' più morbida, il bacino un po' più ampio, la mascella meno marcata, le ciglia più lunghe. Aveva il portamento fiero e inflessibile di un soldato, un soldato qualunque ma… era una donna.

<< Da quella parte non troverete nulla di buono, ci sono stati degli scontri per tutto il labirinto e questo si è anche mosso, riorganizzandosi nella sua intera struttura.>>
<< Come fate a saperlo?>> riuscì solo a domandare.
Il soldato, la ragazza, accennò una smorfia con le labbra. << Perché ci siamo finiti in mezzo e la bussola del mio compagno, una bussola divina, ne è uscita del tutto sconvolta. Sappiamo però che direzione mantenere e possiamo scortarvi fuori di qui.>>
Diffidente Jane si ritrasse di un passo, stringendosi le braccia la petto come se dovesse difendersi da qualcosa.
<< E perché mi accompagnereste fuori di qui?>>
Con sua sorpresa la soldatessa- Dio, ma da quando anche le donne potevano imbracciare le armi e servire nell'esercito?- la guardò per la prima volta con un sentimento che le parve estremamente umano: confusione.
<< Perché siete sola e rischiate di incontrare anime dannate, bellicose, mal intenzionate ed armate. Siamo entrambi soldati, non potremmo mai permetterci di lasciare una donna da sola in un luogo così pericoloso, senza la minima possibilità di difendersi.>>
Al silenzio che ne seguì la mora capì che doveva sforzarsi di più se voleva convincerla ad andare con loro e Jane non avrebbe fatto nulla per semplificarle la cosa.
<< Ascoltatemi, non dovete temere per la vostra sicurezza, Nathan, il mio compagno, per quanto possa esser rozzo è un uomo d'onore, non vi sfiorerà con un dito a meno che non sia assolutamente necessario e in ogni caso, se preferirete, potrò esser io ad aiutarvi qualora ve ne fosse bisogno. Usciremo fuori di qui e poi sarete libera di fare ciò che più vi aggrada ed andare ovunque vogliate, non avrete alcun debito nei nostri confronti.>> poi inaspettatamente sorrise. << Il mio nome è Elizabeth Reed, sono- ero, un soldato di fanteria dell'esercito Americano. Nathan ha servito la stessa bandiera anni dopo di me.>>
Le porse la mano come Jane aveva visto fare sempre tra gli uomini, quella ragazza, quella donna, l'aveva fatto con la stessa naturalezza con cui si era messa la giubba blu e sebbene Jane ignorasse quando e come si fosse formato un esercito Americano, se con esso le donne erano state ammesse o meno alla battaglia e se fosse stato loro permesso d'indossare i pantaloni, sentiva anche una vaga sensazione di fiducia, d'appartenenza. C'era un'aura forte e calda che avvolgeva la giovane, una scia di potere, di vittoria che Jane non aveva mai provato in vita sua e da cui si sentiva mortalmente attratta.

 

Vittoria.

 

<< Jane Parris, figlia di Oliver Parris. Anche io sono Americana, di una delle tredici colonie almeno, non so se ai vostri tempi lo fosse ancora.>> rispose con lentezza, cercando di calibrare bene le parole.
Elizabeth annuì. << Ditemi la città. >>
<< Salem.>>

<< Ah! Dove bruciavano le streghe?>>

Jane si irrigidì di colpo, Elizabeth si volse a guardare l'ultimo arrivato in cagnesco.
<< Cosa di “stia fermo qui e non ti muovere” non ti era chiaro?>>
<< La parte in cui scegli per me.>>
<< Era una scelta sensata visto che ogni maledettissima volta che apri bocca fai danni! Era più facile parlare con Cade!>>
<< Eh no, il rosso meglio di me no!>> brontolò Nathan infastidito dalla sola idea. Poi si rivolse a Jane. << Comunque la caccia alle streghe non c'è più, è stata condannata da secoli, almeno tre. Sono Nathan Wright, Marina degli Stati Uniti d'America.>>
Non le porse la mano e Jane non ne fu minimamente infastidita: non l'avrebbe comunque stretta, non dopo quelle parole così scomode dette in modo così leggero.
Ma per quanto non gli piacesse il biondo, proprio come Elizabeth, anche lui aveva un'aura diversa dagli altri, solo che la sua non sapeva di vittoria, di rivalsa, di oro, era ferrosa, pesta, sanguinolenta e si portava dietro una scia di brutale forza e spirito bellico. Guerra.
<< E hai una bussola magica?>> domandò alzando il mento, quasi a sfidarlo.
Nathan alzò un sopracciglio. << Perché a me dai del tu e a lei del voi?>>
<< Perché lei è stata educata con me e si merita altrettanta educazione.>> ed era una mezza verità perché da quando Jane era caduta nella sua spirale grigia ben poco dell'educazione che le aveva dato sua madre era rimasta in lei. In qualche modo però Elizabeth era riuscita a ritirarle fuori quella vecchia abitudine che era tanto cara a suo padre.

 

<< Tratta tutti con educazione e bontà, non farti influenzare da chi ti tratta male, e soprattutto abbi sempre attenzione per chi ti tratterà con riguardo indipendentemente dalla situazione in cui ti trovi o da come appari. È rara la gente che ti sorriderà gentile e sincera anche quando sarai coperta di fango, è molto più semplice sorridere ad un bel principe che ad un mendicante, ma se troverai qualcuno disposto a sorridere allo stesso modo ad entrambi allora sorridigli anche tu.>>

 

Nathan la fissò non troppo convinto, ma alla fine parve non importargli più di tanto.
<< Come ti pare. E la mia bussola è divina, non magica, non sono un illusionista da quattro soldi.>> rispose stizzito.
Elizabeth dal canto suo si limitò a sospirare. << Verrete con noi quindi?>>
Dopo un attimo di esitazione Jane annuì. << A patto che mi diate del tu.>> sentirsi chiamare signorina, per quanto fosse piacevole e le desse un certo senso di importanza, le stonava totalmente.
“Signorina” era uno dei modi in cui Tituba chiamava lei, in cui chiamava Abby.
Un brivido di fastidio le scosse la schiena, mentre Eliza le diceva che l'avrebbe fatto a patto che anche lei l'avesse chiamata per nome.

<< Tutto molto bello, ora che abbiamo finito con questa puttanata possiamo andare, che dite?>>
<< Dico che tua madre non ti ha dato abbastanza schiaffi da piccolo. >> lo fulminò la mora fronteggiandolo senza paura.
Jane la vide inclinare leggermente la testa verso di lei e capì che probabilmente temeva che le ingiurie del biondo la infastidissero.
<< Non preoccuparti, ho sentito di peggio.>> disse con voce piatta.
<< Questo non- >>
<< Magnifico. Quindi non cagare il cazzo, non le da fastidio. Muoviamoci, da questa parte.>> Nathan si voltò senza dar loro il tempo di replicare, lasciandosi alle spalle una Elizabeth estremamente infastidita dal suo poco tatto ed una Jane puramente indifferente.
Lo seguirono in silenzio, Elizabeth la fece passare avanti a lei, chiudendo la retrovia di quella piccola ed improvvisata compagnia. Accelerando di poco il passo, pur mantenendosi ad una certa distanza dal soldato, Jane allungò il collo per osservare quella famosa bussola divina. Non era altro che un riquadro di uno strano materiale scuro, del colore del fango, al cui centro vi era un quadrante di vetro da cui si potevano vedere le tacche, i punti cardinali e l'ago rosso che girava all'impazzata.
Se quella cosa era davvero un dono degli Déi significava che anche il ragazzo ne era figlio, proprio come la soldatessa mora, come lo era il ragazzo dai capelli rossi e la bionda figlia di Apollo, proprio come lei. Che fosse una congiura? Era destinata ad incontrare solo semidei dopo una vita intera passata ad ignorarne l'esistenza?

<< Chi ti ha dato quella bussola?>> domandò attenta.
Il biondo neanche la guardò, troppo concentrato sul cercare di stabilizzarla. << Me l'hanno data al Campo Mezzosangue, un luogo dove si riuniscono i figli degli Déi, perché se non te l'avessero detto gli Déi della mitologia Greca esistono e si divertono a far figli. Andavo in missione per loro conto.>>
<< Quindi tu sei un figlio degli Déi?>>
Quello annuì. << Sei capitata bene, hai beccato i figli di due divinità più che propense alla lotta.>>
<< E alla vittoria.>> aggiunse Elizabeth.
Jane fissò il terreno erboso, aveva la vaga sensazione che con quei due non si sarebbe potuta comportare come con gli altri, ma la cosa non le interessava neanche troppo. Al biondo sembrava fregarne ancor meno e forse solo l'altra sarebbe rimasta infastidita dal suo solito bel caratteraccio. Si sarebbe potuta impegnare un minimo per sembrare gentile ma non le andava, voleva solo delle risposte, voleva esaurire ogni dubbio e quell'accenno alla vittoria… che la ragazza potesse aiutarla nel suo intento?
<< Posso chiedervi di chi siete figli?>> si risolse a domandare come prima cosa.
<< Ares. Guerra.>> rispose secco il giovane.
<< Nike, Dea della Vittoria.>>
<< E questo Ares è anche bravo a destreggiarsi con il senso d'orientamento? Perché mi pare che la tua bussola sia rotta.>> disse scettica.
Elizabeth sogghignò divertita, forse quella schiettezza piaceva anche a lei, mentre Nathan si bloccò di colpo guardandola in cagnesco.
<< Senti un po', ragazzina, >>
<< Ho 24 anni.>> sputò infastidita.
<< Cosa? Ma che cazzo dici, non puoi avere la mia età, sembri una mocciosa.>>
<< Sono comunque più grande di te, a quanto pare.>> Dio, non poteva credere che si stesse davvero mettendo a discutere di una cosa così futile con quel tipo.
<< La data di morte non batte gli anni vissuti.>>
<< Sì che li batte, non ricominciare con questa storia, accetta di essere il più piccolo e fai funzionare quel dannato affare.>> s'intromise Eliza mettendogli una mano sulla spalla e spronandolo a tornare al lavoro.
<< Facile per te, non hai la bussola impazzita.>>
<< Se non ci riesci con la tua ci provo con la mia.>>
<< E come pensi possa esserci utile una fottutissima bussola comune?>>
<< Per capire dov'è il dannato nord?>>
<< Ed una magica?>>
I due soldati si volsero verso Jane, che li fissava a braccia conserte con un'espressione divisa tra l'annoiato e l'infastidito.
Nathan strinse la presa attorno allo strumento. << Senti, so che ti abbiamo convinta noi a seguirci, so che sei una ragazza e mi hanno insegnato a non litigare con voi, ma te lo ripeto per l'ultima volta, questa è una bussola divina, non è magia da quattro soldi.>>
La ragazza assottigliò lo sguardo, facendo un passo avanti ed accogliendo quella palese sfida.
<< Non sto parlando di te o della tua bussola, ti hanno insegnato anche che non sei il centro del mondo?>>
Il verso strozzato che si lasciò sfuggire Eliza, palesemente impegnata a non scoppiare a ridere, arrivò solo lontanamente alle orecchie di Nathan.
<< Cosa proponi di fare, allora? La mia bussola è la nostra unica possibilità.>>
Malgrado Nathan fosse più che sicuro delle sue parole un'ombra di dubbio passò sul suo volto quando su quello della ragazza si aprì un sorriso sinistro. Non sapeva se Eliza l'avesse visto o meno ma per un momento quella piccola e malconcia donnetta in abiti medievali le parve spaventosa come uno degli incubi di Ipnos, come i fantasmi di Ade, come i demoni di Ecate.
Jane si tirò indietro, allungò le mani davanti a sé e fissò gli occhi in quelli di Nathan. Un accenno di luce brillò nelle sue iridi cupe, come una torcia lasciata cadere in un pozzo. Poi quella stessa scintilla brillò tra le dita sporche e rovinate della ragazza ed una nebbiolina verdastra roteò su sé stessa sino a stabilizzarsi in quella che aveva tutta l'aria di essere una lancia di piccole dimensioni.
Come l'ago di una bussola iniziò a ruotare e puntò verso la loro sinistra.
Forse Nathan non si era sbagliato poi così tanto.

<< Ares può fare una cosa del genere?>> domandò tronfia Jane.
Eliza si avvicinò guardinga, il volto una maschera impassibile, mentre studiava l'apparizione in verde.
<< Sei come noi.>> disse Nathan scrutandola serio.
<< È… è magia? >> domandò in un soffio la ragazza.
Jane ghignò ancora. << Forse dovrei ripresentarmi come si deve. Sono Jane Parris, figlia di Ecate.>>

 



*

 

 

<< Vola uccellino! VOLA!>>
<< Cade, chiamami di nuovo uccellino ed è la volta buona che mi tolgo un guanto e te lo tiro in testa!>>
<< Non puoi! Se no con cosa ti difendi? Sulla destra! Gancio! GANCIO!>>
<< Invece di dirmi dove colpire potresti renderti utile!>>
Jonas si abbassò per schivare la mazza di legno che un uomo pallido come la morte, gioco di parole a parte, stava facendo roteare sulla sua testa. Poco distante Cade saltellava da un punto ad un altro schivando i colpi di un lottatore di sumo dalla faccia mezza escoriata, facendolo crollare contro il muro in cui sparì in pochi secondi.

<< Uhg…brutta fine… però c'è tanto da mangiare!>>
<< Non fare il cretino e aiutami!>> urlò il ragazzo richiamando la sua attenzione.
Cade sorrise e si diede la spinta per cadere esattamente alle sue spalle.
<< Sai, un tipo che ho conosciuto ai Campi raccontava in continuazione delle sue glorie passate, era tipo un pugile credo, e diceva sempre “vola come una farfalla, pungi come un'ape”. Il ché, se me lo chiedi, è davvero un modo di dire giusto ed intelligente, se non fosse che le farfalle durano tipo cinque giorni e poi schiattano e se beccano una folata di vento sono finite. La api pure, sia ben chiaro, anzi, loro se ti pungono muoio pure. Quindi è una cosa forte da dire ma estremamente stupida. Oh, salta!>> lo afferrò per la vita e saltò via, giusto in tempo per evitare una freccia lanciata da un arciere vestito di viola.
Jonas imprecò a mezza voce, facendo ridacchiare Cade che lo ripoggiò a terra con delicatezza.
<< Da questa parte!>>
<< Perché mi hai fatto combattere fino ad ora se potevamo scappare!?>> domandò infastidito.
<< Perché così impari un minimo a fare a pugni.>>
<< Io SO fare pugni!>>
<< No, sai fare le risse da damerini, guarda che l'ho capito che sei un figlio di papà, sai? Però qui non ti basta, devi imparare a fare le risse da strada.>> lo prese per un polso e lo trascinò a sinistra.
Jonas ormai aveva rinunciato a seguire i ragionamenti del suo compagno, limitandosi ad alzare gli occhi al cielo e non ridere troppo spesso, aveva la vaga sensazione che l'ego di Cade fosse già abbastanza grande di per sé.
<< Ora andiamo fuori di qui però, vero?>> chiese stanco, maledicendosi subito dopo per la voce lamentosa che gli era uscita. Dio, sembrava un dannato moccioso che si lamenta con la madre.
Ma Cade, di nuovo, parve non notare minimamente la cosa, o se lo fece non gli diede contro in alcun modo.
<< Sì, sì, te l'ho detto che dobbiamo uscire prima delle due guardie!>>
<< E sei sicuro che questa sia la strada giusta?>>
<< Non ti fidi di me!? Oh, Jonas! Così ferisci i miei sentimenti!>>
Il ragazzino si ritrovò a ridacchiare per l'ennesima volta, probabilmente la maggior parte della sua stanchezza era a causa di questo, Cade che lo faceva ridere come non faceva da prima della sua morte. Aveva trovato un giullare, altro che un compagno d'avventure.
Il rosso iniziò a saltellare da un piede all'altro, aumentando il passo e continuando a parlare del più e del meno, i suoi argomenti salterini come i suoi passi.
Jonas sorrise, pareva la rappresentazione vivente del Bianconiglio mischiato al Cappellaio Matto di Alice, non si sarebbe affatto stupito nel vedergli tirar fuori dalla giacca un orologio a cipolla e nel sentirlo urlare che fossero in ritardo.
<< Bisogna muoversi!>> disse neanche l'avesse sentito.
Jonas annuì ed accelerò il passo per stargli vicino, << Allora fa strada, uccellino.>>

 

 

*

 

 

Le tessere si mossero veloci, una azzurra come il ghiaccio ed una verde come i prati primaverili si sovrapposero alle tessere cupe dello sfondo, cancellando per un attimo la curva e rallentando il loro incedere quando si trovarono in un lungo corridoio rettilineo. Subito dopo le tessere schizzarono verso la fine del tunnel, facendo saltar via le piccole maioliche verde scuro, irrompendo oltre l'argine ed uscendo fuori dal Labirinto di Persefone.

 

 

<< Ed eccoli usciti! Le due anime che hanno appena varcato le soglie del labirinto solo altri due figli degli Déi! La nostra progenie va alla grande signori, come era ovvio che fosse! Se volete portarvi in vantaggio sugli altri correte subito a scommettere su quante anime riusciranno a terminare la prima prova, quante si arrenderanno e quante invece punteranno dritte alla seconda!>>

 

 

 

Un riquadro rosso ed uno giallo arrivarono da un condotto di destra, davanti a loro un puntino dalle sfumature color sabbia si estinse con una piccola esplosione, ma le due tessere non rimasero troppo sorprese della cosa e si precipitarono verso l'uscita.


 

 

 

<< È una delle tue figlie, vero Apollo?>>
Il giovane, sdraiato sul suo triclinio porpora, annuì mestamente. << E lui è il tuo presumo.>>
L'uomo di fianco neanche si voltò. << Sì, sono lieto che sia riuscito ad uscire di lì. Tu non pari altrettanto felice.>> notò con voce pacata.
Apollo sospirò. << Sono felice per lei.>>
<< Ma c'è altro che ti preoccupa.>> non era una domanda.
<< Sì. L'hai visto anche tu, scommetto.>>
L'altro annuì. << Se temi per l'incolumità dell'altro tuo figlio… >>
<< Ne ho parecchi, ne ho avuti parecchi, ma che mi odiassero come mi odia lui… no, non così tanto.>>
<< Ma nonostante ciò la cosa ti turba.>>
<< È molto più potente di quanto tu non possa immaginare.>>
<< Ed è sparito.>>
<< Ed è sparito.>>

 



 

Una freccia verde acido si disegnò sul mosaico verde, dietro di lei una tesserina violacea, una bianca ed una rossa come il sangue la seguivano veloci, occupando tutto lo stretto corridoio che portava all'uscita. Quando furono fuori la freccia scomparve e la tesserina rossa tremò.

 

 

<< Cazzo!>> ringhiò Nathan schiaffandosi le mani in faccia.
Jane ed Eliza lo guardarono senza capire, l'espressione accigliata della mora fu spazzata via da un ridacchiare conosciuto.
<< Ciaaaaao!>>
Seduto su di un basso muricciolo che contornava le aiuole fiorite se ne stava seduto un ragazzo dalla pelle pallida ed i capelli rossi, un sorriso, un ghigno, enorme ad ingoiargli il viso, pieno di orgoglio e di una punta di sadico godimento.
Eliza non riuscì ad impedirsi di restituirgli quel sorriso sghembo. << Cade.>> disse facendo un cenno con la testa. << Ritrovato il tuo coltellino?>>
Il ragazzo annuì entusiasta, saltando su e sporgendosi per afferrare per la manica un ragazzino biondo di non più di sedici, diciassette anni.
<< Ehi!>> protesto quello debolmente.
<< Coltello, guanti e pure Jonas! Dici che papà me lo fa portare con noi?>> disse muovendo le sopracciglia con fare eloquente. << Aspetta. Sono io il più grande, e lo sei anche tu! Quindi devo chiedere il permesso a mamma? >>
Eliza roteò gli occhi e sospirò, avvicinandosi al giovane e porgendogli una mano.
<< Elizabeth Reed, mi spiace tu ti sia imbattuto proprio in lui.>>
<< Jonas Friedrich. Mi ha salvato, se non fosse stato per Cade sarei stato asfaltato.>>
<< Asfaltato? Gli Déi non vogliano, nella tua immensa stupidità hai trovato qualcuno della mia epoca? >> Nathan si intromise come al solito nella discussione, allungando anche lui la mano e scrutando il ragazzo con quella sua aria inquisitoria che metteva sempre in soggezione.
Jonas avrebbe quasi voluto ritirarsi davanti a lui, gli ricordava terribilmente lo sguardo freddo di suo nonno, la postura rigida dei soldati del regime. Ma poi qualcosa gli sfiorò la schiena, distraendolo dalla sua dannatissima propensione ad abbassar la testa davanti a chi era più grande, a chi si poneva come suo superiore.
Cade gli aveva poggiato la mano sulla schiena, esattamente tra le scapole, come a volerlo sorreggere, ad incoraggiarlo. Gli trasmetteva le stesse sensazioni della prima volta che l'aveva toccato, quel misto di libertà, di spensieratezza e di sensi di colpa, di affetti perduti per sempre senza aver la possibilità di dirgli addio. Ma anche supporto, un silenzioso “tranquillo, puoi fidarti di loro, ci sono io qui” che malgrado Jonas si ripetesse continuamente non gli servisse, che non aveva bisogno dell'appoggi di sconosciuti che lo trattavano come un bambino, gli allargò un calore ormai dimenticato nel centro del petto.
<< Sono del ventesimo secolo, tu anche?>> si forzò di rimanere amichevole mentre gli stringeva la mano e fu soddisfatto nel sentirsi rispondere con altrettanta tranquillità.
<< Sì, sono del '42.>> annuì Nathan.
Jonas si morse un labbro, cercando di non ridergli in faccia. << Ah, quindi sei più piccolo di me.>>
Se Eliza ebbe la buona decenza di volarsi Cade non fece il minimo sforzo ed esplose in una risata sguaiata ed alta.
<< Oddio! Sei il più piccolo! Non ti preoccupare, piccino, ci siamo noi qui a difenderti, papà Cade ti terrà la manina per tutto il tempo.>>
<< Sto per tirarti un pugno in bocca così forte da farti cadere tutti i denti.>>
<< Credimi, posso ridere anche senza!>>

Jonas lasciò perdere i due giovani, intenti a bisticciare come mocciosi, e si rivolse ad Eliza, sorridendo impacciato. << Non voglio causare disturbi, so che è una gara, non vi rallenterò.>>
Lei annuì. << Tranquillo, sono sicura che se sei arrivato fino a qui da solo devi sapertela cavare. Per di più sei stato fortunato, sia io che Nathan veniamo da un vissuto in cui anche i ragazzi della tua età dovevano rimboccarsi le maniche e fare il loro, non verrai trattato come un bambino da proteggere. >> lo rassicurò neanche avesse intuito i suoi pensieri, o forse, in passato, aveva condiviso quello stesso tormento.
La ragazza si voltò poi verso una giovane castana, che si era tenuta in disparte fino a quel momento.

<< Cosa ne dici, Jane? Siamo un bel gruppo, l'unione fa la forza, potremmo arrivare lontano e poi, una volta rimasti solo noi, gareggiare di nuovo l'uno contro l'altro.>>
Jane alzò lo sguardo, osservò Nathan e Cade con un curioso interesse, poi fissò Jonas, abbassando gli occhi sul collare lucido che portava al collo.
Se l'era quasi dimenticato, aveva scordato la sua condanna, le sue catene e gli occhi penetranti e scuri di quella ragazza gli davano un senso d'inquietudine che non sapeva spiegare.
Eppure, a pelle, senza neanche essersi mai rivolti la parola, Jonas seppe per certo che in quel curioso e raffazzonato gruppo, lei era di certo quella che gli somigliava di più. Che fosse una dannata, proprio come lui?
La giovane si mosse, annuì leggermente e gli fece un cenno con la testa.
<< Jane Parris, Jonas, giusto?>>
Annuì anche lui, non azzardandosi a porgerle la mano vista la distanza che aveva volutamente apposto tra di loro.
<< Bene, adesso che abbiamo deciso direi che possiamo anche avviarci per la prossima prova, sono tredici e noi ne abbiamo a mala pena superate due.>> sentenziò Eliza dando un sonoro scappellotto agli altri due ragazzi. << Smettetela di fare i cretini e muovetevi!>>
<< Ha cominciato lui!>>
<< Visto? Sei proprio un bambino!>>
<< Ho detto di smetterla! Cade, lei è Jane, non comportarti come tuo solito.>>
<< Come mi comporto di solito? Elza, sono a mala pena un paio di giorni che ci conosciamo e già sai quali sono i miei comportamenti?>>
<< Madre, dammi la forza… è Eliza.>>
<< E io che ho detto?>>
<< Hai detto Elza. >> gli fece notare Jonas.
<< Ma è comunque un bel nome!>> sorrise tirando fuori il coltellino dalla tasca e iniziando a giocarci.
Nathan di fianco a lui grugnì qualcosa di incomprensibile e scandagliò con attenzione tutti i presenti, individuando di sfuggita qualcuno di sua conoscenza.
<< Cazzo, ce l'ha fatta anche lei?>> borbottò fra sé e sé.
Jane, di fianco a lui, intercettò lo stesso obiettivo. << Lea? La figlia di Apollo? La conosci?>>
Accigliato l'altro fece una smorfia. << Cosa? È una semidea pure lei?>>
<< Anche il tipo con i capelli rossi che le sta vicino. È inquietante e sa moltissime cose.>>
<< Detto da te poi… dev'essere davvero inquietante allora.>>
<< Lo siete anche voi?>>
I due si voltarono verso Jonas, che costretto nella presa salda di Cade, che lo teneva sotto braccio malgrado Eliza continuasse a prenderlo a pugni sulla spalla per farlo smettere, girò la testa per guardarli, forse cercando di trovare qualche tratto particolare in loro.
<< Ma dai, anche tu?>>
<< Siamo un'allegra combriccola di semidei allo sbaraglio!>> proruppe Cade felice.
Sul viso di Nathan si tese un sorriso. << Ti sbagli rosso, a questo punto, siamo una squadra da missione.>>
Il ragazzo gli sorride di rimando, lanciando il coltellino e riafferrandolo fin troppo vicino al volto di Eliza, che gli diede un altro pugno rischiando di fargli volare la lama di mano.
<< Sto per relegarti in fondo al gruppo e smettila di giocare con quel coso.>>
<< Scusa mamma.>> disse alzando le mani in segno di resa e rinfilandosele poi in tasca.
Liberò Jonas dalla sua presa e si guardò attorno curioso, cercando un cartello o qualcosa che gli indicasse dove andare. Non ascoltò i ragionamenti dei suoi nuovi compagni, le domande su dove fossero le loro armi, se le avrebbero potute recuperare, le ipotesi su quale sarebbe potuta essere la prossima gara.
C'erano moltissime altre anime li attorno, uscite prima o dopo di lui, ma quelle che attirarono di più la sua attenzione furono un ragazzo di forse diciotto anni, vestito con dei jeans sicuramente più moderni di lui ed una maglia arancione, qualcosa che gli fece subito tornare in mente i racconti di Nathan su come fosse il Campo Mezzosangue. Il giovane stava parlando con un altro ragazzo, sempre vestito con la maglia del famoso Campo, ed impugnava una lancia della stessa sfumatura bronzea dei suoi guanti, quelli che ora pendevano dalla cinta di Jonas.
Si voltò ancora, a destra e sinistra, cercando altre persone, provando a capire se la sua sensazione fosse giusta, se dopo la prima scrematura della passeggiata nelle Praterie non ne fosse stata fatta un'altra nel Labirinto, volta a lasciare in gara solo i figli degli Déi.
Il suo sguardo si fermò però su qualcuno che non somigliava in niente all'idea di semidio che si era fatto fino a quel momento, un uomo alto, vestito di nero, con un lungo cappotto che gli arrivava sino alle caviglie, il bavero alzato a coprirgli il mento. I capelli scuri erano curati, dalle labbra dalla piega dura pendeva un sigaro acceso, unica nota di colore assieme agli occhi di cui però non riusciva a distinguere la sfumatura.
L'uomo lo guardava di rimando, le mani sprofondate nelle tasche proprio come lui. Gli fece un cenno con la testa e mimò qualcosa con la bocca, una frase distorta dalla lontananza e dal sigaro che però, in qualche modo, arrivò dritta alla sua testa.
 

Attento alla lama.


Fece appena in tempo a pensarlo che un dolore acuto e fastidioso gli colpi la mano, qualcosa che sapeva riconoscere fin troppo bene e che lo congelò sul posto.
Con movimenti rigidi estrasse la mano dalla tasca, osservandola di sottecchi, perché finché non l'avesse visto con i suoi stessi occhi non sarebbe stato vero. Invece lo era e sul palmo tremante era aperta una ferita dritta e pulita, una di quelle che si era fatto centinaia di volte da piccolo, quando ancora non sapeva maneggiare bene il coltello o gli si apriva per sbaglio di colpo come in quel momento. Ma a sconvolgerlo più di tutti non era la ferita, non era la voce dell'uomo dritta nella sua testa: era il sangue rosso, caldo e vivo che ne stava uscendo fuori.

 

Non è possibile…

 

Un brivido di terrore si insinuò in lui, distruggendo quella convinzione che ormai nulla avrebbe più potuto ucciderlo.
Era già morto, cosa sarebbe potuto andare peggio?

 

Non fatevi ammazzare e che Nike sia con voi…

 

Cazzo!

 

<< Cade! Ci sei o vuoi rimanere a fare la bella statuina lì?>>
Con uno scatto fulmineo si rimise la mano in tasca, voltandosi per sorridere ad Eliza e dirle che stava arrivando.
Cercò con lo sguardo l'uomo in nero ma di lui non vi era più alcuna traccia, era svanito nel nulla come nebbia.
Deglutendo Cade si voltò tentennante e raggiunse gli altri.
Quella storia non gli piaceva per niente ed erano solo all'inizio.

 

 

 

*

 

 

Il ragazzo riaprì gli occhi, chiedendosi perché non avesse avvertito nessun colpo.
Poi un tonfo sordo, quello classico di un corpo che cade a terra. Davanti a lui l'uomo degli anni '20 era riverso al suolo in una pozza di sangue scuro che gorgogliava dalle decine di fori sparsi sul suo petto.
Girò lentamente la testa verso l'uomo in cui si era imbattuto, trovandolo esattamente com'era prima, senza il minimo graffio. Accennò addirittura un sorriso e gli porse la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi.

<< Ripeto la domanda: tutto bene ragazzo?>>
<< S-sì… sì, sto bene grazie… ma- quell'uomo… >>
<< Non ti darà più alcun fastidio, tranquillo. Per di più, aveva qualcosa che non era suo.>>
L'uomo si avvicinò al corpo e gli sfilò il fucile d'assalto, infilandoselo in spalla e voltandosi di nuovo verso il giovane.
<< Come ti chiami?>>
L'altro deglutì. << Michael, sono- >>
<< Figlio di Apollo, lo so, ce ne sono tanti dei tuoi fratelli qui in giro.>> poi si frugò nel giaccone e ne estrasse qualcosa che lasciò il giovane Michael a bocca aperta.
<< Questa è tua, vero?>>
<< Sissignore. Voi… >>
<< Vedi di non perderla di nuovo.>>
<< Grazie. Cosa- c'è qualcosa che posso fare per sdebitarmi?>> chiese stringendo le mani sulla sua amata lancia, gli occhi chiari serissimi e puntati dritti in quelli cangianti dell'uomo.
Il sigaro si sporse in basso, obbligato dalla piega divertita presa dalle labbra del suo proprietario.
<< Qualcosa ci sarebbe, in effetti.>





















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Capitolo 7
*** Moon ***











VII- Moon.

 

 

 

L'entrata era coperta da un lungo tendaggio di velo bianco, leggero e impalpabile che donava all'ambiente esterno un'aria ben più mistica e fumosa di quello che era in realtà.
Aveva seguito fino a quel momento gli ultimi aggiornamenti, la diretta in tempo reale di quell'assurda gara che la sua famiglia aveva dato il via libera per organizzare.
Ad onor del vero, così com'era successo per molti dei suoi fratelli, si stupiva ancora che questo macello fosse stato organizzato nei minimi dettagli, che non fosse stato conseguenza di qualche grande profezia, di qualche grande lite o di qualche grande puttanata che uno a caso di loro aveva fatto. No, per una volta era tutto stato deciso, se ne era parlato, c'erano voluti alcuni mesi per definire i dettagli e per stampare tutti i dannati volantini. Questa volta nessun ragazzino innocente avrebbe rischiato la propria vita per accontentare i capricci di un dio, questa volta non sarebbe stata come le altre, eppure… eppure di nuovo come molti dei suoi fratelli si arrovellava nel cercare di capire la beffa, dove si nascondesse il tranello, la fregatura.

Perché c'è, c'è di sicuro, specie visto chi è stato a progettare tutto ciò.

Non l'avrebbe mai ammesso davanti ad anima viva, avrebbe preferito rischiare la morte piuttosto che dirlo ad alta voce, ma quell'uomo, quell'essere, le incuteva sempre una certa ansia.
Aveva avuto modo di vederlo all'opera, si ricordava ancora come lo avesse scioccamente sottovalutato, lei poi, che non sottovalutava mai una preda, che sapeva come le sorti di una caccia potessero ribaltarsi in poco tempo. L'aveva fatto comunque, aveva guardato quel ragazzino alto neanche un metro e sessanta, sporco di terra e polvere, con le unghie nere ed i vestiti stropicciati che chiedeva la grazia al Dio sbagliato e si poggiava con tranquillità ad Ade, senza paura di sporcarlo, senza paura di star toccando una divinità. L'aveva guardato e si era domandata come un mortale conscio della loro esistenza potesse comportarsi in quel modo, così sprovveduto, così indifferente… e come poteva Ade accettare la cosa. Ma non aveva capito nulla, così come non avevano capito gli altri, così come Ares l'aveva relegato al ruolo di ragazzino divertente e impertinente, come Apollo avesse riso con lui dei suoi insulti, così come Atena si era eretta sopra di lui senza capire quanto quello che si trovava davanti a lei fosse solo un albero che presto sarebbe cresciuto sino a sfiorare i cieli.
Seduta comodamente sul suo trono di pelli Artemide fissava il bosco attraverso il velo delicato della sua tenda, pensierosa e guardinga come non lo era dall'ultima Grande Profezia.
Neanche le sue ancelle le davano così da pensare, neanche le sue prede, e poi quella richiesta… no, Artemide lo sapeva, c'era sotto qualcosa, qualcosa di grande.
Il velo bianco tremulò, l'immagine opaca della boscaglia si dilatò lasciando posto al volto pallido e gioviale di Ipnos, dietro di lui riusciva ad intravedere delle macchine ed una figura imponente, sicuramente Efesto, che discuteva animatamente con un'alta e longilinea siluette nera, Thanatos senza dubbio alcuno.

<< Salve a te cugina, come va il campeggio?>> chiese il dio sistemandosi il cappello a falde larghe.
Artemide alzò un sopracciglio. << Perché malgrado passino i secoli continuate tutti a farmi la stessa battuta? Non sono in campeggio, Ipnos, sono accampata, sto rincorrendo la mia prossima preda.>>
L'altro annuì come se avesse finalmente capito qualcosa di importante, come se la volta successiva non le avrebbe fatto quella stessa domanda. Ma Ipnos era così: poteva giurarti di aver capito una cosa, che non l'avrebbe fatto mai più, e poi farla non appena gli si voltavano le spalle semplicemente perché se ne era dimenticato. Non c'era neanche di che arrabbiarsi con lui ormai.
<< E nel frattempo hai preparato qualcosa? La prossima prova è la tua, lo sai, sì?>>
<< Ovviamente, per chi mi hai presa? Per mio fratello?>>
<< Quale dei tanti?>> chiese l'altro sorridente.
<< Il gemello.>>
<< Oh, avrà una prova anche lui, te lo ha detto?>>
<< No, al momento mi è parso più occupato per affari suoi.>> ammise mentre il ricordo del volto pensieroso di Apollo si faceva largo nella sua mente. << E per altro, trovo decisamente stupido lasciare a lui una prova futura, e quindi più impegnativa, e chiedere a me di far la terza. Penso vi sarebbe convenuto di più far il contrario.>>
Ipnos si strinse nelle spalle, il bavero del cappotto gli coprì quasi tutto il volto e solo la fronte chiara rimase in mostra, come la gobba calante della Luna.

Ed il fatto che somigli così tanto al mio astro, cugino, è una cosa che mi ha sempre dato da pensare.

<< In ogni caso, tutto è pronto, una delle mie ancelle dovrebbe esser venuta a consegnarvi dei rotoli.>>
Ipnos annuì ancora, pronto a replicare, quando uno scoppio sullo sfondo lo fece sobbalzare e girar di colpo.
<< Questa è tutta colpa tua Gio! Lo so che ci stavi giocando tu con quella roba!>> rombò la voce bassa ma potente di Efesto.
<< Calunnie e maldicenze! Se fossi stato io lo scoppio sarebbe stato molto più grande!>>
<< Togli quelle manacce dai miei sensori!>>
<< Oh, ma certo, ora sono manacce, ma quando ti serviva qualcuno che si infilasse nel tuo bel drone ti erano simpatiche, eh? Devo ricordarti che mi hai fatto infilare letteralmente un braccio nel culo di quel dicobolo? No, perché c'è stato un momento in cui ho pensato di doverlo assolutamente inserire nel curriculum. “ Ottime doti meccaniche, pratico nell'infilare braccia nei culi delle statue” che te ne pare?>>
replicò con fin troppo sarcasmo una voce lontana che però Artemide non faticò neanche per un momento a ricollegare al suo proprietario.
Quindi Gio era in sala macchine con Thanatos ed Efesto? Era praticamente alla direzione dell'intero teatro?
Gio nella sala del Delta… aveva libero accesso a qualunque luogo sorvegliato da una delle macchine di Efesto, aveva occhi ed orecchie ovunque.
Perché la cosa la insospettiva più di quanto già non facesse?

<< Perdonami Artemide.>> La voce allegra di Ipnos la riportò a prestagli attenzione. << Credo proprio di dover andare, sento le voci di quei due ma non del mio di gemello e temo che Thanatos possa decidere da un momento all'altro che un dio del fuoco e delle fucine ed un Gio non ci servano più. Non vedo l'ora di vedere la tua prova! Buon campeggio e salutami le tue giovani marmotte!>>

Prima che potesse replicare ad una sola delle sue parole il collegamento s'interruppe ed il velo tornò ad essere quello che era stato in precedenza.
Artemide si massaggiò le tempie, affaticata anche da una semplice conversazione con il gemello pallido.
Per fortuna non era presente nessuna delle sue ancelle, se lo avessero sentito chiamarle “giovani marmotte” probabilmente avrebbero smesso tutte di dormire per pura ripicca verso il dio.

<< Dimmi che la cosa ti preoccupa tanto quanto preoccupa me.>>
Ancora ad occhi chiusi la dea non si sforzò neanche di voltarsi verso la sua ospite o di mostrarsi sorpresa per le sue parole o la sua semplice presenza. A dir la verità la stava aspettando.
<< Vuoi forse dirmi che hai paura di ciò che potrebbe fare?>> chiese mentre un sorrisino divertito le curvava le labbra.
Il grugnito poco elegante che ricevette in replica la fece sorridere solo di più.
<< Non dirlo neanche per scherzo, non c'è nulla che possa intimorirmi.>>
<< Quando dici questo genere di cose mi ricordo perché i mortali ti definiscono come l'altra metà di Ares.>> Artemide si mosse ad agio, aprendo gli occhi e voltando il viso verso l'altra dea.
Atena, se possibile, ringhiò più di quanto non facesse il prima citato dio della guerra.
<< Smettila di paragonarmi a quel bifolco. Sono intelligente e razionale, a differenza sua, per questo so che non c'è nulla che meriti il mio terrore, ogni cosa può essere affrontata e superata.>>
<< Anche Giordano Delle Vie?>>
La dea si esibì in una smorfia che, se solo al posto della sorella ci fosse stato Apollo, l'avrebbe segnata per tutti i secoli a venire. << Non chiamarlo in quel modo, gli da molta più importanza di quanta non gliene diano già gli altri.>>
Con passi decisi la dea si avvicinò al giaciglio di pelli e vi si sedette con rigida alterigia.
Artemide sospirò, quella scenetta l'aveva già annoiata. << Il tuo odio nei suoi confronti è sempre ammirevole e costante. Anzi, mi azzardo a dire che con il passare del tempo si è intensificato.>>
<< Siamo Dei, Artemide, noi siamo- >>
<< Te ne prego, non dire “superiori a queste cose” perché la storia della nostra esistenza si basa sull'odio reciproco che proviamo gli uni per gli altri e per coloro che osano essere migliori di noi.>>
<< Detta così pare quasi che ci riescano.>>
<< Alcuni sì. >> sogghignò sinistra come il suo astro, << Aracne, no?>>
Atena replicò quella stessa smorfia schifata di prima ed Artemide si disse che alla prossima le avrebbe fatto una foto. Ma non avevano tempo per queste cose, c'era ben altro a cui pensare.
Sebbene nessuno dei loro famigliari pareva essersi posto il problema, Artemide sapeva che Atena, così come lei, aveva preso più che seriamente la cosa e che era li soprattutto per discuterne.
<< Cosa ne pensi? >> le chiese giusto per iniziare dal principio.
La dea della saggezza si sedette meglio ed alzò il mento al cielo, preparandosi per una delle sue migliori spiegazioni.
<< Ovviamente ha un obbiettivo che differisce da quello che ha pubblicamente proclamato a tutti noi. Sebbene il suo piano sia apparentemente ben congegnato nei minimi dettagli, converrai con me che ci sono ben più di un paio di falle.
Punto primo: ha posto la gara come un modo per “evitare morti inutili”, ha puntato sui sensi di colpa, blandi, che alcuni di noi ancora hanno per le ultime imprese e sulla logica di altri di noi. Ci ha esplicitamente detto “è inutile mandare a morire dei ragazzini, figli vostri su cui voi stessi dovete contare per le vostre imprese, quando potreste tenerli in salvo e magari permetter loro di vivere per un po' come dei ragazzi normali”. Sensi di colpa e logica. Poseidone si sarebbe tagliato una mano piuttosto che sentirsi riaccusare da un suo figlio di fregarsene di loro, Zeus non avrebbe tollerato un altra predica da parte di un semidio, Ermes ancora crede di aver tutte le colpe del mondo ed Era… beh, per quanto non le piacciano i figli illegittimi è anche la dea della famiglia, la morte inutile di una progenie a caso non le piace molto. Altri come me, Tiche, te, Efesto e anche tuo fratello, abbiamo semplicemente constatato che se in questa fantomatica missione fossero morti i migliori dei nostri, perché avremmo preteso solo i più forti per il nostro divertimento, in caso di pericolo non ci sarebbero stati semidei degni di questo nome per adempiere al nostro volere.>>
Nel corso dei millenni Artemide si era domandata spesso come potessero in così tanti trovare in Atena la loro “dea preferita”. Le sue parole erano pregne di intelligenza, di saggezza… ma così spietate, così fredde… “avremmo preteso solo i più forti per il nostro divertimento”… per l'Ade e poi si domandavano perché fosse anche la dea della strategia di guerra…
<< Così ci ha convinti tutti più o meno facilmente: i nostri figli non si sarebbero lamentati, Chirone o Lupa non avrebbero battuto ciglio, ma avremmo comunque avuto il nostro piccolo show.
Ci ha detto che chiunque avrebbe voluto, tra di noi, avrebbe potuto ideare una prova, ci ha dato il potere ma non completamente, è stato più un contentino, uno studente più intelligente del suo insegnante che gli assicura che rimarrà comunque il più grande dei due perché lui è appunto solo un povero alunno.>>
<< Ci ha ingannati quindi.>> disse in parole povere Artemide, che da sempre aveva avuto questa grande dote di riassumere ciò per cui la gente sprecava inutilmente fiato.
Atena annuì, infastidita in parte da quell'interruzione brusca e sbrigativa. << Sì, possiamo dire così, a questo punto tutti noi eravamo già attratti da questa nuova proposta, non ha dovuto insistere troppo.
Ma veniamo al punto secondo: se la sua intenzione era davvero quella di regalarci un grande spettacolo senza vittime inutili, dando la possibilità a qualcuno di degno di tornare alla sua vera e prima vita, perché ha aperto le selezioni a tutti?
I Campi di Pena sono vuoti, Artemide, vuoti. Tutti i mostri che vi sono stati rinchiusi per tutto questo tempo sono ora liberi di girare per l'Ade, si sono trovati faccia a faccia con gli eroi che li hanno uccisi magari e abbiamo visto tutti cos'è successo in quel labirinto.>>
<< L'edera di Persefone non perdona, devo dedurne che ne sei delusa? Avresti voluto, cosa? Che continuassero a giocare?>> chiese la dea della Luna alzando scettica un sopracciglio.
L'espressione infastidita di Atena valse più di mille parole, ma la dea non era solita star zitta.
<< Persefone ha barato. Ha mosso le sue piante come- >>
<< Oh, per l'Olimpo, risparmiami questa sceneggiata Atena!>> proruppe ormai annoiata Artemide. << Avremmo e sicuramente fatto tutti la stessa cose e quando faremo la nostra prova ognuno di noi muoverà le fila per far sì che i nostri prediletti passino il turno e che chi più ci sta antipatico o anche solo un po' indifferente finisca in qualche trappola. Non fare la finta buonista con me. Abbiamo sempre fatto così, abbiamo sempre comandato i nostri giochi, in guerra come in pace. Persefone non ha fatto nulla di strano e più che preoccuparti di lei che ha “barato” dovremmo parlare di ciò che è successo tra quelle mura. Le anime sono scomparse, te ne sei resa conto, sì?>>
L'altra dea rimase rigida, fissando con severità la sorellastra.
<< Sarebbe stato impossibile non accorgersene. Alcuni sono scomparsi, altri si sono salvati per miracolo e altri ancora hanno semplicemente lasciato il labirinto.>>
<< Hai visto la tessera d'oro… >>
<< Sai chi era, lo sai perfettamente così come lo so io. Quell'essere… prima andava aggirandosi per le Praterie, poi si intrufola nel labirinto, un posto che tecnicamente sarebbe dovuto esser sorvegliato, si impossessa di tutte le armi che trova- >>
<< Le va a cercare, le ha cercate tutte e ha lasciato solo quelle più vicine ai proprietari. >>
<< E poi le distribuisce a chi più crede. Senza dimenticare le anime che ha fatto scomparire… >>
Vi fu un lungo momento di silenzio in cui nessuna delle due parlò, ciò che avevano detto fino a quel momento aleggiava nella tenda come un fumo pesante e dall'odore pungente, pareva la nuvola indissolubile di un incenso che in egual misura attirava e disgustava chiunque lo sentisse.

<< Quello che dovremmo chiederci, >> iniziò Artemide a voce bassa. << è cosa ci ricava lui in tutto ciò.>>
Atena riportò la sua attenzione su di lei. << Continua.>>
<< Che sia sempre stato contro le guerre dei semidei è cosa risaputa da tutti, così come sappiamo che non ha mai avuto molti in simpatia, non era uno che si faceva dei veri amici, non molti per lo meno.>>
<< Pochi e fidati, gli altri erano tutti conoscenti con cui scambiare quattro chiacchiere e giocare a carte.>>
<< Allora, se non ha grande stima di molte persone, perché aprire la competizione a tutti? Cosa gli giova? Avrebbe potuto fare una selezione mirata e mandare in campo solo i migliori.>>
<< Ma in questo caso sarebbero stati questi “migliori” a cadere fino a quando non ne sarebbe rimasto uno solo.>> le fece notare l'altra. << Ha permesso che migliaia di milioni, miliardi di persone, tutti i morti della Terra, potessero aver l'opportunità di gareggiare. Così sarebbero potuti essere loro gli sfortunati eliminati e non i suoi prediletti.>>
<< Ma così facendo ha generato un caos incredibile.>>
Atena sbuffò una risata divertita. << E cosa c'è di strano? Stiamo parlando di quell'uomo, il caos gli scorre nelle vene.>>
<< Lo so Atena, ma non ti sembra troppo anche per lui? E se questa confusione fosse ciò a cui voleva arrivare?>>
<< Rivoltarci contro tutte le anime dell'inferno? No.>> disse sicura, ma poi si bloccò, aggrottò le sopracciglia e la guardò pensierosa. << Però, quando regna il caos tutti sono attenti agli eventi più grandi e tralasciano o ignorano i più piccoli. Cosa vuole, Giordano il Mortale, che può ottenere solo mentre tutti gli Dèi guardano da un'altra parte?>>
Artemide voltò di poco il capo, lo sguardo fisso su un grande telo su cui si alternavano immagini mute, la riproduzione di un labirinto d'edera, mostrando i momenti più salienti della prima gara. Ma alla dea non interessavano i volti e le lotte, i suoi occhi grigi erano puntati dritti su un gruppo di puntini dalle sfumature cupe, in cui solo una sfera chiara risaltava. Era gialla, di quello stesso colore del grano un attimo e l'attimo dopo come il topazio scheggiato. Brillava di una luce intensa e propria, proveniente dal centro di quella piccola sfera che si accompagnava a molte altre più scure, come quella color terra che gli fluttuava vicino e che l'aveva spinta di punto in bianco dietro ad uno dei muri.
Il puntino color terra si era poi lanciato verso un nutrito gruppo di altri puntini colorati delle più diverse sfumature, ma ad Artemide non interessava neanche quello.
Tenne gli occhi sul puntino giallo, continuò anche se non succedeva niente, anche se se ne rimaneva semplicemente lì, al sicuro. Lo fece finché il video le mostrò di nuovo ciò che le aveva mostrato la prima volta: di punto in bianco da dietro l'angolo, letteralmente pochi passi prima della svolta, comparve una lucida e brillante moneta d'oro, più luminosa delle altre e contornata da centinaia di puntini azzurrognoli e luminosi, così tanti che solo l'occhio di una dea poteva distinguerli.
La sfera d'oro si avvicinò ancora a quella gialla, ed Artemide si immaginò una figura di puro oro piegarsi sopra quell'anima, posarle una mano su una spalla, prendendola completamente di sorpresa, e sussurrarle qualcosa all'orecchio.
Poi scomparvero entrambe. Quando la moneta d'oro ricomparve nel labirinto era di nuovo sola.

<< Temo che la domanda giusta sia: cosa ha già fatto, Giordano il Mortale, proprio sotto il nostro naso?>>

 

 

 

 

*

 

 

 

 

La sala era completamente buia, non vi era un solo filo di luce che vi potesse penetrare.
Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, se quella fosse una cella, una camera, un salone monumentale le cui finestre erano tutte state sprangate affinché il Sole non potesse farvi filtrare neanche il più piccolo dei suoi raggi.
C'era solo il buio ed il freddo.
Il pavimento su cui poggiava era levigato come il marmo, freddo come la pietra nuda di una grotta, i suoi vestiti non fornivano il minimo calore ma ormai non importava più. Da troppi anni non soffriva più il caldo o il gelo, da troppi anni era indifferente a tutto ciò che lo circondava.
C'era il buio, la pietra così fredda da sembrar bagnata ed una curiosa sensazione di umidità sulle sue mani, come se le avesse sfregate contro quel pavimento, come se le avesse infilate nella sabbia della battigia.
Ma non c'erano minuscoli grani sulle sue mani, non vi era luce che potesse permetter di vedere, non vi era altro che quel freddo pungente, che rendeva l'aria quasi satura d'acqua e che non lo sfiorava minimamente.
Era solo.
Tenne gli occhi aperti, l'oscurità era così fitta che non vi sarebbe stata alcuna differenza nel tenerli chiusi, ma i suoi erano spalancati, le pupille dilatate, enormi quasi rispetto all'iride, pronte ad ingoiare anche il più piccolo cambiamento in quel mondo dominato da Nyx e dalle sue spire.
Non si mosse, non respirò, non chiuse gli occhi, nell'immobilità di quel mondo non vi era nulla che potesse far credere che vi fosse anche un solo essere vivente.
Forse, perché era proprio così. Di vivo, lì, non c'era ormai più nulla.
I suoi occhi si spostarono verso il basso, dove sapeva per puro intuito che vi fossero le sue mani.
Percepì qualcosa cambiare, un movimento involontario, qualcosa a cui il suo corpo non sarebbe più dovuto esser abituato e che invece, a quanto pareva, sembrava ancora ricordarsi come si faceva.
Ed il buio si piegò, lentamente, con letizia, come il Sole che cala alla sera, l'oscurità scivolò tra le sue dita, l'acqua di un mare nero che si ritira verso l'oceano e lascia la riva seguendo il volere della Luna e della sua pallida influenza.
Le sue mani si delinearono, i contorni quasi trasparenti, come il corpo di una medusa, al cui interno è possibile veder un sistema di vita ancestrale e perfetto.
Vide le sue ossa, per un folle momento credette di poter vedere anche le vene ed i fasci lisci dei suoi muscoli, poi tutto sfumò in un caldo color rosso, sempre più intenso, sempre più lucido.
Nel buio del nulla le sue mani brillarono fiocamente, tra le dita il sangue scintillò come una pietra intagliata, come i riflessi del sole sul mare, come le stelle nel cielo.
Gli bagnava i palmi, colava sui polsi fini e scendeva in rigagnoli ormai secchi fino al gomito, disegnando delicati reticoli sulla pelle fredda come la pietra su cui sedeva.
Non gli interessava guardarsi attorno, controllare se l'umidità che percepivano le sue gambe fosse data da un'intera pozza di sangue in cui stava a mollo da ore, da giorni, non lo toccava, non gli dava alcun pensiero, non ne era spaventato.
Per tutta la vita aveva avuto le mani sporche di sangue, imbrattate di quel fluido denso, scivoloso e viscoso, che significava tutto e non aveva alcuna importanza. Aveva imparato a conviverci, vi si era bagnato, vi si era immerso ed era riuscito a distinguerne la provenienza.
La sua intera esistenza era stata macchiata dal sangue, ma certo, non il suo.

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Il sentiero da seguire era ornato di fiori che probabilmente non sarebbero mai potuti nascere in quei luoghi.
Jonas aveva guardato con attenzione quelle piante ed i cartelli che, ad intervalli regolari, erano piazzati davanti alle aiuole con il comando ben preciso di non toccarle. La voglia di allungare anche solo una mano e sfiorare un petalo era davvero molta, ma il ragazzo aveva già iniziato a capire come ragionavano gli Déi e, se proprio qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe facilmente ammesso che vedersi tagliare una mano o un braccio perché aveva osato toccare i fiori di Persefone non rientrava tra le dieci cose a cui proprio non poteva rinunciare.
Davanti a lui gli altri parevano tranquilli, Nathan aveva l'espressione di uno che si era già rotto le palle di camminare e che voleva arrivare al più presto alla prossima meta e forse sentire le chiacchiere tranquille e disinteressate di Eliza e Jane, assolutamente inquietante sempre se qualcuno glielo avesse chiesto, non stava aiutando molto, ma pareva comunque una cosa normale.
Chi invece non si stava minimamente attenendo al ruolo che gli era calzato a pennello fino a quel momento, era Cade.
Gettando un'occhiata alle sue spalle Jonas scorse la figura del rosso camminare lentamente dietro di lui: teneva le testa bassa, pensieroso, le mani infilate nelle tasche e non a giocare con il coltellino come aveva fatto fino ad allora.
Forse avrebbe dovuto dirgli qualcosa, chiedergli come stesse o cose simili, specie visto come si era comportato l'altro con lui, salvandolo e aiutandolo sì a scappare ma anche a far qualcosa da solo. Malgrado l'incidente del lottatore di sumo non fosse proprio una di quelle cose da inserire in una lettera di presentazione, certo.
Gli avrebbe fatto piacere? Dopotutto era un ragazzino di sedici anni che si impicciava dei problemi di un ventenne, anzi, di un ventiseienne. Tra lui e Cade, tralasciando l'epoca in cui erano vissuti, passavano ben dieci anni, magari al giovane avrebbe dato fastidio che un ragazzino si immischiasse nei suoi pensieri. O magari, come sempre, si stava solo facendo una marea di fisime lui e Cade avrebbe gradito la sua “preoccupazione”. E poi, in un qualche modo, erano amici no? Più conoscenti forse, anche se, dopo quello che avevano passato assieme magari poteva definirsi suo amico… dannazione, perché doveva sempre impantanarsi in questi problemi? Erano morti, non c'erano più “adulti” e “bambini”, erano tutti allo stesso livello ora, e lui era una persona matura che, visto un compagno meditabondo, si preoccupava che potesse esserci qualcosa che non andava e gli chiedeva, gentilmente, cosa avesse. Sì. Persona matura che si comporta da persona matura. Ecco, così.
Rincuorato dai suoi stessi pensieri Jonas alzò la testa per prendere un inutile respiro d'incoraggiamento, prima di voltarsi e decidersi a parlare con Cade, quando l'aria sulfurea, stantia e terrosa degli inferi gli si bloccò in gola, come un macigno difficile da mandar giù, la sensazione fu quella dolorosa e soffocante di quando ingoiava un sorso d'acqua e sentiva la carotide esplodergli sotto la pressione del fluido compattato. Si fermò di colpo, i piedi piantati a terra, le spalle rigide ed i muscoli così tesi da fargli male. Se avesse avuto solo un po' di sangue in corpo ancora, probabilmente sarebbe sbiancato, forse sarebbe addirittura svenuto e questa era una cosa da non prendere sotto gamba visto che era già successo. Ma neanche la folle corsa dei suoi pensieri poteva dargli un minimo di sollievo, poteva proteggerlo da ciò che si era parato davanti ai suoi occhi.
Alto decine e decine di metri, così tanto che i contorni sfumavano nel buio della volta rocciosa; imponente e minaccioso, dalle grandi sbarre larghe come tronchi di una quercia, tutte saldate le une alle altre in forme regolari e geometriche, dalla trama grezza e ruvida, ancorato ad una rete infinita sulla cui sommità spiccava un enorme groviglio di fil di ferro, si ergeva un cancello nero come la pece, minaccioso come le porte dell'infermo.
E Jonas le aveva viste bene, vi era entrato una volta e non vi era più uscito.
Senza rendersene conto fece un passo indietro, quello davanti a lui non poteva essere Il Cancello Nero. Non poteva essere la sola ed unica entrata ai Campi di Pena, non poteva. Non vi era una rete metallica a delinearne i confine, ma titaniche mura nere che non permettevano a nessuno di vedere le atrocità che venivano perpetrate al loro interno o di scorgere anche solo un granello di speranza del mondo di soffice foschia e oblio che vi era fuori.
Non poteva essere di nuovo lì, non potevano riportarlo dentro quelle mura, non potevano farlo. Dio santissimo, avrebbe preferito dimenticare tutto, avrebbe preferito essere ingoiato dai muri d'edera ma no, non tornare lì, non poteva, non poteva farlo, non di nuovo.

<< Ehi, va tutto bene, non ti rimanderanno lì dentro, non è ancora finita.>>

Con gli occhi sgranati dal terrore Jonas volse la testa di scatto verso la direzione della voce, un attimo fugace per permettersi di accertarsi che sì, quello che aveva parlato era Cade, per poi riportare di nuovo lo sguardo sulle inferriate. Era sciocco ma aveva la sensazione che se gli avesse voltato le spalle anche solo per un secondo sarebbe potuto uscire qualche mostro a prenderlo e ritrascinarlo dentro.

<< Oh, Jonas? Guardami, non succederà nulla, i Campi di Pena stanno dall'altra parte, ci siamo avvicinati molto di più agli Elisi, capito?>>
A Cade bastò allungare una mano per afferrare saldamente la spalla del ragazzo, sentendo i muscoli tesi come le corde di un argano. Era pallido, no, era cianotico, le labbra fini erano quasi violacee e Cade non ebbe neanche il dubbio che, in altre condizioni, sarebbe svenuto per mancanza d'aria. Il ché era davvero ironico: potevano ferirsi, potevano sanguinare, morire ancora e scomparire nel nulla ma nessuno di loro aveva bisogno davvero di respirare, malgrado tutti continuassero a farlo per pura abitudine… anche nella morte, a quanto pareva, il lupo perdeva il pelo e non il vizio.

Quindi non siamo proprio tornati a com'eravamo prima, un paio di cose da morti ci sono rimaste, tipo il respirare.

Pensò beffardo passando un braccio attorno alle spalle di Jonas e girandogli attorno per guardarlo meglio in faccia. Una faccia davvero cadaverica, con le labbra blu, gli occhi iniettati di sangue e l'aspetto di uno a cui serviva decisamente una boccata d'aria.

No, contro ordine, contro ordine! Ci serve anche respirare, cazzo!

Senza troppe cerimonie gli assestò un pugno dritto alla bocca dello stomaco, un colpo al diaframma che costrinse Jonas a spalancare le labbra e prendere una boccata d'aria.
Il ragazzo si piegò in avanti, sostenuto sempre dalla presa ferrea dell'irlandese che lo incoraggiava a prendere respiri profondi e a calmarsi.
<< Così, bravo, un altro. Respira uccellino, se no mi fai la fine del pettirosso sotto la campana.>> sorrise disegnando ampi cerchi sulla sua schiena. << Ehi!>> chiamò poi a gran voce. << Cade chiama guardie! Ci date un attimo di tempo? Mi è caduto il gattino nell'acqua!>>
Con una smorfia infastidita Jonas menò un rovescio sul braccio del rosso. << Smettila con questi soprannomi del cazzo.>> tossì a fatica, per poi aggrapparsi meglio a lui e chiudere gli occhi.
Seguì il suo consiglio e prese un respiro profondo, diviso tra la debolezza del suo corpo che gli chiedeva di poggiarsi al compagno e riprendere fiato, che gli diceva che poteva farlo, che Cade l'avrebbe sostenuto senza problemi, ed il suo stupidissimo orgoglio che gli gridava di non fare la femminuccia e di alzarsi, che si era già reso abbastanza ridicolo.
Apparentemente, Cade scelse per lui.
Stringendolo anche con l'altro braccio lo accompagnò a terra, facendolo sedere davanti a sé, gli occhi puntanti su di lui ed un orecchio teso alle lamentele di Nathan.
Lamentele che durarono finché Jane non mormorò qualcosa sotto voce facendo voltare di scatto i due soldati e anche se Cade poteva facilmente intuire cosa avesse detto la ragazza delle Praterie, nomignolo per altro molto azzeccato che avrebbe riusato anche in futuro, in quel momento la sua preoccupazione era tutta per quel ragazzino che, non prediamoci in giro, aveva avuto un magnifico attacco di panico.
Jonas se ne stava ancora ad occhi chiusi, la testa riversa verso l'alto, il collo fine disteso forse nell'illusione che così passasse più aria.
Gli occhi verdi di Cade seguirono la forma della mascella ancora non troppo definita, probabilmente una volta cresciuto avrebbe avuto quei classici tratti da tedesco, squadrati e duri, ma non aveva avuto la possibilità di farlo. Dopo il mento ancora morbido, il collo chiaro e privo di macchie, posata con delicatezza sulle clavicole sporgenti, vi era una collana, un girocollo, di scintillante metallo lucido, quasi argenteo, che riproduceva quello che gli pareva un rovo.
Cade non aveva fatto alcuna domanda a Jonas, non quando l'aveva visto per la prima volta, sdraiato a terra, con gli occhi chiusi in attesa della fine, né quando avevano preso un po' più di confidenza e non l'avrebbe fatto neanche ora.
Aveva capito fin da subito che non veniva dagli Elisi, così come aveva capito che non proveniva dalle Praterie e per quando non fosse proprio un genio Cade non era stupido, era furbo invece e la furbizia gli aveva sempre permesso di far collegamenti veloci e diretti.
I suoi vestiti, il suo aspetto, lo sguardo sconcertato che rivolgeva a ciò che gli capitava attorno, ai poteri che lui aveva sfoggiato, alla spiegazione sulle armi semidivine… tutto quanto gli aveva fatto capire che Jonas non aveva la più pallida idea, sia in vita così come nella morte, di quale fosse il mondo a cui appartenesse, che il luogo in cui aveva sostato per tutti quegli anni non gli aveva insegnato nulla se non ad arrendersi ed accettare l'inevitabile.
Quando poi l'aveva sentito mormorare quelle parole, quelle suppliche a non riportarlo oltre i Cancelli Neri, aveva avuto la conferma a tutti i suoi dubbi.
Non gli avrebbe chiesto perché fosse finito lì, Cade aveva visto bambini ben più piccoli di Jonas uccidere, manomettere carrozze, tagliare corde per far sì che qualcuno morisse, spinti ad una commissione di un ricco “benefattore”, così tanti innocenti macchiarsi le mani per qualche moneta che permettesse loro di vivere un giorno di più, che non faticava a credere all'immagine di Jonas che per un motivo qualunque imbracciava un arma e faceva fuoco.
Che fosse l'omicidio quello che pendeva sulla sua testa, che fosse il tradimento, la menzogna, l'inganno o l'adulterio che lo avesse portato dentro ai Campi di Pena a Cade non interessava.

Non siamo chi eravamo quando siamo morti e non saremo mai nulla di diverso da quello che eravamo allora.

Sorridendo a quel pensiero si disse che forse, se non gli fosse andata così bene, si sarebbero potuti incontrare proprio oltre quelle mura, magari avrebbero condiviso lo stesso girone e le stesse torture.

Forse non l'avrebbe mai saputo.
 

<< Ti senti meglio, uccellino?>> chiese dopo un po'.
Il ringhio che gli restituì Jonas gli fece tirare un silenzioso sospiro di sollievo: se gli rispondeva per le rime significava che stava bene.
<< Ti ho appena detto di non usare quei dannati soprannomi!>>
<< E se solo tu aprissi gli occhi potresti vedere quanto me ne frega di ciò che vuoi o non vuoi, ma visto che sono un gentil uomo e tu sei quasi morto soffocato- sì, sì, lo so che siamo già morti! Per l'amor del cielo! Non capisco perché sei amico mio quando saresti il perfetto braccio destro del biondastro!>> proruppe prima che il ragazzo potesse protestare.
Jonas batté un paio di volte le palpebre: amico? Cade… Cade lo reputava suo amico? Ma se si erano conosciuti- Dio! Forse neanche cinque ore prima! E già lo definiva suo amico?
Contro ogni logica, e anche contro la sua volontà, Jonas si ritrovò a sorridere.
<< Te l'ho detto che sono una persona piena di fiducia verso il prossimo.>> iniziò gonfiando il petto e pavoneggiandosi con una vanità che non gli apparteneva davvero. << Sono anche estremamente magnanimo e do una possibilità a tutti, anche ai tipi strambi come te.>>
Cade si portò una mano al cuore, fintamente oltraggiato. << Ah! È così che mi ripaghi? Dopo tutto quello che ho fatto per te? Va bene passerotto, come vuoi tu, ma sappi che sono perfettamente consapevole del fatto che non sei né fiducioso, né magnanimo! Piccola carognetta…. >>
Ancora una volta, senza rendersene conto, Jonas si ritrovò a ridacchiare.
Forse Cade era un po' troppo rumoroso per i suoi gusti, troppo confusionario, si prendeva un po' troppe libertà e pareva non esser in grado di tener la bocca chiusa, ma in quel breve tempo in cui si erano conosciuti ed erano stati assieme Jonas aveva potuto notare come ogni azione dell'irlandese fosse fatta con spontaneità. Forse non si fidava ancora completamente di lui, forse il tempo a loro disposizione non sarebbe stato sufficiente perché questo accadesse, eppure, per quel poco che gli era stato concesso fino ad allora, Jonas poteva dire che essere definito “amico” da Cade il Grifone, non gli dispiaceva più di tanto.
A patto che la smettesse di chiamarlo con quei stupidi soprannomi ridicoli, non poteva prendersi questa libertà solo perché era più grande di lui.
<< Sono una carognetta che ti prenderà a pugni se la chiamerai ancora passerotto.>> lo avvertì alzando un sopracciglio.
Cade replicò la sua stessa espressione. << Ma cosa vuoi fare te? Sei uno scricciolo, sei magrissimo, ma mangiavi da vivo? Non ti è spuntata neanche la barba, cosa potresti farmi? Naaa, lascia stare le minacce e non preoccuparti di nulla scricciolo, c'è qui Cade che ti difenderà e ti aiuterà!>> sorrise drizzando la schiena e battendosi una mano sul petto. Poi gli fece l'occhiolino. << È che ho il cuore tenero io, deformazione da fratello maggiore.>>
Detto ciò saltò in piedi, gli porse la mano – ed il fatto che Jonas non c'avesse dovuto pensare neanche per un attimo prima di afferrarla la diceva più lunga di quanto il biondo pensasse – e lo trascinò in piedi.
<< Forza e coraggio! Abbiamo un'altra prova davanti a noi!>> disse voltandosi verso gli altri ed incamminandosi nella loro direzione.
Jonas però non lo seguì, rimase fermo a fissare il ragazzo quasi saltellare via, domandandosi come sarebbe stato conoscere Cade in vita, chiedendosi cosa sarebbe successo se avesse avuto vicino un amico così, una persona del genere su cui fare affidamento, a cui raccontare i suoi problemi, le sue paure, i suoi scheletri nascosti nell'armadio… chissà se avrebbe fatto le stesse scelte che aveva fatto. Chissà che un Cade non sarebbe entrato in quella stanza proprio al momento giusto, se non avrebbe lottato con lui fino alla fine.
Con una punta di amarezza Jonas si rese conto che il suo comportamento così altalenante, la sua duplice personalità che si mostrava a differenza delle persone con cui doveva rapportarsi, lo aveva spinto in una zona d'ambiguità che spesso aveva allontanato gli altri. Solo una persona era rimasta al suo fianco, aveva visto tutte le sue zone buie e aveva condiviso i suoi timori, i suoi dolori, solo una e nonostante ciò quel sentimento potente che li legava non gli aveva impedito di finire nei Campi di Pena.
Cade era arrivato davanti agli altri, le braccia incrociate dietro alla testa, lo vide spostarsi per evitare lo scappellotto di Eliza e ridere sguaiatamente di qualcosa che non poteva sentire.
Chissà se una persona come Cade lo avrebbe aiutato ad essere migliore, come agognava da tutta la vita, o lo avrebbe trascinato in ancora più guai di quanto già non facesse da solo.
Probabilmente un po' di entrambe, concluse sorridendo mesto.
Alzò lentamente la mano, sforando quello che una volta era stato il suo lucido collare, lo specchio della sua condanna. Una leggera brezza lo sfiorò, l'odore di una camera chiusa, di una piccola stufa accesa, il profumo fresco dei panni appena lavati e quello indefinibile che aveva sempre paragonato a casa, alla salvezza, alla sicurezza, alla pace. Fumosa e quasi invisibile, nulla più di un miraggio estivo, una figura umana gli apparve davanti, morbidi ricci biondi e corpo slanciato, quando si voltò verso di lui un flash verde saettò come le luci delle case viste da un treno in corsa, un alito di vita e di positività identici a quelli che avevano animato quella persona il pomeriggio prima che tutto finisse.
Poi scomparve, solo la scia delle luci rimase nell'aria, nulla di più, svanito come il miraggio che era, come non fece il peso che gli gravava sullo stomaco.
Preferì dare la colpa di tutto al pugno che Cade gli aveva dato e accolse come una manna dal cielo la voce del giovane che lo richiamava.

<< Tutto bene, Jonas?>> chiese da lontano, gli occhi verdi puntati nei suoi.
Jonas sorrise ed annuì. << Sì, scusate, mi ero incantato. >>

Avviandosi a passi svelti verso i suoi compagni d'avventura si ritrovò a pensare che se sul suo cammino era capitato qualcun altro con quell'accecante colore d'occhi, forse non era un caso, forse Cade, quel nuovo, confusionario e rumoroso amico, del tutto diverso dall'unico che aveva avuto in vita, era proprio un regalo di quella sola persona che l'aveva visto davvero e l'aveva amato per ciò che era.

 

 

*

 

 

Il soldato biondo, Nathan, camminava alla testa del gruppo neanche fosse stato un condottiero biblico scelto da Dio in persona. Jane era vagamente consapevole del fatto che, visti soprattutto i suoi natali, avrebbe dovuto smetterla di far paragoni con la religione cristiana e incominciare ad usare dei termini più pagani, ma a voler essere del tutto onesti non le interessava assolutamente nulla di poter recar fastidio agli Déi o mancargli di rispetto. Loro avevano mancato di rispetto a lei e alla sua famiglia, a migliaia di famiglie, senza mai batter ciglio, non meritavano certo il suo rispetto, malgrado ora fosse consapevole di cosa erano in grado di fare.
Jane aveva avuto paura per tutta la fine della sua vita, averne anche nella morte era una cosa ridicola e che le dessero pure della cinica ma lei aveva più pietà di coloro che si affaccendavano per aver una grazia che dei dannati stipati nei Campi di Pena.
A quel pensiero si ritrovò a spiare con la coda dell'occhio il ragazzino che era uscito fuori dal Labirinto con il pazzo rosso. Partendo dal presupposto che una persona con i capelli rossi, chiamiamola superstizione o stupidi preconcetti – Jane non poteva farne comunque a meno – già di per sé portasse guai e sventure, se poi ci si aggiungeva che non stava un attimo zitto, che scherzava un po' troppo, che giocasse con le armi come se fossero innocue… certo non deponeva a suo favore. Così come non lo faceva il fatto che avesse pescato, in tutto il dannatissimo labirinto, proprio l'anima di un dannato e avesse deciso di portarsela dietro, di portarla verso le altre prove, verso la salvezza.
Se era finito nella parte più buia degli Inferi un motivo c'era e Jane non sapeva quanto fosse disposta a dare una seconda possibilità a quel ragazzino.
Da quanto ne sapeva poteva essere un criminale incallito, un assassino, poteva esser uno di quei schifosi soldati che depredavano i villaggi più isolati e violentavano le donne ed uccidevano gli uomini, quel genere di feccia da cui suo padre e altri valorosi avevano sempre protetto la città.
Sembrava innocuo, certo, ma si era fidato di uno sconosciuto con i capelli rossi, non faceva magie come lei, ma Jane aveva imparato che c'erano tanti tipi di streghe al mondo.
Il rosso poi era stranamente silenzioso, mentre da quel poco che le era interessato capire non stava mai zitto ed ignorava la maggior parte delle ben educate norme sociali.
Con un sorriso sinistro Jane abbassò leggermente la testa: parlava lei poi, la figlia di un vigilante e di una semplice casalinga, che marinava le messe e scappava da scuola.
Non che questo, di nuovo, avesse una qualche importanza.
Tornò a guardare avanti a sé, fino a quel momento lei ed Eliza avevano parlato del più e del meno, in particolare la donna le aveva spiegato quello che lei sapeva del mondo divino: alcune cose gliele avevano dette gli altri due, Lea e Úranus se non errava, altre invece le erano del tutto sconosciute, ma in ogni caso saperne il più possibile le sarebbe stato utile nel momento in cui si sarebbe ritrovata ad esser sola a gareggiare e magari anche quando sarebbe tornata sulla terra.
Vagò con lo sguardo, passando dalla mora al biondo e poi alla sagoma scura ed imponente che si ergeva in lontananza.
Aggrottando le sopracciglia Jane cercò di metter a fuoco ciò a cui stavano andando incontro e che, a conti fatti, pareva un cancello, un enorme cancello nero che le fece tornare in mente quello dei Campi di Pena. Non che vi fosse mai stata dentro ovviamente, ma nel suo eterno ed infinito vagare le era capitato di ritrovarsi in prossimità di quelle porte, lì dove persino l'erba nera si diradava, seccata e bruciata dall'orrore che i cancelli e le alte mura arginavano. Se non fosse che i Cancelli Neri erano molto più grandi e che le mura erano ciclopiche e alte quasi fino al cielo, Jane avrebbe seriamente creduto di essersi imbattuta di nuovo nei Campi di Pena. Quelle che costeggiavano quel cancello però, sembravano reti dei pescatori, solo fatte di metallo, grande, resistente, ruvido e grezzo, forse una creazione moderna, in ogni caso piuttosto intelligente, funzionava con i pesci poteva farlo anche con le anime.
Jane studiò con attenzione tutta la struttura, individuando un grande riquadro di pietra grigia su cui pareva esserci scritto qualcosa che non riusciva minimamente a capire da quella distanza.

<< Ehi!>>
Dalle sue spalle arrivò chiara la voce di uno dei ragazzi.
Non riusciva a vedere bene il ragazzino biondo, coperto dalla figura non imponente ma comunque alta e più muscolosa dell'altro, ma poteva immaginare dalla posa protettiva del secondo che forse Jonas non se la stesse passando poi troppo bene.

<< Che cazzo vuole ora? E perché si sono fermati lì?>> con la sua solita grazia Nathan tornò indietro di qualche passo e alzò un sopracciglio in una muta richiesta di spiegazioni.
Come pretendeva che il rosso lo vedesse solo lui lo sapeva.

<< Cade chiama guardie! Ci date un attimo di tempo? Mi è caduto il gattino nell'acqua!>>

Anche Eliza si fece più vicina, mantenendo comunque quella distanza di educazione che spesso, tra Cade e Nathan, veniva invasa di continuo.
<< Preferirei sapere che significa che gli è caduto il gatto in acqua.>> disse lei aggrottando le sopracciglia.
<< Che il moccioso sta male?>> fece ironico il biondo, << Ci mancava solo questa, che cazzo ha? Che gli è preso?>>
Malgrado l'occhiataccia che Eliza gli aveva rifilato ed il cipiglio battagliero che prometteva una nuova e completamente inutile diatriba sul linguaggio che faceva tanto alterare Nathan e provocava un sadico piacere in Jane nel veder il soldato bacchettato in quel modo da una donna, la figlia di Ecate stroncò sul nascere ogni possibile scenata.
<< Il cancello, probabilmente gli ricorda quello dei Campi di Pena, è riuscito ad uscirne non vorrà certo rientrarci così presto.>>
Neanche avesse svelato loro una delle grandi verità della vita, Nathan ed Eliza si voltarono di scatto verso di lei, lo sguardo serio e le espressioni guardinghe.
<< Come?>> chiese lei con voce ferma.
Jane si strinse nelle spalle. << Guardate com'è vestito, i suoi abiti sono sporchi e logori come i miei ma posso assicurarvi che non l'ho mai visto nelle Praterie e credetemi, non sono stata ferma un solo giorno, quelle lande ti costringono a camminare, a farlo in eterno.>> soffiò con voce tetra.
<< Anche i miei abiti erano sporchi, quelli con cui sono morto intendo.>> le fece notare Nathan.
Jane replicò lo stesso gesto di prima. << Ma se provenisse dagli Elisi come voi li avrebbe puliti, li avrebbe rammendati… credo rimanga solo un luogo, vero?>> sogghignò ed inclinò la testa, una ciocca di capelli lucidi e sporchi le scivolò sul volto. << Cosa c'è? Non vi ha minimamente sfiorato l'idea? Vi infastidisce gareggiare con qualcuno che è stato condannato alla dannazione eterna?>>
C'era un che di piacevole nel dire quelle cose ad alta voce, per Jane era come infilzare un insetto con uno spillo e vederlo contorcere incapace di far alcun ché. Per quanto Cade fosse particolare era ovvio che, in un qualche modo, i due soldati si fidassero di lui, ma rendersi conto che aveva portato nella loro compagnia un fuggitivo dei Campi di Pena forse stava facendo loro rivalutare entrambi.
Poteva capirli in fondo, Jonas era piccolo, quindici, sedici anni, veniva ad un'epoca più vicina a Nathan e, per quanto le era stato possibile intendere, con il passare dei secoli il controllo e la cura della prole era aumentato, l'attenzione ai bambini, i compiti che gli adolescenti potevano o non potevano svolgere…nella sua epoca, a sedici anni, Jonas avrebbe già imparato un mestiere e sarebbe andato in cerca di una consorte degna di lui. Molte delle sue compagne erano sposate e avevano avuto figli quando lei era morta, probabilmente se fosse nata negli anni di Jonas invece di dar alla luce il terzo figlio, a ventidue anni, avrebbe preso marito. Quindi era del tutto comprensibile che i due non vedessero un pericolo in quel ragazzino, ma lei… lei non faticava a farlo, anzi, le sembrava del tutto normale e consono.
Più in là Cade aveva fatto sedere Jonas a terra e gli stava parlando, Jane poté finalmente vedere il ragazzo, come si stesse rilassando alle parole dell'altro e come questo, l'espressione di qualcuno che si sente a proprio agio con il suo interlocutore, stesse facendo rilassare anche i soldati.
Nathan lo fissava come se avesse potuto leggergli dentro tutti i segreti che si portava dietro, uno strano sguardo che a Jane parve famigliare ma che non riuscì subito a ricollegare a qualcuno… suo padre forse? Alla fin fine era un vigilante, non era certo un soldato di lavoro, ma sapeva usare un'arma e proteggeva la città dai criminali, era forse lo sguardo indagatore di un garante della legge?

<< Non si va all'inferno solo per colpa della nostra malvagità, alle volte è il concorso di più fattori che ci porta dove siamo effettivamente. >>
Sorpresa da quelle parole, dal tono deciso ma quasi gentile con cui erano state pronunciate, Jane si voltò verso l'uomo senza sapere cosa dire. Credeva di aver capito come ragionasse Nathan, ma forse si era sbagliata.
Di fianco a lei Elizabeth annuì. << Se ha davvero fatto del male questa è la sua occasione per redimersi allora. Per il momento non ha fatto nulla di sospetto, lo terremo d'occhio ma ho come la vaga sensazione che lo stia già facendo Cade.>>
Battendo le palpebre il ragazza fece passare lo sguardo dall'uno all'altra, indecisa se essere colpita dalla loro magnanimità, dalla loro saggezza, o dalla loro stupidità.
Cade non gliela diceva giusta quasi più i Jonas, se quei due si fossero alleati assieme probabilmente avrebbero dato loro filo da torcere. Ma forse era anche meglio così. Jane sapeva che difficilmente un forte legame si instaurava tra più di due persone, figurarsi tra quattro o cinque, e se Nathan ed Eliza avrebbero fatto fronte comune, così come Cade e Jonas, nel momenti in cui si sarebbero visti costretti a combattere gli uni contro gli altri, a decidere se tendere la mano ad uno o all'altro, allora le due coppie si sarebbero scannate a vicenda e lei avrebbe avuto tutto il tempo per andarsene e fare i suoi comodi.
Doveva solo mantenere alta la guardia e cogliere i segni.

<< Ci siamo, il bambino sta bene, c'ha pensato zio Cade.>> disse il rosso camminando ad agio verso di loro, le braccia incrociate dietro la testa in una posa che lo esponeva completamente, qualcosa che dava l'idea di quanto fosse convinto di essere al sicuro tra di loro.
E per il momento sarebbe stato così, anche perché Jane dubitava fortemente che, in uno scontro corpo a corpo, sarebbe riuscita a battere anche uno solo di loro.
<< Cosa gli era successo?>> chiese Nathan tornando al suo solito tono scocciato.
<< Incubi. >> sorrise Cade senza lanciarsi in sproloqui inutili come suo solito. << Ma come ho detto, c'è qui Cade che risolve tutto!>>
<< Sta bene ora?>> s'intromise Eliza.
<< Ovviamente, i miei abbracci sono i migliori, ho le mani magiche io, vuoi provare?>> ammiccò divertito per poi saltare indietro quando la donna provò a colpirlo alla testa.
<< Smettetela di fare i coglioni, voi due!>> ringhiò Nathan prima di allungare il collo verso il ragazzino. << Sei sicuro che sta bene? Sta lì impalato come uno stoccafisso.>>
Cade si voltò verso di lui, per un momento Jane avvertì una brezza fredda sfiorarle il volto, i capelli muoversi e la gonna tendersi lì dove il vento la spingeva.
<< Tutto bene, Jonas?>> chiese il giovane alzando la voce per farsi sentire dall'altro.
Quello imbastì un sorriso un po' tirato ed annuì. << Sì, scusate, mi ero incantato. >> gridò di rimando raggiungendoli.
Eliza gli sorrise e gli fece un cenno con la testa, come a chiedergli se andasse tutto effettivamente bene. Poteva vedere un filo di curiosità nei suoi occhi, una scintilla accesa dalle sue parole probabilmente.
<< Bene, c'è qualcun altro che vuole rimanere a fare lo spaventapasseri per un paio di minuti o pensate di esser tutti abbastanza vigili da intraprendere la prossima prova?>> chiese con sarcasmo Nathan.
Jonas incassò la testa tra le spalle. << Non stavo facendo lo spaventapasseri. >> borbottò.
<< Preferisci “fartela sotto dalla paura”? >> lo incalzò il biondo squadrandolo come farebbe un superiore con il suo sottoposto.
Il ragazzo si morse la lingua, in un palese tentativo di non risponder per le rime all'altro. Cosa che invece non si preoccupò minimamente di fare Cade.
<< I preferisco “andiamo o qualcun altro vuole fare il coglione come Nathan per un paio di minuti?”. Eh? Non suono meglio?>> ammiccò dando di gomito a Jonas.
Lo sguardo riconoscente che gli lanciò il ragazzino non sfuggì a nessuno dei presenti e prima che il figlio di Ares potesse replicare si beccò anche lui una gomitata, molto meno amichevole, da Eliza.
<< Lascialo in pace Nathan, è solo un ragazzo, un cancello del genere farebbe venire i brividi a tutti.>> disse con voce ferma mettendo fine a quella discussione che si sarebbe sicuramente protratta all'infinito. Ne aveva sperimentato un piccolo assaggio nel labirinto e prima che Cade se ne uscisse di nuovo con affermazioni, doleva dirlo, del tutto infamanti ma veritiere sui soldati e sull'America e Nathan partisse in quarta facendo il suo gioco e dimostrando quanto un militare possa essere borioso e pieno di sé, nonché di mentalità ristretta e non propenso alla comunicazione, sapeva che bisognava mettere un fermo ad entrambi.
Ma Jane non era poi così propensa ad aiutarla.
<< Brutti ricordi?>> chiese infatti con voce infantile.
Jonas si irrigidì, i pugni serrati e la testa bassa. Nathan rimase a fissarlo senza dir nulla, così come gli occhi verdi e cupi di Eliza che studiarono la reazione del giovane come un cacciatore studia la sua preda.
Fu di nuovo il freddo di prima, di quel venticello improvviso a farla rabbrividire e non appena spostò lo sguardo compiaciuto dagli altri, incontrò le iridi verdi e accese di Cade.
Un vuoto le si aprì nello stomaco, ricordandole quando da piccola scappava nel boschetto, arrivando sino alla cascata del lago vicino, dove si buttava dalle rocce dentro l'acqua ghiacciata. Era esattamente la stessa sensazione, di un salto nel nulla, in attesa dell'impatto con la superficie cristallina che non arrivava mai. Jane deglutì e ricambiò lo sguardo di Cade, se gli occhi potessero parlare era certa che quelli scintillanti dell'irlandese la stessero mettendo in guardia.
Poi Cade sorrise, un sorriso ampio e luminoso, divertito, che piegava gli occhi ma non intaccava le iridi fredde come il vetro scheggiato.
<< E chi non ne ha! Ci credereste se vi dicessi che quando Elza mi sgrida mi appare mia madre che mi lancia contro gli zoccoli? Eh?>> proruppe con voce esplosiva, con una forza ed una vitalità del tutto inappropriata per il clima teso che si era formato in pochissimo tempo.
Apparentemente Jonas si rese conto che quella stupida messa in scena era tutta per distogliere l'attenzione da lui, allungò timidamente la mano, tentennando e ritraendo l'arto fino a quando non fu troppo vicino per non sfiorare il tessuto della giacca logora di Cade.
Eliza scoppiò con l'ennesima esclamazione infastidita su come, ne era certa, Cade sbagliasse il suo nome di proposito, mentre Nathan si lamentava del fatto che era un soldato lui, mica una balia per mocciosi e che forse, quello zoccolo, non l'aveva preso abbastanza bene.

<< Ma non mi ha mai preso! Sono una scheggia io!>>
<< Il mio scarpone pesa anche più di uno zoccolo di legno, vogliamo provare ora?>>
<< Dov'è finito il “non sono una balia, non perdiamo tempo” e tutta quella storia lì?>>
<< Oh! Elza ha ragione!>>
<< Smettila di chiamarmi così! È Eliza, da Elizabeth! È così difficile da ricordare?>>
<< Eddai, ma mi perdo solo una lettera, che differenza ti fa?>>
<< Magari che non è il mio nome?>>
<< Un nome vale l'altro…. >>
<< UH! Hai sentito cos'ha detto il biondastro? Da ragione a me!>>
<< Non chiamarmi biondastro!>>
<< Beh, ma “un nome vale l'altro”!>> gli fece il verso Eliza.
I due soldati cominciarono a battibeccare, ancora, e Cade rimase indietro con disinvoltura, come se li stesse felicemente lasciando lo spazio per scannarsi a vicenda e si stesse godendo fin troppo lo spettacolo.
Alzando gli occhi al cielo a Jane non rimase che seguirli.



Jonas strinse la presa attorno al bordo della vecchia giacca e Cade, giratosi verso di lui, non pareva minimamente infastidito dalla cosa.
<< Grazie.>> sputò fuori il biondo.
L'altro sorrise. << Se me lo devi dire con questa faccia puoi anche non farlo, eh.>>
<< No. Quando va fatto, va fatto… quindi, tutto qui, grazie, non eri obbligato a farlo.>>
<< Fare cosa? Mettere zizzania tra i due soldatini? Prendere per il culo entrambi? Far capire alla ragazza delle Praterie che in una squadra non ci si comporta così? Sai quella non mi pare una che in vita ha avuto molti amici, non sa minimamente come si sta tra la gente.>> disse facendogli cenno di camminare.
Jonas alzò un sopracciglio. << E tu lo sai bene?>> chiese sarcastico, poi si fece più serio. << Avevi una famiglia numerosa?>>
Era la prima volta che chiedeva a qualcuno qualcosa di così personale e privato, qualcosa della sua vita passata. Cade non aveva mai fatto alcuna domanda sul suo passato, forse non si sarebbe dovuto permettere neanche lui… far ripensare ai tempi felici, a ciò che si era perso.
Sul volto dell'irlandese si aprì un sorriso mesto, un alone di nostalgia che Jonas percepì perfettamente, qualcosa che in tutti quegli anni si era rispecchiato nel suo collare e che ora invece aleggiava attorno a lui come una nube di vapore. Ma non era come la nostalgia dei Campi di Pena, era diverso, era… dolce?
<< Non proprio. La mia famiglia, quella di sangue, era piuttosto piccola. Eravamo io, mia madre e mia sorella. Eh, ad essere onesti, la mia sorellastra… Non avevamo lo stesso padre, per fortuna il mio ha rovinato la vita solo a me.>> cominciò a bassa voce, lo sguardo perso in ricordi passati.
<< Ma in un qualche modo, sì, avevo una famiglia molto numerosa, solo, beh, non c'era nessuna parentela a legarci. Erano i miei amici, quelli di una vita, erano… erano la mia famiglia, in un senso molto più grande e profondo di quanto non si possa pensare, di quanto non si possa capire.>>
Un fruscio richiamò l'attenzione di Jonas, la figura sbiadita di una bambina corse davanti a lui, non poteva vederla in volto, gli dava le spalle ma rideva, ne era sicuro anche se non sentiva nessun suono. Così come afono fu il gruppo indistinto di giovani che seguì la bambina, ragazzi d'età indefinita che correvano gli uni al fianco degli altri, in perfetta sincronia e coordinazione, senza urtarsi tra di loro, come uno stormo di uccelli nel cielo.
<< Non so in che epoca siamo ora, non ne ho la più pallida idea, ma quando tornerò su spero di rivedere qualcuno dei miei amici, mia sorella, o magari i loro figli, la discendenza scalmanata di quel gruppo di folli. Chissà se sono ancora in tempo.>>
Jonas annuì. << Io sono morto nella prima metà del millenovecento, ma se Nathan è più piccolo di me, se è nato dopo la mia morte e ha venticinque anni, forse siamo ancora in questo secolo.>> si fece due conti, non volendo chiedergli anche in che anno era morto.
Cade storse in naso. << Mh, allora, se quel poco di matematica che conosco è giusto, temo di essere leggermente in ritardo per i miei amici, forse anche per i loro figli, magari becco i nipoti.>>
L'altro storse la bocca, i ragazzi in corsa svanirono nel nulla. Jonas non aveva la più pallida idea di come rispondere.
<< Alle brutte sarò un magnifico zio Cade!>> si risolse a dire il rosso dando una sonora pacca sulla schiena a Jonas, assolutamente non pronto, che per poco non volò a terra.
<< Ehi! Ma che modi sono?>> si lamentò il biondo mettendosi ben dritto in piedi.
<< Su, su, non ti ho fatto nulla di ché, te l'ho detto, tu non hai mangiato abbastanza in vita.>>
<< Per tua informazione mangiavo il giusto, la nostra cuoca era bravissima e seguiva un preciso regime alimentare.>> disse stizzito, aggiustandosi i collo della camicia. Poi si rese conto di ciò che aveva detto.
Il fischio d'ammirazione di Cade gli fece chiudere gli occhi.

Cazzo.

<< Uh-uh! La tua cuoca ed un preciso regime alimentare!>> gli fece il verso divertito. << ELZAAAA! Abbiamo trovato qualcuno che ha vissuto con i militari come teeee!>> cantilenò divertito, afferrando Jonas sotto braccio e saltellando verso gli altri.
<< Non tirarmi come se fossi un moccioso!>>
<< Non lo sto facendo, ti sto tirando come se fosse una comare piuttosto!>>
Jonas lo guardò allibito, scostandosi infastidito ed imbronciato e voltandosi verso gli altri per vedere come mai la replica di Eliza e di Nathan si stava facendo attendere.
Tutti e tre gli altri semidei erano con il naso all'aria, Nathan teneva una mano sopra gli occhi, come se così facendo potesse legger meglio le gigantesche iscrizioni sulla pietra grigia.
Cade lasciò il braccio di Jonas e fece una smorfia confusa.

<< Ma che cazzo… ?>>

 


 

*


 

Batté le palpebre, incredula.
<< Ti prego, dimmi che sto leggendo male.>>
Di fianco a lei Úranus sorrise dispiaciuto. << Temo di no.>>
Avevano avvistato da lontano un grande cancello, con quella che pareva essere una rete, sì, come quelle dei pescatori, ai suoi tempi non ce ne erano di quel tipo, e proprio su una delle ante del cancello c'era una grande lapide rettangolare con su scritto in lettere vorticanti:
 

AREA CANI”

 

<< Cosa intendono per “area cani”? È qualcosa di specifico dei tempi moderni o solo una semplice zona in cui vengono riuniti i cani?>> domandò il giovane camminando lentamente verso l'entrata.
Lea annuì. << Beh, non so se si possa definire “una cosa moderna” ma sì, è sostanzialmente un'area chiusa in cui si possono liberare i cani e farli correre con tranquillità. Più che altro mi domando cosa ci faccia qui qualcosa del genere.>>
Così com'era successo per l'imponente portone degli Elisi, anche in una delle ante del cancello era aperta una porta più piccola, attorno a cui le anime si stavano accalcando per entrare, sorvegliate come sempre da scheletrici soldati dalle orbite fisse e vuote.
I due ragazzi si mischiarono alla marea di pretendenti ancora rimasti in gara dall'ultima sfida.
Non vi aveva mai riflettuto in modo approfondito, l'aveva fatto solo con superficialità, le avevano detto che a quella sfida potevano partecipare tutti, tutti i morti dell'Ade e Lea, semplicemente, aveva annuito e pensare che fossero davvero un bel po' di persone. Vederle ora tutte lì, premute le une contro le altre, quando ancora una volta constatò che ehi, erano davvero in molti, che il Labirinto non ne aveva fatti fuori così tanti, solo allora si rese conto fino in fondo del significato di quelle parole, di quel “tutti i morti dell'Ade.
Alla Death Race partecipavano, o comunque ne avevano avuto la possibilità, tutti i morti del mondo, tutti coloro che erano morti dall'inizio dei tempi fino all'ultimo minuto disponibile di iscrizione. Era sicurissima che già i Campi di Pena e gli Elisi fossero popolati da anime che prima non vi erano, che ormai nei Campi Neri non regnava più il silenzio che c'era stato per quella frazione di secondo in cui tutti i suoi demoni ne erano fuoriusciti.
Erano tutti i morti del mondo e Lea aveva stupidamente pensato che tra i viaggio nelle Praterie e il Labirinto almeno la metà fossero scomparsi nel nulla.
Sciocchezze, ovviamente, molti erano svaniti ma molti altri erano ancora in gara.
Tutti i morti del mondo. Tutti quanti, lei compresa.
Se solo pensava che alcuni negli Elisi avevano rinunciato a quell'opportunità, a quanti si erano ritirati al termine della prima prova, quanti si erano persi nelle Praterie… e tutte le anime che vi abitavano di solito! Erano un numero così enorme, coloro che non avevano preso parte alla gara, che Elena non riusciva a quantificare. Troppi quelli in gara, troppi quelli che non vi erano.

Ma quanti siamo? Quanti sono i morti di questo pianeta? E quanti coloro che sono già svaniti nel nulla, disintegrati nei secoli passati?

La triste verità era che mentre la popolazione mondiale cresceva e si decimava, colpa delle guerre, delle epidemie, delle carestie, siccità e catastrofi, la popolazione degli Inferi non diminuiva mai, poteva solo crescere.

<< Non finiremo mai.>> soffiò piano, quasi impercettibilmente.
Úranus la guardò curioso, piegandosi verso il basso per ascoltare meglio le sue parole. << Come?>>
<< Non finiremo mai, Úranus, come possiamo arrivare alla fine di questa competizione? Guarda, siamo ancora così tanti… >>
<< Siamo solo alla seconda sfida, la terza per meglio dire. Credo sia normale la presenza ancora così massiccia di anime, ma più andremo avanti più le prove saranno complicate, diminuiremo.>> disse con sicurezza.
Lea annuì. << Ma ce la caveremo? Cosa abbiamo noi di speciale rispetto a tutte queste anime?>>
<< Molto, dire, davvero molto. Siamo semidei, se c'è qualcuno che può riuscire in questa impresa siamo proprio noi.>> cercò di rincuorarla posandole una mano sulla spalla.
Una scossa percorse tutto il suo braccio irradiandosi nel torace.
Ansia, paura, tristezza, stanchezza.

Di nuovo. Succederà di nuovo. Se non fossi abbastanza? Se non dovesse bastare? Non è bastato la prima volta. Se non dovessi riuscirci?

Deglutendo il ragazzo ritrasse l'arto, sorridendo plastico alla compagna che teneva lo sguardo puntato sui cancelli.
Perché di punto in bianco Lea cominciava a fare certi pensieri? Non doveva assolutamente sentirsi in quel modo, non era un bene per nessuno, né per lei né per lui. Non poteva aver vicino qualcuno che fosse così propenso a pensare ad un fallimento.

Calmati. È normale avere dei dubbi, lei non ha mai combattuto ma hai visto cosa può fare, calmati, respira, fai respiri profondi.
 

Non farti prendere dal panico altrui. Assorbi ciò che ti circonda e manipolalo per ciò che ti serve. Immagazzina i loro sentimenti e sfruttali quando sarà il giusto momento.

La voce lontana di suo padre fu come balsamo su una ferita. Gli ricordò che c'era un modo per arginare il tutto, per sopportare ogni peso, ogni avversità.
Esattamente come aveva pensato Lea, Úranus si disse che non sarebbe finita come la prima volta, che poteva farcela, che ci sarebbe riuscito sicuramente.
Erano ancora moltissimi, su questo non c'era dubbio, ma se il giovane era sicuro di una cosa era che gli Déi erano bravissimi a togliere di mezzo tutti coloro che non gli servivano o che non volevano. Se la Death Race era davvero stata progettata per dar la possibilità a qualcuno di tornare sulla terra, alla sua vera vita, di certo ogni Dio avrebbe voluto che quell'anima fosse quella di un suo figlio o di qualcuno che avrebbe, in ogni caso, potuto sfruttare.
Non la banale anima di un mortale qualunque.
Qualcuno che avrebbe potuto portargli gloria e onore.
C'era la possibilità che a vincere fosse un umano come altri milioni? No, assolutamente no. Anche se era terribile da dire Úranus era convintissimo che alla fine tutti gli altri sarebbero stati eliminati, correttamente o meno, e che la vera battaglia, le vere dolorose, pericolose, cruente e terribili sfide le avrebbero affrontate solo loro, solo la stirpe maledetta degli Déi.
Lea non doveva aver paura di niente, sarebbero rimasti solo loro alla fine, per i giochi veri, per il divertimento di quegli esseri che avevano dato loro la vita ma non avevano mai concesso loro una grazia, uno sguardo magnanimo.

<< Ce la faremo. >> ripeté con più sicurezza. << Ora dobbiamo solo preoccuparci di entrare e ascoltare le regole di questa nuova prova.>>
 

L'enorme spiazzo in cui si riunirono tutte le anime era brullo, con poche piante basse sparse in giro senza un apparente senso logico, pareva che ogni arbusto fosse cresciuto dove più gli era stato congeniale, dove il vento fantasma di quei luoghi avesse depositato i semi, in una terra sterile e fredda, bruciata da fuochi blu e fiumi in fiamme. Nei punti più aridi lo sfrigolare dei sassi era simile a quello delle braci arse, che andavano spegnendosi o ravvivandosi con il cambio di quelle correnti sulfuree che tiravano nella volta rocciosa, scendendo in picchiata verso un suolo ancora più basso di quello calpestato dagli umani.
Ancora una volta un palco era montato qualche chilometro dopo l'entrata, un cordone di scheletri vestiti da guardiacaccia di ogni epoca delineava la zona oltre la quale nessun' anima poteva passare.
A differenza della volta precedente però non vi erano scuri tendaggi a delineare il palco, non era scuro il legno su cui presto sarebbe salito il prossimo giudice e soprattutto non vi erano altri scheletri a presenziare ai lati del rialzo.
Úranus batté le palpebre, conscio che ciò che gli appariva davanti poteva aver un solo ed unico significato ed indeciso se quello fosse un bene od un male.
Allineate ed immobili esattamente come lo erano gli scheletri-guardiacaccia, impeccabili nei loro vestiti decisamente moderni, se ne stavano otto ragazze di un'età compresa tra i quattordici e forse i diciotto anni. Tutte in pantaloni grigi, con una strana trama a macchie, calzavano pesanti scarponi neri che Úranus aveva già visto indosso a qualcuno durante la gara, tra coloro che erano morti più di recente. La giacca che indossavano pareva filata con l'argento, luminosa oltre ogni altra fonte di luce, che prendeva una sfumatura azzurrognola per colpa dei fuochi fatui che circondavano il palco. Erano però di una forma bizzarra, sembravano gonfi, tanti rettangoli gonfi cuciti tra di loro, con una linea di metallo al centro del petto ed il cappuccio appena visibile dietro le spalle dritte.
Ad accomunarle però non era solo il loro vestiario, l'espressione severa e fredda, la postura eretta e rigida, tipica di chi è pronto ad attaccare, tipica di un cacciatore esperto, c'era anche qualcos'altro, una lunga faretra perlacea, dalla cui sommità spuntava il piumaggio di un set di frecce che, Úranus sapeva, raramente non centravano il bersaglio a meno che quello non fosse il vero intento della Cacciatrice.
Nella sua mente era stato chiaro come il sole, semplice come respirare, le giovani, forse fin troppo, ragazze schierate sul palco erano le famigerate Cacciatrici di Artemide, un gruppo selezionato e perfettamente addestrato di ancelle che, fatto voto di castità alla Dea della Luna, ottenevano in cambio un dono tanto grande quanto terribile, un'arma a doppio taglio proprio come lo erano le punte delle loro frecce.
Quanto valeva essere per sempre giovani, vedere ciò che si amava, il proprio mondo, i propri cari, mutare e scomparire sotto i propri occhi, se poi ad attenderti c'era comunque la morte?
Oh, Úranus ricordava perfettamente lo sgomento che aveva provato la prima volta che suo padre gli aveva raccontato di quelle temibili combattenti, seconde a nessuno, neanche alle grandi Amazoni. Ricordava come il Dio gli avesse spiegato che quelle giovani venissero tutte da situazioni terribili, da vite dolorose, da passati infami; pregavano così qualcuno, spesso al buio della loro stanza, nel silenzio della notte, sorvegliate dalla candida e mutevole Luna. Chiedevano una grazia, chiedevano un aiuto, alcune avevano anche implorato la morte… e se molte di loro avevano pregato un Dio che si discostava completamente da ciò che era effettivamente chi poi era giunto loro in soccorso, tutte quante si erano viste apparire la Candida Artemide, la Dea della Luna, la Cacciatrice della Notte, l'Arciera delle Stelle. Artemide Dea bambina che aveva ascoltato le loro preghiere e aveva proposto loro una via di fuga, un modo per salvarsi: Lei le avrebbe portate via da quei luoghi maledetti, in cambio loro le avrebbero giurato fedeltà eterna, accettando di entrare a far parte delle sue ancelle, delle Cacciatrici di Artemide, senza soffrire i morsi della fame, il peso del tempo. Sarebbero rimaste per sempre congelate nel momento esatto in cui avrebbero detto sì e così sarebbe stato finché mano nemica, o il Fato, non avesse tolto loro quella vita infinita ma non eterna che la Dea le aveva donato.
Il prezzo?
Úranus non aveva capito, aveva detto a suo padre “è questo il prezzo, padre, rimanere giovani per sempre, veder la propria famiglia, chi si ama, morire, la propria terra mutare, questo è il prezzo.”. Ma suo padre, il suo saggio e malinconico padre aveva scosso la testa. Era ben più alto il dazio che Artemide pretendeva da coloro che salvava.

A cosa non rinunceresti per tutto l'oro del mondo? Cos'è che non puoi comprare, che puoi dare ma non pretendere in cambio come pagamento? Cos'è che non puoi avere e mai avrai con la forza?

Úranus c'aveva pensato molto, interminabili minuti che per la sua corta vita erano preziosi come l'oro che suo padre aveva appena nominato, mentre per il Dio non erano altro che granelli di sabbia in una spiaggia di cui non riusciva a vedere i confini.
A cosa non avrebbe mai rinunciato? Alla sua famiglia di certo, ma gli era stato appena detto che quelle ragazze vi rinunciavano per principio, per fuggire da una vita opprimente e terribile.
Cos'era che non poteva comprare? Beh, Úranus non poteva comprare molte cose, per questo coltivava la terra con sua madre, l'aiutava a cercare le sue piante, si prendeva cura degli animali, ma c'era qualcosa che non aveva prezzo vero?
Si può dare ma non si può pretendere indietro.
Non si può e mai si potrà ottenere con la forza.
A pensarci in quel momento, a secoli di distanza, ad Ùranus venne quasi da sorridere, gli occhi freddi puntati sui volti altrettanto gelidi di quelle ancelle combattenti.
Tutte quelle ragazze, tutte le Cacciatrici che si erano susseguite negli anni e che così avrebbero fatto fino alla fine dei tempi, rinunciavano per la loro salvezza a ciò per cui lui invece era morto.
Alle volte, la vita era solo un susseguirsi eterno degli stessi errori conditi da una crudele ironia a cui solo il Fato poteva ridere.

 

<< Cosa ci fanno quelle anime lì?>> domandò Lea spingendosi sulle punte per sbirciare sopra la folla.
Ad Ùranus venne quasi voglia di prenderla in braccio e permetterle di veder bene il palco, ma aveva la netta sensazione che sarebbe stata una mossa alquanto sconveniente ed imbarazzante.
Si limitò a scuotere la testa. << Non sono anime, sono persone vive.>>
Lea lo guardò accigliata. << Vive… vive-vive?>> chiese tentennante.
<< Vive- vive.>> gli accennò un sorriso lui, alle volte Lea passava ad un comportamento assolutamente maturo e fermo ad uno infantile e titubante, come se non credesse che i suoi ragionamenti potessero esser corretti.
<< Allora perché sono qui?>> ritentò formulando la stessa domanda in modo diverso. << Se sono vive non dovrebbero essere negli Inferi, a meno che… possono essere Dee? Dee minori magari, come le ninfe?>> azzardò.
Úranus scosse ancora la testa. << No, non sono Dee e non sono ninfe. Sono esseri umani, alle volte semidee o comunque discendenti in qualche modo dagli Olimpici, non posso dirlo con precisione ora. Sono le ancelle personali di quella che, presumo, sia la Dea che ha ideato la prossima prova. Sono come… sì, come delle ancelle, la seguono e l'aiutano in ogni cosa di cui lei abbia bisogno, ma sono anche combattenti, tutte arciere formidabili e da quel che so sanno anche combattere corpo a corpo. Come una scorta privata.>> spiegò stando attento a non dire il nome della Dea, era sicuro che a Lea sarebbe piaciuta e non voleva rovinarle la sorpresa.
La giovane al suo fianco annuì. << Abbiamo affrontato una prova estremamente cruenta eppure faccio ancora fatica ad immaginare delle donne combattenti, come se fossero dei soldati, figuriamoci un corpo di guardia completamente al femminile, composto da- da- ragazzine! Andiamo, sono troppo piccole! Scommetto che se sommassimo le loro età non faremo la mia!>>
Úranus la guardò divertito. << Posso assicurarti che se sommassimo le loro età forse riusciremo ad arrivare se non superare il mio anno di morte.>>
Lea alzò un sopracciglio. << Non per criticare, ma ventidue non mi pare un bel numero.>>
<< Intendevo, approssimativamente in scala con il calendario corrente, milleseicentotrenta.>>
Lo sguardo scioccato della sua compagna lo fece sorridere. << Si dice che la più antica e fedele delle Cacciatrici vivesse nel giardino delle Esperidi e che abbia conosciuto Ercole in persona. Lei da sola supera ampiamente i mille anni, ma mio padre me la descrisse e non credo di riconoscerla tra quelle presenti sul palco. Quelle che vedo sono tutte ragazze, non ci sono ninfe, non ci sono razze miste… >>
<< Avevi detto che erano solo umane e semidee.>> gli fece notare Lea.
Úranus annuì. << Sul palco sì, in generale anche le ninfe possono diventare ancelle. Qualunque essere femminile può diventarlo.>>
<< Non accetta maschi quindi… aspetta, è forse la Dea che trasformò quel cacciatore in una costellazione? Come si chiamava… >> fece lei pensierosa per poi alzare lo sguardo sul suo compagno in cerca di un suggerimento.
Il volto di Úranus si fece un po' più serio. << Orione. Non è una bella storia quella, un altro tragico evento che si sarebbe potuto evitare se solo gli Dei fossero stati più caritatevoli e se smettessero di fingersi immuni a quegli stessi impulsi che soggiogano noi umani. >>
Lea lo guardò con comprensione, posando una mano sul suo braccio e regalandogli un sorriso d'incoraggiamento. << Magari le cose sono cambiate ora.>> provò ad esser positiva.
Il sorriso che il ragazzo le restituì era triste ma in parte grato per quelle parole. << Non credo, ma mi è stato detto di non perdere mai la speranza.>>
<< Dalle mie parti si dice “la speranza è l'ultima a morire”. Credo ci sia una grande verità dietro queste parole.>>

 

Una nuvola grigiastra si spanse lentamente al centro del palco, attirando l'attenzione di tutte le anime e facendo calare il silenzio nell'ampio spazio.
Il teschio con la pettinatura afro e le cuffie alle cavità auricolari, con una telecamera scura poggiata sulla spalla, fece cenno affermativo verso il palcoscenico ed improvvisamente sulla rete esterna dell'area cani, si aprirono degli enormi schermi simili a quelli che erano stati montati nella Casa di Ade.
La nube aleggiava ancora nell'aria ferma quando con uno schiocco ogni schermo si accese mostrando il centro dello spettacolo, mentre una voce ferma e gioviale rimbombava nelle Praterie Nere.

<< Bentornati ad Efesto TV, la sola ed unica rete divina che vi tiene aggiornati costantemente, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, trecentosessantacinque giorni l'anno disastri e fini del mondo comprese. Chi vi parla è il vostro Eolo, Signore dei Venti, pronto a narrarvi in tempo diretto la terza prova dell'evento più atteso e acclamato dell'anno: laaaaaa DEATH RACEEE!>>

Un boato di applausi ed urla uscì dagli invisibili altoparlanti inseriti dietro ai televisori, facendo sussultare e imprecare la anime, specie tutte coloro che non erano nate prima dell'avvento della televisione e delle sitcom con gli applausi registrati.
Eliza si irrigidì di colpo, portando automaticamente la mano alla ricerca di un'arma che non aveva più. Lì accanto, Jane fece un salto verso di lei, avvicinandolesi quasi cercasse protezione.
Nathan si limitò ad una smorfia, non che se lo aspettasse, ma quella grandissima cazzata dei suoni registrati durante i programmi televisivi lui la conosceva più che bene.
Dietro di lui Jonas storse il naso, chiudendo gli occhi per un attimo e piegando la testa come se quel suono, più che sorprenderlo, lo avesse infastidito. I rumori troppo forti non erano mai stati i suoi preferiti. Si voltò poi verso Cade, pronto a godersi la faccia sorpresa dell'irlandese, ma ciò che vide lo lasciò perplesso: Cade fissava il palco, la nuvola grigia presumibilmente, senza muovere un solo muscolo, come se l'esplosione cacofonica lo avesse paralizzato.
Cosa stava succedendo? Che avesse riconosciuto qualcuno? Magari le ragazze allineate sul palco, così fredde e rigide da sembrare soldati scelti. Effettivamente era proprio quella l'impressione che davano e Jonas non si sarebbe minimamente stupito se di punto in bianco avessero estratto tutte un fucile da dietro la schiena.
Cade continuava a rimanere immobile e per un attimo il biondo si chiese se tra quelle ragazze non vi fosse forse una delle sue vecchie amiche, o magari sua sorella… o forse, più di questo, era il Dio o la Dea che presto sarebbe comparso su quel palco a paralizzarlo?
La risposta a quella domanda, con tutta probabilità, non sarebbe mai arrivata. Jonas si sporse un poco verso di lui: non aveva la più pallida idea di cosa gli avrebbe detto, forse gli avrebbe spiegato che quei suoni provenivano da degli altoparlanti dietro gli schermi, o cos'era uno schermo. Quando era vivo lui non c'era nulla del genere, forse solo i proiettori, ma Jonas dubitava fortemente che ve ne fosse uno nascosto da qualche parte o appeso al soffitto.
Sentiva uno strano prurito dalla nuca, un disagio latente nel vedere il rosso con quell'espressione congelata e quasi… arrabbiata?
Mormorii sorpresi si propagarono tra le anime, l'attenzione del giovane si focalizzò su quella nube che aveva lentamente preso corpo.
In piedi sul palco, ritta come un fusto, con l'espressione autoritaria e distante come quella di una statua divina, una ragazzina di forse tredici anni fissava tutti con sguardo fermo.
Non sembrava particolarmente muscolosa, indossava un giacchetto argentato proprio come le altre ragazze sul palco, così come i pantaloni aderenti e scintillanti. Gli stivali le arrivavano sotto al ginocchio, sulla coscia era stretta una cinghia in cui era infilato un coltello a serramanico. La pelle pallida sembrava emanare un luccichio proprio, intensificato dalla lunga e severa treccia ramata che portava sulla spalla sinistra, in opposizione alla bretella metallica che reggeva, Jonas non ne era sicuro, quello che pareva un cilindro bianco e grigio.
Sul volto giovane non vi era alcun segno, né una ruga né un neo o una ferita, le labbra fini erano tirate in una linea dritta, le sopracciglia sottili non erano che un accenno rossiccio sulla fronte distesa. Con sguardo indagatore, quello classico di chi sta soppesando ciò che ha davanti, la ragazza scrutava la folla, le iridi grigie gli ricordavano qualcosa visto tempo addietro, qualcosa che non vedeva più da una vita, come-

La luna?

Jonas batté le palpebre cercando di mettere a fuoco quella situazione.
Che quella fosse la famosa Dea della Luna? Com'era il suo nome? Era sicuro di averlo studiato un tempo a scuola…

 

<< Per questa terza prova, con ideatrice e giudice speciale avremo nientepopodimeno che la Cacciatrice suprema, la Signora della Luna, una dei famigerati Gemelli Arcieri, colei che votò la sua divina esistenza alla cacciagione e alla castità. Un bell'applauso per la DEA ARTEMIDE!>>

 

Artemide… dunque era davvero la dea della luna, ma cos'altro aveva detto? Cacciatrice, luna, gemelli arcieri, castità. Ma certo, era una dea vergine!

<< Che vuol dire che ha votato la sua vita alla castità? Non ha figli?>>
Jonas volse la testa verso Jane, che se ne stava vicino ad Eliza e fissava la dea con più sospetto di quanto non facessero molti altri.
Nathan annuì. << Questo vuol dire castità: niente sesso e niente progenie.>> malgrado la risposta fosse arrivata come sempre in modo un po' rude, Jonas non poté far a meno di notare come il soldato fosse stato sorprendentemente educato per i suoi standard.
<< E le ragazze vicino a lei? >> insistette Jane. << Sembrano sue copie in miniatura, anche se sono di razze diverse, mi pare più che ovvio che gli Dei non si facciano scrupoli di alcun tipo.>>
<< Artemide no.>> disse secco l'uomo.<< Artemide ha giurato di rimanere vergine per tutta la sua esistenza. Ci sono stati moltissimi uomini che hanno cercato il suo favore, ma solo i veri cacciatori lo ricevono e per “favore” intendo solo ed unicamente la sua benedizione.>>
<< Quelle ragazze, sono tutte addestrate, vero?>> chiese Eliza senza staccar gli occhi dal palco.
Il biondo grugnì. << Cacciatrici di Artemide, se lo chiedi a me un vero dito al c- >>
<< Wright!>>
<< Una vera palla al piede!>> grugnì. << Che cazzo. Sono ragazze scelte in persona da Artemide. Tutte in situazioni particolari, vuoi vittime di violenza, di povertà, criminalità o semplicemente che si dimostrano donne forti, pronte a fare la cosa giusta e che, da non sottovalutare, odiano genuinamente gli uomini.>>
<< Come?>> fece Jonas guardando l'altro.
<< Cosa come? Odiare gli uomini? Tsk, non ci vuole molto ad odiare qualcuno.>>
<< È il prezzo da pagare.>>
I quattro si voltarono verso Cade, ancora nella stessa identica posizione di prima. Si sciolse un poco quando avvertì gli occhi dei compagni su di loro e sorrise alle facce interrogative che si trovò davanti.
<< Quando Artemide arriva da loro, quando va a “salvarle”, non lo fa completamente gratis.>> continuò infilandosi le mani in tasca. << Ti dice “va bene, io ti porto via da questa situazione ti prendo con me, ti insegno a combattere e ti dono la vita eterna.” >> disse come se stesse raccontando una storia fantastica.
Jonas batté le palpebre velocemente, sempre più incuriosito. << Ma? È qui che arriva il “ma”, vero?>>
Cade annuì. << Ma se vuoi che tutto questo si realizzi, tu devi rinnegare gli uomini, giurare che non ti innamorerai mai più, che li ripudierai e che non avrai con loro più alcun contatto se non per necessità.>>
Eliza lanciò un'occhiata a Nathan, chiedendogli silenziosamente se il rosso stesse dicendo la verità. Dall'espressione seria dell'altro intuì facilmente che non stava scherzando.
<< E se rifiutano?>> chiese allora Jane dando voce ai pensieri dei suoi compagni.
Cade si strinse nelle spalle. << Allora le molla lì a morire.>>
<< Cosa? Credevo che Artemide fosse una delle Dee più giuste e caritatevoli.>> esclamò Elizabeth confusa.
<< Lo è, ma è anche la Dea della Caccia e sul campo non c'è pietà, non c'è esitazione. Se vuoi fuggire, se vuoi accettare la proposta e diventare anche te una cacciatrice immortale, allora devi rinunciare a tutto. All'amore, alla famiglia, a genitori, fratelli, cugini, parenti, amici, possibili figli. Se accetti Artemide ti salva, ti rende libera, ma se rifiuti… allora lei non ha nulla da offrirti più di quanto non abbia già fatto e se ne va.>> la voce ferma di Nathan aveva una nota stonata, come se ne sapesse fin troppo di quella storia. Per questo non fu strano quando si volse verso Cade per chiedergli come facesse a spare queste cose lui.
<< Non sei stato al Campo e le tue conoscenze delle divinità non sono ampie quanto le mie, però conosci Artemide, la sua proposta e il suo giuramento. Come.>>
Il giovane non ricambiò il suo sguardo, la testa persa in altro, gli occhi puntati sul palco dove Artemide attendeva che Eolo o chi per lui finisse di elencare i metodi per votare la Death Race – che per altro Cade voleva proprio sapere che cazzo c'era da votare, visto che erano loro quelli che entravano volontariamente dentro a labirinti e praterie infernali e chi cadeva lo faceva combattendo e non perché l'aveva espulso un giudice – e altre stupidaggini di poco conto. Fissava la Dea come si fa con qualcuno conosciuto tempo addietro, che si rivede inaspettatamente e, pur non avendolo conosciuto di persona e bene, lo si riconosce ugualmente.
<< Storie di una vita fa.>> disse con tono basso e morbido. << Di amici- amiche, che se la sono vista brutta… alle volte arrivavi in tempo, altre no. Una volta lei era arrivata prima di noi. Artemide la salvò, le fece la sua proposta, la mia amica disse no.>>
Nathan fece un solo cenno del capo, serio, la mascella contratta.
<< E perché disse no?>> domandò Jane, << Se si cacciava spesso nei guai e Artemide le aveva proposto una via di fuga, perché non accettò?>>
Il volto di Cade divenne di nuovo di pietra mentre fulminava la ragazza con lo sguardo. << Lei non “si cacciava nei guai”, era una delle donne più forti che ho avuto l'onore di conoscere.>> sentenziò subito. Poi il suo sguardo si spense. << Aveva un figlio, molto piccolo, maschio ovviamente, una bella beffa. Quando Artemide le disse che avrebbe dovuto rinunciare agli uomini lei le disse di sì. Quando poi capì che con “uomini” non intendeva “rinunciare a trovare marito”, ma proprio a tutto il genere maschile… allora disse di no, che non avrebbe mai abbandonato suo figlio.>>
 

Un'onda morbida sfiorò le caviglie nude di Jonas, come la risacca del mare in una baia.
Il ragazzo abbassò lo sguardo verso i suo piedi, ma ciò che vide non fu acqua quando pietre irregolari che formavano una strada, sporche e bagnate di qualcosa di non ben identificabile.
Le anime davanti a loro sparirono nella nebbia, proprio sotto il palco, ai piedi di Artemide, una giovane di neanche vent'anni era seduta a terra, le spalle premute contro il muro scorticato di un'abitazione, la veste sporca e strappata le lasciava il braccio destro nudo e lei se lo stringeva al petto come se le dolesse particolarmente. C'era una macchia grande ed indefinita a qualche metro da lei ma Jonas non se ne curò, la sua attenzione era focalizzata tutta sulla ragazzina che se ne stava ritta come un inquisitore a fissare la giovane. Vestita di pantaloni di pelle bianchi e con una casacca del medesimo colore, ricamata d'argento, calzava lunghi stivali dalle fibbie metalliche che parevano immuni alla sporcizia che contaminava quel vicolo.
L'unica macchia di colore violento nella sua figura era la treccia che le circondava il capo, dello stesso tono del rame levigato.
Era senza ombra di dubbio Artemide, proveniente da un altro passato, da un'altra epoca non ben chiara. Era un ricordo, il frammento di una vita persa e non sua, qualcosa che Jonas aveva l'impressione neanche Cade avesse vissuto.
Poi la Dea si voltò, fissando i suoi occhi d'argento dritti in quelli chiari del giovane che, colto alla sprovvista, fece un passo indietro incespicando nei suoi stessi piedi.
La scena svanì in un attimo, Jonas sentì la mano di Cade stringersi attorno al suo braccio per reggerlo in equilibrio ma non sentì minimamente le parole che disse. Tutta la sua attenzione, quel sesto senso, quello spirito di sopravvivenza o autoconservazione che fosse, era per quegli stessi occhi visti una vita fa che ora lo fissavano di rimando con la stessa intensità di un tempo.
Artemide lo guardava impassibile ma curiosa, esattamente come ciò che era: una cacciatrice.
Gli scrutò l'anima, squadrò il suo vestiario e soppesò la sua figura per poi far scivolare lo sguardo sulla sua collana lucida e scintillante come le iridi della Dea.
Fu solo un secondo ma Jonas avrebbe potuto giurare che Artemide avesse capito perfettamente chi lui fosse, cosa aveva fatto per finire all'Inferno, per arrivare a quella terza prova, cosa significasse quel collare e anche tutto ciò che ne sarebbe derivato.

Jonas aveva la netta sensazione che il responso della Dea della Luna fosse completamente negativo.

<< Non la fissare.>> soffiò Cade al suo orecchio. << Ai miei tempi si fissava solo chi si voleva provocare, non farlo con lei, non ora.>>
Jonas scosse la testa, non era certo quella la sua intenzione, disse balbettando qualche frase incomprensibile.
 

Eliza espirò profondamente e riportò la sua attenzione sulla Dea, che ancora teneva il viso voltato verso di loro.
Era sorprendentemente giovane, Artemide, e anche se Eliza sapeva perfettamente che quella gioventù era solo apparente, che volendo avrebbe potuto prendere decine di milione di sembianze diverse, non riuscì a non concordare che quella, con tutta probabilità, fosse la forma che più le si addiceva. Minuta, piccola, scattante, leggera e flessibile. Aveva in sé la forza devastante di una divinità e mostrava al mondo quella dirompente della fanciullezza. Artemide era candida e contraddittoria come il suo astro, che illuminava le notti più buie e ti voltava le spalle quando tutto ciò che desideravi era una lama di luce per poter vedere il tuo nemico.
Forse era un pensiero stupido, arrogante, egoistico ed infantile, ma Elizabeth si ritrovò a domandarsi perché, se la dea cercava giovani forti, pronte a tutto per la cosa giusta, non avesse mai posato il suo sguardo su di lei.
Dalle parole di Cade e Nathan lei sarebbe rientrata nel modello ideale, dubitava infatti che una divinità potesse essersi bevuta il suo trucchetto, quindi, si chiedeva… che fosse stata la mano di sua madre, tesa su di lei, a spingere Artemide a non guardarla? Che la protezione di un Dio sul proprio figlio fosse ciò che impediva alla Cacciatrice di scegliere le sue ancelle?
Ma ancora più importante: quanto un Dio poteva per i suoi figli e quanto gli altri non potevano chiedere a quegli stessi ragazzi?
Questo significava che anche durante le prove tutti loro erano stati “salvati” in un modo o nell'altro dai loro divini genitori? Significava che un dio più forte di sua madre avrebbe potuto decidere che lei non doveva più gareggiare e quindi eliminarla?
Lanciò di sottecchi uno sguardo a Jane: erano arrivati in tempo per salvarla? O era stata sua madre a spingerli da lei?
Era un atteggiamento decisamente paranoico e questo era principalmente il motivo per cui stava tenendo tutti quei pensieri per sé, ma trovava del tutto lecito domandarsi se fino ad ora chi aveva “vinto” c'era riuscito grazie alle sue capacità o solo ed unicamente per volere divino.
Dopotutto la voce maschile, quel tipo, Eolo, stava ancora ciarlando su come votarli…

 

 

<< E ora, la parola alla divina Artemide, che spiegherà le regole della gara e l'obiettivo di questa terza prova!>>

 

La bambina vestita d'argento alzò gli occhi al cielo, infastidita come poche volte nella sua onorevole ed eterna vita.
C'era stato un tempo in cui Eolo era stato un vero e proprio dio, giorni in cui solcava i cieli, in cui lui e i suoi fratelli trainavano una biga d'oro su cui Zeus si ergeva fiero ed intoccabile. Come c'erano arrivati a quel punto?
Efesto avrebbe potuto dire tranquillamente, ed infatti lo faceva di continuo, che la loro famiglia era imbattibile nel prendere le cose buone e trasformarle in cattive. Ripeteva di continuo che la sua tecnologia, la sua meccanica, le invenzioni sue e dei suoi figli erano tutte nate per migliorare la vita delle persone, per dare servizi, per essere ciò che gli uomini non riuscivano ad essere, per aiutare tanto chi stava sulla terra quanto chi dimorava nei cieli. E invece cosa era successo? Si erano adagiati sugli allori, tutti loro: gli uomini creavano ogni giorno macchine che facessero cose che loro sarebbero stati più che capaci a fare, impigrendosi sempre di più, mentre loro, gradi e potenti divinità, erano diventati quasi dipendenti da quei nuovi giocattoli scintillanti.
La connessione rete divina era una cosa magnifica, lo ammetteva anche lei, ma quando, di preciso, si erano tutti trasformati in esseri dipendenti a questi “divertimenti”? Quando un dio dei venti, Il dio dei venti, era diventato null'altro che un presentatore sempre e costantemente in ansia per l'inizio della prossima diretta?
Con una smorfia la Dea fece un passo avanti, le sue cacciatrici perfettamente immobili attorno a lei.

Prima finiamo questa farsa e prima potrò osservare come andrà la gara.

Sì, perché alla fine lei ed Atena avevano deciso di fare così, di aspettare e vedere come sarebbero andate le cose, se Giordano avrebbe fatto qualcosa o avrebbe lasciato che il gioco proseguisse per affari suoi. Conoscendolo sapeva che si sarebbero potuti aspettare di tutto, dal ritrovarselo seduto vicino a mangiare popcorn, al vagare nella zona limitata, al chiacchierare con le anime ( Ade diceva sempre che gli importunava gli scheletri) al non vederlo minimamente.
Cosa che, per altro, l'avrebbe messa in allarme più del vederlo entrare in diretto contatto con un'anima.
Accantonando in un anglo della sua mente questi pensieri, Artemide si schiarì la voce e iniziò a parlare con tono deciso.

 

<< Benvenuti a questa terza prova della Death Race.
Finora avete affrontato due missioni di “spedizione”: vi è stato chiesto di capire da voi come raggiungere la Casa di Ade, di pensare con la vostra testa e di non affidarvi alla massa, al flusso di anime che scioccamente si sono perse per le Praterie degli Asfodeli.>>


 

Lea rabbrividì. << Quindi si sono davvero perse, non è andato nessuno a recuperarle, a riportarle dove meritavano di essere… >>
Úranus piegò le labbra in una smorfia dispiaciuta. << Credo di no. Sono abbastanza sicuro che le anime dei dannati siano state recuperate e riportate nei Campi di pena.>>
<< Ma sarebbe del tutto inutile, ormai non ricorderanno più nulla, non saprebbero neanche chi sono. Come si può torturare per l'eternità qualcuno che non ricorda neanche ciò per cui lo stanno punendo? È - >>
<< Crudele?>> chiese il ragazzo spostando gli occhi chiari su di lei. << Credi che sia crudele che un assassino venga torturato per sempre perché non ricorda di aver commesso il crimine?>>
Lea rimase immobile, lo credeva davvero? No, certo che no, è giusto che chi abbia commesso gesti del genere venga punito ma… se la sua mete fosse stata una tabula rasa? Se neanche ricordasse il suo nome?
Da una parte era giusto, dall'altra era semplicemente… crudele, si.
<< Sarebbe una punizione ulteriore, comunque.>> continuò il ragazzo. << Non solo soffri per la tua pena ma anche perché non la ricordi. In ogni caso non credo che la tua pietà dovrebbe andare a loro quanto a tutte le anime che si erano meritate i Campi Elisi e ora sono perduti nelle Praterie, dimentichi di tutto.>>
A quelle parole amare la ragazza si sentì gelare il sangue nelle vene, il ché era assurdo visto che non ve ne era più neanche una stilla. << Cosa? >>

 

 

<< Chi di voi è riuscito a giungere alla meta è stato sottoposto ad un'altra prova ugualmente dura. Visto che non vi è stato detto prima sarò io ad informarvi: la prova del Labirinto è stata diretta dalla divina Persefone ed era incentrata su qualcosa di indispensabile per un essere vivente, ovvero la capacità di districarvi in situazioni di stallo, di trovare la via giusta, l'uscita in un dedalo di strade non dissimili da ciò che è ora il mondo moderno. Chi si trova qui, congratulazioni, sapete prendere decisioni che vanno contro la massa, sapete muovervi in luoghi estranei e pericolosi, sapete tenere una direzione e trovare l'uscita.>> La dea stette zitta per qualche secondo, osservando con volto impassibile le anime lì riunite. << All'atto prati sapete fare ciò che sa fare un cane.>>

 

 

<< Oh, questa era stronza però.>> ringhiò Cade guardando male Artemide.
Nathan si morse la lingua pur di non sparar qualcosa di cui poi si sarebbe potuto pentire, ma la verità era che non l'avrebbe fatto: ciò che detestava terribilmente degli Dei era quella loro stramaledettisima idea di poter dire e fare di tutto con loro con la certezza che non si sarebbero ribellati o offesi in nessun modo. O forse non gliene fregava un cazzo e basta.
<< Probabilmente è come ci vede lei, se è vero che odia gli uomini poi… >> disse Jonas facendo un passo avanti.
Era il più piccolo tra di loro, ma Nathan aveva la vaga impressione che nel momento in cui si sarebbe abituato, quando si sarebbe ambientato, avrebbe tirato fuori le palle. Di certo non era uno che ti mandava a dire le cose, anzi, se non fosse stato per un'educazione più che buona il soldato avrebbe scommesso tutto quello che aveva che il ragazzino gli avrebbe risposto per le rime fin dall'inizio.
Non sapeva ancora che pensare di lui, Nathan aveva capito che era molto più di ciò che appariva e la cosa che lo infastidiva maggiormente era che Cade – Cade per gli Dei!– se ne era reso conto prima di lui ed era anche riuscito ad avvicinarglisi.
Il comportamento del rosso era protettivo e un po' infantile, a Nathan ricordò fin troppo le coppie di fratelli, veri fratelli, presenti al campo, che si spalleggiavano e si prendevano in giro a vicenda. Probabilmente quel comportamento così gioviale e amichevole aveva fatto breccia nel moccioso più di quanto non lo avessero fatto il placido e tranquillo senso di sicurezza che emanava Elizabeth o il forte e dirompente magnetismo che lui stesso era sempre riuscito ad esercitare su tutti quelli che gli si avvicinavano.
A conti fatti doveva averlo perso con la morte, quel magnetismo, perché anche se aveva diretto lui la maggior parte delle loro azioni né Eliza né Cade lo avevano mai trattato come il leader nato che era e come sempre lo trattavano e guardavano i ragazzi del campo.

Questo perché mi sono capitati due stronzi e purtroppo non so neanche quanto questo sia negativo.

Con un grugnito infastidito Nathan si domandò quanto quella situazione, quell'assurda e completamente sbilanciata combriccola che si era formata da quanto la Guardia Imperiale gli aveva affibbiato quei due, sarebbe durata.
Se avessero continuato ad aggiungere membri a caso probabilmente la risposta sarebbe stata “a breve”.

 

 

<< Non è un caso il luogo in cui ci troviamo.>> sogghignò Artemide. << Quella che vedete è “ L'Area Cani” degli Inferi, ovvero il luogo in cui vengono riuniti ed addestrati i famosi mastini infernali di Ade. La vostra prova è proprio su di loro.>>
Moltissime anime a quell'affermazione si erano guardate attorno come se si aspettassero di veder spuntare fuori dei cani da un momento all'altro: non vedeva l'ora di assistere allo sgomento generale quando si sarebbero resi conto di “cosa” fossero davvero i mastini infernali.

 

<< Cazzo.>> disse il soldato a denti stretti.
Eliza lo guardò seria. << Sono molto pericolosi, vero?>>
<< Sono molto incazzati di solito.>> rispose quello.
<< E scommetto che sono anche brutti e grossi.>> gli fece eco Cade.
<< Sono pur sempre cani, non ci vuole un genio per sopraffarli.>> considerò invece Jane, per poi guardare le facce dei suoi compagni e alzare gli occhi al cielo. << Fatemi indovinare: non sono cani normali e non sono neanche semplicemente cani morti.>>
Nathan annuì secco. << Cominciate a mettere in conto che di certo ne uscirete con qualche uscitone.>>
Jonas aggrottò le sopracciglia, fiutando l'aria proprio come un segugio, forse in cerca di tratte di fumo. << Dimmi che non sputano fuoco.>>

 

<< Ne sono avvolti?>> domandò Lea con gli occhi sgranati. << Beh, almeno so come curare delle bruciature… >>
<< Forse non ce ne sarà bisogno.>> le sorrise Úranus. << I mastini non sono esseri naturalmente amichevoli, ma come ogni animale la sua fiducia la si può conquistare.>>
La ragazza gli sorrise di rimando. << Questo è il momento in cui mi dici che sei bravo con gli animali?>>
Úranus non riuscì a trattenersi dal ridere sotto voce. << Mi sono sempre piaciuti gli animali.>> affermò con tono vago.
<< E… ?>>
<< E sono bravo con gli animali.>>

 

 

<< Liberi in quest'area ci sono tutti i mastini infernali di Ade. Tutti. Migliaia di colossi che normalmente corrono e cacciano nelle Praterie, dei Campi di Pena e anche nel Tartaro.
Ognuno di questi mastini porta un collare al quale è stato attaccato un ciondolo, il vostro compito è semplice: dovrete trovarne uno, riuscire a catturarlo e prendere il monile al suo collo.
Nel momento in cui lo farete avrete passato la terza prova e sarete liberi di attraversare il tutta sicurezza l'Area Cani e dirigervi verso la tappa successiva.>>
Detto in questo modo sembrava davvero semplice, ma Artemide sapeva per esperienza personale quanto quei dannati mastini potessero essere forti, testardi, violenti e crudeli. Certo, aveva visto anche ragazzini piccoli giocare con il loro mastino come se fosse un innocuo cucciolo, ma ciò non toglieva che fossero sempre bestie degli Inferi.

 

<< Prendere un cane… dov'è la fregatura?>>
<< Il fatto che siano grossi e avvolti dalle fiamme non ti sembra una sufficiente fregatura?>> gracchiò Cade guardando male Nathan.
Il figlio di Ares, per tutta risposta, alzò un sopracciglio con fare curioso: << Hai problemi con i cani o con il fuoco?>>
<< Ho problemi con i cani giganteschi, di Ade, che vanno a fuoco e a cui dovrò avvicinarmi pericolosamente per prendere una medaglietta. Dovrò avvicinarmi ai suoi denti. Già il morso di un cane fa un male- >> Cade si bloccò, l'espressione concentrata.
<< Cane?>>
<< Bestia?>>
<< Del diavolo?>>
<< Dell'inferno?>>
L'irlandese guardò i suoi compagni con una smorfia schifata da tutti quei luoghi comuni e stupidi giochi di parole. << Fa male da morire.>> sentenziò infine, per poi rendersi conto di quello che aveva appena detto.
Jane gli sorrise lugubre. << E che ti importa? Tanto sei già morto.>>
Fissandola con disappunto Cade le puntò il dito contro. << E tu sei inquietante, ora te l'ho detto.>>
<< Finitela voi due e fatemi sentire quello che dice Artemide.>> l'interruppe bruscamente Eliza.
<< Cosa vuoi che dica? Che ci dia consigli su come fare? Basterà dare una botta in testa al cane e quello cadrà stramazzato al suolo.>> sbuffò la figlia di Ecate.

 

<< Le regole.>> disse con voce forte la dea. << Primo: non potete uccidere il mastino. Se ciò dovesse accedere verrete immediatamente squalificati.>>

 

<< Temo ci sia una falla nel tuo piano, ragazza delle praterie.>>
<< Taci rosso!>>

 

<< Secondo: potere catturare il mastino assieme ma ogni ciondolo è un lasciapassare per una sola persona.>>

 

<< Mi pare giusto.>>
<< Non preoccuparti, ne prenderemo prima uno per te, così se chi avesse il ciondolo non fosse più autorizzato ad aiutare chi è ancora in gara potresti andare nel mentre e io potrei prenderne uno da me.>> la rassicurò Úranus.
Ma Lea scosse la testa. << Non dire sciocchezze, anche se non potessi aiutarti materialmente rimarrei comunque con te per darti tutto il supporto possibile.>>

 

<< Terzo: il primo che toglierà il ciondolo dal collare del mastino ne diverrà proprietario, quindi, punto quarto, non si possono rubare i ciondoli degli altri.>> ghignò cattiva. << Questa è la mia prova e nessuno può barare, se volete vincere ed uscire di qui lo dovrete fare come dico io e senza sotterfugi.
Detto ciò: Che la prova abbia inizio!>>

 

Un suono sinistro fece voltare tutte le anime verso le loro spalle: i cancelli si erano appena chiusi.

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Il divano su cui era seduto era morbido e comodo, pieno di cuscini dalle forme più disparate ed i colori più improbabili. Non c'era dubbio alcuno che fosse stato Ipnos a portare lì tutti quei guanciali, era sempre stata una sua fissazione la comodità, l'idea di rendere più confortevole possibile il luogo o l'oggetto su cui si decideva di riposare.
C'era un ché di ironico in tutto ciò, perché decine di centinaia di volte Gio aveva potuto constatare che il posto più comodo dove dormire era quello in cui ti fermavi quando eri più stanco e che non importava che ci fosse un materasso, una morbida coperta o un buon cuscino, troppo spesso si era sdraiato su un terreno brullo, raggomitolato nell'angolo di una grotta, steso su di una spiaggia ed aveva dormito il sonno più rilassante e rigenerante della sua vita.
Sorridendo mesto si domandò se tutte quelle volte avesse potuto riposare così bene grazie a quel curioso individuo nascosto nella sua cappa nera che ora se ne stava seduto sul divano, con le gambe al petto, il naso sprofondato nel bavero alto e la testa coperta dal cappello dalle larghe falde.
Non si muoveva da molto, forse dormiva, forse era solo in viaggio nei meandri di quella dimensione onirica che solo a pochi di loro era concesso visitare a proprio piacimento.
Qualche metro più in là Efesto grugniva insulti e maledizioni a questo, quello o l'altro dio che aveva avuto la bell'idea di fare qualche domanda o richiesta che aveva scatenato l'entusiasmo di troppi. Vicino a lui Thanatos sospirava scocciato con una cornetta schiacciata tra spalle e orecchio.
Vedere il Dio della morte, il più bell essere di quella terra, aspettare in attesa che qualcuno rispondesse dall'altro lato della linea aveva un ché di ironico e di divertente. Non che si sarebbe mai azzardato a dirglielo.
Non che se lo avesse fatto sarebbe successo qualcosa.
Gio sospirò e lasciò cadere la testa contro la spalliera del divano, domandandosi quando si sarebbe potuto alzare per andare a fare due passi. Non c'era nulla che gli impedisse in farlo in quel preciso momento se non la presenza di Artemide negli Inferi. Sapeva per certo che se si fosse azzardato anche solo a metter piede nella tenuta del vecchio musone la piccola cacciatrice sarebbe apparsa immediatamente, carica di sguardi indagatori e domande fin troppo fastidiose. E forse si sarebbe aggiudicato anche la visita di quella rompicoglioni di Atena, Dio non voglia, pronta a rincarare la dose.
A quanto pareva però, non era lui l'unico che doveva preoccuparsi di domande inopportune: anche se non poteva vedere il volto sicuramente scocciato e contrariato di Efesto, Gio poté perfettamente immaginarlo dalla sua voce.
C'erano dei problemi con Eolo, o meglio, come al solito era il Dio dei venti che se ne stava facendo fin troppi di problemi, cose del tutto inutili che avrebbe tranquillamente potuto ignorare senza che nessuno se ne accorgesse. Ma no, ovviamente quella piaga divina doveva assolutamente interrogarsi su una questione più che delicata: bisogna parlare della anime che sono scomparse?
Gio sorrise ad occhi chiusi, quella situazione lo divertiva e annoiava in egual misura, il ché era preoccupante, ma la verità, come sempre, stava nel mezzo.
Era noioso ciò che la gente stava costruendo attorno a quello che sarebbe potuto essere un evento divertente.
Per secoli gli Dei si erano completamente disinteressati dei loro figli, ignorandoli e ordinandogli malamente di fare il loro volere solo ed unicamente quando gli era utile. Li avevano abbandonati, li avevano sfruttati, li avevano mandati a morire per nulla, nulla che loro stessi non avrebbero potuto fare con uno schiocco di dita.
Erano scoppiate guerre, erano caduti a centinai e gli Dei se ne erano interessati solo ed unicamente quando erano stati coinvolti anche loro. Certo, Ares ci sguazzava nelle guerre, era felicissimo, ma Zeus? Poseidone? Quante volte avevano alzato lo sguardo sui mortali di loro spontanea volontà e non perché vi era un loro figlio a far danni? Quante volte Atena aveva spinto i suoi figli alla guerra più cruenta, alla vittoria più schiacciante, invece di consigliar loro di usare quell'intelletto che gli aveva donato e far firmare una pace, un accordo, un armistizio? Quante volte Apollo aveva mandato pestilenze nei campi nemici a quelli che lo osannavano, quante volte Artemide aveva voltato la pallida faccia lontano da quegli uomini agonizzanti solo perché, appunto, uomini?
Oh, avrebbe potuto continuare così per l'eternità, parlando di Era che si divideva tra il voler le famiglie felici ed unite e l'odiare quei figli altrui che avevano distrutto la sua, accanendosi su di loro perché non poteva farlo su quel fratello così potente e crudele. Quante volte Afrodite aveva scatenato disastrosi eventi solo per divertimento, quante volte i cuori erano stati votati “alla più bella” e non “all'amata”? Quante delle armi di Efesto si erano rivoltate contro gli uomini, quante vite aveva sacrificato perché non comprendeva fino in fondo l'essere umano. Ed Ermes? Quanti aveva ingannato? Quanti aveva derubato, mandato sulla via sbagliata, portato messaggi fraudolenti, impedito di portar messaggi salvifici. Quanti avevano perso la testa dietro all'ebrezza di Dioniso, quanti erano morti per le carestie di Demetra?
Gio non si mosse ma dentro di sé covava il tumulto di una vita di ribellione e ingiustizia.
Quanti erano caduti? Troppi, spesso solo per il divertimento passeggero ed effimero di un essere così potente da aver tutto ma non aver nulla.
Parlare delle anime scomparse era un insulto a tutte coloro che erano perse per le Praterie, tutte coloro che non ricordavano. Al tempo stesso, parlare di quelle sparizioni sarebbe stato giusto, ma non per questa volta.
 

<< A cosa pensi?>>

La voce pacata di Ipnos non lo sorprese. Il dio del sonno aveva questa innata capacità di fiutare i pensieri più profondi, gli arrovellamenti più terribili.
Gio quasi sorrise, Ipnos riusciva ad essere dolce e comprensivo con chiunque per poi negare il sonno ad un individuo per mesi fino a farlo morire di stenti e di pazzia.

<< All'ipocrisia della gente.>> rispose piano, senza aprire gli occhi.
Lo sentì annuire. << È per questo che lo fai? Per contrastare l'ipocrisia degli Dei?>> disse lui vago.
<< Ti stai dando dell'ipocrita, amico mio.>>
Un risolino indistinto. << Chi non lo è? >>
<< Qualcuno deve pur esserci, non credi?>>
<< Non sai farmi neanche un nome?>> gli sorrise Ipnos volandosi verso di lui.
Gio rimase fermo nella sua posizione però, senza dar l'impressione di voler ricambiare il suo sguardo.
<< Clara… Al… >> sussurrò. << Clara e Al.>>
Quella risposta era forse l'ultima che il dio si sarebbe aspettato da lui. Ipnos si volse completamente verso l'uomo, impuntando i piedi nudi e freddi contro la gamba dell'altro. Sciolse l'abbraccio attorno alle proprie ginocchia e alzò il bordo del cappello, osservando con serietà quel viso così famigliare da esser quasi unico nel suo genere.

 

Clara e Al.

 

<< È per loro che l'hai fatto? Che hai ideato la Death Race?>> provò a chiedergli mantenendo la voce bassa.
Un brivido gli aveva fiorato le spalle coperte dalla pensante cappa. Se tutto questo pandemonio, deliziosamente divertente ed inopportuno, era stato davvero messo su per loro… Dei dell'Olimpo, quale sarebbe mai potuta esser la conclusione?
Ripercorse velocemente tutti gli eventi, da quando Gio era apparso sulla porta della sua dimora chiedendogli una buona tazza di tea ed una chiacchierata amichevole, a quando si era conclusa la seconda prova. Cosa gli era sfuggito? Dove stava la fregatura?
Una scintilla brillò fievole: la tessera del mosaico d'oro.
Aggrottando le sopracciglia, preso da dei dubbi che, in quanto dio, di solito non aveva mai, s'arrischiò a domandare:

<< Perché hai legato quelle due anime?>>
Gio, per tutta risposta, sorrise. << Perché tu e tuo fratello vi divertite a fare gioielli con le catene. Vi divertite a rendere una costrizione, una pena, un lucido monile. Siete stati voi a legare quei due, non io.>> e dopo un attimo di silenzio. << Sono molto più simili di quanto non sembri, speravo potessero aiutarsi a vicenda, ma tant'è .>> concluse stringendosi nelle spalle.
Già, tant'è. Una quantità impressionante di anime erano scomparse, altre erano state salvate in extremis da qualcuno che non sarebbe dovuto essere lì, una tessera d'oro che si incastrava alla perfezione con fin troppi puzzle.
 

Anime che scomparivano per una frazione di secondo per poi ricomparire sane e salve. Anime condannate a morte rimaste illese da attacchi frontali e devastanti. Anime incastrate nella morsa mortifera dell'edera e poi fuoriuscite dal labirinto come se nulla fosse. Anime in vantaggio misteriosamente sconfitte.
A che gioco stai giocando? Sei solo in questa partita?

 

<< Che piani hai? Seriamente Gio, cos'hai in mente?>> gli chiese tirandogli leggermente la manica della camicia, per convincerlo a guardarlo negli occhi, per costringerlo a non mentire o a farlo davvero bene.

L'uomo sospirò e si tirò su, aprendo lentamente le palpebre e puntando lo sguardo in quello del dio.
Il riverbero della luce della sala comandi brillò sulle sue iridi lucide, coprendole di un riflesso bianco che per un attimo lo accecò come uno specchio al sole.

<< Di fare la cosa giusta.>> disse con voce ferma.
Ed era ovvio, era la cosa più ovvia che Giordano delle Vie avrebbe mai potuto dire, avrebbe mai potuto fare. Ma ugualmente Ipnos si sentiva inquieto, come un marinaio inesperto che sottovaluta un vento di ponente, come un viandante che sottovaluta le prime gocce di pioggia o un bambino che banalizza il pericolo che sa correndo arrampicandosi su quell'albero. Il suo sesto senso, i suoi potei divini, l'essere il dio del Sonno, tutto gli gridava che c'era comunque qualcosa che non stava capendo, che gli stava sfuggendo proprio sotto il naso.
Con gli occhi tondi fissi in quelli accecanti dell'altro si azzardò a fare una domanda, forse la prima, forse l'ennesima, di cui probabilmente si sarebbe pentito.
<< Sì, ma per chi?>>

 

La luce nella stanza sfarfallò per un momento, un attimo di cui né Thanato né Efesto si preoccuparono, un attimo che fece congelare Ipnos ma non gli impedì comunque di sentirsi al sicuro.
Sul volto dell'uomo si tirò un sorriso predatorio, il baluginio delle zanne di un drago di cui tutti hanno dimenticato il nome ma che non è mai stato veramente sopito, qualcuno che i grandi eroi avevano combattuto e temuto a suo tempo e di cui invece i comuni mortali ignoravano anche l'esistenza.
Una volta Giordano stesso gli disse che le vie del Signore erano infinite e che questo era il motivo per cui si chiamava così, perché ogni cosa aveva molteplici volti, significati, direzioni. Ogni cosa brillava come oro al sole ed era mortifera come il bacio di suo fratello.
In quel momento, quelle parole, quel “fare la cosa giusta”, sapeva tanto di gloria e libertà quanto di catene e dolore.
Il sorriso di quell'essere si tramutò in un inquietante ghigno da iena.


 

<< Per me.>>


 

 

 

E non c'era nulla di più pericoloso al mondo del sentirsi al sicuro sotto lo sguardo di un mostro.











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Capitolo 8
*** Dogs ***



[ ATTENZIONE! Il capitolo è particolarmente lungo, chiedo venia, leggetelo a più riprese]
 









VIII- Dogs.






I pantaloni scuri tiravano leggermente contro il ginocchio piegato, gli si stava addormentando la gamba, cosa per altro estremamente ironica, e aveva decisamente bisogno di sgranchirsela.
Era fermo nella stessa identica posizione da quasi un'ora, non che per lui fosse un record, certo, era stato immobile come una statua anche per molto più tempo e in situazioni peggiori, ma per qualche strano motivo quell'attesa lo stava logorando più del solito.
Il sole quel pomeriggio era alto e scottava sulla testa, nel retro del vecchio casale adibito all'accumulo dei mattoni e sacchi di calce non c'era un vero e proprio tetto sotto cui nascondersi dai raggi implacabili delle due, vi era giusto una pensilina che si protendeva oltre il muro scorticato del magazzino, puntando sbilenca verso lo spiazzo che collegava il grande deposito alla discarica poco distante.
Non era una bella zona quella, non perché ci fosse gente malfamata, o meglio, c'era anche quella, ma più che altro perché da quelle parti vi erano soprattutto stabilimenti industriali, grandi edifici in cui gli operai erano stipati a lavorare tutto il giorno, sfasci per auto e punti di raccolta di ferramenta, calcinacci, legname. Non era insolito vedere brutti ceffi camminare per quelle strade assolate, la gente che aveva avuto qualche problema con la legge, che aveva un aspetto un po' più intimidatorio non trovava facilmente lavoro, se poi eri anche un energumeno grande e grosso di solito ti ritrovavi a fare il muratore o un qualche lavoro di fatica.
In quel piccolo paese che tanto aveva dato e tanto aveva tolto, sia a chi lo circondava che a chi vi abitava, c'erano delle regole non scritte, delle superstizioni, delle idee innate che erano davvero difficili da combattere, così come in ogni altro posto del mondo.
Probabilmente se i loro antenati avessero visto com'era stata ridotta la bella penisola da chi era venuto dopo di loro sarebbero morti un'altra volta.
Lasciando scivolare via quei pensieri il giovane guardò il pregiato orologio da taschino che portava legato ai pantaloni più per far qualcosa che per controllare effettivamente l'ora.
Perché si era spinto sino alla periferia della capitale? Perché non se ne era rimasto al fresco, comodo, nel suo palazzo?
Il rumore di ferraglia gli fece alzare gli occhi davanti a sé.
Quello. Per quello era giunto sino a lì, abbandonando la confortevole ricchezza opulenta del centro storico, allontanandosi dal Tevere sino a giungere verso le campagne romane.
La vera domanda era: Perché l'altro si era andato a rintanare laggiù quando la sua “casa” si trovava nei quartieri popolari?
Ancora una volta la sua domanda ebbe veloce risposa: con tutta probabilità per colpa di quell'affare mezzo scassato dentro cui si era infilato.
Più vicino allo sfascio che al vecchio casale era parcheggiato – abbandonato probabilmente perché troppo pesante per essere spostato più in là – quello che poteva sembrare un pulmino, di quelli che venivano usati per spostare i militari. O visto il soggetto, le suore.
La vecchia corriera era veramente mal messa, la vernice bianca era scrostata, quella blu tendeva ad un pallido azzurrino che di certo aveva visto tempi migliori. Sotto il retro del trabiccolo si agitava una figura indistinta, scarpe di seconda mano, logore sul tacco e ben o male su tutta la suola, uscivano oltre il parafanghi ammaccato. I calzini che coprivano le caviglie secche erano bucati all'altezza del malleolo ed il cotone bianco si era ingiallito per l'usura, per le troppe volte che erano state lavate con poca gentilezza, in tarda sera, quando il loro proprietario non voleva far altro che andarsene a dormire e alle volte neanche le risciacquava bene, passando poi il giorno successivo a lamentarsi di quanto fossero rigide e gli grattassero i polpacci.
I pantaloni scuri erano leggermente corti, forse tirati per via della posa, sporchi di polvere, di terra e di qualche macchia nera che probabilmente era olio.
Il meccanico improvvisato imprecò a mezza bocca quando un suono metallico, uno stunc deciso, arrivò da sotto il veicolo. Una mano raschiò il terreno inutilmente, cercando di recuperare un bullone che rotolò veloce lontano dal giovane, fermandosi nel mezzo dello spiazzo.
Ade fissò il piccolo esagono di ferro sospirando mesto. Con una spinta si staccò dal muro e si avvicinò all'oggetto, raccogliendolo e soffiandoci sopra per pulirlo mentre l'altro, ancora sotto la corriera, imprecava ora a voce più chiara, cercando di tirarsi fuori da là sotto il più velocemente possibile.
Dalla corriera uscì fuori un ragazzino magro e dinoccolato, smilzo, dalla pelle olivastra abbronzata come quella di chi passa troppo tempo sotto al sole. I capelli neri erano unticci, non sapeva se per colpa del caldo, del sudore, della macchina o perché non si faceva un bagno come si deve da giorni. Probabilmente un'unione di tutte quelle cose messe assieme.
Il naso dritto era sporco di olio nero e il ragazzino si sfregò il dorso della mano sulla punta per togliere quel fastidioso prurito che lo perseguitava da un po'.
Con un gesto automatico si passò una mano tra i capelli, tirandoli indietro e appiattendoli, il palmo era grande e calloso, pieno di cicatrici di anni indistinti, le dita lunghe un reticolo di piccoli rigagnoli nerastri che rilucevano cangianti al sole diretto, le unghie corte sporche come pareva esser tutto in lui.
Non aveva più di quattordici anni, con quel visetto ancora bloccato tra l'infantile e l'adolescenziale, l'espressione furba e guardinga e, in quel momento, vagamente scocciata.
Si sfregò le mani sui pantaloni, la camicia un tempo bianca era ora marroncina di polvere ma lui parve non farvi caso.
Quando però gli occhi del giovane si posarono su di lui la sua intera figura ebbe un guizzo che Ade non avrebbe saputo identificare.
Conosceva quel moccioso da un anno ormai, l'aveva trovato, - no, l'aveva cercato lui stesso- per le vie del centro storico, mentre quello bighellonava e lui, invece, cercava il fu Pantheon, ora La Rotonda. La fantasia umana oscillava tra la geniale sorpresa e la banalità scontata.
In quel breve lasso di tempo, ad onor del vero giusto dieci mesi, il ragazzino era riuscito a diventare una spina nel fianco, una palla la piede, a crescere di ben otto centimetri e a farlo ridere più di quanto non avrebbe mai ammesso. Eppure non riusciva ancora a leggergli dentro, la sua mente rimaneva sigillata come una camera stagna, il suo occhio divino non scalfiva la superficie abbronzata di quella pelle ancora delicata ma incredibilmente solida.
Con le mani sui fianchi e l'espressione beffarda Giordano, Gio per gli amici, lo fissava sorridendo come un gatto steso al sole, con quella punta di naso macchiata di nero ed un paio di lentiggini spuntate da chissà dove a colorargli le guance. Così sporco e malconcio era ugualmente il riflesso di una felicità e di una spensieratezza che lui non aveva mai conosciuto. Al contempo, era tesoriere di segreti gravosi e verità nefaste che neanche lui sarebbe riuscito a sopportare con così tanta disinvoltura.
Pareva brillare quasi di luce propria alle volte e Ade non poté far a meno di attribuire questa sua qualità al suo retaggio divino.
Più tardi, forse quella stessa sera o anni dopo, si sarebbe reso conto che ciò che brillava tanto in Giordano – ancora non – Delle Vie non era la sua parte divina quanto quella mortalmente mortale.

« Che ce sei venuto a fa' fino a qui? I pinguini come te t'annoiano? » gli chiese con quella sua vocetta acuta e irritante. Perché tutti i quattordicenni del mondo mettevano su una voce pesante e inquietante e lui invece doveva mantenere quella da moccioso fastidioso?
Ade si strinse nelle spalle. « Forse dovrei essere io a chiederti cosa ci fai qui, in periferia, sporco come un barbone, a strisciare sotto una corriera rotta.»
L'altro imitò i suoi stessi gesti, mettendosi in posa e facendogli il verso come un pappagallo.
Il dio grugnì infastidito. « Sono serio, che ci fai da queste parti a macchinar con quella ferraglia?» domandò con più gentilezza.
Giordano allora gli sorrise. « Che c'è? Il grande Pluto non me riesce a legge nella mente? Non c'hai tutte le risposte a tutti i quesiti der monno?»
Ade alzò gli occhi al cielo. « Per la milionesima volta: non sono il tuo Dio, non sono onnipresente e onnipotente. Sono in grado di dividere la mia essenza ed essere in più posti contemporaneamente, conosco molte cose e sono in grado di scoprirne molte altre, ma non posso fare tutto e sapere tutto.»
« Allora te sei preoccupato pe' me!» trillò allargando il suo ghigno. « Scommetto che sei 'nnato a cercamme dalle sore ma non m'hai trovato, così hai usato i poteri tua e m'hai trovato qui, sbaglio?» gongolò avvicinandosi di un passo.
All'ennesimo sbuffo infastidito di Ade il ragazzino scoppiò a ridere e gli tese la mano.
« Mi ridai il bullone? Serve per la coppa dell'olio.» spiegò con una calma ed un'educazione completamente in contrasto con il comportamento spigliato di un attimo prima.
Con la solita incertezza Ade depositò l'oggetto sul palmo spellato dell'altro, ricevendo un piccolo cenno con il capo come ringraziamento.
« Da qua parte c'è na sedia, è un po' scassata, ma armeno non stai n'artra ora in piedi a fissamme.»
« Non ho passato un'ora in piedi a fissarti.» protestò il dio colto in fragrante.
« O sai sì, che pure se sto sotto a'a macchina e non te posso vedé in faccia riesco comunque a vedé e scarpe? »
« Chi ti dice che fossero le mie?»
Giordano sospirò come si fa con i bambini che si ostinano a tenere il loro punto. Poi si voltò di nuovo verso Ade e gli sorrise furbesco. « Perché è un'ora che stanno lì, sia quelle scarpe che quelle caviglie, perché poi si sono avvicinate per prendere il bullone e perché poi ho trovato te fuori. E perché sei l'unico a Roma, o comunque da ste' parti, che porta scarpe francesi.»
« Cosa sei? Un calzolaio?»
« Ho fatto pure quello, lo sai bene.»
Annuì. « E non so come abbiano fatto quelle persone a comprare delle scarpe fatte da un moccioso di- quanti anni avevi?»
« Undici, però ero bravo e facevo delle belle sole piatte, poi le rifiniture le lasciavo all'artigiano capo. C'ho guadagnato un po', con qui sordi c'ho comprato a pelle per sellino daa moto.» sorrise smagliante.
« Potresti ripararti le tue allora.»
« E co quale cuoio? Guarda che costa 'n occhio daa testa! Secondo te perché sto qui vicino ao sfascio? Così trovo i pezzi che me servono! Non te lo poi immagginà quanta roba a gente butta via che funziona ancora!» disse calcando in maniera eccessiva la b di roba.
Ade alzò a mala pena un sopracciglio: la gente buttava via altra gente, non si stupiva minimamente di quel mostro chiamato consumismo. Un giorno o l'altro gli avrebbe fatto fare una visitina al Tartaro, così avrebbe visto la “discarica divina”, magari ci trovava dentro qualcosa di utile, certo i rottami dei macchinari di Efesto sarebbero valsi più di qualunque lega mortale.
Seguendo il ragazzo fino alla corriera, Ade si vide bene dal poggiarcisi contro, lo guardò stendersi agilmente sulla schiena e trascinarsi sotto il motore.
« Ma si può sapere che diamine ci fai con questo ammasso di ferraglia?» si risorse a chiedere pieno di curiosità.
« La rimetto a nuovo, no? Che altro se no?»gli giunse la voce ovattata dell'amico.
« Questo lo potevo capire da me.» sbuffò infastidito, « Quello che non so è il perché.»
La risposta si fece attendere un po', come se il piccolo Gio ci stesse impiegando qualche minuto per riuscire a racimolare le parole per spiegare al meglio l'utilizzo di quella corriera data ormai per morta da tutti.
« Così posso andare al nord.»disse solo in fine.
Ade guardò fisso il punto in cui era sicuro si trovasse il viso del quattordicenne e come solo la vista di un dio può fare penetrò gli strati di lamiera fino a giungere a quel volto sporco e immaturo che ora non sorrideva più.
Era teso, serio. Era triste.
E per qualche assurdo motivo Ade non voleva in alcun modo vederlo in quello stato, per nessun motivo al mondo.
« Così hai deciso di impegnarti in un'impresa impossibile? Mi pare molto sensato. Perché non quel trabiccolo che chiami moto?»
« Perché c'è la neve su, non posso rischiare di scivolare sul ghiaccio e rompere tutto, poi come farei? In un paese che non conosco, con gente che non mi conosce e senza una lira. E poi ho quattordici anni, non posso ancora guidarla la moto, se mi fermano gli sbirri non solo me le suonano ma mi prendono pure la moto perché non ho un padre che possa andare a riprenderla al deposito. Magari se la prende uno di loro e non la rivedo più.»
Aveva abbassato lo sguardo, neanche avesse saputo che Ade lo stava guardando con così tanta attenzione.
« Se è per questo non puoi neanche guidare una corriera.» gli fece notare.
Gio batté le palpebre e abbozzò un sorriso. « Mi fermo sul bordo della strada quando arriva qualcuno e se mi chiedono qualcosa dico che sto aspettando che torni il capo che è andato per fratte.»
Ade sospirò e rinunciò all'idea di non sporcarsi la giacca poggiandosi di schiena contro il metallo bollente e la vernice scorticata.
« Hai un piano per tutto quindi.»
Giò annuì. « E già. E poi dentro alla corriera di posso caricare pure la moto. Continuo a ripararla in viaggio, la sera, quando mi fermo.» lo disse lentamente, quasi a scatti. Affondò i denti nel labbro e lasciò uscire un respiro pesante, tremulo.
« Qui dentro ci posso anche dormire. È più comoda di quanto non sembri, sai?»
« L'hai già provata?» domandò ironico il dio.
« Sì. Saranno due settimane che ci dormo… » lasciò la frase in sospeso, senza aggiungere altro e in quel momento Ade vide improvvisamente le occhiaie più pesanti, la tensione del collo, la curva della schiena. Due settimane? Perché dormiva lì e non all'orfanotrofio?
« Lo so a cosa stai pensando.» interruppe i suoi ragionamenti.
Forse non se ne rendeva conto, Gio, ma quando era triste, quando era giù di morale o doveva parlare di cose serie, delicate, che toccavano soprattutto la sua storia, la sua vita o un qualche cosa da lui reputato “sentimentale”, i ragazzino tendeva a parlare nell'italiano più corretto e privo di inflessioni che Ade avesse avuto il piacere di sentire.
Era un suono strano, ogni parola veniva pronunciata con la giusta intonazione, senza accenti, senza calate, senza ritmi tipici dei paesi del sud o strascicati come al nord. Era privo di qualunque identità, era un muro, uno dei tanti, che Giordano sapeva innalzare davanti a sé.
Gli voltò le spalle, smettendo di scrutare nella carrozzeria ammaccata e dandogli un po' di privacy in un momento di confessione come quello.
« Cosa?»
« Non ci sto più alla Divina Provvidenza. Non ci sto proprio più. Nel senso che non riesco a starci, che non fa per me, che non è il mio posto. Come se l'orfanotrofio fosse diventato troppo piccolo e io non riuscissi più ad entraci. Lo so che le suore hanno fatto tanto per me, lo so che mi hanno tenuto anche durante la guerra e quando i miei non c'erano, però lì sto solo ad ingombrare spazio, ci sono tanti altri ragazzini che hanno perso i genitori per colpa della Grande Guerra e che hanno bisogno d'aiuto. Io me la cavo da me.»
Ade lo ascoltò con attenzione, annuì. « Quindi sono due settimane che non stai più lì.»
Un verso strano gli fece voltare il capo verso le ruote sgonfie. « Gio?»
« Un po' di più.»
« Che vuol dire “un po' di più”? Hai detto che sono due settimane che dormi nella corriera.»
« Sì, perché sono due settimane che sono riuscito a prenderla. Dovevano portarla qui allo sfascio e distruggerla per rifondere il metallo, ma io ho chiesto se potevo prenderla e lo sfascia carrozze mi ha detto che mi avrebbe fatto un buon prezzo perché sa che sono uno che lavora sodo. Gli ho portato la metà di quello che avrebbe fatto rivendendo il metallo, più una stecca di tabacco.»
« Direi che è stata una truffa bella e buona, hai accettato senza sapere il prezzo?»
« Ma che, me lo ha detto e io gli ho detto che non potevo trovarli in breve tempo.»
« E?»
« E allora un po' ho lavorato per lui, così mi ha scalato metà somma. Sono bravo a fare affari, che ti credi?»
Il dio sospirò affranto. La verità era che Gio lavorava veramente sodo e Ade ci scommetteva che quello che il proprietario dello sfascio gli aveva detratto dal prezzo di base era molto meno rispetto a quanto avesse lavorato Giordano.
Certo, c'era da tener conto che con quella faccia beffarda entrava subito nelle simpatie di tutti, quindi forse gli era andata anche bene, ma non cambiava il fatto che avrebbe potuto procurarsi quel denaro in mille modi diversi, avrebbe potuto accumularlo per un viaggio in treno, anche se poi non avrebbe potuto portare la moto. Avrebbe potuto aspettare d'averla aggiustata, di aver l'età giusta per guidarla e nel mentre metter da parte i soldi per la traversata.
A guardare quella vecchia corriera Ade ebbe la sensazione che il ragazzino avesse investito tutto ciò che aveva per comprarsi una casa, non un mezzo.
Ma non stava scappando dalla sua bella e amata Roma, no, si stava preparando per una missione, per un viaggio di cui non conosceva ne data ne destinazione.
C'era però qualcosa che infastidiva il Dio dei Morti, qualcosa di sottile e caldo, che bruciacchiava come una tazza bollente tenuta in mano. Si annidava nel suo stomaco, risaliva sino ai polmoni, alla trachea e si iniettava veloce nella mente.
Sapeva cosa fosse, era un dio dopotutto e aveva una coscienza di sé che i mortali potevano solo invidiargli, ma voleva davvero ammetterlo? Voleva davvero concretizzare quel pensiero? Quella domanda?
Il quesito gli ballava sulla punta della lingua, spingendo per esser pronunciato e per ricever risposta.

« Perché non hai chiesto a me?»
Il silenzio che si era espanso per lo spiazzo brullo, abbracciato dallo sfascio immobile e dal magazzino dalle pareti scorticate, rimase sospeso nell'aria di giugno assieme ai primi rumori di un'estate in avvicinamento, gli odori dolci della frutta e dei fiori e quelli ferrosi dei rottami arrugginiti e delle macchie d'umidità del casale. Poi il rumore di qualcosa che struscia sul terreno.
Gio sgusciò fuori da sotto la corriera e rimase lì, a gambe incrociate, a fissarlo dal basso.
Tenne le mani serrate sulle caviglie, la testa inclinata, qualche ciuffo era scappato sulla fronte crucciata.
« Come?»
Un moto di stizza animò il dio e malgrado avesse l'aspetto di un ragazzetto di diciott'anni la sua aura cupa sarebbe stata avvertita anche da un comune mortale.
« Sono un dio, sono il Dio dei Morti, uno dei tre grandi fratelli. So fare cose che molti dei miei nipoti, dei miei pari, neanche immaginano. Se fossi venuto da me, se mi avessi detto che avevi dei problemi con l'orfanotrofio o che ti serviva un modo per arrivare su al nord ti avrei aiutato e ti avrei anche fatto risparmiare tempo, fatica e denaro. Potrei schioccare le dita e farti apparire a Milano, a Torino, a Venezia o anche a Parigi!» concluse rabbioso lanciando un'occhiata di fuoco al ragazzino.
Giordano però non parve minimamente spaventato, sembrava solo ogni momento più confuso.
I suoi occhi cangianti lo fissavano senza capire il perché della sua rabbia e della sua indisposizione.
« Perché siamo amici. Gli amici non si tirano nei tuoi guai a meno che non sia questione di vita o di morte. Non ti sopporto ogni giorno solo perché sei un grande e potente dio e potresti ricoprirmi d'oro. Mi stai simpatico, mi piaci, noi- »si interruppe, storse il naso in cerca di una spiegazione sensata, qualcosa che gli facesse capir al meglio il suo punto di vista. « Noi… siamo amici.» disse in fine con semplicità.
Moltissime volte Ade aveva sentito raccontare nei miti e nelle leggende della profondità e dell'oscurità che si nascondeva nei suoi stessi occhi. Erano stati paragonati a pozzi profondi, a nere pietre levigate, a caverne buie, all'oblio e al Tartaro stesso. Ma ora come ora, ci scommetteva, non dovevano essere troppo diversi dagli occhi di qualunque altro essere, sgranati per la sorpresa,
Senza saper cosa dire Ade continuò a fissare i riflessi caldi che splendevano sulla patina lucida dell'iride del ragazzino, boccheggiando come un pesce fuor d'acqua, come un fesso.

« T-tu… noi- pensi che- ? Mi reputi davvero… un amico? Mi reputi davvero un amico?» domandò con voce incerta.
E l'incertezza era una cosa dannatamente umana.
Così come lo era la spontaneità e anche la felicità.
Le labbra del ragazzo si tirarono in un arco ampio, scoprendo i denti leggermente storti, l'incisivo destro scheggiato sull'angolo. Si alzarono gli zigomi spingendo gli occhi scintillanti che s'assottigliarono, mentre le sopracciglia e la fronte tornavano a rilassarsi.
Uno scoppio di risa fresche, cristalline ma che al contempo già preannunciavano la risata rombante che sarebbe scaturita un giorno dal petto ampio di un uomo con la stessa faccia da schiaffi di quel ragazzino e lo stesso sguardo acceso.
« Certo che sei mio amico! Cos'altro se no? Ma che domande fai, oh?!»
Ade rimase ancora imbambolato, senza capacitarsi di come Gio lo stesse trattando, di come aveva sempre fatto: come una persona normale.
Il sinistro sorriso dei Dio dei Morti piegò il viso pallido di quel diciottenne che mai era esistito e che da millenni calpestava quelle terre. Si fece però più sincero e tiepido, scaldato da quella stessa luce che l'umano davanti a lui emanava.
« Allora cosa deve fare un amico per aiutarne un altro?» chiese mettendosi le mani sui fianchi e guardandolo dall'alto con una scintilla di sfida negli occhi.
Il ghignetto che Gio gli regalò quella tarda mattinata di giugno se lo sarebbe ricordato per sempre, così come le sue risate, i suoi gesti semplici, le battute in dialetto e le imprecazioni contro santi e dei senza distinzione alcuna. Così come avrebbe custodito gelosamente e per l'eternità quelle parole così genuine ed affettuose.
Quindi era questo ciò che gli era valsa tutta la sua immortale vita? Un amico che lo trattasse davvero come suo pari, che gli volesse davvero bene come se ne vogliono i mortali e come gli dei pare non siano in grado di fare?
Se ogni lotta, ogni tragedia, ogni vittoria e ogni sconfitta, tutta la storia, la sua per lo meno, culminava in quel momento, forse, si disse Ade, non era stato tutto sprecato.

« N'amico se sporca le mani! Te conviene tojete quaa' giacchetta da pinguino! Ao: o sai ch'è n'a chiave 'nglese?>»

Se lo sarebbe ricordato per sempre, anche quando quel sorriso non sarebbe più esistito.

 

 

 

Ma nei lontani anni '20 Ade non avrebbe mai potuto immaginare che un giorno, quel volto, sarebbe diventato proprio come il suo.
Non lo potevano sapere gli oracoli e neanche il Re degli Déi.
Non lo sapeva la Regina, non lo sapevano tutti coloro che erano in grado di scrutare il futuro.
E questo, perché neanche le Parche potevano farlo.

 

 

*

 

« Sti cani di merda- Ahio!»
Nathan si massaggiò la nuca voltandosi di scatto verso la sua destra. Eliza neanche lo guardava, la postura dritta e fiera di un soldato in missione, di qualcuno che non reputava minimamente importante ciò che aveva appena fatto. Ovvero rifilargli un coppino degno di sua madre.
Fissarla male fu del tutto inutile quindi, la donna continuò a scrutare l'ambiente circostante, soppesando il terreno, le piante rade e, benché non lo desse a vedere, tenendo d'occhio le cacciatrici argentate che ora camminavano sicure, in formazione, verso i cancelli monolitici.
La dea Artemide era a capo di quel piccolo drappello, probabilmente diretta alla Casa di Ade per conferire con colui che, a conti fatti, si era ritrovato il regno invaso dai suoi stessi abitanti.

« Io di cani ancora non ne vedo nessuno, pensate che siano in zone specifiche e che dovremmo andare a cercarli?» domandò Cade con voce piatta.
Da quando era apparsa la dea, quando aveva raccontato loro della sua amica che aveva rinunciato all'aiuto di Artemide, il rosso era parso più cupo e spento del solito.
Si teneva sulla sue, rigido, in una postura quasi difensiva, cercando di controllare ogni direzione con lo sguardo e, al contempo, fiutando l'aria proprio come uno di quei segugi che nessuno di loro riusciva a scorgere.
Nathan non sapeva il perché di quel brusco cambio di comportamento, o meglio, poteva immaginarlo, ma dubitava che fosse tutto per colpa dell'apparizione di una dea che, a conti fatti, Cade non aveva neanche mai incontrato.
Per un attimo rimase a fissare il giovane cercando di capir qualcosa che fino a quel momento gli era sfuggito: cosa c'era di strano in Cade il rosso?
Aggrottando le sopracciglia si rese conto di non sapere il suo cognome. Forse glielo aveva detto quando si era presentato, così come aveva fatto Elizabeth, o forse no. Nathan non lo ricordava, assolutamente, e si maledì per questo. I suoi fratelli avevano avuto ragione da vendere, quando qualcuno non gli interessava troppo non prestava la minima attenzione a nulla che lo riguardasse.
Ma anche qui si annidava una mezza bugia: in verità Cade lo interessava, lo interessava eccome. C'era qualcosa che non quadrava in quel ragazzo, oltre al fatto che fosse più grande di lui ma non lo sembrasse minimamente. La cosa principale che l'aveva infastidito, fin dall'inizio, era il suo comportamento sfrontato e spigliato con tutti, aveva superato la fila, fatto lo splendido e sicuramente se non si fosse andato a schiantare contro Eliza avrebbe superato anche la guardia imperiale. E questo era comunque normale, al campo c'erano centinaia di grandi eroi che si erano comportati così, da gradassi, lui stesso l'aveva fatto e ricordava benissimo la quantità di volte in cui i suoi fratelli avevano riso della cosa e i suoi amici l'avevano guardato senza speranze.
Il problema quindi non era il suo carattere di merda, anche lui ne aveva uno altrettanto di merda, il problema era quel cazzo di comportamento al limite del bipolarismo che si portava dietro: era un eliseo ma aveva scheletri nell'armadio degni di un dannato; era dalla parte giusta ma le Praterie influivano troppo su di lui. Si scordava le cose essenziali, ricordava le stupide. Lo insultava pesantemente e lo prendeva in giro con leggerezza. Lo accusa di essere un invasore senza pietà e poi lo chiamava amico. Non si preoccupava di nulla e poi proteggeva quel ragazzino come se fosse sangue del suo sangue. Rideva e scherzava, raggiante come il sole, e poi diventava freddo come il ghiaccio.
Chi cazzo era quel dannato rosso?

« Ehi? Ti senti bene?»

Il soldato abbassò lo sguardo sul suo interlocutore e si ritrovò faccia a faccia con il bambino.
Okay, probabilmente se a sedici anni avessero chiamato lui “bambino” gli avrebbe spaccato la faccia a suon di pugni, ma tanto il bambino non poteva sapere come lo chiamava nella sua testa, quindi andava tutto bene.
Jonas lo fissava con un sopracciglio alzato, il volto abbastanza rilassato e lo sguardo curioso. I suoi occhi erano azzurri, limpidi, un qualcosa che Nathan avrebbe associato alla purezza e all'innocenza, così come i suoi capelli chiari e la sua pelle pallida, se solo non avesse avuto quei vestiti sporchi e logori addosso, se solo non ci fosse stato un collare di filo spinato ad ornargli il collo.
Cosa aveva fatto Jonas Friedrich per meritarsi i Campi di Pena?
Ancora una volta Nathan si disse che non avrebbe stentato a credere che fosse finito lì per colpa delle sue azioni, era cresciuto al Campo Mezzosangue, sapeva che ragazzini della sua età, o anche più piccoli, erano in grado di uccidere senza pietà e senza rimorso. Che Jonas avesse ucciso la persona sbagliata? Che fosse caduto vittima di avidità, ira, risentimento, invidia?
Nathan nella morte, così come nella vita, aveva un poco di decenza e di amor proprio, così come aveva avuto una buona educazione e lo scappellotto che Eliza gli aveva rifilato poco prima sarebbe stato il medesimo che gli avrebbe rifilato sua madre se, in quel momento, se ne fosse uscito con una domanda del tutto a cazzo e poco delicata come: che hai fatto per finire all'inferno?
Non dubitava che ci fosse una buona motivazione, solo che Jonas non gliela ispirava proprio.

E mi da al cazzo il fatto che forse il rosso già lo sa e che magari il ragazzino neanche glielo ha dovuto dire. O magari ancora non lo sa ma di certo lo capirà prima di me.
Roscio di merda.

« Stavo aspettando che arrivasse qualche battuta del cazzo da parte dello schizzato, lì, ma a quanto pare è ancora nel suo mondo.» indicò con il pollice Cade e vide Jonas annuire cupo.
« Lo hai notato anche tu allora.» disse sfregandosi i polsi. Le dita fini strinsero quella minuscola circonferenza per poi scivolare oltre il bordo slabbrato di un bracciale di stoffa. L'indice ed il medio si tesero allontanando il cordone dalla pelle tesa e cadaverica, muovendolo a destra e sinistra per poi serrarlo nella stretta delle dita.
Nathan rimase a fissare quel movimento come ipnotizzato, al polso fine del ragazzo si sovrappose quello ancora più fine di un ricordo fantasma, dita piccole e morbide, unghie fini e taglienti, tenute corte e pulite.
Un tepore lontano lo riscosse, gli occhi azzurri di Jonas, che cercava inutilmente di non mostrarsi troppo preoccupato per il comportamento dell'unica persona che si era mostrata gentile e pronta ad aiutarlo in ogni momento, la sua voce ferma ma leggermente graffiante… tutto gli ricordò anni passati, qualcuno che gli diceva di andare, che loro se la sarebbero cavata, di non preoccuparsi.
Era un formicolio che non riuscì a fermare, un'innocente richiesta del suo stesso cervello a cui non riuscì a dir di no.
Con lentezza, la stessa che si usa con un animale selvatico, Nathan alzò la mano e la posò sulla testa di Jonas, prendendolo del tutto di sorpresa e facendolo saltare sul posto.
Gli enormi occhi chiari del ragazzo lo fissavano sorpreso, la postura delle sue spalle era tesa e Nathan quasi si sentì in dovere di giustificarsi, di scusarsi, di spiegargli il perché di quel gesto così gentile e così poco da lui. Ma non poteva farlo, non poteva dirgli niente senza esporsi troppo. Eppure ne aveva avuto così tanto bisogno.

 

« Va tutto bene, non ti preoccupare. Andrà tutto bene, ci sono io ora.»

 

« Va tutto bene.» si ritrovò a dire con voce rauca, sentiva la gola secca e fu costretto a deglutire un paio di volte, messo sotto pressione dallo sguardo gelato del biondo.

Mi dispiace, so che potrebbe darti fastidio, so che sicuramente lo fa, che va bene se Cade ti tocca o ti consola ma non se lo faccio io, che non sono la persona giusta. Mi dispiace.

 

« Sssh, su non piangere. Mi dispiace, non so come si fa, devo ancora imparare. Ssh, mi dispiace, non voglio darti fastidio, voglio solo aiutarti. Lo so che non sono la persona giusta, ma non fare così… mi dispiace.»

 

Quel groppo gli si strinse ancora di più attorno al torace, facendolo quasi boccheggiare in cerca d'aria.

« Vedrai che non è niente. Cade è strano ma non è debole, avrà solo brutti pensieri per la testa.»
Era sbagliato, il suo intero comportamento lo era. Un attimo prima era il solito Nathan spaccone che insultava il rosso e l'attimo dopo si ritrovava ad ammettere la sua forza solo per far star bene un ragazzino.

Mi dispiace per te, perché sei sicuramente uno dei tanti di noi che non è stato salvato, non in tempo.
Mi dispiace perché probabilmente è la persona meno degna della pace eterna che ti sta facendo provare più di tutti quella stessa pace che mai hai visto.
Mi dispiace perché io sono l'eroe ma non riesco ad esserlo per tutti, a capire fino in fondo.

 

« Che razza di eroe che sono, eh? A quanto pare non riesco a fare tutto. Ci sono alcune cose in cui non sono per nulla eroico.»

 

Una voce in fondo alla sua testa sospirò, facendolo galleggiare in uno stato di stallo, come se stesse osservando quella scena da fuori, come se fosse lui ma non lo fosse davvero.

Non possiamo mai essere gli eroi di tutti.

Soffiò piano la voce. Poi con tono più beffardo:

È il tuo turno? Già cedi? Sei già arrivato al momento del crollo, Nathan Wright?
Mi sorprendi, figlio di Ares, prima ti fai cogliere impreparato dall'edera, tu che dovresti sapere quanto ogni cosa sotto l'influsso divino possa diventar letale. Poi ti fai salvare da una ragazza che non ha mai avuto un addestramento divino degno di questo nome. Ti fai battere dal rosso irlandese che dimentica le cose, che fugge nel labirinto ma ne esce prima di te, ne esce con un ragazzino spaventato che cerca di mostrarsi coraggioso. Ora, alla terza prova, crolli. E per cosa? È il suo sguardo che ti ha fatto cadere?

Nathan scosse la testa, la mano ancora ferma sul capo albino dell'altra anima, congelata, senza saper cosa fare. Perché era ovvio che se ci fosse stato Cade al suo posto Jonas si sarebbe lasciato scompigliare un po' i capelli ma poi si sarebbe ritratto infastidito, lamentandosi con il compagno e dicendogli di non rompere le palle, ma con lui… Nathan aveva capito che il ragazzino aveva problemi con le figure autorevoli, con l'autorità in generale forse, e che lui doveva ricordargli qualche insegnante, qualche figura di potere del suo passato e- la cosa lo infastidiva così tanto. Perché lo infastidiva così tanto?

Perché non sei l'eroe di tutti. Perché non tutti i bambini ti guardano con ammirazione. Perché ci sono ragazze che non sanno nulla del vostro mondo ma non ti trattano come l'eroe che eri, ci sono ragazzi che non fanno altro che tenerti testa. Non sei più il grande leader, vero?

Jonas incassò leggermente la testa nelle spalle ed uno scintillio attirò l'attenzione di Nathan.
La nebbia che l'aveva avvolto fino a quel momento svanì, ritornò di prepotenza nel suo corpo e la voce lontana, bassa e roca che gli aveva parlato dal fondo della sua coscienza fino a quel momento, produsse un suono sinistro che Nathan non poté far a meno di associare ad un ghigno sprezzante.

Qualunque cosa volesse quella voce da lui, l'aveva appena ottenuta.
 

Cos'è che ti fa crollare? Il fatto che tu non sia più l'eroe che sei stato? Il leader a cui tutti hanno sempre guardato? Crolli perché c'è chi non si fida di te ma di qualcuno che nasconde palesemente troppi demoni? È il suo sguardo che ti fa cedere, Nathan Wright?

O il tuo stesso riflesso?

Come uno schiaffo in pieno volto Nathan si ritrovò scosso nelle membra fredde e morte. I suoi occhi azzurri puntati dritti verso il girocollo di Jonas.
Perché un'anima dannata aveva un monile del genere? Così lucido, levigato, così perfetto e scintillante? Sembrava quasi-

Un dono divino.

O una condanna?
 

« T- ti senti bene?»
Jonas si sentiva rigido oltre ogni limite, il suo collo cominciava a dolere e quella mano, posta con delicatezza sulla sua testa, come la carezza impaccata di un uomo che non sa come dimostrare affetto, lo faceva sentire ancora più imbarazzato e inadeguato.
Per la gente normale quello era un gesto da niente, no? Perché a lui dava così fastidio? Perché ogni contatto umano lo innervosiva fino a farlo tendere come una corda di violino? Aveva quasi paura che il solo essere sfiorato avrebbe potuto far capire di sé tutto quello che le persone non dovevano sapere.
Nathan parve però riscuotersi, battendo le palpebre come se si fosse improvvisamente svegliato da un sortilegio e solo allora Jonas si rese conto che teneva lo sguardo puntato dritto sul suo collo. Sulla sua vecchia catena.
Istintivamente si portò una mano sul collare, bloccando parte di quei riflessi che le luci bluastre dell'Ade lanciavano sulla superficie lucida.
Il soldato annuì, sentì la sua mano contrarsi leggermente come se stesse lottando tra lo scompigliargli i capelli e il lasciarlo in pace. Apparentemente vinse la seconda.

« Sì, tutto bene. Il rosso avrà solo pensieri suoi, non ti preoccupare. Tra poco tornerà a scassare il cazzo come al solito.»

Jonas annuì, ancora bloccato in quello stato di stallo che l'aveva colto al tocco dell'altro.
Era stato lui, ne era certo, Nathan si era comportato in quel modo così strano e non da lui per colpa sua, del suo collare, del suo potere.
Retaggio divino, no?
Se ne stava rendendo conto poco a poco, ad esser onesti non c'aveva fatto subito caso, ma effettivamente gli capitava sempre più spesso di vedere cose, di sentire voci, suoni, sensazioni, profumi, che non esistevano, non in quel momento, non per gli altri.
Che non fosse una persona come le altre Jonas l'aveva sempre saputo, c'era una sottile e perpetua coscienza di sé che differiva da quella conscia che ogni essere aveva, un istinto che gli suggeriva che c'era di più, che c'era sempre stato, che lui lo era, ma che non tutti potevano vederlo. Non avrebbe mai creduto, in vita, di essere un semidio. Certo: aveva delle doti speciali, era iperattivo, la sua mente viaggiava a velocità diverse rispetto al suo corpo, all'adrenalina che gli scorreva nelle vene, ai suoi riflessi; gli era capitato di veder testi in greco e gli era parso anche di capirli meglio di quelli in latino, malgrado li studiasse, di scorgere figure e esseri che non potevano esistere e che lui, solo per una frazione di secondo, riusciva a vedere in quel piano terrestre. Ma mai, mai per nulla al mondo avrebbe immaginato di essere un semidio. Di essere in grado di scatenare quelle visioni, quelle sensazioni. Di avere un potere che nessun altro possedeva se non un ignoto genitore divino che l'aveva messo al mondo con la stessa facilità ed incoscienza con cui si getta il seme di un frutto a terra dopo averlo trovato nella polpa succosa.
E mai, più di ogni altra cosa, avrebbe immaginato di poter influire a quel modo sulle anime che lo circondavano.
Ricominciando a torcesi le mani, Jonas si domandò se per caso anche il cambiamento d'umore di Cade non fosse dovuto a ciò che aveva visto, a quel ricordo lontano anni, decenni, secoli, che magari aveva riacceso nell'irlandese un antico rimorso, un rancore mai sopito verso la Dea.
Forse però si stava dando troppa importanza, forse in realtà a Cade giravano solo strani pensieri per la mente fantasma e Nathan aveva solo provato a fare la persona adulta della situazione che rassicura il ragazzino per poi rendersi conto che quel ragazzino aveva visto la luce prima ancora che lui venisse al mondo. Allora il soldato si sarebbe sentito imbarazzato, stava all'atto pratico carezzando la testa ad uno che sarebbe potuto essere suo padre e quindi non aveva più saputo cosa fare. L'occhio gli era caduto sul dannato collare e poi, al movimento della sua mano, si era ripreso e si era scostato tornando il solito di sempre.

Il mondo non gira attorno a te, Jonas, non è che tutto quello che succede è sempre colpa tua, lo hai scatenato tu o lo hai fatto tu. Non essere egocentrico, dannazione!

Ugh. Cominciava anche a parlare da solo? Magnifico, tanto era già morto, perché non cominciare anche ad avere problemi mentali? Così, giusto per non farsi mancare nulla.
Con un grugnito infastidito, maledicendosi da solo ed insultandosi per i film mentali che si faceva ogni volta, per come si complicava sempre la vita e si incartasse nei suoi stessi pensieri, Jonas incassò la testa tra le spalle, infilò a forza le mani in tasca e, con un broncio decisamente infantile che per fortuna non poteva vedersi, s'incamminò a passo pesante verso i suoi compagni, senza rendersi conto di essersi diretto proprio verso Cade.

 

 

*

 

Di tutte le dannatissime cose che potevano capitargli in quella cazzo di gara, dei fottutissimi cani infuocati erano sicuramente gli ultimi che avrebbe scelto.
Bestie di Satana, o di Ade, con zanne enormi e affilate, zampe gigantesche e artigli mortiferi che, non contenti della loro più che consistente massa muscolare, erano anche avvolti dal fuoco.
E che cazzo.
Se Eliza fosse stata in grado di sentire i suoi pensieri probabilmente avrebbe marciato indietro solo per picchiarlo, o per prenderlo a schiaffi sulla nuca come faceva con Nathan. Oh, e il biondastro si sarebbe reso conto che non era il solo in grado di sputar fuori volgarità di ogni tipo. Lui era stato un soldatino fedele al suo governo, immerso nei ranghi e nella spiccia brutalità dell'esercito, ma Cade era sempre nato nei bassifondi di Dublino, era cresciuto tra le strade sterrate dei vicoli, corso lungo le rive fangose del fiume e lavorato nei porti. Se non aveva lui la dizione perfetta di uno scaricatore non ce l'aveva nessuno.
Come se i dannatissimi cani non fossero bastati, poi, ci s'era messo anche quel teatrino del cazzo che avevano acchitato gli Dei per annunciare la prossima gara. Uno stronzo che dal nulla proclama le magnifiche gioie di una gara mortale tra morti, con tanto di possibilità di voto o quel che cazzo era, felice come se stesse gridando ai quattro venti la fine di una guerra. E come ciliegina sulla torta, ci si metteva quella mocciosa alta un metro e una mela che non faceva altro che ricordargli brutte cose e persone perse.
Che accoppiata di merda. Si poteva dire accoppiata se erano più di due le cose che ti infastidivano? Non lo sapeva con precisione, diamine, non era neanche mai andato a scuola, ma questo non cambiava il fatto che non gliene importasse di meno.
Con un gesto secco calcò di più le mani nelle tasche, stringendo il palmo ancora insanguinato e aperto attorno al coltellino da intaglio. Sentiva il bisogno di prendere a pungi qualcuno, di sfogare la sua frustrazione su un oggetto materiale e poco gli importava che fosse vivo, morto, umano o mostruoso. Se solo avesse potuto prendere a calci quel dannati mastini, farci un vero e proprio combattimento… e in vece no, neanche questo, quella stronza non gli aveva dato neanche la possibilità di accanirsi contro un mostro.
La verità era che stava per esplodere ed erano solo alla terza prova, gliene mancavano dieci per l'amore del cielo e di tutti quelli che ci stavano dentro. Gliene mancavano dieci e lui si era lasciato innervosire all'inverosimile già alla terza.
Aveva accumulato troppo, con tutta probabilità, prima la passeggiata nel nulla, tutti quei ricordi che si accavallavano, che sbiadivano, voci che diventavano sempre più lontane. Poi il labirinto, che se non avesse avuto un cono di luce costantemente puntato addosso avrebbe dato di matto non appena entrato tra quelle mura. Il fatto che l'avevano costretto a lasciare le sue armi, che non avesse più nulla di materiale con cui difendersi… non gli importava neanche molto dei guanti, li aveva trovati un giorno di tanti anni prima, durante una delle sue piccole escursioni. A pensarci adesso si domandò se non fosse stato proprio quel suo genitore divino o qualcuno della sua razza a lasciarli in quella stanza per lui, a farglieli trovare.

Lo ricordava più che bene, il rumore delle assi di legno che proveniva dal piano inferiore della locanda, i tacchi degli stivali dei soldati che battevano, che calcavano quel suolo come se gli fosse appartenuto. Ricordava il ciottolio delle stoviglie e gli schiamazzi, le grida degli avventori e gli squittii delle cameriere. Ricordava anche la porta da cui era entrato, la terza dopo le scale, quella con la serratura graffiata da anni e anni di occupanti ubriachi di ritorno da una serata di baldoria.
I guanti ramati, che ora sapeva essere di bronzo celeste, si trovavano in una sacca, vicino a quella dei vestiti dello stronzo che aveva preso a calci Niall.
Da quel vecchio e sporco pezzo di stoffa grezza proveniva un calore particolare, come se dentro vi stesse bruciando qualcosa, ma Cade al tempo non aveva un brutto rapporto con cose del genere e non c'aveva pensato troppo ad aprire la sacca e sbirciarci dentro.
Vi aveva trovato dei guanti, quegli stessi guanti in maglia di metallo, così simili a quelli delle vecchie armature, che ora pendevano dalla cinta di Jonas.
Cade gli lanciò uno sguardo. La prima volta che li aveva visti erano sporchi di terra e forse anche di sangue, brillavano fiocamente di una strana luce azzurrognola, della stessa intensità di una lucciola, malgrado sembrassero in tutto e per tutto dei normalissimi, anche se costosi, guanti in bronzo.
Allora li aveva presi senza farsi troppe domande, attirato dalla loro aura come lo sarebbe stata una falena con una candela, inconsciamente consapevole di aver un legame con quell'oggetto, che in un modo o nell'altro venivano entrambi dallo stesso luogo.
Gli erano serviti più di una volta, avrebbe mentito dicendo il contrario e non ne aveva motivo, non a sé stesso. Aveva imparato a sue spese che non funzionavano su tutti, che se prendeva a pugni qualcuno con quei cosi al massimo non si scorticava le nocche ma comunque colpiva solo con la pura forza delle sue mani.
Malgrado ciò, malgrado avesse difeso i suoi amici da mostri che lui vedeva da una vita e che loro vedevano per la prima volta, malgrado gli avessero permesso di proteggere chi amava anche quando credeva che tutto fosse finito, quei guanti per lui non avevano lo stesso valore del coltellino o del cerchio di metallo che teneva nella sua sacca assieme a qualche bottiglia.
Averli lasciati all'entrata di quell'inferno di edera non lo aveva toccato tanto quanto ritrovare un ragazzino di appena sedici anni steso a terra, immobile, con gli occhi chiusi, in attesa di un'altra imminente fine.
Era stato un colpo al cuore, forse uno dei più terribili che aveva dovuto sopportare fino a quel momento. Gli aveva ricordato cose del suo passato che non avrebbe mai voluto rivedere. Gli avevano ricordato quelle maledette quattro giornate che gli avevano strappato la vita, la speranza, la famiglia e la libertà.
Se chiudeva gli occhi e si concentrava un poco poteva ancora sentire i rumori delle suole di cuoio dei soldati Inglesi che marciavano per le strade, poteva ricordare il suono dei colpi dei fucili, le porte buttate giù a calci, le grida terrorizzate delle persone, donne, bambini, uomini… aveva imparato che la paura era di tutti, che non c'entrava nulla l'esser un vero uomo o un fifone, vedersi potar via la propria famiglia, i proprio figli, vederseli riconsegnati cadaveri, era devastante per tutti, lo era sempre stato e sempre avrebbe continuato ad esserlo.
Poteva annusare l'odore della polvere da sparo, quello delle case in fiamme, i brividi che gli schiocchi del legno gli davano. Sentiva l'odore del sangue e quello della pioggia che cadeva copiosa dal cielo.
C'era un vago ricordo, un ragazzo della sua età, i capelli scuri e lo sguardo malinconico, di chi sa che sta andando a trovare la sua fine. Guardava verso l'alto, al riparo sotto una tettoia mal ridotta, mezzo fradicio e sporco di terra. Sente un sospiro, poi la voce lontana di quel ragazzo:

 

« Guarda, piove così tanto che pare che il cielo voglia cancellare dalla faccia della terra tutte le atrocità che vi vengono compiute. Piange anche lui, Cade, se c'è qualcuno lassù sta piangendo assieme a tutti noi sui corpi dei nostri fratelli.»

 

Era suo amico. Era uno dei suoi più cari amici. Cade non ne ricorda il nome. Il volto, i capelli corti e scuri, la pelle cotta dal sole, piena di macchie, di cicatrici. Gli occhi sa per certo fossero di una sfumatura calda, accogliente. Era bello tornare alla casa base dopo una giornata di lavoro e trovare il suo sguardo gentile ad accoglierti, a chiederti se stessi bene prima ancora di chiederti se fossi riuscito o meno nel tuo compito. Si preoccupava sempre prima delle persone. Prima i Liberty e poi la missione del giorno. Prima la famiglia e poi tutto il resto.
Era uno dei suoi più cari amici, Cade lo sa, lo sente nelle vene asciutte e sotto la pelle fredda e morta. Sa che lo ha amato come ha amato tutti i suoi fratelli. Sa che probabilmente è stato lui a soccorrerlo, perché erano assieme quella mattina. Cade lo sa, sa che avrà fatto tutto ciò che era in suo potere per salvarlo. Sa che avrà resistito fino a quando il suo cuore non aveva cessato di battere prima di abbassare la testa e piangere. Sa che anche lui lo amava, che lo reputava suo fratello, che lo reputava parte della sua famiglia, sia di quella che si era scelto che di quella che gli aveva imposto il fato, che era allo stesso livello dei suoi veri fratelli così come lo era per lui.
Cade lo sa, ma non riesce a ricordarsi il suo nome.
Quello che ignora è se il suo amico sia sopravvissuto alla rivolta o sia caduto come lui, se ad un certo punto, sulle strade sporche, c'era stato anche il suo di corpo, travolto dalla carica dei soldati, dalla corsa di una carrozza. Sperava vivamente di no.
Lì nell'Ade tutto si mischiava, tutto sfumava. Nel labirinto il buio, il percorso intricato, peggiorava solo la situazione. Certo, Cade aveva un asso nella manica, ne aveva più di uno a dire il vero, ma la fortuna, la magnifica fortuna irlandese, non l'aveva mai aiutato molto se non per le cose più stupide e superficiali, e sapeva per certo che non l'avrebbe aiutato a vincere quella gare.

Qui si fa sul serio, qui devo vincere io, volerlo io. Cadere e rialzarmi, rimanere in piedi anche se mi pugnalano alle spalle.

Poteva farlo, aveva abbastanza volontà e fiducia in sé per riuscirci. Cazzo, ne aveva anche troppa di fiducia in sé stesso! Ma con la fiducia si affrontano solo situazioni da cui prima si sarebbe scappati, con la fiducia non salvi le persone, devi saperlo fare di tuo. Cade ne era capace, dopotutto.
Quando nel labirinto aveva visto Jonas a terra, pronto alla morte, incapace di rialzarsi e rimettersi a combattere, Cade aveva visto il suo amico. Aveva visto Niall, Ion e Laughlin, Gofrahyd, suo fratello Dioman, i gemelli Chataoir e Aengus. Aveva visto Esti e Feme, Riona, Agnes, Aoife, Briana, Roisi e Roisin, che s'arrabbiavano tanto quando la gente sbagliava a chiamarle e loro altri ci si divertivano così tanto a farlo apposta.
Per un terribile momento aveva visto sua sorella. Il suo popolo riverso per le strade.
Questo, questo probabilmente era quello che l'aveva colpito più duramente di quelle due prove, quello che l'aveva fatto vacillare e credere che la storia si sarebbe ripetuta ancora.
Ma si era dovuto rimboccare le maniche, cacciare in profondità i pensieri negativi e i ricordi dolorosi, proprio come faceva in vita, proprio come gli aveva insegnato sua madre.

 

« Sorridi sempre, tesoro mio. Sorridi e non far vedere agli altri quanto ti abbiano fatto male. La gente gode del dolore che provoca agli altri, ma se tu sarai abbastanza forte da stringere i denti, da rialzarti ancora una volta, toglierai loro tutto il potere. »

 

Cadi, soffri e perdi, lascia che i tuoi amici vedano ciò che stai provando ma fa in modo che capiscano che puoi risollevarti da tutto.
Sorridi e sii positivo, non c'è nulla che non si possa risolvere, non c'è nessuna situazione che non si possa volgere a tuo favore.

 

Cade strinse i denti. Doveva solo chiudere tutti quei pensieri in un angolo scuro della sua mente, non ci doveva pensare, doveva continuare a cercare, trovare e vedere il lato positivo.
 

Anche quando piove a Dublino, la città sembra confondersi con il cielo grigio, l'umidità ti entra nelle ossa e ogni passo che fai è come affondare nel fango, puoi trovare qualcosa di bello. Devi solo ricordati quanto è divertente correre sotto la pioggia e saltare nelle pozzanghere.

 

Quindi ora doveva concentrarsi su quello: cosa c'era di bello nello stare chiusi in una gigantesca prateria bruciacchiata e fumante, senza un solo punto per nascondersi o arrampicarsi, con tante di quelle anime che neanche poteva contare e con dei cazzo di mastini in fiamme pronti a sbranarti?
Oh, perché Cade questa cosa l'aveva notata, loro i dannati cani non potevano ferirli, ma mica ai cani era vietato ferire, sbranare, mutilare o eliminare per sempre loro.

« Maledetti cani.»
Con una smorfia infastidita in volto l'irlandese lanciò uno sguardo al suo assolutamente mal assortito gruppetto.
Nathan se ne stava tutto imbronciato come un bambino a fissar male il nulla.
La ragazza delle praterie si guardava attorno con noncuranza, come se non gliene fregasse nulla di possibili mastini infuocati pronti a saltar fuori dal nulla e mangiarsela.
Il piccolo Jonas, dalla posa curva della sua schiena e dalla testa incassata nelle spalle, come minimo doveva essersi di nuovo perso in qualche turba mentale delle sue. Alle brutte sapeva che un pugno in pancia risolveva tutto, doveva solo tenerlo d'occhio e intervenire subito se necessario.
L'unica che, come sempre, sembrava perfettamente presente a sé stessa e concentrata era Elizabeth e per una volta che Cade non aveva né voglia di discutere con qualcuno né di rispondere a battutine del cazzo, la soldatessa sembrava proprio far al caso suo, di certo, ragionare un minimo sulla prova l'avrebbe aiutato a non pensare ad una vita che non gli apparteneva più.

 

« Vedi nulla, Elza?» Il nome sbagliato gli scivolò fuori dalla bocca senza neanche rendersene conto.
Eliza si voltò di scatto verso di lui, pronta rimproverarlo per l'ennesima volta, ma non appena lo guardò in volto la sua espressione mutò.
C'era qualcosa di molto simile alla preoccupazioni nelle iridi verdi della donna, qualcosa che Cade cercò inutilmente di ignorare.
« Pensi che pos- »
« Che hai? » chiese lei stroncandolo sul nascere.
Cade si strinse nelle spalle. «Non so di cosa tu stia parlando, Elza, ma- »
« Non prendermi in giro. Non sono stupida, ti vedo. Hai qualcosa che non va, non fai le tue solite battute stupide, non provochi Nathan e non stai importunando Joans. Cosa ti prende?»
Il rosso sbuffò irritato. « Fammi capire: quando faccio tutta quella roba mi rimproveri perché la faccio e quando non la faccio mi rimproveri perché non al faccio?»
Anche la donna sbuffò, ma il suo parve più un grugnito infastidito che altro. « Di solito ti “sgrido” perché i tuoi comportamenti non sono consoni né per l'ambiante in cui ci troviamo- »
« Cazzo, l'inferno ha delle regole di bon-ton? Devo essermi perso l'editto!»
« - sia perché ti deconcentri tu e deconcentri gli altri. Ma è il tuo carattere e in queste ore, o giorni, che abbiamo passato assieme me ne sono fatta una ragione.»
Cade alzò un sopracciglio, scettico, senza dir nulla. Eliza grugnì ancora.
« All'incirca.»
« Ecco, sii sincera.»
« Io lo sono sempre. Per questo ti chiedo per l'ennesima volta: cosa c'è che non va? Non saremo amici per la pelle e cose del genere, ma ti assicuro che puoi fidarti di me.»
Lo sguardo smeraldino della giovane donna si fermò dritto e sicuro negli occhi solitamente vispi dell'altro.
Avevano una sfumatura quasi simile, forse quelli di Eliza erano giusto un po' più scuri. Cade li fissò di rimando e poi distolse l'attenzione. Se l'avesse guardata negli occhi aveva quasi la sensazione che la figlia di Nike avrebbe potuto leggergli l'anima.
« Allineamento di eventi di merda. Contenta?»
« Modera il linguaggio. » l'ammonì subito. «Ma sì, contenta. C'è qualcosa che possiamo fare per cambiare la situazione?»
Quella domanda arrivò completamente inaspettata. Cade non poté far a meno di tornare a guardarla con gli occhi sgranati, l'espressione sorpresa che fece sogghignare Elizabeth con fare canzonatorio.
« Che c'è? Solo tu puoi andare in soccorso della gente e aiutarla a star meglio? Da quel che mi risulta siamo una squadra, attualmente, e per quanto ne so in questi casi ci si aiuta a vicenda. »
Contro la sua volontà e senza provare minimamente a nasconderlo, Cade sorrise di rimando alla compagna, passandosi la mano sana sulle labbra, come se se le stesse pulendo da quel velo di malinconia e rabbia che l'aveva avvolto fino a quel momento.
« Sei una donna piena di sorprese, Elizabeth.»disse con voce più sicura.
La stessa scintilla di sorpresa che prima aveva animato il rosso saettò veloce nelle iridi lucide della mora.
Sogghignò ancora. « E non hai ancora visto nulla, Grifone.»

 

 

*

 

Doveva ammettere che quella strana tensione che s'era andata a formare tra i membri di quella mal assortita combriccola la stava vagamente infastidendo, nonostante quello che aveva pensato in precedenza.
Il problema non era il rosso che non parlava con il ragazzino o non faceva battute di cattivo gusto al soldato, o Eliza che non li riprendeva e li divideva malamente – era da poco che stava con tutti loro assieme e già aveva capito l'andazzo generale, magnifico – ma quella sorta di cupa aura che aveva avvolto le coppie mischiate.
Il soldato che consolava il ragazzino, gli aveva addirittura messo una mano in testa, e Jane non dubitava che il biondino odiasse il contatto fisico tanto quanto lo odiava lei.
Aveva visto come Nathan avesse cercato di fare l'adulto della situazione senza però riuscirci, per un attimo le aveva ricordato suo padre che, impacciato, cercava di consolare il figlio di un nobil uomo che era inciampato e caduto a terra. Non che suo padre non sapesse farci con i bambini, ma quello era un “signorino”, qualcuno che proveniva da un livello sociale più alto del loro, e il buon vecchio Oliver era pur sempre un uomo del popolo.
C'era stato poi un attimo in cui le era sembrato di vedere un riflesso brillare negli occhi azzurri del figlio di Ares, qualcosa che doveva averlo colpito particolarmente perché poi i due si erano divisi in modo veloce e spiccio.
Ora il bambino se ne stava tutto accartocciato su sé stesso a pensare a Dio solo sapeva cosa e il soldato, similmente, se ne stava tutto impettito dando le spalle a tutti loro.
Dall'altra parte il rosso malpelo era stato di pessimo umore fin quando non aveva parlato con Eliza. Non aveva dubitato neanche per un secondo che la donna sarebbe stata in grado di risolvere velocemente qualunque problema avesse l'altro, ma vederli così complici le aveva dato una fitta di fastidio.

 

Gelosia, Ladybug, credo che sia questa la parola giusta.

 

A sentire quella voce Jane si volse di scatto verso le sue spalle. La conosceva, sapeva a chi apparteneva, anche perché in tutta la sua morte c'era stata una persona sola che l'aveva chiamata in quel modo.
Cercò con lo sguardo l'uomo dal cappotto nero, quello che le aveva dato il biglietto per la gara, quello che lei ancora custodiva gelosamente all'interno della sua camiciola sporca, ma di lui non c'era traccia alcuna.
Si era quasi dimenticata di quell'oscuro figuro che era apparso nel mezzo delle Praterie subito dopo quel flash di luce dorata, che pareva saper tutto e conoscere ogni cosa, ogni risposta giusta. Era stato lui a chiamarla “Ladybug”, coccinella.

Come mi chiamava papà…

Quel pensiero la congelò sul posto: come poteva, l'uomo in nero, sapere qualcosa che lei stessa credeva di aver dimenticato?
Per tutta la durata di quel loro breve scambio di opinioni Jane aveva avuto l'impressione di parlare con un essere del tutto differente da lei. Non avrebbe potuto dire con certezza che fosse un Dio o un semidio o un'altra delle strane creature partorite dalla mente contorta delle divinità, ma ciò di cui era stata certa fin da subito era la sua potenza. L'aveva avvertito, sentito sottopelle come la scossa che prendeva di tanto in tanto quando toccava del metallo: al tempo la suora superiora le diceva di stare in guardia e farsi subito il segno della croce perché quel dolore, come la puntura di tanti aghi, era il diavolo che cercava di ferirti. Ora Jane sapeva che non era così, sapeva che nessun diavolo voleva rubarle l'anima anche perché tutte, nessuna esclusa, finivano dirette all'inferno. Non c'erano paradiso e purgatorio, c'era solo l'oblio oscuro dell'Ade e anche se qualcuno poteva dirsi fortunato, vivendo quell'eterna vita da fantasma nei Campi Elisi, tutti loro erano costretti sotto il medesimo cielo di terra, rocce e radici secche.
Non c'era poi così tanto bel vedere all'altro mondo, neanche per i beati.
Jane aveva preso in considerazione che quell'uomo fosse un'anima potente, morta nella gloria e quindi libera di girare l'Ade come più gli pareva, aveva anche i biglietti per la Death Race con sé, doveva aver un qualche ruolo di spicco o per lo meno essere abbastanza affidabile agli occhi degli Dei affinché gli dessero un compito così delicato come reclutare concorrenti nell'unico posto in cui nessuno ricordava neanche d'esser morto. Era poi altrettanto sicura che nessun Dio si sarebbe sporcato le mani addentrandosi nella foschia solo per staccar un biglietto. Forse ci sarebbe stata una divinità nei Campi di Pena, ma da dove veniva lei proprio no.
Ma allora, cosa ci faceva quell'uomo lì? E cosa ci faceva ora nella sua testa?
Credeva di averlo sentito parlare ma di lui non c'era traccia, quindi doveva per forza esserselo immaginato. O magari, proprio come aveva pensato, l'uomo nero era nella sua testa.
Con una smorfia tesa Jane fece un giro su sé stessa, osservando con attenzione tutto ciò che la circondava. Non voleva avere qualcuno che giocava con la sua mente, non voleva aver nessuno a sussurrarle nell'orecchio come gli spiriti maligni tentatori da cui veniva sempre messa in guardia.

 

« Le streghe entrando di notte nelle case non protette, si avvicinano ai letti delle giovani e cominciano a sussurrare e bisbigliare malefici, seminare pensieri oscuri, impuri. La loro lingua è lunga e viscida come quella dei serpenti e te la infilano nelle orecchie per riempirle della loro voce velenosa. Ti entrano nella testa e poi, senza che te ne rendi conto, ti dicono cosa fare, ti comandano, ti costringono a far cose brutte e alla fine il tuo corpo non è più tuo, sei completamente del demonio e l'unico modo per liberarti, per purificarti dal male, sono le fiamme sacre del Signore. Allora per scacciare il diavolo non basta ucciderti e seppellirti, dandoti pace come ogni povera anima, non basta neanche bruciar le spoglie, il diavolo così si salva lo stesso. Per uccidere anche lui bisogna bruciati, bruciarti viva.»

 

Un fischio assordante trapassò la testa di Jane. La ragazza si portò le mani alle orecchie, il padiglione pieno di brividi, pieno di quell'assurda ed inesistente sensazione di qualcosa di viscido e bagnato che le scivolava attorno alla conchiglia, dentro nel timpano, nel cervello.
Membra invisibili si avvolsero attorno alle sue gambe, scivolando oltre la gonna, sulle braccia, attorno alla vita e al collo. Era di nuovo dentro al muro d'edera, era di nuovo soffocata, era di nuovo immersa in quella marea di foglie fredde e umidicce che ora si erano trasformate in lingue di serpente e saliva velenosa che le ustionava la pelle. Sentiva l'odore della pelle bruciata, dell'epidermide che si accartocciava, si lacerava scoprendo muscoli e tendini, arrivando alle ossa bianche e secche, trasformandole in carbone fumante.
La terra cominciò a tremare sotto i suoi piedi, un tremolio vago, lo stesso che avrebbe potuto produrre la marcia di un esercito.
Qualcuno, annidato nel fondo della sua testa, le sussurrò di aprire gli occhi e di guardarsi attorno, di tornare attenta.
La strega che giocava con la sua mente – il diavolola costrinse a spalancar le palpebre e rendersi conto che nulla di ciò che sentiva stava succedendo davvero, che anche se sua madre e tutta la sua stirpe poteva vedere cose che gli altri neanche immaginavano, premonizioni, visioni di un futuro che forse mai si sarebbe realizzato davvero, non era quello il caso.
Ma la terra sotto i suoi piedi continuava a tremare anche mentre la ragazza riprendeva lentamente coscienza di sé, contatto con una realtà che per i vivi non era tale. Battendo le palpebre Jane cercò di uscire da quello stato di sonnolenza e di confusione in cui era caduta, guardando senza vederli davvero i minuscoli sassolini della prateria brulla vibrare.
Cercò con lo sguardo i suoi compagno di disavventura, trovando Nathan intento a scrutare l'orizzonte nella direzione opposta alla sua , Eliza parlare probabilmente di strategia con Cade, di fianco a loro Jonas annuiva di tanto in tanto e poneva qualche domanda. Fu proprio il ragazzino a ricambiare il suo sguardo, forse sentendosi osservato.
Gli occhi azzurri di Jonas si sposarono da lei alle sue spalle, sgranandosi forse per lo stupore, più probabilmente per il terrore.
Jans si volse con lentezza, sulla linea vaga della steppa si alzava in lontananza un denso fumo nero. Il tremolio si intensificò, ora i sassi saltavano sulla terra secca e crepata, andando ad aprire tutto un nuovo dedalo di spaccature e fratture friabili come sabbia.
Un suono acuto e persistente si fece avanti tra le nubi fitte, il latrato di un animale, di un branco intero. Tutte le anime davanti a loro cominciarono ad indietreggiare, spinte da quelle ancora più avanti che urlando cercavano di scappare il più lontano possibile dalla carica spietata di una marea di teschi bianchi infuocati.

A quanto pare non sarebbero dovuti andare a cercarli, alla fine.

Con voce atona, per una volta non per disinteresse ma spezzata dal panico che galoppava furioso nel suo petto come quei mostruosi esseri, Jane non riuscì a tener le labbra chiuse.

 

« Arrivano i mastini.»

 

*


 

Quando la terra aveva iniziato a tremare Lea aveva temuto che potesse trattarsi di un terremoto, alzando subito lo sguardo verso la volta rocciosa con la paura di vedersi crollare in testa qualche pezzo di superficie.
Chissà se così avrebbe potuto vedere il cielo, chissà quanto in profondità si trovavano in quel momento.
Era durato tutto pochi secondi, un attimo dopo Úranus l'aveva afferrata saldamente per il polso e l'aveva tirata via, cominciando a correre proprio come aveva fatto nel labirinto.
Lea fissava la sua schiena mastodontica senza riuscir a dir nulla. Lei era abbastanza alta, anzi, era decisamente troppo alta per essere una donna, questo era ciò che le avevano sempre detto le suore quando era ancora una bambina di otto anni che svettava sopra quelle di dodici. Glielo aveva detto anche suo fratello, ridendo divertito, che così non sarebbe mai riuscita a trovare marito, non nel loro paese per lo meno, dove la media maschile era sul metro e settantacinque. Se lo ricordava quel tono scherzoso, quel dirgli che avrebbe dovuto imparare una lingua straniera così avrebbe potuto conoscere un uomo alto quanto mano quanto lei.
Giuseppe aveva avuto ragione da vendere: gli uomini oltre le Alpi erano decisamente più alti dei loro compatrioti itallici. Eppure neanche la stazza enorme di Úranus, la sua schiena ampia ed i bicipiti gonfi che si vedevano sotto la vecchia camicia riuscivano a farla sentire più sicura, neanche il sapere che era “bravo con gli animali” riusciva a farla tremare di meno. Il rumore delle zampe artigliate dei mastini infernali le rimbombava nelle orecchie, la scuoteva nel profondo così come la carica di quelle bestie scuoteva la terra.
Il ragazzo la tirava senza posa, cercando di farle mantenere il suo passo, ma lì non c'erano svolte dietro cui nascondersi, non c'erano muri che si spostavano e che aprivano nuove vie di fuga. Davanti a loro c'era solo l'infinità finita dell'Area Cani e centinaia di migliaia di altre anime che correvano spaventate come loro.
Come poteva una cosa così terrificante essere una prova per tornare in vita? Come pretendevano che tutti loro superassero quell'ostacolo immenso?

Non lo fanno infatti, vogliono che il numero dei contendenti cali, vogliono che più anime possibili spariscano.

Con un groppo in gola Lea accelerò il passo, anche contro la volontà dei muscoli freddi che le tiravano nelle cosce. Se fosse stata ancora in vita avrebbe giurato che le si stesse formando tanto di quell'acido lattico che mai aveva avuto in tutta la sua intera esistenza. Ma non era così, non poteva più produrre cose così semplici e banali come dell'acido lattico o del sudore, non potevano più, nessuno di loro.
Allora perché le sembrava di star sentendo più caldo? Che il respiro le mancasse, che i suoi muscoli fossero stanchi? Perché le sembrava di veder un triangolo di sudore allargarsi lentamente tra le scapole di Úranus?
La figlia di Apollo ebbe un brivido di terrore del tutto diverso da quello che l'aveva attanagliata un attimo prima. Non erano più i mastini infernali quelli che la preoccupavano ma il ricordo vago di una conversazione avuta una vita fa. Non quella in cui era viva, in cui il suo sangue scorreva veloce nelle vene; ma quella in cui aveva camminato scalza sull'erba morbida dei Campi Elisi, la vita in cui aveva litigato con un cretino che credeva di saperne più di lei di fiori e che poi non ne conosceva i nomi, quando ogni giorno, o quello che credeva esser tale, raggiungeva le alte mura bianche dove le anime buone e giuste dimoravano e chiedeva ad un saggio ed onorevole uomo dal volto sereno se per caso non fosse arrivato un certo Giuseppe Pozzi. Una vita in cui quello stesso onorevole uomo dagli occhi a mandorla le porgeva uno stilo per firmare un documento, per poi porgerlo al suo compagno.

 

« … Siamo pur sempre delle anime nell'Ade e per contratti così importanti l'inchiostro mortale non basta. I contratti nell'aldilà si firmano con il sangue.»

 

La domanda le sorse spontanea e normale così come non lo era stata a suo tempo: se i contratti nell'Ade si scrivevano con il sangue, loro, che erano morti, con quale avevano scritto?

Con il sangue di chi? Il mio? Ma sono morta, non ne ho più.

Mosse a disagio il polso, aprendo e chiudendo la mano come se improvvisamente la sentisse intorpidita, come se non le arrivasse il giusto afflusso sanguigno. Úranus voltò appena la testa, lanciandole uno sguardo di scuse a allentando la presa quel tanto che bastava per permettere a Lea di non esserne infastidita: non voleva farle male ma era chiaro nella mezza luna di viso che compariva sopra la spalla, tra la barba rossa, che non l'avrebbe lasciata andare del tutto, che non l'avrebbe fatto finché non sarebbero stati al sicuro.
Ma Lea non aveva la minima intenzione di scostarsi, i pensieri che le avevano affollato la mente le avevano messo ansia e inquietudine, le avevano fatto dimenticare per un attimo i mastini e gettata nel dubbio. Ritrasse leggermente il braccio solo per far scivolare la propria mano nella presa sicura di Úranus, aggrappandosi a quel palmo grande e calloso come una vita fa aveva fatto con quello di suo fratello, con la speranza ed in fondo anche la sicurezza che l'altro avrebbe ricambiato la stretta.
Star vicino al ragazzo del nord era una continua altalena: c'erano momenti in cui si sentiva al sicuro, protetta da un muro invalicabile che era la presenza pacata e massiccia del giovane. Altre volte invece la gettava nel panico, nell'oblio di ricordi sbiaditi e rimembranze ormai dimenticate.
Cosa diamine era? Era il potere del suo padre divino? Ma chi?

« Resisti Elena, si stanno già disperdendo. In molti sono stati così folli da affrontarli subito in un faccia a faccia. Dobbiamo solo allontanarci un altro po' e poi riavvicinarci con cautela ad uno di loro.»
La voce di Úranus era affaticata, come se quella corsa sfrenata lo avesse davvero sfiancato, come- esattamente com'era successo nel labirinto.
Stavano faticando. Stavano faticando entrambi, cazzo.
La giovane strinse i denti fino a digrignarli. Non doveva pensarci, doveva concentrarsi su altro, sulla sfida, solo su quello. Doveva entrare nella sua modalità seria e diligente, quella precisa ed efficace che assumeva sempre quando arrivava un paziente in studio e la paura e il timore d'agire doveva esser accantonato, quando aveva imparato che spesso agire anche senza sapere cosa fare di preciso era meglio che rimanere immobile a vedere qualcuno soffrire, morire.
Lucidità: era tutto quello che le serviva in quel momento. Lucidità e concentrazione.

« Lea.» disse solo, allungando la falcata per arrivare al fianco del suo compagno.

 

« Forza Elenù! Usale quelle gambe lunghe! Che ce le hai a fare se poi non corri?»
« La fai facile tu! Sei allenato, cacchio! Io no!»
« Ma tu hai quelle zampe da fenicottero dalla tua! Allungale bene! Corri Elenù!»
« Lea! È Lea!»


 

« Come?» chiese il ragazzo senza fiato.
Elena lo guardò con uno sguardo deciso e sprezzante. « É Lea. Elena non mi piace, mi ci chiamavano le suore dell'orfanotrofio, dicevano che era il nome di una santa e che dovevo esser fiera di portarlo. Quindi, per favore, chiamami solo Lea. »
Úranus continuò a guardarla per un attimo senza sapere cosa dire. Stavano scappando dai mastini infernali e lei pensava al fatto che non volesse farsi chiamare con il suo nome per intero? A ben guardarla e soprattutto a sentire il tono della sua voce, pareva quasi che si fosse fatta forza in un qualche modo. Magari aveva pensato a qualcosa che le aveva dato nuova energia, un po' di fiducia di cui sembrava necessitare moltissimo a tratti. Úranus non lo sapeva ma sinceramente non gli importava neanche troppo, se serviva per farla essere più attiva e presente tutto andava bene.

« Certo, perdonami. » le disse allora.
In tutta risposta Lea gli regalò un sorriso allegro e smagliante, di quelli che gli aveva fatto appena usciti dal malefico labirinto, ed Úranus si sentì quasi confuso da quel repentino cambio di aura.

Figlia di Apollo, bello come il sole, saggio protettore delle arti e della medicina e al tempo stesso spietato arciere, in grado di accecarti fino a bruciarti gli occhi, capace di portare morte e pestilenze.
Duplice faccia così come la sorella Luna.

Decise che non si sarebbe messo a sindacare sulla cosa, a porsi altre inopportune domande. Strinse la presa sulla mano piccola e morbida della ragazza e con uno strattone le fece tagliare la strada ad un paio d'anime mal ridotte che inciamparono sui loro stessi passi e ruzzolarono a terra, le loro grida coperte dallo scalpitio generale.

« Attento!»
« Lasciale stare! Mi spiace per loro ma dobbiamo allontanarci dalla carica principale!»
« Hai qualche idea?»
« Le ali. La parte laterale del branco, lì i mastini dovrebbero già essersi dispersi in parte.»
Lea annuì e cercò di stargli dietro il più possibile, aggrappandosi comunque a lui e facendosi trascinare senza troppe lamentele dalla pura forza bruta dei muscoli del giovane.

 

Úranus schivò altre anime, continuando a tagliar loro la strada come faceva ormai da quasi dieci minuti, cercando di non guardarsi indietro. Gli spiaceva, probabilmente erano solo mortali e non avevano la più pallida idea di come affrontare dei cani infuocati, ma in quel momento non poteva permettersi di pensare ad altri, doveva solo concentrarsi e mettere in pratica quegli insegnamenti così preziosi che suo padre gli aveva donato e che tante volte gli erano stati utili durante la caccia.
La prima regola era “mai affrontare un branco”. Nel fitto del bosco in cui aveva abitato c'erano branchi di lupi, orsi solitari, famiglie intere di cinghiali e anche di cervi, qualche capriolo e tantissimi stormi. Era difficile vivere assieme a tutti quei predatori e quei gruppi così stretti, veloci, forti. Prendere un cervo avrebbe assicurato a lui e sua madre cibo per mesi forse, un cinghiale anche, un capriolo pure, ma oltre alla pericolosità della loro carica, dei loro zoccoli e a quella non insignificante delle zanne dei cinghiali, ciò con cui si doveva combattere era la loro velocità, era lo scatto. Erano gli altri membri del branco che, forti della loro unione, del loro numero, ti caricavano tutti assieme per eliminarti, per eliminare il pericolo.
Con i predatori la cosa era solo peggiore: i lupi ti puntavano, ti aggiravano e poi ti accerchiavano. Mandavano avanti i più forti per sbranarti, per abbatterti e poi, dopo aver preso la loro parte, lasciare i resti al branco.
Úranus era ben consapevole che durante i suoi primi anni di caccia solitaria se non fosse stato per suo padre, per quella mano benevola che teneva sempre sul suo capo, avrebbe incorso fin troppe volte in trappole del genere. Ora non c'era più lui, pronto a comparire in ogni momento di difficoltà, costantemente attento al richiamo di una sua preghiera. Stringendo la mano di Lea come forse aveva fatto solo con quella di sua madre, Úranus cercò di rimanere calmo, di entrare in quello stesso stato mentale in cui scivolava centinaia di anni prima accovacciato dietro ad un albero muschiato, camminando leggero sulle foglie secche e su quel mondo in miniatura che era il suolo ed il sottobosco di una qualsiasi foresta.

Mai affrontare il branco, mai tutto assieme, dividi et impera.

Scartò velocemente a sinistra, adocchiando una zona più libera, dove solo pochi mastini camminavano quieti o ringhiavano alle loro prede. C'erano dei corpi a terra ma il giovane si impose di non guardarli: erano anime, non potevano averli dilaniati e se anche fosse stato lui non doveva vederli, non doveva uscire dalla sua modalità da caccia.
Un grosso mastino se ne stava seduto sulla steppa arida, la coda dentellata oscillava tranquilla spazzando la polvere scura del terreno, deboli fiamme fuoriuscivano dalle sue narici ogni volta che sbuffava.

Individua la tua preda. Poniti in una condizione di superiorità, di vantaggio, rispetto a lei.

« Lì, riesci a scorgerlo?» chiese abbassando il tono e cercando di portarsi alle spalle del mostro.
Úranus si guardò attorno con attenzione, cercando di non esser preso di sorpresa da nessuno.
Lea di fianco a lui, la mano ancora stretta saldamente alla sua, annuì voltandosi a destra e manca per controllare anche lei che non ci fosse nessun altro mastino in vista.
« Sì, cosa proponi di fare? Sei tu quello bravo con gli animali.» provò a sorridergli.
Il giovane le restituì un sorriso tremulo e storto, che non fece altro che far ampliare quello della ragazza.
« Sai, alle volte mi sembra che tu non sia abituato a sorridere.»
Un leggero rossore si propagò sugli zigomi del nordico, sbucando da sotto la barba folta. « Non sono abituato a confrontarmi con molte genti.» disse rallentando quasi fino a fermarsi « Io e mia madre non vivevamo al villaggio, la nostra casa era nel folto del bosco.»
« E non avevi amici?»
L'altro scosse la testa. « Non- non erano molte le persone che avevano desiderio di essermi amiche. Molti abitanti del villaggio venivano da mia madre per comprare erbe medicinali e spezie ma… temo che quando ero in vita, in quegli anni, le persone non vedessero troppo di buon occhio quelli come noi. »
« I semidei?» chiese Lea lanciando uno sguardo nervoso al mastino che ancora riposava a terra. Era palese che fosse interessata a scoprire qualcosa sul suo passato ma che al contempo temesse di distrarsi troppo ed estraniarsi dalla situazione.
Úranus la capiva e anche se la buona ragione gli suggeriva di interrompere il discorso, di rimandarlo ad un altro momento, sentiva anche il bisogno di raccontare, di dire a qualcuno com'era vissuto, com'era sua madre, il loro villaggio, il bosco, gli sguardi diffidenti delle persone. Tutti i villici non si fidavano fino in fondo di loro, sua madre era abile a trovar erbe e a riconoscerle, a conoscerne gli utilizzi, ma c'era sempre questo velo di superstizione, questa voce leggera come il vento e pesante come le rocce, che ricordava a tutti, in un sussurro insidioso, come le streghe utilizzassero quelle stesse erbe per le loro pozioni. Era quindi una conseguenza logica quella che portava tutti a pensare che, se Mjöll era così brava con esse, poteva aver qualcosa a che fare con quell'oscura gente.

E invece era solo l'amante di un Dio della mitologia greca. Così distante eppure così vicina alla vostra idea di soprannaturale.

Quelle voci non lo avevano mai disturbato finché quel dubbio, quel “poteva” divenne un “sicuramente”.
« No. Io sapevo di essere un semidio, conobbi mio padre, mi crebbe assieme a mia madre, ma gli altri lo ignoravano. Mi dicesti che anche il tuo paese era cristiano, credo tu quindi non debba faticare molto per immaginare come si sarebbe comportato l'intero villaggio con me e ancora prima con mia madre se avessero anche solo sospettato che portasse in grembo il figlio di un Dio che non era quello da tutti conosciuto e adorato.»
Lea abbassò lo sguardo. « Nel mio paese c'era la sede della religiosità cristiana, so bene di cosa stai parlando, certo. Mi spiace, sembra che tu abbia avuto una vita dura.» sospirò tristemente.
« Non ho mai avuto molti amici, temo di non averne avuti per niente, è per questo che posso apparire… » lasciò la frase in sospeso, senza sapere come continuare. Si volse a guardarla imbarazzato, portandosi la mano libera dietro al collo, come se quel gesto potesse toglierlo d'impaccio.
Lea gli sorrise con più dolcezza. « Impacciato? Beh, sembra che tu non sappia proprio come comportarti alle volte.» ridacchiò. « Ma sei sempre gentile ed educato, ti preoccupi di tutto e ti prendi responsabilità e rischi che non tutti si prenderebbero per una sconosciuta. Se vuoi la mia opinione te la stai cavando benone. E sei anche molto galante!» alzò le loro mani, ancora intrecciate, e gli fece l'occhiolino.

Se Úranus fosse stato ancora in vita probabilmente l'avrebbero scambiato per un'aragosta, ma per sua fortuna la barba incolta lo nascondeva abbastanza bene.
Sentì l'improvviso bisogno di lasciare la mano della ragazza ma qualcosa gli diceva che a quel punto non aveva senso, sarebbe sembrato soltanto più imbarazzato di quanto già non fosse.
Quanta differenza facevano duecento anni nessuno poteva capilo davvero, se ai suoi tempi avesse tenuto la mano di una giovane per così tanto tempo, senza che servisse per aiutarla in qualche modo, sarebbe stato immediatamente sgridato o chiunque avrebbe creduto che fosse la sua promessa sposa.
Per Lea invece sembrava solo una cosa abbastanza normale. Quando avrebbe avuto un po' più di coraggio le avrebbe chiesto come si viveva nella sua epoca. Sperando di non farle ricordare cose spiacevoli.
Provò a darsi un contegno e risponderle in modo decente ma uno strano formicolio attirò la sua attenzione. Girandosi con cautela Úranus si ritrovò a fissare gli occhi incandescenti del mastino che fino a quel momento era stato sdraiato davanti a loro, quello che tecnicamente stavano cercando di prendere di sorpresa.
Stringendo leggermente la mano di Lea indicò con la testa davanti a sé, cercando di trasmetterle con lo sguardo l'importanza di non fare strani movimenti e soprattutto di non farli velocemente.
Un avvertimento che evidentemente dovette andare a buon fine perché la ragazzi si volse con la stessa lentezza che aveva avuto premura di usar lui.
Il grosso mastino continuava a fissarli senza batter ciglio, Úranus dubitava anche che ne avessero ad esser onesto, con una calda scintilla infuocata nelle iridi scure. Dalle narici larghe uscì una fiammata aranciata che andò a mala pena a sfiorare il terreno. Seduto eretto il mastodontico cane era alto più di Úranus stesso e l'enorme testone pareva esser all'incirca largo quanto le sue spalle. Sembrava indossare un teschio sul muso dal pelo corto e nero, come una maschera da combattimento che gli copriva testa, occhi e la parte superiore del muso. Non vi erano zanne attaccate all'osso esterno, bastavano le sue, quelle nella bocca vera, a meter ansia a chi gli stava davanti.
Ma quel mastino, nello specifico, neanche la stava mostrando al dentatura.
Con il capo leggermente inclinato e gli occhi spalancati fissava le due anime come se si stesse domandando che diamine stessero combinando lì dietro, cosa volessero da lui e perché confabulavano in quel modo.
Una volta suo padre gli disse che ogni essere è senziente, tutti quanti pensano, ragionano, si pongono quesiti e prendono decisioni. Magari non lo facevano allo stesso modo degli uomini, magari non c'erano parole precise e sensate nella loro mente, ma sensazioni, colori, suoni, profumi ed istinti. Ogni animale parlava se solo si era in grado di ascoltarlo ed Úranus, come unico e più grande dispiacere sul fronte dei suoi poteri divini, rimpiangeva di non esser riuscito a prender anche quel tratto dal suo divin genitore. Quella era probabilmente l'unica cosa che aveva sempre invidiato al padre, l'unica cosa che aveva sempre disperatamente sperato di poter fare per poi scoprire di esserne incapace: non si poteva ereditare tutti i poteri di un Dio, ci si doveva accontentare di quelli che capitavano, come i premi di una ruota della fortuna.
Purtroppo per lui, Úranus aveva ottenuto probabilmente i più terribili.
Il mastino mosse la coda con pigrizia, facendola rimbalzare mollemente a terra e sbuffando un'altra fiammata. Dal suo pelo nero si alzavano vapori grigiastri, fumo leggero ma costante, specie in prossimità delle creste ossee che fuoriuscivano dalla pelle.

« Ci sta fissando? Perché non ci attacca?» chiese Elena avvicinandosi inconsciamente al compagno.
« Credo siano le stesse domande che si sta ponendo lui.» rispose fievolmente Úranus. Poi deglutì, era arrivato il momento di agire, doveva solo decidersi a muoversi.
« Non sembra pericoloso… o per lo meno non sembra volerci sbranare.» continuò l'altra inclinando la testa proprio come stava facendo il mastino.
« Ci sta valutando. Credo.» tentennò lui. « Dobbiamo fargli capire che non vogliamo fargli del male.»
« Pensi che sia della stessa idea anche lui?»
« Non posso dirlo con certezza, ma per ora sembra più incuriosito che deciso ad attaccarci. Se ci comporteremo con cautela potremmo riuscire a mantenerlo mansueto.»
Un verso strozzato lasciò le labbra della giovane. Úranus le guardò di sfuggita solo per un attimo, prima di riportare completamente la sua attenzione sul mostruoso cane.
« C'è qualche problema?» domandò leggermente innervosito, forse perché anche Lea cominciava ad esserlo e lui poteva ben percepirlo. Solo che se ci riusciva lui allora ci riusciva anche il mastino.
« Cerca di mantenere la calma. Sei mai andata a caccia?» provò a bassa voce.
Lea fece di nuovo quel suono. « Non mi hanno insegnato a tenere in mano un'arma, cosa ti fa pensare che sia mai andata a caccia? Sono una donna.»
« Mia madre dovette cacciare per un certo periodo, prima che io diventassi abbastanza forte per farlo al posto suo. »
« Epoche diverse, ricordi? Sta continuando a fissarci, ma non le batte le palpebre?» chiese ancora più nervosa. Essere guardati con insistenza da un cane gigante alto due metri non era proprio una di quelle cose che la metteva a suo agio, soprattutto perché non se lo aspettava. Se il mostro avesse ringhiato o provato ad attaccarli, se fosse stato quanto meno con le orecchie dritte, in posizione di difesa, allora sarebbe stata più a suo agio. Ma il mastino li osservava, li studiava, aspettava che fossero loro a fare la prima mossa, come-

Come se sapesse che uno di noi può comunicare con lui.

Lea volse di scatto la testa verso Úranus. Fu più forte di lei, non riuscì a far un movimento lento e controllato ed il mastino alzò il muso, colto alla sprovvista.
L'islandese la guardò allarmato, aprendo la bocca per dire qualcosa ma venendo brutalmente interrotto dalla compagna.
« Sta aspettando noi.» disse sicura. « Sa che non vogliamo fargli nulla, sa che con noi può, ehm- discutere? Che lo capiamo? O almeno che uno di noi lo fa. Qualcuno bravo con gli animali. Ti prego, dimmi che uno dei poteri di tuo padre è che può parlare agli animali.» chiese con voce quasi supplichevole.
Úranus la fissò battendo le palpebre, l'espressione perplessa probabilmente simile a quella del mastino stesso che, muovendo la coda ad un ritmo diverso, cominciava ad averne abbastanza di tutta quella situazione di stallo.
« Io… sì, uno dei poteri di mio padre è proprio quello di comprendere il linguaggio animale- » e Lea sorrise raggiante, « ma purtroppo io non ne sono in grado. »
« Cosa?» esclamò scioccata.
« Mi dispiace, sono mortificato ma… non è un potere che ho ereditato. » sussurrò il giovane abbassando al testa e riportando insistentemente lo sguardo sul mastino.
La ragazza non replicò ed Úranus seppe per certo di averla delusa in un qualche modo. Così come sapeva che, ugualmente in un qualche modo a lui oscuro, voleva redimersi ai suoi occhi e dimostrarle che non era solo un tipo inquietante che faceva scappare le persone urlando e si portava appresso un'aura di sottile paura che contaminava tutto.
Prendendo un respiro profondo lasciò la mano di Elena, quella che non si era reso conto di aver continuato a stringere per tutto quel tempo, deglutì e fece un piccolo passo verso il mastino, piegandosi sulle ginocchia e allungando destra, il palmo rivolto verso l'altro ma non troppo distante dal terreno.

 

« Se vuoi avvicinare un animale qualsiasi, fatti prima odorare. Gli animali percepiscono le intenzioni anche all'odore che un altro essere emana. Protendi una mano ma tienila bassa, dove possono vederla, dove può esser tenuta sotto controllo. Sottomissione. Seppur apparente.»

 

Úranus deglutì ancora, prendendo respiri profondi solo dal naso, cercando di stabilizzare un battito cardiaco ormai inesistente.
Il mastino infernale fermò il movimento della propria coda osservando attentamente quelli dell'umano davanti a lui.

« Va tutto bene. » iniziò piano il giovane, « Non voglio farti del male, puoi fidarti di me. Non ho alcuna intenzione di ferirti, la Dea Artemide vigila sulla mia parola. »
Parlando con voce bassa e gentile Úranus si avvicinò sempre di più alla bestia che lentamente, con cautela, abbassò il muso per annusargli la testa.
Lea ebbe un sussulto e cacciò un mezzo grido quando il mastino si alzò in piedi sulle quattro zampe e torreggiò su Úranus come un adulto con un passerotto, sbuffando una lunga e corposa fumata grigia sul suo capo.
Úranus socchiuse gli occhi cercando di non chiuderli del tutto, di non privarsi completamente della vista del mastino malgrado quel fumo lo stesse facendo lacrimare. Tossì piano e cercò di rimanere il più immobile possibile mentre il bestione lo annusava ovunque.

« Non ti ferirò, te lo giuro. » disse ancora azzardandosi ad alzare un poco la testa.
Non aveva ereditato il potere di comprendere gli animali, ma sapeva come trattarli, riconosceva i movimenti, i suoni, la tensione che si propagava per l'aria circostante. Il mastino infernale forse non si fidava del tutto di lui, ma sembrava stesse capendo che non era una minaccia, per lo meno, non all'attuale momento.
Avrebbe tanto voluto voltarsi ed assicurare Lea che andava tutto bene, che non doveva farsi spaventare dai movimenti dell'animale, che era normale per loro far gesti bruschi, muoversi velocemente. Sapeva però che non era ancora il momento, che il mastino avrebbe potuto prenderla male. O almeno era quello che aveva pensato finché il tartufo bollente del cane non gli si infilò sotto la maglia, premendo senza pietà contro il fianco scoperto.
Con un moto di brividi che non riuscì a controllare Úranus fece un salto indietro portandosi la mano al punto colpito, facendo nuovamente saltare Lea che, esattamente come prima, cacciò un urlo che probabilmente, in un'altra situazione, dove l'aria non fosse stata piena di centinaia di migliaia di altre voci urlanti, si sarebbe sentita per tutta l'area cani.
Úranus si voltò di scatto verso di lei, lo sguardo allarmato, pronto a dirle di no, di star zitta anche se ormai era troppo tardi.
Sentì il suono secco di un grande peso che s'alzava da terra per poi ricadervi sopra con violenza. Il terreno tremò leggermente e Úranus pregò, non per la prima volta, che qualunque cosa sarebbe successa dì li a poco non facesse troppo male.
Un forte e potente wolf gli esplose nelle orecchie, il rumore degli artigli che affondavano nel terreno e quello costante di una frusta che si agitava in aria come se- come se stesse-

-scodinzolando?

Davanti a lui Lea teneva le mani premute sulla bocca, gli occhi sgranati e l'espressione di qualcuno che stava assistendo all'ultima scena che avrebbe potuto immaginare.
Quando Úranus volse la testa, senza aver il coraggio di girarsi del tutto, rimase incredulo tanto quanto la sua compagna, sbattendo le palpebre davanti al grosso, pericoloso e attualmente completamente in fiamme, mastino infernale che, con il sedere in aria ed il muso quasi poggiato a terra, lo fissava scodinzolando.

« Sta… ?» mormorò Lea incerta.
« Credo di sì.» rispose con lo stesso tono.
« Quindi non- ?»
« Non penso.»
« E pensi che, invece- ?»
« Voglia giocare?»
« E con cosa… ?»
« Un ramo?»
« Gli basta dici?»
« Un tronco allora?»
« O un osso. Anche se dovrebbe essere enorme, tipo di elefante?»
« Non- non so cosa dirti.» ammise in fine il ragazzo lasciando cadere le spalle e girandosi completamente verso il mastino.
A quel gesto il cane fece un salto in avanti e poi uno indietro, abbaiando e continuando a scodinzolare.
Lea si avvicinò titubante ad Úranus, poggiandogli una mano sul braccio e rimanendo nascosta dietro di lui.
« Forse vuole, non so… cosa si fa ai cani? Un grattino?»
Úranus la guardò scioccato. « Vuoi che vada a grattare le orecchie del mastino?»
« Al cane di uno dei miei vicini piaceva se gli grattavi la schiena, proprio all'attaccatura della coda.»
« Elena- volevo dire, Lea, capisco di esser stato io a dirti che sono bravo con gli animali, ma ciò non vuol dire che sia anche immune al fuoco.»
La ragazza osservò imbarazzata la testa ossuta e fiammeggiante del mastino e si chiuse leggermente nelle spalle. « Hai ragione, perdonami.» si scusò nascondendosi ulteriormente dietro di lui, se per la vergogna o la paura, Úranus non sapeva dirlo.
Il mastino abbaiò per l'ennesima volta e i due furono costretti a riportare a lui tutta la loro attenzione.
Úranus sospirò pesantemente e si fece forza da solo.
« Se rimarremo fermi non lo sapremo mai. Proverò ad avvicinarmi, tu rimani qui.»
« Ricorda sempre che so come curare le bruciature.» disse velocemente Lea.
Lo sguardo crucciato che ricevette in risposta la fece sorridere ancor più imbarazzata di prima.
« È un lato positivo. Scusa, sono solo ansiosa.» borbottò in fine.
Úranus annuì piano e poi si voltò verso il cane dell'Ade. Era ironico che fosse proprio lui, di sua spontanea volontà per altro, ad avvicinarsi ad un mastino in fiamme, ma non aveva molta scelta, i suoi trascorsi non dovevano in alcun modo precludergli qualsiasi tipo d'azione, anche se quel colore così intenso e brillante gli feriva gli occhi e riapriva vecchie ferite nel suo animo. Non poteva permettersi di aver la stessa paura che aveva avuto in vita, di temere ancora quel dolore atroce e devastante.
Doveva aver coraggio e come aveva sentito dire spesso alle anime più moderne nei Campi Elisi: o la va o la spacca.

 

*

 

Quella sala era sempre stata una delle più belle che i loro palazzi ospitavano. Le volte erano alte, sesti acuti così incredibilmente gotici da esser quasi fastidiosi. Il marmo nero scolpito con maestria ospitava giochi di luce bluastra come i fuochi fatui che illuminavano l'Ade, vi brillavano di tutti quei piccolissimi cristalli e pietre diverse che componevano quel materiale tanto bello e pregiato quanto raro. Erano striate verdi e violacee, blu, azzurrine, rosate alle volte, pareva una pozza di petrolio che, cangiante, rifletteva ogni più piccolo raggio.
Il pavimento pareva un'unica ed infinita lastra, tagliata in un colpo solo da una montagna monolitica dalle mani di un gigantesco essere. Non era marmo però, malgrado fosse nero anch'esso non c'erano giochi di luce e riflessi, l'opacità dell'onice era perfetta, come la vista attraverso una sfera smerigliata, distorceva le figure e le immagini, una controparte perfetta di quel soffitto e quelle mura scintillanti.
Entrare nella Sala del Trono di Ade era come entrare nella reggia di un re minatore, come addentrarsi in una caverna piena di diamanti e pietre preziose. Forse era davvero così, forse quelle minuscole pietrine incastrate nella trama fitta del marmo non erano minerali semplici ma scintillanti pietre dure e rare, tutte quelle che la controparte romana del suo padrone poteva evocare a sé.
Plutone era il dio del sottosuolo e di tutto ciò che esso racchiudeva, che fossero beni materiali o anime, il suo palazzo ne era immagine perfetta.
Era una continua illusione quella che permeava le lande dell'oltretomba e che andava rispecchiandosi in ogni cosa, dalle luci mistiche dei fuochi galleggianti all'arida verità delle terre brulle; erano un'illusione i prati infiniti, coperti dalla Foschia che non permetteva a nessuno di capire dove finisse e dove iniziasse l'Ade. Era un'illusione l'opulenza preziosa di Plutone che si scontrava contro la povertà cruda della morte.
Illusione era anche il nome di quella stanza, così scura e nera, dove gli archi di marmo che delimitavano la sala non ti permettevano di capire se oltre di loro ci fosse un corridoio o un muro.
Nessuno aveva mai osato chiedere, nessuno aveva mai osato avvicinarsi ad uno di quegli archi e varcarlo, o almeno provarci.
Nessuno, tranne una persona.
Artemide posò lo sguardo sulla grande meridiana che si trovava al alto sinistro della Sala del Trono, dove un sole fantasma gettava un'ombra magica oltre la punta di metallo, di grezzo ferro dello Stige, scandendo i minuti in quel luogo senza tempo.
Non sapeva da quanto aspettava il suo venerabile zio, non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo il dio in quel momento, ma quella stasi la stava innervosendo. Non che non vi fosse abituata: era una cacciatrice lei, attendere il momento propizio era ciò che meglio le riusciva, ma in quel caso specifico l'attesa la stava tenendo lontana dal controllo della sua prova.

E per tutto il tempo in cui io non sarò lì a vegliare sulle anime chiunque potrebbe intervenire e fare il bello e cattivo tempo.

Ovviamente pensava ad una persona specifica, non c'era dubbio alcuno che quel suo allontanamento doveva esser stato motivo di gioia per quell'essere e non solo. Il grande rialzo al centro della sala, quello su cui era posto l'enorme trono nero dall'alto schienale, adornato con un sontuoso drappo cupo, era vuoto. E lo sarebbe rimasto per ancora molto tempo temeva, tanto quanto sarebbe bastato affinché l'altro facesse tutto ciò che voleva.
L'aveva fatta accomodare nella Sala del Trono, come da protocollo, come se quella fosse una visita ufficiale e in fin dei conto lo era, ma Artemide più di una volta si era recata da suo zio per questioni inerenti i semidei e le missioni, le profezie, e mai, mai, Ade l'aveva trattata in quel modo, formalmente. Che fosse per le centinaia di orecchie, di occhi, di telecamere, pronte a riprendere e mandare in mondo visione ogni singola parola che pronunciavano? No, Efesto non era così stupido e neanche così avventato da inserire spie nel palazzo di Ade, anche perché l'ultimo che aveva provato a spiarlo non era finito per nulla bene.
Artemide sospirò portandosi le mani dietro la schiena, poi davanti, incrociate al petto.
Non sapeva cosa fare e questo le dava incredibilmente fastidio.
Arricciò il naso e poi fece un gesto secco con la mano, un mal rovescio nell'aria che ebbe il potere di lacerarla e lasciare uno strappo lattiginoso nel nulla. Un secondo e quel bianco opaco si frammentò in una serie infinita di minuscole immagini. Un altro gesto della mano e la dea ingrandì quello in cui un enorme mastino nero e fiammeggiante scodinzolava felice davanti ad un ragazzone dai capelli rossi e la barba incolta. Artemide alzò un sopracciglio prima di ricordare, come in un flash, chi fosse l'anima, o meglio, di chi fosse figlia.

« Oh, non hai ereditato il giusto potere da tuo padre, ma a quanto pare te le cavi lo stesso.» sogghignò divertita. Ma il sorriso durò poco sul suo volto, nel preciso istante in cui riconobbe una delle discendenti divine di suo fratello il suo sguardo si indurì.
Erano molti i figli di Apollo, davvero tantissimi, ed erano molti quelli scomparsi e riapparsi durante la scorsa gara, alcuni perduti per sempre probabilmente. Se per qualcuno di essi ciò era positivo, per altri decisamente meno. Artemide ricordava fin troppo bene i figli più problematici del suo divino gemello, alcuni di loro erano riusciti a diventare eroi immortali, a trovare la propria via, un posto nel mondo, altri semplicemente si erano ritirati a vita privata, ai meno fortunati era toccata una morte improvvisa, che fosse durante uno scontro, una, guerra o una profezia. C'era chi aveva scelto il lato sbagliato, chi era stato corrotto dallo stesso animo violento che albergava in suo fratello, chi aveva sterminato popoli e chi aveva dato il nome alle costellazioni. E per sua esperienza personale, Artemide poteva dire con certezza che chiunque fosse finito tra le stelle non aveva mai fatto una bella fine.
Alzando lo sguardo al soffitto, nero e denso come la pece, Artemide si domandò quando altri esseri sarebbero divenuti immortali nel cielo, che fosse per memoria o per monito, chi sarebbe stata la prossima anima sacrificata al culto di Urano?
Un brivido le passò sulle spalle coperte dal piumino candido, il vago ricordo di voci roche e profonde, lontane come lo era la morte per lei, che chiedevano d'esser ascoltate, che chiedevano giustizia, che chiedevano libertà. Le stelle… nessuno di loro avrebbe mai potuto comprendere fin in fondo quanto fossero mistiche e potenti. Sperava solo che il giorno in cui il mondo se ne sarebbe accorto fosse il più distante possibile. Dovevano già occuparsi di un essere incontrollabile, non potevano preoccuparsi anche di altri, avrebbero perso di sicuro.

Un po' come temo stiamo facendo ora.

Chiudendo gli occhi argentati la dea cercò di mettersi in contatto con il suo astro, di aprire il suo pallido occhio su quel mondo che ora non poteva vedere, scrutando il suo stesso riflesso in una laguna nell'entroterra indiano, così bello eppure così effimero, come ogni cosa nel mondo mortale.

« Non dovresti pensar troppo al cielo, qui nell'altro mondo più agogni l'aria pura e la luce degli astri e più ne senti la mancanza, credimi.»
La voce bassa e lenta del Dio dei morti gli sfiorò delicata le orecchie, insinuandosi dentro la sua immortale coscienza e trasmettendole un senso d'abbandono, di disperata ricerca della libertà che lei, in tutta la sua esistenza, mai aveva provato. Era il grido agognante di un essere nato nella fulgida luce dell'oro e dei bianchi marmi che si era visto relegare per ben due volte in un antro oscuro dove neanche il più piccolo raggio poteva penetrare. Il ventre di suo padre prigione come le volte nere di quella cripta in cui viveva, eterno monito del suo posto.
Il più grande dei fratelli lontano nella più remota delle celle.
« Ed è possibile farlo?» domandò riaprendo gli occhi e scrollandosi di dosso quella viscida sensazione di oppressione.
Davanti a lei Ade si stagliava alto e fino, un cupo figuro dalle pallide membra che risaltavano ancor di più in tutta quell'oscurità. I lunghi e lisci capelli neri gli adornavano il viso come una tenda pesante, coprendolo così come facevano le vesti che indossava. Non era un abito di sartoria, qualcosa di mortale e mondano come ciò che indossava Zeus, come avrebbe fatto Apollo stesso e come alle volte facevano Poseidone, Ermes e Dioniso. Erano i loro abiti tradizionali quelli che portava, una lunga veste grigio cupo ed un drappo nero con un decoro a greca anch'esso grigio. Non portava gioielli sulle braccia parzialmente coperte dal drappo, non aveva anelli ed i suoi sandali erano semplici e neri come ogni cosa in quel palazzo. C'era solo un unico punto di luce ed era dato dalla sua corona, che delicata cingeva la fronte alta ed i capelli, un anello nero e lucido fatto d'intrecci e nodi, al cui centro spiccava una pietra ovale, così levigata da potervisi specchiar dentro. Le ci volle un attimo per capirlo ma poi la sua mente le trasmise chiaramente la natura di quel gioiello.

Tomalina nera.

Non era una pietra chissà quanto preziosa, non una di quelle che le genti di ogni epoca avevano premuto per avere. Ciò che c'era di importante in quella pietra era il suo significato.

Protezione.

Il Dio dei Morti necessitava di proteggersi, di schermarsi da tutto il dolore e le sofferenza che impregnavano il suo regno e tutti i suoi abitanti. Proteggersi dalla morte stessa.
« Ti interessa davvero, Artemide?» le rispose con tono piatto.
La dea drizzò le spalle con un misto di stizza e irritazione, ma dopotutto era una dea diretta e non poteva ignorare una domanda altrettanto diretta e provocatoria.
« Dovrò passare qui un po' di tempo, la terza prova è la mia, zio.» disse con alterigia, cercando di mettere formalità in quel discorso che già pendeva dalla parte dell'uomo.
Ade non parve molto colpito da ciò. « Sei sopravvissuta a cose peggiori presumo.»
Si mosse lentamente verso il suo trono, salendo con calma mortale quei gradini levigati che rialzavano l'imponente seduta dal resto del pavimento. L'altissimo schienale pareva fondersi con il muro, pareva esser esso stesso muro e sostegno di quella sala, il pilastro che reggeva il Palazzo di Ade. Ade stesso era quel pilastro ed Artemide lo sapeva fin troppo bene: quando un Dio cade cade anche tutto ciò che ha edificato, che ha creato. Ogni volta che Ade si sedeva sul suo trono la sua aura divina rinforzava quelle pareti di marmo, le lucidava, le aggiustava. Faceva splendere le superfici, costruiva nuove stanze, ne distruggeva di vecchie e ormai inutili, sollevava dal nulla una nuova ala, inspessiva la cinta muraria del Palazzo e quella Nera che racchiudeva i Campi di Pena. Gettava un occhio nell'abisso del Tartaro e respingeva a fondo tutte le amenità che cercavano costantemente di risalirlo.
Ade si sedeva sul suo trono e l'oltretomba diventava sempre più forte, sempre più grande, sempre più mistico ed antico come lo era il suo padrone.
Lo vide sedersi con leggerezza sul morbido rivestimento di seta, finissima eppure resistente come le volte del suo palazzo. Si sistemò la veste con un gesto consumato, poggiando poi stancamente i polsi sui braccioli d'osso e ferro nero. In quella posizione, con le spalle dritte, i lunghi capelli, la corona attorno alla fronte ed i polsi, solo quelli, poggiati in modo da tener i palmi rivolti verso il soffitto, Artemide rivide per una frazione di secondo un uomo mortale nella carne ma non nello spirito, un martire che aveva affrontato la crudeltà dell'uomo per dimostrargli che vi era del buono e della luce ovunque, che era stato sacrificato all'altare dell'odio e della paura, dando vita ad un moto di speranza che avrebbe scosso ogni popolo. Quello stesso uomo che tanto aveva fatto per poi veder il suo culto sporcato e calpestato, usato da altri uomini, sporchi nelle loro mani tanto quanto nei loro animi, tutto per far il loro gioco, per piegare il mondo alla propria volontà.
Il potere, il potere che tanto aveva dato e tanto aveva preso. Ma era così, no? Quanti tiranni avevano usato i loro di culti per soggiogare le proprie genti e quelle vicine? Quanti nell'Antico Egitto avevano sacrificato innocenti per aver i favori di divinità potenti? Ogni religione nasceva con il più alto e nobile dei fini, ma come tutto ciò che l'uomo toccava veniva poi corrotto e corroso fino a passar da speranza per i popoli a gabbia e frusta per quegli stessi che tanto avevano creduto e sperato.
Moltissime volte Artemide si era chiesta quale fosse lo scopo di metter al mondo nuovi esseri, nuovi culti, se poi gli esseri umani erano in grado di prosciugarli da ogni cosa buona e renderli un'arma contro i loro stessi fratelli, ma spesso a quel punto ricordava la sua famiglia, i suoi divini parenti, e si rendeva conto che forse, tra tutte le religioni presenti al mondo, la loro era quella che offriva più veridicità: gli Dei dell'Olimpo erano come gli uomini, preda delle stesse passioni, gli stessi sentimenti, lo stesso odio e cattiveria.
Nessuno di loro era puro e perfetto. Ognuno di loro si era bagnato nel sangue di miliardi di esseri di ogni tipo.
Ade, per quanto in quel momento potesse sembrargli il figlio degli uomini, non era diverso da tutti gli altri.

« Cosa posso fare per te, nipote.» chiese con quella sua voce laconica che molti aveva fatto uscire fuori di testa.
La dea della caccia strinse in denti per un attimo ed avanzò di qualche passo, fino a trovarsi davanti al trono. Ad un gesto di Ade una poltroncina dalla linea tondeggiante apparve proprio dietro di lei, come un silenzioso invito ad accomodarsi e spiegarsi con tranquillità.

« Credo tu possa immaginarlo.» iniziò lei sedendosi. Poggiò le mani sui braccioli e carezzò distrattamente la stoffa pregiata, di un color violaceo pesto, come un livido doloroso.
« Le tue richieste e le condizioni della tua gara sono state disattese?» domandò il dio.
Artemide scosse la testa in un movimento secco. « No, l'Area Cani è stata allestita esattamente come richiesto, i mastini si sono mantenuti al limitare opposto della zona fino al fischio d'inizio e Eolo ha anche avuto il tempo di fare quel suo stupido discorsetto. E tra parentesi, zio, penso che parecchie anime si siano risentite di quella storia dei voti.»
« Non è stata una mia idea, sai che è un'imposizione di Afrodite, ha battuto abbastanza a lungo e abbastanza intensamente i piedi affinché Zeus l'accontentasse pur di non sentirla più strepitare.»
« Afrodite sa come ottenere ciò che vuole, che sia con le buone o con le cattive.»
« Assolutamente.» soffiò con tono basso. « Cosa ti ha turbata allora? »
La dea ci pensò per un po', perché di turbamento vero e proprio non si poteva certo parlare, ma qualcosa che le era saltato all'occhio c'era di sicuro.
« Ho visto un paio di semidei particolari. Tre di essi di genitori che raramente hanno figli.» il sopracciglio destro che si alzava come a dire “ e a me interessa perché… ?” la fece continuare sbuffando. « Uno di questi è solitamente troppo coinvolto, l'altro è praticamente impossibile che riesca ad avvicinare una mortale con facilità e l'ultimo è spesso troppo impegnato.»
« Non mi sembra ci sia nulla di strano. Afrodite ed Eros sono costantemente troppo coinvolti e malgrado non si possa dire lo stesso del figlio, la madre ha uno stuolo di progenie mortale che fa concorrenza solo ad Ermes e a tuo fratello.»
« Uhg, ho visto anche un paio di figli suoi che non mi hanno convinto molto.» borbottò infastidita.
« Per quanto riguarda il problema dell'avvicinare difficilmente i mortali, ti ricordo che possiamo assumere le forme che vogliamo- »
« C'è sempre l'aura, per quanto possiamo nasconderla spesso anche i- »
« e che la volontà di un mortale nell'unirsi a noi è superflua. Tu più di tutti dovresti sapere come il consenso spesso non sia richiesto.»
Artemide digrignò i denti rabbiosa, mentre un moto di disgusto si apriva in lei.
« Non è una giustificazione… »
« Non voleva esserlo, è una costatazione dei fatti. Ricorda come sono nati molti di noi, ricorda cosa ha dovuto subire chi porta una corona.» disse fissandola con sguardo penetrante, riportandole alla mente quanto sporco ci fosse dietro a quelle bianche colonne che reggevano l'Olimpo.
« Quanto all'essere troppo occupati, malgrado sia una pratica per te non molto comune, so per certo che come tutti noi sei in grado di dividere il tuo divino essere e trovarti in più posti contemporaneamente.» concluse unendo le mani e portandole davanti al viso. « Quindi, cosa ti turba davvero? »
Artemide sospirò. « I loro poteri.»
« Abbiamo affrontato semidei di ogni portata, ad alcuni di loro abbiamo anche concesso l'immortalità.»
« Se tornassero sulla terra sarebbero pericolosi.»
« Solo loro? C'è un figlio di Vulcano che ha fatto beni danni nel Labirinto, lo hai visto? E quel figlio di Giove? La figlia di Nemesi che ha strappato gli occhi a quei mortali? Di loro non ti preoccupi? Non credi che potrebbero fare enormi danni una volta tornati in superficie?»
L'altra batté le palpebre. « Dimmi che con “Figlio di Giove” non ti riferisci a chi credo tu ti stia riferendo.»
Il sorriso che si aprì sul volto pallido di Ade fu inquietante e lugubre, come una maschera funeraria grottesca.
« Non hai saputo le nuove?» le chiese solo.
« Merda!» gracchiò chiudendo gli occhi e viaggiando veloce con il suo spirito, risalendo i piani infernali fino a sbucare dalle porte dell'Ade ed espandersi sulla terra mortale come una nube di gas. Quando riaprì gli occhi le sue iridi erano pallide e vuote come il riflesso della luna.
« Non credevo di vedere questo giorno tanto presto.»
Ade annuì. « Ti preoccupano ancora quei semidei? Hai intenzione di eliminarli?»
« Non dire sciocchezze!» si riprese velocemente, battendo il pugno sul bracciolo imbottito. « Non ho intenzione di barare in alcun modo, tanto meno di dirigere questa gara, di infrangere le regole, di fare ciò che voglio, anche se questa fosse la cosa più sicura da fare per il futuro. Abbiamo grandi eroi di sopra, se ce ne sarà bisogno se ne occuperanno loro.»
« Mandando così al diavolo l'intero senso di questa gara, quello di non crear ancora problemi ai nostri figli.»
Artemide lo guardò con serietà, una domanda spingeva contro le sue labbra e ormai sapeva di non poterla più trattenere. « È davvero per questo che è stata indetta?»
Lo sguardo che gli restituì suo zio era freddo come la pietra di quella sala. « L'abbiamo fatto perché alcuni di noi non sanno cosa fare quando non ci sono disgrazie e si stavano annoiando. Zeus per una volta ha avuto la buona idea di risolvere la cosa prima che degenerasse. Qualcuno ha trovato la giusta soluzione per non far altre morti inutili.»
Era quell' “altre” che pesava più di ogni altra parola in quel discorso, più dell'accusa di essere così pigri e oziosi da annoiarsi quando il mondo era in un periodo di pace – divina e semidivina almeno – e prosperità.
« È chi l'ha proposta che mi preoccupa.» si arrese finalmente a dire. « Hai visto cosa succede, cosa ha fatto… »
« Hai le prove che sia stato lui?» le domandò freddamente.
« No, ma non può essere stato nessun altro!» gridò alzandosi in piedi. « Alcune anime sono scomparse! I più pericolosi criminali dilaniati da essere invisibili! Altri che noi avevamo condannato ma che lui ha sempre difeso si sono salvati da fini certe, così come eroi che noi osannavamo ma che lui ha sempre odiato sono stati sconfitti brutalmente a confronto con mortali senza nessun potere! Ade, per l'Olimpo, sta facendo ciò che vuole e nessuno di noi si sta chiedendo il perché o fa nulla per fermarlo!»
La sua voce rimbombò per la Sala del Trono, insinuandosi negli archi e scomparendo in un eco infinito.
Un brivido la scosse: quindi ogni arco conduceva da qualche parte, era un labirinto quel dannato palazzo, un intricato gioco di canali e condutture, di corridoi oscuri da cui non sapevi cosa sarebbe fuoriuscito. Artemide sentì chiaramente centinaia di migliaia di voci ripete le sue parole, ridere sommessamente, sospirare, gemere per il dolore. Erano le anime imprigionate nei drappi sparsi per tutto il Palazzo, coloro che si erano dimostrate così orribili in vita da non meritare neanche i Campi di Pena ma l'infinito supplizio dei Palazzo di Ade, costrette per l'eternità a contorcersi nel dolore, filate e tessute assieme le une alle altre per esser contaminate dal disprezzo e dalle colpe delle proprie vicine.

« Cosa vuoi che ti dica, esattamente? »
Quel tono disinteressato, laconico che Ade aveva usato fino a quel momento si trasformò in una calma piatta e fredda.
La dea deglutì. « Vuoi farmi credere che non sai nulla? Che non ti ha detto nulla? »
Ade si produsse in una smorfia tra lo schifato e il divertito. « Non hai neanche il coraggio di dire il suo nome?» le prese in giro.
L'altra digrignò i denti. « Giordano Delle Vie. » ringhiò a voce bassa.
« Cosa?»
« Sai cos'ha in mente Giordano? Atena mi ha torturato con le sue supposizioni, ma non siamo arrivate a nulla di sensato.»
« Questo perché non lo avete mai capito. E pensare che un tempo tu gli stavi così simpatica… » sospirò scuotendo la testa. « Che Atena non riesca a comprendere le sue azioni è normale, ragionano su due frequenze completamente diverse.»
« Ha sempre usato la testa anche lui, malgrado spesso si sia fatto trasportare dai sentimenti e dall'istinto. »
« Assolutamente vero, ma la sottile differenza tra lui ed Atena, tra lui e tutti noi, è che Giordano pensa come un mortale.» si fermò un attimo per guardarla dritta negli occhi, « Malgrado possa sembrare assurdo, viste le premesse.»
« Che abbia sempre vissuto come un mortale, un mortale vero e proprio, neanche come un semidio, è cosa risaputa da tutti. Ma tu gli sei vicino più di chiunque altro, come puoi non immaginare neanche- »
« Puoi chiederglielo tu.» la interruppe. « Puoi andare da lui e chiedergli se è il responsabile della scomparsa di quelle anime, se ha qualcosa in mente, se c'è qualcosa di più dietro a tutto ciò, a quello che ha detto pubblicamente.»
Era una sfida, una provocazione bella e buona che entrambi sapevano non sarebbe mai potuta andare a buon fine. Anche se Artemide si fosse presentata con le più sincere e pacifiche intenzioni Gio non le avrebbe detto una sola parola di quello che avrebbe voluto sentirsi dire, o forse l'avrebbe fatto proprio per irritarla, per darle a bere una verità palesemente falsa.
« Sono finiti i tempi in cui correvo per i boschi assieme a lui, ora a mala pena mi tollera.» mormorò lei abbassando la testa.
Non vide lo sguardo di suo zio e forse per lei fu meglio così, ma sentì il tono della sua voce, le sue parole spietate e dirette, come le sue stesse frecce.
« Sai perché ti odia. Non posso dargli torto.» disse solo.
L'altra strinse i pugni frustrata. « Non è stata colpa mia! Non posso far sempre tutto allo stesso modo, non posso esserci sempre. Sono tra le divinità più impegnate, costantemente a caccia. Sono io quella che toglie dalle spalle dei semidei le missioni più pericolose contro i mostri! E quella volta più di tutte le altre non potevo far nulla!» scoppiò rialzando la testa, gli occhi argentati ardenti di una rabbia derivata tutta da un fallimento che le aveva tolto qualcosa che aveva imparato a dare per scontato.

E le cose che diamo più per scontate sono quelle che lasciano il vuoto più grande quando scompaiono.

Ade la guardò con biasimo. « L'amava come fosse sua, in un certo senso lo era. Non puoi aspettarti che tutto torni come prima, certe ferite hanno bisogno di tempo per guarire»
« Ma lo capisci anche tu che c'è qualcosa che non va, vero? Capisci che non lo ha fatto solo per non uccidere nessuno! Che c'è qualcosa di più grande e pericoloso che si nasconde dietro a tutta questa storia.» glielo chiese con voce quasi supplice, pregandolo di venir a ragione non per un suo interesse personale ma per qualcosa di più grande, per un bene supremo che non lo aveva mai guardato davvero ma che in quel momento necessitava del suo intervento, della sua di mano benevola che lo proteggesse da qualunque cosa Giordano Delle Vie stesse macchinando.
Il dio dei Morti però non sembrò minimamente toccato dalle sue parole, rimanendo algido e impassibile come i bei volti delle statue nei mausolei.
« Ovviamente. Soprattutto perché di morti, in questa gara, ce ne sono davvero molti.»
« Non far stupide battute! È una situazione seria e delicata!»
« Non ne faccio.» rispose duro. « Sono sparite per sempre migliaia di anime, cancellate dalle Terre dell'Ade così come dalla faccia della Terra, lo hai detto tu stessa. Così come avrai notato l'ombra che si aggira per le mie lande.»
Artemide sospirò stremata da quella conversazione. « Allora perché non fai nulla?» chiese infine senza la speranza di ottenere una risposta veritiera.
Gli occhi di Ade, neri e freddi come le pietre d'onice, parevano ora quegli stessi archi che adornavano la Sala del Trono, capaci d'esser null'altro che una mera illusione così come infiniti corridoi, cunicoli contorti in cui chiunque si sarebbe perso.

« Perché nessuno può. Né io né te.»

Erano solo un accenno, una piccola anteprima, dell'abisso del Tartaro.

« E soprattutto, perché non voglio.»

 

*

 

In tutta la sua vita non avrebbe mai creduto che un giorno, nella morte, si sarebbe ritrovata a fissare con sconcerto un gigantesco cane che, sdraiato con le zampe all'aria, attendeva che lei gli grattasse la pancia. E soprattutto, non si sarebbe mai sognata che il problema principale sarebbe stato come carezzarlo visto che andava a fuoco.
I mastini infernali continuavano a farle paura, quelle sporgenze ossee e quelle fiamme d'intensità diverse, il fumo che fuoriusciva dalle narici, tutto continuava ad essere spaventoso e potenzialmente mortale. Se non fosse che lei era già bella che morta. Ma da un pezzo ormai. E pure in modo non troppo felice.
Elena allungò la mano titubante per poi ritrarla velocemente quando, scorta dal mastino, questo cominciò ad agitarsi per l'impazienza.

 

« Guarda che se continui a muoverti non ce la faccio a farti i grattini, sei già enorme e malgrado io sia alta non riesco a superarti, se poi ti agiti in questo modo mi brucio invece di farti le coccole! » Non si sarebbe mai sognata neanche di discuterci con un mastino e di farlo sotto lo sguardo divertito di un ragazzone dalla barba rossa.
« Stai entrando in sintonia con lui, freme per aver una carezza, accontentalo. » Le disse con voce morbida Úranus.
Lea alzò un sopracciglio. « E bruciarmi un braccio? »

« Non eri tu quella che sapeva curare le bruciature? » domandò lui retorico.
La ragazza lo guardò sgranando gli occhi e facendo una “o” perfetta con la bocca, l'espressione divertita, piacevolmente sorpresa da quella che era palesemente una battuta.
« Úranus! Mi stai prendendo in giro?!» chiese allegra.
L'altro si strinse nelle spalle. « Non mi permetterei mai, sai che non sono persona da queste cose. » ma il sorriso che gli tirava leggero le labbra sembrava dire l'esatto contrario.
Da quando era cominciata la gara poche volte avevano avuto l'opportunità di esser così tranquilli e rilassati, per quanto lo si potesse esser nel cercare di far le coccole ad un cane in fiamme. In effetti il problema principale non era il mastino in sé, ma il fatto che, qual ora provasse una forte emozione, emanava dal suo stesso corpo fuochi più o meno intensi. Ve ne era comunque uno abbastanza costante attorno al collo e Lea poteva giurarci che la medaglietta fosse proprio in quella fiammata aranciata che fuoriusciva dalla pelle nera.

Úranus si era tirato indietro e l'aveva lasciata sola con il mostro, spiegandogli che fosse meglio così, che fosse lei a stringere più amicizia con il cane in modo da prendere la medaglia per prima.
« Non hai qualche consiglio, vero? » gli chiese Lea guardandolo con la coda dell'occhio.
Il ragazzone si strinse ancora nelle spalle. « Posso solo dirti che dovresti riuscire a calmarlo, ora come ora è molto emozionato anche solo all'idea di esser carezzato. Non devono ricevere molto amore i Mastini Infernali, spaventano le genti, le allontanano. Ma se riuscirai a fargli capire che deve mantenere la calma le sue fiamme dovrebbero abbassarsi. » le spiegò con un'espressione dispiaciuta, conscio di non poter far di più a meno che non si fosse avvicinato lui stesso.
Quella, ad esser onesti, era la migliore prospettiva che Lea potesse immaginare.
« Facciamo così, vieni tu qui, mi aiuti a calmarlo e poi io gli faccio i grattini sotto il mento. »
L'altro la guardò titubante. « Credi potrebbe funzionare? »
« Peggio non andrà di certo! Gli piaci di sicuro, magari anche più di me!»
Úranus scosse la testa. « Gli animali sono sempre più attratti da una mano gentile e le donne, di ogni età, appaiono sempre più amorevoli, più caritatevoli. Gli esseri di ogni specie lo percepiscono e si comportano di conseguenza.»
« Però tu sei speciale, no? »
Senza sapere cosa rispondere, perché no, lui non era speciale, non più di chiunque altro, ma in realtà sì, lo era perché era un semidio e perché suo padre aveva questa strana intesa con gli animali e la natura e- Úranus sospirò sconfitto e si avvicinò a passi lenti al mastino, che alzò subito la testa e si mise sdraiato composto fissando il ragazzo dai capelli rossi venirgli incontro.
Úranus alzò di nuovo le mani, per farsi vedere indifeso ed inoffensivo, e si abbassò al livello del mastino per farsi annusare nuovamente.
« Questa volta ti sarei grato se non infilassi il tuo muso sotto le mie vesti.» sorrise impacciato.
Sorprendentemente il gigantesco cane nero parve capirlo alla perfezione, perché allungò il muso oltre la sua mano e lo posò con uno sbuffo fumoso sulla gamba poggiata a terra.
I due semidei rimasero un attimo interdetti, indecisi su cosa fare, su come comportarsi, ma poi, lentamente, le fiamme iniziarono a diminuire d'intensità, a ad affievolirsi sino a scomparire.
Úranus batté le palpebre sorpreso.
« Non mi vuoi bruciare… » constatò in un sussurro che neanche Lea riuscì a sentire.
Gli occhi lucidi e profondi del mastino si fissarono dritti nei suoi, uno sguardo silenzioso ma incredibilmente carico di parole, qualcosa che il giovane aveva già visto centinaia di anni fa.
Con una stretta al cuore Úranus allungò una mano posandola sul muso del mastino in una carezza delicata e gentile, pregna di una malinconia che alle volte, anche nella morte, anche in ciò che c'era di più vicino al paradiso, lo colpiva ancora.

« Stai cercando di comunicare con me, vero? Cerchi di parlarmi, ma io non ti comprendo. Mi spiace, mi spiace tantissimo ma non posso udire la tua voce anche se tu odi la mia e la comprendi così bene.»
Il cane continuò a fissarlo e nessuno dei due, né il semidio né il mastino, si accorsero di quando Lea, sportasi con cautela, aveva aperto con delicatezza il moschettone che teneva una medaglietta rettangolare, dai bordi squadrati, appesa ad una catena di Ferro dello Stige.
La giovane si ritrasse con altrettanta lentezza, colta da una zaffata di profumo che le ricordò gli incensi che venivano usati in chiesa durante le messe, ai funerali, l'odore acre delle camere ardenti, come quella di Suor Silvia, un'anziana sorella del suo convento che era venuta a mancare quando lei aveva poco più di sei anni.
Con gli occhi lucidi di una nostalgia, di un dolore sordo, un rimpianto che non erano suoi o che forse lo erano stati, Lea si mise a sedere a terra, lo sguardo perso nel vuoto, senza riuscir a vedere davvero la terra brulla e battuta su cui era crollata.
C'erano dei flash accecanti dietro le sue pupille, come lo scatto di una macchina fotografica, che ti costringeva a tenere gli occhi spalancati e rimanere immobile per interi minuti nell'attesa che la pellicola s'impressionasse. Le pareva quasi di esser tornata piccola, di trovarsi ancora tra tutte quelle bambine nel giardino dietro i dormitori, quando tutte in fila e perfette nei loro grembiulini bianchi, attendevano che il fotografo sistemasse la camera ed il tre-piedi.
Per un lunghissimo minuto le girò la testa, vorticò come se l'avessero messa dentro una botte e poi spinta giù per una discesa, come si faceva con il vino. Quando riaprì gli occhi che non si era resa conto di aver chiuso, non era più negli Inferi ma di nuovo a casa sua, con i piedi ben piantati sul vecchio pavimento del corridoio che collegava i loro alloggi allo studio di Giuseppe. Le piastrelle erano grandi quadrati di pietra rosea piena di piccolissimi sassolini grigi, bianchi, neri, marroncini e trasparenti. Era bello quando il sole ci splendeva sopra, sembrava di trovarsi vicino ad una spiaggia, con i raggi che si riflettevano su tutti quei minuscoli cristalli. Giuseppe una volta l'aveva portata al mare, per una vacanza, ma solo una volta: Milano era troppo lontana dalla costa e all'aria aperta, con la calura e le brezza marina, potevano arrivare mostri da ogni dove.
Quella volta però suo fratello non le stava dicendo che non l'avrebbe più portata in vacanza, che non le avrebbe più fatto vedere il mare. Era cresciuta, era grande ormai, aveva quindici anni, una donna quasi, e Giuseppe la guardava con rammarico, dispiaciuto per qualcosa che forse aveva capito meglio di lei, che non voleva dirle ma che le avrebbe comunque raccontato. Gli occhi sempre così sicuri di suo fratello erano velati di malinconia, la stessa che le stava opprimendo i polmoni come il fumo di un camino intasato. Giuseppe la guardava e le diceva qualcosa che non avrebbe mai voluto sentire.

 

« Mi spiace Lea, purtroppo non c'è stato nulla da fare. »
« Ma noi- noi possiamo - »
« No. No, non possiamo fare nulla. »
 

Aveva tentennato, cercando le parole giuste per spiegarsi, per convincere suo fratello a fare armi e bagagli ed avventurarsi anche loro alla missione, ma l'uomo l'aveva preceduta.

 

« Non è scomparso, non è prigioniero, non è disperso. È morto, Elena, l'hanno ritrovato. Non possiamo fare più nulla se non bruciare un'offerta per la sua anima e pregare che i Giudici abbiano di lui buona cura. Non aver rimpianti, sorella, non avresti potuto comunque far nulla, né io né te, non era la nostra guerra. Questa è la vita di un semidio. Questa è la nostra vita.»

 

Il mondo girò ancora e ancora. Giuseppe scomparve in un vortice nero e fiammeggiante, mentre il pavimento lucido e lisci tornava ad essere terra e due braccia forti la sostenevano con delicatezza.
Quando il suo sguardo vacuo rimise a fuoco la realtà, Lea si ritrovò a fissare il volto preoccupato di Úranus ed il muso indecifrabile del Mastino Infernale.
Sentendo qualcosa di solido e fino stretto nella sua mano abbassò gli occhi ed aprì lentamente le dita: sul palmo pallido giaceva una targhetta su cui era raffigurato il profilo stilizzato di una donna con una corona sulla fronte ed un arco teso verso il cielo.
Per Lea la terza prova era ufficialmente finita.

 

*

 

 


Dopo un'iniziale carica in massa i mastini si erano calmati e dispersi un po' ovunque.
Alcuni sonnecchiavano tranquilli a terra, altri si divertivano a rincorrere povere anime terrorizzate, ce ne era persino qualcuno che, rilassato, si mordicchiava la coda cercando di pulire le scaglie ossee che vi fuoriuscivano.
Il problema quindi non era trovare un mastino per prendergli la medaglia, non era neanche prendere la medaglia di per sé. Il problema principale, assolutamente non calcolato da nessuno, era che i mastini non li puntavano, anzi, li scansavano proprio.

« Mastini di merda… »
« Hai detto nulla Cade?»domandò Jonas voltandosi verso l'altro.
Il rosso si profuse in un enorme e assolutamente falso sorriso angelico. « Assolutamente no, perché ? Senti le voci? Se ti danno dei numeri fortunati scriviamoli, così chi di noi torna su lì può puntare al gioco d'azzardo. La fanno ancora la corsa sui cavalli? Dimmi di sì!»
Jonas sospirò storcendo il naso ed ignorando completamente il compagno.
Non sapeva, sinceramente, se preferiva rivederlo così, bello pimpante, sornione e assolutamente inopportuno come sempre, o se gli mancava il silenzio che li aveva accompagnati per tutto l'inizio della gara.
Avevano corso per un bel po', cercando di scappare dai Mastini Infernali che erano arrivati in massa gli Dei solo sapevano da dove, quindi malgrado fossero stati tutti parecchio zitti erano comunque stati circondati dalle urla di tutte le altre anime che, terrorizzate, cercavano di fuggire nella calca generale.
Jonas doveva anche ammettere che se non fosse stato sempre per il tipo di fianco a lui, che un paio di volte l'aveva riafferrato per un braccio e trascinato in aria in un salto che aveva del fantastico, probabilmente si sarebbe schiantato addosso a qualche altro concorrente o si sarebbe fatto calpestare da un cane di fuoco.
Anche se questa volta non era stato minimamente imbarazzato dalla cosa, forse perché, in tutto ciò, nulla avrebbe mai potuto battere Cade che prendeva Nathan da sotto le braccia e lo sollevava in aria assieme a sé con un bellissimo coro di bestemmie provenienti dritte dritte dal biondo.
Sì, decisamente Nathan, il grande soldato ed eroe figlio di Ares, che veniva sollevato alla stregua di un moccioso scalpitante da Cade era ciò di più bello che avesse visto fino a quel momento.
Ora che le acque si erano calmate però, e che loro avevano finalmente ideato un piano per catturare i mastini, era sorto quel non piccolo problemuccio da niente.

Ci evitano. Neanche provano ad attaccarci o a ringhiarci, appena ci avviciniamo si alzano e se ne vanno, stiamo riuscendo ad aprirci un varco in mezzo a loro quando invece li vorremmo prendere.

Come fosse possibile e soprattutto perché era diventata la domanda del momento.

« Comunque, secondo me, gli sta sul cazzo il biondastro. Li fissa tutti male, come se li volesse scuoiare vivi. Ci credo che quelli ci evitano!» Disse indicando con il pollice il giovane alle sue spalle.
« Vaffanculo rosso!» arrivò subito potente e piccata la risposta di Nathan.
« Non ricominciate!» tuonò tempestiva Eliza.
La donna se ne stava ferma immobile, con le braccia incrociate, a fissare un gruppo di mastini che dormivano su quello che, presumibilmente, era diventato il loro punto di accumulo provviste. Non sapeva come fosse possibile ma pareva che i mastini dell'Ade potessero mangiare le anime, o per lo meno quelle in gara. Banchettavano tranquilli per i fatti loro, ma non appena si avvicinavano loro si alzavano e se ne andavano.
Assottigliando lo sguardo Eliza provò a fare qualche cauto passo avanti, non troppo lungo e soprattutto cercando di far meno rumore possibile. Dato che il mastino che aveva puntato non dava segno di essersi accorto di lei, si mosse ancora.

« Cosa sta facendo Elizabeth?» chiese Jane aggrottando le sopracciglia.
Nathan, a cui la ragazza aveva parlato praticamente nell'orecchio, saltò indietro imprecando a mezza bocca.
« Porca puttana, non spuntare fuori così all'improvviso!» le disse ringhiando.
Jane sogghignò sorniona. « Non dirmi che ti ho colto alla sprovvista? Ti ho forse spaventato?»
« Hai messo paura al biondastro? Andiamo, ragazza delle praterie, sei già abbastanza inquietante di tuo, se mi ti avvicini di soppiatto è ovvio che poi il bambino mi si stranisce!» proruppe divertito Cade rifilando a Jonas l'ennesima pacca che per poco non lo mandò lungo a terra.
« Che dici? La smetti tu invece di prendermi a pizze ogni volta?!» Il tono del ragazzo uscì spaventosamente simile a quello di Nathan, con la stessa intonazione rabbiosa che parve il ringhio di uno di quei mastini che nessuno di loro riusciva ad avvicinare. Cade e Jane se ne accorsero al volo, scambiandosi forse il primo sguardo d'intesa da ché si erano conosciuti.
« Uh, sembra che abbiano gli stessi modi di fare.» constatò la ragazza.
« Perché sono tutti e due biondi. Ehi, da te si diceva quella cosa sui biondi?»
« Cosa?»
« Che sono stupidi!»
« Dillo di nuovo, rosso di merda, e ti do un pugno così forte da romperti il naso!» tuonò Nathan.
« Stupido lo dirai a tua sorella!» gli fece eco Jonas assottigliando lo sguardo e serrando i pungi.
Sul volto pallido di Cade si aprì un sorriso che oscillava tra l'inquietante ed il minaccioso, qualcosa che Jonas non si era mai visto rivolgere, non dall'Irlandese.
« Beh, se la trovo da queste parti potrei anche provarci, peccato che non abbia la più pallida idea di cosa sia diventata da grande.»
Con una smorfia crucciata Jonas chiuse gli occhi maledicendosi da solo. Nathan, ora al suo fianco, storse la bocca e fece per dargli una pacca sulla spalla, per dirgli che non poteva saperlo, ma si bloccò a mezz'aria, il movimento interrotto dall'imbarazzo dilagante che si portava dietro da prima.
« Capita di spararla grossa, non farne un dramma.» disse comunque a bassa voce, osservando Cade voltarsi e trotterellare allegro verso Eliza che, nel mentre, continuava a piccoli passi ad avvicinarsi ad un mastino. Che fosse effettivamente felice però Nathan ne dubitava fortemente.
« No.» lo riportò al presente Jonas, « Lo sapevo invece.» tentennò per una attimo, sembrava volesse dir qualcosa di importante ma che ne avesse quasi paura, un dubbio che forse temeva Nathan avrebbe deriso.
Assumendo una posizione più eretta e sicura di sé, il soldato puntò lo sguardo dritto sulla schiena di Eliza e chiese con voce ferma, quasi fosse un ordine: « Cosa c'è?»
Jonas non lo guardò, rimase anche lui a fissar l'Irlandese e la figlia di Nike che si avvicinavano sempre di più e apparentemente senza problemi, al mastino sdraiato lì vicino.
« Tutta questa situazione.» iniziò con tono vago ed incerto, « Quando ho visto il cancello io- ero io quello ad aver problemi, non lui. Cade mi ha aiutato. Non so perché, ma lo fa sempre, sin da quando mi ha visto la prima volta. » sentiva un nodo alla gola, sentiva quanto fosse importante dire a Nathan che Cade era molto più di quello che appariva, che gli aveva salvato quella finta vita infinita che stavano vivendo. Al contempo sentiva anche di non dover dir tutto, di doversi tenere alcune cose, alcune impressioni per sé.
La verità era che di quel folle rosso aveva imparato, non sapeva bene come neanche lui, a fidarsi in modo quasi cieco, mentre del soldato ancora non si fidava, non del tutto, non per tutto. I soldati, ai suoi tempi, non erano belle persone, ti deridevano, ti facevano angherie di ogni tipo, ti spintonavano, ti insultavano e ti picchiavano. I soldati, ai suoi tempi, uccidevano il tuo vicino e tu dovevi star zitto e fingere anche di esserne felice. I soldati, ai suoi tempi, ti uccidevano e potevano farlo anche senza nessuna scusa, ma nel caso ne servisse una ne avevano sempre tantissime tra cui scegliere.
Nathan non era uno di quei dannati mostri vestiti di nero, ma non aveva la più pallida idea di come fossero diventati gli americani, di come fosse quel futuro che non aveva mai visto.
« Dice che è istinto da fratello.» borbottò Nathan.
Jonas sorrise amaramente. « E io sono riuscito a far una battuta su sua sorella.»
« Quindi ne aveva davvero una?» domandò quello senza reale interesse.
Il ragazzino annuì. « Più piccola, non so di quanto di preciso. Sperava di rivederla una volta tornato in vita ma… da quel poco che mi ha detto, non ci siamo più con i tempi.»
Nathan annuì. « Poi?» chiese ancora assottigliando lo sguardo per metter bene a fuoco Eliza che dava una manata sul petto a Cade per fermarlo dall'avvicinarsi troppo al Mastino Infernale.
« Da quando siamo arrivati sotto quel palco… quando ha visto le Cacciatrici credo, è diventato molto più cupo. Non so come si sia comportato con voi prima ma ho come la sensazione che questa prova non faccia per lui.»
« Correre dietro alle cose sembra piacergli. » rispose con un grugnito infastidito. « e anche trascinarsi dietro le persone a quanto pare.»
Jonas sorrise mesto. « Già. Non è bellissimo correre
Il silenzio che si frappose tra i due era inquieto, tipico di chi non sa cosa dire, non sa come dirlo.
Jonas continuò a guardare gli altri due compagni finché non si ricordò che in quella strana combriccola erano in cinque.
Volse la testa a destra e manca ma si rese conto ben presto che Jane era circa dieci metri dietro Eliza e Cade. La vedeva protesa in avanti, a bisbigliare qualcosa ai due impavidi probabilmente, senza però avvicinarsi come stavano facendo loro.
Nathan anche se ne accorse, gettò uno sguardo a Jonas, uno di nuovo a Jane e poi tornò alla sua posizione iniziale.
« Quando siamo arrivati qui, » iniziò attirando l'attenzione dell'altro, « quando il deficiente ci ha detto di fermarci perché stavi male- »
« Non stavo male.» rispose subito piccato.
« come ti pare- quando ci siamo fermati, comunque, la ragazza delle praterie ha detto che “non stavi male” per colpa del cancello, che ti ricordava quello dei Campi di Pena.»
In un secondo un freddo denso e umido avvolse Jonas, una sensazione di vuoto nello stomaco, la voglia di vomitare anche se non aveva più niente da rigettare, neanche succhi gastrici. Un leggero sudore freddo cominciò ad imperlargli la fronte, ad appiccicare la camicia alla schiena. Chiuse gli occhi e deglutì a vuoto.
Lo sapeva, sapeva che sarebbe arrivato il momento in cui uno di loro avrebbe chiesto spiegazioni, avrebbe preteso risposte. Era stato troppo fortunato fino a quel momento, aveva avuto modo di parlare solo con Cade che si era sostanzialmente fatto gli affaracci suoi, ma ora era con Nathan e lui non aveva l'aria di uno a cui sarebbe andato bene un “non sono affari tuoi”, e neanche l'aria di uno a cui potevi dire balle. Jonas non aveva il coraggio di guardarlo in faccia, di dirgli che sì, veniva dai Campi di Pena, non aveva il coraggio di dirlo a testa alta, di dire perché c'era finito, quale fosse il suo crimine, quale fosse il suo peccato, dove fosse stata reclusa la sua anima per l'eternità.

VIII Terrazza. Codardi. Coloro che in vita sono fuggiti anche da ciò che amavano per paura di non poterne affrontare le conseguenze, coloro che hanno abbandonato il campo per paura di morire, che hanno finto di non conoscere, non sapere, non vedere, non udire per paura di qualcosa di più spaventoso della dannazione eterna. Coloro che fuggono, da ogni tipo di evento.
Codardi.

Come me.

Voleva fuggire, andarsene il più lontano possibile da quel giovane uomo e dalle sue domande, non voleva vedere la pietà, il biasimo, l'orrore ed il giudizio negli occhi di un'ennesima anima. Voleva solo andarsene come il codardo che era e che sempre sarebbe stato.
C'era una rabbia repressa che gli batteva contro lo sterno, al ritmo impazzito di un cuore che non aveva più, qualcosa che si mischiava alla paura di essere giudicato, di esser allontanato e disprezzato, di non essere, ancora una volta, ciò che ci si aspettava lui fosse.
Avrebbe voluto urlare, battere i piedi, prendere a pungi quel bel biondo tutto serio e fiero e dirgli che lui non sapeva niente, che non poteva dirgli nulla, che non conosceva la sua vita. Avrebbe voluto dirgli tutte quelle cose anche se fino a quel momento Nathan si era limitato a far una piccola constatazione e non aveva aggiunto altro, aspettando con pazienza una risposta che forse non sarebbe mai arrivata.
Chiudere gli occhi, piangere disperato e gettarsi a terra sperando che nessuno lo vedesse.
Non voleva parlare, non voleva dire, non voleva ammettere.
Poteva tornare a casa ora?

« I-io… »
« Non so perché ci sei finito e- e non mi interessa.»
Jonas lo guardò allucinato, voltandosi di colpo e ritrovandosi a fissare il profilo aquilino del biondo.
Aveva tentennato? Il grande figlio di Ares? Cosa?
« Sono stato in guerra, ci sono morto, so che- ho visto persone rette e giuste fare un singolo passo falso e gettare al vento la reputazione e le azioni di una vita. Ho rivisto quelle persone qui negli Inferi, le ho viste giudicate colpevoli e gettate nella fossa solo perché come ogni essere umano hanno avuto paura in un momento di debolezza. » continuò a voce bassa, ben modulata, « Perciò, fintanto che ti comporti come si deve, che fai la tua parte, che non crei problemi, e dubito fortemente che tu possa crearne più di quel roscio del cazzo, allora continuerà a non interessarmi, però… che mi piaccia o no, che ci piaccia o no, ora siamo una squadra, dobbiamo contare gli uni sugli altri, arrivare ad esser solo noi in gara e poi combattere gli uni contro gli altri per far sì che l'anima più degna torni a camminare sulla superficie di questa terra. Non so neanche come sei cresciuto o da che epoca vieni, ma impara che quando hai un problema e fai parte di un gruppo, il problema diventa di tutti. Né io né Eliza ti diremo nulla, siamo entrambi pronti a darti un'opportunità, il beneficio del dubbio, ma sappi anche che alla prima mossa falsa ti ritroverai tra due fuochi.» quell'ultima frase l'aveva detta con un po' più di forza, come se stesse cercando di comportarsi come sempre, con lo stesso tono perentorio e arrabbiato.
L'aveva accettato, in un qualche modo, gli aveva detto che gli andava bene girare e combattere al fianco di un dannato, aveva… aveva semplicemente detto okay. Certo, poi l'aveva anche minacciato, ma questo era il minimo e-
« Anche se » si fermò, tenne lo sguardo su qualcosa, su qualcuno, e poi, finalmente, lo guardò negli occhi.
Una luce verde brillò nelle iridi ghiaccio di Jonas, una brezza lontana, profumata di fragole e acqua salmastra, gli arrivò dritta al cervello, come un lontano ricordo, qualcosa di amato e ormai perduto.
Dietro il ragazzino un campo coltivato costeggiava una vecchia casa coloniale dall'intonaco bianco. Sulle scale un cesto vuoto. In mezzo ai campi una figura sfocata, con una maglia chiara ed un cappello di paglia a coprire il capo scuro.

 

« Nathan? Mi dai una mano?»

 

Una risata sbiadita.
 

« Non è proprio il tuo forte fare discorsi lunghi ed articolati. Su, dai, dillo a parole tue, è sempre meglio quando dici le cose così come stanno, semplici, dirette.»
 

Clangore di metallo in lontananza, il vociare placido di decine e decine di voci, il suono fantasma di una cedra e di un flauto a canne.
 

« Non sono le persone forti quelle di cui devi temere l'ira. Ho imparato che spesso, le persone più spaventose e terribili quando s'arrabbiano, sono quelle che di solito sorridono sempre, quelle sembra non abbiano un solo problema nella vita e che invece tengono un peso enorme sulla schiena. Se hai un amico del genere non tradirlo: lui ti darà anche il cuore ma se tu glielo spezzi, lui spezzerà te.»
« Cazzo se non sei melodrammatica.»
« Cazzo se non sai come rovinare l'atmosfera!»

 

« Anche se, malgrado non mi piaccia ammetterlo e negherò di averlo detto anche a costo di finire io nei Campi di Pena, ho la vaga sensazione che quello che non ti conviene tradire sia proprio Cade.»
Jonas continuò a fissarlo in silenzio, abbassando il capo per poi rialzarlo subito dopo, animato da un qualche pensiero, uno spirito d'orgoglio che improvvisamente si era rifatto vivo in lui.
« Non sono quel genere di persona. » disse sfrontato. « Non è per quello che sono finito all'Inferno.»
Nathan annuì. « Buon per te, ma non fregare comunque il rosso.»
Un grugnito simile ad uno sbuffo divertito scappò dalle labbra pallide del tedesco.
« Il Grifone.» disse solo.
« Cosa? Che c'entra mo?»
L'altro scosse la testa. « Nulla, è solo il soprannome di Cade. Dice che lo chiamavano così.»
« Perché rompeva il cazzo come quelle bestie del demonio?» chiese infastidito.
Suo malgrado Jonas si ritrovò a sogghignare. « Ne hai conosciuti molti?»
« Un allevamento. Una missione di merda. Se il pazzo è stronzo solo la metà del nome che si è scelto allora siamo davvero nella meda.»
Facendosi scivolare le mani in tasca Jonas si strinse nelle spalle. « Non se l'è scelto, dice che glielo hanno dato.»
« E chi? Il grifone per i mortali è un essere mitologico forte e figo, chi è lo scemo che c'ha chiamato lui così?»
« E che ne posso sapere io?» sbottò infastidito. Poi tornò serio. « Ma forse sarebbe più logico chiedersi “perché l'hanno chiamato così”?»
Nathan gli lanciò un'occhiata di sbieco, pronto a rispondere quando un'imprecazione degna non del figlio, ma di Ares stesso, li costrinse a rigirarsi verso i loro compagni.

« MA PORCO DI QUEL DI-!»
« CADE!>

 

Jane se ne stava seduta a terra, le gambe piegate sotto il sedere e le braccia incrociate al petto. Con il capo voltato di lato e quell'espressione arcigna pareva la replica di un moccioso appena beccato con le mani nel barattolo della marmellata e sgridato a dovere.
Togliendo la marmellata, la verità non si discostava troppo dall'apparenza.
Il rosso malpelo non faceva altro che camminare avanti e indietro borbottando qualcosa in una lingua che non conosceva e che per quanto la riguardava poteva anche esser un qualche rito satanico.
Ugh, era lei la strega li in mezzo, doveva smetterla di farsi cogliere da quei frammenti di passato che le si accendevano nella mente come ciocchi scoppiettanti.
La cosa peggiore era che, per una volta, Cade aveva tutto il diritto di arrabbiarsi con lei e di lamentarsi a dovere.
Ignorando completamente l'Irlandese che imprecava in quello che, a questo punto, doveva essere proprio l'idioma delle sue terre natie, Eliza ne se stava ritta e pensierosa davanti a lei e gli altri due biondi, le braccia sui fianchi e l'aria di chi finalmente aveva capito qualcosa.

« Eravamo arrivati praticamente davanti a lui, si era accorto di noi e ci stava guardando, ma pareva anche essersi reso conto che non eravamo una minaccia, che non gli avremmo fatto del male.»
« Non è come se potessimo scegliere se fargliene o meno, Artemide ha vietato di ferirli.>
« Ha vietato di ucciderli, il che è ben diverso.»
« Ne sei sicura? A me pareva avesse detto che non dovevamo proprio ferirli in alcun modo… »
« Quello che ha detto ha detto! Non è questo il problema!» sbottò Cade fermandosi solo per ringhiar malamente il suo pensiero.
Nathan alzò un sopracciglio. « Se ti rode il culo grattatelo.»
« Se volevo la tua opinione te la chiedevo!»
« Se non vi state zitti vi do un pungo in bocca a tutti e due!» lì zittì Eliza fulminandoli con lo sguardo.
« Non è colpa mia se al cretino girano le palle da quando siamo entrati qui.» borbottò il soldato con una smorfia.
« Mi girano solo perché, a quanto pare, questa prova del cazzo non la possiamo fare tutti assieme aiutandoci a vicenda, perché se no sarebbe troppo facile Dei dell'Olimpo! Ma saremo costretti a farla tipo in due! E poi voglio sapere come gliela facciamo prendere a lei la dannata medaglietta!» proruppe poi in direzione di Eliza indicando però Jane.
Jonas dal canto suo aggrottò le sopracciglia. « Qual è il problema quindi? Jane non può avvicinarsi ai cani?»
La figlia di Nike fece un gesto secco con la testa, ma fu di nuovo Cade ad intervenire:
« Esatto! Non è che puzziamo e per questo i mastini si scansano, è che non vogliono Lei! C'eravamo arrivati così vicino, non ci stava dicendo niente, ci guardava incuriosito. Poi arriva lei e BUM! Il dannato cane infuocato si alza come una furia e scappa. SCAPPA! » urlò calciando la terra.
Eliza lo guardò sospirando. « L'ha presa bene, sì.»
Il problema quindi era abbastanza semplice: i mastini dovevano fiutare in un qualche modo la magia di Ecate e per questo si defilavano non appena la figlia gli si avvicinava.
Nathan però scosse la testa, i mastini non avevano mai avuto paura dei figli di Ecate, quindi forse il problema non era da chi discendeva, ma da dove veniva.
« Potrebbe essere l'odore delle Praterie a dar loro fastidio.»
« Ma c'abbiamo camminato tutti, per ore o giorni che fossero. » disse Jonas.
« O minuti. Non sappiamo come passi il tempo qui.» gli fece notare Eliza.
« Allora cos'è ?»

« E se fosse l'aura?» La voce ancora un po' gracchiante di Jane fece catalizzare tutta l'attenzione su di lei che sogghignò sinistra. « Mi hanno detto che ho un animo un po' vendicativo, magari lo sentono e gli da fastidio.»
« O magari si sono solo resi conto che sei una pazza psicopatica, chi può dirlo.» sorrise Cade riavvicinandosi al gruppo.
Eliza lo guardò male. « Non ricominciare.»
« Era una congettura.»
« Però potrebbe essere.» intervenne Nathan. « Hai fatto qualche grande cazzata in vita? Ho hai un temperamento crudele, violento?»
« Se è per la violenza allora dobbiamo escludere anche te.» gli fece notare Eliza. « Ares è famoso per questo.»
« Nike no?» domandò curioso Jonas.
La mora scosse la testa. « Non necessariamente, mia madre è la Dea della Vittoria e si può vincere in molteplici modi. La violenza non è la risposta a tutto, se la ritirata porterà a vincere allora Nike appoggerà questa scelta. Che sia silenzio, rumore, quiete o tempesta, a patto che ciò porti alla vittoria, mia madre lo farà.»
« Mentre per Ares la vittoria è supremazia, schiacciare l'avversario, vincere la guerra e farlo nel modo più fisico, violento e totalizzante possibile. Ci sta, quindi gli sto sul cazzo pure io?»
« E sarebbe una novità?» sorrise Cade e prima che il soldato potesse replicare, « Però ho avuto la netta sensazione che i mastini schivassero un poco anche Jonas.» disse voltandosi verso il ragazzino.
Quello scosse la testa senza una risposta. « Se è davvero l'aura… »
« Tu ne hai una spaventosissima- Huuuuuuu!»
« Smettila di fare il coglione!»
« Smettila di fare il moccioso!»
« Smettetela tutti e due! Ancora una volta!»
Eliza li guardò malissimo, se fosse stata ancora viva star tra quei due le avrebbe fatto venire un'emicrania terribile, lo sapeva per certo.
Un movimento leggero fece voltare tutti nella direzione di Jane, la giovane si era seduta meglio a terra, incrociando le gambe sotto la veste logora, facendo ben attenzione che non un solo lembo di pelle fosse visibile sotto il tessuto sporco.
« Quindi? Voi che siete “grandi ed esperti eroi” avete un piano?»

 

 

« Che se me lo chiedi, è un po' un piano di merda.»
« Quando ci siamo conosciuti non le dicevi tutte queste parolacce, star con Nathan ti ha fatto male.»
Eliza alzò gli occhi al cielo e cercò di sciogliersi un poco le spalle con movimenti rotatori, indecisa se puntare il grande cane nero alla sua destra o alla sua sinistra.
« So che può sembrare assurdo, ma credo sia più probabile il contrario: sono io il più grande e sono anche quello che ha vissuto più in mezzo a persone del genere.»
« Ricorda che Nathan era un marinaio.»
« Era un soldato marinaio. Un bagnino all'atto pratico. Ehi! Perché diamine non l'ho chiamato ancora così? Si arrabbierà tantissimo!»
Eliza sbuffò, mastino di destra, deciso. « Ti piace così tanto far arrabbiare le persone?» domandò senza vero interesse.
Cade però annuì convinto. « Era il modo migliore per capire chi potevi- era il modo migliore per capire chi avevi davanti. Se provochi qualcuno lui reagirà in vari modi e questo ti darà la possibilità di scegliere come comportarti tu. Hai un vantaggio.»
La donna aggrottò le sopracciglia e si volse verso il compagno. « Perché dovevi capirlo? Che lavoro facevi?»
Era la prima volta che gli faceva una domanda così diretta e personale, ma tutto quel giro di parole, quella necessità di comprendere come reagirà una persona sotto pressione, l'aveva incuriosita, le aveva fatto accendere un campanello nella testa.
Cade si strinse nelle spalle e sorrise. « Vivevo alla giornata, io e i miei ragazzi facevamo lavoretti di tutti i tipi. Abbiamo lavorato anche al porto, era bello grande, attraccavano navi da tutto il mondo, ne partivano per andare in Asia, era divertente. Certo, se non conti che ti spaccavi la schiena… però rimediavamo sempre qualcosa dai vari carichi. Una volta abbiamo addirittura beccato delle spezie, il tipo che le aveva portate diceva che il carico era stato danneggiato durante la traversata ma a noi pareva più che buono. Ce lo diede come pagamento per il lavoro svolto, l'abbiamo rivenduto a prezzi da capogiro! Quella settimana abbiamo mangiato davvero bene.» raccontò tranquillo, incrociando le braccia dietro al collo.
Eliza annuì, non voleva chieder altro, entrare troppo nei particolari, malgrado quel ” i miei ragazzi” le avesse solleticato la mente.
Tornò a guardare il mastino, che li stava fissando di rimando e aveva alzato la testa, sbuffando una fiammata che scivolò sulla terra bruciacchiata ed accese qualche fiammella tra i sassi.
Non avevano un'arma per difendersi, se non si contavano i guanti metallici di Cade, che però sarebbero stati usati solo ed unicamente come protezione per prendere la targhetta e non per attaccare, ma alla fin fine, seppur divini, erano sempre cani, quindi il piano era cercare di calmare il mastino e rubargli la medaglietta senza scatenar trambusto.

« Io lo tengo a bada, tu avvicinati e prendi la medaglia.» disse sicura. Quando però non ricevette risposta fu costretta a girarsi e rimase piuttosto crucciata dall'espressione dell'altro.
Cade fissava il mastino immobile, pallido come solo un morto potrebbe esserlo ma troppo persino per loro, anime estinte. Sembrava che stesse per svenire da un momento all'altro, con quel leggero velo lucido di sudore che gli imperlava la fronte. Apriva e chiudeva le mani, solo quelle, pareva gli si fossero addormentate e non riuscisse più ad aver tatto.
Che diamine gli prendeva? Stava male anche lui?
« Cade? Cos'hai?» domandò preoccupata avvicinandosi a lui.
Il giovane scosse la testa. « Nulla.» disse troppo in fretta per esser vero.
Eliza continuò a studiarlo allarmata. Non poteva farla preoccupare anche lui, non più di quanto già non avesse fatto in precedenza. Erano gli unici in grado di avvicinarsi tranquillamente ai Mastini Infernali, solo loro due su cinque persone nella squadra, se fosse crollato anche Cade avrebbe dovuto far tutto da sola e non sapeva se la sua esperienza sarebbe bastata. Non senza ricorrere alla forza.
« Non mentirmi.» l'ammonì. « Hai problemi con i cani? È questo? Ti spaventano?»
Il verso di scherno che scappò dalle labbra violacee di Cade le fece tirare un sospiro di sollievo: se era ancora in grado di ridere anche della gente preoccupata per lui allora andava tutto bene. Quasi.
« Non dire assurdità! Non ho paura dei cani, anche se sono alti due metri e potrebbero mangiarmi in un boccone solo.» affermò incrociando le braccia al petto.

Sì, come no.

« Quindi cosa?» domandò ancora alzando gli occhi al cielo e guardandolo scettica.
Cade la fissò per qualche secondo, palesemente dubbioso sul da farsi. Poteva fidarsi di lei, no? Non era Nathan, non l'avrebbe preso per il culo per tutta la vita, o la morte, o quel che era…
Con una smorfia tirata Cade abbassò lo sguardo.
« Non dirlo a Nathan.»
Eliza batté le palpebre sorpresa. Aveva appena chiamato Nathan per nome? Ed aveva davvero abbassato lo sguardo? Non la stava più guardando, si… si vergognava?
« Puoi fidarti di me, credevo che oramai l'avessi capito.» gli disse comunque con tono più dolce. Sembrava che gli stesse per confessare qualche oscuro segreto, qualcosa legato alla sua vita passata oppure-

Alla sua morte?

Elizabeth rimase bloccata, drizzò la schiena ed aprì le spalle, pronta a qualunque confessione. Possibile che Cade fosse morto per colpa di alcuni cani? Durante la guerra le era successo spesso di sentir girare storie terribili, soldati che avevano visto Sudisti lasciare i propri schiavi in pasto ai cani. Si diceva che altri ancora ferissero gli schiavi e poi li costringessero a correre nei campi o nei boschi per poi liberare i segugi e lasciar che li portassero da quelle povere persone, come una comune battuta di caccia, come se stessero andando a procurarsi di che vivere. I cani trovavano gli schiavi feriti, li rintracciavano grazie all'odore del sangue, sentivano i rami schioccare sotto il peso dei loro passi affaticati, udivano i lamenti di dolore, quelli di terrore, le lacrime che non riuscivano a trattenere.
Che quella fosse stata la stessa fine di Cade? Dio, sperava di no… però, non aveva ferite gravi, non vedeva cicatrici al collo, non ne aveva viste sulla braccia e di solito i cani da caccia miravano alla giugulare, o prendevano gli arti perché le prede si rannicchiavano su sé stesse.
Ma dopotutto, neanche le sue di ferite si vedevano più, magari erano state rimarginate da qualche guaritore degli Elisi.
Cade accennò un sorriso senza gioia, spiando di sottecchi il mastino che ora non li guardava più, ma teneva le orecchie dritte, pronto a captare qual si voglia movimento.

« Non sono i cani. Fanno paura così grossi ma- anche io ho combattuto, per la mia città, anche io sono stato “in guerra” in un certo senso. Non come la tua o come quella di Nathan non- non in quel senso. Ma ho visto di peggio. Mi piacciono pure i cani. Sono enormi ma so che posso affrontarli, sono troppo veloce e loro troppo grossi, non mi starebbero dietro.» disse con una punta di arroganza che fece accennare un sorriso anche ad Eliza.
« Cosa ti turba allora?» chiese allungando una mano per sfiorargli il braccio.
Quel semplice tocco, così naturale, così leggero, parve quasi rilassare il giovane.

Contatto umano. Cade ha sempre detto di aver avuto tanti amici. Deve farlo sentire a suo agio essere vicino a qualcuno, condividere gesti come questi.

Con quella consapevolezza poggiò la mano sulla giacca vecchia e scolorita del compagno, stringendogli la spalla ed incoraggiandolo a continuare.
« Quello. Mi innervosisce quello.» sussurrò in fine, come se avesse appena confessato il suo crimine più grande, indicando qualcosa di fronte a loro.
Eliza si volse un secondo, solo per mettere a fuoco l'oggetto di tanti problemi. Non appena capì di cosa stava parlando rafforzò la presa, non poteva credere che avesse resistito tutto quel tempo senza dir nulla, se la paura nei suoi occhi era la stessa che aveva provato fino a quel momento allora Cade era davvero molto più forte di quanto non credesse.
« È… è così che sei morto? Ascolta, non devi per forza fare questa cosa con me, chiederò a Nathan di aiutarmi, tu potrai prendere solo la tua targhetta e poi non pensarci più.» iniziò tentennante ma poi acquistò sicurezza, cercando gli occhi di Cade, chinando il capo per poterli intercettare e fargli capire quanto fosse seria.
Fu un peso che le si sollevava dal petto quando il ragazzo alzò lo sguardo e le sorrise sincero, un velo di imbarazzo, no, timidezza? A colorargli quelle iridi già così verdi ed accecanti.
« No. Non ce n'è bisogno. Posso farcela devo- solo, dammi un minuto. Ho affrontato di peggio, posso farcela. » poi mosse il naso, arricciandolo come un bambino, « Ma lo apprezzo molto.»
Eliza sorrise fiera d'esser riuscita in qualche modo a risollevarlo di morale.
« Abbiamo tutto il tempo del mondo.» gli ricordò rilassando finalmente la fronte crucciata.
Cade annuì. « Vero e- Eliza? Grazie. » disse sincero.
Si era resa conto, con un po' di fatica, che quella gara le aveva portato tanti problemi ma che l'aveva anche fatta sorridere più di quanto non facesse da una vita, da tutta la vita.
Con l'ennesimo sorriso a tirarle le labbra Elizabeth alzò il mento fiera e sicura come lo era sua madre.
« Credevo che tu più di tutti dovessi saperlo: gli amici servono anche a questo.»


Cade non poté far altro che scoppiare a ridere.

 

*

 

Doveva ammettere che quando Eliza gli aveva detto di rimanere indietro con la tipa inquietante e con il moccioso, Nathan se ne era leggermente risentito. Le argomentazioni della donna però erano state fin troppo giuste e logiche, qualcosa che il biondo non aveva e al contempo aveva incredibilmente apprezzato. Qualcuno lì in mezzo che, oltre a lui, pensasse seriamente ad una strategia era solo un bene. Anche se suddetta strategia implicava lui bloccato a far da balia alla strega mezza sega, perché dopo quella magnifica bussola magica Jane non aveva dato segno di voler utilizzare ancora la sua magia, quindi per logica conseguenza significava che era una mezza sega in combattimenti o simili; e con il bambino del nord, che avrebbe potuto spezzare solo con un braccio, che pareva costantemente in preda a cambi d'umore più violenti di quelli di una donna incinta, che veniva dall'Inferno propriamente detto e che, gli Dei soli sapevano il perché forse, aveva una collana lucidissima, di metallo probabilmente, argentea, che pareva un filo spinato, legata a quel collo da cerbiattino che si ritrovava.
L'unica cosa che avrebbe potuto peggiorare quella situazione sarebbe stato Cade. Che sì, non era neanche degno di esser etichettato come anima ma direttamente come cosa.
Il rosso non gliel'aveva mai detta giusta ed era ironico che Nathan riuscisse a fidarsi molto di più di un dannato che di qualcuno che veniva dagli Elisi. Alla fine dei conti però, se proprio doveva esser sincero con sé stesso, e almeno con la sua stessa coscienza gli conveniva esserlo, poteva dire che più che non fidarsi proprio di Cade non riusciva a capirlo fino in fondo. In quelle due prove, poi, non si era mai sbottonato su temi davvero importanti: chi era il suo genitore divino?
Chiamando di nuovo in causa quella logica che lo infastidiva da un bel po', Nathan qualche opzione ce l'aveva.
Per prima cosa era sfrontato da morire, reggeva il confronto con lui, che era un figli di Ares e di solito intimoriva tutti, ma anche con Eliza che era figlia di Nike, e di solito ci pensavi sempre due volte prima di metterti contro una figlia della Vittoria. Questo significava per forza di cose, almeno per lui, per cosa aveva imparato al Campo, che il genitore divino di Cade doveva essere uno dei Grandi Dodici. Escluse a priori Ade, perché se quel coglione era un figlio del Dio dei Morti all'ora il fato era proprio una puttana e il karma pure, entrambi con un pessimo senso dell'umorismo. Però no, niente Ade, sicuro a palla.
Escludeva anche suo padre, Nathan avrebbe riconosciuto al volo un suo fratello. Non poteva essere figlio di Atena, Artemide andava eliminata in ogni caso, Era pure, dubitava fortemente di Apollo, perché sapeva riconoscere anche quegli stronzetti, come la biondina con cui litigava sempre per le piante. A proposito di piante: Demetra assolutamente no. Efesto neanche, era troppo stupido Cade. Afrodite… mh, forse? Aveva un certo fascino con cui aveva ingannato un bel po' d'anime sorpassandole in fila, quindi non era da escludere, per di più, Afrodite era una Dea ben più antica di molti altri, forse… ma in caso non fosse stato figlio suo ne sarebbero rimasti ben pochi: Ermes e Dioniso erano ottime possibilità. Il Dio dei ladri sarebbe stato un padre perfetto per quel farabutto, ma era anche vero che Cade era in grado di farti impazzire anche solo girandoti attorno…
Questo però non spiegava i grandiosi salti che riusciva a spiccare. Dioniso era il dio dell'ebrezza e poteva portare i suoi adepti a far cose straordinarie, ma da qui a sollevare un ragazzone come lui, in volo, per oltre dieci metri, con una semplice spinta delle gambe, non era possibile. A meno che non fosse una menade e non ci fosse luna piena. Dubitava.
Ermes era già più logico: uno svelto di mano come lui – aveva visto come giocava con quel coltellino – che sapeva sempre che direzione prendere, come districarsi in un labirinto in cui ogni via era intricata e sconclusionata… solo il dio dei viandanti poteva concedergli una grazia del genere.
Lui o…
Incrociando le braccia al petto Nathan scosse la testa. Non poteva essere un figlio di Zeus, nel modo più assoluto. Certo, questo avrebbe spiegato la sua capacità di “volare” letteralmente, quelle leggere correnti che l'avevano sfiorato alle volte e anche quella sua aria da superiore che tirava fuori di tanto in tanto, ma non voleva assolutamente neanche contemplarla come idea.

Malgrado sembri la più probabile…

Perso nei suoi ragionamenti Nathan ci mise un po' per rendersi conto di un rumore completamente fuori luogo in posto del genere.
Risa.
Erano trattenute, sfuggivano in piccoli singulti divertiti, seguiti da tonfi pesanti e costanti, il fruscio di un lazzo che mulinava nell'aria. Cosa diamine era?
Incuriosito il giovane si volse a cercare la causa di quel suono così sbagliato e rimase interdetto a fissare la scena che gli si parò davanti: un Mastino Infernale se ne stava in posizione di salto davanti a qualcosa coperto dall'enorme massa del mostro. Teneva il sedere alto, scodinzolava ad una velocità tale da sembrare le pale di un elicottero. Alzava il muso sbuffando fumo e poi lo riabbassava fissando l'oggetto del suo interesse, saltando di tanto in tanto per incitarlo a muoversi.
Quando il mastino scartò di lato Nathan ebbe lo scorcio veloce di una figura alta e chiara, sia nella pelle che nel vestiario, così come nei capelli corti che le solleticavano a mala pena le spalle.
Poi il mastino le fu di nuovo davanti e non riuscì a veder null'altro.
Che il cane infernale stesse cercando di attaccare un'anima? Ma più che altro pareva giocarci, pareva divertirsi, come se aspettasse il lancio di un bastone da riprendere. E quei suoni poi, sì, erano decisamente risa divertite. Ma chi cazzo si sarebbe mai divertito a star faccia a faccia con un enorme cagnaccio pieno di protuberanze ossee e- un attimo: e il fuoco?
Battendo le palpebre velocemente si rese conto che quel mastino non aveva lingue di fuoco addosso, non aveva neanche quei maledetti spuntoni sulla schiena e sulla coda, sembrava quasi che li avesse ritirati per non far male alla ragazza con cui stava giocando.
Un colpo di tosse lo costrinse a distogliere lo sguardo: Jonas lo guardava curioso dietro a Jane, che a braccia conserte lo osservava con un sopracciglio alzato e l'aria di una che voleva sapere cosa diamine stesse facendo fermo imbambolato a fissare un mastino da cui, tecnicamente, si sarebbe dovuto tener lontano.

« L'ordine non era quello di star lontani dai mastini?» chiese con voce strascicata.
« Io non prendo ordini da nessuno.» la freddò subito Nathan.
« Tranne che da Elizabeth, a quanto pare.» sogghignò Jane socchiudendo gli occhi.
Il soldato fece lo stesso, ma solo per poterla guardar male. « Senti un po' - »
« Quella ragazza sta giocando con un mastino o i fumi dell'Ade cominciano a darmi alla testa?»
La domanda scioccata di Jonas interruppe la sicurissima discussione che sarebbe uscita fuori di lì a poco, qualcosa che di solito sarebbe successo con Cade ma che, a quando pare, poteva esser perfettamente sostituito dalla figlia di Ecate.
Attratta dalle parole del ragazzino anche Jane si volse ad osservare la scena surreale davanti a loro.
Per un attimo stettero tutti e tre in silenzio a fissare il mastino scodinzolante che abbaiava allegro a chissà chi, ma così come le tre anime studiavano senza parole il mostro così lui si accorse ben presto di loro.
Si mise improvvisamente in piedi, ritto e sicuro, con le orecchie alzate ed il muso puntato verso la volta rocciosa a fiutare qualcosa che loro potevano solo immaginare.
Era come una chiazza d'olio che si apre sull'acqua, scie distinte che si mescolavano per creare un composto ancor più denso e riconoscibile, che odorava di semidei, di poteri divini, di discendenze scomode e violente. Un miscuglio di tre Dei che assieme avrebbero potuto far solo danno, che portavano in sé l'oblio e la follia, la guerra ed il sangue, il dolore ed il rimpianto.
Le protuberanze ossee che fino a poco prima erano stati solo lievi decori sulla spina dorsale s'alzarono con prepotenza, lasciando una fumata di vapore che proveniva direttamente dal corpo bollente della bestia. Una fiammata improvvisa si espanse dal collo, inghiottendo la catena a cui sarebbe dovuta esser attaccata la medaglia, scivolando giù sulle zampe e su sul muso.
Il Mastino Infernale ringhiò prepotente contro le tre anime che, di reazione, fecero un salto indietro. Nathan si portò istintivamente davanti ai due, aprendo le braccia e schermandoli per quanto possibile da un attacco. Ma il mastino non si mosse, rimase lì a fissarli digrignando i denti e lasciando che dense gocce di bava traslucida colassero giù dalle fauci appuntite.

« No! Che fai? Cattivo mastino! Lascia stare le anime!»
Una voce femminile richiamò con decisione l'animale, che mantenne ugualmente la posa stoica e feroce ma diminuì un poco l'afflusso di fiamme al collo.
Nel silenzio che seguì quella breve e blanda sgridata si espanse il rumore costante dell'Area Cani, lasciando intercorrere abbastanza tempo affinché Nathan si rendesse conto di conoscerla quella voce, di conoscerla anche bene.

« Cazzo, dimmi di no.» disse a denti stretti chiudendo per un attimo gli occhi. Non poteva essere così fortunato, se l'era letteralmente chiamata.
« Cosa no? » domandò Jane guardandolo malamente, sospettosa come in ogni sua azione e parola.
Anche Jonas si sporse in attesa di risposte, malgrado fosse chiaro come il sole che il suo unico desiderio fosse quello di correre il più lontano possibile da un mastino che li puntava come fossero prede.

Ma prima che il soldato potesse dire alcun ché, la voce femminile rispose con lo stesso identico tono.

« Oh no. No, no, no no… non posso essere così sfortunata!»
Da dietro l'enorme cane nero uscì una ragazza dalle vesti moderne, quanto meno più vicine al vestiario di Jonas e Nathan. Indossava dei pantaloni dal taglio maschile, le scarpe di cuoio erano basse ma decorate con dei disegni punzonati, i fili delle stringhe ormai rovinati dal tempo e dalla morte. Ma non erano i pantaloni o la camicetta a risaltare in lei, non tanto quanto i suoi corti capelli biondi, con un lungo ciuffo a penderle sul viso prontamente ricacciato dietro l'orecchio. Il naso dritto formava una linea continua con la fronte, a guardarla di profilo pareva una di quelle antiche statue greche che Jonas aveva visto sui suoi libri e ai musei, una di quelle che Jane aveva a mala pena visto in qualche tomo della chiesa, che Nathan invece aveva potuto vedere anche in televisione, nelle mostre, nelle foto.
Doveva essere alta più di un metro e settanta, o almeno quello era ciò che Jonas si ritrovò a pensare vedendola di fianco al mastino, ma ogni pensiero sfumò via quando si ritrovò a fissare le iridi verdi della giovane. Erano di una tonalità così chiara da sembrar verde acqua, un colore tenue ma brillante, sicuramente sbiadito dalla morte e dal tempo.
Quella era già la terza persona con gli occhi verdi che incontrava e per qualche motivo fu l'informazione più importante che registrò.
La ragazza continuò a fissare Nathan e a farlo anche con un certo cipiglio infastidito, che i due si conoscessero? Che avessero vissuto assieme? Magari… gettò uno sguardo a Jane, cercando di capire se lei, figlia di Ecate, Dea della magia, fosse riuscita ad intuire qualcosa che Jonas poteva solo sospettare, ma anche la ragazza delle Praterie guardava l'altra anima sorpresa e imbronciata quasi quanto Nathan.

« Uhg, di nuovo lei… » borbottò a bassa voce.
Nathan però la sentì perfettamente e fece scattare la testa verso di lei. « La conosci?» domandò duro, come se la conoscenza o meno della nuova arrivata da parte di Jane potesse determinare quanto simpatica o meno la loro compagna potesse essergli.
Jane annuì. « In un certo senso… sono arrivata alla Casa di Ade con lei e un suo amico.»
« Jane? Sei riuscita ad uscire dal labirinto allora.» l'espressione sollevata della giovane durò poco, poi mutò in qualcosa di pericolosamente simile a quello che era lo sguardo di sua madre quando faceva qualcosa che non doveva. Jonas ne fu quasi inquietato, erano identiche dannazione.
« Quando sono uscita non ti ho vista. Se non fossi scappata avremmo potuto affrontare la prova assieme, spero sia andato tutto bene.» lo disse quasi come una provocazione, neanche sapesse che l'altra, in effetti, aveva avuto qualche problema tra i muri d'edera.
Letteralmente.
Jane arricciò le labbra in una smorfia quasi schifata. « Non avevo detto che avrei fatto la prova con voi, né che vi avrei aspettati per entrare nel labirinto. Non ho armi, sarebbe stata solo una perdita di tempo star in fila con voi.»
Le due donne si guardarono intensamente per alcuni secondi, prima che il mastino decidesse di far presente a tutti che era lì anche lui e che non bisognava abbassare la guardia. Allungando il collo nerboruto in avanti mostrò le zanne e ringhiò nella direzione di Jane, infastidito dal tono che aveva usato verso quella che, a quanto pareva, era la sua nuova compagna di giochi.

« Buono, buono.» lo carezzò subito la bionda per calmarlo.
Nathan si lasciò sfuggire un verso sprezzante. « Un Mastino Infernale che si fa ammaestrare da una figlia di Apollo, questo sì che è il colmo.»
Quella lo fulminò con lo sguardo. « Credo che il colmo sia che io ci gioco, con un Mastino Infernale, mentre tu non sembri neanche intenzionato a catturarne uno. Cosa c'è? Se non usi la forza bruta e non ti imponi di prepotenza su nessuno non sei capace di far nulla?» rispose a tono senza paura.
Il mastino, al suo fianco, spostò lo sguardo su Nathan come se avesse improvvisamente cambiato obiettivo.
Le cose si stavano decisamente mettendo male e non c'era neanche Eliza a calmare quel pazzo di un soldato.
A quanto pareva, per quella volta, la voce della ragione che fermava il riottoso guerriero e la ragazza inquietante, sorprendentemente uniti contro un “nemico” comune, sarebbe stato proprio lui.
Jonas prese un respiro profondo e si apprestò a far qualcosa che di solito non era da lui: far da pacere, parlare con calma e lasciar fuori i sentimenti per poter arrivare ad una soluzione pacifica. Niente botte di testa, colpi di matto, niente mordersi la lingua o lasciarsi intimidire dalla faccia astiosa di Nathan, dall'aura inquieta di Jane.
Fece un passo avanti, cercando di scostarsi da dietro il soldato, ma non appena lo fece quello lo riafferrò per un braccio e se lo ritirò dietro.

« Rimani dietro di me e non t'avvicinare a quel cazzo di mastino.»
« Pulisciti la bocca! Non posso credere che quella santa donna di tua madre non ti abbia insegnato a parlare.» scattò la bionda quasi schifata dal vocabolario di Nathan.
« Tu lascia stare mia madre!»
« Allora tu parla come ti ha educato, non come un volgare bruto da taverna!»
« Ma chi ti credi di essere, arcerina da strapazzo!» in ringhio di Nathan non superò quello del mastino ma fu abbastanza perché una vaga sensazione di rabbia si spandesse attorno a lui. Era forse il potere di suo padre?
Quella che, apparentemente, era una figlia di Apollo, non si fece minimamente toccare da quell'onda irosa che il suo nemico emanava e fece addirittura una passo avanti, agguerrita e seria come se vi fosse abituata, come se non avesse paura di affrontare qualcuno palesemente più forte di lei. Forse aver un Mastino Infernale al proprio fianco era una garanzia non da poco, ma Jonas aveva la vaga sensazione che anche in caso contrario la donna si sarebbe comportata allo stesso modo.

« Oh, ma certo, se non insulti non sei in grado di parlare, mi pare giusto. Sei sempre il solito schifoso borioso energumeno tutto muscoli e niente cervello che non sa sostenere una discussione civile!»
La tensione cominciava ad essere troppa, neanche la fuga dai mastini gli aveva messo tanta ansia quanto veder Nathan attaccare in quel modo una sconosciuta. Che diamine di problemi avevano avuto quei due? Che fossero stati al famoso Campo Mezzosangue assieme? Pareva che la bionda conoscesse persino la madre del soldato, che la conoscesse così bene da sapere che lo aveva educato come si doveva. Che razza di rapporto o legame c'era tra di loro?
Attualmente i problemi di Jonas erano altri, ma non poté evitare di porsi certe domande. Guardando Jane capì che la ragazza non l'avrebbe aiutato in nessuno modo e che anzi, probabilmente il momento in cui si sarebbe decisa ad aprir bocca sarebbe stato solo per metter altro carico su quella situazione già di per sé pesante.
Aveva già detto che rimpiangeva l'assenza di Eliza e Cade? Dio santissimo, Cade! Persino lui sarebbe stato in grado di stemperare quella situazione… beh, in effetti il rosso gli aveva dato prova d'esser in grado di far un po' tutto… va bene, non era quello il momento per pensarci, neanche a quelle cose, doveva concentrarsi, fare la persona matura e calmare tutti, come si era deciso a fare prima. Magari questa volta riuscendoci davvero.
Mentre i due continuavano ad urlarsi contro ed il mastino alzava sempre di più l'intensità delle sue fiamme, Jonas lanciò uno sguardo veloce a ciò che lo circondava: farsi prendere in fallo da un altro mastino proprio in quel momento sarebbe potuto esser fatale, sia perché li avrebbe potuti sbranare, sia perché Nathan, in un moto di rabbia, avrebbe potuto ferire, o peggio uccidere, il Mastino Infernale, e allora c'avrebbe pensato Artemide a fargliela pagare.
Non vide nulla però, la zona pareva stranamente tranquilla, neanche vi fosse un'invisibile campana di vetro a proteggerli, a delimitare l'area entro cui erano. Non c'era nessuno se non loro, il mastino della ragazza bionda ed un'altra anima che camminava a passo sostenuto all'incirca nella loro direzione.
Si strofinò le mani sui pantaloni, cercando di asciugare quel sudore fantasma che gli era calato addosso alla sola idea di doversi intromettere tra quelle furie sempre più animose e propense alla lotta. Dio, sperava solo che Nathan non si gettasse addosso alla donna, temeva proprio che il cane di quella sarebbe stato decisamente più veloce a reagire. Represse l'istinto di giocherellare con il suo bracciale di stoffa, quello di grattarsi la nuca, di sfregarsi il naso e anche il prurito sul piede che lo implorava di tamburellarlo a terra, di sfogare un poco di quella tensione che si era insinuata anche nelle sue membra.
Con una spinta di puro orgoglio e testardaggine, dicendosi che no, non poteva fare il frignone proprio in quel momento, che doveva fare la sua, che poteva imporsi su qualcuno e portarli alla ragione anche perché, cavolo!, quella volta ne aveva a palate di ragione! Non potevano mettersi a litigare in quel modo nel mezzo di una gara, tra sconosciuti o conosciuti che fossero, vicino ad un mastino, rischiando di scatenare un putiferio tale da richiamarne altri cento di dannatissimi mastini!
Jonas schivò facilmente il braccio ancora teso di Nathan e lo affiancò afferrandolo saldamente per una spalla.
Il mastino fissò subito lo sguardo cupo su di lui, Jane piegò la testa curiosa come un'inquietante avvoltoio che aspetta di veder che fine farà la sua preda, l'anima solitaria che vagava per le praterie si avvicinava sempre di più, un vento inesistente soffiava quieto tra le loro gambe, la scossa elettrica fu così forte che Jonas non ci mise che un attimo per lasciar andare il compagno, ma ormai era già troppo tardi.

« Nathan! La vuoi piantar- AH! » ritraendosi di colpo Jonas portò la mano al petto e la strinse con l'altra, percorso da un dolore acuto e velocissimo che lo scosse da capo a piedi.
La ragazza si zittì immediatamente, lo sguardo verde acqua che scattò veloce e critico dall'arto offeso del più piccolo all'espressione illeggibile del più grande.
Jonas ebbe la sensazione d'esser sotto esame, ma non giudicato in sé, come anima e persona come avevano fatto tutti coloro che l'avevano incontrato là all'altro mondo, bensì esattamente come faceva un tempo il suo medico ogni qual volta si presentasse al suo studio per colpa di una delle sue crisi. Era uno sguardo analitico, medico.

Figlia di Apollo, Dio protettore dei medici e della medicina.

L'occhio attento della giovane però si soffermò solo per poco su di lui, poi la sua attenzione fu tutta su Nathan che, immobile, la fissava ad occhi sgranati.


La bionda non batté ciglio, rimase ad occhi aperti ad osservarlo, ma Nathan non vedeva più ciò che gli stava accadendo attorno.
Lentamente quella fastidiosa figlia di Apollo chiuse le palpebre e le riaprì con ancor più letizia, come una sirena ammaliatrice che scopre lentamente il suo sguardo ipnotico, il fascino mortale. Le iridi verde acqua erano ora verdi come i prati, come i campi di fragole, contornati da folte ciglia nere, corte ma fitte, una cornice di fili scuri che si andavano mischiandosi a qualche ciuffo scappato dall'acconciatura di fortuna fatta solo per aver un po' di pace da quel caldo torrido che aveva preso Washington nell'estate dei suoi ventun anni. Il volto dolce, l'espressione beffarda ma rilassata. Era così bella, così bella e così lontana. Rimaneva così poco tempo e ora Nathan lo sapeva, sapeva perfettamente cosa sarebbe successo di lì a poco, come il suo mondo sarebbe cambiato nel giro di due anni, come si sarebbe piegato a leggi che mai avrebbe potuto infrangere, a eventi che mai avrebbe potuto impedire.
Avrebbe voluto dirglielo, dirle ogni cosa, avvertirla di ciò che sarebbe stato.
Voleva allungare la mano e toccare quelle braccia abbronzate, quelle mani callose, con le unghie sporche di terra. Voleva sentire il suono della sua voce, il modo in cui l'avrebbe schernito e ripreso, come si sarebbe messa a ridere e gli avrebbe detto di non fare il cretino, di pensare prima di agire.
Pensare. Pensare sempre, mai buttarsi nella mischia a testa bassa senza sapere cosa fare, mai lasciare che la furia oscurasse la ragione, soprattutto in guerra. E loro due, di guerra, ne sapevano molto, no?
Il tempo è fermo, l'aria sfuma, le immagini sbiadiscono. La donna davanti a lui è un miraggio, lentamente muta per diventare un riflesso piccolo e lontano. Nei meandri dei suoi ricordi una bambina dalle ginocchia graffiate tira su con il naso mentre si pulisce il volto dalle lacrime. Allunga la mano e finalmente lo guarda negli occhi.

 

« Lucy. Mi chiamo Lucy.»

 

Il tempo è fermo, l'aria sfuma e le immagini sbiadiscono. La bambina davanti a lui è solo un miraggio che lentamente muta e diviene il riflesso di una tenda nera in una stanza buia.
Il rimorso e il dolore sono forti solo come l'amore che lo legava a quell'anima, un baluginio che rimbalza da una superficie fredda come il ghiaccio – dolore, ansia ad una lucida come l'argento – amore, rimpianto – in un ritornello infinito, finché un'anima pietosa non l'avvolse in una stretta sicura, ponendogli le mani sugli occhi e costringendolo a chiudergli, a non vedere.
 

Oh, Nathan Wright, in che brutto intreccio che sei capitato. Hai capito ora?

 

L'ombra si spostò con calma mortale, lasciando che il corpo del giovane soldato cadesse a terra a peso morto, alzando quella polvere secca e sporca che ricopriva il suolo.
Jonas fece per muoversi in avanti, per afferrare il compagno che improvvisamente gli appariva come una marionetta a cui erano stati tagliati i fili, ma il ricordo della scossa che l'aveva attraversato solo ponendogli una mano sulla spalla lo fece tentennare un attimo di troppo.
Jane, alle spalle dei due, fece automaticamente un passo indietro piuttosto che uno in avanti per frenare la caduta del compagno, certa di non voler toccare nessuno così come del fatto che il figlio di Ares fosse troppo pesante per lei.
Inconsciamente entrambi chiusero gli occhi per non veder l'impatto di quella figura improvvisamente così inanimata, così morta… ma non vi fu nessun suono sordo, nessun rumore se non quello di uno sbuffo particolarmente pesante, l'espressione classica di qualcuno che si ritrova a sostenere un peso non indifferente.
Jonas e Jane puntarono lo sguardo sul soldato, calamitati da qualcosa che non era successo, rimanendo entrambi sorpresi, immobili, senza saper cosa fare.
La ragazza bionda, quella che pareva volesse solo saltare alla gola di Nathan e picchiarlo fino a fargli entrare un po' di sale in zucca, si era sporta in avanti con una velocità sorprendente, afferrando saldamente il giovane per la vita e lasciando che tutto il suo peso le gravasse addosso. Si sistemò meglio, facendo in modo che il capo di Nathan ricadesse sulla sua spalle e poi, lentamente, fletté le ginocchia per accompagnarlo a terra.

« Ehi! Riesci a sentirmi? Sei cosciente? Nathan? Se riesci a sentirmi ma non a parlare muovi la mano, o stringila. » la sua voce era sicura e calma malgrado avesse un'inflessione perentoria, una serie di ordini nascosti dietro a domande. Un medico, pareva esattamente questo: un medico che soccorre il suo paziente.
In un secondo tutto l'astio che aveva dimostrato verso il biondo svanì in favore di una serietà ed una professionalità che quasi stonavano con l'aria ribelle e irascibile che aveva sfoggiato prima, il confronto era quello tra un'adolescente arrabbiata ed una donna capace e competente.
Adagiò Nathan a terra e gli sistemò immediatamente la testa, tirandogli con sicurezza il volto verso l'alto, distendendo il collo neanche dovesse assicurarsi che le sue vie respiratorie fossero libere. Le vecchie abitudini erano sempre le più dure a morire. Premette due dita sulla giugulare del ragazzo per poi mormorare qualcosa che sembrata tanto un insulto verso sé stessa e spostare le mani sulla sua fronte.


« Lea? Cosa succede? Sei ferita?»

Troppo intento a fissare i due, Jonas non si era reso conto che quell'anima che prima vagava nelle loro vicinanze era finalmente arrivata sino a loro, fermandosi però ad una certa distanza, come se avesse paura anche solo a far un altro passo.
Jonas poteva capirlo, il timore che avvicinandosi potesse peggiorare le cose più di quanto già non lo fossero… perché era colpa sua se ora Nathan era riverso a terra, il corpo abbandonato come se ogni terminazione nervosa fosse stata troncata di netto. E Jonas lo sapeva che non ne avevano più di terminazioni nervose, che non era davvero il suo corpo quello riverso a terra ma solo la forma un po' più densa della sua anima, sapeva che non era morto, che non poteva esserlo, non per così poco, però- però era colpa sua, era tutta colpa sua. La scossa. Nel momento in cui aveva poggiato la mano sulla sua spalla era tutto precipitato, dal dolore che aveva sentito forte e chiaro, un dolore fisico, come di qualcosa di rovente che ti penetra la palle –

come un proiettile

– un male vero, reale e poi Nathan era crollato e lui non aveva neanche avuto la forza di prenderlo, terrorizzato all'idea che sarebbe potuto succedere di nuovo, che avrebbe potuto soffrire ancora, come aveva fatto per tutti quegli anni nella sua maledetta Terrazza. Non aveva avuto la forza d'animo di farlo, il coraggio. Non importa se poi il suo peso l'avrebbe sopraffatto, non c'aveva neanche provato, per paura, non aveva neanche fatto quel dannato passo, non aveva allungato le braccia perché il pensiero di risentire quel male aveva superato la sua coscienza che gli gridava di aiutare il compagno, di fare ciò che di sicuro Nathan avrebbe fatto per lui, perché era giusto, perché era così che si faceva.
Aveva avuto paura.
Un brivido lo percorse mentre qualcosa cresceva veloce e lento dentro di lui, alternandosi come la marea che si abbatte contro la spiaggia, un movimento atavico, inevitabile nella sua tempistica che si espande nell'avvenire per poi scattare, risucchiare tutto verso il centro del mare, veloce e letale come solo l'oceano può essere, impossibile da domare, da placare, impossibile da fuggire.
Lo riconobbe come uno schiocco, sì, uno schiocco, proprio come quello che faceva il suo bracciale quando era ancora nuovo e l'ansia e la paura e il terrore e la paranoia non l'avevano consumato come una fiamma consuma una candela, come le onde consumano la battigia. Uno schiocco secco nella sua mente e sapeva perfettamente cosa gli stava succedendo.
Un attacco di panico, stava avendo un altro attacco di panico. Cazzo, ne aveva avuto uno forse due ore fa, forse tre, non lo sapeva, come diamine funzionava il tempo in quel posto maledetto? Ancora non l'aveva capito, ancora non sapeva, lui non- perché gli mancava l'aria? Era morto, non ne aveva bisogno, non ne aveva bisogno, eppure…
Jonas aprì la bocca ma non per parlare, solo per cercare di prendere più aria possibile, di rimanere sveglio lucido, presente.
Con uno sforzo terribile si costrinse voltarsi verso Jane, l'unica cosciente che conoscesse, l'unica persona che avrebbe potuto infondergli un po' di calma mostrandogli la propria, ma anche lei pareva presa da qualcosa, rigida e fredda nella sua posa, con gli occhi torbidi puntati sull'anima appena arrivata, sgomenti di un terrore simile ma completamente diverso dal suo. Che stava succedendo? Perché stavano tutti male? Era stato lui? Era stata la scarica elettrica che aveva dato a Nathan? Aveva innescato qualcosa nell'aria che aveva contagiato tutti loro, che li aveva resi deboli e allucinati, indifesi in un recinto di bestie infuocate- il mastino! Dov'era finito il mastino della ragazza bionda? Gli girava così tanto la testa, non riusciva a vederlo, non riusciva a voltare lo sguardo senza che la nausea premesse forte sulla bocca dello stomaco, nella gola, persino nella fronte e nelle orecchie.
Sentiva solo vaghi suoni, un brusio di sottofondo, le interferenze della radio di suo nonno, parole bisbigliate in una lingua che non conosceva.
Non riusciva a respirare, era tutta colpa sua, ancora una volta non era stato all'altezza della situazione.

 

Lea concentrò il suo potere sulla fronte del figlio di Ares, cercando di capire cosa fosse successo.
Volse a mala pena la testa verso Úranus, continuando però a tenere lo sguardo puntato sul volto quasi evanescente dell'altro.

« Sto bene. Stavo litigando con questo deficiente quando si è bloccato e mi ha fissato allucinato.» spiegò spiccia.
Úranus annuì ma non le si avvicinò, accostandosi piuttosto al mastino e cercando appoggio in lui. Il grande cane nero lo sostenne senza problemi, abbassando il muso per odorarlo e sincerarsi che stesse bene.
« Ha combattuto prima di arrivare qui?» chiese a gran voce Lea senza però ricevere risposta. La donna alzò così gli occhi e si fece scappare una mezza imprecazione: anche i due amici del cretino parevano star male, che avessero tutti e tre incontrato qualcuno che li aveva maledetti? O forse avevano ferito uno dei Mastini Infernali e questa era la punizione di Artemide?
Doveva capire alla svelta cosa fosse successo o non sarebbe stata in grado di far nulla.
Con un respiro profondo si occupò per prima cosa di Nathan, esaminando tutte le sue funzioni vitali. Era ovvio che le avrebbe trovato completamente azzerate, ma nella morte aveva capito che alcune sensazione, durante la guarigione, non erano troppo dissimili da quelle che le provocava curare un essere vivo. Così il leggero sfarfallio che la loro anima emanava all'altezza del petto e del torace in generale era associabile a quel pulsare continuo che ogni organo aveva in vita; le onde che emanava la testa non erano altro che riflessi di risonanza di una coscienza a contatto con una realtà concreta, per quanto morta. Il soldato stava bene, nessuna delle sue “funzioni vitali” era intaccata ma tutte erano rallentate, così come lo sarebbero state se fosse stato addormentato, come i pazienti sedati, come qualcuno svenuto per un forte sforzo.
Dannazione, sarebbe stata già la seconda anima che faceva rinvenire da uno svenimento, solo che la prima era stata-
Alzò di scatto la testa verso Jane, il suo volto congelato da qualcosa che solo lei poteva vedere, qualcosa che solo lei poteva udire.
Ripercorse in modo veloce e vivido quella scena che pareva esser avvenuta giorni addietro, quando aveva incontrato Jane e le aveva chiesto se sapeva come arrivare alla Casa di Ade, quando lei le aveva risposto con quel “no” secco e poi aveva fissato impunemente e senza paure Úranus.
Úranus che riesce a mettere in fuga un guerriero di certo più capace di loro, che anche solo standole vicino le procurava una sensazione di ansia, di inquietudine, che le faceva risentire frasi e suoni di una vita passata, che era al suo fianco, maledettamente vicino, quando la sua mente era saltata indietro nel tempo.

Úranus che non mi ha ancora detto chi è il suo genitore divino ma che, adesso, sono più che sicura sia la causa di tutto ciò.

« Calmati!» gridò verso le sue spalle. « Úranus ho bisogno che tu ti calmi. Dev'essere successo qualcosa, il ragazzino ha toccato Wright e lui si è bloccato, poi tu ti sei avvicinato e lui è crollato. Siete voi due, tu e il biondino! Cerca di calmarti, non posso farlo rinvenire se continui ad essere agitato, va tutto bene, non sono nostri nemici, non ci faranno del male. Siamo solo noi due che non ci sopportiamo dagli Elisi!» cercò di imprimere più sicurezza e fermezza nelle sue parole, volse il capo e intercettò gli occhi freddi del compagno, solo per un istante prima di distogliere lo sguardo, prima che la sua magia colpisse anche lei.

Fidati. Fidati di lui e il suo eco non ti colpirà. Non cedere alla paura. Fidati di lui e fidati di te stessa.

« Perdonami.» la voce di Úranus le giunse flebile ma incredibilmente gentile come ogni cosa pronunciata da quel giovane.
Sentì dei passi alle sue spalle e d'improvviso un peso che non si era resa conto d'avere le venne sollevato dalle spalle.
Vide Úranus superarla e giungere davanti al ragazzino, poggiandogli delicatamente la mano sulla spalla e spingendo quel tanto che gli serviva per fargli drizzare la schiena.
« Respira ragazzo, fai respiri profondi. Sei al sicuro… » il suo mormorio si perse nel tono basso e morbido che assunse e Lea non poté far a meno di sorridere a quella scena.
Le aveva accennato a suo fratello, Úranus le aveva detto che non aveva avuto la gioia di poterlo vedere ma non metteva in dubbio che sarebbe stato un ottimo fratello maggiore e che quel ragazzino, così piccolo e fino, dai lineamenti ancora acerbi e delicati, che forse poteva aver quindici- sedici anni, ispirasse un profondo senso di protezione, specie verso chi era stato così devoto alla propria famiglia.
Lentamente il biondino parve riprendersi, far respiri profondi proprio come Úranus gli suggeriva, e tornare con i piedi a terra, ancorato a quella realtà ultraterrena in cui erano costretti.
Jane crollò invece a terra con un tonfo morbido, la veste le si gonfiò come un palloncino ma la sua faccia allucinata, ringraziando gli Dei ben diversa da quella sconvolta di prima, ed il suo sbattere le palpebre stordita, fecero tirare a Lea un enorme sospiro di sollievo.
Un formicolio appena accennato le attraversò i palmi della mani, la magia curativa di suo padre che si attivava finalmente libera d'agire al meglio, le ci volle davvero poco per far convergere quel potere caldo e avvolgente verso la fronte ed il torace del soldato.
Nathan aprì lentamente gli occhi, battendo le palpebre confuso proprio come stava ancora facendo Jane. Pareva che qualcuno l'avesse appena buttato giù dal letto a calci e non riuscisse a metter a fuoco ciò che lo circondava. Lea seppe perfettamente quando vi riuscì per due motivi: perché era un'infermiera esperta e perché l'espressione che apparve sul suo volto quando si rese conto che non solo era svenuto ma che era stata lei stessa a “salvarlo” fu impagabile.

 

« A quanto pare sei bravissimo a cadere come una pera oltre che a non distinguere i fiori.»

 

 

 






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Capitolo 9
*** Seven ***









IX- Seven.
 
 

 
I passi si susseguivano gli uni dietro gli alti, il rumore era costante ed inequivocabile e non gli era servito molto per riconoscere l'andatura sicura di un uomo di guerra.
La sala buia, quella gabbia dai confini indefiniti in cui l'avevano lasciato, sembrava amplificare quel singolo suono che proveniva da un “fuori” senza contorni e senza colori.
Non sapeva quanto tempo fosse passato prima che il ritmico incedere si era palesato con lentezza e sempre maggior forza alle sue orecchie, aveva creduto di essere solo, di esserlo ancora come sempre lo era stato al mondo: abbandonato in mezzo ad una marea di anime che non lo comprendevano davvero, che lo vedevano ma non lo guardavano, che lo sentivano ma non l'ascoltavano, proprio come le belle statue dei palazzi, come le liturgie infinite che i fedeli udivano senza capirne il reale significato.
Era un'opera d'arte ammirata ed incompresa, uno di quei monumenti che tutti credevano di poter identificare ma il cui senso intrinseco e profondo sfuggiva a chi non si prendesse la briga di guardare un po' più in là, sotto gli strati di stucco e colori sgargianti.
I colori… da quanto non ne vedeva di veri? Aveva vissuto, se così si poteva dire, fino in quel momento in un mondo tetro e cupo, privo di sfumature che non fossero quelle del nero e del grigio fumo. Neanche il sangue aveva colore da dove veniva, forse perché di sangue non ce ne era più neanche una stilla. Ma allora di chi, chi era il proprietario di quel vitale liquido che gli bagnava le mani, che gli sporcava le vesti e macchiava la pelle candida?
Le sue dita continuavano a brillare, tenuti e poi più forti, seguivano il ritmo dei passi, il battito di un cuore che da troppo aveva cessato d'esistere.
Poi il camminare s'arrestò.
Nel silenzio di un momento immobile sospeso nel nulla qualcosa scivolò, ruotando su sé stesso.
Una lama d'ombra diversa da quella che occupava la stanza penetrò l'aria densa e buia, un rivolo d'aria satura si mischiò a quella che premeva sulle pareti.
Quanto era grande quella sala? Era un enorme anfiteatro al coperto? Era una reggia? Era un corridoio infinito? Una prigione, una cella? Era una gabbia per animali e se avesse provato ad alzarsi avrebbe battuto la testa? Era una camera di bambino? Una al cui centro capeggiava il talamo nuziale o il trono di un re?
Dove si trovava?
Ma soprattutto: perché?
I passi riapparvero lontani e vicini, sempre più vicini ma con un eco lontano. Era grande la sala, doveva esserlo per forza o chiunque fosse il suo visitatore sarebbe già giunto a destinazione. Sempre che quella fosse lui.
L'altra ombra seguì quell'intruso silenziosa come lei e le sue sorelle erano sempre state, abbracciando la figura alta e fine di un uomo, i lunghi capelli che ondeggiavano dietro la sua schiena.
Aveva un portamento fiero e deciso, ma non irruento e orgoglioso come tutti gli uomini di potere che aveva conosciuto in vita, in lui c'era un'aura di eleganza e di leggerezza, di sinuosa lentezza, che mai aveva visto. Quell'uomo era come l'acqua: si muoveva sicuro sulla superficie ora solida ora scivolosa, si insinuava in luoghi sbarrati, incurante del buio o della luce, muovendosi nello spazio come meglio credeva.
A vedere il profilo del suo corpo gli venne in mente una musica lenta di strumenti a corda, il rumore di un ruscello ed il lieve stormir di foglie. Era la pace dei sensi quella che l'uomo portava con sé e lui, forse solo ora, forse mai, non vi era abituato.
Quando la figura si fermò di fronte a lui seppe con precisa sicurezza quanto reclinar la testa per far sì che nell'oscurità i suoi occhi incontrassero quelli del nuovo arrivato. Fendettero il nero denso della stanza e videro un volto dai tratti severi ma incredibilmente delicati, un uomo senza ombra di dubbio, non un ragazzo o un giovane, ma privo di quelle spigolose sporgenze tipiche delle sue genti.
Gli occhi poi, avevano una forma allungata, gli ricordavano quasi quelli dei popoli dell'est ma avevano un taglio ancora più fine, lasciavano che solo una fessura d'iride osservasse il mondo, proprio come la porta di quella sala aveva permesso solo ad una lama di ombra di penetrarvi.
L'uomo ricambiò il suo sguardo, sapeva di nuovo con certezza che era così, per lo stesso motivo per cui sapeva che i suoi occhi erano neri, tanto neri da non riuscir a distinguere l'iride dalla pupilla. Ed erano gentile, gentili e fermi. Sicuri. Erano gli occhi di un combattente ma anche quelli di un maestro.
Un lieve fruscio di stoffe l'avverti che l'uomo si era mosso e malgrado non riuscisse a staccare lo sguardo dal suo poté facilmente intuire che gli stesse porgendo una mano.
 
«Non ho mai avuto l'onore di conoscervi, giovane signore, ma sono qui per rimediare.»
La sua voce era gentile proprio come il suo aspetto e rispettosa e musicale come la melodia che la sua presenza gli aveva ispirato.
Con la voce graffiante, roca dopo il troppo tempo per cui aveva taciuto, l'altro rispose piano.
«Perdonatemi voi, mio signore, per esser in queste pietose condizioni. Vi stringerei la mano ma non vorrei arrecarvi fastidio.» spiegò alzando le sue di mani, mostrandogli quanto fossero sporche di sangue anche se non sapeva se l'uomo sarebbe stato in grado di vederlo.
Quello annuì e si chinò a terra, poggiando incurante il ginocchio nel lago rosso in cui l'altra anima giaceva da tempo indefinito. «Non vi è fastidio alcuno in un così nobile colore ed un così essenziale liquido.» gli prese gentilmente la mano destra e chinò la testa in segno di rispetto, malgrado fosse lui quello degnamente vestito, malgrado fosse lui quello che vagava libero e non rinchiuso in un luogo senza dimensione, malgrado l'altro di nobile non avesse nulla.
Il carcerato chinò anch'esso la testa rispettosamente. «Allora sono semplicemente lieto di conoscervi. Spero non vi sembrerà scortese se vi chiederò chi siete e se sapete dove mi trovo. Sempre che possiate dirmelo.»
Poté giurare di vedere una scintilla brillare negli occhi neri del guerriero, ma la sua espressione rimase immutata e solenne.
«Siete molto saggio, giovane signore. Vi dirò il mio nome e dove vi trovate quando il mio Signore mi concederà di dirvelo. Per ora posso solo chiedervi di seguirmi e di fidarvi delle mie parole.»
Dopo un momento di silenzio un sorriso morbido ed affascinante tese le labbra dell'anima, un'espressione capace di irradiare calore anche in quell'antro cupo ed umido.
«Non posso far altro, mio signore, che fidarmi di chi con tanta gentilezza e tante educazione parla ad un mendicante come me.»
L'uomo con gli occhi neri annuì alzandosi senza lasciare la sua mano, porgendogli piuttosto anche l'altra per aiutarlo a tirarsi in piedi sulle gambe instabili e tremanti.
«Vi prego di non dir tali parole, non siete un mendicante, so con chi sto parlando.»
« Spero di saperlo preso anche io.»
« Lo saprete, il mio Signore vi illuminerà.»
« Allora siate la mia guida.»


 
*
 


Eliza avrebbe voluto dire di non aver mai assistito ad una scena del genere ma purtroppo non era così. Quando lei e Cade erano tornati indietro, stringendo saldamente la medaglia del mastino che avevano affrontato, le era parso di esser tornata in vita, di esser ancora sul campo di battaglia, durante uno scontro ormai al suo termine.
Vedere Nathan riverso a terra, sorretto da una giovane sconosciuta, gli riportò alla mente i corpi dei suoi compagni immersi nel fango e nella terra smossa dai colpi di cannone. Dal sussulto che ebbe Cade, al suo fianco, Eliza poté ben credere che anche lui avesse assistito in passato ad una vista simile.
Face un passo avanti, poi un altro, un po’ più veloce, un po’ di più, sino a ritrovarsi a correre, il suo campo visivo che si apriva ed abbracciava anche gli altri interpreti di quell’atto.
C’era Jane china a terra, le caviglie magre che uscivano scompostamente dal bordo della gonna logora, lo sguardo perso nel nulla, come se si fosse appena ripresa dal colpo di un fulmine. Jonas invece era mezzo nascosto dietro alla figura altissima ed imponente di un uomo dalla lunga barba rossa, che gli teneva una mano sulla spalla e gli parlava a bassa voce.
Non erano in pericolo, lucidamente avrebbe potuto dirlo con certezza, ma vederli così, veder Nathan, quel piccolo stronzetto sempre arrabbiato e strafottente, debole e alla mercé di chiunque; veder Jane così persa, proprio com’era quando l’avevano trovata e non guardinga e diffidente come aveva imparato essere; veder Jonas, piccolo ed indifeso, sovrastato dalla massa gigantesca di uno sconosciuto… Eliza non se ne rese conto ma accelerò ancor di più, finché non sentì qualcosa di fresco sfiorarle il volto ed una spinta gentile distribuirsi su tutta la sua schiena, portandola quasi a volare verso i loro compagni.
Non ebbe bisogno di girarsi per rendersi conto che Cade la stava aiutando, che era in ansia tanto quanto lei.
Cos’era successo?

«JONAS!» la voce dell’Irlandese quasi le sturò un timpano, facendo sussultare Jane, che si volse subito a guardarli, attirando l’attenzione della ragazza bionda vicino a Nathan, che senza troppe cerimonie lo rispinse a terra quando questo cercò di alzarsi, sino a giungere al diretto interessato.
Jonas si sporse oltre l’uomo dai capelli rossi, l’espressione confusa, intontita. Ma probabilmente Cade vide nel suo volto qualcosa che la figlia di Nike non riuscì a scorgere, perché lo sentì imprecare a mezza bocca prima dispiccare un salto in avanti.
La pressione dell’aria alle sue spalle diminuì, ma ormai aveva preso velocità e non le ci volle molto prima di giungere davanti agli altri.
Cade aveva la faccia di uno a cui era stato affidato un compito e che si era distratto solo per quei due secondi utili affinché qualcosa andasse storto. Eliza non poteva dirlo con certezza ma Lea invece, che l’aveva osservato con interesse, classificandolo subito come un semidio nel momento stesso in cui l’aveva sentito arrivare, seppe riconoscere quello stato d’animo che più di una volta aveva visto negli occhi di Giuseppe.
Alternò lo sguardo dal ragazzino biondo al rosso appena arrivato ma non vide nulla che li accomunasse, né i tratti somatici, né il vestiario. Quei due erano sconosciuti, o almeno lo erano in vita, ma allora perché quel semidio aveva la stessa, identica, spiccicata espressione che aveva suo fratello quando lei si faceva male?
Úranus, vedendo quella furia arrivare così velocemente, si spostò automaticamente davanti al più piccolo, facendogli scudo con il suo stesso corpo e allungando anche una mano in direzione di Lea, come se potesse proteggere anche lei dalla sua posizione.
Quel semplice gesto parve prendere di sorpresa l’altro rosso, che frenò il suo salto, scivolando leggermente sulla terra brulla, fissando gli occhi dritti in quelli ghiacciati dell’altro.
Un brivido colò lungo la schiena di Lea, per un attimo terrorizzata all’idea che il potere del suo compagno potesse attivarsi su quel giovane e spingerlo in uno stato tale da sentirsi in pericolo ed attaccare. Nathan, ancora steso a terra, dovette avere lo stesso timore. Puntò i gomiti e cercò di far leva sugli avambracci, non protestando quando Lea, senza pensarci, gli passò un braccio dietro la schiena per aiutarlo a portarsi seduto. Il biondo alzò un braccio verso il nuovo arrivato, pronto a dire qualcosa che rimase però bloccato dalle corde vocali intorpidite da quel sonno forzato. Jane invece volse di scatto la testa verso la ragazza mora che si era avvicinata e la guardò con fare allarmato.
Tutti loro si aspettavano il peggio e fu con grandissima sorpresa che si resero conto che non sarebbe mai successo.
Il ragazzo dai capelli rossi guardò con curiosità Úranus, la schiena dritta, il petto in fuori, le braccia rilassate. Non aveva un accenno di fiatone, non una goccia di sudore, non un fremito delle membra. Fissava l’altro per poi sporgersi a controllare il ragazzino, ignorando completamente il pericolo che stava correndo e che aveva appena sfiorato. Studiò con attenzione il più piccolo e si rivolse di nuovo al gigante buono.
 
«Lo hai aiutato tu?» gli chiese con voce calma e gentile.
Nathan non poté far a meno di strabuzzare gli occhi, Jane si voltò verso di loro a bocca aperta e persino Eliza guardò il loro stupido roscio con espressione incredula.
Úranus dal canto suo rimase sorpreso da quella domanda, ma poi, lentamente, impacciato come solo lui sapeva essere, annuì piano.
«Credo fosse un attacco di panico, ma non dovete darvi pensiero, vostro fratello sta bene.» rispose con garbo.
Un singulto sorpreso scappò dalle labbra pallide di Jonas, che con un passo traballante si fece avanti scostandosi da dietro la sua personale barriera.

Non sono suo fratello.
 
Avrebbe voluto dire, sentiva le parole proprio sulla punta della lingua ma sentiva anche questa pesante, la bocca pastosa. Una ventata di calore gli esplose sul volto, dalle guance alle tempie, le orecchie ed il collo. Sentì una forte pressione allo stomaco e l’unica cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata sotterrarsi da qualche parte per evitare la vergogna.
Cazzo, l’avevano davvero scambiato per il fratello di Cade? Si poteva morire d’imbarazzo?

«Non è mio fratello.» disse con tranquillità l’altro, senza dar segno che l’affermazione l’avesse infastidito, «Ma ti ringrazio ugualmente per averlo aiutato, questo posto non gli fa bene.»
Jonas aggrottò le sopracciglia: okay essere gentili, ma così sembrava quasi che stessero parlando di un bambino. Quel singolo pensiero gli fece storcere il naso ed incassare la testa nelle spalle.
 
Ma ovviamente sono il più piccolo, quindi per loro ci sta parlar di me come di un moccioso. Magnifico, sì, fantastico, oggi ci siamo guadagnati due attacchi di panico, un pungo in pancia, un discorso di consolazione pietoso, dei ricordi sgradevoli e un bel discorsetto imbarazzante su come io sia il bambino a cui questo posto “non fa bene”. Grazie padre.
 
«Oh, mi spiace aver frainteso, spero di non avervi offeso. Eppure…il vostro volto…» il gigantone pareva imbarazzato quanto lui almeno, anche se più per la gaffe che per altro.
Cade però gli sorrise raggiante. «Deformazione professionale!» trillò allegro. «Credo che l’unico che si sia offeso qui è Jonas, io sono abituato a chiamare fratello qualcuno che non ha neanche una stilla di sangue uguale alla mia. Sono Cade Griffith, comunque, grazie ancora per aver aiutato il nostro moccioso imbronciato-»
«Ehi!» protestò Jonas tornando immediatamente in sé.
« - e grazie alla tua amica per aver aiutato il nostro moccioso stronzo.»
«Vaffanculo roscio di merda!» ringhiò Nathan. Poi il suono secco di uno schiaffo, dritto dietro la nuca.
«Pulisciti la bocca quando parli o giuro che ti rimando dritto dov’era due minuti fa!»
La ragazza bionda che ancora lo sorreggeva lo fulminò con lo sguardo, girandosi poi verso Cade e regalandogli un sorriso di scuse. «Mi spiace che tu debba aver a che fare con questa piaga dell’umanità. Lea Pozzi – si presentò – ti stringerei la mano ma se mollo questo deficiente cadrà di nuovo a terra.» spiegò come se Nathan non fosse lì a sentirla.
«Ma chi te lo dice! So reggermi perfettamente da solo, non sono un cazzo di malato termin- ahio!»
Un secondo schiaffo, questa volta dritto in fronte, lo fece bloccare di colpo.
«No purtroppo, i malati terminali sono decisamente meglio di te. E ti ho appena detto di non usare questo linguaggio! Tua madre era una santa donna, educata e gentile anche nelle situazioni peggiori, potresti portare un po’ d’onore alla sua memoria parlando come ti ha insegnato a fare!»
I due biondi cominciarono a discutere animatamente, rivangando eventi passati successi probabilmente nei Campi Elisi come se si conoscessero da una vita e, da altrettanto tempo, cercassero di togliersi l’altro dai piedi in modo definitivo.
Ma Lea comunque non lasciava la presa attorno alle spalle di Nathan, continuando a sostenerlo e Nathan aveva lentamente abbassato il tono di voce.
Cade ridacchiò divertito e si girò verso le altre due ragazze presenti.
«Stia bene ragazza delle Praterie?» chiese rivolto a Jane.
Quella si limitò a guardarlo male ed accettare con piacere la mano che Eliza gli porse per tirarsi su.
Il rosso si voltò verso il suo nuovo conoscente. «Fa così perché mi adora, sono il suo preferito.» gli sussurrò come se stesse rivelando un grande segreto.
«Ti odia.»
«Non ti sopporto.»
«Le stai palesemente sul cazzo. AHIO! Ma porca di quella puttana, la vuoi smetter di prendermi a schiaffi?»
«E tu la vuoi smettere di esser così volgare?»
Il gigante sorrise, anche se sembrò molto più un tentativo che un sorriso vero e proprio.
« Úranus Mjöllson.» disse impacciato offrendo la mano a Cade.
La differenza d’altezza era lampante, anche se non tanto quanto quella con Jonas, ma con quell’atteggiamento così remissivo, così timido e chiuso era l’Irlandese quello a sembrar più grande. Lui stesso parve notarlo e stringendo vigorosamente la mano dell’altro, senza il minimo timore di toccarlo, gli chiese sorridendo: «Quanti anni hai, ragazzone? No perché, senza offesa eh, ma anche se sei un armadio a tre ante mi pari ancora molto giovane.» 
Jonas, di fianco a lui, lo fulminò con lo sguardo. «Stai per ricominciare quella cosa di chi è il più grande in base ad età di morte o data di nascita?» domandò a voce bassa, cercando di non farsi sentire da Nathan. E fallendo miseramente.
«Non me ne frega un cazzo di quello che dite! È Jonas il più piccolo, io ho ventiquattro anni!»
«Non conta a che età sei morto, conta quando sei nato, cretino! Puoi anche aver sessant’anni, ma se io sono nata anche solo un anno prima di te sono comunque più grande!» lo riprese subito Lea incrociando le braccia al petto ma continuando a tenere sott’occhio il modo pericoloso in cui il militare ondeggiava nonostante fosse seduto.
«A sì?» domandò lui guardandola con aria di sfida. «Allora dimmi un po’, quanti anni avresti?»
«Non si chiede l’età ad una signorina.»
«Peccato che io qui non ne veda neanche una.» non riuscì neanche a finire la frase che un terzo scappellotto lo prese preciso sulla nuca.
Voltandosi di scatto si ritrovò la figura severa ed ammonitrice di Eliza che lo fissava male dall’alto.
«Quante volte ti ho detto di portare più rispetto?» gli domandò retorica.
«Ma che cazzo! Cosa siete? Le mie madri fantasma?» si lamentò cercando l’appoggio di Cade che gli sorrise sorprendentemente dispiaciuto.
«Lo so bello, è brutto star tra due fuochi, ma te la sei cercata de sto giro.» disse alzando le mani. «Comunque, il più grande sono io per il momento, se vogliamo prendere per buona la scelta dell’età di morte. Ho ventisei anni. O per lo meno li avevo… ora saranno un po’ di più.» sorrise ancora rivolgendosi direttamente ad Úranus.
Il ragazzone annuì. «Io ne avevo ventidue.»
«AH!» saltò su Nathan traballando. «Sono più grande anche di lui!»
«Non cantar vittoria, hai la mia stessa età.» sbuffò la figlia di Ecate, lasciando il biondo a fissarla sconvolto da quella rivelazione. «Jane Parris.» si presentò poi.
«Elizabeth Reed. Io ne avevo ventidue.» concluse la mora porgendo anche lei la mano ad Úranus.
Il giovane la fissò per un attimo senza sapere cosa fare e Cade, ridacchiando, gli diede un colpo leggero con il gomito.
«Stringile pure la mano più forte che puoi, è una soldatessa!»
Bastarono quelle semplici parole per catalizzare l’attenzione dei due esterni al gruppo dritta sulla ragazza.
Úranus batté le palpebre e poi annuì rigido, stringendo comunque con delicatezza la sua mano.
«Mi perdoni, signorina.» disse chinando leggermente il capo.
«Una soldatessa? Di dove sei? Quando hanno cominciato a poter arruolarsi anche le donne? Non sembri della mia epoca.» Lea quasi saltò in piedi dirigendosi verso Eliza a grandi passi e stringendole anche lei la mano.
La figlia di Nike rimase quasi stordita da tutte quelle domande.
«Sono- sono americana. La mia famiglia era originaria dei pressi di Nuova York.»
«New York… anche voi lo siete?» chiese poi rivolta agli altri tre, ignorando del tutto Nathan.
Cade scosse la testa. «Irlandese. Sempre che la mia terra esista ancora, o che esistesse quando tu eri in vita.» sospirò in fine con tono amaro.
Il figlio di Ares gli lanciò uno sguardo valutativo ma stette zitto, studiando con attenzione tutti gli altri.
Jane invece annuì. «Salem.» disse solo, poi ci ripensò, «Non so se sapete dove si trova…» continuò con tono vago.
Lea le sorrise gentile. «Purtroppo non per un bel motivo, ma so dove si trova, sì. Me ne parlò mio fratello.»
«Io sono tedesco.» rispose invece Jonas. Tentennò. «Di Berlino. Jonas Friederich. Piacere.»
La ragazza bionda sorrise anche a lui. «Ti sei ripreso Jonas? Se ti senti ancora spossato posso fare qualcosa per aiutarti.» si propose con gentilezza.
L’altro scosse la testa. «Solo un po’ stordito, ma sto bene, grazie.» disse un poco imbarazzato.
Lea gli sorrise annuendo pur continuandolo a scrutare con attenzione, con quell’occhio clinico che già le aveva visto. Quando sembrò soddisfatta del suo esame annuì un’altra volta e si voltò di nuovo verso Eliza.
«Non mi hai ancora detto da che periodo vieni. Io sono della prima metà del 1800, ma non era permesso a noi donne di entrare nell’esercito se non come infermiere.» spiegò con calma, attenta ed interessata a quel discorso in modo particolare.
Ma altrettanto particolare era la risposta che avrebbe potuto darle l’altra.
Eliza la guardò per un minuto senza sapere cosa dire, ritrovandosi quasi a boccheggiare davanti a possibili spiegazioni.
Fu Nathan a toglierla d’impaccio, a modo suo.
«Che cazzo vuol dire “la prima metà dell’Ottocento”? Mi stai dicendo che sei più vecchia di me?»
La bionda si volse verso di lui alzando un sopracciglio. «Che sei un moccioso fastidioso lo si poteva capire anche senza sapere che sei un poppante, cronologicamente parlando e anche a livello caratteriale.» disse storcendo il naso.
«Ehi! Ho fatto la guerra in Vietnam io!» ringhiò.
Úranus lo guardò confuso. «Dove si trova questo luogo?»
Cade si strinse nelle spalle. «Dal nome sembra qualcosa di esotico. Tu nel dubbio annuisci.»
«Non sapete dov’è il Vietnam?» chiese il soldato guardandoli male. I due scossero la testa senza vergogna.
«Non lo so neanche io.» fece Jane scrollando le spalle con disinteresse.
Nathan imprecò a mezza bocca alzando gli occhi al cielo. «Che ho fatto di male nella vita?»
«Vuoi la lista?» chiese sarcastica Lea guadagnandoci un altro ringhio.
«Più che altro, quando e perché sarebbe scoppiata una guerra in Vietnam?»
La domanda di Jonas riportò tutti al punto iniziale.
«Tu sai dove si trova?» domandò Nathan scettico.
Il ragazzino lo fissò infastidito da quella palese mancanza di fiducia. «Non so te, ma io sono stato a scuola.» sputò acido. «E ho studiato. Il Vietnam è uno Stato a confine con la Cina, si trova in Asia.»
Cade fischiò. «Uno a zero per il biondino contro il biondastro. Punto la mia moneta porta fortuna sul piccoletto.» sussurrò rivolto ad Úranus che lo fissò senza capire.
«Sto per darti un pugno.» lo avvisò quello.
«Lo so che mi ami, non c’è bisogno che lo dimostri continuamente.» sorrise il rosso di rimando, guadagnandosi uno sguardo imbarazzato.
«La guerra in Vietnam è scoppiata nel ’55.» disse Nathan infastidito.
Jonas, improvvisamente più interessato lo guardò attento. «Nel 1955?»
«Esatto.»
«E tu quanti anni avevi?» chiese Lea «Quando scoppiò, non quando sei morto.»
Il giovane grugnì. «Sono del ’42.»
«1942?»
«Cristo santo, ragazzino! Sì, quando dico un numero senza dire il millennio intendo il 1900!»
Jonas gli rifilò un’occhiataccia, poi sogghignò, la stessa identica espressione infame di Cade.
«Oh, quindi sei nato parecchi anni dopo la mia morte, ragazzino.»
Le risate trattenute di Cade e Lea ed il ghigno cattivo di Jane fecero drizzare i peli sulle braccia a Nathan, che pareva decisamente intenzionato a prendere a pugni il più piccolo.
«Qualcuno direbbe touchè.»  rincarò la dose il tedesco.
«Va bene, finitela.» s’intromise Eliza prima che la situazione degenerasse. Non sapeva cosa fosse successo ma in un qualche modo aveva dato una scossa a Jonas che ora, sorprendentemente con grande sollievo della figlia di Nike, sembrava riuscire a rapportarsi a Nathan così come faceva con Cade. Solo che il rosso ne rideva, mentre non sapeva proprio quanto il soldato avrebbe potuto farlo.
«Quindi, qualcuno più piccolo del 1942?» domandò malefica Jane sogghignando in direzione del soldato. «Io sono del 1690.» affermò poi.
Cade sorrise. «Wooo! Certo che sei vecchia! Io sto a cavallo tra la fine del 1800 – ed ammiccò in direzione di Lea – e il 1900.» concluse ammiccando a Jonas.
«Hai visto entrambi i secoli?» chiese la ragazza. «Di che anno sei?»
«1891.» sorrise. «Ora posso sapere anche io il tuo? Non ti chiedo quanti anni hai, solo quando sei nata.» disse subito.
Lea gli sorrise divertita. «1827. Sono la più grande nel nostro millennio.» fece soddisfatta.
Cade annuì. «Jonas?»
«Nascita?»
«Yessir!» cinguettò allegro.
«1920.»
Cade fischiò e si voltò verso Nathan battendo le mani. «Sei ufficialmente il più piccolo, ragazzino!»
«Non ti azzardare a chiamarmi così!»
«Eliza? Prima che il bambino si metta a battere i piedi?» lo ignorò completamente.
«1759.»
A quella data però Lea batté le palpebre confusa. «Ma è molto prima di me…»
Jonas annuì. «Una ventina d’anni dopo c’è stata la Guerra d’Indipendenza.»
Eliza prese un respiro profondo. «Ed è in quella che ho militato. La storia è un po’ lunga e complessa.» tagliò corto, e cercando di distrarre l’attenzione degli altri si voltò verso Úranus, che fino a quel momento era stato in religioso silenzio a- fissare il vuoto?
«Úranus, giusto?» chiese piano.
Lea portò subito lo sguardo sul suo compagno e senza esitazione gli si avvicinò poggiandogli una mano sul braccio.
«Úranus? Tutto bene?»
Gli occhi azzurrissimi del giovane gigante si puntarono dritti in quelli della figlia di Apollo ed annuì.
«Quando sono nato correva l’anno del Signore 1599.»
«Abbiamo un vincitore!» rise Cade a gran voce, poi prese un profondo respiro di naso strizzando gli occhi e si bloccò. Iniziò a fiutare l’aria e si espresse in una smorfia contrita che fece alzare un sopracciglio a Jonas.
«Che hai?»
«Che siamo una massa di deficienti.» borbottò a voce bassa.
«Parla per te, roscio di merda.» ringhiò Nathan.
«Invece parlo anche per te, visto che sei stato qui a chiacchierare con noi come se ci fossimo incrociati in piazza e non in mezzo ad un recinto di bestie di satana.»
Jonas sbiancò, facendo un passo verso l’Irlandese e guardandosi attorno allarmato.
«Non dirmi che abbiamo davvero fatto questa cazzata.» sussurrò allungando una mano per afferrare il bordo della giacca di Cade.
Quello gli sorrise tirato. «Peggio, abbiamo perso tempo, fratellino.>
 

 
*
 


Si mosse a disagio nella presa ferrea che lo teneva schiacciato contro il muro. Il braccio era fasciato da un lungo bracciale che lo circondava dal polso al gomito e quel metallo freddo e graffiato quasi gli doleva premuto contro il suo piccolo petto.
Il bambino aprì le labbra secche e rosse, prendendo respiri profondi e silenziosi come gli era stato insegnato per non farsi sentire. Doveva mantenere la calma, doveva rimanere fermo come gli avevano detto, non respirare troppo rumorosamente e soprattutto tenere le orecchie e gli occhi aperti: al minimo segnale avrebbe dovuto correre come mai aveva fatto in vita sua.
Per avere solo sei anni gli era capitato un po’ troppo spesso di dover raccogliere tutte le energie e scattare lontano dai pericoli. C’era nato lui, nel bel mezzo del pericolo. O almeno questo era quello che gli avevano detto, non che ne avesse memoria lui.
Era nato nel bel mezzo del pericolo, all’alba di un secolo che avrebbe portato guerra, morte e distruzione, che avrebbe diviso popoli e famiglie, frammentato Stati, arso Nazioni, sogni, speranze, uomini e libri.
Non lo sapeva, non poteva ancora saperlo per lo meno, nessuno poteva ipotizzare tutte le nefandezze che di lì a pochi anni si sarebbero compiute, non quando il mondo era appena uscito da un conflitto che per la prima volta l’aveva visto coinvolto interamente.
La Grande Guerra aveva toccato tutti, senza risparmiare corone ed eroi, ferendo nel profondo ogni singolo essere di quella terra come mai aveva fatto prima. Era stata la follia dell’uomo, ancora una volta, ad accendere il falò che aveva incendiato ogni cosa.
Ma sebbene la Grande Guerra fosse finita, sebbene le radio avessero gracchiato il termine ufficiale di quel conflitto mondiale, c’erano cose, esseri, che ancora si aggiravano per i continenti fermi e per gli oceani agitati, tra i cieli nuvolosi e nelle viscere più profonde del pianeta. Questa era una delle poche certezze che aveva, una delle poche cose che sapeva per certo dall’alto di quei sei inverni vissuti in movimento, in solitudine.
Respirò ancora attento a non far rumore, avrebbe voluto vedere la prossima estate, gli avevano promesso il mare e la sabbia scura, i sassi ed i tuffi, non poteva permettersi di perdere quell’occasione, l’ultima forse, che avevano di stare tutti assieme.
Sempre che gli Dei glielo avrebbero permesso.
 
«Sei pronto? Stiamo per andare.» disse la giovane che lo teneva fermo.
Il bambino alzò lo sguardo verso di lei ed annuì serrando subito le labbra.
Osservò il suo profilo regolare, il viso girato di tre quarti verso la strada libera, i capelli scuri legati in modo scompigliato, la frangia che le ricadeva sulla fronte coprendo la ferita alla tempia che ancora sanguinava. Non riuscì a scorgere lo scintillio luminoso dei suoi occhi, quel colore così caldo ed avvolgente che per lui significava solo famiglia ma che per tutti gli altri era il marchio indelebile di una maledizione.
I suoi vestiti erano maschili, la camicia forse era appartenuta ad un adolescente, era di un verde cupo e sbiadito, sopra di essa un mezzo pettorale di pelle abraso si legava sotto il seno schiacciato da una stretta fasciatura, così come un tempo le avevano insegnato le Amazzoni per non aver intralci.
I pantaloni marroni erano macchiati di fango e di sangue, c’era dell’Icore lì in mezzo, qualche traccia di uno strano fluido verdastro ed appiccicoso ed un paio di bruciature. In compenso gli stivali da soldato sembravano nuovi.
Stringeva nella mano destra una lunga spada scintillante, sembrava venata d’oro, un mosaico tessellato di grandi mattonelle lucenti. L’elsa era semplice, un grande topazio brillava però in una corona d’ambra, illesi entrambi da qualunque danno, puliti come se qualcuno li avesse appena lucidati.  Malgrado l’impugnatura fosse completamente coperta il bambino sapeva perfettamente che sotto di essa vi era il disegno di un cerchio con un’unica linea, come una meridiana.
Non rispose alla domanda dell’altra, sicuro che quella sapesse alla perfezione che nel momento esatto in cui gli aveva rivolto la parola sarebbe stato pronto ad eseguire qualunque ordine.
Mosse a mala pena il capo, un accenno di assenso che non riuscì a controllare, e fletté le piccole gambe magre in attesa del segnale di partenza.
Non dovette aspettare molto prima di sentirsi tirare per la giubbetta e poi esser preso per mano.
Si ritrovò a correre a perdifiato, prima regola mai guardarsi indietro, e a saltare le buche e le macerie di quella piazza dissestata, aggrappandosi alla sua compagna come se ne andasse della sua stessa vita, come se non fosse neanche capace di lasciare quella stretta solida.
Vide un lampo veloce alla sua destra, la spada della giovane aveva fenduto l’aria con un sibilo feroce, come se fosse stata una belva e non un’arma ben affilata, uno schizzo rossastro s’alzò nel cielo e poi ricadde pesantemente a terra con un rumore umido ed un tonfo sordo.

Non guardare mai indietro, non guardare mai chi cade.
 
Si ripeté quelle parole in testa, gli occhi fissi sul vicolo entro cui si sarebbero dovuti lanciare di lì a poco, un angolo di salvezza in quella terra di nessuno in cui si erano ritrovati.
Sentì la giovane imprecare in una lingua che ancora non capiva alla perfezione, dicendo parole che non conosceva ma che presto, continuando di quel passo, avrebbe imparato molto velocemente.

« Corri! Vai avanti!» gli disse lanciandolo davanti a sé e dandogli le spalle per parare il colpo di un mostro che lui non doveva guardare, non doveva vedere.
 
Non incrociare mai lo sguardo con uno di quegli esseri, non farlo mai a meno che tu non sia certo di poterlo uccidere.
 
Lasciò a malincuore quella mano che gli dava tanta sicurezza, la sensazione che nel momento esatto in cui avrebbe smesso di avvertire il calore dell’altra tutto si sarebbe spezzato e sarebbe andato a rotoli era forte in lui, ma ancora una volta ingoiò quel groppo amaro che gli stava serrando la gola e caricò a testa bassa verso il vicolo, alzando le braccia per proteggersi dai frammenti che volavano in aria, dagli acidi e dai veleni, dal sangue e dalla morte.
Un piede davanti all’altro, più velocemente possibile, le ginocchia sbucciate che reggevano lo scatto veloce, le caviglie piccole che supportavano tutta la pressione del corpo, ad ogni passo, ad ogni salto, ad ogni curva e ogni finta. Dritto verso il vicolo, di lì pochi altri metri e sarebbe stato quasi salvo, superato il cancello, oltre l’inferriata gli avrebbero coperto le spalle, a tutti e due. Oltre il portone spalancato sarebbero infine stati al sicuro da tutto e tutti.
Doveva solo arrivarci, solo mettere un altro passo davanti a quello precedente e non-
Un grido sorpreso lo colse alla sprovvista, la voce della giovane gli giunse chiara e forte e per quella volta – la prima ma di certo non l’ultima – non riuscì a tener fede alle regole che gli erano state inculcate in testa.
Si voltò veloce verso la piazza, guardando con orrore un mostro scaraventare a terra la stessa donna che lo aveva protetto per tutto quel tempo. La vide rotolare via prima che il mostro calasse su di lei e in quel momento non seppe cosa fare. Rimase immobile, voltando solo il capo da una parte all’altra, fissando ora il vicolo salvifico ora la piazza in rivolta. Avrebbe voluto urlare e chiamare aiuto ma sapeva fin troppo bene che finché non fossero entrati in quel cancello nessuno sarebbe potuto accorrere. Forse avrebbero fatto un’eccezione per lui ma non per lei, perché non era come loro, non era lo stesso sangue quello che scorreva nelle sue vene, non erano suoi compagni.
Un tremolio gli scosse le gambe, cosa doveva fare? Correre da lei? Ma era disarmato, come avrebbe potuto aiutarla? Doveva allora andarsene, lasciarla lì, seguire le regole e non voltarsi più?
Abbandonarla o morire assieme?
Non ebbe il tempo di pensarci troppo, la giovane si mise in piedi con uno scatto fulmineo, i capelli le caddero davanti al volto ma lei non parve farci caso. Fu un lampo accecante e minuscolo, neanche il flash di una macchina fotografica avrebbe potuto produrre una luce così intensa eppure così sottile, come un fulmine lontano, come una crepa illuminata a giorno. Quello fu l’unico presagio di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, il bambino ebbe appena il tempo di realizzare che la luce non era bianca che la giovane menò un mal rovescio in aria ed i mostri si fermarono, bloccati nelle loro azioni, paralizzati senza via di scampo.
La guerriera si gettò verso di lui senza neanche guardare il suo operato, recuperò al volo la spada persa durante la colluttazione e lo spinse in avanti, costringendolo a riprendere la corsa.
 
«Che cosa fai qui? Perché ti sei fermato? Lo sai che non devi mai guardarti indietro, non importa chi rimanga, sei ancora troppo piccolo per combattere, non puoi rischiare la vita così!» lo sgridò con il fiato corto ed una scintilla di paura nelle iridi calde.
Il bambino non poté vedere il suo sguardo ma intuì dal tono della sua voce quanto vederlo lì, fermo immobile come tutti quei mostri, l’avesse spaventata a morte, forse le aveva addirittura fatto credere che il suo potere avesse toccato anche lui, che fosse stata lei a colpirlo anche se entrambi sapevano quanto fosse alto il controllo che esercitava sulla sua dote.
« Hai gridato! Ho avuto paura che-»
« Non importa! Non importa nulla di quello che succede a me! Devi rimanere al sicuro. Ho giurato che ti avrei protetto anche a costo della mia stessa vita ed è quello che farò. Finché ci sarò, finché ci saremo noi, nulla ti farà del male.» quell’ultima frase era pregna di gentilezza, traboccava dolcezza ed affetto e sopra ogni cosa sicurezza.
Una carezza gli si posò sui capelli scompigliati ma non ebbe tempo di rispondere che il gracchiare acuto di un rapace fece alzar loro la testa: in lontananza tre punti neri si buttarono in picchiata verso di loro.
I due aumentarono la velocità, il bambino davanti alla donna che lo spingeva a correre ancora più, che lo incitava e gli diceva di resistere, che erano arrivati.
Entrarono nel vicolo scivolando sui liquami che lo inzozzavano, mentre i mostri volanti si facevano più vicini ogni momento che passava. Dieci metri più avanti un cancello alto e cupo accoglieva spalancato tutti i visitatori del fatiscente alberghetto, l’ultimo avamposto in quella città dimenticata da Dio. Oltre il cancello dei giovani di tutte le età attendevano con spade sguainate e frecce incoccate.
 
«Correte! Manca poco!» urlò una ragazza dai capelli striati di bianco, sull’occhio sinistro una benda medica da cui spuntava una cicatrice bitorzoluta.
Erano tutti lì fermi, frementi, in attesa che i due varcassero la soglia, pronti ad aiutarli non appena fosse stato loro possibile, non appena fosse stato loro concesso: perché quei due non erano come loro, non facevano parte della loro stessa famiglia e ciò li obbligava a rimanere fermi finché non fosse stata la loro casa, il terreno sacro su cui sorgeva, ad essere sotto attacco. Potevano difendere delle mura e dei mattoni fino alla morte ma a nessuno di loro era concesso sporsi oltre i cancelli per aiutare due anime a salvarsi dalla morte. Nulla lì legava, nulla li autorizzava a farlo, potevano solo attendere.
Il bambino guardò quello schieramento con un sospiro di sollievo bloccato tra gli ansiti della corsa, aveva ragione Raja, mancava poco, dovevano tener duro. Poi il gracchiare assordante di un corvo gli perforò i timpani, riuscì a sentire chiaramente una bolla esplodergli nelle orecchie come lo scoppio di una bomba. Un’ombra calò su di loro ed il bambino non poté far altro che chiudere gli occhi spaventato, mentre due mani lo spingevano con violenza lontano dal punto d’attacco.
Rotolò a terra, faticando a fermarsi e tirarsi su, così vicino al cancello e così lontano dalla giovane che ora, a spada sguainata, lottava contro quegli esseri mostruosi.
Urla d’avvertimento cercavano di aiutarla a combattere, a parare il colpo di destra, l’affondo a sinistra, ma non potevano far altro, non potevano che guardare la loro amica combattere con tutte le sue forze, consci della sua potenza ma anche del fatto che non potesse usarla a pieno se non voleva esser individuata immediatamente da chiunque.

Gli servirono altri due anni per capire che quel giorno la guerriera non aveva usato i suoi poteri per salvarsi non perché così sarebbe stata rintracciata dai loro nemici, ma perché avrebbero rintracciato lui.
L’orrore gli aveva spalancato gli occhi quando si era reso conto di quante volte la giovane donna avesse rischiato la vita pur di tenerlo al sicuro, nascosto da tutto e tutti. I sensi di colpa lo avevano accompagnato sino alla fine.

Dal cielo cadde un fulmine bluastro, i tre mostri vennero sbalzati via dall’impatto di qualcosa con il terreno, la donna cadde in ginocchio, la spada infilata nel terreno. Il tempo di riuscire a reggersi sulle sue stesse gambe e di lanciare uno sguardo fugace al fulmine e soprattutto a chi l’aveva provocato ed era di nuovo in corsa verso il bambino.
Lo prese in braccio di slancio, premendoselo contro il petto e lanciandosi oltre il cancello per affidarlo alle braccia della ragazza dai capelli bianchi.

«Tienilo al sicuro!» urlò senza ascoltar alcuna risposta e già era di nuovo fuori, la spada in mano e lo sguardo furioso rivolto ai mostri.
Avvolto da uno sciame di scintille azzurrine un giovane da i capelli neri e corti allungò una mano verso la compagna, puntandole contro una lama lucente.
 
«Sta lì!» gridò perentorio.
Lo sciame si espanse di colpo, una seconda onda d’urto che andò a bruciare i mostri e tutto il vicolo circostante.

Nel silenzio che ne seguì nessuno si mosse.
Poi la donna avanzò piano, le membra pesanti e lo sguardo improvvisamente stanco: avevano corso per tutto il giorno, nascondendosi e combattendo contro i mostri che li avevano braccati senza posa.
Anche il nuovo arrivato si mosse, camminando sicuro verso l’altra, allargando le braccia, le mani che ancora stringevano due lunghe lame lucide.
Non servirono che pochi passi e la giovane cadde quasi tra le braccia del compagno.

«State bene?» chiese lui stringendola a sé, sostenendola come poteva. Lasciò la presa sulle spade e queste scomparvero in un baluginio azzurro come i suoi fulmini. «Siete feriti? Riesci a camminare?»
Lei annuì. «Mi dispiace, mi hanno presa al confine della città, non sono riuscita a correre più velocemente.» sospirò con voce tremante.
Le scostò i capelli dal volto e fece una smorfia quasi rabbiosa nel vedere la profonda ferita che le tagliava la pelle. Aveva resistito tutto quel tempo, chissà se riuscisse ancora a vederci bene o se il sangue l’avesse accecata.
«Non ti scusare. Perdonami tu, abbiamo avuto parecchi problemi al picco, la soffiata era giusta, l’avamposto era proprio dove ha detto la vostra ragazzina.»
La giovane sorrise senza gioia. «La loro ragazzina, non è la mia, non è della mia gente.»
L’altro provò a replicare ma una vocetta acuta li riscosse facendoli girare verso il cancello.

«Lasciami Raja! Voglio andare da loro!» strepitò il bambino scalciando in aria.
La ragazza imprecò in una lingua straniera, slava con tutta probabilità, e cercò di tenerlo fermo più possibile.
«Non dire sciocchezze! Non puoi uscire dai confini del palazzo, sei al sicuro qui dentro sta fermo!»
Ma più provava calmarlo più il bambino si agitava, finché non riuscì a sgusciare fuori dalla sua stretta e correre verso il cancello. Altre persone si sporsero nel tentativo di afferrarlo ma il bimbo era veloce, era scattante e sembrava ancora pieno d’energie nonostante le giornate infernali a cui era stato sottoposto in quell’ultimo mese.
Sorpassò il cancello tetro che brillò fiocamente, allarmato anche lui dalla fuga di quella piccola scintilla esplosiva, e si gettò a testa bassa verso i due, come aveva fatto prima puntando il vicolo, come un toro che ha individuato il suo obbiettivo.
Fu un salto alla cieca, carico della convinzione che ci sarebbe stato sempre qualcuno pronto a prenderlo al volo, a sollevarlo da terra, a stringerlo a sé e fargli sentire che era al sicuro, che tutto andava bene, che era a casa, era in famiglia anche se nulla sembrava andar mai per il verso giusto.
E come aveva dato per certo ben quattro braccia lo accolsero, lo sollevarono da terra, lo strinsero in un abbraccio caldo e protettivo.
 
«Mostriciattolo! È così che ci si comporta? Farai venire i capelli bianchi alla povera Raja in questo modo.» lo rimproverò il giovane in modo bonario.
Il bambino gonfiò le guance ma non lasciò la presa, il visino schiacciato trono il torace ampio.
«Tanto li ha già!» disse impertinente.
«TI HO SENTITO MOCCIOSO!» gli gridò da dietro il cancello la ragazza.
Leggere risate si alzarono dal giardino e la giovane guerriera si scambiò uno sguardo d’intesa con il compagno.
«Stai bene tu?» chiese carezzando i capelli scuri del bimbo.
Quello annuì e alzò di scatto il capo.  «La tua ferita! Ha una ferita alla testa!» strepitò guardando l’altro che rispose con un cenno secco del capo.
«Lo so, ora la portiamo in infermeria. E ci portiamo anche te, sei pieno di graffi.»
«Ho combattuto anche io! Vero?» cercò conferma nella giovane che gli sorrise dolcemente e gli baciò la fronte.
«È stato il mio cavaliere senza macchia e senza paura.»
«Beh, a dire il vero un po’ di paura ce l’avevo.» borbottò quello.
Gli altri due risero e con una spintarella gentile l’uomo li condusse verso il cancello.
«Ve bene avere paura, è la paura quella che ti tiene in vita, ricordalo sempre.»
«Non è il coraggio?»
L’altro scosse la testa. «Il coraggio è una conseguenza della paura: non puoi aver coraggio se non c’è nulla per cui esser coraggiosi.»
«Non starlo a sentire.» lo interruppe la compagna. «Si può essere coraggiosi in molti modi e per molti motivi. Si può esser coraggiosi per difendere qualcuno.»
«Ma difendi qualcuno solo per paura che non possa farlo da solo, quindi il coraggio deriva dalla paura.» la corresse alzando un sopracciglio.
Lei lo fulminò. «Non fare questo gioco con me, Alphonse, mi hanno dato una botta in testa ma ancora ragiono bene.» poi rivolta al bambino. «In ogni caso, che la paura ti tiene sveglio è vero. Ma devi imparare a non farti soggiogare da lei, o rimarrai fermo immobile in mezzo al combattimento com’è successo oggi.»
«Come oggi? Perché, ti sei fermato? La prima regola è non guardarsi mai indietro e continuare a correre.» gli disse guardandolo serio.
Il bambino abbassò lo sguardo stringendo il tessuto ruvido della giubba del giovane.
«Ho sentito un rumore forte e poi un grido…» rimase sul vago, non disse chi era stato a gridare ma l’altro parve intuirlo perfettamente perché sospirò e rimase in silenzio finché non furono finalmente oltre il cancello, circondati da amici e alleati.
«Posso capire che questo ti abbia fermato, ma non sei ancora abbastanza grande per combattere-»
«Me lo dite sempre! Me lo dite in continuazione! Ma anche io voglio fare la mia parte! Anche io voglio aiutarvi, combattere con voi e con gli altri!» gridò accorato guardandolo fisso negli occhi.
Il sorriso morbido e triste che piegò le labbra del giovane fece tacere anche il minimo brusio nel giardino.
«Io invece prego che tu non debba mai farlo…» sussurrò piano. «Forse verrà un giorno in cui sarai costretto, dovrai imbracciare un’arma e combattere per la tua vita. Se questo accadrà, però, significa che le persone che vedi attorno a te, tutte quelle che hai conosciuto, i nostri amici, i grandi combattenti sparsi per il mondo, tutti noi avremmo fallito e non saremo stati in grado di consegnare a voi bambini un mondo sicuro.»
«Le guerre ci sono sempre state e sempre ci saranno, è la natura umana.» continuò con tono dolce la giovane donna, «Ma stiamo lottando ora per far sì che le generazioni future non debbano farlo, non con la stessa violenza e la stessa disperazione che anima noi. Lo stiamo facendo per voi, per ogni singolo bambino nato sotto la nostra stessa maledizione e per ogni singolo bambino nato senza. Non vogliamo impedire solo a te di combattere, vogliamo impedirlo a tutti e finché saremo vivi, tutti noi ti giuriamo che non dovrai mai preoccuparti di scendere in campo e lottare perché vi terremo al sicuro. L’ho giurato, anzi, abbiamo giurato davanti agli Dei che nulla ti sarebbe mai successo, che nessuno sarebbe mai riuscito a torcerti un solo capello. Facci adempiere al nostro giuramento.»
Il silenzio si spanse lento e morbido, il bambino chinò il capo sconfitto non tanto dal discorso forse anche troppo complesso per lui quanto dal tono pregno d’affetto dei due.
 
L’avevano giurato, è vero.
 
La mano lunga e callosa del guerriero gli carezzò i capelli cercando di pettinarglieli un poco, gli sorrise quando incrociò il suo sguardo ed il bambino, non per la prima volta, pensò che quelli fossero gli occhi blu più belli del mondo. Senza rendersene conto rispose a quel sorriso, mostrando i dentini piccoli e storti, tirando le labbra in una linea ampia e solare.

«Quando sarò grande però vi proteggerò io! Tutti quanti voi! Questo è il mio di giuramento!»
Alphonse rise e annuì. «Ti prendo in parola, mostriciattolo.»
«Quando sarai grande però, ora dobbiamo andare in infermeria a farci curare.» gli sorrise la giovane.
L’altro annuì. «Sì, prima che Clara ci svenga qui sul colpo.»
Lei sbuffò, «Servisse così poco per mandarmi giù. Non sono più una ragazzina, sai quanto posso resistere.» gli lanciò uno sguardo di sfida e poi, inevitabilmente, si ritrovarono a sorridersi come due bambini che condividono il segreto di una marachella.
Alphonse passò il bimbo da un braccio all’altro, stringendo con quello libero le spalle di Clara per aiutarla a camminare dritta fino alle scale e poi lungo tutto il corridoio che li avrebbe portati all’infermeria.
«Poi ci tocca anche un bagno, temo.»
«Io sto benissimo così!»
«Non fare storie signorino, sei sporco da capo e piedi, sarà quasi una settimana che non riusciamo ad infilarti in una tinozza d’acqua bollente!»
«Ma non mi serve! Diglielo anche tu! Noi uomini non ci dobbiamo lavare!»
Il giovane rise piano. «Questo è assolutamente falso, mi spiace.»
Con un verso tradito e lo stesso scalciare energico che lo aveva liberato dalla stretta di Raja, il bimbo scivolò via dalle braccia di Alphonse e corse per il corridoio affollato di ragazzini poco più grandi di lui che, indaffarati, si erano fermati per osservare il curioso trio appena giunto dal combattimento contro quei mostri alati.
Fece lo slalom tra le gambe dei combattenti più alti e si girò a far la linguaccia ai due che lo guardavano con aria rassegnata ma felice.
Voltò l’angolo infilandosi in uno dei tanti locali dell’albergo, provocando grida di sorpresa e urla di rimprovero da ogni dove.
 
«QUALCUNO FERMI QUEL MOCCIOSO!» gridò una donna.
Da un’altra porta si affacciò un ragazzo di circa vent’anni, i capelli tagliati cortissimi facevano sembrare la sua testa velata di grigio. Alzò un sopracciglio nel vedere i compagni ridotti in quel modo e fece una smorfia all’indirizzo della ragazza.
«Botta alla testa o taglio?» chiese solo.
Clara gli sorrise. «Entrambi temo, impatto da lama.»
«E la calotta cranica è ancora attaccata al resto del teschio, affascinante, sei davvero un fenomeno della medicina, Rioni.»
« Sangue divino, Bas, tutto qui. Hai dell’ambrosia per me?»
«Ho Tali ed un’infinità di litanie curative, accetti? »
«Accetto io per lei.» intervenne Al guardandosi attorno. «E di a Tali di prepararsi anche per la peste.»
Il ragazzo non fece in tempo a chiedergli perché che una voce forte e bassa rimbombò per l’intero edificio.
 
«GIORDANO!»
 
Bas sorrise divertito all’indirizzo dell’amico.
«Mi sa che prima di Tali devi preparati tu per andare a recuperarlo ovunque si sia infilato.»
Clara rise divertita scostandosi dal compagno per andare a farsi curare. «E prepara anche lui per il bagno.»
Alphonse guardò entrambi con un’espressione a metà tra il perplesso ed il tradito. Aggrottò le sopracciglia e sospirò: «Temo che nessuno sarà mai abbastanza pronto per il nostro piccolo Giordi, neanche gli Dei stessi.»
Furi dall’edificio il pesante cancello scuro si chiuse con un cigolio ed un mormorio lugubre, sigillando la barriera magica che proteggeva quel manipolo di eroi rimasti a vegliare le notti più scure di tutte, quelle che vengono dopo la fine.
 
 
 
*
 


C’era un momento della giornata in cui ogni cosa avveniva con lentezza.
Era come esser immersi nella calura estiva, i piedi che affondano nella battigia bagnata, infida e instabile come sabbie mobili. È miele quello che avviluppa le membra ad ogni mossa, resina destinata a solidificarsi sulla pelle e creare una seconda, scintillante, trasparente corazza sulla carne viva.
Aprì con lentezza le palpebre, restio ad uscire da quel mondo lontano che era l’ormai Ex Jugoslavia, il vecchio cancello lugubre ed il palazzo fatiscente. Lontano dalle braccia muscolose di Raja, che era troppo forte per essere una ragazza di ventiquattro anni, che brandiva una sciabola neanche fosse Sandokan e teneva i capelli striati di bianco legati con una bandana. Lontano dai salmi lenti e musicali, quasi ipnotici di Tali, che riusciva a curare ogni ferita con un sorriso dolce e confortevole. Lontano dai capelli cortissimi di Sebastian, dalla sua aria scanzonata e la sua balestra congelata.
Lontano da Alphonse e le sue spade lucenti, la nebbia azzurrina, carica d’elettricità, che lo avvolgeva durante ogni combattimento. Lontano da Clara che era sempre calma, brandiva la sua spada a mosaico, gli carezzava i capelli e gli giurava che l’avrebbe protetto fino a che avesse avuto fiato in corpo.
Erano lontani i giorni in cui le sue orecchie sentivano solo parole slave, gli accenti più diversi mescolati in un mix letale che, alla fine di tutto ciò, gli aveva insegnato idiomi in cinque lingue diverse.
Era piccolo allora, i suoi pantaloncini lasciavano scoperte le ginocchia costantemente sbucciate, le mani sporche di terra, spesso anche di sangue.
Aveva passato settimane di fuoco, a scappare dalle incursioni dei mostri che, per qualche strano motivo, avevano deciso di risalire tutta la Turchia e schiantarsi sul confine con una terra che non c’era più. Avevano perso alleati, amici, parenti… avevano perso tutto e nulla, eppure se ripensava alla sua infanzia il vero inferno era iniziato quando lo avevano lasciato di nuovo in quell’orfanotrofio, quando per la seconda volta era stato costretto a vedere le spalle della sua nuova famiglia allontanarsi da lui, andando verso un destino ignoto che gli aveva strappato dalle braccia molti di loro.
La guerra gli aveva portato via tutto e dato tutto ben due volte, la terza non l’avrebbe tollerata probabilmente, o più semplicemente sarebbe finalmente morto.
Se solo per lui fosse stato possibile.
Un sorriso amaro stirò le labbra dell’uomo, un leggero strato di barba si era formato sul mento e sulle guance e Gio vi passò sopra la mano per saggiarne la ruvidità. Gli ricordava un po’ la testa di Sebastian quando si radeva i capelli. Quel solo pensiero lo fece sorridere di nuovo.
Aveva imparato, alla fine di tutto, inginocchiato in un campo di battaglia, sporco di sangue e di icore, che ogni cosa prima o poi si trasforma in ricordo, in dolce e silenzioso ricordo. Forse qualcuno faceva un po’ di rumore, ma nessun dolore rimaneva vivido per sempre, dopo un po’ diventava un eco costante, la fitta ad un osso malandato, il volto di chi ami che si fonde con i lineamenti di ogni essere che incontri. Il dolore scemava e rimaneva solo il tormento, quello non ti abbandonava mai.
Si alzò dal suo giaciglio con lentezza, poggiando i gomiti sulle ginocchia e meditando su quanto quell’attimo di pausa non gli servisse a nulla. Doveva uscire da quella stanza e lavorare, un po’ con gli Dei un po’ per affar suo, nulla si sarebbe concluso da solo.
Varcò la soglia senza guardarsi indietro, senza controllare di aver lasciato qualcosa, qualcuno, magari il fantasma di una vita passata, magari di più vite.
Il corridoio lungo e spazioso era completamente grigio, non di marmo, perché nelle viscere dell’Olimpo nulla lo era, ma di solida pietra levigata, consunta da tutti quei passi che vi erano calcati sopra dall’inizio di tutto sino a quel momento. Gli ricordava un po’ la scalinata dell’orfanotrofio, dove i bambini si divertivano a saltare e correre, dove ogni gradino era scavato perché quell’edificio era stato tante cose nel corso del tempo ed i piedini nudi o mal vestiti di bambini magri e gracilini non avrebbero potuto consumarli in quel modo.
Se si fosse diretto a destra sarebbe tornato nella Sala del Delta, oltre le grandi porte sarebbe sbucato nella sala di pietra e risalendo la stretta scalinata sino alla Sala delle Colonne.
Non erano i luoghi dei grandi Dei quelli che gli interessavano però, non la magnificenza e lo sfarzo del marmo bianco, dei bacini d’oro traboccanti piante esotiche e fiamme immortali, non la finezza dei decori più minuziosi, il gorgogliare delle grandi fontane ed i canti delle ninfe, i suoni delle lire e dei flauti.
A Gio interessava il silenzio delle mura quiete e degli spazi vuoti.
Sulla costa sinistra del Monte Olimpo vi era sempre pace e tranquillità. Forse perché gli Dei non amavano scendere così in basso, così vicini a quelle pendici vere, terrene, rocciose e mortali. Il grande monte si trovava in ogni luogo della Terra e in nessuno. Era in cima all’Empire State Building e sulla Torre di Londra, nelle sale più grandi del Taj Mahal e negli archi del Colosseo, oltre le porte delle Città Proibita, sul cratere del Monte Fuji. Sfiorava le limpide acque della Barriera Corallina, era baciato dallo stesso solo che baciava il Cristo Redentore di Rio, lo stesso che carezzava la foresta Amazzonica e quella Siberiana. Era al centro del Sahara, seppellito nel ghiaccio della Groenlandia.
L’Olimpo era ovunque così come lo erano tutte le sedi delle divinità che si affollavano affannate ed irrequiete sulla superficie di un così piccolo pianeta.
Solo Asgard guardava tutti dall’alto, impilata nei suoi nove mondi e nei suoi regni bellicosi e pacifici. Solo le radici di un antico albero sfioravano la Terra per connettere quel mondo a quello degli Dei norreni.
Ma lì, sul versante ovest del Monte Olimpo, sulle pendici del vero monte, sulla terra bagnata dal Mar Egeo, non vi era rumore, non vi era caos, non vi era divin tormento.
Aveva scoperto anni addietro che uscendo da quella particolare porta si sarebbe trovato proprio nella vecchia Europa, nella sua vecchia casa. Così, in quegli anni lontani in cui le sale di marmo bianco ed oro erano diventate per lui così famigliari, aveva preso il vizio di introdursi fin nelle profondità del monte, rompere le scatole ad Efesto e poi, silenzioso come l’ombra che era, sgattaiolare verso quella che, a tutti gli effetti, sembrava essere la porta di una baracca di pastori.
Poggiò il piede sulla superficie erbosa e fresca, poteva sentire la suola scivolare un poco per colpa della rugiada che impregnava quei fili verdi. Non era cambiato molto nel corso del tempo: c’erano sempre le collinette verdeggianti puntellate di massi bianchi, qualche fiore di campo che imperterrito viveva del clima privilegiato che emanava il monte, un piccolo patio rotondo, con delle colonne ormai vecchie e panche ricoperte di muschio poggiate su un mosaico invaso dalle erbe aromatiche piantate da chissà chi.
Il cielo era terso come sempre, da lì a poco avrebbero potuto assistere allo spettacolo notturno che solo un ambiente pulito e privo d’inquinamento come lo era un fazzoletto di mondo del 2000 a.C. poteva essere. Da lì Gio aveva visto le stelle con un occhio completamente nuovo, aveva visto davvero loro e non solo quei piccoli e luminescenti puntini che tutti davano per scontato.
Con un sorriso mesto si domandò come se la cavassero i suoi amici lì su, come stessero quegli agglomerati di gas incandescenti che altro non erano che anime più antiche del mondo stesso.
Ma non era ancora sera, non vi era ancora occasione di scorgere vecchi amici, non vi era vero silenzio in quel momento, non vera solitudine.
Nel patio, con la schiena poggiata contro una delle sedute muschiate, un uomo dalla pelle scura e scintillante come l’onice sedeva tra l’origano ed i fiori di basilico. Era probabilmente l’uomo più bello che mai avesse messo piede su quel suolo e su tutti gli altri, il suo viso era regolare, gli zigomi alti ed il naso dritto, il mento aristocratico e sopracciglia dalla curva morbida come quella della sua bocca. Una bocca così bella che anche solo guardarla portava ad anellare un bacio, un sorriso, una misera parola.
I suoi capelli lunghi, neri come solo Nyx ne aveva, parevano intessuti di quelle stelle che ancora non erano comparse. Il torace scoperto era muscoloso ma asciutto, ogni curva pregna di un’eleganza che mai essere umano avrebbe potuto replicare.
Ed era quanto di più ironico al mondo che la Morte fosse così bella e pacata, così elegante ed amorevole. Così forte e delicata.
Tra le braccia, con il capo riverso sul pettorale sinistro, dormiva beato un curioso figuro dalla pelle così pallida da sembrar quasi malata. Era bianco dello stesso candore della luna, fumoso, fantasma, impalpabile e inarrivabile. Il naso appuntito era rivolto verso il collo dell’altro, sfiorava quella pelle liscissima e ne respirava a pieni polmoni l’odore come se si trattasse del profumo più buono.
Le guance piene ricordavano quelle di un bambino, le labbra a cuore erano lucide e socchiuse, lasciavano intravedere gli incisivi meno bianchi della pelle.
Teneva un braccio attorno alla vita sottile del compagno, l’altra mano poggiata sullo stomaco, come se non potesse far a meno di sentire quel calore sotto i polpastrelli. Era strano vederlo senza guanti, senza la grande cappa nera a coprirlo, senza il cappello dalle larghe falde, sembrava quasi più piccolo così.
Giaceva tutto rannicchiato contro il fratello, le ginocchia piegate verso il busto, comodo tra le sue gambe che lo cingevano morbide.
Dormiva il sonno dei giusti, sospirando di tanto in tanto, forse – sicuramente – sognando.
I capelli scuri gli coprivano la fronte alta, Thanatos glieli carezzava con dolcezza, chinando il capo di tanto in tanto per posargli piccoli baci tra le ciocche scompigliate.
Era un’immagine così dolce e al tempo stesso irreale che quasi pareva una visione. Quando mai degli Dei era stati così vicini, si erano amati così tanto, come facevano i due gemelli della Notte?
Giordano Delle Vie osservò i fratelli riposare tranquilli, la Morte che coccolava i Sogni, proteggendoli da una realtà cruda che l’uomo delle sabbie dorate conosceva forse anche meglio di lui.
Fu una fitta silenziosa, quel tormento che non ti abbandona, il dolore di un osso malandato, quello che aveva imparato a sopportare e che improvvisamente gli si ripresentò come una ferita appena inferta. Ma non era gelosia, non era invidia quella che gli graffiava le vecchie cicatrici, non c’era un solo sentimento negativo che si scontrasse contro i due davanti ai suoi occhi: ciò che più gli faceva male era distante da loro, erano le mani fantasma di una sorella che lo carezzava nelle notti più buie, che lo abbracciava e gli diceva quanto fortunata fosse stata ad averlo al suo fianco, sempre, per sempre.
Non era stato così. Non vi era più nessuno al suo fianco, nessuno di quella vecchia famiglia che il termine del conflitto mondiale gli aveva strappato completamente.
Era solo come lo era sempre stato ed in un modo completamente diverso.
Quanto avrebbe voluto riaverli indietro, tutti quanti, anche solo per un minuto, anche solo il tempo di uno sguardo, di un abbraccio, una carezza, un bacio, di una parola.
Avrebbe venduto l’anima al diavolo se solo fosse stato possibile, ma ben preso Giordano aveva imparato che non c’era diavolo o demonio che potesse rendergli ciò che aveva perduto. Forse, si ripeteva, perché lui non aveva più nulla da vendere.
 
«Temo di non esser mai stato in grado di comprenderli, non fino in fondo.» sussurrò una voce conosciuta all’orecchio dell’essere.
Gio chiuse solo per un istante gli occhi, assaporando quel suono che inevitabilmente gli ricordava giorni passati e perduti. Sorrise mesto riportando lo sguardo sui due gemelli.
«Questo perché sei figlio unico, amico mio. Anche per gli Dei è difficile comprendere ciò che mai hanno sperimentato sulla loro stessa pelle.»
Al suo fianco un giovane fanciullo di forse diciotto anni annuì.
Era anche lui di bell’aspetto ma mai quanto lo era il nero figuro che silenzioso amava il proprio fratello seduto tra le erbe aromatiche.
Il ragazzo aveva la pelle chiara, rosea come un bocciolo, quasi irreale anche per il fatto che, al tatto, essa aveva esattamente la stessa consistenza del fiore. Giordano lo sapeva fin troppo bene.
Il volto dolce, i lineamenti morbidi, tipici di quei fanciulletti ritratti nei quadri dei grandi maestri. Era affascinante, attirava lo sguardo, ti faceva scendere un brivido lungo la spina dorsale, facendoti desiderare cose che mai avresti pensato di volere. Ma anche questo incanto su Gio non funzionava più. Come lui stesso aveva detto un giorno a quel bell’essere, ormai il suo veleno era diventato panacea per il suo sangue, non era più intossicante come il morso di una serpe, doloroso ed appagante come la stretta serrata di un amante. Non provava più il desiderio opprimente di passare le mani tra quei ricci morbidi, non desiderava più perdersi in quegli occhi d’ambra per lo stesso motivo per cui ogni altra anima lo desiderava. Le labbra morbide, piene, dolci, non lo chiamavano più a sé come il canto di una sirena, il suo tocco non lo incendiava più nel profondo delle sue viscere.
Giordano non era più un ragazzino sconvolto dalla vista dell’amore, incapace di articolare una frase educata e gentile davanti a lui, riuscendo solo a tirar fuori provocazioni e battute sarcastiche.
I tempi in cui Eros lo guardava negli occhi e riusciva a fermare il suo cuore erano lontani.
La chimica che li aveva uniti una vita fa, no.
 
«L’amore ha molte sfaccettature, malgrado ciò che possano pensare gli altri, non ho la presunzione di comprenderle tutte senza averle vissute, proprio come dici tu, Giordi.» disse con la sua bella voce ipnotica, spostandosi al fianco dell’uomo e sorridendogli con delicatezza.
Indossava dei semplici jeans grigi ed una maglia bianca, lo scollo a v che lasciava in bella mostra le clavicole delicate e sporgenti, obbligando quasi l’occhio a fissare quella porzione di pelle scoperta, il collo da cigno e poi su, verso il mento, le labbra, gli occhi. Ma era un gioco a cui lui aveva smesso di giocare da anni ormai.
Inclinò la testa lasciando che il suono di quel nomignolo gli riempisse le orecchie. Curioso che solo pochi minuti prima avesse ricordato un’altra voce chiamarlo in quel modo.
«Era moltissimo che nessuno mi chiamava così.» mormorò infatti.
Non si scostò quando Eros si sporse verso di lui poggiandosi con la spalla al suo braccio, assecondò invece il volere di quel dio così complesso e contraddittorio e lo accolse contro il suo fianco, passandogli l’arto attorno alle spalle dalla linea morbida ma dai muscoli guizzanti.
«Lo so. Solo Alphonse ti chiamava in quel modo, me lo disse lui stesso, una vita fa.»
«Cos’è una vita per un dio?» chiese retorico lanciandogli uno sguardo divertito.
Eros lo fissò per un attimo, come se l’incanto dei suoi stessi occhi gli si fosse rivoltato contro. Avevano parlato molto anche di questo in passato, di come non vi fossero state altre iridi che avessero mai attratto il dio come le sue. Solo la sua Psiche l’aveva incantato a quel modo.
 
«Non sono una maledizione, mio dolce fanciullo. Sono ciò che di più prezioso c’è tra gli Dei, belli come gli ori dell’Olimpo intero. Non vergognartene mai, te ne prego, questi occhi potrebbero illuminare il mondo e l’ignoto. Gli altri sono così stolti da non riuscire a comprendere cosa siano davvero.»
«E cosa sono allora?»
«L’avvenire. Sono il futuro e noi lo stiamo ignorando solo perché ne siamo terrorizzati.»

 
«Ho imparato a mie spese che le vite sono solo attimi.» gli confessò piano. «Li invidio, sai? Non credo di aver mai avuto nessuno al mio fianco che mi abbia amato così tanto.» indicò poi i gemelli.
Gio sfregò la mano sul suo braccio nudo, a dargli conforto. «Hai la tua splendida moglie.» gli ricordò.
«Psiche mi ama ed io amo lei, ma non è ciò che unisce loro. Lo sento, Giordano. Sento che l’amore che scaturisce dalle loro anime è più forte di quello di chiunque altro.»
«Tu sai cosa sono, perché continui a porti domande?» chiese allora.
Eros si strinse nelle spalle. «Perché non ho mai provato un amore come il loro. L’ho vissuto solo riflesso dai loro stessi occhi.»
«Temo di non poterti aiutare neanche io allora.»
Il dio alzò la testa, la tempia premuta sul braccio solido dell’uomo. «Sei malinconico oggi. Da tempo non ti vedevo così, non sentivo questa tua voce.»
Giordano stette in silenzio per un po’, riflettendo sulle parole del dio. Poi lo guardò senza paura, senza pentimento. «Finirà mai?» chiese sapendo perfettamente che l’altro l’avrebbe compreso.
Così fu. Eros si mosse nella stretta che lo riscaldava e si fece più vicino all’uomo, il petto piccolo e magro premuto contro quello ampio. Gli cinse la vita con le braccia, facendo risalire le mani affusolate fino alle scapole. Poggiò il mento contro il suo sterno, guardandolo da sotto le lunghe ciglia scure.
Tutto quello gli riportava alla mente il periodo in cui erano stati alti uguali, la prima volta che si erano incontrati, la voce ancora infantile ed acuta con cui l’aveva apostrofato, le sue stupide battute ironiche dettate da un imbarazzo che non riusciva a capire a differenza sua.
Rafforzò la presa e gli sorrise.
«No, mio piccolo Giordi, non finirà mai. Ma che vita sarebbe senza amore? Varrebbe la pena smettere di soffrire se poi non si avesse nulla di cui gioire?»
Giordano gli restituì quel piccolo sorriso, stringendolo a sua volta e poggiando il mento tra i ricci nocciola.
«Come può la gente credere che sia Atena la più saggia tra gli Dei, senza prima averti sentito parlare?» domandò retorico.
Eros rise strofinando il volto contro la stoffa morbida della camicia che l’altro indossava. Era liscia e fina ed il dio non ebbe bisogno di chiedere per capire che fosse una delle più vecchie che possedeva, che prima di essere sua era stata di un altro uomo che ormai da anni aveva abbandonato quella terra.
«Perché io sono ciò che c’è di più bello e crudele al mondo. Sono una dolce bugia ed una violenta verità. In un qualche modo io e Thanatos ci somigliamo più di quanto la gente non creda.»
«Oh, ma io so perfettamente quanto morte e amore vadano a braccetto.» sbuffò con un pizzico di cinismo.
Eros premette la guancia contro il suo torace. «La morte è solo un’altra via, ha detto una volta qualcuno.»
«L’amore invece è infinte vie.» sussurrò lui.
Chiuse gli occhi e beandosi di quel calore così umano, così famigliare. Poi chiese ciò che tutti, in un modo o nell’altro, si stavano domandando.
«È per questo che lo fai?»
Giordano sorrise, Eros lo seppe con certezza anche se non poteva vederlo.
«Per amore dici? E di chi?» chiese divertito.
L’altro si strinse nelle spalle. «Di tua sorella?»
«È morta amico mio, da tempo.» soffiò via con malinconia.
«Ed è tornata in vita.» precisò l’altro.
Gio annuì. «Lo sai tu, lo so io.» fece vago.
«Allora se non è per lei, per chi?» domandò distanziandosi di mala voglia da lui. Lo fissò negli occhi e cercò una verità, una risposta che a molti era stata negata.
Il sorriso che si aprì sul volto dell’uomo era storto e inquietante, prometteva ogni cosa ma nulla di buono. Era il ghigno pericoloso di un mostro ed Eros ne aveva sempre avuto paura nell’ugual misura in cui ne era stato attratto. Il pericolo era parte dell’amore, l’amore era pericolo. Eros amava il pericolo quasi quanto amasse amare.
«Mi deludi così, non ci arrivi? Per me ovviamente.» la voce scivolò fuori da quelle labbra tese con strafottenza, con cinica ironia. Perché se c’era una cosa di cui il dio era certo era che i tempi in cui Giordano Delle Vie aveva fatto qualcosa solo ed unicamente per sé erano così lontani da non aver più testimoni viventi.
Quella non era altro che una delle sue innumerevoli punizioni, dei castighi che si era autoinflitto nella vita. Per cosa, doveva ancora scoprirlo.
Tuttavia trovava eccitante contraddire le persone, specie Gio che rispondeva sempre ad ogni battuta con egual impeto.
«Ma tu non sei mai morto,» gli ricordò con una sottile nota di cattiveria, «è ciò che sei, dopotutto.»
La stretta di Giordano sui suoi fianchi si fece più forte, quasi fastidiosa.
Oh, sapeva quanto lo ferisse ricordare di non esser mai passato a miglior vita. Forse avevano smesso di giocare alle sirene ammaliatrici, ma quello della provocazione crudele era un gioco da cui entrambi erano dipendenti, masochisti e consapevoli di esserlo.
Quel fastidio non fece altro che accrescere la sua voglia di sapere, il suo divertimento, l’eccitazione latente che si faceva via via più intensa.
«Esatto, quindi?» gli rispose con voce bassa e roca.
Eros sogghignò, battendo le lunghe ciglia con un broncetto infantile ed innocente, come quello di un bambino a cui non viene concesso un capriccio.
«Quindi cosa vuoi dalla morte?» tubò dolcemente.
Ciò che li aveva sempre accumunati, oltre ad un cinico, crudele ed ironico senso del sarcasmo, era quella capacità di mutare l’atmosfera, i propri sentimenti, il proprio comportamento, come se nulla fosse, come si passa da un argomento all’altro: con sorprendente facilità ed estremo realismo.
Era triste, malinconico, il vecchio Gio quando Eros era giunto al suo fianco. Era stato per un attimo il bambino confuso di una vita fa. Era diventato un saggio e gentile uomo. Ora era solo lo stronzo che tutti avevano imparato a conoscere, con quel pizzico di pericolosità mal celata che troppe anime aveva fatto impazzire.
Era il loro gioco preferito da sempre, temeva.
Giordano gli passò con lentezza una mano tra i capelli, scostandogli i riccioli ribelli dalla fronte liscia ed alta.
«Non da lei, da lui,» disse accennando all’uomo in nero che ancora cullava il suo gemello, «ma dalle sue ancelle. L’amore è crudele, lo sappiamo entrambi.» sussurrò pericolosamente vicino al volto del dio.
Eros non poté far a meno di aggrottare le sopracciglia chiare: che significava quell’ultima frase? Cosa c’entrava ora?
Scrutò quelle iridi accecanti e qualcosa, nella sua mente, scattò.
Restituendo a quell’essere lo stesso sorriso pericoloso che prima gli aveva regalato, Eros tornò a farglisi più vicino, alzandosi sulle punte per poter arrivare al suo orecchio.
«E cosa ci si guadagna? Cosa ci guadagnerebbe chi ti seguirà?» chiese con voce suadente.
Gio ghignò ancora, le mani che tornavano a stringere quella vita fine che tanti avrebbero desiderato anche solo poter ammirare da vicino.
Strusciò il naso contro la tempia del dio e sussurrò piano. «Divertimento e caos.». Poggiò un bacio morbido sulla pelle tesa, sfiorando la conchiglia sensibile dell’orecchio, soffiandoci dentro il respiro cocente di un’anima mai morta. Il collo di Eros si ricoprì di brividi, così come tutto il suo corpo.
Quella sì che era una proposta allettante.
«Ed un precedente impossibile da ignorare in futuro.» terminò con fare enigmatico.
Il dio dell’Amore chiuse gli occhi estasiato da quelle parole. Divertimento. Caos. Qualcosa che non potrà esser più ignorato, qualcosa che gli alti Dei sui loro scarni dorati non potranno più negare. Oh, che gioco eccitante che si prospettava.
C’era solo un’immagine vacua di quello che Giordano Delle Vie voleva fare, che gli aveva proposto tra trabocchetti e parole dette a metà, ma Eros, dio dell’Amore, amava il pericolo come null’altro al mondo, perché lui stesso era fatto di questo: sentimenti soffocanti ed impossibili da gestire, indomabili e impudenti, animaleschi e divini.
Ed infido e pericoloso era lo sguardo di quel mostro che mai sarebbe dovuto nascere e che invece dominava gli animi di troppi esseri, tirava le fila di troppi destini.
Era già successo in precedenza ed Eros non ebbe alcuna remora a lasciare di nuovo anche i suoi di fili alla mercé di quell’anima maledetta, sottomesso e vezzeggiato come un amante.
L’amore aveva tante facce, troppe sfaccettature.
Che Giordano gli mostrasse quelle più oscure.

«Come potrei mai rifiutare una simile proposta?»
 

 
*



 
L’uomo lo aveva scortato per un corridoio buio come parevano essere tutti gli ambienti di quel luogo sconosciuto. Non aveva più parlato dopo averlo aiutato ad alzarsi, si girava solo di tanto in tanto controllando che non avesse bisogno di fermarsi, di fare una pausa.
Quantificare il tempo che avevano impiegato per arrivare in quella sala sarebbe stato completamente inutile, non ricordava minimamente come scorressero le giornate, figurarsi i brevi periodi come quello.
L’ambiente in cui si fermarono era grande e decisamente più luminoso rispetto a tutto il resto, c’erano addirittura dei piccoli lumi, deboli e fiochi, a contornare le pareti lisce ma di certo, non di pietra. C’era del mobilio, una grande panca sopra cui erano appesi dei ganci di ferro grezzo, dei tappeti a coprire il pavimento lucido, delle sedie ed un tavolo di legno massiccio. C’era persino un triclinio vicino ad un tavolinetto dalla superficie di vetro. Accostato al muro, sul lato sinistro, un grande camino emanava calore dalle braci spente. Non vi erano finestre, non vi erano aperture, solo la porta anonima da cui erano entrati ed un’altra, sul fronte opposto che, decisamente, non aveva nulla di anonimo. Era in legno anche quella, intagliato però con strani disegni e ghirigori che l’anima non aveva mai visto prima di allora. Si intrecciavano in volute e in nodi, c’erano greche dalla precisione maniacale ed altre linee ancora che parevano scritte in una lingua incomprensibile ed antica almeno quanto gli Dei. Sulla sua destra una maniglia lunga, inchiodata su foglie di metallo dorato, il manico una spirale stretta che si allargava solo nel centro, ospitando una sfera dai riflessi perlacei. Sulla sinistra un pomello opaco color bronzo riproduceva un fiore in boccia, solo alcuni petali aperti ad allargar la superficie, rendendolo grande come un’arancia. Al centro il muso di un leone che teneva tra le fauci un grande anello, i toni cupi e freddi di un ferro ormai ossidato.
Da che parte si apriva quella porta?
Questo era l’unico quesito che riusciva a porsi, dimentico anche di quel piacevole tepore che proveniva dalle braci, ignorando tutti gli altri oggetti della sala che avevano avuto la sfortuna di non esser notati prima di quell’uscio.
«Aspettate qui, il mio Signore arriverà a breve. Accomodatevi pure.» La voce dell’uomo dagli occhi fini lo riscosse dai suoi pensieri.
Ora che poteva osservarlo meglio si rese conto di come le sue vesti fossero di una foggia che mai aveva avuto il piacere di vedere. Indossava dei pantaloni larghi sulle cosce e poi stretti da nastri su tutto il polpaccio. Una fusciacca color bronzo stringeva il bordo della casacca incrociata e dei pantaloni, mettendo in evidenza la vita regolare dell’uomo. Le maniche di quella maglia erano lunghe e larghe, terminavano con un decoro del medesimo colore della fusciacca che si abbinava alla perfezione a quella stoffa lucida del colore dello smeraldo. Anche solo alla vista pareva così morbida e delicata, un tessuto degno di un re. O di un alto ufficiale. Chi era davvero l’uomo che lo aveva scortato sino a lì?
S’arrischiò a chiederglielo.
«Vi ringrazio, mio signore. Posso chiedervi di nuovo di dirmi chi siete? Non per forza il vostro nome, solo da dove venire, perché mai in vita ho incontrato qualcuno come voi.» la sua voce ancora graffiava un po’ ma il tono gli era uscito morbido e gentile come quella stoffa verde.
L’uomo fece un inchino, la schiena dritta e le braccia lungo i fianchi, i lunghi capelli neri, che ora poteva veder legati in parte dietro la nuca con uno strano fermaglio, ondeggiarono sfiorando quasi il suolo.
«Il mio nome ve lo saprà dire colui a cui porto rispetto ed obbedienza. Quanto il luogo da cui provengo, le mie terre si trovano ad Est delle vostre, oltre i grandi monti, oltre le lande deserte e quelle ghiacciate, oltre il mare ed in mezzo ad esso. Mai il mio popolo ed il vostro si sono incrociati quando voi o io eravamo in vita, solo secoli dopo uomini coraggiosi ed intrepidi esploratori sono riuscita ad aprir una vita di seta tra i nostri mondi.»
L’anima inclinò il capo, poi annuì. «Mi rammarica non esser riuscito a veder la vostra terra come l’avete vista voi con i vostri occhi. La vostra sola figura ispira in me un misticismo che il mio popolo non ha mai avuto, mi domando come dev’esser quello della terra che vi ha dato la luce.»
L’uomo in verde si tirò su con un gesto fluido, sul volto serafico solo un sorriso educato si mosse.
«La mia terra non è più così come l’ho vissuta, non lo è neanche la vostra. Non decadi, non secoli, ma millenni sono passati da quando camminavamo su qui suoli. Si sono susseguite guerre, regni, albe di ere giunte ormai alla fine. Temo, mio giovane signore, che il mondo che noi conoscevamo non esista più da troppo tempo.»
«Spero allora di poter vedere ciò che è venuto in seguito.» disse sorridendogli con delicatezza.
L’altro fece un secondo cenno con il capo. «Ve lo auguro. Colui che ora ci è a capo verrà a breve da voi.» gli ricordò infine.
«Attenderò paziente, mio signore.»
«Vi auguro che l’attesa sia ripagata.» e con un terzo inchino l’uomo dai lunghi capelli neri si voltò ed uscì dall’anonima porta da cui erano entrati. Quando l’uscio si chiuse un rumore metallico fece voltare di scatto l’altro: era appena stato chiuso a chiave in quella stanza?
Si avvicinò velocemente alla maniglia, provando a tirarla verso di sé e a spingerla in fuori. Nulla, era bloccata, non si muoveva neanche un poco, come se non fosse altro che una scultura nel muro.
Si girò ancora, questa volta guardandosi attorno e notando quei particolari che la vista dell’altra porta gli aveva celato: c’era quella che pareva una grande cassettiera, un divisorio dalla struttura di legno ed i piedi in metallo. C’era anche un grande recipiente in legno, con delle strisce di ferro borchiate a stringere le assi ed un curioso tubo con due pomelli.
Non riusciva a capire l’utilizzo di quella sala, che pareva ospitare mobili di uso completamente diverso l’uno dall’altro.
Con un brivido di freddo a scuotergli le membra, come se d’improvviso un vento gelido avesse iniziato a tirare tra quelle mura, l’anima si accostò al camino ormai spento, piegandosi sulle ginocchia e allungando le mani verso le braci.
Cosa ci faceva in quel luogo lui?

«Senti freddo?»

Avrebbe voluto girarsi immediatamente a vedere chi fosse entrato, a chi appartenesse quella voce bassa e roca, ma la sorpresa lo congelò sul posto, chiudendogli gli occhi mentre si malediceva da solo: aveva dato le spalle alla sala, aveva lasciato a chiunque l’opportunità di sorprenderlo proprio com’era appena successo.
Si volse con lentezza, stringendosi inconsciamente le braccia al petto, coprendosi come poteva e come quegli stracci logori che portava indosso non facevano più.
Davanti alla porta dalle tre maniglie vi era un alto uomo dall’aspetto sicuro. Era ben proporzionato, il lungo soprabito nero che indossava metteva in risalto le spalle larghe, la schiena dritta, il torace ampio ed aperto. Il suo abbigliamento era sicuramente moderno, decisamente più del suo ma anche più del guerriero dell’Est che l’aveva scortato sino a lì. Teneva la mano destra in tasca, nella mancina brillava un legno dalla punta incendiata. Aveva un portamento rilassato, disinvolto, era completamente a proprio agio in quella stanza, in quella situazione, con lui e con sé stesso.
Dal suo volto non traspariva nessuna preoccupazione, era sereno e quasi disinteressato, non si sarebbe mai detto che si trovasse a tu per tu con un giovane mezzo nudo, sporco di sangue e pieno di lividi e vecchie ferite.
La sua pelle era olivastra, i capelli neri corti tirati indietro verso la nuca, parevano morbidi a quella distanza. La mascella squadrata era sbarbata, le labbra dalla piega morbida appena lucide, forse umide di saliva. Il naso aquilino era una linea dritta che divideva il volto, gli zigomi alti sembravano i responsabili della curva degli occhi. Avevano una forma felina, ma più di questo ferina: erano gli occhi di un predatore e l’anima accucciata davanti alle braci non ci mise molto per capirlo. Le palpebre leggermente socchiuse e le ciglia scure gettavano un’ombra spessa sulle iridi dal colore indefinito, aiutate dalle sopracciglia folte che davano un’aria seriosa a quel viso ben scolpito.
L’uomo davanti a lui era potente, lo era in molti modi diversi e ne era perfettamente consapevole.
Ma soprattutto, ciò che lo pungolava dritto nella memoria sbiadita, era la certezza di averlo già incontrato, ma dove?
Deglutendo e prendendo un profondo respiro si risolse a rispondergli, la mente ormai sgombera di qualunque domanda fosse stata affollata prima.
 
«Non avrei mai creduto di poterne sentire ancora.» disse a bassa voce. Gli uscì tremula e docile, se avesse provato intenzionalmente a farlo non ci sarebbe riuscito, quella era la semplice conseguenza dell’aura emanata da quell’individuo.
L’uomo fece un passo avanti, portando quel legno al suo volto dischiuse le labbra e lo strinse tra i denti. Continuò ad incedere verso di lui, si tolse la palandrana nera e si chinò per poggiargliela sulle spalle.
«Alzati di qui, riaccendo il fuoco.» glielo disse come un ordine gentile, il comando di un adulto ad un bambino, conscio che l’altro non avrebbe né avuto il motivo né l’intenzione per disobbedire.
L’anima si strinse la pesante stoffa contro le spalle, chiudendosela sul petto e nascondendo quel corpo martoriato di cui improvvisamente provava vergogna. L’indumento era caldo, di quel calore umano e vivo che da tempo immemore non ricordava più. Era un peso piacevole indosso, lungo oltre i suoi piedi, che strusciava sul pavimento e sui tappeti perfettamente puliti come lo strascico plumbeo di un re tiranno.
Si scostò dal camino, osservando l’uomo chinarsi di nuovo e portare una mano sulle braci scure e fumanti. Non dovette neanche schioccare le dita, gli bastò accostare il palmo a quei sassi bruciacchiati e questi tornarono ad ardere, brillando rossi e gialli nelle loro crepe, disfacendosi in polveri bianche ed impalpabili.
Visto da dietro, in quella posizione, l’uomo sembrava ancora più imponente. Aveva davvero le spalle molto larghe, come quello di un uomo di mare, abituato a combattere contro i flutti e le correnti più impetuose. Il tessuto chiaro della camicia che aveva indosso era tirato sotto la pressione dei muscoli guizzanti e sporgenti, delle scapole grandi, del trapezio e delle vertebre. Non era un semplice uomo di potere, era forte tanto nella sua aura quanto nel fisico, non aveva dubbi che se avesse brandito una spada sarebbe riuscito a staccargli la testa dal collo con un unico colpo.
L’uomo si alzò pulendosi le mani sui pantaloni scuri, un gesto così semplice e spontaneo che per un attimo stordì l’anima.
Tornò a guardarlo, togliendosi dalla bocca quello che, ad occhio e croce, doveva esser un involto da fumare, e lo fissò dritto negli occhi, senza paura e senza giudizio.
«Senti ancora freddo?» gli domandò solo.
L’anima scosse la testa. «Mi sarebbe bastata anche la vostra veste, vi ringrazio.» chinò leggermente il capo, inconsciamente condizionato dalle azioni che aveva visto fare al combattente in verde.
«Quello che indossi non è certo classificabile come vestiario, riesce a mala pena a coprirti.» disse secco dirigendosi verso il lato opposto della stanza.
L’altro si sentì improvvisamente imbarazzato, quel commento sui suoi vestiti, si quegli stracci che si ostinava a chiamare così, l’aveva fatto vergognare come mai prima d’allora. Ciò aveva dello straordinario, poiché in vita raramente, se non mai, gli era capitato di provare vergogna per il suo aspetto o per il suo corpo, nel mostrarsi vestito o nudo che fosse in generale. Aveva sempre avuto una giusta considerazione del suo aspetto, malgrado in quel momento non fosse dei migliori.
Ma il solo fatto che un sentimento come la vergogna fosse affiorato alla sua mente, unito a tutte quelle vibrazioni che la presenza di quell’essere gli trasmetteva, stava facendo suonare lunghi ed assordanti allarmi nella sua testa.
L’uomo misterioso si era intanto avvicinato alla grande tinozza di legno, macchinando con quei pomelli e facendo fuoriuscire acqua fumante dal tubo che si gettava in quella che, ora chiaramente, doveva esser una vasca.
«Faremo qualcosa anche per quelli.» riprese a parlare. «Per ora credo che sia più importante darti una ripulita e vediamo anche di riuscire a far qualcosa per quei lividi e quelle ferite.» e mentre lo diceva iniziò a sbottonarsi i polsini della camicia, arrotolandosi le maniche sino al gomito. Si piegò verso la vasca infilando una mano nell’acqua per sentirne la temperatura, sbuffò una nuvola di fumo.
«Acqua bollente o solo calda?» gli chiese da sopra la spalla.
L’anima batté gli occhi sorpresa e confusa da quella domanda: in che modo gli era possibile scegliere? Che quelle due manopole regolassero il calore di un qualche fuoco nascosto?
«Io- non saprei.» si ritrovò a balbettare senza saper cosa dire, sconvolto anche dalla sua stessa risposta, dalla sua voce, dalla sua indecisione.
L’uomo annuì. «E allora facciamo calda quanto basta.»
Rimasero in silenzio fino a quando la vasca non fu piena, solo allora il curioso individuo si voltò verso l’altro e gli porse una mano.
«Su, vieni qui. Posa la giacca sulla sedia.»
Con un gesto del tutto involontario la giovane anima si strinse per un attimo il vestito al corpo. Sul volto dell’uomo si aprì un sorriso storto.
«Non ti vergognerai mica, spero. Ti assicuro che non hai nulla che non abbia anche io o che non abbia già visto.»
Quel commento così canzonatorio fece scattare qualcosa dentro l’altro. Fu come se finalmente si fosse svegliato e ciò che era sempre stato, la sua personalità, i suoi modi di fare, il suo stesso essere, si fosse riscosso e fosse tornato a ruggire, ora indignato da quell’affermazione.
Con un moto di stizza si tolse la cappa di dosso e la poggiò sullo schienale di una di quelle sedie di legno e pelle. Tenne gli occhi fissi in quelli dell’uomo e poi, con lentezza, portò una mano alla vita per sciogliere la corda ormai logora che teneva la stoffa adesa ai suoi fianchi. Lasciò che il tessuto si allargasse a campana, retto ormai solo dal nodo sulla sua spalla e risalì paino sino a quello, sciogliendolo con attenzione, prendendosi tutto il tempo che gli serviva per districare quell’intreccio consolidato dal tempo e da tutto il sangue che vi si era rappreso in mezzo. Quando infine riuscì ad aver la meglio trattenne i due lembi tra le mani per un momento, un attimo di esitazione che non era altro che l’attesa dei un via, di un cenno di partenza.
La veste scivolò veloce sul costato asciutto e martoriato, superò le anche sporgenti lasciando bella vista del bacino stretto, delle gambe costellate di lividi e cicatrice, cadendo mollemente sulle caviglie fini che si liberarono di quell’ormai inutile pezzo di stoffa ed incedettero verso l’uomo.
Quello non aveva smesso di fissarlo dritto negli occhi neanche per un momento, senza mai abbassare lo sguardo ma non per pudicizia quanto per quella sfida silenziosa che l’anima gli aveva lanciato nel momento esatto in cui era tornato ad essere sé.
Accettò con educazione la mano che l’uomo gli porgeva, lasciandosi aiutare a scavalcare il bordo alto della vasca di legno. Un brivido gli percorse la schiena quando sentì la gamba avvolta dal calore dell’acqua, ed un altro brivido lo colse quando, vedendolo vacillare, l’uomo gli passò un braccio attorno alla vita e lo alzò senza problemi da terra, accompagnandolo a sedersi, lasciando che si immergesse nel bagno bollente seguendo il suo volere, assecondando la sua discesa.
Quando l’acqua gli sfiorò le orecchie il giovane poggiò la testa contro il bordo di legno e si lasciò scappare un sospiro di puro piacere: quanto tempo era che non si faceva un bagno? Un bagno vero e non uno di fuoco?
La sensazione dei muscoli che si rilassano, che si sciolgono fu quasi estraniante, annebbiata solo dal bruciore che le sue ferite si ostinavano a produrre.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare, che lo uccidessero in quello stesso istante, non gli sarebbe importato meno di niente, avrebbe accettato la morte con piacere, quello stesso piacere che continuava a farlo sospirare, ancora ed ancora. Se fosse stato un po’ più lucido si sarebbe reso conto di in che modo vergognoso quei suoni sembrassero gemiti, il ghigno divertito dell’uomo sarebbe stato ugualmente utile.
Ciò che lo riscosse da quella sua piccola oasi di pace su un oggetto morbido, soffice come una piuma, caldo ed imbevuto d’acqua che gli si poggiò sul capo.
Aprì gli occhi chiari e li puntò immediatamente verso l’uomo. Questo teneva una spugna in mano e con una lentezza dettata solo dalla tranquillità gli bagnava i capelli incrostati di sangue e terra.
«Quante ferite hai?» gli chiese con voce bassa.
L’altro scosse piano la testa. «Spero non pensiate che io tenga il conto.» gli disse con una punta di ironia, tornando a chiuder le palpebre.
L’uomo sorrise leggermente. «Lo prenderò come un “troppe”.»
«Le ferite non sono mai troppe, così come le torture non sono mai tutte.» replicò con lo stesso tono.
Quello rimmerse la spugna nell’acqua, la strizzò e gliela passò sulla fronte. «A che tipo di torture ti hanno sottoposto?» domandò ancora.
«Pensatene una ed io l’ho subita.»
«Di ogni tipo?»
«Dalle più leggere alle più cruente, dalle più innocue alle più umilianti. I torturatori dell’Ade non si risparmiano, più si scende in profondità e più si subisce.»
«Ti fidi un po’ troppo di mani estranee per aver sofferto le pene dell’Inferno.» gli fece notare con tranquillità.
«Se avreste voluto uccidermi l’avreste fatto mentre vi davo le spalle.» rispose piano.
Un leggero riso gli sfiorò le orecchie, coperto in parte dal rumore dell’acqua strizzata via dalla spugna.
«Potresti metter in conto che io non sia una di quelle persone.»
«Che pugnalano alle spalle?»
«Già, trovo molto più gratificante guardare negli occhi il mio avversario.» annuì.
La giovane anima si strinse nelle spalle. «Allora non aprirò i miei.» sussurrò. «Ma non mi affido in questo modo a chiunque.» tenne a precisare poi.
Questa volta la risata fu più chiara e anche canzonatoria. «Mi arrogo il diritto di esser speciale allora.»
«Avete delle mani gentili.» gli confessò senza remora, conscio di quanto commenti del genere facessero sempre piacere a persone di potere, soprattutto uomini che giocavano ai buoni samaritani come stava facendo il suo ospite.
«Come fai a dirlo?» gli chiese però sorprendendolo. «Posso ben credere che siano secoli che una mano gentile non si posa su di te.» disse senza particolari intonazioni.
Il giovane non poté far altro che aprire gli occhi e alzare lo sguardo per incontrare il volto calmo dell’uomo.
«Esattamente per questo motivo. So riconoscere il tocco di chi vuole ferirmi, di chi vuole qualcosa da me e di chi no.» rispose con serietà, fissandolo senza paura.
L’uomo ghignò. «Mi spiace dirtelo ma il tuo istinto è caduto in fallo. Io voglio qualcosa da te.»
Quell’affermazione scosse l’anima di brividi, per un attimo intimorito all’idea di non riuscire più a riconoscere chi gli si poneva davanti, i desideri più stupidi e quelli più animaleschi che si celavano dietro ad ogni essere. Eppure qualcosa gli diceva di non aver sbagliato troppo, l’uomo stesso gli aveva detto che voleva “qualcosa” da lui, non “lui” stesso, ma forse, di nuovo era stato confuso da quei modi gentili. Se così fosse stato però, se fosse stato il suo corpo quello che l’uomo voleva, allora avrebbero iniziato una partita di un gioco che l’anima conosceva fin troppo bene, in cui era fin troppo brava.
Poggiò le mani sul bordo della vasca e si tirò sulle ginocchia, ignorando il freddo dell’aria fuori dalla copertura bollente dell’acqua, lasciando che i riccioli puliti da strati e strati di sporcizia gli ricadessero morbidi sulla fronte, gocciando stille lucide sul volto arrossato dal calore dei fumi.
Si sporse in avanti, il petto candido e macchiato proteso verso quello ampio dell’uomo. Inclinò il capo e lo guardò con attenzione.
«Allora cosa posso fare per voi, mio signore?» chiese con voce morbida e languida. Se si era sbagliato, se quello che aveva davanti era un “comune” uomo di potere, allora avrebbe potuto volgere la cosa a suo favore, avrebbe potuto assoggettarlo al suo volere, anche se ciò implicava lasciarsi alla sua mercé inizialmente.
L’uomo lo fissò per un lungo istante, lasciando cadere la spugna nell’acqua e poggiando le mani ai lati delle sue. Si sporse anche lui in avanti, ad un soffio dal suo naso, il respiro caldo, incandescente più dell’acqua in cui era stato immerso fino a quel momento e delle braci che ora crepitavano nel camino.
Da quella prospettiva l’anima riuscì a vederlo in modo completamente diverso: era un bell’uomo, su questo non c’era dubbio, ma più che la bellezza c’era un fascino, un’aura che attirava chiunque. Era un richiamo sinistro e pericoloso, ballava su un’ambiguità nascosta, sul dubbio costante che l’uomo avrebbe potuto portarti in gloria sul palmo della mano o sprofondarti nel Tartaro stesso. Era una fiamma ardente e tutti gli altri solo falene perse nella notte. Un uomo non poteva aver quel potere, non poteva essere una calamita, un canto di sirena, un incanto, una malia, solo gli Dei avevano quel potere, loro e i loro figli, ma qualcosa gli diceva che quell’individuo era molto, molto di più.
Per la prima volta in vita sua si ritrovò nella spiacevole sensazione di percepire il pericolo a cui stava andando incontro in modo preciso, vivido, perfetto… ma di volervisi precipitare ugualmente se non con ancora più foga.
Le labbra dell’uomo si piegarono in un ghigno obliquo, il sorriso di una belva che sapeva di aver la sua preda in pungo, chiusa in un angolo e senza via di scampo.
«Permettimi una piccola citazione, anche se non potrai capirla.» gli disse lasciandolo di sasso. L’anima aggrottò le sopracciglia, presa di sorpresa ondeggiò leggermente e non riuscì a reagire in tempo prima che l’uomo le ponesse un asciugamano attorno alle spalle e la tirasse fuori dall’acqua come se non pesasse nulla.
Con un verso strozzato il giovane si ritrovò a stringere le braccia attorno al collo dell’uomo, rimanendo ipnotizzato da una lunga cicatrice che gli lambiva il muscolo teso.
L’altro lo posò con delicatezza sul triclinio su cui vi era steso un altro spesso lenzuolo morbido. Si tolse piano le sue braccia di dosso e gli diede le spalle per dirigersi verso uno dei mobili, aprire un cassetto ed estrarne dei vestiti.
Il sorriso sul suo volto non era ancora cambiato, i denti scoperti sembravano una fila di zanne lucide di saliva e assetate di sangue.
«Sto per farti un’offerta che non potrai rifiutare.»
 


 
*




L’odore che permeava l’aria ero lo stesso che aveva sentito sin dal primo momento in cui erano entrati tra quelle mura, ma questa volta, con suo sommo disappunto, era più vicino, era più circoscritto. Se prima ne erano immersi ora ne erano accerchiati.
«Cazzo.» ringhiò Cade a mezza bocca. Con un gesto veloce afferrò la mano con cui Jonas si reggeva alla sua giacca e si tirò il ragazzo più vicino, portandoselo alle spalle e controllando la zona apparentemente vuota attorno a loro.
Jonas lo lasciò fare, non si lamentò neanche quando sentì le dita fredde del compagno stringersi attorno alle sue. Cercò invece di individuare ciò che l’aveva messo tanto in allarme e si fece un po’ più vicino alla sua schiena.
«Vedi qualcosa?» chiese a bassa voce.
Cade scosse la testa. «Tu gigante? Così in alto dovresti aver una migliore visuale.»
Úranus si mosse a disagio, anche lui facendosi più vicino a Lea come a volerla proteggere da qualcosa che non potevano vedere. 
«Nulla di chiaro e nulla di buono.»
Nel mentre anche gli altri si erano avvicinati, Nathan ed Eliza si schierarono spalla contro spalla, gli ultimi due blocchi di quel muro protettivo formato da loro ed i due rossi.
Dietro i soldati, attenta a non toccare nessuno, Jane tenne gli occhi sgranati puntati verso l’orizzonte, cercando di convogliare al meglio il potere di sua madre per riuscire a scorger qualcosa anche lei. Tutto ciò che ne ricavò però fu solo un vago eco, un tremolio del terreno conosciuto ma neanche lontanamente paragonabile alla prima carica.
 
«Dov’è Nerone?»
La domanda di Lea, che poggiata ad Úranus cercava come tutti di individuare il pericolo imminente, fu completamente estemporanea.
«Chi?» chiese Nathan con voce dura.
Lea fece un gesto vago con la mano che il biondo neanche vide. «Non ti impicciare, non to parlando con te!»
«Ma Nerone non era tipo un imperatore romano?» chiese Jonas con voce tentennante. Che c’entravano ora personaggi storici morti? Che i due fossero arrivati fino a lì con l’imperatore?
La giovane annuì con vigore. «Sì, è l’imperatore che si dice suonasse la lira mentre Roma era in fiamme.»
«Che è una cazzata, fatevelo dire che uno che ha studiato i miti.» grugnì Nathan.
«Ma nessuno te lo ha chiesto.»
«Così come qualcuno ha chiesto a te chi cazzo è Nerone e tu hai glissato.»
«Non sono affari tuoi e non stavo parlando con te, dannazione!»
Lea si voltò verso il biondo che abbandonò la sua posizione fronteggiando l’altra.
«In un momento così delicato tu chiedi che fine abbia fatto Nerone e io non posso sapere chi cazzo è?»
«Perché devi essere sempre così scurrile? È una cosa tra me ed Úranus, non mi pare che io sia venuta a chiederti perché discutevi con il ragazzo quando ti ho incontrato!»
A quella frase Cade drizzò le orecchie, la presa attorno alla mano di Jonas si fece più forte.
«Discutevate?» chiese solo con tono piatto, quasi non gli interessasse neanche.
Il più piccolo però si affrettò comunque a spiegare: non sapeva per quale motivo ma non voleva che Cade pensasse che, lasciatolo solo per un attimo, fosse riuscito subito ad attaccar briga con Nathan. Non voleva che-
 
Si preoccupi per me?
 
«Non stavamo discutendo, anche se poteva sembrare, è stato- poi ti spiego ora non credo che-»
«Quelli non sono cazzi tuoi.» specificò Nathan con voce dura rivolto a Lea.
La ragazza lo guardò con occhi di fuoco. «Non credere di poter far il bello e cattivo tempo con me Wright, non sono la prima animuncola che hai incontrato, non mi faccio mettere i piedi in testa da te. Se vuoi sapere qualcosa lo chiedi con garbo come ogni dannata persona di questa terra oppure ti chiudi quella stupida boccaccia che ti ritrovi e non mi scassi l’anima!»
Con un guizzo di pura rabbia la figlia di Apollo fece un passo avanti, senza il minimo timore di ritrovarsi a fronteggiare un soldato ed un semidio sicuramente più addestrato di lei.
L’altro tentennò per un secondo, forse toccato da quell’audacia che la giovane non dimostrava a prima vista o forse semplicemente innervosito da quella risposta, quella che sottintendeva che Lea non era al suo comando, che lui non era il capo e non aveva diritto di pretendere risposte.
Anche se erano potenzialmente circondati da mostri e la citazione a quello che poteva essere un imperatore era stata assolutamente estemporanea.
«Finitela entrambi!» abbaiò Eliza prendendo Nathan per una spalla e riportandolo alla sua posizione di difesa. «Non è il momento di litigare, non quando siamo in questa situazione e non quando siamo palesemente tutti dalla stessa parte.»
«Beh, veramente ognuno è dalla propria di parte, dovemmo essere rivali.» precisò Jane vaga.
Lo sguardo di ghiaccio che le rifilò la figlia di Nike le fece subito abbassare la testa, le gote rosse per la vergogna d’esser stata ripresa.
«Allora cosa si fa?» domandò Cade.
Eliza non batté ciglio. «Dobbiamo capire qual è la situazione. Úranus?»
Il ragazzo rimase fermo per un istante, concentrato nel riuscire ad individuare chi c’era, se era un nemico, se non lo era.
«Avverto una forte presenza attorno a noi. L’aria sembra più densa.» sussurrò piano.
La mora annuì. «Sapete combattere?» chiese allora.
Lea scosse la testa. «So poco e niente, mi spiace…» disse mortificata.
«Ero un cacciatore, sono stato addestrato in un certo qual modo.» poi si bloccò. «Ma noi non abbiamo nulla da temere.» disse più a sé stesso che agli altri. Poi con un gesto sicuro si voltò verso la compagna. «Lascia che uno di loro stia dietro di noi, possiamo proteggerli.»
A quelle parole Lea si illuminò di colpo, annuendo con vigore e poggiando una mano sulla spalla di Eliza.
«Fammi posto, mettiti dietro di me.»
La giovane la guardò senza capire. «Hai appena detto che non sai combattere.» le fece notare.
La bionda però annuì convinta, i ciuffi biondi le rimbalzarono sul viso come farebbe la frangia di una bambina intenta a correre. «Lo so, ma ti assicuro che i mastini non mi faranno nulla, non possono più.»
Jonas si volse allora a guardarla, improvvisamente folgorato da quell’affermazione.
«Quando ti abbiamo incontrata stavi giovando con un Mastino Infernale. Voi avete già superato la prova!»
Lea annuì e a quel punto lo fece anche Eliza, prima di dire perentoria. «Cade, fa a cambio posto con lei.»
Il rosso la guardò male da sopra la spalla. «Con tutto il rispetto, perché giuro che non vorrei sembrar insolente o che so io, ma non mi metto da parte per farmi far scudo da una ragazza.»
Nathan ringhiò. «Io ed Eliza siamo quelli che sanno combattere meglio, razza di deficiente, possiamo difenderci bene mentre lei non verrà comunque toccata.»
«Fai a cambio tu, anche io so difendermi.» rispose allo stesso modo.
«Neanche per sogno, io sono un soldato. Hai presente quella guerra di cui parlavamo prima? Quella in quel posto che nessuno di voi conosce perché siete troppo ignoranti?» chiese con quel tono strafottente e fastidioso. Jonas strinse i pugni, cercando di frenare la gran voglia di sbatterglieli dritti sul naso. La stretta che ricevette in cambio da una parte gli ricordò che ancora teneva la mano in quella dell’Irlandese ed in un qualche modo lo calmò ed imbarazzò in egual misura.
«Ecco, non è stata proprio una passeggiata. Era un inferno-»
«Come tutte le guerre.» precisò Eliza già spazientita: perché per una volta non potevano semplicemente fare quello che diceva loro senza discutere per ogni cazzata?
« c’è morta un botto di gente, c’erano armi terribili ed è stata la più dura dopo la Seconda Guerra mondiale.»
Non appena ebbe detto quelle parole però Jonas divenne un pezzo di ghiaccio. La sua mano fredda e morta iniziò a sudare e Cade lo guardò con la coda dell’occhio, improvvisamente dimentico dell’americano.
«S- se- Hai detto, seconda?» domandò il ragazzo balbettando. «Ce n’è stata un’altra?»
Nathan tentennò, sorpreso da quella domanda, poi annuì. «Sei morto prima che scoppiasse forse, però sei tedesco no? Hai detto che eri di Berlino. Ti dice niente Hitler? Ha fatto un bel casino, il figlio di puttana.»
Una secchiata d’acqua cadde dritta in testa al giovane, mentre il mondo si restringeva e tutto perdeva colore. Gli sembrò che qualcuno gli avesse appena infilato una mano nella gola, ostruendogli la trachea e stringendo lo stomaco in una morsa dolorosa e soffocante.
Cos’era successo? Che significava quella frase? Gli avevano dato potere, avevano permesso a quel folle di scatenare una guerra, una guerra mondiale? Non gli era bastata la prima? Non erano bastate le tasse, i dazi, la pressione incredibile che i vincitori avevano esercitato sulla Germania? Non erano bastati tutti quei tronfi signorotti a distruggere la sua terra, avevano lasciato che qualcuno lo facesse anche dall’interno?
L’intero pianeta sarebbe potuto collassare su sé stesso in quel preciso istate, Jonas non avrebbe battuto ciglio, non avrebbe fatto una piega, ne sarebbe solo stato felice.
Cosa aveva fatto? La sua famiglia… i suoi amici… Lu…
 
Cosa ho fatto? In che mondo orribile vi ho abbandonato? Cosa ho fatto?
 
Abbassò la testa, sconfitto nel profondo, nell’animo che era tutto ciò che gli rimaneva, nel nulla del suo corpo mortale e nell’eternità fittizia di quello spettro di sé che gli era rimasto.
Lui non aveva visto la guerra, era morto prima che tutto scoppiasse e sì, sì cazzo, il regime era diventato rigidissimo, le rappresagli e le proteste venivano soffocate con brutalità e violenza, non ci si poteva fidare davvero neanche del proprio vicino e ci si doveva guardar attorno prima di parlare, di esprimere qualunque idea o anche solo una battuta. Il Reich era potente, era terribile, nero come le loro divise ma- ma, stupidamente, Jonas non aveva mai pensato che tutte quelle parolone, quei discorsi provocatori sul portare la purezza della razza nel mondo, sulla pulizia delle specie miste e inferiori… tutti quegli orrori, sarebbero mai usciti da casa sua.
Stupidamente non aveva mai creduto fino in fondo alla forza e alla volontà di un folle che aveva diviso un popolo e che a quanto pare aveva fatto lo stesso con il mondo.
Voleva vomitare… dio santissimo, voleva vomitare tutto quello che non aveva nel suo inesistente corpo. Voleva vomitarsi anche l’anima e gridare e battere i piedi e prendere a pugni Nathan che gli aveva sparato addosso quella terribile, disgustosa verità senza sapere cosa stesse facendo. Senza sapere quanto questo lo avrebbe ferito.
Perché lui era morto e non aveva visto la seconda – seconda cazzo! – guerra mondiale, ma le persone che amava, tutte loro, non solo l’avevano vista, l’avevano anche vissuta.
Jonas si portò le mani alla gola, soffocato da quei pensieri, da delle immagini che non aveva mai visto ma che in un qualche modo la sua mente gli proponeva. Scene apocalittiche in cui uomini in divisa nera marciavano a ritmo dei tamburi sotto l’emblema della svastica, il braccio alzato e la mano tesa, le replica pacchiana e disgustosa del saluto romano distrutta dalle manie d’onnipotenza di un uomo, un uomo come tanti, solo più deciso e più folle.
Strinse una mano attorno al proprio collo, l’altra all’orecchio e poi anche la compagna all’altro. Se le premette sugli occhi, soffocò un singulto serrando le labbra e non si accorse del movimento repentino affianco a lui.
Non vide Lea guardarlo allarmata e provare ad allungare una mano per toccarlo.
Non vide Úranus con gli occhi sgranati, scioccato da quella reazione.
Non vide Jane fare un passo indietro orripilata, come se sapesse riconoscere quel comportamento e cercasse di scostarsene il più possibile.
Non vide Eliza far scattare la testa da lui all’area circostante.
Non vide Nathan andare poco onorevolmente nel panico e tentennare cercando di far qualcosa senza saper effettivamente cosa fare.
Non vide Cade afferrare Lea per un braccio, trascinarla al suo posto e infilarsi in quel piccolo angolo sicuro.
Non lo vide anche perché Cade se lo spinse contro e l’abbraccio, premendogli la testa contro il petto, carezzandogli i capelli e la schiena. Cominciò a sussurrargli piano all’orecchio parole di conforto, il tono basso, dolce e rassicurante.
 
«Ehi, ehi. Va tutto bene, va tutto bene. Ssssh. Sei al sicuro, nessuno ti farà male, nessuno se ne farà. È finita, la guerra è finita da tanti anni. Va tutto bene, sono qui. Sono qui, tranquillo, va tutto bene. Sssh. Va tutto bene, è finita. Sono qui.»
Continuava a ripeterlo come una litania, cullandolo mentre cercare di recuperar il respiro, di smetterla di piangere.
 
Stava piangendo?
 
Cade serrò la mascella e portò la mano a coprire il volto di Jonas, cercando di non far vedere a nessuno quei grossi lacrimoni che scendevano sulle guance paonazze per lo sforzo, per la paura, per il dolore.
Non voleva che gli altri lo vedessero il quel modo, che vedessero quanto fosse fragile. Gli ricordava cose brutte, gli ricordava urla e lamenti, singhiozzi devastanti che scuotevano il petto e impedivano di respirare. Labbra viola dalla mancanza d’aria o di ricircolo sanguigno. Gli ricordava persone – amici, fratelli – riversi a terra, morti mentre lui era altrove, a far qualcos’altro. E Cade lo sapeva, a livello coscio sapeva che non avrebbe mai potuto essere ovunque sempre, ma era l’inconscio quello che lo fotteva, che gli diceva che se solo avesse preso lui quella missione, se ci fosse stato lui in quel momento… forse nessuno si sarebbe fatto del male o alle brutte sarebbe stato lui a morire e la sua famiglia, i suoi Liberty sarebbero ancora tutti vivi, tutti felici, tutti assieme.
Sentire Jonas piangere, saper che le sue lacrime erano provocate dal ricordo di un periodo, di vicende, a cui non aveva neanche assistito, con la sola consapevolezza di non esser stato vicino a chi amava quando era successo il peggio… non poteva sopportarlo, non poteva sopportare il modo in cui gli tremavano le spalle, in cui sussultava o serrava le labbra per non farsi sentire, il modo in cui chinava il capo per non farsi vedere. Non poteva sopportarlo. Aveva provato lui stesso quelle sensazioni sulla pelle, non poteva vederle riflesse negli occhi di un altro innocente.

«Va tutto bene piccoletto, ci sono, sono qui con te, va tutto bene, te lo giuro.»
Cade alzò gli occhi solo per puntarli in quelli di Eliza, il verde scuro del folto di una foresta che si affaccia sui prati scintillanti dell’Irlanda.
La figlia di Nike annuì, non poteva saper per certo cosa gli stesse chiedendo di fare l’altro ma poteva assicurargli tutto il suo supporto.
Di fianco a lei, Nathan fissava la scena ammutolito. Lui non ci sarebbe riuscito, non sarebbe riuscito ad avvicinarsi, abbracciare Jonas e consolarlo in quel modo, calmarlo. Non era mai stato bravo con i bambini, ce n’era stato solo uno che riusciva a calmare e aveva comunque impiegato parecchio tempo per farlo. Al rosso invece sembrava riuscire così facile, così spontaneo.
Nathan non era mai stato uno che faceva gruppo, lo sapeva perfettamente da sé. Era un leader nato, comandava la squadra, dirigeva la missione, era ascoltato, acclamato. Festeggiava con i suoi amici e con i suoi compagni ma… ma lui aveva una famiglia, fuori dal Campo, lontano da quel mondo terribile e mistico in cui vivevano. I suoi fratelli, gli altri ragazzi, erano gli amici di quelle avventure spesso mortali che erano costretti a compiere, non erano proprio la sua famiglia. O per lo meno, non dovevano esserlo stato con la stessa intensità con cui lo erano stati gli amici di Cade per lui.
Deglutendo sonoramente il figlio di Ares si volse verso Eliza.
«Hai un piano? Per portarlo fuori di qui il più velocemente possibile?» domandò con voce bassa e pacata. Se c’era una cosa in cui era davvero bravo, invece, era non far sentire la sua ansia ed i suoi dubbi a chi gli era vicino. Era stato ed era ancora un condottiero e chi ricopriva quel ruolo doveva mostrarsi forte agli occhi dei suoi sottoposti e dei suoi compagni. La regola era semplice e basilare: se il mio capo è calmo vuol dire che ha tutto sotto controllo e che vinceremo.
Anche a costo di morire di nuovo Nathan non avrebbe permesso che qualcuno di quei deficienti lì presenti credesse che fossero spacciati.
Eliza dal canto suo aveva annuito piano. «Dobbiamo muoverci in fretta, verso quella direzione.»
«Fuggire è inutile.» disse Jane con voce strozzata.
Aveva gli occhi torbidi puntati ancora su Jonas e Cade, persi in ricordi e pensieri che loro non potevano neanche immaginare.
«Che intenti?»
«Non abbiamo le medaglie. Eliza forse ne ha una, o Cade.» spiegò con semplicità.
La figlia di Nike imprecò e Nathan alzò un sopracciglio.
«Complimenti, questa era Oxford.» la prese in giro.
La mora gli rifilò un’occhiataccia. «Da te non accetto commenti. La medaglia del mastino ce l’ho io. Dobbiamo trovare un modo per prendere anche le altre quattro.»
«Ne basterebbe una sola.» mormorò Cade. «Ne facciamo prendere una a Jonas, poi tu e lui uscite di qui e ci aspettate al sicuro mentre noi cerchiamo le nostre.»
Eliza lo guardò attentamente. «E tu come farai?» gli chiese con una nota preoccupata nella voce.
Il rosso si strinse nelle spalle, abbassò la testa per sussurrare qualcosa al più piccolo e poi tornò a guardare la compagna. «Me la caverò, come ho sempre fatto.»
«Oppure possiamo aiutarvi noi.»
Úranus si era girato vero il centro di quel piccolo assemblamento, guardando con apprensione Jonas ancora scosso, poi Lea che annuì con vigore.
«Noi abbiamo già preso le nostre medaglie, possiamo aiutarvi a tenere a bada i mastini e se la situazione dovesse peggiorare e servisse anche il tuo aiuto – indicò Eliza – potrei uscire io di qui con Jonas e aspettarvi fuori. Sono una figlia di Apollo, posso calmarlo e farlo rilassare se siamo in un posto tranquillo.»
«Io invece posso aiutarvi con i mastini. È retaggio divino di mio padre parlare con gli animali, io non ci riesco ma li capisco, capisco i loro stati d’animo per lo meno e loro si fidano di me.»
Nathan fece un cenno secco con il capo. «Mi sembra un buon piano. Grazie, accettiamo la proposta.»
Lea allora alzò un sopracciglio sorridendo ironica. «Ti ho davvero appena sentito dire “grazie”? Allora sei un bambino cresciuto ormai!»
Quella stupida battuta, oltre a far sbuffare infastidito il soldato, stemperò un poco la tensione che si era andata creando. Eliza diede un leggero colpo con il gomito al compagno ed ammiccò verso il ragazzino. «Poi dovrai chiedergli scusa.» disse con tono così basso da riuscir a farsi sentire solo dal diretto interessato. Nathan comunque annuì.
«Temo di sì.»
«Quindi? Cosa facciamo?» chiese allora Jane mettendosi le mani sui fianchi. «Il gigante ha detto che l’aria è densa no? Come la facciamo diventare più leggera?»
«Da quel che mi risulta sei tu la figlia di Ecate qui, hai qualche coniglio nel cilindro?» domandò ironico Nathan.
Jane lo guardò senza capire. «Perché dovrei aver un coniglio in cosa?»
«Nulla, battuta moderna.»  sbuffò infastidito. «Rompi palle, tu puoi far qualcosa?» chiese poi rivolto a Lea.
La ragazza lo guardò male, alzando un sopracciglio con fare piuttosto offeso.
«Vorrei dirti che così ci chiami tua madre ma temo che sarebbe ingiusto nei suoi confronti. Comunque, caro il mio signor “sono andato al Campo e so tutto a differenza vostra”, ti informo che noi figli di Apollo sappiamo curare, infettare, abbiamo una mira fantastica, sappiamo tirar d’arco, siamo affini a tutte le arti ma guarda te il caso con l’aria non abbiamo nulla a che fare!»
Il soldato non fece in tempo a replicarle a tono che una leggera brezza si alzò nella valle.
Pareva venir da tutte le direzioni e al contempo risucchiare l’aria da ogni parte, come se l’epicentro da cui partisse fosse in mezzo a loro.
Con un attimo di ritardo rispetto agli altri, i due biondi si voltarono verso Cade che, continuando a stringere a sé Jonas, aveva chiuso gli occhi e prendeva respiri profondi. Respirava – l’aria si ritirava, risucchiata lontano in un abisso, spazzando la terra e portando via odori e fumi – ed espirava – l’aria veniva soffiata via con forza, spingendo arbusti e balle di sterpaglia –.
Quando il ragazzo riaprì gli occhi sembravano più chiari del solito, più simili a quelli di Elena che non a quel colore sgargiante che sfoggiava sempre. Sbiaditi dal vento e dalle correnti.
La pressione che avevano sentito fini a quel momento, qualunque cosa fosse stata, si disperse nel nulla.
Nessuno disse niente, rimasero tutti in silenzio a fissarlo, l’unico rumore dato dai singhiozzi ogni momento più flebili di Jonas.
Cade abbassò di nuovo il volto avvicinandolo a quello del ragazzo e gli chiese con gentilezza.
«Ce la fai a correre? Dobbiamo cercare i mastini, il prossimo è il tuo, va bene?»
Quando Jonas annuì mesto, strofinandosi le mani sugli occhi e tirando su con il naso, l’altro gli sorrise raggiante e gli sfregò ancora sulle braccia, come a scaldarlo.
«Di questo giro ti sei fatto davvero un bel tuffo nell’acqua, gattino
Una risata stonata e soffocata rimbombò dentro al petto vuoto di Cade che lo strinse un’ultima volta stampandogli un bacio sulla testa.
«Oh! Questa volta niente minacce di morte o percosse? Ne sono onorato!»
Jonas accennò un’altra risata e provò ad asciugarsi meglio il viso, continuando a tenere il capo chinato per non farsi vedere.
Fu Lea questa volta ad avvicinarsi, con cautela, attendendo un consenso da parte del ragazzino, e poggiargli le mani sulle guance.  Con fare rigido ed impacciato Jonas lasciò che la ragazza gli sfiorasse la pelle, trattenendo il respiro in attesa di qualunque cosa.
Fu un calore piacevole a scaldargli il viso, un qualcosa molto più leggero e del tutto diverso rispetto a quello che aveva sentito stretto nell’abbraccio di Cade, ma comunque gentile, morbido. Gli rilassò i muscoli, fece scomparire le tracce di pianto dal suo volto e gli diede l’illusione di essersi appena lavato sotto l’acqua fresca in piena estate, un contrato di sensazioni che gli fece provare un piacevole attimo di pace.
«Così va meglio?» gli domandò sorridendo.
Jonas annuì arrossendo. «Sì, grazie mille.» poi guardò gli altri. «Scusate se ho creato tutto questo disturbo – disse a testa alta, cercando di non mostrarsi come il moccioso debole che si era sentito fino a quel momento – possiamo andare.»
Eliza gli sorrise gentile e annuì. «Nessun disturbo, l’importante è che ti senta meglio.»
« Eliza ha ragione. Se sei pronto ci muoviamo subito e-» Nathan si bloccò, riprese il suo solito cipiglio duro e drizzò le spalle. «Mi spiace di averti sganciato quella bomba così, ma se vorrai sapere altri dettagli, posso parlartene quando vuoi.» concluse con serietà.
Jonas annuì. «Grazie.»
Dopo di ché Lea batté con forza le mani e sorrise. «Bene! Ora che tutto è finito possiamo metterci in marcia e cercare il prossimo mastino prima che quella cosa torni. Diamo il via a questa stramba combriccola, tanto siamo tutti semidei qui, vero? Oh, e visto che ci siamo, Úranus, dire che ci conviene recuperare Nerone, ci sarà sicuramente d’aiuto.»
«Ma me lo vuoi dire chi cazzo è sto Nerone?»
 
I due biondi ricominciarono a litigare ancora e per l’ennesima volta Jonas si ritrovò a rimanere indietro, aspettando che Eliza, alzando gli occhi al cielo e borbottando qualcosa tipo “una volta era con Cade, ora con lei” si muovesse; che Jane, apatica e scocciata come sempre la seguisse e che il gigante anche si avviasse svelto dietro la sua amica nel vano tentativo di smorzare la sua discussione con il soldato.
Rimase indietro e prese un respiro profondo, pronto a fare qualcosa che gli era sempre pesato, che in un qualche modo gli era stato inculcato a forza in testa essere sbagliato, terribilmente sbagliato.
Lasciò che Cade facesse solo qualche passo avanti, senza digli nulla, senza far altre battute, solo seguendo il resto del gruppo. Quei pochi metri che gli servirono per prendere coraggio, per dirsi che era una cosa che andava fatta e che ora, in quel momento, in quel luogo, nessuno avrebbe mai potuto dirgli nulla, nessuno avrebbe mai potuto criticarlo, sgridarlo, insultarlo.
Glielo doveva, cominciavano ad essere un po’ troppe le cose che doveva a quel rosso fastidioso e rompiscatole ma… ma non gli pesava, non lo faceva più.
Una volta suo nonno gli spiegò l’importanza dello scegliere le persone giuste a cui affiancarsi, nel lavoro così come nella vita. Gli disse che era essenziale trovare qualcuno di valido anche solo come amico, perché più tempo si passava con quella persona e più si prendevano le sue abitudini. E forse anche in vita, ad un certo punto, avrebbe dato di matto e mandato al diavolo l’intero creato, magari anche in vita avrebbe mosso quei passi veloci e avrebbe annullato la distanza tra lui e qualcun altro. Jonas scacciò le voci sibilanti e maligne dei suoi compagni di classe, degli adulti, dei soldati scurrili e vanesi, degli uomini di potere crudeli e malvagi. Il suo spirito, qualunque cosa fosse rimasta di esso, ruggì come una fiera e gli gridò di fregarsene, di fare quello che voleva perché sapeva fosse giusto.
Jonas aveva passato la vita sentendosi dire che certe cose non stavano bene, che non andavano fatte, ma quando afferrò saldamente la mano di Cade, quando vide quelle iridi verdi così licide, così vivide, quando se ne ricordò un altro paio, si disse anche che per le persone con quel colore d’occhi, che sembrava così ricorrente ed importante per lui, poteva fare uno sgaro a tutte le regole.
Si disse che per un amico poteva fare – doveva fare – questo ed altro.
Cade lo guardò incuriosito, per un momento una scintilla di preoccupazione gli fece credere che il ragazzino si stesse sentendo male di nuovo, ma poi vide la determinazione nel suo sguardo, la serietà della sua espressione.
Non ebbe modo di parlare, fece appena in tempo a schiudere le labbra che Jonas gli passò un braccio attorno alle spalle ed uno attorno alla vita, stringendolo a sé proprio come Cade aveva fatto pochi minuti prima, per tutto il tempo che gli era servito per calmarsi.
L’irlandese rimase immobile, scioccato, per un istante. Un sorriso raggiante si aprì sul suo volto, le labbra fine tirate sino a scoprire tutti i denti. Portò le mani attorno alle spalle di Jonas e rispose a quell’abbraccio stretto e soffocante, sincero e sentito.
«Grazie.» disse con tono fermo, stringendo gli occhi e poggiando la guancia contro il torace del più grande.
Cade gli posò un secondo bacio sul capo, mormorandogli piano tra i capelli.
«Quando vuoi piccoletto, io sono qui, non dimenticartelo.»
 


 
*


 
Ade si sedette mollemente sul suo trono, spostando in malo modo il lungo tendaggio che vi era poggiato sopra e che gli creava un fastidioso spessore dietro la schiena. Le anime imprigionate nella trama fitta si agitarono urlando i loro lamenti tormentati, centinaia e centinaia di volti ormai deformati dal tempo e dal dolore si unirono in un grido unanime che il dio zittì con un cenno della mano.
Aveva già mal di testa, non gli servivano anche anime dannate che si lamentavano nelle sue orecchie, non appena si fosse ricordato di chi era stata quell’idea geniale di tessere morti e fili assieme l’avrebbe incenerito. Ah, no, erano state le Parche, dannazione.
Massaggiandosi le tempie tentò di far mente locale di tutto ciò che doveva fare. Casa sua era ancora invasa da tecnici di ogni tipo, la sua servitù privata si stava dando da fare per arredare al meglio le camere personali di tutte le divinità che volevano vedere da vicino la gara o che, malauguratamente, dovevano partecipare alla realizzazione delle prove. Era riuscito a liberarsi di Artemide giusto poche ore prima, quando anche l’ultimo Mastino Infernale aveva perso il suo ciondolo o l’ultima anima era stata divorata, non che facesse molta differenza per lui l’esito di quella stupida prova.
La Death Race a lui aveva portato tanti problemi quanti vantaggi in fine dei conti: stava gestendo un flusso di divinità e media mai visto prima, ma sull’altro fronte le sue terre si stavano liberando di più di ottomila anni di morti, il ché, non era poco. Se gli altri avessero potuto anche solo lontanamente rendersi conto della mole di lavoro che lui ed i suoi sottoposti dovevano affrontare ogni singolo giorno per gestire tutte quelle anime, forse avrebbero avuto pietà di lui e sarebbero scesi ad aiutarlo. O magari l’avrebbero fatto padre degli Dei e spedito lì sottoterra qualcun altro.
Sospirò. I suoi erano solo sogni utopistici, nessuno si sarebbe mai interessato al sottosuolo esattamente com’era stato fino a quel momento.
Come sempre l’unico che si interessava di cose che non lo riguardavano era Giordano, con il suo dannato ghignetto da delinquente e quello sguardo accecante, folgorante, che ti penetrava sottopelle, nel cervello e poi anche nell’anima, scrutandola nei suoi più profondi anfratti e tirandone fuori ombre che persino le Parche avevano dimenticato. Se c’era una cosa che gli era stata donata in abbondanza, oltre alla bastardaggine, alla cattiveria, al sadismo e a quella cinica ironia che riusciva a far saltare la mosca al naso anche al Budda, era una memoria eccezionale. Gio aveva il brutto vizio di perdonare solo alle volte, andare avanti sempre e non dimenticare mai. Se fosse stato possibile dar un volto al detto “la vendetta è un piatto che va gustato freddo” non sarebbe certo stato quello di Nemesi ma quello del figlio Delle Vie. Ed il fatto che Nemesi concordasse con lui e ne fosse così schifosamente felice e fiera, orgogliosa come una mamma che assiste alla vittoria schiacciante ed assoluta del suo pupillo, avrebbe dovuto far riflettere molti.
Ma ora non era la Dea della Vendetta il suo problema principale.
Se Artemide era partita da poco dalle sue terre significava solo che presto sarebbe sceso un altro dio a fargli compagnia e purtroppo Ade sapeva per certo che non sarebbe stato nulla di piacevole.
La prova successiva sarebbe stata nelle mani di un dio che chiamar inaffidabile sarebbe stato riduttivo e scorretto. Era stato tante volte fautore di disastri quanto di salvezza, la sua personalità, così come quella di chiunque altro di loro, ondeggiava su un filo sottile che divideva il baratro oscuro della cattiveria da quello candido della magnanimità. Essere un Dio Greco significava aver tutti i pregi ed i difetti di un mortale conditi da poteri disumani. Era una fregatura, a conti fatti.
Alzo la mano e chiamò uno dei suoi scheletrici servitori, che si arrampicò ondeggiante sulle scale nere portando in braccio un enorme specchio dalla cornice fregiata. Dentro di esso si agitava una nebbia torbida e inquieta, che ben preso prese contorni definiti e divenne una finestra chiara su un giardino verde e quieto, fatto di bianche rocce e sedute di pietra ornate di muschio. Una piccola vibrazione ed il volto nero e perfetto di Thanatos apparve curioso e rilassato.

«Buona sera Ade, a cosa devo il piacere?» la voce del dio della Morte gli arrivò bassa e melodiosa ed il primo dei grandi fratelli non ci mise molto a capire che il tutto era dovuto a quella macchia scura e pallida che ronfava alla grande sul petto nudo di suo fratello.
«Si è addormentato davvero o è impegnato in uno dei suoi viaggi?» chiese facendo un cenno con il capo per rispondere al saluto
Gli occhi lucidi dell’altro risposero prima ancora che potesse farlo lui. «Sei solo?»
«Come sempre nella mia Sala del Trono, qui non c’è tutta l’agitazione che si trova in quella di mio fratello.» poi ci rifletté, «C’è solo Sidmund che mi tiene lo specchio. Vuoi che lo mandi via?» gli domandò alzando un sopracciglio scuro.
Le belle labbra di Thanatos si arricciarono divertite. «Credo di potermi fidare del silenzio del caro Sidmund. Non è forse lui quello a cui tagliarono la lingua?»
«No, quello è Roderic. Che in ogni caso ha imparato la lezione direi.» fece con un gesto vago. «Cosa sta combinando il gemello della luna per farti chiedere tutto questo riserbo?»
Thanatos storse il naso. «Non mi piace quando lo chiamate così.» gli fece notare.
Ade si strinse nelle spalle. «È un gemello ed è pallido come la luna.»
«Ma non è il gemello di Artemide.»
«Dio non voglia.» quasi rise. «Ce ne basta uno. Ma bando ai convenevoli. Cosa sta succedendo?»
Thanatos si sistemò meglio contro il suo giaciglio di muschio spesso e morbido, tirando a sé Ipno come avrebbe potuto fare con un bambino assopito.
«Non sta semplicemente dormendo, è impegnato in uno dei suoi viaggi nella dimensione Onirica.»
«Dev’esser qualcosa di estremamente impegnativo se ti ha chiesto di vegliare il suo sonno.»
L’altro scosse la testa. «Gliel’ho imposto io quando mi ha detto cosa voleva cercare.»
Ade lo guardò con più interesse, mentre un brutto presentimento si faceva largo in lui.
«Cosa sta facendo?» chiese ancora.
Thanatos sospirò. «Cerca risposte, temo. Come tutti noi. Alcuni sono più bravi a nasconderlo, altri meno, altri ancora se ne disinteressano completamente. Questi, sono quelli che vivono meglio.»
«Per favore,» quasi lo supplicò, «dimmi che non sta andando ad intromettersi nelle linee temporali come l’ultima volta.»
Il silenzio che ricevette in cambio lo fece gemere di frustrazione.
«Davvero?»
«Ipno crede che ci sia un momento preciso in cui tutto ciò è nato, ben prima del consiglio indetto da Zeus e ben prima della proposta di Giordano.»
«Certo che c’è un inizio, prima o dopo che sia, ma ormai tuo fratello dovrebbe aver imparato cosa succede a chi gioca con il tempo.» lo ammonì con sguardo severo.
Il dio della Morte non potette dargli torto. «C’è una strana vibrazione nell’aria, l’hai percepita?» gli chiese invece.
Ade annuì. «Le stelle brillano ad una frequenza particolare
«Per usare un eufemismo.» borbottò l’altro ironico.
«Ed Ipno crede che sia tutto partito da lì?» indagò.
Thanatos sembrò pensarci su, poi scosse la testa. «No, crede che quello possa esser stato solo un incentivo. Allora si è messo a cercare più approfonditamente per capire quale sia il vero disegno dietro a tutto ciò. Ci sono strani movimenti, anime salvate, perdute, scomparse e tornate e in tutto ciò c’è un solo punto fermo.»
Lo disse fissandolo dritto negli occhi, a chilometri di distanza, a piani di distanza. Entrambi conoscevano la risposta.
«Se cerca l’inizio di tutto, puoi svegliare tuo fratello e dirgli che è il 1913. Se vuole invece il preludio dovrà andare circa vent’anni più indietro.» disse amaramente. «Siamo stati degli sciocchi, lo siamo ancora temo. Siamo stati sordi alle preghiere di una donna disposta a tutto per ottenere ciò che più desiderava, abbiamo giocato con i frutti di quella preghiera esaudita dalla persona sbagliata e non contenti abbiamo mischiato le carte. Come direbbero gli umani, abbiamo giocato a fare Dio
«Ma è ciò che siamo…» sussurrò Thanatos carezzando la testa del fratello. «Siamo Dei.»
«Sia noi che loro.» concordò Ade, «Ma questo non cambia le cose. Nel momento in cui quel desiderio si è realizzato avremmo dovuto tenerlo sotto stretto controllo. È stato un caso, chiunque muova i fili del destino di qualunque popolo può esser stato il responsabile di quest’infelice incontro; ma in quel momento, invece di domandarci cosa sarebbe successo se avessimo intrecciato quelle trame, avremmo dovuto mandare i nostri eroi più potenti, i nostri Dei più bellicosi, a dividerle per sempre.»
Thanatos annuì distrattamente, completamente concentrato sulle ciocche ribelli dei capelli di Ipno.
«Al tempo, se non ricordo male, sembrò una buona idea anche a te.»
Ade fece un verso di scherno. «Eravamo usciti da una profezia mefistofelica, ne era già stata promulgata un’altra e avevamo troppe possibili opzioni. Più di un oracolo ci aveva detto, ad entrambi i lati, che se non avessimo trovato un ponte ci saremmo ritrovati a combattere gli uni contro gli altri senza possibilità di scampo. Chi ne sarebbe uscito sconfitto avrebbe perso la possibilità d’esister, il vincitore invece sarebbe stato così sfinito che a mala pena la sua stirpe sarebbe tornata a calcare questa terra. Al tempo pareva un’idea geniale. Avremmo creato l’arma più potente mai immaginata, avrebbe potuto distruggere ogni nemico, ogni pericolo, fermato apocalissi e rigenerato mondi.»
Il sogno passato di un’epoca gloriosa in cui nessuno avrebbe mai più osato sfidarli, in cui nessuno avrebbe cercato di toglier loro un potere immenso e loro, loro di diritto… Oh, sarebbe stato il coronamento di una vita e quella degli Dei era così lunga che solo una tale vittoria avrebbe potuto appagarli in pieno. Avevano creduto di poterci riuscire, di elevarsi ancora una volta su ogni essere ed ogni caso fortuito del destino. Ma il Fato aveva voluto ricordagli che nulla poteva soggiogarlo e nel momento in cui le due parti erano scese a patti, pronte a coronare un sogno comune e glorioso, si erano resi conto di quanto tutto ciò sarebbe potuto esser, sì, la loro vittori suprema, ma anche potenzialmente la loro sconfitta più cruenta.
Non avevano capito quanto fosse oscuro l’abisso in cui si erano tuffati finché non aveva iniziato a brillare una luce sul fondo. Ed era così lontana, così fioca e al contempo accecante da aver preso tutti alla sprovvista.
Avevano provato a fermare il tutto, le anime che avevano spinto le une verso le altre erano state divise immediatamente, spedite ai poli opposti di quel mondo. Le Dee dell’amore avevano infilato le loro candide mani nei cuori che prima avevano ammaliato e svelte avevano sciolto i loro incanti, ridando a quelle menti lucidità e libero arbitrio.
Ancora una volta il Fato aveva riso di loro, aveva guardato quelle due anime e le aveva semplicemente spinte ancora più in là, a forza di camminare si sarebbero rincontrate.
Così era stato ed il grande piano degli Dei si era compiuto senza che nessuno di loro potesse rendersene conto, senza che nessuno di loro potesse sorvegliare che tutto filasse per il meglio.
La cosa ironica era che, probabilmente, se invece di dividerli avessero semplicemente lasciato che tutto andasse come doveva, sarebbero stati presenti al momento opportuno ed avrebbero potuto porre il loro sigillo su quell’arma di distruzione e creazione che avevano tanto agognato e poi temuto.
«Giocare con le anime è qualcosa che solo le Parche possono fare. Neanche io e te possiamo osare tanto.» disse Thanatos in un sospiro.
«Anche il loro Re era felice di quel piano, fremeva dalla voglia di creare una nuova stirpe.»
«Più che una stirpe, sarebbe stata un’altra razza in tutto e per tutto.»
«L’abbiamo comunque ottenuta, no?» chiese con un sorriso disgustato. «Una nuova razza benedetta da entrambi i fronti.»
«Da tutti e tre, per la precisione.» scosse il capo. «Siamo stati degli sciocchi, Ade, come sempre abbiamo voluto troppo in più rispetto a quello di cui avevamo bisogno.»
Ade grugnì infastidito. «Direi che dopo Icaro avremmo dovuto imparare qualcosa…»
«Siamo Dei, non impariamo mai dai nostri errori, quello è un dono puramente umano.»
Il silenzio li cullò per alcuni minuti, entrambi erano persi nei loro ragionamenti, nei loro ricordi.
«Credi-» iniziò Thanatos titubante, «Credi che cerchi vendetta?»
Quella domanda fece quasi ridere Ade, che si trattenne per pura forma, ricordando cosa avesse pensato prima di chiamare l’altro.
«La vendetta è qualcosa che Giordano ha nelle vene, ma non credo che sia questo il suo scopo. No, sta facendo qualcosa di più pericoloso e decisamente più preoccupante.»
«Più pericoloso che giocare con gli Dei sotto il loro naso?» e prima che Ade potesse replicare, «Domanda stupida, lo ha sempre fatto e sempre lo farà.» scosse la testa.
Ade annuì. «Il suo gioco è più grande, è più delicato e, accantonando il nostro famoso egocentrismo, dubito che riguardi noi.»
«Pensi che stia cercando la sua famiglia? Sappiamo entrambi fin troppo bene che non potrà mai riportare indietro i suoi genitori, così come sappiamo che sua sorella è rinata e con lei la figlia.»
A quelle parole il dio dei morti strinse i pugni. «Lo so. Gio non lo farebbe mai, sa cosa significa infastidir le anime, lo sa meglio di chiunque altro.»
«Allora dobbiamo preoccuparci?» chiese in fine, come se non avesse più altre domande da fare.
 
«Direi di sì e di no.»

Una voce impastata di sonno attirò l’attenzione di entrambi.
Adagiato ancora contro il torace del fratello, la faccia addormentata e le palpebre socchiuse, Ipno si stropicciò gli occhi e sorrise raggiante al gemello.
«Ciao Than.» cinguettò come un pulcino, alzandosi un poco solo per stampare un bacio sotto il mento del nero figuro.
Thanatos si abbassò di rimando per baciargli al testa, un gesto naturale ed istintivo che però non lo distolse dalle parole del fratello.
«Che vuoi dire?» gli chiese infatti.
Ipno sorrise ancora. «C’è odore d’amore nell’aria, Eros è stato qui? Questo spiegherebbe perché improvvisamente tutte le vie che potevo prendere mi apparivano così strettamente legate all’amore!»
«Non ne ho la più pallida idea. Ho già abbastanza Dei da seguire qui nell’Ade, non posso mettermi a tracciare tutti quanti.» borbottò il dio degli inferi, infastidito per esser stato ignorato.
L’altro sorrise anche a lui. «Ciao zietto, come va?» e prima che potesse rispondere. «Non vuole vendetta, il caro vecchio Gio, su questo non ci sono dubbi. Però non pensare che non voglia qualcosa dai morti.» continuò accigliandosi. «Ma non proprio dai morti. Sta seguendo un filo che ha visto anni addietro ma malgrado sia riuscito a scorgere il momento in cui lui stesso l’ha trovato, il filo, il modo per fare quel che vuole intendo, non sono riuscito a capire cosa portasse. Oh, ma avreste dovuto vedere i suoi occhi… hanno brillato come le stelle in cielo. C’è stata una scintilla, un qualcosa che mi ha fatto rabbrividire. Alle volte, vedendolo così amichevole e simpatico, mi dimentico di cosa sia in grado di fare, dimentico chi gli ha dato la vita e a quale scopo.»

«Lo scopo è stato null’altro che l’amore.» s’intromise una quarta voce.
I due gemelli voltarono il capo e anche senza veder il nuovo arrivato Ade già sapeva perfettamente di chi si trattasse.

Parli del diavolo
 
«Eros! Lo sapevo che sentivo odore d’amore!» trillò Ipno.
L’altro sorrise. «Spero nulla di troppo spiacevole.»
«Assolutamente! Schifosamente stucchevole e amaro come sempre.» l’espressione genuina e rilassata del dio dei sogni fece ridere di cuore quello dell’amore.
«Concesso.» poi si affacciò nello specchio di Ade. «Salute a te zio.» gli sorrise ammaliante come la bugia che era.
Ade rispose di nuovo con un cenno del capo. «A cosa dobbiamo il piacere?»
Eros sogghignò. «Ero qui per fare visita ad un amico ed offrigli un aiuto.» disse vago. Gli altri tre ebbero il terribile presentimento di saper già di chi stesse parlando ma il bel dio diede loro la conferma subito dopo. «E visto che ci sono direi anche di prender le sue difese. Il nostro caro Giordi non è nato “per uno scopo”. È una di quelle fortunate anime nate per amore. Non così frequente come cosa me neanche così rara.» disse stringendosi nelle spalle.
Ipno lo guardò con gli occhi a palla sgranati. «Quindi Gio ti ha detto che vuole fare? E ha accettato il tuo aiuto?»
«Mi sono proposto…» iniziò l’altro vago, «ma non mi ha detto nulla, sono riuscito ad arrivarci da me con relativa facilità. Dopotutto posso vantarmi di conoscerlo davvero bene.»
«Nel profondo.» sputò ironico Thanatos.
Eros gli fece l’occhiolino. «Assolutamente e non sai che piacere sia stato.»
«Ora basta.» disse perentorio Ade. «Eros – comandò – di cosa stai parlando?»
Il dio lo guardò sorridendo suadente come sempre. «Vi state domandando cosa voglia fare, quali pericoli sta per creare ma, ad essere onesti, credo dovreste chiedervi cosa abbia già fatto e che conseguenze ci saranno in futuro.» Fece una lunga pausa e guardò il dio dei morti dritto negli occhi. «Ci ha già fregato Ade, il gioco è appena iniziato e sta già per finire.»
La tensione era alta e soffocante e solo il sorriso di miele di Eros riuscì a sciogliere un poco i loro animi tormentati da quell’oscura profezia.
«Ma non è noi che vuole. È altro e ho l’arroganza di dire che riuscirà a prenderselo.»
Thanatos strinse la presa attorno alle spalle del fratello e si issò a sedere eretto trascinandolo con sé.
« Eros…» iniziò con voce di rimprovero. «se sai veramente qualcosa faresti bene a dircelo.»
L’altro sorrise. «E perché dovrei? Vi ho appena detto che non vuole noi, che non ci riguarda. La privacy è una cosa importante Thanatos, dovresti saperlo meglio di chiunque altro.» lo fissò dritto negli occhi, dolce ed affascinante come solo l’amore poteva esserlo.
«Continuate i vostri scambi di battute in separata sede.» li richiamò Ade. «Eros, Thanatos ha ragione.»
«Ma ne ha anche Eros.» disse allora Ipno. «Se non ci riguarda è affar privato di Gio e se non gli diamo un minimo di fiducia noi, che siamo coloro che più gli sono rimasti vicini, non so chi dovrebbe farlo. Non ha più una famiglia che lo sostenga da troppo tempo.»
Il fratello lo guardò male. «Non prendere le use difese.»
«Però pensaci Than, tu più di tutti…come fai a non ricordare il suo sguardo, quel giorno, ogni volta che lo guardi in viso? Come fai a non ricordare la sua voce? Le battaglie che ha combattuto…Neanche nei suoi sogni è felice.» l’ultima affermazione gli scivolò dalle labbra pallide come il segreto di un condannato a morte, la preghiera di un fedele, la confessione di un peccatore.
Giordano, che loro tutti conoscevano da una vita, la sua, non era più felice e non lo era da così tanto tempo che forse neanche ricordava più come fosse esserlo.
Eros annuì lentamente. «Forse ciò che sta per fare gli ridarà un minimo di felicità.» disse.
«In che modo? Giordano è una di quelle poche anime che potrebbe esser felice solo con qualcosa che non esiste.» sbuffò Thanatos.
Il dio dell’amore si strinse nelle spalle. «A questa nostra allegra riunione mancano ancora un paio di dolci signorine per completare il gruppo di Dei affezionati a Gio.» se ne uscì estemporaneo.
Ade alzò un sopracciglio. «Gli Dei che gli sono affezionati sono un po’ troppi, in realtà.»
«Questo perché il periodo in cui ha vissuto con noi è stato probabilmente il più divertente. Io non ridevo così tanto da quando Eris ha smesso di lanciar frutta ai matrimoni.» sogghignò Eros, Ipno non poté ché ridacchiare di sottofondo, stroncato poi da un’occhiataccia del fratello.
«Eris è una delle grandi assenti, mi stai dicendo che dovremmo andare a chiedere alla Discordia se sa’ cos’ha in mente Giordano e se può impedirlo?» domandò Ade.
«Assolutamente no! Anche perché Eris non farebbe altro che alimentare qualunque terrore sia presente in voi.»
«In noi, vorrai dire.» precisò il grande dio.
Eros sorrise. «Oh, ma io mi sono già schierato, zio. Siete voi quelli che devono fare una scelta.»
«Come posso schierarmi da una parte se non so quel è l’altra e, soprattutto, non conosco il fine ultimo che il mio ipotetico alleato vuole raggiungere?» domandò seccato Ade.
Ci fu un attimo di silenzio.
«Sai, credo che sia per questo che piaci a poche persone.» tubò Eros con un’espressione accigliata in volto.
Ade grugnì. «Grazie nipote, sempre gentilissimo…»
«Vi serve davvero sapere cosa sta cercando? Zio, tu sei il primo di noi che si è fidato ciecamente di lui, che lo è andato addirittura a cercare. Ricordati che prima di allora non aveva mai incontrato uno di noi, pregava il Dio dei Cristiani e conosceva solo eroi di un altro mondo. Al tempo, quando non era altro che un moccioso di dodici, tredici anni, cosa ti ha spinto ad andare da lui?» gli chiese serio.
Il dio lo fissò attraverso il velo lucido di quella proiezione e poi sospirò. «Il suo sangue, credo. Era un richiamo così forte, così famigliare… e poi sua madre, di certo anche quello ha influito tantissimo. Dopo quello che aveva fatto-» si interruppe e lasciò la frase in sospeso: tutti loro ricordavano perfettamente cos’era stata in grado di fare quella donna, non c’era bisogno di rievocare quelle immagini ad alta voce.
«Ed ora invece cosa ti blocca?» insistette il fanciullo.
«Non lo blocca nulla, davvero.» s’intromise Ipno, «Ha già preso le sue difese con Artemide, sia lui che Persefone sono dalla parte di Giordano. Credo che sia solo preoccupato per lui.» si strinse nelle spalle e poi si accomodò meglio tra le gambe del fratello, poggiandosi bene con la schiena e sospirando pensieroso. Allo sguardo di Ade sorrise angelico. «Anche noi Dei sogniamo, Artemide poi è particolarmente legata alla notte, quindi è più facile percepire i suoi timori.»
«Quindi a lei hai detto che stai con Gio?» domandò allora Thanatos.
Ade scosse la testa. «Le ho detto che non ho la più pallida idea di ciò che quel pazzo sta macchinando ma che sono sicuro che non potremmo fermarlo. E che non ho la minima intenzione di provarci in ogni caso.» concluse distogliendo per un attimo lo sguardo.
Lo lasciò vagare sul pavimento scuro, sulle colonne marmoree e oltre gli archi che contornavano la sua Sala del Trono, riuscendo a spingere la sua vista oltre quella cortina ombrosa ed insinuarsi nei meandri di quell’infinito labirinto di vene che era l’Inferno. I semidei erano così sciocchi quando ritenevano che il pericolo più grande fosse il mostro di Dedalo, non avevano la più pallida idea di cosa fosse davvero un labirinto, che quel genio stesso aveva preso spunto proprio dai veri intrighi del mondo, dall’Ade, dal Tartaro, dall’Olimpo…
«Quindi stiamo discutendo del nulla.» Thanatos poggiò mollemente le braccia attorno alla vita del gemello, abbandonandogliele in grembo. «Ognuno di noi deve qualcosa a quel mortale e ognuno di noi ha i suoi motivi per appoggiarle le sue scelte.»
Ade annuì. «Non posso dire di aver grandi fedeli seguaci o parenti fidati,» iniziò, «Gio è l’unico che non mi ha mai tradito – disse con ironia – il che ha dell’assurdo ma è vero. Non sarò io il primo tra di noi a farlo.» sentenziò in fine.
Eros gli sorrise. «Io ho già detto che sto con il nostro piccolo Giordi
«Temo di avergli tolto troppo per negargli il mio aiuto o anche solo per dirmi neutrale in qualunque cosa verrà.» sospirò il dio della Morte. Poi lanciò uno sguardo a Ipno, «Fratello?»


L’uomo della sabbia dorata fissava però un punto indefinito, gli occhi vitrei, lontani in dimensioni che gli altri avrebbero dovuto cercare con estrema fatica per potervi arrivare. Scrutava un momento preciso della storia, un passato relativamente recente ma incredibilmente lontano.
Era in una camera spoglia, adibita a biblioteca, a studio forse, ma con pochi libri, alcuni dei quali bruciacchiati o rotti. C’era una vecchia scrivania scorticata, una lampada sbeccata e delle carte abbandonate sul piano. Ma c’era qualcos’altro che l’aveva incantato.
Vide un bambino, indossava una vecchia camicia da uomo, le maniche gli erano state ripiegate più volte sulle braccia magre, i lembi annodati in vita per adattarla il più possibile a quella piccola statura. Così come gli occhi del dio avevano una strana luce quelli del bambino brillavano come un fuoco vivo, le fiamme alte e dorate, le punte rosse, i riflessi di un tramonto incendiato sul mare. Davanti al bambino una donna dal capo velato teneva una mano protesa verso di lui, un’ombra fitta nascondeva il suo volto ma Ipno avrebbe giurato che non ve ne fosse uno definito lì sotto, ma solo qualcosa in continuo mutamento.

«Riesci a vederlo, piccolo mio? Riesci a vedere oltre?» gli chiedeva con voce dolce e bassa.
Il bambino annuì.
«Questo è ciò che tutto regge. Se mai riuscirai a porvi le tue piccole mani, mio tesoro, allora il tuo verbo sarà legge. Un tocco ed ogni cosa si piegherà al tuo volere.»
La luce accecante che brillava negli occhi del bambino invase l’intera stanza, l’intero ricordo, come un’esplosione incontenibile.


Ipno puntò gli occhi tondeggianti e scuri dritti in quelli del fratello, l’iride nera riluceva attorno alla pupilla dello stesso colore dell’argento vivo.
«Non potrei mai impedire la realizzazione di un sogno.»



 
*
 



Jane alzò gli occhi al cielo per l’ennesima volta.
«Se non la smette immediatamente gli lancio contro qualcosa.» ringhiò a voce bassa.
Eliza di fianco a lei sospirò. «Cade! Abbassa la voce!» disse voltandosi verso il ragazzo.
Quello se ne stava tranquillo a chiacchierare con Lea, un braccio tenuto con nonchalance attorno alle spalle di Jonas, che per qualche motivo a tutti oscuro non si era ancora tolto il rosso di dosso a suon di calci, e l’altra mano sprofondata nella tasca, a giocar probabilmente con il suo coltellino.
«Dico solo che ora siamo ben o male tutti accoppiati in un modo o nell’altro, pensateci: la dolce signorina Lea e Elza sono la coppia delle mamme.»
Lea alzò un sopracciglio sorridendo divertita. «Credevo si chiamasse Eliza.» gli fece notare.
«Perché è quello il mio nome! ELIZA!» urlò di rimando la mora.
Cade fece un gesto vago con la mano. «Suvvia, è solo una lettera, che differenza fa?»
«Non ricominciare con questa storia, ti prego.» borbottò Jonas con voce afflitta.
«Poi ci sono il gigantone e la ragazza delle Praterie che sono il due inquietante.»
«Úranus non è inquietante, dai!» prese le difese la sua compagna, ma il tono di Cade era giocoso e né lei né Úranus stesso se la presero a male.
«Un po’ lo è, ma è colpa dell’altezza e dell’aria da vichingo minaccioso. Oh! E poi io e lui siamo il duo dei rossi! Così come tu e Jonas siete il due dei biondi carini, Nathan lo lasciamo da parte perché è un rompi palle e poi sono sicuro che se li schiarisca i capelli, ai miei tempi si faceva con limone e aceto sai? Poi è arrivata anche l’ammoniaca, certo.»
«NON SONO SCHIARITI! PORCA DI QUELLA TROIA!»
«NON IMPRECARE!» lo sgridò a voce ancora più alta Lea. Eliza si voltò per guardare male il compagno d’arme e lui sbuffò infastidito.
«Sta storia che mo siete in due a darmi il tormento è eccessiva.»
«Allora tu non darci motivo di farlo.»
«Poi,» continuò Cade, «Io e il gattino qui-»
«Ti ho già detto di non chiamarmi così dannazione!» sbottò rosso in viso Jonas cercando di rifilare un pugno sul fianco all’altro. Cade lo schivò velocemente facendo un balzo avanti, per poi rimettergli il braccio attorno alle spalle e ritirarselo contro. Chiuse l’altra mano a pugno e gliela sfregò sui capelli, scompigliandoglieli più di quanto già non lo fossero.
«Sei piccolo e arruffato, sei un gattino o un uccellino, hai la scelta, guarda come sono magnanimo!»
«Secondo me non sai neanche cosa significa.» sbuffò a bassa voce il biondo.
«Il soldatino ed Elza cara sono appunto la coppia di soldai. Tu avevi fratelli? Úranus! Tu ne avevi?
Lea annuì. «Aveva un fratello maggiore, non proprio di sangue però, era un figlio di Apollo anche lui e mi ha adottata.» spiegò con un’alzata di spalle.
Cade fischiò. «Uh, mi spiace, allora ti tocca far anche coppia con Nathan, siete gli unici che hanno conosciuto altri fratelli “divini”.»
La ragazza sospirò. «A quanto pare… non che mi piaccia aver qualcosa in comune con lui. Ma tu non hai mai incontrato i tuoi fratelli? Non sei mani stato al Campo?»
«Nah, assolutamente no.»
«Ma sai usare i tuoi poteri.» disse pensierosa. «Se posso chiedere, chi è il tuo genitore divino?»
A quella domanda un po’ tutti drizzarono le orecchie, curiosi di sapere quale divinità di nascondesse dietro a quella velocità, quei salti e quelle strane correnti d’aria che spesso tiravano attorno a loro.
Cade però sorrise sornione e scosse la testa. «Storia lunga, un giorno te la potrei anche raccontare però. E i miei poteri li so usare perché mi servivano, non ho fatto proprio una vita agiata diciamo così.
Allora? Úranus? Tu fratelli di sangue ne avevi? Diamine, non ditemi che sono l’unico! Che cazzo di vita triste avete avuto tutti quanti?»
Il ragazzo del nord tentennò un attimo, poi, lentamente, annuì. «Non sono vissuto abbastanza per vederlo, ma mia madre era incinta quando io morii.»
Lo sguardo di Cade divenne subito serio e cupo. «Mi spiace amico, so quanto dev’esser dura. Io avevo una sorellina, Annie non era una semidea come me, per fortuna, ma era comunque capacissima di darti filo da torcere.» raccontò con nostalgia, voltandosi poi a guardare Jonas e sorridendogli. «Ora invece che preoccuparmi di lei mi preoccupo di te, va bene?»
Con un sospiro rassegnato ed un mezzo sorriso in volto Jonas scosse la testa. «Se non ci fai ammazzare entrambi per me va bene, ma se diventi troppo appiccicoso di picchio.»
«Dolcezza, dovremmo discutere di questa cosa del picchiare il povero fratello Cade perché ti esprime affetto. Capisco che tu sia nato in una famiglia di nobilotti ingessati, ma dobbiamo lavorare sulle tue manifestazioni sentimentali e anche sulla tua autodifesa, che per inciso fa pena e misericordia.» ammiccò divertito.
La gomitata che Jonas gli rifilò fu parata velocemente. «Ecco un esempio!»
Davanti alla fila, con la testa alta e gli occhi rivolti al cielo per l’esasperazione, Nathan abbaiò senza ritegno contro l’Irlandese, intimandogli di stare zitto e di darsi una mossa.
«Come cazzo è possibile che tutti quei fottuti mastini siano scomparsi nel nulla- AZZAEDATEVI A DARMI UN ALTRO SCHIAFFO E VE NE RIDO’ IL DOPPIO!» urlò contro Eliza che già aveva la mano alzata.
La figlia di Nike lo guardò dritto negli occhi, alzò un sopracciglio e gli diede comunque un coppino dietro la nuca.
«Non ci provare ragazzino.» lo ammonì con tono perentorio.
Jane, lì di fianco, ridacchio deliziata da quella scena. «Se avessi saputo che stando da sola mi sarei persa scene del genere sarei venuta a cercarvi fin dall’inizio della gara.» gongolò.
Al figlio di Ares però cosa avrebbe fatto o meno l’altra non gliene poteva fregar nulla e con la sua solita aria arrabbiata ed arcigna tirò fuori la sua bussola divina ed individuò facilmente il nord.
«Cos’è? Una bussola magica?» domandò innocentemente Úranus.
Nathan chiuse gli occhi bestemmiando a mezza bocca.
«Cerchiamo di trovare i dannati mastini il prima possibile. Ho bisogno di respirare aria diversa dalla vostra.» ringhiò come uno di quei mostri.
Úranus lo guardò senza caprie cosa gli avesse detto di male, mentre Eliza alzò solo un angolo della bocca e Cade e Jane se la ridevano alla grande.
L’Islandese però si riscosse in fretta, gettando un’occhiata al terrendo ed indicando poi una direzione del tutto diversa da quella che il soldato voleva prendere.
«Di là non troveremo nulla, le tracce portano da questa parte.»
«Sei sicuro?» chiese Nathan affiancandolo.
Il rosso annuì. «Se permettete, vi guiderei dai Mastini Infernali.»
Cade sorrise ampiamente, allungando anche l’altro braccio per cingere le spalle di Lea che, sorpresa ma non infastidita, lo guardò colpita da tutta quella confidenza che era in grado di dare a quelli che, all’atto pratico, erano due sconosciuti.
«Guidaci alla vittoria, capitano! Sei il più grande di tutti e pure il più alto, direi che ti sei meritato il ruolo di condottiero! Però, promettimi che ci divertiremo almeno un po’, già questa gara è pesante di suo, se non ci facciamo neanche due risate è la fine.» gli gridò annuendo alle sue stesse parole.
Lea lo osservò per un attimo, pensierosa, poi un sorriso per nulla rassicurante le si aprì sul volto.
«Oh, mio caro, ho la vaga sensazione che potrei accontentarti.»

Dopotutto, il Dio Apollo era tanto brillante e gentile quanto sadico e pericoloso.
 
 
 
Le urla di Jane si sarebbero potute sentire sino alla Casa di Ade e forse, se il dio non fosse stato impegnato a far altro, l’avrebbe fatto di certo.
La figlia di Ecate teneva le braccia serrate attorno alla vita di Lea, il volto premuto tra le scapole, gli occhi chiusi e la bocca spalancata per dar fiato a tutta la paura che stava avendo in quel momento. Se non fossero già morti Lea l’avrebbe fatta fermare con il timore che potesse aver un infarto, ma ormai non c’era più questo rischio da parecchio tempo e la bionda si limitò a gridarle ancora di aprire gli occhi e guardarsi attorno, senza riuscire ad abbandonare quell’enorme sorriso che le si era aperto in volto.
In realtà, Elena non stava certo ridendo per la paura della ragazza seduta dietro di lei, che per la prima volta sperimentava l’ebrezza della corsa veloce, assolutamente no, non era una persona così cattiva. Però quel piccolo punto di sadismo che le era stato donato assieme al sangue di suo padre ogni tanto si ripresentava con prepotenza.
Le risate quasi sincopate di Cade, che era riverso a terra, con le mani strette sullo stomaco, la faccia paonazza e gli occhi pieni di lacrime, le confermarono che dopotutto non era l’unica stronza sadica lì in mezzo.


«FERMA QUESTO CAZZO DI COSO! PORCA TROIA, POZZI! FERMA QUESTO FOTTUTISSIMO MASTINO PORCO D-»


Lea rise ancora più forte, la voce di Cade riuscì a sovrastare le urla di Jane e le bestemmie di Nathan. Di fianco al rosso, seduto a gambe incrociate sulla terra brulla, Jonas cercava in tutti i modi di mantenere un minimo di contegno dopo che Eliza aveva dovuto battergli vigorose pacche sulla schiena per non farlo soffocare con la sua stessa saliva. Ammirava davvero tanto Cade che stava ridendo a crepapelle da almeno dieci minuti senza rischiare di strozzarsi.
La figlia di Nike era in piedi dietro di loro, lanciando sguardi di blando rimprovero al rosso, che si rotolava a terra come un cane, e controllando con espressione divertita che né Nathan né Jane mollassero la presa. Vicino a lei Úranus teneva le labbra serrate nel vano tentativo di non far capire agli altri quanto tutto ciò lo facesse ridere: quando Nathan sarebbe tornato indietro sarebbe stato meglio non sbattergli in faccia quanto quel suo spettacolino avesse fatto ridere di cuore tutti.
I poveri due sfortunati intanto continuavano ad urlare ed imprecare senza posa, in parte coperti dalle risa dei compagni, dal rumore degli artigli che affondavano nella terra e dai latrati giocosi del gigantesco cane nero su cui erano saliti in groppa.
O almeno su cui Lea e Jane erano salite in groppa, Nathan se ne stava malamente aggrappato al mastodontico collare, fortunatamente spento, cercando in tutti i modi di risalire in sella. Inutilmente visti i continui salti del mastino.
 
«ECCO! È PER QUESTO CHE VOLVEVO SAPERE CHI CAZZO ERA NERONE! PER QUESTO PORCO ZEUS!»
Lea rise ancora più forte. «Attento a quello che dici, Wright! Zeus non apprezza le imprecazioni contro di lui!»
«FAMMI SCENDERE DA QUESTO FOTTUTO MASTINO!» le urlò rabbioso.
«Tecnicamente sei già sceso.» gongolò divertita. Poi volse la testa verso Jane. «Ce la fai a sopportare un ultimo salto o vuoi scendere subito?» le chiese gentile.
«Questa è stata la scelta più terribile di tutta la mia vita, neanche entrare nel bosco è stata una scelta pessima come questa.» mormorò tra sé e sé.
«Se reggi un altro po’ facciamo volare via il biondastro!» propose la bionda.
Jane aprì di scatto gli occhi e strinse ancora di più la presa attorno alla vita della ragazza fin quasi a farle male.
«Che sia spettacolare.» le ringhiò quasi come una minaccia.
Lea sorrise ampliamente e si volse verso gli altri. «MI RACCOMANDO AL VOLO!»
Si chinò sul collo del mastino e carezzandolo gli disse sicura, «Nerone, SU!»
Senza farselo ripetere due volte il Mastino Infernale si piegò sulle zampe enormi e spiccò un salto altissimo. Dovevano essere come minimo una decina di metri e come Jane urlò più forte Nathan imprecò pendendo la presa sul collare.
Per un attimo il figlio di Ares rimase sospeso nell’aria, poi iniziò a precipitare sulla scia di una bestemmia multipla che riuscì a prendere cristiani, ebrei, buddisti, musulmani, anglicani, protestanti e scintoisti.
Da terra i ragazzi lo guardarono come incantati, Cade aveva smesso di ridere solo per ammirare quel volo impressionante ma quando Eliza gli diede una pacca sulla spalla fu lesto a tirarsi in piedi, spolverarsi i pantaloni e slanciarsi in avanti.
Saltò anche lui, afferrando Nathan a metà della caduta e tenendolo stretto come una principessa.
«LASCIAMI IMMEDIATAMENTE DIO-»
Cade rise ancora, saltellando a destra e sinistra per impedire al biondo di scendere e lo lasciò poi cadere sonoramente di sedere quando questo cominciò a scalciare come un moccioso.

Jonas osservò il mastino fermarsi vicino ai due, Lea aiutare Jane a scendere e poi, una volta ripresasi anche la figlia di Ecate, ridere senza ritegno della faccia del soldato.
Strinse tra le mani la medagli lucida e fredda che aveva recuperato, dove il profilo di una donna gli ricordava l’ideatrice di quella prova folle.
Era stato il primo a recuperarla, probabilmente se non fosse stato per Úranus non ci sarebbe mai riuscito. Era sorprendente il modo in cui, malgrado entrambi avessero un’aura cupa, i mastini gli si erano avvicinati pieni di fiducia. Aveva raccontato loro che suo padre poteva parlare con gli animali ma che lui, purtroppo, non aveva lo stesso dono. Eppure riusciva ugualmente a comunicare con loro in un qualche modo, così com’era riuscito a convincere il mastino a cui Cade avrebbe dovuto prendere la medagli a star fermo e buono, ad accucciarsi sino a sdraiarsi.
Jonas aveva notato il modo in cui Eliza si era avvicinata al gigante per sussurrargli qualcosa all’orecchio, aveva notato gli sguardi di entrambi diretti verso l’altro rosso e anche lo sguardo teso che Cade continuava a lanciare ai cani neri ogni volta che ne incrociavano uno. Parlava di più, più a sproposito del solito, o stava zitto, troppo zitto per lui.
Era stata la curiosità ma anche la preoccupazione, accumulata fin dall’inizio di quella stremba prova, a spingere Jonas ad avvicinarsi finalmente all’amico e chiedergli se ci fossero problemi, cosa lo turbasse.
Orami era sceso a patti con la realtà: da quell’assurda gara, qualunque fosse stato l’esito finale, Jonas ne aveva guadagnato senza ombra di dubbio un amico. E sì, se avesse fallito sarebbe tornato nei Campi di Pena e di certo lui e Cade non si sarebbero mai più rivisti per l’eternità, ma in vita Jonas non era mai riuscito a farsi tanti amici, a farsene di veri e per una volta- per una volta che qualcuno lo guardava davvero, che non cercava un modello, la perfezione, per una volta che qualcuno lo guardava senza aspettarsi un dato comportamento, senza pregiudizi, offrendogli il suo aiuto, la sua spalla a cui poggiarsi, il suo petto su cui piangere senza esser giudicato ma solo consolato ed accolto con disinteresse, con affetto… beh, non era uno stupido, non si sarebbe fatto scappare una situazione del genere, una fortuna del genere, solo per sciocchi preconcetti e idee preformate su come doveva comportarsi un vero uomo.
Era andato da lui a testa alta, deciso ad aiutarlo in qualunque modo gli sarebbe stato possibile e, con sua grande sorpresa, si era ritrovato davanti il sorriso gentile e colpito del ragazzo, che l’aveva guardato con una scintilla negli occhi verdi – gratitudine? – che gli aveva riempito il petto d’orgoglio.
Aveva poggiato di nuovo il braccio sulle sue spalle ma questa volta Jonas si era reso perfettamente conto di come il più grande si stesse appoggiando a lui. Si era preoccupato, era andato ad offrirgli il suo supporto e Cade l’aveva accettato senza la minima esitazione, seppur non come Jonas intendeva.
 
«Non è niente. Oddio, qualcosa è però posso affrontarlo, l’ho già fatto più di una volta, tranquillo.»
«Ma è qualcosa che fanno i mastini? Sono i mastini stessi? Perché durante le corse che ci siamo fatti non sembravi più spaventato di noi.» gli disse piano, cercando di non farsi sentire dagli altri. Cade aveva nascosto le sue debolezze, Jonas si sarebbe impegnato a fare altrettanto.
Il rosso però scosse la testa. «Questo perché ero discretamente spaventato a morte. Eh eh, a morte, non trovi che sia divertente?»
Jonas alzò gli occhi al cielo. «Come no, da morire.» replicò ironico.
Cade rise, poi sospirò e scosse la testa. «Davvero piccoletto, ce la faccio. Devo solo prendere un bel respiro e farmi coraggio. Non è la prima volta che mi butto in mezzo al pericolo.»
«In questo caso ti butteresti in mezzo alle fiamme.» gli fece notare.
Cade rabbrividì e Jonas lo studiò con attenzione. «È per questo? Sono le fiamme?»
«Ho brutti ricordi legati al fuoco.» si bloccò, lo guardò dritto negli occhi e gli sorrise. «Magari un giorno te li racconto, che dici?»
Il ragazzino rimase fermo per un attimo, indeciso sul da farsi, inesperto davanti ad una situazione del genere. Non gli era mai capitato che qualcuno ammettesse così bellamente i suoi problemi, più di uno poi! e gli dicesse anche che gliene avrebbe parlato in seguito. L’unica cosa che reputò giusta da fare quindi fu posare una mano su quella del compagno e stringerla brevemente, annuendo convinto.
«Quando vuoi.»


Erano riusciti in breve tempo a recuperare la medaglia per Cade prima, poi quella per Jane, decisamente più difficile visto che a lei non piacevano i mastini e ai mastini non piaceva lei, e poi quella per Nathan, che gli era costata qualche bruciatura curata con facilità da Jane e qualche pugno da parte di Eliza per aver cercato di picchiare di rimando il mastino che l’aveva scottato e per non aver aspettato il segnale di Úranus per avvicinarsi al cane.
La figlia di Nike offrì una mano a Jonas e lo tirò su di peso, avviandosi assieme a lui ed Úranus verso i loro compagni.

«Stavo pensando che potremmo aiutarci a vicenda.» disse con tranquillità la mora. «Tu hai un’aura molto particolare, non so quale sia il potere che hai ereditato da tuo padre ma ho ragione di credere che sia stato quello a metter fuori combattimento Nathan, giusto?»
Il ragazzo annuì. «Temo di sì.»
«Non è stata tutta colpa sua. Credo che in parte sia stato io.» si intromise Jonas. «Non so cosa sia successo di preciso, ma posso ipotizzare che i nostri, ehm, poteri? Si siano “mischiati” e abbiano fatto i danni che hanno fatto.»
Eliza lo scrutò a lungo ed annuì. «Ci torneremo con calma, quando saremo tutti assieme.» poi proseguì. «Rimane il fatto che sia tu che Lea avete dei poteri particolari e molto utili, ma mancate di preparazione bellica.»
Úranus le diede ragione. «Ce la siamo cavata fino ad ora ma non so quanto potremo fare quando le prove diventeranno più dure.»
«Potete unirvi a noi.» propose. «Siamo un gruppo formato per caso ed un po’ alla volta. Io, Nathan e Cade siamo rimasti bloccati al gabbiotto di Shilon Yu. Se non fosse stato per Cade che approfittò delle anime che si ritirarono in massa cercando di superarmi non ci saremo mai incontrati, temo.»
«Mi ricordo di voi, Lea mi fece passare il più velocemente possibile per non dover vedere Nathan.»
«Quindi è sempre Cade che fa danni?» chiese Jonas divertito.
Eliza gli sorrise. «Ha recuperato te, gli Dei solo sanno dove.»
«In rotta di collisione con un gigante, non saprei neanche dirvi di più.»
«E noi abbiamo trovato Jane inghiottita dall’edera di Persefone.»
«Credo di ricordare anche questo, vi abbiamo preceduti all’uscita dal Labirinto.»
Jonas sbuffò. «Messa così sembra quasi destino che vi incontraste, vi siete incrociati ad ogni prova.»
La giovane donna annuì. «Forse.»
«Le trame ed il volere del Fato sono oscuri anche agli Dei stessi.» mormorò serio Úranus.
«Quindi cosa farete? Vi unirete a noi?» domandò ancora lei.
L’islandese annuì. «Mi sembra una proposta vantaggiosa, chiederò ugualmente a Lea, ma credo che anche lei sarà d’accordo.»
«Bene. E se ti preoccupa Nathan, lascia stare. Abbaia, prova a mordere ma non ci riesce mai, a differenza dei classici figli di Ares ha una disciplina davvero esemplare.»
«I figli del dio della Guerra sono disciplinati, sono tutti combattenti.» disse lui senza capire.
Eliza però scosse la testa. «Non è sanguinario come potrebbero esserlo i suoi fratelli, è molto meno violento di quello che sembra.»
«Davvero?» chiese curioso Jonas, poi ci pensò su. «In effetti ogni tanto si vede che prova a fare la persona civile. Ogni tanto.»
«Avete davvero discusso?» gli domandò Eliza.
Lui fece un cenno negativo. «Ero preoccupato per- beh, ero preoccupato per Cade, per come si comporta da quando siamo entrati qui… presumo che te lo abbia detto, no? Cosa gli dà fastidio.»
Eliza lo guardò sorpresa. «Lo ha detto anche a te?»
«Ho indovinato e lui non ha negato, mettiamola così. In ogni caso, Nathan ha solo provato a consolarmi, credo. Un modo molto impacciato e abbastanza pietoso, ma c’ha provato.» si strinse poi nelle spalle.
«Mh, ogni tanto si comporta come l’adulto che dice di essere allora.»
«Non è più grandi di te?» le ricordò Jonas.
Eliza fece un verso sprezzante. «Lui avrà anche fatto la guerra del Vietnam o quel che è, ma io ho sempre fatto quella d’Indipendenza. Sono stata tra coloro che hanno lottato per fare l’America.» disse orgogliosa.
Si fermarono vicino agli altri quattro, che con grande sorpresa di tutti stavano discutendo, e la mora non perse tempo in chiacchiere.
«Andiamo, non abbiamo altro tempo da perdere.»
Cade si voltò allora verso Lea, sorridendole galante e facendole un delicato baciamano.
«È stato un vero piacere conoscervi, signorina Lea. Spero che le nostre strade si rincrocino prima del gran finale.» le fece l’occhiolino
Lea si portò una mano al cuore con fare teatrale. «Oh, Mr Cade! Che disdetta doversi già separare!»
I due si guardarono ridacchiando e si strinsero per bene la mano.
«Alla prossima, allora.» disse lui.
Lea sorrise. «Buona fortuna.»
«Se vuoi te lo regaliamo.» borbottò Nathan superandoli senza degnarli di uno sguardo.
«Non ce ne sarà bisogno.» lo stroncò subito Eliza.
Jane alzò un sopracciglio. «Perché? Lo lasciamo qui?»
«Il contrario, in effetti.» disse Jonas sogghignando in direzione di Nathan e aumentando il passo per sorpassarlo. «Verranno anche loro con noi.» concluse con sadico piacere.
Il soldato si voltò di scatto verso i suoi compagni e poi scosse la testa. «No, no no no no. Non se ne parla! Siamo già troppi! E dire che eravamo partiti in tre! Cosa vogliamo fare? Uno squadrone d’assalto?»
«Beh, più siamo meglio è, no?»
«Un cazzo ragazzino! Chi diamine l’avrebbe deciso, sentiamo?»
«Io. Ti crea problemi? Prima che tu mi risponda, ti ricordo che te, Jonas e anche Jane avete preso il brutto vizio di svenire nei momenti meno opportuni, quindi direi che una figlia di Apollo che vi curi velocemente al momento giusto è quello che ci serve. Úranus è d’accordo con me, ci alleeremo fino alle battute finali e poi combatteremo tra di noi, senza rancore.»
«Io non sono d’accordo!»
«E io me ne sbatto.»
«ELIZABETH!»
 
Lea, che aveva voltato il capo per seguire quel battibecco, lanciò uno sguardo ad Úranus ed annuì, come a volergli dare il suo benestare, poi si volse di nuovo verso Cade e gli sorrise.
«Pare quindi che i saluti siano rinviati a datata da definirsi, messere.»
«Così vuole li fato, madamigella.» ammiccò il rosso.
Ma nei suoi occhi Lea scorse qualcosa come un fremito, d’indecisione.
«Tutto bene?» gli chiese infatti preoccupata. Se dovevano essere compagni d’avventura allora tanto valeva districare subito nodi ed incertezze.
«Posso chiederti un favore?» domandò a bassa voce Cade. «E anche di mantenere un segreto?»
Lea si fece seria ma annuì subito, qualcosa le diceva che non era un affare legato alla gara o per lo meno non alle prove in sé per sé, così come non era legato direttamente ai suoi – loro – compagni. La sua parte divina s’attivò all’istante, come quando giungeva un nuovo paziente nello studio di Giuseppe.
Nascondendosi un poco dietro la figura alta della ragazza Cade tirò fuori dalla tasca sinistra la mano, fasciata alla bene e meglio con un pezzo di stoffa sporco e logoro.
Srotolò con attenzione quella benda improvvisata e fissò lo sguardo in quello di Lea. Un suo cenno affermativo ed il ragazzo aprì la mano, mostrandogli il palmo. Su di esso spiccava una ferita lunga, coperta di terra e di polvere, era però sopra ogni dubbio fresca, fatta di recente. I margini netti del taglio erano uniti da uno spesso ma fragile strato di sangue rappreso, in tutto e per tutto simile ad una ferita che si sarebbe potuto procurare in vita.
Solo che loro non lo erano più. Loro erano morti, non avevano bisogni di respirare, di mangiare, di dormire. Non si stancavano, non avevano il fiatone, non gli facevano male i muscoli dopo corse a perdifiato. Non svenivano e non piangevano, non avevano un battito accelerato, non avevano proprio battito e questo avrebbe implicato anche il non aver più una stilla di sangue nelle vene, nulla che lo pompasse in ogni terminazione.

I contratti all’Inferno si firmano con il sangue, ma il sangue di chi?

«Il contratto di partecipazione…» mormorò a mala pena.
Cade annuì. «Il sangue con cui l’abbiamo firmato era il nostro.»
«Ce lo hanno ridato? Abbiamo di nuovo il sangue?» sussurrò sconcertata.
Il ragazzo scosse la testa. «Non so dirtelo con certezza ma… gente che sviene, che ha attacchi di panico. Bruciature che puzzano di carne bruciata, morsi e ferite che fanno male. Nel Labirinto c’erano anime che combattevano le une contro le altre cercando di uccidersi.»
Lea lo guardò con attenzione. «Perché stai dicendo a me queste cose? Ci siamo appena conosciuti, potrei anche essere un mostro in realtà e uccidervi tutti alla prima occasione.» la sua domanda era del tutto lecita ma il ghigno predatorio che si aprì sul volto di Cade le diede una risposta prima ancora di riceverne davvero.
«So riconoscere un criminale quando ne vedo uno, tra simili si ci riconosce sempre. Sì, ero comunque nei Campi Elisi, storia lunga in breve: ho fatto qualcosa per cui tutti i miei piccoli peccatucci del passato sono stati perdonati. Ma lo sto dicendo a te perché sei una figlia di Apollo, dio della medicina, no?»
«Dei medici più che altro, ma sì, diciamo di sì.»
«Eri un’infermiera mi è parso di capire, quindi ti sarà capitato di veder feriti di ogni genere, di veder malattie, di riconoscere sintomi. Se dovesse succederci qualcosa, se uno chiunque di noi avesse bisogno di cure…»
«Io saprò che le ferite sono reali e che dovrò trattarle diversamente rispetto a come le avrei trattate fino ad ora. Ma perché non vuoi dirlo agli altri?» insistette pur avendo capito in pieno il suo punto di vista.
Cade rimase fermo per un momento, alzò lo sguardo verso i loro compagni e le fece cenno di incamminarsi.
«In vita ho imparato una cosa importante: i bambini sono invincibili, riescono a fare cose che gli adulti possono solo sognare. Possono arrampicarsi su quell’albero altissimo, possono scalare il muro, nuotare nel torrente. Saltano da una roccia all’altra, corrono nei vicoli e non sbagliano mai. I bambini smettono di essere invincibili quando crescono, quando scoprono di poter cadere, che le loro braccia, se non ben allenate, non possono portarli fino alla cima dell’albero o oltre il muretto. Che i flutti del fiume sono maledetti e ti trascinano giù e se non sei abbastanza forte, se non hai abbastanza aria nei polmoni, non sopravvivi per raccontarlo e mettere in guardia i tuoi amici.» con un movimento fluido le porse la sua mano, attento a non girar il palmo in avanti. «I bambini smettono di diventare invincibili quando scoprono che si può morire, che il dolore non è solo una sbucciatura, allora diventano adulti. Noi siamo come loro, siamo bambini.»
Lea prese delicatamente la mano di Cade tra le sue e mormorò bassi canti di guarigione, la ferita si richiuse velocemente, pulita e disinfettata.
«Nel momento in cui si renderanno conto di poter morire, di poterlo fare seriamente, dolorosamente, proprio come quando eravamo vivi, allora non saranno più invincibili. Avranno paura di affrontare ogni prova, ancor di più di quanto già non ne abbiano. Dopo ogni fuga dovranno fermarsi a riprendere fiato, il dolore che sentiranno ai muscoli li convincerà che non resisteranno ancora per molto.»
«Perderanno la speranza… e tu non vuoi che questo accada.» concluse esaminando il proprio lavoro.
Cade scosse la testa. «Siamo morti, non abbiamo più speranze. Non voglio che perdano la fiducia.»
«In sé?»
«In tutto. Se perdi la fiducia sei morto.»
«Ma noi già lo siamo, no?»
«Vero, ma se tu avessi saputo fin dall’inizio cosa sarebbe successo, ti saresti comunque iscritta?»
Lea ci pensò su. «Non saprei dirtelo.» ammise «Quindi non vuoi che perdano la fiducia in questa gara, che smettano di credere di potercela fare?»
Il ragazzo sorrise. «Non proprio.»
Guardandolo leggermente esasperata Lea lasciò andare la sua mano. «In cosa devono continuare a credere allora?» domandò in fine.
Sul volto pallido dell’irlandese il sorriso luminoso si fece amaro.
«Nella vita. Non voglio che perdano la speranza di poter esser ancora vivi.»


 
 
*

 
Le vesti che gli erano state date erano morbide e confortevoli. La foggia era simile a quella che indossava anni addietro, ma quello strano capo, così aderente, che gli fasciava le cosce e la vita l’avevano lasciato perplesso.
 
«Come avete detto che si chiamano?» chiese per l’ennesima volta.
L’uomo, comodamente seduto su una sedia, prese una boccata di fumo e sorrise divertito.
«Le mutande o i pantaloni?»
«Pantaloni.» ripeté riempiendosi la bocca con quella parola. «Quelle che voi chiamate “mutande” io le chiamo “perizoma”.»
L’altro annuì. «Sì, lo so.»
«Davvero?»
«Non sembrerà, ma sono un uomo di cultura.» alzò un sopracciglio indicandolo con il sigaro.
«No, invece si vede. Che siete colto intendo.»
Il giovane si mise in piedi e lasciò che la casacca gli scivolasse morbida sui fianchi prima di legarla con una spessa fascia dorata. Mosse un poco le dita dei piedi, accomodandoli su quella superficie nuova e resistente.
Era strano sentirsi puliti, indossare abiti nuovi, sentir i propri capelli districati e non più incrostati di sangue. Gettò uno sguardo alle sue braccia, dove le cicatrici non erano certo sparite ma ora apparivano come leggere linee argentate. Per i lividi c’era voluta solo un po’ d’ambrosia e in ogni caso quegli strani pantaloni gli coprivano più di metà coscia, nascondendo alla vista tutte le altre ferite che stavano impiegando più tempo per guarire.
Si passò distrattamente le mani attorno ai polsi, massaggiando la pelle ancora leggermente abrasa ed in fine alzò gli occhi sull’uomo che, rilassato e silenzioso, lo fissava dalla sua posizione un po’ calata su quella sedia mezza girata verso di lui.
«Cosa ne pensi?» domandò prendendo un’altra boccata di fumo.
A vederlo compiere quel gesto stava venendo voglia anche a lui di provare.
Forse il desiderio gli si lesse in faccia perché l’uomo sorrise storto e, presa l’ennesima boccata, allungò la mano verso di lui.
Il giovane tentennò solo per un istante, avvicinandosi con passi lenti. L’altro alzò di più l’arto e gli pose il sigaro all’altezza delle labbra, in un chiaro invito a provare ma certo non a cedergli il possesso di quell’oggetto.
«Aspira, ma non mandarlo giù, deve riempirti la bocca, non i polmoni.» lo istruì gentilmente.
Il ragazzo lo fece, strinse per un momento le labbra attorno all’involto, saggiando la strana consistenza ruvida ma liscia, morbida ma solida. Il calore delle foglie arse gli solleticò a mala pena la lingua, che reagì solo quando il fumo si propagò nelle sue guance. Un pizzicorio non fastidioso ma neanche piacevole fece risvegliare quel senso del gusto che da troppo tempo saggiava solo sangue e terra. Gli bruciarono gli occhi, che lacrimarono improvvisamente, mentre l’uomo, ridacchiando, si tirava a sedere per bene e con la mano libera gli alzava con delicatezza il mento verso l’alto.
«Su, così, libera le vie respiratorie.» sogghignò, «La prima volta fa questo effetto a tutti, tranquillo.»
«Non so, sinceramente, se mi sia stato gradito o meno.» disse senza vergogna.
L’altro continuò a sorridere. «Ti insegnerò se vorrai.» gli rispose con la stessa tranquillità. «Ma non hai risposto alla mia domanda.» gli fece poi notare.
Il giovane si sedette allora ad una delle sedie e poggiò i gomiti sul piano, intrecciando le mani.
«La vostra richiesta è semplice ed il solo fatto che mi abbiate salvato mi rende servo vostro.»
«Ma?» lo incalzò.
«Vorrei saperne di più. Sono ugualmente propenso ad eseguire i vostri ordini, date solo risposta a qualcuno dei miei quesiti.»
«Perché dovrei, se farai comunque ciò che ti chiederò di fare?» gli domandò allora inclinando il capo.
Quello serrò per un attimo le labbra. «Mi è stato insegnato che un uomo lotta con molta più convinzione se condivide l’ideale per cui brandisce una spada.»
La risata rombante che ne seguì parve scaturire dritta dal petto dell’uomo che annuì divertito.
«Ho sempre apprezzato i buoni oratori.» disse ammiccando in sua direzione. «Sta per succedere qualcosa, nei piani divini e in quelli mortali.» iniziò poi dal nulla, estremamente serio. «C’è qualcuno che sta cercando qualcosa, accontentati della vaghezza di queste parole. Il “cercatore” sta facendo delle scelte, un gioco preciso, gli Dei si schiereranno con lui o contro di lui, come fanno sempre. Lui ha però dalla sua molte anime, un po’ come te, che sono state cercate e salvate in giro per l’Ade, e le userà come meglio credere per raggiungere il suo obbiettivo.»
L’anima lo ascoltò con attenzione. «Cosa cerca e cosa dovrei fare io?»
Uno sbuffo ed uno scuotere di spalle. «Cerca un luogo, per ora. In questo luogo c’è l’oggetto dei suoi desideri. Il tuo compito è quello di seguire gli ordini che ti verranno dati, ovviamente. Per ora ci sono dei gruppi di anime, di semidei passati oltre, che si sono riuniti, vuoi per il fato vuoi per i giochi del Cercatore. Per arrivare dove vuole ha bisogno di queste anime e tu, come altri tuoi “colleghi” dovrai seguire un gruppo e assicurarti che scelgano la “retta via”.»
«Perché gli servono delle anime? Se è così potente da poter avere il favore degli Dei, perché usare terzi per i suoi scopi? Cosa cerca davvero?» domandò confuso.
L’altro sorrise. «Qualunque cosa sia, se riuscirà ad ottenerla avrà fra le mani un potere talmente grande che neanche tutti i Grandi Dodici saranno in grado di contrastare. Non ci sarà Dio, spirito o mostro che potrà mettersi contro il suo volere. Non vi saranno semidei, eroi, tiranni o mortali che potranno porvisi. Scuoterà l’Olimpo e tutti gli altri regni.» disse a bassa voce.
Nel silenzio che seguì l’anima provò ad assimilare tutte quelle informazioni, tutti quei frammenti che assieme sembravano solo stralci di una profezia terrificante ma che nascondevano molto di più.
Alzò la testa verso l’uomo, lo guardò dritto in quegli occhi lucidi come specchi: se avesse dovuto imbarcarsi in una missione di tali proporzioni avrebbe voluto farlo per un motivo, non per semplice debito, voleva sapere cosa ne sarebbe venuto a chi fosse stato dalla parte del suo salvatore, malgrado non comprendesse ancora che parte fosse.
«Cosa se ne otterrebbe? Se questo Cercatore riuscisse nel suo intento…e da quale parte mi sto schierando?»
L’uomo lo fissò con serietà, poi un ghigno inquietante si aprì sul suo volto.
«Da che parte non vorresti schierarti?» gli chiese invece.
«Da quella degli Dei.» rispose secco. Se quello davanti a lui era un Dio che allora lo fulminasse in quel momento, ma non si sarebbe mai sporcato le mani per una divinità, l’aveva giurato tempo addietro, l’aveva giurato sulla sua stessa vita e poi sulla sua morte. «Da che parte mi sto schierando?» domandò nuovamente, il capo eretto e l’espressione dura, quasi strafottente, quella di una persona che sa di poter vincere, di poter fare il bello ed il cattivo tempo come più preferiva. La stessa che aveva indossato durante tutta la sua esistenza, sia come uomo che come anima.
Se solo avesse avuto il dono di scrutar le menti, se solo l’uomo davanti a lui fosse stato facile da leggere, o magari se solo l’avesse conosciuto, avrebbe saputo che il taglio obliquo in cui scintillavano quei denti affilati era di puro e semplice compiacimento: era per questo che l’aveva scelto, ed ora che le spire delle Praterie finalmente l’avevano abbandonato e la sua coscienza stava tornando lucida e forte come un tempo, si stava mostrando per l’elemento assolutamente perfetto che aveva scorto in lui.
«Da quella giusta.» disse trasudando sicurezza. «Ritorna fra le anime che si affannano per l’Ade. Gioca una gara sapendo di poter arrivare più lontano di tutti gli altri. Se riuscirai nel tuo ruolo avrai un posto assicurato nella finale, un posto d’onore che ti permetterà di vincere l’agognato premio e tornare, così come sei, tra i mortali. Fallisci e sarai solo una delle tante anime che non ce l’ha fatta, ma avrai comunque l’occasione di fuggire e non ritornare nel luogo in cui sei stato imprigionato per tutti questi anni.»
La giovane anima non proferì parola, studiando con attenzione il volto impenetrabile dell’altro, cercando una falla che però non trovava da nessuna parte. Se avesse fatto il suo dovere avrebbe avuto più possibilità di vincere, se avesse fallito non sarebbe stato rispedito alla tortura dei Campi Neri ma sarebbe persino potuto scappare… non aveva nulla da perdere e comunque fosse andata ne sarebbe uscito in un qualche modo vincitore.
L’uomo davanti a lui strinse il sigaro tra i denti ed infilò una mano nella tasca dei suoi pantaloni. Ne tirò fuori qualcosa che l’anima riconobbe al volo, la sola vista gli riportò alla mente ciò che aveva dimenticato, ricordando ora perfettamente dove altro avesse visto il suo misterioso e misericordioso salvatore.
Il bel volto specchiò lo stesso ghigno inquietante che adornava quello dell’uomo, mettendo l’una davanti all’altra due anime in grado di capirsi fin troppo bene sotto troppi punti di vista.
Qualunque fossero state le sue parole, l’uomo in nero ne conosceva già il significato, stava a l’altro rendere la scena più teatrale possibile, a lui il finale sconcertante di questo primo atto.
«Dovrebbe esserne lusingato, mio Signore, perché in tutta la mia vita ed in tutta la morte non sono mai stato fautore diretto dei miei vizi, sono sempre stati gli altri a giocare per me. Ma voi… voi sarete il primo ed unico a poter dire di aver avuto al vostro comando la mano impietosa di Cicno il Crudele.»
 
 
 
 











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Capitolo 10
*** Stolen ***


!Attenzione! Capitolo particolarmente lungo e denso. Pochi dialoghi, tranta narrazione!







X- Stolen.
 
 
 
 
Nel buio più assoluto si spandeva una sottile nebbia luminescente.
Era il brillio di centinaia di migliaia di corpi celesti, o forse sarebbe stato più preciso dire che ne era l’ombra, il riflesso, l’eco lontano e mutevole.
Come inchiostro nell’acqua, nuvole variopinte di cupi toni si allargavano e si restringevano, creavano volute e riccioli, ghirigori intricati e semplici, fili di lana srotolati nel nulla.
C’era il mondo lì, tutto quello che non c’era fuori e tutto quello che non ci sarebbe mai stato.
Scie brillanti come il riflesso della luce sul raso, morbide e avvolgenti, andavano disnodandosi tra quelle nubi, infilandosi in scintillanti agglomerati d’energia che fungevano da portali in luoghi che più non esistevano ed in altri che dovevano ancora esistere.
Vi era un soffice silenzio, ma se si tendeva bene l’orecchio si poteva sentire lo sciabolio dell’acqua contro il legno di una nave, tra le pietre di una riva, sulla battigia sabbiosa. Un leggero stormir di foglie, il soffio lento del vento tra le rocce, i fili d’erba, contro i tronchi torti e sulle cime innevate. Soffiava fiocchi ghiacciati, nessuno uguale all’altro, e li depositava con delicatezza su spessi manti bianchi, coprendo con letizia tutto ciò che incontrava, nell’abbraccio morbido e silente della neve, che tanto affascina da non lasciar mai scampo.
Le cicale frinivano sul ramo di una betulla, sul bordo di una finestra, il parapetto di un balcone ed una panchina di legno, sul gradino di pietra di una vecchia casa e sull’asfalto crepato di una grande città.
Nei cieli più alti stormi neri punteggiavano l’azzurro che lentamente sfumava in rosa, diveniva arancio, giallo e rosso infiammato lì vicino ad una stella che si era arrogata il diritto d’esser un sole. Di fianco a loro, nella parte più scura di quella distesa infinita, balene dalle lunghe code nuotavano con guizzi pigri delle pinne, portando con sé le nuvole ed i pesci più piccoli che gli si affaccendavano attorno.
Se si tendeva bene l’orecchio si poteva sentire il rumore cristallino di ciondoli di metallo che cozzavano gli uni contro gli altri, lunghe canne scintillanti legate da fili trasparenti, ornati di conchiglie, di pietre, di sfere colorate. Era un suono molto simile a quello delle canne di bambù riempite d’acqua, ma completamente diverso. Lo stesso delle canne di palude vuote tra cui soffiavano venti e flutti del fiume. I grilli conoscevano bene quei suoni, che facevano loro da orchestra assieme ai gracidii baritonali delle ranocchie, alla danza dei fiori che si schiudevano sul pelo dell’acqua, degli uccelli dalle lunghe zampe che camminavano con calma e dei predatori squamati che sembravano congelati per sempre nella loro apparente immobilità.
La luce si rifletteva sulle squame lucide, sui becchi appuntiti e le pelli bagnate, sulle foglie rigogliose e le canne di palude, di bambù, di metallo. Scintillava contro le pance bianche delle balene, filtrava tra gli stormi come fra i ricami di un pizzo. Creava lunghe ombre di piccole cicale, mari mossi nel verde delle fronde e in quello dei prati. Era accecante contro la neve, brillava sull’acqua e sulla sabbia come un mosaico, inseguiva le scie di quelle nubi impalpabili e le rincorreva come se fosse stata attratta da loro.
C’era il mondo lì dentro e non c’era nulla di paragonabile a quello stesso spettacolo.
La Dimensione Onirica era ciò che di più bello potesse esistere. E di più pericoloso.
Ipno non si illudeva certo: quel luogo-non-luogo poteva esser acqua su una ferita quanto benzina sul fuoco. Era esattamente ciò che lui si negava di fare. La Dimensione Onirica era un’illusione dorata e la più cruda delle realtà.
C’era stato un periodo della sua vita, secoli addietro, in cui viaggiare tra quelle lande gli era costato fatica, sudore, dolore atroce. Notti in cui tornava da suo fratello in lacrime, distrutto dal futuro che aveva visto, dalle possibilità che avevano scampato per poco e dalle conseguenze che le loro azioni avrebbero portato.  In quei giorni erano urla ed esplosioni quelle che riempivano la Dimensione Onirica, o meglio, la parte che lui riusciva a scorgere. Il rumore sordo ed assordante della terra che tremava, la devastante potenza del terremoto, della Madre Terra che reclamava ciò che era suo. Il sibilo del vento che diveniva grido indomabile, la forza imbattibile dell’occhio del ciclone. Il crepitio dei tuoni che s’abbattevano sul suolo incendiando le foreste e le case, uccidendo, distruggendo. Il mare che si ritirava e poi s’alzava, s’ingrossava, divorava tutto ciò che capitava sulla sua strada.
Sentiva i lamenti degli animali, i tormenti delle anime, il dolore, la morte.
Gli ci erano voluti anni per comprendere come muoversi in quel nulla, come andare dove voleva lui e non lasciarsi travolgere. Perché la Dimensione Onirica era viva tanto quanto lo era ogni cosa in quel Cosmo e se non si era abbastanza forti faceva di te ciò che voleva.
Non sarebbe dovuto essere lì, glielo aveva sconsigliato suo fratello, l’aveva fatto Ade, l’aveva fatto Efesto con i suoi soliti modi spicci e infastiditi. Era andato persino a chiedere consiglio a sua madre e anche lei l’aveva guardato dall’alto della sua magnificenza e gli aveva ricorda quanto fosse pericoloso addentrarsi in quel luogo.
 
«Attento a quel che fai, figlio mio, la Dimensione Onirica non è regno di nessun Dio, di nessuno di noi, di nessuno di quelli che gli umani venerano. È una galassia a parte, infinita, inesplorata. Ciò che siamo riusciti a scorgere di lei, sino ad ora, sarebbe poco più di un granello di sabbia paragonato al Cosmo che possiamo ammirare. Non è il nostro dominio, non lo è di nessuno di noi, di nessun essere così come li conosciamo. La Dimensione Onirica è viva, ospita tutto il Caos che non siamo in grado di immaginare ed il Cosmo che non siamo in grado di vedere.»
 
Lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene. Ipno ne era perfettamente consapevole, ma quei luoghi così magici, impalpabili e incredibilmente concreti lo chiamavano a sé come il canto di una sirena, come la luce per una falena, come i fiori per le api, come il sangue per i predatori.
Non era colpa sua se era nato figlio della Notte, non era colpa sua se nel suo animo dimorava il sogno, l’immaginazione suprema.
Sognare era la più alta forma di potere e gli umani neanche se ne rendevano conto. Oh, se solo avessero saputo cos’era in grado di fare davvero la loro mente, se solo si fossero accorti dei milioni di porte che il loro inconscio custodiva, di tutte quelle che avrebbero potuto aprire se solo fossero stati consapevoli di sé. Persino gli Dei non capivano fin in fondo quanto potere avesse un sogno, quanto il pensiero poteva spingersi in là, i mondi che poteva visitare, le storie, gli eventi, le possibilità. Passato, presente, futuro. Un passato mai esistito ed uno prossimo, un presente già passato, che ancora doveva avvenire, che mai si sarebbe realizzato ed un futuro ormai andato, perso per sempre, visto centinaia di volte, ripetuto per mille e mille vite.
Era confuso e chiaro, era una contraddizione vivente.
Ed era fonte infinita di informazioni, di risposte.
Ipno amava quelle lande di nessuno anche per questo motivo. Nel momento in cui era finalmente riuscito a venirne a capo, a capire approssimativamente come muoversi lì in mezzo, come scegliere che scia seguire, si era visto aprire mondi prima d’allora sconosciuti. Erano secoli che viaggiava per la Dimensione Onirica e nonostante ciò non ne aveva visitato che un angolo infinitesimale, ma aveva imparato, questo sì, aveva imparato dai suoi stessi errori, dai demoni che l’avevano perseguitato per mille vite, ed era finalmente riuscito a cogliere il filo giusto, quello che lo portava proprio dove voleva. O nelle sue prossimità.
Ipno scrutava le ere da che ne aveva memoria. Ricordava certo anche i tempi passati, quando tutto era confusione, immagini violente che si sovrapponevano a suoni ancor più crudi, ma riusciva a lasciare quei ricordi in una parta oscura della sua memoria. Aveva imparato che l’unico modo per sopravvivere tutti quei secoli era nascondere il male e guardar solo al bene. Solo gli umani, con la loro piccola vita mortale, che attendevano suo fratello sin dalla nascita, potevano permettersi il lusso di ricordare anche ciò che di più brutto era successo nei tempi andati.
Ricordare il male affinché non venga rifatto. Era una regola d’oro, era forse la cosa più intelligente che gli esseri umani avessero mai detto, eppure non aveva funzionato gran che. Gli uomini ricordavano con dolore ed orrore solo ciò che era successo in un tempo relativamente vicino a loro, ma quando le generazioni cambiavano, quando per troppo tempo non avevano conosciuto il dolore, questo diveniva qualcosa estraneo a loro, un male che sì, era esistito, ma tanto tempo prima, tanto tempo fa, a qualcuno, non a loro. Sarebbe risuccesso? Era una possibilità, certo, ma di nuovo, non a loro, non dove si trovavano, sempre in qualche paese più povero, più arretrato.
Quanto erano sciocchi ed affascinanti al contempo gli umani, in grado di illudersi da soli di cose assolutamente senza fondamento. E sì, la guerra era lontana ma il mondo era così piccolo, come potevano non capire che in un qualunque momento una disgrazia avrebbe potuto cogliere anche un grande paese fertile e avanzato? Che fascino che aveva quella loro certezza. Oh, ma c’era anche quel ridicolo distacco verso le nefandezze che avvenivano lontano da casa loro: le guerre nei “paesi poveri” che facevano tante vittime, riportate con freddezza da numeri neri sparati con inchiostro su carta di scarsa qualità, numeri enormi che non toccavano nessuno, ma non appena si sapeva di quell’incidente fatale su quella super strada, dell’edificio esploso per colpa del riscaldamento… non appena il pericolo si abbatteva su qualcosa che anche loro avevano nella loro cittadina, nella loro piccola ed insignificante comunità, ecco! ecco che ricordavano d’esser mortali, ecco che ricordavano quando fosse oscuro e doloroso il manto nero di Thanatos.
Ipno ne aveva viste così tante di quelle verità. Aveva visto così tanti uomini sicuri, in paesi sicuri, in città sicure, inneggiare una guerra in paesi lontani con ferocia e coraggio per poi tremare di fronte alla realtà che nessun luogo è sicuro, che il terrore può piovere dai cieli anche sulle torri più alte e splendenti del reame più potente.
Ma se c’era un uomo, uno solo, di cui Ipno era sicuro, che sapeva per certo non aver mai dimenticato che il male, o il fato, potessero giungere in ogni luogo, quello era Giordano Delle Vie, quello era l’ormai non più piccolo Gio.
Ipno stava seguendo il suo filo da molto tempo ormai. La luce accecante che s’irradiava dagli occhi di quell’essere si spandeva nel nulla della Dimensione Onirica proprio come faceva ogni grande era, diveniva una nube densa ed impalpabile che nascondeva in sé troppi vicoli, troppe vie.
 
«Le vie del Signore sono infinite, è per questo che mi chiamo così.»
«Ma di quale Signore? Del Dio dei Cristiani?»
«Ti sembra così strano?»
«No. No, non mi sembra per nulla strano. Infinite vie quindi?»
«Tutte quelle che non riuscirai mai neanche a scorgere.»

 
Oh, Giordano aveva avuto ragione da vendere all’ora, ma Ipno dubitava fortemente che l’uomo si rendesse conto di quanto ci fosse di vero nelle sue parole.
Nella grande nebulosa lucente che era la storia, l’epoca, l’era infinita di Giordano Delle Vie, vi erano, proprio per rimanere in tema, milioni di miliardi di vie da percorrere.
Ogni strada si srotolava tra le curve morbide di quella nube, diramandosi come le radici minuscole e fitte di una pianta infestante. Portavano ovunque, era questo quello che aveva sconcertato Ipno più di tutti: Giordano aveva a mala pena l’età giusta per esser chiamato “vecchio” ma il suo passaggio su quel mondo toccava corde più antiche della terra su cui aveva camminato. Non tutte erano legate ad eventi davvero accaduti, ciò aveva dell’ironico, perché a render così intricata la sua nebulosa erano le possibilità che mai si erano realizzate, quelle che erano state sfiorate, quelle che nessuno ricordava o che tutti avevano ben impresse nella mente. C’erano quei se che aleggiavano come fumo in una camera chiusa, tutte le volte in cui Giordano aveva mosso un passo in una direzione per poi esser brutalmente ritirato indietro, o quando puntava a destra ed era stato spinto violentemente a sinistra. Tutte le volte che aveva camminato con infinita pazienza su di una via prescelta per poi tornar sui suoi stessi passi e ricominciare il suo vagare nella direzione opposta.
Giordano non si era mai negato la possibilità di tornare indietro, non aveva mai negato la possibilità che le sue azioni, le sue decisioni e le sue idee fossero sbagliate. Una cosa che suo padre gli aveva trasmesso era stata proprio la capacità di ammettere i suoi errori con sconcertante semplicità e correggere il tiro.
Perché il piccolo Gio poteva sbagliare una volta, ma mai due di seguito.
Così ora, davanti ad Ipno, sospeso nel nulla della Galassia di Giordano, si aprivano troppe possibilità di cammino, di scelta, di informazione.
Cosa stava cercando davvero? Quel era la sua destinazione? Per quanto sapesse come farsi sospingere dalle correnti, quale vento cosmico cavalcare e da quale leggera nebbia diffidare, Ipno non riusciva a venire a capo del suo vagabondare.
Voleva l’inizio, voleva il punto di partenza, l’anno zero del calendario di Giordano Delle Vie.
A livello teorico sapeva quali fossero le coordinate, ovvero la borgata romana di quel dì dell’anno del Signore 1913, un piovoso Settembre che andava declinandosi, una pancia gonfia e rotonda, abbronzata dal sole che aveva splenduto in quell’estate passata, una delle ultime prima che la Grande Guerra scoppiasse in tutto il mondo.
Con un movimento morbido, fluido come l’acqua, Ipno piegò il suo intero corpo verso una scia senza colore, composta solo da centinaia di piccoli e lucenti puntini, come un’aria polverulenta trapassata da una lama di luce.
C’era una grande strada, che partiva dalla città e si snodava per le vigne e i campi, correndo verso i Castelli Romani, sulle montagne, oltre le cittadine arroccate sui pendii boscosi. A vederla in quel ricordo, in quella linea temporale, Ipno non vi riconobbe nulla della strada sempre trafficata che era nell’epoca odierna, non vi erano auto, semafori, non vi erano lampioni e strisce bianche dipinte sull’asfalto consunto e crepato; nessun guardrail ammaccato sotto cui crescevano coraggiose e coriacee erbe selvatiche, nessun adesivo sul metallo, nessuna lattina, cartaccia o cicca tra gli steli.
C’era una casa però, una vecchia costruzione di due piani, con le mura bianche scrostate ed una grande terrazza su cui vasche sbiadite dal sole e fili tesi tra pali fornivano il lusso di poter lavare i propri panni e stenderli senza problemi.
La salita che portava alla casa era coperta con mattonelle diverse, recuperate un po’ ovunque perché non c’erano i soldi necessari per comprarne un intera partita nuova. Eppure, quel miscuglio di colori, tutti tenui e macchiati, davano un senso d’allegria al percorso che s’arrampicava fino alla casetta dai muri scrostati. Ipno sapeva per certo che quello non era un dettaglio importante, che, di nuovo, i proprietari non avevano i proventi per uno sfizio puramente decorativo come una nuova mano di vernice sul muro esterno, che tutto quello che avevano serviva loro per vivere e per accogliere la nuova creatura che sarebbe nata di lì a poco.
Due scalini sostenevano un portone di legno, le maniglie rotonde avevano perso la loro patina lucida e sembravano quasi porose. Ai proprietari piaceva così, quelle erano le maniglie della casa in cui aveva abitato lui da bambino, era tutto ciò che gli rimaneva di quel luogo.
C’era una tettoia sopra, coperta da semplici tegole di legno. Sotto di essa una vecchia lampada ad olio, palesemente rubata dalla vicina ma lontana Francia. Ipno ricordava anche quella di bravata, ne ricordava il significato ammesso e quello non detto .
Il dio del sonno aprì il portone con uno scatto rumoroso, oh, se lo ricordava, così come ricordava il tonfo secco che bisognava far fare all’anta per chiuderla per bene, così come ricordava l’interno del portone colorato di bianco, la rampa di ventuno gradini di marmo di scarto ed il corrimano di legno chiaro, il soffitto che s’abbassava in un gradone lì dove era stata allargata la metratura della casa per inserire un bagno funzionale in tutto e per tutto.
Sul pianerottolo gettò a mala pena un’occhiata alla rampa di scale che curvava alla sua sinistra e conduceva al terrazzo, la sua attenzione era tutta per la porta di casa aperta, per lo scorcio di salone che vi vide dentro.
Improvvisamente la scena divenne sfocata, filtrata da una pesante patina, la pioggia iniziò a scrosciare fuori dalle finestre e Ipno vide una giovane donna, poco più di una ragazza, avvicinarsi alla porta-finestra che dava sul balcone dalla ringhiera verde e chiuderla.
Indossava una semplice veste beige, la pancia prominente la teneva allargata come una campana e la mano forte e ruvida della donna vi si poggiò sopra accentuando ancor di più la forma tondeggiante del suo ventre.
Era scalza, i suoi piedi caldi lasciavano leggere e momentanee impronte sul pavimento di cotto, le ginocchia lasciate scoperte dalla tensione del vestito erano segnate di cicatrici, così come lo erano i polpacci, così come le braccia, le mani. Sul suo stesso volto si potevano vedere delle fini line argentate, segni più chiari della pelle abbronzata, ricordo di ferite e fatiche passate di quei miseri vent’anni di vita.
Quanto erano stati lunghi ed intensi per lei.
Il volto ancora un poco tondeggiante nascondeva la piega seria e dura che solo l’esperienza aveva potuto donarle, gli occhi dalla sfumatura calda e cupa erano puntati sulle vigne che poteva osservare da casa sua.
Sperava che suo marito e gli altri ragazzi fossero riusciti a finire la vendemmia prima che quella pioggia fitta ed improvvisa l’avesse colpiti.
Era strano per lei star lì ad aspettare, dopo tutto quello che aveva fatto fino ad ora, dopo aver passato tutta la vita ad agire, a fare, a lavorare, eppure sapeva perfettamente d’esser giunta alla fine della gravidanza e che non poteva permettersi errori o sforzi. Non poteva permettersi che qualcuno s’accorgesse di lei.
Non che le sarebbe importato davvero, dovevano solo provare a toccare il suo bambino e avrebbero rimpianto anche solo d’averlo pensato, ma c’era una parte di lei che ugualmente le diceva di non forzare la mano.
S’allontanò dalla finestra e si diresse verso il corridoio che portava alle due camere da letto, in una delle quali riposava una bambina dai capelli neri e il visino rotondo. La guardò con dolcezza e sorrise carezzandosi la pancia. Ancora un po’, ancora un po’ e ci sarebbe stato un altro bambino a scorrazzare per l’appartamento.
La stanza girò improvvisamente su sé stessa e Ipno si ritrovò in una vigna, con le viti battute dalla pioggia ed i piedi immersi nel terreno fangoso. Delle grandi botti erano ripiene di grappoli scuri, dei giovani uomini correvano malamente da una parte all’altra per sollevarle e metterle a riparo dentro ad un casale, maledicendo il tempismo del temporale e lamentandosi di quanto fosse tipicamente estivo per scoppiare in quel modo improvviso: erano nel pieno della vendemmia e pioveva come fosse stato Luglio, non era decisamente corretto.
Con i vestiti zuppi e il morale sotto i piedi Ipno poteva percepire il miscuglio di sentimenti e di pensieri che si agitavano tra quei sei giovani come se lo stessero gridando ad alta voce.
C’era chi non vedeva l’ora di bere qualcosa di caldo, o di mettersi davanti alla stufa. Chi non vedeva l’ora di riabbracciare la moglie, i figli, o anche solo il gatto che gli si sarebbe acciambellato in braccio donandogli un poco del suo calore e tutte le sue fusa.
Ma tra quel miscuglio di pensieri e di desideri fu solo un nome quello che risaltò tra tutti.
 
Clara.
 
Ipno osservò i sei giovani ed annuì. Sì, Clara era a neanche un chilometro di distanza da chi la pensava e probabilmente, esattamente come lui, ignorava il suo destino e la portata degli eventi in cui sarebbe stata coinvolta pochi anni dopo.






 
 
*





 
 
Quella che la gente, volgarmente, chiamava “La casa di Ade” era un palazzo che nel corso della sua longeva esistenza aveva mutato il suo aspetto tante di quelle volte da poter far concorrenza alla terra che sosteneva. Sebbene lo stile fosse sempre stato piuttosto cupo, vagamente lugubre e di certo minaccioso, si era andato ad ingrandire, ad evolvere, in modo pressappoco concentrico.
Ade vedeva così la sua umile dimora, che di umile aveva solo il modo di dire ovviamente.
All’inizio di tutto non era altro che un templio, la sua gigantesca e silente Sala del Trono, quell’immenso spazio nero contornato di colonne e corridoio che non portavano da nessuna parte. C’era il suo trono, sulla parete di fondo, che infiltrava le sue radici nelle profondità più remote della terra, avvolgendosi e sigillando le famigerate quanto pericolose Porte della Morte.
 
Quelle vere.
 
Nel corso del tempo molti erano stati gli eroi, le anime, gli dei e gli sciocchi che si erano arrischiati a discendere tutto l’Ade per giungere nel Tartaro e dì lì risalire in superficie a nuova vita passando per quel lungo tunnel verticale che tutti credevano esser l’unica via d’uscita da quel buco nero di morte, terrore e oscurità che era il giaciglio di tutti i più terribili esseri mai esistiti su quel pianeta.
In parte era anche vero, ciò che oggi appariva come un enorme ascensore era la via più diretta che si potesse trovare per uscire dal Tartaro, la stessa che quella spina nel fianco di Percy Jackson aveva utilizzato durante la guerra contro Gea, che i mostri avevano preso come loro personale uscita d’emergenza una volta uccisi e ricompostisi nella discarica divina. Ma come aveva più volte cercato di spiegare ai suoi figli, ai suoi nipoti, fratelli, cugini e qualunque altro grado di parentela esistente a questo mondo, quella non era che la via più conosciuta e più diretta. Le Porte della Morte non erano l’unico varco per uscire dal Tartaro, era solo una piccola scappatoia che loro dei avevano costruito nel caso in cui un Zeus più arrabbiato del solito avesse voluto scagliare qualcuno giù dall’Olimpo e poi si fosse presentata la necessità di tirarlo fuori.
Le Vere Porte della Morte, quelle del Tartaro, del luogo in cui dimorava il male assoluto, erano ben altre e si trovavano nell’anello più solido del nucleo più profondo di quel piccolo pianeta. Il suo trono vi era stato posto sopra, un lucchetto dal potere in continua crescita, che con il passare del tempo diveniva sempre più difficile da aprire.
Il pericolo che si era corso quando la Madre Terra aveva cercato di svegliarsi non era neanche lontanamente paragonabile a quello che avrebbe comportato la distruzione del suo trono, e mai nessun eroe del futuro avrebbe potuto correre lo stesso pericolo che avevano rischiato d’affrontare Ercole ed i suoi.
In proporzione le catastrofi del passato non sarebbero mai potute riproporsi, ed era un gran sollievo per tutti, specie per lui che da questi nefasti eventi ne ricavava sempre cattiva fama e qualche migliaio di anime in più del dovuto a formare una fila supplementare da smaltire.
Con il passare dei secoli così come si allungavano e rinforzavano le radici del suo trono si erano eretti muri attorno al templio, si erano creati corridoio dopo ogni arco, tra ogni colonna. Le epoche avevano lasciato il loro segno negli strati del terreno tanto cari agli archeologi e nelle stanze che erano andate sommandosi a quell’antica e primordiale sala.
Per ogni nuovo evento vi era una camera commemorativa, un quadro, un muro, un dipinto, una statua, un oggetto. Ogni vittoria, ogni errore, ogni scoperta, ogni sconfitta, così come gli stili la storia dell’umanità e quella dello stesso Ade si snodavano per il grande palazzo che ormai aveva le dimensioni di una cittadella. Neanche l’Olimpo intero era grande quanto lo era il Palazzo di Ade e questo perché lì ciò che non era più apprezzato veniva cancellato in favore del nuovo vizio e del nuovo capriccio. Ade, nella sua dimora, non si permetteva di dimenticare nulla, non lo permetteva a sé stesso e neanche a tutti gli altri: lui era rinchiuso per l’eternità nel luogo dell’eterno riposo e sofferenza delle anime di ogni razza, non gli sarebbe mai riuscito di cancellare dalla sua longeva memoria tutti i tormenti che aveva visto e subito e così avrebbe fatto in modo di ricordarli anche a chi viveva nel mondo dorato. Gli avidi e potenti dei che gioivano disinteressati a tutto sui loro giacigli di sete e oro sarebbero sempre stati tormentati da ciò che più volevano dimenticare, l’avrebbe fatto lui stesso se necessario.
Ade era consapevole che il suo ragionamento suonasse molto come il capriccio di un bambino, ma la triste quanto semplice verità era che nessuno poteva davvero comprendere cosa significasse vivere come aveva fatto lui per tutta la sua esistenza. Non aveva fatto altro che passare da una prigione all’altra: prima il ventre di suo padre e poi quello della Terra. Neanche la sua cara Persefone poteva capirlo fino in fondo, lei che non doveva far altro che attendere sei miseri mesi mortali per poter tornare a vedere il sole, le stelle, il cielo, per carezzare l’erba che mai sarebbe appassita sotto il suo tocco o respirare l’aria pura. Persino lei aveva una casa sull’Olimpo, Ade no, a lui non era stato concesso.
Poi la gente si domandava perché periodicamente cercava di tirare giù quella dannata montagna e tutti coloro che vi dimoravano sopra.
Il risentimento era un sentimento che probabilmente aveva inventato lui stesso anni e anni addietro.
Il ventesimo secolo però l’aveva privato di ogni energia, di ogni voglia di fare, forse perché si era affacciato ad una fittizia parvenza di normalità per poi vedersela togliere nel modo più brutale e spietato di tutti.
Una famiglia, qualcuno che lo amasse senza sapere chi fosse davvero, trattandolo con rispetto ma senza comprendere fino in fondo le nefandezze di cui si era macchiato. Una famiglia, un amico, che lo conoscesse davvero, che comprendesse davvero tutto il male che aveva fatto, tutto quello che si portava dietro, ma che lo amasse ugualmente.
Il 1900 gli era parso un secolo così luminoso nonostante le guerre e le morti, ed era estremamente ipocrita da parte sua ma sarebbe tornato così volentieri agli anni ’20, agli anni ’30, persino ai ’40. Sarebbe tornato volentieri a preoccuparsi di qualche suo terribile e dannato figlio pur di riavere quell’illusione di famiglia che nessuno gli aveva mai dato.


Che gli era stata rubata.
 
Il dio dei morti si alzò dal suo trono, le pulsazioni ritmiche e confortanti di un cuore che batte con costanza gli risuonavano sin dentro le ossa come succedeva ogni volta che sostasse per troppo tempo sullo scarno, e si diresse con lentezza verso il colonnato di sinistra, la lunga veste che sfiorava il pavimento lucido, le mani bianche dalle lunghe dita che toccavano con delicatezza il marmo delle colonne. Passò attraverso uno degli archi e continuò a camminare con placida calma lungo quel corridoio buio e mormorante, così simile a tanti altri eppure unico a suo modo come ogni singola cosa nel suo palazzo.
I suoi pensieri erano per lui quanto di più veritiero e giusto ci fosse, in quel momento. Gli era sempre stata negata la libertà, era stato confinato in prigioni diverse, costretto ad occuparsi di qualcosa che non voleva, deriso, insultato, maledetto, punito per un male che aveva fatto solo in conseguenza ad uno ancora più grande che era stato fatto a lui. Gli era stato negato l’Olimpo, il suo posto dorato tra i suoi fratelli, veniva chiamato uno dei “Tre Grandi Fratelli” ma non ne aveva tutti gli onori che venivano porti a quegli altri due. Gli era stata data l’illusione dell’amore, ma la sua Persefone non era mai solo sua. Gli era stata data l’illusione di una famiglia, era stato rimproverato per averne cercata una e poi, nonostante tutto o proprio in virtù di questo, gli era stata rubata.
Rubare. Trovava ironico che quello fosse proprio il punto centrale della nuova prova. Qualcosa di rubato, alle anime.
Si lasciò sfuggire un verso di scherno: le anime, specie i dannati, non possedevano più nulla che valesse la pena rubare e anche gli elisi non erano messi troppo meglio, quei pochi oggetti mortali che avevano ancora con sé non erano che l’ombra di quello che erano stati, non erano altro che un pallido monito di ciò che avevano perduto assieme alla vita.
Cosa puoi togliere a chi non possiede più nulla?
Beh, qualcuno era riuscito a trovare una risposta a questa domanda ed aveva anche deciso di usarla contro quelle anime prave.
Il lugubre corridoio si schiarì poco a poco, un varco s’aprì dove prima non vi era che un muro ed Ade fuoriuscì dal suo tunnel d’ombre, viaggiando come ognuno dei suoi figli aveva imparato a fare anche a proprie spese.
Si trovava in un’ampia stanza dai muri color crema, dei divanetti in tessuto azzurro cupo, un basso tavolinetto di vetro, tende chiare alle finestre a muro. Sembrava un salottino d’attesa, uno di quei posti di classe in cui si fanno aspettare i visitatori o i clienti più facoltosi ed il Dio sapeva perfettamente che proprio a quello era adibita la sala.
Con un sospiro attraversò il locale per l’intera lunghezza, mentre le sue vesti si accorciavano, aderivano al suo corpo e si modificavano sino a diventare un semplice completo nero, compreso di camicia e cravatta del medesimo colore. I suoi capelli rimasero però lunghi, la corona che cingeva la sua fronte non accennò a mutare la sua natura, a divenire un monile più moderno ed appropriato a quell’ambiente: che tutti vedessero che il Re degli Inferi era giunto per questioni ufficiali e non per quisquiglie.
La porta davanti a lui si aprì senza neanche esser sfiorata, l’aura del Dio era già sgusciata sotto l’uscio e si era diffusa nell’ufficio a cui questo conduceva. Ade quindi non fu affatto sorpreso quando ad attenderlo trovò due vispi occhi azzurri ed uno sorriso scaltro che non prometteva nulla di buono.
L’uomo, il Dio, seduto alla sua scrivania si alzò allargando le braccia, un segno cerimonioso e beffardo allo stesso tempo che incarnava alla perfezione l’essenza stessa di chi l’aveva fatto.
I corti capelli neri e ricci gli davano un’aria quasi sbarazzina, il fisico atletico stretto in un semplice paio di pantaloni grigi ed un golf blu attillato lo facevano somigliare quasi ad un giovane professore in erba, pieno di voglia di fare e potenzialmente capace di fare danni irreparabili.
Gli Dei ed il mondo intero sapevano quanto ciò fosse vero.
Con un movimento veloce premette l’auricolare che portava all’orecchio sinistro, senza distogliere lo sguardo da quello dell’altro dio, continuò a sorridere e fece un leggero cenno con il capo.
 
«Perfetto, occupatene tu e le prossime chiamate passale a Martha, ho un ospite importante in ufficio, non voglio distrazioni.»

La sua voce era decisa ed armoniosa, gentile e sicura, la classica intonazione di qualcuno che sapeva cosa fare, come farsi rispettare e che i suoi sottoposti avrebbero eseguito tutti i suoi ordini alla perfezione. Era la voce ammaliatrice di un serpente.
O forse di due.
 
«Posso presuppore il motivo che ti ha condotto da me, zio. Come posso esserti utile?» gli domandò con quel suo tono allegro che tanto lo caratterizzava, che per fortuna aveva ricominciato a farlo dopo quegli interminabili anni in cui si era comportato come la brutta copia dello stesso Ade, sempre triste, malinconico, o come diceva Ares “musone come un moccioso che ha combinato un danno, lo ha ignorato e poi è stato malamente preso a pizze in faccia da qualcuno che non avrebbe mai immaginato gli avrebbe rinfacciato le sue cazzate”. Molto lunga come descrizione e poco lusinghiera, ma estremamente calzante.
Ade si avvicinò alla scrivania, sedendosi comodamente sulla poltrona imbottita posta lì davanti.

«Sono qui per parlare della tua prova, nipote.» si limitò a ricordargli con voce piatta.
L’altro Dio annuì con veemenza. «Giusto, la quarta è la mia. Ero sicuro di aver fatto recapitare al tuo ufficio tutto ciò di cui avevano bisogno, ogni direttiva e richiesta. Persefone mi aveva addirittura mandato un messaggio per dirmi d’aver fatto la sua parte, sono sicuro di averlo da qualche parte e di non aver frainteso le sue parole…»
«Ed è così. L’ufficio direttivo ha ricevuto la tua lista di richieste e Persefone ha messo in moto le sue piante, ma non cambia il fatto che questa prova sia tua e che come tale dovrai presenziare. Come minimo alla “cerimonia d’apertura”.» grugnì alla fine.
Il nipote gli sorrise. «Non sei molto felice di aver questo scherzetto in giro per casa, vero?»
«Tu saresti felice d’aver tutti i morti del dannato mondo che ti scorrazzano per il giardino facendo danni, sporcando le strade e pestandoti le aiuole?» domandò alzando un sopracciglio, sfidandolo a contraddirlo.
Quello scosse il capo. «Concesso. Cosa vuoi che faccia con precisione? Presentarmi lì, spiegare come dovranno fare per superare la prova…?»
«Vuoi dirmi che ti sei offerto per ideare una sfida ma non ti sei sprecato a seguire nessuna delle precedenti? Non sai come funziona?»
L’altro rise. «In pratica! Ho pensato che potesse essere molto interessante e anche divertente, dopotutto, per una volta nessuno dei nostri figli sarà veramente in pericolo, non ci saranno sacrifici inutili…» un’ombra scura passò sul suo volto e Ade pensò che se fosse tornato alla sua versione depressa si sarebbe alzato e l’avrebbe preso a sberle: era il fottuto Dio dei morti, era già abbastanza depresso lui di suo, gli ci mancavano pure i sensi di colpa degli altri. Il dio sospirò ed il suo ospite gli sorrise. «Ma esattamente come te, carissimo zio, ho un lavoro full-time. Sette giorni su sette, ventiquattrore su ventiquattro, dodici mesi l’anno. Ho tempo di divertirmi solo se riesco ad inserirlo in agenda.»
«Eppure mi sembra che la tua Cabina, al Campo, sia una delle più piene.» gli fece notare con voce atona.
Un’ennesima risatina. «Questo perché non esistono ancora tutte le cabine che dovrebbero esistere ed è mio dovere offrire riparo ai viandanti.»
«Non sono viandanti, sono semidei che si stabiliscono in pianta stabile o quasi entro il confine protetto del Campo Mezzosangue. Una specie di recinto, di oasi sicura per loro… vivono come bestie per scappare da altre bestie.»
«E ogni tanto li mandiamo fuori a scorrazzare liberi.»
«E a morire.» concluse Ade fissandolo. Respirò profondamente. «Devi presentarti sul palco per spiegare le dinamiche e le regole della tua prova, poi potrai tornare al tuo lavoro mentre io tornerò al mio e ad un’aggiunta extra. Giusto perché non ho nulla da fare.» ringhiò a bassa voce.
L’altro annuì. «Ci sono delle regole generali? Qualcosa che tutti dobbiamo rispettare?» domandò vago sfogliando alcune delle sue carte.
Ade scosse la testa. «Persefone non voleva che si ferissero le sue piante, Artemide i mastini, tu puoi scegliere. Sai in cosa consisterà la tua prova, sai cosa dovrebbero fare per vincere e se vuoi che non sia così facile per loro, fare una qualche scrematura per dire, e decidere che la vittoria si può ottenere soltanto rispettando certi standard, beh, fai pure.»
«Tante parole per dire che posso decidere come si vince e come no, okay, okay, ho capito. Bene zio, allora per che ora mi aspetti? Per il tè delle cinque? O per il prossimo tg?» ammiccò divertito.
Il Dio dei Morti lo guardò male, «Lascia Eolo fuori da questa storia, il mio reparto comunicazione e stampa sarebbe bello che estinto se non fossero già tutti morti, quel folle fa chiamare ogni cinque minuti per chiedere o comunicare aggiornamenti. Finita questa farsa, alla prossima riunione, dovremmo discutere con Zeus dei poteri e dei ruoli suoi e di tutti gli altri venti.»
«Borea non mi pare dia tutti questi problemi.» gli fece notare.
«Solo perché è oltre il confine degli States e Zeus è diventato un po’ troppo americano, per i miei gusti.»
«Dici così solo perché hai ancora casa nel vecchio mondo. Dovresti viverlo un po’ di più questo sogno americano.»
«Credimi, è l’ultima cosa di cui ho bisogno.» si alzò e si lisciò il completo scuro. «Se hai tutto sotto controllo e non ti manca nulla, ti aspetto tra un paio d’ore a palazzo, le ultime anime stanno uscendo dall’Area Cani, ormai è ora di far partire la prossima prova.»
L’altro dio annuì, poi tentennò. «C’è… c’è qualcuno dei miei figli in gara?» domandò in fine.
Ade si fermò ad osservare con attenzione il nipote, poi, lentamente, annuì. «Ovviamente.»
«E sono vere le voci che girano? Alcune anime sono scomparse e riapparse, salvate da fine certa, condannate malgrado fossero baciate da Nike…»
«È tutto vero. Non posso dirti chi è che sta operando in questo modo, nessuno lo sa per certo.»
«Giordano?» chiese a voce bassa, appena un sussurro.
Il primo dei grandi fratelli fissò il giovane di fronte a lui e vi vide, improvvisamente, tutti i millenni vissuti riflessi nei suoi occhi.
Paura. Timore. Dubbio. Incertezza.


È davvero Giordano? Dopo tutti questi anni passati ad aiutarci ha finalmente deciso di farci pagare l’amaro conto?
 
Ade poteva sentire queste domande nella sua testa, anche se il dio non le stava pronunciando, anche se non leggeva la sua mente. Erano tutti dubbi inconsci e lui poteva ben capirli, ma non poteva dargli certezze.
 
«Non lo so.» ammise. «So che ha combinato qualcosa, so che sta facendo qualcosa. Ipno ne è sicuro, sta indagando a modo suo, Thanatos sente che qualcosa non va ed Eros-»
«Eros? C’è anche lui in mezzo?» chiese sbigottito, ma subito dopo si riprese. «Che sciocco. Certo che sì, lui e il piccolo Gio hanno dei bei trascorsi dopotutto.» ragionò scrollando le spalle.
Ade storse la bocca. «Se stai per fare anche tu una battuta su quanto profondamente si conoscano a vicenda ti apro una voragine sotto i piedi e ti spedisco nel Tartaro.» lo avvertì serio.
L’altro scoppiò a ridere. «Andiamo, sarebbe lecita! Ricordi quanti problemi creò a suo tempo? Quanti anni aveva Gio quando Eros è riuscito a mettergli le mani addosso?» domandò lasciandosi cadere sulla sua poltrona.
Ade grugnì. «Quattordici, all’incirca.» borbottò.
Il volto del dio si distese in un’espressione quasi dolce. «Beh, c’è modo migliore per imparare a conoscere l’amore se non dall’amore stesso?»
«Dici così perché non ci sei stato tu, seduto al tavolo con un ragazzino di quattordici anni traumatizzato dai mutamenti di una divinità. Era così piccolo…» ricordò con sorpresa. C’era stato un periodo in cui Giordano non era stato l’uomo alto e piazzato che era ora, c’era stato un momento in cui era stato un ragazzino magro, ossuto, con la faccia da delinquente e la vocina acuta. Un tempo in cui l’aveva trovato seduto sulla finestra, avvolto in una coperta spessa e ruvida stretta addosso come se potesse difenderlo da ogni male, che fissava il vuoto chiedendogli se loro, gli Dei Olimpici, fossero davvero ciò che apparivano o se potessero invece mutare a loro piacimento.
 

«Come faccio a fidarmi di qualcosa che cambia sotto il mio sguardo? Che in un attimo diventa l’opposto di ciò che è? Come faccio a sapere che ciò che ho sempre visto è la vera versione e non una finta?»
 
Oh, non potevi saperlo, non potevi fidarti.
 
«Non farlo mai, Giordano. Se hai la possibilità di non fidarti non farlo mai. Neanche con gli Dei. Soprattutto con gli Dei.»
«E allora io e te che facciamo?»
«In che senso?»
«Se non possiamo fidarci neanche degli Dei, di chi ci possiamo fidare?»
 
Aveva dato per scontato che in quel “gli Dei” lui non rientrasse, che di Ade potesse fidarsi ciecamente.
 
 
«Siamo amici, no?»
 
 
Sì, sì, lo erano, lo erano allora e lo erano anche in quel momento.
 
 
«Non so dirti che piani abbia, ma stiamo cercando di scoprirlo.» si riprese e fissò gli occhi scuri in quelli limpidi del nipote.
Lui annuì. «E chi siete?»
«Io, Thanatos, Ipno ed Eros, per il momento. So che anche Artemide e Atena si sono poste molte domande.»
«Persefone?»
Ade si lasciò sfuggire un suono divertito. «Ovviamente sarà dalla sua parte. Ad onor del vero anche Eros è già schierato.»
A quelle parole il dio di fronte a lui si tirò su con la schiena, scostandosi dalla spalliera comoda ed imbottita. «Che vuol dire “schierato”? Di cosa stiamo parlando? Ci stiamo schierando? Una parte è Giordano, certo, ma l’altra?»
Ade scosse la testa. «Non so dirtelo. So solo che Eros si è offerto di aiutare Gio e che lui ha accettato. Pare che sia anche riuscito a capire a cosa stia mirando e ciò non mi lascia indifferente.»
«E ti ha detto che dovremmo decidere da che parte stare.» concluse.
Il dio annuì per l’ennesima volta. «Temo che l’unico modo per capire di più la situazione è far procedere questa gara.» con quelle parole si volse e si avviò verso la porta. Sull’uscio si fermò e voltò di poco la testa, scrutando l’altro dio sa sopra la spalla.
«Non so quando saremo chiamati a fare la scelta definitiva, ma sai bene quanto me cosa è in grado di fare Giordano, conosci il suo passato, e sebbene Eros mi abbia assicurato che tutto questo non ha nulla a che vedere con quello, personalmente non sarò contro di lui.»
«Debiti da saldare…è arrivato il conto in fine.» mormorò l’uomo sulla poltrona.
«No, è solo giunto il momento di dimostrare ad un amico quanto valga il nostro legame.»
«Ed il vostro quanto vale, zio?» chiese piano.
Ade aprì la porta ed entrò nella sala d’attesa, in fondo ad essa l’altra porta si era spalancata rivelando un tunnel nero e vorticoso.
«Più di tutto l’oro del mondo.»
 



 
*






Quando si erano finalmente lasciati alle spalle i grandi cancelli e la rete metallica – così l’aveva chiamata il soldato – davanti a loro non si era prospettata una visuale molto diversa rispetto a quella che avevano osservato fino a quel momento.
Era sempre difficile quantificare quanto tempo passasse tra una gara e l’altra, quanto fossero distanti i luoghi, quado essi stessi mutavano per divenire un nuovo ambiente, un nuovo pericolo. Era difficile tutto lì, in quel mondo sotto il suolo dove il sole non splendeva ed i suoi abitanti non rammentavano più come quale fosse la sensazione del calore dei suoi raggi sulla pelle ormai morta.
Jane aveva passato tantissimo tempo – quanto? – in giro per l’Ade, vagando tra le Praterie, ma nonostante ciò continuava a non capire, a non riuscire a comprendere come scorressero le ore, i minuti o anche solo i secondi in quelle lande dimenticate da tutti gli dei e ricordate da uno ed uno soltanto.
Alle volte Jane si domandava come riuscisse Ade a rimanere lì sotto, come potesse un essere tanto potente da “gestire la morte” star nel sottosuolo. Non era troppo stretto? Certo, l’Inferno aveva le dimensioni dell’intero mondo e, se dava ascolto alle vecchie voci fantasma del suo passato, sapeva che Dio era ovunque, nelle piccole cose ed in quelle immense. Ma un dio greco era uguale al padre dei Cristiani? Anche loro poteva racchiudere la loro immensa essenza in un luogo circoscritto?
La verità era che tutte quelle domande, in ogni caso, non avevano senso, non le servivano a nulla.
Jane non aveva dimenticato la sua missione, rincorrere cani e scappare dalle piante non le avevano cancellato dalla memoria i visi di quei maledetti che le avevano rovinato la vita.
Era tutta colpa loro, tutta colpa di Samuel e Betty, Elizabeth.
Lanciò uno sguardo alla donna dai capelli scuri che camminava davanti a lei: era curioso quanto uno stesso nome potesse appartenere a due persone così diverse.
Un’ Elizabeth le aveva distrutto l’esistenza e l’altra gliel’aveva salvata quando ormai d’esistenza non si poteva più parlare.
Oh, ma non importava, non aveva nessuna importanza. Qualunque fosse stato il suo nome ora, che avesse mantenuto quello della sua prima vita o ne avesse assunto uno nuovo Jane l’avrebbe trovata, lei ed il suo degno padre, e l’avrebbe uccisa, proprio com’era morta lei.
 
La morte delle streghe.
 
Alzando la testa Jane spiò il mondo da dietro le ciocche scure che le cadevano sulla fronte, facendole da copertura perenne.
Un tempo erano stati di un bel marrone vivo e intenso, di un colore caldo simile a quello del legno levigato, ma erano passati così tanti anni dall’ultima volta che si era trovata davanti ad una pozza d’acqua per potersi anche solo specchiare, da non ricordare neanche più come si facesse a prendersi cura di sé stessi.
Spostò senza grazia le ciocche più fastidiose e puntò gli occhi spenti contro la schiena grande e ampia che gli si parava di fronte.
 
Úranus.
 
Quel ragazzo, quell’uomo, la incuriosiva terribilmente.
Così com’era successo con il ragazzino, Jane si era scoperta in grado di capire molte delle emozioni, delle sensazioni, dei sussulti che quelle due anime emanavano: l’impotenza, la consapevolezza di non esser arrivati in tempo, di aver abbandonato alla propria sorte le persone che amava senza riuscire ad aiutarle; il ricordo di una città, una patria, che diventa improvvisamente nemica e traditrice e ti pugnala alle spalle senza pietà, troppo intenta a combattere una guerra che non avrebbe avuto motivo d’esistere.
Di certo Jonas non aveva affrontato il terrore che avevano vissuto lei ed Úranus, da quel che aveva capito il ragazzino era morto decisamente troppo dopo di loro, ma il gigante rosso… lui no, lui era proprio del periodo giusto, anzi, era lei ad essere in ritardo in un qualche modo.
 
Ma la caccia alle streghe è partita dalla Chiesa, dalla Cristianità. È un lungo viaggio quello attraverso il grande oceano, è un lungo viaggio risalir tutto il vecchio mondo e navigare fino a quello nuovo.
 
Non aveva la più pallida idea di quando quella folle crociata fosse nata, ma aveva la certezza che Úranus Mjöllson, il gigante rosso delle terre del nord, le fosse più affino di quanto non lo fossero tutti gli altri presenti.
Tanto nella storia quanto nella tragedia, tanto nella morte quanto nella nascita.
 
E sono certa, beato, che il potere di mia madre non si discosti troppo dal potere di tuo padre.
 
C’era stato un tempo, prima che Nemesi si impossessasse del suo cuore, in cui aveva amato la sua famiglia, il suo villaggio, un tempo in cui era caduta nel dolore e da lì, dalla terra umida, aveva potuto scoprire cose sconvolgenti sul suo passato, sulla sua venuta in quel mondo. La magia era un tassello importantissimo, una chiave di volta che anche il gigante doveva condividere.
La domanda che più le martellava nella testa, tratte le sue conclusioni, era quindi la seguente: lei non era riuscita a salvarsi e ad ottenere la sua vendetta perché il potere di sua madre era troppo grande per lei, inesperta e accecata dall’odio; ma l’uomo aveva avuto tempo di vedere i segni, di riconoscerli, di prepararsi per scappare e salvare sua madre, perché non si era preparato per combattere allora? Perché, se era stato suo padre stesso ad insegnargli come utilizzare il suo potere, Úranus era caduto sotto la pazzia e la stupidità di piccoli, miserabili ed ignobili uomini?
Oh, se solo quella fortuna fosse stata sua. Se fosse stata Ecate a discendere sulla Terra per insegnarle come utilizzare al meglio la sua eredità… avrebbe piegato il mondo al suo volere, questo era poco ma sicuro.
 
E invece sono rimasta lì, sana e salva, ma impotente. Ferma a guardare mentre il mio mondo crollava pezzo dopo pezzo per poi andar io stessa in fiamme, arsa dalla mia debolezza, da un potere che non era ancora mio.
 
Aveva provato a fare qualcosa, gli Dei le erano testimoni, aveva provato con tutte le sue forze, ma non era bastato, non era stata abbastanza. Anzi, aveva fatto solo più danni, era riuscita persino a peggiorare la situazione.
Ma lui… lui no. Lui sapeva come fare e si era lasciato uccidere barbaramente.
Lei aveva dato più potere proprio a chi avrebbe dovuto soccombere brutalmente, ma l’aveva fatto provando, tentando ogni via.
Lui era morto senza combattere, senza provare, senza tentare.
Perché?
Non si accorse neanche di esserglisi avvicinata, continuò a fissarlo senza batter ciglio e poi domandò, completamente estemporanea.
 
«Come sei morto?»
 
Preso totalmente alla sprovvista Úranus si volse di scatto verso di lei, i suoi capelli sembravano quasi una nuvola, un buffo paragone che le fece alzare un angolo delle labbra.
«Io e te siamo i più vecchi, no? Quindi è probabile che i motivi della nostra morte siano simili. Come sei morto tu?» insistesse ma con tono incredibilmente disinteressato.
L’altro continuò a fissarla allucinato, rallentando un po’ il passo inconsciamente per permetterle di non corrergli dietro.
«È…è stata una morte piuttosto comune per i miei tempi.» disse piano rimanendo sul vago. Jane lo guardò con lo stesso sguardo vacuo e disinteressato con cui l’aveva fissato fino a quel momento, con cui fissava tutti.
«Anche da te c’era la caccia alle streghe, no?»
Úranus trattenne il fiato, che cosa stupida, erano morti, poi annuì. «Presumo allora che la mia dipartita sia stata la stessa che ha colpito te.» mormorò piano.
Jane inclinò la testa. «Tu ti sei dato fuoco da solo?»
Quella domanda così fredda, così piatta, lo fece sussultare. «Cosa?» domandò senza voce.
La figlia di Ecate lo guardò sorridendo sinistra. «Nessuno mi prese, ma le fiamme dell’inferno mi hanno comunque consumato. Ironico, non trovi? Ero l’unica vera strega del mio villaggio e anche se sono morta purificata dal fuoco non sono stati quei sedicenti sant’ uomini a farlo. È stato un mero errore di calcolo.» il ghignò si allargò sul suo viso sporco di terra. «Ma non farò lo stesso sbaglio due volte.»
Úranus non sapeva cosa risponderle, non sapeva se farlo o meno. Deglutì, a disaggio come lo era da vivo nel parlare con l’altra gente del villaggio, la mente vuota da ogni pensiero che non fosse quella domanda.
 
Tu ti sei dato fuoco da solo?
 
Brividi di freddo e di caldo gli passarono velocemente sulla schiena, il ricordo lontano delle lingue di fuoco che lambivano il suo corpo, i piedi che diventavano insensibili, solo lunghe stilettate di puro dolore che incendiavano tutto il suo essere. Il rosso e la luce che macchiavano ogni superficie, ogni cosa, ogni persona che incitava il fuoco a mangiare tanto il suo corpo mortale quanto la sua anima maledetta.
Poi un soffio d’aria, in mezzo a quella bolla in cui mancava l’ossigeno ed il calore che gli penetrava nei polmoni glieli scioglieva più delle fiamme stesse.
Úranus ricordava di aver scorto una nera figura camminare tra la folla. Aveva creduto fermamente che fosse il boia o il prete pronto ad esorcizzarlo, ma quando quell’essere si era spinto nel suo incendio, camminando sulle braci come se non vi fossero, Úranus aveva seriamente creduto d’esser impazzito, o almeno finché l’uomo non si era calato il cappuccio e gli aveva permesso di scorgere il volto più bello che avesse mai avuto anche solo l’ardire di sognare.
Thanatos l’aveva guardato con occhi d’ossidiana, con il riflesso dei cieli notturni a brillargli nelle iridi splendenti, nelle pupille che risucchiavano tutta la luce del mondo, e con delicatezza gli aveva posato una mano sulla guancia scarnificata, baciandogli le labbra secche e spaccate, un gesto carico di tanta dolcezza da fermargli il cuore e liberarlo da ogni pena.
Come poteva, Jane, parlare della sua morte con così tanta tranquillità, quando a lui, la sua, ancora lo perseguitava?
 
«Io-»
«Credo che i nostri genitori siano in qualche modo legati. Anche tu puoi fare magie?» gli domandò stroncandolo sul nascere, proprio come se la sua risposta non le interessasse minimamente.
Che personaggio strano che era quella figlia di Ecate.
Úranus scosse comunque la testa, cercando di riprendere il controllo di sé e di non farsi sopraffare da ricordi e sensazioni negative.
 
Non posso permettermelo, non ora.
 
«Non proprio. Non sono in grado di far ciò che una figlia della Magia può fare, ma hai ragione nel dire che i nostri divini genitori siano in un qualche modo affini. La provenienza del loro potere è la medesima, è alla Notte che devono la loro vita.» rispose lentamente, concentrandosi nello scandire con chiarezza ogni parola. Dar attenzione alle piccole cose per cancellare i grandi problemi, uno dei grandi insegnamenti di suo padre.
Jane lo guardò scettica. «Chi è tuo padre?» chiese ancora, senza il minimo tatto, senza il minimo pudore.
Úranus riuscì persino a regalarle un piccolo sorriso di scuse.
«Non credo sia questo il giusto momento. Non vorrei spaventar nessuno. Non ne necessiti tu così come gli altri.»
Per quanto lo riguardava, la discussione era chiusa.


 
 
Elizabeth si guardò intorno con attenzione, la terribile sensazione d’essersi dimenticata qualcosa incollata addosso. Ed era un qualcosa di davvero importante, non ne aveva dubbi.
Sondò la zona circostante ed un dubbio le saltò alla mente: erano piante rade ed erba scura quella su cui camminava, come un’immensa prateria, come le Praterie, che fosse quell’ambiente ad averle nuovamente tolto la lucidità, annebbiandole i ricordi?
Vicino a lei, a capo di quella strana spedizione, Nathan marciava a testa alta, come sempre, borbottando quanto tutto quel camminare fosse inutile: perché non mettevano le dannatissime prove una dietro l’altra?
 
«Magari perché sperano che qualcuno si perda nel mezzo?» disse quasi con ironia Lea, sbuffando esasperata dal rumore di sottofondo continuo che veniva fuori dalle labbra serrate del biondo. «Sai, nel mio paese si direbbe che sei una pentola di fagioli.» rincarò la dose alzando un sopracciglio.
Nathan la fulminò con lo sguardo. «E il cazzo che me ne fraga non ce lo metti?»
«Attento a quello che dici biondastro, potrei anche prendere seriamente la tua proposta ed evirarti, così potrei mettercelo eccome!» gli rispose a tono.
Sorpresa da una battuta così volgare per una signorina come lei, una ragazza cresciuta in un convento, poi allevata da un medico, che era diventata infermiera anche, Eliza la guardò con tanto d’occhi, non riuscendo però ad impedirsi di sogghignare: aveva passato una vita tra i militari, aveva sentito ben di peggio nel corso del suo servizio sotto la bandiera delle Colonie Libere.
«Prima dovresti prendermi.» l’apostrofò il figlio di Ares.
Lea arricciò il naso sempre più infastidita. «Mi basterebbe scatenarti contro Nerone.» gli ricordò.
«Quel cane di merda.»
«Nathan.» lo ammonì Eliza.
Il giovane la guardò indignato. «Che c’è ora!? Lei può minacciarmi ti tagliarmi il cazzo e io non posso dire che il maledetto Nerone è un mastino di merda?» domandò allargando le braccia indignato.
«Ho detto che ti eviro, non sono stata volgare come te.»
«Sì che lo sei stata, hai detto che me lo metti eccome!»
«Ma non sono stava volgare come te!»
«Ma scusa, a te non pare volgare una ragazzetta del pre-guerra, tutta morigerata, che ti minaccia di tagliarti l’uccello e mettertelo- cazzo! Detta così pare pure da frocio!» si lamentò con una smorfia.
Lea lo guardò con il fuoco negli occhi chiari. «Non azzardarti mai più ad usare quella parola davanti a me!»
«Non è la pima volta che mi senti dire cazzo. Cazzo.» gongolò felice d’aver trovato qualcosa che la infastidisse così tanto.
«Non quello!»
«Uccello?»
«No! Quella terribile parola infamante!» gli urlò quasi contro, attirando l’attenzione di Jane e Úranus, dietro di loro, ma non quella di Jonas e Cade che chiudevano la fila e sembravano così intenti a chiacchierare per affari loro da non prestare attenzione a null’altro.
Nathan aggrottò le sopracciglia confuso. «Cosa allora, frocio?» domandò senza capire. Ma lo fece ben presto quando vide il volto della ragazza diventare paonazzo.
Come fosse possibile che la rabbia le avesse donato uno sbalzo di pressione tale da farla arrossire per lui era un mistero, ma questo dettaglio passò in secondo piano quando la bionda gli si avvicinò minacciosa, un leggero pulviscolo luminoso ad espandersi dalle sue mani.
«Azzardati ad usare di nuovo quella schifosa parola davanti a me e ti giuro sullo Stige, Wright, che anche a costo di bruciarmi l’unica possibilità di vincere questa gara ti porterò all’Inferno con me.»
Nathan la fissò improvvisamente serio, un giuramento sullo Stige non era cosa da poco e Lea, oltre ad Úranus, era probabilmente l’unica persona che ne capiva il valore.
Non osò ripeterlo, sia perché non aveva nessuna voglia di mettersi a fare a botte con una figlia di Apollo palesemente incazzata, sia perché aveva perfettamente capito che per lei, quello che lui utilizzava come nulla di meno che un termine come un altro, doveva essere un insulto terribile, doveva ricordarle qualcosa di brutto, forse, essendo nell’800, un amico omosessuale che era stato accusato e magari anche ucciso per colpa di uno stupido gusto sessuale.
Nathan veniva dall’America del post guerra, dai figli dei fiori, dal “fate l’amore non fate la guerra” urlati a gran voce proprio quando lui imbracciava le armi per andare a fare il suo dovere in Vietnam. Non aveva vissuto abbastanza per vedere se un giorno essere omosessuali sarebbe diventato legale, ma era pur sempre figlio di una divinità Greca e l’idea della pansessualità era ben radicata in lui. Certo, Nathan non se la sarebbe mai fatta con un uomo, o con un satiro, ad essere onesti neanche con un aura, ma con una driade o con una nereide di certo sì. Questo non toglieva che al Campo avesse conosciuto semidei figli di Dei maschi e di uomini mortali, o di Dee e donne. Gli era stato raccontato di divinità che se la facevano con animali, o che diventavano animali per farsi gente, sapere che due uomini scopavano non lo impressionava più di quanto non lo facesse l’idea di un Zeus toro bianco che rapisce Europa, quello sì che era da brividi.
Ma in sostanza, la parola “frocio”, per lui non era un insulto “crudele” come lo era per tutti gli altri suoi coetanei, ma una cosa che sua madre gli aveva ben insegnato era che se un termine, una parola, un aggettivo, feriva così tanto una persona, nel profondo, nell’animo, nel cuore, allora non andava usato.
Guardò Lea negli occhi, per trasmetterle anche in quel modo la serietà della situazione, quanto avesse capito che per lei, per qualche motivo, quella parola fosse di troppo.
La bionda non distolse lo sguardo ma rilassò impercettibilmente le spalle.
 
«Non voleva essere un insulto, ma non ho alcun motivo di ripeterlo.» si limitò a dire, senza scusarsi o dirle che gli dispiaceva. A lei parve comunque bastare perché annuì.

«Quindi possiamo rimetterci in marcia?» domandò laconica Jane passando in mezzo ai due come se non fosse successo nulla.
I due biondi si voltarono per seguirla con lo sguardo, uno innervosito e l’altra irritata dal suo comportamento.
Eliza sospirò, almeno quegli altri avevano smesso di litigare e l’avevano fatto con un’inaspettata maturità. «Sì, possiamo continuare.» disse con voce sicura. «Sono l’unica a cui pare d’aver dimenticato qualcosa?» chiese poi voltandosi verso gli altri tre.
Úranus aggrottò le sopracciglia. «Cosa pensi d’aver dimenticato? Avremmo dovuto far altro prima di uscire dal recinto dei Mastini Infernali?»
«Non t’azzardare a dirmi che dobbiamo tornare indietro perché sarebbe uno sbattimento e non c’ho proprio voglia.» ringhiò Nathan.
Lea lo riprese acidamente sul suo solito modo di fare ed i due cominciarono di nuovo a discutere sul nulla.
Eliza li guardò per un attimo schifata, aveva passato anni nell’esercito ma non aveva mai sentito nessuno litigare di continuo in questo modo. Forse perché non c’erano donne?
«C’è qualcosa di particolare?» la riportò alla realtà il rosso, «Qualcosa che dovremmo fare? Credete-»
«Úranus, per favore, dammi del tu. Siamo coetanei dopotutto.» gli sorrise gentile.
Il gigante buono probabilmente in vita sarebbe arrossito, in quel momento si limitò ad annuire.
«Mi spiace, è più forte di me. Mi è stato insegnato a dar del voi ad ogni fanciulla e necessito di qualche attimo per riuscire ad esser meno…»
«Formale?» l’aiutò.
Lui sorrise. «Esattamente.»
«Hai tutto il tempo che vuoi, ma te la stavi cavando bene, ricadi nelle vecchie abitudini solo poche volete. L’importante è che tieni a mente che siamo tutti sullo stesso piano, aiuta molto.»
«Lo farò, grazie.» poi chiese di nuovo. «Ma c’è forse qualcosa che avremmo dovuto fare? Per ciò che ricordo abbiamo seguito tutte le regole imposteci dalla Divina Artemide.»
Eliza sospirò ancora. «Non è questo, non riguarda la prova per lo meno. Ho solo l’impressione d’essermi scordata qualcosa di davvero importante.» assottigliò lo sguardo, sforzandosi invano di ricorda. «Di mio.»
A quelle parole Úranus assunse un’espressione pensierosa. «Come se vi fosse un passaggio, un momento, importante della t- tua vita che non ricordi più? Le Praterie fanno questo effetto.» disse subito guardingo, alzando la testa e drizzando collo e schiena, scrutando tutto ciò che li circondava.
L’erba nera era distintiva, questo era certo, e anche se Úranus era sicuro che fossero effettivamente tutti nelle Praterie degli Asfodeli non sentiva la stessa pressione che aveva avvertito la prima volta che vi era entrato, subito all’uscita dagli Elisi.
«Non è la stessa sensazione.» rispose infatti Eliza. «Ma sì, come se mancasse un pezzo di un evento importante, qualcosa che dovrei ricordare alla perfezione anche nella morte ma che invece mi sfugge.»
La figlia di Nike voltò il capo per osservare gli ultimi due della loro fila: Jonas e Cade continuavano a parlare a bassa voce, le teste vicine, i gesti del biondo concitati, le dita pallide che andavano di continuo a giocare con un bracciale che gli pendeva dal polso ossuto.
Loro due, più di tutti gli altri, avrebbero dovuto subire l’influenza delle Praterie. Jonas come anima dannata – Eliza continuava a non capire cosa potesse aver fatto il ragazzino, dal suo comportamento tenuto fin ora sembrava solo un perfetto adolescente – e Cade perché, proprio per sua ammissione, non aveva avuto una vita così pulita. Eppure, scrutandoli con attenzione, Eliza non vide nessun cambiamento, niente di quello spaesamento che aveva letto nel volto di Cade durante la prima vera prova.

Non sono le praterie.
 
«No, temo che sia-»

«EHI! Muovete il culo! Siamo arrivati!»
L’urlo di Nathan fece saltare sul posto i due semidei dietro di loro e voltare di scatto Úranus ed Eliza.
Il soldato se ne stava fermo davanti al nulla e alla donna non ci volle molto per ipotizzare che dovevano trovarsi sulla cima di una collinetta e che, subito sotto di loro, vi fosse una qualche conca naturale, un avvallamento delle Praterie che formavano una lunga pianura dove, con tutta probabilità, si sarebbe svolta la quarta prova.

«Qualunque cosa sia.» mormorò piano Úranus. «Temo lo scopriremo presto.»



 
Jonas camminava vicino a Cade, molto più vicino di quanto non avessero fatto in precedenza.
Forse tutti quei momenti delicati che avevano affrontato assieme, quella strana intimità che si era andata a creare tra loro, la sensazione di essere al sicuro, in salvo, bene, con l’altro o il semplice fatto che Jonas l’avesse finalmente riconosciuto e accettato come amico, aveva aiutato a creare quella vicinanza che raramente aveva condiviso con qualcuno in vita.
Si potevano contare sulla punta delle dita le persone con cui si era ritrovato a chiacchierare in modo concitato, con le teste vicine, infastidito dai capelli dell’altro che di tanto in tanto gli toccavano l’orecchio o dalla mano dell’amico poggiata tra le sue scapole. Ad essere onesti non gli sarebbero servite neanche tutte le dita di una mano, ma a questo Jonas preferiva non pensare.
Quando erano usciti dal grande recinto dell’Area Cani, con le loro belle medagliette lucide strette in mano, il ragazzo non aveva potuto far a meno di porsi una serie di domande a cui purtroppo non aveva trovato risposta. Avrebbe voluto chiedere a Nathan di parlargli di quello che era successo dopo la sua morte, di come si erano evolute le cose, di chi aveva vinto – anche se in un qualche modo lo sapeva già, la sfilata di quell’anima maledetta in discesa verso le terrazze più basse degli inferi non se la sarebbe mai dimenticata – ma la verità era che ne aveva paura, una paura folle. Non era certo di voler davvero sapere tutto il male che si era andato sviluppando nel mondo, ciò che aveva portato ad una Seconda Guerra Mondiale. No, non lo voleva decisamente sapere. E forse era da codardi, da vigliacchi, ma di cosa si stupiva? Non era forse quello il nome dell’Ottava Terrazza? Il girone dei codardi?
Jonas sospirò, avrebbe trovato il modo di metter da parte abbastanza coraggio per porre quelle domande, ma ora non ce la faceva, non ci riusciva proprio.
Un’altra cosa che gli premeva sapere era se era stato lui a mandar giù il soldato come un burattino senza fili o se era stato Úranus. O se erano stati entrambi.
Ad occhio e croce i loro poteri influivano entrambi sulle persone, sulle anime, in modo terribile. Jonas sapeva quanto la sua eredità divina potesse far male, il semplice fatto che la sua condanna fosse quel collare lucido che rifletteva i volti dei dannati, ciò che la loro codardia gli aveva tolto, ne era una prova schiacciante. Ma il vichingo?
Jonas aveva guardato a lungo la schiena dell’uomo, giocando distrattamente con il suo collare spinato, e poi, quasi per caso, senza rendersene conto, si era ritrovato ad affrettare il passo ed avvicinarsi a Cade.
Gli dava sicurezza, era inutile negarlo e non aveva neanche bisogno di farlo, finché non lo avesse detto a voce alta l’orgoglio dell’Irlandese non si sarebbe potuto gonfiare più del dovuto e tanto bastava.
Ma proprio il suo amico gli dava da pensare più di tutti gli altri, in un qualche modo. Cade lo aveva difeso e protetto sin dal loro primo incontro, l’aveva salvato da morte certa, gli aveva dato i suoi guanti per difendersi, aveva praticamente obbligato i suoi compagni di viaggio a portarlo con loro e l’aveva sostenuto sia a livello emotivo che fisicamente per ben due volte.
Cade saltava più in alto di chiunque altro, era più veloce, quando correvi vicino a lui avevi quasi l’impressione che il vento ti stesse spingendo via, ma la dimostrazione di potere più grande, di potere divino, l’aveva data quando si erano trovati di mezzo all’Area Cani, accerchiati da qualcosa che non riuscivano a comprendere.
Cos’era? E come aveva fatto Cade a liberarsene?
 
«Ehi? Non ti ho detto che il fuoco mi innervosisce? Guarda che se vedrò fumo uscirti dalle orecchie ti mollerò qui e scapperò via urlando.»
Il tono allegro e canzonatorio del giovane lo fece voltare verso di lui.
Cade gli sorrise, inclinando il capo verso il suo ma mantenendo lo sguardo fisso davanti a sé.
«Che problema c’è, gamberetto?» chiese con tranquillità.
Jonas alzò un sopracciglio. «Questa ora da dove ti è uscita?»
L’altro si strinse nelle spalle. «Se vuoi torno a gattino ed uccellino? Preferisci questi, fratellino?» il ghigno beffardo sul suo volto fece arricciare il naso a Jonas, che borbottò qualche insulto in tedesco, sorprendendosi poi di riuscire a farlo senza esser effettivamente capito dal compagno.
Ghignò anche lui. «Quindi posso insultarti in tedesco e tu non mi capisci!» trillò su felice.
Cade però gli restituì lo stesso ghigno. «Già, quindi pensa cosa posso dirti io in irlandese senza che tu capisca, binneas
«Che mi hai detto?» lo guardò assottigliando lo sguardo.
«Tu che mi hai detto?» ritorse quello.
Jonas sbuffò. «Ti ho mandato a ‘fanculo.» buttò fuori. «Tu?»
«Di certo non ti ho insultato, dolcezza.» continuò con quel suo sorrisino irritante.
Il più piccolo lo fulminò ma si morse la lingua invece di replicare: se avessero cominciato a discutere di quello sarebbero arrivati alla prossima prova senza che fosse riuscito a chiedergli nulla.
«Rinnovo il mio insulto.» si limitò a dire per troncare la discussione. «Ho un paio di domande da farti, però.»
Cade gli passò un braccio attorno alle spalle e drizzò la schiena, ispirando a pieni polmoni morti.
«Spara.» aggrottò la fronte. «Spero non in senso letterale.»
Jonas alzò gli occhi al cielo e non provò neanche a levarsi quel braccio di dosso, Cade era decisamente più forte di lui e avrebbe rischiato, di nuovo, di allontanarsi dal punto focale.
«Quando eravamo dentro e tu ed Úranus avete avvertito quella cosa strana, prima che lo facessimo noi, cosa pensi che fosse?»
Cade rimase inizialmente in silenzio, lo sguardo perso davanti a sé, non più concentrato sulla strada da percorrere, sui loro compagni, sulle altre anime, ma dentro a ricordi appena vissuti, recenti.
Con uno strano senso di sicurezza l’irlandese sentì di aver dimenticato qualcosa d’importante, qualcosa che solo in quel momento riuscì a percepire.
 
Il vuoto, perché sento questo vuoto? Non è una cosa essenziale ma non è neanche qualcosa di cui mi sarei mai dimenticato.
 
Scrollò la testa, si volse verso Jonas.
«Non so dirtelo con certezza, sappilo.» iniziò mettendo le mani avanti, «Probabilmente Úranus è quello che saprebbe dirci di più, seguito a ruota dal biondastro e da Lea, ma posso ipotizzare, posso dirti cosa ho sentito io.»
Jonas alzò un sopracciglio, la dita della mano destra che senza volerlo scivolavano oltre il bordo del suo bracciale.
«In che senso?» domandò spaesato.
L’altro si strinse nelle spalla. «Nel senso che non sono mai stato al fantomatico Campo, non ho mai avuto nessuno che mi insegnasse nulla sugli Dei e sul nostro mondo e tutto quello che so l’ho imparato sul campo, per sbaglio e spesso rischiando l’osso del collo. Non posso darti certezze, magari per i semidei di ora è una cosa anche scontata, capisci?»
Annuì. «Mi va bene quello che hai sentito allora.»
«E sia!» trillò stringendolo di più a sé. Il braccio attorno alle sue spalle scivolò via e Jonas si ritrovò la mano dell’Irlandese premuta tra le scapole. In un attimo gli parve quasi che si fosse alzato un rumore di fondo che lo distanziava dagli altri.
Guardò Cade negli occhi, senza esitazione. «Ne saprai anche di meno di loro, ma sei comunque quello che usa di più i suoi poteri divini.» gli disse serio.
«Questo perché probabilmente sono quello che li può usare di più senza temere le loro conseguenze, come invece accade per te e per il gigante.» rispose con nonchalance.
Jonas si morse l’interno della guancia: non voleva parlare di lui, non voleva parlare della sua condizione o dei suoi poteri, non voleva affrontare quel discorso in quel momento esattamente come non voleva sapere davvero cosa fosse successo dopo la sua morte. Non voleva sapere.
«Io-»
«Lascia stare, ne riparleremo con più calma poi.» tagliò corto Cade. «Quello che è successo durante la prova… non penso facesse parte dei giochi.» disse con tono vago.
Jonas prese un respiro profondo, poi annuì, incoraggiandolo ad andare avanti, inclinò la testa verso la sua per riuscire a sentirlo meglio anche sopra quel rumore di fondo che, in verità, non lo infastidiva per niente, anzi, l’aiutava a tenere lontani i suoni circostanti.
«Da quando è iniziata la gara ho spesso la sensazione che sia tutto guidato. Abbiamo già ipotizzato più di una volta che molte di queste prove non possono esser state ideate anche per i mortali, che nessuno uomo o donna saprebbe come trattare con un Mastino Infernale. È quindi ovvio che vogliono solo noi semidei e sinceramente mi domando perché.»
«Credi che quel vento servisse per disperdere le anime degli esseri umani normali?» domandò cauto.
Cade scosse la testa, si strinse nelle spalle. «Non possiamo dirlo con sicurezza ma non credo. E poi non era vento. Era strano. Da una parte mi sembrava quasi di stare in acqua, risucchiato dalla corrente, dall’altro mi sembrava di star davanti a delle enormi pale che mi spingevano via.»
Jonas lo osservò con attenzione. «E l’odore? Che odore hai sentito?»
Allo sguardo sorpreso di Cade l’altro abbozzò un sorriso. «Hai preso un respiro profondo, hai inspirato l’odore delle Praterie e poi ti sei bloccato. Era un odore, giusto?» ripeté ancora.
A quel punto l’amico annuì, seppur con lentezza. «Non credo di poterlo spiegare…» mormorò, «Ti sembrerà assurdo ma- per un momento, uno solo, mi è parso di sentire l’odore di casa mia.
C’era quello del legno bagnato dei tetti, e la pioggia, Dio! Pioveva sempre a Dublino. C’era l’odore del fuoco nel camino, quello, quello de- hai mai sentito l’odore del metallo caldo? Di una pentola che per ore sta sul fuoco? Quello, esattamente quello.»
Ma Jonas non capiva, quelli non gli sembravano odori in grado di far salare sull’attenti qualcuno a quel modo. Non c’era sorpresa negli occhi di Cade, non c’era stupore; c’era attenzione, c’era dubbio e preoccupazione. Era il volto di chi capta un pericolo e non quello di chi si ritrova nel bel mezzo di un ricordo caro.
Lo osservò in attesa che continuasse e capì che Cade stava solo cercando le parole giuste.
«Poi è cambiato. C’era sempre la pioggia, il legno bagnato, le braci… c’era puzza di vestiti fradici e- di polvere da sparo. C’era il tanfo del sangue e altri odori che non sapevo identificare. Ma era pericoloso, lo era. Come- come se d’improvviso qualcuno avesse aperto un pozzo pieno di cose brutte e tutta la puzza che si era accumulata lì dentro fosse uscita fuori.»
 
“Un po’ come se di punto in bianco ti fossi sporto oltre il baratro del Tartaro?”
 
Cade si bloccò. La mano sulla schiena di Jonas si chiuse e lo trascinò di peso davanti a sé, verso gli altri, in avanti, quasi dovesse schermarlo da qualcosa che proveniva dalle loro spalle.
 
«Oh! Che hai?»
«Cosa…»


“Un po’ come se avessi avuto un assaggio di come sarebbe stata la tua vita se avessi fatto un passo falso in più? Se dietro di te non ci fosse stato quel giovane?”
 
«Cade? Che cazzo hai!» saltò su Jonas liberandosi dalla sua presa e accostandoglisi. Il rumore di fondo divenne più inteso, quasi come l’interferenza di un canale radio.
Cade fissava il vuoto alle loro spalle, senza guardare le anime che li superavano, che andavano verso una nuova meta.
 
“Sssh, lo sai mantenere un segreto?”

«La senti?» mormorò flebilmente.
«Il rumore dici? Sì che lo sento! Sei tu? Sei tu che lo fai? Perché se è così ti sta sfuggendo di mano!»
 
“Via ragazzo, stai spaventando il bambino. Sarà difficile così proteggerlo, portarlo via di qui.”
 
«Cade? Okay, senti, cominci a spaventarmi.»
 
“Ma non ti preoccupare, tra poco arriverà qualcuno ad aiutarti”.
 
«Chi?» chiese quello al nulla.
«Cosa “chi?”?»
 
“La prossima prova…supera quella. Ma attento, non ti piacerà neanche questo di Dio.”
 
Il rumore divenne ancora più forte, Jonas non poté far a meno di tapparsi le orecchie, gli sembrava di esser finito in una galleria del vento. Avrebbe giurato che persino i suoi vestiti si fossero gonfiati per quell’inesistente flusso d’aria ma poi tutto cessò.
Cade si voltò a guardarlo, il viso pallido come il morto che era, gli occhi sbiaditi come quando aveva mandato via quel “problema” invisibile.
Un brivido di paura scosse Jonas da capo a piedi: se fosse stato Cade a sentirsi male non sarebbe riuscito ad aiutarlo, non sapeva come fare, come comportarsi.
Il rosso deglutì a vuoto, gli riportò un braccio sulle spalle e Jonas sentì perfettamente che si stava poggiando a lui. Lo sostenne.
 
«Che succede? Che cosa sentivi?»
L’altro scosse la testa piano. «Sono le Praterie, mi uccidono.» mormorò ancora. Poi lo guardò ed accennò un sorriso. «È beffardo: io che ero nei Campi Elisi lo soffro così tanto e tu che eri in quelli di Pena neanche lo senti.» una risata amara lasciò le labbra violacee.
«Di cosa stai parlando? Cos’è che soffri?»
«L’assorbimento dei pensieri, la cancellazione delle memorie… le Praterie degli Asfodeli aiutano le anime mediocri a non ricordare nulla di loro. Così ad ogni passo la foschia ruba loro quel poco di lucidità che avevano riacquisito con il tempo. Più la tua anima è sporca, meglio funziona.» gli sorrise di nuovo. «A quanto pare i miei peccati sono più oscuri dei tuoi.»
Stringendo la presa attorno al suo fianco e quella sulla sua mano Jonas si ritrovò a premere la testa contro la spalla di Cade.
«E cos’hai fatto?» chiese in un soffio.
Era una domanda pericolosa, perché di certo Cade avrebbe potuto rigirargliela contro, ma per quella volta si sentì di rischiare.
 
Al diavolo tutto! Se è così che dovrà scoprirlo così sia! Fanculo! Fanculo il mondo! Fanculo tutto!
 
«Mi sono sporcato le mani tante volte. Non ho- non ho vissuto una vita rose e fiori, ma poteva andarmi peggio. Alla fine so di aver fatto solo il necessario per sopravvivere. Ma questo non rende più nobili le mie azioni, non cancellerà mai il sangue che macchia le mie mani.»
Quella confessione fece serrare gli occhi a Jonas, che pregò, pregò, che Cade non fosse come le bestie che avevano distrutto il suo mondo.
 
Non potrei accettarlo, temo che potrei morire una seconda volta.
 
«M-ma, lo hai fatto per sopravvivere.» gli disse.
Cade annuì. «Ma non posso far a meno di pensare che forse avrei potuto fare anche altro. Che ci fosse un’altra possibilità.» sospirò. «Ormai è andata, è inutile piangere sul latte versato. Quando sarà, se sarà, mi redimerò là su.»
Il biondo non sapeva cosa dirgli, come consolarlo.  È vero, erano amici ora e tra tutti quanti Cade era quello di cui sapeva di più, di cui si fidava di più, però… come poteva tirarlo su di morale?
La prima cosa che gli veniva in mente era prenderlo in giro, fare qualche battuta che lo portasse a bisticciare con lui come sempre, ma quella volta gli pareva inutile. Cade non si era intristito semplicemente, non stava soffrendo come soffrivano tutte le anime, lui- o forse sì, forse tutti provavano la stessa identica sofferenza e lui vedeva tutto quanto sotto un’altra prospettiva perché teneva a Cade e non voleva perdere un’altra persona che poteva essere importante per lui.
E quegli occhi… quei dannati occhi verdi improvvisamente così tristi.
 
«Non mi pento di nulla però.» sussurrò d’improvviso Cade. «Malgrado sia convinto, sia sicuro, che avrei potuto far diversamente…non mi pento di nulla. Non ho rimorsi, non ho rimpianti se non quello di aver lasciato la mia famiglia. Alla fine, la mia moneta fortunata mi ha portato davvero fortuna.» sorrise piano, le labbra si tesero con lentezza incredibile ma Jonas se ne sentì sollevato.
«Sei comunque finito nei Campi Elisi genio, quindi vuol dire che qualcosa di buono l’hai fatto.» gli fece notare dando un’altra stretta alla sua mano. Cade girò la sua e gli restituì il gesto, un segno di conforto e d’apprezzamento che Jonas non avrebbe mai potuto contemplare un tempo.
E dire che Cade veniva da anni ben più lontani dei suoi.
«Ho solo cercato di difendere il mio paese, la mia terra. Dicevano che eravamo parte del loro regno, che eravamo loro sudditi anche noi, ma la verità è che l’Irlanda è libera. È sconfinata, forte, viva. Libera e senza padrone. Come il vento, come gli stormi che volano nei nostri cieli azzurri, che sfiorano i prati verdi…» la sua voce si spense man mano che parlava.
Jonas lo ammirò silenziosamente: quindi era questo? Cade era morto per difendere casa sua? Praticamente l’esatto contrario di quello che aveva fatto lui, scappando come un codardo da tutti i suoi problemi.
Come potevano essere così diversi ed andare tanto d’accordo? O meglio, come poteva uno come Cade, coraggioso, testardo, libero, battagliero, aver trovato anche il minimo interesse in uno come lui.
Jonas abbassò la testa. Era questa la differenza tra un Beato ed un Dannato? Era la differenza che tra chi restava anche a costo di morire e chi fuggiva-
 
«Ma se non fosse stato per quel giovane alle mie spalle… se non fosse stato per lui io e te ci saremmo incontrati dentro le Mura Nere.»


Quella singola frase ebbe il potere di strapparlo dai suoi pensieri e proiettarlo con forza e violenza dritto nella loro realtà ultraterrena.
Gli occhi azzurrissimi di Jonas si fissarono scioccati in quelli verdi di Cade.
 
Verdi come le colline, come i prati, come l’Irlanda.
 
Probabilmente il suo sgomento gli si leggeva in faccia perché il più grande abbozzò un sorriso.
«Tutti abbiamo i nostri peccati, i miei son ben diversi da quelli degli altri “beati”. – sbuffò una mezza risata – Soprattutto se pensi che io combattevo contro gente in divisa, contro quelli che idealmente dovevano mantenere “la pace”. Mh, cazzate ovviamente. Non hanno fatto altro che distruggere la mia terra. Ma alla fine…alla fine anche se sono morto so che ne è valsa la pena. Voglio continuare a sperare che i miei amici siano sopravvissuti a quelle giornate infernali e che abbiano vissuto le loro vite fino alla fine. Felici e liberi
«Liberty?» mormorò Jonas titubante.
Il sorriso di Cade avrebbe potuto illuminare l’Ade e forse un po’ lo fece. Batté la mano destra sul risvolto della sua vecchia giacca, sul disegno ormai rovinato, crepato, scheggiato come vetro.
«I miei Liberty Birds.»
A sentirlo parlare in quel modo, con quella nostalgia, con quello sguardo, Jonas si ripeté che non poteva in nessun modo essere un mostro e lui lo sapeva bene, lui i mostri li aveva guardati negli occhi, c’aveva vissuto in mezzo, nei banchi di scuola, per le strade, si era seduto a tavola con loro. Il suo istinto gli gridava a gran voce di fidarsi, di non farsi prendere dal panico, di non pensare il peggio perché qualcuno che teneva così in considerazione la libertà non poteva esser cattivo.
 
Non come lo intendo io.
 
«Ti mancano molto, li nomini in continuazione.»
Cade rise. «Perché volevo loro molto bene, tutto qui. Per me pensare a loro è tanto uno stimolo quanto una condanna. Mi mancano, a te non manca la tua famiglia?»
Ed eccolo lì, il momento in cui toccava a lui parlare, raccontarsi.
Jonas prese un respiro profondo. Cade era suo amico, si fidava, si fidava ciecamente. Okay, non proprio ciecamente ma solo perché quel dannato rosso alle volte era fin troppo bislacco ed aveva palesemente la faccia di uno di quei ragazzini che appena gli volti le spalle fanno danni. Però si fidava lo stesso, quindi poteva dirgli qualcosa, sì.
 
«La mia famiglia era molto diversa dalla tua.» iniziò con tranquillità.
Cade alzò un sopracciglio. «Presumo che tu non vivessi in una vecchia casa nei bassifondi di Dublino insieme ad una decina di ragazzi con cui condividevi la giornata, quindi penso di poterti credere.» ci scherzò su.
Per buona risposta Jonas gli rifilò una gomitata sulle costole. Vicini ed abbracciati com’erano il rosso non poté sottrarsi in alcun modo. Jonas ghignò soddisfatto.
«Eravamo una famiglia importante, sia per nobiltà che per ruolo. Mio nonno lavorava per- beh, era un membro di spicco della politica. In ogni caso ha cercato di farmi diventare un uomo, ho sempre avuto lui come esempio.» si risolse a dire.
Cade annuì. «Figura seria e rigida? Di quelli che non ti abbracciano neanche se gli spari? Beh, per fortuna ha fatto un pessimo lavoro allora!» gli sorrise l’altro.
Jonas alzò un sopracciglio. «Scusa?»
«Si un piccolo concentrato di irritazione, controsensi e rabbia adolescenziale ma gli abbracci li sai dare almeno.» e detto ciò si sbilanciò verso di lui stringendolo anche con l’altro braccio.
Jonas imprecò pesantemente e cercò di toglierselo di dosso, dandosi del cretino per aver anche solo pensato che Cade potesse starsene zitto e sostenere un discorso serio come quello.
«Togliti cazzo!»
«Uh! Andiamo, ci pensa fratello Cade a insegnarti come si fa per bene. E per prima cosa non ti devi dimenare.»
«Ti ho detto di toglierti! Dio ma quanto sei fastidioso? Ma come facevano a reggerti i tuoi amici?»
«Semplice.» disse fermandosi e fissandolo dritto negli occhi. «Ero il capo e anche quello più bravo a fare i nodi.»
Jonas batté le palpebre. «Legavi- legavi i tuoi amici per abbracciarli?» domandò incerto.
Cade scoppiò a ridere. «No cavolo! Siamo solo stati sempre molto uniti.» sospirò e gli passò con gentilezza una mano tra i capelli per rimetterglieli a posto.
Jonas non poté far a meno di paragonare la scioltezza e la naturalezza dei suoi genti con quelli incerti e impacciati di Nathan.
«Io ero uno di quelli fortunati, avevo una madre che mi amava, che ha cercato di proteggermi finché ha potuto. Mi sono persino goduto un po’ mia sorella. Molti altri non avevano più nessuno.» sorrise. «Non vergognarti di ciò che eri o di ciò che era la tua famiglia.»
Il ragazzino annuì. «Mia madre anche mi voleva molto bene, era una donna molto forte, sapeva cosa voleva per noi e lo otteneva. Ad oggi credo che lei sapesse che mio padre non era davvero suo marito ma qualcun altro.»
Un’altra carezza gli sfiorò la testa. «Lui non lo hai mai conosciuto?» domandò gentilmente.
Jonas annuì. «Già, è morto prima che io nascessi. Non so come sono andate le cose tra di loro, credo mia madre lo amasse, quindi non saprei neanche se lo abbia tradito o meno.»
«Gli Dei possono prendere qualunque aspetto, magari tuo padre si trasformò in lui e quindi tua madre non se n’è mai accorta.»
«Forse sì. Comunque, anche se non condividevo alcune idee con la mia famiglia, gli volevo bene.» disse in fine pur mantenendosi sul vago.
Vide Cade fargli cenno con la testa d’aver capito, poggiando poi la guancia sui suoi capelli. «Certo che gliene volevi, gamberetto.»
Con uno sbuffo infastidito Jonas lo spintonò di nuovo, ma senza troppa forza o troppa convinzione.
«Hai rotto le palle, io te lo dico.»
«Preferisci uccellino quindi! Lo sapevo che era il tuo preferito!» sorrise raggiante.
«No. Il mio preferito è Jonas, ficcatelo bene in testa.» grugni di rimando.
Poi un’idea gli balenò in mente. Si fece di nuovo vicino al compagno, il volo girato alla ricerca di quello dell’altro.
«Ti ho raccontato la storia di mia madre, ti ho detto che non ho mai conosciuto suo marito, quello che credevo essere mio padre. Perché non mi chiedi chi è il mio genitore divino?» gli chiese curioso. Uno strano senso di tranquillità, di serenità, gli si era allargato nel petto, come se qualcuno gli avesse tolto un peso da sopra, come quando finalmente si riesce a dimenticare qualcosa di doloroso, in grado di oscurare anche i pensieri più belli.
In quel momento, per qualche strana ragione, nessuna risposta di Cade avrebbe potuto turbarlo.
 
«Perché così tu non mi chiederai il mio.» rispose con semplicità. «E io non sarò costretto a mentirti o anche solo a nominarlo.»
 
Quell’ultima frase non lo infastidì, non gli lasciò nessun senso d’inquietudine addosso anche se si ritrovò a chiedersi perché avrebbe dovuto mentirgli.
Gli andò bene così.
«Mi sembra un buon compromesso. Forse però gli altri potranno capirlo dai tuoi poteri.»
Cade sbuffò. «Il biondastro non se n’è ancora accorto, non lo faranno neanche gli alti. Non somiglio per niente a mio padre io.» poi lo guardò ghignando. «E credo proprio che anche tu non somigli al tuo.»
Jonas scosse la testa. «Non credo, no. L’unica cosa certa è che un po’ della sua maledizione l’ha passata anche a me.»
Lo sguardo smeraldino del più grande lo scandagliò come un radar.
«Allora speriamo che questa maledizione non debba più ripetersi.»
 
Cade non lo sapeva, non poteva saperlo, ma Jonas ebbe la certezza che l’altro avesse capito la portata di ciò che si celava dietro quelle parole non dette.
Con un sorriso incredibilmente spontaneo e nessuna voglia di fingersi più forte e maturo di quanto non fosse, il ragazzo annuì ancora.
«Ci proverò con tutto me stesso, ma non posso assicurarti nulla.»
«Beh, è proprio questo il bello dell’aver degli amici no?»
Lo guardò senza capire.
Il sorriso di Cade s’allargò. «Arrivare in tuo soccorso quando tutto sembra crollarti contro. Gli amici si aiutano sempre nel momento del bisogno, è la regola base dell’amicizia.
Quindi quando pensi di star per crollare non tenerti tutto dentro, ti distrugge solo, ti rende solo più stanco e più triste.»
«Dovrei dirlo a tutti?»
«Oh, no! Assolutamente no. Devi dirlo a me. Gli amici si aiutano a vicenda, gli amici ci sono sempre, restano sempre.» lo guardò dritto negli occhi e poi gli strinse una spalla. «Lascia che ti aiuti.»
Jonas rimase per un attimo in silenzio. Poi sorrise.
«Sarebbe a tuo rischio e pericolo, ma credo proprio che questo non faccia altro che emozionarti di più, vero?» domandò scuotendo la testa divertito.
Cade gli sorrise di nuovo in quel modo accecante, forse Jonas poteva abituarcisi.
«Che gusto c’è a volare se non si sfidano le correnti?»

Forse l’aveva già fatto.
 



 
*





La strada sino a lì era stata sicura, libera e veloce. Non aveva voluto sforzare troppo il motore, sapeva che sarebbe stato in grado di sopportare anche di peggio, l’aveva messo a punto proprio per questo, ma aveva comunque evitato.
Sulla via principale che conduceva fuori dalla città, ancora più fuori di quella periferia che nessun turista reputava davvero ancora Roma ma che tutti invece sentivano come tale, Giordano fermò la sua vecchia corriera modificata – modificata anche a suon di magia divina, ma son dettagli – e si prese un attimo per osservare la sua bella, bellissima ed immortale città.
Non volgeva però il volto verso il centro storico, dove in lontananza, tra tutti gli edifici, spiccava la Cupola enorme del Vaticano, a quei luoghi aveva detto addio tanto tempo prima, quando era entrato nello studio di Suor Patrizia e sorridendo mesto le aveva detto che se ne sarebbe andato.
La vecchia suora l’aveva guardato come se avesse potuto capire e forse… forse se per tutti quegli anni i mostri non si erano mai affacciati nell’orfanotrofio non era stata un favore divino, non era stata una grazia di Dio ma solo l’efficiente lavoro di tutte quelle donne di fede che assieme alle preghiere mormorate con il rosario stretto tra le dita erano in grado di tirar fuori un rigore ed una forza che non molti pensavano avessero.
Giordano sorrise massaggiandosi i dorsi delle mani come un riflesso involontario: solo lui sapeva quante bacchettate sulle mani si era preso, quante volte il lungo righello di legno l’aveva colpito con durezza per rimproverarlo delle sue azioni.
Il dolore fisico è associato all’espiazione dei peccati, è una lezione dura da imparare ma Giordano già la conosceva.
 
“Corri, non ti fermare mai finché non sei al sicuro e non voltarti mai indietro. Anche se dovessi sentire delle grida, anche se dovessi vederci cadere tutti uno alla volta, tu non ti fermare, continua a correre. Anche se ti fanno male le gambe, anche se ti hanno ferito, anche se non hai più fiato e senti che il petto possa esploderti da un momento all’altro. Corri anche quando credi di star ad un passo dalla morte, il dolore ti ricorda solo che sei vivo, che puoi combattere ancora, che puoi vedere un nuovo giorno.”
 
Il dolore significava che eri ancora vivo, significava che avresti potuto riprovare ancora una volta, che avresti avuto la possibilità di non sbagliare di nuovo.
Il ragazzino si passò una mano tra i capelli, afferrando il ciuffo sulla frangia e tirandolo giù sino alle sopracciglia: diamine, erano cresciuti parecchio, forse avrebbe dovuto farseli tagliare prima di partire, dubitava di poter trovare un barbiere nel suo viaggio.
Davanti a lui si aprivano le campagne romane, poteva vedere tutti quei piccoli agglomerati di case sparsi su per la montagna, su per il Tuscolo, e avrebbe potuto nominarli tutti, uno per uno. Lì sotto, alle pendici, nascosta da qualche parte tra le vigne verdi ed i campi da pascolo, c’era anche casa sua. Un edificio arroccato su una collinetta, perché Roma l’hanno fatta su sette colli ma pure interno non scherzano mica, piano terra, primo piano e terrazzo. Una salita fatta di mattonelle di riuso, un vecchio portone di legno, una tettoia vecchia ed una lampada francese. Un pomello opaco, una scala che s’arrampicava fino al pianerottolo ed un’altra che girava per andare verso l’ultimo piano. Oltre la porta c’era casa sua, quelle quattro stanze in cui aveva visto la luce, dove aveva vissuto come un bambino normale – come una famiglia normale – per troppo poco.
Giordano chiuse gli occhi, prese un respiro profondo a pieni polmoni e si volse senza schiudere le palpebre. Le serrò ancora di più, storcendo la bocca in una smorfia che aveva l’unico scopo di non farlo scoppiare a piangere. Dannazione, sentiva già le lacrime bagnargli gli occhi. No, no, no non doveva piangere, non poteva farlo, cazzo!
Alzò la testa e tirò su col naso. Adesso sarebbe rientrato nella sua corriera, a cui doveva trovare un nome, e se ne sarebbe andato, sarebbe andato a nord a cercare mamma e papà. Ecco, sì, doveva concentrarsi su questo, sui suoi genitori e sul nome da dare alla corriera. Forse “vecchia carretta”? Era troppo scontato?
Si passò la mano in faccia, sfregando bene gli occhi per scacciare via quelle poche lacrime scappate.
Rimase fermo per un attimo prima di alzare di nuovo il volto al cielo ed imprecare contro quell’altro attacco di pianto insensato.
Non era niente, non era successo niente, aveva visto di peggio, era solo la sua stupida mente che pensava agli scenari più catastrofici, non sarebbe successo nulla.
 
«Perché piangi?»
 
Giordano sollevò lentamente le palpebre, trovandosi davanti agli occhi umidi una delle ragazze più belle che avesse mai visto.
Doveva aver massimo diciott’anni, era di media altezza, fisico snello ma morbido…sembrava quasi una diva del cinema, con le gambe lunghe e la gonna ampia che le lasciava scoperte le caviglie fini, le scarpette rosse.
La pelle rosea pareva esser quella classica mediterranea, che con un poco di sole s’abbronzava immediatamente, ed i capelli di un marrone caldo sembravano quasi rossicci sotto i riflessi della luce. Ma erano le sue labbra rosso ciliegia ed i grandi occhi da cerva che gli tolsero tutta l’aria dai polmoni.
Quella ragazza era bellissima, come i primi alberi in fiore dopo un lungo inverno rigido. Era bella come la primavera, come i venti frizzanti ed i raggi tiepidi, come il canto degli uccelli e quello delle fronde.
 
Era la rinascita della vita dopo la morte dell’inverno.
 
Giordano non aveva mai fatto paragone più azzeccato nella sua mente.
Non gli servì molto per capire che quella giovane non poteva essere mortale, non del tutto per lo meno, e ciò gli diede una sferzata di malinconia che avrebbe potuto fargli tornare su le lacrime che tanto faticosamente aveva cacciato indietro.
Si strinse nelle spalle e scosse la testa, dando qualche colpo di tosse per schiarirsi la voce.
 
«Non lo so davvero. Sto andando via, non tornerò tanto presto, forse non lo farò mai.» mormorò.
Era strano parlare con un’estranea ma sapere che forse era stata mandata lì da Ade per controllare che tutto andasse bene gli dava una strana sensazione di sicurezza.
«Quindi piangi per questo. Senti già la nostalgia. Perché credi che non tornerai? Non vuoi?» domandò ancora lei.
Giordano scosse di nuovo la testa. «No, questo no. Si vuole sempre tornare a casa.» sospirò. «Non ne sono sicuro, ma sento che la mia bella Roma la rivedrò solo tra molto tempo e quando succederà non sarà comunque più la mia Roma ma sarà diventata qualcos’altro.»
La ragazza inclinò la testa, curiosa ma impassibile come un animale notturno. «La città sarà cambiata?»
Con un ultimo sospiro Giordano si impose di non voltarsi, di non guardare indietro: terrà per sempre nel cuore quell’ultima visione, quell’ultimo sguardo, quell’ultimo ricordo.
 
Bloccata per sempre nel tempo. Sarai sempre così per me, Roma.
Casa.

 
«Ho paura che la prossima volta sarò io ad esser completamente diverso.»
 




Era il 1926. Giordano non sarebbe tornato a Roma sino al 1945.
Roma non sarebbe più stata quella città che lui conosceva.
Giordano non sarebbe mai più stato quello che Roma aveva visto nascere.
Quando nel suo viaggio per tornare sull’Olimpo, da sua madre, Persefone si era fermata nella città eterna, attratta dall’aura di quel ragazzino, assieme al risveglio della natura aveva assistito anche alla fine di una vita.






 
*





La conca naturale che si era formata sotto l’alta collina nera avrebbe potuto ospitare un lago. Quando un fiume di anime si era riunito nella vallata, accalcandosi attorno ad un rialzo rotondo, come una gigantesca roccia cilindrica spuntata fuori dal terreno, l’erba nera era scomparsa per lasciare posto al pallore della morte.
Eliza si guardò attorno circospetta: l’ultima volta che erano stati tutti ammassati in quel modo si erano ritrovati chiusi dentro ad un recinto con migliaia di mastini neri e fiammeggianti in carica verso di loro. Se fosse successo qualcosa di simile lì li avrebbero sbaragliati tutti, nessuno avrebbe avuto la possibilità di fuggire, di arrampicarsi abbastanza velocemente lungo il pendio e disperdersi per le Praterie.
Erano in trappola molto più di quanto non lo fossero stati nell’Area Cani.
 
Sarebbe di certo più tremendo, sarebbe come il Labirinto.
 
In più era la prima volta che una prova si svolgeva nelle Praterie “libere”. Non c’erano recinsioni, mura d’edera, non c’era nulla che potesse impedir loro di spaziare in lungo e largo tra i prati neri. Non c’era nulla che impedisse agli Asfodeli di far il loro lavoro.
 
Stiamo dimenticando qualcosa…
 
Pensò Eliza voltandosi verso i suoi compagni.
Si erano tutti riavvicinati per quella discesa verso il palco, compattati come una squadra.
Lea e Nathan non avevano smesso un attimo di litigare, senza posa. Úranus sembrava a disagio, forse Jane gli aveva detto qualcosa che lo aveva toccato un po’ troppo. La ragazza invece era forse la più calma di tutti.
In quel momento se ne stava a braccia incrociate a guardar male Cade che faceva battute stupide sui due biondi litiganti, accennando di quanto in quanto qualche ghigno seguito da commenti poco lusinghieri, o almeno Eliza lo presupponeva dalle risa sguaiate che si lasciava sfuggire il rosso, la ressa delle anime tutte lì riunite alzava un discreto vociare che le rendeva difficile sentire i discorsi degli altri.
Spostò lo sguardo sull’ultimo membro della loro squadra bislacca: Jonas se ne stava qualche passo indietro Cade e lo colpiva a suon di pugni ogni volta che, presumibilmente, il ragazzo se ne uscisse con qualcosa di più stupido del solito. O Jane con qualcosa di più cattivo a giudicare dalle occhiate che lanciava anche a lei. Ma non era ancora entrato così in confidenza con la figlia di Ecate da permettersi di riprenderla, un po’ come con tutti gli altri. Forse, alla fine, solo Cade e un poco Nathan venivano trattati con naturalità.
Si era domandata più di una volta cosa fosse successo tra loro due, se quel “stavi litigando con il ragazzino” detto da Lea fosse la realtà, un’esagerazione o solo un modo come un altro per dire che stavano discutendo. Di cosa però? Jonas non gli sembrava un tipo animoso, poteva credere che, una volta a propri o agio, fosse molto più emotivo, passionale, come dopotutto lo erano un po’ tutti gli adolescenti, ma non ce lo vedeva ad iniziare liti furiose, specie con uno come Nathan.
Come tutti i ragazzini doveva esser stato istruito al rispetto verso le persone più grandi, non c’era da stupirsi che fosse rigido con tutti loro, che misurasse le parole e le pesasse dieci volte prima di dirle, che si mordesse la lingua per non farlo… e sapere che Nathan poteva avergli detto qualcosa che l’aveva alterato sino a portarlo ad ignorare gli insegnamenti della sua famiglia – per una come lei, cresciuta con un uomo d’esercito – era alquanto preoccupante. Perché Eliza contava su Nathan, contava sulla sua serietà e sulla sua capacità di guidare un gruppo in modo giusto, logico, strategico. Non potevano permettersi di far saltare i nervi ad un membro della squadra, neanche se questo si fosse scoperto esser l’anello debole.
Un anello debole che perdeva ogni suo freno semplicemente parlando con quella testa rossa di Cade.
L’irlandese continuava a ridere e scherzare ma Elizabeth poteva veder perfettamente quanto fosse teso. Non era un buon segno quello.
Era inutile negarlo, aveva paura che potesse risuccedergli quello che gli era successo durante il viaggio per raggiungere la Casa di Ade, temeva che le Praterie degli Asfodeli lo indebolissero, lo mettessero al tappeto. E per quanto quella fosse una competizione che solo uno di loro avrebbe potuto vincere Eliza non voleva che uno dei suoi compagni cadesse durante le prime battute.
 
Ne ho già persi tantissimi, non voglio perderne un altro. Non ne perderò un altro.
 
Quelli che avrebbero potuto aver più problemi con quella situazione erano quindi Cade, che già pareva aver qualcosa per la testa – o non aver più qualcosa, come ricordi scomparsi –, Jane, che era riuscita a ricordare la sua vita malgrado fosse stata nelle Praterie dalla sua morte, e Jonas che-
 
Stava benissimo?
 
Com’era possibile? Il ragazzino usciva direttamente dai Cancelli Neri e non aveva neanche il minimo segno d’affaticamento, di smarrimento?
Quegli occhi verde cupo, così scuro e profondo dà sembra nero in quel momento, scrutarono con attenzione Jonas: forse tra i Mastini Infernali era lui l’anello debole, ma in quella gara chi minacciava di crollare sotto il peso dell’amnesia era solo e soltanto Cade.
 
«Jonas?» chiamò a voce alta per farsi sentire.
Il ragazzo si volse a guardarla con aria interrogativa, quando gli fece cenno d’avvicinarsi lo vide tentennare un attimo, lanciare uno sguardo di sottecchi a Cade e poi fare quei pochi passi che l’avrebbero portato a fronteggiarla.
«Sì?» domandò guardingo.
«Ho un favore da chiederti, un compito d’affidarti a dirla tutta.» disse lei seria. Aveva preso la sua decisione ed era convinta che fosse la migliore. Forse dopo ne avrebbe parlato anche con Lea.
«Se posso.» mormorò inizialmente, poi parve riscuotersi da quell’improvvisa timidezza che l’aveva preso non appena aveva abbandonato il fianco dell’amico. «Certo. Dimmi cosa posso fare.» ripeté più risoluto, la voce più alta e limpida.
Eliza sorrise. Voleva dimostrarle che fosse forte abbastanza per far tutto? Bene, preferiva di gran lunga questo Jonas a quello remissivo e silenzioso.
«Hai notato che Cade è teso?» gli domandò comunque prima.
Lui annuì. «Sì, mentre stavamo venendo qui ha mi ha fatto prendere un colpo. Si è fermato, mi ha spostato davanti a sé e poi si è girato a guardare la strada da cui venivamo. Diceva di sentire delle voci, che le Praterie-»
«Hanno un effetto più forte su di lui, sì.» annuì lei.
Jonas la guardò con attenzione. «Era già successo vero? Dice che è colpa di quello che ha fatto in vita, pensi che sia davvero così?» le chiese crucciato.
Eliza scosse la testa. «Non posso dirtelo con certezza purtroppo, però sì. Pare che le Praterie siano estremamente dannose per lui e con tutta probabilità è colpa delle sue azioni passate.»
«Ma era nei Campi Elisi.»  insistette.
Lo disse come se lo stesse ripetendo per l’ennesima volta ed Eliza si rese conto che Cade doveva avergli detto qualcosa in più e che quel qualcosa l’aveva portato ad aver bisogno di ricordarsi, di ripetersi, che Cade era uno dei buoni.
Non sapeva se voleva sapere o meno cosa fosse.
«Lo è, ma ricordati che anche i santi sbagliano. In ogni caso bisogna tenerlo d’occhio. Voi due state spesso assieme, vicini intendo, il che è meraviglioso perché così lo tieni distante da Nathan.»
Jonas abbozzò un sorriso. «Ti hanno dato tanti problemi?» provò.
Eliza grugnì. «Non abbiamo abbastanza tempo per parlarne.» minimizzò facendo un cenno secco della mano. «Ma rimanigli vicino. Stai attendo a come si comporta e se la sua espressione ti sembra vacua…»
«Cercherò di aiutarlo come posso finché non arriverete voi. Possiamo presumere che Lea sarebbe in grado di curarlo?» domandò incerto.
Lei annuì. «Penso proprio di sì.»
Annuì anche Jonas. «Va bene, conta pure su di me. Anzi, non preoccuparti per lui, me ne occupo io.» il suo tono deciso fece sorridere l’americana che si allungò per dargli una pacca sulla spalla.
«Mi fido.»
 
«Dite che ce la fate a star zitti due secondi?» chiese candidamente Jane sporgendosi tra Lea e Nathan.
Il soldato si tirò indietro di scatto, sorpreso, Lea si lasciò sfuggire un gridolino completamente colta di sorpresa.
«Per l’amor di Dio! Non spuntare così dal nulla, mi farai prendere un infarto!» si lamentò la figlia di Apollo.
Jane la guardò impassibile. «E allora? Tanto sei già morta.» le fece notare.
Nathan la guardò parlando a denti stretti. «È davvero amabile il modo in cui ce lo ricordi in continuazione.» soffiò ironico.
La ragazza si strinse nelle spalle. «Sembrate dimenticarvelo di continuo.»
A vedere il biondo pronto a replicare e dar, con tutta probabilità, il via ad un’altra accesa discussione, Úranus fece anche lui un passo avanti ed allungò il collo verso il palco, cercando d’attirare l’attenzione degli altri.


«Mi pare di scorgere del movimento, sopra la grande roccia.» disse alzando appena la mano per indicarla.
Cade gli si affiancò poggiandogli un braccio sulla spalla, non senza qualche difficoltà. Poi s’arrese, guardò Jane per controllare se potesse poggiarlo addosso a lei – evitò – scartò Lea che era più lontana, Nathan a priori, e sorrise soddisfatto quando Jonas ed Eliza si avvicinarono a loro e poté piazzare il gomito sulla testa del ragazzino.
«Lo credi d’avvero o l’hai detto solo per distrarre i bambini dalla loro lite?» chiese con tranquillità.
«Ehi! Toglimi questo dannato braccio dalla testa!» protestò lui dimenandosi.
«Sta zitto gamberetto, fatti sfruttare come appoggio o ti abbraccio.»
«Se fossi in te glielo spezzerei il braccio.» lo informò Nathan monocorde. «Vuoi che ti faccia vedere come si fa?» chiese poi con un ghigno sadico a tirargli le labbra.
«Nessuno spezzerà braccia a nessuno. Nathan non dare strane idee a Jonas, tu non lo ascoltare e Cade, togli il braccio da lì, gli dà fastidio.» ordinò severa Eliza.
Il rosso alzò gli occhi al cielo. «Scusa mamma.»
«Che cazzo sei, mia madre?» grugnì Nathan.
«Non mi faccio influenzare così dagli altri!» si voltò indignato Jonas.
Lea, davanti alla soldatessa, la guardò alzando un sopracciglio.
«E nessuno di loro ha tracce di percosse addosso… come fai a trattenerti?» domandò sinceramene colpita.
«Riempie di scappellotti i due più grandi e ammonisce il ragazzino con lo sguardo da mamma.» disse spiccia Jane.
Úranus espirò sconfortato: com’era possibile che ogni cosa che dicesse quella ragazza diventava possibile capo fertile per altre dispute?
Tutti i presenti erano già pronti a replicare animosi, quando il suono secco di una materializzazione si propagò dalla roccia scivolando in tutta la valle.
Chiudendo gli occhi il giovane semidio rivolse una preghiera al padre. Era sicurissimo che fosse stato lui a spingere l’altro dio ad apparire proprio in quel momento.
«Lasciate stare, è arrivato.» tagliò corto Lea.
Nessuno ebbe nulla da replicare.
 
Sulla superficie grigia ed irregolare esplose un suono deciso, come un ramo rotto di netto. La leggera nebbiolina che seguiva l’apparizione di ogni divinità era azzurrognola, a contatto con la roccia pareva diventar quasi verde.
Tra le ombre pallide di quella foschia divina prese forma la figura di un uomo di circa trent’anni, dal fisico slanciato, atletico, come quello di un corridore.
I capelli neri contornavano il volto dal sorriso scaltro e gli occhi attenti, vividi e fissi come quelli dei rettili. La sua espressione pacata e rilassata non prometteva nulla di buono.


 
 
Giordano si lasciò cadere con tranquillità sulla sedia di pelle, poggiando i gomiti sul tavolino e il mento sulle mani intrecciate. Davanti a lui una sfera d’acqua volteggiava in aria, enormi gocce cercavano di raggiungere il piano ligneo, riprese dalla forza sovrannaturale che brillava accecante sulla superficie lucida. In quel fascio luminoso s’apriva un arcobaleno di riflessi, che contorcendosi su sé stessi si mescolavano per formare le immagini davanti a lui.
Osservò con interesse Ermes avanzare verso il bordo della roccia ed un sorriso sinistro si aprì sul suo volto: ricordava come quel pezzo di pietra era arrivato nelle Praterie, ricordava il maglio da cui era stato staccato – da cui lui l’aveva staccato – e si domandò se Ade non l’avesse fatto apposta, se quella non fosse la sua dichiarazione di fedeltà.
 
La quarta prova, quella del dio dei viandanti, dei ladri e dei truffatori, del messaggero divino, si svolgerà nel luogo in cui lasciasti cadere ciò che rimaneva dell’arma di uno dei tuoi avversari.
Ermes. Il maglio del gigante.

 
Le labbra si tirarono mostrando i denti dritti ed affilati.
Oh, vecchio mio, sei sempre stato così bravo a mandare i tuoi messaggi.
Si accomodò meglio e fissò gli occhi dritti nella sfera. Non vedeva l’ora di godersi lo spettacolo.



 
 
Il Messaggero Divino, così l’avevano sempre chiamato, così i mortali lo immaginavano. Vestito di un semplice gonnellino bianco, con i suoi bei calzari alati ed un copricapo con due candide ali. Impugnando il suo caduceo volava da un lato all’altro dell’Olimpo e della Terra per portare la parola del suo Re in ogni dove.
Ermes sorrise al suo stesso pensiero, probabilmente non potevano immaginarlo in modo più sbagliato, ma dopotutto ai mortali piacevano queste immagini antiche e mistiche, chi era lui per distruggere i loro sogni?
Fermandosi sul bordo della roccia Ermes attese con pazienza che la voce di Eolo si estinguesse dopo aver ricordato per l’ennesima volta delle votazioni e del post-show in cui gli Dei avrebbero potuto discutere con tranquillità dei vincitori e dei caduti. Tutte quelle cose non gli interessavano minimamente. Per la verità Ermes si era proposto come ideatore della quarta prova senza neanche aver realmente capito in cosa sarebbe consistito il grande piano di Giordano Delle Vie. Gli dispiaceva ammetterlo, ma quando il piccolo Gio – il vecchio Gio ormai – era entrato nella Sala dei Troni con quella sua faccia da schiaffi e la camminata rilassata, con le mani sprofondate nei pantaloni e le labbra che ancora fumavano, lui era intento a controllare il suo palmare, cercando di ignorare i suoi amabili fratellini che già litigavano sul nulla.
Aveva capito a grandi linee che il problema era che gli altri si stavano annoiando e avrebbe tanto voluto dir loro che potevano andare a lavorare per lui, o magari provare a rendersi utili nell’Ade, ma aveva desistito per il semplice fatto che poi, i guai, li avrebbero creati lui e Ade stesso prendendo a calci in culo tutti.
Ermes sospirò. L’aveva fregato quella storia del “non morirà nessuno dei nostri figli, non morirà nessun innocente”, quello, solo quello. Ma forse staccare un po’ la spina gli avrebbe fatto bene.
Quando la voce di Eolo scomparve annunciandolo come una star del cinema Ermes mise su il suo miglior sorriso ed allargò le braccia verso la sua morta platea.
Per il Tartaro, quanti erano? Erano davvero morte tutte quelle persone sulla Terra? C’era davvero stata così tanta vita ed ora così tanta morte?
Era terribile non percepire il passare del tempo, non capire l’importanza di un minuto, di un attimo. Lui era immortale, non provava queste cose, non temeva lo scorrere della sabbia nella clessidra, ma gli umani… scrutò con attenzione la folla e con cinica precisione individuò tutte quelle anime troppo deboli per superare la sua prova, tutte coloro che non ce l’avrebbero fatta, tutte quella a cui la vittoria sarebbe stata strappata da mostri avidi e crudeli o da poveri e sbadati innocenti.
C’era questo spiacevole risvolto della medaglia, il caso in cui i “cattivi” non lo fossero davvero ma fossero invece persone normali che avevano semplicemente fatto la scelta sbagliata senza rendersene conto. Quante di quelle anime lì presenti avrebbero infranto le sue preziose sfere nel vano tentativo di prenderle? Quanti di loro sarebbero stati fautori del loro stesso male? Quanti invece si sarebbero accaniti su tutto ciò che li circondava per il solo gusto di distruggere?
Ermes continuò a guardare quelle anime, mentre le figure si spegnevano ad una ad una per lasciare davanti ai suoi occhi solo i corpi inesistenti dei semidei.
Erano così pochi in confronto a tutti gli umani, ma al contempo erano così tanti.
 
Tutti i nostri figli morti dall’alba dei tempi ad ora.
 
E non erano neanche tutti, bastava pensare a tutti quelli che erano rimasti nelle Isole dei Beati o a quelli che non erano usciti dai Campi Elisi.
 
Quelli che si sono persi nelle Praterie fino a dimenticare chi fossero, fino a morirci dentro.
 
Le figure iniziarono a brillare, ognuna di un colore diverso, come quando non erano altro che puntini luminosi nel labirinto, prendendo il colore dello stendardo dei loro genitori divini.
Aggrottò le sopracciglia, quando si rese conto che tutti, tutti quanti, erano riuniti in piccoli gruppi, più o meno numerosi, ma tutti assieme.
Ermes batté le palpebre: com’era possibile una cosa del genere?
 
Che diamine sta succedendo qui?
 
Si schiarì la voce, improvvisamente turbato da quella realizzazione.
Era il solo ad essersene accorto? Gli altri avevano già notato quelle strane formazioni? Ade sapeva qualcosa?
 
«Benvenuti alla mia prova.» esordì mantenendo con più difficoltà la sua espressione rilassata. «Per chi non mi conoscesse, anche se Eolo mi ha già annunciato, io sono Ermes, dio dei viaggi, dei, viaggiatori, patrono dei viandanti, dei ladri e messaggero divino.» unì le mani in uno schiocco secco e anche se non le vide apparire poté percepire le sue sfere disporsi sul terreno, tra gli steli neri.
«Le prove che avete affrontato fin ora vi vedevano confinati all’interno di un’arena di gioco, dal Labirinto di Persefone all’Area Cani di Artemide. Le nostre dee amano aver tutto sotto controllò,» scherzò su facendo l’occhiolino alla folla, «io invece voglio darvi la possibilità d’esser liberi.» disse poi più seriamente.
«Durante la prova del labirinto siete stati privati di qualcosa di davvero importante per voi.»
 
«Le armi? Porca puttana, ditemi che sono le cazzo di armi.» mormorò Nathan alzandosi sulle punte per individuare, in lontananza, possibili scintilli e oggetti spersi.
Úranus scosse la testa. «Mi duole dirvelo, ma temo che non vi sarà alcuna possibilità di recuperare le nostre armi. Erano sparse per il Labirinto d’edera, era quella la nostra unica via.»
Lea abbassò lo sguardo triste, Eliza, di fianco a lei, imprecò a labbra serrate.
«Spero vivamente di no.»



«Ma con tutta probabilità in pochi se ne sono accorti.»

 

«Decisamente non le armi, cazzo.»

 
 
Ermes indicò gli sconfinati campi neri alle sue spalle.
«Quando siete entrati nel Labirinto di Persefone le sue piante d’edera vi hanno sottratto un ricordo, un ricordo molto importante o forse del tutto futile, qualcosa di piccolo o enorme. Qualcosa che, ora che ne siete a conoscenza, percepite mancare dentro di voi.
Il ricordo è strettamente legato alla vostra morte: potrebbe essere la sua motivazione, ciò che vi ha spinto a fare quel passo di troppo che vi ha portati qui, o un segno che vi avrebbe potuti salvare. Di qualunque cosa si tratti, ora si trova nelle Praterie degli Asfodeli ed aspetta solo voi.» guardò le anime davanti a lui, una massa grigia in cui spiccavano solo le figure luminescenti dei semidei.
I loro ricordi erano i più resistenti, ma sapeva perfettamente che anche quelli erano facili da infrangere.
 
Come i sogni.
 
«Li troverete sotto forma di sfere. Entro ogni globo troverete un suono, una voce, un profumo, un’immagine che vi ricorderà ciò che avete perduto. Trovate il vostro ricordo e avrete passato la mia prova. Perdetelo, o perdetevi voi stessi nelle Praterie, e non lo riavrete mai più, condannati ad essere incompleti fino alla fine dei tempi. La libertà ha un prezzo dopotutto.» sorrise. «Ci sono infinite vie da percorrere, strade, sentieri visibili o meno. Ci sono correnti che vi trascineranno a fondo e altre che vi spingeranno via e forse vi interesserà sapere che sono rinomato per esser bravo a rubare e nascondere le cose.» il sorriso divenne un ghigno. «Mio fratello Apollo potrebbe confermarvelo.»
 

 
«Perché dice così?» domandò Eliza cercando lo sguardo di Nathan.
Il soldato imprecò. «Porca di quella puttana.»
«“Perché dice così?”, è davvero questo che ti interessa di più? Non il fatto che ci abbia appena detto di averci rubato dei ricordi?» ringhiò Jane, il volto contratto in una smorfia arcigna.
Aveva passato tutto quel tempo a lottare contro le Praterie e ora arrivava quell’altro e le diceva che uno dei preziosi ricordi per cui aveva speso ogni grammo d’energia per custodirlo in sé le era stato brutalmente rubato dall’edera.
Il ricordo di quei rami che le si stringevano addosso, che se si insinuavano sotto i vestiti, stretti attorno al collo, a tapparle la bocca, a serrarle gli occhi, la fece rabbrividire, portandola a stringersi le braccia al petto. Non voleva riviverlo, quello di ricordo se lo potevano anche tenere.
«Se non sbaglio Ermes rubò la mandria di Apollo, o qualcosa del genere.» mormorò Jonas.
Úranus annuì. «Badar a quelle bestie era la punizione del divino Apollo.»
«Zeus l’aveva mandato sulla terra a scontar la sua pena ed Ermes rubò alcuni capi di bestiame ed utilizzò le loro interiora per creare una cedra. La regalò a mio padre per mitigarne la furia.» continuò Lea.
«Magnifico, ma questa storia non ha minimamente mitigato la mia.» rispose Cade.
Nathan storse il naso. «Per una volta sono d’accordo con te, roscio malpelo.»
 

 
«Prima di cominciare, permettetemi di darvi alcuni piccoli consigli.
Per prima cosa, a differenza della prova precedente, un’anima può prendere più di un ricordo, anche se ha già preso il suo.»
 


«Porco cazzo di nuovo.»
«Non prenderla solo come una cosa negativa, questo significa che se uno di noi trova i ricordi degli altri può prenderli e portarglieli.» disse Eliza.



«Questo vuol dire che un’anima può anche trovare il proprio ricordo, rubare un po’ di quelli degli altri e dirigersi alla prossima prova.»
Un mormorio scioccato si alzò subito dalla folla ed Ermes non riuscì a non ghignare di nuovo.
Oh, sì, quella situazione era terribile, l’idea che qualcuno avrebbe potuto portarti via la possibilità di vincere era devastante, ma quello era pur sempre uno scontro per tonare in vita, non si giocava, non si vinceva solo una coppa, una corona d’alloro e i complimenti più sentiti dal padre degli Dei, le anime dovevano iniziare a giocare d’astuzia. L’avrebbero fatto con lui.
«Allo stesso modo, scoprirete che le sfere che racchiudono i vostri ricordi non sono poi così resistenti, anche perché se no come fareste a riappropriarvi di ciò che contengono?» scosse la testa e si strinse nelle spalle. «Fate attenzione quindi, rischiate di romperle prima del dovuto.»

 
«Che figlio di puttana.» masticò a mezza bocca Cade.
Nathan grugnì. «Stai zitto, o sarò costretto a darti ragione di nuovo.»
«Sapete questo cosa significa?» domandò Lea seria.
«Che qualcuno potrebbe distruggere per errore la nostra sfera e privarci per sempre della possibilità di tornare in vita.» disse Jonas.
«O che qualcuno potrebbe farlo di proposito.» gli fece eco cupa Jane.
 

«Trovate le sfere, siate veloci, mettete le ali ai piedi e preparatevi a combattere contro le Praterie. Quando avrete la vostra, quando riavrete il vostro ricordo, ve ne verrà dato anche uno extra che vi condurrà al via per la prossima prova.
Un solo monito, mi sento di darvi: i veri ladri sanno come rubare ciò che vogliono senza farsi sopraffare dal contesto in cui si trovano. Cercate anche voi di non farvi sopraffare da ciò che vi circonda, o da ciò che sarete costretti a ricordare.» il suo volto serio fece venire i brividi a più di un’anima ed Ermes osservò quello strano fenomeno con interesse.
 
Rabbrividiscono.
 
Il suo sguardo divino individuò, tra le figure colorate, alcune ferite più o meno gravi.
 
Si feriscono, soffrono, provano dolore.
 
Sanguinano anche se è per questo.
 
Il dio alzò a mala pena lo sguardo, superando la folla.
Sulla cima della collina, chiuso nel suo pesante giaccone nero, l’alta figura di un uomo lo fissava impassibile. Di fianco a lui, in piedi, poggiati gli uni agli altri, accovacciati a terra a scrutare le anime ammassate attorno alla pietra circolare, decine e decine di persone provenienti da tutto il mondo, anche da luoghi ormai inesistenti. Da ogni tempo, da ogni epoca, da ogni era.
 
Ma tutti, tutti semidei.
 
Sul volto dell’uomo si aprì un sorriso sinistro ed Ermes non poté far a meno di deglutire.
 
È la tua armata? Perché loro? Chi sono quei ragazzi?
 
Non gli servì molto per rendersi conto di non riuscir a distinguere i loro volti, a captare l’eco del loro sangue divino.
Li stava proteggendo lui, facendo in modo che il dio non riuscisse a capire di chi fossero figli. Probabilmente ce ne erano anche di suoi.
 
La partita è aperta.
 
Cosa vuoi?
 
 
L’uomo gli fece cenno con il capo, poi si voltò. Le anime riunite vicino a lui scomparvero come uno stormo in picchiata, veloci ed individuabili.
Ermes deglutì di nuovo.
In che guaio si erano andati ad infilare?
 
«Che Nike sia con voi, trovate i vostri ricordi e sarete un passo più vicini alla vita, perdeteli e rimarrete per sempre qui, vittime delle Praterie e della loro Foschia.»
 
Non disse null’altro, fece un passo nel vuoto e scomparve prima di toccar la folla attonita.


 
Ade non batté ciglio quando se lo trovò davanti.
Un’altra persona pronta a fargli domande a cui non sapeva – o non voleva – dar risposta.
 



 
*
 



Le anime erano rimaste immobili per un lungo momento. Ermes era scomparso ma nessuno aveva dato loro il via, come nelle precedenti gare.
Una strana agitazione percorreva le fila scomposte di quella fiumana inquieta, che ripensava alle parole del dio con ansia e preoccupazione: Ermes era stato fin troppo chiaro, bisognava riappropriarsi del proprio ricordo per poter passare alla fase successiva ma chiunque poteva prendere qualunque sfera.
 
Il dio dei ladri che incita a rubare ciò che c’è di più prezioso per un’anima: i suoi ricordi.
 
Quando il suono assordante di una sirena antiaerea si propagò per la vallata prese tutti di sorpresa.
Le anime iniziarono a muoversi, a spintonarsi le une con le altre, terrorizzare alla prospettiva d’arrivar troppo tardi, di vedere le loro memorie in frantumi, di non trovarle per niente.
La terra dell’Ade tremò una seconda volta ma, invece della carica dei Mastini Infernali, furono i passi affrettati di tutti i morti del mondo, meno qualche milione, che già si disperavano per un fato inevitabile.
Ancora una volta, non rimaneva che correre.
 
 


 
*
 




Davanti a loro si aprivano campi e campi di erba nera, fitta e compatta, una distesa oscura che rifletteva sugli steli fini la luce pallida e debole di miliardi di globi luminescenti.
Era uno spettacolo incredibile.
Nell’Ade la luce non era una cosa così scontata. Per tutti i luoghi dell’Inferno si spandeva un’aria quasi surrealista, dove il cielo era buio di una notte eterna ma attorno a sé si poteva osservare un paesaggio nitido di crepuscolo.
Le Praterie degli Asfodeli, infinite colline di nera vegetazione, si muovevano ad onde come le alghe nel mare più profondo. C’era un vento perenne, fantasma, inesistente e pesante che carezzava ogni angolo di quell’oscuro regno, il respiro di una bestia quieta che dormiva nelle viscere della Terra. L’erba che muoveva sembrava un cielo stellato puntinato di piccoli lumi. Se solo tutti quei globi luminosi non fossero stati ricordi di morte avrebbe potuto definire la scena quasi poetica.
Lasciò che i suoi occhi vagassero su quel mare nero: non aveva alcuna importanza cosa racchiudessero le sfere, quell’immagine era poetica e basta.
Il giovane ragazzo strinse i pugni e li rilassò, sotto di lui poteva vedere le anime affannarsi alla ricerca di qualcosa di familiare, o ferme, spaesate, impotenti. Ma soprattutto poteva già sentire i primi inquietanti suoni di vetri in frantumi.
La gara era partita da pochi minuti e quel quadro contraddittorio stava già per esser devastato dalla furia di esseri ormai passati, a dopotutto non lo stupiva che anche nella morte gli umani fossero in grado di portare così tanta distruzione.
Osservò una sfera posta qualche metro più avanti, storcendo il naso quando un uomo, spinto da altri, era caduto proprio su quella. La sfera era andata in mille pezzi come un vetro troppo riscaldato, anche dalla sua posizione aveva sentito perfettamente il rumore dei cocci distrutti e con esso il terrore scivolargli sulla pelle ed attanagliargli le viscere quando il leggero vociare di parsone si era disperso assieme alla luce.
Dei… e se qualcuno avesse calpestato la sua?
 
«Hai paura?» domandò una voce morbida e bassa, alle sue spalle.
Il ragazzo si girò, strofinando le mani sui jeans strappati, e cercò di sorridere al giovane che si ritrovò davanti.
«Temo di non trovare ciò che mi è stato ordinato.» disse inizialmente, poi ci ripensò. «E mi preoccupa anche discretamente che qualcuno possa distruggere la mia sfera.» ammise senza timore.
L’altro annuì, si scostò una ciocca di cappelli chiari dalla fronte ed il bracciale argentato che gli cingeva il polso sembrò quasi catturare i flebili bagliori delle sfere-ricordo.
«È uno spettacolo bellissimo, mi ha riportato alla mente la vista del mare alla notte, quando il cielo si rispecchiava sulle acque trasparenti.» mormorò piano, il suo bel volto che improvvisamente si piegava in una smorfia di disgusto nel vedere tutte quelle anime ammassarsi come bestie.
«Sono sicuro che il tuo ricordo, così come quello di ognuno di noi, è già al sicuro. Il nostro Signore è capace e consapevole delle sue azioni. Non credi?» gli sorrise ammaliante.
Il ragazzo deglutì a quella vista, perdendosi ad ammirare quella figura così affascinante, così elegante e in qualche modo persino luminosa. Poi scosse la testa: dimenticava come i suoi fratelli, specialmente quelli provenienti dalle epoche più antiche, fossero in grado di sprigionare il potere di loro padre senza troppi sforzi.
«Hai ragione, scusami, mi sono fatto prendere dal dubbio.» gli sorrise di rimano, si sgranchì le mani e fece un cenno verso la marea nera. «Vado a buttarmi nella mischia, vuoi che trovi anche le tue? Non mi pari uno a cui piace stare in mezzo alla gente.»
Il giovane biondo gli restituì un ghigno che, se fossero stati nemici, l’avrebbe fatto tremare.
«Sono felice che tu mi abbia subito compreso, fratello. Ti sarei grato se potessi occuparti anche dei globi che mi sono stati assegnati. Sembra che tu abbia molta smania di metterti all’opera.» notò alzando un sopracciglio.
L’altro annuì. «Sono stato fermo senza poter far nulla per anni, la mia iperattività però non è morta con me.»
«Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando, ma sarò lieto di lasciarti anche il mio lavoro. Non sono mai stato propenso a far queste cose da me, avevo stuoli di spasimanti pronti a realizzare ogni mio più minimo desiderio.» gli spiegò affabile.
«Lo so, conosco la tua storia, l’ho studiata.» si piegò sulle ginocchia e raccolse la lunga lancia che aveva depositato a terra. La fece roteare un paio di volte, come a riconoscerla, e sorrise. «Sappi che è un onore poter parlare e lavorare con una leggenda come te. Hai dato il nome ad una costellazione.» gli disse ammirato.
Il giovane annuì, un poco più rigidamente. «Lieto che il mio nome sia ancora conosciuto.»
«Sei sui libri di storia. E poi, soprattutto per quelli come noi, è impossibile non conoscere il nome di Cicno il Crudele. L’hai fatta vedere nera a papà, l’hai maledetto per bene.»
Non vi era rancore nelle sue parole, non vi era biasimo o accusa, era solo una semplice costatazione dei fatti e Cicno si ritrovò a ghignare.
 
Oh, padre, ma allora fate ancora lo stesso errore. Continuante ancora a metter al mondo figli e a disinteressarvi di loro fino al momento del bisogno. Quale meschino vizio.
 
«Giurerei che non sia comunque quanto gli avevo augurato.» sentenziò alzando il mento.
«Probabile. Allora io vado, ti ritrovo qui quando ho finito?» gli chiese voltandosi appena per guardarlo.
Cicno annuì. «Certamente…» lasciò la frase in sospeso e lo fissò.
L’altro sorrise. «Michael.»
«Michael… certamente Michael. Nel frattempo, riporterò in vita una delle mie più antiche ed amate tradizioni: osserverò la plebe che si uccide con le proprie mani, uno spettacolo sempre avvincente. Non potrei perdermelo per nulla al mondo.» e così dicendo s’accomodò sull’erba nera, puntando gli occhi freddi sulle anime in tumulto.
Michael ghignò. «La parte oscura del Sole, eh?»
Stretta in mano la sua lancia saltò giù dalla collina: ora veniva il bello.
 



 
*







 
Cade aveva perfettamente sentito Eliza quando gli aveva detto di non allontanarsi da solo ed in effetti non l’aveva fatto. Dietro di lui, che lo seguiva agitato, Jonas pareva camminare sui cocci rotti di una vetrata d’arte. In effetti quell’immagine non era troppo diversa dalla verità.
Come avevano ipotizzato in molti, la prima carica delle anime aveva distrutto molte sfere ma Cade doveva ammettere che erano molte meno di quelle che si aspettava.
Alzando la testa verso l’alto cercò di scrutare le infinite praterie in cui erano dispersi i vari globi e sospirò pesantemente allungano una mano per afferrare la manica della camicia di Jonas.
 
«Stammi vicino.» disse quasi in modo distratto, continuando a contare le sfere che riusciva a distinguere tra i fili d’erba. Sembravano gigantesche gocce di rugiada viste così.
Jonas grugnì liberandosi dalla sua presa. «Sono qui, non mi strattonare.»
Ma l’altro neanche lo stava ascoltando. «Faccio un salto per vedere meglio la situazione, vieni con me o rimani a terra?»
A quella domanda il ragazzino si voltò di scatto a guardarlo, le sopracciglia crucciate e lo sguardo allarmato.
«Che vuol dire “rimani a terra”?» chiese sporgendosi verso di lui.
Di nuovo Cade non prestò la minima attenzione alle sue parole, captandole solo come un suono di fondo. S’allungò per stringere un braccio attorno alla vita di Jonas, tirandoselo contro come farebbe un adulto con un bambino. Non ascoltò le sue proteste, convinto che anche se per poco tempo era meglio non lasciarlo lì in basso da solo.
Se lo sistemò meglio addosso, portandosi le sue braccia attorno al collo e dicendogli a mala pena di star zitto e fermo. Ristrinse le braccia attorno ai suoi fianchi, si piegò sulle ginocchia e saltò.
 
«Cade! Che cazzo stai facendo? Ma che vuoi? Togliti di mezzo, non mi stringere così! Cade! Si può sapere che accidenti ti è-WOOO!»
Con un riflesso del tutto incondizionato Jonas serrò la presa attorno al collo di Cade, si strinse a lui e nascose il volto contro il suo collo, serrando gli occhi per contrastare la strana sensazione di vuoto e la paura che l’avevano preso nel momento in cui aveva sentito i propri piedi staccarsi da terra.
«CADE!» urlò, la voce attutita dalla stoffa ruvida e spessa della giacca del rosso.
«Apri gli occhi, uccellino, non è il tuo primo volo questo.» gli disse con semplicità.
Seppur contro voglia Jonas aprì piano gli occhi, senza azzardarsi a muoversi troppo dalla sua posizione. Non si era avvinghiato al compagno come un koala solo perché aveva ancora una po’ di dignità dopotutto, ma non poté far a meno di rimanere stupito alla vista che gli si parò davanti.
Era davvero uno spettacolo incredibile, quel mare nero puntinato di luci e se solo non ci fossero state in mezzo tutte quelle anime agitate sarebbe stato ancora più bello.
«Come pensavo.» mormorò Cade.
Non disse nulla ma annuì piano, probabilmente il compagno stava pensando esattamente quello che pensava lui: lo spettacolo era bellissimo, i globi ben visibili sull’erba nera, ma saltava immediatamente all’occhio che per il numero di anime ancora in gara i globi presenti erano davvero, davvero pochi. Questo poteva significare una sola cosa.
«Il campo di ricerca è sconfinato.» sussurrò con un groppo in gola mentre Cade, lentamente, li faceva tornare a terra.
Sciolse piano la stretta attorno al suo corpo e annuì. «Vuol dire che i nostri ricordi potrebbero trovarsi qui come a miglia e miglia di distanza, porca puttana.» Cade calciò la terra e dai fili d’erba salirono frammenti di quello che sembrava vetro come fossero granelli di sabbia.
Jonas rimase a fissarli immobile, distante. Quelli potevano anche essere i suo di ricordi per quanto ne sapeva. Erano le sfere più vicine alla vallata e se qualcuno avrebbe potuto pensare che era una fortuna aver la propria all’inizio del tracciato, il risvolto della medaglia stava nel fatto che erano anche le sfere più vulnerabili.
«Chi potrebbe mai fare una cosa del genere?» domandò a nessuno.
Cade si voltò a guardarlo e strinse le labbra. «Dannati, Asfodeli, Beati. Chiunque può averlo fatto, volontariamente o meno.» rispose secco.
«Pensavo che i Beati fossero gente per bene.» gli fece notare spostando lo sguardo su di lui.
Cade sogghignò allargando le braccia. «Sono la prova vivente – o morta – che non è necessariamente così. Non devi essere un santo per finire negli Elisi, non devi neanche essere stato un martire, un uomo di fede, una persona buona. Per finire dei Campi bianchi devi solo aver fatto una vita che, alla fine dei conti, risulterà esser meritevole. Puoi anche redimerti in una botta sola.» disse stringendosi nelle spalle.
«Vuoi davvero farmi credere che un’anima reputata “meritevole” della pace eterna farebbe questo?» Si piegò sulle caviglie e raccolse una manciata di frammenti, mostrandoglieli e lasciando che gli scivolassero poi tra le dite.
Cade però non parve minimamente impressionato, mantenne la sua aria scanzonata e si piegò verso di lui per soffiar via un po’ di polvere rimastagli sulle mani.
«Credi che i nostri soldatini non distruggerebbero delle sfere se questo significa avvantaggiarsi nella gara? È semplice logica, strategia. Se ora ci mettessimo a distruggere ogni singolo globo che troveremo sul nostro percorso, per ognuno di loro, avremmo un avversario in meno.» inclinò la testa e gli soffiò in faccia, facendogli chiudere gli occhi e storcere il naso. «Anche i buoni fanno questi pensieri, gattino.»
Jonas sbuffò e gli diede uno spintone per allontanarlo. «Non chiamarmi così. E poi io non farei mai una cosa del genere e neanche te.» sentenziò sicuro. Si raddrizzò i vestiti e lo superò, verso il prato più aperto.
«Muoviamoci!» ordinò perentorio.
Ma Cade non si mosse. Infilò le mani nelle tasche e guardò lontano dal compagno, improvvisamente serio.
«Chi te lo dice?» domandò a voce alta.
Jonas si voltò a guardarlo, l’espressione scettica.
«Puoi continuare a dirmi che hai fatto delle scelte sbagliate in vita tua, ma mi hai appena detto che alle volte basta una singola azione per redimersi. Se sei finito nei Campi Elisi di certo ci sei riuscito meglio di me.» e con questo si allontanò, informandolo d’aver avvistato Úranus e che era meglio raggiungere lui.
L’irlandese rimase però nella stessa identica posizione, senza muovere un muscolo. Lo sguardo ora puntato a terra.
Tra i fili d’erba nera brillava fioca una piccola sfera dai colori vividi. Cade le si avvicinò, fissandola dall’alto senza la minima intenzione di toccarla.
La sfera iniziò a pulsare, dentro di lei i colori ruotarono sino a formare una scena che Cade aveva visto centinaia di altre volte, vissuta da centinaia di persone diverse.
Nell’immagine una ragazza gridava a pieni polmoni, piangendo disperata mentre qualcuno la teneva ferma. Un violento ceffone le fece girare la testa, la visuale della scena fu spinta di colpo di lato e Cade poté vedere la stanza lurida in cui era stata trascinata. Sulla porta sbarrata un ufficiale di qualche regno, la divisa impeccabile ed il volto impassibile. Lo vide muovere le labbra, dire qualcosa agli altri uomini nella stanza. Uno di questi afferrò il volto della giovane, un uomo gretto, nerboruto. Il secondo schiaffo Cade poté quasi sentirlo sulla sua stessa pelle.
I personaggi di quel ricordo non parlavano, le loro bocche erano mute, ma i suoni e le immagini erano vivide come se fossero reali.
Cade poté sentire benissimo il rumore della stoffa che veniva strappata via, i colpi delle gambe della ragazza che sbattevano contro il piano di un tavolo nel vano tentativo di liberarsi. Rumore di ferro, lo scoppiettio del fuoco e poi il suono inconfondibile della pelle che brucia.
Nella visuale annebbiata dalle lacrime Cade riuscì a scorgere il viso quasi divertito del carnefice di quella povera anima che le diceva qualcosa. Con una precisione possibile solo nei sogni il ragazzo seppe per certo che le stava intimando di rivelargli qualcosa o le avrebbe fatto molto più male di quello che provava in quel momento. Ma allo stesso modo sapeva perfettamente che quel “qualcosa” lei non lo sapeva.
Se si fosse visto da fuori Cade si sarebbe reso conto che sul suo volto era apparsa la stessa espressione impassibile che aveva il soldato in quel ricordo. Vuota.
Non disse nulla, non batté le palpebre, si costrinse a non respirare per un lungo momento.
Quelli erano gli avvenimenti che avrebbero portato alla morte della ragazza a cui il ricordo apparteneva, che attualmente non immaginava neanche le atrocità che aveva dovuto subire.
Cade alzò il piede e lo abbatté con forza sulla sfera. Il suono fu quello di una vetrina infranta. Le immagini esplosero, i fumi intrappolati nel globo s’alzarono in rivoli ora pallidi verso il cielo roccioso.
 
Mi spiace deluderti ragazzino.
 


 
*
 




Lea ed Úranus procedevano a passo spedito tra le anime intente a guardare sfere e a litigarsele.
Non avevano la più pallida idea di come fare a trovare le loro, di come riconoscerle tra tutte quante e se Lea avesse dovuto dire la verità, era terrorizzata all’idea che qualcuno distruggesse la sua.
Avevano già visto qualcuno farlo, avevano visto anime gettare con noncuranza sfere evidentemente altrui, altre ancora inciamparci sopra per sbaglio, schiacciarle nella calaca, o senza vederle tra l’erba.
La giovane si era rimboccata le maniche, pronta sul piede di guerra, quando aveva visto un uomo lanciare via un globo luminescente dopo esser rimasto a fissarlo per un lungo tempo. Fortunatamente Úranus aveva avuto la prontezza di impedirglielo.
 
«Quello che fanno è meschino ed ignobile, ma non possiamo permetterci di affrontare ogni anime che distrugge una sfera.» le aveva detto con serietà.
E Lea lo sapeva, sapeva perfettamente che non potevano farlo, ma era una vera ingiustizia e lei lo odiava profondamente.
«Vorrei solo che la gente si facesse gli affari propri. Se il ricordo non è tuo perché distruggerlo?» ringhiò cercando di cambiare strada.
Fino a quel momento erano stati fortunati, non avevano incontrato grandi scontri o problemi, nessuno si era accanito contro altre anime, pareva solo che tutti volessero trovare la propria al più presto, prima che altri la rompessero, e magari nel mentre eliminare qualche concorrente. Ma non c’erano stati spargimenti di sangue, o per lo meno, non da quel lato delle Praterie.
«Spero che gli altri se la stiano cavando bene. Penso che lasciare Cade e Jonas da soli sia stato un grave errore.» mormorò più a sé stessa che all’altro.
Úranus la guardò accigliato. «Perché dici questo? Cade mi è parso un giovane valoroso. Ricorda che è stato lui ad allontanare quelle spire.» le fece notare.
Lea annuì. «Lo so, lo so, non dubito che sia forte, però… non o so, sarò solo ansiosa io.»
Si strinse nelle spalle e si morse la lingua: non poteva certo dire ad Úranus che era preoccupata che Cade potesse infilarsi in qualche pasticcio e portarsi dietro Jonas, che temeva che sarebbero potuti rimaner feriti e morire – di nuovo – in quella stupida gara.
Cade le aveva detto che non voleva che gli altri perdessero la fede, la speranza di poter tornare a vivere, e malgrado non lo conoscesse benissimo si fidava abbastanza da sapere che avrebbe fatto di tutto per supportare i suoi compagni, specialmente il ragazzino. Ciò nonostante, l’ansia del sapere che lui sapeva, l’ansia di essere l’unica altra detentrice di quel gravoso fardello, non la lasciava in pace.
Avrebbero dovuto dividersi in due gruppi, non in tre. E soprattutto quel coglione di Nathan avrebbe dovuto evitare di far squadra con Eliza e andare con i ragazzi. O mandare proprio la soldatessa.
Lea ancora doveva abituarsi a quest’idea ma ormai si era messa il cuore in pace: avrebbe preso Eliza da parte, prima o poi, e si sarebbe fatta raccontare tutto. In ogni caso, quella divisione, non le andava bene. Certo, avevano scelto i gruppi che funzionavano meglio assieme, e la povera figlia di Nike era l’unica che riuscisse a tener testa al soldato da strapazzo e alla ragazza delle Praterie, però-
Dannazione, iniziava a parlare come Cade.
Storse il naso e prese un respiro profondo, cercando di calmarsi.
Agitarsi non serviva a niente, specie se si aveva al proprio fianco una torre parafulmini per la paura, il nervosismo e l’ansia.
Gettò uno sguardo di sottecchi ad Úranus, domandosi se potesse sentire i suoi pensieri, o per lo meno le sue sensazione. Aveva ragionato sulla faccenda e si era detta che se il suo amico era in grado di scatenare forti sentimenti, per lo più negativi, negli animi della gente, forse poteva anche percepirli.
Avrebbe potuto sentire la sua paura, i suoi dubbi e-
 
Quelli di un ricordo inerente ad una morte?
 
Lea si fermò di colpo, dando una manata sul petto all’altro per attirare la sua attenzione.


«I tuoi poteri!» trillò improvvisamente felice.
Úranus la guardò perplessa. «Posso giurarti sul mio onore che qualunque cosa tu stia provando in questo momento non è causata da me.» mise subito le mani avanti il ragazzo, preoccupato all’evenienza che la sua amica potesse accusarlo di una cosa del genere.
Ma la giovane scosse la testa e fece un gesto vago con la mano. «No, non hai capito! Se tu puoi far sì che la gente provi… determinate cose…»
«Come tristezza e disperazione?» domandò incerto. Non gli piaceva dove stava andando a parare quella conversazione.
«Esatto! Se puoi scatenare queste cose nelle persone, puoi anche individuarle?»
L’islandese la guardò perplesso, le sopracciglia aggrottate e gli occhi socchiusi: cosa gli stava chiedendo?
Poi realizzò:
«Vuoi che usi i poteri divini di mio padre per scovare le nostre sfere?»
«Sì! Pensi di poterlo fare?» gli chiese con gli occhi lucidi d’emozione.
Úranus però la guardò rammaricato. «Lea, hai pensato che i sentimenti che mio padre è in grado di generare nell’animo umano possano non esser quelli legati ai nostri ricordi rubati?»
Quella domanda così innocente ed estremamente logica fece quasi cader le braccia all’altra.
«Oh.» disse solo abbassando il capo. «No, non c’avevo pensato per niente.»
Úranus le sorrise incoraggiante. «Posso comunque fare una prova e se la mia discendenza divina non dovesse bastare, potremmo chiedere al giovane Jonas, o a Jane.» provò a consolarla.
Lea però scosse il capo. «Non penso possa funzionare, oltre Nathan tu sei l’unico che è stato davvero addestrato ad usare i suoi poteri divini. Mio fratello non ha insegnato tutto a me e Cade sa ciò che ha imparato vivendo. Eliza potrà al massimo infonderci un po’ della grazia di sua madre e Jane… beh, esattamente come Cade, penso sappia solo ciò che ha imparato da sé.» sospirò.
Il giovane però le mise una mano sulla spalla. «Non abbatterti, proveremo di tutto. Per ora, lascia che sia io il primo ad agire.»
Lea gli regalò uno sguardo pieno di gratitudine e annuendo con vigore si scosse da quella sua improvvisa tristezza.
«Sì, hai ragione. Facciamolo!»
 
Il rituale era sempre lo stesso: concentrarsi per percepire ciò che lo circondava, non lasciarsi prendere dal panico oppure il suo potere si sarebbe imposto anche su di lui e sarebbe stata una vera catastrofe.
Úranus chiuse gli occhi, sicuro che Lea li avrebbe tenuti ben aperti al posto suo.
Ispirò dal naso e poté sentire i peli della sua barba muoversi contro le labbra. Sorrise.
Doveva concentrarsi su pensieri negativi, sulle paure più nefaste che un cuore poteva ospitare e lasciarsi inghiottire dalle ombre, affidarsi a queste e ai fili fumosi che si tendevano da un animo all’altro. Per la prima volta in vita sua però, o nella sua morte, Úranus cercò i fili che si collegavano a qualcosa di famigliare, a qualcosa di conosciuto.
Cercò la sua famiglia, cercò il dolore cocente che l’aveva distrutto quel maledetto giorno, ma non trovò nulla. Si accigliò: non era questo, il suo ricordo rubato non era inerente al suo ultimo giorno di vita. Perché?
Strinse di più gli occhi ed inclinò leggermente la testa, dietro le sue palpebre un’infinita rete di fili si annodava fitta come la tela di un ragno, mischiandosi ed intrecciando storie, pensieri, sentimenti, vite. In mezzo a tutto quel dolore, a quel tormento, a quella desolazione, Úranus si domandò se valeva la pena recuperare un ricordo del genere, se per molti non fosse meglio vedersene privare per sempre.
Si stava incurvando su sé stesso, sentiva il peso di quelle oscure voragini che gli si aprivano nel petto, sentimenti non suoi ma che lui stesso poteva amplificare, poteva riportare a galla.
La paura. La paura di ogni cosa, di ogni essere. Di avere, di perdere. Di perdere tutto.
 
“Non posso abbandonarla! Non posso andarmene come se niente fosse!”
 
Úranus aprì di scatto gli occhi, lui la conosceva quella voce! Era lontana, era passata, era di una vita fa, ma lui la conosceva, la conosceva benissimo!
Fissò lo sguardo dritto in quello verde chiaro di Lea e neanche si accorse di aver preso le sue mani nelle proprie. Le sorrise, ancora un po’ timido ed incerto ma più sciolto, più sincero di quanto non lo fosse mai stato: forse, per la prima volta, i doni di suo padre l’avrebbero aiutato a fare del bene.
«Ho trovato Nathan.»
 
 
Elena si guardò attorno, cercando qualcosa che potesse rassomigliare a ciò che gli aveva descritto Úranus.
 
«Una sensazione di impotenza, la paura di perdere tutto per colpa di una costrizione a cui non si può sottrarre.»
 
Aveva una vaga idea di cosa potesse essere quel ricordo e probabilmente, oltre a Nathan stesso, lei era l’unica che avrebbe potuto individuarlo a colpo sicuro.
Lea e Nathan si erano – sfortunatamente – incontrati nei Campi Elisi. Oltre le grandi mura bianche la figlia di Apollo, in un giorno come migliaia di altri già passati, senza inizio né fine, era uscita per chiedere a Shilon Yu se per caso non avesse visto suo fratello, passando poi ad ammirare i fiori sempre sbocciati nei prati circostanti. Un attimo annusava una grande margherita e l’attimo dopo litigava con un ragazzo biondo, palesemente in divisa militare, che asseriva che quella non fosse una margherita ma una pratolina.
Era dovuto uscire Shilon Yu dal suo botteghino per chieder loro di mantenere la calma e dal modo in cui Nathan si era fatto subito silenzioso Lea non c’aveva messo molto a capire che non era la prima volta che si scontrava con la Guardia Imperiale.
Tempo dopo – quanto? – la madre del giovane le avrebbe confermato che al suo arrivo ai Campi Elisi il figlio aveva avuto la sciocca idea di chiamare l’uomo “brutto muso giallo”.
Lea ricordava alla perfezione il volto di Alexia, l’aveva vista in giro per i Campi con la sua famiglia più di una volta, si era fermata a parlare con lei, aveva preso a schiaffi il figlio quando faceva il cretino e l’aveva autorizzata a picchiarlo anche per lei.
Poi un giorno l’aveva incontrata proprio davanti alle margherite che le avevano fatto conoscere il figlio di Ares e con voce gentile, malinconica ma incredibilmente risoluta, l’aveva salutata, annunciandole che sarebbe tornata a vivere.
 
«Ho intenzione di rinascere, tornare sulla Terra e rifare tutto da capo. Non ha senso rimanere qui ad attendere quando abbiamo un’altra possibilità.»
«Ma così si perdono tutti i ricordi. Rinascere significa bagnarsi nel Lete e-»
«Dimenticare. Sì, lo so.» aveva sorriso. «Ma forse, tornare su e cercare di far di meglio è il vero senso della nostra esistenza.»
 
Non le era stato difficile ricollegare le parole del suo amico alla madre del biondastro ed ora che stava per trovarsi tra le mani un frammento della vita del suo compagno d’avventura più odiato provava quasi un senso di disagio.
Lea conosceva la storia, a grandi linee, sapeva ben o male cos’era successo a tutta la famiglia Wright e le sembrava quasi un’invasione poter anche vedere un ricordo ad essa legato.
Alzò la testa da terra per individuare Úranus a pochi metri da lei. Il ragazzone sembrava del tutto a suo agio invece ma Lea ci scommetteva che questo fosse dovuto solo alla felicità dell’esser riuscito a rendersi utile senza gettare nessuno nel panico questa volta.


«Trovato nulla?» gli chiese ad alta voce, facendo attenzione a spostare con delicatezza un globo da cui proveniva il forte rumore del mare in tempesta.
Quando non ricevette risposta riportò l’attenzione sull’altro e alzò un sopracciglio curiosa.
«Úranus?» chiamò ancora.
I giovane si era chinato a terra, poggiando il ginocchio tra l’erba nera, gli occhi fissi su qualcosa di lucido, di luccicante.
Preso!
 
 
 
La vecchia cucina aveva assistito a tante di quelle cose che, se solo fosse stata in grado di parlare, l’avrebbe fatto per anni interi.
Era stata testimone di semplici pasti, di chiacchierate notturne, di complicate preparazioni e placidi caffè bevuti in santa pace. Era lì che Alexia faceva sedere Nathan da bambino, da adolescente, quando tornava a casa con nuovi lividi, nuovi tagli, nuove ferite. Quando era stato attaccato per la prima volta da un mostro era stato sul tavolo laccato di rosso che la donna aveva depositato il figlio, che gli aveva somministrato l’ambrosia, che l’aveva abbracciato, pregando gli Dei di salvarlo e di non porre fine alla sua vita così presto.
Erano passati anni da quel giorno nefasto eppure Alexia continuava a chiamare il suo bambino – non più così piccolo e non più innocente – in quella stanza per discutere delle cose importanti.
Con sguardo vacuo puntato su di un alone sulla superficie ormai graffiata del piano rosso, la donna era persa nei suoi ragionamenti, dell’esaminare la dura e crudele realtà dei fatti.

Alzò lo sguardo su suo figlio, fissandolo senza timore, senza paura, risoluta com’era sempre stata in tutta la sua vita. Come quando l’aveva messo al mondo, come quando aveva passato ogni sera a perlustrare il perimetro di casa per cercare eventuali mostri, come quando gli aveva insegnato a combattere, a difendersi, come quando gli aveva insegnato a vivere, ad essere una persone forte. Come quando l’aveva lasciato andare.
Era già successo, lo sapevano entrambi, potevano affrontarlo di nuovo, tutti e tre.

La donna aprì la bocca ma nessun suono vi uscì. Le sue labbra si muovevano con calma e lui abbassò lo sguardo sotto il peso di quelle parole, potendo osservare solo i suoi stessi pugni chiusi ed il petto che si alzava ed abbassava velocemente.
Le rispose, le disse quello che pensava e c’era furia nei suoi movimenti, ce ne era nelle sue parole afone e nei sussurri inudibili.
Poi lei le disse qualcosa di assolutamente vero e assolutamente doloroso.
Sì, lo sapeva, lo sapeva benissimo.
Voltò lo sguardo verso la porta della cucina, da lì poteva intravedere il salone, la camera da letto aperta ed un angolo del letto matrimoniale. Poteva scorgere un cuscino alto e delle coperte ma non chi vi dormiva sopra. Eppure sapeva per certo che la sua scelta l’avrebbe devastato.
Muto come un vecchio filmato in bianco e nero, diede le spalle a quella stanza e si voltò di nuovo verso sua madre: Alexia lo fissava immobile, consapevole della sua scelta.

La scelta che avrebbe decretato la sua fine.
Era la prima volta che vedeva sua madre piangere. Sarebbe stata anche l’ultima.

 

 
*




Fece forza contro la spalla del compagno e si diede la spinta per calciare con precisione l’anima davanti a lei.
Eliza si portò velocemente in posizione difensiva e Nathan, dietro di lei, scorse con la coda dell’occhio la figura perfetta di un pugile che attende solo che l’avversario si rialzi.
La figlia di Nike ringhiò a denti stretti, chiedendosi perché lei ed il soldato dovessero sempre ritrovarsi in situazioni del genere, che fosse il loro senso di giustizia?
Era successo proprio quello che temeva: erano incappati in un gruppo di anime che, alla ricerca del proprio ricordo, distruggevano senza pietà quelli degli altri, li calpestavano, li gettavano via.
Se lei in un primo momento era riuscita a trattenersi, cercando di caprie cosa potesse fare in quella situazione, Nathan non si era fermato a riflettere e si era buttato a testa bassa tra di loro, sferrando un destro dritto nello sul fianco di una di quelle anime, urlando loro di togliersi dal cazzo e non rompere le palle. Eliza l’aveva trovata una scelta di parole poco apprezzabili per la volgarità ma di certo precise e… in tema? A quel punto poi, inutile negarlo, anche quell’ultimo brandello di buon senso che le era rimasto si era ritirato e, insomma, tanto Nathan c’era dentro fino al collo no? Che faceva lei? Rimaneva a guardare?
Certo, ritrovarsi circondati da un gruppo formato da una decina di anime non era proprio il suo sogno, ma potevano affrontarle, avevano fatto la guerra entrambi per l’amore del cielo!
Ancora una volta schiena contro schiena con il compagno, Eliza analizzò la situazione e si rese conto che, proprio come nel Labirinto, erano in minoranza e svantaggiati: alcune delle anime davanti a loro erano armate e di certo non avrebbero atteso gentilmente di scontrarsi in un uno contro uno.
Nathan imprecò.
 
«Che pezzi di merda, non vedo l’ora di farli a fette»
«Direi che abbiamo molte più probabilità di finirci noi. A meno che non riusciamo ad impossessarci di una delle loro armi.» disse seria.
Il figlio di Ares annuì. «Puntiamo subito quelli armati, gli sottraiamo l’arma e ce la prendiamo. Poi facciamo una carneficina.»
Eliza annuì, lo sguardo che volava fuori dal cerchio d’anime, cercandone un’altra che si era allontanata da loro giusto in tempo per non rimaner coinvolta in quella specie di rissa.
«Dobbiamo trovare anche Jane.» lo informò infatti.
Nathan imprecò ancora. «Ci mancava pure quella stronza ora.»
«Nathan…» disse solo, l’ammonimento ben presente nella sua voce.
«Non dirmi “Nathan”! È una stronzetta che pensa solo a sé stessa, palesemente opportunista e scommetto anche doppiogiochista. Sua madre è esperta nell’ingannare il prossimo dopotutto.» ringhiò.
Ma ad Eliza proprio non andava di discutere di questo adesso. Le anime attorno a loro si stringevano sempre di più, dovevano agire in quel momento o mai più.
«Sei pronto? Io ho una lama davanti.»
«Scimitarra.» grugnì a bassa voce.
Eliza fu tentata di girarsi e guardarlo storto. «Ti pare il caso di puntualizzare?»
«Sono il figlio del fottuto dio della guerra, non è colpa mia se le armi le percepisco, cazzo.»
«Non me ne frega niente se le percepisci o meno. Cos’ha il tuo rivale?»
«Pistola o coltello a serramanico. Sto quasi rimpiangendo l’aver lasciato andare rosso malpelo da solo a cercare il suo cazzo di coltellino di merda e non essermi fatto portare dal mio mitra.» 
«Beh, ora è troppo tardi. Al tre.» disse mettendosi in posizione.
Nathan annuì. «TRE!»
Si slanciarono entrambi davanti a loro, puntando le armi che avevano visto. Quel minimo di sorpresa generata negli altri consentì a mala pena a Nathan di mettere una mano sulla canna della pistola e spingerla di lato, prima che il tipo premesse il grilletto ed esplodesse un colpo verso uno degli altri lì presenti. Non badò al grido ferito di quell’anima e al modo in cui si accasciò per terra, Nathan si spostò veloce per dare la pistola sul naso del suo possessore, prima di doversi gettare a terra per evitare la carica di altre due anime ed un affondo da parte del coltello.
«Merda!»
 
Dietro di lui Eliza aveva sferrato un pugno dritto sullo zigolo dell’anima con la sciabola, facendola barcollare e perdere la presa sull’arma su cui però un uomo mise il piede per impedirle di raccoglierla.
«Se è così facciamo al vecchio modo!»
Afferrò il braccio del tipo e lo torse con forza, illudendosi persino di aver sentito il rumore delle ossa che si rompevano. Lo spinse contro i suoi compagni e si tirò indietro per riavvicinarsi al suo.
Si ritrovarono di nuovo schiena contro schiena.
«‘Sta scimitarra?» le chiese lui con il fiato corto.
Eliza alzò un sopracciglio. «Insieme alla pistola e al coltello, presumo.» rispose acida.
Quello non era di certo il momento migliore per mettersi a litigare, dovevano pensare al più presto ad un piano ma di punto in bianco un suono attirò l’attenzione di tutti.
Un sibilo brecciò nell’aria e ben due anime s’accasciarono al suolo improvvisamente immobili.
Qualcuno urlò, qualcuno si volse per vedere cosa fosse successo, da dove arrivasse il colpo, ma dietro di loro solo la prateria scura e qualche altra anima in lontananza.
Un secondo sibilo e altre tre anime caddero prive di coscienza. Un terzo e tutte quelle rimaste fecero la fine dei loro compagni.
Nathan ed Eliza rimasero in posizione, nessuno era apparso, nessuno se ne era andato, da lontano, nessuno li guardava.
Nessuno.
 
Ma che cazzo…?
 
«Sei stato tu?» chiese Eliza avanzando di un passo verso l’uomo con la scimitarra.
Nathan dietro di lei scosse la testa. «Quindi non sei stata neanche tu.» mormorò, poi si volse a guardarla, «La stronzetta delle Praterie?» domandò alzando un sopracciglio.
L’altra lo guardò male, pronta a riprenderlo per quel suo modo del tutto maleducato, ma prima che potesse farlo il figlio di Ares chiamò Jane a gran voce, lasciando che il suono si propagasse per tutta la zona circostante.
Gli ci vollero altri tre urli ben calibrati per far sì che, lentamente, la figura grigiastra di Jane apparisse davanti a loro, del tutto scocciata e anche vagamente affaticata.
 
«Che ti prende ora? Per chi mi hai preso, per un cane? Spero per te che abbiate trovato una delle nostre sfere o-» iniziò lei con rabbia.
«O cosa? Non puoi farmi niente, sei un grissino cazzo, mi domando come sia possibile che nessuno t’abbia mai spezzata in due.» sbottò di rimando Nathan.
Jane lo guardò male. «Qualcuno ti ha rubato il giocattolo, ragazzino? Che gli prende?» domandò di nuovo, rivolgendosi questa volta ad Eliza.
Lei sospirò ed indicò con la testa le anime a terra.
Jane batté le palpebre impassibile. «Bene, complimenti, bel lavoro. Spero non mi abbiate chiamata per farvi dire quanto siate stati bravi.»
«Senti, piccola stron-»
«Non siamo stati noi.» lo interruppe la mora. «Ne abbiamo atterrati un paio ma non siamo stati noi a ridurli in quel modo. Abbiamo sentito un sibilo, poi sono caduti. Pensavamo che magari potessi esser stata tu con la tua magia.» spiegò semplicemente.
Jane rimase ferma immobile, fissò con attenzione improvvisa gli altri concorrenti e scosse la testa lentamente. «Credete che sia opera di un figlio di mia madre, che sia magia?»
«Mi duole ammetterlo, ma non ho la più pallida idea di cosa sia successo. Ai miei tempi non esistevano armi in grado di atterrare i nemici in questo modo, velocemente e senza lasciar tracce.» disse piano prima di chinarsi a raccogliere la scimitarra. La soppesò e la infilò nella cinta.
«Sapresti riconoscere un incantesimo di un tuo fratello?»
«Non è magia di Ecate, non mi pare proprio. E pure ai tempi miei non c’erano armi che non lasciassero neanche un segno. Magari una puntura, come un narcotico. Oh! Controlla se hanno buchi sul collo, o freccette!» urlò il soldato ad Eliza.
La figlia di Nike alzò un sopracciglio scettica. «Come i dardi avvelenai dei pellerossa?»
Nathan annuì. «Tipo. La teoria è quella, ma da me ne avevano fatti per esser sparati dai fucili e dalle pistole, si usavano per addormentare i grandi animali, per portarli negli zoo o per studiarli.»
Jane si accigliò. «Cos’è uno zoo?» domandò ad Eliza.
La ragazza però la guardò dubbiosa. «Qualcosa con gli animali?»
Il soldato le mandò al diavolo entrambe e controllò i corpi vicino a lui. Era incredibile come sembrassero essere veri, gli parevano persino caldi, proprio come persone vive. Ovviamente non respiravano, ovviamente non avevano battito cardiaco, ma per un attimo Nathan credette davvero che fossero morti una seconda volta.
In ogni caso, non vi era nulla di sospetto.
Grugnendo ed imprecando quanto gli pareva, tanto Eliza era lontana per sentirlo, il biondo avanzò tra l’erba nera, osservando tutti quei frammenti grossolani e finissimi in cui si erano trasformate le sfere. Sentì un vago fruscio alle sue spalle, qualcosa di famigliare ma incredibilmente distante nel tempo, cos’era? Si volse di scatto ma non vi era null’altro che erba nera, pezzi di coccio, anime “morte” e le sue compagne di squadra che controllavano i corpi. Da dove diamine veniva allora quel dannato suono?
Quando si pose quella domanda realizzò che effettivamente era proprio un suono distinto ed era così famigliare perché l’aveva sentito centinaia di volte.
 
Interferenza radio.
 
Nathan s’accucciò a terra, finendo in ginocchio a tastare senza posa i ciuffi erbosi. Se lui lo poteva sentire e distinguere così bene forse era perché quel suono gli apparteneva? Che fosse riuscito a trovare il suo ricordo?
Un moto d’euforia gli si allargò nel petto: cosa aveva dimenticato? Era un frammento dei giorni in Vietnam? Era la mattina in cui si erano preparati? Quella in cui era arrivato al campo? Quella in cui era partito? Cos’era? Perché rubargli proprio quel ricordo? In che modo era inerente alla sua morte? Era stato quello il momento fatale in cui aveva firmato la sua condanna? Voleva vedere, voleva sapere, voleva riprendersi quella parte di sé.
 
Dopotutto non ci rimane che questo, il ricordo di ciò che siamo stati.
 
 Si bloccò quando avvertì la consistenza solida di un oggetto tondeggiante sotto le mani. Si sedette sui talloni e, quasi con timore, afferrò quella sfera giallognola che pareva fatta di zucchero. Al tatto la superficie era liscia e ruvida al contempo, gli ricordava quei vetri satinati, opachi, composti da centinaia di piccoli puntiti che, messi assieme, formavano una lastra lineare. Emanava un vago calore, il vetro – se si trattava di questo – era fresco, ma dal suo interno il ricordo generava un tepore rassicurante. I colori erano sbiaditi come quadri lasciati al sole, si muovevano pigri, vorticavano su sé stessi confondendo oggetti, allungando ombre e raggi. Era ipnotico, era rilassante, era famigliare e vivo, così vivo. Era suo? Era il suo ricordo? Ma come poteva un ricordo di morte essere così piacevole?
Non appena posò anche l’altra mano sulla sfera questa iniziò a pulsare, le scie si mossero più velocemente e finalmente i contorni di un mondo, di una vita passata gli apparvero chiari davanti agli occhi.
Purtroppo per lui, però, quello non era il suo ricordo. Ma non era neanche quello di un estraneo.
 
 
 
Il corridoio era buio, la luce non riusciva ad illuminare il pavimento di cotto e si stagliava solo sul muro, una lama gialla come una fiamma flebile.
Nello studio poco illuminato due figure si fronteggiavano come se stessero discutendo di qualcosa della massima importanza.
Si mosse a disagio per la stanza, l’energia repressa di ogni semidio che si agitava inquieta nel suo corpo. A far da sottofondo a quella scena il rumore che aveva superato la barriera della sfera, non un’interferenza radiofonica ma il sibilo della lampada ad olio, lo scoppiettio del carbone della stufa, il gocciare di un rubinetto mal chiuso.
L’uomo davanti a lei aveva il volto stanco, affaticato dallo sforzo fisico ma anche da quello mentale, era esausto emotivamente ma era anche furioso. Stavano litigando di certo, su questo non c’era dubbio, così com’era indubbio che i due si conoscessero bene, che ci fosse un forte legame tra di loro, quasi parentale, famigliare.
La ragazza batté un piede a terra, frustrata dalle parole che l’altro stava pronunciando e che nessuno poteva sentire. Parole di rabbia, parole di paura.
Ma non importava, non importava più nulla. Qualcuno doveva fare qualcosa, qualcuno doveva alzare la testa anche se nel suo piccolo, anche se non sarebbe servito a nulla.
Salvare qualcuno, una sola miserabile vita, avrebbe portato un po’ di buono in quel mondo, in quel periodo oscuro che stavano vivendo, così vicino alla guerra eppure così lontano da essa.
Non che l’uomo glielo avrebbe permesso, non le avrebbe mai dato la sua benedizione.
Giuseppe scosse con violenza la testa. No, la sua risposta era no, non avrebbe lasciato che uscisse da quella porta per andare a rischiare la sua vita. Non era un soldato, non era una semidea addestrata a difendersi, avrebbe solo rischiato di morire e di portare altri con sé.
E la vita di quelle persone? E la sofferenza? Le ferite che loro avrebbero potuto facilmente curare?
Ancora una volta lui scosse il capo, alzando le mani al cielo, ricordandogli chi era, chi erano, cosa avrebbero rischiato. La vita degli altri era un loro problema solo quando entravano nel loro studio, solo quando venivano chiamati per aiutare e quello non era il caso.
Lo sapevano bene entrambi che, in quel momento, nessuno si sarebbe messo a chiedere ad un dottore e alla sua infermiera di scendere in strada ad aiutare i feriti. I soldati non l’avrebbero permesso, non avrebbero concesso ai cittadini questo lusso.
Continuava a non importarle, continuava ad essere superfluo e stupido e la ragazza batté la mano sul lettino, urlando a pieni polmoni, indicando poi il caduceo simbolo dei medici, la pergamena appesa al muro, tutti gli strumenti, tutti gli oggetti che avrebbero potuto salvare vite. Le vite degli altri, anche a costo della sua.

Lo guardava dritto negli occhi quando Giuseppe disse qualcosa, poche parole che aprirono una voragine al centro del suo petto.
Elena guardò suo fratello, quello che per lei era stato un padre, con sguardo pieno di dolore.
Uscì dallo studio sbattendo la porta, precipitandosi nel corridoio nero.
Non avrebbe mai più messo piede in quello studio se non da morta.

 
 
Nathan batté le palpebre e chinò il capo.
C’era chi lottava imbracciando armi e chi decideva di farlo con garze e bende.
Il sacrificio di una vita per salvarne un'altra era sempre la dipartita più nobile che un eroe, un umano, potesse desiderare.
Ed era meglio che Lea Pozzi lo ricordasse al più presto.
 


 
*




 
Dondolò le gambe oltre il bordo di quella collinetta.
Era una sensazione curiosa quella di star di nuovo sull’orlo di un precipizio, ma guardando verso il basso poteva vedere perfettamente la terra curvare dolcemente sino ad unirsi alla vallata naturale che aveva accolto tutte le anime poco tempo prima.
Il fattore “tempo” gli sfuggiva ancora, non c’era modo per capire davvero dove fossero e in che momento, ma andava bene anche così, credeva.
Avvertiva una vago senso di frescura sui piedi, lì nell’Ade l’aria era sempre ben o male tiepida ed umidiccia, specie nelle parti più basse, ma in quel momento l’altezza doveva aver creato qualche corrente più piacevole.
I sandali di cuoio urtavano a mala pena la parete, le mani sprofondate nell’erba nera ed i capelli mossi da quella brezza leggera. Chiuse gli occhi godendosi il momento, passandosi la lingua sulle labbra asciutte per assaporare il gusto delle correnti, quello terroso del suolo ed uno più dolce, come il miele.
 
Zucchero.
 
Quella parola gli balenò veloce nella mente, ma non ne conosceva proprio il significato. Però… però ne conosceva il sapore, com’era possibile?
Rilassò le spalle e respirò a pieni polmoni, sentendo la cassa toracica espandersi e ritirarsi come la marea. La marea. La risacca. Lo scrosciare delle onde. Vicine e lontane. Sempre più vicine, sempre più lontane. Sotto i suoi piedi, sopra la sua testa. Il canto di un uccello, il fischio del falco che si butta a capofitto per prendere la sua preda. Il sole che scaldava la sua pelle, baciandola con amore, come il suo dio mai aveva fatto.
Riaprì gli occhi. L’azzurro lucido e limpido, il riflesso della luce sulla battigia, il sapore della sabbia e del sale, le braccia che si muovevano forti e fluide nel cielo, l’acqua che scivolava via, i passi infermi sotto il peso del suo corpo, la voce contraffatta che non riusciva a gridare, che non poteva parlare, non poteva dire.
 
Impotente.
 
Il luccichio del mare si trasformò nella distesa d’erba nera puntinata da migliaia di ricordi, erano così tanti che non avrebbe neanche saputo come contarli, ma ciò che sapeva, invece, era che non bastavano per tutte le anime presenti.
Già li vedeva, i primi corpi che iniziavano a sbiadire, a tornare ad essere ciò che erano prima di firmare quel contratto.
Per loro i giochi erano chiusi, per lui erano appena stati aperti.
Tra le sfere brillò d’improvviso un’altra luce, il riflesso che aveva visto prima impresso a fuoco nelle sue retine ora camminava davanti a lui.
C’era un ragazzo di media statura, con i capelli rossi come gli anemoni e la pelle chiara. Camminava saltellando, sfiorava il terreno di tanto in tanto ma pareva quasi volasse certe volte.
Sorrise: volava infatti.
Davanti a lui una ragazza con i capelli neri, corti, l’espressione dura e severa, poteva vederla in volto ma non riuscì a scorgere il colore dei suoi occhi.
A seguirla a pochi passi di distanza una ragazzetta insignificante, dalla lunga gonna logora e sporca, i capelli castani mal tagliati, scuriti dalla sporcizia forse. Ma non era una dannata, no, non lo era di certo, era una perduta, ed era anche figlia di chi poteva creare quella stessa foschia che l’aveva resa ciò che era. I figli di Ecate erano così palesi. Come lo erano quelli di Ares, pensò guardando il giovane biondo che camminava a passo di marcia verso la ragazza mora. Questa gli fece cenno di aspettare, indicando poi altre due anime che stavano arrivando nella loro direzione.
Un gigante anch’esso rosso di capelli e di barba, imponente nella sua statura ma quasi remissivo nel suo portamento. Così come tutti gli altri indossava abiti di un’epoca che non conosceva, ma poco gli importava. Il barbaro allungò un braccio verso il figlio di Ares e gli porse una sfera.
Sorrise di nuovo: il ragazzo doveva avere un minimo di nervi saldi, si sarebbe aspettato che saltasse addosso al ricordo e invece lo prese con lentezza e quasi con timore. Fece un cenno con la testa al barbaro e poi puntò immediatamente lo sguardo sull’altra figura giunta assieme al rosso.
Alta, bionda, fisico morbido, mai allenata probabilmente, ma indubbiamente una semidea, come lo erano tutti gli altri, una figlia di- Oh.
 
Salute a te sorella.
 
Le belle labbra morbide si stesero con grazia, un movimento che aveva affascinato così tanti da esser divenuto famoso in tutte le loro terre. Poi i labbri si schiusero ed il dolce sorriso ammaliatore divenne un ghigno famelico.
Bene, ci sarebbe stato da divertirsi.
Il bastardo di Ares fece un passo rigido verso la sua sorellastra ed estrasse da sotto il suo giaccone una seconda sfera, ponendola con delicatezza tra le sue mani. Poteva sentirlo da lì come quello fosse un momento importante, un tassello che finiva con precisione nell’enorme mosaico che il suo signore stava componendo con perizia. Era un legame di rispetto, uno dei più difficili da rompere.
Si leccò di nuovo le labbra, intrappolando quello inferiore tra i denti, stringendolo sino a farlo arrosare. Si sentiva come l’invitato d’onore ad un banchetto divino, da quanto tempo era che non giocava più? Che non scendeva in campo per orchestrare uno dei suoi piani, per vedersi realizzati tutti i propri desideri, ingordo fino alla fine, fino alla morte e anche oltre questa.
Gli era stato dato un compito, gli era stato detto quale fosse l’obiettivo finale da raggiungere. Quando aveva chiesto in che modo avrebbe dovuto fare si era visto rispondere con un ghignò ferino ed una scarica d’eccitazione l’aveva scosso da capo a pieni, per tutte le membra, sino all’anima dannata che si ritrovava.
Se solo si fossero conosciuti millenni addietro quell’uomo sarebbe potuto essere l’aspirante perfetto, l’amante prediletto.
L’aveva scelto tra tutti i morti del mondo e gli aveva dato una missione in cambio della libertà, gli aveva dato un ruolo e gli aveva detto di poterlo interpretare come preferiva. Quella era la vita che gli era mancata.
Stiracchiandosi osservò l’ultima anima di quel quadretto, sette eroi come nelle migliori profezie. Era un ragazzino fino, dalla pelle pallida di morte e di nascita, con i capelli biondissimi scompigliati e l’aria scocciata, che divenne smarrita non appena volse il capo ad osservare la desolazione delle Praterie.
Oh, lui lo conosceva, lo conosceva bene.
 
Alla fine è sempre da lui che mi rimandi.
 
Puntò lo sguardo sul riflesso che l’aveva attirato come il canto di una sirena, la collana scintillante che luccicava al collo del ragazzino.
 
«Sarà un piacere rivederti, Jonas.»
 
I bracciali d’argento ai suoi polsi magri brillarono di vita propria, incandescenti per un istante troppo breve per esser percepito.
 
I doni dei gemelli della Notte erano oscuri come i loro padroni.




 
*

 



Dividersi una seconda volta era stato necessario. Mischiare le coppie un po’ meno, ma l’avevano fatto ugualmente.
A Cade era andata bene, non poteva certo lamentarsi, Lea e Jonas erano praticamente i suoi preferiti e per fortuna nessuno aveva provato a chiedergli se volesse andare con la ragazza delle Praterie o con il biondastro. Non era proprio dell’umore, sarebbe finita in strage come minimo.


«Come avete trovato quella del rompipalle?» domandò rivolto verso Lea.
La figlia di Apollo ridacchiò divertita, la sua sfera che luccicava quieta tra le mani.
«A dire il vero è stato Úranus. Penso che abbia percepito qualcosa, qualche sentimento particolare che è riuscito a ricollegare a Wirght senza problemi.» spiegò stringendosi nelle spalle, poi gettò un’occhiata al rosso. «Senti, ma non è che potresti portare tu la mia sfera? Non hai cose appuntite in quella sacca, vero?»
Cade si voltò a guardarla, le sopracciglia arcuate. «Non l’hai ancora ripreso il tuo ricordo?»
Lea scosse il capo. «Non so come si fa.» ammise. «Non vorrei far danni.»
«Penso che vada rotta.» s’intromise Jonas avanzando con lo sguardo puntato a terra, terrorizzato all’idea di schiacciare un globo come poteva esserlo a sei anni di schiacciare una lumaca in mezzo all’erba bagnata dalla pioggia. «Salivano degli strani fumi dalle sfere rotte, penso che fossero i ricordi stessi quelli. Probabilmente se a romperle sono i proprietari o magari anche se sono nei paraggi, il ricordo torna, beh, dentro di loro?» disse poi incerto della scelta delle parole usate.
Cade gli sorrise. «E bravo il nostro uccellino, allora sei davvero intelligente come si addice ad ogni buon damerino!»
Il dito medio che ricevette come risposta fece ridacchiare la ragazza che scosse la testa e porse la propria sfera a Cade.
«Allora? Me la porti?» ripeté.
«Proviamo ad aprirla invece!» trillò l’altro. «O, che ne so, prima proviamo a fare altro tipo…avvicinartela al petto?»
Jonas alzò un sopracciglio, scettico. «Al petto? Se proprio devi fare una cosa del genere che sia almeno la testa. È lì che stanno i ricordi, non nel cuore, rosso.» lo prese in giro con un broncio strafottente stampato in faccia.
«Oh, giusto! Peccato non aver più un cervello in cui rimetterlo, ve’?» lo sfotté di rimando.
I due si guardarono per un attimo senza muoversi, Jonas con il naso arricciato e Cade con quel sorriso troppo ampio per essere vero.
Tra loro due Lea alzò gli occhi al cielo ma sorrise: magari non aveva avuto tanti amici in vita sua, ma sapeva riconoscere perfettamente quando due ragazzi litigavano seriamente o lo facevano solo per divertimento, solo per contraddirsi a vicenda.
Era felice che lì in mezzo ci fosse qualcuno ancora in grado di comportarsi come un essere umano.
 
«Va bene bambini, basta discutere. Vicino alla fronte e vicino al cuore?» domandò divertita.
Cade le sorrise raggiante. «Puoi piegarti in avanti e fare entrambe le cose assieme!»
«No! Una alla volta, così vediamo chi ha ragione!» protestò subito Jonas.
Per la seconda volta Lea alzò gli occhi al cielo ma li accontentò.
Avvicinò la sfera alla fronte e ve la premette contro.
Nulla.
Cade ghignò, Jonas si imbronciò.
L’avvicinò al petto e di nuovo nulla.
«Non vorrei sembrare inopportuno e sono pronto a girarmi, anche Jonas – disse afferrando il ragazzino per la manica e tirandoselo vicino – ma penso che dovrebbe essere a contatto con la pelle.» spiegò accennando alla sfera.
Il più piccolo si fece rosso in viso come i capelli del suo amico e si volse di scatto, portando le mani ai lati del volto per schermarsi ulteriormente. A quella reazione Cade ridacchio ma si voltò come lui, le mani però sprofondate nelle tasche ed il volto leggermente rivolto verso il biondino.
«Copriti!» gli ordinò lui.
«Non vedo niente, tranquillo. E poi, sai com’è, non è come se non avessi mai visto una donna nuda in vita mia, ne avevo ventisei di anni, non ero un mocciosetto come te.» sorrise ma poi si bloccò, pensandoci su. «In effetti avevo visto una donna nuda anche alla tua età, ma presumo che per te sia diverso.» concluse stringendosi nelle spalle.
Jonas s’irrigidì, strinse i denti e lanciò uno sguardo freddo all’amico.
«Perché per me dovrebbe essere diverso?» domandò quasi con rabbia.
Se Cade se ne accorse non lo diede a vedere, ma da come il suo sorriso rimase invariato e quasi plastico Jonas giurò che avesse sentito il cambio di tono nella sua voce.
«Magari perché io sono cresciuto nei bassifondi di una città portuale e tu invece in una torre dorata al centro di una grande capitale? Avevi la cuoca che ti preparava piatti per un preciso regime alimentare, non credo che ti fosse concesso intrattenerti da solo con una signorina nella stessa stanza per più di pochi minuti, non credo che tu abbia mai spiato delle ragazze fare il bagno e, senza offesa eh, ma non mi sembri proprio tipo da bordello.» spiegò con semplicità.
Jonas annuì e non ebbe la prontezza di rispondere nulla se non un secco “sì”.


«Mi spiace Cade ma non funziona neanche così!» li informò Lea battendogli una mano sulla spalla.
L’irlandese si voltò con un sorriso enorme in volto. «AH! Così mi ferisci, avresti dovuto mentire almeno all’inizio e farmi godere la faccetta contrariata del nostro passerotto!»
«La smetti una buona volta di chiamarmi con questi modi ridicoli?» lo guardò innervosito lui.
Cade continuò a sorridere come se non fosse successo nulla. «Nah.»
«E se andasse davvero rotto? In fondo Ermes ha detto che bisognava evitare che si rompessero prima del dovuto.» li interruppe Lea osservando con attenzione la sfera.
Il biondo strinse le labbra. «Non hai una seconda possibilità se sbagli.» le fece notare.
«Ma è un ricordo intrappolato dentro questa palla di vetro e lo hai detto tu stesso che salivano delle strane spirali quando venivano rotte.»
«Ha ragione. Sono i ricordi, vanno via come fumo, ma sono loro.» annuì Cade.
Jonas lo guardò aggrottando le sopracciglia, perché ora ne era così sicuro?
Lea anche lo guardò ma con fare più risoluto. «Allora proviamo, o la va o la spacca come si suol dire. Che dio me la mandi buona.»
«Aspetta! Vuoi davvero provare a-»
 
Crak!
 
Jonas sgranò gli occhi, pallido come se dovesse svenire da un momento all’altro e perfettamente consapevole di poterlo fare anche da morto.
Una spirale di colori sbiaditi salì verso l’alto, scappando dalla sfera rotta a metà che Lea teneva saldamente stretta tra le mani.
Dei suoni si diffusero per l’aria, il sibilo del gas, il crepitio del fuoco, i piccoli scoppi del carbone, un piede che veniva battuto a terra, un pungo su di un piano morbido, il gocciare di un rubinetto. C’era un rumoreggiare vago di sottofondo, passi di persone, affrettati, veloci, corsa, ruote che stridevano, una porta che si chiudeva con violenza, ma non una voce, non una parola.
Il fumo s’arricciò su sé stesso, arrotolandosi come le spire di un serpente e Lea sentì un brivido di terrore pervaderla d’improvviso.
Fece un passo indietro, tremante, pronta a farne un altro e scappare dal suo stesso ricordo che pareva fissarla con occhi rettili, predatori, pericolosi, dolorosi.
Se le ricordava quelle parole, ma aveva completamente rimosso la scena in sé, il contorno.
Ma altrettanto prontamente sia Cade che Jonas scattarono in avanti, afferrandola ognuno per un braccio e tirandola di nuovo verso il serpente di fumo che, con un guizzo, si schiantò contro il suo petto, penetrando sotto le vesti, sotto la pelle morta, sin dentro a quell’involucro che era la sua anima solidificata.
Per un lungo momento non si mossero, i due giovani con le mani stretta attorno al polso e all’avambraccio della figlia di Apollo e lei immobile, allucinata, terrorizzata da qualcosa che non c’era più.
 
«Ehi? È finita, è finita.» disse piano Cade, allentando la presa sul suo braccio e passandole delicatamente la mano sulla schiena, disegnando cerchi concentrici. «Sei stata bravissima, ora hai di nuovo il tuo ricordo. Hai appena superato la quarta prova Lea, sei stata davvero, davvero brava. E poi, hai visto? Era il petto, non la testa.» continuò a parlare con voce melodiosa, quella voce da cantastorie che aveva usato così tante volte per distrarre i suoi avversari, le sue prede, per consolare i suoi amici.
Lea parve riscuotersi con lentezza, spostò a mala pena lo sguardo su di lui ed annuì più volte, come se stesse cercando di scuotersi una brutta sensazione di dosso.
Jonas le lasciò il polso, osservando ammirato il modo in cui Cade sembrava sempre trovare le parole giuste per le persone spaventate o ferite. Avrebbe voluto aver anche lui quella dote, riuscire a parlare alla gente calmandola, dandogli fiducia, speranza. Decisamente non era qualcosa che gli sarebbe mai appartenuto.
 
«Continuo a credere che sia arrivato alla testa però.» disse allora, rompendo il ghiaccio che si era creato in quel momento così delicato, cercando di dar man forte al compagno come poteva, offrendogli tutto ciò che aveva: il suo supporto e la sua lingua spesso troppo lunga.
Il sorriso che Cade gli lanciò lo fece sorridere a sua volta, si era dimenticato com’era vedere l’approvazione nel volto di chi lo circondava.
«Non dire cazzate, è finito dritto nel cuore, vero?» chiese a Lea.
Jonas scosse la testa. «Peccato non aver più un cuore in cui rimetterlo, vero?» lo scimmiottò rigirandogli contro la sua stessa battuta.
In modo del tutto maturo e adulto Cade gli fece la linguaccia. «È tornato “simbolicamente” nel cuore, preferisci? Comunque, nel petto e non nella testa.»
 
Lea li osservò battibeccare ancora un po’ stordita, mentre un senso di completezza le si spandeva nel torace, invadendo ogni parte di sé.
Gettò un’occhiata a Cade, ricevendo in cambio un vago annuire e forse aveva davvero capito cosa passasse per la sua mente in quel momento.
Che quel ricordo rubato li avesse resi ancora un po’ più vivi?
Si ferivano, soffrivano e ora ricordavano cose che non sapevano di aver dimenticato.
Si costrinse a sorridere quando anche Jonas si volse verso di lei, seguendo lo sguardo diretto del compagno.
 
«Quindi ora non ci resta che cercare uno dei vostri o degli altri.» disse con voce più allegra.
Cade annuì. «Sì, solo te e il biondastro avete riavuto i vostri ricordi, ma sinceramente non so quanta possibilità abbiamo di trovarli.»
Lea guardò con insistenza Jonas e poi sorrise incerta. «Magari… magari te e Úranus avete dei poteri simili, magari puoi trovare anche te i nostri ricordi.» provò.
Il ragazzino la fissò rigido, batté le palpebre senza sapere cosa dire e poi abbassò la testa.
Poteva farlo?
La verità era che Jonas non aveva mai usato i suoi poteri, non volontariamente. Aveva sempre saputo di esser diverso dagli altri? Sì, cazzo se non se ne era accorto! Ma non per questo motivo, non per i suoi natali. Probabilmente i poteri del suo divin genitore avevano agito senza la sua volontà almeno un paio di volte nella sua vita, ma era stato nella morte che quei poteri, e la consapevolezza di essere un semidio, avevano dato maggior sfoggio di sé.
 
«E la tua pena sarà quella di infliggerne altra al tuo prossimo. Distruggerai quell’ultimo barlume di forza, di speranza, di vita che alberga in loro e gli ricorderai per sempre, fino alla fine dei tempi, di cosa lì ha privati la loro stessa codardia.»
 
Era la sua pena, era la sua somma punizione: far soffrire per sempre gli altri.
Poteva farcela?
Pensare intenzionalmente a ciò che c’era di più oscuro e tetro nel suo cuore e scatenarlo verso le Praterie stesse, captando il dolore di quei ricordi come se fossero stati segnali radio? Avrebbe agito da torre di ricevimento in un mare pieno di mine e sommergibili nascosti nell’acqua nera della marea erbosa, scovato i rimpianti, le pene dell’inferno e quelle del cuore.


Ma saprò distinguerle? Sarò in grado di sentirle e non farmene sopraffare?
 
Jonas cercò con lo sguardo Cade e trovò subito quelle luccicanti iridi verdi a scrutarlo, a supportarlo.
Ci sarebbe riuscito.
Lo decise così, su due piedi, anche se non l’aveva mai fatto, anche se non sapeva come fare. Aveva i suoi compagni, aveva al proprio fianco semidei che conoscevano i loro poteri, che sapevano come usarli, che potevano insegnargli come fare.
Aveva al suo fianco una guaritrice pronta a riportarlo “alla vita” ed un amico pronto a tirarlo fuori dal baratro.
Annuì.
 
«Ditemi cosa devo fare.»
 
 
 
«Un respiro profondo, un altro.
Svuota completamente i polmoni. Riempili di nuovo.
Sei tu, solo tu e ciò che c’è dentro di te. Lo senti? C’è un fuoco, una corrente, un flusso, una scintilla elettrica che si muove da sempre inquieta nel tuo corpo.
Cova la sua stessa energia, lo fa nel fondo del tuo stomaco, arrotolata sulla parete calda come un serpente a riposo, come un drago che aspetta nel centro del vulcano. È sempre stata dentro di te. Ti ha animato, ti ha protetto in modi che non puoi neanche immaginare. È parte di te, sei tu.
Ascolta solo il suono che produce, segui il flusso, fai ciò che ti suggerisce, lascia che sia lei a guidarti ora e poi, un giorno forse vicino, sarai abbastanza forte da far sì che sia lei a lasciarsi guidare da te. È la nostra natura, è quello che siamo, semidei, essere mortale e divino uniti in un unico corpo, una scintilla di folgore che anima ogni essere umano e che in noi è più forte e vibrante
Senti la vibrazione, ascolta le sue parole, seguila.»
 
Ogni respiro che prendeva sentiva qualcosa depositarsi sul fondo dei suoi polmoni. Scivolava in basso come una cascata, indifferente alla presenza della barriera naturale che era ogni organo o forse libera di fluire proprio per la mancanza di essi. Dopotutto, il suo corpo era morto anni addietro, rimasto sulla terra, nella terra, seppellito sotto una lucida lastra di marmo.
Quella polvere sottile si condensò in un liquido scivoloso, appiccicoso, fluido e viscoso come il miele. Era opprimente, ma così dolce…
Jonas lo sentì arrotolarsi sul fondo del suo stomaco proprio come un serpente, proprio come aveva detto Cade, come un animale dotato di vita propria.
Chiuse gli occhi, si lasciò andare alla sensazione di un qualcosa d’estraneo che si muoveva nel suo corpo, in quel che ne era rimasto, nella sua anima.
Gli tornò in mente una calda estate nella tenuta di famiglia, la temperatura alta, le membra affaticate e stanche per colpa della calura, dell’umidità sulla pelle, la consistenza dura e fregiata del bicchiere stretto tra le dita sudate, contro le labbra secche scottate dal respiro bollente. Era l’acqua fredda che scivolava nella sua gola, nella trachea, dritta nello stomaco.
Era bellissimo.
 
Era magnifico.
 
Poi lo sentì.
L’eco lontano di un ricordo amaro e amato. La sinfonia tetra e lugubre di un pianoforte a coda che suona una marcia funebre. Il fracasso di una vetrina che va in frantumi. L’esplosione di un ordigno. Le grida di persone agognanti, in mille lingue diverse, in mille luoghi diversi.
Sentì una stretta al petto, allo stomaco, lì dove prima c’era acqua fresca ora ve ne era di marcia, di acida e lui odiava i sapori acidi, odiava la sensazione della bile che risale lungo la gola e si spande nella bocca, infestandogli ogni papilla gustativa.
Voleva vomitare, voleva sputare tutti quei sentimenti, tutte quelle emozioni. Gli girava la testa e dio! Che qualcuno lo facesse smettere, che facesse smettere tutto, ora in quel momento.
La forza gli fu tolta con uno strattone violento, mentre un sudore a freddo gli bagnava la fronte e il prato nero puntinato di ricordi vorticava attorno a lui avvolgendolo nell’abbraccio soffocante della notte.
C’erano le urla d’incitamento, di guerra, di paura che rimbombavano forti nelle sue orecchie, nella gran cassa che era il suo petto vuoto, facendogli tremare le membra morte, battendo con forza dietro i bulbi oculari. Era vacuo, era nitido, solido, fumoso, il mondo si prendeva beffa di lui e Jonas non sapeva come reagire mentre una voce sconosciuta ma così famigliare gli mormorava che questo, questo era ciò di cui erano fatti, questo era ciò che si celava in loro.
 
L’amore ha tante facce, alcune come rose, altre come spine, ma non c’è nulla di più sciocco ed umano che chiudere gli occhi davanti alla sua parte peggiore e fingere che non esista.
Illudersi che l’amore non possa essere oscuro è da stolti.
Il lato crudele dell’amore si chiama dolore ed è ciò che ti ha reso ciò che sei, figlio mio.


Jonas si portò le mani alla testa, lasciandosi cadere a terra privo di forza, privo di voglia di agire, di essere, di provare, di lottare.
Aveva già provato queste sensazioni, le aveva provate per una vita intera e fino alla fine sempre di più, sempre di più, sempre di più.
Era esploso, alla fine tutto era cessato nel momento in cui aveva preso la sola decisione possibile, l’unico atto di forza che avesse mai davvero fatto in tutta la sua dannatissima e miserabile vita.
Non era vero quello che aveva pensato durante l’altra prova, non era vero che aveva abbandonato le persone che amava, non era vero. Aveva fatto bene, aveva fatto bene a fuggire, a voltare le spalle a tutto e tutti e ad andarsene perché se fosse rimasto, se avesse deciso di non scappare sarebbe morto di dolore, soffocato da quei sentimenti, da quelle sensazioni. Gli si stava fermando il cuore.
Era sbagliato. Era giusto. Voleva morire di nuovo. Non voleva più sentire nulla. Dov’era la terra? Dov’era il cielo? Cosa gli era successo? Gli avevano sparato? Lo sentiva, sentiva il suono del grilletto, il rumore del cane che scattava, l’esplosione del proiettile che fa solo un quarto di fottutissimo giro nella canna ma penetra la carne così facilmente, così velocemente. Non senti nulla, è solo un attimo. Un colpo alla testa. Perché aveva deciso di arrendersi, perché si era arreso, perché non poteva più fuggire, perché era debole e nulla, nulla sarebbe mai cambiato. Perché non poteva rimanere vicino alla sua famiglia e non ce la faceva, non ne aveva la forza, non ne aveva mai avuto neanche una briciola e così doveva fuggire, più lontano possibile, dove nessuno l’avrebbe mai potuto raggiungere, al sicuro, al sicuro. Sicuro. Lontano. Sicuro.
Ma qualcosa l’aveva raggiunto alla fine, non era stato abbastanza- non era stato abbastanza e basta.
Poteva morire di nuovo? Per favore?
Perché c’erano tutti quei suoni? Perché erano così vicini?
Poteva morire? Poteva chiudere gli occhi e non riaprirli più?
Dov’era Cade? Perché non era vicino a lui? Perché l’aveva lasciato solo? Si era fidato, si era fidato tanto, aveva pensato che fosse suo amico, che fossero uniti in qualche modo, perché non lo tirava fuori da quel mondo? Perché non faceva smettere tutto? Era debole… così debole… lo era sempre stato, non era mai riuscito a difendersi, era sempre scoppiato nei momenti meno opportuni, riusciva ad essere un ragazzo modello per così poco tempo e poi tutto andava in fumo. Lo stress, la paura, l’angoscia, il sorriso sgargiante ed ammaliatore dell’unico raggio di sole che avesse mai penetrato la coltre scura in cui viveva, la voce di suo nonno che gli diceva che aveva fatto un buon lavoro, che stava migliorando, che sarebbe diventato un vero uomo. Con sacrificio, sudore e sangue. E lacrime, tante lacrime, ma questo non poteva dirlo a nessuno, questo non andava mostrato. All’oscuro, chiuso nella sua camera, le tende tirate, una mano gentile che gli carezzava i capelli, uno scintillio verde nel mezzo dell’ombra. Un bacio soffice. Un altro, solo un altro e poi lascerai la sua mano, solo un ultimo bacio. Non vi rivedrete domani. Lo sai, ora lo sai.


Jonas aprì di scatto gli occhi, il respiro pesante, la fronte imperlata di sudore. Stringeva convulsamente le mani di qualcuno e non gli ci volle molto per rendersi conto che erano quelle di Cade.
Lo sorprese invece ritrovarsi in piedi, esattamente nella stessa posizione in cui si trovava quando aveva chiuso gli occhi e cercato d’attingere al suo potere.
Il ragazzo davanti a lui lo fissava serio, senza però dire una parola.
Con un gesto lento Cade liberò una delle sue mani, si tirò il polsino logoro della camicia sul dorso e gli asciugò con delicatezza le guance bagnate, il viso sudato.

«Cos’hai visto?» gli chiese solo.

Visto? Oh, non aveva visto niente, ma aveva sentito, aveva sentito così bene. Lo mormorò appena ma Cade lo sentì perfettamente ed annui.
«Vuol dire che per quanto tu non abbia mai utilizzato i poteri di tuo padre questi sono comunque forti in te.» replicò a bassa voce.
«Era la mia condanna…» gli disse piano lui. Sfiorò con la mano libera il giogo che portava al collo, «Il mio collare- rifletteva le pene dei dannati, dei codardi come me. Il potere di mio padre si spandeva attorno a me, il collare lo rifletteva all’infinito. Era la mia e la loro condanna, non c’erano molti carcerieri. Anche da morto non sono abbastanza per meritarmi un vero carceriere infernale.» rise senza gioia.  
La stretta sulla sua mano si fece rigira ed una schicchera gli batté veloce sulla fronte.
«Ahi!» Jonas si massaggiò la pelle arrossata e guardò male il compagno. «Che diamine-?»
«Non t’azzardare mai più a dire una cosa del genere. Tu sei più che abbastanza per qualunque cosa, chiaro? Mi stanno sul cazzo le persone che credono di essere la feccia del mondo senza un valido motivo.»
Era la prima volta che l’Irlandese gli si rivolgeva con un tono così duro e Jonas rimase a fissarlo imbambolato. Poi, come un’ondata anomala, la rabbia gli salì prepotente alla gola e con tutta la forza che aveva in corpo tirò uno spinatone a Cade per poterselo allontanare di dosso.
«E tu che ne sai? Che ne sai se ero davvero abbastanza o meno? Che ne sai che non ho i miei buoni motivi per crederlo? Li ho, li ho eccome! Tu non sai cos’ero, non sai com’ero! Non sai cosa ho fatto, i miei errori, i miei sbagli, i miei peccati! Ho sbagliato tutto! Tutto Cade! E l’unica cosa buona che avevo l’ho abbandonata per scappare, per smettere di essere ciò che ero, per smettere di guardarmi le spalle ogni giorno, in attesa che qualcuno parlasse troppo e arrivassero le giubbe nere a portarmi via! Sono scappato! Scappato abbandonando l’unica persona che amavo! Sono un codardo ora così come lo sono stato in vita!
Dici di essere tu quello con la coscienza sporca ma sono io quello finito all’Inferno, non tu! Tu eri tra i buoni! Tu sei un buono e non sai un cazzo! Non sai un cazzo di me!» gli urlò con quanto più fiato aveva in gola.
Lo fissò ansante, dolorante, ferito. Da quanto tempo era che non urlava più così? Da quanto tempo non scoppiava a quel modo? Si sentiva sfinito come dopo ogni sua crisi a scuola, come quando arrivavano gli esami e non c’era più nulla che potesse dargli un minimo di pace, di serenità.
Se Cade gli avesse anche rifilato uno schiaffo allora sarebbe stato proprio tutto come ai vecchi tempi.
Ma Cade non si mosse, Cade non lo toccò, quasi non lo guardò. No… non lo vedeva.
Cos’aveva detto per far sì che l’allegro, ironico e rumoroso Cade si spegnesse in quel modo?
 
“Scappato abbandonando l’unica persona che amavo”
 
Le sue stesse parole gli rimbombarono in testa.
Aveva detto proprio così e l’aveva detto a qualcuno che era morto per proteggere il suo paese, la sua terra e-
 

“I miei Liberty Birds…”


Tutte le persone che amava.
 
Ho deluso anche te alla fine?
Si domandò amareggiato Jonas, convinto d’esser riuscito di nuovo a rovinare tutto. Oh, era così bravo lui a rovinare le cose, le persone, i rapporti, a rovinarsi la vita e a quanto pare anche la morte. Aveva appena perso l’unica persona di cui si era fidato? L’unico che l’aveva capito e aiutato senza chiedere nulla in cambio? Perché riusciva sempre a sbagliare in ogni singola cosa che faceva?
 
«C’era un ragazzo dietro di me.» disse d’improvviso Cade. «I Giudici Infernali ci stavano mettendo una vita. Discutevano le mie azioni, il mio passato. Per uno di loro meritavo i Campi di Pena, per un altro quelli erano troppi e sarei dovuto andare nelle Praterie. Poi dalla fila si è affacciato un ragazzo, con il viso macchiato di sangue e un buco enorme sulla nuca.» si fermò, volse lo sguardo lontano, nell’erba nera e mossa. «Disse che ero un eroe. Disse che aveva combattuto per quattro infinite ed infernali giornate al mio fianco, contro gli Inglesi. Ero un eroe, ero uno dei tanti martiri votati dall’Irlanda. Mi ero sacrificato lottando fino all’ultimo respiro. La mia ultima azione, la mia morte, aveva appena cancellato tutte le scelte della mia vita.»
Cade si voltò di nuovo a fissarlo e per la prima volta Jonas vide il volto duro e segnato di un giovane che aveva passato la sua intera esistenza a sopravvivere. Per la prima volta non vide quel buffone gentile e fraterno, sempre con la battuta pronta che punzecchiava e ti saltellava attorno per non essere preso. Vide un ragazzo di ventisei anni che aveva visto troppo, aveva vissuto troppo ma non abbastanza, aveva condiviso la sua vita con altri ragazzi cercando di sopravvivere al meglio, insieme.
Non seppe come replicare.
«Questo non sei tu.» continuò con voce secca. «Sono le Praterie che stanno agendo anche su di te, che ti fanno dubitare, e il tuo potere divino deve averti dato una grossa spinta, ma non-sei-tu, sono stato chiaro? Una decisione può cambiarti la vita, l’epoca in cui nasci può determinare il tuo destino. Probabilmente se fossimo nati una decina d’anni dopo entrambi ora non saremmo qui.
Impara a prenderti le tue responsabilità e le tue soltanto, sono stato chiaro?»
Improvvisamente remissivo Jonas annuì. L’aveva ferito: aveva di nuovo ferito qualcuno a cui stava imparando a voler bene.
 
«E scommetto che non ce l’ha con te.»
Jonas lo guardò confuso. «Chi?»
«La persona che amavi, la tua ragazza. Non ce l’ha con te. Se ti conosceva bene saprà che le tue azioni sono state pensate e anche sofferte.» gli passò di fianco e si fermò dandogli le spalle.
«Ora muovi il culo, ci siamo persi Elena.»
«Lea.» mormorò piano. «Non le piace che la sia chiami Elena.»
«Beh, tanto non è qui per sentirmi.
Sei riuscito a percepire qualcosa che ti abbia ricordato noi?» gli domandò scrutando l’orizzonte nero.
Jonas scosse la testa. «Sentivo bombe, urla, vetrine rotte, parole in mille lingue diverse e- sensazioni, sentimenti, emozioni… ma era tutto così forte, tutto così vero… mi ha ricordato-»
«La tua morte.» finì la frase per lui. Poi, finalmente, lo guardò in faccia. «Complimenti, penso proprio che tu abbia trovato la tua stessa sfera allora.»
Il biondo lo fissò sconvolto: come la sua sfera?
Che fosse…?
 
Più i sentimenti sono intensi, più ci appartengono. Li sentiamo così vivi e veritieri perché li abbiamo provati anche noi. O forse perché eravamo noi a provarli.
 
I suoi occhi parvero diventare improvvisamente vitrei, grigi come fumo.
Un ricordo legato alla sua morte.
Con orrore Jonas si rese conto di non ricordare come avesse scelto di agire quella notte.
Da lontano la voce di Lea li raggiunse come l’eco di una maledizione.
 
«Jonas! Credo di aver trovato la tua!»
 
Dio, no, ti prego, no.
 
 


 
Lea voltò la testa di lato, Jonas teneva gli occhi chiusi facendo respiri profondi e Cade, posto davanti al ragazzino, lo fissava attentamente parlandogli con voce sommessa.
La ragazza scrutò l’orizzonte nero, domandandosi come fosse possibile che tutte le anime si fossero disperse in quel modo, che il mondo era grande, certo, ma tutti i morti della terra erano decisamente troppi. Si chiese se, in un qualche modo, l’Ade non fosse persino più grande del pianeta, se non ci fossero piani differenti, paralleli, nascosti nelle ombre. E soprattutto come fosse possibile che non vi fosse neanche una sfera da quelle parti. O forse…
Il suono che percepì fu velocemente associato allo scatto di un coniglio tra l’erba alta. Lea lo ricordava dalla sua infanzia, quando aveva scorto le lepri nel giardino del convento e si era alzata sulle punte per poter vedere le orecchie grigiastre dell’animale far capolino tra gli steli. Cercò di individuarne la provenienza ma tutto sembrava quieto attorno a loro, i prati mossi solo dalla brezza umida e solforica dell’Inferno.
Gettò una rapida occhiata a Jonas, che pareva decisamente perso nel tentativo di metter un lazzo ai suoi poteri, e conscia che per ogni cosa ci sarebbe stato Cade al suo fianco avanzò verso l’illimitato campo.
Sapeva perfettamente che non poteva esserci un coniglio da quelle parti, eppure le pareva di esser tornata piccola, a girovagare per il giardino alla ricerca delle tane dei piccoli animali e di nidi cinguettanti. Era un’immagine così lontana e pacifica che si scontrava in modo violento con la situazione in cui si trovava.
Lea continuò a seguire il sui istinto però, perché una delle lezioni fondamentali che Giuseppe le aveva dato era che un semidio deve sempre seguire il suo istinto e fidarsi di esso. Girò un poco la testa verso i suoi amici, le dispiaceva lasciarli in un momento del genere ma tanto Jonas doveva concentrarsi no? Non sarebbe successo nulla se si fosse allontanata di pochi passi, giusto di qualche metro… e poi sembravano entrambi troppo occupati per prestarle attenzione.
In quei prati non c’era neanche un luogo in cui nascondersi, a meno che non si fosse gettata tra gli alti ciuffi neri Cade l’avrebbe potuta trovare facilmente, sì, non c’era alcun pericolo.
Si sentiva come incantata, un bambina che segue il suono di un pifferaio magico che l’attira lontano da casa, verso nuove avventure.
Solo che i bambini di quella vecchia fiaba erano andati incontro ad una terribile fine.
Un brivido la scosse e voltandosi indietro Lea non vide più gli altri due. Presa dal panico si mosse freneticamente: com’era possibile che fossero scomparsi? Il terreno era piano, non vi erano avvallamenti, non vi erano alberi, muri, rocce.


Segui il bianconiglio, Alice.
 
Una voce mormorò quieta nella sua testa e Lea si bloccò di colpo.
Si voltò con lentezza, girando su sé stessa sino a tornare alla posizione iniziale.
Sentiva qualcosa di strano, di famigliare. Quella non era una sensazione nuova: da quando era iniziata la gara le era parso così spesso di avvertire un aura di famigliarità che la sfiorava e l’unica risposta che era riuscita a soddisfarla era che, forse, era passata vicino ad un suo fratello, che aveva captato la sua scia e l’aveva riconosciuta come simile alla sua, fraterna. Un legame di discendenza e non di sangue, lo stesso che le permetteva di individuare Giuseppe anche a metri di distanza.
C’era quindi un suo fratello o una sua sorella da quelle parti? Erano loro che aveva sentito? Il retaggio divino di suo padre emanato da un altro essere a lei affino?
 
Alla tua destra.
 
La voce le sussurrò ancora all’orecchio e Lea l’ascoltò come se fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo. Si girò verso destra e le parve di scorgere la figura di un giovane al limitare del suo campo visivo. Si rigirò in quella direzione, il rumore della lepre che saltava tra le piante si disperse nell’aria e il suono di una chiave che girava dentro ad una serratura la portò, per l’ennesima volta a voltarsi.
Cos’era stato?
 
Guarda giù, Alice.
 
Lea abbassò lo sguardo, lasciando che le sue labbra che aprissero in una piccola ‘o’ di stupore non appena si rese conto di ciò che le si era palesato davanti.
Poggiato tra l’erba nera e filiforme se ne stava un globo un poco più grande del suo ma con colori decisamene più cupi. Era rossiccio e bruno, come una stanza scura illuminata solo dalla luce di un camino. Un camino che poteva sentir crepitare, il suo riflesso che vedeva ballare contro la superficie curva della sfera.
Non le pareva un ricordo doloroso, crudele o cruento. Sfiorandolo delicatamente con le dita tutto ciò che il globo le trasmise fu stanchezza, demoralizzazione, speranze infrante e sogni distrutti. Era malinconico, era una vita fanciullesca arresasi alla realtà del mondo. Era tiepida come un tea lasciato per troppo tempo sul tavolo, non più bollente e rilassante e non ancora freddo e rinfrescante. Era così… desolante. E lo era anche il volto sgranato del giovane che si scrutava con occhi vacui allo specchio di quella che doveva essere la sua camera.
Lea alzò le sopracciglia, sorpresa dal fatto che tutta quella malinconia avesse appena mostrato il suo viso e che l’avesse fatto sotto le sembianze di qualcuno che lei conosceva.
 
Portagliela allora. Fai la cosa giusta. Alla fine, l’hai sempre fatta, no?
 
La figlia di Apollo strinse con delicatezza le mani attorno alla sfera, alzandosi in piedi e voltandosi, sicura, verso la direzione da cui era venuta. Lo sapeva per certo, per istinto.
Iniziò a camminare sempre più veloce, senza rendersi conto che le immagini nel globo stavano cambiando, che la prospettiva s’era allontanata dallo specchio e ora inquadrava la porta.
Come un miraggio, da lontano, le parve di scorgere due figure vicine, una di fianco all’altra, non si guardavano in faccia, una era anche di spalle ma Lea sapeva che erano i suoi compagni.
 
«Jonas! Credo di aver trovato la tua!» urlò con quanto fiato aveva in gola.
 
Non poté vedere lo sguardo di puro terrore che si aprì sul viso del ragazzo, così come non si rese conto che il ricordo era terminato, sfumando in un vortice grigio e blu come la luce che illuminava la stanza in cui quel frammento di vita si fermava.
Vide però chiaramente Jonas voltarsi verso di lei e cominciare a correrle incontro, urlandole qualcosa in una lingua che non capiva, il cui suono duro le ricordava quello dei soldati austroungarici e che associò facilmente al Tedesco.
Cosa voleva Jonas? Perché era così preoccupato? Sembrava quasi avesse paura di qualcosa.
Lea gettò a mala pena uno sguardo alle sue spalle, sicura che non potesse esserci nessun pericolo perché Cade era rimasto fermo immobile al suo posto, non le era corso incontro come Jonas, non sembrava allarmato. Più si avvicinava però, più Lea si rendeva conto che l’espressione del rosso era fredda, dura, impassibile. Esattamente l’opposto del ragazzino, il cui terrore gli si poteva legger in faccia.
 
«Lass sie in ruhe! Fass sie nicht an!»
 
«Cosa dici? Non ti capisco?» gli urlò di rimando.


Erano ormai a pochi passi l’uno dall’altra e se fosse stato possibile Lea avrebbe giurato che gli occhi del suo compagno si fossero sgranati ancora di più di quanto già non lo fossero.
Jonas fissava allucinato la sua sfera, la paura così chiara nelle iridi grigio-azzurre, nella piega rigida della bocca, da spingere Lea ad abbassar anche lei lo sguardo sul globo contenente il ricordo.
L’ultima cosa che vide fu la figura di una persona che lentamente prendeva forma nel vetro, una massa di morbidi ricci biondo fragola, due scintillanti occhi verdi piedi di vita, di gioia, la visuale che prima s’assottigliava, come se il Jonas del ricordo avesse socchiuso gli occhi, e poi andava incontro a delle labbra arrossate di baci per potervene scoccare un altro, un altro ancora, e poi, di nuovo, allontanarsi per poter godere al meglio di quella visione davanti lui.
Quando Jonas mise le mani sulla sfera, sopra quelle della ragazza, era già troppo tardi.
Con una scossa elettrica che li percorse entrambi con violenza, Lea e Jonas si trovarono improvvisamente spettatori del frammento di vita perduto del giovane e dell’ultima volta che aveva tenuto tra le braccia il suo primo ed unico amore.



 













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Capitolo 11
*** Mother ***


!Attenzione! Capitolo particolarmente lungo e denso.Di nuovo, sì, lo so che comincio a stavve sui santissimi.







Capitolo XI- Mother.
 
 
 
 
 
La stanza era buia e rossastra, aveva spento tutte le lampade e l’unica fonte d’illuminazione era il camino che crepitava quieto, le braci ormai quasi spente.
Le pareti erano tinte di bruno, l’odore del fuoco si mischiava quello flebile della persona che se n’era appena andata.
Si poggiò con la schiena contro la porta, facendo scattare la serratura alla cieca, storcendo il polso in una posa fastidiosa che però lo lasciò indifferente.
Era stanco, svuotato di ogni energia, di ogni forza, di ogni voglia. Perché era ancora in piedi? Perché non si era già lasciato scivolare a terra, addormentandosi sul pavimento come un cane da guardia?
Oh, suo nonno non l’avrebbe presa bene, per niente, e non dubitava che la servitù sarebbe corsa ad informarlo. Non voleva sentirlo, le lamentele, lo sguardo deluso, essere sgridato come un bambino che- che in fondo forse ancora era. Sedici anni sono così pochi per un essere umano eppure gli parevano una vita lunghissima ed estenuante.
Non voleva che sua madre si preoccupasse, pensò d’improvviso. Già se la vedeva davanti, seria e attenta, che gli domandava cosa ci fosse che non andava, perché si stava comportando in quel modo, perché pareva aver perso interesse per ogni cosa. Preoccupata, sì, come lo era sempre stata per lui, per loro, per la loro vita. Se solo avesse avuto anche un quarto della forza di sua madre non si sarebbe trovato in quella scomoda posizione.
Perché era ancora lì?

Batté le palpebre e poi le tenne spalancate, lo sguardo fisso nel vuoto, a sfocargli la visa, sino a far seccare l’occhio. Ma non li avrebbe chiusi, no, non l’avrebbe più fatto. La prossima volta che avrebbe chiuso gli occhi non sarebbe più stato lì, non sarebbe più stato in pericolo, non sarebbe più stato in quell’inferno. Avrebbe chiuso gli occhi solo una volta in salvo, questa era la sua intenzione, la sua silenziosa promessa a sé stesso.
Come un automa si volse e riaprì la porta, camminando con passi leggeri e lenti. Pareva un condannato a morte che si dirigeva al suo patibolo, pronto ad affrontare il giudice e tutti i giurati, pronto a vedersi elencare i suoi peccati e le relative pene.
Il corridoio era lungo, freddo, blu e vuoto, un contrasto incredibilmente stridente con la sua camera che ancora calda, profumata di vita e di fuoco, di una passione che si era accesa pian piano ma inesorabilmente, rossa e piena, piena di qualcosa che non l’avrebbe più riempita.
Nessuno sarebbe più entrato in camera sua, a trovarlo, non sarebbe più stato lì ma altrove, lontano da tutto il male che il mondo, l’uomo, sapeva generare. Lontano dai mostri che abitavano la sua città, il suo paese.
La sua meta era lontana come ogni cosa in quel palazzo silenzioso. Anche se circondato di mobili e pezzi d’arte di lusso non riusciva davvero a sentirsi felice, al sicuro,
a casa. I quadri avevano volti severi, sguardi freddi, i riflessi sui vasi opachi, i tendaggi alle finestre pesanti come una coltre soffocante.
Voleva solo scappare di lì, come il codardo che era, come il bambino spaventato che era.
Quando si fermò davanti alla porta decorata ad arte Jonas tentennò. Doveva farlo davvero? Non c’era altro modo per scappare? Non aveva alcuna alternativa? Avrebbe mai potuto combattere e vincere quella guerra? Quella vita che non andava bene, quel sogno così lontano, così fumoso, così… bello e doloroso. Se fosse rimasto, se fosse rimasto anche solo un altro giorno sarebbe morto di dolore, sarebbe caduto in basso, nel fango, percosso, umiliato, torturato ed ucciso… e non sarebbe toccato solo a lui.
La mano che si poggiava sulla maniglia congelata fu la fine di tutto. Da lì non c’era più ritorno.

 
 
 
 
Lea batté le palpebre, la vista che tornava lentamente al mondo crepuscolare dell’Ade, la sensazione dell’erba sotto le suole di cuoio, degli steli che le solleticavano le gambe.
Davanti a lei Jonas la fissava con la stessa espressione stupita e sconvolta con cui l’aveva raggiunta, la paura così palese nei suoi occhi da esser terrore puro.
Balbettò qualcosa che Lea non riuscì a capire, troppo stranita da tutta quella situazione, dal modo altalenante con cui parlava, come le parole sembravano incepparsi contro i suoi denti e nel modo in cui la erre scivolava tra essi più marcata, più sibilante. Jonas aveva la erre moscia? Davvero? Perché non se ne era mai accorta? Com’era possibile?
Con un colpo di fulmine a ciel sereno Lea si rese conto di non riuscire a capire quei balbettii perché il ragazzino aveva ricominciato a parlare in tedesco, come se la comprensione omnisciente dell’Inferno fosse scomparsa da lui, da loro. Le ci volle un attimo per ricordarsi che lei, il tedesco, lo sapeva, che anche se non lo sentiva più parlare da tantissimo tempo, quelle parole le erano estranee quanto famigliari.
Sentiva le proprie mani tremare, tanto erano forti gli spasmi che lo scuotevano in quel momento e la figlia di Apollo non ci mise molto a riconoscere i segni di una vera e propria crisi isterica.
Il volto di Jonas era pallido di morte e di paura, profondi cerchi viola contornavano i suoi occhi e le labbra quasi blu. C’era uno strato di sudore lucido sul suo volto, una patina sottile sulle sue mani. Il rumore dei denti che battevano una corona contro l’altra così forte che Lea ne era sicura, anche Cade da così lontano poteva sentirlo.
Jonas teneva le mani serrate sulla sfera ma anche sulle sue di mani, stringeva così tanto da infilarle le unghie corte e spezzate nella pelle, tanto da farle male, da graffiarla, da ferirla. Ci volle poco prima che le mezzelune rossastre si riempissero di minuscoli puntini rossi, neanche un minuto prima che il sangue salisse in superficie e formasse uno strato gonfio e tremolante lì dove le unghie del ragazzino erano slitte via graffiandola.

«Jonas? Jonas, tesoro, va tutto bene. Va tutto bene, ragazzo, tranquillo. Jonas?» l’infermiera provò a chiamarlo con voce ferma e sicura, come aveva imparato a fare così tanti anni prima da esser diventati secoli.
In sé, Lea aveva sempre covato una dualità che aveva fatto ridere di cuore suo fratello: era confusionaria, un po’ infantile, s’arrabbiava per le piccole cose e ti rispondeva come fosse una ragazzina. Di comportamenti da signorine ne aveva davvero pochi, le ripeteva Giuseppe, ed era molto più facile che rompesse o perdesse qualcosa piuttosto che azzeccasse un passaggio. Eppure, quando si trattava di medicare, di aiutarlo con i pazienti, di salvare vite, il medico non avrebbe voluto nessun altro al proprio fianco che non fosse quella sorellastra che, all’atto pratico, era diventata sua figlia. Perché Elena era confusionaria ed infantile, era tante cose, ma non appena c’era bisogno di lei, non appena la situazione si faceva difficile, si faceva seria e delicata, entrava in una modalità che dire “medica” era poco. Era proprio quello il termine “la versione seria e medica di Lea”, il momento in cui scattava l’interruttore e lei diventava un infermiera, una guaritrice, una figlia di Apollo votata alla salvezza e alla salvaguardia di chi aveva bisogno di lei.
Si scindeva in due parti, in due perfetti opposti, e se qualcuno si era domandato come fosse possibile, se qualcuno si era stupito, Giuseppe aveva sempre risposto la stessa cosa:
 
«Anche il sole ha due lati, due personalità. Bacia le terre fertili, scioglie la neve e porta la vita, ma d’altra parte brucia le terre arse, incendia la steppa, prosciuga le oasi. Il Sole non è mai solo buono e luminoso, se lo fissi per troppo tempo diventi cieco.»
 
Quell’interruttore era scattato ancora una volta dentro di lei e la ragazza allegra e gioiosa che era corsa incontro al compagno per consegnargli un ricordo perduto era appena scomparsa in favore della professionista che era in lei.
Veloce ed efficiente Lea tolse le mani dalla sfera, ignorando i graffi più profondi che si sarebbe procurata in quel modo, e strinse con sicurezza le mani attorno ai gomiti di Jonas, per poi costringerlo a sedersi a terra.
 
«Fai respiri profondi, solo con il naso, non respirare con la bocca. Distendi la testa, così, indietro, verso l’alto. Ti vuoi sdraiare?» glielo chiedeva con gentilezza, sfregandogli le mani sulle braccia tese all’inverosimile. Cosa diamine aveva visto di così scioccante in quel ricordo? Avevano visto la stessa cosa, la stessa scena, probabilmente condividendo gli stessi sentimenti e lo stato d’animo di quella notte, ma Lea non aveva visto nulla di sconvolgente, nulla di atroce. Che fosse stata quella porta, l’ultimo frammento di ricordo, a farlo tremare così nel profondo, in modo così feroce? Cosa si nascondeva dietro a quell’uscio?
La sua mente lavorava febbrilmente e nel frattempo, senza neanche rendersene conto, le sue labbra si muovevano appena mormorando canti curativi, calmanti, antidolorifici.
Che oltre quella porte si nascondesse la sua morte?
Aveva capito che Jonas voleva scappare da una situazione pesante e opprimente, che c’era una guerra che era convinto di non poter vincere, che il suo governo e i suoi stessi concittadini erano votati ad un male che avrebbe messo in ginocchio tutto il mondo. Era anche più che ovvio ormai che fosse quella la sua colpa: Jonas era scappato invece di affrontare la guerra, se si fosse trovato nell’inferno cristiano a quest’ora sarebbe stato immerso nel ghiaccio assieme a tutti i traditori perché fuggire lasciando famiglia e popolo a sé era ritenuta una delle più grandi onte possibili; quindi c’era il suo assassino in quella stanza?
 
«Continua a respirare, non ti fermare. Chiunque ci fosse dietro quella porta ora non può più farti del male, mi hai capito Jonas? Non può farti nulla, non può ferirti.» provò allora.
Il ragazzo però non accennava a volersi calmare o anche solo a sentir la sua voce.
Con un moto di stizza Lea si disse che probabilmente stava sbagliando qualcosa, che doveva trovare un altro modo per far star bene il suo paziente, per farlo calmare. Ma come?
Mordendosi la lingua si diede dell’idiota: volva tornare alla sua vecchia vita, dimostrare di essere alla pari di tutti quegli uomini che si erano potuti arrogare il diritto di essere medici mentre a lei era stato concesso solo di fare l’infermiera e ora non riusciva ad aiutare qualcuno che, all’atto pratico, reputava un amico?
Vedere Jonas così piccolo e così spaventato – di nuovo – la faceva sentire piccola e vulnerabile a sua volta, come quando da bambina vedeva cose strane, mostri demoniaci che non esistevano, non potevano esistere, e nessuno le credeva. Si sentiva impotente come troppe altre volte nella sua vita Ma ora non c’era tempo di autocommiserarsi, non c’era tempo per rivedere tutti gli errori della sua vita, poteva solo dare il meglio di sé e far sì che questo meglio bastasse.
Quindi la domanda era: cosa aiuta una persona a superare una crisi quando questa non ha nessuna soluzione fisica? Quando è tutta nella nostra testa?
La paura irrazionale che stava provando Jonas era tutta nella sua mente, non c’era nulla che potesse ferirlo, nulla che potesse fargli del male. Questo era un punto fondamentale.
 
«Jonas, ascoltami, continua a respirare ma ascoltami: non c’è niente attorno a noi, vicino, lontano, non c’è nulla. Siamo nelle Praterie degli Asfodeli, le sfere di Ermes sono disperse per tutti i campi, miglia e miglia, ettari ed ettari. Non c’è nessuno vicino a noi, nessuno che possa farti del male. Qualunque cosa ti abbia ferito, qualunque cosa ti abbia portato alla morte non è qui. Chi ti ha fatto del male non è qui, hai capito? Chiunque ti abbia ucciso non c’è più, non è qui, sei al sicuro. Ci siamo solo noi e-»

Cade.
 
Perché Cade non era lì con lei? Perché quello che sicuramente era il più vicino a Jonas, che l’aveva preso sotto la sua ala e teneva a lui tanto da esser scambiato per suo fratello, non era lì con loro? Perché non era inginocchiato vicino a quel ragazzino a tenergli le mani e dirgli che fosse tutto apposto, che non c’erano pericoli?
Lea voltò la testa per cercare il rosso con lo sguardo ma non lo trovò più, non lo vide da nessuna parte esattamente come non aveva più visto entrambi quando si era allontanata attirata dal fruscio di una lepre inesistente.
Dove diamine era finito Cade? Perché non c’era nel momento del bisogno?
L’immagine di due figure stagliate spalla a spalla, una voltata da un verso ed una dall’altro, le riaffiorò lentamente come un vecchio ricordo dimenticato.
Elena abbassò lo sguardo su Jonas, pallido, tremante, quasi cianotico in volto e si ritrovò a chiedersi come diamine fosse possibile che quel ragazzino riuscisse sempre a litigare con tutti nei momenti meno opportuni.
 
Dove diamine sei? Mi serve il tuo aiuto. Gli servi tu.
 
Il vento fantasma sfiorò i prati neri e mosse l’erba scura. Attorno a loro c’era solo il silenzio della morte.
 

 
*



«Che cazzo ha sta volta?»
Eliza sospirò e si voltò a guardare il suo compagno scocciata. «Ne senti proprio il bisogno?»
Nathan si strinse nelle spalle. «Sei stata anche tu nell’esercito, avrai sentito di peggio.»
La donna storse il naso. «Non me lo ricordare, gentilmente.» poi espirò più pesantemente. «A che cosa ti stavi riferendo?»
Il soldato neanche la guardò. «Il roscio, che problema ha? Sono di nuovo le Praterie? Questa è la volta buona che ci esce pazzo e lo possiamo mollare qui in questo posto di merda?»
L’altra scosse la testa. «Non impazzirà, questo è poco ma sicuro, non ho chiesto a Lea di andare con lui per caso.»
«E pure al moccioso.»
A quell’affermazione Eliza si volse a guardarlo con un sopracciglio alzato, un piccolo sorriso ad increspargli le labbra. «Fai molta attenzione a quello che succedere “al moccioso”. Hai deciso di prenderlo sotto la tua protezione?» gli domandò.
Nathan grugnì. «Non dire cazzate. Se dovessi prendere lui sotto la mia protezione mi prederei pure quella palla al piede di un pazzo irlandese. Tsz, dieci volte.» borbottò ironico.
«Non puoi darla a bere a me, Wright, riconosco quando un superiore tiene d’occhio un cadetto.»
«Ma lui non lo è. Anche se sono certamente più forte, più grande, più esperto, intelligente e gli dei solo sanno cosa più del marmocchio, questo non fa di me il suo superiore in grado e di lui il mio cadetto. Non ci sono gradi qui. Se ci fossero forse sarebbe un mozzo. Anzi, no, Cade sarebbe un mozzo e lui un soldatino appena spedito all’accademia militare da un paparino pieno di soldi.»
Di nuovo, però, Eliza non ci cascò. «Hai avuto tanti bambini sotto il suo comando quando eri al Campo?» chiese cono tranquillità spostando qualche ciuffo più altro per trovarvi in mezzo residui di sfere rotte. Strinse le labbra e andò oltre, quel ricordo, quell’anima, erano ormai perduti.
Un altro grugnito le fece capire di aver centrato il punto.
«Eravamo tutti bambini…»
La voce bassa, strascicata e nostalgica con cui lo disse la spinsero a fermarsi e voltarsi verso di lui.
Nathan teneva la testa alta, il portamento ritto e fiero che aveva sempre avuto da quando l’aveva conosciuto, eppure i suoi occhi erano vacui, persi chissà dove, in chissà quale ricordo, quale momento della sua vita in cui era un bambino con più paura che denti in bocca, quando non era ancora abbastanza forte per sopravvivere da solo, figurarsi per vivere una vita normale.
C’erano passati tutti, presupponeva, in un periodo della vita in cui non si era capaci di fare nulla, non si era in grado di alzare il capo e dire di no, di non esser sopraffatti.
Quando Eliza si era arruolata aveva dovuto rinunciare a tutto ciò che aveva, persino e soprattutto a sé stessa. Non era più stata Elizabeth Reed, figlia del Colonnello Philip Reed, era diventata solo uno dei tanti soldati di fanteria delle Colonie unite. La sua vita si divideva in due grandi parti, quando era solo la figlia di un militare, che passava la maggior parte del tempo sola, che si allenava come poteva con il sogno di rendere libero il suo paese proprio come faceva suo padre, quando scappava da mostri che una giovane ragazza dai capelli bianchi come neve le aveva detto esistere e quando era un soldato.
C’era stata una vita in cui faticava giorno e notte per essere forte ed una vita in cui, finalmente, quella forza poteva esser mostrata, poteva esser utile a qualcosa. 
Eliza non aveva mai avuto troppi amici, una femmina che fa cose da maschio non suscitava troppa simpatia, specie se quella femmina era lasciata allo sbaraglio, senza una figura maschile che potesse indicarle la giusta via da percorrere, senza una madre amorevole e devota che attendeva il proprio marito chiusa in casa a pregare per lui e crescere la loro prole.
Non c’era stato un momento in cui qualcuno le aveva spiegato davvero le cose, sua madre era apparsa una volta, le aveva detto chi era, com’era fatto davvero il mondo e poi era scomparsa, persa per anni prima di riapparirle sul campo di battaglia e dirle che aveva fatto un buon lavoro. Eliza non era stata addestrata, né come semidea né troppo come soldato. Era stata buttata in campo ed aveva combattuto con tutte le sue forze, come se non ci fosse un domani. Perché effettivamente, un domani, non era mai certa di poterlo vedere.
Guardò Nathan per un lungo momento e si chiese come doveva esser stato trovarsi tra propri pari, tra ragazzi e ragazze della sua stessa età, in grado di fare cose straordinarie, in grado di capire com’è sentirsi fuori dal mondo ma anche terribilmente dentro di esso, diviso tra due verità che pochi possono conoscere e che ancora meno riescono a comprendere.
Lei aveva combattuto fianco a fianco con giovani di tutte le età, in un periodo storico in cui andare in guerra a diciassette anni era la norma, in cui se c’era bisogno ne potevi avere anche sedici, anche quindici. Com’era stato esser protetto da qualcuno? Quando la tua unica colpa era l’esser troppo piccolo, non ancora abbastanza grande, e non esser nato donna? Cosa si provava a combattere vicino a fratelli e amici legati al tuo stesso destino da un filo invisibile, aver tutti le stesse possibilità, tutti lo stesso ruolo…
C’era solo una cosa che probabilmente non cambiava da qualunque prospettiva la si vedesse: tutti loro, i suoi compagni, quelli di Nathan, erano morti troppo giovani.
Che fossero ragazzini pronti a liberare l’America dagli Inglesi e dal Colonialismo o ragazzini pronti ad uccidere il prossimo mostro e liberare per un po’ quella terra di nessuno che era il mondo. Tutti loro, tutti quanti, erano morti troppo preso.

«Hai perso molti compagni? Semidei intendo.»
Nathan scosse la testa. «Non molti. Mi pare di avervelo già raccontato a te e al roscio malpelo, potevi uscire dal Campo e dalla sua cupola protettiva solo con una missione assegnata, e se non eri forte nessuno ti chiedeva nulla.» disse spiccio. «La maggior parte di noi, dei ragazzini che uscivano dal Campo per non farvi più riorno, erano quelli che tornavano a casa.»
Eliza si accigliò. «Tornavate a casa? Credevo che rimaneste sempre lì.»
Un altro scuotere di testa. «Dei dell’Olimpo, no, no. Forse sarebbe anche stato meglio, se non eri abbastanza forte era la tua unica possibilità di sopravvivere. Però le cose funzionavano così: arrivavi al Campo, se ti diceva culo tuo padre o tua madre ti riconoscevano, se no finivi nel carro bestiame di Ermes, sto stronzo alato, e rimanevi lì finché chi t’aveva messo al mondo non avesse finito di farsi fare la manicure e si degnasse di dire a tutti che “oh, sì, cazzo, è vero, ho procreato anche st’altro sfigato di merda”. Ti addestravano, almeno le lezioni base le dovevi fare e poi stava a te scegliere se continuare l’addestramento o meno. I periodi peggiori erano i mesi estivi, i mostri escono come le cazzo di zanzare, così ci facevamo tutti le vacanze lì. Poi a fine estate potevi scegliere se rimanere o tornartene a casa a fingere di avere una vita vera. Se decidevi di andare non era detto che tornavi.»
Forse non l’aveva mai sentito parlare così tanto e così velocemente da quando si erano incontrati ma ad Eliza non le ci volle molto per capire che, in un qualche momento della sua vita, qualcuno di caro a Nathan avesse deciso di uscire dal Campo Mezzosangue per non far più ritorno. C’era amarezza, c’era rimpianto nella sua voce, rimorso anche. Si colpevolizzava di qualcosa che forse avrebbe potuto evitare, molto più probabilmente no.
«Perdere soldati è normale, specie in guerra. Non so molto del nostro mondo ma so per certo che per noi semidei non c’è mai la pace. Né nella vita né tanto meno nella morte.»
Nathan strinse i denti e annuì. Aveva completamente ragione, ma non volle dirlo ad alta voce, non volle far sentire anche agli Dei quanto questa continua lotta gli fosse divenuta amara e odiata quasi cinquant’anni prima, quando il suo mondo era crollato.
«Sbrighiamoci a trovare queste sfere di merda, mi sono già rotto il cazzo di queste fottute Praterie.»

 
*
 


Quella nuova divisione delle coppie non gli era piaciuta, non gli era piaciuta per niente.
Úranus sospirò allungando il collo il più possibile per scorgere ciò che lo circondava: nulla.
Prati e prati neri, poche anime pallide che si aggiravano tra gli steli mossi dal vento fantasma e ancor meno sfere luminose sparse tutte attorno.
Se avesse dovuto dare un tempo avrebbe detto che erano lì dentro come minimo da un giorno, pescando dalla sua memoria i racconti di suo padre sullo scorrere delle ore nell’Ade avrebbe detto anche tre giorni. Era così difficile da capire e ancor più difficile era comprendere il bisogno spasmodico di cronometrare le proprie azioni come gli uomini avevano sempre fatto.
Era essenziale capire quanto servisse per svolgere un’azione, quando fosse il momento adatto per ogni mansione. Úranus ricordava la campana della chiesetta del suo paese suonare all’alba assieme al canto del gallo, quando Apollo raggiungeva lo zenit del suo pellegrinare ed in fine quando il sole calava.
Scandire il tempo.
Non aver più tempo.
Aver tutto il tempo del mondo.
La sua vita era stata tutta vissuta in attesa del momento giusto, un allenamento costante in vista di quella corsa finale che avrebbe decretato il suo trionfo o la sua morte. Il momento in cui i mostri l’avrebbero attaccato con più ferocia e si sarebbe dovuto difendere, avrebbe dovuto proteggere sua madre ed il bambino che portava in grembo. Era ironico che, alla fine, malgrado si fosse preparato a sfoderare la spada contro le bestialità del Tartaro, erano stati occhi di comuni mortali quelli che l’avevano condannato.
Non c’era stato tempo per pensare, per discutere, per ordire piani e fughe. Aveva visto tutto il suo tempo scivolare via, scorrere attraverso il lungo collo di quella clessidra che, improvvisamente, si era fatto largo come un pozzo e aveva fatto precipitare tutta la sua sabbia nella coppa inferiore, a terra, nella polvere, nuovamente polvere, la morte.
Ora non vi era più nulla da perdere, non vi erano astri che fuggivano la luce del Sole per rincorrere quella della Luna, non vi erano campane e canti di galli. Aveva tutto il tempo del mondo, così com’era sempre stato per Thanatos.
Il pensiero del tristo mietitore gli solleticò la mente con gentilezza, portandolo ad abbassare lo sguardo triste sulla polvere bianchiccia che s’alzava ad ogni passo. La vita era così effimera…
Più Crono muoveva gli ingranaggi delle sue spietate macchine, più le sfere diminuivano. All’avanzare nelle profondità delle Praterie i ricordi andavano affievolendosi ed Úranus si domandò improvvisamente se coloro il cui tesoro si nascondeva al limitare di quel regno fossero più soggetti alla sconfitta o se fossero destinati alla vittoria. Qual era la verità? I ricordi più distanti erano comunque perduti per sempre, poiché i loro possessori arrivavano troppo stremati e confusi per riconoscerli come propri? Oppure erano i ricordi dei più forti e valorosi, degli unici che sarebbero potuti effettivamente arrivare così lontano?
Sempre meno sfere, sempre meno gocce luminescenti in quel cielo nero.
C’erano anche i loro? Avevano ancora la possibilità di superare la prova? Le loro sfere erano già state distrutte dalla furia dei morti?
 
«Riesci a percepire qualcosa?»
La voce fredda di Jane lo costrinse ad emergere dalle acque più torbide dei suoi pensieri. Stava iniziando una discesa pericolosa, una spirale scura che avrebbe rischiato di trascinarlo a fondo e farlo cadere nell’afflizione, qualcosa di cui non aveva davvero bisogno.
Scosse la testa. «Ammetto di non aver neanche provato.» disse con tono basso.
Jane mosse appena le spalle. «Vuoi provarci o pensi di continuare a farti una passeggiata?» chiese con un pizzico di cinismo.
Il gigante rosso non provò neanche a guardarla.
Gli era sempre stato insegnato il rispetto verso ogni forma di vita ma il comportamento di Jane gli rendeva facile capire il perché delle risposte poco gentili di Nathan. Quella ragazza sembrava una statua, un golem, esseri vivi ma senza sentimenti, senza personalità, senza effettiva vita.
Jane era una lastra di ghiaccio che rifletteva solo pochi pallidi sentimenti umani, tutti quelli più sconvenienti e tristi ed Úranus non ne aveva bisogno, gli ci mancava solo uno specchio in cui osservare il male che covava in sé.
«Da quel che posso notare anche tu preferisci camminare piuttosto che usare i doni di tua madre.» le rispose comunque in modo più gentile possibile.
Jane storse il naso e si strinse le braccia attorno alla vita, colpita e affondata.
«Non ne sono capace. Non so fare cose del gente, nessuno me le ha insegnate a differenza tua. Sai, non siamo stati tutti così fortunati da aver il nostro genitore divino che ci teneva la manina, ci rimboccava le coperte e ci raccontava cosa fosse davvero questo schifo di mondo.» ribatté acida.
Úranus mantenne la sua posa stoica, lo sguardo puntato verso il nulla.
“Tenere la manina”? Avrebbe tanto voluto ridergli in faccia, avrebbe tanto voluto dirle perché suo padre gli era stato vicino per tutto quel tempo, perché gli aveva dovuto insegnare come usare i suoi poteri. Perché aveva dovuto insegnargli come non far cadere il mondo nella disperazione e nel dolore.
Ma era un uomo gentile, d’animo buono e corretto, era educato e soprattutto non avrebbe sfogato la sua personale frustrazione su un altro essere umano solo perché ne aveva troppa in corpo.
La voce lontana di suo padre gli ricordò quale fosse il fardello che aveva sostenuto sulle sue spalle e perché aver un’anima tormentata avrebbe solo peggiorato le cose.
Una voce molto più simile a quella di Elizabeth gli disse con fermezza: “Sii superiore, non farti trascinare nei loro giochi.”.
«Mio padre, nel corso dei secoli, ha avuto circa cento figli.» disse apparentemente estemporaneo, «Non gli era stato vietato di averne di più, ma la nostra nascita era ugualmente fonte di preoccupazione, di possibili sventure, coincideva con tragedie e disastri. Mio padre è stato al mio fianco per addestrarmi all’uso del suo retaggio divino, solo per questo. Tua madre ha centinaia di figli, molti non riconosciuti. In un qual modo sei stata fortunata, perché in tanti muoiono senza sapere chi li ha messi al mondo.»
Un verso sprezzante arrivò dal suo fianco. «Questo sì che mi rincuora! Almeno ha avuto la decenza di dirmi chi era.» la risata che ne seguì era sguaiata e quasi isterica. Úranus serrò le labbra e cercò di pensare ad altro.
«Sei solo stato schifosamente fortunato ma non vuoi ammetterlo perché ti hanno insegnato che essere umili è importante sopra ogni cosa.» lo sbeffeggiò con scherno. «Quindi lascia stare le scuse e vedi di renderti utile.» sputò infine con cattiveria.
Poi si fermò, le braccia ancora strette al corpo e lo sguardo vuoto fisso in quello ghiacciato di Úranus.
Il ragazzo la fissò di rimando e per la prima volta non vi era traccia di imbarazzo o di vergogna, o di gentilezza sul suo volto. Era freddo come lo erano i suoi occhi, era un crepaccio profondo apertosi su un ghiacciaio e Jane, senza saperne il motivo, sentì che tutto il dolore che aveva provato in vita era pronto a riaffacciarlesi nella morte.
Un brivido la scosse, una paura vecchia, passata, che si era trasformata da tempo nel fuoco rombante della rabbia ma che ora, improvvisamente, tornava ad esser freddo ed umido terrore.
Dentro di sé Úranus avvertì il ruggito della tempesta, il grido del vento.
Credere che la sua vita fosse stata semplice, che tutto fosse andato per il meglio solo perché suo padre era stato al suo fianco era ciò che di più sciocco ed errato una persona potesse pensare. Aver suo padre con sé non gli aveva impedito di rimanere isolato e tagliato fuori dal mondo, non lo aveva protetto dallo sguardo spaventato e cattivo delle persone, dalle loro parole velenose, dai loro sguardi di biasimo, di giudizio. Non l’aveva aiutato a farsi amici, non gli aveva dato una famiglia, una moglie, dei figli, non gli aveva dato un lavoro dignitoso ed una casa tutta per sé. Non gli aveva permesso di vedere suo fratello, o sua sorella, non gli aveva permesso di stringere la mano di sua madre, di aiutarla nel momento del bisogno. Aver suo padre al proprio fianco che non aveva impedito a quella gente di eleggerlo capro espiatorio di tutte le loro colpe, di tutti i loro peccati e le loro paure e di bruciarlo in un rogo sull’altare di un Dio che professava amore e accettazione quando i suoi seguaci non facevano altro che portare morte e distruzione ovunque.
La sua vita non era stata più semplice. La sua anima aveva conosciuto il terrore che le era proprio e quello che apparteneva a tutti gli esseri che lo circondavano.
Se quella ragazzina credeva seriamente che saper comandare il proprio potere fosse sinonimo di benessere si sbagliava di grosso e ora glielo avrebbe dimostrato.
Senza battere le palpebre Úranus richiamò tutta la concentrazione e la forza che aveva in sé, visualizzando ad occhi aperti le infinite trame e reticoli che collegavano le anime, i ricordi, le emozioni, i sentimenti, le morti. Non cercò però un sentimento generale, non cercò uno stato di paura, di dolore, di rabbia, ancora una volta Úranus fece qualcosa che suo padre gli aveva spesso sconsigliato di fare: si concentrò su una persona.
Esattamente come aveva fatto con il guerriero pelle rossa, Úranus ricercò la traccia di un’anima specifica, di chi era di fronte a lui e della persona che era stata.
Il frusciare di rami, il rumore dei boschi che lui conosceva tanto bene, gli solleticò la conchiglia dell’orecchio insinuandosi fino al timpano, per poi aleggiarvi sopra come una nebbia sottile. Il suono si disfece con facilità, come la trama sciolta di un telaio sbagliato, aggrovigliandosi su sé stesso sino a sfociare nel suono di una città in fermento, di un popolo in movimento, di una catastrofe già avviata.
Fermo in un angolo delle sconfinate ed infinite Praterie degli Asfodeli Úranus poté sentire chiaramente i ricordi di Jane Parris trasformarsi in ciò che era sempre stato in grado di percepire: emozioni, sensazioni, terrore, incubi. E come lui li avvertii parve che al contempo anche la ragazza si rendesse conto di ciò che il semidio stava facendo, stava sentendo.
Il volto inespressivo della giovane venne trasfigurato da una smorfia di sgomento, mentre la nera figura della paura si chinava su di lei per sussurrarle all’orecchio che, ancora una volta, aveva fatto il terribile sbaglio di credersi abbastanza forte, di reputare la persona davanti a sé debole e facilmente soggiogabile.
La Paura sorrise tirando le labbra fini e scoprendo i denti affilati.
Come si può sbagliare due volte, quando la prima ti ha portato alla morte?
 
 
*
 


Il richiamo lontano del vento portava con sé il rumore di una stanza vuota e silenziosa.
Era una contraddizione, era impossibile, era un suono che non esisteva, il silenzio.
Lui lo sapeva bene, l’aveva sentito tante di quelle volte, nascosto dietro ad un muro, sopra di un albero, nell’attesa che arrivasse il momento migliore per muoversi, per agire.
Il silenzio era un suono-non-suono, era qualcosa che c’era ma non c’era. Era come la morte: esisteva perché il tuo corpo cessava di vivere, di respirare e di battere; ma non c’era perché poi, dopo l’ultimo bacio dannato, c’era quello, c’era l’Ade.
L’inferno se l’era immaginato diverso, lo doveva ammettere, e soprattutto non avrebbe mai creduto che ci potessero esser piante e foreste, dolci colline e pallidi fiori luminescenti ad illuminare vecchie e nuove dimore. Non avrebbe mai immaginato di viver dentro alte mura bianche sorvegliate da un gigantesco portone e da un vigile occhio che tutto scrutava.
Ma il silenzio… quello se l’era aspettato ancor meno.
Nel suo immaginario l’inferno era un paesaggio roccioso e caldo, bollente, ustionante. C’erano vulcani, lava e fuochi, c’erano creature caprine dalle code affilate e le corna ramificate che brandivano fruste lunghe ed uncinate. C’erano le grida dei dannati e le loro lacrime, i singhiozzi ormai inutili e sterili come le loro speranze.

Speranza.
 
Quanto aveva votato, in vita sua, a quella parola? Forse tutto, forse nulla, forse solo l’eco lontano di una stanza vuota che lo chiamava a sé come il ricordo più amato tra quelli che ancora aveva. Ma il problema era proprio questo: lui, quel ricordo, lo aveva ancora, era inciso a sangue nella sua memoria, sulle pareti di quella scatola cranica fittizia, null’altro che la riproduzione di un corpo che ormai, da decenni, era tornato ad essere polvere e cenere, tornato alla terra, tornato a ciò che aveva creato la sua stessa gente eoni prima.
Nel silenzio che gli giungeva quieto alle orecchie vi era l’odore del bosco umido, del legno stagionato, delle braci spente e della paglia. C’era qualcosa di floreale, carne secca, polvere.
Sarebbe potuto essere l’odore di casa sua ma non sentiva quello dei mattoni bagnati, non sentiva l’odore del metallo, del sapone che comprava sua madre nella bottega all’angolo e di tutti i vestiti stesi per la sala, perché fuori non c’era più posto e loro erano in tanti e quella santa donna di sua madre rideva di gusto quando li vedeva tornare a casa tutti inzaccherati come bambini e li mandava sul retro ad infilarsi nella tinozza di peltro e togliersi via un po’ di fango mentre lei, con tanta pazienza, lavava le loro vesti. Che poi, alla fine, più che farsi il bagno in modo tranquillo finivano per fare a pugni per chi entrasse per primo nella vasca, finché l’acqua era ancora bollente, e poi per lanciarsi secchiate gelate inondando quel piccolo pezzo di giardino spoglio che il casolare offriva loro.
Gli mancavano quei rumori, gli mancava la lotta per la tinozza, sua madre che accendeva la stufa per scaldare pentoloni d’acqua, che gridava loro di smetterla di fare i bambini e di spogliarsi.
 
«Ti ho visto nascere, O’Bryan, è inutile che ora ti vergogni e ti copri, ho già visto tutto quello che c’era da vedere!»
 
E giù a ridere mentre il ragazzino si copriva con la camicia appallottolata e scappava in cortile con le orecchie rosse d’imbarazzo.
Gli mancavano anche le strigliate quando alla fine dei giochi, il retro, era diventato un riquadro di fanghiglia melmosa e per rientrare in casa dovevano farsi versare altra acqua sui piedi, correre scalzi sul pavimento di legno liscio e consunto, lasciando impronte bagnate ovunque, promettendo di dar una mano per rimettere tutto a posto. Gli mancava sollevare camicioni zuppi, pantaloni grondanti, giacche appese alle sedie per mantenere un minimo la forma delle spalle rigide.
Sorrise al vuoto che c’era davanti a lui e con amarezza si rese conto di sentire la mancanza di cose, oggetti, persone, vite, ormai sbiadite e lontane.
Non avevano più contorni i fili pieni di panni, non aveva più colore la tinozza di peltro, non aveva più consistenza il terreno fangoso, il pavimento su cui scivolava. La risata di sua madre era flebile, solo l’eco di ciò che era stata e c’era una figura piccola seduta sul piano della cucina che sarebbe potuta tranquillamente essere una persona, un animale o un oggetto troppo ingombrante.
Stava perdendo tutto, stava perdendo i ricordi e con loro sé stesso.
Si domandò se, recuperato il ricordo perduto, avrebbe smesso di dimenticare, ma per quanto potesse sperarci c’era una voce nella sua testa che sibilava disillusa quanto quello fosse un processo irreversibile.
Stava perdendo di nuovo tutto e sapere che quel suono-non-suono, quel silenzio che percepiva e che lo stava frastornando non era neanche il suo di silenzio, aveva spento quel minimo di fiamma che il vento aveva fatto riaccendere nel suo animo.
Aveva perso tutto, tutto quanto, tutti quanti, per qualcosa che non sapeva neanche se fosse riuscito o meno. Aveva lottato fino alla fine, la sua, con le unghie e con i denti, aggrappandosi a ciò che c’era di più importante al mondo per lui e poi…
Lo sapeva. Logicamente, sapeva che c’erano milioni di persone al mondo che la pensavano diversamente da lui, ma quello non se lo aspettava proprio, non l’aveva calcolato, non l’aveva visto arrivare. Soprattutto, non credeva che potesse arrivare da così vicino.
Aveva votato la sua vita a chi amava, a ciò che amava, alla sua patria, alla sua libertà e a quella di tutti i suoi fratelli. Aveva combattuto per giorni senza mai abbassare la guardia e quando la fine era giunta l’aveva guardata negli occhi. Aveva fissato la Morte in faccia e le aveva chiesto di farlo combattere finché anche l’ultima scintilla di vita fosse arsa in lui. Thanatos l’aveva accontentato ed era curioso che l’unica preghiera che si fosse mai azzardato a fare ad un Dio fosse stata rivolta a quello della morte e non al suo stesso padre. Un’ironia così smaccata da non aver nulla di ironico.
Il volto del suo amico, quello di cui non riusciva proprio a ricordare il nome e che gli strappava il cuore dal petto ogni volta ci ripensasse, stava diventando più sbiadito, come se la Foschia si fosse messa tra di loro. Aveva lottato anche per lui, perché sapeva d’amarlo come amava tutti i suoi fratelli, tutti i suoi amici, tutta la sua famiglia. Come amava il cielo e le nuvole, come amava il volo delle rondini e quello dei falchi, degli stormi e dei predatori solitari. Era morto per amore, credendo che quella fosse la morte più nobile che potesse desiderare uno come lui.
Aveva smesso d’innamorarsi di nuovo non perché non ne fosse più capace, ma perché nella morte aveva imparato che il tempo si dilata all’infinito e che prima di potersi “rifare una vita” – ironia ancora cinica e senza senso – doveva vedere in faccia quella che si era visto strappare tanto brutalmente.
Quella gara l’aveva costretto a rivedere i suoi piani, gli aveva bussato alla spalla e detto che forse, per una volta, poteva fare un’eccezione ed amare anche qualcuno che sembrava non averlo mai fatto.
Era stato così sciocco, così stupido da parte sua affezionarsi in quel modo ad uno sconosciuto, ma lui era fatto così, era fatto per spiegare le ali ed accogliervi sotto tutti coloro che necessitassero protezione, tutti coloro che avevano sempre fissato il cielo con il desiderio indomabile di potervi volare.
Si era detto che andava bene, che aiutare le persone e dar loro tutti i mezzi per poter spiccare il volo da soli era ciò per cui era nato. Perché chi amava la libertà l’anellava anche per gli altri.
Andava bene, andava davvero bene, poteva farcela, poteva aiutare qualcun altro, stargli vicino come non era riuscito a fare con i suoi amici, con la sua famiglia. Li aveva abbandonati anche se contro la sua volontà, anche se l’aveva fatto mentre faceva il suo dovere, mentre faceva la cosa giusta. Ma oh, oh… quanto lo rimpiangeva, quanto gli faceva male saper che per qualunque cosa, anche la più banale, lui non c’era più stato… quanto faceva male sapere di averli abbandonati…abbandonati…
E poi, nella sua schietta e cruda visione del mondo, era riuscito a farsi male ancora una volta.
Si sentiva così- stanco. Abbattuto, afflitto, triste, deluso…
Lui era morto per la libertà, la sua amata, amatissima¸ libertà. Ma soprattutto, era morto per quella degli altri, delle persone che amava.
E proprio quando aveva creduto di aver trovato, in quell’inferno di finta pace, un pezzo della sua quotidianità, una vecchia abitudine, un frammento di vita passata, quando aveva appurato che sì, forse aveva trovato davvero un altro fratello lì in mezzo, uno dei tanti che avrebbe amato come solo un fratello può fare-
La terra dell’Ade si era aperta in un crepaccio dai denti sparsi e grandi, aveva creato una voragine sotto i suoi piedi e l’aveva fatto cadere rovinosamente a terra come un piccolo pettirosso colpito dalla corrente sbagliata.
Era morto per ciò che amava e colui che sarebbe potuto diventare parte di quel qualcosa era morto scappando, abbandonando, proprio ciò per cui lui stesso era morto.
Si mosse ad agio, spostando i piedi senza alzarli troppo da terra, con l’inconscia preoccupazione di schiacciare le sfere.
I suoi pensieri cominciavano ad essere così fumosi, così affollati gli uni sugli altri, da non aver senso.
Cosa stava pensando? Qual era il sunto del discorso? Cosa l’aveva scosso così tanto?
Oh, vero, Jonas.
Aveva provato a consolarlo, a dirgli che la sua ragazza di certo non lo odiava, che se lo amava doveva conoscerlo abbastanza per sapere che la sua fuga era stata sofferta e- e ci credeva, ci credeva davvero ma- aveva una famiglia, una persona che lo amava… com’era riuscito ad abbandonare tutto? Come poteva aver fatto una cosa del genere? Lui sarebbe morto altre cento volte pur di rimanere solo un attimo di più assieme ai suoi amici, ai suoi fratelli.
Chiuse gli occhi ma non smise di camminare. Che senso aveva guardare dove stesse andando? Era il suono del silenzio ad attirarlo, a guidarlo tra quell’erba nera e secca.
Perché si sentiva così triste? Perché non aveva forze?
Come si poteva rinunciare a chi si ama? Come si poteva scappare dal proprio paese? Cade era convinto che piuttosto sarebbe morto arso con la sua amata Irlanda pur di non abbandonarla al suo destino.
Chissà se c’erano ancora sconfinate colline verdi, se ai bambini si raccontavano ancora leggende di folclore e magia, se piccoli passi e leste gambe non rincorrevano gli arcobaleni alla ricerca di pentole d’oro. Chissà se qualcuno ancora diceva loro che il vero tesoro stava nel correre liberi a piedi nudi sull’erba morbida ed umida di rugiada.
Si sentiva così vuoto, così solo… e lui non lo era mai stato, non era mai stato solo, sempre circondato da persone, da voci, da rumori. La strada trafficata, il rumore delle ruote di legno sul ciottolato, dei cavalli che nitriscono, scoppiettii e sferragliamenti, le urla del mercato, quelle dei bambini e dei venditori ambulanti.
Ora c’era solo il silenzio, la distesa nera delle Praterie degli Asfodeli e quella delle sue palpebre serrate.
I suoi passi erano sicuri ma traballanti, come potevano esserli quelli di qualcuno che non conosceva bene il terreno su cui si muoveva. Eppure era così simile alla sua di terra. Poteva sognare, poteva immaginare che il nero fosse verde ed il cielo roccioso fosse azzurro ed infinito, oltre le vette e le nubi, sino alle stelle.
Cos’era quello strano sfrigolio sotto i suoi pedi? Sembrava sabbia, di quella asciutta che si ritrovava sempre addosso quando tornava a casa dopo una giornata passata al porto. Ah, le sfere, i frammenti del vetro che rimanevano dopo averle rotte.
Aprì lentamente gli occhi, abbassando la testa per fissare il terreno appannato e luccicante, dove grani lucidi come zucchero brillavano come se fossero sotto i raggi del sole. Era la luce crepuscolare dell’Ade, quella che si insinuava in ogni anfratto senza però illuminarlo davvero. Cade alzò di nuovo la testa e spostò lo sguardo vacuo verso l’orizzonte.
Era tutto così silenzioso, così terribilmente vuoto.
 
Come me, come mi sento io ora.
 
Poi li vide. Nella sua visuale sfocata come la calura estiva si muovevano lievi figure opache e opalescenti. Sfioravano l’erba come se non la toccassero neanche ed era così, era sicuramente così perché quelle impronte bianche fluttuanti erano ciò che di più vicino ad un fantasma Cade avesse mai visto. Ma com’era possibile? Cos’erano? Che fossero –
 
Le anime dei perduti, degli Asfodeli, coloro che non avevano fatto troppo del male ma neanche abbastanza del bene.
I dimenticati dal mondo, dagli Dei e anche dai morti stessi.

 
I milioni, miliardi, di anime condannate alle Praterie degli Asfodeli si aggiravano con straziante lentezza sulla superficie erbosa di quello che era il regno a loro destinato.
Le Praterie erano il dominio più grande dell’Ade, si estendevano per una superficie ben maggiore dei Campi di Pena e anche di quelli degli Elisi. Avrebbero potuto contenere l’intera superficie delle terre emerse e ci sarebbe stato ancora posto per i mari, perché il luogo dedicato agli Elisi era infinitesimale, quello dei Beati ridicolo, mentre le terre dei Dannati si estendevano per profondità e non per raggio, in cerchi concentrici che scendevano sempre più giù, verso il nero denso e opprimente del Tartaro e delle viscere più ustionanti della terra.
Trattenendo il respiro Cade si domandò quanto avesse camminato, quanto si fosse allontanato dai suoi amici, da quell’anima che gli aveva ricordato la sua famiglia, che era riuscita a ferirlo con parole e ricordi, con domande mai espresse e grida soffocate per troppo tempo. Si era spinto fino alla fine della zona in cui Ermes aveva sparso le sfere, dove aveva abbandonato i ricordi delle anime morte.
Abbandonato… quella parola ricompariva in continuazione nella sua mente.
Anche il silenzio era una forma di abbandono, così com’era una forma d’amore, di rispetto, di rabbia, di dolore e di punizione.
Di chi era un ricordo così lontano? Che fosse stato lasciato lì perché nessuno poteva sentirlo? Perché in mezzo al clamore delle urla, degli spari, delle spade e delle bombe il silenzio non si sarebbe sentito?
Quel silenzio così rumoroso però non sembrava cattivo, non lo feriva, non lo faceva soffrire. C’era affetto, c’era sconforto, sì, ma anche speranza.
Abbandono e speranza.
Abbandono e speranza.
Come una preghiera quei due lemmi si rincorrevano l’un con l’altro senza senso logico.
Abbandonato così lontano dal centro della sfida quel ricordo non aveva speranza di esser ritrovato.
Forse… forse non ci sarebbe riuscito neanche lui.
Fissò le anime che si muovevano, soffiate via delle correnti dell’Ade, e si domandò se presto non si sarebbe unito anche lui a quelle schiere.
Deglutì improvvisamente a corto di ossigeno. Dov’era? Perché era così lontano? Perché era solo?
Si mosse a disagio, le gambe inferme e la mente sempre più annebbiata, la vista sempre più sfocata, il fiato sempre più corto.
Dove diamine era? Doveva allontanarsi da lì, tornare indietro, ma- dov’era indietro?
Si girò e rigirò, ruotando su sé stesso come una trottola impazzita, mentre le anime dei dimenticati di fondevano con la foschia che lenta ed inesorabile risaliva la valle.
Il silenzio divenne assordante, lo costrinse a portarsi le mani alle orecchie e socchiudere gli occhi, piegandosi in avanti nel vano tentativo di proteggersi da quel suono così alto, così molesto, così doloroso da spaccargli i timpani.
Qualcosa di umido gli colò tra le dita e fu con orrore che Cade tolse le mani dalle orecchie per vederle sporche di sangue.
Boccheggiando come un pesce fuor d’acqua osservò quei rigagnoli rossi che andavano ad infilarsi tra le venature della sua pelle, a coprire la ferita cicatrizzata ma recente che si era fatto da solo con il suo coltello.
Era vero, potevano sanguinare, potevano aver attacchi di panico, il fiato corto, il cuore a mille era come-
 
Come essere tornati indietro.
 
La macchia rossa s’allargò sfocando i suoi contorni e quelli delle sue mani.
Un uomo alto e magro gli si fece vicino silenziosamente. Le braccia lunghe e pallide stonavano a confronto con la pelliccia gonfia e scura che copriva la sua intera figura. Parevano le zampe di un ragno, dalle dita nodose e fini.
I capelli lunghi si confondevano con la sua veste, la frangia copriva i lineamenti spigolosi del suo viso smunto, le labbra così fini da sembrare quasi inesistenti, una maschera bianca pendeva molle dietro il suo collo, fuoriuscendo tra i capelli come un secondo volto posto sulla schiena.
Non un suono interruppe il rumore sordo del silenzio, il gorgoglio del sangue nelle orecchie di Cade, il mondo oscuro dell’Ade che diveniva un'unica chiazza d’olio sulla patina lucida dell’iride verde.
L’uomo si fermò alle spalle del semidio e allungò le braccia da insetto verso di lui.
 
Cade non riusciva più a distinguere nulla, né l’erba nera né tantomeno le anime dei dimenticati. Il sangue sulle sue mani si stava seccando, quello nelle sue orecchie continuava a ribollire assieme alle grida del silenzio. Così opprimente, così terribile… doveva andare via di lì, doveva tornare indietro e-
 
Le mani ossute si posarono sulle sue orecchie e Cade improvvisamente si fermò, congelato sul posto, reso pietra da una Medusa invisibile ed onnipresente chiamata paura.
Chiamata vuoto.
 
Perché sono qui?
 
*
 


Le sensazione dell’erba sotto le mani era qualcosa che gli era mancato.
Da bambino era solito sdraiarsi sotto ad alberi dalle alte fronte ed osservare il cielo tra le trame fitte delle foglie.
Erano lontani quei momenti, prima che la sua fanciullezza e la sua innocenza fossero brutalmente recise dalla sua stessa persona, strappate via come si farebbe con delle piante infestanti, ma dopotutto questo era parte del gioco no? Era ovvio che sarebbe successo, era scontato, se l’aspettavano tutti, persino la sua stessa madre.
 
«Sei così bello, amore mio, gli dei hanno baciato la tua venuta e ti hanno reso splendido sopra ogni cosa, sopra ogni mortale. Eri una gemma rigogliosa ed ora sei un frutto acerbo, ma non appena diverrai dorato e maturo saranno i molti a voler coglier quel pomo per primi. Chi è bello è destinato a questo, ad esser bello per gli altri, ad esser apprezzato, goduto da altri.
La tua fortuna sarà tutta in colui che per primo riuscirà a sfiorarti.»
 
Era normale, era logico, era così che andavano le cose.
Un moto di ribrezzo gli scosse le membra, il ricordo di come sua madre pensasse che fosse un evento inevitabile, che prima o poi qualcuno – più grande, più ricco, più potente, più saggio – sarebbe giunto a metter le mani su di lui gli faceva venire il voltastomaco.
Oh, ma Cicno ricordava perfettamente anche altro, ricordava l’arrendevolezza delle donne, la rassegnazione: cresciute con l’idea che solo un uomo avrebbe potuto decidere del loro stesso corpo, del loro stesso destino.
Per anni aveva atteso il momento in cui sarebbe toccato a lui scegliere per il corpo di altri, non essere più oggetto di quegli sguardi di lussuria, di disgustosa brama. Aveva atteso il momento in cui sarebbe toccato a lui guardare qualcuno e lusingarlo nel modo insinuante, quasi viscido che era sempre stato dedicato a lui. Si sarebbe ripreso la sua vittoria, sfogando su povere vittime innocenti lo stesso tormento che aveva provato in gioventù, che quelle ragazze stesse avevano subito, invero. Lo sapeva, sapeva perfettamente che il suo destino era stato lo stesso di tante ragazzine, di tanti altri giovinetti belli e delicati proprio come lui, quasi femminei… come se questa caratteristica sola potesse dare a chiunque altro il diritto di sentirsi superiori a loro.
La sua innocenza era probabilmente scomparsa assieme a quella di centinaia di migliaia di giovani di Tebe, corrotti dalle parole di miele, dalle promesse, dalla violenza.
Quando poi si era reso conto che nulla vi era di dolce, di appagante, che non provava senso di rivalsa alcuno su quelle ragazze inermi che gli si concedevano folgorate dalla sua bellezza, aveva deciso che si sarebbe imposto allora su chi, per volere divino, era stato designato come forte ed imbattibile fin dalla nascita, chi era modello del divino Ares e non del flessuoso Eros.
Erano state mani grandi e forti a chiudere definitivamente il nodo della sua infanzia e sarebbero state quelle stesse mai a macchiarsi dei peggiori crimini solo per il suo volere, per il suo godere, per il suo piacere.
Era crudele? Forse sì, forse lo era stato ed era questo il motivo del suo nome, ma Cicno era stato “un così bel bambino” per tanto di quel tempo che ora, anche nella morte, non desiderava che esser padrone del suo corpo, della sua bellezza, del suo fascino.
Esser l’amante prediletto di qualche console, di qualche nobile, di qualche grande comandante, scaldare un letto dentro ad una tenda accampata vicino ad una città nemica, rischiare di esser preso in ostaggio, dato in mano ai soldati, venduto o rivendicato dal combattente più forte… gli veniva la pelle d’oca al sol pensiero, al sol ricordo di quando uomini ben più grandi di lui si erano presi con la forza il diritto di litigarsi la sua innocenza ed i suoi servigi.
Non era poi quella la storia del mondo? Non era poi proprio quello che stavano facendo in quel momento? Tutte quelle anime erano lì ammassate per riavere la propria vita ma questa possibilità era stata data loro dalla noia e dalla crudeltà degli Dei che avevano loro concesso questa grazia. Ancora una volta un essere più forte di lui aveva deciso della sua vita.
 
«Che espressione cupa che hai.»
 
Il ragazzo volse il capo a destra e sinistra prima di reclinarlo all’indietro ed osservare l’uomo alle sue spalle.
Uomini, c’erano sempre uomini più grandi di lui che lo circondavano, i giovani di solito erano quelli che cadevano subito come mosche, pieni di buona volontà e di forza ma così sciocchi, così poco avveduti, così impulsivi.
«Ripensavo al passato, mio Signore, a ciò che avevo e che mi fu tolto.» disse con voce gentile, quel tono modulato ad arte che piaceva sempre così tanto ai potenti.
Avrebbe però dovuto rivedere i suoi giochi, si era già dimenticato che con quell’uomo non funzionava.
Lui alzò un sopracciglio. «Intendi la vita o altro?» domandò con tranquillità, avanzando sino a posizionarsi al suo fianco.
Cicno ci pensò su, poi si disse che non vi era nulla di pericoloso nel dire la verità. Non era più il ragazzino inesperto che si faceva cogliere di sorpresa, che non sapeva come volgere il gioco a proprio favore, ne aveva schiacciati a centinaia di uomini del genere sotto i suoi piedi.
«Altro. Ripensavo alla mia fanciullezza.»
Quello rise. «Perché, ti senti vecchio ora? Sei ancora un fanciullo, vorrei farti notare.» abbassò la testa e gli regalò un sorriso predatorio a cui Cicno non fece nulla per non rispondere.
«Mi state forse dicendo che mi trovate di vostro piacimento?» chiese innocente.
Uno sbuffo ironico fece piegare le labbra al semidio: se l’aspettava, cominciava a capire come funzionava quell’uomo.
«Hai bisogno di sentirti dire cose che già sai? Cicno il Crudele è noto per le sue prove difficile e mortali e per la sua incredibile bellezza che piegava tutti al suo gioco. Sbaglio?»
«No.» rispose soddisfatto. «Non avete idea di quanti sono caduti per me. Ve lo ripeto, siete fortunato ad avermi dalla vostra parte, mio Signore.» concluse però con un minimo di referenza, seppur beffarda.
Il suo padrone annuì riportando lo sguardo sulla distesa infinita delle Praterie.
«Lo so perfettamente, non ho scelto i miei alleati per caso, dopotutto.»
«E allora con quale criterio ci avete scelti?»
La curiosità non era mai stata sua, ma nella morte Cicno si era reso conto di voler sapere di più, di voler conoscere le pene ed i peccati di ogni anima dannata, di ogni essere infernale. Voleva godere della loro sofferenza per riuscire a sopportare meglio la sua. Che fosse quella che subiva nell’Ade o quella che aveva subito in vita.
Il velo nero dei ricordi si posò sul volto perfetto e gli fece stringere le labbra. L’uomo al suo fianco lo scrutò dall’alto e si mise le mani in tasca, drizzando la schiena e allungando il collo verso la volta rocciosa.
«In base alle vostre capacità, a ciò che sapete fare d’innato e che avete imparato in vita. Ognuno di voi ha delle doti che si sposano perfettamente con determinate necessità.» parlò con calma, con voce bassa e morbida.
Quel suono riuscì a sciogliere i muscoli delle spalle del semidio, la tensione del suo collo, diradano un poco i pensieri più cupi che andavano formandosi nella sua mente.
Erano le Praterie, dovevano essere per forza quelle a ferirlo in quel modo, ad indebolirlo.
Chiuse gli occhi e si poggiò sui gomiti, cercando i rilassarsi e prendere respiri profondi: da quando respirare era tornato ad esser utile Cicno ne godeva come mai aveva fatto in vita.
Respirò ancora e ancora e per un attimo, un folle e cieco attimo, desiderò trovarsi ancora nelle sue stanze, poggiato al petto dell’unica persona che avesse mai amato, stretto tra quelle braccia che gli donavano protezione senza chiedere nulla in cambio.
Quanto tempo era passato? Da quanto e per quanto nessuno l’aveva abbracciato senza secondi fini se non quello di farlo sentir dal sicuro?
Cicno davvero non lo ricordava.
Un fruscio di stoffe gli solleticò l’orecchio ma il giovane decise di non aprire gli occhi, di rimanere a crogiolarsi in quella mancanza, in quel ricordo d’amore che ormai era sterile e inutile in lui. Lo fece finché un braccio solido e lungo non gli cinse le spalle ed una mano grande e ruvida non gli sfregò il braccio.
Cicno lo ricordava il tocco pesante ed esigente di mani simili a quella, di uomini simili a quello, ma c’era qualcosa di completamente diverso nelle sue carezze.
Il biondo aprì gli occhi e lì puntò verso il volto del suo capo, tenendo le palpebre spalancate per non perdersi neanche una mossa. Da qualche parte, nella sua testa, qualcuno gli disse che quello era il tocco amico di una mano gentile, di una persona che non si stava approfittando di lui ma che gli stava semplicemente porgendo il suo aiuto.
Era quasi doloroso confrontare la sua mano a quelle che ancora sentiva addosso, sulle sue braccia magre, a contare ogni scalino delle sue costole, a sfregare le ossa sporgenti del bacino e risalire le gambe sino a stringersi con bramosia sulle cosce, affondando i polpastrelli e le unghie corte nella sua carne morbida.
Un altro conato lo costrinse a serrare le labbra, la sua testa iniziò a girare e Cicno si risentì piccolo ed impotente, bellissimo ma senza via di scampo.

«A cosa stavi pensando?» domandò d’improvviso l’uomo.
E Cicno si sarebbe voluto scansare, avrebbe voluto urlargli di non toccarlo ma le sue carezze erano così delicate, così gentili, come il tocco di un bambino sul capo di un cucciolo…
«A cose della mia vita- persone…» disse vago, facendo quasi fatica a metter le parole in fila.
No, no, non poteva far così, lui era Cicno il Crudele, lui era in grado di guardare la disperazione degli occhi e di sputarle in faccia, di calpestare i cadaveri dei coraggiosi e valorosi giovani che si erano immolati nel disperato tentativo di ottenere il suo amore; non poteva sentirsi così male, non poteva ricordare quelle cose, quei dolori, quei tormenti.
Il vortice nero si macchiò di rosso e le pene passate si sommarono a quelle che doveva sopportare ogni giorno, ogni momento, da secoli, lì nell’Ade. Non vi erano più ferite aperte e tagli, non vi erano lividi ed abrasioni, ma faceva male, faceva tutto così male.
«Persone di che tipo? Cosa ti hanno tolto?»
Cicno strinse i denti: non l’avrebbe detto, non avrebbe ammesso nessuna delle sue debolezze, non avrebbe ricordato i tempi in cui era così disgustosamente impotente, quando non era stato abbastanza forte per imporsi sugli altri, di decidere per sé, di dire no.
«Nulla che mi possa esser ridato.» soffiò però via, a denti stretti.
L’uomo fece solo un singolo cenno del capo, senza osar guardarlo e Cicno gliene fu infinitamente grato seppur con malcontento: odiava dover qualcosa a qualcuno e con quell’essere la lista si stava già allungando, ma quel minimo di dignità che gli era rimasta non l’avrebbe bruciata sull’altare della paura, della vergogna e del dolore.
«Ricordi i loro volti?»
Quella domanda lo spiazzò.
Cicno si tirò su a fatica, facendo forza con la spalla contro il fianco dell’uomo e lasciando che questo lo aiutasse a mettersi in posizione eretta.
Cercò con lo sguardo il suo e vi incatenò le iridi azzurre e cangianti. Il colore che lo fissò di rimando gli ricordò quanto quell’essere fosse potenzialmente letale.
«Non si dimentica mai il volto di un mostro.» disse con voce dura, pregna di rabbia, così simile a quella che era solito usare contro chi era in disaccordo con lui, contro chi lo indispettiva.
L’uomo non distolse lo sguardo, non ribatté in nessuno dei modi che Cicno si sarebbe aspettato. Annuì ancora e poi, con lentezza, piegò le labbra nel sorriso inquietante di una bestia.
 
«Ci sono troppe anime ancora in gara, non pensi che sia nostro dovere eliminare i pesi e lasciar solo i migliori in gioco?» chiese quasi con fare innocente, così in contrasto con il suo volto.
 
Ma Cicno era stato chiamato “Il Crudele” per un motivo e come altre volte gli era capitato, riconobbe immediatamente chi c’era davanti a lui.
Il fascino del suo sorriso era languido e sensuale come i movimenti di un serpente, il suo morso affilato e velenoso come quelle zanne.
 
Tra simili ci si riconosce sempre.

 
*
 


Il filo continuo dei pensieri che si erano insinuati nella sua mente lo trascinava come una corda stretta attorno alla via. Era impossibile non seguirla, così tesa e forte, sembrava quasi che lo stesse chiamando a sé.
Al suo fianco, cercando inutilmente di tenere il passo, costretta a correre quasi per stargli dietro, Jane pareva più pallida del solito.
Che si fosse resa conto del grandissimo errore commesso non c’erano dubbi, Úranus le aveva letto il terrore negli occhi, aveva fiutato la sua paura come i mastini avevano fiutato le anime più deboli.
Se si fosse concentrato troppo su di lei però c’era il rischio concreto che i sensi di colpa iniziassero ad aggredirlo con violenza.
Aveva fatto ciò che aveva fatto per dimostrarle che non era tutto oro quello che brillava, che solo perché aveva avuto la fortuna di vivere con suo padre, di imparare tutto sul loro mondo – sul loro mondo di quasi cinquecento anni prima a quanto pareva – non aveva segnato la sua vita come magnifica e priva di problemi, di imprevisti. Il dolore che aveva provato, l’inadeguatezza, la soggezione, la solitudine, la rabbia e la tristezza non erano miraggi, non erano incubi partoriti dalla mente del Panico, Phobos per una volta non c’entrava nulla con i suoi tormenti, era la crudele vita l’artefice di tutto.
Non aveva alcuna intenzione di rivolgerle la parola, in ogni caso: avrebbero potuto accusarlo di aver un comportamento infantile e sciocco ma non gli importava, era stanco di dover sopportare sempre tutto a testa bassa. Forse era l’influenza delle Praterie, si ritrovò a pensare, su di lui non avevano lo stesso effetto che potevano avere su un dannato visto che la sua anima, a quanto avevano detto a loro tempo i giudici infernali, era sporcata solo dalla fuliggine della sua morte. Stava però maturando la convinzione che l’erba nera si dilettasse ugualmente ad assorbire le forze e le speranze di ogni essere, così come i rami d’edera avevano assorbito i loro ricordi.
Ancora una volta si domandò cosa si era dimenticato, quale fosse il ricordo tanto importante, o minuscolo, così strettamente legato alla sua morte che Ermes gli aveva sottratto. O meglio, che Persefone gli aveva sottratto.
Era stano che gli Dei collaborassero a questo modo tra di loro, Úranus sapeva quando non amassero dover favori in giro, ma forse per il bene del “gioco” avevano fatto un’eccezione. Di certo questo lo metteva in guardia, chissà cosa potevano aver perso durante la sfida dei Mastini Infernali, o cosa avrebbero potuto perdere in quel momento nelle Praterie.
 
A parte te stesso, ragazzo mio?
 
Aggrottando le sopracciglia Úranus alzò di poco la testa, scrutando con sguardo attento le distese scure che lo circondavano. Erba nera e nero cielo, luce crepuscolare e pochi lumi sparsi come stelle morenti: le sfere erano sempre meno, i frammenti sempre più, ma le Praterie erano così vaste che ormai ogni anima si era perduta e non vi era traccia di persone o presenze nei dintorni.
Che si fosse immaginato quella voce? Che fosse forse legata ai ricordi di Jane, a quel nome che si ripeteva con forza nella sua mente, legato a doppio cappio alla corda che lo tirava nella giusta direzione?
Non poteva saperlo, non aveva mai usato il potere di suo padre in modo così specifico e quell’unica volta che era successo c’era stata Lea a distrarlo, con la sua voce tremante e la sua piccola scintilla luminosa che andava perdendosi.
Chissà come se la stava cavando la sua amica. Non aveva dubbio alcune che fosse al sicuro, era con Cade e tutti loro avevano potuto vedere cos’era in grado di fare, ma lo preoccupava comunque il fatto che ai due fosse stato accompagnato l’unico dannato della loro squadra.
Anche se non faceva fatica ad immaginare un ragazzo di sedici anni macchiarsi di qualche colpa, per quanto potesse esser assurda la cosa, non riusciva ad immaginare Jonas compiere un qualunque crimine.
Ma dopotutto, ad assistere alla sua esecuzione, ad incitare il boia e tutti gli altri membri del villaggio, c’erano anche bambini a cui doveva ancora cadere il primo dente.
La corda tirò più forte, due strattoni all’altezza dello stomaco, ed Úranus seppe per certo che erano arrivati, che la sfera con i ricordi perduti di Jane era lì, era vicina, più vicina di quanto non credesse.
La ragazza, che quasi gli correva dietro, aveva il fiato corto e le labbra pallide, gli occhi vacui e scuri parevano più spenti del solito se solo non ci fosse stata quella luce di paura ad illuminarle le iridi.
Non le disse che c’erano quasi, non le chiese se voleva prendere da sola la sua sfera, se poteva toccarla lui. La vide al primo colpo però, individuò quella sfera piccola ed un poco irregolare, colorata di un marrone freddo, come le mura di legno di una casa durante una giornata uggiosa.
Úranus accelerò il passo e quando lo fece anche Jane qualcosa di simile ad un moto di stizza gli salì alla gola: se avessero potuto far un confronto, la vita di chi, tra loro due, sarebbe stata la più cupa?
Allungando la mano e piegandosi in avanti d’improvviso riuscì a superare lo scatto ansioso di Jane e tirar su la sfera stringendola in una mano sola.
La presa però fu troppo forte, troppo violenta.
Un sonoro crack si diffuse nell’aria ed un fumo marrone, terroso come la polvere che si alza da un campo arido, si espanse tra loro.
Gli occhi vitrei di Jane si spalancarono all’inverosimile, le labbra aperte e tremanti da cui non riusciva a cavar fuori un solo suono.
Rimasero immobili a fissare la nube, una congelata dall’idea di aver perso per sempre quello che poteva essere il suo ricordo e l’altro dall’idea che l’unica volta che si era fatto prendere dall’infantile desiderio di rivalsa, di vendetta in un qualche modo, aveva finito per distruggere le possibilità di un’anima di tornare in vita.
 
La speranza, giusto?
 
La voce di prima gli soffiò nell’orecchio divertita.
Il ricordo s’accartocciò su sé stesso, come carta bruciata, come aveva fatto la stoffa dei loro vestiti, la loro stessa carne.
Il rumore di una pietra che rotola via, il suono di qualcosa di morbido e duro al contempo che veniva schiacciato sotto il peso di questa.
Il fumo si concretizzò in un lungo ago e senza preavviso s’impalò nel torace di Jane sino a scomparire del tutto.
La figlia di Ecate rimase senza fiato, le mani screpolate e sporche che s’allungarono di colpo verso Úranus in cerca di un appiglio per non cadere a terra, per non morire di nuovo.
L’ombra terrosa del passato le attraversò le iridi e come una scossa elettrica si propagò per tutto il suo corpo sino a quello del compagno.
Il buio calò.
 


La donna davanti a lei ha la pelle scura come il carbone, le labbra grandi e sporgenti, il naso tozzo probabilmente rotto più e più volte. Ha gli occhi buoni ma tristi, la sclera più scura di quella delle altre persone, sembra che in quel bianco giallognolo ci si possa leggere il dolore e la sofferenza di una vita distrutta.
Ha le vesti vecchie e sporche sul davanti, le è piombata in casa senza preavviso, strappandola alle faccende e agli ordini del suo padrone. Ma non importa, nulla di tutto quello importa mentre piange disperata e stringe la sua gonna tra le mani.
Non c’erano parole che potessero sfondare il muro del ricordo, le grida di Jane erano afone, il volto ancora tumefatto della donna contratto in un’espressione affranta.
Perché stava succedendo tutto quello? Era davvero colpa sua, era davvero una strega? Da quando Samuel e la sua famiglia erano arrivati a Salem era tutto peggiorato, era davvero stata la schiava di suo zio a portare il malocchio ed il demonio nella loro città?
Voleva risposte, voleva la verità, la verità ad ogni costo.
La donna allungò le mani martoriate e le strinse attorno ai suoi polsi, pregandola, implorandola di lasciar perdere, di tornare a casa da sua madre e piangere con lei. Non vi erano parole ma il significato di quel mormorio muto era chiaro, era cristallino e lampante come il significato di un sogno, la stessa certezza devastante.
Lo sguardo della donna si fece opaco di lacrime e le labbra tremanti mormorarono qualcosa che pietrificò Jane sul posto.
La ragazza fissava quella schiava che tanto l’aveva aiutata nei mesi passati come se le stesse raccontando il sogno più incredibile e assurdo del mondo. Ma c’era qualcosa, qualcosa nel profondo di quelle parole, che le suonava terribilmente vero, sincero, familiare.
I rumori che venivano dall’esterno erano discontinui, le ruote di un vecchio carro che giravano sulla strada sterrata, passi ritmati, strascicati, corse… ma nulla aveva importanza, nulla era vero, nulla era reale.
Non poteva essere, non era possibile.
Jane indietreggiò districandosi dalla presa stretta di quelle mani forti, abituate al lavoro faticoso, che mai avevano conosciuto la gentilezza.
C’era dispiacere negli occhi di Tituba ma c’era anche sincerità, c’era quella verità che lei voleva e che ora le faceva così male.
Si mosse a disagio nella stanza, la vista che si sfocava ogni qual volta cambiasse l’oggetto su cui si posava, come una trottola, come quei terribili giramenti di testa che la tormentavano dopo ogni brutto sogno. Quei sogni che ora avevano un significato, ora avevano un senso, ed era terribile.
Era colpa di quei due, seppe d’improvviso, la rabbia cieca e bruciante che le animava il corpo scosso dai brividi, dai tremori incontrollati che la facevano tendere come una corda. La colpa era di quei due, era di quell- quell’omuncolo privo di spina dorsale e quella sciocca bugiarda di sua figlia.
Non si volse neanche una volta mentre scappava il più velocemente possibile, mentre ignorava gli sguardi accusatori, indulgenti, dispiaciuti, penosi di chi incontrava sul suo camino.
Era vicina, vicinissima a casa, sarebbe entrata in pochi secondi e avrebbe potuto chiedere a sua madre se era vero, se quello che Tituba le avesse detto fosse la realtà e non qualche sciocca cattiveria che magari lo stesso Samuel le aveva detto.
Poggiò le mani sulla superficie ruvida dalla porta e la spinse con forza, agitata, il cuore a mille ed il respiro corto, la mente in subbuglio e la bocca secca.
Poi si bloccò: il suo sguardo venne come attratto da una forza soprannaturale. Gli occhi cupi si posarono sul pavimento pulito ma vecchio, sulle zampe del tavolino oltre le quali un corpo giaceva steso in modo rigido e scomposto.
Jane si mosse con lentezza, in trance, strusciando i piedi per terra come se fossero diventati improvvisamente troppo pesanti, come se ogni mossa, ogni azione fosse troppo faticosa.
Quanto il volto di sua madre gli apparve trasfigurato dal dolore qualcosa esplose in lei.
Era morta, era morta anche lei. Era sola, non aveva più nessuno, non c’era più nessuno al mondo che l’amasse, che si prendesse cura di lei, che l’accudisse. Non c’era più nessuno, erano tutti morti. E la colpa era solo di quei due dannati.
La scena divenne ancora più sfocata, mentre la prospettiva s’abbassava di colpo e con lei Jane si gettava a terra spalancando le labbra per gridare tutto il suo silenzioso dolore.

Avrebbe vendicato la sua famiglia, suo padre e sua madre, e l’avrebbe fatto facendo soffrire allo stesso modo quei due mostri che finalmente riusciva a vedere chiaramente davanti ai suoi occhi.

In giorno in cui giurò vendetta firmò la sua stessa morte.


 
 
Jane batté le palpebre, il volto pallido confuso e smunto. Le sembrava di aver corso per ore, di aver infilato la testa nell’acqua e non esser riuscita ad uscirne in tempo.
Alzò lentamente il capo, le mani premute sul petto, lì dove quella lancia di fumo si era infilata con crudele forza, provocandole più dolore di quanto non avrebbe mai creduto possibile.
Era morta, era morta dannazione, come poteva ancora soffrire in modo “fisico”?
I brividi che le scuotevano il corpo non erano paragonabili ad altro se non a quelli che le avevano stretto le membra quando il fuoco l’aveva lambita senza pietà. Si mosse a disagio, cercando di rimanere in equilibrio sulle gambe malferme e provando con tutta sé stessa il desiderio di non aver mai provocato in quel modo Úranus. Aveva infatti la netta sensazione che il suo ricordo avesse fatto così male nel tornare indietro solo ed unicamente perché chi l’aveva trovato l’aveva fatto seguendo quella scia di sofferenza che solo lui pareva vedere.
Chi diamine era il suo genitore divino? Come poteva generare un malessere tanto grade in lei e in tutti i suoi ricordi.
Úranus la guardava inespressivo e Jane si domandò se il fastidio, il nervosismo che quell’espressione piatta generava in lei era lo stesso che provocava il suo volto negli altri.
Ripagata con la sua stessa moneta, no?
Jane lo sapeva, non era stupida e sebbene avesse peccato di ingenuità da viva aveva poi capito quanto potesse essere crudele il mondo e quanto anche l’essere più insignificante potesse portare distruzione e morte.
Le bastò quello per tornare con la mente al volto pallido di Beth, quella stupida ragazzina, degna figlia di suo padre… se solo fosse stata in silenzio, se solo non avesse scatenato tutto quel putiferio per un po’ di fama e attenzione. La disgustava, quella situazione, quella ragazza, quel lurido traditore di suo zio-
 
No…non è tuo zio, quell’uomo non era tuo zio.
 
La rabbia che provava crebbe veloce in lei e tutto ciò che riuscì a fare fu guardar male Úranus, quasi con odio, e sputargli contro quanto quello stupido teatrino fosse stato del tutto inutile, che non dimostrava nulla, che le faceva solo capire come la gente fortunata come lui non comprendesse ciò che le persone normali avevano dovuto subire.
Continuò ad urlare, a farlo a pieni polmoni, senza sosta, finché non sentì il fiato mancarle, strizzato fuori dalla cassa toracica senza più alcun suono, proprio come lo era stato nel suo ricordo.
Úranus la guardò impassibile, impietoso e freddo. Le ricordò lo sguardo di quella donna, quella giovane che aveva incontrato nel bosco: aveva pietà di lei ecco cosa.
 
«Non osare guardarmi con quegli occhi! Ora che hai visto pensi di aver capito? Pensi di essere migliore di me?» gridò ancora
Il barbaro neanche scosse il capo, le labbra si mossero in modo quasi impercettibile. «Credi che continuerai a lungo?»
Quella domanda secca fece pietrificare Jane che, presa alla sprovvista, boccheggiò come un pesce fuor d’acqua.
«Comparare le tue disgrazie a quelle di un’altra persone ti fa sentir meglio?» continuò lui con quel tono piatto e pacato, quasi non gli interessasse davvero. «Hai vissuto con due genitori che ti hanno amato fino alla fine. Hai avuto l’affetto e la fiducia del tuo intero paese prima dell’oblio. Illuderti che la mia vita sia stata più semplice della tua ti aiuta ad andare avanti?»
Ancora nessuna parola, nessuna risposta.
«Non ho mai capito il bisogno degli uomini di poter dire d’esser stati in situazione più pericolose, più dolorose, più terribili. Sono cresciuto isolato dal mondo, dalla gente, dalla vita che tu hai condotto, la vita “normale”. Mi hanno insegnato a compatire chi ha avuto un destino più tristo del mio e a non odiare chi è stato più fortunato.» si fermò per un secondo, lasciando scivolare i resti della sfera a terra. «Non vi odio, Jane Parris. Non vi odio per aver avuto una famiglia felice e completa, per aver vissuto una vita tranquilla nel vostro villaggio, per aver ricevuto il sorriso sincero di ogni villico, per aver avuto amici e vi compatisco per aver dovuto vedere la morte dei vostri genitori. Temo che questo sia tutto ciò che mi rende più fortunato di voi: ho avuto il privilegio d’esser il primo a perire, ma questo ha significato non poter proteggere le persone che amavo. La morte non mi ha liberato dalla mia prigione.»
Sfregò i palmi tra di loro, leggera polvere traslucida cadde verso i grandi frammenti ai suoi piedi, poi li pulì sui pantaloni e volse il viso verso la sua destra.
Jane lo osservò in silenzio chiudere gli occhi ed ispirare profondamente. Gli sembrava quasi di sentire un alone di gelo sprigionarsi dal suo corpo e la cosa la stava confondendo ed infastidendo. Si sentiva demoralizzata, vuotata di ogni energia perché- perché per la prima volta in vita sua, alla propria rabbia, non aveva visto rispondersi altra rabbia, beffa, ma solo fredda calma.
L’avevano sgridata, l’avevano pregata in lacrime di calmarsi, le avevano urlato contro, l’avevano derisa ed ignorata ma… nessuno era mai stato così tranquillo, così saggio e… e sì, freddo.
Quando il fuoco si scontrava contro la montagna non poteva far altro che arrampicarsi lungo le pendici di pietra e sperare di riuscire ad arrivare in cima, per ardere con più forza e distruggere quelle stesse cose che lo alimentavano. Ma Jane non poteva certo sapere che più si saliva e più scarseggiava l’ossigeno.
«Sento una scia di terrore.» disse d’improvviso Úranus. «Sono sicuro che si tratti di Jonas e Lea. Dobbiamo muoverci il più velocemente possibile.» sentenziò in fine dandole le spalle ed iniziando ad incamminarsi verso la direzione da cui proveniva l’eco delle grida di Phobos.

Ancora una volta la voce del panico era più forte di quella di qualunque altro essere, ma cos’era successo per far cadere il ragazzo in un pozzo così profondo?
Úranus aggrottò di nuovo le sopracciglia, registrando solo in sottofondo i passi affrettati di Jane che si ritrovava sempre a correre per stargli dietro.
Lea non riusciva a calmarlo con i suoi poteri curativi? Però non erano in pericolo, non c’era nessuna minaccia, non era la paura verso un nemico quella che sentiva, ma era ugualmente profonda, radicata nel nucleo dell’anima di Jonas.
Erano molto lontani? Sarebbero arrivati in tempo? La sua presenza lì avrebbe rischiato di peggiorare solo la situazione, com’era successo con Nathan? Forse i suoi poteri e quelli di Jonas assieme avrebbero di nuovo fatto precipitare ogni cosa.
Nella marea di domande che ora affollavano la sua mente, assieme a quelle preoccupate, al chiedersi dove fossero Nathan ed Elizabeth, se stessero bene anche loro, se Jane lo avrebbe seguito, se avrebbe aiutato nel caso ce ne fosse stato bisogno, se sarebbe stata d’intralcio o meno, se lui stesso sarebbe stato in grado di portar soccorso a quelle persone verso cui sentiva già un vago senso di protezione; un quesito sopraffece tutti gli altri, potente e ripetitivo come i rintocchi di una campana:
Se Jonas stava male, perché Cade non era con loro?
E soprattutto: dov’era Cade? Perché non lo se-
 
Úranus si bloccò di colpo, alzando polvere e frammenti, ignorando il peso di Jane che gli si schiantò contro presa alla sprovvista.
 
«Che diamine ti prede! Prima mi dici di sbrigarmi e poi ti blocchi?! Ehi? Úranus!»
La figlia di Ecate gli girò attorno piazzandoglisi di fronte ed un brivido freddo, ancora, ancora dannatamente freddo, le scivolò lungo la schiena e dentro lo stomaco.
Deglutì a vuoto, la bocca secca per poter articolare anche solo un’altra parola.
 
«Non sento più Cade. Non c’è più.»
 
La polvere luccicante si ridepositò a terra, neanche la brezza fantasma dell’Ade si mosse. Era tutto fermo.

 
*
 


La luce non era molta ma lui sapeva perfettamente quanto quel patio fosse grande, quanto lo fossero le colonne esteriori a confronto con quelle fine e delicate che poteva intravedere tra le ombre.
Al centro della struttura si trovava una fontana, l’acqua cadeva con lentezza innaturale dal foro al centro della cupola, frammentandosi in centinaia di scintillanti riflessi a metà della sua caduta: si apriva così un pulviscolo finissimo di acqua vaporizzata, nelle cui gocce risplendevano immagini di ogni genere, vorticando veloci come la luce stessa.
Ad accogliere ogni stilla vi era una grande conchiglia perlacea, il rivestimento di un mollusco enorme e preistorico che ora risplendeva di delicate sfumature rosee e aranciate.
C’erano centinaia di cuscini di ogni dimensione ad accerchiare la conchiglia, depositati su spessi tappeti tessuti dalle zampe leste di una bestia che in molti spaventava, ma non la Dea a cui essi appartenevano.
Vi era solo un'unica pedana rialzata, la cui circonferenza era decorata anch’essa con conchiglie sgargianti e perle di mare. Lì sopra un cuscino particolarmente alto e dall’apparenza morbida fungeva da materasso. Coperto di seta finissima e lucida, il suo colore mutava a dispetto della prospettiva da cui lo si poteva osservare, colorandosi di tutte le sfumature del crepuscolo.
Con sguardo assente si ritrovò a pensare a quante volte si era sdraiato lui stesso su quel cuscino, quante volte vi aveva trovato altri adagiati sopra, quante volte sua madre l’aveva bonariamente ripreso per averci portato una delle sue conquiste. Ma cosa poteva farci lui? Era così morbido, pareva quasi esser fatto di nubi. O almeno questo era ciò che gli era stato detto. I mortali però erano così innocenti, così sciocchi, non sapevano le nuvole non erano morbide, che erano solo fredde, umide e bagnate, impalpabili come la nebbia.
Il colore del cuscino si sfocò, come potesse la vista di una divinità divenir sfocata nessuno lo sapeva, ma lui era stato talmente tanto a contatto con gli umani da aver imparato anche le loro piccole e stupide particolarità, come quella.
Batté lentamente le palpebre e si concentrò sulle migliaia di immagini che vorticavano nel pulviscolo d’acqua, scorgendo sprazzi di azioni, di situazioni, di visi.
Erano le Praterie, erano tutte quelle povere anime che si erano messe in gioco senza rendersi conto che le loro possibilità di vittoria erano infinitesimali, come lo erano loro stessi a confronto con tutti i morti del mondo.
Un sorriso affilato si aprì tra le labbra morbide come il cuscino, rosee come le sfumature della sua stoffa.
Tutte quelle anime però non gli interessavano minimamente, non avevano alcun valore per lui, in quel momento neanche i suoi figli avrebbero potuto attirare la sua attenzione, perché ciò che voleva vedere era ben altro, era ben più maturo dei suoi poveri figli morti adolescenti, forse appena adulti, più potente di tutti loro messi assieme, più interessante di qualunque cosa sarebbe potuta succedere.
Le iridi calde si posarono su di un frammento nascosto dietro tutti gli altri, sfuggendo l’immagine di un uomo completamente vestito di nero che si aggirava con calma per le Praterie come se non fosse lì per recuperare il proprio ricordo. Nel piccolo scorcio comparve la figura di un uomo seduto ad un tavolo di legno massiccio: teneva i gomiti impuntati sul piano, il volto dai tratti marcati sprofondato nelle mani grandi, le labbra tirate così come le guance, gli occhi socchiusi, le sopracciglia scure rilassate. I corti capelli neri parevano un poco arruffati ma a lui non importava, così come non importava la camicia dalle maniche arrotolate e leggermente stropicciata. Il suo vestiario era del tutto irrilevante quando la sua postura gli ricordava così duramente un passato incredibilmente vicino per lui ma estremamente lontano per l’altro.
Era la stessa identica faccia che aveva da ragazzino, il modo in cui i palmi schiacciavano le guance, come gli zigomi si spingessero verso gli occhi costringendolo a socchiuderli, come le lunghe dita arrivassero agli zigomi e poi alle sopracciglia. Se lo ricordava tendere i mignoli e lisciarsi le sopracciglia spesse, per poi giocare con la punta del naso. Lo ricordava piccolo e appuntito, sporco di polvere, di fuliggine, di grasso per auto, di farina alle volte, o di icore, semplice e bruciante icore. Quell’espressione, quello sguardo, quei modi di fare da bambino, Giordano non li aveva mai persi. Era diventato un uomo, era cresciuto in tutto e per tutto ma alle volte pensava seriamente che molti anni, molte tappe, le avesse bruciate malamente saltando da una guerra all’altra, mortale, divina, di questo mondo o degli altri. Giordano era nato dalla guerra, prima della guerra, nella guerra e dopo di essa.
Un triste destino, ma poteva capirlo: forse era l’unico a poterlo fare visto che anche lui era nato letteralmente dalla Guerra.

«Guardi ancora lui?»
 
La domanda arrivò leggera nel silenzio, certo non inaspettata. La voce che l’aveva pronunciata era morbida e delicata, dolce come il miele, letale come il veleno. Era la voce delle sirene e delle malie, una voce a cui nessuno avrebbe saputo negare nulla.
Ma lui non era “nessuno” e sapeva come leggere anche le minima inclinazione di quel canto: ora vi leggeva divertimento e curiosità.
Sorrise decidendo che, almeno per un po’, avrebbe potuto assecondarla senza far danni.
«Lo sai perfettamente.» rispose pacato.
La donna annuì, stiracchiandosi sul suo giaciglio. «Ti è sempre piaciuto tanto.»
«Oh, come se non fosse stato lo stesso per te.» ridacchiò voltandosi a guardarla, «Se le cose fossero andate secondo i piani, adesso potresti vantarti di esser la fautrice della sua nascita.» le disse facendole l’occhiolino.
Lei gli rispose con una risata cristallina. «Ma il merito non sarebbe stato tutto mio, ricordati che avevo una gentile alleata.» replicò lo stesso gesto ed i due si ritrovarono nuovamente a ridacchiare, complici.
C’era qualcosa di confortante nell’avere qualcuno capace di comprenderti così bene, così profondamente, sapeva fin troppo bene quanto fosse privilegiato.
«Cosa ne pensi?» le domandò quindi, curioso di sapere la sua.
La donna allungò le braccia oltre la testa, i lunghi capelli rosei parevano riprendere le sfumature del vespro, come ogni cosa in quella stanza.

L’alba, la speranza di un nuovo inizio.

«Di lui? Lo sai che mi è sempre stato simpatico il piccolo Gio, era un ragazzino così amabile e già così potenzialmente dannoso per noi.» disse deliziata.
«”Dannoso”? Sei seria?» chiese ridendo. Scosse la testa e si avvicinò alla fontana, allungando la mano per sfiorare le figure che, immediatamente, persero forme e colori.
«Assolutamente, te ne sei dimenticato? Abbiamo dovuto abbandonare ogni ambizione nel momento in cui i nostri Oracoli si sono resi conto delle conseguenze che sarebbero sopraggiunte. Ci fermammo perché sarebbe andato tutto contro di noi: invece di proteggerci, invece di renderci ancora più grandi e splendenti di quello che già eravamo, ci avrebbe portati alla distruzione.» gli ricordò con leggerezza.
Il dio annuì. «Noi o loro.» precisò con un fil di voce.
La donna batté con lentezza le lunghe ciglia scure, le iridi diamantine che scintillavano nel buio.
«Non potevamo correre il rischio e per di più, le predizioni erano fin troppo chiare: una parte sarebbe stata distrutta e l’altra ne sarebbe uscita a mala pena viva, nessuno c’avrebbe guadagnato.»
«In ogni caso, alla fine dei giochi, il Fato si è beffato di noi, di tutti, nessuno escluso.»
«Ma ha ritardato d’anni,» disse saggiamente, «t’immagini cosa sarebbe successo in caso contrario? Se non li avessimo tenuti così lontani per tutto quel tempo…»
«Probabilmente la guerra non sarebbe scoppiata, per lo meno non una delle due.» le fece notare. «Ma ormai credo che sia del tutto inutile ragionarci sopra, ciò che è fatto è fatto.»
Per un attimo il silenzio la fece da padrone, ma sapeva perfettamente che l’altra non avrebbe demorso e così fu.
«Sai che sono sempre stata dalla sua parte, anche se le mie intenzioni non sono sempre state delle più nobili.» disse con un sorriso incantevole a tenderle le labbra rosse.
«Le tue intenzioni non sono mai “delle più nobili”, ma temo sia una nostra prerogativa divina.» rispose ridendo.
Lei fece un gesto vago con la mano, sottolineando l’ovvio. «Sono comunque sempre stata dalla sua parte.»
«Concesso.» inclinò a testa, lo sguardo sempre puntato sull’immagine dell’uomo che fissava a sua volta una bolla d’acqua animata.
«Quindi se ti chiedessi a cosa mira, me lo diresti, giusto? Perché sai che sarei comunque dalla sua parte.» insinuò con un’invidiabile faccia da poker.
Anche il dio sorrise nello stesso incantevole modo e, dopotutto, suo padre gli aveva sempre detto che avevano entrambi lo stesso dannato ed amabile modo di sorridere.
«Cosa hai capito fino ad ora?» domandò invece.
Lei sbuffò, infastidita dal doverci ancora girare attorno.
«Che tutta questa gara ha un doppio scopo, qui ci siamo arrivati tutti, credo.»
«Concesso.» ripeté per la seconda volta.
«Che c’è qualcosa che si muove per l’Ade, che le anime scompaiono e poi riappaiono, che i vincitori perdono ed i perdenti vincono.»
«Mh-mh.»
«Che i nostri figli sono quelli che gli interessano di più, ed è del tutto comprensibile visto che sono quelli più utili, se vuole arrivare da qualche parte gli serviranno poteri di ogni sorta.» ragionò lei con tono leggero.
Il dio ghignò. «A chi?»
«Come a chi?» domandò lei confusa. «A Gio. È lui che sta facendo sparire le anime.» disse con fare ovvio.
Ma quando l’altro si voltò a guardarla quella certezza improvvisamente vacillò.
«Ma Gio è sempre stato nella Sala delle Macchine.»
Il ghignò che le regalò, che avrebbe avuto il potere di far imbestialire chiunque altro, fece semplicemente scoppiare a ridere la dea.
Con un movimento fluido ed elegante si alzò dal suo giaciglio, camminando scalza sui tappeti, tra i cuscini colorati che avevano ospitato esseri di ogni sorta, per infiniti motivi.
«Oh, tesoro mio, sai che sono una dea più antica e potente di quanto non sembri.» gli disse dolcemente, carezzandogli una spalla.
Lui annuì. «E voi sapete che molteplici sono le maschere che porto con me.» rispose sorridendole con un lieve inchino.
«Certo che sì, proprio per questo ti capisco.» gli baciò teneramente una guancia e poi spostò la mano sul suo collo, sulla nuca, giocando con i capelli. «Sarà qualcosa di grande e di magnifico, lo so bene, ma cosa c’entriamo noi?»
Il dio si abbandonò un poco a quelle carezze e chiuse gli occhi per godere al meglio del tocco morbido della mano dell’altra.
«Il motivo più antico del mondo.» rispose riaprendo gli occhi per guardarla attentamente. «Cos’è che spinge tutti gli esseri ad agire?»
Lei sorrise. «Potere, vendetta, desiderio.» il sorriso si ampliò. «Amore.»
«Puoi capire la mia ossessione, vero?» domandò ancora, per aver conferma che la dea avesse davvero compreso fino in fondo l’importanza di quella sua piccola azione, di quel suo schierarsi.
«Mi stai chiedendo di combattere, tesoro?»
«No, nessuno di noi combatterà, non penso ce lo permetterebbe, è la sua guerra, non la nostra.»
La dea fece scorrere ancora le mani sul capo del giovane, prendendogli il viso tra i palmi morbidi e delicati s’avvicinò a lui sino a sfiorargli le labbra con le proprie in un bacio leggero come il pulviscolo d’acqua che rifletteva tutte le prove dell’Ade.
«Oh, amore mio, lo sai che sono sempre dalla tua parte, anche quando non sembra così. Sono di certo colei che può comprenderti meglio di tutti.»
«Sarai dalla sua parte? Dalla mia, quindi?»
«Sono sicura che ci sarà da divertirsi, vero?» ammiccò con un pericoloso scintillio negli occhi aranciati come le conchiglie di mare.
«Ti sembrerà strano, ma non lo faccio per divertimento.» rispose però lui serio.
Un altro bacio ed il sorriso della dea divenne ancora più accentuato, lo stesso bellissimo sorriso che aveva piegato il mondo, che aveva messo in ginocchio il genio e la guerra. Lo stesso dannato sorriso che aveva corrotto secoli e creato ere.
«Lo so, so che per te è importante. Mamma ti capisce sempre.»

 
*
 


Seduto a terra, con le ginocchi al petto e la testa tra di esse Jonas cercava di prendere respiri profondi, malgrado Lea gli ripetesse che una posizione così contratta non aiutasse per niente.

«Fai solo peggio, Jonas, devi distenderti, capito? Allunga il collo verso l’alto, libera le vie respiratorie.» gli ripeté ancora.
Il ragazzo scosse la testa, senza aver il coraggio di alzare il capo, di aprir bocca, di guardarla negli occhi.
Aveva visto. Lea aveva visto tutto: la porta, il corridoio buio, la sua camera, il suo riflesso allo specchio-
 
Quegli occhi verdi.
 
No, non aveva visto solo gli occhi, aveva visto anche la persona a cui appartenevano.
Per un piccolo, folle momento, Jonas aveva pensato che magari la ragazza potesse capirlo, che potesse accettare ciò che aveva fatto, ma poi si era ricordato che Lea veniva da un’epoca ancora più vecchia della sua e che quindi non aveva speranze.
L’avrebbe guardato con rimprovero, se al posto suo ci fosse stata sua madre forse lo avrebbe addirittura schiaffeggiato per aver fatto una cosa così folle.
 
Per aver amato la persona sbagliata.
 
Non voleva piangere, Jonas non voleva farlo, l’aveva fatto troppe volte, sia in vita che in morte, non voleva piangere. Però… però era così triste, così difficile, così tremendo.
Avrebbe voluto aver la forza di alzarsi e scappare, mandare al diavolo tutto e tornare oltre i cancelli neri. Sì! Dannazione! Preferiva tornare lì, al posto a cui apparteneva! Perché se lo meritava, si meritava le pene dell’inferno perché non era mai stato buono a nulla, perché non era mai stato all’altezza della sua famiglia, perché non era alto e forte come i suoi compagni, non in grado di comportarsi da uomo, non era abbastanza attraente per esser considerato dalle ragazze, per trovare una buona compagna di vita, una buona moglie da cui avere dei figli forti e sani. Non era stato mai in grado di spiccare a scuola, non era stato buttato fuori a calci solo per il suo nome. Quella era la realtà! Era rimasto nella sua prestigiosa e costosissima scuola solo perché aveva il nome giusto. Ma che senso aveva appartenere alla perfetta famiglia tedesca se poi si era meno di una mela marcia?
Si sentiva sprofondare, come se gli si fosse aperta una voragine sotto i piedi, ed era assurdo perché come poteva andare più a fondo di dove già si trovava? Era stupido da pensare ma in quel momento avrebbe solo voluto sotterrarsi, nascondersi anche a sé stesso.
No, non avrebbe alzato la testa, nel suo orgoglio ostentato, nella sua cieca testardaggine non avrebbe permesso ad un’altra persona – di nuovo – di vederlo in quelle condizioni, con gli occhi lucidi, le guance paonazze, il fiato corto. Che si trattasse di una donna, di un’amica, di un’infermiera non gliene poteva fregar di meno.
Andassero tutti al diavolo!
Che cazzo ci faceva lì? Perché stava combattendo per tornare su? Cosa diamine lo aspettava?
Non c’era nulla per lui là sopra se non solitudine, dolore, abbandono.
 
Ciò che ho provocato io agli altri.
Lì ho lasciati soli, feriti, abbandonati.

 
«Jonas, per favore, respira.»

Perché Lea continuava a parlargli? Perché sprecava tempo con uno come lui? Con un reietto? Con uno scarto della società.
 
Abbandonati, li ho abbandonati tutti.
 
«Lasciami in pace.» soffiò fuori con un suono strozzato.
Sentiva i polmoni in fiamme, era possibile? Poteva seriamente morire soffocato? Ma lui era già morto, erano tutti già morti.
«Non hai fatto nulla di male.» insistette invece Lea. «Ascoltami, è normale aver paura e io- l’ho sentita, ho percepito la tua paura e la tua angoscia come se fossero le mie e non so come questo sia possibile ma è normale, capito? È normale aver paura.»
Un qualcosa simile ad una risata proruppe irruento dalle labbra serrate del ragazzo.
«Capisci? Tu mi capisci?» chiese divertito, il tono cinico, sprezzante.
Alzò finalmente la testa, gli occhi chiari cerchiati di rosso ed ardenti di rabbia.
«Come puoi capire?! Perché hai sentito? Perché hai vissuto il mio ricordo? Tu non hai idea di cosa significhi vivere costantemente con l’ansia che qualcuno si renda conto di cosa sei? Uno sporco traditore del tuo sangue, della tua patria, della tua famiglia!» sibilò velenoso. «Non sai cosa mi avrebbero fatto se avessero scoperto…» la voce gli si strozzò, un’espressione addolorata gli trafisse il volto e Jonas si ritrovò a strizzare le palpebre così forte da veder le stelle.
Lea invece si ritrovò a batterle le palpebre, confusa. Era per questo? Perché aveva tradito le aspettative della sua famiglia?
«Hai paura che ti avrebbero disconosciuto?» domandò cauta.
Jonas rise. «Disconosciuto? Come minimo mi avrebbero ammazzato sul posto se fosse diventato pubblico! Se qualcuno l’avesse scoperto l’unico modo per lavare la macchia sarebbe stato con il sangue, il mio… il suo… non so come tu-»
«Ero una donna, senza famiglia, un’orfana abbandonata palesemente perché inattesa ed indesiderata, frutto di un tradimento. Non so come se la cavassero lo donne al tuo tempo, ma al mio non potevi far gran ché, dovevi stare a casa, occuparti della famiglia, far figli. Se lavoravi significava che venivi da una famiglia povera e ne avevi la necessità. So com’è essere svantaggiati, anche se mio fratello mi ha amata.» gli carezzò lentamente la spalla, con delicatezza. «Tua madre ti amava, giusto? Ho- ho sentito che non volevi deluderla, che non volevi farla soffrire…»
«L’ho fatto comunque, di sicuro. Prima ha perso suo marito, poi me.» rise senza gioia, «Almeno non ha mia scoperto quale disgrazia io fossi.» mormorò piano.
Lea abbassò lo sguardo, prendendo un respiro profondo e sedendosi di fianco a lui. Provò ad allungare il braccio per stringerlo attorno alle spalle di Jonas ma il ragazzo si scansò, chiudendosi di nuovo in sé, nascondendosi ancora e ancora, come probabilmente era abituato a fare da tutta la vita.
E lei lo sapeva, sapeva come si viveva male nascondendosi, l’aveva visto con i suoi occhi, l’aveva provato sulla sua pelle.
Essere semidei ed esserlo così lontani da un luogo sicuro come il Campo Mezzosangue, significava vivere nella menzogna, nell’inganno, nella costante paura che la persona che ti sorrideva educatamente si potesse trasformare in un mostro pronto a sbranarti, a dilaniarti perché la tua unica colpa era quella d’aver un vago odore divino. Temere che i tuoi amici potessero trovarsi in pericolo perché la tua traccia era rimasta su di loro, perché era un modo sicuro per arrivare a te… e poi- poi aveva visto Giuseppe, aveva visto il terrore nei suoi occhi, il suo volto impallidire, le labbra tremolare.
 
«Lea… Lea, ti prego- per favore non- non andartene, aspetta, io… posso spiegarti…»
 
Oh, sì, certo che poteva spiegare, certo che lei era rimasta a sentire cos’avesse da dirgli, perché lo amava, perché Lea amava quel suo fratello che in realtà era stato all’atto pratico suo padre, l’uomo che l’aveva adottata e l’aveva protetta e accudita anche quando non andavano d’accordo i primi tempi. Apollo l’aveva obbligato a prendersi cura di lei, ma l’affetto che ne era nato dopo non era stato imposto loro da nessuno. E chi era Lea per rinnegare la sua famiglia solo perché per la loro società, per il loro popolo, amava la persona sbagliata?
Con un moto di disprezzo Lea si rese conto che, malgrado passassero i secoli, ogni impero, ogni regno, ogni dittatura, provava il desiderio irrefrenabile di stabilire i confini e le linee guida per la vita dei popoli: l’età sbagliata, il sesso sbagliato, il paese, la casta sociale, la pelle, la lingua, la discendenza, la religione, la fede politica… c’era sempre qualcosa che non poteva esser tollerato, qualcosa che era “sbagliato” per principio e non per motivazione valida.
L’avevano fatto gli Austriaci e a quanto pare anche i Tedeschi, anzi, da quel poco che era riuscita a capire dai discorsi di Cade, anche gli Inglesi non dovevano esserci andati leggeri.
 
Cade!
 
Diamine! Non poteva ricordarsi di lui in un momento del genere, in una situazione così delicata!
Ma dove cavolo era andato a finire quel caprone di un irlandese?
 
«Non puoi biasimare te stesso per una cosa del genere.» disse improvvisamente, l’ansia e la preoccupazione che, prepotenti, avevano spazzato via quella tristezza e quel senso di rassegnazione che l’avevano presa. «Io- non ho avuto grandi amori, ad essere onesta non ne ho proprio avuti,» sbuffò divertita, «che tristezza…però, però c’è stato un ragazzo, qualcuno che forse avrei anche potuto amare se fosse tornato da me, ma non è questo il punto. So di non essere la persona più adatta per parlare di queste cose, ma d’altra parte penso di poterlo fare molto meglio di tutti gli altri, dei nostri compagni intendo.»
Girandosi verso il ragazzino gli afferrò saldamente una spalla costringendolo a forza a girarsi verso di lei, a guardarla dritta negli occhi. Lo fece anche se sapeva che, in quel momento, Jonas voleva solo scapparle, voleva a tutti i costi nascondersi.
 
Come aveva sempre fatto.
 
Con un moto di stizza lui si scrollò la sua mano di dosso ma rimase ugualmente voltato, la prepotenza dell’orgoglio e della testardaggine adolescenziale che, in un altro momento, avrebbero fatto sorridere Lea ma che, allo stato attuale delle cose, la rendevano solo più convinta delle sue azioni.
La figlia di Apollo portò le mani in grembo, ostentando una posa rigida e formale, un qualcosa che le era rimasto della sua vita, quando doveva parlare di cose importanti, delicate.
«Non venirmi a dire che mi capisci, perché sono sicuro che non sia così.» le rispose comunque duro lui.
Lea alzò un sopracciglio: anche lei aveva ancora sprazzi di assoluta e stupida ribellione adolescenziale, ma soprattutto di moti di puro orgoglio.
«Perché, credi che quello che è successo a te non possa capitare ad una donna? Cosa c’è? Voi sì e noi no?» gli chiese con aria di sfida.
Jonas vacillò. No, certo che no… lui si era innamorato perdutamente dell’anima a cui appartenevano quei magnifici occhi verdi, non del suo involucro, del corpo, dell’etnia, dell’aspetto, del sangue, del credo o di qualunque altra cazzata. Il sentimento che l’aveva alimentato era stato così sincero, così violento, che non faticava a credere che anche una donna potesse provarlo dopotutto l’amore non guardava in faccia nessuno. Quello a cui non poteva credere era che fosse successo a lei, che lei lo potesse capire. E glielo disse senza mezzi termini o giri di parola.
Jonas poté giurare che sul volto di Lea si fosse aperto un sorriso irritato, di pura stizza.
«A quanto pare voi uomini continuate a credere di saperne più di noi anche nel futuro.» disse con voce sprezzante e dura.
Il ragazzino si ritrovò a battere le palpebre preso in contropiede. Si sentiva confuso da quelle parole, tanto da dimenticare l’ansia che l’aveva attanagliato poco prima. Lo stupore era così forte da aver fatto tabula rasa nella sua testa.
Cosa significava? Perché le diceva quelle cose?
Improvvisamente Jonas si rese conto di non aver mai conversato per così tanto tempo con una donna, con un’estranea; si rese conto che lui, del gentil sesso, non sapeva nulla se non l’apparenza che tutti decantavano, o criticavano, e qualche piccola informazione sparsa appresa quando “spiava” le domestiche lavorare per casa sua, quando parlava di cose futili con Virginia.
Guardando Lea con occhi completamente nuovi realizzò che quella donna non aveva mai parlato di nulla di quello che erano solite parlare le sue domestiche: niente marito, niente figli, niente commissioni da portar a termine. Certo, era un contesto del tutto diverso, ma per quanto se ne era interessato a suo tempo, era arrivato alla conclusione che la vita di ogni donna fosse relegata alla sfera famigliare, che il loro destino fosse tracciato per seguire solo quella strada.
 
Un po’ com’era segnato il mio.
 
Jonas batté le palpebre: aveva imparato a non mostrare compatimento verso la vita dell’intera popolazione femminile, indipendentemente che fosse dell’alta società o meno, rispetto e gentilezza verso le donne erano cose essenziali per un uomo di classe come lui, però… si sentiva così confuso dannazione! Cos’aveva detto di così strano? Di così sbagliato?
 
«Io- io non-» balbettò completamente incapace di replicare.
Lea gli regalò lo stesso sguardo sprezzante di prima, quel sorriso infastidito, tipico di qualcuno che si ritrova per l’ennesima volta in una situazione spiacevole già sperimentata.
«Tu cosa?» domandò assottigliando lo sguardo. Poi prese un respiro profondo ed espirò con forza. «Senti, questo non è il momento giusto per parlare di tutte le stupidaggini maschiliste che ti sono state insegnate.»
«Non mi è stata insegnata nessuna stupidaggine maschilista!» protestò subito indignato.

Oh, indignazione: il suo sguardo è indignato.
 
«Certo, come no! Però pensi che io non ti possa capire, giusto? Come potrebbe una povera donnetta come me, cresciuta in un convento e poi nella casa di un medico, poter capire i complicati giochi d’amore del cuore di un uomo, vero?» replicò con ardore. «Beh, allora fatti dire una cosa, ragazzino: questa donna, così come ogni altra al mondo, potrebbe capire anche meglio di te i tuoi stessi sentimenti, perché vuoi uomini siete stupidi ed ottusi e continuate a nascondervi a reprimere ciò che provate solo perché qualcuno prima di voi vi ha detto che è giusto così. Ti darò una notizia sconvolgente: ci vuole molta più forza e coraggio ad amare come fa una donna, perché nonostante tutto, nonostante il mondo intero ci dica che per amore dovremmo rinunciare a tutto, abbassare il capo ed eseguire gli ordini, noi continuiamo ad amare e a farlo a testa alta.» fece un gesto secco della mano per farlo tacere e Jonas gliene fu quasi grato perché malgrado la sua bocca si fosse spalancata per ribattere non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe detto.
«Oh, no! Non ci provare! Sei praticamente uno sconosciuto per me, non so da quanto siamo qui dentro, forse giorni, anni o solo minuti, ma vorrei farti notare che non mi sono mai tirata indietro per aiutarti, qualunque fosse la situazione. E sì, capisco che i tuoi terribili scatti d’umore siano dovuti al fatto che sei un adolescente, che sei spaventato e sei scappato da un luogo terribile, ma questo non ti giustifica, tu- Dio Santissimo padre dei popoli! Sei proprio come mio fratello, sei identico a Giovanni! Anche lui credeva che io non potessi capire, anche lui me l’ha nascosto per tutto quel tempo! E sai cosa? Scommetto che te lo sei portato nella tomba, vero? Non lo hai mai detto a nessuno! Voi uomini siete tutti uguali! Vi fingete forti, inscalfibili, perfetti come il vostro regno vi vuole, non sbagliate mai no? Dovete sempre dirci cosa è giusto o meno fare, cosa possiamo accettare e cosa no, come bisogna comportarsi, perché voi lo sapete! Ma la verità è che siete tutti dei codardi che non hanno il coraggio di guardare il mondo senza una maschera a nasconderli!» terminò con rabbia, con un risentimento covato in petto per anni, per secoli e ora esploso senza freno.
Lucidamente Jonas si rendeva perfettamente conto che quello sfogo non era diretto a lui, aveva capito di dover aver detto qualcosa di sbagliato, magari una frase che tempo prima doveva avergli detto proprio suo fratello e che aveva innescato qualcosa nei ricordi della figlia di Apollo che l’aveva portata ad urlargli quasi in faccia. Eppure quelle parole lo colpirono così duramente, così profondamente.
Da una parte c’era una donna del diciannovesimo secolo, che lo guardava arrabbiata e indignata perché, ancora una volta, qualcuno – un uomo, non importava l’età – le aveva detto che non poteva capire; dall’altra un ragazzino del ventesimo secolo che, parlando con quella stessa rabbia che ora attanagliava la sua compagna, si era ritrovato da predatore a preda, confuso e ferito.
Come c’erano arrivati a quel punto? Perché si erano detti quelle cose?

Per colpa mia, per colpa del mio ricordo. È sempre colpa mia, sempre.
 
Codardo.
 
Jonas abbassò il capo: perché doveva essere tutto così doloroso, così complicato?
 
«Come puoi capirmi, se non hai vissuto quello che ho vissuto io?» mormorò appena, sconfitto.
Il volto di Lea s’ammorbidì un poco, ma quel dolore latente ancora brillava nei suoi occhi.
«Mio fratello.» disse umettandosi le labbra e fissando l’erba nera. «Mio fratello mi ha nascosto la sua relazione per anni. Forse non si fidava di me, forse non pensava sarei stata felice per lui, forse- forse non mi credeva in grado di capire, esattamente come stai facendo tu.» mormorò infine amareggiata. «I segreti distruggono le persone, rovinano le famiglie…»
Jonas rimase immobile, gli occhi fissi nel vuoto. Uno strano suono gli riempì le orecchie, un ronzio vuoto e assordante allo stesso tempo, qualcosa che lo scollegava dal mondo e ce lo gettava nel mezzo.
C’erano altre persone nel mondo che avevano sofferto come lui, a cui avevano inculcato in testa che bisognava amare solo chi il proprio paese reputava adatto a noi, non chi si amava davvero. Aveva ragionato così tanto sui suoi sentimenti, sulle sue paure, ma non si era mai soffermato davvero su quelle degli altri. Certo, aveva avuto paura che la sua famiglia lo scoprisse, che l’onta li colpisse, aveva temuto di perdere la loro fiducia, il loro rispetto, il loro affetto… aveva temuto d’esser ripudiato, di provocar dolore in sua madre, in suo nonno ma- ma c’era anche qualcuno che avrebbe potuto soffrire per la sua mancanza di fiducia? Non sapeva com’erano le cose al tempo di Lea, ma Jonas si disse che per lui non era stata semplice sfiducia verso il prossimo, per lui si trattava di vita o di morte, se no-
No.
No, lui non avrebbe detto nulla in nessun caso, non avrebbe ugualmente avuto il coraggio di aprir bocca e dire liberamente ciò che provava.
Spostò finalmente lo sguardo su Elena e si domandò se, nella sua piccola famiglia, ci fosse ancora solo una persona che si sarebbe indignata. Si domandò se sua madre avrebbe pianto per il dolore di saperlo tra le braccia della persona sbagliata o se l’avrebbe fatto perché il suo unico e amato figlio non aveva avuto il coraggio di dirle d’essersi innamorato.
La sua mente s’aggrovigliò su sé stessa e Jonas non lo sapeva, non sapeva cosa pensare, cosa provare. Non sapeva e basta.
Lea doveva la vita a suo fratello, era lui la sua unica famiglia, non era la stessa cosa per lui, la situazione era diversa, lui non aveva nessuno con cui condividere un rapporto fraterno, forse solo-
Batté le palpebre, l’immagine di un volto gentile e sorridente, pieno di vita e di energia.

Oh, Ludwig.
 
Erano amici da quando erano piccoli, erano cresciuti assieme per i corridoio della magione della sua famiglia, era il suo migliore amico e gli voleva un bene dell’anima. Per anni era stato come un fratello per lui, il compagno di giochi e avventure immaginarie, di studio e di crescita.
Deglutendo a vuoto Jonas si domandò cosa sarebbe successo se… se Ludwig avesse saputo. Se Ludwig, il suo migliore amico d’infanzia, avesse saputo che aveva una relazione illegale.
Si immaginò il suo viso farsi serio mentre lui lo informava d’aver qualcosa d’importante da dirgli. Lo vedeva drizzare la schiena, assumere una posa più dritta, più adulta, matura. Lo immaginava ascoltare in silenzio, perché Lud non gli avrebbe mai parlato sopra, gli avrebbe lasciato il tempo ed il lusso di spiegarsi e poi-
 
Poi mi avrebbe dato un pungo perché ero stato così stupido da farmi mille fisime nel raccontargli una cosa così importante per me.
Mi avrebbe stretto. Mi avrebbe detto che sono un cretino. Che mi voleva bene, che avrebbe lottato al mio fianco, qualunque cosa fosse successa. Perché è questo che fanno gli amici.
 
Deglutì ancora.
Ludwig sarebbe stato al suo fianco fino alla fine.
Fino al momento del giudizio. Lo avrebbe difeso anche davanti all’ovvietà delle prove. Perché erano amici. Perché lo sarebbero stati per sempre se solo…
 
«Scusa.»
La sua voce era fievole come la luce dell’Ade, non voleva guardarla, non ora che aveva capito, anche se solo lontanamente, cosa avesse dovuto subire.

Non si soffre mai da soli.
 
Lea piegò le labbra in un sorriso amaro.
«Ora mi consola solo sapere che è stato amato. Per quanto possiamo dire dei nostri fratelli, per quanto possiamo insultarli o litigarci, alla fine vogliamo solo che siano felici.»
Jonas annuì. Non era proprio quello che intendeva, ma capiva che per lei il centro della storia fosse un altro. Meglio così, si disse, se poteva allontanare il discorso dal suo ricordo avrebbe fatto qualunque cosa, anche parlare della famiglia.
«Non ne ho la più pallida idea, non ho fratelli.» si arrischiò a dire sorridendo incerto.
Lea si voltò allora a guardarlo e gli sorrise con più convinzione: si sentiva ancora profondamente ferita dalle sue parole ma sapeva che non erano rivolte davvero a lei, che erano solo uno sfogo di dolore trattenuto e nascosto per troppo tempo.
«Beh, è bello e impegnativo, terribile e facile. Ogni fratello ha un rapporto diverso ma, se dovessi farti un esempio, è un po’ come il tuo con-» si bloccò.
Lea sgranò gli occhi, un pensiero fulminante che le balenò in testa, e si maledisse pesantemente nel suo bel dialetto natio.
Come cavolo aveva fatto a dimenticarselo? Com’era possibile che un momento prima volesse solo interrompere quella discussione per dire al ragazzino che il loro compagno era scomparso e l’attimo dopo si trovasse a litigare e raccontargli di Giuseppe?
 
«Dov’è Cade?» Domandò allora Jonas, cogliendo il riferimento interrotto e notando, solo in quel momento che l’amico non era con loro.
Poi si ricordò anche che avevano litigato, che stava litigando con tutti in effetti, proprio come farebbe un bravo adolescente vivo.

Elena si alzò di scatto, voltando la testa a destra e sinistra.
«Non lo so. Volevo dirtelo prima. Un momento era lì vicino a te, poi tu mi sei corso incontro, abbiamo assistito al tuo ricordo e quando siamo tonati indietro, quando siamo tornati qui, lui non c’era più.» continuò a cercarlo freneticamente ma era ovvio che il giovane non fosse lì.
La prateria era un enorme distesa con pochi avvallamenti e colline, nulla che impedisse all’occhio di perdersi sino alla linea dell’orizzonte. Un orizzonte bruno, appena visibile ma non buio. Un orizzonte vuoto.
Non c’erano più sfere luminose, non c’erano anime che vagavano alla ricerca del loro ricordo, non c’era nulla.
 
«Dov’è Cade?» la voce di Jonas vibrò, tremula di paura ed inquietudine.
Avevano litigato. Era corso via senza dargli una risposta, una spiegazione, anche se Cade non si era davvero arrabbiato con lui, anche se gli aveva detto che erano gli Asfodeli a parlare per lui. Cade non c’era più, era scomparso nel nulla.
 
Mi ha abbandonato?
 
«Dov’è?» chiese ancora, un sussurro nel vento fantasma delle Praterie.
L’erba si muoveva con lentezza per poi fermarsi, immobile, pietrificata. Nessuna macchia di colore se non il nero che il attorniava.
 
Cade?
 
*
 


«ELIZABETH!»
 
Quel nome le provocava l’urticaria anche quando era rivolto a qualcun altro.
Jane arrancò a corto di fiato, seguendo il dannato gigante che pareva invece perfettamente a proprio agio anche dopo aver corso per una landa desolata e dissestata com’erano gli Asfodeli.
Da lontano poté vedere la figlia di Nike alzarsi di scatto e voltarsi nella loro direzione. Forse stava cercando tra l’erba una possibile sfera, ma qualunque fosse l’oggetto della sua attenzione fu velocemente accantonato in favore del loro arrivo.
E del tono di voce palesemente allarmato di Úranus.
Qualche metro più in là, anche lui chinato ad esaminare frammenti di sfera che gli erano parsi per un momento intatti, Nathan alzò semplicemente il capo, aggrottando le sopracciglia chiare.
«Cazzo che potenza di fiato, non l’avevo mai sentito urlare prima.» constatò piatto.
«È successo qualcosa.» gli rispose Eliza, avanzando tra l’erba alta, improvvisamente agitata.
«Oh, che sorpresa!» ironizzò il soldato alzando le mani al cielo e tirandosi in piedi. «Che cazzo avete combinato?» gli urlò di rimando avvicinandosi anche lui.
Piegata su sé stessa, a riprendere fiato, Jane lo guardò storto. «Abbiamo ritrovato il mio ricordo, razza di cafone. Non abbiamo fatto nulla.» ringhiò di rimando.
«Non siamo noi il problema.» rispose Úranus fermandosi davanti ai suoi compagni. L’occhiata eloquente di Nathan lo spronò a continuare. «Avverto una scia ti terrore, di paura. Sono sicuro che si tratti di Jonas ed il vago eco di ansia che l’accompagna dev’esser Lea.»
«Il ragazzino è terrorizzato? Aspetta, tu capti il terrore? Che cazzo sei? Un radar?»
Úranus lo guardò confuso. «Non so di cosa tu stia parlando, Nathan, ma non è questo a preoccuparmi.»
«Sono in pericolo? Jonas è ferito? Lea non riesce a curarlo?» incalzò allora Eliza.
Il ragazzone scosse piano il capo. «Quello che sento è un sentimento interno, un tormento personale, dell’anima. Posso credere che siano riusciti ad entrare in possesso del ricordo di Jonas. Lea dev’essere preoccupata perché non riesce a calmarlo.»
«E che problema c’è? Di solito è quel roscio del cazzo di Cade a fare da camomilla al moccioso.» borbottò Nathan.
A quelle parole però Eliza si irrigidì. Lo sguardo fisso e freddo di Úranus, macchiato della stessa ansia che emanava la sua amica a chilometri di distanza, le diede una risposta prima ancora che il giovane potesse aprir bocca.
«Cade.» mormorò a bassa voce. «È successo qualcosa a Cade?»
«Che ha fatto sta volta lo stronzo?» domandò spazientito il biondo.
Úranus spostò lo sguardo da un soldato all’altro.
«Non lo sento più, non avverto più la sua presenza. È come se fosse scomparso dalle Praterie degli Asfodeli.»
Per un attimo rimasero tutti in silenzio, poi Nathan bestemmiò.
Jane lanciò un lungo fischio d’approvazione ed Eliza non poté che dargli ragione.
Che significava che era “scomparso dalle Praterie”? In che senso?
Il figlio di Ares drizzò la schiena e fece scrocchiare le ossa del collo, si inumidì le labbra ed espirò pesantemente. Avrebbe voluto imprecare ancora un po’ contro tutti gli Dei ed i santi che conosceva, ma non ne avevano il tempo.
«Okay, va bene. Come funzione il tuo potere? Come puoi essere così certo che non ci sia più?» chiese con incredibile calma.
Úranus lo guardò quasi con gratitudine, avere una mente fredda che pone domande logiche era sempre una buona cosa.
«Il potere di mio padre mi permette di sentire a livello emotivo le sensazioni ed i sentimenti altrui.»
«Tutti?» domandò Eliza.
Úranus strinse le labbra. «Solo dolore, paura e disperazione.»
Questa volta fu Nathan a fischiare. «Phobos?» chiese allora.
Per un lungo istante il gigante meditò se dire la verità, dire una bugia e lasciar credere a Nathan che suo padre fosse il dio della Paura, o se negare e non aggiungere altro.
«Senti bello, capisco che tu non abbia molta voglia di dire in giro di essere il figlio della paura, ma qui non gliene frega un cazzo a nessuno e dobbiamo capire come agisce il tuo potere, se non senti più roscio di merda perché è finalmente sparito dalla faccia della fottuta terra o perché è asceso al Nirvana e quindi è talmente in pace con sé stesso che non riesci più a sentirlo. Quindi: Phobos?»
«Se è il dio della Paura è possibile che Úranus non avverta più Cade perché non prova paura?»
«Potrebbe rintracciare i suoi ricordi.» s’intromise Jane. «Ha ritrovato il mio così.»
«In che senso?»
«Mi è bastato concentrarmi su di lei, ho sentito… l’eco del suo dolore tra i centinaia che aleggiano per le Praterie. Allo stesso modo percepisco il terrore di Jonas, l’ansia di Lea.»
«Puoi concentrarti su Cade e sentire la sua paura?» domandò Eliza.
Úranus scosse il capo. «Non sento nulla…»
Nathan alzò gli occhi al cielo a quel punto. «Cristo Iddio! Allora? Sei figlio di Phobos? Perché ho conosciuto una figlia di Phobos e so che se ti trovi nelle vicinanze di qualche fonte di tormento peggiore o a qualcosa che ti rende particolarmente nelle grazie degli Dei, allora la vostra capacità di percepire la gente si sballa e noi siamo del fottutissimo Inferno, quindi direi che di tormenti peggiori ne abbiamo quanti cazzo ne vogliamo.»
A quel punto Úranus espirò con violenza e fissò gli occhi in quelli di Nathan.
Voleva la verità, la voleva seriamente? Bene.
«Fobetone.»
Nathan non rispose. Rimase in silenzio per un lungo momento, mentre Eliza e Jane lo guardavano in attesa che l’unico ad esser andato al Campo Mezzosangue spiegasse loro qualcosa.

«Cazzo.»
 
«È grave?» chiese ingenuamente Eliza.
Nathan fece un’espressione tra il sorpreso e lo sconcertato. «Ma no, è solo uno degli Dei degli incubi, di quelli che si trasformano nelle tue peggiori paure e che si alimentano con quelle paure stesse. Terrore, ansia, dolore… cose del genere, tutta robetta leggera che proco il cazzo ora capisco perché hai sempre quest’espressione di merda stampata in faccia. Te credo che senti la scia della gente, senti tutti i loro tormenti.»
Jane lo guardò stralunata, incredula davanti ad una spiegazione del genere. «Hai detto che tuo padre ha pochi figli…» mormorò appena.
Fu di nuovo Nathan a rispondere però. «Grazie al cazzo, quando i figli di Fobetone entrano in modalità d’attacco sono pericolosi, ma se cadono nel panico, in quello vero, sono bombe nucleari che camminano. Immagina di avere un esercito pronto al combattimento e di punto in bianco ogni soldato cominciasse a vedere tutto ciò che teme di più al mondo. Si cagherebbero in mano e sarebbe uno scempio. O se poco poco uno di loro perde il controllo nel mezzo di una città! Una strage!»
Úranus storse il naso. «C’erano modi più gentili per dirlo.» constatò piano, poi si riscosse. «Rimane il fatto che non riesco più a percepire la scia della paura di Cade. Sento Lea e il ragazzo, sono vicini, ma non Cade.»
«Dannato roscio di merda, l’ho già detto?» borbottò estraendo la sua bussola.
«Anche troppe volte.» lo seccò Eliza. «Puoi portarci da loro il più velocemente possibile? Se qualcuno sa cos’è successo a Cade quelli sono di certo Lea e Jonas.»
Úranus la guardò serio. «Preghiamo gli Dei di non giungere troppo tardi.»
 

La bussola di Nathan non funzionava esattamente come avrebbe dovuto, o per lo meno questo era quello che continuava a ripetere Jane guardando malamente il biondo.
 
«Non è una fottuta guida turistica, non ti porta dove cazzo vuoi. Punta a nord come ogni altra dannatissima bussola con l’unica differenza che non viene influenzata dai campi magnetici generati dalla magia divina e da tutte quelle altre puttanate. Se poi c’è una forte fonte di potere punta da quella parte, chiaro?» ringhiò il ragazzo.
Jane continuò a fissarlo quasi disgustata. «Quindi non ci serve a nulla, perfetto.»
«Abbiamo Úranus che può individuare con esattezza la posizione di Jonas e Lea, non ci darà le coordinate precise ma ci porterà a destinazione.» tagliò corto Eliza seguendo il gigante che camminava sicuro.
Lui annuì. «Esattamente come sono riuscito a trovare il tuo ricordo.» affermò secco.
A quelle parole però qualcosa si accese nella mente di Nathan.
«Non hai una sfera con te.» le disse studiandola con occhio critico, «Sei riuscita a riassorbire il tuo ricordo?»
Jane eruppe in un verso di scherno. «Oh, sì, esatto. Il colosso qui ha ben pensato di romperla invece di darla a me.» soffiò con cattiveria.
Ma se lo sguardo di Nathan si fece solo poco convinto quello di Eliza s’alzò al cielo roccioso.
«In pratica lui l’ha visto prima di te, tu hai cercato di prenderglielo di mano e si è rotto, vero?» domandò il soldato ghignando. «Nessuno ti crederebbe mai se dicessi che lo ha fatto apposta. Stiamo parlando di Úranus, non di te. Tu sei una stronzetta che romperebbe di proposito le palle per far del male agli altri, non lui.» il ghignò si fece più ampio e Jane e Nathan si fissarono con occhi di fuoco per un lungo momento, ignorando dove stessero mettendo i piedi.
Eliza sospirò, inclinando il capo verso Úranus, come a volergli chiedere di dare una risposta che facesse tacere tutti.
Il ragazzo però era intento a fissare le praterie, a non perdersi quel filo di terrore tra i tanti presenti lì in mezzo. La paura di Jonas si era affievolita, sostituita da qualcosa che pareva molto rabbia, così come l’ansia di Lea si stava lentamente tingendo d’amarezza, di un senso d’ingiustizia che Úranus non riusciva a comprendere. Sapeva quanto fosse terribile da dire, ma se i due non fossero rimasti in quello stato emotivo lui non sarebbe più riuscito a sentirli.
«Dobbiamo sbrigarci, le loro emozioni stanno cambiando.» mormorò appena.
«Continui a non sentire rosso malpelo?» chiese Nathan avanzando fino al suo fianco.
L’altro scosse la testa. «Nulla, mi spiace.»
Il soldato annuì. «Non è colpa tua, non farti strane idee, è quel coglione che chissà dove si è andato ad infilare.»
Úranus lo guardò con riconoscenza, grato che qualcuno, il figlio di Ares per di più, si fosse premurato di dirgli che il non avvertire Cade non c’entrava nulla con le sue capacità.
Eliza si ritrovò a sorridere appena, mentre Jane alzava gli occhi al cielo e si lamentava di non riuscire a tenere il passo con tutti e tre.
Nathan le rispose in malo modo, ricordandole che l’ultima volta che aveva provato a portarla in spalla da qualche parte la ragazza per poco non si era spezzata l’osso del collo pur di scendere, quindi non c’avrebbe certo riprovato.
Quando i due iniziarono a battibeccare, a sprecare fiato avrebbe detto in un’altra vita, la figlia di Nike cercò di estraniarsi dalla conversazione, concentrandosi su ciò che aveva attorno, così come Úranus si stava concentrando sui loro compagni.
Per un attimo Eliza si domandò come fosse possibile che Cade avesse perso di vista Jonas, se avessero incontrato dei problemi, qualcuno contro cui combattere. Ma no, Úranus aveva assicurato loro che non era così e sebbene la donna non sapesse come funzionassero i poteri dell’altro, si fidava comunque di lui.
Chissà cos’era successo allora, chissà cosa aveva spinto i tre a dividersi, ad allontanarsi. Era logico per lei pensare che in caso di pericolo o di necessità, Cade avrebbe costretto gli altri due a fuggire assieme e si sarebbe fatto carico del combattimento, del problema. Eliza non era una sciocca, aveva visto cos’era in grado di fare l’irlandese, come sfruttava i suoi poteri divini, come sembrava “volare” ogni volta che spiccava un balzo. Ricordava la spinta gentile e ferma del vento contro la sua schiena, l’aria risucchiata e spinta via nell’Area Cani, ma aveva anche notato che Cade era tutto velocità ed agilità. Aveva paura che in uno scontro diretto contro un nemico, armato o meno, avrebbe rischiato di rimanerci secco, che il suo scattare a destra e sinistra sarebbe stato facilmente neutralizzato da qualcuno che avesse una buona conoscenza del combattimento. Non poteva dire con certezza di conoscere tutte le abilità del suo compagno, poteva credere che sì, sapesse come cavarsela in una rissa, magari anche in qualcosa di più grosso: ma uno scontro uno contro uno?
Quel deficiente sarebbe stato capacissimo di farsi ammazzare pur di non gridare aiuto, lo sapeva per certo, e la cosa le metteva addosso più ansia del dovuto.
 
Dannato rosso, dannatissimo rosso!
 
Neanche l’avesse chiamato la voce lontana del ragazzo le sfiorò la mente, tanto che Eliza credette di aver riportato alla memoria qualcosa che il giovane le avesse detto in precedenza. Erano parole sussurrate piano, sottovoce, un mormorio tipico di quando non si vuole svegliare qualcuno, di quando non si vuole rovinare la pace tanto attesa.
Qualcosa che loro due non avevano mai condiviso.
Poi arrivò un secondo rumore, qualcosa di strano, come il picchiettare dell’acqua su una superficie dura, il gocciare continuo di un’infiltrazione.
 
Pioggia?
 
Eliza rallentò il passo, finendo in retrovia, lasciando che Jane la superasse arrancando mentre teneva sollevata la gonna logora del vestito che indossava sin dalla sua morte.
Si voltò a destra e sinistra, cercando di non fermarsi, di osservare il paesaggio che la circondava senza perdere d’occhio i suoi compagni: non voleva che scomparissero anche loro di punto in bianco e ormai aveva maturato l’idea che Cade fosse scomparso proprio così, distraendosi un attimo di troppo e finendo diviso dagli altri per colpa della Foschia.
Eppure quel rumore di pioggia era troppo intenso, quel mormorio troppo chiaro, la chiamavano come una sirena fa con i marinai dei poemi antichi, nelle leggende di mare. Eliza sapeva cos’era, non poteva esserci altra soluzione se non quella:
 
Il ricordo di Cade.
 
Ma aveva senso recuperarlo? Non sapeva neanche se il suo amico fosse ancora “vivo” o meno, se, una volta lasciato solo, le Praterie degli Asfodeli si fossero accanite di nuovo su di lui cancellando ogni traccia di memoria e ricordo dalla sua anima. Aveva ancora senso?

 
“Ha senso attendere un amico fino alla fine? Ha senso sperare nel ritorno di un soldato sino alla fine della guerra? O è già perduto appena partito?”
 
 
Eliza volse di nuovo il capo, cercando ora quella voce che le aveva sussurrato beffarda all’orecchio.
Aveva senso? Le aveva chiesto. Un soldato è perduto appena partito?


“Anni dopo di te, qualcuno, un uomo di guerra e di lettere, avrebbe detto che ‘non tutti gli erranti son perduti’. Cosa vuoi fare? Spetta a te deciderlo, Elizabeth.”
 
 
Spettava a lei deciderlo. Ma chi glielo stava dicendo? Chi era?
Si fermò di botto, lasciando perdere gli altri, dimentica di quegli stessi buoni propositi che si era appena ripetuta, cercando febbrilmente l’uomo che le parlava nella testa.
Poi lo vide.
Lontano, sul limitare dell’orizzonte, completamente vestito di nero, con un lungo cappotto che lo copriva sino ai piedi. Non poteva distinguere i suoi tratti con chiarezza, ma avrebbe giurato che gli occhi di quell’uomo fossero chiari, luminosi, cangianti.
Dietro di lui qualcosa si mosse, la figura vaga di un giovane dalle vesti candide, i capelli chiari, il corpo fine e longilineo, così in contrasto con l’uomo che lo copriva da esser quasi fastidioso.
Con una sicurezza incredibile Eliza seppe per certo che il giovane le stava sorridendo, scommise anche che le avesse fatto l’occhiolino, e subito dopo la voce dell’uomo – perché doveva per forza essere la sua – le parlò di nuovo con fare divertito.

 
“Tu pensa al suo ricordo, alla salvezza della sua prova. Noi penseremo a quella della sua anima.”


Da dietro la schiena il giovane estrasse qualcosa, un oggetto che brillò come una pietra preziosa sotto il sole.
 
«Eliza! Che cazzo hai! Ti senti male?»
La voce di Nathan, sempre estremamente gentile ma per una volta anche sorprendentemente preoccupata, la fece scattare verso il compagno che la stava raggiungendo marciando, tornando sui suoi passi velocemente quasi pensasse di doverla soccorrere in qualche modo.
Sorpresa da quella preoccupazione genuina, probabilmente Nathan pregava che non impazzisse anche l’unica persona sana di mentre oltre a lui, Eliza si voltò di nuovo verso il punto in cui erano apparsi di due, ora svaniti nel nulla.

«Ehi?» il tono del soldato ora era più basso, quasi serio. «Che ti prende?»
La donna però non gli rispose subito, continuò a tenere lo sguardo puntato verso l’orizzonte sino a quando la sua vista non si sfocò e qualcosa di luminoso catalizzò tutta la sua attenzione.
Facendo cenno a Nathan di seguirla s’incamminò veloce verso la luce, da lontano Jane imprecò a mezza bocca ed Úranus le chiese gentilmente di non mettercisi anche lei.
«Cos’hai visto?» domandò ancora il biondo.
Eliza s’accucciò a terra e, proprio come aveva immaginato, trovò una sfera tra l’erba.
Probabilmente, se non fosse stato per quei due, non l’avrebbe mai potuta vedere: la sfera era un globo di vetro nero, pareva quasi onice tanto era denso, ma era innegabile che fosse uno dei ricordi della prova.
Si tirò su con lentezza, mostrando l’oggetto al compagno.
«Ma che cazzo-?»
Eliza annuì, incapace di dire alcun ché o di rimproverarlo ancora per il suo vocabolario.
Quella sfera era completamente diversa rispetto a tutte quelle che avevano visto sino a quel momento: non c’erano immagini a vorticavi dentro, non c’erano persone che parlavano senza voce, mute nonostante le loro bocca si muovesse. In quella sfera d’onice non si poteva veder nulla, ma da dentro di essa provenivano rumori - lo scrosciare dell’acqua, il ticchettio della pioggia sui mattoni, sulle tegole, il rumore degli scarponi sui selciati bagnati, sulle strade fangose -  e voci -  il mormorare quieto di qualcuno che ha necessità di parlare, di rompere quel silenzio fittizio ma al contempo desidera non rovinare in alcun modo la pace tanto agognata -  e soprattutto, un senso di freddo e di umido, di vento bagnato sulla pelle, sui vestiti zuppi.
Nathan spostò lentamente lo sguardo dalla sfera ad Eliza, ignorando gli altri due che li chiamavano, Úranus che ricordava loro che dovevano muoversi prima che la traccia scomparisse.

«È quello che credo che sia?» domandò piano.
Eliza annuì. «Sì, è il ricordo di Cade.»
«Come cazzo c’è finito qui? Perché non si vede niente e soprattutto chi cazzo ce lo ha fatto trovare?»
La figlia di Nike lo guardò stupito e lui fece un verso infastidito.
«Un sfera nera, che emana freddo, umidità, rumore di pioggia e mormorii. Se non avessi riconosciuto la voce non ti ci saresti avvicinata e di certo non l’avresti vista a colpo d’occhio qui in mezzo. Quindi: chi voleva che la trovassimo e perché?»
«L’uomo in nero.» disse lei. «Ho visto un uomo completamente vestito di nero, laggiù.» indicò l’orizzonte.
Nathan inarcò un sopracciglio. «Lo sai, vero, che non è possibile distinguere un uomo da una donna a quella distanza.» le chiese retorico.
Ma lei scosse il capo. «Ti assicuro che era un uomo, ho sentito la sua voce nella mia testa.»
A quell’affermazione il soldato si fece più attento ed imprecò a denti stretti. «Cazzo.»
«Che succede?»
Úranus e Jane si erano avvicinati agli altri, uno preoccupato e ansioso e l’altra solo annoiata.
«Eliza ha visto un uomo che le ha fatto trovare questa sfera, è il ricordo del coglione, e le ha anche parlato nella testa.»
«Il coglione?» domandò Jane sogghignando.
Úranus sospirò. «Stai diventando incredibilmente maleducata anche tu.» le fece notare senza però ottenere nessuna risposta.
«No, l’uomo in nero. E se l’ha sentito vuol dire che era come minimo un semidio, se non direttamente un dio visto che è scomparso nel nulla.»
Jane saltò improvvisamente sull’attenti, curiosa e guardinga. «Un uomo in nero? Intendi vestito completamente di nero? Con una lunga giacca che lo copriva fino ai piedi?» domandò ansiosa.
«L’hai visto anche tu?» le chiese Eliza sorpresa.
Jane annuì. «Ma non ora, non qui. Lui… è moro? Ha i capelli corti, è alto e massiccio, e gli occhi-»
«Era distante, non può saperlo.» tagliò corto Nathan. «Dove lo hai visto?»
«Qui nelle Praterie degli Asfodeli. Beh, nella mia parte delle Praterie. È stato lui a darmi il biglietto per partecipare.»
Come se solo allora si fosse ricordata della presenza del ticket, Jane estrasse il talloncino dorato dallo scollo del suo vestito, mostrandolo con reverenziale cautela agli altri.
Il numero “1” spiccava come una macchia di carbone su di un lenzuolo bianco.
«Tu… sei la prima ad essersi iscritta alla gara?» domandò flebilmente Eliza.
Nathan ringhiò. «Probabilmente è la prima delle Praterie. Ma se è vero quello che dice-»
«Lo è dannazione! Perché dovrei mentire?»
« allora significa che l’uomo che hai visto è immischiato nella gara.»
«Ma perché portarmi il ricordo di Cade? Come poteva sapere che noi siamo suoi compagni, che glielo avremmo riportato?»
«Perché ci spiano come se fossimo nel fottuto 1984
«Che cos’è un-»
«È un cazzo di libro dispotico su un regime che controlla pure quante volte puoi pisciare.» abbaiò innervosito. «Se il tipo è lo stesso che ha dato a te il biglietto vuole dire che ti ha tenuta d’occhio fino ad ora, vuol dire che con tutta probabilità non ci siamo incontrati per caso e che porco Zeus qualcuno vuol qualcosa da noi.»
«Una gara elitaria solo tra semidei.» mormorò piano Úranus.
Nathan annuì.
Eliza si umettò le labbra. «Questo- questo vuol dire che Cade è ancora in gara? Se ci controllano e possono “aiutarci” come vogliono, che senso avrebbe consegnarmi il suo ricordo se poi lui non può continuare il gioco?»
Il soldato annuì ancora. «Penso di sì, non lo so.» ammise alla fine, di mala voglia.
Rimasero per un momento in silenzio a riflettere, poi la figlia di Nike si ricordò di un piccolo particolare.
«Non era solo.» disse d’improvviso. «C’era un giovane con lui.»
«Un aiutante? Ma che cazzo.»
«Ma chi è? Chi potrebbe mai andare in giro a scovare semidei senzienti tra gli Asfodeli e riportar ricordi a persone fidate?» domandò Úranus aggrottando le sopracciglia. «E parlare nelle menti delle anime.»
«Probabilmente la stessa persona che può mettere al tappeto una decina d’anime senza farsi vedere.» sentenziò Eliza.
Nathan annuì, avevano pensato la stessa cosa.
«Ne discuteremo anche con gli altri, magari hanno sentito qualcosa pure loro e se non sbaglio il dannato rosso aveva detto d’aver sentito le voci, no?»
«Sì, Jonas dice che lo ha spaventato, ma credevamo entrambi fosse per via delle Praterie.»
«Beh, se non ci muoviamo non lo sapremo mai.» sbuffò Jane, la mente ancora rivolta all’uomo vestito di nero ed al modo in cui l’aveva chiamata.
 
Ladybug, come mi chiamava papà…
 
«Mi duole dir qualcosa del genere, ma forse Lea sta riuscendo a calmare Jonas, non riesco più a percepirli come prima.» disse preoccupato Úranus.
«La rompi palle ha già il suo ricordo e con tutta probabilità pure il moccioso, non possiamo neanche attaccarci a quello.»
«E allora a cosa?» domandò Eliza ricominciando a camminare nella direzione di prima, le sfera nera ed uggiosa stretta con attenzione tra le mani.
«Di questo passo c’attaccheremo solo che al cazzo.» sogghignò Nathan felice. «Me l’hai servita su un piatto d’argento.» disse mostrandole il sorriso ampio.
Eliza quasi gli ringhiò contro.
«Ricordati che Elena ha minacciato di tagliartelo e che io sono capacissima di farlo.»
La minaccia, chiara e palese, ebbe la forza di far ridacchiare il figlio di Ares, la figlia di Ecate e far sospirare affranto quello di Fobetone, che cercò subito di legarsi il più strettamente possibile a quel vago filo che ancora riusciva a percepire.
La triste verità dei fatti era che più si agitava e più i suoi poteri erano forti, che la calma e la concentrazione potevano servire solo poche volte e che Úranus temeva d’averle già sprecate. Con una nota di triste ironia si disse che l’ansia che gli stava crescendo nel petto, quella che provava per Lea e Jonas, soli e senza protezione, e per Cade, disperso chissà dove, per una volta sarebbe stata d’aiuto.
Sempre che non lo sopraffacesse distruggendo tutto – o tutti – quello che aveva attorno.
 
 
*
 


Le case degli Dei, per quanto lussuose e particolari, per quanto diverse, specchio dell’animo del loro padrone, condividevano tutte una stessa stanza simile: la stanza del trono.
I semidei credevano che l’unico luogo in cui vi fosse il dorato seggio degli Dei fosse la Sala del Trono, con la maiuscola – entrambe le parole – ma non era così.
Ade aveva la sua sala personale, lì, nelle profondità dell’Inferno, nel centro di esso, colonna portante di un sottomondo che ospitava tutto ciò che c’era di più scuro e tetro in quel pianeta, prigione e luogo d’eterno riposo.
Poseidone aveva la sua sala nelle profondità del mare, sul sabbioso terreno compattato sino a trasformarsi in lucida pietra, immerso nell’acqua salmastra e fredda.
Zeus aveva il suo tra tutti i dodici più importanti, ma poi, in ogni Casa, in ogni proprio dominio, gli Dei avevano altri.
Entrare nella Casa di un dio significava entrare nel suo tempio primo, nel luogo in cui giungevano tutte le preghiere, tutti gli insulti e i sacrifici. Era il fulcro del potere di un dio, più del suo oggetto sacro, più del suo trono dorato.
In ogni Casa c’era una stanza centrale, circolare, dall’alto soffitto a cupola, circondato di colonne fini e decorate, così come lo erano i cassettoni del soffitto. C’era un’apertura sulla sommità della cupola, un foro circolare come la sala, un punto che permetteva alla luce, all’aria, agli spiriti e alle magie di mobilitarsi. Un’apertura che permetteva all’essenza divina, enorme e incontenibile, di sostare dentro ad una piccola – grande – stanza senza per questo esserne soffocata.
La stanza del trono in cui si trovava ora gli era incredibilmente famigliare, forse perché tante volte era stato accolto tra quelle mura, tra quelle colonne, sul pavimento levigato e lucido come uno specchio. I suoi piedi parevano quasi scivolare sulla superficie perfettamente liscia, il vago ricordo di quando, ancora adolescente, vi si era gettato sopra per poter slittare e giocare con quei pochi amici che l’Olimpo gli aveva concesso: grandi e potenti Dei tornati all’aspetto di mocciosi solo ed unicamente per potergli far compagnia, per poterlo intrattenere, dargli un volto amico della sua età, come non ne aveva mai avuti.
Ricordava anche il volto gentile della donna che li ospitava, che li guardava spazientita ma anche segretamente divertita, che gli urlava contro come avrebbe fatto una madre.
 
Come aveva fatto per troppo poco tempo la sua.
 
Gio sorrise a quei pensieri dolceamari, quanto tempo era passato ormai…
Le suole consumate delle sue scarpe migliori non facevano la minima frizione contro le lastre del pavimento, Giordano si ritrovò a ridacchiare, rendendosi conto solo in quel momento che, malgrado gli anni, ogni volta che doveva presenziare davanti alla Dea che dimorava in quella Casa si vestiva sempre al meglio.
Era un piccolo ma banale particolare che lei aveva sempre amato.
Si mosse ad agio sino a raggiungere il centro della stanza, dove un enorme bacino verde ospitava acqua così pura da sembrare inesistente. Era un unico e massiccio blocco di malachite, scavato ed inciso, freggiato come un bicchiere di cristallo nel suo guscio esterno e perfettamente levigato all’interno, dove neanche un’increspatura muoveva la superficie trasparente.
La prima volta che l’aveva visto aveva subito capito cosa fosse, prima ancora che glielo spiegassero, prima ancora che chi lo accompagnava al tempo – Ade, sempre lui – potesse dirgli che non era un pozzo.
Quanti avevano osato far quella domanda? Chiedere alla Divina perché avesse voluto un pozzo di malachite nella sua stanza centrale? Oh, ma lei non doveva una risposta a nessuno, la Regina degli Dei poteva fare ed ottenere tutto quello che voleva, sempre.
 
Tranne la fedeltà di suo marito, del suo fratello più piccolo.
 
In quanti dimenticavano che Zeus era il più giovane dei grandi fratelli, che Era fosse invece una delle sorelle più grandi? Ancora troppe persone. Così come in troppi vedevano in lei solo una figura crudele, capricciosa e meschina, corrotta dalla gelosia e dall’invidia.
 
Ferita nel profondo. Madre di figli che testimoniavano i tradimenti del marito. Signora di un regno che non poteva davvero governare. Protettrice di un’istituzione corrosa, malandata. Dea del matrimonio che le aveva messo le catene ai polsi e l’aveva umiliata.
Come si può difendere qualcosa che ci ha fatto così tanto male? Come può dirsi Dea della fedeltà coniugale quando questa stessa le è sempre stata negata? È come un condannato a morte che difende la pena capitale.

 
Glielo aveva detto, ne avevano parlato a lungo quando lui era più piccolo, quando aveva pensato anche di essersi innamorato, di volersi sposare un giorno. Le aveva chiesto come potesse ancora credere nel matrimonio quando Zeus aveva ridotto il loro ad una semplice facciata.
 
«Solo perché qualcosa fa del male a noi non vuol dire che non sia fonte di salvezza e felicità per altri.»
 
Aveva mormorato con gentilezza.
 
«Difendi ancora le cause perse?» domandò invece lui ad alta voce. «Scruti ancora il mondo attraverso il tuo specchio?»

Era se ne stava poggiata ad una delle tante colonne della sala, la veste candida che le ricadeva morbida e semplice addosso, la spalla premuta contro la superficie incisa, il bracciale d’oro che s’infossava nella carne colorita. Teneva lo sguardo fisso verso l’esterno, le grandi arcate oltre cui scrutava il mondo non avevano finestre ma il vento che si muoveva sinuoso e rapido fuori di esse non s’azzardava ad entrare nella dimora della sua Signora.
I capelli castani erano raccolti sulla nuca, perfettamente in ordine come sempre, come tradizione voleva.
Le ricordava gli anni ’50, quando delicati cerchietti e perle tondeggianti le adornavano capo e collo, le gonne a ruota le sfioravano a mala pena le caviglie e le scarpe erano sempre abbinate alla pochette che portava al gomito. L’aveva conosciuta così, dopotutto, vestita come i mortali, forse con il proposito di non spaventarlo o scandalizzarlo troppo, ma Gio, al tempo, aveva già avuto il piacere di incontrare il fratellastro di Al, vestito di tutto punto come tradizione voleva, quindi non gli avrebbe fatto alcuna differenza vederla con gli abiti greci che le erano propri.
Con calma Era si distaccò dalla colonna per avvicinarsi al bacino.
 
«Non ho molto altro da fare, specie in questo periodo.» gli rispose tranquilla.
Gio sorrise. «Non ti godi la gara? Mi era parso di capire che l’idea ti allettasse, che ti fosse piaciuta.»
Lei annuì. «Per quanto io non sopporti determinate persone, siano esse mortali o semidivine, l’idea di fare una strage solo per intrattenere fratelli, figli e nipoti non mi aggrada minimamente. Hai proposto una soluzione perfetta e malgrado Ade se ne lamenterà sino alla fine dei tempi, in questo modo molte anime stanno andando scomparendo definitivamente, gli Inferi si libereranno un poco.» disse quieta. «Soprattutto se continui ad eliminare chi tu non sopporti.» precisò infine guardandolo con fare di rimprovero.
Giordano rise apertamente e poggiò le mani sul bordo di malachite: sapeva perfettamente che grande privilegio fosse, spesso neanche a Zeus era concesso sfiorare il bacino di pietra.
«Se lo meritavano, lo sai perfettamente. Solo perché tre deficienti o qualcuno in più reputano la tua vita degna non vuol dire che questa lo sia stata veramente. Negli Elisi ci sono “eroi” che sarebbero dovuti morire tra le pene dell’inferno.»
«Ma erano i prediletti di qualcuno di noi e si sono salvati, lo so. Almeno io non verro mai tacciata di simil accuse, io mi limito ad ostacolarli in vita.» abbozzò un sorriso drizzando la schiena orgogliosa.
Gio rise ancora ed il sorriso sul volto della Dea s’ampliò.
Lo scrutò poi con più attenzione, scorgendo segni di stanchezza su quel volto tanto famigliare, la solita ed immancabile luce triste che si nascondeva dietro quelle iridi cangianti.
Avrebbe voluto chiedergli cosa ci fosse che non andava, perché stava agendo a quel modo, ma in fondo già lo sapeva.
«Ci sei tu dietro tutto questo, Giordano, stai favorendo i semidei?» gli chiese comunque.
Lui sospirò. «Sono sempre stato nella Sala delle Macchine.»
«Non mentire a me.» lo ammonì benevola. «Stai cercando di rimediare agli errori del passato, ma questi non sono stati “errori” né tantomeno sono stati colpa tua.»
«I semidei hanno più possibilità di vincere. Più si va avanti con le prove peggio sarà. Gli altri Dei vogliono vedere le lotte, il sangue. Presto lo avranno. Di certo Atena ed Ares non negheranno loro questa gioia.» rispose con una smorfia.
Ma Era non demorse, aveva troppa esperienza alle spalle per farsi sviare in questo modo.
«Ciò che è successo ai tuoi nipoti, a tua sorella, alla tua famiglia, non è stata colpa tua. Così come ciò che è successo a tutti gli altri. Se stai cercando loro, tra le anime dell’Ade, non li ritroverai. Lo sai Giordano, è stata l’unica imposizione di mio fratello, non ti avrebbe permesso di crogiolarti per sempre nel rimpianto e nella desolazione.»
«Sono così tante le storie che meritano di esser corrette, di avere un finale diverso. È così sbagliato voler giustizia?» le domandò guardandola dritta negli occhi.
Era sentì un brivido sfiorarle la pelle, non era più abituata ad aver il suo sguardo puntato addosso, non era più abituata a dover fronteggiare occhi come quelli. Ve ne erano molti di simili ai suoi, che condividevano lo stesso colore, ma nessuno, nessuno, era uguale a quello.
 
Solo uno e Giordano sarà per sempre il monito di ciò che abbiamo rischiato per colpa della nostra sete di potere.
 
«Giustizia per chi?» domandò allora.
Gio scosse piano la testa, non era la prima persona che gli poneva quella domanda, seppur in un contesto diverso. La risposta non cambiava ma poteva esser espressa in modo diverso.
«Giustizia per coloro che la meritano.» rispose pacato.
«Secondo chi?» insistette lei. «Secondo la coscienza di chi?»
«La mia.»
Non aveva esitato neanche un attimo a dirlo ed Era ne fu segretamente compiaciuta: lei stessa era stata una delle persone ad insegnargli a non abbassare mai il capo davanti alle proprie idee, a reputarle sempre buone e giuste.
 
«Quando un’idea germoglia in te, lasciala crescere, mettila in atto. Non dubitare del tuo pensiero e se poi si rivelerà esser stata fallimentare, ricorda che non vi è fallimento alcuno, invero, ma solo prove e prove prima della riuscita finale. La tua idea, il tuo credo, il tuo intelletto e la tua volontà sono validi come e più di quelli di chiunque altro. Rammenta questo e non dubitare mai.»
 
«Sai-» proruppe lui d’improvviso, «questa vasca mi ha sempre ricordato una fonte battesimale.»
Era annuì. «Ne è rimando, sì.»
«Le suore dicevano sempre che il battesimo è il sacramento più importante di tutti, perché lava via il peccato originale e ci rende tutti fratelli e sorelle. L’acqua purifica il nostro spirito, quell’anima innocente ma già macchiata di tutte le colpe del mondo. Peccato non funzioni sempre.»
La Dea avanzò ancora, avvicinandoglisi sino a poggiare la mano perfettamente curata su quella dell’uomo.
Il contrato tra le loro pelli era minimo, Giordano aveva sempre avuto quel bel colorito mediterraneo ed Era, madre suprema e discendente della Madre Terra stessa, aveva sempre conservato una carnagione del medesimo tono.
 
Florido e fecondo. Come la terra. Che crudele ironia.
 
«Quali peccati vorresti lavarti via?» domandò a bassa voce, come farebbe un prete durante una confessione. Dubitava però che il suo fedele avrebbe potuto ricevere l’assunzione delle colpe con facilità. Così come ognuno di loro.
Quello che scappò dalle sue labbra tese somigliò molto al risolino di un bambino preso con le mai nella marmellata.
«Se provassi a bagnarmi in una fonte renderei l’acqua torbida come il fango.» scosse piano la testa e poi, quasi con titubanza, strinse la mano della Dea. «Tu già lo sapevi, vero?»
Era ricambiò la stretta e gli carezzo piano una guancia con l’altra mano.
Il volto di Giordano regredì nel tempo, tornando ad essere quello del bambino sorpreso e sconcertato da un mondo, una verità, più grande di quanto non potesse comprendere a fondo.
Se solo sarebbero potuti tornare indietro e fermarsi in quei magici e surreali anni in cui ancora nessuna guerra era scoppiata, in cui era ancora tutto in stasi…
«Una madre sa sempre tutto, a tace.»
«Perché?» la sua voce era tornata ad esser quella acuta ed infantile dei suoi quattordici anni, quando ancora non era mutata nel vocione profondo che l’avrebbe caratterizzato per il resto della sua vita.
Teneva la testa reclinata verso l’alto, per poter guardare Era in faccia, puntandole addosso quei suoi enormi e dannati occhi confusi.
 
Sì, c’è stato un tempo in cui la confusione era la tua unica maestra.
 
«Perché ogni figlio dev’esser in grado di rischiare, di cadere e rialzarsi con le sue sole forze.» spiegò dolcemente. «Te compreso.»
Il ragazzino abbozzò un sorriso. «Sono caduto tante di quelle volte da aver abbassato il livello del fondo.» disse quasi imbarazzato. «Ma ho anche imparato come saltare di nuovo fuori dalla fossa.»
La confusione scomparve d’improvviso e malgrado il suo aspetto rimanesse quello di un adolescente, i suoi occhi erano fermi, seri, determinai e penetranti come quelli dell’uomo che era diventato.
Un modo di puro orgoglio esplose ruggente nel corpo della Dea.
«Non so cosa farai per raggiungere il tuo obbiettivo, ma non ti fermerò. Ho piena fiducia in te.»
Le dita lunghe e fini di Giordano si strinsero ancora di più nella mano morbida di Era.
«Grazie, madre.»
 
*
 


«Quindi non servi a un cazzo.»
Eliza alzò gli occhi al cielo.
Dei dell’Olimpo, ora avrebbe picchiato entrambi.
«Solo perché tu sei stato addestrato non vuol dire che lo siano stati tutti.» rispose Jane con acidità.
«Che c’è? Pensi che sia stato con le mani in mano finché non mi hanno portato al Campo? Io mi sono sempre allenato da solo, con mia madre, al parco, in palestra. Non sono stato a grattarmi il culo finché qualcuno non mi ha detto che potevo fare fuoco e scintille con un’arma in mano.»
«Il mio mondo er-»
«Puttanate!» la interruppe Nathan marciando in salita verso la sommità della collinetta. «Stai sparando un botto di puttanate solo per pararti il culo! Quando sei un semidio lo sai! Magari non lo sai per certo, magari non sai come ti chiami, come devi definirti, ma lo senti che sei diverso, cazzo, lo avverti dentro. Quindi non venire a raccontarmi stronzatine varie solo perché sei debole e non hai mai pensato di allenarti. Porcod-»
«Okay! Le bestemmie no!» sbottò la mora dietro di loro.
Jane e Nathan la ignorarono bellamente.
«Non è stata colpa mia!» ringhiò ancora lei.
«Certo, come no! Se non sai andare in bicicletta è perché non c’hai mai provato, non perché nessuno te lo ha insegnato! Non so da che cazzo di mondo vieni tu, ma sappi che per imparare a fare qualcosa devi per prima cosa alzare il culo e smetterla di aspettare che arrivino gli altri a fare quello che vuoi.» continuò Nathan sempre più agguerrito.
«C’era la caccia alle streghe da me!» si giustificò ancora la ragazza. «Non potevo mettermi ad allenarmi con la magia. E che diamine è una bicicletta?!»
«Lo vedi? Sei anche contraddittoria! Prima dici che nessuno ti ha insegnato, “Uh-uh! Sono una povera bambina nata con poteri speciali, che ha vissuto una cazzo di vita normale senza intoppi e che quando ha dovuto affrontare il primo problema vero della sua vita non sapeva come fare!”. Poi mi dici che non l’ha fatto perché c’era la caccia alle streghe. Mi pare che pure Golia qui dietro fosse nella tua stessa merda!»
«Lui aveva suo padre che lo addestrava e stava con lui!» ringhiò furiosa.
«Per l’ultima volta!» esplose d’improvviso Úranus. «Mio padre non “stava con me”. È un dio e come tale ha degli impegni da portar a termine-»
«E fare cagare in mano la gente mentre dorme è una cosa davvero impegnativa. E non ti sto prendendo per il culo, giuro che ti sto dando davvero ragione.» lo interruppe al volo Nathan.
«- giungeva di tanto in tanto ad addestrarmi per far sì che i miei poteri non straripassero e non si accanissero sulle genti del mio villaggio.»
«Che vuole dire-» provò Jane alzando gli occhi al cielo.
«Che vuole dire che suo padre andava lì di tanto in tanto porco Zeus! Non che se l’è cresciuto! Mi sa qui in mezzo sei tu l’unica che è cresciuta in una cazzo di porco Olimpo impestato di famiglia normale! Io non ho mai avuto un padre!» urlò Nathan alzando le mani al cielo.
«Io ho incontrato mia madre solo due volte, in una neanche mi ha parlato.» borbottò Eliza.
«Quindi non cagare il cazzo! Smettila di nasconderti dietro a mille scure perché- Porca troia statti zitta e fammi finire di parlare invece di interrompermi sempre! Ti stai nascondendo dietro a mille scuse! Se non sai usare la porca puttana di magia di tua madre è perché sei scarsa! Non ti sei mai allenata per farlo, hai avuto tutta la fottuta morte per farlo ma ti sei rigirata i pollici!
Niente coniglio dal cilindro, proc-»
«La mia situazione era difficilissima! Ma cosa puoi capirne tu? Tu sei stato addestrato a sopravvivere, io no!»
«Io neanche.» sbuffò Eliza stringendo tra le mani la sfera di Cade. «Non mi hanno mai dato nessun tipo di addestramento divino. Quello che sta cercando di dirti Nathan, seppur ormai lontano dal centro del discorso perché voi due litigate fin troppo facilmente, è che non puoi dire di non aver dei grandi poteri perché “nessuno ti ha insegnato”. Per sviluppare una qualunque abilità ti devi allenare.»

Úranus sospirò, accelerando il passo e lasciando a Jane il suo posto di fianco ad Eliza.
Nathan, alla sua sinistra, gli lanciò un’occhiata sbieca.
«Dimmi che le hai fatto pagare le pene dell’inferno per ritrovare quel fottuto ricordo.» masticò a mezza bocca.
L’altro sospirò. «Non ne vado fiero. Temo di essermi fatto prendere la mano. Mi ha accusato di aver avuto una vita facile e felice, che ho avuto tutte le fortune. Se solo sapesse…»
«Oh, aver avuto l’aiuto del proprio genitore divino non è nulla di cui vergognarsi o per cui scusarsi.» gli disse subito serio.
Úranus annuì. «Ne sono consapevole, ma ti ringrazio lo stesso.» poi ci pensò su. «Sei molto più gentile ed onesto di come appari.»
Nathan ghignò. «Mamma. Sorvolava su tutte le amenità che m’uscivano di bocca, non sempre, ma non transigeva sulla verità. Un essere umano si definisce in base alla sua onestà. Sempre.»
«Mia madre invece mi ripeteva che nell’Ade saremmo stati giudicati per la capacità del nostro animo d’amare il prossimo.»
«Abnegazione.» annuì Nathan. «Tua madre però non era un soldato come la mia.» ammiccò.
Úranus gli sorrise. «Mia madre era un’erborista. Lei creava unguenti e medicine con le piante.
È per tua madre che sei diventato un soldato?» domandò poi curioso, prendendo ampie boccate per contrastare il leggero fiatone che stava iniziando ad accusare.
Nathan scosse la testa. «Eravamo entrati in guerra, dovevo andare a fare la mia parte. Ho scelto la marina.»
«I marinai? Nel futuro ci saranno dei soldati solo per le navi?»
«Una sottospecie, sì. I marines sono i soldati che stanno sulle navi, ora le chiamiamo portaerei, incrociatori. Sono nei sommergibili e simili. Però sbarchiamo anche a terra, ci paracadutiamo se ce n’è bisogno, facciamo anche le cose che fanno i normali soldati.» si fermò per un secondo. «Ovviamente noi siamo i migliori, cazzo.»
Úranus si ritrovò a sorridere ancora. «Sembri molto fiero.»
«Lo sono. Sono un figlio della Guerra, sono fiero dei miei compagni e delle nostre imprese.»
«Spero che le cose ora siano cambiate, una volta l’arrivo di soldati stranieri non era mai una buona cosa. Mi hanno insegno a diffidare delle divise.»
Con un grugnito Nathan non poté che dargli ragione. «Se. Siamo sempre i cattivi di qualcun altro, è così. Guarda rosso malpelo, lui non sopporta nessun tipo di soldato, neanche un poliziotto reggerebbe, perché gli Inglesi gli hanno invaso la terra.»
«Eppure si è fidato di voi due, e sia te che Eliza siete in divisa, seppur così diversa.»
Nathan stette in silenzio, la mente volata verso quel battibecco che avevano avuto nel Labirinto. Solo – quanto? Un giorno? Due? Settimane? Ore? Anni? Minuti? Solo due prove prima avrebbe abbaiato contro chiunque quanto cazzo fossero sbagliate le idee di Cade, ora che avevano affrontato assieme ben tre ostacoli, che aveva visto cos’era in grado di fare – con i suoi poteri e con le persone – e che era scomparso d’improvviso, non gli andava più molto di lamentarsi di lui.
O meglio: sì che gli andava di lamentarsi di lui, ma lo sentiva lui stesso che non aveva più la stessa animosità di prima.
 
Come quando discutevo con qualche coglioncello della Cabina 11. Mi ci incazzavo ma non volevo davvero spaccargli la testa sino alla morte. Solo sbatacchiarli un po’.
 
«Quella testa di cazzo fa sempre pessime scelte, per una volta che ne ha fatta una giusta non mi sembra il caso di rimarcarlo.» borbottò in fine facendo sorridere ancora Úranus. Se era un sorriso poi quella roba strana sotto la barba rossa.
«Dovremmo starci ora, vero? Alle brutte hai detto che se non li senti più tu la rompi palle potrebbe trovarci di suo, ve?» cambiò discorso con disinvoltura.
«Certo, avrà sicuramente voglia di rivedere uno come te.» gli soffiò dietro Jane.
Ma non continuò oltre quando si beccò l’occhiataccia di Eliza.
«Cristo iddio! Non vedo l’ora di rivederla, ci credi? Preferisco mille volte lei a te.» le sputò contro il biondo voltandosi oltre la propria spalla.
«Potrai dirglielo di persona, perché sono molto vicini.» disse Úranus allungando il passo.
 

Gli ci vollero quelli che, a sensazione, Eliza avrebbe chiamato “venti minuti”.
Lea e Jonas se ne stavano fermi a terra, seduti l’uno davanti all’altra a parlare sottovoce, neanche dovessero nascondersi a qualcuno.
Non appena li videro però, Lea saltò in piedi e corse verso Úranus, gettandogli le braccia al collo per abbracciarlo al meglio.
L’unico che non sembrò minimamente turbato da quell’azione fu probabilmente Nathan, visto che Jane si espresse in un’espressione quasi disgustata, Eliza di una sorpresa e Úranus in una completamente imbarazzata e scioccata. Jonas li guardava da lontano, nessun particolare sentimento ad illuminargli il volto.
 
«Siano ringraziati gli Dei! State bene? Siete feriti? Avete trovato qualche sfera? Noi abbiamo trovato quella di Jonas ma ora abbiamo un problema più grande! Cade è -»
«Scomparso.» la interruppe Úranus posandole le mani sulle braccia e spingendola delicatamente indietro.
«Golia dice che non lo sente più. Capta ansia, paura e terrore come un fottuto radar e spero vivamente che tu stia per dirmi che lo stronzo è asceso al paradiso.» s’intromise Nathan.
Lea lo guardò per un lungo istante, poi lasciò uscire un pesante respiro.
«Dannazione, mi sono preoccupata anche per te!» esclamò d’improvviso assestando una poderosa pacca sulla schiena al biondo.
«Gli sei mancata anche tu. Preferisce litigare con te che con me.» la informò Jane atona.
La figlia di Apollo la fissò per un momento, poi guardò Nathan. «Beh, me la sarei presa davvero a male se avresti preferito lei a me, sarebbe stato un vero insulto.»
Il soldato non poté impedirsi di scoppiare a ridere, in modo fragoroso. Alzando gli occhi al cielo Eliza si disse che forse, forse, li preferiva quando litigavano e non quando si alleavano contro Jane.
Forse.
«Come sta Jonas?» domandò per evitare di cadere in lunghe ed inutili discussioni.
Lea tornò seria, mordendosi un labbro e voltandosi verso il ragazzino ancora seduto a terra.
«Non bene. Il suo ricordo lo ha scosso molto, non sono riuscita subito a calmarlo e-»
«Solo il roscio ci riesce al volo, sì, lo so.» tossì. «Sappiamo. Lo sappiamo.»
Elena alzò un sopracciglio. «È questo che hai cercato di fare l’altra volta? Consolarlo?»
«Volevi dargli una pacca ma non sei capace e lo hai picchiato?» chiese maligna Jane.
«Posso darla a te se vuoi, ma questa volta sarebbe intenzionale. Se solo mia madre non mi avesse insegnato a non picchiare la gente più debole di me…»

«Abbiamo litigato.»
 
Jonas si era alzato ed aveva avanzato qualche passo verso di loro, pur mantenendosi a debita distanza. Tutta la confidenza guadagnata in quei momenti trascorsi assieme spazzata mia con un colpo di spugna.
«Gli ho detto perché sono morto. Non per una nobile causa, se vi interessa.» disse a bassa voce.
Nathan lo guardò serio. «Non vedo come questo possa averlo fatto incazzare. Ormai sei morto, non è che puoi cambiare le cose.»
«Sono scappato.» affermò deglutendo un improvviso eccesso di saliva. «Sono scappato dalla situazione in cui mi trovavo perché ero troppo debole per continuare a mentire. Quindi sono un bugiardo e un codardo. La mia terrazza era proprio quella, l’ottava.» abbassò il capo perché non voleva guardarli negli occhi, ma al contempo non voleva più mentire ai suoi compagni, a quelle persone che, nonostante tutto, l’avevano accettato anche senza voler spiegazioni in cambio.
Glielo doveva. A loro e a sé stesso, e poi…
 
Da solo non sarei mai in grado di ritrovare Cade e devo chiedergli scusa, devo ripagarlo ancora per tutto quello che ha fatto per me, anche se non vorrà più esser mio amico.
 
Dio, si sentiva un tale moccioso a pensare quelle cose, però era così: Cade era l’unica persona, anima, che si sentisse di chiamare così, di definirlo suo amico. E per colpa del suo carattere del cazzo, di quel dannato filtro bocca-cervello che si attivava solo in presenza degli adulti, Jonas aveva come sempre complicato le cose, distrutto tutto.
 
«Sai,» disse Lea avvicinandoglisi, lo sguardo gentile e triste, proprio come l’aveva quando gli aveva parlato di suo fratello. «io sono scesa in strada per salvare delle vite. C’era un ragazzo ferito, aveva la febbre alta e io volevo curarlo. Sono arrivati dei soldati e mi hanno intimato di allontanarmi, che non meritava l’aiuto di nessuno. Ho detto di no, mi sono rifiutata e sono morta. Ti potrà sembrare che io abbia fatto qualcosa di nobile ma la verità è che sono uscita di casa disobbedendo a mio fratello, litigando con lui per questo, e quando mi sono trovata davanti qualcuno da aiutare, mi sono fatta uccidere. Non trovi che sia un po’ ridicolo? Sono morta e non ho concluso nulla.» gli prese le mani nelle sue, sorridendo. «Come ha detto Nathan, e sappi che ho i brividi al sol pensiero che gli sto dando ragione-»
«Io ho sempre ragione, cazzo!»
«Quel che è stato è stato. Ormai siamo morti e non potrai mai cambiare le cose. Ma possiamo riscattarci, tornare su e riprendere la nostra vita da dove si è interrotta.»
«Potrà farlo solo uno di noi.» intervenne Eliza. «Ma ci giocheremo questa possibilità fino alla fine.»
«Ti prego di non pensare che Cade sia scomparso per causa tua.» diede loro manforte Úranus. «Ora la cosa più importante è ritrovarlo.»
«E rinfacciargli a morte che si è perso come un cazzo di ragazzino ai grandi magazzini.» sbuffò Nathan.
«E che stiamo perdendo tempo per uno come lui.» concluse Jane, sorprendendo positivamente gli altri, seppur con un commento poco gentile.
Úranus si avvicinò a Jonas, guardandolo fisso negli occhi, due tonalità di azzurro chiaro e freddo a confronto.
«Fuggii anch’io, tempo fa. Sarei potuto rimaner fermo nella mia dimora, usare quei poteri tanto temuti per proteggere la mia famiglia, ma ho scelto di non farlo, per codardia. Questo anche è un tipo di riscatto, Jonas. Questa volta, non scapperemo.»
Il ragazzino non riuscì a distogliere lo sguardo, come ipnotizzato dal ghiaccio che penetrava in profondità la sua anima, da parte a parte, limpido come l’acqua, come un’anima senza colpe, senza peccati.

No, quella volta non sarebbe scappato. Lui era Jonas Friederich, era forte e orgoglioso, avrebbe affrontato quell’ennesima sfida e l’avrebbe vinta.
 
«Come individuiamo Cade? Jane può usare la sua magia?» domandò serio.
Nathan grugnì. «Non ci tira fuori un cazzo di coniglio da quel cilindro, figurati se può tirarci fuori una testa di cazzo rossa.»
 
«Si può sapere che diamine è un cilindro?»
 
*
 


Si mosse a disagio, scosso dai tremori deliranti della febbre e dell’incoscienza, rigirandosi su sé stesso.
Faceva caldo ma brividi di freddo gli tormentavano le membra, mentre il sudore colava lungo la sua fronte aggrottata.
Una mano benevola gli carezzò gentilmente il capo, scostandogli i capelli fradici, tirandoglieli indietro. Era così fresca quella mano, abbastanza grande da coprirgli tutto il volto se solo avesse voluto.
Ma di chi era? Perché stava così male? Dov’era finito? Cosa stava succedendo?
 
«Ssh… è solo un sogno, solo un brutto sogno. Resisti ancora un po’, gli incubi potranno sembrarti terribili ma quando riesci ad aprire gli occhi tutto scompare.»
 
Un sogno? Di che tipo? Un incubo? Ma di chi? Suo?
 
«Non può farti del male, è solo un ricordo e così com’è comparso svanirà nel nulla.»
 
Nel nero pesto del sonno vaghe scie colorate cominciarono a prendere forma, finché davanti ai suoi occhi serrati iniziò a comporsi la scenografia di una casa, una storia che forse avrebbe dovuto già conoscere o forse che avrebbe visto per la prima volta in vita sua.
 
 
 
La donna davanti a lui sorrise con gentilezza. Era sempre stata così dolce, così sicura, così affettuosa; gli occhi azzurri parevano dello stesso colore dell’acqua sul letto di un fiume ciottoloso, cristallina e in fermento. Era impossibile, lo sapeva perfettamente, gli occhi degli uomini non potevano mutare in quel modo, non potevano esser acqua tirata dalla corrente, ma per lui era sempre stato così.
Gli occhi di sua madre gli davano tranquillità, ispiravano la calma del bosco dopo le ore più calde della giornata, dopo il calare del sole. E come acqua erano lenitivi per ogni sua ferita, per ogni suo dubbio ed ogni suo dolore.
La stanza in cui si trovavano in quel momento era silenziosa, il mondo attorno a loro lo era, non uno stormir di foglie, non il canto di un uccello, lo scricchiolio di un ramo. Nulla. C’erano solo loro due, i suoi singulti mal trattenuti ed il sorriso morbido di sua madre.

 
«Non devi dar loro peso, amore mio, non devi lasciar che le loro parole ti feriscano.»
«Ma madre,» riuscì a dire con voce sorprendentemente ferma, «Hanno ragione. La ragione è con loro, la mia presenza sola riesce a trasformare un soleggiato mattino in un cupo giorno. Non posso biasimare nessuno se ad ogni mio passo corrisponde l’indietreggiare della gente.»
La donna mosse con grazia la mano, allungandosi oltre il tavolo usurato per poter carezzare il viso di suo figlio. Lui alzò il capo e posò a sua volta la propria mano su quella più piccola e delicata.
«Vi chiedo perdono, madre, sono un uomo adulto che ancora piange sulle vostre gonne.
»
Ma il sorriso non si spense, lo sguardo non divenne più duro, non gli diede ragione, lo fissò soltanto, lasciando che si sfogasse, che dicesse ciò che pensava, com’era giusto che fosse.
«Vorrei solo poter camminare per il villaggio senza spaventar nessuno, che sia per la mia statura o per la mia presenza. Non sono di alcun aiuto, già hanno così tanti pregiudizi su di noi ed io non riesco neanche ad esser più gentile e farmi apprezzare.
»
Allora sua madre scosse la testa, decisa. «Più gentile di così, mio tesoro, diverresti un frutto maturo e succoso e tutti ti scambierebbero per una pesca, morbida e vellutata.» rise divertita ma il suono non si propagò per la stanza, non produsse alcun rumore neanche lo sfregare della sedia sul pavimento battuto. «La paura è irrazionale, è il soffio di un dio malevolo che un tempo era chiuso dentro di un magico scrigno dorato. Sai la storia, tuo padre te l’ha narrata, non è colpa degli uomini se possono covare in sé tanto c’è di brutto e di meschino. Ma tu puoi esser più forte di tutto questo. Siete tu, tuo padre e i tuoi fratelli sparsi per questo grande mondo, ad aver il potere di imbrigliare la paura e renderla un’utile alleata. Pensa ai potenti eserciti che tu, da solo, potresti fermare senza dover versare una goccia di sangue, pensa a cosa saresti in grado di fare. Se nel cuore di ogni spietato assassino albergasse d’improvviso la stessa paura che coglie le sue vittime nessuno cadrebbe più per il volere ed il potere di uno sporco criminale.»
Ma lui abbassò gli occhi, dolorante al sol pensiero. «Ma qui non vi sono mostri, madre. In queste terre non ci sono spietate armate di crudeli siri, vi sono solo uomini spaventati e accecati dalla loro stessa mortalità. Non c’è nessuna guerra da combattere, non ci sono vite da salvare.»
Il pavimento era terra battuta e paglia, era ormai duro sotto le suole degli stivali da cacciatore, scavato nei solchi dove la sedia e lo sgabello erano stati trascinati.
Osservò con insistenza quei fili erbosi secchi divenuti marroni per tutte le volte che li aveva calpestati, che aveva portato dentro casa la terra del bosco, quella del villaggio. Il bordo della gonna di sua madre scivolava sui sandali, spazzando il terreno e sporcandosi sempre di più. C’era sempre quella perenne linea marrone sul bordo della gonna di sua madre, malgrado la donna lo pulisse ogni volta con attenzione.
Se solo non avesse fatto così tanta paura a tutti i popolani avrebbe potuto trovarsi un lavoro, magari dal fabbro vista la sua stazza, o dal taglialegna. Avrebbe potuto portare a casa qualche moneta in più, denari sufficienti per comprare ciò che non potevano procurarsi da soli, qualcosa in più di quello che guadagnavano con le erbe medicinali raccolte da sua madre, qualcosa che avrebbe potuto permetterle di comprarsi un nuovo vestito, senza dover filare la lana, o il cotone, e tessere le stoffe da sola. Era lui l’uomo di quella famiglia, avrebbe dovuto darle molto di più, ripagarla di ciò che lei aveva invece dato a lui per tutta la vita.

 
«Amore mio. Mio splendido e gentile e dolce figliolo.» disse richiamando la sua attenzione. Non volle comunque alzare il capo, rischiare di intrecciare il proprio sguardo al suo.
«C’è sempre qualcosa per cui combattere, ci sono sempre delle vite da salvare. Alcune sono già su questa terra e vanno preservate, altre devono ancora vedere la luce del sole e vanno custodite. Per loro bisogna lottare ogni giorno affinché il domani che le vedrà nascere sia migliore e più splendente di quello in cui sono state attese con tanto fermento e tanta ansia.
»
Gli prese con lentezza le mani e le unì, baciandole per poi stringersele al cuore e posarle, in fine sul ventre coperto dal grembiule macchiato di verde.
«Non siamo soli. Hai me e io ho te. Tuo padre è con noi. Vostro padre è con noi. C’è ancora qualcosa di buono e di giusto per cui combattere. C’è ancora speranza. C’è ancora vita.
»
 
 
*
 


Il piano era semplice, davvero basilare: così come Úranus aveva rintracciato la scia del ricordo di Jane, di Jonas e Lea, così avrebbe cercato di nuovo di individuare quella di Cade.
La speranza era quella di riuscire a seguire quel filo invisibile ora che erano così vicini al punto in cui, presumibilmente, Cade era scomparso. Ma in fondo, anche se aveva detto che sì, forse era possibile, dentro di sé Úranus sapeva perfettamente che questa volta non avrebbe funzionato.
Con un sospiro pesante scosse la testa.
 
«Non sento nulla, mi spiace.» ammise sconfitto.
«Prova a concentrarti di più.» lo pregò Jonas guardandolo apprensivo.
L’uomo però sospirò ancora. «Purtroppo i miei poteri s’accrescono con stati d’animo affini. È stato un caso più unico che raro che io sia riuscito a trovar il ricordo di Jane concentrandomi su di lei. Voi, per esempio, vi ho avvertiti più facilmente perché mi ero reso conto della scomparsa di Cade e sentivo la vostra ansia sommarsi alla mia.»
«Allora basta spaventarti o farti crollare. Possiamo insultarti se vuoi.» sorrise angelica Jane.
Nathan sbuffò un verso di scherno. «Certo, così si trasforma nel tuo peggior incubo e poi voglio vedere come cazzo ti salviamo dallo scappare via a gambe levate.»
Lea alzò un sopracciglio. «Nel tuo peggior incubo?» domandò rivolta ad Úranus.
L’amico le sorrise imbarazzato. «Il retaggio divino di mio padre.»
«Fobetone è il dio degli incubi, mettiamola così.» buttò lì il soldato. «Imparentato con Ipno, figlio suo, due palle, tra lui e il padre non sai mai chi fa più danni, cazzo.»
Ma la figlia di Apollo continuava a guardare l’amico sorpresa. «Hai detto loro chi è il tuo genitore divino?» chiese ancora.
Mortificato, Úranus non sapeva cosa risponderle. Lea era sempre stata estremamente gentile con lui, non gli aveva mai messo pressione sotto questo punto di vista e poteva capire che si sentisse ferita per non esser stata la prima a saperlo, o per lo meno per averlo saputo per vie traverse.
Nathan sbuffò ancora. «L’abbiamo obbligato noi, praticamente, non l’ha fatto proprio di sua spontanea volontà.»
Eliza gli sorrise beffarda. «Oggi ti stai comportando in modo davvero esemplare, seppur con il tuo terribile vocabolario.» mormorò bassa al suo orecchio.
Il terzo sbuffo fu seguito da una bestemmia. Eliza rise.
«Quindi? Cosa facciamo? Come lo troviamo?» incalzò Jonas.
«Potreste unire i vostri poteri!» saltò su Lea. «Quando ci siamo incontrati le prima volta siete riusciti a farmi ricordare un vecchio evento della mia infanzia, forse assieme potreste riuscire a trovare Cade.»
Il biondino la guardò allarmato. «Non è andata bene l’ultima volta che c’ho provato, lo sai meglio di me.»
Lea batté le palpebre. «Veramente non lo sapevo. Mentre ci provavi ho notato qualcosa, vi sembrerà assurdo ma credevo di aver visto una lepre e così l’ho rincorsa. Ho trovato così il tuo ricordo.»
«Perché è andata male?» domandò invece Eliza.
Jonas scosse il capo, stringendosi nelle spalle. «Ho visto- sentito, delle cose, rumore, bombe, vetri infrante, urla, lingue diverse e poi sensazione che avevo provato in vita, ad un passo dalla morte.»
«Hai avvertito il tuo stesso ricordo e te la sei fatta sotto, ci sta.» concluse Nathan. «Ma ora il tuo ricordo ce l’hai, no? Quindi non farai fatica a trovare altro.»
«Non funziona proprio così… io non “avverto” i sentimenti negativi o simili. Le persone… non sono di mia competenza. Credo.» cercò di spiegare.
«E allora cosa lo è?» sbuffò annoiata Jane. «Puoi esserci utile o no?»
«Di certo lo è più di te.» ringhiò Nathan.
«Non ricominciate voi due.» li ammonì Eliza. «Puoi sempre provarci però, non pensi?»
Jonas la guardò palesemente sconfortato, scuotendo la testa. «Hai visto cos’ho fatto a Nathan l’altra volta.»
«Questa sarà diversa. Dovrai solo prestarmi il tuo potere. Tu sentirai ciò che puoi sentire e io seguirò quella scia, so come si fa.» disse sicuro Úranus, una sicurezza che non aveva fino in fondo.
Quella parole però sembrarono convincere il ragazzino che fece un vago cenno con la testa.
«Se lo dici tu.»
«Forza Jonas! Un po’ d’amor proprio e fiducia in sé stessi, ecco cosa ti serve!» lo incoraggiò Lea battendogli una pacca sulla schiena.
Il biondo la guardò crucciato. «Da quando dai pacche così forti?» domandò cercando di massaggiarsi la parte lesa.
Lei sorrise. «Le ho sempre date, ma di solito erano solo per Giuseppe, quindi sono abituata ad andarci giù pesante. Ma bando alle ciance! Mettiamoci al lavoro e ritroviamo il nostro caro folletto Irlandese!»
 

Come per la maggior parte delle cose, la teoria risultò essere di gran lunga più semplice della pratica.
Úranus e Jonas se ne stavano fermi immobili, l’uno davanti all’altro, le mani strette sull’avambraccio del compagno, gli occhi nei suoi.
Jonas deglutì a disagio, una presa così ferrea e sicura, serrata sulle sue braccia fini e fin troppo deboli per i suoi gusti, gli dava la sensazione che avrebbe potuto spezzargliele in un attimo.
Cercò di ricordare ciò che gli aveva detto Cade, di liberare la mente, di respirare e seguire la corrente, ma d’improvviso gli parve che nulla più si muovesse in lui.
Forse era stato il suo amico a risvegliare qualcosa in lui, a sciogliere quel blocco che aveva sempre avuto in petto. O forse erano i suoi sensi di colpa a parlare, ripensare a quel momento, a ciò che gli aveva detto.
Sapeva che rimuginare sul passato non aveva senso, era morto per l’amor del cielo, non avrebbe potuto porre rimedio a nessuno dei suoi errori, non avrebbe potuto modificare in alcun modo le abitudini di una vita precedente, ma non poteva far a meno di pensare, di ripetersi che se Cade era sparito era tutta colpa sua.
Se non avessero discusso in quel modo all’arrivo di Lea Jonas non l’avrebbe lasciato solo. O forse sì, forse si sarebbe messo ugualmente a correre verso la ragazza ma Cade l’avrebbe seguito, non sarebbe rimasto fermo in mobile a guardarlo andare via. Non avrebbe preferito mettere una distanza di sicurezza tra di loro.
Se non avesse detto quelle cose Cade l’avrebbe preso per un braccio e l’avrebbe accompagnato in uno dei suoi salti micidiali, di quelli così alti che neanche nelle ore di atletica lui sarebbe stato in grado di fare. Sarebbero arrivati tutti e due da Lea e forse-
 
Forse anche Cade avrebbe visto il mio ricordo e allora non mi avrebbe più voluto parlare di sicuro.
 
Elena aveva detto di poterlo capire, ma per quel che ricordava di storia Lea non aveva vissuto sotto il regime totalitario nazista, non aveva le giubbe nere che giravano per le strade, facendo retate, spaccando vetrine e aspettando solo che qualcuno facesse la spia per poterlo fucilare o peggio…
 
I campi di lavoro
 
Jonas deglutì a vuoto. Lea forse l’aveva davvero capito, era una donna per altro, era risaputo che avessero un animo più gentile, più permissivo, per questo suo nonno gli ripeteva sempre che un vero uomo doveva essere cresciuto da un altro uomo e non da una donna, perché non avevano la stessa spina dorsale, lo stesso pugno di ferro. Se quindi Cade avesse visto il suo ricordo non sarebbe stato tanto indulgente come lo era stata la figlia di Apollo.
Con orrore si rese conto che, per lui, era stato un vero colpo di fortuna perdere Cade, perdere l’unica persona che sentiva di poter chiamare amica – o forse che in passato poteva chiamare tale – perché in quanto uomo non avrebbe mai potuto accettare la sua debolezza.
Una risata vaga aleggiò nella sua mente: cosa si aspettava? Era ovvio che Cade non avrebbe approvato, era ovvio che l’avesse preso sotto la sua ala solo perché lo vedeva come un giovane alla deriva. Veniva anche da anni più lontani dei suoi, dio santissimo!
Era un bene. Aveva appena perso il suo unico amico e questo era la cosa più fortunata che gli fosse mai successa dalla sua morte.
Che mostro era? Come poteva trarre giovamento da una perdita?
 
Non sono diverso da quella gente, non sono diverso dai soldati. Anche io sono un mostro. Lo sono sempre stato.
 
 
«Jonas. Perché ti vedo con gli occhi verdi?»

 
A porgli quella domanda, del tutto estemporanea ed incomprensibile, fu Nathan.
Il soldato era posizionato alla sua destra, la posa rigida, la mascella contratta, i pugni serrati, lo sguardo duro.
Non aveva detto “perché hai”, ma “perché ti vedo” perché lui sapeva che non poteva esser vero. Sapeva che gli occhi del ragazzino non potevano mutare e soprattutto sapeva che non erano i suoi occhi perché appartenevano a qualcun altro.
 
Lucy.
 
«Non sta funzionando.» disse secco. La voce inflessibile ma con una nota rabbiosa. «Smettetela di fare qualunque cosa stiate facendo perché non sta funzionando.» continuò più concitato.
«Fate come vi dice.» gracchiò la voce terrorizzata di Jane.
La ragazza teneva lo sguardo puntato verso il vuoto, lontano da loro, verso il nulla, dove solo i suoi occhi potevano individuare la sagoma sporca di sangue di un uomo che aveva conosciuto fin troppo bene in vita. Il torace ampio pareva incavato in sé stesso, come se qualcuno glielo avesse sfondato a calci. O con una pietra gigante.
Úranus volse il capo nella stessa direzione, l’ombra dell’uomo che prendeva lentamente forma davanti ai suoi occhi e a quelli di Jane, mentre Jonas, voltatosi di scatto verso Nathan, vide sul suo volto lo stesso dolore che per anni aveva visto nei suoi compagni di tormento.
 
Lo sto facendo di nuovo. Sto di nuovo facendo soffrire gli altri!
 
Con un movimento brusco e repentino Jonas si sottrasse alla presa di Úranus, trovandola incredibilmente più gentile e delicata di come se l’era aspettata.
Saltò via da lui, distogliendo lo sguardo da Nathan, coprendosi gli occhi, il volto, con le mani rovinate, sino ad infilarsi le unghie corte nella pelle tesa della fronte.
 
«Non ci riesco!» uggiolò in preda ad un improvviso dolore interno, una morsa soffocante che gli si era stretta attorno alla trachea, allo stomaco, ai polmoni.
Frammenti di una vita non sua gli scorsero davanti alle palpebre chiuse.
Un campeggio estivo, un arco di legno. Piante di fragole e una donna con i pantaloni che lo fissava fiera e malinconica. Un letto a castello a tre piani. Un padiglione in stile antico. Il ponte, le canoe, il lago. Il viso sorridente di una ragazzina dai capelli neri ed i grandi occhi verdi che gli porgeva qualcosa. Due spade che si incrociavano. Una porta distrutta. Qualcuno che piangeva. Un corpo esanime sul pavimento imbrattato di sangue. Morte.
Con un verso soffocato Jonas si accasciò a terra, nascondendo la testa tra le gambe, tirandosi i capelli con forza.
 
«Cos’è!? COS’È?! Fatelo smettere! Perché vedo queste cose? Perché vedo quelle persone?»
Lea gli fu vicino in un istante, inginocchiandosi a terra e posandogli le mani sulla testa, mormorando veloci e concise litanie curative.
«Nathan siediti a terra e non ti muovere! Úranus, allontanati da Jane! Eliza-»
«Ci penso io a lei!» gridò di rimando la soldatessa prendendo la figlia di Ecate per le spalle e scuotendola con fermezza.
«Jane? Jane! Nulla di quello che vedi è reale! È solo nella tua testa! È solo la tua immaginazione.»
La risata che seguì a quelle parole fu intermittente ed isterica, le risa di un folle, così come lo era lo sguardo della ragazza.
«Certo che è nella mia testa! È sempre tutto nella mia testa! Sono solo incubi, non devo dirlo a nessuno se no poi penseranno che ho il demonio dentro e verranno a prendermi! Crederanno che una strega mi abbia fatto un sortilegio e invece sono proprio io! Sono proprio io la strega! Ero l’unica vera strega del mio villaggio e nessuno l’ha mai scoperto! Hanno ucciso i miei genitori che erano innocenti e io che ero l’unica strega, no! Una caccia alla strega senza la strega! Che brucia all’inferno, brucia nel fuoco purificatore di Dio ma io no! Io non mi sono purificata! Il fuoco non mi ha fatto niente! Niente!» continuò a ridere, gli occhi sgranati, le pupille ristrette al massimo.
Eliza lanciò uno sguardo d’aiuto ad Elena ma la ragazza era troppo impegnata ad aiutare Jonas che ancora implorava di far smettere tutto quello, qualunque cosa fosse ciò che vedeva.
Se non poteva aiutarla in modo gentile allora avrebbe usato quello militare, si disse la mora caparbia.
Lo schiaffo che tirò dritto in viso a Jane si sarebbe potuto sentire a miglia di distanza. Le risate cessarono immediatamente mentre gli occhi della giovane si riempivano di lacrime e, tremante e allo stremo delle forze, si gettò tra le braccia di Eliza, piangendo singhiozzi potenti e incontrollati.
Eliza la strinse forte contro il suo petto, cercando lo sguardo di Nathan che a mala pena la stava guardando. Quando riuscì a stabilire un contatto il soldato batté velocemente le palpebre.
«Poi danne uno pure a me.» mormorò solo.
 
Fermo immobile, con le mani lungo i fianchi, privo di forza, pieno di sensi di colpa e sconforto, Úranus osservava i suoi compagni distrutti da una semplice, stupida e velocissima interazione tra lui e Jonas.
Chi era il genitore divino del ragazzo? Perché mescolare i loro poteri era così pericoloso, così dannoso?

 
Non lo è, non lo sarebbe di norma. Ma tra di voi ci sono troppe anime con troppi conti in sospeso.
La colpa è vostra solo perché avete trovato al vostro fianco terreno fertile per il lato peggiore del vostro essere. Non te ne crucciare troppo.


 
L’Islandese chiuse gli occhi, abbassando il capo in segno di ringraziamento verso le parole gentili e rassicuranti di suo padre.
Era con lui, si prendeva ancora cura di lui anche se da lontano. Lo stava osservando, lo vegliava.
Allora, che forse…
 

Attendi. Il vostro compito in questo luogo non è ancora finito.
Il giovane ragazzo, quando smetterà di vedere una vita, ne sentirà un’altra.

 

Úranus guardò allora Jonas, indeciso se riferirgli quello che Fobetone aveva appena detto a lui.
Aveva la vaga sensazione che suo padre non stesse parlando di Cade, ma di altro.
Si volse verso i suoi compagni domandandosi chi, tra di loro, non avesse ancora ritrovato il suo ricordo.
Quando smetterà di vedere una vita ne sentirà un'altra. Per quanto Úranus potesse sforzarsi non gli pareva ci fossero suoni mancanti dai suoi ricordi, ma ovviamente, se non li rammentava, non poteva saper della loro dipartita.
Doveva dirglielo, forse aver uno scopo, un compito che solo lui poteva portare a termine, l’avrebbe aiutato a riprendersi.
Si mosse appena nella sua direzione, un passo neanche e Jonas scattò in piedi, liberandosi dalle mani di Lea e indietreggiando con fare barcollante.
 
«Non mi toccate! Mi sembra solo di sentirne di più, di vederne di più! Chi cazzo è? È un campo estivo? È il famoso “Campo”? Sono i tuoi ricordi Nathan? Perché ho i tuoi cazzo di ricordi Wright?!»
Il soldato lo fissava imbambolato, senza saper cosa dire, come fare.
«Chi- chi vedi? Com’è? Descrivimelo!» sbottò poi saltando in piedi ed avventandosi sul ragazzino.
«È una donna? Una ragazza? Una giovane? È mora? Ha gli occhi verdi? La vedi? Cosa vedi?» lo tartassò di domande cercando di afferrarlo per i polsi.
Ma Jonas era più veloce, era piccolo, scattante, scivolava via dai pericoli, dai problemi.
 
Saltare gli ostacoli!
 
Così aveva detto Cade.
Cade. Lo stesso Cade che era scomparso per causa sua ma che era stata una fortuna vederlo sparire.
Era colpa sua. Era sempre colpa sua!
Jonas scosse la testa, lo fece con violenza, cercando di scuotere via anche quei ricordi, quelle sensazioni, quel vuoto che gli si era allargato in petto.
Sofferenza, dolore, sensi di colpa –
 
Amore.
 
Il ragazzo si bloccò, alzando lentamente il capo verso Nathan che lo fissava in attesa, le mani ancora protese in avanti, una supplica silenziosa in quello sguardo che, per la priva volta, pareva perduto, fragile.
Jonas non aveva la più pallida idea di chi fosse quella giovane, poteva intuirlo, poteva ipotizzarlo, ma l’unica cosa certa era che Nathan l’aveva amata, l’aveva amata immensamente.
 
E l’ha perduta.
 
«Mi dispiace…» mormorò con voce lagrimosa. «Mi dispiace tanto. Non volevo, non volevo vederlo, non volevo vederla…» continuò indietreggiando, gli occhi che si riempivano di lacrime, la gola che si stringeva. Gli stava andando a fuoco, era secca, proprio come gli succedeva quando piangeva in vita.
Così debole, così inutile… gli altri ragazzi della sua età non si piangevano addosso, non erano come lui, così fifoni, così codardi… stava piangendo per qualcosa che neanche lo riguardava, troppo sensibile al dolore altrui come se stesse vivendo il suo.
«No- no! Non è colpa tua, non lo stai facendo apposta. I poter dei nostri genitori, non sempre li possiamo tenere sotto controllo. Non sei tu. Devi solo- solo dirmi com’è, solo questo. Descrivimela, com’è?» provò Nathan con voce incrinata, piano, timoroso ma anche incredibilmente bisognoso di sentire quelle parole, quelle poche parole che avrebbero confermato il suo ricordo.
Jonas tirò su con il naso, cercando di togliersi le lacrime dagli occhi, stropicciandoli con forza.
Com’era? Com’era?
Non poteva dirglielo, non poteva dirgli come la vedeva.
 
Com’è?
Morta.

 
Era a terra, era in una pozza di sangue, le mancava un braccio, strappato via. Era sul pavimento di una cucina, il muro era distrutto, la porta come esplosa. Qualcuno urlava, piangeva. C’erano macchie dorate a terra, che si mischiavano lente con il rosso denso.
Non poteva dirglielo. Non poteva. Non poteva. Non poteva.
 
«Non posso…» gracchiò.
«Sì, sì che puoi. Devi solo- solo dirmi com’è?»
«Non dovrei vederlo, perché vedo queste cose? Perché non smette?!»
«Non sei tu. Jonas, non sei tu. Ma ora, ti prego, dimmi com’è? È mora? Ha gli occhi verdi?» provò ancora ad elencargli quei particolari ma il ragazzino era rimasto catturato da altro, da delle parole che Nathan aveva ripetuto più volte.
 
Non sei tu.
 
«Non sei tu, sono le Praterie.»
 
Invece sì, sono io. Sono sempre io.
 
Mosse appena la testa, un cenno, una bugia bella e buona perché gli occhi della donna erano vitrei, erano più simili ai suoi che ad altro, ma non poteva ricordargli ancora com’era morta. Se Nathan non lo sapeva, se quelli fossero solo pensieri arrivati così, per caso… forse il soldato non aveva assistito, forse non l’aveva visto, era arrivato a cose già fatte, quando l’avevano giù uccisa. L’aveva già trovata morta.
 
Come devono aver trovato me.
 
Una scossa elettrica gli attraversò la testa, un dolore lancinante che non sentiva più da tempo, potentissimo e velocissimo. Un colpo unico che l’aveva abbattuto come uno sparo.
Avevano trovato anche lui così? Immerso nel suo sangue, sporco, con gli occhi spalancati e vitrei? Era stata sua madre? Era stato suo nonno? Le cameriere? Qualche guardia? Degli sconosciuti? Il maggiordomo? Gli amici? I colleghi di suo nonno? Era stato Ludwig o magari Virginia?

No, no, no… Dio no. Ti prego, no.
 
Non riuscì a sopportare lo sguardo di Nathan un solo secondo di più. Gli volse le spalle, scosso dai singhiozzi che cercava inutilmente di soffocare dietro le mani, assieme ai conati di vomito che gli risalivano la gola. Era un cadavere quello che vedeva, un cadavere martoriato.
L’avevano trovato con la testa fracassata? I capelli biondi divenuti rossi, un ammasso nerastro?
Era stata quella l’ultima immagine che avevano avuto di lui i suoi cari?
Mosso qualche passo, piano, incerto. Gli occhi improvvisamente asciutti, lo shock che aveva cancellato anche la forza di piangere.
Lentamente le immagini che vedeva dentro la sua testa, quei flash di una vita non sua, cominciarono a sbiadire, distrutti da un altro tormento: il suo.
Un ronzio basso gli invase la mente, non riusciva più a pensare, a ragionare. Tutto il suo intero essere o quel che ne rimaneva erano protratti verso quella semplice e stupida domanda:
Che immagine avevano avuto i suoi cari di lui? Come l’avevano visto per l’ultima volta?
Provò ad immaginarlo, ad immaginare il volto sgomento di suo nonno, imperturbabile di solito ma sorpreso dalla notizia. Poteva immaginare sua nonna portarsi una mano alla bocca, mormorare qualcosa e sua madre-
 
Mamma urlare. Posso immaginare mamma urlare e correre da me, chiamarmi a gran voce.
Potrebbe esser stata l’ultima volta che ha pronunciato il mio nome…

 

«JONAS!»
 


«ANDERSON!»
«ALEXANDER!»
«JOHNSON!»
«ATTENTO!»
«DI QUA! È FERITO!»
«ALEXANDER?! ALEXANDER?!»
«JOHNSON! FERMATI! PER L’AMOR DEL CIELO!»
«ADUNATA! ADUNATA! ARRIVANO DA SUD!»
 
 
Jonas batté le palpebre sconvolto. Non era la voce di sua madre, erano voci maschili e lui non ne conosceva neanche una. Chi erano quelle persone? Perché urlavano in quel modo.
Girò su sé stesso, come una moneta lasciata in aria, cercando la provenienza di quei rumori ben conscio che potesse esser una sola.
 
Eccola!
 
La individuò a colpo d’occhio, alzando solo di poco il raggio della sua ricerca, forse ad una decina di metri di distanza. Era assurdo come quella sfera fosse sembrata incredibilmente luminosa, come avesse attratto il suo sguardo malgrado fosse nera. Completamente nera.
Jonas inclinò la testa, ancora una volta la sua mente era saltata da un pensiero all’altro, da uno stato d’animo all’altro, un eterna altalena di cui non riusciva a tenere le redini.
Camminò verso il ricordo come ipnotizzato, mentre suoni d’esplosioni si susseguivano le une con le altre. C’erano grida basse, lontane, il rumore metallico del tamburo di una pistola, no… un fucile?
 
Un moschetto.
 
Un moschetto? Come diamine faceva lui a spere che suono avesse un moschetto? Era roba antica, un pezzo d’antiquariato, roba-
 
Della guerra di Secessione!
 
Con quella nuova consapevolezza si riscosse dal suo torpore, iniziando a correre verso la sfera, sordo alle voci dei suoi compagni che lo chiamavano, che gli gridavano di non allontanarsi, di non scappare.
Ma non stava scappando, per una volta in vita sua Jonas non si stava allontanando dal doloro o dalla paura ma ci si stava letteralmente lanciando contro. Aveva come la sensazione che se solo avesse aspettato un attimo di più, se avesse distolto lo sguardo dalla sfera, questa sarebbe sparita nel nulla, ingioiata dall’oscurità dell’erba e dell’Ade.
Quando un’improvvisa folata di vento mosse gli steli, minacciando di coprire il globo, Jonas si lanciò in avanti, pronto a prenderla.
 
 
 
Nathan rimase immobile, osservando il ragazzino che indietreggiava, che piangeva rumorosamente come lui aveva fatto poche volte in vita sua.
Cosa vedeva? Era davvero Lucy? Era davvero la sua Lucy?
Lo sapeva, sapeva perfettamente com’era fatta la giovane, ma voleva sentirselo dire, voleva che Jonas gliela descrivesse e che confermasse i suoi ricordi.
Non gli interessava sapere perché lui potesse vederla, non gliene fotteva un cazzo. Voleva solo rivederla un attimo, solo per un momento, anche attraverso gli occhi di un altro.
Delle mani insolitamente calde gli si strinsero attorno al braccio, togliendolo dal precipizio del pozzo che era divenuta la sua mente. Gli occhi chiari di Lea, verdi come la salvia, quasi con una sfumatura argentata, gli diedero un senso di vuoto, lo stesso che provava ogni volta che cadeva dal muro d’arrampicata al Campo.
Vuoto.
Solo vuoto.
Non era il verde giusto. Non era il verde forte e brillante di Lucy. Non era il verde giusto neanche quello smeraldino di Eliza, che tenendosi Jane stretta la fianco l’aveva aiutata ad alzarsi e si era avvicinata a loro, pregando silenziosamente Lea di prendersi cura della ragazza, di far qualcosa per calmare il suo pianto.
Con ironia Nathan si rese conto che, tra quei pazzi che gli erano capitati come compagni, l’unico che avesse un colore d’occhi simile alla sua Lucy era proprio il pazzo che era scomparso. Con orrore si rese conto che, in quel momento, gli sarebbe andato bene anche lanciare uno sguardo di sottecchi a Cade e usare la sfumatura delle sue iridi per ricordarsi quelle della donna che aveva amato.
Ma ora anche il rosso malpelo era scomparso, ora non aveva più niente per ricordarsi di quel bellissimo verde se non ricordi sbiaditi e senza consistenza.


«Jonas?»
 
La voce di Úranus, che era rimasto a debita distanza ma si era ugualmente fatto un po’ vicino, lo costrinse ad alzare il capo. Le mani calde di Lea abbandonarono il suo braccio per posarsi delicatamente attorno alla vita di Jane. Con l’aiuto di Eliza la prese tra le braccia e l’aiutò a sedersi nuovamente a terra, i palmi delle sue mani iniziarono a brillare fiocamente, asciugando le lacrime e facendo scomparire i rossori tipici del pianto.

«Jonas? Ti senti bene?» domandò allora Eliza superandolo di qualche passo in direzione del ragazzino.
«No che non si sente bene… nessuno di noi ci si sente.» mormorò atono Nathan.
Eliza lo guardò per un attimo con sguardo duro. «Vuoi ancora quello schiaffo o pensi che non ce ne sia bisogno? Mi servi sveglio e attivo, non smorto e debole.» l’avvertì.
E Nathan gliene fu immensamente grato perché sentire quelle parole così impietose gli diedero non tanto la forza quanto il desiderio di rizzare la schiena e tornare ad essere lo stronzo energico e implacabile di sempre.
«Non mi faresti niente lo stesso.» borbottò però ancora con voce troppo piata.
La velocità con cui Eliza torse il braccio per rifilargli un manrovescio in viso fu incredibile e Nathan le avrebbe anche fatto un applauso, se solo lo schiaffo non se lo fosse beccato lui.
Gli fece girare il capo per la forza che ci mise, ma assieme al dolore crebbe in lui anche un’improvvisa rabbia, quella che gli prendeva sempre prima di ogni combattimento, quella che sua madre l’aveva addestrato a reprimere, a vincere, a sopportare.
 
Disciplina. Ordine. Forza. Coraggio. Strategia.
 
«Non ti ringrazierò, ma non ti insulterò neanche.» le ringhiò contro con tono rabbioso.
Eliza sorrise. «Prego.» ma non poté far altro, non poté mostrargli il sorrisetto compiaciuto che le tirava le labbra perché in quel momento Jonas prese a girare su sé stesso, come impazzito.
«Jonas!» lo chiamarono di nuovo in tre.
«Che cazzo ha?!»
«Deve essere ancora l’influsso del potere di suo padre.» disse Úranus allarmato.
«Perché fa-» Lea non riuscì a finire la frase che il ragazzino si fermò, lo sguardo puntato nel nulla. Poi iniziò a correre.
 
«Porca troia!» ringhiò di nuovo Nathan, coprendo la voce di Lea che urlava loro di non avvicinarsi al ragazzo e slanciandosi verso di lui, così come Úranus, ma entrambi non andarono lontano.
Con una forza disumana che il soldato conosceva già, ma di certo il figlio di Fobetone no, Eliza afferrò entrambi per la spalla e se li spinse dietro, mandandoli lunghi distesi a terra, scioccati e doloranti.
Scattò in avanti, la forza che aveva impresso a quel primo passo fu tanta che ciuffi d’erba, terriccio e polvere brillante volarono in aria. Corse con quanto fiato aveva in corpo e qualcosa di più, malgrado sentisse le gambe bruciare per l’improvviso sforzo si disse che non era vero, che non poteva sentir dolore perché era già morta e se ne convinse a tal punto da non sentire più niente.
Guadagnò terreno velocemente, si protese in avanti, ad un soffio dal fianco del ragazzo, quando questo si gettò tra l’erba e lei, per puro riflesso incondizionato, fece lo stesso, placcandolo.
Rotolarono in avanti, Jonas piegato su sé stesso, a stringere qualcosa contro il petto, poi lo stomaco, come se potesse proteggerlo meglio da quell’impatto desiderato.
Malgrado tutto accadde in poco tempo, malgrado le voci alte e concitate dei loro compagni, il rumore della corsa, il silenzio assordante dell’Ade, Jonas ed Eliza poterono sentire perfettamente il crack di una sfera di Ermes che andava in frantumi.
Pietrificati, i due non osarono muoversi, ancora stretti in quella specie d’abbraccio non voluto, il volto di Jonas puntato verso il suo ventre, quello di Eliza premuto contro la schiena del ragazzino.
Una leggera nebbiolina biancastra si alzò dal groviglio di corpi, mentre voci straniere ed estranee si liberarono dell’aria.
Ma lo erano solo per uno dei due.
Per Eliza quelle voci erano famigliari, erano conosciute, erano amiche.
 
Sono le ultime parole che mi hanno detto i miei compagni prima della fine.
 
Il fumo la trafisse come avevano fatto quei maledetti proiettili e con lei, anche Jonas.














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Capitolo 12
*** Way ***









Capitolo XII- Way.





La corriera si fermò con un sussulto. Gio sapeva perfettamente che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che era solo il vecchio motore che si faceva sentire, benedizione divina o meno.
Certo, se la vecchia cara Era, il nome ufficiale della sua corriera – sì, Era la corriera, eh-eh – si fosse fermata così vicinia eppure così lontana da Bologna ci sarebbe rimasto parecchio male. Per prima cosa avrebbe dovuto bruciare una delle sue razioni per richiamare l’attenzione di Pluto, o gli avrebbe dovuto tirar dietro un paio di insulti belli pesanti per cui forse poi non sarebbe stato perdonato. Secondo, il tasto più dolente, avrebbe dovuto ammettere che le sue doti da meccanico non erano poi così buone.
E avrebbe preferito insultare il suo amico piuttosto che ammettere che forse avrebbe dovuto lasciare la riparazione di quella vecchia ferraglia ad un miracolo divino. Letteralmente.
Ma insomma, Ade era il dio dei morti, mica dei carburatori, che ne sapeva di una correria del dopoguerra lui? Nulla. Al massimo sapeva qualcosa di bighe, e di cavalli, e cani, erano i mastini o i cavalli infernali che andavano a fuoco? Non se lo ricordava mai, ma se avesse dovuto decidere forse avrebbe puntato sui cavalli, nell’Apocalisse doveva esserci qualche riferimento ad uno dei Quattro Cavalieri che cavalcava un cavallo in fiamme.
Povero cavallo.
Con la faccia crucciata e la mente impegnata ad immaginarsi un cavallo fatto di fuoco, o che andasse a fuoco, o che sputasse fuoco, una delle tre o tutte insieme, ma che ne sapeva lui? Con quell’idea martellante Giordano tirò con forza la leva di fianco al sedile del guidatore e aprì lo sportello cigolante.
Sorrise a quel rumore, gli ricordava quasi quello del cancello del vecchio hotel. Chissà dov’era finita quella bettola cadente.
Sgranchendosi le braccia scese con un saltello dall’ultimo gradino, senza curarsi di lasciar la portiera aperta.
Si trovava in una zona abbastanza isolata, lontana dalle strade principali esattamente come aveva detto ad Ade, per evitare che qualche guardia lo trovasse, lo riempisse di botte, per buona misura, e gli rubasse moto e corriera. Aveva visto però delle case un’oretta prima ed era sicuro che con una buona mezz’ora di camminata avrebbe raggiunto un altro paesino, disperso per quella terra che non conosceva.
A ben pensarci lui il nord Italia non l’aveva mai visitato. Quando avevano deciso di tornare a Roma erano ridiscesi verso la Grecia e lì, a confine, avevano preso una nave che li aveva portati sulla vecchia penisola. Erano arrivati in Puglia, per poi tagliare per l’Umbria e arrivare nel Lazio. Avrebbero potuto prendere una scorciatoia, a ben pensarci, magari usare una delle tante porte dell’hotel o uno di quei passaggi sotterranei che portavano ovunque e che Clara conosceva tanto bene. L’avevano lasciato di nuovo nel Convento, con Suor Patrizia già pronta ad accoglierlo e a strapparlo dalle gambe di Al.
Quindi, a conti fatti, non aveva ben visto neanche il sud d’Italia, avrebbe dovuto rimediare prima o poi, magari quando avrebbe ritrovato i suoi genitori, dispersi oltre il confine franco. Magari anche con tutti i ragazzi, Raja avrebbe adorato l’acqua fredda della Puglia, era la stessa del suo mare, dopotutto.
Si guardò attorno senza vero interesse, lo spiazzo sterrato in cui si era fermato era a ridosso di un boschetto dai rami radi, nulla che avrebbe potuto proteggerlo o nasconderlo, ma di certo un posto comodo dove rimediare legni e accendere un fuoco. Così fece.
In quel periodo dell’anno si riuscivano ancora a trovare rametti secchi e asciutti, ideali per accendere un focherello per scaldare sé stessi e qualcosa da mangiare.
Saltellò verso i primi alberi, accucciandosi per cercare tra la sterpaglia, quando un fruscio lo costrinse ad alzare la testa. La mano sinistra scattò in automatico verso la sua cinta, lì dove era attaccato il pugnale dorato che gli aveva regalato sua madre, per proteggersi, per esser sempre al sicuro anche quando nessuno vegliava su di lui.
Giordano si accucciò ancora di più, la lama già per metà fuori dal suo fodero, gli occhi ben aperti, le orecchie recettive ad ogni minimo movimento.
C’era qualcuno che camminava, ma non riusciva a capire se venisse dal folto del boschetto o dalla strada, che fosse qualche paesano dei dintorni? Aveva avuto davvero la sfortuna di beccare l’unico cristiano che si avventurava per le vecchie vie a quelle che, ad occhio e croce, dovevano essere le sei di pomeriggio?
Con un grugnito si avvicinò ad un albero, meditando se fare uno scatto e correre verso la corriera o se attendere che quella persona passasse.
Mentre i passi si facevano sempre più vicini mille pensieri affollarono la sua mente, mille scuse, tutti i piani che s’era fatto per scappare ad ogni pericolo e poi, silenziosa e viscida, la paura. Non era la prima volta che si trovava in pericolo, ma sarebbe stata la prima volta in cui l’avrebbe affrontato da solo. Quando era a Roma, anche se la città era grande e dispersiva, c’era sempre qualcuno che lo conosceva. Giordano bazzicava per Roma sud, est, arrivava dentro le mura, girava tra i vecchi monumenti ma non si spingeva troppo ad ovest e nord perché non erano il suo luogo, non erano casa sua. Dov’era di casa c’era sempre qualcuno che l’aveva visto un paio di volte, che sapeva che era uno degli orfani del convento, che l’aveva visto a lavorare con il calzolaio o a portare il giornale. Era solo, se la doveva cavare con le sue sole forze ma non era mai stato davvero solo.
Come avrebbe fatto? Come doveva comportarsi? Se fosse stata una guardia non avrebbe potuto dirle di andare a chiedere a Nino Breccia se poteva garantire lui che non era uno zingaro, che non era un ladro.
Dio, il suo piano perfetto non sembrava più così perfetto, c’erano buchi ovunque e lui era solo un ragazzino di quattrodici anni che non avrebbe dovuto guidare una dannata corriera da Roma fino a Bologna.
Chiuse gli occhi, li serrò fortissimo e pregò Dio, quello dei cristiani, di aver pietà di lui e della sua stupidità. Non osò neanche lontanamente far una preghierina ad Ade o il dio sarebbe stato capace d’apparire incazzato nero e pronto a portarlo di peso ovunque volesse come un dannato moccioso.
Preso dal suo poco onorevole panico non si rese conto che quei passi s’erano interrotti e continuò ad ignorarlo finché, dopo un respiro profondo, si disse che era scappato per le vie della Jugoslavia in piena invasione di mostri e bestie strane, poteva sopravvivere perfettamente ad un mortale come un altro. A quel punto aprì gli occhi ed il sangue nelle vene gli si congelò.
Per poi scongelarsi tutto assieme e mandarlo letteralmente a fuoco.
Davanti a lui si era fermata una ragazzetta che, ad occhio e croce, poteva aver un paio d’anni in più di lui.
Era piccola e minuta, gli arti fini, le scarpette di cuoio marrone avevano un ché d’infantile e la facevano sembrare ancora più tenera di quanto non facesse il suo viso rotondo.
Aveva la pelle rosea come un bocciolo, morbidi boccoli castani dai riflessi miele, erano acconciato con un piccolo fiocchetto azzurro dietro la testa, tenendole il volto giovane sgombro da ciocche ribelli. Il naso piccolo pareva disegnato, così come le lentiggini che le adornavano le guance piene e gli zigomi alti. La bocca sembrava rilucere come la resina fresca, come se uno strato di zucchero sciolto la coprisse. Era piccola, a forma di cuore e sorrideva in un modo che gli fece attorcigliare le budella nello stomaco.
Giordano deglutì, gli occhi grandi, da cerbiatta, lo fissavano con qualcosa di simile al pudore da sotto le lunghe ciglia scure. Erano del color ambra più bello, vivido e luminoso che il ragazzino avesse mai visto, parevano aver vita propria, sembrava che vi splendesse il sole dietro e quello stesso calore lo invase da capo a piedi, accelerando la corsa del sangue nelle vene, facendogli sentire la necessità di respirare a pieni polmoni.
Era bellissima, era la ragazza più bella che avesse mai visto, anche più della giovane che aveva incontrato prima di lasciare casa.
Aprendo e chiudendo la bocca come un pesce fuor d’acqua, Gio abbassò lo sguardo imbarazzato, cercando di non fissarla seppur invano. I suoi occhi parevano calamitati dalla sua figura, da quel viso delicato e fanciullesco e da quel corpo-
Chiuse gli occhi con forza quando si rese conto d’esser rimasto a fissar lo scollo della sua camicetta per un paio di minuti buoni. L’indumento aveva solo un paio di bottoni slacciati, forse per il caldo, forse per l’affanno della camminata, ma Gio era ugualmente rimasto ad ammirare la pelle candida e morbida dei seni alti. Dio, che vergogna, non gli era mai capitata una cosa del genere. Così come non gli era mai capitato di osservare con tanto interesse la vita fine di una donna, i fianchi avvolti dalla gonna lunga sino alle caviglie.
C’era qualcosa di strano ed ammaliante in quella giovane, a prima vista pareva così piccola, così innocente con la sua camicetta bianca e la gonna azzurra come il suo fiocco, con le scarpette basse e le calze merlettate, il viso tondo, i boccoli dolci… eppure il suo corpo era quello di una donna, armonioso, morbido, invitante, attraente-
 
«Ti senti bene?»

Oh, era la sua voce quella? Pareva il suono dei tasti più delicati del pianoforte, delle corde più alte di una chitarra, dei soffi più docili di un flauto. La sua voce era miele come lo era ogni cosa di lei. Miele e fragole, dolce viscoso, colore caldo, frizzante come i frutti di bosco, rosso come il loro succo.
Gio aprì gli occhi, tenendoli però bassi, l’imbarazzo palese sulle sue guance paonazze.
«Sì. Starei meglio se la gente non arrivasse di soppiatto.» disse brusco.
La ragazza sorrise con gentilezza ed il mondo si piegò a quel gesto. Avrebbe voluto essere lui l’eterno fautore di quell’espressione così deliziosa.
«Ti chiedo scusa, credevo d’esser stata anche fin troppo rumorosa.» gli rispose.
Gio deglutì ancora. «Stavo a fa’ legna, non me ne so accorto, tutto qui. Ero concentrato.» s’azzardò ad alzare un poco lo sguardo e poi lo distolse di nuovo alla svelta. «Che ci fai qui da sola? Tuo padre ti fa andare in giro, così? Senza un ‘omo, pe le fratte?» continuò con tono brusco.
Lei rise ed il ragazzino si domandò perché gli pareva che tutto il suo sangue stesse defluendo in posti sconosciuti, facendogli formicolare le mani ed i piedi, quasi come se la circolazione lì si fosse interrotta.
«Mio padre è un omaccione, se ho bisogno corre subito da me, ma sa che posso difendermi anche da sola.»
Con un verso sprezzante l’altro la guardò scettico. «Tu? Ma sei ‘na femmina, che je fai a n’artro omo?» la provocò. Se ci fosse stata Suor Patrizia l’avrebbe preso a schiaffi per la sua maleducazione, ma l’imbarazzo che provava in quel momento era così grande che l’unico modo per tenerlo a bada sembrava quello di risponder male a quella bellissima e affascinante ragazza. Doveva tenere le distanze, non doveva farla sorridere ancora perché se no avrebbe fatto qualunque cosa gli avrebbe chiesto.
Questo pensiero lo svegliò d’improvviso: era come la ragazza di Roma, era troppo bella per essere vera, per essere da sola a zonzo per quelle zone. La guardò con rinnovato interesse, senza prestar attenzione alle farfalle che gli svolazzavano nello stomaco ogni qual volta quella battesse le ciglia. Era davvero troppo perfetta per essere vera ma- ma al contempo era così umana, così reale. Non aveva nulla del risveglio della primavera che aveva l’altra, ma era comunque magnetica, magica.
 
Irresistibile come il canto delle sirene.
 
«Vuoi dirmi che non hai mai conosciuto una donna che saprebbe batter un uomo?» gli chiese curiosa, con fare innocente.
E sì, Giordano ne aveva conosciute a decine di donne in grado di sbatter per terra un uomo e fargli rimpiangere d’esser nato, ma lei non gli pareva proprio il tipo. Lei, gli uomini, li avrebbe avuti ai suoi piedi con molta meno violenza e con molta meno fatica rispetto a Clara, a Raja o Tali.
«Certo che l’ho conosciute. Ma tu non me sembri come loro.» le disse senza vergogna.
«Non so come sembrino le tue conoscenti, ma posso assicurarti che una donna ha tante armi per difendersi. Solo che molto spesso non ci vengono insegnate, ci viene detto di tenerle nascoste, che è peccato.» soffiò con voce melodica. «Come mai sei fermo qui?» domandò poi arricciando le labbra in un sorriso curioso.
Per l’ennesima volta Gio si ritrovò a deglutire a vuoto. «Vado al nord, me so fermato solo pe riposà un attimo.» rispose in fretta, mangiandosi le parole.
La giovane ridacchiò portandosi la mano piccola e delicata davanti alla bocca. Tenendo gli occhi da cerbiatta fissi nei suoi gli si avvicinò con passi leggeri, senza alzare neanche un minimo di polvere.
Giordano non riuscì a sostenere lo sguardo ed inevitabilmente si ritrovò di nuovo a fissare lo scollo improvvisamente più ampio di quella camicia. La pelle sembrava così liscia, la carne così morbida, doveva esser soffice come la guancia di un bambino.
Una carezza gentile gli sfiorò la mascella, il collo, sino a fermarsi sul suo cuore che batteva a mille, che pompava sangue impazzito, neanche avesse corso per scappare da qualche ragazzaccio che voleva picchiarlo. Con il fiato corto alzò lo sguardo tremante verso la ragazza e di nuovo quella morsa allo stomaco gli piegò le gambe. Si sentiva affamato, assetato, la bocca secca, la lingua pesante. Se era una malia era la più bella in cui fosse mai caduto.
«A nord dove?» gli chiese piano.
«Alla Serenissima.»
«È una città bellissima, piena di fascino, di storia, d’arte, d’amore…»
«Così dicono, ma non saprei se fosse vero, non l’ho mai veduta.» balbettò, il suo marcato accento romano scomparso in favore di quel perfetto italiano che poche volte sfoggiava.
Lei parve apprezzarlo. «La corriera è tua? Sei solo vero?»
«Sì…»
«Viaggiare è più bello, quando lo si fa in compagnia. Ti piacerebbe aver compagnia…» lasciò la frase in sospeso e Gio si riscosse, battendo furiosamente le palpebre per riprendere contatto con la realtà.
«Giordano. Il mio nome è Giordano.» rispose in fretta.
La ragazza gli sorrise e se Gio avesse dovuto credere alle storie che le suore raccontavano loro, non si sarebbe sorpreso nel vedere due corna spuntare tra i boccoli castani.
 
Diavolo tentatore dei cristiani.
 
«Giordano.» pronunciato da lei sembrava il segreto più intimo e prezioso del mondo. «Ha un bel suono.» lo lodò carezzandogli la guancia con l’altra mano.
«E voi?» chiese lui senza rendersi conto di averle dato del lei.
Il viso angelico, in contrasto con quel corpo così attraente, gli parve brillare di vita propria.
 
Come i volti degli angeli.
 
«Il mio nome è un po’ antico-» sorrise con quello che parve quasi imbarazzo, «ma tu, Giordano, puoi chiamarmi Amore.»
 
 
 
E dopotutto, non era un angelo anche Eros?
                                      


 
                                       *                                      




 
L’ambiente era nero, denso, come l’inchiostro. Sembrava in continua espansione malgrado nulla si muovesse. Era come osservare l’orizzonte, consci che esso continui al di là delle nostre possibilità di vista, al di là della nostra concezione.
Jonas strinse le mani attorno ai polsi di Eliza, terrorizzato dai suoni fantasma che gli rimbombavano nelle orecchie.
C’erano spari, così tanti da sembra pioggia. Erano centinaia di gocce di ferro che s’abbattevano sulla terra brulla, sui corpi esanimi e su quelli ancora vivi, che lottavano inutilmente per scappare, per proteggersi dall’attacco dei Sudisti. Lo sapeva per certo, con la consapevolezza dei sogni, quella innata e sorprendente, sapeva che gli uomini che stavano combattendo contro di lui erano suoi fratelli ma anche suoi nemici. Ed era una realtà così concreta, un pensiero così vicino, una vita così simile alla sua che Jonas non se ne stupì. Era ovvio che figli di una stessa madre, di una stessa patria, di uno stesso sogno si stessero uccidendo a vicenda solo per aver ragione di potere, di guadano. Solo per poter ancora e ancora aver la meglio su qualcuno, su un popolo, su più popoli, che non sentivano più loro.
Ad un certo punto non seppe più dove finiva il ricordo di Eliza e dove iniziavano le sue personali elucubrazioni, perché alla fine, della Guerra di Secessione, lui non ne sapeva così tanto, non gli era stata insegnata a menadito come lo erano stati i passati fasti di un regno a cui i suoi professori gli dicevano d’esser tutti appartenuti, ora sfumati assieme alla gloria e all’ingordigia degli uomini.
La sensazione che aveva era particolare, provava sentimenti così lontani dai suoi da sembrare quasi fittizi. Ma erano veri, erano così maledettamente veri. Solo partoriti da una mente diversa dalla sua.
C’era l’ideale di un sogno comune, di una terra promessa così diversa da quella citata dai testi sacri. Era la sensazione di fratellanza di qualcuno arrivato anni addietro da mondi diversi, da culture diverse, che con il tempo si erano fuse sino a diventare una nuova, unica e grande identità. Gli uomini che si stavano dando battaglia, ovunque si trovassero in quel momento, erano semi di frutti diversi, strappati al loro orticello e piantati tutti assieme in un nuovo terreno.
La sentiva, sentiva l’idea di diversità che c’era stata un tempo, spazzata via da anni di lotte, espansioni, costruzioni, accordi, fiducia. Quei semi erano germogliati e malgrado duecento anni prima parlassero tutti lingue diverse ora ne parlavano una sola: la loro.
Eppure la terra si era crepata e ora, quello che filtrava dalle zolle secche, era rancore, era paura, era ingordigia e avidità. Quel bel giardino si era spaccato in due, diviso tra chi voleva restare ancorato al passato e chi sognava il futuro. Sognava l’indipendenza. Sognava l’America.
Jonas spalancò gli occhi, le pupille dilatate al massimo ma senza alcun risultato. Quel ricordo era strano, era confuso, era accartocciato su sé stesso, bagnato in acqua e poi sotterrato.
Perché non ci capiva nulla? Perché non era chiaro e nitido come il suo?
La sensazione viscida della febbre, del sudore, dei brividi incessanti gli calò sul corpo inesistente. Se avesse dovuto descrivere a parole quello che stava provando avrebbe saputo dire solo che, quel miasma nero di suoni e voci, gli pareva irreale e solido come un delirio.
 
I nomi dei suoi compagni gli si affollarono in testa tutti assieme, corredati di volti stanchi, sporchi, sfregiati, morti.
Poteva sentire la consistenza del campo sotto i suoi piedi, della terra battuta. Sentiva il peso dei corpi dei caduti contro cui sbatteva avanzando verso la breccia.
Dio, aveva pensato, sono troppi, ci sono troppi soldati e troppi mostri. Non ne usciremo mai vivi.
E subito dopo il ruggito potente del suo orgoglio, della sua sete di vittoria, l’urlo di battaglia di sua madre che riecheggiava per ogni dove.
Non poteva vederlo, quel ricordo non aveva immagini perché queste erano ancora al sicuro nella sua testa, ma a poco a poco i suoni tornavano a sommarsi alle persone, agli oggetti, ed Eliza si rivide alzare la testa, gli occhi spalancati per l’adrenalina e la paura, per la rabbia cocente per i suoi compagni caduti. Rivide le mura distrutte a cannonate, i corpi dei soltati, i lampi dei moschetti. Rivide il cielo grigio di fumo ed il fango rosso e dorato, misto di sangue umano ed icore. Vide ogni singolo uomo combattere per la propria vita e per il proprio ideale ma nessuno, nessuno, si fermò come aveva fatto lei quando la voce di sua madre aveva invaso il campo di battagli.
Allora aveva capito, allora aveva avuto la certezza che avrebbero vinto, che ce l’avrebbero fatta. Forse quella non sarebbe stata l’ultima battaglia, ancora altri sarebbero dovuti cadere per assicurare un futuro all’America, allo Stato della Libertà; forse lei non avrebbe mai visto quel giorno così come non avrebbero fatto molti dei suoi compagni, come non aveva potuto fare suo padre, ma quel giorno, in quel momento, lei avrebbe fatto di tutto per permettere ai suoi fratelli d’arrivare un po’ più vicino al loro sogno. Anche morire.
L’urlo di sua madre le vibrò nel torace, la forza disumana del suo sangue le accecò gli occhi come avevano fatto sangue e sudore. Con un colpo secco si staccò la collana dal collo, le ali della Vittoria s’aprirono con un baluginio, tanto simile ai colpi di moschetto eppure così diverso, e due lunghe spade scintillarono sotto quei vacui raggi solari che riuscivano a superare le nubi.
Non sentì le voci dei suoi compagni, non lì sentì chiamarla a gran voce, non sentì gli spari ed i ruggiti dei mostri, i colpi di cannone, le pietre che cadevano, le vite che si spezzavano.
Con la follia dei combattenti Elizabeth si era buttata nella mischia, a testa alta, pronta a vendere l’anima su quel fazzoletto di terra.
Quella scelta fu l’ultima che prese.
 
 
Nathan rimase fermo a fissare i due stessi a terra, gli occhi vacui, sbiaditi come quelli dei ciechi. Non per la prima volta da quando era iniziata quella stupida gara, il figlio di Ares non seppe cosa fare, se muoversi, se toccarli.
Avanzò di qualche passo, le mani ancora sporche di terra e polvere luccicante. Dietro di lui Úranus lo seguiva guardingo, timoroso di arrecar danno con la sua sola presenza. 
 
«So che è una domanda sciocca, ma riesci a vedere se respirano?» domandò Úranus rivolto al soldato.
Nathan deglutì, nel suo corpo s’agitavano sentimenti e sensazioni che credeva di aver dimenticato, che non pensava d’aver mai provato in vita sua. Annuì piano, capendo perfettamente cosa intendesse l’altro.
«Credo di sì.» disse piano, azzardando un altro passo.
Dietro di loro Lea teneva ancora Jane stretta a sé, cercando di darle conforto e, inconsciamente, cercando di riceverne un poco indietro serrando ancora di più la presa.
Persino la ragazza delle Praterie provò ad alzare il capo, lo sguardo perso acceso d’una scintilla di preoccupazione: se c’era qualcuno in quello strambo gruppo che poteva starle vagamente più a cuore degli altri era Eliza e, ora come ora, dalla sua posizione, non riusciva neanche a scorgerne il corpo.
Nathan fece un altro passo, poi un altro ancora.
«Eliza?» chiamò piano con voce incerta. Gli veniva da vomitare, gli pareva quasi che qualcuno l’avesse infilato in una lavatrice per poi aspirargli via tutta la vita. Era ironica come idee, stupido come paragone, ma il soldato si sentiva svuotato di tutto, più di quanto non lo fosse mai stato sino a quel momento, sin da quando era morto.
Era stato Jonas, era ovviamente stato Jonas a fargli questo. Lui a mutare i suoi occhi in quelli della sua Lucy, lui a fargli vedere sprazzi di una vita passata, di una vita lontana, della sua, la loro, vita.
Che diamine di potere aveva quel ragazzino? Di chi cazzo era figlio e perché, perché faceva così male? Perché proprio Lucy e non, che ne sapeva, sua madre? Certo, alla morte della donna lui non aveva assistito, Nathan era felice di poter dire d’aver dovuto aspettare davvero parecchio per poter incontrare sua madre oltre le porte delle Bianche Mura, eppure… perché si sentiva così stanco, così debole dentro?
«Eliza?» chiamò ancora.
Più avanti, ancora stesi a terra, la figlia di Nike teneva il compagno stretto a sé, le braccia serrate attorno alla sua vita, il corpo curvato verso quello del più piccolo come se potesse proteggerlo da qualcosa. Elizabeth era un soldato, era una combattente, era forte, orgogliosa, coraggiosa e onesta, era ovvio che anche in uno stupido ricordo si sarebbe posta a difesa dei suoi compagni, dei più deboli, dei più piccoli.
Jonas respirava affannosamente invece, la schiena premuta contro il torace dell’altra, cercando riparo forse, cercando di scappare da ciò che stava vedendo.
 
La guerra di Secessione.
 
Eliza non era morta in una bella epoca, in un bel luogo o in un bel modo, questo era ovvio agli occhi di tutti, specie dai suoi racconti, quindi Nathan non dubitava che il ragazzino potesse esser spaventato da quelle scene così tanto da cercar rifugio tra le braccia di una donna. E forse era un po’ sessista il suo pensiero, forse persino ingiusto nei confronti di Jonas, ma restava il fatto che un giovane della sua età non si sarebbe mai andato a nascondere consciamente tra le braccia di una ragazza o una donna a meno che questa non fosse stata sua madre. Aveva sedici anni, lui a quell’età non si andava più a nascondere dietro le gambe della sua di madre, lui- quante volte Lucy l’aveva rimproverato per questo? Perché non chiedeva aiuto? Aveva chiesto aiuto troppo tardi, lui aveva- una scosse gli pungolò il cervello, il ricordo improvviso di sua madre che sollevava la parete crollata della sua casa sull’albero, poi quello di una sua sorella che l’afferrava per la maglia e lo lanciava letteralmente oltre il fiume, verso la bandiera. Un carck nella sua testa e l’immagine di una figlia di Ermes che accoglieva tra le braccia un fratello molto più grande di lei solo per sussurrargli che non era stata colpa sua, che la missione era impossibile. Perché stava ricordando quelle cose? Che c’entravano ora?
Barcollando Nathan si fermò, portandosi una mano alla testa e aprendo e chiudendo gli occhi nel vano tentativo di schiarirsi le idee.
Non sentì Úranus chiamarlo finché l’altro non gli poggiò una mano sulla spalla.
La reazione di Nathan fu immediata e violenta: afferrò il polso del compagno e lo torse, pronto a colpirlo per mandarlo a gambe all’aria, ma il suo piede si scontrò contro qualcosa di solido e quasi statuario.
Il figlio di Ares alzò lo sguardo sfocato ritrovandosi a fissare gli occhi di ghiaccio di Úranus, la presa sul suo polso era ferrea ma in quel momento si rese conto che il braccio dell’altro non era davvero torto e che ciò su cui aveva “sbattuto” non era altro che la gambe dell’Islandese.
 
«Sono io, Nathan. Sono Úranus. Calmati, quello che vedi e che provi non è altro che la scia del potere di Jonas.» lo disse con voce ferma, senza dar segno di soffrire la sua stretta o d’esser stato preso di sorpresa, d’esser spaventato o infastidito della sua reazione.
Il soldato annuì, o almeno ci provò, senza però mollare la presa sul braccio del compagno e usandolo invece quasi come sostegno. Úranus non diede segno d’essersene accorto, ma attese con pazienza che l’altro riprendesse un minimo il controllo, alternando lo sguardo tra lui e i due ancora stesi a terra.
Facendo forza sull’arto dell’Islandese Nathan drizzò la schiena e si schiarì la gola, dando un’ultima, leggera stretta come a volerlo ringraziare per non aver detto nulla, per non aver fatto una piega o rinfacciatogli che non solo l’aveva attaccato senza motivo, preso del tutto alla sprovvista, ma anche che lui, che doveva essere il più forte del gruppo, il soldato, il figlio di Ares, della Guerra, quello che più di tutti sarebbe dovuto esser bravo nei combattimenti, imbattibile, non era riuscito neanche a girargli un polso.
Che umiliazione, pensò d’improvviso, che schifo di sensazione viscida e bollente, un misto d’imbarazzo e rabbia, vergogna pura.
Lui doveva essere il più forte, il leader. Lui era un leader nato e invece- invece cos’aveva fatto fino ad ora? Si era fatto salvare il culo da Eliza nel Labirinto, dalla pazza psicopatica poi, se l’era fatto salvare dalla rompi palle, si era fatto riprendere al volo da lei, cazzo! Si era fatto salvare il culo da quel pezzo di merda di roscio malpelo e poi da forze sconosciute lì nelle fottute Praterie. Era una vera vergogna per suo padre e per i suoi fratelli, per la sua stirpe. E pensare- e pensare-
 
«Jonas? Ti senti bene, ragazzo? Riesci ad alzarti?» Úranus lo superò velocemente ma con una certa insicurezza, piegandosi in avanti con la palese intenzione di voler aiutare il ragazzino ma anche paura di peggiorare, per l’ennesima volta, le cose.
Nathan volse la testa per vedere il più piccolo di quello strambo gruppo battere le palpebre allucinato, gli occhi azzurri spalancati al massimo e poi stretti con forza. Pareva non riuscire a capire dove si trovasse, se fosse uscito da quel dannato ricordo o fosse ancora immerso nell’America di un paio di secoli prima.
Avrebbe dovuto fare qualcosa, Nathan se lo disse con fermezza ma non riuscì a muovere un solo passo, non riuscì neanche a girarsi con tutto il corpo, pietrificato in quella scomoda posizione che già iniziava a fargli dolere il collo. Era tensione, era pura tensione muscolare data da stress, da ansia, da panico.
Lui era il più forte, era il leader, doveva far qualcosa, doveva-
 
«Eliza?» domandò un’altra voce.
Lea si era avvicinata agli altri, teneva Jane stretta per la vita, quasi trascinandosela dietro.
Nathan la guardò aiutare la ragazza delle Praterie a mettersi seduta a terra, proprio vicino a lui, per poi correre verso Úranus e poggiargli una mano sul braccio, un sorriso gentile e sicuro a tirarle le labbra.
«Va tutto bene, sai che se riesci a calmarti andrà tutto bene. Fai solo respiri profondi e concentrati su quello. Dev’essere stato un ricordo bello forte, ma non sembrano feriti, nessuno dei due.» rassicurò il compagno. E le sue parole funzionarono, funzionarono alla perfezione perché Úranus prese un respiro profondo, chiuse per un attimo gli occhi e poi li riaprì puntandoli con fermezza su Jonas.
«Aiuterò Jonas, puoi occuparti tu di Elizabeth?» chiese cercando gli occhi dell’amica.
Lea gli sorrise con maggior entusiasmo. «Assolutamente, uno a me e uno a te, ai miei tempi avremmo detto “gioco di squadra”.»
Poi si misero all’opera.
Úranus aiutò Jonas ad alzarsi, ricevendo uno sguardo ancora confuso ma quanto meno grato dal ragazzino, che si girò subito dopo per controllare in che condizioni fosse Eliza.
Alla figlia di Nike bastò uno sfiorare di pelle da parte di quella di Apollo, Lea fece appena in tempo a metterle una mano in fronte che la mora spalancò gli occhi e, a differenza sua, di Nathan e di com’era sempre abituato a far lui, non provò neanche ad alzarsi nell’immediato.
Il soldato continuò a guardarli senza far nulla, la sua mente ancora preoccupata ad immagazzinare tutto, a trascrivere ogni singola sensazione, ogni ricordo, ogni frase, ogni brivido.
Lavoravano bene Lea e Úranus assieme, probabilmente lì in mezzo erano i due che più si avvicinavano all’immagine di “compagni”. Senza una reale ragione si ricordò che una volta, quando era al Campo, era compito suo dire agli altri componenti del gruppo cosa fare, come comportarsi. Una volta avrebbe gridato a Lea di soccorrere i feriti, ad Úranus di controllare che la zona fosse libera e avrebbe intimato a Jane di non rompere il cazzo e star ferma lì senza far danni.
Ora invece non stava facendo nulla, ora fissava i suoi compagni a corto di parole.
Non serviva. Lui era un leader nato e non serviva agli altri membri della squadra. Non conoscevano la gerarchia, non sapevano che avrebbero dovuto aspettare un comando, che un capo serve anche per valutare se le azioni da fare siano effettivamente fattibili o meno. Lea si sarebbe gettata verso Eliza e Jonas anche se fossero stati nel bel mezzo di uno scontro, anche se fossero caduti nelle sabbie mobili. Úranus l’avrebbe raggiunta in preda al panico, anche se questo sarebbe significato peggiorare le cose. E Jane…
Jane lo fissava con i suoi occhi vuoti e scuri, quei pozzi neri capaci d’inghiottirti e non lasciarti più andare. C’era il nulla in quelle iridi, il fottutissimo vuoto cosmico o qualunque altra cazzata sparassero quei pazzi complottisti che vedevano gli alieni anche nelle loro ombre.
Jane lo fissava e Nathan non poté far a meno di ricordare la frase di un qualche tipo famoso di cui chissà chi gli aveva parlato: Se guardi troppo dentro l’abisso, l’abisso guarderà dentro di te.
E l’abisso ora erano gli occhi della figlia di Ecate che, sinistra, gli sorrise senza gioia.
 
«Fa male, vero?» domandò con voce rauca e gracchiante.
Nathan non le rispose, congelato nel corpo come ora l’era nello sguardo fisso in quello dell’altra.
«Fa male quando ti rendi conto che nessuno ha più bisogno di te.» non era una domanda, non gli stava chiedendo se avesse visto giusto, se stesse rimpiangendo il suo passato, il suo vecchio ruolo. Glielo stava dicendo lei, che l’aveva vissuto sulla sua stessa pelle.
Il soldato si schiarì la gola, costringendosi a rispondere qualcosa, qualunque cosa. Inutilmente.
«Cosa c’è? Ti aspettavi che ti guardassero in cerca di aiuto? Che ti chiedessero cosa fare?» lo apostrofò con uno strano, nuovo scintillio nello sguardo. «Lei si è gettata in strada per salvare uno sconosciuto, nel bel mezzo di una rivolta. Lui si è fatto ammazzare per dar anche solo l’illusione della salvezza alla sua stessa madre.» con fatica Jane si tirò in piedi, barcollando malferma sulle gambe deboli. Lo guardò da basso, ma con un portamento fiero che mai le aveva visto in volto.
«Nella mia vita passata ho scoperto troppo tardi qualcosa di davvero importante: chiunque può dirci come comportarci, come vivere la nostra vita, il parroco della mia chiesa ripeteva sempre come Dio ci avesse lasciato tutte le leggi giuste per farlo.»
«I preti non hanno sempre ragione. Non ne hanno quasi mai.» sputò a forza.
Jane ghignò. «Non è questo ciò che ho scoperto. Quando i mei genitori sono morti, quando il mio mondo è crollato e nessuna buona e santa legge divina o terrena ha fatto giustizia per me, ho dovuto agire secondo la mia volontà. Ho aspettato che qualcuno facesse qualcosa, che mi venisse detto cosa fare, ma nessuno lo fa mai davvero, sai? Aspettare, ti fa solo morire più lentamente.» volse lo sguardo verso gli altri, a Jonas che ora era di nuovo seduto a terra, vicino ad Eliza che era riuscita a tirarsi su, a Lea inginocchiata lì vicino, controllando le loro condizioni; ad Úranus che li osservava benevolo e sollevato dall’altro. Poi si rivolse a Nathan. «Non sei speciale, nessuno di noi lo è. Solo perché sei stato addestrato a combattere, perché hai avuto la fortuna di nascere e vivere in un epoca in cui quelli come noi avevano un posto dove riunirsi ed esser salvi, questo non fa di te il nostro capo. Prendilo come il primo e anche l’ultimo buon monito che ti darò, figlio di Ares: è inutile caricarsi il peso del mondo sulle spalle, quegli sciocchi lì non te ne hanno mai lasciato sopportare l’interezza. Hai avuto la fortuna sfacciata di incontrare qualcuno che non si aspetta nulla da te se non ciò per cui ci siamo accordati.» ghignò ancora. «Non fasciarti la testa, bambino
Con un ultimo cenno si allontanò barcollante, inciampando quasi negli ultimi passi per esser sostenuta subito da Lea ed Eliza, persino Jonas ed Úranus si sporsero in avanti pronti ad aiutarla.
Nathan non sentì cosa si stessero dicendo, non provò neanche a farlo. Continuò invece a fissare il vuoto senza sapere davvero cosa fare.
Non aver tutto il peso sulle proprie spalle. Non aver nessuno che si aspetta che lui faccia il capo, che sia inscalfibile, imbattibile. Non aspettarsi nulla se non ciò che avevano concordato all’inizio: arrivare ad essere solo loro sette e poi combattersi a vicenda per raggiungere la cima, il fuori, la vita.
Da lontano Eliza alzò la testa cercandolo con lo sguardo. Quando lo trovò parve quasi tirare un sospiro di sollievo, come se avesse temuto d’aver perso anche lui.
Nathan non era abituato a non essere il capo, ma a quello, a quello sguardo sollevato, alla prontezza nel soccorrere un ferito, nel difendere qualcuno più debole, alla testardaggine, all’orgoglio, a quello sì che era pronto.
 
Compagni.
 
Forse, anche nella morte, Nathan ne aveva trovati altri.
Forse – di certo – anche nella morte, Nathan sarebbe stato pronto a combattere con loro fino alla fine.
 
Semper Fidelis.
 
«Nathan? Tutto bene?» chiese ad alta voce Eliza.
Lea gli lanciò un’acuta occhiata valutativa. «Cosa c’è? Devo venire a riprenderti al volo un’altra volta?»
«Credo stia bene, è solo un poco affaticato dalle visione avute.» disse Úranus con calma, pur non perdendolo di vista.
«Cazzo! Sono stato io? È colpa mia?» si preoccupò Jonas tirandosi su in ginocchia.
Jane, in fine, fece a mala pena una smorfia, senza neanche voltarsi, ma Nathan poté giurare che stesse ghignando ancora, la stronza.
Ascoltando il chiacchiericcio preoccupato dei suoi compagni, Nathan abbassò la testa e la scosse leggermente, scompigliandosi i capelli.


Era così allora?


«Allora? Devo seriamente venirti a prendere?»
 
Sorrise.

«Non rompere il cazzo, arrivo!» urlò di rimando quasi ringhiando.
Sperò che a quella distanza però, nessuno riuscisse a vedere come le sue labbra si fossero tese.
 

Oorah.
 

 
*
 


La stanza era silenziosa come al solito, non vi erano rumori particolari che risuonassero nell’ambiente arredato con semplicità. Davanti alla sua vecchia scrivania la poltrona sgualcita conservava ancora l’impronta di un corpo che, un tempo, soleva sedersi lì sopra raggomitolato su sé stesso come un gatto, un libro in mano e l’espressione distratta di chi era stato trascinato fuori da un altro mondo solo per rispondere a qualche banale domanda.
Giordano sorrise senza gioia, distogliendo lo sguardo dalla poltrona per poi abbassarlo sulle carte sparse sul piano.
Non era compito suo occuparsi di queste cose, non sarebbe dovuto esser lui il responsabile della burocrazia, ma Ade aveva rotto talmente tanto le palle con quella storia del “tua l’idea tue le grane” che, alla fine, aveva dovuto accettare di far qualcosa di poco divertente anche lui.
Il suo sorriso non si spense ma si tirò leggermente quando scorse una lastra di vetro sotto tutti quei fogli. La tirò fuori con gentilezza, osservando i colori traslucidi che brillavano fiochi sulla superfice. Dentro di essa, come imprigionata nello spessore del vetro, la mappa dell’Ade vibrava piano come lo sfarfallare pigro di un vecchio lampione.
C’era un’infinità di piccole luci che cospargevano le zone nere contornate da leggere linee rosse, lì dove le varie zone degli Asfodeli si dividevano per particolarità e utilizzo.
Poteva vedere chiaramente l’Area Cani, dove tutti i Mastini Infernali tornavano alla fine della loro giornata, quando qualcuno non si dimenticava di chiudere i dannati cancelli lasciandoli così liberi di scorrazzare ovunque.
Rise in silenzio, Giordano, ricordando quando era stato compito suo, una sua missione, aggiustare quella mastodontica rete e poi riportarci dentro tutti i mastini, uno per uno. Il caro Buio ancora tornava da lui ogni qual volta si riformasse negli Inferi. Gli mancava quel cane, forse avrebbe potuto chiedere ad Ade di lasciarglielo per un po’, per fargli compagnia.
Un tempo non avrebbe mai creduto di volerne, di averne bisogno. Un tempo non avrebbe mai creduto che, a poco a poco, tutti coloro che amava l’avrebbero lasciato.
 
La maledizione dell’ultimo.
 
Aveva accettato il suo destino da tempo, ne aveva accettato l’idea, certo, ma non in modo definitivo.
C’è sempre una scappatoia, c’è sempre un modo per riuscire lì dove nessuno crederebbe esserci possibilità.
Dio, sembrava Bas quando faceva quel genere di ragionamenti.
Giordano inclinò leggermente la tavola di vetro e la mappa scivolò di lato, spostandosi verso il confine Nord, sino alla Casa di Ade, lì dove aveva alloggiato per anni quando tutto gli era crollato addosso.  Un altro movimento del polso e la mappa scivolò di nuovo, tornando nell’infinito delle Praterie, lì dove una moltitudine di punti luminosi e colorati si affollavano in piccoli gruppi.
 
Semidei.
 
La salvezza e la condanna dei mondi, ecco cos’erano i figli degli Dei. Null’altro che scintillanti pedine nelle mani dei loro divini genitori, troppo annoiati dal loro stesso potere e sempre bramosi di ottenerne di più, troppo presi dal loro stupido ego per rendersi conto che quelle pedine non erano marmo o legno, non erano pietra o creta, ma esseri viventi, con sentimenti, paure, sogni.
Sogni… ne aveva tanti anche lui un tempo.
L’uomo posò delicatamente la lastra a terra e alzò la testa verso la stanza davanti a sé, senza prestare troppa attenzione al divano liso e alla coperta che vi era poggiata sopra, sorvolando sulle librerie e sul paravento di legno e stoffa che nascondeva il corridoio di sinistra. Gio tenne gli occhi fissi sulla porta a vetri aperta, quella che dava sul disimpegno da cui si accedeva al salotto, alle scale e ad un altro corridoio, scuro d’ombra e privo di luci.
Nel silenzio denso della sua stanza, dello studio, non gli fu difficile cogliere il rumore ritmico seppur leggero di passi, un qualcosa di soffice, come se il proprietario fosse a piedi nudi e camminasse solo in mezza punta. E Giordano sapeva perfettamente a chi potevano appartenere.
 
«Di solito, prima di entrare a casa di qualcuno, come minimo si bussa.» disse a bassa voce, sicuro che l’altro l’avrebbe sentito.
La larga falda del cappello apparve nell’anticamera prima ancora del bordo della lunga cappa. Ipno si tolse il copricapo e si strofinò i capelli già arruffati, gli occhi grandi e rotondi che lo fissavano con quella solita luce pallida che solo la luna poteva avere.
Gio aveva sempre trovato bellissimi quegli occhi: l’iride nera, scura come la notte senza stelle e la pupilla d’argento, un contrasto così forte da esser quasi fastidioso ma che, a lui, trasmettevano solo la magia di cui era intriso quel curioso figuro.
Ipno sorrise smagliante, facendo un buffo inchino e lanciando il suo cappello dritto sulla maniglia di una delle porte a vetro. Camminò sul pavimento freddo in punta di piedi, se non avesse saputo da prima di quella piccola particolarità, Gio avrebbe riso di gusto nello scorgere le unghie dipinte di nero.
«Mi avresti fatto entrare comunque, no? Ti ho risparmiato la fatica di venirmi ad aprire.» rispose con semplicità, avanzando nella stanza sino a lasciarsi cadere sul divano.
Afferrò la vecchia coperta e se l’avvolse attorno alle spalle, tirandosela sulla testa.
«Mi piace, me la regalerai mai un giorno?» domandò speranzoso.
Gio ghignò. «Certo, quando morirò.»
Il dio sbuffò lagnoso, stringendosi ancor di più nella coperta e lasciandosi cadere di lato. «Sei crudele! Lo sai che potrei chiamare Tan e chiedergli di venir subito a farti visita? Cosa ne diresti?» lo minacciò gonfiando le guance come un moccioso.
Giordano sorrise ancora, d’improvviso il lampo di una fila di zanne brillò sul suo viso, poi scomparve per lasciar posto la solito sorrisetto strafottente che gli era tanto caro da bambino.
«Ti direi che c’ha già provato. Parecchie volte. Sappiamo entrambi com’è andata a finire.»
Il silenzio li avvolse di nuovo, Ipno si sistemò meglio sul divano, lo sguardo puntato verso l’altro.
Oh, eccome se non lo sapeva, com’era finita. La prima volta, dopotutto, c’era anche lui.


«Credo di aver capito, sai?» mormorò il dio.
Giordano aveva riportato lo sguardo sulla sua lastra di vetro. «Come farmi fuori una volta per tutte? Credo che là su in sala se lo stiano chiedendo tutti da un po’.» rispose senza particolar inflessioni nella voce.
«Atena ne sarebbe felice. Forse anche Poseidone… ad Apollo e Afrodite dispiacerebbe un po’, forse anche ad Ermes. Era sarebbe quella che ci rimarrebbe peggio e Ares, beh, dispiacerebbe anche a lui credo.» annuì concorde ai suoi stessi pensieri. «Non so cosa ne direbbero Artemide, Demetra e Zeus, sinceramente. Efesto, dopo questo bel tiro mancino della gara, verrebbe a ballare sulla tua tomba.»
«E dove sarebbe?»
«Mh?» il dio volse il capo, sforzandosi di scorgere il volto dell’uomo dalla sua posizione. «Cosa?»
«Sai per caso dove sarebbe il luogo della mia sepoltura?»
La domanda rimase sospesa nell’aria, Ipno non aveva la più pallida idea di come rispondere. Si accorse solo in quel momento che, di fatto, non c’aveva mai pensato.
 
Ma è così assurda l’idea che Giordano muoia. È così assurda l’idea di un mondo senza di lui, seppur sia così breve il tempo trascorso con lui.
 
«Non lo so. A te dove piacerebbe?» si risolse a chiedere.
Gio ghignò. «Al Verano. Dici che lo trovate un posto per me?»
«Al cimitero monumentale? Non ti facevo così megalomane.» rise piano.
Lui scosse il capo. «Ci sono i miei nonni. Almeno sarei vicino a qualcuno della mia famiglia. Per una volta.»
A quelle parole Ipno si voltò a pancia in sotto, sostenendosi il capo con le mani, i gomiti puntati nell’imbottitura ormai non più così morbida del sofà.
«C’è sempre San Michele, non ti piacerebbe riposare per sempre sulla laguna?»
«E chi ci sarebbe ad aspettarmi lì? Non ho nessun.»
«Ma tua so-»
«Non è lì. Lo so io. Lo sai tu. Lo sanno tutti. Riposa nell’Ade.» fu l’ultima parola su quel discorso.
Gio si stiracchiò, allungando le braccia verso l’alto e poggiandosi poi allo schienale della sua poltrona girevole.


«Quindi: cosa hai capito? Devo far testamento o posso sperare di godermi ancora un paio d’anni di vita?»
 
Se così la si può chiamare.
 
Non lo disse nessuno dei due, ma entrambi lo pensarono.
Ipno spostò tutto il peso del suo capo su di una mano, schiacciando la guancia in modo comico ed infantile.
«Nah, hai ancora tempo.»
«Allora cosa?»
«Cosa cosa?»
«Cosa hai capito.»
«Oh! Credo di aver capito. Ho fatto una passeggiata nella Dimensione Onirica.»
Gio imprecò. «Cazzo, Ipno! Guarda che se rimani un’altra volta incastrato da quelle parti non ci vengo più a salvarti quel culo secco che ti ritrovi!»
Il dio scoppiò a ridere e si rigirò ancora sul divano, nascondendo il volto nel bavero del mantello e poi anche nella coperta in cui si era avvolto. Era morbidissima ed aveva dei colori fantastici.
«A me Aracne non ha mai fatto una coperta così bella.»
«A te Atena non sta sul cazzo tanto quanto sta a me.» gli fece notare l’altro ammiccando.
«Uh. Un punto per te figlio Delle Vie.»
Giordano sospirò. «Cosa ci facevi nella grande DO?» domandò ancora.
«Sembra che stiamo parlando di una qualche associazione segreta.»
«Se pensi che neanche voi dovreste metterci piede e che i vostri poteri lì dentro sono praticamente nulli, direi che ci sta come paragone.»
«Ma tu ci sei entrato e ci entri ancora parecchie volte. Lo hai detto tu stesso, sei venuto a recuperarmi un paio di volte ed io ero già molto esperto allora.» gli fece notare il dio.
L’uomo annuì. «Io ho amici che tu non hai. O meglio, posso esser più amico di quanto non potrai mai esserlo tu. Abbiamo storie simili, conosciamo le stesse emozioni, gli stessi dolori. Sono millenni che le Stelle non vedono più di buon occhio gli Dei. Di qualunque tipo oserei dire.»
«Già… ed è un peccato, sono esseri così antichi, così mistici. Potrebbero raccontarci cose che neanche i più vecchi di noi conoscono.»
«Ma non penso che tu abbia visto loro, giusto? Quindi, per cosa hai rischiato le tue belle chiappe bianche?» lo provocò scherzosamente.
Ipno si tirò su a sedere, ancora avvolto nel doppio strato del suo mantello e della coperta tessuta dalla giovane maledetta.
«Ho visto una vecchia stanza, una biblioteca di fortuna. Era in un vecchio edificio dal cancello cigolante, in un vecchio paese che ora non esiste più. C’erano tanti libri mal messi, quasi nessuno integro, nessuno nuovo. E c’era un bambino, con una grande camicia da uomo e gli occhi più belli che io abbia mai visto.» si fermò per un attimo, fissando il suo sguardo in quello di Giordano. L’uomo non accennò a distoglierlo ma Ipno era un dio e non gli fu difficile vedere altro oltre il velo lucido dell’iride.
«C’era il fuoco nei suoi occhi, vedeva cosa che nessun mortale avrebbe mai dovuto vedere e a mostrargliele era una donna velata.» concluse piano.
Il volto impassibile di Gio si piegò in un sorriso di scherno. «Non vorrei sembrare blasfemo, ma giuro di non averla mai incontrata la Madonna. Neanche in sogno in effetti. Tantissimi quadri, per carità, ma nessuna apparizione divina in cui la Vergine mi rivelava le verità della vita.»
Ipno sbuffò. «Era una Moira.»
«Spero non Atropo, è una stronza patentata quella.»
«Non penso, il suo volto era nascosto, ma sono sicuro mutasse.»
«Gira gira hai beccato Ecate?» domandò l’altro.
«So riconoscere mia cugina quando la vedo.» scosse il capo, «Ma non è questo l’importante. Non mi interessa sapere perché parlavi con una delle filatrici, quella scena… credo di aver capito cosa vuoi fare, piccolo Gio, ma temo anche che non ci riuscirai. È un potere più grande degli Dei stessi.» lo guardò con apprensione, quasi con paura. Ipno temeva per la sua vita, per la sua anima, per la sua esistenza.
Giordano però sorrise in modo quasi dolce e per un attimo Ipno rivide il ragazzino di quattordici anni, seduto sul bovindo della finestra, avvolto in una vecchia coperta utile solo a coprirlo dal vento e non dall’umidità devastante della laguna. Lo rivide con lo sguardo perso nel buio dell’acqua senza riflessi, mentre gli raccontava della sua famiglia, di quella che aveva lasciato oltre confine e che sperava, pregava, desiderava con tutto sé stesso ritrovare. C’era affetto, amore nelle sue parole, nella piega morbida delle labbra, nella rilassatezza dei suoi muscoli. C’era tutto ciò che da troppo tempo era sparito.
«Solo perché una cosa non è fattibile per voi Dei non vuol dire che non può esserlo per altri. Ricorda che c’è stato qualcuno prima di voi, ricorda che non siete gli unici, che non siete i soli. Anche la Dimensione Onirica esula dai vostri poteri.» gli fece notare con gentilezza.
Il dio continuò a guardarlo preoccupato, decidendosi in fine di alzarsi e raggiungere l’uomo in punta di piedi.
Non servirono parole, Gio spinse leggermente la sua sedia allontanandosi dalla scrivania e Ipno, leggero come le piume di suo fratello, come i petali dei suoi amati papaveri, salì sulle sue gambe come sarebbe salito su una qualsiasi seduta, rimanendo in equilibrio sui piedi finché Giordano non gli passò un braccio attorno alla schiena e lo accompagnò a poggiare la spalla contro il suo petto.
Rimasero fermi così, abbracciati, senza dir nulla.
«Una volta ero io a tener in braccio te. Eri così piccolo.» mormorò piano.
Gio poggiò la testa contro la sua spalla. «Mi hai regalato i sonni migliori, non credo di averti mai ringraziato.»
«Era l’unica cosa che potessi fare, dopo tutto ciò che l’Olimpo ti ha fatto. Vi ha fatto.» sospirò. «È un gioco pericoloso, Gio, ho paura che tu possa uscirne peggio di come ci sei entrato.» ammise.
«Ti preoccupi così tanto per me? Ne sono onorato!» rise bonario.
Ipno gli rifilò un pugno sulla gamba. «Sei il nostro umano preferito, ti abbiamo visto nascere, crescere, maturare. Siamo i colpevoli della tua vita.»
«Oh, non credo sia corretto, anzi, siete i fautori del ritardo della mia nascita. Ma ciò che ho fatto in vita, vorrei arrogarmi la superbia di dire che è stato tutto frutto delle mie scelte.» disse sicuro.
«Le rimpiangi?»
«Rimpiango tantissime cose. Ho rimorso di tantissime altre, ma so che anche per voi divinità è così. Da entrambe le parti.»
«E ne vale la pena?» domandò tirandosi su. «Gio, ascoltami seriamente, non sto scherzando. Quello che cerchi, se è davvero ciò che penso, non lo puoi domare, ti distruggerà, lo farà dall’interno e neanche Asclepio potrà salvarti. Per metter le catene ad un potere del genere non ti bastano due mesi di preparazione e qualche settimana di gioco, ci vuole tempo.» affermò puntando gli occhi in quelli brillanti dell’uomo.
E dentro vi vide le fiamme, le luci accecanti della galassia che gli apparteneva, del pulviscolo iridescente che era la sua esistenza all’interno della Dimensione Onirica, dove tutto c’era e nulla esisteva. Vi vide la vita vibrante di un essere che non era divino ma neanche mortale, vi vide la forza vitale che avrebbe potuto piegare mondi, distruggere dinastie antiche e potenti come quella della montagna di marmo e dell’antico albero, della Notte e dei Cieli.
Vi vide il filo della sua vita e si rese conto, forse per la prima volta, che in nessun caso, in nessuna linea temporale, il piano degli Dei si sarebbe potuto realizzare.
L’inizio e la fine erano filate assieme in un'unica, spessa, fragile corda. Giordano Delle Vie vi era completamente avvolto.
 
«Dove credi che sia stato io fino ad ora?» domandò a quel punto l’essere, stringendo affettuosamente la mano sul braccio di quello che era uno degli Dei a lui più vicino.
«Ma soprattutto, mio caro e fedele amico, quant’è secondo te, questo “tempo”? Perché è bene, per l’ennesima ed ultima volta, che voi Dei ricordiate che il “tempo” è l’ultima cosa che potrebbe mancarmi.»


 
*
 


Riavere il proprio ricordo era come mettersi in spalla uno zaino particolarmente pesante dopo averlo abbandonato per monto tempo. Eliza non era proprio sicura che il paragone calzasse, perché nel suo petto ora c’era un senso di pienezza, di completezza, che non ricordava d’aver mai avuto, ma finché rimaneva nella sua testa tanto bastava che lei stessa capisse i suoi stessi pensieri. Anche perché, forse, era una delle poche che riusciva a farlo in quel momento.
Di fianco a lei Nathan era silenzioso e mortalmente serio. Eliza non dubitava che ancora rimuginasse su ciò che il potere di Jonas gli avesse mostrato, sperava solo che non gli offuscasse troppo la mente. Era strano vederlo così… così… abbattuto. Guardando di sfuggita gli altri, che camminavano silenziosi dietro di loro, la donna si decise ad avvicinarsi al compagno. Con il capo eretto e lo sguardo puntato verso l’orizzonte, Eliza diede un leggero colpo di gomito all’altro soldato, attirando la sua attenzione con discrezione.
Con un grugnito indecifrabile Nathan alzò lo sguardo verso di lei.
 
«Ti senti bene?» domandò senza guardarlo.
Nathan grugnì di nuovo. «Non sono io quello che si è rotolato a terra per riprendere un moccioso apparentemente in fuga per poi beccarsi il proprio ricordo in pieno petto.» le fece notare alzando un sopracciglio.
«Vero. Così come non sono io quella che ha apparentemente avuto la visione della sua vita passata e di una donna amata. In effetti, io non ne ho di donne amate nel mio passato, ho visto mia madre solo due volte.» confessò senza vergogna.
Il terzo grugnito somigliava più ad un sospiro di sconforto. «Stai per dirmi che dovrei parlarne? Liberarmi di questo peso e andare avanti?» domandò come se fosse qualcosa che aveva già vissuto.
Eliza si strinse nelle spalle. «Solo se ti aiuterà ad essere più concentrato e non farti ammazzare prima del dovuto. Senza offesa verso gli altri, ma voglio essere io a prenderti a calci in culo alla fine di questa storia.» disse guardandolo con la coda dell’occhio e ghignando.
Anche l’altro si sforzò di farlo. «Ti piacerebbe, soldato
«Mi piacerà, soldato.» lo corresse lei.
Rimasero per un attimo in silenzio, la bussola divina di Nathan che li avrebbe dovuti aiutare a ritrovare la via verso la zona più popolosa del campo d’azione della prova, vibrava in continuazione, virando decisa verso le loro spalle, poi davanti a loro, fermandosi lì per un po’ prima di rimuoversi nello stesso giro.
«Era mia moglie.» disse poi d’improvviso Nathan.
Eliza annuì.
«L’ho trovata io. Nel senso, ce l’ho portata io al Campo. Era una figlia di Demetra. La rompi palle lì dietro l’ha conosciuta.» continuò indicando Lea con un gesto vago della mano.
 
«Che vuoi?!» gli chiese quella ad alta voce.
«Che ti fai i cazzi tuoi per una volta nella vita!» le rispose a tono.
 
Eliza gli rifilò un pugno sulla spalla per richiamarlo all’ordine ed Úranus cercò subito di distrarre l’altra.
«Che c’è? Se lo meritava.»
«Non fare il ragazzino.» l’ammonì solo.
Nathan sbuffò. «Jonas pure l’ha vista, apparentemente.» borbottò a bassa voce, nuovamente serio.
Ancora una volta, la mora annuì. «Sembrava piuttosto scosso da ciò che ha visto.»
La smorfia sul suo volto parlò per lui. «È morta prima di me.» deglutì. «Avrei potuto impedirlo.»
«Possiamo sempre impedire tutto. Tranne le catastrofi di Madre Natura.» mormorò con gentilezza Eliza.
Lo sguardo di Nathan era però di nuovo perso, lontano dalle Praterie, dalla Gara, dalla morte. Non voleva chiedergli altro, non voleva costringerlo a rivivere cose che sicuramente l’avevano ferito e lo ferivano tutt’ora, anche nella morte.
«Comunque,» proseguì d’improvviso l’altro. «ci siamo sposati molto giovani, non è che abbiamo passato poco tempo assieme. Solo che non è stato comunque abbastanza.»
«Lo è mai? Il tempo che ci è concesso assieme alle persone che amavamo, intendo.» domandò lei retorica. «Anche io avrei voluto passarne di più con mio padre, ma lui era un colonnello dell’esercito americano e non ha mai avuto la possibilità di vivere per molto tempo con me. Sono cresciuta senza di lui, la sua morte mi ha spinto ad arruolarmi.» raccontò ad agio, cercando un modo per far sapere a Nathan che lo capiva, sapeva cosa significava perdere la persona più importante della propria vita, perdere la propria famiglia.
Ma quelle parole sembrarono quasi sortire l’effetto opposto a quello sperato: Nathan deglutì a vuoto un groppo pesante come ferro e amaro come file. Non la guardò in faccia, non cercò il suo sguardo come faceva sempre con tutti coloro con cui parlava. Nathan aveva sempre guardato tutti negli occhi, senza mai abbassare la testa, senza mai vergogna o paura, ma in quel momento, se solo fosse stato possibile, Eliza avrebbe giurato di veder dolore e sensi di colpa nelle iridi azzurre.
«Anche tu eri in guerra, se non erro, così come mio padre. Eri a servire il tuo paese quando tua moglie è morta ed eri a servirlo anche alla tua di morte, non hai nulla da rimproverarti, nulla da rinnegare. Hai fatto il tuo dovere e sono sicura che lei l’abbia sempre saputo.» disse con serietà.
Nathan annuì vago. Rimase per un attimo in silenzio, camminando tra l’erba che via via sembrava diventar più bassa e rada. Prese un respiro profondo e si decise a rialzare il capo verso l’orizzonte.
«Com’è stato? Nel senso, come hai vissuto senza di lui? Avevi degli altri parenti, dei nonni magari?» domandò casualmente.
Eliza gli lanciò un’occhiata veloce e si strinse nelle spalle. «No, ero sola. Quando partiva per la guerra mi lasciava alla cura di una nutrice che veniva a controllarmi alla mattina e alla sera, che mi preparava da mangiare o mi accudiva se ero malata. Quando ero un’infante credo sia rimasto con me, i primi anni, ho vaghi ricordi di alcune donne della città che venivano a svolger le faccende, ad occuparsi di casa. Ma una volta cresciuta ero sola con me stessa. Altrimenti non sarei mai riuscita ad allenarmi, ai miei tempi era impensabile che una donna imbracciasse un’arma.» sorrise con nostalgia.
Nathan si girò definitivamente, l’espressione attonita. «Che cazzo vuol dire che eri sola?»
«Quello che ho detto. Nessuno si occupò di me quando mio padre morì, ero già in età da marito, alcune delle mie conoscenze erano già sposate e aspettavano il secondo o terzo figlio. Prima di allora, malgrado le visite della nutrice, ero comunque sola, non è stato un grande cambiamento per me, mio padre non c’era praticamente mai.» continuò tranquilla.
Nathan tentennò. «Ma- ma gli vuoi comunque bene. Gliene volevi comunque?» chiese come se non riuscisse a capire, se quello fosse un punto particolarmente ostico della conversazione.
«Certo che sì. Forse la mia era un’epoca troppo lontana dalla tua, ma non avevo molta possibilità di scelta. Mio padre era l’unico membro della mia famiglia, non avevo nessun altro, non avevo che lui da amare e anche se da bambina soffrii per i suoi lunghi viaggi, la sua lontananza, capii che non poteva farne a meno, che stava combattendo anche, se non soprattutto, per me. È per lui che sono diventata un soldato, è grazie a lui che ho imparato cos’è giusto e cos’è sbagliato, a combattere ed ergermi per la giustizia e la libertà.»
Il figlio di Ares distolse lo sguardo, quel trambusto di sentimenti che s’agitavano dentro di lui ancora non si era placato ed Eliza si chiese se continuare a parlare di guerra e di passato, di persone amate e perse, non avrebbe solo peggiorato la situazione.
Con un moto di decisione drizzò le spalle e guardò davanti a sé: l’erba si stava davvero diradando e ben presto, spingendo lo sguardo un po’ più in là, sarebbero arrivati a quello che sembrava un sentiero.
Dovevano tornare nella zona principale della quarta prova, lì dove avevano trovato quella moltitudine di sfere dei ricordi, comprese quelle di Lea e Nathan stesso. Sperò solo di trovar al più presto quella di Úranus e poi, se gli Dei avessero voluto, ritrovare anche Cade.
Senza rendersene conto portò una mano alla bisaccia legata al suo cinturone, lì dove la sfera completamente nera di Cade – che profumava di pioggia, metallo e mattoni bagnati, erba fresca e sangue – riposava al sicuro.
Dovevano riuscirci, dovevano ritrovarlo. Eliza aveva dovuto lasciare troppi compagni indietro durante la guerra, non avrebbe accettato di farlo di nuovo, non quando aveva la possibilità di portarli tutti con sé fino alla fine, indipendentemente dai dubbi che l’avevano assalita in precedenza.
Rallentò un poco, voltandosi verso gli altri del gruppo e attirando l’attenzione con un cenno del capo.


«Avete idee su come potremmo trovare Cade o la sfera di Úranus?» domandò afferrando anche il braccio di Nathan per farsi raggiungere dagli altri semidei.
Lea si accigliò. «Sinceramente non ho mai provato a cercare qualcuno e non so se i poteri di mio padre mi permetterebbero di farlo.» disse guardando Úranus come se lui sapesse qualcosa che loro altri ignoravano.
Il gigante annuì. «Il divino Apollo ne è senza dubbio alcuno capace, ma dubito questo sia un retaggio che gli dei passano ai loro figli, a meno che non sia il loro principale dominio.»
«Intendi dire che c’è un dio per le cose e le persone scomparse?» chiese Jonas scettico.
Nathan grugnì. «C’è un cazzo di dio per ogni cazzo di cosa.»
«Ancora mi stupisco della tua finezza.» lo riprese Lea. «Úranus, tu pensi di poter trovare uno dei due?»
«Forse il mio ricordo. Non so dirvi cosa manchi dalle mie memorie, ma se è un ricordo legato alla mia morte-»
«Se è legato alla tua morte allora dev’essere qualcosa di doloroso e penoso, perciò sì, penso proprio che potrai trovarlo. Sempre che tu non lo faccia esplodere.» freccio Jane.
Lea alzò gli occhi al cielo. «Non ricominceremo questa discussione.»
«Scusa ma, tua madre non è la dea della magia? Non dovresti sapere cose tipo, incantesimi o che so io, che ti permettono di fare di tutto?» s’intromise Jonas avanzando tra Eliza ed Úranus e guardando curioso la figlia di Ecate.
Quella fece per rispondere ma Eliza fu più veloce. «E non riprenderemo neanche questa di discussione.» stroncò sul nascere sia la ragazza che il soldato, già ghignante e pronto a replicare.
Jonas batté le palpebre perplesso. «Va bene, non chiederò nulla. Ma non vi aspettate che riprovi io.» mise subito le cose in chiaro, sfidando quasi gli altri a contraddirlo.
Jane sbuffò. «Per carità divina, nessuno di noi vuole farsi avvelenare la mente di nuovo.»
«Non vi ho avvelenato la mente!»
«Allora nessuno vuole farti entrare nella sua mente di nuovo.» replicò con una smorfia.
«E non entro nella mente di nessuno!»
«Okay! Okay! Jonas non legge la mente a nessuno e Jane non fa nessun incantesimo! Abbiamo capito, non mettetevi a litigare ora!» sbottò Lea. «Nathan? La tua bussola magica – O QUEL CHE DIAMINE È! Può trovare quanto meno Cade?»
Il biondo, che era stato pronto a ricordarle che la sua non era una fottutissima bussola magica, arricciò il naso in una smorfia del tutto infantile e poi scosse la testa. «Troppe fonti magiche.» borbottò.
«MAGNIFICO!» quasi gridò la figlia di Apollo alzando le mani al cielo. «Allora a quanto pare siamo da capo a zero!»
«Cosa facciamo con il capo?» domandò Úranus confuso.
«Un cazzo.» masticò a mezza bocca Jonas, le braccia incrociate al petto e la testa incassata tra le spalle.
Nathan annuì. «Giusto quello.»
 
Elizabeth guardò i suoi compagni con quello che, in vita, sarebbe stato sicuramente un principio d’emicrania. Ancora non poteva credere alla velocità con cui riuscissero a cambiare discorso, tono del discorso o sentimenti in così poco tempo. Ora erano tutti imbronciati come dei bambini e pronti a farsi battaglia se solo uno avesse detto qualcosa di sbagliato.
Sospirò. «Dobbiamo comunque provare qualcosa.» disse attirando l’attenzione su di sé. «Úranus potrebbe provare a rintracciare la sua sfera e- ancora non riesci a percepire Cade?»
Il rosso scosse la testa. «Mi spiace, ma non c’è traccia di lui, come se fosse sparito nel nulla.» La sua frase parve a tutti incompleta e se Jonas si morse la lingua per non chiedere altro, per non terminare la frase, Jane non si pose il problema.
«Come se fosse morto? Magnifico, quindi l’abbiamo perso!»
Con grande sorpresa di tutti le sue parole non suonarono minimamente ironiche quanto più scocciate.
Nathan la guardò quasi allucinato quando si rese conto che sembrava davvero un’affermazione carica di disappunto, quasi gli dispiacesse o-
 
Quasi come se desse per scontato che tutti noi facessimo parte di un gruppo e che perdere uno dei membri equivalga ad una cosa negativa.
 
Sogghignò. «Non dirmi che ti dispiace per lui.» la provocò divertito.
Jane lo guardò male. «Non mi dispiace per lui, ma se permetti, tra tutti quelli che potevano scomparire, è scomparso proprio l’unico che fino ad ora ha sempre dimostrato delle doti particolari. Ti sei già dimenticato quella strana pressione nel recinto dei cani? L’ha mandata via lui, è inutile negarlo o ignorarlo.» precisò con astio.
Ci fu un momento di silenzio generale, nessuno osò parlare, troppo presi a rimuginare su ciò che era successo nell’Area Cani.
Jonas deglutì a disagio. «Cos’era?» domandò e gli parve quasi d’aver posto quella stessa domanda anni e anni prima.
Inevitabilmente tutti alzarono lo sguardo verso Nathan, aspettandosi una spiegazione sensata, ma il giovane scosse la testa.
«Non so dirtelo con certezza. Ho svolto tantissime missione, di tutti i tipi, con ogni cazzo di mostro e in quasi tutti gli anfratti più schifosi di questo pianeta, ma non ho mai incontrato nulla del genere. La cosa più ovvia che mi viene in mente è che sia stato il potere di una divinità. Ma, di nuovo, non ho mai avuto il piacere di combattere contro un dio, quindi ‘cazzo ne so?»
Con uno sguardo di biasimo Jane fece schioccare la lingua e si voltò verso Úranus.
«E tu? Che hai da dire?»
L’uomo annuì. «Sicuramente era l’influsso di dio, ma non saprei proprio dire di chi. L’unica cosa che mi torna alla mente è un evento del mio passato, mio padre che giunge in mio soccorso durante una caccia particolarmente sfortunata in cui dei mostri avevano fiutato il mio odore. L’aura di mio padre, quando è apparso nella radura… in qualche modo quello strano vento, quell’incredibile pressione me l’ha ricordato. Ma ugualmente, esso era diverso da quel potere. Mi domando solo…»  si bloccò e guardò Nathan preoccupato, ricevendo di rimando solo un alzata di sopracciglio ed un gesto che, probabilmente, voleva invogliarlo a parlare. «Nathan, sapresti indicarmi la direzione in cui la tua bussola avverte la fonte divina più potente?» chiese gentile.
Il soldato continuò a guardarlo palesemente confuso da quella richiesta, ma eseguì. Lanciò uno sguardo alla sua bussola impazzita, che puntava in continuazione in posizioni diverse, forse per colpa di sfere di ricordi che ancora venivano trovate o distrutte. Durante quelle interferenze però, l’ago virava fortemente alla sua sinistra, verso la direzione da cui arrivavano, per poi puntare a destra, dove si stavano effettivamente dirigendo, ed in fine in una qualche direzione intermedia tra sinistra e le loro spalle. Glielo disse.
Úranus annuì. «Punta a sinistra perché è dove si trovano i Mastini Infernali.»
«Se sono tutti riuniti lì faranno un bel polverone magico presumo.» disse Lea sporgendosi per sbirciare nel quadrante della bussola. Nathan si tirò indietro velocemente, portando l’oggetto al petto come un bambino che non vuole condividere il suo giocattolo con un amico.
«In linea d’aria dovrebbe esserci anche la Casa di Ade, venivamo da quella direzione e non mi pare ci fossero grandi curve o deviazioni.» s’intromise Eliza, alzandosi in punta di piedi quasi potesse scorgere il lugubre ed enorme edificio che era la dimora primaria del dio dell’oltretomba.
«E a destra? Dove stiamo andato cosa c’è?» domandò Jonas.
A quelle parole seguì un attimo d’imbarazzo generale, Jane scrutò i volti dei suoi compagni e poi, con un verso quasi divertito sorrise al ragazzino.
«Se dovessi indovinare dalle loro facce, direi che da quella parte ci sono i Campi Elisi. È normale che nessuno di noi due lo sapesse. Mi sorprendo invece che questo gentiluomo qui si sia fatto scrupoli a dircelo.» ghignò in direzione di Nathan.
Il biondo, per buona misura, gli fece il dito medio.
«E che dovrebbe significarmi?» domandò Jane per nulla colpita.
Nathan imprecò. «Nessuno ti ha mai mandato a ‘fanculo? Seria? Ahi!» si voltò poi verso Eliza ma quella indicò con un gesto vago Lea che lo fissava malissimo.
«Non osare più far certe velleità a nessuno e soprattutto non davanti a Jonas!» lo sgridò indignata.
Il ragazzino s’accigliò. «Ehi, perché non davanti a Jonas? Lo so cosa vuol dire! Non sono un moccioso delle scuole elementari!» Protestò altrettanto indignato.
«Oh, sei ancora troppo piccolo per queste cose.» insistette la ragazza scuotendo il capo.
«Ho sedici anni!» quasi gridò, la voce acuta e petulante proprio come quella del bambino che giurava di non essere.
«Ma sì, chissà che ha visto in vita! I giornaletti erotici c’erano già ai tuoi tempi?» domandò poi improvvisamente preso dall’argomento.
Se Jonas avesse ancora avuto sangue in corpo sarebbe arrossito in maniera così repentina e violenta da farsi prendere dai giramenti e rischiare di finire con il sedere a terra.
E forse non aveva più tutto il suo sangue, ma il calore che avvertì di punto in bianco sulle guance era qualcosa che non credeva più di ricordare, era qualcosa di assolutamente sbagliato e sconcertante. E lo era per tutti loro: Nathan lo fissava come se gli fossero appena uscite un paio di corna, gli occhi sgranati e la bocca socchiusa. Jane invece fece un salto indietro, muovendosi rapida come Eliza che però, a differenza sua, il balzo lo fece avanti, allungando una mano in direzione del ragazzo, indecisa se toccarlo o meno malgrado gli si fosse gettata contro senza neanche pensarci un attimo prima. Úranus sembrava invece esser stato strappato dal profondo dei suoi pensieri, colpito da uno schiaffo in pieno viso, il volto attonito e gli occhi che non smettevano un secondo di spostarsi dalle guance al naso, dal collo alla fronte, dagli occhi ugualmente sgranati di Jonas alle labbra tremule e spalancate per la sorpresa. Lea ridacchiò imbarazzata, fallendo completamente nel comprendere lo stato di shock degli altri.
«Non sono domande da fare, Nathan. Non vedi come l’hai messo a disagio? Non preoccuparti caro, non devi rispondere a questo zotic-»
«Ti pare il caso?!» gridò Jane con voce acuta. «La sua faccia! La sua facci è-»
Elena alzò gli occhi al cielo. «Suvvia, è solo arrossito un po’! Sono cose che succedono quando ci si-»
«No che non succedono! È arrossito! ARROSSITO! Non possiamo arrossire! Serve il sangue, il fottutissimo sangue! Siamo morti cazzo!» abbaiò Nathan senza curarsi minimamente d’abbassar il tono, in quella landa dimenticata dagli Dei.
Lea a quel punto tacque, rigida e silenziosa come una statua di sale, come una di quelle delle famosa Medusa, trasformata in pietra nel momento di massimo turbamento. Un turbamento che, a ben vedere, differiva completamente da quello dei suoi compagni.
Eliza spostò con lentezza lo sguardo da Jonas, con le guance ed il collo ancora paonazzi, alla figlia di Apollo. Non sembrava minimamente toccata dal fatto che il ragazzino fosse effettivamente arrossito, quanto dal fatto che non si era resa conto dell’implicazione della cosa. No, non proprio questo.
 
Non si è resa conto della nostra reazione, non ha capito perché ci siamo scandalizzati così tanto.
 
Rimase a guardare la compagna, mentre gli altri continuavano a discutere freneticamente di come fosse possibile che Jonas fosse effettivamente arrossito in quel modo.
 
«Lea?» domandò Eliza con voce calma e neutra.
Quella sola parola ebbe il potere di zittire tutti gli altri, persino Jonas che, con le mani premute sulle guance, si ripeteva come un mantra quanto fosse imbarazzante che questo genere di cose gli dovessero succedere anche da morto, non erano forse bastate tutte le umiliazioni della vita? Ora arrossire come una donnicciola pudica proprio davanti ai suoi ipotetici compagni di viaggio.
La bionda guardò l’altra come persa.
«Non ti sembra strano.» continuò quella.
«Che cazzo di domanda è?»
«Non lo è.» sentenziò Eliza, «Non è una domanda. A Lea non è parso strano che Jonas potesse arrossire. Non le è parso strano che- abbia effettivamente del sangue in corpo.»
«Quale corpo? Non ho più un corpo. Sono un’anima, il mio corpo è rimasto sulla terra, sepolto al cimitero di Berlino presumo…» finì con un fil di voce.
«Cosa significa?» domandò cautamente Úranus guardando l’amica. «Lea?» domandò ancora.
La figlia di Apollo lì guardò uno ad uno, soffermandosi poi a fissare l’islandese. «No, non è strano. Non avevo pensato che fosse possibile in effetti, credo che sia solo un rimasuglio delle mie abitudini da viva ma…pensateci, possiamo svenire, possiamo bruciarci e curare le ferite. Abbiamo il fiatone se corriamo troppo ed è inutile ripeterci che non è possibile perché siamo morti, è solo un effetto placebo, la nostra mente accetta la spiegazione sul momento, crede davvero che sia solo un’impressione e-»
«Stai parlando a vuoto.» soffiò Jane assottigliando lo sguardo. «Parla chiaro, cosa stai dicendo?»
Lea sbuffò, le spalle basse. Poi prese un respiro profondo e si rivolse a Nathan ed Eliza.
«Quando vi siete iscritti, avete firmato un foglio con una penna a cui non serviva il calamaio.» disse.
Nathan imprecò.
«L’inchiostro era rosso, era il nostro sangue.» indovinò con facilità Eliza.
Lea annuì. «Non c’avevo pensato davvero, o almeno non fino all’uscita dall’Area Cani, quando-» si bloccò e si morse un labbro, palesemente indecisa se parlare o meno.
Nathan imprecò di nuovo. «Smettila di farti prendere da stupidi sensi di colpa! Sì! Dovevi dircelo decisamente prima. No! Non ti terremo il muso come dei fottuti mocciosi per questo.»
«Non è quello che mi preoccupa!» gli urlò contro la bionda. «Ma ho fatto una promessa e non so se voglio o posso infrangerla.» sbottò in fine.
«Una promessa? E a chi?» chiese Jonas sempre più confuso. Ma lo sguardo di Lea, colpevole e dispiaciuto, fisso nel suo, gli fece facilmente intuire la risposta.
«Cade lo sapeva?» chiese scioccato. «Sapeva che potevamo sanguinare e non ha detto nulla?» il ragazzino batté le palpebre a corto di parole. «Mi ha fatto combattere contro un tipo nel Labirinto. Diceva che dovevo imparare a fare a pugni davvero… lui- mi ha fatto combattere contro qualcuno sapendo che mi avrebbe potuto ferire?» mormorò più a sé che agli altri.
Ma Lea scosse la testa, avvicinandosi a Jonas e cercando di prendergli le mani. Quando quello si spostò come scottato l’infermiera non batté ciglio.
«No! No, assolutamente no! Non lo sapeva. Nel Labirinto ancora non lo sapeva. Da quel poco che mi ha detto l’ha scoperto dopo.» spiegò dolcemente.
«E quando cazzo sarebbe questo dopo?» incalzò Nathan sempre più incazzato.
Lea sospirò. «Fuori dal Labirinto. Ha detto che stava guardando chi c’era in giro e l’occhio gli è caduto su di un uomo particolare. Stava giocando con il suo coltellino, si è distratto guardando quell’uomo e la lama è scattata per errore. Si è ferito così. Usciti dall’Area Cani mi ha chiesto se sapessi mantenere un segreto e se potessi curargli la mano, ma a questo punto posso dire d’esser stata in grado di fare solo una cosa.» sbuffò avvilita.
Gli altri la guardarono senza proferir parola, finché Jonas, scosso, non mormorò piano.
«Non mi ha detto nulla… perché non mi ha detto nulla?»
«Perché è una testa di cazzo. Chissà dov’è finito quel figlio di puttana! Ora come ora potrebbe essere morto! Potrebbe star a morire dissanguato in questo preciso istante in qualche fottuto posto di merda!» gridò ancora Nathan calciando la terra e sollevando una nuvola luccicante.
Jane deglutì. «Quindi, quando siamo stanchi, quando ci sentiamo affaticati… lo siamo davvero?»
Lea scosse la testa. «Non è proprio così, io- so che può sembrare strana come cosa ma, ho come l’impressione che stia progredendo.»
«Cosa intendi?» domandò Úranus.
«Che più andiamo avanti più questa situazione s’intensifica. Quando scappavamo da quel pellerossa eravamo affaticati, ma non così tanto. Quando scappavamo dai Mastini…»
«Lo eravamo di più.» disse secca Eliza. «Più si va avanti nelle prove più si recupera una parte di sé.»
«Questo spiegherebbe perché Jonas sia svenuto.»
«Ehi, sei tu quello che è caduto a terra come una pera.» ringhiò il diretto interessato.
«E tu quello che si è fatto prendere da un attacco di panico, sbaglio?»
«E io sarò quella che vi prenderà entrambi a calci se non la smettete subito.» sbottò la soldatessa. «Perché Cade ti ha chiesto di non dircelo? Hai detto tu stessa che te l’ha chiesto, giusto?»
Prendendo un altro respiro Lea guardò i ragazzi con una strana nota di dolcezza e malinconia nello sguardo. «Non voleva che questo influisse sulle vostre azioni, sulle vostre speranze. Non voleva che arrivati davanti al precipizio vi fermaste per paura di ferirvi invece di saltare. Ha detto- forse vi sembrerà sciocco da principio ma poi, ripensandoci avrà molto più senso- mi disse che non voleva che smetteste di credere nella possibilità di tornare in vita. Mi ha fatto un discorso molto più ampio, parlando dei bambini che non hanno paure e- penso semplicemente che non volesse spaventarvi.» concluse sorridendo gentile.
«Ma a te l’ha detto.» insistette Jonas, come se fosse quello il punto focale della situazione e non il fatto che Cade avesse cercato di proteggerli tutti da una scomoda verità.
Lea gli sorrise ancora. «E sono sicura che presto l’avrebbe detto anche a te.»
«Cazzate.» sbottò il più giovane. «Non mi avrebbe mai detto niente finché non sarebbe stato impossibile nascondermelo! Perché ha questo stupido complesso del fratello maggiore che deve proteggere tutti e prendersi i rischi più grandi, aiutare gli altri, consolarli!» continuò con foga, amareggiato, arrabbiato e forse anche rattristato.

Perché la gente non mi dice mai nulla?
 
«E ti pare un motivo per farti venire il sangue acido?» gli domandò d’improvviso Jane, fredda e caustica, con gli occhi socchiusi dalla pesantezza di una rabbia ancora più grande della sua.
«Mi ha mentito!» replicò Jonas.
«L’ha fatto con tutti! Ma direi che da quando lo conosciamo è la cosa più gentile ed educata che abbia fatto nei confronti di tutti!»
Gli altri ragazzi guardarono sorpresi la figlia di Ecate, increduli che tra tutti fosse lei quella che stesse prendendo le difese di Cade. Non che Eliza o Nathan non si sentissero in qualche modo feriti  dalla decisione del rosso, o arrabbiati anche loro per buona ragione, ma era evidente che questa mancanza non li avesse colpiti nel profondo, nella fiducia, così come aveva fatto con Jonas.
Eliza guardò il ragazzino con apprensione, improvvisamente consapevole d’aver sottovalutato il legame che si era già formato tra il compagno scomparso ed il piccolo del gruppo.
«Cosa ne puoi capire tu?» ringhiò Jonas con lo stesso tono freddo.
«Oh, cosa ne posso capire io? Vuoi sapere cosa posso capirne di tradimenti? Di gente che non ti dice la verità? Bene, senti questa come ti suona: ho scoperto che i miei genitori non erano i miei genitori il giorno della morte di mio padre e lo stesso in cui è morta mia madre. Non è stato nessuno dei due a dirmelo e non ho potuto chiedere spiegazioni. Ringrazia Dio, gli Dei o chi ti pare che tu, almeno, hai la possibilità di rivedere lo stupido rosso e dargli un pugno in faccia per averti mentito! O quanto meno non hai passato la vita a credere a qualcosa di falso!» sputò con tutto l’astio che aveva in corpo, con tutta l’amarezza e quel dolore sordo e lontano che mia l’aveva abbandonata. 
I semidei la fissarono ammutoliti, improvvisamente più consapevoli di uno dei possibili motivi per cui Jane era ciò che era, schiva, chiusa, cinica, crudele a tratti.
Jonas dentro di sé sentiva solo una tristezza infinita ed un vuoto chiuso a forza nella cassa toracica. Era stanco di sentire storie tristi, di vedere il dolore negli occhi della gente. Era stanco di rimaner scottato dagli eventi, di scoppiare in uno dei suoi classici e tanto odiati sfoghi per poi esser riportato all’ordine a suon di storie vecchie di morti e abbandoni. Era stanco di sentirsi ogni volta come un moccioso che batte i piedi per una stupidaggine davanti a problemi più grandi quando per lui, il fatto che Cade non gli avesse detto una cosa del genere, era basilare. Aveva condiviso un segreto con Lea e non con lui, mente tutto il resto, tutte le altre storie di famiglia, di amici, di scorribande, le aveva raccontate solo e soltanto a Jonas.
Gli aveva mentito su una cosa, l’unica persona di cui si fidasse completamente lì in mezzo, gli aveva mentito sulla loro stessa essenza, sul loro stesso essere.
Quante altre volte avrebbe potuto farlo? Quanti segreti gli nascondeva?
 
 
“E tu, ragazzo? Tu cosa gli nascondi? Cos’è che taci? Qual è questo grande segreto? Non voler far soffrire una persona è un crimine maggiore del negare il proprio passato, le proprie scelte, il proprio essere?”
 
 
Jonas s’irrigidì, deglutendo a forza, conscio per la prima volta che il dolore alla gola poteva esser vero e non solo l’illusione di un ricordo passato. Volse piano il capo da una parte all’altra, cercò qualcosa, qualcuno, ma solo il nulla lo circondava.
I suoi compagni non lo guardavano, tutti troppo presi a ragionare su ciò che Jane aveva appena detto loro e Jonas non voleva sembrare estemporaneo, non voleva che gli altri pensassero che stesse cercando di cambiar discorso, di svicolare, ma voleva anche dir loro di quella voce, di ciò che gli aveva detto perché sì: ormai era chiaro che quella fosse una voce estranea e non i suoi sensi di colpa.
Ma proprio quando stava per aprir bocca, per dire anche solo una misera parola, Jane alzò gli occhi al cielo e grugnì esasperata.
 
«Non l’ho detto per farvi ammutolire tutti quanti, anche se, a saperlo prima l’avrei già fatto. Non guardatemi con quello sguardo pietoso o dispiaciuto o quel che diamine è. Non mi interessa la vostra pietà né le vostre parole di conforto.»
Nathan la guardò allibito. «Ma vaffanculo!»
«Ecco, questa è già una reazione più apprezzata.» ghignò con una smorfia quasi schifata.
«La pietà è un sentimento molto nobile, aver dispiacere per ciò che è accaduto a te e alla tua famiglia non è un gesto irrispettoso, te lo assicuro.» provò con più garbo Úranus.
«Oh, vuoi dire che ora ti dispiace di avermi fatto rivivere quei momenti?» lo sfidò lei.
Il rosso la guardò con più freddezza. «Chiedo perdono per la mia franchezza, ma te lo meritavi.»
Una risatina a mala pena trattenuta uscì a forza dalle labbra di Nathan. «Cazzo, non credevo mi potessi diventare così simpatico, Golia.»
«Per favore, possiamo tornare sul punto focale della faccenda?» domandò Eliza chiudendo gli occhi e respirando profondamente.
 
Respirare, ora forse saremo costretti a farlo.
 
«Più ci addentriamo nelle prove, più il nostro spirito si trasforma in corpo.» continuò seria.
Elena annuì, ma non propriamente convinta. «Credo che per il momento non si possa davvero parlare di corpo concreto.»
«Ma ci succede quello che succede alle persone vive: ci sentiamo male, abbiamo attacchi di panico, attacchi respiratori, sveniamo, la carne bruciata puzza di carne bruciata, i corpi possono essere feriti, sanguinano, abbiamo reazioni emotive visibili. Non avremmo ancora il nostro corpo ma abbiamo un bel po’ di grane del genere, non credete?» sbuffò Nathan alzando un sopracciglio. «Mi sono dimenticato nulla? Qualcuno ha mal di stomaco? Avete vomitato mai? Oltre a roscio malpelo a qualcun altro ha sanguinato qualcosa?»
«A me viene da vomitare fin troppo spesso in effetti…» borbottò Jonas.
«Ti senti pure male un po’ troppo spesso.»
«Almeno io non sono mai caduto a terra, costringendo una ragazza a riprendermi al volo.» gli rinfacciò ancora il più piccolo senza pietà.
«Possiamo gentilmente smetterla di dire “è una ragazza”, “come una ragazza”, “solo perché sei una ragazza”? Vorrei farvi notare che Eliza ha spedito giù lunghi entrambi voi omaccioni e che la ragazza che è stata “costretta” a riprenderti al volo sono proprio io.» li guardò minacciosa ed esasperata in egual misura.
Nathan sbuffo infastidito rivolgendosi poi verso Eliza. «Dovremmo aggiungere all’equazione il tipo che ti ha parlato nella testa?»
A quelle parole Jonas si diede del deficiente: anche Eliza aveva sentito la voce di un uomo nella sua mente e-
 
Anche Cade!
 
«L’ho sentita poco fa.» disse di getto, improvvisamente attivo, improvvisamente sovreccitato da quel pensiero, da quella scoperta. «Dopo che Jane ha smesso di parlare, mentre riflettevo su- su cose, ho sentito la voce di un uomo farmi una domanda! Sta succedendo a tutti! È successo anche a Cade! Prima, quando si è alzato il vento e poi lui mi ha raccontato della sua famiglia e diceva che erano le Praterie ma se non fosse così? Se fosse stato quell’uomo e-»
«Woooo! Frena il cavallo.» lo bloccò Nathan. «Hai appena sentito una voce nella testa? Perché dalle mie parti si chiama coscienza.» disse retorico.
«E a casa mia si dice che non puoi sapere cos’è successo se non l’hai vissuto. Non era la mia voce, grazie Nathan, sono morto giovane, non stupido. Era la voce di un uomo e io… io credo d’averla già sentita.» tutta la foga di quel momento si spense nel disperato tentativo di ricordare qualcosa, qualcosa che doveva essere importante, che non avrebbe mai dovuto dimenticare.
 
Dimenticare… ho scordato qualcosa nella gara in cui ci sono stati rubati dei ricordi…
 
Senza rendersene conto la mano destra salì lentamente a toccare il gioco di metallo che portava attorno al collo, lucido e splendente monito di ciò che era stata la sua pena in tutti quegli anni.
Eliza lo guardò preoccupata e cercò subito lo sguardo di Nathan ed Úranus per capire se loro sapessero qualcosa.
Il soldato scosse la testa. «Non è mai un buon segno quando senti una voce non tua nella testa. Non posso dire che non sia successo anche a me. Ora intendo, da morto.»
«Hai sentito una voce? Ti è parso d’avvertire qualche potere divino?» chiese Úranus ansioso.
Nathan scosse il capo. «L’ho sentita mentre aspettavamo nell’Area cani che Eliza e Cade riuscissero ad avvicinare un Mastino Infernale, prima d’incontrare voi.» si fermò a ragionare, «Cosa ti ha detto?» domandò poi serio a Jonas.
Il ragazzino fece una smorfia. «Mi ha chiesto perché fossi così colpito dal fatto che Cade mi avesse nascosto qualcosa, se- se fosse così terribile che qualcuno mentisse per non far soffrire gli altri.» concluse a testa bassa.
«E…?» lo incalzò Lea. Allo sguardo confuso del ragazzino gli sorrise, «Magari non eravamo fratelli di sangue, ma Giuseppe ed io siamo stati comunque una famiglia, per di più sono anche un’infermiera, so riconoscere quando qualcuno non dice tutto.»
«Mentire adesso non serve a nulla.» disse Eliza.
«Non ho mentito!»
«No, hai omesso.» concesse Lea, «Cosa ti ha colpito di più?»
Mandando giù un groppo fin troppo amaro Jonas si disse che sì, non aveva senso nascondergli quelle parole, tanto erano generali, non insinuavano nulla, non specificavano nulla… forse sarebbero addirittura risultate utili.
Prese un respiro profondo e alzò la testa, preda di una sicurezza e di una dignità che non credeva di poter avere in quel momento.
«Mi ha chiesto perché mi toccasse così tanto quando anche io gli avevo nascosto cose del mio passato.» disse sicuro.
Jane sorrise senza gioia. «Chi non ha peccato scagli la prima pietra.»
Elena la guardò come se quelle parole fossero profetiche e annuì, senza però parlare.
«A me ha chiesto se fossi così debole da aver già raggiunto il mio punto di rottura, se non era arrivato “il mio momento”, qualunque cosa volesse insinuare.» storse il naso. «Se mi fossi accorto solo ora che non sono “l’eroe di tutti”.» terminò con voce amara.
Eliza lo guardò con serietà. «A me invece se fosse giusto dar per disperso un soldato non appena è partito per la guerra. Ci ha colti tutti e tre in un momento di debolezza, nel momento in cui abbiamo smesso di credere in qualcosa o qualcuno.»
«O quando ne avevamo bisogno.» sussurrò Jane. «Credo che sia l’uomo che mi ha chiamata “coccinella”. Mi ci chiamava mio padre. Ho sentito anche io una voce dirmi qualcosa. È stato un attimo di debolezza, ho rimpianto un gesto che proprio mio padre faceva spesso e questa voce, quell’uomo, mi ha detto che il mio fastidio era gelosia. È lo stesso che mi ha dato il biglietto, ne sono sicura, così come sono sicura che sia lo stesso che hai visto tu e che ti ha fatto trovare il ricordo di Cade.» disse in fine rivolta ad Eliza.
Nathan, per buona misura, imprecò, si era quasi dimenticato del tipo che aveva dato il biglietto ad una ed il ricordo all’altra.
«Cazzo! Cazzo! Cazzo!» continuò pestando di nuovi i piedi a terra.
Úranus, intanto, annuiva cupo. «Dev’essere per forza una divinità, o come minimo un qualche essere divino. Un essere umano non potrebbe mai far una cosa del genere.» confermò le sue ipotesi precedenti.
«Presupponiamo che sia sempre la stessa persona, la stessa voce? Per tutti quanti?» domandò Eliza.
Jonas si strinse le braccia al petto, ansioso. L’unico essere divino con cui aveva parlato era stato Ipno, che aveva mutato il suo giogo in un monile e gli aveva regalato un papavero che si era stupidamente perso. Gli spiaceva per il fiore, non era una cosa essenziale ma gli aveva lasciato come un senso di tristezza. La voce che aveva appena sentito però non era quella del dio. Eppure, era sicuro, sicurissimo, d’averla udita da qualche altra parte. Ma dove?
«Bassa, calda, di un uomo fatto e finito, non di un ragazzino.» la descrisse Jane.
Gli altri annuirono, «Le caratteristiche paiono quelle.» convenne la figlia di Nike. «Ma cosa vuole da noi?»
«Siamo in una fottutissima gara e se ti fosse passato di mente, Eolo ha detto che gli Dei possono “votare”. Abbiamo già appurato che i semplici mortali stanno via via scomparendo in favore dei semidei, non la vedo una cosa così assurda che qualche altro dio abbia mandato un suo sgherro ad aiutare i suoi favoriti. Sicuramente avranno scommesso qualcosa quei dannati bastardi e non vorranno certo perdere.»
Lea guadò Nathan scioccata. «Credi che ci stiano aiutando per vincere? Quindi…potrebbero essere i nostri genitori?»
«Escludiamo la mia e quella di Eliza.» sbuffò Jane. «E non rimaniamo qui fermi come degli sciocchi! Muoviamoci, in una qualunque direzione, ma muoviamoci per l’amor del cielo!» alzò le mani al cielo e poi lasciò cadere pesantemente le braccia lungo i fianchi, afferrando la sommità della gonna logora e incamminandosi verso una direzione a caso.
Eliza si affrettò a riprenderla per un braccio ed indirizzarla verso la strada che stavano percorrendo prima.
«L’erba si abbassa, sembra che si formi un sentiero, andiamo di qui.» fece cenno a tutti di continuare a camminare e gli altri annuirono mesti, pensierosi e cupi.
Rimasero in silenzio, ognuno chiuso nei suoi pensieri, ognuno impegnato a soppesare ogni possibilità, ogni futuro e ogni passo fatto in passato.
Erano davvero solo pedine nelle mani degli Dei? C’era una vittoria che fosse solo loro o erano riusciti in ogni prova solo per grazia divina? Ma soprattutto: cosa ci guadagnavano gli Dei a far vincere l’una o l’altra anima?
Nathan si passò la mano sugli occhi, l’altra ancora stretta fermamente attorno alla bussola. Avrebbero dovuto parlarne con calma una volta ritrovati tutti e invece si erano persi in mille cazzate. Gli ci mancava solo fare il cane da corsa ora, con tanto di puntate e tifo incallito. Ma ora sapeva per certo che se durante la corsa fosse caduto avrebbe rischiato di non rialzarsi più. Tutti quei fastidiosi e sadici “tanto sei già morto” che Jane aveva ripetuto un po’ a tutti un po’ troppo spesso, persero improvvisamente ogni significato. Erano già morti una volta, ma apparentemente, potevano farlo ancora.
Strinse di più la presa sulla bussola e sospirando pesantemente si voltò verso Úranus.


«A che ti serviva sapere in che direzione puntava l’ago?» chiese interrompendo la conversazione dell’uomo con la figlia di Apollo.
Úranus lo guardò per un secondo senza capire, poi annuì con decisione. «Mi serviva da conferma. Stiamo tornando verso la zona principale, ma questa non si trova più nello stesso posto da cui siamo partiti.» spiegò accelerando il passo e costringendo anche tutti gli altri ad avvicinarsi di più a lui e Nathan.
«Ti è mai stato spiegato come funzionano le Praterie degli Asfodeli, come funziona l’Ade in generale?» domandò al soldato.
Nathan fece una smorfia. «Non si può quasi mai entrare nello stesso punto, tranne delle entrate fisse che sono la Casa di Ade, le porte dei Campi, il Tribunale e le foci dei fiumi.» disse a mo’ di spiegazione.
Úranus gli diede ragione. «Questo perché l’Ade è un essere vivo, continua a mutare assieme alle esigenze del suo padrone. Le Praterie degli Asfodeli non sono luoghi “fissi”, si spostano, si mescolano. È principalmente colpa della Foschia, essa illude i viandanti, facendo loro credere d’aver camminato per pochi minuti mentre invece marciano da ore, o fungendo da portali di passaggio.» precisò.
Jonas batté le palpebre incredulo, guardandosi attorno con fare sospetto. «Questo spiegherebbe perché io e Cade abbiamo perso di vista Lea malgrado non si fosse allontanata troppo.»
«E perché quando tu mi hai raggiunto abbiamo perso Cade.»
«Spiegherebbe anche perché malgrado la Casa di Ade si trovi al centro degli Inferi in questo momento siamo molto più distanti da lei e molto più vicini ai Campi Elisi.» disse Úranus.
«Veniamo da sinistra, dove, in teoria, dovrebbero trovarsi l’Area Cani, il Labirinto di Persefone e la Casa di Ade, ma anche i Campi Elisi. Non abbiamo mai preso svolte decisive, cambi di rotta drastici…» ragionò Eliza guardando Nathan in cerca di conferma delle sue parole.
Il biondo masticò un’imprecazione. «Ma siamo comunque più vicini ai Campi rispetto a quanto non lo fossimo quando siamo arrivati al via. Cazzo.»
«Si muove… è vivo come lo era il Labirinto?» domandò piano Jane. Le pareva di sentire di nuovo le foglie strusciare sulla pelle, i rami infilarsi tra le sue vesti, stringerle le carni fino a segnarle, fino a inciderle e stritolarle. Deglutì. Non aveva la minima intenzione di tornare in un labirinto, mai più, fosse anche l’unico modo per tornare in vita. Piuttosto si sarebbe ritirata e avrebbe trovato un altro modo per vendicarsi di quei due.
«Quanto alla terza direzione-» provò a dire Úranus, venendo interrotto bruscamente.
«Questo significa che Cade potrebbe essere ovunque e da nessuna parte?»
Jonas si fermò sul posto, le braccia ancora avvolte alla vita, l’espressione dura. «Potrebbe trovarsi dalla parte opposta? O già al prossimo traguardo?»
«Non credo al traguardo, ragazzino, abbiamo noi la sua sfera, ricordi?»
«Ed Úranus non ha ancora la sua.» mormorò Lea.
Eliza annuì a tutte quelle parole, a tutti quei dubbi e quelle realtà. Dovevano trovare una soluzione e farlo in fretta.
«Torniamo ai prati principali.» disse decisa, prendendo in mano la situazione. «Una volta lì Úranus cercherà di rintracciare il suo ricordo, se dovessero esserci problemi cercherò di aiutarlo io con un po’ del potere di mia madre. Non sono mai riuscita volontariamente a concedere una vittoria a qualcuno, ma so di poter influenzare chi mi è attorno, ci proverò per lo meno. Dopo di che cercheremo Cade e ci dirigeremo alla prossima sfida.»
«E se non lo trovassimo?» domandò Jonas, gli occhi pieni di paura.
«In quel caso.» Nathan tornò indietro sino a trovarsi davanti a lui. Ci fu un momento d’esitazione, ma poi la sicurezza tornò a brillare quasi boriosa nei suoi occhi azzurri e senza timore pose la mano sulla spalla del ragazzino, stringendola con fare quasi confidenziale.
«In quel caso non ci rimarrà altro che andarlo a cercare e prenderlo a calci in culo fino alla quinta prova.»
I due si fissarono per un lungo momento e Jonas non pensò neanche per un istante d’abbassar lo sguardo, di annuire con deferenza, con educazione come suo nonno gli aveva sempre insegnato a fare, con il rispetto dovuto ad un adulto.
Sorrise però, come avrebbe fatto ad un compagno. Fiducioso.
Sì, l’avrebbero ritrovato e preso a calci in culo.
 
E forse, ma solo forse e quando nessuno guarderà, potrei anche abbracciarlo di nuovo. Solo per un momento, solo perché mi ha fatto prendere uno spavento del diavolo. Solo perché ho paura che sia stata tutta colpa mia.
 
«E gli metteremo anche un collare, così voglio vedere come si riperde. Ai miei tempi si mettevano delle fasce attorno ai bambini, così non potevano andare lontano. Lo facevate anche voi?» chiese Lea sorridendo.
Nathan ghignò. «Sì, cazzo! Però, se lo mettiamo nel marsupio, se lo porta Golia in spalla, chiaro?»
I ragazzi si trovarono tutti a ridacchiare piano, divertiti da quell’immagine, prima di ricominciare a camminare.
 
«Posso sapere perché le cose più spiacevoli toccano sempre a me?» domandò Úranus scatenando l’ilarità di tutti.


Non ebbe il coraggio di dir loro che la terza direzione in cui puntava l’ago della bussola divina, quella da cui probabilmente era scaturita la pressione incredibile che li aveva attanagliati nell’Area Cani, era la stessa in cui, se non errava, si trovava il precipizio oltre cui vi era solo l’oblio.
 
Perché un vento fantasma risale dal Tartaro?


 
*
 


L’uomo in nero si era tolto il lungo cappotto e l’aveva poggiato sul giovane, avendo cura di coprirlo per bene. Pareva quasi una coperta tanto l’indumento era più grande del dovuto, ma il suo Signore era davvero molto alto, quasi mastodontico se comparato alle genti del suo popolo, quindi non si era sorpreso più di tanto. Per altro, il ragazzo non doveva esser molto grande, forse potevano avere la stessa età.
 
Se non fosse che, di certo, io devo aver visto la luce secoli prima di te.
 
Michael gli aveva proposto la sua felpa, stava imparando la differenza dei vestiari dell’epoca moderna, ma Cicno aveva gentilmente rifiutato: se la prossima scena sarebbe stata la sua sarebbe stato bene che fosse perfetta in ogni particolare.
Il suo fratellastro aveva sorriso divertito, accusandolo di qualcosa come “complesso della crocerossina”, ma non aveva la più pallida idea di cose significasse e, a giudicare dalle risate e dalle parole del loro capo, non ne soffriva davvero.
 
«È tutta scena, Mick, non è davvero così gentile e adorabile, il nostro Cicno.» gli aveva detto ridendo.
Il ragazzino aveva alzato il mento verso il cielo, l’espressione indignata palesemente falsa.
«Allora significa che io sono speciale, perché con me è sempre gentile.» poi gli aveva strizzato l’occhio e Cicno, divertito, gli aveva concesso uno dei suoi sorrisi più delicati.
Non che il figlio di Apollo avesse davvero torno, ma neanche ragione: Cicno non sapeva spiegarsi il perché ma da quando aveva incontrato il loro Signore, l’uomo dagli occhi allungati e poi anche quel ragazzino impertinente, si era ritrovato fin troppo spesso a comportarsi in modo… normale.
Non aveva voglia di fare i suoi soliti giochi, di imporsi come doveva fare un tempo. Non ne aveva neanche bisogno.
Con il loro Signore non avrebbe retto, era una sfida invincibile, almeno su quel fronte. Non sarebbe riuscito ad assoggettarlo al suo volere come aveva fatto con tanti altri uomini prima di lui. Non funzionava il suo fascino, non funzionava il suo tono imperioso, il suo sorriso lascivo e la sua sensualità. L’aveva visto nudo, l’aveva spogliato lui stesso in pratica, l’aveva aiutato a lavarsi e poi portato in braccio su di un comodo giaciglio. Mai una volta aveva scorto desiderio nel suo sguardo e forse, a questo punto, Cicno poteva pensare che non fosse attratto dagli uomini ma solo dalle donne.
 
Peccato.
 
Il ragazzino invece gli stava simpatico. O per lo meno come potrebbe star simpatico qualcuno a lui.
Michael era nato e cresciuto in un epoca completamente diversa dalla sua, lo conosceva come una leggenda, come un mito. Sapeva cos’aveva fatto, quanto sangue macchiava le sue mani, ma non sembrava minimamente turbato dalla cosa. Senza contare la loro indesiderata parentela… forse Apollo aveva fatto del male anche a lui e ora si sentiva in un qualche modo legato a Cicno.
Tutto ciò non gli interessava veramente, finché avesse continuato a far il lavoro sporco per lui, ad accontentare ogni sua richiesta ed arrossire come una vestale allora nulla gli avrebbe fatto avere un comportamento diverso nei suoi confronti.
Alla fine poteva esser anche utile aver qualcuno che si reputasse suo “amico”, dopotutto, chi non avrebbe voluto?
Con uno dei suoi più classici moti di egocentrismo Cicno sorrise compiaciuto: gli piaceva così tanto che gli altri si reputassero legati a lui, perché questo significava che avrebbero fatto più volentieri più cose.
Se solo avesse potuto scaricare a Michael anche quella dannata grana.
Abbassò lo sguardo sul giovane che dormiva sonni irrequieti con il capo poggiato alle sue gambe.
Dei dell’Olimpo, perché gli era venuta in mente un’idea simile?
Oh, giusto, il suo Signore gli aveva detto che quel ragazzo era un tipo che s’affezionava facilmente, che ripagava sempre con gratitudine un aiuto inaspettato e spontaneo.
 
Spontaneo… la crescita di una pianta può essere spontanea, la stupidità umana, la capacità di un animale di eseguire il suo verso. Non la mia voglia di aiutare qualcuno, specie in questo modo.
 
«Se riesci a far diventare la tua espressione un po’ più arcigna sono sicuro potrai iniziare a sputare veleno.» lo prese in giro l’uomo in nero.
Cicno gli lanciò un’occhiataccia, dimentico del fatto che quello fosse il suo capo e che era consigliabile non farlo arrabbiare.
Ma lui non aveva mai avuto superiori nella sua vita, quindi era alquanto facile scordare le giuste norme sociali.
 
«Così fosse non avrei sprecato tempo ad incantare le mie lame, mi sarebbe bastato il mio stesso veleno.» rispose a tono.
L’uomo rise bonario. «Ricorda sempre per cosa lo stai facendo. So che non è nella tua indole, ma dovrai dimostrarti più gentile e buono.»
Il giovane si esibì in un sonoro verso di stizza. «Non sono abituato ad esserlo con chi mi è inferiore.» precisò, cercando intenzionalmente di capire quale fosse il punto massimo di sopportazione dell’altro.
Ma quelle parole non ebbero alcun effetto se non quello di far sogghignare l’uomo.
«Superiore in cosa? In bellezza? Oh, senza dubbio non ne troverai tra le persone tra cui andrai. In forza? Mi spiace dirti che forse sarai la penultima ruota del carro, forse solo una, massimo due persone saranno più deboli di te. Va da sé che hai già trovato chi ti è superiore.
Vogliamo parlare di poteri? In quello avrai filo da torcere. Forse tu sarai il più bravo ad utilizzare i tuoi, ma ve ne sono di interessanti tra gli altri.
Quindi, meritano la tua magnanimità?» domandò senza abbandonare quell’espressione distesa.
Cicno storse il naso. «No.»
La risata del suo Signore fu potente e alta, tanto che per un attimo temette potesse svegliare il giovane dormiente.
«Ma Michael già la ha.» gli fece notare.
Un’altra smorfia infastidita, tanto sapeva di esser bellissimo anche così.
«Michael mi è utile. E condividiamo un fardello comune.» borbottò.
«Figli di Apollo.» replicò solo l’altro.
Cicno fece scattare il capo verso di lui, odiava quando qualcuno tirava in ballo suo padre e se solo avesse potuto avrebbe dato fuoco al mondo con un solo sguardo.
L’uomo neanche gli diede attenzione, se ne stava tranquillo a lucidare la sua arma splendente, un lungo pugnale dalla lama ricurva e seghettata, lo stesso che avevano utilizzato durante la loro “caccia”.
Cicno abbassò lo sguardo sulla piccola cinghia di cuoio abbandonata al suo fianco, dove facevano bella mostra di sé i suoi cinque pugnali di bronzo celeste, quelli che aveva lasciato nella sua vita mortale e che certo non aveva quand’era giunto all’Ade.
 
«Un regalo per te.»
 
Così gli aveva detto l’uomo. Gli aveva consegnato i pugnali ed un comodo modo per portarli con sé, come se fosse una cosa normale, come se fosse ovvio che un set di armi di millenni prima fosse caduto nelle sue mani.
Come avesse fatto a trovarlo non lo sapeva, ma quell’uomo, quell’essere, gli pareva più potente ogni volta che lo rivedeva.
Ghignando Cicno si disse che sì, aveva scelto decisamente il lato giusto.
Soprattutto se da questo stesso lato militavano anche Dei che, in vita così come in morte, non aveva mai sentito troppo vicini all’Olimpo.
Vi era un’intera categoria di divinità che spesso non venivano considerate, che venivano date per scontato o ancor peggio, i cui poteri e doveri venivano assegnati ad altri Dei per pure ignoranza. Molti di loro se ne stavano in silenzio, in disparte, facevano il proprio lavoro e non si immischiavano nelle faccende dei “Grandi Dodici” e di tutti quegli altri Dei che vorticavano attorno alla cerchia d’oro. Ma ce ne erano anche altri che da sempre covavano rancore verso i loro parenti più famosi, verso i fratelli più piccoli saliti al potere, verso cugini, genitori…
Senza farsi notare Cicno lanciò uno sguardo al Dio che era giunto prima da loro con il ragazzo che ora riposava sulle sue gambe. Il giovane era ancora febbricitante, indebolito ed infettato dal potere oscuro che albergava nell’essere divino che, con un solo tocco, era stato in grado di avvelenargli la mente, il corpo, il sangue e l’anima. 
Se ne stava chiuso nel suo mutismo e nella sua pesante pelliccia nera. Pareva un enorme animale selvatico, dal pelo sporco e arruffato. I lunghi capelli neri gli coprivano in parte la maschera bianca che celava il suo volto. Due cerchi scuri al posto degli occhi, una linea dritta per la bocca.
Le lunghe braccia magre erano sproporzionate, terminavano con mani grandi dalle dita ossute come zampe di ragno. I piedi nudi erano sporchi di terra, erba nera e frammenti luminosi.
Nel suo insieme era spaventoso come lo erano i suoi incubi.
 
Ma in molti ignorano il fatto che sia Fobetone ad oscurare le loro menti e non Ipno o Morfeo.
 
Da quel che gli era stato concesso di capire, d’origliare, Fobetone non era interessato a ciò che stava cercando di fare il suo Signore, ma piuttosto alla salvezza dei suoi figli. Uno di essi si trovava nel gruppo di semidei assegnatogli dal capo.
Cicno abbassò lo sguardo sul giovane, domandandosi quanto ancora avrebbe dormito, quando la febbre sarebbe cessata ed il veleno della paura epurato dal suo corpo.


"Certo, qualcuno potrebbe guarirlo… qualcuno abbastanza potente da riuscir ad utilizzare il bene ed il male della stella maggiore a suo piacimento. Qualcuno sopra il livello medio di tutti quei piccoli guaritori in erba che a mala pena conoscono i veri canti di cura."

 
Cicno inclinò il capo, la mente persa a seguire i sussurri di quella voce calda e bassa che gli ricordava terribilmente la voce di qualcun altro. Forse quella del suo padrone? Forse di un altro uomo? Ma come poteva ricordarla ancora se a mala pena rammentava quella di sua madre?
 
Chi sei?
 
Con gli occhi chiari puntati sul volto affaticato del giovane, Cicno si ritrovò a carezzargli il capo senza neanche rendersene conto.
Quand’era stata l’ultima volta in cui aveva donato un gesto così gentile e disinteressato a qualcuno? Perché in quel momento il semidio era incosciente e non avrebbe potuto percepire il suo tocco, non avrebbe potuto reputare la sua azione benevola. Era inutile, era solo- per sé stesso.
 
Filio.
 
Abbassò lentamente le palpebre, socchiudendole sino a sfocare la vista. Il viso del ragazzo mutò impercettibilmente, dandogli l’illusione di vedere un altro giovane al suo posto. Ma fu solo un istante.
Con un sospiro silenzioso continuò ad accarezzargli la testa. I capelli erano corti ma morbidi, fini e di un colore così particolare che Cicno mai aveva visto.
Le guance arrossate, le sopracciglia crucciate, le labbra tirate.
Stava soffrendo, vedendo chissà cose nei suoi incubi, nelle sue memorie. Era entrato in una grotta fatta di oscurità e verità, due delle cose più pericolose di questo mondo, e Cicno, se solo avesse voluto, avrebbe potuto rischiarare i suoi pensieri con un semplice tocco. Erano secoli però che non usava più la sua magia curativa, che non cantava più i salmi inventati dai suoi fratelli, scritti da suo padre.
Apollo… quel gran bastardo di Apollo.
No. Aveva deciso che non avrebbe mai più usato il suo potere curativo, che solo maledizioni e malanni sarebbero usciti dalle sue labbra.
Però se il giovane si fosse ripreso in fretta, lui avrebbe potuto iniziare il suo lavoro prima, portarlo a termine prima, essere libero prima.
La decisione ora non stava nell’utilizzare o meno la discendenza di Apollo, ma nel fare qualcosa di utile per sé stesso.
E Cicno era così bravo a fare, trovare, ottenere, il meglio per sé.
 
«Potreste riprendervi la veste?» domandò d’improvviso a voce alta.
L’uomo in nero si voltò a guardarlo, smettendo di parlare in modo fitto con Fobetone. L’osservò curioso, poi si avvicinò e tolse il giaccone da sopra il semidio.
«Se sta al caldo la febbre passerà prima.» disse pacato.
Cicno annuì. «Sono un guaritore più efficiente del tempo.» rispose con una punta d’orgoglio.
L’uomo alzò un angolo delle labbra, un sorriso storto che pareva più il ghigno di una iena.
«Allora il nostro compito qui è finito.» si voltò verso il Dio e gli fece un cenno del capo.
Fobetone replicò il gesto e gli si avvicinò con lentezza, estraendo dalla pelliccia scura una sfera dei ricordi di Ermes. La depositò con gentilezza al fianco di Cicno, tra la cinghia arrotolata dei suoi pugnali.
 
«Tienila da conto, è delicata, fragile.» sussurrò con voce cavernosa il Dio.
Cicno cercò di guardarlo in volto senza paura, ma non poté impedire a centinaia di brividi di precorrergli la pelle esposta.
«Sarà fatto.» mormorò di rimando, la voglia di rispondere con strafottenza perduta all’istante.
Fobetone si voltò, senza dir più nulla, camminando con lo stesso passo lento e strascicato verso l’infinità delle Praterie degli Asfodeli, confondendosi con il buio, l’erba e la Foschia.
Il suo Signore invece si era rimesso il cappotto, chiudendo con attenzione i bottoni e lisciando il tessuto.
«Suo figlio potrebbe creare qualche problema. Non è una personalità riottosa o fastidiosa, ma i poteri degli incubi sono più forti ed indomiti sotto pressione.» lo mise in guardia.
Cicno annuì, riportando l’attenzione su di lui. «So come trattare con questo tipo di genti. So come trattare con tutte le genti.»
«Da ciò che si dice del tuo passato, direi di no. Ma voglio darti fiducia.» ghignò ancora. «Ci sono invece due personalità abbastanza problematiche. Il ragazzo qui, è un buffone fedele. Gli hai salvato la vita, te ne sarà grato. Vede il lato positivo e pensa sempre al meglio, ma non sottovalutarlo, i cani fedeli sono quelli che mordono più a fondo e con più forza.»
«Sono quelli che non mollano la presa neanche se presi a calci, lo so. Gli altri due?» chiese con uno sbuffo. La sua mano non aveva smesso un attimo di carezzare i capelli del giovane.
L’uomo finse di non averlo notato. Alzò il bavero della palandrana. «Figlio di Ares, uno stronzetto caparbio. Un po’ volgare, convinto di saper far tutto, un buon leader però, non ti manderà in pasto alle belve se non crederà che potrai tornarne vivo. Forse, ben pensandoci, lui potrebbe piacerti.»
Cicno annuì. «Sì, sembra il mio tipo, in effetti.» gli diede ragione sorridendo già all’idea.
«Non farti strane idee, non lo abbindolerai con il fascino. Ma gli piacerà la tua lingua senza peli.»
«Finché non darà di matto e farà ciò che deve fare mi accontenterò di un’affinità morale. Altri?»
«Una figlia di Ecate.»
«Dei dell’Olimpo…»
«Che non sa usare la magia.» ghignò l’uomo.
«Quindi un elemento inutile. Nel caso ve ne fosse bisogno posso sacrificare lei senza problemi? Dubito sua madre vegli su di lei se è un’incompetente, Ecate non è troppo magnanima con i suoi figli più deboli.»
«No, non lo è, ma potrebbero essere i tuoi compagni di viaggio a non volerla abbandonare. Ha un carattere persino peggiore del tuo, ma forse potrai capirla meglio degli altri visto che entrambi godete nel ferire il prossimo.» disse ammiccando.
Cicno sorrise angelico. «Solo se il prossimo se lo merita.»
«E in base a cosa si dovrebbe decidere?»
«Al mio gusto personale, ovviamente.» rispose sempre con lo stesso tono mieloso.
L’altro ridacchiò. «Ti tratterà male.»
«Deve solo provarci.»
«Ci sarà una figlia di Nike a metter pace. Pare che a lei dia ascolto.»
«Oh, la vittoria è con noi quindi?» domandò ironico.
«In parte. È una donna giusta, sani principi, forte morale. Non sopporta troppo le volgarità, non sopporta le ingiustizie. Attento a ciò che fai e a come lo fai, gli altri la tengono in gran considerazione, fartela nemica potrebbe implicare perdere la fiducia di tutti.
C’è anche una tua sorella, buona guaritrice, cresciuta con un medico.»
«Un?»
«Un guaritore dei tempi moderni, era sua assistente. Non è gran ché nel combattimento corpo a corpo, ha una buona mira ma dal tempo in cui proveniva far combattere delle donne, insegnargli a tenere un’arma in mano, farle allenare, non era visto di buon occhio. Si tendeva a proteggerle solo, a farle rimanere a casa. Sa qualcosa ma non troppo.»
«Potrebbero parlare con una donna di Sparta, sarei davvero deliziato nell’assistere ad una scena del genere.» sognò il giovane con sguardo perso.
«Non dimenticare che solo il figlio di Ares è andato al Campo, è il più giovane di tutti, quello morto per ultimo. Tua sorella e il figlio di Fobetone sono quelli che ne sanno di più. Ovviamente lui sa tutto. Nike solo poche informazioni, Ecate completamente all’oscuro di tutto, se ti dicessi com’è morta probabilmente moriresti di nuovo, ma dalle risate.» disse scuotendo il capo. «Esser troppo sicuri di sé non è sempre un bene…» continuò con una lieve inclinazione ammonitrice nella voce.
Cicno lo ignorò. «Lui non sa nulla?» chiese indicando il giovane.
«Poco e niente. Sapeva dell’esistenza delle Cacciatrici, conosceva qualche semidio in vita. Sapeva di essere diverso, di avere particolarità straordinarie, ma non sa nulla del nostro mondo, a conti fatti.»
Con un sospirò il ragazzo alzò gli occhi al cielo, fissandoli sulla volta buia e rocciosa.
«In parole povere mi mandate tra un gruppo allo sbaraglio. Perché proprio io?» domandò in fine.
Quando abbassò lo sguardo per incontrare il volto dell’uomo si pentì immediatamente della sua domanda.
Non perché si fosse palesemente lamentato di aver un compito difficile con compagni difficili, un potenziale fuoco greco pronto ad esplodere ed ardere in eterno, ma perché aveva appena colpito la parte cruciale di tutta quella storia.
 
Uno dei motivi per cui ha scelto me se non il solo ed unico.
 
«Per l’ultimo membro della comitiva.» sorrise divertito, troppo divertito. «Giovane d’età, sedici anni, il più piccolo del gruppo. Carattere altalenante, non ancora formato del tutto, qualcuno a cui è stato insegnato il rispetto forzato verso gli adulti e chi gli è superiore ma che stenta a perpetrare lo stesso carattere tranquillo e remissivo con i suoi coetanei. Non è forte fisicamente, non lo è mentalmente, non è in grado di controllare i suoi poteri. Potrei dirti che è una bomba ad orologeria ma non capiresti il paragone. Sappi però che è bravissimo a farsi prendere dai sensi di colpa, dalle paturnie tipiche dell’adolescenza, di una persona fragile. 
Il giovane che ti riposa in grembo lo ha preso come un fratello minore, lo protegge, lo accudisce perché è quello di cui il ragazzino ha bisogno. Non si direbbe ma questo roscetto ha un bell’istinto genitoriale.» sorrise ancora.
Cicno lo guardò diffidente. «Solo per questo? Perché la mente del ragazzo è malleabile e prendendo potere su di lui potrò averne di conseguenza su tutti gli altri?»
«Oh, no, non credo proprio. Potresti fare molti danni in effetti, però: dal bambino al rosso, dal rosso a tua sorella e la figlia di Nike. Dalla figlia di Nike a quella di Ecate e a quello di Ares e da tua sorella al figlio di Fobetone. Forse la tua ipotesi non è troppo sbagliata, ma tienila come ultimo colpo.»
«Allora per cosa?» domandò sempre più innervosito.
Le labbra dell’uomo parvero allungarsi, coprendo l’intero spazio delle guance, come la bocca di un serpente.
 
E lui odiava, aborriva i serpenti.
 
Ogni volta che gli lanciava uno sguardo più affilato, un ghigno più ampio, Cicno si convinceva della pericolosità di quell’essere, immaginandosi quanto dovesse esser potente, quanto dovesse esser spietato in campo, quanta crudeltà, cattiveria, quanta impietosa furia si celasse in quell’involucro così semplice.
Chi era- anzi, cos’era quell’essere?
 
«Perché avete entrambi varcato i neri cancelli e perché siete legati dal volere dei Gemelli della Notte.»
 
Cicno si ritrovò a distogliere lo sguardo sgomento, la luce che brillava nelle iridi dell’altro lo stava annichilendo, trasmettendogli lo stesso terrore che ogni nemico doveva avere nei suoi confronti.
Anche un Dio ne sarebbe stato colpito, anche loro avrebbero tremato.
Chiunque egli fosse era perfettamente in grado di dar al rogo l’Olimpo e tutti i suo seggi d’oro.
Aveva decisamente scelto la parte giusta.
 
Un lieve tocco sul suo capo, delicato come quello che lui stesso posava sul ragazzo dormiente, gli fece venire i brividi.
Quando si era spostato? Quando era arrivato così vicino?
Trattenne il fiato, non osando voltarsi per vedere il ghigno ferale del suo padrone.
«Tieni stretto a te il bambino e non dimenticare i vostri monili.» una carezza appena percettibile tra i ricci morbidi. «Buona fortuna, piccolo cigno.»
 



Quando l’essere scomparve Cicno si concesse un respiro profondo, cercando di riportare a regime ogni suo tremito, ogni sua palpitazione.
Era dalla parte giusta, erano dalla stessa parte, quel potere così devastante non era contro di lui ma con lui, l’avrebbe difeso, sarebbe stato al suo favore e non a suggellare la sua terza e definitiva morte.
Riprese coscienza di sé, del suo corpo, della sua anima.
 
«Jonas… se non sbaglio era questo il tuo nome.»
Un ragazzino magro e pallido, con i capelli chiarissimi e gli occhi quasi grigi, timoroso di rivolgerli la parola ma capace di farlo solo mordendosi la lingua. Il ragazzo che portava il collare di rovi di Ipno, che faceva il paio con i suoi bracciali, le sue vecchie catene, trasformate in monili da Thanatos.
Non che avesse avuto mai la possibilità di dimenticarsene, ma per un po’ aveva smesso di pensare a quell’altra anima dannata, con cui condivideva fin troppo punti in comune, che stava dall’altra parte di quel legame, di quei gioielli.
L’uomo che li aveva “collegati” gli aveva detto che i loro destini erano ora legati a doppio filo. Cicno aveva perfettamente letto tra le righe: se Jonas fosse caduto sarebbe successo lo stesso anche a lui e questo non poteva permetterselo.
Con un ringhio infastidito strinse la mano senza rendersi conto d’averla ancora tra le ciocche corte dell’altro semidio. Sentì però un mugugnio infastidito e mollò subito la presa.
Dannazione! Ci mancava solo che quel tipo si svegliasse e lo trovasse a tirargli i capelli.
Un grugnito davvero poco elegante gli fuoriuscì spontaneo e subito dopo si mise l’anima in pace, dicendosi che prima iniziava, meglio sarebbe stato per la sua sanità mentale.
 
O quello che ne rimane dopo millenni di torture di ogni genere. Il divino Ade dovrebbe decisamente restringere la liberà dei suoi aguzzini.
 
Le belle mani si mossero entrambe sul giovane: quella che era tra i capelli scivolò sulla fronte e l’altra sotto la maglia consunta, proprio sul cuore.
Il centro del torace, il punto da cui si diramava la forza vitale di una persona, in cui tutti quei fili, quei canali immaginari in cui si snodava l’anima per formare il corpo fittizio, si intrecciavano e collegavano.
Non fece fatica a ricordare i canti di cura e ne scelse appositamente uno di Asclepio, per cercare di rimanere il più distante possibile da suo padre.
I palmi si fecero improvvisamente caldi, il sangue pompava veloce la magia curativa in ogni terminazione, entro ogni cellula. Così com’era successo in quella stanza oscura, Cicno vide d’improvviso i suoi arti rilucere come un vetro colorato posto davanti ad una candela, come se vi fosse una fiamma che l’illuminava dall’interno.
Le sue labbra si mossero con calma, una parola dietro l’altra, intonando con dolcezza suoni delicati come spuma, morbidi come la sabbia asciutta, freschi come l’acqua pura ed odorosi come le piante medicinali.
Quando le palpebre quasi trasparenti del ragazzo iniziarono a tremare il ghigno che piegò la sua bocca non era dissimile da quello di un re orgoglioso.

Ovviamente, vinceva sempre lui.

 
 
Non vi era luce, non vi era il classico, fastidioso, accecante giallo che vedeva sempre quando riapriva gli occhi dopo una febbrata. Nell’Ade non vi era luce se non crepuscolare, quella classica del cielo blu distante dalla parte aranciata del tramonto. Non sapeva come descriverlo bene, nella sua mente quell’immagine aveva un senso, aveva un legame con il suo passato. Faticava a ricordare perché, però.
Sentiva le vesti appicciate al corpo, come se avesse sudato parecchio. Aveva freddo, un fastidioso ronzio alla testa, la bocca asciutta, gli occhi secchi. Il suo corpo era di certo disteso a terra, sentiva l’erba pungente delle Praterie sulle caviglie e sul fianco leggermente scoperto, sui polsi e le mani, eppure il suo capo era sicuramente poggiato su qualcosa di più morbido, ma cosa?
Lentamente cominciò a riprendere coscienza di sé, del luogo in cui si trovava. Sapeva di essere nelle Praterie degli Asfodeli ma solo in quel momento la cosa ebbe un senso.
Era svenuto. Caduto a terra come un sacco di patate, come quei sacchi che lui e i ragazzi si lanciavano dalle barche alle banchine e spesso, quando erano troppo pesanti, li mandavano lunghi per terra sotto le imprecazioni proprie e le risa degli altri.
Non c’era stato nessuno a ridere di lui e rimetterlo in piedi però.
Non c’erano stati neanche i suoi compagni d’avventura.
 
Jonas, Lea!
 
Avrebbe voluto alzarsi, andarli a cercare, chiamarli a gran voce, ma non ce la faceva, non riusciva neanche a muoversi tanto era sfinito.
Cosa gli aveva provocato uno shock simile? Si era perso, vero? Stava guardando Jonas allontanarsi verso Lea che aveva trovato il suo ricordo, ma poi aveva sentito un suono.
 
Silenzio. Ho sentito il silenzio, però non il mio.
 
Così l’aveva seguito, aveva inseguito il silenzio e si era perso.
Era stato lui ad assordarlo, a fargli sanguinare le orecchie, a renderlo pazzo e sordo. Poi era cessato tutto.
Strizzò forte gli occhi, lasciandosi cullare dalla dolce melodia che riusciva a sentire, dal calore che si irradiava dal suo torace, dalla mano morbida e delicata che gli carezzava la fronte.
Che fosse morto davvero ma, questa volta, avessero deciso di prendersi gioco di lui facendogli scorgere un angolo del paradiso dei Cristiani?
Quella poteva esser solo la voce di un angelo, il tocco di un angelo, le mani.
Si costrinse ad aprire le palpebre, qualunque cosa fosse era da una vita che non sentiva più un tepore del genere, una sensazione di benessere tale. Avrebbe spiato gli angeli anche solo per un momento.
Quando finalmente riuscì nel suo intento rimase semplicemente senza parole.
Sopra di lui vi era un giovane dall’aspetto etereo, probabilmente il ragazzo più bello che avesse mai visto in vita sua. Il volto pareva modellato nella creta da un qualche maestro dell’antichità, le labbra rosse morbide e floride si muovevano ad agio, lasciando intravedere i piccoli e candidi denti, la punta rosea della lingua ogni qual volta un canto lasciasse la sua bocca. Aveva un voce paradisiaca, la più bella che avesse mai sentito, in assoluto.
Il naso dritto, gli zigomi alti, gli occhi grandi, limpidi, dalle ciglia lunghissime.
Erano efelidi quelle che vedeva spruzzate sulle sue guance? Sul naso? Pareva che anche quelle le avesse messe un pittore con cura reverenziale.
Era così sorpreso che gli parve quasi che la sua pelle brillasse di vita propria come se una luce abbagliante cercasse di liberarsi da sotto la sua epidermide.
Non appena i loro occhi si incontrarono l’angelo smise di cantare.
 
«Vi siete svegliato finalmente, vi sentite bene?» domandò gentilmente. La voce non era più angelica come il suo canto ma ugualmente melodica, più calda e bassa. Era la voce di una sirena ammaliatrice e Cade non se ne sentì spaventato neanche per un momento.
 
Male, bisogna sempre diffidare delle sirene, sono bellissime e letali.
 Ma gli angeli?
 
«A-ammetto di sentirmi un poco stordito.» disse con voce roca, schiarendosela con qualche colpo di tosse. «Ma, vi ringrazio, per avermi aiutato.» continuò cercando inutilmente di tirarsi a sedere.
L’angelo gli sorrise gentile e lo aiutò, stringendo le belle mani attorno alle sue spalle ed issandolo quasi di peso.
«Rimanete seduto per un momento, o avrete le vertigini. Quando vi ho trovato eravate inerme e malato, sembrava quasi aveste la febbre.» gli disse con calma, spiegandogli la situazione.
Cade annuì, pentendosene nel preciso istante in cui la testa iniziò a girargli furiosamente.
«Oh! Temo abbiate ragione, gira parecchio.» borbottò.
L’altro rise piano. «Ve l’avevo detto.»
Il rosso gli sorrise di rimando, quel sorrisetto beffardo che faceva sempre cadere tutti ai suoi piedi e che, con sorpresa, si accorse esser stato apprezzato anche dal giovane.
«Mi sono perso per le Praterie. Un attimo prima ero con i miei compagni e l’attimo dopo un suono mi ha attirato lontano da loro.» Aggrottando le sopracciglia Cade si rese conto che, forse per la prima volta in vita sua, stava parlando in modo educato, dando del lei ad uno sconosciuto. Perché?
«Non dovete vergognarvene di certo, le Praterie sono infide. Anche io ne soffro la presenza.» gli confessò con tono basso.
Cade annuì. «Posso- Posso chiedervi di darmi una mano ad alzarmi?» chiese sorridendo. Poi si riscosse. «Dannazione, non vi ho neanche chiesto come vi chiamate!» si voltò nella sua stessa posa, pulendosi la mano sulla giacca ed offrendola al giovane. «Io sono Cade Griffith e visto che vi devo la- no, non la vita, quindi l’anima? Sì, visto che vi devo la salvezza della mia anima vorrei che mi deste del tu.»
Il giovane dal volto angelico lo guardo quasi confuso, come estraneo a quella strana mossa e Cade s’accorse solo in quel momento che le vesti che indossava sembravano così simili a quelle delle statue antiche.
 
O cazzo.
 
«Ecco, vengo dall’anno 1900, nella mia epoca per salutarsi e presentarsi ci si dà la mano destra, non so se anche da voi…»
L’altro scosse il capo. «Se posso esser sincero, son così tanti i millenni che ho passato qui nell’Ade da non riuscire più a ricordare come le mie genti fossero solite salutarsi.» ammise senza vergogna.
Cade batté le palpebre: come mai? Non aveva incontrato nessuno dei suoi conoscenti? Neanche uno? O forse…
 
Dove si trovava non c’era gente con cui conversare?
Campi di Pena o Praterie?

 
«Il mio nome è Cicno di Tebe, figlio di Irie, provengo dalla grande Grecia.» rispose stringendogli finalmente la mano.
Non era una stretta troppo salda, ma Cade lo imputò alla novità della cosa per lui. Che diamine ne sapeva di come si salutava la gente nell’antica Grecia?
«E, se voi mi chiedete di parlarvi con minor formalismo, vi pregherei di far lo stesso. Credo, per altro, che le nostre età siano simili.»
Cade gli sorrise radioso. «Oh, ma certo! Certo! Io ho ventisei anni, o almeno li avevo quando sono morto. Voi, cioè, tu quanti ne hai?»
Se avesse osservato meglio il giovane Cicno, se l’avesse davvero osservato e non solo guardato con ammirazione, si sarebbe reso conto del piccolo lampo di fastidio che gli aveva trapassato le iridi chiare, lo stesso che l’aveva colpito quando l’aveva visto pulirsi la mano sulla propria giacca, quando l’aveva stretta quella stessa mano.
«Ventisei primavere come te.» gli rispose, «Trovo davvero curioso aver trovato un giovane della mia età.»
«In effetti ne ho incontrati di più piccoli ma mai come me! Anche se ho almeno quattro compagni su sei morti prima di me.»
Cicno alzò un sopracciglio. «Forse è meglio che torni da loro, ti staranno sicuramente cercando.» disse d’improvviso, scurendosi in volto.
Cade lo guardò pensieroso. «Tu non hai dei compagni? Qualcuno con cui affrontare le sfide?» gli chiese cauto.
L’altro scosse la testa, i morbidi riccioli che rimbalzavano contro la fronte alta.
«So che il mio aspetto potrebbe ingannarti, ma ti assicuro che il luogo da cui provengo non ispira nessuno a scendere a patti con me, se non miei pari.»
Lo disse con amarezza, abbassando di poco lo sguardo ma lasciandosi pervadere da un’espressione dura. Non era autocommiserazione, era rabbia quella e Cade la conosceva bene.
«Eri nei Campi di Pena?» gli domandò allora a bruciapelo.
Cicno alzò di nuovo gli occhi, puntandoli decisi dentro i suoi. Aveva un’aria così fiera ora, le spalle aperte, la schiena ritta, il capo alto. Lo guardò come a sfidarlo a dir qualcosa a riguardo, a criticarlo.
«Esatto, da una delle terrazze più basse.»
Non era glorificazione, non c’era vanto nelle sue parole, ma non c’era neanche pentimento.
Cade non sapeva perché ma riusciva a capire tutte quelle cose solo guardandolo. Cicno non nascondeva il luogo da cui proveniva, non si vergognava di dirlo, si aspettava che qualcuno lo criticasse per questo ma, evidentemente, le sue azioni, per quanto pessime, non erano rimpiante.
 
Come me, esattamente come me. Se mi avessero spedito nei Campi di Pena non mi sarei pentito della vita che avevo vissuto, non mi sarei pentito di nulla, perché ho sempre creduto in ciò che facevo.
 
«Vuoi davvero farmi credere che un bel visino come il tuo sia finito nelle “terrazze più basse”?» chiese quindi sogghignando, cercando di allentare la pressione con le sue parole.
Cicno, ancora una volta, rimase sorpreso dalle sue risposte. Un attimo per capire cosa gli avesse davvero domandato ed il bel sorriso da angelo divenne quello furbo e affabile della sirena che gli era parso prima.
«Ero molto desiderato in vita, molte persone sfidavano altri o loro stessi per poter ambire a sedere al mio fianco. Molti di questi sono morti, la mia colpa è questa.» gli rispose provocatorio.
Cade lo guardò ancora, metabolizzando la sua spiegazione. Poi annuì.
«Penso che se non avessi avuto un po’ di pura fortuna irlandese ci saremmo potuti incontrare nei Campi di Pena. Da che parte stanno i truffatori?» domandò divertito.
Cicno fece un gesto vago con la mano. «Molto più vicini alla superficie di quanto non lo fossi io. Non ci saremmo mai potuti incontrare, sono un dannato di un certo livello io.»
A quell’affermazione Cade non poté far altro che ridere, sollevato dalla piega inaspettata che stava prendendo quel discorso. Quindi anche gli angeli sapevano fare gli stronzi? Interessante.
«E vuoi farmi credere che non ci fosse neanche un “dannato del tuo livello” per affrontare la Death Race?»
«Tu l’avresti fatto? Avresti scelto volontariamente tra la feccia qualcuno con cui arrivare fino alla fine sperando che non ti pugnalasse alle spalle alla prima occasione?» domandò retorico.
L’altro sorrise. «Io me lo sono portato dietro un dannato. Beh, è un dannatino in effetti, piccolo, un gattino bagnato, che è finito all’inferno perché ha avuto paura come tutti i mocciosi di sedici anni ed è scappato. Alle volte penso che i Giudici Infernali dovrebbero rivedere i loro criteri di scelta.»
A quelle parole però Cicno sembrò improvvisamente interessato.
«Un giovane dannato? Che non pare esser in grado di far male ad una mosca? Lo hai incontrato nel Labirinto della divina Persefone?» domandò attento.
Cade lo guardò curioso. «Se fosse?»
«Per il viaggio sino al Labirinto, effettivamente, ho seguito un gruppo di dannati. Con noi c’era un giovinetto, aveva sedici anni. L’ho perduto di vista per un attimo, le pareti d’edera si sono spostate e non ho più trovato sue tracce. Se fosse lo stesso giovane…»
L’irlandese rimase di sasso, il cervello che correva a mille. «Sai il suo nome?»
«Certamente, si chiamava Jonas, ma ammetto di non rammentare il nome della sua stirpe.»
«Magrolino, non troppo alto?»
«Sono d’altezza considerevole, per me tutti non sono molto alti.» disse sorridendogli e mettendosi in piedi.
Cade lo osservò da basso, sconcertato: quel tipo doveva esser alto almeno un metro e ottanta.
 
Cazzo, è più alto di me e io gli dormivo sulle gambe come fosse una ragazza. Altro che angioletto, sarà pure magro da far paura ma se fosse in forma sarebbe un dannato atleta.
 
Cicno gli prose la mano per aiutarlo ad alzarsi. «Era biondo, i suo i capelli molto chiari. Gli occhi azzurri parevano quasi grigi. I suoi lineamenti ancora acerbi, un fiore reciso nel momento della fioritura.» continuò con quella sua voce suadente.
Ma a Cade era bastato quel nome, ad esser sinceri, il resto era solo un rimarcare l’ovvio.

È il mio Jonas!
 
«Sono sicuro che sia lui.»
Cicno sospirò. «Bene, sono lieto che sia ancora in gara e che sia salvo. Spero gli porterai i miei saluti.» così dicendo si piegò a raccogliere una cinghia a cui erano attaccati dei pugnali e quella che, Cade stentò quasi a crederci, pareva una sfera dei ricordi, solo completamente nera.
Un vago eco di silenzio gli sfiorò le orecchie dove il sangue secco ancora stagnava. Scosse la testa e cercò di liberare trattando via le croste con il mignolo.
Non si accorse che il giovane aveva raccolto anche la sua sacca e che ora gliela porgeva assieme alla sfera.
«Questa è la tua bisaccia e questa sfera di Ermes era al tuo fianco quando ti ho trovato. Non so se fosse tua ma di certo non appartiene a me, quindi te la rendo, puoi vedere se appartiene ad uno dei tuoi compagni.» gli sorrise ancora spingendogli gentilmente gli oggetti tra le mani.
Cade lo guardò stordito. «Aspetta, perché mi dici queste cose?»
L’altro inclinò il capo. «Per informarti, perché è così che ti ho trovato. Eri a terra, malato, privo di sensi. È bastato un semplice canto curativo per risvegliarti però-»
«Canto curativo?» lo interruppe bruscamente, senza notare del lampo di fastidio che gli aveva provocato. «Sei un semidio? Sei un figlio di Apollo?» domandò concitato.
Cicno sospirò, come se gli pesasse ammetterlo. «Esatto.»
«Wow! Questo sì che è fantastico! Due guaritori sono sempre meglio di uno.» affermò allegramente.
Il giovane greco lo guardo senza capire, l’espressione confusa. «Perdonami, come?»
«Ho detto che due guaritori sono meglio di uno! Ai miei tempi li chiamavamo “medici” ma da quello che mi è stato dato di capire, quando ci si riferisce ai semidei e ai tempi antichi si dice “guaritore”, perché il medico non c’era.»
«Sì, avevo afferrato il significato delle tue parole. Ciò che mi rimane ostico è il motivo per cui tu abbia detto una banalità così grande: è ovvio che due guaritori siano meglio di uno solo.»
«Visto? La pensiamo anche allo stesso modo! Dai sempre risposte belle dirette te, vero? Sono sicuro che piacerai tantissimo al biondastro. Magari anche a Lea e a Eliza. La ragazza delle praterie ti starà subito sul cazzo, ne sono sicuro. Si diceva “stare sul cazzo” ai tuoi tempi? Il gigantone pare cattivo a primo sguardo, ma è come l’elefante che ha paura del topo, quindi non ti preoccupare di lui, è un pezzo di pane e Jonas- beh, lui lo consoci già vero?» Cade iniziò a parlare a ruota libera, senza fermarsi un attimo. Infilò la sfera nera nella sacca, cercando di non pensare a niente, al suono del silenzio, ad uno strano sogno che forse non era altro che il ricordo contenuto in quella palla, né tantomeno al fatto che lui il suo, di ricordo, ancora non lo aveva.
«Perché mi stai dicendo queste cose?» la voce di Cicno interruppe il filo dei suoi pensieri e fu decisamente un bene.
Cade si voltò a guardarlo, sorridendo divertito alla faccia confusa, crucciata e anche abbastanza infastidita del giovane angioletto che gli aveva salvato la vita.
 
La morte.
La memoria.
L’anima.
Oh, e vabbè, che l’aveva salvato e basta.

 
«Come perché? Non penserai mica che ti lascerò andare da solo, allo sbaraglio per le Praterie come se niente fosse! Mi hai salvato! Il minimo che possa fare è offriti qualcosa di ugualmente importante in cambio e si dia il caso che io e i miei compagni abbiamo deciso di arrivare tutti quanti alla finale assieme e lì pugnalarci a vicenda. Non alle spalle. Guardandoci negli occhi. Senza rancore. E poi siamo una manica di semidei, vedrai che ti divertirai!» e per rimarcare il concetto l’afferrò per un polso e se lo tirò vicino, dandogli poi una pacca sulla spalla e cominciando a camminare, riprendendo nel mentre anche a parlare a ruota libera.
«Quindi se sei uscito dai Campi di Pena perché sei così pulito? Voi guaritori oltre a ricucire la gente ricucite pure i vestiti? Sembra quasi che ti sia fatto una doccia. Cavolo, sono secoli che non mi faccio un bagno come si deva, con dell’acqua vera. Nei Campi Elisi c’è l’acqua ma solo nei fiumi e nei laghi. Voi avete fiumi di fuoco? O quello è solo lo Stige?»
Cade chiacchierava tranquillamente, di tutto e niente, senza neanche aspettarsi davvero una risposta da quell’angelo davvero curioso sotto troppi punti di vista.
Se solo fosse stato più attento, se solo l’avesse guardato per bene negli occhi, avrebbe visto il compiacimento puro che strabordava dalle sue iridi, avrebbe visto tutto l’impegno di cui necessitava per mantenere un sorriso cordiale e non lasciare che le zanne da predatore fuoriuscissero scoprendo il suo ghigno.
Voltandosi di poco Cicno scorse in lontananza una figura nera.
Le labbra tremarono prima di aprirsi finalmente in quello squarcio famelico che ricordava tanto il sorriso ferino del suo padrone.
Anche nella morte, nessuno poteva dire di no a Cicno il Crudele, anche se questo non aveva proferito verbo.
 

Seduto sul suo trono osservava ancora i giovani eroi infatuarsi, perdersi e cercare di realizzare i suoi desideri. Li vedeva ancora cercare di compiacerlo, di portargli grazie, onori, premi, di sdebitarsi anche solo per un suo sorriso.
Era di nuovo sulla cima del mondo, era di nuovo seduto tra i seggi dell’Olimpo. Ancora una volta, nelle sue mani, il destino di altre vite.
Cicno era un predatore, così come lo erano tutti i membri del suo nuovo branco.
E i predatori amano il sangue.
 


La luce crepuscolare parve farsi improvvisamente più debole, assorbita dal corpo alto e longilineo del figlio di Apollo.


Nessuno avrebbe più dimenticato che anche il Sole aveva il suo lato oscuro e che Cicno lo incarnava quasi al pari del suo odiato padre.













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Capitolo 13
*** Natural ***









Capitolo XIII- Natural.
 
 
 
Il cielo era chiaro, quasi sfocato, come la tavolozza di un quadro impressionista, i colori tenui sembravano aver una consistenza pastosa, qualcosa di pesante e leggero al contempo. Era l’acqua sporca in cui un pittore aveva appena pulito il suo pennello, sbiadita, annacquata.
Sul confine del fuoco visivo montagne blu e azzurrognole si perdevano tra le campiture che delineavano la distanza tra ciò che era vicino e ciò che era lontano. Più un oggetto si allontanava, più il pittore sovrapponeva strati e strati di acqua sporca, di colore sciolto, acquoso. Uno strato di calura vibrante per ogni metro, per ogni chilometro.
In primo piano si stendeva una marea dorata, spighe gialle picchiettate con grazia, ondeggianti sotto il vento gentile che soffiava nella vallata, la carezza di una mano amorevole che sfiorava ogni capo, ogni punta asciutta, ogni seme ancora intrappolato nella sua piccola cella lucida e fine come carta velina.
C’era silenzio in quel quadro perfetto, neanche il fruscio delle spighe riusciva a riempire l’aere, pareva quasi che ogni stelo mormorasse piano al passaggio della brezza, cercando di non svegliare chi lì attorno, nella calma di un pomeriggio assolato di mezz’estate, riposasse nei dintorni.
Silenzioso e pacato era anche l’incedere lento della donna che, con sguardo rilassato, osservava quel panorama così perfetto, così pacifico.
La pelle scura come la terra scintillava sotto il sole come faceva il grano, riflettendone i raggi in un’aura d’oro e calore. I capelli castani erano intrecciati in spesse trecce, ogni intreccio adornato con perle di coccio colorato, anelli di metallo opaco e fiori di campo, forse non belli come quelli da serra, ma resistenti alle avversità, forti e coriacei, testardi nel venire al mondo dove più li aggradava, vivi e rigogliosi. I loro colori erano velati della stessa pennellata sbiadita che dipingeva il cielo. Nella calura dell’estate ogni cosa sembrava più chiara, più leggera, meno brillante dell’esplosione d’energia della primavera, ma non gli occhi della donna. I verde vibrante delle iridi pareva vivo, pareva un’entità a sé che risplendeva tra le fini palpebre scure e le folte e corte ciglia nere. Le labbra morbide e piene erano in grado di dispensare i sorrisi più dolci e quelli più crudeli. Perché la natura null’altro è che questo: una madre amorevole ed una despota maligna.
Le mani forti della donna si strinsero alla gonna leggera che le copriva le bambe tornite, il tessuto resistente lasciava passare la brezza calda, il lino grezzo era stato filato con maestria, ricamato di piccoli e quasi invisibili fiori. La veste avvolgeva il corpo formoso della donna lasciando scoperte le spalle dritte, una generosa scollatura segnava una linea tremula sul seno abbondante, fatta di stoffa arricciata, chiusa da un fiocco lento e mezzo sciolto.
Non portava scarpe, un anello di spighe a adornargli le caviglie e solo la terra asciutta e polverosa a macchiare la pianta più chiara del piede.
Sorrise soddisfatta al campo di grano, carezzando piano qualche alto papavero che cercava di farsi spazio in quel prato giallo, di riuscir a macchiarlo di piccole chiazze rosse e stropicciate.
Non una nuvola, non il volo di un uccello, non lo squittire di un roditore o il ronzio di un insetto che pigro volava in cerca di nettare e di una comoda corolla su cui riposare. C’era solo il silenzio della vastità della valle e il sussurro del vento in risposta al mormorio delle spighe. C’era pace come non ce n’era nel mondo e fu per questo che l’improvviso fruscio di stoffe non fu difficile da notare.
La donna chiuse gli occhi, espirando pesantemente allungò un mano per fiorare le cime del grano, cercando di trovare conforto nel leggero pizzicorio che i fili d’oro le procuravano sul palmo.
 
«Perché devi venirmi a disturbare anche qui, alla fine del mondo?» domandò con voce quieta.
Alle sue spalle un’altra donna stava in piedi dritta ed orgogliosa come una spiga di grano. Ma non erano il giallo confortante e caldo dei grani maturi a colorare le sue vesti: bianco e grigio tingevano l’abito austero e freddo, dritto e plissettato come una colonna. Le spalline rigide parevano i rinforzi di un’armatura di seta, ricamati con minuscole perle di fiume, le stesse che disegnavano linee rette sul corsetto stretto, segnavano la linea obliqua dei fianchi come un busto sagomato. Bianca era la pelle di quel corpo fine e longilineo, biondi i capelli raccolti in un’acconciatura alta da cui non sfuggiva neanche una ciocca, dura era la linea delle sue labbra fini, aquilino il naso, freddi e taglienti gli occhi grigi. Le due donne erano così in contrasto tra loro da sembrare provenire da mondi diversi.
 
«Credevo vi fosse il dominio di Poseidone, alla fine del mondo, non il tuo.» rispose quella con voce ferma. Mosse qualche passo verso l’altra ed il suono delle suole dei suoi sandali sulla terra parve amplificato dall’eco della valle.
«Il mondo finisce dove finisce il nostro di dominio, non quello dei nostri famigliari.» la corresse senza troppo interesse. «Poseidone poi non è in grado di prestar attenzione al suo regno, figurarsi se sia in grado di farlo con i limiti di questo pianeta.»
«È forse risentimento quello che sento nella tua voce?» chiese sibillina la bionda.
La prima donna espirò ancora con pesantezza. «Cosa vuoi da me Atena?» domandò senza troppi preamboli.
La dea aspettò d’esser al suo fianco prima di risponderle, abbassando lo sguardo sui piedi nudi dell’altra e alzando un sopracciglio quasi schifata.
«Come fai a camminar scalza ovunque?»
«La pianta del nostro piede è ciò che ci mette in contatto con ogni superficie su cui camminiamo. Essere in contatto con la terra è importante, poterne sentire tutte le variazioni, tutte le consistenze…» le lanciò uno sguardo valutativo, storse il naso. «Non che mi aspetti che tu possa capire.»
«Trovo solo non sia sempre utile. È controproducente, ricorda cos’è successo a qualcuno che non ha ben protetto il suo tallone.» le rispose piccata da quell’accusa neanche troppo velata.
«Spero vivamente tu non mi stia paragonando ad un mortale, perché in tal caso ti ricorderei anche cos’è successo a qualcuno che ha avuto l’ardire di guadagnarsi una vittoria contro una dea.» la minaccia rimase sospesa nell’aria e Atena fulminò la sua interlocutrice, ancora furiosa alla sola menzione di quel nefasto evento.
Che creature magnifiche erano gli Dei, in grado di vivere in eterno e soffrire in eterno per le stesse cose, covar rabbia, rancore, vendetta e odio per gli stessi motivi, contro le stesse persone.
«Toccare la terra è toccare la natura, è essere in contatto con la vita che ci circonda.» proseguì l’altra. «Per me è importante tanto quanto lo sono l’acqua ed il cielo, tanto quanto lo è la famiglia o il trono per i miei fratelli.»
Atena annuì, lo sapeva, lo sapeva perfettamente.
«Ad ognuno il proprio regno, no?» domandò retorica.
«A Zeus i cieli, a Poseidone i mari e a me e Ade ciò che vi è sopra o sotto la terra. A conti fatti le uniche che non hanno ereditato un dominio sono Era ed Estia. Ma qualcosa mi dice che non sei qui solo per parlare della mia avversione contro le scarpe e della divisione del pianeta che è spettata a noi fratelli dopo la dipartita di nostro padre.»
«No, ovviamente.» annuì Atena. «Sono qui per parlare del problema del momento.»
Demetra alzò gli occhi al cielo. «Perché non mi sorprende?»
«E non ti preoccupa nemmeno? Per l’Olimpo! Sono l’unica che si sta ponendo delle domande?» chiese esasperata.
«Sei l’unica che si sta ponendo dei problemi o meglio, che li sta ponendo ad altri. Cosa c’è che ti infastidisce? Che sia stata un’ottima idea e che non sia venuta da te?» insinuò ghignando.
Atena fece un gesto vago con la mano. «Che avesse le basi per essere un’ottima trovata non fatico ad ammetterlo.»
«Strano.» borbottò l’altra sfregando il piede a terra.
«Ma ho capito fin da subito che ci fosse qualcosa di losco sotto. È stato quell’essere a proporcelo, dopotutto.»
La dea più antica sospirò già annoiata da quella discussione sterile.
«Per l’Olimpo dovrei dirlo io! Non vorrei esser ripetitiva o pedante, ma Atena, nipote mia cara, sarà mezzo secolo che tieni il broncio come una mocciosa? Non tutti veniamo apprezzati da tutti, non tutti provano stima nei nostri confronti e dopo quello che hai messo in piedi contro Clara-»
«Sei universalmente riconosciuta come una delle dee che “tiene di più il broncio” di tutte e vieni a dire a me che faccio la mocciosa quando invece, come è logico e giusto che sia, non mi fido di quell’essere lì? Devo ricordarti come te e Ade ancora litighiate ad ogni dannata riunione?» la sfidò alzando un sopracciglio fino.
Demetra però la trafisse con un’occhiata di fuoco. «Stai seriamente paragonando i tuoi problemi con Giordano al fatto che mio fratello abbia rapito e ingannato mia figlia, strappandomela dalle braccia e costringendola a vivere per sempre negli Inferi?»
«Mi sembra che non ci stia sempre.»
«Questo perché Zeus, in uno dei rarissimi casi della nostra esistenza, ha fatto qualcosa di sensato per sua figlia.» rispose quella a denti stretti.
Atena si strinse nelle spalle con disinteresse, «Se solo anche voi imparaste a non avere figli nello stesso modo degli umani-»
«Se solo tu chiudessi la bocca per una volta e la smettessi di sentirti superiore a tutti solo perché sei uscita dalla testa di tuo padre ti ricorderesti che sei finita lì dentro perché il nostro caro re ha deciso di rubare l’idea a papà e di farti fuori come lui a suo tempo aveva cercato di far fuori noi.»
Il vento soffiò più forte, le spighe mormorarono concordi con la loro signora, frustando il tessuto delicato delle vesti dell’altra.
La dea della saggezza guardò quella della natura senza abbassare lo sguardo, senza voler ammettere una delle tante scomode verità della loro vita.
«Portarmi rancore per ciò che successe a Clara è sciocco e controproducente.» disse risoluta ad aver l’ultima parola.
Ma Demetra era pur sempre una delle prime dee, era pur sempre figlia di Crono, sorella dei tre “pezzi grossi” e di Era: sarebbe finito il mondo prima che quella ragazzina avesse potuta averla vinta contro di lei.
«Portare rancore ad un umano anche lo è. Eppure, tu l’hai fatto e ora tutti i tuoi figli fuggono disperati alla vista di un aracnide qualunque.» un gesto secco della mano impedì alla bionda di replicare, «Sei venuta qui per parlarmi di quanto ti stia antipatico Giordano?» domandò già stanca di quella stupida discussione.
Atena espirò infastidita. «No. Sono qui perché ho parlato anche con Artemide e-»
«Oh, fantastico! Siete probabilmente le dee più odiate da Giordano e vi mettete anche a confabulare contro di lui!» rise Demetra sarcastica.
«Non è un club esclusivo, infatti sono venuta a parlare anche con te.»
«E perché non con Ermes? O Persefone- Non hai parlato anche con mia figlia, vero? Per l’Ade Atena! Sei andata a rompere le scatole anche alla mia bambina?!»
Atena sbuffò. «La tua “bambina” ha un bel po’ di secoli sulle spalle, smettila di trattarla come un’infante! E no, non ho parlato con lei. Non avrebbe senso farlo con Ade in giro, lui sicuramente sarà dalla parte di quell’altro.» ammise senza vergogna.
«Perfetto, allora dimmi, forza, cosa vuoi da me? Cosa siete riuscite ad aggiungere alla lista dei motivi per cui farvi odiare da Giordano?»
La dea della saggezza fece una smorfia infastidita, lasciando che il suo sguardo si perdesse nella marea dorata. «La mia è di sicuro più lunga di quella di Artemide.»
«Oh, ti prego! Non rendere tutto una competizione. È in casi come questi che ricordo quanto tu e Ares siate simili.»
«Non paragonarmi a quel troglodita!» scattò subito la dea più giovane.
«E tu non vantarti di cose futili come queste!»
«Non mi sto vantando, zia, è solo pura costatazione dei fatti. Prima che sua nipote morisse sotto lo stendardo delle sue ancelle Giordano non aveva nulla contro Artemide. Devo ricordarti anzi, che era l’unico uomo a cui era permesso cacciare assieme a lei?» a quelle parole Atena stessa si bloccò, voltandosi completamente verso l’altra dea. «È per questo? Sta cercando l’anima di sua nipote?»
Demetra la guardò senza batter ciglio. «Credi così fermamente che stia cercando qualcuno?» domandò monocorde.
Atena annuì. «Gli serve l’Ade, per questo ha ambientato lì la gara.»
«O forse l’ha ambientata lì perché è dove si trovano i morti.»
«Non essere sciocca! Non far finta di non capire! La giovane è morta e lui ora rivuole la sua anima! Non ha potuto salvare quella di sua sorella, quindi vuole salvarne la figlia!»
Ma Demetra scosse piano il capo, dissentendo silenziosamente.
«Dev’essere così per forza! Non lo vedi? Sta facendo di tutto per portare solo i semidei in finale, perché sa che sono malleabili ma resistenti.»
«Sarebbero comunque arrivati solo loro Atena, le nostre prove divengono ogni volta più difficili, se un comune mortale sarà in grado di superare la mia ne sarò davvero sorpresa.»
«Sì, ma si sta assicurando che ci arrivino i più forti, sta restringendo il campo e lo sta facendo a suo piacimento per velocizzare le cose. Quando solo la nostra progenie sarà ancora in gara ogni singola prova verrà affrontata con l’utilizzo dei loro poteri divini, Giordano aiuterà chi più gli aggrada e chi rispecchierà le sue necessità, ma nessuno di quei ragazzi arriverà veramente alla fine…»
Gli occhi grigi di Atena si agitarono come un cielo tempestoso, parevano biglie trasparenti dentro cui era stata imprigionata la potenza devastante e temporalesca della pioggia. Vibravano di luce fredda e sprazzi azzurri come i lampi di suo padre, la mente lucida e analitica della dea della saggezza lavorava senza posa, correndo in lande lontane come aveva fatto il signore dei Sogni ma in modo del tutto diverso.
«Porterà i suoi prediletti, li spingerà fino alla fine per mostrarci quanto siano forti, quanto potrebbero esserci ancora utili. Allora qualcuno di noi chiederà ad Ade di restituirgli le anime dei propri figli, chiederà di poterli avere al loro fianco così come Ade stesso fa con i suoi. Ci metterà davanti all’evidenza: sono morti e hanno perduto la loro unica possibilità di tornare in vita, osservate quando potenziale inespresso state perdendo, bramateli, bramate la loro servizievole fedeltà e pentitevi di non averli salvati prima. Cederemo, Demetra, cederemo tutti, chi più chi meno. Porterà in finale i suoi preferiti e noi, a quel punto li rivorremo indietro.» mormorò in un soffio, le sue elucubrazioni più simili ad una profezia che ad un ragionamento, un’ipotesi.
«Nessuno di loro vincerà, non permetterà a nessuno dei giocatori di assaporare di nuovo la vita, di mettere le mani sul premio. Troverà sua nipote e la riporterà indietro.» spostò lo sguardo grigio in quello verdeggiante dell’altra dea: il freddo marmo contro la rigogliosa natura, la ragione contro l’istinto.
Demetra la scrutò con attenzione, conscia del fatto che le parole della dea non dovevano esser prese sotto gamba, ma anche certa che non potesse esser solo quello, non potesse essere così facile, per quanto nulla, nel ragionamento di Atena, lo fosse.
«Ti rendi conto di ciò che hai appena detto? Dell’accusa che gli hai mosso?» domandò con voce calma.
L’altra annuì seria. «Certamente. Ma tu non mi credi, vero? No… credi che le mie parole possano essere corrette ma non vuoi crederlo al contempo. Non vuoi accettare il fatto che tradirebbe la nostra fiducia in questo modo.»
Le sue parole parvero quasi un’accusa, una provocazione, il sibilare di un serpente ammaliatore, ma non riuscirono a scalfire la forte corteccia contro cui si scontrarono.
«Oh, mia cara, ma certo che lo credo possibile.» sorrise improvvisamente Demetra, lo sguardo amorevole e accondiscendente, lo stesso sguardo che una madre dedicherebbe al suo bambino, «Se penso a tutto quello che abbiamo fatto a quella famiglia, se solo ripenso a quanto siamo stati sciocchi. Abbiamo ignorato Ada quando questa pregò per una nostra grazia. Abbiamo creduto di poter manipolare Clara quando abbiamo scoperto cosa fosse e poi, come gli sciocchi ambiziosi che siamo, abbiamo creduto di poter creare qualcosa di meglio, di poter usare Giordano come fosse stato un mero giocattolo.
Sono certa, Atena, certa, che se fosse una questione di rancore ci avrebbe già dati tutti alle fiamme, ma sbagli su di un punto, nipote, un punto essenziale.»
Atena non si mosse, la mente che veloce rivedeva ogni passaggio, ogni mossa, ogni minuto passato, presente e futuro. Riavvolse il nastro di quella conversazione e non capì ugualmente cosa volesse dirle la dea.
Il sorriso di Demetra si tese in un ghigno largo e spigoloso, uno squarcio della terra sulle profondità dei suoi abissi e tutto ciò che nascondono.
«Giordano Delle Vie non potrà mai tradire la fiducia che l’Olimpo gli ha accordato perché non ha mai nutrito lui, per primo, fiducia in noi. Ci apprezza come singoli, pochi di noi, e ci disprezza aspramente come intero.» Demetra poggiò delicatamente una mano sul braccio pallido di Atena, il contrasto stridente tra le loro pelli era paragonabile a quello del cielo limpido e del grano d’oro.
«Se questa è però la tua opinione, non farò nulla per fermarti, sappi però che non farò nulla neanche per fermare lui. So che Giordano ha in mente qualcosa, so che la Death Race è stata solo la scintilla che ha incendiato la sua volontà, ma finché le sue azioni non andranno ad alterare lo status quo non muoverò neanche un dito contro di lui. Se tutto ciò che vuole è l’anima di sua nipote, che la prenda pure, non distruggerà nessun precario equilibrio e, personalmente, la cosa non mi sfiora minimamente. Comprendo però che il vostro odio l’un per l’altra vi spinga ad ostacolarvi a vicenda anche per le cose più banali, quindi non cercherò di convincerti del fatto che sia sciocco impedirgli di riprendersi una piccola ed insignificante animuncola. L’unica cosa contro cui voglio metterti in guarda, nipote, è che non tutti, come me, saranno disinteressati a questa storia. Tu speri che i più siano della tua stessa opinione ma posso assicurarti che molti altri saranno dalla parte di Giordano. Molti ti diranno che è il minimo che possiamo fare, che glielo dobbiamo
Atena strinse per un attimo i pugni, un secondo di rabbia prima di riprendere magistralmente il controllo delle sue emozioni, soprattutto di quelle più basse, più umane.
«Mi stai dicendo che lo aiuterai, zia?» domandò alzando il mento in altro, il portamento fiero, la sfida palese nel suo sguardo freddo.
Demetra però neanche si volse a guardarla e ad agio, riprese a camminare tra la marea ondeggiante di spighe mature, lì alla fine del mondo. Del suo mondo.
 
«No, mia cara. Ti sto dicendo che non mi interessa. Che si prenda ciò che vuole se questo non intaccherà le nostre leggi supreme.»
«E se lo facesse?» chiese ad alta voce, pur conscia che la dea avrebbe potuto sentirla anche se avesse a mala pena sussurrato.
Demetra allungò la mano sfiorando i fili pungenti del grano.
«Se lo facesse, ricorda solo che non tradirò di nuovo mia sorella.»

 
 
*
 
 
Era impossibile non notarlo, persino agli occhi del più disattento degli uomini sarebbe apparso chiaro: non importava la direzione che si volesse prendere, qualunque essa fosse presto o tardi ci si sarebbe ritrovati nuovamente sul sentiero sterrato da cui ci si era distanziati.
Jonas alzò la testa verso il cielo roccioso, domandandosi non per la prima volta dove si trovassero in quel momento, dove fossero non sono nell’Ade ma nel pianta. C’era la sua vecchia Germania sopra di lui, o forse era dall’altra parte del mondo? Forse era in America, visto che a sentir Nathan tutto il mondo greco si era trasferito lì. O magari c’era solo il mare sopra di loro.
Abbassò di poco lo sguardo, lasciando che si perdesse nell’infinita distesa di erba nera che s’apriva in un sentiero brullo di terra luccicante. Dovevano essere i frammenti di vetro delle sfere dei ricordi di Ermes, quelle che i concorrenti dovevano aver distrutto per pura crudeltà, calcoli di gioco o disattenzione. Chissà se qualcuno aveva rotto la sua stessa sfera senza rendersene conto, se erano stati troppo lontani perché il ricordo rientrasse in loro o se magari, sgomenti nel rivedere ciò che avevano perduto, avevano lanciato via il globo vetroso nella speranza di non riappropriarsene. Chissà se c’era qualcuno che aveva preferito l’oblio eterno ad un frammento dannato della loro vita.
La mente gli volò veloce alla sfera che stavano trasportando con loro, che odorava di pioggia, fango, ferro e sangue, la sfera dei ricordi di Cade. Sapere che Eliza la portava con sé, ben al sicuro tra le pieghe della sua giuba, faceva crescere in lui una speranza che non credeva più d’avere.
 
Ma era proprio questo il desiderio di Cade, è proprio per questo che non ci ha detto nulla delle ferite, perché voleva che continuassimo a sperare di potercela fare.
 
Cade però non c’era, l’unico amico che si era fatto in quel luogo maledetto era scomparso e malgrado tutti gli avessero detto il contrario Jonas sapeva, lo sapeva dannazione, che era tutta colpa sua.
Erano successe troppe cose, tutte assieme e devastanti. Jonas non credeva di potersi sentire di nuovo così stanco eppure, ora che ne era consapevole, sentiva i classici sintomi invadergli le membra non più così inesistenti. Era affaticato, gli formicolavano le gambe, di tanto in tanto il ginocchio destro sembrava non riuscire più a sopportare il peso del corpo e Jonas era costretto a piegarlo alla svelta, cercando di bilanciarsi come meglio poteva.
Neanche i suoi compagni erano messi meglio: Jane arrancava tenendosi la gonna, cercando di non inciampare nei bordi sfilacciati, il volto pallido sembrava più malaticcio del solito ed i suoi capelli, se possibile, parevano più sporchi, appiccicati alla fronte come se avesse sudato parecchio.
 
E l’ha fatto, abbiamo corso in continuazione da quando è iniziata la gara, non ci siamo fermati un attimo.
 
Dietro la ragazza Lea ed Úranus chiacchieravano piano e lentamente. La figlia di Apollo pareva rammaricata per qualcosa, forse anche lei si sentiva in colpa per la sparizione di Cade, forse per non esser riuscita ad aiutarli tutti subito quando avevano avuto la geniale idea di fargli utilizzare i suoi poteri - di provarci per lo meno - o forse era rimasta davvero offesa dal fatto che Úranus avesse rivelato il suo genitore divino agli altri prima di farlo con lei.
Jonas aggrottò le sopracciglia. Era un poco infantile come cosa, persino lui se ne rendeva conto, ma effettivamente, se Cade avesse detto a- Lea a Lea stessa, chi era suo padre, senza averlo detto prima a lui… insomma, non che il rosso gli dovesse qualcosa, per di più Jonas non avrebbe proprio potuto rinfacciargli nulla visto il segreto che lui di portava dietro.
 
Più di uno, ma che differenza fa?


Abbassò definitivamente lo sguardo, fissandosi le mani bianche e screpolate, macchiate qui e lì di nero granuloso e luccicante.
Non che cambiasse qualcosa, aveva ampliamente dimostrato di essere inutile se non pericoloso, aggiungerci l’aggravante di morte, vita e genitore divino non avrebbe comunque potuto peggiorare le cose. O forse sì, forse la vita in particolare avrebbe potuto far danni, anche perché per quanto riguardava la morte, in un qualche modo, Jonas l’aveva già sganciata la bomba.
 
Bomba…guerra- la Seconda Guerra mondiale.
 
Con un tempismo del tutto inadatto alla situazione Jonas ricordò la proposta di Nathan di raccontargli cos’era successo dopo la sua morte, come fosse finito quel dannato decennio di cui lui aveva visto a mala pena la metà.
 
E chissà quanto dev’essere peggiorato dopo il 1936.
 
Ma non era quello il momento, dovevano pensare a trovare il ricordo di Úranus e a ritrovare il proprietario del ricordo che invece portavano con loro. Anche se forse…
Jonas guardò le spalle ampie e ben aperte del soldato, che camminava davanti a tutti assieme ad Eliza, mormorando qualcosa d’incomprensibile malgrado non gli fosse neanche ad un paio di metri di distanza. Forse quello era il momento giusto invece, un attimo di pausa, di pura marcia in cui avrebbe potuto far domande e aver risposte. O forse stavano parlando di qualcosa di importante ed era meglio che non li disturbasse.
Jonas grugnì infastidito dai suoi stessi pensieri: si stava di nuovo facendo problemi inutili nell’andare a disturbare la gente, a dargli fastidio. Era così sciocco. Certo, lui e Nathan non avevano decisamente lo stesso carattere, ma se fossero stati a parti invertite Jonas non avrebbe avuto problemi a raccontargli qualunque cosa, a fargli sapere cosa si era lasciato alle spalle. Eppure lui esitava, non voleva essere un fastidio, un moccioso che chiede e chiede e chiede, che vuole risposte ma non le vuole davvero sentire.
La triste verità era anche questa: per quanto Jonas volesse a tutti i costi sapere in che dannato inferno avesse lasciato le persone che amava, al contempo non voleva saperlo. Non voleva sentirsi ancora più in colpa, non voleva immaginarsi scenari apocalittici, non voleva immaginare e lo sapeva, Jonas era sicurissimo che non appena Nathan avesse aperto bocca lui avrebbe immaginato sua madre, suo nonno, Ludwig, i suoi compagni di classe, persino Virginia, in ognuna delle situazione che il soldato sarebbe andato a descrivergli. Non voleva immaginare i ragazzi sanguinanti, feriti, che imbracciavano armi e uccidevano ragazzi della loro stessa età, padri e fratelli. Non voleva immaginare le donne scappare da mostri in divisa nera, le urla, i pianti… non voleva immaginare di nuovo quell’uomo seduto al lungo tavolo della sfarzosa sala da pranzo delle grandi occasioni, quella con i grandi quadri ed il lampadario scintillante.
Jonas lo ricordava, il lungo e lugubre corteo che aveva scortato quell’anima maledetta nelle profondità dell’Ade, dritta verso i luoghi più oscuri e desolati dell’enorme cratere che erano i Campi di Pena. Aveva sfilato anche per la sua terrazza, l’ottava, così lontana dal fondo, così vicina alla cima ma non abbastanza per poter scorgere un frammento della pacifica calma dei senza ricordi, delle Praterie degli Asfodeli.
Un brivido di puro piacere lo animò al ricordo del capo chinato, delle catene, delle lunghe lance con cui lo pungolavano per farlo camminare. Ma subito dopo c’era il vuoto. Saperlo morto, saperlo finalmente nel luogo in cui meritava di essere non gli aveva portato davvero tutta la gioia che credeva avrebbe provato. Gli avevano detto quanti anni erano passati, gli avevano detto come il suo popolo e la sua terra era stata messa a ferro e fuoco dalle idee di quel folle e dei suoi seguaci per altri dieci lunghi anni, ed era morto, ora era definitivamente morto e chissà sulla terra le grida festose, le lacrime ed i canti dov’erano arrivati ma- dieci anni.
Jonas non aveva mai realizzato il verso senso di quelle parole finché Nathan non aveva parlato di una seconda Guerra Mondiale.
Non era certo uno sciocco, aveva immaginato quali e quanti danni quel pazzo aveva potuto fare, ma da lì a scatenare un conflitto mondiale, il secondo in circa vent’anni… a scuola andavano ripetendogli in continuazione quanto i dazi ed i costi da pagare per la sconfitta della grande guerra avesse distrutto il loro paese, quanto Francia ed Inghilterra si fossero accanite senza pietà solo su di loro, impendendo ad un popolo ferito di leccarsi le ferite e rimettersi in piedi e ora qualcuno gli diceva che era successo di nuovo, che ancora una volta la Germania aveva sofferto. A livello logico sapeva che spesso le parole dei suoi insegnati, di suo nonno e di tutti gli adulti erano intrise di rabbia, vergogna, voglia di rivalsa, di vendetta, ma adesso si domandava se tutto quello che gli era stato insegnato fosse vero o meno.
Avevano mentito su così tante cose, perché non potevano aver mentito anche su quello?
Stringendo i pungi Jonas prese un respiro profondo ed accelerò il passo: aveva creduto ciecamente alle parole degli altri, non aveva mia fatto domande, accettando tutto ciò che gli era stato detto come vero, ora, era arrivato il momento di chiedere lui ciò che voleva sapere e farlo con qualcuno che non aveva alcun interesse a mentire era senza ombra di dubbio la cosa migliore da fare.
 
E se interrompo qualcosa di importante, al diavolo! Me lo diranno e aspetterò che finiscano, ma voglio sapere, devo sapere.
 
Dal momento in cui tutte le sue certezze erano crollate, quando aveva perso l’unico amico che si era fatto, quando aveva rischiato di esser sopraffatto dal suo stesso potere, quando aveva visto l’orrore nelle vite dei suoi compagni, quando aveva scoperto di esser morto ma non poi così morto, Jonas decise che era arrivato il tempo di sapere cos’era successo ai vivi, cosa era successo dopo la sua fuga.


Affrontare ciò da cui sono scappato.
 
 
 
 
Lea aveva ascoltato in silenzio tutto il racconto di Úranus, come fosse stata la sua vita, come fosse casa sua, sua madre, suo padre. Si era sentita ferita quando aveva scoperto che il ragazzo aveva rivelato quel piccolo quanto essenziale dettaglio agli altri e non a lei, rompendo quella tacita ma comune promessa di non chiedersi l’un l’altro cose della loro vita passata che avrebbero potuto ferirli. 
Non era davvero una cosa importante, o meglio, lo era, certo che lo era, ma non era davvero importate perché nella sua precedente vita, se c’era una cosa che aveva imparato anche a sue spese, era quanto inutili fossero gli schemi in cui una persona veniva incasellata dalla società, dal proprio passato, dalla propria famiglia, dalla propria terra d’origine.
Lei era stata sempre “l’orfana”, la bambina abbandonata, sicuro frutto di un amore clandestino, di un tradimento, magari addirittura di una violenza, chi poteva saperlo. Era sempre stata quella sfortunata, che non aveva una vera famiglia, la bambina troppo alta per essere carina, per esser vista sotto una un punto di vista romantico. Era quella adottata da un medico, la povera ragazza costretta a crescere solo con un uomo e che, per altro, non poteva darle le attenzioni che necessitava perché impegnato in una professione così impegnativa. In molti avevano creduto, pur non dicendolo apertamente, che Giovanni l’avesse adottata solo per aver un giorno una fedele assistente cresciuta esattamente come voleva lui, ed era davvero aberrante sapere che la gente la credesse null’altro che un cagnolino ben ammaestrato sin dalla tenera età.
Elena non rientrava negli stereotipi della brava infermierina, di quella dolce e devota al suo superiore, sempre gentile con i pazienti. Non che non lo fosse, sia mai, Lea era la professionalità fatta persona quando lavorava, ma quante volte matrone e donne adulte l’avevano guardata con disapprovazione o rimbeccata non appena Giovanni aveva lasciato la stanza, per aver risposto a tono al Signor Dottore?
Poteva quindi comprendere la paura di Úranus di rivelare il suo genitore divino. Fobetone era una divinità magnanima e tranquilla a detta del figlio, ma incarnava pur sempre le paure più recondite di ogni essere e magari il ragazzo temeva di esser mal giudicato. Solo che Lea sperava di ispirare un po’ più fiducia di quanto non le era stata invece accordata.
 
«Continui a non avvertire nulla?» domandò piano, quasi in modo casuale.
Non sapeva come fare a chiedere ulteriori informazioni all’altro senza sembrare sconveniente o peggio ancora, offesa.
Úranus la guardò con la coda dell’occhio e poi scosse lentamente il capo.
«Il mio potere non funziona sempre e costantemente, devo concentrarmi o- o entrare in uno stato di panico tale da non riuscire a controllare tutto ciò che mi circonda.» mormorò.
«Oh. Quindi, quindi senti più cose quando hai paura?» chiese ancora.
Questa volta il giovane annuì. «Il potere di mio padre è basato sulle paure più profonde e più nefaste di ogni uomo, la paura non è una cosa razionale e di seguito neanche il suo utilizzo lo è.» poi si volse verso di lei. «Lea, io sento di doverle delle scuse.»
La figlia di Apollo storse il naso in una smorfia quasi comica: ecco, questo era quello che voleva evitare. «Non hai nulla di cui scusarti e non ricominciare a darmi del lei.» lo ammonì.
Ma Úranus non le diede ascolto. «Invece so di doverlo fare e mi è stato insegnato che l’educazione è molto importante quando-»
«Lascia stare, te ne prego.» sbottò lamentosa. «Non avevi alcun obbligo nel dirmi o meno chi fosse il tuo genitore divino, va bene? Sì, certo, non voglio negare d’esserci rimasta un po’ male ma- il biondastro lì davanti ha detto che non glielo hai proprio confessato di tua spontanea volontà, che te l’ha dovuto estorcere lui in qualche modo. Perciò non è come se tu avessi preferito dirlo a loro e non a me. È stato un caso, era necessario che lui, che è apparentemente quello che ne sa di più del nostro mondo dopo di te, sapesse di chi eri figlio per poter ritrovare me, Jonas e possibilmente anche Cade. Tutto qui. Non porto rancore, non sono tipo, tranquillo.» gli sorrise un po’ impacciata. Poi si riprese subito. «E per l’amor del cielo non darmi del lei! Mi fa sentire vecchia, nella mia epoca si dava del lei agli sconosciuti, sul posto di lavoro o se si voleva fare gli altolocati. Credo che noi non siamo nessuno di questi, giusto?» domandò ampliando il suo sorriso.
Úranus la fissò un attimo interdetto. «Cosa significa “altolocati”?»
Il risolino che scappò dalle labbra della ragazza aiutò enormemente a stemperare la situazione.
«Persone di un rango sociale elevato.» spiegò più leggera «Come un nobile o un uomo di scienza, uno studioso.»
«Noi ci rivolgevamo così a tutti, io lo facevo, ma comprendo ciò che intendi. Molte persone del villaggio non lo facevano nei miei confronti, come non lo facevano con i mendicanti o con i bambini.»
«Mi spiace. Se solo si fossero sforzati di conoscerti avrebbero scoperto che persona gentile e disponibile tu sia.»
Úranus sorrise. «Ero, ora sono un’anima, non più una persona. Anche se…» spostò di nuovo lo sguardo su di lei ed Elena sospirò, conscia di ciò che stava per chiedergli.
«Sì, stiamo riprendendo moltissime caratteristiche di quando eravamo in vita.» accennò un sorrisetto imbarazzato «Alla fin fine non sei l’unico che non ha detto qualcosa di importante, vedi?»
«Cade ti ha chiesto di mantenere il segreto e l’ha fatto anche per una ragione più che nobile.»
Lea sospirò. «Sì, ma forse avrei dovuto aver la prontezza di convincerlo a raccontare tutto anche a voi.»
«Saremmo andati tutti nel panico, sono certo che Nathan avrebbe anche provato a colpirlo.»
«Nah, questo no. È molto più disciplinato di quanto non sembri, sua madre era un vero generale.»
«Ciò non toglie che ne avremmo fatto di certo un dramma.»
«Esattamente com’è successo, solo che ci sarebbe stato anche lui a spiegare la situazione, a consolare Jonas. Ne è rimasto molto ferito.»
Úranus annuì. «È un ragazzo, è molto giovane e inesperto, ancora molto sensibile credo. Ha visto in Cade una figura salvifica, che l’ha trovato nel massimo momento del bisogno, che si è preso cura di lui senza pretendere nulla in cambio. Credo sia normale il modo in cui vi si è affezionato, il modo in cui ha riposto fiducia in lui.»
«Così come è ovvio, dal mio punto di vista, che Jonas sarebbe stato l’ultimo a cui avrebbe voluto dire questa cosa.» continuò Lea. «Giovanni faceva così spesso, sai? Cercava di tenermi nascoste le cose più brutte finché non era impossibile non rivelarmi tutto, come fece con-» si bloccò. Rallentando il passo Lea abbassò il capo e sorrise mesta. «Buon Dio, è proprio vero che certe cose non puoi comprenderle finché non cresci.»
Úranus le lanciò uno sguardo curioso ma decise di non proferir parola: Lea non gli aveva mai chiesto nulla, non gli aveva fatto una colpa per aver rivelato il suo segreto a terzi prima che a lei, così Úranus l’avrebbe ripagata con la stessa moneta: pazienza, comprensione e accettazione.
«Sono sicura che non appena lo ritroveremo Jonas gli salterà addosso e l’abbraccerà fino a piangere.» disse cambiando palesemente argomento.
Il giovane annuì. «Spero succeda presto.» ammise.
«Ma sì! Ritroveremo lui e anche la tua sfera dei ricordi e poi andremo alla prossima linea del traguardo.» lo rincuorò risoluta.
Úranus provò a sorriderle, ma quel lieve incresparsi di labbra non si vide sotto la barba folta.
«Ne sembri molto sicura.»
«Assolutamente! Pensaci, forza! Siamo arrivati fin qui, abbiamo superato prove dure, ci siamo incontrati nel momento del bisogno, Eliza e quell’altro sono stati salvati da un’entità invisibile, poi abbiamo trovato la sfera di Cade quando era impossibile farlo. Qualcuno ci sta aiutando e se devo essere sincera non posso dire che la cosa mi infastidisca.» ammise stringendosi nelle spalle.
«Non credi che, prima o poi, questo aiuto richiederà un pagamento?»
A quella domanda Lea si fermò di colpo, una spiacevole sensazione le scosse le membra morte, ma lei fece in fretta a levarsela di dosso, annuendo solo.
«Sì, è possibile, ma pensa anche a quello che hanno detto gli altri: se qualcuno sta “votando” per farci arrivare dove dobbiamo arrivare, forse l’unica cosa che vorranno da noi sarà la vittoria. In caso contrario, se dovessimo perdere dico, torneremo comunque da dove siamo venuti, no?»
Úranus non rispose, perché non era minimamente convinto di questa cosa, non era certo che in caso di sconfitta sarebbero stati riportati negli Elisi, anzi, in realtà temeva esattamente il contrario. Il discorso di Ade gli parve lontano anni ed anni, quasi non ne ricordava più neanche una parola.
«Spero tu abbia ragione.»
«Certo che ho ragione! Bisogna rimanere positivi! Quindi per prima cosa dobbiamo trovare ciò che ci manca.» trillò improvvisamente ad alta voce. «Se solo la bussola di qualcuno servisse a qualcosa per una volta nella vita!»
Nathan, che stava diversi metri davanti a loro, si voltò di scatto, rischiando anche di colpire in pieno Jonas che gli si era appena avvicinato, alzando il braccio e imprecando malamente contro di lei e contro il fatto che fosse quella dannata prova a non farla funzionare perché “in vita” era stata sempre utile se non essenziale.
Lea alzò gli occhi al cielo ma sorrise. «Allora puoi dirci dove ci sta portando?» gridò di rimando.
«Ma porco Zeus! Ne abbiamo parlato prima, dove cazzo eri? Al bar? Stiamo andando verso i Campi Elisi!»
«Quindi non proprio dove dovremmo andare visto che, in ipotetica eh!, dovremmo essere alla ricerca del ricordo di Úranus e di quella testa rossa di Cade!»
«Credete che potremmo trovarlo al traguardo?» domandò allora Jonas, l’espressione contrariata come se avesse dovuto rinunciare a far qualcosa di importante.
«Dal labirinto uscì prima di noi.» fece notare tranquilla Eliza.
Nathan grugnì. «Questo solo perché noi ci siamo fermati a salvare cenerentola, qui.» disse indicando Jane con il pollice.
La giovane alzò un sopracciglio, scettica. «Da quel che ricordo lui si è addentrato nel labirinto per recuperare il suo coltello, quegli strambi guanti che porta il ragazzino e poi ha salvato anche il ragazzino stesso.» replicò velenosa.
«Ehi, lo sai che il ragazzino ha un nome?» le fece eco Jonas con lo stesso tono acido. Jane neanche lo degnò di uno sguardo.
«Ti abbiamo tirato fuori dalla fottuta edera.» le ricordò Nathan.
Eliza sbuffò. «L’ho tirata fuori dalla dannata edera.» rimarcò facendo brontolare ancora il soldato.
«Sapere chi ha tirato fuori chi in quale tempistica ci aiuterà a ritrovare sfera e irlandese?» chiese Lea avvicinandosi ai compagni.
«Le Praterie ci stanno spingendo verso un punto preciso, ce ne siamo accorti tutti. Non so quanto ci sarà possibile deviare il sentiero per cercare persone o oggetti.» s’intromise Úranus cercando di porre fine all’ennesimo bisticcio infantile dei suoi compagni.
Nathan imprecò. «Ovviamente non gliene frega un cazzo a nessuno di cosa vogliamo effettivamente fare noi, sicuro gli Dei vogliono solo che arriviamo presto alla prossima prova di merda e che mettiamo su un bello spettacolino per loro. Devono esser più che soddisfatti del numero di anime che sono riuscite a recuperare quelle pallette di merda.»
Jane annuì. «Ne sono disgustata, ma sono d’accordo con lui.»
«Quale onore.»
«Fattelo bastare, non ne arriveranno altri.»
«L’hai detto anche l’ultima volta.»
«Quelli erano consigli.»
«E non è la-»
«Úranus.» disse con tono duro Eliza fulminando con lo sguardo gli altri due. «Non riesci a percepire Cade?»
L’uomo scosse il caso. «Come stavo spiegando a Lea, il potere di mio padre non funziona come quelli delle altre divinità, non è sempre una cosa che posso comandare. Alle volte posso riuscire in qualcosa concentrandomi, altre volte l’eccessiva concentrazione può portare a risultati infelice.
«Ma dai?» sbottò Jane ancora risentita. La seconda occhiataccia di Eliza in meno di due minuti la fece tacere immediatamente.
«Molto più spesso sono stati di panico o paura che alimentano il mio potere e lo fanno “funzionare” a pieno regime.»
Jonas rabbrividì. «Evitiamo il panico per favore.»
«E il tuo stesso ricordo? Deve scatenarti qualche emozione negativa, anche la semplice frustrazione, il fatto di non averlo ancora recuperato.» provò Eliza.
L’altro annuì ancora. «Ho pensato la stessa cosa ma- è come se vi fosse un tendaggio da me e lui, avverto che in queste lande c’è qualcosa che mi appartiene, che mi appartiene profondamente, ma qualcosa ci divide. So che c’è ma non so dove.»
Un forte battito di mani fece saltare tutti sul posto, Lea sorrise radiosa ai compagni. «Questa è una magnifica notizia!»
«Tu te la sei fumata l’erba degli Asfodeli.» Sbottò Nathan dopo un attimo di silenzio.
Con un gesto vago della mano Lea scacciò quella stupida insinuazione e afferrò il braccio di Úranus.
«Ma non capite? Avverte la sua presenza! Sa che c’è ma non sa dove! Questo vuole dire che il suo ricordo è ancora intatto! Che ovunque sia c’è, esiste! Nessuno l’ha rotto! Saranno passate ore da quando questa quarta prova è iniziata e nonostante tutto la sua sfera di Ermes è ancora intatta!»
«Beh… questo è un punto di vista inaspettato.» disse Jonas aggrottando le sopracciglia. «Ma non sappiamo dov’è.» ripeté però per buona misura.
«Forse vicino al traguardo?» ipotizzò Eliza. «Spiegherebbe perché non l’abbiamo trovata fino ad ora e perché è ancora intatta. Chi arriva alla fine di questa prova ha già il suo ricordo e nessun interesse verso un’anonima sfera sconosciuta.»
«Pensi seriamente che nessuno farebbe il ragionamento “se la rompo è uno sfidante in meno”.» chiese Nathan scettico. «Non ci credo neanche un po’. Dev’essere nascosta per bene se nessuno l’ha ancora rotta.»
«Ed è l’unica opzione?»
«Se no qualcuno l’ha presa ma non l’ha rotta. Ma di nuovo, a quale scopo? Che interesse possono avere?»
I sei rimasero in silenzio per una manciata di minuti, finché Eliza non sospirò.
«Ci sarebbe un altro modo per trovare Cade e la sfera.» iniziò alzando lo sguardo sui suoi compagni. «Potremmo usare i nostri poteri.»
Jonas fece una smorfia. «Hai già dimenticato cos’è successo l’ultima volta? Io passo, grazie.»
«Sinceramente neanche io muoio dalla voglia di riavere uno di loro due nella mia testa.»
«Non eravamo nella tua testa! Non leggo il pensiero, per l’amor del cielo!» sbottò subito il ragazzino sulla difensiva.
«Non parlavo del tuo potere.» s’intromise di forza Eliza, «Ma di quello di chi non ha ancora provato ad utilizzarlo.»
Úranus si volse piano verso Lea. «La tua luce?» chiese a bassa voce.
La ragazza scosse il capo, «Non credo di esserne in grado e non credo neanche di poterla utilizzare per trovare una persona in movimento. Quanto alla sfera-»
«Parlavo di me e di Jane.» la interruppe subito la figlia di Nike. «Ecate è la Dea della magia, giusto?»
«Oh, sarebbe fantastico se solo Maga Magò sapesse far qualcosa.» soffiò acido Nathan guardando con fare eloquente Jane.
La ragazza alzò un sopracciglio. «Cos’è un “Maga Magò”?»
«Cristo iddio…»
«Credo sia una persona, non una cosa.» suggerì Jonas. «Sembra il personaggio di una favola per bambini.»
«Sì, è la cattiva della “Spada nella Roccia” della Disney.» spiegò il biondo disgustato dal dover raccontare certe cose a degli adulti. Adulti che per la maggior parte ignoravano anche l’esistenza della Disney in effetti.
Jonas lo guardò sorpreso. «Fa ancora film?»
«Lui no, visto che è bello che morto, ma sì, ne fanno a tonnellate.»
«Cos’è un film?» domandò Úranus.
«Ehm… è un po’ complicato da spiegare… vedi, nel futuro siamo riusciti a produrre delle immagini perfette di oggetti, ambienti e persone, con uno strumento chiamato “macchina fotografica”, ed è proprio l’immagine perfetta identica. È la luce che si specchia su una superficie sensibile che-»
«OKAY!» sbottò Nathan interrompendo Jonas «La lezione di storia gliela facciamo un’altra volta, che dici? Ora possiamo concentrarci sul fatto che la ragazza delle Praterie non sappia fare un cazzo e che la tua proposta fa acqua da tutte le parti?» domandò riportando l’attenzione su Eliza.
La soldatesse gli regalò una smorfia infastidita. «Spero tu sia cosciente del fatto che utilizzi gli stessi termini di Cade.» gli fece notare spietata.
«È perché gli manca.» sogghignò Lea.
«Non mi manca il roscio di merda! Mi è scappato, okay?»
«Possiamo smetterla di parlare di quanto siano ridicoli i tuoi tentativi di negare la verità e concentrarci sul fatto che hai bocciato un’idea senza neanche sentirne la spiegazione?» gli fece il verso Jonas incrociando le braccia al petto.
Nathan aprì bocca per replicare ma Lea lo batté sul tempo. «Cosa proponi, Eliza?»
La figlia di Nike drizzò la schiena e prese un respiro profondo. «Jane, quando eravamo nel labirinto, ha creato un sorta di freccia luminosa che ci ha indicato la direzione da seguire. Capisco che questa non è la stessa situazione, ma se al suo potere aggiungessimo il mio…»
«Avere il favore di una figlia della vittoria potrebbe aiutare enormemente Jane. L’inesperienza sorretta dal favore divino.» concluse al posto suo Úranus.
«Credete seriamente che il mio potere sia sufficiente a fare una cosa del genere? Quell’incantesimo indicava la direzione da prendere per uscire da un luogo, non per trovare una persona o un oggetto. Un anima e un oggetto, per la precisione.» sbuffò la giovane stringendosi le braccia alla vita.
«Ma dobbiamo provarci, è la nostra unica possibilità. Questo o aspettare che Cade, ovunque sia, ci trovi da sé.» concluse Eliza guardandola dritta negli occhi.
Lea si fece avanti ponendo una mano sulla spalla della mora. «Possiamo avvicinarci un poco alla linea del traguardo, continuare a seguire il sentiero, e quando avvisteremo il punto d’incontro della prossima prova ci fermeremo, ci metteremo in disparte e proveremo a trovare Cade ed il ricordo. Sembra sensato?» domandò poi gentilmente.
I ragazzi sbuffarono ed annuirono, Nathan voltò subito le spalle a tutti e ricominciò a marciare, seguito immediatamente da Jonas che, tentennando, lo afferrò per la manica del giaccone mimetico attirando la sua attenzione e chiedendogli qualcosa a bassa voce. Il soldato si irrigidì per un momento ma poi annuì serio, piegandosi leggermente verso il ragazzino, pur mantenendo una certa distanza.
Eliza sospirò e lì seguì, conscia del fatto che Jonas doveva essersi deciso a chiedere informazioni sulla famosa guerra che si era consumata poco dopo la sua dipartita. Si voltò a guardare Jane e le fece cenno di affiancarla, «Vogliamo discutere del piano? Puoi spiegarmi quanto in là può andare il tuo potere?»
Jane fece una smorfia. «Potrebbe andare più in là di quanto io non sappia, ma non è detto che io sia in grado i farcela. Nessuno me lo ha insegnato e i miei tentativi passati non sono finiti proprio per il meglio.» ammise infastidita.
Lea si fece avanti sorridendo. «Questo allora potrebbe essere un buon momento per riuscire a scoprire qualcosa di più sui poteri di tua madre e su come utilizzarli. Sei rimasta vigile per tutti questi anni nelle Praterie, hai mai provato a fare qualche magia?»
A quella domanda Jane fece un’altra smorfia. «Sì… avevo degli- come chiamarli… appunti? Sì, qualcosa del genere. So fare delle magie, nulla di utile evidentemente, o comunque, nulla di utile per me
La figlia di Nike la guardò attenta. «Cosa intendi per “per te”?»
«Ho avuto centosei anni per allenare quel poco di magia che il sangue divino di mia madre mi ha concesso, perché ovviamente non poteva donarmi poteri incredibili, no?»
«Non funziona sempre così. I poteri che ti vengono donati alla nascita sono casuali, specie se si è figli di divinità molto prolifere. Solitamente i semidei che possiedono, seppur in modo ridotto, tutte le doti dei proprio genitori, sono coloro che hanno pochi fratelli. Figli di Zeus, di Poseidone, di Ade, dei tre grandi fratelli.» spiegò Úranus.
«Quindi tu rientri tra questi?»
Scosse il capo. «Io ho molti dei poteri di mio padre, ma, per esempio, non sono in grado di comunicare con gli animali, non posso portare malattie e malanni. Il potere di mio padre agisce anche sul corpo, mentre io sono più legato alla mente.»
«Io ad esempio ho un lieve controllo sulla luce e sul calore, ma mio fratello era in grado di illuminare a giorno una stanza buia. Credo sia un po’ una roulette.»
Gli altri tre la guardarono un po’ perplessi e Lea sorrise impacciata. «Un gioco d’azzardo, una pallina che gira dentro una ruota con delle caselle, bisogna scommettere che la pallina finisca in una di queste e non si può pilotare il gioco, quello che capita capita.»
«Esattamente. Anche i figli di Nike non sono molti.» continuò Úranus. «Questo rende Eliza potenzialmente più forte e capace di Lea o di te, o di Nathan anche.»
«Abbiamo la fortuna con noi, quindi.» sbuffò ironica Jane.
«La vittoria. La fortuna è Tiche.» la corresse il giovane senza farci davvero caso. «Purtroppo per noi, però, la vittoria è incerta, Eliza dovrà mantenere la massima concentrazione.»
«Lo farò, ce la faremo.» li rassicurò lei. «Ora dobbiamo solo capire come.»
Lea storse il naso, «Speriamo solo che la tanto decantata fortuna irlandese di Cade servirà a qualcosa, a lui o a noi.»
 
 
 
*
 
 
Sul mando erboso nero come la notte, si muovevano lente e luminose piccole ombre traballanti. Blu come il cielo senza stelle, trasparenti come i veli che adornavano le vestali, si agitavano fiammelle tremule a pochi centimetri da terra, fluttuando come lucciole tra gli steli immobili.
C’era stato un tempo in cui i fuochi fatui si potevano trovare in ogni angolo del pianeta, su ogni landa toccata dagli Dei e non, un tempo in cui queste piccole manifestazioni di magia, di energia pura e sensiente veleggiavano quiete non appena il sole calava, quando le notti erano profonde o quando le nubi scure coprivano ogni fonte di luce. I fuochi fatui erano speranza e avvertimento, erano la strada per tornare a casa e quella predestinata dal Fato.
Nell’Ade erano comuni e facili da trovare, se si era in grado di vederli.
Nei Campi di Pena, no.
Erano passati così tanti anni dall’ultima volta che Cicno ne aveva scorto uno, così tanto tempo che non si stupì quando il suo cuore, o qualunque cosa ci fosse ora al suo posto, si contrasse in una morsa dolorosa. C’era stato un tempo in cui i suoi piedi nudi avevano calpestato erba verde e fresca, tranquilli e sicuri, seguendo la via che quelle fiamme bluastre segnavano nel mondo dei vivi.
I fuochi fatui erano una manifestazione dell’Oltretomba però, dei luoghi più profondi della Terra, dove dimoravano esseri ancestrali e pericolosi, potenti e magnifici come la Notte e tutti i suoi figli. Era così curioso come molti Dei ed entità collegate ai cieli, alle stelle, al mondo al di là del loro fertile pianeta, fossero relegati nel buio pesto del suo stomaco.
Cicno lasciò che una minima contrazione muovesse il suo labbro, l’angolo si piegò per un attimo in un accenno di sorriso, ironico, beffardo, mesto.
I figli di Apollo, quelli dell’Auree, di Eos, di Iris, tutti i discendenti di coloro che avevano a che fare con la luce ed i figli di Ade, di Thanatos, di Ipno, di Morfeo, tutti coloro che avevano a che fare con il buio e le tenebre, potevano vedere i fuochi fatui. A loro era permesso scorgere le piccole fiammelle anche quando queste non volevano necessariamente palesarsi a loro, anche quando semplicemente lasciavano una traccia vaga del loro passaggio sul suolo mortale. Cicno non aveva mai saputo se esserne felice o meno, se saper di poter trovare sempre i fuochi fatui fosse una delle poche fortune derivategli da suo padre o l’ennesimo tormento.
Perché i fuochi fatui, oltre alla speranza, alla via di casa, al grande destino di eroi e contadini, erano simbolo di morte, erano simbolo di passato, di vita passata. Passata oltre. Ed ora, sull’erba nera scintillante di cocci rotti e frammenti pulverulenti di ricordi, i fuochi fatui danzavano come delicati ballerini su note silenziose, che solo loro potevano udire, che solo loro sapevano riconoscere, dipingendo gli steli e loro stessi di rifessi accecanti in un logo di oscura perdizione come lo erano le Praterie degli Asfodeli.
Cicno abbassò il capo per osservare quelle ondate di fine sabbia che s’alzavano ad ogni suo passo. Il suo signore gli aveva detto che sarebbe stato facile trovare la via per la prossima prova e per il resto di quella strampalata compagnia che gli era stata affidata, ma non si era immaginato neanche per un momento di ritrovare quei vecchi e cari, quando spaventosi ed odiati, amici a scortarlo fino alla meta. Che quell’essere fosse potente era un qualcosa con cui Cicno era già sceso a patti, specie dal modo in cui era stato in grado di scrutare la sua mente, trarne ogni informazioni, scorgerne i segreti più reconditi ed i desideri più oscuri, così come per il modo con cui si era rapportato con un dio.
 
E non uno qualunque, Fobetore, che anche i grandi dodici sui loro scarni dorati guardano con una certa apprensione.
 
Aveva conversato con colui che teneva le redini di tutti gli incubi del pianeta e l’aveva fatto come se fosse un compagno.
Il suo signore doveva essere ancora più potente però, se era riuscito a piegare al suo volere anche i fuochi fatui. Questo, o ciò che stava facendo si sposava perfettamente con il volere del Fato.
E Cicno non sapeva quale delle due opzioni fosse più spaventosa.
Espirando piano la sua frustrazione dal naso alzò il capo per osservare un piccolo gruppo di quattro fuochi fatui muoversi in cerchio davanti a lui. Più in avanti altri fuochi danzavano, si rincorrevano mollemente sussultando ad ogni stelo troppo alto che rischiava di lambirli.
Volse poi la testa verso il suo compagno e lo trovò a scrutare l’infinità delle Praterie, lo sguardo vacuo di chi si sta perdendo nella Foschia, nei ricordi ed in sé stesso.
 
Proprio quello di cui necessitiamo in questo momento.
 
Storse il naso e si costrinse ad abbozzare un sorriso, falso come la promessa di un mercante ma scintillante come il più bello dei monili.
 
«Sei silenzioso, avevo creduto fossi un grande oratore.» lo provocò blandamente, attirando la sua attenzione.
Cade si voltò verso di lui e abbozzò un sorriso molto più incerto ma di gran lunga più vero del suo.
«Pensavo. Ogni tanto capita anche a me.» disse scherzando.
Ma l’autoironia non era proprio qualcosa che Cicno comprendeva fino in fondo. «Perché dici così?» domandò infatti, «Qualcuno ti ha accusato di non esser in grado di riflettere da te?» e pensare che il suo popolo se ne faceva sempre un gran vanto dei proprio pensatori.
Cade scosse la testa. «Mi hanno detto che sembro un po’ stupido.» ghignò stavolta.
L’altro alzò un sopracciglio. «L’apparenza può ingannare, se sei giunto fino a qui e sei sopravvissuto a tutte le prove non puoi essere né uno stolto né un debole.» lo blandì con parole gentili ma che suonavano più come semplici costatazione dei fatti. Non voleva fargli dei complimenti, non voleva sembrare troppo amichevole o il semidio si sarebbe aspettato lo stesso comportamento anche con gli altri.
 
E gli Dei me ne scampino se vorrò fare questo stupido gioco anche con altre sei persone.
 
«Avevo aiuto.» precisò il rosso.
«Sono gli eserciti a vincere le guerre, non i singoli. Gli eroi sono rari e sono comunque sempre aiutati da scudieri e protettori divini.» disse alzando gli occhi al cielo, ad indicare la volta rocciosa.
Cade lo guardò per un lungo istante inclinando la testa verso sinistra. «Credi che siano gli Dei che ci stanno facendo andare in questa direzione?» chiese a bruciapelo.
Cicno accennò un sorriso. «Non sto seguendo il volere degli Dei, perché non ve n’è uno in grado di comandare la mia stella quando lo è il Fato.» mormorò vago.
«Che vuol dire?»
Il sorriso si ampliò, facendosi più affilato. «Non ci stiamo muovendo con casualità, non ci stiamo affidando a Tiche, la fortuna,» specificò quando lo vide pronto a domandare, «stiamo seguendo il sentiero illuminatoci da altri. Non vedi?» chiese questa volta lui alzando un sopracciglio.
Cade portò lo sguardo davanti a loro, sulla valle desolata in cui non vi era nulla se non erba nera, luccichio di sfere dei ricordi di Ermes rotte e qualche pietra qua e là. Com’era possibile che con tutte quelle anime in gara non ve ne fosse neanche una nei loro paraggi?
In ogni caso, Cade, non vedeva assolutamente nulla.
«Nah.» disse candidamente voltando di nuovo verso il ragazzo.
Cicno combatté strenuamente contro la voglia di alzare gli occhi al cielo, imprecare pesantemente contro suo padre, contro il suo signore che gli aveva affidato quel tipo e poi rifilare a suddetto tipo una testata sul naso. Tanto era più alto di lui, ci sarebbe arrivato perfettamente.
«A quando pare non sei figlio di una Dea.» rispose a denti stretti.
Il volto di Cade cambiò immediatamente, passando dall’innocente ma conscio sorriso stupido ad un’espressione dura e attenta.
«In che senso?»
Cicno ghignò. «Non vedi ciò che vedo io, quindi non sei figlio della divina Eos o della divina Iris. Le Dee dell’Aurora e dell’Arcobaleno. Non sei neanche mio fratello, quindi non sei figlio di Apollo e questo restringe le possibilità davvero a pochi Dei, tutti uomini.»
«Perché dici questo? Cosa vedi che io non riesco a vedere?» continuò cercando di evitare di parlare il più possibile di suo padre.
Se l’altro se ne accorse – e lo fece – non disse nulla. «Vedo i più antichi viandanti di questo mondo, coloro che segnavano le strade ed i destini degli uomini prima ancora che Ermes Piede Alato prendesse possesso del suo dominio e diventasse il patrono dei viaggiatori e dei perduti. Si chiamano fuochi fatui, piccole fiamme blu come quelle degli Inferi che sfiorano le terre della superficie per farsi scorgere solo dai bisognosi e da coloro a cui vogliono palesarsi. Alcuni di noi, figli di divinità legate alla luce o all’oscurità, possiamo scorgerli. Tu non fai parte dei figli della notte, quindi devi essere necessariamente discendente di quelli della luce, ma se non puoi scorgere i fuochi fatui anche contro la loro volontà, significa che non sei figlio delle Dee che ti ho prima nominato.» spiegò con semplicità, interiormente tronfio del bel suono che aveva finalmente ripreso la sua voce, come le parole uscissero fluide e melliflue dalle sue belle labbra.
Cade non aveva perso il suo cipiglio serio per tutto il tempo ed ora lo scrutava con un’attenzione che non gli aveva ancora dedicato, forse credendolo non necessario.
Sapeva così tante cose più di lui, conosceva così bene il loro mondo da esser persino in grado di eliminare dalla lista di infinite divinità alcune di quelle che non potevano essere il suo genitore divino per via di piccoli particolari come il non vedere i fuochi fatui.
 
«Li ho visti più di una volta, in vita. Fanno parte del folclore e delle legende tradizionali del mio popolo. Loro, i folletti, le pentole d’oro ed un’infinità di altre creature. Mi stai dicendo che sono qui anche ora?»
Cicno annuì. «Ovviamente, loro sono sempre tra di noi e qui… questo è il loro giardino, sono le terre che confinano con il luogo da cui sono originati.»
«Intendi il Tartaro?» domandò cogliendo quasi l’altro di sorpresa.
Quindi non era così stupido, interessante.
«Esattamente. Provengono da lì. Sono manifestazioni senzienti. Se volessero nascondersi anche da me potrebbero farlo, certo, ma pare non ne abbiano motivo e siano invece così magnanimi da indicarci il percorso da seguire per giungere al nostro obiettivo.»
«Come puoi sapere che ci stanno portando proprio lì e non fuori strada?» lo sfidò quasi.
Cicno non può impedirsi un suono di pura stizza che fece ridacchiare Cade.
«Perché sono un semidio molto potente, perché non è la prima volta che seguo dei fuochi fatui e perché non ho fatto loro alcun torto per far sì che mi indichino la direzione errata.» disse guardandolo di traverso.
Il rosso continuò a ridacchiare. «Sì, ma li seguivi, quanto? Un paio di secoli fa?»
«Temo che “un paio di secoli fa” fossi già morto anche tu.» lo rimbeccò. «Ho lasciato il mondo mortale prima che quel vostro Salvatore giungesse sulla terra. Qualcuno mi disse che l’anno della mia morte 1150.» lo guardò ancora malamente. «Sai contare a ritroso?»
Cade sgranò gli occhi allibito. «Ma allora sai essere stronzo anche tu!»
Il ragazzo scoppiò a ridere divertito, portandosi le mani alla pancia e piegandosi in avanti.
Gli aveva davvero appena chiesto se non fosse così stupido da non saper far due conti, quando neanche dieci minuti prima gli aveva detto che non poteva esserlo?
Dio santissimo, quell’angelo gli stava piacendo sempre di più.
«Felice che ciò ti porti giubilo.» disse quello a denti stretti.
Gli aveva davvero appena dato dello stronzo quando neanche un’ora prima l’aveva scambiato per un’apparizione divina e benigna?
Ghignò.
Forse quello strano individuo poteva quasi risultargli non così intollerabile.
Ma Cicno era pure sempre il “crudele” e alla risata sempre più divertita, più fastidiosa, del giovane pose fine con poche parole.
«Conosco molte cose che tu non sai, ne vedo molte che tu ignori. I fuochi fatui, come l’identità di colui da cui discendi.»
Cade smise immediatamente di ridere, serrando in denti e maledicendosi per aver abbassato la guardia credendo che il giovane davanti a lui avesse dimenticato la questione dei genitori divini.
«A sì?» domandò guardingo.
«Sì.» il sorriso di Cicno parve quasi magnanimo, pietoso, il sorriso di un saggio ad uno stolto. «Ai miei occhi è abbastanza scontato. O forse, dovrei dire, al mio naso
Cade lo guardò con serietà, una muta richiesta nello sguardo smeraldino.
E Cicno, grande e potente Cicno che tutto sapeva e tutto riusciva a scoprire, anche se non fosse stato il suo padrone a riferirglielo, l’avrebbe intuito da sé non appena avrebbe preso il ragazzo tra le sue braccia.
Se lo ricordava, se lo ricordava ancora, nonostante i millenni, nonostante le torture, il dolore, la rabbia e l’odio che l’avevano consumato da dentro come una fiamma greca. Se chiudeva gli occhi poteva ancora scorgerne il colore denso e velato, il sapore sulla lingua, il tocco sulla pelle, l’odore che gli penetrava fin dentro l’anima.
Oh, come avrebbe mai potuto dimenticarlo? Probabilmente anche ricordare era parte della sua condanna.
 
«Odori di cielo.»
 
 
*


Seduta comodamente sulla panchina di pietra Persefone rivolse il volto verso l’alto, come se potesse bearsi dei raggi di un invisibile sole che baciava la sua pelle e tutte le piante spettrali che la circondavano.
I giardini della Casa di Ade erano tra i più belli che l’Olimpo poteva vantare. Peccato si trovassero nelle profondità della terra e non sulla piccola e bianca montagna.
Non vi erano altri posti così suggestivi, credeva la Dea. Certo, aveva visitato i giardini e le tenute di molte altre divinità, anche di altre antiche religioni, ma le piante che nascevano sotto la cupola di roccia e terra pressata che la sovrastava in quel momento avevano qualcosa di magico. Doveva ammettere che la prima volta che aveva visitato il giardino di Ade, piccola ed innocente bambina stretta alla veste colorata di sua madre, aveva avuto quasi paura di quelle pallide piantine, ma non appena Ade aveva mosso la mano, come in un invito gentile a non temere i loro nuovi visitatori, ogni stelo si era acceso di luminescenti sfumature, colori così vibranti e saturi che Persefone s’era ricreduta con un solo sguardo.
Quello, il giardino intero e tutti gli ettari della tenuta in cui germogliava anche la più piccola delle vite, ironia della sorte in un mondo di morte, era stato il regalo di nozze che Ade le aveva fatto quando erano giunti nelle sue terre.
Persefone si mosse ad agio, camminando verso il centro del giardino principale, lì dove cresceva il principio e la ragione di tutti i suoi mali. O almeno questo era quello che ripeteva sempre sua madre.
Il melograno da cui era stato colto il fatale frutto che aveva segnato il suo destino non era grande ed imponente come ci si sarebbe aspettati fosse. Non era luminoso come le altre piante, non era scintillante e perfetto come gli alberi delle Esperidi, come i rami da cui pendevano i pomi dorati.
Il melograno, l’unica vita che non le apparteneva, l’unica pianta che rimaneva e sarebbe sempre rimasta “di Ade”, malgrado fosse divenuto suo simbolo, era piccolo, non toppo alto, nodoso nel suo avvilupparsi su sé stesso, nei suoi rami più larghi e in quelli più tremuli. Era un albero normale, banale, eppure donava la via in modi che molti potevano solo ignorare.
Si era spesso domandata, nel corso dei secoli, perché Ade cogliesse quei potenti e mistici frutti così di rado, perché concedesse a lei di farne ciò che ne voleva ma, ancora, fosse solo compito del dio staccare quei pomi dai loro rami. Era ironico e divertente che ci fossero ancora cose che le erano ignote, a lei come a tutti coloro che discendevano dai cinque fratelli. Forse solo Afrodite esulava da quel conto, figlia di un essere arcaico che tutti cercavano ancora di dimenticare. Ma neanche la bella e perfetta dea dell’amore sapeva tutto, neanche a lei era concessa la conoscenza suprema, così come non lo era concessa alla dea di quella stessa. Atena ignorava molte più cose di quanto non amasse ammettere, ma a differenza di tutti loro era costantemente affamata di informazioni, costantemente alla ricerca di nozioni, di fatti, tutto ciò che potesse colmare la sua sete di sapere. Eccellere sopra tutti, sopra tutto.
Ade non aveva dovuto neanche dirglielo esplicitamente ma Persefone sapeva che Artemide aveva parlato con Atena, le parole che suo marito aveva speso per raccontarle in breve il discorso avuto con la nipote non erano state troppo gentili e quei commenti poco lusinghieri verso altri “dannati mocciosi troppo cresciuti che si impicciano in fatti che non li riguardano come se fossero ancora dei veri poppanti lagnosi e petulanti” dovevano per forza di cose essere riferiti o alla dea, o ad Apollo, o ad Ermes, solitamente erano loro quelli che si ficcavano sempre nei problemi altrui.
Persefone quindi ora era più che certa che, esattamente come lei, anche tutti gli altri dei “di seconda generazione” non sapevano tutto, non avevano una visione ampia e completa di ciò che stava succedendo in quel momento. La cosa forse più terrificante era che neanche Ade ne aveva una completa. Forse gli unici erano Ipno e-
 
Eros.
 
La dea chiuse un attimo gli occhi, respirando a pieni polmoni l’odore umido di terra e grotta. L’odore di casa.
Quella gara stava perdendo interesse ai suoi occhi, per lo meno le sfide in sé. Non le importava più niente di chi sarebbe riuscito o meno ad arrivare alla fine della prova successiva, sapeva per certo che i suoi bambini ci sarebbero riusciti, Ade glielo aveva implicitamente promesso, ma ciò che più l’attirava, che aveva la sua più completa attenzione, era ciò che sarebbe successo quando questi fortunati sarebbero arrivati alla sfida finale ed il gioco si sarebbe concluso.
Un’anima sarebbe tornata sulla terra, la sua vita sarebbe ripartita esattamente da dove si era interrotta, senza nessuno sconto, senza nessuna perdita se non tutto il tempo ormai trascorso dalla sua partita. La dea fece una smorfia: sembrava una bellissima idea all’inizio, un modo per intrattenere tutti in un periodo di pace e ridare la possibilità ad un’anima di tornare a vivere ciò che le sarebbe restato da vivere se non fosse scomparsa prematuramente, ma era davvero così? Riflettendoci per bene, e ormai erano quasi due settimane che la dea lo faceva, non sarebbe stato poi così tutto rose e fiori come sembrava all’inizio.
Tanto per cominciare era più che ovvio che nessun mortale sarebbe mai riuscito a concludere la gara e vincere, quindi perché aprire la partita a tutti? Perché aprire le iscrizioni anche nelle terrazze più basse dei Campi di Pena? Certo, in quelle più alte c’era chi aveva commesso errori, chi era stato costretto a far qualcosa, chi non aveva avuto altra scelta. Ma i tiranni, gli sterminatori, i sadici, i crudeli… tutti loro, perché dargli l’opportunità di tornare in superficie a fare ciò che ormai non potevano più fare?
Se si parlava di semidei poi, si doveva fare un’altra scrematura: chi era morto in tarda età, quindi semidei abbastanza potenti o accorti da sopravvivere, chi era morto in guerra, chi in missione, chi al Campo, chi raggiungendolo o prima di raggiungerlo addirittura. Chi era morto al primo attacco, chi era morto senza neanche saper d’essere un figlio bastardo di una divinità annoiata.
Avevano più possibilità i veterani, ma loro meritavano di tornare in vita? Dopotutto erano adulti, avrebbero potuto lasciare spazio ai giovani. E chi era morto in battaglia? Aveva più esperienza ma era più meritevole della povera anima di un bambino morto tra le braccia di un satiro terrorizzato? La cosa più devastante forse era che molti semidei erano morti giovanissimi ed un bambino di sei anni non avrebbe mai neanche potuto firmare il contratto degli Inferi per partecipare alla gara.
Qual ora il vincitore fosse stato un giovane con ancora tutta la vita davanti, stroncata per un qualunque motivo, era giusto che tornasse a vivere in quel momento?
Questo era stato uno dei suoi pensieri più pressanti: se avesse vinto un giovane del ventesimo o ventunesimo secolo, la cosa sarebbe stata abbastanza sensata, ma se avesse vinto un valoroso cavaliere medievale? Un condottiero rinascimentale, un soldato spartano, un navigatore persiano? Quanto sarebbe stato crudele rimetterlo al mondo?
Persefone non lo sapeva, non sapeva quali sarebbero potute essere le conseguenze e soprattutto si sorprendeva che Giordano Delle Vie non si fosse interrogato su questi punti.
 
O forse l’ha fatto e ha deciso che non gli interessava la risposta.
 
Alle volte si dimenticava quali sangui maledetti erano stati mescolati per creare la stirpe da cui discendeva. Quanto rosso – quanto nero – fosse quel liquido fatale che lo teneva in vita.
Era quindi possibile che Giordano avesse pensato a tutto ciò e avesse deliberatamente deciso che non gli interessava. Ma perché? Il destino dei semidei era qualcosa che gli era sempre stato molto caro, specie dopo Clara, Al e tutti i ragazzi di quella casa fatiscente scomparsa gli dei neanche sapevano dove.
Con un moto quasi annoiato Persefone si lasciò cadere di nuovo sulla panchina di pietra e sbuffando, si sistemò distrattamente i capelli.
La verità era che non le importava davvero cosa stesse combinando Giordano, ma la vita eterna poteva essere noiosa e certe volte anche lei aveva bisogno di qualcosa per distrarsi. Gio le stava dando un bell’enigma da sbrogliare, lo stava dando a tutti, ma l’unico interesse che Persefone provava era nello scoprire la risposta, non nello sventare i suoi piani. Qualunque essi fossero.
Con una sicurezza quasi maligna la dea si disse che mai e poi mai le azioni di quell’essere avrebbero potuto lederla perché mai e poi mai Gio avrebbe fatto qualcosa per ferire Ade. Lei era semplicemente compresa nel pacchetto.
Giordano avrebbe anche potuto voler riportare sulla terra tutti i mostri dell’Inferno, farli marciare sull’Olimpo, saccheggiarlo e bruciarne gli scarni dorati, ma niente di questo avrebbe fatto cadere Ade dal suo di trono o tolto a lei il proprio. Si sarebbe potuta godere la fine del mondo seduta in poltrona e non un granello di polvere l’avrebbe compita.
Sorrise maligna, forse quando Caronte l’accusava di essere fin troppo simile alle sue cugine c’era un fondo di verità, dopotutto, anche se nata nella luce era tra le ombre che lei dimorava.
 
«Quel sogghigno maligno non ti si addice, tesoro.»
A quelle parole la piega delle sue labbra s’ammorbidì completamente.
Persefone si volse verso la sua destra e trovò la figura rilassata e sorridente di sua madre ad aspettarla a braccia aperte.
Come ogni volta che si rivedevano le piante attorno a loro sbocciarono in una prematura primavera, qualcosa che dava sempre sconforto ai poveri scheletri giardinieri che avevano il compito di curare il giardino.

«Madre.» la chiamò stringendola a sé, «Non credevo saresti arrivata così presto, neanche la metà dei partecipanti ancora in gara sono giunti alla linea del traguardo e molti di loro ancora cercano le loro sfere dei ricordi.»
La dea annuì con fare vago. «Sì, me l’hanno detto, ma qualcuno è venuto a disturbarmi nei miei campi e sfortunatamente l’unico posto in cui so che nessun altro verrà a rompermi le scatole è a casa del mio caro fratellone.» disse ironica facendo un ampio gesto con il braccio per indicare l’enorme villa alle sue spalle. «Ad invadere le mie terre non ci pensano due volte, ma a presentarsi alla dimora del Dio dei Morti diventano tutti subito educati e mandano avvisi e richieste.»
Persefone sorrise prendendola sottobraccio e portandola con sé verso la panchina.
«Non dire così, anche qui vengono a disturbarci spesso, solo che ci sono più cose spiacevoli da fare e Ade si diverte ad usare la carta del “visto che sei qui puoi aiutarmi” ogni volta che qualcuno è più fastidioso del solito. Artemide ha dovuto sfruttare la sua prova per aver una scusa per chiamarlo a consiglio.»
Demetra alzò gli occhi al cielo. «Oh, perfetto, me ne ero quasi dimenticata. Dovrò ringraziare le mie nipotine, dopo millenni mi hanno dato un motivo per essere comprensiva con mio fratello.»
«Sono venute a parlare anche con te?» domandò l’altra guardinga.
«Solo Atena, Artemide ha effettivamente qualcosa da fare a differenza sua. Gliel’ho sempre detto a Zeus che doveva trovarle qualcosa di più impegnativo da fare, tipo come ha fatto con Ermes, ma a quanto pare fissare umani che potrebbero potenzialmente avere delle idee brillanti che poi distruggeranno il mondo e dar loro la propria benedizione nel farlo è una cosa abbastanza “impegnativa” per i suoi standard. Ma cosa dovevo spettarmi? È uscita dalla testa di mio fratello, non da quella di un genio.»
Persefone ridacchiò, sempre estremamente divertita da come la madre criticasse senza pietà i suoi parenti, anche se nei confronti di Ade la sua soglia di sopportazione era più bassa.
«Cosa voleva?» chiese comunque per distrarla dal più che certo discorso su quanto suo padre non sapesse tenersi le vesti indosso e come questo aveva distrutto la loro famiglia, che ne sarebbe scaturito come sempre.
Demetra drizzò la schiena facendo scrocchiare qualche osso. «Voleva sapere di Giordano, ovviamente.»
L’altra la guardò improvvisamente più interessata. «A sì? E cosa le hai detto? Cosa ti ha detto lei?»
«Crede di sapere cosa vuole Giordano.» disse in tono neutro, «Le ho risposto che se è solo di questo che si tratta per me può far ciò che vuole.»
«Andiamo mamma, non girarci intorno con me!» rispose Persefone imbronciandosi come una bambina. «Cosa vuole il piccolo Giordano?»
«Non è più “piccolo” tesoro, non lo è più da troppe primavere. Anche da prima che potesse sbocciare.»
«E questa è colpa di Eros.»
«La perdita dell’innocenza di cui parlo non è quella sessuale, cara.»
«Mamma.» ripeté ancora le dea voltandosi completamente verso l’altra. «Cosa vuole Giordano?»
«Per certo, non lo so neanche io.»
«E secondo Atena?» incalzò decisa.
Demetra la guardò sorridendole e poi le carezzò una guancia. «Crede voglia riprendersi l’anima di qualcuno.» stette in silenzio contemplando per un po’ il volto della figlia, lasciandola arrivare alle sue conclusioni.
«Qui nell’Ade non ci sono né l’anima di Clara né quella di Al.» disse piano l’altra, la voce sottile e la mente già alla vera, possibile risposta.
«Non crede sia a quelle che miri.» rispose con dolcezza.
«Quelle- cerca quelle dei bambini?» domandò infine Persefone, il volto pallido e gli occhi vuoti, inespressivi. «Mamma…» continuò in un soffio, «le loro anime… non si-»
«Lo so. Io lo so tesoro, ma Atena no. Pensa che sia qui per quella di sua nipote.»
«Neanche Ade, volendo, potrebbe recuperarla. Cosa fa credere ad Atena che Gio potrebbe riuscirci? E perché solo quella della bambina?» la sua voce tentennò e Demetra le carezzò di nuovo il volto. Un tempo anche lei era stata una bambina innocente, proprio come lo erano i nipoti di Giordano quando erano giunti nell’Ade. Eppure, per quegli altri bambini, Demetra non riusciva a provare la stessa tenerezza, la stessa pietà. Probabilmente ne nutriva molta di più nei confronti di Giordano stesso.
«Sai perché, tesoro. Il maschio non si può recuperare, non dove si trova adesso.» le spiegò con dolcezza.
«Neanche lei.» insistette. «Per l’Olimpo mamma, se venisse da me e mi dicesse che ciò che vuole da questa gara non è altro che l’anima di sua nipote-»
«Tu gliela daresti, se fosse in tuo possesso. O l’aiuteresti a trovarla. Lo so bambina mia, lo so. Sei sempre stata dalla sua parte, anche prima di quell’ennesimo tradimento.»
Persefone si morse il labbro, indecisa ma al contempo convinta delle sue parole. «Non fu colpa sua. Glielo chiese Ade e Giordano, da bambino fedele e bisognoso d’approvazione qual era, non ha pensato neanche per un attimo di rifiutarsi. Non era nulla di sbagliato in fondo, non c’era nulla di male. Non lo biasimo per questo e mai lo farò. Voleva solo proteggere la sua famiglia.» ammise.
«Chi non ne ha mai avuta davvero una tende ad attaccarsi in modo quasi spasmodico a tutto ciò che vi ci si avvicina vagamente. Ma se vuoi la mia opinione,» continuò richiamando lo sguardo della figlia su di lei, «non sta cercando loro. Non ha senso, capisci?»
«Ade non l’avrebbe aiutato.» disse risoluta Persefone. «Se si fosse presentato qui, in un giorno qualunque, dicendo di rivolere indietro le anime dei suoi nipoti Ade non glielo avrebbe mai concesso. Strapperebbe la Luna dalle mani di Artemide e gliela donerebbe se Giordano glielo chiedesse, ma ha giurato tempo addietro di non intromettersi con la morte, specie con quella che segue sempre Gio.»
La dea annuì. «Ricordo le sue parole e malgrado io e mio fratello non andiamo d’accordo su molti punti, so per certo che non infrangerebbe mai un giuramento del genere.»
«Allora cosa cerca, madre? Cosa ti preoccupa?»
Demetra inclinò di poco la testa, lo sguardo sveglio ma incredibilmente impassibile, quasi vuoto.
«Nulla mi turba, bambina mia. Nulla. Giordano non cerca vendetta verso di noi o ci avrebbe uccisi tutti anni addietro. Cerca qualcosa, ne sono certa, ma sono anche certa che non ci infastidirà, ci sta solo tenendo occupati per non farci vedere dove sta infilando le mani, come un monello che ruba il miele.» sorrise poi con più calore.
«Se è così, se ha bisogno della nostra disattenzione, sta facendo qualcosa di proibito.»
«Come sempre.» sbuffò l’altra ironica.
«Sta facendo qualcosa che Zeus non gli avrebbe mai permesso, che nessuno di noi gli avrebbe mai concesso.»
«Tesoro.» disse allora la madre con un sospiro rassegnato, tipico di chi si appresta a spiegare per l’ennesima volta un concetto semplice, basilare. «Giordano Delle Vie non ha avuto, non ha ora e non avrà mai bisogno del nostro consenso o del nostro permesso per fare alcun ché.
Se proprio devo tirare ad indovinare, potrei dirti che ha tenuto anche Ade all’oscuro del suo piano perché probabilmente avrebbe potuto ferirlo in qualche modo o arrecargli qualche danno.»
«Non c’è nulla, nel suo dominio, che possa ferire Ade.» replicò subito, decisa, certa.
Demetra sorrise ancora. «In ognuno dei nostri domini c’è qualcosa che potrebbe distruggerci, Ade è solo quello più in costante pericolo di tutti. Ricordati dove si erge il suo scarno, mia cara, su cosa siede e domina il tuo sposo. Ci sono cose, qui nell’Ade, che noi Dei più antichi abbiamo giurato di non cercare, di non bramare, di non nominare neanche più. Ci sono luoghi, fonti di puro potere, che si alimentano dalle profondità di questa terra e da ciò che custodisce.
Credo che Giordano stia cercando una di queste fonti.»
Persefone fissò la madre improvvisamente pietrificata.
 
Cosa che neanche gli Dei sanno? Che neanche gli Dei osano bramare?
 
Non le pareva assurdo che dopo tutti quei millenni, la sua famiglia continuasse a custodire segreti su segreti, era anzi quasi rincuorante sapere che ve ne erano ancora altri da scoprire. Ma se questa “fonte” era così potente come sua madre le aveva lasciato intendere…
 
«Cosa ne sarà di lui? Se dovesse riuscire a raggiungere il suo scopo? Non sarà troppo persino per Giordano il mortale?» domandò con timore, un improvviso fiotto d’ansia per quell’anima così giovane eppure già così vecchia.
La dea scosse il capo, un gesto secco, l’espressione di chi reputava ridicolo anche il sol pensiero.
«Non dimenticare mai quanto pericoloso e potente sia quell’essere. Abbiamo giocato una partita rischiosa, abbiamo ignorato e poi svenduto le nostre pedine migliori mandandole al macello e ciò che siamo riusciti a ricavarne è stato un pezzo completamente instabile sia nelle nostre mani che nelle loro. Giordano sa il fatto suo, anzi, oserei dire che se c’è qualcuno che può riuscire in un’impresa tale, quello sia solo lui.»
«Rischia la sua vita, madre.»
«Oh, sciocchezze! Non si può rischiare qualcosa che non si ha Persefone! E la verità è che Giordano è morto prima ancora che le Moire potessero tagliare il suo filo. Senza contare che Cloto sarebbe stata così dispiaciuta da rifilarglielo!»
Con lentezza Demetra si alzò dalla panchina e scrutò sua figlia dall’altro, come un giudice imparziale e crudele.
«No bambina, no. Giordano non rischierebbe nulla e questa, se chiedi a me, è senza ombra di dubbio la cosa più spaventosa di tutte.»
 
Persefone guardò sua madre allontanarsi con lentezza, diretta verso la Casa di Ade, per poter probabilmente conversare anche con suo marito.
Fino a poco prima si era detta che non le interessava, qualunque cosa Giordano avrebbe fatto non l’avrebbe sfiorata perché lei era direttamente collegata ad Ade e Gio non avrebbe fatto mai nulla per ferire il suo amico, l’ultimo frammento della sua infanzia ancora in vita. Ora però iniziava a domandarsi quali ripercussioni avrebbero avuto le azioni dell’uomo, se in un qualche modo si sarebbero abbattute anche sull’Ade e sull’Olimpo.
 
Un segreto che gli Dei più antichi ancora conservavano.
 
Una fonte di potere incredibile che avevano giurato di non bramare.
 
Un pezzo instabile di un gioco troppo rischioso.
 
Un giocatore che non può perdere l’unica vita che gli è stata concessa, qualcosa che non possiede più.
 
Come si sconfigge un avversario del genere?
 
Un baluginio brillò nella mente della dea, uno scintillio sinistro come le zanne di un predatore.
Il ghigno di un drago.
 
 
 
“Non lo si sconfigge. Ci si allea.”
 
 
 
 
*
 
 
 
Avevano camminato per quelle che gli erano parse un paio d’ore e in tutto quel tempo Cade era più che convinto di non essersi zittito un attimo.
La verità era che il silenzio ancora lo innervosiva, si era perso per i meandri delle Praterie per rincorrerlo e gli era quasi sembrato di morire per colpa sua. Era svenuto esattamente come aveva visto quasi accadere a Jonas, come sapeva fosse successo a Nathan, a Jane ed era stata tutta colpa del silenzio.
Sentiva ancora il sangue secco nelle orecchie, malgrado Cicno gli avesse garantito d’averle curate e che non viera più alcuna ferita, il pulsare ritmico di un cuore che non avrebbe più dovuto avere lo perseguitava in quelle vallate nere e se solo fosse stato zitto per un secondo i batti ed i pensieri si sarebbero susseguiti con una tale violenza, una tale potenza, che Cade credeva sarebbe crollato di nuovo.
Così parlava di tutto e di nulla, teneva occupata la bocca e vagava con lo sguardo a destra e sinistra, cercava qualcosa – qualcuno – che aveva perso e che non riusciva a ritrovare a sentire.
 
Maldetto silenzio e maledetto rumore.
 
Il suo compagno di viaggio, nuovo di zecca se solo non fosse stato di qualche millennio fa, sembrava sopportarlo con rassegnazione, anche se Cade poteva scommetterci la sua moneta falsa che un paio di volte avrebbe voluto prenderlo a pugni. Meglio così, preferiva le persone focose a quelle troppo remissive e malgrado Cicno l’avesse salvato con la grazia e la benevolenza di un angelo era pur sempre un fuggitivo dei Campi di Pena e, per di più, un figlio degli Dei.


Come me. Come noi. Figlio di Apollo.
 
Gli gettò un’occhiata veloce, trovandolo con il capo eretto, lo sguardo puntato verso l’infinito orizzonte d’erba nera.


«Quindi mi ha cresciuto mamma, a conti fatti. Oddio, posso dire di essermi cresciuto da solo in un certo senso, se sai cosa intendo. Però mamma è sempre stata lì, sempre pronta a darmi una mano o a rammendarmi le brache. Non ci crederesti se ti dicessi quante volte mi sono impigliato in una ringhiera o su qualche balcone.» continuò a ciarlare.
Cicno fece a mala pena una smorfia. «Non so cosa sia una ringhiera e neanche cosa siano delle brache. Presumo vesti però, se tua madre te le cuciva.» rispose senza entusiasmo.
Se solo Cade avesse saputo che fatica stava facendo per rispondergli in modo quanto meno decente.
«Sono quelli che indosso ora! Le brache intendo. È un termine un po’ vago c’è da dire, che indica sia i pantaloni, questi qui, o le mutande. Voi ce le avevate le mutande?» domandò abbassando lo sguardo, quasi potesse scorgere qualcosa da sotto il gonnellino bianco.
Cicno alzò un sopracciglio, un piccolo sogghigno a tendergli le labbra nell’osservare il giovane fissargli con insistenza le cosce.
«È un bel panorama, per lo meno?» chiese di rimando.
Cade alzò di scatto la testa, un sorriso da monello di strada ed un occhiolino furono tutto ciò che il biondo ottenne in cambio.
«Non avevamo propriamente ciò che voi chiamate “mutande”. C’era un indumento che andava avvolto attorno ai fianchi, si chiama perizoma, ma solo gli uomini adulti lo indossavano e non sempre.»
Cade si fermò un attimo, fissando di nuovo la vita del giovane.
«Mi stai dicendo che le donne andavano in giro senza mutande? E che tu non le hai?»
Il biondo alzò gli occhi al cielo già infastidito.
«No, le donne non ne indossavano, erano solo per gli uomini e venivano indossate solo dopo una certa età. Non so quale fosse il rapporto che le genti della tua epoca avevano con il loro corpo, ma nella mia era motivo d’orgoglio, qualcosa che andava quasi ostentato. Perché coprire qualcosa di così bello?» domandò retorico. Poi, accortosi che Cade continuava a fissarlo, grugnì infastidito.
«Non ne ho mai indossate in vita mai, ma l’anima che ha così magnanimamente rammendato le mie vesti mi ha donato anche questi.» e così dicendo sollevò l’orlo del gonnellino come se nulla fosse, mettendo in mostra le cosce morbide ed il sedere alto avvolti in quelli che sembravano pantaloncini molto aderenti.
Cade ne aveva visti di simili nei Campi Elisi, qualcosa che aveva a che fare con la bicicletta o simili, ma di certo, non indosso ad un ragazzo proveniente dall’antica Grecia.
Deglutì. «E come ti ci senti? Non ti schiaccia la mercanzia?» domandò ancora.
Cicno fece un’altra smorfia. «Sono molto stretti, è una costrizione fastidiosa, ma ammetto sia più comodo correre o saltare con qualcosa che contiene così fermamente i genitali.» rispose quello senza vergogna.
L’irlandese distolse lo sguardo improvvisamente imbarazzato. «Non dire queste cose davanti alle ragazze quando lì avremo ritrovati, okay?»
L’altro alzò un sopracciglio. «E perché mai? Parlare del corpo umano vi imbarazza? È una delle opere più belle degli Dei.»
«Sì, beh, con il passare degli anni le cose sono cambiate. Ora c’è più pudore. Puoi parlare del corpo ma non in modo così- specifico.»
Cicno ghignò interiormente ma il suo volto apparve del tutto smarrito ed innocente. «In modo specifico? Cosa intendi? Non posso dire la parola genitali? Preferisci dica “pene”? è più decoroso?»
L’espressione contrita, assolutamente esagerata e teatrale, in cui si esibì Cade fece quasi ridere il figlio di Apollo. «Dio santissimo! Ancora peggio angioletto! Ancora peggio! No, no, no, quando si parla con gli uomini puoi anche usare questi termini, ma con le signore devi essere più vago, più allusivo…» cercò di spiegare con fare vago.
L’altro sorrise. «Credi fermamente che le signore non sappiano cosa abbiamo sotto la vita? Anche loro hanno-»
«NO! Questo non voglio sentirlo io! Dio, dio santissimo! Ma eravate tutti così nell’Antica Grecia? Parlavate di corpi nudi sempre?»
«La nudità non è qualcosa di cui ci si dovrebbe vergognare, come ti ho già spiegato. Il mondo dev’esser peggiorato da quando sono morto.» ragionò a voce alta.
Cade annuì, felice di poter cambiare discorso. «Tante buone cose nuove ma anche tanta merda.»
«Io non posso dire “pene” ma tu puoi dire queste volgarità?» chiese fulminandolo.
Il rosso ghignò. «Una delle cose che è andata male! Adesso le parolacce si dicono molto di più. O per lo meno da me. Ma io vivevo in una città portuale e lo sanno tutti che i marinai sono volgari e rudi e tutte quelle cose lì.»
«Magnifico, cos’altro? Non siete istruiti? Non avete scuole e pensatori? Non avete grandi eserciti composti da valorosi uomini? Fini artisti e geni?»
«Sì, alle scuole, anche se non ci vanno tutti, tipo io no, solo chi ha i soldi. Sì agli eserciti, valorosi uomini un po’ di meno, spesso ci sono tanti ragazzini che vanno a morire mentre i generali, tutti nobili, si fanno gli affari loro-»
«Che amenità è mai questa? Come si può essere generali se non si combatte in prima linea?»
«Eh, va a chiederlo a quegli stronzi. E sì a filosofi e artisti, ma anche lì, gente che ha i soldi e che può permettersi di far nulla tutta la vita fino a diventare famoso ed esser pagato per pensare o dipingere.»
«E non credi sia un degno lavoro anche quello? Nel futuro avete una visione molto debole del bello e dell’istruzione. Spero che almeno in quel famoso Campo Mezzosangue insegnino qualcosa di quanto meno decente.» borbottò calciando qualche coccio rotto.
Cade lo guardò con curiosità. «Non c’era il Campo Mezzosangue ai tuoi tempi?»
L’altro mosse il naso in una smorfia buffa, come quella di un bambino concentrato su qualcosa di importante. «Non come credo sia ora. Adesso ve ne è uno posto in uno specifico luogo, per ciò che ho sentito dire sono anni che si trova nella medesima città. Viene spostato assieme alla sede dell’Olimpo, se non erro, quindi ora si dovrebbe trovare in quello che chiamano “Il nuovo mondo”.»
«In America, sì. Non è più tanto nuovo da un po’ di tempo ormai, ma adesso gli Dei sono a New York City.»
Cicno fece un gesto vago con la mano. «Come dici tu. Quando ero in vita io però non funzionava così. I figli degli Dei non erano rari e non erano neanche così deboli da necessitare la protezione costante di un satiro o di una barriera che li nascondesse dai mostri. I nostri genitori mortali erano in grado di difenderci e i nostri genitori divini ci davano la loro benedizione. Vi erano campi d’addestramento in cui noi semidei potevamo esser addestrati all’arte della guerra e all’utilizzo bellicoso dei nostri poteri, ma non tutti vi si recavano. Figli di Ares, di Atena, miei fratelli e figli di Ermes, loro spesso accettavano questi addestramenti. I figli dei grandi fratelli invece avevano il loro proprio mentore, qualcuno che dedicava loro la propria vita per renderli eroi degni dei loro padri.» spiegò con semplicità. «Ovviamente alcune divinità erano mal viste, come Ade, Eris, Nemesi, Ecate, ma anche loro erano rispettati e avevano dei fedeli seguaci, i loro figli si recavano nei loro templi e vi prestavano servizio.»
Cade annuì. «Perché i figli dei pezzi grossi avevano il maestro privato?» domandò ancora.
«Mi pare abbastanza chiaro il motivo: sono i tre grandi Dei che ragnano sui maggiori domini nella terra, non lascerebbero i loro figli a mischiarsi con la plebaglia, non credi?» frecciò di rimando guardandolo dritto negli occhi.
Suo malgrado, Cade fu costretto a distogliere lo sguardo. «Per quel che mi ha detto Nathan, spesso non si scomodano neanche per riconoscerti.» mormorò a bassa voce.
«Un tempo non ce n’era bisogno. Gli Dei più importanti lo facevano ugualmente, anche alcuni dei minori, ma era abbastanza ovvio da chi si discendesse, non vi erano dubbi o incertezze, che fosse una discendenza in linea diretta o una benedizione era palese dalle doti che ognuno mostrava. Poi, se il dio in questione voleva manifestare un qualche interesse specifico verso la sua progenie, mandava un segno divino a palesare ciò che tutti già sospettavano.»
«Tu sei stato riconosciuto?» chiese cauto, troppo curioso per poter tacere ma anche timoroso che poi l’altro avrebbe rivolto lui quella stessa domanda.
Cicno fece un mezzo sorriso molto più simile ad un ghigno. «Sono nato nel fulgore del Sole, i miei balbettii infantili lenivano ferite e malanni e qualunque oggetto io lanciassi colpiva esattamente ciò che volevo colpire. Non sarebbe stato necessario farlo in ogni caso, era così scontato che nessuno dubitò mai delle parole di mia madre. In ogni caso, mio padre non si fece mai presente nella mia vita finché non giunse la fine e in quel caso, decise di palesarsi nel momento meno opportuno e nel modo meno opportuno. Ha ignorato la mia presenza per tutta la mia esistenza e vi si è affacciato solo per renderla ancora più miserabile, pieno della sua arroganza nella convinzione di poter far ciò che voleva di me, di potersi intromettere e che magari l’avrei anche ringraziato.»
Le parole fluirono fredde a brucianti, come acido sulla pelle viva. C’era rabbia, c’era rancore e odio, qualcosa che Cade si ritrovò a comprendere fin troppo bene.
«Se ti consola anche mio padre ha fatto lo stronzo con me.»
«Chi non lo fa? Sono davvero pochi i figli degli Dei graziati dalla loro benevolenza. Persino i più grandi sono stati vittime dei capricci dei loro divini genitori più e più volte.»
«Pare che nessuno sia al sicuro allora. Però c’è uno dei ragazzi che viaggia con me, Úranus, che invece ha sempre avuto ottimi rapporti con suo padre. L’eccezione che conferma la regola, no?» disse sorridente.
Cicno trattenne a stento una smorfia disgustata.
 
Grazie agli Dei direi, se non gli fosse stato vicino e non avessero avuto un ottimo rapporto il tuo amico sarebbe probabilmente finito nei Campi di Pena con me.
E noi non ci saremmo incontrati così facilmente.
 
«Presumo di sì.» rispose secco, sperando di mettere fine a quella stupida discussione.
Ma Cade non pareva del suo stesso avviso e gli si fece più vicino, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni e l’aria quasi annoiata.
Una pessima finzione.
 
«Quindi… tua madre sapeva che eri figlio di Apollo?» domandò infatti.
Cicno serrò la mascella, piantandosi le unghie nei palmi delle mani. «Sì. Mia madre non mi ha mai nascosto i miei natali, tantomeno ha fatto con gli altri, anzi, non perdeva occasione di ripetere a tutti quanto fossi bello e magnifico, baciato dai raggi di mio padre.» sputò con asprezza, con astio.
Cade gli lanciò un’occhiata quasi imbarazzata: aveva capito che Apollo fosse un discorso un po’ delicato, ma non credeva così tanto.
«Lo odi parecchio, eh?» si ritrovò a dire senza volerlo.
Questa volta fu il turno dell’altro di lanciargli un’occhiata, ma decisamente più bellicosa e meno imbarazzata della sua. «Credo che “parecchio” non sia neanche lontanamente paragonabile a ciò che provo per quell’essere.»
Cade annuì. «Sì, posso capire.»
«Dubito.» ringhiò l’altro.
L’irlandese alzò un sopracciglio, infastidito da quella risposta piccata.
«E che ne sai tu? Quello stronzo non mi ha mai degnato di uno sguardo, ha abbandonato mia madre e me come se fossimo spazzatura. Non mi ha mai aiutato, non ha mai aiutato la donna da cui ha avuto un figlio. Non ha salvato me, non ha salvato lei o mia sorella.» elencò già nel pieno della rabbia al sol ricordo.
«Tua sorella era una semidea come te?» chiese freddo Cicno.
Il ragazzo ebbe appena il tempo di scuotere la testa che il più alto lo guardò con qualcosa di simile alla pietà negli occhi. Non aveva pena del suo destino, di com’era stata la sua vita, del fatto che non avesse potuto condividere la discendenza con sua sorella. Aveva pena di lui, delle sue parole.
«Gli Dei hanno figli in continuazione, dall’alba dei tempi, senza preoccuparsi della persona con cui li concepiscono. Vivono in eterno, Cade, noi periamo come fiori e loro rimangono forti sempreverdi. Abbiamo importanza solo se possiamo essergli utili, si interessano a noi solo se ci dimostriamo più forti della media degli altri nostri fratelli.
Tuo padre non ti ha mai aiutato perché probabilmente neanche si ricordava di te, non si ricordava di tua madre e tua sorella non era semplicemente un suo onere. Così come mio padre che ha ignorato la mia esistenza e tutte le mie pene, ha ignorato come uno dei suoi più cari doni mi avesse rovinato la vita, finché non ho deciso di mettere fine a ogni mio tormento.» lo guardò ancora con quello sguardo cinico, che non si sposava minimamente con quello dolce e gentile sotto cui si era svegliato, «Non mi conosceva, non conosceva i miei dolori e ha ugualmente scelto per me. Avevo perso l’amore, la fede, la fiducia. Avevo perso tutto e lui mi ha strappato l’unica cosa che mi rimaneva.» ghignò. «Dovresti esser felice che non si è mai interessato a te o a tua madre, quando il mio l’ha fatto con me, ha distrutto definitivamente il mio mondo.»
Cade non seppe come replicare. Le parole di Cicno gli erano parse glaciali ma logiche, lui era solo uno dei tanti figli di suo padre ed era quasi ovvio che non l’avesse mai riconosciuto perché Cade non aveva mai fatto grandi gesta nel corso della sua vita. Ma questo non leniva il suo odio, non alleviava il peso del vuoto, del modo in cui era stato ignorato da chi gli aveva dato la vita, così in contrasto con il modo in cui sua madre invece l’aveva amato.
Le parole del figlio di Apollo gli vorticarono in testa come una corrente intrappolata in un crocevia: Cicno era stato graziato da dei doni divini che apparentemente l’avevano solo ferito e al limite della sua sopportazione aveva deciso di mettere fine ai propri tormenti. E qual era l’unico modo per farlo?
 
La morte. Si è suicidato.
 
Quella costatazione gli balenò chiara alla mente e per quanto l’idea di qualcuno che si toglieva la vita lo rendeva quasi nauseato, ripensando a tutti gli amici, i fratelli che avevano perso quella stessa vita per mano altrui e che avrebbero fatto carte false per poterla riottenere, non riuscì a sentirsi in grado di giudicare Cicno per le sue azioni.
Stava diventando davvero debole, prima Jonas che ammetteva di essere scappato invece di rimanere a lottare, poi Cicno che confessava di essersi tolto la vita.
 
Di averci provato. Apollo deve averlo fermato, dev’esser stato questo il modo in cui ha scelto per lui.
 
Cade rabbrividì: non voleva immaginare la disperazione che si doveva provare per decidere di uccidersi per poi veder tutto andare in fumo per mano di uno sconosciuto.
Ed era assurdo, era assolutamente assurdo perché Apollo aveva salvato la vita a suo figlio ma- la verità era che lui non conosceva i trascorsi dell’altro, non sapeva quanto miserabile e dolorosa fosse stata la sua esistenza per spingerlo al suicidio, lui non era nessuno per poter giudicare e- e non voleva neanche dover immaginare, provare ad immedesimarsi in lui per capire cosa l’avesse spinto a tanto.
Cade non voleva pensare alla morte, forse perché lui, la sua, l’aveva temuta fino all’ultimo respiro.
Non seppe cos’altro dire, come replicare. Aveva la netta sensazione che se avesse provato a chiedergli di più, se si fosse interessato troppo l’altro l’avrebbe ripagato con la stessa moneta. Cicno gli aveva palesemente detto di sapere chi fosse suo padre e Cade aveva paura che il solo menzionare anche in modo lontano ed indiretto la cosa l’avrebbe costretto ad affrontare quel discorso. Di nuovo. Con qualcuno che sapeva di cosa parlava. Deglutì.
 
«Ti ha-» salvato? «-impedito di ucciderti?»
Malgrado ciò, non riuscì a tenere la bocca chiusa.
Cicno annuì. «Mi trasformò in un cigno. Quegli animali ora portano il mio nome.»
Il rosso aggrottò le sopracciglia. «Non mi sembra che il tuo nome gli somigli molto.» notò ripetendosi la parola in testa con accenti diversi, cercando di farla combaciare al nome dell’altro.
Cicno sospirò. «Questo perché non lo pronunci nella giusta lingua, eppure dovresti capirlo il greco. Come chiama quell’animale il tuo popolo?»
«Swan.» disse subito, anche se dubitava il compagno potesse averlo effettivamente sentito nella sua bella lingua madre.
Ma invece annuì. «Che suono ridicolo, sembra quello provocato da una spada che fende l’aria.» decretò con una smorfia di disapprovazione. «La pronuncia è Cicno
Cade arricciò il naso. «Non ho quel suono nella mia lingua.»
«Ma c’è nella lingua di tuo padre. Se fossimo ancora in vita potresti comprendere le mie parole anche senza questo ridicolo sistema di traduzioni.»
L’irlandese annuì, riuscendo ad evitare, per una volta, di far altre domande come “perché ridicolo?”, “perché ‘swan’ suona male?”, “che diamine di suono è ‘cn’?”. Continuò a ripetersi una parola e poi l’altra, cercando di accomunarle in qualche modo. Dio, aveva così tanta voglia di chiedere a qualcuno se sapesse come c’erano arrivati, giusto per cambiare discorso, giusto per allontanarsi dal tema “genitori che ti mettono al mondo e poi ti ci lasciano a morire male”.
Sospirò pesantemente, continuando a seguire Cicno e gli inesistenti fuochi fatui che indicavano loro il percorso.
Se la sua mente non fosse stata così impegnata a saltare da un argomento all’altro, forse gli avrebbe chiesto spiegazioni in più su quei fuochi, o magari gli avrebbe potuto chiedere informazioni sull’epoca da cui veniva, se avesse mai conosciuto altri semidei. Ma non era colpa sua, le Praterie lo mettevano in agitazione, il silenzio lo metteva in agitazione, l’idea di essersi dimentico qualcosa e non ricordare cosa, così come la sfera di Úranus che pesava come una macigno nella sua sacca lo metteva a-
 
«Ehi?» chiamò d’improvviso.
«Mh?» rispose Cicno sovrappensiero, dimentico quasi per un momento di tirar su quella maschera di compostezza che già aveva lasciato scivolare in basso troppe volte.
«Ma tu l’hai recuperato il tuo ricordo? O vuoi che andiamo a cercarlo prima di trovare i miei amici?» domandò seriamente preoccupato.
Il figlio di Apollo voltò il capo verso di lui per guardarlo meglio, pronto a dirgli che ricordava tutto alla perfezione, ad inventarsi una scusa valida su come fosse riuscito a recuperare la sua sfera dei ricordi prima d’incontrare lui, quando una scintilla, come lo scoppiettio di un ciocco arso in una notte buia, gli baluginò nella mente.
 
Lui aveva un ricordo da recuperare?
 
Per quanto ne sapeva, no. A lui non era stato sottratto nulla, i rami d’edera non l’avevano toccato in alcun modo, era sempre stato in salvo, prima grazie al guerriero nero e poi grazie al suo signore, ma Cicno non poteva averne la certezza, non sapeva come avessero lavorato le piante di Persefone, non sapeva con sicurezza se il suo padrone gli avesse detto il vero.
 
Mi fido di lui, so che mi porterà alla gloria, ma non so nulla, è un salto nel vuoto.
 
Oh, che ironia del destino.
Ugualmente si ritrovò a sorridere gentile all’altro semidio.
«Certamente. Tu non puoi saperlo, ma quando ti ho trovato ero diretto verso il traguardo, mi sono fermato a prestarti soccorso anche per questo motivo, perché ero tranquillo d’aver già superato la mia prova.» fece un lieve cenno con il capo. «Ma ti ringrazio per l’interesse e per la premura nel volermi aiutare.»
Cade gli regalò un sorriso a denti scoperti, così diverso da tutti quelli che Cicno cercava di fare, malgrado, di tanto in tanto, qualche bel ghigno predatorio se lo fosse fatto scappare, e annuì con vigore.
«Certo! Tu mi hai salvato la pelle, questo è il minimo, no? Se non fosse stato per te magari non mi sarei mai svegliato, magari mi sarei dissolto nelle Praterie!» disse melodrammatico, portandosi una mano al torace vuoto.
Cicno non poté evitare di alzare gli occhi al cielo, leggermente, ma giusto leggermente, divertito da quella stupida scenetta. Non che l’avrebbe mai ammesso neanche a sé stesso.
«Non ci si può dissolvere letteralmente nelle Praterie degli Asfodeli. L’unica cosa che può divenire sfocata e labile è la nostra stessa essenza, la nostra persona.»
«Ma siamo solo questo ormai! Null’altro che la nostra anima, quindi se si dissolve lei-»
«Non si “dissolve” l’anima, ma la tua personalità. Si diventa una nube di nebbia, ci si mescola alla foschia ma si rimane comunque sé stessi. Si diventa solo un guscio vuoto. Non trovi sia poetico? Il nostro vero guscio, il nostro corpo, è scomparso da anni e ormai ci rimane solo quello che vi era dentro, l’anima. Ma coloro che sono stati così mediocri nella vita da non meritare né pace né tormento, vedono quella loro stessa anima divenire prigione di un essenza che non esiste più. Si perdono i ricordi, si perde sé stessi. Un destino tra i più terribili, una pena tra le più crudeli.»
 
Cicno ricominciò a camminare, gli occhi chiari a cercare i fuochi fatui che danzavano lievi sul mare nero e luccicante.
Perdere sé stessi e ciò che si era vissuto, vedersi strappare persino l’unica cosa che davvero contava nella morte, il ricordo della propria vita passata. Ma cos’era più doloroso? Dimenticare, con il rischio di ricordare qualcosa solo se un’anima viva fosse giunta ad interrogarci, o ricordare sempre, tutto, costantemente e soffrirne?
Una fiammella blu s’accesa d’improvviso al suo fianco, vorticando tra le sue caviglie, salendo gentilmente a smuovere la stoffa del suo gonnellino, riflettendo la propria luce contro lo scintillante metallo dei suoi bracciali.
Cicno osservò i giochi di luce sulla superficie argentata con un sorriso mesto, che gli si congelò sul volto quando, d’improvviso, qualcosa non gli giunse a memoria al suo richiamo.
Ricordava la calca, ricordava il grande Cancello Nero aperto e tutte le amenità del mondo fuoriuscirvi come un vulcano in eruzione. Ricordava le anime urlare, cadere, calpestarsi e spintonarsi. Ricordava una marea di sensazioni, una marea e poi-
 
 
«Tutto bene, giovane?»


 
Cicno batté le palpebre, davanti alle iridi schiarite dalla morte si riflettevano le immagini del suo primo vero incontro con quel Jonas così come il fuoco fatuo si rifletteva sui suoi bracciali.
Rivide il corpo esanime del ragazzino galleggiare a mezz’aria, sentiva le informazioni su di lui pronunciate dalla sua stessa voce, come se le stesse pensando, rivide tutto ma-
 
Non mi ricordo di lui. Non ricordo il suo volto, non ricordo il suo aspetto, la sua voce.
 
Deglutendo con fatica Cicno continuò a camminare cercando di ignorare il lieve tremolio delle sue gambe.
Qualcuno l’aveva legato al giovane tramite i regali dei gemelli della Notte, ma lui non ricordava chi fosse. Aveva perso un ricordo, qualcosa che non era legato alla sua morte ma che forse avrebbe potuto scegliere della sua vita.
 
Lui deve saperlo. Deve per forza.
 
E non mi ha detto nulla.
 
 
*
 
 
Non appena sarebbero riusciti ad incontrare qualcuno che sembrava anche solo lontanamente provenire dal suo secolo, Lea si disse che avrebbe controllato che avessero un orologio e poi chiesto con precisione quanto tempo fosse passato dall’inizio. La concezione dello scorrere dei minuti, delle ore, dei giorni, le era rimasta impressa anche nella morte, così come presupponeva fosse successo a tutti coloro nati in un epoca in cui il tempo dettava ogni azione della loro vita.
Che fossero le campane della chiesa, il grande orologio delle torri, delle piazze, delle stazioni. Che fossero i bei orologi tascabili dei signori o le pendole nelle case più raffinate, Elena aveva sempre sentito il tempo correrle dietro e spingerla a fare di più, a passare alla prossima mansione, a sbrigarsi, a correre da quel paziente, a ritirare quella medicina, a cercare quell’erba dal droghiere. Gli ricordava quando somministrare le pastiglie, quando togliere i ferri sterilizzati dalle grandi tinozze bollenti, quando costringere suo fratello ad uscire dallo studio e mangiare.
Le mancavano quasi anche i trilli striduli delle campanelle durante le lezioni dalle suore.
Ora però non c’era nulla a indicarle quanta sabbia fosse fluita dalla clessidra e sebbene le paressero giorni, settimane quasi, da che era partita dai Campi Elisi, l’esser costantemente vigili, il continuo camminare, parlare, senza neanche potersi fermare un attimo a prender fiato perché-
 
Perché stiamo giocando una corsa contro il tempo per arrivare primi e riprenderci quello che la morte ci ha strappato.
 
Le pareva un giorno e gliene parevano mille. Le sembrava di conoscere Úranus e gli altri da sempre ma, se ci pensava, le veniva spontaneo dirsi che si erano “appena conosciuti”.
Era fastidioso non riuscire a catalogare una situazione del genere, un sentimento confuso e nuovo, ma anche così- comune.
Storse il naso e chiuse per un attimo gli occhi.
Tutti quei suoi ragionamenti non servivano a niente e non l’avrebbero portata da nessuna parte. Ragionare su quanto conoscesse i suoi compagni era inutile anche perché avrebbero potuto dover passar assieme anche cento anni o pochi istanti. Specialmente con quel gigante buono che le camminava di fianco.
Lea guardò di sottecchi Úranus, mordendosi la lingua per non cominciare a sparlare a vanvera solo per distrarlo, perché il silenzio in cui erano caduti la innervosiva come poche cose. Era ovvio che il giovane stesse pensando alla sua sfera, a dove fosse, a cosa gli mancasse.
Lei aveva rivisto il corridoio, la luce della stanza, suo fratello, quando era uscita dalla confortevole sicurezza della sua casa per andare ad aiutare qualcuno, come non le era stato permesso di fare in precedenza.
 
Perché non era affar mio, non era una cosa che mi riguardava. Come sempre, entrambe le volte.
 
Malgrado si fosse detta positiva, malgrado si fosse fatta vedere così tranquilla e quasi allegra dai suoi compagni, Lea stava maturando paura ed ansia ad ogni passo verso il prossimo traguardo, ad ogni figura sfocata che vedeva comparire lungo i confini della sua vista. Si stavano inevitabilmente avvicinando alle zone più popolate, il ché era ovvio segno di quanto la prova di Ermes stesse giungendo al termine.
Con un certo nervosismo si mordicchiò il labbro, fermandosi solo quando, strappata la prima pellicina, avvertì il sapore metallico del sangue in bocca.
Non potevano andare più in là, ad ogni metro macinato le sembrava di essere più vicina alla vita di quanto non lo fosse mai stata. E forse era solo una sensazione immaginaria, qualcosa che le stava rodendo il cervello – che non aveva più per l’amor del cielo! – da quando aveva confessato ai ragazzi della ferita di Cade, o forse era proprio l’assenza del giovane, disperso chissà dove e potenzialmente ferito e moribondo – solo, sta combattendo la sua battaglia da solo – ma si rese conto di non poter procedere oltre.


Dobbiamo essere tutti. Dev’essere tutto a posto.
 
«Dobbiamo provare a trovare il ricordo di Úranus.»


Lo disse ad alta voce, fermandosi di colpo, osservando senza vederla davvero la leggera nuvola di polvere vetrosa che s’era alzata al suo arrestarsi.
Il figlio di Fobetore la guardò crucciato. «Abbiamo ancora della strada da fare, prima di arrivare alla fine di questa prova e all’inizio dell’altra.»
Lea scosse il capo. «Dobbiamo farlo ora. Chiamalo senso femminile o in qualunque modo lo chiamasse la tua gente al tempo, ma so che se proseguiremo oltre non troveremo nulla.»
Úranus continuò a fissarla senza capire il suo improvviso cambio di umore, lo stato d’ansia che percepiva in lei era cresciuto da un momento all’altro ma non vi era stato nessun segno, nessun evento che potesse averlo provocato.
«Ti senti bene?» le domandò quindi chinandosi leggermente verso di lei.
La ragazza fece una smorfia, un sorriso tirato. «Ma sì, non sto male fisicamente solo-»
«Che succede?» Eliza chiuse la distanza tra di loro, posando gentilmente una mano sul braccio dell’altra per farla girare verso di sé. «Ti senti male? Le Praterie stanno avendo effetto anche su di te?»
«Vuol dire che hai fatto qualcosa di sbagliato nella vita. O che di cui dovresti pentirti.» s’intromise Jane. Poi sbuffò. «Non mi sembri il tipo.» sentenziò secca.
Anche se l’aveva detto con un tono decisamente infastidito, Lea apprezzò quella precisazione non richiesta ma ugualmente ed inaspettatamente gentile.
«Dobbiamo cercare il ricordo di Úranus. Adesso.» disse solo.
«Perché? Hai avvertito qualcosa? Lo senti vicino?»
«No, no- non proprio. Può sembrare stupido ma so che dobbiamo trovarlo ora.»
Lea guardò la soldatessa negli occhi decidendo di dire una mezza verità, una parziale menzogna.
Non c’era un motivo specifico, un motivo valido, c’era solo la sua ansia crescente al ricordo di ciò che era successo l’ultima volta che aveva perso qualcuno per non vederlo ritornare subito indietro. Era una cosa sua, personale e del tutto scollegata dagli altri. Forse era un po’ egoista e Jane ed Eliza avrebbero avuto bisogno di altro tempo per parlare, per chiarire le loro capacità ed escogitare un piano, ma Elena non poteva aspettare.
 
Non posso aspettare di nuovo.
 
 
 
Jonas deglutì annuendo piano, Nathan non era proprio il cronista più politicamente corretto del mondo, ma almeno gli stava dando un buon resoconto di quella che sarebbe stata conosciuta alla storia come la Seconda Guerra Mondiale.
Non era poi così sorpreso dell’alleanza con l’Italia, giravano brutte voci da tempo sulle politiche della nazione vicina, ma il Giappone era giunto del tutto inaspettato. Avrebbe dovuto dar retta a suo nonno e prestare più attenzione alla politica estera come gli aveva sempre detto di fare.
La salita al potere, l’invasione degli Stati limitrofi, la blanda difesa francese, la storia del Re d’Inghilterra che non aveva lasciato la sua nazione assieme a tutta la sua famiglia, la fuga dei grandi scienziati in America, le prime deportazioni.
Nathan stava cercando di spiegarli la questione giapponese, con scarsi risultai visto che erano più bestemmie ed insulti quelli che tirava fuori che effettivi fatti, quando la voce di Lea attirò la sua attenzione. Non capì subito cosa avesse detto ma si voltò ugualmente verso di lei.
 
«Che cazzo c’è ora?» chiese Nathan grugnendo.
Jonas scosse la testa. «Ha detto qualcosa, ma non ho capito. Penso si riferisse anche a noi però.»
Videro Elizabeth avvicinarsi agli altri e con un sospiro decisamente infastidito, Nathan lo afferrò per il gomito e lo spinse leggermente verso il gruppo.
«Perché devono sempre rompere il cazzo a ‘sto modo?»
«Magari è importante. Forse ha visto qualcosa.» appena ebbe finito di pronunciare quella frase Jonas si ritrovò a guardarsi attorno con ansia, sperando di scorgere una famigliare testa rossa di cui però, purtroppo, non trovò alcuna traccia.


«Che cazzo ha la rompi palle?!» urlò il soldato.
Se fosse stato abbastanza vicino avrebbe visto il modo in cui Eliza alzò gli occhi al cielo e avrebbe avuto il buon senso di rimanere un passo indietro e non beccarsi il pugno sulla spalla che gli arrivò.
«Riesci a non sembrare sempre costantemente infastidito da ogni cosa come un ronzino a cui si è infilata una spina nel fianco?»
«Wooo! Ronzino a chi? Ti rode il culo anche a te ora?»
Úranus sospirò. «Per favore, manteniamo toni educati.» fece un cenno con il capo a Jonas e per quanto al ragazzino non piacesse molto l’idea, si ritrovò ad infilarsi tra i due militari facendosi spazio a forza e distanziandoli l’uno dall’altro.
Sbuffò. «Lea ha detto qualcosa, ma da lì non l’abbiamo capita. È successo qualcosa di grave?»
«Spero sia più grave del voltafaccia dei musi gialli e del bombardamento a Pearl Harbor.» borbottò il figlio di Ares a mezza bocca.
«Me lo racconterai dopo, in ogni caso è passato ormai, no? Presumo tu non fossi neanche nato all’epoca. Cosa c’è di tanto strano in un bombardamento durante una guerra? Sono morti in molti?» chiese Jonas cercando di placare il biondo. Cosa in cui fallì miseramente.
«Solo perché non ero nato non vuol dire che non sia stata una merda! Quegli stronzi si dicevano nostri amici e poi hanno bombardato una base navale in America, mentre il resto della guerra non ha mai toccato suolo americano! E io sono americano e se penso a quello scempio, anche se non ero nato, mi rode parecchio il culo!»
«Quindi è a te che rode, non ad Eliza.» sogghignò Jane beccandosi un’occhiata quasi implorante da parte di Úranus.
«Sono morti più di duemila uomini!»
«Non vorrei essere cinica ma durante una guerra di solito la gente muore, specie i soldati.» ringhiò la figlia di Nike. «Sicuramente l’esercito americano si è rialzato e ha contrattaccato.»
«Certo che sì! Non gliel’abbiamo fatta passare liscia a quei bastardi.»
«Trovo così affascinante che quando si soffre per la perdita di vite umane si senta il bisogno di riequilibrare il mondo con altra morte.» soffiò perfidamente Jane.
«Cosa fai? Provochi?» la fulminò Nathan.
Lei si strinse nelle spalle. «Oh no, al contrario, approvo. Quando i miei genitori sono morti l’unica cosa che desideravo era uccidere tutti coloro che ne erano responsabili.» disse ostentando un sorriso quasi innocente.
Lea chiuse gli occhi, pregando chiunque la stesse ascoltando di darle la forza per farli smettere.
«Scusate!» sbottò ad alta voce. «Possiamo tornare al punto principale della faccenda?»
«Giusto. Secondo Lea dovremmo cercare ora il mio ricordo.» annuì Úranus.
A quelle parole Nathan si fece immediatamente più attento.
«Perché? Hai avvertito qualcosa? Hai visto qualcuno?» domandò serio.
Lea scosse il capo. «Non chiedermi perché, so solo che dobbiamo cercarlo ora.»
Strinse forte i pugni, sperando che anche lui accettasse la sua piccola ed insufficiente spiegazione, ma evidentemente qualcuno, sull’Olimpo, aveva deciso di ascoltarla, perché Nathan annuì semplicemente e fece un passo indietro, incrociando le braccia al petto.
«Mi hanno insegnato a dar sempre un minimo di credito al sesto-senso semidivino. Anche da parte dei soggetti più improbabili.»
«Ehi! Soggetto improbabile a chi?»
«Ti ha dato ragione, fermiamoci qui e non indaghiamo oltre.» si lamentò Jonas, domandosi se non dovesse spostarsi tra Nathan e Lea ora invece di rimaner fermo a far da spartiacque tra i due soldati.
«Questo significa che tocca a noi, Jane.»
La figlia di Ecate si volse a guardare quella di Nike e storse il naso, osservando la mano tesa verso di lei.

«Spero vivamente che tua madre ci sorrida.»
 
Le prese la mano e la strinse saldamente.
Probabilmente sarebbe stato un altro gran bel disastro.
 
 
*
 

«Comincio a vedere delle forme, sto diventando definitivamente stupido o pensi che siano le anime in gara?»
Cade si alzò sulla punta dei piedi, per poi saltellare piano sino ad arrivare sempre più in alto.
Cicno volse il capo verso il suo compagno, tirandosi indietro di scatto quando si ritrovò un ginocchio piegato a pochi centimetri dal suo bel naso.
 
Zeus! Ci manca solo che mi rompa qualcosa!
 
«Potresti smettere di fare la lepre? Sono le altre anime in gara, sì, siamo sempre più vicini alla meta.» si sforzò comunque di dire con tono pacato.
Cade sorrise. «Preferisco “grifone” se non ti dispiace.»
Il ghignetto dell’altro lo fece sorridere ancora di più. «Quando sfoggerai due magnifiche ali piumate ti chiamerò così, fino ad allora, mi spiace ma i grifoni erano esseri conosciuti nella mia patria, non puoi ingannare proprio me.» gli fece l’occhiolino e Cade scoppiò definitivamente a ridere.
Dio santissimo, l’angioletto avrebbe fatto vedere i sorci verdi sia alla ragazza delle praterie che al biondastro. Beh, forse con lui ci sarebbe anche potuto andare d’accordo in effetti.
«Senti, ma ci puoi mica parlare pure con i fuochi fatui? Possono dirti se hanno visto dei semidei simili ai miei amici o qualcosa del genere?»
«E secondo te come dovremmo sapere, io ed i fuchi fatui, che aspetto hanno i tuoi amici?» chiese l’altro alzando un sopracciglio.
Cade arricciò le labbra. «Punto per te. Un figlio di Ares, una di Nike, di Ecate, due di cui non ne ho la più pallida idea e una sorella tua.» fece allora l’elenco, lanciandosi poi in una dettagliata descrizione di ognuno di loro.
Cicno chiuse gli occhi, pregando l’unico dio a cui dava un minimo di credito ancora – Thanatos – di fargli la grazia di aprire una voragine sotto i piedi di quella sottospecie di satiro senza corna che aveva di fianco.
Quando nulla si mosse, il giovane imprecò.
 
Magnanimo come sempre.
 
«I fuochi fatui non possono parlare. Possono riportare l’eco delle voci degli esseri viventi, possono indicare oggetti e luoghi per comunicare in questo modo con gli altri, ma non hanno voce propria.» spiegò paziente.
«Bello schifo, potevi dirmelo prima che te li descrivessi uno per uno.» borbottò l’altro imbronciato.
«Ho notato che lasciarti parlare è il modo migliore per farti rilassare. Muovere la lingua anche senza apparente senso pare sia in grado di farti calmare e non lasciarti sprofondare in pensieri oscuri.» replicò sorridendo angelico.
Malgrado suonasse a metà come la verità e a metà come un insulto bello e buono, il rosso non poté far altro che ringraziarlo. Anche solo per vedere se la cosa l’avrebbe infastidito.
«Wow, grazie. Tu sì che sei magnanimo.»
«È una dote naturale.» rispose senza scomporsi.
«Come la modestia.»
«La modestia è per i giovani insicuri e per i savi che vogliono incoraggiare quei giovani a far sempre di meglio. Io non sono nessuno dei due.» ghignò.
Fingendo di asciugarsi le lacrime Cade guardò il suo compagno commosso. «Dio, quanto faremo incazzare il biondastro tutti e due assieme. Se poi riusciamo a coinvolgere anche la ragazza delle praterie potremmo addirittura portarlo al suicidio.»
«In tal caso, sarei pronto a dargli qualche consiglio, ma trovo la cosa molto improbabile.»
«Perché?» domandò quello curioso.
Cicno fece un gesto vago con la mano. «Figlio di Ares, giusto? Troppo orgogliosi per suicidarsi, il loro divino padre non perdonerebbe loro un atto del genere. A meno che non sia una morte sacrificale o per espiare vergogna e colpe. Se un figlio di Ares viene sconfitto in battaglia e l’onta è così grande da non poter esser redenta con una seconda vittoria, allora non resta che la morte per purificare il proprio spirito ed il proprio onore. Si libera il divino Ares e tutti i proprio compagni dalla vergogna di aver un tale fallimento al proprio fianco.»
Cade batté le palpebre incredulo. «Spero sia solo un- no cazzo, sei serio? Ares è davvero così cattivo?»
«Non la chiamerei cattiveria. È spietato, è impietoso. Questo.»
L’irlandese continuò a guardarlo allucinato, spostando poi lo sguardo sulle figure fumose che diventavano sempre più concrete, prendendo definizione, linee, colori.
 
Viola e arancione. Ce ne sono davvero tanti…
 
Cicno aveva notato la stessa cosa, c’erano una quantità sorprendente di giovani dalle vesti colorate e sapeva per certo, grazie a Michael, che quelle stoffe aranciate erano la divisa ufficiale del Campo Mezzosangue. Mentre quelle viola…
 
Ero morto già da tempo quando è stato il momento del loro avvento.


Il giovane espirò pesantemente stringendo i denti: era stato difficile per lui accettare che alla caduta del suo popolo gli Dei si erano votati ad un altro impero, non voleva certo mettersi a spiegare la faccenda anche a Cade. Non che il ragazzo fosse stupido, non completamente per lo meno, ma la traslazione di un’entità mistica sulla base delle preghiere e delle invocazione loro rivolte da popoli diversi iniziata a diventare un argomento fin troppo delicato per loro. Specie quando stava cercando così disperatamente i loro futuri compagni.
 
Che gioia.
 
Cicno cercò i fuochi fatui, sforzandosi di individuarli tra l’erba nera e rendendosi conto di quanto questi si stessero sempre più affievolendo. Significava che erano vicini al loro obiettivo, alla strada per la prossima prova e che con tutta probabilità avrebbero trovato lì gli altri semidei. Dovevano sbrigarsi, accelerare il passo e giungere a destinazione prima che quegli altri sei stolti facessero qualcosa di stupido o potenzialmente pericoloso.
 
Come utilizzare i poteri del figlio di Fobetore, o chiedere ad una figlia di Ecate che non sa neanche dove sia il tempio di sua madre di fare un incantesimo di ricerca.
Ringraziando gli Dei, il ragazzino non può far alcun danno.

 
Se avesse saputo quanto si sbagliava a pensare una cosa del genere, Cicno si sarebbe probabilmente colpito da solo, ma nel suo odio incondizionato per tutto il genere umano non si era mai reso conto di quanta fiducia mal riposa avesse per una cosa sciocca come il buon senso comune.
 
«Sono semidei anche loro, se te lo stai chiedendo.» attirò l’attenzione di Cade, esortandolo a seguirlo lungo il sentiero dei fuochi fatui quasi estinti
«Quelli arancioni lo so, Nathan mi ha detto che quando arrivi al Campo ti danno una maglia come quella, con il loro simbolo sopra. Sono quelli viola che non so da dove arrivino.» disse pensieroso.
«Forse in un’altra epoca la divisa era di quel colore. Il porpora è un tono regale, ufficiale.»
Non troppo convinto il rosso fece una smorfia. «I vestiti mi paiono gli stessi però… ce ne sono anche di molto moderni, simili a quelli del mio amico.»
Alzando gli occhi al cielo in modo discreto, l’altro imprecò mentalmente. «Forse allora, le- come le hai chiamate?»
«Maglie. Io le chiamavo camice, ma quelle ora sono solo quelle con i bottoni davanti, se sono tutte intere si chiamano maglie o magliette.»
«Sì, come dici tu. Forse le maglie arancioni sono la divisa classica, quella comune per tutti e quelle violacee sono per qualche ufficiale in grado.» provò a blandirlo.
«Mh… no, non ci sono gli ufficiali o simili, o Nathan me lo avrebbe detto e-»
«Allora chiederemo a questo tuo caro compagno che nomini così spesso.» tagliò corto, voltandosi poi per sorridergli. «Non appena lo incontreremo.»
«Ai tuoi tempi-»
«Come ti ho già spiegato, ai miei tempi i campi d’addestramento erano molteplici. Io non ne ho mai frequentato uno ma se così fosse stato, avrei indossato vesti dei colori dello stendardo di mio padre, non colori comuni a tutti.»
Quella spiegazione parve convincere Cade che finalmente annuì senza replicare.
Questo finché non realizzò cosa avesse detto precedentemente il compagno.
 
Sgranando gli occhi indignato si fece vicino all’altro, entrando senza il minimo rispetto nel suo spazio personale e alzandosi anche sulle punte per poter essere all’altezza del suo volto.
«Ehi! Io non lo nomino così spesso-»
«Non c’è nulla di cui vergognarsi, sai? Eros non guarda in volto nessuno.»
«Eros? Chi è Eros.»
«Il sommo dio dell’amore.» replicò Cicno indignandosi a sua volta. Neanche questo sapeva?
Cade divenne prima bianco come il morto che era e poi rosso come i suoi capelli.
«Amore? AMORE?! Tu credi seriamente che io- che io-?»
«Lo nomini in continuazione.»
«Al massimo potresti pensare che siamo amiconi!»
«Nella mia epoca, se due uomini erano molto vicini potevano esser tanto compagni d’arme quanto amanti. O entrambe le cose. Per di più, ho detto “compagno”, non ho specificato di quale natura.»
Cade boccheggiò allucinato, si sentiva decisamente insultato. «Senti un po’, mettiamo in chiaro una cosa: potrò non essere la persona più intelligente del mondo, ma non sono neanche un martire, quindi se proprio sarei dovuto essere uno di quella fazione, l’ultima persona che avrei potuto scegliere al mondo, dico, al mondo!, sarebbe di certo stato-»
 
Le sue ultime parole si confusero con l’esplosione che s’avvertì per tutta la zona circostante, facendo saltare sul posto parecchie anime, portato tutti in poco tempo a voltarsi verso la loro sinistra, dove una sottile linea di fumo si alzava pigra dalle steppe nere.
 
«MA PORCO D-!»
 
 
«… Nathan?»
 
 
*
 
 
Jonas si era reso conto che ogni volta che le cose non andavano propriamente bene erano sempre cominciate in modo, beh, semplice.
Prendere le medaglie? Semplice, mandiamo chi è più simpatico ai cani e guarda caso ha anche paura del fuoco.
Finito con lui e Nathan che litigano e il soldato che cade come una pera cotta.
Trovare le sfere dei ricordi di Ermes? Semplice, dividiamoci.
Si perdono prima Lea, poi si perdono lui e Lea e poi perdono Cade.
Individuiamo Cade? Semplice, usiamo i poteri congiunti di uno che è figlio dei dio degli incubi e un altro che non sa una benamata ceppa di suo padre e non ha neanche la benché minima idea di come usare i suoi suddetti poteri.
Finisce in tragedia con ricordi dolorosi e cadaveri sanguinolenti.
Dobbiamo trovare l’ultimo ricordo perduto? Semplice! Uniamo i poteri magici di una strega che non ha mai fatto un dannato incantesimo ben riuscito in vita (e in morte) sua e i poteri di una figlia della dea della vittoria a cui, apparentemente, i falliti e gli sconfitti non piacciono per niente, e facciamo usare questi poteri su una ragazza che, sostanzialmente, fallisce sempre.
Jonas sospirò. Che cazzo aveva fatto lui di male nella vita?
Ah. No, niente, domanda superflua.
Aveva fatto davvero così tanto schifo durante la sua vita?
Questa sembrava già una domanda più sensata.


Aveva osservato con malcelata ansia Jane posizionarsi davanti ad Eliza, porgendole le mani sporche e screpolata. La figlia di Nike le aveva afferrante senza pensarci due volte, lo sguardo serio e deciso, sicuro. Sicuro come non era nessuno lì in mezzo.
Non come lui che tirava e torceva il suo bracciale senza posa, come Úranus che si stava palesemente strappando tutte le pellicine delle labbra sotto quella barba incolta, come Lea che sembrava essere uscita dalla grazia del Signore tutto d’improvviso o come Nathan che guardava le due semidee come si guarda un incidente che sai che sta per avvenire, che potresti fermare ma che rimani comunque fermo a guardare. Forse perché sei sadico, forse perché non hai altra scelta. Trattandosi del soldato, Jonas optava per un mix dei due.
 
«Concentrati sul ricordo di Úranus, visualizza la sfera ma non immaginarla di un colore definito.» la istruì Nathan, le braccia conserte strette al petto come per impedirsi di far alcun ché.
«Finirà malissimo.» si ritrovò a sibilare Jonas per buona misura.
L’occhiataccia di Eliza gli fece distogliere lo sguardo. Lui non lo voleva vedere l’incidente.
«Come faccio a visualizzare la sfera e non immaginarmela di un colore definito? Devo vederla nera? Marrone? Grigia?» chiese sarcastica Jane voltandosi verso il figlio di Ares.
«Guarda me.» la richiamò Eliza. «Devi solo immaginare la sfera, puoi immaginarla scura, come sembravano tutte da lontano.»
«E che cazzo ho detto io?»
«Colore non definito.» borbottò Lea.
«E non è la stessa cosa?»
«Beh, no. Un colore indefinito non è per forza scu-»
«Fai respiri profondi. Non li ascoltare.» continuò la mora. L’occhia scettica di Jane valse più di mille parole.


Jonas fece una smorfia, girando definitivamente le spalle alla piccola compagnia, cercando di concentrarsi su altro, magari su tutte quelle anime sempre più chiare che stavano iniziando a comparire da ogni dove. C’erano molti ragazzi con la maglietta arancione, quella del Campo Mezzosangue, ma ce ne erano anche parecchi con una strana maglia viola. Che diamine era?
Avrebbe voluto voltarsi verso Nathan e chiederglielo, ma così sarebbe stato costretto a guardare di nuovo l’imminente incidente che stava per avverarsi e non gli andava proprio di rivedere qualcosa che non gli apparteneva.
 
«Incanala la magia. È dentro di te, nel tuo sangue. Sei una figlia di Ecate, il dono di tua madre è ciò che ti distingue da tutti gli altri.» mormorò a bassa voce Úranus.
Forse lui sarebbe dovuto star zitto più di tutti gli altri, visto come aveva ritrovato il ricordo di Jane, ma di nuovo, Jonas non aveva intenzione di girarsi e rischiare di prendersi una qualunque onda magica di rinculo dritta in pieno petto.
Rimase stoicamente voltato anche quando un leggero bagliore verdastro si rifletté sugli steli bassi e sui frammenti vetrosi e Lea si lasciò scappare un verso sorpreso.
 
 
Jane teneva gli occhi fissi in quelli di Elizabeth, il verde smeraldo le si rifletteva nelle iridi sbiadite, ora animate da quello scintillio di magia che sua madre le aveva concesso. Così poco eppure così evidente ogni qual volta provasse a fare anche il più piccolo incantesimo.
Davanti a lei non vi era davvero la soldatessa però, ma solo la Foschia densa delle Praterie, il vento che soffiava forte sfocando i contorni di ogni figura che vagava per quelle valli.
Doveva cercare una sfera ma, sorprendentemente, ce ne erano ancora moltissime in gara e perfettamente intatte. Come poteva trovare quella giusta? Non aveva neanche la minima connessione con Úranus, per quanto il potere di Nike potesse giovarle non l’avrebbe certo aiutata ad individuare ciò che non conosceva, i suoi poteri non funzionavano così. Di certo, non come quelli del gigante rosso, che l’avevano trovata e l’avevano fatto nel modo più doloroso possibile.
Una nota di acredine le si accese in petto, se solo avesse saputo come fare avrebbe servito pan per focaccia a quel figli prediletto che andava predicando il vero verbo degli Dei come fosse un prete.
Ma l’invida, in quel momento, non le sarebbe servita a molto.
Con uno sforzo di volontà incredibile, che sorprese persino lei stessa, Jane cercò di riportare alla mente tutto ciò che il giovane le aveva raccontato. Probabilmente il suo ricordo sarebbe stato legato a sua madre, magari a suo fratello o- no, il fratello no, non l’aveva visto nascere. Ma Jane non aveva la più pallida idea di come fosse la madre di Úranus, del suo aspetto, la sua voce.


Cercare qualcosa di famigliare che non ho mai visto, mai saputo.
 
Come potevano credere che ci sarebbe riuscita?
 
 
 
“Oh, ti conviene non pensarla così, coccinella, a Nike non piace chi si piange addosso, non le piacciono i deboli.”
 
 
 
A Jane parve quasi di aprire di scatto gli occhi, malgrado non avesse battuto ciglio per tutto il tempo.
Nel fumoso e sfocato mondo di Foschia un uomo con un lungo cappotto nero ed un legno bruciante tra le labbra le sorrideva. Un sorriso che Jane poteva solo sapere ma non vedere, il volto dell’uomo non c’era, soffiato via dal vento come ogni altro particolare. Eppure, lei sapeva chi fosse.
 
L’uomo del biglietto.
 
 
 
“Corretto, Ladybyg. Lieto di vederti qui, sei riuscita a farne di strada. Malgrado ciò, per quanto brava tu possa esser stata e per quanto tu sia riuscita a trovare abbastanza velocemente i tuoi compagni, non sei diversa dagli altri semidei. Anzi, sei proprio uguale a tutti gli altri.”
 
 
 
Jane aggrottò le sopracciglia. La stava insultando?
L’uomo rise.
 
 
 
“Lungi da me! Ma vedi, se vivi abbastanza a lungo quanto me, cosa che non è riuscita a nessuno di voi apparentemente, riesci a vedere i collegamenti anche dov’è impossibile vederli.”
 
 
 
Cosa mi sono persa?
 
Domandò allora crucciata.
 
 
 
“Tu? Nulla. I semidei in generale? Molte cose. Troppe cose. Ma ciò che più vi accomuna è che, malgrado i poteri ricevuti dal vostro retaggio divino, continuate ad annaspare verso ciò che non avete. E questo, se chiedi a me, è ciò che vi rende più simili ai vostri genitori: volete sempre più di quanto già non abbiate.”
 
 
 
L’uomo fece qualche passo verso di lei, arrivando ad affiancarsi alla figura sfocata che sarebbe dovuta essere Eliza. Inconsciamente Jane strinse la presa sulle sue mani, in cerca di aiuto, di supporto. Non si sentiva in pericolo, ma sapeva che quell’uomo era pericoloso, lo sentiva dentro, glielo diceva-
 
Il mio sangue divino.
 
 
 
“Ottimo, stai imparando ad ascoltarlo quindi.”
 
 
Un ghigno invisibile si aprì sul suo volto, come uno squarcio su di un telo, lungo e frastagliato.
 
 
 
“Non cercare la sfera. Non cercare il ricordo di qualcosa che neanche conosci. Cerca qualcosa, qualcuno, che conosci.”
 
 
 
Le diede un buffetto sulla testa e poi le volse le spalle, incamminandosi verso il resto di quel mondo in movimento che li circondava.
 
 
 
“E se ti può interessare: non stai per niente simpatica a Nike e non stai neanche facendo nessun incantesimo. Ma congratulazione, sei riuscita ad accedere al mondo di Foschia, anche se ti ci è voluto un invito. È comunque un passo avanti.”
 
 
 
Jane avrebbe giurato di sentir sghignazzare l’uomo oltre il rombo del vento e l’idea che qualcuno si prendesse così palesemente gioco di lei la innervosì esattamente come facevano sempre le parole di Nathan.
Serrando la presa sulle mani di Eliza per un attimo, Jane la lasciò d’improvviso, girandosi verso l’uomo, pronta ad urlargli contro anche. Ma non appena ebbe lasciato le mani dell’altra, una scintilla d’argento schizzò tra le loro dita, un ringhio basso e infastidito. Nike aveva prestato orecchio alle preghiere di sua figlia, ma l’impertinenza di Jane, completamente dimentica del suo obiettivo, della persona che la stava aiutando, non le piacque affatto.
Una scossa elettrica seguì la scintilla e con uno scoppio simile a quello di un pentolone esploso, Jane si ritrovò spinta via dal mondo di Foschia, dritta in quello reale dell’aldilà.
 

Jonas tenne la testa bassa, fissando incantato i giochi di luce sull’erba scura, quando un improvviso bagliore argenteo, seguito da quello che gli parve lo schiocco di un fucile, lo fece saltare sul posto.
Non ebbe il tempo di votarsi e controllare cosa fosse successo, qualcosa lo colpì in pieno sulla schiena, mandandolo lungo per terra come ormai pareva succedere spesso.
 
«Ma che ca-»
Il grido di Lea superò la sua imprecazione ma non quella di Nathan, un peso non indifferente lo schiacciava al suolo e gli ci volle l’aiuto della ragazza per togliergli di dosso una stordita e piuttosto incazzata Jane.
«Quell’uomo…»
«Mio dio! State bene? Cos’è successo? Eliza?» Lea si inginocchiò vicino a loro, cercando poi con lo sguardo l’altra giovane, seduta tra Nathan ed Úranus.
«Non so cosa sia successo di preciso. Stava andando tutto bene, poi Jane ha iniziato a stringermi di più le mani e dopo poco le ha lasciate di scatto.» spiegò l’altra.
Úranus le guardò preoccupata. «La divina Nike non deve aver gradito.»
«Non l’hai ringraziata, vero? Cazzo! Dovevo dirti di ringraziarla!» imprecò Nathan.
«Mi state dicendo che è stata Nike a farle saltare via?» domandò Jonas senza provare neanche ad alzarsi, steso a pancia in giù tra l’erba nera. Sputacchiò un po’ di polvere e cercò di togliersi qualche frammento di vetro di dosso: almeno non sembrava vetro vero, si sgretolava non appena lo si toccava.
«Sì, temo sia stata mia madre. Non ha gradito l’interruzione del contatto.»
«Ma hai trovato il ricordo di Úranus, no? È per questo che hai mollato la presa.» chiese speranzosa Lea.
Jane fece un verso di stizza. «Ci sarei anche riuscita, ma è apparso quell’uomo.» sputò con astio. «Sono sicura che è lo stesso che mi ha dato il biglietto qui nelle Praterie e scommetterei che è lo stesso che ha visto Eliza.»
«Ti ha interrotto?»  domandò lei sorpresa. «Ma fino ad ora ci ha aiutati…non ha senso.»
«Se è una divinità ha senso tutto. Fanno solo il cazzo che gli pare.» ringhiò Nathan senza grazia. «Che ha detto?»
«Che non sto simpatica a Nike, che noi semidei somigliamo moltissimo agli Dei. Poi mi ha fatto notare gentilmente che lui queste cose le poteva ben dire perché a differenza nostra è vissuto abbastanza per impararle e poi mi ha detto che non solo sono antipatica a tua madre – disse puntando il dito contro Eliza – ma non ho neanche fatto nessun incantesimo. Apparentemente sono solo finita nel “mondo di foschia” e solo perché mi ci hanno invitata!» concluse con tanta di quella rabbia che Jonas storse il naso e lasciò ricadere il capo a terra.
Non avevano scoperto nulla.
«Oh.» disse poi d’improvviso Jane. «E che non dovevo cercare qualcosa che non conoscevo ma qualcuno che conoscevo.»
«In sostanza,» borbottò Jonas con voce mezza soffocata dalle sue stesse braccia. «ti ha detto “lascia stare il ricordo di Úranus e pensa a Cade?”, questo?»
«Che significa? Perché non dovremmo cercare il ricordo?»
«Ci sta dicendo di mollare?»
«E secondo voi dovremmo ascoltarlo?»
«Ci ha aiutati fino ad ora, perché vuole che lasciamo indietro un compagno?»
«Sempre che sia stato lui, ad aiutarci.»
«Ti ho detto di sì.»
«L’hai visto in faccia?»
«No, ma so che era lui.»
«Allora perché avrebbe voluto-»
 
«Che sia-» Úranus mormorò appena, ma subito tutti gli altri smisero di parlare per guardarlo curiosi. Il giovane deglutì. «Se è vero che quest’uomo ci ha aiutato per tutto il tempo, che ci ha sospinti gli uni verso gli altri, ha salvato le nostre anime in momento delicato. Se è vero che vuole la nostra vittoria, forse l’unica spiegazione è che cercare il mio ricordo sia più difficile del trovare Cade.»
Lea si sedette meglio in terra, spolverandosi le mani sui pantaloni. «Credi che ci stia dicendo di trovare prima la cosa più facile?»
«Cade è una persona, è sicuramente più facile da trovare di un’anonima sfera nera.»
«Peccato che ci siano quasi tutti i morti del mondo in gara.» sbuffò Jane.
«Cos’altro potrebbe essere allora?» la sfidò il ragazzino guardandola da basso.
«Magari.» intervenne Eliza prima che i due potessero iniziare a bisticciare. «Magari ci indirizza alla ricerca di Cade perché con lui potremmo trovare più facilmente il ricordo di Úranus. Ha trovato il suo coltellino in un labirinto, ricordi la storia dei fili?» domandò rivolta a Nathan.
Il soldato annuì. «Non so se ci fosse riuscito solo perché il dannato coltellino era suo o-»
«Ma certo!»
Jonas saltò su seduto, pulendosi la faccia con la manica e incrociando le gambe si strinse le caviglie per un attimo, abbassando lo sguardo sul suo bacino. Appesi al passante dei pantaloni e alla cinta, poggiati sul fianco, c’erano i guanti metallici di Cade, quelli che l’irlandese gli aveva dato nel labirinto per aiutarlo a difendersi da solo.
«Ha ritrovato il coltello e i guanti.» continuò a voce più bassa. «Potrebbe ritrovarli di nuovo… forse ti ha detto di cercare lui perché anche Cade ci sta cercando. Ci dobbiamo andare incontro. O forse dobbiamo rimanere fermi, se no lo manchiamo. Potrebbe essere più vicino di quanto non pensiamo.»
Gli altri lo guardarono chi più, chi meno, con apprensione. Era abbastanza ovvio che Jonas continuasse a sentirsi in colpa, l’idea di allontanarsi da lui mentre li stava cercando, di girarsi attorno senza mai incontrarsi doveva essere una paura più che concreta per il ragazzo. Ma la verità era che non potevano rimanere fermi in eterno, non potevano aspettare nel caso in cui Cade li stesse cercando. La cosa più sensata da pensare era che il giovane si stesse dirigendo all’inizio della prossima gara e che l’avrebbero ritrovato al punto di partenza.
 
Se non si è perso nelle Praterie. Se non ha perso sé stesso.
 
Per quanto gli costasse ammetterlo, Nathan aveva avuto una spiacevole sensazione al solo pensiero. Non che gli mancasse quella testa di cazzo o altro, ma erano diventati compagni di squadra, in qualche modo. Erano un gruppo da missione, erano commilitoni nel modo più lontano e vicino possibile a quello a cui Nathan era abituato.
Non voleva lasciare un compagno indietro, anche se poi sarebbe diventato suo nemico. Non voleva perdere nessuno ma non potevano neanche perdere tempo. E non potevano seguire le indicazioni di un figuro sconosciuto che probabilmente era apparso a tutti loro in momenti diversi, aiutandoli e spingendoli dove voleva vederli arrivare.
 
Potrebbe essere una trappola.
 
E la storia dei guantoni non poteva reggere. Cade aveva detto di vedere un filo, sì, questo era vero, ma si trovavano in un ambiente che per quanto intricato rimaneva circoscritto. Le Praterie erano troppo ampie e loro aveva percorso troppe strade diverse, la traccia, in qualunque modo Cade riuscisse a fiutarla, doveva essere troppo blanda.
 
«Avviciniamoci un altro po’ al traguardo.» sentì dire d’improvviso da Eliza. «Riprendiamo fiato, avviciniamoci di qualche decina di metri, non saranno questi a negarci la possibilità di ritrovare Cade. Lì Jane potrà provare a seguire il consiglio dell’uomo in nero- Era vestito di nero anche l’uomo che hai visto tu, giusto?»
Jane annuì solo, spolverandosi la gonna rovinata e alzandosi in piedi. «Ma senza il tuo aiuto. Se sto davvero antipatica a tua madre dubito che vorrà aiutarmi di nuovo.» concluse con una smorfia.
«Ma se-»
«Ci troverà anche lì. Se fosse vero che ci sta cercando tramite i suoi guanti, ti troverà ovunque andrai.» lo rassicurò Lea forzando un sorriso. «Fidati un po’ di quella testa rossa.»
«E dai un minimo di credito anche a me, ragazzino. Nessuno mi ha insegnato nulla, ma non sono stupida. So imparare dai miei errori.» lo gelò con uno sguardo Jane, quasi l’avesse insultata apertamente.
«Su, alziamoci.» Propose la figlia di Apollo porgendogli la mano. «Qualche metro ancora, il tempo per Jane di riprendersi e si riprova.»
 
Úranus sorrise mesto alla scena davanti ai suoi occhi, quando Nathan gli assestò una pacca sulla spalla e senza guardarlo in faccia gli fece cenno di muoversi.
«Troveremo anche il tuo ricordo.» disse solo.
L’altro annuì. «Se l’uomo in nero è nostro alleato ci sta sicuramente consigliando di trovare prima Cade perché lui potrà esserci d’aiuto.»
«Di certo, con i salti che fa, potrebbe vedere ben lontano.» concordò il biondo.
«Dobbiamo solo trovarlo.»
 
 *
 
 
«Ti dico che era Nathan.»
«Riconosci la sua voce anche così da lontano e ti stupisce il fatto che io possa credere ci sia la benedizione di Eros su di voi? Cosa avete voi persone dei nuovi tempi contro l’amore?» domandò ironico Cicno.
Cade storse il naso. «A me piacciono le donne.» sentenziò sicuro.
«Dal modo in cui cercavi di scrutare sotto le mie vesti non si direbbe, ma ho conosciuto molte genti come te, certe di qualcosa di cui non si può aver certezza.» sorrise divertito dall’imbarazzo che colorava le guance di Cade. «L’amore è labile, come la vittori. Effimero come la gloria, volubile come la fortuna. Se ne hai trovato ti consiglio di non gettarlo via e di non perderlo di vista.»
«Molto poetico, dico davvero, ma a me piacciono i seni. Due bei seni grossi e alti. Suona meglio?»
«Pare molto sciocco e volgare. Sono solo mammelle, le hai anche tu.»
«E che cazzo, ma devi chiamare proprio così? Le mucche hanno le mammelle. E io di certo non le ho.» disse incrociando le braccia.
«Mi stai forse confessando di avere un petto privo di capezzoli?» domandò alzando un sopracciglio.
Cade lo guardò storto. «Ma che hai tu con il corpo umano? Sei fissato?»
«Non particolarmente. Trovo sia solo una delle-»
«Opere più belle degli dèi. L’hai già detto. Neanche troppo tempo fa.» sospirò, poi tornò a sorridere, maligno. «Non dire queste cose davanti ad Eliza o ti picchia. Ma dille davanti a Jonas, diventerà rosso come un pomodoro.»
Fu il turno di Cicno di sospirare. «Sei piuttosto infantile, senza offesa.»
«Me lo dice spesso anche Elza, ma tra poco lo potrai sentire direttamente da lei! Sei sicuro che è questa la direzione giusta?» domandò cambiando discorso.
«Sei tu il segugio, da dove proviene l’aria che odora di bruciato?» ritorse cercando di nascondere il suo fastidio per i continui e repentini cambi d’argomento. Ci riuscì piuttosto bene apparentemente.
Cade sorrise a trentadue denti ed indicò dritto davanti a loro.
«Allora lì sia.» sorrise finto il biondo.
L’altro sembrò però non farci caso, rimanendo con lo sguardo puntato verso la direzione appena indicata, pensieroso.
Uno sguardo che, a voler essere sinceri, Cicno non apprezzava troppo.
Era lo sguardo di qualcuno che stava per avere una pessima idea e lui non voleva rientrarci.
 
Anche se non avrò molta scelta, purtroppo.
 
«Senti…» iniziò infatti Cade.
Cicno strinse i denti. «Dimmi pure.» disse mantenendo il tono più neutro possibile.
«Ma… tu hai problemi con le altezze?»
Al figlio d’Apollo venne da ridere. Se non fosse stato del tutto fuori posto e assolutamente inquietante, e se non ci fosse stata la seria possibilità che quella risata si trasformasse da divertita ad isterica, concludendosi con lui che lanciava i suoi amati coltelli a quel bastardo degli dèi, si sarebbe lasciato andare.
Aveva problemi con le altezze lui? No, per carità divina, altrimenti non avrebbe deciso di buttarsi da una rupe. Altrimenti non sarebbe sopravvissuto a lungo in forma di cigno.
Serrò i denti digrignandoli silenziosamente.
Optò per una versione più leggera di quella originale.


«Fui tramutato in un cigno, ricordi? I cigni volano.» sorrise in modo gentile, null’altro che un lieve incresparsi di labbra. Avrebbe voluto spaccargli la faccia a colpi di verga.
«E con il contatto fisico come te la cavi?» continuò l’altro.
 
“Me la cavo” che probabilmente ne ho conosciuto molto più di quanto non abbia fatto tu.
Che sia stato di piacere o di tormento.

 
«Credevo non fossi di tuo gradimento.» lo provocò blandamente.
Cade rise, l’espressione un po’ più rilassata. «Non prenderla male, mi piaci comunque, ma non in senso romantico. Dovresti avere un paio di cose in più ed un paio di meno, se capisci cosa intendo.» ammiccò divertito.
«Capisco che non te ne intendi di matematica. Tre cose in più e tre in meno.» lo corresse senza vero interesse.
Cade parve rifletterci, contando sulle dita prima di annuire convinto. Sorrise poi e senza preavviso, gli strinse un braccio attorno alla vita.
Cicno si voltò di scatto poggiando le mani sulle sue spalle. Lo superava quasi di tutta la testa.
«Cosa stai-»
«Reggiti forte angioletto, ti sto per portare a fare qualche salto!»
Il biondo non ebbe il tempo di rispondere, Cade fletté le game e proprio come aveva fatto giorni addietro con Jonas, si librò in aria portandosi dietro un compagno sorprendentemente più collaborativo di tutti gli altri. Cicno poté solo stringergli le braccia al collo e affidarsi a lui.
Lo odiava. Odiava dover mettere la sua vita nelle mani di altri, ma almeno aveva la consolazione del sapere che, in caso di caduta, lui sarebbe stato l’unico in grado di riprendersi. E la morte di Cade sarebbe stata uno spiacevole inconveniente.
 
Cade passò anche l’altro braccio attorno alla vita sottile di Cicno, rendendosi conto di quanto fosse magro malgrado sembrasse una di quelle statue antiche che si vedevano sui giornali.
Si stupì anche di quanto fosse morbida la sua pelle, di quanto fosse pulita, profumata. Lui era un anima degli Elisi e non profumava in quel modo.
Chi diamine l’aveva rimesso a nuovo?
Una strana sensazione gli scivolò sotto pelle attirando la sua attenzione. C’era qualcosa di liscio e duro che premeva contro il suo collo, proprio all’altezza dei polsi di Cicno. Sembrava quasi- metallico?
Aprì bocca, pronto a chiedere cosa fosse, ma stavano già perdendo quota, riscendendo rapidamente verso l’erba nera e dovette concentrarsi sul planare lentamente. Non appena sfiorò con i piedi il terreno si diede un’altra spinta, notando con piacere come Cicno avesse sollevato i suoi di piedi, per evitare di intralciarlo in alcun modo. Si era affidato completamente a lui, reggendosi alle sue spalle senza alcun problema.
 
Non è un tipo troppo fiducioso verso gli altri, ma è palese che in vita fosse abituato ad affidarsi a qualcun altro per ottenere ciò che voleva. Non dev’essere la prima volta che viene portato in braccio in questo modo.
 
Cade sospettava che anche se avesse provato a tirarlo su a mo’ di damigella Cicno non avrebbe battuto ciglio e stava quasi per chiedergli, beffardo, se non preferisse prendere una posizione più comoda, quando nel mezzo della risalita l’altro tolse un braccio da attorno al suo collo ed indicò un punto indefinito alle loro ore due. Sì, Nathan le aveva tipo chiamate così, come l’orologio.
 
Dei dell’Olimpo! Sto davvero pensando a lui un po’ troppo spesso. Cazzo, va a finire che mi affezione pure al biondastro.
 
«Lì!» disse a voce alta Cicno. «C’è qualcosa che brilla. Potrebbe essere magia.»
 
Non lo era. Palesemente. Non c’era alcuna possibilità che la magia di una figlia di Ecate brillasse a quel modo, fredda e metallica, ma non c’era bisogno che Cade lo sapesse.
Cicno sorrise interiormente. Quello che brillava era un gioiello divino e dubitava fortemente che ce ne fossero molti altri in gara se non i suoi e quelli di Jonas.
Cade seguì la direzione della mano ed inspirò a fondo. Un vago odore di erbe, cenere, terra e polvere da sparo, qualcosa che calzava alla perfezione con i suoi compagni, gli solleticò il naso. Sentiva anche una scia simile a quella del bronzo, sì, dovevano essere loro.
 
Devono. Per forza.
 
Il suo sorriso di ampliò quando la corrente ascensionale che avevano preso gli portò anche il profumo della pioggia, quello della terra bagnata, dei mattoni, delle tegole, de-
 
Del sangue.
 
Nella sua mente immagini mute si susseguirono in fretta, il peso leggero di Cicno tra le sue braccia divenne quello insostenibile e rassicurante di un fucile. La cupa luce di un giorno nuvoloso e piovoso mescolava le ombre con le persone, dalle fessure delle persiane di legno poteva vedere i soldati marciare, le ruote dei carri girare, gli zoccoli dei cavalli, ma non sentiva nulla. Non sentiva i rumori, le voci. Ricordava gli odori solo perché gli erano appena giunti.
Il suo ricordo era lì e anche se non ci fossero stati i suoi amici – dovevano esserci per forza – sarebbe comunque dovuto andare lì a recuperare la sfera, prima che fosse troppo tardi.
 
«Reggiti angioletto, facciamo un volo bello lungo.»





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Capitolo 14
*** Return ***









Capitolo XIV- Return.
 
 
 
Sobbalzò d’improvviso, la strada dissestata doveva esser peggiorata per colpa della pioggia che c’era stata nei giorni precedenti. Di fianco a lui, seduta sul lungo sedile del passeggero, Amore guardava con tranquillità e senza il minimo interesse il panorama di campagna che scorreva fuori dai finestrini della vecchia corriera.
La gonna liscia non aveva alcuna piega, le scarpette erano lucide come se qualcuno vi avesse appena passato la cera e la camicetta bianca pareva più immacolata del giorno in cui si erano conosciuti. Non sembrava minimamente che la ragazza avesse passato gli ultimi giorni dentro quei vestiti, che vi avesse dormito dentro, che vi avesse sofferto il caldo umido e asfissiante che dominava la piana in cui stavano passando. Giordano sudava come un peccatore in chiesa e lei pareva fresca come un fiore appena sbocciato, se non avesse intuito fin da subito che la giovane appartenesse alla stirpe divina si sarebbe domandato se forse il sole non gli avesse dato alla testa e se tutta quella situazione non fosse altro che uno strano scherzo della sua mente affaticata.
Cercò di mettersi più comodo sul sedile, aveva piegato con cura alcune coperte da usare come rialzi per poter arrivare al volante con più facilità, ma queste erano di lana grossa ed un po’ infeltrita, ottime per le nottate invernali. Peccato fossero in piena estate. 
Si sentiva letteralmente le chiappe andare a fuoco, ma dubitava quello fosse un buon argomento di conversazione con una signorina.
Una signorina che girava sola per le campagne Emiliane e saltava a bordo di una vecchia carretta rimessa in piedi da un ragazzino – sconosciuto – che sarebbe stato pronto a prenderla a legnate in faccia se solo non fosse stata una femmina.
Il fatto che a “legnate” l’avrebbe dovuta prendere con quei due rametti secchi che aveva trovato e che era rimasto paralizzato dalla paura quando l’aveva sentita parlare, maledicendosi per non essersi reso conto che qualcuno si fosse avvicinato a lui, era argomentazione inutile.
Concentrato a forza sulla strada, vuoi per le sue pessime condizioni, vuoi per l’imbarazzo che ancora aleggiava tra i due, non si rese conto del sorriso divertito della giovane, che lo guardò di sottecchi leccandosi le labbra.
 
«Non mi hai ancora detto perché vuoi raggiungere Venezia.» disse lei d’improvviso, strappandolo dai suoi pensieri pieni d’imbarazzo.
La giovane aveva l’acquolina in bocca, i tumulti che s’aggitavano nel petto del ragazzino erano quanto di più delizioso potesse percepire in miglia e miglia.
Lui deglutì, tenendo ostinatamente lo sguardo sulla strada.
 
«Devo- c’ho da fa na cosa. Ho promesso a un amico mio che, passando pe la Serenissima, per andare verso Triste, c’hai presente? Ecco, sarei passato per la laguna e avrei buttato n’occhio a-» si bloccò, guardò la ragazza di sottecchi e arricciò le labbra. «Mica lo so se te lo posso di’, sai?»
Amore rise piano. Oh, ma lei già lo sapeva, lo sapeva benissimo cosa il suo “amico” gli aveva chiesto di controllare, ma voleva sentirglielo dire ad alta voce. In lei, lentamente, stava montando il desiderio d’esser graziata dalla fiducia cieca e immacolata del giovinetto seduto al suo fianco. Voleva che si fidasse di lei come faceva con il suo amico. Più di quanto non facesse con lui.
 
Con Ade.
 
«Perché mai non potresti? È forse un segreto reale?» domandò giocosa.
Giordano storse il naso. «Potrei di’ de sì, in effetti.» gracchiò con la sua vocetta acuta ma pensierosa.
«Si parla d’intrighi, allora!» salò su battendo le mani.
«Na specie, sì…»
«Di corte?»
«No.»
«Di lotte politiche?»
«Te pare a te che me lo dicevano a me?»
«Allora di complotti di guerra.» continuò sempre più divertita.
«Noneee*» sbuffò allora lui innervosito da quel continuo chiedere. La guardò ancora con la coda dell’occhio e si domandò se potesse fidarsi. Le donne parlavano sempre tanto, magari le diceva qualcosa ora e poi lei lo spifferava alla comare alla prima occasione. Però- arricciò le labbra, forse poteva fidarsi di lei? In fondo era una cosa piccola, da niente.
«Dimo che c’entra col nome tuo?» provò in modo vago.
La giovane lo guardò deliziata. «Un problema di cuore allora. Ed il tuo amico ha una tale stima di te da mandarti da solo per questo lungo viaggio, per accertarsi che la sua donzella stia bene? Avrebbe dovuto mandare qualcuno di più adulto, non credi? Che come minimo avesse la barba.»
Giordano incassò la testa tra le spalle e s’incupì di botto: capiva di non esser certo il prototipo di perfetto e grande uomo d’avventura, non era certo Sandokan, ma neanche a prenderlo in giro in modo così palese.
Storcendo di nuovo il naso in un’espressione infastidita più della precedente, Giordano scalò la marcia gracchiante della vecchia corriera e si accostò al ciglio della strada, tirando il freno a mano un po’ duro, che ancora si muoveva a scatti, voltandosi poi per fronteggiare la ragazza.
 
«Senti un po’, mi dovrà ancora crescere la barba ma ti ricordo che sono arrivato fin qui da solo, sulla corriera che io ho riparato, da Roma fino a oltre Bologna, dritto verso Venezia e poi fuori dal Regno d’Italia. Godrò di certo di un minimo di stima da parte del mio amico, ma so anche il fatto mio.» disse risoluto, guardandola dritta negli occhi.
Le sue iridi sembravano rosee come pietre preziose, liquido e lucide come l’ambra e Giordano per un attimo dimenticò tutto il fastidio che le parole dell’altra avevano suscitato in lui.
Amore gli sorrise in modo dolce, affascinante, ipnotizzante, ed allungò lentamente la mano candida per carezzargli la guancia, la mascella, il collo.

«Sei senza ombra di dubbio alcuna meritevole della fiducia del tuo amico, ne sono certa. Ma sei ancora un fanciulletto, non hai ancora aperto gli occhi sul mondo degli adulti.» rispose soave.
Giordano deglutì. «Beh, c’ho quattrodic’anni, damme un attimo de te-»
«Non ne hai di tempo, Giordano. Sei in viaggio da solo, con più di una missione da portare a compimento con le tue sole forze. Forse non potrò aiutarti a farti crescere la barba- disse giocosa – ma posso aiutarti a crescere in tutt’altro modo.»
Le ultime parole le pronunciò ad un soffio dal volto del ragazzino che, stordito, si domandò quando la giovane si fosse avvicinata così tanto. Aveva un profumo così buono… sapeva di rose fresche e cera di candela, legna di citronella bruciata nelle buie notti d’estate, quando nella calura soffocante soffiava piano un fil di vento che portava ristoro e brividi sulla pelle accaldata, una carezza leggera come una piuma.
«Fu la tua bella Roma a darmi questo nome, a chiamarmi Amore, dolce come la frutta matura e morbida. Ma nella mia terra, il nome che mi diede mia madre, è ben diverso.» strusciò piano il naso contro quello del ragazzino, un lieve tocco che spanse il suo profumo. «Simboleggia l’amore in tutte le sue forme e se il tuo più caro amico ti ha affidato il compito di trovare la sua amata, allora avrai bisogno dei miei insegnamenti. Devi imparare cos’è l’amore, piccolo Gio, per poterlo riconoscere negli occhi della gente, per poterlo proteggere come il tuo amico ti ha chiesto di fare.»
Giordano balbettò parole confuso, gli occhi semichiusi, soffocato da un marasma di sensazioni, di odori, di suoni, che mai aveva sentito prima in vita sua.
«Chi sei?» domandò piano, timoroso di distruggere la magia che lo circondava.
La ragazza, la dea, stese le labbra carnose in un sorriso quasi predatorio, che ebbe il potere di scuotere Giordano in ogni sua più piccola particella.
«Mi chiamarono Eros e se accetterai, ti svelerò tutti i segreti di uno dei poteri più grandi dell’intero cosmo.»



 
*
 


Aveva mentito, ma questa non era poi una grande novità.
Cicno non apprezzava l’altezza, o per meglio dire, non l’apprezzava troppo quando non era lui a decidere quanto andare in alto, quando planare, quando chiudere le ali o aprirle per seguire una corrente.
La sua vita da cigno era stata dolorosa e piena di rabbia. Poteva ancora sentirlo ribollire nelle vene tutto il rancore che aveva provato in quel momento, tutto il disprezzo per quel padre che l’aveva messo al mondo, l’aveva abbandonato ventisei lunghi anni, facendogli grazia di un dono così pericoloso e crudele come la bellezza, per poi ricomparire nell’attimo in cui tutte le sue sofferenze stavano per giungere a conclusione.
Le ali bianche, candide, il collo lungo ed elegante, gli occhi dolci e lucidi, nulla di tutto quello aveva reso meno amara la sua trasformazione. La sua bellezza apparente non aveva impedito alla sua voce di starnazzare come un oca, d’emettere quel verso così orrendo e agghiacciante, quando aveva visto sua madre cadere dalla stessa roccia da cui lui si era gettato in cerca del conforto della morte.
Apollo aveva salvato il suo bel volto ma non quello della donna che aveva messo lui al mondo.
 
Senza rendersene conto strinse la presa al collo di Cade. Il ragazzo lo guardò di sfuggita, tutta l’emozione e l’adrenalina che aveva accumulato in corpo nel realizzare che finalmente aveva ritrovato i suoi compagni si quietò per un attimo, improvvisamente preoccupato per quel bell’angelo senza ali che sembrava sprofondato in un mare oscuro da cui solo lui stesso poteva riemergere.
Cade, ancora una volta, non era stupido. Cicno non aveva fatto mistero d’esser un dannato, così come non aveva negato di esserselo sostanzialmente meritato, vantandosi con ironia delle gesta che l’aveva portato ad aver una terrazza tutta sua.
Anche se Cade dubitava che quella fosse tutta ironia.
Ma era anche ovvio che per quanto il giovane portasse la sua croce a testa alta, con orgoglio quasi, ci fossero ombre del suo passato che pesavano sulla sua testa come una spada.
Forse era stata la luce, forse era stato il salto, anche se gli aveva detto che l’altezza per lui non era un problema visto che suo padre l’aveva trasformato in un cigno.
L’aveva trasformato in un cigno-
 
Per salvarlo dal volo giù dalla scogliera che aveva deciso di fare- cazzo!
 
Okay, forse il problema era la storia del “non ho alcun problema con le altezze”, forse era una cazzata e volare gli ricordava il giorno della sua quasi morte.
Aveva già detto “cazzo”? Beh, nel dubbio, cazzo.
 
«Stringi i denti, angioletto, un altro paio di salti e siamo arrivati, va bene?» cercò di confortarlo stringendolo di più a sé, anche se si sentiva stupido, abbastanza in imbarazzo e persino fuori posto nel tenere così saldamente tra le braccia un ragazzo, un maschio, che lo superava di una buona decina di centimetri.
Con Jonas non aveva provato lo stesso vago senso d’imbarazzo, di inadeguatezza. Il ragazzino gli ricordava i più piccoli dei suoi Liberty, e forse era anche per questo che lo chiamava uccellino, qualcuno di cui prendersi cura, un fratellino, una versione maschile e cresciuta della sua Annie. Chissà come stava ora i biondino, chissà se era preoccupato per lui, se lo stava cercando, se stava assillando il biondastro perché lo cercassero tutti assieme, magari sfruttando i poteri di qualcuno di loro.
Guardò ancora Cicno con la coda dell’occhio e poi si riconcentrò sul volo, la mente che già saltava ad un altro pensiero.
Avrebbe dovuto trovare un altro sinonimo di biondo, ora che anche il greco era entrato a far parte della combriccola. Biondino, biondastro, bionda per Lea… ma perché erano tutti biondi? Non potevano essere castani o mori? C’era solo Elza mora e – di che diamine di colore erano i capelli della ragazza delle Praterie? Erano marroni forse? Cavolo, se lo stava già dimenticando.

«Stai andando fuori rotta.» lo richiamò al presente Cicno, la presa attorno al suo collo ancora ben salda e forse un po’ fastidiosa.
Erano “vivi” in un qualche modo: respiravano, sudavano, si affaticavano, sanguinavano, non era poi così strano che una stretta troppo forte lo infastidisse come un cappio.
Cade annuì, unendo i piedi e riprecipitando verso il basso. Non appena toccò terra, ancora stupito di quanto fosse capace l’altro di non intralciarlo, girò di poco il busto e si diede un’altra spinta verso la direzione giusta.
«Ora va bene, vedetta?»
«Non ho mai avuto questo compito, di solito era svolto da ragazzini o giovani guerrieri.» mormorò l’altro sovrappensiero, concentrato sul fastidio che gli stringeva lo stomaco che, a conti fatti, non avrebbe dovuto avere.
«E tu non sei stato un ragazzino? Che facevi da piccolo?» continuò Cade, un po’ solo per parlare, un po’ per distrarlo, se quella stretta al suo collo doveva significare qualcosa.
Cicno si lasciò sfuggire un verso sarcastico. «Correvo. Per le vie di Tebe. Ero più minuto e delicato, avevo già tratti dolci e ammirati. Star fermi, alle volte, è l’errore più grande che si possa fare.»
Le parole del greco suonarono criptiche e cupe. Cade intuì al volo che qualcosa nel passato, nella gioventù del compagno doveva esser stato poco piacevole, e per sua esperienza sapeva quanto gli adulti potessero esser crudeli con i bambini. Non aveva la minima intenzione di impelagarsi in discorsi del genere, a riportare a galla ricordi sopiti e che tali dovevano rimanere.
Però poteva capire, poteva farlo sia grazie alle sue esperienze che a quelle dei suoi amici.
Fu spontaneo, a quei pensieri, stringere un paio di volte la mano che teneva contro il fianco di Cicno, come a volerlo rassicurare, a dirgli che lo capiva.
Il giovane lo guardò senza dirgli nulla e poi riportò la sua attenzione sull’orizzonte, lontano, verso la loro meta.
«Presumo tu possa capire.»
Cade annuì. «Bisogna sempre star in movimento, come gli uccelli. Puoi decidere di volare o di lasciarti trasportare dalle correnti, ma star fermo per più tempo del dovuto, in un luogo che non sia il tuo nido, è rischioso. Specie per quelli come noi, giusto?» gli sorrise tirando indietro la testa per poterlo guardare meglio.
«Una giusta metafora, sono colpito.»
«Sono un tipo poetico io!» ridacchiò il rosso togliendo una mano dal fianco del giovane per potersela al cuore con fare teatrale.
Cicno strinse un po’ di più le sue, come se non avesse apprezzato quell’improvviso mancato appoggio e Cade si sbrigò a riportare il braccio al posto giusto.
«Sono convinto che se continuerai a ripetertelo alla fine potrai credere alla tua stessa menzogna, ma per ora, gradirei ti limitassi ad esser veloce.» lo riprese il figlio d’Apollo cercando di mantenere la sua voce più amichevole possibile. Non vedeva l’ora di rimettere i piedi a terra e se doveva anche pensare che l’avrebbe fatto davanti ad altri, senza neanche un momento di solitudine per riprendersi e ricomporsi, gli saliva la nausea.
 
Quella che già ho.
 
Cade ridacchiò come un moccioso e annuì. «Ai suoi ordini, capitano!»
Discesero ancora verso il terreno scuro, pronti ad un nuovo salto. Sotto di loro le anime cominciavano a comparire come timide corolle sparse tra gli steli alti di un giardino incolto. Si stavano avvicinando sempre di più alle grandi masse e questo poteva significare solo una cosa: erano vicini al traguardo della quarta prova.


 
*
 

 
Lea si guardò attorno avvicinandosi inconsciamente ad Eliza e Jane.
Lentamente le Praterie si stavano popolando di anime di ogni epoca e ogni tipo, anime senzienti e guardinghe, concentrate e pronte ad ogni evenienza.
Erano giunti a mala pena alla fine della quarta sfida e Lea non riusciva a capire in quanti si fossero persi ed in quanti fossero ancora in gara.
Si era domandata più di una volta cosa fosse successo a coloro che avevano portato a termine le loro prove con più lentezza rispetto al gruppo principale, se poi fosse stata data loro ugualmente la possibilità di continuare, se qualcuno gli avesse spiegato cosa fare e non fare nella sfida successiva. Non le sembrava che ci fossero molte persone in meno, eppure aveva visto con i suoi stessi occhi corpi inanimati nel labirinto, dilaniati dagli artigli dei Mastini Infernali nell’Area Cani e sfere infrante assieme alle speranze di un’anima ignota. Ad ogni prova che passava Lea vedeva milioni di persone e non capiva, il suo cervello non riusciva a quantificare quante esse fossero, quante fossero perdute, quante fossero scomparse e quante ancora si fossero ritirate.
Era sciocco ed era sempre lo stesso pensiero. Se ne era accorta ovviamente: si domandava sempre più spesso in quanti fossero in realtà e in quanti perdessero ad ogni gara.
La risposta le era ancora ignota.
 
«Ci stiamo avvicinando, vero?»
La voce bassa e titubante di Jonas la fece voltare verso la sua sinistra.
Il ragazzino camminava come scortato da Nathan e Úranus, rispettivamente uno davanti e l’altro dietro. Sembrava a dir poco sulle spine, si guardava attorno esattamente come stava facendo lei ma con una luce diversa nello sguardo.
 
Non si preoccupa di tutte le anime, ma solo di una.
 
Cade.
Chissà dov’era il loro piccolo rosso irlandese, e non le importava nulla, lei era morta prima quindi poteva pensare a Cade chiamandolo “piccolo”. Nathan poteva battere i piedi quanto voleva, l’anzianità la decideva la data di nascita, non l’età di morte.
«Sì, stiamo raggiungendo il punto di ritrovo della prossima gara.» annuì Eliza.
«Non mi sono mai avvicinata troppo da questa parte. Sempre che sia davvero la direzione che credo sia.» borbottò Jane invece storcendo il naso. «Biondastro? La tua bussola è ancora impazzita o ci sa dire in che direzione stiamo andando?» chiamò il soldato a voce più altra.
Nathan girò la testa solo per fulminarla. «In che direzione rispetto a cosa? Ma quando parlo, voi che fate? È vero che noi semidei soffriamo di disturbo dell’attenzione ma voi non ci provate neanche a seguirmi.» rispose piccato.
Lea fischiò, prendendo tutti di sprovvista e facendo girare le anime attorno.
«Non ci credo! Sei riuscito a fare un’intera frase di senso compiuto senza infilarci un’imprecazione o una parolaccia! Ma quanto stai diventando bravo?» lo provocò sogghignando.
Per buona misura, Nathan bestemmiò a pieni polmoni e la mandò al diavolo.
«Come non detto.» sorrise Jonas sporgendosi verso Lea che ancora ridacchiava.
Jane fece una smorfia infastidita. «Lo prenderò come un “no, non posso dirti in che direzione stiamo andando”. Aggiungerei anche un “perché le mie capacità sono così scarse da non permettermi di comprendere uno strumento che utilizzavo costantemente in vita”.»
«Ma è una mia impressione o vi state prendendo tutte un po’ troppa libertà? Da quand’è che siete così stronze apertamente? Senza neanche provare a nasconderlo?» ringhiò indietro il soldato.
Eliza alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Puoi dirci in che direzione stiamo andando? Rispetto alla fonte di magia più vicina.» si sbrigò a precisare.
A lei Nathan non poteva certo dire nulla, perciò annuì. «La fonte più vicina dovrebbe essere o il parco per cani o la Casa di Ade.» ragionò prendendo in mano la bussola.
«O i Campi Elisi.» s’intromise Úranus. «Le Praterie degli Asfodeli non sono dei luoghi fissi, ma lande che si muovono su loro stesse.»
Un grugnito d’approvazione e Nathan si girò di nuovo a guardarli. «Allora probabilmente stiamo andando lì.»
«Scusate la domanda sciocca.» disse piano Jonas, «Ma la Casa di Ade, non dovrebbe essere il punto con più forza magica di tutti? È come se fosse il suo castello, no? Il centro del suo potere.»
«Sì, ma anche i Campi Elisi, quelli di Pena e i fiumi sono intrisi di magia divina. Vuoi per tenere al sicuro le anime che vi sono dentro e mantenere tutte le strutture in piedi – noi negli Elisi – vuoi per proteggere tutte le anime che stanno fuori e mantenere attive tutte le torture – voi dannati.»
«Il luogo che mantiene più magia e potere rimane comunque la dimora del divino Ade.» proseguì Úranus, «Ma la presenza ravvicinata di altri punti di potere sposta l’ago della bussola, lo infastidisce.»
«Nonostante ciò, tende sempre un po’ verso nord.» finì Nathan alzando la bussola oltre la spalla per mostrarla agli altri.
«Molto interessante. Quindi stiamo andando verso i Campi Elisi?»
Il grugnito infastidito di Jane catalizzò tutta l’attenzione su di lei, o meglio, sulle sue parole.
Lea aggrottò le sopracciglia. «Perché dovremmo andare verso i Campi Elisi? Non ha senso, no? Solo un ristretto numero di anime potrebbe-»
La figlia di Apollo si bloccò sul posto e così fecero tutti gli alti dopo pochi passi.
L’implicazione della frase lasciata in sospeso li colse come una mina, potente ed inaspettata ed il silenzio che si andò a creare fu interrotto solo dal ridacchiare senza gioia di Jane.
«Quindi è questo? Ci hanno fatti massacrare per quattro gare per poi negarci la possibilità di vincere solo perché non possiamo entrare nei dannati Campi Elisi?» domandò retorica, allargando le braccia e arricciando il naso, un’espressione quasi folle ad illuminargli il viso. «È stato tutto un inganno?»
 
Jonas deglutì. Batté le palpebre e poi lo fece ancora.
Cosa?
Le parole di Lea si ripeterono a loop nella sua testa, cercando i assumere un senso che non sembravano avere per lui ma che ne avevano uno piuttosto ovvio nella realtà.
Se stavano andando verso i Campi Elisi, se lo stavano facendo sul serio, se la prossima gara si fosse dovuta svolgere lì allora-
 
Ho perso.
 
Jonas non sarebbe mai potuto entrare tra i beati, i tre giudici infernali l’avevano guardato dritto negli occhi e l’avevano chiamato codardo, bugiardo, l’avevano accusato d’aver rinnegato i valori della sua famiglia, della sua patria, senza neanche provare a combattere per questo, senza neanche provare a fare qualcosa per giustificare le sue azioni.
Era finito nell’ottava terrazza per un motivo e malgrado fosse tra i più vicini alla superficie, nessun’anima guardiana gli avrebbe permesso di varcare i cancelli dorati.
Se era davvero questa la prossima prova…
 
«Cazzo.»

Il ragazzino alzò lo sguardo verso Eliza e batté ancora le palpebre.
La figlia di Nike però non lo stava guardando, teneva invece gli occhi puntati dritti in quelli di Nathan che, a sua volta, la fissava serio in volto annuendo.
«Non avrei potuto dirlo meglio.»
«Che sono degli stronzi sadici? Questo posso dirlo meglio io.» ringhiò Jane. «Non mi sono fatta mezzo inferno a piedi per sentirmi dire che ho perso sin dall’inizio.» affermò con rabbia.
Jonas non riusciva a far altro che battere le palpebre, senza aprir bocca, senza prender fiato o respirare. Solo immobilità e uno stupido sbatter di ciglia.

Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo!
 
«Vuol dire che non passeremo mai.» una strana calma gli calò sulle spalle, come una coperta pesante, come la giacca imbottita che sua madre gli sistemava prima di lasciarlo uscire per andare a scuola. Era- rassicurante?
Con grande orrore Jonas si rese conto che quella notizia, quel semplice e puro dato di fatto, l’aveva appena sollevato da una paura enorme che si portava dietro da quando Ipno gli aveva dato quel papavero e l’aveva spronato ad unirsi alla gara. Fin dall’inizio Jonas aveva avuto paura di non essere abbastanza, d’esser solo un ragazzino smilzo e debole, con un potere inquietante e stupido e che non sarebbe riuscito a superare neanche la prima prova. Dopo l’incontro con il dio dei sogni tutta l’adrenalina e la positività che era riuscito ad incamerare si era sopita velocemente, lasciandogli solo un nugolo di ansia e paura nel petto vuoto. Se non fosse stato per Cicno, per tutta quell’inquietante e spaventosa combriccola in cui si era ritrovato, non sarebbe arrivato al labirinto.
Se non fosse stato per Cade, non ne sarebbe uscito. Se non fosse stato per Lea non avrebbe preso la sua medaglia, non avrebbe trovato la sua sfera, non sarebbe riuscito a riprendersi dallo shock d’aver perso Cade.
Jonas era destinato fin dall’inizio a non farcela, eppure aveva avuto una fortuna sfacciata ed era arrivato addirittura alla quarta prova.

Era ovvio che la mia fortuna non sarebbe durata per sempre.
 
La sua paura di fallire si ripresentò prepotente ma con altrettanta prepotenza il sollievo gli tolse quel peso di dosso. Non era colpa sua, non era completamente colpa sua. Jonas si sarebbe potuto impegnare quanto voleva per vincere ma questa volta non c’entravano le sue capacità o il suo intelletto: aveva perso in partenza.
Quanto era stupido, quanto era meschino anche, provare piacere in una consapevolezza del genere?
Chiuso nel suo mondo Jonas non stava più ascoltando una singola sillaba di quello che dicevano i suoi compagni, di come argomentassero le loro opinioni, come stessero valutando le opzioni, ancora una volta fermi in mezzo al nulla. No, l’unica cosa che Jonas riusciva a pensare in quel momento era che “non è tutta colpa mia”. Era già deciso in partenza quindi lui non poteva farci nulla, no? Era stato tutto solo un crudele gioco del destino, anzi, di un individuo divino e-
 
«-QUELLO CHE STO CERCANDO DI DIRE!» urlò improvvisamente Lea «È CHE NON SAPPIAMO NULLA! CI STIAMO SOLO I-P-O-T-E-T-I-C-A-M-E-N-T-E DIRIGENDO VERSO I CAMPI ELISI!»
Con il volto rosso per lo sforzo ed i pugni stretti lungo i fianchi, la figlia di Apollo fissava i suoi compagni con sguardo assassino, tipico di chi ha provato per molto tempo a dire la sua per esser ogni volta interrotto.
 
E io che credevo che succedesse solo ai miei tempi!
 
Prese un respiro per calmarsi e, imbarazzata, si rese conto che anche molte altre anime la stavano fissando curiose.
Si schiarì la voce, afferrò per una manica Eliza e Jane e fece cenno a tutti gli altri di spostarsi verso un punto più libero.
«Quello che sto cercando di dire,» ripeté ancora, «è che non possiamo saperlo. Ci stiamo dirigendo verso i Campi Elisi dite, ne abbiamo la certezza?» domandò guardando Úranus e poi Nathan.
Il più grande scosse la testa. «Solo buone possibilità.»
«E abbiamo la certezza che dovremmo entrare dentro le mura?» chiese ancora retorica.
Gli altri la fissarono in silenzio, la risposta ovvia per tutti.
Jonas li guardò allucinato e desiderò tantissimo potersi prendere a schiaffi da solo senza che nessuno se ne accorgesse.
Okay, potevano anche accorgersene, tanto ormai aveva fatto le peggio figure davanti a tutti quanti.
 
«Se stia per darti uno schiaffo da solo sappi che non sei l’unico a volerlo fare.» borbottò Nathan vicino a lui.
A quelle parole Lea sorrise radiosa. «Perché sapete che ho ragione.» annuì convinta.
«Ragione o meno sto casino l’hai montato su tu, perché sei un’allarmista di merda!»
«Bene!» continuò l’italiana ignorandolo, «Credo che abbiamo appena scoperto il potere straordinario che ci lega e che ci ha portati ad essere una squadra.»
«La voglia di autoinfliggerci percosse per soppesare la nostra stupidità?» chiese Jane caustica.
La bionda neanche le prestò attenzione. «Pensiamo troppo!» concluse battendo le mani.
Jonas abbassò la testa. «Voglio vomitare.»
«Siamo in due.» fece Nathan.
«Anche tre…» soffiò piano Eliza.
«Io voglio prendere a calci qualcuno.» chiuse la fila Jane. «Perciò, non ci hanno ingannato fin dal principio?»
Úranus scosse la testa, pronto a rispondere che sì, probabilmente un qualche inganno doveva esserci visto che il crescente numero di gruppi di semidei che si potevano scorgere nei dintorni a discapito dei gruppi di soli umani, ma un vago luccichio attirò la sua attenzione.
Era freddo, chiaro e metallico, come un raggio di sole che si riflette su di un gioiello prezioso. Peccato che attorno a loro non ci fosse alcuna fonte di luce e che l’unico gioiello…
 
«Jonas?» mormorò piano l’islandese.
Il ragazzino, che teneva il capo basso ed una mano a coprirsi gli occhi, aprì le dita per spiarvici attraverso, guardandolo quasi scoraggiato e ancora abbastanza imbarazzato dai suoi stessi pensieri. Mugugnò.
«Il tuo monile.» disse solo l’altro.
«Il mio cosa?» chiese lui senza capire.
Nathan lo afferrò per una spalla e lo costrinse a girarsi verso di lui ed alzare la testa.
«Ehi! Ma che modi-»
«La tua cazzo di collana brilla.»
«Cosa?» scioccamente il ragazzino abbassò la testa, cercando di scorgere lo stretto girocollo che riposava tiepido sulle sue clavicole, ma tutto ciò che riuscì ad intravedere fu una lieve e debole luce, di gran lunga meno intensa di quella diffusa che seguiva ogni anima nell’Ade, illuminandone il percorso.
«Che diamine succede? Perché brilla?»
«Sei tu la figlia della dea della magia, perché secondo te una fottuta collana regalata da un dio dovrebbe brillare?» ringhiò Nathan.
«Per l’ultima volta, non so nulla di magia se non qualche incantesimo e tra questi non ce n’è neanche uno per incantare gioielli!»
«Che vuole dire che te gliel’ha regalato un dio? Ce l’avevi già detta questa cosa? Me la sono persa solo io?» domandò Lea fissando allarmata la collana.
«Si che ve l’ho detto!»
«Quando? Io non me lo ricordo!»
«State solo andando nel panico, non è nulla di pericoloso e Jonas ce ne aveva parlato.» intervenne Úranus cercando di calmare quell’ennesima ondata di panico che si era generata, di nuovo, da un nonnulla.
«Come fai a sapere che non è pericoloso? Eh, Golia? Ne hai uno anche tu? Sai cosa sta per succedere?»
«Di certo non gli si staccherà la testa dal collo. Credo.»
«NATHAN! Non sei d’aiuto!»
«Perché brilla allora?! Io non ho fatto nulla! Perché brilla?»
«Devi aver fatto qualcosa per forza! O tu o il dio che te l’ha regalato!»
«Ci mancava solo Ipno porco id-»
«Puoi non bestemmiare gli dèi proprio quando c’è un oggetto creato da un dio che brilla come una lampada?!»
«Più come una bomba direi…»
«Mi si staccherà la testa dal collo?!»
«Se è lui che l’ha fatta e che sta facendo tutto questo casino allora se le merita le mie bestemmie!»
«Che vuol dire che è lui “che sta facendo tutto questo casino”? Che sta facendo? Nathan, perché brilla?»
«E CHE NE SO IO? TI SEMBRO UN ENCICLOPEDIA SULLA PRODUZIONE E FUNZIONE DEI GIOIELLI DIVINI?»
«Ma tu non eri quello che sapeva tutto sul nostro mondo?»
«Io so un botto di cose, un botto! ma non TUTTO! Quello è Úranus!»
«Puoi non ripetere “botto”? Dimmi che non esploderà!»
«Sono morto seicento anni prima di te, direi che le tue informazioni sono più recenti delle mie.»
«Se esplodi sappi che ti lancio via da qui, una delle poche magie che conosco serve proprio ad allontanare le persone.»
«Sì, ma a me le hanno insegnate al Campo, non me l’ha passate un dio di prima mano!»
«So che nel futuro esistono cose del genere in superficie, ma non c’è un corso d’aggiornamento divino negli Elisi o anche voi avreste potuto avere le stesse informazioni che ho io.»
«Da quando sei così veloce a rispondere a tono?»
«Oh, ora mi credi quando dico che ha un caratteraccio?»
«Jane, non ti ci mettere anche tu.»
«Perché? A me il soldatino può dirmi che scarico le mie incompetenze sugli altri e io non posso mettermi in mezzo quando è lui a fare la stessa cosa?»
«Lo sai che stai attaccando Úranus e quindi ti stai schierando dalla parte di Nathan, vero?»
«Perché siamo finiti a parlare di schieramenti? Quel coso continua a brillare e diventa sempre più forte!»
«LA SMETTETE DI LITIGARE E MI DITE SE STA PER SALTARMI LA TESTA O MENO?!»
 
 
*
 


«Quindi, sei riuscito a sopravvivere per tre prove, portandole perfettamente a compimento, con quel gruppo?»
«Se- ecco- insomma… è che non ci sto io… però ti assicuro che non siamo sempre così, è solo un brutto momento. Ecco, ci hai presi in un brutto momento. Poi magari la rifacciamo.»
«“La rifacciamo”? Cosa significa? Sembra quasi tu stia parlando della scena di una tragedia.»
«Esatto! Lo dicevano anche ai tuoi tempi? Che se una cosa non va bene si rifà?»
«Una cosa o una scena? Perché a teatro non puoi “rifare” una scena, sei davanti ad una platea, ogni errore rimane inciso.»
«Vabbè, però le facevate pure voi le prove, no?»
«Ovviamente.»
«Allora vedila così: questa è una prova fatta male, dopo te li presento per bene e faranno la loro parte come si deve.»
«Se ne sei convinto.»
 
Davanti a loro, più precisamente davanti-sotto di loro, si presentava uno spettacolo che aveva quasi del comico.
I sei semidei si affannavano urlandosi contro l’un l’altro per una motivazione ignorata, (botto?), chi più alterato, chi più palesemente impaurito.
Cade non riuscì a far a meno di puntare subito lo sguardo su Jonas, da quell’altezza sembrava ancora più piccolo e indifeso del solito, e lui sapeva che in realtà il ragazzino non era proprio uno sprovveduto, ma non aveva neanche mai affrontato i veri pericoli della vita e ancora una volta si sentì stringere il cuore, come succedeva quando tornando alla casa base rivedeva i più piccoli, tutti sani e salvi per un altro giorno. Il ricordo lo fece emozionare.
Diede una stretta sul fianco a Cicno, improvvisamente euforico.
«Ne sono convinto, ne sono convintissimo! Ti piaceranno tutti! Devono piacerti! Anche la ragazza delle Praterie ti piacerà! Tu probabilmente non piacerai a lei, ma va bene lo stesso, te lo assicuro!» strepitò inclinandosi in avanti, nel tentativo d’andar più veloce. Aveva voglia di planare, toccar terra e mettersi a correre come un matto, ma non sapeva quanto potesse esser una scelta intelligente.
Il greco, da parte sua, si ritrovò suo malgrado a sogghignare. «Per quale motivo vuoi così disperatamente che siano tutti di mio gradimento?» domandò invece, adocchiando la terra che s’avvicinava sempre più velocemente. Stavano perdendo quota.
«Perché tu mi hai salvato la vita! Quindi mi stai a genio e voglio che anche a te loro stiano a genio. Non faranno troppe lagne per una nuova aggiunta. Oddio, forse il biondastro sì, ma sono dettagli, però sono amici miei e voglio che ti piacciano.»
«Apprezzo l’entusiasmo – bugia – ma sappi che ti stai ripetendo senza darmi una risposta sensata. E stiamo perdendo quota.»  decise d’aggiungere visto l’impatto imminente con il terreno. Si preparò già a tirar su i piedi e lasciar al rosso campo libero per prendere un altro slancio, ma il ragazzo invece allentò la presa sulla sua vita e strinse quella alla sua mano.
«Corriamo! Arriveremo prima e così non li spaventeremo a piombargli sulla testa!» rise felice senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel gruppo rumoroso e confusionario.
Com’era possibile che gli fosse bastato così poco per affezionarsi ad una nuova squadra? Era davvero così patetico da aver sofferto talmente tanto la sua separazione dai Liberty, da essersi immediatamente attaccato con così tanta forza a loro?
Cade non lo sapeva, o forse sì, ma non voleva darsi una risposta in quel momento. Invece poggiò con forza il piede sulla terra nera e luccicante e si tirò Cicno dietro, costringendolo a correre al suo fianco.
Non che facesse molta fatica, notò divertito e quasi invidioso, quel ragazzo aveva delle gambe così lunghe che un solo passo bastava a coprirne due dei suoi.
Ma non gli importava, non in quel momento, non mentre le voci dei ragazzi diventavano sempre più chiare, i volti più definiti, i colori più vividi e-
 
Brilla? Cos’è che brilla? È Jonas? Perché Jonas brilla come un lampadario di cristallo?
 
Tenne lo sguardo fisso sul ragazzino ma girò leggermente la testa verso Cicno, aggrottando le sopracciglia.
«Ehi? Sai mica perché-» la sua frase però si bloccò a metà: al limitare del suo campo visivo, lì dove la sua mano si stringeva a quella più grande e fine di Cicno, brillava fiocamente un bracciale di metallo.
Non era la prima volta che Cade vedeva brillare un metallo in quel modo, i suoi guantoni da combattimento avevano riflessi celestini sotto il sole e quando li indossava per combattere contro qualche strana creatura iniziavano a brillare d’azzurro sempre più intenso.

Bronzo Celeste, così lo chiamò la guardia quando li vide.
 
Il bracciale di Cicno, anzi, i bracciali di Cicno non erano certamente di bronzo, tanto meno celeste, ma brillavano come le spade tirate a lucido degli ufficiali, come le canne nuove di zecca dei fucili.
Perché, però, si erano illuminati solo ora?
 
«Cosa?» domandò il greco allungando il passo e cercando di resistere con tutto sé stesso alla voglia di scostarsi in malo modo dalla presa dell’altro.
«La collana di Jonas brilla. I tuoi bracciali…» ammiccò al suo polso guardandolo per un momento, poi si riconcentrò sui suoi compagni. «Ve li regalavano all’uscita dai Campi di Pena?» chiese ironico.
Cicno fece una smorfia, non che Cade potesse davvero vederla, e si rese conto di non aver chiesto al suo padrone se poteva o meno parlare dei gioielli che portavano sia lui che il giovinetto. Era inutile cercare di negare, le prove di un possibile legame erano evidenti anche solo dall’intensità che acquisiva la luce che emanavano ad ogni passo che facevano. Ma non c’era bisogno di mentire completamente, bastava omettere.
 
«Vi spiegherò ciò che so quando saremo assieme, così non dovrò ripetermi.» si decise a dire per chiudere il discorso.
Cade gli sorride raggiante, come se quelle parole, quel “assieme”, l’avessero riempito di nuova energia.
«Allora corriamo!»
 
 
 
Jane alzò gli occhi al cielo e fissò il buio della volta rocciosa.
La testa stava scoppiando a lei, altro che al ragazzino.
Si allontanò da lui di qualche passo e fissò la collana il cui bagliore aumentava d’intensità ad ogni secondo che passava, come se stesse acquistando energia, come un fuoco a cui veniva aggiunta altra legna da ardere.
Il monile era palesemente magico, vuoi per la sua lucentezza, vuoi per il fatto che rappresentasse un rovo pieno di spine ma non vi fosse alcun segno di fusione tra queste, e soprattutto per la mancanza di un gancio: sembrava quasi che la collana gli fosse stata forgiata addosso, strettissima ma delicata. Com’era possibile che non si fosse mai resa conto della magia che emanava? Certo, lei non era una grande strega, su questo non c’erano dubbi, ma percepiva il magico, l’aveva sempre fatto, fin da bambina. Se un tempo però queste strane sensazioni, quelle immagini vacue al limitare del suo campo visivo, esseri mostruosi che divenivano umani nell’attimo in cui vi posava sopra lo sguardo, erano stati accantonati come “sogni ad occhi aperti”, “la presenza delle streghe nel villaggio”, “il malocchio su tua cugina”, ora sapeva dar loro un nome e sapeva visualizzarle, individuarle, percepirle.
Non era certo in grado di trovarne la locazione specifica, o avrebbe trovato da sé la sua sfera dei ricordi di Ermes, ma la bussola di Nathan, i guanti di Jonas… tutti quegli oggetti emanavano una sottile brezza, come un soffio, qualcosa che parlava direttamente al sangue divino presente in lei e l’avvertiva che c’era qualcosa che apparteneva all’altro suo mondo proprio nelle vicinanze.
La collana di Jonas, però, non le aveva mai trasmesso nulla.
 
Se è opera di un Dio è probabile che abbia fatto in modo che nessuno potesse percepirlo prima del tempo.
 
Chiuse gli occhi e si massaggiò la sella del naso. Se non avessero smesso di litigare come infanti nei prossimi cinque minuti si sarebbe premurata di utilizzare quel poco di magia che aveva per ucciderli tutti – di nuovo – all’sitante.
Aprì gli occhi e storse il naso, fissando con astio Nathan che imprecava a voce alta, attirando l’attenzione di tutte le anime nei paraggi, malgrado si fossero spostati da parte, quel deficiente li avrebbe fatti fulminare tutti, ne era certa. Zeus, o chi per lui, avrebbe tirato un fulmine proprio sulla testa vuota di quel soldato da due soldi e sarebbe stato così potente da colpire anche tutto ciò che lo circondava.
Era già morta male una volta, perché doveva farlo di nuovo?
Osservò per un attimo Eliza che cercava di far star zitto l’altro, di ricordargli che bestemmiare gli Dei in una competizione fatta proprio per loro non era il massimo; poi Jonas che si teneva le mani strette alla gola e mormorava qualcosa di incomprensibile in una lingua a lei sconosciuta, di fianco a Lea che malediceva una serie di oggetti di cui ignorava l’esistenza e Úranus che si divideva tra il cercare di calmare Jonas, - So che siamo già morti, ma finirai per strozzarti da solo così. –, ed il chiedere alla figlia di Apollo di far smettere di litigare i due soldati, - Lea, non so cosa sia uno stetoscopio e neanche cosa sia un lattaio, ma per favore, potresti cercare di metter pace tra Eliza e Nathan? –.
Ci mancava giusto quel fenomeno da baraccone rosso e poi lo spettacolo degli zingari sarebbe stato completo.
Proprio mentre pensava a come far esplodere tutti, non solo la testa del ragazzino, un leggero pizzicorio le solleticò il naso. La brezza di magia che avrebbe dovuto avvertire nei confronti della collana di Jonas ora l’avvertiva nell’aria, più debole di quella emanata dal girocollo ma comunque intensa, sempre più vicina e-
 
Duplice?
 
Strizzando gli occhi spinse lo sguardo oltre i suoi compagni, aguzzando la vista per scorgere attraverso la leggera polvere nera e luccicante che si era alzata in lontananza. Le ricordava terribilmente la carica dei Mastini Infernali e per un attimo ebbe l’impulso di tirarsi indietro, girarsi e darsela a gambe levate. Dannati cani dell’Ade, i loro stupidi salti e le loro stupide fiamme.
Ma non era fuoco la macchia rossa che scorgeva tra i frammenti polverizzati delle sfere dei ricordi, sembrava più solida, più unita ma al contempo fluida, come le fronde di un albero d’autunno. E vicino alla macchia rossa e stropicciate brillava una figura bianca, candida, quasi eterea.
Jane rimase a fissare scioccata la cosa più vicina ad un angelo che avesse mai visto prendere forma lentamente dalla nube di sogni infranti, di rimpianti, di ricordi di morte. Fosse stato possibile l’avrebbe fissato per tutto il tempo che la morte le avrebbe concesso, ammaliata da come un essere del genere potesse muoversi su quelle terre scure, in quel posto maledetto dagli Dei per il loro solo divertimento.
Ma ben presto l’incantesimo s’infranse, quando la macchia rossa fece un balzo verso l’alto, lanciando un grido di gioia, uno strepitio fin troppo famigliare e decisamente inconfondibile.
 
Gli altri si voltarono di scatto, dimentichi immediatamente di ogni problema, di ogni disputa, mentre l’anima incrementava la sua velocità per arrivare il prima possibile tra di loro, i piedi che sfioravano a mala pena il terreno, quasi come fossero alati, quasi come volasse.
Il ghignetto fastidioso e luminoso di Cade apparve chiaro a tutti loro, i contorni del suo corpo si definirono sempre di più, i dettagli dei vestiti malconci, le macchie scure di terriccio ed erba sui pantaloni, sul volto, le crepe della pittura sulla sua giacca, la sacca che rimbalzava sulla schiena e gli occhi verdi come i prati sconfinati da cui proveniva, come sarebbero dovute essere quelle praterie altresì nere, cupe, vive nella loro morte.
Cade sorrise loro ed il mondo del sottosuolo parve illuminarsi per un momento, cancellando ogni preoccupazione e portando tutti i suoi compagni a sorridergli di rimando.
Jane osservò il modo in cui gli occhi di Lea si fecero lucidi dalla gioia, come il volto di Eliza si rilassò per poi contrarsi in un’espressione felice, rincuorata, come Úranus tirò un sospiro di sollievo e persino Nathan si lasciò scappare un sorrisetto, lo stesso che piegò le sue labbra e la portò a scuotere la testa rassegnata: diamine, erano davvero riusciti a farsi ritrovare da quel pazzo rosso.
Chi non poteva ben vedere invece era Jonas, che le dava le spalle. Le mani avevano abbandonato la presa sul girocollo ed erano crollate deboli e vuote lungo i fianchi. Le spalle si erano abbassate, la testa sporta leggermente in avanti. Sembrava un burattino a cui avessero tagliato tutti i fili se non quello che lo reggeva in piedi.
 
Un impiccato ancora appeso alla corda.
 
Il flash di una vita passata le passò davanti, l’immagine di un uomo appeso alla gogna si sovrappose velocemente con quella di un ragazzino biondo e pallido, il corpo freddo ed inerme depositato a terra, il corpo carbonizzato di un condannato tolto dal rogo, quello ancora caldo e irrigidito di chi non riesce a credere di star per morire, quello immobile e rassegnato di chi ha capito di non aver più sabbia nella sua clessidra.
Jane batté le palpebre in fretta, sconcertata da ciò che aveva visto, che credeva di aver visto, e si ritrovò a cercare con lo sguardo qualcosa che potesse calmarla, che potesse darle fiducia, sicurezza, speranza.
Inevitabilmente alzò gli occhi davanti a sé per puntarli in quelli azzurri e limpidi dell’angelo.
Proprio come dicevano le suore ed il prete, una creatura eterea dagli occhi chiari e puri come i cieli del Signore ed il capo illuminato dall’aureola dei beati.
Poi quegli occhi azzurri si fissarono proprio nei suoi e Jane si rese conto d’aver spento completamente il suo udito, di non aver sentito nulla, non aver visto nulla di quello che le stava accadendo attorno.
Che diamine era stata quella visione?
 

 
*
 

 
Nelle profondità dell’Olimpo, tra le radici rocciose divenute ormai pietra, la Sala del Delta riposava silenziosa. Le alte porte tenevano lontano qualunque suono e inaspettato visitatore in un momento di quiete prima della tempesta.
La grande stanza circolare che faceva d’anticamera alla Sala del Delta era buia, tutte le torce erano state spente, il fuoco greco aveva smesso magicamente di ardere e preannunciava un monito cristallino a chiunque avesse osato giungere per quei luoghi. Chiunque ci fosse ora nella sala controllo dell’Olimpo non voleva esser disturbato e nessuno con un briciolo d’amor proprio l’avrebbe mai fatto, non quando dentro quell’immenso laboratorio poteva esserci chiunque tra i Grandi Dodici.
Era quasi ironico però che servitori di ogni genere si facessero meno scrupoli a batter forte alle monolitiche porte se avevano la certezza che proprio uno di quei grandi Dei si trovava all’interno della dimora di Efesto, mentre rimanevano pietrificati sulle strette scale che conducevano alle alte terrazze dell’Olimpo se avevano anche solo il sospetto che lì dentro vi fossero i “minori”. Il terrore dei Dodici era minore rispetto a quello per gli Dei secondari, meno importanti.
Era una logica che Giordano comprendeva da un lato e trovava ridicola dall’altro: i Dodici erano più indulgenti verso i loro servitori, perché capitava di continuo che dovessero disturbarli per un qualunque problema, c’erano per così dire abituati; ma quando si trattava di altri Dei, come Eros, come Ipno, come Thanatos, allora non vi era possibilità che andassero a disturbarli a meno che non fosse urgente.
Seduto sulla sua poltroncina Giordano guardò le divinità riunite davanti a lui, i volti seri e attenti concentrati sulla mappa stesa sul tavolo, sulle pedine che si muovevano lente nella landa disegnata.
Forse gli spiriti avevano tanta paura perché la presenza di un dio “di seconda categoria” nella Sala del Delta poteva significare solo rogne.
Un rumore tintinnante attirò il suo sguardo verso la postazione di Efesto, grande e magnifica e piena di diavolerie che facevano cose al posto suo di cui Gio voleva scoprire ogni segreto e tenersi alla larga il più possibile. Un piccolo oggetto di metallo rotolò sino a fermarsi contro il bordo della mappa, piccoli simboli luminescenti pulsavano quieti sulla sua superficie.
Ipno fissava l’oggetto con gli occhi sgranati, trattenendo il respiro e stringendo il cappello al petto, la lunga piuma gli solleticava il naso e lui lo muoveva come un gatto. Di fianco a lui Thanatos teneva gli occhi sui fogli davanti a sé, ricontrollando appunti di ogni sorta e lunghe schede.
L’unico che pareva divertirsi, il sorrisetto già stampato sul volto angelico, era Eros, che seduto a gambe accavallate sulla sua poltroncina sembrava solo aspettare il momento propizio per dire la sua.
Giordano sospirò, la stavano mandando troppo per le lunghe, tra poco sarebbe iniziata la gara successiva e loro erano ancora bloccati lì, con nulla di fatto e solo tanto tempo sprecato.
Efesto assottigliò lo sguardo, l’occhio metallico girò in ogni direzione come una trottola impazzita e dietro di lui, sui grandi schermi che monitoravano le Praterie, si aprirono e richiusero velocemente finestre di calcolo e stringhe di codici. Annuì.
 
«Iniziativa.» disse solo, con tono definitivo.
Ipno lasciò andare un verso di pura frustrazione, un piagnucolio che si risolse con un lagnoso: «Ma daaaai! Davvero?»
Thanatos storse il naso come aveva fatto prima il fratello. «Eros dimmi che ti è rimasto del-»
«Vado in Ira e carico.»
Tutti e tre si girarono verso il Dio dell’Amore che sorrise loro amabilmente. «Punto al sospetto. È l’uomo seduto al bancone, non è vero? Ci ha tenuti sott’occhio da quanto siamo entrati alla locanda e ha mandato il suo compagno a chiamare rinforzi. Non negare, ci stava seguendo da quando abbiamo superato le porte della muraglia.» continuò sicuro.
Efesto lo guardò senza proferir parola per un lungo momento, le labbra strette in una linea rigida e mezzo coperta dalla barba, l’occhio meccanico ora puntato sul nipote.
«Ho detto “iniziativa”, non “cosa volete fare”. E che mi rappresenta che vai in Ira? Non sai neanche quanti nemici ci sono e se sono nemici.»
«Hai chiamato iniziativa, è ovvio che ci siano nemici.» borbottò Ipno cercando tra le carte ciò che gli serviva.
«E non hai negato quello che ha detto Eros, quindi il tipo al bancone ci pedinava da un po’ e ci vuole attaccare. Avevo puntato sul compagno, bella mossa.» si congratulò Thanatos aprendo un sacchettino di velluto nero e riversandone il contenuto sulla mano.
Efesto sbuffò una nuvola di fumo dalle narici dilatate e alzò lo sguardo su Giordano.
L’uomo lo guardò sorridendo e lanciò svogliatamente il suo dado. Sorrise ancora: «Venti.»
«Naturale?»
«Yep.»
«Io ho fatto ventitré!»
«Non mi fido di te, ritira!»
«Cosa? Ma ho fatto diciotto, quando mi ricapita?»
«Lo sai che devo vedere quando lanciate il dado!»
«Io ho fatto sette, che schifo…»
«Ipno! Ho appena detto che devo vedere
«Ventidue, quindi sono dopo Eros e Giordano. La faccio io individuazione del magico o ci pensi tu?»
«Nope, io mi nascondo.»
«E io vado in Ira e carico il nemico più vicino alla mia destra.»
«Olimpo in fiamme! Sei identico a tuo padre! Non ti ho neanche detto cosa sta succedendo!»
«Magari ci hanno avvelenato?»
«Io ce l’ho resistenza ai veleni, anche tu, vero Gio?»
«Sì, qualcosa del genere, mi sa che ce l’ho come tratto raziale.»
«Quindi? Posso lanciare per la carica?»
«Basta! È impossibile giocare con voi!»
Efesto batté la mani sul tavolo e tutto ciò che vi era sopra, compreso Ipno che vi si era sporto per riprendere il proprio dado a venti facce finito dal lato di Eros, saltò di una decisa di centimetri dalla superficie.
Giordano sbuffò e ripescò un sigaro dalla tasca della giacca appesa alla sedia, allungandolo verso Thanatos. Il dio non lo guardò nemmeno, un gesto secco del dito e la punta del sigaro volò via.
L’uomo gli fece un cenno con la testa per ringraziarlo, «Lo dici tutte le volte ma poi continuiamo a giocare.»
«Certo, ci manca mezzo party fisso e tutti i nuovi giocatori durano poco…» fece notare Ipno raggomitolandosi sulla sua poltrona.
Eros fece una smorfia degna di suo zio. «Con Shakespeare non giocherò mai più. È permaloso, infantile e mette su dei drammi infiniti ogni volta che gli vengono fatti troppi danni.»
«Ha ragione Eros, è una palla la piede. Come c’è finito a fare il Giudice Infernale?»
«Esattamente come ci sono finiti gli altri due.» disse Gio stringendosi nelle spalle, «Dico io, uno un po’ meno vendicativo di lui o di Minosse non ce l’avevamo? Ti credo poi che Ade sta tutto il giorno a lamentarsi dei Dannati, ha scelto due sadici e un moralista per dividere le anime.»
«Ogni volta che uccidevi il pg a William c’era una nuova ondata di morti nei Campi di Pena.» concordò Thanatos rimettendo tutti i dadi a posto.
«Questo perché si ostina a fare il bardo invece di scegliere una classe d’attacco. Non puoi pretendere di avere cinquanta punti ferita ed essere al centro dell’azione.»
«Eros, anche tu hai fatto il bardo.» gli fece notare Ipno inclinando la testa come un gufo.
Il dio lo imitò sorridendogli. «Ma a differenza sua io lo so giocare.»
Giordano si alzò dalla poltrona stiracchiandosi e sbadigliò sonoramente. «In ogni caso credo che la sessione sia andata a farsi benedire per oggi, ti sta lampeggiando lo schermo amico.»
Efesto voltò l’occhio metallico verso l’interno del suo cranio per poi iniziare a borbottare fra sé e sé qualcosa in incomprensibile.
«Sì, la maggior parte delle anime ha ritrovato la sua sfera, ce ne sono qualche miliardo che si è perso per le Praterie e altri la cui sfera è stata distrutta durante la gara. Alcuni di loro se ne stanno rendendo conto e stanno andando ad arrendersi.» puntò di nuovo lo sguardo su Giordano, le folte sopracciglia gli scurivano lo sguardo rossastro e rovente come quello del fratello. «Hai giocato davvero un bel tiro con questa gara, in moltissimi si sono persi o lo faranno in seguito, la Foschia raggiungerà livelli tali che mai nessuno di noi ha visto.»
Giordano si strinse nelle spalle e recuperò la sua giacca. «Beh, non è affar nostro, no? Della foschia se ne occupano le divinità dell’aldilà e quelle della magia. E poi, non credo che ad Ecate farà schifo un po’ di Foschia extra.» terminò facendogli l’occhiolino.
Thanatos imprecò, «Te lo ricordi che sono anche io un dio dell’aldilà?»
«Sì, ma non ti occupi comunque dell’incremento della Foschia, né tanto meno delle anime giudicate. A te il compito di mietere ogni vita dal suo corpo terreno e di scortarla alle porte dell’Ade, dopodiché il tuo lavoro è finito, giusto?» chiese retorico.
Con un ultimo cenno del capo rivolto a tutti e a nessuno si avviò lentamente verso uno dei tanti varchi presenti nel laboratorio, camminando ad agio con il sigaro spento tra i denti ed un ghignò ferino a squarciargli il volto.
Probabilmente, se non fosse stato per il sigaro, sarebbe già scoppiato a ridere.
Era mai successo che le cose filassero così lisce?


 
*
 


Gli ci volle un momento per capire cosa stava succedendo, per capire che tutto fosse vero.
Lo strepitio stonato che aveva sentito apparteneva ad un giovane di media statura che si stava avvicinando a loro ad una velocità incredibile.
 
Quasi volasse.
 
Jonas batté le palpebre, le mani che lentamente scivolavano via dal girocollo di metallo che stava inutilmente cercando di strapparsi di dosso. Caddero deboli lungo i fianchi, le mani gli formicolavano come quando era estate, sembrava quasi che gli si stessero gonfiando a ritmo del battito potente, profondo ed incessante del suo inesistente cuore morto.
Il ragazzo batté le palpebre di nuovo e poi ancora una volta, senza riuscire a fermarsi, senza riuscire a credere ai suoi occhi, al sorriso luminoso che inghiottiva tutto il volto pallido e macchiato di Cade. Le sue guance erano chiazzate di rosso, come se la corsa l’avesse sfiancato, come se la gioia di rivederli l’avesse fatto emozionare.
 
Abbiamo il sangue, forse non come lo avevamo in vita, ma possiamo sanguinare ed arrossire. A quanto pare non è un’esclusiva solo mia.
 
Improvvisamente si ritrovò a sorridere sollevato ed euforico: era tornato. Cade era riuscito a ritrovarli, a tornare indietro da loro.
Non li aveva abbandonati.
 
Non come hai fatto tu fin troppe volte, con fin troppe persone.
 
Quel pensiero lo rallentò all’istante, gli pareva di essersi infilato in una vasca piena di miele e persino i movimenti di Cade gli sembrarono d’improvviso più lenti.
Cade che non li aveva abbandonati, che non era in giro a cercare la sua sfera ma che era volato dritto da loro, dai suoi compagni, come sicuramente aveva fatto milioni di volte in vita.
Cade che l’aveva salvato, rassicurato, aiutato. A cui lui aveva urlato in faccia e da cui era scappato senza neanche curarsi di vedere se lo stesse seguendo.
 
Perché la mia sfera era più importante, il mio ricordo era più importante di ogni altra cosa e Lea non doveva vederlo. Era più importante che il mio segreto restasse tale, più importante di un amico.
 
Si era chiesto più volte cosa avrebbe fatto una volta ritrovato il compagno, cose gli avrebbe detto, cosa avrebbe detto loro Cade. Dov’era stato? Come aveva fatto a trovarli? Era stato un caso? Si era messo a cercarli? Ed ora tutte quelle domande si annullarono davanti ad un unico quesito: mi ha perdonato?
Le sue parole, le ultime che si erano scambiati prima che lui si mettesse a correre nel nulla, erano state di consolazione, di incoraggiamento, ma Jonas sentiva che non erano bastate, che non potevano essere abbastanza. Dovevano discuterne, doveva chiedergli scusa per quella sfuriata e spiegargli com’erano andate davvero le cose. L’aveva fatto con tutti gli altri, in un qualche modo, poteva sforzarsi di dire un po’ di più al suo amico. E lo sapeva, Jonas lo sapeva che se in quel momento si fosse messo a correre incontro all’altro Cade l’avrebbe preso al volo e l’avrebbe abbracciato, ma c’era quel senso di pesantezza, di imbarazzo, di vergogna che gli si era posato sulle spalle come un mantello spesso ed opprimente, che non gli permetteva di fare un solo passo.
Si sarebbe offeso? Cade sarebbe stato ferito dalla sua reazione, dal non andarlo immediatamente a salutare? O si sarebbe ricordato del fatto che era solo un vile codardo che aveva abbandonato tutte le persone che amava solo per paura di dover combattere per loro? O magari l’avrebbe capito, ormai lo conosceva, sapeva come ragionava, come si comportava, come reagiva.
Come l’adolescente che era Jonas si ritrovò bloccato dal peso dei suoi pensieri, dei suoi inesistenti e concretissimi dubbi, delle sue paure, e fu con sguardo smarrito, preoccupato, timoroso, che guardò senza vederla davvero Lea staccarsi dal gruppo con un saltello di felicità e avanzare veloce verso l’irlandese a braccia aperte.
Almeno uno di loro si era mosso, almeno uno di loro era andato ad accogliere il loro amico.
 
Anche se è una delle persone con cui ha passato meno tempo, anche se non sono i suoi compagni di inizio gare e nemmeno io.
 
Ma Lea era pur sempre la ragazza a cui aveva confessato la sua ferita ed i suoi dubbi sulla loro “vita”. Forse si fidava di più di lei, perché era un’adulta, perché era un’infermiera, era una beata, era morta per far del bene, per salvare delle vite e invece lui-
Lui non era degno della fiducia di nessuno, né della sua famiglia, che aveva tradito, né dei suoi amici, a cui nascondeva la verità.
Le mani gli tremarono, gonfie e sudaticce, risalirono lentamente i suoi fianchi ed il torace magro, quasi scheletrico sotto la camicia bianca sporca e malconcia. Le dita sfiorarono il rovo metallico ed improvvisamente quelle spine smussate punsero come aghi.
Che stava succedendo? Perché si riduceva sempre in quello stato? Perché non poteva comportarsi come una persona normale, come una persona decente? Si era detto che sarebbe stato forte, che avrebbe affrontato tutto a testa alta, che non si sarebbe più fatto metter soggezione da nessuno dei suoi compagni ed ora… ora invece era lì con lo sguardo basso a domandarsi se il suo amico l’avrebbe ancora accolto, l’avrebbe ancora protetto, avrebbe ancora scherzato con lui, se gli sarebbe ancora stato vicino, se-
 
Mi vorrà ancora bene?
 
Con gli occhi improvvisamente lucidi Jonas mise a fuoco Cade stringere Lea in un abbraccio spacca ossa, tirarla su da terra e poi rimetterla immediatamente giù lamentandosi del fatto che una donna così alta lo sbilanciava e rischiava di far cadere a terra entrambi. Vide Lea ridere e stringerlo di nuovo prima di stampargli due baci sulle guance e uno sulla fronte. Vide Eliza avvicinarsi di gran passo, il sorriso aperto sul volto stanco. Vide Úranus sorridere sollevato sotto tutta quella barba e Nathan imprecare pesantemente prima di rifilargli un pungo su una spalla e mandarlo quasi lungo a terra. Sentì a mala pena il fruscio del vestito di Jane, che lo superava alzando gli occhi al cielo e lamentandosi di come l’altro c’avesse messo troppe per trovarli  e poi, quando li vide lì tutti assieme, quegli sconosciuti di cui sapeva poco e niente, che l’avevano accolto, protetto, spalleggiato e consolato ognuno a modo loro, quando li vide ridere e bisticciare, Jonas si rese conto che quella che aveva provato sino a quel momento non era semplicemente la paura di aver lasciato Cade senza spiegazioni, senza un vero confronto, di essere odiato per sempre, di aver abbandonato un amico per puro egoismo, per codardia: quella doveva essere la stessa paura che aveva provato sua madre quando non l’aveva trovato in camera, la paura d’aver perso per sempre una persona cara, amata.
 
Famiglia, eh?
 
Ma a differenza di sua madre, a lui sarebbe stato permesso abbracciare di nuovo l’amico, sarebbe stato concesso un altro po’ di tempo assieme.
Con un sorriso mesto abbassò la testa e chiuse gli occhi, pregando chiunque fosse in ascolto di portare le sue parole a sua madre, ovunque ella fosse.
 
«Perdonami mamma, perdonami per favore. Non farò lo stesso errore due volte. Perdonami.»
 
«Gli Dei ascoltano sempre le preghiere dei giovani puri di cuore, la vostra voce è più cristallina e limpida, rimbomba come le parole della sfortunata Eco, si riflette su ogni superficie come il volto di Narciso. Non sarà ignorata, specie dalla divina Ebe e dalla somma Era. La preghiera di un bambino per la propria madre non resta inattesa, ella udirà presto le tue suppliche.»
 
Jonas alzò di scatto la testa, gli occhi ora sgranati al suono di quella voce così famigliare che aveva messo da parte nei meandri della sua anima.
Deglutì sonoramente e seppe che ne aveva decisamente bisogno, morto o meno che fosse.
Davanti a lui, illuminato dalla luce crepuscolare che seguiva ogni anima nell’Ade e da una luce più chiara che pareva emanata dalla sua stessa pelle, il giovane più bello che avesse mai conosciuto gli sorrise con la magnanimità di una Madonna rinascimentale, di un Cristo sulla croce con una scintillante aureola fatta di spine e rovi.
Le parole quasi rimasero incagliate sulla lingua secca.
 
«Cicno?»
 
 
 
Non era più riuscito a trattenersi ed aveva esultato con gioia, a voce alta, saltando in avanti a portando con sé una nube di polvere ancora più grande di quella che stava alzando con la sua corsa a sfioro del terreno.
Li aveva visti, li aveva visti tutti quanti, uno per uno, distinguendoli alla perfezione e la gioia era tale che non si rese quasi conto di quando Cicno si sottrasse alla sua presa mormorando un tenue “va da loro”, come se gli servisse un ulteriore incitamento per farlo.
Anche i suoi compagni l’avevano visto, lo capì dal movimento repentino delle loro teste, tutte rivolte verso di lui, e poi dal salto emozionato di Lea, che come una bambina aveva battuto le mani e gli era corsa incontro. Se non fosse stato per i capelli biondi e per quegli occhi verde salvia, a Cade avrebbe tanto ricordato tutte le volte che tornato a casa, sua sorella arrivava di gran carriera per farsi prendere in braccio e “volare in aria” come gli uccellini. Era abbastanza sicuro che non sarebbe riuscito a far volare Lea come faceva con la sua Annie, non senza l’aiuto di un po’ dei suoi poteri divini, ma in quel momento non gli interessava minimamente.
La ragazza gli piombò addosso stringendolo forte in un abbraccio soffocante che Cade ricambiò con felicità, sollevandola comunque un po’ nella foga prima di rimetterla giù ridendo.
 
«Wooo! Piano donna! Sei alta quanto l’albero di una nave, se ci metti troppa forza ci sbilanciamo e finiamo tutti e due con le chiappe a terra!»
«Sei vivo! Sei vivo! Dio sanissimo, Cade! Ci hai trovati! Pensavamo il peggio! Ti stavamo cercando anche noi!» strepitò felice stampandogli un bacio in faccia ad ogni interruzione per riprendere fiato.
Cade rise ancora e strinse le mani della semidea prima di spostare lo sguardo su Eliza che, veloce, l’aveva raggiunto sorridendo sollevata.
«Ci hai fatto prendere un colpo, rosso, abbiamo anche temuto il peggio.»
«Naaa! Ma ti pare? E chi mi ammazza a me?»
Nathan imprecò a voce alta, avvicinandosi poi con un sorriso beffardo. «Io un paio di idee ce le avrei, stronzetto.» disse rifilandogli un pugno sulla spalla.
Cade ondeggiò drammaticamente, cercando di non far vedere quanto quella semplice azione l’avesse davvero scosso. A quanto parva, malgrado i voli perfettamente riusciti, ancora non aveva ripreso a pieno le sue forze.
«Ouch! Andiamo soldatino, lo so che il vecchio compagno Cade ti è mancato! Non c’è bisogno di nascondere il tuo affetto con questi modi rozzi!»
«Il “compagno Cade” ha comunque impiegato troppo tempo a tornare all’ovile, avremmo fatto tutti in tempo a rinascere e morire alla fine della nostra seconda vita. Ti abbiamo persino ritrovato il ricordo nel mentre!» sbuffò Jane alzando gli occhi al cielo.
Cade invece sgranò i suoi, quasi estasiato da quelle parole: poteva esser più felice di così in quel momento?
«Oh, ma anche io ho fatto il mio, nel mentre! Ehi là, Golia? Mica ti sei perso un discorso motivazionale da parte di mamma? Che per altro, se permetti, gran bella donna, dico sul serio.» sorrise ammiccando all’islandese.
L’uomo aggrottò un attimo le sopracciglia, cercando di capire il senso di quelle parole, di convincersi d’averle interpretate bene. Non voleva riporre troppe speranze in quell’insinuazione non poi così sibillina, ma le sue remore parvero del tutto sciocche quando Cade si tolse la sacca dalla spalla e ne estrasse un globo grigiastro, da cui si alzavano parole flebili ma nessun altro tipo di rumore.
Úranus riconobbe la sua vecchia casa, la stanza in cui era nato e cresciuto, il tavolo, il pavimento fatto di terra e paglia, la figura quasi nebulosa di sua madre.
Con mani tremanti afferrò la sfera e se la portò al petto, stringendosela contro sino ad incrinarla. Un leggero crack ed il fumo scolorito gli si insinuò nel torace mentre lui, ad occhi chiusi, ricordava finalmente alcune delle parole più dolci che sua madre gli avesse mai rivolto.
 
Quando mi disse d’aspettare un bambino, mio fratello. Quando scoprii che non sarei più stato solo e che avevo un motivo in più per lottare contro il destino tristo.
 
Allo stesso tempo Eliza tirò fuori dall’interno della sua giubba la sfera nera di Cade, che profumava di pioggia e di sangue, che suonava come acqua su tetti di tegole e zoccoli di cavallo nelle pozzanghere sulle strade mattonate.
Cade quasi non se ne accorse, troppo rapito, quasi ipnotizzato, dalla nube di ricordo e dal volto rilassato di Úranus. Quando la figlia di Nike gli spinse con gentilezza la sua sfera dei ricordi tra le mani, Cade esitò. L’ultima volta che aveva trovato una sfera assieme a loro era stata presumibilmente quella di Jonas.
Fu puro istinto quello che lo portò ad alzare lo sguardo e cercare gli occhi chiari de ragazzino, a cercare il suo volto pallido ed i suoi capelli di quel biondo slavato che nella morte pareva quasi bianco.
Jonas non gli si era fatto vicino, non si era mosso, pietrificato sul suo stesso posto lo scrutava da lontano e Cade sapeva perché, ne era perfettamente consapevole. Ma per quella volta decise di non agire di testa sua, di non fare come avrebbe atto in altre situazioni: non si sbracciò per attirare la sua attenzione e scioglierlo dalla trance in cui sembrava esser caduto, non lo chiamò a gran voce e non corse da lui per abbracciarlo malgrado avesse avuto paura di non rivederlo più. Di non rivedere più nessuno di loro.
 
Di perdere il mio stormo ancora una volta, senza possibilità di scelta.
 
Si sentiva così patetico, così sciocco. Gli ci era voluto pochissimo per affezionarsi a quei sei folli sfortunati, tanta era la sua fame d’affetto, tanto era il suo bisogno di una famiglia, di un gruppo con cui affrontare il mondo, con cui volare, a cui appartenere.
Essere parte di qualcosa e condividere un sogno, era davvero stupido eh?
Poi una macchia di luce.
Con la lentezza di chi ha tutto il tempo del mondo, una figura eterea, angelica s’avvicinava piano a Jonas, un passo delicato e calibrato dopo l’altro, come un animale curioso che approccia qualcosa che aveva conosciuto in passato ma di cui aveva perso le tracce per anni.
 
 
Come un predatore che si avvicina sinuoso alla sua preda.
 
 
Cade se ne sentì allo stesso tempo sollevato e preoccupato, per poi ricordarsi che Cicno l’aveva salvato da scomparsa certa, che per quanto avesse già dimostrato di avere un caratterino non proprio facile era pur sempre il bell’angioletto che gli aveva prestato soccorso, che aveva preso a suo tempo Jonas sotto la sua ala.
 
Che possiede dei gioielli simili alla collana di Jonas.
 
I pensieri gli si accumularono nella mente, accavallandosi come le onde che si infrangevano sulle sponde di Dublino ogni qual volta una nave rientrasse in porto.
Le dita di Eliza si avvolsero con delicatezza alle sue, facendogli stringere la sfera scura.
 
«Devi romperla, così potrai riavere il tuo ricordo.» gli ricordò dolcemente.
Cade annuì, passando lo sguardo dalla donna al globo di vetro. Sospirò pesantemente, se lo avvicinò al petto proprio come aveva fatto Úranus, per poi colpirlo con la mano libera mandandolo in frantumi.
Tutti i suoi compagni fecero un passo indietro, non volendo immischiarsi nel ricordo ora libero, memori di quelli che avevano già visto.
La sensazione fu come quella che aveva provato centinaia di volte osservando l’orizzonte, cercando di scorgere le bandiere dei pescherecci e delle navi mercantili, le figure ondeggianti delle barche e quelle magre e malmesse dei suoi compagni alla fine della via, quando finalmente tutti potevano tornare a casa, ognuno con il proprio gruzzoletto.
Fu come riuscire finalmente a visualizzare con chiarezza, a ricordare, qualcosa che già sapeva, che aveva sempre saputo, che era suo, suo e di nessun altro e che gli era stato strappato per troppo tempo.
I rumori e gli odori tornarono prepotenti ad invaderli le membra, a riportarlo in quella casa, in quel pomeriggio piovigginoso, in quell’attimo di quiete.
Gli altri non potevano saperlo, non avrebbero mai potuto intuire la portata di ciò che forse avevano udito, sentito, assaporato, ma quello era stato l’ultimo giorno della sua vita. Cade sapeva con certezza, con la certezza assoluta dei sogni e della conoscenza data dal vissuto, che sarebbe morto la mattina dopo, tra le braccia di un amico, di un fratello di cui non ricordava più il nome.
Avrebbe quasi voluto che il Labirinto gli avesse rubato lui, gli avesse rubato il suo migliore amico e non quell’illusoria calma traditrice che nascondeva la morte dietro le spesse tende del suo sipario.
 
Ora non gli rimaneva che attendere un altro fratello.
 


 
*
 
 


Jonas si voltò lentamente verso la sua sinistra. Ad una rispettosa seppur breve distanza se ne stava tranquillo il giovane con cui aveva condiviso la fuga dai Campi di Pena, a cui doveva l’anima e anche la prima prova.
Cicno lo fissava con gentilezza, con quello stesso sguardo quasi magnanimo con cui l’aveva osservato durante il loro primo incontro, lo sguardo di un adulto che cerca di mettere a suo agio un giovane ma anche quello di un conoscente che si rincontra dopo tempo.
Il giovane uomo era persino più bello di come lo ricordasse: le sue veti pulite e rammendate, i calzari lucidi, i capelli vaporosi ed il volto pulito, le cicatrici scomparse dalla sua pelle levigata. Sembrava che qualcuno l’avesse aiutato e malgrado Jonas non lo conoscesse così bene, non avesse stretto chissà quale rapporto con lui, si ritrovò quasi felice di ciò. Ma più di ogni altra cosa, ora che pareva nuovo di zecca, sembrava risplendere di luce propria, scintillante come l’oro del sole nel mezzo della mattinata, come i suoi riflessi sul mare appena increspato dal vento.
 
«È un vero sollievo rivederti, Jonas. Nel Labirinto ho temuto il peggio, quando girandomi non ti ho più visto e a nulla sono serviti i miei richiami, mi sono rassegnato all’idea che l’edera della divina Persefone doveva averti fatto vittima dei suoi rami. Ma che gioia saperti sano e salvo e soprattutto in compagnia di viandanti certo più nobili di quelli tra cui ti portai.»
La sua voce era proprio come la ricordava, vellutata e gentile, decisa e lenta, calma nella sua sicurezza, nel suo modo affabile di pronunciare ogni parola, ogni intonazione, ogni flessione. Le labbra carnose si erano mosse piano, la lingua appena apparsa tra i denti avorio. Qualunque cosa fosse successa a Cicno l’aveva reso solo più affascinante e attraente di quanto già non fosse.
 
Lo stesso irresistibile fascino della luce, la stessa fatale attrazione del fuoco.
 
Non sapeva se poteva fidarsi al cento per cento di Cicno, con lui era sempre stato buono e non aveva mai avuto comportamenti strani, ma ritrovarselo davanti in quel momento, in quella situazione… Jonas aveva altro di cui preoccuparsi, aveva qualcun altro di cui preoccuparsi e Cicno-
 
«Suvvia, non rimaner fermo a fissarmi senza proferir parola. Cosa stai facendo ancora qui? Va ad abbracciare il tuo compagno perduto. È sempre un’emozione indescrivibile quando chi amiamo torna da noi. Magnifico, contro l’oblio che si prova alla loro scomparsa, sai?»
 
Quelle parole gli gelarono il sangue nelle vene. Il sangue che non avrebbe dovuto avere ma che invece scorreva a suo piacimento per il suo corpo inesistente.
Aveva davvero detto ciò che aveva detto? Aveva davvero sott’inteso ciò che credeva?
No, era impossibile, Cicno non poteva sapere cosa gli fosse successo in vita, perché era morto-
 
Quando chi amiamo torna da noi.
L’oblio della loro scomparsa.

 
Cicno non lo sapeva. L’aveva appena detto agli altri e Cade- Cade non l’avrebbe mai detto a nessuno, non avrebbe tradito un segreto così importante, così pesante.
Una coincidenza, doveva esser solo una coincidenza. Magari parlava per esperienza, magari le parole di Cicno si riferivano alla paura che loro tutti dovevano aver provato alla scomparsa del compagno. Sì, doveva esser per forza così, non c’era altra soluzione.
Cicno non poteva sapere, non poteva sapere che lui aveva abbandonato per sempre i suoi amati, che non era tornato da loro. Non poteva aver insinuato quanto la sua famiglia dovesse aver sofferto, lui non- non lo-
 
«Ssh. Calmati, fai respiri profondi.»

Le aveva già sentite quelle parole, Lea gliele aveva ripetute fino alla sfinimento, eppure, pronunciate da Cicno, ebbero tutto un altro effetto su di lui.
Un’ondata di calore si disperse per il suo corpo, tenue come i raggi del meriggio, quando il sole inizia a tramontare, gentili come l’ultimo sguardo che la stella getta sulla terra prima di lasciar spazio alla pallida compagna.
Jonas alzò lo sguardo sull’uomo, dalla mano che teneva delicatamente poggiata sul suo polso, risalendo lungo il braccio fine, il torace asciutto, il collo elegante ed il volto gentile, mite come i volti degli angeli negli affreschi delle basiliche.
La calma lo pervase come non gli succedeva più da anni, da quando il suo cuore ancora pompava vero sangue, vera vita.
 
«Come-?» balbettò appena.
Cicno sorrise. «Siamo legati, mio giovane amico. I doni di due fratelli creano una connessione forte, ma mai salda come quella tra anime pregne d’affetto l’una per l’altra. Cade era molto preoccupato per te, non farlo attendere oltre.»
Con una leggera spinta lo indirizzò verso il resto dei suoi compagni, che ora fissavano sia lui che la nuova figura guardinghi e stupiti.
Jonas però non guardò nessuno se non Cade, non si concentrò sul volto indagatore di Eliza, su quello sorpreso di Lea, quello giudicante di Jane o quello palesemente incazzato di Nathan. Fissò gli occhi azzurri in quelli verdi e vibranti di Cade e deglutì.
 
«Un respiro profondo, prendi coraggio e va da lui. Riabbraccia tuo fratello.»
 
Annuì, quelle parole parevano maledettamente giuste, perfette per quella situazione.
Non era la prima volta che qualcuno si rivolgeva a loro due con quell’appellativo: “fratello”.
Jonas non ne aveva mai avuto uno, la cosa più vicina ad un fratello era stato Ludwig ma poi era andata com’era andata. Eppure calzava bene ora, sorvolando l’imbarazzo, l’intimità che una parola del genere comportava, sembrava proprio qualcosa che avrebbe potuto apprezzare, a cui si sarebbe potuto abituare.
Avere un fratello maggiore che si prende cura di te. Dopotutto non era ciò che Cade aveva fatto fino a quel momento? Non era ciò che l’irlandese aveva rimarcato in continuazione con tutti i suoi “istinti da fratello maggiore”, tutti i suoi nomignoli, la fastidiosa invasione dello spazio personale, quel continuo contatto fisico non richiesto che ormai aveva già imparato ad accettare, a riconoscere quando era Cade a farlo.
L’ansia che aveva avuto fino a quel momento si sbriciolò come i cocci calpestati delle sfere dei ricordi, polvere e scintille di un peso ormai leggero.
Avanzò di un passo, poi di un altro, senza correre, cercando di mantenere quel minimo di dignità che gli era rimasta, in parte ancora titubante rispetto al loro ultimo incontro.
Ma come sempre ci pensò Cade a toglierlo d’impaccio, a farsi spazio tra i loro compagni, andandogli incontro con un sorriso luminoso – come se non stesse aspettando altro che una sua mossa – ed uno sguardo preoccupato, lo stesso sguardo che aveva sua madre ogni volta che lo vedeva saltare verso l’alto durante le gare d’atletica. Era lo sguardo di qualcuno felice, fiero, di poterti abbracciare e acclamare, ma che al contempo non poteva esimersi dalla preoccupazione d’averti visto sfidare la gravità solo con l’ausilio di un’asta ed una buona rincorsa.
Cade prese un paio di respiri profondi e allungò le mani verso di lui, pur continuando a camminare. Non appena fu in grado anche solo di sfiorarlo con le dita, si sporse in avanti per afferrarlo saldamente per i polsi e tirarselo contro.
L’aveva già fatto, Cade l’aveva già obbligato a nascondersi contro i suo petto, proteggendolo da tutto e tutti, ma questa volta Jonas era lucido, era vigile, era presente ed era-
 
Felice.
 
Strinse forte gli occhi, storcendo il naso e respirando a pieno, seguendo il ritmo del compagno. Serrò le braccia attorno alla vita di Cade e spinse con la fronte contro il suo sterno.

Era lì, era tornato da loro. Non l’aveva abbandonato, li aveva cercati. L’aveva cercato.
 
Dio, era possibile che una persona che conosceva da così poco tempo, gli fosse mancata così tanto?
 
«Non farlo mai più.»
La voce di Cade gli giunse bassa e tranquilla, ma non gli servì guardarlo in volto per capire che si stesse trattenendo. Il tremolio delle sue braccia, del suo intero corpo era più che esaustivo.
«Non ti azzardare mai più a scappare da me in quel modo. Sono stato chiaro? Non mi interessa se abbiamo litigato, se ti è presa una crisi adolescenziale o che so io. Non-scappare-mai-più-da-me.» Lo disse con durezza, con una punta di rabbia che nessuno dei due si sarebbe aspettato.
E chi l’avrebbe mai detto che Cade l’avrebbe odiato per essersene andato e non per quello che gli aveva detto?
No, si disse subito Jonas, spostando il capo per potersi poggiare alla spalla del compagno, non lo odiava di certo, Cade era solo stato terribilmente preoccupato per lui.
 
Dio, mi sono trovato una madre anche all’inferno.
 
Il pensiero lo fece sorridere e stringendo un po’ di più l’abbraccio annuì in silenzio.
 
«Che poi, parliamone, sei morto cazzo, non puoi avere crisi adolescenziali, non ce li hai gli ormoni in giro e tutte quelle cose strane che dicono i medici.»
Quel tentativo palese di alleggerire la situazione fece sorridere Jonas ancora di più.
«Possiamo sanguinare, vuoi che non possa avere gli ormoni “in giro”?» gli domandò retorico ed un po’ provocatorio.
Cade imprecò.
«LEAAAAA! Ti avevo detto di non dirlo a nessuno!» si lamentò voltando la testa verso gli altri.
La figlia di Apollo si strinse nelle spalle, sorridendo imbarazzata. «Mi spiace, non ho potuto farne a meno!»
«A proposito di questo.» s’intromise subito Eliza, lo sguardo improvvisamente serio.
«Grandissima testa di cazzo.» aggiunse per buona misura Nathan.
«Quando pensavi di dircelo?» continuò la mora assottigliando lo sguardo.
Cade sbuffò. «Scusate, sono appena tornato dalle infinite ed incredibilmente nebbiose Praterie degli Asfodeli, ci siamo appena rincontrati, ho appena recuperato il mio ricordo e sto condividendo un momento importante con Binneas, che dite? Me lo date un attimo di respiro prima di attaccarmi tutti insieme? Dannati mastini della malora.» aggiunse poi a bassa voce, solo per le orecchie di Jonas, che ridacchiò divertito.
Non stava piangendo e addirittura riusciva a ridere, quello sì che era un traguardo.
«Siamo ancora nelle “nebbiose Praterie”, se ti interessa. Ci siamo sempre stati. Tutti, non hai l’esclusiva.» gracchiò infastidita Jane.
«E smettila di importunare Jonas.» aggiunse per buona misura Eliza.
Ma Cade invece gli sorrise, ruotando su sé stesso e trascinando Jonas con sé. «Non fare così, Elza! Se vuoi abbraccio anche te! Ora che ho insegnato al passerotto come fare possiamo addirittura darti lezione in due!»

«Temo questo non sia il momento più adatto.»
 
La voce che parlò catalizzò immediatamente tutti gli sguardi su di sé.
Cade girò ancora, portando sempre Jonas appresso, per sorridere a trentadue denti al giovane uomo dalla voce di miele.

«Vero! Ora dobbiamo andare alla prossima prova! Abbiamo tutti i nostri ricordi, sì? Bene, mettiamoci in marcia allora! Oh, ma che testa che ho, le presentazioni!»
Strinse più saldamente le braccia attorno a Jonas e saltò in avanti, trascinandolo con sé lontano dal suolo in un balzo da coniglio.
«Angioletto bello, questa è la truppa. Biondino piccolo, qui, già lo conosci. Biondastro laggiù, con i vestiti come l’erba, ma del colore sbagliato in questo caso, è Nathan, il piccino di casa.»
«Che cazzo hai detto?»
«Bionda alta quando te, oddio, no non quanto te… mi sa che sei pure più alto di soldatino! Sì, soldatino è sempre biondastro, sono due nomi, ma entrambi lo fanno incazzare in egual modo, a te la scelta per quello che ti pare provochi la reazione peggiore. Dicevo. Bionda alta e gentile, è madama Lea. Il gigante rosso è Úranus, di lui sono sicuro non sei più alto. La mora in divisa è Elza-»
«Ma per l’amor- è Eliza. ELIZA!»
«- aspetta, ma tu sai cos’è una divisa?»
«Purtroppo mi sfugge.» ammise candidamente il giovane,
Cade annuì. «In ogni caso, è quella che si è lamentata. E poi c’è la ragazza delle Praterie, una rompi palle di prima categoria. Sta sul cazzo a tutti, quindi non sentirti in dovere di comportarti in modo gentile con lei solo perché è una ragazza.»
«Lo sa che lo sentiamo anche se parla con un tono di voce normale?»
«Perché a te deve dire che sei bionda e gentile e a me deve sempre insultarmi?»
«Perché ispiri insulti di vario genere e varia portata ogni volta che dai aria alla bocca, piccino.»
«Non ti azzardare a chiamarmi in quel modo, cazzo!»
«Almeno di voi non ha detto solo che siete alti.»
«No, ci ha detto che siamo antipatici!»
«E sbaglia di proposito i nostri nomi presentandoci.»
«Sì, ma a parte questo, lui, chi è?»
 
La domanda di Lea portò immediatamente il silenzio tra i cinque compagni, che curiosi si trovarono tutti di nuovo ad osservare il nuovo arrivato.
Cicno sorrise loro in modo gentile, portando una mano al petto in un leggero inchino.
 
«Il mio nome è Cicno di Tebe e malgrado le mie vesti siano ora candide, fui un dannato.»

Nessuno osò parlare dopo quell’affermazione, tutti troppo intenti a fissarlo sorpresi, cercando di capire quanto quelle parole potessero esser vere, che senso avrebbe avuto mentire su una cosa del genere, come poteva un dannato esser così ben messo pur provenendo palesemente da un’epoca remota e soprattutto per quale diavolo di motivo Cade riuscisse ad incontrare solo dannati.
 
«Ma è un angioletto e mi ha salvato la vita. L’anima. Quel che è.
Oh! E ha salvato anche Jonas all’inizio della gara, vero?» chiese rivolto al ragazzino che ancora abbracciava, senza aspettare neanche una risposta verbale oltre un vago annuire del capo. «Ha trovato la sfera di Úranus!» continuò.
«Questo non è vero, l’ho rivenuta al tuo fianco quando ti ho soccorso.» disse placito l’altro.
«Quindi, visto che ha il brutto vizio di salvarci le chiappe, in un modo o nell’altro, verrà con noi.»

«COSA?!»
«Come sarebbe a dire “verrà con noi”?»
«In che senso?»
«Lui farà che?»
«E chi l’ha deciso?»
 
«Ma aspettare, adesso arriva il meglio: è un semidio come noi! Come Lea per la precisione! E concordiamo entrambi nel dire che due medici- guaritori, chiedo scusa- siano meglio di uno!» concluse Cade orgoglioso, portando una sola mano sul fianco e gonfiando il petto felice.
Cicno, dal canto suo, continuò a sorridere in quel modo così pittoricamente gentile e fece un cenno del capo a Lea.
«Anche voi condividete il mio triste destino a quanto pare, me ne dolgo.»
L’italiana batté le palpebre confusa: non era certo la prima volta che incontrava un altro figlio di Apollo, era stata letteralmente cresciuta da un suo fratello, ma dalle vesti del nuovo arrivato, dal suo modo di parlare, dalle sue movenze, Lea poté dire con certezza che quel ragazzo doveva essere uno dei suoi primi fratelli.
Cicno di Tebe era definitivamente un figlio dell’antica Grecia.
«Triste destino?»
«La nostra parentela.» spiegò semplicemente l’altro.
Cade annuì. «Anche a lui sta sul cazzo paparino come me e come alla ragazza delle Praterie. O forse per lei è meglio dire mammina, giusto?»
Jane sbuffò. «Anche papà, tranquillo.»
«Credevo amassi i tuoi genitori.» Disse Úranus guardandola accigliato.
«Sono adottata.» rispose lei lapidaria. Il discorso parve chiudersi così.
 
Nathan però guardava ancora con sospetto il nuovo arrivato. Non era raro che i semidei odiassero i loro genitori divini, ne aveva visti a bizzeffe, ne aveva studiati ancora di più, eppure chi veniva dalle epoche più antiche, quelle in cui gli Dei erano ancora venerati pubblicamente, tendevano ad aver rapporti migliori con i loro genitori, a rispettarli, ad adorarli, ad esserne quanto meno fieri. Il giovane uomo davanti a lui non rientrava certo in questa categoria, malgrado il nome fosse perfettamente identificativo della sua epoca, quasi quanto le sue vesti. Eppure, eppure c’era qualcosa che non quadrava. Più Nathan lo osservava più gli sembrava che qualcosa gli stesse sfuggendo.
Cicno di Tebe.
Cicno di Tebe.
Il nome non era giusto, mancava qualcosa. Lo conosceva. Nathan sapeva di conoscerlo ma ugualmente mancava qualcosa.
Di Tebe. Perché “di Tebe”? Cosa c’era stato a Tebe di così importante?
Era ovviamente una domanda retorica, ce ne erano state a bizzeffe di storie, eventi e personaggi importanti provenienti da Tebe, ma c’era ugualmente qualcosa che stonava con quel nome.
 
Così imparo a saltare le lezioni di miti e leggende quando non parlano di mio padre, di Dei guerrieri o di eroi che combattono e muoiono o ammazzano male la gente. Dei, Lucy aveva ragione.

 
«Nathan?»
Il soldato si voltò di scatto, tirato fuori a forza dai suoi ragionamenti dal richiamo della compagna.
Eliza lo fissò per un attimo, una silenziosa domanda per sapere se andasse tutto bene, e quando lui annuì lei lo imitò.
Il figlio di Ares si schiarì la voce. «Quindi ci dobbiamo portare appresso anche lui ora? E sentiamo un po’, chi l’avrebbe deciso?» chiese con quella sua solita aria strafottente.
Il greco spostò con lentezza lo sguardo su di lui, come se non fosse importante, come se la sua voce l’avesse a mala pena sfiorato senza permettergli di comprendere il significato delle sue parole. Alzò un sopracciglio e poi inclinò la testa verso Cade.
«Chi mi hai detto esser lui?» domandò ignorando completamene la domande del biondo.
Cade sorrise sornione, improvvisamente divertito da quel semplice commento.
«Il biondastro o soldatino. È il più piccolo tra di noi. No, non lasciarti ingannare dall’uccellino qui, Jonas sarà pure morto sedicenne-»
«Erano quasi diciassette!»
«- ma quando lui è passato a miglior vita il nostro bel bambino non era neanche nei sogni di mammina e papino.» spiegò come se Nathan non fosse lì di fronte a loro.
«Che cazzo vuol dire! Ho comunque vissuto più anni di lui, quindi sono più grande io!»
«Che scurrilità.» notò Cicno storcendo il naso. «Fa sempre così? Proprio come i monelli di strada, che si riempivano la bocca di parole a loro sconosciute solo per imitare gli adulti.» disse scuotendo la testa con disapprovazione.
«Ma vaffanculo! Mondello di strada a chi? Ho fatto la guerra io, cazzo! Non sono l’ultimo arrivato!»
«Esatto! Sembra un bambino che vuole farsi grande. Un po’ come il nostro Jonas, solo che lui non ha ancora sviluppato bene la sua personalità-»
«Ma che cavolo! Non è vero! La mia personalità è formatissima!»
«- quindi tante cose gli si perdonano. Ma biondastro se l’è fatta qualche primavera in più, quindi è un imitatore di adulti formato, ormai è così e così ce lo teniamo.» continuò Cade scuotendo anche lui la testa, come a dar ragione a Cicno.
«Senti, testa di cazzo rossa.» iniziò Nathan rimboccandosi le maniche, «Adesso ti faccio vedere io quanto sono formato.» disse già furente.
Evidentemente però, la scelta delle parole non fu delle più felici, perché Cade ghignò incredibilmente compiaciuto da quell’uscita e il nuovo arrivato- beh, lui anche. All’incirca.
Cicno lo squadrò da capo a piedi, soffermandosi sulle spalle, sulle braccia mezze scoperte, per poi scendere al torso, ai fianchi nascosti nella mimetica e ai fianchi stretti dal cinturone.
Fece una smorfia.
«Non credo tu sia già formato abbastanza, giovane soldato, hai ancora molto da sviluppare.»
Quella frase ebbe il potere di bloccare tutti.
Jane sgranò gli occhi, sul volto pallido e sporco l’espressione di qualcuno che si stava palesemente trattenendo dal ridere, presa di sorpresa da un sott’inteso che non si aspettava.
Lea portò invece le mani alla bocca, scioccata quasi quanto Eliza che si ritrovò a far un passo verso Nathan, neanche si stesse preparando a difenderne la virtù.
Úranus invece rimase solo immobile, stringendosi inconsciamente nelle spalle quando Cicno spostò lo sguardo indagatore su di lui.
«Il tuo compagno fulvo è molto più formato di te, ma si può leggere nei suoi occhi limpidi l’inesperienza nell’utilizzare ciò che la natura gli ha concesso.» continuò il figlio di Apollo con calma.
Poi, quasi si fosse ricordato di qualcosa, voltò il capo verso Cade e, con l’espressione più neutra del suo repertorio, chiese con tranquillità:
«Perdonami Cade, non dovevo parlare di sessualità e genitali solo davanti alle donne o davanti a tutti quanti? »
A quella domanda il rosso non si trattenne più, scoppiando a ridere gettando la testa indietro, scuotendo Jonas che nel mentre si era fatto chiazzato in volto come i capelli del compagno, pregando tutte le divinità che conosceva, di tutte le religioni che conosceva, che Cicno non scandagliasse anche lui da capo a piedi per trarne le dovute conclusioni.
«No angioletto, ti avevo detto di non usare determinate parole davanti alle signorine.» disse con le lacrime agli occhi.
Cicno annuì. «Malgrado le tue premure, sono certo che quanto meno mia sorella non proverebbe vergogna nell’udire l’utilizzo di termini precisi per indicare il corpo umano.»
«Tipo quali?» domandò allora Jane, ormai incapace di trattenersi ancora.
«Come pene.» rispose tranquillo l’altro.
Jonas ringraziò sempre tutte le divinità che conosceva d’aver ancora il volto premuto contro la spalla di Cade, scorgendo con la coda dell’occhio Lea arrossire in modo velato, Eliza drizzare la schiena e guardare altrove, Jane scoppiare a ridere e Nathan imprecare ad alta voce, così forte da attirare l’attenzione delle anime più distanti.
Il figlio di Apollo però alzò un sopracciglio fissando il soldato. «Cosa significa “puttana”?»
Le risate di Jane divennero ancora più acute, tanto che la ragazza fletté le gambe per potersi sedere a terra e ridere di cuore, le mani premute sul petto. Di fianco a lei, Úranus non sapeva più da che parte guardare.
«Solo un modo per dire prostituta.» spiegò divertito Cade.
«Oh, una meretrice quindi? Non bastava già questo di nome?»
«Così suona di più come un insulto, non credi?»
«Posso dirti che certezza che qualunque donna, se venisse apostrofata “meretrice” nel mezzo di una piazza, o anche nel privato, se ne risentirebbe allo stesso modo. A chi dava della prostituta quindi?»
«A tutto e a niente, è solo un’imprecazione. Ora si usa moltissimo dirne anche a nulla di preciso, così, in generale.»
«Continuo a non comprendere come possiate esser diventati così sensibili nell’esporre e parlare del vostro corpo ma così lesti ad utilizzare insulti di ogni tipo.»
«Te l’ho detto che il mondo è peggiorato, tu non mi credi.»
«Ti credo, invero, ma continua a sorprendermi.»


«Dio, ditemi che non è vero.» ringhiò Nathan tra i denti, assistendo quasi inerme al piccolo siparietto montato su dai due: a quanto pareva Cade era già entrato più che in sintonia con il dannato.
Dannato che non solo appariva meglio di tutti loro beati messi insieme, ma che aveva anche avuto le palle di fare un commento palesemente a sfondo sessuale su di lui.


E no cazzo.
 
«Comunque.» disse con fermezza attirando l’attenzione dei due. «Sono più che formato, grazie.» ci tenne a precisare.
Cicno aggrottò le sopracciglio. «Non volva esser un insulto, solo una costatazione dei fatti. L’esperienza è essenziale in ogni ambito della vita, soprattutto se riguarda il corpo e la mente.»
«Ero sposato, okay? E mia moglie non si è mai lamentata, quindi direi che ne avevo di esperienza.» lo disse quasi con rabbia, quasi l’altro stesse attentando alla sua credibilità, e non si rese neanche conto che quella era la prima volta che ammetteva d’esser stato sposato – di esserlo ancora – davanti ai suoi compagni.
La notizia, per quanto poté scioccare tutti gli altri, che comunque già lo sospettavano da molto, non scalfì minimamente il greco.
«Non credo sai una buona difesa questa, presumo che vostra moglie abbia giaciuto solo con voi. Quindi non aveva alcun mezzo di paragone.»
Detta in modo estremamente gentile, tranquillo e logico, Nathan si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua, mentre Jane e Cade ridevano quasi alle lacrime e persino Jonas cercava in tutti i modi di trattenere una risata.
Lea gli sorrise invece sorniona e gli batté una mano sulla spalla. «Non prendertela a male, sappiamo entrambi per certo che tua moglie ti amava comunque moltissimo.»
Ma malgrado quell’inutile tentativo di consolazione, il figlio di Ares si ritrovò a bollire di rabbia: chi cazzo era quel ragazzetto, che si presentava per la prima volta davanti a lui, davanti alla sua squadra, e lo ridicolizzava in quel modo?

«Ma chi cazzo ti credi di essere?» ringhiò a denti stretti avvicinandosi all’altro.
 
Se tutti i suoi compagni fecero istintivamente un passo indietro, - Jane, Jonas e Cade che si tirò subito il ragazzino dietro di sé -  per non rimanere coinvolti in un possibile scontro, o un passo avanti – Eliza, Lea ed Úranus – per fermarlo in caso avesse deciso di mettere le mani addosso a qualcuno palesemente più debole di lui, Nathan dovette nascondere la sua sorpresa quando il figlio di Apollo avanzò fino a ritrovarsi ad un palmo dal suo naso, scrutandolo dall’altro di quella manciata di centimetri che li dividevano.
Cazzo, era anche più altro di lui lo stronzetto.
«Come ho già detto, il mio nome è Cicno di Tebe e malgrado non ne vada fiero sono progenie di Apollo, dio del Sole, delle arti e dei medici. Tu invece, giovinetto, chi credi d’essere?» domandò con voce profonda e ferma.
Nathan lo scrutò con attenzione, gli occhi blu fissi in quelli altrettanto severi e freddi dell’altro.
Forse poteva sembrare solo un efebo proveniente da un museo d’arte antica, appena scioltosi dalla sua corazza di marmo come un’eterea Galatea, ma ciò che era certo era che non avesse paura di lui, non avesse paura di nessuno di loro.
 
Sembra non aver paura di nulla, neanche della morte e delle sue conseguenze.
 
Come un fulmine a ciel sereno si ricordò che il figlio di Apollo non aveva neanche provato a nasconder loro d’esser un dannato. Forse l’aveva fatto perché Jonas l’avrebbe potuto smascherare senza problemi, da quel che diceva Cade, oppure perché non provava vergogna per il suo destino.

Probabilmente, nei millenni della sua condanna, ha visto e vissuto cose ben peggiori rispetto a quelle che potrei promettergli io a suon di minacce.
 
«Nathan Wright, figlio di Ares, corpo dei Marines, USA. Esercito.» rispose a tono, senza distogliere lo sguardo.
Era una gara, una sfida, come con i cani: il primo che abbassa lo sguardo si sottomette all’altro.
«Grazie per la precisazione, ma era facile intuire che un figlio del sommo Ares fosse legato alla guerra anche secoli dopo la nascita del proprio padre.» disse quello con semplicità. «Così come è facile ipotizzare che, dati i tuoi natali, sia tu a capo di questo gruppo.»
«Come?»
«Aspetta, che?»
«E chi l’avrebbe deciso?»
«Io non sto agli ordini del biondastro!»
«Piuttosto me ne torno nelle Praterie.»
«Nathan?»
L’ultima voce fu quella di Eliza, che lo stava palesemente chiamando all’ordine, gli stava palesemente chiedendo di smentire.
Gli stava chiedendo di guardarla negli occhi e dirle che no, lui non era a capo di nulla, loro non erano suoi sottoposti, erano compagni, erano tutti sullo stesso piano.
 
Perché essere il “capo” implicherebbe che potrei chieder loro, in qualunque momento, di fare un passo indietro e lasciar vincere me. Implica che potrei comandare su di loro e che loro dovrebbero obbedirmi.
Significa che devo guardarla e farle vedere quanto sincere siano le mie parole.
Significa che devo distogliere lo sguardo dal suo.

Piccolo bastardo.
 
Con riluttanza Nathan sciolse quella stupida gara di sguardi e si voltò verso Eliza sbuffando infastidito.
«No cazzo, sono solo il capo spedizione, visto che qui metà di noi non sa cos’è una cazzo di bussola e l’altra metà non ne ha una.» rispose quasi annoiato.
«Io so cos’è una bussola.» rimarcò subito Lea. «E sono più che sicura che anche Jonas, Cade ed Eliza lo sappiano.»
«Se è per questo lo so anche io e scommetto anche Golia, qui.» precisò Jane.
«Pensate che persino io so cosa sia, ma ammetto che mi è stato spiegato nella morte. In vita non credo esistessero strumenti del genere.» sorrise con garbo Cicno, anche se a Nathan non sfuggì il leggero sogghigno che gli increspò le labbra.
Aveva già detto “piccolo bastardo”?
«Certo che no, sei del 1100 avanti Cristo.» borbottò Jonas staccandosi finalmente da Cade. Un vero peccato per altro, stava comodo e anche caldo.
«Oh, la venuta del vostro salvatore, giusto. Credo ciò mi renda il più anziano tra di voi.»
«Si calcola in base a quando sei morto, non a quando sei nato.» replicò per la millesima volta Nathan.
«Dice così solo perché se no è il più piccino, cerca di mandarcela giù da quando siamo partiti.» gli disse Cade in tutta confidenza.
«In questo caso,» sorrise ancora Cicno, «quante primavere avevate alla vostra morte?»
Úranus fu il primo a rispondere. «Ventiquattro, l’anno della mia nascita fu il 1599, provengo dalle terre del nord, Islanda. Úranus Mjöllson, figlio di Fobetone.»
«Jane Parris, figlia di Ecate. Io sono morta a ventiquattro anni, anno del Signore 1692, Salem, America.» continuò la ragazza con un cenno del capo, «E sono l’unica che viene dalle Praterie degli Asfodeli.»
«Una mente forte la vostra.» commentò Cicno restituendole lo stesso cenno.
«Non abbastanza, in vita mia madre credeva fossi pazza, forse aveva ragione un po’.» disse ghignando tetra.
«Elizabeth Reed.» l’interruppe Eliza, «Figlia di Nike. Soldato di fanteria dell’esercito americano. Sono morta nel 1781, avevo ventidue anni.» si presentò porgendogli la mano.
Cicno gliela strinse con forza, qualcosa che fece una buona impressione sulla soldatessa.
«Io invece sono Elena Pozzi, ma preferisco esser chiamata Lea. Sono italiana, di Milano, e sono morta a ventun anni, 1848.» sorrise porgendogli anche lei la mano.
Quando tutti gli altri “sconosciuti” si furono presentati, Nathan incrociò le braccia al petto e lo gonfiò d’aria.
«Nathan Wright,» ripeté per la seconda volta. «Figlio di Ares, corpo della marina militare americana. Sono di Washington D.C. ma sono morto in Vietnam nel 1966. A ventiquattro anni.»
Cicno annuì. «Quindi, se non vado errando, hai la stessa età della figlia della divina Ecate ma sei più giovane di Cade.» riassunse spiccio, sorridendo lieve al grugnito infastidito del biondo. «Mi spiace informarti che qualunque sia il modo in cui si vuol contare l’età, nella morte, non sei il più anziano. Sono nato, secondo il vostro calendario, nel 1176 a Tebe, e lì vi sono perito nel 1150.»
Non appena ebbe finito di pronunciare l’ultima sillaba Lea già strepitò in segno di vittoria.
«Ventisei! Hai ben due persone più grandi di te!» saltellò allegra.
Nathan grugnì ancora. «Vaffanculo. A voi e al calcolo delle morti. Sono comunque più grande di te, dei due medievali e del moccioso!»
«Sono nato vent’anni prima di te! Come puoi essere tu il più grande?»
«Vale l’età a cui sei morto, non l’anno in cui sei nato!»
«Lo dice solo perché non vuole essere il più piccolo pulcino, non litigare con il bambino, che poi piange.» bisbigliò Cade all’orecchio del compagno.
Jonas sorrise a quella confidenza detta a voce fin troppo alta per esser nascosta e sogghignò più apertamente verso Nathan quando questo imprecò di nuovo ad alta voce.
Cicno però non prestò la minima attenzione al figlio di Arese e si concentrò sul più giovane.
«A che anno risale la tua dipartita? Se non è troppo chiedertelo.» domandò rivolto al ragazzino.
Jonas scosse piano il capo, l’ombra di un sorriso ancora sulle labbra. «1936, a Berlino, in Germania.»
«Ed il tuo divino genitore?»
A quello il sorriso sul volto di Jonas scomparve immediatamente.
Il biondo si ritrovò a torcersi le mani, diventate d’improvviso appiccicose e sudaticce.
Tutti lo stavano fissando, aspettando con attenzione la risposta ad una domanda che, forse per educazione o per tacito accordo, nessuno aveva mai fatto ma di cui tutti volevano sapere la risposta. In fondo, il segreto era rimasto solo su di lui e su Cade, ma qualcosa diceva a Jonas che il figlio di Apollo già sapesse chi fosse il padre divino del suo compagno.
«Se ti mette in imbarazzo non devi certo dirmelo.» sorrise gentile Cicno e Cade tirò un sospiro di sollievo: l’angioletto si stava comportando decisamente in modo consono al suo bel faccino. Per lo meno con il piccoletto.
Jonas però non seppe cosa rispondere, non seppe se rispondere.
Era così importante tenere nascosta un’informazione del genere? Gli giovava in qualche modo? Insomma, Úranus era figlio del dio degli incubi a conti fatti, il suo alla fine non era così brutto, non era tanto peggio.
 
È solo stato il mio fardello per tutti questi anni. La mia condanna. La punizione per me e per tutti i codardi della mia terrazza. Una condanna che si specchiava sulla catena che portavo al collo.
 
Una catena che ora era monile e che brillava, gemella, ai bracciali di Cicno.
Il suo sguardò cadde proprio sui gioielli che gli adornavano i polsi ed il figlio di Apollo se ne accorse subito.
«Siamo connessi.» disse piano, gentile, la voce quasi ipnotizzante. «Te lo dissi più volte. Posso percepire come delle onde emanate dal tuo corpo, dal tuo sangue, dal tuo retaggio divino. Il mio dannato padre, dopotutto, ha sempre avuto un rapporto particolare con l’amore, soprattutto quello maledetto.» sibilò come i serpenti che tanto odiava.
Ma ormai l’incantesimo era fatto, Jonas lo guardò come uno di quei rettili ammaliati dal suono di un pifferaio magico, la sua mente rilassata. Perché avrebbe dovuto nasconderlo? Già non ne era troppo convinto prima, ora ancora meno.


«Eros?» domandò Nathan guardando Lea e poi Úranus.
Il figlio di Fobetone però scosse il capo. «Se fosse il divino Eros i nostri poteri non entrerebbero in conflitto e al contempo in accordo nel modo in cui fanno.»
«Non conosco altre divinità legate all’amore.» ammise Lea scuotendo il capo.
«Un fratello di tuo padre?» domandò allora Jane rivolta all’islandese. «O una sorella, magari?»
«No, la madre di Jonas era umana, giusto?» disse Eliza cercando conferma in Cade, che annuì.
«Non sei obbligato a dircelo.» ripeté il rosso.
Jonas però aveva occhi solo per Cicno, che gli aveva servito su un piatto d’argento sia la possibilità di liberarsi di quel peso inutile che si portava sulle spalle, sia quella di fargli domande su ciò che li legava.

I doni dei gemelli della notte.
 
«Pothos.» disse d’impulso, come se passato il momento non avrebbe mai più avuto il coraggio per sputar fuori quel segreto.
Che andassero tutti al diavolo, c’era di peggio! Anche se Jonas era certo che la sua discendenza divina fosse la causa di tutte le sue pene d’amore era anche vero che ormai non aveva più alcuna influenza su di lui: Jonas aveva amato una persona sola nella sua breve vita e per quanto non volesse suonare smielato e malinconico, era più che certo che quell’anima che aveva abbandonato fosse anche la sua gemella, che non avrebbe incontrato più nessun altro da amare in vita, figurarsi nella morte.

Al diavolo, al diavolo tutti e tutto!
 
Con sorpresa però gli unici che reagirono a quelle parole furono Úranus e Cicno. Nathan aggrottò le sopracciglia quasi confuso, cercando lo sguardo di Lea che invece, da parte sua, aspettava solo una spiegazione.
«Ma non era il dio della paura? Che c’entra con l’amore?» domandò allora Eliza.
Cicno scosse piano il capo. «Quello è Phobos, figlia di Nike. Il divin genitore di Jonas è Pothos, il dio della nostalgia d’amore, della mancanza e del desiderio amoroso. Per questo, da quel che ho potuto capire, i suoi poteri si combinano in modo perfetto con quelli del figlio di Fobetone.»
Nathan grugnì. «Bene. Bene è un parolone. Hanno fatto più danni che altro, sia la prima volta che si sono incontrati che quando hanno provato ad utilizzarli assieme.»
Il giovane greco annuì. «Mi pare ovvio. Il fatto che due fazioni siano compatibili e potenzialmente inarrestabili assieme non implica necessariamente che ciò possa accadere al primo tentativo. Tanto meno al secondo. Ma converrai con me nel dire che una delle paure, degli incubi più grandi dell’uomo è rimaner soli, esser emarginati, non trovare l’amore o trovarlo e poi perderlo.»
«E tu l’hai capito perché Apollo ha avuto problemi di cuore?» domandò Jane alzando un sopracciglio scettica.
«”Problemi di cuore” è un po’ riduttivo, figlia di Ecate.» rispose ironico Cicno.
«Jane. Se devi chiamarmi in qualche modo chiamai per nome, non con quello di mia madre.»
«Te l’ho detto che alla ragazza delle Praterie mamma non piace come a noi due non piace papà.» sorrise Cade infilandosi le mani in tasca. Dietro quell’espressione divertita però il suo cervello macinava pensieri come la vecchia ruota del mulino della città. Poco prima di arrivare Cicno aveva promesso di spiegar ogni cosa una volta riunitisi al gruppo, poi la gioia d’aver ritrovato gli altri l’aveva distolto ma ora, specie dopo le parole dell’angioletto, tutte le domande che si era fatto in quella manciata di secondo erano tornate prepotenti.
«Però, da quel che ricordo, ne ha avuti davvero molti di problemi…» si aggiunse Jonas, avvicinandosi un poco agli altri infilandosi anche lui le mani in tasca. Quando Cade gli lanciò un’occhiata ghignante, indicandogli con il mento proprio la posa appena presa, così simile alla sua, il ragazzino storse il naso, muovendosi subito e incrociando le braccia al petto, mettendo palesemente su il broncio. «La studiai la storia di Daphne. E anche quella di Giacinto.»

Cicno annuì. Probabilmente, se non fosse stato tanto bravo a nascondere le sue emozioni, se non fosse stato tanto bravo a mentire, il solo sentir nominare quelle due sfortunate anime avrebbe teso le sue labbra come la corda di un arco, un ghigno ampio e predatorio. Ricordare i tormenti d’amore di suo padre, le perdite, il dolore, i rifiuti, tutto ciò non faceva che provocargli un recondito e viscido piacere. Era strano associare una parola del genere ad una sensazione deliziosa come quella del piacere, della soddisfazione, del compiacimento, ma questo era ciò che sentiva Cicno: un viscido e lungo serpente, una biscia d’acqua che si muoveva nell’acqua melmosa del suo risentimento, dell’odio che provava per suo padre, e che s’apriva una via tra il fango, lasciando che la luce colpisse finalmente il limpido ruscello che ribolliva al di sotto dello strato sporco.
Oh, la sofferenza per amore, l’amore perduto, quello non ricambiato. La nostalgia e la brama, la consapevolezza di non poter ottenere ciò che più si desiderava al mondo.
 
L’amore. Essere amati sopra tutto e sopra tutti, in ogni aspetto del proprio essere.
 
Esattamente come ben due divinità avevano impedito a lui d’essere.
Pothos era stato silente spettatore della tragedia di Daphne, seduto al fianco del fratello che, crudele, fissava soddisfatto i pietosi tentativi di Apollo di raggiungere la sua amata.
Aveva anche assistito alla gelosia cieca di Zefiro, a quell’anima tormentata che prima era stata illusa d’esser amata, d’esser non l’unica, ma certo la più importante, per poi esser dimenticata con facilità.
Pothos era sempre stato lì e sempre ci sarebbe stato.
Pothos era in piedi sulla scogliera, al fianco di Thanatos, quando Cicno aveva deciso che il dolore era troppo e che la perdita di Filio non era più tollerabile.
 
Che il suo abbandono fosse intollerabile.
Che ormai il mio cuore fosse spazzato e neanche l’ambrosia divina avrebbe potuto rammendarlo.

Cicno aveva guardato i due Dei in volto, senza timore, senza più alcuna paura, tanto da lì a poco sarebbe sopraggiunto il pietoso bacio della Morte. Non aveva più alcun senso temere gli Dei, in ogni caso per lui si sarebbero aperti solo i Neri Cancelli.
L’unica gioia che gli era rimasta, in tutti quei secoli di torture, era la consapevolezza che la sua maledizione su suo padre non avrebbe fatto altro che rafforzare la terribile sfortuna che pareva evocarsi da sé con il suo carattere vanesio e borioso.
Sotto questo punto di vista, Apollo non era troppo diverso da Ares. Entrambi combattenti agguerriti e spietati, forse il dio della Guerra era addirittura un po’ più magnanimo, premiando l’esercito vincitore, i guerrieri più valorosi e gli eroi degni. Apollo non si era mai fatto di questi problemi: nell’esercito a lui nemico potevano esserci anche grandi eroi, ma se anche uno solo dei soldati più mediocri recava sgarbo al gemello del Sole allora tutti dovevano perire. Le carestie e le pestilenze non graziavano i nobili di cuore, non erano altro che una delle tante falci della morte, che passava e coglieva tutti, senza distinzioni.
Erano entrambi fratelli, erano entrambi gemelli, invero, entrambi amabilmente odiati dai proprio consanguinei, entrambi venerati ed odiati dagli umani, entrambi genitori di una progenie distruttrice, che fosse divina o meno.
Cicno sorrise mesto, le labbra a mala pena tirate, mentre inclinava il capo verso sinistra ed osservava Nathan, il figlio di Ares, spiegare con saccenza ai suoi compagni le origini dei miti, corretto gentilmente dal figlio di Fobetone, Úranus, con dettagli che un mortale avrebbe potuto apprendere solo che da un altro dio.
 
Di fatto il mio Signore ha detto che suo padre lo crebbe.
 
Questa informazione poteva tornargli utile, così come il tenere a mente che sebbene sapesse tutto sugli Dei, più difficilmente sapeva qualcosa sui miti, sugli eroi, sulle missioni dei mortali. Al contrario era più probabile che Nathan e anche sua sorella sapessero qualcosa di più su miti e leggende e qualcosa di meno sulle divinità in sé per sé.
Cercò di tenere un orecchio teso al discorso confusionario che gli altri stavano portando avanti. Qualcosa sulla sfortuna - «Sfiga cieca, altro ché! Come la chiami se no?», «La chiamo che ti stai zitto e mi lasci spiegare, roscio di merda.» - e sul fatto che quindi, qualcosa che tutti loro avevano visto, doveva esser stato prodotto dal potere del bambino.
Davvero savi incompresi, tutti e sette.
 
«Sì, sì, va bene, tutto quello che-»
«Quindi quando vedevo i miei genitori era lui o era Golia?» domandò Jane stroncando sul nascere le proteste di Cade.
Nathan si strinse nelle spalle. «Forse un po’ e un po’.»
«Il tuo incubo peggiore potrebbe esser rivivere la morte dei tuoi genitori, così come l’affetto che provavi nei loro confronti ti porta ad aver nostalgia di loro.» ipotizzò Eliza annuendo.
Dietro di loro Cicno si domandò come fosse possibile che avessero perso così velocemente interesse in lui.
Come diamine erano arrivati a quel punto? Erano scoordinati, si distraevano con troppa facilità, litigavano tra di loro per pretesti stupidi tirati fuori da una battuta o da una parola mal detta. Incontravano uno sconosciuto, che si dichiarava immediatamente dannato, che portava gioielli simili a quelli di un loro compagno, che aveva ritrovato un altro loro compagno e poi aveva aiutato questo a ritrovare il resto della squadra. Un dannato di cui non sapevano nulla e che proveniva da un’epoca così lontana da loro dall’esser posto in un’era diversa.
Dovevano decisamente ringraziare il suo Signore se erano ancora tutti vivi e in gara.
 
Ed ora sarò compito mio tenerli sulla retta via. Avrò anche avuto la soddisfazione di maledire mio padre ma credo proprio che anche lui abbia fatto lo stesso con me.
 
«Sì, dicevo, tutto molto interessante-» cercò per la seconda volta Cade di intromettersi.
«Però, ora che sappiamo qual è il genitore divino di Jonas, un po’ com’è successo con Úranus, potremmo trovare il modo per aiutarlo ad utilizzare i suoi poteri.» ragionò a voce alta Eliza.
«Io non ci provo di nuovo. Fate quello che vi pare, inventatevi quello che volete, ma io non ci riprovo. Due su due è andata male, non me la rischio la terza.» disse Jonas scuotendo la testa con vigore.
Lea storse il naso. «Ma così sono ben tre i poteri che non possiamo usare. Non Úranus che influenza tutti quanti, non te-»
«Che a quanto pare faccio la stessa identica cosa.»
«- e non Jane che non ha ricevuto alcun addestramento.»
«Che non ha fatto un cazzo per tutta la vita.» precisò Nathan.
«Scusa, stai parlando dall’alto dei tuoi incredibili poteri che ci hai mostrato svariate volte e che ci hanno salvato da quando siamo assieme?» domandò provocatoria la figlia di Ecate. «Sempre che tu abbia dei poteri. Li ha?» chiese poi rivolta a Úranus.
Il giovane annuì, seppur con lentezza. «Ha una maggiore destrezza nelle armi, impara ad utilizzarle più velocemente, le sa riconoscere in ogni loro dettaglio e sa anche come sono composte, come si montano e simili. I figli di Ares hanno una forza maggiore, seppur non sproporzionata e sono in grado di apprendere tecniche di combattimento e di attacco in modo repentino.»
«In pratica nulla che ci serva ora.» concluse Jane soddisfatta. Poi guardo Nathan. «Io almeno un paio d’incantesimi li so fare. Tu non hai neanche un’arma.»
«Senti un po’, piccola-»
«Se è per questo io sono anche più forte di lui.» intervenne Eliza, «Ma non ha importanza quali siano i nostri poteri divini.»
«Sì, anche perché la rompi palle ci può solo curare, per esempio.» ringhiò il biondo in direzione della figlia di Ecate.
«Veramente Lea può creare piccole sfere di luce in grado di portarla in luoghi particolare.» disse piano Úranus, pentendosene subito dopo quando Eliza gli lanciò un’occhiataccia.
«La prossima volta ti lascio steso a terra.» gli rispose per le rime lei.
«Quindi quello che il potere più forte ed utile è Cade? Siete seri?» tornò alla carica Jane guardando il rosso scettico.
Ma Cade non li stava più neanche ascoltando, ormai da parecchio ad onor del vero.
Si era voltato verso Cicno e gli aveva lanciato un sorriso tra l’imbarazzato ed il divertito, quasi chiedendogli scusa per tutto il teatrino che i suoi compagni stavano mettendo su in quel momento, decisamente non sembrava star andando bene neanche la seconda prova, invece di pensare alle cose importanti.

Tipo i bracciali, che hanno smesso di brillare una volta incontrato Jonas, ed il collare. Tipo che siamo tutti in possesso del nostro ricordo e che quindi la prova per noi è conclusa. Tipo che dovremmo andare alla prossima partenza invece di star qui a chiacchierare come se stessimo al pub mentre migliaia di anime ci superano come se nulla fosse e vaffanculo così è abbastanza scontato che col cazzo che rinasciamo.

«Ti stanno ignorando, come ti senti a riguardo?» domandò più ironico che altro.
Cicno si strinse nelle spalle. «Quando sei un dannato impari ad apprezzare i momenti in cui vieni ignorato.» disse semplicemente. Poi si fece più serio. «Ma credo tu voglia chiedere qualcosa, posso risponderti io?» chiese gentile, battendo le lunghe ciglia.
Cade gli sorrise più che soddisfatto. «A dirla tutta, sono certo che solo tu, possa rispondermi.»
«Parla quindi.»
«Tu e Jonas, hai detto che siete legati, è per i vostri gioielli, vero? Come-»


Ma la sua domanda fu stroncata in pieno da Jane, che portò l’attenzione generale sul rosso irlandese.
«Come scusa?» chiese di nuovo lui.
«Il tuo potere. A quanto pare è l’unico utile.» gli disse infastidita.
Cicno batté le palpebre incredulo: ma da dove diamine veniva quella gentaglia?
«Beh, mi sembra più che-»
«Veramente no.»
«Oh, e che cazzo, ma la smettete di interrompermi?! Ups, scusa angioletto.» sorrise con quella sua espressione da moccioso quando il biondo lo fulminò.
Mh, quasi potente come le occhiatacce di mamma Elsa e sicuramente neanche era al massimo della sua potenza.
«Come figlia di Ecate i tuoi poteri sono molto utili.»
«Peccato che non sappia fare un cazzo.»
«Almeno io ce l’ho un potere di fondo.»
«I figli di Ares hanno il potere della Guerra.» la corresse subito Cicno, «Forse non è spettacolare e manifesto come la magia, ma esattamente come per ogni semidio è il caso che sceglie cosa dare o non dare ad una progenie divina. Conobbi figli di Ares in grado d’evocare armi, altri di crearne dal palmo delle proprie mani, altri in grado di comandarle a proprio piacimento.» spiegò con calma.
Jane storse il naso. «Lui non ha nulla.»
«Ma vaffanculo!»
«I figli di Fobetone allora, non credi che i loro poteri siano immensi e spaventosi?»
«Immensi sì, spaventosi pure, assolutamente da non utilizzare di nuovo.» borbottò Jonas.
«E quelli di tuo padre? Sei in grado di generare nostalgia e struggimento nelle persone, di far riveder loro ciò che hanno amato e perso. È un potere incredibile quello che hai sulle genti.»
«E che non userà perché, uno: non lo sa fare; due: fa solo danni quando ci prova.» sbuffò Nathan incrociando le braccia al petto. «Non uscirtene con il potere di Nike. Forza momentanea improvvisa e culo non sono veri poteri.»
«Scusa? I miei non sarebbero veri poteri? Fosse per i miei “non veri poteri” Jane sarebbe ancora nel muro d’edera, signorino.»
«L’avrei tirata via anche io!»
«Sì, se prima qualcuno avesse tirato via te dell’edera!»
«In ogni caso. Sono certo che io e mia sorella condividiamo molti poteri incredibili.» tentò ancora Cicno, ormai prossimo al suo livello massimo di sopportazione.
Adesso li avrebbe maledetti tutti, uno per uno, ognuno con una pestilenza diversa da gestire.
«Curare la gente e fare palline di luce, una svolta nella vita!» sbottò il soldato, ricevendo il sostegno inaspettato di Jane.
Ma a quelle parole Cicno si fece improvvisamente serio e freddo, il volto una lastra di marmo pallido come la pelle di Jonas.
«Credete sia poco? Credete siano doti da nulla? Avete idea di cosa sia possibile fare con un canto divino? Cosa siamo in grado di curare? Un vero curatore è in grado di riportarti indietro dal baratro della morte, le note dei suoi canti sono capaci di rallentare il divino Thanatos sino a stordirlo e farlo desistere. E se le mie parole d’ambrosia non saranno utili a curar nessuno, ne avrò di puro veleno in grado di far crollare un corpo o un impero. Carestie, pestilenze, malanni, infortuni, follia. Il Sole dona vita, dona calore. Il Sole semina morte, brucia.
Se ciò non vi bastasse, la mira di un fglio del nostro dannato padre è pressocché perfetta, che siano frecce o pugnali, che sia una spada od una pietra, ogni colpo andrà a segno.
In fine, se “fare palline di luce”, vi sembra banale, sappiate che potrei brillare così intensamente da rendervi tutti ciechi.» 
Le sue parole furono taglienti come i coltelli che portava indosso, gli occhi chiari freddi come il ghiaccio. Cicno forse non amava suo padre, ma non tollerava che qualcuno ne deprezzasse i talenti, perché ciò significava deprezzare anche i suoi.
«Ora, se non vi spiace, sarò lieto di continuare questa gara con voi, ma se al contrario, preferirete rimaner qui a discutere, io vi porgerei i miei saluti e proseguirei per la mia strada.»
Per un attimo vi fu silenzio fra tutti loro ed il primo che si ritrovò ad annuire, guardandosi attorno in cerca di altre anime, di altri ritardatari come loro, fu Úranus.
«Ha ragione, siamo sempre di meno in queste lande.»
Nathan imprecò. «Ci siamo fatti distrarre dall’arrivo del deficiente e del bel faccino, qui.»
«Ohi! Io non ho fatto nulla! Sono tre volte che provo a chiedervi cose e voi ve ne sbattete chiacchierando d’altro!» si difese subito Cade alzando le mani in segno d’innocenza.
«Quindi, Cicno verrò con noi?» domandò più timidamente Jonas.
Malgrado l’espressione distaccata di poco prima, il figlio di Apollo si costrinse a sorridere al ragazzino. «Come ho detto, se avrete piacere ad avermi con voi, sarò lieto di intraprendere questa gara al vostro fianco, ma non posso permettermi di perder altro tempo.»
«Ci sta dicendo che siamo una massa di deficienti che si ferma a discutere di nulla piuttosto che impegnarsi per tornare in vita. In modo gentile, ma questa è la sostanza.» disse Lea, poi sorrise. «Mi piaci.»
«Ne sono lieto, sorella.»
«Chiamami Lea! E anche gli altri, chiamali per nome. Tranne il soldatino, lui chiamalo così.»
«Ma che cazzo! »
«Cade ti ha detto quali sono i nostri accordi?» continuò Eliza affiancandosi loro ed indicandogli con un gesto della mano la direzione in cui dovevano andare.
Si misero in cammino.
«Sì, è stato molto esaustivo.» si ritrovò ad ammettere l’altro.
«Puoi dirlo che non si è stato un attimo zitto che ti ha fatto venire il mal di testa e una voglia incredibile di spaccargliela, la testa. Non necessariamente in questo ordine.» aggiunse per buona misura Jane. Dopodiché, come se nulla fosse, gli chiese fissandolo con quegli occhi sgranati e segnati di nero. «Come ci sei finito all’inferno?»
Cicno alzò un sopracciglio. «Sono morto.» disse retorico.
Jane fece una smorfia alzando gli occhi al cielo. «Giusto, ai tuoi tempi c’era solo l’inferno per i morti, niente purgatorio e paradiso. Come ci sei finito nei Campi di Pena.» tornò alla carica imperterrita.
Úranus storse il naso, la ragazza aveva questo morboso interesse per come la gente fosse morta, quasi godesse nel sapere i tormenti attraverso cui gli altri erano passati per giungere dov’erano, quasi come se ne fosse attratta, come se non ne potesse far a meno. Come un ubriaco che non riesce ad allontanarsi dalla botte, come uno di quei cacciatori che assumevano infusi e involti di erbe e radici in grado di tenerli svegli per giorni e giorni, sulle tracce della loro preda.
Il dannato però, non parve turbato come lo era stato lui e chiese ulteriori delucidazioni.
«Come è soggiunta la morte per me, o in base a cosa i Giudici Infernali hanno emanato la loro sentenza?»
Jane parve quasi pensarci. Si strinse nelle spalle. «La prima.»
«Mi sono suicidato.» disse con semplicità.
Gli altri lo guardarono scioccati, qualcuno già contrariato, qualcuno pallido e tremante al sol nominare un atto così immondo come quello di privarsi della propria stessa vita.
«E perché?» continuò Jane senza il minimo pudore.
E senza altrettante remore Cicno continuò a rispondere. «Avevo perso tutto. L’amore strappatomi dalla superbia di un nuovo dio, la famiglia strappatami dal mio stesso padre. Quando non si ha più nessuno al mondo tutto ciò che si vuole è vendetta e fine. Io ho ottenuto in un qualche modo entrambe, ma solo una mi ha appagato veramente.»
A quello Jane non poté far altro che annuire lentamente, guardando improvvisamente con occhi nuovi il semidio. Forse, tra tutti i suoi compagni, lui era l’unico che potesse in un qualche modo capirla, l’unico a cui il suo stesso genitore divino aveva tolto qualcosa invece che darglielo. L’unico che fino ad ora aveva sentito parlare di vendetta e non di redenzione.
Ghignò. «Lea ha ragione, piaci anche a me.»


Cade si ritrovò improvvisamente a perdere il sorriso.
«Allora siamo fottuti.»
 
 
 







 
*
“None”: modo romanesco per esprimere dissenso molto sentito. Di solito usato quando si è esasperati da qualcosa. Vuol dire “no” ovviamente.

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Capitolo 15
*** Eye- parte prima ***









Capitolo XV- Eye- parte prima.
 

La stanza era grande e lunga, il soffitto alto e decorato.
Era una ricorrenza particolare, una cena importante, persone altolocate, ai vertici dei loro ambienti, sedevano impettiti e rigidi come fusti sulle sedie dalle spalliere lucide e lavorate.
I vestiti delle dame colorati dai toni tenui, i completi degli uomini scuri e stirati alla perfezione, la linea dei pantaloni marcata, l’orlo della gamba che si alzava di quei pochi e necessari centimetri scoprendo la calza scura.
C’era un tintinnio di piatti gentile, brusio basso di convenevoli condivisi mormorando tra un boccone e l’altro, dopo aver gentilmente tamponato le labbra.
Le tende ricamate erano tirate in modo da permettere la vista della città di notte, dei tetti bassi della zona popolare, di quelli più alti alti e solenni dell’alta società, dei palazzi del governo.
Lo sfarzo così elegante, così severo, così come doveva essere.
Il grande lampadario di cristallo gettava riflessi ed ombre sulla tavolata.
Era strano come pensiero, strana come immagine: la luce si rifletteva sui cristalli ma questi, messi gli uni davanti agli altri, sostenuti dai bracci flessuosi e resistenti, formavano ombre quasi luminescenti.
Avrebbe voluto alzare la testa e fissare la fonte di quello spettacolo suggestivo. Alzare il capo e godere degli affreschi del soffitto. Voltarsi ed osservare le piccole luci delle case che circondavano il maniero.
Ma non poteva. Non poteva muoversi, non sarebbe stato a modo, non sarebbe stato come doveva essere.
Dentro quella sala enorme, tra quello sfarzo austero, a quel tavolo pieno di ogni ben di Dio, circondato dal meglio che la sua nazione poteva offrire, alto nella sua torre d’avorio, con quel caldo soffocante, i discorsi mormorati come preghiere, i pensieri legati come carcerati, non poteva far nulla se non cercare d’esiste nel modo più giusto possibile.
Non poteva andare alla finestra ed osservare il mondo “libero” che piano si assopiva col procedere della notte. Non avrebbe visto nulla comunque, lo sapeva, nulla di interessante se non le bandiere rosse come il sangue, il cerchio bianco cangiante come la purezza che tutti decantavano e ricercavano, la svastica nera come le giube dei soldati, come l’oblio, come la morte.
Solo il lampadario di cristallo donava un po’ di luce. Fallace, irrealistica, che generava riflessi ed ombre.
Ma come può un cristallo avere lati oscuri?
Come poteva qualcosa di così bello ed etereo essere simbolo di una società così corrotta?
Sul suo piatto di porcellana un fascio bianco sembrava sfidare il candore dello smalto tirato a lucido.
Essere circondato da tanta luce non l’avrebbe salvato dal buio che s’annidava in ogni dove.
Ed il cuore di quel buio sedeva proprio al capo di quella stessa tavolata.
 
 
Quel ricordo scivolò subdolo nella sua mente senza alcun motivo. O forse un motivo c’era ed era più che evidente.
La luce crepuscolare dell’Ade si rifletteva su tutti quei frammenti di sfere, su tutti quei piccoli e minuscoli pulviscoli brillanti, come avevano fatto le lampade sui cristalli del lampadario nella sala ricevimento di suo nonno.
Jonas fissò intensamente l’erba nera, ornata di brillantini come il raso dei vestiti da sera delle giovani donne più ricche di Berlino, come andava di moda nei lontani ma per lui vicinissimi anni ’30.
L’unica cosa che luccicava più delle Praterie era la veste candida di Cicno, la sua pelle pulita ma non priva di cicatrici. Forse gli altri non l’avevano notato, forse vedendolo così lindo e ben vestito non si erano soffermati sui dettagli, ma Jonas l’aveva visto, Jonas ricordava le condizioni pietose in cui versava il corpo del giovane greco, ne ricordava ogni ferita, ogni livido, ogni contusione, ogni abuso violento e crudele che le guardie dei Campi di Pena gli avevano inflitto in tutti quei secoli di tortura.
Si era domandato, dopo le parole di Nathan nell’Area Cani, se l’aspetto dei suoi ex compagni di tormento fossero le stesse in cui versavano tutti gli oppositori politici ed i ribelli che venivano mandati nei campi di lavoro, se anche lui avrebbe avuto quell’aspetto se fosse rimasto lì, se non avesse cercato la via più semplice per risolvere ogni problema della sua vita.
 
Risolti solo per me, lasciati in eredità a tutti gli altri, a chi è rimasto.
 
Nella sua sfortuna, nella sua condanna, Jonas era stato fortunato, incredibilmente graziato da divinità che conosceva solo grazie all’ora di letteratura latina e di storia. Non era mai stato fustigato o picchiato come molti altri, dalla sua terrazza non si alzavano le stesse grida di dolore che si potevano sentir salire dai piani inferiori. No, erano più lamenti tristi e lugubri, pietosi e lagrimosi. La gente si pentiva, si malediceva, si struggeva in lacrime amare ma non per un dolore fisico, questo no. Non erano stati così cattivi da meritarsi una punizione violenta. Non erano stati altro che vili codardi e come tali non erano neanche degni delle attenzioni degli aguzzini degli inferi.
 
Non si spreca fatica per un codardo, dopotutto, si è già umiliato abbastanza da sé.

Per chi invece si era macchiato di crimini peggiori, oltre la codardia, tanto da meritarsi torture indicibili, non vi era possibilità che i Giudici Infernali avessero concesso loro il lusso della miseria dell’ottava terrazza. Per loro il buio ed altri gradini ad attenderli sino al luogo, alla categoria, che più rispecchiava le loro infamie.
Cicno era stato onesto fin da subito, non aveva nascosto a nessuno il suo essere un dannato, l’aveva specificato quasi e se fosse perché davvero non ne provava vergogna o se l’avesse fatto solo perché c’era lui e poteva smascherarlo in ogni momento, Jonas non lo sapeva.
Di nuovo, no, forse poteva dirlo con certezza: Cicno non si vergognava della sua condanna, non si vergognava di ciò che aveva fatto in vita.
 
Un po’ come Cade. È un beato ma ammette di non aver proprio vissuto la vita più onesta del mondo, ammette senza problemi che se non fosse stato per un suo compagno non sarebbe probabilmente neanche mai entrato nei Campi Elisi.
 
Ma la situazione era diversa: Cade alla fine aveva fatto qualcosa di buono, qualcosa di così buono che gli era valso la grazia e, in ogni caso, dubitava fortemente che sarebbe finito in chissà quale terrazza bassa. Mentre Cicno… lui era tutto un altro mondo.
Non aveva detto loro da dove proveniva, non aveva detto un numero, non aveva detto un misfatto, una colpa, un vizio o un peccato. Aveva detto d’esser un dannato e nulla di più.
Probabilmente questo suo modo d’essere, di presentarsi, era stato in grado di farlo entrare in perfetta armonia con Cade. Quel loro condividere un destino, un passato, di cui andavano quasi fieri o che, comunque, non rinnegavano; l’odio verso il genitore divino che li aveva messi al mondo e poi nulla aveva fatto per loro, per la loro famiglia mortale.

Genitori divini di cui però possiedono grandi poteri e che utilizzano a loro piacimento, a quanto sembra.
 
Jonas non voleva credere che semplicemente il loro legame speciale permettesse all’altro di calmarlo e di comprenderlo al meglio. Poteva accettare la parte della comprensione ma non quella in cui lo portava quasi alla pace dei sensi con due semplici parole e la sua presenza.
Bellissima eh, per carità, ma non credeva possibile tranquillizzare un essere umano – lo era ancora? Poteva ancora definirsi tale? – solo grazie ad un bel faccino e ad una voce dolce.
Un volto più che bello, davvero affascinante, delicato e forte come le statue di marmo. E la voce non era solo dolce, pareva proprio di miele, quella stupida definizione da libro che finalmente, con Cicno, aveva preso contorni reali, suoni udibili. Era davvero il canto ammaliatore di una sirena.
Un sirenetto.
Un tritone.
Dannazione, perché doveva incastrarsi sempre in queste piccolezze?
Rimaneva il fatto che Cade e Cicno condividevano molti punti in comune e Jonas ci scommetteva l’anima, solo quella gli era rimasta alla fine, che questi punti fossero ancor di più, che il tempo passato assieme, le sicure infinite chiacchiere di Cade che portavano tutti allo sfinimento costringendoti a rispondere pur di farlo star zitto per cinque minuti, il fatto che Cicno l’avesse salvato e non abbandonato a sé stesso, all’oblio, dovevano aver creato un legame più forte di quanto non dessero a vedere.
Per lo meno per Cade, per il greco non poteva certo parlare.
 
Non potrei parlare neanche per lui in effetti, non è che lo conosco da una vita.
 
Eppure era così che si sentiva in quel momento, ad analizzare il comportamento dei suoi compagni di viaggio, le motivazioni, le parole, le azioni. Si sentiva così sicuro su ognuno di loro, chi più, chi meno, e assolutamente certo su Cade. Proprio come se l’avesse conosciuto una vita fa, proprio come se non avesse mai abbandonato il suo fianco.
Proprio come un amico.
Con una smorfia pensierosa Jonas riportò tutta la sua attenzione sui frammenti luccicanti delle sfere, che brillavano come i cristalli del lampadario della sala delle grandi occasioni a casa sua, che brillavano come i gradi lucidati sulle spalline delle divise dei militari, come i gioielli delle loro mogli e figlie.
Come i bracciali che ora scintillavano placidi ai polsi fini di Cicno, catturando la luce fantasma che li seguiva come un’ombra.
Il greco stava raccontando agli altri come avesse fatto a trovare Cade, come avesse avuto “il sentore delle malattia” e si fosse scioccamente ritrovato a seguirlo invece di andarsene per la sua strada. Era stato piuttosto onesto, aveva detto chiaramente come trovare l’altro semidio fosse stato un disegno del Fato, qualcosa di superiore a lui.
 
 
«Non vorrei ti offendessi, Cade, ma maledicevo me stesso mentre ti tenevo in grembo, ripetendomi quanto fosse sciocco da parte mia fermarmi a curare un completo sconosciuto invece che proseguire per la mia via.» disse abbozzando un sorriso quasi ironico.
Davanti a lui, che marciava come suo solito tenendo l’ingombrante gonna sollevata, Jane annuì.
«Sciocco a dir poco. Trovi uno sconosciuto, ridotto anche piuttosto male, e ti fermi a salvarlo. Poteva essere un dannato, ma in effetti dubito che sarebbe stato un problema per te, vero?» chiese poi retorica.
Cicno si strinse nelle spalle. «A mia discolpa, posso solo dire che dopo anni passati nelle profondità più recondite della terra, l’odore del cielo è piuttosto invitante e quasi impossibile da rifiutare.»
«Odore del cielo?» domandò Lea guardandolo confusa.
Ma Cicno annuì solo e prima che chiunque provasse a fargli altre domande, continuò il suo racconto.
«Ho atteso al principio che si svegliasse da sé, ma il tempo scorreva ed il sommo Chrono non è mai stato un Dio misericordioso. Così ho dovuto ricorrere a dei canti curativi. Poche strofe e già era desto, una semplice febbre, forse colpa dell’affaticamento che le Praterie provocano alle nostre menti.» specificò a beneficio degli altri, scambiando con la sorellastra un’occhiata d’intesa.
Lea annuì concorde, ma non riusciva a togliersi dalla testa quella frase, quell’ “odore di cielo”. Cielo significava aria, che significava vento, che significava correnti. E se era ovvio che per transizione si arrivava inevitabilmente a Cade, era anche vero che Lea in quel momento continuava a pensare a ciò che era successo nell’Area Cani.
Poteva chiedere a Cicno se ne sapeva qualcosa? Se l’avesse sentita anche lui?
A quel pensiero Lea si ritrovò a cercare la medaglietta di Artemide, quella che lei teneva nella tasca dei suoi pantaloni proprio come Jonas, Úranus, Eliza e Nathan nella loro casacca, Jane al sicuro nel corpetto, Cade probabilmente buttata nella sacca. Dov’era quella di Cicno? Non le sembrava avesse tasche in cui infilarla, così come non la vedeva appesa alla cintola che teneva il gonnellino candido aderente ai fianchi stretti.
Con una punta d’imbarazzo si domandò se non fosse sotto le sue vesti e a quel pensiero si sbrigò a concentrarsi su altro.
Cosa stava pensando prima di quello? Oh, ma certo, ciò che era successo nell’Area Cani! Cicno pareva saper così tanto del mondo divino, ancor più di Nathan ed Úranus, ancora più dei due e di lei messi assieme, forse avrebbe potuto dar loro una spiegazione, però-
Spostò lo sguardo verso destra, cercando quello di Eliza e poi, quando non riuscì ad intercettarlo, impegnata com’era nell’ascoltare come il figlio di Apollo sapesse orientarsi nelle Praterie, quello di Úranus.
Il suo amico dovette sentirsi osservato perché si volse subito verso di lei, lanciandole una muta domanda. Lea mosse il naso come un topolino, indecisa su come chiedere qualcosa senza farsi scoprire e provò a mimare le parole prima di rendersi conto che sì, forse potevano sentire ogni discorso tradotto nella propria lingua natia, forse potevano anche ascoltarlo in greco antico e poi ritrovarselo magicamente convertito in altro, ma le loro labbra, le parole che pronunciavano, continuavano ad essere sempre quelle della lingua che parlavano in vita.
Úranus la guardò confuso, alzando un folto sopracciglio rosso e scuotendo leggermente la testa. Lea allora sospirò scoraggiata e si voltò verso Nathan, sperando almeno di riuscire a far capire qualcosa a lui, anche a gesti.
Il soldato la degnò a mala pena di uno sguardo finché lei non gli rifilò uno schiaffo sulla spalla, guadagnandosi un altro sguardo confuso da Úranus ed un infastidito dal biondo.


«’Cazzo vuoi?» ringhiò Nathan.
Lea alzò gli occhi al cielo, cercando di fargli capire di star zitto e rallentando un poco il passo per lasciare che Cicno ed Eliza si avvicinassero di più a Jane, superandoli.
«Sssssh! Senti, sentite.» bisbigliò facendo cenno anche ad Úranus di avvicinarsi.
«Eh?»
«Stavo pensando-»
«Già cominciamo male.» borbottò Nathan. Lea gli diede un altro schiaffo.
«Stavo pensando! Magari lui sa cos’è successo durante la scorsa prova. Il vento che abbiamo sentito, dico.» spiegò a bassa voce.
Úranus aggrottò le sopracciglia. «Credo che quello fosse merito di Cade.»
«Intendo la strana sensazione, la pressione, quella roba là, prima che Cade facesse ciò che ha fatto.»
«Che per altro non sappiamo ancora cosa sia.» aggiunse il biondo voltando leggermente indietro, dove, come di consueto ormai, Cade e Jonas camminavano parlottando tra di loro. Probabilmente come Cicno stava facendo con Eliza e Jane, anche Cade stava raccontando all’altro cos’era successo mentre erano divisi.
«Lo stronzetto salta così in alto che praticamente vola, usa correnti d’aria per spostarsi o spostare cose, anche indefinite com’è successo alla prova di Artemide. Aggiungici quella cazzata del filo da seguire per ritrovare i suoi oggetti…» elencò Nathan pensieroso.
«Potrebbe essere l’odore?» disse Úranus. «Cicno ha detto d’aver percepito “odore di cielo”, forse così come lui ha trovato Cade in quel modo, Cade stesso potrebbe aver trovato i suoi oggetti seguendone la scia d’odore.»
Aveva senso, era un ragionamento più che sensato.
«Ma se odora di cielo, usa le correnti e praticamente vola… c’è solo una divinità capace di fare tutto ciò, giusto?» domandò Lea titubante.
Úranus scosse il capo. «Almeno due: il Divino Zeus-»
«Cazzo, mi mangio le mani se è così, ma penso sia anche la cosa più probabile.» annuì Nathan.
«E il divino Ermes.»
«Piedi alati, salti della madonna, capacità di trovare le cose seguendo vie che gli altri non vedono.» annuì di nuovo il soldato.
Lea anche si ritrovò ad imitarlo ma poi scosse con veemenza la testa. «Non era però questo quello che volevo dire. Per quanto sia curiosa di sapere di chi è figlio, questi sono affari suoi, se non vuole dircelo non ce lo dirà e nessuno di noi lo obbligherà a farlo.»
«Sembra una frecciata verso di me che ho costretto Golia a dirmi il suo.» notò Nathan guardandola di traverso.
Lea grugnì. «Il mondo non gira intorno a te, specie ora che sei morto.» rispose lapidaria. «Io però volevo sapere cosa ne pensate del chiedere a Cicno se sa qualcosa su fenomeni simili o meno.» disse poi seria, alternando lo sguardo dall’uno all’altro compagno.
Nathan ci pensò con attenzione per alcuni minuti: il giovane era un greco, vissuto nel massimo apice della civiltà greca, della venerazione degli Dei. Doveva conoscerli meglio di tutti loro messi assieme anche perché al tempo era più probabile che qualche dio si manifestasse o manifestasse i suoi poteri in modo palese. Per di più quella strana sensazione sembrava provenire dalle viscere della terra e i Campi di Pena si aprivano in terrazze concentriche che scendevano sempre di più verso il centro del pianeta, verso il Tartaro. Se c’era qualcuno che poteva riconoscere un qualunque fenomeno legato alla discarica del mondo divino, quello era un dannato. Anche se non sapevano a quale terrazza appartenesse Cicno e di conseguenza quanto vicino, o lontano, fosse dal fondo. Di sicuro Jonas non ne sapeva nulla, non aveva mai sentito qualcosa di simile e ciò sembrava abbastanza logico visto che era all’ottava terrazza. Questo gli ricordò che sì, il figlio di Apollo non aveva fatto alcun segreto della sua provenienza, ma malgrado la sua apparente onestà non si era spinto sino a dirgli a che girone apparteneva.
 
Ci ha detto com’è morto, che odiava suo padre, che aveva perso tutto, ma questa non sembra la storia di un dannato, sembra più la storia di uno sfigato. Come può qualcuno che ha sofferto così tanto, essere relegato ai Campi di Pena e neanche alle Praterie degli Asfodeli?
 
La cosa gli puzzava, ma era anche vero che magari pur non vergognandosi del suo destino non gli andava di discutere di cose così personali davanti a gente che non conosceva. E che, in ogni caso, il fatto che fosse un dannato doveva dirlo per forza subito se no l’avrebbe fatto Jonas.
 
Però l’aveva già detto a Cade, prima ancora di sapere che lui conosceva Jonas e che l’avrebbe portato proprio da lui. Credo. Dannato rosso malpelo.
 
Capiva comunque quel minimo di riservatezza che il greco voleva mantenere così come capiva i dubbi di Lea, ma prima che potesse rispondere, che potesse dirle che forse era meglio aspettare, Úranus lo batté sul tempo.
 
«Non credo sia saggio condividere subito tutte le nostre conoscente e le nostre supposizioni. So che è ciò che, in un qualche modo, abbiamo fatto tra di noi sin dall’inizio della nostra collaborazione, ma spero converrete con me che la situazione sia diversa, in questo caso.» disse con la sua voce bassa e profonda.
Nathan annuì e così fece Lea che, persasi per un momento ad ascoltare il parlottare dei compagni dietro di lei, sospirò quasi sollevata nel sapersi tutti d’accordo su qualcosa. Loro tre per lo meno, ma era convinta che anche Eliza e Jane avrebbero acconsentito.
«Mi è simpatico, per quel poco che abbiamo visto e sentito da lui. Poteva lasciare Cade al suo destino e invece l’ha aiutato, ammettendo però subito che non l’ha fatto solo per bontà di cuore quanto più per curiosità, quindi mi pare tutto sommato abbastanza onesto.»
«Diretto.» la corresse Nathan a denti stretti, «La principessina qui è un tipetto diretto, non te le manda a dire, te lo sputa in faccia quello che pensa e non si fa troppi problemi se non a dirtelo in modo educato. Non è onestà ma solo schiettezza. Credo che ora come ora sia la sua dote migliore.»
«Attenderei comunque di conoscerlo meglio prima di rivelare tutti i nostri dubbi, timori e scoperte. Se siete d’accordo.» continuò Úranus.
I due biondi assentirono. «Possiamo provare a chiedergli qualcosa di più.» disse Nathan deciso, come se stesse preparando un piano d’attacco.
«Oh, per quello, credo ci stia già pensando Cade.» mormorò piano Lea voltandosi per spiare gli ultimi due della fila da sopra la sua spalla.
 

 
*
 


«A cosa pensi passerotto?»
La voce di Cade era bassa, casuale nella sua gentilezza.
Jonas voltò di poco il capo abbozzando un sorriso, gli era mancato aver a fianco qualcuno che facesse conversazione casuale con lui in quel modo. Ciò che non gli era mancato erano i soprannomi stupidi.
«La smetti di chiamarmi così? È imbarazzante, dannazione.» replicò arricciando il naso in una smorfia quasi schifata e del tutto costruita.
Cade gli sorrise di rimando e si strinse nelle spalle. «Perché dovrei? Tu ti imbarazzi ed è divertente. Metti il muso per finta ed è divertente. Fai facce buffe e questo sì che è davvero divertente. E poi se ti stuzzico abbastanza dici le parolacce come i mocciosi di borgata e mamma Elza ti sgrida.» concluse ammiccando.
Jonas sbuffò. «Posso dirle anche senza che mi fai arrabbiare, “le parolacce da moccioso di borgata”» replicò facendogli il verso.
«Oh, ma come! Un passerotto altolocato come te che dice queste cose? No, no, no, uccellino, ma che mi combini? Poi la tata ci rimane male e anche il precettore.»
«Smettila di prendermi per il culo, non ho mai avuto un precettore. Ho sedici anni. Beh, oddio, ne avevo sedici.» mormorò pensieroso abbassando il capo. Un’idea lo colpì come uno schiaffo in pieno volto, qualcosa su cui aveva riflettuto spesso negli anni passati ma che poi, con la gara e tutto il resto, gli era passato di mente.
Una smorfia davvero schifata gli tirò il volto mentre, girandosi lentamente verso Cade, realizzava a voce alta. «Cazzo…rimarrò per sempre bloccato nella pubertà!» esclamò con teatrale orrore.
Cade, da parte sua, sghignazzò divertito, cercando di non attirare troppo l’attenzione degli altri. «Questo vuol dire problemi mattutini ricorrenti per tutto il resto della tua esistenza, fratellino.»
Jonas finse un verso disgustato, cercando di nascondere il vago rossore che già sentiva colorargli le guance, pentendosi immediatamente della sua battuta.
Si schiarì la voce e accennò con il capo alle anime davanti a loro, nel tentativo disperato, ma non troppo palese – sperava – di distogliere l’attenzione dall’argomento.
«Cicno sta raccontando a tutti com’è andata, gli lasci tutta la scena?» provò.
Cade si strinse nelle spalle. «Non che stia dicendo nulla di sbagliato, alla fine è esattamente quello che è successo.»
«Ti ha salvato per pura curiosità? Davvero?» insinuò in modo giocoso il ragazzino, ma quella frase portò un velo di serietà sulla loro conversazione.
L’irlandese fissò lo sguardo sulla schiena dritta dell’oggetto della discussione. «Non posso dirlo con certezza. So solo che stavo vagando per le Praterie quando ho sentito il rumore de-» si bloccò, pensandoci su per un poco, poi si volse verso Jonas abbozzando un sorriso sghembo dei suoi, «non prendermi per pazzo, ma ho sentito il rumore del silenzio. E quando è diventato troppo forte, quando ho sentito di star per impazzire, sono svenuto, credo. Mi sanguinavano le orecchi, ci crederesti? Guarda?» e così dicendo si sporse verso l’altro tirandosi leggermente il lobo.
Jonas si ritrovò ad osservare con curiosità ed apprensione i residui rossastri e le piccole croste marroni rimaste attaccate alla conchiglia dell’orecchio e nel canale del timpano, tirando indietro il capo quasi potesse sentire lui stesso la sensazione del sangue rappreso nel suo di orecchio.
«Il rumore era insopportabile e poi ho sognato. Era il ricordo di Úranus, non c’era dubbio, l’ho capito al volo. Subito dopo c’era questa voce angelica che cantava piano, era così rilassante che sembrava quasi una ninna nanna per bambini. Ho aperto gli occhi e mi sono ritrovato a dormire sulle gambe dell’angioletto. Mi ha rimesso in piedi, mi ha dato sacca e sfera, che ha detto di aver trovato vicino a me, e- beh, che potevo fare? Quello mi aveva appena salvato la vita, mica potevo lasciarlo lì da solo.» concluse stringendosi nelle spalle.
Jonas annuì. «Ti ha detto subito che era un dannato?» domandò a bassa voce.
Cade ammiccò con le sopracciglia, «Ci crederesti se ti dicessi che ne sembra quasi orgoglioso? Lo capisco, sotto un certo punto di vista. Insomma, non conosco tutta la sua storia, quindi non posso esserne sicuro, ma, per come ne parla lui… sì, ha fatto delle cose non proprio carine in vita, lo ammette senza rimpianti o rimorsi, è incazzato nero con il padre e se anche il mio mi avesse fatto quello che ha fatto a lui il suo… lo capisco, ecco. E non farti abbindolare dal suo bel faccino, ha un bel caratterino.»
«L’ho notato, per un attimo ho temuto che Nathan gli volesse staccare la testa…» rispose l’altro ironico.
«Oh, ma ci sarebbe dovuto arrivare, per staccargliela.» commentò serio Cade. «Non sto dicendo che Nathan non sia più forte di lui, sto dicendo che ne ho visti di ragazzetti che sembrano delicati, gentili ed innocenti, ma che in realtà sono capacissimi tanto di sputare veleno quanto di ucciderti nel sonno.»
«Su questo non faccio fatica a crederti. Quando ci siamo incontrati, io e Cicno, eravamo insieme ad un gruppo di altri dannati e a capo della “spedizione”, se possiamo chiamare così una marmaglia di criminali di ogni genere-»
«C’eri anche tu tra quella marmaglia però, come ti ha convinto ad andare con loro? È stato Cicno, no?»
Jonas fece una smorfia, cercando il modo migliore per spiegare qualcosa che neanche lui aveva ancora ben capito.
La verità è che, una volta incontrati Cade e gli altri, non aveva più avuto né modo né occasione né necessità di riflettere sulla faccenda.
Si strinse nelle spalle e affondò le mani nelle tasche dei pantaloni. Se sua madre l’avesse visto gli avrebbe rifilato un’occhiata delle sue ricordandogli come non fosse un garzone che non sapeva dove tener le mani e che infilarle così a forza nelle tasche non era minimamente elegante e rovinava la forma del pantalone. Non che il suo ne avesse più una precisa, era persino tutto rovinato sull’orlo.
«Sinceramente? Non mi è stato chiesto. Stavo aspettando che il grosso della folla uscisse dai Cancelli Neri, quando ho- avvertito, una strana sensazione. Brezza di mare, una pressione incredibile addosso, e poi sono svenuto. Quando ho riaperto gli occhi era sulla spalla di un gigante nero che mi stava trasportando fin al punto di partenza perché questo era il volere degli Dei.»
«Davvero?»
Jonas annuì. «Io… non so se te ne ho mai parlato.» iniziò vago, «Ma, ecco, non ero proprio certo di volermi iscrivere alla gara, di voler partecipare.»
Cade lo guardò con un’espressione abbastanza neutra, come se stesse cercando di non mostrare nessun sentimento che potesse infastidirlo o ricordargli qualcosa di brutto, come se non volesse farsi vedere lui stesso infastidito da quella sua confessione. Non disse nulla e lo lasciò proseguire.
«Poi, ad un certo punto, è apparso un uomo con una lunga cappa scura ed un cappello a falde larghe quasi ridicolo. Aveva questa piuma nera lunga, che sembrava così soffice ed era a piedi nudi e- e non toccava terra. Era un Dio, ovviamente.» espirò una risata tremula e deglutì. «Ipno, sai chi è?»
Cade annuì. «Dio del sonno, giusto? Ti ha convinto lui? Di persona dico?»
Jonas fece un mezzo sorriso, come se anche lui stentasse ancora a crederci. «Venne a “portarmi il mio biglietto”. Disse che forse non erano il Dio misericordioso dei cristiani, ma anche loro sentivano tutto. La sfida sarebbe stata più interessante se avessimo partecipato tutti. Mi diede il biglietto, mi diede un papavero e trasformò il gioco che portavo al collo nel monile che vedi ora.» spiegò toccando il filo spinato lucente che riposava sulle clavicole. «Credo che il tipo me lo abbia mandato Ipno, sai? Per aiutarmi.»
Ma Cade già non lo stava più ascoltando, la sua attenzione tutta canalizzata su di un unico dettaglio.
 
Il collare.
I bracciali di Cicno che brillavano.

 
«Anche Cicno.» mormorò appena accennando con il mento al collare.
Jonas lo guardò annuendo grave, la consapevolezza ben chiara sul suo volto.
«Prima che arrivaste, la mia collana stava brillando. Credevo sarebbe esplosa facendomi saltare la testa.» ammise con leggero imbarazzo, che cosa stupida che gli sembrava ora.
Cade però non la trovò minimamente sciocca come possibilità e annuì più volte, lo sguardo perso lontano, verso pensieri e ragionamenti intricati che andavano accavallandosi gli uni sugli altri.
«Ne sai qualcosa? Su quei gioielli, dico. Cicno sicuramente sì, mi ha detto che mi avrebbe spiegato tutto quando saremmo stati insieme, così non si sarebbe dovuto ripetere.»
A quelle parole Jonas sgranò gli occhi. Cicno sapeva? Non gli aveva mai detto nulla, non aveva mai neanche accennato al fatto che sapesse qualcosa sulla sua collana. Ma forse sapeva solo dei suoi bracciali, non di tutti gioielli esistenti, fatti dagli Dei… che anche i suoi fossero stati fatti da Ipno?
«Possiamo chiederglielo ora?» domandò Jonas riportando lo sguardo sul greco.
Cade ghignò in modo quasi sinistro, ma Jonas non poteva sapere che quello sguardo, quell’espressione, era ciò che si dipingeva sul volto del suo amico ogni volte che aveva organizzato un piano, ogni volta che aveva raccolto informazioni, ogni volta che era arrivato un po’ più vicino al suo obiettivo.
Cade non era stupido, non lo era mai stato. Non era neanche intelligente, come molte persone amavano definire quelle capacità mentali logiche, nozionistiche. No, Cade era furbo, nel senso più triviale del termine, e non gli c’era voluto molto per capire che due dannati, che si erano già incontrati, divisisi per poi rincontrarsi ancora, che erano legati da degli oggetti così simili, così palesemente di stampo divino, dovessero aver l’attenzione di qualche Dio.
C’era qualcuno che voleva che quei due si incontrassero, che fossero vicini, che combattessero assieme fino alla fine forse e se si erano dati tanta pena per riunirli una seconda volta, Cade se ne sarebbe data altrettanta per capire come questo potesse giocare a loro favore.
Quella era probabilmente la loro prima mano fortunata, una bella coppia che aspettava solo il momento opportuno per esser calata sul banco.
Lo sguardo di Cade si fece più affilato ed attento, i bracciali di Cicno brillavano fiocamente di riflesso alla luce soffusa che seguiva ogni anima. Doveva avere per forza un significato e lui l’avrebbe scoperto.
 
Grazie, fortuna irlandese.
 

 
*
 


La sua stanza era sempre stata estremamente accogliente.
Grande ariosa, candida. Le pareti bianche e gli specchi la facevano sembrare ancora più spaziosa, e lì dove non vi erano specchi, dove non vi erano i pannelli chiari, di legno levigato, affreschi di paesaggi campestri vivevano e respiravano come fossero veri. I fiori dipinti con maestria ondeggiavano piano al vento illustrato in fini e quasi invisibili fili biancastri, le acque cristalline dei laghetti, delle sorgenti, si increspavano placide, gli zampilli si infrangevano sulla superficie in piccole scintille. Gli insetti frinivano, le foglie frusciavano, l’affresco viveva, sì, viveva, non c’era altro modo per dirlo.
Su ogni superficie erano presenti vasi stracolmi di fiori recisi e altri di terra nera come l’Ade e fiori luminescenti come anime. Era l’incontro tra la natura di sopra e quella di sotto. Era l’unione del mondo dei vivi e dei morti. Era l’immagine perfetta di sua figlia.
Demetra sapeva che la stanza era stata decorata da Persefone, ma sapeva anche, per quanto le piacesse far finta di no, per quanto provasse piacere quasi nell’ignorare la cosa o negarla, che gli affreschi erano stati voluti da suo fratello, dipinti dalle mani magistrali di anime di grandi artisti.
La Dea si guardò attorno come faceva sempre, esaminando ogni fiore e ogni pianta, le superfici pulite ma non lucide del mobilio, le coperte di cotone e non di brillante seta. Ogni cosa era confortevole, era casa. Era il modo di sua figlia di dirle che l’amava, di farle sapere quali fossero i sentimenti che la madre le ispirava.  Persino le tende pesanti ma chiare, di tessuto grezzo, che nascondevano alte finestre in stile rinascimentale, erano state scelte in modo da impedirle la vista del luogo che tanto odiava ed illuderla che dietro di esse potessero esserci i suoi amati campi.
Ma questo Demetra lo sapeva, così come sapeva che da lì a poco non sarebbe più stata sola in quella stanza che ormai le era così famigliare.
La Dea si sedette comodamente sulla grande poltrona di vimini posta davanti al tavolo fatto di corteccia e muschio verde e fresco. Si sistemò qualche cuscino dietro la schiena ed intrecciò le mani in grembo. Attese.
 
«Sembra tu stia pensando a qualcosa di importante.»

La voce di Ade sembrò perdersi nell’ambiente come se fossero davvero in all’aperto. Demetra non si preoccupò neanche di alzare lo sguardo sul fratello, rimanendo ad osservare con attenzione il muschio che, in modo impercettibile, si espandeva con lentezza su tutta la corteccia, rigonfiandosi come una spugna su cui veniva versata acqua.
Aspettò che il Dio si sedesse sul divano vicino a lei, spostando la lunga veste nera per non averla tutta ammucchiata dietro la schiena. Quando fu soddisfatto, sospirò e si lasciò cadere di peso contro lo schienale imbottito.

«Che vuoi questa volta?» domandò senza giri di parole, perdendo anche quell’aura di distaccata educazione che manteneva sempre quando era in presenza di Persefone e sua sorella, quella con cui aveva litigato come un moccioso per anni per cose stupide, prima, e per sua figlia, poi, diventava sua suocera, la madre di sua moglie. Era un po’ complesso, ma quando le vite degli Dei era state semplici?
«Ho parlato con Atena. Quella ragazzina rompe le palle come il padre.» rispose lei senza vergogna.
Ade grugnì. «So che questa storia non le piace. Artemide ha parlato con lei e poi è venuta a parlare con me. Prima danno il loro benestare per fare qualcosa e una volta che è tutto in moto, una volta che siamo già nel bel mezzo dei giochi, si fanno venire le crisi esistenziali che non hanno mai avuto, i dubbi su giustizia e legalità di ogni cosa. Se ad Atena non piaceva la proposta di Gio avrebbe dovuto combattere più strenuamente all’inizio e non- come dire…»
«Rompere le palle come fa suo padre?» domandò ironica Demetra, sprofondando sulla poltrona come il fratello. «È il più piccolo e rompe il cazzo come faceva papà
Il Dio ghignò, la pelle pallida si tese su un reticolo di venere vagamente dorate. «Oh, deve davvero averti infastidita molto se sei così scurrile.»
«Vuoi dirmi che ho torto?» chiese lei alzando un sopracciglio, sfidandolo a replicare.
Ade si strinse nelle spalle. «Ho cercato di deporlo da quel suo dannato trono dorato a ventenni alterni da quando ci si è messo su.» disse come se quella fosse la risposta a tutte le sue insinuazioni, ed in fatti lo era.
Demetra fece una smorfia terribilmente simile a quella del fratello, se non fosse stata per la palese differenza delle loro pelli, dei loro tratti, della loro conformazione fisica, sarebbero potuti esser tranquillamente spacciati per gemelli. Ma così come i loro nonni erano diversi come il giorno e la notte, così lo erano Ade e Demetra, molto più di quanto non lo fossero con i loro altri fratellini.
La Dea non era poi così diversa da Poseidone, la cui pelle era cotta dal sole come quella di tutti i popoli che vivevano sulle rive del mare. Le sue forme abbondanti non erano troppe diverse da quelle giunoniche di Era, fertile pur nella sua forzata sterilità. Non erano così diversi dai suoi gli occhi luminosi di Estia, che racchiudevano in sé la vita. Non era così diversa l’aura di potere che condivideva con Zeus. Ma Ade… malgrado fossero i figli maggiori nulla li accomunava, nessuna forma fisica, nessun colore, nessun profilo. Nulla, se non il freddo cinismo, l’impietosità con cui vedevano il mondo e la rabbia, il rancore, il disprezzo che erano in grado di covare in seno per secoli, prima d’esplodere nella più terribile delle vendette.
La morte e la vita, dopotutto, non erano altro che due facce della stessa medaglia e Ade e Demetra lo sapevano fin troppo bene.

«Cosa ti ha detto Atena?» chiese con disinteresse l’uomo.
«Quello che ti avrà detto Artemide ma con più supponenza, presumo. »
«Gio.» rispose allora lui.
Demetra annuì. «Gio.»
«Atena lo odia.»
«Ha fatto molto peggio per molto meno.» gli ricordò la sorella ed Ade ghignò, ancora neanche troppo segretamente divertito e compiaciuto al ricordo di ciò che successe. L’altra alzò gli occhi al cielo. «Non ridere sotto i baffi, me la ricordo la tua faccia impanicata quando sbatté Atena dall’altra parte della Sala del Trono.»
Ade si strinse nelle spalle. «Se lo meritava, direi. Tu come avresti reagito?»
«Se una perfetta sconosciuta che mi ha trattato con accondiscendenza, superiorità e pietà fin dal primo incontro mi spiegasse con quella sua fastidiosa vocetta da somma detentrice del sapere supremo che la mia vita, purtroppo, è un calcolo mal riuscito, un errore di percorso e che la scelta migliore, più semplice e più facile per loro sia quella di uccidermi e prevenire ogni possibile fastidio futuro?» elencò a memoria, ricordando perfettamente la scena citata.
Il fratello annuì e lei alzò le spalle, come se la risposta fosse ovvia. «L’avrei schiantata giù dall’Olimpo.»
«Giordano non sapeva farlo, al tempo.»
«No, era solo un moccioso che aveva da poco scoperto a quale assurdo mondo appartenesse.»
«Lo sapeva già… sapeva già quale stirpe maledetta gli diede i natali.» mormorò piano Ade, concentrando anche lui la sua attenzione sul muschio.
Nessuno dei due aveva osato guardare l’altro in faccia, nessuno dei due ne aveva davvero avuto il bisogno.
Ma non erano lì per rivangare il passato, non erano lì per ricordare una delle innumerevoli macchie nere della loro storia: ora dovevano discutere il presente ed il futuro più probabile e più prossimo.
«Atena è convinta che rivoglia i suoi nipoti.»
Lo disse d’improvviso, secca, senza la minima inflessione, senza la minima emozione. Era solo un puro e semplice dato di fatto, un’indicazione senza alcun sentimento, senza alcun valore. Ma Demetra lo sapeva, sapeva perfettamente che reazione avrebbe provocato nel fratello e non si sbagliava affatto.
Se fosse stato possibile, se per loro fosse stato un problema, Demetra si sarebbe quasi preoccupata del pallore giallognolo che prese il volto di Ade, del modo in cui il respiro gli si bloccò in gola, come strinse le mani secche ed ossute alla sua veste, come i tendini schizzarono alti contro la pelle tesa dei polsi. Il Dio dei morti sembrava ad un passo dall’entrare a far parte delle sue stesse schiere e Demetra ebbe quasi pietà di lui.
Se solo tutto questo non avesse risvegliato in lei ricordi ancora non troppo sopiti.
Per quanto Demetra amasse sua sorella Era non aveva mai compreso l’importanza del legame matrimoniale così come lo concepiva l’altra. Allo stesso modo non era mai riuscita a concepire il legame amoroso, sentimentale, come lo poteva concepire Afrodite. Per Demetra l’amore non era eterno, non era unico ed irripetibile, se non quello che si provava nei confronti dei propri figli, dei propri semi. La Natura funzionava così: per giorni, per mesi, per anni, dedicava tutta sé stessa al concepimento, alla crescita, allo sviluppo e alla maturazione dei propri semi, che diventavano piante, si riempivano di foglie, fiorivano in fiori colorati e maturavano in frutti di ogni genere. Era tutto lì, era tutta la loro esistenza. E più il frutto rimaneva legato all’albero, più questo gli dava nutrimenti, più questo lo rendeva grande e forte, succoso, tenendolo tra le proprie braccia anche quando il frutto iniziava a perire e marcire. Se non era pronto per lasciare il suo ramo l’albero l’avrebbe cullato dalla sua nascita fino alla sua morte.
Non era importante chi l’avesse aiutato a far sì che il fiore divenisse frutto, non era importante quanto lontano il frutto cadesse dall’albero: era il frutto l’essenziale per il proseguo della specie, era il frutto il culmine di tutte le fatiche dell’albero.
Ed era per questo che Demetra capiva, capiva profondamente e più di molti altri la paura di Ade ma al contempo la disprezzava e ne ricavava solo rabbia e rancore.
Perché per colpa dei frutti di Ade era stato il suo a rimanere sfregiato.
Il Dio dei morti rimase immobile, pietrificato nella sua paura.
 
«Non- non può volere i suoi nipoti. Lui no-»
Si bloccò, serrando le palpebre ed espirando pesantemente dal naso.
«Non può volere i suoi nipoti.» ripeté. «Non sono qui, nessuno dei due è qui.»
Demetra annuì. «Lo so. Io lo so, Persefone lo sa, forse Zeus e Poseidone, se gliene può interessare qualcosa. Thanatos? Sicuramente, quindi, forse, anche Ipno. Ma gli altri no. Nessuno sa che i suoi nipoti non sono qui nelle tue terre.»
«Non lo sapevano prima, ma ora lo sanno per forza.» le ricordò a denti stretti.
Demetra si strinse nelle spalle come se la cosa non la toccasse. «E pensi seriamente che qualcuno di loro se lo ricordi? Che a qualcuno di loro interessi così tanto da tenerlo a mente? Ricordano a mala pena quali dei loro figli ancora camminano tra i vivi e quali sono parte del tuo esercito da decenni.» rispose con ovvietà.
Ade deglutì. «Giordano deve saperlo. Non è possibile che lui non sappia dove siano i suoi nipoti, dove sia sua sorella. Giordano sa che sono rinate. Glielo dissi io stesso.»
«Oh, sì, ma credo tu glielo avessi detto già una volta, no? Magari questa volta non ti ha creduto.» insinuò senza però alcuna malizia.
Il fratello scosse il capo con decisione. «No. Giordano si fida di me, crede sempre in quello che gli dico anche- anche se ho tradito la sua fiducia innumerevoli volte. Dice che lo sa, che sa che prima o poi mentirò di nuovo perché è nella natura umana.» mormorò in fine.
Demetra fece un verso di scherno. «Ma noi non siamo umani.»
«Per lui incarniamo tutto ciò che c’è di buono e di cattivo negli uomini. Prova a fargli cambiare idea, se ti va.» replicò piccato.
Alla donna però non interessava minimamente e ciò trasparve perfettamente dalla sua espressione per nulla impressionata. «Come ho già detto a mia figlia, Giordano non ha avuto, non ha e non avrà mai bisogno del nostro consenso o dei nostri consigli. Abbiamo perso l’occasione di fargli da mentore quasi ottant’anni fa.» borbottò guardando di sbieco l’altro. Si fece seria. «Tu sai come rintracciare un’anima dopo che è rinata?»
La domanda restò sospesa nel silenzio.
Demetra non era troppo certa della risposta, non sapeva se suo fratello potesse identificare l’anima rinata con precisione o se magari potesse soltanto individuare la zona generale in cui si trovava, se aveva un qualche potere decisionale su dove farla rinascere. Era successo ovviamente, era successo che un’anima particolarmente meritevole era stata fatta rinascere in un preciso contesto, che fosse per ciò che aveva fatto o per la promessa di un dio, ma questo non significava che Ade potesse scegliere sempre dove mandare un’anima a rinascere e forse, in quel caso specifico, aveva impiegato più impegno del solito per disinteressarsene completamente.
Ade spostò lo sguardo dal muschio per fissarlo sul tavolo, le labbra fini e pallide strette come se fossero incollate l’una all’altra, come se non volesse parlare.
Ci si passò lentamente sopra la lingua, per umettarle un poco, per prendere coraggio forse e spiegare al meglio ciò che per lui era scontato ma per sua sorella no. Quanto della vita e degli incarichi della propria famiglia ognuno di loro ignorava? Erano passati secoli ed erano ancora null’altro che sconosciuti gli uni per gli altri.
«Sai che si può rindirizzare un’anima.» iniziò piano. «Ma sono casi particolari, grazie o giuramenti da rispettare, maledizioni anche. Di solito sono le Moire a scegliere come filare la nuova vita e a quale filo intrecciarla. Ogni filo è come una corda a più capi, le Moire ne prendono due, da due individui diversi, e poi prendono l’anima del filo della vecchia vita pronta a rinascere. A quel punto vi avvolgono attorno gli altri due capi e generano un nuovo essere. L’anima del filo è sempre la stessa, la sua veste è nuova e copre tutto ciò che c’è di passato. Funziona così.»
Demetra si voltò finalmente a guardarlo per bene, studiandone il volto cinereo e l’espressione cupa.
«Ma l’anima è la stessa hai detto, quindi può essere rintracciata.» insistette lei. «Vorrà forse questo? Ritrovare l’anima delle sue donne per poterle proteggere come non è riuscito a fare, per poter garantire loro la vita felice e priva di rischi che non hanno mai avuto?»
Ma Ade scosse ancora il capo. «No, non è così semplice. Stiamo entrando nel terreno delle Moire, del Fato, a meno che io non sia presente quando la vita viene rifilata non posso sapere che aspetto avrà la nuova anima.»
«Non puoi ritrovarle? Davvero?»
«No.» disse secco, facendo dardeggiare lo sguardo nero in quello verde dell’altra. «Non capisci? È una forma di protezione per le anime, è una forma di protezione per la vita. Se tutti noi Dei degli Inferi fossimo in grado di ritrovare le anime passate e rinate, se anche solo io fossi in grado di farlo, cosa ci impedirebbe di far rinascere ancora e ancora le anime dei nostri fedeli, dei nostri figli? Per quanto una nuova vita sia “nuova” mantiene sempre in sé un traccia del suo passato. Possono essere abitudini, sogni ricorrenti, conoscenze randomiche, capacità apparentemente innate. Ognuno dei tuoi figli, di coloro che hanno scelto la rinascita, hanno una qualche affinità con le piante, con i fiori, con la natura. Il famoso “pollice verde”, hai presente? È una dote innata che non sanno spiegarsi, qualcosa in cui sono sempre stati bravi. Così come i rinati figli di Apollo avranno affinità con le arti e la musica, quelli di Poseidone saranno dei nuotatori provetti anche se non avranno mai nulla a che fare con il mare se non qualche vacanza estiva se il loro schifoso lavoro sottopagato glielo permetterà!
Rimane una traccia della vecchia vita ma tutto il resto viene cancellato. È una rinascita. Ripartono da zero e per farlo devono essere bianchi ed immacolati, non deve esserci possibile rintracciarli. Saremo solo capaci di fare disastri, come con ogni cosa che ci capita tra le mani.»
Lo disse con rabbia ed amarezza, strinse di nuovo i pungi e si conficcò le unghie nei palmi secchi. Ade odiava già abbastanza il suo lavoro, odiava essere il Dio dei Morti, delle schiere più tristi e pietose dell’intera storia, doversi ritrovare anche a spiegare ai suoi fratelli cosa del genere, a spiegare i potenziali danni, come se si dovesse difendere, giustificare dal non sfruttare una possibilità così ghiotta, così irresistibile.
Era esattamente così che si sentiva e lo sguardo fermo e vuoto di Demetra non aiutava. Alle volte guardarla negli occhi era come guardare nelle profondità di un canyon, ti tornava indietro solo il silenzio e l’eco delle tue urla.
«Giordano lo sa?»
La voce della dea suonò incredibilmente più gentile del suo sguardo ed Ade ne fu più sollevato di quanto non avrebbe voluto ammettere: non avrebbe sopportato una discussione su quale perdita fosse non poter continuare a decidere della vita dei mortali anche dopo la loro rinascita.
Il dio sospirò. «Sono sicuro di sì.»
Demetra annuì. «Non hai assistito quando hanno rifilato le loro vite?»
«No.» disse orripilato. «L’Olimpo me ne scampi, no. Non ho voluto assistere anche se mi è stato proposto. Non ero neanche nelle mie terre in quel momento ero- ero ad occuparmi d’altro, prima dei bambini e poi-»
«Poi di tutto il caos che si stava scatenando su.» concluse per lui, riportando lo sguardo sul muschio.
Ade si sistemò meglio sulla sua seduta, allungando il collo verso lo schienale, perdendosi a fissare uno dei murales che lui stesso aveva fatto dipingere, da Berini probabilmente.
La dea pareva persa di nuovo nei suoi pensieri, profondi ed imprevedibili come la natura, come il dominio su cui aveva preso il controllo quando la sua antenata si era assopita nelle profondità della terra.
D’improvviso però aggrottò le sopracciglia e Ade non ebbe bisogno di guardarla per percepire il cambio d’atmosfera.
«Cosa?» domandò quindi stanco.
«Tu non puoi individuarle, ma le Moire sì…» lasciò la frase in sospeso, volgendosi per l’ennesima volta, ma con esasperante lentezza, verso il fratello.
Ade la fissò dall’altro, le pupille nere inghiottite dall’iride dilatata mentre giungeva con facilità alla stessa conclusione della sorella, vagliava la stessa identica ipotesi.
«Le Moire sanno tutto, passato, presente e futuro. Filano la vita nuova e rifilano quella vecchia, tagliano e annodano come il Fato suggerisce loro, intrecciato destini e lo fanno con ogni altra entità di questo mondo.» disse con lentezza Demetra e più parlava più tutto sembrava giungere a chiarezza, prendere significato. «Tu non puoi dirgli nulla, non puoi dargli nulla, ma loro sì. »
«Cloto ha sempre avuto un debole per Giordano…» mormorò lui. «Perché è stata lei a filare il suo filo, è stata lei a prende i capi dai fili dei suoi genitori e a passarli a Lachesi, affinché ne decidesse la sorte e la lunghezza.»
«E cosa credeva? Che prendendo altri capi la sua vita non sarebbe stata quella che è?» sbuffò lei sarcastica.
Ade però scosse il capo. «Furono interrotte, ricordi?»
Demetra allora strinse le labbra in una linea dura. «Quelle altre tre, sì, ricordo più che bene. Il giorno in cui si sono ritrovate tutte nello stesso luogo il mondo ha tremato fin nelle sue fondamenta, ha trattenuto il respiro finché le ancelle del Fato e quelle del Destino non si sono divise.»
Era una memoria lontana eppure incredibilmente vicina. Non erano passati che novant’anni da allora eppure Demetra ricordava ancora la stasi che aveva permeato ogni cosa, ogni essere, ogni dove. Ricordava l’oro dell’Olimpo scurirsi nella sua lucentezza, le musiche fermarsi, i fuochi spegnersi, i venti e le correnti cessare. Persino le stelle sembrarono perder luminosità, affievolendosi lentamente.
L’intero universo era rimasto in attesa che due fra le più potenti forze, due facce di una stessa medaglia, due gemelli identici e diversi al contempo, decidessero le nuove regole del gioco, si mettessero d’accordo per far scendere in campo una nuova pedina. Quello era stato il momento in cui tutti loro si erano resi conto che non sono non erano riusciti a fermare una partita troppo pericolosa, ma avevano fallito anche nell’arginarne i danni. Ora la nuova pedina non poteva più essere scelta per schierarla dalla parte di una squadra o dell’altra.
Avevano perso in partenza e non potevano far nulla per impedire l’inizio di un nuovo giro.
 
«Sta cercando loro.»
 
La voce di Ade fu poco più di un sussurro e Demetra si domandò se avesse davvero parlato o se quello che aveva udito non fosse solo l’eco lontano dei pensieri del dio.
«Sta cercando la casa delle Moire, la bottega del Fato, dove le tessitrici filano la vita, dove i fili predestinati si intrecciato ad altri in un arazzo più grande di quello che potremmo mai immaginare.»
Gli occhi scuri del Dio dei Morti brillarono cupamente, l’iride si allargò come un’ombra che lentamente inghiotte ogni superfice, rendendo la sclera nera come la notte. Lievi venature dorate si allargarono sulle palpebre fini e pallide, sulle occhiaie livide e la fronte distesa.
Demetra osservò in religioso silenzio suo fratello maggiore immergersi nel flusso del destino, nel futuro come forse mai l’aveva visto fare.
Quando chiuse gli occhi, una coperta stropicciata e quasi trasparente su due globi neri che inghiottivano ogni colore, gli Inferi tremarono e con loro tutta la terra.
Ade dischiude lentamente le palpebre, lo sguardo vacuo puntato di nuovo sul muschio che cresceva in modo impercettibile.
 
«Non vuole i suoi nipoti, non vuole sua sorella.»
Si voltò verso Demetra.

«Giordano Delle Vie vuole il Telaio e tutte le sue tessitrici.»
 

*
 
 


La terra aveva tremato violentemente, con una scossa lunga ed intensa.
Nathan aveva chiuso gli occhi e, per la prima volta in quella gara, aveva pregato invece che imprecato.
Gli Inferi avevano tremato come la terra mortale scossa dai bombardamenti aerei e lui non voleva proprio ripensare ad una cosa del genere, non in quel momento, aveva ben altro da fare.
Si voltò veloce verso i suoi compagni, cercando i loro volti spaventati, confusi, preoccupati. Eliza lo guardò dritto negli occhi, la stessa consapevolezza nello sguardo e Nathan seppe subito che anche lei aveva sentito il campo di battaglia scosso dalle bombe, magari dai colpi di cannone.

«Che diavolo era?» domandò Lea con voce acuta, un ginocchio poggiato a terra e le mani immerse nell’erba, come se cercasse appiglio, qualcosa che la tenesse ferma.
Di fianco a lei Jane si era accucciata per poi finire seduta all’estinguersi della scossa.
«Era un dannato terremoto? Perché ci sono i dannati terremoti all’Inferno? Non ne ho mai sentito uno!» gracchiò spaventata.
«Non può essere una coincidenza.» borbottò a denti stretti Nathan allungando una mano verso Lea per aiutarla a rialzarsi.
La figlia di Apollo l’accettò senza pensarci due volte, spolverandosi i pantaloni e guardando Úranus aiutare anche Jane a ritirarsi su.
Vicino a loro, tra Jane ed Eliza, Cicno sembrava il meno toccato da quello strano fenomeno: teneva gli occhi azzurri fissi davanti a sé, cercando di spingere lo sguardo più in là possibile. Quello non era un fenomeno naturale, non per come lo intendevano i mortali. Era un fenomeno naturale creato da un Dio.
 
E l’unico che può fare una cosa del genere negli Inferi è Ade.
 
Si domandò se il suo Signore potesse sapere cos’era successo, se in qualche modo si sarebbe messo in contatto con lui e con tutti i suoi servitori per poterli informare dei piani del divino Ade, sempre che ne sapesse qualcosa.
 
Ma è saggio e potente, deve per forza aver un’idea di cosa abbia spinto Ade a far tremare le sue terre fin nelle viscere.
 
«Dite che potrebbe essere qualcosa per la prossima prova?» domandò Cade con voce attutita.
A quel suono storsero tutti il naso cercando il compagno alle loro spalle. Dove non era. E non c’era neanche Jonas.
 
«Cristo santissimo! Pensi di potermi mettere giù ora?»

I due se ne stavano sospesi a mezz’aria, quasi tre metri sopra di loro, e Cade teneva fermamente il più piccolo stretto a sé, un braccio dietro la schiena e l’altro dietro le gambe, come una principessa delle fiabe.
Jonas sentì le guance andargli a fuoco quando Nathan lo fissò scettico alzando un sopracciglio, ma mantenne comunque la presa senza cercare di scostarsi dal compagno: non gli andava di farsi un volo di tre metri verso un suolo pieno di potenziali vetri, che fossero innocui o meno. Ma soprattutto non gli andava di farsi il volo, ecco, con la fortuna che aveva si sarebbe ritrovato sicuramente con la faccia spiaccicata tra il terriccio e l’erba nera, se non con qualche osso rotto. Avevano anche le ossa oltre al sangue?
Jane li fissò scuotendo il capo. «Ma certo, c’è un possibile pericolo mortale e tu te ne voli via con il ragazzino.» frecciò quasi risentita.
«Oh, andiamo! Io di braccia ne ho solo due e anche se lui è piccolino e magrolino-»
«Ehi!»
«Questo non vuol dire che sia più facile da manovrare! È un gattino furastico, si ribella.» concluse mettendo teatralmente il muso.
Jonas lo guardò quasi peggio di quanto non stesse facendo Jane, poi districò un braccio e gli diede un pugno in pieno petto.
«AHIO!» strepitò il rosso, preso di sorpresa.
«Il prossimo te lo do sul naso se mi chiami ancora così. » lo minacciò con quello che sperava essere uno sguardo serio ed intimidatorio.
Per tutta risposta Cade tolse il braccio da sotto le sue gambe, facendolo urlare poco virilmente per l’improvvisa mancanza di sostegno, e si portò la mano alla fronte.
«Ah! Quale colpo al cuore! Il mio binneas mi minaccia e mi maltratta! Ah! Non c’è proprio più rispetto per gli anziani!»
Jonas ristrinse subito le braccia alle spalle del compagno e se stava per replicare con un’altra mezza minaccia su come fosse meglio per lui smettere d’essere così teatrale, quell’ultimo commento gli gelò il sangue nelle vene.
Giusto, Cade era più grande di lui, lo era d’età e anche d’epoca e lui lo trattava come se fosse un suo compagno di scuola, come non avrebbe trattato neanche un suo compagno di scuola. L’aveva anche picchiato!
Scosse la testa con veemenza: dannazione, stava facendo passi indietro invece di farne altri avanti, non doveva lasciarsi toccare da queste cose.
I due rimisero lentamente piede a terra e Nathan grugnì infastidito. «Cerca di non salvare una persona sola, la prossima volta.»
«O di salvarne una utile, tipo il greco. Se è vero che può curare ogni malanno…» precisò Jane.
Cicno sospirò. «Posso farlo, ma credo sia naturale che Cade abbia afferrato Jonas e nessuno di voi altri, erano dietro di noi dopotutto.» sorrise cordiale e tranquillo.
Il peggio era passato, non credeva ci sarebbe stata un’altra scossa ma ora doveva anche preoccuparsi di metter pace tra quegli stolti. Doveva entrare meglio nell’ottica del gruppo, capire cosa fosse mero scherzo e cosa invece fosse da prender con serietà. Bastava un gesto istintivo come afferrare il proprio compagno più vicino, nonché il più giovane, quindi per associazione il più bisognoso di protezione, per poter minare quella scusa di equilibrio che regnava tra i sette?
Maledizione, sarebbe stato un lavoro più duro del previsto
«Credo sia stata opera del sommo Ade. Forse questo terremoto è servito per la prossima prova o forse qualcuno ha solo provocato la sua ira.» disse veloce, cercando di portare il discorso lontano da ciò che sembrava l’inizio del prossimo, inutile battibecco infantile e sterile.
Úranus annuì cupo. «Nessun altro potrebbe fare ciò nelle terre degli Inferi, neanche gli altri Dei. Non hanno una tale influenza sui domini dei fratelli.»
«Neanche Zeus potrebbe fare una cosa del genere?» chiese curiosa Lea.
Fu Nathan però a farsi scappare un verso di scherno. «Soprattutto lui! L’ultima volta che ha lanciato un fulmine negli Inferi ha ammazzato i bastardi di Ade e papino si è arrabbiato abbastanza da pompare a bestia i nazisti.»
«Zeus ha ucciso i figli di Ade?» Eliza guardò il compagno sconvolta, senza capire come un’azione del genere fosse stata reputata saggia ed intelligente. A meno che… «Erano a capo di quelle persone? Come le hai chiamate?»
«Nazisti.» mormorò Jonas abbassando lo sguardo. Una mano gli si posò rassicurante sulla spalla ed il ragazzino abbozzò un sorriso al compagno.
Nathan scosse il capo. «No, non erano nazisti. O magari lo erano anche ma non di quelli che combattevano. Se non sbagli erano mocciosi, forse arrivavano a dieci anni?» provò scettico. «La verità è che non se ne parla molto, alla gente non piace ricordare che il loro “padre degli Dei” ha ucciso a colpi di fulmine due bambini la cui unica colpa è stata quella di nascere dal capriccio di un Dio.»
«Voglio ben credere, non so se seguirei un comandante che mi ordina di uccidere bambini innocenti.» ammise Eliza con serietà.
«Purtroppo non è una nuova usanza.» disse Cicno sorridendo ai suoi nuovi compagni e facendo cenno loro di rimettersi in marcia. «Per gli Dei è pratica comune eliminare fin dalla più tenera età, se non dalla nascita o addirittura dal concepimento, i figli bastardi dei propri fratelli, dei propri coniugi. Era cercò di impedire la nascita dei gemelli del Sole e della Luna bandendo la loro madre da ogni terra ancorata a questo mondo, non tollerando l’ennesimo tradimento del consorte. Questo è solo uno dei tanti esempi di crudeltà divina verso gli infanti.»
«Lo trovo disumano.» mormorò Lea muovendo qualche passo instabile verso la direzione indicata dal fratellastro.
«Invero, loro sono Dei.» le rispose accennando un debole sorriso.
Si era già stancato di tutto quel sorridere, di tutti quei modi gentili, delicati, quasi servizievoli.
Cosa ne sapevano quei poveri sciocchi? Cosa ne sapevano loro della crudeltà degli Dei, quando questi ancora regnavano sovrani su ogni dove? Prima che i mortali li dimenticassero per divinità più caritatevoli.
Non sapevano com’era vivere in tempu in cui ogni evento era scandito dal capriccio di un Dio e non sarebbe certo stato lui a spiegargli come il mondo era vissuto secoli orsono.
Si schiarì la voce. «In ogni caso, qualunque cosa sia, non credo dovremmo preoccuparcene nell’immediato.»
«E se fosse parte della prova?» sfidò Jane assottigliando lo sguardo.
Cicno si costrinse all’ennesimo sorriso di miele. Gli stava venendo quasi il voltastomaco.
«In tal caso ce ne occuperemo non appena saremo giunti nei pressi delle bianche mura.»
 
Eliza rizzò le orecchi a quella parola.
Bianche mura.
Era così che molti beati chiamavano i Campi Elisi e a giudicare dallo sguardo di Lea e dalla mezza imprecazione di Nathan, dovevano aver pensato tutti la stessa cosa.
«Bianche mura, eh? Quindi ci stiamo avvicinando ai cari, vecchi Campi Elisi! Diamine, mi sembra una vita fa… e sono morto io!»
Cade scoppiò a ridere alla sua stessa battuta, rifilando una poderosa pacca dietro alla schiena a Jonas che, del tutto scioccato nel sentir ritirare in ballo quel nome, quella teoria che avevano già ipotizzato, inciampò sui suoi stessi passi, ripreso al volo da Úranus che, neanche fosse un moccioso delle scuole primarie, lo trascinò verso l’alto continuando a camminare, per poi ripoggiarlo lentamente a terra.
Che cazzo avevano tutti adesso? Volevano trattarlo come una persona adulta o preferivano continuare a muoverlo come una dannata bambola di pezza?
Il suo sguardò dovette incupirsi parecchio perché il gigante rosso ritrasse la mani di scatto, borbottando scuse incomprensibili sotto la barba folta.
Jonas sospirò innervosito: non poteva trattare male la gente che lo aiutava solo perché lo trattavano da bambino, o si sarebbe dimostrato il moccioso che cercava così disperatamente di non essere.
«Grazie.» masticò a mezza bocca. Poi si volse verso Cicno. «E io e te come c’entriamo nei Campi Elisi?» domandò con una nota fin troppo evidente di sarcasmo nel tono acuto.
«E io come diavolo c’entro nei Campi Elisi?» gli fece eco Jane.
«E come cazzo fai a sapere che stiamo andando proprio ai Campi Elisi?»
«Come fai a dire che dovremmo entrarci, nei-»
«Va bene! Va bene! Abbiamo capito! CAMPI ELISI. Vogliamo dirlo tutti insieme un’altra volta, così ci togliamo lo sfizio o va bene anche così?» sbottò Lea interrompendo Eliza prima che ripetesse ancora quel nome.
Cicno non sembrò minimamente colpito da quello stupido siparietto. Malgrado dentro di sé si stesse strappando i capelli dal nervoso.
Prese un respiro profondo ma non si sforzò di sorridere questa volta.
«Esattamente come siamo giunti fino a voi, verso la direzione giusta.» rispose solo con un cenno del capo verso Cade.
Il rosso si espresse in una faccetta comprensiva. «Rivedi le pallette di luce?»
«Quelle di Lea?» domandò Úranus curioso.
Cicno si morse la lingua.
 
Non alzare gli occhi al cielo. Non alzare gli occhi al cielo. Sii superiore, è il tuo compito.
 
«No, figlio di Fobetone, sto parlando dei Fuochi Fatui. Tracciano un percorso invisibile verso la prossima meta. Sono loro che tengono tutte le anime in fila, direzionandole verso il giusto luogo.»
«Ma- se sono invisibili…» Jonas lasciò la frase in sospeso, improvvisamente confuso più che nauseato dalla prospettiva di dover entrare in un luogo a lui, per antonomasia, proibito.
«I figli degli Dei della Luce sanno riconoscerli e vederli anche quando questi non vogliono farsi vedere.» ripeté per la seconda volta, meccanicamente. «Ma come vi ho già detto non tutti i semidei ereditano lo stesso tipo di poteri. Presumo che mia sorella non sia in grado di individuarli malgrado siano in molti attorno a noi.»
Lea scosse il capo debolmente, facendo saettare lo sguardo per ogni dove alla ricerca di qualche segno di fuochi volanti. Non riusciva a vedere assolutamente nulla.
«E per il fatto che stiamo andando nei Campi Elisi? Quello come lo sai?» chiese Eliza, molto più curiosa rispetto alla sicurezza del nuovo compagno che alla divisione dei poteri divini casuali nei semidei.
Cicno si strinse nelle spalle. «Temo sia sempre un retaggio del mio dannato padre. Lui è un Dio legato alla luce, ciò implica che io, come suo discendente, ne percepisco le fonti e ne inseguo il calore. Voi beati, cosa ricordate di più delle lande benedette dagli Dei?» domandò retorico.
Retorico perché ovviamente, la prima cosa che venne in mente a tutti e cinque furono le mura alte e candide, i viali mattonati chiari, i fiori dai colori brillanti, i riflessi di una stella inesistente sui laghetti e nei fiumiciattoli. Nei Campi Elisi era sempre primavera, era sempre giorno, splendeva sempre il sole.
Il figlio di Apollo fece loro un cenno della testa, come a voler sottolineare l’esattezza delle sue insinuazioni.
Eliza però tornò presoto a fissarlo sospettosa. «Come fai a sapere tutte queste cose?»
«Della religione che vigeva nei tuoi anni di vita, ti sono mai stati tramandati racconti sul luogo di eterno riposo delle anime? A me furono raccontate le meraviglie dei Campi Elisi, la desolante solitudine delle Praterie degli Asfodeli e le torture ed i dolori dei Campi di Pena.» le sorrise. «In più alla gente piace chiacchierare.» concluse facendole l’occhiolino.
Ade benedetto, erano almeno due secoli che non faceva l’occhiolino a qualcuno.
«Sembra logico per me.» annuì Cade battendo poi forte le mani. «Ora che siamo arrivati ad un punto fermo, direi che possiamo passare alle domande importanti!»
«Tipo come diamine faremo ad entrare nei Campi Elisi?» domandò Jane.
Cade la guardò malissimo, il naso arricciato e le sopraccigli crucciate.
«Senti un po’, ragazza delle Praterie. Sarà almeno un’ora che cerco di farmi spiegare una dannatissima cosa, che mi era stata promessa per altro. Non la cosa. La spiegazione alla cosa. Mi hanno promesso una spiegazione logica e sensata della cosa-»
«Non ho mai detto che sarebbe stata logica e sensata. È opera degli Dei, non è quasi mai “logica e sensata”.» precisò Cicno per buona misura.
Cade fece un gesto con la mano e si sporse in avanti per afferrare il polso di Cicno.
«Non importa ora! Ci preoccuperemo dell’invasione della Russia quando saremo lì e avremo le nostre belle nuove regolucce, perché diciamocelo, magari ora ci facciamo le pippe mentali e poi non dobbiamo neanche entrare davvero.»
«Cade! Modera il tuo linguaggio!»
«Perché tu puoi dire cose volgari e io non posso usare termini anatomici?»
«Non sai cos’è una puttana e vuoi farmi credere che sai cos’è una pippa?» chiese Nathan genuinamente curioso.
«Potete evitare di usare linguaggi scurrili davanti alle ragazze e a Jonas?» riprovò Eliza esasperata.
«Perché “le ragazze e Jonas”? Sono un maschio anche io! Le so queste cose!» protestò con veemenza il ragazzino spingendosi in avanti, tra i suoi compagni.
«Sei ancora molto giovane, non devi imparare queste parole.»
«Non sei sua madre, cazzo, dagli tregua.»
«E tu non sei suo padre, quindi non dirmi come devo comportarmi.»
«Cade, potresti lasciarmi il polso, gentilmente?»
«Perché ci finiamo sempre i mezzo anche noi in queste cose?»
«Perché credono che io non abbia mai visto un uomo nudo in vita mia e che tu sia una puritana.»
«Non ho mai visto un uomo nudo, ma non vedo come questo possa essermi utile ora.»
«Cade, il polso.»
«Siamo quelli con più sale in testa qui, quindi direi che in un qualche modo, essendo il più grande, posso fargli da figura di riferimento.»
«Non sei il più grande, Úranus e Cade sono più grandi di te.»
«Hai la mia stessa età, biondino.»
«Sta zitta tu, pazza sclerata!»
«Veramente il più grande è Cicno.»
«Sono comunque morto e nato prima di te, smettetela di parlare di me come se non fossi qui! Non ho bisogno di nessuna figura di riferimento io!»

«Volete stare zitti!?»
 
Una forte folata di vento esplose in mezzo a sette, facendoli barcollare ed indietreggiare dalle loro posizioni come aveva fatto poco prima il terremoto divino.
Cade strinse ancor di più la presa sul polso di Cicno, le ossa sembravano quasi scrocchiare come un lastra di ghiaccio, coperta dalla più sottile e delicata patina di condensa.
L’irlandese guardò i suoi compagni con sguardo cupo ed occhi sbiaditi, schiariti dal vento esattamente com’era successo qualche giorno prima nell’Area Cani.
Non potevano andare avanti così per tutta la gara, a bisticciare e cambiare parte per ogni stupida diatriba, per ogni parola detta in modo non proprio corretto. In quei momenti, Cade avvertiva tutto il divario epocale che li divideva, tutti i luoghi comuni, le credenze popolari, i progressi filosofici e industriali. Lo vedeva nel rispetto e nel modo di parlare di Úranus, nelle paure e i preconcetti di Jane, del senso dell’onore e del dovere di Eliza così simile eppure abissalmente diverso da quello di Nathan, dalla saccenza del biondo contro le conoscenze randomiche e superficiali e quelle precise ed approfondite che Lea sfoggiava a momenti alterni. Nel suo modo di concepire lo spazio e il contatto umano e quello di rinnegarlo ed evitarlo di Jonas. Nella compostezza regale ed eterea di Cicno, nella sua fede cieca in un Olimpo di cui propriamente odiava anche le fondamenta, così feroce eppure così ovvia, così scontata.
Forse erano migliorati un po’, ma di certo non erano ancora un vero gruppo, uno in grado di ascoltarsi e supportarsi a vicenda a primo colpo, un ingranaggio allineato ma non ancora oliato a dovere. Avevano solo preso più confidenza per trattarsi male.
Sarebbe servito loro un capo, qualcuno che potesse dire basta e mettere un freno a tutti quanti, ma non era possibile, non nella loro situazione.
Dovevano imparare a non parlarsi gli uni sugli altri, a formulare piani, redigere scalette.
Perso a guardar male i suoi compagni, che a poco a poco si riprendevano da quell’improvvisa corrente fredda, perso nei suoi ragionamenti febbrili, nella realizzazione che no, non erano ancora una squadra e forse lui, portando Cicno tra di loro, aveva solo peggiorato la situazione, aggiungendo un altro cavallo a tirare la carrozza, non si rese conto di aver ancora la mano stretta attorno al polso del greco. Non si rese conto di aver tirato troppo la briglia di un cavallo selvaggio, il cui unico padrone l’aveva lasciato libero di correre come avrebbe più preferito.
Non poté dire che fosse da molto che non provava una sensazione del genere, la sfida con i Mastini Infernali era finita da poco, o forse da anni, e Cade ancora ricordava bene il calore sprigionato dalle fiamme del loro corpo. Quello che lo colpì, tuttavia, fu un tipo di calore completamente diverso dalle fiamme vive, da quelle terribili lingue di fuoco. Era molto, molto più simile alla sensazione che si provava a metter la mano sulla stufa di ghisa bollente. Come rimanere per ore sotto il sole cocente e poi premere senza pietà sulla pelle ustionata.
Cade saltò indietro lasciando immediatamente la presa al polso di Cicno, portandosi la mano lesa al petto e guardando il compagno con stupore, gli occhi tornati del solito verde spendente.
Il figlio di Apollo, da parte sua, lo fissava con espressione immobile, ferma come quella di una statua. Il suo polso illuminato a giorno, come una lampada cinese, come se la luce venisse direttamente dalle sue ossa e s’irradiasse per tutto l’arto.
Ma non furono fibre di carta quelle che apparvero contro luce sul braccio dell’altro, quanto segni di corda, di manette di ferro, segni d’artiglio e di mani che avevano stretto sino a lasciare il loro segno. La luce interna di Cicno, quella che avrebbe potuto renderli tutti ciechi, mostrava ciò che la luce crepuscolare dell’Ade nascondeva loro: tutte le cicatrici che quel corpo apparentemente perfetto nascondeva.
Il bagliore si affievolì lentamente, riflettendosi in quello che era stato il vero interesse di Cade per tutto quel tempo: il bracciale d’argento.
 
Cicno lo guardò dritto negli occhi, inespressivo.
«Ti sarei veramente grato se non provassi mai più a costringermi.»
Lo scandì lentamente, con voce chiara ma bassa, quasi un rombo lontano, così dissimile alla voce di miele che avevano sentito fino ad ora.
Cade annuì, improvvisamente conscio di cosa potessero significare quei segni, di quante volte li aveva visti sui suoi compagni, sulle sue compagne. Deglutì e pregò di aver torto, ma non osò dire nulla a riguardo.
«Ti chiedo scusa.» sussurrò invece, la mano ancora stretta al petto. Non aveva il coraggio di controllare se fosse ferita o meno.
Vide il greco prendere un respiro tremolante, forse ancora troppo scosso da un gesto che aveva risvegliato in lui ricordi terribili e passati. Chiuse per un istante gli occhi, nulla più di un secondo e quando li riaprì si costrinse a rilassarsi, a rilassare il volto in una piega più morbida, più amichevole.
Protese il braccio verso Cade e, gentile, gli chiese di mostrarglielo, di lasciargli controllare di non avergli fatto del male.
Cade allungò la mano come avrebbe fatto per toccare un cane randagio, piano, accorto, girando il palmo verso l’altro per dimostrare quanto inoffensivo fosse.
Era arrossato, molto arrossato e dalla leggera contrazione del labbro dell’altro capì che forse il danno era ancora peggiore di quanto non sembrasse, ma poi Cicno prese la mano tra le sue e se la portò alle labbra, mormorando parole sconosciute ad un soffio dal palmo bruciato.
Un’altra folata di vento si insinuò tra gli otto semidei, ma questa volta profumava di erbe medicinali, boschi montuosi e umidi.
Cade rabbrividì quando la brezza sfiorò la pelle dolorante e sgranò gli occhi quando questa, come per magia, tornò ad essere piatta, liscia, rosea e fresca, forse solo leggermente bagnata.
Cicno alzò il capo e si costrinse ad un sorriso di circostanza.
«Questa è una delle capacità di un figlio della mia discendenza.» gli spiegò gentile.
«Siete potenti forti.» rispose lui piano, sorridendo in modo più ampio ma ugualmente incerto. Ora che aveva visto quei segni non sapeva più come rapportarsi all’angioletto e le facce serie, spaventate, allertate dei suoi compagni, non aiutavano.
Che solo lui avesse vito le sue cicatrici?
 
«Beh, a quanto pare, la storia dei poteri di tuo padre è vera.» disse secca Jane, lo sguardo puntato sul bracciale luccicante.
Non le erano sfuggiti quei segni, visti in controluce come gli aloni lasciati da un panno bagnato sul vetro di una finestra mal pulita. Cicno era un dannato però, proveniente da una terrazza sicuramente molto più bassa di quella di Jonas – un codardo contro chi? Quel è il tuo crimine? – non era quindi difficile immaginare che per torturarli e fargli scontare la loro colpa li legassero. Jane aveva visto segni simili sulle donne accusate e condannate per stregoneria, le catene non avrebbero mai perso il loro fascino, ne era più che sicura.
«Ovviamente.» rispose Lea tentennante, «Io non sarei mai capace di fare una cosa simile.»
Cicno si strinse nelle spalle. «Sono certo tu sia in grado di fare altre cose che a me sono precluse.»


Nathan si ritrovò per l’ennesima volta, da quando il caso li aveva uniti, a cercare lo sguardo di Eliza per aver conferma dei suoi dubbi, delle sue ipotesi.
Il discobolo greco lì aveva appena tostato la mano del roscio malpelo solo perché quello non lo mollava. E va bene, forse Nathan avrebbe risposto allo stesso modo se fosse stato in grado di far diventare parti random del suo corpo piastre da fastfood, ma questo non era importante. La cosa importante era che la luce, oltre a confermare un paio di poteri millantati dall’altro, aveva anche acceso un importante punto di discussione: se fossero stati in pericolo, se si fossero trovati in un combattimento, in una situazione simile in cui qualcuno avrebbe afferrato e costretto il greco, questo sarebbe stato in grado di regolare il suo potere per distruggere solo l’avversario, o avrebbe bruciato anche loro, preso dal panico? Era così scontato che quel semplice gesto doveva avergli riportato alla mente brutti ricordi e Nathan sapeva cosa poteva succedere se ci si faceva prendere dai sentimenti.
 
Succede che rischi la vita, la tua o quella degli altri.

Eliza, che gli si era avvicinata con lentezza e cautela, gli diede un colpetto alla mano.
«Poi gli chiederemo cos’altro lo ferisce, hai visto il suo braccio?» domandò in un soffio.
Nathan annuì, aveva visto qualcosa ma lo scatto di Cade aveva attirato tutta la sua attenzione.
«Segni di tortura?» mormorò piano.
Anche la mora fece un cenno affermativo con il capo. «Ha un potere molto potente ma pare che usarlo metta in mostra ogni sua cicatrice, ogni suo punto debole.»
«Non sempre una cicatrice è un punto debole, alle volte la pelle più spessa è la più difficile da rompere.» sibilò bassa Jane. «Ha dei bracciali.» continuò occhieggiando i suoi compagni e poi di nuovo il greco. «Hai dei bracciali. È una cosa di voi dannati o solo un vezzo per pochi?» domandò a voce alta, attirando l’attenzione degli altri.
Cicno stirò le labbra in un sorriso di circostanza ed inclinò il capo verso Cade, che saltò quasi sul posto assieme a Jonas, improvvisamente rapito da un nuovo pensiero.
«Era questo quello che doveva spiegarmi.» disse facendo scattare lo sguardo dal greco al tedesco. «Doveva spiegarmi perché avete entrambi dei gioielli, perché brillano anche.»
Jonas guardò l’altro dannato come se si aspettasse che confermasse i suoi dubbi, dopotutto gli serviva solo una parola e nulla di più, già sapeva che era stato un dio a dargli quei bracciali, così com’era stato un dio a dargli la collana.
«Ipno?» domandò in un sussurro quasi avesse paura.
Paura di cosa poi?
Ma Cicno scosse il capo. «No, mio giovane compagno, non è stato il Dio del Sonno a donarmi questi bracciali, così come non posso dire che mi siano stati donati. Posso presuppore sia lo stesso per te?»
Jonas annuì.
«Che vuol dire “non vi sono stati donati”?» domandò Lea crucciata.
Il ragazzino sospirò. «Quando mi hanno mandato nella mia terrazza, all’entrata dei Cancelli Neri mi misero un collare, piatto e lucido. Mi dissero che sarebbe stata la mia condanna e al tempo stesso la condanna dei miei compagni di crimine. Il potere di mio padre si sarebbe riflesso in quel collare e gli altri dannati avrebbero visto tutto ciò che amavano e che, per colpa della loro codardia, avevano perduto.» si strinse nelle spalle, come se non fosse un gran ché, come se essere per decenni il colpevole del dolore di altre persone, di altri sconosciuti, non lo logorasse dall’interno facendolo pensare incessantemente al dolore che aveva provocato alle persone a lui care che aveva abbandonato perché era un vile codardo che aveva deciso di scappare a tutto e tutti pur di non affrontare le conseguenze delle sue scelte, del suo essere, della sua vita.
Deglutì e spostò lo sguardo in quello freddo del figlio di Apollo. «Anche i tuoi bracciali avevano lo stesso scopo?» chiese ingenuamente.
Cicno però gli sorrise con quella che poteva essere solo indulgenza, un qualcosa che irritava e innervosiva sempre Jonas, che lo faceva sentire ancora più piccolo, ancora meno considerato, ma che in quel momento lo fece solo sentire uno stupido, un ingenuo.
«No, mio giovane mezzosangue, i miei monili non erano altro che le manette con cui solevano legarmi per impedirmi di fuggire alle loro torture. Erano mere costrizioni e la volontà del dio che me li ha “donati”, di mutare i simboli della mia prigione in lucidi gioielli l’ho trovata di pessimo gusto, crudele per il dio in questione.»
«Ipno non è cattivo. È un po’ un cretino, certo, con la testa tra le nuvole, non gli si può affidare nulla, ma non è proprio un sadico.» disse Nathan accigliato.
Úranus lo guardò con disapprovazione, «Il divino Ipno non è un “cretino”. È un dio molto potente, è custode di una magia immensa, il viandante dei sogni e della Dimensione Onirica. Chi ti ha detto tali infamie sul suo conto?» domandò quasi scandalizzato dalle parole di Nathan, come se non lo avesse mai sentito imprecare gli Dei e l’Olimpo nei modi più pesanti.
Il soldato scosse il capo con fare annoiato. «Al Campo, li conosciamo gli Dei che danno solo rogna e quelli che invece aiutano. Ipno non sa neanche dove ha i piedi, figurarsi se può fare qualcosa di così complicato e cattivo come trasformare catene in gioielli.»
«Mi duole informarti, figlio di Ares, che il divino Ipno è invece un essere furbo che si nasconde sotto un manto scuro di segreti e misteri. Non so chi sia a raccontare a voi nuovi semidei queste storie irrispettose sugli Dei, ma sono errate e vi mettono solo in pericolo. Gli Dei non amano essere insultati, specie per nessun motivo.»
«Conosci un certo Chirone? È lui che ci insegna tutto.» rispose piccato il biondo.
Cicno fece una smorfia poco convinta. «Se ti riferisci allo stesso Chirone di cui ho sentito parlare io, temo che debba essergli successo qualcosa per far sì che scadesse in queste ridicole affermazioni.»
Jane alzò gli occhi al cielo esasperata, palesemente innervosita anche da quell’inciso assolutamente inutile. «Sì, molto interessante, ma è stato lui a darti i bracciali? A trasformarli o quel che è?» domandò impaziente.
Cicno le si rivolse scuotendo il capo. «No, non fu lui a trovarmi nella mia terrazza, ma fu ugualmente un gemello della Notte. Thanatos, Dio della Morte. Fu lui a venire da me e domandarmi perché non mi fossi già messo in fila per iscrivermi a questa gara. Lui tramutò le mie catene in monili.»
«Perché non eri in fila?»
La domanda fu del tutto estemporanea e Cade imprecò mentalmente, provando l’incredibile voglia di schiaffare una mano sulla bocca di Jonas e farlo stare zitto. Cicno doveva spiegargli perché erano gli unici dannati con dei gioielli – erano davvero gli unici poi? – e se questo non fosse il motivo per cui si erano incontrati e rincontrati nel corso della Death Race. Ma il ragazzino sembrava essere di tutt’altra idea, improvvisamente interessato ad un altro punto, per lui fondamentale, di quella storia.
Che anche Cicno, così bello, forte, potente, saggio e sicuro di sé, così pronto a tutto, a combattere per arrivare alla fine, che anche una persona dall’apparenza quasi divina, avesse sofferto i suoi stessi dubbi, le sue stesse paure?
Cicno gli sorrise mesto, socchiudendo gli occhi come un gatto che si rigira al sole.
«Per lo stesso motivo per cui tu non ti precipitasti fuori dai Neri Cancelli appena questi furono aperti: attendevo. La mia terrazza è in basso, molto più della tua, e molti sono i dannati che vi dimorano, o per meglio dire, vi dimoravano. Erano genti di ogni levatura e non aveva alcun senso mettersi in fila tra quelle anime prave quando potevo tranquillamente attendere che il folto del gruppo scemasse, lasciandomi la strada libera.»
Jonas però, di nuovo, non aveva che sentito la prima frase di quella spiegazione.

Come fa a sapere che non sono uscito subito per evitare la calca?
 
«Come-»
«Lo so?» lo interruppe sbuffando una lieve risata. «Perché l’essere che ti salvò me lo disse. Mi spiegò che il tuo monile era simile al mio, entrambi doni dei figli della Notte. I gemelli oscuri ci hanno legato, forse senza saperlo, forse nel pieno delle loro coscienze. Dopotutto, di rado gli Dei non sono in grado di percepire la volontà dei proprio pari, specie se si parla di legami di sangue. Non so perché Ipno ti abbia donato il tuo collare, ma Thanatos mi ha costretto nelle mie catene quasi fosse una prova: mi disse di dimostrargli quanto fosse pericoloso darmi la possibilità di tornare in vita e vendicarmi di mio padre, ma ciò non toglie che queste,» ed alzò le mani facendo girare i bracciali attorno ai polsi fini, «non sono realmente un dono quanto più uno sprono: mi ricordano costantemente che se mai dovessi fallire ciò che mi aspetta saranno solo altre catene, per l’eternità.»
Riabbassò lentamente le mani e spostò lo sguardo su Cade, ancora vicino al ragazzo, gli occhi vividi puntati su di lui con attenzione, con interesse.
Insoddisfatti.
Quella spiegazione non gli piaceva, diceva molto ma non diceva nulla.
«Perché hanno brillato?» domandò allora.
Cicno lo guardò aggrottando le sopracciglia, come se quella domanda fosse sciocca, come se l’avesse già spiegato anche se, di fatto, non aveva minimamente accennato alla cosa.
«Sono doni dei gemelli della Notte.» ripeté ancora. «Quando due divinità sorelle offrono regali simili a persone diverse queste vengono inevitabilmente legate tra di loro dal destino del donatore. Trovo assolutamente impossibile che il divino Ipno abbia trasfigurato il giogo di Jonas senza sapere che suo fratello avesse fatto lo stesso con le mie catene. Ma come ti ho detto, le mie spiegazioni, per quanto veritiere, non possono essere del tutto logiche, solo gli Dei conoscono il disegno dietro le loro mosse.»
Lea scosse piano la testa. «Non ha molto senso in effetti, perché proprio voi due? Cosa vi accomuna? Cosa c’è di così simile in voi da spingere due Dei ad unirvi con degli… oggetti magici?» disse incerta cercando conferma in Úranus.
Il rosso annuì. «C’è la magia degli Dei in quei gioielli, sì. Ma Cicno ha ragione nel dire che non sempre vi è logica dietro le azioni divine. Intento sì, logica non sempre.»
«Che in pratica vuol dire che non vi hanno scelto a cazzo ma perché gli servivate.»
«Gli serviva che foste assieme.» mormorò Eliza pensierosa, poi alzò lo sguardo sul greco. «Hai detto di esserti tolto la vita, non- non fuggivi da nulla?» domandò con tutto il tatto di cui era capace.
A Cicno però, quell’accortezza non serviva di certo. Annuì. «Ovviamente, scappavo dal dolore e da una vita ormai distrutta. Devo ammettere che più che “scappare”, volevo solo mettere fine ad un’esistenza priva di senso.»
«È sempre un modo di fuggire. Si scappa sempre da qualcosa, anche fosse la morte stessa.» asserì lugubre Jane, lo sguardo fisso sul terreno nero e luccicante. «Hai abbandonato la tua famiglia?» chiese poi fredda e secca, senza il minimo riguardo.
Cicno inclinò la testa, non del tutto propenso a vedere la situazione sotto quell’ottica. «La prima volta che tentai il suicidio sì, avrei lasciato sulle terre mortali mia madre. Questo è il motivo per cui tentai di nuovo con successo. Quel vile di mio padre mi trasse in salvo ma non fece nulla per far giungere la nuova a mia madre e lei si tolse la vita per questo.» senza muoversi spostò lo sguardo su Jonas che pietrificato e pallido sembrava star combattendo una lotta interna senza possibilità di vittoria.
Una domanda sorgeva spontanea sulla bocca di tutti ma nessuno osò parlare.
 
Che ci abbiano legati perché, alla mia morte, proprio com’è stato per Cicno, mia madre si è uccisa?
 
Per un lungo momento questo fu il solo pensiero martellante che invase la mente di Jonas.
Sua madre era morta perché lui era morto? Era la causa della morte dell’unica persona che, con tutta probabilità, l’avrebbe amato nonostante tutto? Aveva rovinato l’esistenza della sua famiglia a tal punto?
Gli occhi grigi sembravano vitrei come lo erano stati nella morte, come lo erano stati nei momenti di più profonda debolezza e tutto ciò che Jonas riuscì a fare fu fissarli dritti in quelli freddi e privi di sentimento di Cicno.
Attorno a loro poteva sentire Cade passargli una mano sulle spalle, poi tra i capelli, cercando di dargli conforto. C’era il vociare concitato di Lea, di Eliza, quello annoiato di Jane, le imprecazioni di Nathan. Tutti cercavano di rassicurarlo, tutti gli ripetevano che era stata una casualità, che forse li avevano legati perché sapevano che Cicno avrebbe potuto aiutarlo o magari viceversa.
Il figlio di Apollo invece non parlava, immobile come le statue del suo tempo, bello e quasi intoccabile, inscalfibile, eterno.
Poi le sue labbra si mossero, impercettibili, lente.
Nessun suono ne uscì, ma Jonas giurò di poterlo sentire chiaro nella sua mente.
 

O forse, abbiamo semplicemente scelto entrambi la via più semplice.
 
 
Un brivido freddo gli ghiacciò il sudore addosso. La consapevolezza arrivò come un colpo di pistola dritto alla testa.
 
 
Cicno sapeva e Jonas non aveva la più pallida idea di come ciò fosse possibile.
Ma sapeva.
Lo sapeva.
 
Cicno sa.
E non ha detto nulla.
 
Questa era un’altra canna puntata alla sua tempia.
Jonas si rese improvvisamente conto di esser stato coinvolto in una roulette russa.
Il cilindro girava e girava, per poi fermarsi.
Quando sarebbe arrivato il prossimo proiettile?
 
 
*

 
 
La vecchia coperta di lana gli donava un calore leggero di cui non avrebbe creduto aver bisogno, in mezzo ai campi giallastri pieni di gradi balle di fieno. Dal tetto della corriera l’erba secca sembrava una marea nera ed ondeggiante, le balle boe enormi che tracciavano una linea immaginaria oltre cui le acque si sarebbero fatte troppo profonde e nulla sarebbe più stato sicuro.
Giordano rabbrividì al venticello lieve che tirava quella notte, una brezza gentile e tiepida ma pregna d’umidità e satura dei profumi dei campi. Erano arrivati nella Pianura, c’erano riusciti con un po’ di contrattempi e qualche fermata obbligatoria, ma non vi erano mai stati veri problemi. Ogni qual volta un adulto iniziasse a fare troppe domande, infatti, c’era Amore, Eros, che bella come un sogno sorrideva mesta all’uomo di turno facendo pendere questo dalle sue labbra. A Giordano gli sguardi che le rivolgevano facevano venire la nausea, un fastidioso nodo alla gola, una fitta allo stomaco. Sapeva che la giovane era perfettamente in grado di difendersi da sola, ma non poteva far a meno di pensare che se non fosse stato così, se fossero stati davvero solo due ragazzini allo sbando, lui non sarebbe riuscito a proteggerla davvero.
 
Non sono forte come Clara e Al, è per questo che li devo trovare, che devo stargli vicino, per diventare come loro e proteggerli.
 
Tutti i ragazzi del vecchio hotel gli avevano sempre ripetuto che ogni loro battaglia, ogni combattimento, era fatto nella speranza che i bambini come lui non avrebbero mai più dovuto imbracciare un’arma. Era utopia, ora Gio lo sapeva, se lo sentiva nella gola secca ogni volto che un uomo allungava una mano per toccare una ciocca dei bei capelli di Amore, ogni volta che guardava lui con sufficienza, come se non fosse importante, se non fosse nessuno.
C’era ancora gente che credeva di poter fare tutto ciò che voleva solo perché più grande, più anziano, più forte. Ci sarebbe sempre stata gente del genere. Ci sarebbe sempre stato il bisogno di imbracciare le armi. Anche solo per difendere i più deboli.
Ma guardando la marea d’erba nera Giordano si domandò chi, tra loro due, fosse effettivamente il debole. Perché il suo essere maschio non aveva nessun valore in quel momento e Gio si sentiva quasi smarrito.
Certo, aveva vissuto al fianco di donne forti e coraggiose, pronte a dare la vita per la giusta causa – alcune di loro l’avevano fatto davvero, come i loro compagni - ma c’era sempre stata quella sottile e sottintesa idea che prima di costringere loro all’estremo passo sarebbe stato compito degli uomini difenderle e morire.
Un uomo, un vero uomo, difende sempre una donna.
Dopotutto, era quello che anche lui era stato incaricato di fare, giungere alla Serenissima e proteggere una persona importante, una donna importante.
Ne sarebbe stato capace? Questo era tutto da vedere.
Il vento soffiò di nuovo e Giordano avrebbe quasi giurato che ce l’avesse con lui, che cercasse di far coprire le sue braccia nude di pelle d’oca, di renderlo ancora più indifeso di quanto non si sentisse normalmente, di quanto non si sentisse in quel momento.
Una mano delicata scivolò con lentezza sul suo petto, carezzando lo sterno sporgente e risalendo poi verso le clavicole. L’indice tracciò il contorno del pomo d’Adamo ancora poco accennato, che saltò quando Giordano deglutì sonoramente.

«C’è qualcosa che ti turba?» domandò gentile e dolce Amore. La sua voce gli dava la stessa sensazione di una coperta calda, quando gli inverni erano stati troppo duri e sotto al materasso si infilava lo scalda letto. Una sensazione di pace e di rilassatezza, di coccola. Un brivido di piacere ed uno di disagio: faceva caldo in quella notte umida, era calda la vecchia lana infeltrita che gli faceva da giaciglio e lo era anche la mano, il dito, di Amore.
Faceva un po’ troppo caldo e non nel modo piacevole della brezza estiva.
«Non devi crucciarti troppo, sei ancora giovane, hai anni dinnanzi a te per divenire forte ed eroico come la tua famiglia.» continuò lei con tono lento ed ipnotico.
Giordano annuì ma non una sola parola uscì dalla sua bocca, specie quando Amore gli si strinse contro, premendo il seno contro il suo braccio. «Devi lasciati andare, piccolo Gio, se vivi sempre d’allerta non ti godrai il viaggio.»
Il ragazzino si leccò le labbra asciutte nel tentativo di darsi un contegno. «Non posso abbassà la guardia, non te l’hanno detto che è il momento bono pe fa danni?» borbottò imbarazzato.
Amore gli sorrise, si sistemò meglio sulla vecchia coperta, malgrado Giordano gli avesse lasciato per l’ennesima volta l’interno della corriera tutta per lei, per rispetto, per educazione, e poggiò la testa sulla sua spalla ossuta.
«Ti stai perdendo tante gioie giovanili, in questo modo.» mormorò alzando lo sguardo al cielo sgombero, non c’era neanche la luna quella notte, solo le vecchie e lontane stelle.
«Voglio solo la mia famiglia indietro, pensi che non vale la pena?» le chiese quasi con tono di sfida, ma lei non ci cascò.
«Penso che se ora loro sono lontani dev’esserci un motivo, non credi? Se fosse stato sicuro ti avrebbero preso con loro.»
Giordano distolse lo sguardo dai campi scuri per guardare di sbieco il volto rilassato dell’altra.
«Che ne sai te?»
Amore ridacchiò. «Oh, so molte più cose di quante tu non possa immaginare. So che non ti hanno davvero abbandonato, ti hanno lasciato indietro, questo sì, ma è perché ti amano e non tollerano l’idea di metterti in pericolo. Saperti lontano da loro, ma salvo, vale tutta la pena e la miseria di non poterti aver con loro.»
Quella lieve confessione suonò come una profezia, come una verità assoluta, e Giordano non seppe come replicare.
Lo sapeva, sapeva che tutti gli volevano bene, che lo volevano solo il più lontano possibile dai problemi. Ma questo significava anche il più lontano possibile da loro.
Sapeva che era stata una scelta sofferta, che era stato fatto solo ed unicamente per il suo bene, che sarebbe dovuto essere grato, come diceva Suor Patrizia, di ciò che il Signore gli aveva concesso, pochi giorni, rari anni, ma incondizionato amore. Eppure Giordano non poteva far a meno di sentirsi solo, di sentirsi rifiutato, di sentirsi abbandonato.
 
Perché non sono abbastanza forte per stare al loro fianco senza essere una zavorra.
 
Era l’amore quello che aveva mosso i suoi cari ed era sempre lui quello che urlava ferito ogni volta che pensava ad ogni singola persona di quel fatiscente hotel al confine con il nulla.
Gli altri lo guardavano con dispiacere e condiscendenza, un giorno avrebbe capito il perché di ogni loro azione, quando sarebbe cresciuto e sarebbe stato in grado di vedere le cose dalla loro prospettiva.
Quel giorno non era ancora arrivato però, perché Giordano si ripeteva di capire, di essere consapevole di ogni motivazione, ma non riusciva a non soffrirne, a non sentirsi solo, a non sentirsi abbandonato, a non trovarlo la crudeltà più grande che potesse essergli rivolta: essere strappato ancora, per l’ennesima volta, alla sua famiglia.
Un improvviso magone gli si formò in gola. Dio, quanto gli mancavano tutti, quando gli mancavano quei corridoi stretti, i pavimenti graffiati ed i muri sporchi. Gli mancava l’infermeria e anche la stanza degli intrugli di Seb che faceva paura a tanti nuovi arrivati; gli mancavano le cucine e le urla delle donne che gli intimavano di allontanarsi dai fuochi. Gli mancavano i bagni con Al e le preghiere infinite di Tali. I sorrisi stanchi di Clara mentre lucidava la spada d’oro, oliandone bene i meccanismi. Gli mancavano persino quelle dannate donne che venivano a prendere i suoi compagni.
Tirò su col naso, battendo velocemente le palpebre quando le lacrime iniziarono a salire e spingere oltre la rima inferiore dell’occhio.
Non voleva piangere, non davanti ad Amore, non per un motivo così stupido come l’essere soli. Non era più un bambino aveva quattordici anni lui! Era grande e grosso, non troppo alto, va bene, ma era abbastanza adulto per potersi contenere, non poteva piangere come un moccioso, non poteva e basta.
 
«Oh, tesoro, non fare così.» la mano delicata di Amore gli prese gentile la guancia e lo costrinse a voltarsi verso di lei. Si era alzata su di un gomito e ora torreggiava su di lui, i capelli morbidi e profumati a fargli da tenda e nasconderlo dal mondo.
Amore poggiò la fronte contro la sua e Gio chiuse gli occhi, stringendosi le labbra tra i denti per trattenersi, perché non poteva, non poteva, piangere per qualcosa del genere.
 Non poteva piangere per qualcosa a cui era abituato da una vita.

Solitudine.
 
Amore gli carezzò piano la guancia con il pollice, un gesto così intimo che fece quasi singhiozzare Gio: da quanto tempo qualcuno non lo consolava così, non lo stringeva a sé, non lo coccolava?
Sì, Ade ci provava a consolarlo, gli si sedeva vicino, stava in silenzio e fingeva di non vederlo piangere, ma non era la stessa cosa. Non c’era contatto tra di loro, non c’erano abbracci, non cerca quella sensazione di vicinanza che le azioni della ragazza gli trasmettevano.
Non che non apprezzasse il silenzioso supporto del suo amico. Dio santissimo, no, no, Gio adorava il modo in cui Ade si rapportava a lui, così impacciato e rigido alle volte, come se non sapesse come fare malgrado, presumibilmente, fosse al mondo da abbastanza da sapere come comportarsi in ogni situazione. Ma il caro vecchio Pluto si comportava proprio come un uomo, come un amico, non come- non come un padre, o come si comportavano tutti i ragazzi del vecchio hotel con lui. Non che Ade dovesse comportarsi in modo paterno ma-
 
«Ssh. Ssh. Respira. Non c’è bisogno di trovare giustificazioni ai propri bisogni, a ciò di cui più necessitiamo. Sei umano anche tu, piccolo Gio e Ade sa, sa perfettamente quanto gli vuoi bene e quanto gli sei affezionato. Lo è anche lui a te, solo che non è abituato a dimostrarlo.»
La giovane lo strinse a sé, facendogli poggiare la testa sul suo petto, cullandolo dolcemente come aveva fatto tante volte Clara.
«Non pensare a nulla, solo alle cose belle. Pensa al vento, guarda le stelle.» mormorò piano. «Guarda i campi, ci sono le lucciole. Non sembrano anche loro centinaia di stelle nel cielo scuro?»
Tirando ancora su con il naso Giordano si strinse di più ad Amore, serrandole le braccia attorno alla vita e scuotendo piano la testa. Non voleva togliersi da lì, non voleva che la ragazza lo vedesse piangere anche se lo stava stringendo mentre lo faceva. Non voleva che un’altra persona vedesse quanto fosse debole, quando fosse ancora piccolo malgrado avesse urlato ai quattro venti d’essere abbastanza grande per affrontare un viaggio da solo per mezza Italia.
«Non sei debole, sei solo giovane. Avrai modo di crescere, avrai modo di dimostrare d’essere degno dei tuoi compagni, della tua discendenza. Quando giungerai alla Serenissima ti sarà data questa opportunità. Lì dimostrerai a tutti che ora sei forse un fiore ancora chiuso nella sua gemma, ma che preso fiorirai e darai al mondo i tuoi frutti.»
Gio l’ascoltò come rapito, il naso premuto sulla pelle morbida del torace gli permetteva di riempirsi la gola di un leggero profumo di fiori ogni volta che prendeva un respiro. Quell’odore era ammaliante come ogni cosa in Amore. Gli faceva venire in mente una serie di paragoni assurdi, al limite del possibile, così sdolcinati da sembrare irreali. Gli faceva venire in mente quel fastidioso prurito, quel desiderio di qualcosa che neanche lui sapeva, come se per lui fosse diventato impossibile distogliere l’attenzione da lei, dalle sue parole, dal suo profumo. Cera, cera e fiori.
Amore era ammaliante come ogni poeta aveva sempre descritto il suo nome, Giordano non avrebbe mai potuto credere che fosse tanto vero.
Chiuse un attimo gli occhi continuando a respirare a fondo, e più lo faceva più rimaneva invischiato in quella malia sottile e potente.
L’aria era dolce e mielosa, l’umidità si appiccicava sulla pelle, facendo da collante a tutti quei profumi, rendendo ogni soffio di vento più intenso, la sensazione che dava sfiorando le membra più vivida e al contempo delicata. Il ronzio degli insetti era quieto ma costante, le cicale frinivano in coro ai gracidii bassi delle rane che si nascondevano tra i cespugli vicino ai torrenti, tra la terra melmosa ed il fango crepato dal caldo.
Le mani di Amore erano bollenti sulle sue braccia e quando Gio aprì gli occhi si ritrovò a fissare il prato scuro su cui volavano basse decine e decine di lucciole affaccendate.
Ne seguì ipnotizzato i voli ondeggianti, i cerchi che compivano, come la luce si intensificasse ogni qual volta si facessero più vicine le une alle altre e poi, alzando un poco il capo, cercò di scrutare il cielo.
Se solo le stelle si fossero potute muovere l’avrebbero fatto come le lucciole.
Amore sorrise appena nell’osservare lo sguardo rapito ma vacuo del ragazzino: era concentrato sugli astri ma così perso nei suoi pensieri, nelle sue paure… quanto poteva esser fragile una vita umana?
 
Ma la sua non lo è. Non è solo umana e non è fragile. Il filo della sua vita è intriso d’oro e d’argento, brilla come le stelle, brilla come quelle piccole lucciole.

Sì, Giordano era delicato come quegli insetti ma luminoso come le loro code. Doveva solo imparare a brillare e lei l’avrebbe aiutato a farlo.
Le notti stellate erano le sue favorite dopotutto, quando Selene non brillava in cielo ed Artemide chiudeva i suoi occhi sul mondo, quando la loro luce non avrebbe aiutato a scorgere il suo vero volto a chi l’aveva proibito.
Carezzando i capelli del ragazzino Amore si disse che prima o poi, proprio come la sua Psiche, anche Giordano avrebbe dovuto accendere una candela per poter scorgere il suo vero essere. Ma per quella notte e per quelle a venire, poteva concedergli ancora il lusso di crederla solo un angelo custode mandato da Ade per vegliarlo.
Poteva regalargli un assaggio della vita che avrebbe avuto se non fosse nato con il sangue macchiato d’icore.
Amore si distaccò dall’altro, facendo scivolare la mano dai capelli alla mascella appena accennata. Gli sorrise ancora, gli sorrideva sempre a dire il vero, e lo guardò dritto negli occhi.
«Un giorno sarai un eroe anche tu, ma fino ad allora, permettimi almeno di mostrarti com’essere un uomo.»
Senza aspettare alcuna risposta, la dea s’avvicinò di nuovo e premette lentamente le labbra su quelle del ragazzino.
Gio si irrigidì per un attimo, congelato sul posto, senza sapere cosa fare come muoversi, dove mettere le mani, prima che una sensazione di pace e di calore gli colasse lungo la gola sin nello stomaco. Era come se stesse bevendo del latte caldo, era esattamente la stessa, identica sensazione, ma per quanto provasse a deglutire non c’era niente da mandare giù, nulla, se non il sottile filo di fumo che Amore stava facendo filtrare dalle sue labbra socchiuse.
Gli girò la testa, le stelle iniziarono a spegnersi una ad una, dalle più lontane alle più vicine, finché la volta celeste non si fece nera e l’unica fonte di luce rimanente fu quella delle piccole lucciole nel loro cielo terreno.
Giordano s’addormentò lentamente tra le braccia di Amore, che lo sostenne con facilità, cullandolo mentre le fitte trame di Ipno l’avvolgevano stretto.
Si leccò le labbra sorridendo sinistra: persino da un semplice bacio come quello poteva percepire ciò che covava nell’anima di quel bambino innocente. Se solo non fossero stati così sciocchi, decenni prima, ora quel potere latente e sopito sarebbe stato già al loro servizio.
Un gracchiare sordo si spanse d’improvviso per la pianura dormiente, le cicale e le rane si quietarono, le lucciole si spensero come candele.
La dea chiuse gli occhi sorridendo ancora allo stesso modo: predatoria, soddisfatta, avida.
Lì riaprì voltando con lentezza il capo verso alcuni alberi poco distanti, osservando il nuovo arrivato, se così poteva chiamarlo.
Il corvo sembrava un vecchio signore curvo e giudicante, stretto nel suo completo nero, con le mani intrecciate dietro la schiena e la testa protesa in avanti. Gli occhi piccoli e lucidi la scrutavano con attenzione, lo scatto che fece inclinando il capo di lato lo rese più inquietante di quanto già non fosse.
Facevano bene i mortali a chiamarli uccelli del malaugurio, della morte, uccelli dei becchini. Sì, sembravano proprio becchini in attesa del prossimo fruttuoso affare.
Ma Amore non lo temeva, non aveva paura alcuna di quel corvo, sapeva perché era lì, sapeva cosa voleva, sapeva cosa avrebbe fatto. Per molti versi i loro compiti erano esattamente gli stessi, ciò che cambiava era solo il mittente: lei non rispondeva a nessuno, non era certo stato suo nonno a mandarla lì, ma era sicura invece che il corvo stesse eseguendo gli ordini del suo padrone come il servo fedele che era sempre stato.
Il ghigno sul bel volto di Amore si allargò, ferino e pericoloso come quello di suo padre, come quello di sua madre. Oh, la gente spesso ignorava quanto amore e guerra fossero simili, quanto entrambi fossero ciò che di più pericoloso c’era al mondo. Dimenticavano quanto entrambi potessero essere fonte di salvezza e crudeltà assoluta. Dimenticavano che lei incarnava ogni lato più cruento di entrambi.
 
«Non devi preoccuparti, non sto facendo alcunché di pericoloso. Di’ pure al tuo padrone che nulla è cambiato, i nostri accordi rimangono tali, vi terrò fede come stabilito. Ma non mi negherò il piacere d’assistere allo spettacolo dalla prima fila.» sentenziò con voce risoluta, tagliente, provocatoria.
Lo stava sfidando a dirgli qualcosa, ad accusarla di star infrangendo i Sacri Patti, ma sapeva perfettamente che il corvo non avrebbe proferito parola.
Il rapace la fissò ancora intensamente prima di gracchiare con più forza ed alzarsi in volo.
Disegnò alcuni cerchi sopra le loro teste e poi si disperse nel buio della notte.
Il sorriso sul volto di Amore si fece più infastidito, quello stupido uccello le aveva volteggiato sul capo come la sua specie faceva con le prede, con le carcasse di cui si sarebbero poi cibati. Se il messaggio era che, al primo passo falso, avrebbero entrambi fatto la stessa fine, Amore avrebbe personalmente dato fuoco a quel corvo e al suo degno compagno, anche a costo di scatenare una guerra.
Cercò di togliersi dalla mente quella scena e riabbassò lo sguardo sul piccolo Giordano che dormiva beato tra le sue braccia, sulla fronte un petalo stropicciato di papavero.
Amore sorrise per l’ennesima volta, ma con fare dolce, intenerita.

«Grazie, cugino, spero tu possa regalargli sonni tranquilli. Presto avrà bisogno di tutta la forza possibile.»
 
Le lucciole si alzarono di nuovo in volo, le rane e le cicale ripresero a cantare, nel cielo nero le stelle si riaccesero come lampadine.
Una scia azzurrognola e sfocata iniziò ad affiorare dalla terra scura.
I Fuochi Fatui stavano tracciando la via verso la loro prossima meta.
Amore strinse le labbra quasi dispiaciuta.
 
«La tua missione è ufficialmente iniziata, piccolo Gio.»
 

 
*
 


Eliza si gettò uno sguardo alle spalle, dove Cade e Lea fiancheggiavano Jonas, cercando di tenerlo impegnato con l’aiuto di Nathan che, incredibilmente più gentile del solito, gli raccontava di come gli Alleati avessero preso a calci in culo quei naziqualcosa.
Aveva capito che i “cattivi” erano tedeschi, come Jonas, e non le era servito molto per realizzare che probabilmente ciò da cui era scappato il ragazzino, andando però incontro alla morte, dovevano essere proprio quelle persone.
La figlia di Nike smise di ascoltare quello che i tre stavano dicendo, le domande di Cade che incitava il soldato a raccontare di come fosse tornato ad essere il mondo dopo, quali grandi e importanti cambiamenti c’erano stati, e tornò a guardare davanti a sé.
Jane camminava al fianco di Cicno, ponendo anche lei domande su domande ma di carattere ben diverso, divino.
La conversazione di prima non aveva minimamente aiutato la situazione particolare in cui si trovavano, ma non poteva darne la colpa a nessuno, neanche alle domande inopportune della figlia di Ecate.
Distrattamente sentì proprio questa fare una domanda a proposito del culto di sua madre nell’antichità, prontamente accontentata dal nuovo arrivato.
Cicno era stato fin troppo gentile con tutti loro, se solo ricordava come si era approcciata lei all’inizio a Cade e Nathan non poteva far altro che congratularsi con la diplomazia dimostrata dal giovane, seppur non si fidasse ancora completamente di lui.
Forse era sciocco, visto il modo in cui si era invece fidata degli altri, di chi era venuto dopo i suoi due primi compagni, ma c’era qualcosa che non le quadrava con il greco, qualcosa di ben diverso. Poteva chiamarlo sesto senso, o qualunque altra cosa avessero i semidei presupponeva, ma sapeva, lo sapeva per certo che qualcosa non era come sembrava.
A partire dalle vesti di Cicno, che il ragazzo aveva specificato essergli state “gentilmente rammendate” da un altro partecipante. Chi era costui? Perché si era preso la briga di render più presentabile un dannato, per giunta uno proveniente da una terrazza abbastanza bassa. Che Cicno l’avesse ingannato? Che avesse mentito a questa persona sulla sua vera vita? Non era una cosa così assurda da pensare, forse l’avrebbe fatto anche lei, se le fosse stato necessario.
Secondo: come era sopravvissuto da solo con tutte quelle continue battaglie tra anime? E dove aveva trovato delle armi? Eliza aveva subito notato la cinta piena di coltelli da lancio che portava con sé ed era più che certa che ogni arma fosse stata prelevata all’ingresso del Labirinto di Persefone. Così com’era certa che i dannati fossero stati avvantaggiati in quella prova perché sprovvisti di armi da consegnare. Avevano avuto il lusso di correre nel labirinto prima che questo iniziasse a muoversi, prima che cercasse di ingurgitarli tutti.
Al tempo, Cade si era separato da lei e Nathan per ritrovare il suo coltellino e poi anche i suoi guantoni ramati, quindi era del tutto probabile che il greco avesse trovato quei coltelli nel labirinto e se li fosse tenuti stretti.
Questo significava che doveva necessariamente avere delle basi di combattimento, per quanto non l’avrebbe mai detto guardando il suo fisico, molto più simile a quello di un signorotto che di un combattente. Ma era pur sempre un figlio degli Dei ed Eliza non avrebbe fatto l’errore di sottovalutarlo.
Molti dei suoi dubbi avevano quindi una possibile soluzione, eppure Eliza continuava a non esserne convinta, non fino in fondo.
Nascondeva qualcosa Cicno, questa era la sua unica certezza. Ora doveva solo capire se nascondesse cattive intenzioni, brutti ricordi o azione pregresse per cui provava profondo imbarazzo.
Dalla storia di sua madre poteva credere che fosse quello il suo rimpianto, aver deciso di mettere fine alla propria vita senza pensare alle conseguenze del suo gesto su chi lo circondava, ma l’istinto le diceva che il figlio di Apollo aveva taciuto loro qualcosa anche su altro del suo passato.
Doveva solo assicurarsi che la sua fosse vergogna, paura di non essere accettato, e non un piano studiato nei minimi dettagli.
Continuando a marciare come aveva imparato a fare negli anni della sua vita da soldato, Eliza sospirò quasi di sollievo quando le Praterie nere iniziarono di nuovo ad affollarsi.
Spinse lo sguardo più in là possibile ed il sollievo appena provato si trasformò in inquietudine.
Lei quel posto lo conosceva, ne era sicura. Certo le Praterie degli Asfodeli si somigliavano tutte ben o male, pochi arbusti, pochi alberi, colline basse e poi profondi strapiombi, eppure Eliza poteva giurare di esserci già passata per quei luoghi.
 
«Ma tu guarda, allora siamo arrivati al traguardo della quarta prova?» domandò Cade alzando le sopracciglia una volta resosi conto di quante anime si stavano riunendo nello stesso posto.
Jane fece un verso di scherno. «Potevano metterlo un po' più lontano.»
«Credo che non ci fosse un traguardo vero e proprio. Il traguardo era la propria sfera, tutto qui.» rispose Lea allungando il collo per poter osservare meglio i dintorni. «Solo a me pare famigliare?» chiese poi.
Nathan grugnì. «Famigliare come tutte le cazzo di Praterie, intendi?»
«Famigliare come se fossimo già passati di qui.» precisò lei con una smorfia.
«Questa è una possibilità.» disse Cicno prima che i due potessero iniziare a battibeccare sul nulla come gli aveva già visto fare. «Le Praterie degli Asfodeli sono mutevoli, come un grande animale che cambia pelle, come la riva di un fiume che trascina via terra e sassi. Ciò che hai scorto in un luogo ora potrebbe trovarsi in questo.» spiegò con semplicità.
Cade però non parve troppo convinto. «In che senso? Che vuol dire, che si sposta?» chiese attonito.
Cicno si voltò indietro per sorridergli appena ed annuire. «Esattamente questo. Le Praterie degli Asfodeli sono vive, non c’è modo migliore per spiegare la loro essenza. Esse vivono, crescono, si nutrono. Sono le anime dei perduti ad alimentarle, assieme alla Foschia. Come i mari sono sempre in movimento, così l’Ade si fa neve e poi ghiaccio, prima di tornare acqua. I Campi di Pena, quelli degli Elisi, la dimora del divino Ade, i fiumi ed il Tartaro, questi sono i luoghi che mai mutano la loro collocazione. Ma molti altri, come le Porte della Morte ed i templi dedicati agli altri Dei, si muovono assieme alla terra su cui furono edificati. Per quanto ne sappiamo, questo potrebbe essere lo stesso terreno su cui marciammo per giungere ad una delle precedenti prove.»
La sua voce chiara e sicura, quel classico tono di chi è certo delle proprie parole, parve donare un conforto inaspettato a tutti i suoi compagni.
la consapevolezza che nulla rimanesse mai al suo posto, il senso di smarrimento, di perdizione, erano stati soppiantati dalla certezza che vi fossero punti fissi a cui far riferimento.
Úranus annuì alle parole del greco e spinse il suo sguardo più in là possibile.
 
«Le anime si fermano, possiamo provare ad avvicinarci ma non credo riusciremo a giungere troppo in là.»
Anche lui aveva la sensazione di aver già visto quel posto, ma la spiegazione di Cicno, che condivideva in pieno, l’aveva portato a credere che, probabilmente, nel loro lungo pellegrinare, avessero già incontrato quel pezzo di terra.
Quando giunsero all’ultima fila di anime si resero ben presto conto che, come per le altre prove, gigantesche lastre nere, pronte ad illuminarsi come le vetrate di una chiesa, erano state poste a distanze regolari per permettere a tutti di osservare il prossimo Dio che avrebbe dato loro le regole per la quinta prova.
I semidei si fermarono vicino ad una di quelle lastre.
 
«Televisori. Sono dei dannati televisori.» borbottò per l’ennesima volta Nathan. «Questa volta c’abbiamo messo più del dovuto e ora ci dovremmo sorbire l’edizione straordinaria del telegiornale da qui. Solo perché rosso malpelo ha deciso di prendersi un febbrone da cavallo.»
Cade lo guardò storto. «Come se nel tempo in cui sono stato lontano voi vi foste messi sotto per trovare l’ultimo ricordo mancante. Sbaglio o avete fatto solo un sacco di danni, mentre io recuperavo la sfera di Golia al limite del campo di battaglia?» rispose provocatorio.
«Abbiamo fatto danni per cercare te, stronzetto.» gli ringhiò contro il biondo.
«Oh, sì, diamo la colpa al vecchio compagno Cade. Stavate cercando me e infatti mi avete trovato alla fine. Ops, no, non è vero. Io ho trovato voi, non il contrario. Ottimo utilizzo del tempo, capo
«Senti-»
«Non mettetevi a litigare come giovinetti, vi prego. L’unico che ne avrebbe il diritto, tra di noi, dimostra molta più maturità di quanta non ne esibiate voi assieme.» li stroncò di nuovo Cicno.
Possibile che il suo lavoro sarebbe stato tutto un continuo impedire che si saltassero alla gola a vicenda? Cos’era, una balia? Senza contare che c’era sempre il figlio di Ares in mezzo. Ma, dopotutto, cosa poteva aspettarsi dal discendente di quel Dio?
Lea sogghignò. «In parole povere, se quelle di Cicno fossero troppo elaborate, vi ha detto che dovete smetterla di comportarvi da bambini e non rompere le scatole.»
«Gli ha detto che sono una palla al piede e che l’unico che potrebbe esserlo per diritto il fa sembrare ancora più ridicoli solo standosene zitto » precisò Jane con il naso verso l’alto, ad osservare con occhi sgranati la lastra nera su cui ora vorticava uno strano simbolo.
Sembrava un forcone tondeggiante e senza il dente centrare, al cui posto spiccava una sfera, con una doppia impugnatura nel mezzo dell’asta verticale. O poteva sembrare un uomo stilizzato con una cintura in vita.
«Cos’è quel coso?» domandò ignorando Cade e Nathan, come ormai faceva sempre.
Cicno rivolse a mala pena lo sguardo allo schermo. «Il simbolo del divino Ade.» disse come se fosse ovvio. «Come funzione questo strano oggetto? Potresti ripetermene il nome, figlio di Ares?»
«Televisore. Un’invenzione dei primi anni del 1900. Ai miei tempi erano per i ricchi e di certo non trasmettevano a colori.»
La risposta venne però da Jonas, che con voce flebile fissava il simbolo roteare su sé stesso.
Non si era ancora completamente ripreso da prima, sebbene le chiacchiere dei “più giovani” del gruppo l’avessero un po’ sollevato, era bastato un momento di disattenzione e la sua mente era tornata al martellante pensiero, alla certezza, che ormai gli ottenebrava il cervello.
 
Cicno sa.
 
Ma come? Come poteva sapere?
Non aveva alcun senso, non l’aveva mai detto a nessuno, non l’aveva detto neanche a Cade!
Poi un’improvvisa realizzazione: Apollo non era forse anche il Dio degli oracoli? Come si chiamava quello famoso, famosissimo… lo si poteva anche visitare se si andava in Grecia, forza! Quel dannato nome, con la d- da- de-
 
Delphi! L’oracolo di Delphi!
 
Sì, era un oracolo di Apollo, ne era quasi completamente certo. Che i figli del Dio del Sole potessero vedere il futuro come facevano gli adepti del loro padre?
Un brivido lo fece chiudere nelle spalle ossute. Dio, sperava di no. Se fosse stato davvero un indovino avrebbe rischiato di scoprire i segreti di tutti, di scoprire i suoi, e questo nessuno di loro poteva permetterselo.
Si mordicchiò il labbro soprappensiero per poi portarsi la mano alla bocca e mangiucchiarsi le pellicine.
C’era la seria possibilità che Cicno non fosse solo più colto di loro, ma anche molto più potente. Doveva assolutamente dirlo a Cade e poi anche ad Eliza. Loro due erano quelli che, di sicuro, doveva essere avvertiti per primi.
Lanciò uno sguardo a Jane, preoccupato in parte del modo quasi amichevole con cui si relazionava a Cicno, come se lo reputasse non solo più interessante, ma anche più capace di vedere le cose dalla sua prospettiva e forse era proprio così.
Nessuno di loro era un tipo rancoroso. Tranne Nathan. Nathan era un tipo molto rancoroso. Sembrava quel tipo di persona pronta a rinfacciarti, tra dieci anni, della volta in cui hai scelto tu la strada da prendere e avete impiegato due minuti in più per arrivare rispetto a ciò che avrebbe scelto lui.
Il punto era che nessuno di loro, neanche lui, bramava vendetta dei confronti di qualcuno, se non Jane e Cicno. Una verso chi aveva ucciso i suoi genitori e l’altro verso suo padre.
Erano un due lugubre e inquietante, pericoloso e probabilmente anche piuttosto potente, se avessero unito le forze. E se Jane fosse stata in grado di fare un incantesimo un po’ più difficile di quello della bussola.
In ogni caso, Cicno la capiva, condivideva lo stesso desiderio e questo aveva affascinato Jane più di quanto non avesse fatto Eliza salvandogli la vita malgrado avessero due caratteri completamente diversi.
Jonas continuò a fissare i suoi compagni, immerso nei suoi pensieri, finché un suono acuto e prolungato, come un fischio ed un cigolio messi assieme, lo costrinse a portarsi le mani alle orecchie, cogliendolo di sorpresa come tutti gli altri partecipanti. Una cacofonia di grida ed imprecazioni si aggiunse al suono.

«Ma chi cazzo!» gridò Cade piegandosi in vanti e nascondendo la testa tra le braccia. «ANDIAMO! Mi sono sanguinate le orecchi neanche un’ora fa! Volete farmi diventare sordo? Questo è accanimento!» continuò accovacciandosi sulle caviglie per poter trovare un mino di riparo tra le anime che lo circondavano.
Nathan imprecò concorde, premendosi le mani sulle orecchie come stavano facendo ben o male tutti. «Sono delle cazzo di interferenze radio! EHI! NON VI SI CONNETTE L’ANTENNA, STRONZI!»
«Ma sì! Certo! Continuiamo ad insultare a gran voce gente che potrebbe potenzialmente ucciderci tutti!» gli gridò contro Lea.
«Siamo già morti! Peggio di così non ci può andare. A meno che non facciano continuare questo suono infernale, allora sì che potrebbe andare peggio.» convenne Jane con il suo solito ottimismo.
«Non hai qualche trucco che possa aiutare?» domandò Jonas socchiudendo gli occhi sempre più infastidito.
Jane lo fissò arricciando il naso. «No.»
«FANTSTICO!»
«E CHE CAZZO!»
«QUESTA VOLTA CONCORDO!»
«MANTENETE LA CALMA!»
«Perché, Dei dell’Olimpo, state urlando in questo modo?»

Cicno guardò i suoi compagni come se fossero un branco di stupidi senza speranza e la verità era che il greco li vedeva proprio in quel modo.
Quanto potevano essere deboli e sciocchi se non riuscivano neanche a fare una cosa banale come sopportare suoni del genere e credevano che un semidio potente come lui non potesse far nulla per migliorare la situazione?
Con un sospirò quasi scoraggiato Cicno allungò le mani verso Cade, quello che sembrava più disposto e tranquillo nel farsi toccare, e le posò direttamente sulle sue orecchie.
Non gli servì che un mormorio ed i suoni iniziarono ad affievolirsi, finché l’irlandese non fu in grado di tirarsi di nuovo in piedi e guardare a bocca aperta il greco.
A quella scena non fu tanto difficile convincere anche gli altri a farsi praticare lo stesso incanto e quando anche alle sue orecchie il fischio divenne più lieve, Lea fissò il fratellastro con un senso di disagio ed inferiorità che le mangiava lo stomaco.
Non era mai stata una persona invidiosa, non per quel genere di cose. Era invidiosa della libertà di Giuseppe, dell’attenzione e della considerazione che il regno e tutto il popolo gli dava in quanto medico, in quanto uomo. Era invidiosa dei suoi abiti comodi e dei capelli portati corti senza che nessuno dovesse crederlo malato, vittima di un tragico incidente o costretto a privarsi di cotanto vanto per denaro. Ma non era mai stata invidiosa dei poteri curativi di suo fratello e del suo sapere. L’invidia, se così la si poteva chiamare, era tutta per la maestria e la sicurezza con cui il medico si muoveva, e non si traduceva in odio verso di lui, ma in voglia, in fame, in avarizia pura di poter fare, un giorno, le medesime cose con la medesima risolutezza.
In quel momento però, guardando Cicno, si domandò quanto anche Giovanni dovesse aver ignorato del mondo divino.
Perché ormai era certa che suo fratello fosse morto, l’anno di nascita di Jonas, ma ancor più quello di Nathan, le aveva tolto ogni speranza. Ora le restava solo quella di aver mancato il suo arrivo ai Campi Elisi, o la rassegnazione di saperlo perduto tra le Praterie.
Cicno però dovette sentire il suo sguardo addosso perché fissò gli occhi nei suoi ed inclinò lievemente il capo in una muta domanda.
Lea si costrinse a sorridere.
 
«Come hai fatto? Non credevo potesse esistere un canto curativo del genere.» mormorò appena, quasi sperando che l’altro non la capisse.
Ma Cicno invece la capì eccome, ed inclinò ancora di più la testa, mentre un sorriso divertito ed un po’ malizioso gli tirava le labbra.
«Non ne conoscevi l’esistenza perché, da quel che mi hai detto, ti sono stati insegnati solo canti curativi.»
La sua voce le arrivò bassa, quasi lontana, ma Lea capì velocemente che il canto doveva agire su ogni tipo di suono e non su uno specifico. Chissà se ne esistevano di più precisi, chissà se Cicno avrebbe mai potuto insegnarglieli.
«Se non è un canto, cos’è?» domandò con tono più alto Eliza, timorosa di non riuscirsi a far udire.
Cicno si volse verso di lei ed il sorriso divenne più ampio. E più divertito.
«Una maledizione. Vi ho privato della maggior parte della vostra capacità uditiva per poco. Questa maledizione impedisce di percepire i suoni acuti, come le grida, gli strepitii degli uccelli e di altri animali, i dardi ed il sibilo delle lance, o dei piattelli in volo.»
Lo spiegò con un candore e con una tranquillità invidiabili, lasciando tutti a bocca asciutta.
Per poi far scatenare l’inferno.
«Fammi capire! Ci hai resi sordi alle frequenze più alte? Quelle che indicano pericolo? DAVVERO, CAZZO?» gridò Nathan afferrandolo per la veste chiara.
«Ti conviene lasciare la presa, figlio di Ares, ricorda cos’ho fatto per errore a Cade, non vorrei replicare lo stesso spiacevole evento.» sibilò di rimando lui.
«CHE SIFNICA DARDI, LANCE E DISCHI! CHI CAZZO CI STA TIRANDO COSA?»
«Nessuno ci sta tirando nulla, sciocco!»
«Ha detto che durerà per poco, calmatevi!» gridò più forte Eliza rifilando uno schiaffo sulla testa a Nathan e uno in piena fronte a Cade. «Comportatevi come si conviene alla vostra età, per Diana!»
 
Mentre i semidei erano impegnati a discutere su quanto e per quanto tempo Cicno li avesse resi sordi, su quanto fosse altamente irrispettoso e irriconoscente da parte loro trattarlo così, e del fatto che, se proprio ci tenevano, poteva revocare la maledizione e farli soffrire assieme al resto dei partecipanti; il disegno sullo schermo cambiò improvvisamente, mostrando uno scheletro con la tuta da lavoro ed un’ingombrante pettinatura afro, che si strofinava il teschio leggermente annerito.
Lo scheletro fissò le orbite vuote dritte verso la telecamera e poi alzò il pollice in segno d’approvazione.
Il suono acuto scomparve di colpo e con altrettanta facilità Cicno ruppe il suo incanto senza il minimo sforzo.
 
«Non tutto si ottiene con i “canti curativi”, molte cose, altrettanto utili, si possono ricavare dalle maledizione, se si è in grado di usarle.» rinfacciò senza alcuna vergogna a Nathan e poi anche a Cade, guardandolo con fastidio, come se da lui si fosse aspettato più comprensione.
In effetti era proprio così e Cade dovette pensarla allo stesso modo perché si portò una mano dietro la nuca, si scompigliò i capelli imbarazzato, e mormorò qualche scusa bassa ed impacciata.
«Scusa, è che quasi diventavo sordo prima, sono entrato nel panico.»
Cicno lo fissò ancora per un po’ con quell’espressione contrariata ma poi espirò con forza e annuì.
«Comprensibile.» disse solo, ponendo fine alla conversazione.
Jane alzò gli occhi al cielo. «Io l’ho apprezzato. Usare anche il male a proprio vantaggio è il raggiungimento massimo di un potere, credo.» affermò occhieggiando Nathan, spronandolo a contraddirla.
Il soldato si lasciò sfuggire un grugnito infastidito. «Non farlo mai più su di me, chiaro principessa?»
«Continuo a non capire perché ti riferisci a me con questo nome. Mi pare più che evidente che io sia un uomo, il termine corretto sarebbe “principe”.»
Jonas abbozzò un sorriso forzato. «Lo usa in modo denigratorio. La principessa è una giovane servita e riverita, che va protetta e viene viziata, non è in grado di difendersi da sola e ha uno stuolo di servitù che fa ogni cosa per lei. In più è una donna e-» guardò Lea ed Eliza deglutendo, entrambe lo stavano fissando in attesa che finisse la sua spiegazione. «- e, secondo l’immaginario comune, sai, i “luoghi comuni”? Quelle cose che si danno per vere solo perché quell’immagine è radicata nella storia e ne- Va bene, sto peggiorando la situazione. Ho capito, sto zitto.» concluse abbassando la testa.
Sullo schermo era tornato visibile il simbolo di Ade, quando sarebbe apparso il prossimo dio a trarlo d’impaccio?
«No, per favore, continua a spiegare.» lo spronò però Jane, sarcastica.
«In pratica si fa l’associazione stupida di “principessa uguale ragazzina debole ed indifesa, uguale presa per il culo perché anche tu sei debole e indifeso e neanche degno di essere chiamato uomo”. Tutto qui, le solide idee assurde di chi non ha la più pallida idea che una donna possa tranquillamente ammazzarti come farebbe un uomo e per giunta senza farsi scoprire.» s’intromise Cade grattandosi ancora l’orecchio, controllando poi che non vi fosse rimasto sangue rappreso.
Cicno alzò un sopracciglio per nulla convinto. «Penso sia indubbio che la forza fisica di un uomo sia superiore a quella di una donna, per altro, ai miei tempi, le donne non venivano addestrate ed allenate. Posso assicurarti, figlio di Ares, che ho conosciuto moltissime donne e anche principesse, in grado di decapitarti con un colpo di spada. Nella mia terra non era inconsueto sentire storie di donne che avevano rovesciato tiranni, distrutto imperi. Le donne di Sparta tutte sarebbero piuttosto infastidite dalla tua assunzione. Le Amazoni anche. Le maghe, le ninfe, le semidee comprese tue sorelle. Come puoi fare un pensiero del genere?» domandò confuso da quella spiegazione.
Certamente, in passato, Cicno aveva sentito di violenze, di soprusi, di vendette e di ingiustizie perpetrate contro le donne. Era indubbio che alcune non sapessero come difendersi, era indubbio che il loro ruolo era sempre stato quello di protettrici del focolare e di levatrici, ma anche la più anziana donna del mercato sarebbe stata in grado di prenderti a bastonate, per difendersi.
Cicno la vedeva la differenza tra i due generi, l’aveva sempre vista, specie davanti alla legge. Ma da lì ad etichettare il nobile ruolo della principessa come quella di essere indifeso e debole… il mondo era cambiato in modi che forse lui non sarebbe mai stato in grado di comprendere.
Batté le palpebre e si voltò di nuovo verso Nathan, mentre Jonas, di soppiatto, allungava la mano per dare un colpetto a Cade e ringraziarlo d’averlo salvato.
«Per di più, soldato, se questa è la tua idea di donna, vedi davvero in me un essere debole e bisognoso di protezione? Credevo di aver dato prova di me più volte. Vuoi che ti renda del tutto impotente, in modo da mostrarti come sia realmente esser deboli?»
Nathan lo guardò come se avesse voluto incenerirlo, pronto a rispondere per le rime a quell’efebo da due soldi, quando con un altro crepitio, questa volta breve, il volto pallido di Ade apparve sullo schermo.
 
 
«Sì, credo sia connesso.» annuì il dio gettando uno sguardo oltre la telecamera. «Cosa? Mi devo- Oh, certo, troppo vicino. Inquadratura a mezzo busto, grazie.» continuò rivolto al cameraman scheletrico.
 
 

«Ti ha salvato Ade.» sibilò il biondo rivolto al compagno.
Cicno ghignò. «Abbiamo ancora altre otto prove, non essere pessimista.»
 
 
 
«Benvenuti ancora a tutti coloro che sono riusciti a portare a termine la sfida di Ermes.
Per tutti voi che avete trovato la vostra Sfera dei Ricordi, congratulazioni, siete ufficialmente ammessi alla quinta prova.
Coloro che invece non hanno rinvenuto la propria, ora sono dispersi per le Praterie degli Asfodeli e perduti per sempre.»
Il suo tono era basso e monocorde, palesemente già annoiato da quell’ennesima apparizione.
Ade osservò lo stuolo di anime che si srotolava ai suoi pedi, metri, metri, se non chilometri di anime più o meno sbiadite, più o meno malridotte, ma tutte ancora pienamente consapevoli di sé.
 
Forse neanche consce di quanto siano presenti a sé stessi.
 
Malgrado però vi fossero ancora moltissimi mortali, alcuni provenienti anche da altre realtà, il Dio non poté far a meno di notare quanto, ancora una volta, fossero semidei e benedetti dagli Dei a trovarsi in prima fila. I mortali stavano faticando sempre di più a reggere il ritmo di chi aveva sangue divino nelle proprie vene, arrivando dietro i loro avversari con ore di distacco, qualcuno anche con giorni forse.
I partecipanti non si erano probabilmente resi conto che mentre loro assistevano alla nuova presentazione della prova, altri erano ancora impegnati dell’Area Cani, alcuni alla ricerca della loro Sfera.
Forse queste anime, rimaste alla terza prova, non sarebbero mai riuscite a superare la quarta, Ade dubitava vi fossero ancora abbastanza sfere integre per soddisfare tutte le anime rimaste indietro, o forse erano invece tra le poche fortunate il cui ricordo era stato posto lontano dai normali sentieri battuti. Forse, e qui Ade non sapeva se augurarsi che fosse così o meno, qualcuno aveva salvato determinate sfere, pronto a rimetterle in gioco al momento opportuno.
L’unica prova ufficialmente e completamente chiusa, se non si contava la prima che consisteva nel raggiungere la sua dimora, era la prova del Labirinto. L’edera di Persefone aveva divorato tutte le sfortunate anime rimaste intrappolate da settimane, ormai.
Il dio osservò coloro che invece erano stati così forti, scaltri e fortunati d’aver superato ogni prova e contrasse leggermente le labbra, infastidito: erano ancora troppi e ciò significava che quella stupida gara sarebbe durata ancora molto.
 
Per l’Olimpo, Gio, qualcosa di più semplice non potevi inventartelo?
 
Ade si schiarì la voce con un colpo secco ed indietreggiò di qualche passo come i suoi scheletri gli indicavano di fare.
Avrebbe anche dovuto dare una promozione a quelle povere anime, tutto lo S.P.I.R.A stava facendo gli straordinari per quella farsa.
 
«Le anime perdute non sono un nostro problema, però.
È quindi senza ulteriori indugi che vi presento la mente dietro la prossima prova.»
Fece un cenno alla telecamera e le casse fissate dietro agli schermi esplosero con una musichetta accattivante, mentre la voce già conosciuta di Eolo iniziava l’ennesima sviolinata su quanto fossero magnifiche e spettacolari quelle prove, su quali fossero alti gli ascolti generali e come fosse possibile votare per il proprio preferito.
Eliza alzò gli occhi al cielo a quelle parole: sembrava di stare alle corse dei cavalli, con gli Dei che puntavano sull’uno o l’altro concorrente. Evidentemente nessuno di loro era il preferito di qualcuno, perché non avevano avuto aiuti o facilitazioni durante le prove, se non gli incontri fortuiti con altre anime che poi si erano unite a loro.
A quel pensiero Eliza aggrottò le sopracciglia: e se fosse stato proprio quello il “premio” per esser stati i favoriti di qualcuno? In effetti c’erano degli eventi che nessuno di loro si sapeva spiegare, come ad esempio l’incontro casuale con Jane, che avevano salvato da morte certa, o quello con Úranus e Lea. Cade salvato da Cicno quando era ormai perso e svenuto, le anime che attaccavano lei e Nathan per poi crollare tutte a terra e le sfere! Jonas che sente la sua, lei che sente quella di Cade, Cade che trova quella di Úranus, Lea quella di Jonas. A conti fatti solo la sfera di Jane era stata recuperata in modo “normale”, ricercandola con un potere specifico.
Eliza non si era interrogata troppo sul modo in cui ognuno di loro avrebbe dovuto trovare la propria sfera in mezzo a miliardi di altre, sparse per ettari ed ettari di Praterie mutevoli, ma ora invece, iniziava a pensare che vi fosse uno schema, una volontà ben precisa.
 
Anche Ermes ha scremato in qualche modo chi preferiva da chi non voleva più in gara, facendoli giungere prima o dopo ai propri ricordi. O forse non gli interessava davvero ed ha inventato quell’assurda prova solo mettere fine a tutto?
 
Il fatto più preoccupante era che ogni opzione poteva risultare corretta. Gli Dei lasciavano tutto al caso per divertirsi di più? Possibile. Gli Dei muovevano ogni anima come se fossero marionette? Possibile anche questo.
Ma quanti esseri potevano osservare contemporaneamente? Potevano gli Dei fare in modo e maniera di esaminare tutti, tutti i morti del mondo e scegliere i loro preferiti?
Probabilmente non ci sarebbero riusciti neanche se fossero stati in grado di sdoppiarsi.
Eliza guardò con attenzione lo schermo, dove Ade era voltato di tre quarti, ad osservare l’ospite d’onore che, ad agio, saliva le scale del palco.
In ogni caso, che la gara fosse completamente truccata o meno, la prossima prova non le avrebbe lasciato il tempo di riflettere e consultarsi con i suoi compagni. Stava per iniziare.
 
 
*
 

Sollevando l’orlo del vestito giallo, un pugno in un occhio in mezzo a tutti i toni cupi che coloravano il sottomondo di suo fratello, Demetra salì gli ultimi gradini che la dividevano dal palco, pronta ad entrare finalmente in scena.
Si era in parte già pentita della sua scelta di partecipare alla progettazione delle prove, ma d’altro canto non aveva molto da fare se non seguire la gara in televisione o assieme a sua figlia, quindi tanto valeva dare una bella potatura a quell’ancora troppo folto gruppo di anime.
Persefone aveva fatto un lavoro buono, ma era palese che non le interessasse chi altro potesse vincere a parte i suoi fratellastri ed i suoi figli. Artemide era stata più cruenta, ma alla fine neanche così crudele. Ermes, per chiudere, era stato più fine, ma non si era giocato al meglio le carte che s’era trovato in mano.
Demetra fece una smorfia arricciando il naso, senza preoccuparsi che venisse ripreso dalle telecamere.
Si affiancò a suo fratello scambiandosi un cenno del capo, dopodiché si fermò esattamente sull’adesivo a forma di teschio che gli addetti avevano attaccato sul pavimento.
Guardò con malcelata indifferenza tutte quelle anime, individuando subito con lo sguardo tutti i suoi figli, i suoni nipoti, qualche discendente. Scorse anche gli altri semidei ed i protetti di ogni membro della sua famiglia e non si sorprese affatto di trovarli tutti riuniti in gruppi più o meno grandi. Sorrise. Se era vero quello che si vociferava in giro e che qualcuno aveva intenzionalmente fatto sì che ogni semidio si ritrovasse in una squadra, allora aveva fatto davvero un ottimo lavoro, perché non solo li aveva uniti, ma l’aveva fatto anche con un certo criterio, in modo ben o male bilanciato.
Se quella era opera di Gio gli avrebbe mandato un mazzo di fiori. O forse avrebbe preferito altro? Qual era il frutto preferito di quel ragazzino, il lampone o la pesca? Poco male, gli avrebbe fatto recapitare un cesto di frutta ed uno di cereali, si ricordava bene quanti ne mangiasse da piccolo.
Spostando poi la sua attenzione dinnanzi a sé, Demetra mosse leggermente le mani, per chiedere un silenzio che ottenne immediatamente.
 
«Benvenuti alla quinta prova della Gara della Morte.
Io sono Demetra, dea delle terre, della natura, del raccolto e della fertilità. Ho partorito le stagioni, è mia figlia la Dea che governa ogni stato del vostro mondo mortale, nonché l’artefice della vostra prima prova.» iniziò a parlare tranquilla.
«Tutti voi siete morti per vari ragione. Alcuni hanno aspettato per anni l’arrivo di Thanatos, altri di voi l’hanno incontrato per caso prima del dovuto, prematuramente, nel bene e nel male. Qualcuno lo ha ricercato e qualcun altro ha tentato di sfuggirgli con tutte le sue forze. Ma ora siete qui ed il vostro passato non ha alcun valore, le vostre gesta sono nulle, il vostro credo inutile.»
 
 
«Solo io ho la sensazione che la signora sti per buttarci nella tana dei leoni?» mormorò Cade a mezza bocca.
Cicno annuì. «La divina Demetra non è una dea caritatevole, ma neanche spietata. Lei è la natura e come esse non è altro che giusta.»
«Sì, ma giusta secondo chi?» chiese piano Jane, gli occhi fissi sullo schermo dove quella donna, quella dea, stava parlando come se avesse tutto il tempo del mondo.
Ai suoi tempo una donna nera non avrebbe mai avuto la possibilità di tenere banco davanti a tutte quelle persone, a tutti quegli uomini, per giunta bianchi. Sarebbe stata una schiava, avrebbe vestito di stracci a meno che il suo padrone non fosse stato abbastanza caritatevole da regalargliene di veri. La sua vita sarebbe stata decisa dal capriccio di ogni giorno, l’avrebbero picchiata, affamata, abusata, costretta a dire qualunque cosa per compiacere il proprio padrone. Proprio come era successo a Tituba.
E invece, pensò Jane con un lugubre sorriso sul volto pallido, sugli scarni d’oro dell’Olimpo sedeva e governava una donna nera come la terra bagnata, che comandava su tutto, anche su ciò che per l’uomo era impensabile comandare: la natura.
Non era un Dio, un uomo a regnare sulla vita, ma una donna, fertile, forte ed inscalfibile e, Jane lo sapeva per certo pur non avendo avuto mai nulla a che fare con lei, tanto madre quanto matrigna.
 
 
 
«Non esistono azioni che possono accumunare genti di ogni era, di ogni dove. Nessuna. O quasi.»


 
 
«In che senso? Non c’è nulla che possa accumunarci ma c’è una cosa che invece lo fa?» domandò Lea torcendosi le mani.
Perché quella dea le stava mettendo tutta quell’ansia addosso?
Eliza, al suo fianco, le lanciò un’occhiata comprensiva. «Sì, non suona bene neanche per me e credo che sarà il fulcro della sua prova.»
 
 

«Pensate dunque, a cosa possa accumunarvi a tutti i morti della Terra. Domandatevi cosa c’è in voi, o dovrebbe esserci, che vi rende simili agli altri, qualcosa su cui non potete dissentire, che ognuno di voi, almeno una volta nella vita, ha vissuto, ha provato, ha fatto.
O almeno, ve lo auguro.» aggiunse con tono quasi sadico.
«Alle mie spalle, coperto da un muro di Foschia, si cela lo scenario della vostra prossima prova. Durante tutte le altre vi siete ritrovati a combattere senza che nessuno ve lo avesse chiesto: ora io lo faccio.»
 
 

 
«Cazzo!» imprecò Nathan stringendo i denti.
Eliza annuì cupa. «Siamo praticamente disarmati, se dovessimo scontrarci con anime armate non avremmo la meglio.»
«Mi spiace distruggere i vostri sogni, ma non credo andrebbe meglio neanche se lo scontro fosse a mani nude.» sbuffò Jonas già prossimo ad una crisi di nervi.
«Possiamo sempre trovare altre vie.» mormorò Cicno. «C’è sempre un modo per aggirare lo scontro.»
 
 
 
«Giunti al luogo designato vi troverete davanti a coloro che, in vita, hanno giurato di proteggere la loro patria, il loro regno, il loro signore e la loro famiglia anche a costo della vita. Valorosi combattenti che hanno dato la propria vita per il loro credo.
Costoro sono stati per secoli a protezione dei luoghi più importanti dell’Ade e oggi continueranno nel loro lavoro.
Il vostro compito sarà riuscire a superare le guardie dell’Aldilà ed arrivare al vostro obiettivo: entrare nei Campi Elisi.»
 
 
 
I ragazzi rimasero fermi, nessuno di loro osò muoversi mentre tutto attorno iniziavano ad alzarsi lamenti di protesta e di sorpresa, imprecazioni e maledizioni contro la sfortuna, la crudeltà divina e anche contro la stessa Demetra.
Insulti che non furono molto graditi dalla dea.
Demetra volse lo sguardo verso l’anima bestemmiatrice e questo bastò perché la terra si aprisse sotto i suoi piedi e la inghiottisse.
Jonas si strinse inconsciamente a Cade ed il rosso fletté le gambe, pronto a spiccare di nuovo il volo in caso di pericolo.
Che fosse stato quello il terremoto che avevano sentito prima? Demetra che faceva sparire gente nelle profondità dell’Ade?
Il ragazzino tremò al sol pensiero. «Come-?» balbettò terrorizzato.
Cicno rimase a fissare lo schermo impassibile. «Mai sottovalutare un essere divino. È sciocco insultare una dea proprio al suo cospetto, specie una impietosa come Demetra.»
«Quindi,» soffiò piano Lea, timorosa che la dea potesse sentirla anche in mezzo a tutti quei versi scioccati e spaventati. «quindi do-dovremmo davvero tornare nei Campi Elisi?»
«Sì.» disse secco Nathan. «E dovremmo inventarci un modo per farlo tutti.»
 
 
 
Demetra tornò a guardare la telecamera senza fare una piega.
«Dovrete quindi introdurvi oltre le mura bianche, ma dovrete farlo rispettando alcune regole.
Primo, e anche più banale punto, non dovrete farvi fermare dalle guardie.
Penso che ora tutti vi siate ben o male resi conto di potervi ferire, di poter provare dolore, sappiate perciò che, a differenza vostra, loro non soffrono di queste debolezze. Sono forti ed inscalfibili come Ade stesso ha concesso loro dandogli il ruolo di guardie, ma ciò non significa che siano imbattibili. Se li batterete e loro vi crederanno degni di passare allora ve lo concederanno. In caso contrario vi uccideranno senza pietà e avranno la mia gratitudine per aver tolto un’anima inetta da questa gara.
Secondo: non dovrete in alcun modo cercare di distruggere le porte, né quella centrale né quelle laterali. Al loro Guardiano non piacerebbe.» ghignò.
 
 
 
«Di che guardiano parla?» domandò Jane rivolta a Cicno.
Ma il greco aggrottò le sopracciglia. «Io- non credo che possa-» s’interruppe crucciato. «Una sola possibilità mi sovviene, ma spero con tutto il cuore d’errare.»
 
 
 
«Ed ora alla terza regola: Dovrete riuscire a scappare al Guardiano o a superare la sua prova.
Sarà lui a giudicare altrimenti la vostra vita, la vostra anima, seguendo lo stesso ed unico criterio che accomuna ogni vita umana.» continuò placida la dea.
Il ghigno che le era comparso in volto si fece ancora più profondo, crudele come tante volte la Natura stessa si era dimostrata verso qui figli ingrati che erano stati colpevoli d’aver rovinato ogni cosa buona da lei creata.
 
 
«Avete fatto, in vita, l’unica cosa degna, per ambire al perdono?»















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Capitolo 16
*** Eye- parte seconda ***









Capitolo XVI- Eye- parte seconda.







La dea non aveva atteso una risposta dai suoi interlocutori, non si era attardata a guardare le loro facce sgomente, le spalle basse, i corpi tesi. Demetra aveva girato le spalle a tutti, compresa la dannata telecamera che aveva continuato a riprenderla.
Eolo sbuffò sonoramente, tamponandosi la fronte con un fazzoletto inumidito, maledicendo la dea per non esser rimasta altri due minuti al suo posto, anche solo a far scena.
Il suo assistente lo guardò quasi dispiaciuto, ma ormai abituato ai comportamenti poco collaborativi delle divinità, specie quando erano in diretta come in quel momento.
Erano tutti principi e principesse, tutti pronti a far quel che volevano ignorando la scaletta ed i tempi televisivi, come se quelle lunghe liste, quei copioni, i gobbi, fossero stati fatti per pura forma e non perché dovessero essere seguiti.
 
«Signore, cinque minuti di panoramica sulle anime sconvolte, stiamo mandando una buona base tragica e lasciando che il pubblico ascolti un po’ di lamentele e di pianti, ma poi deve tornare lei in scena.» gli disse l’assistente con una smorfia: non aveva molte altre possibilità, questo era il punto.
Eolo annuì, lasciando che qualche Aura gli ritoccasse il trucco e che il satiro addetto alle luci facesse i suoi test di contrasto.
Quella stupida macchinetta con quell’ancor più stupida pallina bianca si frappose tra di lui e l’assistente ed Eolo pregò suo padre di dargli la forza di affrontare un’altra massacrante sessione d’onda.
Qualcuno chiamò all’ordine, la sirena che indicava l’imminente passaggio di scena fece scappare tutti in fretta dal set ed il dio dei Venti si ritrovò a posizionarsi meccanicamente della sua solita posa eretta e sorridente.


«Tre- Due- Uno. Camera sul conduttore. Luci. Audio e… in onda!»
 
«Bentrovati cari telespettatori!
La Divina Demetra ha appena annunciato la sua prova e le regole che i nostri concorrenti dovranno rispettare per poter superare anche questo traguardo! Sorpresi? Soddisfatti? Scioccati?
Beh, molti dei nostri beniamini lo sono, a quanto pare. Cosa ne dite? La Divina Demetra ha imposto che tutte le anime, anche quelle dei dannati ancora in gara!, entrassero nei Campi Elisi, ma soprattutto-» fece una pausa ad effetto, la telecamera allargò l’inquadratura in un primo piano pieno di patos ed Eolo sfoggiò una delle sue facce più serie. «Dovranno affrontare il Guardiano
La regia fece partire dei mormorii registrati che andarono a sommarsi a quelli degli spettatori in sala.
Il Dio dei Venti scosse la testa.
«È a tutti noi noto quanto sia difficile passare il vaglio del Guardiano dei Campi Elisi, che la Divina Demetra sia stata troppo dura? Riusciranno le anime dei dannati a superare la prova?» chiese con tono grave attendendo che altri suoni preimpostati partissero per sottolineare la difficoltà dell’evento.
«Ma questo forse potranno dircelo coloro che, da secoli, non fanno altro che questo ogni singolo giorno! I Giudici Infernali!»
Sorridendo ampiamente indicò con la mano la sua destra, dove era stato allestito un piccolo salottino in cui erano state posizionate tre poltrone, di cui solo una era occupata al momento.
L’unico Giudice presente sedeva con tranquillità e pacatezza, la schiena dritta e lo sguardo calmo.
Il mantello che teneva appuntato sulla spalla da una spilla dorata ricadeva sulla poltrona con un drappeggio quasi scenico, come se fosse stata sistemata con attenzione ogni singola piega. Esattamente com’era successo, in effetti.
Il Giudice intrecciò le mani in grembo ed accennò un sorriso alla camera.
 
«Buona sera a tutti. Eolo.» disse con lentezza, come se avesse tutto il tempo del mondo, come se fosse abituato a tener discorso ed essere ascoltato con attenzione.
Il Dio dei Venti sorrise più ampiamente ed accennò un applauso che fu nuovamente seguito dalla regia.
«Signore e Signori, il primo e più famoso dei Giudici Infernali: Minosse!»
Altri applausi registrati scrosciarono sopra quelli del pubblico, il sorriso forzato di Eolo sembrava una maschera sul punto di rompersi ma nessuno pareva notarlo.
«Purtroppo, gentile pubblico, oggi potremmo gioire solo della presenza del Re Minosse. Malgrado la più avvincente ed emozionanti delle gare si stia svolgendo nell’Ade, ciò non impedisce ai mortali di portare a termine il loro triste destino come hanno sempre fatto. Per questo motivo i suoi egregi colleghi hanno scelto di rimanere stoici sul loro banco di giudizio a far il loro dovere e hanno lasciato che fosse il più antico e preparato di loro ad illuminarci, quest’oggi, con le sue parole!»
Minosse fece un cenno di diniego con il capo, alzando le mani come se volesse negare l’affermazione di Eolo. «I miei colleghi sono saggi e preparati quanto me, posso dire di esser stato agevolato solo dall’anzianità.» scherzo con falsa modestia, interiormente appagato dalle lusinghe del dio.
«Allora, in veste di Giudice Infernale più anziano, cosa ne pensa di questa gara, di come si stanno svolgendo le singole prove. So che a voi Giudici tocca supervisionare le azioni più illecite ed aiutare gli Dei ideatori di ogni prova a decretare se l’anima abbia effettivamente portato a termine questa o meno. Ci dica, prego.»
Minosse questa volta annuì. «Le prime prove sono state, per così dire, facili da giudicare: ogni Dea e Dio impegnati nella progettazione è stato piuttosto scaltro, decretando un’azione o il ritrovamento di un determinato oggetto per riuscire a superare la prova. Arrivare alla Casa di Ade ed uscire dal Labirinto di Persefone erano già di per sé abbastanza chiare. La divina Artemide ed il divino Ermes sono stati altrettanto furbi, scegliendo un oggetto materiale, di cui tutti potevano appropriarsi, e poi un oggetto immateriale che solo una singola persona poteva sfruttare. Per di più, durante la prova delle Sfere dei Ricordi si è visto, proprio come nella gara del Labirinto, il vero potenziale strategico di ogni anima: abbiamo visto anime spingere altre anime nei muri d’edera o distruggere le sfere per impedire ad un’altra anima di continuare la gara. Credo che quest’ultima prova sia quella che abbia maggiormente assottigliato la lista dei partecipanti.» spiegò placido intrecciando le mani in grembo.
Eolo rivolse l’ennesimo sorriso finto alla telecamera, i fogli con la scaletta stretti in mano assieme al microfono. «E abbiamo visto come siano sempre di più i semidei, i discendenti ed i benedetti ad arrivare per primi al termine di ogni gara. Cosa ne pensa?»
«Come era ovvio che fosse, direi. I figli degli Dei sono sempre stati più potenti, più forti, più scaltri. Non mi sorprende vederli tutti in prima fila, così come non mi sorprende vederli aggregati in squadre.»
«Ma ci sono stati dei casi curiosi, non crede?» domandò ancora gettando un occhio al gobbo.
Perché avevano aggiunto quella domanda? Aveva la dannata scaletta in mano, con le domande approvate dalle alte sfere, che stava succedendo?
«Oh, ce ne sono stati eccome.» rispose Minosse con un sorrisetto divertito sul volto pallido. Per lui le domande scomode erano null’altro che un piacevole intrattenimento, molto più che quella stupida gara. «Iniziamo dalle anime disperse per le Praterie che sono riuscite comunque a mantenere una coscienza di sé e a partecipare?» chiese provocatorio. «Com’è possibile? Sono più che certo che nessuno di voi Dei sia andato a cercare ogni singola anima sensiente, no?»
Eolo sentì i muscoli dei suoi zigomi quasi contrarsi in spasmi involontari. «Beh, sono sicuro che qualcuno li abbia mandati, qui ci occupiamo solo di documentare le prove, sono altre grandi menti quelle dietro ad ogni meccanica.» cercò di recuperare.
Il gobbo si illuminò di nuovo.
 
Cosa ne pensa delle anime scomparse nel Labirinto”
 
Cosa?

Il Dio dei Venti cercò di ignorare quella seconda domanda del tutto inopportuna ed abbassò lo sguardo sui suoi foglietti, cercando di recuperare il filo originario del discorso.
«Cosa ne pensa de-»
«Oh, ma certo, le anime scomparse nel Labirinto.» esclamò invece il giudice scorgendo anche lui la scritta sul gobbo. «Questo è un dettaglio interessante, non credete, Eolo? Anime benedette, anime di eroi che avevano tutte le carte in regola per superare la prima, vera prova, sono state catturate dai rami dell’edera della divina Persefone, mentre anime di dannati, di dimenticati o di persone comuni che rischiavano di scomparire per sempre, sono state salvate. Per non parlare della scomparsa delle armi disseminate per il Labirinto.» proseguì quello senza alcun freno, sempre più compiaciuto della piega che stava prendendo la situazione.
Eolo invece sudava freddo, sullo schermo luminoso si srotolavano frasi, domande, insinuazioni, rimandi ad eventi che Zeus in persona gli aveva detto di non citare, di non portare all’attenzione del pubblico.
«Credo sia scontato dire che c’è qualcuno, lì sotto, che sta giocando una partita tutta sua. Qui su abbiamo le votazioni, i preferiti, gli eroi più acclamati che ricevono grazie ed aiuti dagli spettatori da casa, ma nell’Ade ci sono reietti e sconosciuti che stanno ricevendo supporto da un’entità sinistra.»
Il dio continuò a guardare lo schermo, ignorando la telecamera puntata su Minosse. Il gobbo ricordava come anime scomparse durante la prima prova fossero riapparse al via della seconda, come interi gruppi di beati fossero stati rallentati per lasciar passare dannati che, se solo avessero incrociato la via dei suddetti eroi, sarebbero stati falciati dai loro poteri divini. Insinuava come anime provenienti dai cancelli neri fossero giunti nelle Praterie degli Asfodeli, alla ricerca della loro Sfera dei Ricordi, con le armi che avevano avuto in vita, quelle stesse armi che gli erano state strappate dalle mani morte, dalle tombe profanate, che certo non avevano raggiunto neanche la prima terrazza.
«C’è qualcuno in grado di fare una cosa del genere? Assolutamente sì, e credo che tutti noi sappiamo chi sia.»
Mentre Minosse continuava a parlare di come tutti questi eventi fossero curiosi e pericolosi allo stesso tempo, mentre il pubblico sussultava e si indignava, scoprendo sempre nuovi dettagli che gli erano stati nascosti, mentre le Aure impazzivano dietro ai telefoni, ai messaggi divini, alla programmazione del gobbo che sembrava aver preso vita propria e non riuscivano a fermarlo in nessun modo, neanche staccandogli al spina, Eolo guardò dritto davanti a sé, dietro a tutte le scalinate piene di esseri divini, creature e spiriti, oltre le luci rosse delle telecamere ed i volti pieni di panico della sua troupe.
Lì, nel buio denso del muro, una mezzaluna s’allargava lentamente. Lucidi ed affilati, bagnati di saliva come le fauci di una bestia affamata, la cui sola vista del cibo le faceva venire l’acquolina in bocca, una sfilza di denti scintillava come se vi avessero puntato contro un faro.
Sopra quel ghigno galleggiante due biglie verdi intarsiate d’oro s’aprirono fissandolo con attenzione.
La pupilla nera si chiuse in uno spiraglio sottile come gli occhi di un serpente.
La lingua rossastra e carnosa passò veloce sui denti, leccando le labbra inesistenti.
 
Eolo guardò impotente la decisione del Fato: aveva scelto caos.
 
 
Dovrebbe sorprendermi sapere che anche tu sei dalla parte di Giordano Delle Vie?
 
 
Il nulla rise.
 
Ovviamente, no.
 





*
 





Quando Demetra se n’era andata, senza minimamente preoccuparsi del caos che si stava lasciando alle spalle, gli schermi si erano velocemente fatti neri. Il simbolo di Ade come unico segno che fossero ancora in funzione.
Cade aveva fissato per un momento quello che gli pareva un omino stilizzato con le braccia alzate e poi, scuotendo la testa, si era voltato verso i suoi compagni.
C’era ancora tenzione tra di loro: un po’ per la gara, un po’ per lo scherzetto di Cicno nel renderli tutti sordi con una maledizione, un po’ perché palesemente Nathan si sentiva il fuoco al sedere nel ritrovarsi davanti a qualcuno che ne sapeva più di lui, che era più potente di lui e che non aveva neanche paura di mostrarlo.
L’irlandese allungò una mano verso Jonas, stringendogli delicatamente il polso per tirarselo vicino. Aveva la vaga sensazione che presto tutte le anime sarebbero insorte in un modo o nell’altro, specie da come il vociare si stava sempre più alzando attorno a loro.
 
«Abbiamo un bel problema ora.» sospirò Lea stringendo le braccia al petto.
Stava cercando disperatamente di trovare una soluzione veloce ed indolore, ma l’unica cosa che le rimbombava in mente erano i sermoni del prete del suo orfanotrofio, parole lontane e sbiadite ma che suonavano stranamente come salvifiche.
Cade annuì. «La gente non l’ha presa per niente bene.»
«Vorrei ben vedere, quando muori ti spediscono in un luogo dicendoti che non potrai mai raggiungere gli altri. Poi arriva lei e ti dice che devi entrare in uno dei luoghi in cui non potevi entrare.» Jane arricciò il naso infastidita. «Neanche io l’ho presa bene.»
«Questo vuol dire che la maggior parte delle anime rimaste in gara non sono beati?» domandò Eliza alzandosi sulle punte per guardarsi attorno.
Lea le gettò un’occhiata sorpresa e poi fece lo stesso. Quel metro e ottanta che l’aveva sempre infastidita finalmente poteva rivelarsi utile e non le fu difficile svettare sui suoi compagni e osservare i loro rivali.
Aggrottò le sopracciglia. «Non credo. No, non vedo così tanti dannati. C’è molta gente messa male ma ora come ora non saprei dirti se sono sporchi per via delle prove o per il luogo da cui provengono.»  ammise dando un colpetto ad Úranus.
Il semidio scosse però il capo, dandole ragione. «Possiamo dedurre che molte anime non vogliano semplicemente combattere. Dopotutto alcuni di noi hanno ritrovato le loro armi o quelle di altri, ma tanti sono disarmati.»
«Nessuno vuole un combattimento impari.» annuì Nathan.
«Potete biasimarli? Molti di loro sono semplici mortali, che non hanno mai dovuto combattere in vita, non seriamente, non una guerra. Per quanto credo siano presenti centinaia di soldati, provenienti da ogni dove, sono propenso a credere che la maggior parte dei defunti della terra non abbia servito sotto nessuno stendardo.»
Cicno inclinò la testa per far scrocchiare il collo rigido, sorprendendosi nel sentire il classico schiocco.
A lui, così come a tutti gli altri dannati, le ossa non erano mai mancate: malgrado non avessero più un corpo mortale molte punizioni corporali tendevano a ferirli e dilaniarli fino alle ossa, quelle stesse che sarebbero dovute esser cenere ma che, per volontà divina, mantenevano in loro il proprio spettro, solo per farli soffrire ancora di più.
«Cicno ha ragione, probabilmente molti temono lo scontro.» convenne Eliza. «Ma non è il nostro problema principale ora.»
«No, il problema è che tre su otto di noi non possono entrare nei Campi Elisi.» borbottò Jonas.
Il ragazzino era rimasto vicino a Cade, neanche infastidito dalla presa leggera dell’altro sul suo polso. Certo non propenso ad ustionarlo come aveva fatto Cicno.
Fu proprio Cade a dargli una stretta per consolarlo un po’, sorridendogli mesto. «Troveremo il modo per farvi entrare tutti e tre.»
«Se c’è.» mormorarono contemporaneamente Jonas e Jane.
Nathan alzò gli occhi al cielo, maledicendo la loro vena drammatica, ma Cade cercò di ignorarlo e continuò a sorridere agli altri.
«Certo che c’è un modo, deve esserci per forza!»
«Come fai ad esserne così sicuro.» sfidò la figlia di Ecate.
«Perché non avrebbe avuto senso aprire le porte della cloaca del mondo e farne fuoriuscire ogni male, consapevoli del fatto che avrebbero uccido e dilaniato migliaia di anime innocenti, se poi quello stesso miasma non sarebbe stato in grado di passare la quinta prova.» rispose invece Cicno, gli occhi freddi puntati sul muro di Foschia che riusciva a scorgere oltre la marea di anime ancora riunite davanti al palco.
«Credi che non sarebbero capaci d’essere così crudeli da far gareggiare anche voi per poi bloccarvi?» domandò Eliza scettica.
Ma Cicno fece un cenno d’assenzo. «Certamente. Gli Dei sono in grado di mostrarsi magnanimi e crudeli, non metto in dubbio questo. Sarebbero stati perfettamente in grado di aprire i cancelli neri, far illudere tutti noi dannati della possibilità d’esser liberi, per poi imporci una sfida che, apriori, avremmo perso, ma avrei capito questa tecnica all’inizio della gara o alle battute finali, non ora. »
«In che senso?»
«Nel senso che potevano usare i dannati come modo per sfoltire il gruppo principale, ma che avrebbero fatto prima a fare una selezione più rigida all’inizio.» concluse Eliza.
«Sì e no.» le concesse Cicno con un sorriso appena accennato. «Devi vedere l’intera situazione da molteplici punti di vista. Perché non hanno fatto selezioni più rigide, come hai ipotizzato tu?»
«Perché non sarebbero state abbastanza divertenti, questa è la cosa più banale. So dei sadici del cazzo, dopotutto.» borbottò Nathan. «Quanto cazzo ci mettono a muoversi? Perché non tirano giù il muro? Non vorranno che ci immergiamo in una fottuta banchina di Foschia, vero?» continuò sempre più impaziente.
Cicno annuì ancora. «Sicuramente maggiore è il numero di partecipanti, maggiore è l’intrattenimento. Per di più, i dannati fanno più spettacolo. Chi per secoli ha covato in seno risentimenti, dolore, rabbia e vendetta è una bestia feroce pronta a tutti per poter esser finalmente salva.»
«Pensavano che saremmo stati più cattivi?» domandò Jonas sorpreso. «Cioè, è ovvio questo. I dannati, noi dannati, dovremmo essere tali perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato nella vita, lo so, ma ci sono anche moltissime anime come me che-»
«Non hanno fatto male a nessuno o non l’hanno fatto di proposito, che hanno solo fatto la scelta sbagliata consciamente o meno.» concluse rapida Eliza per lui. «Ma ci sono anche tutti coloro che non vedono l’ora di sfogare le loro frustrazioni su terzi, non potendo torturare di rimando i loro torturatori. Va bene, vi hanno presi in gara per renderla più emozionante. Perché credi non vi impediranno ora di proseguire?»
«Cinque è un numero ambiguo, specie su tredici, non credi? Per di più la Divina Demetra ha detto che saremo ancora giudicati e che, questa volta a differenza della precedenza, dovremmo provare di aver fatto l’unica cosa, in vita, che ci permetterebbe di meritare il perdono.»
La figlia di Nike sospirò, in parte rincuorata da quella spiegazione più che logica. «Meritare il perdono, ma certo. Se si è già beati si presuppone che non vi sia nulla per cui essere perdonati, mentre per tutti gli altri…»
«Non andare così di fretta. Siamo stati graziati per un’azione fatta, per un comportamento, una decisione. Ma anche il più onesto degli uomini ha qualcosa da farsi perdonare.» la interruppe Cade.
«Sarà come essere di nuovo davanti ai Giudici.» mormorò Úranus cupo, lo sguardo puntato lontano, pronto a scorgere un qualunque movimento.
«Io neanche lo ricordo più.» ammise senza vergogna Cicno. «Ho solo rimembranze sbiadite di ciò che mi disse Minosse, della sua coda lunga ed affilata.»
Gli altri si voltarono tutti a guardarlo, le sopracciglia aggrottate, i volti curiosi e crucciati.
«In che senso “coda lunga ed affilata”?» domandò Jonas confuso.
«La sua coda, voi non l’avete vista?»
«La coda che si arrotola tante volte quanti i gironi in cui si verrà sprofondati.» mormorò piano Lea, i ricordi dei racconti Danteschi fattigli da Giovanni che le tornavano in mente.
Dante Alighieri e la sua Divina Commedia… c’era qualcosa in quel testo, nel ricordo di quell’opera che mai aveva letto per intero che le solleticava la lingua, una frase celebre, più frasi celebri, una costante che si ripeteva in ogni mondo ultraterreno. Cos’era?
Si volse verso Jonas e Nathan, pronta a chieder loro se ricordavano nulla della famosa Commedia, ma si bloccò non appena si ricordò che nessuno dei due era italiano, quindi vi erano davvero poche possibilità che l’avessero studiata.
Si mordicchiò il labbro pensosa. Úranus e Cicno erano da escludere a priori e anche Eliza non credeva ne sapesse nulla. Forse Jane? No, neanche lei doveva saperlo, era scritta in volgare, neanche in latino, quindi, a meno che non fosse giunto nella sua città un predicatore italiano con la passione per la letteratura del Trecento dubitava fortemente che la figlia di Ecate potesse aver la più pallida idea di cosa stesse parlando.
Per l’amor del cielo, ce l’aveva sulla punta della lingua, era una frase famosissima, era alla fine di ogni mondo, c’entravano le- le stelle!
 
Ma che diamine centrano le stelle ora?
 
«Si stanno muovendo.» esclamò d’improvviso Úranus attirando anche l’attenzione della figlia di Apollo.
Lea alzò di scatto la testa, guardando prima il compagno e poi il mare brulicante di anime davanti a lei che sembrava tremare come un campo di grano.
«Che sta succedendo?» chiese Jane alzandosi sulle punte per poter scorgere qualcosa, invano.
Poi le voci si alzarono e le anime cominciarono a muoversi più velocemente, quasi impaurite.
«Roscio malpelo, riesci a fare un salto e vedere?» domandò Nathan accennando anche lui un saltello per poter svettare sopra tutti gli altri partecipanti, confusi quanto loro.
Cade annuì, strinse un’altra volta il polso a Jonas e poi lo lascò per spiccare un balzo e librarsi a circa cinque metri da terra.
Sospeso in aria per una frazione di secondo che sembrò durare una vita, Cade percepì i suoi stessi occhi spalancarsi per lo sconcerto, il fiato bloccargli in gola, la lingua seccarsi.
«Porca vacca.» sibilò a denti stretti ridiscendendo a picco come un sasso gettato in acqua.
«Cos’hai-» provò a chiedere Jane inutilmente.
Cade neanche la guardò in faccia, afferrò di nuovo Jonas e poi proprio la figlia di Ecate e se li tirò dietro scattando in avanti.
«Muovetevi! Muovetevi, muovetevi! Dobbiamo andare via di qui. Stanno tutti tornando indietro, dobbiamo allontanarci!» gridò facendosi strada a forza tra le altre anime, prendo a spallate chiunque non si togliesse di mezzo.
«EHI! Che diamine fai, pazzo rosso! Lasciami immediatamente!» protesto Jane inciampando nei suoi stessi passi, la gonna lunga ingombrante e stracciata che le andava tra i piedi.
«Che cazzo succede?!» gli urlò dietro Nathan afferrando comunque Lea per il braccio e spingendosela davanti, mentre Eliza faceva lo stesso con Úranus e contemporaneamente cercava con lo sguardo Cino.
«Stanno tornando indietro! Sta crollando tutto!» rispose Cade tra la confusione generale che le sue stese grida stavano generando, sommatasi a quella che altre anime in fuga come loro si portavano dietro.
Jane inciampò di nuovo, scivolando dalla presa di Cade che voltò di scatto al testa, lanciò Jonas in avanti rischiando anche di farlo cadere e cercò di frenare la sua corsa nel tentativo di raggiungere Jane. Ma proprio quando la figlia di Ecate stava per crollare in ginocchio un braccio inaspettatamente forte le si strinse attorno alla vita ed improvvisamente si ritrovò sollevata da terra, stretta nella presa salda di Cicno.
«Perdonami, non avrei osato tanto se non fosse necessario.» le disse sbrigativo facendo cenno a Cade di muoversi mentre i loro compagni tiravano tutti un sospiro di sollievo.
«Per questa volta lascerò correre.» ansimò Jane in cerca d’aria per quell’improvviso scatto. Per un momento era stata certa che sarebbe caduta e le altre anime l’avrebbero calpestata a morte. Non era la prima volta che succedeva.
Cade nel frattempo si era girato di nuovo verso Jonas che, malgrado avesse cercato di fermarsi, aveva continuato a muoversi spintonato dalle altre anime.
Fu un sollevo sentire la mano di Cade afferrarlo per la maglia e tirarselo contro, facendogli da scudo contro le altre anime spaventate.
«Cosa sta crollando? Perché crolla?» domandò affannato il ragazzino cercando di non inciampare nei suoi stessi passi.
Cade gettò un’occhiata rapida alle sue spalle, scorgendo tutti i suoi compagni finalmente vicini a lui e deglutì.
«Il muro bianco-»
«Le mura bianche?» gracchiò Lea con voce acuta. Stavano crollando le mura dei Campi Elisi? Dopotutto Demetra aveva detto che non si potevano distruggere le porte, non aveva detto nulla sulle mura stesse.
«Non quelle! Non impanicarti più di quanto già non lo siamo tutti!» le ringhiò contro Nathan spostandola di peso alla sua sinistra per non farla scontrare con altre anime.
«Il muro bianco!» ripeté Cade sopra le urla ed un rumore sordo spaventosamente simile a quello di un terremoto.
Che diamine aveva l’Ade con questa gara? C’erano stati più terremoti da quando era partita la Death Race che da quando Cade era lì, ed erano come minimo cent’anni!
«Il muro che diceva Demetra, quello fatto di nebbia!» gridò.
«Foschia. È un muro di densa Foschia, ciò che rende invisibile il nostro mondo agli occhi dei comuni mortali. È una delle armi più potenti di tua madre.» spiegò Cicno. Si girò di lato, alzando di più Jane, sollevandola quasi all’altezza del suo volto per farla passare sopra a delle anime ammassate a terra.
«Non è il momento Encyclopedia! Guarda dove cazzo vai piuttosto!» Urlò di rimando Nathan.
Cicno si voltò a guardarlo con fare impassibile. «Poteri vedere anche ad occhi chiusi dove sto andando, a differenza tua.»
«Smettetela di discutere, non mi pare proprio il momento!» Sbottò Lea allungando una mano all’indietro per afferrare Nathan e strattonarlo.
Il figlio di Ares ricambiò la stretta senza neanche rendersene conto, pronto a far presente al greco che se non gli stava mettendo le mani addosso era solo perché stavano correndo, lui aveva in braccio la ragazza delle Praterie che, palesemente, con quella gonna non poteva correre in mezzo a così tanta gente e perché Lea lo stava tenendo. O almeno erano quelle le sue intenzione prima che un improvviso tuono, un rumore cupo e basso, esplodesse sulle loro teste.
Le grida delle anime non riuscirono a sovrastare il fragore del muro di Foschia che crollava su sé stesso, imploso nelle sue fondamenta.
Una gigantesca onda biancastra e fumosa si gettò in picchiata dall’alto della volta rocciosa verso le valli nere, infrangendosi a terra e travolgendo inevitabilmente ogni anima.
L’impatto della Foschia sui corpi concreti dei morti non lasciò esuli, spingendo tutti violentemente al suolo.
Cade si buttò su Jonas, stringendoselo al petto come aveva già fatto altre volte ma mai con la paura così forte di sentirselo scappare di mano per colpa del massiccio spostamento d’aria. Poco dietro di lui Cicno aveva appena avuto il tempo di chinarsi a terra, prima di sentire il vento sferzargli contro la schiena come le fruste dei demoni torturatori. Vide al suo fianco una forma sfocata, Lea che allungava la mano verso di loro nel tentativo di afferrarli, di non perderli, ma Cicno non poté muoversi, conscio che se avesse lasciato la presa sulla figlia di Ecate la furia della Foschia gliel’avrebbe strappata di braccio.
Fu proprio Jane però a torcersi nella presa del greco per poter stringere la mano dell’italiana con tutta la forza che aveva, aiutata dal compagno che riuscì a sporgersi leggermente verso gli altri, combattendo la potenza del vento.
Così come Lea, bloccata a terra dal peso di Nathan, anche il soldato si ritrovò ad allungare la mano verso Cade e Jonas, cercando di afferrare almeno la giacca del rosso, certo che quel vento della malora si sarebbe portato via sia lui che il ragazzino, che li avrebbero persi nel caos del crollo, svaniti per sempre, ma come era stato per Cicno ci pensarono altri a sporgersi al posto suo: Nathan sentì un braccio insinuarsi sotto il suo, Eliza stringersi al suo fianco, mentre Úranus, stretto a sua volta alla figlia di Nike, si allungava per prendere Cade per il bordo dei pantaloni e tirarlo indietro, verso tutti loro.
Una volta avvicinatisi il più possibile fu il turno di Jonas di afferrare con una stretta spacca-ossa il braccio di Cicno e, aiutato anche dai compagni, tirare lui e Jane più vicini possibile.
Alle volte la vita, o la morte, era strana. Ognuno di loro, in quei lunghi minuti che parvero ore, ricordò l’ultima volta che si era stretto a qualcuno in quel modo.
Jonas ricordò un altro petto e altre braccia che lo accoglievano, più esili e ossuti del torace fermo e compatto di Cade, ma che gli avevano trasmesso la stessa sensazione di sicurezza, di roccia in mezzo al temporale che ora era il suo amico.
Così come Cade stesso ricordò le proprie braccia stretta attorno alla vita di un amico ferito ed un fucile scarico, schiacciato contro il muro umido di un vicolo nella periferia di Dublino, un vicolo tanto simile eppure così diverso da quello in cui Nathan si era fermato, spalla contro spalla con i suoi compagni in attesa del segnale del Tenente per poter attaccare.
Similmente Eliza aveva tenuto la schiena premuta contro una superficie sporca e ruvida, le braccia intrecciate a quelle dei suoi compagni, ma invece che in attesa lei si era fatta puntello contro una barricata che minacciava di crollare contro la spinta del nemico.
L’ultima persona che Úranus aveva stretto era stata sua madre. L’aveva afferrata per la vita, ponendo un braccio sotto alla pancia gonfia ed uno spora, alzandola quasi di peso per postarla dietro ad un albero, per evitare i colpi di moschetto sparati dai villici che avevano deciso di doverli uccidere.
Anche Jane si era stretta a sua madre, il corpo freddo ed inerme steso sul pavimento era stato troppo pensate per essere sollevato del tutto, ma la ragazza si era piegata su di lei avvolgendola in un abbraccio soffocante e singhiozzante. Martha non aveva mai risposto a quell’ultimo gesto d’affetto disperato.
Lea aveva il corpo febbricitante di un ragazzo più giovane di lei tra le braccia, non era ancora morto ma se avesse smesso di prendersi cura di lui, se avesse ascoltato quel soldato e se ne fosse andata, allora sarebbe stato spacciato in poche ore. Non la conosceva neanche l’ultima persona che aveva abbracciato e sciogliere quella stretta era stata la sua condanna a morte.
Se chiunque fosse riuscito a scorgere il volto di Cicno in quel momento forse l’avrebbe preso per pazzo. Sul bel volto del giovane greco c’era un sorriso morbido ed un po’ beffardo, qualcuno avrebbe potuto reputarlo sintomo di un ricordo dolceamaro, ma se fosse esistito al mondo un solo essere che l’avesse conosciuto davvero, avrebbe potuto dire con certezza che quello sul suo viso non era altro che cinica beffe di sé, rancore, odio, dolore.
Perché l’ultima volta che Cicno aveva abbracciato qualcuno, in vita, era stato il suo stesso corpo prima di togliersi la vita.
 



 
*
 
 



C’era una vecchia memoria che le batteva costante nella mente.
Era uno dei suoi primi incarichi, la divisa blu ancora integra, priva di lacerazioni, ma certamente non di sporco.
Non l’aveva mai infastidita troppo il sudore, la terra, il sangue. Erano parte del gioco, erano solo ornamenti inevitabili della vita che aveva scelto, che aveva ricercato fin da quando era bambina, fin da quando aveva imparato ad arrampicarsi alla finestra della cucina per fissare suo padre allontanarsi per l’ennesima missione.
Eliza lo ricordava chiaramente ma al contempo le pareva vi fosse un velo di polvere su quelle immagini, come una vecchia stampa abbandonata in soffitta.
Ricordava il sergente chiamare a gran voce il plotone, il rumore degli zoccoli del cavallo marrone risuonavano attutiti sulla terra smossa, mentre l’uomo intimava a tutti di prepararsi ad attraversare il fiume, a tirar fuori le corde per legarsi gli uni con gli altri, sollevare i fucili, tenere la polvere da sparo fuori dall’acqua.
Si erano fermati sulla riva per fare ciò che era stato loro ordinato, legarsi saldamente gli uni agli altri per impedire che qualcuno si perdesse nella corrente troppo forte, che mettesse un piede in fallo e fosse trascinato via.
Ricordava persino il sergente prendere il capo della corda e legarlo al suo cavallo, entrando per primo in acqua per assicurare un punto fermo, per aiutare a tirare tutti gli altri.
Erano passati senza problemi, nessuno aveva perso il suo fucile, la polvere da sparo era rimasta asciutta, solo un soldato era scivolato su di un sasso poco stabile ma i suoi compagni l’aveva ripreso prima che potesse anche solo bagnarsi il capo.
L’immagine che ne ricavava era rassicurante: un gruppo di uomini per lo più sconosciuti che si aiutavano a vicenda ad attraversare un fiume dalla forte corrente, legati gli uni agli altri, pronti a soccorrersi se ce ne fosse stato bisogno. Un uomo a capo, in una posizione di privilegio, che si faceva carico d’essere il primo ad avventurarsi nelle acque infide, a dare l’esempio a tutti i suoi sottoposti.
La sensazione del muro di Foschia che si abbatteva contro di loro era stata esattamente la stessa di quando si era calata lentamente nell’acqua fredda, arrancando passo dopo passo con le braccia alte, senza la possibilità di reggersi alla corda ma potendo sperare solo nella resistenza del nodo, dalla stabilità dei suoi piedi e dei riflessi dei suoi compagni. Eppure, stratta tra Nathan ed Úranus, per quanto si sentisse legata, per quanto fosse certa che il nodo avrebbe retto, non sentiva la stessa sensazione di sicurezza provata al tempo.
Il vento aveva continuato a soffiare senza posa, ettolitri ed ettolitri di aria densa e fumosa continuavano ad abbattersi su di loro ed Eliza si domandò per quanto ancora sarebbe durato, quanto doveva esser alto e spesso quel muro, quanto grande, quanto largo. Copriva forse solo il muro con le porte? I Campi Elisi avevano un perimetro tondo, per quanto ne sapeva, per quanto doveva essersi estesa la copertura di Foschia, per nascondere tutto?
D’improvviso qualcosa spostò sia Úranus che Cade, spingendoli in avanti e costringendo tutti loro a serrare la presa che avevano gli uni sugli altri e ad allungarsi verso i due rossi, timorosi di perderli.
L’onda d’urto era troppo rumorosa perché qualcuno potesse sentire alcun ché, ma Eliza avrebbe giurato d’aver udito delle urla.
Alzò a mala pena il capo, costringendosi ad aprire gli occhi e osservare lo spettacolo davanti a sé, malgrado tutto ciò che riuscisse a vedere non fosse altro che bianco, vento bianco che soffiava e soffiava, disegnando linee quasi concrete attorno ai corpi delle anime. Gli stessi corpi che stava trascinando via senza pietà.
Il crollo del muro di Foschia stava disperdendo ulteriormente le anime rimaste e che questa fosse la volontà di Demetra o meno, era appena stata applicata l’ennesima scrematura dei concorrenti: se non si era abbastanza forti per resistere alla Foschia non c’era alcuna speranza di poter tornare in vita.
 
 
 

 
Cade imprecò mentalmente. Quello poteva essere il momento migliore per elencare tutti i santi di cui aveva memoria, ma la verità era che aveva paura che aprendo la bocca anche solo per un momento poi non sarebbe più riuscito a chiuderla.

E l’ultima cosa che voglio è ingoiarmi qualcosa anche da morto. Ne ho mangiati pochi di insetti in vita a forza di volare qui e lì.
 
Solo che questa volta la paura era di ritrovarsi qualche parte di corpo altrui in bocca, altro che insetti. Ed era sicuro che qualcuno si stesse perdendo qualche pezzo perché quello che l’aveva colpito poco fa era di sicuro un uomo, senza ombra di dubbio, anche se non l’aveva visto.
La ferocia delle tempeste poteva dilaniare corpi, distruggere barche, case, porti, perché questo sarebbe dovuto essere diverso?
Strinse di più le braccia attorno a Jonas, probabilmente gli avrebbe lasciato il segno, dei bei lividi che il ragazzino si sarebbe portato fino alla fine di questa gara, ma non gli importava. Tutto ciò che contava ora era non perdere né lui né nessuno dei loro compagni.
Fu grato di sentire anche Úranus aumentare la stretta che era finalmente riuscito a passare attorno alla sua vita, se avesse continuato a tenerlo per i pantaloni era sicuro si sarebbe ritrovato senza braghe in poco tempo.
Dovevano soltanto resistere ancora un po’, la pressione dell’aria stava diminuendo, seppur in modo quasi impercettibile, ma entro una decina di minuti il peggio sarebbe passato e si sarebbero quanto meno potuti liberare di quell’intreccio di braccia che li teneva tutti stretti assieme.
C’era però qualcosa di simile all’orgoglio che bruciava nel petto di Cade, la consapevolezza che tutte quelle persone, quegli sconosciuti – potevano ancora definirsi tali dopo tutto quello che avevano passato assieme? – si fossero preoccupati di afferrare un compagno e poi un altro ed un altro ancora, di non perdersi, che si fossero preoccupati gli uni degli altri, lo riempiva di un’euforia che non credeva avrebbe potuto riprovare così facilmente.
Chinò il capo premendo le labbra sui capelli scompigliati di Jonas, puntellando poi i piedi a terra per spingersi leggermente indietro, verso Úranus ed Eliza, sino a che non sentì il ginocchio della giovane contro la schiena.
Erano un po’ più vicini così, un po’ più compatti, più uniti. E come se gli avesse letto nel pensiero, Jonas tirò più a sé Cicno e di conseguenza Lea e Jane si strinsero di più tra di loro, aiutando il ragazzino a far avvicinare la figlia di Ecate e quello di Apollo.
Rimasero così, in silenzio forzato, ignari delle urla di chi veniva strappato alla terra e alle braccia dei compagni, di chi si ritrovava a volare in aria, dei corpi colpiti così violentemente da essersi ritrovati schiacciati contro la volta rocciosa. Di tutte quelle anime che vi rimasero incastrate, impalate alle stalattiti massicce.
Era una fortuna che nessuno sguardo si sarebbe mai potuto spingere così in altro, il macabro quadro che andò dipingendosi sul soffitto dell’aldilà sarebbe rimasto nelle loro menti per tutti i secoli a venire.
L’onda d’urto spazzò via il sangue che colava da quei corpi non morti ma non ancora vivi, l’erba nera divenne lentamente lucida, bagnata. Per la seconda volta il sangue degli uomini tornò alla terra piovendo da un cielo fittizio.
E nessuno parve accorgersene.
Così come nessuno sembrò scorgere, tra quella marea di filamenti biancastri, altri dorati che dal terreno strisciavano verso le anime per legarsi attorno ai loro corpi e tenerli saldi a terra.
Nessuno tranne Cicno e, il semidio lo sapeva, tutti i suoi altri compagni.
Il figlio di Apollo socchiuse gli occhi per cercare di valutare la situazione, per quanto tempo ancora il vento avrebbe soffiato, e fu quasi con sorpresa che si rese conto del fine e sinuoso filo d’oro che lentamente si faceva spazio tra l’erba scura. Se non ci fosse stata la cascata di Foschia sarebbero risaltati come gemme tra i carboni, ma Cicno aveva la vaga sensazione che sarebbero riusciti ugualmente a non farsi notare.
Il filo d’oro si alzò come se non vi fosse alcuna forza da contrastare, come se al contrario si ritrovasse attirato verso l’alto, come pendesse da un soffitto rovesciato. Lo vide ondeggiare leggermente fino a raggiungere il livello del suo braccio, quello stretto attorno alle gambe della figlia di Ecate, e arrotolarsi lentamente attorno ad esso.
Per un attimo provò la voglia irrefrenabile di scansarsi, di scacciare il filo così disgustosamente simili nei movimenti ad un serpente d’acqua, ma sapeva che non lo era, sapeva che quel filo, quella magia, non era altro che l’ennesimo aiuto del suo signore, che andava a sommarsi alla sempiterna domanda che gli rimbombava in testa da quando l’aveva incontrato per la prima volta:
 
Quanto è potente per poter utilizzare il suo potere anche nelle terre dell’Ade?
 
Non che gli altri Dei non potessero farlo, tutte le divinità erano in grado di utilizzare i proprio poteri nel dominio del sommo Ade, ma era proprio per rispetto, o timore, di questo che non lo facevano, non in modo così palese ed invasivo per lo meno.
Voltando di poco la testa alla sua sinistra scorse altri fili strisciare a terra e legarsi prima alla gamba di Jonas e poi a quella di Cade.
Non poteva girarsi ulteriormente a controllare gli altri membri di quella strampalata compagnia, ma era sicuro che anche loro fossero stati ancorati al terreno.
Il suo signore li proteggeva, ancora una volta manipolava il gioco per tenerli in campo, ignorando invece tutti coloro che non gli erano di alcun interesse, tutti quei corpi fagocitati dalla Foschia.
Quando i fili si furono assicurati attorno alle loro membra, Cicno poté giurare di sentire i propri muscoli rilassarsi, come se il suo inesistente corpo percepisse meglio della sua mente che non vi era alcun pericolo ormai, che il muro, la sua caduta, non avrebbe potuto arrecar loro alcun danno.
Cicno aggrottò le sopracciglia: la percezione del suo corpo era sempre più solida e concreta, era nei piani degli Dei? Avevano accettato fin dall’inizio questa condizione, magari solo per spettacolarizzare i giochi? Certo, un’anima ferita non perdeva sangue e Cicno sapeva fin troppo bene quanto le divinità dell’Olimpo amassero i massacri, le carneficine, ma non era comunque una mossa azzardata? Non era comunque troppo rischio farli tornare “umani”, anche solo per poco?
 
Risvegliare nelle anime, specie in quelle dei dannati, il ricordo della loro vita, della sensazione di aver un corpo e non solo di essere feriti nella profondità del loro essere immateriale… potrebbe essere pericoloso, potrebbe portar loro a desiderare ancora di essere vivi, portarli a ribellarsi.
 
Quando l’aria iniziò a farsi meno pesante e le sferzate del vento più leggere, Cicno spalancò gli occhi puntandoli su quei fili dorati che avevano assicurato a lui, i suoi compagni e chissà quante altre anime, salvezza certa. Li fissò in attesa che qualcuno se ne accorgesse o che scomparissero d’improvviso e non si stupì più di tanto quando fu proprio quest’ultima opzione ad avverarsi.
I fili d’oro si sgretolarono in un pulviscolo luccicante impossibile da distinguere da quello delle sfere dei ricordi, se non fosse che in quelle lande Ermes non avesse depositato nessun globo di vetro. La sabbia fine e quasi impalpabile, simile a quella della creta secca levigata dalla pietra pomice, si depositò lesta tra gli steli neri, quasi assorbita dalla terra dell’aldilà, cancellando ogni traccia della sua esistenza.
Cicno alzò allora il capo per guardarsi attorno, per vedere se altri, oltre a lui, si erano resi conto di ciò che era successo e fu con un certo compiacimento che scorse i volti dei suoi altri compagni, quelli che avevano giurato fedeltà al suo signore, visi giovani, giovanissimi o più maturi, gli unici nei cui occhi poteva scorgere la consapevolezza di ciò che era realmente accaduto.
A forse sei metri da lui una ragazza dalla pelle scura e gli occhi a mandorla gli fece un cenno con la testa. La casacca che indossava era ricamata in disegni geometrici, colorati e fitti, la treccia spessa e nera che le poggiava sulla spalla, legata da un laccetto di cuoio, brillava sporca di frammenti di vetro, o forse di fili d’oro.
Anche lei stringeva a sé altri due ragazzi, bambini avrebbe detto, di certo ancora nuovi alla pubertà, ma Cicno poteva percepire in loro l’eco del sangue divino, seppur non uno forte come quello dei suoi, di semidei. Uno di loro era minuto, i capelli castani scompigliati e gli occhi del colore dei ghiacciati, che emanavano lo stesso freddo che avrebbe potuto emanare il potere di sua madre. Non era la prima volta che Cicno incontrava un figlio di Chione e sapeva come riconoscerli a primo colpo.
Probabilmente il suo potere, se ne avesse avuto uno, sarebbe potuto risultare molto utile al suo padrone, non era così strano poi che la figlia di Zefiro fosse stata incaricata di proteggerlo e portarlo alle fasi finali della gara.
Spostò lo sguardo oltre quel gruppetto, in tutto cinque persone, e trovò facilmente altri con la sua stessa missione. Erano tantissimi e le loro compagnie, più o meno numerose, si intervallavano ad ancora troppe anime insulse.
Fece per voltarsi verso le sue spalle, quando si ricordò d’aver ancora tra le braccia la figlia di Ecate e che questa, presa coscienze della scomparsa dell’onda di Foschia, aveva smesso di starsene buona e ferma ed aveva iniziato a muoversi, cercando d’alzarsi, o quanto meno assumere una posizione un po’ più dignitosa.
Con un gesto rapido Cicno l’aiutò a tirar su il busto e la adagiò a terra togliendole il braccio da sotto le gambe ossute.
 
«State tutti bene?» domandò più per riflesso che per vero interesse, sfruttando la scusa di volersi assicurare che anche gli altri fossero vigili per girarsi e guardare anche le anime dietro di sé.
Non riusciva a vedere Michael, aveva scorto una moltitudine di maglie aranciate, violacee, qualcuna color sabbia e altre blu notte, ma del suo fratellastro neanche l’ombra. Era assurdo però aspettarsi di riuscire a scorgerlo tra tutti quei volti e Cicno si diede mentalmente dello stolto: come poteva interessargli la salvezza, scontata dati i fili d’oro, di un’anima legata a lui solo dal patto stretto con un padrone comune e dal sangue maledetto del bastardo che aveva dato loro la vita? Nulla. A Cicno non interessava di nulla e di nessuno e si ritrovò infastidito dai suoi stessi pensieri quando se ne rese conto.
Doveva pensare ad altro, non a stupidi mocciosi protetti da un potere così forte da agire indisturbato nell’Ade.
 
«Col cazzo, sembra che ci abbiano buttati tutti in una cazzo di asciugatrice.» borbottò Nathan facendo leva sulle braccia per non pesare più su Lea.
La figlia di Apollo rimase sdraiata a terra, rotolando semplicemente di fianco e rilassando le membra tese.
«Non ho la più pallida idea di cosa sia un’asciugatrice, ma sembrava quasi il vento che tira a Trieste.»
«Era forte come una cascata, se non fossi assolutamente sicura avrei giurato che fosse acqua, tanto era potente, sferzante e compatta l’onda che ci ha colpito.» commentò Eliza sedendosi sui talloni. Tirò su il braccio che aveva ancora intrecciato a quello di Úranus per aiutare il giovane a sedersi a sua volta e poi si allungò per battere un paio di pacche sulla schiena di Cade.
«Voi tutto bene?» domandò rivolta ai due compagni.
Così come Lea anche Cade e Jonas erano rimasti a terra, a riprendere fiato.
Il più piccolo staccò con lentezza la mano dal braccio di Cicno, quasi come se le dita si fossero anchilosate in quella posizione serrata, e la lasciò cadere mollemente sull’erba, mentre Cade non si sforzò neanche di sciogliere l’abbraccio che li teneva vicini.
«E che cazzo.» ansimò provato da quella tempesta di Foschia.
Jonas grugnì. «L’ha detto lui.»
«Maldetta foschia.» borbottò di rimando Jane.
Nathan la guardò scettico. «Detto da una figlia di Ecate ha dell’ironico.»
«Perché? Sei morto in guerra, no? Non ti sei lamentato neanche un po’ per questo?» lo sfidò lei di rimando, accomodatasi meglio a gambe incrociate, scostatasi un poco da Cicno.
«No che non mi sono lamentato, sono morto facendo il mio dovere.» rispose subito l’altro.
Eliza chiuse per un attimo gli occhi espirando già stanca di quelle chiacchiere. «Però avresti preferito morire di vecchiaia, così come Jane preferirebbe non vedersi attaccata da ciò che invece dovrebbe essere al suo servizio, questo è il sunto del discorso. Ora.» continuò secca prendendo forza per alzarsi in piedi, la sensazione delle gambe addormentate in contrasto con il bruciore dei muscoli sottoposti a tutta quella tenzione. Fece una smorfia di disconforto e poi si spolverò i pantaloni. «Se siete tutti in grado di mettervi in piedi e camminare direi di metterci in marcia. Alcune anime si stanno già muovendo e non voglio trovarmi tra la calca un’altra volta.»
Così dicendo porse la mano ad Úranus e poi a Nathan, tirando entrambi su di peso contemporaneamente.
Lea la guardò sorpresa ma poco intenzionata ad alarsi. «Sei sempre stata così forte?» domandò con voce bassa.
Nathan grugnì, proprio come aveva fatto Jonas poco prima, Jane si trattenne dal farglielo notare solo perché Cicno si era tirato in piedi e le aveva stretto la mano attorno all’avambraccio per aiutarla a far lo stesso.
«Retaggio divino dei figli di Nike, ogni tanto, quando gli prende bene, alzano le montagne, dividono i mari e spaccano culi. Il resto del tempo sono degli stronzetti iperattivi e super competitivi che non sanno perdere e rosicano malissimo quando succede.» spiegò guadagnandosi un’occhiataccia da parte della suddetta figlia di Nike.
Si strinse nelle spalle. «Che c’è? È la verità, non sapete perdere e prendete tutto per una competizione.»
«Detto da te poi.» bisbigliò Lea.
«Che hai detto tu?»
«Che mi devi dare una mano ad alzarmi, mi hai placcata a terra come fanno gli atleti di lotta libera, non mi sento più la schiena. Dovresti pensare di perdere un po’ di peso, Wright.» lo provocò lei ghignando allungando entrambe le mani per farsi tirare su.
A quel punto anche Cade non poté ignorare i buffetti che Jonas gli stava ripetutamente dando sulla guancia per farlo alzare e fu costretto ad abbandonare il suo giaciglio improvvisato e sedersi a far mente locale prima di unirsi ai suoi compagni.
Fissò Eliza per un lungo momento, poi sorrise: «Beh, da quel che dice il biondastro qui tu sei tutto tranne che figlia di Nike allora!»
Jonas alzò gli occhi al cielo e saltò su con un balzo agile, «Smettila di dire cavolate e alzati, Eliza ha ragione, se perdiamo troppo tempo tutti quanti si saranno ripresi abbastanza per accalcarsi davanti alle porte dei Campi Elisi.»
«Il che potrebbe essere un problema che non ci riguarda, se non riusciamo a scoprire se anche noi possiamo entrare o meno.» ricordò Jane con voce monocorde, lo sguardo fisso verso il luogo dove prima si ergeva il muro di Foschia. Fece schioccare la lingua in bocca, «Quindi sono quelli i famosi campi? Non ricordo se ho mai visto l’ingresso o meno, ma non sembrano più minacciosi della Foschia.»
I semidei si girarono tutti nella direzione indicata a Jane, tutti a fissare silenziosi quella lunga parete bianca infinita ed immacolata, interrotta solo da una grandissima porta centrale e due, più piccole ma comunque maestose, ai suoi lati.
Ciò che non quadrava in quella visione, che stonava con la normale figura dell’entrata dei Campi Elisi per i beati che vi erano stati, e che contrastava le parole di Demetra, che sembrava così sbagliato da lasciar credere che forse erano rimasti tutti affetti dalla Foschia che ora mostrava loro uno spettacolo ingannevole, era che le grandi porte, tutte e tre, erano spalancate.
Malgrado la lontananza tre archi mostravano uno scorcio di un luogo chiaro, luminoso, quasi sfocato e accecante, un miraggio verso cui orde di anime si stavano avventando come furie, ansiosi di passare anche quella prova, bramosi di tornare o mettere piede per la prima volta, in ciò che c’era di più simile al paradiso sotto quella terra.
Cade saltò in aria come un petardo, si accucciò a terra senza neanche alzarsi in piedi e poi si diede la spinta per spiccare ancora una volta un salto.
Ricadde con un tonfo attutito, le sopracciglia crucciate.
«Sono- aperte? Le porte dei Campi Elisi sono aperte. Ma- che senso ha?»
Úranus scosse piano la testa. «Nessuno, non ne ha alcuno. La divina Demetra ha detto che non avremmo dovuto distruggere le porte, che avremmo dovuto trovare il modo di entrare…»
«Quindi non sembra una fregatura solo a me.» disse Jane incrociando le braccia al petto.
«Sembra troppo bello per essere vero…» mormorò Jonas.
«Perché non lo è.»
La risposta secca di Cicno fece distogliere finalmente l’attenzione di tutti da quello scorcio di paradiso. Il greco teneva gli occhi freddi puntati in quella direzione, ma invece di concentrarsi su ciò che c’era all’interno delle mura era fisso su suo perimetro, sull’entrata dei Campi Elisi.
«Ma sono aperte.» fece notare Cade. «Quindi qualcuno deve essere già entrato.»
«No. Sono aperte solo per illuderci che possa esser semplice varcarle. Ricorda il monito della Dea Demetra, le guardie scelte dell’Ade sono lì, ad aspettarci al varco. Loro e il Guardiano.»
«Sono così sicuri che non riusciremo a passare, da tenere le porte spalancate?» provò ancora Cade.
Cicno sorrise. «Sono talmente così sicuri che chiunque passerà la lama delle guardie non supererà la prova del Guardiano da non preoccuparsi di chiudere ogni entrata.» corresse con voce gentile.
Nathan tornò a guardare le porte pensieroso, ora anche lui concentrato sulla schiera infinita di soldati, o almeno presupponeva fossero tali, allineati sul confine dei Campi Elisi.
«Ma chi diavolo è questo Guardiano?» domandò poi, ingoiano in rospo e ammettendo, seppur indirettamente, di non sapere di cosa si stesse parlando.
Úranus scosse la testa, ancora. «Non ne ho idea.»
«E se non ce l’ha Golia figuriamoci noi.» sospirò Cade. «Angioletto?» chiese poi rivolto a Cicno.
Il figlio di Apollo si costrinse a guardarlo negli occhi e smettere di cercare di scrutare oltre.
«Non posso averne certezza, ma potrebbe trattarsi di un drago, come colui che era a custodia del Giardino delle Esperidi. Potrebbe essere una divinità minore, il sommo Atlante che regge il peso del mondo sulle sue spalle ed è posto all’entrata della fine del mondo. Se si trattasse di lui-»
«Saremo un po’ nella merda. Bello.» lo interruppe Nathan.
«Credo che potremmo scoprirlo solo affrontandolo. Avviciniamoci e vediamo com’è la situazione, potremmo osservare come gli altri affrontano le guardie e questa fantomatica prova e poi elaboreremo un piano.» sentenziò Eliza ricevendo un cenno d’assenzo da tutti.
La figlia di Nike riportò lo sguardo sui Campi Elisi, sarebbe stata la prima volta, in tutta la sua esistenza, che sarebbe riuscita a tornare a casa dopo una missione. E ad attenderla sarebbe potuto esserci anche suo padre, per una volta avrebbe potuto ritrovarlo al sicuro, riabbracciarlo dopo essersi messa l’anima in pace ed aver accettato di non rivederlo mai più, per la seconda volta.
Avrebbe potuto mostrare all’uomo i suoi compagni, fargli vedere come fossero riusciti a creare un gruppo quanto meno funzionale, come altri come lei avessero poteri straordinari, come ancora ad oggi persone di ogni genere e ogni luogo potessero unirsi sotto un’ideale o un obiettivo comune.
Se solo quella non fosse stata semplicemente l’ennesima battaglia di una guerra la cui fine l’avrebbe portata a scontrarsi proprio contro quei compagni ora così cari sarebbe stata felice di potersi ricongiungere a suo padre, di poter potare i suoi amici nella sua casa, di vivere in tranquillità una vita che aveva sempre visto troppo lontana da sé, dal suo destino.
Stringendo i pugni e facendo strada agli altri semidei, Eliza si ripeté che in quel momento non era importante, che ora poteva ancora godere della compagnia, della fiducia, forse persino dell’affetto di quegli strani individui, per ora poteva fingere che sarebbero rimasti al suo fianco fino alla vittoria e non che proprio questa li avrebbe divisi, uno dopo l’altro.
Qualcuno batté le mani alle sue spalle e la giovane non dovette girarsi per indovinare chi fosse stato.
«Bene! Andiamo a vedere e poi, alle brutte, vi facciamo imbucare di straforo. Che dici angioletto, ce la facciamo a scavalcare le mura? Quello non è barare no? Alle brutte vi lancio dall’altra parte.» ridacchiò Cade.
«Alle brutte vi lancia Eliza, non so se tu avresti la forza per farlo.» gli fece eco Lea, la voce tesa ma comunque divertita.
«Alle brutte ci lanciamo te dall’altra parte!»
«Oh, non fare così, gattino, fratello Cade lo diceva per voi! Sono disposto persino a volare fin là su per farvi entrare, poi non venirmi a dire che non vi voglio bene!»
«Smettila-di-chiamarmi-in-quel-modo-imbarazzante.» sibilò il ragazzino.
Ma non doveva essere molto minaccioso perché Cade rise spensierato. «Ma non è imbarazzante, sei piccolo, sei tutto arruffato e fai il broncio. È un dato di fatto, vero Cicno?»
«Perché chiedi a lui?!»
«Perché è obiettivo.»
«Perché non capisce la cazzo di ironia e prende tutto seriamente, ecco perché.» borbottò Nathan.
«Oh, allora siamo in due, soldatino.»
«Questa è tutta colpa tua, roscio di merda, adesso anche la principessa mi chiama così!»
Eliza sospirò pesantemente accelerando il passo, qualcuno le si affiancò.
«Se prima quella faccia cupa era per il timore di doverci dividere, sappi che io non vedo l’ora, quando fanno così mi fanno contare i secondi che ci dividono dal momento in cui potrò prenderli a calci in faccia.»  masticò Jane a denti stretti.
La figlia di Nike si sentì improvvisamente più leggera a quella confessione.
Sì, se si fossero conosciuti in vita, in quella precedente o in una nuova, sarebbe stata davvero felice di poterli chiamare amici, di poterli chiamare compagni.
Forse, un giorno, Thiche l’avrebbe accontentata.
 


Mura così alte non ne aveva mai viste in vita. La cosa più imponente che gli si era parata davanti era stata la cresta montuosa del suo paese, quella che aveva visto più da vicino la parete dello strapiombo nel quale si era gettato.
Nella morte, invece, Cicno aveva già potuto osservare enormi, spesse e minacciose mura che promettevano d’esser impenetrabili, sia dall’interno che dall’esterno.
I Campi Elisi erano però quanto di più diverso ci fosse dai Campi di Pena.
Le pareti monolitiche candide come il gesso, come la spuma di mare ed il ventre dei cervi, non circondavano un baratro che si apriva nelle profondità più recondite del sottosuolo come facevano le mura nere. Non vi erano gradoni, terrazze che si affacciavano sul nulla, su di un livello ancora più basso ed oscuro che ospitava anime ancora più sporche, più malvage. Erano distese erbose, dolci collinette, strade lastricate e dimore modeste ma accoglienti tutto ciò che si nascondeva dietro la cinta muraria. Erano tre porte dall’aspetto serioso come quelle dei templi, che racchiudevano al loro interno la sacralità delle effigi e delle offerte fatte agli Dei, non cancelli di ferro pesante, lunghe barre fuse le une alle altre, come le celle degli schiavi e dei prigionieri di guerra.
Cicno avanzò veloce dietro i suoi compagni senza mai staccare gli occhi di dosso dal suo obiettivo, senza mai guardare chi lo circondava, chi correva al loro fianco, superandoli senza degnarli di uno sguardo, per arrivare alla meta.
Era una palese provocazione e questo tutti quanti, a questo punto, dovevano averlo capito. Dopotutto i Campi Elisi erano stati inviolabili ed inviolati per secoli, quindi era logico pensare che le sue guardie fossero sicure di sé e del loro potere, della protezione che aleggiava sulle loro teste, sulle loro anime.
Ma più si avvicinavano, più proprio l’aspetto di quei soldati metteva in allarme Cicno. La sua vista eccezionale gli permise di scorgere, seppur da lontano, i volti impassibili e tranquilli di tutti quegli uomini e quelle donne che attendevano, con solenne fermezza, che anche una sola anima giungesse al loro cospetto.
 
Perché non si muovo? Com’è possibile che nessuno sia ancora giunto da loro?
 
Cicno poteva percepire l’ansia crescere tra i suoi compagni, forse anche loro sempre più consci dell’assoluta mancanza di rumori di lotta, del cozzare delle spade o di qualunque suono producessero le armi più moderne.
Vide Cade fremere sulle sue stesse gambe, ogni passo ondeggiante come se si stesse trattenendo dall’alzarsi in volo e constatare con i suoi occhi che le sue orecchie non lo stavano ingannando.
 
«Che cazzo succede? Perché non combattono?» gridò Nathan sopra il vociare concitato delle anime davanti a loro.
«Non è possibile che nessuno sia già arrivato alle porte! La gente che si trovava sotto al palco dovrebbe già essere lì!» aggiunse Lea allungando il collo per riuscire a scorgere qualcosa.
Di fianco a lei Úranus aggrottò le sopracciglia. «Sbaglio o stiamo rallentando?»
«No, le anime davanti a noi si stanno fermando.» annuì Eliza. «Dovevamo muoverci più velocemente, dannazione.»
«Scusate,» chiamò a voce alta Jonas, attaccato al braccio di Cade che se lo tirava contro ad ogni minima deviazione, «ma com’è possibile che con tutto questo spazio ci stiamo fermando? Le Praterie sono immense e le porte dei Campi Elisi anche. Non riescono ad entrare da tre entrate?» domandò confuso.
«Questa storia non mi piace.» borbottò Jane, voltandosi a cercare Úranus o Cicno. «Voi non sapete nulla? Non avete idee?»
«Siamo veramente fermi, com’è possibile?»
«Mi spiace, ma non ho la più pallida idea di cosa possa aver causato questo arresto.» ammise Úranus.
«Cicno?»
«Dev’esserci qualcosa prima delle guardie. Prima dei soldati schierati sul ciglio delle porte, dev’esserci una qualche protezione, un impedimento.» rispose concentrato. Cosa diamine stava succedendo?
«Il famoso “Guardiano”? »
La domanda di Jonas arrivò chiara e forte a tutti loro e come fosse stata una magia, una formula segreta in grado di portare chiarezza nelle mente ottenebrate delle anime, d’improvviso sul vociare dei presenti prevalse un suono che tutti loro conoscevano da sempre o avevano imparato a conoscere durante la Death Race: grida.
Erano urla spaventate, agonizzanti. Qualcuno implorava pietà, qualcuno cercava di scappare, altri si proclamavano sconfitti, chiedendo d’abbandonare la gara.
Alcune anime iniziarono ad indietreggiare, altre si sporsero in avanti per vedere cosa stesse succedendo e ben preso il caos iniziò a dilagare anche fra coloro che ancora non erano giunti al cospetto dei Campi Elisi.

«Non può essere Atlante.» sentenziò Nathan serio, «Non sarebbe in grado di spaventare così tanta gente e provocare tutto questo casino senza assumere la sua vera forma. E non mi pare proprio di veder nessun gigante azzurrognolo a guardia delle porte.»
«Il drago?» propose Lea stringendosi contro Jonas assieme a Cade per schermarlo da un’anima spaventata che cercava di fuggire dalla mischia.
«Non vedo nessun drago.» disse Úranus.
«Allora cosa diavolo è?» chiese Jonas, «Non si vede niente, non si capisce niente. Cosa facciamo?»
Eliza lanciò uno sguardo veloce al ragazzino, a tutti i suoi compagni, studiandone i volti tesi ed i muscoli contratti. La cosa peggiore, in tutte quelle sfide, era l’ignoto, la cosa che li destabilizzava di più, che li poneva in una posizione disvantaggio. Per prima cosa dovevano capire a cosa stavano andando incontro.
«Cade.» chiamò secca. «Che altezza puoi raggiungere?»
L’irlandese la guardò per un attimo assottigliando gli occhi come se stesse calcolando l’effettiva misura. Poi disse sicuro. «Quasi novanta piedi. È il massimo che abbia mai fatto ma non so se le condizioni atmosferiche qui mi siano favorevoli.»
«Per difetto, quanto pensi di poter fare in verticale, senza rincorsa?»
«Da fermo, così, con un buon salto posso fare quaranta piedi. Se avessi un aiutino, una spintarella diciamo, potrei arrivare a cinquanta.»
Eliza annuì, voltandosi poi verso Nathan. «Pensi che possa bastare per vedere oltre la folla?»
«Siamo ancora troppi, non so se con quaranta piedi vede la fine del tunnel.»
«Perdonatemi.» l’interruppe Cicno, «Non so a cosa corrisponda la vostra misura, ma se è più alto di un templio di medie dimensioni allora dovrebbe funzionare. Riesco a spingere il mio sguardo sino ai volti dei soldati, lui dovrebbe riuscire a vedere ciò che i corpi mi precludono, se spicca il volo.»
Nathan alzò un sopracciglio sorpreso. «Vedi fino a lì? Ma che cazzo, cos’è? Sei un falco?»
«Sono un figlio del mio dannato padre, soldatino, tutto qui.»
«Senti, vedi di smetterla con sta-»
«Cade! Cosa intendi per “aiutino”?» domandò Lea spingendo il figlio di Ares indietro con una manata.
Il rosso sorrise, «Saltando su un telo teso, o magari spinto in alto da gente forte. Se incrociate le braccia io posso salirci sopra, poi voi mi spingete e io salto. Così.»
«Penso basterà la forza di una figlia di Nike.» disse Cicno.
La mora annuì, divaricò le gambe e le piegò leggermente, per darsi più stabilità, poi intrecciò le mani davanti a sé facendo cenno al compagno. «Metti qui il piede, al tre ti lancio in alto.»
Cade annuì con vigore, avvicinandosi all’altra e posizionandosi come gli era stato detto, sorrise sghembo poggiando le mani sulle spalle della ragazza e ammiccando.
«Non siamo mai stati così vicini, Elza cara.» ghignò divertito.
«Sto per lanciarti in mezzo alla folla, invece che in aria.»
«O puoi lanciarlo talmente in alto da farlo scontrare con il soffitto.» propose Jane.
«Ricadrebbe tutto ammaccato, saresti pronta a sentirlo lamentarsi poi?» la provocò con sarcasmo Jonas.
«Non si porrebbe il problema, è più probabile che un corpo lanciato verso il soffitto vi rimanga impalato, come è già successo.» disse calmo Cicno, «Quindi consiglierei di mettere da parte le animosità e concentrarci su un giusto uso della tua forza divina.» concluse rivolto ad Eliza.
«Che vuol dire “come è già successo”.» domandò scioccato il più piccolo, prontamente ignorato dal greco come tutti gli sguardi confusi degli altri.
«Al conto di tre, quindi.»
«Aspetta! Nel senso che dici tre e poi mi tiri su, che al tre io devo issarmi su, o che al due io salgo e poi al tre mi laaaa-!»
Eliza alzò gli occhi al cielo maledicendo la lingua lunga di Cade, concentrando tutte le sue forze in quel piccolo gesto e scagliando letteralmente nella volta rocciosa il compagno.
Lo strepitio sorpreso di Cade però fu inghiottito dalla cacofonia che si concentrava davanti alle porte dei Campi Elisi, senza giungere alle orecchi dei suoi amici.
Ritrovato l’equilibrio a mezz’aria, Cade si rese conto di non aver saltato, che aveva appena superato i cinquanta piedi ma che nulla di tutto ciò era merito suo. Concentrò così la sua attenzione davanti a sé e la prima cosa che vide fu la terra bruciata davanti all’entrata, ben distante dalla linea pulita di terra battuta su cui erano schierate le guardie dell’Ade.


Ma perché è bruciato? C’è davvero un drago?
 
Assottigliò lo sguardo e si rese conto che ciò che a primo impatto sembravano cumuli di carbone, rocce bruciate, erano in realtà corpi. Lo capì nel momento in cui uno di questi si contorse su sé stesso, allungando un braccio per chiedere pietà, la sua voce inudibile nel caos che regnava attorno a lui.
Cade si ritrovò a deglutire a fatica, sospeso a mezzaria come le rondini controvento, ipnotizzato da quella scena come una falena con il fuoco.
Non c’era nessun drago, non c’era nessuna creatura soprannaturale o anche solo vagamente umana. Le guardie erano tutte immobili, non un solo granello di polvere, non una sola piega a rovinare la loro figura. Cosa aveva ridotto quelle anime in quello stato? Cos’era che teneva a distanza tutti gli altri, che impediva loro di avanzare?
Spostò lo sguardo frenetico, consapevole che a breve sarebbe tornato con i piedi per terra, ma anche che non poteva farlo a mani vuote.
La barriera di anime, le anime bruciate, la fila di soldati, le mura bianche, le porte spalancate e-
 
Una luce?
 
Alzò lo sguardo verso l’alto, più in alto che poté, lì dove le mura si scurivano delle ombre del soffitto della loro gabbia ultraterrena, scomparendo assieme alle ante della porta centrale. Lì, nell’oscurità del pavimento del mondo, un puntino rosso brillava come una fiamma, come un falò.
 

Fuoco, dannato, dannatissimo fuoco.
 
Rabbrividì Cade.

Aspetta. Fuoco?
 

Sgranò gli occhi colto da un improvviso ed immotivato panico, ben lontani dalla sua antica paura delle fiamme. Era un terrore così profondo, così radicato e sconosciuto in lui che si ritrovò ad annaspare in aria, tutto il potere divino di suo padre che s’assopiva in lui facendolo precipitare velocemente verso il basso.
Fu un soffio, una frazione di secondo che, Cade lo sapeva, era stata la differenza tra la vita e la morte.
 
Ancora.
 
Un lungo fascio di luce aranciata fendette l’aria colpendo in pieno il punto in cui poco prima si trovava lui, perdendosi nelle Praterie come fosse un raggio di potenza inaudita, capace di illuminare oltre l’orizzonte delle infinite lande dei dimenticati.
Cade chiuse gli occhi accecato, malgrado non l’avesse preso una linea bluastra gli brillava impressa sotto le palpebre, come se avesse fissato per troppo tempo il sole.
Cadde rovinosamente chiudendosi su sé stesso, pronto ad attutire come possibile l’impatto con il terreno che, per sua fortuna, non avvenne.
Più braccia lo presero al volo, catturandolo in una rete di arti incredibilmente saldi e forti, accompagnandolo lentamente al suolo.
 
«Che succede?! Stai bene? Sei precipitato d’improvviso! Un attimo prima eri lì sopra, fermo come un calabrone e poi sei caduto di colpo!» Lea gli si era subito inginocchiata vicino, era sua una delle braccia che si era stretta alle sue spalle ed ora lo sosteneva per farlo star seduto eretto.
«C’è stato un flash, come quello di un faro acceso di colpo.» continuò Jonas, apparso d’improvviso dall’altro lato.
Cade annuì piano battendo le palpebre velocemente, nel vano tentativo di togliersi il fascio blu dagli occhi.
«C’era una cosa strana. Sembrava una luce, su, in alto, verso il soffitto. Era come un fuoco e poi- credo- credo mi abbia visto? È come se mi avesse visto. Si è girata verso di me e ho avuto- ho sentito come-»
«Come se dovessi scappare, che se non ti fossi mosso, se fossi rimasto immobile, saresti stato spacciato?» Jane lo osservava con gli occhi sgranati, le occhiaie scure la facevano sembrare un fantasma più di tutti gli altri.
Non batté le palpebre, spostò solo lo sguardo su Eliza. «Ho una brutta sensazione, come se ci fosse qualcosa che mi spia, che cerca di spiarmi.»
«Dev’essere il retaggio divino di tua madre. Percepisci il pericolo, lo stesso che ha percepito Cade, pur senza averlo incontrato. Significa che qualunque esso sia, ha a che fare con i misteri della divina Ecate.»
«Hai idea di cosa possa essere?» chiese la mora, tendendo la mano verso Jane per farle cenno di farsi più vicina a tutti loro.
Cicno scosse il capo. «Quando ero in vita non c’era nulla del genere a difendere gli Elisi, ma troppe stagioni si sono susseguite e nessuno parla dei campi benedetti in quelli del supplizio. »
«Quindi non sappiamo cosa sia.» mormorò Jonas più a sé stesso che agli altri.
Cade gli strinse con gentilezza la mano. «Siamo passati per quattro prove una più assurda dell’altra, supereremo anche questo.»
«Dev’essere quella cosa il famoso Guardiano
Nathan fece schioccare la lingua sul palato. «Sì, è l’unica cosa logica. Mi ci gioco le mutande che è una macchina di Efesto.» borbottò. «Non c’è speranza che qualcuno di voi abbia mai avuto a che fare con qualche robottone suo, vero?»
«Non so cosa significhi quella parola.» disse Úranus guardandolo confuso.
«Lo sa solo lui, tranquillo.» borbottò Lea.
«Come ve lo spiego cos’è un robot ora? Immagina una macchina con forma umana o animale, qualcosa del genere.»
«Non è il momento delle spiegazioni.» affermò secca Eliza. «Molte anime si stanno muovendo, forse hanno capito come superare le guardie.»
«C’è terra bruciata intorno all’entrata, letteralmente.» sbuffò Cade alzandosi con l’aiuto dei compagni. «Credo che sia il fascio di luce.»
 
 
«Un fascio di luce che ti guarda, ti punta e ti brucia. Diamine e chi s’immaginava che Ade fosse un fan di Sauron?»
 
 
Quella voce allegra e scanzonata l’avrebbe riconosciuta con facilità anche se non fosse stata così vicina. Mentre le anime iniziavano ad avvicinarsi all’ingresso ed il clamore di una battaglia s’alzava lentamente sopra i mormorii, le imprecazioni e le grida di pietà, Cicno si volse veloce per scorgere un ragazzino di forse diciott’anni, con una maglia arancione ed una lancia di bronzo celeste, passargli accanto ammiccando in sua direzione con fare compiaciuto.
Michael era felice di vederlo lì e se i suoi compagni non fossero stati presenti probabilmente gli avrebbe rifilato un commento scocciato, quasi infastidito dal fatto che il fratellastro avesse anche solo per un momento pensato che Cicno non sarebbe riuscito a giungere alla quinta prova con tutti i suoi semidei.
Ma il giovane non si fermò a conversare, non si sforzò neanche di guardare altri se non lui e subito dopo sparì nella mischia seguito da altri ragazzi vestiti in modo simile al suo.
Cicno lo seguì con lo sguardo finché poté, ignorando il verso di scherno di Jane ed il suo commento su come fosse controproducente avere un belloccio come lui in squadra, che attirava così facilmente l’attenzione di tutti.
Si trattenne dal ringraziarla per avergli fatto un complimento solo perché Nathan e Jonas si guardarono d’improvviso allarmati, un singulto di sorpresa che richiamò tutti all’ordine.

«Cazzo.»
«Sapete di cosa stesse parlando quel giovane?» domandò Eliza attenta.
«Dio, spero di no.» mormorò Jonas. «Sauron è il personaggio di un libro di fantasia. In effetti, del più grande libro di fantasia che fosse mai stato scritto prima della mia morte.» specificò per buona misura.
«Più della Bibbia?» chiese scettica Jane.
Cade si morse la guancia per non ridere ma dalle occhiate di rimprovero che sia Lea sia Eliza lanciarono alla figlia di Ecate capì d’aver fatto la mossa giusta.
«Fantasy vero. Con Elfi, stregoni, mostri e quant’altro.»
«Beh, la Bibbia ha sia gli stregoni che i mostri.» insistette l’altra.
«Davvero? Non l’ho mai letta.» le diede manforte Cade.
«Un tipo che trasforma l’acqua in vino e moltiplica i cibi, come lo chiami?»
«La mia Suora superiora l’avrebbe chiamata blasfemia, ecco.» l’interruppe Lea, leggermente a disagio, «Quindi è un personaggio che sta a guardia di qualcosa?»
«Quindi ci è utile saperlo?» aggiunse Eliza.
Nathan fece una smorfia. «È tipo il cattivo più cattivo dell’intera saga. Che ha fatto tutti i danni possibili immaginabili.»
«Un grande occhio di fuoco in cima ad una torre che osserva e scruta ogni angolo delle sue terre e spinge lo sguardo anche oltre di esse, individuando tutti coloro che posseggono l’anello unico.» specificò meglio Jonas. «E se il fascio di luce che hai schivato ti ha davvero “guardato” prima di mirare verso di te…»
«Ha senso chiamarlo occhio di Sauron. Ma almeno questo è un lato positivo.»
«Davvero? E come?» domandò scettico Cade.
Nathan ghignò. «Se l’ha eluso Frodo possiamo farlo anche noi.»
«Samwise Gamgee.» concluse Joans guardando l’irlandese e scompigliandogli i capelli rossi.
Nathan fu l’unico a capire la battuta e ridere, ma se la speculazione di quel giovane fosse stata vera c’era realmente un lato positivo in tutto ciò:
Il Guardiano poteva guardare solo un’anima alla volta.
 




*
 




Le loro conclusioni si erano rivelate giuste. Ben presto anche le altre anime avevano capito che lanciandosi tutti assieme verso i soldati il fascio di luce che scendeva dall’alto della volta rocciosa, come lo sguardo inquisitorio di un dio impietoso, non avrebbe potuto colpire tutti.
Nathan avrebbe voluto organizzare un piano, decidere come agire, quando farlo, scegliere una formazione, ma la verità era che mancavano troppi elementi per riuscire a organizzare qualcosa di anche solo lontanamente decente.
Non potevano buttarsi nella mischia anche per il semplice e banale fatto, come aveva giustamente notato Jonas torcendosi le mani ansioso, che non avevano la minima idea del modo o di cosa esattamente il Guardiano valutasse.
Era ovvio e scontato che la luce fosse il tanto citato Guardiano e Demetra aveva espressamente detto che bisognava scappare da lui o superare la sua prova.

Abbiamo fatto, nella nostra vita, l’unica cosa per cui essere perdonati?
Che cazzo di domanda di merda.

 
Rimaneva il fatto che nessuno di loro sapeva cosa fosse questa “unica cosa”, che poteva essere un atto di coraggio, escludendo automaticamente Jonas dalla gara, o un atto di bontà, che probabilmente eliminava sia Jane che Cicno. Se fosse stato un atto di fede sarebbe di sicuro passato solo Úranus, forse Eliza, ma dubitava che lui stesso o Lea si fossero mai affidati ciecamente agli Dei. L’unica cosa di fede che Cade poteva aver fatto in vita sua doveva esser il lancio dal pinnacolo di una cattedrale, Nathan dubitava valesse.
Cosa poteva concedere la salvezza, l’assoluzione da ogni peccato?
No, finire del raggio di luce del Guardiano era troppo pericoloso, specie se sia il roscio sia la pazza si sentivano inquieti o addirittura spaventati da questo. Dovevano aggirare il problema ed era stata Demetra stessa a dirgli come: scappare.
Nathan non era un codardo, così come sapeva per certo che almeno un quinto dei suoi compagni non lo era: non Eliza che aveva finto di essere chi non era per combattere per il suo paese, o Lea che era andata contro la sua famiglia ed il buon senso per salvare altri. Úranus aveva affrontato la morte per far fuggire i suoi cari, Cade aveva difeso la sua città fino alla morte in una battaglia che era durata una manciata di giorni e non era neanche così importante.
Si rese conto in quel momento che per tutto il tempo avrebbe potuto dire a Cade come la guerra in cui si era imbarcato non era stata che una rappresaglia per gli inglesi, che non era stato nulla di spettacolare. Eppure, era rimasto in silenzio.
Fece una smorfia spintonando un’anima che gli bloccava la strada, gettando un occhio alle sue spalle per assicurarsi che tutti i suoi compagni fossero ancora lì.
Per quanto fosse una pazza scocciata anche la figlia di Ecate doveva essere tutto fuorché una codarda per aver cercato di fare ciò che aveva fatto, ma sperava che lei, così come tutti gli altri, avrebbe concordato con lui nel dire che quella era l’unica soluzione per entrare tutti senza troppi sforzi.
 
Sempre che poi riusciamo a passare le guardie, cazzo.
 
Se erano tutte cazzute come Shilon Yu erano fottuti, ma fottuti male.

«Okay, se qualcuno ha un qualche tipo di potere offensivo, parli ora o taccia per sempre.» sbottò girandosi verso gli altri.
«Solo Jonas ed io siamo armati?» domandò Cicno aggrottando le sopracciglia.
Eliza annuì. «I guantoni sono di Cade, ma sì, nessun altro tra di noi ha la propria arma.»
«Non le avete recuperate nel Labirinto della divina Persefone? Non avete neanche preso armi che non erano vostre? Ogni corridoio ne era disseminato.»
Com’era possibile che quel branco di sciocchi non fosse stato così banalmente furbo da procurarsi delle armi?
Cicno non lo disse ad alta voce, ma la sua espressione dovette parlare per lui perché alcuni dei ragazzi distolsero lo sguardo imbarazzati, Eliza fece solo una smorfia.
«Avevamo altro da fare.»
«Come uscire dal cazzo di labirinto. Tu come hai fatto?»
«Ho seguito la scia luminosa che segue ogni anima. La luce lascia un’impronta nel mondo, anche se ultraterreno.»
«In ogni caso, io e Nathan siamo addestrati, Cade sa fare a pugni e- Úranus?» chiese dubbiosa la mora.
Il gigante si strinse nelle spalle, «So combattere con una spada, ma non sono un grande amante della lotta.»
«I poteri di tuo padre?»
«So tenerli sotto controllo, raramente riesco ad indirizzarli in una direzione precisa-»
«Tranne quando devi farlo con me.» borbottò Jane cercando di scorgere oltre le anime che si muovevano concitate attorno a loro. «Io so fare solo incantesimi piccoli, nulla di ché, nulla di utile in combattimento. Penso tu sia quello che possa fare più danni, a magie.»
Cicno scosse la testa. «Le genti della mia stirpe non fanno magie, ma posso incantare i miei coltelli con maledizioni e poi scagliarli contro i nostri nemici.»
«I pugnali da lancio non sono una buona opzione ora, già abbiamo poca roba, non possiamo permetterci di perdere altro.» sentenziò deciso Nathan, ottenendo subito appoggio da Eliza.
Cicno però gli sorrise divertito. «Non devi mai aver avuto un’arma divina di pregio allora, i miei coltelli tornano a me dopo aver colpito l’obiettivo. Per questo penso sia inutile distribuirli tra di voi, dopo alcuni minuti tornerebbero in mio possesso, rischiando di scomparire dalle vostre mani nel momento meno opportuno.»
Nathan grugnì. «Perfetto. Allora ci resta solo una cosa da fare.»
«Scappare a gambe levate dentro ai Campi cercando di non farci beccare dal raggio di luce e dalle guardie?» propose Cade ironico.
Ma il soldato non lo era ed annuì cupo. «Per quanto trovo sia disonorevole scappare invece di affrontare lo scontro, in questo momento non possiamo permettercelo.»
«Nathan ha ragione.» si intromise Lea. «Tra di noi forse solo quattro persone potrebbero uscire vincitrici da una lotta e, senza offesa Jonas, ma neanche con i guantoni di Cade tu rientreresti tra loro. Così come me, Jane ed Úranus.»
Con una smorfia infastidita ma consapevole Jonas non poté che darle ragione. «Già, non sono in grado di tener testa ad un soldato addestrato e immortale.»
«Specie se ti capita Shilon Yu!» rise Cade dandogli una pacca sulla spalla. Poi si congelò.
Si volse veloce verso Eliza, poi verso Nathan, tirandolo per la giacca per farlo girare.
«Cazzo vuoi!?»
«SHILON YU! Shilon Yu, capite?» chiese tutto eccitato, quasi saltellando dalla gioia.
«Sì, ce lo ricordiamo.»
«Anche perché è colpa sua se mi sono dovuto accolare voi due.»
«Prego?»
«Accolare lui, va bene, va bene, tu non sei un accollo, sei una risorsa, chiedo scusa.»
Lea alzò un sopracciglio. «Ti ha davvero chiesto scusa?»
«Non posso paragonarla a roscio malpelo, lei è una soldatessa, mica una testa di cazzo come lui.»
«Mi sorprende sempre quanto il tuo amore nei miei confronti si manifesti nei modi più disparati.» rispose ironico il giovane. «Rimane il fatto, che Shilon Yu ci conosce! Sa chi siamo, sa che siamo gente per bene! Se troviamo lui magari ci aiuta ad entrare.»
Eliza lo guardò pensosa, valutando l’eventualità. «Potrebbe comunque sfidarci a duello, ma se ci reputasse degni di tornare nei Campi Elisi potrebbe lasciarci passare.» convenne.
«È un uomo giusto e gentile, sono sicura che ci aiuterebbe se fosse possibile. Potrebbe persino aiutarci con voi tre.» annuì la figlia di Apollo.
«Tu lo conosci?» domandò Nathan curioso. «La guardia muso giallo dico.»
«Perché devi sempre usare questi termini così denigratori? Sì, conosco Shilon Yu, andavo da lui ogni giorno per chiedergli se fosse- se fosse arrivato qualcuno di interessante.» tagliò corto Lea cercando di cambiare subito il discorso. «Quindi dobbiamo trovare lui, giusto?»
«E pensate che farà entrare anche noi, quindi?» domandò Jane per nulla impressionata da quel discorso così speranzoso.
I quattro beati si guardarono tra di loro senza saper cosa dire, ma alla fine Cade si strinse nelle spalle scuotendo la testa. «Hai un piano migliore?»
Jane grugnì. «Suppongo di no.»
«Bene! Allora dobbiamo cercare la guardia cinese!» concluse l’irlandese battendo le mani e facendosi avanti per affiancare Nathan. «Vuoi fare tu gli onori di casa o lasciamo fare ad Elza?»
«Ma tu guarda, mi ero quasi dimenticata di quanto sciocco ed infantile potessi essere.» ringhiò la figlia di Nike affiancando comunque i suoi compagni.
«Ehi, anche il soldatino qui ha detto che un nome è solo un nome.» sorrise come se fosse una scusa valida.
«Sì, e poi si è arrabbiato perché lo hai chiamato soldatino e non Nathan.» gli ricordò ghignando anche lei alzando un sopracciglio verso l’uomo.
Nathan però fece finta di non averli sentiti, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, a quelle ultime file di anime che li dividevano dalle porte ormai imponenti e infinite.
«Rimanete uniti, non fatevi dividere, state dietro di noi. Jonas e Jane, al centro, Úranus, tu sei grosso anche se non combatti bene puoi assestarlo qualche colpo. Rompi palle-»
«E ti pareva.»
«- te rimani dietro loro due, presumo che un calcio nelle palle lo sappia dare anche tu.»
«Se è per questo lo so dare anche io.» protestò Jonas sarcastico.
«Tu sei piccolo, che cazzo vuoi?»
«Non sono piccolo! Ho sedici anni!»
«Wow, un uomo vissuto allora!»
«Ehi!»
«Ma non era che dovevi farne sedici?» domandò Cade voltandosi verso di lui, poi, del tutto estemporaneo, «Che me li ridai i guanti? Così se mi arriva una spadata la posso bloccare?»
Jonas balbettò qualcosa di incomprensibile sulla sua età, finendo per aggrottare le sopracciglia chiare e passare i guantoni a Cade con un broncio infantile tanto quanto diceva di non essere.
«Principessa.» riprese a chiamare Nathan. «Tu chiudi la retrovia, va bene? Tieni d’occhio attacchi a sorpresa e nel caso, urla.»
Cicno alzò gli occhi al cielo. «Mi risulta che sia io quello sopravvissuto alle pene dell’inferno, non tu. Cosa ti fa credere che nel caso mi trovassi in pericolo, invece che reagire, mi metterei ad urlare?» chiese con sguardo truce sfilando con lentezza un pugnale dalla sua cinta e portandoselo alle labbra. «Temo sarà più probabile che sarete voi a chiedere il mio d’aiuto. Se doveste essere feriti mortalmente, avvertitemi.» concluse lasciando però la frase in sospeso, come se ci fosse del resto. Mormorò qualcosa contro la lama scintillante e non appena Nathan si voltò, conscio che il greco non avesse finito, quello ghignò apertamente in modo sadico per la prima volta da ché il figlio di Ares aveva posato gli occhi su di lui.
«Sarò lieto di rendermi utile, cessando le vostre sofferenze con il colpo di grazia.» premette le labbra sul metallo freddo, depositandovi un bacio umido di saliva che brillò di sinistri riflessi verdi.
Nonostante ciò, Nathan non poté far a meno di sorridere divertito: lo stronzetto, per quanto stronzetto fosse, cominciava quasi a piacergli. Quando non gli rompeva il cazzo.
«Sarò lieto di ricambiare il favore.»
«Oh, non te ne dolere, potendo scegliere preferirei fosse Jonas. Tra le mie genti era credenza comune che morire tra le braccia di una vergine allietasse l’anima e la rendesse più pura come la loro innocenza.»
Jonas voltò di scatto la testa verso Cicno, le guance paonazze e la bocca aperta, così scioccato da esser sordo persino alle risatine mal trattenute di Cade, allo sdegno di Lea che chiedeva a Cicno di esser più delicato, il ghigno nascosto di Jane e quello palese e aperto di Nathan.
«Accordato.»
«MA COSA!?»
 
 
Eliza non batté neanche le palpebre al sentire lo scambio di battute dei suoi compagni, felice in parte che la tenzione si fosse alleggerita per un momento. Peccato che non potessero rimanere ad aspettare, a ridere e legare con frasi stupide e provocatorie.
Aveva già scorto alcune anime precedentemente superate lasciarli indietro e buttarsi nella mischia. L’idea di creare abbastanza confusione per far sì che il raggio di luce potesse individuare un’anima che sarebbe stata sacrificata per permettere il passaggio a tutte le altre era giusta, e c’erano ancora tutti i morti del mondo ad affrontare la gara, ma questo non significava che se si fossero buttati nel momento sbagliato avrebbero rischiato di trovarsi in un attimo di calma, di essere ben individuabili sia dal raggio che da una delle guardie.
Dovevano muoversi, dovevano farlo adesso, ad Eliza sembrava quasi che sprecassero sempre più tempo del dovuto, rallentando e fermandosi quando non avrebbero potuto farlo. Ma non tutti erano soldati, non tutti erano abituati a camminare finché fosse stato necessario.
Doveva insegnarglielo lei.


«Prendete i vostri posti, dobbiamo andare ora.»
«Prima di beccare un momento di secca, vero?» domandò Cade strofinandosi le mani per poi battere le nocche le une contro le altre. «Vuoi un guanto? È uno solo, certo, ma può sempre aiutare.»
Eliza scosse la testa. «Tienilo, noi troveremo le armi di qualcun altro, se proprio sarà necessario.»
«Se restiamo uniti e compatti ce la faremo. Alle brutte, rosso malpelo, quanto vento puoi fare per combattere?» chiese Nathan senza guardarlo.
Cade deglutì. «Vorrei poterne fare il meno possibile, ma se sarà necessario, tutto quello che ho.»
L’altro annuì. «Golia, se senti che stai per farti prendere da un attacco di panico, fai un fischio.»
«Non so se sarei in grado di fischiare in un momento del genere.» ammise l’uomo a voce bassa.
Jane alzò gli occhi al cielo. «Scommetto fosse un’immagine figurata.»
«Fischio io nel caso!» sbottò Jonas tormentandosi i polsi e alternando il peso da un piede all’altro. «Io sto avendo un attacco di iperattività, ora.» gracchiò alla fine.
«Buono, vuol dire che correrai senza fermarti.»
«Adrenalina in vena caro, adrenalina in vena.» lo rassicurò Lea strofinandogli le mani sulle braccia.
«Principessa, tu sei pronto?»
«Se devi chiamarmi principessa, almeno dammi del voi.» sbuffò Cicno brandendo anche un secondo coltello velato di viola.
«Col cazzo. Ci sei?»
«Con il mio membro? Cosa dovrei farmene ora? Sarebbe solo d’intralcio.»
Cade si morse le labbra per non ridere, mente dietro di lui Lea stringeva le mani sulle spalle di Jonas, la cui smorfia faceva trasparire tutto il suo disagio nel sentir sempre tirar in ballo sesso e genitali vari.
«Scommetto che anche questa era un’immagine figurata.» ridacchio Jane facendo scrocchiare le mani.
«Oh, comprendo. Sì, sono pronto. Col cazzo?» aggiunse poi, perfettamente conscio di cosa avesse voluto dire il figlio di Ares e incredibilmente divertito dal poterlo infastidire con così poco.
«Porco Zeus in mutande.»
«Sono positivamente convinto che il divino Zeus non ne indossi mai, specie con la sua propensione alla copulazione e al piacere delle carni.»
«VA BENE! AL MIO VIA!» urlò Eliza al limite della sopportazione.
«Intendi tipo, uno, due, tre e poi via e al via partiamo, o uno, due, tre e il tre è il via e allora partiamo?» chiese Cade ghignando esattamente come avrebbe fatto Cicno se non avesse dovuto mantenere la sua facciata.
Eliza lo guardò con il suo peggior sguardo raggelante e Cade non poté far a meno di farsi scappare qualche versetto divertito.
«Ammettilo, ti ero mancato.»
La figlia di Nike socchiuse le palpebre. «Col cazzo.» masticò a mezza bocca, per farsi sentire solo da Cade che scoppiò a ridere.
«VIA!»
 
All’urlo della donna tutti e otto si lanciarono in avanti, seguendo la marea di anime che continuavano a riversarsi verso le porte dei Campi Elisi, schivando chi restava fermo, spintonando chi intralciava il loro cammino, fino a poggiar piede sulla terra bruciata dal raggio di luce, entrando dritti nel vivo della gara.
 
«A destra!» chiamò Nathan scorgendo una breccia tra i partecipanti e incontrando i primi combattenti.
Davanti a loro tre uomini tenevano a bada almeno dodici anime da soli. Erano vestiti con quelle che potevano sembrare abiti. Jane le avrebbe chiamate vesti da notte, lunghe tuniche chiuse in vita da una fascia di tessuto ben stretta e gli strani pantaloni gonfi che fuoriuscivano da sotto i lembi svolazzanti, ma la maggior parte dei suoi compagni li riconobbe facilmente come samurai armati di katana e di lunghe lance dalle punte piumate e le lame ricurve.
I tre combattenti volteggiavano con grazia e precisione come ballerini impegnati in una coreografia provata mille e mille volte. Si scambiavano di posto, paravano i colpi diretti ai compagni e affondavano senza pietà le loro lame nei corpi concreti ed inesistenti delle anime avversarie.
Nathan allungò un braccio dietro di sé per far cenno agli altri di proseguire in diagonale, evitare i samurai e continuare a correre.
Scene del genere iniziarono a diventare sempre più frequenti e ben presto i ragazzi si trovarono costretti ad indietreggiare, a schivare colpi e sottrarsi alla lotta pur di poter proseguire.
«Cercate di non dividervi! Se proprio necessario mai da soli!» gridò Eliza.
«E sempre vicino a uno di noi che è già stato nei Campi Elisi.» aggiunse Lea spingendosi contro Jonas per farlo allontanare da un altro scontro.
«Se dovessimo dividerci, ci vediamo davanti al gabbiotto!» urlò Nathan agli altri beati, che annuirono secchi.
«Beh, penso che il momento si arrivato! Via, VIA!»
Cade si bloccò di colpo, allargando le mani per fermare gli altri e poi spingendo tutti in direzioni diverse, disperdendo il piccolo gruppo con una folata di vento.
Poco dopo il fascio di luce colpì il terreno sbattendo violentemente un’anima mezza carbonizzata sulla terra calpestata.
Le urla dell’anima si dispersero velocemente tra quelle di tutti gli altri, ma nessuno ebbe modo di focalizzarsi sull’azione violenta e perpetua della luce. In pochi secondi furono costretti tutti a rimettersi in piedi e ricominciare a correre e correre.



Lea non aveva mai visto la porta centrale aperta, non si era mai neanche domandata come fosse, ad essere onesti, ma ora che correva a più non posso, tenendo saldamente Jonas per mano, come se ne andasse della sua stessa vita, seguendo Nathan che le correva davanti prendendo a spallate tutti quelli che provavano a sbarrargli la strada, si rese conto che quell’entrata era mastodontica, che pareva la bocca famelica di una balena, pronta ad inghiottire tutto senza neanche rendersene conto.
Spostò con ansia lo sguardo da una parte all’altra, cercando di scorgere gli altri compagni. Credette per un attimo di aver visto Cade, un lampo rosso seguito da una macchia blu, forse la sua giubba, forse quella di Eliza, e si domandò se Jane fosse con loro o se fosse rimasta indietro con Úranus e Cicno.
Úranus. Dov’era il suo amico? Stava bene? Era un ragazzone, su questo non c’era dubbio, ma non era armato e non avrebbe avuto il tempo, la concentrazione o la calma di far impazzire le anime davanti a lui come aveva fatto con il pellerossa nel labirinto. Perché ormai, dopo aver saputo chi fosse effettivamente il padre dell’uomo, Lea non aveva più dubbio alcuno sul fatto che fosse stato proprio il suo compagno a far spaventare l’indiano ed a metterle addosso quella sensazione di disagio che si era portata dietro per gran parte della prova. In ogni caso, in questa situazione, non ne avrebbe cavato un ragno dal buco, si sarebbe dovuto affidare a Cicno e Cicno soltanto.
Sempre che i coltelli avvelenati e la forza semidivina del suo fratellastro fossero servite a qualcosa.

«Nathan! Hai visto gli altri?» domandò cercando di superare il fracasso e farsi sentire.
Il figlio di Ares però era troppo impegnato a caricare un gancio da dare dritto sul naso di una guardia britannica per potergli prestare attenzione e ad osservare lui Lea si rese conto all’ultimo minuto della coppia di anime che rotolò davanti a lei.
Si fermò di colpo, girandosi verso Jonas per potergli far scudo e tenerlo al sicuro e si sorprese della stretta forte con cui il ragazzino la strinse e la spinse di lato, spostando entrambi dalla traiettoria di un altro scontro.
Rotolarono a terra in modo scomposto, cercando inutilmente di rialzarsi, spintonati, urtati, costretti a riabbassarsi per schivare compi e corpi. E più tempo impiegavano per rimettersi in piedi, più anime si frapponevano tra loro e Nathan, fino a dividerli definitivamente.
Lea imprecò mentalmente, lei era in grado di trovare il gabbiotto, ma non sapeva se sarebbe mai stata in grado di affrontare un guerriero o un soldato o dio solo sapeva cosa si sarebbe frapposto tra loro e la meta.
Guardò preoccupata Jonas e non le servì soffermarsi troppo sul suo volto per leggere la stessa ansia, la stessa angoscia riflessa nei tratti tesi.
«Forza, dobbiamo muoverci. Se rimaniamo a terra siamo morti.» disse a denti stretti, facendo forza sulle gambe lunghe e trascinando in piedi con sé il ragazzino.
«Dov’è Nathan? Abbiamo perso anche lui?» domandò con voce tramante Jonas stringendosi inconsciamente a lei.
Era in momenti come quelli, quando la tenzione ed il pericolo erano alle stelle, quando non si stava giocando ma si stava rischiando la vita – l’esistenza – che Lea si ricordava che sì, Jonas aveva solo sedici anni. O quindici, o quanti diavolo ne aveva ma che comunque la si guardasse, era solo un ragazzino piccolo ed indifeso, il cui più alto atto di ribellione era stato fuggire da una situazione difficile, al preludio di una guerra mondiale.
Ricambiò la stretta mormorando qualche canto curativo, nella speranza di infondere un po’ di coraggio e forza nel suo giovane compagno.
«Lo ritroveremo, vedrai che ora lo ritroveremo. Non si farà rinfacciare da Eliza e da Cade che ci ha persi di vista. Andiamo a cercarlo ma nel frattempo avanziamo.»
«Stava combattendo. È senza armi. Lea, è senza armi come farà a difendersi davvero?» incalzò sempre più preoccupato.
Ecco, l’unica cosa che gli ci mancava ora era un preannunciato attacco di panico.
 
Almeno non è Úranus.
 
Si ritrovò a pensare Lea cercando di infondere quanto più calore nell’altro.
«So che è praticamente impossibile, ma non devi agitarti. Se vai nel panico e ti blocchi io non potrò fare gran ché per difenderti.» ammise tesa, «E se il tuo potere funziona come quello di Úranus, allora non potrò fare proprio niente.»
Jonas deglutì. «Hai un amore perduto che potrei rievocare?»
Per la prima volta da che era iniziata quella gara, Lea rise liberamente. «Oh caro, anche io sono stata giovane. Abbiamo tutti un amore perduto, ma se proprio vuoi farmi rivedere Paolo, allora ti prego di farlo quando saremo tutti più tranquilli.» si concesse addirittura di fargli un occhiolino e Jonas, deglutendo ancora a vuoto, ricambio con un sorriso tremulo.
«Sì, capisco.» disse solo.
Lea sorrise ancora. «Lo so.»
Si strinsero la mano più che poterono, per infondere un minimo di coraggio all’altro, per fargli sapere che c’erano, che ci sarebbero stati anche in quell’inferno, in quell’altro inferno, che si capivano.
Ripresero a muoversi con attenzione, svelti come topi che scappano tra i vicoli bui, sperando di non farsi notare dai predatori. Puntarono verso la direzione in cui avevano lasciato Nathan ma Lea non aveva troppe speranze di ritrovarlo subito, anzi, in cuor suo sperava che il soldato fosse andato avanti, che non fosse stato sconfitto e che non fosse ancora impegnato a combattere.
La mente di Jonas invece, per quanto provasse a restare propositivo, a pensare a districarsi tra quella marea di corpi e solo quello, non riusciva a non sfrecciare da un’anima all’altra, da un volto all’altro. Nathan stava bene? Era riuscito a sconfiggere una guardia e ad essere così ritenuto degno di passare la porta? Era stato per caso sconfitto? Anche in quel caso però il suo sfidante avrebbe potuto giudicarlo degno e lasciarlo passare, no? O forse era stato colpito dall’occhio di Sauron o quel che cazzo era e ora stava affrontando la prova del Guardiano.
E Cade?
Si morse il labbro con forza, stringendo talmente tanto la mano di Lea da sentir la sua iniziare a formicolare, come se le mancasse l’afflusso di ossigeno. Quella libera se la strinse al petto, affondando le unghie nel tessuto liso della sua camicia.
Dio, sua madre si sarebbe arrabbiata così tanto se avesse visto in che condizioni era ridotta.
Un verso di scherno gli salì alle labbra, ma nessun suono ne uscì, mentre si domandava perché ogni volta che era in pericolo pensasse a cose così stupide, perché ogni volta che pensasse a Cade o a sua madre automaticamente pensasse anche all’altro.
A sua madre Cade non sarebbe piaciuto probabilmente. A Cade, sua madre sì.
Dov’era ora? Gli aveva detto più e più volte che non l’avrebbe mai lasciato ma continuavano a dividersi invece, ad allontanarsi proprio nel momento del bisogno.
Stava bene? Era vicino ad Eliza l’ultima volta che l’aveva visto. Erano riusciti a recuperare Jane? Era sola lei? O magari Úranus e Cicno avevano visto che era rimasta separata dagli altri due e le erano andati in soccorso? Cicno aveva già iniziato a lanciare i suoi coltelli? Aveva dovuto affrontare qualcuno?
Uno strattone lo riscosse dai suoi pensieri e subito dopo si ritrovò nuovamente a terra, schiacciato dal peso di Lea che, ancora una volta, gli si era gettata contro per proteggerlo, così come aveva fatto Cade innumerevoli volte.
Diamine, si era fatto dei genitori adottivi lì nell’Ade?
Non aveva tempo per pensare a queste cose, non era proprio il momento. Dovevano alzarsi di nuovo e riprendere a correre. Perché Lea non si muoveva?
Un brivido lo scosse d’improvviso.
 
«Lea?» domandò in un pigolio terrorizzato.
Il respiro della ragazza era lento, lentissimo e Jonas pregò che fosse trattenuto e non morente.
«Lea?» provò di nuovo, con la paura crescente che se avesse parlato più forte qualcuno si sarebbe accorto di lui e l’avrebbe finito, avrebbe ucciso anche lui.
«Lea, per favore…»
Avrebbe voluto alzare il capo e cercare il volto della compagna, ma questa lo teneva ancora stretto al suo petto e tutto ciò che Jonas riusciva a vedere erano i bottoni della camicetta, completamente sfocati per colpa della vicinanza.
 
«State bene, signorina?»
 
La voce che lo raggiunse era del tutto estranea, ma aveva al contempo un accento, un’inflessione, decisamente familiare.
 
Americano?
 
«Venite, tiratevi su. Giuro che non farò del male né a voi né al vostro fratellino.»
Era la seconda volta che qualcuno lo appellava come fratello di uno dei suoi compagni e per la seconda volta Jonas non riuscì a dispiacersene.
Solo allora s’accorse che Lea aveva tenuto una mano premuta sulla sua nuca per tutto il tempo, per impedirgli di guardare la morte in faccia probabilmente, mentre lei aveva tenuto il viso rivolto verso il pericolo senza mai distogliere lo sguardo.
Quando la figlia di Apollo si mosse, per tirarsi a sedere, lo tenne comunque vicino a lei, pronta a proteggerlo di nuovo o a spingerlo via dal pericolo.
Strinse un paio di volte la mano sul suo collo e se fosse stato uno scommettitore, Jonas avrebbe giurato che quel gesto significava allerta, attenzione, significava “scappa se ce ne sarà bisogno”. Significava protezione, ancora.
Con lentezza il ragazzino sollevò lo sguardo sull’uomo davanti a loro, che con la sua sola presenza sembrava creare una zona di vuoto tutt’attorno.
 
Una guardia.
 
Fu l’unico pensiero logico che riuscì a fare e in effetti proprio di questo si trattava.
L’uomo davanti a loro era alto e robusto, l’immagine classica di un soldato, forse un ufficiale più alto in rango a giudicare dalle medagli appuntate sulla giacca blu. Una giacca che lui conosceva, che aveva visto costantemente durante gli ultimi giorni- o forse settimane? Quella gara pareva durare da una vita.
Il ragazzino batté le palpebre accostandosi di più alla compagna, fino a premere il torace ossuto contro il suo braccio.
«Lea… ha-» mormorò cercando di non farsi sentire.
Ma lei lo fermò prima, annuendo decisa. «Lo so, l’ho riconosciuta anche io.»
L’uomo inclinò leggermente il capo, i capelli scuri striati di bianco erano leggermente nascosti sotto il cappello nero, che non si mosse d’un millimetro al gesto del suo proprietario.
«Non vi farò del male.» ripetette ancora con calma, forte della sicurezza che gli dava il suo ruolo, conscio che nessuno sano di mente si sarebbe sognato di andarlo a disturbare invece di passargli sotto il naso senza dover far lo sforzo di combatterlo. C’erano altri suoi compagni ad attenderli, in ogni caso.
«Perdonerà se non le crediamo.» rispose Lea con tutta la durezza di cui era capace.
L’uomo si toccò il cappello a mo’ di scusa, «Non sono un’aragosta, signorina, le mie spalle non sono insanguinate. Ho combattuto per la giustizia, per la libertà, non attaccherei mai nessuno in modo così vile, a terra, incapace di difendersi.»
La sua voce era pacata ma incredibilmente salda, gentile quasi, ma certa di ogni parola pronunciata.
Jonas si ritrovò a chiudere ed allargare la mano innervosito. Voleva alzarsi di lì e scappare il più velocemente possibile da quell’uomo, anche se qualcosa gli suggeriva che non gli sarebbe mai potuto ricapitare avversario migliore.
La guardia gli sorrise d’improvviso. «Non dovete temere per la sorte di vostra sorella, come ho già detto, sono un uomo d’onore, non attaccherei mai una donna o un giovinetto. Su, alzatevi, questo non è un buon posto dove riposare.» Allungò la mano verso di loro ma non si avvicinò troppo, lasciando loro spazio per poter scegliere se far da sé o accettare il suo aiuto.
Lea si mise lentamente in ginocchio, senza staccare gli occhi dall’uomo, senza lasciare la presa su Jonas.
«Di nuovo, mi perdonerà se ho qualche remora. Non sempre un uomo in divisa è portatore di giustizia ed onore.»
L’altro annuì ritirando la mano senza sembrarne offeso. «Concordo con voi, sacrificai la mia vita contro altri soldati per l’indipendenza del mio paese. Siete soli per caso? Molti figli degli Dei sono riuniti in gruppi numerosi, avete per caso perso i vostri compagni?»
Jonas tirò leggermente la maglia di Lea, alzandosi definitivamente anche lui da terra. Com’era possibile che tutti si rendessero conto che erano semidei, tranne lui?
«Avete combattuto contro gli Inglesi, giusto? La vostra Guerra di Secessione.» continuò Lea senza voler dare troppi dettagli sulla loro stramba combriccola ad un perfetto sconosciuto che, a detta di Demetra, avrebbe dovuto combatterli e sconfiggerli.
Il soldato annuì sorpreso. «Siete forse della mia amata America? Non dovete essere del mio stesso tempo, alle donne non era permesso indossare pantaloni.» notò quello con un cenno.
«Neanche al mio. In un giorno diverso sarei stata messa in gattabuia, ma quando morii eravamo occupati a combattere.»
Lea si spostò leggermente davanti all’uomo, coprendo così Jonas che si vide costretto ad alzarsi sulle punte per sbirciare oltre la spalla della giovane.
«Non siamo mai riusciti ad ottenere una pace perpetua, lo so.»
«Neanche il mio popolo. Non sono americana.»
«No, non ne avete i tratti, nessuno di voi due.» sorrise lui. «Posso sapere da dove venite?»
«Italia.»
«Germania.»
«Oh, quindi non siete fratelli.» ragionò a voce alta. «Mi sono fatto ingannare dai vostri capelli e dal modo in cui vi proteggete a vicenda. Temo non proveniate neanche dallo stesso luogo d’eterno riposo, giusto?»
A quella domanda, improvvisamente molto più importante di tutto quell’inutile chiacchierare, Lea allungò il braccio all’indietro costringendo Jonas a stringersi ancora di più a lei.
L’uomo sorrise. «Vi prego di credere definitivamente alle mie parole: non vi attaccherò, non sono un vile.»
«E noi non siamo più a terra.» gli fece notare Lea.
«Ma siete disarmati.»
«Siamo semidei, lo ha detto anche lei.» borbottò Jonas. Il pizzico che gli arrivò sul braccio se lo era meritato tutto.
Eppure l’uomo rise, il tono basso e bonario, forse persino un po’ impacciato da quella dimostrazione d’affetto così particolare.
«Vero, ma non tutti i semidei possono vantare doni divini in grado di combattere. Vieni dalle Praterie o dai Campi di Pena, ragazzo?» Chiese improvvisamente serio.
Jonas sentì un’incredibile voglia di nascondersi dietro Lea e lasciar rispondere lei, ma dentro di sé c’era un moto d’orgoglio e di testardaggine che gli sussurrava che se mai si fosse preso la responsabilità delle sue azioni, di ciò che era, non avrebbe avuto nessuna possibilità di vincere, né di sopravvivere una volta tornato in vita.
 
Perché è questo che voglio. Una seconda possibilità.
 
Preso da quei pensieri si scostò da dietro l’amica e guardò l’americano dritto negli occhi, senza vergogna, o per lo meno, cercando di dimostrarsi più sicuro e coraggioso possibile.

«Sono un dannato.» disse riuscendo a mantenere la voce salda. Cade sarebbe stato davvero fiero di lui.
L’uomo lo fissò per un lungo istante ma non appena si mosse lo stesso fece Lea, ponendosi nuovamente davanti a lui.
«Sappiamo qual è la prova, sappiamo di dover affrontare voi guardie o superare la prova del Guardiano, ma sappia lei, invece, che se vorrà muovere un solo dito contro di lui, prima dovrà vedersela con me.»
Cade sarebbe stato estremamente orgoglioso anche della voce ferma e minacciosa di Lea. Così come Eliza lo sarebbe stata, così come Úranus e, Jonas non ne dubitava, anche Nathan. Riuscì ad immaginarsi persino Jane sogghignare farfugliando qualcosa sul bel caratterino che l’italiana era in grado di tirare fuori nei momenti più opportuni. Forse, persino Cicno sarebbe stato compiaciuto della minaccia esplicita, anche se poco minacciosa in effetti, mossa dalla sua sorellastra.
Ciò che Jonas non si aspettava di certo era come persino l'uomo davanti a loro sembrò apprezzare quel gesto, tanto da fermarsi e assumere una posa palesemente militare.
Si tolse il cappello con un gesto fluido e porse, per la seconda volta, la mano a Lea.

«E questo vi fa incredibilmente onore, signorina-»
«Lea.» rispose Jonas per lei, senza riuscire a fermarsi.
L’uomo gli sorrise bonario. «Lea. Ciò vi fa onore. Ergersi a difesa di un compagno, qualunque sia la situazione, anche quando sarebbe più fruttuoso pensare solo a sé stessi. Siete una donna altruista.»
Lea si fece scappare un verso quasi divertito, studiando con diffidenza la guardia prima di decidersi a stringergli la mano.
«Sono morta per colpa del mio altruismo, signor?» domandò di rimando.
L’uomo le strinse saldamente la mano, poi la porse anche a Jonas, che l’accettò timidamente.
«Sergente dell’esercito delle Tredici Colonie, ora degli Stati Uniti d’America, Philip Reed.»
Jonas annuì mestamente, «Jon-» Poi si bloccò.
Fece scattare la testa verso Lea, così velocemente che in vita se la sarebbe di certo staccata dal collo, e sul suo volto lesse lo stesso sgomento che doveva esserci sul suo.
«REED
 



 
*
 




Cade guardò con ansia la gente che lo circondava, troppo presa a combattere o a fuggire per prestare attenzione a lui.
I guanti di metallo pesavano come mai avevano fatto, li aveva lasciati per così tanto tempo a Jonas da essersi quasi dimenticato cosa si provava ad indossarli. Ad essere precisi, quella sarebbe stata la prima volta da che era morto che li avrebbe utilizzati di nuovo e non sapeva se la cosa gli mettesse più eccitazione addosso o più nervosismo: imbracciare un’arma significava sempre utilizzarla nel suo mondo.
Un’anima si fermò d’improvviso a fissarlo, immobile in quel caos di scontri e raggi luminosi, e Cade si preparò mentalmente a menare le mani per l’ennesima volta. Sapeva perfettamente infatti che quel morto non stava guardando davvero lui, ma chi c’era alle sue spalle.
 
Una giubba blu simile a tante altre che girano da queste parti, peccato che la nostra Elza non sia una vera guardia.
 
«Non ci provare bello, è una concorrente come te.» sibilò portando i pugni in alto, in una classica posizione da pugile.
L’uomo lo guardò per un attimo stralunato. «Lei?» chiese in un soffio, prima che un gruppo di anime lo spingesse via nella loro folle corsa.
Cade sospirò sollevato voltandosi a mala pena indietro per sincerarsi che le ragazze lo stessero seguendo.
«Devi toglierti quella cazzo di giacca, non fanno altro che scambiarti per un soldato.» gridò spingendo via una donna in quello che sembrava un pigiama intero arancione.
Jane, arrancando al fianco di Eliza, annuì concorde. «Sì, devi togliertela, ci sta procurando più guai che altro.»
«Io sono un soldato.» ringhiò quella assottigliando lo sguardo.
«E noi siamo concorrenti di una gara in cui, ora come ora, i soldati sono i cattivi.» le ricordò Jane.
«Non che sia una novità.» borbottò Cade sperando di non essersi fatto sentire. Fallendo miseramente.
«Come?»
«Oh, andiamo, non farmi ricominciare questo discorso ora, siamo nella merda, possiamo parlarne dopo? Ci siamo persi Jonas che spero, per l’incolumità delle sue palle, Nathan stia proteggendo.»
«Ci siamo persi anche Lea, il gigante inquietante e il belloccio.» continuò affannata. «Lea è con i due bambini?»
Cade annuì. «Dovrebbe. Cazzo, abbiamo lasciato tutti i più piccoli insieme.»
«Almeno sono biondi, li si trova facilmente.»
«Voi dite?» ringhiò Eliza togliendosi la giacca di malavoglia, assestando un calcio sulla schiena ad un’anima mal ridotta, probabilmente un dannato, prima di indicare con il capo la sacca di Cade.
«Mettila lì e sta attento a non rovinarmela.» disse avvicinandosi al compagno per infilare a forza la giacca nel bagaglio.
«Che c’è? Ora sono un postino?»
«Cos’è un postino?»
«Nulla di cui dobbiamo occuparci ora. Giù!»
Al grido della mora tutti e tre si buttarono a terra ed il raggio luminoso passò di nuovo sulle loro teste, colpendo in pieno un uomo vestito di verde con una specie di calzamaglia al posto dei pantaloni.
Cade guadò con orrore il verde scintillante del velluto divenire marrone ed aprirsi in fori bruciacchiati, mentre il resto della pelle assumeva un colore fin troppo simile a quello della carne arrostita.
Dio, che cazzo avevano gli Dei con il fuoco e le fiamme? Perché dovevano sempre bruciare? Per una volta non potevano decidere di farli affogare? Perché sempre il dannato fuoco?
«È una mia impressione o quel dannato faro ci sta seguendo?» domandò il rosso rialzandosi in piedi e trascinando con sé Jane.
La ragazza, innervosita, tirò via un lembo della sua veste da sotto il piede di un giovane, strappandolo malamente. «Se stai per dirci qualcosa come “sembra stia seguendo proprio me”, sappi che ti utilizzerò come vittima sacrificale e ti ci spingerò dentro alla prima occasione. Dannazione!» ringhiò fissando la gonna mezza rotta.
Cade alzò gli occhi al cielo, fece scivolare velocemente la sacca davanti a sé e vi immerse il braccio per cercare alla cieca il suo coltellino da intaglio. Lo fece scattare con un gesto consumato e poi si abbassò davanti a Jane, facendole cenno di tenere la gonna un po’ sollevata.
«Che diamine vuoi fare?» chiese Eliza guardandolo storto.
Cade rimase però concentrato sul suo lavoro, portando la lama proprio sullo strappo principale, tagliando in orizzontale un grande e logoro anello di stoffa.
Il verso sgomento di Jane si perse nel caso che li circondava, ma Cade non se ne curò, rialzandosi velocemente e mettendosi il coltellino in tasca.
«Le facilito la corsa, avremmo dovuto farlo molto prima.»
«Ha le caviglie scoperte così!» protestò Eliza.
Il rosso la guardò allibito. «Me lo sta dicendo una che porta i pantaloni? Seria? E poi che cazzo significa? Le hai anche tu le caviglie e le ho anche io, non mi sembra il momento giusto per discutere di bon ton!»
«Stai imprecando sempre di più, passi troppo tempo con Nathan.» gli rinfacciò Eliza tirando un destro in piena faccia ad un uomo in abiti moderni, spostandolo poi di lato, dritto contro un’altra anima.
«Che tu ci creda o no, cara Elza, lo facevo anche prima di conoscerlo, sono un ragazzo di porto io!» sorrise d’improvviso saltellando alla ricerca di una via libera.
«Possiamo smetterla e andare avanti?» li rimbeccò Jane, scuotendo leggermente prima un piede e poi l’altro, come per abituarsi a quella nuova, improvvisata tenuta.
«Giusto. Credi che ti segua quindi?» domandò Eliza tirandoli dalla sua parte non appena trovò una breccia tra le anime.
Cade fece una smorfia. «Le Praterie mi davano più fastidio di quanto non ne dessero a voi. Se la prova del Guardiano serve per assicurarsi che un’anima sia degna di entrare nei Campi Elisi…»
«Io e te siamo fottuti.» concluse la figlia di Ecate secca.
Eliza guardò male anche lei. «Anche tu passi troppo tempo con Nathan.»
«Bell’affare, non è che possa farne a meno!»
«Sentite, basterà non farci beccare dal raggio divino o quel che è.»
«E trovare gli altri il prima possibile.»
«Se becca Cicno e Jonas sono nei guai anche loro.»
 

«Penso che potreste esserlo anche voi, se non prestate attenzione ad ogni direzione.»


I ragazzi si fermarono di colpo, congelati da quella voce così vicina e distante al contempo.
Lentamente girarono sul posto, trovandosi faccia a faccia con una giovane di forse vent’anni, che li fissava con tranquillità, come se non si trovassero in mezzo ad un campo di battaglia pullulante di combattenti.
Anche lei doveva essere una di loro, malgrado non avesse vesti militari. Non indossava un’armatura, né una divisa, sembrava quasi… un’odalisca.
Sul corpo morbido erano drappeggiati delicati veli di un verde tenue, pastello, un colore quasi infantile che contrastava in modo stridente con le lunghe sciabole che stringeva.
Le braccia e le caviglie erano cariche di bracciali e gioielli sonanti, la gonna sembrava avere un lungo spacco sul lato, forse per aiutare chi la indossava a muoversi con più facilità, forse solo per attirare l’occhio proprio sulle gambe toniche della giovane. Il petto era fasciato con una qualche stoffa chiara, ma i veli che le avvolgevano il torace, i fianchi e le spalle, così come il capo, non lasciavano intravedere la trama o il colore originario.
Il volto gentile aveva palesi tratti arabi, il naso pronunciato era decorato con un anello d’oro scintillante, legato ad una catenella che si univa agli orecchini, in parte coperti dai capelli, in parte dal velo che li proteggeva ad occhi indiscreti.
C’era uno spesso contorno nero attorno ai suoi occhi, ma Cade avrebbe scommesso che la giovane avesse uno sguardo penetrante con o senza di quello.
La guardò di nuovo da capo a piedi, registrando solo in quel momento il fatto che fosse scalza.
Subito dopo Eliza si schierò davanti a lui e Jane, in posizione di difesa.

«Siete una guardia dell’Ade?» domandò ad alta voce.
La giovane annuì. «Il mio nome è Hadiya, serva fedele del Sultano Osman il Guerriero. È mio compito sfidarvi e combattervi. Cadrà su di me il giudizio sulla vostra nobiltà, valore e giustizia. Saranno le mie spade a decretarvi degni o meno dei Campi Elisi.»
Cade deglutì guardando le sciabole con apprensione. «Non è il momento giusto per chiedere perché una donna araba sia finita nell’inferno greco, vero?» domandò sottovoce.
«Se è per questo, molti cristiani sono finiti in questo inferno, te lo stai domandando solo ora perché?»
«Combatterò io contro di lei, voi scappate.»
Il commento secco della figlia di Nike fece irrigidire i due compagni. Jane guardò prima l’una e poi l’altro.
«Ci sta prendendo in giro?» chiese con una punta di acidità nella voce.
Cade annuì, una smorfia infastidita a piegargli le labbra. «Non ci prende in giro, ci sta prendendo direttamente per il culo.» affermò sistemandosi i guanti e mettendosi anche lui in posizione. «Ha due spade, io le blocco e tu l’attacchi, ci stai?»
Eliza storse appena il naso. «Non combatterà contro entrambi.»
«Posso combattere contro tutti e tre. Non siete dannati, posso vederlo chiaramente, perciò a voi concederò un combattimento equo e dignitoso, non vi ucciderò senza pietà, così come le anime dannate meritano. Se nel vostro spirito siete consci che solo combattendo tutti e tre contro di me potreste avere speranza allora così sia.»
Non lasciò loro tempo di risponderle.
La guerriera scattò in avanti, le sciabole posizionate di taglio davanti a lei, pronte ad infliggere il maggior danno con il minor sforzo.
Jane afferrò Eliza per la camicia e la tirò indietro con tutta la forza che aveva, lasciando spazio a Cade che le si schierò davanti cercando di parare i colpi.
Riuscì a deflettere la lama più alta ma veloce Hadiya girò su sé stessa menando un affondo con l’altra, ferendo di striscio Cade al fianco.
Con un sibilo dolorante Cade indietreggiò di un passo ma non si tolse dalla traiettoria, conscio che così facendo avrebbe lasciato scoperte le sue compagne.
Eliza ringhiò a denti stretti, ci sarebbe stato tempo in futuro per sgridare entrambi per non aver eseguito i suoi ordini e per averla addirittura sottratta al primo scontro, ma ora doveva occuparsi della guerriera araba.
Si rialzò scivolando sulla cenere e sulla terra brulla, caricando a testa bassa la giovane e placcandola alla vita.
La lanciò al suolo ma quella doveva essere evidentemente ben addestrata perché si liberò con un movimento sinuoso e le menò un colpo tra spalla e collo con l’elsa della sciabola. 
Doveva muoversi da lì più velocemente possibile, nella foga della sua mente iperattiva sapeva perfettamente che anche un secondo d’esitazione le sarebbe costato la vita e che in quella posizione aveva più di un punto debole scoperto. Si mise in ginocchio, afferrando il polso della guerriera, decisa a farle perdere almeno una delle sue armi, anche a costo di ritrovarsi l’altra infilzata nel fianco, ma la lama si scontrò contro qualcos’altro, dal rumore metallico e l’imprecazione che seguì subito dopo, probabilmente Cade. Che, malgrado fosse riuscito a stringere la lama tra le mani guantate, si ritrovò subito dopo ad indietreggiare lasciando la presa. La guerriera si era mossa con precisione marziale, colpendolo con un calcio in piena faccia e facendolo barcollare all’indietro.
«Cazzo!» sibilò tra i denti, portando istintivamente le mani al naso. Anche sotto lo strato rigido del bronzo celeste il naso sembrava molliccio, sicuramente rotto. Il sangue vischioso che gli scivolò sulle labbra sapeva di ferro e terra.
Cade ondeggiò serrando gli occhi per un secondo, un’azione stupida ma inevitabile, e fu felice di sentire subito dopo un paio di mani, piccole ma dalla stretta serrata, afferrarlo per i fianchi e spostarlo di peso.
Così come aveva fatto per Eliza, Jane lo manovrò sul campo, aiutandolo a stare in piedi e schivare altre anime mentre la figlia di Nike cercava di mantenere lo scontro con la guerriera un serrato corpo a corpo. Darle troppo spazio le avrebbe permesso di maneggiare al meglio le sue lame e dalla precisione e la sicurezza con cui si muoveva Eliza non dubitò neanche per un momento che sarebbe stata capace di decapitarla con un unico fluido gesto.
Jane guardò le due combattere e si domandò se, nel caso ci fosse stato Jonas con loro, l’araba non si sarebbe fatta problemi a giocare sporco come, evidentemente, non stava facendo in quel momento.
«Qualunque cosa succeda, non dobbiamo farla arrivare da Jonas, o lo ammazza di sicuro. » ringhiò Cade soffiando forte dal naso e sputando sangue a terra. Sentiva gli occhi gonfiarsi, così come gli zigomi, doveva avergli fatto un bel danno.
«Non è un problema ora. Guardami.» rispose svelta Jane facendolo voltare verso di lei e asciugandogli il naso con la manica del vestito, cercando di togliergli dalla faccia anche quello che gli colava dal sopracciglio. Quando parve soddisfatta gli diede una spinta verso Eliza, intimandogli di correre ad aiutarla prima che fosse troppo tardi.
Cade non se lo fece ripetere due volte e con un balzo atterò alle spalle della guerriera, cercando di bloccarle le braccia ma ottenendo così solo di farle da appoggio per poter colpire di nuovo in pieno petto Eliza, mandandola a gambe all’aria, prima di scrollarsi Cade di dosso e farlo rovinare a terra, costringendolo a rotolare via per non essere infilzato dalle sciabole.
Jane osservava con ansia i due cercare quanto meno di arginare la donna, una furia personificata, un angelo vendicatore di quelli che il prete raccontava sarebbero scesi sulla terra nel giorno del giudizio.
Da sola lei non sarebbe riuscita a fare nulla, non sarebbe riuscita neanche a parare un colpo, sarebbe morta all’istante. Eliza e Cade no, malgrado non avessero davvero mai combattuto assieme ora si alternavano cercando di collaborare come una squadra, guardandosi le spalle a vicenda, trovando un ritmo quanto meno per poter parare ogni colpo di lama. Ma Cade era ferito, al fianco, al volto, ed Eliza aveva tagli sanguinanti sulle braccia, la camicia squarciata lasciava intravedere la stretta fasciatura che le legava il busto, forse la stessa che le copriva il seno.
Jane si ritrovò d’improvviso a guardarsi attorno con foga, sperando, pregando, di poter scorgere Nathan o Úranus, entrambi abbastanza addestrati o grossi per poter aiutare gli altri due. O magari Cicno o Lea, che avrebbero potuto curare le ferite degli altri. Sperava solo che Jonas fosse con loro, che non si fosse perso in mezzo a quel caos o sarebbe stata dura ritrovarlo, sarebbe stata dura ritrovarlo intero, per lo meno.
Prese a martoriarsi il labbro fino a farselo sanguinare, ma anche così era troppo intenta a cercare gli altri, cercare aiuto, e nel frattempo non perdere di vista Eliza e Cade, correndo da loro ogni volta che li vedeva rovinare a terra, allungando le braccia per prenderli ogni volta che li vedeva barcollare.
Per quanto la sua mente lo urlasse a gran voce, Jane non capì di essere effettivamente preoccupata per loro, di aver paura per la loro salvezza, finché non si ritrovò a ripetere tutti gli incantesimi che conosceva, tutte le formule e formulette, tutti quegli stupidi trucchi da prestigiatore che forse non avrebbero sconfitto la guerriera araba ma almeno avrebbero potuto dare un attimo di respiro ai suoi amici.
Dio, si sentiva così impotente in quel momento.
Non aveva incantesimi d’attacco, offensivi. Poteva fare la sua bella bussola, creare qualche piccola illusione e-
Jane si spostò di scatto evitando alcune anime. Non poteva credere di non averci pensato fino ad ora. Non poteva credere d’esser stata così stupida.
Si trovava all’inferno, nelle Praterie degli Asfodeli, vicino ai Campi Elisi dove poco prima – o forse ore ormai? – era appena crollato un gigantesco muro di Foschia.
 
Non devo crearne, non devo raggrupparla, ce n’è in abbondanza già qui.
 
Doveva solo riuscire a manipolarla, solo questo. E ve ne era così tanta tutt’attorno a lei che forse avrebbe anche potuto aver successo.
Si avvicinò ai suoi compagni, cercando di mantenere abbastanza distanza per non essere coinvolta direttamente nello scontro ma d’esser anche abbastanza vicina per far sì che la Foschia si muovesse esattamente dove voleva lei.
Le serviva concentrazione, qualcosa che non aveva più da molto, dall’ultimo incantesimo provato prima di quella sciocca ma preziosa gara. Non poteva chiudere gli occhi, non poteva smettere di prestare attenzione a tutto ciò che la circondava però, o si sarebbe firmata una seconda condanna a morte.


Peccato che fare le cose sotto pressione non è mai stato il mio forte.
 
Si maledisse da sola, sfregando i denti con forza senza curarsi del sinistro scricchiolio che produssero. Doveva concentrare una parte della sua attenzione sulla guerriera ed una parte sulle altre anime, senza mai smettere di spostarsi, senza mai perdere il filo dei suoi pensieri.
Doveva visualizzare, doveva immaginare la sua magia prendere vita sotto i suoi occhi, muoversi e agire come poi avrebbe davvero fatto.
Glielo aveva detto anni addietro anche quell’essere a cui aveva chiesto aiuto, che le aveva consegnato ciò che avrebbe dovuto aiutarla nella sua vendetta ma che finì solo per ucciderla. Le aveva detto che il potere della sua signora, di sua madre, era immenso e che ciò che i mortali, specie gli uomini, non riuscivano a capire era che la magia non aveva bisogno solo di riti, sacrifici e formule esoteriche per poter agire, non aveva bisogno di patti di sangue e vergini pugnalate la notte sotto la luna piena. La magia era un potere infido, così potente ed incontrollabile dagli esseri inferiori perché la loro mente non riusciva a vedere, non riusciva ad immaginare ciò che poi la magia avrebbe fatto.
La magia era fede cieca ad occhi aperti, inesistente e concreta, silenziosa e scrosciante e in quel momento Jane era circondata da quell’invisibile forza che lentamente si disperdeva a briglie sciolte.
Così come Cicno aveva detto loro di poter vedere i Fuochi Fatui, così Jane si rese conto di dover voler vedere la magia, per poterla vedere davvero.
Si costrinse a vedere, a credere, ad aver fede, mentre un formicolio sconosciuto le solleticava le mani, intorpidendo le punte delle dita. Doveva toccare, aveva bisogno di un contatto, ma se si fosse avvicinata così tanto la guerriera l’avrebbe colpita e Jane era certa di non aver dei riflessi abbastanza sviluppati.
O forse no. Forse poteva farcela se gli altri l’avrebbero tenuta impegnata. Doveva solo arrivarle alle spalle, doveva solo cercare di non farsi vedere.
 
Come quando andai da Tituba e malgrado la confusione crescente nel villaggio nessuno mi fermò, nessuno mi impedì di andare da una sedicente strega.
 
Il formicolio si intensificò e Jane si mosse prima ancora d’averne coscienza.
Scivolò veloce vicino a Cade, che cercava di parare tutti i colpi delle lame, soprattutto quelli indirizzati ad Eliza, rimanendo così scoperto dai calci veloci che la guerriera gli scagliava. Era ovvio che la donna mirasse alla figlia di Nike per far perdere la posizione di difesa al compagno ed era altrettanto ovvio che quello non fosse il suo primo combattimento due-contro-uno.
Malgrado Eliza cercasse di mettere a segno più colpi possibili doveva sempre spostarsi o cedere il passo per evitare le sciabole affilate. Malgrado l’attenzione e la concentrazione che i due stavano faticosamente mantenendo, sempre più ferite si aprivano sulle loro braccia, sui fianchi e sulle spalle. Jane giurò che il pantalone scuro di Cade fosse diventato ancora più cupo, pesante, forse inzuppato di sangue, probabilmente la donna era riuscita ad infilzarlo in qualche modo, ma non abbastanza da non permettergli di reggersi in piedi.
Jane rimase un attimo immobile, aspettando il momento giusto, il formicolio le si insinuò sotto pelle, avvolgendola in una sensazione fumosa, qualcosa che non provava da troppo tempo, qualcosa che le ricordò gli istanti che avevano preceduto la sua morte.
 
La magia. È la magia.
 
La Foschia l’avvolse come un mantello, come una veste cucita su misura, una seconda pelle che le fece da corazza non proteggendola dagli attacchi, dalle anime che la circondavano, ma rendendola semplicemente invisibile.
Per pochi, brevi secondi il suo corpo si fuse con la Foschia che ancora aleggiava per il campo di battaglia, il rumore dei suoi passi, delle sue vesti, ingoiati dal frastuono delle lotte.
Jane avanzò con la stessa sicurezza con cui ci si muoveva nei sogni, senza sapere dove si stesse effettivamente andando ma sapendo per certo che fosse la cosa giusta da fare, la giusta direzione.
Si avvicinò alla guerriera proprio quando questa riuscì ad allontanare i suoi compagni, ruotando su sé stessa a lame sguainate, un tornado letale che si fermò con grazia e decisione in una posa d’attacco che Jane non aveva mai visto.
Ma poco importava, non i volti affaticati dei suoi amici, non i loro corpi sfregiati, non le anime tumultuose che li circondavano o il leggero respiro ritmico della donna, della guardia dell’Ade. In quella pausa, dettata forse dalla gentilezza della guerriera che aveva promesso loro uno scontro rispettoso, Jane vide l’opportunità che stava cercando.
Fu un momento, qualcosa di così veloce che lei stessa dubitò d’aver fatto. Jane si spinse verso la loro rivale e senza indulgi strinse le mani sulle sciabole.
Hadiya rispose immediatamente, si voltò dando le spalle a Cade ed Eliza, pronta a menare un fendente alla figlia di Ecate, i cui contorni fumosi iniziavano a ricondensarsi nella sua figura, ma quando mosse le armi non poté non notare come queste fossero prive delle loro lame.
Con un verso sorpreso la donna lasciò cadere le else vuote e sferrò un pungo in pancia a Jane, facendola piegare su sé stessa, per poi infliggerle un altro colpo in piena faccia.
La giovane cadde a terra ferita e stordita, le sembrava quasi che i suoni si stessero facendo sempre più bassi, più flebili.
Giurò d’aver sentito entrambi i suoi amici chiamarla a gran voce, un fulmine rosso si era abbattuto sulla guerriera mentre il volto sfocato di un giovane,  di una giovane, entrò nel suo campo visivo chiedendole qualcosa che non riusciva a comprendere.

«Le spade- le lame… sono ancora lì. Prendi-» con un gesto vago della mano Jane cercò di indicare le else abbandonate dalla guerriera, che ora combatteva a mani nude contro Cade, svantaggiata dalla durezza e dalla violenza che i guanti di bronzo celeste concedevano all’irlandese, mentre questo saltellava come una scheggia impazzita, ora libero di muoversi in ogni direzione senza la paura di lasciare la compagna scoperta.
Eliza la guardò come se non capisse, gettando occhiate rapide dalla ragazza tra le sue braccia, al compagno, alla guerriera.
«Sei stata tu? Le hai fatte sparire tu?» domandò concitata.
Jane storse il naso, la guancia le bruciava come mai aveva fatto prima, un dolore del tutto diverso da quello del fuoco vero, ed era sicura che se avesse avuto ancora dei denti ora li avrebbe già sputati tutti. Dio, era come mettere la testa sotto la campana mentre questa suonava. Aveva voglia di vomitare e se provava anche solo ad alzarsi dalla sua posizione accucciata, il mondo iniziava a girare senza pietà.
«Le spade.» ripeté tossendo. «Prendi quelle dannate spade!»
Eliza si ritrasse come se si fosse scottata, osservando con più attenzione gli oggetti abbandonati, malgrado la sua attenzione scivolasse sempre verso Cade, ora caduto a terra ma subito balzato di nuovo in piedi.
Non erano ancora in grado di combattere assieme, si intralciavano a vicenda, probabilmente se avesse lasciato solo lui a combattere in questo caso sarebbe stato meglio.
La figlia di Nike si maledì da sola, quello non era il momento per flagellarsi e rimproverarsi errori di cui non poteva venir a capo, non quando aveva una compagna ferita incapace di difendersi e un altro impegnato a tener testa ad un demonio in veli.
La sua mente valutò centinaia di scelte ad una velocità disarmante ed era già in piedi quando giunse alla conclusione che per poter soccorrere Jane ed aiutare Cade l’unica soluzione era fermare la guerriera.
Corse verso le impugnature delle sciabole, quasi gettandosi a terra nella foga di raccoglierle. Non sapeva perché Jane le avesse urlato di prenderle ma in quel momento riponeva una fiducia quasi cieca nella compagna e non esitò a fare ciò che le era stato detto. Non appena le ebbe tra le mani però, si rese conto che qualcosa non andava, che forse le lame erano sparite, forse Jane era riuscita a scioglierle o a farle scomparire e basta, ma le due else erano troppo pesanti per essere solo… else.
Le strinse comunque con forza e nel momento in cui si volse per tornare alla carica, per andare ad aiutare finalmente Cade, la luce crepuscolare che la seguiva come un’ombra proiettò sul terreno l’intero profilo del suo corpo che brandiva due lunghe ed arcuate lame.
Una scintilla, come lo scoppio di un moschetto, le sfavillò davanti agli occhi, la realizzazione che no, Jane non aveva fatto sparire le lame, le aveva solo fatte diventare invisibili.
 
Come la Foschia rende invisibili i mostri agli occhi umani.
 
Una rinnovata sicurezza crebbe nel petto della donna, il peso familiare di un’arma da taglio, come le sue vecchie spade gemelle, come le sue ali perse durante la prima prova, le diede nuova energia, nuova forza. Poté giurare che il sangue divino di sua madre stesse pompando a pieno ritmo nelle vene, che ne avesse ancora o meno, la sensazione era la stessa che aveva provato prima di ogni carica, prima di ogni combattimento, anche prima della sua morte: l’euforia dello scontro, la voglia, il bisogno, ruggente di battersi, di attaccare, di schiacciare l’avversario, di vincere.
Come aveva fatto centinaia di volte in vita, migliaia nella morte durante gli allenamenti bonari con suo padre, Eliza spostò le lame invisibili davanti a sé, chiudendole a forbice prima di urlare a Cade di spostarsi e piombare sulla guerriera disarmata.
La donna dovette capire che qualcosa non quadrava, che doveva esser stata ingannata perché quell’anima brandiva le sue spade ridotte ormai solo ad else come se fossero ancora pienamente funzionanti. Si mosse pronta a difendersi, a colpirla, quando Eliza saltò e l’ombra di una croce coprì per un attimo il volto dell’altra.
La guerriera poté solo che abbassarsi, spostandosi per evitare i fendenti incrociati, ma lì ad attenderla c’era Cade che, con un colpo da maestro, si tolse la sacca di spalla e la lanciò con forza verso i suoi piedi.
Hadiya cercò di schivare anche quella, conscia che così facendo avrebbe sicuramente perso l’equilibrio e così fu. Tra il tentativo di togliersi dalla traiettoria di Eliza e quello di saltare la sacca, la donna cadde all’indietro, rotolando su un fianco.
Eliza infilzò con forza una delle sciabole davanti al volto della guerriera, costringendola a fermarsi e non appena questa provò a voltarsi dal lato opposto le piombò addosso, bloccandole le gambe con le sue e puntandole l’altra spada alla gola.
La guerriera araba si fermò, lo sguardo serio e fiero fisso in quello di Eliza, senza batter ciglio, senza perdere un colpo. Il suo respiro era regolare, un braccio bloccato sotto il suo stesso corpo, l’altro inutile da solo contro un’avversaria con ben due sciabole di cui una posizionata in modo tale che, qualunque movimento avrebbe provato a fare, l’avrebbe sicuramente ferita a morte.
Se solo fosse stato possibile.
Con lentezza fece un cenno affermativo con il capo, alzando la mano libera in segno di sconfitta.

«Ebbene, pare abbiate avuto ingegno nel volermi affrontare assieme. A voi il mio rispetto.» disse con voce sicura.
Eliza la fissò ansimando, l’adrenalina che ancora correva rapida il corpo, le labbra seccate dai respiri che prendeva affannosamente a bocca aperta.
Annuì anche lei, tenendo lo sguardo fisso nel suo ed alzandosi lentamente le tolse la lama dalla gola. Rimessasi in piedi sfilò anche l’altra dal terrendo e la lanciò ai piedi di Cade, che la prese al volo avvicinandosi con circospezione alla guerriera.
Questa alzò un sopracciglio ma non perse quel gioco di resistenza che stava tenendo con la semidea.
«Avete il mio rispetto, ciò significa che avete vinto la mia fiducia. Il mio giudizio è positivo.»
Eliza strinse per un attimo la spada e poi la portò leggermente dietro di sé. Solo allora la donna distolse lo sguardo e si alzò, spolverandosi le vesti.
«Siete stati dei buoni avversari, ma sappiate che soli non sareste riusciti ad atterrarmi.» disse comunque per buona misura.
La figlia di Nike annuì, conscia di quanta verità ci fosse in quelle parole, e le porse la sua arma come segno di pace.
Cade invece non perse la presa mentre passava veloce dietro le spalle della compagna per arrivare dall’altra, ancora inginocchiata a terra, che aveva osservato con attenzione ed ansia tutto il combattimento.
«Stai bene ragazza pazza?» domandò chinandosi vicino a lei.
Jane lo guardò assottigliando lo sguardo. «Ora sono la ragazza pazza? Non ero quella delle Praterie?» rispose con leggero astio. Un astio che Cade sembro però non percepire, sorridendo sollevato quando la sentì parlare con il suo solito tono seccato.
Sospirò di sollievo mettendosi una mano sul cuore con fare drammatico. «Oh, ma allora ti sei affezionata al soprannome che ti ha dato il fratello Cade!»
Jane grugnì. «Eliza, toglimi questo deficiente da davanti prima che dica altre sciocchezze e che faccia sparire anche lui!»
«Dovremmo dirlo al soldatino sai? Che hai fatto scomparire le lame, beh, che le hai rese invisibili dico. Così smetterà di romperti le palle con la storia che non sai fare un cazzo. A proposito di questo, ma tu non eri quella che, effettivamente, non sapeva fare un cazzo?» chiese inclinando la testa, porgendole comunque il braccio per aiutarla a rialzarsi.
Jane grugnì una seconda volta, in modo decisamente più sonoro. «Per l’ultima volta, non è che non so fare nulla, è che nessuno mi ha insegnato nulla. Questo vuol dire che tutto quello che so l’ho imparato da autodidatta e che quindi non so fare cose sempre utili.»
«Non l’hai mai detta così.» puntualizzò Cade mettendo il broncio, il sangue secco sul suo labbro si crepò cadendo in piccoli granelli. «Non l’ha mai detta così, vero?» domandò a voce alta voltandosi verso Eliza.
La giovane li aveva guardati con un mezzo sorriso, quasi incredula che quei due potessero passare dall’essere supportivi e attenti l’uno con l’altra, dal preoccuparsi per la loro salvezza, al discutere come mocciosi.
Un leggero colpetto sulla mano la fece girare verso la guerriera che, con espressione illeggibile, le offriva la sacca che Cade le aveva lanciato contro.
«Grazie.»
«Mi domando come abbiate fatto a giungere fino a qui. Nel mio paese una conversazione del genere avrebbe fatto cadere delle teste. Insultare una donna così giovane può esser causa di un processo per preservare l’onore della sua famiglia.»
Eliza annuì mesta. «Anche ai miei tempi un padre avrebbe avuto molto da ridire, ma i miei compagni sono- speciali, a modo loro. E soprattutto, non siamo solo noi tre.»
Hadiya sembrò valutare per un momento le sue parole, poi fece un gesto secco con la testa.
«Avete la mia benedizione per passare, questo vuol dire che nessuno dei miei fratelli vi combatterà, ma ciò non varrà anche per gli altri vostri compagni, loro dovranno guadagnarsi da soli il favore di uno dei guerrieri dell’Ade.»
Così facendo la donna alzò una mano per porre il palmo sulla fronte di Eliza.
La semidea non pensò neanche di spostarsi, sicura delle parole dell’altra, che non avrebbe fatto loro del male.
Un leggero tepore le scaldò la fronte e qualcosa luccicò sopra il suo campo visivo.
 
«Hai una macchia sulla fronte, come se avessi sbattuto la testa contro uno sportello.» ci tenne a precisare Cade riprendendosi la sacca. «A me può fare una stella? No, no, una spada. No! Una foglia! Ma che dico! Un uccello! A me può fare la forma di un uccello?» chiese ammiccando conscio di quanto fosse irritante.
Jane gli rifilò uno schiaffo sulla spalla. «Puoi farglici un buco invece? Magari così il cervello gli prende aria. Sempre che ne abbia uno.» aggiunse ironica.
«Certo che non ce l’ho, sono morto!» trillò invece lui allegro
La guerriera non prestò loro molta attenzione e, prima Cade e poi Jane, pose la mano sulla loro fronte e li “marchiò” come aveva fatto con Eliza.
«Andate ora, trovate i vostri compagni e poi la via per la vittoria.»
Con quelle ultime parole la donna si riprese anche l’altra sciabola, voltò loro le spalle e si incamminò con passo sicuro verso il suo prossimo obiettivo.
In un attimo Jane si ritrovò travolta dalle attenzioni degli altri due, che le domandavano se stesse bene, se fosse ferita, come avesse fatto a rendere le lame invisibili, quanto fossero rimasti sorpresi, quanto fossero fieri del suo coraggio.

«Sei riuscita ad avvicinarti a lei senza farti vedere e l’hai pure toccata!» ripeté eccitato Cade. «Cazzo, dobbiamo trovare Nathan! Non ci crederà mai!»
«Sei stata molto coraggiosa ed abile, se riuscirai più spesso a manipolare la Foschia come hai fatto ora sarai una nuova freccia al nostro arco.»
«Sì, sì, smettetela ora. Dobbiamo trovare gli altri, non perderci in chiacchiere inutili. Sono sicura che Cicno ed Úranus fossero dietro di noi quando ci siamo divisi e che Lea, Jonas e Nathan siano insieme.» tagliò corto Jane, uno strano calore le stava salendo alle guance e dopo aver visto il bambino arrossire di continuo non voleva entrare anche lei a far parte di quel gruppo.
Eliza annuì subito, sistemandosi con gesti secchi la camicia squarciata. «Dobbiamo andare avanti, l’accordo era trovarsi al gabbiotto.»
«Sì, ma Nathan è l’unico che sa combattere e ha due persone da proteggere, dovremmo cercare loro e dargli una mano piuttosto.»
«Puoi saltare sopra tutti, senza farti prendere dal raggio di luce, e individuarli? Credi sia possibile? Perché in caso contrario non abbiamo nessun modo per identificarli tra tutte queste genti.» gli fece notare Eliza, osservando con attenzione chi le stava attorno e come altri guerrieri sembravano quasi non vederli ora che avevano ricevuto la benedizione della guerriera araba.
«Jane, tu non puoi fare nulla?» domandò Cade ridestandola dai suoi pensieri.
La figlia di Ecate fece una smorfia. «Posso provare, ma non so se funzionerà e non so se lo farà come si deve. »
«Tu invece?» chiese Eliza guardando il compagno. «Potresti provare ad individuare gli altri come hai fatto per i tuoi oggetti nel labirinto?»
Cade ci pensò su e scosse piano le spalle. «Come la ragazza delle Praterie, posso provare ma non so se funzionerà e se lo farà bene. Se, Dio non voglia, hanno già incrociato qualcuno ed il loro odore è rimasto attaccato a questa persona, magari perché c’hanno combattuto, c’è rischio che vi porti da lui.»
«E di certo quell’idiota di un soldato si sarà buttato a capofitto nella prima rissa capitatagli, specie visto che non ha un’arma.» borbottò Jane. Poi, prima che Eliza potesse dire qualcosa a difesa del compagno, l’altra espirò con forza e si voltò verso Cade. «Non che ci siano molte altre possibilità, comunque. Proviamo così: io cercherò di trovare almeno la direzione in cui si trovano e tu, con il tuo fiuto da segugio o qualunque altra cosa sia, proverai ad individuarli i mezzo a tutte le anime. Cosa ne pensi?» chiese con serietà.
Cade la fissò pensieroso e lentamente un ghigno ampio gli si aprì sul volto.
«Suona come un piano.»
«Suona come un buon piano.» aggiunse Eliza con tono cupo. «Pensi di riuscirci? Per la prova di Ermes non sei riuscita ad individuare nessuno di noi. Allora avevi anche molta più tranquillità, il potere di mia madre-» domandò con un filo d’ansia, ricordando fin troppo bene i tentativi fallimentari di ritrovare proprio Cade.
«Perché c’erano anche i vostri ricordi, c’erano troppi voi. Non ho mai fatto una cosa del genere, non ho mai cercato qualcuno per le Praterie ma ora… c’è così tanta Foschia che impregna ancora questo luogo… e la Foschia fa parte del potere di mia madre e poi-»
 
Sono in pericolo. Sono tutti in pericolo. Lo era anche Cade ma era diverso, ora è diverso, è come se-
 
Non lo sapeva, non sapeva cosa ci fosse di diverso, cosa la spingesse a voler provare, a volerlo fare a tutti i costi. Forse era stato il combattimento appena vissuto, l’aver visto i suoi amici lottare contro qualcuno palesemente più forte e meglio addestrato di loro. Averli visti cadere a terra sanguinanti, feriti, doloranti senza che lei potesse far nulla.
 
Impotenza.
 
Jane non voleva più sentirsi impotente, non quando tanti dei suoi compagni erano dispersi, quando non erano in molti a cercare un singolo, ma poi a cercare la maggioranza.
Ecco, forse era proprio questo: quando era scomparso Cade c’erano tutti gli altri, c’era Úranus con il suo potere inquietante in grado di captare i dolori altrui, Lea pronta a curare ogni ferita, ogni mancamento, c’erano Eliza e Nathan pronti a pianificare, a prendere in mano la situazione e Jonas che cercava di trovar soluzioni lì dove non c’erano perché aveva paura di non rivedere più l’irlandese. Erano stati in tanti a condividere il peso della scomparsa di uno, a farlo assieme, in una situazione in cui Jane non si era sentita responsabile, in cui Jane sapeva di non aver colpe.
Anche se non ne avevano e non ne avrebbero mai avuto la conferma, in un qualche modo Jane era stata convinta, sicura come poche cose in vita sua, che Cade sarebbe tornato da loro, o che l’avrebbero ritrovato, anche solo per il semplice fatto che avevano  la sua sfera, come se un’anima dispersa e svanita non potesse aver una sfera dei ricordi ancora integra e funzionante, come se la scomparsa di uno fosse legata a doppio filo a quella dell’altra.
Jane lo sapeva che non c’erano pericoli se non i venti fantasma delle Praterie, ma lei era sopravvissuta per secoli in quelle lande, perché Cade non avrebbe dovuto fare lo stesso? Perché sarebbe dovuto sparire per sempre?
Non le era importato minimamente perché aveva la certezza assoluta che Cade sarebbe comunque tornato.
Ora, di quella certezza, non v’era più traccia alcuna.
Non era sicura che sarebbero arrivati tutti al traguardo sani e salvi, non era sicura che Nathan sarebbe stato in grado di proteggere contemporaneamente sia Lea che Jonas, non era minimamente convinta che Úranus non sarebbe andato nel panico mettendo in pericolo anche Cicno.
Dannazione, si stava preoccupando persino per lui e l’aveva incontrato da così poco!
Jane strinse le mani, conficcandosi le unghie scheggiate nei palmi e avvertendo il pizzicorio della pelle tirata.
Questa volta era diverso, anche se non sapeva spiegarsene il perché. Sapeva solo che i suoi compagni erano dispersi in quel marasma di anime e combattimenti e che loro, se si fossero impegnati al massimo, se avessero unito le forze, avrebbero potuto trovarli, aiutarli, portarli in salvo.
Fu con la stessa lentezza con cui la resina colava lungo gli alberi che Jane si rese conto di cosa avesse ripetuto più e più volte nella sua mente.

Protezione.
Certezza.
Aiuto.
Ritorno.
Compagni.
 
 
Amici.
 
 
Jane digrignò i denti e aprì a forza le mani.
Si sarebbe data della stupida dopo, ora doveva solo impegnarsi come non aveva mai fatto, come sua madre le aveva sempre detto esser certa potesse fare, unire le forze con Cade e ritrovare i loro compagni perduti.
 
«Questa volta non ho altra scelta che farcela.» disse con tono risoluto.
Eliza continuò a fissarla con quello che poteva essere scetticismo o solo inquietudine dettata dalla paura per gli altri, ma mentre la giovane donna le scrutava il volto per scorgere un qualunque segno di insicurezza una mano forte e callosa le si strinse sulla spalla.
Jane si voltò a guardare Cade che, a sua volta, la guardava con occhi scintillanti, questa volta la ragazza ne era sicura, d’entusiasmo e quasi orgoglio.
 
«Andiamo a riprenderci i pulcini e poi a cercare Golia e l’angioletto. Al tuo via, io sono pronto.»
 

Jane si ritrovò suo malgrado a rispondere al ghigno del compagno.
 


Quella fiducia incondizionata era tutto ciò di cui aveva bisogno.




 



 






 
 





 
 
 
 


 
Salve,
più di una persona mi ha fatto notare come questa storia sia arrivata a tre anni, una bella data, se me lo permettete, ma per quanto mi sorprenda dove e quanto lontano siamo arrivati, non posso far a meno di considerare il contorno che gira attorno a questa interattiva.
In tre anni molte cose capitano, molte cose cambiano, ci si interessa a qualcosa o si smette di provare interesse, perciò vorrei specificare qualcosa che, mi auguro, ognuno di voi già dia per scontato:
se doveste aver perso interesse per questa storia, se non vi piace dove stia andando a parare o come stia continuando, spero vivamente che non vi sentiate obbligati a continuare a seguirla.
Ve lo dico in tutta tranquillità e senza rancore: regà, so tre anni, ce sta che ve sete rotti il cazzo.
Personalmente, sono quel genere di persona che riesce ad emozionarsi per una cosa per poi annoiarsi nei successivi due minuti, perciò scialla.
Se siete preoccupati per la fine dei vostri oc, potete prendere per esempio Úranus e Cicno, loro hanno perso l’autrice letteralmente anni fa, fanno poco, la maggior parte della loro storia la sapete già e li uso come mi pare, ma posso tranquillamente farli uscire dalla storia senza “ucciderli”, basta dirlo.
Mi auguro non suoni in alcun modo accusatorio gente, perché non vuole esserlo. Efp è un sito dove passare bei momenti, intrattenersi e staccare la spina, non fatelo diventare un’agonia solo perché vi sentite in dovere di fare qualcosa.
Con ciò, ci vediamo alla prossima bella gente, e auguri in ritardo.

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Capitolo 17
*** Haze. ***




-Keep calm and read slow-







Capitolo XVII- Haze.





La sala del trono di Ade era ormai diventata più popolata di quella dell’Olimpo.
Il Dio dei Morti avrebbe tanto voluto bandire chiunque dalle sue stanze ma sapeva di non poterlo fare, sapeva di dover per forza dar udienza a chiunque gli si presentasse in un momento così delicato.
La Death Race sarebbe dovuta essere motivo di svago, di leggerezza e sebbene Ade non avesse mai davvero creduto che lui, così come Thanatos ed Efesto, si sarebbero mai potuti rilassare davvero, non avrebbe neanche potuto prevedere ciò che era successo, tutti gli eventi ed i problemi che si erano susseguiti.
 
E l’ultima diretta di Eolo non ha aiutato per nulla.
 
In effetti era proprio il Dio dei Venti la figura sfocata e traballante che spiccava come una candela nel centro dell’enorme salone nero.
Lo sforzo che quell’essere faceva costantemente, ogni giorno della sua divina ed infinita esistenza, era davvero ammirevole, per non dire sciocco. Portare costantemente tutte le novità ed i pettegolezzi che serpeggiavano tra gli spiriti dell’Olimpo, tra i mortali, cercare di intrattenere la divina noia era ciò che c’era di più stupido al mondo, per Ade. Non che non lo avesse già detto al dio, o che non l’avesse detto a tutti gli Dei, ma la sua opinione non aveva mai interessato davvero nessuno.
 
Non quando questa non determina la salvezza o la sconfitta dei loro divini deretani.
 
Eolo vibrava come un ologramma mal trasmesso, lo sforzo di suddividere la propria essenza, del presenziare in più luoghi contemporaneamente, era evidente sul suo volto sbiadito.
Era già difficile per lui, che doveva costantemente comparire in ogni angolo dell’Inferno per far sì che tutto funzionasse al meglio, non voleva immaginare quanto lo fosse per l’altro, che scindeva la sua forza divina nella vastità dei cieli, nei templi, nei canali ufficiali e in quelli ufficiosi, nonché al cospetto di Zeus ogni qual volta questo decidesse di chiamare lui o uno dei suoi figli a proprio piacimento.
Per molti semidei ormai era diventato un dato assodato e scontato il fatto che gli Dei potevano comparire in più luoghi allo stesso tempo, ma probabilmente ne ignoravano la vera importanza, il vero potenziale, così come ignoravano tante altre cose.
 
Se solo si fermassero per un istante a pensare a quante cose, quanti eventi, quanti destini si possono manipolare dividendo la propria essenza in luoghi diversi, in modi diversi.
Quanti danni si potrebbero fare. Quanti sono stati già fatti.
 
Eolo si torceva le mani, ogni tanto una cartellina od un foglio compariva tra di esse per scomparire l’attimo dopo. Il dio sudava freddo ed Ade poteva vederlo anche tramite quella scarsa connessione.
 
«Se ci fosse Ermes qui ti direbbe di farti controllare la connessione wi-fi, nipote.» disse con espressione neutra.
La proiezione vibrò ed Ade giurò d’aver visto un nervo guizzare infastidito sulla gola dell’altro.
«Non credo sia il momento adatto per le battute zio, non in una situazione delicata come questa.» tagliò corto.
Ade rimase impassibile. «Sei l’ennesimo che si palesa nella mia casa senza uno straccio di invito, il sarcasmo è l’ultima cosa che potete negarmi tutti voi.»
«Beh, non in questo momento. Hai visto la diretta di oggi?» domandò ansioso.
Il Dio dei Morti fece una smorfia.
Come se avesse potuto perdersela.
 
«Purtroppo per me, sì. Minosse dovrebbe smetterla di andare in giro e rimanere al suo posto a fare il suo dannato dovere. L’ho già graziato una volta, dopo tutto ciò che aveva tramato con mio figlio, se non vuole perdere il lavoro dovrà smetterla di fare la diva.»
«Non è questo il problema!»
«Sì che lo è. Hai la più pallida idea di quanto ci metta Shakespeare a prendere una decisione? Hai idea di quante anime buone siano finite nelle Praterie degli Asfodeli perché non conoscevano le sue poesie o si sono stancati di sentirlo decantare sonetti e gli hanno chiesto di smetterla e sbrigarsi? Minosse è un sadico, ma almeno non perde tempo! E intanto la fila si allunga. Continuando di questo passo dovrò concedere il dannato aumento a Caronte.» borbottò fra sé e sé.
Eolo però non pareva in vena di lamentele sulla gestione dell’Inferno perché si fece rosso dalla rabbia, stanco dell’esser preso alla leggera da tutti quegli Dei maggiori che credevano di aver problemi più grandi dei suoi. Beh, se qualcuno non l’avesse ascoltato in quel momento probabilmente ne avrebbero avuti davvero di problemi più grandi di stupide insinuazioni fatte in diretta in prima serata.
 
«Il gobbo! È questo il nostro problema! Le domande fatte a Minosse non erano in programma, non erano state approvate! Mi era stato esplicitamente detto di non tirare in ballo le anime scomparse, quelle graziate e quelle ricomparse come per magia.»
«E allora perché-»
«Non sono stato io! Te l’ho detto, è stato il dannato gobbo! Abbiamo provato a resettarlo, a cancellare le domande, a staccare la spina!»
Ade aggrottò le sopracciglia. Ogni macchina presente negli studi televisivi divini era stata fatta da Efesto, erano i suoi automa perfettamente composti, bilanciati, privi di volontà propria.
«Cosa stai cercando di dirmi?» domandò assottigliando lo sguardo.
Quella frazione di essenza divina che era Eolo vibrò come se la sua presenza lì dovesse estinguersi da un momento all’altro. Ade non dubitava fosse così, tutte le divinità legate ai cieli avevano diversi problemi nell’Oltretomba.
«Sto cercando di dirti che qualcuno ha manomesso il gobbo! Che qualcuno ha deliberatamente deciso di porre le domande più scomode e sbagliate da porre! Ti ricorda nulla?» chiese quello sarcastico, proprio come suo zio.
Il dio respirò a fondo. Se era davvero ciò che stava pensando erano seriamente nei guai.
 
Hai un altro alleato al tuo fianco, Gio? Hai scelto davvero bene, dannato bastardo.
 
«Spero vivamente tu non stia insinuando che si sia introme-»
«Per l’Olimpo, ha fatto di peggio con meno! Te la sei scordata quell’annosa e fastidiosissima storia di qualche millennio fa? Quella che scatenò una delle più grandi guerre dell’epoca? Non c’erano i dannati gobbi da cinepresa al tempo!» Eolo era sempre più spazientito, sempre più ansioso ed Ade non poteva dargli torto.
«Hai delle prove schiaccianti?» domandò con tutta la serietà e la calma che riuscì a racimolare.
Eolo alzò entrambe le sopracciglia, scioccato, come se l’idea che la sua parola non bastasse lo avesse colpito profondamente. Poi espirò con forza.
«Ho visto un ghigno galleggiare nel nulla, poi due occhi verdi. Luminosi. Serpenteschi.» fece una pausa fissando lo sguardo dritto in quello del Dio dei Morti. «Ti basta?»
Ade sospirò, il volto una maschera impassibile. «Il mostro dagli occhi verdi.» mormorò appena.
Eolo annuì. «L’invidia le è sempre stata bene addosso, come un vestito fatto su misura.»
«Così come le è sempre stato bene l’oro.» aggiunse l’altro, tetro.
«Sì, ma questa volta non è un pomo quello che ha gettato in pasto agli Dei, non è la proclamazione di una regina sopra le regine quella che ha proposto.»
Ade distolse lo sguardo per posarlo sul suo trono, dove un lungo drappeggio scuro riposava placido come non avrebbero mai potuto fare i suoi fili, la sua trama.
Quante delle anime usate per tessere il suo mantello erano state tratte in inganno proprio da quello stesso ghigno?
Non batté le ciglia, non proferì respiro.
 

Anche la discordia aveva voltato le spalle all’Olimpo per seguire il Mortale, per seguire Giordano Delle Vie.
 

«Perché la cosa non mi stupisce?»


 
*


 
Se si fosse sforzato abbastanza sarebbe stato in grado di richiamare alla mente la sensazione della mano callosa di sua madre che lo colpiva con forza quella volta che aveva bestemmiato in chiesa, inciampando sul tappeto della navata centrale. Se si fosse sforzato, avrebbe potuto anche sentire il formicolio della pelle bollente, la sensazione dei denti stretti con forza per non far scappare neanche un suono.
Se l’era vista brutta, soprattutto perché se il prete avesse fatto una scenata poi si sarebbe dovuto sopportare anche le urla isteriche dell’amica di sua madre. Si domandava spesso come una donna così comune e banale fosse potuta entrare in sintonia con una donna forte e speciale come era sua madre.
Alexia era stata per così tanto tempo l’unica donna della sua vita che forse, forse, a quasi cinquant’anni dalla sua morte, a quasi quaranta da quando aveva deciso di rinascere, Nathan si era reso conto di averla elevata sopra tutte le altre, sopra ogni persona e ogni capitano mai avuto. Era stata il suo modello di paragone per ogni singolo essere entrato nella sua vita, persino per Lucy in un certo senso.
Quelle due erano così diverse ma così incredibilmente simili che Nathan si domandò se forse non si fosse innamorato di sua moglie solo ed esclusivamente perché sapeva che Alexia l’avrebbe approvata.
Anche in quel momento il modello che sua madre aveva impresso a fuoco nella sua mente non poteva far a meno di saltar fuori dal passato, di proiettare un’invisibile Alexia proprio di fianco all’amazzone che lo scrutava con sguardo agguerrito.
Che porca di quella troia doveva proprio ritrovarsi davanti una donna in un momento delicato come questo?
Nathan non era maschilista, davvero, aveva avuto tante compagne donne, tante sorelle al Campo e anche qualcuna sul campo. E c’era Alexa e c’era Lucy e ora, notò con una nota di sorpresa che lo infastidì, persino Eliza appariva nella lista delle donne combattenti con cui avrebbe affrontato volentieri una missione. Forse con Eliza c’avrebbe anche fatto a pugni. Forse. Ma solo perché era una figlia di Nike e aveva le botte di forza sovrumana e-
 
Nathan si gettò a terra probabilmente giusto in tempo per schivare il coltello da lancio che l’amazzone aveva scagliato dritto verso la sua testa.
L’arma si perse nella folla, conficcandosi nel petto di una povera anima del tutto estranea a quel conflitto, ma la guerriera non parve minimamente farvi caso.
Lo fissava dall’alto del suo metro e novanta, Nathan era certo che quella dannata gigantessa fosse persino più alta di Golia stesso. Dei dell’Olimpo, che cazzo le avevano dato da piccola? Quella se l’era mangiata la madre, altro ché.

«Concentra la tua attenzione su di me, figlio degli Dei, se vuoi superare questa prova.» disse con voce ferma e profonda, il tono perentorio e minaccioso fece storcere il naso all’altro: era abituata a dare ordini e a vederli eseguiti all’istante.
 
Non era una guerriera a caso, questa era un generale o qualcosa del genere.
L’ho già detto “cazzo”?

 
Rotolò sulla pancia, puntellandosi con le mani sul terreno per rialzarsi al volo e mettersi in posizione difensiva. Non era nulla che non avesse mai fatto, che non avesse fatto di recente per altro. Aveva combattuto con quelle animuncole da strapazzo durante la prova precedente, preso a pugni un muro d’edera per tirare fuori la pazza.
 
Anche se poi è stata Eliza a salvarla. Cazzo, perché puntualizzo le cose ora? Questo è l’influsso della rompipalle, sto diventando come lei. Porca puttana, porca puttana.
 
«Sono concentrato, non dubitarne.»
«Invece è proprio quello che faccio, figlio di Ares. Sei un combattente ed un beato, dimostrami di essere degno di entrambe e allora, anche una volta sconfitto, ti lascerò passare.»
Lo disse quasi con magnanimità e Nathan ci vide rosso.
Se solo si fosse preso un attimo per ragionare si sarebbe reso conto che per tutta la durata della gara, fino a quel momento, era riuscito a fare qualcosa che, in vita, aveva raramente fatto: pensare prima di agire.
Oh, Eliza si fidava di lui, Golia, il moccioso, la figlia di Apollo, la strega e pure roscio malpelo, si fidavano tutti dei suoi piani, li ascoltavano con attenzione e poi sì, magari ne discutevano, ma lo facevano ragionandoci tutti assieme.
Probabilmente era stata la presenza degli altri, la necessità di avere un piano per non far correr loro più pericoli del dovuto, la stessa esigenza che aveva una vera squadra, ciò di cui, come singolo, non si era mai curato. Ma fino a quel momento aveva sempre pensato a cosa fare, come muoversi. Era stato un leader il cui dovere era quello di portare i suoi compagni al sicuro. E sì, sì, non era davvero lui il leader di quella squadretta da quattro soldi, così come la principessa l’aveva costretto ad ammettere, ma si era sempre comportato come tale per lo meno.
Ora era solo. Ora non era il capo, il superiore, il compagno o l’amico di nessuno.
Le vecchie abitudini erano dure a morire così come ogni stupida storia aveva sempre banalmente ripetuto, Nathan però lo stava per sperimentare sulla propria palle e non poteva dire che la cosa gli dispiacesse troppo.
Piantò bene il piede a terra, molleggiando una volta sul posto prima di avanzare a testa bassa, pronto a colpire l’amazzone con quanta forza aveva in corpo.
 
Vediamo se piacevo più io a mio padre o te.
 
Lo pensò con un ghigno strafottente stampato in faccia, mentre l’adrenalina iniziava a pompargli veloce nelle vene, correndo assieme al sangue ad ingrossare i muscoli, a caricarli di tensione repressa com’era stato per tutta la sua vita.
Ci sarebbe stato tempo dopo per pensare a come, da anima morta, non avrebbe dovuto aver adrenalina o tensione muscolare, ma in quel momento c’era una luce che lampeggiava nella sua testa, come la sirena delle navi, quella luce accecante, rossa, che girava su sé stessa gracchiando un suono acuto che ti si infilava fin sotto pelle.
Era la chiamata della guerra, era la campanella prima dell’inizio del match, il fischio dell’arbitro ed il gong dei filmetti cinesi di serie b che aveva visto in Vietnam, sottotitolati in Thailandese.
Era il corno che suonava per dare il via alla caccia alla bandiera ed era da una vita che Nathan non lo sentiva più.
Sembrò che quello stesso suono lo potesse sentire anche l’amazzone, perché non appena Nathan le fu sotto tiro non cercò minimamente di difendersi ma solo d’attaccare.
Il pugno che gli arrivò dritto sullo zigomo lo fece a mala pena retrocedere, la forza di Ares lo tenne stabile in piedi ma non mitigò il dolore acuto che gli perforò la testa, il sapore fantasma di sangue sulla lingua.
Si riscosse subito assestandole a sua volta un pugno sul fianco, ma la donna pareva fatta di ferro e neanche si piegò, afferrandogli invece il polso e torcendogli il braccio, costringendolo ad inginocchiarsi per non darle le spalle.
Sapeva che quella posizione era fin troppo sconveniente e si protesse in tempo la pancia con un ginocchio prima che l’amazzone potesse sferrargli un calcio.
Era forte e precisa, una forza mostruosa ed una capacità marziale, fatta di ore, giorni, anni d’addestramento continuo e serrato. Nathan poteva riconoscere con facilità un soldato quando ne vedeva uno, che fosse quello più canonico in divisa o più atipico come la donna nel peplo corto e la stretta armatura davanti a lui.
 
Sopra di lui.
 
Precisò una fastidiosa vocina dannatamente simile a quella di Lea.
Forzò la presa della sua avversaria buttandosi di peso verso il terreno, costringendola a lasciarlo per non finire sbilanciata. Nathan si girò veloce sulla schiena roteando le gambe per calciare via la donna, ma questa saltò rapida ed agile come un grillo, scagliandogli a sua volta un calcio dritto contro lo stinco.
Avrebbe volentieri bestemmiato gli Dei e tutti quelli come loro, ma in quel momento il fiato gli serviva per altro e solo un verso indistinto fischio tra i denti serrati, acuto come il cigolio di una porta.
Continuarono quello stupido balletto per ciò che parvero quasi ore, ogni volta che Nathan riusciva a colpirla, o anche solo ad avvicinarsi a lei, incassava il doppio di quello che le aveva dato e per un attimo, per un folle momento, si domandò se quella non fosse la sua fine, se non fosse davvero destinato a soccombere sotto i colpi martellanti di una guerriera amazzone immortale.
Prese un respiro profondo, al stronza era così sicura della sua superiorità da concedergli di tanto in tanto di riprendere fiato, girandosi ad afferrare il primo malcapitato di turno per rifilargli un pugno in piena faccia e mandarlo dritto dritto al creatore.
 
Se solo già non ci fosse.
 
Puntellò un piede a terra e si poggiò sul ginocchio, ansimando come un morto non avrebbe dovuto fare, asciugandosi il sudore che gli colava dalla fronte ed il sangue che gli impastava la bocca.
 
Porca di quella puttana laida.
 
La guerriera tornò a dargli completa attenzione ed alzò un sopracciglio come a chiedergli se fosse pronto a ricominciare.
Nathan avrebbe voluto dirgli di smetterla di fissarlo in quel mondo, con quello sguardo di superiorità sul volto privo di sentimenti. Avrebbe voluto dirle che se si stava rompendo tanto le palle poteva dargli il colpo di grazia e lasciarlo lì a morire davvero, dirle che se non era degno della sua cazzo di grazia se la sarebbe andato a prendere da qualche altra parte.
Era rabbia quella che gli ribolliva nel petto, ma anche vergogna, invidia, un mix letale di sentimenti che non provava più da tanto tempo, non tutti assieme per lo meno, e che lo fecero quasi barcollare. Si sentiva come un moccioso alla sua prima lezione di spada, come la prima volta che sua madre aveva provato ad insegnargli i rudimenti dell’autodifesa e l’aveva mandato con il culo a terra in meno di un minuto. Si sentiva umiliato nel profondo, incapace di tener testa ad un solo soldato.
Cosa pensava di fare una volta tornato su? Se non era in grado neanche di vincere uno scontro uno-contro-uno con un avversario addestrato, come poteva pensare di tornare in vita ed affrontare la profezia?
 
Come posso fermare quella fottuta profezia se neanche sono in grado di difendere me stesso?
 
Aveva perso di vista i suoi compagni, si era fatto prendere dalla foga del combattimento come ogni volta, com’era sempre stato anche in vita. Si era immerso nell’aria densa di adrenalina, di paura e di eccitazione e la sua mente era andata in black-out. Aveva pensato di poter affrontare chiunque, di potercela fare contro tutto e contro tutti e invece era bloccato lì dagli Dei solo sapevano quando, a farsi fare il culo a stelle e strisce da un’amazzone annoiata.
Per quanto ne sapeva Lea e Jonas poteva essere ovunque, potevano esser stati attaccati da una guardia o da un concorrente, potevano essere finiti nel fottuto occhio di Sauron o schiacciati sotto la carica delle altre anime com’era già successo ad altri. Aveva perso i suoi compagni, quelli che avrebbe dovuto proteggere e non era neanche in grado di difendere sé stesso. Come poteva pretendere di salvare Olivia?
 
Se è vero. Se la storia della profezia è vera, se parlava davvero di lei e non di un’altra persona a caso. Se non sono stato ingannato. Se sono ancora in tempo. Se è ancora viva. Se supererò questa prova. Se le supereremo tutte fino ad arrivare alla finale. Se noi-
 
Noi.
Se noi.
Se non stava facendo tutto quel casino solo per arrivare su e scoprire che ogni speranza era ormai persa. Quanto sarebbe stato devastante in quel caso?
Nathan si rese conto di aver messo da parte, di aver sottovalutato, in un qualche modo anche deprezzato ciò che sarebbe successo poi, l’accordo ultimo per cui si erano riuniti tutti e otto.
Arrivare fino alla fine e poi combattere tra di noi, senza rancore.
 
Senza rancore ‘sto grandissimo cazzo.
 
Nathan sapeva che, volente o nolente, arrivati all’ultima gara, sarebbe stato impossibile mettere da parte quella barzelletta di rapporto e fiducia che avevano instaurato durante ogni prova e che, con tutta probabilità, qualcuno avrebbe ceduto. Se non per debolezza d’animo, per nobiltà.
Banalmente, era ovvio che Cade non avrebbe mai attaccato Jonas, era ovvio che l’avrebbe protetto fino alla fine, fino a quando non sarebbero rimasti solo loro due ed era ancora più scontato, almeno ai suoi occhi, che giunti all’ultimo atto il bastardo non ce l’avrebbe fatta ad ammazzare il ragazzino e, piuttosto che fargli del male, avrebbe rinunciato lui alla vittoria.
Così com’era ovvio che Golia non avrebbe mai attaccato né il moccioso né Lea. Eliza non avrebbe mai alzato un dito contro chi era più debole ed indifeso di lei. Jane, in uno scontro, non avrebbe mai potuto avere la meglio su di loro, mentre la rompipalle era già morta una volta per fare la cosa giusta, non c’era alcun dubbio che sarebbe stata disposta a farlo di nuovo. Quanto a lui, persino Nathan dubitava che sarebbe mai potuto riuscire a dare il colpo di grazia a molti di loro. Forse a Jane sì, forse anche a Cade, forse ad Eliza solo alla fine di un lungo combattimento, solo per non farla soffrire.
Inginocchiato a terra, sporco di fuliggine, sudore, sangue e strano pulviscolo proveniente con tutta probabilità dalle sfere dei ricordi, Nathan si rese conto che il loro brillante, brillantissimo pianto, quello per cui tutti aveva concordato, senza rancore, solo affari, li aveva fottuti tutti, uno per uno.
Con gli occhi sgranati puntati dritti in quelli dell’amazzone, il figlio di Ares si rese conto che se il contratto era stata la condanna a morte che si erano firmati da soli, il loro accordo erano le catene che si erano messi.

Peggio dei gioielli di quei due.
 
Cicno.
Cicno era l’incognita della loro alleanza, di lui Nathan non sapeva assolutamente nulla se non la sua discendenza divina. Lui sarebbe stato l’unico in grado di vincere sopra tutti, sopra tutto.
Fece forza sul ginocchio e si mise in piedi traballando.
Non doveva pensarci ora, anche se l’unica cosa che gli rimbalzava per la mente come una cazzo di pallina di gomma impazzita era che si erano fottuti tutti da soli.
 
Ci siamo fottuti da soli. Siamo fottuti. Siamo fottuti.
 
Lui voleva tornare sulla terra per fare qualcosa di buono, per fare finalmente la cosa giusta e salvare Olivia come non era riuscito a fare con Lucy, ma se lei non fosse stata davvero in pericolo?
Ma cosa volevano fare gli altri?
Si pulì la fronte con il dorso della mano e assottigliò lo sguardo, l’amazzone sembrava quasi attenderlo pazientemente.
Che senso aveva per gli altri tornare in vita? Gli unici che potevano sperare di rivedere i membri della loro famiglia, i diretti discendenti per lo meno, erano lui, Cade e Jonas. Lea era stata adottata se ricordava bene, la famiglia di Eliza era morta con lei, così come quella di Cicno. Quanto a Jane ed Úranus, una aveva perso entrambi i genitori e l’altro non sapeva se sua madre fosse riuscita a scappare, se fosse riuscita a dare alla luce il fratellino e se il bambino fosse sopravvissuto.
Traballando leggermente, la bocca asciutta e la mente confusa da troppi pensieri che si accavallavano gli uni sopra gli altri, come sempre nel momento meno opportuno, Nathan si domandò quanto dovessero essere cinici, crudeli e menefreghisti gli Dei per pensare di riportare in vita genti che non appartenevano più al mondo sulla loro testa, che non avevano più nulla, neanche la loro terra.
Sarebbero tornati per cosa? Per chi? Per vivere in che modo?
Lui sarebbe potuto tornare al Campo, avrebbe allenato i nuovi semidei una volta svolta la sua missione, ma un tipo proveniente dal Cinquecento come Úranus, cosa poteva aspettarsi? Che prospettiva di vita avrebbe avuto?
Scagliandosi ancora una volta contro la donna, l’occhio acuto del combattente che sembrava attivarsi come un radar automatico, ricevuto in dotazione dalla nascita assieme a corredo semidivino di dislessia e deficit dell’attenzione, Nathan si ripeté per l’ennesima volta che agli Dei non fregava un cazzo. Non fotteva nulla di loro, del futuro.
Gli Dei non volevano salvare un’anima, non si erano posti il problema. Era puro show in tutto e per tutto.
Perché se ne stupiva tanto? Già lo sapeva, era perfettamente consapevole di quanto fossero stronzi, cos’era cambiato?

È cambiato che ora hai qualcuno al tuo fianco che, se dovesse vincere e tornare sulla terra, vivrebbe probabilmente peggio di quanto non abbia fatto fino ad ora.
È cambiato che se uno di loro dovesse vincere finirebbe probabilmente male. In prigione nel migliore dei casi, senzatetto, in manicomio o direttamente morto.

 
E dove li avrebbero fatti tornare? Sarebbero riapparsi sulla terra esattamente dov’erano quando erano morti? Sarebbero riapparsi nel luogo sovrastante l’Ade in cui si trovavano in quel momento, alle porte dell’inferno? Cazzo, quanti dei suoi parlavano inglese? Perché l’ultima volta che aveva controllato il fottuto inferno di trovava a Hollywood.
Schivò un paio di colpi della sua avversaria ma per quanto il suo corpo andasse in automatico, per quando sapesse cosa fare meglio di quanto non lo sapesse lui stesso, in quel momento non riusciva a concentrarsi a pieno, non riusciva a escludere tutte quelle preoccupazioni inutili dalla sua mente.
Era veramente ridicolo ed imbarazzante il modo in cui si stava facendo tutte le pare mentali che probabilmente si sarebbe potuta fare la rompi palle o il moccioso in piena crisi di panico.
Si sentiva quasi soffocato da tutti quei dubbi, dalla paura innaturale, qualcosa che non gli apparteneva. Non era il suo primo rodeo, non era il primo combattimento che affrontava separato dai suoi compagni, senza sapere come stessero, se fossero ancora vivi. Sapeva gestire questo genere di emozioni, non era lui, non era da lui, non-

L’amazzone lo colpì sulla spalla con le mani intrecciate, la forza del colpo lo fece cadere in ginocchio per l’ennesima volta, un dolore lancinante che gli portò un attimo di lucidità in mezzo a tutta quella foschia.
 
Foschia. Non sono io, è la fottuta Foschia.
 
Non fece in tempo a decidere che tutti i suoi strani pensieri fossero da imputare della foschia, prima ancora che la donna potesse anche solo caricare il prossimo pugno qualcosa di duro lo colpì dritto dietro la nuca.
La nebbia che gli ottenebrava la mente sfocò il suo campo visivo, avvertendo il corpo farsi debole, pesante. Una voragine gli si aprì nello stomaco. Fu esattamente come trovarsi per la prima volta su di una nave nel mezzo del Pacifico, come salire all’apice delle montagne russe, l’attimo prima di cadere, l’attimo esatto in cui i ganci scattavano e ci si ritrovava a cadere così velocemente da esser sicuri di aver lasciato tutti i propri organi su quel picco.
Nathan avrebbe potuto trovare altre centinaia di paragoni, per quanto la sua vita fosse stata breve non gli aveva risparmiato quel genere di situazioni, di sentimenti, di paura, sconforto, sconfitta.
 

Mi hanno battuto.
 

Era l’unica cosa che gli rimbombava nella mente.
 
«Fine della corsa, giovanotto.» mormorò divertita la voce roca di un uomo.
Un fruscio di vestiti, il nuovo arrivato si mosse, ma Nathan non poteva vederlo mentre scivolava a terra.
«È un piacere rivederti, Mirina.»
L’amazzone ispirò dal naso. «Non c’era alcun bisogno di intromettersi, Roger.»
«Oh, lo so mia cara, ma sembrava un osso duro il tipo, uno testardo. Così abbiamo fatto prima e possiamo andare a dedicarci anche agli altri, no?»
 
Nathan smise di prestare attenzione ai due, gli occhi spalancati puntati ancora verso la donna si chiusero lentamente mentre si lasciava andare al suolo svuotato di ogni energia. I sandali dell’amazzone furono l’ultima cosa che vide.
 

Era appena stato sconfitto dalle guardie dell’Ade.
 


Nathan Wright aveva appena fallito la quinta prova.



 
*



 
Ansimando frastornato il giovane fissò la figura che svettava su di lui. Poteva vedere solo la schiena dell’uomo ma giurò che anche in quell’oscurità, nella luce crepuscolare dell’Ade, il combattente fosse inondato dai raggi del sole.
 
Non è un pensiero poi così lontano dalla realtà.
 
Lo vide allungare una mano davanti a sé, un guizzo bronzeo gli balenò tra le dita, un pugnale sporco di sangue che l’uomo pulì senza troppa cura contro la propria coscia scoperta.
Si voltò poi verso di lui, gli occhi celesti gli ricordarono il cielo d’inverno, limpido, freddo, puro, infido, pronto a nevicare, a ghiacciare ogni goccia d’acqua e farne grandine, promettendo di rovinare raccolti e case.
Úranus deglutì e si domandò non per la prima volta chi diamine si fosse portato dietro Cade, com’era possibile che il giovane irlandese riuscisse ad attrarre a sé dannati dai poteri instabili e dal passato oscuro.
Cicno gli sorrise benevolo, facendolo sentire piccolo ed indifeso malgrado la differenza della loro stazza.
Inclinò la testa di lato. «Pensi di riuscire ad alzarti? Dovrai dirmi tu dove si trova il luogo predisposto al nostro incontro.»
Úranus annuì piano, poggiando una mano a terra per bilanciarsi e rimettersi in piedi.
Alcuni metri davanti a loro il corpo di un uomo sulla trentina giaceva privo di vita sul terreno bruciato. Non sapeva quando fosse corretto poi definirlo “privo di vita”, forse sarebbe stato più corretto dire “di anima”, ma rimaneva il fatto che la profonda e sanguinolenta ferita che gli si apriva sul petto aveva decretato la sua dipartita forse definitiva anche da quel mondo.
Cicno gli diede le spalle non appena si fu accertato che il compagno si fosse alzato, osservando con attenzione il nugolo di anime che si affrettava e combatteva attorno a loro.
Erano stati fortunati per un primo momento, spinti in una zona particolarmente popolata le guardie dell’Ade erano state troppo impegnate con le anime più agguerrite per prestar attenzione a loro. Poi qualcuno doveva aver pensato che la strategia applicata alla gara precedente potesse rivelarsi utile anche lì, così alcuni avevano iniziato ad attaccare anche altri partecipanti.
Úranus si era ritrovato a dover schivare colpi di spada senza riuscire a capire chi lo stesse attaccando e perché. Aveva individuato poi un uomo con una strana calzamaglia scura, vestito in una giubba che poteva sembrare di raso, gli occhi accesi da un sentimento che il semidio non era riuscito ad indentificare. Gli era bastato posare lo sguardo sulla lama per iniziare già a sentire i primi sintomi del panico, le prime avvisaglie dell’ansia, del potere di suo padre che scalpitava per uscire, sempre più eccitato, come una belva che sente il giogo al suo collo allentarsi ogni momento di più.
Poi l’uomo si era bloccato, una punta di freccia scintillante era apparsa al centro del suo collo, scomparendo poi come rievocata lontano dalla sua vittima.
Il sangue era zampillato come birra da una botte, fiotti lunghi che quasi l’avevano colpito. Quando il corpo, l’anima o qualsiasi cosa fossero diventati, era caduto a terra, Úranus si era ritrovato ad alzare lo sguardo ed incontrare quello freddo e lucido di Cicno. Era stato solo il primo di cinque nemici.
Il greco era più magro di lui, più fine, più basso, aveva sopportato le torture dei Campi di Pena per millenni, eppure era stato il suo salvatore. Cicno l’aveva difeso senza fiatare, ogni sua mossa era parsa naturale e quasi trattenuta, come se non avesse voluto mostrare appieno le sue capacità.
Il figlio di Fobetore era rabbrividito, seguendolo con attenzione senza perdere mai un passo, osservandolo far girare i coltelli tra le dite fini, scagliarli con la precisione di un arciere e richiamarli a sé con la maestria di un incantatore.
 
«Dobbiamo dirigerci verso le porte, da lì raggiungeremo la nostra meta.» disse come un automa, giuso per non rimanere in silenzio.
Cicno annuì e strinse la presa sui pugnali che teneva in mano.
Osservò con occhio critico tutto ciò che lo circondava, tutti coloro che si agitavano come insetti affannati, ansiosi di raggiungere il nido sicuro.
Malgrado la zona in cui si trovassero pullulasse di anime il figlio di Apollo sapeva che ce ne sarebbero stati altri come quegli stolti, desiderosi di morire sotto le sue lame. Per di più c’era anche quell’inutile gigante che non faceva altro che costringerlo a stare doppiamente attento.
Che senso aveva essere così grandi se poi non si era in grado di difendersi da sé?
Se il suo padrone non gli avesse imposto di fare tutto il possibile per portare tutti i suoi compagni alla linea del traguardo, sfida dopo sfida, se ne sarebbe già liberto.

Forse potrei spingerlo nel fascio di luce, potrebbe sembrare un incidente.
 
Fece schioccare la lingua contro il palato: no, c’era il serio rischio che ne uscisse vivo.
Si guardò attorno ancora ed allungò una mano verso Úranus per fargli cenno di rimanergli vicino il più possibile.
 
«Rimani vigile, cerca anche i nostri compagni, ci siamo divisi in malo modo, il figlio di Ares è l’unico combattente rimasto con mia sorella ed il giovane Jonas.»
«Credi non riesca a proteggere entrambi?» domandò l’altro apprensivo.
Cicno si concesse una smorfia solo perché conscio che non sarebbe stato visto. «Credo sia possibile che al primo ostacolo Nathan dica loro di scappare per poter fare l’eroe e combattere da solo.»
«Sarebbe sciocco da parte sua.»
«Sarebbe logico, da soli si può pensare solo alla propria salvezza, non si deve prestar attenzione anche a proteggere terzi, non si hanno punti deboli se non i propri.» affermò con decisione.
Se quella fosse o meno un’insinuazione su come Cicno sarebbe potuto andar avanti con più facilità se con lui non ci fosse stato anche Úranus, nessuno lo poteva indovinare, non con la fastidiosa abitudine di parlare sempre francamente che il greco aveva.
«Sarà difficile individuare le vesti- mimentiche? Credo si chiamino così, di Nathan.»
«Cerca i loro biondi capi, la camicia candida di Lea o quella più mal ridotta di Jonas.» rispose secco Cicno afferrandolo per un braccio e spingendolo ad aggirare uno scontro tra più anime.
Úranus guardò quei corpi ormai inesistenti combattersi con ferocia e disperazione, qualcuno già a terra, qualcuno inginocchiato davanti ad una guardia dell’Ade che gli imponeva la mano sulla fronte.
Un leggero alone luminoso si diffuse sotto il palmo del combattente e l’islandese rimase a fissare imbambolato il marchio che affiorava sulla pelle sporca. Era dunque quello il lasciapassare per le anime degne? Ne serviva uno anche a loro per poter oltrepassare le Mura Bianche o sarebbe bastato giungere sulla loro soglia per essere decretati vincitori?
Perso nei suoi ragionamenti non si accorsi di un uomo che si stava facendo largo tra la folla, dritto verso di loro. Non vide il simbolo di Ade brillare sulla sua fronte, gli abiti che indossava erano anonimi, un mantello corto gli nascondeva le braccia, la pistola che teneva stretta nella mancina, la destra che si allungava veloce per stringersi attorno al polso di Cicno.
Il figlio di Apollo voltò a mala pena il capo, inclinandolo solo leggermente verso quello che era uno dei membri più anziani della sua vera fazione.
L’uomo accostò la testa alla sua , la barba ed i riccioli neri gli solleticarono la guancia ma Cicno rimase immobile ed imperturbabile mentre il figlio di Bia gli mormorava poche, semplici parole all’orecchio.
 
«Cerca la guardia rossa, uno dei tuoi è nelle mani del servitore del nostro padrone, ma con lui c’è anche un combattente inconsapevole. Alla mia sinistra, volteggia come un falco a caccia, lo riconoscerai facilmente.»
 
Lasciò scivolare la mano e scomparve veloce com’era arrivato.
Cicno non si voltò neanche a guardarlo, limitandosi a richiamare l’attenzione di Úranus e a tirarlo nella direzione desiderata.
«Dove stiamo andando?» domandò quello accigliato.
«Ho visto un guizzo rosso svettare sopra le teste delle anime.» disse solo.
L’altro sembrò quasi risvegliarsi a quelle parole, drizzando la schiena e allungando il collo nel disperato tentativo di scorgere Cade.
«Da quella parte?» chiese indicando un punto imprecisato.
Cicno annuì senza distogliere lo sguardo dal suo obiettivo, dal vero guizzo rosso che aveva intravisto.
Se solo Úranus fosse stato un poco più attento e meno smanioso di riunirsi a compagni che, evidentemente, apprezzava più di lui, si sarebbe ricordato che il figlio di Apollo aveva un vista abbastanza acuta da poter essere certo se qualcuno a quella distanza potesse essere uno dei loro o meno. Ma in quel momento la fretta di Úranus non faceva che giovare a Cicno, che ben presto si ritrovò a battere le palpebre perplesso.
Lui conosceva quell’uomo, lo conosceva eccome. Solo che l’ultima, nonché la prima, volta che l’aveva visto, indossava una tunica verde.
 
È l’uomo che mi ha portato dal mio signore, è anche lui un suo servitore.
 
Quanti erano gli alleati del suo padrone? Queste anime che avevano giurato fedeltà ad altri Dei, ad Ade stesso, in verità ponevano la loro vita al servizio di quell’essere?
La guardia rossa stava combattendo assieme ad altri suoi compagni, vestiti in modo del tutto diverso rispetto alla sua veste di seta lucida. Saltava con un’agilità e ad un’altezza tale che Cicno avrebbe giurato essere quasi una dote divina. Le lunghe maniche vorticavano attorno al suo corpo e alle armi che maneggiava, una lunga spada dritta ed un falcetto. I capelli scuri parevano animati da vita propria e quando si allungarono per legarsi attorno al polso di un’anima e lanciarla lontano da lui, Cicno seppe con certezza che quell’uomo doveva discendere dagli Dei.
 
Forse non dai nostri.
 
Con un affondo rapido anche un’altra anima venne eliminata con facilità dalla gara, lasciando libero il guerriero di alzare lo sguardo nero ed incrociare quello celeste di Cicno.
Gli parve quasi d’avvertire la puntura di un insetto, qualcuno ridacchiò nella sua testa, voci acute e divertite, come di spiritelli dispettosi pronti a dargli la risposta giusta.
 
Kami.
 
Quella parola gli saettò nella mente, poi il guerriero distolse lo sguardo dal suo e sorrise.
 
«Mjöllson-san, è un sollievo vederti di nuovo qui. Non eravate con la signorina Elena?»
 
Alle spalle di Cicno Úranus sorrise sotto la folta barba rossa, accelerando il passo per andare incontro all’uomo.
 
Il figlio di Apollo si concesse solo allora di sorridere: se questo era davvero frutto del caso, la divina Tiche doveva essersi tolta la benda che le copriva gli occhi ed aver puntato lo sguardo dritto su di lui.
O più semplicemente, pensò ghignando più apertamente, questa non era altro che l’ennesima riprova del potere del suo padrone.



 
*



 
Le mura scure erano ricoperte di scaffali scolpiti nella pietra. Su ogni ripiano erano allineati oggetti provenienti da ogni epoca. Sui ripiani più alti tavolette d’argilla, cocci rotti e cortecce incise segnavano il ricordo dei primi giorni in cui gli umani avevano provato a tramandare le loro storie, le loro parole, attraverso una forma scritta, inscritta, incisa nel tempo.
Sotto di essi invece facevano bella mostra di sé vecchi papiri arrotolati e stretti con una cordicella. Quella era la sezione che gli interessava, la parte di mondo, le ere, tra cui stava frugando.
Ade si maledì da solo, doveva esser stato per forza lui l’ultimo a metter mano tra quelle stuoie e per un motivo a lui sconosciuto non le aveva rimesse in ordine.
Cos’era successo? Cercava qualcosa sui romani forse? Poi c’era stata qualche improvvisa convocazione e aveva lasciato tutto così alla rinfusa?
Probabile.
Dietro di lui Persefone se ne stava tranquilla seduta al lungo tavolo d’ebano decorato, l’unghia smaltata che percorreva pigramente ogni incisione, lasciando dietro di sé una scia luminescente.
 
«Se mi fai fiorire di nuovo il tavolo giuro che il prossimo sarà di sale.» l’avvertì continuando a srotolare e riarrotolare papiri velocemente.
La dea sbuffò ma non gli rispose, preferendo alzare lo sguardo sull’enorme sfera luminosa che galleggiava a mezz’aria al centro del tavolo.
Dentro di essa, proprio come aveva potuto ammirare dal suo mosaico, scene frammentate si scambiavano di posto a velocità disumana mostrando la prova in corso, quella di sua madre.
Madre che, per altro, si era rifiutata di uscire dalla sua bella camera lussureggiante, specie se per infilarsi in, citando testuali parole, “un mausoleo di pietra e vecchi documenti polverosi di cui non se ne ricaverà mai nulla”. Quelli erano i momenti in cui si domandava come sua madre e suo marito si ostinassero a dire di non aver nulla in comune.

La simpatia, quest’oscura magia proibita.
 
Impuntò il gomito sul tavolo e poggiò la guancia sul palmo della mano.
 
«Stanno facendo di nuovo uno scempio. Il Guardiano sta mettendo a ferro e fuoco tutto l’ingresso dei Campi Elisi. Non ce li mando i miei giardinieri a rimettere in ordine.»
«I miei giardinieri, cara.» le fece notare lui a denti stretti.
«Quel che è mio è tuo, caro, funziona così il matrimonio.»
 
«Qualcuno lo ha mai detto ad Era? Se avesse saputo fin dall’inizio che gli amanti del marito sono anche suoi sarebbe stato tutto più divertente.»
 
Un suono secco, palesemente uno schiaffo dietro la nuca, fece girare i due sovrani dell’Inferno verso una delle arcate della grande biblioteca.
Thanatos superò con una smorfia l’arco ed entrò a passo sicuro nella sala, fermandosi solo per raccogliere un frammento di papiro scivolato da uno degli scaffali.
«Questo non stava ad Alessandria?» domandò rivolto allo zio.
Ade si strinse nelle spalle. «O qui o a fuoco, direi che è il male minore.»
«Il furto?» chiese ironica Persefone.
«Oh, questo è il motivo per cui è lui il mio zio preferito.» Ipno saltellò dentro verso il fratello passando da un piede all’altro come un fenicottero infermo sulle zampe lunghe. Sorrise al gemello e gli passò un braccio attorno alle spalle, alzandosi sulle punte per poter raggiungere il suo livello.
«Che dice? È un pezzo di profezia? Non facciamo prima ad andare a chiedere alla Sibilla?»
Il Dio dei Morti chiuse gli occhi massaggiandosi le tempie. Questo, questo era il motivo per cui non passava del tempo con i suoi fratelli. Perché parlavano troppo, perché si prendevano troppe confidenze. I morti erano decisamente meglio.
«Credi seriamente che andare a chiedere alla Sibilla se si ricorda di una profezia fatta un secolo fa sia una buona idea?» soffiò fuori tra i denti serrati.
Ipno si strinse nelle spalle e lasciò la presa sul fratello, saltellando di nuovo via, verso Persefone.
Salì sul tavolo con un balzo e si sedette a gambe incrociate vicino alla cugina, ammirando la sfera.
«Chi vince?»
Persefone alzò un sopracciglio. «Questa non è la domanda che non devo farvi assolutamente quando fate quel vostro gioco mortale?»
«Detta così sembra che il gioco ci ammazzi! Naaa! D&D è un'altra cosa. Qui chi vince? Le guardie o le anime?»
«Le guardie sono meno delle anime, ma molte di loro non sanno neanche cosa significhi combattere un corpo a corpo. Per di più, il Guardiano fa il suo lavoro.»
«Oh! L’occhio di Saruman?»
«Sauron.» lo corresse senza gioia Thanatos. «Saruman è lo stregone supremo che poi diventa cattivo.»
«Giusto, quello che poi diventa una sfera stroboscopica.»
«Cosa?» domandò la dea improvvisamente interessata.
L’altro gemello sbuffò voltandosi verso i due. «Diventa “Saruman il multicolore”, non “La palla stroboscopica”. Prima era Saruman il bianco, perché era a capo de-»
«Se non la smettete immediatamente il tavolo non sarà l’unica cosa che trasformerò in sale.» sibilò Ade riaprendo gli occhi e fulminandoli con uno sguardo. «Tolkien è nelle Isole dei Beati, se volete discutere sui nomi dati ai suoi personaggi allora potete accomodarvi fuori di qui.»
Ipno batté le palpebre sorpreso, scostandosi il cappello dalla fronte con l’indice. «Brutta giornata? Stanno vincendo troppo facilmente?»
La dea provò a rispondergli, a spiegare che no, non stavano vincendo troppo facilmente e che, anzi, il Guardiano stava mietendo parecchie vittime, ma Ade si voltò di scatto verso di loro, dando definitivamente le spalle agli scaffali e marciando con passo pesante al centro della stanza.
«Il problema non è la prova! C’è Efesto a controllarla, c’è Demetra nella sua bella stanza a godersi lo spettacolo, ci sono le telecamere della ETV puntate su ogni cosa anche solo vagamente interessante! C’è l’intero mondo divino ad osservare questa pagliacciata e, nonostante ciò, qualcosa riesce sempre a sfuggirci, a passarci sotto il naso come dei dannati mortali!»
Batté con forza le mani sul piano, poi con un gesto secco fece spostare la sedia posta a capotavola e vi si sedette.
«Non ha alcun senso tener d’occhio chi vince e chi perde, se non capiamo cosa c’è sotto.»
Persefone prese un respiro silenzioso e si alzò con calma per raggiungere il marito. Gli poggiò una mano sulla spalla e l’altra sulle sue.
«Credevo avessi capito cosa sta cercando Giordano.» mormorò piano.
Thanatos ed Ipno si scambiarono uno sguardo d’intesa, il primo si sedette anche lui ed il gemello gli si avvicinò, come attratto da una calamita.
«Vuole la sua famiglia, no?» domandò Ipno, portando le gambe al petto e nascondendole sotto la palandrana.
Ade annuì. «Non vuole semplicemente la sua famiglia. Sa che non può ottenere nulla del genere, non dove si trovano adesso.»
«Per questo cercavi tra le carte di Alessandria?» azzardò Thanatos, «Cerchi qualche vecchio presagio, qualche vecchio tentativo di fare ciò che sta facendo lui?»
«No. No, non cercavo questo. Cercavo i suoi predecessori, frugano tra le memorie delle genti.» espirò, «Io e Demetra pensiamo stia cercando il Crocevia
Lo disse con tono neutro, come se stesse riportando un mero dato di fatto, una certezza assodata.
Persefone si accigliò, senza capire. Sul volto di Ipno parve passare il vago spettro di una smorfia, ma fu Thanatos a pietrificarsi, immobile, attonito.
«Non può farlo. A noi divinità della Morte è precluso l’accesso al Crocevia, gli altri Dei dovrebbero essere tutti all’oscuro della sua esistenza e ai mortali è impossibile anche solo immaginare un luogo del genere. Come avrebbe fatto Giordano a scoprire anche solo della sua esistenza?» chiese agitato, la mano stretta attorno al bordo della veste di suo fratello.
Ipno inclinò la testa, allungano una mano alla cieca per prendere quella del gemello carezzandola con gentilezza: lui poteva spiegare facilmente come Gio l’avesse scoperto, l’aveva visto dopotutto.
 «Cloto. Glielo mostrò lei. Gli mostrò il luogo in cui tutto si univa e si divideva. Il punto in cui l’energia si intrecciava. Gli disse che se fosse riuscito a metterci le mani il suo verbo sarebbe stato legge. È questo vero?»
Sciolse la presa dalla mano del fratello ed allungò le braccia davanti a sé, le maniche della cappa scura scivolarono indietro lasciando scoperti i polsi pallidi, dai suoi palmi scivolò sabbia candida e fine, che cadde come il flusso ininterrotto di una clessidra, una cascata bianca che iniziò velocemente a colorarsi dei riflessi della stanza per poi assumerne altri, sempre più decisi, sempre più sensati.
L’immagine che vi apparve era quella che Ipno aveva visto nella Dimensione Onirica. La vecchia stanza, la donna dal capo velato, il bambino con la camicia da uomo, la luce accecante che sprigionarono i suoi occhi quando finalmente vide ciò che un giorno, quasi un secolo dopo, avrebbe potuto realizzare ogni suo desiderio.
La sabbia si accumulò velocemente sul piano scuro, arrivando a toccare i piedi del suo padrone, a scivolare oltre il brodo, sulla veste nera di Thanatos, un ennesimo e perenne rimando di quanto lui ed il suo amato gemello fossero diversi anche nel loro potere.
Ade non aveva distolto lo sguardo neanche per un momento, il flash improvviso di luce ancora impresso nelle retine, era sicuro che se solo avesse chiuso gli occhi avrebbe potuto vedere quella scena per sempre.
Sì, era stata Cloto, se la donna velata era davvero lei, o comunque era stato quell’essere dalle fattezze femminili a mostrare al piccolo Gio dove trovare ciò che più bramava. Ma era un potere immenso, era qualcosa che neanche Giordano Delle Vie avrebbe potuto imbrigliare, neanche uno come lui poteva farlo.
 
«Oh, ma invece può.» lo riscosse Ipno dai suoi pensieri.
La sabbia cambiò velocemente colore, l’immagine divenne più nitida, meno sbiadita dal passato, più vicina al presente.
Era la casa di Gio ora, quel secondo salotto di cui non aveva mai saputo cosa farsene e che aveva trasformato in uno studio che non usava quasi mai se non per fumare. Era seduto alla scrivania, coperta di fogli che nessuno di loro aveva interesse ad osservare. No, il punto focale era l’uomo che parlava con Ipno, un uomo che, stringendo il Dio del Sonno con gentilezza, gli domandava dove credeva fosse stato per tutto quel tempo, gli chiedeva cosa fosse per lui “il tempo”.
 

“Perché è bene, per l’ennesima ed ultima volta, che voi Dei ricordiate che il ‘tempo’ è l’ultima cosa che potrebbe mancarmi.”
 

«Si è addentrato nella Dimensione Onirica e lì sappiamo bene che non vi è un regolare scorrere del tempo. Forse qui da noi sono stati minuti, ore, giorni in cui spariva e nessuno sapeva dove ritrovarlo, ma lì, nella Dimensione Onirica, può aver passato anni ad allenarsi per questo momento.»
«Ma cosa vuole? Cosa c’è in questo Crocevia? È affar tuo, Thanatos?» domandò Persefone confusa.
Il Dio della Morte chiuse gli occhi e scosse leggermente la testa. «Non è “affar mio”, non per come tu lo possa intendere. Ha a che fare con la morte, per questo io e lo zio ne siamo a conoscenza, ma ha anche a che fare con la vita.»
«È letteralmente il punto d’incontro di ogni strada che conduce alla vita e alla morte. Dove ogni sentiero si incrocia. Da lì si può giungere a molteplici luoghi, uno più pericoloso dell’altro.» mormorò Ade lasciandosi andare contro lo schienale della sua sedia.
Ipno ritrasse le mani, immergendole nella sabbia accumulata sul piano. Giocò distrattamente con i granelli, facendoseli scivolare tra le dita, pensoso.
«Quando diciamo che “sta cercando la sua famiglia”, intendiamo sua sorella o i suoi genitori?» chiese a tutti e nessuno, senza aspettarsi una risposta. «Perché Cloto gli mostrò quel luogo? Perché ha atteso tutti questi anni per raggiungerlo?»
«Non l’ha ancora raggiunto. Ha solo messo in tavola tutti gli strumenti per poterlo fare ma- gli manca qualcosa, gli manca un allineamento che sfugge anche a me.» ammise Ade.
Thanatos strinse gli occhi ed espirò profondamente, suo zio non sapeva cosa potesse mancare, ma forse lui sì.
«Gli manca una copertura.» iniziò lentamente. «Per giungere al Crocevia si deve appartenere a quel luogo o detenere un potere tale da poter contrastare le forze che lo governano.»
«E lo ha. Te l’ho detto fratello, ha passato infinito tempo nella Dimensione Onirica, ha accumulato poteri che noi forse non possiamo neanche immaginare.»
«Non è solo quello.» insistette l’altro. «Il Crocevia è terra di nessuno se non del Fato, del Destino, del Caso. Un Dio può sopportare il pellegrinaggio per quelle vie, ma nulla può impedire alle loro ancelle di scorgerlo prima ancora che giunga a destinazione.»
«Quindi gli serve una copertura.» ripeté Persefone annuendo.
Non riusciva a capire dove questo Crocevia portasse, cosa intendessero gli altri per “terre di nessuno”, evidentemente ben distanti dall’idea che loro, “comuni Dei” avevano di quel termine, ma era ormai chiaro che sia Ade che Thanatos, - che mia madre, anche mia madre lo crede – pensassero che quello fosse l’obiettivo di Gio, e se per raggiungerlo doveva nascondersi agli occhi delle ancelle…
 
L’unico modo per nascondersi a mortali, mostri, Dei e creature di ogni genere-
 
Persefone si bloccò, alzando lentamente lo sguardo sulla sfera che fluttuava al centro del tavolo. Le immagini della quinta sfida di alternavano con la stessa disumana velocità di prima, ma ora quel velo sfocato, quella nebbia che adornava ogni frammento di immagine, di evento, di presente, prendeva tutto un altro significato.
 
«È per questo che gli serviva la Death Race.» mormorò piano.
I suoi cugini alzarono lo sguardo su di lei, Ade inclinò di poco il capo, l’orecchio teso alle parole della moglie ma lo sguardo fisso sul legno scuro sporco della sabbia bianca di Ipno.
«Come diversivo?» provò Thanatos, pur sapendo che non era quella la risposta corretta.
Persefone a mala pena scosse il capo. «Lo è, ma non nel modo che credevamo fosse. Lo sta usando per distogliere l’attenzione non da ciò che sta facendo lui, ma da ciò che noi stiamo permettendo che avvenga.» con un gesto secco della mano la sfera fluttuante si fermò e poi, come una vecchia cassetta che si riavvolge su sé stessa, tornò all’inizio della proiezione. Riapparve il palco, Demetra nel suo vestito giallo, il muro di Foschia alle sue spalle.
«Ha aperto le iscrizioni a tutti i morti del mondo, a chi lo meritava e a chi no. Sapeva che in molti, tra i dannati, avrebbero cercato di scappare, di trovare le Porte della Morte e tornare da soli al mondo dei vivi. Voleva che lo facessero perché-»
 

«Perché quando un’anima si perde nei meandri delle Praterie degli Asfodeli finisce per perdere tutto di sé, fino a fondersi con la Foschia stessa, alimentandola. E, più Foschia c’è, più potenti sono le arti magiche, più grande è l’inganno. È il gioco di un prestigiatore ed il piccolo Gio ha capito come sfruttarlo al meglio.»
 

Non avevano sentito i passi leggeri e regolari dell’ultimo ospite di quell’inaspettata riunione, così concentrati sui loro doveri, sulle loro ipotesi dall’esser stati sordi al rumore dei tacchi bassi che scandivano il tempo dell’entrata in scena di un nuovo ma vecchio personaggio.
Un sorriso ampio e ferino apparve nel buio di una delle innumerevoli arcate senza fine che adornavano ogni sala della Casa di Ade. Tra le ombre i denti affilati scintillarono di un riverbero verdastro che andò ad intensificarsi quando sul ghigno fluttuante apparvero due iridi verdi e luminose, tagliate da fini pupille serpentesche.
Palpebre invisibili s’abbassarono per un attimo oscurando la luce sinistra, per poi riaprirsi contornate di ciglia scure. Poi le sopracciglia arcuate, il naso leggermente adunco, le labbra che, con lentezza, prendevano consistenza e colore attorno ai denti, tirate e rossastre. I contorni del volto emersero dalle ombre come fossero acque torbide. Il mento appuntito, gli zigomi ossuti e la fronte ampia adornata da lisci capelli neri.
La Dea entrò nella biblioteca esponendosi alla luce azzurrina delle torce e a quella chiara della sfera fluttuante, della sabbia bianca che rifletteva ogni colore brillando come neve al sole.

«Come altri vi hanno già detto, non bisogna domandarsi cosa stia facendo, ma cosa ha già fatto il piccolo, caro Giordi. Perché, signori miei, il danno è bello che fatto ormai, le anime inutili, e qualcuna di quelle scomode, si sono disperse nelle Praterie, quelle che non avete trovato, ad ora, saranno state inghiottite dalla Foschia diventando parte di essa, alimentandola. Il bel muro di Foschia della tua mammina non ha fatto altro che aiutarlo ancor di più, chissà che non l’abbia fatto apposta...» insinuò divertita avvicinandosi ai quattro attorno al tavolo.
Gli stivaletti bassi e logori, i jeans rovinati e la felpa viola stonavano con quell’ambiente, con le vesti di chi lo abitava, ma la Dea continuò a muoversi perfettamente a suo agio, gli occhi puntati dritti in quelli neri di Ade.
Sorrise beffarda e si infilò una mano nella tasca della felpa, stringendo ciò che vi era nascosto dentro.
 
«Se il problema del Crocevia è ottenere il potere per potervi accedere, lui ce l’ha.» superò Ipno e Thanatos, ignorando quando il Dio della Morte si mosse come a voler proteggere il fratello da un suo possibile attacco.
«Se, allora, il problema è non farsi vedere, voi stessi gli avete dato il modo di non esser visto, il mezzo ideale che persino le ancelle non possono contrastare.»
Arrivò alla sinistra di Ade, posandogli una mano sulla spalla ed chinandosi verso di lui come il perfetto specchio di Persefone.
Quella la fissò senza proferir parola, trattenendo quasi il fiato in attesa che la cugina parlasse, che pronunciasse le ultime, fatidiche parole che avrebbero dato il via alla sua personale profezia, che avrebbero segnato un ennesimo punto di non ritorno.
Con lentezza la nuova arrivata estrasse la mancina dalla tasca, ponendo l’oggetto che essa teneva tra le mani pallide e magre di Ade.
 
«Ora resta solo da vedere cosa prenderà alle ancelle e riuscirà nel suo intento.
Sua sorella? I suoi nipoti? Clara, Al, la sua famiglia, tutti i ragazzi del vecchio avamposto… tu su chi scommetti, zio? Ce la farà? Verrà sconfitto? Lo lasceremo fare? Lo lasceranno fare?» tolse la mano da quelle di Ade e gli posò un bacio sulla tempia.
«Io punto tutto su Gio
 
Si sollevò dal re degli Inferi e tonò sui suoi passi, lanciando un bacio anche ai gemelli della notte ed un vago saluto a Persefone.
 
«E per quanto abbia avuto anche io le mie puntate sbagliate, mi sento incredibilmente fortunata oggi. Oh, temo tu debba delle scuse a Eolo, zietto caro, nel caso fagliele anche da parte mia, mi faresti un gran favore. So quanto non gli piaccia quando si gioca con le sue attrezzature e non ho proprio voglia di sentirlo lamentare.
Ora perdonatemi, ma ho un appuntamento con un vecchio amico, vuole avere aggiornamenti da questo fronte e in cambio me ne darà di nuovi dal suo.»
Con un ultimo sorrisetto divertito, così com’era apparsa, la Dea se ne tornò nell’ombra da cui era venuta, lasciando dietro di sé solo silenzio e dubbi. Veloce e letale com’era sempre stata.
 
Ade abbassò lo sguardo sull’oggetto che stringeva tra le mani.
Chiuse gli occhi e si domandò quanto in là si sarebbe spinto Giordano, quanto in là si era già spinto.
Le luci della sala si rifletterono sulla superfice lucida del pomo dorato. Sulla buccia liscia una breve frase incisa con precisione.
 

“Al vincitore”.
 

Eolo aveva ragione, ovviamente. La Dea della Discordia era giunta a fargli visita come richiamata dalle insinuazioni del Vento, felice di proclamarsi parte di quella macchina artistica, interprete attivo di quella commedia degli inganni.
Non poteva più rilegarla tra le possibilità, non poteva più fingere che fosse solo frutto della paranoia di un dio sull’orlo di una crisi di nervi.
Tra le sempre più numerose file di Giordano Delle Vie ora poteva contarsi anche la divina Eris



 
*



 
Il vecchio Roger ne aveva viste di cose nella sua vita, nel suo passato.
Aveva viaggiato per anni lungo la costa dell’America del Sud, era salito su di una nave ad appena sei anni, a lavare i ponti e pulire lo schifo che i marinai si lasciavano dietro. Aveva servito quella che al tempo veniva chiamata Compagnia delle Indie Orientali, aveva persino rischiato di arruolarsi. Questo, prima di finire su di una nave senza simboli, preso sotto l’ala del vicecapitano a cui aveva salvato la vita.
A ripensarci ora, Roger ne rideva con gusto. Al tempo lavorava in una bettola al porto, in attesa di raggiungere l’età giusta per potersi finalmente arruolare e viaggiare per mare come aveva sempre sognato. C’erano delle stanze in quel vecchio ostello, dove le prostitute portavano i mariani, dove più di una volta i gendarmi avevano scovato avanzi di galera e ricercati.
Roger non aveva fatto molto, aveva solo visto di sfuggita il volantino con il ritratto dell’uomo che le guardie stavano cercando e vi aveva riconosciuto il volto di uno dei pochi clienti gentili di quel postaccio. Era salito di soppiatto sino alla camera dove l’uomo riposava, cercando di non calpestare le vesti sporche sparse sul pavimento polveroso, per andare a scuotere il vicecapitano Tikei e avvertirlo.
Ricordava ancora l’uomo battere le palpebre e guardarlo confuso. Ricordava la velocità con cui si era alzato e aveva recuperato tutti i suoi averi, rivestendosi alla bene e meglio e accecandolo con un sorriso giallastro ma dai denti dritti ed integri.
 
«Te ne devo una, ragazzino. Vieni alla mia nave, la Belle Rose, e saprò come ripagarti.»

C’era andato, alla fine del suo turno, invece di buttarsi sull’ammasso di paia e vecchie coperte ruvide che era il suo letto, nel retro della locanda, si era incamminato verso il porto e aveva raggiunto la Belle Rose. Si era ritrovato con una manciata di monete in mano ed aveva pensato d’aver fatto il colpo grosso. Poi Tikei gli aveva chiesto cosa progettasse di fare per il futuro e Roger, stupidamente, gli aveva detto di voler navigare, che probabilmente si sarebbe messo al servizio della Compagnia, perché era il modo più semplice per imbarcarsi.
Gli occhi scintillanti del corsaro gli brillavano davanti ancora oggi. Il vicecapitano Tikei gli offrì molto più di un po’ di grana facile, gli offrì un sogno senza regole se non quelle del mare.
Quando anni dopo l’uomo era diventato capitano, quando ancora più tempo dopo quel titolo era stato passato a lui, sull’albero più alto della Belle Rose Roger aveva issato una bandiera rossa. Quando la sua vecchia ragazza era arrivata alla fine dei suoi giorni Roger le aveva dato fuoco assieme a quello stesso vessillo e al corpo del vecchio Capitano Tikei.
Aveva trovato un altro veliero, più bello, più moderno. Aveva scelto vele nere per non esser viste nella notte e poi, ad ultimo, aveva tinto di nero anche la sua bandiera, cucendoci sopra grossolanamente un teschio di profilo e due tibie incrociate.
Aveva navigato, scivolando sull’acqua salata, tra le onde alte, tra le navi mercantili e quelle della Corona. Aveva visto due mari scontrarsi, leggende antiche e assurde sul perché anche a loro mortali fosse concesso vedere uno spettacolo del genere. Aveva combattuto, perso amici, compagni, guadagnatosi il rispetto della sua ciurma e dei suoi simili, alle volte persino dei suoi nemici.
Era stato durante una delle battaglie più violente in cui fosse mai capitato, rincorso con vento a favore da tre velieri spagnoli intenzionati a riprendersi qualche piccola cosuccia che aveva rubato loro, che Roger aveva scoperto per la prima volta dell’esistenza degli Dei Greci.
Richiamare le voci dei suoi compagni alla memoria, era facile. Le grida sopra i boati dei cannoni, le esplosioni che giungevano sempre un po’ più vicine, un po’ più forti. Qualcuno gli aveva gridato che il mare era loro ostile, che era una donna capricciosa che non si sarebbe accontentata di nulla se non delle loro anime e della loro nave.
Roger, attaccato al timone come se ne andasse della sua stessa vita, aveva riso sprezzante:
 
«Se è questo il giorno della nostra morte, così sia! Il mare sarà anche una donna capricciosa, come tu dici, ma non dar a lei la colpa delle azioni dei venti traditori.
Il mare c’ha dato tanto, c’ha dato tutto. Soldi, vino, donne, gloria e libertà, prima o poi sarebbe giunto anche per noi il momento di pagare il conto!
»
 
Qualcuno l’aveva guardato attonito, altri, troppo impegnati a rispondere al fuoco o nemico, o a spegnere quello sulla nave, avevano riso amareggiati ma concordi: ogni vita ha la sua fine, dopotutto.
Ma la loro non sarebbe arrivata qual giorno e neanche per molti a venire.
Era stato quello il momento in cui una voce femminile aveva raggelato tutti loro.
Una donna dal corpo morbido avvolto in una veste bagnata, drappeggiato come un panno su di una vecchia statua, la pelle abbronzata dal sole incessante che si specchiava sempre sul mare, gli occhi screziati come i riflessi dei raggi sulle onde, i capelli dello stesso colore delle alghe viscide che s’attaccavano alle navi. C’erano piccoli animali marini che le camminavano sulle braccia nude, tra i capelli gocciolanti. Quando sorrise, guardando Roger, i suoi denti brillarono come la madreperla.
 Talassa, la madre primordiale del mare, sembrava un miraggio, l’apparizione che era, e pareva anche piuttosto contenta che, per una volta, la colpa di tutto non fosse stata data di nuovo a lei ma al vento insidioso.
Era stata lei a chiamare Euribia, la dea del dominio dei mari, lei a comparire d’improvviso davanti a Roger e toglierli delicatamente le mani dal timone, lasciando che fosse l’altra a prenderne possesso, a guidare lui e la sua ciurma lontani dal pericolo.
Avere una donna a bordo portava male. Averne due era una richiesta di sventura.
Quando giunsero sulla terra ferma e i suoi compagni scesero quasi scappando dal ponte, Roger rimase a guardare il Mare dritto negli occhi e giurò, giurò sulla sua libertà, che da quel momento in poi la Dea sarebbe stata l’unica a cui avrebbe votato la sua vita.
Aveva giurato di vivere per mare, libero, per sempre. L’aveva giurato alla brezza marina e alle onde, alla sua vecchia Belle Rose e al Capitano Tikei. Quel giorno lo fece di nuovo ed il Mare accolse la sua promesse benedicendolo.
Alla fine dei suoi giorni, Roger aveva chiuso gli occhi cullato dalle stessa braccia che lo salvarono in quella lontana, lontanissima battaglia. Il Mare gli sussurrò all’orecchio che il suo nome sarebbe rimasto nella storia, che il suo ricordo sarebbe vissuto per sempre, che la sua anima avrebbe trovato finalmente riposo. Libera, come lo era sempre stata. Come il mare.
 
Non aveva mentito Talassa, l’aveva portato nelle lande dei Giusti e lì, davanti al Signore di quel regno, aveva fatto sì che la sua anima venisse riconosciuta come beata, aveva chiesto ad Ade di lasciare a lei il suo servizio, così come aveva votato in vita. Il Dio dei Morti non aveva potuto negarle nulla.
Fu proprio durante una delle missioni per la sua Dea che Roger incontrò un personaggio un po’ particolare, un giovane uomo seduto su uno sputo di terra in una piccola ed insignificante lagunetta di un ancor più piccolo paese, ben lontano dalla sua America e dai suoi grandi oceani.
Dondolava i piedi a pelo d’acqua, canticchiando in una lingua che non conosceva e che non avrebbe mai imparato a parlare. Era curioso, era… strano. In quel corpo s’agitava un’inquietudine che Roger non era riuscito a comprendere, non in quel momento, non negli anni, nei decenni a venire. Ma il giovane piaceva alla sua Dea e Roger avrebbe fatto di tutto per esaudire i desideri del Mare, anche aiutare un ragazzino dall’animo in tumulto ad attraversare gli oceani senza che quel pallone gonfiato di Poseidone potesse metterci bocca.
 
«Ma tu, cosa vai cercando?»
«Una via di fuga verso il mare aperto.»
 
Aveva detto il giovane senza guardarlo in faccia, perso nel contemplare l’orizzonte finito di quella pozzanghera che quelle genti osavano chiamare mare.
Anni addietro, gli aveva posto ancora la stessa domanda.
 
«Che vai cercando, ragazzo?»
«Un modo per perdermi, credo.»
 
E ancora.
 
«Cosa cerci adesso?»
«Una rotta che nessuno ha ancora tracciato.»
 
E ancora.
 
«Dopo tutto quello che hai visto, che hai fatto, cosa vai ancora cercando?»
«Ho trovato la mia rotta, ora mi servono solo dei compagni.»
 
L’aveva guardato con quegli occhi accecanti, scintillanti come l’erano stati quelli di Talassa la prima volta che gli era apparsa, com’era da sempre il mare nei suoi ricordi.
 
«Hai voglia di rimetterti a lottare, Capitato Roger?»
 
Il vecchio, ma giovane, pirata si passò una mano sulla fronte e poi tra i lunghi capelli neri. Quella massa informe ed arruffata che l’aveva sempre distinto dai suoi compagni, che preferivano rasarseli soprattutto per eliminare i pidocchi e le zecche che potevano farvici il nido.
Convincere Mirina a lasciarlo da solo con il figlio di Ares era stato davvero faticoso, sia perché la donna non lo credeva in grado di svolgere un compito così banale – “La Divina Talassa mi ha affidato compiti ben più rognosi! – sia per via del presunto legame tra le Amazzoni e Ares, o Marte o quel che cavolo era.
Dannati Dei, erano fin troppi a fare tutti la stessa roba. Come Poseidone che si credeva il Dio supremo del mare quando la sua Talassa era il mare.
Si accovacciò a terra, pungolando con la canna della pistola la guancia del semidio, schiacciata contro il suolo sporco e bruciacchiato.

«Ti ha detto bene, ragazzo, se non ci fossi io ti userebbero come scudo umano per il faro della morte, lì.» disse accennando con l’arma ad un punto vago dietro di loro.
«Che cos’avrai poi di così speciale per farmi addirittura correre qui a pararti le chiappe lo sa solo quell’altro pazzo. Però sembri un tipo rognoso, probabilmente ti piacerebbe, lui. Ma non so quanto sia possibile il contrario.»
Si grattò la testa con la pistola, era una brutta abitudine, lo sapeva, aveva visto un paio di persone farsi un bel buco d’areazione per le cervella in vita sua, così come aveva visto gente infilarsi la pistola nei pantaloni ed evirarsi al primo movimento sbagliato, ma era positivamente convinto che, nella morte, nessun pezzo del suo corpo se la sarebbe presa troppo male per un colpetto.
Doveva attendere senza muoversi di lì, continuando a fare la veglia al biondo finché qualcuno non sarebbe arrivato a prenderselo. Forse un’altra guardia, forse un suo compagno, o un compagno del ragazzo, qualcuno che si occupasse della seconda fase di quella gara.
Quando Talassa gli aveva comunicato che per la quinta prova avrebbe servito Ade e Demetra come meglio credevano, Roger era rimasto interdetto, le sopracciglia aggrottate ed il naso arricciato.
 
Come?
 
Ogni desiderio del Mare era un ordine per lui, ma ciò non toglieva che fosse strano che Talassa lo lasciasse alla mercé non solo di un Dio, ma di due. Due Dei che non andavano notoriamente d’accordo ed erano famosi per dare ordini contrastanti alla stessa anima finendo inevitabilmente per ucciderla perché le avevano disubbidito. All’uno o all’altra. O a entrambi. O a nessuno ma avevano comunque accontentato anche l’altro, insomma, non due esseri a cui lasciare uno dei tuoi prediletti.
 
Il suo prediletto. Non c’è nessun altro.
 
Pensò sogghignando rialzandosi in piedi e sgranchendosi le gambe.
Nonostante il suo titolo di “persona-morta-preferita-dal-Mare”, Roger si era ritrovato con un foglio di cartaccia, uno di quelli che tante volte aveva visto sporcare i mari un tempo limpidi, con su scritto un elenco di nomi, lo status e il posto da cui provenivano. Se il nome non era sulla lista a Roger non doveva importar nulla di quell’anima, ma Nathan Wright, sfortunatamente per lui, era lì presente. Per la precisione, posto nello stesso sottogruppo di sette anime al cui capo ve ne era una “particolare”.
 
"Il gruppo del Crudele."
 
Sperava solo che il tipo arrivasse in fretta, anche se non aveva la più pallida idea di come avrebbe fatto a trovare il suo amico. Erano poche le anime in grado di individuarne altre, forse un centinaio, che a confronto con tutti quelli che ancora si ostinavano a gareggiare era davvero un numero irrisorio.
Ma le speranze di Roger vennero presto accontentate, quando tra la folla che vorticava attorno al suo cerchio d’interdizione apparve una macchia rossa che sarebbe stato in grado di riconoscere tra mille.
 
Se io sono il più fedele al Mare, lui è il più fedele al Cielo.
 

«SHILON! Ehi! Caro, vecchio muso giallo! Che bello vederti da queste parti! Dimmi che cercavi- ah.»
Aveva gridato a gran voce per superare il rumore assordante delle lotte, ma si era subito morso la lingua quando aveva visto altre due anime al seguito del giapponese.
Un sorriso storto gli si aprì sul volto nello scorgere un secondo viso famigliare, bello e perfetto come le polene delle navi più ricche.

Oh, eccome se lo ha trovato.
 
Guardando il figlio di Apollo avvicinarsi assieme ad un altro compagno, probabilmente il figlio di Fobetore, se quell’aria da condannato a morte gli diceva il giusto, Roger si ritrovò a pensare che “Crudele” fosse il nome giusto da dare a quel ragazzo, la cui bellezza era vivida, accecante, crudelmente candida e perfetta in mezzo a quell’inferno.
Era proprio il genere di persona che lui avrebbe scelto.
La guardia imperiale gli fece un cenno con la testa, dietro di lui il tipo inquietante teneva lo sguardo fisso sul ragazzo a terra, torcendosi le mani smanioso come se si stesse trattenendo dal correre verso di lui. Fu in quel momento che Roger si rese conto che nessuno dei due giocatori aveva il simbolo della benedizione sulla fronte, eppure quello che macchiava la coscia nuda del greco era senza ombra di dubbio sangue.
 
«Roger-san, lieto di vederti al pieno della tua forma.» lo salutò la guardia.
Roger sorrise. «La gente è troppo preoccupata a cercare gente in giubba blu per rendersi conto che anche un pirataccio come me si è messo a fare il corsaro.»
Shilon Yu inclinò leggermente la testa. «Malgrado gli anni, è ancora difficile per me comprendere i termini della tua epoca.»
«Pirataccio se sotto il comando di nessuno, corsaro se al comando della corona. O dell’impero, o di quel che vuoi. Hai dei bei visini con te, chi sono?» chiese cambiando completamente discorso, il pezzo di carta con l’elenco dei nomi stretto nel pugno infilato nella tasca profonda della giacca.
Il greco alzò un sopracciglio come se avesse perfettamente capito che quella fosse solo una recita, il gigante rosso invece aggrottò le sopracciglia a quella stupida sentenza.
Roger ghignò. «Chiedo perdono, un bel visino, l’altro terribile combattente, brutale, forte, grrr!»
«Roger-san, per favore, non è il momento delle burle.»
«Ehi, mi ha guardato male quando l’ho detto! Ora, non so se perché non gli è piaciuta la battuta o perché qui all’inferno non si vede un cazzo di niente e non capisce se sono serio o meno, ma non voleva essere un’offesa, giuro.»
Úranus lo guardò confuso e fu il biondino a trarre tutti fuori da quella conversazione sterile.
«Il mio compagno non è avvezzo all’ironia, signore, ma non è un bruto e non vi sfiderà per questo. Per altro, è preoccupato per il giovane ai vostri piedi, la Dea Tiche ci è stata propizia e ha fatto sì che, nel nostro cammino, rincontrassimo uno dei nostri compagni.»
Shilon Yu annuì brevemente, scostandosi di lato per lasciar passare i due semidei verso quello svenuto. «Posso supporre che non sia stato tu a sconfiggerlo, Roger-san?»
«Cosa te lo fa pensare? Il fatto che non abbia un buco in testa?» scosse il capo. «No, è stata Mirina, io gli ho solo dato la bastonata finale. Il ragazzo qui le ha prese di santa ragione.»
Il gigante rosso fece scattare la testa verso il pirata. «Nathan è stato sconfitto?»
La sua voce suonò tombale anche nel mezzo di quel casino degno di una bordata mercantile. Roger lo guardò impallidire più di quanto già non lo fosse, serrare la mascella e chiudere le mani a pungo. Era evidente che l’informazione l’avesse sconvolto, come se non avesse messo in conto che il compagno, un figlio di Ares, potesse essere caduto durante quella prova.
 
Ma anche tu non sei messo meglio, forse non sei stato sconfitto, ma neanche benedetto.
 
«Già, cose che succedono purtroppo! Voi anche non ce l’avete fatta? Shilon, non mi vorrai mica dire che dobbiamo lasciare tre poveri semidei alla mercé di questi balordi, senza neanche una protezione!»
La guarda fece per rispondergli ma il greco lo batté sul tempo.
«Grato che vi preoccupiate di noi, signore, ma posso assicurarvi che le mie sole capacità saranno sufficienti per tener al sicuro entrambi i miei compagni. Come ho fatto fino ad ora.»
«Cicno-san ha ragione. È stato in grado di proteggere sé stesso ed il suo compagno, scontrandosi contro anime selvagge prive del senso dell’onore che lega noi guardiani dell’Ade, saprà prendersi cura anche di Wright-san.» si voltò verso il greco e gli sorrise lieve. «Ma è anche vero che le fatiche da voi svolte fino ad ora vi hanno reso onore. Non mi è concesso benedire chi non ha provato il suo valore, ma posso farlo con voi.»
«Oh! Oh! Posso farlo io? Non ho ancora benedetto nessuno! Volevo farlo con il biondino a terra ma Mirina non me lo ha fatto fare!» saltò su Roger emozionato. «E poi, andiamo! Il gigantone è comunque sopravvissuto fino ad ora, no? Anche solo per la capacità di star dietro ad uno come lui senza intralciarlo, riuscendo a nascondersi dietro qualcuno che è la sua metà, dovrebbe valergli qualcosa, dico bene?»
Shilon Yu si lasciò sfuggire quello che era palesemente il principio di un ghigno e scosse la testa con lentezza, come se non credesse alle sue stesse orecchie.
Úranus non sembrava troppo d’accordo, il corpo proteso verso Nathan come se fremesse per toccarlo ed accertarsi che stesse bene, la mente solo per metà attenta alle parole del pirata.
«Ma io non ho fatto nulla, Cicno è-»
«E statti zitto tu! Sto cercando di lavorare per te qui, collabora un po’!» lo zittì subito Roger.
«Solo loro due, Roger-san, non puoi concedere la grazia da un’anima che è stata sconfitta e a cui il suo sfidante non ha dato la propria benedizione.» lo ammonì il giapponese.
«Ma così Nathan sarà vulnerabile.» protestò il figlio di Fobetore, guardando la il soldato imperiale con apprensione. «Shilon Yu, ve ne prego.»
«Vuol dire che il nostro figlio di Ares avrà la possibilità di riabilitare il suo nome e dimostrare a tutti noi d’esser ancora degno di questa sfida e di suo padre.»
La voce di Cicno aveva una nota definitiva che non ammetteva repliche, qualcosa di duro che alle orecchie di un bon ascoltatore sarebbe suonato come fastidio, come disapprovazione per la sconfitta cocente che il semidio aveva subito.
Úranus non poté dirlo, ma per Shilon Yu e persino per Roger quella era la reazione di qualcuno che pretendeva che il suo compagno si dimostrasse degno del suo nome, della sua discendenza. Qualcosa di assolutamente comprensibile e accettabile. Di giusto.
Il guardia rossa annuì per l’ennesima volta e fece cenno al pirata di imporre la sua benedizione sulle fronti delle due anime salve.
Úranus guardò come in trance la mano callosa dell’uomo posarsi con leggerezza sulla fronte del greco, covando nel palmo un’improvvisa luce calda e chiara. Pochi attimi dopo il simbolo di Ade brillò sulla pelle tirata, per poi sfocarsi in quella che pareva una macchia, come un livido luminescente.
L’islandese dovette abbassarsi per poter riceve anche lui la sua benedizione, trovandosi a chiudere gli occhi quando al sensazione di calore gli sfiorò la fronte.
Non s’accorse così di Cicno, dello sguardo che si era scambiato con Shilon Yu, di come quello gli avesse indicato una direzione generica mormorando due nomi a loro conosciuti, come il figlio di Apollo avesse annuito e si fosse poi inginocchiato al fianco di Nathan, voltandolo a pancia all’aria ed esaminando velocemente tutte le sue ferite.
Quando riaprì gli occhi il pirata gli sorrideva divertito, quasi trovasse ironico che un uomo grande e grosso come lui avesse avuto paura di qualcosa di sconosciuto.
«Buona fortuna allora, gigantone. Anche a te, figlio di Apollo, mi raccomando!» disse ammiccando a Cicno.
Shilon Yu si chinò in avanti in un piccolo inchino. «Mjöllson-san, Cicno-san, che la fortuna possa assistervi. Portate i miei saluti ai vostri compagni.»
Úranus guardò il guardiano dell’Ade allontanarsi assieme all’altro, boccheggiando senza sapere cosa dire, tentato di fermarlo, di chiedergli di aiutarli e non lasciali lì da soli, con Nathan svenuto e Cicno solo a poterli difendere. Il panico cominciò a farsi largo in lui, doveva fermarli, richiamarli indietro, chiedere a Shilon Yu come fare entrare anche Jonas oltre le porte bianche, se il Guardiano potesse ucciderli anche una volta benedetti.
Ma non un suono uscì dalle sue labbra, che strinse per farle smettere di tremare.
 
«Non farti prendere dal panico ora. Abbiamo trovato Nathan, Cade, Eliza e Jane sono assieme, ne sono certo. Ciò che ci preme ora è risvegliare lui e trovare il prima possibile mia sorella ed il giovane Jonas.»
La voce calma e mielosa di Cicno suonò come un rimprovero, tra le trame delle sue parole Úranus poté leggere un chiaro “non complicare il nostro percorso con le tue sciocche paure, non abbiamo bisogno d’altro”, ed aveva ragione, ne aveva da vendere, ma in quel momento non c’era nulla che lo potesse calmare. Era successo tutto così in fretta, la separazione, gli attacchi, la fortuna sfacciata d’aver trovato Shilon Yu malgrado stessero ricercando Cade e poi la guardia imperiale che li accompagnava proprio da Nathan, vegliato da un altro guardiano e quindi salvo da altri possibili attacchi. Solo a lui sembrava tutto troppo bello per essere vero? Sarebbe stato ancora così semplice? Come se qualcuno avesse scritto quello stesso percorso per loro?
«Potrebbe svegliarsi tra ore, non sappiamo quanto siano gravi le sue ferite. Non possiamo muoverci se è ancora incosciente.» mormorò riprendendo a torcersi le mani, a grattarsi le cuticole con le unghie corte e sporche.
Cicno fece una smorfia infastidita, ma Úranus gli dava le spalle e lui, chino sul volto di Nathan, era schermato dai suoi stessi capelli.
 
Sciocco e pavido figlio degli incubi, spaventato dalla tua stessa ombra e da tutto ciò che ti è ostile, e dire che hai incontrato la morte per un fine così nobile…
 
«Credo tu ti sia dimenticato chi è il maledetto bastardo che mi ha dato i natali.» mormorò a denti stretti, cercando in ogni modo di non far trapelare il veleno che covava in petto dalle sue parole.
Prese il viso di Nathan tra le mani e abbassò il capo finché qualche morbido ricciolo non sfiorò la fronte dell’altro.
Era divertente come alcuni dei suoi compagni non prendessero ancora in considerazione il fatto che anche lui fosse un guaritore, che le sue arti poteva esser loro d’aiuto come, se non più, di quelle di sua sorella. Ma era palese che non si fidassero ancora completamente di lui e Cicno si ritrovò a chiedersi se, in una situazione diversa, in cui Úranus fosse stato completamente focalizzato su di lui e non solo sui tumulti che li circondavano, il figlio di Fobetore gli avrebbe permesso di curare Nathan, come avrebbe fatto Cade senza pensarci due volte, o se avrebbe temuto per la vita del compagno.
Si sarebbe tenuto il dubbio, malgrado scommettesse sulla prima.
Socchiudendo gli occhi Cicno iniziò a mormorare parole in una lingua antica, un dialetto dimenticato che fluiva dalle sue labbra come acqua.
Goccia dopo goccia si depositò sulla pelle di Nathan, bagnandogli il capo di un’energia che da decenni il giovane non aveva più saggiato.
Era come una dolce carezza, una mano amorevole e fresca che gli si posava sulla fronte tesa, alleviando il dolore che gli stringeva la testa come una morsa, sgonfiando il pulsare ritmico della sua nuca assieme al livido che si era formato per il colpo del calcio della pistola.
Qualcuno lo stava svegliando con delicatezza, come faceva sua madre durante le vacanze, come aveva fatto Lucy tante volte quando finiva in infermeria al Campo, quando era domenica e non potevano rimanere a poltrire al letto.
Nathan socchiuse piano gli occhi, un bagliore accecante come la luce che filtrava dalle tende mal chiuse della sua camera da letto, irradiando di calore la pelle che riusciva a toccare, lo accolse assieme ad un melodia sconosciuta ma piacevole.
Avvertiva un leggero formicolio alla fronte, gli ricordava i capelli di Lucy, quando si sporgeva su di lui per baciarlo.
Poi arrivò la sensazione del terreno sotto il corpo, la luce si fece più fioca, il formicolio sparì, i suoni della battaglia eruppero prepotentemente nella sua bolla sicura.
Cercò di alzarsi in piedi il più velocemente possibile, l’immagine dell’amazzone che lo fissava seria gli saettò nella mente assieme al dolore secco alla testa. Qualcuno l’aveva colpito alle spalle proprio quando realizzava che la sua confusione era dovuta alla massiccia presenza di Foschia nell’aria. Doveva rimettersi in piedi e continuare a combattere, non poteva accettare di-
 
«Nathan! Sei sveglio! Come ti senti? Non ti alzare, rimani disteso.»
La voce che lo raggiunse per prima fu quella di Úranus ed il figlio di Ares sbatté le palpebre confuso quando se lo ritrovò inginocchiato di fianco.

Che cazzo ci fa lui qui?
 
«E tu che cazzo ci fai qui?»
Ma prima che l’islandese potesse rispondergli gli occhi di Nathan si fissarono su una macchia luminescente che gli brillava sulla fronte lentigginosa.
Quello era il marchio dei graziati, dei benedetti, dei vincitori. Quello per cui lui non era stato reputato degno.
 
«Come hai fatto ad ottenerlo?» domandò a voce bassa. Perché l’idea di Úranus che combatteva a mani nude gli era così aliena da risultare impossibile.
 
Come ha fatto lui a vincere la gara e io ad essere sconfitto?
 
Úranus deglutì, qualcosa sul suo volto parlava di vergogna, di disapprovazione per il suo stesso status, come se credesse di non meritarselo.
 
«Siamo qui perché siamo venuti a cercarti. Temevamo fossi in difficoltà, da solo a combattere per difendere la tua vita e quella di Lea e Jonas, ma a quanto pare, fortunatamente, è solo la tua vittoria quella che hai perduto. Ed Úranus ha ottenuto la benedizione delle guardie dell’Ade perché ha seguito i miei passi senza mai intralciarmi o complicare la nostra delicata situazione.»
Un brivido gelido percorse la pelle del semidio, mentre quella voce dolce si tingeva lentamente di soddisfazione, di goduria, di tanto orgoglio da sfiorare la superbia.
Perché lui, di cui tanto si era preso gioco, mettendone in dubbio le capacità, sminuendone la virilità e la forza, era riuscito a sconfiggere il suo nemico, riuscendo nel mentre anche a proteggere un compagno – un compagno problematico che avrebbe potuto causare una catastrofe se solo si fosse sentito troppo minacciato – e a trovarne un altro.
Nathan alzò lentamente lo sguardo, improvvisamente conscio di avere il capo poggiato sulle gambe dell’altro, che probabilmente lo aveva anche fatto rinvenire con la sua magia.
Dall’altro, bello e spietato come un angelo vendicatore, come il suo stesso padre, Cicno lo guardava con la soddisfazione con cui i vincitori guardano i vinti che avevano osato sfidarli e sbeffeggiarli.
 
Un dannato che per secoli non ha conosciuto che dolore e sofferenza che supera un beato che ha sempre avuto la fortuna di potersi tenere in allenamento.
 
La sconfitta bruciò ancora più forte.
 
«Come diceva il nostro caro amico Cade: Ben svegliato, bell’ addormentato, dormito bene?»
 
Il ghigno che gli regalò su accecante e rovente come il sole che si abbatteva nella Valley.
Un figlio di Apollo era riuscito in ciò in cui aveva fallito un figlio di Ares.
 

La sconfitta bruciava due volte ed aveva il sapore dell’umiliazione.



 
*


 
Philip Reed si rivelò essere un uomo estremamente pacato e gentile.
A voler essere sinceri, Jonas non sapeva cosa si fosse aspettato dall’uomo, anche perché non aveva mai messo in conto la possibilità di incontrarlo.
Quel momento però l’aveva spinto a riflettere su dove potevano trovarsi i parenti dei suoi compagni. Fu la prima volta che si domandò anche se sua madre o i suoi nonni, o i suoi amici e conoscenti fossero presenti alla Death Race, se avessero deciso di partecipare o meno.
Aveva sempre dato per scontato che almeno le donne della sua famiglia fossero finire ai Campi Elisi. Per suo nonno non aveva avuto tanta speranza perché sapeva quali erano le sue opinioni politiche, chi aveva appoggiato negli anni, e se quell’Inferno somigliava anche solo un po’ a quello dei cristiani, suo nonno aveva tradito patria e benefattori, probabilmente.
Ma la gara era stata aperta a tutti, che ci fosse anche lui tra i partecipanti? Che ci fosse la sua intera famiglia? O forse, come avevano fatto molti, erano rinati?
Era perfettamente consapevole che quello non fosse il momento migliore per farsi quel genere di domande, ma Jonas ormai aveva fatto l’abitudine al suo schifoso tempismo per ogni cosa della sua vita. O nella sua morte. O in entrambe in effetti.
Stavano camminando in mezzo alla battaglia come se non vi fosse nessuno sul quel campo oltre a loro. La zona franca che l’uomo portava con sé sembrava essere del raggio perfetto della luce crepuscolare dell’Ade, come la ruota di un’enorme gonna da dama seicentesca che impediva alle altre anime di avvicinarsi.
Jonas osservò con apprensione tutti quei corpi scontrarsi tra di loro senza mai entrare in quel cerchio d’interdizione che li proteggeva più di quanto non avrebbero mai potuto far da soli, ma che non gli impediva ugualmente di saltare sul posto o muoversi spaventato ogni qual volta qualcuno gli si facesse troppo vicino.
Si strinse ancora di più a Lea, aggrappandosi alla sua mano quando la donna gli prese la sua con gentilezza, passandogli un braccio attorno alle spalle e tirandoselo davanti.
Lanciava sguardi attenti e quasi minacciosi ad ogni anima, ad ogni guardia, senza mai distogliere per troppo tempo l’attenzione dall’americano.
Era il padre di Eliza, su questo non c’era alcun dubbio come lui stesso aveva confermato sorpreso, ma non significava nulla, non per lei.
Avrebbe voluto potersi fidare, farlo ciecamente proprio per via del legame di sangue che legavano l’uomo ed una delle loro compagne, ma Lea non poteva abbassare la guardia, non quando c’era la vita di altri in ballo, non quando c’era un bambino con lei, non quando quella coincidenza le pesava addosso come la canna di un fucile puntata alla testa.
Quante possibilità c’erano che tra tutti i concorrenti, in un luogo così vasto, Philip Reed, padre di Elizabeth Reed, trovasse proprio loro due? Una persona educata, tranquilla, dal volto familiare ed il comportamento gentile, come quello che si riservava ai più piccoli o alle persone spaventate, deboli, com’era possibile che una persona del genere, incontrasse proprio due come loro? Due anime che non erano in grado di difendersi da sole, spaventate anche, disperse, separate in modo brutale dai loro compagni, facili bersagli di cui uno probabilmente impossibilitato ad oltrepassare le Mura Bianche senza aver sconfitto una guardia?
Era tutto toppo perfetto, troppo comodo.

Lo sospettavamo, avevamo già capito che le prove stavano spingendo sempre di più solo i semidei a rimanere in gara, ma questo non è un po’ troppo palese?
 
Guardò di traverso il volto di Jonas, per scorgere qualunque segno di sconforto che non fosse l’ansia e la paura che non li avevano mai abbandonati.
Era sempre stato così piccolo? O Lea lo vedeva finalmente per ciò che era solo in quel momento? Fino ad allora era sempre stata palese la sua stazza, così magra ed acerba in confronto all’altezza di Úranus, alla propria, a confronto con il fisico compatto di Cade, quello allenato di Eliza, quello piazzato di Nathan. Era stata palese anche la fisionomia completamente differente da quella di Cicno, una statua greca che camminava, come invece era stata ovvia la similitudine con la figura minuta di Jane. Ma ora, che c’era solo lei a dividerlo dal pericolo, ora che non c’era più nessuno che avrebbe potuto fargli da scudo, nessuno per cui non sorprendersi della palese differenza di corporatura, Lea lo vedeva ancora più piccolo.
Era ridicolo, le era servito vederlo lontano da tutti per rendersi conto di quanto fosse effettivamente null’altro che un bambino all’iniziò della sua crescita, del percorso per diventare adulto, eppure ora pesava così tanto quella semplice constatazione.
La mano che teneva sulla spalla del ragazzino si strinse quasi involontariamente, stupendosi della sua magrezza, della sensazione dell’osso che subito premeva sul palmo, oltre il sottile strato di pelle.
Strinse i denti e deglutì, ammonendosi da sola per aver anche solo formulato quel genere di pensieri: Jonas era un figlio degli Dei esattamente come lo era lei, come lo erano i loro compagni, e se anche la sua età poteva spingerla a provare quel senso di protezione verso di lui, quasi materno, doveva ricordarsi che non era davvero un bambino, era capace di fare le sue scelte e, Lea lo sapeva, sarebbe stato capace anche di tirarsi fuori dai guai da solo, di combattere per la sua vita.
O almeno lo sperava con tutta sé stessa.

È fuggito una volta dai problemi, sono certa che non lo farà di nuovo.
 
Forse la sua era solo utopia, forse cercava solo di vedere il lato migliore di ogni persona, di ogni situazione, di vedere sempre la luce anche nel buio, ma voleva davvero credere che nel momento in cui si sarebbero dovuti dividere anche il suo piccolo amico sarebbe stato in grado di vendere cara la pelle, di dimostrare a tutti loro quanto valesse.
Lo guardò di nuovo e gli strofinò la mano sul braccio, in un segno di conforto.
Jonas puntò subito gli occhi nei suoi,  incespicando sui suoi stessi passi, stringendo la mano sinistra a quella di Lea per non sbilanciarsi.
 
«Su, manca poco.» Gli mormorò lei supportandolo.
«La signorina ha ragione, siamo quasi arrivati giovanotto.»
Il sergente Reed voltò il capo scrutandoli da oltre la spalla, facendo un cenno d’approvazione con la testa prima di tornare a guardare dritto davanti a sé, sicuro come doveva esserlo stato a vivo.
«Potrete aspettare i vostri compagni lì, oltre il confine dei Campi Elisi sarete al sicuro da tutto e tutti.»
Lea annuì. «Per il momento.»
«Per il momento, sì. Non mi è dato sapere cosa gli Dei hanno in serbo per voi, ma mi auguro che non comporti la distruzione dei Campi stessi, o dovremmo rincontrarci di nuovo dalla parte opposta del campo di battaglia.»
Lo disse quasi gli dispiacesse l’idea di doverli affrontare seriamente e Jonas non dubitò che dovesse essere così.
Allungò la mano per torcere il braccialetto di stoffa che portava all’altro polso, indeciso se parlare o meno, cercando lo sguardo di Lea per aver un lasciapassare, perché gli dicesse che un minimo di conversazione non fosse nulla di grave.
Jonas voleva sapere, voleva chiedere a quell’uomo apparentemente così disponibile quante più informazioni possibili.
Quando non riuscì nel suo intento espirò con forza dal naso, seccato da quella situazione.
 
Al diavolo, al massimo mi dirà di chiudere la bocca.
 
«Lei- poi lei tornerà qui in mezzo? A cercare Eliza?»  domandò cauto.
La presa sul suo braccio si serrò per un attimo, poi rilassandosi. Un avvertimento a stare attento, a dosare ogni parola.
Il sergente annuì. «Il mio intento era proprio quello di ritrovare mia figlia, in effetti. I numeri non sarebbero stati dalla mia parte, ma sentivo di dover provare anche se non avevo la certezza che fosse riuscita ad arrivare fino a qui. Ora so che le mie speranze non sono vane.»
A quelle parole Lea alzò un sopracciglio. «Saprebbe come trovarla? Riuscirebbe a rintracciarla tra tutti i concorrenti?»
 
Come ha fatto con noi?
 
«Posso provare. Non sono onnisciente e non ho poteri straordinari come voi, ma anche noi guardie dell’Ade abbiamo i nostri metodi.»
«Come avete fatto a trovare noi? Tra tutti quanti…» chiese ancora lasciando la frase in sospeso.
Reed rallentò il passo fino a fermarsi, davanti a loro un gruppo di almeno venti anime combattevano le une contro le altre menando colpi senza curarsi di chi fosse a riceverli.
L’uomo fece una smorfia di pura disapprovazione che i due ragazzi non poterono scorgere, ma videro chiaramente il modo in cui i combattenti si dispersero, come se al centro esatto della mischia vi fosse stata un’esplosione, non appena il sergente mosse la mano di fronte a sé.
Si voltò verso di loro accennando un sorriso tirato, toccandosi il cappello in segno di scuse. «Disperdere le anime è un qualcosa che si impara subito, quando si serve il Divino Ade.»
«E avete anche un localizzatore di anime?» domandò ironico Jonas battendo le palpebre. Diamine, lui non riusciva a domare i suoi poteri, quelli che tecnicamente gli erano innati, e quell’uomo “disperdeva le anime” perché era una cosa utile quando lavoravi per Ade.
Se questa non era ingiustizia, Jonas non sapeva proprio cosa fosse.
 
«In realtà, no. So di cosa state parlando perché mi sono state mostrate le nuove tecnologie del mondo moderno, ma malgrado sappia cosa sia un localizzatore, temo di dovervi deludere, ragazzo, ne siamo sprovvisti. Per la maggioranza.»
«Allora come avete fatto a trovarci, a trovare proprio noi.» insistette il ragazzino, «Proprio i compagni di sua figlia, non le pare assurdo?»
«Jonas.» lo chiamò piano Lea.
Ma l’altro la ignorò, non stava dicendo nulla di male, non si stava ponendo con maleducazione all’uomo, non lo stava insultando e non lo stava attaccando, voleva solo sapere perché, dopo essersi perso i suoi amici, fosse giunto proprio il padre di uno di essi a salvarlo, senza sfidarlo, senza mettere in dubbio quanto e se fosse degno di entrare nei Campi Elisi. Perché era tutto così facile quando gli altri erano invece sicuramente in situazioni difficili e pericolose. Ma soprattutto voleva sapere se quell’uomo avrebbe potuto ritrovare anche gli altri, riportarli da loro, al sicuro, salvi oltre la linea del paradiso.
Jonas era stanco, la tenzione che l’aveva animato fino a quel momento si stava insinuando fin dentro le ossa che non aveva più, facendogli formicolare la pelle, contrarre i muscoli. Ogni suono lo faceva saltare, ogni movimento veloce al limitare del suo campo visivo era un oggetto pronto a colpirlo. Il braccio di Lea attorno alle sue spalle solo l’ennesimo rimando al fatto che se avesse avuto problemi ad entrare nei Campi avrebbe dato problemi anche a lei perché era sicuro come poche volte in vita sua che la giovane non l’avrebbe abbandonato, neanche se questo significava attendere oltre il confine. E a nulla valeva il cerchio protettivo che il Sergente Reed emanava, Jonas si sentiva come un uccellino sotto ad una campana di vetro: certo che questa lo schermasse dal contatto con il mondo esterno ma non che gli impedisse di osservarlo nella sua cruda realtà.
Senza contare che sotto ogni campana, prima o poi, l’ossigeno finisce.

L’uomo stette in silenzio, pensoso. Avevano ripreso a camminare con un passo più svelto, ora più vicini gli uni agli altri rispetto a quanto non lo fossero stati in precedenza.
 
«Temo di non potervi dare una risposta gradita. Un mio compagno mi ha indirizzato verso di voi, dicendomi che avrei trovato due anime indifese e in difficoltà. Cercavo mia figlia in quel momento ma lui mi spronò ad andare, a fare la cosa giusta.» la voce si fece più bassa, quasi incerta, come se lo stesso Reed si stesse ponendo delle domande a proposito. «Mi ha detto che forse mi avrebbe avvicinato di più ad Eliza, una giusta azione per un giusto tornaconto.» mormorò più a sé stesso che ai due.
Jonas guardò accigliato Lea, confusa tanto quanto lui.
Un giusto tornaconto? Di cosa stava parlando?
Cercando di trovare le parole giuste per chiedere altro, Lea sussultò quando si rese conto di quanto le mura fossero improvvisamente più vicine.
Anche Jonas le guardò allibito, già dimentico delle parole misteriose dette dall’uomo, spazzate via dalla rinnovata e crescente paura nel trovarsi letteralmente alle porte di un luogo che, per decisione superiore, gli sarebbe dovuto essere precluso per l’eternità.
«Ma quando diavolo- ?»
«La Foschia, deve essercene ancora moltissima nell’aria. Confonde la mente, lo sai, è ciò che nasconde il mondo divino da quello mortale. Deve aver nascosto anche le mura a tutti noi.»
«Se non si sa con certezza quanto manca alla meta è più facile arrendersi.» affermò il sergente, dritto e sicuro com’era stato fino a quel momento.
L’uomo rallentò il passo, scostandosi di lato per poterli affiancare. «Ma noi siamo vicini, venite.»
Ai piedi delle Bianche Mura non vi erano così tante anime, constatò Jonas voltandosi per scrutare cosa si erano lasciati alle spalle. Ciò che riuscì a vedere però furono solo una serie indefinita di figure astrette, ombre che si allungavano e si accartocciavano su sé stesse, piegandosi e muovendosi come alberi in una tempesta.
Un suono strozzato gli uscì dalle labbra: come poteva tutta la zona circostante essere mutata in così breve tempo? Erano nel mezzo della battaglia, erano davanti ad un gruppo di anime, poi tra mille altre ed ora-
 
Vuoto.
 
«La Foschia. Temo sia la risposta ad ogni domanda, ragazzo.» allungò la mano davanti a sé indicando un punto indefinito che andò ad addensarsi lentamente nei contorni della porta più grande che Jonas avesse mai visto.
La fissò a bocca aperta, battendo le palpebre nel tentativo di schiarire quella visione il più velocemente possibile.
«È enor- rme.» balbettò inciampicando sulla ‘r’.
Lea piegò le labbra in un sorriso tirato. «Perché non hai visto quella centrale.»
Il ragazzino la guardò con la stessa espressione attonita, seguendo poi con attenzione ciò a cui il sergente continuava a puntare.
Se non glielo avessero indicato, Jonas non l’avrebbe mai visto, non si sarebbe mai reso conto che dopo la porta gigantesca quel chilometro di muro che reggeva la cornice di pietra finiva in un arco ancora più grande. Se più di una nave transoceanica poteva entrare nella prima porta, nella seconda Jonas era sicuro ci sarebbe potuto entrare anche il monte più alto di tutta la Germania. Se la prima era enorme la seconda era mastodontica.
E lui sarebbe dovuto entrare lì.
Come potevano, le anime beate, varcare con tranquillità quell’uscio? Come potevano non sentirsi schiacciate da così tanta grandezza, da quell’imponente sfoggio di potere? Le porte parevano bocche fameliche pronte a fagocitare ogni povera anima finita in quell’inferno, l’entrata del palazzo di un gigante che avrebbe potuto calpestarli come formiche.
Era forse quella la vera stazza degli Dei? Quella che le altre anime avevano chiamato “vera forma”? Erano davvero così grandi? E gli umani erano davvero così piccoli?»

Non siamo neanche formiche, né sabbia, siamo polvere. Polvere e cenere.
 
L’aria gli si fermò in gola, bruciando nei polmoni, facendogli lacrimare gli occhi dallo sforzo, dalla paura, dal terrore.
Doveva davvero entrare lì dentro?
Era davvero quello il luogo dell’eterno riposo dei giusti? Così marziale, così solenne.
 
I Cancelli Neri incutevano meno paura. Com’è possibile che l’idea di dover rientrare lì ora non mi sembri più spaventosa del dover entrare negli Elisi?
 
Non poteva entrare lì, non poteva proprio. Era impossibile che lo lasciassero passare, un’anima mal ridotta come la sua, macchiata di peccati, tradimento, abbandono, codardia… era un codardo, era un codardo, come poteva trovare il coraggio di varcare quelle porte?
 
Non posso. Non mi faranno mai entrare. Non posso farlo.
 
«Lea…» iniziò piano, «io non credo di-»
 

 
«Oh, quindi sarebbero questi i famosi Campi Elisi? Ammetto di averli sempre immaginati più… candidi
 
 
Si girarono di scatto, il solo suono di quella voce così famigliare li fece muovere come attratti da un magnete. E pensare che non era neanche quella più conosciuta.
Lea chiuse gli occhi una preghiera silenziosa, mandata a suo padre, all’Olimpo, a Padre Eterno e anche alla Vergine. Li avevano ritrovati. Non tutti ancora, ma era già qualcosa.
Quando riaprì le palpebre però, osservando bene i nuovi arrivati, una secchiata d’acqua gelida gli scivolò addosso.
Cicno camminava tranquillo verso di loro, senza neanche guardarli davvero. Comprensibilmente tutta la sua attenzione era catalizzata sulle Mura Bianche, sulle grandi porte, che lasciavano scorgere l’interno di quello che non era altro che il paradiso, la terra promessa per tutte le anime meritevoli, dove avrebbero trovato la pace eterna. Ma Cicno era stato destinato ad altri lidi, recluso in luoghi più oscuri, e fu come un flash nella mente di Lea quando si ricordò che il giovane era morto mille anni prima della venuta di Cristo, mille anni passati all’inferno, mille anni da sommare agli altri mille, quasi duemila, per arrivare all’anno della morte di Nathan.
 
Nathan.
 
Il soldato camminava lentamente dietro il greco, zoppicando, l’espressione tesa, furente, ma ben diversa da quella che gli aveva visto sfoggiare durante i suoi litigi. No, sembrava molto più… arrabbiato con sé stesso?
Non lo sapeva, non le sarebbe potuto interessare di meno il motivo del suo stupido broncio da moccioso insoddisfatto. Quello che le importava era la sua andatura claudicante, il modo in cui Úranus – gli Dei siano benedetti, tutto intero e senza neanche un graffio – teneva un braccio teso vicino a lui e l’altro alle sue spalle, come se avesse paura che potesse crollare da un momento all’altro.
Úranus con le sopracciglia aggrottate ed un macchia, come un livido luminoso al centro della sua fronte. La stessa macchia che sfoggiava Cicno sotto i riccioli morbidi. Una macchia che non riusciva ad intravedere sotto la frangia bionda di Nathan, neanche ora che era più vicina.
Lea non se ne rese conto, non si accorse d’essersi messa a correre, d’aver proteso le braccia verso il figlio di Ares e d’averlo stretto a sé anche contro le proteste mezze tossite del giovane. Lo costrinse a sedersi a terra, senza neanche parlargli, scostandogli i capelli, tastandogli delicatamente le braccia, la gamba su cui faceva fatica a poggiarsi, le costole in cerca di qualche osso rotto. Gli fece abbassare la testa, notando dei rivoli rossastri sul collo e masticò un paio d’imprecazioni mentre esaminava la ferita sulla nuca.
 
«Che diamine ti è successo? Come sei riuscito a farti conciare così? Dei dell’Olimpo, ma ti hanno preso a mazzate? Úranus! Tu non hai nulla, vero? Che gli è successo?» cominciò a chiedere veloce.
Posò le mani sullo stinco sinistro e iniziò a recitare un canto curativo, veloce e concentrata, attenta all’incantesimo quanto all’espressione sul viso di Nathan.
Úranus deglutì. «Da quel che so le sue ferite sono dovute ad uno scontro con un guardiano dell’Ade. È stato colpito alla nuca da una pistola.» rispose accucciandosi di fianco ai compagni.
Lea digrignò i denti, passando poi al braccio. «Cos’era? Un soldato?»
«Un’amazzone.» sibilò Nathan serrando la mascella quando la figlia di Apollo strinse troppo le mani attorno al grande livido che si stava colorando sulla pelle. «E non c’è bisogno che t’agiti così tanto, mi serve solo un attimo per riprendere fiato e poi-»
«Un’amazzone con una pistola? Sei serio?» domandò lei guardando Úranus ad occhi sgranati.
L’altro scosse la testa. «No, c’era un uomo con una pistola, era una guardia anche lui, vegliava su Nathan quando siamo arrivati. Shilon Yu è stato la nostra guida, non so se saremmo riusciti a ritrovarlo senza di lui.»
«Bene, almeno era una persona fidata di Shilon Yu. Sarei stata felice di rivederlo.»
«Ti porta i suoi omaggi.»
«Te ne sono grata. Tu stai bene?»
«IO sto bene. Non ho bisogno di cure di nessun tipo!» sbottò ostinato Nathan.
Lea lo ignorò completamente.
«Sì, non ho nessuna ferita, sono forse solo un po’ sporco.»
«Come hai fatto ad arrivare sano e salvo fin qui? Non hai combattuto?»
A quello Úranus si bloccò. Poi alzò lentamente lo sguardo verso le porte, oltre le spalle di Lea.
«No. Io non ho dovuto alzare neanche un dito. È stato Cicno a proteggermi e poi a proteggere entrambi sino a qui.»
 

Jonas rimase fermo, senza neanche spostare lo sguardo su Lea e sullo scatto che aveva fatto verso un Nathan decisamente più ammaccato di quanto non lo avesse mai visto per tutta la gara.
Sembrava quasi fosse una magia e a questo punto Jonas non dubitava fosse veramente così, ma ogni volta che il greco era nei paraggi, ogni volta che entrava in scena, non riusciva a far a meno di catalizzare tutta la sua attenzione su di lui.
Cicno lo guardava sereno, le spalle rilassate ma dritte, lo sguardo calmo e limpido.
Non c’era nulla che indicasse affaticamento, stanchezza, dolore nel suo aspetto, nel suo portamento. L’unica cosa che stonava era una striscia rossastra sulla coscia nuda, della perfetta ampiezza della lama di uno dei suoi pugnali. Pugnali che riposavano nelle loro cinghie, sporchi di sangue.
Nathan era ferito, Úranus sembrava solo impolverato, sporco e sudaticcio. Cicno era perfetto come lo erano le statue candide nei musei.
Che i semidei dell’antichità fossero diversi, avessero doti superiori rispetto a tutti coloro che li avevano seguiti?
Com’era possibile che Nathan, Nathan per l’amor del cielo, fosse in quelle condizioni e Cicno risplendesse di luce propria?
Come aveva fatto a giungere sino alle porte, con due compagni impossibilitati a combattere, benedetto se il segno sulla sua fronte significava qualcosa, senza riportare nessun danno?
Come aveva fatto a trovare la strada giusta per le porte, per loro due, quando c’erano muri di anime a dividerli, quando si sarebbero potuti trovare in un qualsiasi punto delle monolitiche entrate?
 
Chi diamine sei? Sei davvero così potente? Perché in questo caso, allora, nessuno di noi ha la minima speranza contro di te.
 
Cicno però gli sorrideva, gentile e magnanimo come sempre, quella madonna rinascimentale dall’espressione quasi materna che emanava sicurezza, benessere.
Un alone caldo che si liberava dal centro del suo petto, aprendosi in onde concentriche come quelle che si formavano sull’acqua piatta quando vi si lanciava dentro un sasso.
Lo sfiorarono con delicatezza, dissipando l’ansia e i pensieri negativi che l’avevano attanagliato davanti alla maestosità delle porte, alla consapevolezza che quello non era il luogo adatto a lui, non quello che gli era stato designato, non quello che si meritava. E, probabilmente, tra tutti quanti, Cicno era quello che poteva capirlo meglio, quello che sapeva, che sapeva senza bisogno di spiegazione, ad un livello più intimo e profondo di quanto anche Jane o Cade avrebbero potuto fare.
Perché esattamente come lui, anche Cicno aveva agognato le Mura Bianche, anche lui le aveva sognate e maledette in egual misura.
Gli ci volle un attimo per capire cosa stesse succedendo, al fondo del suo campo visivo, in secondo piano, oltre il figlio di Apollo, Lea stava curando le ferite di Nathan esattamente come Cicno stava curando la sua ansia, le sue paura.
 
«Sei illeso vedo, ne sono lieto.» parlò gentilmente, avvicinandosi ancora di più a lui.
Jonas deglutì. «Abbiamo avuto un aiuto. Dopo esserci separati da Nathan abbiamo incontrato il padre di Eliza. So che sembra assurdo ma è la verità. Non so come-»
«Il Fato è ignoto anche agli Dei, ma se la sua volontà era quella di farvi incontrare il padre di Eliza allora anche nel caso più impossibile sareste riusciti ad incontrarlo.»
«Sì, credo di sì…» mormorò. «Tu- tu neanche sei ferito, vero? Hai del sangue sulla gamba ma non vedo tagli.» continuò esaminando con attenzione la coscia liscia e priva di sfregi.
Cicno annuì. «Non sono stato mai ferito, no. Dopo millenni di torture è ben altro ciò che può lacerare le mie carni. Il sangue che vedi non è mio, ma tributo di un nemico.»
«Oh. Ah, certo. I pugnali anche sono sporchi, hai- devi essere davvero molto forte se non sono neanche riusciti a colpirti. Comunque ti saresti anche potuto-» si bloccò. Guardò Cicno aggrottando le sopracciglia, poi si sporse oltre di lui per guardare gli altri. Úranus era illeso ma Nathan aveva evidente bisogno di cure mediche.
Cure che anche Cicno avrebbe potuto dargli, così come aveva fatto con Cade, così come aveva fatto con lui stesso.
«Perché non hai curato anche Nathan?» domandò d’improvviso, freddo.
Il greco però non si scompose, anzi, sbuffò aprendosi in un ghignetto divertito.
«Perché il nostro grande eroe qui non ha voluto.» disse ad alta voce aprendo le braccia in un gesto teatrale. «Il suo orgoglio è rimasto talmente ferito dalla sconfitta subita che ha creduto giusto iniziare ad espiare le sue colpe soffrendo inutilmente.» spiegò voltando in fine la testa verso gli altri compagni.
Lea fissò il figlio di Ares con gli occhi socchiusi, quasi stesse combattendo tra l’idea di prenderlo a sberle o finire di curarlo.
«Tu cosa?» chiese in un sibilo alterato.
Nathan grugnì. «Non ho bisogno di cure. Né delle tue, né di quelle della principessa, lì.»
Stava palesemente concentrando il discorso sul fattore “cura”, cercando di evitare ampliamente la parte della “sconfitta”, e Cicno se ne accorse perfettamente. Sorrise.
«La principessa ha metaforicamente tenuto intatte le tue possibilità di avere un erede fino a qui e anche quelle di non donare il tuo corpo a terzi. Sono sicuro che sia te che Cade trovereste un modo molto più conciso e volgare per dirlo, ma ci accontenteremo dei miei “paroloni da professorone”, giusto?» disse marcando sulle ultime parole, chiaramente dettegli in precedenza dall’altro.
Jonas batté le palpebre guardando Nathan scettico: aveva seriamente rifiutato di farsi curare da Cicno per puro orgoglio maschile? Per evitare di dovergli, oltre la salvezza, anche la salute?
Storse il naso per nulla impressionato.
«La versione concisa e volgare è “la principessa ti ha metaforicamente salvato il culo e evitato che qualcuno ti fottesse”.»
Cicno ci pensò su per un attimo, valutando la frase mentre Lea ed Úranus lo guardavano quasi sconcertati da quell’improvviso uso di turpiloquio e Nathan bestemmiava.
«Con la storia dell’erede mi riferivo più ai suoi testicoli che al suo fondoschiena, ma presumo abbia comunque senso.»
«”Ti ho salvato le palle?”» propose allora correggendo il tiro.
Cicno annuì soddisfatto. «Ti ho metaforicamente salvato le palle. Più volte, aggiungerei.»
Nathan digrignò i denti come l’animale che era. «Non avevo alcun bisogno di farmi parare il culo da nessuno!»
«Disse quello che è stato sconfitto.» ritorse Cicno con semplicità.
Un velo freddo cadde sui ragazzi, il rumore delle battaglie lontano ed attutito dagli strati di Foschia che ancora permeavano l’area.
Poi il rumore secco di uno schiaffo e Nathan imprecò di nuovo portandosi una mano alle testa.
«Aio! Cazzo!»
«TU COSA?»
«Non l’ha già fatta questa domanda?»
«Sì, ma prima sul perché non si fosse lasciato curare da me.»
«Giusto.»
«Ma che cazzo vuoi! Non è che l’ho fatto apposta a- E CHE CAZZO! MA TI STAI FERMA!»
«UNA COSA! UNA COSA SOLA DOVEVI FARE, WRIGHT! SOLO UNA COSA! VINCERE LA DANNATA PROVA! DOVEVI SOLO COMBATTERE E SEI ANCHE QUELLO PIU’ BRAVO DI TUTTI A FARLO! IN TEORIA! ERI SOLO! DOVEVI COMBATTERE SOLO PER TE! E ORA? ORA CHE FACCIAMO!»
«SENTI EH! ORA NON CAGARE IL CAZZO ANCHE TU!»
«SI INVECE CHE CAGO IL CAZZO ANCHE IO!»
«Per favore, non litigate ora.» provò Úranus inutilmente.
 
«Uh, sta imprecando anche Lea…» mormorò Jonas incassando la testa nelle spalle.
«Non è piacevole quando due figure genitoriali litigano, posso capirlo.» annuì Cicno dando le spalle ai due e tornando a guardare le mura.
«Ehi, non sono le mie figure genitoriali! Ce l’ho avuta una madre e, in un qualche modo, anche un padre. Avevo mio nonno.» cercò di difendersi senza un reale motivo.
A Cicno non parve minimamente interessare, si strinse in sé e poi tornò alla sua esaminazione. «Spero solo la smettano presto di urlarsi contro, non so se il raggio di luce sia attratto solo dalle anime o da qualche sentimento in particolare e con Nathan ridotto in quello stato, se attirasse l’attenzione di una guardia dell’Ade, non avrebbe possibilità di vittoria.»
Jonas lo guardò confuso. «Ci siamo noi qui, no? Per aiutarlo dico.»
Ma l’altro non ne sembrava così sicuro. «Io l’ho protetto fino a qui, ma abbiamo incontrato solo anime partecipanti. Il simbolo che brilla sulla mia fronte e su quella di Úranus è stato sufficiente per tenere lontani i veri soldati, ma se uno di loro dovesse avvicinarsi e sfidare l’unica anima senza benedizione qui presente, non so quanto ci sarà permesso intervenire.»
«Ma-»


«Il tuo compagno ha ragione. Se uno dei miei commilitoni dovesse decidere di sfidare solo il giovane ferito nessuno di voi potrebbe intervenire. Soprattutto in virtù della benedizione.»

Jonas saltò sul posto, spaventato. Si era completamente dimenticato della presenza del Sergente Reed, malgrado fosse stato proprio lui a riferire a Cicno d’averlo incontrato solo pochi minuti prima. Evidentemente, proprio come la figlia, sapeva essere più silenzioso di un gatto quando voleva.
Il figlio di Apollo osservò l’uomo in blusa scura come avrebbe fatto con un oggetto bizzarro, inclinando la testa ed esaminandolo con attenzione.
«Somigliate molto a vostra figlia, signore. O forse sarebbe più corretto dire che lei vi rassomiglia in modo incredibile.»
L’uomo chinò leggermente la testa in cenno d’assenso.
«Philip Reed, al servizio del divino Ade.»
«Cicno di Tebe, figlio del maledetto Sole.»
«Mi spiace informarvi che non potrete aiutare i vostri compagni in caso di duello diretto. Ma se lo sfidante non dovesse specificare condizioni, sarete allora libero di intervenire.»
Cicno annuì. «Anche ve ne fosse la possibilità, non credo Nathan accetterebbe il mio aiuto o quello di chiunque altro.»
Jonas sbuffò. «Sarebbe da sciocchi.»
«Sarebbe un fatto d’onore e nessuno dovrebbe porsi tra un uomo e la redenzione del suo nome e di quello della sua famiglia.»
Quelle parole lo sorpresero come mai avrebbe creduto. Non tanto per il loro senso quando per via della persona che le aveva pronunciate.
Cicno teneva la mascella chiusa senza serrarla, ma era evidente nella piega dura delle sue labbra quanto quell’argomento lo toccasse da vicino. Forse più di quanto non avrebbe amato ammettere o far trapelare.
Il sergente Reed annuì concorde e poi, con un gesto fluido, estrasse un vecchio orologio da taschino dall’interno della giubba e lo consultò rapidamente.
«Temo che il mio tempo qui sia scaduto, il lavoro mi chiama. Ma vi pregherei di accordarmi un favore.»
«Parlate pure, saremo felici di esaudire il desiderio del padre di una compagna.»
«Vi sarei grato se poteste dire a mia figlia di aspettarmi all’entrata. Al gabbiotto per la precisione. Lì troverete Shilon Yu, che da quel che ho potuto capire avete già incontrato, e lui saprà come trovarmi. Ho qualcosa per mia figlia e vorrei essere io stesso a consegnarglielo.»
Cicno sorrise gentile e chinò il capo in cenno di assenso. «Nulla di più semplice, signore. Avete la nostra parola.»
«E tanto mi basta, giovane semidio, tanto mi basta.» si rimise il cappello e lanciò uno sguardo ai tre ragazzi ancora a terra, intenti a litigare. «Portate i miei saluti anche ai vostri compagni e, per l’amore di Dio, fateli tacere prima che attirino le arpie.»
Con questo rivolse loro un rigido cenno militare e s’incamminò sparendo tra spire di Foschia.
Jonas rimase fermo sul posto. Lo sguardo crucciato puntato dove l’uomo era appena scomparso, incapace di formulare anche il più semplice saluto, la più banale delle rassicurazione. Se non ci fosse stato Cicno con lui, probabilmente si sarebbe anche dimenticato di avvertire Eliza e la donna non avrebbe mai più rivisto suo padre. Ma il fatto era che la sua mente era rimasta incagliata su quell’ultima parola.
«Le cosa?»
 
«Avete sentito il padre di Eliza? Se non smettete immediatamente di strepitare come delle arpie queste vi scambieranno per loro compagne e verranno a prendervi!» disse ad alta voce Cicno voltandosi verso i ragazzi, le mani sui fianchi come un genitore intendo a sgridare i figli.
Sembrava quasi la versione greca antica de “l’uomo nero”, pensò con leggerezza Jonas, rassicurato dalla tranquillità con cui Cicno aveva accolto quella notizia.
Poi sgranò gli occhi.
 
«Le cosa?!»


 
*


 
«Dice destra.»
«Non dice destra.»
«Ti dico di sì.»
«Per l’ultima volta. Non indica destra e sinistra, indica un percorso.»
«E il percorso gira a des- tra!»
 
Cade si girò di fianco per menare un pugno dritto in faccia ad un’anima che gli era caracollata addosso. 
Sbuffò. «E che cazzo, sembra che ci prendano più di mira ora che prima!»
«Siamo fuori dall’attenzione delle guardie dell’Ade, non degli altri concorrenti.» ripeté per l’ennesima volta Eliza. Poi tornò a guardare l’oggetto che brillava tra le mani di Jane.
La figlia di Ecate si era impegnata come mai le aveva visto fare in tutta la gara. Sapeva che fosse in grado di fare magie di diverso genere, che quanto meno le sarebbe stato possibile farle se ne fosse stata a conoscenza, ma non l’aveva vista cimentarsi in un incantesimo “concreto” da quando aveva creato la bussola per portarli fuori dal Labirinto.
Ora, ciò che aveva creato, somigliava moltissimo ad una bussola in bolla, una base piatta larga quanto le mani giunte della giovane, una cupola trasparente a contenere un pulviscolo fine e in movimento come la polvere che passa davanti ad una lama di luce. Nella bolla i granelli si univano per formare l’immagine di un posto, il frammento del prossimo luogo a cui si sarebbero dovuti avvicinare, ciò che avrebbero dovuto vedere davanti a loro e seguire. Ad Eliza non sembrava un oggetto particolarmente comodo o funzionale, per nulla intuitivo e facile da seguire, ma stava facendo il suo lavoro e questo era ciò che contava davvero. Oltre al fatto che Jane si stesse impegnando moltissimo per tenere attivo l’incanto e, al contempo, imporre alla bolla il suo volere.
L’immagine cambiò e apparvero due uomini intenti a combattere, alla loro sinistra una donna con una divisa simile a quella di Nathan aveva appena atterrato un’altra anima in una lunga tunica bluastra.
Eliza alzò la testa, allungando il collo per individuare le anime protagoniste di quella scena e le trovò con facilità.
«Di lì!»
Cade sorrise allegro. «Te l’avevo detto che era a destra!»
«Sta zitto, pazzo rosso, mi deconcentri!»
«Certo, quando ho ragione io ti deconcentro, quando hai ragione tu puoi tranquillamente gongolare, tanto non è che perdi la traccia!»
«Ovviamente, io posso godere dei frutti della mia- dannazione!» esclamò sussultando spaventata, mentre un’esplosione tra la folla mutava repentinamente l’immagine.
«Non ti distrarre! Le anime che ci sta mostrando il tuo incantesimo sono da quella parte.» la spronò Eliza stringendosi di più a lei. Anche se mutava il percorso da seguire l’obiettivo non cambiava, dovevano ritrovare i loro compagni, giungere prima da chi ne aveva più bisogno e poi andare dagli altri.
Da sopra la sua spalla Cade si sporse un poco e poi allungò il braccio individuando a colpo sicuro la scena reale.
«Di là!»
«Ci sta portando fuori dalla mischia.» notò la mora, guardando diffidente chi li circondava, scorgendo un cavaliere a cavallo alla loro sinistra e poi, subito dopo, tre anime dalle maglie arancioni.
«Che cazzo ci fa un cavallo qui in mezzo? Non gli tagliano le zampe?» domandò Cade aggrottando le sopracciglia. «Quelli sono semidei come noi.»
Jane neanche alzò il capo ma annuì. «Ce ne sono molti, non li hai notati? Stiamo lentamente diventando solo semidei. Ne abbiamo parlato fino allo sfinimento, possibile non ascolti mai?»
«Magari l’avete fatto quando ero disperso, non mi attaccare sempre in questo modo.»
«Non ti sto attaccando!»
«Non ricominciate!» li ammonì subito Eliza, intimando loro di star zitti, specie nel momento in cui passarono vicino a qui semidei.
Li superarono in fretta ma Cade non poté far a meno di ascoltare ciò che stavano dicendo, seppur solo un frammento di conversazione.
 

«- davvero paura quel biondo. Certo che era una semidio, ma l’hai visto?»
«Sì, ma sei sicuro fosse figlio suo?»
«Ti ricordi che cazzo ha fatto il padre durante la guerra di Troia? I greci se lo ricordano bene pure da morti.»
«Cazzo- spero di non rincontrarlo. Quello è capace che t’ammazza senza che te ne accorgi.»
«Quello è capace che t’ammazza e te lo fa sentire tutto. Se è sadico solo un decimo del padre-»
 

Senza rendersene conto il rosso si ritrovò a ghignare.
Non sapeva il perché, non poteva averne la certezza, non poteva metterci la mano sul fuoco, ma qualcosa gli diceva che il biondo di cui stavano parlando quei semidei era proprio uno dei suoi biondi. Qualcuno che faceva paura, che aveva un padre sadico che aveva fatto danni durante una guerra.
Cade sorrise più ampiamente.
 
E bravo soldatino, ti sei fatto riconoscere allora, eh?
 
«Cade! Mantieni il passo, per l’Olimpo! Ci manca solo di perdere anche te!»
«Di nuovo…»
«Jane!»
«Ah! Che dolore! Elza, difendi il mio onore per me!»
 
Presto l’incantesimo li avrebbe portati via di lì, presto avrebbe rivisto i suoi compagni, si sarebbe assicurato che stessero tutti bene, specie il suo piccolo bienas, e avrebbe detto a Nathan che anche lui e le ragazze si erano fatti onore.
 
Se solo avesse saputo quanto si sbagliava.
 

 
«Io te lo dico, i figli di Apollo non vanno mai sottovalutati. Lo sanno tutti che il sole brucia senza guardare in faccia nessuno.»
 


 
*


 
Nathan non aveva voluto sentir ragioni. Non aveva bisogno d’essere curato e non aveva alcuna intenzione di rimanere fermo come un coglione a farsi medicare dalla crocerossina lì presente.
L’umiliazione per la sconfitta subita si era solo ingigantita quando aveva realizzato che Cicno ed Úranus erano invece stati graziati e sebbene quest’ultimo avesse ammesso che lui, in realtà, non aveva fatto niente, quell’affermazione era solo andata a sommarsi alla rabbia e alla vergogna che provava per sé: non solo lui, figlio di Ares, addestrato al Campo, Marines, non era riuscito a sconfiggere una singola guerriera; non solo il suo combattimento non era stato neanche reputato degno, tanto che la donna se n’era andata senza graziarlo, malgrado le regole lo permettessero. No, non bastava tutto ciò, ora doveva anche convivere con l’idea che quella cazzo di principessina degli elfi di Cicno fosse riuscito a sopravvivere al marasma di corpi e combattimenti, che l’avesse fatto senza riportare un solo danno, un misero graffio, e che nel mentre si fosse anche premurato di proteggere Úranus, che era il doppio di lui ed era ugualmente illeso.
Cicno aveva fatto un lavoro tanto ammirevole da meritarsi la benedizione anche senza aver combattuto una guardia, tanto da far sì che anche il suo compagno fosse benedetto.
E lui, il grande figlio di Ares, fottutissimo figlio della guerra, era stato sconfitto e anche malamente.
Per questo non voleva farsi medicare. Il dolore era il prezzo che doveva pagare per la sua penosa performance. Il dolore era l’unica cosa che poteva ricordargli quando reale fosse quella sconfitta, quando fosse vicina, quanto bruciasse. L’unica cosa che poteva ricordargli che non fosse solo frutto della sua immaginazione, un sogno, come tutto quello che era successo in quegli anni negli inferi.
Nathan doveva continuare a sentire il bruciore, le fitte, le pulsazioni lancinanti alla testa. Non doveva dimenticare troppo facilmente, non voleva.
Per questo Cicno l’aveva maledetto, di nuovo, all’immobilità, permettendo a lui e alla sorellastra di agire in coppia, più velocemente e in modo più efficacie. Malgrado era stato presto ben chiaro a tutti che il greco avrebbe potuto far da sé senza il minimo sforzo.
Sforzo che invece aveva preteso tutta la forza di Jonas per non scoppiare a ridergli in faccia quando, d’improvviso, alle parole del figlio di Apollo Nathan si era bloccato in ogni movimento, la posa plastica e rigida diapositiva del gesticolare irritato con cui stava cercando di scacciare Lea. Il ragazzino l’aveva guardato cadere all’indietro come una tessera del domino, preso al volo da Úranus e depositato lentamente, di nuovo, a terra.
L’aveva fissato a bocca aperta e poi aveva serrato le labbra, gli occhi socchiusi in un banale tentativo di minimizzare l’espressione di pura ilarità che tirava ogni muscolo del suo viso. Serrò gli occhi e si voltò, non voleva sbottargli a ridere davanti, era già abbastanza imbarazzante di per sé esser stati pietrificati in una posa così buffa, con un cipiglio così battagliero e la bocca aperta nel pronunciare l’ennesima bestemmia.
Si morse il labbro cercando di ridere senza far rumore ma quando si voltò di nuovo, ripresa un minimo di compostezza, si ritrovò gli occhi azzurri di Nathan, l’unica parte del corpo che ancora poteva muoversi, fissi su di lui. Jonas poteva giurare che l’altro lo stesse maledicendo a sua volta, che gli stesse intimando di non ridere e che quello non era altro che un comportamento da lurido traditore.
Jonas ghignò. «Se solo avessi smesso subito di fare i capricci, ragazzino¸ ora non saresti in punizione.»
Nathan sgranò gli occhi, allibito.
Lea invece ridacchio senza vergogna e Cicno, voltata la testa verso di lui, gli regalò un sorrisetto compiaciuto e un occhiolino d’approvazione.
Dio, quanto avrebbe riso Cade quando glielo avrebbe raccontato. Quanto avrebbe riso Jane. Quanto l’avrebbero preso per il culo entrambi. E anche Eliza probabilmente
In quel momento, mentre i due guaritori si occupavano del soldato, Jonas si ritrovò lentamente a perdere il sorriso. Dov’erano gli altri? Stavano bene? Erano feriti?
Spostò lo sguardo dai suoi compagni e lo puntò verso la nebbia, la Foschia, che ancora permeava quei luoghi.
Paradossalmente, tutti quei banchi nebbiosi, lo aiutavano a percepire il campo di guerra come finito, come un qualcosa con dei confini entro cui stare. La nebbia l’aiutava a pensare che ci fosse un limite a dove il suo sguardo poteva spingersi, che ci fosse una distanza misurabile e concreta, che le Praterie degli Asfodeli, l’Inferno, non fosse infinito ed illimitato come le precedenti prove avevano fatto creder loro.
Quegli spazzi enormi lo facevano sentire piccolo, più piccolo di quanto già non fosse, ed impotente, debole e vigliacco, lo facevano sentire sperduto come lo era stato in quella grottesca sala d’attesa, nel lungo corridoio scavato nella roccia che l’aveva condotto alla banchina del traghetto.
Piccolo, insignificante e impotente.
Come si era sentito per buona parte della sua vita.
Stare con i suoi compagni glielo aveva fatto dimenticare, ogni tanto, gli aveva dato l’illusione che ci fosse sempre qualcuno vicino a lui, pronto ad aiutarlo in tutto e per tutto. Ma ora erano di nuovo divisi e non per loro scelta. Erano lontani gli uni dagli altri, il loro miglior combattente ferito, tre di loro impossibilitati ad usare i loro poteri, una che poteva usarli solo per far del bene, altri che non potevano abusarne o il loro divin genitore se la sarebbe presa.
Era tutto così complicato, tutto così difficile. Ne sarebbe davvero valsa la pena? Correre, lottare, sopravvivere, aiutarsi, affezionarsi, per poi scontrarsi e sperare di sopraffare gli altri per tornare in superficie.
Lui e Lea avevano avuto fortuna quella volta, ma quante possibilità c’erano che un colpo del genere accadesse ancora? Che la fortuna gli avrebbe sorriso proprio quando sarebbe arrivato il momento di impugnare un’arma contro uno dei suoi amici?
 
Chi mi dice che la Fortuna preferirà me, un dannato, ad un grande eroe, ad un beato?
 
Nessuno, nessuno poteva assicurargli che tutto sarebbe finito bene.
Riabbassò lo sguardo sugli altri, Nathan era privo di ferite e iniziava lentamente a muovere il naso, le falangi. Lea lo guardava soddisfatto ed Úranus sembrava semplicemente sollevato che tutto fosse finito.
Solo Cicno lo fissava di rimando, come se sapesse – lui sapeva sempre – quando Jonas avesse pensieri più tristi, più cupi.
Era il loro legame speciale, era quel filo che li teneva l’uno ancorato all’altro, che li connetteva ad un livello più alto di quanto Jonas avrebbe mai potuto immaginare. Un legame che Cicno sapeva apparentemente sfruttare e controllare meglio di lui, vista l’improvvisa ondata di calma che gli solleticò le caviglie nude. Sembrava quasi volesse dirgli che lui era lì, pronto ad aiutarlo, ma Jonas, per quanto si fidasse sempre di più del greco, rimaneva fondamentalmente sospettoso, incapace di metter la propria vita, i propri sentimenti, nelle mani di qualcuno senza esser certo di come fosse veramente l’altro. Cicno poteva anche sembrare la persona più gentile del mondo, ma lo era davvero?
Jonas scosse il capo, stringendo lentamente la mano attorno al proprio polso iniziò poi a giocherellare con il bracciale di stoffa, pensieroso.
 
«Perché non andate a rompere il cazzo a lui? Guarda che faccia da morto ha.» sbottò d’improvviso Nathan riuscendo finalmente a mettersi seduto.
Cicno lo guardò inclinando leggermente la testa. «Ma noi siamo morti. So che per te è un ricordo più vicino rispetto ai nostri, ma il giovane Jonas ha esattamente la “faccia” che dovrebbe avere.»
Il soldato fece una smorfia. «Ma porca di quella puttana, ma ce l’avevate l’ironia nell’antica Grecia?»
«Certo che sì, per questo posso dire perfettamente che tu non ne ha neanche un briciolo.» e con questo si alzò spolverandosi le vesti, porgendo una mano ad Elena per fare lo stesso.
La ragazza rise accettando l’aiuto e quando anche Nathan, grugnendo e borbottando ingiurie, si tirò finalmente in piedi, ci fu un attimo di silenzio interrotto solo dai risolini di Lea.
 
«Certo che sei bassino per essere un ventiquattrenne.»
 
«MA PORCO ZEUS!»


 
*
 
 

Jane batté le palpebre. Era un fulmine quello che aveva appena visto?
Le immagini si stavano facendo sempre più distorte, più pallide, come se fossero filtrate da un velo di nebbia. Le anime erano sempre di meno, sulle loro fronti brillavano sempre più spesso le stesse macchie che loro stessi avevano.
Poi un improvvisa macchia luminosa e Jane si fermò di colpo, ritrovandosi Cade ed Eliza contro prima ancora di poter dir loro nulla.

«Ehi! Che c’è adesso, non capisci da che parte andare?» chiese il rosso curioso.
«Le anime si stanno lentamente disperdendo, stiamo arrivando in una zona grigia, non credo ci siano molti combattimenti, ma è sempre bene rimanere all’erta.»
«Allora? Sai dove dobbiamo andare?» continuò Cade incalzante.
Jane annuì piano. «Ho visto un fulmine.»
«Figlio di Zeus? Ce ne saranno da queste parti.» disse Eliza voltandosi a destra e sinistra alla ricerca di qualche traccia divina.
«Ho visto anche una luce improvvisa ed accecante.» mormorò quasi sperando di non farsi sentire.
Ma i suoi compagni la sentirono più che bene.
La figlia di Nike si irrigidì. «La colonna di luce? Parli del faro?»
«Del coso che mi ha guardato e puntato?»
L’altra annuì ancora. «Secondo il mio incantesimo di tracciamento dobbiamo andare da quella parte, ma-»
«Ma è anche dove si trova ora quella cosa.» concluse Eliza per lei. Sospirò. «Non credo abbiamo altre opzioni, vero?»
«No, non mi mostra nessun altro passaggio.»
«Allora dobbiamo muoverci e anche in fretta, perché significa che il Guardiano sta puntando nella stessa direzione in cui si trovano i ragazzi e se c’è davvero poca gente da quelle parti sarà difficile schivare quell’affare maledetto.»
 
Ripresero a camminare senza aggiungere altro, accelerando il passo e rimanendo ben all’erta per il più piccolo cambiamento di luce.
O per la puzza di carne bruciata.


 
*
 


«Potete smetterla di battibeccare per cinque minuti? Il padre di Eliza ha detto che ci sono le arpie e che se urliamo rischiamo ci sentano.» sibilò Jonas guardandosi attorno con ansia.
Nathan sbuffò. «E grazie al cazzo che ci sono le arpie, secondo te chi la pulisce tutta la merda che si lascerà dietro sta gara? Vestiti, corpi, buche nel terreno fatte dal fottuto occhio di Sauron.»
«Quindi era un occhio?» domandò Úranus innocentemente.
«Un cazzo di gigantesco occhio di fuoco che era il concentrato di tutto il fottutissimo potere oscuro di una specie di dio corrotto.»
«Corrotto da cosa?»
«Sono certo che il figlio di Ares potrà raccontarcelo in un altro momento. Ora dobbiamo concludere la gara e superare le porte. Una volta al sicuro oltre i confini dei Campi Elisi potrete discutere di storie fantastiche nell’attesa degli altri.» propose loro Cicno indicandogli con un ampio gesto della mano le mastodontiche entrate.
Lea però aggrottò le sopracciglia. «Non possiamo concludere la gara, dobbiamo trovare gli altri e aspettarli.»
«Non sarebbe la prima volta che qualcuno di voi finisce la sfida prima di altri. Cade aveva con sé la sfera di Úranus ed Úranus quella di Cade, quando vi ho conosciuti, ma tutti voi altri eravate già vittoriosi dalla vostra prova.»
«Ma porca puttana, ma ce la fai a parlare come mangi?»
«Non voglio sapere quali fossero le tue abitudini alimentari e la tua educazione, ma se vorrai ancora raccontarmelo in seguito potremmo farlo al sicuro, oltre le porte.»
«Ma se superiamo le porte non sappiamo se poi, in caso i ragazzi avessero bisogno d’aiuto, potremmo uscire per correre da loro.» fece notare Jonas.
«Non sappiamo neanche se potremmo passare senza una benedizione.» puntualizzò Lea.
Il greco sospirò, un respiro pesante che servì solo per aiutarlo a contenere i nervi per un po’ più di tempo.
Erano davanti alle dannate porte dei Campi Elisi, non c’era nessuna guardia che potesse fermarli, anzi, una di loro aveva anche scortato due giocatori fino ad un posto sicuro, se fossero rimasti fermi lì sarebbero stati esposti a qualunque possibile attacco, che fosse via terra o da cielo. Come potevano non capire una cosa così banale e basilare?

«Capisco i vostri dubbi, ma Nathan come soldato saprà dirvi forse meglio di me quanto rimanere fermi nello stesso punto in uno spazio aperto sia pericoloso. Specie se non tutti possono difendersi.»
«La principessa ha ragione.» disse Nathan strappando quasi un sorriso compiaciuto a Cicno, quasi. «Ma è anche vero che non sappiamo se gli altri hanno la loro cazzo di benedizione o no e che io non ne ho una. Non posso entrare negli Elisi in questo modo.»
Se avesse potuto bestemmiare suo padre e tutti i suoi famigliari l’avrebbe fatto in quel momento.
Quello stupido di un figlio di Ares non gli aveva appena detto che preferiva combattere ancora, e magari anche essere sconfitto, e mettere in pericolo tutti gli altri per poter recuperare l’orgoglio ferito. Cicno capiva perfettamente il bisogno del biondo di dimostrarsi all’altezza della situazione, specie dopo una sconfitta così cocente, e normalmente gli avrebbe anche dato ragione, ma in quel momento la sua priorità era mettere al sicuro quanti più membri della sua squadra fosse stato possibile e Nathan Wright glielo stava impedendo con il suo stupido bisogno di una redenzione che solo lui vedeva.

«Avrai modo di rifarti in seguito, ma comprendi che se dovessero attaccarci solo io ed Úranus saremmo esentati, se non banditi, dal combattimento e che tu dovresti occuparti della tua vita e di quella di Lea e Jonas?»
Un verso sprezzante lasciò le labbra del giovane. «E tu pensi non ne sia in grado?»
Cicno avrebbe voluto prenderlo a calci in bocca e fargli saltare tutti i denti, ma non poteva farlo, non davanti a tutti, non in una momento del genere.
«Penso che sarebbe pericoloso per loro.» rispose a denti stretti.
«Sono capacissimo di badare a me stesso.» s’intromise Jonas stringendo le braccia al petto.
«Ma per favore, non sai neanche dare un pungo.» lo schernì Nathan.
«Vuoi provare?»
«Sì, provaci va! Tanto se ti rompi il polso c’è chi te lo ripara.»
«Ammesso che sia il mio polso a rompersi e non il tuo naso.»
«Non sarebbe la prima volta.»
«Potrebbe essere l’ultima.»
«Uh, che paura!»

Úranus si torse le mani a disagio. Malgrado non volesse dirlo apertamente anche lui era della stessa idea di Cicno. Dovevano mettersi al riparo, al sicuro oltre le porte. Non era mai una cosa intelligente starsene in un’area sgombera, sotto l’occhio acuto di predatori più grandi, forti e veloci di te. Ed Úranus, in quel momento, si sentiva proprio così, come se ci fosse qualcosa di ancora più pericoloso che li stava fiutando, che si stava avvicinando sempre di più.
Con questa sensazione di inevitabilità anche un leggero sentore di magia iniziò a solleticargli il naso.
I banchi di Foschia che li circondavano si muovevano con lentezza, espandendosi e diradandosi di continuo senza una vera logica. Il pizzicorio che lo stava sfiorando in quel momento sembrava simile alla sensazione che aveva provato inoltrandosi tra la Foschia, una sensazione molto più blanda rispetto alla forza distruttiva del muro che era crollato loro addosso, ma c’era anche qualcos’altro in mezzo, qualcosa che sembrava anch’esso Foschia ma non lo era davvero.
Non si trattava della stessa illusione, della stessa magia, ma ne aveva la stessa matrice. Come due tessuti filati dalla stessa lana, uno più grezzo e ruvido, l’altro più liscio e setoso, ben fatto. Era la differenza tra un incantesimo generato da un potere esperto e quello di un novizio. Un novizio che stava spingendo la sua magia sino a lì, sino a loro. Come se li stesse cercando.
Jane?
 
Úranus si volse in ogni direzione, cercando di capire da dove provenisse quella sensazione, quel leggero venticello che gli portava al naso un odore familiare ma non conosciuto.
Doveva concentrarsi senza lasciarsi prendere dal panico, ma in quel momento l’ansia d’essere trovati, d’essere attaccati e non poter far nulla per aiutare i suoi compagni, non faceva altro che alimentare il suo disagio.
Un disagio che sembrava condividere con l’incantatore che stava producendo quella magia.
Il giovane uomo aggrottò le sopracciglia, improvvisamente sordo e dimentico degli altri e dei loro stupidi litigi infantili.
La magia portava con sé un velo d’inquietudine, la necessità di accelerare il passo, di correre in un luogo sicuro, di scappare da qualcosa. Ma cosa?
Con uno sforzo sovrumano Úranus si costrinse ad accogliere in sé quel sentimento, a farlo suo e rilanciarlo al suo proprietario, come una spola che veloce passava da un lato all’altro del telaio. Raccoglieva l’ansia e rimandava indietro il dubbio, una domanda tacita che sperava sarebbe stata d’aiuto agli altri, a far capir loro che in quel momento non erano in pericolo.
 
«Cosa fai?»
 
Úranus saltò sul posto, Cicno lo guardava con un’espressione neutra in volto, immobile ed inespressiva come una statua.
L’islandese alzò leggermente gli occhi per individuare velocemente la causa del malumore del compagno: Jonas, Lea e Nathan stavano discutendo, la figlia di Apollo teneva per un braccio quello di Ares che sembrava più che intenzionato a raggiungere il fratellastro di lei, mormorando a mezza bocca qualcosa che non poteva sentire.
«Nathan non è d’accordo con te?» domandò di rimando.
Cicno prese un respiro profondo e poi espirò piano. «Mi duole dire una cosa del genere, ma se dovessero attaccarci io sono stato benedetto, è lui il perdente, è lui quello che dovrà combattere non solo per sé ma anche per altri. Se non vuole prestarmi ascolto, se non vuole far la cosa giusta solo per potersi flagellare nella speranza che suo padre non sia troppo imbarazzato dalla sua cocente sconfitta, allora non è affar mio.» rispose secco stringendosi nelle spalle. Si stava trattenendo il più possibile per non infilzarsi le unghie nei palmi, per mostrarsi tranquillo. «Se gli altri non vogliono ascoltarmi e mettersi in salvo solo perché tre anime, di cui due buoni combattenti, con poteri divini spiccati ed utili, potrebbero non esser stati benedetti, cosa di cui dubito viste le doti dei nostri compagni, e necessitare del loro aiuto, l’aiuto di due anime che non hanno armi e non posseggono poteri offensivi, ancora una volta, non è un mio problema.
Cosa stai facendo?»
Úranus lo guardò per un lungo istante e poi deglutì. «Senti anche tu questa leggera scia magica?»
«Quella che supera la Foschia e che porta con sé sentimenti di impazienza?» domandò con tono monocorde.
«Penso sia Jane che ci sta cerando.» ammise temendo in parte la reazione del greco.
«Penso che sia possibile.» annuì Cicno. «Così come potrebbe essere un combattente dell’Ade o un altro partecipante. Non rischiare inutilmente, abbiamo già tre stolti pronti a mettere in gioco la loro esistenza per nulla, non diventare il quarto, te ne prego.» aggiunse in fine lanciandogli un’occhiata penetrante.
Úranus non voleva diventare un altro fardello sulle spalle di Cicno, come per altro era già stato in precedenza, ma era più che sicuro che ci fosse Jane dietro quella presenza latente che lo sfiorava con sempre maggiore intensità. Ed a cui, per altro, aveva già risposto.
«Sono convinto sia lei, Cicno. Ho già sperimentato la sua magia sulla mia pelle, c’è sempre la possibilità che io stia sbagliando, ma-»
«Se ne sei assolutamente sicuro allora prova a risponderle.» tagliò corto Cicno, riportando lo sguardo sugli altri e sostenendo quello di Nathan senza batter ciglio. «Trova il modo di accertarti che sia lei prima di condurla qui. Te lo ripeterò un’ultima volta: se è un combattente, un nemico, c’è la concreta possibilità che l’unica cosa che ci sarà concesso fare sarà osservare i nostri compagni cadere. Se sarà più di uno Nathan non riuscirà a proteggere Jonas e Lea da solo.» tacque per un momento e poi girò il capo verso di lui, di nuovo. «E se mi sarà chiesto di scegliere chi salvare io sceglierò Jonas senza alcuno scrupolo.»
Glielo disse con serietà ed Úranus ne sarebbe rimasto quasi ferito, l’idea di aver già scelto chi aiutare, eliminando apriori tutti gli altri, gli pareva crudele, specie se l’altra anima condannata era quella della sua prima amica. Ma poi il figlio di Fobetore si ricordò dei bracciali che scintillavano ai polsi di Cicno, legati al giogo al collo di Jonas, e ogni sentimento venne rimpiazzato dalla banale e semplice logica: stavano combattendo per poter riottenere la propria vita senza dimenticarsi del proprio passato, di sé stessi ed i due giovani erano legati da un vincolo divino. Cicno avrebbe sempre salvato Jonas sopra a tutti anche solo per il semplice fatto che la sconfitta del più piccolo avrebbe potuto aver ripercussioni sulla vittoria del più grande.
Cicno gli aveva appena ricordato che malgrado i loro legami amichevoli, malgrado l’aiuto ed il supporto reciproco, erano in guerra ed in guerra non c’è posto per i buon samaritani.
Gli aveva appena detto che se non fossero stati in grado di convincere qui tre a passare le porte e fosse sopraggiunto un pericolo, lui non avrebbe salvato né Nathan né la sua amica.
Úranus deglutì.

«Lo dirò agli altri e-»
«No.» disse lapidario l’altro. «Non dar loro altri motivi per attendere qui fuori. Nathan può fare ciò che vuole ma Lea e Jonas devono oltrepassare le Mura Bianche.» e con questo tornò indietro dai loro compagni, guardando storto il figlio di Ares per un momento prima di prestare tutta la sua attenzione a Jonas e cercare di portarlo a ragione, dicendogli qualcosa che doveva averlo colpito duramente.
Úranus cercò di non concentrarsi troppo sull’espressione attonita del ragazzino, sulla vergogna che poteva leggergli in faccia, e cercò con lo sguardo Lea per chiederle, silenziosamente, da lontano, di mettersi al sicuro.
Vide la giovane stringere le labbra e scuotere leggermente il capo. Non poteva chiederle questo, non poteva chiederle di mettersi in salvo quando gli altri erano ancora in pericolo, ed Úranus lo capiva, davvero, capiva perché non volesse muoversi ma Cicno aveva ragione, loro non potevano fare nulla, Eliza, Cade e Jane erano tutti e tre in grado di difendersi in qualche modo e-
 
Si voltò.
Il fischio sottile del vento lo fece rabbrividire. Odorava di magia, così umida da sembrare bagnata, come l’aria che tirava dalle grotte, nel bosco dopo la pioggia.
Chiunque fosse si stava avvicinando e lo stava facendo con l’aiuto delle correnti stantie dell’Ade, una combinazione di odori tale da poter essere ricondotta solo a due persone.

Jane e Cade.
 
Úranus batté le palpebre, incredulo. Erano davvero loro, aveva ragione, erano i loro compagni.
Poteva sentire ancora lo sguardo di Lea puntato sulla sua schiena, ma non aveva il coraggio di muoversi, certo che se si fosse girato avrebbe perso quella traccia che li legava e avrebbe reso ancora più difficile per gli altri trovarli tra tutti quei banchi di Foschia.
Lea però non poteva saperlo e si contorceva le mani ansiosa.
Perché si era voltato così repentinamente? Perché non si muoveva?
Vicino a lei Cicno e Jonas continuavano a discutere e con sua grande sorpresa Nathan non aveva ancora aperto bocca per dar ragione al ragazzino.
 
Perché non ne ha. Questa volta Jonas è completamente nel torto e così lo sono anch’io.
 
«No. Ho detto di no ed è no!» ripeté ancora, petulante.
Cicno cercava di mantenere l’espressione più neutra possibile ma stava palesemente iniziando ad innervosirsi.
 
O forse a mostrarlo.
 
«Jonas, sono stato gentile fino ad ora, ma temo che sia stato del tutto inutile, quindi te lo dirò nel modo più diretto e crudo possibile: Non sai combattere, non sai utilizzare il tuo potere e quando lo fai si ritorce contro tutti, compresi i tuoi compagni; Nathan sarà impegnato a combattere per il suo onore e per la sua vittoria e se dovesse pensare anche a te finirebbe per essere sconfitto ancora. E se questo non dovesse-»
«Io so co-» provò a replicare il ragazzino sempre più adirato.
«E se questo non dovesse bastarti.» sibilò Cicno, un palese avvertimento a lasciarlo finire e non interromperlo ancora. «Ti ricordo che sei legato a me. Anche se non per nostra volontà, ogni cosa che fai, che ti accade, potrebbe ripercuotersi su di me. Durante la prima prova mi è stato imposto di salvarti e condurti alla meta, io non so cosa potrebbe succedere ad entrambi se l’altro venisse ferito e non voglio scoprire cosa potrebbe accadermi se anche la tua anima devesse esser uccisa e sparisse dall’Ade.»
Jonas lo fissò serrando i denti, la rabbia che gli stava montando dentro lo stava rendendo irrequieto, come se avesse qualcosa bloccato nel petto che volesse esplodere da un momento all’altro.
Era la prima volta che Cicno gli parlava in quel modo, era la prima volta che si mostrava anche solo leggermente contrariato dalle sue decisioni, che non gli usava quella calma e logica gentilezza, quella saggezza di cui si era dimostrato capace fino a quel momento.
E Jonas lo odiava.
Odiava le parole del greco, odiava il suo tono, il modo in cui l’aveva zittito, il modo in cui gli aveva intimato di tacere senza alzare la voce, senza urlare come invece doveva far lui per far valere le sue opinioni. Era di nuovo a scuola, davanti al professore che lo sgridava e umiliava davanti a tutta la classe per esser esploso nell’ennesimo dei suoi crolli, per aver perso la pazienza, la compostezza, per non essere il perfetto giovane facoltoso che doveva essere, perché si era dimostrato ancora una volta non all’altezza delle aspettative.
Ma la cosa che bruciava di più, più del sentirsi un ragazzino in un mondo troppo grande per lui, dove gli altri decidevano al suo posto e ogni parola era legge, era obbligo, più di tutto questo ciò che lo mandava in bestia era che Cicno, nonostante tutto, avesse ragione.
Jonas non aveva un potere in grado di arrecare danni fisici, non era in grado di controllarlo e non sapeva neanche come approcciarcisi. Non aveva una buona formazione fisica, gli anni di atletica non l’avrebbero aiutato a difendersi da un guerriero esperto, le sue piccole risse con i compagni non sarebbero state neanche vagamente utili. Non aveva un’arma, non aveva le conoscenze per usarne una. Era piccolo, gracile, fine. Sarebbe stato solo un peso in più, un problema per Nathan che avrebbe dovuto difenderlo esattamente come aveva fatto Lea quando si erano divisi.
Jonas voleva rimanere ad aspettare gli altri e voleva farlo solo per puro principio, per apprensione, per colpa dell’ansia di non vederli arrivare, di vederli feriti, di saperli perduti.
La paura si agitava nel suo petto prendendo forme diverse ad ogni respiro, ma ciò non cambiava il fatto che Cicno avesse ragione. Non solo non sarebbe stato di nessun aiuto, rischiava anche di arrecare danno al compagno, a qualcuno che fino a quel momento non aveva fatto altro che aiutarlo e sostenerlo pur non conoscendolo minimamente. E sì, Jonas neanche conosceva Cicno, non si fidava completamente di lui, il suo sapere così tanto ed essere così tranquillo alle volte lo irritava ed insospettiva in egual misura, ma non gli aveva chiesto nulla di assurdo, nulla di impossibile o ingiusto.
 
Fai la persona matura, Jonas, smettila di battere i piedi come il moccioso che sei.
 
Il greco continuava a fissarlo senza muoversi, senza cedere di un passo, e lentamente Jonas si ritrovò a fare respiri profondi, a tentare di riprendere possesso di sé, di avere una discussione da adulti.
Doveva solo far capire all’altro perché non potesse oltrepassare il confine.
 
«Non posso mettermi al sicuro quando non so se anche gli altri lo sono.» rispose tremante.
«Non puoi neanche andarli a cercare, sa? Quindi piuttosto che stare qui a rompere le palle è più comodo che te ne stia sul bordo della porta ad aspettarci.» s’intromise Nathan.
Jonas lo guardò malissimo, non aveva bisogno di altre persone che gli ripetessero quanto fosse solo un peso.
Cicno se ne accorse perfettamente, ma non poteva certo sgridare il soldato per le sue parole quando lui aveva appena detto lo stesso. Poteva essere molto più diplomatico però.
«Nathan non sa cosa sia l’educazione e il ben parlare, ma ha ragione. Non puoi andarli a cercare e non puoi aspettare qui rischiando di diventare un bersaglio. Oltrepassa l’entrata delle bianche mura e attendici lì. Una volta superata la linea sarai salvo e nessuno potrà toccarti.» provò a portar ragione.
«Ma non sappiamo neanche se potrò passare senza benedizione!»
«Se il padre di Eliza vi ha portati fin qui, salvandovi, e non vi ha benedetti significa che non ve n’era motivo. Penso che la benedizione serva solo a farci attraversare il campo di battaglia senza che un altro combattente si debba occupare di noi. Serve più a loro.»
Jonas annuì, incapace di fare altro. Quella era una prospettiva che non aveva calcolato. Se il padre di Eliza li aveva salvati e portati alla meta, perché non dargli anche il famoso lasciapassare?
«E se avessero bisogno d’aiuto? Se dovessero essere feriti?» continuò però incalzante.
«Rimarrò io. Posso rimanere a-» provò Lea cercando di chiudere quel discorso il prima possibile e portare l’attenzione su Úranus e qualunque cosa avesse sentito.
«Credevo che le mie parole fossero state sufficientemente chiare: voi dovete mettervi al sicuro. Tu, Lea e anche Úranus, che non è ugualmente utile in questa situazione. Non io.»
I tre rimasero immobili a fissare il greco, stupiti da ciò che stava suggerendo Cicno.
«T-tu-»
«Resteresti qui? E dov’è finita tutta quella filippica del cazzo sul fatto che non puoi intervenire perché sei già stato benedetto?» domandò Nathan aggrottando le sopracciglia.
Cicno a mala pena fece una smorfia. «Ho detto che se dovessero impormi di non intervenire allora non potrei farlo, non potrei combattere con voi. Ma nessuno potrebbe impedirmi di rimanere ad osservare lo scontro e, come avrai ben notato, sono in grado di utilizzare i miei poteri anche senza imporre il mio tocco a nessuno.»
Le sue parole suonarono risolute, definitive.
Il figlio di Ares lo guardò ammettendo finalmente a sé stesso di non riuscire a capire quello strano individuo.

Chi sei? Come fai ad essere così diverso da prima ogni volta che apri bocca?
 
Nathan assottigliò lo sguardo. Non voleva ammetterlo ma per quanto quella principessina del cazzo si fosse dimostrata fastidiosa, schifosamente gentile e anche ironicamente cinica più di una volta, aveva una capacità di porre le cose sotto un’ottica fredda e logica tale da non lasciar spazio ad obiezioni.
 
Potrebbe essere un buon leader, non so quanto sarebbe disposto a mettersi in prima fila o morire per i suoi compagni ma… ma forse anche questo farebbe di lui un ottimo stratega, conscio del suo grande potenziale e del fatto che la sua vita vale più di quella di molti soldati semplici.
 
Ma quello non era il momento giusto per giudicare le capacità direttive del greco, non ora che Jonas si era finalmente tappato quella dannata bocca e aveva smesso di fare i capricci.
Poi sarei io il moccioso.
 
Espirando con forza Nathan alzò un braccio verso le porte del paradiso, un modo più che eloquente per indicare ai due non benedetti di mettersi in marcia e fare quanto era stato loro detto. Malgrado Lea continuasse a torcersi le mani e guardare in direzione di Úranus che, come uno di quei maledetti Mastini Infernali, teneva la testa dritta e puntata verso uno dei tanti banchi di Foschia, come se si aspettasse che ne uscisse qualcosa da un momento all’altro.
 
«Úranus! Muovi quel cazzo di culo e fila con sti due oltre le porte! Rimaniamo solo io e la principessa delle fate fuori!» urlò a pieni polmoni.
Jonas soffiò tra i denti come un gatto furastico. «Non era che non bisognava urlare o sarebbero arrivate le arpie?»
«Era solo una possibilità. E poi sai quante ne ho viste in vita?» lo liquidò Nathan spingendolo nella direzione giusta, prima lui e poi Lea. «Muovi il culo anche te, rompi palle, ora Golia arriva.»
Ma Lea scosse il capo, pur girandosi nella direzione giusta e iniziando a camminare continuò a guardare l’amico, storcendo il collo, con quell’espressione preoccupata capace di irritare il soldato ancora di più.
«C’è qualcosa che non va.» disse piano.
«C’è sempre qualcosa che non va con uno di voi stronzi, ora arriva anche lui.» poi si rigirò verso l’uomo. «URANUS!»
«Non urlare!» ripeté Jonas.
«Tu l’hai fatto fino ad ora!»
«Non ho urlato!»
«Sì che l’hai fatto!»
«Io, sto per urlare.» ringhiò a bassa voce Cicno, cercando di ignorare quell’ennesimo, fastidioso ed assolutamente inutile battibecco da lattanti.
 
«Sono loro!»
 
La voce Úranus riuscì dove le maledizioni silenziose del greco non erano riuscite. Nathan e Jonas voltarono la testa in sincrono, osservando ad occhi spalancati le figure che lentamente prendevano consistenza nel fumo della Foschia.
Erano tre persone, tre anime, ed uno strano oggetto luminoso tra di loro, come una delle sfere della prova di Ermes, e più si avvicinavano, più divenivano nitide, più prendevano consistenza, colore, forma, identità.
La gonna strappata e stracciata di Jane, le sue caviglie secche e ossute, le braccia protese in avanti, le mani sporche a reggere un mezzo globo di vetro luminescente, i capelli corti che le finivano in continuazione sul volto affaticato malgrado li soffiasse in continuazione via.
Alla sua sinistra la zazzera rossa di Cade, la sua giacca disegnata dalla pittura crepata e rovinata, gli occhi verdi che brillavano come quello strano oggetto, la sacca voluminosa che gli rimbalzava sulla schiena mentre alzava la mano e saltellava per farsi notare dagli altri.
A destra, in fine, Eliza, che camminava quasi marciando, una macchia bianca data dalla camicia completamente scoperta dall’assenza della giubba blu, i capelli corti e scuri sporchi di terra ma che, ugualmente, non riuscivano a nascondere l’alone dorato che le brillava sulla fronte.
Nathan ne rimase scioccato. Dentro di sé troppe emozioni che si accavallavano le une alle altre: felicità, gioia, sollievo. Quei tre potevano anche essere dei deficienti ma erano i suoi compagni, le anime con cui aveva iniziato quella gara e con cui aveva combattuto fino a quel momento. Era così orgoglioso di vederli ammaccati ma salvi, vittoriosi, vivi.  
D’altra parte, la vergogna bruciava ancora più cocente, ancora più letale, più infamante. Loro erano riusciti a superare la propria prova, lui no. Lui era stato sconfitto, era un perdente, era un’onta per i suoi stessi compagni, per il suo reggimento, per gli altri semidei con cui aveva combattuto, per gli addestratori dell’esercito e per quelli del Campo. Per sua madre. Per suo padre. Per sé.
Erano vivi, questo sarebbe dovuto essere tutto ciò che contava, ma la vergogna, l’umiliazione di aver fallito faceva più male di quanto avrebbe mai voluto immaginare.
Malgrado li stesse osservando non vide davvero il sorriso trionfante di Jane, palesemente orgogliosa di sé per aver eseguito un incantesimo capace di farli ricongiungere. Non vide il sollievo negli occhi di Eliza e neanche Cade saltare sempre più in alto, sempre più in alto, sempre più in alto, finché qualcuno non urlò.
 
«CADE!»
 
I rosso si bloccò a mezz’aria, rigirandosi come un pesce preso all’amo. I suoi occhi si schiarirono, un’improvvisa corrente discendente lo spinse in basso e poi, veloce, colpì anche Jane ed Eliza, spostandole violentemente di lato un attimo prima che un intenso fascio di luce colpisse il punto in cui si trovavano.
Svariate urla si alzarono tutte assieme. Úranus, che era il più vicino, corse immediatamente dai compagni, afferrando Eliza e tirandola in piedi a forza.

«CORRETE!» ordinò perentorio, cercando di afferrare anche Jane.
Eliza si sciolse velocemente dalla presa, voltandosi anche lei per prendere la figlia di Ecate.
«Tornate indietro voi!» sentì urlare Cade. «JONAS! TORNA INDIETRO! SCAPPA!»
Cade stava sudando, lo sforzo improvviso di richiamare le correnti a sé, di generarne di così potenti in un luogo in cui, di norma, non ve ne era, gli pesava sulle spalle come un macigno. Probabilmente complice la fatica dovuta al combattimento si ritrovò ad inciampare sui suoi stessi passi, il vento fantasma spintonava malamente tutti e quattro, cercando di farli avanzare e di allontanarsi dal raggio luminoso allo stesso tempo, finendo solo per farsi scontrare di continuo tra di loro.
Perché quel coso ce l’aveva tanto con lui? Perché doveva esserci sempre il fuoco di mezzo?
Aveva il fiato corto, era successo tutto così d’improvviso da fargli venire le vertigini. Gli girava la testa proprio come succedeva quando saliva troppo di quota e d’improvviso si lasciava cadere in picchiata.
Un vuoto.
Usare così di colpo i suoi poteri, ad una potenza così elevata, l’aveva spinto in un dannato vuoto d’aria. Un vuoto che si stava mangiando tutto l’ossigeno incamerato nei suoi polmoni, stringendoli come una vecchia spugna bagnata.
Macchie scure iniziarono ad allargarsi al limitare del suo campo visivo, le grida dei suoi compagni si facevano ovattate un momento per poi riesplodere quello seguente. Stava per cadere, Cade se lo sentiva, e se fosse caduto le correnti avrebbero cessato d’esistere e la spinta aggiuntiva che li stava portando verso la salvezza si sarebbe estinta, lasciando campo a quell’affare infernale.
Il mondo si scurì ancora un po’, dalla bocca spalancata non riusciva ad entrare neanche un filo d’aria. Stava soffocando. Si stava soffocando da solo.
 
«Non ce la fa!» gridò Jonas correndo a perdifiato.
Per un attimo gli parve di non aver corso così velocemente neanche per scappare dai Mastini Infernali, gli sembrava quasi di volare. Di fianco a lui Lea gli teneva testa con falcate ampie, quel metro e ottanta finalmente al lavoro per spingerla in avanti, prima degli altri, affiancata da Nathan che, a denti stretti, correva proteso in avanti come un corridore in cerca del nastro della vittoria.
Fu il soldato a rispondergli con uno strozzato “lo so” e a spingere di più, l’improvvisa botta d’adrenalina a cui tutti i figli di Ares avevano imparato a tributare benedizioni che lo rendeva momentaneamente più veloce, più scattante, più forte.
«Ora crolla!» urlò di rimando Lea ed Eliza fece solo una smorfia, stringendo di più la mano di Jane e lanciandola in avanti come una frusta.
«Corri! Veloce! Veloce!»
«Lo sto facendo! Lo sto facendo! Prendi il rosso!» rispose Jane serrando i denti per lo sforzo ma accelerando quanto più possibile puntando verso la meta.
«Úranus!» gridò ancora Nathan e anche il figlio di Fobetore allungò un braccio all’indietro, pronto ad afferrare Cade o Nathan stesso se ce ne fosse stato bisogno.
Poi il vento cessò.
Cade vide il parto nero fondersi con la Foschia, scurendo le mura bianche, chiudendo le porte monolitiche. Riuscì solo a vedere Nathan gettarsi verso di lui, avvertì vagamente un braccio stringersi attorno al busto e la terra gli mancò sotto i piedi, come se avesse appena spiccato il volo.
Jonas guardò con orrore il gigantesco fascio di luce avvicinarsi sempre di più e i suoi compagni rallentare di colpo. Guardò Nathan scattare con un lupo a caccia ed afferrare Cade prima che potesse cadere a terra. Vide Úranus afferrare la giacca del soldato e ruotare su sé stesso per non smettere di correre e sfruttare la spinta per far riprendere il ritmo anche all’altro.
Vide vagamente Lea invertire marcia dopo esser riuscita a prendere la mano di Jane, Eliza voltare la testa indietro e allungarsi per cercare di soccorrere Nathan e in quel momento, in quel preciso momento, Jonas seppe che non sarebbero sfuggiti dal raggio. Che qualunque cosa fosse quel maledetto faro li avrebbe colpiti e li avrebbe inceneriti fino alle ossa.
Seppe solo che i suoi compagni, i suoi amici, erano in pericolo, che avevano fatto sempre tanto per lui anche se non lo conoscevano, anche se non sapevano nulla di lui, anche se era un danno, aveva commesso uno dei peccati più terribili del mondo e aveva detto a tutti loro quanto fosse stato meschino, codardo. Cade sopra tutti l’aveva accettato, l’aveva ricoperto d’affetto, e ora era ad un passo dal fuoco sacro, redentore dei mali.

Cade odia il fuoco.

Cosa lo attendeva su? Cosa c’era ancora per lui sulla terra ferma? Sotto il cielo limpido?
Quando si era ritrovato con quel biglietto in mano, Jonas si era detto che se non fosse riuscito a vincere sarebbe tornato sulla terra per una seconda, nuova vita. Si sarebbe dato una seconda possibilità da solo.
Forse, quella seconda possibilità, non era la rinascita.
Forse, la sua seconda possibilità, era riuscire a redimersi dal suo peccato.
Questa volta non avrebbe abbandonato nessuno, non avrebbe scelto la via più semplice.
Con ironia pensò che, ancora una volta, c’erano in mezzo un paio d’occhi verdi, ma che avevano in sé tutto un altro tipo d’amore rispetto a quelli che aveva lasciato indietro la prima volta.
Dopotutto, era così che doveva essere avere un fratello, no?
 
Nessuno potrà più chiamarmi codardo.
 
Non poteva combattere, non poteva essere utile in quel modo, sarebbe stato solo un fardello, l’ennesima anima impotente da difendere a costo della propria vita. O forse no.
Con uno scatto degno dello stesso irlandese, Jonas superò Lea, schivò Eliza e poi Úranus, passandogli dietro le spalle, nascosto dalla sua mole, dagli occhi sgranati e pieni d’orrore di Nathan.
Non lo sentì urlare mentre il getto bollente di un raggio di sole lo investiva come un fiotto d’acqua calda.
Non bruciava, non davvero. Ad occhi chiusi Jonas si godette per un momento che sembrò infinito la carezza della luce estiva, quella che ti sfiora nel pomeriggio tardo, quando il sole è già avviato alla sua dipartita e rimanervi esposto non è altro che un dolce indugiare del tempo.
Se questa era la morte era infinitamente più piacevole, calda e gentile di quanto non la ricordasse.
Almeno prima che arrivassero le immagini.
Flash esplosivi gli balenarono davanti alle palpebre chiuse. I volti dei suoi famigliari si susseguirono veloci, quello di sua madre gli si impresse a fuoco sulle retini e non riuscì a sbiadire neanche quando altri visi iniziarono a spuntare uno dopo l’altro, senza senso, senza motivazione.
Il bruciore arrivò allora. Fiamme incandescenti che gli lambirono la pelle, i muscoli, le ossa.
Stava andando a fuoco, stava bruciando vivo come le streghe, com’era successo a Jane e ad Úranus. Stava bruciando vivo ma era già morto e nessuno shock l’avrebbe salvato dal dolore gettandolo nell’oblio.
Non poteva sentire le grida degli altri, non poteva sentire le sue, ma poteva sentire quelle di persone che non aveva mai conosciuto e quelle di chi aveva amato per tutta la sua breve ed effimera vita.
Stavano soffrendo così come soffriva lui. Sentiva pianti disperati, il bruciore delle unghie che si infilano nella carne, la vergogna e i sensi di colpa, lo smarrimento, l’incomprensione, la solitudine il dolore. Così tanto, tanto dolore.
Era un buco nel petto, nello stomaco, un pozzo che ingoiava ogni organo sino a renderlo vuoto.
Lui, o chiunque avesse provato quelle sensazioni.
Oh, perché Jonas l’aveva capito, aveva capito perfettamente che ogni più piccola sofferenza, ogni fiamma che gli lambiva la pelle, era il dolore di altri, era il male che lui aveva provocato, ed era così tanto…



“Avete fatto, in vita, l’unica cosa degna, per ambire al perdono?”
 



Evidentemente la risposta era no.







 

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Capitolo 18
*** Burn. ***










Capitolo XVIII- Burn.

 
 
 
 
Jonas non aveva fatto nulla di degno in tutta la sua vita, figurarsi qualcosa che gli potesse concedere il perdono.
Era un pensiero amaro da fare in un momento del genere, quando si stava per giungere alla fine, a quella eterna. Non che vi fosse nuovo, aveva già sperimentato quell’ansia, quei tumulti interni ad un passo dalla morte e anche al tempo aveva creduto che quella fosse “la fine eterna”. Ma allora non credeva neanche nell’aldilà, figurarsi immaginarsi un inferno pagano a cui avrebbe acceduto per gentile concessione dei suoi natali semidivini.
Questo però non avrebbe impedito alla sua anima di dissolversi nel nulla assoluto, di bruciare come legna, consumato nelle fiamme del dolore delle persone che aveva conosciuto, che aveva amato, fino a quando non sarebbe rimasto più niente di lui, fino a quando non avesse espiato tutte le sue colpe e, forse, anche quelle degli altri.
A ben pensarci, in tutti quei decenni di Campi di Pena, non se l’era vista così male. La sua tortura più grande era quella di infliggerne ad altri e provare quell’agonia riflessa sul suo collare. Era forse giunto finalmente il momento di soffrire davvero per le sue azioni invece che per quelle dei suoi compagni di sventura?
Chiuse gli occhi, le persone che si susseguivano davanti a lui erano straziate, logorate da dolori di ogni sorta ma di cui, in un qualche modo, Jonas sapeva d’esser legato. Consisteva in questo, quindi, la prova del Guardiano? Era davvero un enorme occhio di luce pronto a scrutare in ogni anima, nel suo passato, e valutare quando dolore questa avesse inflitto a chi la circondava?
Ma com’era possibile? Come aveva fatto Jonas in neanche sedici anni a ferire così tante persone? Quello che gli stava mostrando il Guardiano era una sfilata di genti che, per la maggior parte, Jonas non conosceva. C’erano i suoi famigliari, c’erano i suoi amici, i compagni di scuola, qualche volto noto, ma era realmente riuscito a portare dolore e disperazione a tutti loro?
 
Com’è possibile? Come posso avervi feriti se la maggior parte di voi neanche mi degnava di uno sguardo? Non mi ha mai offerto una mano amica?
 
Era ancora più desolante saper di esser il fautore della tristezza di qualcuno a te ignoto, ma non era devastante quanto vedere i volti delle persone che amava piangere tutte le loro lacrime.
La figura austera di suo nonno con il capo basso, i lineamenti tesi, lo sguardo puntato su di un oggetto che entrambi conoscevano fin troppo bene, la vecchia walther che l’uomo gli aveva insegnato ad usare. Sullo stesso piano, ma distanziata da lui, sua nonna teneva le mani strette al petto ed un rosario intrecciato ad esse. Pregava muovendo le labbra velocemente, come se la rapidità della sua preghiera avrebbe potuto battere il giudizio divino.
Più distante la servitù del palazzo, le cameriere dai volti stravolti, gli inservienti con le espressioni attonite, una donna, tra le tante, che faceva saettare il suo sguardo ovunque, in cerca di qualcosa.
Quel qualcosa che Jonas vedeva in primo piano, rintanato in un angolo della dispensa, rannicchiato su sé stesso, le ginocchi al petto e le mani premute sulla bocca per soffocare i singhiozzi, gli occhi verdi scintillanti di lacrime.
Ed in fine il viso di sua madre, contorto in un’espressione di mal trattenuto dolore, che si piegò d’improvviso, deformandosi in una smorfia mostruosa, ingoiandone i lineamenti e mutandola fino a farla divenire un’altra donna, un’altra madre.
 
Madre?
 
Dita sottili gli sfiorarono la vita. Tocchi gentili lo voltarono con delicatezza, come se fosse un oggetto di fine cristallo.
Una mano risalì la schiena con lentezza, come se faticasse a muoversi in quell’inferno di fuoco.
Ah, inferno, alla fine c’era comunque tornato, no?
Eppure quelle carezze gentili sembravano quasi essere in grado di spegnere un poco le fiamme, di renderle meno feroci, meno calde.
La sua guancia sfiorò un tessuto morbido, un petto solido, portandolo ad incastrare la testa sotto il mento di un uomo che non sapeva riconoscere, che non poteva vedere per colpa del volto di quella madre, una donna dai capelli castani, tenuti sciolti sotto il pesante velo nero che le avvolgeva il capo, che le cadeva sulle spalle e la schermava dal mondo mentre piangeva disperata il suo dolore, mentre ogni cosa perdeva significato per lei.
Sovrapposti alla donna si rincorsero d’improvviso centinaia di altri visi, espressioni affrante, distrutte, irose, ferite, morenti, deluse, amareggiate, avide, invidiose, lussuriose, ingorde, innamorate.
Due occhi scuri, caldi, avvolgenti, così diversi da quelli verdi che tanto avevano popolato i suoi sogni, lo fissavano risoluti, orgogliosi di qualcosa che credevano essere giusto ma che, in verità, aveva solo segnato la fine definitiva di tutto.
Un rumore sordo, un panno umido che cade a terra, tra la polvere, che sprofonda nell’abisso distruggendo l’unica certezza rimasta, la speranza che per tanto tempo si era nascosta sul fondo di uno scrigno, timorosa d’uscire, di credere che quella fosse la volta giusta, che fosse finalmente giunta la fina di quell’eterno attendere, di quell’eterno soffrire.
 
 
“Io mi fidavo di te! Credevo mi amassi! Io ti ho amato! Ma era un’illusione, solo una patetica e crudele illusione! Una maledetta malia generata da un mostro! Ti amavo! Ti amavo e mi hai tradito! Sei esattamente come tutti gli altri, sei come loro! Non è di me che t’importa ma solo del premio, del prestigio che ti porterà! Non sei disposto a sacrificare nulla per me! Non il tuo dannato orgoglio! Io ti amavo e tu hai deciso di tradirmi così, hai deciso di fidarti di uno sconosciuto e di distruggere l’ultima speranza che mi era rimasta!”
 
 
Il dolore che lo trafisse in quel momento era del tutto diverso rispetto a quello che aveva provato fino ad ora, così diverso da quello di sua madre, dei suoi nonni, dei suoi amici, di Lu.
Era disperazione, era tradimento, era qualcosa che Jonas non avrebbe mai immaginato di poter provare e che faceva male, dio, faceva così male.
Era solo, non c’era più speranza, non c’era più un domani. L’unica cosa per cui aveva atteso tutta la vita, l’unica cosa che avrebbe finalmente potuto ripagare anni ed anni di sofferenza gli era appena stata strappata da sotto gli occhi, dalle mani, dall’unica persona che avesse davvero mai amato.
Ormai non vi era più nulla per cui vivere.
Jonas serrò gli occhi più forte che poté e si strinse al corpo martoriato da cui sgorgava tutto quel male, quel dolore accecante ed insopportabile, suo e di chissà quanti altri.
Si strinse in quell’abbraccio rendendosi improvvisamente conto di star piangendo, singhiozzando ad alta voce singulti alti e strazianti. Voleva solo che tutto smettesse, che quel dolore cessasse, anche se non gli apparteneva, anche se sapeva, in sé, che ciò che stava provando lui non era che il riflesso di ciò che stava provando l’altro.
Singhiozzò senza vergogna domandandosi se quello era ciò che aveva provato il suo di amore sapendolo morto, se si fosse sentito tradito in quel modo, se avesse sofferto così, si fosse disperato come quell’anima aveva fatto e stava facendo in quel momento, a distanza di secoli.
Non riusciva a muoversi, a far nulla se non piangere e ripetere quanto gli dispiacesse, chiedere scusa anche se non era sua la colpa, anche se le parole non avrebbero mai potuto riparare il torto subito, né ora né mai.
Chiedeva scusa a lui per ciò che aveva fatto ad altri, pregava il perdono, pregava che la sua famiglia non avesse sofferto così, non come stava facendo quell’anima, non come aveva fatto per tutto quel tempo, come continuava a fare anche in quel momento. Un dolore più forte di quello delle fiamme, di quello della luce.
Eppure, leggere, delicate come un petalo, le mani tremanti dell’altra anima lo carezzavano senza posa, sfiorandogli i capelli, stringendolo a sé come a volerlo consolare.
Cosa aveva fatto? Perché si era buttato nel fascio di luce con lui? Pensava di poterlo salvare?
Se solo Cade non fosse svenuto Jonas non avrebbe dubitato neanche per un attimo che quelle braccia potessero essere le sue. Ma quello che ormai reputava un fratello non aveva avuto la sfortuna d’assistere al suo rogo, Ipno, o chi per lui, aveva posato le mani sui suoi occhi prima che l’irlandese potesse vederlo saltare nel raggio luminoso.
Jonas però sentiva, sapeva in un qualche modo, che quell’anima non aveva pensato troppo prima di raggiungerlo. Come toccava il suo dolore così percepiva le sue intenzioni, i suoi pensieri. L’altro aveva capito qualcosa, forse ciò che il Guardiano avrebbe ricercato, e si era lanciato verso di lui. Non aveva avuto intenzione di salvarlo, sapeva che non sarebbero potuto uscire dal suo sguardo a meno che non avessero superato la prova, ma aveva ugualmente rischiato, spinto da una forza sovrannaturale che gli aveva gridato di non poterlo lasciare lì, solo, a soffrire tutte le pene di coloro che aveva toccato in vita. Non si aspettava che i loro dolori si sarebbero uniti e sommati, che si sarebbero sovrapposti in quel modo prima che i suoi fossero riusciti a sovrastare quelli di Jonas.
Era così sciocco, era stato così stupido.
Era così umiliante, così mortificante sapere che il ragazzino stava assistendo a tutto ciò, a tutti gli individui che avevano incrociato la sua strada e a quelli che vi avevano messo fine, a quelli a cui lui aveva messo fini.
E Jonas lo sentiva, lo sentiva perfettamente. Riusciva a sentire il dolore, l’umiliazione, l’imbarazzo che si trasformava in qualcosa di più profondo, di più oscuro, fino a diventare rabbia e grida e lacrime e sangue e morte.
I volti delle persone che l’avevano sfiorato, che avevano provato ogni sorta di sentimenti verso di lui, dai più gentili ai più crudeli, dai più innocenti ai più bassi, dall’amore al tradimento. Jonas sentiva tutto, lo comprendeva come se fossero sentimenti suoi, come se fossero pensieri suoi.
 
Come se fossero uniti.

Uniti?
 
Cicno?

 
*



Il corridoio di pietra era desolato e silenzioso, le ombre che lo popolavano scivolavano mute sulle mura antiche, i grandi mattoni levigati dal tempo cercavano di rallentarle, impigliando i loro bordi negli angoli più acuminati, nei vecchi ganci di ferro dove un tempo vi erano impalate torce fiammeggianti.
Non c’era più luce, non c’era più fuoco, non serviva ormai. Nessun uomo mortale varcava quelle porte, nessun mortale era più autorizzato a farlo da secoli ormai.
Eppure, in quel momento, la vita ripopolava gli infiniti dedali del castello, calcando i pavimenti che un tempo avevano visto eroi, cavalieri e re camminarvi fieri.
La donna che vi passava in quel momento non era mai stata nulla di tutto ciò e similmente a lei l’uomo che avrebbe dovuto incontrare.
Sprofondando le mani della felpa calda Eris quasi saltellò impaziente, un’antica ed infantile gioia l’animava dal profondo, l’eccitazione che un tempo aveva fatto tremare anche il suo stesso regno le brillava negli occhi come avrebbero fatto le vecchie torce.
Oh, c’era così tanto che voleva ancora vedere, che doveva ancora sapere, tanti dettagli succulenti, tante sfumature al momento invisibili che avrebbero portato alla creazione di un quadro, un puzzle, chiaro ed intricato, rivelandole forse il piano più ambizioso che l’ultimo secolo aveva potuto partorire.
 
Se non fosse che proprio la mente dietro tutto questo è stata partorita da un piano quasi più folle ed ambizioso. Ma dopotutto, i mostri possono essere generati solo da altri mostri.
 
La Dea della Discordia sorrise sorniona piroettando su sé stessa.
Aveva davvero voglia di infilarsi nella Sala del Delta o nell’angolino di mondo preferito del suo umano preferito, o perché no, andare direttamente a fargli visita in casa sua, ma aveva un compito da svolgere, una gentilezza, se la sia voleva chiamare così, che proprio non aveva intenzione di negare ad un caro amico.
Per anni si erano scambiati pettegolezzi succulenti, sin dal momento in cui erano venuti a conoscenza l’uno dell’altra ed Eris non poteva non aggiornarlo anche sugli ultimi sviluppi.
Non quando le era ormai chiaro che anche lui e tutta la sua stirpe ne sarebbero stati coinvolti.
Fremendo dall’eccitazione che il solo pensiero le scatenava si affrettò a raggiungere la vecchia sala che, un tempo, aveva ospitato gli esperimenti di un uomo che era quasi giunto a sfiorare il potere degli Dei, appropriandosi di una magia che l’aveva consegnato alla storia, lui e la sua degna rivale.
 
Anche se sarebbe corretto dire che Lei era molto più forte sotto molti aspetti.
 
Giunta di fronte alla sua meta Eris non dovette neanche schioccare le dita affinché le doppie ante si aprissero senza il minimo cigolio.
Sorrise radiosa e s’addentrò nell’antro buio come se fosse illuminato a giorno, evitando con facilità il mobilio ancora presente, puntando dritta verso il fondo della stanza dove sapeva esserci il giaciglio su cui, ne era sicura, il suo amico l’attendeva.
 
«Ho parlato con Ade! Anche con la sua consorte, a dire il vero, e con i gemelli della notte.» esordì ad alta voce. «Erano tutti lì riuniti, a rimuginare e cercare di capirci qualcosa, sai, sulla gara che è in corso ora negli Inferi, la starai seguendo mi auguro.» continuò con uno sguardo ammonitore. Solo un leggero sbuffo le arrivò di rimando, ma fu più che abbastanza per farla sorridere ancora.
«Ci sono cose poco chiare dietro questo nuovo reality show, che pareva incredibilmente logico e anche privo di possibili vittime, in un qualche senso. O per lo meno, vittime vive. Di vittime morte, fiuuu- quante ne vuoi, ma servivano al gioco, quindi pace.»
Passò di fianco ad un tavolo da lavoro, sui cui erano allineati alambicchi polverosi e storti, una sfera di cristallo rotta ed un paio di guanti di pelle nera senza dita. Li sfiorò a mala pena, la scossa che ne ricevette la fece gongolare solo di più.
«In ogni caso, ciò che so io, per ora, è più che sufficiente ad attirare la mia attenzione e farmi immediatamente firmare per arruolarmi! Olimpo, era da anni che non mi sentivo più bruciare così.» si fermò un attimo sospirando, la mano premuta sul cuore come cercasse di contenere l’emozione.

«Dev’essere un gioco molto emozionante, se è in grado di ridurti in questo stato.»
La voce dell’altro arrivò bassa e suadente, quasi sibilante come quella di un serpente.
Eris riaprì gli occhi, due sfere verdi scintillanti che galleggiavano nel buio, proprio come le aveva viste Eolo nella sua sala di registrazione.
«Oh, non ne hai idea, mio caro.»
«Sai che questo genere di cose mi incuriosisce sempre. Ambiguità vestita da perfezione, morti che competono per la vita. Ma perché tocca te così tanto? Così nel profondo?» domandò curioso.
La Dea si avvicinò di più fino a poggiare la mano sulla testiera del triclinio sui cui l’altro era adagiato.
«Toccherà anche te, quando ti avrò detto chi ha mosso le fila per dare il via a questa sceneggiata e chi le sta muovendo da dietro il sipario.» C’era un ghigno nella sua voce, lo stesso che le tirava le labbra in uno squarcio ferino, affamato.
Si sedette nel posto che le era stato lasciato libero, piegando una gamba sul vecchio materasso di crine e stringendosi la caviglia con entrambe le mani, per cercare di calmare il tremore che le scuoteva, tanto era incontenibile il fuoco che l’animava.
«Chi?» chiese lui a bassa voce.
Quel suo sorriso folle le stava facendo dolere le guance, ma la dea non vi prestò la minima attenzione.
«Da quanto tempo è che non vedi tuo nipote?»
 
Davanti a lei, nel buio assoluto di quello che un tempo era stato il laboratorio delle pozioni del mago più famoso al mondo, due piccole scintille apparvero a mezz’aria, epicentro luminoso di fari verdi che s’accesero come le torri che i mortali utilizzavano per scacciare l’oscurità dai mari.
Quegli occhi che la fissarono, accecanti come solo i suoi potevano esserlo, furono tutto ciò di cui ebbe bisogno prima di scoppiare in una fragorosa risata acuta.
 
Anche il suo compagno avrebbe presto condiviso la sua stessa impazienza.
 
L’altra belva dagli occhi verdi la fissava affamato, come solo inganno e caos potevano esserlo difronte ad un’insinuazione che apriva le porte a così tante vie.
 
Tutte le Vie.
 
 
*



Era un illuso. Si era detto di sapere cosa stava facendo, cosa avrebbe fatto, come avrebbe fatto. Si era detto d’aver tutto sotto controllo, che il suo piano poteva funzionare e avrebbe funzionato e che, una volta messe a posto le cose, sarebbero potuti andare avanti senza problemi, senza doversi guardare indietro, senza più quell’onta a marchiargli a fuoco la coscienza. Ma si era illuso.
Nathan si morse la guancia con forza, gli occhi azzurri spalancati sul raggio di luce incandescente che inghiottiva i due corpi davanti a lui, senza riuscire a distogliere lo sguardo, malgrado il modo vergognoso in cui aveva iniziato a lacrimare.
Strinse il corpo svenuto che aveva tra le braccia. Cade pareva una bambola di pezza senza vita, un manichino simile a quelli che aveva usato per anni al Campo durante gli allenamenti, le esercitazioni di salvataggio. Solo che quella volta non c’era stoffa e paglia, non c’erano automi mal riusciti a cui i figli di Efesto avevano ormai rinunciato; c’era un’anima, un essere umano svenuto, debole, ferito, indifeso.
 
Che se solo fosse sveglio, ora, sarebbe un bel problema da tener fermo.
 
Dubitava che da solo Cade sarebbe riuscito a riprendersi in poco tempo e se la situazione fosse stata diversa non si sarebbe minimamente posto il problema perché aveva ben due figli di Apollo a cui affidare le sue cure. Se la situazione fosse stata diversa.
Perché Nathan aveva fatto in tempo ad afferrare l’irlandese, ad assicurarsi che Eliza, Jane, Úranus e Lea stessero bene, di aver superato il ragazzino in modo che non si trovasse troppo vicino al fottuto raggio della morte, che avesse tutto il tempo di tornare indietro e correre su quelle dannate gambette da fenicottero che si trovava. E invece era andato tutto a puttane.
Se fosse stato ancora vivo avrebbe giurato che quella scena se la sarebbe sognata per tutte le notti a venire fino alla fine dei suoi giorni. Nathan aveva provato quello che poteva essere descritto come puro e semplice terrore nel momento in cui, girando su sé stesso dopo aver afferrato saldamente Cade, si era reso conto che Jonas non si era fermato, che aveva proseguito la sua corsa e aveva fatto l’unica cosa più stupida di fidarsi di Cade Griffith che avrebbe mai potuto fare in vita – o morte – sua: si era lanciato nel raggio.
Una parte piccola, lontana e sibilante della sua mente, la parte logica che spesso aveva zittito nei momenti in cui ciò gli serviva veramente era solo abbassare la testa e menar duro, gli aveva sussurrato che quella fosse l’unica cosa sensata da fare: avevano visto come l’occhio di Sauron si fermasse non appena catturata un’anima, come si accanisse su di lei fino a consumarla e lasciarsi dietro solo polvere e puzza di bruciato. Il fascio di luce non si spostava all’impazzata, arrostendo un po’ qualcuno a destra e un po’ a sinistra, no, prendeva un’anima alla volta. Quindi era logico pensare che se, durante un inseguimento di un gruppo di anime, il Guardiano ne fosse riuscito a toccare una, avrebbe fermato la sua folle corsa verso le altre, permettendo loro di scappare.
 
E deve averlo pensato anche quella testa di cazzo.
 
Se lo sarebbe aspettato da chiunque un gesto del genere. Okay, non proprio da chiunque, non dalla pazza, per esempio, ma neanche da Jonas, non dal ragazzino che aveva paura di tutto e che pretendeva di non averne solo per soddisfare quell’eterno desiderio infantile e maschile di dimostrare a tutti che nulla poteva veramente toccarlo, che era un bambino grande ormai.
Ma mentre Nathan guardava il suo corpo andare a fuoco, bruciato da una luce tanto accecante da lasciar macchie azzurrognole impresse nella retina inesistente dei suoi occhi, non riusciva a far altro che pensare a come quel “bambino grande” avesse appena dimostrare di essere immaturo, stupido, un grandissimo deficiente convinto che l’unico modo per salvare tutti gli altri, qualcuno a cui evidentemente credeva di dover qualcosa, fosse sacrificando sé stesso.
 
E lui, dopo me, è quello che ha più senso torni sulla terra visto che è crepato prima ancora di arrivare alla maggiore età.
 
Invece aveva deciso di stupirli, il cretino, di dimostrar loro di essere cambiato, di non esser più il codardo che i tre Giudici avevano visto in lui, di “redimersi” dai suoi peccati e qualunque altra puttanata avesse pensato in quel momento.
Nathan non vedeva redenzione, vedeva solo un bambino, l’ennesimo, morto per colpa di un capriccio divino, andato a morire con la convinzione che quello fosse il suo destino.
Dei… se Cade fosse stato sveglio avrebbero dovuto placcarlo a terra per non farlo correre nel fascio di luce, perché era sicuro che l’altro l’avrebbe fatto, da lui se lo aspettava.
Eppure Nathan aveva fatto male i suoi conti, doveva ancora farci l’abitudine e forse, a questo punto, non gli sarebbe più servito farla, perché la terza ed ultima persona da cui non si sarebbe mai aspettato un gesto tanto folle e altruistico come buttarsi letteralmente nelle fiamme, era l’anima che invece l’aveva fatto, per giunta, nel palese tentativo di salvare chi vi era già dentro e non chi ne era scampato.
 
Cicno. Dannato greco.
 
Non sapeva perché l’avesse fatto, non aveva la più pallida idea del perché un essere con un così alto senso di autoconservazione e una così alta possibilità di vittoria si fosse tagliato le gambe in quel modo. Si era praticamente suicidato.
 
Di nuovo.
 
Quel pensiero sarcastico e caustico gli passò per la mente leggero e fugace, per poi scomparire nel nulla, divorato da quelle stesse fiamme che stavano divorando i loro compagni.
Tutto quello che poteva sperare era che sapesse ciò che stava facendo, che si fosse mosso con un proposito concreto e non per colpa dell’istinto, del senso del dovere o per qualche assurdo legame che quei due condividevano come dannati o-
-o per colpa dei bracciali?
Se avesse avuto ancora sangue caldo nelle vene, e forse lo era ancora, o di nuovo, in quel momento si sarebbe gelato.
I doni dei gemelli della Notte, doni così chiamati perché si presupponeva dovessero essere grati a chi li aveva ricevuti, avevano probabilmente spinto alla morte le due anime che li possedevano. Che fosse stato nella speranza di lavare le proprie colpe, nella convinzione di poter aiutare, mostrandosi coraggiosi, chi l’aveva sempre difeso, o che fosse stato per una motivazione istintiva, illogica, immotivata e forse anche rimpianta, ormai non aveva più importanza.
Nathan riuscì finalmente a chiudere le palpebre.
Anche ad occhi chiusi, la luce era tutto ciò che ormai riusciva a vedere.

 
*


 
Era stato come aprire gli occhi e tornare alla luce dopo esser stati immersi sotto la superficie opaca dell’acqua. La risposta a quella domanda gli era balenata in mente con una lucidità che non si sarebbe mai aspettato.

Correva a perdifiato, la terra battuta che si alternava alle strade lastricate delle vie principali, la gente attorno a lui chiacchierava animatamente come sempre durante quell’ora del giorno.
I suoi piedi erano piccoli ma svelti, le gambe magre ma scattanti, se si fosse fermato sarebbe stato perso.
Quando svoltò l’angolo era più alto di mezzo metro, si gettava occhiate furtive alle spalle, le ombre di quei due giovani erano lontane ma sapeva che nel momento in cui fosse giunto a destinazione non ci sarebbe stato nessuno a proteggerlo, solo la sua lingua tagliente e i doni del suo sangue divino.
Varcata la soglia della grande dimora, irrompendo nel giardino ben curato, era un giovane uomo e l’odore del vino era così forte da esser quasi nauseabondo. Quella volta non avrebbe avuto scampo, se non avesse scelto uno di loro, qualcuno a cui dare l’illusione di essere il prescelto, d’aver ogni diritto su di lui, si sarebbero tutti alleati per ottenere ciò che volevano e nessuno si sarebbe risparmiato. A quel punto sarebbe stata la sua vita o la loro.
Poi l’aveva visto.
Era un giovane di bell’aspetto, seppur un po’ semplice. Aveva lineamenti decisi ma ancora fanciulleschi, occhi caldi, capelli ricciuti e scompigliati.
Gli aveva sorriso voltandosi nella sua direzione e s’era congelato scrutandolo ben in volto. L’aveva visto battere le palpebre più e più volte e poi, imbarazzato, presentarsi e chiedergli a sua volta chi fosse, perché scappasse, se non fosse in pericolo.
Era stato lesto, al tempo, a rifugiarsi tra le braccia dello sconosciuto e chiedergli, con voce tremula che sapeva avrebbe smosso il lato protettivo dell’altro, di fingere d’essere un suo compagno, di fingere di essersi accompagnato a lui per quella notte.
 

"Ve ne sarei infinitamente grato. Mi salvereste da mani rozze e volgari obblighi."
"Basterebbe questo, a salvarvi dalle vostre pene?"
"Non potete neanche immaginare quanto questo significherebbe per me."
 

L’aveva capito poi, quando erano giusti un paio di vecchi uomini di rinomata fama, ubriachi e seguiti da valletti dalle facce timorose ma in un qualche modo abituate a quelle scene.
L’aveva capito quando quelli gli avevano chiesto se non fosse il fortunato vincitore di quella notte, quando avevano riso augurandogli di godere di ogni momento, perché difficilmente avrebbe potuto mai ritrovare qualcuno in grado di scaldare il suo giaciglio come avrebbe fatto il giovane che teneva tra le braccia.
Era stata forse l’espressione di malcelata rabbia, l’umiliazione nel sentirsi appellare come fosse una prostituta di basso rango, ad aver convinto lo sconosciuto a tener in piedi quel gioco.
Rimasti soli era regnato il silenzio tra di loro, finché il suo salvatore non gli aveva chiesto se non avesse piacere a visitare il resto dei giardini con lui.
 
Camminare tra la natura era sempre stato qualcosa di rilassante, lo ricordava ancora malgrado fossero passati millenni dall’ultima volta che aveva visto della vegetazione viva e non quella morta, scura e luminescente dell’Ade. Gli aveva sempre portato consiglio, aiutandolo a liberare la mente e forse, se quello che gli era stato detto in vita era vero, i boschetti dei Campi Elisi avevano influito su di lui anche se a separarli vi erano le mura più alte che anima umana avrebbe mai potuto osservare.
Era stato banale, quasi ovvio, a ben pensarci.
Aveva fatto, in vita, l’unica cosa per cui valesse la pena essere perdonati?
Se avesse dovuto scommettere, senza il minimo indizio, sarebbe scoppiato a ridere come non faceva da tempo perché no, Dei dell’Olimpo, no, assolutamente no, non c’era una singola azione nella sua vita che potesse concedergli il perdono supremo, l’assoluzione da ogni male.
Quindi perché si era buttato in quel raggio luminoso se era certo che nulla l’avrebbe potuto aiutare?
Perché in una piccola, piccolissima e profondissima parte della sua mente la sua coscienza gli aveva domandato se non ci fosse almeno qualcosa di buono in lui, nel suo passato, almeno una cosa buona, una cosa per cui nessuno avrebbe mai potuto criticarlo ma magari comprenderlo?
Oh, la lista di cose per cui esser criticato era lunghissima: le sue azioni, i suoi piani, i suoi intrighi, le sue prove ed il sangue che gli sporcava le mani. L’avevano accusato d’essere un traditore, un bugiardo, di essere un tiranno crudele e di essere un mostro. D’essere egoista e vanitoso, di essere ingordo, peccare di lussuria, di cupidigia di qualunque parola potesse indicare la sua inestinguibile fame di potere.
Era il responsabile della morte di molti, della disperazione di tanti altri, di quella dell’unica donna che l’avesse mai amato e che ora, davanti ai suoi occhi spalancati nel fuoco, piangeva la sua perdita, la sua morte prematura.
Il velo nero non faceva altro che accentuare il suo pallore, l’ombra che le gettava sul volto non nascondeva lo scintillio delle lacrime, il rossore dei suoi occhi.
Eppure, nel dolore straziante che quel visto gli procurava, Cicno avrebbe solo voluto urlarle contro, gridarle che l’aveva esposto e venduto come un gioiello prezioso per tutta la vita e che solo alla sua scomparsa si era inginocchiata a piangere per lui. Aveva pianto per la sua morte ma mai per la sua dannata vita, mai per tutto ciò che aveva dovuto subire in tutti quegli anni.
Ma Cicno la amava. Amava sua madre come solo un figlio può amare e se erano grida di rabbiosa disperazione quelle che voleva rivolgere alla donna, certo non avrebbe mai voluto vederla morta.
Non riusciva a chiudere gli occhi, non riusciva a smettere di fissare il suo volto mentre molti altri gli vorticavano attorno.
Erano centinaia, tantissimi visi che lui sapeva d’aver conosciuto in vita ma di cui non ricordava spesso il nome o le fattezze originarie.
Quel che era certo però, era che finalmente i suoi fantasmi avevano spazzato via quelli di Jonas, che gli si stringeva al petto come un infante, singhiozzando e chiedendo scusa per colpe che non erano sue, che non lo sarebbero mai potute essere. Ma Cicno capiva, capiva che forse alcuni di quei comportamenti li aveva avuti anche lui, se per fingersi più simile a ciò che il suo popolo si aspettava da lui, per educazione o per vera credenza, lui non poteva saperlo, però capiva.

Saresti potuto essere tu, vero? Saresti potuto essere tu al loro posto, o al mio.
 
Quel pensiero lo sfiorò leggero e Jonas si spinse ancor di più contro il suo petto, quasi gli volesse entrare dentro.
Oh, lo capiva quindi, lo sentiva. Ma certo, che sciocco che era stato a dubitarne. Così come lui poteva sentire i tormenti del giovane così l’altro poteva sentire i suoi.
Sciocca era stata anche la sua reazione, così impetuosa e immediata, nel momento in cui aveva capito cosa chiedesse il Guardiano degli Elisi.
L’unica cosa per cui valesse la pena vivere, l’unica cosa buona che aveva fatto Cicno in vita sua.
 
Ma ho sbagliato anche lì, lo so. Sono riuscito a peccare anche nell’unica cosa degna del perdono supremo.
 
Perché Cicno era riuscito a fare anche quello nel modo sbagliato.

Con gli occhi spalancati nel fuoco purificatore del Guardiano, Cicno cercò di pensare nel modo più lucido possibile, per quanto glielo permettesse quell’assurda situazione.
Non era certo la prima volta che veniva torturato con delle fiamme, che fossero queste di fuoco greco o di banale fuoco mortale, per decenni si erano susseguiti nel suo girone torturatori amanti delle ustioni, dei roghi. Oh, se solo fossero stati ancora capaci di morire, quanti dei suoi compagni sarebbero periti in quelle grandi pire che venivano innalzate nella sua terrazza.

La mia personale, personalissima terrazza.
 
Puntò lo sguardo tra la figura di sua madre e quella del bel giovane che lo fissava orgoglioso, lasciando sfocare la vista, lasciando che tutto s’appannasse. Non doveva guardare nessuno, non doveva concentrarsi su nessuno. Aveva passato di peggio, gli avevano inferto dolori più grandi di uno stupido falò.
Serrò la mascella e iniziò a respirare piano, cercando di entrare in quello stato di trance che aveva imparato ad assumere nei secoli di tortura, per sfuggire ad ogni male. Doveva trovare quella sottile connessione che gli era stata imposta da quando aveva lasciato i cancelli neri, quando era stato legato a Jonas. Il ragazzino percepiva i suoi sentimenti, le sue emozioni, ma non erano chiare, non erano lineari e soprattutto, non erano moderate. Probabilmente in quel momento si stava perdendo nei meandri del dolore che aveva inferto agli altri. No, non era dolore, o almeno, il dolore era solo il risultato finale.
Si costrinse a rallentare ancora di più il respiro, a diminuire la quantità di aria incandescente che andava riempiendo i suoi polmoni vuoti. Piano, piano, sempre più piano. Doveva ricordare al suo corpo, no- alla sua anima, che omani non avevano più bisogno d’aria per sopravvivere.
 
Sono morto. Sono morto.
 
Un basso ronzio iniziò a sfiorargli i timpani, un suono di sottofondo che lentamente mangiava il crepitio della luce, lo sfrigolio della carne arsa.
C’era uno spazio, tra quel suono, come una fessura tra due mattoni. Dietro di essi, nascosto per bene ma non completamente isolato, c’era il suo obiettivo.
 
“Jonas?”
 
Provò a chiamare con voce ferma.
Non ottenne alcuna risposta e provò ancora.
 
“Jonas?”
“Jonas.”

 
Un tremulio, qualcosa oltre la fessura, captò la sua voce, ma era come se non capisse davvero se fosse reale o meno. Non c’era abbastanza spazio e Cicno lo sapeva, l’aveva sospettato.
Il Guardiano stava concentrando il suo occhio su di lui sempre più, probabilmente perché ciò che c’era da giudicare, da scandagliare, era molto di più e molto più torbido di quanto non ci fosse nella breve e sciocca vita di quel giovinetto. Ma in quel momento non c’era tempo per quelle riflessioni, non c’era tempo per parlargli con gentilezza, per convincerlo ad accostare l’orecchio al muro e credere che i suoni che vi filtravano oltre fossero veri e non frutto della sua immaginazione.
Doveva allargare la fessura.
 
Bisogna infilare il coltello più in profondità, per estrarre la punta della freccia.
 
Avrebbe fatto male? Sì, probabilmente sì. Il ragazzino avrebbe potuto sentire altri frammenti del suo dolore e magari esserne anche sopraffatto, ma se non si fosse sforzato di sopportare un po’ non sarebbe mai potuto scappare da lì.
 
Nessuno dei due potrà farlo.
 
Così si protese verso Jonas, protese la sua anima, i suoi ricordi, il suo dolore e vi si spinse senza pietà.
I mattoni tremarono, la fessura s’allargò, la stretta delle mani di Jonas sulla sua pelle si fece più feroce, le unghie gli si conficcarono nella pelle, graffiandola via.
Scavava senza remore, cercando di contenere un male da cui prima gli era stato fatto scudo con tanta forza e che ora invece gli veniva offerto su di un piatto d’argento, come fosse la principale portata di un banchetto che non poteva rifiutarsi d’assaggiare.
La rabbia cocente bruciava più del fuoco, i sentimenti che si susseguivano, onde e onde di risacca lavica che si abbatteva sulle sue gambe come fosse stato immerso in un mare di plasma, erano ben diversi gli uni dagli altri, ma avevano tutti la stessa matrice: desiderio.
Che fosse possesso, che fosse gloria, fortuna, fama o puro piacere, tutti i sentimenti che traboccavano su di lui nascevano dal desiderio di ottenere qualcosa che avrebbe reso quella persona felice.
Sì, avrebbe reso altri felici, ma non lui.
 
No, non me. Cicno.
 
Cicno?
 
“Jonas.”
 
La voce arrivò bassa, piatta, priva di qualunque intonazione.
Jonas allargò le mani solo per poi riaffondare le unghie ancora e ancora sui solchi che aveva già scavato.
Come si poteva soffrire così tanto e non impazzire? Come si poteva rimanere vivi?
 
Ma lo siamo forse? Siamo vivi o siamo morti?
 
“Ascolta la mia voce. Segui i miei comandi.”
 
La voce di Cicno gli parlò ancora, ma Jonas non sapeva sinceramente se fosse vero o se si stesse immaginando tutto. Forse era davvero impazzito dal dolore.
 
“Devi allentare la presa, discostati da me. E quando non saremo più in contatto ti sarà più facile fuggire dal Guardiano.”
 
Fuggire. Sì, gli sarebbe proprio piaciuto fuggire da quel dolore. Sarebbe stato bellissimo.
Ma- da solo?
 
Insieme?
 
“No. Non possiamo fuggirgli entrambi.”
 
No. Allora no. In quel caso non se ne sarebbe andato.
Jonas spinse la testa contro il torace di Cicno, cercando disperatamente di stringerlo ancora di più a sé.
Si era buttato in quel dannato fascio di luce per salvare i suoi compagni, per dimostrare loro di essere utile a qualcosa, di essere coraggioso. Per dimostrare a tutti che non era più il codardo di un tempo, quello che aveva rubato la pistola a suo nonno e- non era più un codardo. Jonas non era un codardo.
 
Non scapperò più, se continuo a farlo ora, qui sotto, che speranze ho di sopravvivere sopra?
 
“Se non ti allontani ora non arriverai mai su. Né in questa vita né in un'altra.”
 
La sua voce era calma, logica, gli ricordava tutte quelle volte in cui gli aveva parlato con gentilezza, cercando di spiegargli qualcosa di semplice o complesso, di quietare tutti i suoi tormenti. Come poteva essere così tranquillo ora, in quel dannato rogo?
Cercando di assicurare la presa sul suo compagno Jonas si ripeté mentalmente le parole di Demetra, più e più volte.
Cosa diamine valeva l’assoluzione da tutte le colpe?
Cos’era l’unica cosa che valeva il perdono? L’unica cosa giusta, che tutti avrebbero potuto fare in vita?
Non lo sapeva, il calore era troppo forte, il dolore, seppur riflesso, affilato come una lama. Pesante come una pistola stretta in mano, puntata alla testa.
Cos’era? Cos’era? Cicno lo sapeva? Si era buttato nel fuoco perché lo sapeva o solo per colpa del loro legame?
 
Lo sa?
 
“Sì. Lo so. Ora lasciami andare.”
 
Quella rivelazione portò un po’ d’aria fresca sotto il getto bollente della luce del Guardiano.
Cicno sapeva come liberarsi, quindi non era stata colpa del legame, aveva un piano. E se aveva un piano forse poteva fidarsi, forse poteva allentare la presa, scostarsi. Forse poteva lasciare che fosse il greco a pensare a tutto, a sfuggire al Guardiano. Lui poteva andarsene, smettere di soffrire e lasciare che-
 
Lasciare che siano altri ad affrontare quello che verrà dopo che me ne sarò andato.
Di nuovo.
 
Il muro che li divideva s’incrinò ancora di più, i mattoni iniziarono a tremare mentre una rabbia sorda, così diversa da quella che filtrava da Cicno, l’avvolse come una corda. Stretta al collo.
Era questo dunque? Si era buttato in quel cazzo di raggio per dimostrare a tutti di non essere più il ragazzino codardo che era alla sua morte, per fare la cosa giusta per una volta e dare ai suoi compagni, ai suoi amici, una possibilità in più e poi? Poi qualcuno gli proponeva ancora una via di fuga e lui non ci pensava due volte ad accettare. Poi qualcuno gli dava la possibilità di sollevarsi da ogni decisione, alle conseguenze delle sue azioni, delle sue scelte, e lui accettava di nuovo la via più semplice.
No. Oh no, sarebbe stato dannato se avesse di nuovo scelto di scappare, se avesse di nuovo abbandonato qualcuno che soffriva come lui, che soffriva più di lui.
 
Se avesse abbandonato qualcuno nella sua stessa situazione invece di rimanergli vicino e affrontare il domani insieme.
 
La rabbia montò prepotente nel suo petto, il ruggito del fuoco che li avvolgeva si fece più profondo, intermittente, come la risata baritonale di un uomo. Che stesse ridendo di lui, della sua debolezza o che stesse ridendo per lui, per aver finalmente realizzato quale fosse la scelta giusta – giusta, non semplice, non di nuovo – Jonas non lo sapeva, ma gli diede uno strano brivido che l’aiutò a distaccarsi per un attimo dalla bolla di luce in cui si trovava.
Aprendo gli occhi a fatica, fra le fiamme, Jonas giurò di poter vedere un uomo, vestito in un lungo cappotto nero, scuro come i suoi capelli, come il sigaro che teneva tra le labbra tirate in un ghigno ferino. Era strano come riuscisse ad individuare il tizzone bollente tra le ondate di calore che gli sfocavano la vista, ma il suo cervello registrò solo marginalmente quell’informazione, perché tutta la sua attenzione, tutta la sua rabbia e la sua determinazione, si congelarono per un lungo momento quando incontrò gli occhi dell’uomo.
Occhi così non ne aveva mai visti in vita e neanche nella morte. Brillanti, accesi dai riflessi caldi delle fiamme contro la superficie lucida e inscalfibile dell’oro.
La risata si fece più alta, più profonda, come un eco. Cercava di dirgli qualcosa, cercava di spingerlo alla soluzione giusta, gli pareva quasi di poterlo sentire sussurrare.
 
 
Quasi. Ci sei quasi ragazzino. Vicino, ma non abbastanza.
 

Ma chi era? E perché voleva aiutarlo?
Aspetta- un uomo vestito di nero, con un sigaro, che spia da lontano, che aiuta-
Era lo stesso uomo che avevano visto gli altri? Perché li aveva aiutati? Perché continuava a farlo?
 
 
Perché è utile.
 
A chi?
 
A me.
 
Il brivido freddo si estinse, la rabbia lo riavvolse ancora.
La rabbia era positiva, la rabbia lo faceva ragionare più lucidamente, per quanto paradossale potesse essere. La sentì pizzicargli sulle braccia bruciate, sulle guance asciugate dal calore mortifero del Guardiano.
Utile per lui, per quel signor nessuno.
Così come la sua morte era stata utile solo a sé stesso. Così come quello stupido gioco era utile solo alla noia degli Dei.
Nathan aveva ragione, non era magnanimità quella che aveva mosso l’Olimpo nell’ideare questa gara, non era la volontà di dare una seconda possibilità ad un’anima meritevole.
Era per il loro divertimento. Era per l’utilità di qualcuno che si era divertito a guadarli camminare sul ciglio di un burrone per poi scostarli dal baratro solo quando pensava che cadendo avrebbe perso delle pedine.
Oh, Jonas era stato una pedina per tutta la vita, eseguendo gli ordini, cercando di ballare a ritmo di una coreografia che gli stava stretta, che non era stata scritta per lui. Era stato un personaggio in una tragedia più grande di qualunque uomo e alla fine era morto per colpa sua e sua soltanto, per colpa della sua paura, della sua codardia.
 
La paura di essere scoperto è stata più grande della voglia di vivere.
 
E la cosa lo nauseava come mai aveva fatto prima d’allora.
Aveva cercato di mettere le cose in ordine, di fare finalmente la cosa giusta e anche nel suo primo, vero ed unico atto eroico – decente – si era ritrovato a stringersi disperato al corpo di un altro interprete. Perché ancora una volta non era riuscito a sopportare a pieno le conseguenze delle sue azioni, delle sue scelte.
Cicno l’aveva raggiunto per salvarlo, ancora, come tutti facevano da quando si erano uniti in quello strano gruppo e malgrado stesse soffrendo, malgrado ci fossero più volti nel suo passato rispetto a quanti non ce ne fossero nel proprio, gli stava comunque offrendo una via d’uscita, un modo per scappare, di nuovo, dalle conseguenze. 
 
Vicino, così vicino, ma non abbastanza, mai abbastanza.
 
Utile. Utile per gli altri.
 
Forse, si disse Jonas con rabbia, era arrivato il momento di fare davvero qualcosa di utile per gli altri. Qualcosa di basilare, di semplice, di stupido e scontato come il non andarsene.
 
Non poteva vedere davvero oltre il raggio di luce, oltre quel faro che era il Guardiano. Non sapeva quanto fosse distante dal porto sicuro, ma sapeva invece che il suo compagno poteva scorgere la terra ferma oltre il mare in fiamme.
Doveva solo fidarsi di Cicno e rimanere al suo fianco.
 
 
«Andrà tutto bene, vedrai che le cose si sistemeranno. L’importante è non perdere la speranza, non lasciarsi sopraffare dalla paura. So che ne usciremo, insieme.»
 
 
«Cicno?» mormorò con voce rauca, le labbra secche come d’estate, spaccate come d’inverno.
Sentì una leggera carezza alla testa e non cercò di alzare il capo per guardarlo, tenendo gli occhi fissi sulla figura fantasma dell’uomo vestito di nero, che da lontano continuava a sorridergli.
Era forse un dio? Chissà di cosa.
«Allenta la presa, va tutto bene.» gli rispose lui di rimando.
Ma Jonas dissentì con un gesto secco. «Cos’è? Dimmi cos’è. Possiamo farcela anche in due.»
Per un lungo momento il greco non gli rispose e lui si ritrovò ad aspettare con il fiato in gola, quasi timoroso che l’altro rifiutasse il suo aiuto, che lo costringesse ad allontanarsi così come aveva fatto poco prima.
Non voleva abbandonarlo, non avrebbe voluto abbandonare i ragazzi, che sapeva essere assieme e capaci di difendersi, figurarsi abbandonare lui in quell’inferno.
 
Anche se tu ci vieni dall’inferno, vero?
 
«Non scapperò.» disse ancora. «Non questa volta. Mai più. Mai più la via più semplice.»
L’ultima parola fu poco più di un sussurro, ma Cicno dovette averla sentita chiaramente perché le dita affusolate ebbero un tremito, l’eco di un ricordo che solo lui poteva conoscere, poteva capire.
«Cos’è l’unica cosa per cui vale la pena essere perdonati?»

Le fiamme crepitarono sulle loro pelli, Jonas non sapeva cosa stessero facendo gli altri fuori dal raggio del Guardiano, non sapeva se fossero vivi, se fossero al sicuro, se stessero cercando di aiutarli, di tirarli fuori di lì o se fossero stati costretti a combattere contro altre guardie dell’Ade.
Non sapeva se Cade fosse ancora svenuto, se Lea fosse riuscita a farlo riprendere, se le sue condizioni fossero gravi, se la figlia di Apollo fosse riuscita a passare il varco oppure no. Se Nathan fosse ancora lì fuori ad aspettare il suo riscatto o a guardarli bruciare impotente. Non sapeva se Jane riuscisse a scorgerli o se tutto quello che riuscisse a vedere fosse la sua stessa morte. Non sapeva se Eliza avesse dovuto trattenere altri dal gettarsi nel fuoco, se non avesse cercato lei stessa di raggiungerli, di toccarli.
Non sapeva nulla se non che quell’uomo lo fissava da lontano e che Jonas, per una volta nella vita, aveva tutta l’intenzione di ripagare le sue aspettative e di fare esattamente quello che lo sconosciuto voleva: uscire di lì con il suo compagno, senza lasciarsi nessuno alle spalle, affrontando di petto il futuro e tutte le prove a venire.
 
Cos’era l’unica cosa al mondo per cui valeva la pena essere perdonati?
 
Oh, è abbastanza scontato se ci pensi, ragazzino. Tu ci sei morto.
 
Cosa?
 
Lui c’era morto? Per cosa era morto Jonas?
 
Un leggero movimento attirò d’improvviso la sua attenzione.
Cicno chinò la testa verso la sua, fino a sfiorargli l’orecchio con le labbra spaccate.
 
«In questo caso,» sussurrò, «dimmi che hai amato, figlio di Photos. Dimmi che hai amato e che sei stato amato, o impara a farlo ora.»
 
Avete fatto, in vita, l’unica cosa degna, per ambire al perdono? 

Hai mai amato, Jonas Frederich?
 
Oh.
 
 
*



Stava vivendo un incubo ad occhi aperti, qualcosa che non si sarebbe mai aspettata di provare in una situazione del genere. Da morta. Durante una gara.
Eppure Eliza se ne stava ferma immobile, in ginocchio, con le braccia abbandonate lungo i fianchi a fissare un fascio di luce potente come i fari di un treno, inghiottire completamente due dei membri più fragili del suo gruppo. Due che avevano già sofferto abbastanza.
Ad essere onesti, lei non poteva saperlo.
Era convinta che Jonas avesse assolto alle sue colpe già anni prima, la diserzione era una grande vergogna, ma da parte di un ragazzino, quando non era neanche stato chiamato alle armi, era un qualcosa di comprensibile, di giustificabile.
Cicno invece era tutt’altro discorso. Eliza non aveva la più pallida idea di cosa avesse fatto, di cosa si fosse macchiato le mani, ma erano secoli ormai che si trovava nei Campi di Pena e fuori da essi, in quel lungo tempo indefinito, si era dimostrato un valido compagno, un grande aiuto, una salvezza inaspettata. Era un dannato, non aveva vergogna o rimorso d’esserlo, eppure si era condannato a morte certa per cercare di recuperare Jonas.
Questo la feriva profondamente nell’orgoglio.
Se ci fosse stata lei al posto di Cicno, se non fosse stata impegnata a spingere Jane avanti a sé, se non avesse avuto Úranus e Nathan e Cade tra lei e Jonas, si sarebbe gettata anche lei nel fascio di luce per cercare di salvare il ragazzino?
 
Avrei accettato la sconfitta, la morte, la scomparsa definitiva della mia anima, per salvare un compagno?
 
A porsi quella domanda Eliza si riscosse da sola, animata d’improvviso di un senso di delusione verso sé stessa.
Certo che si sarebbe buttata nel fuoco, certo che avrebbe scommesso la sua anima per salvare quella di un compagno.
Eliza aveva fatto di tutto, in vita, per poter combattere per il suo paese, per il suo popolo, per i suoi compagni e al fianco di essi fino alla fine. Solo perché ora coloro che combattevano al suo fianco non indossavano la sua stessa divisa non significava che la loro vita valesse meno di quella dei suoi commilitoni. Non significava che la sua fedeltà verso di loro fosse più labile, più debole.
 
Fidati dei tuoi compagni come ti fideresti della tua famiglia. Loro sono tuoi fratelli, sono coloro con cui vincerai o al fianco di cui morirai. Per la patria, per la libertà.
 
Strinse i pungi ma non distolse lo sguardo dal raggio. Al limitare del suo campo visivo poteva scorgere delle sagome ben riconoscibili: quella di Nathan, seduto a terra con Cade ancora stretto tra le braccia e quella di Úranus, impietrito, ancora in piedi, proteso verso la luce.
Era successo tutto così velocemente, Eliza sapeva che non potevano essere passati che pochi minuti, ma le pareva d’esser rimasta lì, ferma immobile, per ore.
Era come fissare una casa andare in fiamme senza poter spegnere l’incendio. Come osservare una nave affondare senza poterlo impedire.
Era come guardare la fine con la consapevolezza della sua inevitabilità.
Solo che Elizabeth Reed non aveva mai aspettato che la fine arrivasse senza far nulla.
Aveva combattuto fino all’ultimo respiro, fino a che le gambe avevano retto, fino a quando la benedizione di sua madre non si era dissolta e il suo corpo aveva ceduto, ormai allo stremo, all’abbraccio della morte.
Elizabeth- no, Alexander Johnson aveva agito finché gli era stato concesso di farlo, finché era stato necessario.

Non mi sono fermata al tempo, quando erano centinaia i compagni che chiedevano aiuto, quando era consapevole di non poterli aiutare tutti. Non mi fermerò certo ora che sono solo due.
 
Stringendo le mani con forza le riaprì subito dopo di scatto, poggiando un piede a terra per potersi far forza ed alzarsi. 
Non sarebbe rimasta a guardare, non l’aveva mai fatto, non avrebbe iniziato quel giorno.

«Jane.» chiamò con fermezza.
La figlia di Ecate scattò sull’attenti come un soldato ben addestrato, animata da una spinta sovrannaturale che s’impose sul suo corpo come una magia.
«Sì?» domandò insicura.
«Che incantesimi conosci che possano spegnere un fuoco, portare oscurità o anche attirare corpi a te?»
La sua voce suonò imperiosa, vibrante di una malia che Jane non riusciva a comprendere ma che Úranus, ancora fermo immobile in piedi, capì perfettamente.
Quella era la voce di Nike, era il tono che tutti coloro che erano stati benedetti dalla Dea, o ne discendevano, erano in grado di usare sugli altri, sui sottoposti soprattutto, per comandarli, per potarli ad agire come un’unica armata, per portarli alla vittoria.
Non lo disse però, fissando invece Jane che la osservava senza sapere cosa rispondere, balbettando qualche parola senza senso nella speranza di ricordare qualcosa.
Eliza non sembrò curarsi di quel tentennamento e si volse invece verso gli altri.
«Nathan, porta Cade oltre le Porte, lascialo al posto di guardia di Shilon Yu. Lea, tieniti pronta ad agire velocemente, saranno entrambi coperti di ustioni, dovrai curare prima chi ripoterà le ferite peggiori e poi l’altro, ma non ci sarà tempo per prendere fiato.
Úranus-» chiamò rigirandosi anche verso di lui. «Mantieni la calma e tieniti pronto a scattare, noi prenderemo entrambi e li porteremo più velocemente possibile nei Campi Elisi. A te Jonas, a me Cicno, sono stata chiara?»
I suoi compagni la guardarono sbigottiti, Jane teneva la testa bassa cercando di riportare alla mente qualcosa di utile, Nathan, che fino a poco prima aveva tenuto gli occhi chiusi ed il capo chino verso Cade, ora la fissava spaesato.
«Cosa?» domandò solo battendo le palpebre.
Eliza lo guardò con durezza, rimproverandolo per quella confusione quando sarebbe dovuto essere il più reattivo e scattante ai suoi comandi.
«Prendi Cade, portalo in salvo.» scandì con fermezza.
Nathan batté ancora le palpebre. «Non posso passare, non sono stato benedetto.» cercò di spiegare.
«Non m’importa. Provaci lo stesso, se non ti fanno passare lascia Cade sulla soglia delle porte.»
«Ti faranno passare.» mormorò Lea tirandosi in piedi lentamente. «Non è mai stato detto che solo i benedetti dalle guardie potessero passare.»
«Allora vai, forza.»
«Ma non sono stato benedetto!» ripeté riprendendo forza
«Non è il momento opportuno per preoccuparsi di questo.»
«Sì che lo è! Non posso entrare negli Elisi così, non capisci? Mi hanno sconfitto, sono stato sconfitto! Tu più di chiunque altro dovresti-»
«Non è il momento!» gli urlò contro Eliza. «Non è il momento di pensare al tuo orgoglio soldato! Non è il momento di pensare alla gloria e all’approvazione di tuo padre! Siamo in una situazione critica, due nostri compagni sono imprigionati in un getto di fuoco, l’unico che potrebbe essere abbastanza veloce da portare tutti noi lontano dal pericolo- un pericolo che non possiamo combattere- è svenuto. Abbiamo tre feriti ed un solo guaritore. Uno di noi rischia di distruggerci tutti se non mantiene la calma e nessuno di noi è immune al fuoco. Non ho tempo per i tuoi piagnistei, Wright! Fai l’uomo ed esegui gli ordini!»
Nathan la fissò a bocca aperta, gli occhi verdi della donna sembravano venati d’oro, il metallo più prezioso, quello per i vincitori, per le coppe. Il colore della vittoria.
Eliza non gli aveva mai urlato contro in quel modo, non gli aveva mai urlato degli ordini, non aveva mai messo in dubbio il suo essere un buon soldato, il saper valutare cosa fosse più importante, cosa fosse giusto fare. Ma in quel momento l’aveva fatto.
Ingoiando tutto l’orgoglio ferito che si ritrovava in corpo, Nathan dovette ammettere a sé stesso che la compagna aveva ragione: era rimasto fermo immobile davanti al fascio di luce, ad occhi chiusi perché non poteva sopportare di vendere quei due corpi ardere vivi, con Cade svenuto tra le braccia senza poter far nulla per aiutarlo. Per aiutare tutti.
Non era così che si comportava un guerriero, non era così che comportava un soldato, un Marines. Non era così che sua madre l’aveva cresciuto.
Nathan era un leader nato, ma anche i leader, prima di diventare tali, avevano bisogno di sottostare al comando di altri. Anche i leader dovevano capire quando era il momento di fare un passo indietro e lasciare le redini a qualcuno che ne sapeva più di loro.
Una mano gli sfiorò il braccio.
Il figlio di Ares si volse a guardare Lea, che gli sorrideva tirata.
«Portalo in salvo. Non c’è niente di più onorevole del mettere sé stesse ed i propri desideri dietro alla vita di un amico.»
Aprì bocca per risponderle ma non trovò nulla da dirle. Annuì solo e si alzò in piedi, abbassandosi poi di nuovo per tirar su Cade, aiutato da Lea a sistemare meglio l’irlandese tra le sue braccia.
«Stai facendo la cosa giusta, tuo padre è il Dio della Guerra, come pensi che reagirebbe se sapesse che pur di raggiungere un obiettivo personale hai lasciato indietro un compagno ferito?» continuò la bionda spostando la sacca di Cade per mettersela lei stessa in spalla. «È la cosa giusta.» ripeté.
«Fai quello che puoi, aiutali. Io- io sarò sulla soglia, non ci allontaneremo da oltre il bordo, okay?»
I due si scambiarono un lungo sguardo, cercando di infondersi a vicenda un minimo di forza e di speranza, mentre più avanti Jane contava sulle dita gli incantesimi che conosceva e quelli che pensava di poter eseguire in modo corretto, o quanto meno decente, anche se non li aveva mai fatto.
 
«Acqua- penso di poterne creare una piccola quantità, ma non so se sono in grado di farne tanta da spegnere il fascio di luce.»
«Non credo servirebbe comunque. È un raggio divino, non è un fascio di fuoco.» mormorò Úranus.
«Se è luce e non fuoco sì, l’acqua non serve a gran ché. Puoi creare dell’ombra?» chiese veloce Eliza.
«Quello possono farlo i figli di Ade, quelli di Ipno. Di Nyx. Non so se Ecate-»
«Mia madre è la Dea della Magia, sono sicura che lei sarebbe in grado di farlo. Io? Non lo so.» ammise Jane scuotendo il capo. Spostò lo sguardo sul fascio di luce e aggrottò le sopracciglia. «Non sta durando troppo? Perché il raggio li sta- bruciando così tanto, perché non li ha già inceneriti?» domandò sospettosa.
Eliza annuì. «Non penso siano passati che dieci minuti, ma sì, l’altra anima che abbiamo visto è bruciata più in fretta, ma non sfidiamo la nostra sorte. Quindi? Ombre?»
Jane respirò a fondo e poi espirò pesantemente. «Non l’ho mai fatto, ma non avevo neanche mai fatto diventare invisibile una lama di mia spontanea volontà.» affermò infine con uno slancio di fiducia che forse non aveva mai sentito.
La figlia di Nike la guardò con serietà, ma nei suoi occhi brillava anche qualcosa come soddisfazione, orgoglio.
«Allora fai la tua magia, figlia di Ecate.»
Jane annuì secca e si voltò a fronteggiare la cascata di luce incandescente che investiva i suoi compagni, gli unici due che come lei avevano conosciuto solo dolore e tormento.
Poteva farcela, aveva già affrontato il fuoco, aveva già affrontato una colonna di fiamme che aveva inghiottito un corpo ardendolo vivo.
 
Ci sono già passata, so cosa si prova, so cosa avrei voluto sentire in quel momento.
 
Nulla.
Il silenzio contro lo sfrigolio della carne, contro le urla. L’immobilità contro l’arricciarsi della pelle, il contrarsi dei muscoli, lo sciogliersi della carne.
Il buio contro la luce fiammeggiante del suo personale rogo magico.
C’era nebbia attorno a lei, banchi di Foschia che Demetra aveva tirato su con uno schiocco di dita e che con altrettanta facilità aveva fatto crollare. Jane era riuscita a sfruttare quelle rimanenze prima, quando c’eran altri in pericolo, poteva farlo anche ora. Doveva farlo anche ora.
Non era stupida, si era resa conto che la sua magia aveva più probabilità di funzionare e farlo al meglio quando erano coinvolti anche altri, quando una sua azione serviva per proteggere, aiutare, salvare.
Doveva solo concentrarsi e fare ciò che secoli prima non era riuscita a fare: estinguere le fiamme.
 
 
Eliza fece un passo indietro ma si protese in avanti, pronta a scattare, a prendere Cicno e portarlo il più velocemente possibile al sicuro. Così, a veder lei, anche Úranus si mise in posizione, al suo fianco.
Alle loro spalle Lea si era fatta silenziosa, rigida, vigile. Gli occhi chiari scattavano con attenzione da una zona all’altra, controllando il perimetro visibile prima dei banchi di nebbia, controllando Nathan che si avvicinava sempre di più all’entrata dei Campi Elisi, controllando Jane stessa che prendeva respiri sempre più lenti, sempre più profondi, per poi fissare il fascio del Guardiano come se quella luce non la ferisse, come se essere figlia del Sole le avesse donato la capacità di fissarlo senza accecarsi.
Nathan intanto avanzava a testa alta, la mascella serrata, i denti premuti così forte gli uni contro gli altri da poterli quasi spezzare. Cade, tra le sue braccia, pesava esattamente come un corpo inanimato avrebbe dovuto pesare. Molle, abbandonato, instabile e al contempo manipolabile. Non si era ripreso, non accennava a volersi svegliare, a muovere un solo muscolo, ma Nathan sapeva che non era morto – ri-morto – che necessitava solo di riposo, di cure mediche.
 
Cure che probabilmente non gli potremmo fornire perché Lea dovrà occuparsi delle ustioni degli altri.
 
Ma non era compito suo pensare a Cicno e Jonas. A lui spettava portare Cade in salvo, spettava vegliarlo finché i loro compagni, tutti, non sarebbero giunti al traguardo di quella quinta dannatissima prova. A lui spettava solo guardare e aver fede e queste erano entrambe due cose a cui Nathan non aveva mai dato importanza, che aveva sempre disprezzato, delegato a terzi. Non gli era mai capitato di essere lui quello in panchina, quello a cui non era permesso scendere in campo e mentre avanzava sempre con più sicurezza e ritmo verso l’entrata delle Mura Bianche, si disse che aspettare faceva davvero schifo al cazzo.
 
 
La magia le formicolò sotto la punta delle dita, la sentì risalire verso i palmi scivolando tra le sue caviglie prima di arrotolarsi in volute fumose e proseguire il loro cammino. Incespicarono sull’orlo della gonna tagliata, sul vecchio grembiule logoro, sulle maniche squarciate e si legarono come un bracciate aderente ai suoi polsi.
Non doveva evocare nulla, non doveva creare nulla, doveva fare esattamente ciò che aveva fatto durante il duello con la guardia dell’Ade: nascondere qualcosa agli occhi di tutti.
Abbassò le palpebre e il mondo si tinse di nero.
Questo, era questo quello che doveva fare, generare buio nascondendo la luce. Doveva nascondere la luce crepuscolare dell’Ade e con questa quella accecante del Guardiano.
Doveva solo nascondere, non eliminare, non distruggere.
Nascondere la realtà come era stato fatto a lei per tutta la vita.
Nelle profondità della sua memoria la voce fastidiosa ed esageratamente acuta di sua cugina continuava a ripete la stessa frase.
 
“È lei la strega! È lei la strega”
 
Non avrebbe mai creduto che fosse così tanta verità in quelle parole, anche se non erano state riferite a lei. Ma Jane era la strega. Jane. Jane sola e nessun altro. Lei era la strega. Lei era la strega. Lei-
 
La magia si accumulò con prepotenza, scivolandole quasi di mano. Ad occhi chiusi Jane non poté vedere i muri di Foschia avvicinarsi sempre di più a loro, al Guardiano, ma sapeva che non era ancora il momento giusto, sentiva che non era ancora al massimo della sua potenza, al massimo delle sue capacità. Doveva aspettare ancora un po’, mentre la Foschia le si infilava silenziosa sottopelle e le si insinuava nella cassa toracica, raggrumandosi come un nugolo umido, impalpabile e gocciolante lì dove ci sarebbe dovuto essere il cuore.
 
Non ancora.
 
Non ancora.
 
 
Eliza iniziò a fremere. Le Foschia si era avvicinata, continuava ad avvicinarsi e lo stava facendo ad una velocità sempre maggiore.
Era una sensazione che non le piaceva, come se ci fosse qualcosa che stesse risucchiando tutta l’aria circostante verso di loro e per quanto spiacevole fosse era anche famigliare.
Come un fulmine a ciel sereno le tornò in mente quello strano fenomeno nell’Area Cani, quel vento che tirava verso il Tartaro che a sua volta aspirava ogni cosa verso sé.
Quindi era stato questo? Magia? Quello strano evento inspiegabile era stato generato da un grande rilascio di magia? Ma perché, chi era stato? E soprattutto: a cosa gli era servito?
Spostò solo gli occhi, cercando lo sguardo Úranus, sperando di scorgere in lui la stessa consapevolezza, ma l’uomo era rigido nella sua postura, le pupille rimpicciolite come teste di spillo, il fiato corto e la pelle ancora più pallida del solito, quasi azzurrina.
Era spaventato e l’ultima cosa che serviva loro in quel momento erano i poteri imbizzarriti del figlio di Fobetore.
Eliza allungò la mano stringendola con forza attorno al polso del compagno che, come percorso da una scossa, si girò verso di lei, il respiro pesante e le labbra socchiuse.
 
«Questo- è come…»

Non riuscì a terminare la frase, anche se Eliza sapeva perfettamente cosa stesse per dirle e aveva già iniziato ad annuire.
Poi vi fu un improvviso schiocco, come il rumore di una frusta nell’aria, il suono di una corda che si spezza, un tizzone che esplode nel camino.
Eliza spostò subito lo sguardo su Jane e l’attimo dopo non vide più nulla.
 
Buio.
 
 
*



La domanda risuonò nella sua mente come avevano fatto i suoi stessi passi lungo i grandi corridoi vuoti della magione della sua famiglia.
Si sentì fluttuare, il bruciore sulla sua pelle non lo ancorava più al terreno arido dell’Ade, la stretta sanguinosa sulle braccia di Cicno non gli impediva più di distaccarsi da quel mondo di dolore. Improvvisamente Jonas non era più lì. Non era più nelle Praterie degli Asfodeli, alle porte dei Campi Elisi.
Aveva mai amato?
 
“Tu ci sei morto”

Amore. Jonas era morto per amore.
Ma era davvero così?
No, la triste verità era che Jonas non era morto per amore. Ma per paura di questo.
Il corridoio di casa sua prese spessore, prese forma e colore. Era freddo e blu, proprio com’era quando l’aveva attraversato l’ultima volta prima di arrivare nell’ufficio di suo nonno. Solo che ora non si stava più dirigendo lì, ma faceva la strada a ritroso, verso la sua camera, verso quell’antro caldo e confortevole che profumava di casa, profumava di loro.
La porta si aprì, lui rientrò, si richiuse.
Il tempo si riavvolgeva come un nastro cinematografico, le sue azioni scorrevano all’indietro, i movimenti che compieva parevano in un qualche modo curiosi ora che avvenivano nell’ordine sbagliato.
Qualcuno rientrò in camera sua e Jonas si ritrovò a fissare le iridi verdi e scintillanti di forse l’unica persona che avesse mai amato al mondo.

Ma è stato amore? Ti ho amato davvero? Ci siamo amati? O eravamo troppo giovani, troppo piccoli per poter capire davvero cosa stavamo facendo?
Ti ho amato abbastanza per potermi salvare la vita? Mi hai amato abbastanza?
 
Se solo avesse potuto vedere altro in quel momento Jonas si sarebbe reso conto che l’espressione sul volto del suo compagno era diventata terrea, funerea.
Cicno l’aveva sospettato, aveva avuto il timore che Jonas, presunto il caso in cui avesse provato l’amore sulla sua pelle, non sarebbe stato in grado di riconoscerlo, ne avrebbe dubitato anche solo perché non se ne sentiva degno.
Era per questo che voleva allontanarlo, era per questo che non lo voleva lì con lui quando avrebbe sconfitto la crudele prova della Divina Demetra.
Perché la prova, quella vera, era questa: giudicare se i loro animi fossero disposti all’amore, se avrebbero potuto dare qualcosa al mondo dei vivi, se avrebbero potuto essere degni di tornare in superficie, di fare la più basilare delle azioni. Amare.
Demetra, forse anche più di Era stessa, incarnava la madre adorate, quella che avrebbe fatto di tutto per i propri figli, per sua figlia. Come un albero aveva visto sbocciare il suo fiore, divenire frutto e poi cadere dal proprio ramo. Demetra aveva amato sua figlia come pochi Dei facevano, dedicandosi a lei, consacrandole uno degli aspetti più gioiosi, vitali, del suo dominio. Persefone era la vita, la rinascita dopo il freddo gelo dell’inverno, dopo il sonno forzato a cui ogni essere veniva sottoposto. In un regno in cui i suoi fratelli si erano spartiti i poteri più grandi, in cui avevano lasciato a lei e alle sue sorelle null’altro che le briciole, a Demetra era stato affidato uno dei più delicati sistemi del mondo: la natura. A lei le alte fronde e le profonde radici, a lei i raccolti prosperosi, i campi di grano e quelli in fiore. A lei il sostentamento di ogni animale, di ogni uomo. A lei la vita, a lei una forma d’amore che probabilmente neanche Afrodite stessa poteva comprendere fino in fondo.
Un amore che era germogliato con sua figlia, un amore che l’aveva portata a combattere per riaverla al suo fianco anche se questo significava scontrarsi contro uno dei tre Grandi Dei.
Demetra non aveva voluto sentir ragione, non aveva accettato il tuonante ammonimento di Zeus che le ricordava come le leggi dell’Ade fossero inviolabili. Si era alzata contro il suo re, contro suo fratello, e gli aveva ricordato che anche lei svolgeva un ruolo essenziale, anche il suo regno aveva regole crudeli come quella per cui volevano farla capitolare. E Zeus aveva dovuto cedere, aveva trovato un compromesso con Ade, consci entrambi che Demetra sarebbe stata pronta a far morire l’intero pianeta, per riavere sua figlia.
Amore e fedeltà, due cose che raramente gli Dei comprendevamo.
Allora la domanda pareva semplice, avevano fatto loro, in vita, l’unica cosa per cui poter esser perdonati anche delle azioni più nefaste? Demetra che avrebbe condannato miliardi di innocenti alla morte, sarebbe stata perdonata dal Guardiano se questo avesse scorto in lei l’amore accecante che l’aveva spinta fino all’orlo della follia?
 
Essere perdonati di ogni male solo perché lo si è fatto pensando al bene di una terza persona.
Solo io trovo disgustosa una scusante del genere?

 
Evidentemente la Divina Demetra doveva trovarlo del tutto legittimo, ma Cicno non se ne stupì troppo, gli Dei reputano sempre legittimo ciò che volge in loro favore.
E Jonas? Anche lui l’avrebbe approvata? Anche lui avrebbe accettato questo come metro di giudizio? Aveva mai amato, amato davvero, intensamente, follemente, per poter capire il senso più profondo di quella prova?
Cicno non lo sapeva ma sentiva perfettamente le ondate di ansia che si sommavano a quelle cocenti del Guardiano e che provenivano dritte da Jonas.
Il greco serrò la mascella, maledicendo per l’ennesima volta il suo Signore, che gli aveva affidato proprio quel gruppo di semidei, e i Gemelli della Notte, che avevano voluto legare lui e Jonas.
Un Jonas che non gli sarebbe stato di nessun aiuto se non si fosse presto scosso e reso conto che quei dubbi non facevano altro che alimentare il Guardiano.
Strinse il ragazzino a sé, nel vano tentativo di rincuorarlo un minimo, di dargli un sostegno che evidentemente non sentiva più.
Doveva farlo uscire da quella bolla di paura in cui era ricrollato, liberarlo dalle catene che si stava mettendo da solo.
La sensazione della pelle bruciata contro altra pelle bruciata gli ricordava la corda ruvida della frusta che tante volte gli aveva percosso la schiena. Al contempo gli riportava alla memoria la sensazione cocente della pelle sudata premuta contro la sua.
Eros e Algos, il binomio che formava ciò che Demetra ricercava in ogni anima: amore.
Si aggrappò a quello, Cicno, al ricordo di un corpo massiccio ma gentile che si poggiava al suo, alle mani ruvide e callose che sfioravano il suo torace con leggerezza, contando le costole, fermandosi piatte sul suo cuore palpitante.
Il fuoco del fascio di luce l’aiutò a ricordare quello delle sue membra, dello stomaco che si contraeva, delle dita che tremavano cercando frementi il corpo dell’altro.
Filio.
Aveva avuto molti amanti nel corso della sua vita, ma mai nessuno gli aveva procurato la stessa foga, lo stesso desiderio di scoperta, la stessa voglia di esplorare, di comprendere. Nessuno gli aveva fatto desiderare la lentezza, le pause, gli attimi sospesi a riprender fiato spiando l’altro sotto le palpebre socchiuse, le ciglia che sfocavano e nascondevano la sua immagine.
Doveva ricordare lui, doveva pensare solo a lui, all’unica persona che avesse mai davvero amato con tutto sé stesso. 
E non importava che Filio l’avesse tradito, non importava che si fosse fidato delle parole di un tronfio nuovo dio figlio di Zeus, di un uomo che aveva ucciso i suoi stessi figli, che aveva fatto il bene ed il male da degno figlio di suo padre. Non importava che fosse tornato da lui a mani vuote, che l’avesse guardato con soddisfazione, convinto di aver fatto la scelta giusta. Non importava che gli avesse spezzato il cuore con il suo sorriso più felice.
Non importava più.
Cicno l’aveva amato, l’aveva amato così tanto da togliersi la vita, da reputare questa inutile senza di lui al proprio fianco.

Pronto a rinunciare a tutto come avrebbe fatto Demetra per Persefone.
 
Dopo tutto quel cercare, tutti quei duelli, tutte quelle sfide, tutte quelle morti, tutto quel sangue.
Era maledetto. L’aveva maledetto suo padre alla sua nascita, l’aveva maledetto sua madre facendolo così bello, l’avevano maledetto in centinaia perché il suo solo aspetto traeva in trappola uomini e donne, strappandoli ai loro amati. L’aveva maledetto ogni singola persona che aveva perso qualcuno per colpa sua e ogni singolo pretendente che si era arreso. L’aveva maledetto Ercole senza neanche saperlo. L’aveva maledetto Filio privandolo del suo amore. Si era maledetto da solo quando non era stato in grado di ingoiare l’orgoglio e accettare il giovane al proprio fianco anche se si era rifiutato di portare a termine l’ultima prova.
Cicno aveva amato Filio nonostante tutto. Forse l’amava ancora in quel momento.
 
Aveva fatto, in vita, l’unica cosa degna di perdono?

Sì. Nel bene e nel male, in così tanto male che aveva fatto, Cicno di Tebe, Cicno il Crudele, aveva amato, aveva amato così tanto da perdere ogni speranza, ogni lume, quando quell’amore gli era stato negato.
 
Il volto del giovane uomo si fece più concreto, più solido. Sembrava prendere corpo davanti ai suoi occhi e Cicno si sforzò di premere una mano su quelli di Jonas per non fagli vedere Filio. Il razzino aveva già sentito troppo, sapeva già troppo, non gli avrebbe concesso l’ennesima apertura al suo fianco. Non quando Filio gli sorrideva, bello come la sera in cui l’aveva conosciuto. Non quando il suo volto mutava, i capelli si facevano più lunghi e Cicno ricordava ancora perfettamente la sensazione delle proprie dita che passavano gentili tra qui ricci morbidi.
I bracciali di metallo sembravano quasi freddi contro la pelle mangiata dal fuoco e Cicno provò una voglia irrefrenabile di concentrarsi su quelli e non sul giovane uomo che si muoveva davanti a lui, riproducendo tutti i gesti, tutte le azioni che li avevano legati, che l’avevano portato ad amarlo.
Il Guardiano voleva vedere quello, voleva sapere se Cicno era stato in grado d’amare, se un solo uomo sarebbe stato in grado di pulire il sangue che gli sporcava le mani, incrostato tra le pieghe della pelle, tra le spirali delle sue impronte. Cicno prese un respiro tremulo, spinse la testa di Jonas contro il suo petto abraso e fece qualcosa che non faceva da millenni: si lasciò andare, si arrese.
Improvvisamente poté vedere la fonte di quella luce, una gigantesca sfera, un bulbo oculare senza palpebre, fatto d’energia e di oro scintillante. L’iride era cristallina, priva di colore se non l’azzurro accecante della luce, del sole. Era come guardare il sole senza la protezione del cielo, degli Dei a filtrarne la potenza devastante.
Nella sua mente, un pensiero lontano, gli ricordò di dire a Nathan che aveva ragione, che era proprio un occhio anche se non sapeva se quello di cui aveva parlato il figlio di Ares gli somigliasse.
Cicno sapeva perfettamente che doveva essere un artefatto divino, forse forgiato dal Dio Efesto in persona, intriso della magia degli Dei.
L’occhio divino che controlla i confini dell’unico luogo benedetto dell’Ade. Che giudica chi è degno o meno di passare le sue mura, malgrado vi fosse già stata una sentenza su ogni anima.
Il greco non distolse lo sguardo da quel piccolo sole, amareggiato, furioso a dir il vero, che ancora una volta sarebbe stato quel pallido ricordo della stella maggiore, di suo padre, a decidere se valesse la pena lasciarlo vivere o meno.
Il fascio di luce parve farsi più caldo, la sua vista si sdoppiò e ai lati della sfera azzurra il Filio dell’inizio e quello della fine si muovevano tranquilli, decisi.
Il sorriso timido della notte e quello tronfio del giorno.
Il fuoco lo rose dall’interno, mangiando ciò che le prove, il contratto ed il tempo gli avevano restituito fino a quel momento. Non c’era più nulla su suo corpo se non i bracciali, la carne - poteva chiamarla così? – bruciata e quel nugolo tremante che era Jonas.
 
Oh, Jonas è ancora qui.
 
Il ragazzino tremava senza posa, spaventato, sommerso dai propri dubbi e soffocato dal calore incandescente che aumentava sempre di più nel corpo a cui era poggiato.
Cicno sentiva la sua anima contorcersi in preda a mille sentimenti, mille pensieri, ma fu con un faticoso sorriso beffardo che si rese conto di cosa mancasse lì in mezzo.
 
Codardia. Senti il bisogno di scappare, ma senti il bisogno di farlo con me.
 
Non l’avrebbe lasciato indietro. Lo capiva dalla stretta delle sue mani, che ormai avevano penetrato la pelle aggrappandosi ai muscoli che il fuoco sfilacciava come un fascio di spighe.
Jonas era nel panico perché aveva paura di peggiorare la situazione, perché non sapeva se avesse mai amato davvero, abbastanza, e temeva che questa sua incertezza, questa presupposta mancanza, avrebbe avuto ripercussioni su Cicno. Credeva che avrebbe dovuto ti nuovo lasciar che fossero altri a fare il lavoro sporco per lui. E non aveva tutti i torti, ma non c’era più nulla che potesse fare, ormai il Guardiano era dentro di lui.
 
Il Guardiano scavava senza posa, senza pietà, raschiando ogni brandello di pelle per arrivare al centro della sua anima come Jonas graffiava via la sua carne per mantenere la stretta su di lui e non lasciarlo andare.
E le immagini si susseguivano, i due Filio si muovevano a specchio: quello dell’inizio, di quella sera d’estate, andava avanti e quello della fine, di quell’infernale mattina, andava indietro.
Correvano verso una meta che Cicno non conosceva, che credeva di non conoscere, sporcandosi uno di sabbia e l’altro di sangue, uno di fiori e l’altro di terra. Più il tempo passava e più le due figure iniziavano a somigliarsi, nel volto, nei modi, nel vestiario, finché non si fermarono.
Due identici Filio, vestiti con una casacca color porpora, un pesante mantello scuro ad avvolgere tutta la sua figura, aperto solo il necessario per permettergli di allungare le braccia verso di lui.
Qualcosa crepitò sotto i suoi piedi, Cicno abbassò lo sguardo per la prima volta e vide foglie secche, rossicce, marroni, gialle. I suoi sandali di cuoio erano coperti da un panno stretto ai polpacci da una striscia di cuoio. Quando alzò gli occhi per osservare Filio una nube biancastra ed umida gli offuscò per un attimo la vista.
 
 
“Per gli Dei, perché fa tanto freddo?”
Filio accennò un sorriso, allungando ancora di più le mani, facendo un passo verso di lui.
“Lo soffrite così tanto?”
Cicno annuì.
Lo ammetto, sono un figlio del sole.” Replicò con una certa amarezza.
Questa volte l’altro si lasciò scappare una leggera risata. “Siete un figlio di Tebe, direi che questo è il vostro unico problema. Non credo abbia mai fatto così freddo nella vostra terra.”
“Reputatevi quindi onorato, Filio, perché ho lasciato le mie calde lande per seguirvi fin qui.”
“Siamo solo sui monti! Tebe è ben lontana dal mare, dovreste aver avuto un assaggio dei giochi di Borea e dei suoi figli.”
“Questo non vuol dire che io li apprezzi. Gli Dei mi perdonino, ma dubito che il mio corpo sia stato plasmato per questo gelo.” Ogni volta che muoveva le labbra una nuova nube di vapore si spandeva nell’aria. “Non sono forte e resistente come voi, non sono un combattente.”
Filio lo guardò con un’espressione più seria ma comunque, in qualche modo, morbida.
“Se permettete, credo voi siate molto più forte e resistente di quanto non crediate, di quanto tutti coloro che vi vedono per le prima o la centesima volta possono pensare. Siete arrivato fino a qui, avete passato inverni, una nuova luna dopo l’altra. Siete anche voi un guerriero, ne so riconoscere uno quando lo vedo.”
Così dicendo chiuse con lentezza la distanza tra di loro, prendendo le sue mani nelle proprie e portandosele al cuore, sotto allo spesso mantello scuro.
Cicno non poté far altro che guardarlo, stringendo leggermente le mani prima di allargarle e posarle contro la casacca, premendole sul torace di Filio, avvertendo il palpitare del suo cuore sotto i polpastrelli resi insensibili dal freddo e rianimatisi nell’attimo in cui era entrato in contatto con quella fonte di calore.
Gli occhi di Filio erano scuri e caldi, le sue parole erano dolci e leggere.
Non c’erano rimostranze, non c’erano accuse. Non aveva parlato della sua bellezza, di tutti gli uomini che erano caduti per i suoi capricci e che avrebbero continuato a farlo finché qualcuno non si sarebbe dimostrato finalmente degno di lui. Non disse che anche lui, prima o poi, si sarebbe inginocchiato al suo cospetto chiedendo una prova, non gli disse neanche che data la loro vicinanza era certo d’aver già vinto il suo cuore.
Cicno continuò a guardarlo finché qualcosa non scattò nella sua testa.

 
Oh. È forse questo amore?
 

Se non vi fosse stato un fuoco così devastante a deformargli il bel volto, a corrodergli la pelle, Cicno era sicuro che silenziosamente, una dopo l’altra, lacrime amare si sarebbero susseguite veloci, rigandogli il viso contratto da una smorfia di dolore.
Era quello. Era ciò che il Guardiano voleva. Era l’attimo in cui Cicno si era reso conto di amare, amare incondizionatamente, e di esser ricambiato.
 
Amare e essere amati. L’unica cosa che valga il perdono supremo.
 
Cicno il Crudele aveva amato con grazia, con delicatezza, con gentilezza. Aveva amato con passione, con rabbia, con violenza. Ma nessun Dio avrebbe mai potuto portarglielo via, nessuno avrebbe mai potuto negarlo.
 
La pupilla del Guardiano si dilatò, ingoiando l’iride cristallina, aprendo un pozzo oscuro nell’occhio artificiale, osservando, scansionando, giudicando quell’amore in tutte le sue sfaccettature più infime e nascoste. E poi, con un ruggito di fiamme, diede il suo giudizio.
 
Buio.
 

*



La magia aveva avvolto ogni cosa, ingoiando la luce crepuscolare che seguiva le anime, quella calda e tenue che proveniva dalle mura bianche e anche quella accecante del fascio del Guardiano.
Dalla sua posizione, sul bordo dell’entrata, con un piede oltre la linea di mattoni che segnava il confine dei Capi Elisi e l’altro fuori, Nathan si era ritrovato a sporgersi in avanti, incapace di restar fermo al fianco di Cade che ora riposava a terra, sul mattonato che componeva la strada d’ingresso. Oltre questo però, non appena iniziava la terra battuta, l’erba nera delle Praterie, non vi era assolutamente nulla. O meglio: Nathan sapeva che doveva esserci qualcosa. Sapeva che c’erano le Praterie stesse, che c’era Lea, che davanti a lei c’erano Eliza e Úranus e ancora più avanti Jane. Sapeva che davanti a tutti loro c’era una colonna di luce infuocata, un faro puntato dritto su Jonas e Cicno. Eppure non vedeva nulla.
Era buio pesto, lo stesso buio che l’aveva accolto alla sua morte, quando le immagini si erano fatte sempre più sfocate e l’unica cosa che riusciva a vedere era il volto di Olivia.
 
La mia seconda opportunità.
 
Ma era stato un miraggio, allora, così com’era un illusione l’oscurità che abbracciava i prati fuori dai Campi Elisi.
Era magia, la più pura e semplice magia evocata da una figlia di Ecate, giunta a formazione grazie all’accumulo dei grandi banchi di Foschia che ancora aleggiavano nella zona.
Jane era riuscita in qualcosa di cui non l’avrebbe mai creduta capace, ma era servito allo scopo? Era il più grande esempio di incantesimo a cui avesse assistito, ma aveva estinto anche la torre di fuoco che aveva imprigionato i loro compagni?
Aveva quasi il timore di fare un passo avanti e sprofondare nelle tenebre, nel nulla. Non perché avesse paura del buio stesso, ma perché temeva di non essere in grado né di trovare gli altri né di tornare da Cade.
Volse la testa ad osservare l’irlandese che giaceva quasi senza vita. Non sembrava respirare, anche se Nathan sapeva non fosse vero perché aveva controllato più volte, e non accennava a muoversi.
Serrando i denti e ingioiando il groppo d’ansia che gli si era formato in gola, pura paura che quei coglioni facessero più danni di quanti Eliza non potesse gestire da sola, non certo apprensione per una missione di cui lui non poteva far parte, di cui non era stato incaricato, entrò di nuovo nei Campi Elisi e si guardò nuovamente attorno per controllare che nessuna guardia dell’Ade lo sbattesse fuori perché senza benedizione.
Una benedizione che forse si sarebbe potuto guadagnare se fosse rimasto a combattere.
 
Contro cosa poi? L’occhio di Sauron? Me la può dare lui la benedizione o invece di una macchia luminosa mi accende direttamente come una cazzo di lampadina?
 
Probabilmente non l’avrebbe mai saputo e avrebbe dovuto aspettare la missione successiva per potersi riscattare.
Partendo dal presupposto che avrebbe dovuto riscattare solo quell’onta e non anche quella di aver perso due compagni in un bagno di fuoco.
Si accucciò vicino a Cade, tirandolo a sedere con attenzione per poterlo tenere poggiato contro il suo fianco. Anche se era sciocco e non sarebbe servito a nulla, tenere così vicino uno dei suoi, sostenerlo, gli dava l’impressione di fare qualcosa di utile.
Una volta accomodato il ragazzo, controllato per l’ennesima volta che non avesse ferite alla testa o contusioni al collo, Nathan tornò a fare l’unica altra cosa concessagli: fissare il buio in attesa di vedere i suoi amici emergervi vincitori.
 
Come Nathan anche Lea fissava l’oscurità che la circondava congelata sul posto.
Era stato uno schiocco, un attimo e l’Ade si era come spento, formando quel denso agglomerato di ombre che le impediva di vedere le sue stesse gambe.
Con un analisi veloce si rese conto che nessuno dei suoi arti sembrava colpito dall’improvviso cambiamento, che doveva essere quindi puramente visivo, ma che non riusciva a vedere oltre il suo petto. Se avesse tenuto le braccia basse non avrebbe scorto i suoi gomiti.
Jane aveva davvero portato l’oscurità all’inferno e con questa aveva cancellato anche quel vago calore che emanava la luce tenue che seguiva ogni anima.
 
Ma basterà a spegnere il fuoco?
 
Questo era il dubbio più grande, la paura che la stava mangiando da dentro.
Lea era la guaritrice del gruppo, Cicno sarebbe stato troppo provato se non gravemente ferito, una volta uscito dal getto di luce – se ci fosse riuscito – e sarebbe spettato a lei correre in soccorso di tutti.
Tutti chi però, se non riusciva a vedersi la punta delle dita? Se non riusciva a vedere più in là del suo naso, se non vedeva, non sentiva, non percepiva neanche Eliza ed Úranus. Come poteva dare un primo soccorso a Cicno e Jonas se nessuno poteva vederla? Se non sapevano dov’era?
Con il panico che le faceva tremare le mani Lea prese respiri lenti e profondi, anche quando il suo corpo le richiedeva aria a gran voce. Si impose di calmarsi, di tornare ad essere padrona di sé perché in caso contrario non sarebbe stata di nessun’utilità. Non solo non sarebbe stata in grado di curare i suoi amici, ma avrebbe rischiato anche di alimentare il potere di Úranus.
Jane aveva eliminato la luce, ma questo non significava certo che avesse reso ineffettivi i poteri di tutti loro. Quindi doveva mantenere la calma, recuperarla, e ricordarsi che era una guaritrice.
 
Non c’è tempo per il panico, non c’è tempo per la paura e per il dubbio. Quando la vita di altri è nelle tue mani l’unica cosa che sei autorizzata a fare è il tuo meglio.
 
Giuseppe le aveva detto spesso che la serietà, la professionalità, facevano un medico tanto quanto la conoscenza e malgrado Lea non fosse completamente d’accordo con questa massima di suo fratello non poteva neanche dirsi contraria.
Se avesse mantenuto il sangue freddo sarebbe riuscita a fare tutto ciò che era in suo potere e anche qualcosa di più. Ma prima di quello, doveva capire se gli altri erano ancora al loro posto e se potevano sentirla.
Si schiarì la voce e provò da prima a chiamare debolmente Úranus, poi Eliza.
Quando nessuno dei due le rispose provò con più veemenza.

«Eliza? Eliza!»
Fece un passo avanti, con cautela, tenendo le mani protese in avanti. Fletté leggermente le gambe e s’abbassò di poco, cercando di toccare a tentoni il terreno.
«Eliza? Úranus?»

«Lea?»
 
«Sì! Dei grazie. Sono qui! Credo di essere ancora dietro di voi. State bene?»
Non poteva vederli ma Eliza annuì. «Sì, stiamo bene, siamo assieme, lo tengo per un braccio.» la informò svelta. «Non ti avvicinare troppo, rimani dove sei, credo ci siano almeno nove piedi tra di noi.»
Lea storse il naso. «Quanti sono?»
«Sono nove piedi Lea, non so quanti sono per te e non è il momento di fare conversioni.» tagliò corto.
Sentì un vago rumore, fruscio di erba e di stoffa. Úranus si stava muovendo incerto sul posto.
«Pensi di poter creare di nuovo la tua sfera di luce?» domandò con voce più chiara, probabilmente si era girato verso di lei.
Lea scosse il capo. «Posso provarci ma non so quanta energia mi richiederebbe e se servirebbe a qualcosa.»
«Meglio di no. Dobbiamo evitare di renderci noti al Guardiano, dobbiamo sfruttare quest’ombra per quanto durerà.» rispose la mora.
«E Jane? Jane?!» chiamò di nuovo Lea rimettendosi dritta. «Non vedete nulla, vero?»
«Non vedo Eliza, anche se sento la sua stretta su di me.»
«Neanche io vedo più giù delle mie spalle.» concordò. «Jane? Sei presente? Riesci a sentirci?» domandò a voce alta.

«Certo che vi sento.»

Lea tirò un sospiro di sollievo. «Grazie a Dio. Perché non ti sei subito palesata!» la rimproverò. La voce flebile e lontana della figlia di Ecate non le era mai parsa così bella.
«Perché riuscivo a sentirvi, perfettamente.» ripeté lei atona.
«Che vuol dire? Stai bene?» La voce di Eliza invece suonò guardinga, quasi si stesse preparando ad un attacco a sorpresa.
Ma Jane non disse nulla per un lungo momento, lasciando che il silenzio ovattato del buio li avvolgesse tutti.
«Non sento nulla.» mormorò. «Vi sento bene.»
Lea batté le palpebre, pur essendo consapevole che quel gesto frenetico non avrebbe migliorato la sua visuale.
«Che vuol dire? Non senti nulla ma ci senti bene?»
«Jane? Che succede?» provò anche Úranus, preoccupato.
«Non sento nulla.» ripeté ancora. «Voi non sentite nulla?»
«A parte te? No, non sento nulla.» concordò Eliza.
«Perché, cosa dovremmo sentire?» continuò Lea.
Jane stesse ancora in silenzio, lasciandoli in balia del suono dei loro respiri, l’unico presente tra le ombre.
 
«Fuoco. Rogo. Il rumore di un rogo. Non sento nulla. Non ci sono più fiamme.»
 
Quell’informazione arrivò loro con tanta violenza quanto sollievo.
Era vero, il suono della cascata di luce non si sentiva da nessuna parte, neanche in lontananza, eppure poco prima erano stati abbastanza vicini da sentirla sfrigolare nelle orecchie.
Questo significava-
 
«Ce l’hai fatta! L’hai spento!» esultò Lea saltellando sul posto, incapace di contenere la propria gioia.
«Ottimo lavoro,» arrivò invece la voce più calma di Eliza. «riesci a ritirare le ombre, ora?»
«Dobbiamo raggiungere Jonas e Cicno, potrebbero essere in condizioni molto gravi.»
Jane non rispose subito ed Eliza aggrottò le sopracciglia.
«Jane? Pensi di riuscire a dissipare la Foschia che hai chiamato a te?»
«Non l’ho fatta ricomparire la spada.» disse solo.
«Ma non hai neanche provato. Ora devi farlo o non ritroveremo gli altri. Non sentiamo più il suono del raggio di luce del Guardiano ma io non sento neanche gemiti di dolore o respiri.»
Lo sapeva, Jane ne era perfettamente consapevole e non aveva dato voce ai suoi pensieri solo perché aveva il terrore di essere arrivata troppo tardi, di nuovo.
Ma dissipare la Foschia tutta insieme? Così, come se nulla fosse? Era riuscita a richiamarla a sé solo perché era tanta ed era ovunque, non sapeva se poteva comandarla di nuovo, se le avrebbe dato ascolto una seconda, no, una terza volta.
Doveva però provare. Per una volta la vita di due persone, di due anime, era nelle sue mani. Lo era stata quando aveva evocato l’oscurità, lo era ora che doveva imporle di disperdersi.
Alzò ancora le mani davanti a sé, pregando silenziosamente sua madre di non metterle i bastoni tra le ruote, neanche di aiutarla, ma solo di non impedirle di fare il suo dovere. Si concentrò, richiamò tutta la sua forza, tutte le sue scarse capacità, ma questa volta era diverso, questa volta era più difficile.
L’Ade era fatto di ombre, ogni cosa era nera in quel mondo, ogni cosa assorbiva la luce ed una volta ingurgitato ogni frammento di questa era difficile che il buio si sarebbe fatto da parte per ridare spazio a ciò che aveva appena fagocitato.
Era resistente come un’erba infestante in un giardino, come un’edera che s’arrampica sui tetti e copre le finestre, si annoda agli arbusti e li stritola come un serpente.
Come l’edera di Persefone che l’aveva inghiottita, legandola con i suoi rami sinuosi e resistenti.
Il buio aveva vinto sulla luce crepuscolare e ora, per nulla al mondo, si sarebbe fatto scappare il suo nuovo dominio.
 
«Non ci riesco.» esclamò affannata. «Il buio è troppo forte.»
«Non è il buio, è la Foschia! È solo la Fischia! Fa parte del potere di tua madre, deve piegarsi alla tua volontà così come si piega alla sua.» cercò di incoraggiarla Úranus, ma la cosa la infastidì solo.
«Lo so che è una sua serva! Lo so! Ma non con me! Non sono mai piaciuta alla magia!»
«Hai creato tutto questo, puoi disfarlo!»
Eliza non proferì parola, stringendo però il polso di Úranus nel tentativo di fargli capire di non tirare troppo la corda.
Volse il capo all’indietro, dove presupponeva ci fosse Lea.
«Avete detto qualcosa su una sfera di luce. Potresti farla davvero?» chiese modulando il tono.
Lea alzò le sopracciglia sorpresa. «Non mi hai appena detto che non doveva attirare l’attenzione?» domandò sbalordita. «Il Guardiano
«Potrebbe individuarci, sì, ma se Jane riuscisse a ritirare le tenebre saremmo comunque esposti e se così non fosse, ci serve una soluzione alternativa. Jonas e Cicno sono stati travolti da una doccia di fuoco per troppo tempo, sei un medico, sai meglio di me quali potrebbero essere le loro condizioni.»
«Lo so anch’io e ci sto provando!» esclamò Jane con asprezza. «Ma le ombre non vogliono lasciare le lande!»
Lea imprecò a denti stretti, felice che non ci fosse nessuno che potesse sentirla, prese un bel respiro e poi urlò a pieni polmoni.

«JONAS!»
 

*
 


Sentiva caldo, un caldo incredibile ma non più soffocante come quello di prima.
La sensazione, se avesse dovuto paragonarla a qualcosa, sarebbe stata la stessa dell’addormentarsi poggiato ad una stufa. Non c’era fuoco vivo a contatto con la pelle, ma il ferro bollente finiva per ustionarti la pelle e lasciarti brutte macchie rosse e croste estese che prudevano sull’epidermide.
Non era più lui a bruciare, era il corpo a cui si reggeva ad essere incandescente.
Oltre le palpebre chiuse il mondo era nero, come se si fosse trovato in una stanza ben chiusa, come quando si svegliava nella sua vecchia camera. Ma non era sdraiato, non era sotto le coperte malgrado il caldo. Era in piedi, poggiato a qualcosa che scottava, qualcosa di umido e secco al contempo, che gli bagnava le mani e gli graffiava la faccia, qualcosa di morbido in cui affondava le dita e qualcosa di ruvido contro cui sfregava la guancia.
Dov’era finita la luce accecante del Guardiano? Perché non vedeva più quell’arancione così acceso, così chiaro da virare veloce verso il bianco? Perché c’era buio? Perché c’era silenzio?
Oh, non stava urlando. Nessuno lo stava facendo. Jonas non sentiva neanche più i propri singhiozzi, non sentiva gemiti di dolore, non sentiva la pelle sfrigolare come carne su una piastra ardente.
C’era solo nero e silenzio ed un corpo caldo, solido e lieve, ruvido e morbido, bagnato e secco.
Poi un suono finalmente, vago e lontano, un brusio concitato che si alzava sempre di più, che passava dall’essere rumore di fondo a interferenza radio. Si unì al costante sciabolio d’acqua che avvertiva lontano, alla gola.
Lentamente iniziò a prendere più coscienza di quello che lo circondava, della situazione in cui si trovava.
Si era buttato verso il raggio del Guardiano perché sapeva che una volta trovata una vittima non si sarebbe curato degli altri, dando loro il tempo di scappare. Poi era arrivato Cicno, che aveva capito cosa chiedesse la prova di Demetra e pensava di poterla risolvere, di poter superare il giudizio del Guardiano, ma i doni dei gemelli della Notte dovevano aver interferito con i suoi piani e ben presto, al dolore e ai volti di tutti coloro che aveva conosciuto in vita, si erano sommati anche quelli del greco. A quel punto Cicno doveva aver fatto una qualche magia perché d’improvviso lo sguardo di fuoco del Guardiano si era concentrato sull’altro, lasciando lui ad assistere impotente al dolore del compagno. 
Cicno l’aveva protetto, aveva cercato di metterlo in salvo e Jonas, un improvviso lampo d’orgoglio gli balenò nel petto, non aveva accettato di scappare, era rimasto a combattere con il giovane che aveva messo a rischio la sua intera esistenza per salvarlo.
Poi? Poi non ricordava molto, gli eventi erano accavallati. Sentimenti non suoi, le pene dell’inferno, i rimpianti, il tradimento, la morte, il volto di un bel giovane che sorrideva trionfante ma- non era giusto, non era la cosa giusta, non c’era nulla di cui gioire. Tradimento, rancore, morte.

Amore?
 
Era stato in grado di amare in vita? Era stato amato?
Jonas non aveva saputo rispondere a quella domanda, l’incertezza ancora lo attanagliava, ma Cicno non si era fatto trovare impreparato e aveva risposto al posto suo.
Sì. Nonostante tutto ciò che aveva fatto – Jonas ancora non sapeva cosa e quanto – Cicno di Tebe aveva amato e questo, evidentemente, doveva esser stato abbastanza.
Quindi era questo? Era finita? Il buio era solo l’Ade ombroso dopo tutta quella luce? Era solo la gigantesca macchia nera che nascondeva ogni cosa quando la si guardava dopo aver fissato il sole?
No, avrebbe dovuto vedere una macchia azzurra piuttosto. Che diamine era quel buio?
 
«Ssssh. Non è niente, ora passa tutto.» mormorò piano una voce roca, flebile.
 
«JONAS
 
«Ti stanno chiamando, senti? Tra poco finirà tutto. Lascia.»
Il ragazzino scosse il capo.
No, non poteva lasciare, se l’avesse fatto era sicuro che Cicno gli sarebbe scivolato di mano, che si sarebbero divisi e mai più ritrovati in quel buio pesto e per quanto Jonas fosse una persona sospettosa di natura, per quanto non si fidasse neanche di sé stesso alle volte, in quel preciso istante sapeva di non poter perdere Cicno, di non poter abbandonare qualcuno che gli aveva salvato la vita anche se non ne aveva avuto alcun motivo. Si era fidato del greco, non poteva lasciare.

«Piano, lentamente.»

«JONAS!»
 
«No-»
«Sì, puoi farlo. Piano, apri la mano.»
Jonas scosse il capo, cercando di sollevarlo dal suo appoggio, aprire gli occhi e guardarsi attorno, per cercare proprio Cicno e accertarsi che stesse bene, che fosse tutto a posto. Ma qualcosa gli si posò sul volto, impedendogli di sollevare le palpebre.
«Ssssh. Ssssh. Tieni gli occhi chiusi. Lascia la presa.»
 
«JONAS!»
«JONAS!»
 
«Senti? Ti stanno chiamando. Lascia la presa e potrai andare da loro.»
«Non posso. Cicno-»
«Andrà tutto bene. Tieni gli occhi chiusi, lascia la presa, discostati. Andrà tutto bene. Tutto bene.»
 
 
«Jane! Continua a provare! Lea! Anche tu!»
«Non ci riesco, sono troppo agitata! E poi la luce non funziona così, mi serve un luogo dove andare!»
«Da loro! Dobbiamo andare da loro!»
«JONAS!»
«CICNO! CICNO RIESCI A SENTIRCI?»


«Ti stanno chiamando.»
«Se lo lascio, poi non riuscirò più a trovarlo. Non posso lasciarlo, non posso lasciare un’altra persona nel buio.» mormorò spaventato, dando finalmente voce a quella che forse era una delle sue più grandi paure.
Non voleva abbandonare di nuovo qualcuno che gli era stato vicino, non voleva lasciarlo ad affrontare il buio dell’avvenire.
Un rumore simile ad una leggera risata gli solleticò l’orecchio, ma era roca, poi acuta, come se l’altro avesse problemi a parlare, come se avesse problemi alla gola ed il tono schizzasse impazzito da un livello all’altro.
Dopo quel suono la cosa – era una mano? – che gli chiudeva gli occhi iniziò a farsi più calda, come una brace che man mano prende fuoco.
La risata si ripeté, questa volta più bassa, più profonda.
«Oh, mio giovane fanciullo, nessuno ti ha mai detto che il buio è la condizione fondamentale per far risplendere la luce?» 
La domanda gli giunse sarcastica, pungente.
La mano stava diventando troppo calda, dolorosa, e Jonas si ritrovò costretto ad allentare la presa su Cicno per potersi allontanare quel tanto che bastava per sottrarsi al tocco rovente.
Strizzò gli occhi e scosse la testa con vigore, un giramento di capo gli fece nuovamente serrare le mani sulle braccia di Cicno per poi riallentarle velocemente. Batté le palpebre cercando di mettere a fuoco ciò che aveva davanti, per combattere l’oscurità ed individuare il suo compagno, ma quando finalmente vi riuscì desiderò non averlo mai fatto.
Gli aveva detto di tenere gli occhi chiusi, di allontanarsi, ma lui stupido, sciocco e testardo Jonas, non aveva minimamente pensato che ci fosse un motivo dietro quella richiesta.
Ma dopotutto, cosa si sarebbe dovuto aspettare? La cascata di luce del Guardiano non era acqua fresca, non era raggio tiepido, era fuoco.
 
Ed il fuoco brucia, corrode, scava.
Uccide.
 
Davanti a lui si trovava il volto martoriato e squagliato dal calore di un essere umano. Le ossa degli zigomi e delle arcate sopraccigliari erano esposte, annerite, fratturate. I bulbi oculari scomparsi nelle orbite da cui colava lento uno strano liquido pastoso. Le guance bucate dalle fiamme lasciavano intravedere i denti incrinati, mentre un lembo di pelle bruciata si staccava lentamente dal mento squarciando il collo fino alle clavicole.
L’interferenza radiofonica si fece più forte, Jonas urlò con quanto fiato aveva in gola ma questo gli si bloccò nella trachea e non uscì, facendolo gridare afono tutto il suo terrore, tutto il ribrezzo, il dolore. Flash bianchi, accecanti come quel dannato fascio di luce, gli apparvero davanti agli occhi, macchiandogli la retina ed impedendogli di soffermarsi su altri particolari, sul torace aperto, le costole su cui si tendeva la pelle fina e arida, bucata come uno straccio bruciato, la fossa dove lo sterno si era rotto ed era sprofondato verso l’interno.
Fece un passo indietro ed urlò ancora e ancora.
Non voleva vedere, non lo voleva vedere. Non capiva cosa fosse ma non voleva vederlo.
Un altro passo e le ombre iniziarono ad abbracciare la figura carbonizzata davanti a lui.
Urlò di nuovo e non riuscì a sentire le voci dei loro compagni che li chiamavano.
Il teschio s’inclinò verso sinistra con un rumore inquietante, che non riusciva neanche lontanamente a fronteggiare la paura che gli si stava espandendo nel petto, divorandolo dall’interno assieme all’aria e a quel poco di contegno che era riuscito a rimettere assieme.

Il buio è la condizione fondamentale per far risplendere la luce
 
Ciò che rimaneva delle guance si tirò in quello che voleva essere un sorriso, un tremulio s’espanse da quei resti umani, vibrando come i bulloni di una rotaia al passaggio del treno. Sempre di più, sempre di più. Vibrò fino a diventare solido, denso, una leggerissima linea bianca, una vago alone chiaro, luminescente come i fiori dell’Ade.
Jonas osservò terrorizzato e al contempo ipnotizzato la luce espandersi ed avvolgere il teschio, scendere lungo la spina dorsale, le braccia, il torace.
Un’aura luminosa avvolse lo scheletro che avanzò verso di lui mentre la luce, quella stessa luce che aveva investito Jonas fino ad un momento prima, s’aggrappava a quel corpo come i muscoli alle ossa.
Il giovane non riuscì a fare un passo, i denti gli battevano forte come il cuore, che galoppava all’impazzata, cercando di pompare tutto il sangue che non aveva e l’adrenalina che non era più in grado di produrre.
Quella cosa si avvicinò d’un altro passo e Jonas chiuse gli occhi, spaventato, ammutolito, codardo.
Le mani dello scheletro si poggiarono sulle sue braccia e lentamente risalirono fino al collo, prendendo consistenza, brillando fiocamente da prima e poi più intensamente.
Dita delicate giocarono con il collare di filo spinato che Ipno gli aveva donato, facendolo rabbrividire senza però convincerlo ad aprire gli occhi. Sfiorarono il pomo d’Adamo, la mascella, con gentilezza gli spostarono i capelli dietro alle orecchie e gli carezzarono la pelle bruciata degli zigomi.
Adesso, oltre le palpebre chiuse con forza, Jonas poteva scorgere una fonte di luce chiara, candida, piacevole.

«Sssssh. Va tutto bene. Tra poco sarà tutto finito.»

Jonas tremò, il respiro tiepido di quell’essere si infranse contro le sue labbra tese, premute con forza tra di loro per evitare di lasciarsi scappare anche solo il minimo suono.
 
«Rilassati, rilassati.»
 
Come comandato da una forza esterna, il semidio sentì la sua mascella allentarsi, la lingua trovare finalmente spazio tra i denti, le labbra socchiudersi.
Il respiro si fece più vicino, la luce più forte e poi, lieve come l’aria che lo sfiorava, altre labbra si posarono sulle sue.
Jonas avrebbe voluto spalancare gli occhi, vedere chi fosse, vedere cosa fosse. Era sempre lo stesso corpo carbonizzato? Non era possibile fosse lui, non aveva labbra, non era così morbido, non poteva essere così gentile.
Eppure qualcuno lo stava baciando, con calma, con attenzione, bagnandogli le labbra secche, la pelle tirata dal calore. Un bacio e a Jonas sembrò che tutte le bruciature che gli arricciavano l’epidermide si stessero distendendo, ogni ferita aperta si stesse chiudendo.
Era come infilarsi in una vasca d’acqua fresca dopo aver passato ore ed ore sotto il sole cocente, come bere finalmente dopo giorni di siccità.
Ferite che non sapeva d’avere, dolori che non aveva percepito si estinsero uno ad uno, mentre un corpo piacevolmente tiepido si stringeva al suo, facendogli venire la pelle d’oca. Non si era reso conto d’aver lasciato libero movimento all’altro finché non percepì la propria lingua sfiorarne un’altra, approfondendo il bacio, portandolo inconsciamente ad allungare le mani ed afferrare quel corpo che prima gli aveva fatto tanta repulsione da spingerlo alla fuga.
Jonas s’abbandonò ad una sensazione che credeva non avrebbe mai più provato e ad una che non aveva mai sperimentato prima.
Baciare quell’essere non era come baciare Lu. Non c’era nulla di simile, nulla, neanche l’azione pareva la stessa, neanche Jonas era più lo stesso.
Se in vita ogni bacio era stato un segreto, un rischio, una promessa silenziosa mai espressa ad alta voce, mai rivelata nemmeno a sé stesso, questo era una boccata d’aria, era un balsamo, era una lunga nottata di sonno nel più morbido dei giacigli, l’abbraccio di una persona amata, il silenzio dopo tanto rumore, l’ombra delle fronde d’estate, le stelle che luccicavano placide in cielo.
 
Un cielo che lui non aveva mai visto.
 
Non avrebbe mai creduto che un bacio potesse essere dissetante, eppure quelle labbra gli stavano togliendo ogni traccia di fuoco di dosso, carezzandogli la pelle liscia del petto, sostenendolo per la vita fine, solleticandolo con quelle dita lunghe e morbide che si aprirono sulla parte bassa della sua schiena, disegnando linee immaginarie contro le sporgenze delle vertebre esposte.
Si spinse con il torace contro quello dell’essere, facendo scivolare le mani lungo le sue braccia, seguendone la stretta che lo sosteneva, sforando il freddo metallo di due lucidi bracciali.
Quando gli toccò le labbra morbide si tesero per un secondo, un ultimo e più intenso attimo e poi s’allontanarono.
Jonas allora non osò fare lo stesso errore due volte, non provò neanche ad aprire gli occhi, rimase solo così, fermo, con le labbra socchiuse e tumide, il capo reclinato, le mani formicolanti e le gambe tremanti. La terra bruciata era incredibilmente morbida sotto i suoi piedi, la cenere soffice gli si infilò tra le dita quando si ritrovò ad arricciarle, cercando quasi un ulteriore sostegno per non cadere.
Ma l’altro non lo lasciò, infilò una gamba tra le sue, lasciando che si poggiasse ulteriormente a lui, poi spostò una mano per accarezzargli nuovamente il viso, passando il pollice sotto il labbro inferiore, prima di chinarsi di nuovo su di lui e depositargli un bacio casto a fior di labbra.
 
«Ora puoi aprire gli occhi.»
 
La voce non era più roca, rauca, acuta, rovinata, ferita.
Era una voce calma e bassa, gentile e dolce, melodiosa, di miele, quella che qualcuno avrebbe chiamato “voce d’angelo”. E chi era Jonas per non esaudire la richiesta di uno spirito celeste?
Lentamente aprì gli occhi, un mondo sfocato e scuro gli apparve davanti, unica macchia di luce il corpo davanti a lui.
Mise a fuoco prima i capelli mossi, chiari, castani. Poi la fronte liscia, il naso dritto, gli occhi azzurri e tersi. Le labbra rosee, lucide, morbide, che si piegarono in un sorriso.
«Resta così, non ti muovere.» sillabarono con lentezza.
Jonas annuì, abbassando lo sguardo sul collo da cigno, le spalle larghe, aperte ma rilassate ed il torace glabro, gentilmente modellato, perfetto come una statua greca in un museo.
Nudo come una statua greca in un museo.
Battendo improvvisamente le palpebre con più vigore Jonas si rese conto che Cicno, perché di lui si trattava, non aveva più una maglia, o il pezzo sopra del suo completo. Ad onor del vero non aveva più il suo vestito.
Fu in quel momento che si rese conto che la mano destra del giovane era poggiata attorno alla sua via, per tenerlo stretto a sé, a contatto con la sua pelle. Non c’era la camicia a separare il torace del greco dal suo, non c’erano neanche i pantaloni a proteggerlo dagli sguardi della gente.
 
Sono nudo?
 
Quella realizzazione lo fece sussultare. Cercò disperatamente di allontanare il proprio corpo da quello dell’altro ma Cicno evidentemente doveva aspettarsi una mossa del genere perché rafforzò la presa e se lo tirò ancora più vicino, facendolo sbattere con forza contro di lui.

Era nel bel mezzo delle Praterie degli Asfodeli, davanti alle porte dei Campi Elisi, appena sopravvissuto da una cascata incandescente di luce, in piedi, nudo, premuto contro un altro uomo nudo.
Quindi era così che sarebbe morto questa volta?

«Fai un respiro profondo, tranquillo. No- non ti muovere, ti copro io.» lo rassicurò con una nota divertita.
Jonas boccheggiò imbarazzato, terribilmente imbarazzato. Mortificato, forse era quella la parola giusta. Umiliato? Sì, era anche umiliante in effetti.
Cicno però pareva non pensarla come lui, non dal modo in cui accomodò meglio la gamba tra le sue, spingendo ancora una volta il ragazzino contro di sé.
«Dimmi,» iniziò con tono vago, colloquiale, «è la prima volta che ti ritrovi stretto ad un uomo nudo, o non ho il piacere di questo primato?»
Se solo spostarsi non avrebbe implicato la possibilità di lasciar vedere a chiunque la situazione quasi degradante in cui si trovava in quel momento, Cicno si sarebbe preso più di un pugno in faccia e se malauguratamente si fosse piegato si sarebbe beccato anche una bella ginocchiata nello stomaco.
Con una smorfia omicida Jonas lo fulminò. «No.»
«No non ti è mai successo, o no, non ho l’onore del primato?»
«Perché siamo nudi?» preferì chiedere invece lui ignorando la domanda per la seconda volta.
Il greco fece un’espressione pensosa e palesemente falsa. «Forse le nostre vesti potrebbero esser state bruciate dal fascio di luce del Guardiano. Oh, parlando di questo, aveva ragione il figlio di Ares, è un occhio, un artefatto divino a forma di occhio.» disse con leggerezza.
Al solo sentir nominare Nathan Jonas alzò la testa e cercò disperatamente di guardarsi attorno per capire dove fosse.
«Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo-»
«Ben quattro volte, spero le signorine non ci sentano.»
Le signorine.

Cazzo!
 
No, no, non poteva farsi vedere nudo da Nathan, sarebbe stata l’umiliazione suprema, ma farsi vedere nudo da Eliza, Jane e Lea sarebbe stato ancora peggio.
Certo, Lea era un’infermiera, ne aveva sicuramente vista in vita di gente così come mamma l’aveva fatta. Ed Eliza aveva militato nell’esercito americano, quindi anche lei doveva averne visti di commilitoni con le braghe calate. Ma l’imbarazzo sarebbe stato troppo, davvero troppo. Senza menzionare Jane poi.

O Cade, chissà quanto mi prenderà per il culo Cade.
 
Cade, che l’ultima volta che aveva visto era svenuto, ripreso al volo da Nathan.
 
«Ecco cosa faremo.» propose Cicno distogliendolo dai suoi pensieri. «Ci abbasseremo lentamente e ti siederai a terra, ti sentiresti più nascosto in questo modo?»
Jonas annuì, rabbrividendo quando sentì la gamba dell’altro scivolare via tra le sue. Strinse immediatamente le ginocchia e si lasciò cadere a terra di peso, senza neanche aspettare, portandosi le gambe al petto, cercando una posizione che lo coprisse il più possibile.
Attorno a loro l’oscurità si stava lentamente diradando, sembrava quasi che il raggio della morte avesse alzato un enorme nuvolone di fumo che andava disperdendosi.
Jonas chinò la testa nascondendo una smorfia imbarazzata, frustrata. Di tutte le cose che potevano capitargli in quella dannata gara la perdita dei vestiti non l’aveva mia contemplata.
Si mosse solo per cercare Cicno con lo sguardo quando realizzò che non si era seduto.
Fosse rimasto a farsi gli affari suoi sarebbe stato meglio.
Davanti a lui, in tutta la sua altezza, in tutto il suo splendore, in tutta la sua innegabile bellezza e consapevolezza di sé il greco osservava con attenzione l’ambiente che li circondava, il capo leggermente reclinato a destra e all’indietro, le orecchie tese a captare anche il più minimo dei rumori. Ma a voler essere onesti, a Jonas non interessava minimamente cosa stesse facendo. Ciò che aveva magnetizzato il suo sguardo era il corpo pressocché perfetto dell’altro.
Ogni linea era al suo posto, ogni muscolo era gentilmente accennato, poteva scorgere il disegno dei muscoli addominali, le due mezze arcate che partivano da sotto le costole e proseguivano fino ai fianchi, l’ombelico incavato, le anche sporgenti, la vita stretta, una leggera curvatura a v che incorniciava il basso ventre e-
Strizzò gli occhi più forte che poté, una moltitudine di puntini colorati esplosero del buio dietro le sue palpebre e Jonas sentì le guance andargli a fuoco mentre abbassava la testa nel tentativo vano di riprendere contegno, pregando di non esser stato scorto. Dopotutto Cicno era così concentrato sui rumori di fondo che provenivano dalla direzione in cui ci sarebbero dovuti essere i Campi Elisi, figurarsi se stava prestando attenzione a lui.
 
«Presumo che il “no” di prima fosse per “no, non ne ho mai avuto l’occasione”.» c’era divertimento nella sua voce e di nuovo quell’accenno di presa in giro che Jonas cercò disperatamente di ignorare.
«Puoi guardare, se vuoi. Per quanto ben proporzionato e attraente, il mio corpo rimane solo questo: un corpo. Non ho nulla di diverso da ciò che hai tu.» continuò con sincerità. Non lo stava giudicando, non lo stava più sfottendo, gli stava comunicando soltanto un dato di fatto.
«Non lo trovi imbarazzante?» Si azzardò a chiedere.
«Non aver mai viso un altro uomo nudo? Un po’ sì in effetti.»
«Non quello! Essere nudo nel mezzo delle Praterie degli Asfodeli! Dove potresti essere visto praticamente da chiunque! Potrebbero vederti Lea, Eliza, Jane! O anche Úranus, o Nathan.» elencò veloce facendo un’altra smorfia al solo pensiero.
Non poté vederlo, ma Cicno ghignò. «Spero vivamente che il figlio di Ares mi veda, così potrà dirmi se ai suoi occhi somiglio realmente ad una principessa oppure no.»
«Oh, e pensi di convincerlo a smettere di chiamarti così facendogli vedere il tuo- le tue- sì, insomma, i-»
«Genitali? Pene?» domandò sarcastico, «Vuoi un termine più volgare? Lo hai ripetuto per bene quattro volte. In ogni caso, un paragone tra la mia e la sua virilità potrebbe giovare, smetterebbe di atteggiarsi a generale.»
Jonas si lasciò sfuggire un gemito di pura vergogna. «Ti prego, ti scongiuro, non dire mai più quella parola.» frignò imbarazzato.
«Virilità dici?»
«Ti prego!»
«Va bene, va bene.» rise leggero, poi gli diede le spalle e si poggiò le mani sui fianchi. «Sento parlare i nostri compagni, ma non c’è ancora abbastanza luce per poterli scorgere, vogliamo avvicinarci?» gli chiese cambiando discorso.
«NO! Dio santissimo onnipotente, no! No, no, no. Non ci muoveremo da qui. Non mi alzerò a meno che non abbia qualcosa per coprirmi.» affermò allarmato, sfregandosi le mani contro le braccia nel tentativo di togliersi di dosso la sensazione di essere così scoperto.
Com’era, per altro.
Non poteva crederci che le fiamme del guardiano avessero bruciato tutti i suoi vestiti e non lui, o i suoi capelli.
Quel pensiero lo fece tentennare per un momento. Lentamente lasciò scivolare le mani via delle sue braccia e le osservò confuso: non c’erano bruciature, non c’erano tagli o graffi, neanche quelli che si era procurato nelle altre gare. No, i suoi arti erano illesi, così come lo era il suo torace, la pancia, i capelli che sentiva forse secchi ma folti sul capo. Eppure era stato nella cascata di fuoco, eppure le sue vesti erano scomparse, e le sue mani-

Le mie mani sono macchiate di sangue? Perché sono macchiate di sangue?
 
Le guardò scioccato, sotto le unghie corte c’era una spessa linea rossa e dei granelli mollicci. Le spirali delle sue impronte erano colorate si sangue ma non c’era una sola ferita sul suo corpo. Il sangue non era suo.
 
Ma se non è mio…

Si ritrovò di nuovo a scandagliare il corpo di Cicno da capo a piedi, questa volta con il preciso intento di trovare qualche segno dell’inferno che avevano appena passato, ma tutto ciò che riuscì a scorgere furono delle linee rosse, come graffi superficiali, sulle sue braccia.
Braccia a cui Jonas si era aggrappato con tutte le sue forze.
 
«Perché sono illeso? Perché tu hai dei graffi?»
Cicno non si voltò neanche per rispondergli. «Ti ho curato, ogni ferita che avevi è ora scomparsa, ma curare danni di quella portata è molto impegnativo e dopo ciò che abbiamo affrontato non sono al massimo della mia potenza. Per questo sono riuscito a far guarire anche le cicatrici dalla tua pelle ma non dalla mia, non ho più forza per farlo.» E mentre parlava continuava ad ergersi fiero e dritto davanti a lui, come se non fosse davvero affaticato dalla prova appena trascorsa.
Jonas ascoltò in silenzio e deglutì a vuoto, prima di porre un’altra domanda. «Quindi è tuo il sangue che ho sulle mani?»
Cicno annuì. «Hai una bella stretta.»
«Mi dispiace. Non volevo ferirti, non ti volevo graffiare.»
«Graffiare?» sbuffò ridendo, «Non mi hai graffiato, sei riuscito a giungere quasi all’osso. Come ho detto, hai una bella stretta.»
Il ragazzino quasi scattò in piedi, prima di ricordarsi che così facendo si sarebbe esposto in tutta la sua gloriosa nudità. Portò istintivamente le mani all’inguine, «Ti ho infilato le unghie nella carne?» chiese orripilato.
Cicno si strinse semplicemente nelle spalle. «Nella mia terrazza mi frustavano con una corda uncinata, neanche applicandoti con tutto l’impegno e l’attenzione di cui sei capace potresti essere in grado di superare millenni di torture.» disse come fosse scontato. «Aver sensi di colpa non ti aiuterà, non ti permetterà di far scomparire le tue azioni passate e ti creerà solo disagio.»
Jonas era allibito, non sapeva cosa rispondere e rimase a fissarlo come un pesce lesso.
Stava cercando le parole migliori per poter spiegare al greco che no, non era vero che non poteva fare nulla, poteva farsi perdonare, poteva sdebitarsi in qualche modo. Per le braccia, per il getto di fuoco, per le cure. Ma Cicno stroncò sul nascere ogni sua possibile obiezione.
«Lo senti anche tu?» chiese d’improvviso allungando il collo in avanti.
Jonas rimase un attimo interdetto, per nulla felice di lasciar cadere quel discorso, poi però sospirò, prese un respiro profondo e cercò di sentire quello di cui l’altro stava parlando.
«Senti qualcosa?»
«Qualcuno. Hai già dimenticato chi ti stava chiamando prima?»
Prima? Prima quando? Quando lo scheletro bruciato aveva cercato di consolarlo?
Un momento. Lo scheletro. Lo scheletro a cui era stretto, in cui aveva le dita infilzate nella pelle molliccia e cadente delle braccia sciolte dal fuoco.

Cicno.
 
Un conato di vomito gli salì alla gola.
Lo scheletro bruciato era Cicno, quella era la condizione in cui il Guardiano l’aveva lasciato.
Come stavo messo io? Ero un cadavere ustionato anche io? Ero come lui?
Ci ha curati entrambi fino a farci riprendere le nostre vere sembianze?
Quello era il teschio di Cicno?

«Ti chiedo gentilmente di non dare di stomaco. Non so se posso permettermi di sprecar altre energie, anche i nostri compagni potrebbero essere feriti e necessitare di soccorso.»
Jonas annuì piano, senza trovare il coraggio di guardarlo in faccia.
Avrebbe visto il suo volto o quello scheletrico?
«Eri- e-eri tu?»
Il suo uscì tentennante, la r bassa, lunga, scivolata sul palato, come le fusa di un gatto.
Cicno inclinò il capo e s’avvicinò a lui fino ad inginocchiarglisi davanti.
«Quando?» domandò solo.
«I-i-il, il te-e-eschio?» pigolò spaventato della risposta.
Il giovane lo osservò e poi sospirò. «Di rado ciò che viene contenuto è bello come il suo contenitore. Un corpo è solo un corpo, piacevole o meno che sia. E il fuoco corrode.»
«Quindi eri tu.» disse con più sicurezza, improvvisamente animato da una foga che non pensava d’avere. «Eri lo scheletro carbonizzato? Era- eri così e ora sei- sei riuscito a… rigenerarti?»
Cicno gli sorrise magnanimo e gli fece l’occhiolino. «Il fuoco è fratello della luce. Entrambi sono fautori di vita, così come di morte. Ciò che distrugge può costruire, io sfrutto questo principio. E no, prima che tu me lo chieda, non eri ferito quanto me.»
«Ferito? FERITO!? Cicno tu non eri ferito, eri un morto vivente, eri uno scheletro come quelli al comando di Ade! Io ho-»
«Avuto paura, terrore, ribrezzo. Lo so, lo percepivo, ma non potevo consolarti in nessun modo se non avessi riassunto il mio vero aspetto.» si fermò un attimo. «Sto bene. Stiamo entrambi bene, non siamo più in pericolo. Per ora.» aggiunse infine tornando a sorridere gentile come sempre.
Se Jonas fosse stato in grado di sfruttare veramente i loro doni divini, se non fosse stato così confuso, stanco, spaventato, stravolto, avrebbe sentito la rabbia cocente che animava Cicno, affiancata da un’umiliazione ben più forte della sua e di tutt’altro tipo.
Il ragazzino aveva aperto gli occhi e l’aveva visto cadavere, l’aveva visto in quelle condizione pietose, come il Guardiano l’aveva ridotto per scavargli nell’anima e cercarvi traccia d’amore.
Un amore che Cicno aveva provato in passato ma che era stato talmente sommerso dall’odio, dalla sete di venetta, che era servito abbattere tutte le sue barrire per giungere al nucleo interno. Vestiti, pelle, muscoli, organi, ossa, ogni cosa bruciata, corrosa, sciolta, divorata dalla furia delle fiamme e dalla fame di conoscenza.
Se non fosse stato importante, se non fosse un punto fondamentale del suo lavoro, Cicno avrebbe cancellato tutta la memoria di Jonas per far sì che dimenticasse quell’abominio, per far sì che scordasse com’era Cicno all’interno.
Dentro di sé si sentiva tremare. Non aveva mentito quando gli aveva detto che gli era servita molta energia per curarli entrambi, per far sì che riprendessero un aspetto umano, malgrado Jonas non fosse stato trasfigurato come lui. Ora Cicno però si sentiva debole, instabile, fragile… se non fosse stato per quel buio sovrannaturale e per l’ansia che lo stava divorando dall’interno, Jonas sarebbe stato in grado di scorgere molte più cicatrici sparse per tutto il suo corpo, lividi che lentamente prendevano colore a macchiargli l’epidermide.
Sentiva la pelle del retro delle cosce tirare, le spalle infilzare da centinaia di spilli, la cute della testa bruciargli ancora. Aveva subito terribili ed indicibili torture e sì, era abituato, poteva sopportare dolori estremi, ma questo non significava esserne immune in assoluto. E nonostante tutto ciò, la stanchezza del combattimento, del difendere un compagno completamente inutile, le discussioni sterili con gli altri, la cascata di fuoco e la razzia del suo stesso corpo, dopo aver attinto al potere del suo maledetto padre per salvare sé stesso, il giovinetto spaurito e quel poco di apparenza che ancora manteneva, dopo tutto questo, non gli era concesso neanche riposare.
Non poteva sedersi a terra ed attendere, doveva rimanere in piedi sulle gambe doloranti e tremanti, pronto a scattare al minimo segno di pericolo, non poteva farsi trovare impreparato, raggomitolato come il bambino. Non poteva neanche smettere di cercare gli altri, doveva assicurarsi che stessero bene, che non fossero feriti. Sperava che Lea avesse già fatto rinvenire Cade o sarebbe toccato a lui farlo. Sperava anche che nessuno si fosse ferito nel mentre. E ritrovati i suoi compagni, raggiunte le porte dei Campi Elisi, maledetti, maledettissimi campi di pace, si sarebbero dovuti dirigere verso un’altra battaglia.
Non potrò riprendere fiato, non potrò fermarmi un momento.
Avrebbe desiderato trovare un angolo sicuro, nascosto e sfogare la sua frustrazione, il suo dolore, la rabbia ed il tradimento che ancora gli cocevano sottopelle. Voleva urlare, contro il mondo, contro gli Dei e la loro crudeltà, quella stessa che gli dava il nome ma che da troppi anni ormai lo tormentava.
Voleva solo riposare per un momento, leccarsi le ferite in solitaria, in pace. Voleva solo piangere, se solo si fosse ricordato come si facesse, se solo il Guardiano non l’avesse prosciugato dall’interno.
Dei, quanto avrebbe desiderato chiudere gli occhi e lasciarsi andare solo per un momento, solo un attimo di riposo.
Ma non poteva.

Si rimise in piedi e tornò a scrutare il mondo che li circondava, il buio si stava lentamente diradando, poteva scorgere qualche spanna in più di terreno e continuando di quel passo entro non molto sarebbero riusciti a vedere almeno a sei metri di distanza.
Non c’era altro da fare che aspettare.


Dopotutto aveva passato secoli a soffrire in attesa della prossima punizione, cosa sarebbe stato attendere un altro po’?







 Salve dal regno dei morti.
Per chi sta ancora leggendo questa fic, complimenti, avete più forza di volontà e pazienza di me. Ma non vi preoccupate, fino ad ora ho avuto un cuore un po’ troppo tenero forse, ma credo sia giunto il momento di applicare seriamente le regole poste all’inizio, così da potermi dedicare per bene al resto. Spero serva a far scorrere meglio la storia.
Nel prossimo capitolo un po' più di trama "esterna" e poniamo il punto d'inizio alla prima missione di Gio.
Buona estate gente, andate al mare anche per me.


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Capitolo 19
*** Maria. ***










Capitolo XIX- Maria
 
 



«Qual è la forza più grande del mondo?»
«Quella bruta?»
 
Amore scoppiò a ridere divertita, rotolandosi sulla coperta che Gio le aveva steso a terra nel retro della corriera, lì dove un tempo c’erano stati gli scomodi sedili di legno.
Il ragazzino se ne stava ancora più a fondo, vicino allo sportello posteriore mezzo aperto, da dove entrava una leggera brezza fresca e pungente.
Erano arrivati al confine con il Veneto, dove avevano deciso di fermarsi per riposare, fare scorta di cibo e carburante e permettere a Gio di fingere di sapere come aggiustare quell’ammasso di ferraglia che chiamava moto.
Amore gli aveva detto di rimanere a fare i suoi giochetti da meccanico e che a tutto il resto c’avrebbe pensato lei e sebbene all’inizio Giordano avesse protestato, l’idea di mandare una ragazzetta da sola in giro per una città che non conosceva non era proprio di suo gradimento, si era presto dovuto mordere la lingua quando la giovane aveva schioccato le dita e fatto apparire ogni singola cosa segnata sulla lista mezza strappata che aveva scritto poco prima.
L’aveva guardata quasi contrariato, borbottando come quello fosse barare e che lui non ne aveva bisogno, perché si era organizzato da principio, studiando tutte le possibilità. Aveva i soldi per comprarsi quella roba, non gli serviva Amore che la facesse apparire dal nulla. Da nulla poi… chissà dov’era questo nulla, chissà quale povera anima, si sarebbe presto resa conto di essersi persa un pezzo di pane qui, una latta di carburante di là. Era letteralmente come barare.
Glielo aveva anche detto, ma la ragazza aveva solo sghignazzato divertita per poi mettersi seduta a terra ed iniziare a fargli quegli stupidi indovinelli.
 
«Che me passi na brugoletta?» domandò senza alzare lo sguardo dal tubo di scappamento, certo che se avesse perso di vista il pezzo anche solo per un momento gli sarebbe scomparso dalle mani.
Amore annuì issandosi sulle ginocchia e gattonando fino alla cassetta degli attrezzi lasciata davanti alla ruota anteriore della moto. Trovò la brugola e gliela lanciò.
«Sai, potrei aggiustartela io in uno schiocco…» propose con fare suadente.
Giò alzò allora gli occhi al cielo. «E no però! Na cosa m’ha devi lascà fa, eddaje! E se me toji tutto poi com’o passo er tempo? Me giro i pollici? Me conto i peli de e gambe?» sbottò esasperato.
Amore alzò invece solo un sopracciglio, scettica. «Vuoi seriamente farmi credere che ti stiano già crescendo i peli?»
A quello il ragazzino avvampò. «Oh, pe chi m’hai preso? C’ho quindic’anni io!»
Un altro ghigno. «Compiuti o per millesimo?»
«Me stai a diventà antipatica, sappilo.» poi allargò le spalle, gonfiando il petto magro per farsi più grande di quello che era veramente. «Non sarò ancoro n’omo de quelli fatti e finiti, ma ce sto a arivà, va bene?»
Amore annuì concorde. «Certo che sì, piccolo Gio. Piano piano si arriva ovunque! Però, sai, prima di preoccuparsi dei peli sulle gambe dovresti preoccuparti di altre parti del corpo.» ammiccò senza vergogna.
Gio la guardò scettico, un bullone tra le labbra e la brugola già fissa sul prossimo da togliere. «La barba dici? Pure mi padre non c’aveva troppa roba, de quella nun me preoccupo mica. Tra n’po mi madre ce n’aveva più de lui.» borbottò pensieroso.
La dea alzò gli occhi al cielo, indecisa se essere divertita o irritata da quell’innocenza così palese. E dire che era un adolescente, avrebbe dovuto capire al volo tutti i doppi sensi che gli frecciava contro.
«Che disdetta…» si risolse a dire sedendosi sulle ginocchia. «Pensi di poter fare una pausa? Avevamo concordato che ti avrei insegnato un po’ di cose sull’amore prima d’arrivare alla Serenissima.» provò a convincerlo suadente.
Giordano non osò alzare lo sguardo dal suo lavoro, perfettamente consapevole che se avesse anche solo scorto un lampo di quegli occhi la giovane sarebbe stata in grado di fargli fare qualunque cosa volesse.
Aveva pensato a lungo alle capacità della sua compagna di viaggio, ai suoi “poteri”. Gio forse non aveva una cultura così completa e ampia degli Dei dell’Olimpo, abituato com’era a pregare un’altra chiesa, ma qualcosa lo sapeva, qualcosa lo ricordava, gli era stato detto. Durante gli anni in Jugoslavia non c’era mai stato troppo tempo per sedersi e fare un bell’elenco di tutti gli Dei se non di quelli utili, di quelli che li spalleggiavano e di quelli che erano loro contro. Una divinità dell’amore, in quella terra dimenticata da Dio, non rientrava tra le cose essenziali da sapere. Quindi sì, Giordano aveva associato il nome al dio, ma per quanto ne sapeva lui gli “amorini” erano angioletti piccoli, infantili, paffutelli e monelli, non una bella ragazza vestita d’azzurro con le gambe longilinee e il seno prosperoso che lui non guardava mai, assolutamente, per nessun motivo al mondo.
Sospirò continuando a tenere lo sguardo basso.
«Sto a lavorà.»
«Possiamo lavorare su altro.»
«Me voi fa na lezione de storia degli Dei?» grugnì. «Madonna, se me sentisse Suor Patrizia, pare che sto a bestemmià.»
La risata cristallina di Amore mise a dura prova la sua forza di volontà, ma Gio riuscì comunque a tenere la testa china sulla moto.
«Potrei farlo, sai? Se è questo quello che ti interessa sapere. Potremmo iniziare dalle mie competenze, cosa ne pensi?» la dea sorrise senza scoprire i denti, umettandosi velocemente le labbra, conscia dell’aspetto che doveva avere in quel momento, tutta seduta composta come una scolaretta pronta a pregare davanti ad un altare.
Peccato che di solito non si inginocchiasse mai per pregare, lei.
Allungò le gambe davanti a sé sedendosi sulla coperta ruvida e con un movimento appena accennato sciolse il cinturino delle sue scarpe, togliendosele con facilità.
«Cosa ti ha detto Ade della tua missione?» domandò ancora portandosi una mano al collo, facendola poi scivolare fino al primo bottone della camicetta, slacciandolo.
«T’o ridico nartra vorta, non lo so se te posso di quello che m’ha detto Pluto.»
Amore ridacchio. «Adoro il fatto che tu possa chiamarlo in quel modo.»
«Ar paese mio o chiavano così, po solo che sta zitto e stacce.» rispose infilandosi un bullone in bocca, per poi sputarlo nello straccio che teneva di fianco a sé e strofinarlo con vigore per pulirlo.
L’altra non sembrò per nulla impressionata. «Abbiamo già appurato che si tratta di una signorina, che c’è di mezzo l’amore e che quindi, di conseguenza, è il mio campo. Su, confessa i tuoi segreti, sono una magnanima ascoltatrice.» sbottonò silenziosamente tutta la camicia, facendosela scivolare dalle spalle per poi lasciarla cadere al suo fianco.
«Allora che m’o chiedi a fa se già lo sai?» borbottò aggrottando le sopracciglia come se quella fosse la cosa più stupida che avesse sentito in tutta la sua vita. E lui era praticamente cresciuto con Bas, per l’amore del cielo.
«Quindi dovrai fargli da dama di compagnia? È questo il grande compito che Ade ti ha affidato?»
Quell’ultima frase ebbe finalmente il potere di far scattare sull’attenti Gio, ma nel momento in cui alzò il capo verso la ragazza l’unica cosa su cui riuscì a concentrarsi fu il corsetto chiaro che le stringeva la vita ed i seni in modo perfetto.
Amore sorrise vittoriosa, un gesto della mano e Giordano si ritrovò in piedi davanti a lei, senza neanche essersi reso conto d’essersi alzato, aver abbandonato il suo lavoro da meccanico ed essersi fermato davanti all’altra.
La Dea lo guardò compiaciuta dello sguardo stupito che il ragazzino le rivolgeva e dai pensieri confusi che gli si affollavano nella mente. Era quasi comico il modo in cui si ripeteva che non stava bene, che doveva smettere di fissarla e allo stesso tempo, una vocina più piccola, più profonda, che parlava alla parte più emotiva e nascosta del giovane, gli suggeriva che ci fosse qualcosa di davvero bello in un semplice e banale petto femminile.
«Perché Ade vuole che trovi questa donzelletta, te lo sei chiesto? Gli deve forse qualcosa? Una promessa, un pegno. O forse è Ade stesso a dover qualcosa a lei. Forse lui se n’è invaghito, forse vuole solo averla tra le sue lenzuola…» insinuò allungando una mano verso Gio ed invitandolo a sedersi al suo fianco. Il ragazzino deglutì senza risponderle. «Forse è pura attrazione fisica, gli Dei non sanno mai accettare un no come risposta, una vera disdetta.» proseguì con tono leggero.
Si issò di nuovo sulle ginocchia, tirando su la gonna quel tanto che le necessitava per poter scavalcare le gambe del compagno e sederglisi in braccio.
Giordano deglutì ancora, senza aver il coraggio di toccarla. L’odore intossicante della cera, delle rose e dell’estate umida ed afosa era di nuovo prepotente nell’aria, sebben più disciolto in tutto l’ambiente e non concentrato in un filo di fumo come quello che la giovane aveva soffiato dritto nelle sue labbra la volta precedente.
Amore gli prese le mani e se le posò sui fianchi, passando poi le proprie sulle spalle del ragazzo.
«O magari è altro, magari c’è del tenero. Magari lui la ama e vuole che te, un amico fidato, stia al suo fianco, che la protegga da tutti i suoi nemici… forse dalla sua stessa famiglia. Ade è sposato, sai?» chiese senza aspettarsi davvero una risposta. «Se questo fosse il caso, allora dovrai esser pronto a combattere con le unghie e con i denti, anche esser pronto alla morte, pur di salvare l’amata del suo signore.»
«A-Ade, Ade non è il mio signore. Noi siamo amici- io sono suo amico- l’unico-»
«Se fosse solo attrazione fisica, carnale, Ade non se la prenderà troppo se le succederà qualcosa. Ma se è amore, allora sarà furioso.» sibilò come un serpente ammaliatore. «Ma non potrai certo chiedere a lei, non credi? Allora dovrai imparare a distinguere i vari tipi d’amore prima d’incontrarla.»
Si chinò su di lui facendo toccare i loro nasi, sorridendo come una bambina, gli occhi rosati luccicanti d’emozione ed il respiro caldo e dolce.
Gio deglutì per quella che gli parve la millesima volta nell’arco di pochi minuti.
«Che mi stai facendo?» si risolse a domandare con voce flebile.
Amore sorrise. «Ti faccio provare la pesantezza mentale dell’amore, cancello l’ansia e la tensione, ti aiuto a rilassarti.» sfiorò con le labbra le sue, si tirò indietro. «E una volta rilassato abbastanza, ti insegnerò i primi, fondamentali passi di uno degli amori più ricercati dall’uomo.»
La presa sui suoi fianchi si strinse e la Dea si concesse un piccolo, soddisfatto ghignetto prima di baciare con leggerezza di ragazzino.
«L’amore carnale?» bisbigliò con timore reverenziale Giordano.
Lei scoppiò a ridere e lo abbracciò con più trasporto, regalandogli un bacio sulla punta del naso.
«Oh, come impara in fretta il mio bambino! Meriti proprio un premio.»
Quando lo baciò questa volta, Amore chiuse gli occhi abbandonandosi ad un gioco che conosceva fin dalla sua nascita, quando la sua mente divina si era espansa accogliendo ogni verità e segreto del mondo come solo un dio poteva fare.
Un brivido la percosse come una scarica d’adrenalina, contro le labbra timorose ed inesperte del piccolo Gio Amore poté avvertire qualcosa ruggire dal centro nevralgico del suo potere.
Era chiuso, era assopito, sigillato con cura proprio come la sua famiglia si era premurata di fare anni addietro, ma ora la Dea sapeva per certo che quella forza era ancora lì, non era scomparsa, non si era indebolita, attendeva solo un’emozione abbastanza forte da liberarla, una scusa abbastanza grande per esplodere e tornare alla luce.
Decenni prima una doppia profezia aveva annunciato la creazione di un essere in grado di distruggere le fondamenta dei mondi e loro, sciocchi, avevano creduto di poter imbrigliare quella forza ed usarla a loro vantaggio.
Anni dopo si erano resi conto dell’errore madornale che avevano compiuto, quanto fossero stati sciocchi nell’indugiare in un sogno di gloria così folle, così pericoloso ed avevano cercato di fermare ogni cosa.
In quel preciso momento, Amore teneva tra le mani la conseguenza più impensabile delle loro azioni e con la sadica goduria che solo suo padre e sua madre potevano comprendere, la Dea si ritrovò a pensare a quanto sarebbe stato facile per Giordano, in un giorno lontano, schiacciarli tutti come mosche.
Il brivido del pericolo era il canto delle sirene a cui nessun essere poteva sottrarsi.




*




Se aveva pensato, per anni, di potersi dimenticare la sensazione di inutilità che la colpiva ogni volta che veniva mandata via da una stanza perché “non sono cose per te, Elena”, “non sono cose da donne, Elena”, alla fine era dovuta scendere a patti con la realtà dei fatti: Ciò che più ci ha feriti nel corso della nostra vita non può essere dimenticato così facilmente.
Lea si torse le mani ancora e ancora, davanti a lei Jane cercava con tutte le sue forza di piegare la Foschia alla sua volontà, ma sembrava tanto che quella ne avesse una tutta sua e anche piuttosto forte.
Prese un altro respiro profondo ed urlò ancora i nomi dei suoi compagni, sperando con tutta sé stessa che, per lo meno, anche se non fossero stati in grado di risponderle, avrebbero potuto sentirla e sapere di non essere soli, che li stavano cercando, che stavano venendo a prenderli.
Ma dove? Dove andiamo se non vediamo nulla ad un palmo dal nostro naso?
Non era propriamente vero, più passava il tempo e più l’oscurità si diradava, ma ci stava mettendo troppo, era tutto troppo lento e i ragazzi potevano essere ad un passo dalla morte.
Qualche metro più avanti Eliza aveva fatto schioccare la lingua contro il palato, innervosita, ansiosa e ad un passo dal mettersi a cercare a tastoni nel buio pur di ritrovarli.
Chissà in quel momento cosa stava facendo Nathan, se Cade si fosse ripreso oppure no.
Lea volse la testa verso i Campi Elisi e poi di nuovo verso i suoi compagni, sempre più nitidi, sempre più chiari.


«Possiamo iniziare ad avanzare.» propose con voce gracchiante.
Eliza annuì. «Forse dovremmo, Jane?» chiese rivolta alla figlia di Ecate.
Questa espirò con rabbia e strinse i pungi battendoli con forza contro le proprie cosce.
«Ma sì! Tanto non sono io che la sto facendo scomparire! Sta facendo tutto da sola, questa- questa-»
«Stronza.» soffiò Eliza senza vergogna. «Ce n’è troppa, hai già fatto un gran lavoro attirando l’oscurità, se la Foschia è davvero animata è logico pensare che possa ascoltare le tue richieste un momento ed ignorarle l’attimo dopo.»
«È perché non sono abbastanza forte.»
«È perché sei stanca.»  la corresse Lea avvicinandosi ad Eliza ed Úranus. «Poco alla volta, un paio di passi?» domandò poggiando la mano sulla spalla dell’amico.
Úranus annuì. «Lentamente.»
«E sensi ben all’erta.» precisò la soldatessa.
Annuirono tutti e quattro e malgrado ormai potessero vedere attorno a loro in un raggio di almeno tre metri, camminarono con cautela, gettando continue occhiate a destra e sinistra, aspettandosi un attacco ad ogni passo.
Jane pareva quella più impaziente di tutti, probabilmente innervosita dalla mancata riuscita del suo incantesimo di ritorno, marciava più decisa, più veloce, tanto che Eliza doveva di continuo afferrarla per un polso e chiederle di fermarsi.
Ma Jane non aveva la minima intenzione di farlo.
Forse non era una strega esperta, ma lo sentiva, lo avvertiva il potere, la magia, il divino. Aveva avvertito la presenza del Guardiano in ritardo già una volta, non avrebbe fatto di nuovo lo stesso errore.
Non avrebbe saputo spiegarlo se le fosse stato chiesto, ma si sentiva improvvisamente molto più connessa alla Foschia che le aleggiava attorno. Forse perché era stata lei a chiamarla? O forse perché il continuo utilizzo della magia di sua madre la stava rendendo più sensibile ad ogni incantesimo?
Sarebbe bastato davvero così poco perché ne diventassi così sensibile?
Probabilmente non avrebbe mai avuto una risposta alla sua domanda, ma in quel momento neanche le importava. Voleva solo ritrovare i due dannati, portarli oltre il confine dei Campi Elisi e assaporare per la prima volta, finalmente, come sarebbe stata la pace eterna.
Che non avrò mai, vista la situazione.
E in fondo, molto in fondo, voleva anche assicurarsi che Jonas e Cicno stessero bene.
Lei l’aveva sperimentata la sensazione dell’essere arsi vivi in una colonna di fuoco. Il suo corpo era bruciato fino alle ossa, ridotto in cenere dalla brutalità di un incantesimo che non aveva saputo gestire, a cui aveva chiesto troppo. Ma quella era la vita vera. Il fascio di luce del Guardiano doveva essere una prova, qualcosa che si poteva superare quindi, qualcosa da cui si poteva uscire integri.
C’erano riusciti? Erano vivi? Li avrebbero ritrovati sani e salvi, un po’ bruciacchiati, o si sarebbero trovati davanti solo due carcasse scure rinsecchite ed informi?
Jane era già pronta ad ogni possibilità, ad ogni scena nauseante che la mente le poteva proporre.
Certo non si sarebbe aspettata quello.
Piantò di colpo i piedi a terra, scioccata. Gli occhi scuri puntati tra l’oscurità che si ritirava lentamente come le tende di una magione di lusso, come i tendaggi scadenti del teatrino delle marionette. E lì, nel mezzo del palco, rivelato con lentezza dal sipario tessuto di fumo e d’ombre, se ne stava il corpo perfetto di una statua antica. Alto, liscio, cesellato, nudo.

«Jane? Cosa-» la figlia di Nike si bloccò esattamente come aveva fatto la compagna, fissando anche lei quel corpo immacolato nel mezzo del buio.
«Non lo vedo solo io, vero?» domandò piano Úranus.
Le altre due scossero la testa, ma prima di poter dire alcun ché Lea eruppe in un gridolino di pura gioia e sollievo e li superò tutti di corsa.

«CICNO! O mio dio! Sei vivo! Sei- nudo?»
 

Cicno volse di poco il capo, la direzione che aveva fissato fino a quel momento era solo leggermente spostata rispetto a quella da cui erano giunti i quattro semidei, ma non se ne curò di molto.
Con un gesto fluido si spostò e allargò le braccia, attirando tutta l’attenzione su di sé e ponendosi a coprire Jonas che, sussultando, si era stretto ancor di più nel suo stesso abbraccio.

«Salve a te sorella, vedo con gioia che non hai ferite, né te né i nostri compagni.» parlò con tranquillità, senza tentare di coprirsi ma anzi, portando le mani sui fianchi ed enfatizzando ancor di più la sua nudità.
«Come diavolo fai a non vergognarti?» domandò Jonas con un filo di voce.
Cicno non si voltò verso di lui, ma sorrise, allungando un braccio verso Lea e facendole cenno di fermarsi.
La figlia di Apollo si bloccò, aggrottando le sopracciglia. «Cosa c’è? Perché Jonas è a terra? Sta male?» iniziò a chiedere sempre più concitata.
Il fratello però le sorrise ancora. «No, è solo nelle mie stesse condizioni ma decisamente più incline alla vergogna. Stiamo entrambi bene, non abbiamo ferite, ma l’occhio del Guardiano ha bruciato le nostre vesti.» spiegò con semplicità.
Jonas deglutì, alzando leggermente la mano per far cenno a Lea che sì, stava bene, ma non si sarebbe mai sognato di voltarsi e fronteggiarla. Mostrargli la sua schiena nuda era molto meno imbarazzante.
Cicno le fece un cenno con il capo e lei annuì senza sapere cosa fare.
«Úranus?» domandò allora il greco.
«Sono qui.» rispose flebile l’altro.
«Potresti gentilmente avvicinarti a noi e prestare la tua casacca a Jonas? Non gradisce l’idea di farsi vedere così dalle nostre compagne.»
L’uomo annuì avvicinandosi in fretta, togliendosi la giacca di pelli che gli aveva cucito sua madre secoli addietro per porgerla a Cicno, tentennante, indeciso se chiedere o meno, incapace di comprendere come le loro vesti potessero essere andate a fuoco ma i loro corpi no.
Lontano Eliza aveva solo alzato gli occhi al cielo, sollevata dal vederli vivi e vegeti, ma al contempo scocciata da quell’imbarazzo inutile, ne aveva visti a centinaia di uomini nudi nel suo battaglione, e arrabbiata. Sì, Eliza si rese conto di essere arrabbiata, no, infuriata con Jonas.
Dopo la paura d’averli persi ed il sollievo nel vederli salvi, ciò che le stava lentamente montando dentro era rabbia pura.
Che diamine gli era saltato in mente a quel dannato moccioso? Si era buttato in un dannato fascio di luce infuocata e se non fosse stato per Cicno, anche lui reo di essersi lanciato al seguito del ragazzino ma almeno d’averlo fatto con l’intento di salvarlo, probabilmente ora non si sarebbe dovuto preoccupare di farsi vedere nudo da loro ma di essere morto carbonizzato.
Di fianco a lei Jane le lanciò un’occhiata curiosa e poi, come illuminata da un’epifania, annuì con una smorfia.
«Accertiamoci che stiano davvero bene e sbrighiamoci ad andare oltre le porte bianche, poi potrai prenderli a schiaffi quanto vuoi. Nessuno di noi ti fermerà, se lo meritano.» disse piatta.
Eliza digrignò i denti. «Se lo merita.» precisò.
Jane alzò un sopracciglio. «Quindi il greco è salvo?»
«Ha solo cercato di salvare Jonas. È stato stupido gettarsi tra le fiamme, ma cos’altro avrebbe potuto fare? Per di più c’è sempre la questione dei gioielli…»
«Giusto, i gioielli maledetti.» annuì. «Solo non farti soffiare la ramanzina dal soldatino, tocca a te urlare questa volta.» si strinse nelle spalle e si avvicinò agli altri, slacciandosi il grembiule logoro e porgendolo a Cicno.
Eliza la guardò fissare il greco in volto senza abbassare mai lo sguardo, neanche per un momento, e si ritrovò a sorridere.
Jane aveva ragione, dovevano arrivare oltre le porte dei Campi Elisi e lì, lì niente e nessuno avrebbe più potuto impedirle di sgridare Jonas come meritava d’esser sgridato.

Cicno afferrò la giacca e diede le spalle agli altri, tenendola aperta davanti a Jonas e facendogli cenno di alzarsi.
«Forza, sei coperto, non ti vede nessuno.»
Il ragazzino annuì, stringendo con una mano il tessuto liso dal tempo ma ancora abbastanza spesso e morbido. Infilò svelto le mani nelle maniche di quella che era una classica giacca di pelle da cacciatore, ritrovandosi però a doverne ammucchiare gran parte per poterne tirare fuori le mani e chiudere i lembi.
Si alzò traballando, improvvisamente conscio che la vecchia giacca di Úranus non gli copriva semplicemente il busto come faceva con il suo proprietario ma gli arrivava quasi sotto al ginocchio. Le sue gambette secche e pallide parevano ancora più minute così. Sembrava un moccioso che aveva rubato i vestiti al padre. Non sapeva decidere se fosse più o meno umiliante del farsi vedere nudi.

«Che, comunque, non c’era alcun bisogno di coprirsi, sono un’infermiera, ho visto i miei pazienti svestiti.» borbottò Lea tenendo comunque lo sguardo puntato altrove.
Úranus guardò Cicno e accennò ad una smorfia che forse voleva essere un sorriso. «Posso darti la mia camicia, se vuoi.» propose incerto.
Cicno si strinse nelle spalle, «Non ne ho alcun bisogno al momento. Sono sicuro di poter trovare qualcosa nei Campi Elisi.»
«Sì, come no, e nel frattempo abbiamo il ragazzino che appena ti guarda arrossisce e si gira dall’altra parte. Dei, ma riesci a camminare con quella roba addosso?»
Jane si era avvicinata con passo deciso, l’espressione annoiata se non infastidita, mentre si scioglieva il vecchio grembiule che le copriva il vestito grigiastro, per poi porgerlo a Cicno.
Il greco lo accettò con un cenno e lo osservò per cercare di capire come usarlo al meglio per coprirsi.
Jonas, intanto, si era voltato indignato verso la figlia di Ecate.
«Ehi! Non arrossisco appena lo guardo e sì, ci cammino, non sono basso come te.» soffiò acido.
Jane lo guardò scettica. «Sei basso, anche se sei più alto di me. E sappi che non hai il diritto di rispondere a nessuno. Hai fatto una sciocchezza, hai messo in pericolo la tua vita e quella del greco, qui. Preparati, Eliza è pronta a dirtene di tutti i colori e non voglio neanche immaginare cosa dirà il rosso quando si sarà ripreso.»
A quelle parole Jonas rabbrividì, abbassando il capo mortificato.
Aveva solo cercato di aiutarli, di fare le cose fatte bene, di non scappare come aveva sempre fatto. Ma a quanto pare aveva sbagliato ancora e i suoi compagni – grandi, adulti, responsabili, intelligenti, forti – erano pronti a fargli una ramanzina come si fa con i bambini.
Perché è questo che sono ai loro occhi, no? Solo un bambino che ha fatto una cazzata.
«A sua discolpa, è stato un atto molto eroico.»
Jonas si voltò a guardare Cicno, incredibilmente grato per quelle parole, per il tono sincero che aveva usato, quel suo classico modo di dire le cose, come se fosse solo la pura e semplice verità, senza impressioni personali aggiunte.
Lo ringraziò con uno sguardo che sperò potesse comunicargli quella gratitudine, ma non poté far a meno di notare la rigidità che aveva assunto all’affermazione delle giovane.
Cosa l’aveva infastidito?
L’osservò con un po’ più d’attenzione e allora, solo in quel momento, riuscì a vedere il leggero tremolio della gamba destra, il modo in cui spostava il peso sulla sinistra, in cui cercava di bilanciarsi. Riuscì a scorgere quasi affaticamento nella linea dritta della schiena.
Le labbra distese in un sorriso di circostanza sembravano contrarsi leggermente, le palpebre battevano più velocemente del solito.
Ha utilizzato molta energia per curare entrambi. Mi ha chiesto di non sentirmi male perché la forza che gli rimaneva sarebbe potuta servire a curare gli altri.
“Quando Cade si sveglierà”
Cade era ancora svenuto. Lea era una buona guaritrice ma Cicno lo era ancor di più. Più potente, più veloce, più capace e avvezzo all’utilizzo delle arti guaritrici di Apollo e soprattutto sembrava illeso e al pieno delle sue forze.
Fu come accendere una lampadina in una stanza in penombra e riuscire finalmente a scorgere tutti i dettagli del mobilio che l’arredava. Jonas si volse con tutto il corpo verso Cicno e allungò una mano verso la sua, intralciato dalla manica troppo lunga, finendo per afferrare le dita longilinee dell’altro attraverso la presa guantata della pelle conciata.
Cicno era stanco.
Era uscito dai Campi di Pena dopo secoli di torture, aveva affrontato tutte le prove, aveva viaggiato nelle Praterie da solo, aveva salvato Cade, maledetto il loro udito per poi sciogliere subito dopo la maledizione. Aveva combattuto contro altre anime per giungere fino alla meta, proteggendo non solo sé stesso ma anche Úranus. Aveva curato Nathan, aveva discusso con tutti loro, si era gettato nel raggio del Guardiano per salvarlo e ne aveva subito lo sguardo, martoriato e bruciato nel profondo più di quanto non fosse successo a Jonas. Aveva curato lui e sé stesso e ora… ora era stanco.
Il greco lo guardò curioso, cercando di mascherare il tremolio che lo scuoteva, la rabbia e la debolezza sempre più pressanti che gli stringevano il petto.
Forzò un sorriso.
«Tutto bene?»
Jonas annuì, stringendo di più la sua mano. «Tu? Vuoi sederti un attimo a riposare?» domandò con un filo di voce.
Cicno lo guardò sorpreso, inclinando la testa di lato. «I nostri compagni ci aspettano-»
«E aspettare qui non ti farà scappare dalla furia di Eliza. Non si è neanche avvicinata.» lo interruppe Jane voltandosi poi verso l’altra.
«Aspetti che la preda ti cada tra le braccia, figlia di Nike?» la provocò blandamente tornando verso di lei.
Eliza da lontano scosse il capo facendo qualche passo verso di loro, rispondendo a tono, ma Jonas non le stava prestando attenzione, a differenza di Úranus e Lea. Era concentrato su Cicno, sul suo viso, sui suoi occhi lucidi ma vacui.
«Dovresti sederti davvero, ti trema la gamba.» provò a convincerlo, avvicinandosi di più.
Lo imbarazzava ancora stare così a stretto contatto con un’altra persona, ma Cicno l’aveva stretto a sé quando era nudo, la giacca di pelle e il grembiule logoro di Jane erano decisamente un passo avanti. Allungò anche l’altra mano verso di lui, pronto a sostenerlo in qualunque momento ne avesse avuto bisogno.
Cicno lo fissò in silenzio per un momento, poi gli sorrise.
«Grazie, riposerò una volta giunti oltre le porte, potremmo farlo entrambi, va bene?»
Quella semplice frase, quel grazie, sembrarono quasi ridargli energia. Jonas drizzò la schiena, continuando a tenere le mani protese verso il greco, e sorrise genuinamente per la prima volta da quando era iniziata quella sfida. Cicno aveva capito, sapeva che Jonas era l’unico ad essersi reso conto della sua debolezza ed aveva apprezzato il fatto che si fosse rivolto solo a lui, che non avesse tirato in ballo anche gli altri, informandoli della sua stanchezza. L’aveva capito e l’aveva ripagato rendendolo partecipe della scelta di riposare ora o dopo. In un qualche modo Jonas sentì che in quella domanda non c’era solo retorica, che se avesse insistito per farlo sedere Cicno l’avrebbe fatto e si sarebbe affidato a lui.

Oltre le porte, al sicuro, dove potremmo riposare entrambi. O qui, nel mezzo delle Praterie, dove lui potrà riposarsi ma io dovrò rimanere vigile per lui.

Jonas gli diede un’ultima, leggera, stretta alla mano e poi la lasciò andare.
«Con calma, se non senti il bisogno di fermarti subito.» replicò.
Cicno annuì. «Allora andiamo, non facciamo aspettare gli altri.» gli fece cenno verso i compagni per poi fermarsi di colpo. Jonas quasi gli sbatté contro.
«Che c’è?» chiese improvvisamente allarmato, guardandosi attorno con ansia.
Il greco però scosse il capo. «Nessun pericolo, tranquillo. Volevo solo assicurarti che prenderò le tue difese contro i nostri compagni. La tua è stata una condanna a morte volontaria, ma-» e qui s’interruppe, facendosi serio. «questa volta, hai agito per salvare delle anime. Sei rimasto a combattere, non sei fuggito, anche quando ti ho detto di farlo. Sei rimasto ad affrontare il tuo destino
Un leggero prurito gli formicolò sulle mani, tra le dita, come quando si gonfiano per il troppo caldo e tutto l’arto s’intorpidisce. Jonas batté le palpebre cercando di ricacciare indietro le lacrime di puro orgoglio che gli inumidivano gli occhi, sorridendo così tanto da farsi dolere le guance.
Doveva sembrare un completo idiota dall’esterno. Un moccioso pallido, con i capelli arruffati ed una casacca di vecchie pelli cucite a patchwork una all’altra, grande il doppio di lui, che sorrideva come un cretino ad una statua greca vivente con un grembiule sporco e logoro drappeggiato sui fianchi stretti. Eppure non gliene fregava nulla.
Jonas annuì, stringendo le labbra, cercando di darsi un contegno.
Inutilmente se doveva giudicarlo dallo sguardo divertito dell’altro.
«Cade sarà orgoglioso di te.»
Jonas sbuffò, riprendendo a camminare. «Cade mi vorrà picchiare.» lo corresse.
«No, la figlia di Nike ha un’espressione molto combattiva, sono certo che quando avrà finito di rimproverarti Cade non avrà null’altro da aggiungere e vorrà solo accertarsi che tu stia bene.»
«Beh, ma quello mi pare più che ovvio.» disse stringendosi nelle spalle, sprofondando nell’enorme giacca. «C’eri tu con me, no?»
E con quelle parole Jonas si diresse dritto verso Lea, che gli sorrise sollevata, posandogli una mano sulla spalla e chiedendogli se stesse davvero bene, se non avesse bisogno di cure, cosa diamine gli era saltato in mente, se sentisse dolore da qualche parte.
Sembrava una madre intenta ad accertarsi che il proprio figlio fosse in salute, pensò distrattamente Cicno rallentando il passo.
Sentiva la testa leggera, gli occhi affaticati e le membra deboli, ma non era questo ad averlo toccato.
Fissando gli altri semidei riunirsi si trovò quasi costretto a distogliere lo sguardo e puntarlo altrove, verso i prati neri che emergevano dalle altrettanto nere mura di Foschia che si stavano sempre più diradando. Gli serviva qualcosa di anonimo, di inanimato.
Un puntino dorato luccicò tra le ombre e anche se nascosto dalla fitta trama della magia, Cicno seppe perfettamente cosa significava prim’ancora di avvertire il brivido caldo che gli carezzò la schiena.
 
Hai fatto un buon lavoro, te lo meriti.

Meritare? Meritarsi cosa?
Il luccichio si allungò in una linea arcuata verso l’alto.

 
Qualcuno che si fidi di te.

Cicno sbuffò sorridendo ironico.
Quand’era stata l’ultima volta che qualcuno si era sentito al sicuro perché in sua presenza?
Poteva cercare di ricordare, scavare nel profondo come aveva fatto il Guardiano per trovare l’amore nella sua anima, ma non c’era traccia di un evento simile nella sua memoria.
Tornò a guardare i suoi compagni, dando le spalle al luccichio, avrebbe avuto tempo, in futuro, di accusare il suo padrone di non averlo messo in guardia contro la prova di Demetra, di averlo aiutato a rimanere saldo a terra ma non a fuggire il fuoco del giudizio. Per ora però doveva pensare ad oltrepassare le porte dei Campi Elisi e riposare quel tanto che gli sarebbe stato concesso di fare.
Gli altri erano già andati avanti, ma avevano rallentato anche loro, probabilmente per non lasciarlo indietro. Jonas gli lanciava occhiate di sottecchi, mentre annuiva distrattamente alle domande di Lea e alle preoccupazioni di Úranus, ma Jane ed Eliza, specie quest’ultima, non si facevano alcuno scrupolo a nascondere i loro sguardi attenti.
Cicno si concesse un piccolo ghigno divertito: dunque si stavano preoccupando anche loro per la sua salute?
Con tutta probabilità Jonas aver detto loro di concedergli qualche attimo di solitudine e di raccolta ed era ciò che gli stavano concedendo lasciandolo camminare in disparte, ma se aveva capito qualcosa di quella gente, della figlia di Nike in questo caso, era che per quando rispettasse la volontà ed i bisogni altrui, non mancava di tenere un certo controllo su tutti.
Fu lei infatti a fissarlo dritto negli occhi, una muta domanda nello sguardo.

Tutto bene?

Cicno annuì, espirando lentamente.
«Sto arrivando, perdonatemi, ho ancora le membra intorpidite.» disse ad alta voce, raggiungendoli ad ampie falcate.
Úranus si volse subito verso di lui, ritirandosi come se avesse paura di toccarlo e fargli del male. Lea smise per un attimo di tartassare Jonas per squadrarlo da testa a piedi e annuire risoluta.
«Appena saremo al sicuro ti visiterò e non accetto un no come risposta.»
«Come desideri.» le sorrise.
«Le nostre dimore dovrebbero ancora appartenerci, credo. Potremmo trovare delle vesti per entrambi.» continuò Úranus.
«Avete delle case?» chiese invece Jane stupita.
«Siete seri?» proruppe Jonas scioccato.
Ricominciarono a parlare, sorpresi e concitati, gli altri leggermente imbarazzati, ma il figlio di Apollo smise presto di prestar loro attenzione, focalizzandosi sulla zona più lontana che riusciva a scorgere a confine con la Foschia in ritirata.
«Lo hai curato, vero?»
La voce di Eliza, così bassa e vicina, lo fece sussultare. Non si era accorto di nulla, dannazione.
Annuì comunque.
«Era un po’ bruciacchiato, se capisci cosa intendo.» provò a scherzare.
L’altra però rimase seria. «Anche te? Non cammini dritto, ondeggi. Hai impiegato molte energie, era così ferito?»
Cicno rimase in silenzio, valutando quanto e come dire, poi prese fiato e annuì.
«Sono stanco, sì, curare le nostre ferite in breve tempo è stato impegnativo. Ma è ciò che succede in questi casi, no?»
Eliza aggrottò le sopracciglia. «In quali casi?»
«Quando non si scappa e si rimane a combattere.» disse solo e lei non poté protestare in alcun modo.

È questo che succede quando non si fugge e si combatte. C’è rischio di rimanere feriti.

Cicno le aveva appena detto, seppur indirettamente, che sì, Jonas aveva fatto una follia gettandosi nel fascio di luce, ma non l’aveva fatto senza la consapevolezza che si sarebbe ritrovato a lottare contro qualcosa di sconosciuto.
E questa volta non è scappato come ha fatto in vita. È rimasto.
Eliza lo guardò seria, immobile.
«Mi fido delle tue parole.»
E prima che Cicno potesse replicare, prima che potesse far anche solo una battuta sciocca su quanto fosse onorato d’aver la fiducia della figlia di Nike, Lea richiamò la loro attenzione a gran voce.


«Lì! Li vedo! Nathan!»
Accelerò il passo, agitando un braccio in aria per richiamare l’attenzione del figlio di Ares che, seduto a terra oltre la linea di marmo della soglia delle porte, teneva Cade stretto al suo fianco, la testa poggiata sulla spalla, il volto rilassato ma ancora palesemente incosciente.
Anche da quella distanza lo videro drizzare la schiena e far come per muoversi, prima di ricordarsi del peso morto del compagno.
Alzò anche lui un pungo all’aria, ma solo per imprecare pesantemente.
 
«MA PORCA DI QUELLA TROIA! VI SIETE FERMATI A FARE UN PICNIC? ANDATEVENE TUTTI A ‘FANCULO! SPECIALMENTE TU MOCCIOSO! IL MOMENTO CHE TI METTO LE MANI ADDOSSO SEI FINITO!»


Jane roteò gli occhi e fece una delle sue migliori smorfie infastidite.
«Ti pareva? Eliza, mi hai assicurato che non gli avresti ceduto il posto questa volta.»
«Non lo farò.» disse la giovane oltrepassando Cicno e tutti gli altri. «Capito soldato? Sono io l’ufficiale in comando questa volta. Io l’ho trovato e io lo sgrido.» replicò a gran voce.
Nathan imprecò ancora. «SGRIDARE? CHE CAZZO, L’HAI PRESO PER UN- ah, no, è vero, è un moccioso. Fanculo di nuovo.»
Lea rise divertita, un suono liberatorio, di puro sollievo nel vedere che anche gli ultimi due compagni mancanti erano sani e salvi, incitando poi gli altri a sbrigarsi per raggiungerli.
Úranus ed Eliza la seguirono subito, oltrepassando le porte titaniche chiedendo subito delle condizioni di Cade, ma gli altri tre invece rimasero indietro.
Jane fissò l’imponente entrata senza osare aprir bocca.
Era quello il paradiso quindi? Se lo era sempre immaginato diversamente, più luminoso, più candido, più... celestiale? E invece sembrava solo l’entrata ad una cittadella, con le guardie, e le porte spalancate e-
 
«Solo io mi aspettavo qualcosa di più?» domandò Jonas a bassa voce, stringendosi nella veste, quasi avesse paura di farsi sentire dagli altri.
Jane scosse il capo. «Sembra una versione abbellita delle porte di qualche roccaforte militare.»
«Sì, sembra l’ingresso di un castello aperto ai turisti. Le porte sono mostruose, ma l’interno…» confermò il ragazzino.
«Non ho mai visto nulla del genere.» ammise Cicno, Jonas si volse a guardarlo, Jane voltò solo di poco il capo, tenendo gli occhi fissi sull’entrata, spiando la strada lastricata e le piccole inferriate che costeggiavano le aiuole rigogliose.
«Non c’era questa roba nella tua epoca?»
«No, gli ingressi alle città o alle fortezze erano diversi. Ho sempre immaginato i Campi Elisi come una versione meno preziosa dell’Olimpo.»
«Hanno parlato di dimore, quelle che vedo laggiù allora sono case?» chiese il ragazzino.
«Probabile.»
«Sono così strane.» mormorò Cicno.
«Sono abbastanza simili a quelle della mia di epoca.» disse Jonas. «Quindi forse seguono lo scorrere del tempo? Le più vicine all’entrata sono le più moderne?
«Qualunque sia la risposta, vi pregherei di avanzare ed entrare.» li spronò il greco.
Jane gli lanciò un’occhiata valutativa. «Sei davvero stanco allora, non me lo sono immaginata, ti tremano le gambe. Che diamine vi ha fatto il Guardiano? Ha incenerito davvero solo i vostri vestiti, o ha fatto più danni?»
«La seconda.» ammise Jonas svelto. «Cicno ci ha guariti.»
«Mh. Beh, ci spiegherete tutto a breve. Entriamo a vedere com’è la pace eterna?»
«Esiste?» domandò a bassa voce Cicno, un commento che gli era sfuggito dalle labbra prima di potersi frenare.
I due lo guardarono con quella che poteva sembrare comprensione e anche un filo d’apprensione.
«Speriamo.» soffiò Jonas. Si torse le mani, tirando su le maniche per potersi liberare da quell’ingombro fastidioso e poi, dopo aver tentennato, deglutì rumorosamente e, arrossendo leggermente, allungò la mano verso Cicno. «Andiamo?» chiese in un pigolio timido.
Il figlio di Apollo gli sorrise con la sua solita gentilezza, prendendo la mano fredda del ragazzino, stringendola nella presa calda della propria, per poi offrire il braccio a Jane.
La ragazza lo guardò scettica. «Al massimo dovrei essere io ad offrire il braccio a te. Non sono io quella che non si regge sulle sue stesse gambe.» gli fece notare subito.
Se con quelle parole però sperava di scoraggiare il greco si rese ben presto conto d’essersi fregata da sola quando il giovane i strinse nelle spalle per poi, con un gesto fluido e sicuro, infilare la mano sotto il suo braccio e stringerlo per supportarsi.
«Ti ringrazio, Jane.» disse sorridendo sornione.
Jonas ridacchiò, ammiccando divertito in direzione della strega che alzò gli occhi al cielo scocciata.
«Lo faccio solo perché tremi, sappilo.»
A quello Jonas rise ancora di più e tirò leggermente la mano di Cicno, stringendo l’altra attorno ai lembi della giacca per tenerla ben chiusa. Si trascinò i due dietro, avanzando con improvvisa leggerezza verso i Campi Elisi. Una volta entrati avrebbe dovuto far i conti con il disappunto di Eliza e con la palese irritazione, se non rabbia, di Nathan. Quando si sarebbe ripreso anche con la furia di Cade. Ma per ora, in quei pochi minuti, di quella frazione di tempo, si sentiva leggero, si sentiva felice, come quando trascinava Ludwig di peso verso casa dopo averlo battuto sulla corsa. Era forse un pensiero stupido, un’associazione sciocca, ma si sentiva così, esattamente così.
Per un momento poteva illudersi che persino la fredda e cinica Jane si fosse sciolta, che si lasciasse toccare da uno sconosciuto per sorreggerlo, perché si fidava di lui, perché voleva dargli assistenza. Si poteva illudere che Lea, piegata su Cade, lo stesse svegliando da un pisolino, che Eliza, con le mani sui fianchi e lo sguardo attento, si stesse solo assicurando che lui e Jane sostenessero Cicno e non lo lasciassero cadere.
Poteva illudersi che fossero tutti amici, giunti alla fine di una missione faticosa ma vittoriosa.
Solo per pochi minuti. Poteva illudersi che quel momento non sarebbe mai finito.
 



*
 



Si era tolto le scarpe ed i calzini, aveva posato la giacca di jeans ormai sbiadito sulla panca di pietra, attento a non rovinarne il muschio, e poi era rimasto così, in piedi, a sentire l’erba sempre fresca sotto le piante dei piedi bollenti.
Era sempre stato caldo, da che ne aveva memoria, da che era bambino. Le sue mani scottavano d’inverno, emanavano calore d’estate. Tali gli ripeteva in continuazione quanto fosse fortunato.
 
“Sei un piccolo pranoterapeuta, accumuli energia, la trasformi in calore, lo rilasci nell’ambiente. Può curare dolori, malattie, può scaldare le persone. Siamo in guerra e la Jugoslavia è fredda d’inverno, piccolo Gio, ma tu sei il nostro piccolo fuocherello e un giorno, quando crescerai, sarai il centro della nostra famiglia, sarai il focolare attorno a cui ci riuniremo, da cui prenderemo calore e sollievo. Crescerai grande e forte, bambino mio, sarai la stella più brillante, credimi.”

In quel momento però il calore che l’aveva sempre animato veniva lentamente disperso verso la terra, assorbito dal suolo mentre Gio, con gli occhi spalancati su un frammento di cielo che non esisteva più, vi vedeva attraverso.
Le porte dei Campi Elisi, così spalancate, non si erano più viste da tempi immemori, Gio le aveva spiate nella Dimensione Onirica, quando ad attraversarle erano stati eroi e Dei e le anime mortali li avevano guardato storditi, stralunati. Credeva che mai più avrebbe assistito ad uno spettacolo simile e invece Demetra aveva giocato un bel tiro a tutti quanti.
Sorrise, sprofondando le mani nelle tasche dei vecchi pantaloni verdi, puntando il suo sguardo verso l’altro, verso la punta più lontana della porta centrale, lì dove l’occhio del Guardiano riposava, scrutando le anime rimaste e tutte quelle che avevano ricevuto la benedizione. Poi sembrò quasi accorgersi d’esser guardato a sua volta e veloce, come solo un artefatto divino poteva esserlo, fissò la sua iride trasparente dritta nelle sue.
Un brivido caldo lo sfiorò, ma erano decenni ormai che Giordano non temeva più quello sguardo inquisitore, una vita fa, quando il Guardiano l’aveva scorto per la prima volta e l’aveva investito con il suo raggio di luce. Una luce così potente da essere in grado di illuminare anche gli anfratti più nascosti, gli angoli più remoti, le ombre più buie. E ne aveva attraversate, di ombre, di zone celate, serrate e sigillate, ma il faro si era ben presto dovuto ritirare.
Era stata una cascata luminescente, aveva fatto appena in tempo a colpirgli la pelle per scoprirlo impermeabile. Aveva fatto appena in tempo a bagnargli le vesti che subito aveva trovato ciò che ricercava: una valida ragione, un merito innegabile, per cui avrebbe dovuto farlo passare.
Al tempo il Guardiano guardava solo a questo, ma Demetra gli aveva dato precise indicazioni e ora, come allora, l’occhio si fissò sulla sua figura – che era lì ma non era lì davvero, che era lì davvero ma era anche da un’altra parte – e gli pose la sua domanda come aveva sempre fatto, illuminando la sua anima per riuscire a trovare la risposta giusta.
Giordano si lasciò toccare da quella luce bollente ma un sorriso beffardo gli increspò subito le labbra quando il calore iniziò a diminuire drasticamente in pochi secondi.
Ciò che Demetra non aveva detto e che molte anime non avevano capito era che al Guardiano non bisognava fuggire, ma dare immediatamente ciò che stava cercando. Bisognava aiutarlo a cercare, tirare fuori tutte le cianfrusaglie inutili ed arrivare subito al nocciolo della questione, perché il Guardiano non aveva mani e l’unico modo che aveva per sposare ciò che era obsoleto era eliminandolo.
 
Bruciare ciò che è inutile, ciò che è marcio, ciò che è cattivo. Fuoco purificatore, piace sempre a tutte le religioni.
 
Fece un cenno con la testa all’artefatto e questo si mosse su e giù, imitando il suo movimento, prima di tornare a guardare le poche anime ancora rimaste in gara.
Erano riusciti ad entrare in molti, tanti altri erano stati arsi vivi, incapaci di comprendere la prova, ostinati a scappare e resistere senza dare nulla, senza condividere neanche il più piccolo dei loro ricordi.
Rimase ancora un po’ ad osservare le anime, contando i dannati, i beati ed i perduti, ridacchiando tra sé e sé, finché qualcuno non gli batté gentilmente sulla spalla.
Voltò il capo e poi tutto il resto del corpo, spostando i piedi tra l’erbetta ancora fresca, osservando con curiosità l’uomo seduto sulla panca di pietra, con la sua giacca in grembo.
Giordano alzò un sopracciglio, muovendosi con calma fino ad arrivare davanti all’altro. Sorrise.
 
«Ammetto che quando mi hai chiamato mi aspettavo di trovare qualcun altro. Anche se di certo Atena mi avrebbe preso a schiaffi piuttosto ed Eris probabilmente mi avrebbe pungolato, l’infame.» disse con leggerezza sedendosi a terra.
L’uomo sospirò, scuotendo la testa bruna, qualche ciuffo scappato dal codino gli contornò il viso ondeggiando lento, gli occhi chiari, grigiastri, l’osservarono con un misto di apprensione e sconforto, come lo sguardo di un genitore che sa di dover impartire una lezione amara al proprio figlio.
«Hai fatto davvero un bel casino, ragazzino.» mormorò con l’accenno di un sorriso preoccupato sulle labbra fini.
Gio ghignò. «E sarebbe una novità? Andiamo, dimmi qualcosa che non so, Po!»
Quello storse il naso, «Non chiamarmi così, te ne prego.» si lamentò.
«Ma è divertente.»
«Come lo è stato ideare la gara? Quella che non ti interessa davvero?» ritorse subito.
A quello Giordano inclinò la testa, il volto sorridente ma plastico, falso. «Mi interessa molto, invece, si stanno ripagando molte ingiustizie. Tu dovresti esserne felice, tuo figlio è tra coloro che stanno traendo vantaggio dalla Death Race. Fosse stato altrimenti sarebbe ancora a vagare triste e vuoto per la sua terrazza.» rispose con voce tranquilla.
Il dio, perché di quello si trattava, deglutì. «Non ho molti figli, è sleale puntare subito su di loro.»
«Sono un mortale anche io, è sleale affermare che non me ne importi nulla di una gara in cui, ancora una volta, è proprio la mia razza a rischiare di più.»
«Mh, un mortale… smetterai mai di definirti tale?»
«Ma è quello che sono. Sono Giordano il Mortale, Giordano Delle Vie, tutte le vie del Signore. Ma non mi aspetto che un dio possa capire l’importanza di affermarsi umano, neanche un dio misericordioso e pietoso come te, Pothos. Non potete comprenderci fino in fondo.»
Il dio lo fissò attentamente, serrando le labbra. «Sei sicuro di quello che stai facendo?» domandò giungendo subito al vero motivo per cui si era palesato ad uno degli umani più apprezzati da tutto l’Olimpo, forse da tutto il mondo divino.
Gio annuì solo. L’altro espirò con forza, facendosi più avanti sulla panca, protendendosi verso di lui per prendergli una mano, con delicatezza, tra le sue.
«Io lo posso sentire Gio, sento il tuo dolore, lo avverto chiaro, fresco, potente come la prima volta che è germogliato in te. Io lo so, bambino, lo so. Ma non stai giocando con il fuoco, stai giocando con qualcosa di molto più pericoloso e se fallirai nessuno di noi potrà curare le tue ferite. È troppo persino per te.»
Ma l’uomo sbuffò ironico, «Curare le mie ferite? Perché, quando mai ci siete riusciti? Forse avete ricucito la mia pelle, ma nessuno di voi è mai riuscito a curarmi veramente o oggi non saremo qui. Tu cosa faresti al mio posto?» gli domandò secco.
Pothos non batté ciglio. «Impazzirei.» rispose senza esitare.
Gio annuì, lo sapeva, sapeva che nessuno né tra i grandi dell’Olimpo né tra la corte che gli vorticava attorno o li fissava con astio da lontano, sarebbe stato in grado di sopportare in silenzio ciò che aveva passato lui. Perché gli Dei erano avari, erano capricciosi, gelosi, ingordi, invidiosi e superbi. Avrebbero fatto crollare il cielo, incendiato i mari, sterminato a milioni. L’avevano fatto per stupidi capricci, per un dolore tale sarebbero davvero impazziti, come molti avevano fatto in passato.
«Posso fare la cosa giusta, posso riuscirci questa volta. Ho passato così tanto tempo a rimpiangere il mio passato… è ora di agire.» La sua voce era ferma ma lontana, si era abbassata di qualche tono, affievolendosi come un eco.
Pothos si umettò le labbra, stringendo di più la sua mano. «Potresti smarrirti.» provò ancora.
Gio si lasciò scappare un suono di puro scherno, scuotendo il capo e regalandogli uno sguardo grondante amarezza.
«Sono già smarrito. Non faccio parte di nessun mondo, non ho legami, non ho una vita. Sono solo un esperimento mal riuscito.»
A quelle parole il dio saltò, scendendo dalla panchina per inginocchiarsi davanti all’altro, allungando una mano per posargliela sulla guancia, per costringerlo a guardarlo in volto.
«Non dire queste cose, sei una persona, sei un essere umano, non sei l’esperimento di nessuno. E non sei neanche responsabile della sorte della tua famiglia, non sei stato tu la causa della loro dipartita.» gli disse con slancio, serio e animato da una fastidiosa sensazione d’ingiustizia che raramente gli Dei percepivano. Ma non doveva addossarsi colpe che non erano sue, Giordano non doveva portare una croce che non gli apparteneva. Non era giusto, non dopo tutto quello che aveva fatto per loro, per il loro mondo, per quello di altri.
Gio lo guardò senza dir nulla, assorbendo le parole del dio, gli occhi scintillanti leggermente opachi, come una medaglia d’oro da tempo non lucidata.
«Lo credi davvero? Hai già dimenticato come andarono le cose? Perché successe quel che successe?»
 
Oh, certo che Pothos ricordava, era un dio dopotutto. Era il dio del rimpianto d’amore, della perdita, per lui era imperativo ricordare, specie ciò che aveva fatto più male.
Come si sarebbe potuto dimenticare allora, una delle profezie più grandi e nefaste della storia?
 



*



 
Superare quell’ingresso non gli aveva fatto tanta paura quanto scorgerlo per la prima volta, o forse dopo essere stati in un raggio luminoso per- per quanto? Interminabili minuti non quantificabili, nulla poteva più spaventarlo.
Jonas aveva evitato accuratamente di guardare Nathan negli occhi, preoccupandosi di far sedere Cicno su di una panchina che si trovava nel giardinetto lì vicino, indicatagli da Eliza con un cenno della testa.
Mentre lui e Jane accompagnavano il greco, la figlia di Nike e quello di Ares tirarono su Cade, portandolo sulla stessa panchina, in un luogo più riparato e lontano dall’ingresso.
C’erano molte anime che si aggiravano per i Campi Elisi, alcune in ottime condizioni, quindi probabilmente non partecipanti alla gara, altre malconce, stanche, stordite, stupite da tanta semplicità, luce, pulizia.
Jonas distolse lo sguardo da un gruppetto di ragazzi forse poco più grandi di lui solo per aiutare Cicno a sedersi.
 
«Fai piano, ti fa male la gamba?» domandò preoccupato, tirandosi indietro i capelli con la mano che non era impegnata a tenere i lembi della giacca uniti.
Cicno gli sorrise. «Solo affaticata, sai che non ho più ferite.»
«Questo non significa che non possa farti male.» gli fece notare secca Jane.
«Eravate feriti? Volete farmi credere che il raggio della morte vi abbia solo fatto qualche graffietto?» chiese ironico Nathan lasciando cadere Cade sulla panchina, scivolando completamente dalla stretta di Eliza, presa alla sprovvista.
La mora lo fulminò con lo sguardo. «Nathan.» disse solo affrettandosi a sistemare meglio Cade.
Lui la ignorò. «Che cazzo, ti sei buttato lì dentro per salvargli il culo e poi l’hai pure curato?»
«Ha curato entrambi.» specificò Jonas.
Nathan annuì. Poi aggrottò le sopracciglia. «Ma che cazzo hai addosso?» si voltò a guardare il ragazzino. «Pure te. È la giacca di Golia quella?»
Jonas arrossì, stringendosi ancora di più la casacca addosso, incrociando le braccia la petto.
Cicno invece sorrise, sospirò pesantemente e allungò le braccia sulla spalliera della panchina, reclinando la testa all’indietro e rilassandosi quel poco che lo scomodo schienale gli permetteva.
«Jane mi ha offerto il suo grembiule.»
«Perché, che cazzo di fine hanno fatto i tuoi vestiti?» continuò il soldato con una smorfia confusa.
Il greco sospirò ancora, senza però provare a spostarsi. Malgrado la durezza della sua seduta sentiva la schiena distendersi seguendo la curvatura del metallo.
«Il fuoco brucia anche le vesti, figlio di Ares, le nostre hanno subito questa sorte.»
Ci fu un lungo momento di silenzio, un attimo d’attesa in cui tutti rifletterono su quelle parole.
«I vostri vestiti si sono bruciati, ma voi no?» domandò allora il biondo.
Cicno scosse la testa, ma fu Jonas a parlare. «Eravamo bruciati anche noi, Cicno ha curato entrambi, non era- non eravamo proprio un bello spettacolo…» mormorò in fine.
«Ma ora non avete neanche un graffio.» fece notare Jane.
«Cicno ci ha curati.» ripeté meccanico.
«Hai curato sia lui che te dopo essere stato in quell’inferno, dovreste essere bruciati…» disse Nathan scrutandoli con attenzione. «Tu hai dei graffi sulle braccia e dei lividi sulle gambe?» domandò inclinando il capo per osservarlo meglio. Poi sembrò realizzare qualcosa di ovvio. «Hai usato la maggior parte del tuo potere per curare il ragazzino alla perfezione e non sei riuscito a finire di curare te stesso?»
Cicno sorrise al cielo. «Che tu ci creda o no, è quello che fa un guaritore. Si occupa prima dei suoi feriti.»
Nathan rimase in silenzio, poi annuì. «Non pensavo l’avrei mai detto, ma sono davvero colpito, mi tocca promuoverti regina qui.»
«Oh, Jonas dubitava che vedendomi nudo avresti smesso di chiamarmi con appellativi femminili, ma forse potrei farti cambiare idea se restituissi il grembiule a Jane e mi mostrassi davvero.»
«Per l’amor del cielo, no! Tienitelo addosso. Lea, non avevi detto di volerli visitare e assicurarti che stessero bene?» si precipitò a dire Jane, lasciandosi sedere di peso dall’altro lato di Cade.
Lea annuì, inginocchiandosi davanti al fratello e sorridendogli con gentilezza. «Puoi darmi le mani?»
«Sono solo stanco, sorella. Ho ancora energia per poter curare il nostro compagno assopito, se dovesse servire.»
«Se n’è tenuta un po’ da parte nel caso foste stati feriti e tu ti fossi dovuta occupare di qualcun altro.» puntualizzò subito Jonas. «Ma se potessi far qualcosa contro il suo affaticamento-»
«Devo solo riprendere fiato, non ti turbare per nulla.» sospirò piano Cicno ponendo le proprie mani in quelle della bionda.
«Il fatto che abbiate ancora forze sufficienti anche per reggervi in piedi, dopo quello che avete passato, è ammirevole.» disse Úranus facendo ciondolare le lunghe braccia, come se non sapesse cosa farci.
«Oh, Nathan, avevi ragione, era un occhio.» lo informò Cicno con una leggera smorfia in volto.
Nathan alzò le sopracciglia, sorpreso. «Il cazzo di occhio di Sauron? Serio? E che “vi ha fatto passare”? Che voleva lo stronzo?» domandò scimmiottando il tono pesante dell’Islandese.
Jonas si mordicchiò un labbro, torcendo la pelle conciata tra le mani tremanti.
«Se fossimo stati in grado di amare e di essere amati. Per nostra fortuna sì e dopo aver scavato per trovare ciò che stava cercando, l’occhio ha smesso di fissarci e si è spento.» rispose però Cicno.
«A dire il vero l’ho evocato io il buio.» borbottò Jane, inascoltata.
«Vi ha bruciati, ha scavato in voi. Cicno ha curato entrambi.» elencò Eliza con voce mortalmente seria.
«Ha capito cosa voleva il Guardiano.» offrì Jonas a voce bassa.
La donna lo fulminò. «E se non l’avesse capito? E se non fosse entrato nel fascio di luce con te?»
Nessuno osò parlare. Lea rimase a testa bassa, la fronte a sfiorare le mani del fratello, mormorando canti curativi. Úranus distolse lo sguardo e Jane e Nathan invece lo spostarono da Eliza e Jonas. Non si metteva troppo bene per il ragazzino.
Ma Jonas, sguardo colpevole e groppo in gola, si costrinse ad alzare il capo, ad affrontare almeno quella sicura ramanzina a testa alta, anche se non voleva far altro che voltare le spalle ad Eliza ed allontanarsi da lei.
Perché magari aveva fatto una cazzata, ma l’aveva fatta per un motivo. Forse ai suoi occhi sembrava assurdo, ma Jonas aveva solo cercato d’aiutare, aveva solo cercato di fare la cosa giusta, di salvare i suoi amici. Lo sapeva che era stata una mossa azzardata, che se non fosse stato per Cicno probabilmente non sarebbe stato lì a farsi sgridare come uno scolaretto colto in fallo senza aver studiato, ma non era giusto. Non era giusto.
«Ti rendi conto di quanto hai rischiato? Ti rendi conto che ti sei gettato tra le fiamme, condannandoti a morte certa, mentre tutti noi scappavamo? Mentre eravamo tutti intenti a metterci in salvo e la nostra unica certezza era di averti davanti a noi? Essere arrivati vicino al pericolo prima di te?» chiese con tono cupo l’americana. «Io e Jane eravamo appena riuscite a riprendere velocità, Nathan ti aveva superato ed era riuscito ad afferrare Cade-»
«Non potevate farcela!» eruppe senza riuscire a fermarsi. «Non potevate farcela tutti! Tu, Jane, Lea, voi ce l’avreste fatta, ma Úranus forse no, era rimasto indietro per aiutare Nathan e lui aveva Cade, era un peso in più! Nathan può essere un figlio di Ares, può essere più forte della media, ma il raggio era troppo veloce, non ce la potevano fare! Eravate così vicini, non capisci quanto eravate vicini!» la sua voce suonava disperata anche alle sue stesse orecchie.
Voleva che capisse, che capissero tutti perché l’aveva fatto, perché era corso sotto il getto di fuoco e non vi era fuggito.
 
Sareste morti tutti, bruciati. Sarei rimasto ancora una volta a guardare senza far nulla. Avrei lasciato di nuovo qualcuno ad affrontare il suo destino senza provare a far nulla.
 
Eliza lo guardò con durezza, serrando le labbra in una linea piatta, per nulla impressionata da quello sfogo.
«E credi che noi non abbiamo pensato lo stesso per te? Credi che non ti abbiamo dato per morto? Hai idea di come ci siamo sentiti? Non sei più un bambino Jonas, e non ho intenzione di trattarti come tale e dirti che sei stato coraggioso e hai fatto la cosa giusta. Sei stato coraggioso? Sì, ma sei stato anche incredibilmente sciocco. Ti sei buttato nel pericolo senza un piano, senza sapere se ce l’avresti fatta o no.»
«Certo che lo sapevo!» protestò.
«Che saresti morto?» lo sfidò lei.
«Sì!»
«Ed era questo quello che volevi? Morire? Perché in tal caso ben due persone qui hanno rischiato la loro vita per salvarti inutilmente due volte.»
«Sì- no! Non volevo morire! Sapevo che probabilmente il raggio mi avrebbe bruciato vivo, lo sapevo! Ma no, non volevo morire, volevo solo aiutare! Volevo solo salvarvi!» gracchiò con voce incrinata.
Gli altri cercavano di non guardarlo, Úranus continuava a tenere lo sguardo lontano, sentendosi colpevole di non poter aiutare il ragazzino quando Eliza aveva tutte le ragioni del mondo per parlargli in quel modo, per metterlo davanti alle conseguenze delle sue scelte.
Lea invece aveva smesso di curare il fratello ma non osava alzare la testa, o si sarebbe ritrovata a prendere le parti di Jonas, a dire ad Eliza quanto fosse ingiusto dirgli quelle cose, trattarlo in quel modo. A differenza di Jane e Nathan che, silenziosi ed attenti, seguivano lo scambio di battute senza il minimo accenno d’espressione sui volti seri.
Anche Cicno non parlava, il capo ancora riverso all’indietro, gli occhi chiari spalancati verso la volta rocciosa. Ma al contrario dei suoi compagni lui non rimaneva in silenzio per rispetto o per complicità, no, Cicno stava aspettando solo il momento in cui il ragazzino sarebbe riuscito a dire le parole giuste, a spiegarsi nel modo corretto e mettere a tacere la figlia di Nike. Avrebbe atteso e, al massimo, gli avrebbe dato una spinta.
«Volevi salvarci uccidendoti? Davvero Jonas? Credevi che saremmo stati felici di andare avanti senza di te? Di saperci salvi con la tua vita sulla coscienza?»
Jonas strinse i pugni, le unghie corte ma non più scheggiate si infilarono nella pelle morbida segnandola con mezzelune lisce e regolari. Qualcosa saltò nella sua mente e con un verso di scherno proruppe: «Tanto che differenza avrebbe fatto per me? Sarei morto, non me ne sarebbe fregato un cazzo della vostra coscienza sporca! Ma ovviamente solo voi potete fare gli eroi, dirmi di correre, di andare avanti, di scappare! Se lo fate voi siete forti e coraggiosi, se lo faccio io sono un moccioso che non capisce un cazzo!» ringhiò a voce improvvisamente alta.
Eliza rimase a fissarlo congelata, come se gli fosse spuntato un terzo occhio.
Il ragazzino le aveva davvero appena urlato contro in quel modo?
«Però…» mormorò Jane inclinandosi leggermente verso Nathan. Il soldato annuì solo.
 
«Non è scappato, figlia di Nike. Anche consapevole della sconfitta non è fuggito. È corso verso il pericolo per salvare i suoi compagni feriti, ha accettato la sua sorte se questo avesse significato permettere a voi tutti di giungere ai Campi Elisi e quando gli ho dato la possibilità di allontanarsi si è rifiutato, asserendo che l’avrebbe fatto solo assieme a me. È stato coraggioso, ha scelto il dolore all’abbandonare un compagno. Credo sia qualcosa che abbiano insegnato anche ai sodati del tuo tempo. La forza, la resistenza, la prontezza, l’abnegazione. La morte all’onta della diserzione.»
 
Cicno parlò con la sua voce di miele, togliendo una mano da quelle di Lea e allungandola alla cieca verso Jonas, che l’afferrò al volo come fosse un’ancora, scegliendo con cura le parole, il tono, le insinuazioni.
 
«Vi insegnando ancora che ogni compagno è un fratello, che non si abbandona un fratello alla morte, che non lo si tradisce così, vero?»
Eliza non poté ribattere, non poté negare. Sì, anche ai suoi tempi le insegnarono che i propri commilitoni erano i suoi fratelli, che sarebbero morti o sopravvissuti gli uni al fianco degli altri. Non si lascia un compagno indietro, non si abbandona un corpo, lo si riporta a casa, dalla sua famiglia, gli si mostra rispetto, gli si dà una degna sepoltura.
Questo era ciò che le avevano sempre detto. Eppure sapere Jonas in pericolo, il piccolo del gruppo, così indifeso, così spaurito, così giovane ed innocente ancora, vederlo investito da un raggio mortifero le faceva salire una rabbia in petto, una paura, in grado di sovrastare le lezioni d’onore, lealtà e coraggio che le erano state impartite fin da bambina.
Seppe, in quel preciso istante, che non sarebbe mai stata in grado di combattere contro Jonas, che giunti alla fine qualcun altro avrebbe dovuto eliminarlo al posto suo perché lei non ci sarebbe riuscita. Non avrebbe ferito volontariamente un ragazzino, un indifeso, qualcuno più debole di lei.
 
Qualcuno che vedo come una nuova leva da addestrare. Più di una nuova leva da addestrare, qualcuno che ho già preso sotto la mia ala.
 
Protezione.
Senso di protezione, questo era quello che sentiva Eliza nei confronti di Jonas, lo stesso che forse avrebbe sentito anche per Jane e Lea se fosse successo a loro, simile ma diverso rispetto a quello che provava per Nathan, Cade. Ancora diverso da quello che sentiva verso Úranus, completamente lontano da ciò che provava per Cicno.
Eliza fissò Jonas dritto negli occhi, lo sguardo duro, il verde bosco delle sue iridi illuminato bene per la prima volta da che si erano incontrati.
 
«Non metto in dubbio le tue buone intenzioni.» iniziò con voce nuovamente calma e bassa. «Non metto in dubbio il tuo coraggio, il tuo ragionamento. L’avrei fatto anche io, ma sì, hai miei occhi c’è una differenza tra me e te e sì, per quanto mi riguarda io posso rischiare la vita per salvare la tua, la vostra, ma tu non puoi farlo per noi.»
Jonas sgranò gli occhi, l’espressione allibita, poi paonazza, collerica. Fece per aprir bocca, per replicare, ma la donna alzò solo una mano, intimandogli il silenzio e lui tacque, ribollendo di rabbia dietro la linea dura delle labbra serrate a forza.
«Questo per svariati motivi: sono sicura di avere più possibilità di te di sopravvivere a qualunque scontro. I poteri divini di mia madre mi portano a vincere, che mi piaccia o no, sono fatta per vincere, il mio corpo si ribella alle sconfitte. Quando morii fu per sfinimento. Ero ferita, mi avevano sparato più volte, ma non potevo cedere, non potevo permettermi di cadere e non l’ho fatto finché il mio corpo mortale non ha più sopportato lo sforzo. Quindi sì, sono più forte, più resistente e più esperta di te, oltre che più capace. Ma non ti reputo, in assoluto e per scontato, incapace di sopravvivere, sia ben chiaro. La semplice verità è che ai miei occhi, ai nostri occhi, sei ancora un bambino e non importa da che epoca ognuno di noi provenga, siamo adulti e c’è stato insegnato a proteggere chi è più piccolo, chi non è ancora un adulto come noi. Lo capisci questo?»
I due si guardarono in silenzio per un lungo momento, poi Nathan sbuffò.
«In pratica sei un moccioso di merda e tutti quanti ci facciamo venire l’ansia se fai cazzate perché sei un moccioso di merda.»
Lo schiaffò dritto in fronte che Eliza gli assestò fu così preciso e violento da fargli rimbalzare la testa.
Jane ghignò. «Ora anche tu hai un marchio in fronte, contento?»
«Brutta strega-»
«Trova un insulto migliore, Wright, quella è solo la verità.»
Il soldato iniziò a borbottare irritato quanti begli insulti poteva tirare fuori e toccò a Lea alzarsi e cercare di farli stare buoni. Eliza invece non accennò a distogliere lo sguardo da quello di Jonas, anche lui immobile, in attesa di qualcosa, forse di riuscire ad assorbire completamente le parole dell’altra, forse che Eliza stessa o uno dei ragazzi confermasse ciò che sospettava significassero quelle parole.
Cade l’avrebbe fatto. Cade gli avrebbe detto chiaro e tondo cosa aveva cercato di dirgli la donna con voli pindarici inutili.
Úranus si schiarì la voce, dondolando le braccia lungo i fianchi, Cicno sospirò: avrebbe dovuto pensare lui a tutto un’altra volta, vero?

«La figlia di Nike ti ha appena detto che non importa quanto le tue parole siano veritiere, lei tiene alla tua vita e si è spaventata nel vederti metterla in pericolo così improvvisamente. Tiene a te.» mormorò con lentezza.
Eliza si drizzò improvvisamente con la schiena, un leggero rossore le colorò le guance mentre stringeva le labbra e distoglieva finalmente lo sguardo.
«Non essere così sentimentale, Cicno, la mia è pura formazione militare, si protegge sempre il più debole.»
Il greco sorrise pigramente. «Come volete, guerriera.»
La donna lo fulminò con un’occhiata neanche lontanamente intimidatoria come voleva esserlo, annuì seccamente e si sistemò la camicia sgualcita, ricordandosi in quel momento della sua giubba ancora nella sacca di Cade.
«Dobbiamo trovarvi dei vestiti e poi dirigerci verso la nuova meta. Potremmo fermarci da Shilon Yu e chiedere informazio-»
«SHILON YU!» saltò di colpo Lea mollando la presa sull’orecchio di Nathan e schiaffeggiando via la mano di Jane che cercava di raggiungere l’altro. «ELIZA!»
«Sono qui Elena.» rispose tirandosi leggermente indietro, confusa da quell’improvvisa vivacità.
Nathan bestemmiò, Jane fece una smorfia e si massaggiò la mano.
«Quando io e Jonas ci siamo divisi da Nathan-»
«Voi cosa?» domandò con voce acuta.
«Quando ci siamo divisi da Nathan-»
«Buon Dio, siete seri? Dannazione Wright, avevi una sola cosa da fare, tenere al sicuro gli altri due biondi e arrivare sani e salvi alle porte bianche e tu che fai? Te li perdi?»
«Come siete riusciti ad arrivare qui sani e salvi? Perché lo eravate, vero? Non siete stati feriti e poi curati.» incalzò la mora assottigliando lo sguardo.
Ma la sua domanda giunse solo per metà agli altri, perché Nathan tirò un’altra imprecazione e si voltò di nuovo a fronteggiare Jane.
«Ma che cazzo vuoi? Non sono la loro babysitter! C’era un botto di gente, ci hanno divisi senza che ce ne rendessimo conto e poi io sono stato attaccato da una cazzo di amazzone.»
«Oh, sì, che per altro lo ha sconfitto.» disse Lea con leggerezza. «Ma non è questo il punto.»
«Che fai? Ti ci metti anche tu rompi palle? Era-una-cazzo-di-amazzone! Sono donne guerriere, stanno simpatiche a mio padre e quella stronza era pure più alta di me!»
«Anche ai vostri tempi si speculava su quanto le dimensioni non siano mai indicative dell’effettivo valore delle cose?» chiese Cicno con nonchalance.
Jonas annuì appena. «Qualcosa come “le dimensioni non contano”, sì…»
«Oh, contano, contano senza dubbio, ma se nel bene e nel male lo può decretare solo l’utilizzatore di tale oggetto.» concordò il greco.
«Ma porca puttana, ma vi sembra questo il momento di mettervi a parlare di cazzi?» ringhiò Nathan.
Cicno s’acciglio. «Prego? Intende cose futili o membri maschili?» domandò poi rivolto a Jonas.
Il ragazzino arrossì ma non fece in tempo a rispondere che l’altro lo fece al posto suo.
«Di cazzi cazzi! Quello che si presume abbia anche tu.» ritorse con astio.
Il giovane alzò un sopracciglio. «Vuoi verificare? A differenza di Jonas non ho alcun problema a mostrarmi nudo. Non sareste i primi né certo gli ultimi a vedermi in tale stato. Me lo auguro per lo meno. Non ho mai riflettuto davvero, in tutti questi anni, su quanto e sé mi manchino o meno i piaceri sessuali in effetti.» rimuginò ad alta voce portandosi una mano al mento. «Oh, comunque io parlavo di armi, ma se la tua mente vola per certi lidi possiamo sempre cambiare soggetto.»
«Cristo santo.» mormorò Nathan stringendo gli occhi e strofinandosi le mani sul volto. «Cristo santo aiutami tu.»
«Non sapevo fossi cristiano.» disse Jane sorpresa.
«Protestante.» specificò senza troppo enfasi.
«C’è differenza?»
«Cos’è “cristiano”?» domandò Cicno.
«“Cristiano” è l’uomo, la religione è il cristianesimo, la più diffusa al mondo.» borbottò spiccio Jonas.
«Quella del Dio in base a cui contate gli anni?»
«Sì, ma non era un Dio, era il figlio di Dio.»
«Quindi era un semidio come noi?»
Jonas lo guardò battendo le palpebre senza sapere cosa rispondere, boccheggiò, dopodiché: «…N-no? No, lui era il solo figlio di Dio.»
«Va bene, ma di quale?»
«Di Dio. Nel Cristianesimo ce n’è solo uno. Gesù era l’unico figlio di Dio, mandato dal padre sulla Terra per salvare gli uomini e guidarli verso la retta via. Però era umano, era un uomo quando era sulla terra. Sua madre non era una Dea, era la Madonna. Che per te non vuol dire niente, sì lo so, lo so. Errrrh- Maria? Si chiamava Maria? La Vergine Maria?» provò a spiegarsi.
Cicno non ne parve illuminato. «Suo padre era un dio chiamato Dio, questo è il suo nome. Sua madre era la Vergine Maria, ne deduco che fosse una donna pura-»
«A cui Dio ha affidato la nascita del suo unico figlio.» aggiunse Jane.
«Senza mai fare- sì, insomma. Lei era vergine e-»
«Sì, sì, questa parte mi è chiara, anche la Dea Atena è vergine ma ha una progenie, sì. Quindi, la donna vergine ha avuto un figlio, di un Dio-»
«Di Dio. Uno solo.»
«Certo, certo. E questo giovane, Cristiano? No, Cristo? Bene, questo giovane era un uomo mortale. Quindi era un semidio.» concluse per logica.
Tutti gli altri lo guardarono senza sapere cosa dire, presi in contropiede dalla piega che aveva preso quel discorso.
Lea espirò lentamente.
«Tutto questo è estremamente blasfemo.» bisbigliò ad occhi sgranati. Lì batté più volte e poi, con una nuova esplosione di energia, si volse verso Eliza e parlando velocemente, senza dar la possibilità a nessuno d’interromperla, disse tutto d’un fiato:
«Quando ci siamo separati da Nathan io e Jonas siamo stati salvati da tuo padre!»
«COSA?»
 
La mora la fissò a bocca aperta, non certo la sua espressione più dignitosa, ma quelle parole sembrarono rimbombarle nella testa come l’eco degli scoppi dei moschetti.
Suo padre.
Suo padre?
«Mio-»
«Philip Reed?» domandò eccitata Lea, quasi saltellando sul posto.
Eliza annuì inebetita. Suo padre? Philip Reed. Sì, sì, suo padre si chiamava così ed Eliza era certa di non aver mai detto a nessuno dei suoi compagni come si chiamasse l’uomo.
Non era assurdo pensare che il vecchio militare si fosse arruolato tra le file dell’Ade quando era stato necessario, suo padre aveva sempre avuto un grande senso dell’onore e del dovere e lasciar entrare nei Campi Elisi solo chi ne era degno era una missione per cui non si sarebbe mai tirato indietro. Specialmente sapendo qual era il premio in palio. Specialmente sapendo che anche Eliza era tra quei contendenti.
Eppure, per quanta gioia, per quanto sollievo e orgoglio quelle parole le procurassero c’era qualcosa che stonava.
Aggrottò le sopracciglia.
«Com’è possibile che di tutte le anime in gara, mio padre abbia trovato proprio voi?»
La domanda rimase sospesa nell’aria prima che Jonas rispondesse esitante.
«Ci ha detto che un suo collega lo ha indirizzato verso di noi? Credo che abbia detto qualcosa sul fatto che l’altro gli ha detto che c’erano delle anime bisognose d’aiuto?» disse guardando Lea insicuro.
Sì, anche loro si erano chiesti come diamine fosse stato possibile che, di tanti partecipanti, il padre di Eliza avesse trovato proprio loro.
«“Una giusta azione per un giusto tornaconto”» bisbigliò Lea pensosa.
«Ci ha chiesto di portarti un messaggio da parte sua,» s’intromise Cicno. «ti attende al gabbiotto di Shilon Yu, qualunque cosa sia un gabbiotto, spero tu lo sappia, per consegnarti qualcosa di persona.»
«Parla della costruzione in cui le guardie presenziano.» lo informò Úranus.
Cicno annuì. «Allora devi dirigerti lì. Se hai piacere potremmo accompagnarti, ma forse sarebbe meglio che io e Jonas trovassimo delle vesti prima, non credo il nostro giovane compagno voglia farsi vedere in questo stato.»
«Sì! Sì, non ho la minima intenzione di farmi vedere così da tuo padre. No, assolutamente no.»
Nathan alzò gli occhi al cielo, ma annuì. «Possiamo fare così: io porto i due geni a trovare dei vestiti, sono sicuro di avere qualcosa a casa mia. Sempre che sia ancora mia e nessuno me l’abbia fottuta.»
«Il fatto che abbiate delle case è assurdo e inconcepibile.» borbottò Jane a braccia conserte.
«Io posso rimanere qui a vegliare su Cade.» propose Úranus.
«O possiamo incollarcelo fino a casa mia.»
«Sempre che tu ne abbia una.» rettificò Lea. «Che ognuno di noi ne abbia ancora una. Sei il più giovane tra di no- NO! Non rincominceremo con questa storia! Sei quello morto per ultimo tra di noi, preferisci? Bene. Sei l’ultimo morto quindi casa tua dovrebbe essere la più vicina. Poi io e poi Cade stesso.»
«Che non sappiamo dove abiti però, quindi sti cazzi. Casa mia?»
«Sembra solo a me una proposta con intenti sottointesi?» domandò Cicno rivolto verso Jonas.
Il ragazzino lo guardò imbarazzato. «Perché le chiedi sempre a me queste cose?»
«Perché Cade dorme, sei la seconda persona più divertente a cui chiedere queste cose.» rispose semplicemente il greco stringendosi nelle spalle. Poi si stiracchiò e si alzò in piedi.
Solo allora Jonas si rese conto di aver ancora la mano stretta alla sua e veloce la tirò indietro, schiarendosi la voce.
«Sì, quindi noi andiamo con Nathan, Cade cosa fa? Lo svegliamo?»
«Lo portiamo con noi. E no, lascialo dormire ancora un po’ conserviamo ste cazzo di energie.» affermò il biondo.
«Io non ci vado con loro. Il bambino è fastidioso quando non c’è nessuno che lo mette in riga.» disse Jane alzandosi a sua volta e avvicinandosi a Eliza.
Jonas gonfiò le guance piccato. «Non sono fastidioso! E non ho bisogno di nessuno che mi metta in riga.»
Jane lo guardò per nulla impressionata, alzò un sopracciglio ed indicò Nathan con un gesto svogliato.
«Parlavo di lui.»
«Ma vaffanculo!»
«Nathan!»
«Ecco, come dicevo.» disse la figlia di Ecate stringendosi nelle spalle. «Vengo con te.»
«Anche io! Vorrei rivedere Shilon Yu.» si aggiunse Lea.
Gli altri annuirono.
«Uomini e donne divisi, quindi. Abbiamo un punto di ritrovo?» chiese Cicno.
Lea ci pensò per un attimo, poi si rivolse a Nathan. «Le aiuole? Te lo ricordi come sono fatte le ortensie?» gli chiese accennando un sorrisetto divertito.
Il giovane grugnì. «Vaffanculo di nuovo. Mia moglie era una figlia di Demetra, li so riconoscere i cazzo di fiori.»
Lea sospirò. «Povera Lucy, chissà che vita difficile ha avuto con te.»
In tutta risposta l’altro gli fece il dito medio e si voltò per prendere Cade e caricarselo su una spalla.
«Salutatemi il vecchio cinese e se tuo padre può dirti qualcosa sulle prove, chiediglielo.»
«Ci ha già detto che non sa nulla.» lo informò Cicno, prontamente ignorato.
«Vedrò cosa posso fare. Tieni al sicuro gli altri.»
«Lo farò.» rispose secco Nathan.
«Stavo parlando con Cicno.»
Quello sorrise. «Lo farò.» disse allegro. «Su, mostraci la via.»
«Fate attenzione.» mormorò Úranus rivolto a Lea.
«Anche voi, non farli litigare troppo.»
«Ci proverò.»
«Col cazzo che ci proverà, non è minimamente in grado di fermare nessuno!» urlò indietro Nathan continuando a camminare. «E muovete il culo voi due!»
«Se non avessi in braccio Cade ti avrei già tirato un calcio su uno stinco.» borbottò Jonas di rimando.
«Puoi sempre farlo, se Cade rimanesse ferito potrei curarlo tranquillamente.» intervenne Cicno.
Il ragazzino lo guardò con apprensione. «Ti sei ripreso un po’? Ti senti meglio ora?»
«Smettetela di tubare e muovete quei cazzo di culi secchi!»
«Non stiamo tubando!»
«Per tua informazione, figlio di Ares, il mio fondoschiena non è “secco”, nonostante gli anni i miei glutei sono ancora abbastanza tonici.»
Jane alzò gli occhi al cielo. «Possiamo andare anche noi? Vorrei smettere di ascoltarli il prima possibile.»
«Vaffanculo, strega!»
«E di nuovo soldatino, solo la verità ed un insulto ripetuto per la terza volta, stai pendendo colpi!»
 
Eliza sospirò pesantemente prima di dare una leggera pacca sulla spalla a Lea.
«Muoviamoci, evitiamo che i bambini riprendano a litigare.»
La figlia di Apollo le sorrise. «Sei contenta di poter rivedere tuo padre?»
L’altra non le rispose subito, assicurandosi prima che i ragazzi si stessero allontanando tutti nella stessa direzione senza far danni e poi che Jane fosse al passo con loro.
Si concesse un sorriso quasi timido. «Non ne hai idea.»
 



*
 



La Serenissima, l’aveva sempre sentita nominare così, malgrado fossero passati anni dalla sua annessione al Regno d’Italia.
Suo padre la chiamava “piccolo regnetto”, lo diceva con gentilezza, ma pronunciato da Gio, con il suo spiccato accento di borgata, sembrava una presa in giro.
Amore, accoccolata contro il suo fianco, malgrado le avesse detto più di una volta che non poteva stargli appiccicata quando guidava, teneva una cartina incredibilmente colorata tra le mani minute. Di tanto in tanto gli spostava la mano dal cambio per infilarsi sotto il suo braccio ed accomodarsi meglio. Giordano non aveva seriamente la forza di dirle di no, di mandarla al diavolo o di spingerla via. E se questo fosse dovuto al fatto che, ad ogni sua rimostranza, Amore lo zittiva con un bacio, e per il fatto che gli avevano insegnato a non essere maleducato le donne – a meno che non ci fosse un buon motivo – nessuno poteva dirlo.
Giordano aveva comunque l’impressione che lei lo sapesse.
 
«Siamo quasi al confine con la città, vuoi fermarti un poco?» gli domandò chiudendo la cartina.
Gio scosse il capo. «No, prima s’arriva mejo è.»
Amore annuì, «Sai dove parcheggiare questa macchina sferragliante?»
«Allora, famose a capì.» iniziò lui serio. «Pe prima cosa, sta “macchina sferragliante” è na corriera e se chiama Era.»
«Per l’Olimpo, non dirmi che hai seriamente chiamato una macchina “Era la corriera”.» disse strizzando gli occhi e sghignazzando.
«Certo che sì. Fa rima.» continuò senza distogliere neanche per un momento lo sguardo dalla strada. L’avevano pure chiamata “Serenissima”, ma quelle dannate strade erano tutto tranne che serene.
«Seconda cosa?» lo incalzò lei allungando le gambe sul sedile del passeggiero.
«Seconda cosa, pe chi m’hai preso? C’ho a chi lascialla per momento. Finito qua poi devo ripartì, te lo ricordi? Devo annà a nord, a cercà a famia mia.»
Ci fu un attimo di silenzio in cui la ragazza rimase in attesa di un continuo, ma quando non arrivò si decise a chiedere.
«Questo qualcuno si deve trovare fuori dalla laguna, non la vorrai mica portarla dentro.»
«No, ma che te credi, così poi c’ho na lampadina in testa che dice a tutti n’do sto. A lascio a’n pescatore. Giù a Roma c’è uno che fa e telline ar Tevere e c’ha st’amico che n’vece pesca qui. Ja mannato na lettera e ja chiesto se poteva famme sta lì da lui con la vecchia carretta, qui.»
«Quindi lasciamo la corriera e andiamo a piedi a cercare…» lasciò la frase in sospeso, aspettando che finalmente, dopo settimane, Giordano le dicesse il nome della donna che doveva trovare.
Ma il ragazzino si era rivelato un osso duro, la sua mente diventava impenetrabile ogni volta che Amore provava a scorgere qualcosa di inerente alla sua missione per Ade.
 
Ade che è palesemente l’artefice di questa resistenza.
 
«Tu, poi annà n’do te pare. Io vado a cercà a tipa.» rispose infatti risoluto.
Amore sbuffò. In realtà lei lo sapeva perfettamente chi era la giovane in questione e cosa aveva di così importante per Ade, ma voleva sentirselo dire da Giordano, voleva la prova che si fidasse di lei talmente tanto da condividere un segreto di quella portata.
Sarebbe successo, prima o poi, sarebbe riuscita a diventare così importante per quel ragazzino, tanto quanto lo era Ade. Forse anche un po’ di più.
Riposizionandosi per l’ennesima volta contro il fianco di Giordano Amore smise di chiedere informazioni, non si lamentò, non fece l’offesa e questo le fece guadagnare punti agli occhi dell’altro, che sospirò sollevato, rilassandosi un poco.
Lo tenne impegnato per tutto il tempo che gli ci volle a raggiungere la periferia di Venezia, parlando del più e del meno, del cibo, del clima, della moto ancorata nel retro di “Era” e del fatto che quello fosse un palese nome greco.
Quando scesero dalla corriera finalmente, davanti ad un vecchio cancello arrugginito, mangiato dall’umidità della laguna, per andare alla ricerca del famoso pescatore, la dea non ci pensò due volte ad attrarre velocemente l’uomo a sé, a piegarlo ad una gentilezza che forse avrebbe mostrato da solo, forse no.
Vide gli occhi di Giò brillare stupiti ai modi amichevoli ed affabili del pescatore, quando gli assicurò che non gli doveva niente perché alla fine, lasciava solo il pulmino in una zona inutilizzata della rimessa, mica gli dava fastidio in qualche modo.
Giordano era sicuramente un ragazzino sveglio, ma la facilità e l’ingenuità con cui accettò le parole dell’uomo le fecero tenerezza. Aveva creduto davvero nella sua buona fede e non aveva pensato neanche per un momento che fosse stato merito suo.
Amore sorrise soddisfatta, prendendo Gio sottobraccio e avviandosi con tranquillità verso il centro storico della città.
Agli occhi dei passanti erano solo due ragazzini che camminavano guardandosi attorno meravigliati di ogni cosa. Amore prestò a mala pena attenzione ai pensieri della gente, agli sguardi beffardi che lanciavano ai vestiti stropicciati di Giordano, alla stizza che li pungolava quando pensavano che il giovane potesse stringersi ad una ragazza bella come lei, agli sguardi insistenti che gli uomini puntavano sul suo corpo minuto.
Era una ragazzina, era palese a tutti, ma gli uomini erano sempre stati disgustosamente noncuranti verso l’età di una donna a meno che non superasse quella utile.
Giordano però sembrava non accorgersene, emozionato come se si trovasse in vacanza. Puntava il dito verso ogni gondola, ogni barchetta. Salutava i gondolieri e i passeggeri. Era stupito di vedere tutti quei palazzi costruiti su un reticolo di zolle di terra circondate dall’acqua.
Era adorabile, pensò distrattamente Amore.
Ma la sua attenzione fu attratta da dei pensieri più insistenti, che provenivano dall’altro lato della piazzetta che stavano superando in quel momento, dove un gruppetto di soldati riposava poggiato al muro della chiesa, osservandola avidamente, prendendosi gioco del piccolo Gio che non avrebbe potuto far nulla per difenderla da qualunque cosa.
 
Come se mi servisse protezione.
 
Era così fastidioso sentire degli stupidi umani sbeffeggiare il suo Giordi, ed era quasi altrettanto fastidioso sentirli decidere di seguirli e trovare un luogo appartato in cui approcciarli.
 
In cui buttare Gio in acqua e divertirvi con me. Mh, quanto sono patetici gli umani.
 
Voltando lentamente il capo Amore portò la sua attenzione sui soldati, reclute probabilmente viste le facce giovani, e non appena fu sicura che tutti e cinque la stessero guardando, sorrise.
Malgrado la lontananza poté chiaramente vedere le loro facce sgomente quando il suo viso mutò rapido nell’altro suo viso. Un battito di ciglia ed al braccio del ragazzino c’era un giovane uomo, vestito di lino e seta, che li osservava con espressione predatoria.
La velocità con cui i cinque scapparono dalla piazzetta fu pari a quella con cui tornò ad essere l’Amore di Giordano.

«Davvero un bel posticino, Venezia.» gli sorrise raggiante.
Gio annuì. «Ce sta n’umidità che la metà te basta, però sì, me piace! C’è tanta de quell’acqua che non me dovrò fa la doccia pe tutto er tempo che sto qui!» continuò felice.
Amore fece una smorfia. «Non ci pensare, un buon bagno non è negoziabile.»
«Madonna, pari mi madre.»
«È bella come me?» chiese lei scherzosa battendo le palpebre.
Giordano però ci pensò seriamente, guardandola con attenzione. Poi scosse la testa.
«No, bella come te no. Però mi madre è na bella donna. Non è proprio la classica donna da manifesto eh, però sì, secondo me bella c’è.»
«Oh, Gio! Mi reputi addirittura più bella della tua mamma! Guarda che potrei iniziare a pensare che ti piaccio se mi fai complimenti del genere.» disse strizzando l’occhio.
Ma di nuovo, il ragazzino la guardò con serietà, come se non capisse perché la ragazza stesse dicendo quelle cose.
«Beh, e grazie ar cazzo che me piaci, se no mica me te portavo per mezza Italia, no? Madonna, sei proprio come Ade, ma che c’avete? Ve fanno n’serie? Quello che pensa che non semo amici e che me lo so filato pe tutto sto tempo solo perché c’ha la bacchetta magica, te che pensi che non me piaci pure se so du settimane che stai con me. E che cazzo.» esclamò infastidito, attirando l’attenzione di qualche passante con la sua calata romana e incredibilmente ad alto volume.
Amore non si azzardò a dire nulla, sorrise solamente e si strinse di più al suo braccio.
«Sei un bravo ragazzo, Giordano. Ma il nostro è un difetto di famiglia, nasciamo con la convinzione che anche i nostri stessi genitori cercheranno di approfittarsi di noi, delle nostre capacità. È difficile pensare che, se lo fanno delle divinità, non lo faranno anche dei mortali.»
Gio l’ascoltò attento, poi annuì. «Sì, vabbé, però dateme un minimo che fiducia, eddaje.» proruppe infine leggermente imbarazzato.
Se era bastato un complimento blando come quello a colpirlo, Amore non voleva immaginare cosa avrebbe ottenuto in situazioni diverse con un po’ più d’impegno.
Ghignò, si sarebbe divertita tantissimo non appena avrebbero raggiunto un nuovo livello delle loro “lezioni private”.
«Allora te ne darò ora. Vai a cercare la tua bella, io ti aspetterò qui. E se avrai bisogno di me, basterà che tu dica il mio nome, va bene? Arriverò subito da te, ma in caso contrario, non interverrò in alcun modo.»
L’occhiata dubbiosa che le riservò la fece ridacchiare.
Amore si discostò un poco per poi passargli le braccia attorno al collo, stringendolo a sé.
«Hai una missione da svolgere, eroe. Rendimi fiera e onora il patto con il tuo amico.»
Gio arrossì. «Non è che ho niente da dimostrarti…» borbottò imbronciato, ma il semplice fatto che non vi fosse il minimo accento nelle sue parole la diceva lunga su quanto fosse imbarazzato e su quanto, in realtà, sapere di aver fatto qualcosa di buono ai suoi occhi non gli era poi così indifferente come aveva appena affermato.
Amore rise leggera e gli diede un bacio. Gli prese il volto tra le mani e gliene diede un altro. Poi un altro finché Gio non rispose spingendosi un po’ impacciato verso di lei.
«Buona fortuna, piccolo Gio e fai attenzione ai cani.» gli sorrise un’ultima volta e si allontanò camminando ad agio verso il ponte da cui erano venuti.
Giordano al guardò andarsene senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso. Sospirò.
Poi aggrottò le sopracciglia.
 
«Che cani?» domandò ad alta voce.
Amore rise solo ed un attimo dopo era scomparsa.

«CHE CANI?!»
 



*
 



La casa di Nathan era ancora sua. Fortunatamente, aggiunse Úranus sospirando pesantemente.
Era decisamente più vicina rispetto alla propria ed aveva uno stile completamente diverso.
Non c’erano pareti in mattoni di pietra, non c’era un tetto in paglia e legno. No, era un edificio squadrato, dalle pareti uniformi e coperte di mattoncini rettangolari, fini. La porta era in ferro e vetro, ma Nathan la spinse via con estrema facilità, come se non pesasse nulla.
Quando entrarono in quello che il soldato chiamò “atrio”, Úranus si rese conto che Jonas non pareva molto impressionato da tutto ciò che li circondava e che persino Cicno osservava tutto con espressione piatta.
Il figlio di Fobetore deglutì un paio di volte, battendo le palpebre alla forte luce che delle ampolle di vetro attaccate al soffitto emanavano.
«Le case erano tutte così ai tuoi tempi?» domandò a bassa voce, quasi spaventato dal modo in cui il suono si propagò per le scalinate che si aprivano alla sua destra.
Nathan scosse il capo, sistemandosi meglio Cade in spalla. «No, non tutte. Questo è un tipico condominio, ci sono più appartamenti, che sono tipologie di case. Perché, tu casa tua l’avevi singola?» chiese scettico.
Úranus aggrottò le sopracciglia. «No, ho abitato il piano superiore di una piccola abitazione, ma per entrarvi non dovevo passare dall’interno. Non è casa di altri questa?»
«Questa è la parte comune, l’androne, l’ingresso, l’atrio, come lo vuoi chiamare. Gli edifici di questo genere funzionano così. Quelle porte sono due appartamenti distinti, poi si salgono le scale e se ne trovano altri.» spiegò tranquillo Jonas.
«Bene, spero che il nostro figlio di Ares non abiti troppo in alto, allora.» disse Cicno affacciandosi nella tromba delle scale e guardando verso l’alto. «Non ho mai visto così tanti piani impilati gli uni sugli altri, solo nelle torri potevano esservene così tanti ai miei tempi.»
Nathan imprecò. «Cazzo! Non c’è neanche un fottuto ascensore qui. Sto al quinto piano io.»
«Ottimo, andiamo Jonas, cominciamo a salire.»
Il ragazzino si voltò a guardare il greco e poi l’americano. «E- E Nathan?» chiese titubante.
«Nathan cosa? Salirà anche lui presumo, a meno che non voglia aspettarci qui.»
«Col cazzo.»
«Per l’appunto. Che porta è la tua?»
«Ci serviranno le chiavi per entrare?» domandò Jonas iniziando a salire le scale.
«Che chiavi?»
«Quelle della porta d’ingresso forse?» rispose con una nota di sarcasmo nella voce, come se quella fosse la domanda più stupida che gli fosse mai stata fatta.
Cicno voltò la testa per scrutarlo da sopra la spalla, l’altezza che li divideva ora era accentuata anche dai gradini che l’altro aveva già percorso.
«E come presumi che io sappia che le vostre porte venivano chiuse a chiave se sono morto duemila anni prima di voi e poi rinchiuso nei Campi di Pena?» chiese con lo stesso tono del compagno.
Jonas arrossì leggermente, borbottando a mezza bocca come sì, beh, magari lui lo ha dato per scontato, non c’aveva pensato, però neanche a rinfacciarglielo in quel modo.
Con un sospiro pensante Úranus fece cenno a Nathan di precederlo, preferendo rimanere indietro nel caso non fosse riuscito a bilanciarsi bene con Cade in spalla.
«Siamo nei cazzo di Campi Elisi, non ci servono le chiavi, qui non ci sono ladri.» chiarì in modo seccato il biondo.
«Strano, mi risultava che Cade fosse un eliseo, ho forse frainteso?» fece Cicno lanciando un’occhiata al rosso svenuto.
Nathan rimase un attimo a pensare. Poi si riscosse. «E che porca troia, sì che è uno di noi. Lo stronzo qui è vissuto per una vita-»
«Più una morte direi.» ponderò Jonas.
«-tra i buoni, a fare il cazzo che voleva, ma chissà se ha rubato qualcosa a qualche altra anima!»
«Tipo le vesti? Non credo ci sia moneta dell’Ade, non per le anime almeno.»
«No, non ci è mai servita. Se necessitiamo di qualcosa basta chiedere al giusto artigiano e attendere che completi le sua altre mansioni prima di dedicarsi alla nostra.» spiegò Úranus voltando verso la quinta rampa di scale.
«Questa cosa che vivete in una sottospecie di utopia ancora non mi va giù.» sbuffò Jonas scostandosi i capelli dalla fronte, già leggermente affaticato: non c’era più abituato a farsi tutte quelle scale e l’essere scalzi non aiutata, gli si stavano appiattendo le piante dei piedi.
Un momento.
«Oh e che cazzo!» eruppe fermandosi sul gradino.
«Esclamazione, imprecazione, futilità o membro?» domandò Cicno fermandosi a sua volta.
«Imprecazione!»
«Per cosa? Non che non approvi eh.» specificò Nathan affiancandolo. «Scale di merda, non me le ricordavo così ripide.»
«Le scarpe! Forse puoi darci dei vestiti, ma le scarpe? Come facciamo?»
«Io non ne necessito.» sentenziò il greco.
«Ma io sì! Cazzo! Non posso andare in giro scalzo per il resto delle prove!»
«Ho degli altri anfibi, ti provi quelli e se ti stanno grandi li imbottiamo di calzini.» rispose sbrigativo Nathan dandogli un colpo sulla spalla. «Ora muovi il culo che a star fermi qui lo stronzo rosso mi sfonda una spalla.»
«Quinto piano?» chiamò la voce di Cicno improvvisamente lontana.
I tre alzarono la testa verso l’alto, scorgendo dalla ringhiera le gambe macchiate di lividi del giovane, le cosce toniche e anche un accenno del suo fondoschiena.
Jonas abbassò subito il capo, stringendo la giacca di Úranus più chiusa possibile e affrettando il passo.
Nathan imprecò «E togliti dalla fottuta balaustra! Non porti le mutante, coglione! Ti si vede il culo!»
«Per tua informazione, figlio di Ares, ne ho due di testicoli, non uno solo. E il mio sedere non ha nulla per cui non possa essere rimirato!»
«Ma porco Zeus impestato!»
«Per favore, non parlarne, è successo una volta ed è stato abbastanza problematico, secondo mio padre.» mormorò Úranus spingendo leggermente Nathan in avanti.
Il biondo digrignò i denti. «Perché non mi sembra assurda la possibilità che il padre degli Dei si sia preso le piattole?»
«Nathan… per favore.»
«Che c’è? È solo l-»


«Oh, è davvero una dimora amabile, non me lo sarei mai aspettato da un figlio di Ares.»
«Non ci sono teste di prede esotiche alla parete e fucili in esposizione. Niente camouflage… neanche io me l’aspettavo.»


«Siete entrati senza- ma porco- CHI CAZZO VI HA DETTO DI PORTER ENTRARE IN CASA MIA!»
«Sono forse primule quelle che vedo?»
«Non lo so, non li so distinguere i fiori, però sono carini.»
 
L’imprecazione di Nathan risuonò per tutta la palazzina e quelle poche anime che vi dimoravano, che avevano avuto qualche dubbio nel sentire delle voci per le scale, seppero subito per certo che il loro vecchio vicino era appena tornato dalla Death Race.
 
 
 
Lontano dalla casa e dalla confusione che i quattro semidei stavano provocando la strada principale dei Campi Elisi era gremita di anime partecipanti attorniate da elisii sorpresi e curiosi, che ponevano domande ed offrivano aiuto a chi era più mal ridotto, accompagnandoli verso il centro dei Campi stessi.
Ad Elisa però non importava, né della gente che si affaccendava attorno ai nuovi arrivati, né del fatto che probabilmente erano le uniche ad andare contro corrente.
Il gabbiotto di Shilon Yu era molto più distante di quanto non ricordasse, posto esattamente tra la porta centrale e quella di destra, ovvero l’opposta a quella da cui erano entrati loro.
Tagliare la fiumana di anime ancora ammassate all’ingresso si stava rivelando un’impresa più difficile di quanto non avesse previsto e mentre si insinuava tra un concorrente e l’altro, tenendo saldamente la mano di Jane, sperò vivamente che, nel raggiungerle, anche i ragazzi si premurassero di non dividersi e perdersi tra tutto quel caos: avevano avuto la fortuna di ritrovarsi una volta, non aveva la minima intenzione di tentarla ancora.
Si era rimessa la sua vecchia giacca, decisa a farsi vedere da suo padre al meglio della sua forma, per quanto fosse possibile, impaziente di mostrarsi forte, sicura, vittoriosa. Non aveva mai riflettuto su quanto un semplice indumento, la giuba della sua divisa, le potesse dare tanta sicurezza, tanta familiarità, protezione. Indossarla ancora era stato come riavere indietro un pezzo di sé, qualcosa che l’aveva identificata come soggetto fino alla sua morte, un simbolo che condivideva con il vecchio sergente più di quanto non ne condividesse ricordi o tempo passato.
Era difficile ammetterlo ad alta voce, un tempo lo era stato anche ammetterlo a sé stessa, ma Elizabeth e Philip Reed, in vita, avevano condiviso solo il nome, la casa, l’amore per la loro nazione e la morte per proteggerla. Eliza amava suo padre come ci si aspettava che una figlia facesse ma forse lo rispettava molto di più come rango militare che come figura paterna.
Suo padre per lei era e sarebbe sempre rimasto “il Sergente Reed”, perché quella era la prima cosa che le affiorava alla mente quando qualcuno le chiedeva di lui. Non la parola “papà” ma “sergente”.
Dopotutto, Eliza era entrata nell’esercito anche per poterlo seguire, per poter percorrere le sue orme, per dargli qualcosa di cui essere fiero, più delle continue voci sussurrate su quanto non fosse una ragazza “come le altre”, su quanto poco fosse femminile, come rifuggisse le mansioni che ogni giovane era tenuta ad imparare, ogni comportamento che doveva tenere. Quanto non fosse proprio una signorina per bene, non perché fosse di facili costumi ma perché li rifiutava completamente.


“Povero Sergente Reed, in battaglia a combattere per le Colonie, senza una moglie, senza il tempo di prenderne un’altra. E con una figlia femmina sola…”
“Non ha un carattere docile, Elizabeth, crescere con suo padre solo come modello non è stato per nulla salutare per lei.”
“Ma cosa poteva fare il povero Sergente Reed? Sta facendo il suo dovere lui!”
“Sì, ma non si può lasciare una fanciulla a crescere da sé! È ovvio che diventi dura, mascolina nei modi di fare, se non ha un uomo che faccia queste cose per lei ed una donna che le insegni come comportarsi!”
“Quella povera giovinetta non troverà mai marito, non con un carattere come quello.”
“Che disdetta.”
“Povero Sergente Reed.”



Sì, povero Sergente Reed. Quante volte aveva sentito quelle parole? Come fosse sbagliata, come non fosse femminile come le altre ragazze della sua età, come fosse colpa di suo padre che non aveva mai ripreso moglie ma non fosse davvero colpa sua perché era solo un uomo e si sa che a queste cose non possono e non devono pensare gli uomini.
Aveva creduto per anni che il suo carattere ribelle non le avrebbe mai permesso d’attirare l’attenzione di un pretendente e di fare l’unica cosa che ci si aspettava una giovane donna facesse: sposarsi ed avere figli. Aveva creduto fermamente che quell’onta avrebbe sporcato il buon nome di suo padre, quando ancora sognava solo di poter entrare nell’esercito e combattere al suo fianco, renderlo fiero in altri modi, più consoni a lei e non al mondo che li circondava.
Ma erano ricordi lontani, di quando era ancora piccola e sciocca e credeva di non aver altra scelta, quando si allenava di nascosto e al primo rumore scattava a prendere il suo ricamo, fingendosi completamente assorta.
Ora non aveva più paura, non si nascondeva più, camminava a testa alta, la benedizione della guerriera araba a brillarle sulla fronte, sotto la corta frangia nera, e la giuba blu che la faceva spiccare tra le altre anime.

«Di là!»
 
La voce allegra di Lea la costrinse a voltarsi verso di lei e seguire la direzione della sua mano tesa.
Eliza diede una leggera stretta a quella di Jane, che mormorò un affannato “ci sono”, prima di allungare il passo e seguire la figlia di Apollo che, alta sopra la maggior parte dei presenti, dettava la direzione.
«Sergente Reed!» chiamò ancora la bionda agitando il braccio in aria.
Eliza non riusciva a vedere oltre tutte quelle teste, ma si spinse comunque sulle punte nel tentativo di scorgere il prima possibile ancora solo un frammento dello spirito di suo padre.
Uscire da quella massa di anime in movimento e trovarsi finalmente nello spiazzo davanti al gabbiotto fu come ritornare a respirare. Poté percepire con chiarezza l’aria incanalarsi nella laringe, gonfiare i polmoni di una sensazione fresca, come se avesse appena preso una boccata d’aria di bosco: umida, ricca, erbosa.
Suo padre era lì, in piedi davanti all’entrata della casupola, con le mani intrecciate dietro la schiena ben eretta, la testa alta, lo sguardo attento a scrutare ogni volto, ogni azione di chi gli sfilava davanti. 
Lo vide girare solo il capo, fare un cenno a Lea e poi bloccarsi non appena ebbe scorto il suo viso.
Le fu impossibile impedirsi di sorridere tanto quanto continuare a camminare ad agio.
Strinse ancora una volta la presa su Jane e se la trascinò letteralmente dietro, aumentando il passo e sorridendo senza freni, il petto gonfio d’orgoglio, di gioia. Raggiunse suo padre in poche falcate ma giunta davanti a lui si bloccò. Il movimento fu tanto repentino che entrambe le sue compagne la guardarono allarmate, timorose che vi fosse qualcosa di sbagliato, che quello forse non fosse davvero suo padre.
Ma Eliza neanche lo notò.
Scattò improvvisamente sull’attenti, lasciando la mano di Jane per portarla alla fronte in un perfetto saluto militare.
 
«Sergente Reed, saluti.» disse secca, con lo sguardo puntato dritto davanti a sé, oltre suo padre, come le era stato insegnato nell’esercito.
Vide solo con la coda dell’occhio Philip sorriderle.
«Riposo soldato, riposo.»
Eliza sciolse la posizione e deglutì improvvisamente ansiosa, guardando l’uomo in attesa di una sua mossa, di una sua parola.
Quello annuì. «Sono felice di vederti sana e salva, Elizabeth. E anche vittoriosa, i tuoi compagni attendevano il tuo arrivo e quello di chi era con te con ansia. Si domandavano se non dovessero attendervi fuori dalle bianche mura per potervi prestare soccorso.» parlò con voce calma, lenta, e porse la mano alla figlia, che la strinse con vigore, sorridendo.
«Non ne abbiamo avuto alcun bisogno, le nostre ferite non erano così gravi. Anche se purtroppo abbiamo portato con noi il Guardiano
L’uomo sembrò farsi più serio. «La prova del Guardiano è severa, ma non impossibile da superare, qualcuno dei tuoi compagni ha dovuto intraprenderla?»
Eliza annuì. «Ben due, il più giovane di noi, Jonas, so che lo hai conosciuto.»
«Sì, il giovanotto. Temo d’averlo scambiato per il fratello della tua compagna. Ben ritrovata figlia di Apollo.> disse rivolto a Lea, che lo salutò con un cenno del capo, poi si rivolse a Jane. «Sergente Philip Reed, il padre di Elizabeth, come avrete capito. Voi dovete essere la figlia di Ecate.»
Fu la volta di Jane di annuire, prima di parlare con leggera riluttanza. «Jane Parris.»
«Anche voi siete benedetta vedo, congratulazioni.»
«Anche altri tre membri del nostro gruppo hanno ricevuto la benedizione, il secondo ad aver affrontato la prova del Guardiano è uno di questi, Cicno, anche lui figlio di Apollo, proveniente dall’antica Grecia.> spiegò con un filo di eccitazione che sorprese le altre. Era strano vedere Eliza oscillare tra il rigore militaresco e la gioia infantile del raccontare i propri successi ad un genitore per renderlo partecipe delle proprie imprese e per riceverne gratificazione.
«Il vostro compagno dev’essere davvero potente per aver superato la prova del Guardiano, tenetelo stretto al vostro fianco ma cercatene anche i punti deboli, prima o poi diverrà vostro nemico.> ricordò loro bonariamente.
Eliza annuì con vigore, indecisa su cos’altro dirgli, se raccontargli come aveva affrontato le altre prove o se fosse magari meglio non farlo, per non passare per una persona piena di sé. Fu suo padre a trarla d’impiccio.
«Non so se i tuoi compagni ti hanno informata, ma ho una cosa per te.» disse pescando qualcosa dalla tasca interna della sua giuba.
Eliza guardò dapprima accigliata e poi scioccata la fine catenina argentea che pendeva dalla mano dell’uomo. Quando suo padre l’aprì, mostrando anche alle altre cosa stringeva, sul palmo scintillarono due ali dorate stilizzate brillarono di un leggero riflesso azzurrognolo.
Jane aggrottò le sopracciglia. «Un ciondolo?» chiese confusa.
Lea scosse il capo. «No, non proprio. È un oggetto magico?» domandò rivolta ad Eliza.
Ma la mora non la stava ascoltando, completamente concentrata sul suo vecchio, caro, preziosissimo monile. Eliza era morta impugnando quelle ali, l’unico dono che sua madre le avesse mai fatto in vita sua.
Con lentezza, con gesti quasi reverenziali, sollevò la collana dalle mani del padre, prendendo tra pollice ed indice un’ala ciascuno.
Philip fece un passo indietro, facendo cenno alle ragazze di fare lo stesso, e non appena Eliza realizzò d’aver sufficiente spazio attorno a sé divise con forza il ciondolo allargando le braccia con un unico movimento fluido.
Il verso di sorpresa di Lea coprì il suono della catenina che si spezzava, cadendo a terra. Subito dopo un flash dorato esplose d’improvviso per poi estinguersi sulle corte lame gemelle, divise perfettamente in una parte superiore color bronzo, dagli stessi strani riflessi azzurrognoli di prima, ed una inferiore di metallo lucido.
Eliza si rigirò i pugnali tra le mani come se non li avesse mai persi, come se li avesse sempre avuti con sé, i movimenti impressi più nella memoria dei suoi muscoli che in quella della sua mente.
Senza parole alzò lo sguardo su suo padre, che le sorrise orgoglioso d’esser riuscito a stupire la figlia.
 
«Com’è possibile? Le nostre armi ci sono state tutte requisite all’entrata del Labirinto della Dea Persefone.» disse continuando a fissare l’uomo attonita.
Suo padre annuì. «Vero, ma non tutte le cose che perdiamo sono disperse per sempre. C’è un uomo, o almeno credo che lo sia, o che quanto meno lo sia stato, che si è premurato di raccogliere quante più armi possibili all’interno del Labirinto e poi, quando ne ha l’occasione, di restituirle al loro legittimo proprietario.»
A quelle parole però Eliza si fece più attenta. «Un uomo? Che credi sia tale o che lo sia stato?»
«Sta parlando di un’anima? Di un altro concorrente?» domandò Lea avvicinandosi.
Philip scosse la testa. «Non so se sia una concorrente o meno, spero di no per voi, un uomo in grado di recuperare così tante armi, quindi addentrarsi in un labirinto in continuo movimento per poi riuscire comunque ad uscirne sano e salvo, sarebbe solo una minaccia insormontabile.» spiegò con sincerità. «Ma non saprei dirvi neanche se fosse un dio o meno perché non l’ho saputo riconoscere. Si è solo avvicinato a me, chiedendomi se fossi tuo padre e se avrei avuto piacere a riconsegnarti il dono che ti fece tua madre. Ho ovviamente accettato.» 
«Potrebbe essere un servitore di Ade?» propose Jane fissando i pugnali affascinata. Allungò lentamente una mano sino a sfiorare il piatto delle lame, il contatto sembrò quasi sfrigolarle sotto le dita e così le ritirò di scatto.
Philip però scosse il capo. «No, non era uno di noi. Sembrava molto più uno di voi
Le ragazze rimasero in silenzio, ragionando sulle sue parole, un semidio? L’uomo in nero che avevano visto, o presumibilmente sentito, quasi tutti era un semidio? Uno di loro? Ma figlio di chi?
«Padre…» iniziò Eliza abbassando le lame, uno schiocco e tornarono ad essere i ciondoli di poco prima, la collana magicamente intatta e attaccata ai monili. «Credi potrebbe essere un problema? Pensi agisca per altri?»
«Non posso dire con certezza se sia o meno un pericolo, posso solo ripetervi di far attenzione, perché nel caso sia un concorrente dovrete essere in molti per abbatterlo.»
Jane sbuffò infastidita. «Almeno sappiamo che può esser abbattuto, è già un passo avanti.»
Lea annuì distratta, completamente assorta nel tentativo di ricordare quanto più possibile di quell’essere, dove lo avesse visto, se l’avesse visto davvero. Alzò poi lo sguardo sulla figlia di Nike, osservando il modo in cui guardava il padre, quel misto tra impazienza, gioia, attenzione. Si concesse un sorriso, Eliza veniva da un’epoca in cui il rapporto con i genitori era ben distante da quello che potevano avere i giovani della sua era, specie con un padre assente. Chissà come avrebbe reagito lei nel rivedere Giovanni…
Con un leggero colpetto sul braccio a Jane fece un passo indietro.
«Credo che il Sergente Reed non possa dirci molto di più. Grazie, comunque. E grazie ancora per aver portato me e Jonas in salvo, gliene sono davvero riconoscente.»
L’uomo le fece un cenno con il capo. «Dovere, signorina.»
Anche lei imitò lo stesso cenno. «Penso che sia ora per noi di congedarci e lasciarvi da soli. È stato un piacere, Sergente.»
Lea porse la mano al vecchio militare che non esitò un momento prima di afferrarla e stringerla saldamente.
«A voi, figlia di Apollo.» poi si rivolse anche a Jane, offrendogli la stessa stretta. Nessuna delle sue compagne commentò la prontezza con cui reagì al gesto.
«Addio, Sergente Reed.»
«Addio, figlia di Ecate.»
Eliza accennò un sorriso alle due, ringraziandole silenziosamente per quella gentilezza, malgrado fosse consapevole che anche lei si sarebbe dovuta congedare presto. Dopotutto la Death Race non si fermava mai, il vincitore sarebbe stato il primo a giungere alla conclusione della corsa, indipendentemente da che punto fossero gli altri concorrenti.
Quando tornò a guardare suo padre le venne naturale cercare di drizzare di più la schiena, di allargare di più le spalle. Riprese la sua posa militaresca con facilità, ricadendo in quei vecchi costumi che le erano stati cari per tutta la vita, in paziente attesa di una parola, di un cenno, di una sagoma familiare in lontananza che tornava finalmente a casa.
Philip la sorrise con pacatezza, annuendo alla postura perfetta di sua figlia.
«Credo non ci sia molto da dire, ci siamo già accomiatati prima che tu partissi.»
«Sì, non penso ci sia nulla da aggiungere padre.» concordò con un accenno di sorriso, «Malgrado ciò apprezzo molto la loro premura.» disse inclinando la testa verso le sue compagne.
«Molto educate, sì. Sono contento tu abbia trovato dei validi compagni, capaci e affidabili. Presumo vi siate incontrati nel corso delle prove, quindi molti di loro si sono tratti in salvo da soli fino al vostro incontro.»
Eliza non poté far altro che annuire per l’ennesima volta, come fosse diventato un tic nervoso.
«Ho iniziato il viaggio con altri due semidei, così come Lea che aveva al suo fianco fin dall’inizio un altro semidio. Se non erro incontrarono Jane, la persero nel labirinto dove la trovammo io e Nathan, figlio di Ares, e al contempo l’altro nostro compagno, Cade, trasse in salvo Jonas, il giovane che hai conosciuto fuori dalle mura.»
«Un figlio di Ares, una di Apollo, di Ecate, il giovanotto, invece?» domandò come se cercasse di fare conversazione come un normale genitore.
Eliza lo apprezzò molto.
«Figlio di Pothos. Il compagno di Lea è un figlio di Fobetore.»
«Il folletto irlandese?»
A quello la figlia tentennò. «Non lo so. Cade non ci ha mai detto nulla e nessuno di noi ha fatto pressione affinché si aprisse. Non aveva un buon rapporto con il suo padre divino.»
Philip annuì. «Il greco figlio di Apollo è un buon combattente, è arrivato molto in avanti senza di voi, da quel che mi è parso di capire.»
«Ha salvato Cade durante la prova di Ermes.»
«Un dannato che sopravvive da solo alla prova di Ade, di Proserpina, di Artemide e di Ermes… ricorda ciò che ti ho detto prima.» le disse serio.
Elizabeth annuì. «Tenerlo vicino ma scoprirne i punti deboli. Sì, padre.»
«Vale lo stesso anche per gli altri. Mi sono parsi giovani per bene, ma ovviamente i miei auguri sono rivolti verso la tua vittoria, non verso la loro. In ogni caso,» proruppe d’improvviso con più gentilezza, «ricorda che qualunque cosa succeda, ovunque tu riesca ad arrivare, sarò sempre fiero di te e così lo sarà anche tua madre.»
Eliza si lasciò sfuggire un verso di scherno. «Mia madre è la dea della Vittoria, padre, non tollera le sconfitte, ed anche un secondo posto per lei è tale.»
Ma l’uomo scosse il capo, allungando una mano per stringere la spalla della figlia.
«Nike è la dea della Vittoria, sì, ma essa arriva a tutti noi in modo diverso. Sei morta in battaglia, per logica hai perso, eppure tua madre ha riconosciuto il tuo valore, così come hanno fatto i giudici infernali.»
La giovane si concesse un mezzo sorriso, poi tentennò, indecisa se condividere o meno con suo padre i suoi timori. Ma non poteva farlo. Eliza aveva sempre avuto quella sciocca e inutile paura di perdere, di sbagliare, di deludere. Era sicura, era forte, sapeva cosa voleva, per cosa lottava, era stata pronta ad affrontare il mondo intero, le regole che lo governavano, le aspettative che la gente aveva verso di lei in quanto donna. Eliza era sempre stata la figura coraggiosa che si stagliava contro le ingiustizie, che sperava e lottava per un mondo migliore. Ma sotto la giubba blu, sotto le belle parole, la libertà, la giustizia, Elizabeth aveva sempre avuto quella leggera e latente paura di fallire, di mostrarsi non all’altezza, di perdere. Cosa avrebbe detto la gente di lei? Già storcevano il naso vedendola camminare sola per le strade, cosa avrebbero detto se avesse anche fallito miseramente?
Oh, Eliza lo sapeva, lo sapeva perfettamente: “te l’avevo detto che una donna non può riuscire in queste cose”.
Peggio della sconfitta, peggio del fallimento, peggio dei loro sguardi delusi, quello che non avrebbe mai potuto sopportare sarebbe stata l’espressione sardonica, compiaciuta, vittoriosa. Avrebbe dimostrato a quella gente che avevano ragione, che lei non poteva farcela. Non sarebbe importato quanto aveva combattuto, le vite che aveva salvato e quelle che aveva mietuto. Non sarebbe più importato nulla, né la sua forza, la sua scaltrezza, la fiducia e il rispetto dei suoi compagni. Non sarebbe valso nulla e lei non poteva sopportarlo.
Così strinse i pungi, deglutì il groppo amaro che aveva in gola, le insicurezze, i dubbi che l’attanagliavano. Non disse a suo padre che aveva il timore fondato che arrivati alla fine, se Jonas fosse rimasto in gara, lei non avrebbe potuto combatterlo perché ne andava della sua morale, della sua integrità: non poteva combattere un innocente, non poteva combattere contro chi era più debole di lei, contro chi non era suo pari o non aveva le stesse probabilità di vincita.
Non disse che non avrebbe potuto combattere neanche contro Lea e Jane, probabilmente neanche contro Úranus. Non disse che non sarebbe riuscita a dare il colpo di grazia a Nathan e a Cade. Non disse che aveva paura di non riuscire a vincere contro Cicno.
Non disse nulla, si tenne tutto stretto in petto, ogni paura, ogni dubbio e si costrinse a sorridere.
L’ultimo ricordo che suo padre avrebbe avuto di lei sarebbe stato di una donna sicura, forte, giusta e vittoriosa.
«Avete ragione padre. E se anche non fosse vero, combatterò comunque con tutte le mie forze, fino alla fine, finché il mio corpo, la mia anima, reggeranno. Non cadrò senza lottare. È una promessa.» disse in tono solenne, portando la mano al cuore e chinando il capo.
Philip Reed sorrise orgoglioso alla figlia, ponendole anche l’altra mano spalla prima di avvicinarla a sé ed abbracciarla con delicatezza.
«Non ne ho mai dubitato, bambina mia.» Le pose un bacio sulla fronte e poi s’allontanò per guardarla dritta negli occhi. «Ma sii certa che hai già portato onore al nostro nome, alla nostra famiglia, a tua madre e a te stessa. Sono fiero di te, Elizabeth.»
Eliza deglutì di nuovo, ora quasi più tesa di prima, pur cercando di nasconderlo al meglio.
«Grazie, padre. Porterò le tue parole con me fino alla vittoria.»
 
Quella fu l’ultima volta che Elizabeth Reed vide l’anima di suo padre.
 
 


*
 



L’edificio che si stagliava davanti ai suoi occhi doveva risalire alla fine dell’Ottocento.
Era attorniato da casupole più basse, alle sue spalle anche qualche piccolo condominio, strutture costruite nel corso del secolo successivo da mani esperte ma non certo fini. Non c’erano eleganti ville, bifamiliari con giardino curato e staccionata bianca-
 
Cancello ed inferriata, solo agli americani può sembrar sicuro un misero muro di legno.
 
No, i muri che dividevano una proprietà e l’altra erano di mattoni di tufo rovinati dal tempo e mangiati dagli elementi, abbelliti con chiazze di muschi e licheni gialli.  Poi vi erano quelli più recenti, metà del Novecento, forse addirittura risalenti agli anni ’70, a ben guardarli, più lineari, alcuni imbrattati da scritte scolorite.
Era un agglomerato di case erette al momento del bisogno, strappando spazio ai vecchi terreni coltivati a vigne e grano. Se avesse lasciato vagare la mente avrebbe potuto ancora vedere la vecchia rimessa dei pastori nella forma ristrutturata del casolare con i mattoni a visa ed il tetto spiovente.
Se avesse lasciato vagare la mente avrebbe potuto vedere ancora i prati e la strada sterrata che veniva battuta dalla gente del posto ogni giorno per recarsi a messa in quella piccola chiesetta di provincia che svettava ancora con il suo campanile sopra tutti i dintorni.
Ade respirò ed espirò con lentezza, una volta l’aria era fresca ed umida, scendeva delle montagne, soffiava sul lago vulcanico e portava zaffate rigeneranti pregne dell’odore dei boschi che ancora resistevano tra le costruzioni moderne.
Le suole lisce delle sue belle scarpe di pelle schiacciarono l’asfalto consunta come fosse fatta di cristalli di sale, un tempo si sarebbe preoccupato di sporcarsi camminando su un terreno polveroso e secco.
Non era cambiata poi molto, la vecchia chiesa. C’erano delle luci elettriche fissate al muro esterno, la grondaia ed i tubi in pvc, le canaline dei fili della corrente e di quelli del telefono, forse anche del wi-fi e dei canali a pagamento se l’antenna che aveva scorto sul lato dell’edificio parrocchiale significava qualcosa.
Salì le scale con lentezza, la porta laterale si aprì da sola senza far rumore, immettendolo sul fianco sinistro della navata, verso il colonnato che costeggiava le panche come il braccio gemello posto dall’altro lato.
La chiesa era silenziosa e fresca, le luci basse, la vasca dell’acquasantiera asciutta, il banchetto delle candele si accendeva automaticamente dopo aver lasciato un’offerta.
Un verso di scherno soffiò lieve dalle sue labbra: una volta aveva provato odio verso quel nuovo culto, poi rispetto, disgusto e ora, invece, soltanto pena per un ideale puro, buono, giusto, trasformato in una macchina di potere e di denaro. Era partito con le intenzioni migliori, il cristianesimo, facendo breccia in quelli che al tempo erano i loro fedeli perché prometteva giustizia, insegnava equità e fratellanza. Nessuno sopra gli altri, niente bisogno di un sommo sacerdote che sapesse come parlare agli Dei perché adesso ogni fedele poteva avere il suo dialogo privato con un Dio unico e misericordioso. Sì, la promessa di amore, pace e gentilezza aveva ammaliato tutti, ma quando una novità diventa famosa arriva sempre il risvolto della medaglia.
Ade stesso aveva detto ai suoi fratelli come quel nuovo culto, per rimanere fedele a sé stesso, sarebbe dovuto rimanere per sempre nelle mani di pochi, perché altrimenti gli uomini sarebbero riusciti a rovinarlo come rovinavano sempre tutto. E così era stato.
Il volto sofferente di un uomo giusto che era morto per la salvezza di coloro che reputava suoi fratelli era divenuto simbolo di preghiera e di adorazione. La gente adorava il viso morente di un giovane troppo buono per quello stesso mondo e per Ade era solo la conferma che i mortali erano davvero creazione dell’Olimpo.
Una volta avrebbe provato quanto meno imbarazzo ad entrare in una chiesa, ora invece non lo toccava minimamente.
 
«Puoi vederlo solo come un esempio di architettura, se preferisci.»
 
Il dio chiuse gli occhi e maledì la discendenza di suo fratello.
«Non si parla ad alta voce nei templi.» rispose atono.
Il suono secco che gli giunse doveva essere uno schiocco di lingua, ma non lo convinse ugualmente a girarsi mentre si sedeva su una delle panche centrali.
«Non c’è nessuno a cui possa dar fastidio e poi questo non è un tempio, zio.»
«Ovunque si veneri un dio è un tempio, che tu voglia chiamarlo così, o chiesa, o pagoda, o sinagoga. Aspetto ospiti, se non ti dispiace.»
Uno sbuffo sonoro precedette il rumore dei tacchi bassi che rimbombò ad ogni passo, poi qualcuno gli si sedette pesantemente accanto.
«Lo sai che Eris è sempre in ritardo. A meno che non debba far danni.» precisò Atena incrociando le braccia al petto. «Anche se spesso proprio il suo far ritardo genera problemi insormontabili.»
«Quello o il non invitarla a cena.» concordò il dio.
«Poi i mortali la prendono come esempio e creano storie per bambini in cui una fata cattiva non viene invitata ad un compleanno e per ripicca condanna a morte una bambina e tutto il suo regno. E dire che Era l’apprezza tanto quella stupida favola.»
«Insegna alla gente le buone maniere: mai dimenticare i potenti anche se non ti aggradano. Peccato gli umani si siano ugualmente dimenticati di noi.»
«Non tutti.»
«Non valgono le lezioni di mitologia. Ma credo che sia giusto, dopotutto non rispondiamo quasi mai alle loro preghiere.»
Atena si mosse sulla panca indignata da quel commento. «Neanche lui lo fa!» rispose come se si fosse sentita accusata.
«No.» concesse Ade con voce strascicata. «Se avesse risposto ad ogni preghiera oggi noi non saremo qui.»
Quell’ultima frase fece scendere il silenzio.
Ade alzò il capo, tornando a guardare il viso sofferente stampato in plastica dura. Ce n’era uno di legno, anni addietro, ma il tempo, le cure maldestre ed i prodotti troppo aggressivi l’avevano rovinato, lisciando le rughe di dolore sulla fronte del Cristo, livellando le costole e cancellando la scia di sangue sul suo fianco. L’avevano sostituito una quarantina d’anni prima, ad occhio e croce.
«Ada venne qui a pregare.» continuò tranquillo. «Pregò alla messa della mattina e a quella della sera, ogni giorno per più di un anno.»
Atena deglutì, fissando invece il pavimento scheggiato, le fughe tra i lastroni ingrigite, le rigature date da tacchi e sassi rimasti incastrati sotto le suole delle scarpe.
Il banco a cui erano seduti era liscio d’usura e sullo schienale di quello davanti a loro poteva scorgere le incisioni e le scritte lasciate da qualche bambino indolente e annoiato dall’ennesimo sermone.
«Si confessava al buon prete di turno e tutto ciò che quegli uomini di fede potevano dirle era che se non riusciva a rimanere incinta allora quello era il volere di Dio. O che forse non ne era degna, che non era una buona cristiana, una buona moglie, una buona donna. Certo, la colpa era sempre la sua.»
«Suo marito era sterile, giusto?» ricordò Atena tracciando con l’unghia curata le venature del legno.
Ade annuì. «Ma al tempo la colpa non poteva che essere della moglie. Troppo isterica, troppo instabile, non abbastanza forte. Povera donna.»
«E rimase fedele alla sua chiesa anche dopo tutte quelle delusioni. Ai nostri tempi cambiavano dio ad ogni preghiera, sperando che qualcuno di noi li accontentasse.»
«Se ben ci pensi, nipote, è quello che fece Ada.» mormorò piano, come se si stesse confessando lui stesso. «Il giovane che veniva a studiare le carte dell’archivio della chiesa le raccontò la storia degli altri Dei e lei decise di pregarli, sperando che fossero meno occupati del suo Dio e che potessero ascoltarla.»
«Ci pregò solo perché credeva fossimo spiriti minori, non impegnati in giochi di potere importanti.» rettificò con stizza.
«E anche noi la ignorammo.» concluse secco il dio.
Atena strinse le labbra, serrando i denti con forza.
«Tu… te la ricordi ancora la sua voce? Le sue preghiere?» chiese piano.
Ade annuì con altrettanta delicatezza. «Ricordo i suoi singhiozzi, la sua disperazione. Ma io sono il dio dei Morti, non dei vivi, non avrei potuto darle ciò che voleva, un bambino sano, forte e baciato dalla fortuna. Avrei potuto darle solo la mia progenie e questo avrebbe tolto sia lei che il nascituro dalle grazie dei cieli.»
«È la scusa che ti racconti ogni giorno, zio?» lo provocò ghignando.
Ma Ade non demorse. «È la verità, che ti piaccia o meno. La tua di scusa invece?» chiese di rimando.
Lei si strinse nelle spalle. «Non aveva mai fatto nulla per me. Non era una mente fine, non era un’intellettuale, non era un’inventrice o un’artista. I suoi lavori di ricamo erano mediocri, il suo talento nel canto anche. Era una donna debole, assoggettata ad un uomo inutile e lasciava che quello usasse il suo corpo promettendole un figlio pur sapendo perfettamente d’esser incapace a dargliene uno, senza contare che si lasciava accusare d’esser lei la mela marcia. Non mi interessava e non mi sarebbe mai interessata se non fosse stato per la sua progenie.»
L’altro assentì alzando le sopracciglia per nulla sorpreso da quelle parole.
«Poi lo stronzo in famiglia sono io.» disse solo rilassandosi contro lo schienale della panca e spostando finalmente gli occhi dal volto del Cristo sofferente.
«Mi pare alla fine abbia ottenuto quello che voleva.»
«Sì, dal padre degli Dei.» precisò Ade con tono acido. «Ti sembra forse un buon compromesso?»
«Non è stata colpa mia, anche le divinità della famiglia le hanno voltato le spalle, persino Artemide.»
«Artemide non l’avrebbe mai presa tra le sue ancelle se il suo desiderio più grande era avere un figlio. Era non le avrebbe mai concesso una gravidanza quando il suo matrimonio era quello che era.» sospirò. «La colpa è di ognuno di noi, se anche non avessimo potuto esaudire il suo desiderio da soli avremmo potuto convincere altri a farlo.»
«Sei troppo sentimentale, è ironico e fastidioso questo tuo cambiamento. Stare con Giordano ti rovina.»
Ade alzò gli occhi al cielo. «Mi rovina solo perché ti sta antipatico, nipote.»
«Dovrebbe esserlo a tutti. E visto che stiamo parlando di lui: è vero che sta cercando il modo di riportare indietro la sua famiglia? Di farlo anche se alcuni sono rinati e altri riposano nei loro cimiteri?» d’improvviso la dea parve rianimata da una scintilla di rabbia che fino a quel momento era stata sopita.
Il dio dei Morti la trovò incredibilmente simile a suo padre e similmente fastidiosa.
«Non possiamo saperlo per certo e in ogni caso non sarebbe possi-»
«Ho sentito Ipno e Thanatos parlare di un luogo in cui è possibile recuperare le fila della vita di ogni essere esistito.»
«Ma porco Zeus.» borbottò Ade, ricevendo di rimando un suono come un brontolio proveniente dal cielo. Puntò lo sguardo verso le finestre e sbuffò. «Te la sei fatta con cani e porci, essere paragonato ad uno di loro è il minimo fratellino, non rompermi le palle.»
«Zio?»
«Niente, discutevo con tuo padre.»
«Questo luogo quindi? So che Eris è andata a mettere zizzania da Eolo ed Eros non fa che sogghignare e lanciarmi frasi sibilline ogni volta che ci incrociamo per l’Olimpo. Se sarò costretta a prendere un’altra volta l’ascensore con lui giuro che mi faccio tutti i dannati seicento piani di scale a piedi.»
Ade la guardò scettica. «O potesti teletrasportarti direttamente sull’Olimpo come fa ogni dio sano di mente.»
«Stai cambiando discorso!»
«La salute mentale è una cosa di cui si parla spaventosamente poco in questa famiglia!»
«Zio! Dove si trova il luogo che vuole raggiungere Giordano?!» chiese ancora alzando la voce.


«Non te lo può dire.»
 
I due dei si girarono di scatto vero l’entrata centrale della chiesetta, dove una giovane donna in felpa e jeans se ne stava tranquilla e sogghignante con le mani sprofondate nelle tasche.
«Sappi, sorellina, che non sta bene presentarsi agli appuntamenti al posto degli altri. Hai fatto un aguato al povero zietto, no-no-no, non si fa!» sorrise sorniona avvicinandosi a loro con ampi e lenti passi, quasi imitando una rigida marcetta.
Atena assottigliò lo sguardo e la fissò con attenzione. «Che fine avevi fatto? E perché zio non può dirmi dove si trova quel luogo?»
Eris fece una giravolta e sorrise al crocifisso posto al fianco dell’altare. «Wow, una volta li scolpivano nel legno almeno. Poverino.» scosse il capo. «Cosa mi hai chiesto? Oh, giusto. Allora, zio non può dirti dove si trova il posto, che si chiama Crocevia, se vogliamo essere precisi e puntigliosi come lo sei tu, perché non sei una divinità della morte e, ringraziando l’Olimpo e tutto ciò che c’è di più potente a questo mondo, non sei neanche una divinità della vita. Sai che rottura di coglioni se no? Sai che coglioni gli umani se no!» fece una smorfia schifata, poi tornò a guardare la sorella, le sorrise ed inclinò il capo. «Mente io, invece, ero a fare due chiacchiere con il mio amichetto. Anche perché, insomma, mi sembrava giusto informarlo di quello che stava succedendo, dopotutto si parla anche del suo nipotino, no?»
Quelle ultima parole ebbero il potere di gelare l’icore nelle vene di entrambi gli Dei, mentre Eris invece gongolava crogiolandosi nel delizioso odore di panico che emanavano.
Atena boccheggiò senza parole per pochi istanti, prima di ricomporsi e guardarla allibita.
«Tu hai fatto cosa?» sibilò a denti stretti.
«Oh, ma Atena cara, era giusto che sapessero cosa sta succedendo!» rispose con finta voce mielosa.
«Li hai informati? Anzi, hai informato lui!? Hai la più pallida idea di cosa significhi? Di cosa potrebbe aver riferito agli altri? Cosa potrebbe aver omesso?»
«Ah, non potevo? Ops!»

Ade invece non proferì parola, fissando senza davvero vederla la pala posta dall’altra parte della sala, alle spalle di Eris.
Dipinta in stile rinascimentale, sorprendentemente bella per quella chiesetta di periferia, una giovane dal capo velato d’azzurro ed il volto mite teneva in mano un fiore bianco.
Le voci delle sue nipoti gli divennero estranee e mute mentre bruciava con lo sguardo il dipinto della Vergine Maria, scorgendo davanti a quello stesso affresco la giovane Ada pregare la Madonna di aver pietà di lei, come donna, come sorella, come figlia, come madre, e concederle la benedizione di un bambino. Il volto disegnato, allora, gli parve pietoso, triste, come se quella pia giovane sapesse quanto l’altra desiderasse un figlio ma sapesse anche a cosa sarebbe andata incontro semmai fosse riuscita ad ottenerlo.
Poi la luce sfocò ed il viso piangente di Ada divenne radiante di gioia nonostante il pallore, le mani giunte in preghiera si sciolsero per aggrapparsi al muretto davanti alla pala e aiutarla ad issarsi in piedi sotto il peso del ventre gonfio. La Vergine sembrava quasi dispiaciuta.
La donna incinta si sistemò la veste e quando alzò il capo tra le braccia stringeva una bambina dai capelli bruni e le guance paffute, aveva un abitino bianco, semplice, di stoffa grezza, ma era il più bello che aveva e Ade sapeva che quello era il giorno del battesimo di Clara, Clara Maria, quando era stata accolta tra le fila della chiesa nonostante avesse il sangue dell’Olimpo. L’affresco sapeva, sapeva tutto, ricordava ogni confessione e preghiera di quella donna e ora guardava con tristezza anche la bambina, conscia del suo destino.
Passò velocemente il tempo, si accavallarono gli anni, Ada divenne più grande, il suo volto più stanco e ben presto, davanti alla pala dipinta della Vergine Maria non vi fu più lei, a tener per mano sua figlia e ripeterle di ricordare sempre la Madonna nelle sue preghiere e nel cuore, a pregarla lei stessa, ma solo Clara, giovane, troppo giovane, con un bambino piccolo, troppo piccolo, vestito con lo stesso vestitino bianco che era stato suo, stretto tra le braccia come aveva fatto sua madre anni prima con lei e come Ada non sarebbe mai stata in grado di fare con lui.
Quello, invece, era stato il giorno del battesimo di Giordano, l’ultimo desiderio di Ada, l’ultimo giorno in cui era entrato in quella chiesa assieme a Clara.
Ade chiuse lentamente gli occhi, respirando piano, senza far rumore. Non poteva sopportare lo sguardo di quel dipinto, non poteva sopportare il peso del giudizio di un’altra madre, di un’altra Maria. Non poteva perché condivideva con lei lo stesso senso di vuoto, di tristezza, d’impotenza.
Quando riaprì gli occhi e tornò in contatto con la realtà le due dee ancora discutevano di cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato. Con amarezza il dio dei Morti si ritrovò a pensare che mai nessuno aveva davvero fatto ciò che era giusto per quella famiglia, lasciandola nelle mani di un dio che di misericordioso e benevolo aveva ben poco.
 
Dando modo al Fato di piantare i semi di quello che sarebbe stato un futuro disastroso, una profezia apocalittica.
 
Un futuro impossibile da sostenere per entrambi i loro mondi, ma che un ragazzino era stato costretto a caricarsi in spalla come un moderno Atlante, malgrado altri prima di lui avessero combattuto fino alla morte per salvarlo da quel destino.
Ade si alzò dalla panca, uscendo dalla chiesa nascosta tra quelli che una volta erano stati i vigneti della periferia di Roma, lasciandosi alle spalle la ragione e la discordia e gli occhi tristi di una madre che aveva assistito alla distruzione di una famiglia partendo dalla sua gioia più grande.
 



*




Non erano cani.
Col cazzo che erano cani quelli.
Forse la gente normale li vedeva come cani e sì, forse qualcosa di simile l’avevano. Tipo quattro zampe, una coda e del pelo, perché per il resto sembravano solo delle dannatissime mucche pelose con il collo da giraffa e no, a Giordano non piacevano, non piacevano per niente.
La sua unica consolazione poteva forse essere che Amore non era lì, a correre per i vicoletti di Venezia improvvisamente e stranamente vuoti se non per lui, che tra poco avrebbe spiccato il volo o si sarebbe buttato in acqua – aveva nuotato nel Tevere, che poteva fargli l’acqua della laguna? -  e i mostri mucca che, per qualche arcano motivo, la gente vedeva come cani.
Se fosse stato un cane se ne sarebbe sentito profondamente offeso.
Se avesse messo le mani addosso ad Ade poi, che l’aveva mandato lì, a svolgere una missione segreta, ma neanche troppo, e pallosa, quello sicuramente, senza però accennargli: punto uno, dov’era questa ragazza; punto due, perché ci mandava lui e non uno dei suoi tirapiedi; punto tre, perché era così importante – Ti prego non dirmi che è una semidea o in due, qui in mezzo a sti mostri, non ce la famo – e soprattutto, punto quattro, perché cazzo non gli aveva detto che c’erano dei dannatissimi mostri mucca-cane-giraffa a Venezia!
Se fosse riuscito a mettergli le mani addosso gli avrebbe fatto passare un brutto quarto d’ora.
Che poi, le giraffe mica avevano il collo così snodato, no? Sembravano quasi serpenti per come lo muovevano. Dannazione, erano mostri mucca-cane-serpente? Davvero?
Giordano imprecò e lo fece a pieni polmoni. Suor Patrizia non ne sarebbe stata felice, ma neanche sorpresa visto il bestemmione che aveva tirato una volta in sagrestia quando stava aiutando le sorelle a portare la croce delle processioni e gli era caduta sul piede.
I mostri mucca-cane-serpente neanche sembrarono troppo impressionati e Gio li maledisse sperando che capissero cosa gli stesse dicendo.
Si frugò la cinta a tastoni, sotto la giacca logora che indossava in quel momento, cercando il pugnale che gli avevano regalato quando l’avevano lasciato a Roma la seconda volta.
Quando non lo trovò si lasciò sfuggire un verso di frustrazione ed iniziò a tastarsi le uniche due tasche interne della giacca, lanciando un gridolino di vittoria quando lo trovò avvolto in un fazzoletto nella tasca di sinistra.
A rigirarselo ora tra le mani, mentre appallottolava il pezzo di stoffa nei pantaloni, si rese conto di quanto fosse cresciuto, di quanto quel pugnale sembrasse quasi un giocattolo ora e di come, al tempo, gli era sembrato invece grande e pesante. La cosa peggiore però non era questa, ma il fatto che avrebbe dovuto colpirli più e più volte per ucciderli. Quanto era lunga la lama? Dieci centimetri? Forse? C’arrivava? Cazzo.
No, era più piccola, ne faceva forse sette o otto, che poi, che s’aspettava da un coltello che poteva riporre tranquillamente nella tasca intera di una giacca? Un’alabarda? Dannazione.
La suola liscia delle sue scarpe scivolò contro i lastroni umidi del vicolo, facendolo quasi finire a terra. Si spinse con le mani e si rimise subito dritto, gli ci mancava solo la dannata acqua.
Un ruggito particolarmente vicino lo fece schizzare in avanti, carico di un’energia che non credeva d’avere. Strinse forte il pugnale nella mancina e ruotò il torace, il braccio teso, fendendo l’aria e graffiando il muso di uno di quei maledetti mostri che aveva provato ad avvicinarsi troppo.
Non la prese molto bene, questo fu subito chiaro, ma Giordano non poté impedirsi l’esclamazione di pura soddisfazione nel vedere quel collo serpentesco agitarsi come una manichetta dell’acqua dei pompieri impazzita.
«Te ce sta bene, stronzo!» gli gridò saltando di slancio i pochi gradini che precedevano uno dei tanti ponticcioli che si tendevano sulle calli. I mostri non furono ugualmente agili, i primi della fila inciamparono sui mattoni e gli altri al seguito caddero su di loro.
Gio continuò a correre, senza voltarsi indietro una seconda volta, malgrado sentisse i versi infuriati e doloranti delle bestie.
Aveva corso per vie ben più pericolose di quelle, con mostri ben più cattivi e letali di quelle mucche-cane-serpente. Aveva evitato attacchi dal cielo e da ogni altra direzione, unica regola da seguire quella di non smettere mai di correre, qualunque cosa fosse successa, qualunque suono, qualunque grido, qualunque richiesta d’aiuto avesse potuto sentire.

Corri e non ti fermare, qualunque cosa accada.”
“Io sarò dietro di te, non dubitarne, non voltarti mai.”
 
Ne era passato di tempo, da quando correva per i vicoli stretti e distrutti della Jugoslavia post grande guerra, ma alle volte gli sembrava fosse successo solo una manciata di mesi prima.
Qualcuno l’aveva preso in giro, gli aveva detto che parlava come un vecchio, che tanti bambini come lui avevano vissuto le conseguenze della guerra ma che non ne parlavano certo come soldati tornati dal fronte. Allora Giordano taceva, perché sapeva di non poter dire la verità, così come sapeva quanto fosse inutile cercare di spiegare che lui non aveva vissuto le “conseguenze”, lui c’era stato in mezzo, a modo suo, aveva combattuto.
Cambiò un paio di volte direzione, casualmente, cercando di disperdere il proprio odore il più possibile, fino a giungere davanti ad una piazzetta piccola e candida, chiusa tra alte case dalle pareti pulite e la buganvillee viola in fiore.
Rallentò.
Il passaggio tra gli edifici era così stretto da sembrare un passaggio segreto, quasi un giardino interno di un chiostro.
C’era una fontana rotonda, larga non più di un paio di metri, dalla linea semplice e liscia. La colonnina centrale gli ricordò moltissimo un pezzo degli scacchi, ma non furono l’aspetto appartato e pulito di quel luogo a farlo fermare.
Da quella breccia tra le case proveniva un odore particolare, Gio non avrebbe saputo dire se fosse buono o meno, era solo un odore, come poteva esserlo quello della laguna, quello della piazza centrale, quello dei Fori quando andava a nascondercisi in mezzo per non farsi trovare da chiunque gli desse grane.
Giordano annusò l’aria come un cane da caccia, cercando di venir a capo di quell’odore così-
Familiare?
Lui lo conosceva, l’aveva già sentito, ma dove?
Sembrava un po’ odore di terra bagnata, un po’ di zolfo, come se ne respirava sulla strada per il mare. Ma c’era altro, qualcosa di più ferroso e frizzante? Aveva senso? Che diamine stava dicendo?
Sembrava- sembrava-
Non lo sapeva, ma quel vago senso di conosciuto fu sufficiente per scioglierlo dalla sua stasi e farlo avvicinare al vicoletto che l’avrebbe portato verso la fontana.
Appena ebbe superato il bordo degli edifici un leggero velo opaco, come un’ondata di calore, calò alle sue spalle.
Il simbolo di Ade brillò fioco e poi scomparve.




*




C’era qualcosa di incredibilmente morbido e soffice sotto di sé, qualcosa che non provava da tantissimo tempo.
In modo del tutto sciocco e casuale lo associò al seno di sua madre, a quando era piccolo e la donna lo prendeva in braccio e lo cullava per farlo addormentare. Sì, la sensazione era estremamente simile. La comodità, il calore, solo la sensazione del materiale era diversa. Era liscia, morbida, ma non era certo pelle umana, sembrava più un qualche tipo di stoffa. Ma che diamine poteva essere?
 
«Hei, ma si è mosso?»
Domandò una voce lieve, lontana. Ecco, quella invece la poteva associale alla voce di sua madre quando provava a svegliarlo.
«Ovviamente, dubitavi le mie cure avrebbero fatto effetto?» chiese qualcun altro, il tono soffice e lieve come il tessuto su cui era disteso. Forse seta? No, non era scivoloso.
«Certo che no! Mi fido ciecamente delle tue cure, è solo che…»
«Lo hai visto sopito ed immobile per così tanto tempo che quasi ti pare un miraggio, vederlo muoversi?»
«Sì, ecco, così. Pensi ci senta?»
Una mano gli carezzò la fronte, spostandogli i capelli, pettinandoglieli all’indietro con delicatezza ed attenzione. Era così calda quella mano, come un panno lasciato al sole.
«Non ne dubito. Parlagli potrebbe aiutarlo ad ancorarsi prima alla realtà.»
«Allora è meglio che muova il culo e si sbrighi, perché già ne abbiamo sprecato abbastanza di tempo, ci manca solo che roscio malpelo si faccia un altro sonno.»
 
Oh, questo non era gentile. No, per niente. E se non era gentile allora era-
 
«Nathan?» sbiascicò battendo piano le palpebre. Cavolo, aveva la lingua impastata e le labbra appiccicate, secche.
«Visto? Bastava essere gentili.» disse soddisfatto il figlio di Ares incrociando le braccia al petto e sorridendo vittorioso ai suoi compagni. «Ben svegliato raggio di sole, fatti bei sogni?» lo prese in giro con una fastidiosa voce in falsetto.
Cade grugnì. «Vai a farti fottere, che risveglio di merda con te che mi parli.» questa volta le parole uscirono con più chiarezze e l’irlandese si rigirò sul suo giaciglio portandosi un braccio a coprire gli occhi.
Nathan invece li alzò al cielo. «Ringrazia gli Dei che sei sveglio, piuttosto, stronzetto ingrato.»
«Lo lasci in pace due secondi?» sbottò Jonas, inginocchiato vicino all’amico. Gli tolse con delicatezza il braccio dal volto e gli sorrise incerto non appena gli occhi verdi dell’altro misero a fuoco il suo volto. «Ehi.» soffiò.
Cade invece gli sorrise con molta più convinzione. «Ehi a te binneas, come andiamo? Mi sa che sono svenuto, sai? Un attimo prima stavamo corren…do.» la voce gli morì in gola, mentre la sua mente gli riproponeva con precisione tutti gli eventi che avevano preceduto il dannato vuoto d’aria che gli aveva tolto ogni forza.

Il Guardiano.
 
La corsa, il raggio, la strana bolla delle previsione di Jane e poi i muri di Foschia che si diradavano e lasciavano il posto alle mura bianche, ai loro amici che li aspettavano. Cade aveva saltato in alto, felice, e poi- poi qualcuno aveva urlato e lui si era spostato in tempo per evitare il faro del Guardiano, ma aveva utilizzato troppa energia tutta assieme ed era finito in un vuoto d’aria. Era svenuto, aveva smesso di spingere tutti e- dov’erano le ragazze?

«Dove sono Eliza, Jane e Lea? Perché non sono con noi? Dove siamo?» chiese allarmato, tirandosi a sedere e il mondo girò, la stanza in cui si trovavano vibrò e a Cade parve di essere ancora in caduta libera.
«Oh! Fermo!»
«Brutto coglione, non ti muovere!»

«Cade
 
Il suo nome, solo il suo nome, una parola corta e familiare ed il semidio si bloccò, come se qualcuno avesse appena spento il fuoco che l'alimentava.
 
No, non l’ha spento, lo ha solo indebolito, ma è ancora acceso.
 
Voltò appena la testa verso la sua destra e la mano che prima gli carezzava i capelli si spostò sulla sua guancia. Cicno gli sorrise, lisciando con il pollice le rughe di paura che gli si erano formate agli angoli degli occhi.
«Va tutto bene. Le ragazze sono in salvo, abbiamo incontrato il padre di Eliza ed ora lei e le altre sono a parlargli. Noi anche stiamo bene, tutti quanti. Ci troviamo nella dimora di Nathan. Stiamo tutti bene, siamo tutti al sicuro.»
Qualcuno, lassù sull’Olimpo o in paradiso o quel che diamine era, avrebbe dovuto far il greco santo alla fine di quella stupida gara, perché ogni volta che apriva bocca riusciva a calmarli come nessun altro era in grado di fare.
O di far incazzare Nathan, il che era comunque ammirevole e lodevole.
Cade annuì debolmente, cercando di ricomporsi, combattendo contro il leggero imbarazzo del trovarsi di nuovo oggetto delle cure e delle gentilezza del giovane per potersi concedere quel bisogno di contatto umano di cui tento necessitava in quel momento.
«Okay. Sì, va bene.» balbettò battendo le palpebre stralunato. «Come- cos’è successo?» si risorse poi a chiedere guardando ad uno ad uno tutti i presenti.
Úranus si torse le mani inquieto, Jonas si ritrovò ad arrotolarsi il vecchio bracciale attorno al dito e Nathan invece fece una smorfia quasi schifata.
Cicno fu l’unico a sorridergli. «Da dove vuoi che cominci?»
«Cos’è successo dopo che ci siamo divisi? Tu- sì, eccola, tu hai la benedizione, ma gli altri no? Né binneas né il soldatino. E le ragazze? Loro sono tutte benedette? Se siamo a casa di Nathan significa che comunque siamo passati tutti oltre le porte dei Campi Elisi, anche voi dannati. Com’è possibile? Credevo servisse la benedizione di una guardia dell’Ade per poter superare la prova e- ma che hai addosso? Anche Jonas? Perché avete quei vestiti?»
Il figlio di Apollo annuì ad ogni sua domanda.
«Bene, dal principio dunque. Lascia che ti spieghi.»
Nathan si lasciò scappare un verso di puro supplizio. Chissà perché aveva la netta sensazione che avrebbe presto ricevuto un’altra lettera di reclami per rumori molesti di lì a poco.
 
La lettera non era arrivata, forse perché i vicini erano tutti in strada ad osservare la fiumana di anime che si dirigevano verso il centro dei Campi Elisi, o forse perché si erano messi una mano sulla coscienza e avevano deciso di lasciar correre per una volta, visto che l’inquilino del 5B era appena tornato dalla Death Race.
Quello che era certo è che se avessero ricevuto quel reclamo forse ora le ragazze non sarebbero state sedute vicino alle aiuole di ritrovo, allibite, a fissarli senza spiccicar parola.
Jane fu la prima a riprendersi.
 
«Perché il moccioso ha una macchia di sangue sulla maglia?»
Jonas abbassò la testa verso la t-shirt verde mimetico che indossava, grande circa tre taglie in più della sua e con una macchia scura fresca ed umida vicino allo scollo stretto.
Fece una smorfia e borbottò qualcosa di incomprensibile, Nathan, di fianco a lui, grugnì infastidito.
«Sorvoliamo.»
«Ma tu hai un occhio nero?» si riscosse Lea saltando in piedi. «Vi abbiamo lasciati che eravate tutti perfettamente sani, con Cade svenuto, certo, ma tutti illesi-»
«E un paio nudi.» puntualizzò Jane osservando i due dannati. Cicno era davvero curioso vestito similmente a Nathan e dal modo in cui continuava a sistemarsi i pantaloni doveva essere anche abbastanza scomodo.
«- e ora lui è sporco di sangue, tu sembra che hai fatto a botte e-» e solo in quel momento Lea si rese conto della strana formazione dei cinque, con Nathan e Jonas da una parte, Úranus e Cicno in mezzo e Cade, un Cade palesemente innervosito e cupo, dal lato opposto.
Innervosito, cupo, lontano da Jonas e con le nocche arrossate.
Cicno sorrise alla sorella. «Dopo aver trovato delle vesti ed aver risvegliato Cade l’abbiamo informato di quanto accaduto.»
«Mi ha dato un punto in faccia, lo stronzo.» ringhiò Nathan.
«Così la prossima volta impari a perderti la gente, coglione.» rispose l’altro a tono.
«E Jonas? Dei dell’Olimpo, non ti sei messo in mezzo di nuovo, vero?» chiese Eliza studiando il viso altrettanto alterato del ragazzino senza però trovare traccia di ferite.
«No.» sputò lui secco.
«Cos’è successo allora?» insistette Lea raggiungendo gli altri e prendendo il volto Nathan tra le mani per esaminarlo meglio. «Non ti sei di nuovo voluto far curare da Cicno, vero?»
«È solo un cazzo di occhio nero.» si lamentò lui.
«Sì, che si gonfierà e non ti farà veder bene.»
«Allora?» incalzò Jane.
«Gli ho raccontato dell’incontro con il Guardiano.» spiegò il greco.
«E?»
«Mi ha dato un pugno sul naso e mi ha detto che sono una testa di cazzo.» sibilò Jonas a denti stretti.
Eliza si volse di scatto verso Cade, guardandolo ad occhi socchiusi, le spalle dritte, l’espressione dura. «Tu hai fatto cosa?»
Cade però non ne sembrò colpito. «Vuoi farmi credere che tu non hai fatto nulla? Si è buttato in un cazzo di raggio di fuoco! Spero che almeno tu gliele abbia cantate di santa ragione! Poteva morire! Poteva scomparire dalla faccia del fottuto pianeta e l’avrebbe fatto di sua spontanea volontà!» gridò allora il rosso, furente.
«E di questo ne abbiamo ampiamente discusso.»
«Ampiamente…»
«Jane, chiudi quella cazzi di bocca ogni tanto.» frecciò Nathan.
«Beh, scusatemi se non ero presente e se la prima cosa che mi è venuta in mente di fare è prenderlo a calci! Perché se è così tranquillo sull’argomento evidentemente non gliene avete dati abbastanza voi.»
«Ma cosa credi che sono? Un bambino? L’ho detto a loro, l’ho detto a te e ora te lo ripeto: ero perfettamente consapevole di cosa stessi facendo, sapevo che sarei potuto morire. Era quello che volevo? No!  E grazie al cazzo, direi. Ma era l’unico modo per darvi tempo per scappare. Il raggio si ferma una volta catturata un’anima, non corre all’impazzata dietro alle altre e tu eri svenuto! E Nathan non ce la poteva fare a correre via, con te in spalla, abbastanza velocemente da mettersi in salvo! Era l’unica cosa logica da fare cercare-di-fermare-il-cazzo-di-raggio!» gridò ancora Jonas a pieni polmoni.
Ma ciò non fece altro che alimentare la rabbia di Cade. «Non dovevi farlo e basta! Te l’ho detto e te lo ripeto anche io: dovevi solo scappare! Dovevi fregartene di tutto e tutti e metterti in salvo! Se siete riusciti te e Cicno ad uscire di lì ce l’avremmo fatta anche io e Nathan! E visto che, apparentemetne, il modo migliore per superare la prova è non fare resistenza probabilmente io, da svenuto, sarei stato quello con la probabilità più alta di vittoria perché il dannato Guardiano avrebbe potuto scavare quanto e come voleva!»
«Non puoi credere che scapperò lasciandovi nei guai ogni volta che ci sarà una situazione di pericolo! E poi ti avrebbe scavato dentro, esatto! Ti avrebbe bruciato vivo!»
«Oh, ma davvero? Com’è successo a vuoi due per caso?»
«Io non sono bruciato vivo!»
«Tu no, ma Cicno sì a quanto pare!» gridò ancora più forte.
«Cicno sta per rendervi muti entrambi e se togliervi la voce non servirà allora vi toglierà anche i sensi.»
La voce fredda ed in tono definitivo del greco ebbero il potere di far voltare i due semidei verso di lui che, fermo immobile, li fissava con espressione neutra.
Eliza prese un respiro profondo e si fece vicina a Cade.
«So come ti senti, l’abbiamo provato tutti e ne abbiamo già discusso. Ma, per quanto la cosa mi infastidisca e non voglia che si ripeta mai più, Jonas ha ragione. No- fammi finire di parlare, per favore.» la figlia di Nike si avvicinò ancora, fino a posare le mani sulle spalle dell’irlandese.
«Vederlo correre verso la morte, quando lo credevamo in salvo, è stato terribile, agghiacciante. Ma Jonas, per quanto giovane, non è un bambino. È un nostro compagno, un nostro pari e così come noi siamo pronti a fare l’impossibile per salvarci vicendevolmente, così farà lui.»
Qualcosa sembrò incrinarsi nella maschera furente del rosso ed Eliza gli regalò un sorrisetto storto.
«Non è un bambino, ma è comunque piccolo.» protestò Cade, la voce improvvisamente più bassa. «Poteva morire.»
«Ero con lui.» si aggiunse Cicno, arrivando alle spalle di Eliza. «C’ero io con lui, ma se la cosa può farti sentire meglio, anche senza di me avrebbe avuto ciò che serviva per superare la prova.»
«Sappiamo che fa paura. Non è tanto la rabbia in sé quanto la paura all’idea di vederlo scomparire.» continuò Eliza ragionevole come aveva cercato di esserlo anche in precedenza.
«Ma devi ricordare che questa è una gara mortale, mio giovane amico, rischieremo sempre di scomparire e, arrivati alla fine, toccherà a noi sporcarci le mani del sangue dei nostri compagni e macchiare le nostre anime con il peso della loro scomparsa.» Cicno gli carezzò di nuovo una guancia, benevolo. «La paura è solo una delle innumerevoli facce dell’amore. Uno dei tanti fili cuciti nel disegno della vita.»
Cade li guardò quasi con sguardo implorante, come se stesse chiedendo loro di non metterlo a parte di quella scomoda verità, come se stesse chiedendo loro di non ricordargli che prima o poi la morte di Jonas sarebbe dovuta essere motivo di gioia per lui e non di preoccupazione.
Spostò poi gli occhi verdi verso quelli celesti del ragazzino, che ancora lo fissava stizzito, furente, ferito. No, non era il dolore di un naso rotto e subito riparato, neanche del colpo in sé, ma della consapevolezza che anche lui, anche Cade che l’aveva sempre trattato come uno di loro, come un adulto in qualche modo, l’avesse improvvisamente relegato a bambino sciocco solo per essersi comportato esattamente come avrebbe fatto uno qualunque di loro. Perché Cade era convinto che se non fosse stato per Cicno lui sarebbe stato spacciato. Perché anche Cade lo reputava debole, fragile, da proteggere.
 
Sono capace di prendere le mie decisioni! Sono più piccolo di voi ma non sono stupido, non devo essere messo sotto una campana di vetro e difeso da ogni male. Lascia che sia io a guadagnarmi il posto che mi spetta sulla terra, lascia che dimostri da me perché merito di tornare a vivere la mia vita, perché ne sono degno.
 

Cade lo guardò battendo le ciglia velocemente, nel tentativo di disfarsi del velo acquoso che gli stava coprendo la vista.

 
 
Lascia che voli da solo, come ogni uccello dovrà imparare a fare prima o poi, oltre le nuvole, contro le correnti, fino al sole.
 
 
 
Liberty Birds. Volate in alto, volate fieri, volate liberi.
 
 
Annuì, abbassò il capo ed annuì un paio di volte.
«Mi rode comunque il culo.» disse tirando sul col naso.
Nathan sbuffò. «Ci mancherebbe, rode a me.»
«Anche a me, se può consolarti.» s’aggiunse Jane, facendo voltare sorpreso il rosso verso di lei.
«Ma non mi dire, la ragazza delle Praterie sta diventando umana! Mio dio, ora piove!»
Jane alzò gli occhi al cielo, già pentitasi d’aver aperto bocca. «Dovevamo lasciarlo a bruciare.» commentò prima di dargli le spalle e rimettersi seduta sul bordo dell’aiuola.
Lea sorrise sollevato, sfruttando quell’attimo di rilassatezza per riprendere il viso di Nathan e piazzarsi una mano sull’occhio, prima di recitare il canto curativo più veloce mai cantato.
Il figlio di Ares la mandò al diavolo ma di più non fece, restando fermo lì a farsi medicare senza protestare troppo.
Eliza invece batté una mano sulla spalla di Cade e poi lo spinse leggermente, guardandolo attenta.
«Vedi anche tu di non fare più scherzi come quello, la prossima volta sarà mia premura preoccuparmi che nessuno ti recuperi. Utilizzare tutta la propria magia in quel modo è una condanna a morte e tu più di chiunque altro dovresti ben saperlo. Non è stato solo Jonas a fare una cazzata.»
«Stiamo dicendo un sacco di parolacce qui, Elza, chiudo gli occhi un attimo e vi trasferite tutti al porto di Dublino?» sogghignò Cade.
La donna gli diede un pugno sul braccio e lui barcollò. «Ehi! Sono ancora convalescente!»
«No, non lo sei, tranquillo. Eliza può colpirti quanto vuole.» lo rassicurò Cicno sorridendogli gentile.
Cade lo guardò da prima scioccato, portando teatralmente una mano al cuore, come a volersi riprendere da quel terribile tradimento, per poi ricomporsi e schiarirsi la voce leggermente imbarazzato.
«Senti, scusa se ho urlato contro anche a te, angioletto. Lo so che non è colpa tua e, anzi, hai protetto Golia, recuperato il soldatino e salvato Jonas.»
«Jonas sarebbe riuscito a salvarsi anche da solo.» ricordò l’altro.
Cade scosse il capo. «Fa lo stesso, lo hai curato. Forse per te non sembrerà molto ma- la verità è che sei quello che ha un legame meno forte con tutti quanti. Noi siamo assieme dalla prima prova, con altri dalla seconda, ci siamo riuniti tutti alla terza, ma te- te mi hai salvato pur essendo un perfetto sconosciuto, ci hai curati tante volte e avresti potuto lasciar Jonas a morire, sarebbe stato un concorrente in meno. Invece ti sei tuffato nel fuoco e… a quanto pare non hai vissuto proprio un bel quarto d’ora, soprattutto se ripenso a quello che ci hai detto sul perché ti sei… sì, sul perché ti sei suicidato.» mormorò a bassa voce, quasi temendo di ferirlo anche solo ricordandogli il passato.
«Può sembrare nulla, ma vuol dire molto. Per me, per me di certo.»
Cicno gli sorrise. «Allora accetto le tue scuse.»
L’altro annuì. «Grazie per averlo protetto.» ripeté. Aprì e chiuse le mani un paio di volte, poi trovò il coraggio di riaprire bocca e chiese: «So che non è una cosa che fa per te, ma… ti dispiace se ti abbraccio?»
Il greco alzò un sopracciglio, stupito. «Non sono io quello che ha problemi con l’affetto omoerotico, qui.»
Cade arrossì di botto, scioccato da quella risposta e anche dalla reazione repentina del suo corpo. Da quanto tempo era che non arrossiva più come un moccioso?
Qualunque fosse la risposta Eliza e Jonas, rimasti in ascolto della loro conversazione, ridacchiarono divertiti e Cicno, notato il biondino sghignazzare, si volse verso di lui con un’espressione poco impressionata. «Lui almeno non mi fissa le gambe, giovinetto.»
Jonas boccheggiò paonazzo come il compagno ma a quel punto Cade poté solo che scoppiare a ridere e, di slancio, si buttò tra le braccia di Cicno, stringendolo con forza, poggiando il mento sulla sua spalla pur dovendosi alzare sulle punte dei piedi per farlo.
«Grazie, davvero.»
Dopo un momento d’esitazione il greco ricambiò la stretta. «Dovere.» mormorò solo e nessuno dei suoi compagni poteva immaginare quanto quella singola parola fosse vera.

Úranus aveva osservato quella scena senza dire nulla, seguendo con lo sguardo l’irlandese staccarsi dal compagno per poi andare ad abbracciare un molto più reticente ed imbarazzato Jonas, che insisteva nel dirgli come fosse ancora arrabbiato con lui malgrado Cade ne ridesse e lo scuotesse a destra e manca, ignorando proteste, minacce ed insulti.
Più in là Lea e Nathan parlavano a bassa voce di qualcosa, i visi rivolti verso i cespugli floridi di fiori. Il figlio di Ares carezzava con inaspettata delicatezza i petali azzurrini e la ragazza, sorridendo mesta, gli poggiò una mano sul braccio in segno di conforto.
Sapeva che quei due si erano conosciuti molto prima dell’inizio della gara, Lea aveva accennato più di una volta sia alla madre che alla moglie del soldato, quindi doveva aver conosciuto anche loro lì negli Inferi, eppure era ugualmente strano vederli interagire con tutta quella confidenza, con tutta quella complicità e non con i soliti battibecchi.
Persino Jane, ancora seduta, parlava ora rilassata con Eliza e Cicno, accennando al dannato e al beato che si lamentavano l’uno di non esser apprezzato abbastanza e l’altro di sentirsi soffocato dalle troppe attenzioni e commentando le strane vesti del greco.
Era strano vederli tutti così tranquilli, chiacchierare del più e del meno come se si conoscessero da sempre, come se fossero davvero un gruppo di semidei in missione, come se si fossero incontrati al famoso Campo Mezzosangue e fossero cresciuti assieme, scoprendo le meraviglie e gli orrori del loro mondo. Era strano, assurdo, impensabile, ricordare che prima o poi avrebbe dovuto voltare le spalle a tutti loro e tradirli, pur di ottenere la vittoria. Ma alla fine, di che vittoria stava parlando?
Úranus era morto secoli prima dell’anno corrente sulla terra, in epoca completamente diversa, in un mondo completamente diverso. Giunto sopra avrebbe dovuto imparare una nuova lingua, un nuovo modo di vivere, di sopravvivere. Che futuro c’era per lui? Non era come Nathan, morto una cinquantina d’anni prima, o come Jonas, morto all’inizio del secolo. Persino Cade avrebbe potuto ritrovare i suoi nipoti ed i nipoti dei suoi amici. Ma lui?
Si sarebbe potuto mettere al servizio di suo padre e svolgere le missioni che gli avrebbe affidato. Fobetore l’avrebbe condotto al Campo ma a quel punto avrebbe dovuto imparare a gestire al meglio i suoi poteri e non intralciare gli altri semidei. Senza contare il problema dell’età: più si cresceva e più l’odore del loro sangue misto si intensificava, forse non sarebbe mai riuscito ad uscire da quel campo e sarebbe morto lì.
Avrebbe dovuto tradire tutti i suoi amici per… questo? Per l’incertezza, per la solitudine e l’ignoro?
Una delle poche cosa di cui Úranus era stato fiero in vita era l’aver fatto sempre la cosa giusta, sempre la scelta migliore che gli fosse stata concessa, anche a discapito della sua stessa vita. Ed in quel momento, guardando i suoi compagni così tranquilli, così felici quasi, seppe con certezza che anche la sola possibilità di strappare ad uno di loro la vittoria, era sbagliata.
Il vento fantasma gli carezzò con gentilezza il capo, Úranus chiuse gli occhi e riconobbe in quella brezza il tocco di suo padre.
 
 
Alla prossima prova. Lì vedrai, figlio mio. Sono fiero di te.
 
 
Un leggero senso di tristezza l’avvolse d’improvviso, ma le parole di suo padre furono come un balsamo su una vecchia ferita. Sorrise, prima di riaprire gli occhi e puntarli sui suoi compagni.
 
Amici.
 
«Credo sia il momento d’avviarci, non vorremmo arrivare alla prossima prova dopo l’apparizione del dio designato.» disse a bassa voce, con quel tono profondo che tanto lo rappresentava.
Jonas riuscì finalmente a scuotersi di dosso e Cade ed annuì concorde.
«Non vorrei arrivare a spiegazione già conclusa.» si fermò un attimo a rifletterci e rabbrividì. «Oddio, che succede se arriviamo a spiegazione conclusa?»
«Che ci attacchiamo a sto grandissimo cazzo, temo.» rispose Nathan ironico.
Cicno guardò l’altro dannato pensieroso. «Immagine figurata o genitale?»
Cade scoppiò a ridere e Jonas sospirò. «Adesso che Cade è sveglio perché continui a chiedere a me?»
«Perché è divertente, ovviamente.»
«Dei dell’Olimpo angioletto, quanto mi sei mancato! Ed è la prima volta che ci dividiamo da quando ci siamo incontrati! Pensa se fossimo stati assieme fin dalla prima prova! Mi avresti ritrovato in lacrime a piangere la nostra separazione!» rise di cuore girandosi verso la via principale dei Campi Elisi, quella che ipoteticamente avrebbe dovuto portarli fino al cuore dei Campi stessi. Si girò poi a guardare Jonas, tentennando improvvisamente più rigido, come se non sapesse se poteva già permettersi la stessa confidenza di sempre.
Il ragazzino però roteò gli occhi e, facendogli la linguaccia, si avvicinò a Cicno, quasi tentato di prenderlo sottobraccio per rimarcare come, malgrado l’avesse perdonato, specie dopo tutte quelle non richieste e assolutamente sgradite dimostrazioni d’affetto, fosse ancora un po’ arrabbiato con lui. Ma poi pensò fosse troppo, per la sua dignità ed il suo imbarazzo, non per Cade, e decise di affiancarsi semplicemente al greco.
«Non credo Cicno ne avrebbe sofferto troppo.» disse prima di rivolgersi a quello. «Sai cosa dovrebbe esserci al centro?»
Jane ghignò divertita, tirandosi in piedi e ammiccando al rosso. «Non sei più il suo preferito, folletto irlandese
Cade fece un’espressione di profondo orrore. «Binneas! Va bene che abbiamo litigato e che l’angioletto è un gran bel vedere, ma pensavo che il nostro amore fosse più forte delle apparenze!»
«Chiudi il becco!» gli gridò dietro arrossendo. «Cicno è una persona decisamente più matura di te!»
«Cazzo rosso malpelo, te lo sei fatto dire dal moccioso.» rise Nathan avviandosi dietro i due dannati.
«Oh, è solo per la mia saggezza? Non mi reputi “un bel vedere”?» lo punzecchio Cicno facendo arrossire il ragazzino ancora di più.
Jonas provò a balbettare qualcosa di incompressibile ma le risate dei suoi compagni lo sovrastarono in fretta.
Si unirono ben presto al flusso di anime che scemava verso il centro dei Campi Elisi ed Úranus li guardò camminare davanti a sé, sorridendo mesto all’allegria che serpeggiava tra di loro.
Non si accorse dello sguardo attento di Lea e di come la figlia di Apollo stesse rallentando il passo per potersi adeguare al suo.
«Tutto bene?» gli domandò con gentilezza.
Úranus abbassò lo sguardo su di lei, sugli occhi verdi come la salvia, quasi argentei da quella prospettiva e le sorrise con più convinzione.
«Sì, tutto bene. Grazie, Lea.»
La ragazza gli sorrise di rimando e lo prese per mano per poi trascinarlo verso il resto del gruppo.
 
Sì, andava tutto bene.
 



*




Dietro l’odore fresco dell’acqua corrente, diverso da quello dell’acqua che scorreva nei canali, c’era quello familiare che l’aveva attirato così tanto.
Continuò ad avanzare, passo dopo passo, le orecchie tese ad ogni gorgoglio, ad un fruscio leggero che riusciva a mala pena a superare il suono della fontana.
Più si avvicinava, più la colonna centrale da cui sgorgava lo zampillo circolare che s’apriva a ventaglio fino alla vasca centrale, riusciva a mal coprire ciò che si nascondeva dall’altro lato.
Giordano deglutì una boccata d’aria piena di quello strano aroma, ingoiandola in un blocco unico che gli bruciò la gola ma non lo distrasse comunque da quella situazione così strana, quasi inquieta.
Ecco, ecco come si sentiva, inquieto, come quando si ritrovava davanti ad un cane randagio o un gatto e voleva accarezzarli. Era una situazione di stasi, sapeva di doversi muovere lentamente, di dimostrarsi inoffensivo, amichevole. Sapeva anche di doversi palesare per non spaventare l’altro- l’altro chi? La fontana? Non doveva spaventare l’acqua?
Il fruscio si ripeté e Gio seppe con certezza che quello era il suono di una pagina che veniva voltata.
C’era una persona, seduta sul lato opposto della vasca, coperta dalla colonna, che leggeva un libro.
Si fermò e facendo l’equilibrista su un piede solo si sporse di lato, alzando l’altra gamba per bilanciarsi, per scorgere la misteriosa figura.
Peccato che non vi fosse nessuno.
Battendo le palpebre confuso rimise il piede a terra, rimanendo in ascolto, in attesa della prossima pagina sfogliata.
Il suono si ripeté per la terza volta e Gio alzò la testa verso le alte mura degli edifici che lo circondavano per vedere se non vi fosse qualcuno affacciato a qualche finestra. Ma di quelle poche aperte e non già serrate dietro le persiane dipinte di verde, non ve n’era neanche una abitata.
Un’altra pagina venne sfogliata e la seguì il rumore di qualcuno che si accomoda, che sistema un vestito, tira un tessuto. A quello Giordano aggrottò le sopracciglia e, preso coraggio, si schiarì la voce, sospirando con pesantezza, per poi sedersi rumorosamente sul bordo della fontana.
Per una manciata di minuti non ci fu alcun suono in risposta e Gio dovette combattere contro la curiosità per non voltarsi e accertarsi che qualcuno si fosse mosso da dietro la fontana per spiarlo.
Continuò con la sua scena, si stiracchiò, allungando le braccia verso l’alto, portandosele dietro la testa. Giocherellò con l’orlo della giacchetta sgualcita e poi, quando gli sembrò di aver recitato per un tempo sufficiente, si voltò verso il centro della vasca, per immergervi dentro una mano.
Scorse veloce un guizzo scuro scomparire oltre il bordo e sussultò leggermente. Non che facesse parte della sua commedia, anzi, si era davvero spaventato, ma questo nessuno avrebbe mai potuto provarlo, quindi poteva tranquillamente sorvolarci sopra e pensare a quell’altra persona.
Prese un respiro profondo e domandò nel suo miglior tono innocente:
«C’è nessuno?»
Si costrinse a mantenere una faccia rilassata, anche se moriva dalla voglia di fare una smorfia quasi schifata per la vocetta infantile che gli era uscita. Dio, sperava solo che non fosse un ragazzaccio più grande di lui pronto a dargliele perché era entrato nel cortile di casa sua. Che poi, era un cortile quel luogo? Sembrava più una piazzetta se doveva esser sincero, quindi a meno che il tipo non avesse posseduto tutti e quattro i palazzi che la circondavano non poteva certo dirsi casa sua, no?
Perso momentaneamente delle sue divagazioni, Gio non sentì il colpo di tosse che precedette una vera risposta alla sua domanda.
 
«In effetti sì.»
 
A quello Gio sussultò di nuovo.
E farlo due volte di fila aumentava le possibilità che qualcuno l’avesse effettivamente visto, ma c’avrebbe pensato dopo.
Scese dal bordo della vasca e drizzò la schiena, cercando di spiare oltre il bordo della fontana.
«Chi è?» chiese con voce più ferma.
Un altro rumore di stoffa e poi, con lentezza, proprio come facevano i gatti randagi del quartiere quando Giordano gli si avvicinava per carezzarli, una testolina scura sbucò oltre il perimetro di pietra stondata.
Aveva una capigliatura ordinata, ben pettinata, non perfetta come quella che Amore sfoggiava spesso, ma comunque palesemente di classe.
Le sopracciglia fini erano disegnate con cura, sembravano quasi sbiadite sulla pelle olivastra, a confronto con gli occhi dal taglio gentile, di un bel marrone caldo. Il naso piccolo, gli zigomi tondeggianti, le guance piene e leggermente colorite. Aveva la bocca piccola, le labbra fini, il mento leggermente appuntito.
Lentamente una ragazzetta di non più di sedici anni, forse diciassette, si alzò da terra, un libro stretto in una mano e l’altra a lisciar le pieghe della gonna.
Si guardarono in silenzio, studiandosi a vicenda, poi Gio seppe con certezza che se non avesse parlato, la ragazza non sarebbe certo stata la prima a farlo.

«Scusa se t’ho disturbata, non pensavo ci fosse qualcuno.» tentò educato.
Lei inarcò le sopracciglia fine, stupita. «Non sei di qui.» disse solo.
Gio scosse la testa. «No, sono appena arrivato.» iniziò vago, poi qualcosa, una sensazione, lo pungolò, spingendolo a precisare. «So di Roma.»
«Si sente che non sei di qui. Sei in vacanza con i tuoi genitori?» domandò.
Di nuovo, Gio scosse il capo. «No, non sono in vacanza. I miei genitori non sono neanche a Venezia. So solo. So venuto a far un favore ad un amico. Devo trovare una persona ma non so dove sia.»
Non aveva mai detto così tanto sulla sua “missione” ad uno dei tanti conoscenti che aveva sparsi per Roma, figurarsi ad una completa estranea, ma qualcosa gli diceva che doveva spiegarsi, rendersi credibile agli occhi di quella ragazza.
La giovane abbassò il capo, abbassandosi un momento per recuperare un segnalibro e porlo con cura in mezzo alle pagine.
«Ti sei perso quindi? Non sei un po’ troppo piccolo per star in giro da solo? Venezia è una città grande e piena di vicoli.» lo mise in guardia, ma a Gio venne solo da ridere.
«Grande? Madò, non direi proprio. So sicuro d’esser passato per lo stesso vicolo almeno tre volte. Mi sa che non ce sei mai stata a Roma, vero? È molto più grande di Venezia, e c’ha anche tanti vicoli e vicoletti. Però sui canali vincete voi. Noi c’abbiamo solo il Tevere che è abbastanza grande da finicce dentro solo se lo vuoi o se te ce lanciano.»
A quelle parole la ragazza strinse le labbra, piccata forse dall’affermazione dell’altro. Quel vizio di voler avere sempre la città più grande nessun italiano riusciva a togliersela, chissà perché c’era sempre quella competizione, la città più grande, la più popolata, la più ricca, la più bella, la più moderna, la più antica.
Giordano le fece un sorrisetto di scuse, ma a lei non dovette piacer molto.
«Beh, non è poi così piccola se ti ci sei perso.» puntualizzò.
Il sorriso sul volto di Gio sembrò quasi congelarsi.
 
Te prego, no un’artra che ce vole sempre avé raggione, che te deve sempre dì l’urtima parola.
 
«Non mi sono perso, sto esplorando.» disse automaticamente, perdendo anche quel poco di accento romano che si era concesso per scivolare nel suo perfetto ed inflessibile italiano scolastico.
La ragazza sembrò stupida dal repentino cambiamento, ma si riprese in fretta.
«Stai esplorando perché devi trovare una persona che non sai dove sia per fare un favore ad un amico.» continuò lei caparbia.
Gio annuì. «Una ragazza. Il mio amico ha una ragazza da queste parti, non può vederla sempre perché ha degli impegni particolari e così, visto che sa che dovevo passare da queste parti per arrivare a Trieste, mi ha chiesto di fermarmi e farle un po’ compagnia finché lui non sarebbe tornato.»
Un verso quasi di scherno sfuggì dalle labbra fini della giovane. «E chi mai potrebbe chiedere ad un ragazzino di tener compagnia alla sua donna? Un altro ragazzino?»
«Veramente lei dovrebbe averne circa diciotto e il mio amico- eh… lui è un bel po’ più grande, parecchio più grande… oddio.» realizzò infine sgranando gli occhio. Poi però ripensò al suo aspetto da pinguino impomatato, a quanto potesse sembrare giovane e in fondo, se sembrava un diciottenne anche lui, anche se in realtà aveva qualche secolo, andava bene lo stesso, no?
Certo, Ade aveva leggermente di più di qualche secolo, ma non c’era bisogno che Gio ci pensasse troppo.
La risatina della ragazza lo ridestò dai suoi pensieri.
«E ha mandato te a farle da compagnia? Hai almeno dodici anni?» gli domandò ironica.
A quello Gio si sentì punto nel vivo.
«Stammi un po’ a sentire, damina. Non so chi tu sia o chi ti creda di essere, ma spero vivamente tu non ti rivolga così ad ogni sconosciuto che incontri, perché è estremamente da maleducati. Non ti conosco e tu non conosci me, mi stavo riposando dalla mia ricerca, ti ho incontrata per caso, ti ho anche chiesto scusa per averti disturbato e tu, invece, mi prendi in giro perché sono piccolo, mi chiami ragazzino e ti prendi gioco di me, del mio amico e della missione che mi ha assegnato. Non sapevo che oltre a esse burini s’ete pure maleducati.»
La ragazza sgranò gli occhi e batté le palpebre, incredula. «Io non sono maleducata!»
«Mi hai riso in faccia! Mi continui a chiamare ragazzino come se fossi il garzone del calzolaio e come se tu fossi sta grande donna vissuta di mondo. Io li supero i dodici anni, ma te?»
«Ne ho diciotto!» rispose indignata. «E non sono maleducata!»
«Lo sei invece e solo perché non puoi accettare che Roma sia più grande di Venezia. Siamo stati capitale dell’Impero Romano, poi dello Stato Pontificio e ora del Regno D’Italia. C’è un motivo se hanno scelto noi e non voi.»
Oh, dannazione, la stava trasformando in una battaglia tra città, Amore sarebbe morta dalle risate quando glielo avrebbe raccontato.
«Hai detto che la mia città è piccola! Venezia è un gioiello!»
«Io direi più un gioiellino, ma mica dico il contrario.»
«Però ti ci sei perso.» insistette.
Gio alzò gli occhi al cielo. «Arieccola. No, non mi sono perso. Sto esplorando la città, ho incontrato un gruppo di cani-mucche-serpenti e sono corso via, ho visto che qui sembrava un posto riparato e mi ci sono infilato. Non mi sono perso, sto battendo la città pezzo per pezzo.» spiegò soddisfatto incrociando le bracci al petto.
La ragazza però lo guardava con una strana espressione in volto.
«Cani-mucche-serpenti? Ma cosa vai dicendo? Sei forse un pazzo?» chiese confusa.
Giordano chiuse gli occhi ed imprecò mentalmente. Perfetto, ora la damina pensava fosse pazzo.
«Guarda te se uno va a fare un favore a un amico e si ritrova in queste situazioni.» borbottò, poi sospirò. «Sì, vedila come vuoi. Tanto anche se te lo spiegassi non mi crederesti.»
«Certo che non ti crederei! Cani, mucche e serpenti! È semplicemente folle.»
«Già, se non avessi la vista lo sarebbe anche per me, probabilmente.» sospirò ancora, ignorando lo sguardo sempre più stranito della ragazza.
«Senti, stavi leggendo tanto, no? Ti ho disturbata, ma ora ho ripreso fiato e posso tornare alla mia ricerca. Quindi, buona giornata.» disse in fretta voltandole le spalle.
«Aspetta!» lo richiamò subito lei.
Gio si girò a guardarla incuriosito e lei si mordicchiò le pellicine del labbro, indecisa sul da farsi.
«Si?» provò lui.
La giovane prese un respiro profondo, gonfiando i polmoni e trattenendo tutta l’aria. «Hai detto “la vista”, non intendi quella normale, vero? Il riuscire a vedere, gli occhiali, quelle cose lì.»
Giordano aggrottò le sopracciglia. «Se ti rispondo sinceramente mi dai per pazzo e chiami le guardie?»
Lei scosse la testa e lui allora annuì. «Sì, un’altra cosa, non quella normale.»
«Qualcosa tipo- come se vedessi cose assurde, che non possono esistere davvero, che vedi solo tu e nessun altro?» incalzò lei.
«Cani-mucca-serpenti.» disse solo Gio in risposta.
La osservò torturarsi quelle povere pellicine, lisciare le pieghe del suo vestito color crema.
«Sai qualcosa di specifico di quella ragazza? Il nome della sua famiglia, il lavoro di suo padre… io- conosco molte persone qui a Venezia, posso anche chiedere a qualcuno, se serve.»
L’improvviso cambiamento nell’atteggiamento della giovane lo fece tentennare. Aveva anche lei la vista? Forse era una di quegli sfortunati mortali che potevano scorgere il mondo divino e scoprire che c’è qualcun altro che soffriva della sua stessa sfortunata sorte l’aveva ammorbidita un po’. Non era una semidea, di questo ne era più che certo. Gio sapeva riconoscere l’odore del sangue semidivino e sebbene quella ragazza avesse un odore particolare non era certo quello dell’esigua quantità di icore che sporcava il sangue dei bastardi degli Dei.
Scosse comunque la testa. «Grazie, ma non posso chiedere a nessuno. I suoi genitori non sanno che lei vede il mio amico, è giovane e se si spargesse la voce sarebbe terribile per lei. Se magari le persone a cui chiederesti la conoscessero e informassero suo padre che un ragazzo di Roma cerca la figlia per farle compagnia finché non arriva il suo innamorato, sarebbe davvero una disgrazia, credo tu sappia come girano veloci le voci, soprattutto se possono attaccare la dignità di una signorina.»  spiegò con calma.
La giovane continuò a spianare le pieghe ormai sottilissime del busto del vestito, annuendo.
«Sì, se la reputazione di una ragazza viene macchiata rischia di non trovare più marito, di essere additata come poco di buono.» mormorò a bassa voce, lo sguardo perso nel vuoto.
Giordano si sentì improvvisamente dispiaciuto, sembrava quasi parlasse per esperienza personale, come se anche lei avesse un innamorato che la ricambiava ma non poteva passarvi troppo tempo insieme da sola perché  l’avrebbero accusata di essere una donna di facili costumi.
«Sai,» provò allora con gentilezza, «mia- una mia amica mi raccontava che quando incontrò il marito, prima della guerra, per poter passare più tempo insieme, avevano fatto in modo che le loro famiglie lavorassero assieme, così avevano una scusa per star sempre l’uno tra i piedi all’altra. Io… non so in che situazioni ti trovi tu, se magari non siete dello stesso rango, ma magari, se sei assieme a delle amiche, se vi trovate per dovere…» lasciò la frase in sospeso, sul vago.
La ragazza non spostò lo sguardo, annuendo solo, rattristata.
«Non è così semplice. Lui lavora, io no. Sono una signorina di buona famiglia, non posso interessarmi agli affari, posso vederlo solo alle cene a cui è invitato mio padre e ora lui non è neanche qui.» ammise a bassa voce.
«Mi dispiace.» mormorò Gio. Poi abbozzò un sorriso. «Magari, nel frattempo che non trovo la ragazza del mio amico, posso fare compagnia a te.» le propose scherzoso, ma del tutto intenzionato a mantenere la sua parola se la ragazza avesse accettato.
A quel punto lei lo guardò e gli sorrise. «Sarebbe davvero buffo, visto com’è stata la nostra presentazione. Anzi, non ci siamo neanche presentati come si deve! A quanto pare avevi ragione, sono davvero una maleducata.» rise piano.
Anche lui le sorrise. «Io sono Giordano Rioni.» disse aggirando la fontana e porgendole la mano.
La giovane l’afferrò, battendo le palpebre come se non avesse capito qualcosa di quanto le era stato detto.
«Giordano?» domandò.
«Rioni. Sì, come quelli di Roma e di Napoli, però so solo romano io! Beh… quasi.»
«Gio-» ripeté lei interrompendosi.
«Quello è il mio soprannome, come mi chiamano gli amici. Nella mia famiglia mi chiamano anche Giordi, ma sono pochi quelli che possono farlo.» continuò lui spensierato. «E tu invece sei…?»
Con ancora la mano stretta alla sua, la ragazza lo guardò dritto negli occhi, una strana luce di consapevolezza a brillarle nelle iridi scure.
«Ciò che stai cercando.» mormorò.
«Come?» chiese Gio preso in contropiede.
Il sorriso che si allargò sul volto dell’altra Giordano l’avrebbe ricordato per tutta la vita.
«Ade mi aveva detto che presto sarebbe giunto un eroe a farmi visita, ma non avrei mai pensato che ve ne fossero anche di così giovani.»
«Conosci Ade… aspetta! Ti ha detto che sono un eroe? Oh-oh! Piano con le parole, non lo sono ancora, devo andare come minimo in missione da solo per poter essere chiamato eroe e- e poi non sono così giovane! Ho quattordici anni io!» rispose scioccato, mangiandosi qualche parola, cercando di venir fuori da quella situazione assurda.
 
L’odore familiare, terra bagnata, zolfo, frizzante, ferroso- Gli inferi, i gioielli in ferro dello Stige, la staticità elettrica delle anime che rimane attaccata a Pluto.
 
«Ade mi ha mandato da te» concluse, ribadendo l’ovvio.
Lei annuì divertita. «Credo che sia meglio ricominciare da capo, cosa ne pensi? Fare le cose per bene.»
Si mise ben dritta, rassettandosi il vestito e porgendogli nuovamente la mano.


«Piacere di conoscerti, Giordano Rioni, io sono Maria Di Angelo e ti do il benvenuto a Venezia.»








Spero abbiate passato delle buone vacanze.
Sta arrivando settembre e l'autunno è sempre più vicino.
Ma con l'autunno cadono le foglie.
In questo capitolo sono state spiegate un po' di cose, non so se qualcuno di voi avesse capito o meno dove si voleva andare a parare con la presenza di Gio a Venezia o se veste fatto due calcoli e trovato l'allineamento temporale. Spero, in ogni caso, che vi abbia sorpreso e soddisfatto.
Alla prossima gente.

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Capitolo 20
*** Hearth. ***










Capitolo XX- Hearth
 
 



Il vento che soffiava era freddo e secco, congelava le superfici ma impiegava più tempo a penetrare nelle ossa, privo dell’umidità micidiale che rendeva i vestiti appesantiti, i movimenti lenti.
Non era il freddo più terribile che avesse mai sperimentato, tantomeno il luogo più freddo in cui si era trovato, il suo vestiario pareva comunque inadatto a quel clima inclemente, eppure il suo corpo non ne sembrava affatto toccato. Era una fornace, un involucro rovente, una fucina di possibilità, un’anima forgiata nel fuoco e venuta al mondo ancora intrisa di quello stesso calore capace di sciogliere anche i ghiacci perenni. Giordano non aveva mai davvero sentito freddo un solo giorno della sua vita, non quando correva per la vecchia Jugoslavia e le mani minuscole scaldavano quelle grandi dei suoi famigliari, non dopo essere riuscito a liberare il mostro che aveva dentro.
È possibile, per un drago, soffrire il freddo? O il fuoco nel suo ventre l’avrebbe tenuto al caldo?
Il respiro bianco che usciva dal suo naso sembrava il fumo bollente che esalava quell’animale mitologico, ma non c’era odore di bruciato nell’aria, non c’era odore di zolfo. Giordano aveva imparato anni addietro come tenere in sé tutto ciò che gli ribolliva nelle vene.
Mosse gli ultimi passi verso l’ala più nascosta del vecchio cimitero pagano, calpestando la neve crepitante senza staccare gli occhi dalle masse scure davanti a sé che prendevano sempre più forma. Il terreno pareva illuminato come i fiori dell’Ade, il cielo era rossastro, colorato dalle luci della cittadina poco distante che si riflettevano sulle pesanti nuvole che chiudevano il cielo ad occhi indiscreti. O forse era la terra ad esser nascosta alle stelle. Gio sorrise a quel pensiero, lanciando un’occhiata verso l’alto, conscio che malgrado le nubi fitte i suoi amici sarebbero stati comunque in grado di scorgerlo e ricambiare il suo saluto.
I fiocchi di neve che cadevano con lentezza avevano già iniziato ad inzuppargli la camicia stropicciata che aveva indosso. Se l’avesse visto Era probabilmente l’avrebbe sgridato, ma la dea, a differenza di quello che pensava la gente, sapeva quando intervenire e quando non farlo e quel momento, così delicato, così personale, era uno di quelli.
Si fermò davanti all’agglomerato di lapidi, alcune accoppiate, altre singole, piccoli mausolei in cui solo un gatto avrebbe potuto entrarvi, costruiti sulle fosse più profonde che ospitavano anche quattro fratelli, famiglie intere. Ma tutte, tutte quelle tombe erano legate le une alle altre in qualche modo. Un ramo di rovi secco, un muretto, una mano di pietra protesa verso un’altra, l’abbraccio del ferro che cingeva ogni lapide in ghirigori verderame. Che vi fosse un corpo o ve ne fossero dieci nessuno era solo.
Gio sbuffò un verso divertito, osservando i nomi incisi con maestria, con precisione. Le croci, i simboli, le stelle, i nodi. C’erano tutte le religioni in quello che sarebbe dovuto essere un vecchio cimitero pagano, perché ogni morto era figlio di una cultura diversa e malgrado fossero tutti caduti sotto la stessa scure avevano pregato di poter riposare ognuno sotto il proprio stendardo.
 
Ma assieme. In un modo o nell’altro, assieme, come si conviene ad ogni famiglia che si rispetti.
 
Quello, in fin dei conti, era proprio il cimitero di famiglia. L’ironia della sorte però, stava nel fatto che nessuna di quelle fòsse era piena. La zona benedetta, santificata a nome di quegli eroi caduti, dove si presupponeva che i loro successori sarebbero dovuti andare in pellegrinaggio per onorare il loro sacrificio, non era altro che una farsa, una facciata, una sceneggiatura dietro alla quale non si trovava alcun palazzo, una porta che dava sul nulla.
 
Perché non è qui che volevate riposare.
 
Lui lo sapeva, se li ricordava i discorsi interminabili, pesanti o leggeri che fossero, in cui ognuno dei suoi familiari spiegava dove avrebbe voluto che gli altri lo seppellissero, seguendo quale rito, trattando il loro cadavere in quale modo.
Ricordava le risate, ragazzi di vent’anni recitare epitaffi stupidi per lapidi ancora lisce.
Ricordava i mormorii, sussurrati sui letti d’infermeria, le preghiere agli amici più cari di non abbandonarli al volere degli Dei se non fossero riusciti a superare quella notte.
Giordano guardò quelle steli incise con nomi amati, privati però del loro calore, dei volti gioviali, dei tocchi gentili.
Aveva promesso anche lui, anni e anni prima, appena maggiorenne, che avrebbe pensato lui stesso ai funerali di tutti perché era il più giovane e quindi ci sarebbe stato per più tempo.
Non avrebbe mai immaginato quanto quel “per più tempo” avrebbe significato.
Erano puramente onorarie, ogni singolo loculo di quel frammento di cimitero era il monumento in memoria dei veri eroi della guerra che fu combattuta parallelamente alla Seconda guerra mondiale.
 
«Non c’è più nessuno, qui.» disse indicando con un cenno le lapidi.
Alle sue spalle qualcuno scese sulla neve schiacciata dai suoi stessi passi e gli si affiancò.
«Volevano stare insieme fino alla fine, ma volevano farlo alle loro condizioni. Gli sarebbe piaciuto rivedere le loro terre natie, sai, come in pellegrinaggio, prima di morire. Raja e Tali rimpiangevano il caldo delle loro patrie, ma dissero che sarebbero state pronte a rinunciare a riposare sotto il sole a patto che fossero seppellite vicino ai loro compagni. Seb disse che se mi fossi azzardato a farlo seppellire in Polonia sarebbe venuto a perseguitarmi dall’oltretomba. Lo sto ancora spettando.»
Il suo interlocutore annuì. «Lo hai portato in Polonia?» domandò con voce bassa e delicata.
Gio scosse il capo, poi annuì ridacchiando. «In realtà sì, li ho riportati tutti a casa, uno per uno. Li ho fatti rimanere lì per un po’, per farli stare vicino alla famiglia di sangue. Poi li ho riportati via.»
«Hai depredato un cimitero monumentale.» gli fece notare.
Il verso di puro scherno che gli uscì dalla gola non l’avrebbe potuto trattenere neanche volendo.
«Monumentale? Non c’è un cazzo di monumentale qui. Guarda le loro lapidi, semplici, piatte, una mano di pietra ed un ghirigoro di ferro non li rende degni degli eroi su cui avrebbero dovuto vegliare. Avevo promesso a tutti loro che non li avrei lasciati in balia del volere degli Dei e così ho fatto.»
Si chinò per spolverare via la neve da un rettangolo di marmo bianco su cui era scritto qualcosa in una lingua di cui conosceva solo poche parole, ma subito dopo nuovi fiocchi vi ricaddero sopra e Gio abbassò la testa, sospirando.
«Ti spiace?» chiese rivolto all’altra.
La donna annuì, un gesto della mano e la neve cessò di cadere su quel fazzoletto di terra.
Si guardò attorno come se non fosse stata lì anche altre volte, la sua gentile collega l’aveva spesso chiamata quando andava a trovare il figlio e lei non si era mai permessa di rifiutare. Avevano tutti perso la propria progenie, in quella guerra o in quelle passate e anche se per loro il tempo non scorreva come per i mortali, anche se spesso si disinteressavano ai loro stessi figli, era impossibile ignorare e dimenticare, specie chi era morto per far sì che ognuno restasse seduto sul suo scarno.
Sospirò. «Nessuno si è accorto di nulla? Nessuno è venuto a lamentarsi?» domandò curiosa.
Gio rise. «Lamentarsi? E di cosa? Del fatto che ho portato i resti dei loro figli a riposare dove avrebbero avuto davvero un po’ di pace? E poi, seriamente, lamentarsi con me? Se ci fosse stato uno dei tuoi figli, rispondimi onestamente, saresti venuta a dirmi qualcosa?» si girò verso di lei e la osservò con tranquillità, consapevole delle risposte che avrebbe ottenuto prima ancora che queste potessero essere pronunciate.
No, la verità era che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli nulla o di fermarlo, sia perché tutti loro dovevano troppo a Gio per intralciarlo per una cosa così banale come una sepoltura, specie loro Olimpici, per cui l’unico funerale onorevole per un eroe caduto sarebbe stata la pira funebre, sia perché ricordavano tutti ancora troppo bene come e perché la guerra fosse finita.
Nessuno avrebbe avuto il coraggio. Neanche Zeus osava imporsi troppo a Giordano il Mortale. Oh, certo, lo convocava, redarguendolo continuamente di comportarsi come si conviene, ma l’ultima volta che il padre degli Dei aveva provato a costringerlo a far qualcosa non era finita troppo bene.
«Come pensavo.» mormorò Gio spostandosi verso la lapide successiva.
Sulla stele squadrata era inciso il nome di una guerriera giunta dall’Asia per portare a termine la sua missione: proteggere gli Dei e combattere l’oscurità. Non gli serviva alcun impegno per ricordare il volto di Raja, per ricordare il giorno in cui aveva perso l’occhio, il dolore gridato contro lo straccio arrotolato che le avevano spinto tra i denti per evitare che si mordesse la lingua. Ricordava la scia di sangue sul pavimento sporco, Al e Bas che la sostenevano ognuno per un braccio, gli stivali infangati che strusciavano molli sotto il peso morto delle gambe.
Se l’era vista brutta quel giorno, così come in quelli a venire. I guaritori si erano susseguiti senza posa e quando erano richiesti da altri feriti c’era sempre qualcuno a vegliarla con ansia, pronto ad intervenire, a chiamare di nuovo aiuto.
C’era stato anche lui, pomeriggi tranquilli tra giorni di delirio, quando non gli era permesso di uscire neanche nel cortile del vecchio hotel fatiscente, mentre tutti cercavano di riposare e lui, piccolo ed indifeso, teneva le mani strette attorno a quella gelata di Raja, pregando.
Conosceva solo l’Ave Maria al tempo e l’aveva ripetuto come un canto curativo, senza mai fermarsi, neanche quando sbagliava le parole. Clara gli aveva detto che se la loro compagna era viva era anche grazia a lui, che non aveva permesso al gelo della malattia di vincerla.
Raja odiava il freddo e avrebbe odiato sapere che il suo corpo mortale avrebbe riposato per sempre sotto la neve.
«Sì, l’avrebbe odiato.» disse ancora al nulla.
La donna che l’accompagnava gli si fece più vicina, sedendosi compostamente a terra, vicino alla tomba di Edward George McGrady, un figlio delle lande scozzesi che era caduto con la sua bandiera legata al collo, questo lo ricordava persino lei.
Passò distrattamente le dita pallide sul nome e la neve che vi si era depositata sopra scomparve, come risucchiata dall’epidermide altrettanto fredda.
«Eddy l’ho quasi lasciato in Scozia, sai? Ero combattuto così come lo era lui, tra l’idea di lasciarlo riposare a casa, tra le verdi colline, come diceva sempre, o al fianco dei suoi compagni per l’eternità. Ho optato per la seconda.» ammise con un sorriso quasi colpevole. «Sono stato un po’ egoista, li volevo anche io tutti vicini.»
«Sono i morti quelli che ti interessano quindi?»
La domanda dell’altra arrivò pacata ma con tono fermo: non gli avrebbe permesso di cambiare discorso, non quando entrambi sapevano che quello era il motivo principale per cui aveva deciso di accompagnarlo, per sapere.
Giò si voltò finalmente verso di lei, osservandone i tratti delicati, le labbra di un rosa tenue, quasi coperto da un velo di brina. Gli occhi erano dello stesso colore del ghiaccio ma Gio aveva guardato tante volte nelle gole gelate e quella vista non lo spaventava più da una vita. Persino i capelli neri parevano congelati, luccicanti di fiocchi di neve e cristalli scintillanti, come gemme di un’acconciatura elaborata con minuzia. Non poteva vederli con chiarezza, ma sapeva fossero raccolti dietro la nuca in un intreccio basso di fili d’argento, solo qualche ciocca lasciata ad incorniciarle il volto liscio, giovane, perfetto.
 
Divino.
 
«Girano delle voci, Gio, voci secondo le quali cercheresti un modo per riportare indietro i morti.» continuò.
L’uomo si strinse nelle spalle. «C’è già un modo per farlo, più di uno ad essere onesti. Certo, non li si può riportare indietro con tutta questa semplicità…»
«Se lo sai, se è questo che vuoi, perché non hai chiesto a Thanatos di aprire le Porte? Hai creato tutta questa giostra per cosa? Il momento in cui il vincitore varcherà l’estremo arco farai in modo che anche la tua famiglia lo segua? Ti rendi conto di cosa significherebbe una fuga così massiccia di anime così potenti?»
Gio le sorrise, tornando a fissare le lapidi, come se le sue parole non fossero altro che conversazione di circostanza.
Non si aspettava certo che la sua vecchia amica potesse capire, malgrado avesse accompagnato centinaia di volte la madre di Bas a far visita alla tomba del figlio, lì, in quel cimitero pagano in cui nessun eroe giaceva davvero, malgrado Gio stesso avesse provato innumerevoli volte a spiegarle, a spiegare a tutti, quale fosse il suo più grande rimpianto, la sua più oscura colpa, nessuno di loro poteva capirlo.
Tutti si arrovellavano su come avrebbe raggiunto la sua famiglia, senza domandarsi il perché.


Dio, era davvero stanco.
 

«Non tutti i morti riposano nello stesso cimitero, Chione.»
 
 
Non tutti i morti riposano.
 

 
*



 
La strada lastricata sembrava la via principale di un paese di medie dimensioni, di quelli ancora privi d'asfalto, il cui traffico era di solito dettato dai calessi dei contadini, le mandrie di rientro dai pascoli e qualche sporadica autovettura.
La confusione però era decisamente superiore a quella che un gregge avrebbe potuto produrre, il brusio costante e concitato pareva il suono delle centinaia di persone ammassate dentro uno stadio in attesa dell’inizio della partita. Per un attimo si sentì esattamente così: come una persona normale che percorre lo stradone che porta allo stadio, circondato da gente festante, eccitata all’idea di veder giocare la propria squadra, vicino ad amici impazienti di scoprire quali tattiche avrebbero messo in campo gli avversari.
Gli alti lampioni posti ai lati dalla via s’innalzavano come bandiere tra la folla, le lanterne pendenti di vago richiamo francese brillavano di una luce fioca e puramente decorativa. Se n’era accorto subito di quanto la luminosità fosse diversa lì nei Campi Elisi, come la luce crepuscolare dell’Ade si accendesse dei colori dell’alba, freddi e brillanti. Sì, le bianche mura racchiudevano un angolo di paradiso custodito nell’inferno, ma neanche le terre dei giusti splendevano di tinte calde, anche il luogo della pace eterna non poteva che riflettere il velo lucido e freddo della morte.
Si passò le mani sulle braccia scoperte. Nathan gli aveva proposto di mettere anche un giaccone, ma era ridicolo, sembrava vi stesse dentro tre volte, almeno un paio di meno di quante non fossero quelle del giaccone di Úranus, ed avevano optato per infilarlo a forza nella sacca di Cade, abbastanza accorti da prevedere che, se ormai potevano soffrire il dolore ed il caldo soffocante del fuoco, sarebbe potuto giungere il momento del gelo e della tempesta, dopotutto mancavano ancora sette prove.
Inconsciamente Jonas si fece un po’ più vicino al corpo accanto al suo, ritrovandosi a contatto con la pelle liscia e calda del braccio ambrato di Cicno.
Il figlio di Apollo non sembrò infastidito dalla cosa, anzi, con un gesto fluido, gli passò il braccio attorno alle spalle, cedendogli con facilità un poco del suo calore.


«Dove stiamo andando quindi? Semplicemente al centro dei Campi?» domandò Lea allungando il collo nel tentativo di scorgere qualcosa sopra la folla.
Eliza annuì decisa. «È dove si dirigono tutti, quindi sicuramente lì troveremo la prossima linea di partenza.»
Avevano perso parecchio tempo, ad aspettare gli altri fuori dalle mura, a sconfiggere il Guardiano, a riportare indietro Cicno e Jonas, e poi altro ancora nel visitare casa di Nathan e nel parlare con il padre di Eliza.  Si erano mossi decisamente con troppa comodità e Lea si chiese se forse quello non li avrebbe messi in difficoltà.
Non dovette rimanere per molto ad arrovellarsi sui suoi dubbi, ben presto Úranus le diede un leggero colpetto sul braccio, attirando la sua attenzione ed indicando con un cenno del capo il limitare estremo del loro campo visivo.
Oltre a loro due l’unico abbastanza alto per rendersi conto di cosa vi fosse oltre la marea di anime era suo fratello e dalla smorfia che per un attimo gli fece arricciare il naso la sua vista sovrumana doveva esser riuscita a scorgere molto più della parte superiore di uno schermo illuminato ed attivo, probabilmente le immagini che componevano quelle macchie colorate aveva un senso non troppo positivo.


«Non vedo un cazzo.» borbottò Nathan alzandosi sulle punte. «Golia, che cazzo c’è?»
«Una lastra moderna, come quelle da cui abbiamo assistito alla presentazione della divina Demetra.»
«Uno schermo di merda.» disse subito il biondo annuendo. «Che c’è dentro?»
«Non siamo ancora abbastanza vicini pe-»
«Nulla di buono. Il divino Ade ha già parlato, attende alle spalle della Dea dalla cui mente è nata questa prova.» disse Cicno con voce piatta.
«Un’altra donna? Seri? E che cazzo, non sapevo ce ne fossero così tante. Perché tutte donne? Sono le più sadiche quando si tratta di mettere alla prova la gente.» si lagnò Cade reclinando la testa all’indietro ed espirando sconfortato.
«Certo, perché l’unica prova che fino ad ora ha gestito un Dio è stata molto più leggera, ha solo fatto rivivere a tutti il momento che ha segnato la propria morte dando al contempo il permesso ad ogni concorrente di distruggere l’unica possibilità di vittoria degli altri.» rispose piccata Jane senza neanche provare a scorgere qualcosa. Strinse con più forza la stoffa della gonna, sollevandola un po’ di più: Cade l’aveva liberata di un bel po’ di pollici di stracci, ma camminare tra tutta quella gente, sballottata costantemente da una parte all’altra, rimaneva un compito arduo.
«Chi è?» domandò spiccia Eliza allungando un po’ il collo. «Vedo colori chiari, ma non so identificarli.»
«E che vorresti identificare? Lo indossano tutti il fottuto bianco.»
«Non è bianco, sembra più un color crema.» precisò Jonas assottigliando lo sguardo.
«Senti, ora non mettertici anche te moccioso.»
«Se il colore aiuta a capire chi hai davanti essere precisi non è qualcosa di cui possiamo fare a meno.» gli rispose a tono lanciandogli un’occhiataccia.
Cade ridacchiò divertito dalla faccia indignata di Nathan e Cicno diede una leggera stretta al braccio di Jonas.
«Il nostro giovane compagno ha ragione.»
«Oh, chi se lo sarebbe mai aspettato che la principessa desse ragione al nano.»
«Ma se sono più alto di te!»
«Col cazzo.»
«Quindi? Questo colore?» grugnì Jane alzando la voce per sovrastare quel principio di litigio tra i due bambini della squadra. Alcune anime attorno a loro saltarono prese alla sprovvista dall’improvviso cambio di tono, allontanandosi leggermente dal gruppetto.
Jane alzò un sopracciglio sorpresa. «Se basta così poco per farci spazio sappiate che sto per mettermi ad urlare.»
«Direi che sembra quasi il colore del cotone grezzo.» intervenne Úranus riportando il discorso sull’argomento principale.
Cicno annuì. «Sì, ma non è comunque un buon segno.»
«Riesci a vederla?» chiese Eliza. «O a sentirla.»
Cicno annuì ancora. «Entrambi purtroppo.»
Non aggiunse nulla per un momento e non restò loro altro da fare che aspettare che il greco ascoltasse ciò che la Dea stava dicendo, continuando a camminare sospinti dal flusso di anime.
Il biondo inclinò leggermente il capo, un’altra smorfia a piegargli per un attimo il volto gentile.
«Non è nulla di buono, ve?» bisbigliò Cade avvicinandosi ad Eliza.
Lei scosse il capo e si volse verso Úranus. «Vedi nulla?»
«Non ho mai visto quella Dea, mi spiace.» rispose quello tirando le labbra in un’espressione concentrata.
«Beh, descrivimela, abbiamo un botto di iconografie al Campo, magari la riconosco io.» sbuffò Nathan-
Úranus aprì bocca, pronto a replicare, quando Cicno lo fece al posto suo.
«Non ce n’è bisogno.» disse secco. «La conosco io, la vidi in uno dei suoi templi.»
«E ce lo vuoi dire chi è o proviamo ad indovinare, così, a cazzo?» chiese ancora Nathan.
«Oh, oh! Facciamo che ognuno fa una domanda e l’angioletto ci può rispondere solo sì o “no” e chi lo indovina alla fine vince un favore da tutti i perdenti?» propose Cade saltellando sul posto.
Da quando si era ripreso non aveva ancora mai prova a richiamare le correnti per volare in alto. Non che avesse sviluppato d’improvviso la paura per l’altezza, ma c’era una vocina, nella sua testa, che gli ripeteva costantemente d’aspettare, ricordandogli sibillina cosa fosse successo, in passato, tutte le volte che si era ritrovato in un vuoto d’aria e poi era tornato subito a spiccare il volo.
Scosse il capo e sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi a trentadue denti. Eliza gli diede uno scappellotto dritto sulla fronte e lo guardò male.
«Tappati quella bocca.»
«Elsaaaaa! Perché devi sempre esprimere così il tuo amore per me? Non puoi essere un poco più gentile?»
«Non è il momento di essere gentili!»
«Guardate!»
 
Jonas alzò il braccio verso l’alto, indicando lo schermo ora completamente visibile, su cui spiccava il primo piano di una donna di trent’anni o poco più.
Aveva lineamenti gentili, morbidi. Le guance rotonde, il mento piccolo, le labbra a cuore, il naso cosparso di lentiggini delicate. Gli occhi erano grandi e dolci, le palpebre calavano morbide a mezz’asta, dandole lo sguardo tipico di una madre che osserva con affetto i propri figli. Le ciglia corte erano chiare come le sopracciglia castane e rade, ai lati della fronte alta ricadevano riccioli dello stesso colore, dalla forma imprecisa che si arricciava in ondulature curiose e poco ordinate. Sembrava quasi che quella fosse la pettinatura che si era fatta la mattino, con cui aveva affrontato tutta la giornata e che lo scorrere delle ore avesse allentato qualche ciocca, tirato qualche capello, rendendo basso e morbido l’intreccio che le posava molle sulla nuca.
La fascia che le ornava il capo era ricamata con motivi alla greca, dorati ma non luccicanti, nulla di troppo appariscente, nulla di troppo elaborato o prezioso.
Se l’avesse vista ritratta in un quadro, Jonas avrebbe subito pensato che dovesse essere una donna di paese, una lavoratrice, magari la dama di compagnia della donna ingioiellata ritratta vicino a lei.
Invece, quella creatura così pacata, così modesta, così diversa dalla fredde e scintillante Artemide, dalla colorata e accecante Demetra, era una Dea proprio come le sue predecessore.
Con voce bassa, la Dea continuò il suo discorso, ignara, o forse indifferente, del fatto che molte anime non avevano sentito parte di questo.
 
«… quello che più mi preme è che ognuno di voi trovi il suo, indipendentemente da quali siano le vostre origini, quali le vostre storie.
Una volta lì, a voi riuscire a superare la sfida che vi porrà chi vi dimora. Saranno tutte diverse e non vi mentirò dicendovi che ognuna sarà ugualmente difficile. Non sta a me decidere.
Quello che vi chiedo è solo questo: nulla di più, nulla di meno.
Quando troverete ciò che state cercando, però, vi sarà fatta un’offerta, poiché ciò che più c’è d’importante al mondo è il luogo da cui proveniamo e finché ne avrò potere farò sì che tutti possano tornarvi ed avere una seconda possibilità.
Siete riusciti ad arrivare alla metà di questa competizione, altre sei prove vi attendono dopo la mia, solo uno di voi ne affronterà una settima, questa è la vostra ultima possibilità, spero ne siate tutti consapevoli.»
Batté le palpebre con lentezza, le braccia nude risaltavano ancora di più nel loro colorito bronzeo contro il peplo di stoffa grezza.
Sorrise mesta e sospirò. «Che Tiche possa vegliare su di voi e che il ritorno a casa vi sia di dolce conforto.»
Con quelle ultime parole la Dea voltò le spalle al pubblico e a metà del palco lo schermo si fece nero, il simbolo di Ade apparve roteando al suo centro. La trasmissione era finita.


Nathan imprecò ad alata voce.
«Che cazzo vuol dire? Come cazzo facciamo noi a sapere che cazzo dobbiamo fare ora?!»
«Pensi che conosca altre parolacce? No, perché nel caso posso insegnargliele io.» bisbigliò Cade all’orecchio di Eliza.
«Sta per arrivarti un pungo.»
«Ti sembra il momento di fare ironia, pazzo rosso? Ci siamo persi la spiegazione della prova, se non te ne fossi accorto!» ruggì Jane unendosi al coro d’imprecazioni del figlio di Ares.
«Non abbiamo neanche la più pallida idea di chi sia.» aggiunse Úranus.
«Ha detto che dobbiamo trovare qualcosa, se ogni prova è diversa vuol dire che ognuno di noi dovrà trovare qualcosa di diverso.» ragionò Eliza ad alta voce.
«Per forza da soli? Magari invece possiamo farlo in gruppo?» propose ancora l’islandese.
«Ma perché ha detto quella cosa sulla casa? Che spera che ci sia di conforto? Che vuol dire? Che dobbiamo ritrovare le nostre case? Dovremmo tornare in superficie per farlo e almeno la metà di noi non troverebbe assolutamente nulla!» rincarò la dose Lea passandosi le mani tra i capelli corti.
«Non ha parlato di case, ma di luoghi da cui proveniamo. Quindi le terre?» propose Úranus.
Cade si voltò di scatto verso Nathan. «Hai detto che l’Irlanda c’è ancora, giusto?»
«Sì cazzo, certo che c’è ancora! Ma dubito che ci sia ancora il villaggio di Golia o la città di Cicno.»
In piedi immobile vicino ai suoi compagni, Jonas si spinse un po’ di più verso Cicno, ricercando quel calore che avrebbe potuto dargli un po’ di sollievo in mezzo all’ansia che le parole degli altri e l’arrivo tardivo alla spiegazione della prova gli stavano mettendo addosso.
Come di riflesso il greco iniziò a strofinargli la mano sul braccio, cercando di scaldarlo, senza però voltarsi verso di lui, il viso ancora puntato in direzione dello schermo nero, lo sguardo lontano, fisso sul simbolo di Ade che girava su sé stesso pigro.
«Cicno?» provò a chiamarlo debolmente, leggermente intimorito dall’espressione completamente immobile e neutra che si era pietrificata sul bel volto.
Gli altri continuarono a fare ipotesi, a origliare stralci di conversazioni delle anime vicine, cercando di venire a capo della situazione, finché il figlio di Apollo, pur mantenendo la sua attenzione sull’immagine in movimento, non parlò con voce dura.


«Vuole che troviamo il luogo che simboleggia la nostra nascita, la nostra famiglia. Chi ci ha dato la vita e chi ci ha accudito in essa
Finalmente si voltò, gli occhi freddi, pieni di un odio latente che li animava solo in poche situazione, al nominare una specifica persona.
«Tutti coloro che non hanno mai avuto un focolare o che lo hanno tradito dovranno prepararsi al peggio, perché la Dea che avete visto è la divina Estia e per lei la dimora natia e quella in cui si è costruita la propria famiglia contano sopra tutto e chi la infanga non merita che la morte.»



 
*
 



La superficie dell’acqua vibrò a mala pena, l’immagine che fino a poco prima si era riflessa sullo strato trasparente era scomparsa lasciando il posto al verde denso e scuro della malachite. Quando anche quel leggero movimento si fu calmato non rimase altro che il profilo luminescente della donna, della Dea, che fino a quel momento vi si era sporta sopra.
Era strinse le labbra in una linea dura, prendendo un respiro profondo e drizzando la schiena, aprendo le spalle, il capo eretto come si addiceva ad una regina, il portamento regale a cancellare quella strisciante sensazione d’ansia che l’aveva colta nell’osservare sua sorella parlare placida davanti a tutte quelle anime. O almeno a quelle che erano rimaste.
Il disegno forse era oscuro, l’obiettivo ignoto, ma erano ormai ben chiare le conseguenze di tutte le loro sfide, come ogni gara eliminasse le persone più deboli per lasciare solo i veri combattenti, i furbi e gli astuti.
Ma se prima tutti gli Dei che avevano progettato le prove avevano mirato all’eliminazione fisica, esattamente come era stato per Ermes, Estia aveva deciso di giocare con la mente dei concorrenti.
 
O con i loro sentimenti, se ancora ne hanno.
 
Non ci sarebbero stati spargimenti di sangue, non ci sarebbero stati brutti ricordi, nessuno sarebbe stato costretto a rivivere l’evento che l’aveva portato alla morte, o l’istante prima che questa accadesse. Nessun Mastino Infernale, nessun ramo d’edera, nessun Guardiano a decidere quanto degno un essere fosse di passare. No, questa volta avrebbero dovuto affrontare qualcosa di decisamente meno pericoloso, ma certo più subdolo.


 «Non sei soddisfatta. Cosa ti aspettavi?»

Anche senza voltarsi Era poteva perfettamente figurarsi il volto neutro, quasi impassibile, di sua sorella.
Demetra giaceva comodamente seduta sulla sua poltrona di vimini, un trono che evocava con un gesto della mano ovunque andasse. Alle volte Era si domandava che diavolo avessero di sbagliato le sue di poltrone per spingere l’altra a portarsi appresso la propria, ma dopo millenni riusciva ad ignorare abbastanza bene la cosa, a meno che non fosse di cattivo umore come in quel momento.


«Cosa ti hanno fatto le mie poltrone?» domandò di rimando senza curarsi di rispondere a ciò che le era stato chiesto.
Demetra si strinse nelle spalle, i riccioli neri rimbalzarono ai lati del suo volto come molle, la collana grezza e scintillante che portava al collo tintinnò con leggerezza.
«Sono troppo calde, gli intrecci di vimini fanno passare l’aria.»
«Come se soffrissi il caldo tu.» le rinfacciò la sorella.
L’altra alzò gli occhi al cielo, già stufa di quella conversazione. «Cosa ti aspettavi? Che c’è che non va?»
Ma prima che Era potesse rispondere un’altra voce la precedette.


«Cosa non va? Sarebbe più semplice dire cosa “vada”. C’è così poco di giusto in questa gara che mi domando perché Zeus non l’abbia già interrotta.»
Atena teneva le braccia incrociate al petto, la tunica color ferro, dal taglio dritto, la faceva sembrare ancora più impettita e rigida di quanto non fosse. Seduta sul divanetto posto dal lato opposto delle finestre scrutava con attenzione l’antica fonte battesimale dove poco prima avevano assistito alla presentazione della sesta prova, che non le era piaciuta per niente.
Non vedeva l’utilità nel porre le anime davanti ad una scelta così gentile, così generica. Era ovvio che qualunque figlio fosse giunto al focolare del proprio genitore sarebbe stato aiutato, graziato anche. Attorno a quella sciocca gara si era creato un giro di scommesse che sarebbe andato avanti per decenni e sarebbe stato responsabile di liti e screzi almeno per il successivi millennio, con probabili disastrose conseguenze sul mondo sottostante.
Sempre che i mortali non riuscissero a farsi fuori da soli prima. Questa era una possibilità su cui Atena avrebbe scommesso ad occhi chiusi, ma purtroppo era dalla venerazione e dal ricordo di suddetti mortali che tutti loro traevano forza, quindi, se fosse stato necessario, avrebbe fatto la grazia a quegli stolti d’aiutarli a non morire. Forse.
Le Dee più anziane le lanciarono un’occhiata poco impressionata ed Era espirò con forza prima di avvicinarsi alla sorella e sedersi sulla poltrona di raso posta al suo fianco.
 
«Questa prova eliminerà tutti i mortali, a meno che non ci sia ancora qualcuno legato ai nostri culti più antichi. Molte anime non sanno che gli Dei che venerano ora sono trasformazioni, evoluzioni delle nostre persone e con ciò non troveranno nessuno con cui ricongiungersi.»
Demetra alzò un sopracciglio, una tacita domanda che Atena decise di cogliere al volo.
«Vuol dire che dai prossimi di noi che ideeranno le prove si aspetta una scrematura ancora più precisa. Ergo, si sta avvicinando sempre di più a ciò che vuole ed Estia ha fatto il suo gioco.»
La Dea della natura però continuò a non sembrare interessata o colpita dalle parole della più giovane e la liquidò con un cenno della mano.
«Capisco che sia la tua funzione primaria, Atena, ma pensi troppo. Sei fastidiosa.» disse secca per poi rivolgersi alla regina. «Ti preoccupa seriamente che qualche anima che potrebbe meritarsi la rinascita, cosa di cui dubito arrivati a questo punto, perda l’occasione perché non troverà un altare al quale inginocchiarsi?»
Era storse il naso. «Anche. Non è giusto, certamente, ma la nostra famiglia non brilla per giustizia o onestà, quindi potrei anche soprassedere. No, ciò che mi preoccupa è che così facendo metterà in contatto ogni semidio, ogni adoratore, con il suo dio e sappiamo tutti come tra i concorrenti ci siano anime che giocano per un’altra fazione.» stette per un momento in silenzio, ponderando per bene le sue parole successive. «Potrebbero mettere in contatto il loro padrone con divinità che non sono ancora state “toccate” da questa vicenda.»
Demetra annuì. «Bene, se così sarà, allora presto sapremmo tutti tutto. O possiamo aspettare Estia e chiedere a lei cosa diamine le passasse per quella sua bella testolina quando ha scelto di fare per l’ennesima volta la piccola fiammiferaia di turno e dare fiducia agli esseri umani.»
«Non è quello che hai fatto anche tu, zia?» chiese Atena ironica.
La dea sbuffò, poggiò i gomiti sui braccioli della sua poltrona di vimini e fece una smorfia di disapprovazione.
«Io ho messo tutte le guardie immortali ed imbattibili dell’Ade a combattere le anime, con l’esplicito ordine di suonargliele di santa ragione prima di lasciarli passare e solo se l’avessero reputato necessario. Al contempo ho ordinato al Guardiano di stare in allerta e bruciare tutti. Ti sembro una che ha fiducia nell’umanità?» replicò con lo stesso tono ironico dell’altra.
La dea della saggezza la guardò male, gettandosi in una delle sue fastidiosamente precise analisi della situazione, ma venne fortunatamente interrotta dall’aprirsi delle alte porte decorate, prima che Demetra decidesse se usare i vimini della sua sedia per strangolarla o se evocare piante vive.
L’unico rumore che produssero le ante fu quello dello spostamento d’aria. Non vi era nulla nel palazzo della Regina degli Dei che mal funzionasse, cigolasse o facesse alcun rumore molesto. A meno che non si trattasse di Zeus o di uno qualunque dei membri della sua famiglia, ma Era preferiva non specificare troppo spesso questo particolare.
Con passo leggero e tranquillo la stessa figura che poco prima aveva brillato nitida nella fonte battesimale si apprestò a raggiungere le altre donne, sorridendo gentile a salutare ognuna di loro.
«Sorelle, nipote.»
«Zia.»
«Sorella, proprio in tempo per evitare un infanticidio.»
Estia aggrottò le sopracciglia. «C’è un bambino in pericolo di morte?»
Demetra annuì seria. «Sì, questa mocciosa di Atena.»
«Ve ne prego, non iniziate a litigare.» le fermò subito Era, invitando la nuova arrivata a sedersi vicino a lei. «Ho molte domande da farti sorella.» disse senza troppi giri di parole.
La dea le regalò un altro sorriso. «Lo so, ne sono consapevole. Presumo tu non condivida la mia idea di prova.»
«Non è una prova, tutti noi daremo la nostra benedizione ai nostri figli.» rimarcò Atena.
«Che tu non dovresti avere.»
«Tutti i miei figli sono nati esattamente come sono nata io, credevo che dopo secoli questo argomento fosse risolto.»
«Ed infatti sei l’esempio più lampante di quanto questo tipo di partenogenesi sia errata. Già nascere dalla testa di un uomo è eresia, per di più da quella di Zeus…» commentò con disprezzo Demetra.
Era espirò per l’ennesima volta nel tentativo di darsi un po’ di contegno.
«Cosa c’è che non gradisci di questa prova, sorella?» le chiese a bassa voce Estia.
L’altra spostò lo sguardo su di lei, stringendo le labbra. «Non tutti avranno un focolare da cui tornare, non tutti hanno dei genitori divini pronti a dar loro la grazia.»
Estia scosse il capo. «Lo hai detto tu stessa, focolare, non tempio. Sì, molti di loro dovranno recarsi alle case dei loro divini genitori, ma non saranno necessariamente loro a permettergli di passare la prova. Mentre per tutti coloro che non avranno un altare da cui recarsi, potranno affrontare la prova nei loro luoghi di culto o in qualunque altro posto che riconosceranno come casa.» inclinò il capo di lato, i capelli castani le scivolarono sulla fronte, andandole davanti agli occhi. Era glieli spostò con gesti delicati e precisi. «Vedi? Ho pensato a tutti, se questo è davvero il tuo cruccio. Ma sappiamo entrambe che non sono le anime in gara a preoccuparti, mia regina, loro sono solo un mezzo più “giusto” per potare avanti la tua causa. Non sei mai stata troppo brava a fingere interesse negli altri.»
Era le sorrise, tirata. «Sono molto brava a fingere interesse negli altri.»
«Non quando c’è qualcosa a cui tieni così tanto in ballo.» ribatté placida.
Lo sguardo della maggiore si tinse di scuro, cupo come quello dei suoi due fratelli più legati alla terra.
«Lo stai facendo apposta, vero? Spingere tutti a ricongiungersi al proprio focolare, alla propria famiglia, speri che anche lui decida di farsi un esame di coscienza e desistere dai suoi piani?»
Questa volta la sua voce risuonò fredda, distante, ma non riuscì comunque a togliere quell’espressione dolce ed accogliente dal volto dell’altra.
«Ha intrapreso una strada a senso unico, ogni fuoco sta tremando, tutti quelli che ha toccato. L’equilibrio è essenziale e se questa è la mia unica opportunità di spingerlo anche solo a riflettere, allora non la getterò al vento.»
«Equilibri? Quali equilibri sta toccando?» parlò di nuovo Atena, dopo aver ascoltato con attenzione lo scambio di battute delle due Dee.
Estia sospirò. «Eris ed il suo inaffidabile amico di vecchia data. Chione al cimitero ad osservare le tombe monumentali. Mi sorprende che Ares ed Afrodite non abbiano ancora parlato con i loro d’amici ed Eros…»  lasciò la frase in sospeso, voltandosi per guardare la nipote. «Sai cosa significa, vero? Se stanno interagendo così tanto, se continueranno a farlo, potrebbero incrinare l’equilibrio.»


«E così sia.»
Demetra si alzò dalla sua poltrona con un movimento fluido, i lunghi fili di vimini si sciolsero cadendo a terra come serpenti, scomparendo nel marmo lucido del pavimento. Il tintinnio leggero della sua collana coprì il fruscio della veste grezza, la dea non si volse per scambiare un cenno di saluto neanche alla padrona di casa, semplicemente si diresse con passi lenti verso la porta lasciata semichiusa.
«Non è affar nostro, non lo è mai stato a voler essere onesti. Che Giordano faccia ciò che vuole fare, se gli riuscirà, buon per lui, ma se dovessero esserci problemi saranno le sue azioni a distruggere il nostro equilibrio, non le chiacchiere di qualche pettegolo o il ben noto astio di un mortale per un cimitero freddo ed arido, di quella scusa di memoriale con cui ci siamo tutti ripuliti la coscienza.»
«Aspetta! Dove stai andando? Dobbiamo discutere-»
«Sono stanca di discutere, Atena. Te l’ho già detto e te lo ripeterò ancora: finché le sue azioni non mi toccheranno non mi immischierò, non proverò a fermarlo né a fargli cambiare idea. Ma voi siete liberissime di fare ciò che volete. Basta che non mi rompete le scatole e che non peggiorate la situazione.»
Le sue ultime parole furono seguite dal silenzioso chiudersi delle porte, che tagliò fuori dalla stanza tutti i rumori provenienti dal corridoio del palazzo.
Demetra si concesse giusto qualche passo prima di far schioccare la lingua contro il palato e alzare gli occhi al cielo.


«Spii la gente come i bambini? Pensavo avessi smesso anni fa.»
Un risolino basso ed un fruscio furono tutto quello che preannunciò la figura longilinea che si andò formando dal vento al fianco della Dea della natura.
Eros si passò una mano tra i capelli sistemandoli distrattamente. «Se ci fossimo tutti spiati a vicenda in questi secoli avremmo evitato moltissimi incidenti.»
«E messo in scena una perpetua guerra della mela.» gli fece notare scocciata.
Lui si strinse nelle spalle, camminando sulle punte dei piedi scalzi. «Concesso, ma avrebbe comunque aiutato. A mia difesa posso solo dire che l’amore non conosce limiti. Neanche della decenza.»
«Concesso.» ripeté Demetra. «Cosa vuoi?»
«Nulla, in effetti, ma se vuoi posso farti i complimenti per esserti tirata fuori da questa situazione.»
«Come se avessi accettato. Hai sentito tutto? Lo riferirai a tua madre?»
Eros si stiracchiò, ghignando. «E toglierle il piacere di sfinire le sue amate nipoti fino a farle parlare? No, assolutamente no.»
«Allora mi farai ripetere?» la dea si fermò, voltandosi a fronteggiare quel giovinetto la cui faccia infantile si tramutò velocemente in un’espressione più seria. «Non sei preoccupata come gli altri, hai detto che non ti interessa a meno che non ti toccherà. È vero? Se Zeus ti chiederà di schierarti, solo allora gli volterai le spalle?»
Demetra lo guardò senza battere ciglio, immobile.
«Sì. Solo allora gli volterò le spalle.» confermò.
Le labbra di Eros si tesero allora in un ghigno tagliante. «A Gio o a Zeus?»
Nello sguardo vibrante della donna brillarono frammenti d’oro puro.
 
«Zeus.»



 
*
 


 
Jane aveva fissato Cicno come fosse pazzo, la sola idea di doversi addentrare per la casa di sua madre e superare qualche ignota prova le faceva venire il voltastomaco.
Ecate non era mai stata troppo buona con lei, peggio, non l’aveva mai considerata, non aveva mai visto in lei nulla.
 
È riuscita a vedere qualcosa in quell’uomo ma non in me.
 
Erano state le servitrici di sua madre ad aiutarla, se così si può dire, ma non la Dea stessa, lei si era del tutto estraniata dalla vita di una delle sue ennesime figlie, una delle sue ennesime figlie mediocri, neanche degne di una sua apparizione, di una parola. Di quello no, ma degli incubi, delle visioni… Ecate non le aveva mai rivolto uno sguardo benevolo ma aveva sempre invaso i suoi sogni di immagini terribili, premonizioni nefaste. Era per colpa di sua madre che i suoi occhi mortali avevano scorto, per tutta la vita, ciò che gli altri non potevano vedere, cose che l’avevano portata a credersi maledetta, impazzita.
 
E in silenzio. Non potevo dire nulla a nessuno, avrebbero pensato fossi posseduta, avrebbero cercato di esorcizzarmi. Mi avrebbero chiuso in un gabbia e calata nel fiume, aspettando la morte del mio corpo terreno per far sì che anche il demone morisse con quello.
 
C’era solo risentimento nel suo cuore per sua madre, rabbia per essere stata ignorata, amarezza per non esser riuscita ad ereditare neanche quel tanto necessario da lei per potersi vendicare. E quello stesso sguardo, quelle stesse emozioni che l’animavano in quel momento, poteva leggerle chiare negli occhi di Cicno stesso e in quelli di Cade.
Per questa volta, pensò con cinismo, non sarebbe stata sola. Ben due dei suoi compagni capivano il suo risentimento, comprendevano il ribrezzo nel dover andare a chiedere anche il minimo favore a quegli esseri che s’erano arrogati il diritto di metterli al mondo e di lasciarli sprofondare nella miseria e nel dolore.
Sarebbe stato facile per Nathan, constatò con freddezza, per Eliza che aveva già incontrato suo padre e ora avrebbe dimostrato anche a sua madre dov’era arrivata. Úranus e il suo amato genitore, che gli aveva concesso persino il lusso di crescerlo. Lea non aveva un particolare rapporto con Apollo, ma proprio come Jonas probabilmente non sarebbe stato troppo difficile per loro passare quella prova.
Ovviamente, tutto ciò sarebbe potuto esser vero se nessuno di loro avesse fatto qualcosa di male contro il proprio genitore divino.
 
Tradire il focolare… in fondo potremmo dire che io l’ho fatto. E Cicno anche.
 
Gettò uno sguardo al ragazzino ed inclinò la testa pensosa; lui era scappato, aveva detto, poteva esser visto come un tradimento?
Spostò la sua attenzione sui due soldati, tendendo l’orecchio per riuscire a capire cosa stessero dicendo, a che punto fossero arrivati nella loro inutile discussione.
 
«- ma non sappiamo cosa ci chiederà, Estia ha detto che sarebbero state tutte prove diverse, no?» domandò Lea ansiosa.
«Con il culo che ho mio padre tira fuori il suo lato sadico e mi butta in una cazzo di arena coi leoni.» borbottò Nathan, «E tua madre potrebbe fare lo stesso, pur di vederti vincere.»
Eliza scosse il capo. «Ci stiamo fasciando la testa per nulla, potremmo anche non incontrare i nostri genitori divini. Siamo così tanti che non potrebbero visitarci tutti.»
Nathan grugnì. «Gli Dei si possono sdoppiare, possono essere in più luoghi contemporaneamente.»
Ci fu un momento di silenzio a quell’affermazione, poi tutti si voltarono lentamente verso Úranus o Cicno.
Il figlio di Ares sbuffò un verso di pura indignazione. «Che c’è? Non mi credete?»
Cade gli sorrise accomodante. «Non è che non ti crediamo, soldatino, è che sembra un po’ una cazzata.»
«Ma porca di quella-»
«Nathan dice il vero, l’essenza degli Dei è grande e loro possono dividerla e palesarla in luoghi diversi.» confermò Úranus.
«Sono esseri sovrannaturali, hanno il potere della vita e della morte, della natura, possono fare quasi qualunque cosa bramino di fare.» continuò Cicno, «Il fatto che dovranno presenziare davanti a più figli o sudditi è l’ultimo dei loro problemi, sempre che si palesino. La divina Estia ha parlato di focolare, il suo luogo simbolo, ha parlato di “coloro che vi dimorano”, quindi quasi sicuramente si tratterà di una divinità, il alternativa di chi ci ha accudito e cresciuto in vita.»
Jonas arricciò il naso, pensieroso, portando in automatico la mano al polso per torcere il suo bracciale.
«Quindi dobbiamo trovare la casa del… nostro… gen- oh.» la voce gli si spense lentamente, lo sguardo gli cadde sul polso, sulle dita che tastavano la pelle tiepida e libera da ogni vincolo.
«Che c’è binneas?  Che ti sei perso?» domandò Cade avvicinandosi al ragazzino.
Jonas alzò lo sguardo spaesato. «Il mio bracciale.» disse solo, una nota quasi infantile a colorare quelle semplici parole.
Il rosso ci mise un attimo a capire cosa intendesse l’amico con quella frase, prima di realizzare quale fosse il problema.
«Ah. Sì, avevi un braccialetto di stoffa? C’erano delle lettere sopra?» chiese prendendogli i polsi tra le mani e osservandoli entrambi, come ad assicurarsi che non fosse su nessuno dei due.
Il ragazzino annuì debolmente. «Me l’aveva cucito mia madre, prima che nascessi. Io- l’ho portato per tutta la vita… e la morte- non, non l’ho mai tolto.» continuò battendo le palpebre velocemente, confuso da quell’improvvisa mancanza di cui non si era accorto prima.
Com’era possibile? Come poteva non averci fatto caso? Che si fosse rotto? Che dopo anni di onorato servizio, stretto al suo polso, fosse riuscito a perderselo proprio in quel momento? C’erano così tante anime attorno a lui, magari qualcuno l’aveva raccolto, magari lo avevano solo calpestato e calciato via… ma avevano camminato per così tanto tempo, poteva essere ovunque, anche a casa di Nathan.
 
«Jonas?»
La voce pacata di Cicno riuscì come di consueto a scuoterlo. Il figlio di Apollo lo guardò con quello che pareva un leggero dispiacere, lo stesso sguardo che aveva la cameriera quando le chiedeva se la sua camicia preferita non fosse pronta e lei le rispondeva che doveva ancora finire di asciugare, o quando sua madre lo informava che il libro che aveva ordinato sarebbe arrivato l’indomani. Non era troppo importante per lui, ma forse sapeva quanto quella piccola cosa poteva esserlo per Jonas stesso.
«Siamo stati divorati dal fuoco Jonas. Con noi non è rimasto null’altro che le nostre carni ed i nostri gioielli maledetti.» spiegò come se quella fosse una nozione che Jonas doveva aver già immagazzinato.
In effetti era vero, avrebbe dovuto saperlo, ricordarsi di essere stato nudo come un verme, che non c’era più nulla che gli appartenesse, che fosse andato tutto in fumo, letteralmente.
Eppure gli parve una notizia così assurda, così dissonante dalla realtà: lui aveva sempre avuto quel braccialetto, sempre. C’erano le sue iniziali, quelle di tutti i membri della sua famiglia, era come se fosse la sua identità, se fosse lui. Quel semplice oggetto di stoffa elasticizzata era lui, era Jonas, era il Jonas che faceva parte dei Friedrich. JF come sua madre, come suo nonno, come tutti i suoi avi. Ed ora non c’era più.
Se avesse dovuto esprimerlo a parole avrebbe pensato subito ad un filo, un filo per stendere i panni, di quelli tesi tra una casa popolare e l’altra, da finestra a finestra, in zone della città in cui lui non si sarebbe dovuto addentrare mai. I fili dei panni si trovavano lì sin dalla prima volta che aveva visitato quei quartieri, una linea sottile che quasi spariva contro il cielo grigio dell’inverno e quello azzurro della primavera. Li ricordava carichi di vestiti zuppi, mezzi asciutti, ti tovaglie e lenzuola, assediati da file di uccellini che si stringevano gli uni agli altri durante le giornate di vento. Poi era arrivato il regime, qualcuno aveva avuto l’ardire di appendere una bandiera su quei fili e da un giorno all’altro la polizia li aveva tagliati e mai più rimessi.
Forse era stupido, un collegamento di idee che non aveva senso, ma quel quartiere popolare non era più stato lo stesso, non si era più colorato delle stesse voci, delle stesse persone. Aveva cessato di essere ciò che era pur non cambiando nella sua sostanza.
Jonas si sentì così: ancora integro ma privo di un filo importante che simboleggiava qualcosa di essenziale, qualcosa su cui si era interrogato per una vita, qualcosa di cui aveva dubitato nel silenzio tumultuoso della sua mente e nel buio denso della sua camera da letto: il suo posto nella famiglia Friedrich.
Continuò a battere le palpebre senza sapere cosa fare, cosa dire. Non c’erano più quelle due lettere ricamate a ricordargli chi era, a simboleggiare la sua affiliazione ad una così importante, antica, nobile e potente famiglia. Non c’era più niente. Non c’era più nessuno. I Friedrich erano morti con lui e con il suo egoismo, così come il suo bracciale era bruciato per sempre assieme al suo coraggio.
 
«Mi dispiace Jonas.» disse Eliza comprensiva, poggiandogli una mano sulla spalla. «Purtroppo dobbiamo andare, non possiamo aspettare ancora, va bene?»
«Potremmo dividerci in due gruppi e-»
«NO! No, no, non ci divideremo di nuovo.» la interruppe subito Cade.
Lea alzò un sopracciglio, sbuffando. «Stavo per dire che potevamo dividerci per ora, un gruppo sarebbe andato a cercare il tempio più vicino, tra i nostri, e l’altro sarebbe rimasto qui con Jonas, sembra che abbia bisogno di un attimo per riprendersi.»
Il ragazzo scosse la testa, cercando di scuotersi di dosso quella strana sensazione, appiccicata alla pelle come una ragnatela lieve, impalpabile ma pruriginosa.
«Non ne ho bisogno. Sto bene, sto bene. Solo- non me l’aspettavo, davvero. Tutto qui.» deglutì. «Era solo un vecchio bracciale di stoffa.»
La figlia di Apollo lo guardò dispiaciuta, «Non c’è bisogno di fare la persona forte in questi casi, sai? Sei autorizzato ad essere triste, hai perso un oggetto ca-»
«Non rompere le palle, ha detto che sta bene e quindi sta bene. Solo un vecchio pezzo di stoffa, non siamo tutti sentimentali come voi donne.»  s’intromise Nathan ricominciando a camminare verso quello che doveva essere il centro dei Campi Elisi.
Lea alzò gli occhi al cielo, maledicendo il figlio di Ares e anche qualche altra divina conoscenza.
«Perché dovete sempre interrompermi tutti! E tu! Soldatello da strapazzo! Solo perché sei sentimentalmente ed emotivamente costipato non vuole dire che lo debbano essere tutti! Jonas è ancora giovane, può permettersi ancora di dispiacersi per qualcosa, non è ancora un insopportabile uomo che si crede superiore a tutto e tutti solo perché da piccolo gli hanno insegnato che i maschietti non piangono a suon di ceffoni!» gli inveì contro raggiungendolo ad ampie falcate.
«Cazzate! È già un uomo, giovane, piccolo, tutto quello che ti pare a te, ma è un uomo e gli uomini non piangono per queste stronzate!»
«Non ho detto che deve piangere, idiota!»


Eliza contò mentalmente fino a dieci e poi fece cenno agli altri di seguire i due biondi.
«Prima di perderceli di nuovo.» puntualizzò dando un’ultima stretta alla palla di Jonas.
«Dio ce ne scampi!» borbottò Jane sarcastica.
«Non darmi false speranze.» sussurrò Cicno inclinandosi nella sua direzione per farsi sentire solo da lei.
La strega gli rispose con un ghignetto divertito, poi accenno con il mento alla strada che stavano percorrendo.
«Pensi ci siano dei templi quindi? Uno per ogni divinità?»
L’altro annuì, ascoltato con attenzione anche dai restanti quattro compagni. «Sì, ne sono certo. Questo è un luogo di pace ma pur sempre creato per volere divino, dev’esserci per forza un luogo in cui venerare gli Dei che hanno permesso ad un’anima di giungere in queste terre.»
«L’architettura è già antica, era così ai tuoi tempi?» chiese Jonas curioso, sforzandosi di non pensare al suo polso vuoto e di concentrarsi sulle cose più importanti.
«Un poco diversa, ma solo per alcuni decori e alcuni fregi. Probabilmente sono invenzioni di artisti e nuove filosofie di cui non ho avuto il privilegio di sentir parlare o di vedere con i miei occhi. Ma dovete sempre ricordare che nella mia città vi erano già modelli diversi rispetto ad Atene, per esempio.»
«Non sono uno storico dell’arte, purtroppo non saprei dirti con precisione di che periodo sono questi templi.» rispose il ragazzino abbozzando un sorriso.
«La cosa importante è trovare ciò che ci serve, poi lo stile di costruzione non ci interessa.» tagliò corto Eliza. «Presumo che i templi più importanti siano al centro dei Campi, quindi Zeus è l’ultimo templio che troveremo.» disse lanciando uno sguardo di sottecchi a Cade.
Ma l’irlandese non parve neanche rendersene conto. «Perciò prima i meno importanti e poi i più importanti?»
«Più che questo, credo al centro i Grandi Dodici, gli Dei maggiori e poi, a scalare, tutti gli altri Dei per discendenza o per fama. Thanatos è un dio estremamente importante, ma il suo culto non era molto praticato perché era la venerazione della morte. Potremmo trovarlo più esterno degli altri.»
«Bene, tanto a noi non interessa. La prima potrei essere io quindi?» chiese Jane senza troppa gioia.
«Tu o Úranus o il giovane Jonas. Poi Eliza, Cade, noi altri tutti.»
«Spero vivamente di non essere il primo.» rabbrividì Jonas, «Non ho mai incontrato mio padre in vita mia, non so quanto sono pronto a farlo ora.» ammise in fine stringendosi le braccia al petto.
Cade gli lanciò uno sguardo comprensivo, una smorfia che gli fece tornare in mente come il suo amico odiasse il proprio genitore divino e quanto quella prova doveva averlo già messo sul chi va là. Avrebbe voluto confortarlo, ma aveva ancora un po’ di reticenza dopo quello che era successo nella casa di Nathan.
Era così focalizzato sul pensare a cosa fare, come agire, a non pensare al suo bracciale, che quasi non si accorse dello scalino scintillante in cui si ritrovò ad inciampare.
Un verso di sorpresa gli scappò dalle labbra e subito tre paia di mani lo afferrarono al volo.
Eliza, Cade e Cicno erano stati velocissimi nel reagire, ma solo quest’ultimo rimase concentrato su di lui, chiedendogli se stesse bene ed ignorando ciò su cui tutti e sette i suoi compagni non riuscivano a staccare gli occhi di dosso.
Sul lato sinistro della strada lastricata si ergeva un piccolo tempietto di non più di cinque metri d’altezza. La struttura sembrava quella classica dei templi greci, ma la particolarità di quell’edificio stava nel materiale sgargiante, scintillante, quasi cristallino che lo componeva.
A Nathan parve fatto di quella dannata plastica iridescente che aveva visto spesso addosso alle anime che vivevano nel suo quartiere.
Inclinando leggermente la testa la luce fredda dei Campi Elisi rifletteva nuovi colori sulle colonne lisce, ma ciò che stupì di più tutti fu rendersi conto di come, lentamente, ogni singolo elemento iniziasse a tingersi di bianco marmo, leggermente poroso, completamente diverso da ciò che era prima.
 
«Sta… cambiando?» domandò incredulo Cade. «Sta cambiando o sono ancora i postumi della mancanza d’ossigeno?» chiese con più vigore guardando i compagni.
Lea scosse la testa. «Sei morto, non hai nessun cervello a cui portare ossigeno.»
«Sì, ma sta cambiando o sono io?» insistette l’altro.
«Sta cambiando, Cade. Il tempio muta come la sua padrona, come il potere ed il dominio della sua Dea.» spiegò con semplicità Cicno.
«Non so chi possa fare una magia del genere.» mormorò Úranus.
«Magia? Siamo già arrivati al tempio di mia madre? Sono davvero così sfortunata da essere la prima?» sbottò Jane distogliendo lo sguardo dal tempio per puntarlo sul greco.
Quello le sorrise. «No, non è la dimora di tua madre. Questa è la casa della dea Mimesi ed è suo il potere della trasformazione, della mimetizzazione. Quando una cosa si fonde così fedelmente alla realtà da svanire nel nulla, quella è opera di Mimesi.»
«Fammi capire stronzetto, non riesci a dire mimetica ma dici Mimesi?» si voltò Nathan infastidito.
Cicno neanche lo guardò. «Ti ha sfiorato l’idea che non voglia pronunciare quella parola solo per darti noia?»
«Ma perché sta cambiando colore allora? E perché prima era così accecante?» chiese Lea curiosa.
Il fratello le sorrise. «Perché nella sua forma precedente racchiudeva in sé tutti i colori della luce, li hai visti? Ma la maggior parte di voi, probabilmente solo io ed Úranus possiamo esserne esenti, si aspettano che il tempio di una divinità greca sia bianco ed austero.»
«Così si è trasformato in quello che noi pensavamo debba essere un tempio, diventando simile a tanti altri e rendendosi quindi invisibile ad una prima occhiata. Molto intelligente.»
«Molto rompicoglioni. E poi io lo so che i templi erano colorati.»
«Davvero?» domandò Cade stupito. «Non erano tutti bianchi bianchissimi?»
«Oh, assolutamente no, erano vere e proprie opere d’arte dipinte ed ornate in onore degli Dei.»
«Quindi un tempio in marmo nero non è anomalo?» chiese Jane guardandosi attorno.
«No, non lo è. Quelli del divino Ade spesso lo erano.»
«Penso siamo ancora un po’ troppo lontani per Ade, ma forse per incubi e rimpianto no.» disse con una punta di sarcasmo, tendendo il braccio nell’aria per indicare un tempietto una ventina di metri più avanti.
A Cicno bastò uno sguardo la lontano per riuscire a scorgere la targa incisa sulle porte sigillate del tempio. Sorrise.
«Le tue supposizioni sono giuste, figlia di Ecate.»
«Il fatto che non è Ade?» propose Cade.
«Il fatto che Fobetore e Pothos abbiano dimore in scure vestigia.» si voltò verso i due semidei in questione, facendo loro un gentile cenno del capo.
Jonas deglutì.
«È uno dei loro?» chiese però Eliza.
Cicno spostò definitivamente lo sguardo in quello azzurro e freddo del compagno.
«È giunto il tempo di affrontare la mancanza e la nostalgia, mio giovane amico.»


Il ragazzino chiuse gli occhi imprecando mentalmente.
«Perché devo essere sempre io il primo?»
Cade sorrise dandogli una poderosa pacca sulla spalla. «Perché così ti togli subito il pensiero!»
Anche Lea provò a rassicurarlo. «Sì, vedila in questo modo, poi potrai tirare un sospiro.»
Quella prospettiva non sembrava molto allettante, ma Jonas emise un suono lamentoso e si strofinò le mani sul volto, annuendo come se stesse cercando di convincersi da solo.
«Va bene, sì. Ce la posso fare.»
«No, non è che “ce la puoi fare”, lo fai punto e basta.» sbuffò Nathan facendo qualche passo avanti, seguendo Eliza che già si era incamminata verso il tempio.
«Non hai molte possibilità in effetti.» gli fece eco Jane, avvicinandosi anche lei per studiare meglio la struttura. Osservò la targa e fischiò piano. «Hai davvero una bella vista.» disse ad alta voce girandosi verso Cicno.
Il greco si strinse nelle spalle e incitò anche gli altri a muoversi.
Più si approcciavano al tempio però, più Jonas si domandava che razza di persona, di dio, potesse essere suo padre. La sua dimora non era nulla di appariscente, solo un edificio rettangolare, non più grande di una qualunque casa popolare, con il suo tetto spiovente coperto di tegole nere a forma di scaglie. Quella era forse l’unica particolarità che poteva renderlo riconoscibile a confronto con gli altri. Sulla parte superiore della facciata vi era un mosaico fatto da tesserine scure ed opache, che parevano non rappresentare nulla. Jonas storse il naso, sembrava una semplice parete coperta di mattonelle.
Non vi erano molte colonne, solo quattro addossate alla parete anteriore, tra le due centrali spiccava la porta di legno nero su cui erano incisi decori floreali inscritti in cornici di greche rosse.
 
«Non so cosa mi aspettassi, ma mi sembra un po’ poco, non credete?» chiese Jane senza pietà.
Cade storse il naso, deciso a non criticare troppo il tempio del genitore divino del ragazzo ma anche a non mentire spudoratamente.
«Beh, è il dio del rimpianto d’amore, non è tipo quella della mimetizzazione, non so cosa potrebbe fare.»
«Potrebbe farvi vedere gli amori rimpianti, se solo vi concentraste un attimo sulle sue mura.» la voce pacata di Cicno fece alzare a tutti il capo. Sotto il bordo del tetto il mosaico restava null’altro che un mosaico per gli occhi di Cade, Jane, Úranus ed Eliza, ma per tutti gli altri leggere figure sfocate iniziarono ad affiorare con delicatezza.
Jonas osservò quasi con orrore un profilo familiare prendere sempre più spessore, formare particolari e dettagli perfettamente riconoscibili. Guardò i suoi compagni sudando freddo, un brivido gli percorse il corpo facendolo sussultare sul posto, ma ben presto la mano calda di Cicno si posò sul suo braccio nudo, scivolando sino al polso ossuto e vuoto.
«Ognuno di noi vede il proprio amore rimpianto, non quello degli altri. Non hai nulla da temere.» mormorò nel suo orecchio, attirando l’attenzione di Nathan, Lea e Cade, che li fissarono crucciati, una domanda implicita negli occhi curiosi.
Jonas annuì un paio di volte e poi scosse la testa con vigore, il calore emanato dal greco lo fece rabbrividire così come aveva fatto la paura, come faceva il freddo che ora poteva sentire di nuovo.
Cicno lasciò scivolare la mano e si mise dritto, puntando lo sguardo sull’entrata del tempio.
«Penso che sia il momento d’andare. Sei atteso.»
Con quelle parole tutti si ritrovarono a guardare l’ingresso dell’edificio, dove la porta di legno, precedentemente chiusa, appariva leggermente socchiusa.
Il giovane sussultò sorpreso, una strana sensazione alla bocca dello stomaco gli diceva di muoversi ad entrare o di scappare a gambe levate.
Non gli sarebbe piaciuto, Jonas lo seppe con certezza, non gli sarebbe piaciuto per niente ciò che avrebbe trovato lì dentro, ma avrebbe dovuto comunque affrontarlo e farlo da solo, con le sue sole forze, lontano dai suoi compagni e da qualunque possibile aiuto.
 
Sei sopravvissuto ad un dannato raggio di fuoco, puoi entrare in un dannatissimo tempio ed affrontare un uomo che non hai mai visto, non si è mai preoccupato di te, ma che è ugualmente tuo padre. Puoi affrontare tuo padre.
Posso affrontare mio padre.

 
Si ripeté quelle parole come un mantra, muovendo passi incerti verso la porta, salendo quei cinque gradini che lo dividevano dal patio stretto su cui poggiavano le colonne, su cui le ante si aprirono lentamente.
Jonas deglutì, ignorando il bisogno di voltarsi e cercare lo sguardo dei suoi compagni, un cenno d’incoraggiamento, una parola di conforto.
Tenne la testa dritta ma non poté far a meno di incassarla nelle spalle, timoroso, quando poggiò finalmente la mano sulla lastra di legno, sfiorando i decori rossi, prima di varcare la soglia del tempio.
Si fermò così, sull’uscio, tremando per lo sforzo di non girarsi, di non chiamare gli altri per assicurarsi che fossero ancora lì, immaginandoseli tutti con il fiato sospeso, a labbra sigillate per evitare di dire alcun ché e distrarlo, farlo vacillare.
Prima che l’oscurità lo inghiottisse però, gli parve quasi di sentire la voce di Lea, sussurrare rimproveri a Nathan e Cade, dicendo loro di fidarsi, di non farsi prendere dal panico ora, di non mettergli ansia.
Quell’ultimo suono gli fece piegare la bocca in un ghignetto divertito, gli fece pensare a come si sarebbero messi a discutere una volta che fosse sparito dalla loro vista, lo distrasse e lo cullò in una normalità in cui era ormai calato da giorni aiutandolo a muovere i primi passi nel buio pesto del tempio quasi senza rendersene conto.
O almeno finché una torcia non si accese davanti a lui.
Jonas sussultò, fermandosi di colpo e ritraendosi da quell’improvvisa fonte di luce. Si portò una mano davanti agli occhi e si maledisse per non aver chiesto a Cicno, Cade o ad Eliza di prestargli un’arma. Il tempio di suo padre sarebbe potuto essere pieno di mostri e lui non aveva minimamente pensato a come difendersi.
 
Davvero bravo Jonas, proprio l’esempio lampante della maturità che sbraiti di avere. Cazzo.
 
Lo pensò ma lo disse anche, lasciandosi sfuggire quell’imprecazione in un sibilò che risuonò per tutta quella che pareva essere una sala abbastanza ampia.
Un colpo di tosse lo prese alla sprovvista, qualcuno si era appena schiarito la voce e quel semplice suono riuscì a congelargli il sangue che non aveva nelle vene.
Con agonizzante lentezza, tanta da fargli dolere i muscoli dallo sforzo, Jonas abbassò il braccio ritrovandosi a fissare l’ultima persona che si sarebbe mai aspettato di vedere lì dentro.
Erano passati decenni dall’ultima volta in cui aveva avuto la possibilità di posare lo sguardo sul suo volto, ma mai, mai in tutti i suoi anni di tormento avrebbe potuto dimenticarlo.
 
«Da quando dici questo genere di cose? Credevo fossi un signorino di famiglia rispettabile.»
 
La voce, anche la voce era esattamente come quella che ricordava, che l’aveva accompagnato per tutta la vita.
Gli occhi gli si inumidirono, il fiato gli si bloccò in gola, le mani tremarono, la lingua nella bocca gli parve improvvisamente pesante mentre per la prima volta, dopo quasi ottant’anni, si ritrovò a pronunciare una parola che gli era sempre risultata facile, leggera sulle labbra, nel cuore. La prima parola che avesse mai pronunciato in vita sua.
 
«Mutti?»


 
*




Il portone chiuso e la sua intelaiatura fungevano da cornice perfetta per i due che si stavano fronteggiando sul patio cementato.
Attorno a loro l’aria era calma, placida, silenziosa. Non c’era poi molto da stupirsene, quell’angolo di mondo riposava sotto ad una campana protettiva che teneva alla larga tutti i visitatori indesiderati, in modo così efficace da sembrare quasi uno sfregio alla sottile e delicata barriera che proteggeva il Campo Mezzosangue.
Vello o meno.
 
«Sei qui per fare due chiacchiere di allegria o per parlare d’affari?» domandò una delle due figure.
L’altra sorrise. «Le mie visite sono sempre di piacere, che siano solo chiacchiere o affari.»
La prima sbuffò. «Oh, andiamo! Questo doppio senso è più vecchio di noi!»
«Sì, è dei tempi di mamma, lo ha inventato lei.» disse la seconda figura sorridendo beffarda ed incrociando le braccia al petto soddisfatta.
«Ovviamente è farina del suo sacco. Ma parlando di cose più vecchie di noi. Hai visto che numeri ha fatto con la Foschia?»
«Per l’amore del cielo, non ne vedevo così tanta dai tempi della caccia alle Streghe!»
«Già, ma questa volta non è tutto il potere inespresso delle streghe, questa volta è tutta derivata dalle anime.»
«Mi domando come sia possibile che nessuno di noi c’abbia mai pensato, con tutta la gene che muore durante le guerre poi.»
La prima annuì. «Perché li muoiono solo, devi farle dissolvere, assorbite dall’Ade e dal Tartaro. Anche se, lo ammetto, me le sono fatte un paio domande, un po’ di scrupoli, su questa cosa.»
«Sulle anime?»
«Sul fatto che sia anche il Tartaro ad assorbirle.» precisò.
L’altra si esibì in un’espressione comprensiva. «Capisco, capisco. Ma c’è un mazziere davvero di classe a tener le redini di questo gioco.»
«Le tiene strette e comanda il suo cocchio, con tutta quella Foschia sarà difficile scorgere la strada per il Crocevia
Ci fu un attimo di silenzio, il lontano pigolare di qualche uccellino, il fruscio nel vento tra le foglie di vite che si arrotolavano per i tralicci di cemento.
La prima figura si grattò la testa pensierosa. «Tu… hai la più pallida idea di come ci si arrivi?»
La seconda scosse il capo. «Neanche la più piccola nozione. Prima di Gio non mi ero neanche mai interessato a questo genere di cose.»
«Curioso, di solito ti ficchi sempre in affari non tuoi.»
«Come te, cugina.»
Lei rise, di gusto, poi si poggiò allo stipite. «Ho parlato con il mio vecchio amico.»
«Il dio cornuto o il guerriero dei mari?» le venne chiesto.
«Il cornuto.» ghignò Eris.
«Ti ha detto nulla? Di certo qualcosa deve pur saperlo. Se non lui quei dannati corvacci del malaugurio.» sibilò con astio.
La donna rise ancora, battendo le mani. «Non ti sono mai piaciuti, poveri piccoli.» disse con voce lacrimosa, beccandosi una schicchera in piena fronte dall’altro.
«Mi spiavano nei momenti più inopportuni. Gio si rendeva sempre conto di quanto quei maledetti uccelli rimanevano ad osservarci.» borbottò Eros.
«Volevano solo assicurarsi che tu non facessi nulla di strano al loro protetto.» disse lei stranamente ragionevole. Probabilmente il suo amore per i corvi era tutto derivato da sua sorella, visto che erano i suoi animali prediletti, ma il dio non aveva voglia di farglielo notare.
Si strinse nelle spalle. «Allora avrebbero dovuto prenderselo.»
«Sai che non potevano, neanche noi potevamo.»
«Ma io non ho preso nulla.» ghignò l’altro alzando le mani, come a dimostrare la propria innocenza.
I due si guardarono degli occhi per un breve momento, ridacchiando sotto i baffi, consci delle implicazioni di quella semplice affermazione.
Erano ancora intenti ad ammiccarsi a vicenda quando la porta si aprì, rivelando la figura di un uomo sulla cinquantina, con lo sguardo annoiato e leggermente infastidito, la felpa verde stropicciata e le sopracciglia aggrottate.
 
«Ne avete ancora per molto? Vi servono altri due minuti per finire di ridere di me?» domandò Gio puntellandosi con la mano destra contro l’intelaiatura interna della porta.
La dea fece per parlare ma il suo compagno la batté sul tempo e sorridendogli dolcemente chiese:
«Ma tu non eri al centro di comando?»
Gio alzò gli occhi al cielo e si spostò, facendo cenno ai due di entrare.
«Da quando stare in due posti contemporaneamente è vietato?»
«Stai controllando Estia?» domandò Eris pulendosi gli anfibi sullo zerbino prima di sfilarseli ed abbandonarli all’ingresso. «Potrebbe fare molti più danni del previsto.» continuò saltellando da una lastra di legno all’altra.
Giò grugni cupo. «Lo sta già facendo.»



 
*



 
Riabbracciare sua madre era qualcosa che non si sarebbe mai sognato di poter rifare.
A voler essere onesti, era qualcosa che non si sarebbe mai neanche permesso di sperare.
Era stato con esitazione che si era avvicinato alla figura dal volto ora invecchiato, ma sempre dolce come lo era quando nessun altro poteva scorgerli, quando potevano essere solo una madre con il suo bambino.
Jonas affondò il volto contro il collo della donna, inspirando un profumo che aveva dimenticato da anni ma che riconobbe non appena gli sfiorò il naso. Era l’odore della villa, dei camini accesi, del sapone e della cipria, della canfora che impregnava i vestiti, del tessuto caldo appena stirato, del tè forte che sua madre beveva ogni mattina, dei fiori che sistemava come ogni donna di buona famiglia, assieme a sua nonna, ogni giorno.
Il corpo a cui si strinse era più morbido di quanto non ricordasse, la maglia a maniche corte gli sembrava così inappropriata, così inopportuna a confronto con il bell’abito di classe che portava sua madre.
Non sapeva cosa dire, se fare altro oltre che abbracciarla, tentando miseramente di trattenere le lacrime che continuavano imperterrite a scendergli sulle guance, bagnandole il colletto della veste.
Sua madre gli carezzava piano i capelli, la stretta che gli serrava attorno alle spalle era più salda di quanto non fosse mai stata, come se non volesse lasciarlo andare, come se allentando la presa avrebbe potuto perderlo per sempre.
 
Di nuovo.
 
A quel pensiero un singhiozzo gli sfuggì dalle labbra serrate ed ogni vano tentativo di controllarsi s’infranse contro quella semplice parola.
 
«Mi dispiace.» biascicò tra le lacrime, tirando su col naso. «Mi dispiace.» ripeté ancora.
«Sssh, sssh. Va tutto bene. È tutto finito.» lo consolò sua madre stringendolo ancora di più.
«Mi dispiace mamma.»
Ma Jonas non riusciva a dire nient’altro se non quello.
Mi dispiace.
 
Mi dispiace così tanto. Mi dispiace di averti abbandonato, di averti delusa, mi dispiace di non aver lottato, di non essere quello che sarei dovuto essere.
 
Sua madre però non batté ciglio, continuando solo a mormorare parole dolci, a consolarlo per ciò in cui lui stesso si era costretto a vivere. O a morire.
 
«Non devi più preoccuparti di nulla.»
«Mi dispiace così tanto.»
«Lo so tesoro mio, ma ora è passato tutto, possiamo ricominciare da zero, possiamo rinascere di nuovo e vivere lontani da quell’ombra oscura che è stato il Reich.» lo rassicurò prendendogli il volto tra le mani e posandogli un bacio in fronte. «Sei stato bravo ad arrivare fino a qui, sono così fiera di te. E adesso potrai ricominciare tutto, senza più timori.»
Jonas la guardò per un lungo istante, specchiandosi in quegli occhi che somigliavano tanto ai suoi, senza però capire cosa gli stesse dicendo.
Era fiera di lui? Davvero? O glielo stava dicendo solo per farlo smettere di piangere?
«M-ma- mutti, sono stato condannato ai Campi di Pena, come- come puoi essere fiera di me?» domandò incerto, il suono prodotto dalle sue erre lo rese quasi cartunesco, facendolo sembrare ancora di più il ragazzino che cercava disperatamente di lasciarsi alle spalle.
«Sì, certo che sono fiera di te! Sei sopravvissuto per tutti questi anni, sei arrivato fino a qui e ora puoi finalmente andartene da questo posto.»
A sentirle pronunciare quelle parole Jonas si sentì trasalire, c’era qualcosa di sbagliato, avevano un senso che non riusciva a comprendere, come se il significato gli sfuggisse, come se ci fosse un sott’inteso che non poteva cogliere. Batté le palpebre ancora e ancora, sua madre non smise neanche per un momento di carezzagli il viso, l’espressione felice ed incredula di qualcuno che ritrova ciò che aveva amato tanto disperatamente dopo anni di perdita. Sua madre era fiera di lui, perché aveva resistito alle torture, era sopravvissuto alle prove, ma sarebbe stata ancora fiera se avesse saputo qual era stata veramente la sua condanna? Cosa aveva subito? O cosa non aveva subito. Se avesse saputo che ogni prova l’aveva superata solo perché qualcuno l’aveva aiutato? Se avesse scoperto che era quasi morto- di nuovo- prima di poterla incontrare ancora?
«Hai lottato duramente, non devi sminuire le tue azioni,» disse quasi gli potesse leggere nella mente, «mutti è fiera di te, così fiera tesoro mio. Non sai quanto mi sei mancato, non sai quante notti insonni ho passato terrorizzata all’idea di addormentarmi e vedersi ancora così, freddo e inerme a terra, e al contempo quanta speranza nutrissi nel poterti scorgere ancora solo una volta, anche se solo come miraggio.» Johanna gli sorrise stringendogli il volto e posandogli un bacio su ogni guancia, sulla fronte, se lo ristrinse al seno come se cercasse, in un qualche disperato modo, di riprendere in sé suo figlio, come se desiderasse averlo ancora al sicuro nel suo ventre, dove nulla poteva scalfirlo, dove lei avrebbe potuto continuare ad amarlo e proteggerlo, senza dividersene mai più. Tornare indietro a prima che tutto succedesse, rifare ogni cosa da capo correggendo ogni possibile errore che li aveva portati a quella dolorosa conclusione. Proteggerlo da tutto e tutti, anche da sé stesso.
Jonas singhiozzò ancora più forte, ignaro di come quei pensieri potessero essergli giungi alla mente, ma certo, come mai in vita sua, che quelli fossero gli esatti sentimenti di sua madre, i suoi più intimi desideri, il suo più grande rimpianto, il più grande ed atroce dolore.
«È tutto finito, amore mio, tutto finito. Possiamo andarcene, sei stato bravissimo. Ora possiamo andare via da questo inferno, possiamo andare.»
Ancora una volta quelle parole suonarono strane, sbagliate. Il brivido di prima tornò prepotente, mentre uno strano gelo gli scivolava sottopelle, cancellando il tempore dell’abbraccio di sua madre e quello residuo della mano di Cicno.
 
Cicno!

Gli sembrò di risvegliarsi da un sonno inquieto, la stanza buia riapparve dal nulla attorno a loro, la torcia che si era accesa al suo ingresso tremolava alle spalle di quello che doveva essere lo spirito di sua madre.
 
Se mia madre fosse ancora qui nei Campi Elisi, se fosse mai stata nei Campi Elisi.
 
Ma come poteva averne la conferma? Come poteva esserne sicuro?
Jonas si ritrasse leggermente, il volto ancora fermato tra le mani della donna che percepiva calde, vive.
 
Ma potrebbe essere così solo se avesse partecipato anche lei alla Death Race, solo se anche lei, come me, come gli altri, stesse lentamente tornando in vita.
 
Guardò sua madre come se la vedesse per la prima volta, come se quell’abbraccio e quelle parole rassicuranti non fossero mai esistiti, come se fosse appena entrato nel tempio senza luce e si fosse ritrovato davanti il fantasma di quella che era stata la donna più importante della sua vita.
 
«Io-» iniziò incerto, riuscendo a liberarsi dalla presa dell’altra che continuò a sorridergli con gli occhi lucidi.
Sua madre si sarebbe davvero comportata così? L’avrebbe davvero abbracciato, gli avrebbe detto che ormai era tutto nel passato? Che nulla importava più e che sarebbero potuti tornare a vivere?
No. No, Johanna lo avrebbe come minimo preso a schiaffi prima di consolarlo.
Jonas aveva sempre desiderato una riunione del genere con sua madre, aveva sempre sperato, pregato, che se mai le loro strade si fossero intrecciate ancora lei lo avrebbe perdonato, assolto da ogni peccato, da ogni misfatto, da ogni gesto estremo che aveva compiuto. Ma la verità era che sua madre, la donna che lo aveva cresciuto ed amato, non gliel’avrebbe fatto passare così liscia, si sarebbe comportata molto di più come- come Cade.
 
Ed Eliza.
Come Lea e Nathan. Persino come Jane, che sembrava scocciata ma rincuorata dal vedermi ancora vivo.

 
Ma non così.
 
«Non posso andarmene, sono arrivato a metà della gara, potrei rinascere.» disse debolmente, indietreggiando ancora, incespicando sui suoi stessi passi come la sua voce incespicava sulle lettere.
Johanna batté le palpebre confusa. «Certo che puoi rinascere. Lo farai, tornerai a vivere una vita nuova e felice, senza l’ombra del passato. Non c’è più la guerra, i tempi sono cambiati, il mondo è migliorato.» lo rassicurò provando ad avvicinarsi. Ma Jonas le si discostò di nuovo.
«Lo so, so che è finita. Non sapevo neanche fosse iniziata, ma lo so, Nathan- Nathan me lo ha detto, che ora c’è più libertà, che- che potrei- potr- potr- me lo ha detto. Ha detto che le cose sono cambiate. Posso tornare a vivere liberamente o, o almeno più liberamente…»
«Esatto.» esclamò la donna con entusiasmo, felice delle parole del figlio. «Potrai ricominciare una vita nuova senza problemi, senza paura. Potrai ricominciare da zero. Potremmo farlo assieme.»


Da zero?
Insieme?

 
Jonas si sentì morire per la seconda volta. Neanche il raggio di fuoco aveva fatto male come quelle parole. Neanche un dannato getto di fuoco divino l’aveva ferito come aveva appena fatto sua madre.
 
O quella che dovrebbe essere mia madre.
 
Una madre che gli aveva appena dichiarato quanto fosse orgogliosa di lui, consolandolo senza neanche una parola d’ammonimento per le sue azioni passate, che gli aveva mostrato solo gioia e nostalgia e amore e neanche una briciola di rabbia. Una madre che gli aveva detto che sarebbero potuti rinascere insieme e vivere una nuova vita priva di problemi.
 
Rinascere.
Assieme.
Nuova vita.
Priva di problemi.
 
«Possiamo ricominciare.»
 
Ma solo una persona poteva vincere la Death Race, cose sarebbero potuti rinascere assieme?
 
Non possiamo. Per rinascere insieme dovremmo- dovrei abbandonare la gara e decidere di tornare sul mondo con una nuova vita, senza il minimo ricordo di ciò che sono stato.
 
Jonas guardò la donna che più amava sorridergli con una luce di speranza negli occhi che non faceva altro che ferirlo ancora e ancora, mentre gli chiedeva di abbandonare tutti i suoi obiettivi, rinnegare i suoi sforzi, lasciare i suoi compagni e scappare con lei.
 
«Hai resistito fino ad ora, adesso puoi lasciarti andare, è finito, è tutto finito tesoro.»
 
Di nuovo. Sempre scappare. Sempre fuggire. Tornare su senza ricordi, senza il peso di ciò che ho fatto in vita, di quello che ho vissuto nella morte.
Me lo stai chiedendo davvero? Mi stai davvero chiedendo di arrendermi alla scelta più facile, mamma?
 
Il freddo che gli era strisciato sottopelle si sciolse con la stessa violenza con cui quella stessa pelle era bruciata, eruttando di rabbia e di dolore.
In pochi attimi Jonas era tornato davanti ai suoi compagni, ad urlare loro contro come non si sarebbe più tirato indietro, come non fosse più un ragazzino. Era tornato nelle lande desolate investito da una cascata di fuoco, stretto al corpo martoriato di un compagno che soffriva quanto lui, più di lui, ma in modo completamente diverso perché Cicno era stato tradito mentre Jonas era il traditore della sua stessa storia. Tornò con prepotenza alle visioni dei suoi amici, agli occhi verdi di una donna così simili ma così differenti da quelli della persona che aveva amato. La sfera dei suoi ricordi gli pesò ancora in mano come un macigno, la terra tremò mentre il vento soffiava e veniva risucchiato nel Tartaro, gli ululati dei Mastini Infernali gli riempirono le orecchie, l’edera gli si chiuse e poi schiuse davanti come un polmone che si contrae e si gonfia. Le Praterie degli Asfodeli gli apparvero infinite durante una marcia senza meta, le porte dei Campi di Pena si aprirono prima che un forte odore salmastro ed il peso di ettolitri d’acqua gli si infrangessero addosso.
C’era una pistola, fredda, fumante, leggera, scintillante, lontana, stretta tra le sue mani, calda, che odorava di polvere da sparo. Tornò a prendere a pugni chiunque provasse a dirgli qualcosa, chiunque osasse insinuare. Ad urlare in faccia ai suoi professori, a sentire l’impronta bollente di una cinquina sulla guancia.
Rabbia. Tanta, tantissima rabbia.
Perché il mondo gli era sempre contro? Perché ogni volta che prendeva una decisione, che provava a fare la cosa giusta, veniva sempre rimproverato? Perché ogni volta che provava a parlare per sé, ad ergersi in difesa di qualcosa, di qualcuno, di sé stesso e di chi amava, c’era sempre una terza persona pronta a dirgli quanto stesse sbagliando? Quanto non fosse in grado di capire, di fare una scelta, di fare quella giusta?


«Non dovrai più pensare a ciò che è successo, ricominceremo tutto da capo, senza macchie, senza errori.»
 

Perché se sbagli una volta lo stigma rimane per tutta la vita?
 

«Senza colpe.»
 
 
L’aria gli bruciò nei polmoni quando si ritrovò ad urlare con tutto il fiato che aveva in corpo contro la persona che più aveva amato, che più aveva ferito, di cui più aveva bramato il perdono.
 
«Andiamo via.»
 

Una persona che non era lì, non era vera, non era – non poteva – essere davvero lei.
 

«NO!»
 

 
*
 


 
«È una mia impressione o ci sta mettendo un secolo?» domandò Jane facendo scrocchiare il collo con un suono fin troppo realistico. Avevano forse di nuovo le ossa?
Cade sussultò sorpreso, girandosi verso di lei e distanziandosi leggermente per poterla guardare meglio, entrambi seduti sugli scalini che dividevano la strada dall’entrata del tempio di Pothos.
«Hai fatto clac?»
«Ho fatto clac.» confermò lei. «Quindi? Quanto ci mette?»
«Ci mette il tempo che gli serve.» rispose infastidito Nathan, neanche la stesse mettendo a lui fretta.
Eliza si guardò attorno, cercando di capire se ci fossero elementi che le permettessero di capire quanto tempo fosse già passato.
«Ti sembra davvero che ci stia mettendo molto o sei solo annoiata?» chiese guardo seria la figlia di Ecate.
Lei si strinse nelle spalle. «Entrambe, ma di certo più la seconda. Non c’è nessuna regola che vieti di entrare assieme ad altri concorrenti nei santuari dei loro genitori, giusto? Non possiamo entrare a vedere perché ci sta mettendo così tanto e poi uscire? Senza interferire, solo per dirgli di muoversi.»
Nathan si bloccò voltandosi verso di lei e fissandola con aperto astio. «Ci- metterà- il- cazzo- di- tempo- che- gli- serve.» scandì parola per parola.
Jane alzò un sopracciglio, Elena sospirò.
«Che gli servirà. Ci metterà il tempo che gli servirà. Dio Nathan, ma al Campo non vi insegnavano a parlare?»
«Vuoi davvero discutere di questo ora?»
«Beh, abbiamo tempo da perdere tanto, no? Com’è quindi questo Campo Mezzosangue?» domandò Cade portando le mani dietro la testa e sorridendo al figlio di Ares.
«Ti sembro un fottuto satiro?»
«La faccia caprina un po’ ce l’hai, è il pizzetto credo.» sogghignò Cade divertito.
Nathan lo guardò con la sua migliore occhiata incazzata e l’irlandese si ritrovò a sorridere ancora di più: gli era mancato persino quello in quei passati momenti di divisione. Stava per dirglielo, per comunicare a Nathan quanta gioia gli portasse l’infastidirlo a quel modo, quando un suono acuto e rabbioso si propagò per l’aria.
 
Urla.
 
Quel grido lo fece trasalire.
Cade scattò in piedi, voltandosi verso il tempio, sporgendosi in avanti come se avesse avuto una corda legata al petto che lo tirava verso la porta chiusa.


«Cos’è stato?» domandò Lea facendoglisi vicina e aggrappandosi al suo braccio.
«Jonas.» rispose lui espirando.
«Cosa ha detto?» chiese Jane alzandosi a sua volta dai gradini.
Nathan fece una smorfia. «Se dovessi fidarmi dei film sui nazisti direi “nein”, che sarebbe tipo “no”.»
Cade cominciò a molleggiare inquieto, la presa di Lea era probabilmente l’unica cosa che gli stesse impedendo di lanciarsi verso il tempio.
«Perché ha detto no? Che cazzo sta succedendo lì dentro?» tenne lo sguardo fisso sulla porta ma volse il capo nella direzione approssimativa di Úranus e Cicno.
I figlio di Fobetore lo guardò senza spiccicare parole, Cicno strinse le labbra e maledì mentalmente Estia e quella prova così misericordiosa eppure così infida.
«Non possiamo saperlo,» disse il greco, «non sappiamo cosa ci aspetti, solo ipotesi. Potrebbe essere suo padre-»
«Non pensi che gli stia facendo del male, vero?» lo interruppe Lea guardandolo allarmata.
«No.» disse secco Úranus, certo solo di quello.
Cicno annuì. «Non penso sia possibile, la divina Estia ha detto che sarà nostro compito trovare qualcosa affrontando chi dimora nel luogo in cui arde il nostro focolare. Pothos non è un dio violento o vendicativo, ciò contro cui il nostro giovane compagno grida deve essere altro.»
Eliza drizzò le spalle e annuì con decisione. «Potrebbe semplicemente star cercando di resistere a qualcosa, potrebbe star litigando con qualcuno. Qualunque sia la situazione non possiamo intervenire. Non dobbiamo farlo. Jonas ha messo ben in chiaro che può farcela da solo, che è un uomo e sa prendere le sue decisioni. Dobbiamo avere fiducia in lui.»
Fece a male pena in tempo a finire la frase prima che altre grida si alzassero dal tempietto.
Era palese che all’interno stesse avendo luogo una discussione animata, ma per una volta ciò che giungeva alle loro orecchie era una lingua straniera, incomprensibile, dai suoni duri ed i toni irosi.
Sì, Jonas stava decisamente litigando con qualcuno ma, come aveva detto Eliza, quella poteva essere parte della sua prova.
Questo non rendeva l’attesa più facile.
Cade strinse i pugni, dando le spalle al tempio nel tentativo di distanziarsene, di tirarsi indietro, di non intervenire. Lo doveva a Jonas, doveva aver fiducia in lui, supportarlo. Doveva ripetersi che non c’era alcun motivo di preoccuparsi, o almeno di non farlo troppo. Era così difficile però, era assurdo trovarsi lì fuori, al sicuro, con le mani in mano, mentre a poca distanza un suo amico lottava, per la prima volta veramente solo, contro una prova che poteva decretare la sua sparizione dalla faccia della terra.
La presa di Lea si rafforzò fino a fargli male, ma Cade non spiccicò parola, non osò aprire bocca, serrando gli occhi come se quel gesto potesse tagliar fuori ogni suono, ogni parola gridata, ogni tono rabbioso.
Che diamine stava succedendo? Perché urlava a quel modo? Perché Cade non poteva entrare? Solo per controllare, come aveva proposto Jane. Lo giurava, lo giurava sulla sua stessa vita, non sarebbe intervenuto, non avrebbe mosso un dito ma doveva assicurarsi che stesse bene, che ce la stesse facendo, che non si sarebbe arreso.
Doveva assicurarsi che Jonas sapesse di non essere solo, che, anche se quella battaglia poteva combatterla solo lui, c’era qualcuno pronto ad aspettarlo, pronto a prenderlo al volo, a tirarlo in piedi alla fine della prova.
 
Come non ho fatto con la precedente, come non ci sono stato quando è uscito da quel dannato raggio di fuoco.
Come posso rimanere fermo? Come hanno fatto gli altri a non correre verso di lui? A non buttarsi nelle fiamme?
Come fanno gli altri a rimaner fermi ora?

 
Spalancò gli occhi ritrovandosi a fissare i compagni silenti e immobili davanti a lui. Eppure fu di conforto vederli lì, vedere Nathan mormorare bestemmie senza voce in una litania infinita che solo lui e gli Dei potevano sentire; vedere Eliza dritta come una guardia reale, costretta all’immobilità più assoluta anche contro la sua stessa volontà. Vedere Úranus morsicarsi le labbra screpolate, strappando pellicine e colorandosi la pelle di minuscoli puntini rossi. Era rassicurante la stretta dolorosa di Lea, che gli si aggrappava per non correre anche lei da Jonas, la presenza cupa di Jane al loro fianco. Era inquietante il volto inespressivo di Cicno, che fissava la porta senza batter ciglio, senza respirare, come un morto.
Era rassicurante sapere che tutti, senza esclusione alcuna, erano in attesa, preoccupati per la sorte del loro amico ma decisi nel rispettare la sua volontà di farcela da solo. Da uomo.
Nathan iniziò a camminare avanti indietro, calciando la polvere tra le fughe delle mattonelle.
Si passò le mani tra i capelli, tirandoli verso la fronte e poi indietro, inquieto, innervosito, incapace di sopportare l’attesa quando i suoni che li circondavano promettevano tutto tranne che la buona riuscita della prova.
 
«Contro chi cazzo sta urlando? Se suo padre è buono perché cazzo sta urlando?» sibilò tra i denti, come una bestia in gabbia.
Cicno alzò lo sguardo verso il mosaico che agli occhi dei più appariva opaco, una smorfia impercettibile gli piegò le labbra. «Sta combattendo la sua battaglia. Suo padre non è violento, ma questo non vuol dire che sia buono. Sta affrontando ciò che ha visto in quelle tessere, dobbiamo concedergli il tempo di piangere l’amore che ha perso e di gridargli contro la rabbia che ne deriva.»
«Credi che sia questo? Sta combattendo contro- cosa? I fantasmi del passato?» domandò Lea.
«Lo faremo tutti, sorella, ognuno a suo modo, al momento designato.»
«Ma l’amore può rendere ciechi…» mormorò lei.
«L’amore può distruggerti.» concordò. «Per questo è importante ricordare, rimanere ancorati alla realtà.»
«E se non ci riuscisse?»
Cicno abbassò lo sguardo sulla giovane donna e le sorrise mesto. «In questo caso sarebbe pe-» si bloccò.
Lea lo fissò in attesa che terminasse quella nefasta profezia, già consapevole di come sarebbe finita la frase, così come tutti quanti.
Fu Cade ad allungare una mano per sventolarla davanti a Cicno, per un attimo dimentico della situazione, delle urla, della paura che provava per Jonas.
«Cicno?»
«Che cazzo ha ora?» chiese Nathan facendosi vicino al greco, seguito a ruota da Eliza.
«Cicno? Che c’è? Perché ti sei fermato?»
Ma il biondo la ignorò, se solo avessero potuto vedere oltre la maschera di perfetta freddezza che gli copriva i lineamenti, tutti loro si sarebbero resi conto dell’espressione di stupore misto a rabbia che gli contraeva il volto.
Come poteva esser successo? Si era distratto solo per un momento.
 
«Cicno? Sto cominciando a preoccuparmi anche per te, sappilo.» disse Cade, indeciso se toccare o meno il compagno.
Non ce ne fu bisogno, a quel commento Cicno si riscosse.
 
«Dov’è Jane?»
 
Gli altri cinque si girarono tutti di colpo verso il punto dove, solo poco prima, Jane era ferma in piedi, al fianco di Cade.
Un posto ora vuoto.
Gli occhi di Cicno erano però puntati verso la porta del tempio.
 
Socchiusa.
 


 
*



 
«NON PUOI CHIEDERMI QUESTO!»
 
Gridò ancora Jonas con le mani strette al petto.

«Sono arrivato fino a qui! Ho combattuto, ho rivissuto quel momento! Ho pagato per le mie colpe, mamma, ho già pagato! Anni e anni di-»
«Allora non c’è più niente che tu debba fare qui! Se hai già pagato per ciò che hai fatto che senso ha continuare questa vita? È macchiata, Jonas! Ormai è segnata per sempre!»
«Non è vero! Non è vero!» urlò a pieni polmoni. «Posso tornare in vita, posso tornare su come Jonas e continuare da dove mi sono fermato, posso dare un senso a questa vita, posso avere uno scopo!»
Sua madre scosse la testa incrociando le braccia, per poi scioglierle e massaggiarsi il volto.
«E cosa farai? Hai pensato a questo? Una volta tornato sulla terra, senza nessuno che ti conosca, senza nessun appoggio. Cosa credi di poter fare? Sarai un orfano in un mondo che non consoci più, in una civiltà che non ti appartiene. E vogliamo parlare dei tuoi amici? Hai detto che sono grandi eroi, combattenti! Bene, cosa ti fa credere che riuscirai a sconfiggerli? Cosa ti dà la certezza che non combatteranno contro di te?» gli chiese seria, il volto cupo, lo sguardo amareggiato ma furente.
Jonas deglutì. Lo sapeva, sapeva che prima o poi un momento del genere sarebbe arrivato, a vederselo schiaffato in faccia con tutto quel veleno non era nei piani.
Una smorfia ferita gli contrasse il viso, ma tirò su col naso e deglutì ancora: non le avrebbe dato la soddisfazione di vederlo piangere, di vederlo tentennare, di saperlo debole e spaventato alla prospettiva di dover affrontare i suoi amici.
Perché sì, certo che l’idea l’aveva sfiorato, certo che aveva ragionato su quanto sarebbe stato difficile, se non impossibile, per lui sconfiggere Nathan o Eliza in combattimento, figuriamoci Cicno poi. Ma la verità era che non gli interessava. O meglio, sì, gli interessava, ma Jonas era riuscito, come non lo sapeva neanche lui, a venire a patti con sé stesso, a mettersi la sua dannata anima in pace: avrebbe combattuto al meglio delle sue possibilità fino alla fine e poi, se questo non fosse stato sufficiente, avrebbe accettato la sconfitta da persona matura e sarebbe rinato.
Oppure sarebbe scomparso per sempre.
Non lo spaventava troppo neanche questo ormai. Sarebbe stato come morire ancora, scomparire dalla faccia della terra, solo che poi non si sarebbe svegliato all’Inferno, con la consapevolezza di aver lasciato tutti i suoi cari a soffrire. Questa volta la sua famiglia era già scomparsa, i suoi amici sarebbero rinati, alcuni forse sarebbero scomparsi, uno solo, forse, avrebbe vinto e sarebbe tornato a vivere e a quel punto, assieme agli onori del vincitore, l’onere di ricordare come era arrivato sul podio sarebbe stato inevitabile.
Tutto ciò per quanto lo rendesse triste non lo spaventava troppo. Lo feriva molto di più il tono crudele di sua madre – non è mia madre, quella non è mai madre, non è mia madre – e le sue insinuazioni. Perché se fosse stata davvero lei significava che la sua mutti non credeva in lui, non pensava potesse vincere, lo vedeva come un ragazzino debole e spaventato, come il codardo che era stato nei suoi ultimi istanti di vita.
Chissà se Johanna aveva mai capito le vere motivazioni dietro al suo gesto. Per un momento Jonas ebbe l’irrefrenabile voglia di dirglielo, di urlarle in faccia quale fosse stato il vero problema della sua breve ed inutile vita, cosa lo avesse spinto ad andare a recuperare la pistola del nonno, perché avesse deciso di farla finita e soprattutto come lei, che ora parlava di peccati e di macchie non si fosse mai accorta di quale grandissima onta fosse stato in grado di tirare sulla loro famiglia.
Oh, il godimento che avrebbe ricavato dallo sputare finalmente in faccia a qualcuno cosa ci fosse davvero di sbagliato in lui, cosa nessuno era stato in grado di scorgere.
Digrignò i denti più arrabbiato di quanto non fosse in precedenza, prima di prendere un respiro profondo, assaporando già la crudeltà delle sue parole.
 
«Quindi pensi che non abbia possibilità? Che non riuscirò a vincere, figuriamoci tornare a vivere, giusto? Allora perché sembri così felice di vedermi? Perché ti interessa così tanto che rinasca? Non te ne frega niente di me, mutti, l’unica cosa che ti interessa è ripulire il nome della nostra famiglia! Far sì che anche all’inferno si dimentichino che il tuo unico figlio è morto suicida!» sputò con rabbia, il fiato corto. Sentiva la saliva bagnargli le labbra, tanta era la foga che stava mettendo nelle sue accuse.
Perché era quello il punto, no? Che gliene fregava a sua madre se fosse tornato alla sua vita o a una nuova? Cosa gliene poteva fottere a lei? Se lo amava veramente, se lo amava per ciò che era, che era stato, allora sarebbe dovuta essere felice per lui, avrebbe dovuto spronarlo a continuare a combattere, a non arrendersi questa volta e tornare a vivere la vita che aveva così brutalmente interrotto anni addietro. Invece gli diceva che non ce la poteva fare, che la sua unica opzione era rinascere, per tornare sulla terra “pulito”.
Gli occhi di sua madre s’accesero della stessa rabbia che animava i suoi, ma ormai Jonas aveva la certezza che quella non poteva essere Johanna. Lo sapeva. E se anche fosse stato davvero il suo spirito avrebbe ugualmente continuato a negarlo fino alla fine.
Quella non era sua madre.
 
«Credi che sia questo il problema? Pensi che sia per il nome della famiglia?» gli chiede di rimando.
«E per cosa se no? Cosa ti cambia se torno su come me o come una persona nuova? La verità è che ti vergogni di me! Ti vergogni così tanto di quello che ho fatto da non volere che questo tuo figlio- degenere! Torni sulla terra come figlio tuo! Preferisci che lo faccia con un nuovo volto e un nuovo nome!»
«Voglio che tu abbia una nuova possibilità! Vivresti per sempre con la consapevolezza di quello che hai fatto, è così che vuoi ricominciare?»
Jonas girò su sé stesso alzando le mani al cielo e producendo un verso di puro scherno che rimbalzò per tutte le pareti del tempio.
«Non riesci neanche a dirlo! Cosa ho fatto, mamma? Cosa ho fatto che mi perseguiterà per sempre se solo proverò a continuare questa vita? Eh? Cosa? Abbi il coraggio di dirlo! Non essere codarda come tuo figlio, dillo! DILLO!» gridò alzando sempre più il tono, urlando fino a farsi dolere la gola, a farsi pizzicare gli occhi e tirare il collo.
Il silenzio li avvolse per un lungo momento, il buio ingoiava le loro ombre e neanche la debole luce della torcia riusciva a proiettare la sua luce abbastanza in là per poter contrastare l’oscurità.
Madre e figlio si fronteggiavano l’uno davanti all’altra, il volto paonazzo di Jonas contro quello pallido di Johanna, in una sfida a chi avrebbe ceduto per primo, chi sarebbe andato in mille pezzi.
 
«Se è tutto quello che vuole può fare in fretta, signora? C’è gente che aspetta qui.»
 
Jonas saltò sul posto, spaventato a morte da quella voce lugubre e infastidita.
Sulla soglia dell’arcata della sala in cui si trovavano, a mala pena illuminata dalla torcia tremolante, avvolta dal buio denso del tempio, si ergeva in tutta la sua modesta altezza la figlia di Ecate.
Jane se ne stava con le mani intrecciate dietro la schiena, la spalla premuta contro la pietra fredda, lo sguardo annoiato ed una smorfia scocciata a piegarle le labbra.
Da sotto gli occhi mezzi chiusi osservò prima Jonas, scrutandolo come se stesse cercando qualcosa che non andasse in lui, e poi lo spirito della donna che stava litigando con il ragazzino.
Non ci voleva un genio per capire che quella fosse sua madre, la somiglianza era incredibile, ma a voler esser onesti a Jane non avrebbe potuto importar di meno.
«Quindi?» incalzò sbadigliando. «Si decide a parlare? Cosa vuoi che ti dica? È la tua sfida?»
Jonas batté le palpebre incredulo: la sua sfida?
 
Cazzo! La sfida!
Ma sebbene si fosse ricordato solo in quel momento di quanto tempo prezioso avesse sprecato ad urlare contro lo spettro di quella che sembrava sua madre – ma non lo è assolutamente – le sue labbra dissero tutt’altro:
 
«E tu che diavolo ci fai qui?» chiese scioccato.
Jane alzò un sopracciglio. «Mi stavo annoiando. Sei qui dentro da una vita e gli altri vogliono rimanere fuori dal tempio come sentinelle finché non ne uscirai. Visto com’è finita bene l’ultima volta che ci siamo divisi ora siamo costretti a stare legati come i fili di una corda.»
Il ragazzino batté ancora gli occhi senza capire, apprezzando l’immagine visiva della corda composta da tanti robusti spaghi legati avvolti gli uni con gli altri, ma scrollando subito il capo per evitare di perdersi in altri pensieri stupidi.
Fosse dannato lui e la sua incapacità a concentrarsi. 
«E sei entrata?» domandò senza capire.
«Chi è questa giovane.» s’intromise sua madre guardando Jane quasi con disgusto.
La strega però le sorrise divertita, il contrasto tra le sue vesti sporche e strappate e quelle leganti della donna era terribilmente stridente.
«Una delle mie compagne.» rispose distrattamente Jonas avvicinandosi finalmente all’americana.
«Sono serio, che cazzo ci fai qui? Ti hanno lasciata passare? Credevo che avessimo appurato che posso gestire da solo una situazione del-»
«Per prima cosa, passi troppo tempo con il pazzo rosso e con il soldatino; seconda cosa, lo vedo come gestisci bene le situazioni anche da solo, urlando come un- ah, no, niente, tu sei un moccioso.»
«Ehi! Se vuoi insultarmi puoi aspettare fuori che finisca di parlare con mia madre!»
Jane si sporse oltre il compagno per osservare ancora il fantasma. «Sta andando benissimo vedo.»
«La smetti di fare ironia?»

«Lei lo sa?»
 
La voce di Johanna li richiamò all’ordine. Jonas si voltò di scatto verso la madre e la guardò serrando la mascella.
«Sai cosa ha fatto mio figlio? Sei cristiana?»
Jane annuì. «I miei genitori lo erano. Quelli veri, non la dea che mi ha dato la vita.» precisò secca.
«Allora sappi che Jonas si è macchiato del-»
«Non mi interessa.» tagliò corto lei, stroncando sul nascere le parole dello spirito.
Johanna parve interdetta. Strinse i pugni e gonfiò il petto, come se si stesse preparando per dire qualcosa di estremamente grave. Jonas però non se ne rese conto e, quasi imitandola inconsciamente, gonfiò anche lui il petto, d’orgoglio però, per le parole della sua amica.
«Sentito? Non le interessa cosa ho fatto! Non gliene frega nulla di come sono morto, non interessa a nessuno!»
«Dovrebbe! Dovrebbe interessare a te e anche agli altri! Jonas devi smetterla di fare il bambino e ascoltarmi. Non ha senso continuare questa gara, non ha senso andare avanti per quanto? Altre tre prove? Quattro? E poi essere ucciso dai tuoi stessi compagni! Non hai alcuna speranza di tornare a vivere con la tua vita attuale una vita dignitosa! Tu- tu-» tentennò, solo per un istante, poi finalmente lo disse, «Tu sei un suicida! Ti sei ucciso! Come puoi continuare la tua esistenza con questo peso? Non capisci che onta? Che ombra graverà su di te per tutto il resto della tempo che ti rimarrà?»
Jonas guardò sua madre con un odio che solo poche volte aveva provato, ma le sue parole non avevano fatto altro che alimentare il fuoco che gli ardeva dentro, quello che lo aveva già bruciato e divorato portando alla luce la parte più macabra di sé per esporre anche quella più profonda.
Era già stato perdonato per tutti i suoi peccati, era già stato reputato idoneo a passare, aveva già dimostrato di aver fatto l’unica cosa che davvero contava in vita per ricevere l’assoluzione. Perché sua madre doveva ricordargli ancora quanto avesse fallito? Che codardo fosse stato? Che vergogna fosse ancora per lei, per la loro famiglia. Che comportamento da bambino capriccioso avesse.
 
Ma non sono più un bambino. Posso fare le mie scelte, le ho fatte. L’hanno accettato i miei compagni, perché non può accettarlo lei? Perché non può vederlo lei?
 
«Tutto qui?» chiese Jane con voce pacata. «Questo è ciò che la preoccupa, signora? Che suo figlio sia macchiato a vita dal peccato del suicidio?» sembrava quasi canzonatoria, come se avesse pena di Johanna e al contempo si stesse trattenendo dal ridere delle sue paure.
Jonas spostò lo sguardo su di lei senza capire, ma la strega invece sorrideva impietosita a sua madre, una scintilla crudele ad illuminarle gli occhi torbidi come il fango.
«Ti sembra poco?» ritorse Johanna con rabbia.
Jane continuò a sorridere, scuotendo la testa con delicatezza. «Non mi sembra, io so che è poco. Vuole sapere cos’è davvero “grave”? Signora? Sono morta in un rogo che ho creato io stessa utilizzando un incantesimo fuori dalle mie possibilità per poter uccidere tra atroci sofferenze due disgustose fecce dell’umanità. Questo è grave. Crede seriamente che un ragazzino spaventato che si suicida possa sorprendere o scioccare qualcuno? Oh, che vita fantastica deve aver vissuto lei, signora, lontana dal dolore e dalla sofferenza, dall’ingiustizia e dalle pene.» avanzò lentamente, superando Jonas che si allungò a mala pena per sfiorarle il polso, in un vano tentativo di fermarla, fino ad arrivare davanti a quello spirito a lei sconosciuto e completamente indifferente. Non aveva paura di ferirlo, non aveva paura di fargli del male, a Jane non importava nulla, voleva solo che Jonas uscisse il più velocemente da lì in modo che anche lei potesse affrontare sua madre e passare oltre.
«Le do una notizia sconvolgente: nessuno è senza peccato, le macchie delle nostre anime non si cancellano con la rinascita, non vengono lavate via dal battesimo o in qualche fiume divino che scorre nelle profondità dell’Ade, vengono solo coperte da un nuovo strato di fango, abbastanza spesso da nasconderle agli occhi ciechi dei mortali. Suo figlio non sarà mai senza peccato, perché ci sarà sempre un Dio, chissà dove nei cieli, in grado di vedere oltre il fango fresco che la rinascita gli avrà messo addosso.» fece un verso di scherno, divertita, ridacchiò allo sguardo vuoto dell’anima davanti a sé. Poi si voltò e tornò verso l’uscita.
«Suo figlio può fare quello che vuole, per quanto mi riguarda, può anche rinascere e togliermi uno sfidante di torno. Ma qualunque sia la sua decisione deve muovere il culo perché io mi sto annoiando.»
Con quelle parole superò anche Jonas stesso e si addentrò nell’oscurità per tornare da dov’era venuta.
Jonas rimase in silenzio. Nella sua mente una cacofonia di voci, di parole, di pensieri si susseguivano gli uni agli altri, finché il ragazzo non si ritrovò a sorridere.
 
“Muovere il culo” è decisamente una frase da Nathan, chi ci sta passando troppo tempo?
 
E quel pensiero non fece altro che farlo sorridere ancora più apertamente, facendolo ridere tra sé e sé.
Si voltò verso sua madre, fronteggiandola di nuovo ed osservandola ancora, improvvisamente illuminata da una nuova luce.
I suoi vestiti erano puliti e perfetti, il volto invecchiato solo di poco, ma la sua stretta era stata salda e calda, vera, umana. Ma per esserlo davvero avrebbe dovuto partecipare alla gara, esattamente come aveva sospettato prima. E sua madre non aveva assolutamente l’aspetto di una che aveva corso per un labirinto e affrontato mastini infuocati, tanto meno un muro di Foschia crollato.
Se fosse stata davvero sua madre non gli avrebbe neanche rivolto quelle parole.
Parole che prima di allora, giusto una prova prima, lo avrebbero colpito con violenza, lo avrebbero fatto arretrare e barcollare, incerto sulle sue possibilità, malfermo sulle sue convinzioni. I sensi di colpa l’avrebbero divorato vivo, o morto che fosse, e non avrebbe saputo dire di no a sua madre, le avrebbe dato ragione anche solo nel disperato ed inutile tentativo di farsi perdonare.
Si sarebbe arreso di nuovo e avrebbe scelto la rinascita.
 
Ma non ora, non più.
 
La risata che gli scappò dalle labbra fu liberatoria, per quanto suonasse leggermente isterica anche alle sue stesse orecchie, ma Jonas la ignorò, sfogando tutta quella tensione accumulata fino a quel momento, tutta la rabbia, tutto il dolore.
Guardò lo spirito dritto negli occhi, così simili a quelli di sua madre, eppure ora così palesemente diversi, sospirò dandosi dello sciocco.
 
«Tu non sei mia madre, vero?» domanda retorico. «Avrei voluto incontrarla davvero un’ultima volta, avrei voluto chiederle scusa come ho fatto con te. Mi spiace anche non poterle raccontare di ciò che ho fatto fino ad ora, di come sono cresciuto. Le avrei voluto dire che ora- ora non mi arrendo. Spero che questo la possa rendere fiera di me, finalmente.»
Lo spettro di sua madre lo guardò come se stesse parlando un’altra lingua, per poi iniziare a brillare da prima fiocamente, sempre più forte, fino ad inondare la stanza come il sole d’estate.
La sala era semplice, drappi celesti e grigi si alternavano tra le colonne bianche, dondolando sopra il pavimento di pietra levigata. La torcia che aveva gettato quel minimo di luce fino a quel momento bruciava assieme alla compagna, poste ai lati delle colonne centrali che ospitavano un braciere di metallo scintillante.
Al posto della donna ora stava un uomo ne vecchio ne giovane, forse di trentacinque- quarant’anni. Aveva i capelli scuri legati in un codino basso, gli occhi dolci ma tristi, la labbra piegate in un sorriso mesto.
Non ebbe bisogno di chiedere nulla, solo guardandolo Jonas seppe che quello era suo padre e tutta l’aria nella stanza vibrò come la pelle tesa di un tamburo.
L’uomo davanti a lui non gli somigliava per nulla, forse solo gli occhi potevano sembrar simili, quell’azzurro-grigiastro che sembrava una lastra di metallo coperta da uno spesso strato di ghiaccio, ma tolto quello non c’era assolutamente nulla che li accomunasse.
 
«Raramente i nostri figli ci somigliano in quel modo. Sono spesso i colori a tradire la vostra natura.»
 
Pothos gli sorrise quasi con dispiacere, osservandolo con attenzione, come se quella fosse la prima volta che lo vedesse dal vivo.
Per Jonas era proprio così, era la prima, e probabilmente ultima, volta che vedeva suo padre, che riusciva finalmente a dare un volto a quell’uomo che per anni aveva creduto essere solo un soldato caduto in guerra. Ma la vecchia foto in bianco e nero che sua madre teneva sul mobile vicino al pianoforte non era davvero quella di suo padre, non era davvero nessuno per lui.
In quei lunghi ed interminabili minuti Jonas non seppe cosa dire: aveva molte domande ma nessuna gli sembrava abbastanza importante per rompere il silenzio. Non voleva chiedergli perché non gli si era mai palesato, perché l’aveva abbandonato. Forse ripensandoci ora non aveva neanche sentito davvero la sua mancanza. Forse a pensarci ora non aveva mai avuto bisogno di suo padre, non avrebbe cambiato nulla, la sua vita si sarebbe svolta nello stesso modo, sarebbe giunta a quella stessa fine.
Aveva quindi senso sperare di rivedere un po’ di sé in quell’uomo? Aveva senso chiedere spiegazioni, cercare qualcosa che li unisse, un senso d’appartenenza che non aveva mai sperimentato, che non aveva mai voluto cercare?
Pothos non lo spronò a parlare, non lo guardò con disapprovazione, non lo guardo con disgusto. Eppure, a sentir gli altri, gli Dei leggevano nella mente, quindi era impossibile che il suo divino padre non sapesse, non conoscesse ogni dettaglio, ogni sbaglio, ogni peccato.
 
«Non c’è peccato nell’amare. Sarebbe ipocrita da parte mia condannarti per questo, specie vista la mia famiglia.» gli sorrise alzando un sopracciglio.
A Jonas venne voglia di sorridergli di rimando, ma era così imbarazzante parlare di queste cose con quello che era suo padre, era così triste sapere che sebbene persino gli Dei non reputassero le sue azioni abominevoli, gli uomini l’avevano fatto e l’avrebbero continuato a fare per sempre.
«Non tutti la pensano così…» mormorò infatti.
Pothos annuì, «Solo tutti coloro che non hanno valore alcuno.» concordò prima di cambiare completamente argomento. «Tua madre rinacque secoli addietro. Non ti trovò qui, decise di rinascere piuttosto che vivere in eterno con la consapevolezza di non poterti riabbracciare neanche oltre la vita.»
Jonas chiuse gli occhi. Quello- quello era davvero doloroso.
«Mi dispiace così tanto.» ripeté a voce bassa, sentendo di nuovo gli occhi pizzicare, il labbro tremare.
Ma la mano calda e morbida del dio gli carezzò il capo, ricordandogli le pacche affettuose di Cade, quelle più delicate di Cicno, quelle quasi materne di Lea.
«Lo so. So che ti dispiace e so che ciò che più di tormenta è aver fatto soffrire gli altri pur di poterti sottrarre te al dolore stesso. Ma hai pagato per questo e stai continuando a farlo combattendo.»
Con l’altra mano gli prese gentilmente il volto, alzandolo con lentezza, accompagnando i suoi movimenti senza forzarlo troppo, sino a quando Jonas non si ritrovò a guardarlo dritto negli occhi.
«Il dolore passa, diventa nostalgia. Non è un male, non è una vergogna smettere di soffrire, non è irrispettoso verso chi ha sofferto, chi abbiamo fatto soffrire, chi non c’è più. È solo la vita.»
Lo sguardo del dio era pregno di un sentimento che Jonas avrebbe potuto solo chiamare amore, lo stesso tipo che aveva viso spesso negli occhi di sua madre. Era possibile che suo padre lo amasse così tanto, pur non avendolo mai visto?
Per una volta non voleva pensare, voleva solo sentire quell’affetto, accoglierlo ed accettarlo. Era tutto per lui e non se ne voleva privare, non questa volta.
«Tienilo a mente, ragazzo mio. È solo la vita che va avanti. C’è gente che non riesce a capirlo, c’è chi non vuole accettarlo e chi invece ha abbracciato questa verità a piene mani. È solo la vita.»
Dopodiché gli posò un bacio sulla fronte, un gesto così spontaneo, così famigliare, che Jonas si ritrovò a chiudere gli occhi, affidandosi completamente a quel perfetto sconosciuto.
Quando riaprì gli occhi, come risvegliatosi da un sogno vivido ed impegnativo, la sala luminosa era deserta.
Con un crepitio lieve il focolare s’accese quieto, allungando la sua luce fino al corridoio, sino alla porta del tempio.
 
Per Jonas la prova di Estia era appena giunta al termine.
Il focolare di Pothos ardeva.



 
*



 
Il trambusto che si era andato creando per la strada lastricata era abbastanza rumoroso da attira l’attenzione di alcune anime. Che fossero queste abitanti degli Elisi o concorrenti della gara, più di una testa era sbucata tra un tempio e l’altro, osservando con curiosità quel manipolo di anime mal assortite che si parlavano sopra a vicenda senza ascoltarsi gli uni con gli altri.
Cicno si massaggiò le tempie, premendo poi pollice ed indice sulla sella del naso, lisciando la pelle con gesti lenti ma decisi. In lui si stava facendo largo la voglia sempre più pressante di afferrare la testa di ognuno dei suoi compagni e sbatterla violentemente contro lo spigolo vivo dei gradini del tempio di Pothos. Dopotutto cosa sarebbe cambiato se quelle sei anime fossero sparite nel nulla? Cicno non capiva cosa volesse il suo padrone da loro, da quei semidei in particolare. Poteva capire la loro utilità in un quadro più ampio, utilizzandoli magari come carne da macello, ma il suo signore non gli era sembrato troppo propenso ad eliminare persone “innocenti”. No, coloro che non erano di suo gradimento, eroi o meno, erano stati uccisi senza troppe remore, mentre altri erano stati graziati anche se al loro tempo avevano ricevuto un giudizio negativo dai Giudici Infernali. Ma se si toglieva questo particolare, il far andar avanti chi il suo signore credeva meritasse di proseguire, Cicno si era ben presto reso conto che quelle anime semidivine, o almeno quelle sette che gli erano state assegnate, non servivano assolutamente a nulla.
L’aveva notato da subito, al suo primo incontro con Jonas, che il giovinetto non sarebbe mai stato in grado di far nulla da solo, ma che necessitava dell’appoggio e dell’incoraggiamento di terzi. Oh, aveva fatto passi da gigante, crescendo e maturando anche nella morte – che cosa triste e amara - ma aveva comunque avuto bisogno di qualcuno che credesse in lui per arrivare a quel punto.
Il figlio di Fobetore? Inutile se non per la sua conoscenza del mondo divino, incapace di usare i doni di suo padre, restio a combattere. La figlia di Ecate che non sapeva fare magie, sua sorella che sapeva curare ma apparentemente non sapeva combattere, Cade che utilizzava la sua discendenza divina senza pudore ma che rischiava costantemente la vita per salvare altri. Nathan poi, un figlio di Ares senza armi, che per puro orgoglio si metteva costantemente in posizioni svantaggiose e non comprendeva quanto fosse necessario minimizzare le problematiche ed i pericoli anche a costo di non svettare sopra tutti. E per finire la figlia di Nike che non aveva fame di vittoria ma un fastidioso complesso dell’eroe che la portava a comandare sugli altri, prendere in mano la situazione ma anche a mettersi in prima linea in caso di pericolo.
Erano forse la squadra peggio assortita che Cicno avesse mai avuto il piacere d’incontrare e se non fosse stato per lui sarebbero morti da tempo. Tutti e sette.
Il greco ignorò il fatto che fossero usciti indenni da ben tre prove senza di lui, perché arrivati a quel punto della gara non poteva credere che il suo padrone non li avesse aiutati anche lì.
In ogni caso, era terribilmente tentato di smettere di guardar loro le spalle e lasciarli uccidersi a vicenda, tanto cosa potevano portare in più alla sua causa? Nulla, assolutamente nulla. Se non un mal di testa che non avrebbe dovuto sperimentare visto che era morto.
 
Come se non fossi consapevole del fatto che anche le anime possano soffrire. Millenni di torture dovrebbero avermi insegnato qualcosa.
 
Avrebbero dovuto insegnargli la pazienza, che un tempo aveva avuto in abbondanza ma che ora iniziava a scarseggiare.
 
Che Ade mi prenda in gloria ora.
 
Batté le palpebre un paio di volte, tornando poi ad osservare i suoi compagni che, cosa nuova e mai successa prima di allora, litigavano.
 
«Non hai semplicemente rispettato le regole.» disse Eliza con sguardo furente.
Jane alzò invece il suo al cielo, irritata ma soprattutto annoiata da tutto il dramma che gli altri stavano montando per nulla.
«Non siamo arrivati in tempo per sentire le regole, non lo sai se c’era o meno. E poi, per l’ennesima volta: non ho fatto nulla, sono entrata per vedere a che punto stesse, c’era una donna, la madre credo, che faceva la pazza, le ho risposto a tono perché mi stava infastidendo, ho detto al ragazzino di muoversi e poi sono uscita, fine.»
«Quindi dovremmo affrontare i nostri genitori non divini? Perché in questo caso con me potete entrare tutti, così vi presento mia madre!» eruppe Cade improvvisamente più felice, quasi dimentico del fatto che Jane avesse “violato” una delle regole della prova. Regole che loro non avevano completamente sentito, per altro, come la strega teneva a sottolineare.
Ad onor del vero poi, Cade era segretamente sollevato dal fatto che qualcuno fosse entrato a controllare la situazione. Fiducia o meno nei suoi confronti, Jonas rimaneva comunque un moccioso di appena sedici anni- o forse meno? Diamine, non riusciva a ricordarselo. In ogni caso, era comunque un bambino troppo cresciuto, più alto di lui o meno non importava, e Cade aveva dovuto fare appello a tutte le sue forze e ad una calma che non aveva per potersi impedire di correre in quel tempio al primo accenno di lite.
Chissà come doveva sentirsi Jonas in quel momento, a litigare con sua madre o con il suo spirito o con qualunque cosa fosse.
Un brivido gli strisciò sottopelle: Jonas non aveva avuto proprio il miglior addio con la sua famiglia e Cade aveva paura di ciò che sua madre poteva avergli detto, terrorizzato all’idea che Jonas si facesse abbattere dai suoi commenti, che vedere la donna potesse portarlo a far passi indietro, a ritirarsi e tornare ad essere il ragazzino timido, scontroso e riservato che aveva conosciuto in precedenza.
Cade espirò con forza, cercando di distaccarsi dalla discussione che imperversava in quel momento tra Jane ed Eliza, dalle imprecazioni di Nathan e dal volto teso di Úranus. Face scivolare lo sguardo su Lea, che fissava la porta con tutta la compostezza di cui era capace, ma dalla cui espressione traspariva comunque la preoccupazione per quella situazione.
No, non era proprio la prova ideale con cui cominciare a fare il bambino grande, da solo, senza l’aiuto di nessuno e questo lo pensavano pressocché tutti.
Si girò in fine verso Cicno e non si sorprese d’aver già i suoi occhi chiari puntati contro. Il greco gli sorrise leggero, nulla più di un arricciarsi di labbra, ed annuì, come a volerlo confortare.
Quello era tutto ciò che avrebbe ottenuto da lui e Cade vi si aggrappò per tutti i restanti, lunghissimi ed interminabili minuti che li divisero dal momento in cui la porta si aprì con lentezza.
Le voci si zittirono in fretta mentre Jonas spingeva fino in fondo l’anta del tempio, strizzando leggermente gli occhi come se la luce crepuscolare dell’Ade fosse troppo forte a confronto con quella della casa di suo padre.
Rimase per un momento sull’uscio, abbassando lo sguardo sui suoi compagni che, rigidi, trattennero il fiato in attesa. Forse del peggio, forse di una rassicurazione.
Quell’attimo si dilatò fino a scoppiare, finché Jonas non sorrise loro ampiamente, felice, radioso.
Cade non si rese conto d’aver trattenuto il respiro finché Jonas non corse giù dalle scale, saltandogli addosso per abbracciarlo con forza.
 
«Ce l’ho fatta. Sono passato!» disse con voce soffocata, il volto premuto contro la spalla del rosso.
Sospiri di sollievo si alzarono quasi in coro, Cade rimase invece congelato per un momento prima di riscuotersi con stupore e stringere il ragazzino a sé.
Batté le palpebre sorpreso da quel gesto d’affetto così spontaneo, così famigliare, ma lo scintillio divertito negli occhi di Cicno spezzarono quello strano sortilegio. Sembrava quasi che gli stesse dicendo “Visto? Sei ancora il suo preferito” e Cade non poté far a meno di scoppiare a ridere, sollevando Jonas di peso, aiutato dalle correnti d’aria che veloci e fedeli tornarono a solleticargli la pelle, girando su sé stesso, esultando col cuore leggero.
«E ti sorprendi, binneas? Sei sopravvissuto ad una pioggia di fuoco, cosa vuoi che sia affrontare una ramanzina di mamma?»
Jonas lo strinse ancora più forte, di colpo un po’ meno allegro.
«Non era veramente mia madre. Pothos- mio padre mi ha detto che è rinata, anni addietro. Non mi ha trovato qui nei Campi Elisi e ha preferito ricominciare da capo.» mormorò con un velo di tristezza. «Non sono riuscito a salutarla neanche qui. Non per davvero.»
Cade non si mosse, ricambiando solo la presa quasi soffocante dell’altro, senza sapere cosa dire, cosa fare per consolarlo un po’.
Fu Lea a muoversi, carezzandogli gentilmente la nuca, sfregandogli una mano sul braccio.
«Posso immaginare quanto sarebbe stato importante per te rivederla, spiegargli il perché delle tue azioni. Ma è meglio così, Jonas. È meglio che sia rinata, che non sia rimasta qui ad attendere in eterno. Sono certa però che sarebbe stata fiera di te, di dove sei arrivato.»
«Hai avuto anche la possibilità di incontrare finalmente tuo padre.» aggiunse Úranus. «Forse non avrà lo stesso significato che ha per me, ma hai potuto guardarlo negli occhi, un frammento della tua vita che è sempre mancato.»
Jonas annuì. «Non ho sentito nulla. Cioè-» disse districandosi dall’abbraccio per potersi girare verso gli altri, ma rimanendo comunque poggiato a Cade che gli passò un braccio attorno alle spalle. «non è che non ho sentito nulla- nulla. È solo… era un estraneo. Mi è bastato guardarlo per sapere chi fosse, ma non ho sentito nessun legame incredibile, nessuna familiarità.»
«È normale e giusto che sia così. Gli Dei non rimangono quasi mai con la loro progenie, spesso ne ignorano anche la nascita, sarebbe ancora più crudele instillare in noi la loro mancanza.» sussurrò Cicno con lo sguardo puntato verso il timpano del tempio di Pothos, sul mosaico decorativo che si muoveva placido come l’acqua di un lago.
Jonas strinse le labbra, «È stato gentile. Mi ha- consolato? Ha cercato di dirmi che va bene anche andare avanti, come ha fatto mamma, che non si deve necessariamente soffrire in eterno.»
«Questa è la vita.» soffiò ancora il greco, voltando poi, definitivamente, la spalle al tempio. «Non si può vivere per sempre nel rimpianto.»
Nathan alzò un sopracciglio, scettico. «E sei tu a dirlo?»
«Ho detto “rimpianto”, non “vendetta”. Sono due cose ben diverse. Il pentimento è una cosa con cui dobbiamo imparare a condividere e accettare. Il dolore-»
«Diventa nostalgia.» concluse Jonas, senza aspettare la fine della frase.
Annuì al nulla, a sé stesso più che agli altri, in modo automatico, così come andò a cercare il bracciale di stoffa che sua madre gli aveva cucito anni addietro.
Non aveva minimamente pensato di toccarlo durante la prova, se ne era dimenticato completamente, ma non appena le dita sfiorarono la pelle liscia Jonas ricordò d’essersi tuffato sotto una cascata di fuoco e che il bracciale era bruciato assieme ai suoi ultimi averi, a quei vestiti che aveva indossato nella morte, per la morte.
Aveva dei vestiti larghi e moderni ora indosso, la maglietta di Nathan, i suoi pantaloni, gli anfibi di un paio di taglie di troppo riempiti di calzini. E nonostante si domandasse ancora che diamine ci facessero dei morti con un cambio d’abiti – più di uno se si conta anche quello di Cicno – Jonas sentì ancora una volta come tutto ciò che era stato di lui fosse sparito, sostituito da qualcosa di nuovo, pulito, privo vi macchie, di cicatrici. Dai vestiti alla pelle, tutto era stato bruciato ed ora una nuova veste lo copriva, una nuova tela su cui aveva appena scritto poche parole.
 
Lavare i peccati nel fuoco. Bruciare ciò che è corrotto. Rinascere dalle ceneri senza peccato.
 
Il Jonas che era stato per una vita, e una morte, ora non esisteva più, e se anche ne fosse rimasto qualche brandello l’incontro con il falso spirito di sua madre ne aveva cancellato le ultime tracce.
Perso nei suoi pensieri, nella realizzazione che forse – forse – la sua nuova vita fosse già iniziata, si riscosse solo quando uno strano rumore gli giunse alle orecchie.
Jonas alzò lo sguardo verso Cade ma il giovane gli fece un cenno verso destra, portandolo ad osservare Jane che, a testa bassa, era impegnata a trafficare con qualcosa.
Il suono netto di un nastro tirato e poi la figlia di Ecate sbuffò.
«Greco, mi presti un coltello?» chiese allungando già la mano verso di lui.
Cicno annuì, porgendogli l’arma per l’impugnatura. «Fai attenzione, tra non molto scomparirà dalle tue mani per tornare nelle mie.»
Jane annuì e tornò a concentrarsi sul suo vecchio grembiule logoro.
Ci volle un attimo a Jonas per capire cosa stesse facendo, quando la vide tagliare un pezzo del laccio che le legava il grembiule in vita, restituire in fretta il coltello e afferrargli il polso destro con decisione. Gli legò il pezzo di laccio tagliato attorno al braccio, preoccupandosi di fare un nodo abbastanza stretto affinché non si sciogliesse, ma anche abbastanza largo per non infastidirlo.
Un laccio grigiastro, sporco, un po’ logoro. Un bracciale.
Jonas strinse il polso con l’altra mano, osservandolo senza parole, per poi guardare Jane con la stessa espressione sconcertata.
La figlia di Ecate sbuffò.
«Hai detto che te l’aveva fatto tua madre, no? Non hai potuto incontrarla davvero e ora non hai più neanche nulla che te la possa ricordare. Per di più vai sempre a giocare con quel coso quando sei ansioso.» incrociò le braccia al petto e annuì secca. «Non è la stessa cosa, ma ti accontenti di quello che c’è. Hai superato la tua prova, bravo, complimenti e tutte quelle fesserie lì. Ora muoviamoci prima che muoia di nuovo.»
E senza aggiungere altro si girò e si avviò verso la parte interna dei Campi, lasciandosi alle spalle sei persone assolutamente scioccate e una incredibilmente divertita.
Cicno batté le mani, facendo saltare sul posto tutti quanti.
«Avete sentito la figlia di Ecate, dobbiamo muoverci.» passò anche lui vicino a Jonas e gli sistemò con gesti fluidi i capelli sulla fronte, facendo scivolare la mano sulla guancia e dirigendo delicatamente il suo volto verso di lui. Gli diede un semplice bacio sulla tempia e poi gli sorrise con più decisione. «Ben fatto, figlio di Pothos. Con la benedizione di tuo padre ora sei ufficialmente un uomo.»
Poi riprese a camminare, chiamando pacatamente Jane, chiedendole di rallentare o quanto meno di aspettarlo un attimo perché sicuro del fatto che la donna non avesse la più pallida idea di dove andare.
I due presero a parlare come se nulla fosse successo, ma i loro compagni rimasero ancora fermi, immobili, a fissare le loro figure ora lontane.
 
«Che cazzo è appena successo?» domandò scioccato Nathan.
«Jane ha fatto una cosa estremamente gentile e dolce. Affettuosa. Considerevole.» elencò quasi balbettando Lea.
«Ti ha fatto un bracciale nuovo?» domandò insicuro Úranus, come se non avesse appena sentito le parole di Jane.
«Credo che sia una sorta di premio, per avercela fatta da solo?» propose Eliza battendo le palpebre sorpresa. Dannazione, fino a pochi minuti prima aveva discusso con Jane per essere stata poco considerevole nei confronti di Jonas e ora lei gli faceva addirittura un bracciale per sostituire quello regalatogli dalla madre. A quanto pare il ragazzino non era l’unico che stava crescendo, pensò con una punta d’amarezza.
«E binneas si è anche beccato un bacio dall’angioletto senza svenire o arrossire. Sei davvero diventato un ometto grande!» gracchio allegro Cade scuotendo Jonas ancora stretto nella sua presa.
Il tedesco cercò di liberarsi senza successo, ora effettivamente paonazzo per quella precisazione, borbottando come quello fosse niente in confronto all’altro.
Cade lo guardò incuriosito, inclinando la testa. «Altro?»
«Che altro?» chiese Nathan drizzando le orecchie.
Resosi conto dell’enorme cazzata appena fatta Jonas si divincolò con più decisione, scappando dalla presa salda del rosso. Drizzò la schiena lisciandosi i vestiti, cercando di darsi un minimo di contegno, tossendo imbarazzato.
«Nel senso, questo è nulla, se pensi che quando siamo usciti dal raggio c’erano andati a fuoco i vestiti, no?» provò facendo qualche passo indietro, voltando la testa verso Cicno e Jane. «Penso che dovremmo muoverci, o rischiamo di perderceli-»
«Non ci provare, hai detto “in confronto all’altro” non a quello che è successo prima o che so io.» proruppe Nathan assottigliando lo sguardo.
Jonas fece un cenno dismissivo con la mano. «Ti sogni le cose. Che c’è, vuoi dirmi che sai meglio di me quello che ho detto? Mi è solo uscito male.»
«Cicno ti ha già baciato prima d’ora?» incalzò Eliza.
Il ragazzino la guardò quasi scandalizzato, le guance così rosse da sembrargli incandescenti.
Alle spalle della figlia di Nike e di quello di Ares, Lea voltò la testa verso Úranus, interrogativa. Rimasero per un attimo a fissarsi, poi il giovane sgranò gli occhi e improvvisamente distolse lo sguardo, avviandosi anche lui.
«Non credo abbia importanza, specie se Jonas dice non sia mai successo. Raggiungiamo gli altri?»
«Sì! Grazie, ascoltate Úranus, andiamo.»
«Woo- woo- woo. Golia ha fatto una faccia strana. Perché hai fatto una faccia strana?»
«Non so di cosa tu stia parlando.»
«Cosa sai tu che noi non sappiamo?»
«Nulla! Che volete che ne sappia?»
«Tu chiudi quella bocca, poppante. Gli antichi greci non brillavano certo per decenza di limiti d’età, non mi sorprenderebbe sapere che la principessina non si farebbe problemi ad infilarti la lingua in gola.»
«Ugh, Nathan! Ma che termini sono questi?»
«Sta zitta pure te, rompipalle.»
«Senti un po’! Rompipalle ci sarai tu, perché mi hai talmente tanto stufato che me le hai fatte crescere, le palle, e procedi sistematicamente a rompermele ogni volta che dai fiato alla bocca!»
«Ooh! E adesso chi è che usa terminino inappropriati?»


Le solite, fastidiose discussioni sterili tra Nathan e Lea arrivarono come una manna dal cielo per Jonas, che si sbrigò ad affrettare il passo e raggiungere Jane e Cicno, fermi a quella che sembrava una piazzetta con una fontana.
Cicno lo guardò sorridendogli.
«Perché tutta questa fretta, giovane eroe?» gli chiese gentile.
«Umh, io- ecco- nulla! Assolutamente nulla! I soliti che amano mettermi in imbarazzo. Continuano a trattarmi da ragazzino anche se-»
«Ehi! Angioletto! Non sei sorpreso che binneas non sia svenuto per un bacetto?» urlò Cade da lontano.
Cicno alzò un sopracciglio, confuso. «È sopravvissuto a ben di peggio. Se non è svenuto al primo figuriamoci a questo.»
Non appena udì quelle parole Jonas chiuse gli occhi, incassando la testa tra le spalle, pronto al caos che sarebbe esploso dopo quel silenzio prolungato.
 
«Ma tipo… come quello di prima?» domandò Lea cauta.
Cicno guardò confuso anche lei. «Sorella, tu dovresti conoscere le arti mediche, come pretendi che possa curare ferite profonde con un bacio leggero? Non è il ginocchio sbucciato di un infante, erano lesioni serie quelle.> disse quasi indignato. «Ci vuole tempo per quel genere di cose.» scosse la testa.
Rimasero tutti in silenzio, di nuovo, finché Jane non chiese:
«Ma quindi, tipo con la lingua?»
 
Jonas non aveva mai desiderato così ardentemente sotterrarsi come in quel momento.

Che cosa imbarazzante… per fortuna ch-
 
«Ovvio che sì. Perdonami, tu come baci una persona?»
«Ah boh, io non ho mai baciato nessuno.»
«Una vera disdetta, figlia di Ecate, una vera disdetta. Ma se vuoi posso offriti il mio aiuto.»
«Non lo so se sei il mio tipo.»
«Sono il tipo di tutti, credimi, e poi non è necessario che ci piaccia davvero il nostro compagno. Puoi sempre chiedere a Jonas una valutazione però.»
Jane sembrò soppesare l’offerta. «Jonas? Quanto dare-»
«STAIMO PERDENDO TEMPO!» gridò Jonas con voce acuta, spingendo sia Jane che Cicno verso la fontanella, cercando di capire in che direzione andare nello stesso esatto momento in cui, alle loro spalle, eruppe un coro scandalizzato e urlante.

«Questa me la pagate, tutti e due.» ringhiò a denti stretti.
Cicno gli sorrise con la sua solita faccia di bronzo, Jane invece lo guardo per nulla impressionata.
«Sì, ma questo voto?»
Respirando ed espirando con forza Jonas pregò suo padre, a cui poteva finalmente dare un volto, di avere pietà di lui.
Al prossimo tempio l’attesa sarebbe stata molto lunga per lui.
 
«JONAS!»
 
Lunghissima.









 

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Capitolo 21
*** Bless. ***










XXI. Bless.
 
 
La portiera cigolò, un suono basso ma stridente che fece arricciare il naso al ragazzino.
Si issò nella corriera prendendo un respiro profondo, per poi ritirarsi il portellone alle spalle, chiudendolo con un tonfo secco.
La vecchia moto di suo padre era ancora parcheggiata malamente nel retro, i pezzi che era riuscito a racimolare a Venezia e quelli che si era portato da Roma giacevano sparsi davanti ai suoi piedi, proprio come li aveva lasciati quella mattina prima di uscire da Era.
Amore ancora rideva sotto i baffi di questo nome. Quando invece l’aveva raccontato a Maria la ragazza aveva storto il naso, domandandogli se non fosse un può blasfemo per lui.
Gio si era stretto nelle spalle ed ero tornato ad arrotolare il finissimo filo di scozia con cui Maria stava cucendo quello che, a detta sua, era una mantellina ricamata, ma che a Gio pareva tanto un centrotavola storto.

«Tutto bene, piccolo Gio?»
La voce gentile di Amore gli fece alzare lo sguardo verso il sedile del guidatore, da dove la ragazza si stava alzando con grazia.
Aveva preso ad indossare vestiti leggeri, lunghi fin sopra le caviglie, che si gonfiavano al minimo soffio di vento, scoprendole le gambe longilinee dalla pelle immacolata.
Amore aveva scherzato più di una volta dicendo che era un suo vecchio ammiratore che le faceva i dispetti, qualcosa su un vento burlone che Gio non aveva capito davvero ed aveva preferito ignorare.
Il ragazzino espirò con forza, movendo qualche passo cauto, per non schiacciare nessuna vite e rischiare di cadere a gambe all’aria com’era successo qualche giorno prima. Quando rialzò la testa Amore era già davanti a lui, l’abito bianco pieno di minuscoli fiorellini azzurri sembrava uno scorcio su un prato di non-ti-scordar-di-me. Gio lo trovava adorabile, ma teneva quel pensiero per sé, incredibilmente imbarazzato dai suoi stessi pensieri.
«No.» borbottò lasciandosi prendere il volto dalle mani delicate e profumate della ragazza.
Amore gli posò un bacio a fior di labbra, strofinando poi giocosamente il naso contro il suo prima di abbracciarlo, lasciando che poggiasse il capo sul petto morbido, lasciato scoperto dalla scollatura bassa del vestito.
Gio inspirò profondamente, non erano solo le mani di Amore ad essere profumate, ogni parte della giovane lo era e Gio avrebbe giurato che il profumo fosse proprio quello dei famigerati fiorellini blu.
«Oh, è stata un brutta giornata?» chiese lei carezzandogli i capelli.
Stavano iniziando a crescere, Maria aveva ragione, ma Giordano sperava davvero, con tutto il cuore, che la ragazza non lo obbligasse a farseli tagliare dalla sua cameriera come l’aveva già minacciato di fare un paio di volte.
«Me sto a rompe le palle, lo posso di?» borbottò girando la testa per premere il naso contro le clavicole di Amore, prendendo un’altra boccato di quel profumo intossicante. Sentiva un vago retrogusto di cera e sì, lo sentiva proprio nel fondo della gola, come si sente il limone nella crema pasticcera.
«Lo hai detto, piccolo Gio. La mortale di Ade ti sta facendo impazzire?»
Giordano si lasciò sfuggire un verso simile al cigolio del portellone della corriera, girandosi definitivamente per stringere le braccia attorno alla vita fine di Amore e nascondere meglio il volto nel suo collo.
«Me tratta come se fossi un cagnetto da compagnia. Lo so che so’ più piccolo di lei, però manco a fa così. Non sto a fa niente, Amo’, non sto a fa proprio un cazzo-»
«Ah! Cos’è questo linguaggio con una signorina?» lo rimproverò lei bonariamente pizzicandogli un fianco.
Gio grugnì di nuovo. «Lascia sta, famme sto favore.» sospirò per l’ennesima volta e si distanziò da lei, quel tanto che bastò perché la giovane lo baciasse ancora sulla punta del naso, facendoglielo storcere ma riuscendo finalmente a strappargli un sorriso.
«Cosa ti fa fare la mortale? Ti infastidisce? Posso sempre andarle a parlare io se vuoi.» propose ammiccando divertita.
Gio alzò gli occhi al cielo. «Dio ce ne scampi e liberi! Se ce parli te finisce che je meni.» scosse la testa. «No, è che lei pure non fa niente. E c’ha lezione la mattina, quindi io devo starmene da na parte a aspettà. Di solito vado nel cortile ma fa un callo della madonna sti giorni, ce stanno così tante zanzare da ste parti che me domando come fa la gente a avecce ancora n’po’ de sangue in corpo.»
«Venezia è una citta lacustre, cosa ti aspettavi?»
«De certo no l’arberi de Roma, ve? I pini te lasceranno pure tutta la resina n’testa, ma aremno fanno ombra. Certo, te fanno pure sarta a strada, sai quee radici che casino che fanno? Poi la gente se lamenta che Roma è tutta n’dosso, e to credo, è pure fatta su sette colli, è tutto n’sali e scenn-»
«Qual è il vero problema, Giordano?» gli domandò Amore interrompendo il suo sproloquio sui pini romani.
Gio la guardò per un momento con le labbra strette in una linea fine. Poi, per l’ennesima volta, espirò pesantemente, sgonfiandosi come un suffé.
«Non sto facendo niente, ma proprio niente. Sto solo a perde tempo.» iniziò andandosi a sedere sul sellino mezzo rovinato della moto. Non ci si poteva proprio accomodare per bene o non sarebbe arrivato a toccare terra con i piedi. Questa cosa lo irritava moltissimo.
«Me dovrei allenà, mette su un po’ di muscoli.» fece un verso lamentoso e prese a scompigliarsi i capelli, grattandosi la testa innervosito. «Devo allenarmi, per diventare più forte. Non posso rimanere qui per troppo tempo, devo andare ancora più a nord, devo raggiungere la mia famiglia. Pluto mi aveva detto che dovevo solo passare a vedere come stava, a fargli compagnia per un po’ finché non sarebbe arrivato lui. Ma me pare ovvio che se la sta a fa a piedi!»
Amore annuì arricciando le labbra pensierosa. «La concezione del tempo è diversa per i mortali e gli Dei. “Per un po’” per te potrebbero essere un paio di settimane-»
«So pure troppe.»
«- ma per lui potrebbero essere mesi, anni.» concluse lei ignorando la sua interruzione.
Gio grugnì di nuovo, facendo sorridere la ragazza, che inclinò la testa di lato pensierosa mentre il ragazzino riprendeva a parlare.
«Ma non me ne posso manco andà così! J’ho detto che j’avrei guardato la donna, mica mo posso tiramme indietro.»
«Oh, guardargli la donna, cos’è? Un ninnolo da spolverare?» chiese lei divertita. «Però capisco il tuo punto, sei un amico fedele, mantieni la parola data.»
«Avoja! Nessuno li vole i traditori.»
«Quindi, se il tuo problema è il non fare nulla…»
«A parte er cane da guardia.»
«Più la dama da compagnia a giudicare a ciò che racconti, ma sorvoliamo.»
«Aoh!»
«Puoi sempre allentarti con me. Mio padre è il Dio guerriero per eccellenza, potrei insegnarti qualcosa, se vuoi.» propose arricciando le labbra in un sorrisetto provocatorio.
Giordano però la guardò per un lungo memento, serio e pensieroso, prima di scuotere la testa quasi dispiaciuto.
«Non lo so se ce la faccio a piatte a schiaffi. Lo so che sei forte, intendiamoci-» disse scivolando velocemente nel suo perfetto italiano accademico, «Ma se devo essere sincero, non credo di riuscire a colpirti, anche solo per allenamento. Anche con Thali non ci riuscivo mai. Raja sì, ma lei non la chiamano “La tigre araba” per niente. Raja fa paura se ti viene addosso.» borbottò battendo le palpebre come se stesse ricordando qualche esperienza poco piacevole.
Amore sorrise ancora più ampliamente, battendo le mani deliziata dall’idea che le era appena balenata in mente.
«Potrei sempre trasformarmi nella mia versione maschile! Sarei comunque un bel ragazzo, forse con dei lineamenti un po’ delicati, ma se fossi un maschio non dovresti avere troppi problemi, no?»
A quella proposta Gio alzò la testa di scatto, guardandola con rinnovato interesse, ma il suo sguardo scivolò subito su qualcosa alle spalle della giovane, fuori dalla corriera. Amore lo notò subito, voltandosi per capire cosa ci fosse di così interessante da aver attirato tutta l’attenzione del suo piccolo Gio e quando ebbe individuato la preda, una scossa fastidiosa le saettò sottopelle.
Appollaiato sul cofano della corriera se ne stava un corvo, apparentemente incurante le metallo rovente su cui poggiava le zampe rapaci, fissava con attenzione Giordano, senza mai battere le palpebre.
Un moto di rabbia s’accese negli occhi improvvisamente rossi di Amore, ma il ragazzino non si accorse di nulla, tanto era concentrato sul corvo, mente l’animale non la degnò neanche di uno sguardo.
 
«Lo so che può sembrare assurdo» iniziò con voce bassa Gio, «e so anche che gli animali si somigliano tutti, ma ti giuro che quel corvo mi segue. Posso metterci la mano sul fuoco, è sempre lui.» disse sicuro.
Amore annuì, fissando quell’uccellaccio del malaugurio come se potesse farlo sparire con un solo sguardo.
Oh, se non fossero stati i messaggeri di quell’essere li avrebbe fulminati con una delle folgori di Zeus, avrebbe rischiato una delle sue famosissime punizione solo per vederli arrostiti e fumanti come una portata principale di un banchetto reale.
Quando non ricevette alcuna risposta alle sue parole, Gio continuò a parlare, inclinando la testa di lato, imitato immediatamente dal corvo.
«Penso che sia più di una settimana che mi segue, sai? Gli ho dato da mangiare, gliene do quando si avvicina abbastanza, ma non lo fa mai a meno che non sia solo. E se c’è altra gente non posso lanciargli nulla, se no le domestiche di Maria mi gridano contro che sporco il patio. Lo faccio nascondere all’ombra durante le ore più calde. È tutto nero, con questo sole chissà quando soffre. Pensa che l’altro ieri sono riuscito anche a mettergli un po’ d’acqua addosso, per rinfrescarlo, penso abbia gradito.» si fermò un attimo e si voltò verso Amore. «Lo trovi assurdo?»
Lei scosse il capo. «No, assolutamente no. Anzi, sono sicura che sia sempre lo stesso corvo, ti segue da Roma ormai.»
Gio la guardò sgranando gli occhi scioccato. «Cosa? Per tutta questa strada? E come ha fatto? Co-» si bloccò. «-è uno dei vostri?» chiese poi cauto.
Anche a questo Amore dissentì. «È un seguace di tuo nonno, i suoi occhi e le sue orecchie. Credi davvero che solo la famiglia di tua madre ti abbia vegliato?» le chiese a sua volta.
Il ragazzino aggrottò le sopracciglia, preso alla sprovvista da quella domanda.
«Tu sei qui per questo?» ritorse.
La dea gli sorrise, avvicinandosi per carezzargli i capelli ed il volto, conscia della paura del ragazzino di essere null’altro che un lavoro da svolgere. «No, io ti seguo perché sono avara, sono ingorda… e non riesco a tenermi lontana da un fuoco, quando ne vedo uno. Specie se questo promette di bruciare come un rogo.»
Si abbassò su di lui e lo baciò ancora, il profumo intossicante dei fiori e della cera d’api invase l’intera corriera, distraendolo completamente, assuefatto da quell’odore così dolce e appiccicoso, così leggero e pesante da stordirlo sempre, senza possibilità di scampo.
Amore gli si fece più vicina, accomodandosi sulle sue gambe, stringendolo a sé, compiaciuta dalla presa sempre più sicura e spontanea che Giordano sfoggiava in queste situazioni.
Gli occhi chiari erano aperti, spalancati, puntati dritti in quelli neri ed inespressivi del corvo.
 
Sperto tu ti stia godendo lo spettacolo.
 
Il corvo mosse la testa con uno scatto improvviso, poi si alzò in volo, gracchiando il disappunto del suo padrone, girando in cerchio sulla corriera come il rapace che era, in attesa che la sua preda finalmente si arrendesse alla stretta della morte.
Ma Thanatos non era solito presentarsi lì dove già si trovava l’amore, non quando le mani di suo cugino erano ancora immacolate.
Avrebbe atteso pazientemente finché non fossero state sporche di sangue.



 
*
 



Quando era ancora un infante, gli adulti del suo quartiere, gli avevano sempre parlato liberamente di ogni cosa, ogni argomento. Ricordava distintamente che ciò su cui avevano più riserve era il denaro, gli scambi commerciali, piccoli trucchi con i venditori. Erano cose che alcuni erano disposti a condividere con te, almeno le cosa più banali certo, mentre altri tenevano segretamente per sé stessi.
In generale però ogni adulto, ogni giovane, ogni anziano, cercava di insegnare qualcosa ai più piccoli. Non c’erano limiti se non le capacità dell’individuo che doveva apprendere la nozione.
Per quanto riguardava invece le abilità, la staffa da cui partire era la capacità della persona, il fatto che comprendesse, che potesse effettivamente fare quella particolare cosa.
C’era un momento in cui mettere una bambina davanti al focolare, c’era un momento in cui insegnarle ad usare il telaio, quando metterle in mano un coltello per scuoiare una lepre, quando un falcetto per raccogliere il grano. Così come c’era un momento giusto per porre un bambino d’innanzi ad una forgia, dargli una zappa per arare i campi, una mannaia per macellare le bestie più grandi, un arco per cacciare, un arpione per pescare, una spada per combattere.
C’era un momento per ogni cosa e quel momento arrivava quando l’infante era in grado di comprendere il compito da svolgere.
Dal suo punto di vista quindici inverni erano più che abbastanza per ogni cosa che gli potesse venire in mente, figurarsi per una cosa tanto banale e triviale come uno sciocco bacio.
 
Cicno prese un respiro profondo e poi espirò, lanciando un’occhiata di traverso a Jane che, nello stesso momento, alzava gli occhi al cielo, ormai ad un passo dal gettarsi dal primo dirupo che fosse apparso sul loro cammino.
Un vero peccato se si pensava che i Campi Elisi fossero tutti in pianura.
Evidentemente la figlia di Ecate dovette pensare la stessa cosa perché gli chiese a mezza bocca.


«Quando velocemente puoi uccidermi con quei coltelli?»
«Abbastanza per poter uccidere anche me stesso prima che il tuo corpo tocchi terra.» rispose a denti stretti. Poi inclinò la testa dal lato opposto. «Abbastanza anche per portare te con noi, se può interessarti.»
A quelle parole seguì un verso lamentoso ma quasi sollevato.
Jonas strizzò gli occhi ed imprecò, portandosi una mano al collo come a voler allentare il giogo d’argento che riposava tiepido contro il colletto stretto dalla maglia.
«Non mi provocare, potrei accettare.» borbottò prima di girarsi di nuovo verso i compagni alle loro spalle e ripete, per l’ennesima volta.
«Volete smetterla per una buona volta!? State alzando un polverone per nulla!»
Eliza lo trafisse con lo sguardo, fin troppo seria. «Non è nulla. Ai miei tempi-»
«Lo so! Me lo avete ripetuto tutti! Ai vostri tempi se qualcuno avesse visto due uomini baciarsi sarebbe stata la fine! Lo so, lo so! Anche ai miei. Credetemi, lo so fin troppo bene!»
Lea si lasciò sfuggire un versetto lamentoso, quella discussione si stava protendendo decisamente troppo.
«Jonas, non è quello il problema-»
«Beh, sì, è anche quello invece. A nessuno di noi frega un cazzo di niente, anche perché non è che hanno limonato duro o che so io.» s’intromise Nathan, «E poi discendiamo dai fottuti Dei greci, quindi saremmo degli ipocriti di merda se fossimo omofobi. Ma resta il fatto che tipo, ai miei tempi, ti avrebbero arrestato. Ai tuoi invece, a casa tua, ti avrebbero fucilato sul posto o spedito nei campi di concentramento.»
«Non credo sia necessario raccontargli queste cose, Nathan. Chiudi la bocca.» lo reguardì la figlia di Apollo scorgendo il modo in cui Jonas rabbrividì. «Leggi la situazione!» bisbigliò poi sgranando gli occhi e facendogli secchi cenni verso il ragazzo.
Nathan la guardò improvvisamente confuso, cercando di chiederle silenziosamente cosa diavolo gli stesse cercando di dire, per fortuna Cade catalizzò velocemente l’attenzione su di sé.
«Ma sì, non ce ne frega niente a nessuno di noi! Ho avuto amici che, sì, insomma, erano interessati ad altro.»  disse alzando le sopracciglia e dando di gomito a Eliza che alzò invece gli occhi al cielo.
«Anche io, durante i mesi di guerra, ho sentito storie del genere, di soldati che si-»
«Sì, sì, quella roba lì.» tagliò corto Cade. «Però quello che ci turba tutti, oddio, tutti, angioletto certo no, ma son dettagli- dicevo! Quello che ci turba di più è che sei così-»
«Piccolo? Non ti azzardare a dirmi che sono troppo piccolo!» tuonò Jonas voltandosi di scatto verso Cade, sfidandolo con lo sguardo a proseguire.
L’irlandese aprì bocca per continuare ma questa volta fu Jane ad interromperlo:
«Non so come funzionasse durante la vostra epoca, ma da me le donne si sposavano molto giovani, quando potevano iniziare a procreare di solito. Ed era davvero difficile che sposassero uomini della loro stessa età, perché questi non avevano ancora una casa e non potevano sfamare una famiglia, tanto meno proteggerla al meglio.»
Cicno annuì. «Anche ai miei tempi. Se Jonas fosse stato una giovane avrebbe probabilmente già un figlio. A meno che non fosse appartenuta ad una famiglia facoltosa. Allora avrebbe avuto la possibilità d’aspettare e scegliere anche il miglior pretendente. Lo avrebbero scelto i suoi genitori ovviamente, suo padre principalmente, ma sarebbe comunque stata data in sposa da giovane, altrimenti come avrebbe fatto a crescere e accudire la sua prole?»
Jane concordò con lui, «Esatto, giusto un maschio poteva permettersi di aspettare e poi trovare comunque una sposa. Mi ha sempre disgustato questa cosa, perché un uomo può avere al fianco una moglie giovane e bella mentre una donna deve sempre avere un vecchio?»
«Mia madre non aveva un marito, era abbastanza comune anche questo nelle mie terre.»
«Davvero? Da me non sarebbe mai s-»
«Possiamo tornare al punto focale della faccenda?» domandò Eliza infastidita da quell’excursus non richiesto.
«E quale sarebbe, Elsa?» chiese Cade saltellandole vicino.
Lei lo fulminò. «Tu dovresti essere dalla mia parte. È ancora un bambino.» sibilò preoccupata.
«Ma quello mi preoccupa poco, ad essere onesti, io ho fatto di peggio alla sua età! Soldatino, tu?»
Nathan sussultò, ancora intento a scambiarsi sguardi interrogativi con Lea che si ostinava a fargli gesti che non capiva invece di parlare chiaramente.
«Io che?»
«Che hai fatto a quindici anni?»
«Sedici!» gridò Jonas esasperato.
«Sono andato in missione per-»
«Sì, sì, no, non ce ne frega un cazzo di quello.»
«E allora che cazzo vuoi! Roscio malpelo di merda!»
«Le cosacce che facevi con le ragazze! Su, su, che facevi da ragazzino?»
Nathan rimase per un momento interdetto, guardandolo senza capire.
Davanti a loro, Cicno sospirò ancora.
«Io all’età del giovane Jonas-»
«Tu avrai fatto le orge alla sua età, non sei un testimone parziale, cazzo!» lo zittì Nathan. Poi si schiarì la voce. «Non ti posso aiutare su questo, rosso, io ho una sola donna nella mia vita, mia moglie Lucy, l’ho conosciuta che avevo tredici anni e ci siamo fidanzati circa all’età del moccioso.»
A quella confessione seguì un lungo momento di silenzio, poi Cade, scioccato, allungò il passo per avvicinarsi a Cicno e bisbigliare:
«Ho capito bene? Ha scopato con una persona sola per tutta la vita?»
Cicno lanciò uno sguardo stranito a Nathan, «Non so se reputarlo onorevole o sciocco, ma pare proprio di sì.»
«Cazzo.»
«E sempre lo stesso…»
«VI SENTO PORCO DI QUEL ZEUS!» scattò il figlio di Ares improvvisamente paonazzo.
Cade però continuò ad adocchiarlo sospettoso. «Scusa amico, è che mi fa strano, davvero. Capisco tua moglie, ma te…»
«Questa cosa che se si parla di un uomo va bene che abbia relazioni con altre donna, ma se si parla di una donna allora è impensabile la trovo davvero ingiusta.»
Cicno si strinse nelle spalle. «Anche per me lo è, di norma, ma capisco che solo se una donna è illibata si può esser certi che il figlio che porta in grembo sia quello del padre. Vorrei comunque puntualizzare che non sempre è simbolo di certezza anche questo, ma almeno assicurava che la sposa non fosse già incinta prima del matrimonio e che l’uomo non crescerà figli non suoi. Era un’assicurazione per il proseguimento della stirpe.»
Jane sbuffò. «Quanto sei felice che il discorso si sia allontanato da te?» domandò rivolta a Jonas, mentre Lea si lanciava in un’arringa degna di un predicatore su quanto questo fosse ingiusto e degradante nei confronti di una donna.
Jonas si strinse nelle spalle, «Se si accorgono che sono troppo sollevato torneranno sicuramente alla carica, quindi no, non sono felice.»
Scosse leggermente il polso per sistemare il suo nuovo bracciale, sorridendo lieve quando abbassò lo sguardo verso la sua mano. Rialzò la testa e si guardò attorno cercando di scorgere qualcosa che potesse essergli utile, non si aspettava proprio delle indicazioni o dei cartelli stradali che indicassero tutti i templi presenti in quel quartiere, ma forse poteva riconoscere qualcosa di familiare.
O forse no, visto che non aveva la più pallida idea di quale fossero le insigne dei genitori divini dei suoi compagni.
Ricordava la statua di Atena, se non andava errato quella che l’accompagnava sempre era la Nike, quindi la madre di Eliza, ma dubitava fortemente che sarebbero incappati in un tempio con una donna alata sul tetto.
Poi chi altro c’era? Zeus? Un fulmine? Poseidone un tridente, Apollo il sole forse, ma Ares? Una spada? Un elmo?
Stavano girando da un po’ ormai, avevano incrociato una serie indefinita di piccoli tempietti e, se non se l’era immaginata, forse anche una chiesetta, ma apparentemente il panteon greco era così vasto da potercisi perdere dentro.
Aggrottando le sopracciglia Jonas si sporse leggermente in avanti, osservando un tempio sulle cui porte era disegnato un simbolo che avevano già incontrato, che stessero girando in tondo?
 
«Stiamo girando a vuoto.» proruppe fermandosi davanti alle scalinate di un tempio circondato da fiori di campo.
Gli altri smisero di discutere delle esperienze – o della loro mancanza – sessuali di Nathan e si concentrarono sul tedesco.
Úranus annuì cupo. «Dobbiamo muoverci con uno scopo, non possiamo continuare a vagabondare.»
«Anche perché sono abbastanza sicuro che siamo già passati davanti a questo simbolo.» disse Jonas indicando le porte.
Il figlio di Fobetore però aggrottò le sopracciglia crucciato. «Non lo conosco. Cicno? Nathan?»
L’americano si avvicinò, senza però osare salire i gradini, e osservò con più attenzione le incisioni.
«Che cazzo c’è scritto?»
«Non ne ho idea.» disse sincero Úranus.
«Però mi è familiare, sapete?» ammise Eliza guardando pensierosa la scritta.
«C’è scritto maison, è francese? Casa, quindi? Ma casa di chi?» domandò Lea aguzzando la vista.
«Non credo sia proprio maison, è scritto in modo diverso.»
«Il francese non si legge come si scrive, genio.» fece seccato Nathan.
Jonas gli lanciò un’occhiataccia. «Lo so, genio. Ma quello non è il modo per scrivere “maison” in francese, si scrive “m-a-i-s-o-n”. lì invece c’è palesemente scritto “m-a-n-s-i-o”, non stiamo giocando agli acronimi.»
«Allora dimmi che significa, o grande professore poliglotta.» lo sfottè ancora il figlio di Ares.
«Significa che non ci interessa e che dobbiamo tornare a cercare i templi dei nostri divini genitori.» tagliò corto Cicno mettendo una mano sulla spalla di Nathan e una su quella di Jonas e tirandoli gentilmente indietro.
I due biondi si guardarono in cagnesco, assecondando comunque i movimenti del greco, seguendo Eliza e Jane che stavano già tornando sui loro passi, allontanandosi da quel quartiere, dalle strade dritte e ben lastricate di piccoli sassi scuri, piatti e lisci.
Cicno attese che tutti i suoi compagni si muovessero prima di lanciare un ultimo sguardo al templio davanti a lui, per poi alzarlo verso quello decisamente più imponente che svettava dietro la fila di tempietti ordinati. Sulla parte centrale del decoro del timpano erano rappresentate due figure minute ed una fiera ad incombergli sopra.
Osservò per un attimo le lettere delle scritte incise sotto al bassorilievo, poi si voltò e raggiunse gli altri, allontanandosi anche lui da quella zona tanto familiare quando differente dal mondo che aveva conosciuto lui in vita.


I ragazzi lo attendevano ad uno dei numerosi crocevia che dividevano i vari quadranti della valle dei templi.
«A conti fatti dovremmo trovare prima il tempio di Fobetore, giusto?» disse Nathan guardandosi attorno.
Cicno annuì. «Sì, lui è il prossimo, dobbiamo cercare un templio dalle nere vestigia.»
«Beh, allora mettiamoci all’opera, non perdiamo altro tempo, abbiamo già vagabondato a sufficienza.» sospirò infastidita l’americana.
«Abbiamo solo scelto il lato sbagliato in cui addentrarci.» le rispose con tranquillità il greco, voltandosi poi verso la figlia di Ecate. «Pensi di poter tracciare la scia del potere del divino Fobetore?»
Jane lo guardò inespressiva, poi si strinse nelle spalle, facendo una smorfia insicura.
«Ci posso provare.»
«Sono sicura che puoi anche riuscirci.» la incoraggiò Eliza.
L’altra non ne sembrava molto convinta, ma provò ugualmente a concentrarsi sull’aura di Úranus e a ricercarne una simile. L’aveva già fatto in effetti, mente cercavano la sfera dei ricordi dell’uno o dell’altra persona, ma l’idea di ricercare volontariamente il potere degli incubi, d’essere legata ancora una volta ad Úranus, non l’emozionava per niente.
Chiuse gli occhi prendendo un respiro profondo e rabbrividì per la velocità con cui la Foschia sembrò rispondere al suo richiamo. Fu una sensazione strisciante, che le solleticò le caviglie e la fece muovere inquieta sul posto, cercando di sollevare i piedi da quella pozza melmosa invisibile che le si era creata attorno.
Dietro di lei Eliza allungò una mano, come per sorreggerla, ma Cicno la intercettò rapido, facendole cenno d’arretrare e non interferire in qualunque cose stesse succedendo.
Alle volte il greco si rendeva conto di quanto dovesse essere difficile o curioso per loro assistere al palesarsi del potere di una divinità o di un suo discendente, ma questa non era una giustificazione sufficiente affinché mettessero il naso in ogni dannata azione degli altri, specie se una qualunque interferenza poteva portar a potenziali ritorsioni verso chi stava eseguendo la malia o chi lo circondava.
Jane nel mentre si costrinse a rimanere ferma nel momento in cui si accorse che quella spiacevole sensazione la seguiva ad ogni passo.
Deglutì imprecando a denti stretti, stringendo ancor di più gli occhi e concentrandosi sul movimento della Foschia. Per un momento, nel buio delle sue palpebre, le parve quasi di vedere una corrente, nebbia bianca e fumosa che s’allontanava lentamente da lei, quasi a fatica. Si spostò verso una figura massiccia ma imprecisa, attraversandola e tingendosi di una sfumatura più cupa, continuando il suo percorso come se stesse seguendo il letto di un fiume invisibile, serpeggiando tra i templi, verso quello che Jane sapeva essere il nord.
La strega riaprì gli occhi di scatto, puntandoli verso la direzione in cui si era mossa la nebbia sporca della scia semidivina di Úranus.
Con cenno della testa indicò loro la direzione. «Dovrebbe essere di là. Quello, o la Foschia si sta prendendo gioco di noi. Di me più che altro.»
Cade batté le mani soddisfatto, «Beh, tanto cosa abbiamo da perdere? Alle brutte cerchiamo a caso come prima.»
«Ma si, cosa abbiamo da perdere.» ripeté Nathan sarcastico.
«Tipo la spiegazione alla prossima prova.» borbottò di rimando Jonas, improvvisamente d’accordo con il soldato come prima ne era stato in disaccordo.
Lea abbozzò un sorriso, era divertente come i ragazzi passassero dal darsi contro al supportare lo stesso punto in un batter d’occhio, le sembrava quasi di rivedere suo fratello ed i suoi colleghi, una vita prima, dissentire su una diagnosi e poi prendersi un caffè insieme in allegria.
Il pensiero di Giuseppe la rapì per tutto il tragitto. Si domandò più volte se anche lei avrebbe visto un suo parente invece del suo divino genitore, e per quanto le sarebbe piaciuto poter incontrare sua madre era più che consapevole del fatto che l’unica persona in grado di convincerla a fare qualcosa sarebbe stato proprio suo fratello, nessun altro. Era la sua unica famiglia.
Gettò uno sguardo ai suoi compagni, probabilmente Cade avrebbe rivisto uno dei suoi amici, Jane i suoi genitori mortali? Nathan sua madre o sua moglie, ma Lea era consapevole, così come il soldato, che entrambe le donne fossero rinate; quindi, questo già gli rendeva le cose più semplici, in un qualche modo. Úranus era quello ad avere la più alta probabilità di incontrare suo padre mentre per quanto riguardava Eliza e Cicno… loro erano un vero problema. La donna aveva già incontrato suo padre, non aveva fratelli da quel che sapeva e neanche amici stretti, o per lo meno non ne aveva mai parlato. Mentre Cicno- Cicno non aveva nessuno.
Su quella realizzazione si fermarono all’inizio di un viale, del tutto simile a tanti altri che avevano già percorso.
Lea si riscosse dai suoi ragionamenti e osservò con attenzione i vari templi, individuandone un intera fila nera come l’onice.


«Beh, direi che li hanno messi tutti insieme.» proruppe Cade grattandosi la testa. «Com’era? Se sono neri sono legati a cose negative, spaventose o alla morte?»
Jonas storse il naso. «Il potere di mio padre non è così negativo.» disse come a giustificarlo.
Jane alzò un sopracciglio scettica, «Rimpianto d’amore, abbandono, nostalgia, perdita-»
«Va bene! Va bene! Ho capito, negativo, va bene.» saltò subito il ragazzino fermando la compagna.
Úranus non disse nulla per provare a difendere l’onore di suo padre, sapeva perfettamente che per quando il dio si fosse dimostrato magnanimo, gentile e affettuoso nei suoi confronti, il dominio sugli incubi e sulle paure più recondite non era certamente motivo di vanto.
Una brezza leggera gli sfiorò il volto ed Úranus non seppe dire se fosse ancora la Foschia evocata dalla figlia di Ecate o se invece fosse suo padre che lo chiamava. Non gli sarebbe servito comunque, perché il semidio aveva riconosciuto immediatamente la casa di suo padre non appena vi aveva posato lo sguardo sopra.
Con lentezza Úranus si voltò a guardare i suoi compagni, i loro sguardi curiosi e attenti, che cercavano di scorgere un simbolo, un nome. Sorrise mesto finché non incrociò lo sguardo di Cicno.
Il figlio di Apollo lo guardò come se potesse leggergli nella mente, nell’anima. Come se, in fondo, lui già sapesse ogni loro mossa futura.
Annuì una sola volta, in modo solenne, senza indicargli il templio giusto, senza incoraggiarlo o dirgli di sbrigarsi. Solo una parola.
«Vai.»
Quel suono richiamò l’attenzione di tutti ed Úranus sorrise più ampiamente.
«Vado.»
Non si voltò, alzò a mala pena una mano quando sentì gli schiamazzi di Cade, gli incoraggiamenti di Jonas ed Eliza, la voce burbera di Nathan e Jane che gli chiedevano di sbrigarsi e non perdere tempo, gli auguri di fortuna di Lea.
Quando salì le scale del tempio di suo padre e le porte gli si aprirono davanti, mosse da un potere divino, Úranus ricordò dopo secoli ciò che si prova nel ritornare a casa dopo un lungo viaggio.
 
Le porte si richiusero.
L’attesa iniziò.
 


 
*
 



Il silenzio che percepiva attorno a sé non era vero silenzio.
C’era il frinire costante delle cicale, il ronzare senza posa degli insetti, il suono perpetuo delle foglie che sfregavano le une contro le altre.
La luce era calda e sfocata, brillava sulle piante verdi, incendiava la sterpaglia calpestata dalle ruote delle carriole, quella tagliata e ammassata ai lati della terra battuta.
Seduta sul muretto basso poteva sentire il tufo sgretolarsi sotto i palmi delle mani dalla pelle tirata e secca. Erano morbide di solito, le sue mani, ma sempre leggermente ruvide. Sua madre le ripeteva che erano le mani di una piccola donna, perché lavare i piatti, i pavimenti, strofinare con forza le lenzuola nei vasconi della piazzola rendeva la pelle spessa e resistente, adatta per il lavoro.
Anche strappare l’erbaccia aiutava, star chini a tagliar il grano, a far la cicoria che suo padre tanto amava ma che a lei, se poteva esser onesta, non aveva mai entusiasmato troppo.
È una cosa da adulti”, era la frase preferita di suo padre. Lei non poteva capire perché era piccola e perché era femmina, due cose che non potevano proprio portare a nulla di buono.
Ma suo padre anche non portava mai nulla di buono, quindi, a rigor di logica, anche questo andava bene in lei, proprio come i calli sulle sue mani da bambina.
Alzando la testa socchiuse gli occhi per cercare di contrastare la luce accecante del sole. Lungo la fessura lasciata libera dalle palpebre, unico spiraglio da cui scrutare il mondo, l’ombra delle ciglia si sovrapponeva e si sfocava, presente e scura un secondo, invisibile l’altro, mischiandosi a quel costante luccichio che ogni raggio luminoso le specchiava nelle iridi calde e brillanti.
Si portò una mano sopra gli occhi, la mosse per scostarsi la frangia dalla fronte e poi la riportò in posizione.
Secondo il signor dottore i suoi occhi erano uno svantaggio, una vera sfortuna, i colori strani non sono mai una cosa positiva, sono sensibili, solo deboli, fallibili più di ogni occhio comune. Eppure lei ci vedeva benissimo, anzi, ci vedeva fin troppo bene, vedeva con chiarezza cose così distanti che solo un binocolo avrebbe potuto scorgere. Vedeva così sua madre, indaffarata a spolverare l’altare della Madonnina che vegliava i campi coltivati a viti e mele cotogne, sui cui lati crescevano verdure selvatiche, al cui limitare s’aprivano i campi di grano giallo ma ancora poco maturo.
Vedeva gli uomini ammassati sotto all’ombra del melo più grande di tutti, con uno straccio attorno al collo, che indicavano zone diverse di quelle grandi distese di foraggi.
In mezzo alle spighe luccicanti come un mare su cui si specchia il sole, vedeva piccoli esserini verdastri saltellare al fianco di un paio di giovani dalla pelle dello stesso colore del grano, i capelli bianchi come le punte delle spighe, gli occhi verdi come i chicchi acerbi.
Le vedeva da una vita, le vedeva da sempre, vedeva anche ciò che gli altri non potevano vedere.
Vide perfettamente anche la bella donna che le si stava avvicinando e non appena questa lo fu troppo abbassò la testa, nascondendosi sotto la frangia lunga che, a differenza di ogni madre, la sua non le imponeva di tagliarla. No, era meglio avere qualcosa con cui coprirsi.
La donna era forse la persona più bella che avesse mai visto, il corpo morbido era avvolto in un abito che pareva esserle stato cucito addosso, nonostante non fosse di un tessuto lussuoso e ricco, pareva semplice cotone tinto di rosso, sbiadito come se fosse stato lavato troppe volte. La camicia bianca che indossava fuoriusciva voluttuosa dallo scollo squadrato ed abbondante, come lo era il seno più che generoso che vi si affacciava. Non poté far a meno di pensare che, con quel sole, a fine giornata la signora avrebbe avuto il seno tutto bruciato.
Le maniche erano rimboccate fino ai gomiti e sebbene la sua pelle fosse abbronzata, come quella di ogni contadina, non aveva graffi né cicatrici, non aveva macchie, non aveva calli.
Sbirciò il suo volto cercando di non incrociare il suo sguardo, come suo padre le ripeteva sempre di fare, e si sorprese nel notare che anche quello era liscio, pulito, senza alcuna macchia. Pareva giovanissima, eppure doveva avere almeno trent’anni, forse qualcosa di più, ma i capelli scuri, lunghi e mossi, che portava tenuti su da un fermaglio alla bene e meglio, le davano un’aria giocosa quanto sicura. Era uno strano pensiero quello che le venne, ma non poté farne a meno.


«Ciao bambina, sei da sola?» le chiese con voce melodica.
Lei negò, abbassando ancora di più il capo.
«Comi ti chiami?» domandò ancora.
La bambina storse il naso, non poteva rimanere in silenzio, sarebbe stato da maleducati, ma non poteva neanche risponderle senza guardarla negli occhi, anche quello sarebbe stato maleducato.
Sospirando prese un poco di coraggio e alzò la testa, puntando lo sguardo scintillante in quello della donna.
«Clara.» disse solo, senza aggiungere altro.
Non avrebbe potuto neanche volendo, neanche se fosse stata come Flaminia, la figlia del macellaio, che era sempre tanto allegra e spigliata e che parlava addirittura con lei, anche se in molti le dicevano di non farlo.
Non avrebbe potuto perché gli occhi della donna la lasciarono impietrita.
Erano rosa. Rosa come i fiori, come i gerani, come i vestiti nelle vetrine dei negozi del centro, come la marmellata di visciole spalmata sul pane. Rosa come il cielo dipinto dietro al ritratto della Madonna che stava nella loro chiesetta.
«Sei la figlia di Ada?»
Clara annuì, balbettando incerta. «E di Giovanni. Mancini.»
La donna si portò una mano al mento, pensierosa. «Mh, ho sentito delle storie. C’è questa povera donna, la sora Ada, che ha pianto per anni l’arrivo di un figlio che suo marito non riusciva a darle, e tutte le colpe le davano a lei, si? Che non era abbastanza forte per crescere un bambino, ma alla fine quello toccato era lui, l’hanno scoperto perché tradiva la moglie da sempre ma non aveva neanche un figlio illegittimo. E proprio per questo, quando finalmente qualcuno lassù, ha esaudito il suo desiderio e il marito è riuscito a darle un figlio, è nata una bambina.» si fermò, piegandosi di lato per sbirciare sotto la frangia di Clara, per scorgere i suoi occhi sfuggenti, lucidi, fin troppo espressivi, soprattutto per una come lei.
«È nata femmina e con gli occhi dei gatti.» continuò, osservando senza paura e senza ribrezzo, senza compassione, quelle iridi gialle che tanti bisbigli suscitavano, che facevano parlare così tanto la gente superstiziosa ed ignorante.
Già non riuscire ad avere un figlio era un brutto affare, ma che il primo fosse femmina, in una famiglia di contadini, e con gli stessi occhi dei gatti neri… quella sembrava quasi una maledizione, un eterno monito per il padre, per ricordargli quanto le sue azioni fossero state meschine, per rivedere in sua figlia le conseguenze dei suoi peccati.
Adulterio. Lo sapevano tutti, lo mormoravano dietro le persiane scorticate dal calore rovente delle campagne romane, dalle piogge torrenziali di aprile e dal freddo umido dell’inverno.
Era così che finalmente, il signor dottore, aveva smesso di dire alla sora Ada che il problema era il suo grembo, perché il sor Mancini aveva un lungo trascorso di scappatine e mai nessuna, neanche la più giovane delle sue amanti era rimasta incinta.
Clara queste cose le sapeva, ne era perfettamente cosciente, aveva undici anni dopotutto e sua madre, quando andava a confessarsi, se la portava dietro e la faceva rimanere seduta vicino al confessionale, così che non si cacciasse nei guai. L’aveva sentita pregare per la salvezza dell’anima del marito, di suo padre, e aveva sentito il parroco dirle quanto fosse nobile e cristiana la sua speranza di redenzione di quell’anima peccatrice, che il Signore fosse fiero di quella sua figlia che aveva perdurato nelle avversità, che aveva tenuto fede al sacro vincolo del matrimonio e mai aveva indietreggiato anche quando l’umiliazione era stata più cocente.
Dio l’aveva vista, aveva avuto pena di lei e per ricompensarla delle sofferenze che aveva vissuto e che continuava a vivere le aveva concesso finalmente un figlio.
Lei era la ricompensa di Ada per tutte le sue pene e il monito perpetuo di Giovanni per i suoi peccati. Lo sapeva, ma quanta rabbia le faceva sentirselo ripetere.
Non commentò però, non rispose perché era una bambina educata e le suore la prendevano a schiaffi se diceva male di qualcuno o a qualcuno, perciò non fiatò, aspettando che la bella signora continuasse a parlare.
«Sì, non è per niente bello sentirsi ripetere tutte le nostre disgrazie, vero?» chiese lei sorridendo sorniona.
Clara la guardò impietrita, il volto non trasmise la minima emozione ma gli occhi scintillarono come il grano colpito dal sole.
Che la signora le leggesse i pensieri? O forse l’aveva detto ad alta voce senza accorgersene?
La donna scoppiò a ridere, deliziata da quella situazione, divertita dai pensieri spaventati della bambina.
Aveva una risata alta e allegra, chiara, piacevole da ascoltare e senza smetter di ridere si infilò una mano sotto la piega della gonna, nella tasca spaziosa, e ne estrasse qualcosa.
Quando lo porse a Clara la bambina lo identificò subito come un coltellino, un coltellino a serramanico come quelli che portavano con loro i contadini per tagliare i grappoli dalle viti. Il legno era caldo, rossastro, e la vite che teneva la lama al manico sembrava d’oro puro tanto era lucida.
«Prendi questo bambina. Ti stai facendo grande, presto diventerai una signorina, attirerai molta più attenzione di quanto non puoi immaginare. Allora non ci sarà più nulla che potrà proteggerti, dovrai imparare a far da te.» le mise il colettino nelle mani e le strinse con sicurezza.
«Un giorno verrà qualcuno per te, per portarti via da qui, ma fino ad allora dovrai cavartela da sola, devi sopravvivere.»
Quell’ultima frase le fece venire i brividi, ma la bella signora non aggiunse altro. Si voltò sorridendole un’ultima volta, sembrava quasi che per lei tutta quella situazione surreale fosse motivo di gran divertimento, come se non le avesse appena ricordato la sua storia, come se non le avesse appena detto che presto non sarebbe più stata protetta dal suo essere una bambina ma sarebbe stata vista come una donna, con tutto ciò che ne derivava.
La signora si incamminò verso il fondo della vigna, verso i campi di grano, ancheggiando morbidamente, con i capelli che oscillavano sulle spalle fini.
Clara si rese conto solo in quel momento che fosse scalza.
Abbassò lo sguardo sul coltellino, indugiando un momento prima di aprirlo facendo attenzione a non ferirsi.
Sotto il sole impietoso, luminoso come i suoi occhi, la lama d’oro brillava di uno strano pulviscolo bluastro.
Il cuore le batté prepotente nelle orecchie, come un tamburo da parata.
La terra le parve tremare per un istante, il vento smettere di soffiare, ogni animale tacere, il cielo pulsare a ritmo del suo stesso sangue.
Chiuse il coltellino con uno scatto secco.
Tutto tornò come prima.
 

 
*



 
Il pavimento era pulito ma opaco, la pietra non era stata lucidata a specchio come sicuramente lo era nei tempi dei Grandi Dodici. Úranus non ci fece molto caso, non era lì per osservare la casa di suo padre, in un qualche modo già la conosceva, sapeva cosa avrebbe trovato al suo interno esattamente come, a distanza di secoli, ricordava alla perfezione com’era la vecchia capanna in cui viveva con sua madre.
Camminò ad agio, tranquillo, lentamente. I suoi amici lo avrebbero perdonato se si prendeva quell’attimo tutto per sé, se non correva verso la sala principale, quella in cui doveva trovarsi lo stendardo di suo padre ed il suo simbolo. Dubitava di trovarvi un idolo o anche solo un bassorilievo. Fobetore non era mai stato rappresentato come un uomo troppo bello, in alcune storie veniva rappresentato come un mostro, mezzo umano e mezzo bestia, l’incubo di molti uomini. Non era strano quindi che nessuno tentasse di rappresentarlo, venerare una creatura aberrante era materia da pochi culti.
Scacciando dalla mente quei pensieri Úranus continuò a camminare fino a quando non individuò un arco di legno, formato da tronchi massicci, privi di corteccia, da cui pendevano liane limacciose, come quelle che tante volte aveva visto nei fiumi e nei laghi, quelle che gli uomini associavano ai mostri marini, alle alghe che si avviluppavano alle gambe dei nuotatori inesperti e disattenti e che li trascinavano sui fondali sabbiosi. Quando vi passò attraverso le trovò asciutte ma morbide, gli carezzarono la pelle come aveva fatto prima il vento, la Foschia e come aveva fatto secoli addietro suo padre.
Non chiuse gli occhi, non sentì il bisogno di prepararsi in alcun modo a qualunque cosa l’aspettasse. Forse perché era convinto che sarebbe stato Fobetore stesso ad attenderlo, come gli aveva promesso solo poche ore prima, dubitava fortemente di poter rivedere sua madre ed in fondo al suo cuore, anche se non credeva suo padre capace di tanta crudeltà, sperava di non rivedere la donna per il solo timore di trovarla ancora incinta. Non avrebbe sopportato l’idea di saperla morta ancora gravida, finché qualcuno non glielo avesse detto, Úranus avrebbe potuto continuare a sperare, ad illudersi, in eterno che suo fratello fosse nato, che la sua morte non fosse stata vana, che la persona che aveva più amato al mondo fosse riuscita a sopravvivere e crescere un’altra creatura pura e gentile come lo era lei.
Le luci della sala centrale erano poche ma luminose e fu con grande sorpresa che Úranus si rese conto da dove provenisse tutto quel chiarore: finestre.
La sala sembrava una piccola chiesetta, le colonne che la costeggiavano era di marmo grigio e grezzo, sopra di esse una fascia di muro ospitava un totale di otto finestrelle quadrate da cui entrava una luce così- naturale, mattutina, terrena.
 
Viva, umana. È la stessa luce che filtrava dalla finestra vicino al camino, quando il sole freddo dell’alba inondava la stanza e ci svegliava. Come la luce di casa.
 
Il soffitto spiovente era semplice, travi e mattoni, nulla di più. Così come l’altare posto al capo opposto della sala rettangolare.
Su di esso un braciere circolare, di metallo annerito esattamente come la vecchia pentola in cui sua madre preparava le zuppe, ospitava tizzoni ardenti ma nessun fuoco, come le braci che lente si sopivano nel loro cammino durante la notte.
Quell’atmosfera così tranquilla e silenziosa lo fece sorridere più apertamente, portandolo a prendere un respiro profondo ed inalare l’odore della sua vecchia vita, qualcosa che non avrebbe mai creduto di poter ricordare.
Fu forse quello a distrarlo, l’ambiente familiare, i ricordi del passato, di una vita a cui non sarebbe più potuto tornare.
 
Che senso ha, allora?


Gli sembrava di poter respirare dopo anni, secoli in cui era stato privato di quella semplice quanto necessaria azione. E non era più l’aria solforosa, umidiccia e polverosa dell’Ade. Non c’era il pulviscolo denso delle Sfere di Ermes, o la cenere dell’Area Cani. Non sentiva l’odore soffocante dell’edera e quello ferroso del sangue. Era aria pulita, di bosco, di fiume, di paglia e verdure stufate.
 
«È rassicurante, vero?»
 
Úranus si voltò verso la direzione da cui proveniva quella voce, sorpreso di trovare qualcun altro lì dentro, certo che ogni figlio avrebbe dovuto affrontare la prova del proprio genitore da solo.
Davanti a lui però, che si alzava con lentezza ed un poco di fatica da una sedia mezza nascosta dall’altare, c’era un uomo, un anziano.
Doveva esser stato molto alto da giovane, forse quasi come Úranus, ma la vecchiaia si era poggiata sulle sue spalle, ingobbendolo sotto il peso degli anni. Sembrava robusto però, un uomo a cui non era mancato il cibo ma che probabilmente se l’era procacciato da solo. La casacca scura ed i pantaloni di pelle lo classificarono subito come un cacciatore ai suoi occhi e la cicatrice che s’apriva sulla sua guancia confermava i suoi pensieri.
Aveva un volto gentile, specchio di un animo tranquillo e pacifico.
Ma ciò che forse più sorprese Úranus furono gli occhi, chiari, freddi come il ghiaccio, ingrigiti dalla vecchiaia, dalla fatica, dal tempo. Occhi svegli, acuti, gli occhi di un cacciatore, senza dubbio, ma anche quelli di un cercatore, capaci di riconoscere piante e radici, di scorgere segni dove gli altri non vedevano nulla, scoprire le tane degli animali, leggere l’agguato di un predatore nel leggero muoversi di un ramo.
Úranus ne era sicuro, sapeva per certo che quella era stata la vita dell’uomo, perché il suo sguardo era identico a quello che aveva sua madre nei suoi ricordi.
 
«Tornare a casa è sempre ciò che bramiamo di più.» continuò lui avanzando con calma, spostando con un po’ di difficoltà la gamba destra.
Scorse subito lo sguardo di Úranus e sorrise annuendo. «Una delle mie ultime battute di caccia. Mio nipote mi aveva pregato di rimanere in casa e lasciar andare solo lui e suo padre, ma fui testardo, volevo un’ultima avventura.» disse battendosi la mano sulla gamba malandata. «Sono caduto. Davvero deplorevole per un cacciatore, avrei preferito fosse una bestia, avrei potuto raccontare storie fantastiche. Un racconto eroico.»
Úranus annuì a sua volta, a corto di parole. «Certo.»
«Ti ho forse sconvolto?» chiese l’uomo ridendo. «Non sono morto per questo, se è ciò che ti stavi domandando. No, Thanatos è venuto a farmi visita quando riposavo nel mio giaciglio, dopo esser sopravvissuto a molti più inverni di quanti me ne sarei aspettato. Con una compagna amorevole, quattro splendidi figli, molti nipoti in forze ed in salute.»
«Ne sono lieto per voi.»
«Grazie. Anche se non ho avuto una morte eroica come la tua.»
A quello Úranus drizzò la schiena attento. «Conoscete le ragioni della mia morte?» domandò guardingo.
L’uomo fece un cenno con il capo. «Nostro padre me ne ha parlato.»
Oh, quindi anche lui era un figlio di Fobetore.
A quella rivelazione Úranus lo guardò con più attenzione, curioso di scorgere qualche somiglianza, qualcosa che lo legasse a suo- loro padre. Era la prima volta che si trovava davanti ad un altro figlio degli incubi.
Ma qualcosa in quella frase lo fece crucciare.
«Siete un figlio di Fobetore anche voi?»
«Esattamente.»
«Perché- per quale motivo nostro padre vi avrebbe parlato di me? Ha cresciuto anche voi?»
L’uomo alzò la mano con lentezza. «Te ne prego, non darmi del voi, puoi chiamarmi Elskadur.»
Úranus rimase interdetto da quel nome, palesemente islandese, incerto se doversi presentare o meno visto che l’uomo conosceva la sua storia.
«Siete- non sei un concorrente, vero?»
L’altro scosse il capo. «No, non lo sono. Ho vissuto la mia vita in modo pieno e gioioso. Ho sofferto, affrontato periodi di grande difficoltà, ma non ho alcun rimorso, solo… solo un rimpianto e una promessa da mantenere.»
Úranus non sapeva cosa fare, così attese paziente che l’uomo continuasse.
«Anni ed anni addietro, promisi a mia madre che un giorno, quando sarei giunto nella terra dei morti, avrei cercato una persona a lei cara, qualcuno che non ho mai avuto la possibilità di incontrare ma a cui devo tutto. Devo la vita. Il mio rimpianto è di non averlo mai conosciuto.» sorrise, avvicinandosi sino a fermarsi di fronte a lui. «Non averti mai conosciuto in vita.»
«Me?» chiese Úranus stupito.
Elskadur sorrise ancora più ampliamente. «Che bisogno aveva nostro padre di raccontarmi come hai lasciato il nostro mondo, fratello?»
«Per metterti in guardia da-» iniziò fermandosi subito dopo.
Che sciocco, che stupido. Era così palese ed ovvio.
L’anziano rise bonario, un suono basso e vibrante che scaldò il cuore di Úranus come poche cose erano riuscite a fare in tutta la sua esistenza.
«Ti devo la vita, fratello. Sia io che nostra madre.» continuò senza smettere per un momento di sorridere. «Sei riuscito nella tua missione, nostra madre è scappata, è giunta sino ad un villaggio sulla costa, nostro padre l’ha scortata fino a lì, in un luogo sicuro. Era questo il tuo desiderio per noi, rammenti?»
Úranus lo fissò a corto di parole, uno spiacevole pizzicorio agli occhi lo costrinse a strofinarli con la mano e quel gesto non fece che scaturire altre risa da parte di Elskadur, che gli poggiò una mano sul braccio con cui si copriva il volto, prima di tirarlo a sé, abbracciandolo con fermezza.
«Grazie, fratello. La tua morte è stata dolorosa ma onorevole. Nostra madre mi chiese di vivere anche per te ed è ciò che ho fatto. Ho vissuto anni meravigliosi, le mie più grandi vittorie e gioie sono state dedicate al tuo ricordo. Il mio primo figlio porta il tuo nome, ben tre dei miei nipoti portano il tuo nome!» rise di nuovo battendogli la mano sulla schiena.
Sciolse l’abbraccio e gli prese il volto tra le mani. Mani rugose, callose, vecchie, forti e calde.
 
Vive.
 
«Era tutto ciò che desideravo.» si risolse a dire Úranus, con un filo di voce tremante.
Elskadur lo sapeva, glielo poteva leggere negli occhi freddi e limpidi come il ghiaccio, come sarebbero diventati i suoi se anche lui fosse riuscito ad invecchiare, se il destino non fosse stato così crudele.
«Nostra madre è rinata, so che ti ha cercato, quando è giunta in queste lande, ma non è mai riuscita a trovarti. Lasciò un messaggio per me e la guardia rossa me lo consegnò al mio arrivo. È rinata secoli addietro, forse hai incontrato il suo nuovo spirito camminando nei Campi Elisi, forse hai parlato con lei e siete divenuti amici.»
Úranus tirò su con il naso, ridendo al suono che produsse e allo sguardo dolce di suo fratello, di suo fratello minore, che era riuscito a nascere, che era sopravvissuto, aveva vissuto una bella vita, era stato felice ed era morto in pace. 
«Perché tu sei ancora qui? Non sei rinato?» domandò curioso.
Elskadur mosse la testa come se volesse negare ma non potesse farlo completamente.
«L’ho fatto in realtà, questa è la seconda volta che mi trovo dentro queste mura.»
Il fratello sgranò gli occhi, ora confuso. «Come puoi essere qui per la seconda volta ed avere memorie di me? Della tua vita passata, di nostro padre e nostra madre-»
«Proprio per merito suo.» spiegò con semplicità. «Sono nato e morto due volte, sono giunto nei Campi Elisi entrambe. La seconda sono nato in una cittadina della Turchia che ora non esiste più, e ricordo quella vita, la ricordo con affetto. Ricordo altri genitori, fratelli, amici, amori, figli e nipoti. Ma quando varcai per la seconda volta quelle porte, nostro padre mi fece visita e mi permise di ricordare ancora. Sai cosa succede quando rinasciamo, fratello?»
Úranus scosse la testa, il volto ancora stretto tra le mani di Elskadur, e l’uomo gli spiegò ad agio: «Quando nasciamo per la prima volta un capo di un filo viene tirato dal filo dei nostri genitori. Ma al termine di quella vita, se decidiamo di tornare sulla terra dei mortali, vengono presi due nuovi capi, provenienti da due diversi esseri, e vengono intrecciati fittamente attorno al nostro precedente filo.
Non cessiamo mai di essere chi eravamo prima, le nostre azioni, i nostri peccati e le glorie, tutto segnerà cosa saremo in futuro, traccia una linea che ci sarà da guida in quella nuova vita.
Nulla viene cancellato o distrutto, muta solo il suo aspetto.
Nostro padre ha fatto sì che i fili della mia seconda possibilità si allentassero e che l’anima centrale del filo, per quanto vecchia e malandata e lavata nel Lete, tornasse ad esser vista.
Avevo un solo rimpianto, un solo desiderio da realizzare e lui ha fatto sì che potessi adempiere al mio dovere fino alla fine.»
Úranus batté velocemente le palpebre, il volto di suo fratello si sfocò, le lacrime che si erano aggrappate così ferocemente alla rima dell’occhio cedettero, scivolando sulle guance, bagnando le mani di Elskadur.
«Ti ha fatto ricordare- ti ha fatto ricordare per me?» domandò con voce fine, quasi un pigolio, così in contrasto con la sua figura grande e forte.
L’ansiano gli sorrise, annuendo soddisfatto. «Mi ha fatto ricordare per te. Per permettermi di conoscere l’uomo che permise la mia esistenza, la mia nascita. Per esaudire l’ultimo desiderio di nostra madre. Mi ha fatto ricordare affinché questa volta sia io a salvare te.»
Quelle parole, per quanto fraintendibili, suonarono chiarissime alle orecchie di Úranus che non poté far altro che ridere, singhiozzando felice prima di stringere le braccia attorno a suo fratello, aggrappandosi a lui come non aveva mai potuto fare, facendogli scudo dal mondo come gli era stato negato in vita.
«Estia è misericordiosa, fratello. Non tutti gli Dei approvano questa gara, ma tra coloro che la supportano, alcune anime gentili, faranno in modo di saldare i debiti, di dar finalmente giustizia a chi non ne ha avuta in vita.» spiegò carezzandogli i capelli, sostenendolo in quel pianto liberatorio che si era costretto a tener per sé per tutti quei secoli. «La divina Estia concede la rinascita a coloro che non vorranno continuare la sfida. Concede la rinascita-» disse allontanandosi un poco da lui, riprendendogli il viso tra le mani, «- al fianco di coloro che hanno amato. Potremmo essere finalmente fratelli, nostro padre me lo ha giurato.»
Úranus annuì, le labbra serrate nel tentativo di non far rumore, di non lasciare che i suoi singulti rimbombassero per quella cattedrale vuota e luminosa.
«Potremmo tornare a casa, certamente una casa nuova, con nuovi volti e nuovi nomi, ma saremmo assieme, fratelli, come c’era stato promesso una vita fa. Vuoi tornare a vivere con me, Úranus?»
Le lacrime continuarono a scendere prepotenti sul suo volto ma, infine, sorrise.
 


 
*
 



«Ci sta mettendo tanto quanto me?» chiese Jonas sospirando, seduto sul primo gradino del tempio di Fobetore, con le gambe lunghe distese davanti a sé, facendo scontrare pigramente le punte rinforzate degli scarponi.
Erano pesanti quei dannati cosi, come faceva Nathan a correre, lottare, anche solo camminare?
Di fianco a lui Cade si era invece disteso, usando la sacca come cuscino. Aveva tirato fuori il suo coltellino da intaglio e ora se lo rigirava pigramente tra le mani, aprendolo e chiudendolo senza prestagli troppa attenzione.
«Naaa, tu c’hai messo molto di più. Poi sei anche stato interrotto da Jane.»
«Dovresti essere felice che l’abbia interrotto, o sarebbe ancora lì a litigare con il fantasma di sua madre.» rispose piccata la strega.
Jonas storse il naso, sentendosi chiamato in causa ingiustamente. «Non è vero, non sarei ancora lì. E poi quella non era mia madre.»
«Come ti pare, ma c’avresti comunque messo di più.»
Cade ridacchiò, facendo roteare il coltellino e quasi perdendo la presa quando Jonas gli rifilò un calcio sulla gamba, dandogli del traditore per aver riso delle sue sventure.
«Stai attento con quel coltello, non vorrei doverti medicare di nuovo.» lo richiamò Lea, ondeggiando impaziente sul posto, grattandosi l’unghia del pollice con i denti.
«Non c’è problema, mia cara! Abbiamo l’angioletto questa volta, non dovrai curarmi tu!» rispose allegro Cade, indicando con la punta del coltello il greco.
L’uomo sospirò ma si costrinse a sorridere. «Se mi faceste tutti la grazia di non ferirvi e di non obbligarmi ad utilizzare i miei poteri e le mie energie per qualcosa che poteva esser evitato, ve ne sarei incredibilmente riconoscente.»
A quelle parole Jonas si ricompose, tirandosi a sedere dritto ed osservando il figlio di Apollo che attendeva in perfetta immobilità davanti a lui.
«Ti sei ripreso completamente? Lea ti ha curato un po’, ma non abbiamo avuto tempo di farti riposare davvero, come ti senti?» chiese preoccupato, cercando di scorgere un qualunque cenno di disconforto nel volto del compagno.
Cicno gli regalò un sorriso appena accennato. «Ho visto di peggio.» disse solo.
Jonas avrebbe voluto chiedergli altro, insistere affinché, almeno nell’attesa, sedesse e riposasse un minimo, ma proprio in quel momento le porte del tempio si aprirono con lentezza e tutti quanti saltarono quasi sul posto nell’ansia di voltarsi verso l’entrata.
Come era stato per Jonas tutti trattennero il respiro quando dall’uscio scuro emerse Úranus.
Sembrava incolume, senza alcuna ferita o anche solo le vesti sgualcite, più di quanto non lo fossero state alla sua entrata. Ma a Cicno non fu difficile scorgere gli occhi lucidi ed arrossati, delle vaghe tracce bagnate sulle guance. L’impronta ancora calda di due mani ad interrompere quelle scie salate: qualcuno aveva stretto il volto di Úranus tra le proprie mani, che non sembravano appartenere ad un’anima, o non avrebbero lasciato nessuna macchia luminescente. Che fosse stato Fobetore? Aveva forse carezzato il volto di suo figlio, prima di benedirlo e lasciarlo andare per la sua strada?
La mente di Cicno lavorò con velocità e attenzione, ma sapeva perfettamente che c’era un’altra risposta a tutti quei segni, che era la più probabile e che lui non voleva accettarla solo per puro orgoglio.
 
«Allora? Finito? Possiamo levarci dai coglioni anche questa?» domandò seccato Nathan, pur non riuscendo a nascondere un pizzico di sollievo nel rivedere il compagno sano e salvo.
Úranus però non proferì parola, limitandosi a sorridere e scendere ad agio i gradini.
Cade si era spostato, spingendosi dal lato opposto delle scale dove si era spostato Jonas, Lea, invece, fece qualche passo avanti, ansiosa di scoprire cosa avesse dovuto affrontare l’amico.
«Stai bene? Hai rivisto tua madre?» gli domandò allungando istintivamente una mano verso di lui, cercando di raggiungerlo, di toccarlo ed assicurarsi che nulla di male gli fosse accaduto
Ma l’islandese non rispose neanche a lei, prendendo con delicatezza la sua mano per una stretta gentile, rassicurante.
Lea sospirò sollevata, prima che quello stesso respiro le si bloccasse in gola quando Úranus le cinse il volto con le mani e le posò un bacio in fronte, delicato, caldo, una pressione tanto ferma quando affettuosa che non fece altro che riportarle alla mente i baci che suo fratello era solito darle per la buona notte quando era piccola, quando Lea si lamentava che così le avrebbe scompigliato i capelli pettinati ed intrecciati con cura. Quando Giuseppe le ripeteva di godersi quei momenti, che avrebbe rimpianto il giorno in cui non avrebbe più potuto baciarle il capo e rimboccarle le coperte.
 
«Quando sarai troppo grande per queste cose, quando non potrò più trattarti come una bambina, allora sentirai la mancanze del mio bacio della buona notte, Lea, vedrai!»

Ne rideva, lui. Si indispettiva, lei.
Elena non ricordava più l’ultima volta che suo fratello le avesse dato un bacio della buona notte, ma quello di Úranus aveva lo stesso, identico sapore.
 
«Úranus?» sussurrò piano, gli occhi lucidi pur non sapendone il motivo, decisa ad ignorarlo così come Cicno.
«Per questi giorni, per queste settimane, dopo secoli di solitudine, sei stata la migliore amica che la vita e la morte mi hanno concesso. Sei divenuta mia sorella e a te va tutto l’amore che sono ancora in grado di provare. Vorrei poter vedere la tua vittoria, vorrei poter vedere quella di tutti voi, e forse mi sarà concesso, forse un giorno ci ritroveremo ancora su questa terra, ma- ma per me non c’è più nulla ad aspettarmi nel mondo dei vivi, nessuno che aspetti Úranus, ed io so, Elena, che gli Dei mi siano testimoni, che mai sarei in grado di far del male a nessuno dei miei compagni, soprattutto per ciò che c’è per me lassù.»
Poggiò la fronte contro la sua, mormorando piando quelle parole così veritiere da esser quasi liberatorie.
Úranus non sarebbe mai potuto arrivare fino alla fine, non avrebbe mai potuto combattere contro nessuno di loro, non contro quelli che nel corso di quel tempo indeterminabile erano diventati una compagnia, un gruppo, un qualcosa a cui era finalmente appartenuto.
Perché viaggiare e combattere al fianco di quei sette individui era stato come sentirsi finalmente accettati, capiti, apprezzati. Per la prima volta aveva conosciuto persone come lui, semidei che non avevano paura di lui, che pur temendo i suoi poteri credevano, sapevano, che Úranus poteva controllarli, che non avrebbe fatto loro del male.
Ed Úranus non avrebbe mai tradito quella loro certezza.
Lasciando andare il volto di Lea le sorrise pieno d’affetto, gli occhi scintillanti come il ghiaccio che si scioglie, colpito dal Sole accecante e caldo che si riflette sulla superficie trasparente.
Spostò lo sguardo su Nathan, fermo immobile senza parole, la mascella contratta, le labbra serrate. Lo vide battere velocemente le palpebre e fare un unico cenno d’assenso.
Vicino a lui Eliza invece si mosse, prima a tratti, poi con più fluidità. Gli si avvicinò e gli porse la mano, stringendola con fermezza prima di coprirla anche con l’altra.
«Che Nike ti assista nella tua nuova vita. È stato un onore combattere al tuo fianco, seppure per un tempo così breve.» disse con una nota d’ufficialità che fece sorridere l’islandese.
«Grazie a te, Elizabeth.»
Quando lasciò la mano di Eliza fu quella di Cade a serrarsi alla sua, prima che il giovane lo tirasse giù verso di sé, per abbracciarlo con forza.
«Non possiamo proprio farti cambiare idea, vero Golia?» domandò con voce soffocata contro la spalla del compagno.
Úranus sorrise. «No, folletto irlandese, non c’è nulla che possa farmi cambiare idea. Mi è stata concessa una seconda possibilità, con coloro che amo, non posso rinunciare e non posso neanche sopportare il pensiero di dovervi combattere. So che puoi capirmi, sono disposto a morire per i miei amici, ma non ad ucciderli.»
«Non si tradisce lo stormo.» borbottò Cade annuendo. «Troverò un modo per far sì che non succeda, ci proverò fino alla fine, te lo giuro. Torna da chi ami.» disse infine tirandosi indietro, asciugandosi qualche lacrima solitaria con il bordo della sua giacca rovinata.
«Torno da mio fratello.» sorrise Úranus.
Cade gli restituì un sorriso ancora più raggiante. «Si torna sempre a casa, alla fine.»
Voltandosi ancora Úranus incontrò lo sguardo attento di Jane.
La figlia di Ecate si avvicinò lentamente, offrendogli la mano proprio come aveva fatto Eliza e allo stesso modo il giovane gliela strinse, ma con una delicatezza ed un’attenzione che forse, in altre circostanza, avrebbero stupito entrambi.
«Fai buon viaggio, Úranus.» gli disse solo, la voce monocorde ma ben udibile.
Úranus annuì. «Pregherò gli Dei affinché tu possa trovare la pace, qualunque essa sia per te.»
Fu poi il turno di Jonas, ma il ragazzino non sapeva cosa dire, cosa fare. Lanciò un’occhiata inquieta a Cade, che ora stringeva Lea che piangeva silenziosamente, e quando il rosso gli accennò solo un sorriso triste Jonas si ritrovò a cercare lo sguardo di Cicno, a cercare appoggio da lui.
A differenza dell’amico, il greco gli fece un cenno con il capo, esortandolo a salutare Úranus, a non privarsi di dire addio a qualcuno che, per ben quattro, lunghe prove, era stato un sostegno, un compagno.
 
Non perdere l’occasione di accomiatarti da qualcuno.
 
E Jonas sentì chiaramente quella frase, la lesse nero su bianco negli occhi freddi di Cicno.
Strinse i pungi solo per prendere forza, per darsi coraggio, poi allargò le braccia e di slancio, quasi come aveva fatto solo poche ore prima con Cade, abbracciò Úranus, stringendolo con forza per la prima ed ultima volta.
«Ora se combinerò un casino con i miei poteri non potrò più dividere la colpa con nessuno, vero?» forzò una battuta ostentando tranquillità, ma il modo in cui tirò su con il naso lo tradì miseramente.
Úranus però non vi badò, ricambiò l’abbraccio domandandosi se quella sarebbe stata la stessa sensazione che avrebbe provato, in vita, se fosse riuscito a scappare con sua madre, se avesse visto crescere suo fratello.
Lo strinse un po’ più forte solo per imprimersi in mente la sensazione, prima che ogni suo ricordo fosse cancellato, prima che il suo filo fosse di nuovo filato.
«Potrai dare la colpa a Jane, adesso anche lei sta diventando sempre più capace nel domare i suoi poteri.»
«Ehi! Vedi di non dargli strane idee!» lo rimproverò la strega guardando male entrambi.
Qualcuno ridacchiò, ma il suono era lacrimoso, bagnato.
Jonas prese un respiro profondo e diede un paio di pacche sulla schiena del compagno, allontanandosi poi da lui.
«Lo terrò a mente, grazie. Spero che la tua nuova vita sia magnifica e lunga. Spero tu sia felice.»
Il sorriso di Úranus valse più di mille parole, ma ugualmente rispose. «Lo sarò. E prego lo stesso destino anche per te.»
A quel punto non rimaneva che Cicno ed il figlio di Fobetore si voltò verso di lui, guardandolo negli occhi senza più alcun timore in corpo.
«Che Tiche ti assista nel tuo nuovo viaggio, figlio degli incubi. Possa la tua anima tornare a splendere e vivere. Hai portato onore al tuo nome, a tua madre e a tuo padre.»
Pronunciò quelle parole con lentezza, in modo molto più solenne rispetto ad Eliza, come se stesse recitando un antica formula di benedizione.
Úranus prese un respiro profondo, gonfiando il petto e annuendo.
«Che Tiche assista anche te, figlio del Sole, e che possa la tua anima trovare finalmente pace. Ti prego solo di proteggerli e guidarli, finché ti sarà possibile.» chiese con voce morbida, quasi gli stesse facendo una confidenza.
Cicno annuì. «Queste erano le mie intenzioni.»
«Grazie.»
«Grazie a te. Buona rinascita.» sorrise infine, inclinando leggermente il capo in un inchino lieve.


«Ehi.»
Úranus si girò a quel richiamo, osservando Nathan avanzare a passi decisi, marziali, verso di lui, per porgergli la mano con espressione dura.
L’islandese l’afferrò senza esitare, stringendola saldamente così come fece l’altro.
«Capisco perché lo fai. Non sarei mai in grado di farlo, di ritirarmi. Ma lo capisco.»
«Perché sei figlio di Ares, voi combattenti non vi arrendete mai, fino alla fine. Non vi ritirate.» gli sorrise comprensivo.
Nathan annuì. «No, non lo facciamo. Non lo fanno neanche i soldati e non lo fanno neanche i marines. È stato bello però conoscerti, Golia, è stato un onore conoscere qualcuno che si è sacrificato per salvare altri. È l’onore più grande di tutti. Se rinascerai davvero assieme a tuo fratello, beh, goditela, non ci sono più le persecuzioni di sopra. Non nei paesi civilizzati per lo meno, e se ti fanno tornare dove sei nato, stia sicuro che non avrai più di questi problemi.» disse convinto.
Úranus si fece scappare un sorrisetto, nascosto dalla barba folta. «Un modo bizzarro per incoraggiarmi, ma grazie. Spero che anche voi possiate trovare ciò che più conta. Farò il tifo per ognuno di voi.»
Fu il turno di Nathan di ghignare. «Questo è molto moderno, Golia, cazzo, ti ho passato un po’ di slang?»
Il giovane rise, dando una pacca sulla spalla al soldato. «Forse, Nathan, forse. Spero mi sia utile nella mia nuova vita.»
«Imparerai. I mocciosi delle elementari sono dei veri stronzetti, la quantità di cose inopportune che riescono a dire è preoccupante, figurati se non impari frasi più semplici.» rise anche lui, poi tornò più serio. «Per una volta, è bello perdere un compagno sapendo che andrà veramente in un luogo migliore, che sarà finalmente felice. Buona fortuna, amico.»
Il giovane gli strinse ancora la mano, «Anche a te, fratello.»
Con quelle parole i saluti erano finiti.
Úranus guardò un’ultima volta tutti i suoi compagni, che lo osservavano tristi, scossi, alcuni cercando di farsi forza, altri fingendo indifferenza, o senza neanche provare a trattenersi.
Sorrise loro e non si sorprese quando Lea si staccò dal fianco di Cade per abbracciarlo un’ultima volta.
«Fai buon viaggio, Úranus.» gli disse piano.
«Anche tu Lea e non dimenticare mai della piccola luce che hai in te.»
«Spero potremmo incontrarci ancora, in un'altra vita. Mi piacerebbe essere tua amica ancora una volta.» confidò solo a lui.
Úranus sorrise e le baciò un’ultima volta il capo, «Bless.»
 
Quell’ultima parola Lea non riuscì a comprenderla veramente. La magia che aveva permesso loro di capirsi per tutta la durata del viaggio sembrava essersi esaurita, ma in cuor suo la giovane sapeva che quelle poche lettere erano un addio.
 
Così Úranus si accomiatò dai suoi compagni, dai suoi amici, da quelle anime perdute, benedette, dannate, che erano state in grado di farlo sentire accettato, apprezzato, giusto.
Si fermò davanti alla porta del tempio e guardò quelle sette anime per l’ultima volta, augurandosi di poterlo fare ancora, sotto altre vestigia, in una vita semplice e felice, priva dei dolori e delle difficoltà che avevano colto tutti loro, augurandogli silenziosamente d’essere finalmente liberi un giorno.
Quando in fine rientrò nel tempio, ora più luminoso che mai, suo fratello lo attendeva davanti al braciere, il volto che ringiovaniva lentamente, finché non fu un bambino quello che gli porse la mano, sorridendo.
«Andiamo, fratellone?» chiese con voce delicata e gentile.
La sua mando scompariva in quella di Úranus, sarebbe stato bello poterla stringere per sempre, poterla sentire crescere contro la sua fino a diventare la presa salda di un uomo, dell’uomo che Elskadur era poi diventato. Se l’era persa, quella trasformazione, ma a quanto pare suo padre gli aveva appena concesso la grazia di poterla ugualmente sperimentare.
 
Come sarebbe dovuto essere. Vederti crescere, aiutarti a crescere, sino a vederti allontanare per la tua strada. Ora potremmo farlo assieme.
 
Sorrise.


«Sì, andiamo.»
 
 
Una luce calda e avvolgente si sprigionò dalle loro mani giunte, fino ad inondare tutto il tempio e poi scomparire in un leggero bagliore roseo e freddo, come l’alba di un nuovo giorno.

Nel focolare spartano le braci incandescenti presero fuoco.
Fobetore poggiò le mani ai lati dell’altare, abbassando la testa verso le fiamme, lasciando che qualche lacrima scivolasse verso i tizzoni ardenti, scomparendo in uno sfrigolio.
Lasciar andare i proprio figli era sempre la cosa più dura che potesse fare, ma era così che doveva essere e questa volta giurò a sé stesso che avrebbe dato ad entrambi la vita che meritavano. Assieme.
Con un ultimo sguardo triste ai tendaggi che adornavano il suo tempio e alle finestre illuminate a giorno, Fobetore salutò i suoi più antichi e amati figli.
 
 
Bless.
 


 
*
 



Un foglio vibrò impercettibilmente, ma tanto bastò all’uomo per attirare la sua attenzione, gettandovi un’occhiata di traverso prima di sollevarlo.
Sulla pagina una serie di colonne erano divise da linee tracciate a mano, che segnalavano l’inizio di una nuova lista, ognuna sotto il nome del loro coordinatore. Alcune di queste mancavano di diversi spazi, righi vuoti che avevano ospitato nomi di anime scomparse per sempre o forse rinate. Uno di quei nomi scomparve lentamente da una lista ancora integra, luccicando lievemente per poi disperdersi nell’aria come pulviscolo.
Con la mano libera l’uomo si tolse il sigaro dalla bocca e ne batté la punta sul bordo di un posacenere di vetro, l’espressione impassibile, quasi disinteressata: per quante ne scomparissero, nessun’anima era davvero essenziale.
Poggiò il foglio di nuovo sul piano, riportando il sigaro alle labbra, prendendo una profonda boccata e rilassandosi contro lo schienale della sedia, gli occhi scintillanti puntati verso la porta con due maniglie dal lato opposto della stanza.
Attendere non era un problema per lui.
 
 
 
Nel dedalo di corridoi coperti da scaffali il rumore di sabbia frusciante era ininterrotto, come una pioggia perpetua, un vento implacabile, una corrente immortale.
Allineate con precisone le une vicino alle altre le clessidre lasciavano scivolare i loro granelli da una pancia all’altra, muovendosi secondo un tempo che solo loro conoscevano.
Una clessidra finita si mosse d’improvviso, oscillando fin a capovolgersi completamente, la sabbia accumulata sul fondo, ormai grigiastra e polverosa, riprese a scorrere fluida, veloce, bianca ed immacolata, dando il via ad un nuovo tempo.
 

 
Mani veloci dalle dita magre e appuntite si mossero senza posa sull’arcolaio, con le punte fini e nodose come le zampe di un ragno afferrarono un vecchio filo, tirandolo per inserirlo di nuovo nella rota e filarlo ancora.
Altre mani presero due fili indipendenti, sciogliendone un capo ciascuno per passarlo nelle mani da ragno, che fissarono anche quelli alla rota.
Qualcuno premette un pedale ed ogni pezzo iniziò a muoversi, girando su sé stesso, permettendo alle mani da ragno di filare il vecchio filo assieme ai capi nuovi, coprendolo così di una nuova vestigia, senza però intaccarne l’anima.
Il filo venne rinnovato velocemente, prima che qualcuno lo tagliasse alla lunghezza che reputava più opportuna e lo passasse ad altre mani.
 
Il nuovo filo scivolò facilmente nel telaio, la spola corse da un capo all’altro del filato, aggiungendolo alla trama più vecchia del mondo.
 


 
*
 
 


Le porte si richiusero per la seconda ed ultima volta. Nessuno proferì parola però, tutti in attesa che succedesse qualcosa, che vi fosse un segnale che lasciasse loro capire che Úranus era definitivamente rinato.
Non sapevano bene cosa aspettarsi ma quando una lampo di luce filtrò da sotto il tetto spiovente, forse passando da delle finestre, ebbero tutti la conferma definitiva: il loro compagno era scomparso.
Lea continuò a fissare la porta, incapace di accettare il fatto che proprio il suo primo amico avesse scelto d’abbandonare la gara, che fosse stata lei a perdere qualcuno.
Era un pensiero egoistico e forse anche un po’ crudele, tutti quanti loro si erano affezionati ad Úranus, ma la verità era che lei aveva intrapreso quel viaggio assieme all’islandese sin dalle prime battute, da quando avevano firmato un contratto con il loro stesso sangue, quello che credevano di non aver più da secoli.
Qualcuno le posò una mano su una spalla, richiamandola al presente. Cade le sorrise rammaricato, annuendo come a volerle dire che lui capiva, sapeva perfettamente cosa si provasse a perdere un compagno.


«Vuoi un attimo? Ti vuoi sedere?»
L’italiana lo guardò con espressione persa, annuendo piano per poi scuotere la testa.
«No, io- non lo so. Se n’è davvero andato?» chiese debolmente.
Eliza le si avvicinò, strofinandole il braccio per darle un minimo di conforto.
«Sì Lea, se n’è andato davvero. Credo non si fosse deciso prima a rinascere perché aveva paura di perdere sé stesso. Ma dopo le prime cinque prove, dopo aver avuto la possibilità di ritornare assieme al fratello, penso abbia fatto la scelta più giusta.»
Lei annuì ancora. «Non riesco a pensare che non lo rivedrò più. Abbiamo iniziato assieme, abbiamo affrontato tutte le prove assieme…»
«Perdere un amico non è mai facile.» convenne Cade, «Ma Elza ha ragione, Golia ha fatto la scelta più giusta per sé.»
La figlia di Nike guardò il rosso assottigliando lo sguardo, incredula che anche in un momento del genere potesse trovare il coraggio di scherzare in quel modo.
«Ti pare il momento?»
«Cosa? Che ho detto sta volta?» chiese lui innocentemente.
«L’hai chiamata Elza.» rispose Jonas senza neanche riflettere.
«Oh, bene, e poi sarei io il traditore?»
«Ho solo detto la verità!»
«Potreste rimandare il vostro battibecco a più tardi?» domandò Eliza alzando gli occhi al cielo.
«Ma se hai cominciato tu!»
«Hai iniziato tu!»
La risposta simultanea dei due fece sorridere Lea, che tirò su con il naso ancora, strofinandosi gli occhi con il polsino della camicia, rimanendo quasi incantata dal modo in cui le sue lacrime, quelle di un’anima, s’allargassero velocemente per il tessuto impolverato.
Non voleva piangere, le sembrava così sciocco. Úranus era rinato insieme a suo fratello, quello che non aveva mia avuto la possibilità di veder nascere, la persona per cui era morto.
Lei ed il figlio di Fobetore non erano poi così diversi, l’aveva pensato più di una volta durante la gara: erano entrambi morti per salvare qualcuno più debole di loro, qualcuno indifeso. Solo che Úranus era morto per suo fratello, Lea era morta andando contro i suoi ordini.
Chiuse gli occhi, reclinando indietro la testa ed espirando con forza, cercando di ritrovare un minimo di energie, di non pensare ad una ferita così fresca, che non si aspettava minimamente di doversi curare così presto.
Il chiacchiericcio di sottofondo dei suoi amici era come un balsamo, una nenia rincuorante che le ricordava di non esser sola, che sì, forse aveva perso il primo compagno che aveva trovato nella morte – quanti anni erano passati? Per quanti decenni aveva camminato per quelle vie lastricate? – ma non aveva perso tutti gli altri.
 
Per ora. Non ancora.
 
Un’altra mano gli si strinse per un attimo sul polso. Fu un tocco veloce che bastò a farle aprire gli occhi e cercare chiunque l’avesse sfiorata.
Si ritrovò ad osservare il profilo di Nathan, dritto ed impettito di fianco a lei, a fissare le porte chiuse del tempio di Fobetore come Lea stessa aveva fatto per quelli che le erano parsi interminabili minuti.
 
«Ha fatto la scelta giusta, lo sai, sì?» chiese lui a bassa voce.
Lea strinse le labbra ma annuì. «Lo so, è solo la tristezza dell’aver perso un amico. Mi passerà.»
«Non credo, non passa mai. Ma finisci per abituartici, per viverci insieme. Se possiamo chiamarla vita, questa merda.»
Lei sorrise, sbuffando. «No, non lo è. È solo un’ennesima prova.»
«Per uno solo di noi.» disse infine Nathan voltandosi verso di lei, fissandola dritta negli occhi, serio.
Lea annuì ancora, le sembrò che quello fosse l’unico gesto, l’unica risposta che potesse dargli.
«È stata una sua decisione ed è valida. Forse è la cosa più intelligente che uno qualunque di noi potrà mai fare.»
«Hai paura?» non riuscì a trattenersi dal chiedergli.
Nathan ci pensò un attimo, poi scosse il capo. «Non proprio. So per certo che se dovessimo arrivare ad uno scontro diretto sono quello con le più alte probabilità di arrivare in finale.» fece una pausa. «Se Cicno non mi ammazza.»
Lea sembrò sorpresa da quell’affermazione. «Stai seriamente dicendo-»
«Parliamo seriamente: forse fisicamente sono più forte di lui, se fossi armato probabilmente potrei sopraffarlo, ma ricordi la facilità con cui ci ha resi sordi? Sei anche tu una figlia di Apollo, cos’altro potrebbe essere in grado di fare?»
La giovane concordò silenziosamente. «Pensi sia stupido sperare di non riuscire ad arrivare a quel punto?»
Nathan si lasciò sfuggire un verso di scherno. «Più che stupido. Per cosa stai combattendo ancora, allora? Ma ho capito cosa intendi e no, non è stupido sperare di non doverci ritrovare costretti ad ucciderci a vicenda.»
«Ma è quello che succederà.» concluse lei.
Rimasero a fissarsi, senza dir nulla, ascoltando senza davvero prestarvi attenzione le parole degli altri.
Non si resero conto del modo quasi predatorio con cui un paio d’occhi li scrutavano, di come le loro voci erano volate chiare sopra tutte quelle chiacchiere senza senso degli altri.
Cicno distolse lo sguardo e lo puntò insistentemente verso il fondo della via, serrando la mascella e rilassandola ad intervalli regolari.
Aveva appena perso uno dei suoi semidei e si domandava, cercando di mascherare la rabbia, se il suo padrone avrebbe cercato di contattarlo oppure no, se quel piccolo imprevisto avrebbe davvero danneggiato il suo piano o se, come Cicno sospettava, non avrebbe cambiato nulla.
Espirando silenziosamente fece scrocchiare il collo, le ossa che non avrebbe dovuto avere e che invece si erano mostrate in tutto il loro scheletrico splendore solo una prova prima.
Non poteva rimanere a rimuginare sull’anima perduta, non aveva senso e non gli importava neanche davvero, alla fine. Doveva concentrarsi nel portare gli altri al prossimo templio, pregando gli Dei che nessun altro si facesse irretire dalle promesse di Estia.
 
«Mi sono rotta le scatole di stare qui. Se Lea non ha bisogno di riprendersi possiamo andare?»   
Jane incrociò le bracci al petto, innervosita dall’attesa quasi quanto lo era stata di quell’abbandono.
Certo, Úranus era come una scheggia conficcata sotto pelle, capace di rimanere inerme e immobile per giorni senza dar alcun fastidio, ma anche capace di penetrare più in profondità o ferirti ad ogni tocco, eppure in un qualche modo si era quasi abituata alla sua presenza, al fatto che ci fosse un altro essere con un potere oscuro e pericoloso. Che non fosse l’unica strega lì in mezzo.
Aveva gettato la spugna per tornare sulla superficie con un fratello mai visto e Jane si domandò se anche lei non avrebbe rincontrato i suoi genitori, se non le avrebbero proposto la stessa cosa, lo stesso patto.
No, lei non avrebbe accettato. Non avrebbe mai dimenticato cosa quei due luridi individui avevano fatto a lei e alla sua famiglia, non aveva speso secoli a vagare per le Praterie degli Asfodeli, ad allenarsi con la sua piccola, fragile ed inutile magia solo per poi gettare tutto al vento. Neanche per sua madre e suo padre. Era per loro che stava facendo tutto questo, era per loro che stava ricercando la sua giusta e tanto agognata vendetta.
Neanche le loro suppliche l’avrebbero convinta, Jane non voleva neanche pensare a che trucchi avrebbe potuto usare quella Dea, ma non le importava, non le importava nulla.
 
«Jane ha ragione. Per quanto sia doloroso lasciar andare un compagno, ora Úranus è tornato a vivere e a noi spetta invece continuare a combattere.» disse Cicno incitando gentilmente gli altri a muoversi.
Allungò una mano per posarla sul braccio di Jonas e spingerlo con delicatezza verso la loro prossima destinazione. Con l’altra raggiunse la spalla di Cade e gli fece un cenno con il capo.
Eliza annuì drizzando la schiena. «Sì, purtroppo non possiamo fermarci per troppo tempo. Non voglio rischiare di arrivare anche alla prossima prova a spiegazione ormai terminata.»
«Qualcuno ha idea di chi sarà il prossimo?» domandò Jonas voltando la testa per guardare Cicno.
Il greco annuì. «Devono prima terminare le loro prove i figlio degli Dei minori, poi toccherà a noi dei maggiori.»
«Quindi sono io la prossima, vero? Ho questa fortuna sfacciata?» chiese Jane ironica.
Ma Cicno scosse il capo. «No, prima di Ecate viene la divina Nike. Anche essendo la Dea della vittoria lei si accompagna sempre alla Dea Atena, ne è conseguenza, quasi ancella alle volte. Ecate è più indipendente, il suo potere è tale da poter esser sedere subito dopo il trono di Ade e Proserpina.»
«E questo che vuol dire?» domandò Cade camminando all’indietro per poter guardare il greco in volto.
«Nella Sala del Trono dell’Olimpo non siedono tutti gli Dei. Vi siedono gli Dei Maggiori: Zeus, Era, Poseidone, Demetra, Ares, Atena, Apollo, Artemide, Efesto, Afrodite, Ermes e Dioniso. Ade ha il suo scarno nelle sue lande, assieme alla sua sposa, e gli è permesso sedere nell’Olimpo solo durante i concili. Gli altri Dei non hanno un trono se non nella loro dimora. Tolta la divina Proserpina, figlia della divina Demetra e del sommo Zeus, gli altri sono gli Dei principali che governano il nostro mondo, coloro che lo influenzano di più. Ad ognuno di loro un dominio, ad ogni dominio i suoi sudditi, gli Dei che ne derivano e ne fanno parte.»
«Quindi, Proserpina da che parte sta?» domandò Eliza aggrottando le sopracciglia. «E mia madre?»
«Proserpina durante l’inverno è serva del suo sposo, durante l’estata di sua madre. Nike invece si accompagna per la maggior parte ad Atena, come vi ho già detto, ma non di rado è con Ares o con Apollo.»
«La mia?» chiese Jane.
«La Foschia si genera nell’Ade, Ecate è una Dea potente e importante, ma rientra sempre nel dominio del signore di queste lande.» spiegò semplicemente, «Mentre il divin genitore di Cade-»
«Quelle del cielo.» tagliò corto lui. «Quindi la prossima è Nike?» continuò, improvvisamente disinteressato a ciò che aveva portato la sua stessa domanda.
Cicno annuì. «Dobbiamo abbandonare le vie dei templi oscuri e cercarne uno immacolato, fulgido d’oro. Che risplende vittorioso sopra tutti i suoi vicini, ma mai più splendente del tempio del divino Zeus.»


 
Trovare il tempio di Nike si rivelò molto più semplice del previsto.
La struttura era più alta ed imponente rispetto alle case di Pothos e Fobetore, le colonne più larghe, i capitelli fregiati, il timpano adornato dal bassorilievo di una donna su di una biga trainata da cavalli alati, la spada sguainata protesa in avanti, una corona d’alloro a cingerle il capo di profilo.
L’alloro era un tema ricorrente su ogni arabesco, sulle lastre incise delle pareti, sulle porte lucide d’ottone cesellato.
Ma ciò che più attirava lo sguardo, che li aveva condotti con facilità verso la meta, era la statua della donna, protesa in avanti come stesse per spiccare il volo, posta sulla sommità del tempio, che svettava sopra tutti come una bandiera pietrificata nel tempo.
Non aveva braccia, ma ali lunghe e quasi trasparenti, come quarzo traslucido attraverso cui era possibile vedere grazie ad una potente luce che la illuminava da dietro. Ma non c’erano fari o luci puntate contro di lei, la statua sembrava emanare lei stesa quel bagliore, accentuato dalla corona d’oro puro che sfavillava sulle ciocche scure bloccate nel tempo da un vento fantasma.
La sua pelle era dipinta del colore caldo dello zucchero brunito, la veste immacolata e trasparente lasciava intravedere il seno e l’ombelico, la corda che le si stringeva sul torace era anch’essa d’oro, così come lo erano gli occhi spalancati.
 
 
Jonas batté incredulo.
Aveva avuto il vago sospetto d’aver già visto quella statua, quella posa così familiare, ma c’era anche qualcosa di estremamente sbagliato, che cozzava con i suoi ricordi confusi.
 
«Devo ancora abituarmi a sta cosa che le statue sono colorate.» borbottò Cade sovrappensiero.
«È davvero magnifica però.» disse Lea facendoglisi vicina.
«Io L’ho già vista.»
«Anche tu hai questa sensazione?» domandò l’italiana voltandosi verso il ragazzino.
«Già, ma c’è qualcosa che stona.»
«Forse la testa?» chiese ironico Nathan. «È la cazzo di Nike di Samotracia quella, vero?» chiese rivolto a Cicno.
Il figlio di Apollo si strinse nelle spalle. «È una bellissima scultura in onore della Dea Nike, non so dirti se quella è la sua provenienza.»
«Ma l’hanno fatto in Grecia.»
«Ma la mia terra è grande, Jonas, e non sappiamo se sia stata fatta prima o dopo la mia morte.»
Il ragazzo arricciò il naso, un po’ imbarazzato dal non averci pensato. I risolini di Cade non aiutarono il suo imbarazzo e finì così per rifilare un pugno sulla spalla al rosso, che barcollò teatralmente all’indietro lasciandosi cadere di peso contro Nathan.
 
«E che cazzo! Perché devi sempre fare il coglione?»
«Ah! Sono stato ferito! Soldatino, sorreggimi!»
«Col cazzo.» rispose quello acido spostandosi e lasciandolo cadere a terra.


«Sei pronta ad entrare e affrontare la tua prova, figlia di Nike?»
Cicno si rivolse con tranquillità ad Eliza, ignorando completamente il teatrino al suo fianco.
L’americana voltò leggermente il capo verso il compagno, osservandolo di traverso. Annuì.
«Vorrei poter dire di essere più pronta di quanto non lo sia davvero, ma un po’ di sana ansia è sempre utile.»
«La paura tiene la mente attiva.» convenne lui. «Cosa temi?»
«Chi mi apparirà. Ho già visto mio padre, dubito me lo faranno rincontrare ancora, mi ha già dato la sua benedizione. Non ho nessun altro.»
«I tuoi compagni d’arme?»
Eliza scosse il capo. «No, non avrebbe senso, non mi riconoscerebbero, non come sono ora.»
Cicno la guardò curioso, inclinando la testa come un gufo. «Non sei forse morta in battaglia?»
«Sì, certo.»
«Allora il tuo aspetto è esattamente lo stesso di quando ti hanno vista per l’ultima volta.»
«Non verrebbero qui per me. Non avrebbe senso porli davanti ad Eliza. Nessuno di loro mi incoraggerebbe a rinascere, probabilmente sarebbero troppo scioccati per farlo.»
Il greco la guardò pensieroso, in silenzio, ed Eliza rimase in attesa di quella domanda, del perché implicito lasciato nell’aria. Ma Cicno, come fin troppo spesso accadeva, la stupì.
«Allora incontrerai tua madre, o qualcuno che lei o la divina Estia avrà reputato giusto di contrapportisi in questa prova.»
Lei lo guardò senza parole, battendo le palpebre confusa. «Non-»
«Non è affar mio. Se vorrai raccontarmi la tua storia sarai liberissima di farlo, ma non ti chiederò mai nulla. Chiedere significa condividere.»
«E tu non vuoi condividere la tua, di storia.» concluse lei.
Cicno tirò le labbra in un sorrisetto divertito. «Non voglio spaventare i bambini.» disse accennando con il capo a Cade, ancora a terra, e Nathan e Jonas che sembravano fin troppo esasperati dalla situazione.
Lea se ne stava poco distante da loro, fissandoli senza vederli davvero, persa nei suoi pensieri. Jane invece si era già seduta, le gambe ossute nascoste sotto la gonna sporca e ora più corta del dovuto.
Lei fissava loro due invece, come un corvo in attesa di veder la sua preda muoversi. Non disse comunque nulla, rispettosa di quel momento necessario ad Eliza per raccogliere il coraggio ed affrontare la sua prova.
Annuì però, come a dargli il suo benestare, ed Eliza si ritrovò a sorriderle.
Jane continuò a fissarla senza battere le palpebre. «Tu di certo sei quella che potrebbe finire prima di tutti. Se continuano a discutere come tre infanti andrai e tornerai prima che se ne accorgano.»
«Molto probabile.» concordò Cicno.
Eliza invece scosse il capo, aveva perso un po’ le speranze con i più giovani della loro compagnia.
Gettò uno sguardo a Lei e poi al fratello. «La terrai d’occhio tu?»
«Non posso aiutarla in alcun modo, vegliarla è l’unica cosa che mi è concessa.»
«Bene.» disse lei soddisfatta. «Se a qualcuno di voi interessa sto per entrare ad affrontare la mia prova!» gridò poi verso i suoi compagni.
I tre si voltarono tutti in sincrono verso di lei, sorpresi.   
Cade si sbrigò ad alzarsi da terra, pulendosi le mani sui pantaloni ancor più sporchi.
«Pronta a partire, Elsa?» gli chiese sorridendo.
Jonas si torse le mani, afferrando senza accorgersene il nuovo bracciale di stoffa, sfregandolo tra le dita.
«Buona fortuna.» le disse solo, abbozzando una smorfia che forse voleva essere anch’esso un sorriso.
«Non ha bisogno di fortuna, è la figlia della fottuta vittoria, uscirà sicuramente vincitrice.» affermò Nathan incrociando le braccia al petto.
Lasciò poi uno sguardo veloce a Lea, storcendo il naso nello scorgerla persa nei suoi pensieri.
«Vai e torna in fretta, così arriviamo anche alle altre case e usciamo da questa cazzo di valle dei templi.»
Eliza annuì, guardando un’ultima volta tutti i suoi compagni prima di girare sui tacchi e salire quei sei gradini che conducevano all’ingresso del tempio di sua madre senza mai voltarsi.
Con la schiena dritta e la testa alta Eliza aspettò che le porte d’ottone si aprissero da sole, mostrandole la stessa scena che era riuscita a scorgere dalle prove dei suoi compagni: buio.
Prese un respiro profondo, gonfiando il petto, stringendo i pungi lungo i fianchi per poi rilassare le mani. Entrò con passo deciso e militare, quasi marciando, certa che qualunque cosa l’aspettasse oltre quell’oscurità non l’avrebbe fermata.
 
Le sembrò di camminare per interminabili minuti, avvolta nelle ombre dense del tempio di sua madre, guidata da un percorso obbligato che l’avrebbe portata sino alla sala del focolare, da ciò che aveva raccontato loro Jonas.
Il tempio non poteva essere così grande, per quanto imponente dall’esterno Eliza aveva stimato che parte della sua stazza fosse dovuta al giro di colonne che lo cingeva e che il resto doveva essere ben più piccolo di come appariva. Ma ormai era abbastanza avvezza alle malie degli Dei per sapere che, con tutta probabilità, anche quel percorso lungo ed intricato fosse parte della sua prova: non tentennare, non guardarti indietro, cammina dritta e sicura verso la vittoria.
Fece in tempo a pensarlo, a formare quelle parole nella sua mente, che le ombre si diradarono con lenta costanza.
Eliza rallentò il passo solo per un istante, sapeva in sé che sua madre non avrebbe visto bene un gesto del genere, seppur inconscio. La luce si stava impadronendo di quella che, ora poteva vederla bene, era una semplice sala rettangolare. Sul pavimento chiaro si proiettarono le ombre dei podi su cui erano posti trofei di ogni genere: medaglie, coppe, piatti scintillanti, cinture di cuoio, spille militari, fiocchi e nastri, vasi, corone, armi. Provenivano da ogni epoca, da ogni luogo, Eliza poteva riconoscerne alcune per la loro provenienza, poteva identificare le insigne inglesi, quelle americane, c’erano oggetti palesemente asiatici e altri dalle decorazioni africane.
Sembrava un museo pieno di tutti i possibili premi, i simboli di vittoria, di potere.
 
«Perché è esattamente quello che sono: tutti i trofei che sono stati creati sulla faccia della terra dai mortali.»
 
Eliza non si voltò subito, tenne lo sguardo puntato su di un copricapo di fibre intrecciate e lunghe foglie affusolate tinte da una pasta rossiccia a grana larga.
Nel corso della sua vita aveva sentito la voce di sua madre due volte, ma l’avrebbe comunque riconosciuta tra mille.
Drizzò ancora di più la schiena, sentendo i muscoli dolere per lo sforzo di tenere una posa che già avevano. Girò con tutto il corpo, facendo battere i tacchetti degli stivali, portando in automatico le braccia lungo i fianchi con fare rigiro.
Alla fine della sala, sull’entrata sorretta da colonne che la divideva dall’ambiente dove doveva trovarsi il focolare, c’era una donna alta e slanciata.
I suoi abiti erano di foggia antica, la toga corta ed immacolata cadeva dritta sulle gambe muscolose. Eliza poteva vedere anche da quella distanza i muscoli ben definiti delle cosce, come quelle di un corridore, di una persona dedita all’allentamento, al lavoro. I calzari alti sino al ginocchio parevano rigidi, scintillanti d’oro, su cui erano state incise delle ali. Il mantello che le cingeva le spalle era purpureo, le grandi spille che lo legavano all’armatura, all’altezza delle clavicole erano anch’esse d’oro, così come l’armatura stessa, il busto cesellato su cui erano stati disegnati i seni ed i muscoli del torso.
Sotto il braccio destro l’elmo brillava di luce propria, lucido come uno specchio.
Nike la fissava con espressione neutra, la sua figura pareva più mascolina di quanto non la ricordasse, i muscoli delle braccia flessi erano abbastanza minacciosi di per sé, Eliza sperò vivamente che sua madre non la sfidasse ad uno scontro diretto o non avrebbe mai passato quella prova.


«Non dire sciocchezze, Elizabeth, sarebbe controproducente per me sfidare tutti i miei figli. Anche il migliore di voi non potrebbe nulla contro di me, sono una Dea.»  rispose asciutta a quei pensieri mai espressi.
Con un cenno del capo la invitò a seguirla e poi le diede le spalle, dando per scontato che avrebbe eseguito il suo ordine. E così Eliza fece.
Quando entrò nella sala centrale, la semidea poté subito notare come il focolare fosse già acceso.
Nike pose il suo elmo sull’altare alle spalle del grande braciere fiammeggiate.
 
«Non sei la prima a giungere qui. Avete girato a vuoto, già tredici dei tuoi fratelli sono passati e a te dirò la stessa cosa che ho detto loro.» continuò diretta, senza curarsi di ricevere una risposta, come se non si aspettasse che Eliza parlasse se non interpellata.
 
A meno che non mi venga chiesto di parlare, che non mi si dia il permesso o l’ordine di farlo. Come nell’esercito.
 
«Apprezzo molto il fatto che tu sia ancora legata a quei vecchi insegnamenti, rende il tutto più veloce. Non abbiamo tempo da perdere. Sei mia figlia, noi non perdiamo mai.»
Quella frase suonò terribilmente ridicola alle orecchi di Eliza, ma la giovane non fece alcuna espressione stranita, fermandosi invece nel mezzo della sala, sull’attenti, con le braccia incrociate dietro la schiena.
Nike parve apprezzare anche quello, il volto dai lineamenti scolpiti, quasi statuari, sembrava non tradire nessuna emozione.
Eliza osservò gli zigomi alti, le labbra fini e rosee, il naso dritto, aquilino. Gli occhi dal taglio allungato parevano quasi asiatici, molto più simili a quelli dei popoli dell’est che ai suoi, ma dopotutto, gli Dei erano Greci ed Eliza non aveva la più pallida idea di quali fossero le caratteristiche tipiche dei volti di quel popolo. Aveva solo Cicno come paragone e, in effetti, la forma definita della mascella e degli zigomi poteva esser quasi simile, se li guardava sotto un’ottica più generale.
Ma ciò che, di certo, era assolutamente insolito e quasi inquietante in sua madre era i colore delle iridi: Erano d’oro, oro puro e scintillante, metallico. I capelli scuri, raccolti dietro la nuca, lasciavano completamente scoperto il suo viso, neanche l’ombra di una ciocca oscurava quello sguardo irreale, quasi meccanico.
«Sai perché sei qui.» disse trafiggendola con quegli occhi alieni.
Eliza fece un cenno secco con il capo. «Sì, madre.»
Le parole le suonarono strane, le pareva che la lingua avesse faticato a comporle, come se stesse parlando per le prima volta in un linguaggio straniero.
«Estia vuole che ognuno di noi vi proponga di rinascere a delle più che generose condizioni. Davvero irrispettoso verso tutti voi che siete giunti fino a qui con fatica e sacrificio.» esclamò sprezzante, come se la gentile e caritatevole grazia che Estia offriva ad ogni partecipante la offendesse personalmente.
Forse era così, rifletté Eliza: sua madre era la Dea della Vittoria, superare ogni prova era manifestazione del suo potere, di ciò che rappresentava, ed ora un’altra Dea offriva a tutti i vincitori – per ora – la possibilità di abbandonare la gara, di arrendersi, di perdere.
Probabilmente, se le fosse stato possibile, Nike avrebbe aiutato ogni singolo concorrente a vincere quella gara solo per ripicca alla sua creatrice.
«Hai già ricevuto la benedizione di tuo padre.» riprese a parlare, «Ora hai anche la mia.»
Nessuna luce accecante, nessun gesto solenne: sua madre le aveva appena dato la sua approvazione come se stesse parlando del tempo ed Eliza non se ne trovò affatto stupita.
«Grazie, madre.» disse invece, portando automaticamente la mano al capo per un saluto militare. Aveva fatto quello stesso gesto a suo padre ma ora, con Nike, le sembrava molto più un obbligo, non un riconoscimento grato, com’era stato per Philp.
Era così surreale, aveva davanti la donna, la Dea che l’aveva messa al mondo, la vedeva per la prima volta da quando era morta eppure- non provava affetto, non sentiva nulla se non l’antica sensazione di allerta che aveva provato tante volte in guerra, quando il comandante cavalcava davanti alle file ordinate gridando i suoi ordini, incoraggiando e regauardendo le truppe.
Quella davanti a lei non era tanto sua madre quanto il suo alto generale, Eliza non era lì per una rimpatriata familiare, era lì per ricevere degli ordini ed eseguirli al meglio delle sue capacità.
 
«Sapevo avresti capito.» rispose Nike, accennando un sorriso. «Sono compiaciuta dal fatto che tu sia stata in grado di arrivare a questa conclusione, alcuni dei tuoi fratelli ci sono rimasti male.» continuò sovrappensiero, aggrottando le sopracciglia. «Ma erano ben più giovani di te, venivano da un’epoca diversa e non erano mai stati in battaglia. Posso concedere a dei bambini la delusione e l’incomprensione, anche se sono i miei. Ma non la tollero dai miei figli più maturi.»
D’improvviso nella sua mano comparve una torcia spenta, un bastone lungo quanto l’avambraccio della donna, sulla cui sommità erano intrecciate delle stoffe scure, dall’aspetto bagnato.
Nike avvicinò la torcia al focolare e le diede fuoco, sollevandola poi con disinvoltura, del tutto indifferente al forte calore a cui si era avvicinata.
«Questa è una gara a cui anche il vincitore, arriverà secondo.» disse senza preamboli, già dimentica del discorso precedente. «Non sarai tu o uno dei tuoi fratelli a vincere davvero, tutti voi siete solo un mezzo per il vero giocatore per vincere questa partita. Non mi aspetto che tu prenda l’oro, perché non è mai stato pensato per nessuna anima.»
Eliza la guardò confusa ed anche abbastanza indispettita: cosa voleva dire? Quella non era una gara per le anime? Se nessuno aveva possibilità di vincere, cosa avevano combattuto a fare?
Nike ghignò, un sorriso affilato e impietoso. «Che senso ha gareggiare se non c’è nulla da vincere?» mormorò a bassa voce.
La semidea si riscosse, cercando di appiattire l’espressione crucciata che le si era dipinta in volto.
«Cosa vuol dire tutto questo? C’è un altro giocatore? Un’altra anima?»
La dea arricciò il naso, infastidita. «Non penso potremmo definirla un’anima, è molto peggio, purtroppo per voi. E non ambisce al vostro stesso premio. Ti sarai resa conto ormai che con il passare delle prove il numero di comuni mortali è diminuito drasticamente. Posso dirti con certezza che alla fine di questa gara solo coloro che sono stati benedetti e prediletti da uno di noi rimarranno i gara assieme a voi, ai nostri figli. Solo i nostri servitori più fedeli.
C’è un essere che vuole qualcosa, ma a te non dovrà interessare né ciò che farà né cosa otterrà, non interessa neanche a me.» disse con un verso di scherno, «Molti si schiereranno al suo fianco, alcuni l’hanno già fatto. Chi si veste d’ombra e tutti segue si assicurerà che arriviate dov’è più necessario, su questo non ho dubbi. Sono qui solo per dirti che questa sarà l’unica volta in cui accetterò un secondo posto da uno dei miei figli, che sia tu o uno dei tuoi fratelli.» concluse seria, fissando Eliza dritta negli occhi, costringendola a ricambiare il suo sguardo, affinché capisse l’eccezionalità di quella situazione, di qualcosa che non si sarebbe mai più ripetuto.
L’americana cercò invano di batter le palpebre, sembrava che una forza sterna la obbligasse a non chiudere gli occhi neanche per un istante, finché tra lei e sua madre non apparve la torcia che la Dea teneva in mano.
Cosa stava succedendo? Chi era quell’essere? Cosa voleva dire che voleva qualcosa, che avrebbe vinto lui? Sarebbe tornato in vita al posto di uno di loro? Sua madre non aveva davvero risposto alla sua domanda, era stata evasiva- no, non evasiva.
 
Non le interessa, non le interessa davvero. Vuole solo che la sua progenie vinca. Non le importa neanche chi sarà di noi.
 
«La tua squadra deve arrivare fino alla fine. Anche se ti scontrerai con altri tuoi fratelli.» disse avvicinandole la torcia sempre di più, finché Eliza non fu costretta ad afferrarla per non farsi bruciare il volto.
Allontanò subito l’oggetto da sé, tendendo il braccio di lato, domandandosi se sua madre le avrebbe davvero premuto la torcia fiammeggiante sul viso, senza alcuno scrupolo.
«Faremo del nostr-»
«Devi solo vincere, Elizabeth. Questo è tutto ciò che conta. La vittoria.»
Le ultime parole furono pronunciate con un ardore, con una durezza, una convinzione, che le fecero girare la testa. Sembrava un monito a non deluderla, a non farsi sopraffare, a non perdere.
Non disse altro, la guardò un’ultima volta prima di darle le spalle e riprendere l’elmo, infilandolo con un gesto fluido.
Eliza la vide allargare di colpo le braccia, spingendole all’indietro, come farebbe un uccello pronto a spiccare il volo, ed in un turbinio di scintille d’oro e piume immacolate, sua madre, la Dea Nike, scomparve.
Rimase ferma, a fissare il focolare come una sciocca, imbambolata. Una miriade di puntini luminosi a macchiargli la vista. Le girava la testa.
Sua madre non le aveva riservato neanche una parola di conforto, non le aveva detto che sapeva che aveva tutte le capacità necessarie a vincere. No, le aveva solo detto che questa volta, solo questa volta, la vittoria sarebbe stata d’argento, che sarebbe stato il massimo a cui avrebbe potuto aspirare.
Solo. Questa. Volta.
Eliza abbassò il capo, gli occhi spalancati, cercando di capire cosa fosse successo realmente, quante informazioni sua madre- la Dea Nike, le avesse dato in un brevissimo lasso di tempo e quanto, al contempo, le avesse taciuto.
Non riusciva a provare dispiacere per quell’incontro, non si aspettava nulla da lei se non forse un semplice incoraggiamento. La infastidiva quasi il fatto che non le dispiacesse, che non si sentisse ferita ma solo stralunata, confusa da quell’incontro così surreale, così impossibile.
Era stato tutto vero? O era forse un sogno?
Arrovellandosi su quei pensieri Eliza diede le spalle all’altare e camminò lentamente, scioccata, verso l’entrata del tempio.
Cosa diamine era appena successo?
Di chi stava parlando sua madre?
Sì, si erano tutti resi conto che i semidei erano sempre di più e la gente comune sempre di meno, ma a quanto pare non era un disegno degli Dei, volto a tenere solo i loro figli e rendere la gara più interessante. C’era qualcuno dietro tutto ciò. Non un’anima.
 
Ben peggio, purtroppo per noi.
 
Eliza si fermò davanti alla porta chiusa, la fiamma della torcia accendeva riflessi cangianti contro le lastre di metallo lucido. Non le servì neanche sfiorarle perché si aprissero.
Fece un ultimo passo fuori dall’uscio, la luce dei Campi Elisi le sembrò quasi troppo debole a confronto con l’oro scintillante di Nike.
Fece vagare lo sguardo verso l’orizzonte visibile, i tetti colorati di infiniti tempi di ogni dimensione, di ogni divinità, tutti ammantati da quel dannato pulviscolo scintillante. Poi il vociare allegro e confusionario dei suoi amici, che la chiamavano a gran voce, esultato il suo ritorno.
Eliza li guardò senza vederli davvero. Nessuno di loro avrebbe mai vinto quella gara, nessuno sarebbe mai tornato in vita.
 
In che diamine di trappola si erano cacciati?


 
 
*




Se spingeva lo sguardo verso l’orizzonte riusciva a vedere solo erba. Alta, fine, rigogliosa, del verde più brillante che potesse esistere. Sembrava verde come i gioielli di sua madre, come la veste prediletta di suo fratello. E proprio come il tessuto pregiato l’infinita distesa d’erba ondeggiava al ritmo costante del vento.
Come le acque dei mari, come le correnti che le animavano e mai si fermavano. Gli steli flessuosi si muovevano come la risacca sulla spiaggia, come una bandiera issata sulla cima di una torre. Come i mantelli dei suoi fratelli e dei guerrieri quando galoppavano verso una nuova impresa.
Il bambino rimase fermo in quel movimento, in balia delle onde verdeggianti, con le mani piccole ma già callose tenute aperte a sfiorare le punte fini di quel mare.
Non riusciva a staccare gli occhi dall’orizzonte, dove ogni cosa si sfocava ed un leggero velo azzurrognolo copriva il mondo. Lì andavano ad infrangersi le correnti erbose, proseguendo forse il loro moto all’infinito, sotto il cielo limpido e terso della volta celeste.
Sapeva che se si fosse messo in marcia, camminando assieme al vento, sarebbe arrivato sino ad un grande albero e che se vi fosse salito in cima, se fosse mai riuscito in questa impresa, avrebbe potuto scorgere ogni cosa, tutti gli infiniti prati verdi fino alla fine del mondo, fino alla porta dorata che permetteva l’accesso al luogo da cui era giunto lui.
Si domandava spesso come dovesse essere casa sua, quella in cui era nato, quella dove la donna che l’aveva messo al mondo l’aveva partorito, prima che i suoi fratelli potessero trovarla. Di quella giovane donna rimaneva solo un nome, inciso sul basamento della statua dedicata ai caduti.

Yardena.

Non aveva un cognome, non aveva una famiglia. Ma sua madre gli aveva sempre ripetuto come quella donna si fosse presa cura di lui a suo nome, come l’avesse portato in grembo con attenzione, con amore. Aveva affrontato la gravidanza per lui ed era stata così coraggiosa da affrontare poi il parto da sola, in quella terra lontana e piena di pericoli, conscia che se solo avesse provato a chiamar aiuto avrebbe attirato su di sé anche lo sguardo di coloro che volevano fargli del male.
Yardena l’aveva allevato in sé conscia del suo destino e piena di forza e d’orgoglio aveva portato a termine quell’onore pesante d’oneri.
Ma Yardena era pur sempre solo un’umana e lo sforzo di mettere al mondo un figlio degli Dei l’aveva consumata sino a toglierle ogni energia.
I suoi fratelli erano giunti appena prima che spirasse l’ultimo respiro, ma nulla sarebbe potuto esser fatto e tutto ciò che rimase alla donna fu sussurrare il suo nome.
Sua madre aveva accolto con serietà l’ultimo desiderio di quella giovane anima e quando suo fratello lo aveva deposto tra le sue braccia lei non aveva esitato neanche un attimo a chiamarlo così.
 
«Alphonse!»
 
La voce chiara e potente di suo fratello lo fece riscuotere.
Il bambino mosse appena la testa ma non riuscì a staccare gli occhi dallo scorcio di prato più lontano che riuscisse ad individuare.
Suo padre gli aveva assicurato che una volta cresciuto sarebbe stato in grado di vedere ancora più lontano, di spiare il mondo anche a terre di distanza da dove si sarebbe trovato.
Venne chiamato ancora e a quel punto non poté non girarsi, lanciando un’ultima occhiata malinconica all’orizzonte. Gli sembrava quasi che mancasse qualcosa, che gli mancasse qualcosa.
Espirò pesantemente tornando sui suoi stessi passi, sfiorando le cime degli steli d’erba, sorridendo al solletico che gli provocavano sui palmi.
Davanti a lui due figure si stagliavano in lontananza, in piedi l’una di fianco all’altra sul terrazzo che si affacciava sui campi, circondati dal fitto bosco.
Alphonse non poteva vederli bene in volto da quella distanza, era anche quello qualcosa che sarebbe riuscito a fare solo da grande, ma mentre risaliva la collina, diretto verso il sentiero collegato alla scala di pietra che l’avrebbe portato dai suoi fratelli, quelli lo scrutarono con attenzione.
Il più alto dei due sospirò serrando la mascella, i capelli biondi gli solleticavano il volto come l’erba le mani del bambino. Di fianco a lui l’altro uomo si tolse l’elmo d’oro, posandolo sull’ampio bordo del parapetto.
 
«Ha lo sguardo vuoto.» disse il primo poggiando le mani sulla pietra levigata.
«Hai già dimenticato com’è essere bambini in queste terre, fratello?»
«Una delle gioie più grandi della mia esistenza.» replicò sfidando quasi l’altro a contraddirlo.
Quello non se lo fece certo ripetere. «Forse per te, figlio prediletto del re, ma per lui… per lui non dev’essere facile.»
«Ha tutto ciò che potrebbe desiderare: corridoi infiniti tra cui correre, sale traboccanti di giochi e di libri, maestri colti, spazi sterminati e l’amore di nostra madre. Cosa gli manca?»
«La sua terra, sciocco. Puoi amare il luogo in cui abiti e le sue bellezze, viverci in pace, in armonia, ma arriverà sempre il momento in cui ti renderai conto che quello non è davvero il tuo posto, che quella non è davvero la tua terra natia. Per ogni orfano giungerà inevitabilmente l’attimo in cui sentirà di non avere qualcosa, qualcosa di fondamentale.» parlò a bassa voce, certo che il fratello l’avrebbe sentito ugualmente, anche contro il vento perpetuo.
Il biondo si passò una mano fra i capelli, ricacciando indietro le ciocche più indisciplinate.
«È così che ti senti?»
L’altro si lasciò scappare un verso di scherno. «Anche se te lo spiegassi, non capiresti mai. Questa è casa tua, il trono di nostro padre è tuo, queste lande...» disse con disprezzo. «Ma non sono mie, né di Alphonse.»
Rimasero in silenzio, osservando ancora il bambino finché questo non si fermò, voltando la testa di scatto e sorridendo ampiamente a qualcosa che persino ai loro occhi era passato inosservato.
Dal folto del bosco che costeggiava l’alta roccia su cui s’affacciava il terrazzo apparve d’improvviso un’enorme massa scura che, veloce come il vento, si scagliò verso il ragazzino, lanciandolo a terra senza pietà.
Il bambino però rise, con voce acuta e cristallina, alzando le braccia per coprirsi il volto dall’attacco impietoso del gigantesco lupo che cercava di leccarlo.
Lo sentirono protestare tra un singulto di risa e l’altro, pregare il lupo di smetterla, perché gli stava inzuppando le vesti di bava, ma la belva pareva sorda alle sue richieste, scodinzolando allegra, la coda che fendeva l’aria come un frusta.
L’uomo biondo sospirò sollevato.
«Prima o poi lo ucciderà.» commentò sorridendo.
«Ma come? Nostro fratello non era forse figlio di questo luogo, di questa vita?» lo provocò l’altro ghignando.
Il primo lo guardò male, ma poi si strinse nelle spalle. «Rimane un bambino.»
«Ha undici anni, fratello, rammenti cosa facevamo noi alla sua età?»
«Onestamente? No. Penso d’aver sbattuto la testa tante di quelle volte… molte per colpa tua.»
«Non credo fosse colpa mia il tuo scarso equilibrio.»
«Lo erano i tuoi sgambetti.»
«Questa è la tua opinione.»
«La realtà dei fatti, vorrai dire.»
«La realtà è labile ed opinabile.»
Quel botta e risposta continuò serrato come ogni volta finché il biondo non riportò la sua attenzione sul bambino.
«Cresce a vista d’occhio, lo ricordo così piccolo.»
«Gli umani lo fanno, la loro vita è molto breve se comparata alla nostra. Devono crescere in fretta.»
«Una volta Enny l’avrebbe ferito balzandogli addosso in quel modo.»
Il secondo fece di nuovo quel verso di scherno e scosse la testa. «Avresti mai detto che quella bestia sarebbe mai stata così delicata con un bambino? Che si sarebbe preoccupata di non spaventarlo o di non fargli del male?»
«Non avrebbe potuto spaventarlo neanche volendo. Alphonse non ha paura di nulla, è il suo destino.»
«È destinato a grandi cose, vero, ma anche i più grandi eroi covano un nero bozzolo nel loro animo, Alphonse non è poi molto diverso da noi.»
«Da noi? Da te forse, fratello, ma non da me. C’è qualcosa che temi?»
L’uomo senza elmo lo guardò di sottecchi, il luccichio della brughiera brillò verde nei suoi occhi, «La stessa cosa che temi tu, fratello. La fine.»
Il biondo strinse le labbra ma non negò.
«Gli oracoli hanno parlato di destino, di imprese eroiche, di stelle, di gloria e di distruzione, nel modo confuso e fumoso che solo gli oracoli hanno di predire il futuro. Ma ricorda che una cosa l’hanno data per certa ed è che prima di esplodere, prima che giunga la fine, il nostro piccolo fratello brillerà più di mille astri. E lo farà nell’oro.»
 


 
*



 
Quando Eliza era uscita dal tempio Nathan non aveva impiegato molto a capire che la donna fosse sconvolta da qualcosa e che la prossima ad affrontare la sua prova sarebbe stata Jane.
La torcia che bruciava tra le mani della figlia di Nike era palesemente una torcia olimpica. Eliza non poteva saperlo ma i decori lungo il fusto, cinque anelli uniti tra di loro, che Nathan riusciva a scorgere dalla sua posizione, erano il simbolo moderno delle olimpiadi. Nike aveva affidato a sua figlia il testimone che li avrebbe condotti alla loro tappa successiva. Che quello fosse anche il simbolo di Ecate stessa era solo una curiosa quanto azzeccata coincidenza.
Ciò che lo preoccupava di più però era lo sguardo crucciato di Eliza. La soldatessa sembrava persa nei suoi pensieri, quasi come non fosse lì presente.
Stringendo i pungi Nathan si avvicinò alle scale del tempio con ampie falcate. Avevano perso un compagno, Lea era nello stato che era, l’ultima cosa di cui avevano bisogno era che anche Eliza crollasse, qualunque fosse il motivo.
 
«Che succede? Perché hai quella faccia?» domandò salendo i gradini.
Eliza batté le palpebre un paio di volte, poi voltò finalmente il viso verso di lui per guardarlo in faccia.
«Penso sia stato l’incontro più surreale che io abbia mai avuto in tutta la mia vita. Persino la visita di Thanatos mi ha sconvolto meno.» ammise senza vergogna.
«Sì, ma te stai bene? Ti senti male? Cicno!» chiamò ad alta voce girandosi verso la strada.
Eliza scosse il capo, sistemando la presa attorno alla torcia. «Sto bene.» disse debolmente, «Sono solo-»
«Sotto shock dalla tua faccia.» s’intromise Jonas. Non aveva osato salire le scale come aveva fatto il figlio di Ares, ma si era comunque proteso su di esse, osservando con preoccupazione il volto dell’amica.
«Non era quello che mi aspettavo.» rispose lei, «Non so cosa mi aspettassi, in tutta onestà. Forse nulla. Certo non questo.» continuò battendo ancora le palpebre.
Non si rese neanche conto di quando Nathan la prese per un braccio, sostenendola e facendole scendere le scale lentamente, assistito subito da Cade.
«Piano Elsa, un gradino alla volta.»
«Mi ha chiamato in continuazione Elizabeth, suona davvero male. Preferisco Eliza.» disse a tutti e nessuno.
«Cos’ha?» domandò Jane avvicinandosi, le braccia strette al petto come se quella situazione la mettesse a disagio. 
«È in evidente stato confusionale. Eliza?» Nel vedere la compagna in quelle condizione Lea si era improvvisamente ripresa, la memoria muscolare del suo vecchio lavoro attiva, attenta e preoccupato.
«Ti sente, non è sorda.» grugnì infastidito Nathan facendo sedere l’altra.
Lea lo fulminò. «Eppure non mi ha risposto. Eliza?»
«Pensi che le abbia fatto qualcosa?» domandò Jonas ansioso.
Cade si scostò dalla figlia di Nike, lasciando posto all’infermiera, per passare un braccio attorno alle spalle del ragazzino, rassicurandolo.
«Sono sicuro che ha passato la sua prova, o sua madre non l’avrebbe neanche fatta uscire.»
«Sì, lo penso anch’io.» confermò Nathan, «Ma è sicuramente successo qualcosa.»
Mentre i ragazzi si affaccendavano tutti attorno ad Eliza Cicno la studiò per lungo tempo, prima di schiarirsi la voce per attirare l’attenzione altrui.
«Figlia di Nike, hai per caso osservato tua madre prendere una forma diversa da quella umana?»  domandò con voce ferma, scandendo chiaramente ogni parola.
Eliza alzò la testa verso di lui, i puntini luminescenti facevano sì che Cicno sembrasse avvolto da una nube di lucciole, migliaia di scintille che lo rendevano luminoso. O forse lo era sempre stato?
Annuì solo, mentre la sua mente cercava di recuperare ogni dettaglio, ogni parola detta, sentita, supposta. Come si collegava, ciò che già sapeva, a quello che gli aveva detto Nike?
Non sentì Nathan imprecare e non sentì neanche gli altri chiedergli cosa stesse succedendo.
«Gli occhi dei mortali non sono fatti per vedere la vera forma degli Dei. Se qualcuno osasse anche solo tentare, morirebbe. La luce divina è intollerabile per la vista umana, consuma l’anima come fa il fuoco con l’aria. Ma a noi ormai è rimasta solo quella e sono certo che la Divina Nike non aveva alcuna intenzione di uccidere sua figlia.»
«Quindi? Che diamine significa, che è cieca ora?» chiese Jane, un filo d’ansia ben percepibile nella voce rauca.
Cicno scosse il capo. «No, non penso abbia davvero visto la vera forma di sua madre, come ho detto, la Dea Nike non avrebbe mai fatto qualcosa di tanto sconsiderato, non se le aveva già affidato la torcia. Ma Eliza deve comunque aver scorto un frammento di quella trasformazione. È solo molto confusa, la sua mente sta cercando di comprendere ciò che ha appena visto.»
«Lo deve processare, poi si riprede.» tagliò corto Nathan.
«A chi devi farlo il processo?» domandò confuso Cade.
«A quei due neuroni che ti sono rimasti.»
«Vuol dire che deve capire e assorbire tutto quello che ha visto.» spiegò secco Jonas.
Nathan annuì. «Quello che ha detto il moccioso.»
«Il moccioso è nato una ventina d’anni prima di te, ricordatelo.» gli ringhiò contro quello, trattenuto subito da Cade, che strinse leggermente la presa attorno alle sue spalle per chiedergli silenziosamente di lasciar cadere il discorso.
«La torcia,» disse Lea, ancora inginocchiata davanti ad Eliza, con le mani strette attorno a quella libera della compagna, «perché Nike le avrebbe affidato una torcia?»
«Per indicarci ci è la prossima divinità a cui dovremmo far visita. È il simbolo delle divina Ecate.» spiegò Cicno voltandosi poi verso Jane.
Lei alzò gli occhi al cielo. «Certo. Eliza è fuori combattimento per un po’ e a me tocca incontrare mia madre. Davvero emozionante.»
«Eliza?» chiamò gentilmente il greco. «Devi dare la torcia a Jane, tua madre te l’ha affidata per questo.»
La figlia di Nike lo guardò spaesata, battendo le palpebre nel vano tentativo di far scomparire tutti quei puntini luminosi. Diamine, Cicno brillava davvero tanto, molto più di quanto non facessero gli altri.
Poi aggrottò le sopracciglia.
«Siamo rimasti solo noi.» disse estemporanea. «Solo noi e i favoriti dei nostri genitori.»
Nathan fece scattare immediatamente lo sguardo verso Cicno, trovandolo impassibile, immobile.
Se aveva capito qualcosa di quell’anima, o almeno si voleva illudere d’averlo fatto, era che vederlo inespressivo non era mai un bene.
«Sai di cosa sta parlando.» non era una domanda e Cicno non fece nulla per deviarla.
Annuì. «Lo sai anche tu.» rispose invece.
«Io non lo so, quindi se mi spiegaste cosa significa invece di tenervelo per voi mi fareste un favore.» proruppe Jane infastidita.
«Vuol dire che sono rimasti in gara solo i figli degli Dei e i loro protetti, quindi anime anche mortali che, in vita, hanno ricevuto la benedizione degli Dei stessi.»
«E come fa Eliza ad esserne così sicura.»
«Me lo ha detto mia madre.» rispose lei spostando lo sguardo perso su Jonas. «Mi ha detto che non è un caso.»
«L’avevamo iniziato a notare anche noi, questa è solo una conferma.» disse Nathan serrando la mascella.
«Perché glielo avrebbe detto?»
«Per metterla in guardia, per farle sapere che da ora in poi chiunque incontreremo sarà un semidio o qualcuno con una maledetta benedizione divina. Se becchiamo uno benedetto da mio padre siamo fottuti.» grugnì Nathan.
Allo sguardo interrogativo di Cade rispose però Cicno. «La benedizione del divino Ares consiste nel rendere invulnerabile il ricevente. Vuol dire che non potremmo ferirlo in alcun modo, durante uno scontro.» spiegò, «Ma è anche vero che le benedizioni non durano in eterno.» continuò rivolto al soldato.
«Sei pronto a scommettere che quel sadico di mio padre non abbia rinnovato la sua benedizione o che non lo farà al momento opportuno per rendere tutto più divertente?» lo sfidò alzando un sopracciglio
Cicno alzò invece le mani in segno di resa. «Mai detto nulla del genere. In ogni caso, se la divina Nike ha voluto informare sua figlia di questa informazione vuol dire che presto ci sarà utile. Gli Dei non fanno mai nulla per nulla.»
«Quindi ora cosa facciamo? Cerchiamo la casa di Ecate e preghiamo di non incontrare nessuno?» chiese Cade scettico.
Lea si girò per guardarlo con incertezza, pronta però a dirgli che fino a quanto Eliza non si sarebbe ripresa non si sarebbero mossi di un centimetro da lì, ma fu proprio la figlia di Nike a batterla sul tempo.
«Ha detto che questa sarà l’unica volta che accetterà un secondo posto da me. Da uno dei miei fratelli.» mormorò, i ricordi che iniziavano a schiarirsi, a collegarsi gli uni agli altri. C’era un passaggio importante, qualcosa che lei già sapeva e che si collegava alla perfezione con quello che sua madre le aveva detto. Ma cosa?
Jonas si torse il bracciale stringendolo e tirandolo pensieroso. «Forse- forse perché- insomma, se ci sono più tuoi fratelli, magari te l’ha detto perché se vince uno di loro e tu arrivi seconda è comunque un podio di figli di Nike?» domandò più rispondere.
Eliza però scosse il capo. «No, no, non mi ha detto questo.» iniziò con più convinzione. Sottrasse la mano dalla presa di Lea e la impuntò sul gradino per darsi una spinta e mettersi in piedi.
Immediatamente Lea, Cade e Nathan allungarono le mani verso di lei, pronti a sostenerla al primo cenno d’instabilità.
«Mi ha detto qualcosa. Cosa diamine mi ha detto?» domandò a nessuno, marciando avanti e indietro, costringendo i suoi compagni a scostarsi velocemente, se non volevano esser colpiti dalla torcia che la donna ancora teneva saldamente in mano. Tenne lo sguardo fisso a terra però, quei dannati scintillii continuavano ad avvinghiarsi alle altre anime e benché nessuno di loro fosse luminoso come il greco anche l’aura fioca che si andava a delineare attorno ai restanti cinque la infastidiva.
«Qualcosa sulla gara?» domandò Elena debolmente.
«Ma è davvero importante? Non puoi pensarci mentre camminiamo verso la mia di prova?»
«Perché, sai dove andare?» chiese Jonas sorpreso.
«Non possiamo andarcene in giro con Eliza in queste condizioni.» protestò ancora l’italiana.
«Siamo andati in giro con Cade svenuto.» replicò Jane indicando il rosso scocciata.
«Mi ha detto qualcosa sulla gara. Ha detto che accetterà il secondo posto solo questa volta-» continuò lei voltandosi di scatto, continuando a marciare a testa bassa.
«Quella era una situazione diversa, non vedi come sta? Sembra quasi delirare.»
«A me sembra solo molto concentrata.»
«Jonas! Non aiuti così! Nathan?»
«Sta in paranoia per qualcosa, non sta delirando, non cominciare a fare l’allarmista del cazzo.»
«Non sto facendo l’allarmista! Era palesemente sotto shock prima, avete detto che vedere un dio trasformarsi consuma l’anima!»
«Non l’ha vista davvero o sarebbe scomparsa in una fottuta nuvola di polvere!»
«Stiamo solo perdendo tempo così!»


«Silenzio!»
 
I tre smisero immediatamente di discutere, voltandosi sorpresi verso Cade. Persino Eliza si fermò, osservando la figura ora fiocamente illuminata del compagno come se fosse la prima volta che lo sentisse alzare così la voce.
Cade invece guardò tutti e quattro con espressione palesemente innervosita.
Stavano perdendo davvero tempo, Eliza non era in condizioni così pessime da non potersi neanche muovere e lui non voleva arrivare tardi alla prossima prova tanto quanto voleva arrivare il più tardi possibile alla casa di suo padre. E poi quella dannata torcia stava bruciando un po’ troppo vicina a tutti loro per i suoi gusti.
 
E ne abbiamo visto fin troppo di fuoco ultimamente, cazzo.

Prese un respiro profondo ed espirò con forza: era come rimettere dritto un osso rotto, una spalla slogata, andava fatto in un colpo solo, con decisione, senza rimuginarci troppo.
Doveva togliersi questo dardo dal fianco ed andare avanti.
 
«La gara non è fatta per noi. Non siamo noi i veri vincitori, per questo mia madre ha detto che avrebbe accettato un secondo posto. Non possiamo vincere.»
Cinque teste scattarono verso Eliza, i volti di colpo pallidi, scioccati.
Jonas si sentì improvvisamente pesante, come se tutta la forza di gravità del mondo si fosse concentrata sulle sue spalle e ad occhi sgranati cercò Cade a tentoni, per incontrare immediatamente la sua mano, protesa in avanti.
L’irlandese non stava poi molto meglio, si sentì la terra mancare sotto i piedi, in caduta libera dal cielo senza possibilità di riprendere quota, di salvarsi.
Che diamine stava dicendo Eliza? Che significava? Non erano loro i veri vincitori? La gara non era fatta per loro?
Le sue parole lo colpirono in pieno, arrivando dritte a destinazione, senza aver bisogno neanche di un momento per essere assimilate.
Avevano fatto tutto quel casino, si erano fatti così tanti problemi, affrontato così tanto dolore per nulla?


Sono quasi scomparso per sempre. Jonas e Cicno sono arsi vivi. Abbiamo rivissuto i nostri ricordi più dolori per- per niente?
 
«Che cazzo vuol dire?» si sentì domandare, come se non fosse davvero la sua voce, come se non fosse stato davvero lui.
Eliza riprese a marciare avanti indietro, la torcia tenuta bassa continuò a bruciare solo sulla sua estremità, senza risalire l’asta, magicamente.
«Nike- Nike ha detto che la Death Race non è stata fatta per noi, che c’è un altro giocatore che ambisce ad un premio diverso dal nostro, che non stiamo gareggiando contro di lui ma che il vero premio è il suo, non il nostro. Ma-» si fermò, si girò verso i suoi compagni e deglutì, «a noi non deve interessare né come farà né cosa vuole. Devo solo vincere, è tutto ciò che conta.» Rimase immobile per un attimo e poi si avvicinò a passo deciso verso Nathan. «Ha parlato di schieramenti, qualcuno lo farà, qualcuno l’ha già fatto, credo parlasse degli Dei, degli altri. A lei non importa cosa succederà, le interessa solo che io, o uno dei miei fratelli, vinca.»
Il figlio di Ares la fissò serio, l’espressione mortalmente cupa. «Se gli Dei si stanno schierando vuol dire che presto ci sarà una guerra.» ragionò ad alta voce.
Eliza annuì. «Se la gara è solo una copertura, se noi non possiamo vincere il vero premio-»
«Non ti ha detto cos’è?»
«Ha detto che non mi deve interessare.» ripeté.
«Ma chi è che deve vincere, allora? Cosa vuole?» domandò Cade avvicinandosi, trascinandosi dietro Jonas, ancora sconvolto.
«Un’altra anima?» mormorò Lea.
«No, mia madre ha parlato di “un essere”, un altro giocatore, non un’anima, ha detto che è qualcosa di “molto peggio purtroppo per noi”.»
«Un essere immortale? Forse uno degli antichi eroi, un guerriero, un tiranno, qualche stronzo che ha fatto qualcosa nell’epoca antica.»
«Tipo cosa? Il cattivo di un mito?» chiese Lea scettica.
«Tipo.»
«Però Nike ha detto che non ambisce al nostro stesso premio, giusto?» domandò Jane sfregandosi le mani sulle braccia. «Se non vuole tornare in vita-»
«Probabilmente perché già lo è.» borbottò Jonas.
«O lo è ancora.» lo corresse Nathan.
«Se non vuole tornare in vita, se il premio che ci è stato promesso è ancora sul piatto, a noi cosa cambia?» terminò in fine la sua frase la strega, osservando i compagni.
Ci fu un lungo momento in silenzio in cui tutti rifletterono, persi nei loro ragionamenti, nei sé e nei ma.
«Jane ha ragione.»
Cicno parlò per la prima volta e lo fece con voce bassa, gentile e accondiscendente.
Stavano succedendo troppe cose tutte assieme: il fascio di luce che li aveva colpiti, il litigio tra Cade e Jonas, lo scontro di questo con l’illusione di sua madre, la dipartita di Úranus e ora anche Nike che raccontava a sua figlia qualcosa di estremamente pericoloso e al contempo nulla che potesse effettivamente danneggiare il suo padrone.
 
Siate dannati. Passano i secoli e voi non cambiate mai, continuate a far scoppiare fuochi nei campi di grano per poi voltargli le spalle ed ignorare le grida della gente.
 
«A chiunque si riferisse tua madre, sembrerebbe non volere ciò che c’è in palio per noi. Sapevamo tutti che gli unici in grado di arrivare fino in fondo saremmo stati noi, la progenie divina. Le prove divengono ogni volta più specifiche, richiedono sempre di più l’ausilio di poteri sovrannaturali. La divina Nike non ti ha detto nulla di nuovo ed il fatto che non ne sia interessata dovrebbe rasserenarti: è la Dea della Vittoria, per lei vincere è l’unico proposito degno d’essere combattuto, se avesse saputo che questa possibilità sarebbe stata negata a tutti i suoi figli, la possibilità di vincere, si sarebbe scontrata con chiunque sia l’altro essere.» continuò ragionevole.
Lea si aggrappò a quelle parole come fossero verità assoluta.
«Sì, Cicno ha ragione. Non sarebbe stata indifferente. Hai detto tu stessa che per lei l’unica cosa che conta è che tu vinca quindi se non avessi potuto vincere non sarebbe stata così tranquilla.»
Anche Nathan annuì, pensieroso. «Non ti avrebbe detto che non le interessa altrimenti. Ma il fatto che ci sia qualcun altro pronto a farsi i propri porci comodi-» lasciò la frase sospesa, serrò le labbra e aggrottò le sopracciglia. «Che cazzo vuole se non la vita?»
«Con tutto il rispetto, che cazzo vuole non mi interessa. Mi preoccupa di più chi cazzo sia.» replicò Cade, il pensiero fisso sull’identità di quella figura misteriosa che sembrava aver architettato ogni cosa, che li stava muovendo come pedine.
Eliza girò il viso verso di lui, inclinando il capo di lato, ma tenendo lo sguardo fisso sul terreno, senza guardare davvero nulla se non le ombre che i copri dei compagni proiettavano grazie alla luce della torcia.
«Chi veste d’ombra…» mormorò tra sé e sé. Era lì, quello era il punto, il collegamento che non riusciva a fare. Lo vedeva, sapeva per certo che ci fosse, ma non riusciva a legarlo.
«Cosa?» domandò Jonas sporgendosi in avanti. «Cosa hai detto?»
Eliza si schiarì la voce ma non distolse lo sguardo dalle ombre tremolanti.
«Chi veste d’ombra e tutti segue si assicurerà che ognuno di noi arrivi dove necessario.» ripeté con più sicurezza.
«Chi veste d’ombra, intendi- intendi di nero?» chiese Jane aggrottando la fronte. «L’uomo che mi ha dato il biglietto era completamente vestito di nero.»
Quelle parole furono come un fulmine a ciel sereno. Eliza si volse di scatto verso la strega, così come fecero tutti quanti sorpresi da quella semplice affermazione.
E proprio come la scintilla di un fulmine un raggiò di luce collegò le parole di sua madre ai suoi ricordi, a ciò che aveva visto, a ciò di cui avevano parlato tutti loro più e più volte.
 
Un uomo vestito di nero, che fuma un sigaro.
Appare e scompare a suo piacimento.
Ci ha aiutati senza un apparente motivo.

 
«L’ho visto oltre il fuoco!» esclamò di punto in bianco Jonas.
Si girò a cercare Cicno, trovandolo impassibile e rigido, scosso come tutti loro da quella rivelazione.
«Mentre eravamo sotto il raggio del Guardiano, quando mi hai detto che dovevo lasciarti, che se l’avessi fatto mi sarei potuto salvare. Ho aperto gli occhi e oltre il fuoco c’era un uomo, quell’uomo, che mi ha-» si fermò.
Nathan lo guardò attento, un leggero tic nervoso alla guancia gli fece scattare lo zigomo sinistro.
«Ti ha? Cosa ha fatto? Che cazzo è successo? E soprattutto quando pensavi di dircelo?!»
«Mi è passato di mente! Sai, forse non te ne sei accorto, ma ero in un cazzo di tornado di fuoco!» rispose a torno Jonas.
Dentro di sé si agitavano vergogna e irritazione in eguale misura: come poteva essersi dimenticato di quell’uomo? Ciò che gli aveva detto era così compromettente- ma si era ritrovato in mezzo alle Praterie degli Asfodeli, ferito, nudo, in mezzo al buio pesto, forse poteva essere un po’ più indulgente verso sé stesso.
 
«Cosa ti ha detto?» chiese con più gentilezza Cade.
Jonas lo guardò stringendo le labbra. Deglutì. «Che sapevo quale fosse la cosa giusta da fare, che ero vicino alla soluzione e che potevo farcela.»
«Credeva che tu sapessi come salvarti?» domandò Jane scettica.
Il ragazzino scosse il capo, una smorfia a tirargli il volto. «No, non come salvarmi, io- Cicno mi diceva di lasciarlo andare, che se l’avessi lasciato sarei stato salvo e io non volevo ma-» si bloccò per prendere un respiro profondo, quella era la parte più umiliante della storia, «-lui continuava a parlare, a dirmi che dovevo fidarmi e che avrebbe pensato a tutto lui e io- mi stava- non voglio dire che mi stava convincendo ma sembrava sensato, va bene? Quello che diceva sembrava sensato e l’idea di uscire da quel rogo era tutto ciò che volevo, però mi sentivo in colpa, non era giusto e allora quell’uomo mi ha detto che c’ero quasi, che stavo quasi per fare la scelta giusta.»
«Allora è rimasto.» disse Cicno per lui. «Mi ha chiesto quale fosse la risposta alla domanda della divina Demetra ed è rimasto al mio fianco, per affrontare la prova assieme a me.»
Jonas annuì, abbassando lo sguardo imbarazzato, quel senso di vergogna che gli scivolava ancora sotto pelle. Aveva quasi mollato, aveva quasi fatto di nuovo la stessa cosa che aveva fatto in vita.
 
«Cos’era?» domandò Cade cercando di spostare il discorso ed alleggerire un po’ il peso che vedeva dipinto sul volto del ragazzo, anche se, senza rendersene conto, fece l’esatto opposto.
Jonas drizzò la schiena e diede un paio di colpi di tosse, in attesa che Cicno rispondesse. Quando il greco però non proferì parola si ritrovò costretto a farlo da sé.
«Anche quell’uomo lo sapeva.» iniziò, sperando che questo avrebbe attirato l’attenzione dei suoi compagni.
«Quindi è davvero dietro a tutto questo casino, ma per chi lavora?» domandò Nathan ad alta voce.
«Non era una risposta tanto oscura, bastava conoscere la divinità che ha creato quella prova. In questo caso Demetra, madre amorevole e vendicativa, che ha fatto tutto ciò che era in suo potere per riavere sua figlia.» disse Cicno con calma.
«Se avevamo una famiglia?» provò allora Cade.
Il greco scosse il capo. «Non necessariamente. Ciò che importava alla divina Demetra è che in vita avessimo amato qualcuno tanto intensamente come lei ama sua figlia. Amare ed essere amati.»
Lea voltò allora il viso verso Jonas, curiosa. «Cosa ti ha detto? Nello specifico.»
Jonas avrebbe voluto lasciarsi sfuggire un lamento, acuto e petulante come il latrato di un cane: perché dovevano capitare sempre a lui queste situazioni imbarazzanti.
Sospirò, non aveva poi molta scelta, si era firmato da solo la propria condanna.
 
Di nuovo, che ironia. Dovrei perderla quest’abitudine.
 
«Che io c’ero morto.» borbottò a mezza bocca.
Nathan lo guardò sorpreso. «Credevo che tu fossi morto scappando.»
Una pugnalata alle spalle doveva avere lo stesso effetto che quelle parole, dette con tanta leggerezza, ebbero su di lui in quel momento.
«Non sono affari nostri, soldatino, se non ce lo vuole dire non ce lo dice.» s’intromise subito Cade.
«Era solo una cazzo di domanda, certo che se non vuol non dice niente. Questo non toglie che il tipo sa del suo passato.» fece notare stizzito.
Anche quelle parole non aiutarono per niente Jonas a rilassarsi. Cos’era? Adesso ce l’avevano tutti con lui?
 
«Deve sapere anche del mio allora.» disse Eliza. «Anche a me è apparsa una figura simile, mi ha parlato con provocazione ma con sicurezza, mi ha ricordato il mio passato.»
Nathan annuì lentamente a quelle parole. «È evidente che sia un essere divino allora, che sia un Dio maggiore, minore o dimenticato. Questa potrebbe essere l’opzione più sensata.»
«Perché dici questo?» domandò Lea mordicchiandosi l’unghia del pollice.
«Perché non riesco a riconoscerlo in nessuna descrizione. Un uomo che veste di nero è troppo generico ma allo stesso tempo non lo è. Se fosse stato uno dei Dodici ve ne sareste accorti, la loro aura è potente.»
«L’ho visto attraverso una colonna di fuoco, non è abbastanza?» chiese Jonas scettico.
«Io l’ho visto dopo la prova del labirinto, sapeva che avevo un coltello in tasca, sapeva che mi sarei ferito.»
«La preveggenza è capacità di quasi tutti gli Dei, se si parla di eventi minori e che si svolgeranno a breve distanza. Alle volte possono anche prevedere azioni future più distanti nel tempo.» spiegò Cicno accantonando subito la possibilità di stringere il cerchio dei sospetti.
«Non c’è modo di riconoscerlo quindi?» domandò Jane lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.
Nathan scosse la testa, infastidito. «Neanche l’ombra.»
«Bene.» disse lei incredibilmente soddisfatta. «Allora non perdiamo altro tempo e andiamo a cercare l’altare di mia madre.» concluse secca.
Si volse verso Cicno, ignorando le deboli proteste di Lea su come Eliza fosse ancora troppo pallida, le rassicurazioni della figlia di Nike stessa su come fosse in grado di proseguire e la risposta sarcastica di Nathan su come – Grazie al cazzo che è pallida, è morta.-
Jane guardò il figlio di Apollo dritto in viso, senza battere le palpebre, senza curarsi del fatto che il giovane non sembrasse minimamente infastidito da quel suo voler smettere di ragionare, di domandarsi, di indagare le possibili identità dell’uomo in nero.
 
Che veste d’ombra.
 
«Cosa pensi debba fare? Come potrebbe portarmi a destinazione la torcia che Nike ha dato ad Eliza?»
Cicno espirò lentamente, il volto impassibile, fermo e liscio come quello di una statua.
«La torica è il simbolo divino di tua madre, ma anche quello che per antonomasia illumina il cammino dei viandanti a notte fonda. Nel tuo caso, nel caso della divina Ecate, illumina le vie tra le malie della Foschia. Non so dirti con certezza come potrà mostrarti la via, quel che è certo è che dovrai essere tu ad impugnare la torcia.» disse tranquillo. Si volse leggermente verso Eliza. «Passale il dono di tua madre, figlia di Nike.»
Eliza lo guardò per un momento tentennante, la presa sull’asta si fece più stretta, come se lasciandola avrebbe ceduto anche il ricordo delle parole di sua madre. Ma dopo quell’attimo di esitazione drizzò la schiena, allargò le spalle e protese il braccio verso la figlia di Ecate, porgendole l’impugnatura della torcia con espressione seria.
Non disse nulla, fece solo un cenno con il capo, come a volerla incoraggiare e Jane ricambiò, le labbra sigillate e tese.
Quando la torcia fu finalmente nelle sue mani non successe nulla. Non vi furono rumori, la fiamma non mutò la sua intensità, nessuna scia luminosa si creò, andando ad indicare la via da seguire com’era stato per la casa di Fobetore. Nulla, assolutamente nulla.
I semidei si guardarono alle spalle, voltarono il capo in ogni direzione per poter scorgere anche il minimo cambiamento, ma la strada lastricata era rimasta la stessa polverosa strada di prima.
 
«Ma che cazzo.» sbottò Nathan accovacciandosi a terra per esaminare meglio il suolo.
«No- non succede nulla?» domandò a sua volta Jonas, alzandosi invece sulla punta dei piedi per poter scorgere magari in lontananza anche il minimo cambiamento.
Ma non vene erano, non c’era nulla di nuovo, nulla di diverso.
Per lo meno, non ai loro occhi.
Jane rimase ferma senza osare muovere un muscolo, senza provare anche solo a respirare come le era tornato naturale fare durante la gara. I suoi occhi erano fissi, vitrei sulla strada, sulle leggere, leggerissime chiazze luminose se segnavano il suolo.
Sembrava quasi che qualcuno avesse lasciato cadere della sabbia fine e chiara- no, come se una lucciola stesse sostando su quel punto, ma lontana, non abbastanza vicina alla terra da poterla illuminare per bene. Era solo un’ombra.
 
L’ombra di una luce.
 
Non vedeva altro, non vedeva altro che quella minuscola e flebile variazione luminosa.
Non vedeva altro.
Jane si fece sorda alle voci dei suoi compagni, cieca alle loro ricerche, estranea alla loro frustrazione e dubbio.
Non vedeva altro se non quelle minuscole macchie di luce, come i raggi flebili che passavano tra le nuvole di un cielo grigio, piatto, spento, ingombro.
Non vedeva nulla di più.
 
Perché la mia magia non è altro che questo, nulla di più di una vaga e sbiadita traccia di luce.
 
Un leggero tremore la scosse dall’interno, facendole digrignare i denti dalla rabbia: non era abbastanza forte neanche con l’ausilio di un dono divino.
Eppure era riuscita a far sparire quelle spade, era riuscita a trovare un modo per rintracciare i suoi compagni, per richiamare il buio, per scovare la casa di Fobetore. Perché, perché se malgrado fosse riuscita a fare tutto questo, sua madre non la reputava ancora degna di poter vedere la strada per la vittoria?
 
O forse è Nike, è lei a non reputarmi abbastanza degna, a non vedere una vincente in me.
 
Perché sembrava che il mondo fosse sempre contro di lei, che la ostacolasse sempre.
Strinse ancora di più i denti e con essi anche la presa sulla torcia, abbassandola con un gesto secco verso il terreno. Forse avvicinando la torcia a quelle macchie di luce le avrebbe viste più chiaramente. Ma non appena il fuoco fu vicino a quello strano alone questo scomparve, mangiato dalla luminosità eccessiva della fiamma.
 
«Così li spaventi, figlia di Ecate.»


Jane si girò di scatto, il volto contorto da una smorfia irosa, gli occhi socchiusi, ardenti nella loro opacità.
 
«Chi?» chiese solo a denti stretti, più un sibilo che una domanda.
Cicno le si avvicinò con lentezza, posando una mano su quella con cui Jane reggeva la torcia, senza osare sfiorare direttamente il legno, e sollevandola da terra.
«Coloro che sono tra i più fedeli servitori di tua madre, i Fuochi Fatui.» rispose con semplicità.
Jane avrebbe voluto infilargli la dannata torcia in bocca, anzi, no, avrebbe voluto infilargliela negli occhi e poi in bocca. Avrebbe voluto bruciare quel bel viso da statua antica, i capelli castani perfetti, l’espressione neutra, intonsa da qualunque emozione. Dalla rabbia che invece bruciava in lei.
Bruciarlo come doveva aver fatto lo sguardo del Guardiano.
«Le macchie di luce?» si ritrovò a chiedere brusca.
Cicno annuì. «Loro. Le vedi anche tu.» disse solo, un’affermazione, una costatazione dei fatti.
Jane si lasciò sfuggire un verso di scherno. «Non bene come li vedi tu, evidentemente.» ritorse dura.
L’espressione sul volto del greco non mutò, inscalfibile anche a quell’accusa velata, quell’invidia pungente che colava dalla voce della giovane.
«Mi pare ovvio, sono figlio del dannato dio del Sole. La luce è suo regno, non quello di tua madre.»
La risposa di Cicno fu così semplice, così scontata, da riuscire a spegnare quel fuoco iroso che le bruciava la gola.
Jane guardò sconcertata: che diamine stava dicendo?
«Hai detto che sono i servitori-»
«Ho detto “coloro tra”, non che sono i soli. I Fuochi Fatui sono manifestazioni di magia, sono esseri singoli e uniti, un insieme omnisciente, collettivo, un uno che si divine in molti, diviene molti, ma rimane sempre collegato in una sola mente. Cosa siano i Fuochi Fatui in realtà non è dato saperlo neanche agli Dei.
Loro è la scelta di chi servire, di cosa comunicare, da chi farsi scorgere. Per alcuni Dei e per la loro progenie è più facile vederli, è più semplice scorgere le loro impronte sulla terra mortale anche se si celano ai nostri occhi.»
La figlia di Ecate continuò a guardarlo senza riuscire a protestare, senza trovare una singola cosa contro cui scagliarsi.
Cicno le sorrise piatto. «Non sto negando che coloro che posseggono più doni divini degli altri abbiano le stesse possibilità di scorgerli dei loro fratelli, sarebbe sciocco ed inutile. Lea non li vede, infatti.»
Al sentir nominare il suo nome l’italiana sussultò sul posto, sbrigandosi ad annuire, anche se in cuor suo non sapeva se sentirsi insultata dal fatto che suo fratello la reputasse più debole di lui, o se accettare quella spiegazione senza alcuna invidia.
«Non- mi è capitato di vedere cose… diverse, rispetto a quelle che potevano altri semidei, ma ora no, non vedo nulla.» ammise infine.
«Li aveva visti anche prima.» s’intromise Cade, «Quando ha trovato me, quando sono stato male e lui mi ha curato. Sono stati i Fuochi Fatui a riportarci da voi, ma io non vedevo assolutamente nulla.»
Jane batté le palpebre senza ben sapere cosa farsene di quelle informazioni. Annuì.
«Che devo fare?» domandò con voce flebile.
Cicno le ripropose lo stesso sorriso neutro di prima. «Non spaventare i Fuochi Fatui con la torcia, per iniziare. Segui solo il cammino da solo indicato.»
La giovane però scosse il capo. «Non li vedo bene.»
«Vedi le loro auree, vedi quella che potremmo chiamare la loro “ombra luminescente”. E nel caso non dovesse bastare-»
Il figlio di Apollo si chinò verso il basso, i pantaloni scuri e la maglietta a maniche corte continuavano a fare uno strano effetto sulla sua persona, sembrava un’antica reliquia riposta su di un moderno altare. Era fuori posto, era sbagliato ed era un pensiero che nessuno dei presenti riusciva a togliersi dalla testa, un pensiero che andò solo a rafforzarsi nel momento in cui le lunghe dita affusolate sfiorarono la strada lastricata, quando girò il palmo morbido verso l’alto, piegando la mano a coppa, come se stesse sostenendo un oggetto delicato.
Leggere luci si proiettarono lievi sulla pelle sbiadita dalla morte, piccole scintille fievoli zampillarono con lentezza oltre le dita flesse, spegnendosi nell’aria prima ancora di toccare terra.
Fu come assistere ad una magia, ad un antico miracolo, qualcosa che sottolineò con ulteriore forza quando quell’anima fosse distante secoli da tutti loro, dal mondo che avevano conosciuto in epoche diverse, dalla concezione di essere umano, semidivino o ultraterreno che ognuno di loro aveva.
Presto si ritrovarono tutti ad osservare Cicno cingere con delicatezza un globo fiammeggiante blu. Ora leggermente violaceo, lilla quasi, rossastro pesto come un livido, azzurro come il cielo che divide il tramonto dalla notte.
Il Fuoco Fatuo si accomodò meglio sulla mano del giovane, accovacciandosi quasi prima di esibirsi in un piccolo salto e scomparire nel nulla.
I semidei sussultarono, qualcuno tirandosi indietro, qualcuno protendendosi in avanti, ma prima che chiunque potesse anche solo formulare una domanda, un altro Fuoco Fatuo si accese davanti a loro, a non più di qualche metro di distanza.
La fiamma sulla torcia che Nike aveva donato ad Eliza si animò per un istante, ardendo più alta per poi tornare come prima.
Quando Cicno si rialzò, voltandosi per guardare Jane negli occhi, il sorriso sul suo viso era più autentico, decisamente soddisfatto di sé stesso, divertito dagli sguardi sorpresi e ammirati di tutti loro, da quello incredulo di Jane.
 
Quanto è davvero potente quest’anima?
 
«Nel caso non dovesse bastare, ricorda sempre che al tuo fianco hai un figlio del Sole e che la luce, come il fuoco, è parte della mia eredità. Se la via non dovesse essere abbastanza chiara, potrò sempre brillare più intensamente.»
 
Il Fuoco Fatuo apparso più avanti vibrò su sé stesso e si fece più luminoso, come a voler richiamare la loro attenzione.
 
Cicno ghignò. «Mettiamoci in cammino, compagni, la luce non attende nessuno.»
 
E come a voler dar conferma delle sue parole la fiamma scomparve per riapparire subito dopo ancora più avanti, puntando verso quello che le anime non potevano sapere essere l’ovest.
 

 
 
*
 
 
 
 
In un tempio nero, illuminato da fiamme verdi e fredde, della sabbia fine ed impalpabile si depositò sul pavimento lucido, attirando l’attenzione di una figura vestita con un lungo e pesante abito viola.
La donna alzò un sopracciglio fine, guardando la sabbia con fare interrogativo finché questa non prese forma.
Un verso divertito si propagò per la sala.
 
«Sì, ho sentito. Non devi temere, penserò io a sistemare questo piccolo inconveniente, il tuo bambino può riposare sereno.»
Le sue stesse parole le fecero piegare le labbra scure in una smorfia amareggiata.
«Se fosse ancora in grado di farlo.»
 
La sabbia perse forma, sgretolandosi sul pavimento, scivolando via come un serpente, infilandosi nelle fessure tra le lastre lisce e scomparendo nel basamento.
La donna la guardò andarsene in silenzio per poi decidere che fosse giunto il momento anche per lei di congedarsi dal suo stesso tempio.
 
La Foschia la inghiottì come una corrente inghiotte le sue prede.
Il tempio tornò silenzioso e vuoto, solo i fuochi verdi a crepitare gelati nei loro bracieri. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Capitolo 22
*** Promise. ***










 
 
XXII- Promise.
 
 
Per quanto si trovasse sprofondato nelle viscere della Terra, l’Ade poteva essere visto come un mondo a sé, un ecosistema chiuso nelle sue stesse pareti, prigioniero e protetto di una spessa scorza fatta di roccia, sedimenti e lava bollente.
Dalla volta celeste non scaturiva nessuna luce, le lunghe e spesse stalattiti che si erano formate nel corso dei millenni nascondevano solo un buio più denso di quello che si spandeva per le pianure, ospitando i nidi di esseri misteriosi e le carcasse delle loro prede.
Non c’era motivo alcuno per recarsi così in alto, per sostare tra le zanne rocciose della Terra, poste sotto al mantello magmatico costantemente in movimento che era il sistema sanguineo di quell’animale. Eppure da lì si avrebbe avuta la visuale migliore per spiare le infinite e sterminate Praterie degli Asfodeli, grigie d’erba nera e Foschia bianca. Si sarebbero scorti con chiarezza i Campi di Pena, quell’enorme depressione composta da centinaia di terrazze che affacciavano le une sulle altre, scale mastodontiche da scendere per giungere fino al cuore nero del pianeta, dove era stato segregato il padre degli Dei, il vero padre degli Dei, dannato per eccellenza, primo assassino, despota e tiranno, primigenio mostro della storia a ricevere la condanna che avrebbe fatto da esempio per tutte le altre: oscurità e tormento fino a quando la caduta del mondo stesso non fosse sopraggiunta.
La volta rocciosa era anche il luogo ideale per osservare il maestoso e labirintico Palazzo di Ade, quella che il dio chiamava banalmente la sua “casa”; un agglomerato di strutture, di stanze, intere ali di una dimora che si era espansa ed evoluta nel tempo, seguendo il passare delle epoche, delle idee, dei gusti. Così come si era espanso ed evoluto il luogo di pace eterna, i Campi Elisi, celati dietro le alte mura bianche, custodite dal Guardiano, che s’ergeva silente ed attento sulla punta più alta del cancello centrale, un artefatto divino forgiato prima ancora che molti Dei vedessero la vita.
Dall’alto era facile individuare l’agglomerato che erano i templi dedicati ad ogni divinità, da quelli più grandi ai più piccoli, dai tetti candidi a quelle neri, scintillanti d’oro o rossi di semplici mattoni, bruni di paglia secca, grigi come le tegole delle cattedrali.
C’era un insolito via vai tra quelle strade, normalmente battute da pochi fedeli o figli affezionati che si recavano a portare onore alla propria divinità protettrice. Sembra che in molti si fossero improvvisamente ricordati d’aver qualcuno a cui portare omaggio, quando per secoli non avevano neanche saputo dell’esistenza di tale luogo. Perché ciò che spesso i vivi non riuscivano a comprendere era che con la propria dipartita non si perdeva quella scintilla d’energia in favore di una conoscenza onnisciente, ma si restava chiusi nella propria ignoranza, nel proprio piccolo sapere.
Si potevano scoprire cose nuove, si potevano imparare mestieri, studiare eventi, ma non era la morte a dare questo potere, era solo la necessità di impiegare quel tempo infinito che veniva donato una volta varcate le soglie dell’Ade.
Occhi rapaci osservavano da millenni le anime che si susseguivano per ogni via, per ogni luogo degli inferi, spiandone le mosse e le azioni, ma mai avevano scorto nulla di simile, mai i templi e le cattedrali erano stati così pieni, mai tanta luce accecante era filtrata dalle finestre di quei luoghi di culto, mai così tante anime erano scomparse tutte assieme, che fosse per rinascere o per svenire definitivamente nel nulla.
 
Ma non è davvero “nel nulla”, le anime sconfitte vanno comunque da qualche parte. Scendono i gradini mastodontici dei Campi di Pena e si uniscono al miasma che genera la Foschia.
 
Erano davvero incalcolabili le anime perdute, sconfitte dalle prove divine o dalla crudeltà degli altri partecipanti.
Condannati o salvati.
 
Il corvo mosse il collo con un gesto secco, inclinando il capo per osservare meglio uno sparuto gruppetto d’anime semidivine che avanzava per le strade lastricate.
Ce ne erano tanti come quello ed esattamente come per tutti gli altri gruppi il corvo non prestò la minima attenzione alla maggior parte dei suoi componenti, ma solo ad uno specifico. A chi era stato proprio salvato da un volere superiore a quello dei propri compagni.
Il corvo puntò gli occhi scuri su un giovane dai capelli ricci e la maglia arancione che teneva la lancia di bronzo celeste sulle spalle, i polsi mollemente poggiati sull’asta. Si muoveva con confidenza, senza neanche preoccuparsi che la punta affilata potesse sfiorare uno dei suoi amici.
Era un semidio moderno, questo lo sapeva, e coloro che stava guidando verso ogni tempio divino erano all’incirca dello stesso periodo, di certo dello stesso secolo.
Si stavano dirigendo verso il cuore della valle dei Templi, lì dove erano stati eretti i templi degli Dei più potenti e dei loro diretti servitori. Li osservò fermarsi brevemente davanti alla casa di Borea e guardare il portone di marmo lucido con sguardo triste, in silenzio, quasi in preghiera.
Fu proprio il ragazzo con la lancia a muoversi per primo, passando la sua arma ad un compagno, per andare ad inginocchiarsi davanti alle scale così chiare da sembrare di ghiaccio. Chinò il capo in segno di rispetto, poi estrasse qualcosa dalla tasca dei pantaloni e lo depositò sul gradino più alto.
Rimase così per un momento. Si rialzò, fece un cenno di saluto al tempio e si ricongiunse ai suoi compagni, riprendendosi la lancia ed indicando con questa una direzione precisa in cui incamminarsi.
Il corvo non lo perse di vista neanche per un attimo, ignorando l’oggetto abbandonato sulle scale, ignorando i volti tristi degli altri semidei. Al corvo interessava solo quel figlio di Apollo, perché su di lui spiccava chiaro il marchio di un essere che non avrebbe dovuto conoscere, che non avrebbe mai dovuto sfiorarlo.
Con un gracchio il corvo si gettò in picchiata verso i Campi Elisi, fermando la sua caduta solo in prossimità della punta più alta di un tempio nero come la pece.
Agli occhi scuri e privi di pupilla del rapace risaltava chiara l’impronta metallica che s’annodava attorno al collo del ragazzo, una sottile linea tratteggiata che seguiva la depressione tra le clavicole e quella della spina dorsale, allungandosi per la schiena ed il torace del giovane.
Quel brilluccichio non si vedeva da decenni e feriva gli occhi.
Il corvo gracchiò ancora.
Le catene d’oro della bestia erano tornate a splendere.
 

 
*



 
Il tempio di Ecate era nero come i primi due che avevano trovato sulla loro strada. Jane lo guardò con sospetto, domandandosi perché si trovasse in quella zona, perché la pietra scura avesse riflessi violacei e verdi, come quelli di un livido e soprattutto perché sulla parte più alta della struttura, proprio sotto il tetto, fosse rappresentato il bassorilievo di una donna con tre teste.
 
«Tre volti.» la corresse Cicno a voce bassa. «La divina Ecate viene rappresentata con molte forme, mutevole come la magia.»
Jane fece un verso di scherno. «Mutevole era il demonio e tutte le infinite forme che poteva assumere. A quanto pare le genti del mio villaggio avevano ragione sulle streghe.»
«Figlie del diavolo?» Domandò Cade avvicinandosi con pigrizia, le mani sprofondate nelle tasche e lo sguardo rivolto verso il bassorilievo.
«In questo caso dovrebbe essere figlia di Ade, no?» s’aggiunse Jonas lanciandosi di tanto in tanto sguardi attenti alle spalle, dove Lea teneva sottobraccio Eliza, più per la pace della prima che per la sicurezza della seconda.
«Ade non è il diavolo, ma sì, probabilmente molti ignoranti lo vedono come la sua versione greca.» spiegò Nathan per nulla interessato a quegli inutili convenevoli. «Ma Ecate incarna meglio il parallelismo con il serpente, secondo me.»
«Che blasfemia.» disse Lea accigliata, «Come puoi paragonare Ecate al serpente del Paradiso Terrestre?»
«Perché si trasforma e fa danni?» domandò Cade.
«Allora dovremmo prendere in considerazione la divina Eris.»
«Non la nominare neanche, cazzo. Quella porta sfiga pure solo a chiamarla.» borbottò Nathan. «Ma non ce ne frega comunque niente. Forza, è il tuo turno.» Concluse facendo un cenno con la testa verso Jane.
La giovane storse il naso in una smorfia infastidita, cercando di ignorare i commenti di Lea su come non fosse proprio la cosa migliore insultare una Dea quando uno di loro stava per affrontare la propria prova, e si voltò invece verso Cicno.
Il greco ricambio il suo sguardo senza batter ciglio.
«Sai già cosa potrebbe attenderti nel tempio di tua madre. Potrebbe essere lei stessa, la donna che ti ha cresciuto o anche una persona cara. Quel che è certo è che dopo la scorsa prova la Foschia è divenuta più densa e potente. Potresti incontrare più difficoltà di quanto non abbiano fatto i nostri compagni.»
Jane alzò gli occhi al cielo, accomodando meglio la torcia nella presa stanca, lasciandosi sfuggire un verso di scherno dalle labbra tese. «Ma certo, mi pare giusto che sia io quella a dover affrontare le prova più difficile.»
«Ho detto che potresti incontrare più difficoltà, non che sarà per certo più difficile.»
«Anche se visto quanto ci stai con la testa forse sarà proprio così.» Aggiunse Cade sorridendole.
La strega lo guardò male. «Vaffanculo rosso.»
Di fianco a loro Nathan ghignò, mentre Cade scoppiò direttamente a ridere.
«Questo è lo spirito giusto!» rise di cuore l’irlandese.
«Fai attenzione.» le mormorò piano Eliza, il volto pallido tornato un po’ più in sé, un po’ più su questa terra.
Lea annuì. «Qualunque cosa succeda ricordati che è un prova e che saranno disposti a dirti di tutto per farti arrendere, ti prometteranno magari di rinascere con i tuoi genitori o, io- sinceramente non ricordo se avessi fratelli-»
A quella domanda tentennante Jane rispose con un sorriso lugubre. «Non mi proporranno mai nulla di simile, anche perché tornerei dritta all’inferno.»
Con ciò la figlia di Ecate iniziò a salire i gradini, puntando lo sguardo dritto sul portone, quasi a sfidarlo a non aprirsi magicamente, a non riconoscerla degna neanche di questo.
Le porte però si aprirono con un movimento fluido, senza un solo suono.
Jane non si fermò neanche sulla soglia per volgere un ultimo saluto ai suoi compagni, ignorando le loro parole di incoraggiamento e gli schiamazzi in cui si stavano già perdendo.

Quando le due grandi ante si chiusero alle sue spalle, Jane fu nel buio.
 Non una luce, non un Fuoco Fatuo, il tempio di sua madre era nero come le acque più profonde, denso di qualcosa che non sapeva dire con certezza ma che poteva essere solo una cosa: Foschia.
Strinse istintivamente di più la torcia, voltando il capo verso la direzione in cui sapeva essere l’oggetto, ma anche la fiamma di questo era scomparsa. A quanto pareva il dono di Nike aveva fatto il suo dovere e ora era inutile. La gettò a terra innervosita, era evidente che anche quel piccolo aiuto le era stato negato.
Con riluttanza Jane iniziò a muovere i primi passi incerti verso l’ignoto, le braccia tese in avanti alla ricerca di un muro, una colonna, un qualunque appiglio che potesse darle sostegno, stabilità, sicurezza. Ma non c’era niente, lo spazio attorno a lei era esattamente come la magia di Ecate: impalpabile ed oscura.
Il pavimento era liscio, neanche il vago scalino di una giuntura tra una mattonella e l’altra, probabilmente dovevano essere grandi lastre e Jane si abbassò a terra per potervici passare sopra la mano, per sentirne la superficie. Si sorprese nel trovare qualcosa di freddo, liscio ma non perfetto, come i gradoni di una chiesa calpestati dai fedeli. Sembrava quasi umida al tatto, no- non era come le scale di una chiesa, era come le pareti di una grotta, lisciate da anni ed anni d’acqua che silente colava lungo la roccia. Il tempio di Ecate era un antro oscuro scavato nella pietra, freddo ed umido, in cui ogni rumore rimbombava sulle pareti nude. Come si addice ad una strega.
Non si sarebbe stupita nel sentire il verso di qualche pipistrello, il loro stridio acuto che sembrava perforare le orecchie, o il rumore strisciante di qualche rettile. Forse si stava facendo suggestionare dai racconti che sentiva da bambina, ma ogni più stupida diceria sembrava descrivere perfettamente quel luogo.
 
Servirebbero solo le grida dei poveri innocenti catturati dalla strega.
 
Si rialzò con lentezza, timorosa quasi si sbattere il capo contro il soffitto basso della grotta, pulendosi le mani sul vecchio grembiule logoro. Ora che aveva toccato quel pavimento, ora che ne aveva saggiato la sensazione di umidità, aveva quasi paura di poter scivolare ad ogni passo.
Non riuscì a farne poi molti prima che il silenzio surreale del tempio fosse intaccato da echi vaghi di voci umane.
Jane si fermò, drizzando le orecchie, chiudendosi nelle spalle. Cos’era? Erano di certo anime, ma cosa stavano dicendo?

Quanti dei miei fratelli sono qui dentro ora? Quanti di loro sono soli?

Le venne in mente in quel momento ciò che da ormai varie prove avevano ipotizzato e di cui avevano da poco avuto conferma: erano rimasti solo i fedeli agli Dei, molti dei quali riuniti in gruppi proprio come loro. Perché allora non avevano ancora incontrato nessuno? Perché nessuna squadra di semidei, come le chiamava Nathan, aveva incrociato il loro cammino?
Forse questa era la prima prova in cui non incrociavano nessun altro concorrente, com’era possibile che con tutte quelle anime ancora in giro non vi fosse nessun altro nei templi? Che fosse perché si stavano avvicinando agli Dei più importanti e quindi più proliferi? Arrivati dai Grandi Dodici avrebbero incontrato altri figli bastardi proprio come loro?

Ma dove sono i loro compagni? Hanno deciso di dividersi, gli sciocchi? Che cosa stupida! Avere qualcuno che ti aspetta fuori da queste mura ti spinge a non voler accettare compromessi.
 
O forse- forse era proprio questo il piano degli altri: farcela con le proprie forze ed incontrarsi, per chi ce l’avesse fatta, tutti ad un punto prestabilito.
Jane scosse la testa, strizzando gli occhi per un lungo momento nel tentativo di far chiarezza. Non poteva mettersi a pensare a cose del genere nel bel mezzo della sua prova, ne avrebbe parlato poi con gli altri e ne sarebbero venuti a capo assieme e se avesse avuto ragione allora tanto meglio, avrebbe significato solo meno sfidanti.
Riprese a camminare cercando al contempo di capire da quale direzione provenissero quelle voci, se vi fossero cunicoli o stanze, corridoi o ampi spazi da cui si diramavano più vie, proprio com’era stato per il Labirinto. Non credeva davvero che il tempio di sua madre fosse una caverna, era entrata in un edificio, aveva visto la struttura simile a quella di tutti gli altri templi, ma ad onor del vero Jane non aveva la più pallida idea di come funzionassero i poteri di Ecate, se la Foschia lì fosse così densa da riuscire a modificare anche l’ambiente, se passando oltre la porta non avesse attraversato un varco che l’aveva portata nelle profondità di una grotta buia, umida e che odorava di polvere bagnata e stantia. Di quello e di un vago odore di cera, cera ed incenso, lo stesso odore che emanava il palchetto della chiesa su cui venivano accesi i ceri in preghiera a Dio. Lo stesso odore che alle volte aveva sentito impregnare le vesti di Tituba, proveniente dal misero altarino che la schiava aveva nella catapecchia in cui dormiva con gli altri schiavi della magione. Qualcuno diceva che ciò che veneravano i neri non era un vero Dio, che quei miscredenti non avevano neanche le facoltà necessarie per convertirsi ed abbracciare la parola del Signore, che gli sforzi dei missionari erano inutili con quella gente selvaggia, ma a distanza di secoli Jane si ritrovò a domandarsi se forse la divinità che veneravano tutte quelle persone così diverse da lei non fosse proprio quella che le era in realtà più vicina.
 
Tituba sapeva di mia madre, sapeva chi ero e chi era Samuel. Forse proprio perché venerava Ecate.
 
Avrebbe avuto senso, sarebbe stata forse la spiegazione più naturale, eppure questo non portò nessun sollievo alla giovane donna.
Più si addentrava nel tempio, più quell’odore diventava forte, mischiandosi alla puzza opprimente della grotta, ad un vago odore di muffa e di- funghi? C’era odore di sottobosco d’autunno, quando le foglie secche cadute sulla terra fredda venivano bagnate dalle piogge impietose, inzuppando loro ed il terreno, sciogliendo il tutto in una poltiglia di fango e piante macerate. Sì, era odore di bosco, di terra umida, di erbe secche bruciate, di incenso o candele, così differenti dall’odore che emanavano le lampade ad olio che illuminavano le strade durante le ronde, persino quelle che si spingevano sino al confine con la macchia scura e lugubre.
Quello era lo stesso, identico odore che Jane aveva sentito il giorno in cui era morta, quando si era addentrata nel bosco fitto e aveva cercato la radura dove aveva visto per la prima volta quelle creature, dove aveva aperto quel dannato libro e pronunciato quel dannato incantesimo, quando aveva maledetto quei due esseri ripugnanti e tutto era andato storto. L’ultimo odore che aveva sentito prima di quello di bruciato, di sterpaglia, vesti, capelli, carne bruciata.
 
Del mio stesso corpo che andava a fuoco.
 
Trovava quasi ironico come le fiamme non la spaventassero poi molto, ma dopotutto l’avevano già uccisa una volta, non avrebbero mai potuto fargli più male di così.
In quel tempio però non vi erano di certo gli stessi suoni del bosco. Nel silenzio surreale, dove neanche i suoi passi parevano produrre il giusto rumore, si sentivano solo le grida lontane dei suoi fratelli, parole rabbiose o imploranti, singhiozzi, lamenti. Eppure non facevano il giusto suono, sembravano tante voci isolate, lontane, vicine, come echi che si rincorrono uno dopo l’altro ma ognuno nella propria camera chiusa.
 
Come se ognuna di queste voci esistesse in un altro luogo, sola, e io fossi in tutti quei posti contemporaneamente e tutte le me in tutti quei posti sentissero solo una singola voce.
 
Era così confusionario, così difficile da capire: come si poteva essere in tanti luoghi contemporaneamente? Come si poteva sentire un unico suono ma al contempo sentirli tutti?
A Jane pareva quasi d’avere centinaia di teste e che ognuna di queste potesse sentire una sola voce alla volta ma che poi tutte quante fossero legate ad una mente più grande che assorbiva ogni suono. Era così che doveva sentirsi Dio, se fosse mai esistito, onnipotente e onnipresente, in grado di essere ovunque e parlare singolarmente con ogni fedele.
Non le piaceva. Lo odiava.
Fu mentre era presa da quei pensieri che vide finalmente qualcosa.
Così come le voci anche quello sprazzo di luce fu fievole ma estremamente luminoso nel buio più totale. Fu questione di pochi attimi, lontano, alla sua destra, in alto, verso il soffitto, balenò un brillio azzurrino, poi scomparve e tornò solo l’oscurità.
Negli occhi spalancati Jane vedeva ancora marchiata a fuoco quella piccola esplosione, una macchia che non se ne andò dalle sue pupille finché non ve ne fu un’altra, avanti a lei, in basso, così in basso che poteva essere solo a livelli e livelli sotto il suolo, piani inferiori che Jane non avrebbe potuto scorgere neanche volendo. Poi un altro più in alto, spostato a sinistra ed un subito dopo ma più vicino, davanti al terzo, questi due uno violaceo e un bianco.
Cosa diamine erano? Che stava succedendo?
Le voci si fecero più intense, si moltiplicarono, raggiungendo quasi una sincronia perfetta, una litania di suoni in lingue diverse, in toni diversi, che dicevano cose diverse e Jane accelerò il passo, iniziando a correre senza neanche rendersene conto, scappando dai bagliori colorati vicini, lontani, sopra di lei, sotto i suoi piedi.
Alzò le mani sopra il capo, cercando di proteggersi dai pulviscoli che vedeva caderle addosso ad ogni nuova luce, scintille che non la potevano sfiorare perché troppo distanti, situate su piani a cui non poteva accedere.
Era spaventata, non c’era motivo per negarlo a sé stessa, non sapeva cosa stesse succedendo, dove, perché; non sapeva se sarebbe stata in grado di difendersi, se avrebbe dovuto farlo.
Abbassò la testa e strinse gli occhi, non voleva vedere quelle luci, non voleva neanche sentire quei suoni. Cosa le stavano dicendo? Stavano parlando con lei?
Il fiato le si spezzò il gola, l’odore della polvere bagnata era opprimente, quello dell’incenso le stava facendo venire la nausea, avvelenandola come avrebbe dovuto fare con le vere streghe secondo il pastore della sua chiesta.
Perché nel tempio della strega suprema si respirava il fumo pungente e mefistofelico dell’incenso sacro?
Jane non riusciva più a respirare e l’ironia del non riuscire a farlo da morta era quasi pari a quella della dannata puzza di chiesa tra quelle mura. Tenne le palpebre serrate, vedere dove stava andando non aveva alcuna importanza, era arrivata alla conclusione che quel posto l’avrebbe portata esattamente dove doveva andare senza che lei facesse alcun ché, così com’era stato in vita: malgrado cercasse di prendere una decisione erano sempre altri a scegliere per lei, a condannarla.
Le voci si fecero più intense portandola ad abbassare le braccia per potersi premere le mani sulle orecchie. Avrebbe voluto fermarsi e nascondersi da qualche parte, accovacciarsi a terra e fingere di essere altrove, che tutte quelle grida, quelle luci che filtravano anche sotto la sottile patina delle palpebre chiuse non esistessero davvero, non fossero vere, non-
 
Non lo sono. Non sono vere perché tutti qui siamo morti. Ma esistono, ci sono, perché sono le grida di tormento delle anime. Dei miei fratelli e delle mie sorelle.
 
Li stava torturando, la loro stessa madre li stava torturando tutti, ognuno nel modo in cui avrebbe fatto loro più male, ne era sicura, lo sapeva per certo.
Sarebbe toccato anche a lei.
Presto la sua voce si sarebbe unita a quella dei suoi fratellastri.
 
Ma chi dovrebbe davvero soffrire, chi dovrebbe davvero essere torturato, vive felice una vita che non merita.
 
Non le sembrò strano che fosse la rabbia a rianimarla, che fosse l’odio, centenario, che provava per quei due individui a scuoterle di dosso la paura, a replicarla di furia rossa, cieca come il buio in quel tempio, soffocante come l’odore di muffa e di incenso, rovente come il fuoco che l’aveva bruciata viva.
Jane riaprì gli occhi nell’oscurità del tempio di Ecate e cominciò a correre con un intento, con una meta ben precisa nella mente: doveva arrivare il prima possibile all’altare di sua madre, affrontare la sua prova e dirigersi alla prossima, sempre un passo più vicino alla sua agognata e meritata vendetta.
Tenne la testa bassa finché le luci che le esplodevano attorno non furono oscurate da un bagliore fermo, lontano ma stabile e concreto. Fu come scorgere la proiezione di una candela in una grotta profonda, la scia si allungava in una lancia di luce dalla punta lieve, che prendeva sempre più consistenza avvicinandosi alla sua fonte.
Era quella, senza ombra di dubbio, quella era la sala del trono, del focolare o qualunque altro luogo sua madre avesse reputato opportuno condurla per farle affrontare la sfida di Estia. Eppure, pur avvicinandosi sempre di più, l’ambiente non si fece chiaro, Jane non riuscì a scorgere il profilo della stanza in cui si trovava, non il pavimento o i suoi soffitti: era nel buio più totale e la luce che vi si proiettava in mezzo era la sua unica indicazione, l’unica via, anch’essa impalpabile.
Inesistente come l’oscurità.

Perché non esiste niente, in questo dannato tempio. Non le ombre, non le luci, non i suoni o le stanze. Non esistono i pavimenti, non esistono i tetti, non ci sono mura. Non c’è niente, è come un pozzo infinito.
 
Come le acque nere in cui calavano le gabbie che racchiudevano povere donne innocenti accusate di essere streghe solo per non aver acconsentito docilmente alla richiesta di un uomo, per aver curato un malanno con le stesse piante officinali che i frati usavano, per aver salvato una pianta moribonda, per aver contato i giorni che s’intervallavano tra un ciclo della Luna e l’altro.
Condannate solo per le accuse vuote e malevole di altri.
 
Quante streghe erano morte in quel modo? Quanto era crudele far vivere a tutti i propri devoti le stesse pene di quelle povere donne?
Oh, ma quanto era giusto che tutti comprendessero le sofferenze dei sudditi della strega, com’era giusto che ogni devoto vivesse lo stesso atroce dolore, la stessa pressante paura che le adepte di sua madre avevano sperimentato.
 
Quanto è giusta la vendetta.
 
La lama di luce si fece più larga, un’accecante varco che s’apriva nel nulla, sempre più luminoso, sempre più caldo nel freddo umido dell’antro stregato.
Jane tenne gli occhi spalancati, non osò distogliere lo sguardo anche se la vista le si fece sfocata, gli occhi cominciarono a lacrimarle dallo sforzo.
Con un ultimo scatto si gettò oltre l’entrata, finendo per inciampare sui suo stessi passi e rischiando di rovinare a terra senza grazia. Si resse in piedi per miracolo, avanzando barcollante sotto la spinta della sua stessa corsa fino a quando non riuscì a fermarsi, stabile.
Batté le palpebre, fissando il pavimento scuro tempestato di centinaia di pallini bianchi come chicchi di grano. Quelle erano lastre, grandi quadrati di pietra liscia accostati gli uni agli altri, un vero pavimento finalmente e non il buio della grotta.
Alzò la testa e drizzò la schiena, cercando di capire dove, di preciso, era stata condotta.
Da quello che avevano detto Jonas ed Eliza la prova si sarebbe svolta nella sala dove bruciava il focolare, un focolare spento che avrebbe dovuto accendersi nel momento in cui sua madre l’avrebbe reputata degna.
L’ambiente che la circondava rassomigliava un po’ alla nicchia in cui era incastrata la fonte battesimale nella sua chiesa, seppur in dimensioni decisamente maggiori: c’erano delle colonne ai lati della stanza, zone in ombra che non riusciva a distinguere ed il soffitto a cupola, affrescato con mosaici lucenti e scuri che rappresentavano scene di cui Jane ignorava la storia.
Ciò che le risultava chiaro era solo l’immagine di sua madre in varie fasi della giornata: sopra all’entrata vi era una bambina vestita di nero, alle sue spalle, per quanto fossero ugualmente cupi i colori, Jane poté vedere chiaramente un’alba, il Sole formato da una tessera tondeggiante d’oro brunito, quasi sporco, forse coperto dal fumo dell’incenso che si era andato a depositare nel corso dei secoli. Al centro della volta vi era invece una giovane donna, qualcuno che le ricordava vagamente sua madre, o almeno credeva gliela ricordasse, anche lei vestita di nero ma con dei decori violacei lungo il perimetro della veste. Non c’erano astri alle sue spalle o sopra di lei, ma le tessere azzurro-grigiastre, come il cielo prima della pioggia, la collocavano in un orario indefinito tra la mattina ed il pomeriggio. E per finire, nella parte a lei più lontana, posta sopra l’altare e il focolare, una donna anziana, anche lei vestita di nero, con le braccia protese verso il cielo, una luna pallida e scintillante a brillarle tra le mani spigolose.
Attorno alle tre figure si rincorrevano decori tondeggianti e sinuosi come le spire della Foschia, tra le quali sembravano quasi affacciarsi di tanto in tanto esseri misteriosi e bestie inquietanti.
Con il capo reclinato verso l’alto e lo sguardo vacuo, Jane giurò di poter vedere tutte quelle tessere muoversi, fluide come l’acqua, vive come non lo era più nulla in quelle terre. Poteva scorgere destrieri neri e cani infuocati apparire e scomparire tra la nebbia, figure stilizzate di donne che ballavano attorno alla vecchia donna, ne vedeva altre correre tra i boschi oscuri, inseguite da torce fiammeggianti, da uomini inferociti. Riti antichi di cui non conosceva il nome, pire accese per bruciare le streghe, corde legate alle mani e agli arti di donne che imploravano pietà, giuravano innocenza, pregavano un dio che non le avrebbe mai aiutate. C’era acqua ghiacciata e olio bollente, croci e rosari impugnati come armi, pietre lanciate verso corpi inermi.
C’era dolore, paura, disperazione, tormento, rassegnazione, morte.
Ma c’erano anche figure nude a cavallo di bestie astratte, lame scintillanti d’oro e di bronzo, d’azzurro e d’argento. Lampi colorati come fulmini scagliati contro gli infedeli, contro i miscredenti, contro i barbari mortali che non tolleravano ci fosse qualcosa sopra di loro su cui non potevano esercitare alcun potere.
Era la nascita di qualcosa di inconcepibile ma anche di così crudelmente terreno e umano, di viscerale e banale, come se ogni singola immagine fosse per certo vera, fosse ovvio quanta verità racchiudesse in sé, ma al contempo fosse anche così incredibilmente difficile da comprendere.
Tutto ciò che vedeva era vero ma impossibile, era la mente umana incapace di vedere davvero.
 
Ciò che è e non è nascosto dalla Foschia. Chi ha e non ha la vista.
 
Le tessere brillavano di luce propria, di fuoco, fulmini e magia, di riflessi delle torce sull’acqua e dello scintillio unto dell’olio e quello rubidio del sangue. Ma ogni singolo colore era visibile solo e soltanto perché risplendeva da sé.
Fu quel pensiero che le fece abbassare la testa, portando la sua attenzione sul resto della sala, vuota per la maggior parte.
Mosse qualche passo in avanti, stringendo gli occhi per poter scorgere cosa si nascondesse negli angoli e nelle rientranze. Le sembrava quasi di intravedere profili di piante, fasci d’erbe e di fiori messi ad essiccare, grosse ampolle di vetro dal contenuto indistinguibile, torbido e chiaro, lucido e denso, dei sacchi simi a quelli dove venivano tenuti il grano e la farina, la stoffa grezza e bruna tipica della iuta e forse delle casse di legno.
Dal lato opposto della sala vi era un piano rialzato, con un paio di gradini consunti a separarlo dal pavimento su cui poggiavano tutte le colonne, sopra di esso quello che poteva essere solo un altare, così simile a quello di una qualunque chiesa cristiana.
 
Ma non un braciere. Dov’è il braciere?
 
Girò lentamente su sé stessa, cercando quell’oggetto così vitale per la riuscita della sua prova eppure introvabile.
Storse il naso e digrignò i denti, non aveva tempo di giocare a nascondino, doveva finire quella stupida gara, andare avanti. Marciò così verso il centro della sala, i pugni stretti, le braccia rigide lungo i fianchi.
Non c’era nulla, non c’era niente lì, non c’era il braciere, non c’era luce vera, cominciava a domandarsi se anche tutti gli oggetti che le era parso di scorgere del buio fossero veri o solo proiezioni della sua mente, di ciò che si sarebbe aspettata di trovare nell’antro di una strega.
Sarebbe dovuta seriamente andare a controllare nicchia per nicchia? Dietro ogni colonna, lì dove le ombre erano più dense?
Si volse verso sinistra, decisa ad iniziare la sua ricerca, quando avvertì una leggera protuberanza sotto i piedi.
Abbassò lo sguardo sul pavimento, muovendo piano la punta del piede per poter seguire il percorso di quel bassorilievo ruvido e leggermente bombato. Malgrado l’assenza di torce di alcun tipo quella che permeava il centro della sala era una specie di luce soffusa, come quella che seguiva le anime nelle Praterie degli Asfodeli, e tanto bastò a Jane per seguire il disegno che aveva appena calpestato, rendendosi presto conto che fosse un perfetto ed enorme cerchio.
 
 
«Togliti da lì dentro, Jane. Quello è il luogo in cui la strega fa i suoi sortilegi.»
 
 
Con il piede ancora puntato contro il piccolo rilievo, Jane rimase ferma immobile, trattenendo un respiro che non avrebbe dovuto avere, bloccando il moto dei polmoni che sarebbero dovuti essere divenuti ormai polvere. Se non fosse già morta Jane avrebbe giurato di poter svenire da un momento all’altro, avrebbe atteso solo che l’ondata di calore che la stava investendo in quel momento, da testa a piedi, si dissolvesse, la che lasciasse tremante e balbettante, sull’orlo delle lacrime che non avrebbe versato.
 
Bastarda. È questa quindi la mia prova? Hai scelto lei.
 
«Jane? Hai sentito cosa ti ho detto, bambina?»
La figlia di Ecate serrò gli occhi, mente i brividi attraversavano quel corpo che, prova dopo prova, si stava riformando, stava tornando sempre più concreto, sempre più vero, come se non fosse mai morta. Prese qualche respiro tremante e poggiò con lentezza il piede a terra, senza però muoversi dalla sua posizione, aspettando che il dolore sordo che le rimbombava nel petto si trasformasse nel ruggito della rabbia, dell’odio che provava ora per sua madre.
 
La mia vera madre. Non quella che mi sta parlando ora.
 
Si voltò piano, deglutendo un grumo d’ira ruvido e amaro, alzando con lentezza la testa sino ad incrociare lo sguardo di Martha Parris.
Era esattamente come la ricordava: minuta, dal corpo magro e poco prosperoso, i viso piccolo dai tratti delicati che le aveva sempre tanto invidiato.
 
Quante volte le ho chiesto perché non potevo rassomigliarle di più.

«Perché hai ripreso tutto da tuo padre.» le sorrise con gentilezza Martha. «Ora fai la brava ragazza e togliti da quel cerchio.» ripeté con più durezza.
Ah, ecco, quella era la voce autoritaria che sentiva ancora nella sua mente, le parole forti che non ammettevano replica.
Ma quella non era davvero sua madre, né quella che l’aveva messa al mondo, né quella che l’aveva cresciuta e ormai Jane aveva imparato il gioco, sapeva cosa sarebbe successo, sapeva che in nessun modo quell’anima poteva essere in qualche modo collegata alla donna che l’aveva amata e accudita.

«Dai Parris, vorrai dire. Non avrei avuto nessuna possibilità comunque, no?» rispose spostandosi, sì, ma dentro al cerchio.
Martha storse il naso, contrariata dalle sue azioni.
«Non dire così, Jane, no-»
«Non dire così? Perché? Sbaglio, forse?» replicò affilata.
La donna non le rispose, la fissò solo con sguardo colpevole, avanzando di pochi passi verso di lei, tentennante.
«Jane…»
La strega alzò gli occhi al cielo, verso il soffitto, scrutando ancora quelle immagini fumose che non poteva vedere con certezza ma che sapeva, in qualche modo, cosa rappresentassero. Tutto, pur di non guardare l’altra.
«Mi dispiace, io- non volevo, tesoro, non ce l’ho fatta, il dolore-» la voce le si spezzò, vuota dell’autorità con cui le aveva parlato prima, ora fragile e bassa. «Non ce l’ho fatta.» ripeté ancora, schiarendosi la voce, avanzando ancora un po’. «Il dolore è stato troppo grande, ho provato a resistere ma non ce l’ho fatta. Non avrei mai voluto abbandonarti.»
Jane continuò a guardare in alto, stringendo il labbro inferiore tra i denti, cercando di trattenere le lacrime di frustrazione che le stavano salendo.
«Credi che provi risentimento verso di te? Per questo? Perché sei morta?» le domandò, tirando su con il naso, irritata dal tremore che aveva scosso anche le sue di parole.
Martha si portò le mani al petto, facendo un altro passo, senza però azzardarsi a superare il cerchio a terra.
«Ti ho lasciata sola, non sono stata abbastanza forte. Avevi appena perso tuo padre-»
«E tu tuo marito. Ma se vogliamo essere oneste, non ho perso davvero mio padre, giusto?»
Solo a quelle parole riuscì a riabbassare lo sguardo sulla donna, a prendere un altro respiro tremulo di rabbia. «Mio padre è ancora vivo, lo sai? Ed è tutta colpa mia. Solo mia. Quel dannato-»
«Tuo padre è morto per colpa di quella gente, Jane! Oliver era un uomo buono, giusto, è morto perché non ha voluto mentire! Il Signore gli è stato testimone-»
«Il tuo Signore non l’ha salvato!» scoppiò gridando.
Martha la fissò allibita ma incapace di controbattere.
«Dio, quel Dio che mi avete sempre detto essere buono e giusto, proprio come lo era Oliver, non si è sprecato a salvare i suoi figli innocenti e ha permesso che quelli più diabolici prosperassero! Non lo vedi? Non lo capisci? Dove sei? Ti rendi conto di dove ci troviamo? Siamo nelle tempio della Strega suprema, siamo nel tempio di Ecate, una divinità, una donna, pagana! Dov’è il tuo Dio? Dov’era quando tutte quelle donne sono morte? Quando è morto Oliver? Quando sei morta tu? Quando sono morta io
«Il Signore non può sempre intervenire. Sei arrabbiata Jane, quello che provi è solo dovuto alla rabbia dell’ingiustizia che hai subito.» provò a calmarla.
Ma Jane non aveva bisogno d’essere calmata, di venire a ragione. Ormai lei sapeva la verità, sapeva chi erano i veri Dei, che chi aveva pregato per tutta la vita non era altro che un fantoccio che dei bastardi come quell’omuncolo avevano sempre usato per tenere incatenate le persone, per aver sempre ragione e spadroneggiare sugli altri.
Sapeva che quella non era davvero Martha, non era la donna che l’aveva cresciuta e le aveva fatto da madre, quella non era sua zia.
«Sono arrabbiata, lo sono così tanto che mi è difficile spiegarlo. Ma in tutti questi anni, in tutto il tempo che ho vagato per le Praterie degli Asfodeli ho avuto tempo per pensare e ripensare, per alimentare l’ira che avevo in me, per capire cos’era successo, dove avevo sbagliato e cosa dovevo fare per potermi finalmente vendicare.»
«Vendicare? No, Jane non-» si sporse in avanti verso la figlia ma poi si bloccò di colpo, come se non volesse oltrepassare il cerchio neanche con il solo busto, con una mano.
«Non hai nulla di cui vendicarti. Ciò che è successo non poteva essere fermato, soprattutto non da una giovane come te. La paura rende mostruoso anche l’animo più gentile, gli uomini che hanno ucciso tuo padre erano solo povere bestie spaventate!»
Jane la guardò allibita, avvicinandosi dove la donna si era fermata. «Come puoi difenderli?»
«Era la paura ha parlare per loro. Anche io ero terrorizzata da quello che poteva ti poteva accedere, specie dopo ciò che quella strega aveva fatto a tua cugina-»
«Non osare nominarla.> la fermò immediatamente. «Non-osare-nominarla. Tutto ciò che è successo è stato colpa sua, di quella stupida Elizabeth che per aver le attenzioni di tutto il paese ha mentito, dicendo che Tituba era una strega-»
«Perché le ha fatto un maleficio! Quella donna ha confessato!»
«L’hanno picchiata! L’hanno picchiata finché non ha mentito pur di far cessare quelle torture!» replicò con ferocia. «Non era una strega lei! Non lei! IO, IO ERO LA STREGA E NEANCHE LO SAPEVO!»
Martha si tirò indietro, artigliando il collo della sua camiciola, portando l’altra mano a coprirsi la bocca.
Jane la guardò invece con soddisfazione, felice della sua faccia sgomenta, di essere riuscita a far breccia in tutte quelle fandonie che quell’anima, quella magia o qualunque cosa fosse cercava di rifilarle.
«Siamo nel tempio di mia madre, nella casa della strega per parlare con la figlia della strega. Pensavi che non lo sapessi? Che non avessi scoperto che non eravate davvero voi i miei genitori?»
«M-ma, tuo padre…»
«Oliver? Era un uomo buono e giusto, no? L’hai detto tu stessa. Non ti avrebbe mai tradita, non sarebbe mai andato contro i sacri voti del matrimonio. Non avrebbe mai attratto a sé la Dea della Magia. Lui no, ma mio padre sì.» la fissò dritta negli occhi, quegli occhi che l’avevano seguita per tutta la vita, dolci ed amorevoli, sicuri ed autoritari.
C’era stato un tempo in cui aveva creduto che sua madre fosse la detentrice di tutto il sapere, di tutte le verità, colei che sapeva come agire, cosa fosse meglio fare, cosa fosse più sicuro.
Ma sua madre, la donna che l’aveva cresciuta, era morta secoli fa, uccisa dal dolore insopportabile per l’esecuzione di suo marito, un uomo che aveva creduto nelle regole e nei dogmi della sua fede fino alla fine, affrontando la morte pur di non giurare il falso. 
«È ancora vivo, sai? Quel bastardo è ancora vivo. Lui e quell’essere inutile e vile di sua figlia. O forse dovrei dire “mia sorella”? Ed è colpa mia se sono entrambi vivi. Se solo quelle maledette empuse mi avessero aiutato ora sarebbe tutto diverso.»
Lo spirito di Martha tornò sui suoi stessi passi, quasi spinta via dall’avanzare di Jane verso di lei.
«Non so cosa tu sia, ma i miei compagni mi hanno già detto come funzionano queste prove, che avrei trovato qualcuno a me caro che mi avrebbe proposto di lasciare la gara per un futuro migliore, libero da ogni tormento, da ogni ricordo, da ogni colpa. Tornare in vita senza più memorie di ciò che è stato, al fianco di coloro che abbiamo amato.» disse arrivando al bordo opposto del cerchio.
Un sorriso sinistro le tese le labbra, mentre la donna scuoteva piano il capo, gli occhi lucidi di lacrime.
«Io non lo voglio. Non voglio tornare in vita se per farlo dovessi dimenticare tutto. Io voglio vincere, mantenere tutte le mie memorie, tornare a calpestare il suolo mortale e trovare quei due luridi, viscidi e maledetti bugiardi. Voglio trovarli e farli soffrire come ho sofferto io, voglio vederli disperare, piangere, implorare perdono e voglio guardarli dritti negli occhi quando dirò loro che non c’è pietà per i vermi, che mi hanno rovinato la vita e che non meritano nulla se non il dolore che hanno inferto a me, a te e a papà.
Voglio vederli contorcere a terra, voglio che sentano le loro interiora sciogliersi nel ventre, il sangue colargli dalle orecchie, dal naso, dagli occhi e dalla bocca, la pelle ritirarglisi mentre vivranno il mio stesso rogo, lo stesso dolore che ha tolto la vita a me e che avrebbe dovuto invece coglierli centinaia di anni fa.
Voglio che soffrano, soffrano, soffrano! Io voglio vendetta! Non voglio la pace eterna, non voglio dimenticare! Voglio solo vederli morire lentamente, con la consapevolezza di essere soli e che nessuno li potrà salvare, nessuno li cercherà, nessuno li piangerà! Nell’oblio che meritano e che hanno sempre meritato! E non so cosa tu sia, ma non sei davvero mia madre e se questo è il meglio che sai fare Madre, sono profondamente delusa!»
 
Le sue parole trasudavano veleno, mortifero e fumante come acido, affilato e acuminato come una lancia, come la lancia di luce che le aveva mostrato la strada fino a quella sala, come la lama di luce che vibrò lungo tutto il perimetro del cerchio per poi condensarsi davanti al petto di Jane e scagliarsi veloce contro il petto della finta Martha, facendola scomparire in un’esplosione luminosa, una nube di pulviscolo violaceo identico a quelli che aveva visto nel buio.
 
Erano i cari dei miei fratelli che scomparivano dopo che questi avevano superato la loro prova.
Quelle che sentivo erano davvero le loro urla disperate, i loro pianti, ma per aver perso di nuovo le persone amate, per aver vissuto di nuovo questa tortura.

 
Jane fissò quelle scintille spegnersi tristemente, come una candela sotto la pioggia.
Quella non era sua madre, non davvero. Era solo un fantoccio che la sua vera madre aveva utilizzato per cercare di farla crollare, nulla di più.
Mantenne lo sguardo fisso sui lastroni su cui poco prima il fantasma di Martha era rimasto fermo, uno strano senso di vuoto le attanagliò lo stomaco, una voragine nel petto in cui il cuore era in caduta libera, come l’aria troppo fresca dopo aver passato una giornata nelle cantine a sistemar botti e provviste.
Quella non era sua madre, eppure Jane si ritrovò a rimpiangere il non averla neanche sfiorata.
 
«Ti sarebbe andato bene, pur sapendo che non era lei?»
Chiuse gli occhi, li riaprì, batté le palpebre ma non si mosse, la rabbia di prima era stata sedata dal vuoto, dalla consapevolezza d’esser riuscita a far piangere anche il fantasma di sua madre, di averle urlato contro dopo anni che non la vedeva, quando l’ultima volta che l’aveva toccata era stato per girare il suo corpo ed assicurarsi che fosse davvero morta.
Le tremarono le mani, Lea le aveva spiegato che era una reazione normale quando, dopo aver provato emozioni molto forti, il corpo si rilassava. Nathan l’aveva chiamata adrenalina. Jane sapeva solo che tutte le sue forze erano sparite di colpo.

«È rinata secoli fa. È stato un colpo molto duro scoprire che non c’era il paradiso del suo credo, ha voluto andarsene il prima possibile, certa che avrebbe dovuto aspettarti per decenni prima di poterti rincontrare di nuovo. Anche Oliver è rinato. Quanto a Thomas ed Elizabeth…»
Quei due nomi le ridiedero energia, carbone imbevuto di alcool da gettare nella fornace che era il suo risentimento, alimentandola di ira e violenza.
Si girò di scatto verso l’altare, lì, dove proveniva la voce, per ritrovarsi faccia a faccia con sua madre, quella che l’aveva davvero messa al mondo.
Ecate se ne stava tranquillamente poggiata davanti al suo altare, le mani intrecciate in grembo, la postura rilassata ma dritta ed autoritaria.
 
Come mamma.
 
Solo che a differenza di Martha Ecate era molto più alta, più di Lea ma non quanto Cicno. Era una figura slanciata ma dal corpo morbido, i fianchi pronunciati, la vita stretta messa ancora più in risalto dalla cinta composta da quelle che sembravano lune e stelle d’argento, incredibilmente brillanti in contrasto con la stoffa scura della sua veste, così come le spille a spirale poste sulle sue spalle, sotto le quali era fissato un leggero velo blu che copriva le braccia lasciate scoperte dal vestito.
C’erano delle erbe che pendevano dalla cinta di astri, mezze nascoste tra le pieghe della gonna lunga e morbida, che le copriva i piedi ma lasciava intravedere la forma delle gambe, una fine striscia di pelle ambrata sul ginocchio flesso.
I capelli della Dea erano sciolti dietro alla sua schiena, ma le ciocche frontali erano intrecciate con fiori bianchi dal cuore viola, un erba che Jane non aveva mai visto ma che sapeva, solo guardandola, essere lo stramonio.
Aveva un aspetto selvaggio ma non feroce, il volto di Ecate era ampio, il naso appuntito, una leggera gobba a renderlo più prominente, le sopracciglia fine a darle l’aspetto di una persone decisamente poco impressionabile. Gli occhi avevano un taglio affilato, le iridi gialle come quelle dei felini, un perfetto accostamento ai capelli neri come lo erano nei gatti neri.
Le labbra fini tinte di un rosso pesante e pesto.
La Dea della Magia sembrava un grosso gatto nero indifferente con la bocca ancora sporca del sangue della sua ultima preda, Jane non si sarebbe stupita affatto se Ecate avesse sfoggiato zanne affilate come quelle dell’animale.
 
«Soddisfatta di quello che vedi? Ti aspettavi di rassomigliarmi di più?» le chiese con voce piatta.
Jane scosse la testa ed Ecate arricciò il naso: «Lo sospettavo.»
Si tirò su con la stessa grazia del felino a cui tanto rassomigliava e scese i due gradini consunti che la dividevano dal pavimento principale.
Jane non poté far a meno di lanciare uno sguardo furtivo verso l’alto, verso il mosaico della donna.
 
«Sì, questa è la forma che assumo più spesso, è più comoda. Anche se alcuni dicono non mi renda giustizia.» continuò a parlare, fermandosi anche lei davanti al cerchio disegnato a terra e facendo schioccare la lingua sul palato.
«Ti ho sentita gridare fino a poco fa ed ora taci? Era impossibile una volta toglierti la parola, sei divenuta troppo silenziosa.»
A quell’affermazione Jane le rivolse uno sguardo contrariato. «E tu che ne sai?» ritorse infastidita.
Ecate alzò a malapena un sopracciglio, forse infastidita dalla mancanza di rispetto nel modo in cui la semidea le si era appena rivolta.
«Sono una Dea, so tutto ciò che mi interessa sapere.»
«Credevo non avessi nessun interesse in me, che non fossi abbastanza speciale per ricevere il tuo aiuto.»
Ecate si strinse nelle spalle. «Non hai il potenziale magico che hanno molti dei tuoi fratelli, ma questa è anche colpa di tuo padre, ho cercato di insegnargli la magia, ma non aveva disciplina, era ingordo ed avaro, non aveva pazienza, voleva tutto e subito, ti ricorda qualcuno?»
«Non osare paragonarmi a quell’essere.» sibilò velenosa.
«Non c’è motivo alcuno di prendersela, tutti abbiamo parenti di dubbia morale, è la base del panteon greco. Sei e rimani sua figlia, che ti piaccia o no, la parte umana che ti caratterizza è la sua, non quella di suo fratello e sua moglie.» continuò lei con tranquillità. «In ogni caso, anche se ti avesse tenuta con sé non sarebbe cambiato nulla, quello stolto è riuscito a mala pena ad imparare come ammaliare la gente, non avrebbe potuto insegnarti nulla perché aveva imparato quasi nulla. Non si può riempire un vaso dal fondo rotto, per quanta acqua si versi al suo interno alla fine si svuoterà sempre.»
«Non voglio parlare di lui.»
«Poco importa cosa tu voglia o meno, Jane, non sei nella posizione per scegliere o imporre il tuo volere.» la guardò quasi con pietà e la semidea sentì ancora il sangue ribollirle nelle vene.
«Riuscirò comunque a trovarli ed ucciderli, che tu creda che possa farcela o no!» le gridò contro.
Ma Ecate non ne rimase impressionata e alzò anche lei gli occhi al cielo.
«Io so che non puoi farcela, non è qualcosa che credo, è una certezza. Perché non sai comandare la magia, non sai sfruttare i tuoi poteri, hai iniziato a farlo solo ora e solo perché era una questione di vita o di morte. Esattamente come quello stolto hai voluto tutto subito e nel momento in cui non sei stata in grado di ottenerlo hai guardato al ramo e ha deciso che il frutto era guasto.»
Jane aggrottò le sopracciglia, «Cosa?»
«È una metafora, sciocca. Significa che quando ti è stato chiesto più impegno, più costanza, hai gettato la spugna decidendo che se non riuscivi era perché nessuno ti aveva insegnato. È per questo che non sei in grado di portare a termine la tua vendetta.» le spiegò spiccia, stanca del fatto che la figlia non riuscisse a seguire le sue parole.
Jane scosse via quella stupida metafora e guardò con rinnovata ferocia la madre.
«Non riuscirai a farmi cambiare idea, è tempo sprecato e in questa gara il tempo è essenziale. Ho superato la tua prova, ho vinto contro mia madre, sono degna di continuare!»
Inaspettatamente Ecate si lasciò sfuggire una risatina divertita, ancora una volta dal sapore quasi pietoso.
«Non ho la minima intenzione di convincerti a fare altrimenti. La magia è equilibrio, è dare e avere. Tuo padre e tua sorella hanno ottenuto tanto ma non hanno mai dato nulla indietro. È giusto che incontrino la loro fine, qualunque essa sia, non mi interessa.» disse dismissiva con un cenno vago della mano. «Ciò non toglie che tu non ne sia in grado, non ora, difficilmente in futuro.»
Con nonchalance superò il cerchio in rilievo a terra e questo si illuminò, cominciando a pulsare fiocamente.
«Se vuoi davvero vendicarti devi arrivare fino alla fine e vincere, ma siamo oneste, figlia mia, non ne hai le capacità. Quindi ti rimane solo una seconda opzione.»
Con il cuore in gola Jane indietreggiò, cercando di tenere una certa distanza dalla Dea che ora torreggiava su di lei come se fosse molto più alta di quanto non le fosse sembrato da lontano. Era intimidatoria, emanava un aura fredda ed umida, come l’aria in una grotta, ma al contempo la sua intera persona brillava del bagliore del fuoco ardente.
«Po-posso farcela da sola, non ho bisogno d’aiuto.» balbettò in soggezione.
Ecate roteò gli occhi. «Non essere stupida, ti ho detto che non ne sei in grado. Sei debole Jane, la fine di questa competizione non ti sarà sufficiente per accumulare la conoscenza che ti è necessaria, quindi taci ed ascoltami.» rispose infastidita. «La tua unica alternativa è stringere un patto con un mio vecchio amico, qualcuno che sa perfettamente cosa significhi la parola “vendetta” e che capirà le tue intenzioni meglio di chiunque altro a questo mondo. Credimi, neanche Ade, Era o Efesto sarebbero in grado di capire la tua sete di vendetta più di lui.»
Jane deglutì. «Chi sarebbe? Un’altra anima? Una divinità?»
Ecate ghignò, scoprendo i denti fini e appuntiti proprio come quelli di un gatto.
«Esatto.» convenne, «Tieniti vicino il figlio dell’implacabile e chiedigli di aiutarti a realizzare il tuo piano di vendetta.»
Jane scosse la testa, frustrata, battendo il piede a terra, stringendo i pungi come una bambina. «Io non voglio aiuto! Non da un’anima, non da un Dio, non dal figlio di qualcuno!»
«Non fare la sciocca!» scattò la dea mettendola a tacere con durezza. «Ne necessiti! Non sei in grado di farlo da sola! E non sarà comunque nessuno dei due a farlo per te. Devi solo tenere a mente le mie parole e smetterla di fare la mocciosa viziata! Quei due mortali ti hanno sempre dato tutto, concesso tutto, protetto da tutto ed infatti la prima cosa che hai fatto fuori dal loro controllo è stata un disastro. Hai disturbato la continuità del futuro con le tue stupide pretese e quando hai fallito miseramente hai incolpato gli altri delle tue mancanze. Le empuse non avrebbero mai ucciso per te a meno che non ci fosse stato un guadagno per loro. Nulla ti è dovuto in quanto mia figlia, sono una divinità oscura, è molto più probabile che venga chiesto a te un sacrificio per l’onta di essere mia progenie che altro.
Ma nonostante tutto, sei una delle mie figlie ed è ora che lo provi.
Ricordati che la magia è dare e avere, è equilibrio. Il mio vecchio amico lo sa, è più che consapevole di questo principio cardine e saprà come indirizzarti. Per ora, fai ciò che ti ho detto e continua con le tue prove. Sopravvivi fino a quando non avrai adempiuto alla tua vendetta e allora, spero tu possa trovare la finalmente la pace.»
 
Non le diede tempo o modo di controbattere, Ecate allargò le braccia, il velo che le copriva brillò come se fosse intessuto di centinaia di stelle e con esso, velocemente, cominciò a brillare di più anche il cerchio in bassorilievo.
Jane abbassò lo sguardo spaventata, cercando di uscire da lì ma ritrovandosi con le spalle al muro, una barriera invisibile che racchiudeva tutta la circonferenza, al cui interno iniziarono a comparire linee e simboli, cerchi dentro cerchi inscritti di lettere che Jane non conosceva e non capiva, rune e forme astruse che pulsavano come il battito di un cuore eccitato.
Fu istintivo cercare lo sguardo di sua madre, chiederle cose stesse succedendo, ma Ecate la guardava quasi con dispiacere, indifferente a ciò che succedeva attorno a loro.
 
«I figli non capiscono mai quanto spesso sia meglio essere affidati ad altri, allontanarsi da chi li ha messi al mondo. Non c’è genitore peggiore di quello che non voleva esserlo ed è stato costretto a farlo. Meglio essere amati da completi estranei che essere traditi dalla propria famiglia.»

Sotto di loro il cerchio e le sue iscrizione si accesero come un fuoco ardente e Jane capì che era quello il braciere di sua madre, quello che i villici del suo paese avrebbero chiamato il “pentacolo di Satana”, null’altro che il cerchio magico d’invocazione di una strega.
 
De “La” strega.
 
Non sapeva se quelle sue conoscenze facessero parte del retaggio divino di sua madre o se fosse stata lei stessa ad instillargliele in quel momento, ma poco importava ormai.
Jane guardò per un’ultima volta sua madre, certa che non l’avrebbe mai più rivista, conscia di non averle fatto neanche una domanda che una figlia farebbe al proprio genitore.
Strinse le labbra e socchiuse gli occhi per colpa della luce sempre più intensa. Alla fine le fu impossibile non alzare le braccia per schermarsi ulteriormente. Quando chiuse definitivamente gli occhi il cerchio divenne un’unica macchia bianca e Jane si ritrovò in piedi sull’uscio della porta del tempio.
Abbassò le braccia e batté le palpebre, stordita, confusa, forse anche amareggiata.
La prima voce che la raggiunse fu quella allegra e festante di Cade, che saltellò su per le scale per afferrarla per i polsi e tirarla fuori dal tempio, giù per i gradini, dritta in mezzo agli altri.
 
«Ci hai messo un bel po’, ragazza delle praterie, ma comunque meno di Jonas! Sorprendente!» rise il rosso girandosi per punzecchiare il ragazzino.
Jonas, come era ovvio che fosse, mise su il suo broncio migliore, lamentandosi di essere stato il primo e di aver affrontato tutto alla cieca.
«Vi ho detto io cosa succedeva! Grazie tante che siete più veloci di me, sapete già cosa vi aspetta!»
«Questo non vuol dire niente, le prove possono essere tutte diverse, pensa a quella di Elsa!»
«Non ricominciare. Stai bene Jane? Hai incontrato i tuoi genitori mortali?» le chiese la figlia di Nike posandole una mano sulla spalla.
Jane la guardò accigliata, annuì. «Mia madre, non l’incontro migliore, ma sapere che non fosse lei fin dall’inizio è stato utile.» ammise lanciando un’occhiata a Jonas, che gonfiò il torace tronfio e tirò una manata in pieno petto a Cade.
«Quindi perché c’hai messo tutto sto tempo?» chiese allora Nathan.
«Ho avuto problemi ad arrivare alla sala principale, quando sono entrata non c’erano stanze, muri o anche pavimenti, era solo buio, umido e freddo. E puzzava di chiesa.»
L’americano annuì. «L’incenso piace a parecchie divinità del genere, sì.»
«E tua madre? Ecate dico, lei che ti ha detto?» domandò Lea curiosa.
A quella domanda però la strega storse il naso. «Preferirei non parlarne.» mormorò.
«Ah, quindi cose almeno un po’ veritiere che non volevi sentirti dire, non da lei soprattutto.» tradusse Cade con una smorfia. Poi si strinse nelle spalle. «Comprensibile, non ti chiederemo nient’altro. Andiamo quindi?» disse rompendo il circolo che si era stretto attorno a Jane ed incamminandosi nella direzione opposta a quella da cui erano venuti.
Jonas alzò gli occhi al cielo. «Dici così solo perché poi non vuoi che assilliamo te con domande su cosa ti ha detto tuo padre.»
«Non è vero, sono solo magnanimo e gentile!» protestò impettito l’irlandese.
«A casa mia si chiama opportunismo.» lo corresse Nathan.
Cade però lo dismise con un cenno vago. «Se lo dici tu che sei americano mi fido, soldatino.»
«Ehi! Che cazzo vuol dire?» gli gridò dietro lui. «E poi stai andando a caso, porco di quel Zeus!»
I ragazzi continuarono a bisticciare come ormai facevano costantemente, costringendo Eliza ad andare a fermarli prima che Nathan decidesse che fare a pugni per difendere la loro patria fosse la cosa più giusta da fare, ma non prima di aver lanciato uno sguardo a Lea e Cicno e poi uno a Jane, chiedendo loro silenziosamente di tener d’occhio la compagna ed assicurarsi che tutto fosse apposto.
Cicno però diede una leggera spinta alla sorella, che lo guardò con fare interrogativo.
«Segui Eliza, non si è ancora del tutto ripresa fisicamente, non lasciare che si alteri troppo.» le sussurrò con voce morbida.
La bionda fece subito saettare lo sguardo verso l’altra ed annuì concorde, accelerando il passo per raggiungere il solito gruppetto di teste calde e tirar via lei l’irlandese, ghignante, dalle grinfie del figlio di Ares, mentre Jonas se ne stava alla larga, deciso a non intromettersi tra i “bambini”.
Jane continuò a camminare con passo lento, tenendo lo sguardo indirizzato verso i suoi compagni, anche se in verità tutta la sua attenzione era concentrata sul figlio della Guerra.
 
«Sto bene. Non ho visto mia madre prendere la sua forma divina, non ho dovuto combattere e no-»
«Cosa ti ha detto?» chiese solo Cicno.
Jane lo guardò di traverso, senza voltare il capo.
«Che non sono abbastanza forte per potermi vendicare e che ho bisogno di un aiuto di qualcuno. Di tenermi stretto il figlio dell’implacabile, qualunque cosa significhi.»
Non sapeva spiegare perché glielo avesse detto con così tanta facilità, omettendo così poco, lasciando intendere una serie di sottintesi, ciò che sua madre avrebbe potuto o meno dirgli. Eppure, in fondo, sapeva che tra tutti quanti forse Cicno era davvero l’unico che poteva capirla.
Il figlio di Apollo non ricambiò lo sguardo, tenendo anche lui gli occhi puntati sugli altri. Annuì solo.
«La vendetta in nome di chi si ama è la più onorevole.»
Non aggiunse altro, non ne parlarono più per tutta la prova. Raggiunsero i loro compagni come se non fosse successo nulla.
Jane non riuscì a togliersi di testa quella frase, quella validazione così esplicita e chiara.
La vendetta era onorevole.

Era cosa buona, giusta.

Era veramente cosa buona e giusta.
 


  
*
 



La veste che indossava era tanto scura da sembrare nera, ma la dea sapeva che invece racchiudeva i colori dell’universo profondo della Dimensione Onirica.
Le era stata donata anni addietro da un giovane quasi sulla trentina, dopo troppo tempo che non si vedevano. Ecate gli disse che, in verità quel “troppo tempo” erano a mala pena un paio d’anni e lui l’aveva guardata stupito, come se la dea si stesse prendendo gioco di lui, solo per poi sgranare gli occhi, conscio di quanto quelle parole fossero vere.
Le aveva sorriso storto, solo l’angolo destro delle le sue labbra si era alzato, rimanendo in quella posa strana anche mentre il giovane le spiegava che nella DO, da dove veniva lui, il tempo passava diversamente, che per lui erano quasi secoli che non si vedevano.
 
«Non questa te per lo meno. Le altre sì, tutte le possibilità che ho sperimentato, ma non la vera te
 
Tutte le possibilità che aveva sperimentato, dando come per scontato che ce ne fossero altre ancora da esplorare.
 
«Perché è così, ce ne sono ancora milioni e milioni. Sono infinite, ma ad un certo punto ho dovuto fare una pausa. Ad onor del vero, mi hanno costretto a farla. È davvero difficile dire di no alle stelle.»
 
La voce del giovane le rimbombava nella testa come il suono di un grammofono che si spandeva per un lungo corridoio vuoto. Proveniva da una stanza lontana, passata, che apparteneva ad un’altra vita.
Ecate camminò con lentezza, i piedi nudi non producevano suono, i sandali li aveva abbandonati alla porta come facevano tutti coloro che entravano in quella casa.
Il suono della veste che strusciava sul cotto era l’unico rumore che la seguiva e che da solo non poteva coprire quello del crepitio del fuoco in una stanza lontana, quello del respiro di tre esseri, due addormentati, uno no. Non all’udito di una dea.
Quando giunse alla stanza appartata trovò la porta aperta, la vecchia anta dal colore sbiadito sembrava riprendere un po’ del suo antico tono sotto i riflessi delle fiamme che crepitavano gentili e mansuete nel braciere posto tra il divano e le poltrone.
La dea si sedette sull’unica poltrona libera, osservando quella a lei dirimpettaia occupata da Eris, che dormiva tranquillamente il sonno dei superbi. Scosse il capo ormai rassegnata, non aveva la più pallida idea di come riuscisse ad essere così sicura e in pace con sé, con quello che aveva fatto e con quello che stava succedendo.
 
«Te e Nike parlate un po’ troppo con persone un po’ troppo vicine.» la richiamò piano la voce dell’uomo.
Ecate s’accomodò meglio, tirando le gambe sulla poltrona e sistemandosi il vestito affinché continuasse a coprirle i piedi.
Sul divano, posto proprio di fronte al braciere, Gio se ne stava seduto con il gomito impuntato sul bracciolo, il viso rivolto verso di lei, i capelli scuri che gli ricadevano flosci sulla fronte. Raggomitolato al suo fianco, anche lui nel mondo dei sogni di coloro che non si pentono di nulla, Eros dormiva come se si trovasse sul giaciglio più comodo del mondo.
Il che non era troppo diverso dalla realtà visto chi aveva filato il tessuto di quei sofà.
Sembrava che all’uomo non importasse minimamente d’esser usato come cuscino ed Ecate poteva scommettere qualunque cosa che se avesse questionato l’amico sul perché non si alzasse lasciando Eros a dormire sul divano, quello le avrebbe risposto che da bambino aveva dormito così tante ore sul grembo di Eros da dovergli ancora restituire il favore.
Era comunque strano vedere Giordano vestito in modo comodo, con quelli che dovevano essere pantaloni del pigiama e un semplice maglione grigio.

«Ma lo facciamo a tuo favore.» rispose poggiandosi allo schienale, rilassata.
Gio sorrise. «Tu forse sì, a Nike non importa nulla.» la corresse.
Anche Ecate gli sorrise. «Non dire così, sei uno dei suoi favoriti.»
«Questo perché la buona Vittoria crede che io non abbia mai perso in vita mia. Sono un eterno vincente ai suoi occhi. L’oro sugli ori.» disse lui con un leggero filo di amarezza, qualcosa che non andò perso alle orecchie della dea.
«Ma tu non lo pensi.» affermò sicura.
Gio scosse il capo. «No, non lo penso, anzi, ho la certezza di non esserlo. Non quando so che in realtà ho perso tutto.» ammise con semplicità, recuperando però in fretta il suo solito sorriso canzonatorio. «Scusa se ti ho rubato un po’ di Foschia.» disse per nulla dispiaciuto.
Ecate avrebbe voluto chiedergli di più, domandargli se fosse questo il problema, avere finalmente una risposta chiara e diretta, ma accettò comunque il cambio di argomento, alzando gli occhi al cielo e sbuffando.
«Mi hai rubato più di “un po’” di Foschia.» frecciò assottigliando lo sguardo e ricevendo in cambio un risolino divertito.
Sorrise anche lei, sciogliendosi e chiudendo gli occhi, intenzionata a dormire un po’ proprio come stavano facendo i suoi cugini.
«Ma va bene così, fa parte anche dei tuoi poteri, dopotutto.»
 


  
*
 



Il nucleo centrale della valle dei Templi era costituito dalle dimore dei Grandi Dodici. Erano raggruppati secondo un ordine preciso, si ramificavano gli uni di fianco agli altri, partendo dalla parte centrale dove si trovavano i templi del re e della regina degli Dei.
Il tempio di Zeus era visibile anche da lontano, svettava sopra tutti quanti, ma al suo fianco si poteva scorgere un altro tetto spiovente, coperto da tegole brillanti come oro bianco. Non era difficile capire che quello fosse il tempio di Era, così come non era difficile identificare gli altri, ma ciò che risultava più interessante era il modo in cui le altre strutture si diramavano in direzioni diverse, ognuna seguendo una logica ben precisa.
Michael alzò lo sguardo verso il tempio di Iride, che si trovava all’incirca nelle traiettorie del tempio di Zeus e di quello di Apollo.
 
«Cosa guardi?» domandò Teresa avvicinandosi a lui.
Il ragazzo le gettò uno sguardo veloce, cercando di non soffermarsi sulla macchia di sangue sul suo fianco destro, speculare a quella che aveva lui sul sinistro. Cercò di non pensare che quello era il sangue di Timothy, che lui e la figlia di Ermes aveva sorretto sino all’entrata dei Campi Elisi, quando il ragazzino era riuscito a scorgere l’anima della nonna che lo attendeva, prima di esalare quello che era stato il suo vero, ultimo respiro.
Batté le palpebre svelto e tornò a guardare i templi, indicandoli con la punta della lancia.
«Vedi come sono messi?»
«I templi, dici? »
«Esatto, i dodici principali sono degli Dei del concilio. Al centro ci sono Zeus, Poseidone ed Era, messi tutti schiena contro schiena.»
«Cosa sono, soldatini?» sbuffò sarcastico Mendoza poggiandogli il gomito sulla spalla e tutto il suo peso contro.
«Beh, a picchiare duro lo fanno tutti e tre.» commentò invece Xavier incrociando le braccia al petto. «Non c’è Ade, ovviamente.»
«Ovvio che no, lui ha il suo regno qui, ma questo non vuol dire che sia accettato tra i suoi fratelli. Il suo tempio è tra quelli neri, giù in fondo. E se vogliamo dirla tutta è anche più grande di quello di Zeus.» precisò il figlio di Apollo.
«Ci sta. Secondo me se lo merita. Avevo un amico figlio di Ade, è sempre stato molto gentile con me.» annuì il francese.
«Quindi, al centro ci sono due re e una regina, se ricordo bene fanno tipo una rotonda, una piazza al cui centro ci sono loro. Davanti a Zeus e Poseidone c’è Afrodite, tra Zeus ed Era Demetra, tra Poseidone ed Era Ares. Poi vicino ad Ares, con molta ironia, da una parte Efesto e dall’altra Artemide, vicino a lei c’è papà, poi avevamo detto Afrodite, segue quella rompicoglioni di Atena, Ermes, di nuovo la nostra cara Demetra e per finire Dioniso.»
«Credo che sia estremamente esplicativo perché abbiano messo una cantina abusiva tra Demetra ed Efesto.» ridacchiò la figlia di Ermes.
«E tutto ciò ci serve perché…?»
«Perché, in linea d’aria, dietro ognuno dei templi principali si trovano quelli di tutti gli Dei più vicini a quel dominio. Quindi il tempio di Zefiro è sicuramente nell’area di influenza di quello di Zeus, probabilmente da qualche parte dietro Afrodite.»
Xavier espirò pesantemente. «Perciò il prossimo sono io.»
Michael strinse le labbra, trattenendo un poco il respiro prima di lasciarlo andare con forza. «Prima di te avremmo incontrato quello di Borea ma-»
«Ma Timmy non c’è più, si, lo so, andiamo allora.» tagliò corto il giovane.
Teresa allungò un braccio, stringendo la mano del compagno. «Se vuoi posso andare prima io, tanto dobbiamo per forza passare dietro al suo tempio per arrivare a quello del tuo.»
Per un momento l’altro rimase in silenzio, poi annuì debolmente. «Mi faresti un favore.» ammise.
La ragazza gli sorrise incoraggiante. «Allora muoviamoci, voglio proprio vedere se becco qualcuno dei miei fratelli, ho visto un po’ di gente bella vispa durante le altre prove e sono sicura fossero anche loro figli di Ermes.»
«Ho visto anche io qualcuno fare dei bei numeri, gente che saltava stile Capitan America.»
Teresa alzò gli occhi al cielo. «Per favore, non ricominciamo con questa storia. Abbiamo appurato che potesse fare salti incredibili ma-»
«Lo fa anche Superman.» precisò d’improvviso una quinta voce.
I ragazzi si voltarono verso l’unica altra semidea presente, una ragazzina cubana infagottata in una lunga felpa nera, il cappuccio tirato a coprirle la testa.
Mendoza sbuffò. «Superman volava.»
«No, faceva dei salti così potenti da fare il giro del mondo. Ti stai sbagliando con Goku.»
«Goku non è un supereroe!» protestò il messicano.
«Parla per te! Secondo me lo è!» aggiunse invece Michael sorridendo divertito.
«Pessima figura genitoriale…» bisbigliò invece il francese girandosi verso la figlia di Morfeo.
Lei gli restituì un sorriso lieve, qualcosa che riuscì a far tirare un sospiro di sollevo a tutti, a far rilassar loro le spalle, a farli sorridere di rimando.
Xavier le porse la mano, incitandola ad avvicinarsi, stringendo leggermente la presa quando la vide voltarsi indietro, verso il tempio di Borea che avevano appena superato, lo sguardo puntato sui gradini su cui giaceva un piccolo omino Lego, vestito da Indiana Jones.
«Andiamo, non lo guardare.» mormorò a bassa voce.
La figlia di Morfeo annuì.
«Sogni d’oro Timmy, papà mi ha promesso che te ne avrebbe regalato ancora un ultimo.»


  
*




Le strade che serpeggiavano per la valle dei Templi cominciavano a farsi più affollate. Le anime camminavano incerte tra le grandi strutture appariscenti e tra quelle più piccole e modeste.
C’era una logica dietro alla disposizione delle case e delle chiese, nei piccoli altari posti agli angoli e nelle fontane poste al centro esatto di ogni piazza. Che fossero ninfe, auree, nereidi o altri esseri mitologici, ognuno di questi aveva il suo posto, aveva il suo luogo di culto.
Nathan gettò una fugace occhiata al piccolo chiostrino sotto il cui tetto spiovente era posta la statuina di una donna dalle lunghe corna di cervo, sforzandosi di ricordare chi fosse, quale fosse la sua storia, quale il Dio o la Dea che aveva fatto arrabbiare o che aveva servito. I nomi erano così tanti, gli esseri infiniti e sconosciuti per lo più, alcuni semplicemente dimenticati per sempre.
Aveva scoto qualche altare sporco e diroccato, senza offerte e alle volte anche senza icone, probabilmente antica dimora di uno spirito ormai scomparso assieme alla memoria che gli umani avevano di esso.
Questa era la triste e dura verità del mondo divino, qualcosa di così stupido eppure così essenziale, che colpiva indiscriminatamente anche il più potente degli Dei: se i mortali smettevano di pregarti, se smettevano di studiarti o anche solo di leggere le tue gesta, eri spacciato.
Era ridicolo pensare che anche il sommo Zeus, il padre degli Dei, sarebbe potuto scomparire per sempre se l’umanità avesse deciso di cancellare la cultura ellenistica dalla propria memoria. Se fosse scoppiata una terza guerra mondiale e le bombe nucleari avessero raso al suolo tutti i poli della cultura e della conoscenza anche gli Dei Greci sarebbero scomparsi.
Quanto potere avevano gli esseri mortali, quanto ne avevano su esseri immortali ed eterni, eppure lo ignoravano completamente.
Alzando la testa verso l’alto Nathan osservò la vetta dorata e luminosa del tempio di Zeus, quella argentea, posta più in basso, di Era, e quella bronzea di Poseidone. Gli sembravano tutte abbastanza vicine le une alle altre, ma comunque ancora abbastanza lontane da loro.

«Li vedi ancora tu i Fuochi Fatui?» chiese Eliza voltando il capo verso Cicno.
Il greco annuì senza rispondere e Nathan socchiuse gli occhi cercando di mettere a fuoco gli altri tetti e i timpani appena visibili tra di loro.
«Come cazzo sono messi?» borbottò tra sé e sé.
Jonas allungò il passo per affiancarglisi, anche lui con il naso per aria, alla ricerca di qualche particolare segno che potesse identificare i vai edifici.
«C’è una logica vera o pensi che siano solo messi in ordine di importanza?»
«Sicuramente sono messi in ordine di importanza.» rispose Nathan con una smorfia, «Bisogna solo capire quale.»
«Cosa quale?» gridò Cade un po’ più indietro.
«Quale ordine di importanza.» ripeté il figlio di Ares.
«Ce n’è più di uno?  chiese il rosso voltandosi verso Cicno.
«Dipende da chi stila la lista, Cade. Se fosse stata redatta per volere del divino Zeus probabilmente rispecchierebbe l’ordine dei più fedeli al padre degli Dei, se fosse per anzianità non sarebbe Zeus stesso in cima a questa lista. Ma trovandoci nel dominio del divino Ade presumo che la locazione dei templi sia stata decisa da lui.»
«Tu non lo conosci, l’ordine dico.» chiese allora Jonas.
Cicno si strinse nelle spalle. «Comprendo come il mio aspetto non sia più un monito, ma ti ricordo che sono stato esiliato nei Campi di Pena, non ho mai avuto accesso alla valle dei Templi qui, dentro le bianche mura, è la prima volta anche per me.»
«Oh, interessante, non credevo che ti avremmo mai sentito dire una cos- Ahi! Che ho fatto ora?»
Cade si massaggiò la testa, lanciando un’occhiata crucciata a Lea che gli restituì uno sguardo ammonitore.
«So cosa stavi per dire. Tienitele per te certe battute.»
«Non stavo per dire nulla di strano!»
«Ah, no? Cosa stavi per dire allora?» lo sfidò lei incrociando le braccia al petto.
Cade si rimise ben dritto con la schiena, pronto a replicare. «Che è sorprendente che Cicno abbia ancora delle-» ma si fermò. Chiuse la bocca in una linea piatta e sbuffò infastidito. «Cavolo, ora non fa più ridere.»
Dietro di loro Cicno alzò gli occhi al cielo. «Si, amico mio, anche io devo ancora fare delle prime esperienze, sono pur sempre morto giovane. A destra.» disse poi estemporaneo a voce sufficientemente alta affinché anche Nathan e Jonas lo sentissero, facendoli virare quasi bruscamente nella direzione giusta.
Jonas riportò tutta la sua attenzione sul terreno, fissando il punto dove, presumibilmente, doveva esserci il Fuoco Fatuo.
«Non capisco più se lo vedo davvero o se credo di vederlo perché so che c’è.» confidò a Nathan a bassa voce.
L’altro annuì, rigido nella sua postura, continuando ad osservare gli edifici incontro cui stavano andando, sempre più alti e imponenti, segno che si stessero davvero avvicinando ai templi degli Dei maggiori.
Jonas lo guardò di sottecchi, preoccupato.
«Sei in ansia?» domandò a bassa voce.
Nathan prese un respiro profondo e annuì. «Non sono il prossimo, ma poco ci manca.»
Il ragazzino annuì comprensivo. «Prima tocca a Lea e Cicno?»
«Se seguono l’ordine delle cabine al Campo, sì. Se come dice la principessa lì, l’ordine è per anzianità, pure. Se invece è per potere, chi cazzo lo sa. Non c’è certezza.»
«Beh, fino ad ora abbiamo incontrato gli Dei meno conosciuti, quindi forse si va per fama?» propose Jonas cercando di suonare positivo.
Nathan gli fece un cenno con la testa. «Non so che cazzo aspettarmi.» disse poi, in un’improvvisa ed inaspettata confidenza.
Il figlio di Pothos lo guardò sorpreso, spiazzato e anche un po’ imbarazzato, non si aspettava che l’americano si sarebbe lasciato andare ad un commento così personale, così… vulnerabile?
«Hai- hai paura di incontrare tua moglie? Che ti chieda di mollare? O forse, tua madre? Mi sembra che Lea abbia detto qualcosa a riguardo…» provò vago.
Nathan storse il naso. «Sono entrambe rinate. Non so quanti anni fa però, ormai. Ma non sono loro a preoccuparmi, so che non mi chiederebbero mai di mollare. Mia madre era una combattente, non mi ha lasciato rimanere vicino a- non mi ha lasciato rifiutare la chiamate dei Marines quando ero ancora vivo, per mio padre sarebbe stata diserzione, mi avrebbe ucciso con le sue stesse mani. No, mamma non mi direbbe mai di abbandonare e quanto a mia moglie… neanche Lucy- no, anche lei mi ha sempre spronato ad andare in missione.»
«Allora chi ti preoccupa?» chiese sempre più curioso l’altro.
Ci fu un momento di silenzio tra di loro, mentre attorno il chiacchiericcio delle altre anime cresceva lentamente.
Deglutendo Nathan sembrò quasi mandar giù un boccone estremamente amaro.
«Quando sono morto- quando sono morto ero in missione in Vietnam. Non rimpiango quello che ho fatto, era il mio dovere, ho protetto degli innocenti, ma- ma- c’era un’altra persona che avrei dovuto proteggere, in America. Avevo giurato… non ho potuto adempiere al mio giuramento.» tagliò corto, quasi come se si fosse pentito d’aver aperto bocca, di aver detto così tanto.
A Jonas però quelle poche parole bastarono, gli sembrarono abbastanza chiare: Nathan aveva raccontato loro più volte del Campo, dei suoi fratelli, della sua famiglia, era ovvio ai suoi occhi come l’andare in guerra gli avesse impedito di proteggere tutti loro. Probabilmente aveva promesso di proteggere qualcuno ma era morto prima.
«Hai paura che possa apparirti questa persona?» domandò senza cercare di estorcergli altre informazioni.
Lui annuì solo, cupo.
Sospirò.
«Non so se riuscirei a dire di no, in quel caso. Non so se riuscirei ad andare avanti se mi comparisse davanti.» ammise infine.
Jonas dovette battere le palpebre e mordersi la lingua per evitare di dire qualcosa di stupido o di guardarlo sconvolto.
Nathan che non sapeva se sarebbe riuscito a fare qualcosa? Lo stesso Nathan che voleva rimanere ad aspettare un danno raggio di fuoco pronto a bruciare tutti fino a ridurli in cenere?
Cercò di mantenere un atteggiamento neutrale, facendogli silenziosamente capire quanto comprendesse quella sua… paura?
 
Cazzo, Nathan spaventato non me lo aspettavo.
 
«Capito.» mormorò senza riuscire poi a rimanere davvero in silenzio.
Il figlio di Ares drizzò la schiena e alzò la testa.
«Lo vedremo a breve.» convenne secco. Poi si voltò. «Principessa li vedi ancora quei cazzo di fuochi di merda, o te li sei persi?» gridò verso Cicno.
Il greco non lo degnò neanche di uno sguardo, impegnato a scrutare i templi allineati lungo le vie.
«Alza la mano.» rispose.
Lo guardarono tutti quanti confusi, prima che Nathan saltasse sul posto, imprecando pesantemente e scuotendo la mano destra, fumante.
«Ma porca di quella puttana!»
«Oddio, Nathan! Come diamine hai fatto?» scatto Elena correndo in soccorso del compagno.
Cicno ghignò. «Anche l’altra.»
Questa volta il biondo provò a seguire il consiglio dell’altro, ma non fece ugualmente in tempo e anche la sua mano sinistra divenne improvvisamente bruciacchiata.
«Stai fermo, per l’amore del cielo.» lo rimproverò Lea cercando di afferrargli le mani per accertare l’entità del danno.
«Cos’è stato?» domandò Eliza, all’erta, il corpo rivolto verso Cicno ma il viso verso Nathan e Lea.
Il greco si strinse nelle spalle. «Il nostro giovane amico deve imparare a rispettare gli spiriti. I Fuochi Fatui sono entità magiche, ci stanno conducendo alla nostra prossima meta e lo sanno facendo, probabilmente, solo ed unicamente per bontà di cuore. Se Nathan continuerà ad insultarli gli daranno fuoco.»
Era stato facile per lui individuare la scia di Fuochi Fatui fluttuanti per le strade della valla dei Templi, che si diramavano in ogni direzione utile a chiunque avesse saputo scorgerli. Indicarli ai suoi compagni e cercar di far tener loro traccia degli spiriti infuocati era stato invece più difficile, così come lo era, apparentemente, far capir a tutti loro quanto i Fuochi non avessero il compito di guidarli ma gli stessero più che altro facendo un favore, esattamente come era stato quando avevano condotto lui e l’irlandese nelle praterie in cui si trovavano le sfere di Ermes, ricongiungendoli agli altri.
Udite le sue parole Cade ridacchiò e con lui Jane, che fino a quel momento se n’era stata zitta, troppo concentrata nel tentativo di tracciare proprio gli spostamenti delle piccole fiammelle blu, troppo persa nei suoi pensieri, nelle parole dure e criptiche di sua madre.
«Se la sono presa male?» rise il rosso più apertamente.
«Speriamo non debbano condurci anche alla prova del soldatino, o dovrà svolgerla in mezzo alle fiamme.» rincarò la dose Jane.
«Speriamo non faccia troppi danni ora, o dovremmo aspettarlo per ore.»
Qualche metro più avanti Nathan si voltò a guardarli in cagnesco, imprecando ancora ma non verso i Fuochi Fatui questa volta.
«Ti aspetto al varco, roscio di merda! Voglio proprio vedere quando sarà il tuo turno, che cazzo di schifo farai! Ne riparliamo quando ti avranno fulminato.»
Lea gli diede uno schiaffò sulla spalla «Smettila di insultare gente! Guarda cosa ti sei fatto alle mani.»
«Cosa mi hanno fatto, vorrai dire!»
«No, cosa ti sei fatto, perché è colpa delle tua boccaccia, come sempre!»
«Ma chi cazzo sei, mia madre?»
«Vuoi che ti dica per l’ennesima volta che mi ha autorizzato a picchiarti, se necessario?»
«Provaci!»
«Se continuate così alla prova di Cade non ci arriveremo mai. Ma neanche alle vostre.» fece notare loro Jonas infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni mimetici, annoiato.
Nathan e Lea si voltarono a guardarlo in contemporanea, pronti a rispondere, quando la voce di Jane li interruppe.
«Beh, i prossimi dovrebbero essere Cicno e Lea, giusto?»
Eliza annuì, così come i due biondi, Jonas invece aggrottò le sopracciglia.
«Abbiamo capito in che ordine sono?»
«Il ragazzino non ha detto qualcosa su l’ordine delle case al suo Campo?»
«Ma che sono io il ragazzino?» sbottò incredulo Nathan.
«Certo che sei tu, sta zitto ora.»
«Quindi prima loro, poi chi?» chiese ancora Jonas.
«Probabilmente poi Nathan e per ultimo Cade.» spiegò Eliza raggiungendo gli altri e fermandosi davanti a loro assieme a Jane.
 
«Vi sbagliate.»
 
I semidei si voltarono verso gli altri due compagni rimasti indietro.
Cade guardava Cicno con una strana espressione, qualcosa di freddo e immobile, forzatamente privo di emozioni, completamente differente dal ghigno divertito che aveva poco prima, gli occhi fissi in quelli chiari dell’altro.
Jane inclinò la testa. «Prima Ares?»
«Prima gli Dei minori, poi i maggiori.» ripeté per l’ennesima volta il greco.
Fu il turno di Lea di aggrottare le sopracciglia. «Quindi? Credevo che fossero tutti Dei maggiori i nostri genitori.» disse cercando poi l’appoggio di Eliza e Nathan, che annuirono concordi.
Cicno accennò un sorriso che sembrava molto più un ghignetto accondiscendente.
«Perdonatemi,» iniziò con voce quasi canzonatoria. «chi credete che sia il divin padre di Cade?»
Il diretto interessato strinse i pungi in un gesto involontario, serrando la mascella e deglutendo un groppo spinoso che in vita gli avrebbe tolto il respiro dal petto.
Nathan si fece subito serio, dimentico dei palmi delle mani mezzi bruciacchiati, delle mani stesse di Lea strette attorno alle sue.
«Di Zeus.» disse sicuro.
Cicno ghignò più apertamente. «Questo mi giunge nuovo, lo troverei quasi esilarante, se non sapessi che vi offenderebbe.»
Jonas fissò tutta la sua attenzione sulla schiena tesa dell’amico, avanzando qualche passo incerto oltre Eliza e Jane, a metà strada tra il gruppo più numeroso e i due compagni rimasti indietro.
«Cade? Tutto bene?» chiamò a voce bassa, senza ricevere risposta.
«Ma lo hai detto tu.» insistette Lea.
Eliza annuì. «Esatto, hai detto-»
«Ho esplicitamente detto che il nostro rosso compagno è progenie del re degli Dei? Non mi pare proprio.»
«Ma hai detto che “odora di cielo” o qualche cazzata simile.» ritorse Nathan infastidito da quello stupido gioco del non detto.
Cicno lo guardò come si guarda un bambino a cui si è spiegato innumerevoli volte uno stesso concetto senza che questo riuscisse a comprenderlo.
«E l’unica divinità che conosci che potrebbe rispecchiare questa descrizione è il divino Zeus?»
«Beh… no, non è il solo, vero? Nathan?» domandò Lea dubbiosa.
«Ma vola.» arrivò in loro soccorso Eliza.
«E ci ha spinto con una corrente d’aria, Zeus non era il Dio del cielo?» aggiunse Jane.
«Qualcuno di voi lo ha mai visto evocare fulmini?» chiese allora Cicno.
Nessuno di loro gli rispose, perché no, nessuno aveva mai visto nessun vago potere legato ai fulmini durante tutte le prove e ci sarebbero state svariate occasioni in cui questi sarebbero potuti essere utili. Era anche vero, però, che non tutti i figli ereditavano tutti i poteri dei genitori.
Jonas, d’altra parte, continuava a riflettere febbrilmente, a scorrere la lista immaginaria su cui c’era scritto tutto quello che sapeva sull’amico.
Batté le palpebre sorpreso. «Non vola, Cade salta.» disse di punto in bianco. «Salta e si fa aiutare dalle correnti.»
«Vede dei fili invisibili…»  aggiunse Eliza, elencando con la mano tutti i punti salienti.
Jane sbuffò. «Perché dobbiamo tirare ad indovinare? Non può dircelo direttamente lui? Tanto dobbiamo andarci per forza. Stiamo solo gettando al vento tempo prezioso.»
A quelle parole Lea fece scattare la testa verso la compagna, la bocca aperta per lo shock, per l’ovvietà di quell’affermazione. Poi si girò verso Cade, che ancora fissava solo Cicno, teso come una corda di violino.
Il greco resse il suo sguardo senza fare una piega, per accennare leggermente con il mento alle loro spalle.
Anche gli altri si girarono a quel gesto, osservando il muro posteriore di quello che doveva essere un tempo medio-grande, dalle mura completamente bianche e le tegole azzurrine.

«…al vento?» mormorò Lea.
Cade espirò di colpo, digrignando i denti in un suono fastidioso e fin troppo forte.
Si girò con la stessa velocità e rigidità di un soldato, ruotando sui talloni e fronteggiando tutti gli altri con lo sguardo cupo ed il volto furente.
 
«L’unica cosa buona che mi ha dato quel bastardo.» sibilò senza paura.
Jonas non poté evitare di protendersi in avanti, come a voler accogliere l’altro in un abbraccio consolatorio, ma si fermò, sorpreso dall’espressione dura che scorse sul volto sempre sorridente.
«Vuol dire- vuole dire che il vento è l’unico regalo che ti ha fatto? I tuoi poteri?» provò tentennante.

«Eolo.»
Fu la voce chiara e forte di Nathan a rispondere a quella domanda indiretta, la consapevolezza improvvisamente chiara sul suo viso. «Alla prova di Artemide, quando è apparso a presentarla, avevi la stessa faccia che hai ora.»
«Salti così in alto spinto dalle correnti dei venti…» mormorò Lea.
«Quindi erano le correnti quelle che vedevi?» domandò invece Eliza attenta.
Cade fece una smorfia. «Gli odori, vedo la traccia delle scie lasciate dagli odori.» disse spiccio. «È questo il suo tempio?» chiese voltando appena il capo verso Cicno.
Il greco lo raggiunse con tranquillità, come se avessero tutto il tempo del mondo.
Jonas non aveva la più pallida idea se non gli importasse davvero nulla di perder tempo prezioso o se si stesse avvicinando con quella lentezza per permettere a Cade di riacquistare un minimo di controllo e di calma.
Probabilmente un buon mix di entrambe.

«Sì. Aggirando il palazzo troverai l’entrata per il tempio di Eolo. Su questa strada dovremmo incontrare tutti i templi dei Venti. Quello del tuo dannato padre è il primo.»
Cade annuì in un unico gesto secco.
«Se può in un qualche modo consolarti, dovesse succedere qualcosa o dovesse esserti cosa gradita, una volta uscito dal tempio posso sempre dargli fuoco.» suggerì Cicno con tono vago, come se stesse parlando del tempo.
Cade rabbrividì al solo pensiero di altre fiamme, come se non ne avessero dovute affrontare abbastanza, e proruppe in un verso di scherno. «Dov’è finito il “evitiamo di insultare gli Dei”?»
Cicno sogghignò. «Eolo non è un vero dio, era un semidio come noi, un mortale entrato nelle grazie del divino Zeus, che per i suoi servigi e la sua astuzia lo ha reso immortale, concedendogli il potere di imbrigliare i venti.» spiegò con sufficienza. «In ogni caso, è noto in ogni dove che la progenie del mio degenerato padre non ha un buon rapporto con nessun vento. Zefiro provocò grande dolore a quel maledetto.»
«Wow angioletto, faresti addirittura qualcosa che potrebbe lusingare tuo padre pur di farmi vendicare sul mio?» chiese sorpreso il rosso, guardandolo finalmente con un’espressione più morbida.
Il ghigno sul viso del greco si fece solo più grande.
«Come ho già detto a più di un nostro compagno: la vendetta è cosa onorevole, specie se perpetrata in nome di coloro a cui teniamo di più.»
A quelle parole Cade non poté più resistere e si ritrovò a ridacchiare, improvvisamente più leggero.
«Mi sento onorato, sono tra le persone a cui tieni?» chiese battendo le palpebre con fare teatrale.
«Ovviamente, anche se è Jonas il primo dei nostri compagni che ho incontrato e salvato, tengo molto in conto il nostro di incontro.»
Cade sorrise più ampliamente, girandosi verso Jonas con le braccia allargate.
«Hai sentito Bineas? Sono io il suo preferito, non te!»
Preso in contropiede da quella veloce escalation Jonas non poté far altro che correggere velocemente la sua espressione preoccupata in un più giocosa, alzando gli occhi al cielo e sbuffando.
«Spero tu sappia che ti sta dicendo queste cose solo perché così smetti di rompere le palle e ti sbrighi ad andare.» replicò cercando di comportarsi come sempre.
Cade piagnucolò portandosi le mani al cuore. «Bineaaaaaas! Sei davvero cattivo con me! Elza, difendimi!»
«Perché non ti fai difendere da Cicno, visto che è il tuo preferito.»
«Ehi! Non ho mai detto questo! Non che tu non sai tra i miei preferiti, angioletto, per carità divina! Lea? Aiutino?»
 
Il solito rumoreggiare caotico si spanse velocemente tra i sette, alleggerendo la tensione che poco prima li aveva attanagliati tutti.
Nathan osservò dalla sua posizione leggermente defilata, Cade tornare sui suoi stessi passi, lamentarsi e fare facce stupide come suo solito, come se non fosse successo nulla.
 
Come cazzo fa? È così che è sopravvissuto per tutti questi anni? Ignorando le cose più difficili e dolorose? Facendo finta di niente?
 
«Una cazzo di bomba ad orologeria.» mormorò a bassa voce.
«Presumo non sia nulla di buono.» commentò Cicno affiancandoglisi.
Nathan fece schioccare la lingua sul palato. «Una cosa che fa un botto incredibile, fuoco, detriti, hai mai visto un eruzione vulcanica?»
«Se l’avessi vista non sarei morto suicida, non credi?»
Il figlio di Ares incassò la risposta concordando silenziosamente con l’altro. «Un botto, un ceppo di legno che esplode nel focolare.»
«Posso intuire, sì. A cosa ti riferisci? A Cade?» indovinò a colpo sicuro.
Nathan annuì. «Guardalo.»
«Questo è il suo modo per superare le situazioni più ardue.» disse con una scrollata di spalle.
«Tenersi tutto dentro, far finta che le cose non esistano e nasconderle ancora più in profondità ogni volta che si riaffacciano? Esploderà.»
«Parli per esperienza personale?»
La domanda sibillina di Cicno fece bloccare per un momento il soldato, incapace di dare una risposta veloce che non implicasse, per la seconda volta nell’arco di poco tempo, una sua ammissione di debolezza.
«In questo caso,» continuò il figlio di Apollo ignorando il compagno, «spero che esplodiate entrambi nel momento giusto.»


  
*



 
Il tempio di Eolo non era poi molto diverso da quelli che avevano visto fino ad ora.
Le pareti erano bianche, le quattro colonne poste davanti all’entrata erano invece dipinte di azzurro, verde e blu, in spire concentriche e arabeschi sinuosi, un chiaro rimando alle spire del vento stesso.
Nel timpano vi era il bassorilievo di un uomo intento a soffiare, attorno a lui nuvole dall’aspetto instabile iniziarono a muoversi con lentezza non appena Cade si fu avvicinato sufficientemente al primo dei sei gradini che portavano al portone d’ingresso.
Il giovane si esibì in una smorfia delusa.
 
«Si sono sprecati.» commentò guardando le nuvole di pietra muoversi sempre più velocemente.
«Cicno non ha detto che non è davvero un Dio? Forse è per questo che è meno appariscente.» propose Jonas fermandosi di fianco a lui. «Anche se devo ammettere che il bassorilievo e abbastanza ipnotico se lo guardi troppo a lungo.»
«Io sento anche uno strano sibilo, sono la sola?» chiese Jane fermandosi all’altro lato di Cade.
L’irlandese scosse le spalle. «Senti il rumore del vento, ogni volta che smette di soffiare si interrompe, vedi?» disse indicando la riproduzione di quello che doveva essere suo padre.
Il bassorilievo smise di soffiare per un momento, riprese fiato e poi ricominciò; le nuvole si sovrapposero, mescolandosi tra di loro fino a creare quella che sembrava tanto una tromba d’aria.
I semidei fissarono il timpano curiosi.
«Guarda se non ti becchi un acquazzone.» mormorò Nathan ironico.
«Ha altissime probabilità di dover affrontare dei fenomeni metereologici, senza alcun dubbio. Ciononostante, è bene che tu tenga a mente, Cade, che tuo padre non è il dio di tale dominio: Zeus comanda i cieli in tutto e per tutto, Eolo può solo chiamare a sé tali fenomeni.» lo confortò Cicno distogliendo lo sguardo dal tempio per guardare il suo compagno.
Jane fece una smorfia. «Non è un gran che di consolazione e non è neanche un gran ché di potere. Quindi cosa fa, di grazia, Eolo? Li comanda o no i venti?»
«È più complicato di così. I venti sono parte del regno del divino Zeus, ha lui il potere su tutto ciò che succede nei cieli e chi li abita. Quando una divinità decide di rendere immortale un suo servo devoto, tende a dar loro o una maggiore abilità sulla proprie capacità innate, come ad esempio un guaritore può divenire ancora più abile una volta reso immortale, come può dar loro una qualche tipo di influenza derivata dal proprio potere. Nel caso di Eolo Zeus gli donò la capacitò di controllare i Venti, ma questi esistevano da ben prima della nascita mortale di Eolo, sono entità indipendenti, simili in un qualche modo ai Fuochi Fatui. Ciò significa che possono essere evocati da Eolo, e dalla sua progenie, ma se questi decidono di non volerlo servire possono rifiutarsi di farlo. Allora Eolo potrà esercitare il suo potere solo sulle correnti minori, come fa Cade.»
Eliza guardò Cicno con ammirazione. «Rimango sorpresa ogni volta dalla tua conoscenza di questo mondo, pur essendo morto così tanti secoli fa.»
Il greco le lanciò uno sguardo divertito. «Perché a differenza vostra io ho vissuto una vita intrinsecamente legata e pregna di ogni aspetto di “questo mondo”. Voi avevate un’altra religione, giusto? Quel giovane che si è sacrificato-»
«Per favore, possiamo evitare di parlare di nuovo del Cristianesimo? Finiamo sempre per scadere nella blasfemia e per di più Cade deve andare ad affrontare la sua prova.» li fermò Lea, memore delle loro passate discussioni e dell’incredibile capacità di Cicno di dire sempre la cosa più inopportuna nel modo più logico possibile.
Cade però sembrò della stessa opinione della figlia di Apollo, anche se probabilmente solo per la questione “prova”, ed annuì risoluto.
«Sì, prima vado meglio è. Un colpo secco, come un dente.»
«Come un cerotto, vorrai dire.» lo corresse Nathan.
Cade lo guardò incuriosito. «Che cazzo è un cerotto? E perché devi sempre correggere ogni cosa che diciamo con qualcosa che si dice nella tua epoca invece di farti i cazzi tuoi?»
Jonas sgranò gli occhi, mordendosi le labbra per non ridacchiare e dare ancora più motivazioni all’americano di arrabbiarsi, allungando un braccio per girare Cade verso di lui e lontano da Nathan.
«Eeeee questo è decisamente il momento di andare! Per favore, stai attento, sbrigati non farti fregare da tuo padre, da chiunque ti metterà davanti e soprattutto, non farti accecare dall’ira.» disse stringendo la mano del giovane e guardandolo dritto negli occhi. «Se rispondi alle provocazioni di tuo padre farai solo il suo gioco e non riuscirai ad uscire da lì. Quindi, vedi di darti un tono, capito?»
Cade l’osservò per un momento, poi gli sorrise, uno di quei suoi sorrisi ampi e luminosi che si spandevano fino agli occhi verdi scintillanti.
 
Il verde è sempre stato il mio colore preferito.
 
«Non ti preoccupare, Binneas, il tuo dearthair mor tornerà sano e salve e più veloce del vento stesso.» lo rassicurò ricambiando la stretta.
Jonas gli sorrise a sua volta. «Non ho la più pallida idea di cosa tu abbia detto, ma mi fido.» rispose protendendosi per abbracciarlo, trovandolo subito pronto ad accoglierlo a braccia aperte.
«Per quando ne sappiamo potrebbe anche essersi definito “signore onnipotente”, io non mi fiderei neanche morta.» borbottò Jane scettica.
«Ma tu sei morta.» le fece notare Lea dandole un colpetto con la spalla, sorridendo un po’ più leggera alla vista dei due compagni scambiarsi un gesto così semplice eppure così pregno d’affetto. Le faceva pensare a Giuseppe, a come l’abbracciava prima di uscire di casa per quelle rare quanto pericolose missioni in soccorso a semidei sparsi per tutta la penisola. Come l’aveva abbracciata quando erano cominciate le prime sommosse.
 
Come non mi abbracciò quel giorno.
 
Lea inghiottì il groppo che le si era formato in gola e guardò Cade stringere un’ultima volta Jonas prima di lasciarlo, dandogli una pacca sulla spalla per buona misura.
Eliza gli si fece vicina, allungando la mano verso il rosso, l’espressione seria ma anche sorprendentemente rilassata.
«Sei la seconda persona per cui temo meno, Griffith. Vedi di essere anche la più veloce.»
«Puoi giurarci Elza, non vi accorgerete neanche che sono sparito.» disse sicuro afferrandole la mano.
«Magari questo no, dacci un minimo di respiro e togliti dai piedi per un po’, mi manca il silenzio.» borbottò Jane guardandolo di traverso. Poi gli fece un cenno con la testa. «Solo un po’, non metterci davvero troppo o vengo a prendere anche te.»
Quella, si disse Cade, era forse una delle cose più carine che la figlia di Ecate gli avesse mai detto, la cosa più carina che aveva fatto dopo il bracciare per Jonas, superando persino i suoi incantesimi durante la lotta contro la guerriera araba.
«Ci conto.»
«Fantastico, ora muovi quel culo secco e vai a fare la tua sfida.»
Lea menò la mano alla cieca per dare uno schiaffo a Nathan e sgridarlo del suo poco tatto, ignorando i grugniti infastiditi del biondo e sporgendosi anche lei per abbracciare Cade e augurargli buona fortuna.
Per ultimo rimase solo Cicno.
Cade lo guardò dritto negli occhi, sentiva che nessuna parola sarebbe servita, non dopo quello che il greco gli aveva detto prima, non con lui, non in quella situazione.
Rimaneva sempre sorpreso da come Cicno sembrasse sapere sempre tutto, come comprendesse i loro silenzi spesso meglio delle loro stesse parole.
Il figlio di Apollo inclinò il capo, accennò verso la porta del tempio e ghignò.
«A dopo.» disse solo. Nessun augurio di fortuna, nessun “fai presto”, “stai attento”, “non aver paura”. Forse perché Cicno sapeva che in questo caso la paura avrebbe potuto solo che aiutarlo, forse perché sapeva che se avesse incontrato sua madre, sua sorella, nessuna delle due gli avrebbe chiesto di rinunciare, sapeva che se fosse apparso suo padre Cade avrebbe preferito scomparire per sempre piuttosto che accettare un suo consiglio.
Forse sapeva semplicemente qualcosa che nessuno di loro sapeva.
 
Era Apollo quello che proteggeva gli oracoli? Che anche Cicno abbia qualche potere divinatorio e sappia già come andranno a finire tutte le nostre prove?
 
Questo Cade non poteva saperlo, ma in quel momento non era neanche importate.
Ciò che contava era solo la prova e la possibilità di vedere suo padre, faccia a faccia, per la prima volta.
 
Se il bastardo avrà il coraggio di apparirmi.
 
Con un’espressione seria e risoluta Cade strinse i pungi e rilassò subito dopo le mani. Doveva essere calmo, all’erta ma non spaventato, non nervoso, attento e cauto come lo era sempre stato in cielo.
Puntò lo sguardo sul portone e salì i gradini che l’avrebbero portato all’uscio di ferro azzurrino che già iniziava ad aprirsi. Una leggera brezza arrivò dritta dall’entrata, il rumore del vento era lieve ma sembrava solo preannunciare una corrente ancora più forte, più distruttiva.
Per un attimo rivisse la stessa sensazione che aveva vissuto nell’Area Cani: il tempio di suo padre lo risucchiava all’interno ed una corrente esterna lo spingeva verso quell’entrata.
Decise di non girarsi, di non dare neanche per un secondo le spalle alla dimora di Eolo, certo che il vento l’avrebbe ingannato e sarebbe persino potuto arrivare a non volerlo più lasciar passare.
Non sapeva cosa aspettarsi da quel luogo, i ragazzi gli avevano raccontato com’era l’interno dei templi dei loro genitori, ma erano tutti così diversi che probabilmente nessuno sarebbe rassomigliato a quello di Eolo.
Giunto davanti alla porta la corrente parve farsi più intensa, come centinai di mani che s’aggrapparono al bavero della sua giacca, al collo della maglia, al bordo di pantaloni, per tirarlo dentro, aiutate da altre mani invisibili che lo spinsero con foga sulla schiena.
Inciampicando sui suoi stessi passi Cade barcollò in avanti, dietro di lui il portone si chiuse con un tonfo sordo e la luce crepuscolare degli Inferì fu tagliata fuori, facendolo sprofondare del buio di un androne dalle tende tirate.
Si mise dritto sistemandosi le vesti, assicurando la cinghia della sacca sulla spalla e, prendendo un respiro profondo, iniziò a guardarsi attorno.
Non era davvero privo di luce quel luogo, la sua prima impressione era stata esatta: gli ricordava gli ingressi delle case dei signori, anticamere opulente, corridoi coperti da carta da parati e quadri massicci dalle cornici dorate coperte da un sottile strato di fumo e fuliggine. Era ampio, spazioso, ma al contempo gli trasmetteva un senso di claustrofobia. Persino l’aria era stantia e chiusa, esattamente come non sarebbe dovuta essere nel tempio del Dio dei Venti, come non sarebbe dovuta essere quando poco prima c’erano state quelle due correnti insistenti a spingerlo e strattonarlo.
Dove diamine era finito? Possibile che l’animo menefreghista di suo padre si rispecchiasse anche nella sua dimora?
 
Cosa aveva detto Nathan? Che Eolo era il cornista degli Dei? Che cazzo significa?
Lavora per gli Dei, porta informazioni di continuo, come un giornale, non si ferma mai. Possibile che sia così impegnato a lavorare per loro da non poter curare neanche il suo stesso luogo di culto?

 
In effetti la cosa non lo stupiva più di tanto: Eolo non aveva mai avuto un attimo di tempo per preoccuparsi delle sue cose, che fossero figli o, a quanto sembrava, templi.
Con una smorfia Cade batté le palpebre cercando di abituarsi a quella semi-ombra classica delle giornate piovose nella sua cara vecchia Irlanda, quando la pioggia batteva incessante sulle finestre e le tende pesanti venivano tirate per poterne attutire il suono.
Se odorava l’aria, dietro all’olezzo di stantio, di camera chiusa da troppo tempo, Cade poteva quasi fiutare l’odore della tempesta imminente, dei venti d’ovest che soffiavano dall’oceano. C’era odore di burrasca e salsedine, di acqua sporca e fangosa, del fumo che usciva dalle ciminiere delle fabbriche a carbone e che impuzzoliva tutta Dublino quando il vento tirava dalla parte sbagliata.
Respirando a pieni polmoni, Cade si domandò come fosse possibile che in quella sottospecie di anticamera riuscisse a fiutare tutti gli odori che l’avevano accompagnato nella vita, gli odori della sua città, del porto, dei vicoli, delle strade e dei palazzi, di un tempo indefinito che avrebbe ormai dovuto dimenticare e che invece era ben presente davanti ai suoi occhi, nella gola, addosso ai suoi vestiti, impregnato ai capelli corti.
Passandosi una mano tra le ciocche rosse cercò di darsi un contegno, si scuotersi da quella strana sensazione che gli si stava appiccicando addosso come l’umidità dei canali, avanzando con cautela verso il muro posto davanti a lui, dove si apriva una porta ad arco a doppia anta, con quattro finestre di vetro smerigliato.
Tra tutte le cose che si sarebbe potuto aspettare da un tempio, quell’arredamento era decisamente l’ultimo.
Perché sembrava tutto così simile al suo tempo? Eolo aveva secoli e secoli alle spalle, millenni se non aveva dimenticato come si contasse. Perché diavolo era tutto così dannatamente-
 
Dublino?
 
Spinse la porta con esitazione, certo che dietro di essa potesse già celarsi la sua prova, ansioso di rivedere quello stupido ometto dal volto sudato e teso, ma quando si affacciò nella stanza successiva non vi trovò altro che un corridoio, sempre buio, sempre decorato con la maledetta carta da parati azzurra a righe- cosa c’era rappresentato su? Erano forse fiori? Mazzolini di fiori fini e biancastri? No, erano dei ghirigori, altri stupidi ghirigori che rappresentavano soffi di vento stilizzati.

Ma dove cazzo sono finito? Questo sarebbe un tempio greco? Davvero?
 
Avanzò nel corridoio osservando le porte che si aprivano su ogni lato ad intervalli regolari. Erano tutte ben o male uguali, eppure ognuna differiva di qualcosa e Cade non ci mise molto a realizzare che, malgrado la semplicità dello stile, erano tutte di fattura diversa, fatte da mani diverse, in epoche diverse.
 
Una per ogni figlio? Ognuna da un’era diversa?

Accelerò il passo superando quasi sei porte prima di rendersi conto che più camminava più il corridoio diventava lungo. Un infinito susseguirsi di usci che diventavano sempre più vecchi, decisamente più di lui, sino all’ultimo.
Un’enorme porta di metallo decorata a sbalzo, otto cubi che ospitavano scene diverse di una vita passata e lontana, che illustravano la nascita di un uomo e la sua ascesa all’Olimpo, la sua consacrazione all’immortalità.
Quella doveva essere la sala del trono, dove si trovava il focolare che Cade avrebbe dovuto fa accendere, ma non appena provò a toccare la superficie fredda un potente vento di mareggiata iniziò a soffiare con violenza.
Portandosi le braccia davanti al viso per proteggersi dalle sferzate dolorose della corrente, Cade provò inutilmente ad opporre resistenza, venendo però trascinato dalla forze di quello che sembrava a tutti gli effetti l’impietoso vento dell’Ovest, quello che tante, troppe volte, l’aveva sospinto contro i palazzi e tra gli alberi durante le giornate di tempesta, durante gli autunni ventosi e gli inverni rigidi e ghiacciati.
 
«Cazzo! Se pensi che basti così poco a farmi rinunciare ti sbagli di grosso!» gridò con quanto fiato aveva in gola, conscio che il vento si sarebbe mangiato la sua voce e le sue imprecazioni e che solo il sangue divino di suo padre gli avrebbe concesso di sentirlo tra gli ululati ed i fischi acuti della corrente.
Si impuntò, spingendo con tutto il peso del suo corpo in avanti, verso la porta di metallo, verso quella che doveva – doveva per forza – essere la sala del focolare, il suo obbiettivo, la sua vittoria. Suo padre non gli aveva mai dato nulla se non il potere di piegare i venti alla propria volontà, non gli avrebbe permesso di togliergli anche quello.
Un moto di rabbia cieca gli si animò nel petto cavo, bruciando tutto l’ossigeno che i suoi polmoni non necessitavano d’usare, o che forse non avevano necessitato fino a quel momento, fino a quando il dono divino di quel bastardo, a cui Cade si era sempre affidato ciecamente, credendolo una parte intrinseca di sé, non l’aveva tradito durante la fuga dal fascio di luce che era il Guardiano. Poche volte, in vita, il vento aveva fallito le sue richieste, poche volte Cade non era riuscito a piegarlo al suo volere, a fargli fare ciò di cui necessitava, e tutte quelle volte si erano manifestate in vuoti d’aria che gli avevano tolto il respiro e con quello la coscienza.
Ma ora non era in aria, ora non stava volando, non era salito troppo in alto. No, ora il suo amato vento, che tanto facilmente gli aveva concesso di librarsi in aria, spingeva crudele contro di lui, schiacciandolo con una pressione che mai Cade aveva sentito, sordo ai suoi ordini, allontanandolo da ciò che più desiderava e condannandolo, ancora una volta, a lasciare i suoi amici a lottare senza di lui.
Aprì la bocca per gridare ancora, per urlare tutta la sua rabbia e l’odio che provava in quel momento, ma il vento gli scivolò in gola, un getto compatto, come se avesse ingoiato in blocco un boccale d’acqua, costringendo la trachea in un unico spasmo che lo mise dolorosamente a tacere.
Il vento gli entrò di prepotenza in gola, gonfiando i polmoni fino al collasso, togliendogli la forza dalle gambe, dalla schiena rigida e dal collo incassato tra le spalle.
Improvvisamente debole come solo due volte si era sentito in vita sua, Cade venne trascinato indietro e indietro e indietro, superando porte sempre più moderne, sempre più familiari, fischiando sotto gli usci e tra le sagome di legno, lungo i muri decorati, sbiadendo la carta da parati divenuta vuota dei suoi ghirigori.
Fu con un pensiero del tutto scollegato dalla confusione, dal dolore e la rabbia che provava in quel momento che l’irlandese si domandò se quei stupidi disegni non fossero il vento che ora, traditore, lo scacciata dalla sua meta.
Non poté rifletterci molto però, perché subito dopo si sentì spingere brutalmente a destra e, invece dell’impatto con il muro, cadde dentro una delle porte.
Rotolò sul pavimento, le gambe troppo deboli per sorreggerlo ed il piano troppo liscio per non scivolare, finendo con la guancia premuta contro il marmo freddo, immobile, a riprendere il fiato che non gli sarebbe dovuto servire.
Tenne lo sguardo fisso davanti a te, un occhio socchiuso e l’altro spalancato, ma tutto ciò che riusciva a vedere, che credeva, per lo meno, di riuscire a vedere, era il battiscopa della stanza, grigio e lucido come il pavimento su cui giaceva annaspando boccate d’aria sincopate.

«Ah, sei arrivato alla fine. Credevo mi avresti fatto aspettare ancora per molto.»
 
La voce che giunse alle sue orecchie, o per meglio dire all’unico che non aveva premuto contro il suolo, gli risuonò estranea ma con un pesante accento famigliare.
Era una voce di donna, senza alcun dubbio, una donna anche di una certa età, e Cade fu percorso da un brivido all’idea che quell’anima potesse appartenere a sua madre, che quella potesse essere la voce da anziana di Eilin e che lui si fosse scordato persino la sua intonazione.
La sentì muoversi da dovunque fosse stata ferma fino a quel momento, le vibrazioni che gli arrivavano dritte dal marmo gli fecero venire la pelle d’oca mentre la sua mente si rifiutava di accettare un qualunque altro pensiero che non fosse la possibilità di rivedere sua madre, ignorando le richieste di una parte remota di Cade che implorava il corpo di muoversi e vedere contro chi si sarebbe dovuto scontrare. Oh, sì, perché quella era la sua unica certezza: la donna che aveva parlato aveva chiaramente detto che lo stava aspettando, ergo, la donna era la sua prova.
I passi si fermarono vicino alla sua testa e un verso soddisfatto scappò dalle labbra dell’anziana signora.

«Non sei cambiato affatto, sei esattamente come mi ricordavo. Temevo d’aver scordato il tuo volto e invece no, sei proprio come ricordavo, sì.» ripeté tra sé e sé. «Proprio come ricordavo, non ho fatto cilecca, altro ché!»
A quelle parole qualcosa si smosse dentro la sua testa, come un clic che permise di nuovo alla mente di comandare i muscoli e farli reagire.
Con un movimento fluido, o che almeno voleva esserlo, Cade rotolò di fianco, si issò barcollando leggermente su un ginocchio, ed alzò finalmente la testa per guardare in faccia la donna.
Non sapeva bene cosa aspettarsi, ma la prima cosa che seppe con certezza era che quella non era sua madre. Era una donna sulla settantina, con i capelli bianchi tenuti in un caschetto corto e ordinato, gli occhi sbiaditi dal tempo dovevano esser stati di un marrone caldo e scuro, ancora vispi e brillanti di una luce che un morto non avrebbe dovuto avere. Sotto le rughe ed i segni del tempo, Cade poteva scorgere un naso appuntito, le labbra fini, gli zigomi rotondi.
 
Da bambina doveva avere la faccia da meletta.
 
Inclinò il capo per osservarla meglio, per cercare di capire cosa ci fosse di così smaccatamente famigliare in lei, quale fosse il filo che li legava.
Che fosse una delle sue vecchie compagne? Era possibile, sì, ma tra i suoi Liberty non c’era nessuna donna che Cade avesse tenuto così tanto in considerazione da poterla elevare ad anima tentatrice in nessuna prova.
L’anziana signora imitò la sua stessa posa, sorridendo divertita all’espressione crucciata dell’altro.
 
«Sì, proprio bene, sono vecchia ma ricordo ancora bene. Ah! Dovrebbero vedermi i miei nipoti, i ragazzini d’oggi credono di sapere tutto sul mondo e che noi vecchi invece non sappiamo nulla. Gli farei vedere io, sì, come ricordo ancora bene!» disse sempre più soddisfatta, portando le mani ai fianchi e drizzando la schiena curvata dagli anni.
Cade si schiarì la voce, sentendo la gola secca e rasposa come la lima di un falegname.
 
Dannazione, mi ha fatto un bel numero quella cazzo di burrasca.
 
«Perdonatemi, signora, ma la mia di memoria invece non è buona come la vostra, a quanto pare. Ci conosciamo? Anche se forse “conosciamo” è una parola grossa, siamo tutti e due morti, quindi, “ci siamo conosciuti”? In vita, magari?» provò lui titubante, facendo forza sulla gamba piegata per potersi finalmente alzare da terra.
La stanza però decise di mettersi a girare proprio in quel momento e no, la verità? Cade stava abbastanza bene anche lì seduto, alzarsi in piedi e fronteggiare una persona faccia a faccia era sopravvalutato, il pavimento era decisamente un ottimo posto dove rimanere mentre si aspetta che passi la nausea.
La vecchietta lo osservò con attenzione, ma non cercò di aiutarlo, mettendosi solo a ridacchiare della sua faccia pallida e leggermente verdastra.
Scosse il capo e si girò per prendere una sedia, lasciando a Cade il tempo di guardarsi finalmente intorno con più attenzione e rendersi conto d’esser finito in quella che aveva tutta l’aria di essere la camera principale di una vecchia casa, con un tavolo rotondo, quattro sedie ed un paio di mobili di buona fattura ma poveri. Una stufa a legna accostata alla parete, vicino ad un piano con una tinozza e dei piatti impilati dentro. C’era una vecchia pentola di peltro annerita vicino alla stufa, ma era poggiata a terra, vuota come la pancia di metallo del vecchio ammasso di ferraia. 
 
Serio? Io vengo fino al tempio di mio padre e questo stronzo mi fa entrare nel salone di casa mia?
 
Batté le palpebre colpito dal suo stesso pensiero.
Somigliava davvero a casa sua, alla vecchia casetta che aveva condiviso con la sua famiglia e tutti i suoi amici. Con il pavimento di legno macchiato dall’umidità e dalle mille impronte di scarpe sporche di fango che lo calpestavano ogni giorno a tutte le ore.
Il rumore che fece la sedia quando la signora la posizionò davanti a lui, accomodandosi senza fretta, lo riportò alla realtà.
 
Se quella che sto vivendo si possa definire tale.
 
«Ci conosciamo piuttosto bene, a dire il vero.» iniziò la donna sfregandosi le mani.
«Davvero?» chiese conferma Cade sedendosi a gambe incrociate.
Lei annuì. «Oh, sì, ci siamo conosciuti per tutta la vita, breve certo, ma non è passato un giorno che non fossimo insieme, anche solo per pochi minuti.»
Cade aggrottò le sopracciglia.
«Me la ricordavo diversa la figlia del panettiere. Ma in effetti ti ricordavo giovane.» ammise stringendosi nelle spalle.
La donna scoppiò a ridere, una risata acuta ma arrochita dall’età.
«Non sono la figlia del panettiere, razza di idiota!»
«Del fabbro?»
«Ag dia! Vedi di impegnarti e smetterla di tirare ad indovinare!» insistette lei continuando a ridere.
Fu inevitabile per Cade ritrovarsi anche lui a ridacchiare, cercando altre possibili risposte stupide da rifilarle. Sperava anche che parlasse di nuovo in irlandese, era da decenni che non sentiva più nessuno parlare la sua cara, vecchia ed amata lingua.
«Beh, in effetti la figlia del fabbro era quasi il doppio di te, anche se mi dicono che la vecchiaia dimagrisce.» ammiccò divertito. «Oh cavolo! Ti prego, non dirmi che abbiamo avuto una storia e che sei qui per dirmi che in realtà ho un figlio!» esclamò poi drammatico portando una mano alla fronte.
In effetti quella era una possibilità che poche volte si era concesso di ipotizzare, ma sperava veramente che non fosse così: aveva già avuto lui un padre assente, non avrebbe mai voluto che altri passassero le stesse difficoltà per colpa sua.
A quell’ultima affermazione la donna storse la bocca in un’espressione quasi schifata.

«Dia na bac, dearthair, non mi ci far neanche pensare.» scosse il capo.
Cade rimase incantato a fissarla, il suono di quelle parole gli sembrava così spigoloso, eppure così gentile, così bello. Era il suono di casa, era le voci dei suoi compagni che lo chiamavano per le strade, lungo i canali, al porto.
Dearthair… aveva usato quella parola solo poco prima con Jonas, non la pronunciava da secoli. Com’era curioso il tempo, anni passati senza pronunciare mai un appellativo e poi quello riusciva fuori puntuale non appena provava a dirlo ad alta voce.
Ma se la donna l’aveva chiamato “fratello”, allora le sue supposizioni erano esatte, doveva essere una dei suoi Liberty Birds.
Ma chi diavolo era?
«Eri dei Liberty.» disse solo, senza aggiungere altro.
Lei annuì, poi scosse il capo. «Non proprio. Sì, ma no. Non mi hai mai permesso di entrare davvero a far parte della banda, a prendere parte alle vostre piccole missioni esplorative.»
Diceva di non esserne stata parte ma conosceva perfettamente il gergo, le parole che usavano per parlare liberamente dei loro furti senza esser scoperti al primo colpo.
«Ti do un indizio, ci stai?»
Cade annuì confuso.
«L’ultima volta che ci siamo visti mi hai dato un bacio sulla fronte, dicendomi che sarebbe andato tutto bene, che dovevo solo rimanere al sicuro e voi avreste pensato a cacciare gli inglesi e a liberare Dublino.»
L’espressione sul suo volto dovette cambiare in modo repentino, perché il sorriso soddisfatto e divertito della donna si ammorbidì d’improvviso, osservandolo con gli occhi socchiusi come se cercasse di mettere ben a fuoco tutti i tratti del suo viso.
«Sì, sei proprio come mi ti ricordavo, dearthair. Sono felice che anche la morte non sia riuscita a portarti via quel sorriso furbesco e quegli occhi scintillanti.»
Allungò una mano verso di lui, piegandosi in avanti e poggiando il gomito sul ginocchio.
Come in trance, Cade imitò il gesto stringendo la mano che gli veniva porta.
Era morbida, non tanto per la consistenza della pelle quanto per quella dei muscoli sottostanti. Piccoli graffi, cicatrici di una vita passata e calli consunti rendevano l’epidermide un tessuto resistente e spesso, ma neanche quelli potevano nascondere la fragilità e la rugosità della pelle anziana che si scolla dal muscolo.
Osservò quella mano, le unghie corte, le macchie, il segno di un anello che non portava più ma che doveva aver portato per tutta la vita.
 
Almeno settant’anni. È arrivata almeno a settant’anni.
 
«Quanti- quanti anni hai?» chiese con voce tremante, senza staccare gli occhi dalle loro mani giunte.
Le sue erano così giovani, elastiche, consistenti.
Non sarebbero dovute essere così, Cade non avrebbe dovuto avere le mani di un giovane uomo mentre lei quelle di una persona anziana.
Non era giusto.
 
Sarei dovuto invecchiare molto prima di te.
Sarei dovuto invecchiare assieme a te.
 
«Ben ottantuno. Sono vissuta per parecchio tempo, abbastanza da diventare bisnonna, sai? Ero la più vecchia del mio paese.» affermò con orgoglio.
Cade annuì, riuscì solo a fare quello in un primo momento.
Ottantuno era un buon numero, era una vita lunga, con dei figli, dei nipoti e anche bisnipoti. Significava un marito, una famiglia.
 
Non ti ho lasciata sola, alla fine.
 
«Bene. È una bella cosa.» mormorò.
La donna sorrise tristemente, allungando anche l’altra mano per poter carezzare con gentilezza ed un pizzico di tremore il viso pallido del semidio.
«Sei stato coraggioso, lo sai? Un vero grifone. Mi sei mancato tanto, ma sono sempre stata fiera di te. Anche mamma lo era.»
Cade strinse le labbra, deglutendo a vuoto un paio di volte nel tentativo di trattenere quelli che, ne era certo, sarebbero presto diventati singhiozzi impossibili da arginare.
«Cos’è successo poi? No- non com’è andata, com’è stato per voi.»
«Oh, non ti dirò che è stata una passeggiata e che la nostra vita è stata fantastica.» disse sincera, «Abbiamo affrontato un bel po’ di difficoltà, la rivolta non è finita bene, molti sono stati arrestati e giustiziati, la gente non ha apprezzato. C’è stata poi la grande guerra, quella d’indipendenza. Non abbiamo avuto pace, le contee non erano concordi e dopo aver lottato tanto per la nostra libertà ci siamo ancora divisi, è scoppiata la guerra civile, non so dirti se ti sarebbero piaciuti o meno gli individui che si opposero, forse sì… E vent’anni dopo la grande guerra ne scoppiò un’altra, più rovinosa, più cruenta.»
Anche lei serrò le labbra in un’espressione speculare a quella del giovane, così simili eppure così diversi. Erano cresciuti assieme per meno di vent’anni, eppure avevano dei modi di fare quasi identici.
Cade non disse nulla, rimase in attesa che la donna – che sua sorella – trovasse il coraggio o anche solo la forza di rivivere quello che a detta di Nathan era stato il periodo più oscuro dell’ultimo secolo.
«Siamo rimasti per lo più neutrali durante il conflitto, anche se molti si sono uniti all’esercito britannico pur di andare a combattere, ma comunque non siamo riusciti ad evitare i bombardamenti nazisti. Siamo stati fortunati però, il resto d’Europa non lo è stato, Londra è stata spesso presa di mira, pensa che volevano far evacuare la famiglia reale ma la regina si è rifiutata, mh, quella donna aveva polso.  
Mamma è morta nel ’36, io all’ora ero sposata da appena un paio d’anni, con Sean. Ti sarebbe piaciuto, era un uomo gentile e molto timido, sua sorella diceva che solo una come me poteva prenderselo. Era un brav’uomo, era nella marina mercantile, ho rischiato di perderlo un paio di volte durante la guerra ma alla fine è sempre tornato a casa, grazie ad un po’ di sana-»
«Fortuna irlandese.» concluse per lei.
La donna gli sorrise. «Sì, grazie alla fortuna irlandese. Ne abbiamo sempre avuta tanta in famiglia, vero?»
«Non abbastanza a quanto pare, devi esserti presa anche la mia, Annie.»
Sua sorella ridacchiò, ma gli occhi lucidi gli fecero capire quanto quella fosse solo una facciata, come stesse trattenendo tutte quelle emozioni più scomode, solo per poter parlare tranquillamente con lui.
 
Cose se avessimo tutto il tempo del mondo. Tutto il tempo che in realtà non abbiamo ora e non abbiamo mai avuto prima.
 
«Sei stata felice? Mamma- mamma è morta felice?»
Anne annuì. «Vecchiaia e stanchezza, non potevamo chiedere di più. È stata debole per un paio di settimane, si stancava facilmente, un pomeriggio si è distesa per riposare e non si è più svegliata.»
«Bene.» disse solo Cade rigido. Non era quello che aveva chiesto, voleva sapere se Eilin avesse vissuto una vita, non semplice, ma quanto meno felice anche dopo che lui le aveva abbandonate. Ma sua sorella sembrava non voler aggiungere altro, così lasciò passare. «Te?»
«Come sono morta dici?» gli chiese divertita.
Il fratello scosse il capo. «No, se sei stata felice.»
Anne lo guardò per un attimo in silenzio, valutando con attenzione le parole da usare. Alla fine annuì.
«Sì. Sì, Cade, sono stata felice. Ho fatto una bella vita per quanto gli eventi del ventesimo secolo siano stati quelli che sono stati. Ma ho trovato Sean, ho avuto cinque figli e quattrodici nipoti, sono morta che il mio primo bisnipote aveva sette anni ed il quinto era appena nato. Mi sono trasferita fuori Dublino quando i ragazzi se ne sono andati tutti di casa e ho vissuto in uno di quei paesini che piacevano tanto a mamma, te li ricordi? Quelli dove avrebbe sempre voluto vivere anche lei.»
«Quelli dove solo i ricci o i contadini potevano vivere.» mormorò al vago ricordo di racconti sbiaditi, della voce annacquata di sua madre, immersa in memorie inquiete e ondeggianti come le acque del porto di Dublino.
«Beh, i tempi sono cambiati, c’è stato il boom economico, sai? Ci siamo potuti permettere una bella casetta, con i risparmi di una vita e con la pensione di Sean. Ti sarebbe piaciuto vivere lì, quel posto mi ricordava tanto te.»
Cade chiuse gli occhi, cercando di immaginare una Anne adulta, circondata da figli, da nipoti, in una tipica villetta di campagna, tra le colline dolci e fruscianti.
«Perché?»
«C’erano prati sconfinati, verdi e brillanti come ricordavo fossero i tuoi occhi, come quelli di mamma. E poi-» s’interruppe, prese fiato come se si apprestasse a dire qualcosa che avrebbe sicuramente colpito il fratello, più di quanto non l’avesse fatto sapere che sua sorella si era ritirata tra colline dello stesso colore dei suoi occhi. «-era pieno di stormi Puffin. Facevano il nido sulle scogliere lì vicino e volavano cavalcando le correnti che venivano dall’oceano, che si tuffavano a picco oltre le coste.»

Uno stormo che vola libero tra le correnti.
 
«Molti hanno combattuto. Per l’indipendenza, per la patria, per chi non poteva farlo.»
 
Non c’era bisogno che le chiedesse a chi si stesse riferendo, non c’era bisogno che lei gli spiegasse a cosa si riferisse e Cade, forse codardo come non lo era mai stato in vita sua, decise di non domandare oltre.
Strinse di più gli occhi, arresosi alle lacrime che non riusciva a trattenere, al dolore sordo che gli batteva in petto, alla consapevolezza che non avesse lasciato solo la sua famiglia di sangue ma anche quella d’elezione ad affrontare il mondo da sola, senza di lui, senza che Cade potesse guardare loro le spalle, potesse proteggerli, potesse sostenerli, potesse prendersi quel colpo mortale per loro.
«Perdonami.» mormorò a mala pena, cercando di piangere silenziosamente, di non lasciare che le lacrime intaccassero la sua voce.
«Oh, dearthair, non dirlo neanche per scherzo.»
Anne si alzò dalla sedia, inginocchiandosi con cautela vicino al fratello per poterlo abbracciare in una stretta materna che Cade non avrebbe mai pensato di poter provare più.
Si lasciò scappare un singhiozzo, una risata lacrimosa che fece ridacchiare anche la donna quando fu seguita da un rumoroso tirar su del naso.
I due fratelli stettero così per quelle che sarebbero potute essere ore, mentre Cade si ripeteva quanto quella situazione fosse sbagliata più ancor che ingiusta, perché sarebbe dovuto essere lui l’adulto, lui avrebbe dovuto confortare la sua sorellina, non in contrario. Sarebbero dovuti crescere assieme, avrebbe dovuto rimanere al fianco dei suoi Liberty e affrontare le rivolte, le guerre civili, quelle mondiali. Avrebbe dovuto assistere sua madre nella vecchiaia, avrebbe dovuto conoscere questo Sean che si era invaghito di sua sorella sino a chiederle di sposarlo. L’avrebbe dovuta accompagnare all’altare e avrebbe dovuto vedere i suoi figli. Avrebbero dovuto seppellire Eilin assieme, forti nel loro dolore, sarebbero dovuti invecchiare insieme e poi, un giorno, Anne avrebbe seppellito anche lui, ma con la sua famiglia vicino a sostenerla.
Non sarebbe dovuta andare così, non sarebbe dovuto morire così.
«Avrei dovuto resistere.» disse a bassa voce.
Anne fece un verso scettico. «Intendi con un pugnale nella schiena spinto sino a bucarti il petto? Certo dearthair, saresti proprio dovuto sopravvivere ad una pugnalata del genere, che mezza calzetta che sei.»
Cade rise, di gusto, voltando il viso verso la spalla della sorella e strofinandosi via le lacrime dalle guance.
«Dovevo stare più attento.»
«Hai fatto quello che ritenevi giusto. E poi sono sicura che se non fossi morto quel giorno ti saresti fatto ammazzare alla guerra successiva. Non saresti mai rimasto a casa ad aspettare, saresti sceso in strada a combattere e ti saresti buttato tra uno dei ragazzi ed il fucile di qualche soldato. Dio, te li saresti andati a cercare, i tedeschi.»
«Sai che ho un amico tedesco?» disse lui sciogliendo l’abbraccio e tirandosi a sedere. «Un ragazzino di sedici anni a mala pena. Quando è morto c’era già il governo- come lo hai chiamato, quello della guerra.»
«Nazista? Era ebreo per caso? Morto così giovane…»
«No, non credo. E poi non lo hanno ucciso, si è suicidato.» ammise piano.
L’espressione sul volto di Anne si fece dura. «Quei bastardi hanno reso un inferno la vita della loro stessa gente, non stento a credere che un ragazzino si sia fatto prendere dalla disperazione e si sia suicidato.»
«Lo hanno sbattuto nei Campi di Pena per questo.»
Anne annuì. «A meno che tu non ti uccida per salvare qualcuno il suicidio rimane sempre un peccato.»
«Lo sai che questo è l’inferno degli Dei Greci, si?»
La donna rise. «Oh Cade, questo è l’inferno di tutti L’unica differenza dalla Bibbia è che il paradiso non è in cielo e che anche da morti dobbiamo rimanere su questa terra.» gli sistemò i capelli con un gesto amorevole e poi lo guardò dritto negli occhi, con serietà. «Sai che non ti chiederò di rinunciare, vero?»
Lui le sorrise. «Lo davo per scontato. Ne sarei rimasto davvero deluso se no.»
«Bravo. Non hai mai mollato in vita, Cade, non ti azzardare a farlo ora. Non ci siamo più io e mamma su, ma c’è la nostra famiglia, quella che non hai mai conosciuto ma che invece conosce te, fin troppo bene, anche il tuo “piccolo segreto”.»
Cade la guardò sorpreso. «Sanno che sono un semidio? E ti hanno creduta?»
Lei fece un gesto vago con la mano. «Che la vedano come magia o come un potere semidivino non ha importanza. Ho sempre detto loro che eri speciale, che il vento rispondeva ad ogni tuo comando. Gli ho raccontato storie della buona notte sul loro zio, che volava nei cieli irlandesi, e che loro ci credano ancora o meno, quando ti rivedranno e dimostrerai loro che non mi sono mai inventata nulla vedrai che ti accoglieranno a braccia aperte.
Oh, e ti crederà soprattutto il mio quartogenito, ho avuto tre figlie prima di lui, quindi mi perdonerai se non è la prima ad avere il tuo nome.» disse poi ammiccando.
A quelle parole Cade scoppiò a ridere, felice, leggero, come non lo era da un po’.
Guardò sua sorella tra le risa e tirò ancora su con il naso.
«Ho paura di non farcela, Annie. Mi perdoneresti lo stesso?»
Lei gli posò un’ennesima carezza sul capo, sorridendo materna. «Se non dovessi farcela a vincere, rinasci. Non importa in quale forma, non importa con quali memorie, siamo fratelli, ci troveremo di nuovo.»
A quelle parole Cade non seppe rispondere, all’affetto che trapelava anche solo dallo sguardo sempre più vispo e colorato della donna che, lentamente, tornò ad essere la ragazzina di undici anni che Cade aveva lasciato in casa quella lontana mattina di Aprile.
La Anne bambina gli sorrise radiosa, più bella di quanto Cade non la ricordasse.
Si mise in piedi con un balzo agile, spolverandosi la gonna di panno, e chinandosi in avanti prese il volto del fratello tra le mani e gli posò un bacio sulla fronte, proprio come aveva fatto lui anni prima.
 
«Vai e vinci, dearthair, io ti aspetterò dall’altra parte. E ricorda che qualunque cosa succeda, sarò sempre fiera di te.»
 
Una leggera brezza iniziò a tirare nella stanza, dolce e profumata come l’aria che si respirava per le valli irlandesi, tra le colline verdi smeraldo, vicino alle coste che si tuffavano a strapiombo nelle fredde acque dell’oceano.
Gli scompigliava i capelli, gli carezzava la pelle e gli ricordava per cosa era vissuto, per cosa aveva combattuto, per cosa era morto.
La luce nella stanza crebbe assieme al vento, cancellando le pareti ed illuminando un cielo limpido ed infinito.
Sotto le sue mani Cade poté sentire i fili d’erba pizzicargli i palmi e non appena provò ad abbassare lo sguardo per sincerarsi che fosse effettivamente erba quella che sentiva, un enorme stormo di Puffin sfrecciò attorno a lui, aggirandolo con la precisone che solo gli uccelli potevano avere, volando vicini senza mai scontrarsi.
Senza fiato Cade osservò le scogliere d’Irlanda, i suoi prati sterminati, gli stormi che si libravano nei cieli ventosi.
Anne gli sorrise felice da una vita remota che non avrebbero più potuto recuperare.

«Eitilt ard, eitilt saor.»
 
I Puffin volteggiarono in aria e poi si rituffarono verso il suolo, investendo la figura ormai evanescente di sua sorella e puntando dritti verso di lui.
Cade sorrise mesto, alzando il volto al cielo e chiudendo gli occhi, godendosi forse per l’ultima volta il vento della sua amata Irlanda.
 
Quando lo stormo lo colpì il semidio riaprì gli occhi, ritrovandosi seduto sul marmo grigio della stanza spoglia in cui le correnti lo avevano trascinato.
Non c’era traccia del vecchio mobilio della sua casa a Dublino, ne ve n’era di sua sorella, ma questo Cade già lo sapeva.
Si alzò incerto sulle gambe tramanti, drizzando la schiena e sistemandosi la giacca.
Passò con delicatezza i polpastrelli sul risvolto dipinto, ormai crepato e sbiadito, poggiandoci sopra la mano aperta.
Era finita. La prova era finita.
Uscì con calma dalla stanza, attento a possibili nuove correnti. I disegni sulla carta da parati erano di nuovo al loro posto, le porte sempre nella stessa posizione, ma questa volta, alla fine del corridoio, che sembrava molto di più corto di prima, la porta di ferro era spalancata.
Non si avvicinò troppo, non entrò nella sala del trono, da quella distanza Cade poteva benissimo vedere il focolare ardere, scoppiettando allegro e tremolante, come se una leggera corrente d’aria lo alimentasse.
Rimase per un momento a fissarlo, domandandosi se non dovesse andare lì, magari incontrare suo padre e parlare con lui per la prima volta in tutta la sua esistenza.
Fu però un pensiero passeggero, il fuoco continuava a muoversi sinuoso, non sembrava volesse spegnersi, non sembrava neanche che lo stesse aspettando, se aveva senso come cosa. Evidentemente, si disse, anche in quell’occasione Eolo non aveva tempo da perdere per i suoi figli.
Ma era giusto così, Cade non aveva mai avuto bisogno di lui in vita e non ne aveva neanche nella morte.
Annuì solo, come un cenno di saluto rivolto più al braciere che al dio a cui apparteneva.
Poi si girò e senza guardarsi indietro, uscì dal tempio di Eolo.
La sua missione si era conclusa con successo.
 
Quando le porte si aprirono e Cade riuscì alla luce crepuscolare dell’Ade ne rimase quasi accecato per un attimo, solo un secondo, prima che una brezza leggera gli scompigliasse i capelli e lo sospingesse gentilmente oltre la soglia, poggiandosi tra le sue scapole sporgenti, come ali invisibili che s’aprivano al vento.
 
«CADE!»
 
La voce acuta e allegra di Jonas lo riportò alla realtà, la luce che s’abbatteva nei suoi occhi s’affievolì e Cade poté vedere chiaramente i suoi amici, tutti fermi ad aspettarlo, i volti felici, soddisfatti, orgogliosi.



Fieri dearthair.
 
Fieri, fratello.
 
 
Li guardò senza riuscire a trattenere il sorriso.
Sì, anche lui era fiero.
 
 
Vola alto, vola libero.
 
 
Cade aveva tutta l’intenzione di mantenere la promessa.











  
 
 
*








 
 
 
La terra brulla era fredda e granulosa, morbida e franosa sotto i suoi piedi, sotto le suole delle scarpette di cuoio bruno i cui lacci erano ormai diventati marroni.
Correva a perdifiato, più veloce che poteva, gettando di tanto in tanto occhiate ansiose alle sue spalle. Il fermaglio che le reggeva i capelli si era sposato, ora saltellava sulla sua schiena, ancora ostinatamente ancorato ad una spessa ciocca di capelli scuri. Le andavano in bocca ogni volta che si girava, ogni volta che, a labbra socchiuse, ansimava aspirando l’aria tra i denti serrati per lo sforzo.
Doveva solo continuare a correre il più velocemente possibile, arrivare alla chiesa ed infilarvisi veloce dentro, sperando che Don Franco non si fosse scordato di aprire le porte come capitava da un po’ d’anni a quella parte.
Strinse i pugni alla gonna verdastra e la tirò verso di sé, cercando maggiore mobilità nella corsa, sperando che non ci fosse nessuno per i campi, che se l’avessero vista così malmessa, con la gonna tirata sopra le ginocchia, i capelli scompigliati ed il fiato corto, sarebbero andati subito a dirlo a sua madre, a dire ad  Ada che la sua figliola correva come un diavolo per i campi smossi per la semina, chiedendole pure se non fosse che il sor Giovanni si fosse di nuovo fatto prendere i cinque minuti e non avesse messo le mani addosso pure alla ragazzina.
Non sarebbe stata la prima volta che qualcuno dei suoi vicini la vedeva con uno zigomo gonfio o con un occhio nero, non sarebbe stata una sorpresa per nessuno.
Ma quella volta non era dalla rabbia di suo padre che Clara stava scappando, quanto più da una strana bestia che sembrava in tutto e per tutto un cinghiale, se non fosse stato per la sua stazza sproporzionata.
Clara non aveva mai visto un cinghiale così grande e soprattutto non aveva mai dovuto scappare per evitare che l’animale l’attaccasse. Era assurdo poi che ve ne fosse uno, in pieno giorno, tra le vigne romane, in un luogo aperto, dove non si sarebbe potuto nascondere o fare una tana.
Certo era che, date le sue dimensioni, nascondersi era l’ultimo dei suoi problemi.
Il rumore dei suoi zoccoli era attutito dalla terra morbida, ma il terreno tremava sotto il peso della bestia ed i suoi grugniti sembravano sempre più vicini.
La ragazzina si girò di nuovo, cercando di scorgere l’animale senza smettere di correre, ma tra i capelli e la foga di non inciampare non riusciva a vedere nulla.
Era impossibile che quell’essere riuscisse a nascondersi tra i pali delle viti, era gigantesco, sembrava un’ambulanza e lei aveva una vista fin troppo buona per il suo stesso bene, come poteva non vederlo?
La risposta arrivò ben presto quando un grugnito più ravvicinato ed uno spostamento d’aria le giunsero alla sua destra.
Per tutta la vita le era sempre stato rinfacciato come fosse costantemente all’erta, come un gatto forastico, pronta a balzare al minimo suono, al minimo movimento. Era inquieta, ferma immobile con gli occhi spalancati a fissare qualcosa o qualcuno, in attesa di un passo falso, di un movimento troppo repentino. Sua madre cercava sempre inutilmente di mascherare la cosa, Clara aveva semplicemente dei buoni riflessi, era solo molto attenta, una bambina con una buona disciplina, pronta ad intervenire ed agire ogni qual volta Ada la chiamasse in aiuto per qualunque tipo di servizio.
Era suo padre a storcere il naso, a dire quanto mettesse a disagio la gente, il suo comportamento. Forse perché metteva a disagio lui, che non poteva farle nulla a meno che prima non l’afferrasse e riuscisse ad immobilizzarla. Quante volte i suoi ceffoni erano andati a vuoto, per colpa dei riflessi felini di Clara.
Ma in quel momento, i tanto odiati riflessi da gatto forastico, furono l’unica cosa che le permise di muoversi in automatico e schiavare per un soffio il gigantesco cinghiale che l’aveva caricata.
Si buttò a terra, rotolando tra la torba, fermandosi solo grazie ad uno dei tanti paletti di cemento su cui i contadini facevano arrampicare le viti. Lo colpì con il fianco, togliendole per un attimo il respiro e lasciandola a fissare il cielo terso, le nuvole bianche dai bordi sbiaditi.
Sembrava tutto così tranquillo, tutto così bello, come una cartolina, come un sogno. Il raggi del sole cadevano come fasci sulla terra e persino un arcobaleno sbiadito si intravedeva tra i riflessi.
Era uno dei suoi scenari preferiti, uno di quei momenti che rubava alle varie commissioni e ai lavori di casa e dei campi, quando suo padre dormiva chiuso in camera e sua madre si concedeva qualche minuto di leggero dormiveglia sulla sedia della cucina, il vestiti da lavoro di Giovanni da rammendare in grembo e la testa reclinata verso la spalla. Quei rari momenti in cui nessuno si interessava a lei e Clara poteva sdraiarsi sulle mattonelle storte del balcone e fissare il cielo in santa pace. Esistere e nulla più.
Quale beffa le faceva il mondo, pensò mentre si costrinse a tirarsi in ginocchio e cercare con lo sguardo il cinghiale.
La bestia si stava rialzando a sua volta, sgrullando il buso dalla terra contro cui si era schiantato.
Clara non aspettò che si riprendesse, si mise in piedi e ricominciò a correre verso la chiesa, non preoccupandosi dei suoi vestiti sporchi, del fermaglio perduto e dei capelli in bocca. Doveva solo correre e farlo più velocemente del cinghiale che si era voltato nella sua direzione e aveva tirato un grugnito acuto e penetrante che le fece premere con forza le mani sulle orecchie.
Cosa diamine era quel suono? Come poteva una bestia del genere fare un verso simile?
Incespicò tra le zolle di terra, tirandosi di nuovo su la gonna, ormai indifferente alla possibilità che qualcuno la vedesse, men che meno che corresse in suo aiuto.
Non appena ebbe formulato quel pensiero qualcosa di duro e pensate le batté contro la gamba, dalla tasca della gonna.
Clara abbassò lo sguardo senza capire, infilando la mano nella tasca e rimanendo quasi congelata quando si rese conto di cosa fosse.
Lo stupore l’aveva fatta rallentare, ma la ragazzina neanche se ne rese conto mentre estraeva dalla tasca il coltellino a serramanico che una strana donna le aveva regalato un paio d’anni prima.
Quel coltellino non avrebbe potuto mai uccidere una bestia di quelle dimensioni, Clara ne era sicura, ma lo strinse comunque a sé quando dovette buttarsi di nuovo a terra per schivare l’ennesimo attacco del cinghiale.
Si rimise in piedi in fretta, cercando nuovamente la fuga, ma l’animale fu ugualmente veloce e Clara si ritrovò ferma, immobile, a fissare gli occhi scuri e lucidi del cinghiale.
Doveva andare a sinistra, ma forse avrebbe potuto fare una finta verso destra, in modo da guadagnare anche solo pochi preziosi secondi di vantaggio.
Deglutendo e muovendosi con lentezza Clara afferrò di nuovo il bordo della gonna, tirandolo sopra le ginocchia graffiate, sporche di terra e sangue, mentre con la mano sinistra stringeva saldamente il coltellino.
L’animale la fissava come se sapesse già la sua prossima mossa e prima che la ragazza potesse decidere di muoversi il cinghiale le si lanciò contro a testa bassa.
Fu un riflesso involontario, qualcosa che Clara stessa non avrebbe saputo spiegare e che altri invece fecero per lei.
Con un gesto secco fece scattare il coltellino e lo portò davanti al viso, per difendersi.
Il suono che ne derivò fu quello metallico di due oggetti duri che si scontrano tra di loro.
Clara finì a gambe all’aria, la forza dell’impatto l’aveva sbalzata indietro ma non le aveva tolto il pesante coltellino dalla mano.
O almeno quello che sarebbe dovuto essere un coltellino, che era diventato improvvisamente più pesante.
 
Pesante?
 
Facendo forza sulle braccia Clara si sollevò, rimanendo però scioccata nel fissare l’oggetto che stringeva nella mano sinistra.
L’impugnatura di legno aveva lasciato il posto ad un’impugnatura di cuoio marrone, lucido e resistente, che si avvolgeva attorno ad un’elsa d’oro massiccio. Così come d’oro era la lunga lama a doppio filo che scintillava sotto il sole di Maggio, tanto lucida da potercisi specchiare dentro. E fu proprio nel riflesso della lama che Clara vide un movimento repentino alla sua destra, prima di sentire una voce chiara e forte gridarle qualcosa.
 
«Unten bleiben!»
 
Clara non aveva la più pallida idea di cosa significasse, ma intuì che dovesse essere un comando per rimanere ferma, soprattutto quando uno strano sfrigorio si dilatò per la vigna.
Si volse in tempo per vedere la figura di un ragazzo sfrecciare veloce verso il muso del cinghiale, il corpo proteso in avanti e due strani oggetti nelle mani che la sua mente non riuscì ad indentificare. O forse, non voleva accettare d’aver identificato. Perché per quanto fosse un pensiero assurdo, qualcosa di impossibile, Clara vedeva chiaramente due spade argentee percorse da scariche elettriche, come fulmini bluastri.
Ma non era possibile, quel ragazzo non poteva avere due spade e queste non potevano avere dei fulmini addosso.
Così come il suo coltellino non poteva essere diventato una spada d’oro lunga più della sua gamba.
Le ronzavano le orecchie, le sembrava quasi che il mondo stesse andando più lento- cosa diamine stava succedendo?
Guardò immobile, a rallentatore, il ragazzo portare entrambe le spade alla sua sinistra e menare due lunghi fendenti sul muso del cinghiale, ferendolo rovinosamente e facendolo indietreggiare irato.
Com’era possibile? Buon Dio, cosa stava succedendo? Era forse impazzita? Sarebbe finita in un sanatorio e lasciata lì a marcire per tutto il resto della sua vita come i bambini della sua vecchia scuola le ripetevano sempre?
Non riuscì a capire le immagini che le si susseguivano davanti agli occhi, ma ciò che poteva sapere con certezza era che quel ragazzo, per quanto armato ed estremamente veloce, non avrebbe mai potuto uccidere quel mostro da solo.
Dovevano andarsene e dovevano farlo anche in fretta.
Clara si alzò barcollante, la spada d’oro sempre stretta in pungo, i capelli davanti agli occhi, attaccati al volto sudato.
Avanzò qualche passo infermo e poi si scosse, costringendosi a riprendere presa sulla realtà a muoversi. Digrignò i denti per evitare che battessero dalla paura e corse incontro al ragazzo, appena in tempo per afferrarlo per un braccio e scansarlo, prima che il cinghiale lo colpisse con una delle sue zanne.
 
«Dobbiamo scappare!» gli gridò continuando a tirarlo, lo sguardo che saltava dal volto del ragazzo alla bestia sempre più infuriata.
Il giovane però la guardò senza capirla.
«Ich verstehe dich nitch! Ghe! Rette dich selbst!»
Clara si lasciò sfuggire un grido frustrato. «Non so cosa stai dicendo, ma ce ne dobbiamo andà! Quello c’ammazza!»
«Ich kann nicht mitkommen! Geh, ghe!» insistette lui strattonando il braccio per liberarsi, dandole poi subito le spalle e facendole scudo con il suo corpo.
Portò entrambe le spade davanti a sé e rimase fermo, in posizione, in attesa di cosa, Clara non lo sapeva.
Fece scorrere febbrilmente lo sguardo dal ragazzino all’animale, afferrando di nuovo il braccio del primo e facendoglisi più vicina. Con un leggero tremore tirò lentamente su la sua spada, allungandola vicino a quella argentea dell’altro.
Non poté vederlo ma il ragazzo gettò uno sguardo sconcertato alla spada d’oro, cercando di non farsi distrarre troppo e di mantenere tutta la sua attenzione sul mostro.
Rimasero fermi per poco, però, prima che la bestia decidesse di attaccarli di nuovo e Clara li tirasse entrambi fuori dalla sua traiettoria.
Riuscirono a mantenere l’equilibro e Clara tirò ancora e ancora il ragazzo verso la direzione della chiesa, urlandogli di muoversi, che dovevano andare e-
Si bloccò.
Davanti a lei, che si avvicinava lentamente, con il muso basso e gli occhi color ghiaccio puntati nella sua direzione, c’era il lupo più grande che avesse mai visto.
Doveva essere più del doppio delle dimensioni normali, era più alto di un cavallo, e Clara non dubitava che, se fosse stato possibile, anche lui sarebbe stato un’ottima cavalcatura.
Il lupo sembrava incredibilmente fuori posto, molto più del cinghiale gigante, molto più della sua spada d’oro e solo un più delle spade con i fulmini. Il pelo grigio brillava come il metallo lucido e sembrava quasi assorbire la luce del giorno.
Si accorse solo in quel momento che il cielo si era annuvolato, che il sole era scomparso dietro le nubi che ora gettavano ombre tenui sulla terra brulla.
Il ringhio basso che si levò in un crescendo costante la fece indietreggiare sino a sbattere contro il ragazzo. Avrebbe voluto voltarsi e parlargli, dirgli che ora sì che erano morti, ma tutto ciò che riuscì a fare fu alzare leggermente la spada, indicando il lupo.
Lo aveva visto? O era ancora girato a guardare il cinghiale?
Poi un altro ringhio. Ed un altro. E un altro ancora.
Clara mosse solo gli occhi, scorgendo al limitare del suo campo visivo altri lupi dal pelo marrone e nero, più piccoli di quello davanti a lei ma ugualmente fuori misura rispetto ai lupi che di tanto in tanto scendevano dai castelli per avventurarsi da quelle parti.
Non riuscì a capire quanti erano, non osò dare le spalle al lupo gigante per capire che fine avesse fatto il cinghiale, ma capì invece perfettamente quando la bestia si accucciò a terra, pronta a balzare in avanti.
Doveva averlo capito anche il ragazzo, perché l’afferrò per le spalle e la spinse a terra, facendole nascondere la faccia contro il suo petto e stringendola a sé, coprendole la testa con un braccio.
Clara chiuse gli occhi, la mano destra serrata alla maglia del ragazzo, poi li riaprì, spalancandoli a fissare, senza vederlo davvero, il filato del tessuto.
I rumori che le giunsero alle orecchie furono quelli di una lotta, di una caccia. Il grugnito del cinghiale era alto e acuto ma i ringhi ed i latrati dei lupi erano numericamente sufficienti per coprirli e soffocarli.
Ogni suono cessò poi improvvisamente con un rumore curioso, insolito.
La cosa più simile che il suo cervello riuscì a proporle fu il suono di un sacco di farina mezzo pieno che cade a terra. Un… puff?
 
Quando anche lo strano rumore si fu dissolto il ragazzo alzò la testa, allentando poi la presa su di lei, prendendola questa volta gentilmente per i gomiti e guardandola con apprensione.
Non doveva avere più della sua età, si disse Clara, all’incirca quattordici, forse quindici anni. Sembrava un ragazzino molto in forma, come lo erano i figli dei contadini che aravano i campi con i padri, ma il suo portamento, la schiena dritta, le spalle aperte, la testa alta… lo facevano sembrare molto di più un ragazzo di buona famiglia, quasi un nobile.
Aveva un volto gentile, ma la morbidezza dell’infanzia stava lasciando posto alla mascella più definita, alla linea dritta della fronte, agli zigomi alti e taglienti che rendevano ancora più acuti gli occhi blu.
 
Blu come i fulmini delle spade.
 
I capelli neri erano tenuti in un codino basso da cui erano scappate alcune ciocche. Aveva dei graffi sul volto ed era sudato, malconcio.
Eppure Clara non riuscì a staccare gli occhi dai suoi.
Il ragazzo, d’altro canto, doveva avere lo stesso problema, perché la fissava sorpreso, le pupille dilatate, immobili nelle sue.
Clara deglutì, probabilmente non era abituato a vedere gli occhi di un gatto su una persona, probabilmente non sapeva che dirle visto che non parlavano la stessa lingua.
Un rumore di passi si avvicinò in sottofondo ed il ragazzo saltò sul posto, distogliendo lo sguardo e voltandosi verso la sua destra, dove il lupo grigio lo aspettava paziente, facendogli cenno con la testa di alzarsi, di seguirlo.
Il ragazzo annuì, rendendosi conto solo in quel momento di tenere ancora stretta la giovane davanti a sé. Lasciò immediatamente cadere le braccia, sorridendole un po’ imbarazzato, piegando la testa per chiederle scusa.
Si alzò spolverandosi i vestiti, poi le porse la mano e l’aiutò a tirarsi in piedi.
Era palese che volesse dirle qualcosa ma non sapesse come fare. Si girò così verso il lupo e parlò in una lingua che Clara non aveva mai sentito.
Con sua grande sorpresa il lupo annuì, voltando il muso verso gli altri lupi, il più grande dei quali rispose con un brontolio e si avvicinò a lei, che si ritrasse spaventata.
Fu il ragazzo a prenderla per il polso sinistro, la mano ancora occupata a stringere la spada d’oro, e sorriderle incoraggiante.
 
«Hab keine angst, sie werden dich um dich kummern. Sie warden dich nicht verletzen.» disse con voce gentile e come a volerla rassicurare allungò una mano per farla odorare al lupo, sorridendole incoraggiante quando quello non gli fece nulla.
«M-mi devo fidà?» chiese confusa.
Il ragazzino gli sorrise ancora, lasciandola andare. «Ich muss jetze los.» fece un passo indietro.
Dov’erano finite le spade? Quando le aveva tolte e dove le aveva messe?
Clara si guardò attorno, poi guardò lui, senza capire.
Il giovane si allontanò, indietreggiò fino al lupo grigio e, alla cieca, immerse il braccio nel pelo fitto dell’animale.

«Ich munsche lhnen viel gluck.»
«Cosa? Cosa vuol dire? Non ti capisco.» provò lei aggrottando le sopracciglia.
Lui rise, si volse quanto gli bastò per assicurare la presa al manto del lupo e con un gesto consumato gli salì in groppa, sorridendole un’ultima volta, con quegli occhi scintillanti ipnotici e luminosi.

«Du hast schone augen.» mormorò in fine in un soffio.
 
Doveva essere probabilmente un qualche tipo di comando perché subito dopo il lupo balzò in avanti e scomparve tra le ombre dei pali di cemento.
Clara rimase a fissare il vuoto senza sapere cosa fare, senza riuscire a capire, ancora una volta, cosa diamine avesse appena visto.
 
«Stai bene, ragazza?»

Si riscosse dalla sua stasi cercando con lo sguardo il proprietario di quella voce, ma oltre a lei non c’erano che i lupi in quella vigna.
Osservò il grande lupo marrone che le si era avvicinato, che la fissava dritta negli occhi, con il muso leggermente reclinato di lato.

«Hai bisogno di sederti? Ti senti male?»
 
Era il lupo. Era il lupo che le parlava, che parlava nella sua testa.
Forse stava davvero impazzendo.
Il lupo tirò su un labbro, scoprendo le zanne sporche di uno strano liquido dorato, esibendosi in quello che Clara, per non sapeva neanche lei quale assurda deduzione, interpretò come un sorriso.
 
«No, non stia impazzendo, anche se capisco che quanto accaduto debba averti scosso non poco. Per ora cerca solo di concentrarti sul tuo corpo, senti dolore?»

Clara scosse la testa, poi annuì.
Era indolenzita, certo, ma non credeva d’aver ferite più gravi di graffi sparsi e qualche contusione.
Oh, i suoi vestiti però erano rovinati.
«Mia madre si arrabbierà tantissimo.» disse con un filo di voce.
Il lupo scosse il capo.
«Non è nulla di cui ti debba preoccupare. Le tue vesti sono l’ultimo dei tuoi problemi. Sei stata fortunata che il ragazzo stesse cacciando il cinghiale e che noi fossimo già sulle tue tracce, una spada non è molto utile se non sai come usarla.»
Lei lo guardò senza sapere cosa dire, immobile e tremante al contempo, incapace di formulare un pensiero troppo complesso.
 
«Quarto, la ragazzina è sconvolta, dobbiamo portarla al tempio e farla riposare.» disse uno degli altri lupi.
«Sì, vai avanti tu Livio, avverti il branco che stiamo arrivando e che l’abbiamo trovata. Noi ti seguiremo con calma.»
Un lupo dal pelo marrone e bianco abbassò il capo in segno d’assenso e poi corse via, sparendo velocemente nella vigna come avevano fatto l’enorme lupo grigio e il ragazzo.
Quarto, o almeno credeva fosse quello il nome del lupo che le aveva parlato fino ad ora – il capobranco? Era forse il capobranco?- le diede un colpetto con il muso contro la mano che reggeva ancora la spada d’oro.
 
«Ritirala, rinfodera la spada, meglio attirare meno attenzione possibile.»
Clara guardò l’arma come se la vedesse per la prima volta, sorpresa di stringerla ancora saldamente. In un primo momento non riuscì neanche ad allentare la presa e quando ci riuscì cercò l’aiuto del lupo per capire cosa dovesse fare, spaesata.
Quarto sembrò capirla al volo, perché le diede un altro colpetto sull’impugnatura.
«Poggia la mano sul piatto della lama e spingi come se volessi chiuderla su sé stessa.»
La ragazzina eseguì incerta e magicamente la spada si richiuse su di sé, tornando ad essere il semplice coltellino che le aveva regalato la bella signora anni prima e che lei aveva usato fino a quel momento come un qualunque coltello a serramanico.
 
«Brava bambina. Ora vieni, dobbiamo andare via di qui.»
Clara aggrottò le sopracciglia. «Andare? Dove? Io- Io devo tornare a casa, mia madre mi aspetta e…» si girò in direzione della sua casa, poteva scorgere il tetto di tegole rossastre da lì, il bordo del parapetto del terrazzo su cui aveva steso i panni per tutta la vita, fin da quando era stata in grado d’arrivare ai fili e prima, quando era troppo piccola per farlo, passando i vestiti e le mollette a sua madre.
«Non puoi tornare lì, non ora che ti hanno trovata, che sanno dove sei. Andranno altri a parlare con tua madre, a dirle dove ti trovi ora.»
«No, non posso- mamma- mia madre sarà spaventata a morte se non mi vedrà tornare, si preoccuperà tantissimo e mio padre- mio padre non è la persona migliore per calmarla, per consolarla. Io non posso andare da nessuna parte senza che i miei genitori lo sappiano, io-»
«Ma loro lo sanno, lo hanno sempre saputo. Ada sapeva perfettamente che questo momento sarebbe arrivato, che alla fine avrebbe dovuto pagare il suo debito, ridare indietro ciò che le era stato prestato.»
Clara rimase immobile, sempre più confusa, sempre più spaesata, sempre più nauseata da ciò che le stava accadendo. Le girava la testa e le stava calando addosso uno strano calore, come l’afa estiva d’Agosto.
«Come sai il nome di mia madre? Quale debito? Prestato cosa?»
Quarto la fissò con i suoi penetranti occhi gialli, stoico nella sua posizione.
 
«Io so tante cose, Clara, molte più di quante non ne sappia tu.
Tua madre espresse un desiderio, chiese qualcosa che, nella sua condizione, nessuno le avrebbe mai potuto dare. Le fu concesso ciò che voleva ma l’avvertirono che il prezzo da pagare sarebbe stata la restituzione dell’oggetto della sua brama, quando fosse giunto il momento.
Siamo stati magnanini, sapevamo quanto grande fosse il suo desiderio e le abbiamo promesso che non l’avremmo reclamato indietro finché questo non sarebbe stato in pericolo.
Quel giorno è arrivato e lei, così come tuo padre, lo sapeva perfettamente.
»
 
Clara non seppe cosa rispondere, il coltellino nella sua mano era tornato ad essere piccolo e leggero, eppure a lei sembrava improvvisamente pesare come la spada d’oro che era stato pochi attimi prima.
 
«Perché restituire?» riuscì solo a chiedere, forse perché, in cuor suo, sapeva già quale fosse il prezzo, cosa fosse l’oggetto da restituire.


Un oggetto. Come un oggetto.

 
Quarto non si mosse, ma nel suo sguardo Clara poteva leggervi le risposte a tutte le domande che aveva e anche a quelle che non avrebbe mai voluto chiedere.
 
Non era mai stata sua, vero?
 
«Perché ogni tesoro d’inestimabile valore tornerà nelle mani del suo legittimo proprietario, prima o poi
 
Non era stata neanche di suo padre, come tante volte l’uomo le aveva fatto credere.

«Perché ogni fabbro brama di riappropriarsi della sua arma migliore.»
 
Non era stata neanche di sua madre, che l’aveva amata più di ogni altra cosa.
 
 
Che l’aveva desiderata, più di ogni altra cosa.
 
 
«Non c’è grande opera destinata a rimanere nascosta al buio.»
 
La sua vita non le era mai davvero appartenuta.
 
«È giunto il momento di tornare lì dove saresti sempre dovuta essere, al luogo a cui appartieni.»
 
 
 
 
 
 
 
La luce che filtrava dalla grande apertura circolare sul soffitto della cupola divenne improvvisamente più forte. Le torce appese ai muri vibrarono come smosse da un vento fantasma. Ombre dense scivolarono sulle sculture e sui bassorilievi della Chiese della Rotonda.
Il cielo limpido di metà Maggio si incupì in un batter d’occhio, tuonando minaccioso su tutta Roma.
Gli spiriti del Pantheon mormorarono inquieti.

L’ultima profezia era appena iniziata.

 

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Capitolo 23
*** Meet. ***










 
 
XXIII- Meet.
 
 
Le strade di Venezia erano scivolose d’umidità, tra le fughe dei grandi mattonati che coprivano i vicoli ristagnava lucida l’acqua che aveva bagnato anche i muri delle case, un’ondata di acqua alta chiamata a gran voce per le vie da gente comune e negozianti, dai gondolieri e dai marinai che sostavano sulle sponde che si ergevano dalla laguna.
Le vecchie scarpe consunte lo facevano slittare di tanto in tanto, ma Gio era riuscito a non cadere neanche una volta, complici i suoi riflessi pronti e quelli ancor più fulminei di Amore.
La ragazza correva al suo fianco senza perdere il fiato, la gonna tirata su, stretta nel pugno roseo. Se non fossero stati così di fretta Gio si sarebbe concesso il lusso di ammirarla, bellissima e perfetta anche nel pieno di quella maratona improvvisata che li aveva strappati dalla loro corriera quel tardo pomeriggio.
Era stata una giornata piovosa, carica di una pioggia leggera ma fitta che aveva finito per ingrossare i canali e far scattare l’allerta per tutto il centro cittadino, facendo fermare le gondole, alcune ancora legate ai porticcioli lì dove i loro proprietari non erano ancora riusciti a tirarle a terra nelle proprie rimesse. L’aveva costretto a rimanere dentro casa con Maria, seduto a terra davanti alla portafinestra che dava sul balcone, ad ascoltare annoiato le lezioni di francese e quella di letteratura.
Gio aveva alzato gli occhi al cielo e sbuffato in continuazione, infastidito dal divieto d’uscire anche solo nel portico, magari a cercare il corvo che sembrava averlo preso in simpatica. O che lo seguiva in modo ossessivo, come diceva sempre Amore. La ragazza era assolutamente sicura di questo, era suo nonno, il padre di suo padre, ad aver mandato il corvo a spiarlo, a tenerlo d’occhio, un po’ come faceva lei.
Non era riuscito a scorgerlo, per tutta la giornata, aveva guardato fuori da quella finestra, poi da quella che dava sulla strada, sperando di vederlo al riparo sotto qualche tettoia, sotto un cornicione sporgente o una decorazione barocca ed ingombrante. E invece niente, non aveva trovato nulla ed era stato costretto a tornare nel salottino dove un uomo sulla quarantina, tutto impettito e con la faccia contrita cercava di far pronunciare a Maria stupide frasi con lo stupido accento francese.
Gio aveva sbuffato, si era mosso senza pace alla ricerca di una posizione comoda finché Maria non l’aveva fulminato con lo sguardo, spiegandogli piccata quanto fosse difficile quella lezione e quanta concentrazione le servisse.
Cavolate, questo gli aveva detto il ragazzino, quelle mezze frasette facevano ridere, era roba da bambini, roba stupida.
Quando l’aveva raccontato ad Amore la ragazza aveva riso di gusto, facendogli però notare come fosse stato poco delicato, ma ammettendo che avrebbe voluto esserci anche lei, per vedere la faccia indignata dell’insegnante, quella adirata di Maria quando gli aveva chiesto, allora, di ripetere lui al posto suo e per finire i volti scioccati di entrambi quando Giordano gli aveva risposto e anche in un francese di un certo livello.
 
«Me l’ha insegnato Al, lui lo parla. La sua lingua madre è il tedesco, però ha vissuto pe ‘mpo’ d’anni in Francia e ha ‘mparato pure il francese. Veramente parla un sacco de lingue lui, perché ha girato na cifra pe tutta a vita. Certe vorte se mette a parlà polacco co Bas, ma poi ariva Raja e je mena e li minaccia che se non parlano na lingua che tutti possono capì li maledice lei in arabo e poi vedemo se c’hanno ancora voja de scambiasse messaggi segreti.»
Amore aveva riso ancora di più. «Quindi anche tu parli parecchie lingue?»
Si era stretto nelle spalle. «So cresciuto in mezzo a un botto de gente che veniva da tutta Europa e dintorni, ne mastico un ber po’, ma italiano, francese e tedesco so quelli che so mejo, però vado forte pure cor turco e cor greco, pure se non so perché. Thali me stava a insegnà l’indiano, ma poi m’hanno lasciato a Roma.» aveva finito con tono amaro.
La giovane gli aveva dato un colpetto sul braccio. «Non credo che “l’indiano” sia la parola giusta per chiamare la sua lingua, sai?»
Giordano avrebbe voluto risponderle, ma era stato in quel momento che uno dei vetri della corriera aveva preso a brillare fiocamente, come il riflesso di una pozza oleosa illuminata dal sole, un sole che, in quel momento, non c’era.



Giò gettò un’altra occhiata alla sua compagna, che attraversava le pozzanghere senza neanche bagnarsi, aiutata da qualche grazia divina che sembrava aleggiarle sempre attorno.
Erano quasi arrivati a casa Di Angelo, dove si sarebbe tenuta la cena di quella sera, il motivo scatenante, sicuramente assieme alla figuraccia della lezione di francese, che aveva spinto Maria a mandarlo via prima, a congedarlo come un cameriere i cui servigi non sono più richiesti.
Ancora lo innervosiva il modo in cui la ragazza si era liberata di lui, il modo in cui lo trattava, lo comandava a bacchetta come se fosse il suo cagnolino, un cucciolo sovradimensionato che Ade le aveva regalato perché non si annoiasse ed avesse sempre compagnia. Ed ora ecco il bel pasticcio, ecco cosa succedeva quando quella viziata rompipalle si indispettiva e lo scacciava prima del tempo debito. Aveva passato settimane a non fare nulla, a fissare le mura soleggiate della villa in cui lei viveva e quando c’era una situazione particolare, diversa e potenzialmente pericolosa cosa faceva Maria? La mocciosa, ecco cosa faceva. Faceva la mocciosa e lo mandava a casa.

Pe una volta che c’era il rischio de menà le mani quella me manda via perché sta a rosicà che un poveraccio come me sa r’francese mejo de lei.
 
Digrignando i denti alzò il braccio davanti a sé per indicare il vicolo da cui entrava sempre lui, una porta secondaria che conduceva al giardino sul retro, quello con il chiostro dove Gio aveva incontrato Maria per la prima volta.
«Eccolo!»
Amore annuì solo, afferrandolo per la mano e trascinandoselo dietro con rinnovata velocità.
Quando s’infilarono tra le mura alte e strette, Gio sentì di nuovo l’odore di zolfo che aveva avvertito quel giorno che sembrava già così lontano.
L’aria sfrigolò attorno a loro, come il suono del metallo bollente su cui cade qualche goccia d’acqua. Era fastidioso, gli pareva quasi che esercitasse una pressione sempre più forte su di lui, come se qualcosa cercasse di non farli passare.
Voleva dirlo ad Amore, che di solito non era così, che stava succedendo qualcosa di strano, ma lei non gli diede tempo, serrò la presa sulla sua mano e se lo tirò dietro di lei prima di menare un mal rovescio in aria.
Come uno strappo una ventata di profumo floreale squarciò l’odore di zolfo, lo sfrigolio e persino la pressione.
Gio non aveva la più pallida idea di cosa avesse appena fatto la sua amica, ma ogni sua domandò gli morì in gola quando scorse, dalle finestre aperte, le figure ben vestite degli invitati alla cena.

«I vestiti! Non ci faranno mai entrare vestiti co-»
Di nuovo, neanche il tempo di finire la frase che la sua vecchia camicia sformata e troppo grande per lui gli si restrinse addosso, schiarendo il colore grezzo nel bianco immacolato del lino, nelle fibre ben filate e nel colletto inamidato. Un leggero luccichio sul suo polso si materializzò in un semplice polsino dalla forma tondeggiate ma frastagliata, prima d’esser coperto dall’orlo della manica della giacca che gli si era cucita addosso dalle ombre spesse del vicolo.
Sentì la pressione della cinta allentarsi, scendendo precisa sui fianchi, seguita dalla linea dritta dei pantaloni e dalle scarpe in pelle opaca con cui calpestava il suolo bagnato senza neanche alzare uno schizzo.
Quando uscirono dall’ombra, nella luce fioca ma calda che illuminava il chiostro filtrando dall’interno del palazzo, Gio notò che l’abito a fiori di Amore si era trasformato in un più sobrio ed elegante abito di raso verde caldo, dai riflessi quasi dorati.
Non ebbe modo di parlare, di chiederle come ci fosse riuscita o anche solo d’ammirare l’aspetto sicuramente etereo che la ragazza sfoggiava in quel momento, Amore lo condusse senza indulgi verso la porta che s’aprì senza il minimo rumore, lasciandoli entrare direttamente nel corridoio che portava al salone principale dove si trovavano le scale per salire al piano superiore.
«Amore, fermati un attimo.» provò seguendola ed inciampando sul tappeto che copriva il pavimento. «Questa è una cena privata, se non abbiamo l’invito non possiamo entrare.»
Lei sbuffò sarcastica. «Non esiste luogo su questa terra a cui io non abbia accesso, ho sempre qualcosa che mi permette d’entrare.» e come a voler confermare le sue affermazioni un cameriere sbucò da una delle tante stanze presenti nel palazzo, probabilmente uscito dalle cucine, con un vassoio scintillante in mano ed un’espressione crucciata.
 
«Cosa fate qui? Questo non è posto per-»
«Non ora Filippo, non abbiamo tempo per questo.» rispose Amore a bassa voce, mandando via l’uomo con un gesto dismissivo della mano.
Il cameriere sembrò preso in contropiede da quelle parole, i suoi occhi persero per un momento il focus e poi, come una marionetta a cui hanno tirato magistralmente i fili, abbassò la testa in un inchino rispettoso, senza far inclinare il vassoio o far cadere qualunque cosa ci fosse sopra.
«Ha vostro piacimento, mia signora.»
«Andiamo.» sentenziò la ragazza ignorando le parole del cameriere e avviandosi sicura verso le scale.
Giordano si guardò attorno ansioso, cercando di individuare la testolina mora di Maria, pregando tutti gli Dei che conosceva di non trovare ciò che Ade aveva predetto.
 
 

«Giordano!»
La voce di Ade gli aveva fatto accapponare la pelle. Il riflesso cangiante si era espanso per tutto il finestrino, mentre il volto dell’uomo iniziava a prendere sempre più forma e spessore.
Gio era rimasto imbambolato a fissarlo, sconvolto, ma per fortuna Amore si era mossa subito, avvicinandosi al vetro con aria attenta, guardinga.
«Che succede?» aveva chiesto secca, niente saluti, niente convenevoli.
«Non ora nipote, ho bisogno di Giordano. Perché è qui? Perché non è con Maria?»
«Perché la tua mortale lo ha cacciato via, a quanto pare avete qualcosa in comune, tu e lei, non siete in grado di sopportare quando qualcuno sa qualcosa meglio di voi.» aveva risposto freddamente, le braccia incrociate al petto, lo sguardo duro. «Non mi piace come si è comportata, non mi piace come si comporta di solito. E non mi piace neanche come tu ti rivolgi a me, zio, non in una situazione delicata come questa.»
L’ultima frase era suonata più minacciosa delle altre, carica di sottointesi che Gio non era stato in grado di cogliere e che forse Amore avrebbe potuto spiegargli più tardi. In quel momento però non era importante, non quanto l’espressione infastidita di Ade, il volto di chi avrebbe avuto molto da ridire ma sapeva meglio di chiunque altro quanto fosse conveniente per lui tenere la bocca chiusa.
«Ho bisogno di Giordano, anzi, Maria ha bisogno di lui
A quelle parole Gio si era riscosso, avvicinandosi al vetro e al riflesso di Ade, le sopracciglia crucciate. «Sta a casa sua, c’è na cena, non va da nessuna parte e ha detto che non me vole tra i piedi.»
Ade aveva fatto un verso infastidito. «Stupida donna. Non importa cosa voglia o meno lei, è in pericolo, devi andare a controllare.»
«In pericolo?» aveva chiesto Gio.
«Chi?» era stata la sola domanda di Amore.
Il Dio l’aveva fissata dritta negli occhi, un velo cupo gli aveva coperto il volto e le iridi avevano preso una sinistra luminescenza bluastra, come le fiamme del gas delle bombole.
«Qualcuno che dovrebbe temere la mia ira, ma ancora di più quella di sua moglie.»
 
Gio aveva sentito imprecare Amore davvero pochissime volte e l’insulto che le era uscito dalle belle labbra rosate era riuscito a comprenderlo solo in parte, gentile concessione di quel po’ di greco che parlava ma che si discostava comunque molto dai suoni che aveva prodotto la giovane con fare decisamente preoccupato.
Non era stato d’aiuto vederla in quello stato, così come non lo era stato vederla sfrecciare fuori dalla corriera intimandogli di seguila.
Aveva imprecato ancora pochi istanti dopo, masticando a mezza bocca qualcosa sull’aver interdetto una zona, un luogo.
Gio non aveva capito nulla se non che la situazione era delicata e che dovevano agire in fretta, senza perdere tempo.


 
Si alzò sulle punte, scrutando i visi di ogni invitato, mentre Amore marciava con sicurezza e leggerezza tra tutta quella gente, come se appartenesse ad un evento del genere, come se non si fossero imbucati lì a forza, come se un qualunque membro della servitù non potesse scorgerlo da un momento all’altro e correre a prenderlo per un orecchio.
Mordicchiandosi le labbra screpolate Giordano cercò disperatamente di ricordarsi di che colore Maria gli aveva detto si sarebbe vestita, se avesse accennato ad un qualche accessorio vistoso, visibile, un dannato ventaglio con quell’afa umida e appiccicosa che la laguna e la pioggia si tiravano sempre dietro.
Imprecò anche lui, a mente però, domandandosi come diavolo Ade si aspettasse che potesse trovare un uomo che poteva avere letteralmente “qualunque aspetto più gli convenga in quel momento”. Dannati Dei e dannai poteri magici, divini, da prestigiatori i quel che erano.
Poi qualcuno gli tirò il braccio, Gio quasi inciampò fermandosi di colpo contro Amore, il cui corpo longilineo risultava sorprendentemente solido e che non vacillò neanche un istante contro la spinta del corpo del ragazzino.
 
«Di là, è lei, vai, vai. Sono dietro di te.» Non lo fece rispondere, lo tirò ancora e lo spinse verso Maria ed il suo interlocutore.
Giordano riprese il passo con il cuore in gola, le mani tremanti ed un fastidioso sudore freddo che gli colava lungo la schiena e gli appiccicava la camicia alla pelle.
Individuò subito Maria, seduta sull’ottomana color crema, un pezzo d’antiquariato che probabilmente costava più di tutti gli averi di Gio da sola. Era rivolta verso la poltrona dall’alto schienale, anch’essa color crema ma impreziosita da borchie dorate, uno scintillio quasi fastidioso sotto gli accecanti lampadari dai bracci fregiati. La giovane parlava con tranquillità, il volto rilassato in un sorriso di circostanza, ma nulla in lei sembrava tradire disagio ed inquietudine, non come Gio che grondava ansia da ogni poro assieme al sudore che quell’aria irrespirabile, avvelenata di profumi e colone, gli stava provocando.
Rallentò un poco il passo, solo per potare la mano alla tasca dei pantaloni e tastare il profilo del suo coltello a serramanico, pregando di non doverlo sfoderare in una stanza piena di stupida gente dell’alta borghesia e dell’esercito, certo che non sarebbe finita bene per lui, in caso.
Maria però dovette scorgerlo, perché il suo volto si aprì in un’espressione stupita, poi infastidita ed in fine, forse resasi conto di quella di Giordano, preoccupata.

«Perdonatemi.» mormorò rivolta al suo interlocutore, alzandosi di fretta dall’ottomana per andargli incontro. Gettò anche un’occhiata alle sue spalle, sicuramente rivolta ad Amore, e poi tornò a concentrare la sua attenzione di su lui. «Gio che ci fai qui? È successo qualcosa? Perché hai quella faccia?» chiese velocemente, senza neanche prendere fiato.
Il ragazzino, tentennò, incerto se dirle o meno quello che sapeva.
«Stai bene?» le domandò invece. «Con chi stai parlando? Con un uomo? Lo conosci? Ti si è avvicinato nessuno?»
Maria lo fissò accigliata, in parte stupita dall’inflessione perfetta delle sue parole, dimentica di come il suo piccolo amico avesse ricevuto un’educazione ecclesiastica, una dizione impeccabile; in parte allarmata da quelle domande e dalla preoccupazione che poteva leggere negli occhi scintillanti dell’altro.
«Cosa? No, non ho parlato con nessun uomo che non conoscessi, non sta bene, lo sai perfettamente.» le disse confusa, guardandosi attorno come a voler cercare qualcosa, qualcuno fuori posto. «Chi dovrebbe esserci? È stato Ade a dirti qualcosa?» realizzò in fine drizzando la schiena di colpo e facendosi un passo più vicina a Gio.
Lui allungò una mano d’istinto, stringendole l’avambraccio e cercando anche lui freneticamente con lo sguardo qualcosa di strano.
«Ha detto che dovevo correre qui, che qualcuno ti avrebbe fatto visita, probabilmente un uomo di bell’aspetto, con un’aura di potere e di rispetto attorno, se ha senso come cosa.» sibilò infastidito dalla descrizione così vaga che l’amico gli aveva fornito.
Maria però scosse la testa, un altro passo e quasi si ritrovò tra le braccia del ragazzino.
«Parli- parli di suo fratello?» mormorò cauta.

Brava ragazza, non si nomina mai certa gente.
 
Gio annuì solo. «Dobbiamo allontanarci per un po’, puoi farlo? Senza dare dell’occhio a nessuno. Puoi dire ai tuoi che vai un attimo a prendere una boccata d’aria, qualcosa del genere?»
«Credo di sì, sì. Ma se ti dovessero vedere farebbero domande, sarebbero subito sospettosi.»
Lui scosse il capo. «No, non vai da nessun parte da sola, non con il rischio che lui sia qui e che possa fermarti.»
«E cosa puoi fare tu? Come potresti proteggermi?» ribatté Maria con tono stizzito, «Non so neanche perché Ade abbia mandato te, non ha voluto spiegarmi nulla…» sospirò, realizzando con un sorriso dispiaciuto quanto fossero state dure le sue parole. «Non possiamo fare altrimenti, capisci? Andrò a cercare mia madre, le dirò che mi allontanerò un momento per rinfrescarmi, tu cerca di non dare dell’occhio.» disse poi con tono definitivo.
Gio la guardò serrando le labbra, le sopracciglia aggrottate, i pungi stretti. Annuì.
«Ti sto dietro. Se vedo qualcuno di sospetto ti prendo e ti porto via.»
Maria gli posò un carezza sulla testa, gentile. «Non servirebbe comunque a nulla, lo sai vero? Sono Dei, Giordano, e noi siamo solo insetti al loro confronto, non potresti fermarlo, qualunque cosa volesse fare.»
 
Lo so. Per questo devo diventare più forte. Per questo Venezia era solo una tappa. Perché ora come ora, in queste condizioni, non servo a niente e a nessuno.
 
Un altro brivido lo scosse, ma Gio riuscì perfettamente a distinguerlo dall’ansia che l’aveva attanagliato poco prima. Era rabbia questa, cieca, fredda come il ghiaccio, che se stretto in pungo inizia a bruciare come fuoco.
Non serviva a niente. Non serviva a nessuno. Era per questo che Clara e Al l’avevano lasciato a Roma, era per questo che nessuno si era opposto, che tutto quello sgangherato gruppo era stato più che d’accordo con la decisione dell’italiana. Perché Gio, in quel momento, era solo una zavorra inutile.
Tenne la testa dritta, rigida, facendo cenno a Maria di muoversi, di fargli strada. La giovane lo guardò dispiaciuta, con quello stupido sguardo carico di pietà, di quel sentimento così disgustoso da fargli venire il voltastomaco.

Dio. Dio quanto lo odio. Quanto lo odio quando mi guardano così.
Non sono senza speranze. Non sono da compatire.
Non sono inutile. Posso diventare forte, posso fare la differenza se solo me ne dessero la possibilità, se solo potessi imparare a combattere, a farlo davvero.
Combatterei contro tutto.
Combatterei anche contro Giove.

 
Un tuono risuonò in lontananza, la pioggia continuava a cadere fina ma fitta. Ci fu un altro lampo ma nessun rumore riuscì a superare il vociare dei commensali.

«Su, non fare così…» provò a consolarlo la ragazza.
Gio storse il naso, pronto a replicare, a dirle di muoversi e basta, che non aveva bisogno d’esser trattato come un moccioso, ma sembrava quasi che, quella sera, la sua amica avesse deciso di non farlo parlare.
«Puoi risparmiarti la tua accondiscendenza, Giordano non ne ha bisogno, di fatto, sei tu quella che necessita dell’attenzione di altri per non finire nei guai.»
La voce sempre calda ed avvolgente di Amore gli arrivò alle orecchie come una frecciata gelida, un dardo che non mancò di colpire il bersaglio.
Maria spostò immediatamente lo sguardo sulla nuova arrivata, la stessa giovane che aveva scorto alle spalle di Gio quando gli si era avvicinata.
Non l’aveva riconosciuta, malgrado suo padre le avesse presentato ogni invitato alla festa, e Maria aveva quasi contemplato l’idea che potesse essere la figlia viziata e ritardataria di uno dei presenti, ma il modo in cui nessuno, nonostante la sua incredibile bellezza, avesse osato avvicinarlesi, come se un’aura invisibile la schermasse dallo sguardo della gente, le aveva subito fatto accantonare l’idea.
Amore si avvicinò con tranquillità, poggiando una mano sulla spalla di Gio e lasciando scivolare l’altra attorno alla sua vita. Lo tirò leggermente indietro, allontanandolo dalla ragazza che continuò a fissare dritta negli occhi senza il minimo timore.
Maria si sistemò la veste, riprendendo una postura più signorile.
«E tu saresti?» chiese cercando di imitare il tono freddo dell’altra.
Amore non si sprecò neanche in uno dei suoi amabili sorrisetti canzonatori, limitandosi a fissare Maria senza batter ciglio.
«Qualcuno a cui dovresti decisamente portare più rispetto, ragazzina.»
Un verso di scherno scappò dalle labbra leggermente truccate della giovane. «Sei a casa mia, alla festa della mia famiglia, dovresti essere tu a portare rispetto a me. E anche a lasciare Gio, è inappropriato.» disse indicando con un gesto vago la stretta che l’altra teneva sul ragazzino.
Amore continuò a non battere ciglio. «Più inappropriato di una giovinetta appena diciottenne che passa le sue giornate a solleticare la fantasia di un essere millenario?» domandò inclinando leggermente la tesa, la bocca così vicina all’orecchio di Gio da poterne sfiorare la conchiglia. «Credi di essere speciale? Di essere diversa? Ogni giocattolo, prima o poi, si rompe.» sibilò in fine.
Maria fece un passo indietro, colpita nel vivo dalle parole di quella che una volta era una ragazzetta di forse vent’anni ma che, davanti ai suoi occhi, si stava lentamente trasformando in altro.
Provò a balbettare qualcosa, cercando parole, pensieri, qualcosa che potesse permetterle di controbattere, di non sembrare una completa sciocca, senza riuscirci.
 
«Ingoi l’orgoglio, signorina Di Angelo, non c’è parola terrena o divina che possa sconfiggerlo. Dopotutto, anche noi soccombiamo all’amore, proprio come ha fatto mio fratello con lei.»
 
Gio si irrigidì leggermente, l’istinto gli gridava di sciogliersi dall’abbraccio di Amore, mettersi in posizione difensiva, proteggere la sua amica e anche Maria, ma il fiato caldo che gli batteva sul lato del volto lo rendeva più rilassato, costringendolo quasi a lasciarsi andare contro il corpo morbido alle sue spalle, sciogliendo tutti i nodi che la rabbia aveva stretto lungo i muscoli della schiena, del collo. Giordano poté solo guardare una figura vestita anch’essa di verde alzarsi dalla poltrona borchiata, lisciandosi le pieghe inesistenti della lunga gonna che sfiorava perfettamente il pavimento.
Si voltò lentamente verso di loro, ad agio, stringendo le mani guantate in grembo, un’espressione neutra sul viso bello ed austero, dai lineamenti morbidi come le curve del suo corpo, quelle larghe dei fianchi, quelle prosperose ma non eccessive del seno coperto dallo stesso tessuto lucido della gonna, in uno scollo a barca che ospitava una pietra di smeraldo grande quanto il pungo di un bambino.
Aveva i capelli castani raccolti in una classica acconciatura da galà, quello chignon stretto ed impeccabile, adornato da una spilla di cui Gio poteva vedere solo dei vaghi bordi tondeggianti.
Quando però riuscì a concentrarsi finalmente sui suoi occhi, ignorando i movimenti a scatti di Maria, che non sapeva chi guardare, Giordano seppe subito, per certo, che quella donna tutto era tranne che una semplice donna e che sarebbe bastato il suo aspetto a farglielo capire, senza neanche dover far affidamento sulle sue parole.
La Dea, perché questo era, lo guardò con l’attenzione curiosa di un rapace che fissa un altro animale, in attesa di decidere se quello possa essere una preda o un pericolo.
Lo studiò per quelli che parvero interminabili minuti, per poi spostare lo sguardo leggermente più in alto, accennando un leggero increspamento di labbra.

«Sapevo che fra tutti saresti stato tu a cogliere l’occasione.»
Un risolino divertito vibrò nell’orecchio di Gio, facendolo rabbrividire.
Quella non era la voce di Amore. O per lo meno, non della sua Amore.
«Sarebbe stato sciocco da parte mia non vegliare il frutto nato dal mio lavoro.» rispose.
La Dea alzò un sopracciglio, poco impressionata. «Un tuo lavoro? Credevo fosse stata tua madre, la colpevole.»
Un altro risolino. «Mamma ha tirato le fila, ha chiuso il cerchio, ma quando poi è stato sciolto il nodo ed ogni cosa è stata ridata in mano al Fato, è stato il mio di domino, quello su cui le nostre anime si sono rincontrate.» le sue parole suonarono criptiche e quasi crudeli, ma Gio non seppe spiegarsi perché, così come non seppe spiegarsi subito come il corpo morbido della sua Amore si fosse trasformato in quello ugualmente caldo ma solido di un uomo.
Non osò però distogliere lo sguardo da quello della Dea, ipnotizzato da ricordi sbiaditi ed estremamente chiari che si susseguivano come una pellicola impazzita davanti ai suoi occhi, sovrapponendosi alle figura della Dea, a quella di Maria, ora immobile e muta, a quelle di tutti i commensali che continuavano la loro cena come se nulla fosse.

«Voi due provate troppo piacere nel giocare con queste cose.» lo ammonì la Dea.
Amore sorrise, Gio non poteva vederlo, ma sapeva per certo che stesse sorridendo, lo percepiva dalla sua voce. «Non sei forse venuta anche tu qui per giocare un po’ con l’amore?» domandò divertito.
La Dea alzò gli occhi al cielo, come se quella non fosse la prima volta che le venisse posta quella domanda.
«Tu giochi decisamente troppo con l’amore, io metto a posto i danni che fai.»
«O che fa tuo marito.»
Questa volta lo sguardo che lei gli lanciò fu decisamente più duro. «E nonostante tutto ciò raramente riesco a sistemare le cose, figuriamoci prevenirle. Sarà di nuovo una tragedia, ne sei consapevole, vero?» domandò dal nulla, senza che Gio riuscisse a capire a cosa si stesse riferendo.
Amore si strinse nelle spalle, lo sentì sussultare contro la sua schiena.
«Non è certo colpa mia se tutti voi fratelli fate scelte così pessime. Non che tu ne abbia davvero avuto l’opportunità…»
«F-fratelli? Avevate detto qualcosa su vostro fratello, prima.» La voce di Maria arrivò flebile e tentennante. «Intendente- i-intendente, Ade?» chiese infine.
La Dea si voltò finalmente verso la giovane, negando a Gio pieno accesso ai suoi occhi.
«Ovviamente mi riferivo a lui, o intrattiene forse intercorsi segreti anche con gli altri miei fratelli? La informo che per la maggior parte sono sposati o sono mostri, o entrambi se prende per esempio mio marito.»
La ragazza la guardò con gli occhi sgranati, scioccata e incapace di replicare, di comprendere cosa stesse effettivamente dicendo quella donna con cui aveva scambiato convenevoli per quasi un’ora.
«Quindi eri tu, non Zeus.» commentò casualmente Amore. «Hai fatto prendere un bell’infarto ad Ade e quasi uno anche al nostro piccolo, dolce Giordy.»
La Dea tornò a prestare completa attenzione al ragazzino, che si fece istintivamente ancora più vicino ad Amore. Fu però con una certa sorpresa che la divinità osservò Gio allargare leggermente le braccia, come a voler far da scudo ad Amore.
Lo vide deglutire e, seppur ora a fatica, mantenere lo sguardo fisso nel suo.
«Se fissi il fuoco troppo a lungo finirai per vedere solo fiamme.» mormorò.
Gio provò a deglutire di nuovo, ma la sua bocca era così asciutta da non riuscir neanche a mandar giù una boccata d’aria.
«Non si distoglie mai lo sguardo da un nemico più grande di te, non puoi permetterti di mancare anche solo un fremito.» disse con voce lontana, meccanica, ripetendo le parole che Raja gli aveva inculcato in testa a forza per giorni, settimane, mesi.
Quella risposta sembrò colpire ancora la Dea che questa volta si aprì in un sorriso più ampio, più caldo, sempre educato e composto ma quasi materno.
«La tua compagna aveva ragione.» iniziò col dire. «Ti ha insegnato una lezione importante.»
Gio annuì, senza neanche domandarsi se non gli avesse appena letto nel pensiero. «Più di una. Non solo lei.»
Anche la Dea annuì, poi gli porse la mano, in un gesto dal sapore formale.
«Non capita spesso che qualcosa colga la mia attenzione, che susciti curiosità in me, ma tu ci sei riuscito, Giordano.»
Il ragazzino allungò la mano, tremante ma diretta senza indulgi verso quella della divinità.
«Giordano Rioni.» precisò con una stretta salda.
La Dea replicò con la stessa intensità, mentre uno strano calore si disperdeva dal palmo al resto del braccio, come se la donna stesse spingendo ondate calde contro di lui.
«Piacere di conoscerti, Giordano Rioni. Io sono Era, la reggina degli Dei.»



 
*



 
I templi dei Grandi Dodici si chiudevano in una piazza perfettamente circolare. Gli imponenti edifici lasciavano a mala pena un vicolo di un metro e mezzo tra loro, il mattonato che ricopriva le strade era coperto dall’ombra delle alte mura, dai tetti spioventi che non lasciavano passare luce. C’era una leggera patina d’umidità sulle pietre, il muschio luminescente dell’Ade brillava fioco tra le fughe, disegnando un pattern irregolare e morbido al tatto.
Cade osservò senza troppo interesse l’alone azzurrino che emanava la pavimentazione, trascinandovi sopra i piedi come se potesse sentirne la texture sotto la pianta, direttamente sulla pelle. Chissà cosa sarebbe successo se si fosse tolto scarpe e calze e fosse rimasto così, fermo in piedi sul muschio umido e luminoso.

«Ehi?»

Il rosso alzò la testa, incontrando subito lo sguardo crucciato di Jonas, intravedendo con la coda dell’occhio il modo in cui giocava distrattamente con il laccio sporco di quella che era stata la gonna di Jane ed ora era un povero quanto gradito sostituto del suo vecchio bracciale.
Rispose con un mugugno, giusto per fargli capire che lo stesse ascoltando, mentre spostava gli occhi alle spalle del ragazzo, dove più avanti, nello stretto vicolo che si trovava tra due templi di chissà quale Dio, gli altri stavano avanzando con passo deciso ma non troppo veloce.
Li aveva sentiti discutere vagamente sulla possibilità di incontrare, in quella che probabilmente era una piazza, molti altri semidei, la possibilità di ritrovarsi di nuovo in mezzo a tanta gente, a tante anime. Avrebbero avuto una più chiara visione di chi fosse rimasto, Eliza voleva prendere nota di quanti figli di quali divinità erano ancora in gara e Nathan si era dimostrato perfettamente d’accordo, avrebbero cercato di fare un calcolo veloce finché Lea e Cicno fossero stati impegnati nel tempi di Apollo e poi, una volta usciti loro ed entrato lui nel tempio di Ares, sarebbe toccato a Cicno stesso individuare le parentele divine dei rimanenti.
Cade storse il naso, mancavano solo due templi e, a voler essere onesti, temeva seriamente che Lea potesse tirarsi indietro, potesse accettare qualche compromesso, tornare a vivere magari con i figli di suo fratello ancora in vita, i suoi nipoti o quel che erano- sì, forse nipote, dopotutto non erano morti a distanza di troppi anni, loro due. C’erano grandissime probabilità che Lea avesse dei nipoti che l’attendevano nel mondo mortale, esattamente come lui.

«- e non mi stai decisamente ascoltando, magnifico.»
 
A quelle parole Cade riportò la sua attenzione su Jonas, che lo fissava con le bracci incrociate ed un broncio che rispecchiava perfettamente la sua età.
 
Mocciosetto, piccolo Bineas.
 
«Stavo pensando, scusa.» rispose sinceramente.
Non doveva essere però ciò che il ragazzo si aspettava, perché la sua espressione divenne più preoccupata.
Jonas si gettò uno sguardo alle spalle e poi gli si fece più vicino, tornando sui suoi passi, calpestando il muschio luminescente con quegli enormi scarponi che non gli si addicevano proprio.
Cade non se ne rese conto, ma accennò un sorriso: chissà se, crescendo, il suo amico avrebbe finito per riempirle quelle scarpe.
 
Non che io possa vederlo, un giorno.
 
«Che hai?» lo richiamò per l’ennesima volta il ragazzo.
Cade alzò il capo ma tenne gli occhi puntati sugli stivali dell’altro.
«Chissà se ti staranno mai bene.» mormorò sovrappensiero, perdendosi l’espressione quasi ferita che per un momento passò sul viso di Jonas.
«Ho visto mia sorella.» continuò tranquillo l’irlandese, come se nulla fosse, «Mi ha detto che ho un botto di nipoti e bisnipoti su, in Irlanda, non so bene dove, ma so che potrei trovarli in caso, mi ci porterebbe il vento.» gli fece cenno di riprendere a camminare, indicandogli con il mento la fine del vicolo, dove i loro compagni erano quasi arrivati. Quei templi erano enormi, Cade non aveva camminato così tanto in quello di suo padre.
Jonas si mosse, aspettandolo comunque per camminargli vicino, per quanto lo spazio glielo permettesse.
«Bene, sono felice per te. È stato bello rivederla? Cioè, so che probabilmente è stato triste e- non so come sia morta sinceramente o se fosse davvero tua sorella-»
«Era lei, lo so per certo, non era un’illusione come tua madre o quella di Jane, era vera.»
«Bene, bene. E… era felice? Ti ha raccontato qualcosa di brutto?» provò ancora Jonas, cerando di soppesare le parole, di non sembrare ridicolo: aveva rincontrato la sua sorellina morta, possibilmente vecchia visto che aveva avuto figli e nipoti, da quanto diceva Cade, cosa si diceva in quei casi? C’era un’etichetta? Discorrere educatamente su parenti morti e tornati nella morte per parlare del loro vissuto passato, qualcuno avrebbe dovuto fare una guida, forse all’inferno già esisteva, chissà se avrebbe potuto trovare un banchetto o una libreria che vendeva opuscoli.
Dandosi del cretino da solo Jonas quasi sussultò quando Cade riprese a parlare, lo sguardo ancora perso, il tono abbastanza neutro.
«Dice di aver passato una bella vita, faticosa, ci sono state molte guerre e molte rivolte dalle mie parti, a quanto pare. Nathan ha parlato a te della storia del tuo paese, ma del mio non ha mai detto nulla, eppure a sentire mia sorella è successo il finimondo.»
Jonas annuì. «Non l’ho mai studiato a scuola, ma sì, c’erano state un po’ di agitazioni in Irlanda, soprattutto contro l’Inghilterra. Ma non ne so molto, per questo non ti ho mai detto nulla. Non ho mai prestato troppa attenzione, in vita, dico, ero-»
«Va bene così, non ti preoccupare.» lo rassicurò accennando un sorriso. «I report di guerra me li aspetto da Nathan, non da te.»
Stettero in silenzio, finché Cade non si fermò di nuovo, a qualche metro da Jane e Cicno, gli ultimi due della loro piccola combriccola ad essere rimasti al sicuro tra le mura dei templi. Il figlio di Apollo gettò loro un’occhiata interrogativa, indicando la piazza che ora potevano scorgere anche loro oltre il vicolo.
Jonas non lo vide, ma Cade dovette avergli fatto cenno d’andare avanti senza aspettarli perché Cicno annuì e spinse gentilmente Jane fuori dall’ombra senza dire nulla.
A quello il ragazzino si girò verso l’amico, crucciato.
«Che c’è?»
«Sai dov’è l’Irlanda?» domandò solo Cade.
Jonas batté le palpebre perplesso, poi annuì.
«Sai se c’è rimasto nessuno della tua famiglia su?» lo incalzò.
«No. Non lo so per certo ma no, nessuno della mia famiglia stretta, probabilmente solo qualche parente alla lontana. Ma lo sai, te l’ho detto, mia madre non si è mai risposata, non ho mai avuto contatti con la famiglia di quello che si presupponeva fosse mio padre e-»
«Se vincerai, se tornerai in vita, vai in Irlanda. I miei nipoti sono tutti lì, se gli dirai che sei mio amico ti crederanno, o meglio, ti crederà mio nipote Cade, è il quarto di cinque fratelli, prima di lui ci sono tre sorelle, mia sorella si chiamava Annie, nostra madre Eilin. Ricorda Griffith, il mio cognome, e i Libery Birds. Quando tornerai su non so cosa potrebbero offrirti gli Dei, non so se ti daranno spontaneamente una mano, ma puoi chiedere a tuo padre. Pregherai lui e gli chiederai di farti arrivare dai miei nipoti, okay?»
L’aveva afferrato per le spalle, guardandolo dritto negli occhi, serio.
Non c’era traccia del suo solito sorriso, del suo sguardo canzonatorio, delle sue espressioni beffarde. Non c’era nulla se non sincerità e serietà sul suo volto.
Jonas lo guardò in silenzio, scioccato, senza sapere cosa rispondere.
Balbettò poche parole senza senso, scosse il capo e provò a parlare ancora, senza sapere cosa dire.
«Okay?» lo incalzò Cade e Jonas si riscosse.
«Che diavolo stai dicendo?»
«Non potremmo vincere tutti, lo so io, lo sai tu, lo sanno gli altri. Può vincere un’anima sola e dovrà sconfiggere le altre per farlo.»
«Certo che lo so! Che cazzo di ragionamenti fai? Ma che ti prende tutto d’un tratto?»
Ma l’altro scosse il capo, scuotendolo leggermente per farlo zittire.
«Stammi bene a sentire: quando arriveremo alla fine devi preoccuparti solo se io non dovessi arrivare all’ultima sfida con te, allora dovrai combattere con tutte le tue forze, capito?»
«Cade…»
«Ma se dovessimo arrivaci insieme allora non dovrai preoccuparti di nulla, perché se c’è una cosa che so per certo è che non potrei mai ucciderti. Contro di me vinceresti sicuramente e allora, quando tornerai su, dovrai andare in Irlanda, dalle parti di Dublino, cercare la mia famiglia e loro ti aiuteranno.»
Jonas lo fissò immobile, incapace di annuire, di dire qualcosa.
Cade gli aveva appena detto che se fossero arrivati insieme in finale avrebbe rinunciato alla vittoria, alla possibilità di tornare a vivere, per far vincere lui. Un beato, morto per difendere la sua patria, il suo popolo, la sua famiglia, avrebbe rinunciato a tutto, per un dannato che si era tolto la vita perché troppo debole, perché vigliacco.
Come si rispondeva in questi casi?
Cade gli sorrise, riprendendo un po’ di quel colorito che le gare stavano riconcedendo loro, un po’ di sangue che non avrebbero dovuto avere. Gli occhi verdi scintillarono di nuovo, animati da una scintilla che fino a quel momento sembrava essersi sopita.
«Tua sorella…»
«Ha detto che è stata, è e sempre sarà fiera di me, che io vinca o no. Ha detto che a quel punto dovrò rinascere, che siamo fratelli e che è inevitabile per noi ritrovarci anche nella prossima vita.»
«Cade.» lo chiamò ancora, questa volta con un tono pericolosamente lacrimoso.
Il figlio di Eolo gli prese il volto con una mano, avvicinandolo verso di sé, premendo la propria fronte contro la sua.
«Non è stato un caso che io ti abbia trovato in quel labirinto, non è stato un caso che tu ti fossi perso. Il fato lavora in modi assurdi e misteriosi, ma se c’è una cosa che so è che per tutta la vita ho sempre avuto un po’ di fortuna irlandese con me e che questa mi ha sempre, sempre portato a trovare pezzi della mia famiglia in giro per tutta Dublino. L’Ade non è Dublino, ma la mia fortuna non ha fatto cilecca. Che ti piaccia o no, ragazzino, sei mio fratello ora e tutto quello che non ho potuto fare per i miei fratelli lo farò per voi, tutto quello che non ho potuto fare per mia sorella lo farò per te qui giù, chiaro?»
Jonas annuì, liberandosi dalla sua presa solo per poterlo abbracciare come si deve, colpito da quelle parole quanto dalla realizzazione che il suo amico – poteva chiamarlo anche fratello ora, no? – avesse già messo in conto di sacrificarsi, ancora, per mandare avanti lui, anche se questo avrebbe significato perdere la possibilità di tornare in vita.

Ha messo in conto che non lo farà, non si è arreso, ma è come se l’avesse fatto.
Non combatterà contro di me, non permetterà che mi buttino fuori, né le altre anime né- né i nostri compagni.

Perché non possiamo vincere tutti. Siamo solo alla sesta prova, ma sembra così vicina, sembra così imminente la fine.
 
«Su, non piangere bineas, come ritroverò Annie ritroverò anche te, okay? Magari becchiamo anche gli altri, se angioletto non ci fa tutti fuori.» provò a consolarlo, stringendolo più forte.
Jonas rise. «Se non lo facciamo fuori prima Cicno farà fuori tutti noi dopo per certo.»
«Anche Nathan.»
«Soprattutto Nathan.» rise ancora.
Cade gli diede un colpetto sulla schiena, scompigliandogli poi i capelli con un gesto affettuoso. «Andiamo, va bene? Ci staranno aspettando.»
Il ragazzino si rimise dritto, strofinandosi la mano sugli occhi, sotto il naso e poi sui pantaloni per pulirsi da quella fastidiosa acquetta che gli era colata dal naso. Non poteva credere di riavere il moccio ma non gli organi interni.
Cade gli sorrise, gli occhi lucidi ma asciutti. «Se non si sono rotti le palle e non sono già entrati, ovviamente.»
«Mi dispiacerebbe non aver augurato loro buona fortuna.» ammise Jonas.
«Sì, anche a me. Lea ne ha davvero bisogno. Angioletto un po’ di meno, anche se forse a te interessa più salutare lui che la nostra bella italiana.» ammiccò Cade.
Jonas alzò gli occhi al cielo pronto a replicare prima di rendersi conto di quale fosse l’implicazione a quella battuta e congelarsi sul posto.
Abbassò lo sguardo in quello di Cade, incapace di formulare una frase che non sembrasse troppo compromettente, mentre una voragine gli si apriva all’altezza dello stomaco, facendogli tremare le gambe e sudare le mani.
 
Cazzo.

L’irlandese gli scoppiò a ridere in faccia. «Su! Non guardarmi così!»
«I-io non-»
«Ehi, sono più grande di te, ne ho viste di cose al mondo. Era solo una battuta, okay? Riferita ai metodi poco ortodossi di cura di Cicno. Insomma, non è il mio tipo, gli mancano due cose, no tre- ne ha tre di meno e due, tre di troppo… diavolo l’ho già fatto questo ragionamento, quando? Con angioletto proprio forse? Sì, mi sa di sì. Che cazzo, sto davvero perdendo colpi, mia sorella a ottantuno anni si ricorda la cose meglio di me!»
Jonas deglutì, cercando di abbozzare un sorriso che però dovette uscirgli davvero male dato il modo in cui Cade rise di nuovo. Voleva vomitare.
«Dovresti vedere che faccia che hai!»
L’altro digrignò i denti. «Non sei divertente.» sibilò.
«Al contrario, sono estremamente divertente.»
«Non sto scherzando!»
«Neanche io.» rispose con più serietà.
Aspettò un momento, dandogli la possibilità di replicare, dopodiché Cade lo prese sotto braccio e lo costrinse a tornare a camminare. «Quando dicevo che l’unica cosa che mi turbava era la vostra differenza d’età non lo stavo dicendo solo per dire. Però se quello era il modo più veloce per guarirti allora mi va più che bene. E tu sei un moccioso morto al pieno dei tuo “istinti”, così li chiamavano ai miei tempi, gli “istinti giovanili”, Cicno è bello, non lo chiamo angioletto per nulla. Se fosse stato una donna c’avrei già provato, ma non ti biasimo di certo.» si fermò sul limitare del vicolo.
Jonas deglutì pallido e a disagio, troppe emozioni tutte insieme. Primi gli diceva quelle cose su sua sorella, sul trovare la sua famiglia se fosse stato lui a tornare in vita, su come fossero fratelli, gli scombussolava ogni singola cellula del corpo, lo faceva piangere dalla commozione e poi quello? Era troppo chiedere un po’ di pace, un po’ d’aria?
«Possiamo non parlarne?» chiese con voce flebile.
Cade si strinse nelle spalle. «Possiamo fare quel che ti pare, è un problema per te, mica per me.»
A quella semplice e banale affermazione Jonas non poté trattenersi dal sussultare e guardare allibito l’amico.
«Cosa?»
«Ho detto che per me non è un problema, è un problema per te; quindi, se ti mette a disagio possiamo non parlare, posso anche non farci battute se vuoi. Ma se poi sei tu, a voler dire qualcosa, allora sappi che potrai farlo quando ti pare, perché per me non è un problema.»
L’aveva ripetuto con chiarezza e tranquillità, come se stesse parlando del tempo, come se gli stesse spiegando il funzionamento di un oggetto. Gli fece tornare in mente quella volta che quasi vomitò addosso a Lu, la vergogna, l’umiliazione che gli provocava anche solo pensarci e la calma con cui invece ne parlava lui, perché chiunque può star male, è capitato a tutti ed è assurdo vergognarsi per qualcosa di così naturale come i sintomi di un’indigestione. 

È come un’indigestione, è come quella volta: chi non ha mai quasi vomitato addosso al proprio migliore amico perché si era incaponito a mangiare qualcosa che non avrebbe dovuto mangiare?
Che cosa stupida, che collegamento del cazzo, eppure- eppure mi sembra tutto così sciocco ora.
 
Era un problema per lui, non per Cade.
Non gli rispose subito, ma allungò la mano per stringergli leggermente il braccio, per fargli capire quanto avesse apprezzato.
Forse era così, avere un fratello. Forse era semplicemente esser accettati, esser compresi anche senza parole.
«Spero non siano ancora andati.» mormorò invece.
Cade gli sorrise e incoraggiante e lo trascinò finalmente fuori dal vicolo.
«Speriamo di no, o ce lo rinfacceranno a vita.»
 
Mestamente, senza neanche farci troppo caso, osservando l’espressione fintamente esasperata di Jonas e ascoltando le sue lamentele su quanto anche gli altri, in passato, li avessero fatti attendere per le più svariate motivazione, Cade si ritrovò a pensare quanto quelle parole suonassero bene.
Sì, gli sarebbe piaciuto.
 
 
“… a vita.”
 


 
*




La roccia contro cui poggiava la schiena era abbastanza liscia e regolare. Le pietre erano state impilate con cura, creando un muro di mattonato grezzo che il tempo e le intemperie avevano levigato con maestria.
Aveva passato anni della sua vita poggiata a quella parete, per ripararsi dal sole, dal freddo, dal vento e alle volte anche dalla pioggia, ma erano ormai passati i giorni in cui erano i fenomeni metereologici quelli da cui cercava riparo, le cose spaventose da cui cercava di fuggire.
Fece scrocchiare il collo nel modo più silenzioso possibile, allentandosi leggermente la cinghia sulla spalla destra, prima che un brontolio basso e quasi infastidito la richiamasse all’ordine.
Clara voltò il capo di lato, alla sua destra, lì dove Quarto stava accucciato, in attesa del momento giusto per scattare.
 
«Che c’è?» sussurrò piano.
Il lupo non distolse lo sguardo da qualunque fosse il suo obiettivo, rispondendole comunque a mezza bocca.
«C’è un motivo se quelle cinghie sono così strette ed è per far sì che l’armatura non cada durante il duello.»
Clara tornò a guardare dritta davanti a sé. «Avrei detto che so così strette pe non famme passà il sangue, sai?»
«Fai poco la spiritosa, bambina. Non hai un pelo folto come il mio e neanche una pelle così resistente, ti serve la corazza.»
«Infatti la ‘ndosso, così come m’è stato ordinato.» gli fece notare rotando leggermente le spalle, come a voler sciogliere i muscoli tesi. «Mi sta solo dando un po’ fastidio.»
«Impara a sopportarlo.»
«Di solito lo faccio, ma oggi-»
«Non sei più la mortale spaurita ed inesperta di un anno fa, questa volta puoi sconfiggerlo senza problemi e io sarò qui per aiutarti.»
Clara strinse le labbra ed annuì. Aveva ragione Quarto, la sua era tutta ansia per il mostro che avrebbe dovuto affrontare, per la prima volta da sola con il suo compagno, senza altra assistenza o senza supporto logistico nelle vicinanze nel caso in cui il Cinghiale dovesse sfuggirgli.
Un cinghiale che, per altro, non sarebbe neanche dovuto esser affar loro, bensì dei loro illustri cugini.
«Sono sempre gli stessi, cambiano nome ma i problemi che portano con sé son sempre quelli.» Le rispose Quarto senza che lei neanche aprisse bocca.
Avrebbe dovuto fargli di nuovo il discorso su quanto posse poco educato e a modo spiare nella mente di una signorina, quando quella missione fosse finita.
Se avesse potuto guardare con attenzione il muso del lupo avrebbe potuto vederlo alzare gli occhi al cielo, ma per il bene dell’incarico decise di tacere ed osservare come i piccoli cinghiali, quelli mortali, di una giusta dimensione, pascolassero tranquilli tra le zampe della bestia che Diana aveva liberato sulla terra.
Le stava simpatica Diana, continuava a preferire sua sorella, ma anche la Dea della Luna le piaceva molto.
L’aveva incontrata un paio di volte, al campo base, di passaggio o per riposarsi dopo una delle sue cacce. Se ne stava in disparte, solitaria ma mai maleducata, sempre a modo, seppur un po’ fredda con gli uomini, che le portavano un rispetto che non avrebbero mai portato ad una ragazzina della sua età. Clara aveva osservato con ammirazione quel corpo ancora prepuberale eppure più forte e scattante di quello di tanti guerrieri adulti, aveva osservato come dirigesse con gentilezza le sue cacciatrici, altre bambine, ragazze o giovani donne tutte vestite di bianco, con quelle strane divise così simili a quelle dei signorotti inglesi ritratti a caccia. Molto azzeccato in effetti, a pensarci bene.
Le prede che la Dea Diana e le sue cacciatrici riportavano erano sempre impressionanti, mostri che avrebbero dovuto disintegrarsi sotto i colpi dei loro dardi ma che rimanevano invece intatti, perfetti per essere trascinati indietro e consegnati nelle mani degli artigiani e dei cuochi.
Clara inclinò in capo pensosa, chissà se anche lei sarebbe riuscita a riportare la sua preda indietro, quell’enorme cinghiale che la Dea bambina le aveva proposto di cacciare al posto suo, per poter “riequilibrare” il mondo. Qualunque cosa significasse.
Prendendo un respiro profondo la ragazzina strinse la presa sulla lunga spada d’oro, rimpiangendo quasi d’aver rifiutato la proposta delle Cacciatrici di portare con sé arco e frecce, decisa invece a sconfiggere la bestia con quella stessa arma con cui, mesi prima, non era riuscita a sfiorarla.

«Quarto…» mormorò appena.
Il lupo annuì. «Al tuo comando, bambina, ti guardo le spalle.»
Gli sorrise, anche se lui non poteva vederla. «Lo so, grazie.»
Allungò la mano per sfiorare il fitto pelo marrone ed il lupo indietreggiò leggermente, facendole spazio vicino al bordo del muro.
Con un altro respiro profondo Clara strinse la spada con entrambe le mani e si sporse oltre il loro nascondiglio, giusto il necessario per vedere l’enorme Cinghiale darle le spalle, intento a brucare. Si ritrovò a pensare dispiaciuta che in quel momento la bestia non stesse facendo nulla e che alla fin fine non le piaceva neanche l’idea di attaccarlo così, alla traditora, prima che Quarto le desse un colpetto col muso, spingendola ad agire.
Clara si lanciò così verso il Cinghiale, il passo sicuro e veloce sul terreno battuto e leggermente secco, la fine dell’estate si sentiva nell’erba ora più verde che cresceva in macchie sempre più grandi nei campi già mietuti, che avrebbero riposato per l’intero inverno prima di ricevere la prossima semina.
Alcuni dei cinghiali più piccoli si accorsero velocemente di lei e Clara quasi si stupì di come quello più grosso si decise a voltarsi nella sua direzione solo quando ormai era a portata di spada.
Disegnò un arco ampio davanti a sé, facendo scintillare la lama d’oro sotto il sole settembrino, ferendo il fianco destro dell’animale che, sorpreso dal dolore, lanciò un suono stridulo e alto, mettendo in fuga tutti gli altri cinghiali.

«Difesa alta. Mira dietro la testa, un fendente secco e non lo fai neanche soffrire.»
 
Abbaiò Quarto, il latrato animalesco che si traduceva in parole nelle sue orecchie tese a cogliere ogni minimo suono.
Non gli rispose, fece a mala pena un cenno d’assenzo, mantenendo tutta la sua concentrazione sul Cinghiale, sul grugno sporco di terra e gli occhi porcini fissi su di lei, furiosi.
Fu facile prevedere la mossa successiva del suo avversario, Clara lo vide scalpitare un paio di volte prima di abbassare la testa e caricarla a piena potenza.
Si spostò di lato, alzando la spada e calandola velocemente sulla bestia, cercando di mirare dietro il collo riuscendo però a colpirlo solo all’altezza delle clavicole.
Il Cinghiale si lamentò di nuovo, incespicando nel tentativo di frenare e di rigirarsi velocemente per poter tornare ad attaccare, ma Clara non aspettò certo che tornasse in posizione, non avrebbe gettato al vento quel vantaggio.
Si guardò intorno velocemente, cercando un rialzo, qualcosa che le permettesse di colpire dall’alto, con più forza, aiutata magari da uno slancio maggiore. Il Cinghiale le sembrava più grande di quello che aveva affrontato l’estate scorsa, le sembrava più alto e anche dal pelo più chiaro, quasi dorato, ma poteva anche esser dovuto alle condizioni metereologiche: quel giorno il cielo era abbastanza limpido mentre la volta precedente era nuvoloso, cupo, minacciava pioggia e c’era addirittura un arcobaleno sbiadito se non ricordava male.
Corse verso quello che era stato il suo nascondiglio, l’unico edificio nelle vicinanze che poteva far al caso suo, sperando che Quarto le leggesse nella mente e capisse quali erano le su intenzioni.
Il lupo dovette intuirle facilmente perché si spostò rapido davanti al muro, accucciandosi per farle da supporto, spingendola verso l’alto nel momento esatto in cui Clara poggiò il piede sul suo dorso, issandosi verso le travicelle che spuntavano dal muro di pietra, ringraziando silenziosamente gli interminabili turni d’allenamento in cui le avevano fatto scalare pareti rocciose con le armi strette in pungo ed i pesi legati alla vita.
Udì il Cinghiale grugnire e riprendere la carica e scorse, con sollievo, Quarto allontanarsi velocemente dal casolare, lasciandola combattere da sola il suo primo, verso scontro.
Le scappò un sorriso, ma durò solo una frazione di secondo, prima che riprendesse bene la presa sulla sua spatha e flettesse leggermente le gambe, pronta, in posizione, per saltare addosso alla bestia al momento giusto.
Eppure c’era qualcosa, come un vago brusio di sottofondo, lo sfrigolio lontano dell’acqua su di una piastra bollente, che le solleticava la mente, qualcosa che avrebbe dovuto sentire ma a cui invece sembrava quasi sorda.
 
«CLARA! NON È QUELLO GIUSTO!»
 
La voce di Quarto la raggiunse come uno dei dardi della Dea Diana, dritto sulla tempia nel momento esatto in cui il Cinghiale si era quasi schiantato contro il muro, il momento esatto in cui Clara aveva spinto con tutte le sue forze ed era saltata in aria, la spada impugnata due mani, la lama rivolta vero il basso e tutta la potenza del suo attacco concentrata sulla punta affilata che trapassò la pelle spessa della bestia, affondando nei muscoli tesi, entrando precisa dentro la ferita che aveva inferto precedentemente.
Il Cinghiale lanciò un grugnito ferito, ma Clara si rese ben presto conto di aver lisciato la spina dorsale e che il suo colpo, per quanto doloroso, non doveva aver preso nessun organo vitale, nessun tendine o muscolo impostate.
 
Dannazione!
 
Piegò le braccia, stringendosi all’elsa, cercando di far forza per tenersi alla spada quando il Cinghiale iniziò a scuotersi, a correre in circolo per liberarsi di lei e della sua lama.
 
«Tieni duro! Non mollare!»
 
Quarto scattò verso di lei, Clara riuscì a scorgere solo frammenti di immagini, il corpo del lupo che cresceva, diventando più grande ma non abbastanza da poter doppiare la stazza della bestia.
La ragazza chiuse gli occhi, spingendo con le ginocchia contro il dorso del Cinghiale, le mani iniziarono a bruciarle tanto la stretta sull’elsa era serrata. Doveva resistere e rimanere in sella, se fosse caduta a terra quel mostro l’avrebbe calpestata a morte, poco ma sicuro.
Un latrato familiare le risuonò vicino ed il Cinghiale cacciò un altro gemito di dolore, barcollando pericolosamente.
 
«Fianco destro, destro!» le gridò Quarto.
Clara spalancò gli occhi, buttando tutto il proprio peso verso sinistra, un ginocchio sulla schiena della bestia ad un piede impuntato, pronta a sfruttare l’attimo giusto per estrarre la sua spada e saltare via, di nuovo.
Quando le zampe del Cinghiale cedettero Clara strappò l’arma dal dorso del mostro e si buttò a terra nella direzione opposta, rotolando velocemente prima di issarsi sulle ginocchia. Quarto le si affiancò subito, il muso sotto il braccio, ad incitarla ad alzarsi in fretta.
 
«Che vuol di’ che non è quello giusto? Quanto ce ne stanno, dio santissimo?» chiese con voce affannata.
Quarto ringhiò. «Più di uno, per certo, ma non tutti nostri. Questo ha il pelo dorato, è il loro, non quello di Diana.»
Clara si mise in posizione difensiva; di fianco a Quarto, al pieno della sua forma, sembrava una bambolina, un giocattolo, ma la spada sporca di sangue che stringeva tanto da non sentire più le dita, parlava per sé: non era un gioco, non era un allenamento, era la vita che l’aspettava, che avrebbe vissuto fin all’ultimo respiro, fino all’ultimo scontro.
«Zampe? Lo tiramo giù così e quando sta a terra gli taglio la testa.» propose cercando di stabilizzare il respiro.
Quarto non le rispose subito, osservando invece il Cinghiale rimettersi in piedi a fatica.
«Non so se possiamo, te l’ho detto, non è uno dei nostri.»
«Non possiamo neanche lasciarlo così qui, non dopo che l’ho attacco pe prima.»
«Allora lo stordiremo, ma non lo uccideremo, capito?»
Clara digrignò i denti ma annuì. «Sì, Comandante.» asserì secca.
Anche il lupo fece un cenno con il capo e poi, senza neanche una parola, i due si gettarono di nuovo verso la bestia, pronti ad atterrarla, sfinirla finché non avesse avuto più forse per rialzarsi.
Nel cielo nuvole sporadiche avevano iniziato ad ammassarsi assieme, coprendo parzialmente il sole e gettando ombre leggere sulla terra asciutta, sui fili d’erba che gli zoccoli del Cinghiale aveva calpestato, sporcandoli di sangue denso e scuro, così diverso da quello degli animali terrestri eppure così simile.
Clara puntò con precisione alle zampe della bestia, al muscolo ampio e guizzante della coscia, ripetendosi a mente tutti i punti dolorosi ma non fatali in cui affondare la lama, mentre al suo fianco Quarto puntava direttamente al collo del Cinghiale, per tenerlo occupato mentre lei lo feriva.
Il lupo gettò facilmente il mostro di nuovo a terra, facendolo rotolare sulla schiena, le zampe posteriori che scalciavano nervose. Clara si ritrasse appena in tempo per schivare un calcio, menando un fendente dietro la parte alta della coscia, quasi all’attaccatura della coda. Il Cinghiale gemette ancora e Clara vide quasi a rallentatore la bestia abbassare il muso per colpire il suo compagno, una delle zanne del Cinghiale paurosamente troppo vicina alla gola di Quarto.
Con uno scatto felino la ragazza menò un mal rovescio il aria, un gesto involontario ed inutile, che non le avrebbe mai permesso di parare il colpo per il suo amico, era troppo lontana, la spada troppo corta. Un brivido le percorse tutto il braccio, vibrando nell’elsa fasciata di cuoio, propagandosi per tutta la lunghezza della spatha come una scintilla risale il cordino di una miccia. Fu una questione attimi, la lama brillò fiocamente prima di rompersi in una decina di frammenti e scattare veloce verso il suo obiettivo.
La punta d’oro tranciò di netto la zanna, che volò via, sotto i grugniti del Cinghiale ed il latrato sorpreso di Quarto.
Il lupo si spinse via con le zampe anteriori, saltando indietro e voltandosi subito verso Clara, verso la frusta d’oro in cui si era divisa la lama, che tornò perfettamente integra nel momento in cui la ragazzina la ritirò a sé.
Si fissarono per un momento, sconcertati, mente il Cinghiale grugniva e gemeva a terra.
 
«Cosa hai fatto?»
«Non lo so-»
 
Un tuono rimbombò nel cielo, le nuvole s’addensarono velocemente sopra di loro ed un lampo illuminò l’intero campo al posto del sole ora coperto.
Non appena la luce si estinse un rumore familiare ma estraneo iniziò ad avvicinarsi, sempre più, sempre più, finché un’enorme figura animalesca non apparve davanti a loro, chiudendo la via di fuga al Cinghiale, ferito, irrequieto e ora anche spaventato.
Clara si spostò in automatico verso Quarto, allungando la spada verso di lui, come a proteggerlo dall’arrivo di quello che riconobbe facilmente come un gigantesco lupo grigio.
 
Quel lupo grigio. È lui.
 
Quarto dovette pensare la stessa cosa, perché il ringhio basso che si lasciò sfuggire sembrava più di fastidio che di minaccia.
Il lupo grigio fissò l’altro per un momento prima di puntare gli occhi color ghiaccio sul Cinghiale, scoprendo le zanne e abbassando le orecchie appuntite, sfidandolo quasi a muoversi.
A quel gesto, dalla groppa del lupo, fece capolino una testa nera che a Clara sembrò d’aver visto una vita fa.
 
Lo era, era una vita fa, prima che iniziasse questa, prima che iniziassi quella vera.
 
Era il ragazzo tedesco dell’estate scorsa, quello che l’aveva aiutato proprio con il Cinghiale. Beh, non quel Cinghiale, a quanto sembrava.
 
«È roba loro, se la sono presa con calma.» borbottò la voce infastidita di Quarto direttamente nella sua testa.
Clara annuì, ma non ritrasse la spada, non la richiuse, portandola invece davanti a sé, bassa, ma in una posizione abbastanza comoda per poterla alzare subito e parare eventuali attacchi. Anche se non sapeva quanto avrebbe potuto parare un attacco di un lupo di quelle dimensioni e di un guerriero, perché ormai sapeva che quello era il ragazzo: un guerriero che combatteva con due spade elettrificate.
 
Infami fortunati, tutti quei semidei con poteri divini.
 
Il ragazzo dovette leggere fin troppo bene l’aria che tirava in quel campo, perché lo sguardo curioso che aveva sfoggiato sporgendosi oltre la testa del suo lupo venne velocemente mutato in un’espressione più seria ma aperta: era palese come non volesse porsi come una minaccia.
Scese quindi dalla sua cavalcatura con movimenti lenti e plateali, atterrando senza barcollare e alzando subito le mani vuote, disarmante.
Clara lo osservò con occhio critico, dal pantalone stretto e la casacca precisa, entrambi di ottima fattura, di stoffa pregiata. Gettò un’occhiata agli strani stivali di pelle e poi a ciò che aveva in spalla, quella che sembrava una corda dal vago luccichio metallico. In fine guardò il ragazzo in volto, dritto negli occhi.
Se un anno prima gli era sembrato un giovane molto bello ma dal volto ancora immaturo, era evidente che quei lunghi mesi avevano scolpito spigoli più definiti, scavando a colpi di scalpello le guance da bambino, senza però riuscire ad intaccare gli occhi blu, scintillanti e gentili.
Il ragazzo le sorrise esattamente come aveva fatto la prima volta, con una punta di timidezza ed incertezza.
Clara serrò le labbra e fece poggiare la punta della spada a terra, presupponeva quello fosse un segno abbastanza gentile da parte sua.
 
«Non credo tu abbia imparato l’italiano, vero?» chiese a voce alta, scandendo le parole con attenzione e nascondendo qualunque traccia di dialetto.
L’altro inclinò il capo di lato, una smorfia imbarazzata a piegargli il sorriso.
«Es tut mir leid, ich verstehe dich nicht.» rispose lui stringendosi nelle spalle.
Clara sospirò. «Dannati crucchi.» borbottò rivolta a Quarto, che annuì concorde.
«Posso comunicare con il suo lupo.» la informò il compagno.
La ragazzina alzò un sopracciglio, sorpresa. «Sai il tedesco dei lupi e non quello degli uomini, seriamente?»
Quarto proruppe in un brontolio che sembrava quasi un ringhio. «Non parliamo in tedesco, sciocca. Così come non parlo italiano con te.»
«A me continua a suonare come italiano.» replicò lei.
«Non mi pare il momento per discutere ancora di questa cosa.»
 «Geht es euch allen gut? Vielleicht seid ihr verletzt?» li richiamò il Tedesco.
Clara gli lanciò uno sguardo confuso per poi girare a mala pena il volto verso Quarto.
«Cosa vuole?» chiese con un sorriso palesemente imbarazzato.
Il lupo alzò gli occhi al cielo, un’azione a cui Clara non riusciva ancora a venire a capo, ed abbaiò un suono secco, rivolto al lupo grigio.
Quello non si mosse e non sembrò neanche rispondere all’altro, ignorandolo.
«Bastardo.» ringhiò chiaro Quarto.
Il ragazzo dovette aver in qualche modo compreso quel aveva chiesto o detto Quarto, perché si affrettò ad avanzare, allungando le mani in avanti, scuotendole leggermente.
«Tut mir leid, ignorieren sie ihn. Wir sind wegen des Wildschweins hier, wir wollen keine. Ich entschuldige mich.» disse rivolto a loro, poi si voltò verso il lupo e disse qualcosa in una lingua completamente diversa.
Tornò a sorridere a Clara, sfilandosi lentamente la corda di spalla ed alzandola leggermente, prima di indicare il Cinghiale.
La ragazzina annuì piano. «Vuoi legarlo?» gli chiese, cercando di mimare il gesto di un nodo, malgrado dovesse sembrare abbastanza ridicola vito che teneva ancora la spada nella mano sinistra.
Il moro le sorrise più sinceramente, ridacchiando come un qualunque adolescente, cosa che lo fece sembrare incredibilmente più umano e che fece sembrare la situazione incredibilmente più ridicola.
«Binden?» disse lui imitando i gesti di Clara.
Lei annuì ancora. «Legare.»
«Leghere?» Ripeté incerto.
A quello Clara annuì con più decisione. «Quasi, ma buono.» rispose mostrandogli il pollice volto verso l’alto. Deglutì poi, morsicandosi piano l’interno guancia. «Vuoi una mano?» chiese rivolta a lui. «Posso dargli una mano?» rivolta questa volta Quarto.
Il lupo annusò l’aria, fissando malamente l’altro lupo. «Stai attenta agli zoccoli, rifodera la spada ma tienila a portata.»
Non appena ebbe ottenuto il permesso Clara poggiò una mano sul piatto della lama, spingendola leggermente sino a farla richiudere in un coltellino tascabile.
Il ragazzo osservò l’azione rapito, battendo le palpebre prima di rialzare la sguardo su di lei, inclinando ancora una volta la testa in quello che era diventato il suo gesto più esplicativo di chiedere qualcosa.
«Ti aiuto, vuoi?» scandì mostrandogli i palmi delle mani e indicando prima la corda e poi il Cinghiale.
«Willst du mir helfen? Helfen?» domandò dubbioso.
Clara sospirò pesantemente, sarebbe stato davvero difficile così.
«Aiutare, tipo, insieme? Lo leghiamo? Elf- elfem?» provò questa volta lei a ripetere, indicando di nuovo la corda, sé stesse, l’altro e il Cinghiale.
Il ragazzo premette le labbra in un’espressione confusa, ma sembrò volersi ugualmente fidare, perché annuì lentamente, allungandole un capo della corda con fare incerto quando Clara la indicò ancora.
Lei gli sorrise incoraggiante, poggiandosi una mano sul petto.
«Clara.» disse solo, poi indicò il suo compagno. «Quarto.» e fece il numero quattro con la mano libera.
Le presentazioni sembrarono molto più chiare, perché il giovane s’illuminò, annuendo entusiasta.
«Alphonse und Enny»
Clara gli porse la mano ed Alphonse gliela strinse subito, saldo ma dal tocco freddo, come se fosse stato in mezzo alla neve fino a quel momento e non in un prato vicino ai castelli romani sul finire dell’estate.
«Bene, leghiamo questo mostro, va bene? Legare- come avevi detto prima, bind?»
Alphonse rise piano, una risata quasi timida, annuendo leggermente mentre tirava la corda metallica tra le mani fredde e pallide, tenendo lo sguardo fisso sul Cinghiale. «Binden, ja, leghere
Si misero a lavorare in silenzio, sotto lo sguardo freddo e immobile di Enny e quello caldo e attento di Quarto.
Il Cinghiale sembrava quasi aver perso ogni voglia di combattere, di scappare, rimase fermo per tutto il tempo che servì ai due ragazzini per legare la corda saldamente attorno alle zampe della bestia ed assicurarsi che i nodi fossero ben stretti.
A Clara fece quasi pena, abbandonato così sul terreno, sconfitto. Alla fine in Cinghiale non le aveva fatto nulla, non aveva ferito o fatto danni, era stata lei ad averlo attaccato per primo, ad aver optato per la violenza invece che per un approccio più- diplomatico?
Neanche la Dea Diana le aveva detto alcun che, però, eppure lei doveva saperlo che quello non era il suo Cinghiale, che era quello di qualcun altro, perché le aveva detto di ucciderlo? Se sapeva che quello non era lo stesso mostro che l’aveva attaccata l’estate prima, mostro che doveva invece essere quello creato dalla Dea stessa, presupponeva, perché Diana aveva proposto proprio a lei di andare in missione, di rifarsi contro una bestia che non le aveva fatto nulla?

«Geht es dir gut, fraulein Clara?» le domandò Alphonse tirandosi in piedi e porgendole una mano.
Clara si riscosse dai suoi pensieri, guardando il ragazzo per un momento prima di accettare, seppur con un po’ di titubanza, la mano che gli stava offrendo.
«Il Cinghiale. L’ho ferito, anche se non stava facendo nulla di male. È ferito, capito? Ferita, qui vedi? Puoi farlo curare? O lo ucciderai?»
Sapeva che quello era un discorso troppo complesso per poter essere spiegato a gesti, ma ci provò ugualmente, indicando la ferita che lei stessa aveva inferto al Cinghiale, poggiandoci una mano sopra, lievemente.
Alphonse la guardò crucciato.
«Was? Konnen sie das wiederholen?» mosse la mano a farle cenno di ripetere e Clara provò a scandire lentamente.
«Fe-ri-ta.» disse indicando il pelo macchiato di sangue del Cinghiale.
«Wunde?» provò lui, indicando a sua volta lo squarcio e poi, tirandosi su una manica, una vecchia cicatrice.
Clara annuì. «Curare. Cu-ra-re.» ripeté puntando il dito sulla cicatrice del ragazzo.
«Behandeln?»
«Non lo so, non- dannazione.» si inginocchiò di nuovo vicino al Cinghiale e si frugò nelle tasche, cercando il suo fazzoletto e piegandolo con attenzione prima di premerlo sulla ferita della bestia.
Alphonse la guardò sorpreso, ripetendo ancora quella parola.
«Behandeln, ja. Willst du ihn heilen? Du?» la indicò, Clara scosse la testa e indicò lui. «Mich?»
«Te, si tu, non io. Io non sono capace. Te- come hai detto, du? Curare… ilen? Lui.»
Lui la guardò davvero confuso, ma annuì lentamente.
«Ja, wir konnen es heilen.»
Intuendo più dal suo linguaggio del corpo che dalle sue parole che il ragazzo avrebbe aiutato il Cinghiale, Clara gli sorrise più ampiamente, sollevata.
«Bene.» sospirò. Si volse verso la bestia, facendogli qualche leggera carezza. «Mi dispiace, non era nulla di personale, solo ordini. Non sapevo fossi tu.» si scusò a mezza voce.
Si rialzò in piedi, spolverandosi i pantaloni e ritrovandosi, impacciata, davanti allo sguardo curioso e limpido dell’altro.
Alphonse le sorrise e le porse ancora la mano, stringendogliela.
 
«Du hast wirklich schone augen.» le disse indicandosi vagamente la parte alta del volto ed indicando dopo lei.
Clara inclinò il capo senza capire.
«Cosa?»
Lui rise. «Augen. deine augen. Da ist etwas in deinen augen. Sind wunderbar.»
Questa volta indicò più chiaramente i suoi occhi e Clara si ritrovò a ritrarsi sorpresa.
I suoi occhi? Gli occhi dei gatti? Quelli maledetti che tutti le avevano sempre detto quanto fossero strani, come fossero il simbolo evidente dei peccati di suo padre?
Alphonse dovette intuire che quel commento, benché non compreso, non dovesse essere molto gradito e si affrettò, imbarazzato, a replicare con una serie di commenti mezzi balbettati che suonarono ancora più confusi ed estranei delle sue precedenti parole.
Alla fine sospirò, sgonfiandosi come un impasto mal lievitato. Alzò lo sguardo impacciato, sorridendo appena e mormorando, ancora, qualcosa di incomprensibile.
 
«Ti sta facendo un complimento, bambina, è sincero.» le sussurrò la voce di Quarto nella testa.
Clara deglutì, reticente nel credere a tale possibilità, ma certa che il suo compagno non le avrebbe mai detto una bugia.
«Anche i tuoi sono molto belli.» si risorse a dire, indicando a sua volta gli occhi del ragazzo e rendendosi conto di come questo ancora non le avesse lasciato la mano.
Alphonse le sorrise più convinto. «Danke.»
Questo Clara lo capì subito. «Prego.»
Rimasero fermi a guardarsi di sottecchi, imbarazzati dalla piega che quel tentativo di conversazione aveva preso, finché Quarto non proruppe in un ringhio che sembrò quasi un colpo di tosse ed i due ragazzi saltarono sul posto, lasciandosi la mano, proprio come avevano fatto al loro primo incontro.
Solo che Clara non era più la ragazzina spaventata e confusa che era l’estate scorsa, indifesa e ignara del suo mondo. Chissà com’era cambiato l’altro, chissà se anche lui non era più quello stesso ragazzino che Clara aveva incontrato in una situazione tanto simile quanto differente. Chissà se aveva una storia simile alla sua, dei genitori così diversi da lui, ormai distanti.
Alphonse posò lo sguardo sul Cinghiale e si piegò su di lui, allungandosi verso il fazzoletto che Clara aveva posato sulla ferita che lei stessa aveva inferto all’animale, ma la ragazza lo fermò, scuotendo la testa.
«Non è molto, ma tampona un po’ il sangue. È tutto quello che posso fare.» replicò debolmente.
«Scusa ancora.» ripeté al Cinghiale carezzandolo sul fianco. «Per questi e anche per la zanna.» continuò adocchiando l’osso rotto.
Il grande lupo grigio si mosse d’improvviso, abbandonando la posizione da caccia e volgendo il muso lungo ed affilato verso Alphonse, parlandogli probabilmente come faceva Quarto con lei.
Clara vide il ragazzo annuire e voltarsi un’ennesima volta verso di lei, sorridendole ancora.
«Ich gebe es dir eines tages zuruck.»
Lei gli sorrise con un pizzico di ironia. «Non c’ho capito niente, ma presumo vada bene lo stesso.» disse sincera stringendosi delle spalle.
Alphonse dovette capirla perché scoppiò a ridere di gusto, strappando un ghignetto soddisfatto anche all’altra. Le rivolse un ultimo sorriso ampio, mettendo in mostra i denti candidi e dai canini quasi affilati, o forse era stata solo una sua impressione.
Alphonse strinse la corda, tirandola con gesti secchi per farne un cappio e porlo ad Enny, che lo morse senza pensarci troppo.
Salì poi in groppa al lupo con agilità, salutandola da là su.
«Auf Wiedersehne, fraulein Clara, ich hoffe wir sehen uns bald wieder. Tante hatte es mir versprochen.»
Con quelle parole che per Clara potevano significare tutto e nulla, il ragazzo diede un leggero colpo al collo del Enny ed il lupo, senza il minimo sforzo, balzò verso l’alto, verso il cielo, trascinandosi dietro il peso inerme del Cinghiale dorato e sparendo con un lampo tra le nuvole accorse ad oscurare il sole.
Clara osservò i cumuli diradarsi con lentezza, lasciando spazio ai raggi iridescenti del sole che le brillarono negli occhi da gatto come avrebbero fatto con delle pietre preziose.
La ragazzina si girò con pacatezza verso Quarto, una strana calma a correrle nelle vene, come se le nubi avessero portato via con sé tutta l’ansia e la tensione di quella sua prima missione.
 
«Cos’è successo?» domandò rivolta al lupo.
Quarto le si avvicinò sedendolesi accanto, le sue dimensioni tornate ad essere quelle sopra la media dei lupi normali, ma non più sproporzionato come prima.
«Hai incontrato di nuovo uno di loro, degli altri.»
«Il Cinghiale era loro.»
«Sì, perdonami, me ne sono reso conto solo quando era ormai troppo tardi.» le rispose dispiaciuto.
Clara scosse il capo. «Ci hanno dato una missione, degli ordini, perché avremmo dovuto dubitare?»
«Si deve sempre dubitare, bambina.»
«Anche delle parole di una Dea?»
«Soprattutto delle parole di una Dea, o di un Dio. Loro non sono come noi, non hanno le nostre stesse preoccupazioni, non vivono i nostri stessi pericoli.»
Lei espirò, sedendosi a terra. «La Divina Diana lo sapeva, vero?»
«Probabilmente è per questo che ha mandato te, era la tua prima missione, se non ti fossi accorta di nulla sarebbe stato più facile da giustificare.»
«Per me forse, ma per te?»
Lui sbuffò, come solo un lupo poteva fare. «L’unica punizione che temo è quella di mia Madre, gli altri Dei non possono toccarmi.» rispose con una certa arroganza.
Clara rise «Cosa ti ha detto l’altro lupo?» domandò allora curiosa.
«Nulla. Il bastardo era troppo occupato a sottomettere quell’altra povera bestia con il suo sguardo di ghiaccio.» ringhiò infastidito.
La ragazzina annuì, rimanendo poi in silenzio per lunghi minuti, a fissare le trace di terra smossa dagli zoccoli del Cinghiale, quelle di sangue dello stesso animale. Fu proprio tra tutte quelle orme e quelle zolle che Clara scorse qualcosa di chiaro e quasi lucido.
Si alzò facendo leva sulla mani, strofinandole poi per togliersi il terriccio di dosso.
Quarto la seguì con passo felpato, curioso, il muso abbassato ad annusare il terreno, quello circostante e anche quello su cui poggiava l’oggetto del loro interesse.
Clara si abbassò per raccogliere quella che si rivelò essere la parte superiore della zanna del Cinghiale, rigirandosela tra le mani ed osservandola con attenzione.
«Sembra quasi avorio, tanto è lucida e splendente.»
Il lupo la annusò con attenzione, facendo poi uno strano verso che Clara aveva imparato ad associare alla risata ironica del suo compagno.
«Tienitela, è un bel trofeo di guerra.»
«Non mi sembra giusto, sai? Forse dovrei ridargliela. Se mai rivedrò quel ragazzo…»
«Oh, ma certo, magari lo rivedrai quando ti ridarà il fazzoletto, principessa.» la prese in giro lui bonariamente.
Clara lo guardò arricciando il naso, combattendo contro la voglia di fargli la linguaccia. Avevano ragione i suoi superiori, passare troppo tempo con i cuccioli le stava facendo prendere cattive abitudini.
«Potrei, sì.» rispose quasi con tono di sfida.
Se Quarto fosse stato umano probabilmente avrebbe alzato un sopracciglio scettico.
«Come no, se non lo recuperiamo prima noi.»
«E come pensi di fare? Gli corriamo dietro? Sai volare per caso e non mi hai mai detto nulla?»
Lui latrò una risata decisamente divertita. «No, bambina, lo andiamo a recuperare verso la fine del campo. Hai lasciato un quadrato di stoffa sulla coscia di un animale che è stato appeso per le zampe. Ormai è un anno che studi con noi, sono sicuro che sai cos’è la gravità, vero?»
Clara si sentì arrossire, anche se era più che consapevole che probabilmente nessun rossore stesse veramente coprendo le sue guance.
Dio, che cosa imbarazzante, non c’aveva minimamente pensato, aveva solo lasciato il fazzoletto poggiato così, a reggersi alla ferita solo grazie all’umidità del sangue.
«Hai visto dov’è caduto?» preferì chiedere imbronciata.
Quarto annuì solo, incamminandosi verso il punto in cui aveva visto svolazzare il pezzo di stoffa, annusando il terreno alla ricerca del sangue della bestia, dell’odore di Clara stessa.
Fu con una discreta confusione però che Quarto non trovò nulla: niente fazzoletto, niente tracce di sangue, del pelo dell’altro lupo, nulla.
La ragazzina lo guardò confusa a sua volta, senza capire cosa ci fosse di strano, magari il vento l’aveva soffiato via e ormai il suo fazzoletto era perduto per sempre, perché l’altro sembrava così perplesso, così-
 
«Non mi piace. Non mi piace per niente.»
«Cosa? Che c’è che non va? Era solo un fazzoletto, lo sai che non-»
«Dobbiamo tornare al Campo, e velocemente anche.» tagliò corto lui, la sua struttura ossea che iniziava ad ingrandirsi, pronta per supportare il peso di Clara nel momento in cui gli sarebbe salita in groppa.
La ragazzina aspettò pazientemente che il lupo arrivasse alle giuste dimensioni, prima di salire velocemente e con un pizzico d’ansia che tornava a farsi vivo.
«Perché? Puoi dirmi che succede? Me fai peroccupà.» disse a bassa voce, incapace ormai di trattenere il pesante accento romano con cui era cresciuta.
«Non ce n’è motivo, sei al sicuro ora, ma il fatto che non ci siano odori non mi piace. È come se qualcuno avesse cancellato ogni traccia. E una cosa del genere può farla solo un dio.»
Clara annuì, improvvisamente più attenta, vigile. «E se un dio si spreca a cancellare le tracce di una semplice caccia vuol dire che c’è qualcosa che non va.»
Quarto ringhiò in assenso, balzando in avanti e iniziando a correre rapido verso la zona centrale di Roma, lontano dai campi e dai vigneti della periferia.
 
«O qualcuno.»
 


 
*
 



Nathan allargò leggermente le braccia, sfiorando con le punte delle dita i muri che chiudevano lo stretto passaggio tramite cui stavano camminando. Le suole dei suoi scarponi stridevano di tanto in tanto, il mattonato era scivoloso ma a voler essere onesti lui, tutta quell’umidità, non la percepiva per niente.
Malgrado fossero ormai alla sesta prova Nathan ancora non aveva capito esattamente come funzionasse il tempo nei Campi Elisi.
 
E dire che c’ho passato tutta la dannata morte.
 
Ma non era mai stata un’informazione che lo riguardasse davvero, che lo interessasse in alcun modo. Quando si allenava con sua madre nessuno dei due si preoccupava del tempo o della temperatura, non c’era pericolo che piovesse, che fosse nuvoloso, che tirasse troppo vento. Lucy si era domandata per molto tempo come fosse possibile che le piante dell’Ade continuassero a vivere e prosperare pur senza pioggia e non si era data pace finché Shilon Yu non le aveva mostrato gli scheletri giardinieri che si occupavano d’annaffiare ogni aiuola troppo distante dai laghetti o dai fiumiciattoli che percorrevano gli Elisi.
Cosa poteva importar loro della temperatura, dopotutto? Erano morti tanto.
Adesso invece la storia era diversa, le condizioni climatiche e ambientali potevano giocare un ruolo importante nelle prove, così come l’aveva giocato l’edera della prova di Persefone, pianta fin troppo viva e quasi cosciente, o la Foschia, anche se questa non aveva senso annoverarla tra le condizioni metereologiche visto che erano stati gli Dei stessi a muoverla e comandarla.
Se fosse stato necessario, però, almeno avevano Cade, capace di manipolare le correnti e di allontanare da loro “nuvole” indesiderate.
Gettò uno sguardo sopra la spalla, cercando di scorgere la fine della fila, dietro Eliza e Lea che ostruivano la sua visuale. Il figlio di Eolo era ovviamente indietro insieme a Jonas e la cosa non lo sorprendeva affatto: dopo una prova così impegnativa, emotivamente parlando, specie per uno come lui che non faceva altro che parlare della sua famiglia, di sangue o putativa che fosse, era ovvio che il giovane dovesse esserne uscito come minimo provato e benché non fosse tornato allucinato come Eliza o con gli occhi lucidi come Jonas, Nathan aveva notato perfettamente l’espressione vacua che gli sbiadiva il volto ogni volta che l’attenzione generale si spostava su qualcun altro. Non doveva essergli andata male, ma doveva esser stata decisamente una bella batosta e se quello che gli serviva per riprendersi era starsene in disparte e distrarsi parlando con il ragazzino, Nathan non glielo avrebbe certo impedito.
Tornò a guardare davanti a sé, attento allo vista che gli si apriva davanti sempre di più, al profilo di un enorme tempio bianco, scintillante di paramenti oro e dei colori brillanti, quasi cangianti con cui erano state dipinte statue e bassorilievi. Era senza ombra di dubbio il tempio di Zeus e Nathan si sentì un completo idiota ad aver pensato che Cade, tra tutti loro, potesse essere suo figlio. Probabilmente quelli che ricadevano di più nello stereotipo del figlio del re degli Dei erano lui e Cicno, altro che quel roscio mal pelo.
Si costrinse a mantenere lo sguardo dritto davanti a sé e non girarsi per cercare il figlio di Apollo, che probabilmente si trovava dietro tutte le ragazze, lontano da Cade ma a portata di mano nel caso si fosse sentito male.
Stringendo la mascella Nathan si domandò ancora una volta quale fosse il gioco del greco: gli costava ammetterlo ma tra di loro era probabilmente quello con più possibilità di tutti di vincere, forse persino più di lui. Sì, certo, Nathan era un figlio della guerra, era stato addestrato dal Campo, da Chirone e poi anche dai Marines, ma Cicno era cresciuto sfruttando tutti i suoi poteri al massimo, fortunato figlio di puttana dotato di tutti i poteri del suo maledetto padre. Eppure il suo nome continuava a stridergli in testa, letteralmente, come unghie su una lavagna, un suono fastidioso, qualcosa che non era proprio giusto, a cui mancava un pezzo.
Qualunque cosa fosse, però, se ne sarebbe dovuto occupare poi.
Uscì dal vicolo con più sicurezza di quanta non ne avesse davvero, infastidito dalla quantità di anime che si aggiravano per la piazza, capannelli di semidei provenienti da ogni angolo della terra, ogni singola epoca della storia, tutti riuniti in gruppi e nessuno, neanche uno, sorpreso di vedere altri gruppi proprio come loro.

Lo sappiamo tutti, siamo tutti consapevoli di come ci siamo divisi, di essere tutti squadre pronti a combattere gli uni contro gli altri. Ormai non possiamo più ignorarlo e non possiamo neanche più fingere che questa sfida non sia una cazzo di battaglia d’élite.
 
Malgrado non volesse dar troppo spazio alla speranza, Nathan non riuscì ugualmente ad esimersi dal cercare volti famigliare, amici morti prima di lui magari, di cui poteva ancora ricordare chiaramente il volto.
 
«Cerchi i tuoi?»
Neanche gli avesse letto nel pensiero Eliza gli si affiancò, le mani sui fianchi e la schiena dritta, impettita nella postura ma anche guardinga.
Nathan annuì lentamente. «Non voglio illudermi, ma sarebbe stupido pensare che nessuno dei miei amici o dei miei compagni al Campo sia arrivato qui troppo presto e che ora voglia tornare su.»
Lei fece un verso d’assenso, poi girò appena la testa per far cenno a qualcuno di avvicinarsi.
«Possiamo cercarli assieme mentre Lea e Cicno svolgono la loro prova, lasciamo Cade, Jonas e Jane davanti al tempio di Apollo e io e te andiamo a cercare i tuoi amici.» gli propose con semplicità.
Nathan non riuscì a non sorridere, non provò neanche a negarsi quel semplice gesto e allungò una mano alla cieca per posarla sulla spalla dell’altra e stringere gentilmente.
«Grazie, potrei accettare.» ammise grato. Eliza era probabilmente la sola, insieme a Cade, che potesse capire il suo bisogno d’assicurarsi che non ci fosse nessuno dei suoi compagni, quanto fosse importante per lui, nel caso contrario, sapere che stavano bene, che erano morti con onore, che non avessero sofferto troppo, che avessero avuto una morte degna.
«Lo hai appena fatto.» gli rispose lei sorridendogli a sua volta.
«Non è quello centrale, presumo.» s’intromise Jane affiancandosi alla figlia di Nike ed indicando col mento il tempio davanti a loro.
Nathan scosse il capo. «Palesemente Zeus, ma non credo che quello di Apollo sia molto diverso.»
Jane alzò un sopracciglio, guardandolo scettica. «Che hai?» chiese secca.
Lui scrollò le spalle. «Cazzi miei.»
«Visto che il nostro amico è impegnato a parlare con Jonas tocca a me fare battute a sfondo sessuale?» domandò a sua volta Cicno fermandosi dietro ai ragazzi, osservando il tempio di Zeus con occhio critico. «Questo è decisamente più simile a ciò che ricordo dei miei tempi, le case degli Dei erano sfarzose e piene di colore, non sbiadite e pallide come quelle che abbiamo incontrato sulla via.»
Lea sospirò guardandosi attorno. «C’è anche quello di nostro padre?»
Con un gesto ampio Cicno indicò un edificio sulla sinistra, la cui facciata era rivolta verso l’interno della piazza, a guardare i tre edifici posti al suo centro.
«Oh. Anche lui è molto… bianco.» commentò lei accigliata.
«Non hai detto che dovrebbero essere colorati?»
«Il maledetto Sole brilla di luce candida, maschera perfetta dell’oscurità che cela nel suo cuore. Il bianco delle nuvole, il giallo dei pistilli ed il rosso delle fiamme sono i colori che più lo rappresentano, quelli che tingono il cielo al tramonto, quando guida il suo cocchio oltre l’orizzonte, per condurre il nostro astro altrove.»
La figlia di Apollo inclinò il capo, ascoltando rapita quella spiegazione così poetica per cui, ne era sicura, Cicno non avesse neanche dovuto riflettere. Era sempre affascinante il modo in cui suo fratello parlava.
Facendo vagare lo sguardo Lea ritrovò tanti gruppi di anime riuniti in vari punti, un numero abbastanza nutrito davanti al tempio di suo padre, simbolo di quanto prolifico fosse stato il dio nel corso dei millenni.
«Siamo ancora tantissimi.» mormorò ai suoi compagni, che asserirono tutti, molto più seri di qualche momento prima.
«Lo sapevamo, è solo la conferma definitiva.» disse Eliza muovendo qualche passo verso il tempio di Apollo. «Mentre voi due sarete dentro noi faremo un giro ricognitivo per vedere se riusciamo ad identificare la maggior parte dei semidei.»
«Non c’è più dubbio, vero?» domandò Jane seguendo la figlia di Nike. «Ormai siamo solo noi, solo i bastardi degli Dei.»
«Perché lei può dire queste cose e nessuno le dice niente e a me invece dite che sono un maleducato del cazzo?» ritorse Nathan infastidito.
Gli altri lo ignorarono seguendo tutti Eliza. Lea si volse a controllare che anche Cade e Jonas fossero con loro, ma Cicno la richiamò a sé, sfiorandole un braccio e facendole cenno di lasciar perdere.
«Non siamo in un luogo sterminato, sapranno trovarci.»
Lea annuì mestamente. «Pensi stia bene? Cade, dico.»
L’altro si strinse nelle spalle. «Qualunque sia il suo stato d’animo in questo momento non deve concernerci, sorella. Concentrati sulla tua prova, a Cade penserà Jonas.»
«Stai seriamente affidando la sicurezza del rosso al ragazzino?» fece Jane sorpresa.
Cicno le sorrise da sopra la spalla. «Emotivamente? Ad occhi chiusi.»
Con quelle parole accelerò il passo, falcate più ampie e regolari che fecero velocemente realizzare a tutti quanto fino a quel momento Cicno avesse camminato a piccoli passi, per accomodare i loro.
Eliza se lo ritrovò vicino in appena due mosse, vedendosi superare con facilità.
Non era difficile per nessuno comprendere come quella situazione dovesse infastidire il greco, anche perché tutti loro erano sicuri di chi Cicno avrebbe potuto rivedere nel tempio di suo padre. Era ridicolo credere che Estia avrebbe fatto comparire l’anima di sua madre, erano passati secoli e Cicno non sarebbe stato ugualmente affetto da quella visita, non dopo più di un millennio di torture.
Se quindi qualcuno doveva presentarsi al suo cospetto molto probabilmente, così com’era stato per Eliza, sarebbe stato Apollo a fronteggiare il suo stesso figlio e l’unica preoccupazione che chiunque di loro poteva contemplare era quella per cui Cicno avrebbe provato ad uccidere il dio.
Lea si era chiesta se non fosse pericoloso quel più che probabile incontro, se non avrebbe fatto meglio a chiedere a suo fratello di farla entrare per prima, così che nel caso in cui Cicno avrebbe indisposto Apollo in alcun modo, Lea sarebbe già stata salva.
Ad esser onesti, Lea non si era neanche domandata se fosse possibile entrare insieme.
Guardò di sottecchi Jane, lei era entrata nel tempio di Pothos mentre la prova di Jonas era ancora in corso, quindi se non era vietato per altri semidei entrare nelle dimore di divinità che non gli appartenevano, sicuro non sarebbe stato un problema per due figli dello stesso dio entrare assieme.
«Cicno?» lo chiamò allora affiancandoglisi il più velocemente possibile. «Pensi che potremmo entrare insieme?»
Lui annuì. «Non vedo perché dovrebbe esser vietato. Fino ad ora abbiamo visitato i templi di divinità “minori”, ma sarebbe sciocco pensare che solo un semidio alla volta possa accedere alla casa del proprio genitore divino.»
«Nel tempio di Ecate c’era di sicuro altra gente.» disse Jane da dietro.
«Certo, non ci si può aspettare che i semidei si mettano in fila.» continuò Eliza.
«O più semplicemente non puoi sapere quando qualcuno arriverà. Adesso che stiamo dai dodici pezzi grossi sicuro i templi saranno molto più affollati.» concluse Nathan.
Lea annuì, pronta a dire che sì, aveva senso, ma con gli Dei non si poteva mai dar nulla per scontato, quando Cicno si fermò, facendola quasi inciampare sui suoi stessi passi.
In silenzio l’italiana alzò lo sguardo, già conscia di cosa avrebbe trovato, di dove erano finalmente arrivati.
Il tempio di Apollo era decisamente più grande di quello di Ecate e di Eolo, molto più grade di quello di Nike, per non parlare di quello di Pothos.
La struttura candida si ergeva su di un enorme piano di marmo grigio, lucido, venato di bianco e di una qualche pietra granulosa che brillava come sabbia nell’acqua. Sette gradini perfettamente scolpiti la dividevano dal terreno piastrellato, sul limitare della scalinata piccoli bracieri d’oro accoglievano braci ardenti e acqua limpida, in un’alternanza perfetta.
Le colonne che reggevano il porticato ed il tetto spiovente erano scanalate e ben limate, i capitelli verdeggianti di piante incise con maestria e colorate con ancor più realismo, tanto da farle sembrare fronde pensili.  Lo stesso realismo era stato applicato nell’esecuzione del timpano, nella rappresentazione del Dio Apollo, vestito solo da un candido panno drappeggiato sul corpo longilineo.
Così com’era successo con altre divinità, Lea si rese presto conto di non esser in grado di distinguere davvero i tratti della scultura: riusciva a percepirne la bellezza, quando quel volto fosse affascinante, ma non poteva dargli dei connotati precisi, se non gli occhi scintillanti d’oro ed i boccoli biondi come il grano.
Apollo teneva una lira in mano, suonandola mollemente, senza troppo impegno, eppure se si fosse concentrata abbastanza, Lea avrebbe giurato di poter sentire della musica provenire da quelle corde di marmo scolpite a bassorilievo. Così come avrebbe potuto sentire le risa lievi delle donne che circondavano suo padre, ognuna con un oggetto diverso in mano, tutte ugualmente bellissime, tutte ugualmente leggiadre in ogni movimento, in ogni sospiro.
 
«Sono le Muse.» spiegò Cicno monocorde.
Lea abbassò il capo per guardare suo fratello, ma non trovò voce per chiedergli altro, per dire d’aver capito.
«I bracieri ed i kylix sono invece rappresentativi di due delle tecniche più comuni di preveggenza.» continuò senza che nessuno gli avesse chiesto nulla. «Anche se i kylix dovrebbero avere dei manici. Sono coppe.»
Non aggiunse altro, a riguardo, non continuò ad ammirare la bellezza eterea del tempio di Apollo, ignorando apertamente il gruppo di semidei che si trovava vicino alla scalinata, ora fermo ed in silenzio a guardarli, ad ascoltare le parole del greco.
«Vi pregherei di non iniziare nessuna discussione o scontro con le altre anime. Prima di allontanarvi da qui assicuratevi che Jonas e Cade rimangano davanti al tempio, possono sedersi sui gradini, nessuno dirà loro nulla. Jane, ti sarei grato se anche tu non ti muovessi di qui.» parlò con voce calma, scandendo per bene ogni parola, senza aspettarsi una risposta, figurarsi un’opposizione.
Quando si accorse che Lea non lo stava seguendo si volse a guardarla, porgendogli una mano.
«Dobbiamo andare, sorella. Il nostro maledetto padre attende, il divino Crono no.»
Lea lo guardò titubante, uno strano senso d’inquietudine la prese alla bocca dello stomaco, ma non era la paura della prova a preoccuparla, quanto più il comportamento freddo di Cicno, la sua espressione impenetrabile, immobile come quella di una statua, bella come quella di una statua. Aveva dato ordini precisi, come non aveva mai fatto se non in situazioni di pericolo e dalle espressioni degli altri anche loro dovevano aver percepito chiaro e forte il cambiamento, il gelo che animava il loro compagno.
Annuì lentamente, ponendo la mano su quella di Cicno, morbida e tiepida, che per un attimo le sembrò quasi rilucere, come aveva fatto in un indefinito tempo passato, quando Cade l’aveva costretto per troppo tempo ed il suo braccio aveva preso a brillare dall’interno, la pelle resa trasparente come il paralume di una lampada accesa.
Cicno non strinse la presa, tenne la mano aperta, fornendole solo un minimo di appoggio, quasi come la stesse aiutando solo a salire le scale.
 
«Buona fortuna.» proruppe Eliza, riscossasi da quella strana trance che le parole del greco le avevano fatto calare addosso.
«Vedete di sbrigarvi, noi vi aspettiamo qui.» gli diede manforte Nathan. «Ricordatevi che tutto quello che vedete è finto.» sembrava insicuro anche lui, così come lo erano stati i gesti di Lea, ma nessuno di loro poteva biasimarlo. I cambi di comportamento di Cicno certe volte eran così repentini ed intensi da lasciar tutti scioccati.
«Cade e Jonas sono appena usciti dal vicolo. Ci hanno visti- sì, stanno arrivando.» aggiunse Jane, pensando che magari quell’informazione potesse esser loro di conforto.
Lea voltò il capo verso la strega, salendo gli scalini alla cieca. Le sorrise incerta, girandosi e rigirandosi per riuscire a vedere gli altri due avvicinarsi, mettendosi a correre verso il tempio di Apollo, sbracciandosi e gridando incitamenti le cui parole faticarono ad arrivare fino a lì, ma che attirarono l’attenzione di molte anime li vicine.
Lea li salutò con la mano libera, cercando di sorridere rassicurante, ma non appena ebbe messo piede sul piano di marmo le colonne le coprirono la visuale sui loro amici e l’ombra dell’imponente architettura la fece rabbrividire, portandola a stringersi a Cicno.
«Andrà tutto bene, li saluterai dopo.» disse lui trascinandola ora con più decisione verso le enormi porte dorato.
La giovane non ebbe neanche il tempo di ammirare gli intricati decori a sbalzo sulle lastre lucide che le porte si aprirono, mostrando loro l’ingresso del tempio di Apollo.
«Cicno…» provò a protestare rallentando.
«Non ora. Prima entreremo, prima ne usciremo.»
Un’ampia anticamera circolare si aprì subito dopo l’entrata, il pavimento era composto da grandi mattonelle bianche e grigie, che si alternavano nel disegno a mosaico di una sfera divisa in spicchi. Colonne fine e lisce delineavano il perimetro della sala, oltre cui Lea riuscì a scorrere una lunga, lunghissima navata che conduceva ad un altare su cui era posta una statua di Apollo dall’aspetto familiare.
Cicno non le permise di fermarsi, la presa sulla sua mano si fece più salda e Lea quasi slittò sul pavimento lucido, incapace di opporsi ma anche di articolare i suoi pensieri, la mente troppo occupata ad immagazzinare tutto ciò che vedeva, i giardini verdeggianti che si aprivano ai lati delle navate, il patio al cui centro brillava una luce così simile a quella che ricordava d’aver visto in superficie, al sole. Scorse stralci di una fontana, gli zampilli di giochi artistici, il loro suono scrosciante che si mescolava a quello di un flauto o forse di un’arpa?
«Cicno.» disse ancora e le porte si chiusero alle sue spalle.
Lea si girò di colpo, domandandosi quando avesse superato la soglia d’entrata, se avesse continuato a camminare, se non l’avesse solo trascinata a forza l’altro.
Il figlio di Apollo le asciò la mano, facendola ricadere a peso morto lungo il fianco.
Lo osservò prendere un respiro profondo, lo sguardo perso sul pavimento, in un punto lontano ed indefinito.
«Stai bene?» gli domandò incerta.
Lui annuì, le labbra serrate e le spalle rigidamente aperte. «Come potrebbe esserlo un condannato a morte nella casa del suo esecutore.» poi sorrise, quasi schifato. «Anche se nel mio caso il boia non si è mai preso la briga di sporcarsi le mani, ho fatto tutto da solo. Più di una volta.»
Un senso di nausea le si spanse in corpo al sentire quelle parole. Spesso Lea dimenticava che Cicno si fosse tolto la vita, che l’avesse fatto per ben due volte.
Abbassò lo sguardo senza sapere cosa dire, respirando piano in quel luogo così-
 
Gioioso?
 
Sì, il tempio di Apollo sembrava quasi la dimora di un re, di un nobile. I materiali pregiati, le rifiniture artistiche, bellissime. Il giardino con la fontana, la navate e l’altare con l’idolo posto al centro dell’attenzione.
Fu osservando in lontananza la statua di suo padre che Lea si rese conto della mancanza di un braciere, l’oggetto più importante di tutti.

O almeno il più importante per noi.
 
Si schiarì la voce, cercando di non suonare tesa com’era.
«Non vedo il braciere da qua giù, forse tu puo-»
«Non c’è. Non qui. Questo è solo l’ingresso, un oggetto così simbolico viene posto nella parte più profonda del tempio, lì dove si trovano le insegne del Dio.»
«Ma la statua- perché una statua di Apollo allora?» chiese indicando la fine della navata. «E poi a me sembra abbastanza in profondità…»
Lui scosse il capo. «Il tempio è molto più grande di così, quella statua serve solo per i fedeli che ogni giorno vengono a venerare quel maledetto, ma chi vuole interloquire con lui deve spingersi più in là.»
Mosse qualche passo nell’anticamera, osservando i dintorni, i corridoi che si aprivano ai lati della sala, che si collegavano direttamente al porticato, ad altri archi posti lungo il perimetro del chiostro.
Cicno assottigliò leggermente lo sguardo e poi indicò alla sua destra.
«Le nostre strade si dividono, ora. Vai da quella parte, troverai la tua prova ad attenderti. Io andrò a scovare la mia.»
Lea lo guardò accigliata. «Come fai ad esserne così sicuro? Vedi per caso i Fuochi Fatui?» era probabilmente la cosa più logica da pensare, non sarebbe stata la prima volta che quelle piccole fiammelle indicavano loro la giusta strada da percorrere, e Lea si sforzò con tutta sé stessa per riuscire a scorgerne anche solo l’ombra, una vaga sagoma, qualcosa.
Cicno però scosse il capo. «No, non ci sono Fuochi Fatui.»
Lei si riscosse sorpresa. «Allora come fai a saperlo?»
«Perché sento il suono del mare venire da sinistra e sono sicuro che il nostro dannato padre non rischierebbe mai di farci affrontare questa prova assieme, così come non lo farebbe la divina Estia. Se venissi con te non mi farei scrupoli ad uccidere l’anima che si paleserebbe al tuo cospetto.» disse con estrema freddezza, fissandola dritta negli occhi. «Dovesse essere anche la proiezione di un tuo caro. Estia vuole proporti di rinunciare e tornare a rivivere con chi ti ha amato in vita, se tu avessi il mio sostegno sarebbe impossibile convincerti. Devi resistere da te, non posso essere io a scegliere al tuo posto.»
Il greco accennò un leggero sorriso che risultò molto più simile ad una smorfia triste. Per un momento rimase fermo, come se volesse aggiungere qualcosa, come se volesse toccarla e confortarla, ma si limitò a farle un altro mezzo sorriso, prima di voltarsi ed incamminarsi verso la sua destinazione.
 
«Che Nike ti sorrida, Elena.»
 
 

 
*




Il corridoio era luminoso e chiaro, risuonante di tutti quei rumori così cristallini, vivi, da fargli venire la nausea.
Era un insulto, una presa in giro, che la casa di suo padre fosse così gioiosa, ma non si sarebbe potuto aspettare altro dal dio protettore della musica e delle arti.
Nonostante il suono gentile del liuto, quello vibrante della lira, Cicno non faticò affatto a seguire il vago eco della risacca, delle onde che si infrangevano su scogli lontani.
Era dunque questa la sua prova? Tornare dove tutto era finito, il luogo che per ben due volte l’aveva visto perire con il cuore gravido di rabbia, rancore, dolore?
Poteva accettarlo, poteva superarlo. L’avevano torturano per secoli e secoli, rivedere la sua vecchia scogliera non gli avrebbe portato altro che nuova determinazione e altra ira.
Superò con sicurezza uno degli archi che costeggiavano il muro interno, senza neanche degnare di uno sguardo la fonata ed il piccolo giardino che si trovavano ormai alle sue spalle, senza voltarsi per assicurarsi che Lea fosse andata dalla parte opposta, verso la sua prova.
Non gli interessavano tutti quei convenevoli, non gli interessava cosa Estia gli avrebbe proposto, cosa suo padre, se mai avesse avuto il coraggio di presentarsi, avrebbe potuto dirgli.
Qualunque fossero state le sue parole, Cicno gli avrebbe solo sputato in faccia tutto il risentimento che ancora covava, tutto l’odio che la luce del Sole ancora gli scaturiva. E le sue maledizioni, rinnovate e più crudeli, augurio di solitudine e desolazione, la stessa a cui era stato condannato lui.
Mentre si aggirava per quegli infiniti corridoi, Cicno si domandò se forse non sarebbero stati così folli da farlo giungere al cospetto dell’anima di Filio, ma anche il sol pensarci gli scaturì una leggera risata amara. Sciocchi, sarebbero stati sciocchi a farlo, Cicno l’avrebbe pugnalato dritto al cuore esattamente come un millennio prima aveva fatto lui.
 
Gli restituirei il favore e lo vedrei morire, lentamente, finalmente consapevole di quanto grande possa essere il dolore del tradimento.
 
Un leggero fruscio, come d’acqua sulla battigia, lo fece rallentare. Alla sua sinistra un’ennesima porta ad arco si aprì placita, lenta, come la risacca.
Cicno guardò l’uscio da prima socchiudersi e poi spalancarsi del tutto, lasciando libero accesso ad una stanza apparentemente spoglia, dai pavimenti chiari e lucidi come in tutto il resto tempio.
Vi entrò senza troppa titubanza, attento il giusto alla possibilità di incontrare qualcuno del suo passato, forse anche un’anima con cui aveva condiviso i tormenti, o per sino Thanatos. Ma nulla.
La stanza era vuota, fatta eccezione per un piccolo altare su cui era posto un kylix simile a quelli presenti sulla scalinata esterna, ma dall’aspetto decisamente più classico, nero e rosso, con disegni zoomorfi dipinti con maestria.
Un verso di scherno gli scappò dalle labbra incurvate in un sorriso amaro: cigni, la coppa era decorata con la rappresentazione di un volo di cigni.
 
Appropriato direi, visto che sono stato io il primo di quella specie.
 
Si avvicinò all’altare, scolpito con semplicità, come una cassapanca di buona fattura, per guardare cosa vi fosse all’interno del kylix, anche se già ne aveva una vaga idea.
Non fu quindi sorpreso nello scorgere un liquido perfettamente piano, rosso come il fondo della coppa. Così come non fu sorpreso nel riconoscere, dipinto assieme ai cigni, il profilo della scogliera da cui si era buttato da un lato e quello di una donna in preghiera al Sole dall’altro.
Cicno serrò i denti, digrignandoli con forza. Non gli interessava vedere le scene della sua morte riportate come atti di una tragedia, non gli interessava sentire ancora l’odore salmastro del mare. Non gli interessava nulla, voleva solo che si presentasse a lui l’anima che gli avrebbe posto, inutilmente, la famosa domanda, per poi andar a recuperare Lea ed uscire il più in fretta possibile da lì.
Già la sola idea di dover chiedere la benedizione a suo padre lo disgustava pesantemente, dover anche attendere nella sua bellissima dimora era al limite dell’umiliante.
Voltò così le spalle alla coppa, poggiandosi con la schiena all’altare e, incrociando le braccia al petto, attese in silenzio l’arrivo di qualcuno, chiunque.
Si sarebbe davvero aspettato di veder comparire Apollo, a quel punto, ma il rumore di passi che sentì farsi sempre più vicini gli diedero la certezza che quello in arrivo non fosse il dio, bensì qualcun altro, un’anima con tutta probabilità. Un anima moderna i cui rumore dei passi rassomigliava un poco a quello di Nathan.
 
Suole moderne.
 
Aggrottò le sopracciglia, curioso.
Non conosceva molte persone che vestivano “moderno”, anche se per lui anche le vesti di Jane lo erano e lo erano state quelle di Úranus, sapeva per certo che quello non fosse il modo di camminare di Jonas, neanche quello del figlio di Ares, anche perché i suoi compagni non avrebbero avuto alcun motivo di fare irruzione nel tempio di Apollo, a meno che non fosse passato troppo tempo, impossibile, o non fosse successo qualcosa di grave.
I suo dubbi però si dissolsero in fretta quando vide passare davanti l’entrata un giovane dalla maglia arancione, i capelli ricci ed una lunga lancia di bronzo celeste in pungo.
Superò la porta senza neanche guardarvi dentro e Cicno non riuscì a trattenere la sua sorpresa.
 
«Michael?» chiamò con voce alta e chiara.

Lo sentì fermarsi di colpo, lo stesso suono scivoloso e gracchiante che producevano gli stivali di Nathan sulle pietre umide del lastricato.
Tornò sui suoi passi e poco dopo il volto gioviale e giovanile del ragazzo fece capolino oltre lo stipite di marmo.
 
«Cicno! Proprio te cercavo! Ho visto i tuoi fuori e speravo di trovarti qui, da qualche parte.»
Entrò nella stanza senza curarsi di nulla, senza neanche guardarsi attorno.
«Sono qui da poco, attendo la venuta di un’anima pronta a propormi di ritirarmi per rinascere vicino a coloro che ho amato. Ma credo non abbiano trovato nessuno, non per me.» spiegò con una strana calma, qualcosa che non si aspettava visti i sentimenti turbolenti che anche solo scorgere il tempio dall’esterno gli aveva suscitato.
Michael annuì, posando la lancia contro il muro e facendoglisi più vicino.
«Me lo sono chiesto anche io, sai? Chi ti saresti ritrovato davanti, ma non solo tu, tutti coloro che sono nati decisamente troppi anni fa per poter aver ancora qualcuno sulla terra.»
«Un mio compagno ha ricevuto la visita dell’anima già rinata più volte del fratello. Ha accettato la proposta.» confidò senza problemi.
Il ragazzo abbozzò un sorriso. «Anche io ho perso uno dei miei.» disse facendo poi una pausa, abbassò lo sguardo e poi sospirò, forzando un sorriso quando tornò a guardare Cicno negli occhi. «Purtroppo prima di arrivare a questa prova. Lo ha ferito una Guardia. Ha superato la prova ma non- non sono mai stato un curatore, papà non me l’ha passata questa.» mormorò infine.
Cicno fece un cenno d’assenzo. «Mi spiace per te e per i tuoi compagni.»
«Già… non l’hanno presa troppo bene. Tim aveva a mala pena sedici anni.» disse amaramente.
Una strana idea sibilò nella mente del greco e Cicno si ritrovò a maledirsi da solo pur decidendo d’aprir bocca e dargli fiato.
«Se durante le prossime prove dovesse servirti, puoi cercare me. Finché non sarà la sfida finale e ci saranno altri che potranno perire al posto dei miei compagni, non mi recherà nessun male salvare i tuoi.»
Michael lo guardò scioccato, la sua espressione parlava da sé, ma lui provò ugualmente a balbettare qualcosa, dei ringraziamenti forse, prima che i suoi occhi diventassero lucidi ed alzasse il capo verso il soffitto.
«Ah. Ah-ah. Sì, ecco- Okay, lo terrò a mente, grazie. Perché io non- non sono minimamente capace, sai? Solo cose stupide, ma curare ferite serie? Mh, no, quello- sono un po’ inutile come figlio di Apollo.» rise senza gioia.
Cicno gli rifilò un’occhiataccia. «Non dirlo mai più. L’unica cosa inutile è nostro padre, non noi. La nostra vita non lo è.»
Il giovane riabbassò la testa, il suo sguardo acquoso pareva sconcertato, come se fosse indeciso tra il chiedergli di ripetere o il lasciar perdere e Cicno, maledicendosi ancora, si rese conto di cosa avesse appena detto con un attimo di troppo.
Arricciò il naso, una smorfia di puro disappunto verso sé stesso, infastidito dalle sue stesse parole.
«Spero tu abbia capito cosa intendevo dire.»
Michael annuì, tirando su con il naso. «Bella differenza da “mi sono ammazzato due volte”. Il suicidio è visto come uno spreco della vita, spero che tu-»
«Sì. Lo so.» sibilò con astio. «Mi sto già pentendo di averti proposto il mio aiuto, sappilo.»
L’altro abbozzò un sorriso. «Mi stanno venendo un sacco di dubbi, mi si sta incasinando un botto la testa. Tutta questa storia mi sembra sempre più assurda, soprattutto se penso ai ragazzi.» si avvicinò a Cicno, poggiandosi all’altare come aveva fatto in precedenza il greco.
«Posso capire.» annuì l’altro.
Michael si lasciò scivolare fino al pavimento, piegando le ginocchia e poggiandovi sopra i polsi.
«A te ha detto niente?»
«Il nostro signore?»
Il giovane fece una smorfia. «Sembra che parli del messia, così. Ma sì, lui. Ti ha detto cosa- cosa dovremmo fare con i ragazzi? Con i nostri compagni?» domandò incerto.
Cicno scosse il capo e si sedette anche lui a terra. «No, mi ha solo detto che il mio compito è quello di farli arrivare fino alla fine.»
«Ma non ti ha detto quand’è la fine, vero?»
«No.» sospirò. «Non credo che gli interessi chi vincerà o chi morirà.»
«Su questo non sono d’accordo. Credo che gli interessi tanto chi muore e chi no. Non gli interessa chi vincerà in seguito, ma in quanto a chi scompare… mi ha salvato, sai? Durante la prova di Persefone. Stavano per uccidermi ma lui mi ha salvato.»
Cicno lo guardò con la coda dell’occhio, poi si passò una mano tra i capelli, tirandoli indietro.
«Anche me. Quindi sì, posso capire.»
«Ma so anche che ha uccido degli eroi.»
Quella gli suonò nuova. Cicno si voltò completamente verso suo fratello, la mente che lavorava a mille per cercare di capire. In che senso aveva ucciso “degli eroi”?
«Eroi?» domandò. Poi l’intuizione. «Dei veri eroi? O quelli che gli Dei hanno reputato tali?»
Michael gli sorrise, ammiccando. «Sta facendo il Batman della situazione, sì.»
Quando Cicno fece per chiedergli cosa diavolo fosse un batman l’altro alzò subito le mani, facendogli cenno di lasciar perdere.
«Citazione dalla cultura pop, lascia stare.»
Rimasero in silenzio per un po’, persi ognuno nei propri pensieri.
«Credo abbia eliminato, quando ne ha avuto la possibilità, la gente che non reputava degna di una seconda possibilità.» continuò il ragazzo.
«Secondo il suo senso di giustizia, non quello divino.»
Michael si strinse nelle spalle. «In ogni caso Minosse è uno stronzo, quindi non è che ci sia tutto sto criterio nell’essere spedito da una parte o dall’altra.»
«Non so chi sia costui, ma non mi interessa minimante. Ciò che vorrei sapere ora è come portare a termine la mia prova.» tagliò costo Cicno, alzandosi da terra senza neanche l’ausilio delle mani.
Michael lo guardò di sottecchi e provò a fare lo stesso, ma barcollò e se non fosse stato per i riflessi pronti di Cicno avrebbe probabilmente sbattuto la testa contro l’altare.
Il più grande lo guardò con rimprovero e non mollò la presa sul suo braccio finché l’altro non si fu tirato completamente in piedi.
«La tua prova è finita?»
«Non ti va proprio di chiacchierare del capo?» ritorse lui.
Cicno scosse il capo. «No, non mi interessa sapere nulla di lui se non le direttive che mi ha comunicato. Hai finito la tua prova? Hai bisogno d’aiuto?»
Michael rise leggero. «Sono cambiate decisamente tante cose! Guarda come sei diventato gentile!»
Il greco lo fulminò. «Non sono mai stato null’altro che gentile nei tuoi riguardi.»
L’altro fece un mezzo inchino. «Concesso.» ammise. «E no, non ho bisogno d’aiuto, la mia stanza era vuota come la tua. Sono il primo della mia famiglia ad essere morto, ironico vero? I miei genitori, i miei nonni, gli zii… sono ancora tutti vivi, sono io l’unico cretino che si è fatto ammazzare giovane.» rise amaramente.
Cicno sospirò, allungando una mano per posarla sulla spalla del ragazzo e dargli un qualche tipo di conforto.
«Non sei stato sciocco, purtroppo la vita di un semidio è piena di insidie.»
Michael annuì. «Lo so, grazie.» poi sorrise, lieve. «Nella mia stanza non c’era una coppa, ma dei fogli, erano dei moduli a dirla tutta, moduli medici. Di mia cugina. C’era una casella cerchiata in rosso- sulla possibilità che fosse o meno incinta. Credo volessero farmi rinascere figlio suo, questa era la mia proposta, ma… non avrei mai accettato, non posso. E poi nella penna non c’era inchiostro.» concluse divertito.
Cicno lo ascoltò con attenzione, pur non capendo di cosa stesse parlando e glielo disse anche.
«Ah, la penna e l’inchiostro dici?»
«Anche i luogo in cui erano scritti.» ammise con franchezza.
«I moduli sono fogli, li avevate voi i fogli? Sono fatti di carta e- ah, sì, giustamente non vuol dire nulla per te. Beh, sono dei… dei…supporti! Sì, ecco, sono supporti scrittori, fini, leggeri, ci scrivi sopra con una penna che è tipo un calamo? Ma con dentro un tubo con dentro dell’inchiostro. Un liquido nero, o colorato, non sempre liquido in effetti, può essere anche gel e-»
«Michael?»
«Sì?»
«Non mi interessa.» disse secco.
«Oh. Sì, scusa. In ogni caso, mi hanno proposto di rinascere come mio nipote. Ugh, è terribile da dire ma-»
«Michael.»
«Sì, sì, scusa.» rise a disagio grattandosi la nuca con fare imbarazzato. «A te non hanno proposto nulla? Che c’è nel vaso?» e così dicendo si sporse verso i kylix, aggrottando la fronte nel trovarvi dentro solo acqua.
Rimase proteso sulla coppa ma volse il capo verso Cicno, interrogativo.
Lui espirò pesantemente. «Sono morto annegato. Entrambe le volte. L’acqua deve rappresentare quello, ho motivo di credere che sia salata.»
«Ti sei buttato in mare?» domandò cauto.
Cicno annuì. «Da una scogliera. Non so quale sia la proposta che mi viene fatta però. Non ho nessuno, neanche discendente. Il mio lignaggio è finito con me.»
Il ragazzo lo guardò dispiaciuto, stirando le labbra in un sorriso di circostanza, prima di alzarsi sulle punte, spiando oltre l’altare e ritraendosi di colpo.
Fu impossibile non notare un’azione così repentina e Cicno ne chiese spiegazione alzando un sopracciglio, poco impressionato.
«Non hai guardato lì dietro, vero?» chiese Michael deglutendo teso.
Cicno scosse il capo e senza dir nulla fece il giro dell’altare, fermandosi subito davanti a ciò che giaceva a terra, privo di vita.
Il figlio di Apollo si ritrovò a sorridere con tristezza, dispiaciuto a quella vista, malgrado in vita non si fosse mai fatto scrupoli del genere.
 
Sto diventando un debole quindi.
 
Si piegò sino ad inginocchiarsi a terra, davanti al corpo esanime di un cigno.
Sembrava dormisse, a dir il vero, accovacciato su sé stesso, con le ali ben ripiegate sulla schiena, ma il collo lungo e delicato giaceva molle sul pavimento, il petto immobile nella stasi della morte.
Cicno allungò una mano, carezzando con la punta delle dita le piume candide e lisce, provando un moto malinconia nel farlo. Avevano davvero ucciso un animale innocente solo per mandargli un messaggio? Era forse legato al ruolo di protettore degli oracoli di suo padre? Alla divinazione tramite lettura delle interiora? Eppure il cigno non era ferito in alcun modo, che gli stessero chiedendo di farlo lui stesso?
La tristezza fu spazzata via con un soffio, come quello che Zefiro usò per ferire Giacinto, per togliere l’ennesimo amore ad Apollo. Cicno si alzò di colpo, un verso sprezzante gli irruppe dalla gola mente voltava le spalle al cigno e afferrava la base del kylix.
 
«Se pensano che mi sporcherò le mani per dimostrar loro che ho reciso ogni legame con il mio passato si sbagliano di grosso.»
Con un gesto secco scagliò la coppa contro il muro, facendola andare in pezzi, facendo sussultare Michael che si ritrasse inizialmente prima di avvicinarsi a quella stessa parete, riprendendo la sua lancia e stringendosela al petto.
«Ehi! Potevi prendere la mia lancia!»
Cicno fece una smorfia dismissiva. «È fatta di bronzo, non si sarebbe rotta per un po’ di terracotta.»
Fissò per un momento i frammenti, l’acqua che colava lentamente lungo il muro e poi, per puro masochismo, tornò a guardare il cigno.
Non aveva idea di cosa fare di quella povera bestia, ma l’idea di lasciarlo lì, a terra, nascosto dietro uno degli innumerevoli altari di suo padre, lo faceva ribollire di rabbia.
Decise così di sollevare il cigno, sotto lo sguardo perplesso e forse disgustato di Michael, posandolo poi con delicatezza sul piano di marmo, ben attento a sistemare il lungo collo con cura.
Ma non appena ebbe fatto un passo indietro, pronto a scusarsi almeno tra sé e sé con l’animale, questo prese a brillare, fiocamente.
Con un’esplosione improvvisa il cigno si disintegrò in una miriadi di fini e tintinnante aghi dorati, luccicanti come il metallo di cui parevano fatti, rimbalzando con un suono cristallino sul pavimento di marmo.
Cicno saltò indietro, un braccio aperto verso Michael, per spingere anche lui lontano da quella pioggia d’oro che una volta aveva composto il bel cigno morto.
I due rimasero immobili ad osservare gli aghi saltellare sino a fermarsi in una pozza di filamenti rigidi e lucenti.
 
Fili d’oro.
 
Un brivido gli si spanse dietro al collo, scivolando verso la nuca e le scapole, arrotolandosi attorno alla gola, spingendosi giù, per tutta la spina dorsale.
Michael sussultò dietro di lui e Cicno mosse a mala pena la testa per scorgere anche il ragazzo rabbrividire, portandosi la mano libera dietro al collo e stringendo la presa, come se quel gesto potesse fermare il fremito che lo stava scuotendo.
L’aveva sentito anche lui, l’aveva percepito nei muscoli, sulla pelle tesa, nelle ossa aride che i loro corpi non avrebbero dovuto avere.
 
Avevate già fatto la vostra scelta per me, vero?
 
Un verso d’assenso gli si insinuò nell’orecchio, lieve come il tintinnio dei gli aghi d’oro, ma sicuro, chiaro.
Cicno deglutì. Non voleva pensare, non voleva pensare a nulla, voleva solo uscire di lì.
 
«Andiamo.» disse con voce rauca.
Michael annuì con forza. «Sì, usciamo. È- è stato lui, vero?»
Fu il turno di Cicno di annuire. «Probabilmente l’ha fatto anche con te. Hai notato nulla…?»
«D’oro? Le graffette. Le graffette del plico erano dorate. Non c’ho pensato. C’ho fatto caso, ma non gli ho dato molta importanza.»
«Va bene, va bene, non crucciarti. Usciamo di qui, reputo la mia prova terminata.»
Il ragazzo lo seguì docilmente, lasciandosi prendersi per mano e trascinare fuori, dove il rumore dell’acqua e della musica tornò ad essere chiaro e forte.
Le porte della stanza non si chiusero, non ci fu nessun suono particolare, nessun fuoco si accese nei dintorni, nulla.
Cicno si fece scappare uno sbuffo divertito: ovviamente suo padre non si sarebbe sprecato neanche a fargli sapere d’aver superato la sesta prova. Né lui né Estia.
I due figli di Apollo si incamminarono lentamente lungo il corridoio da cui erano venuti, in silenzio finché Michael non si fermò, trattenendo Cicno per la mano che ancora stringeva la sua.
 
«Cosa?» chiese solo l’altro.
«Hai- hai un filo…» si chinò, togliendo uno di quegli aghetti dorati dalla piega del pantalone mimetico del fratello. «Ecco. Fa strano vederti vestito così. Come mai il cambio d’abito?» domandò porgendogli l’ago e cercando di far conversazione, di distrarsi probabilmente da quello che aveva appena visto.
Cicno accennò un sorriso. «Grazie. Ho dovuto prendere in prestito degli abiti da un mio compagno, il più giovane in anno di morte.»
«Il gonnellino era scomodo?» giocò lui dandogli un leggero colpetto con il braccio.
L’altro scosse il capo. «No, sono finito sotto lo sguardo infuocato del Guardiano, mi ha corroso fino alle ossa.» disse con semplicità. «Trovo questi pantaloni piuttosto scomodo in realtà, preferivo le mie vesti.»
Michael però lo guardava a bocca aperta, l’espressione inorridita. Lo afferrò per le spalle e iniziò febbrilmente a controllare ogni lembo di pelle non coperto dai vestiti, facendo piroettare il greco su sé stesso, divertito.
«Sto bene, ho guarito sia me che il compagno che sono andato a soccorrere.»
«Ci siete finiti in due? Sei serio? E stai bene?» chiese allarmato.
Cicno annuì. «Ho subito torture indicibili per tutta la mia permanenza oltre i Cancelli Neri, il fuoco del Guardiano è stato doloroso, ma nulla più di quello. Dolore.» minimizzò, deciso a non entrare nei dettagli, specie quelli più personali.
Michael continuò però a fissarlo scioccato, prima di prendere un respiro profondo ed abbracciarlo.
L’uomo ne rimase incredibilmente sorpreso, insicuro su cosa fare, come comportarsi, se rispondere all’abbraccio o meno. Mosse lentamente le mani, posandole con delicatezza sulla schiena del ragazzino che lo stringeva come se ne andasse della sua stessa vita.
Il comportamento delle genti moderne ancora lo stupiva, ma poteva facilmente interpretare quel gesto come atto di sollievo, di preoccupazione.
Era preoccupato per lui, malgrado avessero passato così poco tempo assieme, malgrado non avessero nessun tipo di relazione se non quella che li legava al loro signore e al maledetto Sole. Eppure poteva capirlo, poteva capire il bisogno atavico di avere un legame, di ritrovare sé stessi in altri e partecipare così alle loro sventure, ai loro dolori.
Cicno era come lui, diverso, ma in una situazione estremamente simile.
Sarebbe potuto capitare a lui, sarebbe potuto cadere lui sotto il fascio di luce del Guardiano.
 
Ma non è stato così ed io e lui non potremmo essere più diversi.
Lui è giovane, ha una famiglia, una vita in superficie.
Io non ho nessuno, non ho scopo se non la vendetta che non potrò mai davvero ottenere.

 
Ingoiando il boccone amaro della consapevolezza Cicno strofinò la mano sulla schiena del ragazzo, in cerchi confortanti, gentili.

«Sto bene.» disse ancora e Michael annuì.
Da quanto tempo era che quel ragazzo non riceveva l’abbraccio di un adulto?
Probabilmente dall’ultima volta in cui era stata sua madre a farlo.
Quand’era stata l’ultima volta che aveva rischiato di perdere un compagno?
 
Oh. Durante la sfida del Guardiano.
 
Aveva perso un amico per colpa di una Guardia dell’Ade, non lo aveva potuto salvare. Lui invece aveva rischiato volontariamente l’anima ed aveva potuto prestare soccorso al suo compagno.
Con un sospiro pensante Cicno finì per abbracciare più saldamente il ragazzo, posandogli un bacio sulla sommità del capo, cercando di respirare regolarmente, di calmarlo così, in modo naturale.
Lo sentì tirare su con il naso ancora ed ancora e per un attimo Cicno si disse che Cade sarebbe stato fiero di come si stava comportando.
Quel pensiero lo riscosse di colpo, ma nonostante questo non riuscì a sciogliere quell’abbraccio, pur trovandosi ad alzare gli occhi al cielo e maledire qualunque divinità gli passasse per la mente.
Sapeva di dover rimare così finché non fosse stato l’altro a distaccarsi, ma qualcuno decise diversamente.
Un grido straziante rimbombò per i corridoi, esplodendo oltre gli archi e riempiendo anche i giardini, che rimasero comunque indifferenti a quell’urlo di dolore che fece sobbalzare i due semidei.

«Era la voce di una persona?» chiese Michael asciugandosi gli occhi con il doso della mano sinistra, la destra strinse invece la lancia in una presa ferrea, pronto per attaccare al minimo accenno di pericolo.
Cicno invece si sentì gelare il sangue nelle vene. Tutto il sangue che non avrebbe dovuto avere e che invece scorreva copioso dal suo corpo ogni qual volta venisse ferito.
Non respirò, paralizzato da quel suono.
Non poteva essere.
 
Non posso essere così sfortunato.

«È la mia compagna.» mormorò.
«Cosa?» gli chiese Michael con voce strozzata.
«È la mia compagna.» ripeté lui. «Questa è la voce di Lea.»
«Cazzo. Okay, okay, corri, corri!» e senza pensarci due volte il ragazzino lo afferrò per il polso ed iniziò a correre a perdifiato nella direzione da cui era giunto il grido.
Cicno digrignò i denti e lo affiancò, portando subito una mano alla cinghia dei suoi coltelli.
 
Non di nuovo.
Non due in una sola prova.
 
Il suono dei loro passi scomparve presto per i mille e mille corridoi che si aprivano in ogni angolo del tempio di Apollo, ingoiati dalle musiche allegre e melodiche della lira e del liuto, dal gorgogliare delle fontane e dal canto di inesistenti uccellini.
Sul pavimento un filo d’oro rigido e lucido iniziò a tremare, saltellando su sé stesso prima di sollevarsi in aria e schizzare rapido nella stessa direzione in cui si erano precipitati i figli di Apollo.
 


 
*
 



Doveva immaginare che tra tutte le persone che avrebbe potuto incontrare sarebbe apparso proprio lui.
Per una frazione di secondo aveva pensato che, magari, avrebbe potuto vedere Paolo, ma non avevano passato abbastanza tempo insieme per poter essere una buona motivazione per rinascere con lui.
La stanza in cui era entrata era semplice, vuota, chiara come tutto in quel tempio. C’era solo un piccolo podio a tre gambe, sul cui piano era poggiato un oggetto che, purtroppo, Lea conosceva fin troppo bene.
 
Un proiettile, uno di quelli che mi ha ucciso.
 
L’aveva pensato senza particolari sentimenti, una semplice constatazione dei fatti, nulla di più. Quando però si era avvicinata per osservarlo meglio aveva notato che sotto al bossolo c’era qualcosa, come un impasto mal amalgamato. Era poco, davvero pochissimo, le aveva ricordato le innumerevoli ore passate a pesare al milligrammo i medicinali, le polveri richiuse poi in piccoli quadratini di carta, pronti per essere presi dalle infermiere e mischiati all’acqua, per somministrarli con più facilità ai pazienti.
Questo però sembrava granuloso, come se avesse preso umidità, come il fondo che andava a depositarsi in un bicchiere pieno di una soluzione satura. Se lo ricordava fin troppo bene quanto fosse fastidioso vedere tutta quella polvere rimanere nel bicchiere dopo che il paziente aveva bevuto il liquido, le occhiate delle infermiere di anziane che le consigliavano di mescolare meglio la prossima volta, perché ora, tutto il medicinale sarebbe andato sprecato.
Ricordava come prendesse sempre una spatolina per raccogliere quei grumi e staccarli meglio dal vetro, ricordava fin troppe cose, tutte assieme.
Non le era sembrato strano quindi riuscire a sentire l’odore della vecchia colonia di suo fratello, quel profumo che Giuseppe si picchiettava addosso per poter coprire l’olezzo d’ospedale che lo seguiva ovunque.
Non si era girata subito, aveva atteso, prendendo profondi respiri, lasciandosi trascinare verso memorie perdute e lontane, indietro sino a quando era davvero una giovane di vent’anni e non un’anima centenaria bloccata all’ultimo stadio della sua passata vita. Aveva atteso così tanti anni per rivedere suo fratello che prendersi qualche minuto per racimolare le forze, per comporsi ed evitare di saltargli addosso non sembrava uno spreco di tempo.
 
Ne avremmo in futuro, ne sono certa.
 
Aveva trattenuto il sorriso che le forzava le labbra per poco, si era messa ben dritta con la schiena e poi, preso un ultimo respiro, si era voltata, dando le spalle al piccolo podio.
Ma il sorriso le era presto morto in viso, lentamente ed inesorabilmente come era stato per la sua stessa vita.  Lea si era sentita scivolare di dosso tutta la gioia, tutta l’euforia esattamente come le era scivolata via l’energia, la lucidità, la coscienza nei suoi ultimi attimi sulla terra.
 
«Giuseppe?»
 
Le era uscito un suono strozzato, incredulo. Non era riuscita a dire altro mentre fissava la figura davanti a sé, l’anima di quello che era stato senza ombra di dubbio l’uomo più importante della sua vita e che ora la fissava con sguardo sbiadito, quasi vuoto se non per quell’unica scintilla di- qualcosa, che animava l’iride opaca.
 
«Ciao, Lea.»
Quanto tempo era che non sentiva parlare in italiano? Che non lo sentiva davvero? Sì, nelle sue orecchie le voci dei suoi amici erano tutte comprensibili, parlavano tutti un italiano carico di accenti ma comprensibile. La voce di suo fratello invece… quello era italiano vero, era la stessa voce, la stessa lingua, la stessa inflessione, lo stesso accento che l’aveva apostrofata per gran parte della sua vita. E veniva dalle sue labbra, piegate in un sorriso debole, appena accennato.
Lea si portò d’istinto una mano al petto, stringendo il pungo sulla camicia, sul tessuto morbido come lo erano tutte quelle stoffe lavate e rilavate, indossate e rindossate. Come probabilmente lo era anche la camicia di suo fratello se solo non fosse stata incrostata di sangue.
L’uomo non sembrava molto più grande di quanto non lo ricordasse, non sembrava invecchiato per niente se non fosse per la palese stanchezza che gli si poteva legger in visto, ma Lea iniziava a dubitare che quella fosse davvero debolezza dovuta agli anni quanto più a ciò che aveva passato.
O al luogo da cui proveniva.
Suo fratello non aveva provato neanche ad avvicinarlesi, non aveva fatto nessun movimento troppo veloce, non si era proprio mosso. Lea lo aveva fissato battendo le palpebre velocemente, cercando di non soffermarsi sul viso graffiato, sulla barba corta e dall’aspetto spinoso. Spostava lo sguardo dai capelli arruffati e sporchi alle macchie di terra sulla fronte, a quelle di sangue sulla tempia, alle ecchimosi sul lato destro del volto, sul collo, attorno ad esse come una collana.
 
Come la collana di Jonas.

Aveva cercato di non guardare la grande macchia rossa sul suo fianco, sul torace, la camicia strappata sulla spalla, i pantaloni rovinati, lacerati sino alle ginocchia, i piedi nudi, feriti, sporchi di fango, fuliggine e altro sangue.
Poteva avvertire come le tremassero le labbra, mentre cercava in tutti i modi di non scoppiare a piangere, come i denti battessero piano, scossi dai tremori, dagli spasmi muscolari.
Alla fine non si era potuta esimere dal fissare Giuseppe dritto negli occhi.
Occhi grigi, spenti, vuoti, feriti.
Feriti come lo era il suo corpo.
Come lo era la sua anima.
Come lo era ogni dannato.
 
Non sapeva per quanto tempo era rimasta in quella posizione, ferma ad osservare il fratello, la persona che l’aveva cresciuta, che l’aveva amata, che le aveva insegnato tutto quello che sapeva.
Era per questo quindi? Lea lo aveva aspettato per un secolo, aveva chiesto sue notizie ogni giorno, aveva passato interminabili ore del suo infinito tempo ad attendere, a sperare di vederlo entrare da quelle porte prima e poi, quando ormai aveva iniziato a perdere la speranza, a scrutare fuori dalle Bianche Mura, sperando, pregando, illudendosi, di poterlo scorgere a vagare solo e senza memorie per le Praterie degli Asfodeli.
Ma non era mai successo, non c’era mai riuscita, non era mai tornato da lei, non l’aveva mai più abbracciato.
E non era stato possibile perché suo fratello era finito nei Campi di Pena.
 
«Tu-»
Parlò appena, ma non riuscì a finire la frase, non senza piangere.
Chiuse gli occhi, aprendo la mano che stringeva la camicia per poi richiuderla, le unghie corte a graffiarle la pelle pallida di morte ma più colorita del dovuto, come le strisce rossastre che apparvero subito dopo, nascoste alla vista.
Prese un respiro profondo, ingoiando la saliva che le si era accumulata in bocca, che quasi la soffocava, l’annegava e le ostruiva le vie respiratorie come il muco che le impediva di respirare dal naso.
Si sentiva così stupida, così infantile. Era tornata ad essere la bambina che piangeva strofinandosi gli occhi e storcendo la bocca in una smorfia penosa, in piedi immobile davanti a suo fratello che le diceva di smettere, che non era nulla, che dentro alla clinica i mostri non potevano entrare, non le avrebbero mai fatto del male.
Ma se Giuseppe era stato mandato nei Campi di Pena forse i mostri non erano solo fuori, forse erano anche dentro e potevano farle più male di quanto non credesse.
Non voleva neanche chiedergli cosa avesse fatto, non voleva assolutamente saperlo.
Sperava, pregava, che avesse rubato qualcosa, magari medicinali o cibo, magari le armi ai soldati austriaci, ma in cuor suo sapeva che se così fosse stato, Giuseppe sarebbe stato destinato ai Campi Elisi, esattamente come Cade. Forse allora aveva partecipato alla rivolta ed aveva ucciso qualcuno, ma di nuovo, Cade stesso aveva avuto una simile esperienza e se pensava ad Eliza e Nathan… loro erano soldati, avevano sicuramente ucciso molte persone, eppure erano stati graziati.
Forse… forse era scappato.
 
Ti prego, ti prego, dimmi che è scappato.
 
«Lea.» la chiamò a bassa voce l’uomo. «So di non aver alcun diritto di chiedertelo, ma per favore, parlami, così questa prova finirà subito.»
Lei però scosse la testa, ostinandosi a tenerla bassa, a tenere gli occhi chiusi.
«Non voglio convincerti ad abbandonare la gara.» continuò lui.
«No.» disse lei flebile. «Non lo voglio sapere. Non voglio.» balbettò.
Cosa poteva aver fatto? Furto, tradimento, omicidio, suicidio? Si era forse suicidato? Il proiettile era per quello? Era il proiettile con cui si era tolto la vita? No, non poteva essere, era da fucile quello, non da pistola, sembrava appartenere ad una carabina e poi cos’era quella poltiglia biancastra?
Ma se non si era sparato da solo voleva forse dire che l’avevano ucciso, che gli avevano sparato. Ma sì, certo, dovevano avergli sparato e lui era finito nei Campi di Pena perché- perché-
 
«Elena.»
«Non chiamarmi così.» scattò alzando finalmente il capo, fissandolo in quegli occhi che una volta erano stati azzurri e brillanti. «Non lo sopporto. Lo odio.» disse con astio, con più acredine di quanta non avrebbe usata in altre situazioni.
Non lo odiava, non odiava davvero il suo nome, ma sentire suo fratello chiamarla così… non riusciva a pensare, dannazione. Aveva così tanti dubbi, così tante paure, così tante voci che le si affollavano per la testa e non riusciva a pensare, non poteva pensare.
«Ascoltami, te ne prego.» Giuseppe mosse qualche passo verso di lei, lentamente, come se stesse approcciando un animale ferito. «Finirà tutto presto, devi solo ascoltarmi. Solo ascoltarmi e poi dirmi “no”. Tutto qui.»
«No!» gracchiò con voce acuta, indietreggiando. «No.» ripeté. «No.»
Giuseppe le regalò un altro sorriso triste. «Devi prima lasciarmi parlare.»
«Per dirmi cosa? Hai detto che non mi fermerai, non c’è niente che possa convincermi e poi non voglio- non voglio sapere…»  continuò con voce tremante. «Non voglio… perché- non voglio sapere.»
Lasciò che le parole si perdessero nel silenzio della stanza, nell’eco fastidioso ed ipocrita del giardino e delle fontane, delle musiche e degli uccelli. Come poteva esser il mondo così tranquillo e felice quando lei stava affrontando una situazione del genere? Come potevano essere tutti felici quando lei aveva appena scoperto che suo fratello era un dannato, era un peccatore.
 
Peccatore. Come me, come mia madre. Dicevano questo le suore. Peccatori, tutti peccatori, tutti nati nel peccato.
 
Quel pensiero però le permise di accendere una luce tremula, una speranza fumosa, che fosse…? Che fosse la storia di suo fratello con Marco ad averlo mandato all’inferno? Che le suore, il prete, l’intera religione Cristiana avesse ragione? Che fosse davvero un peccato così grande amare una persona del proprio stesso sesso?
Ma quella stupida speranza scomparve subito, specie di fronte ai numerosi racconti sui miti che conosceva, davanti alle spiegazioni dei suoi amici.
Amici che l’aspettavano fuori, che pensavano che sarebbe stato più facile per lei, perché ormai sapeva cosa sarebbe successo, come doveva comportarsi, che trucchetti avrebbero potuto usare per farla cedere.

E Cicno. Cicno è qui, da qualche parte ad affrontare la sua prova.
 
Non aveva alcuna importanza però, tutto perdeva di significato davanti al corpo martoriato, torturato per dio solo sapeva quanti anni, di suo fratello.
 
«Non mi pento di nulla.»
 
La voce di Giuseppe le giunse per la prima volta più salda e sicura.
Guardandolo con cautela Lea poté leggere la sincerità delle sue parole anche nel volto serio e duro, nella mascella serrata e nelle sopracciglia aggrottate.
Era vero, qualunque cosa avesse fatto, Giuseppe non se ne pentiva minimamente.
Forse c’era speranza, forse aveva fatto qualcosa di brutto sì, ma per qualcosa di buono. Magari i giudici infernali non l’avevano pensata come lui o forse erano solo di cattivo umore quel giorno, magari-
 
«Hai combattuto.» provò tirando su con il naso, strofinandocisi contro il dorso della mano.
Giuseppe abbozzò un sorriso. «Non proprio. Non sono sceso in piazza se è quello che credi. Ma ho, diciamo, combattuto sul mio campo.»
A sentire quelle parole Lea si ritrovò divorata dall’ansia tanto quanto dalla curiosità, divisa tra il voler sapere e il non volerlo, tra il voler disperatamente credere che ci fosse una giustificazione ed il terrore di sentirsi dire qualcosa di terribile, di vedere tutte le sue speranze infrante.
«Ascolta. Io- tutto ciò che desideravo era vederti, sapere che stessi bene, sapere che eri riuscita a superare tutte le prove, che non eri sola, che… che stai cercando di vincere e che farai del tuo meglio per arrivare fino in fondo.» riprese a parlare, la voce ora più morbida, più gentile.
 
La stessa voce che usava con i pazienti, con quelli più piccoli… o con i più gravi.
 
E sfortunatamente per lei Lea era e sarebbe sempre stata la “piccola” tra i due, al contempo però quell’intera situazione le faceva pensare che fosse anche davvero, davvero grave.
 
«Non lo voglio sapere.» ripeté per l’ennesima volta.
Giuseppe scosse il capo. «Ed io non te lo dirò. Ma devi- devi promettermi che lotterai con tutte le tue forze, che non ti farai abbattere e non ti farai dire da nessuno che non puoi farcela.»
 
Come facesti con te.
 
Lea lo pensò ma non lo disse, le parole ugualmente pesanti e sentite, presenti nell’aria tesa.
«Ti ho aspettato per tutto questo tempo, sai?» mormorò improvvisamente stanca. «Ogni giorno chiedevo a Shilon Yu se non fosse arrivato nessun Giuseppe Pozzi, perché mi aveva detto che spesso le anime non vengono smistate in ordine d’arrivo, spesso- spesso alcune si spaventano o si distraggono e perdono il turno e io lo so- me lo ricordo sa? Me lo ricordo che ti perdevi a chiacchierare con la gente, che se l’argomento era interessante allora-»
«Mi hanno smistato quasi subito.» la bloccò lui. «Minosse mi ha subito relegato ai Campi di Pena.»
Ci fu un lungo momento di silenzio, carico di tensione. Poi Giuseppe sospirò, cedendo.
«Sono stato mandato nel girone dei traditori. Più precisamente tra coloro che hanno infranto un voto. Io ho infranto il mio.»
A quelle parole Lea lo fissò sbalordita. Poteva sentire le labbra schiudersi per lo shock, la lingua pesante nella bocca, gli occhi sgranati.
Il suo voto. Giuseppe era un medico, aveva fatto un solo voto in vita sua e se l’aveva infranto poteva significare che-
 
Si è rifiutato di prestare cure a qualcuno. Può essersi rifiutato di farlo se non sotto compenso, può aver trattato in modo impari due pazienti o… o può aver ucciso qualcuno.
 
Quasi d’istinto Lea voltò il capo verso il podio, sulla pallottola da moschetto e sulla poltiglia che si stava asciugando.
Come il deposito di un medicinale non ben mescolato sul fondo di un bicchiere.
 
Deglutì. «Cos’è quello?» chiese in modo meccanico, la mente in vuota, un blackout intermittente, che alternava il buio a flash di scaffali strapieni di bottigliette, di polveri, di liquidi.
Giuseppe non batté ciglio. «Atropina.» disse solo e Lea chiuse di nuovo gli occhi.
Questa volta non provò a restare dritta, in piedi. Allungò la mano per poggiarsi al trespolo e poi, lentamente, sedersi a terra, mentre tutta l’energia che le era rimasta defluiva fuori dal suo corpo, dalla sua anima.
«Non sono mai stato un guerriero, potevo combattere solo dietro le quinte.»
«Hai ucciso- hai ucciso i tuoi pazienti…» soffiò fuori assieme alla poca aria che gli era rimasta nei polmoni.
«Gli austriaci.» annuì lui, anche se Lea non poteva vederlo. «Una volta guariti sarebbero tornati per le strade, a portarci di nuovo via quel poco che avevamo conquistato. Quello per cui e-» si bloccò, stringendo le labbra come se volesse fisicamente impedirsi di dire altro. Annuì ancora. «Non mi pento di nulla. La guerra è anche questo.»
A quelle parole Lea scattò, guardandolo con un astio che non si sarebbe mai sognata di rivolgergli.
«Sei un medico. Hai fatto un giuramento! Sei un figlio di Apollo per l’amor del cielo! Hai giurato, hai fatto un giuramento a ben due Dei! Hai giurato a tuo padre! Avevi l’obbligo morale di salvare ogni paziente, ogni ferito, senza distinzione alcuna e invece-»
«E invece ho preferito ucciderli. Sì, Elena. Ho infranto il mio giuramento di Ippocrate e ho recato danno, ho somministrato un medicinale mortale e lo rifarei.» lo disse con freddezza, quella scintilla che aveva illuminato i suoi occhi in vita tornò a brillare, animata dall’ardore con cui, ancora ad oggi, Giuseppe credeva nelle proprie azioni, nelle proprie scelte.
«Ho infranto il giuramento, ne conoscevo le conseguenze, decisamente più alte e terribili di quanto non lo fossero per qualunque altro medico mortale e ho agito comunque. Non sono qui per giustificarmi, non sono qui per fare ammenda, per pentirmi e dolermi, per aver rimorso e implorare perdono. Sono qui solo per dirti che anche se tu ora non avrai più nei miei confronti lo stesso affetto che avevi prima, io continuo invece ad averlo e ad essere orgoglioso di saperti giunta fino a qui, di saperti in grado di affrontare il mondo.» la sua voce si affievolì sulle ultime parole, sembrava quasi che tutta quella forza che aveva appena dimostrato si stesse dileguando velocemente. «Dovrebbe essere più sicuro ora, dovrebbe essere più… equo. Potrai studiare medicina, se è ancora quello che vuoi fare. Potrai avere un conto tutto tuo in banca, possedere proprietà, fare scelte libere senza che siano altri a farle per te e- e potrai vivere come viveva un uomo. Potrai fare quello che vuoi o almeno questo è quello che vociferavano gli altri dannati della mia terrazza.»
Elena stette in silenzio, incapace di dire nulla, di continuare quella conversazione. Giuseppe lo capì perfettamente e, ancora una volta, come tanti anni prima, decise di prendere lui in mano la situazione, di indicarle quale fosse la via, di mettere fine a quel supplizio.
«Questo è quanto, Lea.» mormorò lentamente. «Sono- sono davvero fiero di te. Quando sei uscita, quel giorno, ero così arrabbiato, così… deluso, dal fatto che tu non mi stessi ascoltando, dal fatto che fossi scesa per le strade anche contro la mia volontà, che non capissi le mie ragioni.» accennò un sorriso e scosse il capo. «Sai cos’ero, cosa sono ancora, sai che non avrei mai potuto avere figli miei ma- in un qualche modo, più che mia sorella, sei stata mia figlia e sebbene all’inizio la tua presenza per me fosse un’imposizione dall’alto, sebbene mi sembrasse ingiusto che tra tutti i suoi figli nostro padre avesse scelto proprio me per crescerti, per proteggerti… ne sono stato felice. Alla fine dei miei giorni ho avuto qualcuno che mi ha amato e qualcuno che ho amato.»
 
 
“Avete fatto, in vita, l’unica cosa degna, per ambire al perdono?”
 

Giuseppe fece un passo indietro, strofinando le mani sui pantaloni consunti in un gesto impacciato, imbarazzato. «Penso di averti anche odiata, sai?» domandò retorico.
Lea lo guardò con espressione crucciata: se le ricordava le occhiate scocciate di suo fratello all’inizio, il modo sbrigativo con cui la trattava, prima di costruire un rapporto, prima che diventassero una famiglia vera.
«Non volevi una bambina tra i piedi.» disse solo.
Lui scosse ancora la testa. «No, non ti ho odiata all’inizio, eri solo molto fastidiosa, come un- te li ricordi i fratelli obbligati dalle madri a portare i più piccoli in clinica? Così, mi sentivo così.»  fece un verso divertito a ripensare alle facce scocciate di quegli adolescenti, ma subito dopo un velo di tristezza lo coprì: chissà se non fossero divenuti adulti, chissà se fossero sopravvissuti abbastanza per poter chiamare quegli anni vita. «No.» ripeté. «Ti ho odiata dopo. Ti ho odiata quando hai chiuso quella porta e te ne sei andata.»
«Cosa?» non riuscì ad impedirsi di chiedere lei, scioccata.
«Quel giorno. Quanto te ne sei andata.» ripeté. «Ti ho odiata tantissimo, perché non mi avevi ascoltato, ancora una volta, perché sapevi bene quanto me che avresti rischiato la vita, o forse non riuscivi a capirlo e solo io l’avevo visto chiaramente, ma in quel momento ero sicuro che anche tu lo sapessi e ti ho odiata perché stavi andando incontro alla morte invece di rimanere vicino a me, al sicuro.» rise senza gioia. «Lo so, è stupido, sembra senza senso, ma… ho scoperto che i genitori sono ipocriti, sono gelosi, anche irragionevoli, dalla mia prospettiva vedevo solo una ragazza, la mia bambina, ancora troppo giovane e ingenua, che sceglieva di abbandonare me per andare a morire. Anche se l’avrebbe fatto per la giusta causa. Non mi interessava, non mi interessa ancora oggi che tu sia morta per fare del bene. Ai miei occhi sei solo morta.»
Rimase in silenzio, spostando lo sguardo dalla sorella al proiettile alle sue spalle.
«Per anni non sono stato in grado di comprendere il comportamento delle madri, dei padri dei miei pazienti. I genitori dei soldati… sapere che chi ami è morto per fare la cosa giusta non aiuta a far andare via il dolore, soprattutto se quel qualcuno era l’unica famiglia che avevi.»
Lea deglutì a forza. «Avevi detto di essere fiero di me.»
Lui annuì. «Lo sono. Questo non cambia il fatto che tu sia morta, che la mia famiglia fosse andata distrutta e che sia successo perché hai voluto fare ciò che reputavi giusto, onesto.» chiuse gli occhi, sospirando. «Sono fiero di te, ma devi capire- no, no, non devi capire, non c’è nulla che tu debba capire.»
«Dimmi. Fammi capire invece. Cosa vuoi da me?» gli chiese con voce tremante.
Giuseppe provò a sorriderle, ma nel farlo indietreggiò ancora. «La mia è pura ipocrisia, Lea. Sei un’eroina, lo sei, sono fiero di te. Ma sei morta. La mia sorellina è morta e io lo sapevo che sarebbe successo, te l’ho detto, ma non mi hai voluto ascoltare.» sbuffò con sarcasmo e si portò una mano trai capelli sporchi, scompigliandoli più di quanto già non lo fossero. «Ma sono stato così orgoglioso, lo siamo stati entrambi quel giorno: tu per aver ignorato le mie parole, per essere andata a prestare soccorso anche se ti avevo detto che non potevi farlo, che non sarebbe finita bene e io- io per non averti seguito. Per essere rimasto in clinica, ad aspettare che i feriti arrivassero da soli, da me. Eri brava Lea, saresti potuta diventare grande, ma in quel momento le tue capacità curative non erano tali da permetterti di operare sotto pressione, da sola, in situazioni di pericolo.
Ma sono rimasto lì. Questo è il mio unico rimpianto, non averti seguita.»
Lea non provò a trattenere le lacrime, non provò a trattenere i singhiozzi.
«Quindi è stata colpa mia? Mi stai dicendo questo?» chiese con voce rotta.
Giuseppe scosse la tesa. «No, no, ma che diamine dici! Non è colpa tua-»
«Hai detto che mi avevi avvertita e io-» si bloccò, guardando suo fratello, quello che era stato davvero un padre per lei, improvvisamente conscia di qualcosa.
Lei lo sapeva. Sapeva che sarebbe andata a morire, sapeva che avrebbe potuto fare poco, per poche persone, ma era comunque andata.
 
Lo sapevo che sarei morta, ma non potevo rimanere con le mani in mano, non potevo rimanere al sicuro mente la gente combatteva e moriva a sua volta.
Ho pensato a loro, agli altri e –

 
«Non ho pensato a te.» ammise con un filo di voce, strozzato dai singhiozzi sempre più forti. «Non ho pensato che ti avrei lasciato solo. Non ho pensato che ne avresti sofferto, io ho- ho pensato solo a me stessa, ho pensato solo che potevo farcela, che non mi mancava nulla e che se fossi morta almeno l’avrei fatto per un motivo, avrebbe avuto senso- sono- sono stata così stupida. Ti ho lasciato solo a vedere tutti quei mostri, a curare i feriti, a curare i semidei, gli innocenti e chi- chi aveva ucciso me.» lo disse con una consapevolezza che le illuminò chiaramente quel nugolo oscuro e sfocato che era diventata la sua testa.
Una luce forte e accecante come quella del Sole, che tanto calore dona ma anche tanto dolore infligge.
 
«Ti hanno portato le stesse persone che mi hanno ucciso… le hai uccise perché avevano ucciso me.»
Lea fissò suo fratello dritto negli occhi, ma lui fuggì il suo sguardo con decisione, voltando il capo, fissando il pavimento liscio e lucido.
Giuseppe aveva ucciso i soldati austriaci, infrangendo il suo giuramento, conscio che sarebbe finito nei Campi di Pena, per lei.
Aveva ucciso per vendicarla.
Suo fratello, l’uomo più importante di tutta la sua vita era finito a dannazione eterna per colpa sua.
La nausea che l’assalì in quel momento le fece perdere quasi il contatto con la realtà. Si strinse le mani allo stomaco, poi ne portò una alla bocca, premendosela contro con forza.
No, no, non era possibile. Non poteva essere così. Era colpa sua. Tutta colpa sua.
Non riuscì a sentire le rassicurazioni di Giuseppe, non lo vide avvicinarsi tentennante ed allungare una mano per carezzargli il capo, ma Lea si ritrasse comunque da quel contatto, urlando di lasciarla, di non toccarla, che era tutta colpa sua.
Com’era possibile? Lei voleva solo fare del bene, si era buttata nella mischia, aveva messo la propria vita a rischio per salvare quella di altri, ma a quale costo? Lei voleva solo fare la cosa giusta, solo questo. Aveva aiutato dei feriti, aveva fatto quello che ogni medico doveva fare anche- anche se lei non era un medico, però era una figlia di Apollo! Doveva valer qualcosa! Aveva fatto del bene, aveva fatto la cosa giusta, la cosa giusta da fare, aiutare i bisognosi, accudire i malati, curare i feriti, come ogni brava persona, come ogni Dio aveva sempre detto si dovesse fare.
E invece cosa aveva ottenuto? Aveva forse salvato quel ragazzo? O dopo aver ucciso lei il soldato aveva ucciso anche lui e tutti gli altri? Come si chiamava? Glielo aveva detto il suo nome? E lei? Lei si era presentata?
Lea pianse ancora più forte, un grido straziante a squarciarle il petto al solo pensiero di esser morta per nulla, di aver sprecato la sua vita per niente. Oh, no, non per niente, ma per rendere Giuseppe ancora più solo, ancora più arrabbiato verso il regno, verso gli invasori. Era morta per nulla e suo fratello aveva odiato così tanto lei, la sua morte, le sue azioni, da esser diventato un assassino.
 
«Sono io… la colpa è mia. È tutta colpa mia.» cantilenava ad occhi sgranati, le lacrime che scendevano copiose, le mani stretta ai capelli corti.
I suoi tanto amati capelli corti, quelli per cui aveva lottato, per cui tante donne e uomini le avevano lanciato occhiate dispiaciute, convinti che se li fosse tagliati per denaro, per poter pagare magari qualche conto della clinica, come tante donne aveva fatto prima di lei. Ma no, per Lea quello era un segno di libertà, era un segno d’indipendenza. I suoi bei capelli corti, che sfuggivano ai fermaglietti che avrebbero dovuto tenerle il capellino in testa. Il suo grembiule bianco, la spilla con l’orologio. Tutti quegli oggetti di cui era andata fiera, tutte quelle cose che Giuseppe le aveva fatto conoscere e amare e che ora riusciva a ricordare solo sporchi di sangue.
Era tutta colpa sua.
 
«Lea, Lea ti prego, non dire sciocchezze, non è colpa tua. Non mi hai obbligato a fare nulla, è stata una mia scelta.» provava a calmarla Giuseppe, cercando di farla venire a ragione, di farle capire quanto fosse stupido addossarsi ogni responsabilità.
«Lo hai fatto per me!» pianse ancora lei.
«L’ho fatto perché ti ho persa, non per te. L’ho fatto perché stavo soffrendo e non volevo che nessun altro soffrisse come me-»
«Anche loro avevano una famiglia! La loro famiglia ha sofferto per colpa mia!» insistette singhiozzando, cercando disperatamente quell’aria che non riusciva a far arrivare ai polmoni.
 
«LEA!»
 
La figlia di Apollo non sentì subito quella voce, non vide le due figure apparire sulla soglia della porta e neanche Giuseppe tirarsi di colpo indietro, ponendosi davanti a lei, a farle da scudo.
L’uomo allargò le braccia, lo sguardo sospettoso puntato dritto su quel giovane dai tratti statuari vestito con abiti moderni, ben più dei suoi.
Era una strana accoppiata, il suo volto pareva ripreso a quello dell’Apollo esposto nei giardini vaticani ma le sue vesti erano così nuove. Quel giovane, senza ombra di dubbio anche lui figlio del dio del Sole, era anacronistico.
Dietro di lui c’era anche un altro ragazzo, molto più piccolo, almeno una decina d’anni in meno del primo. Questo però pareva vestire i giusti abiti, il suo viso giovane e pieno, i ricci morbidi e castani, si accostavano bene alla maglia arancione, ai riflessi della sua lancia di bronzo celeste.
Quei due non sembravano una minaccia, il primo aveva chiamato sua sorella per nome, ma Giuseppe non si mosse comunque, rimanendo davanti a Lea, a nasconderla, a celare il suo dolore dagli occhi dei nuovi arrivati, senza però poter impedir loro di sentire i singhiozzi della giovane.
 
«Chi siete?» domandò con voce ferma, autoritaria, quella con cui si rivolgeva a chiunque provasse ad imporsi nella sua clinica.
Il più grande dei due lo studiò per un momento, un’analisi velocissima che dovette dargli quegli ultimi indizi di cui necessitava prima di farsi avanti, sicuro.
«Il mio nome è Cicno di Tebe e sono un compagno di viaggio di nostra sorella.» rispose senza batter ciglio. «Lui è Michael, un altro nostro fratello, di un’epoca più recente alla nostra.»
Giuseppe annuì. «Siete suoi amici?»
Michael scosse il capo. «Solo lui, io non la conosco.»
«Cos’è successo?» chiese Cicno.
L’uomo sospirò, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. «Le ho detto perché sono finito nei Campi di Pena, crede sia colpa sua.» riassunse in breve.
«Dove eravate?»
«Oh, non c’è bisogno di darmi del voi, puoi chiamarmi Giuseppe, se non ti spiace.» provò ad abbozzare un sorriso, poi si voltò verso Lea, accucciandosi vicino a lei, sfiorandole i capelli con un gesto lieve e leggermente tremante. «Ero tra i traditori.» mormorò.
A sentire ancora quelle parole Lea singhiozzò ancora più forte, premendo il mento contro il petto, le mani a coprirle il viso.
«Un po’ più su di me.»
A quella risposta Giuseppe volse di scatto la testa verso Cicno, guardandolo scioccato.
«Cosa?»
Cicno.
Cicno di Tebe, figlio di Apollo.
Cicno. Il cigno, la costellazione del cigno.
L’italiano drizzò la schiena, per quanto la posizione glielo concedesse, un’espressione dura ad animargli il volto. 
«Il crudele.» disse solo.
L’altro gli sorrise, accondiscendente, facendo un leggero cenno con il capo. «Sono ben tre prove che svolgo al fianco di nostra sorella, se avessi voluto tradirla l’avrei fatto ben prima.»
Giuseppe si morse la lingua per non dir nulla, perfettamente conscio della scelta di parole del suo illustre fratello.
 
Non l’ha tradita.
 
«Sei tu la sua prova?» chiese Michael intromettendosi d’improvviso. «Ha finito? Può uscire di qui?»
Giuseppe deglutì ed annuì, senza trovare il coraggio di guardare ancora sua sorella.
«Bene.» sentenziò Cicno avvicinandosi con passo sicuro e leggero.
Si piegò verso Lea e le posò una mano sulla spalla.
«Lea? Hai concluso la tua prova, dobbiamo tornare dagli altri, anche Nathan deve affrontare le anime dei suoi amati.»
Un leggero alone luminoso si espanse dal palmo della mano di Cicno, emanando un calore tale da esser percepito anche da Giuseppe.
L’italiano guardò con stupore il fratellastro, soprattutto quando Lea smise di singhiozzare, alzando il capo verso Cicno con gli occhi arrossati e le guance bagnate.
«È stata tutta colpa mia, Cicno. È perché sono morta io-» iniziò ancora, ma l’altro non parve per nulla interessato alle sue parole.
«Non dire sciocchezze inutili. Non mi pare tu gli abbia puntato una lama al collo obbligandolo a fare qualunque cosa abbia fatto.» tagliò corto, il tono duro e severo.
Lea batté le palpebre smarrita. «Ma- ma se io non fossi morta… ha ucciso i suoi pazienti e-»
«Evidentemente se lo meritavano, non credi?» ritorse alzando un sopracciglio.
Lei scosse il capo. «Avevano una famiglia! Non erano stati loro ad uccidermi eppure lui ha tradito il suo voto!»
«Elena, ascoltami attentamente perché te lo dirò una sola volta, dopodiché lo dirò a Nathan e sarà lui a dirtelo in modo decisamente meno gentile del mio, capisci?»
La ragazza annuì incerta, asciugandosi le lacrime.
«Sei morta per un motivo onorevole, per salvare la vita di un altro essere e questo non potrà mai esserti portato via. Ma non è così che funziona il mondo, non è così che le cose vanno la maggior parte delle volte. Eravate in guerra, giusto? Lo era anche tuo fratello? La guerra è questo: ingiustizia. Presumo non fossero pazienti qualunque, erano nemici, soldati, vero? Una volta guariti, sarebbero tornati a combattere e ad uccidere altra gente, la tua gente. Loro sono stati pianti dalla loro famiglia, le loro azioni avrebbero fatto piangere decine di famiglie. È giusto? No, probabilmente non lo è e mai lo sarà, ma i conflitti non sono mai giusti.
Tuo fratello è un figlio del dannato Sole, è un medico, conosceva le conseguenze delle sue azioni e le ha pagate tutte.» poi si rivolse a Giuseppe. «Ti penti di ciò che hai fatto?» chiese impassibile.
Giuseppe lo guardò dritto negli occhi, certo della sua risposta. «No.»
Cicno annuì. «Non si pente, non ha rimpianti. Ha fatto il suo dovere, ha curato gli innocenti e ha accettato la dannazione eterna per uccidere i vostri nemici.»
Si tirò in piedi, dritto e minaccioso dall’alto della sua postura altera e sicura. «Mi spiace informarti di questa cosa in un momento di dolore e di lutto, ma non sei così importante da essere causa e motivazione delle azioni di una persona, della morte di altre. Sei solo una donna, Lea, non sei una divinità, ciò che tuo fratello, che nostro fratello ha fatto è stato dettato dal suo volere. Probabilmente avrebbe fatto lo stesse se tu fossi stata viva.»
Le parole di Cicno le arrivarono addosso come uno schiaffo secco e potente, Lea guardò con occhi sgranati prima il greco e poi Giuseppe, incapace di battere le palpebre.
 
Non sei così importante.
Sei solo una donna, non una divinità.

Avrebbe fatto probabilmente lo stesso.
 
Lea continuò a fissare il fratello senza dire una parola, osservando le labbra tese dell’uomo rilassarsi in un sorriso triste.
«Ognuno doveva fare la sua parte. Non ho neanche fatto abbastanza. Non è colpa tua.»
«Esatto. Fustigarti per qualcosa che è avvenuto dopo la tua dipartita è inutile e stupido, te lo diranno anche i nostri compagni.»
A quell’affermazione Cicno porse la mano a Lea, incitandola ad alzarsi. «È arrivato il momento di tornare da loro.» disse semplicemente.
Lea tentennò, afferrando tremante la mano di Cicno, riuscendo a tirarsi in piedi al primo tentativo solo ed unicamente grazie al sostegno del greco.
Quando si fu stabilizzata guardò suo fratello senza sapere cosa dire, sfinita dal pianto, dal dolore, dal tradimento.
 
Ma non ha tradito me. Ha tradito il voto dei medici, ma non me.
No, non mi ha tradita. Forse è stato l’esatto contrario. Non voleva combattere, non voleva schierarsi, voleva rimanere neutrale e invece ha preso posizione.

 
A quel pensiero Lea si rese conto che se Giuseppe fosse rimasto fedele alle sue idee, a quelle per cui avevano tanto litigato, forse non si sarebbero più rivisti, non davvero, non la sua vera anima. Se non avesse preso posizione, se non avesse deciso di combattere, seppur a modo suo, Giuseppe sarebbe stato destinato alle Praterie degli Asfodeli, condannato a perdere sé stesso e tutte le sue memorie.
Ma sarebbe stato così sbagliato? Avrebbe sofferto di meno a saperlo smarrito per sempre? Avrebbe preferito saperlo perduto?
Non lo sapeva, mentre guardava suo fratello per quella che sarebbe stata l’ultima volta, Lea non seppe dirsi se avrebbe preferito perderlo ma saperlo innocente, o averlo rivisto ma saperlo colpevole.
 
Ma sarebbe stato innocente se non avesse fatto nulla? Se avesse fatto il minimo, se non avesse preso una parte, una posizione?
 
Forse la sua coscienza sarebbe stata più tranquilla, ma con suo grande orrore Lea vide chiaramente come ciò avrebbe fatto del bene solo a lei.
Con un brivido di vergogna dovette ammettere a sé stessa che la cosa che la disturbava di più fosse il fatto che Giuseppe aveva agito dopo la sua morte, che si era schierato perché gli austriaci l’avevano uccisa: Giuseppe aveva preso posizione solo perché qualcosa l’aveva colpito direttamente, solo perché la sua famiglia ne era rimasta ferita, perché altrimenti sarebbe rimasto al sicuro nella sua piccola bolla, nel suo voto, nella sua “morale”.
Ma invece aveva agito e l’aveva fatto spinto dalla sua morte, per lei ma non per colpa sua.
Giuseppe sarebbe rimasto indifferente a tutto il conflitto, a tutto il dolore e la morte, se questa non avesse colto anche lei.
E se lei fosse stata viva, se fosse rimasta alla clinica, probabilmente avrebbe finito per curare i soldati austriaci ed i loro simpatizzanti, sì, ma non l’avrebbe fatto con piacere, forse non avrebbe alleviato le loro sofferenza, non avrebbe dato loro alcun palliativo, nessun antidolorifico. Avrebbe cucito le loro ferite con mano pesante, non sarebbe accorsa subito ai loro richiami, alle richieste d’aiuto, non li avrebbe consolati.
No, non li avrebbe uccisi, ma non avrebbe neanche sofferto per la loro dipartita. Soprattutto se avesse saputo che questi avevano ucciso i suoi concittadini.
Neanche lei si sarebbe schierata apertamente, in quel caso, non avrebbe avuto il coraggio di fare il passo finale.
No, Lea avrebbe preferito morire piuttosto che uccidere, ed era quello che aveva fatto.
Mentre Giuseppe aveva preferito uccidere piuttosto che rischiare la vita. Ed era quello che aveva fatto.
Guadò ancora suo fratello, ne studiò il profilo, i dettagli e le sfumature, le ombre, le cicatrici, i colori sbiaditi dal tempo, dalla morte e si rese conto di non averlo abbracciato, di non averlo fatto dal giorno prima della sua morte.
Con passi incerti si staccò da Cicno, avanzando verso Giuseppe, tendendo le braccia verso di lui.
L’uomo non perse un secondo, le si fece incontro con due passi ampi e Lea si ritrovò stretta al petto della stessa persona che le aveva insegnato tutto quello che sapeva, che le aveva dato una casa, uno scopo, una famiglia.
Chiuse gli occhi, inspirando a fondo, cercando una traccia del profumo che l’aveva contradistinto per tutta la vita, cercando di ricordare il calore del suo corpo, la solidità, la sicurezza che le dava abbracciare suo fratello e che le era stata portata via troppo presto.
Lea non aveva avuto una famiglia per tanto tempo, aveva passato gli anni più lontani della sua infanzia in un orfanotrofio, con le suore, sotto la protezione di una religione che non le apparteneva e che non l’aveva mai davvero protetta ma solo fatta sentire più inadeguata, più strana.
Poi suo padre le aveva mandato Giuseppe, o forse era più corretto dire che aveva mandato lei nella vita di Giuseppe e tutto era cambiato.
Trattenne il respiro, decisa a non piangere più. Non aveva senso, così come ora non ne aveva litigare su chi avesse la colpa di cosa. Lea non sarebbe mai potuta tornare indietro nel passato e sistemare le cose, non sarebbe mai potuta tornare indietro e decidere di rimanere in casa, di non entrare in quella stanza, di non curare quel giovane, di non cercare di far venire a ragione quel soldato, di non afferrare il fucile. Di non morire.
E Giuseppe non avrebbe mai potuto fare altrettanto.
L’uomo la strinse un po’ più forte e fece per allontanarsi, lasciandosi sfuggire una risata bassa quando la sorella cercò di ritrarlo a sé.

«È ora di andare, Lea, non puoi rimanere qui con me, devi finire la gara ed il tempo scorre.»
Le prese il volto tra le mani e la guardò con affetto, con la stessa luce con cui la guardava un tempo.
«Vai e vinci, va bene? Torna lì su e diventa dottore, fai del bene, ma soprattutto, vivi tutta la vita che non hai potuto vivere. Me lo prometti?»
Lea sentì il labbro inferiore tremarle ma lo strinse tra i denti pur di non farsi sfuggire un altro singulto. Annuì.
Giuseppe le sorrise. «Bon.» disse solo, l’accento così marcato nella sua voce da far scoppiare Lea a ridere, un po’ più leggera prima che il cuore le sprofondasse un po’ più in basso.
«Ora vai.»
Le diede una bacio in fronte, poggiandovi poi sopra la guancia per un attimo, abbracciandola di nuovo prima di lasciarla andare definitivamente.
Giuseppe fece qualche passo indietro e così fece anche Lea.
Stettero per un lungo momento a guardarsi, per l’ultima volta.
Un rumore ruppe il silenzio ed i due si voltarono verso gli altri semidei: Michael aveva gentilmente battuto il bastone della lancia a terra, chinando la testa a mo’ di saluto verso il fratellastro, che rispose con lo stesso cenno.
Lea si avvicinò a Cicno, continuando a fissare suo fratello finché non fu sulla soglia della porta, batté le palpebre un paio di volte, sorridendo mesta nel ritrovare sul volto di Giuseppe la stessa espressione che probabilmente appariva in quel momento sul suo volto.
 
«Addio, Giuseppe.» mormorò.
Lui sorrise. «Addio, Elena.»
Sorrise più ampiamente anche lei. «È Lea.» lo corresse, cercando di imitare quel tono che le era stato così naturale una vita fa.
«Lo so.»
 
Quando ebbe fatto l’ultimo passo fuori dalla stanza, Lea gettò uno sguardo al posio, alla pallottola, alla polvere mal disciolta che vi era sotto. I fuochi illuminavano entrambe facendole quasi brillare di luce propria ed Elena ebbe la sensazione che quella non fosse tanto la polvere con cui suo fratello uccideva i suoi pazienti, quanto quella che aveva ucciso lui.
Non gli chiese se si fosse suicidato, non gli chiese se i sensi di colpa ad un certo punto fossero diventati così insopportabili da avere la meglio su di lui. Non gli chiese, ancora, se si fosse pentito.

«Ti ho voluto tanto bene.» gli disse però.
«Spero troverai qualcun altro da amare così tanto.» le rispose lui
«Spero di ritrovare te.»
 


Cicno non disse nulla, ma percepì perfettamente il disagio di Michael, che si muoveva infermo da un piede all’altro, aspettando pazientemente nel corridoio.
Quando incrociò il suo sguardo il ragazzino fece una smorfia che forse voleva essere un sorriso. Cicno gli annuì in risposta, ma non proferì parola,
Non lo fece mentre Lea dava l’ultimo saluto a suo fratello, mentre camminavano silenziosamente per il tempio luminoso, invaso da musiche e suoni della natura.
Non le disse nulla mentre tutti e tre gettavano uno sguardo alle fontane, alle piante, agli strumenti musicali, ai bracieri in fondo alla navata che sfrigolavano come se qualcuno avesse buttato acqua sulle fiamme.
Non disse nulla mentre Michael apriva la porta e faceva, cavallerescamente e in modo decisamente esagerato, cenno a Lea di precederlo.
Non disse nulla mentre scendevano le scale e Jonas, seduto sugli ultimi gradini assieme a Cade e Jane, si alzava di scatto guardandoli sorridenti, sollevato. 
Non disse nulla mentre tutti gioivano, mentre Lea versava ancora qualche lacrima, forse di commozione, forse di dolore, ma sorrideva alle battute di Cade.
 
Non le disse che non avrebbe mai più incontrato l’anima di suo fratello, perché non era un concorrente, perché era un dannato ed i dannati non possono rinascere, i dannati possono solo soffrire e poi sparire.
Quella non era stata solo l’ultima volta che Lea aveva visto suo fratello, ma anche l’ultima volta in cui l’anima di Giuseppe Pozzi sarebbe esistita sulla faccia della terra e nelle profondità dell’Ade.
 
Un rivolo di fumo lieve uscì dalla sommità del tempio, da una canna fumaria che nessuno poteva vedere.
Era bianco, impalpabile, si disperse nell’aria facilmente, così come l’anima che era stato.
 


 
*
 



Eliza aveva voltato il capo non appena aveva sentito la voce esuberante di Cade chiamare il suo nome.
Anche a quella distanza non le era stato difficile vedere l’irlandese saltare sul posto, sbracciandosi, così come non le era stato difficile individuare nelle due figure vicino a lui Cicno e Lea. Ma chi era l’altra? La macchia arancione?

«Ehi.» chiamò Nathan dandogli una pacca sul braccio.
Il figlio di Apollo si girò verso di lei con un grugnito interrogativo, mentre continuava a fissare il gruppetto di semidei che aspettava, come molti altri, ai pedi del tempio di Poseidone.
«Sono usciti.» disse solo la donna afferrandolo e riportandolo indietro, verso il tempio di Apollo.
Nathan si voltò completamente, inciampicando sui suoi stessi passi prima di alzare il capo, mettere a fuoco quanto possibile la scena e riconoscere a colpo d’occhio un elemento di troppo.
«Chi cazzo c’è con loro? Abbiamo raccattato un altro randagio?» domandò accelerando il passo.
«Non saperi dirlo, ma forse è solo un altro figlio di Apollo che hanno incontrato nel tempio.»
L’altro annuì poco convinto, maledicendo già qualche divinità per avergli messo tra capo e collo un altro rompipalle, quando si rese conto di ciò che indossava il ragazzo, o forse ragazzino, ma da quella distanza era difficile dirlo. Eppure la maglia arancione spiccava abbastanza chiaramente e per quanto non potesse metter a fuoco i tratti somatici del suo viso, la sua mente riconobbe subito, nella macchia nera al centro della maglia, il logo del Campo Mezzosangue.
Una scossa lo pungolò, più si avvicinavano e più i suoi abiti sembravano moderni, dai jeans alle scarpe da ginnastica, dalla cinta al taglio di capelli, il visto sempre più chiaro.
Una scintilla di speranza gli si accese nel petto e Nathan si ritrovò quasi a correre verso i suoi compagni, verso quel nuovo arrivato, per poi frenare bruscamente non appena vide il volto di Lea.
Aveva pianto, su questo non c’erano dubbi, ed aveva dei segni rossi sulla fronte, sul collo, sulle braccia. Non erano ferite, non era stata di certo attaccata da qualcuno, sembrava molto più probabile che se li fosse fatta da sola, come se si fosse tirata i capelli, se si fosse afferrata con forza la maglia, graffiandosi il petto.
Non doveva esser decisamente andata bene, o meglio: doveva esser andata bene, perché la ragazza era lì fuori, ma doveva esser stata dura, doveva esser stato penoso.
Al suo fianco, tra lei ed il nuovo arrivato, Cicno pareva invece non esser stato minimamente turbato dalla prova e gli sorrise anche una volta arrivato abbastanza vicino.
 
«Cade dice che siamo stati i più veloci, vuoi provare a batterci?» gli chiese con una nota ironica nella voce.
Nathan gli prestò poca attenzione però, deciso a non cadere nella sua provocazione, voltandosi invece verso Lea.
«Che hai fatto? Chi hai visto?»
La giovane sussultò alla durezza del suo tono, ma provò ugualmente a sorridere.
«Mio fratello. Non proprio l’incontro che mi sarei aspettata.» ammise, poggiandosi a Cade quando questo le passò un braccio sulle spalle, tirandola a sé.
«Non è mai bello rivederli. È bello solo finché non ti ricordi che poi non li vedrai più.» concordò lui.
«È finito nei Campi di Pena.» continuò Lea, cercando di non guardare in faccia nessuno. «Ha uccido dei soldati e-»
«Ed era in guerra, ha fatto la sua scelta e questa non ha nulla a che vedere con te.» la interruppe Cicno freddo. «Ti prego di non ricominciare a fustigarti.»
«Te lo ha detto anche lui, no?» intervenne il ragazzo nuovo, sorridendole incoraggiante.
Lea cercò di fare lo stesso, annuendo. «Sì, me lo ha detto, ma credo mi servirà un po’ di tempo per scendere a patti con la realtà.»
«Se ha ucciso dei nemici in guerra, Lea, per quanto possa essere una cosa orribile, ha solo fatto il suo dovere.» le venne incontro Eliza. «Anche io e Nathan abbiamo ucciso, credo l’abbia fatto anche Cade.»
L’irlandese annuì. «Non ne vado fiero, ma lo rifarei per salvare la mia gente.»
«È così che funziona la guerra.»
«Non era proprio una guerra, era l’impero austriaco che stava prendendo il controllo di Milano…»
«Invasori, peggio ancora. Bastardi.» sputò secco Cade. «Ha fatto bene.»
«Era un medico, Cade, ha ucciso i suoi pazienti.» cercò di spiegare lei.
Nathan annuì. «Ha infranto il giuramento di Ippocrate, ha infranto un giuramento agli Dei e questo lo ha mandato dritto tra i traditori, vero?»
Ci fu un lungo momento di silenzio, poi Jonas si schiarì la voce, cercando di cambiare discorso, di alleggerire la situazione. «Te Cicno? Chi hai visto?»
Lo sguardo che tutti gli rivolsero, in tandem, fece immediatamente rimpiangere al ragazzo anche d’aver aperto bocca.
Giusto, sua madre era morta secoli orsono e il suo amato l’aveva tradito, non c’era poi molta scelta.

«Nessuno.»
Quella risposta però non se l’aspettava nessuno.
Cicno accennò un sorriso. «C’era un cingo morto, molto significativo. L’unico umano che ho incontrato è stato Michael.»
A quelle parole tutta l’attenzione si concentrò sul nuovo arrivato e questo si schiarì la voce, drizzando la testa un po’ impacciato.
«Salve.» disse solo portando le braccia dietro la schiena, quasi a nascondere la sua lancia scintillante e decisamente difficile da ignorare.
Cade batté le palpebre senza sapere cosa dire, poi gli sorrise: «Che hai fatto per aver la fortuna di conoscere il nostro angioletto?» chiese gentile.
Michael gli sorrise a sua volta. «Oh, veramente l’ho incontrato prima della prova di Ermes! Era un po’ schivo ma molto gentile e poi ha fascino mio fratello, vero?» disse prendendo un po’ di confidenza e dando di gomito a Cicno.
Il greco scosse la testa divertito. «Grazie del complimento, fratello, posso dire che anche la tua presenza non mi è sgradita.»
Il ragazzino si portò una mano al cuore, teatralmente ferito. «Ah! Che colpo! Io ti dico che sei affascinante e tu mi dici che non ti sono sgradito.»
Cade sorrise più ampiamente a quel teatrino. «Mi sta simpatico!» affermò rivolto verso gli altri. «Mi stai simpatico!» ripeté guardando il ragazzo. «Sei arrivato fino a qui da solo? Hai un’arma vedo, quindi devi saper combattere bene per aver superato tutte le prove!» gli chiese con entusiasmo.
Michael annuì e poi scosse la testa. «No, sì, insomma! No, non sono arrivato fino a qui da solo, ma sì, so combattere, sono stato addestrato al Campo Me-»
«Che anno?» Nathan lo interruppe velocemente, le mani strette a pungo lungo i fianchi.
«Cosa?» domandò quello senza capire.
«In che anno. In che hanno ti hanno addestrato o sei stato al Campo o quando sei morto, da che anno vieni?»
Michael aggrottò le sopracciglia. «Sono morto nel 2012, sono stato al Campo dal 2005 fino alla mia morte.»
Il figlio di Ares parve illuminarsi di colpo.
«Quindi sai della profezia?» gli chiese concitato. «Sai se si è già avverata? Se succederà a breve? Hanno formato una squadra per poter-»
«Wo-wo-wo! Calmo.» lo bloccò subito Michael. «Troppe cose tutte insieme e una che ha meno senso dell’altra.»
Nathan si morse la lingua per non rispondergli male, per non dirgli che forse era lui quello che non aveva senso o qualche frase carica di cattiveria che un ragazzino probabilmente poco più grande di Jonas non si meritava, specie da uno sconosciuto e dopo aver affrontato una prova in cui aveva sicuramente incontrato un parente che non vedeva presumibilmente da prima di morire.
Prese un respiro profondo: doveva sapere, doveva avere delle risposte ed era pronto a mandar giù più di un rospo per farlo.
«Hai ragione, scusa.»
I suoi compagni lo guardarono sorpresi, ma lui li ignorò.
«Sono Nathan Wright, figlio di Ares. Sono morto nel ’66 e so che l’Oracolo ha fatto una delle sue profezie, rivolta ad una bambina, si chiamava Olivia.»
«Nathan, dal 1966 al 2012 sono passati qualcosa come cinquant’anni.» provò a fargli notare Jonas dopo essersi fatto un calcolo veloce.
Diamine, erano arrivati all’anno 2000? Come suonava strana quella data.
L’uomo però lo ignorò, scuotendo il capo. «Le profezie ci mettono sempre un botto a realizzarsi, la bambina aveva quasi due anni.» insistette lui.
Michael però non disse nulla, osservandolo curioso, come se si aspettasse altre parole, più dettagli.
«Era proprio sulla bambina, riguardava lei.» continuò, una vena d’ansia nella voce.
Il ragazzo batté le palpebre, sinceramente confuso.
«Perdonami, ma cosa ti fa pensare che ci sia una sola profezia alla volta e, senza offesa, cosa ti fa pensare che quella bambina fosse così importante da valere la vita di una squadra o anche solo d’esser tramandata? Forse se mi dici di cosa parlava posso anche darti una mano, ma non è come se avessimo un libro mastro con tutte le profezie dette nel corso del secolo. O meglio, abbiamo un libro su cui appuntiamo le profezie, ma solo da Rachel in poi, non abbiamo quelle del passato, o almeno non ce n’era uno finché ero in vita io.» cercò di spiegare, come se trovasse davvero assurda quella domanda, quella richiesta.
 
Nathan si sentì d’improvviso mancare le forze, come se gli avessero appena gettato una secchiata d’acqua gelata addosso dopo aver corso per ore sotto il sole.
Fissò Michael come se non lo vedesse, nella sua testa rimbombava solo una frase:
 
“cosa ti fa pensare che quella bambina fosse così importante?”
 
Cosa glielo faceva pensare? Perché aveva creduto che qualcuno, là su, si sarebbe preoccupato per la profezia di Olivia, che si fosse preso la briga di fare qualcosa, di agire, di impedire che si realizzasse.
 
Perché era importante per me, perché è importante per me.
 
«C’è stata la Grande Profezia, quella dei figli dei tre fratelli. C’è stata quella su- beh, da quel punto in poi c’era quel povero sfigato e e ne abbiamo avute a bizzeffe di profezie, ricordarsele tutte è un po’ difficile. Ed è anche cambiato l’Oracolo, è arrivata Rachel, c’era un botto di casino, eravamo in guerra… eravamo davvero in una situazione complicata al tempo. Cavolo, se penso che sono sopravvissuto a due grandi guerre per morire in missione, dopo aver affrontato l’esercito di Kronos e gli altri…» mormorò con sguardo perso. Tornò a guardare Nathan. «Mi spiace, ma no, non so dirti nulla. Non so dirti neanche se sia viva o meno, non ci sono persone così grandi al Campo o- o per lo meno non ce ne erano quando c’ero io.»
Calò di nuovo il silenzio e Michael gettò uno sguardo dispiaciuto a Cicno, come se si fosse improvvisamente reso conto di quanto avesse detto, di quante domande e possibili problemi aveva appena scatenato.
Cicno però scosse il capo. «Ti ringrazio per la tua franchezza, Michael.»
«Sì, te ne siamo grati. Io sono Eliza, comunque, figlia di Nike.» parlò la donna offrendogli la mano. «Lei è Jane, figlia di Ecate.» indicando l’altra che fece appena un cenno con la testa. «Cade.» indicò ancora.
«Figlio di Eolo, purtroppo.» gli strinse la mano anche lui.
«Io sono Jonas, figlio di Pothos. Non so se…»
«Ah, il dio del rimpianto d’amore!» gli strinse la mano sorridendo, senza però riuscire a non guardare la collana di filo spinato che gli brillava al collo.
Conscio di quello sguardo Jonas si portò una mano al monile, sorridendo impacciato.
«Perdonami, mi rendo conto di non essermi presentata: io sono Lea invece.» si presentò con voce lieve la ragazza.
«Lo so, ma piacere comunque.» poi ondeggiò un po’ sui talloni. «Beh, se non vi dispiace, io andrei. Ci sono i miei amici impegnati in altri templi e vorrei vedere se qualcuno ne è uscito di già o se sono il primo.» disse un po’ imbarazzato. «A meno che… non abbiate altre… domande?» chiese strascicando le parole, con lentezza, guardando Nathan in attesa di risposta.
Il figlio di Ares però scosse il capo, svuotato da ogni energia.
Fu Eliza a farsi di nuovo avanti, posando una mano sulla spalla di Nathan e sorridendo educatamente a Michael.
«Non ti tratterremo oltre, grazie ancora. Non so se augurarti di rivederti in finale o meno, visto che allora saremo nemici, ma auguro ugualmente a te e ai tuoi amici di avere il favore di mia madre.»
Michael le sorrise, sollevato d’esser stato finalmente dismesso. «Grazie, che Nike sia con voi.»
Poi si volse verso Cicno. «Alla prossima, fratello.» disse prima d’abbracciarlo.
I ragazzi si irrigidirono, presi alla sprovvista da quel gesto, dal modo in cui strinse entrambe le braccia attorno alle spalle e al collo del greco, costringendolo a quella posa per un lungo momento. Ma con altrettanta sorpresa guardarono il loro compagno ricambiare la stretta, piegando il volto contro i capelli del fratellastro.
 
«Stai attento, hai la lingua troppo lunga.» gli sussurro.
Michael ridacchio, pronto ad allontanarsi, ma Cicno lo trattenne ancora un momento.
«Ricordati di venirmi a cercare se avrai bisogno di cure. Tu o i tuoi compagni, capito?»
A quello il ragazzo deglutì un groppo che non sapeva d’aver bloccato in gola ed annuì.
«Grazie.» disse ad alta voce.
Cicno lo lasciò andare.
«È stato un onore.» rispose solo.
Michael fece un ultimo saluto a tutti, tentennando per un momento su quell’ultimo gradino, prima di saltare giù con un balzo innecessario ma allegro e correre verso il tempio di Ermes, dove un ragazzo biondo, in piedi sugli scalini vicino ad una macchia scura rannicchiata ai suoi piedi, l’attendeva muovendo un braccio per farsi individuare facilmente.
Cicno lo guardò andare via e non distolse lo sguardo finché non poté più distinguere i suoi passi da quelli delle altre anime presenti, finché non fu sufficientemente vicino ai suoi amici.


«Hai una strana abitudine d’attrarre gente, te.» disse Jane rompendo il silenzio.
Cicno la guardò accennando un sorriso. «Hai sentito cos’ha detto Michael, sono affascinante.»
«E stai anche iniziando a prendere il mio senso dell’umorismo.» saltò su Cade scuotendo leggermente Lea, come a voler attirare la sua attenzione su quella nuova conversazione.
La figlia di Apollo però non rispose, limitandosi a sorridere prima di allungare lentamente la mano verso Nathan.
L’uomo stava ancora fissando il vuoto, ma si rese conto subito del movimento e fece scattare gli occhi su quell’arto pallido e tremante.
Quando incrociò lo sguardo di Lea non disse nulla, non ce n’era bisogno. Lei era l’unica che sapeva, che aveva sentito cose, che aveva addirittura parlato con la sua Lucy, con sua madre. Lea sapeva perfettamente chi era Olivia e, a questo punto, dubitava fortemente che gli altri non ci fossero arrivati.
Allungò la mano a sua volta, stringendo con meno forza del solito quella della compagna.
 
«Mi spiace per tuo fratello, ma è stato coraggioso anche a fare ciò che ha fatto. Uccidere non è mai piacevole, ma alle volte è nobile e giusto.» sussurrò quasi.
Lea annuì. «Spero di imparare ad accettarlo.»
«Lo spero per te.»
«Se dovessi tornare io su-» continuò lei, «Se dovessi vincere io, ti prometto che andrò a cercare Olivia, ovunque sia. Lo giuro sullo Stige.»
La stretta si rafforzò di colpo e Nathan si ritrovò a sorriderle, infinitamente grato per quella promessa così seria, così concreta, fatta nonostante entrambi sapessero che le speranze che Lea vincesse fossero davvero esigue.
«Grazie.»
 

Gli altri li osservarono senza intromettersi, senza sapere cosa fare, cosa dire.
Jonas si sporse leggermente per riuscire ad intercettare lo sguardo di Cicno, che scosse la testa lievemente, come a volergli dire di lasciar perdere. Il ragazzino però tentennò, stringendo le labbra in una linea piatta, a disagio per quel momento di condivisione in cui si sentiva un intruso, in cui sentivano tutti come intrusi.
Attorno a loro non c’erano mai state così tante anime, così facilmente distinguibili e tutte così apparentemente pacifiche ed innocue. Era come se si trovassero tutti a partecipare ad qualche gioco da fiera, ognuno preoccupato solo dei suoi amici e dei propri risultati. Ma Nathan e Lea, davanti a loro, che si stringevano la mano promettendo di andare a cercare questa Olivia, risaltavano come una macchia scura su di un lenzuolo.
Non ci voleva un genio per capire chi fosse lei: una bambina che aveva due anni nel ’66, l’anno in cui era morto Nathan e a cui il figlio di Ares teneva particolarmente. Avevano da poco avuto conferma che fosse stato effettivamente sposato, non era difficile immaginare che oltre ad una moglie Nathan avesse avuto anche una figlia.
Si ritrovò quindi a ripensare od ogni comportamento, ad ogni parola, a domandarsi se le sue azioni ed i suoi pensieri non fossero stati dettati anche dall’essere un padre. Ma forse due anni erano troppo pochi, la bambina era troppo piccola ed era per questo che all’inizio gli era risultato così difficile interfacciarsi con lui, perché era un adolescente e non un infante.
Si domandò anche cosa sarebbe successo se Nathan avesse effettivamente vinto e fosse tornato sulla terra, lui venticinquenne e la figlia ormai sessantenne.
 
Se l’anno in cui quel Michael è morto è quello in cui ci troviamo ora o se comunque non è passato molto tempo, perché per quanto ne sappiamo noi potrebbero essere passati anche cent’anni e la figlia di Nathan potrebbe essere morta.
 
Ma oltre a questo, quante profezie venivano fatte? Cosa significava veramente? Cosa intendevano per “oracolo”, quanti ce ne erano, come funzionava?
Jonas si rese conto di sapere ben poco del mondo semidivino, di cosa l’avrebbe aspettato se fosse riuscito a tornare in vita e per una frazione di secondo si domandò se ne sarebbe davvero valsa la pena.
Guardò Cade che se ne stava fermo alle spalle di Lea, Jane che teneva lo sguardo fisso sulle mani intrecciate dei loro compagni. Eliza che osservava con attenzione i loro volti e Cicno-
Cicno che fissava qualcosa che brillava ad intermittenza sul palmo della sua mano.
Lo vide muovere leggermente l’arto, lasciando che la luce proveniente dal tempio di suo padre facesse riverbero sull’epidermide tiepida e venata.
C’era una sottile linea gialla, o forse d’oro non riusciva a capirla, che appariva e scompariva a seconda di come muovesse la mano. Sembrava che il greco stesso non capisse cosa fosse e come se la fosse procurata e con disinvoltura provò a grattarla via con un’unghia. Il palmo d’arrossò lievemente e piano piano divenne tutto rossastro, emanando un leggero bagliore proprio come aveva fatto tante prove fa.
Sembrò che quella mosse avesse funzionato perché Cicno si sfregò le mani e riportò la sua attenzione sugli altri.

«È giunto il momento di andare. L’ultimo a dover affrontare il tempio del suo divino padre sei tu, Nathan.»
Lea gli strinse un’ultima volta la mano, cercando di sorridere incoraggiante.
«Tocca a te, forse potresti incontrare Lucy, potrebbe dirti qualcosa lei.» provò a suggerire.
Nathan scosse la testa. «È rinata, lo sai perfettamente.»
«Úranus aveva visto suo fratello, il suo vero fratello. C’è speranza.» lo corresse subito Cade.
«Non voglio illudermi.» affermò duro.
«Allora non farlo, credi solo alla logica.» intervenne Eliza. «Se tua moglie ti dirà di rinascere con lei o per Olivia, saprai che non è la sua vera anima. Se ti dirà di tornare su per lei, allora sarà quella vera e forse potrà darti notizie.»
«Non vorrei distruggere le vostre speranze, ma se l’anima che Nathan incontrerà gli potrà dire qualcosa sulla sorte di questa donna, allora molto probabilmente non sarà altro che un’illusione.»
Cicno lo disse con tono piatto, fermo, guardando fisso negli occhi Nathan.
«La morte non ci dona l’omniscienza e se le anime che ti compariranno avranno informazioni sulla tua vecchia vita non saranno vere. Sono morte prima o dopo di te?»
«Lucy prima, mia madre dopo.»
Cicno annuì. «Forse l’anima di tua madre potrà saper qualcosa, se la profezia si è avverata quando lei era ancora in vita, ma per tua moglie non c’è speranza che sappia qualcosa che tu ignori. Ricorda le mie parole.»
Jonas si torse le mani, giocando con il vecchi laccio del suo polso. «Magari possiamo fare una pausa, no? Mi sembra che siamo tutti un po’ tesi…»
«No.» disse imperioso Cicno. «Non abbiamo tempo da perdere quando ne abbiamo già sprecato abbastanza.»
«Le nostre prove sono state una perdita di tempo, per te?» chiese Jane sarcastica.
«Le vostre? No. Ma se non fosse stato per Lea, il tempo che ho impiegato io nel tempio di quel maledetto sarebbe stato assolutamente inutile. Non c’era scelta per me.»
«Non è stato una perdita di tempo, non dire così, hai affrontato-»
«Nulla, Eliza. Non ho affrontato nulla, ho solo soccorso Lea e questa è l’intera utilità della mia prova. Sono un dannato di millenni fa, il mio lignaggio è finito con me, non ho discendenti, non ho amici o famiglia, il mio mondo non esiste più. Non c’è nessuno per cui potrei decidere di rinunciare alla gara.»
A quello Eliza non seppe cosa rispondere, le parole gli erano parse più dure del dovuto, come caricate di un’improvvisa rabbia senza motivazione.
Annuì però, intuendo quando dovesse esser stato frustrante, quanto forse sentir loro parlare di famiglia, di speranze, fosse doloroso per lui.
«Va bene, se Lea e Nathan se la sentono, muoviamoci.»
Jane si lasciò sfuggire un suono di scherno. «Siamo sicuri che il soldatino non cada? È più pallido della prima volta che l’abbiamo incontrato.»
Nathan le ringhiò contro come l’animale che era, lasciando scivolare la mano dalla presa di Lea e fronteggiando la figlia di Ecate.
«Ti sei vista allo specchio ultimamente?»
«No, non ne ho mai avuto uno, in verità.» lo freddò lei.
«E con questo rompiamo di nuovo il ghiaccio! Perché ho la sensazione che il tempio di Ares sia quello rosso?» d’intromise Cade passando di nuovo un braccio attorno alle spalle di Lea a tirandola a sé.
«Forse perché è dello stesso colore della faccia di Nathan quando si arrabbia?» gli diede manforte Jonas, nascondendosi però leggermente dietro all’irlandese.
Il soldato li fulminò entrambi, mandandoli allegramente a quel paese, dandogli poi le spalle ed incamminandosi verso il tempio del padre.
«Muovete il culo.»
«Frena il cavallo, biondastro, qui c’è qualcuno che ha appena finito la sua prova ed è stanca, vero Lea?»
«Sono un po’ provata emotivamente, ma fisicamente penso di stare bene.»
«Non come Elza che è uscita allucinata, neanche si fosse fatta d’oppio!»
«Tappati quella bocca, Cade!»
 
 
Ancora una volta si incamminarono tutti battibeccando verso la loro nuova meta, cercando di non pensare ai propri problemi, alle proprie preoccupazioni, al dolore e alle vite che si erano lasciati alle spalle o che si sarebbero lasciati a breve.
Cicno lì seguì chiudendo la fila come faceva sempre, abbassando di nuovo lo sguardo sul palmo della sua mano sinistra, lì dove, a seconda del riverbero della luce, brillava fioco un filo d’oro, di quello stesso oro in cui era andando in frantumi il cigno morto.
L’ago vibrò leggermente, trasmettendogli una strana sensazione sotto cute.
Con malcelato orrore Cicno osservò l’oggetto sprofondare di più nella sua carne per poi schizzare veloce lungo il suo braccio, animato di volontà propria, scorrendo sotto la pelle, tra le fasce muscolari e le vene che pulsavano all’impazzate per l’improvviso spavento.
Riuscì a seguirlo con lo sguardo fino a dove la manica della maglia non lo copriva e le sue paure si fecero vere quando avvertì come una puntura al cuore, una stilettata, un dolore intercostale acuto e lampante che si collocava verso il centro del petto, ad una profondità tale da poter esser solo quell’organo vitale che ormai non pompava più sangue.
Si portò di scatto la mano al cuore, ingoiando il sapore di bile che gli era risalito in gola e battendo velocemente le palpebre per scacciare le lacrime dovute all’acredine che gli pungolava la lingua.
Se quello era davvero uno degli aghi del cigno e se il cigno era davvero un segno del suo padrone, allora significava che questo aveva appena stretto una mano al centro pulsante del suo corpo, un centro che non avrebbe dovuto funzionare, malgrado le regole assurde ed incomprensibili della Death Race, malgrado il sangue che sgorgava dalle ferite, il fiato che mancava loro dopo una corsa.
Controllò che gli altri non si fossero accorti di nulla, che Jonas e Cade fossero concentrati su Lea, che gli altri non potessero vederlo.
Che diamine stava succedendo? Perché tutto così d’improvviso? Prima la stretta al collo e ora questo? La sensazione dell’ago che gli scivolava sottopelle non sembrava volersene andare, era continua, insopportabile, come d’insetti che gli camminavano addosso, voleva strapparsi il braccio, voleva vomitare.
Cercò di prendere dei respiri profondi, tremanti, premendosi per un attimo la mano alla bocca, cercando di capire perché, cosa fosse appena successo, se anche Michael e i suoi altri compagni avessero tutti vissuto la stessa sorte.
Sentì come un tonfo, un colpo in pieno petto che lo fece ondeggiare: che questo significasse che ora il suo Signore poteva controllarlo anche nel corpo, che il loro patto non era più solo verbale ma anche fisico? Ma cosa se ne poteva fare un essere così potente del corpo evanescente di un’anima come lui? Cosa aveva in mente? Era stato davvero lui?
Per anni, per tutta la sua vita le persone avevano bramato il suo corpo, desiderando averne disposizione a proprio piacimento ed ora, dopo secoli di torture, quando credeva di aver finalmente recuperato il completo possesso delle sue membra, qualcuno lo legava come un fantoccio? L’essere che gli aveva promesso libertà e vendetta lo rilegava in una gabbia? Era questo che stava succedendo?
Perché? Cos’era quella strana sensazione che lo scuoteva, che faceva tremare ogni suo passo, ogni suo movimento? Cos’era quella vibrazione che dal braccio si era spostata al centro del petto, al suo intero corpo? Era forse l’ago d’oro che continuava a muoversi dentro il suo torace come una scheggia impazzita in una giara?
Fece scivolare la mano dalla bocca al petto, stringendo la stoffa spessa della maglia che Nathan gli aveva prestato, sentendo la mano tremare ritmicamente, con costanza.
 
Erano arrivati ormai a pochi passi dal tempio di Ares quando Cicno, d’improvviso, capì cos’era appena successo.

 


Il suo cuore era tornato a battere.

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