La Strada del Lupo di Red Owl (/viewuser.php?uid=31841)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Non
sapeva perché avessero deciso di nascondersi in quella
stanza.
Certamente avrebbe avuto più senso tentare una fuga per i
campi.
Avrebbero avuto il tempo per farlo: quando le campane della cappella
avevano preso a suonare a martello, lei e le sue consorelle avrebbero
potuto precipitarsi verso la porta sud e scendere la ripida scaletta
che conduceva al fiume, balzando da un sasso all’altro per
attraversare l’Aser. Si sarebbero bagnate i piedi e forse
anche le
sottane, ma almeno sarebbero state libere.
Stavano
già lavorando nell’orto, le schiene ricurve sulla
terra scura e
indurita dall’inverno appena trascorso. La salvezza era stata
lì,
a portata di mano, e lei era stata a un soffio
dall’abbandonare la
zappa e correre verso la porticina seminascosta dall’edera
che
cresceva su quella porzione delle mura del convento. La voce della
Superiora aveva però soffocato quegli intenti sul nascere.
“Nelle
cantine” aveva detto la donna. “Lì
saremo al sicuro.”
Neve
non riusciva a capacitarsi di come si potesse essere al sicuro
sottoterra. Era forse un po’ claustrofobica, ma gli ambienti
bui e
poco arieggiati non le erano mai piaciuti, soprattutto se era
costretta a condividerli con altre persone.
Il
cuore le martellava nelle orecchie e non c’era nulla che lei
potesse fare per rallentarne un po’ il ritmo. Lisi le
stritolava il
braccio destro in una morsa e Clara le si stringeva invece contro il
fianco sinistro. Tremava e piangeva piano, il che era del tutto
comprensibile, se si considerava che la ragazzina aveva solo
quattordici anni, ma stava facendo davvero troppo rumore: le
avrebbero trovate di sicuro.
“Pregate,
ragazze.”
La
voce della Superiora era tranquilla e placida come sempre: non
sembrava quella di una donna a un passo dalla morte.
Neve
non voleva pregare. Non che non credesse negli Dei (ci credeva e la
sua fede era sincera), ma c’era qualcosa che le impediva di
concentrarsi sulla salvezza della propria anima. La Superiora era
stata chiara: se i briganti che avevano assaltato il convento le
avessero trovate, molte di loro sarebbero morte, mentre altre
sarebbero state portate via per essere vendute come schiave. La donna
non aveva detto che avrebbero anche subito violenza, perché
non
c’era davvero motivo di specificarlo: le monache raccolte
nelle
cantine conducevano una vita reclusa, ma questo non impediva loro di
sapere come andava il mondo.
Oh,
Madre, Luce del Creato, ti supplico…
le
parole le evaporarono dalla testa. No, non ci riusciva. C’era
qualcosa che si contorceva nel suo petto. Era una creatura bianca ed
evanescente, impalpabile come la nebbia e viscida come un pesce.
Bollente e irrefrenabile. Inafferrabile. Si
chiama paura,
pensò Neve aprendo e chiudendo spasmodicamente i pugni. Si
chiama panico, terrore.
Aveva
anche altri nomi, però, nomi antichi e dimenticati da tempo,
nomi
che aveva portato con sé quando, dieci anni prima, aveva
lasciato le
fredde terre del nord per entrare nel convento di Forrascura. Nomi
che non desiderava ricordare. È
piuttosto meglio morire,
si disse, ascoltando il respiro affannoso di Clara e quello stentato
di Lisi. Forse
sì, forse no,
sussurrò la creatura che le si agitava nel petto. Comunque
non stava
a lei deciderlo: l’avvicendarsi degli eventi avrebbe scelto
in sua
vece.
Neve
fissò la porta sbarrata che intravedeva nelle tenebre
davanti a sé.
C’era solo uno spiraglio di luce, una sottile fessura
luminosa lì
dove i due battenti non combaciavano alla perfezione. Era una porta
vecchia, probabilmente marcia. Nascondersi lì sotto era
stata
davvero una pessima idea.
C’erano
delle scale che scendevano fino alla cantina, scale che partivano da
un angolo del cortile del convento. Non erano difficili da trovare.
Erano scale sulle quali in quel momento risuonavano i passi pesanti
di diversi uomini.
Le
monache nascoste nella cantina trattennero il fiato, respirando come
un bizzarro essere collettivo. Le dita di Lisi, piccole, ma forti,
ebbero uno spasmo e si conficcarono nel braccio di Neve, tanto in
profondità che la giovane sentì una miriade di
microscopici spilli
pungerle la mano destra. C’era un suono lugubre e acuto nel
suo
orecchio sinistro: ci mise qualche secondo per capire che si trattava
del gemito disperato di Clara.
La
porta vibrò sotto un colpo violento inferto
dall’esterno.
Sono
pronta a morire,
pensò Neve. Ho
ventidue anni e sono pronta a morire.
In
un modo o nell’altro,
sussurrò la creatura nel suo petto. Se avesse avuto una
voce,
sarebbe stata una voce soffiante, priva di timbro, acuta, ma con un
brontolio di fondo. Se avesse avuto occhi, sarebbero stati occhi di
vetro, piatti e senza fondo.
È
la voce della tua paura,
le aveva detto sua nonna tanti, tanti anni prima, quando lei gliene
aveva parlato per la prima volta. Neve ci aveva messo un bel
po’
per capire che, per quanto saggia e intelligente, la nonna non sapeva
proprio tutto.
La
cosa positiva era che Neve aveva imparato a dominarsi e a dominarla.
Ormai sapeva tenere sotto controllo la paura e le altre cose che a
volte rischiavano di soffocarla.
Un
altro colpo, e il chiavistello scricchiolò.
“Restiamo
vicine” le sussurrò Lisi nell’orecchio.
Il suo braccio le cinse
la vita. “Restiamo unite.”
Neve
dubitava che restare unite servisse a qualcosa, ma annuì
comunque.
Lisi le era simpatica. Avevano la stessa età, erano entrate
in
convento insieme, e la considerava quasi una sorella. Anche Clara si
strinse a loro, insinuandosi nel loro abbraccio. Era piccina e
spigolosa, praticamente una bambina non ancora divenuta adolescente.
Al
terzo colpo, la porta esplose
e
qualcuno gridò. Neve sentì il respiro inciamparle
in gola e la
creatura sobbalzarle nel petto. Mossa dall’istinto, contrasse
gli
addominali e irrigidì la cassa toracica, quasi per
trasformare le
costole in una gabbia. Per un istante soltanto, le sue mani si
contrassero con una forza quasi innaturale e Lisi gemette, ferita da
quella stretta di granito.
Scusa,
pensò Neve, riprendendo subito il controllo sul proprio
corpo. Non
un passo di troppo,
si ricordò. Non
un passo di troppo, perché non conosci il punto in cui sarai
perduta
per sempre.
Gli
uomini entrarono nella cantina. Quattro, cinque, forse sei o sette:
erano controluce e Neve non riusciva a vederli bene; e comunque i
numeri erano privi di significato. Quello che contava era che erano
molti, e grossi, e armati. A parte la Superiora, c’erano
altre
dieci donne rintanate tra i formaggi e le botti di vino: erano
numericamente superiori ai briganti, ma come potevano pensare di
contrastarli?
Avanti,
tutte insieme!
Pensò
per una frazione di secondo Neve, ma i suoi muscoli non
obbedirono e il pensiero svanì. Del resto era una follia.
Tre di
loro erano vecchie, due bambine, e nessuna delle donne più
giovani e
in forze era comunque addestrata a combattere: sarebbe stato un
suicidio.
Ma
non è forse meglio morire a testa alta?
Si
chiese amaramente. Non aveva importanza: sapeva di non avere in
sé
il coraggio di compiere un simile sacrificio.
“Ed
ecco qui le altre signorine” sogghignò un uomo,
quello che guidava
il drappello dei suoi compari e che reggeva tra le mani una torcia
accesa.
Neve
tentò di guardarlo, di imprimerselo nella mente, ma i
dettagli le
sfuggirono. Vide solo che non era vecchio, che aveva capelli corti
che riflettevano il bagliore del fuoco e un sorriso che pareva la
lama di un coltello. L’uomo fece un cenno a uno dei banditi
che gli
stava accanto. “Esaminiamo la merce, su!”
Obbedendo
all’ordine del suo capo, il brigante si fece avanti: aveva la
pelle
scura degli uomini dell’ovest e un passo irregolare che
parlava di
una vecchia ferita mai guarita alla perfezione.
Mentre
l’uomo avanzava, la Superiora fece lo stesso.
“Fermo!” gli
intimò, levando le mani nella sua direzione. “Non
un altro passo!”
Il
brigante levò la spada e si voltò verso il suo
comandante: uno
schiocco di dita, un ordine, e la lama saettò colpendo la
Superiora
alla gola.
Era
troppo buio per vedere con esattezza ciò che era successo,
ma il
corpo della donna ebbe un sussulto e poi giacque immobile. Dal gruppo
delle monache si levarono esclamazioni d’orrore e gemiti e
Neve si
portò istintivamente una mano alle labbra, forse per
saggiare la
consistenza del proprio respiro. Eppure la creatura nel suo petto
parve acquietarsi: era una cosa che conosceva, quella. Conosceva il
sangue, conosceva la morte, ed era un po’ come tornare a casa.
Incurante
del corpo ai suoi piedi, l’uomo dalla pelle scura si fece
avanti e
afferrò la prima donna che gli capitò a tiro: era
Daina, una monaca
ormai anziana e quasi cieca. Il brigante con la torcia fece un cenno
di diniego e Daina fu spinta verso il fondo della cantina.
Sbilanciata da quel movimento brusco, la vecchia si accasciò
tra due
botti.
Il
bandito afferrò allora il braccio di Lona, una ragazzotta
grande e
grossa, con fianchi larghi e guance rosse. Dal gruppetto dei
criminali si levarono alcuni mormorii e l’uomo con la torcia
alzò
la fiamma per osservare più da vicino il volto della
giovane. Poi
sorrise. “Questa può venire buona a qualcosa, che
ne dite?”
chiese con un sorriso storto.
Uno
degli altri briganti raggiunse l’assassino della Superiora e
afferrò i polsi di Lona, costringendoglieli dietro alla
schiena e
legandoli con un pezzo di corda. La giovane monaca aveva muscoli
saldi - Neve l’aveva vista spaccare la legna ed era rimasta
impressionata dalla sua forza - ma in quel momento sembrava del tutto
incapace di reagire: grosse lacrime silenziose solcavano il suo volto
dai tratti grossolani e la ragazza si lasciava manovrare come una
bambola di pezza.
“Questa?”
chiese ancora l’uomo dalla pelle scura, allungando una mano
verso
Clara.
La
ragazzina rantolò in preda al terrore. Prima che Neve
potesse anche
solo pensare di frapporsi tra lei e il suo aggressore, Lisi si
staccò
dal suo braccio e si lanciò verso il brigante.
“No!” tuonò.
“Lasciala stare, è solo una bambina!”
L’uomo
lasciò andare il braccio di Clara e afferrò Lisi
per la gola. I
suoi denti scintillarono nel buio, scoperti da un sorriso divertito.
“E
tu chi saresti, carina?”
Era
stato il capo dei briganti a parlare, avvicinandosi al suo compare e
studiando il volto di Lisi alla luce della torcia. Dalla sua
posizione privilegiata, Neve vide l’istante preciso in cui il
bandito si accorse di quanto fosse bella la sua amica.
Perché Lisi
era davvero molto bella: aveva una pelle lattea e purissima, senza
alcun segno né imperfezione, grandi occhi verdi che
sembravano
brillare d’innocenza e folti ricci neri che le incorniciavano
il
volto di porcellana.
Lisi
deglutì e si morse nervosamente le labbra rosse.
“Mi chiamo Lisi”
disse con la voce che le tremava. “Ti prego, non…
non farle del
male: ha solo quattordici anni.”
L’uomo
levò una mano e la posò sul mento della ragazza,
quasi con
delicatezza. “E tu quanti ne hai?” La stava
studiando come se
fosse un’opera d’arte; o forse un cavallo di cui
stava valutando
l’acquisto.
La
giovane abbassò gli occhi a terra.
“Ventidue.”
“Mh.”
L’uomo parve soddisfatto della risposta e fece un cenno al
suo
compagno. “Questa la teniamo” decise.
“Non legatela troppo
stretta, che mi sembra che abbia la pelle delicata. E prendete anche
la ragazzina.”
Due
uomini si fecero avanti e trascinarono via le due giovani. Clara si
aggrappò al braccio dell’altra ragazza e a Neve
parve quasi un po’
rinfrancata.
Una
mano si strinse brutalmente sulla sua spalla e la giovane si
ritrovò
a fissare gli occhi scuri dell’uomo che l’aveva
afferrata.
Scoprire i denti fu un istinto che non riuscì a sopprimere e
il
brigante scoppiò a ridere. “Questa mi vuole
mordere” sghignazzò,
voltandosi verso il suo capo che aveva ancora gli occhi fissi su
Lisi.
“Mettiamole
la museruola” borbottò distrattamente
l’altro uomo.
Una
parte del suo inconscio, quella parte che ricordava ancora i giorni
della sua infanzia in cui le governanti le sussurravano che lei era
migliore della comune plebaglia, sollevò improvvisamente il
capo.
“Non ci provare” sibilò a denti stretti.
La
sua esclamazione attirò finalmente l’attenzione
del capo dei
briganti. “Quanta boria” mormorò
morbidamente, agitandole la
torcia davanti al volto. “Abbiamo forse una signora tra di
noi?”
Neve
si rigirò la risposta sulla lingua. Era da quando era
entrata in
convento che faceva del proprio meglio per mescolarsi con le altre
ragazze: suo padre le aveva detto che era meglio così, che
l’anonimato le avrebbe permesso di restare al sicuro. Adesso,
però,
aveva la sensazione che il suo titolo avrebbe potuto esserle
d’aiuto:
la figlia di un Conte aveva certo più valore di una comune
contadinella, no?
Inspirando
a fondo per darsi coraggio, Neve levò fieramente il capo (o
almeno
ci provò). “Esatto” confermò
con voce squillante. “Io sono
Neve Aralas, figlia dei Conti di Nevelunga. Trattami con il rispetto
che mi devi.”
Sul
volto del brigante con la torcia passarono in rapida sequenza tutta
una serie di emozioni. Infine fece una cosa che Neve non si sarebbe
mai aspettata: scoppiò a ridere.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
“Neve
di Nevelunga” sghignazzò l’uomo.
“L’ho sempre trovato un
nome stupido.”
La
ragazza non reagì. C’era poco da dire: era
un
nome stupido, ma le era stato assegnato per rispettare una tradizione
vecchia di secoli.
Il
brigante le afferrò i capelli della nuca e li
tirò, costringendola
a reclinare il capo all’indietro. Le avvicinò
ancor di più la
torcia al volto e Neve avvertì il calore della fiamma
lambirle la
guancia.
“E
quindi tu saresti la sorella di Lord Falco”
mormorò il brigante,
osservando con attenzione i lineamenti affilati del suo volto.
“Sì,
in effetti gli assomigli.”
Nell’udire
il nome del fratello, lo stomaco di Neve si contrasse sgradevolmente,
ma la ragazza si impose di non mutare espressione: di certo era
troppo buio perché il bandito notasse lo sgomento che le
aveva
riempito gli occhi.
“Io
e tuo fratello abbiamo fatto buoni affari, in passato”
continuò
l’uomo, ammorbidendo la presa sui suoi capelli e
permettendole di
riassumere una posa più naturale. “So che si
è sempre chiesto che
fine avesse fatto la sua sorellina.”
Neve
irrigidì la mascella: non rispondere a quella domanda le
costava una
certa fatica. Ho
fatto la fine che mi ha fatto fare lui quando ha deciso di sfidare
nostro padre e di ucciderlo,
pensò con rabbia. La creatura nel suo petto si
agitò in preda ai
ricordi.
Il
brigante non parve gradire il suo silenzio e le sue dita
sprofondarono nuovamente nei capelli della giovane. “Hai
perso la
lingua, adesso?” le chiese strattonandola.
Neve
serrò le labbra per trattenere un sibilo di dolore.
“Non c’è
niente da dire” fece poi, cercando di assumere un tono
sdegnoso.
Non
mi sorprende che mio fratello faccia affari con dei criminali,
aggiunse mentalmente, ma evitò di esternare ad alta voce
quella
considerazione.
L’uomo
le rivolse un sorriso storto. “No, eh? Ma scommetto che Lord
Falco
avrà qualcosa da dire, quando ti riporteremo da
lui.”
La
ragazza sgranò gli occhi e il cuore le accelerò
nel petto. “Non
voglio tornare da lui!” Le parole le scivolarono fuori dalle
labbra
senza che lei potesse fare niente per trattenerle; e la voce le si
spezzò, rivelando i suoi veri sentimenti. Non voleva tornare
da
Falco, no! Cosa l’era venuto in mente di rivelare la sua
identità?
Falco era il suo unico parente ancora in vita, era ovvio che quei
banditi avrebbero cercato di ottenere qualcosa da lui! Che
stupida, che sono stata,
pensò la giovane, facendo del proprio meglio per ricacciare
indietro
le lacrime.
“No?”
chiese il brigante con voce suadente, tirandosela un po’
più
vicina. “E perché mai? Non sarà
perché non sei chi dici di
essere e hai paura che il tuo caro fratello ti smascheri?”
Neve
aggrottò la fronte. Davvero quell’uomo pensava che
fosse
un’impostora? Era davvero possibile che fosse
all’oscuro di
quelli che erano i rapporti tra lei e Falco, di quello che era
successo quando, dieci anni prima, quello che allora era solo un
ragazzo si era preso la Contea di Nevelunga?
Neve
non sapeva cosa farsene, di quella rivelazione, e non sapeva nemmeno
se fosse il caso di confermare nuovamente la sua identità. Ma
che alternative ho? Se gli faccio credere di averlo preso in giro,
questo mi ammazza!
La
ragazza deglutì. “Sono Neve Aralas”,
ripeté, “e non voglio
tornare da mio fratello. Non è una brava persona.”
L’uomo
le lasciò andare i capelli e le afferrò invece
una spalla. “No?”
le chiese inarcando le sopracciglia. “E noi ti sembriamo per
caso
brave persone?”
Neve
lo fissò negli occhi ed ebbe l’impulso di fare qualcosa.
Di sputargli addosso, di morderlo o forse di vomitare,
chissà, ma
invece si limitò a guardarlo impietrita. Il brigante scosse
il capo
e la spinse verso Lisi, che si mosse come per arrestare il suo
movimento. La ragazza aveva però le mani legate dietro la
schiena e
non poté fare nulla per impedirle di inciampare e di finire
contro
Lona. Fortunatamente la giovane monaca era abbastanza grande e solida
per evitarle di finire a terra.
Il
brigante con la torcia si rivolse al suo compare con la pelle scura.
“Tu guarda se ce n’è
qualcun’altra che ci può essere utile:
io inizio a portare via queste due.”
Così
dicendo, l’uomo fece un cenno a uno degli altri banditi, che
legò
Neve nello stesso modo in cui erano state legate le altre ragazze.
“Andiamo” disse poi, afferrando saldamente la
spalla di Lisi e
spingendola davanti a sé.
Il
terzo brigante, che era più anziano di quello con la torcia
e quello
con la pelle scura, ma non meno forte, fece lo stesso con Neve,
avviandosi dietro al proprio capo.
“Aspettate!”
La voce di Clara, simile a uno squittio, risuonò nel
silenzio della
cantina spezzato soltanto dal respiro affannoso delle monache che
ancora aspettavano di conoscere il proprio destino. La ragazzina
scattò verso Lisi e si piazzò al suo fianco,
alzando sul bandito
che la teneva prigioniera i suoi grandi occhi scuri e imploranti.
“Clara…”
mormorò Lisi in tono di avvertimento, temendo forse la
reazione
dell’uomo.
Quello
però si limitò a osservare la ragazzina con
espressione divertita.
“Che vuoi, mucchietto d’ossa?”
Clara
avvampò, un rossore ben visibile anche nella penombra della
cantina.
“Io…” la ragazzina cercò di
spiegarsi, ma le parole parvero
incastrarsi nella sua gola.
“È
abituata a stare sempre con Lisi e me” spiegò
allora Neve. Sebbene
non fosse legata a Clara quanto l’amica, intuiva che la
ragazza
sarebbe stata più al sicuro con loro che non con le altre
monache.
Se
non altro, ci sono forse meno possibilità che veda morire
qualcun
altro. Spero.
Il
brigante con la torcia le rivolse un’occhiata sarcastica.
“È la
tua servetta?” la interrogò.
Era
una palese provocazione – o almeno credeva che lo fosse, le
monache
non avevano servitù – ma Neve piegò il
capo in un gesto di dubbia
interpretazione. “Potrebbe esserlo, se servisse”
commentò
sollevando una spalla.
Lisi
le lanciò un’occhiata dubbiosa, ma lei
rifiutò di sentirsi in
colpa: se trovare uno scopo a Clara poteva servire per salvarle la
vita, non si sarebbe fatta problemi a trattarla come una sua
sottoposta.
“Benissimo”
commentò il brigante. “Chi sono io, per privare
una nobildonna
della sua ancella? Vieni anche tu, ragazzina, e non cercare di
scappare: non mi faccio problemi a staccarti quella testolina pelata
da quelle spalle ossute.”
Clara
sussultò, forse per la minaccia o forse per
l’insulto:
un’infestazione di pidocchi avvenuta qualche mese prima aveva
costretto la Superiora a rasarle i lunghi capelli castani e ora la
ragazzina assomigliava a un pulcino spennacchiato.
Le
tre giovani vennero condotte fuori dalle cantine, accompagnate dai
due uomini che le tenevano prigioniere.
I
raggi del sole primaverile la colpirono come uno schiaffo e Neve si
sentì vacillare. Era tutto vero. Fintanto che era rimasta
chiusa
nell’atmosfera soffocante delle cantine, aveva avuto
l’impressione
che quello che stava accadendo fosse una sorta di illusione, un fatto
confinato in una bolla di buio e umidità. Ma non era
così. Il loro
convento era davvero stato attaccato. La Superiora era davvero stata
uccisa. E lei stava davvero per essere riconsegnata a Falco. Ammesso
che mi rivoglia,
pensò con un brivido di apprensione. Suo fratello aveva
cercato di
ucciderla: erano passati dieci anni, ma non aveva motivo di credere
che nel frattempo avesse cambiato idea.
Nel
cortile del convento c’erano decine di uomini sconosciuti; e
cavalli. “Spero che sappiate cavalcare, signore”
disse il capo
dei briganti, passando la torcia a uno dei suoi compari che lo
attendeva in cima alle scale. “Dobbiamo fare un po’
di strada e
sarebbe davvero sgradevole dovervi trascinare per tutto il
tempo.”
Così
dicendo raggiunse un robusto cavallo baio e afferrò Lisi per
la
vita, issandola in sella. Mentre il suo carceriere la sospingeva fino
a una giumenta grigia, Neve storse le labbra notando come
l’uomo
che comandava quella banda di predoni pareva essere profondamente
affascinato dalla sua amica. Non le toglieva gli occhi di dosso,
né
le mani.
Lisi
si lasciava manovrare come un oggetto inanimato, consapevole del
fatto che opporsi sarebbe stato inutile. Stupita, Neve si accorse di
avere in bocca il sapore ferruginoso del sangue: stava digrignando i
denti senza nemmeno rendersene conto e, così facendo, si era
morsa
una guancia. C’era qualcosa che poteva fare per aiutare Lisi?
C’era
qualcosa che voleva
fare?
Il
brigante alle sue spalle le posò le mani sulla vita.
“Su!” le
ingiunse, sollevandola di peso e depositandola senza troppi
complimenti sul dorso della giumenta. Non c’era nulla di
sensuale
nel tocco dell’uomo, che anzi sembrava maneggiarla come un
sacco di
patate: Neve gliene fu stranamente grata.
“Aro!”
fece il capo dei banditi, facendo cenno a un ragazzotto riccio e
tarchiato. “Tu prendi la ragazzina.”
Il
giovane fece come gli era stato ordinato e, una volta che anche Clara
fu sistemata in sella a un cavallo, il gruppetto si avviò
trottando
fuori dal cortile del convento. Neve si contorse come meglio poteva
per guardarsi alle spalle, lanciando un ultimo sguardo a quella che
era stata la sua casa da quando aveva dodici anni: c’era un
filo di
fumo che indicava che qualcosa stava bruciando – forse le
stalle? –
e con la coda dell’occhio vide due uomini che trasportavano
un
baule dall’aspetto pesante.
Non
aveva senso. Il loro convento era piccolo e non era certo il
più
ricco della zona: perché quei criminali avevano deciso di
attaccarlo? Cosa speravano di ottenere da quella barbarie?
“Sta’
dritta, principessa” le disse il brigante che cavalcava con
lei,
premendole un braccio contro le costole per spingerla a guardare di
nuovo in avanti.
“Contessa”
lo corresse lei tra i denti. Un’abitudine che risaliva al
passato,
a quando ancora poteva fregiarsi di quel titolo.
“È
la stessa cosa” tagliò corto lui.
Neve
serrò la mascella ed evitò di rispondere,
costringendosi invece a
fare un paio di respiri lenti e profondi per calmare il tumulto del
proprio cuore e per mettere a tacere l’istinto che le
ordinava di
lottare per liberarsi.
Sarebbe
stato facile lasciare libero dominio alla cosa che si dibatteva
dietro al suo sterno. Erano passati più di dieci anni
dall’ultima
volta che Neve aveva lasciato libero il demone che viveva nel suo
petto, ma non aveva alcun dubbio che se glielo avesse permesso,
quello avrebbe preso il sopravvento sui suoi sensi e sul suo corpo in
un istante.
Tuttavia
la giovane aveva coscienza del fatto di non poter lasciare che questo
accadesse. Sapeva che, se avesse abbracciato quella parte del suo
essere come avevano fatto Falco e i suoi cavalieri quando si erano
ribellati al Conte di Nevelunga, il brigante che la teneva
prigioniera non avrebbe avuto scampo. I lacci che le bloccavano i
polsi si sarebbero spezzati, la giumenta le sarebbe sembrata
più
fragile di un gattino e la spada del bandito non sarebbe riuscita a
ferirla. Nessuno dei tre uomini che viaggiavano con lei sarebbe
riuscito a farle del male: erano troppo pochi, servivano forze ben
maggiori per soggiogare la creatura. Ma quale sarebbe stato il prezzo
della libertà?
Neve
era ben consapevole della presenza di Lisi e di Clara:
l’essere
fatto di rabbia e furore che viveva in lei non avrebbe fatto
distinzioni tra amici e nemici. Davanti alla sua furia, sarebbero
caduti tutti. Me
compresa,
pensò la giovane con un tremito.
Falco
non si era perso quando si era incamminato lungo la Strada del Lupo,
e nemmeno i suoi cavalieri l’avevano fatto, ma lei non era
come
loro. L’aveva scoperto nel momento sbagliato, con la persona
sbagliata, e suo fratello non gliel’aveva mai
perdonato.
La
prima e unica volta che aveva perso il controllo, Neve era solo una
bambina di undici anni e la creatura era ancora troppo giovane per
vivere autonomamente. Neve era solita immaginarsela come un cucciolo
rannicchiato al di sotto delle costole, un cucciolo bianco come
l’inverno, morbido come il cotone, ma con denti aguzzi e
artigli
affilati. L’aveva quasi considerato un amico, qualcuno che
poteva
darle man forte contro le angherie del fratello.
Non
ci aveva messo tanto a capire che quell’essere non
era suo amico.
Da bambina, Neve era riuscita a sottrarsi alle sue grinfie, ma
sarebbe riuscita a fare lo stesso, ora? Anche se gli anni trascorsi
nella pace del convento l’avevano aiutata a trovare
equilibrio e
serenità, Neve sapeva che quella parte di sé che
lottava per tenere
nascosta non aveva fatto altro che crescere e rafforzarsi e diventare
più arrabbiata.
Per questo ricordava sempre le parole che la sua governante le aveva
sussurrato prima di consegnarla alle cure della Superiora: non
puoi vivere senza di lei,
le aveva detto, puntando il dito al suo petto, ma
non puoi vivere nemmeno con lei. Tienila a bada. Non lasciare che
abbia la meglio, perché ti divorerebbe.
Tienila
a bada,
si ripeté anche in quel frangente, mentre il bandito che
montava
dietro di lei spingeva la giumenta giù per il pendio che
conduceva
verso la forra boscosa che dava il nome alla contrada. Non
lasciarla uscire.
Malgrado
tutto, la tentazione c’era; e cedervi sarebbe stato così
facile.
Neve però chiuse gli occhi e fece ancora qualche respiro
profondo,
lasciando che le parole della Preghiera della Madre le accarezzassero
la mente.
La
tensione che le cresceva nel petto la abbandonò, e con essa
anche
parte delle forze che l’avevano sostenuta fino a quel
momento. Non
mi sto arrendendo,
si disse, lasciandosi ricadere un po’ contro il petto del
bandito.
Troverò
un’altra via per liberarmi. Troverò un altro modo.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Nei
dieci anni che aveva passato nella contrada di Forrascura, Neve non
era quasi mai uscita dal convento. Il bosco che si estendeva in fondo
alla valle era sempre stato soltanto un'enorme ombra verde - o nera
d'inverno - dal quale giungeva il canto degli uccelli e, di tanto in
tanto, il richiamo di una volpe o di un lupo.
Ora
che vi entrava a dorso di cavallo, con le mani legate dietro la
schiena e tenuta in equilibrio dalle mani rudi di un uomo al quale
non importava nulla di lei, la ragazza aveva l'impressione che gli
alberi che la componevano fossero insolitamente alti e scuri, diversi
da quelli che crescevano nelle foreste che aveva frequentato nella
sua infanzia.
Nell'aria
c'era un denso odore di terra umida, foglie marce e linfa, il sentore
della vita che si risvegliava dopo il rigore dell’inverno.
Tutto
intorno a lei, il marrone cupo del terreno ricoperto di fango si
mescolava con il verde intenso dei germogli primaverili e con il
bianco delle prime campanule che crescevano un po’ ovunque
nel
sottobosco. Il sentiero su cui stavano procedendo era talmente
stretto che i cavalli ci passavano a malapena e si dipanava
serpeggiando tra imponenti rocce nere e coperte di muschio.
Il
capo dei briganti non sembrava preoccuparsi di non fare rumore e di
tanto in tanto indicava un particolare elemento del paesaggio, come
se le tre ragazze che aveva strappato dalla sicurezza del convento
fossero dell’umore adatto per apprezzare la natura che le
circondava. “Questi sono i massi delle fate” disse
a un certo
punto, indicando una roccia che si levava alla destra del sentiero.
“Si dice che siano stati messi qui a guardia della foresta e
dei
suoi abitanti.”
Neve
cercò di soffocare uno sbuffo sarcastico, senza
però riuscirvi del
tutto.
“Non
credi nelle fate?” le chiese a mezza voce il brigante che
cavalcava
con lei. Parlava piano, come per non farsi sentire dalle creature di
cui aveva appena pronunciato il nome. Come per non offenderle.
“No”
rispose asciutta la giovane. Le fate, i folletti e tutto il resto
vivevano solo nelle leggende e nelle fiabe che si raccontavano ai
bambini, ed era ridicolo che degli uomini adulti si lasciassero
cogliere da quelle suggestioni.
“Però
ho sentito dire cose strane a proposito di voi gente del
nord”
proseguì l’uomo, apparentemente appassionandosi
all’argomento di
conversazione. “Anche a proposito di Lord Falco. Se solo
metà
delle cose che si raccontano sono vere, non vedo perché non
debbano
esistere le fate.”
D’istinto,
Neve irrigidì la schiena. “Non so di cosa stai
parlando”
replicò, sperando che la voce non le tremasse, rivelando la
bugia.
“Quali sono le cose che si raccontano? Non vedo mio fratello
da
dieci anni e mai nessuna voce sul suo conto è arrivata al
convento.”
Il
brigante esitò, cercando forse di decidere se fosse davvero
il caso
di fornire alla prigioniera quelle informazioni, vere o false che
fossero. “Si dice che abbia la capacità di
trasformarsi in un
lupo” mormorò dopo qualche secondo.
“Pare che sia in grado di
assumerne la forma e di vagare per i boschi cacciando come fanno
quegli animali. Alcune persone giurano anche di averlo visto compiere
sortilegi oscuri, mentre altre sostengono che non sia lui stesso a
compiere quegli incantesimi, ma una strega che ha a servizio.”
La
ragazza aggrottò la fronte. Per quanto fantasiosa e in un
certo
senso esagerata, poteva capire da dove giungesse la diceria secondo
la quale Falco era in grado di mutare forma e diventare un lupo. Ma
la magia? Le accuse di stregoneria? Quelle voci le giungevano davvero
del tutto nuove. Superstizioni,
si disse dopo una breve riflessione. La
gente vede quello che crede di vedere; e questo è tanto
più vero
per la gente ignorante e che non conosce i modi delle terre del nord.
Deglutendo
un paio di volte per schiarirsi la voce, Neve scosse il capo.
“Sono
tutte sciocchezze” dichiarò con forza.
“Mio fratello è nato da
una donna mortale, esattamente come me, e nelle sue vene non scorre
certo il sangue di una bestia, né una singola goccia di
magia.
Ammesso poi che una simile cosa esista al di fuori dei racconti e dei
canti dei bardi.”
“Suvvia,
contessina.”
La
voce del capo dei briganti suonò sprezzante e Neve
spostò lo
sguardo su di lui, incontrando i suoi occhi chiari al di sopra della
spalla dell’uomo: erano occhi del colore del ghiaccio
perenne,
gelidi e al tempo stesso animati da una lingua di fuoco azzurro. Per
un istante pensò di trovare in essi una somiglianza con
quelli del
fratello, ma no: nonostante tutto, gli occhi di Falco erano
infinitamente più freddi.
Neve
aggrottò la fronte. “Cosa
c’è?”
Il
brigante sogghignò, mettendo in mostra il suo sorriso
affilato.
“Anche se non lo vedi da tempo, converrai che in Lord Falco
c’è
davvero un qualcosa di animale: il modo in cui ha sottratto la Contea
a tuo padre non è certo un segreto, e il trattamento che
riserva a
certi suoi nemici…”
L’uomo
lasciò sfumare la frase e finse di rabbrividire. Neve
serrò i
denti. Sapeva perfettamente a cosa stava facendo riferimento. O,
meglio: sapeva cos’era successo a suo padre, quando Falco e
le sue
bestie
avevano
attaccato.
“E
quindi?” ribatté dopo essersi costretta a
rilassare la mascella.
“Il fatto che si comporti come una bestia non significa che
lo sia
davvero.” Fu sul punto di dire che il loro comportamento non
era
poi migliore di quello di Falco, ma si trattenne, perché
sarebbe
stata una bugia. Anche se il risultato finale era lo stesso, la
tecnica
era
ben diversa.
Il
brigante sostenne il suo sguardo per alcuni istanti, poi fece
rallentare il proprio cavallo, permettendo alla giumenta grigia di
affiancarlo. Quando fu accanto a lei, Lisi le lanciò uno
sguardo
confuso, forse stupita dal fatto che stesse conversando con i loro
rapitori.
Neve
la ignorò. Capiva la confusione dell’amica, ma
intendeva ottenere
quante più informazioni possibili sul conto del fratello. Se
davvero
presto sarebbe stata costretta a incontrarlo, desiderava almeno
sapere con un certo anticipo a cosa stava per andare incontro.
“Forse
è così, contessina”,
riprese l’uomo a capo del gruppetto di criminali,
“o forse sai
più di quello che dici e ti rifiuti di condividere il tuo
sapere con
noi. Il che è piuttosto maleducato da parte tua, visto che
ti stiamo
tutto sommato trattando bene, no?”
In
quelle parole le parve di scorgere una velata minaccia, ma la giovane
tentò di non farsi intimidire. Non sapeva nulla di quegli
uomini,
non sapeva chi fossero, cosa volessero, cosa sapessero
e
perché avessero attaccato proprio il suo convento: si era
trattato
di una coincidenza o c’era dell’altro? Raccontar
loro del dono
che scorreva nelle vene di Falco e di tutti gli antenati di sua madre
sarebbe stata pura follia.
“Non
so cosa dirti” replicò con quella che le parve una
voce
sufficientemente altera. “Mi pare di capire che vuoi che ti
riveli
qualcosa sul conto di mio fratello, ma tu lo conosci meglio di me,
ormai. Intendi forse punirmi per questo?”
L’uomo
piegò le labbra in una linea che forse avrebbe voluto essere
un
sorriso, ma che, in realtà, parve solo una smorfia.
“No di certo”
la rassicurò. “Sei troppo preziosa per essere punita
e
sei pur sempre la sorella di tuo fratello.”
“E
dunque?” replicò lei, presa in contropiede da
quell’osservazione.
“E
dunque”, le fece eco il brigante, “credo che ci
siano ottime
probabilità che la cosa che scorre nelle vene di Lord Falco
scorra
anche nelle tue. Il che rende consigliabile un approccio
prudente.”
Neve
non riuscì a evitarlo: la bocca le rimase socchiusa in
un’espressione allibita e lei guardò con occhi
sgranati il suo
interlocutore. Dunque sapeva.
O, se non sapeva, quantomeno sospettava.
Il bandito era a conoscenza del fatto che Falco non era davvero un
uomo come tutti gli altri e aveva intuito - o forse immaginato - che
la caratteristica che lo rendeva speciale viveva anche in sua
sorella. Eppure l’aveva presa con sé.
L’aveva presa con sé e,
sebbene la tenesse prigioniera, in un certo qual senso la rispettava.
O forse la temeva, che, in fin dei conti, era quasi la stessa cosa.
Le
preghiere che aveva recitato poco prima avevano acquietato la
creatura nel suo petto, ma nel vedersi riconosciuta essa si espanse
quasi stiracchiandosi e vibrò soddisfatta. Era come se
facesse le
fusa, la bestiolina.
Neve
si ripiegò istintivamente in avanti: non poteva portarsi le
mani al
petto e allora cercò di comprimere lo sterno contro il collo
della
giumenta. Le mani del brigante che montava dietro di lei le si
strinsero attorno alla vita impedendole di sbilanciarsi, ma la mossa
non sfuggì al suo capo.
I
suoi occhi azzurri ebbero uno scintillio che alla ragazza parve quasi
un cenno d’assenso.
Il
resto del viaggio trascorse in silenzio, ma Neve sentì per
tutto il
tempo su di sé gli occhi chiari di Lisi. La ragazza la stava
guardando, osservandola con un’attenzione quasi maniacale, e
lei
era consapevole di non poter sfuggire per sempre al confronto. Se mai
avessero avuto occasione di trovarsi di nuovo sole o al massimo in
compagnia di Clara, la giovane l’avrebbe certamente
tempestata di
domande, pretendendo che Neve facesse luce su tutti gli aspetti del
suo passato sui quali aveva taciuto negli ultimi dieci anni.
Fino
a quel momento, però, Neve era determinata a rifugiarsi nel
santuario della propria testa, passando in rassegna i
pensieri
che la affollavano e cercando di mettervi ordine.
Cavalcarono
per un tempo che la ragazza non fu in grado di definire e infine
giunsero in una radura che sarebbe stata uguale a molte altre che
avevano superato, se non fosse stato per le dozzine di tende di
stoffa che vi erano state sistemate. Neve cercò di contarle
con un
colpo d’occhio, ma l’accampamento si estendeva
anche tra gli
alberi e la giovane non riuscì a capire quanti briganti
fossero
presenti in quel campo. Quel che notò fu che tra le persone
che si
radunarono in fretta attorno a loro c’erano soprattutto donne
e
bambini, un particolare che la sorprese. Era evidente che la maggior
parte degli uomini era ancora impegnata a saccheggiare il convento,
ma non si era aspettata che quei criminali si spostassero con mogli e
figli.
“Mikel!”
esclamò un uomo dai lunghi capelli grigi e folti baffi.
“Dove sono
gli altri? Queste sono tutte le donne che siete riusciti a
procurarvi?”
“Non
preoccuparti, padre” replicò con un mezzo sorriso
quello che fino
a quel momento Neve aveva identificato come il capo dei briganti.
“Gli altri ci raggiungeranno a breve. Ho preferito iniziare a
portare via queste tre, però: una di loro è un
bottino prezioso.”
L’uomo
più anziano fissò il figlio con aria
inquisitoria. “Ovvero?”
Mikel
si avvicinò a Neve e la aiutò a smontare da
cavallo. “Te lo
spiego tra poco. Nel frattempo saresti così gentile da
trovare una
tenda per queste tre signorine? Una tenda ben
sorvegliata,
se possibile.”
Suo
padre aggrottò la fronte, forse contrariato da quella
richiesta, ma
poi annuì. “Quella lì è
vuota” disse, indicando una tenda
verso i margini della radura. “Puoi sistemarle lì,
per ora. Poi
però pretendo che mi spieghi chi sono e perché
ritieni che siano
tanto importanti.”
“Naturalmente”
acconsentì di buon grado l’uomo più
giovane. Poi tornò verso il
proprio cavallo, afferrò Lisi per la vita e la
depositò a terra.
“Tutto bene?” le chiese a mezza voce. La giovane
chinò il capo e
annuì in silenzio.
Il
giovane riccio si occupò di Clara e poco dopo le tre ragazze
vennero
accompagnate fino alla tenda che era stata loro indicata dal brigante
più anziano.
“Eccoci
qui, signore” annunciò serafico Mikel, esaminando
la tenda come se
pensasse di trovarvi chissà cosa. Era un atteggiamento
piuttosto
stupido, dal momento che non c’era proprio nulla da vedere,
se si
escludevano i quattro materassi da campo sistemati l’uno
accanto
all’altro e una sorta di straccio sudicio che fungeva da
tappeto.
“Adesso vi slego” disse, rivolgendo un cenno ai due
uomini che
erano stati con lui al convento. “Siate intelligenti,
comportatevi
bene e cercate di non commettere sciocchezze. Mi rivolgo soprattutto
a te, Contessina.”
Neve
si strinse nelle spalle e si morse le labbra per non rispondergli a
tono. Altrimenti
che cosa fai?
Avrebbe
voluto dirgli. Se davvero sospettava qualcosa sul suo conto, allora
avrebbe anche dovuto sapere che c’era ben poco che poteva
fare per
trattenerla, se proprio avesse voluto scappare infischiandosene delle
conseguenze. Considerata la situazione, però, scelse di
rimanere in
silenzio: era stupido sfidare quell’uomo strano, che sembrava
conoscere il segreto di Falco senza però temerlo veramente.
Il
brigante che aveva cavalcato con lei recise la corda che le
imprigionava i polsi e Neve gemette mentre il sangue tornava a
scorrerle nelle mani. Il formicolio che le avvolse era insopportabile
e la ragazza le scosse più volte, cercando di riguadagnare
la
sensibilità nelle dita.
Evidentemente
soddisfatto della scena che aveva davanti agli occhi, Mikel
annuì.
“Perfetto. Vi lascio riposare un po’. Lascio un
paio di uomini
attorno alla vostra tenda… giusto per tenere lontani i
malintenzionati. Se avete bisogno di qualcosa, chiedete pure a
loro.”
Con
quelle parole l’uomo si accomiatò e
uscì dalla tenda portandosi
dietro i propri compari.
Clara,
che fino a quel momento era rimasta in silenzio, rigida come uno
stoccafisso, emise un suono simile a un singhiozzo e poi si
accasciò
sul materasso più vicino, rannicchiandosi in posizione
fetale.
“Via,
via” la esortò Neve, sfiorandole una gamba con la
punta di un
piede. “Non fare così, Clara: dobbiamo restare
forti.”
In
verità, la reazione della ragazzina era del tutto
comprensibile, ma
per qualche motivo la sua disperazione la infastidì. Per
tutta
risposta, Clara gemette un po’ più forte e si
portò le mani al
volto, soffocando contro i palmi un gorgoglio umido.
Neve
deglutì, a disagio. Non era mai stata brava a consolare le
persone e
così si voltò verso Lisi in cerca di aiuto. La
ragazza la stava
però guardando con la fronte aggrottata in
un’espressione
pensierosa e con una strana luce negli occhi chiari.
“Contessina?”
le chiese in tono d’accusa.
Neve
gemette: era evidentemente arrivato il tempo di affrontare quella
discussione che aveva tanto sperato di poter posticipare ancora per
un po’.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Neve
si strinse nelle spalle e poi si sedette su uno dei materassi ancora
liberi, facendo cenno a Lisi di prendere posto accanto a lei. La
ragazza bruna incrociò però testardamente le
braccia davanti al
petto e la fissò con un’espressione determinata.
Neve
sospirò: quando la sua amica si metteva in testa una cosa,
distrarla
era quasi impossibile.
“Sì,
be’”, borbottò allora, scrollando ancora
le spalle, “la storia
l’hai sentita. Non credo che ci sia bisogno di aggiungere
altro.”
Lisi
storse le labbra. “Non capisco perché non mi hai
mai detto niente.
Ci conosciamo da dieci
anni!”
Rannicchiata
sul suo materasso, Clara smise di singhiozzare e si mise in ascolto.
“Non
ho mai detto niente perché mi hanno raccomandato di non
farlo”
sbuffò Neve. “Credo che tu sappia quello che
è successo a
Nevelunga, no? Mia madre è sparita nel nulla e mio fratello
ha
ucciso mio padre: quando mi hanno portata al convento, tutti
pensavano che Falco avrebbe tentato di uccidere anche me. Mi hanno
portata via di nascosto, con il preciso intento di far perdere le mie
tracce. Cosa potevo fare? Allora ero solo una bambina ed ero
spaventata a morte, mi sembra solo naturale che io abbia tenuto la
bocca ben chiusa.” Quando Lisi annuì quasi
controvoglia, Neve
continuò: “Con il passare del tempo, poi, quello
che ero è
diventato sempre meno importante. Quel tipo là fuori mi
chiama
contessina,
ma lo fa solo per prendermi in giro: quando sono entrata in convento
ho rinunciato ai miei titoli, quindi non ho più il diritto
di farmi
chiamare così. Ormai io sono solo Neve del convento di
Forrascura.”
Lisi
reclinò il capo sulla spalla com’era solita fare
quando
rifletteva. Dopo qualche istante le si avvicinò e si sedette
a poca
distanza da lei. “Non è quello che hai detto a
Mikel, però.”
Neve
inarcò le sopracciglia chiare. “Mikel?”
le fece eco.
Sulle
gote dell’altra ragazza comparve un lieve rossore.
“Si chiama
così, no?”
“Cer-to”
scandì lentamente Neve, insospettita dalla strana
famigliarità che
Lisi sembrava aver sviluppato con il capo dei briganti. Quella storia
le puzzava, ma era qualcosa su cui avrebbe dovuto riflettere
un’altra
volta.
“Quindi?”
insistette Lisi, spronandola a rispondere.
Neve
si coprì per qualche secondo gli occhi con le mani, prima di
farle
ricadere rumorosamente sulle ginocchia. “Non so
perché gli ho
detto che ero la sorella di Falco. È stata un’idea
stupida,
suppongo, ma mi è venuto d’istinto.”
Arrossendo, la ragazza
proseguì: “Immagino che sia una sorta di
automatismo che mi porto
dietro da quando vivevo ancora a Nevelunga. Una volta mi bastava
sbandierare il mio titolo perché gli altri bambini mi
rispettassero.
Visti i risultati, non avrei dovuto dirglielo.”
“Almeno
siamo vive” pigolò timidamente Clara dal suo
materasso.
“Per
ora” ribatté amaramente Neve. “Non posso
tornare da Falco:
quello mi ammazza.”
Lisi
la fissò con i suoi begli occhi verdi. “Ma ne sei
proprio sicura?”
Neve
si mordicchiò le labbra. Sì, ne era sicura,
perché sapeva di per
certo che Falco la considerava un pericolo da eliminare. E
non a torto,
sussurrò una vocina che giungeva da quella parte della sua
mente che
odiava e temeva la creatura che le viveva nel petto. “Ne sono
abbastanza certa, sì” mormorò senza
scendere nei dettagli. “Non
so se fino a ora abbia mai cercato di trovarmi, ma la cosa migliore
sarebbe se pensasse che fossi già morta.”
“Qualcuno
sa che sei… che eri
al
convento?” le chiese ancora Lisi.
“Le
persone che mi hanno portato qui lo sanno” annuì
Neve. “La mia
governante e i cavalieri che erano rimasti fedeli a mio padre. Non so
se siano ancora vivi, però. In ogni caso, se Falco non
è venuto a
cercarmi al convento, significa che non hanno parlato.”
La
ragazza bruna le si avvicinò fino a prenderle le mani tra le
sue.
“Perché tuo fratello ti odia tanto?”
Neve
si irrigidì. Oh, no. Quella non era
un’informazione che desiderava
condividere con Lisi e Clara. Non avrebbero capito. Come avrebbero
potuto farlo, se nemmeno lei aveva mai veramente capito la propria
natura? “Questioni di famiglia” ribatté
decisa. “Scusami, ma
preferisco non parlarne.”
Lisi
le lasciò le mani e si ritrasse, visibilmente ferita dalla
sua
freddezza.
Nella
tenda scese un silenzio teso che Clara spezzò dopo qualche
minuto.
“Non c’è nessuno che ti possa
aiutare?” chiese con la sua
vocetta sottile. “Re Johan, forse…”
Neve
scosse il capo con un sospiro carico di sarcasmo. “Il nostro
Re non
ha alcun interesse a controllare le terre del nord. È
così da
sempre: il nord si autogoverna, ogni tanto qualcuno ammazza qualcun
altro e alla fine l’equilibrio e il pagamento delle tasse
rimangono
garantiti. È sempre stato così, stando a quanto
mi ha spiegato mio
padre prima di… prima che io venissi a Forrascura. Il nord
non
infastidisce la Capitale e la Capitale non ficca troppo il naso negli
affari del nord; e tutti sono contenti e soddisfatti.”
Lisi
si chinò in avanti, gli occhi fissi sull’apertura
della tenda,
oltre la quale era possibile scorgere la sagoma di alcuni uomini.
“Quindi cosa intendi fare?” le chiese sottovoce,
con il chiaro
intento di non farsi sentire da chiunque potesse essere in ascolto.
L’altra
ragazza scosse mestamente il capo. “Non ne ho idea”
ammise. “Non
ne ho davvero idea. Forse potrei provare a ragionare con questi
uomini, ma dubito di poter ottenere qualche risultato. Prima di
consegnarmi a lui, chiederanno di certo un riscatto a Falco e io non
posso certo sperare di pagare più di
lui…”
“E
se Lord Falco non ti volesse?” chiese Clara, che
evidentemente
stava cercando di farsi forza e di dare qualche speranza alla
compagna.
“Improbabile”,
commentò Neve, “ma auspicabile.”
Né
Clara né Lisi sembrarono aver altro da aggiungere a quel
punto e
Neve si portò le mani alla testa, esalando lentamente nel
tentativo
di allentare un po’ la tensione che le mordeva i muscoli del
collo.
La treccia in cui aveva stretto come di consueto i capelli chiari le
stava irritando il cuoio capelluto e così la ragazza la
sciolse,
lasciando che i capelli biondi le ricadessero pesantemente sulla
schiena. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che li
aveva
lasciati sciolti in presenza di altre persone?
La
sua mente rievocò un ricordo sbiadito, soffocato dalla
miriade di
altri ricordi che si erano sovrapposti a esso. C’era un fuoco
acceso in una stanza che profumava di cannella e chiodi di garofano,
c’era un tappeto morbido sotto le sue ginocchia e un corpo
caldo
dietro di lei, dita delicate che le accarezzavano i capelli,
dividendo con dolcezza le ciocche. C’era profumo di mamma e
il suo
cuore era colmo di pace.
C’erano
anche delle parole sussurrate, raccomandazioni che non avevano avuto
molto senso alle sue orecchie di bambina. La
mia piccola guerriera,
aveva mormorato sua madre; e Neve non aveva capito il perché
di quel
titolo. Sì, le era capitato di prendere a sassate qualche
altro
bambino e sì, una volta aveva morso la mano di una sua
compagna di
giochi e non l’aveva lasciata andare finché la
governante non era
venuta a liberare la sventurata, ma non poteva certo dirsi una
guerriera.
Verrà
un giorno in cui dovrai combattere, piccola mia,
le aveva detto sua madre. Quando
quel giorno arriverà, non aver paura di percorrere la Strada
del
Lupo. È nel tuo sangue: quando sarà il momento
saprai cosa fare.
All’epoca
Neve era già consapevole dell’animaletto che
viveva rannicchiato
dietro le sue costole, del cucciolo che ogni tanto borbottava in lei.
Già allora aveva l’impressione che non fosse un
lupacchiotto, ma
Neve ricordava distintamente di non averne mai parlato con sua madre.
Perché
una mamma le sa, certe cose,
si
era detta. La
mamma sa sempre tutto e non ha bisogno che glielo dica io.
La
ragazza si domandò se sua madre sapesse veramente tutto, se
fosse
consapevole della natura dell’essere che viveva in lei. Non
aveva
mai avuto modo di chiederglielo: ricostruire lo scorrere del tempo
era impossibile, ma la giovane sapeva che, poco tempo dopo la scena
dei suoi ricordi, la donna era inspiegabilmente svanita nel nulla.
Con ogni probabilità era morta.
D’impulso
Neve si afferrò i capelli in un pugno e li
attorcigliò come per
fissarli di nuovo sul capo. All’improvviso il fatto di
lasciarli
sciolti le sembrava quasi sacrilego, come se facendolo avrebbe in un
qualche modo offuscato l’ultimo ricordo che aveva di sua
madre.
Rendendosi conto di quello che stava facendo, la ragazza si
obbligò
a lasciare la presa. Aveva mal di testa e non aveva senso torturarsi
in quel modo. La situazione in cui si trovavano era già
abbastanza
sgradevole così com’era.
Dopo
qualche tempo Clara si mise a sedere e si guardò attorno con
occhi
nervosi.
“Cosa
c’è?” le chiese Lisi, sollevando appena
il capo dal materasso
sul quale stava sonnecchiando, stremata dallo stress della giornata.
La
ragazzina arrossì. “Devo usare il bagno”
confessò.
Neve
si mordicchiò le labbra: a breve anche lei avrebbe avuto lo
stesso
problema. All’interno della tenda non c’era
però nulla che
potesse fare a caso loro, nemmeno un lenzuolo che potesse garantire
loro un minimo di riservatezza.
Con
un sospiro, la giovane si alzò in piedi, ignorando le fitte
a
schiena e gambe dovute alla cavalcata fuori programma. Anche se era
imbarazzante, non avevano altra scelta che chiedere aiuto agli uomini
che Mikel aveva messo a guardia della loro tenda.
Scostando
il lembo che fungeva da porta, Neve sporse il capo
all’esterno e si
trovò di fronte al giovane che aveva cavalcato con Clara e a
un
ragazzo biondo. “La mia amica ha bisogno di andare in
bagno”
annunciò senza giri di parole. Era molto più
semplice far credere
che fosse Clara l’unica ad avere problemi con la vescica,
piuttosto
che ammettere che anche lei iniziava ad avere una certa urgenza di
fare pipì.
I
due ragazzi si scambiarono un’occhiata. “Vediamo di
procurarvi
qualcosa” disse il giovane biondo. Aveva un viso gradevole e
dall’espressione quasi amichevole: Neve si trovò a
pensare che era
un vero peccato che facesse parte di quella banda di criminali.
La
ragazza annuì e fece per rientrare all’interno
della tenda, ma in
quel momento l’occhio le cadde su un gruppetto di persone
raccolte
attorno a un vecchio castagno. Mila!
Shandra!
Pensò,
riconoscendo due delle sue consorelle. Erano due monache che avevano
suppergiù la sua età e che non si erano trovate
nelle cantine
quando era avvenuto l’attacco. Evidentemente i briganti
avevano
rastrellato il convento e avevano portato in quella sorta di
accampamento tutte le donne che avevano reputato di un certo valore.
Prima
che avesse modo di cogliere qualche particolare in più, la
guardia
bionda si frappose tra lei e il gruppetto di monache. “Ah-ah!”
fece
in tono di rimprovero. “Torna dentro, dai: lo sai anche tu
che
Mikel non vuole che ti guardi in giro.”
Neve
aggrottò la fronte, cercando di prendere tempo.
“Ma che male può
fare se mi guardo un po’ in giro? Sono comunque vostra
prigioniera.”
Il
ragazzo scosse il capo. “Dentro!” le
ordinò, puntando un indice
verso la tenda.
Con
un sospiro sconfitto, la giovane fece come le era stato chiesto.
“Allora?”
le chiese Clara, incrociando penosamente le gambe.
Neve
le rivolse un’occhiata di compatimento. “Hanno
detto che adesso
ci portano qualcosa” replicò. “Cerca di
resistere o, se proprio
non ci riesci, vai in un angolo e solleva il tappeto.”
La
ragazzina avvampò. “Resisto”
borbottò a denti stretti.
“Bene”
sospirò Neve, rivolgendole un cenno d’assenso. Poi
si voltò verso
Lisi. “Ci sono delle nostre consorelle, là fuori.
Credo che le
abbiano legate a un albero.”
La
giovane bruna si mise immediatamente a sedere. “Chi sono? Hai
riconosciuto qualcuno?”
Neve
si mordicchiò le labbra. “Ho visto chiaramente
solo Shandra e
Mila, poi mi hanno costretta a rientrare. Comunque mi sembrava che ci
fossero solo donne giovani: non so cosa ne abbiano fatto delle
altre.”
Lisi
chinò mestamente il capo e Neve tentò di
reprimere un brivido
d’orrore. Se la sorte toccata alla Superiora era un indizio,
non ci
voleva certo un genio per capire cosa fosse successo alle loro
consorelle più anziane.
Clara
ondeggiò mestamente sul posto, cingendosi il ventre con le
mani.
“Secondo voi cosa ne faranno? Cosa ci
faranno?”
“Tenteranno
di venderle come schiave ai pirati che trafficano con le terre che si
trovano al di là dell’oceano”
replicò cupamente Lisi. “Sembra
che… da quello che so, quella è la sorte che
tocca a quasi tutte
le donne che cadono in mano a predoni come questi.”
La
ragazza più giovane rabbrividì. “Credi
che finiremo anche noi
oltre oceano?”
Neve
serrò i denti. Era evidente che lei non era inclusa in quel noi:
lei sarebbe finita a Nevelunga, dove avrebbe incontrato il suo
destino. Forse
sarebbe meglio venir mandata al di là del mare, dove nessuno
mi
conosce e dove potrei iniziare una nuova vita. Per quanto miserabile,
non può essere peggiore di quella a cui mi
costringerà Falco,
ammesso che mi lasci vivere!
A
quel pensiero, la creatura nel suo petto ebbe un fremito rabbioso.
Oh,
se Falco avesse cercato di ucciderla, lei non sarebbe stata a
guardare come una preda inerme. Si sarebbe difesa con le unghie e con
i denti e gliel’avrebbe fatta vedere lei, l’avrebbe
morso e
graffiato e avrebbe assaggiato il suo sangue, ne avrebbe ricordato il
sapore e…
No!
Neve
rinculò fisicamente e si costrinse ad abbandonare quei
pensieri. Non
avrebbe ceduto alla bestia. L’avrebbe tenuta nascosta,
controllata.
Ma
a che pro?
Le
chiese una sorta di coscienza ribelle. Se
Falco sarà sul punto di ucciderti, che senso ha resistere a
quello
che sei? È meglio la morte o una nuova forma
d’esistenza?
Prima
che avesse modo di rispondere a quel quesito, Lisi si alzò e
le posò
una mano sulla spalla. “Tutto bene?” le chiese
guardandola con
un’espressione preoccupata nei grandi occhi verdi.
Neve
annuì. “Sì, è tutto a
posto” mormorò con voce roca. “Ho
solo avuto un momento di debolezza: devo essere stanca.”
Lisi
la studiò con aria scettica, ma, sebbene fosse evidente che
non le
credeva, evitò di commentare, scegliendo invece di
rispondere a
Clara. “Non so cosa ne sarà di noi, ma suppongo
che tu
accompagnerai Neve a Nevelunga: hanno deciso che le farai da ancella
e le ancelle seguono ovunque le loro signore.”
Clara
storse le labbra pallide, incerta se apprezzare o meno quella
prospettiva, e Neve si sentì arrossire: lei non era
più abituata a
essere la signora
di
nessuno.
“Io,
invece”, continuò Lisi con una smorfia,
“verrò con ogni
probabilità venduta oltre oceano. A Neve non servono due
servitrici.”
Mentre
pronunciava quelle parole Lisi tenne gli occhi bassi e Neve la
fissò
con uno sguardo indagatore. “Oh, io non ne sarei
così certa, se
fossi in te” replicò lentamente, studiando la
reazione dell’amica.
“Mikel sembra aver sviluppato un certo interesse nei tuoi
confronti.”
Le
guance pallide di Lisi si tinsero di rosa. “Oh, non lo so.
Non
credo che si farà problemi a cedermi in cambio di un
po’ di
quattrini.”
È
arrossita? Si
chiese Neve incredula. Perché
è arrossita? Non può essere…
affascinata da quel tizio!
“Lisi”
esordì con voce cauta, ma in quel momento
l’entrata della tenda si
spalancò e Neve si voltò di scatto per
fronteggiare il nuovo
arrivato.
All’interno
del rettangolo luminoso della soglia si stagliava la figuretta di una
ragazzina che non poteva essere molto più grande di Clara.
Aveva la
pelle talmente scura che a tratti pareva avere riflessi bluacei,
vestiva abiti maschili e in mano reggeva una padella
dall’aspetto
inequivocabile.
“Allora!”
esclamò la ragazzetta con un gran sorriso. “Mi
hanno detto che
qualcuno se la sta facendo addosso!”
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Con
le guance in fiamme, Clara si alzò e raggiunse la ragazzina,
prendendo con cautela la padella che quella le stava porgendo.
“Ci
puoi portare anche una coperta o qualcosa da appendere?” le
chiese
Neve, indicando l’angolo della tenda in cui Clara stava
sistemando
la padella.
La
nuova arrivata annuì e poi la scrutò da capo a
piedi. “Sei tu
Neve?” indagò. Quando la giovane bionda fece un
cenno d’assenso,
sorrise soddisfatta. “Io sono Ciela” si
presentò. “Mikel dice
che devo venire con te da Lord Falco. Dice che avrai bisogno
d’aiuto
e che quella lì non è probabilmente in grado di
essere una buona
ancella.”
Sentendosi
nuovamente chiamata in causa, Clara si rabbuiò e si strinse
nervosamente le braccia esili attorno al petto.
Piccola
maleducata,
pensò Neve guardando con aria severa la giovane dalla pelle
scura.
“E tu pensi di essere una buona ancella?” le chiese
in tono
scettico.
Quella
scosse il capo. “Proprio per niente” ammise in
tutta
tranquillità. “Ma Mikel vuole che ti segua, quindi
io obbedisco.”
Neve
sbuffò con sdegno. “Mi piacerebbe capire
perché Mikel
creda
che mi servirà tutto questo aiuto, una volta che
tornerò a
Nevelunga.”
Ciela
inarcò le sopracciglia scure. “Tutte le signore
nobili hanno
bisogno di qualche tipo di servitù”
osservò con aria confusa.
“Non è così?”
“Non
quelle che sono state dieci anni in convento”
ribatté con una
risatina amara. “E non quelle che hanno a che fare con mio
fratello. L’hai mai incontrato?”
La
ragazzina fece un segno di diniego. “No, ma mio padre ci ha
parlato
un paio di volte e mi ha detto che è un tipo strano. Credo
che mi
piacerebbe conoscerlo.”
“Perché?”
indagò Neve, avvicinandosi fino a trovarsi a meno di un
metro da
lei. Malgrado fosse con ogni probabilità più
giovane di lei di
diversi anni, la ragazzetta era piuttosto alta e non aveva alcuna
difficoltà a guardarla dritta negli occhi. No, decisamente
non aveva
la stoffa dell’ancella.
Ciela
si strinse nelle spalle, mentre un angolo delle sue labbra si
sollevava in un mezzo sorriso. “Così. Mi piacciono
i tipi strani.
È vero che può trasformarsi in un lupo?”
Davanti
a quella domanda diretta, Neve esitò, poi optò
per una verità
formale. “Nessun uomo è in grado di mutare forma e
assumere
l’aspetto di un animale. Solo un idiota o un pazzo
può dire di
aver visto mio fratello trasformarsi in un lupo.”
“Forse
allora non cambia il suo aspetto”, ribatté
prontamente Ciela, “ma
diventa comunque come
un
lupo. È così?”
Neve
aggrottò la fronte. “Non so di cosa stai
parlando” sbottò,
scoprendosi però incapace di sostenere lo sguardo della
ragazzina.
Ciela
incrociò le braccia davanti al petto e inclinò il
capo di lato,
fissandola con aria impertinente. “Certo che no”
sogghignò.
Neve
avrebbe potuto ribattere, insistere, ma aveva l’impressione
che
quell’atteggiamento non avrebbe fatto altro che rafforzare
ancor di
più le convinzioni della ragazzina. Forse quei briganti
sapevano
veramente più cose sul conto di Falco di quante non ne
sapesse lei.
Forse suo fratello non si faceva alcuna remora a mostrare la sua
natura: in quel caso, la reticenza di Neve sarebbe apparsa ridicola
agli occhi di uno spettatore ben informato. “Come
credi” sospirò
allora, lasciando cadere il discorso. “Adesso possiamo avere
quel
telo che ti ho chiesto, se non ti dispiace?”
“Va
bene” sorrise la ragazzina, con una nota canzonatoria nella
voce.
Poi aggiunse, come per un ripensamento: “Mia
Signora” e fece un
piccolo inchino impacciato, simile a quello di un uccellino che si
piega per becchettare qualche granaglia.
Quando
Ciela svanì oltre la soglia, Neve storse la bocca, confusa
da
quell’incontro. “Strana ragazza”
osservò incontrando gli occhi
di Lisi.
“Sono
parecchie le cose strane, qui” mormorò di rimando
la giovane
bruna. Quando non aggiunse altro, Neve decise ancora una volta di
lasciar cadere la questione. La tensione all’interno della
tenda
era comprensibilmente alta e lei era abbastanza lucida per capire che
anche l’osservazione più innocente avrebbe potuto
essere male
interpretata e dar vita a un litigio. Non potevano permettersi
discussioni: in quelle circostanze avevano bisogno di restare unite
com’era sempre stato quando si erano trovate tra le mura del
convento. Per
mantenere alto l’umore,
si disse Neve, e
per non permettere che nessuna perda la testa a causa della
disperazione.
Lisi
e Clara, doveva ammetterlo, avevano ancora meno punti di riferimento
di lei. Se non altro, lei aveva una vaga idea di cosa aspettarsi:
sapeva dove si trovava Nevelunga, sapeva quanto era distante dal
convento e, quindi, dal punto in cui erano tenute prigioniere, e
conosceva Falco. Cosa sapevano le sue due amiche? Se Clara poteva
indovinare il suo destino, Lisi si trovava di certo completamente
allo sbaraglio: “al di là
dell’oceano” non era un luogo, ma
un’espressione che racchiudeva in sé una vita
intera. Oltretutto,
ragionò, le mezze parole e le allusioni fatte sul conto di
suo
fratello avevano con ogni probabilità aumentato i dubbi e le
incertezze delle altre due fanciulle.
Per
le ore successive, le ragazze sedettero in silenzio sui rispettivi
materassi, in attesa che qualcuno portasse loro qualche notizia,
buona o cattiva che fosse. Nessuno aveva dato loro una torcia e
così
restarono a guardare mentre la luce che filtrava attraverso le chiome
degli alberi e la spessa tela della tenda si faceva sempre
più
fioca; e le ombre della sera sempre più lunghe. Fatta
eccezione per
Ciela, che portò loro il telo che le era stato richiesto,
nessuno
fece loro visita. La sera divenne notte e le giovani iniziarono a
sentire i morsi della fame. Quando i suoni del campo dei briganti si
acquietarono, uno degli uomini di guardia portò loro una
pentola che
conteneva una sorta di brodaglia spessa, dalla quale emergevano un
paio di patate e qualche carota. L’uomo si ritirò
prima che Neve o
una delle altre fanciulle potesse aprire bocca.
Passarono
tre giorni che a Neve parvero i più lunghi della sua vita.
Non era
abituata all’inattività: in convento
c’era sempre qualcosa da
fare, piccoli compiti ripetitivi che l’aiutavano a riempire
la
giornata. Le occasioni di conversare con Lisi e Clara si fecero
sempre più scarse. Una volta che ebbero esaminato in lungo e
in
largo la sfortunata situazione in cui si trovarono, le ragazze si
trovarono a corto di argomenti di cui discutere: del resto, nessuna
di loro era dell’umore adatto per chiacchierare del
più e del
meno.
Per
quanto si sforzassero di tendere le orecchie e di cogliere qualche
dettaglio, qualche frammento di conversazione che permettesse loro di
capire cosa stesse accadendo al di fuori della loro piccola prigione
di stoffa, pareva che i loro carcerieri fossero ben attenti a non dar
loro alcun appiglio. Parlavano sussurrando, in un tono troppo basso
perché le giovani potessero distinguere le parole.
Cionondimeno,
qualche suono filtrava comunque. Colpi sordi e nitrire di cavalli,
risate e insulti urlati, ma anche grida di terrore e pianti
soffocati. Erano sempre voci femminili a emettere quei suoni che
avevano il sapore della disperazione, e le ragazze chiuse nella tenda
non avevano bisogno di confrontarsi per capire chi fosse a gridare e
a piangere: alle loro consorelle era stato evidentemente riservato un
trattamento meno favorevole.
La
mattina del quarto giorno, la tenda si aprì cogliendole di
sorpresa.
Le uniche visite che ricevevano durante il giorno erano quelle
dell’uomo e della donna che servivano loro pranzo e cena e
che si
occupavano di mantenere un minimo decoro nella tenda e per questo non
si aspettavano l'arrivo del bandito dalla pelle scura che aveva
ucciso la Superiora: non di prima mattina, se non altro. Le tre
ragazze, che erano balzate in piedi quando la tenda si era aperta,
retrocedettero d'istinto come un sol uomo.
"Tu",
disse il brigante tendendo una mano verso Lisi, "vieni con me."
Le
gote della giovane mora si fecero ancora più pallide del
solito.
“Perché?” chiese con un filo di voce.
Senza nemmeno rendersene
conto, Neve e Clara le si strinsero ai fianchi, quasi intendessero
proteggerla dall’uomo che torreggiava su di loro.
“Mikel
vuole così” replicò il bandito in tono
brusco, senza
sbilanciarsi. “Puoi seguirmi sulle tue gambe oppure puoi
farti
portar via di peso: scegli tu.”
Lisi
si guardò attorno come alla ricerca di un appiglio, gli
enormi occhi
verdi carichi di smarrimento. “Ma…” la
voce le si affievolì e
scomparve prima che la giovane riuscisse a esprimere la propria
obiezione.
Forse
d’istinto, Lisi guardò Neve come alla ricerca di
un aiuto. La
giovane bionda non riuscì a fare altro che aprire e chiudere
stupidamente la bocca per un paio di volte, incapace di pronunciare
parole di senso compiuto. Neve non si stupì nello scoprire
che,
nonostante il senso d’orrore che le stritolava il cuore, non
c’era
nessun fremito di rabbia nelle profondità del suo petto:
alla
bestiolina che vi abitava non era mai interessato un granché
del
benessere degli altri.
La
ragazza deglutì più volte nel tentativo di
scacciare il nodo che le
stringeva la gola e poi gracidò: “Non puoi
portarla via!”
Il
brigante si voltò per fulminarla con gli occhi, una reazione
che non
si era aspettata. “E tu invece hai il diritto di portare via
mia
figlia?”
“C-come?”
balbettò Neve, presa in contropiede. Ci mise qualche secondo
per
collegare tutti gli elementi. “Oh… Ciela
è tua figlia?”
chiese.
“Già”
annuì l’uomo con un brusco cenno del capo.
“Non
ho chiesto io che venisse con me!” ribatté la
ragazza, piccata da
quell’accusa infondata. “A quanto pare è
stato il tuo capo a
decidere di spedirla con me a Nevelunga!”
“E
adesso Mikel ha deciso di tenersi la tua amica. Direi che non
possiamo fare altro che accontentarlo” replicò il
bandito, come se
vi fosse un qualche tipo di equilibrio in quella sorta di scambio di
ostaggi.
“...
vuole tenermi con sé?” sussurro Lisi in un tono
che Neve non seppe
interpretare alla perfezione. C’era una nota di timore,
certo, ma…
Il
bandito esalò con forza dal naso. “Cerca di
mostrarti dispiaciuta,
ragazza.”
Lisi
avvampò. “Lo sono!” sibilò,
ritrovando il proprio spirito
combattivo. “Non ha alcun diritto di tenermi
con sé,
né di vendermi a qualcuno o, o… di fare qualsiasi
altra cosa, con
me!”
L’uomo
le puntò addosso i suoi occhi neri. “Preferiresti
quindi essere
venduta al mercato degli schiavi?” la provocò.
La
ragazza bruna aggrottò la fronte e chinò gli
occhi a terra. “No”
ammise in un soffio.
Non
che fare da puttana a quello là sia una sorte molto migliore,
sussurrò una voce nella testa di Neve, e la ragazza
arrossì,
mortificata da quel pensiero volgare e assolutamente non in linea con
quello che pensava della sua amica. Da dov’era sbucato? Non
era da
lei giudicare in maniera tanto superficiale le scelte e i pensieri
dell’altra giovane.
“Nemmeno
tua figlia sembra dispiaciuta di venire a Nevelunga” disse
allora,
inserendosi nel discorso e rifiutandosi di interrogarsi oltre su
quello che avrebbe potuto essere il rapporto tra Lisi e Mikel.
“Ciela
non ha ancora quindici anni” sbottò il bandito.
“È troppo
giovane per sapere quello che vuole. Sta a me decidere per lei.
Proteggerla è compito mio!”
“Nemmeno
Clara ha ancora quindici anni”, ribatté Neve,
indicando la
ragazzina, “eppure guardate che trattamento le state
riservando.”
Sul
volto dell’uomo passò un’ombra veloce e
la giovane si chiese se
si sentisse in colpa per le proprie azioni. Poco dopo il brigante si
strinse però nelle spalle. “I suoi genitori
l’hanno venduta al
convento: le hanno tolto la libertà di decidere del proprio
futuro
parecchio tempo fa.”
“I
miei genitori sono morti”
esalò
Clara e, per la prima volta, a Neve parve di cogliere una nota di
sdegno nelle sue parole.
L’uomo
la guardò con una smorfia. “Peggio per
te” replicò. Doveva
avere fretta di chiudere il discorso, perché non aggiunse
altro e
afferrò con malagrazia un polso di Lisi. Con uno strattone
deciso,
costrinse la ragazza ad allontanarsi dalle amiche e ad accostarsi a
lui.
“No!”
protestò la giovane dimenandosi.
“Finiscila!”
ringhiò l’uomo, prendendola per le spalle e
scuotendola con forza.
“Cosa speri di ottenere? Non hai ancora capito qual
è la tua
situazione?”
Lei
emise un gemito e gli occhi le si fecero lucidi, ma smise di lottare.
Non rispose dalla domanda del bandito - che era comunque retorica -
ma l’uomo parve interpretare il suo silenzio come un assenso.
“Andiamo” le disse, tornando a stringerle il polso
con quella che
a Neve parve una presa più delicata rispetto a quella di
poco prima.
Quando
la giovane fu scomparsa oltre l’apertura della tenda, Neve si
mordicchiò pensosamente le labbra. Meglio
con Mikel che con Falco, probabilmente,
considerò. Spero
solo di riuscire a salutarla.
Si
sentiva come svuotata. Lisi, un’amica che l’era
tanto cara da
considerarla quasi una sorella, era stata portata via ed era forse
uscita per sempre dalla sua vita, ma lei non avvertiva altro che un
vago senso di mancanza.
Clara
le si avvicinò e le prese una mano tra le sue.
“Siamo rimaste
sole” le disse in un sussurro.
Neve
guardò nei suoi grandi occhi scuri e vi lesse tutto lo
smarrimento
che in quel momento rischiava di soffocare la ragazzina. “Lo
so”
sospirò cingendole le spalle con un braccio. “Noi
due resteremo
insieme, però. Non hanno alcun interesse a
dividerci.”
Clara
annuì e le si strinse al petto, nascondendo il volto nel suo
collo.
Neve le accarezzò la schiena in cerchi lenti, cercando di
confortarla. Il corpo ossuto della ragazzina sobbalzò sotto
l’impatto dei singhiozzi silenziosi e senza lacrime che la
stavano
scuotendo e la giovane si sforzò di trovare parole che
fossero in
grado di consolarla e di confortarla.
La
sua mente rimase però perfettamente vuota, quasi distaccata
dal suo
corpo fisico. C’erano i concetti di compassione e
pietà, Neve li
riconosceva nella loro dimensione astratta e sapeva che quei
sentimenti avrebbero dovuto riempirle il cuore e la testa, ma in lei
tutto era stranamente silenzioso: taceva la parte razionale del suo
essere e taceva allo stesso modo la creatura rannicchiata sotto le
sue costole.
Quel
silenzio era un’anomalia e Neve si scoprì a
temerlo.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Nei
giorni che seguirono, Neve si interrogò più volte
se fosse
possibile fuggire. Quando di notte giaceva sul suo materasso, il
volto schiacciato contro la stoffa ruvida e le orecchie tese per
cogliere i suoni che giungevano dalla foresta e dal campo, la sua
mente costruiva elaborate fantasie di libertà.
Avrebbe
potuto scappare da sola, pensava il più delle volte. Clara
sarebbe
stata un ostacolo. Nascondersi da sola sarebbe stato molto
più
semplice che nascondere anche una seconda persona. Avrebbe dovuto
aspettare che la ragazzina si addormentasse – non avrebbe
dovuto
attendere a lungo perché, a differenza sua, Clara aveva il
sonno
pesante – e poi avrebbe sollevato il bordo della tenda
opposto
all’ingresso. Avrebbe strisciato: non aveva paura di
sporcarsi.
Altre
volte pensava invece che no, non poteva abbandonare Clara in quel
posto. Cosa sarebbe successo quando i loro carcerieri si fossero
accorti che Neve era sparita? Avrebbero pensato che la ragazzina
avesse favorito la sua fuga e chissà in che modo
l’avrebbero
punita.
In
ogni caso, con o senza Clara, il difficile sarebbe stato sopravvivere
nella foresta. Neve non aveva che una vaga idea di quale fosse la
cittadina più vicina al convento. I rifornimenti arrivavano
soprattutto da Ponte Vento, il che, supponeva, significava
probabilmente che quella città non poteva distare dal
convento più
di due giorni di viaggio. Ma quale strada avrebbe dovuto percorrere
per raggiungerla?
L’educazione
che aveva ricevuto durante gli anni che aveva vissuto come monaca era
interamente incentrata nei campi della religione, dell’arte,
della
musica e dell’economia domestica: nessuno si era mai
preoccupato di
insegnarle la geografia di Forrascura, dal momento che la vita delle
appartenenti al suo ordine religioso era interamente condotta
all’interno delle mura del convento.
Neve
sapeva solo che Ponte Vento sorgeva poco lontana da una delle grandi
vie di comunicazione che attraversavano il regno, ma di quale strada
si trattava? La giovane aveva più volte cercato di rievocare
gli
insegnamenti che il suo tutore le aveva impartito quand’era
ancora
bambina: era la Via dei Laghi? O forse la grande Strada dei Mercanti,
l’antichissima rotta commerciale che attraversa quelle terre
da
oriente a occidente? Non aveva davvero alcun elemento per definirlo
con certezza.
La
ragazza era abbastanza sicura di poter sopravvivere un paio di giorni
senza cibo, dissetandosi nei numerosi ruscelli e torrenti che
attraversavano la regione, ma come se la sarebbe cavata, se la sua
fuga sarebbe durata più del previsto? Anche ammesso che i
banditi
non la ricatturassero nel giro di un paio d’ore - e che non
la
intercettassero appena lasciata la tenda - di cosa si sarebbe
nutrita? Non aveva con sé né provviste
né denaro, e come poteva
essere certa di potersi fidare delle persone che avrebbe incrociato
lungo la via?
Che
viaggiasse sola o con Clara faceva poca differenza: delle donne non
accompagnate davano sempre nell’occhio indipendentemente dal
loro
numero e dalla loro età - anche se, in effetti, i capelli
corti
della ragazza più giovani sarebbero stati particolarmente
vistosi.
E
se fossero riuscite ad arrivare indenni a Ponte Vento o in un qualche
altro villaggio della zona, come avrebbero giustificato la loro
presenza? Era prudente presentarsi come monache sfuggite al
saccheggio del convento di Forrascura? Se avessero trovato delle
brave persone, queste le avrebbero certamente aiutate, ma se avessero
trovato invece degli alleati dei banditi che le avevano rapite - o
altri malintenzionati - il loro destino sarebbe stato segnato.
Di
una cosa Neve era certa: non avrebbe più fatto
l’errore di
presentarsi come la figlia dei Conti di Nevelunga. La reazione di
Mikel era stata più che sufficiente per farle capire che il
suo
titolo non era in grado di offrirle alcuna reale forma di protezione.
La
giovane passo così ore interminabili a dibattersi in preda a
dubbi e
speranze vane fino a quando, il settimo giorno, la
possibilità di
decidere le proprie mosse le fu nuovamente sottratta. Era pomeriggio
quando Mikel si presentò nella tenda: lei e Clara non lo
vedevano
dal giorno in cui erano state condotte all'accampamento.
“Ottime
notizie, contessina!” esordì il brigante.
“Lord Falco ci ha
fatto avere la sua risposta.” L’uomo
levò un pugno e le mostrò
il piccolo rotolo di pergamena che stringeva in esso. La giovane lo
riconobbe all’istante: era uno dei piccoli messaggi che,
infilati
in minuscoli cilindri d’ottone, venivano affidati alle ali
dei
piccioni viaggiatori perché li consegnassero in tutto il
regno con
una rapidità a cui nessun cavaliere poteva aspirare.
La
giovane sbiancò e si mise in piedi su gambe tremanti. Per
qualche
motivo, si era illusa che i suoi carcerieri non avessero ancora
contattato suo fratello: era stata davvero stupida pensare che, prima
di scrivere a Falco, Mikel si confrontasse con lei. Adesso
sa che sono ancora viva,
pensò in preda a una vertigine. Sa
che sono prigioniera e che questi uomini sono disposti a vendermi a
lui.
D’istinto
allungò una mano verso il rotolo di pergamena, chiedendo
silenziosamente di poter leggere con i propri occhi il messaggio
riportato su di esso, ma Mikel retrocedette di un passo e si
infilò
il rotolino in una tasca dei calzoni.
“Meglio
di no, contessina” le disse con un sorriso indulgente.
“Non
vorrei che ti venisse la tentazione di farlo a pezzi: conosco tuo
fratello e so bene che, quando si tratta con lui, è buona
cosa
tutelarsi in ogni modo possibile. Senza offesa, ma ho tutte le
intenzioni di riscuotere la somma che lui stesso ha indicato qua
sopra” disse, tamburellando con le dita sulla tasca che ora
custodiva il messaggio.
Neve
deglutì. “Che cifra è?”
chiese con voce roca.
Sul
volto del brigante passò un’ombra. “Fa
differenza?” le chiese
con voce quasi gentile.
La
giovane sollevò le spalle. No, in effetti non faceva alcuna
differenza.
“E
adesso quindi cosa si fa?” chiese allora. Se non poteva fare
nulla
per decidere del proprio futuro, desiderava almeno scoprire cosa gli
altri avessero deciso per lei.
Mikel
esitò per qualche istante prima di rispondere e
all’improvviso
Neve si trovò a contemplare un’ipotesi che fino a
quel momento non
aveva nemmeno preso in considerazione. Sin da quando Mikel le aveva
rivelato di essere solito a fare affari con il Conte di Nevelunga, si
era immaginata che Falco avrebbe voluto rimettere le mani su di lei
così da poter concludere ciò che aveva iniziato
dieci anni prima e
ucciderla una volta per tutte. Ora si rendeva conto che c’era
anche
un’altra alternativa: e se suo fratello non avesse avuto
alcun
interesse a ucciderla di persona? E se avesse pagato Mikel e i suoi
banditi perché fossero loro
a
ucciderla, consegnandogli come prova soltanto la sua testa?
La
prospettiva le accese una fiamma nel petto e, prima che potesse fare
qualcosa per evitarlo, Neve sentì un ringhio lasciarle la
gola, e i
colori del mondo attorno a lei si dissolsero in un turbinio e lei si
ritrovò immersa in una dimensione fatta di ombre grigie e
nere. I
muscoli delle mani e delle braccia le si irrigidirono e qualcosa si
contrasse nel suo torace e nel suo ventre, sobbalzando come nel
tentativo di liberarsi dalla prigione della carne e delle ossa.
Clara
gridò e il suono giunse a lei come da una grande distanza,
ma fu
sufficiente per scuoterla dalla trance nella quale stava rapidamente
cadendo. Neve si aggrappò alla voce dell’amica
come un naufrago al
quale viene gettata una cima e la usò per riemergere a
fatica dal
caos che ruggiva dentro di lei, ricacciando indietro la bestia e
rinchiudendola nella profondità del suo essere.
Lo
sforzo la lasciò sfinita e Neve ricadde pesantemente sul
materasso.
Quando riuscì ad aprire nuovamente gli occhi, vide che Mikel
la
guardava con un certo allarme e la cosa riuscì a procurarle
un
brivido di soddisfazione.
No!
Si
rimproverò serrando ancora le palpebre. No,
ci sono andata troppo vicina questa volta! Se Clara non avesse
gridato…
“Ehi”
mormorò Mikel, e Neve si costrinse nuovamente a guardarlo.
Si era
avvicinato a lei e teneva le mani sollevate come per dimostrarle che
non aveva cattive intenzioni. “Noi dobbiamo semplicemente
riportarti da tuo fratello. Non vogliamo farti del male e credo che
lo stesso valga anche per Lord Falco.”
La
ragazza non riuscì a trattenere un sogghigno. “Ne
sono certa”
mormorò di rimando. Tentò di dare
un’intonazione ironica a quelle
parole, ma la sua gola era ancora stretta in uno spasmo doloroso e la
voce ne uscì distorta, bassa e roca.
Mikel
si strinse nelle spalle. “Non so esattamente cosa sia
successo tra
voi, ma l’ultima volta che vi siete visti eri una bambina.
Adesso
sei una donna, e le donne come te hanno più valore da vive
che da
morte.”
Neve
aggrottò la fronte, sorpresa da quelle parole. Per prendere
tempo
giocherellò con la stoffa del saio che ancora indossava, gli
occhi
fissi sul ruvido tessuto grigio. Quella era una prospettiva che non
aveva mai preso in considerazione. L’immagine che aveva di
Falco
era quella di un giovane uomo di nemmeno vent’anni, non
particolarmente alto, ma forte e agile come un gatto, col viso liscio
di chi è appena uscito dall’adolescenza.
Dell’adolescenza aveva
anche la rabbia e l’impulsività: le aveva viste
bruciare come
fuoco nei suoi occhi azzurri. Ma adesso era cresciuto,
com’era
cresciuta lei, e per dieci anni aveva governato Nevelunga senza
attirare le ire del re. Possibile che fosse cambiato?
Neve
irrigidì la mascella soffocando un ringhio. No, non si
faceva
illusioni. Falco aveva dimostrato che tipo di uomo fosse: chi aveva
il coraggio di fare quello che aveva fatto lui a diciannove anni non
poteva veramente cambiare natura. Le parole di Mikel, tra
l’altro,
le avevano più volte confermato che il Conte non era una
persona
raccomandabile.
Ma
forse non meditava più di ucciderla? Forse aveva in mente
per lei un
impiego più redditizio? Non era una gran consolazione, ma a
Neve
parve di scorgere un microscopico granello di luce nel mezzo
dell’abisso oscuro nel quale aveva l’impressione di
essere
caduta.
La
giovane incontrò gli occhi di Mikel e col capo gli rivolse
quello
che poteva essere un cenno d’assenso. “Adesso mi
porterete da
lui, quindi?” chiese, riformulando la domanda che gli aveva
posto
poco prima.
“Partiremo
domani mattina” confermò l’uomo.
“Ci serve solo il tempo per
organizzare le cose qui al campo.”
Neve
annuì: non si era certo aspettata che l’intera
banda di briganti
la scortasse a Nevelunga. “Clara verrà con
me?” chiese,
voltandosi per osservare la ragazzina che la guardava con gli occhi
sgranati e ancora un filo di paura sul volto. La giovane si chiese
quale aspetto avesse avuto negli attimi in cui aveva quasi perso il
dominio sulla creatura che viveva in lei. La battaglia che infuriava
nel suo petto si manifestava anche all’esterno?
“Sì,
e anche Ciela” fece Mikel, ignorando il turbamento della
ragazza
più giovane.
Sentendosi
sufficientemente padrona di sè, Neve incontrò gli
occhi dell’uomo.
“E Lisi, invece?”
Un
angolo della bocca del bandito si sollevò
nell’accenno di un
sorriso. “Lisi cosa?”
“Verrà
anche lei con noi?” insistette con impazienza la giovane.
Mikel
la guardò reclinando il capo. “Non ho ancora
deciso” disse con
lentezza. “Ti accompagnerò di persona da Lord
Falco e non mi piace
l’idea di lasciarla qui da sola. D’altro canto,
però, non vorrei
rischiare di metterla in pericolo.”
Neve
emise un sibilo che avrebbe voluto essere una risata, ma che non ci
assomigliava affatto. “Perché ti preoccupi per
lei, giusto?” lo
provocò con sdegno. Aveva l’impressione che per
l’uomo fosse
tutto un gioco, qualcosa da non prendere sul serio e la cosa la
faceva fremere di rabbia: lui e la sua banda di criminali avevano
rovinato o distrutto un gran numero di vite e avevano anche il
coraggio di riderci sopra.
Davanti
alla sua domanda, Mikel si fece però serio.
“Sì, mi preoccupo per
lei, contessina. È una brava ragazza.”
La
ragazza scosse la testa, incredula. “Ed è per
questo che la tieni
prigioniera? Perché è una
brava ragazza?”
“Ovviamente
no” replicò l’uomo impassibile.
“Non fare domande stupide, mia
signora.”
Era
solo una provocazione,
pensò Neve arrossendo. Passandosi nervosamente una mano tra
i
capelli, si sforzò di sostenere lo sguardo del bandito.
“Perché
pensi che potrebbe essere in pericolo, se venisse con noi?”
chiese,
cambiando argomento. “Credevo che fossi in buoni rapporti con
Falco.”
“E
infatti è così” ribatté
Mikel. “Ma il viaggio fino a Nevelunga
non è semplice; e gli uomini di tuo fratello non sono una
compagnia
raccomandabile: ci penserò due volte prima di portare tra di
loro
una ragazza tanto bella. Tu sei intoccabile, la ragazzetta
lì dietro
è uno spaventapasseri e Ciela non è molto meglio.
Ma Lisi… Lisi
attirerà sicuramente la loro attenzione.”
E
suppongo che sia meglio che attiri solo la tua, di attenzione,
pensò ancora la giovane, ma non lo disse. Non voleva
rischiare di
tirare troppo la corda con il bandito: fino a quel momento le
aveva permesso di parlargli come meglio credeva, ma Neve sapeva di
non potersi spingere troppo in là.
“In
ogni caso”, riprese Mikel quando, dopo qualche istante, fu
evidente
che Neve non intendeva aggiungere altro, “non sono venuto qui
per
parlare di Lisi, ma per portarvi questi. Cambiatevi: non potete
viaggiare con quegli stracci addosso.” Così
dicendo, si chinò e
aprì la bisaccia che giaceva ai suoi piedi. Ne estrasse
alcuni
vestiti piegati sommariamente: gonne e camicie e corpetti che
dovevano essere un tempo appartenuti a qualcuna delle donne che,
volenti o nolenti, si erano trovate a passare del tempo in compagnia
di quegli uomini.
Neve
li prese con riluttanza dalle mani di Mikel e li depose sul materasso
senza nemmeno guardarli. Avrebbe voluto chiedergli se temeva che
dessero troppo nell’occhio avvolte nei loro rigidi sai grigi,
ma,
di nuovo, si trattenne.
“Benissimo”
commentò l’uomo rivolgendo alle due giovani un
cenno del capo.
“Cercate di riposare bene questa notte: partiremo
all’alba e
passeranno settimane prima che possiate riposare ancora in un
ambiente così sicuro.”
Senza
aggiungere altro, Mikel uscì dalla tenda, lasciando che il
lembo che
ne copriva l’entrata si chiudesse frusciando alle sue spalle.
Riposate
bene,
si ripeté Neve con una smorfia. Era facile dirlo, per lui:
lei
sapeva benissimo che quella notte non avrebbe chiuso occhio.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
L’alba
arrivò senza che Neve fosse riuscita a scivolare in un sonno
veramente ristoratore. Aveva attraversato le interminabili ore
notturne immersa in un dormiveglia inquieto, accompagnata dal respiro
leggero di Clara e dai mille fruscii che giungevano dal mondo al di
fuori della tenda.
Quando
la luce grigia delle prime ore della mattina la illuminò, la
giovane
gettò indietro la coperta ruvida che l’aveva
tenuta al caldo e
subito si sfilò di dosso il saio, rimanendo solo con la
biancheria
intima.
La
sua compagna di tenda dormiva ancora, ma lei aveva ormai deciso che
era inutile perdere tempo: restare a languire distesa sul materasso
non avrebbe reso più sopportabile il resto della giornata.
La
giovane raggiunse l’angolo della tenda nel quale era stato
riposto
un catino con dell’acqua pulita e vi immerse le mani,
stringendo i
denti quando il liquido freddo le aggredì la pelle. Si
lavò
sommariamente, strofinandosi con vigore il viso e il torso e
pettinando all’indietro i capelli biondi, prima di
raccoglierli in
una treccia che era appena un poco meno severa di quella che portava
quando era al convento.
Senza
permettersi di fermarsi e pensare, afferrò poi una delle
sottane che
Mikel aveva portato loro il giorno prima. La sera precedente lei e
Clara avevano esaminato gli abiti che erano stati loro offerti e se
li erano spartiti a seconda di gusti e dimensioni: a Neve era toccata
una gonna di lana tinta di un blu polveroso, con l’orlo
decorato
con un semplice motivo floreale, una camicia che forse un tempo era
stata bianca, ma che ora aveva assunto una sgradevole tinta
giallognola, segno di un lavaggio approssimativo, e un consunto
corpetto di una spessa stoffa marrone.
Erano
abiti poveri, dalla fattura semplice, ma, una volta che li ebbe
indossati, Neve si passò più volte le mani sui
fianchi, esaminando
il modo in cui il corpetto le disegnava la forma della vita: abituata
com’era al saio, persino quei vestiti da contadina le
parevano
troppo attillati, troppo poco modesti.
Be’,
ma che ci posso fare?
Si
chiese, tornando a sedersi sul materasso e calzando gli stivaletti
neri che erano il suo unico paio di scarpe da un paio di anni. Erano
scarpe solide, robuste e ormai perfettamente adattate alla forma del
suo piede e Neve era felice che Mikel le avesse permesso di tenerli.
Quando,
più tardi, il giovane bandito che giorni prima aveva
cavalcato con
Clara venne a chiamarle, il cielo si stava appena tingendo
dell’azzurro della mattina.
“Avete
dormito bene, signorine?”
La
voce di Mikel risuonò chiara e forte tra le tende e Neve gli
lanciò
un’occhiata carica d’astio. Quando vide che Lisi
era in piedi al
suo fianco, però, sgranò gli occhi e fu sul punto
di correre da lei
per chiederle come stava e per assicurarsi che l’uomo
l’avesse
trattata con riguardo. La giovane bruna però
chinò il capo, quasi
come se si vergognasse di incontrare il suo sguardo.
Oh,
pensò
la ragazza, turbata da quel gesto. Con la fronte aggrottata, Neve si
guardò attorno, esaminando rapidamente l’ambiente
che la
circondava: se c’erano state delle altre monache,
lì, ora non
c’erano più. I banditi dovevano averle trasferite
altrove; forse
le avevano già vendute ai pirati che le avrebbero
trasportate
dall’altra parte dell’oceano. Il pensiero le
riempì lo stomaco
di rabbia e di nausea e la giovane si costrinse a respirare a fondo
per calmarsi.
Il
campo era meno affollato di quanto si fosse aspettata: i suoi
abitanti erano forse ancora addormentati o, più
probabilmente,
l’avevano già lasciato per occuparsi delle loro
faccende
quotidiane, qualsiasi esse fossero. Ad accogliere lei e Clara
c’era
solo uno sparuto gruppetto di persone: oltre a Mikel e a Lisi,
c’erano Ciela e suo padre, il giovane che le aveva condotte
fuori
dalla tenda, il bandito più anziano che aveva cavalcato con
Neve il
giorno in cui il convento era stato assaltato e due altri uomini che
la ragazza non aveva mai visto.
“Facciamo
le presentazioni” disse Mikel con un mezzo sorriso.
“Passeremo
parecchio tempo insieme ed è importante
conoscerci.”
Ne
faccio volentieri a meno,
pensò Neve con una smorfia. Però non disse niente
e l’uomo prese
il silenzio suo e di Clara come un assenso.
“Aro
già lo conoscete”, disse l’uomo,
indicando il giovanotto riccio
che le aveva svegliate quella mattina, “così come
conoscete Gert
ed Eitan, il papà della nostra piccola Ciela.”
Sul
volto dell’uomo dalla pelle scura - Eitan,
evidentemente - passò un lampo e Neve ricordò che
il bandito non
era affatto felice che sua figlia partisse per Nevelunga con
l’intento di restarci.
“Questi
due gentiluomini che ci accompagneranno sono invece Yorik e
Hinn”
continuò Mikel. “Siate gentili con loro.”
Neve
percorse i due briganti con un’occhiata rapida: il primo era
un
uomo apparentemente sulla trentina, con capelli scuri e occhi di una
strana sfumatura ambrata, mentre il secondo era più giovane
e minuto
e aveva gli occhi sottili e i lunghi capelli neri dei nomadi delle
pianure.
La
giovane fece un piccolo cenno d’assenso.
“Bene” disse, con una
voce che sperava lasciasse intendere tutto il suo disinteresse per
l’identità di quelle persone. Per quanto la
riguardava, i loro
nomi non avevano alcuna importanza: erano dei criminali, e tanto
bastava per identificarli.
“In
sella, allora!” esclamò Mikel battendo le mani.
Poi si rivolse ai
suoi uomini. “Gert, tu cavalcherai con la contessina,
visto che ormai la conosci. Yorik, tu gli darai il cambio.
Aro
e Hinn, voi invece prendete l’anatroccolo:
non vi darà problemi.”
Nell’udire
quelle parole, il visetto di Clara si contrasse e per un istante Neve
sperò che la ragazzina desse un qualche cenno di ribellione.
Prima
che potesse vedere se il suo desiderio si concretizzasse o meno,
però, Gert le posò una mano sulla spalla e la
sospinse verso la
stessa giumenta grigia che Neve aveva già conosciuto il
giorno in
cui era stata portata via dal convento.
“Non
ci legate le mani, questa volta?” chiese, quando
l’uomo si fu
sistemato in sella alle sue spalle.
“Questa
volta no” confermò il brigante. “Mikel
pensa che non siate così
stupide da provare a scappare.”
“Ah”
commentò Neve, mentre la sua mente correva ai piani di fuga,
tutt’altro che vaghi, che aveva maturato nelle notti
precedenti.
Erano davvero idee tanto sciocche?
“Comunque
nemmeno io penso che siate stupide” continuò il
brigante che
rispondeva al nome di Gert.
“Oh?”
fece la ragazza, stupita da quel riconoscimento inaspettato.
L’uomo
non aveva scambiato che poche parole con lei e con Clara e dunque non
aveva davvero alcun elemento per giudicare il loro carattere. Sta
forse cercando di entrare nelle mie grazie?
Si
chiese la giovane. Pensa
forse che potrò metterlo in buona luce con Falco?
Era
un pensiero davvero ingenuo, che dimostrava quanto poco quegli uomini
conoscessero in realtà suo fratello.
Il
brigante non aggiunse altro e Neve, che nonostante
l’apparente
apertura dell’uomo non aveva comunque intenzione di fare
conversazione, si rassegnò a cavalcare in silenzio, la mente
piena
di pensieri inquieti.
Nelle
ore che seguirono, la giovane si scoprì più volte
a studiare il
paesaggio che stavano attraversando, adocchiando una scarpata o una
macchia di alberi particolarmente fitta e chiedendosi se avrebbe
potuto gettarsi giù di sella, rotolare a terra e svanire nel
fitto
del bosco. In un paio di occasioni si ritrovò a flettere i
muscoli
delle gambe, stringendole sui fianchi della giumenta come per darsi
lo slancio necessario per sgusciare via dalla morbida presa di Gert.
Ogni volta, però, desistette, conscia che non sarebbe
riuscita ad
andare lontano. Lei e il suo custode cavalcavano alle spalle di Mikel
e Lisi: tra la giumenta grigia e il baio del capo dei briganti
c’erano circa una decina di metri, e altri dieci ce
n’erano tra
loro e il cavallo che trasportava Clara e Aro. Lo spazio sarebbe
forse stato sufficiente per tentare una mossa avventata, se non fosse
stato per Yorik che, in sella a un pesante cavallo morello, seguiva
come un’ombra la giumenta di Gert.
Da
quando avevano lasciato il campo, il bandito non aveva pronunciato
una singola parola, ma Neve aveva più volte avvertito su di
sé il
peso del suo sguardo. Quel suo studiarla in silenzio la metteva a
disagio e la ragazza non ci aveva messo molto a decidere che
quell’uomo non le piaceva. O, più precisamente,
che le piaceva
ancor meno di quanto non le piacessero i suoi compari.
Quando
giunsero sulle rive di un torrente che scorreva gorgogliante tra le
piante, Mikel fermò il cavallo e levò una mano
per attirare
l’attenzione dei suoi uomini. “Facciamo una
pausa” ordinò.
“Non vorrei che le signore si stancassero troppo.”
“Hai
fame?” chiese Gert a Neve mentre l’aiutava a
smontare da cavallo.
Lei
scrollò le spalle. “Un po’”
mormorò. In realtà il pensiero
di ingerire qualcosa le dava il voltastomaco, ma era ben consapevole
di dover mangiare per tenersi in forze. Se fosse stata fiaccata dalla
fatica e dalla fame, il viaggio verso Nevelunga sarebbe stato ancora
più insopportabile; senza contare che, se mai le si fosse
presentata
una possibilità di fuga, avrebbe rischiato di essere troppo
debole
per sfruttarla.
Lei
e Clara furono fatte sedere poco distanti dalla riva del ruscello e
Lisi le raggiunse alcuni minuti dopo, portando loro un pezzo di pane
e un po’ di formaggio duro. “Come state?”
chiese loro la
giovane bruna.
“Noi
stiamo bene” mormorò Clara, posandosi in grembo il
cibo che Lisi
le aveva offerto.
Vedendo
che non pareva avere intenzione di toccarlo, Neve le posò
una mano
sul braccio. “Mangia” le disse, prima di rivolgersi
alla giovane
bruna. “Tu invece come stai?”
Lisi
abbassò lo sguardo e sulle sue guance comparve un leggero
rossore.
“Non posso dire di stare male” mormorò,
flettendo nervosamente
le dita fino ad affondare le unghie nella stoffa dell’abito
azzurro
che qualcuno le aveva fatto indossare. Neve non poté fare a
meno di
notare che pareva di una fattura migliore di quelli che erano stati
invece consegnati a lei e a Clara. “Mikel mi tratta con
riguardo,
quindi suppongo di non potermi lamentare più di tanto,
ma…”
“Ma?”
la incalzò Neve.
Lisi
incontrò i suoi occhi e le rivolse un sorriso quasi timido,
diverso
dagli sguardi che si erano scambiate in tutti gli anni che avevano
passato insieme. “Non posso fare finta di non essere sua
prigioniera. Lui può anche sforzarsi di essere gentile, ma
la sua
gentilezza non cambia il fatto che è un… un mostro,
ecco.”
Neve
arricciò il naso. Lei li avevi visti, i mostri, e Mikel, per
quanto
spregevole, era su un altro livello: era solo un volgare bandito e
non avrebbe avuto alcuna possibilità in un confronto contro
un
mostro vero. Tuttavia non v’era alcun motivo per contraddire
l’amica. “Certo che no” disse allora,
concordando con
l’affermazione di Lisi. “Dev’essere
davvero stupido, se crede
di farti dimenticare il modo in cui ci ha trattate… il modo
in cui
ha trattato le nostre sorelle, soprattutto!”
“Già”
sussurrò la giovane bruna, ma i suoi occhi scivolarono via
da quelli
dell’amica.
Non
mi sembra molto convinta,
osservò Neve aggrottando leggermente la fronte. Non era la
prima
volta che l’atteggiamento di Lisi nei confronti di Mikel la
confondeva. E, non per la prima volta, si chiese se la sua amica
fosse in un qualche modo attratta dall’uomo. Se pensava in
maniera
oggettiva, doveva ammettere che il bandito era piuttosto attraente:
aveva un viso dai tratti piacevoli, un naso dritto e una mascella
forte, penetranti occhi azzurri e un accenno di curata barba castana
che dava al suo volto un aspetto virile. Per quanto la riguardava,
però, Mikel avrebbe anche potuto essere l’uomo
più bello del
mondo e i suoi crimini l’avrebbero comunque reso ripugnante
ai suoi
occhi: ma Lisi la pensava come lei?
Ciò
che la ragazza le aveva detto poco prima le faceva supporre che
sì,
la sua amica era in grado di giudicare la situazione in cui si
trovava in maniera oggettiva, ma nei suoi occhi Neve credeva ora di
leggere una risposta diversa.
E
comunque,
si disse ancora la ragazza, turbata da quello che le sembrava quasi
un tradimento della giovane bruna, ha
fatto anche lei un voto di castità: se
n’è forse già scordata?
Strappando
con i denti un pezzo di pane, Neve si ritrovò per la prima
volta a
chiedersi quanto sarebbe cambiato il loro stile di vita, ora che
avevano lasciato il convento. Non erano passati che pochi giorni e
già aveva perso la costanza nel recitare le preghiere che la
Superiora e le altre consorelle anziane le avevano insegnato
quand’era poco più di una bambina. Non
va bene,
si rimproverò con una smorfia. Gli Dei erano gli unici a
poterla
aiutare, in quel momento, e lei era sempre stata molto devota alla
Madre: cosa n’era stato di quella devozione?
E
poi… la castità. Il pensiero le
strappò quasi un sorriso. Non si
illudeva certo di vivere tanto a lungo da trovarsi nelle condizioni
di mettere in discussione il suo voto di castità. Sebbene,
rispetto
a qualche giorno prima, fosse ora meno sicura delle intenzioni di
Falco nei suoi confronti, continuava a pensare che lo scopo ultimo di
suo fratello fosse di ucciderla.
E
se intendesse invece darmi in sposa a qualcuno? Si
chiese con un tremito improvviso. L’idea non
l’aveva mai sfiorata
prima d’allora, ma non sarebbe stata né la prima
né l’ultima
nobildonna costretta a un matrimonio di convenienza, venduta a un
partito conveniente in cambio di terre o favori. Neve si
immaginò
con un marito al fianco - e, dal momento che sarebbe stato Falco a
combinare il matrimonio, se lo immaginò vecchio, e orrendo,
e
crudele - e qualcosa in lei si ribellò.
No,
sibilò la creatura nel suo petto, e Neve sentì
sotto i denti il
sapore del sangue, il gusto della pelle che si rompeva, e nelle mani
le parve di stringere un osso fino a spezzarlo. Oh,
si sarebbe presa cura di suo marito, come no!
Inorridita
da quel pensiero, nauseata dal sentore metallico che le pareva di
sentire sulla lingua, la giovane lasciò che il pane e il
formaggio
che ancora stringeva tra le dita le cadessero in grembo.
“Ehi!”
fece Lisi, posandole una mano sulla spalla con espressione
preoccupata. “Va tutto bene?”
Neve
deglutì. “Sì”,
mormorò, “va tutto bene.”
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Quando
ebbero finito di mangiare e si furono dissetate con l’acqua
del
torrente, Mikel decretò che era giunto il momento di
rimettersi in
viaggio.
Sospirando,
Neve si rimise in piedi sulle gambe doloranti e si avvicinò
a Gert,
che stava sistemando i finimenti della sua giumenta grigia. Vedendola
avvicinarsi, l’animale sbuffò gentilmente in segno
di saluto e la
ragazza gli sfiorò con le dita il naso vellutato, grata per
quel
piccolo conforto. Poi si posizionò a fianco della sella,
aspettando
che il brigante la sollevasse come aveva fatto quella mattina.
Lui
però scosse il capo. “No” le disse,
guardandola con la coda
dell’occhio. “Questo pomeriggio non cavalcherai con
me: Piuma ha
bisogno di riposarsi.” Sentendosi chiamata in causa, la
giumenta
mordicchiò affettuosamente la manica del proprio
padrone.
“Ah”
fece Neve, presa in contropiede.
“Quindi…”
Gert
sospirò e poi si voltò, indicando con una mano un
punto alle spalle
della ragazza. “Viaggerai con Yorik. È grande e
grosso, ma il suo
cavallo è robusto e non avrà problemi a portarvi
tutti e due,
almeno fino a stasera.”
Voltandosi
lentamente, Neve vide che il brigante in questione era fermo a pochi
metri da lei. Ancora una volta, la stava osservando in silenzio e con
un’espressione indecifrabile sul suo volto dai tratti
spigolosi.
Senza riuscire a trattenersi, Neve si lasciò sfuggire un
gemito e si
voltò di scatto verso Piuma, posando inconsciamente le mani
sulla
sella che l’aveva ospitata fino a quella mattina.
“Beh?”
fece Gert con una nota di stupore nella voce.
Neve
sbuffò, sperando di riuscire a nascondere dietro a una
parvenza di
irritazione tutta l’inquietudine che provava. “Quel
tipo non mi
piace” sbottò senza giri di parole.
L’uomo
si chinò verso di lei e la guardò con espressione
scettica. “E
noi invece ti piacciamo, principessa?”
“Contessa”
lo
corresse automaticamente lei, prima di stringersi nelle
spalle.”E
no, nemmeno voi mi piacete, ma quello lì,
proprio…” La giovane
lasciò sfumare la frase, limitandosi a guardare il suo
interlocutore
con un’espressione disgustata.
Se
doveva essere completamente onesta con se stessa, doveva ammettere
che Gert iniziava a sembrarle quasi tollerabile. Forse era
perché, a
differenza di Mikel ed Eitan, non si era trovato nelle cantine quando
la Superiora era stata uccisa, o forse era perché
l’aveva sempre
trattata con gentilezza e quasi con rispetto, ma Neve iniziava a
sentirsi quasi a proprio agio in sua compagnia. Per una frazione di
secondo si chiese se Lisi provasse forse qualcosa di simile nei
confronti di Mikel, ma subito allontanò quel pensiero. Le
due cose
non erano nemmeno lontanamente paragonabili: lei poteva dire di non
odiare
Gert,
mentre Lisi si stava forse infatuando
di
Mikel, il che rendeva la situazione della sua amica decisamente
peggiore di quella in cui si trovava lei.
Yorik,
in ogni caso, la metteva a disagio. Non aveva scambiato con lui che
un paio di occhiate, ma in quell’uomo c’era
qualcosa che non le
piaceva a pelle. Qualcosa
che mi ricorda Falco,
comprese Neve con un sussulto.
Il
suo turbamento dovette trapelare perché Gert
sospirò e per un
attimo parve sul punto di posarle una mano su una spalla.
“Non c’è
nessun motivo di avere paura di lui” la rassicurò
a bassa voce,
forse per non farsi sentire dall’altro brigante.
“È uno che sta
sulle sue ed è molto fedele a Mikel: non farà
nulla che lui non
voglia e ciò che Mikel vuole, in questo momento,
è riportarti sana
e salva da tuo fratello.”
“Non
ho detto che ho paura di lui” ribatté seccamente
Neve. “Ho detto
che non mi piace.”
Gert
si strinse nelle spalle. “Non c’è niente
che io possa fare per
fartelo piacere” osservò. “Va’
da lui, non pensarci e resta
zitta come hai fatto questa mattina: sarai con lui solo di
pomeriggio.”
“Tutti
i pomeriggi?” insistette Neve, pur conoscendo già
la risposta.
Gert
annuì. “Già.”
Con
una smorfia di insoddisfazione, la ragazza tornò a voltarsi
verso
Yorik e vide che, alle sue spalle, Clara era già montata in
sella
davanti al ragazzo delle Grandi Pianure. Forse
potrei convincere Mikel a farmi cavalcare con lui,
pensò Neve mordicchiandosi le labbra. Questo avrebbe
significato
costringere Clara a montare con Yorik, ma la giovane non riusciva a
sentirsi in colpa per quella prospettiva.
D’istinto
si voltò per cercare con lo sguardo il capo dei briganti e,
quando
lo trovò, si rese conto che l’uomo la stava
già fissando con
espressione impaziente. “Muoviti” le disse
sistemando meglio Lisi
davanti a sé.
Rassegnata,
la ragazza raggiunse il bandito alla cui custodia era stata affidata.
Questa
sera,
si ripromise. Questa
sera chiederò a Mikel di farmi viaggiare con Hinn.
Yorik
era alto. Se n’era accorta già dalla prima
occhiata frettolosa che
gli aveva riservato, ma ora che l’uomo torreggiava su di lei,
Neve
si rendeva conto di quanto imponente fosse veramente il bandito: lei
non era particolarmente bassa, per essere una donna, ma lui la
sovrastava di più di una testa, e aveva spalle larghe il
doppio
delle sue.
Quando
il brigante le strinse la vita tra le mani per issarla in sella, la
giovane fu tentata di tenere lo sguardo fisso sulla criniera scura
del cavallo, cercando istintivamente di sottrarsi a ogni forma di
confronto. Il suo orgoglio le impose però di voltarsi e di
fronteggiarlo: irrigidì allora la mascella e poi si
divincolò,
contorcendosi fino a quando i suoi occhi chiari incontrarono quelli
dell’uomo. In quell’istante Neve sperò
che sembrassero freddi
come ghiaccio, gelidi proprio come quelli di Falco.
Gli
occhi dell’uomo erano stranamente morbidi, con un che di
luminoso:
erano occhi di animale, pensò la ragazza, gialli e liquidi.
Contro
ogni previsione, in essi Neve scorse qualcosa di famigliare e subito
le sue labbra si sollevarono a scoprire i denti e un borbottio sordo
si levò dalla sua gola.
C’era
qualcosa
in
lui, qualcosa che la creatura rannicchiata tra le sue costole
riconosceva: un nemico, un avversario da scacciare o soggiogare.
Neve
boccheggiò, confusa e sorpresa dalla reazione che le era
esplosa nel
centro del petto. Le sue dita si strinsero sul cuoio spesso della
sella e per un attimo la giovane fu certa di essere sul punto di
perdere il flebile controllo che ancora esercitava sulla cosa che si
agitava nel suo torace. Un battito di ciglia, però, e la
creatura
parve acquietarsi: a Neve sembrò quasi di avvertire la sua
confusione,
lo spaesamento che nasceva da una sfida lanciata e non raccolta.
Prima
che potesse fare o dire qualcosa, Yorik la afferrò
più saldamente
per la vita e la alzò all’altezza delle proprie
spalle,
sistemandola a cavalcioni del robusto animale che era solito
cavalcare. Poi montò in sella dietro di lei, strattonandola
fino a
quando Neve non posò la schiena contro il suo
petto.
Stordita
e con il respiro corto, la ragazza si lasciò manovrare come
un peso
morto e non protestò quando il cavallo si avviò
al passo sulla via
segnata da Mikel: trascorsero diversi minuti prima che si rendesse
conto che quello che era accaduto era qualcosa di anomalo.
La
giovane afferrò le redini d’istinto e il morello
scosse il capo,
irritato dalla tensione improvvisa sul morso. Le mani di Yorik si
strinsero immediatamente su quelle di lei, inglobandole e
obbligandola a lasciare la presa.
“Cosa
sei?” gli chiese Neve con voce sommessa. Perché
era sicura,
assolutamente certa, che in quel bandito ci fosse qualcosa di
più di
quanto balzasse all’occhio.
“Niente”
replicò lui. Aveva una voce profonda, dal timbro quasi
vellutato, in
contrasto con il suo aspetto trasandato. Prima di avvicinarsi a lui,
la ragazza gli aveva dato un’occhiata veloce, ma
approfondita: i
suoi abiti erano vecchi e recavano su di sé le cicatrici di
parecchi
rammendi fatti senza particolare maestria e i suoi capelli scuri,
lunghi fino alle spalle e in parte intrecciati, parlavano di
un’igiene personale piuttosto approssimativa. Persino la
barba,
tratto che accomunava gran parte degli uomini di quelle terre, pareva
essere stata accorciata malamente, in maniera irregolare.
Non
fu solo la sua voce a coglierla di sorpresa, ma anche la sua
risposta. Cosa
vuol dire “niente”?
Si
chiese Neve indispettita. Ora che la cosa che aveva nel petto si era
acquietata, adesso che non rischiava più di essere
sopraffatta da
quell’entità senza nome che forse viveva di vita
autonoma e che
forse invece era parte integrante del suo essere, la ragazza vedeva
chiaramente che nell’atteggiamento dell’uomo
c’era qualcosa di
bizzarro.
“Non
mi hai chiesto ‘cosa’”
gli
fece notare.
Pressata
com’era contro il suo torace, Neve lo sentì
trattenere il respiro.
“Cosa?” fece poi; e Neve alzò gli occhi
al cielo. La stava forse
prendendo in giro?
“Ho
detto che non mi hai chiesto cosa intendessi dire con quella domanda,
ma mi hai detto che non sei niente. Il che è una risposta
piuttosto
strana” spiegò la giovane con un sospiro di
esasperazione.
L’uomo
non rispose per qualche istante, poi sospirò. “Non
sono certo di
seguire il discorso” ammise con voce stanca.
“Voglio
dire…” Neve si interruppe di colpo. Ogni volta che
aveva avuto
l’occasione di parlare della vera natura di Falco e di fare
accenno
al demone che si agitava nel suo stesso petto, aveva desistito per
timore di quella che avrebbe potuto essere la reazione dei suoi
carcerieri e delle sue amiche. Era davvero prudente approfondire
l’argomento con quell’uomo strano, che con ogni
probabilità
sapeva molto di più di quello che diceva?
Neve
aveva imparato a fidarsi del proprio istinto e sapeva che doveva
esserci un motivo, se aveva reagito in quel modo al primo vero
contatto che aveva avuto con Yorik. Che lui dicesse pure di non
essere niente: non era tanto sciocca da credergli.
“Sta’
ferma, mia signora, che innervosisci il cavallo.”
Le
parole di Yorik la colsero di sorpresa e Neve si accorse solo in quel
momento di essere intenta a torcersi le mani, ruotando le dita
finché
le nocche non si facevano bianche. Immediatamente ammorbidì
la presa
e lasciò che le sue mani si posassero sull’unica
porzione di sella
che riuscivano a raggiungere.
La
ragazza lasciò cadere il discorso e l’uomo non
cercò più di
riprenderlo; e così i due continuarono a cavalcare in un
silenzio
rotto solamente dalla cadenza ritmica degli zoccoli degli animali e
dal chiacchierare sommesso di Eitan e Ciela, che chiudevano la
piccola carovana.
A
differenza di quello che aveva fatto quella mattina, Neve non
passò
le ore pomeridiane a studiare il paesaggio nella speranza di
individuarvi una possibilità di fuga, ma rifletté
a lungo sul modo
in cui la presenza di Yorik avrebbe potuto influenzare il resto del
viaggio.
Era
davvero curioso il modo in cui un uomo che fino a poche ore prima le
era parso insignificante e sgradevole le pareva tutto d’un
tratto
l’elemento più interessante dell’intera
compagnia. Ora tutto
assumeva un senso, in effetti: l’istintiva diffidenza che
aveva
avvertito nei suoi confronti, il modo insistente in cui lui
l’aveva
fissata per tutta la mattinata. Chissà se anche lui aveva
avvertito
in lei la presenza di un avversario. Chissà se era
già a conoscenza
della sua vera natura - del resto, non sospettava già da
tempo che
Mikel sapesse più cose sul conto di Falco di quanto non
lasciasse
intendere? E chissà se la presenza di Yorik nel gruppo era
casuale,
così come sembrava essere casuale la presenza di Gert, Aro e
Hinn, o
se Mikel aveva deciso di portarlo con sé per un preciso
motivo. E,
se era così, qual era quel motivo? Avere qualcuno che fosse
in grado
di tenerle testa, qualora ve ne fosse stata la necessità? Sfidare
Falco?
Neve
ebbe l’impressione di perdersi in quella spirale di ipotesi
sempre
più inverosimili e allora chiuse per un attimo gli occhi e
cercò di
riordinare i pensieri. Madre,
Luce del Creato, custodiscimi e proteggimi nell’ora
più buia della
notte,
pregò, cercando conforto in quelle parole
familiari.
Il
battito del suo cuore rallentò, ma la sensazione che le
stringeva la
bocca dello stomaco non svanì del tutto. A causarla non era,
per una
volta, la creatura che pareva assopita dietro le sue costole, ma un
più banale stato d’ansia che si era impossessato
di lei, una sorta
di tensione vibrante che la percorreva da capo a piedi. Era una
sensazione multiforme sulla quale Neve non riusciva a posare le dita.
In essa c’era angoscia, l’incertezza di non
conoscere il proprio
futuro e la natura dell’uomo che cavalcava alle sue spalle,
la
paura di scoprire in lui un nemico difficile da sopraffare, il
conforto di sapersi non più sola, il timore di doversi
confrontare
con qualcuno di simile a Falco ancor prima di arrivare a Nevelunga.
Quando
il sole si fece basso sull’orizzonte e Mikel diede il segnale
di
fermarsi, Neve era sfinita. Compiendo un ultimo sforzo per rimanere
eretta e non scivolare nuovamente contro il petto di Yorik come aveva
fatto per la prima fase di quel viaggio, la ragazza si
guardò
attorno e si rese conto che il paesaggio che la circondava
era
cambiato.
Era
stata talmente assorta nei propri pensieri che non si era nemmeno
accorta che durante il pomeriggio avevano cavalcato in salita,
lasciandosi alle spalle la profonda depressione che dava il nome al
distretto di Forrascura. Mentre lei rimuginava sulla natura di Yorik,
i cavalli e i loro cavalieri si erano inerpicati su per le pareti
dell’antico canyon e sfruttando l’ascesa
più dolce e meno
difficoltosa erano infine giunti sull’immenso plateau
calcareo che
sovrastava quella contrada.
Le
rocce chiare e porose accoglievano i raggi del tramonto e ne
assorbivano i colori, tingendosi d’un velo rosa che si faceva
sempre più intenso con il passare dei minuti. La vallata che
si
estendeva ai loro piedi era già immersa nelle ombre della
sera e
solo l’Aser, in fondo, rifletteva, simile a un nastro dorato,
la
luce che ancora riempiva il cielo.
L’orizzonte
era tanto ampio che la vista poteva spaziare da levante a ponente,
arrivando fino ai margini più occidentali della foresta di
Forrascura. Neve riusciva a indovinare le sagome di alcuni villaggi e
forse, lontano, anche quella di un insediamento più
imponente che
pareva sorgere sulle rive di un corso d’acqua minore. E quel
solco
che le pareva di indovinare tra gli alberi era forse una strada?
Possibile che quella città fosse proprio Ponte Vento, il
luogo che
aveva sognato di raggiungere quando aveva progettato una fuga
notturna dalla tenda nella quale era custodita?
Abbiamo
percorso già parecchia strada,
comprese la ragazza con una stretta al cuore. Non aveva avuto
l’impressione che i banditi avessero spinto i cavalli ai
limiti
delle loro capacità, ma che ne sapeva lei di quegli animali?
Neve
cercò di ricordare il viaggio che dieci anni prima
l’aveva
condotta al convento, cercò di riportarne alla mente i tempi
e le
distanze.
Sei
giorni,
calcolò, sette
al massimo. Una settimana e poi sarò a casa.
Subito
si accorse di ciò che aveva pensato e si corresse: non
a casa, no, ma a Nevelunga. E da Falco.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Il
materasso da campo che le avevano dato era vecchio e consunto, troppo
sottile per proteggerla davvero dalle asperità del terreno
sul quale
si apprestava a distendersi. All’interno del convento le
comodità
erano state un lusso riservato a poche e Neve era ormai abituata a
uno stile di vita spartano, ma quella era la prima volta che si
trovava a dormire all’aperto e l’esperienza non era
di suo
gradimento.
Sistemandosi
attorno alle spalle la coperta che Gert le aveva offerto, un
manufatto di lana grezza e che tratteneva in sé
l’acre odore del
fumo, la giovane si tolse gli stivaletti per far riposare i piedi
doloranti e si apprestò a passare una notte
all’addiaccio.
A
meno di un paio di metri da lei, Lisi e Clara giacevano distese sui
loro materassi: li avevano avvicinati fino a formare un unico
giaciglio e si erano avvolte nelle coperte, abbracciandosi per
trattenere il calore corporeo e per farsi coraggio. La giovane le
osservò con una punta di invidia: le sarebbe piaciuto
stringersi a
loro, farsi confortare dalla loro vicinanza e dai loro corpi tiepidi,
ma sapeva di non poterlo fare. Era ancora troppo turbata e temeva di
non essere perfettamente in grado di mantenere il controllo su se
stessa e sulla cosa che si agitava in lei.
Da
quando si erano fermati per la notte e lei aveva avuto modo di
riflettere sugli eventi della giornata, la creatura che viveva nel
suo petto aveva preso a vibrare in preda a un tremito inquieto. Neve
si sentiva insoddisfatta, nervosa, e fremeva per tornare da Yorik:
avvertiva come il bisogno di affrontarlo o, se non altro, di capire
da che parte stava e di accertarsi che non fosse un pericolo peggiore
di quello della banda di farabutti che l’aveva portata via
dal
convento.
Da
che parte vuoi che stia,
si disse con una smorfia sarcastica mentre si sistemava meglio la
coperta attorno alle spalle. Ovviamente
sta dalla parte di questi disgraziati. Mikel lo pagherà
profumatamente o, se non altro, gli darà vitto e alloggio:
è più
di quanto possa offrirgli io.
Ma
era vero? Colpita da un pensiero improvviso, Neve si figurò
a
Nevelunga e si immaginò non più sola di fronte a
Falco, ma in
compagnia di quell’uomo dal volto cupo e dalle spalle larghe.
Se
fossero stati in due, forse sarebbero riusciti ad avere la meglio su
Falco. Forse sarebbero riusciti a farlo ragionare; e allora lei
avrebbe avuto qualcosa da dare a Yorik in cambio dei suoi servigi:
una casa e del cibo, soldi e ricchezze e forse anche un pezzo di
terra da lavorare.
La
giovane lanciò un’occhiata di soppiatto alle
sagome dei banditi
accampati a una decina di metri da lei. Ora che il fuoco che li aveva
riscaldati fino a poco tempo prima era stato spento per non attirare
attenzioni indesiderate, gli uomini non erano altro che forme
indistinte tra le ombre della notte e Neve sentì le proprie
speranze
sparire. Non
essere stupida,
si rimproverò. Si era forse scordata dei cavalieri che
accompagnavano suo fratello, feroci quasi quanto lui? Se anche Yorik
avesse deciso di aiutarla - e non l’avrebbe fatto, pensare il
contrario era pura follia - non sarebbero comunque stati in grado di
sopraffarli tutti. Era inutile perdere tempo con quelle illusioni: se
voleva sperare di sopravvivere all’incontro con il Conte di
Nevelunga, doveva trovare un modo realistico per prepararsi a esso.
È
più facile a dirsi, che a farsi,
si
disse; e lo stomaco le si strinse in una morsa d’angoscia.
Quando
il suo petto vibrò come in risposta sotto la spinta di un
ringhio
silenzioso, Neve si costrinse a chiudere gli occhi e a espirare
lentamente dal naso. Dormi,
si disse. È
notte; e a queste cose ci puoi pensare anche domani.
Prima
che potesse sdraiarsi, però, un’ombra
più piccola e più discreta
delle altre le si avvicinò e si sistemò accanto a
lei sul
materasso. “Non ti sciogli la treccia per dormire?”
le chiese
sottovoce Ciela. I suoi grandi occhi neri parevano brillare sotto la
flebile luce del primo quarto di luna.
Neve
sbatté un paio di volte le palpebre, sorpresa dalla domanda
dalla
ragazzina e dalla sua stessa presenza. “No” ammise,
stringendosi
istintivamente la treccia nel pugno destro.
“Dovresti”
ribatté Ciela. “E dovresti anche spazzolarti i
capelli: aiuta a
rilassarsi.”
La
giovane corrugò la fronte. Anche se in quel momento era
troppo buio
per scorgere i dettagli della pettinatura della ragazza, ricordava
chiaramente che i suoi capelli erano raccolti in decine e decine di
strane treccioline che le correvano lungo il cuoio capelluto e che
scendevano poi a sfiorarle le spalle in corrispondenza con la nuca:
non poteva dirlo con assoluta sicurezza, ma era abbastanza certa che
Ciela non le disfasse ogni sera per poi ricomporle ogni giorno
all’alba.
“Non
ce n’è bisogno” disse allora, sperando
che tanto bastasse per
allontanare la ragazzina. “Nemmeno tu ti pettini i capelli
tutti i
giorni.”
“Cosa
c’entra?” ribatté lei. “Io non
sono una signora.”
Neve
inarcò le sopracciglia. “E quindi?”
insistette: non perché la
conversazione fosse di suo interesse, ma perché era abituata
ad
avere l’ultima parola.
I
denti bianchi di Ciela balenarono alla luce lunare. “Sono
meno
delicata di te. Ho bisogno di meno cure.”
La
giovane bionda esalò con forza dal naso, dimenticandosi per
un
istante della presenza dei banditi che, ne era certa, stavano
tendendo le orecchie per carpire qualche particolare di quella
conversazione. Neve dubitava che la ragazzina le si fosse avvicinata
di sua iniziativa. “Non sono delicata” le
assicurò con lo
spettro di una risata che le gorgogliava in gola.
“Uhm”
mormorò Ciela. Prima che Neve potesse rendersi conto di
quello che
stava facendo, la mano dell’altra ragazza si posò
sulla sua
treccia e la seguì fino a quando le sue dita piccole e
già ruvide
non le sfiorarono il punto in cui l’orecchio si univa alla
curva
della mascella.
I
suoi polpastrelli premettero con più forza sulla sua pelle e
Neve
sussultò. “Non toccarmi!”
ringhiò, stringendo in un pugno il
polso sottile della ragazzina. La sua presa era probabilmente troppo
salda, ma Ciela non dette segno di esserne infastidita.
“E
va bene” sospirò stringendosi nelle spalle.
“Volevo solo fare
una cosa gentile. Voglio essere una buona ancella, ma non so nemmeno
da che parte iniziare!”
Neve
la guardò con gli occhi ridotti a due fessure, ma era troppo
buio
perché lei potesse scorgere l’espressione della
ragazzina. “Per
essere una buona ancella devi fare una sola cosa” disse,
cercando
di assumere un tono sprezzante. “Devi ascoltare quello che ti
dico
e obbedirmi.”
Ciela
rimase in silenzio per qualche istante. “Sei sicura che sia
proprio
così?” indagò poi.
“Sì”
tagliò corto la giovane, incapace di capire se nel tono
della
ragazzina ci fosse della malizia o meno. “E quello che voglio
in
questo momento è dormire. Da sola. Sono stanca e ho bisogno
di
riposarmi.”
Ciela
sospirò teatralmente e si mise a carponi sul materasso. Solo
in quel
momento Neve si accorse che aveva in mano un pettine e si
sentì un
po’ in colpa per il trattamento brusco che aveva riservato
all’altra ragazza. Forse aveva davvero intenzione di
spazzolarle i
capelli per aiutarla a rilassarsi: erano dieci anni che nessuno
faceva per lei una cosa del genere.
“D’accordo”
gemette la ragazzina alzandosi in piedi. “Ti lascio dormire,
allora.”
“Bene”
mormorò di rimando Neve, soffocando tra i denti il grazie
che
rischiò di sfuggirle di bocca: non aveva nessun motivo per
ringraziare Ciela. Era femmina e giovane, ma non tanto giovane da non
poter essere ritenuta responsabile delle proprie azioni. Sembrava
perfettamente a proprio agio con quella gentaglia tra la quale era
con ogni probabilità nata e cresciuta, il che la rendeva a
tutti gli
effetti una loro complice. Distrattamente Neve si chiese dove fosse
sua madre, se fosse ancora viva e se avesse accettato a cuor leggero
di mandare sua figlia dall’altra parte del regno, dove
sarebbe
stata alla mercè di un estraneo che si diceva essere
più bestia che
uomo.
Neve
scrollò il capo come per allontanare quei pensieri e poi si
rannicchiò sul materasso, cercando di frapporre fra
sé e il freddo
della notte l’esile barriera della coperta che le era stata
consegnata. Quando riuscì a scivolare in un sonno agitato,
si trovò
però immersa in un sogno bizzarro.
Era
a Nevelunga e le sale del palazzo erano quelle immense conservate nei
suoi ricordi infantili. Si trovava nella Stanza degli Arazzi, una
delle sue preferite, e con la coda dell’occhio poteva vedere
le
scene di caccia e le rappresentazioni dei miti che tanto
l’avevano
affascinata quand’era bambina. In piedi davanti a lei
c’era Falco
e il suo volto le era al tempo stesso familiare e sconosciuto: era
quello insanguinato del ragazzo che l’aveva guardata con gli
occhi
pieni di terrore, ma era anche quello del giovane signore che sedeva
sullo scranno che era stato di suo padre. In esso c’erano
anche dei
tratti sconosciuti, che appartenevano ad altri volti: la mascella di
quello stesso padre che Falco aveva ucciso, il sorriso di Mikel,
l’ombra di altri uomini di cui Neve aveva ormai dimenticato
il
nome. E dietro di lui c’erano altre persone, gente la cui
identità
era celata da maschere di legno e osso: la ragazza le aveva
già
viste da qualche parte, ma non riusciva a ricordare dove.
Nel
sogno, Neve si scopriva immobile, incapace di avanzare tanto quanto
di retrocedere. Era Falco ad avvicinarsi a lei, ad allargare le
braccia e dirle “Bentornata, sorella” con una voce
che non era
mai stata la sua. Nella mano stringeva qualcosa che sulle prime a
Neve sembrava un coltello, ma che in realtà era
qualcos'altro.
Falco
la stringeva a sé e le posava il capo sulla spalla e Neve si
sentiva
soffocare e allora cercava di urlare, ma le parole che le lasciavano
la gola non erano parole umane. Ed era in quel momento che si
accorgeva di non essere sola: sentiva dietro di sé un
respiro caldo,
odore di foresta e di terra asciutta, avvertiva delle dita sottili
scivolarle lungo la schiena e su per il collo.
C’era
qualcosa di grande e scuro che si muoveva ai margini del suo campo
visivo e qualcosa di più piccolo che fluttuava alle sue
spalle. Neve
non poteva voltare la testa, ma sapeva che era Ciela, perché
avvertiva le sue dita tra i capelli sciolti.
A
un certo punto Falco sollevava la testa dalla sua spalla e incontrava
gli occhi di Ciela e le diceva “Filo di lana”, il
che non aveva
davvero alcun senso. E allora la ragazzina si allontanava da Neve,
sfilava le dita dai suoi capelli e tutto diventava nero e grigio: a
quel punto Neve si svegliava di soprassalto, con il cuore che le
martellava in gola e la sensazione di aver dimenticato qualcosa di
importante.
Prima
dell’arrivo dell’alba la ragazza fece per altre tre
volte lo
stesso sogno, con poche varianti: cambiava l’ambientazione,
cambiavano un poco le maschere degli uomini, il volto di Falco
sembrava più vecchio o più giovane, ma il resto
rimaneva uguale.
“Filo
di lana” disse Neve quando si svegliò per la
quarta volta, e
quelle parole le procurarono un crampo doloroso alla bocca dello
stomaco.
“Come
dici?” le chiese Gert, che si trovava a pochi passi da lei.
Neve
sbatté più volte le palpebre e poi
scrollò il capo, spaesata.
“Niente” mormorò. “Era solo un
sogno.”
Il
bandito la guardò con un’espressione perplessa.
“Forza, recupera
le tue cose” le disse poi, indicando con un cenno del capo il
materasso sul quale la giovane aveva dormito. “Tra poco
partiamo.”
Mettendosi
a sedere, la ragazza vide che Lisi e Clara si stavano già
infilando
le scarpe e si affrettò a imitarle; non perché
desiderasse mettersi
nuovamente in viaggio verso Nevelunga, ma perché sperava che
l’attività fisica la aiutasse a scacciare il senso
di malessere
che il sogno le aveva lasciato addosso.
L’oppressione
che le gravava sul petto però non scomparve e più
tardi, mentre
attraversavano un bosco di larici profumato di resina e legno, Gert
dovette accorgersi del suo umore particolarmente cupo. “Cosa
c’è?”
le chiese, stringendole il costato con una mano come per sollecitarla
a rispondergli.
Neve
sollevò le spalle. “Ho dormito male”
mormorò tra i denti. E
comunque non ho motivo di essere di buon umore,
aggiunse nella propria mente. Gert si era forse dimenticato che lei e
le altre ragazze erano lì perché loro le avevano
rapite e portate
via dal convento? Quello non era un viaggio di piacere, e il sogno
che si era ripetuto più e più volte durante la
notte le aveva
portato via la voglia di fare conversazione.
“Yorik
ha fatto qualcosa?”
La
domanda era talmente inaspettata che Neve si riscosse un poco.
“Come?
No.” Non
volontariamente, almeno,
pensò ancora la ragazza. Il problema, almeno fino a quel
momento,
non era quello che Yorik faceva,
ma quello che era.
“Sicura?”
insistette Gert.
Neve
si contorse su dorso di Piuma finché non riuscì a
guardare in
faccia l’uomo che cavalcava alle sue spalle.
“Perché me lo
chiedi?” lo interrogò, improvvisamente sospettosa.
“Ieri mi hai
detto che non dovevo avere paura di lui e oggi insisti a chiedermi se
ha fatto qualcosa: com’è questa storia?”
Gert
lanciò un’occhiata verso il fondo della piccola
carovana. A
differenza di quello che aveva fatto la mattina precedente, Yorik non
cavalcava a pochi metri di distanza da loro, ma si era attardato a
parlare con Eitan e sua figlia. Anche quando si fu assicurato che
l’altro uomo era fuori portata d’orecchio, Gert
esitò a
rispondere. “Non c’è nessuna
storia” disse poi. “Ha un
carattere difficile, è uno che parla poco e che ogni tanto
dà anche
brutte risposte, e tu mi sembri una che se la prende
facilmente.”
“Tutto
qui?” replicò Neve, scettica.
Il
bandito annuì con apparente decisione, ma Neve
notò che evitò di
incontrare i suoi occhi. “Quel ragazzo è con noi
ormai da diversi
anni e non mi risulta che abbia mai fatto cose strane.
Però ieri sembrava che non avessi proprio voglia di
cavalcare con
lui e mi chiedevo se tra di voi fosse successo qualcosa.”
La
ragazza sbuffò rumorosamente dal naso. “Sei
consapevole del fatto
che non l’avevo mai visto prima, vero?”
Davanti
a quell’osservazione, gli occhi scuri dell’uomo
incontrarono
finalmente i suoi. “Certo. Però
pensavo…”
Il
bandito non terminò la frase e Neve aggrottò la
fronte. “Cos’è
che pensavi, esattamente?”
Gert
le afferrò una spalla in una mano e la costrinse a girarsi
nuovamente verso il senso di marcia. “Niente. Ho sentito dire
cose
strane sul conto di tuo fratello e immaginavo che pure tu avessi
ereditato un po’ delle sue stranezze.”
Non
era la prima volta che il brigante cercava di spingerla a rivelare
qualcosa sul conto di Falco e Neve si morse le labbra per
costringersi a non rispondere e a lasciare cadere il discorso:
rimaneva convinta che quegli uomini sapessero più cose sul
conto di
suo fratello di quante non ne sapesse lei, e non capiva il motivo di
quel loro continuo pungolarla.
Peccato
non poterne approfittare per scoprire qualcosa di più sul
conto di
Yorik, però,
pensò la giovane, tenendo gli occhi fissi sulle orecchie
bianche di
Piuma: se c’era qualcuno che poteva rivelarle qualcosa di
interessante sul conto dell’altro bandito, quello era Gert. E
forse Ciela,
rifletté la ragazza. Loro
sono gli unici con cui posso dire di avere un minimo di confidenza.
Tuttavia
Neve non trovò il modo né il coraggio per
intavolare quella
discussione senza riportare la conversazione su se stessa e Falco, e
così la giovane si rassegnò a viaggiare in
silenzio per il secondo
giorno di fila. Gli strascichi del sogno le rimasero addosso per
l’intera giornata e quando, nel pomeriggio, Neve si
trovò di nuovo
in sella sul robusto cavallo di Yorik, il suo umore era poco meno che
burrascoso.
L’uomo
parve cogliere la tensione che le irrigidiva le membra ed
evitò di
rivolgerle la parola, comportandosi come se la giovane fosse un
oggetto inanimato, un bagaglio da trasportare da un luogo a un altro:
come già aveva fatto il giorno precedente, la
sollevò in sella e la
sistemò davanti a sé come preferiva; e le sue
mani la maneggiavano
senza alcuna delicatezza, serrandosi dolorosamente sulle sue braccia
e attorno alla sua vita.
Il
sole iniziava ad abbassarsi oltre la chioma degli alberi quando
Mikel, che come di consueto guidava la piccola carovana, si
fermò
all’improvviso. Gert gli si avvicinò con
un’espressione cauta
disegnata sul volto e Neve sentì che Yorik si irrigidiva
contro la
sua schiena.
Con
un gesto della mano, Mikel indicò ai suoi uomini di virare
verso
destra, inoltrandosi nella macchia di ontani che crescevano lungo le
rive del torrente che stavano costeggiando da qualche ora. Quando si
trovarono tra la protezione degli arbusti, l’uomo
coprì con una
mano la bocca di Lisi e indicò qualcosa con un cenno del
capo.
“Siamo rimasti per troppo tempo sulla riva orientale del
fiume”
mormorò con una voce bassa e tesa.
“È
la Via dei Laghi?” chiese sottovoce Eitan, che si era
affrettato a
raggiungere il suo comandante.
Aguzzando
la vista, Neve si accorse che l’area grigiastra che aveva
scorto
tra la vegetazione alla sua sinistra e alla quale non aveva prestato
attenzione non era un ghiaione come quelli che avevano più
volte
attraversato da quando si erano lasciati alle spalle la vallata di
Forrascura, ma una strada abbastanza ampia da consentire il passaggio
di due carri.
La
Via dei Laghi!
Comprese,
mentre il cuore le balzava in gola. Era il primo segno di
civiltà
che incontrava da quando era stata portata via dal convento e nella
sua mente presero immediatamente forma alcuni vaghi propositi.
Quasi
come se fosse in grado di leggerle nella mente, Yorik le
afferrò più
saldamente la vita e Neve si costrinse a rilassarsi contro il petto
dell’uomo. Fa’
attenzione, adesso,
si raccomandò la ragazza. La Via dei Laghi era una via
commerciale
di grande importanza che attraversava il regno da nord a sud: la
giovane non sapeva con esattezza quali villaggi e quali
città
toccasse, ma sapeva che era molto trafficata. Se fosse riuscita a
raggiungerla, non sarebbe stato difficile incrociare qualcuno a cui
chiedere aiuto.
Stiamo
andando a ovest,
calcolò.
Tra
meno di due ore sarà buio e dovremo fermarci per la notte. Cercando
di calmare i nervi, si apprestò a memorizzare quanto
più possibile
il percorso.
Vuoi
davvero scappare?
Si
chiese, prendendo mentalmente nota della posizione di un masso
brunastro. L’hanno
vista tutti, la strada: questa notte saranno tutti sul chi va
là. Si
aspetteranno certamente un tentativo di fuga.
Ed
era vero, era innegabile, ma non era sufficiente per farle
abbandonare la speranza di riacquistare la propria libertà.
Non
subito, se non altro: del resto, lei aveva un vantaggio sui propri
carcerieri.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Il
luogo in cui si erano accampati per la notte non era l’ideale
per
ciò che Neve aveva in mente. Abbandonato il torrente,
durante il
pomeriggio si erano accostati a una dorsale montuosa di cui la
ragazza ignorava il nome e che sembrava percorrere longitudinalmente
l’altopiano sul quale erano approdati la sera precedente.
Mikel
aveva scelto di fermarsi in una sorta di scarpata sassosa, dove gli
enormi massi scaraventati a valle da un’antica frana erano
costellati da cespugli di rododendro in bocciolo e da larici carichi
di germogli ancora teneri.
Era
un posto scomodo e le tre prigioniere erano state costrette a
sistemarsi in un esiguo spazio erboso incastrato tra i massi
granitici. Il terreno era morbido, ma i briganti avevano su di loro
il vantaggio dell’altezza: Mikel e i suoi uomini avevano
infatti
preso posto sulla sommità delle rocce che circondavano lo
spazio in
cui le ragazze avevano disteso come potevano i loro materassi; e le
sovrastavano, tenendo d’occhio ogni loro movimento.
Hanno
paura che proviamo a scappare,
si disse la giovane, rannicchiandosi sotto la coperta e premendo il
naso contro la schiena ossuta di Clara. Neve affondò le
unghie nel
tessuto ruvido che la copriva nel tentativo di placare il tremore che
le scuoteva le mani. Non si era illusa che i briganti non
prevedessero le sue intenzioni, ma il fatto che i suoi carcerieri si
aspettassero un tentativo di fuga la rendeva nervosa.
Sciocchezze,
sibilò una voce dentro di lei. Se
se lo aspettano, sarà ancora più divertente.
La
creatura che viveva dietro le sue costole era eccitata, fremeva dalla
voglia di spezzare l’immobilità nella quale
languiva da ormai
troppi anni. La prospettiva di un inseguimento la divertiva.
Distesa
davanti a lei, Clara rabbrividì ed emise un piccolo gemito
soffocato, simile allo squittio di un topolino, e lo stomaco di Neve
si contrasse in una morsa. Era davvero sicura di volerlo fare? Voleva
davvero abbandonare le sue amiche tra le grinfie di quegli uomini?
È
la mia unica possibilità di salvezza,
si disse cercando di allontanare i sensi di colpa. Lisi e Clara
sarebbero state bene anche senza di lei. Anzi, era probabile che
sarebbero state persino meglio
senza
di lei: se fosse scomparsa, non avrebbero avuto più alcun
motivo di
raggiungere Nevelunga e di incontrare Falco.
E
nessuno farà loro del male,
cercò di convincersi la ragazza. Mikel
vuole Lisi per sé, la tratta bene perché gli
piace e non certo per
riguardo nei miei confronti.
E
la piccola Clara? Lisi
le è affezionata,
rifletté nel tentativo di rassicurarsi. Convincerà
Mikel a non mandarla via, le troverà qualcosa da
fare…
Neve
preferì non interrogarsi troppo su quale occupazione un uomo
come
Mikel avrebbe potuto trovare a una ragazza come Clara: più
ci
pensava e più si convinceva che non potesse trattarsi di
nulla di
particolarmente dignitoso, ma la giovane sapeva di non potersi fare
condizionare da quella consapevolezza.
Quella
era la sua sola e unica possibilità di riconquistare la
libertà che
le era stata sottratta: Mikel aveva sbagliato una volta e si era
avvicinato troppo alla Via dei Laghi, ma non avrebbe commesso due
volte lo stesso errore. Pur senza conoscerlo a fondo, la giovane
intuiva che l’uomo si sarebbe tenuto alla larga dai villaggi
e
dalle grandi vie di comunicazione sino a quando non sarebbero
arrivati a Nevelunga, quattro o cinque giorni più tardi.
Devo
andare,
si disse, stringendo le mani in un pugno. Se
scappo questa notte, riuscirò a raggiungere la strada nel
giro di
poche ore. Se aspetto domani o dopodomani, invece, mi
perderò
sicuramente in una terra che non conosco… e sarò
anche troppo a
nord. Basta esitare.
Con
un sospiro silenzioso, la giovane si fece scivolare via la coperta
dalle spalle e si mise in ginocchio. Clara emise un altro gemito, ma
non si svegliò. Bene,
pensò Neve, prima di cogliere un movimento con la coda
dell’occhio.
Anche se il ritmo regolare del suo respiro l’aveva ingannata,
Lisi
non dormiva e ora aveva sollevato il capo, guardandola con occhi che
scintillavano alla luce argentea della luna.
“Dove
vai?” le chiese in un sussurro quasi impercettibile.
“Devo
andare in bagno” sussurrò di rimando lei, pregando
che la sua voce
non recasse alcuna traccia dei sensi di colpa che le stringevano la
gola.
Lisi
non replicò, ma, pur nella penombra, Neve vide le rughe che
le
incresparono la fronte. Non
mi crede?
Si
chiese con una punta di panico. Possibile che la sua amica avesse
intuito le sue intenzioni? Avrebbe forse provato a fermarla?
La
giovane bruna sostenne però il suo sguardo per una manciata
di
secondi e poi posò di nuovo il capo sul materasso.
“Va bene”
mormorò chiudendo gli occhi.
Neve
deglutì un paio di volte cercando di attenuare un
po’ la
sensazione di secchezza che le era rimasta appiccicata al palato, poi
raggiunse la base del masso sul quale erano appollaiati due dei
briganti. Prima che potesse aprire bocca, però, fu raggiunta
dalla
voce sferzante di Mikel. “Dove credi di andare?” la
apostrofò
l’uomo.
“Ho
bisogno di usare il bagno” replicò lei in tono
deciso. Non
devi tremare, adesso,
le sussurrò una voce che forse era la sua e forse era quella
della
creatura che viveva in lei. Nessuna
esitazione, o se ne accorgeranno.
“Ah,
davvero?” ridacchiò Mikel, raggiungendo i due
uomini che si
trovavano a pochi passi da Neve. Strizzando gli occhi per vedere
meglio nell’oscurità della notte, la giovane vide
che si trattava
di Aro e Hinn. “Falla lì, che tanto non ti guarda
nessuno.”
Neve
sgranò gli occhi; e l’indignazione che
provò davanti al
suggerimento del brigante era autentica. “Come ti
permetti?”
sibilò. In quelle poche parole risuonò
l’eco di un accento che
credeva di aver perso ormai da anni e quella scoperta le
causò una
stretta all’altezza dello stomaco, ma la giovane
cercò di non
distrarsi. “C’è un limite a tutto e io
non intendo iniziare a
comportarmi come un animale.”
Mikel
fece schioccare la lingua. “Come un animale”,
ripeté, “che
esagerazione! Non lo sai che agli uomini piace fare pipì in
compagnia?”
Neve
cercò gli occhi di lui attraverso la quieta aria notturna.
“Be’,
io non sono né un uomo né una cagna e pretendo di
mantenere un
minimo di dignità.”
“Non
mi sembra che ti sia stata negata, contessina”
replicò
Mikel e alla giovane non sfuggì la nota tagliente che gli
increspò
la voce.
“Insisto”
disse però, sperando con tutta sé stessa che il
bandito si
stancasse di quella conversazione e non la costringesse ad arrivare
allo scontro diretto. Non sapeva cosa avrebbe fatto, se
l’uomo si
fosse rifiutato di soddisfare la sua richiesta. Magari avrebbe
rinunciato. Probabilmente
avrebbe
rinunciato.
Per
sua fortuna, però, Mikel si lasciò sfuggire un
suono secco, forse
un’imprecazione, e le fece cenno di raggiungerlo sul masso.
“E va
bene” sbuffò, allungando una mano per aiutarla a
salire. Quando
gli fu accanto le artigliò un avambraccio in una presa
dolorosa. “Io
e Hinn ti accompagnamo” le disse piegandosi su di lei e
indicando
con un cenno del capo il giovane nomade. “Sta bene attenta,
carina,
e non farti venire idee strane. Fino ad ora siamo stati gentili con
te e con le tue amiche, ma, come hai detto tu stessa,
c’è un
limite a tutto: ti consiglio di non cercare di scoprire il
mio.”
Potrei
farti a pezzi con le mie mani. Potrei squarciarti la gola con i denti
e bere il tuo sangue,
fu il pensiero che strisciò nella mente di Neve e, per una
volta, la
ragazza non lo rigettò. Oh,
sì, potrei farlo.
Tuttavia
la giovane serrò i denti e ricacciò indietro la
tensione che per un
istante le aveva irrigidito il torso e si costrinse ad annuire.
“Bene.”
Mikel
la soppesò con lo sguardo per qualche istante e poi, senza
lasciarle
il braccio, la condusse via dal luogo in cui Lisi e Clara stavano
riposando. Facendo scorrere tutt’attorno a sé
un’occhiata
veloce, Neve vide che Lisi giaceva perfettamente immobile, fingendosi
addormentata, e si concesse un sospiro di sollievo rendendosi conto
che, se anche sospettava qualcosa, la sua amica non sembrava
intenzionata a tradirla. Ulteriore sollievo le fu dato dal fatto che
Eitan e Yorik non sembravano essere nei paraggi: non aveva idea di
dove fossero andati, ma il fatto che Yorik in particolare non fosse
lì non poteva che essere positivo.
Il
terreno irregolare li costrinse a percorrere una decina di metri
prima di raggiungere un posto che Mikel ritenne adatto alle esigenze
di Neve. “Che ne dici, contessina?” le chiese,
indicando l’ombra
scura di un masso che si ergeva a pochi metri di distanza da quella
che alla giovane parve una scarpata irregolare e coperta da cespugli
di rododendro. “Ti pare soddisfacente?”
Neve
annuì. Se davvero avesse avuto necessità di
svuotare la vescica,
avrebbe potuto acquattarsi dietro la parte più bassa del
masso di
granito: il suo corpo sarebbe stato al riparo da occhi indiscreti, ma
Mikel e Hinn avrebbero comunque potuto vedere la sua testa e le sue
spalle e assicurarsi così che non cercasse di scappare.
“Forza,
allora!” la spronò Mikel.
La
giovane raggiunse il punto che le era stato indicato e voltò
il capo
verso i due uomini. “Dovete proprio stare così
vicini?” chiese.
“Non potete allontanarvi di qualche metro?”
Mikel
scosse il capo. “No. Datti una mossa.”
Con
un sospiro, Neve sollevò la sottana e si piegò
sulle ginocchia,
ignorando il rossore che, malgrado tutto, le aveva colorato le
guance. Questo
è il momento,
si disse.
Aveva
pochi secondi a disposizione, lo sapeva bene, e in quei pochi secondi
si chiese nuovamente se voleva davvero abbandonare le sue amiche. Sì!
Disse
- ruggì - la voce nella sua testa, e Neve lasciò
che la creatura
emergesse dalle profondità della sua anima.
Quello
che stava facendo era rischioso. Tieni
il guinzaglio corto,
si raccomandò negli ultimi istanti in cui fu pienamente
padrona di
se stessa. Lascia
che ti guidi, ma non permetterle di prendere il sopravvento. Neve
non era certa di essere in grado di mantenere il controllo sulla
creatura, pur concedendole qualche libertà: in tutti gli
anni che
aveva passato al convento, era riuscita a tenerla prigioniera
all’interno di sé, ma per farlo l’aveva
annullata fino quasi a
negarne l’esistenza. Ora aveva bisogno dell’aiuto
della cosa che
viveva nel suo petto, ma non aveva alcuna garanzia del fatto che, nel
momento in cui avrebbe allentato le catene che la tenevano
prigioniera, quella non sarebbe esplosa come una forza indomabile.
Madre,
proteggimi,
implorò la giovane, prima di lasciar ricadere
l’orlo della gonna
sopra le proprie ginocchia flesse. Neve premette i polpastrelli
contro la roccia fredda sulla quale era acquattata, sentendo la
superficie granulare del granito che le penetrava nella pelle. La
decisione che aveva preso era rischiosa, sì, ma era
l’unico modo
per raggiungere quella libertà che ora le sembrava
lì, a portata di
mano.
Qualcosa
si levò dalle profondità del suo essere, simile a
una miriade di
minuscole bolle d’aria che si levavano dal fondale sabbioso e
salivano fino a sfiorare la superficie dell’acqua, e Neve non
attese altro: senza concedersi il tempo nemmeno per un respiro
più
profondo, puntò la suola degli stivaletti contro la roccia e
poi si
scaraventò in avanti, oltre il bordo del masso e
giù lungo il
ripido pendio irregolare che si sviluppava al di là di
esso.
I
primi passi li fece alla cieca, e fu solo la fortuna a far
sì che
non mettesse un piede in fallo, che non inciampasse in un arbusto o
che non cadesse nella fessura tra due massi. Le sue orecchie colsero
il grido di Mikel, ma il suo cervello lo processò come un
qualcosa
di insignificante, al pari del richiamo di un uccello o dello
stormire del vento; e fu in quel momento che Neve si accorse di
essere andata oltre.
La
paura che, anche se aveva cercato di tenerla a bada, l’aveva
fatta
tremare fino a un istante prima svanì, e quando la giovane
rabbrividì fu a causa dell'ebbrezza della corsa. La notte
sembrava
essersi fatta più chiara, ora, la luce della luna
più intensa e, se
i colori erano meno marcati, i contorni del mondo che la circondava
erano cento volte più netti di quanto non fossero stati una
manciata
di secondi prima. Neve poteva vedere ogni foglia, ogni scheggia di
pietra, e le sue gambe erano più forti, i suoi piedi
più agili.
Il
suo naso raccolse profumi e odori mai sentiti prima - o forse
dimenticati da tempo - e solo l’aria che le frustava le
guance le
diede un’idea della velocità a cui stava correndo.
Qualcosa nel
retro della sua mente le disse che doveva rallentare, fermarsi un
attimo per calcolare la direzione corretta, ma la creatura - o la
versione di Neve che nasceva dall’incontro con la creatura -
non
raccolse quella raccomandazione: solo la corsa era importante, la
velocità e lo sforzo dei muscoli, l’assoluta
sensazione di libertà
che nasceva dalla fuga giù per il pendio.
Presto
ne raggiunse il fondo, e la voce che apparteneva alla fanciulla che
era cresciuta tra mille agi e che era diventata donna tra le mura di
un convento le gridò che la Via dei Laghi era a destra, ma
la
creatura annusò l’aria e decretò: a
sinistra, verso la montagna e
il punto in cui i larici si facevano più fitti.
Sospesa
per un attimo tra due istinti opposti, la giovane esitò. Si
sentiva
leggera, quasi sospesa al di sopra del proprio corpo: era una
sensazione che aveva talvolta vissuto nei sogni. Era cosciente,
eppure non lo era, e la cosa
che
da sempre portava dentro di sé le parve meno una bestiola
dotata di
vita propria e più una parte integrante del proprio essere.
Un
rumore la distrasse e Neve si voltò per fronteggiare il
pendio che
aveva appena superato. Hinn lo stava percorrendo a grandi balzi,
muovendosi con una velocità insospettabile: era solo umano,
ma era
un umano decisamente agile.
Idiota,
pensò la giovane, prima di piegarsi quasi a metà
sotto la spinta di
un istinto che le diceva di mettersi a quattro zampe e attaccare
attaccare attaccare.
Voleva mordere, voleva graffiare, sentiva già sulla lingua
il calore
della carne e del sangue…
Scappa!
Si
disse, mettendo tutta la propria razionalità in quel
comando. Non
avrebbe ceduto alla creatura, non si sarebbe piegata
all’istinto!
La ragazza tremò, combattuta, i muscoli congelati
dall’incertezza.
Fu allora che vide l’acciaio scintillare nella mano destra
del
giovane nomade: una lama ondulata che le riportò alla mente
vaghi
ricordi di veleni e di riti sciamanici.
Scappa!
Ordinò
di nuovo, e questa volta le gambe le obbedirono. Neve non ebbe
però
la forza di decidere la direzione della fuga e si trovò a
correre in
salita anziché in discesa, e presto i suoi piedi lasciarono
i sassi
del pendio detritico e si posarono sul morbido sottobosco che si
estendeva ai piedi della foresta di larici.
Fu
come entrare in un mondo nuovo. Dei profumi intensi le aggredirono le
narici: il sentore balsamico degli aghi dei larici e della resina,
quello umido del muschio e della terra ricca e scura, quello
vischioso dei funghi e della materia in decomposizione. Neve
dimenticò presto il proprio inseguitore e
rabbrividì di piacere
davanti a quegli odori che sembravano dipingerle la mente di quei
colori che non riusciva più a vedere.
Mentre
correva leggera sui sassi muschiosi e sul terreno elastico, schivando
senza nemmeno accorgersene i rami più bassi e individuando
con
naturalezza la via migliore attraverso gli alberi fitti, la ragazza
si accorse di avere a propria disposizione anche una sorta di sesto
senso. È
naturale,
sibilò la voce che aveva da sempre accostato con la
creatura, e Neve
non fu in effetti sorpresa di riuscire ad avvertire
la
vita tutto attorno a sé.
Era
consapevole del topo che zampettava tra le radici di un vecchio
larice e del gufo che, nascosto tra i rami dello stesso albero,
aspettava il momento opportuno per gettarsi sulla preda; poteva
sfiorare la coscienza della volpe che annusava un cespuglio di felci
qualche decina di metri più in là e addirittura
quella del nugolo
di moscerini che pulsava sopra una pozzanghera. Era in sintonia con
le piante, con la loro respirazione lenta, con i funghi che ancora
non erano emersi dalla loro culla di terra, con
l’inconoscibile
espansione dei licheni che crescevano sulla roccia e sul legno.
Più
di tutto, però, Neve avvertiva una vibrazione sulla pelle, nella
pelle,
una sorta di tensione che la trascinava in avanti, verso una meta che
la creatura intuiva e che la sua parte razionale non riusciva invece
nemmeno a ipotizzare. C’era come il fantasma di un gusto in
fondo
alla sua bocca, nel punto in cui la gola incontra il naso, qualcosa
che ricordava il sapore della terra e delle foglie d’estate.
Era un
aroma quasi familiare, che le solleticava la memoria. L’aveva
già
sentito, ma dove?
Il
ricordo la colpì mentre le sue gambe la proiettavano al di
sopra di
un tronco caduto, in un balzo che la giovane non sarebbe mai stata in
grado di compiere in condizioni normali. Oh,
no!
Pensò
Neve.
Oh,
sì,
le fece eco la creatura.
***
Ehilà!
Ricordo che le recensioni, i commenti e i suggerimenti motivano chi
scrive e fanno sì che gli aggiornamenti siano più
frequenti. Se una
o due delle persone che passano da queste parti e che lasciano
traccia nei numerelli delle visite volessero lasciare anche due
parole, sarei molto felice.
A
proposito: ringrazio come sempre Old Fashioned, presenza costante
capitolo dopo capitolo.
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