House of memories

di Mr Lavottino
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Disegno di: reginaZoey1999

Quando aveva ricevuto la lettera, Noah non aveva esitato nemmeno per un secondo. Aveva letto la destinazione e, senza pensarci troppo su, era partito per recarsi nel luogo dell’appuntamento. Solo qualche ora, e qualche migliaia di chilometri, dopo si era reso conto che, forse, la sua non era stata una mossa molto intelligente.
Per prima cosa, all’interno della lettera non c’era scritto il nome del destinatario, soltanto una “d” scritta con calligrafia leggera e posata. Per seconda cosa, non aveva avvisato sua moglie, come se una forza superiore lo avesse costretto a partire in fretta e furia verso quell’angusto posto. Per terza, ed ultima, cosa, non aveva idea di quale fosse l’effettiva destinazione. Aveva cercato su internet l’indirizzo ed aveva scoperto che era quello di una vecchia casa in campagna in un luogo sperduto in cui lui non era mai stato. Per lui quelle terre non erano altro che un labirinto di vicoli fra varie casette diroccate sperdute, completamente l’opposto rispetto alla casa a due piani in cui viveva con sua moglie Emma.
Ricordava di essere stato nella cittadina lì vicino quando era giovane, anche se, di preciso, non ne ricordava il motivo. Probabilmente, supponeva, per lavoro. Essere un avvocato di successo lo aveva spesso portato a visitare una marea di posti per sostenere le udienze, perciò, molto probabilmente, anche la piccola cittadina di Wawanakwa faceva parte di quell’immensa lista di cui Noah non teneva assolutamente conto.
Trasse un lungo sospiro e svoltò all’ennesima stradina. Se ne sarebbe volentieri tornato a casa, ma ormai era fin troppo vicino alla meta. Il suo GPS, non senza qualche complicazione, lo aveva finalmente portato nella tanto agognata “Via dell’Ontario” al numero civico 23 B.
Noah buttò gli occhi sulla grossa casa a due piani che aveva davanti: dall’aspetto sembrava inabitata da molto tempo, la vernice era, per quello che poteva vedere, graffiata e slavata, tanto che le mura avevano assunto un colorito giallognolo non molto diverso da quello dell’acqua putrida del laghetto di sua nonna. Le finestre, chiuse dalla serranda, non davano l’aria di essere ben fissate ed il tetto stesso sembrava poter crollare da un momento all’altro.
Se non fossero state ormai le nove, sicuramente avrebbe notato ben altri dettagli, come ad esempio la porta in legno marcio e le scale, dello stesso materiale, mangiate dalle termiti.
Noah parcheggiò la macchina nel primo posto disponibile e, senza perdere tanto tempo, uscì sbattendo con delicatezza la portiera della sua BMW. Se l’avesse rovinata, Emma lo avrebbe ucciso senza ripensamenti. L’avvocato si guardò un po’ attorno, alla ricerca dell’entrata. Una recinzione, malandata, circondava la casa e, dopo qualche occhiata più attenta, Noah si accorse di aver parcheggiato l’auto davanti all’uscita posteriore dell’abitazione.
Annoiato e stanco per il viaggio, si diresse contro voglia verso l’entrata, osservando con occhio critico la struttura pericolante alla sua sinistra. Fece per toccare la recinzione, ma cambiò idea non appena vide un chiodo arrugginito fuoriuscire dalla stessa. Più passava il tempo e più si malediceva per essere andato fin lì.
Un leggero vocio attirò la sua attenzione, portandolo a rivolgere lo sguardo verso il cancello, mezzo smontato, ad una decina di metri da lui. Socchiuse gli occhi, così da vedere meglio, poi si avvicinò a passi lenti. Sulle prime non capì di chi si trattasse, ma man mano che si avvicinava la sua testa iniziava a ricordare sempre più cose. Cose che era convinto di aver rinchiuso da qualche parte nella sua testa, senza possibilità di tirarle fuori.
Finalmente si ricordò di Wawanakwa, dell’incidente e di Dawn Medrek.
 
 
ANGOLO AUTORE:
 Salve, sono tornato!
Finalmente il mio computer è di nuovo con me. Evviva!
Ad essere onesto, non pensavo di fare una storia ad OC quest’anno, ma poi mi sono detto: “perché non provare?” ed allora eccomi qua.
La trama è semplice: i protagonisti sono chiamati per scontare i loro peccati. In passato, hanno ucciso una ragazza ed hanno nascosto il tutto per restare impuniti.
Beh, cari miei, se volete partecipare fatemelo sapere con una recensione. La mia idea è quella di fare una storia con pochi OC, poi, casomai, vedrò come gestirla.
Ecco la scheda:
Nome:
Cognome:
Età:
 Aspetto fisico:
Carattere:
Storia:
Informazioni di contorno (segni particolari):
Si è pentito/a?:
 
E questo è quanto, alla prossima!
P.s.: purtroppo ho perso il capitolo 8 di PSA, appena avrò finito con il lavoro provvederò a riscriverlo. Scusatemi per l’inconveniente ;-(

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


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Disegno di: reginaZoey1999


Brodie si appoggiò alla recinzione cigolante di peso, rischiando di farla crollare. Non che ci volesse molto sforzo, il legno era marcio e mangiato dalle termiti, talmente tanto logorato che per miracolo non si era disintegrato in un migliaio di briciole maleodoranti.
Si passò una mano fra i corti capelli neri e gettò gli occhi scuri  verso l’unica luce in lontananza, probabilmente appartenente ad una casa di contadini a qualche chilometro da dove si trovava. Riusciva a vedere giusto un lieve pallino giallo che, nonostante le varie pianticelle che aveva davanti, rimaneva visibile ad occhio nudo.
La sua mano scivolò pian piano verso la barba incolta e poi, tenendo le dita a contatto con i peli, verso la mascella. La massaggiò con cura, mentre la sua testa si divagava fra milioni di pensieri. Il primo, su tutti, era rivolto alla strana situazione che stava vivendo in quel momento.
Ricevere una lettera all’improvviso, al cui interno c’era solo un indirizzo ed un orario non era proprio una cosa che gli accadeva tutti i giorni. Sulle prime era rimasto spiazzato, tanto da pensare che il postino avesse erroneamente infilato quella busta all’interno della sua cassetta, ma dopo aver letto sul retro “Brodie Harper”, scritto con un’accurata calligrafia femminile, capì che non c’era stato nessuno sbaglio.
Ci aveva pensato su con calma davanti ad una tazza di caffè. Andare o no? Era curioso di sapere chi fosse il destinatario e, soprattutto, cosa ci fosse in quella fantomatica via scritta sul foglio, ma al tempo stesso sentiva che c’era qualcosa che non tornava. Era tutto troppo strano.
Eppure, nonostante tutto, ci era andato. Aveva preso la macchina ed era partito verso quella meta sconosciuta. Ed era finito lì, appoggiato a quella staccionata malmessa e con tanti grilli per la testa. Più i secondi passavano e più si convinceva di aver fatto una grossa cavolata. C’erano tutti i presupposti per un rapimento con i fiocchi.
Brodie estrasse un accendino dalla tasca e girò la rotellina. Guardò la fiamma intensamente pensando a quanto si sentisse stupido. Non si era portato niente dietro, era partito come un profugo che scappava dalla guerra.
- Vedo che hai ancora la passione per gli accendini. – una voce richiamò la sua attenzione. Il suo dito si allontanò dalla rotella e la fiamma si spense, poi con calma Brodie alzò lo sguardo. Era buio, ma gli bastò vedere quei capelli castani tendenti al biondo per riconoscerla. Gli occhi azzurri di lei brillarono come due piccole pietre preziose. Ci fu qualche secondo di pausa, nei quali i due si osservarono lentamente, poi la ragazza si fece avanti e Brodie capì che non sarebbe dovuto andare in quel luogo.
- Abbey. – il moro non aggiunse altro, pronunciò quelle parole con la gola secca come il deserto e la testa affollata come un’autostrada d’estate.
- Ti ricordi il mio nome? Non l’avrei mai detto. – Abbey si lasciò andare ad un mezzo sorriso. Fece un altro passo in avanti e Brodie, di tutta risposta, indietreggiò.
- Che ci fai qui. – non provò nemmeno a farla suonare come una domanda. Anzi, per certi versi sembrò essere una minaccia. Lei sembrò esitare, ma poi si decise.
- Ho ricevuto una lettera. – abbozzò, per poi fermarsi subito. A Brodie bastò quella frase per convincersi definitivamente di aver fatto un grosso sbaglio nell’andare in quel luogo – Tu, invece? – chiese Abbey, con tono dolce.
- Anche io. – il ragazzo espirò con forza ed appoggiò la mano destra sulla recinzione, che strinse con forza con le dita. A quel punto, Abbey si fece più vicina e lui riuscì a guardarla meglio. Non era cambiata per nulla, sembrava ancora la diciassettenne di un tempo. Aveva solo uno sguardo più maturo e malinconico, segno che ormai aveva perso la lucentezza della gioventù che, in passato, l’aveva caratterizzata a pieno.
- Non sei cambiato per nulla. – per un istante Brodie pensò che Abbey gli stesse leggendo nella testa, fu solo quando si rese conto di avere gli occhi incollati su di lei che si accorse di star parlando con lo sguardo.
- Nemmeno tu. – Brodie sentiva la gola sempre più secca. Non era pronto per quell’incontro, non ancora. La sua terapista gli aveva più volte detto che, prima o poi, si sarebbe dovuto scontrare con i fantasmi del suo passato, ma lui ancora non sentiva di poterli affrontare.
- Cavolo, ho tante domande da farti. – Abbey abbassò lo sguardo e sorrise, al contrario del ragazzo sembrava essere fin troppo calma e tranquilla.
- Tienile per te, io me ne vado. – Brodie scosse la testa e fece per allontanarsi da lì. Mosse i primi passi nello stradino, ma poco dopo si sentì tirare.
- Aspetta. – la castana lo afferrò con le punte delle dita per la manica del giacchetto. Brodie stava per scostarsi violentemente, poi la guardò negli occhi e tutti i suoi intenti violenti desistettero – Per favore. – aggiunse Abbey. Quelle due parole furono come una colata di cemento sui suoi piedi, Brodie rimase ancorato al terreno con un leggero fiatone ed un forte peso nel petto.
Silenzio. Per quasi due minuti rimasero in quella posizione, con Abbey aggrappata alla sua manica e lui troppo in panne per poter fare qualsiasi movimento. Quei centoventi secondi vennero abbattuti da un’altra voce esterna che, tutto d’un tratto, incominciò a sentirsi.
- Guarda te dove dannazione sono finita. Non potevo farmi i cazzi miei e restare a casa? – Abbey e Brodie si voltarono contemporaneamente e quando riconobbero la ragazza ebbero un sussulto.
- Clara? – sussurrò la castana. Clara si zittì di colpo ed alzò lo sguardo verso di loro, provò a parlare, ma non riuscì a far altro che boccheggiare senza produrre alcun suono.
- Voi? – disse poi, tenendo l’indice, tremante, puntato contro di loro.
Brodie rimase nel più completo silenzio, osservò Clara con gli occhi sgranati come se fosse un fantasma. Anche lei, dopotutto, non era cambiata affatto, se non per i suoi capelli marroni tagliati adesso in un caschetto ordinato. Gli occhi, marroni come il legno di quercia, sembravano sempre starti addosso come due telecamere. Era quella la particolarità di Clara, aveva uno sguardo di cui nessuno riusciva a fidarsi, sembrava che fosse sempre sul punto di contraddire o di voltare le spalle.
- Che ci fai qui? – chiese Abbey, rievocando la scena che si era ripetuta poco prima.
- Ho ricevuto una lettera. – spiegò la mora dopo essersi calmata – Siete stati voi a mandarmela? – domandò, scrutandoli da cima a fondo.
- Secondo te? – ribatté ironicamente Abbey, senza tuttavia riuscire ad ottenere il risultato sperato.
- Che diavolo ne so io! Merda, sapevo che me ne sarei dovuta restare a casa. Quella lettera puzzava di fregatura da tutti i pori. – Clara sospirò e, dopo aver piantato con forza un piede sul terreno, si guardò attorno – Beh, quindi cosa ci stiamo a fare qua? – domandò.
- È una domanda da centomila dollari. Non ne abbiamo idea, anche noi siamo arrivati adesso. – rispose Abbey – Si può sapere dove diavolo stai guardando? –
- Mi è sembrato di vedere una luce in mezzo agli alberi. – Clara alzò le spalle – Me la sarò immaginata. – scosse la testa e portò gli occhi su Brodie, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo. Lo squadrò da cima a fondo, tanto che lui, indispettito da quegli sguardi, le dette le spalle per non farle vedere oltre.
- Dite che hanno chiamato anche gli altri? – abbozzò Abbey. Clara e Brodie si girarono verso di lei con gli occhi sgranati. Non servivano parole, Abbey capì immediatamente che quella domanda non era stata presa bene dai due. Forse avrebbe dovuto continuare a girare intorno all’argomento senza sbatterci la testa, ma sentiva l’impulso di avere una conferma a quella tesi malata che si era situata nella sua testa. La “d” in fondo alla lettera non poteva essere un caso, di questo era più che certa.
- Non capisco di cosa stai parlando. – mentre Brodie evitò accuratamente di rispondere, Clara sputò fuori quelle parole frettolosamente, facendo capire perfettamente quanto non volesse approfondire quella conversazione.
- Su, non fare la finta tonta. È chiaro come il sole che siamo qui per quel motivo. – la castana non si tirò indietro, continuò ad andare dritta verso quel muro di mattoni che stava per colpire al massimo della velocità – Sto parlando della morte di – non riuscì a finire.
- Smettila. Non dire altro. – Brodie assottigliò gli occhi e la guardò. Il ragazzo aveva il fiatone, sentiva di star per avere una crisi di nervi. Non pensava che rievocare quella tragedia l’avrebbe fatto sentire così male, si aspettava che, più o meno, sarebbe riuscito a fare buon viso a cattivo gioco.
- È morta, non può essere stata lei. – disse poi Clara, mentre con la mano destra si tartassava il gomito sinistro.
- Penso che abbia ragione Abbey. – dal nero della foresta uscì fuori una ragazza con una torcia in mano. Sulle prime, per colpa della luce, nessuno di loro riuscì a capire di chi si trattasse, solo quando la torcia venne spenta riconobbero quel volto che, un tempo, era stato per loro così familiare. I capelli marroni tenuti in una treccia lunga fino a metà della schiena, gli occhi grigi attraenti come una calamita e la carnagione pallida come la neve.
- Ginevra?! – urlò Abbey con una mano davanti alla bocca. Ci fu un attimo di esitazione, poi Ginevra si fece avanti e rivolse un sorriso al gruppo.
- Sì, sono io. – disse – Cavolo, era da un sacco che non ci vedevamo. – gli angoli della sua bocca si abbassarono gradualmente, fino a farla tornare seria.
- Oh, Gesù, non ci sto capendo più niente. – Clara si portò entrambe le mani ben curate sul volto e premette con le dita sulla fronte nella speranza di calmarsi.
- Fra poco arriveranno anche le altre. – Ginevra si guardò attorno, ottenendo tutti gli sguardi puntati su di lei. – Cioè, non ne sono sicura, ma è molto probabile che lo facciano. – si corresse.
- Chi diavolo può averci chiamati qua? – chiese Abbey, sperando che Ginevra potesse in qualche modo dissipare i suoi dubbi. In passato, lei era stata la mente del gruppo, era la loro leader indiscussa che decideva tutto quello che dovevano fare. La speranza che le cose fossero rimaste in quel modo la portò a guardare Ginevra fissa negli occhi, per farle capire che voleva una risposta proprio da lei.
- Qualcuno che sa cosa abbiamo fatto, suppongo. – Ginevra si leccò le labbra con fare soddisfatto. Sapere che, anche se a distanza di anni, ancora veniva considerata un punto di riferimento la faceva sentire realizzata.
- Sono passati sette anni ormai. – sussurrò Clara, con tono disperato. Il ricordo di quell’incidente la tormentava ogni sera, quando rimaneva da sola nel letto a guardare il soffitto e le pillole non avevano ancora fatto effetto.
Le loro parole vennero interrotte dal rumore del fruscio delle foglie alle loro spalle. I quattro si voltarono e, con il fiato sospeso, attesero che qualcuno sbucasse dal bosco. Ci volle poco, giusto qualche secondo, prima che una ragazza bassa, dai lunghi capelli neri e dagli occhi azzurri come il cielo uscisse dalla macchia.
La ragazza non disse niente, perché Aya Rogers non aveva bisogno di presentazioni. Si limitò ad avvicinarsi a Ginevra e a fermarsi accanto a lei, puntando gli occhi su ognuno dei presenti.
- Anche tu qua? – domandò, seppur senza esserne troppo sorpresa, Abbey. Aya si limitò ad annuire con la testa e a rimanere in silenzio. Non era mai stata una chiacchierona, anzi, tendeva a rimanere in silenzio anche per delle ore intere. Non le piaceva la sua voce, perciò preferiva evitare di utilizzarla.
- Manca soltanto Delfina. – Ginevra si guardò attorno, alla ricerca dell’ultima persona che, tempo addietro, aveva preso parte all’incidente. L’assenza della ragazza, per un po’, dette speranza al piccolo gruppo, magari non erano lì per quella storia, o magari era tutto uno scherzo. Quella flebile speranza, tuttavia, venne ben presto spazzata via.
Ginevra sentì rumore di passi e, qualche istante dopo, Delfina Lancaster fece la sua comparsa. Dall’ultima volta che l’avevano vista non era cambiato nulla, aveva ancora dei folti capelli neri lungi fino al sedere e due occhi talmente chiari da sembrare quasi violacei.
Quando Delfina si rese conto di avere dieci occhi su di se, si fermò di colpo. Spalancò le palpebre per qualche secondo, poi la sua espressione tornò normale. Sulle prime sembrò esitante sull’andargli incontro, poi si convinse e, a piccoli passi, raggiunse il resto del gruppo.
- Forza, uscite il nome del responsabile. – disse, puntando lo sguardo verso Clara – Non sentivo il bisogno di questa stupida rimpatriata. –
- Fantastico, anche lei non sa un cazzo. – sbottò Brodie coprendosi la bocca con una mano.
- Questa storia mi convince poco. – Ginevra girò su se stessa, poi gettò gli occhi verso la casa abbandonata davanti a loro. Mosse qualche passo avanti ed entrò dentro al cancello. Gli altri, senza dire nulla, la seguirono tenendosi a debita distanza.
- Di chi è questa casa? – domandò Clara, indicando con un cenno della testa la piastrella di legno attaccata al lato della porta di ingresso.
- Di Dawn. – a rispondere fu, con loro sorpresa, Abbey. Senza nemmeno leggere quel rettangolo, la castana aveva risposto a quel quesito così spinoso. D’altronde, Abbey in quella casa c’era già stata un sacco di volte parecchio tempo prima, quando i rimorsi ancora non la divoravano nella notte.
- Come fai a saperlo? – chiese, prontamente, Ginevra. La castana accennò ad un mezzo sorriso, costatando quando quella situazione fosse, alla fin fine, quasi ironica. Non si vedevano da quasi sette anni e, per tutto il tempo, non avevano fatto altro che porsi delle domande senza risposta e cercare di risultare il più carichi d’odio possibile. Ormai i loro tempi d’oro erano andati, quel periodo in cui anche se il peso del loro peccato pesava sulle loro spalle riuscivano in qualche modo a mentire a loro stessi. Dopo aver appurato che il tempo, spesso, non guarisce tutte le ferite, Abbey si decise a raccontare quella parte di storia che, sette anni prima, non aveva voluto dire a nessuno.
- Ecco, io e Dawn –
- Cos’è questo, uno scherzo di pessimo gusto?! – tuonò Noah, comparendo all’improvviso da dietro di loro. Il suo sguardo furente si abbatté contro quello dei ragazzi che, increduli, lo guardarono. L’avvocato digrignò i denti e si guardò attorno con le sopracciglia, chi poteva avergli giocato uno scherzo del genere? Doveva essere qualcuno che era a conoscenza di cosa fosse successo a Dawn Medrek, non c’era altra soluzione.
I primi a balzargli in testa furono i due coniugi Medrek, ma si ricordò prontamente che entrambi erano già morti da qualche anno. Ne era sicuro, perché era stata Emma stessa ad avvisarlo. La fidanzata si era addirittura offerta di accompagnarlo al funerale, ma lui aveva declinato sostenendo che i Medrek non erano altro che una famiglia di svitati alla ricerca di attenzioni. Disse così perché Emma non sapeva cosa era realmente accaduto quella sera, lei non era a conoscenza di quale fosse il vero corso degli eventi e, sperava Noah, non l’avrebbe mai saputo.
Era un caso archiviato, concluso da tempo e ormai finito nel dimenticatoio. Perciò, chi poteva aver organizzato quella patetica messa in scena, qualche idiota alla ricerca di attenzioni? Oppure uno di quei giustizieri alla ricerca della gloria personale?
Noah non sapeva dirlo con certezza, ma era certo che in quel luogo non ci sarebbe stato un attimo di più. Solamente vedere le facce di quei ragazzi, che al tempo erano dei semplici adolescenti, gli bastava per alterarsi. Loro rappresentavano la sua corruzione, la sua inclinazione verso il lato marcio e malato della legge, verso il sapore del denaro e della fama.
- Cazzo, c’è anche lui. – Brodie scosse la testa, ponendo definitivamente fine alla voglia di Abbey di concludere quello che stava per dire. In un certo senso, la castana sperava di potersi, prima o poi, confessare con qualcuno, ma quello non le sembrava il momento più adatto.
- Sì, ma ancora per poco. Me ne vado immediatamente. – Noah, che aveva appena messo i piedi dentro al cancello, fece per uscire, ma il cancello si chiuse all’improvviso, come se qualcuno lo avesse spinto con  forza, tanto da farlo sbattere. Il rumore spiazzò il gruppetto, che non riuscì a capire bene cosa stessa accadendo.
- Che cazzo è successo? – l’avvocato si guardò attorno, alla ricerca di chi avesse potuto chiudere il cancello, ma non sembrò esserci nessuno all’esterno.
- Dio, che paura. – sussurrò Delfina portandosi una mano sul cuore. Sentiva che qualcosa non andava, come se a breve qualche sorta di catastrofe sarebbe iniziata. E questo non fece che farle salire l’ansia, ansia che Aya, dal canto suo, rilegò in un cassetto sopito all’interno della sua testa. Osservò la scena con sguardo impassibile, come se stesse guardando un film di serie B al cinema.
- Apri quel cancello e andiamocene, questo posto non mi piace per niente. – Clara fece cenno all’avvocato di andare verso l’oggetto di ferro, ottenendo un cenno d’assenso seccato con la testa. Fra tutti e sei, Clara era quella che Noah odiava di più per via della sua bipolarità e dei suoi sbalzi d’umore.
Noah allungò la mano verso la maniglia e, proprio mentre le sue dita stavano per toccarla, un brusio si diffuse nell’aria circostante. Un rumore fastidioso, basso e incomprensibile che, pian piano, iniziò a diventare sempre più chiaro ed udibile.
- Finalmente ci siete, possiamo incominciare. –
 
 
ANGOLO AUTORE:
Salve! Ecco a voi il primo capitolo, sono finalmente riuscito a finirlo. Vi dico subito che, causa lavoro e studio, la storia, molto probabilmente, riprenderà a Settembre. Proverò in questo mese a scrivere qualcosa, ma non posso assicurare che riuscirò a pubblicare con regolarità.
Tuttavia, è nei miei progetti finire questa storia, perciò state certi che, in un modo o nell’altro, farò di tutto per portarla a termine.
Per adesso ci limitiamo ad una leggera introduzione dei personaggi e a qualche goccia di trama fra i nostri protagonisti, poi pian piano scaveremo più in profondità nelle menti di ognuno di loro.
Detto questo, vi lascio sperando che il capitolo, seppur breve, vi sia piaciuto.
Ci vediamo (spero) presto!

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


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Disegno di: reginaZoey1999


In un certo senso, Aya si aspettava di sentire una voce dal nulla. Aveva avuto sin dal momento in cui era arrivata la sensazione che qualcosa stesse per andare storto. Già, di per se, il ritrovarsi tutti in quel luogo sotto richiesta di una lettera con mittente anonimo non era certo nella norma, figuriamoci se poi all’improvviso si chiude il cancello e, per un cruento, o forse no, scherzo del destino e si rimane chiusi dentro.

Proprio perché se lo aspettava, Aya fu l’unica non battere ciglio quando quelle gelide, basse e delicate parole le arrivarono alle orecchie. Non fece neanche fatica a riconoscere di chi fosse la voce, c’era solo una scelta disponibile. Esatto, sapeva perfettamente chi avesse parlato, l’unico problema era che, per quello che ne sapeva, quella persona doveva essere morta e sepolta da circa sette anni. Per di più, le probabilità che fosse ancora viva ed avesse pianificato una vendetta erano rasenti allo zero, perché Aya il cadavere senza vita di Dawn Medrek l’aveva visto con i suoi stessi occhi.

- Chi è stato? – Delfina incominciò a guardarsi attorno alla ricerca di un qualcosa, o un qualcuno, che avesse potuto dire quelle parole. Al contrario di Aya, l’ipotesi del “fantasma” era l’ultima che fosse disposta ad accettare. I suoi occhi si spostarono a turno su ognuno dei presenti, senza tuttavia ricevere risposta.

- Andiamocene da qui. – Clara scosse la testa e puntò dritta verso il cancello.

- Non è affatto divertente. – abbozzò Noah mentre si guardava attorno con una certa ansia. Allungò di nuovo la mano verso il cancello, ma prima che potesse toccarlo un rumore assordante riecheggiò nell’aria. Nel giro di qualche secondo, tutti e sette si ritrovarono piegati su se stessi con la mani sulle orecchie per cercare di fermare quel lamento che stava dilaniando i loro timpani.

Chiusero gli occhi e, nell’esatto momento in cui li riaprirono, si resero contro di non essere più nel giardino. Si guardarono attorno con fare stranito, senza riuscire a capire cosa fosse appena successo. Erano all’interno di una stanza, tutti seduti su due divani posizionati in l’uno davanti all’altro.

- Dove siamo? – Abbey provò ad alzarsi, ma si rese conto di essere bloccata. Non c’era alcuna catena, né tanto meno corda, che la stava tenendo immobilizzata, tuttavia non riusciva a tirarsi su, come se le sue gambe si rifiutassero di rispondere ai suoi comandi.

- Non riesco a muovermi. – Clara iniziò a dimenarsi come un pesce fuor d’acqua.

- Che cazzo sta succedendo? – Noah si guardò attorno. Qualche quadro, delle mura color verdastro, dei mobili in legno e un grosso lampadario sopra la sua testa. Non riconosceva quell’abitazione.

- Siamo bloccati. – rispose Clara, sempre più preda del panico. Il rumore, seppur meno forte, pizzicava ancora le loro orecchie, fino a quando, secondo dopo secondo, non sparì completamente. Soltanto dopo il suo addio riuscirono a muoversi.

Brodie, da prima, si limitò a muovere le dita delle mani, che sentiva irrigidite, poi si alzò di colpo e si allontanò dal divano con un salto. Gli altri fecero lo stesso, per paura di rimanere nuovamente bloccati.

- Questa è casa di Dawn. – Abbey, con le mani attorno alla bocca, si lasciò fuoriuscire quella frase che, inevitabilmente, portò tutti a girarsi verso di lei. Sentì ben presto tutti gli occhi puntare contro di lei.

- Che intendi dire? – domandò Delfina, mentre con lo sguardo cercava un qualche oggetto per difendersi. Mosse le pupille da prima su di un portaombrelli, poi verso una delle fotografie ma, dopo averne riconosciuto il soggetto, smise.

- La riconosco, è casa di Dawn. – ripeté la castana. A piccoli passi, si avvicinò ad una delle fotografie e la prese in mano. C’era una piccola bambina bionda con i suoi genitori che, con due grossi sorrisi in volto, si tenevano per mano. Sullo sfondo c’era l’insegna di un parco naturale.

- Quindi tu già lo sapevi? – Brodie mosse un passo verso di lei – Tu già sapevi che questa era casa sua? – continuò, deglutendo poco dopo. Abbey esitò, non del tutto sicura di quello che stava per dire.

- Sì. – non aggiunse altro, si limitò ad abbassare lo sguardo mentre tutti gli altri si lasciavano andare a commenti poco eleganti su di lei.

- Quando intendevi dircelo? – la attaccò Clara.

- Scusate. – sussurrò, per poi rimettere la fotografia al suo posto.

- Come cazzo ci siamo entrati qua? – Delfina spostò gli occhi su ogni possibile entrata nella stanza. In realtà sapevano tutti, più o meno, come avevano fatto ad entrare, ma ammettere quell’ipotesi non sarebbe stato altro che un tassello in più della teoria che tutti volevano allontanare il più possibile dalle loro teste.

- Ci deve essere stato qualche trucco. – ipotizzò Noah, mentre si aggirava per la casa alla ricerca di un’uscita. La finestra, unica nella sala, era chiusa e con e persiane abbassate, pertanto l’unico punto di collegamento con l’esterno era la porta d’ingresso in fondo al corridoio.

Non appena la guardò, Noah iniziò a sentire il fiatone. Poteva fingersi calmo quando voleva, ma l’inquietudine che quel rettangolo di legno gli dava era dannatamente tanta. Sapeva, ne era certo al cento per cento, che se avesse provato ad aprire la porta sarebbe successo qualcosa di paranormale. Ci avrebbe scommesso tutto ciò che aveva. I ragazzi lo guardarono senza dire una parola. L’indiano ci mise poco a capire che quello era un chiaro invito a farsi avanti.

Noah si avvicinò, nel silenzio più totale, alla porta di ingresso. La sua mano tremava mentre, con lentezza, si avvicinava al pomello dorato tondo. Una volta afferrato, lo massaggiò per qualche secondo, cercando il coraggio per girarlo. Lo fece poco dopo, sentendo lo scatto della serratura, e, con sua sorpresa, la porta si aprì. Noah sbatté gli occhi per qualche secondo prima di rendersi contro di essere davanti al giardino in cui erano stati poco prima.

Rimase immobile. L’aria fredda serale iniziò ad accarezzargli il volto. Fu proprio quello a convincerlo a fare un passo in avanti. Ancora nulla. Ne fece un altro. Nulla. Mosse il terzo, con il quale la punta della sua scarpa oltrepassò l’uscita. Nulla di nulla. Noah, a quel punto, rilassò i muscoli e fece per compiere un altro passo.

Una figura biancastra apparve ad un decina di metri da lui. Non fece in tempo neanche a rendersi conto di cosa fosse, la figura gli corse incontro e si fermò a pochi centimetri dalla sua faccia. Occhi arrossati, labbra screpolate, volto tumefatto ed occhi biondi. Non fece fatica a capire chi fosse. Un attimo di silenzio, poi la figura urlò, mostrandogli dei denti aguzzi e giallastri sporchi di sangue alle basi. Fece per afferrarlo con una mano dalle unghie incredibilmente lunghe, ma Noah riuscì a tirarsi indietro giusto in tempo. Cadde per terra e, con le braccia, si spinse indietro. Le sue urla si unirono a quelle della creatura mentre, affondando le unghie sul parquet, cercava di allontanarsi. Poi le luci si spensero e tornò di nuovo il silenzio.

Si riaccesero solo dopo qualche secondo, che Noah passò immerso nel panico più totale. Quando fu di nuovo possibile vedere, tutto era tornato normale. La figura era sparita, ma la porta era chiusa e la maniglia era sparita.

- Non ci sto capendo niente. – a rompere il silenzio fu Clara. La mora guardò Noah, ancora seduto per terra, mentre a fatica respirava.

- È lei. – Abbey si appoggiò al muro – È Dawn a fare tutto questo. Siamo finiti. – mise le mani sulla testa e si accucciò su se stessa. Gli altri, sempre più preoccupati, iniziarono a guardarsi fra di loro.

- Non è possibile, Dawn è morta! – disse Ginevra, nella vana speranza di mantenere la calma.

- Come cazzo fai a negare l’evidenza?! Quello era palesemente il fantasma di Dawn e non mi sembrava affatto felice. – Clara alzò il tono di voce, facendo fuoriuscire tutto lo stress che fino a quel momento aveva accumulato.

- Dawn è morta, dannazione! L’abbiamo visto tutti il suo cadavere. – ribatté Ginevra. Anche lei non poté far altro che gridare per poter sopraffare la mora.

- Sì, ma abbiamo visto anche il fottuto fantasma che per poco non si è mangiato la sua faccia. – Clara indicò Noah, che ancora non aveva accennato a rialzarsi, ed iniziò a toccarsi il petto. Il suo cuore batteva più del solito.

- Non è possibile. Non è assolutamente possibile. – Delfina sentì la forza mancarle dalle gambe. Riuscì ad appoggiarsi sul divano e, senza neanche preoccuparsi di poter rimanere bloccata, affondò la schiena nel tessuto morbido.

- In cosa mi sono cacciato? – si chiese Brodie, mentre sentiva il suo corpo iniziare a tremare. Ricordava bene l’ultima volta in cui si era sentito in quel modo, circa sei anni prima.

- Sveglia, ragazzi! I fantasmi non esistono. – Ginevra provò, ancora una volta, a tenere le redini del gruppo, ma a poco servirono le sue parole.

- Era Dawn. Quella era palesemente Dawn. – Noah, che fin dal primo momento si era dimostrato strettamente scettico, non poté far altro che ammettere la cosa. C’era qualcosa non andava in quella casa. Non sapeva cosa, non aveva idea se fosse colpa di fantasmi o altro, ma sapeva con certezza che qualcosa non andava.

- Che facciamo? – domandò Clara – Proviamo di nuovo ad aprire la porta? – suggerì, stando ben attenta a tenersi più lontana possibile dal corridoio.

- Sei impazzita?! Cavolo, se vuoi rischiare così tanto fallo tu. – Delfina scosse la testa. La sola idea di avvicinarsi di nuovo alla porta era ormai un tabù.

- Abbassa i toni, sciacquetta! – la mora la fulminò con un’occhiata, ricevendone un’altra come risposta.

- Senti chi parla. – Delfina non se lo fece ripetere due volte e, vittima dell’ansia e della paura, si preparò a rispondere al suo attacco.

- Oh, dannazione, sembrate due bambine che litigano per una bambola! Volete darvi una calmata? – Ginevra, l’unica dei sette ad aver mantenuto un minimo di raziocinio, si mise fra le due per fermare la nascente colluttazione che sarebbe scaturita di lì a pochi secondi.

- Dobbiamo andarcene da qui, altrimenti ci ucciderà. – Abbey, ancora seduta per terra, puntò gli occhi verso una delle tante fotografie di Dawn appese al muro. Le sue pupille scivolarono verso la porta d’uscita e, in quell’istante, ebbe l’illuminazione – Vuole che espiamo i nostri peccati. – disse, senza però venire sentita – Dawn vuole che espiamo i nostri peccati. – ripeté con un tono più alto.

- Peccati? Quali peccati? – Ginevra, sempre più scioccata per i livelli di incredulità che stavano toccando, sbatté gli occhi diverse volte, senza riuscire a capire dove la castana volesse andare a parare.

- Quella sera. Vuole che ammettiamo le nostre colpe di quella notte. – si alzò di scatto – Dobbiamo dire la verità. – scattò verso il divano ed affondò le mani sul poggia schiena.

- Quali colpe? È stato un incidente. – Delfina si spinse in avanti con la schiena e, rimanendo seduta, iniziò a gesticolare con le mani.

- Tutt’altro. – sussurrò Brodie, venendo però sentito dagli altri.

- Di cosa cazzo stiamo parlando?! Sono passati sei anni, tutti sanno che è stato un incidente. – anche Clara alzò, come suo solito, la voce e ben presto la conversazione sfociò una discussione piena di insulti ed offese.

L’unica a restarne fuori fu Aya. La mora si limitò a girellare per la stanza, stando ben attenta a non avvicinarsi troppo al corridoio, guardando tutti gli oggetti presenti sui vari scaffali. Un mazzo di chiavi, una rosa finta, qualche bolletta da pagare ed un posacenere pieno di sigarette mezze fumate, questo quello che trovò là sopra. Gli occhi le caddero verso il buco lasciato dal pomello della porta, dal quale vedeva una luce biancastra che attirò la sua curiosità. Mosse un primo passo incentro, poi un secondo e, quando arrivò ad un metro dalla porta, si fermò di colpo.

Un forte dolore alla testa costrinse Aya ad indietreggiare. Il rumore si fece sempre più forte ma, dalla mancata reazione degli altri, capì di essere l’unica a sentirlo.

- Sali le scale. – gli sussurrò una voce femminile all’orecchio – Sali le scale e smetterà. – non fu particolarmente precisa, ma ad Aya quella frase bastò per capire cosa intendesse. Guardò alla sua sinistra e vide un paio di scale a chiocciola. Prima non le aveva viste, ma ormai aveva capito che porsi domande di quel genere non avrebbe avuto senso. Mise il primo piede sullo scalino e sentì di nuovo una voce.

- Dove stai andando? – Clara, interrompendo la litigata, la chiamò a se, portando tutti gli altri a girarsi verso di lei. Aya si limitò ad indicare il piano di sopra con l’indice della mano destra. Gettò gli occhi verso la cima delle scale, ma non riuscì ad intravedere nulla, nemmeno una porta. Solo buio. Esitò per qualche istante, troppo spaventata per andare avanti. Il rumore iniziò a farsi pian piano più forte ed Aya, per evitare di rimanere anche sorda, si fece coraggio e corse fin sopra gli scalini. Nell’esatto momento in cui raggiunse l’ultimo scalino il rumore sparì del tutto, lasciandole sentire le voci degli altri che la chiamavano.

- Dove stai andando? – Clara apparve dietro di lei con il fiatone. Le sigarette non le facevano bene e quella ne era la dimostrazione pratica. Aya si indicò le orecchie e poi mosse di scatto le mani – Ancora con questo linguaggio dei segni? Che palle, non sei cambiata per nulla. – Clara sospirò – Forza, vieni con me. Torniamo dagli altri. – la mora la afferrò per la mano e scese due scalini.

Non ci mise molto a rendersi conto che qualcosa non tornava. Non vedeva la luce della sala. Clara, presa dal panico, scese un altro scalino e poi un altro. Non arrivava mai. Ne scese altri correndo, solo per rendersi conto che non sembrava esserci un’uscita. Erano bloccate su quella scalinata.

Al contrario, dall’altra parte si era accesa una piccola lampadina che illuminava una porta in legno rosso. Clara, tuttavia, decise di ignorarla, provò ancora a scendere, ma rimase bloccata in quel circolo infinito. Porta rossa sempre alla solita distanza e buio lungo la discesa.

Aya la afferrò per la giacca e le fece cenno di provare ad attraversare la porta rossa, che era l’unico punto in cui potevano andare.

- Ne sei sicura? Cazzo, farei di tutto pur di non andarci. – Clara deglutì, poi salì i vari gradini fino a trovarsi nel pianerottolo della porta - Ah, vaffanculo Aya. Sei una stronza. – roteò gli occhi ed afferrò il pomello della porta. Esitò qualche secondo, poi lo fece scattare verso sinistra ed aprì la porta.


 

- Dove stai andando? – domandò Clara guardando Aya che, con il volto contorto in un’espressione di dolore, era ferma con lo sguardo rivolto alla sinistra della porta d’ingresso. La ragazza la guardò senza dire nulla, si limitò ad indicare dritto e, poco dopo, prese a correre in quella direzione.

Clara non se lo fece ripetere due volte, le corse dietro nella speranza di fermarla. Scostò con una spinta Ginevra e per poco non schiacciò la mano di Noah. Per la paura, chiuse gli occhi appena arrivata a pochi passi dall’entrata e, come prevedibile, sbatté contro uno degli scalini. Dopo aver bestemmiato, si tirò su e riprese ad inseguire Aya che, a passo spedito, era già sparita dalla sua vista.

- No, Clara, fermati! – Ginevra tentò di richiamarla a se, mentre gli altri rimanevano immobili ad osservare la scena. Nessuno mosse un muscolo. Dopo aver constatato che nessuno sarebbe andato dalle due, Ginevra scosse la testa e si diresse verso l’angolo in cui avevano svoltato.

Non c’era nessuno. L’unica cosa che riusciva a vedere era la porta blu in cima al pianerottolo. Di Aya e di Clara non c’era traccia. Ginevra, tesa come una corda di violino e con la bocca asciutta, tornò dal resto del gruppo.

- Allora? – domandò Delfina.

- Allora? – ripeté Ginevra. Strinse i pugni con forza e si avvicinò al suo volto in maniera poco amichevole – Allora cosa?! Dannazione, perché ve ne state tutti impalati come degli idioti?! – urlò con foga.

- Cosa dovremmo fare? – Delfina si alzò dal divano con le gambe tremanti.

- Siete una mandria di scemi, ecco cosa. Vado a cercarle. – Ginevra, caricata da una dose di adrenalina che non pensava di poter avere, si incamminò ad ampie falcate verso le scale. Si fermò davanti ad esse e lanciò un’ultima occhiata al gruppetto. Nessuno mosse un muscolo – Idioti. – sussurrò, per poi muovere un passo sul primo scalino.

- Aspetta, Ginevra. – Noah, che fino a quel momento era rimasto in stato catatonico seduto sul pavimento, si alzò e le andò dietro. La raggiunse mentre era a metà della rampa e, caso volle, o forse no, che anche loro vi si ritrovarono intrappolati. Porta blu in cima, luce buia alla fine.

- Perché mi hai seguita? – Ginevra si voltò verso di lui e lo guardò con i suoi occhi taglienti. Erano sempre stati il suo punto debole.

- Andare da soli è pericoloso. – rispose Noah, quasi come se fosse scocciato dalla cosa.

- Non sei mio padre. - ribatté lei acidamente.

- Smettila di comportarti in questo modo, sei odiosa. - Noah roteò gli occhi e sbuffò.

- Non sono più una bambina, ho ventitré anni. – Ginevra, resasi conto di non avere più l’attenzione dell’avvocato, scese uno scalino – Guardami quando ti parlo. – ne scese un altro, ma lui non la calcolò di striscio – Che diavolo – Noah girò lo sguardo verso di lei e dalla sua espressione si rese conto che qualcosa non andava.

- È buio.- sussurrò.

- Eh? – Ginevra alzò un sopracciglio, sempre più confusa.

- Non possiamo scendere. – indicò il fondo delle scale con il dito tremante. Ginevra mosse un passo indietro ed osservò quel punto così buio. In cuor suo sapeva perfettamente cosa stesse accadendo, di film sui fantasmi ne aveva visti a bizzeffe. Quelle situazione erano la norma del classico lungometraggio con presenza sovrannaturali.

- Non possiamo scendere. – ripeté lei, traendo un grosso sospiro. Si voltò, dando le spalle a Noah, ed arrivò nel pianerottolo della porta blu – Allora dobbiamo salire. – afferrò la maniglia ed aprì la porta il più velocemente possibile, conscia che farlo piano l’avrebbe solo fatta spaventare di più.

- Aspettami. – Noah, saltellando sugli scalini, la raggiunse e le andò dietro – È pericoloso andare da soli. – disse, con il solo intento di smorzare la tensione.

- Cerca solo di non essere una palla al piede. - Noah non poté far altro che scuotere la testa. Non era cambiata per nulla.


 

- Siamo rimasti solo noi. – disse Delfina poco dopo che Noah e Ginevra ebbero lasciato la stanza. Guardò da prima Brodie, fermo in piedi in un angolo della stanza, e poi lasciò gli occhi per un istante su Abbey, ancora seduta nella parete opposta a quella del ragazzo.

- Che facciamo, gli andiamo dietro? – resasi conto che quei due non sembravano intenzionati a prendere l’iniziativa, Delfina capì che era tutto nelle sue mani. Avrebbe volentieri evitato, ma non aveva molte altre possibilità. Anche se aveva paura, doveva per forza agire o, quantomeno, provarci.

- Non li sento più. – disse Brodie rimanendo fermo con lo sguardo rivolto verso la porta d’ingresso.

- Sono andati di sopra. – replicò la mora, per poi alzarsi in piedi.

- No, non li sento proprio. Sembrano spariti. – spiegò meglio il ragazzo – Quantomeno dovremmo sentire i passi per la casa, è fatta di legno. – Delfina, che di architettura non se ne intendeva poi così tanto, diede per buone le sue motivazioni.

- Secondo te dove sono finiti? – capiva perfettamente che quella discussione aveva dell’assurdo, perché stavano parlando del niente come se fosse il tutto. Da pazzi, pensava.

- Questo non te lo so dire. – Brodie scosse la testa – Non te lo so dire. – ripeté, mentre guardava le travi del soffitto. Neanche lui era sicuro di quello che aveva detto prima, la sua era stata una supposizione logica che, tuttavia, sapeva non avere alcun fondamento.

- Li ha rapiti. – finalmente Abbey si smosse dal suo stato catatonico – Dawn li ha fatti scomparire, ve lo dico io. – portò di nuovo le mani sui capelli castani e guardò Brodie con le lacrime agli occhi.

Delfina capì cosa doveva fare. Si avvicinò alla castana e la prese per i capelli, portandola ad urlare per il dolore. La trascinò con forza fino al divano e, una volta giunta vicino ad esso, sbatté la sua testa contro il bracciolo e si avvicinò alla sua faccia.

- Smettila, dannazione. Sei più insopportabile di quanto già non fossi prima. – disse, scandendo le parole una ad una. Abbey, tremante, non accennò ad una singola mossa. Stette immobile finché non trovò il coraggio di spostare la testa per poter vedere Brodie negli occhi che stava osservando la scena senza muovere un dito.

- Fuori il colpevole. – quella voce, la stessa che avevano sentito quando erano nel giardino, giunse di nuovo alle loro orecchie. Fu solo dopo quella frase che tutti capirono che, volenti o nolenti, avrebbero dovuto risolvere quei problemi che avevano fra di loro, quegli stessi problemi che per sei anni avevano lasciato marcire all’interno delle loro teste e che, avevano creduto, si fossero estinti.

Il loro vaso di Pandora era pronta ad essere scoperchiato.


 

ANGOLO AUTORE:

Salve, qui è il Lavottino del futuro che vi parla! Ebbene sì, questa storia non verrà lasciata inconclusa, anzi, a dire il vero l’ho quasi finita. Sto concludendo il capitolo 9 e, a breve, inizierò il 10, che è l’ultimo.

Ho deciso di pubblicare i capitoli solo dopo aver portato la storia a buon punto, così da darvi la possibilità di leggere i capitoli tutti assieme e, soprattutto, di spingere me stesso a finire il tutto in tempo.

Le uscite saranno settimanali, ogni Venerdì avrete un capitolozzo da leggicchiare con calma e, possibilmente, una tazza di tè.

Prima di lasciarci, voglio darvi giusto qualche piccola dritta sulla storia: ci sono i fantasmi, ma non sono così importanti, se vi aspettate la mia storia tipica (con splatter e quant’altro) temo che questa non vi piacerà affatto. Ho cercato di rendere questa storia la più matura (si fa per dire) possibile, non si parla più di ragazzini che si uccidono per cercare di sopravvivere, ho voluto provare qualcosa di più profondo.

Wow, mi sento il Leopardi delle storie ad OC…

comunque sia, questo è quanto. Ci vediamo Venerdì prossimo con un nuovo capitolo!

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


filefoto

Disegno di: reginaZoey1999


Clara ed Aya erano finite nella camera da letto dei coniugi Medrek. Lo avevano intuito per via del grosso letto matrimoniale lì presente e, soprattutto, perché ormai avevano accettato il fatto che quella fosse a tutti gli effetti la casa di Dawn.

All’interno della stanza c’era un armadio in legno nero, due comodini, uno alla sinistra e uno alla destra del letto, una scrivania con sopra tanti fogli sparpagliati, una macchina da scrivere ed un piccolo scaffale tutto rigato nel quale erano incastrati malamente degli album fotografici.

C’era anche una finestra, chiusa e con le serrande abbassate. Clara provò subito ad aprirla, ma non ne fu in grado. Non ci rimase nemmeno sorpresa, si aspettava quello ed altro.

- Siamo chiuse qua, immagino. – indicò la porta, facendo cenno ad Aya di provare ad aprirla. La mora fece come richiesto, costatando che la porta fosse bloccata. Clara si massaggiò le tempie scuotendo la testa – Dovevo restare a casa mia, cazzo. Dovevo restare lì. – si buttò di peso nel letto, lasciando che le ciocche del caschetto le coprissero parte della vista.

Riusciva a vedere un pezzo di soffitto ed il lampadario che ballava sulla sua testa. Sbatté gli occhi due volte, poi sentì il rumore delle molle ed il letto abbassarsi leggermente. Non ebbe bisogno di vedere cosa stesse accadendo, già lo sapeva: Aya si era stesa accanto a lei.

- Non sei cambiata per niente. – sussurrò Clara, senza ancora rivolgerle lo sguardo – Eppure sono passati sei fottuti anni. – si spostò una ciocca dalla fronte e si voltò verso di lei. Errore fatale. Rimase ipnotizzata dagli splendidi occhi celesti di Aya. Erano come una calamita per lei, nonostante volesse convincersi che non fosse affatto così.

Il suo respiro si fece più affannoso e venne colta da un’irrefrenabile voglia di avvicinarsi alle sue labbra. Lo stava per fare, ma trovò dal nulla la forza per riportare gli occhi sul lampadario, che ancora non accennava a smettere di muoversi. Ad aiutarla fu il pensiero che per tutti gli anni delle superiori l’aveva accompagnata e le aveva permesso di non lasciarsi andare ai suoi più nascosti istinti animaleschi: lei era omofoba.

Si diceva così quando per strada le capitava di incontrare una qualche ragazza di bell’aspetto che, per un motivo o per l’altro, attirava la sua attenzione. Non le importava il fatto che le sbavasse letteralmente dietro, si convinceva del fatto che lo stesse facendo per poter giudicare negativamente tutte le persone omosessuali.

Le riteneva anormali nella sua sua testa, solo lì. Dal vivo non si azzardava a dirlo, perché il suo personaggio era quello della ragazzina anticonformista che per cercare di distinguersi dalla massa andava contro il sistema imposto dalla società. Eppure non riusciva ad accettare se stessa come lesbica, quello proprio non le andava di traverso.

Fumava erba, saltava le lezioni, si ubriacava, ma non riusciva a fare quel passo in avanti che il suo corpo sembrava desiderare così tanto. Era vittima di se stessa e delle sue paure.

E le emozioni di odio-amore che provava nei confronti di Aya erano tutte da ricercare all’interno di quel contesto: per certi versi la trovava estremamente eccitante ed era felice di averla attorno, per altri la odiava perché le ricordava quello che non voleva credere di essere.

In gioventù riusciva a bilanciare quelle emozioni, ma dopo sei anni che non la vedeva propriò non ci riuscì. Forse per colpa dello stress o, molto più probabilmente, per colpa della poca quantità di Xanax che aveva in corpo.

- Ti odio. – il respiro di Clara iniziò a farsi più affannoso – Ti odio. Ti odio. Ti odio. – si girò verso di Aya e le cinse le mani attorno al collo. Serrò la presa sempre con più forza, mentre l’altra cercava di liberarsi. L’intera stanza incominciò a vibrare.

- Perché continui a tentarmi in questo modo? – disse Clara. Aya la guardò dritta negli occhi costatando quanto fossero arrossati – Rispondimi, dannazione! Mi devi rispondere. – Clara aumentò la forza della stretta ed affondò Aya contro il materasso con foga sovrumana. Ad ogni sua parola l’intensità delle vibrazioni si faceva sempre più forte, tanto da raggiungere il livello di vere e proprio scosse sismiche.

- Parla! – ormai il volto di Aya era completamente rosso, segno che non sarebbe riuscita a resistere ancora per molto. Stava per svenire quando, per colpa delle scosse, il lampadario cadde finendo sopra di entrambe. Le travi di legno colpirono la schiena di Clara, mentre Aya venne scheggiata dai pezzi di vetro delle lampadine che, per colpa della caduta, erano andate in frantumi.

- Cazzo! – urlò Clara, per poi scendere con difficoltà dal letto tenendosi la testa ferita. Si appoggiò al muro, mentre le scosse si fermavano lentamente quasi come se fossero state causate proprio dal suo scatto di ira – Mi servono quelle maledette pillole. – solo in quell’istante si ricordò di aver lasciato la borsa con dentro tutti i suoi medicinali nella macchina. Batté con foga un pugno sul pavimento e cacciò un urlo disperato. Era nel pieno di una crisi di astinenza e, per quello che aveva potuto provare sulla sua pelle, non era nemmeno una delle più gravi che aveva avuto.

- Basterebbe anche un joint. - Clara si afferrò i capelli con forza e si morse un labbro. Era da tanto che non fumava ed in quell’istante avrebbe volentieri sacrificato un braccio per avere un solo grammo di erba. Aveva smesso proprio la sera dell’incidente. In quell’anno maledetto, Clara aveva THC nel sangue ventiquattro ore su ventiquattro.

Fumava talmente tanto che non le faceva più effetto, al punto da diventare una semplice sigaretta un po’ più costosa. Ed il giorno in cui quella dipendenza si dimostrò fatale fu proprio quello in cui Dawn Medrek morì. Perché, forse, se non avesse portato l’erba Brodie non avrebbe fumato e lei non avrebbe spaccato i fanali dell’auto.

Aya rimase ferma sul letto ricoperta dai piccoli frammenti di vetro. Sentiva del sangue scorrerle lungo la guancia, ma non aveva le energie sufficienti per asciugarsela. La gola, Clara le aveva messo le mani attorno alla gola. Il punto proibito, quello che le ricordava con orrore tutte le violenze che aveva subito in passato. Portò una mano proprio lì e fece scorrere lentamente le dita lungo la pelle chiara.


 

Fin da che ne avesse memoria, Delfina aveva sempre provato un amore morboso nei confronti di Brodie. L’essere stati, per quasi vent’anni, vicini di casa e figli di una coppia di amici aveva senz’altro aiutato la cosa. I ricordi di quando giocavano assieme nel giardino di casa sua la riempivano sempre il cuore di amore e di qualche altra emozione mielosa che non riusciva bene ad identificare.

Ricordi di quando lui le aveva regalato un fiore colto in quel giardino per il suo quinto compleanno, o di quando ad otto anni si erano scambiati un tenero bacio al calar del sole dopo una giornata passata a giocare all’allegra famiglia – e durante la quale Delfina aveva, letteralmente, costretto Brodie a darle quel maledetto bacio che l’avrebbe rinchiusa nell’illusione di poter davvero vivere per sempre al fianco di quell’uomo da lei tanto amato – o quando erano andati al mare e lì Brodie le aveva offerto un gelato, pagato con i soldi di sua madre, ma a Delfina poco importava della cosa.

Ed infatti Delfina non aveva mai visto di buon occhio il rapporto fra Brodie ed Abbey che, seppur travagliato e pieno di litigi, le era sempre parso fin troppo indissolubile. Ci aveva provato in diversi modi a spezzarlo, aveva addirittura offerto la sua prima volta a Brodie che, dal canto suo, si era limitato a rimanere fedele alla fidanzata senza nemmeno cercare di cadere in tentazione.

Il primo incontro fra Abbey e Brodie era accaduto alla quindicesima festa di compleanno di Delfina. A quella festa aveva invitato tutta la sua classe, di cui Abbey faceva parte, e qualche amico di famiglia, fra cui il tanto amato Brodie.

Delfina si era accorta subito del colpo di fulmine che aveva coinvolto i due, le era bastato davvero poco. Lei era vestita con un lungo abito sfarzoso giallo fatto su misura per lei, eppur Brodie non aveva occhi che per quella ragazza tutta acqua e sapone con i jeans ed un top rosso. Brodie e Abbey avevano passato tutta la festa a parlare fra di loro, sotto gli occhi furenti ed invidiosi di Delfina che mai si era perdonata quel fatidico errore.

Era proprio quello il ricordo che aveva davanti mentre teneva i capelli di Abbey e la guardava con occhi tutt’altro che dolci. Era convinta che si sarebbe spinta anche più in là di un semplice strattone, perché Brodie non aveva proferito parola davanti a quella scena, anzi, era rimasto impassibile come se non gli importasse nulla di quanto stava accadendo alla castana.

Però poi quella voce era intervenuta ed Abbey aveva approfittato della cosa per spingerla via con un braccio ed andarsi a riparare dal lato opposto della sala.

- Fuori il colpevole. – disse la voce, con tono talmente gelido da farli rabbrividire. Delfina guardò Brodie, bianco in volto come non lo aveva mai visto, ed Abbey, che non sapeva da chi si dovesse guardare le spalle.

- Di che cazzo sta parlando? – Delfina portò gli occhi sul tetto, dal quale sembrava provenire la voce, ed iniziò a girellare su se stessa alla ricerca di una cassa o di un qualche amplificatore. Solo vedendo un oggetto del genere sarebbe riuscita a calmarsi. Tuttavia, non ce n’era alcuna traccia.

- Moriremo tutti. – Abbey tornò alla posizione di poco prima, accovacciata al muro con le braccia sulla testa.

- Brodie, che dobbiamo fare? – se della sorte di Abbey non aveva poi tanto interessa, Delfina voleva assicurarsi che Brodie non fosse nelle stessa situazione della castana. L’assenza di una risposta non fu un buon segno - Per favore, Brodie. Rispondimi. – si avvicinò al ragazzo e gli pose una mano sulla guancia. Era gelida. Se non avesse battuto gli occhi di tanto in tanto, Delfina avrebbe giurato che fosse morto.

- Voglio andare a casa. – sussurrò il ragazzo qualche istante dopo. Delle lacrime argentee incominciarono ad uscire dai suoi occhi – Non voglio più stare qui. – Brodie iniziò a tremare. Scostò bruscamente la mano di Delfina e si avviò ad ampie falcate verso uno dei mobili.

- Che cosa stai facendo? – domandò Delfina, sempre più preoccupata. Anche Abbey portò lo sguardo su di lui, rimanendo in silenzio religioso.

- Voglio uscire! – Brodie afferrò con forza il mobile e lo spinse per terra, facendo cadere tutte le foto ed i vari oggetti sopra di esso che, inevitabilmente, si ridussero in piccoli frammenti di vetro e di coccio. Brodie era andato completamente in panne, si era risvegliata in lui quella forte oppressione che in sei anni era riuscito a tenere a bada grazie ai farmaci e alle numerose sedute con la sua psicologa.

Pestò con forza i vari oggetti, fino a ridurli in brandelli talmente piccoli da risultare quasi invisibili. Aveva già avuto scatti d’ira come quello in passato, soprattutto dopo l’incidente di sei anni prima, ed era da tanto che non gli capitava. Sapeva come fermarsi, ma doveva ritrovare la lucidità per qualche istante e, vista la situazione, dubitava di riuscirci. Gli occhi di Brodie si focalizzarono sulle foto sul muro che, una ad una, incominciò a staccare per spaccarle per terra con foga.

- Fermati, ti prego! – Delfina provò ad avvicinarsi, ma ciò non fece che aggravare le cose. Nella mente Brodie, completamente soggiogata da quell’attimo di pura follia, la ragazza apparve con le sembianze di uno dei paramedici che erano soliti iniettargli lo Xanax con le siringhe.

- Stammi lontano! – senza pensarci due volte, la colpì sullo zigomo con un pugno facendola finire sulle schegge presenti sul pavimento. Fatto ciò, Brodie iniziò a capirci sempre di meno. La realtà e la fantasia si mischiavano nella sua testa come luci ed ombre. Prima vedeva il paramedico, dopo Delfina stesa per terra.

Preso dal panico e dalle allucinazioni, dette una forte testata contro il muro. Non soddisfatto, ne dette un’altra e poi un’altra ancora. Il dolore sembrava attenuare quel peso soffocante che sentiva nella gola. Più si faceva male e più il mal di testa, paradossalmente, diminuiva.

- Fermati Brodie. – avrebbe continuato fino a morirci se non avesse sentito delle braccia cingergli dolcemente il tronco – Per favore. – Abbey, con la testa affondata nella sua schiena, lo stava stringendo più forte che poteva con la speranza di riuscire a calmarlo. Si aspettava di tutto, dall’essere picchiata a sangue al finire uccisa, invece non accadde nulla di tutto ciò.

- Scusami Dawn, scusami. – Brodie si girò, ricambiò l’abbraccio e, lentamente, scivolò con la schiena sul muro, finendo per imbrattarsi la maglietta con il suo stesso sangue, portando Abbey assieme a lui. I due finirono abbracciati seduti sul pavimento, con la faccia dell’uno scavata nel collo dell’altro. Fu in quell’istante che Brodie trovò la lucidità per prendere il barattolo con dentro le pastiglie di Xanax dalla sua tasca. Ne prese una e, dopo averla mandata già, guardò con un nodo alla gola il barattolo: gliene restava soltanto un’altra.


 

Il padre di Ginevra, Steven McPherson, era da sempre stata una figura di riferimento per Noah. McPherson era un avvocato di gran classe, ligio al dovere e con delle spiccati doti comunicative che lo rendevano uno dei più grandi, se non addirittura il migliore, dell’intera nazione.

Noah ricordava perfettamente l’emozione che aveva provato quando proprio quello Steven McPherson, che tanto rispettava, gli aveva chiesto personalmente di passare sotto la sua ala protettiva. Era stato proprio in quel periodo che aveva conosciuto Ginevra, la nevrotica e talentuosa figlia di Steven che, secondo tutti, sarebbe stata la sua perfetta erede.

Ginevra, al tempo appena tredicenne, non era affatto come i suoi coetanei, passava il tempo a leggere libri di politica internazionale e di economia, mentre nel tempo libero si dilettava nello scrivere lei stessa dei saggi su quelle materie tanto complicate da essere quasi incomprensibili ai più.

Era stato proprio quel comportamento così fuori dalla norma che aveva lasciato Noah stupito. Rivedeva in lei il se stesso del passato, quello che se ne stava in disparte a leggere mentre gli altri giocavano a dodgeball.

Quel Noah ventiseienne rimase talmente tanto stupito da quella ragazzina che ne studiò il comportamento come se fosse stata un fenomeno scientifico.

Noah aveva poi avuto modo di verificare le abilità di Ginevra qualche anno dopo, quando il signore McPherson aveva insistito affinché aiutasse Noah in un’udienza particolarmente complessa. Lì l’aveva vista in tutto il suo splendore. Era tutta suo padre, non poteva negarlo.

Fu proprio quell’ammirazione nata dal profondo del suo cuore che lo aveva portato a diventare quasi un tutore acquisito della ragazza, che con il tempo aveva imparato a vederlo come un padre. Almeno fino all’incidente, lì quel bellissimo castello fatto di diritto pubblico ed ammirazione reciproca era crollato inesorabilmente.

Nonostante tutto, Noah non riusciva ad essere troppo duro con lei, anzi, cercava di trattarla nella maniera più umana che riusciva.

- Stai bene? – le chiese, mentre a piccoli passi attraversavano il lungo corridoio nero nel quale erano finiti dopo aver superato la porta blu. Attorno a loro era tutto buio, ad illuminare la strada c’era solo qualche lampadina, che si accendeva e spegneva ad intermittenza, a distanza di qualche metro l’una dall’altra.

- Non preoccuparti per me, non ho più quindici anni. – rispose Ginevra, parecchio stizzita.

- E chi si preoccupa, ma vista la situazione in cui siamo mi sembra il minimo chiedertelo. – Noah alzò le spalle e si lasciò andare ad un lungo sospiro. Ginevra era ancora arrabbiata con lui, di questo ne era certo. Nonostante fossero passati diversi anni la ragazza serbava ancora rancore e Noah, che la conosceva bene, se lo aspettava.

- Sto bene. Mai stata meglio. – disse Ginevra, usando un tono acido nella speranza di troncare la conversazione. Ma Noah non mollava l’osso così facilmente.

- Vedi una qualche uscita? – l’avvocato si guardò attorno: ai lati erano rinchiusi all’interno di un muro verdastro pieno di crepe.

- No, sembra un corridoio infinito. – Ginevra non distolse gli occhi da davanti nemmeno per un secondo, continuò imperterrita a proseguire dritta senza accennare a diminuire il passo.

- Cavolo, non ci sto capendo più niente. – Noah scosse la testa.

- Non prendermi in giro, ti conosco troppo bene. So che hai già capito in che situazione ci troviamo, smettila con questi discorsi trasversali. Non sono in vena di giocare ai vecchi amici che non si vedono da tempo. – Ginevra ci aveva preso in pieno. Noah era un cinico approfittatore senza scrupoli e sicuramente non era un’idiota. Si era reso conto da un bel pezzo di cosa stava accadendo, più o meno da quando aveva rischiato di venire azzannato da quel fantasma. Noah non credeva ai fantasmi, ma non era neanche così stupido da sostenere la sua tesi anche se questa si rivelava fallata.

- Sto cercando di metterti a tuo agio. – disse ruotando gli occhi e lasciandosi andare ad un grosso sospiro.

- Smettila con queste sciocchezze, non ho bisogno che tu lo faccia. – lo bacchettò lei, molto stizzita.

- D’accordo, come vuoi tu. – Noah alzò le mani in alto come segno di resa – Almeno ti sei accorta che le mura si stanno stringendo? Sai, non vorrei finire spiaccicato come una sardina. – Ginevra rallentò leggermente l’andatura e da ciò Noah capì che non se ne era accorta.

- Ma certo, per chi mi hai presa? – mentì spudoratamente, pensando anche di averla fatta franca – Infatti ci conviene muoverci. – aumentò la velocità dei passi.

- Agli ordini. – Noah non riuscì a trattenere una risata. Non sapeva perché stare assieme a Ginevra gli facesse quell’effetto, solitamente tendeva a comportarsi da capo con tutti, ma a lei lasciava il lusso di comportarsi come se fosse superiore. Proprio come un padre con suo figlio.


 


 

ANGOLO AUTORE:

Capitolo 3. (che nel mio PC è segnato come 4, ma vabbè)

saltano fuori un po’ di background dei nostri personaggi. E, soprattutto, la bellissima relazione fra Clara ed Aya viene resa leggermente più chiara.

Adoro Aya perché l’OC è lo stesso di Care Project, ma l’ho completamente ribaltato e ne ho tirato fuori un personaggio diametralmente opposto. Sarò onesto, mi piace più così che nella sua versione scienziata pazza.

Anche Clara è parecchio interessante, così come Ginevra.

Devo specificare, in particolare ai creatori di questi OC, che i background dei loro personaggi sono stati praticamente riscritti da zero per fargli intrecciare al meglio con la narrativa della storia. Insomma, ho usato gli involucri che mi avete dato per farli interagire fra loro un po’ come accadeva in “The Bus”, ma dando piena centralità al loro rapporto rispetto al lato slasher.

Importante citare anche il “triangolo”, se così lo possiamo definire, Abbey-Brodie- Delfina, che nella mia testa non è affatto un triangolo ed andando avanti capirete bene il perché.

Detto ciò, ci vediamo Venerdì prossimo!

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


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Disegno di: reginaZoey1999


Dopo aver preso la pasticca, Brodie era riuscito a calmarsi. Quella dose di tranquillante in circolo nel suo corpo gli aveva dato la carica per riuscire a resistere ancora per un po’. A dir il vero non sapeva ancora per quanto, dopo anni di somministrazione di quel farmaco ne era diventato dipendente al punto di dover assumere quasi una decina di pastiglie al giorno, perciò, con una sola pasticca al suo seguito, non sapeva proprio quanto sarebbe potuto durare.

- Che situazione. - sussurrò Abbey, per poi appoggiare la testa contro il muro. I due, dopo lo sfogo del ragazzo, si erano messi seduti per terra per paura di essere nuovamente bloccati dal divano.

- Abbastanza anomala. - confermò Brodie. Portò gli occhi verso il divano, sul quale c’era ancora sdraiata l’inerme Delfina. L’aveva colpita con tale forza da metterla al tappeto. Si sarebbe dovuto scusare e, per quanto ciò gli sarebbe tornato assai difficile, comprese di doverlo fare per forza.

- Non mi sarei mai aspettata di finire in un luogo del genere dopo sei anni. Dannazione, ho preso la laurea e sto lavorando, neanche mi ricordavo dell’incidente. - menzogna. Se ne ricordava perfettamente, come del resto gli altri. Lo diceva solo per cercare di tranquillizzare se stessa, quella che ogni tanto faceva le ore piccole ripensando a cosa avesse fatto.

- Quell’università che ti aveva preso? - domandò Brodie con tono stupito.

- Sì, quella. Ho studiato lingue per tre anni, poi mi hanno fatto fare uno stage ed ora sono una dipendente di spicco della “MacLean bookshops”. - spiegò soddisfatta.

- La “MacLean bookshops”? Cavolo, ne hai fatta di strada. - Brodie le applaudì con fare molto colpito. La castana non riuscì a trattenere una risata, era da un sacco di tempo che non conversava così liberamente con lui.

- Sono addetta al marketing e al settore di vendite. - specificò con tono altezzoso.

- E pensare che non ti davo una lira. - scherzò Brodie. La pasticca aveva completamente cancellato tutte le sue preoccupazioni, riusciva a parlare con Abbey come se nulla fosse stato.

- Oh, ma smettila! Stavi tutto il tempo a dirmi che sarei diventata una scrittrice famosa in tutto il mondo. - Abbey gli dette un pugnetto sulla spalla.

- Infatti non lo sei diventata, era solo per metterti pressione. - ricevette un altro colpetto, che venne seguito dalle risate di entrambi.

- Piuttosto, tu sei sempre nell’esercito? - domandò Abbey. Brodie non rispose, rimase fermo con lo sguardo fisso verso il vuoto – Volevi entrare nell’aeronautica militare, se non ricordo male. - specificò lei, accortasi del ritardo nella risposta.

- Non sono entrato nell’esercito. - tagliò corto, facendole capire di non voler dire altro. Dopo l’incidente aveva sostenuto le visite mediche, ma non era riuscito a passare quelle psicologiche per colpa del trauma riportato quella fatidica sera. Così aveva iniziato ad andare da una psichiatra e ancora, a distanza di sei anni, non era riuscito ad uscirne.

Abbey boccheggiò per qualche secondo, convinta che fargli sputare il rospo fosse la scelta migliore. Aveva capito che era successo qualcosa, lo aveva capito perché non era affatto difficile capirlo. Conosceva Brodie e sapeva che quell’atteggiamento chiuso ed introverso non era da lui. Nell’esatto momento in cui aprì la bocca, venne però anticipata da Delfina.

- Brodie? - domandò, mentre con fatica si tirava su dal divano. Sentì le mani pizzicarle e, dopo un’attenta occhiata, si rese conto di avere dei piccoli pezzi di vetro conficcati nelle carni. Gettò gli occhi sul pavimento ed identificò, in particolare, un punto con qualche goccia di sangue per terra che combaciava con quello in qui era stata atterrata da Brodie. Là attorno c’erano diversi frammenti e pezzi di cornici sparsi per le mattonelle.

Dopo aver stretto i denti, si tirò su e si avvicinò ai due.

- Delfina stai bene? - domandò Brodie. Mentre la guardava i suoi occhi tendevano ad abbassarsi per la vergogna.

- Sì, mi fanno solo un po’ male le mani e la faccia. - si massaggiò lo zigomo, sul quale aveva ricevuto il pugno, lasciandovi una striscia di sangue.

- Mi dispiace, non ero in me. - si scusò il ragazzo, evitando di guardarla.

- Non fa nulla, in una situazione del genere è normale essere stressati. - Delfina si piegò sulla ginocchia e gli sorrise dolcemente.

- Brodie, riguardo al discorso di prima – Abbey cercò di concludere l’indagine che aveva in testa, ma si trovò davanti due muri immensi. Il primo si chiamava Brodie ed era fatto di cemento, il secondo, che era il più alto e resistente, si chiamava Delfina ed era interamente in acciaio inossidabile. E se forse, con tanta pazienza, il primo sarebbe riuscita ad abbatterlo, con il secondo non aveva possibilità.

- Ancora parli con lui? - Delfina le dedicò un’occhiata gelida, sovrastando quello che la castana stava provando a dire – Dopo tutto quello che gli hai fatto osi ancora parlargli? - la mora strinse i pugni, noncurante del dolore.

- Di cosa stai parlando? -

- Se abbiamo fatto quell’incidente è stata tutta colpa tua! - Delfina si fece un passo vicino ad Abbey.

- Colpa mia? Ti sei bevuta il cervello? - la castana sbatté gli occhi ed accennò ad una risata. Sentì un brivido freddo lungo la schiena.

- Lo hai costretto tu ad accompagnarti. - replicò Delfina.

- Ragazze, calmatevi. - Brodie provò ad intervenire, ma venne sovrastato dalla mora.

- No, Brodie. È giunto il momento di mettere le cose in chiaro. - fece un altro passo in avanti – Smettila di parlare con lui. Smettila di guardarlo. Sparisci completamente dalla sua vita. -

- Va a farti fottere. - Abbey si tirò su.

- Se quella sera ci fosti andata tu a farti fottere, noi non avremmo avuto tutti questi problemi. Sei solo una stronza egoista. - Delfina urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Quelle parole così cattive ed aggressive se le teneva in corpo da sei anni. Perché in quel lasso di tempo, nel quale Brodie era sparito dalla sua vista, aveva accumulato una quantità di frustrazione e rabbia tale da portarla quasi all’esaurimento nervoso.

Non le interessava di quanto le sue accuse fossero infondate e ingiuste, voleva soltanto vedere quella sgualdrina che le aveva rubato l’uomo ridotta a pezzi, voleva vederla schiacciata dal peso del suo errore. Un peso che, fra l’altro, aveva valore solo nella testa di Abbey.

Abbey iniziò a respirare sempre più rapidamente. Non riusciva più a ragionare con calma, la sua mente era annebbiata dalle parole di Delfina che, come un cancro inguaribile, la stavano corrodendo. Guardò Brodie, che non sapeva cosa dire, anzi, sembrava quasi godere di quella situazione.

Perché Abbey sapeva di essere colpevole, sapeva di aver sbagliato e sapeva di essere in torto marcio, ma lo sapeva a momenti alterni. A volte si convinceva di aver fatto un crimine gravissimo per cui meritava la morte, altre volte di non aver fatto nulla di così grave, che era stata tutta colpa dello svolgersi degli avanti. Sia per quanto riguardava quello che tutti sapevano, sia per quello che conosceva solo lei.

Ma lì, nella casa di Dawn e con Brodie davanti ai suoi occhi, non poteva mentire a se stessa. A quell’omicidio, volente o nolente, lei aveva preso parte in maniera attiva.

 

Aya veniva picchiata da suo padre. Questo non era sconosciuto nel quartiere in cui abitava, perché troppo spesso le sirene della polizia suonavano sotto casa di quell’uomo abbandonato dalla moglie e con una figlia a carico.

Nonostante tutto, Aya appariva agli occhi dei vicini come una bambina solare, piena di vita e, soprattutto, con una voce bellissima. Quest’ultimo punto, in particolare, era quello che la rendeva famosa nel piccolo sobborgo in cui viveva. La sua voce, delicata come un usignolo ed estremamente orecchiabile, era ascoltata da tutti con gioia perché riusciva ad incantare l’orecchio di chiunque la sentisse.

La voce di Aya era così bella ed unica che un’istruttrice di canto si era addirittura proposta di farle delle lezioni gratuitamente, così che la piccola bambina potesse permettersi di migliorarsi ancora di più.

Suo padre Albert non aveva avuto da ridire, il suo lavoro di scrittore lo portava a desiderare il silenzio assoluto all’interno della casa e l’assenza della figlia per lui non era che una manna dal cielo.

Così, ogni Lunedì, Martedì e Giovedì dalle quindici e trenta alle diciannove Aya era impegnata assieme alla signora O’Halloran, la sua istruttrice di canto, ed in quel frangente Albert scriveva le pagine del suo libro.

Pagine che, nonostante le lunghe ore passate in solitudine, continuavano a rimanere vuote. Blocco dello scrittore, così lo chiamava lui. Un blocco dello scrittore che lo aveva colpito da quando sua moglie se n’era andata qualche anno prima.

La soluzione a quel problema l’aveva trovata nell’alcol e nella violenza. L’alcol, prevalentemente Whisky di scarsa marca, riusciva ad annebbiarlo per qualche ora, poi si svegliava e veniva sopraffatto dalla frustrazione quando vedeva che sullo schermo del computer non c’era che una singola frase scritta in quattro ore.

La possibilità di sfogarsi gli veniva data dalla figlia che, tornata dal canto, aveva l’abitudine di canticchiare alcune canzoni per allenarsi. Così Albert usciva, prendeva Aya e la picchiava, sfogando ogni suo fallimento sul corpo inerme di sua figlia.

Tutto questo per sette lunghi anni.

Poi, quando Aya compiette tredici anni, le cose cambiarono. Era una giornata buia, di quelle in cui le nuvole coprono il sole per tutto il tempo e la luce a fatica riesce ad illuminare.

Aya era tornata dal canto e, come suo solito, cercava di stare in silenzio per evitare di venire picchiata. Era diventata abbastanza brava, riusciva ad aggirarsi per la casa stando ben attenta a non fare il minimo rumore per evitare che suo padre uscisse fuori con la giusta scusa per picchiarla. Riusciva addirittura ad evitare di venire picchiata per ben tre giorni su sette, in questo modo aveva meno da preoccuparsi dei lividi violacei che le ricoprivano il corpo e che la costringevano, anche d’estate, ad indossare lunghi maglioni e collant.

Eppure quella sera le cose non andarono come previsto. Suo padre era dentro il suo studio che osservava la pagina bianca e lei, come una spia in missione, era andata in cucina per bere un bicchiere di succo.

Aya prese il succo all’ace dal frigorifero e lo appoggiò sul tavolo in legno nero, poi avvicinò una sedia, stando ben attenta a non strusciarla, all’anta contenente i bicchieri, che non riusciva mai a raggiungere per colpa della sua bassa statura.

A fregarla fu una ciotola di vetro. La stessa ciotola che quel pomeriggio, prima di uscire di casa, aveva frettolosamente messo a posto per evitare di essere in ritardo alla lezione di canto.

La ciotola, appoggiata ad un calice e tenuta ferma dall’anta, cadde non appena la ragazza aprì lo sportello. Batté sul lavandino e poi finì sul pavimento sgretolandosi in una marea di piccoli frammenti trasparenti di varie dimensioni.

Il rumore, secco e acuto, arrivò facilmente alle orecchie di Albert, che non sembrava aspettare altro.

Quando Aya sentì il rumore dei passi dalla stanza accanto iniziò a preoccuparsi. In fretta e furia mise a posto la sedia e cercò di prendere la scopa più vicina, ma Albert fu più veloce.

- Che cazzo hai combinato? - domandò, con il suo tono lagnoso e basso. Puzzava di alcol, come ogni giorno. Quell’odore sgradevole puntellava le narici di Aya, costretta dall’ansia del momento a respirare velocemente.

- S-Scusa papà, h-ho fatto cadere una ciotola. - spiegò, con voce tremante – N-Non ti preoccupare, m-m-metto s-subito a posto. - fece per afferrare la scopa alla sua destra, ma Albert la anticipò schiaffeggiandole il braccio.

- Lo sai che papà a quest’ora lavora. - disse, scandendo bene le parole – E sai altrettanto bene che a papà non piace essere disturbato mentre lavora. - parlò piano e cauto, talmente tanto da far spaventare Aya ancora di più.

- Scusami papà. - sussurrò lei abbassando la testa e chiudendo gli occhi. Sentì la mano dell’uomo appoggiarsi delicatamente sulla sua guancia.

- Non fa niente, cerca di fare più attenzione la prossima volta. - Albert la guardò negli occhi con un sorriso dolce. Aya, invece, lo osservò incredula, non riusciva a credere a quello che stava vedendo.

- Va bene papà, scusami ancora. - il padre lentamente ritirò la mano e si voltò per tornare in camera. Fu in quel breve tragitto che quel piccolo miracolo finì in frantumi.

Albert poggiò il piede destro in avanti e, dopo averlo appoggiato sul pavimento, lo ritirò su di scatto urlando.

- Ahia, dannazione! - tirò su il piede, coperto solo da un calzino grigio,e vide il sangue macchiare il tessuto ed iniziare a colare per terra. Si guardò la ferita senza dire nulla per qualche secondo, poi gettò le pupille su Aya e, con un’espressione da mostro in volto, le andò addosso.

- Brutta puttana! - caricò il pugno e fece per colpirla in volto. Solitamente Aya tendeva a non reagire, a rimanere inerme mentre suo padre si sfogava su di lei. Eppure quella volta provò a scappare, si fece indietro di mezzo passo e ciò non fece che peggiorare le cose.

Nel mettere un piede indietro, Aya schiacciò con il tallone un vetro che le fece perdere l’equilibrio. Il pugno di Albert, da prima indirizzato verso lo zigomo sinistro, la colpì in pieno sulla trachea.

Aya cadde per terra colta da un dolore fortissimo. Iniziò a tossire finché del sangue non iniziò ad uscirle dalla bocca. Tentò di chiedere aiuto, ma non riusciva a parlare. Più i secondi passavano e più i colpi di tosse ed il sangue continuavano ad aumentare.

Albert, preso dal panico, fu costretto a portarla all’ospedale.

Quell’avvenimento, in un certo senso, le salvò la vita. Perché già dal giorno dopo la sua custodia venne passata alla nonna che, viveva nello sperduto paesino di Wawanakwa, ma al tempo stesso fu l’inizio della sua rovina.

Ricordava perfettamente le parole dell’infermiera quando si era svegliata nel letto dell’ospedale il giorno dopo.

- La cartilagine della trachea ha forato le corde vocali. Dubito che la sua voce tornerà come prima. - aveva detto alla nonna, che era corsa in fretta e furia a verificare le condizioni della nipote.

E così fu. Non importava quanto Aya ci provasse o quanti medici la visitassero, la sua bellissima voce divenne solo un lontano ricordo. Il tono adesso era rauco e basso, come quello di suo padre dopo che aveva bevuto troppo.

Come il tono del padre che l’aveva privato dell’unica cosa che aveva di prezioso: il canto.

 

Clara, non senza qualche difficoltà, si era ripresa dalla crisi d’astinenza. Il colpo ricevuto dal lampadario l’aveva riportata alla normalità, senza quello avrebbe senz’altro ucciso Aya.

Aveva già sperimentato crisi in passato, anche peggiori, ma mai aveva aggredito una persona in quel modo. Inoltre il fatto che assumesse le pasticche senza avere la prescrizione del medico non la aiutava. Infatti, era solita rubarle a sua nonna che, malata di alzheimer, la mandava a comprarle in farmacia.

Era in quel modo che riusciva a contenere i pensieri che ogni sera non la facevano dormire. Del resto, dei sei coinvolti solo una riusciva ad addormentarsi senza problemi.

- Devo andarmene da qui. - Clara si alzò dal pavimento e si diresse verso la porta. Afferrò la maniglia e la spinse verso il basso, sorridendo quando sentì lo scatto della serratura.

Spalancò la porta e si trovò davanti un corridoio. Le scale erano completamente sparite. Mosse un passo in avanti e si guardò attorno per tranquillizzarsi. Non c’era nessuno. Buttò un occhio verso la stanza e vide Aya sdraiata sul letto con entrambi le mani appoggiate sulla gola.

- Che hai intenzione di fare? Dobbiamo darci una mossa. - le fece cenno di seguirla e lei, dopo qualche attimo di esitazione, si alzò e le andò dietro.

- Già ti dico che non so dove cazzo andare, entro nella prima porta. - Clara sospirò, poi si portò davanti alla prima porta del corridoio davanti a lei. Anche in quel caso, attese qualche secondo prima di aprirla.

Respirò affondo, recitò qualche preghiera ipocrita, chiuse gli occhi e poi abbassò la maniglia.

Quando riaprì le palpebre si trovò davanti ad un bagno bianco, con il pavimento in piastrelle di ceramica bianche, il gabinetto bianco, la doccia bianca, ma tendente al giallastro, ed un armadio bianco con annesso specchio sopra il lavello bianco dal rubinetto argentato.

Clara non perse tempo, si gettò davanti allo specchio ed iniziò ad aprire tutti gli scaffali alla ricerca di una pastiglia qualsiasi. Non le importava di che tipo fosse, voleva soltanto ingerire qualcosa di amarognolo che per qualche ora l’avrebbe allontanata da tutti i suoi problemi.

Ormai era diventata dipendente da quel sapore acre, quasi acido, che le impastava la bocca e le scioglieva le preoccupazioni.

Mentre cercava si guardò allo specchio: era in condizioni pietose: occhi vitrei, occhiaie, tracce di sangue sul volto e capelli tutti scompigliati. Un vero e proprio mostro. Aveva assolutamente bisogno di qualcosa che la ritirasse su. Riprese a cercare con ancora più foga.

Cottonfioc, cerotti, spugne, lamette per la barba, qualche Oki, ma nessuna traccia di pasticche di alcun tipo, nemmeno delle semplici aspirine. Guardo le tre bustine di Oki e, seppur con fare riluttante, le prese e le appoggiò sulla lavatrice lì accanto. Strappò una bustina e ne fece colare la polvere biancastra, che poi, con l’aiuto di una lamette per le unghie che aveva in tasca, raddrizzò fino a farla diventare una riga più o meno dritta.

E lì, sotto lo sguardo confuso e sconvolto di Aya, tirò con il naso la polvere come fosse stata cocaina. Dopo averlo fatto si tirò su di colpo e si appoggiò alla lavatrice con il fiatone.

Sulle prime provò a non far caso ad Aya, ma ogni volta che i loro occhi entravano in collisione sentiva il bisogno impellente di giustificarsi. Non le fu per nulla facile, ma vedere quegli occhi così belli rattristiti le spezzò il cuore. Quei dannati occhi che la soggiogavano in continuazione.

Clara rise, appoggiò le mani sulla lavatrice ed iniziò a tamburellare con le mani sulla superficie ferrea della macchina.

- Sono una drogata del cazzo. - disse, con un falso sorriso ironico in volto – Se non mi prendo una decina di pasticche al giorno non riesco a tirare avanti, finisco come prima. - indicò nella direzione della stanza dalla quale venivano.

Aya la guardò sbattendo gli occhi. Clara non riusciva a capire cosa stesse pensando e ciò la mandava in crisi.

- Ho lasciato la fottute pasticche in macchina. - spiegò mordendosi un labbro – Perciò mi tocca attaccarmi a questa merda. - si portò una mano sulla fronte e scosse la testa – Se arriverò a trent’anni sarà per miracolo. - sorrise, ancora una volta per finta.

Aya le si avvicinò e l’abbraccio stringendola forte. Affondò la testa, che arrivava all’altezza del seno di Clara, in lei ed iniziò a respirare affannosamente.

- Proverò a non ucciderti più, va bene? - ironizzò Clara, questa volta sorridendo per davvero. Per tutta risposta, Aya le detto un piccolo pugno sullo stomaco.

- Ehi, stavo scherzando. - sbottò Clara asciugandosi il naso che aveva iniziato a colare sangue.

 

Ginevra aveva preso a correre tutto d’un tratto. Noah aveva provato a dirle che quello non era affatto il miglior modo di comportarsi, ma alla giovane futura avvocatessa quelle parole erano entrate da un orecchio ed uscite dall’altro.

Poteva sembrare una presa di posizione, una scelta di non fare come suggeritole da Noah per una pura ragione egoistica, eppure il comportamento della ragazza aveva radici più profonde.

Era tutto dovuto ad un episodio della sua infanzia che le aveva reso poco simpatici i luoghi stretti ed angusti.

La notizia della tentata rapina a casa McPherson era stata scritta su tutti i giornali al tempo, perché per poco non si era rischiato un massacro.

Quella sera, durante la notte, erano entrati all’interno della grossa tenuta in campagna della famiglia quattro ladri che avevano messo a ferro e fuoco l’abitazione.

Avevano preso in ostaggio alcune domestiche ed il cuoco della mansione e avevano fatto esplicita richiesta che fosse consegnata loro la cassaforte contenente tutti i soldi e gioielli dei McPherson.

Per paura che alla piccola Ginevra venisse fatto del male, una delle domestiche la nascose all’interno di uno degli armadi della sua cameretta.

Ed era nato proprio in quel luogo il trauma di Ginevra, quando quell’armadio, da sempre poco stabile, cadde in avanti e lei si trovò bloccata là dentro.

Ci vollero delle ore prima che qualcuno andasse a liberarla, ovvero il tempo che la polizia impiegò per arrestare i criminali e permettere quindi alla domestica di recuperare la bambina.

Tutto era andato per il meglio, tranne che per Ginevra. Il ricordo di quello spazio stretto, buio ed angusto le rimase impresso per il resto della sua vita.

Col senno di poi, fu proprio questa sua paura a mettere a repentaglio la vita di entrambi. Questo perché più Ginevra correva e più le mura si restringevano. Non sentiva neanche le urla, sempre più forti, di Noah che cercava invano di farla calmare. Ginevra correva a perdifiato senza sapere dove stesse andando, con il solo scopo di non sentire più il muro ruvido che le sfiorava le braccia.

Poi, dopo immensi minuti di corsa folle, vide una piccola luce in lontananza. Fu in quel preciso istante che rischiò davvero di ammazzare Noah.

Ginevra corse, corse come non aveva mai fatto prima e si lanciò nella piccola porta alta poco più di mezzo metro senza neanche guardarsi alle spalle.

Noah, invece, si ritrovò parecchio indietro con le mura che pian piano premevano contro di lui. Lo vide anche lui quella piccola entrata lucente e per poco quella non fu la sua ultima visione.

Era un fumatore, i suoi polmoni, dopo tutta quella corsa, non riuscivano più a filtrare bene l’aria. Eppure lui, al costo di farli esplodere in un milione di pezzi, corse ancora più veloce.

Riuscì a lanciarsi, letteralmente, all’interno della porta e, dopo aver sentito il rumore delle mura che si andavano ad infrangere l’una contro l’altra, cacciò un lungo respiro di sollievo.

Sollievo che non durò molto, giusto quei brevi secondi che impiegò a ringraziare tutte le possibili divinità sulla terra ed a maledire suo cugino Dave quando, all’età di diciassette anni, gli aveva presentato il tanto odiato tabacco.

Fatto ciò, arrivò il momento di prendersela con la vera responsabile della sua mancata morte.

- Ma ti ha dato di matto il cervello? - Noah tirò su la schiena e la guardò mentre continuava a respirare affannosamente.

- Che? - chiese lei, ancora visibilmente scossa.

- Per poco non mi ammazzi. - l’indiano batté un colpo sul pavimento.

- Siamo salvi, basta questo. - Ginevra si alzò da terra e cercò di ricomporsi.

- No, dannazione, non basta affatto! - Noah fece lo stesso – Forse non hai ben chiaro il contesto. - girò l’indice su se stesso per intendere tutta la casa.

- L’ho chiarissimo. - ribatté lei con una punta di acido.

- Non mi sembra. - Noah alzò la voce – Ti ho gridato di rallentare per quasi cinque minuti, ho perso la voce. - si toccò la trachea.

- Chi se ne frega della tua voce. - Ginevra batté un piede sul pavimento.

- Sei solo una bambina viziata. - sbottò l’avvocato con i nervi a fior di pelle.

- Però con questa bambina viziata ci hai scopato. - sputò Ginevra. Capì immediatamente di aver toccato un tasto dolente, perché Noah, da prima furente e voglioso di spuntarla, sembrò ritrarsi tutto d’un tratto. L’indiano boccheggiò per un po’, senza riuscire a ribattere.

I ricordi degli anni prima, soprattutto quelli inerenti alla sua vita privata, incominciarono ad intasargli la testa. Da quando aveva conosciuto il signor McPherson a quando, qualche anno dopo, era andato a letto con sua figlia ancora minorenne.

Con voce tentennante, Noah provò a replicare.

- Quello è stato uno – a rinvenirlo fu un brusio proveniente dalla sua tasca. Inizialmente fece fatica a sentirlo, per colpa dell’adrenalina ancora in circolo, ma alla fine costatò dovesse trattarsi del telefono.

Lo estrasse, incredulo, dalla tasca e guardò lo schermo.

“Chiamata in corso da: Emma <3”

Ebbe quasi un mancamento. Rispose alla chiamata ed avvicinò la mano tremante all’orecchio.

- Pronto, Emma? Mi senti, sono – non ebbe modo di finire.

- Si può sapere dove cazzo sei finito?! È quasi l’una di notte e sei ancora in giro. Mi avevi detto che saresti tornato entro un’oretta al massimo. - urlò la donna.

- Calmati amore, devo ancora -

- Sai che sono incinta, non farmi prendere questi spaventi dannazione. Fra meno di una settimana nascerà tuo figlio, vedi di responsabilizzarti. - finalmente accennò a calmarsi.

- Sì, amore, stai tranquilla. Andrà tutto -

- Noah, ci sei? - chiese lei.

- Eh? Certo che -

- Noah, non ti sento. Tutto bene? Eppure la chiamata sembra essere partita. Noah? Noah?! - Noah capì di essere a corto di tempo.

- Emma, ascoltami. Ci devi aiutare, guarda nel mio cassetto c’è una lettera, lì troverai l’indirizzo di questo posto, manda degli – non ebbe modo di finire.

- Noah? Noah?! Oh, che palle, non c’è campo. - Emma riattaccò la chiamata e tutto ciò che rimase a Noah fu quel leggero beep ripetuto nelle sue orecchie.

- Maledizione! - urlò, per poi colpire il muro con un pugno e digrignare i denti. Il tutto sotto lo sguardo confuso di Ginevra, che aveva appena realizzato di aver perso.

 

 

 

ANGOLO AUTORE:

Ed eccomi qua! Partiamo subito da Aya: beh, che dire… sono fiero del mio lavoro. L’idea di renderla muta è nata – lo ammetto – dalla mia poca voglia di farla parlare quando l’ho presentata, ma ben presto è diventata un’idea cardine della storia.

Clara la amo esteticamente, infatti nella scena dove sniffava l’Oki (non fatelo a casa, mi raccomando) ho adorato immaginarmi i suoi movimenti.

Adesso inizia la saga Abbey vs Delfina, ne vedremo delle belle (si spera) ;-)

E poi ci sono Ginevra e Noah che… beh, penso l’abbiate capito.

Detto questo, ci vediamo alla prossima!

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


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Disegno di: reginaZoey1999


- Allora Brodie, ormai sono anni che ci conosciamo. Onestamente, penso che tu abbia fatto grandi passi in avanti. - la psicologa prese il fascicolo rosso dalla scrivania ed iniziò a sfogliarlo leggendolo con attenzione – Abbiamo fatto davvero un ottimo lavoro. - 

- Grazie mille, dottoressa. - Brodie si guardò le mani, che teneva intrecciate fra loro, e portò lo sguardo verso la donna, ancora impegnata nel leggere. Lei, resasi conto dell’occhiata ricevuta, alzò la testa e gli sorrise.  

- Chiami pure Zoey, te l’ho detto un sacco di volte. - disse, mentre con una mano si sistemava i capelli rossi raccolti in due boccoli.  

- Ancora la notte non riesco a dormire bene. - ammise Brodie, rivolgendo lo sguardo verso la finestra. Non riusciva a dire quelle cose guardandola negli occhi, sentiva un forte peso all’altezza dello stomaco che non gli permetteva di farlo.  

- È normale. Purtroppo difficilmente riuscirai a rimuovere il trauma dalla tua testa. - Zoey sospirò e chiuse il fascicolo – Quello che devi fare è imparare a conviverci. Lo so che è difficile, ma devi provarci. - la psicologa lo guardò dritto negli occhi. Aveva imparato a conoscerlo, sapeva che anche se il suo sguardo non era puntato verso di lei lui l’ascoltava.  

- Cosa mi consiglia di fare? - tenne gli occhi ancora puntati verso il panorama che vedeva dal sedicesimo piano del palazzo.  

- Potresti visitare i luoghi della tua infanzia. - propose – Oppure – si fermò, non del tutto convinta di quello che stava per dire.  

- Oppure? - la invitò lui. - Oppure puoi provare a parlare con quel ragazzo. - rimase sul vago, perché sapeva che Brodie avrebbe perfettamente capito di chi stesse parlando: Scott Wallis, il fidanzato di Dawn Medrek, ovvero il ragazzo che lo aveva picchiato a sangue all’uscita della scuola qualche giorno dopo l’incidente, quando ancora Noah non era entrato nel processo e non aveva potuto provare la sua fittizia innocenza.  

- Non sono pronto. - scosse la testa e portò gli occhi sulle sue scarpe. Ricordava quel giorno, aveva permesso a Scott di picchiarlo senza fare nulla, nel tentativo di espiare la sua colpa con il dolore. Ne era uscito con un braccio rotto e più rimorsi di prima.  

- Lo immaginavo. - Zoey sospirò – Brodie, devi fare le cose un passo alla volta. Penso che già tornare nel tuo paese natale possa essere un buon inizio. Dai tempo al tempo e vedrai che riuscirai ad andare avanti. - la psicologa gli sorrise, come era solita fare. Prese poi un foglio ed iniziò a scrivere – Questi sono i farmaci che devi continuare a prendere. Noi ci vediamo il mese prossimo. - glielo consegnò gentilmente. Brodie rimase fermo a leggere quelle righe scritte a mano per qualche secondo. Si alzò lentamente e, dopo aver salutato Zoey con un mezzo sorriso ed un cenno della mano, uscì dalla stanza senza avere la minima idea di cosa fare. 

 

Era stata quella conversazione con Zoey a convincerlo ad andare all’indirizzo segnato nella misteriosa lettera. Aveva passato notti insonne a decidere se andare o no, ma alla fine era partito. Col senno di poi, se avesse saputo che avrebbe incontrato tutte quelle persone del suo passato, difficilmente ci sarebbe andato. Eppure in cuor suo si sentiva un tantino più leggero, forse per via degli psicofarmaci, forse perché sentiva di star almeno provando a redimersi. 

Infatti, vedere Abbey vessata dalle accuse di Delfina aveva scatenato in lui sentimenti contrastanti: una parte di lui era felice di vederla allontanarsi, un’altra avrebbe voluto raggiungerla per tenerla stretta a se. Non sapeva quale delle due prevaleva, sentiva solo questa enorme diatriba all’interno della sua testa come un confronto a fuoco fra due fazioni. Era un gusto agrodolce, di questo ne era certo.  

Perché che aveva amato Abbey ne era sicuro, sull’odiarla no. Era stato tutto un insieme di fattori che lo avevano portato ad allontanarsi da lei e da Wawankwa. Abbey ci aveva provato a chiamarlo, a scrivergli, addirittura a telefonare ai suoi genitori, ma Brodie non l’aveva minimamente considerata. Nella sua testa, vedere Abbey era come vedere Dawn, senza alcuna distinzione. Sarebbe bastata qualche accortezza in più, magari ricordare al ragazzo che non era tutta colpa sua, ma Abbey non lo fece mai, perché, almeno in facciata, lei aveva rimosso quell’incidente e faceva di tutto pur di non ricordarlo.  

E fu proprio quel tentativo di vivere in una bellissima teca di vetro che allontanò Brodie, troppo occupato a combattere a pugni contro i rimorsi, da lei.  

- Io non vi ho costretti a venire. - Abbey provò a difendersi come poteva. Mentendo, fra l’altro. Quella frase, tuttavia, era menzogna soltanto per Brodie. Effettivamente, Abbey aveva costretto Brodie ad accompagnarla, ma lo stesso non si poteva dire delle altre, che avevano scelto di loro spontanea volontà di venire alla festa. Clara per divertirsi, Delfina per provarci con Brodie, Ginevra per staccare dalla sua vita fatta di studio-lavoro. Addirittura, Aya si era aggregata a loro al ritorno. Perciò, a conti fatti, quelle accuse non erano che un castello di sabbia destinato a crollare.  

- Senza di te non ci saremmo andati. - le argomentazioni di Delfina iniziavano a perdere di forza. L’unica cosa che la teneva in piedi era la sua rabbia e la sua voglia di dilaniare la rivale in amore che aveva davanti, oltre che il pensiero di star facendo ciò che il suo amato voleva. 

- Questa è una grandissima cazzata. - obiettò Abbey, che pensò di poterla spuntare – Non c’entra nemmeno niente con quello che stavi dicendo. - concluse, intrecciando le braccia all’altezza del petto. Forte dell’esitazione della mora, Abbey provò ad attaccare a sua volta, così da poter porre fine a quello stupido teatrino.  

- Non fare l’altezzosa con me, stupida oca. - Delfina iniziò ad offendere, conscia di star perdendo colpi. 

- Oh, forza, smettila di sparare stronzate. Piuttosto, ritroviamo gli altri. - Abbey scosse la testa e sospirò. Voleva risolvere quella storia il prima possibile, così da cercare un modo per uscire da quella casa. - Cambi argomento perché sai di essere nel torto. la mora si fece un passo in avanti.  

- No, perché questa conversazione è come il cazzo alle vecchie. - la guardò dritta negli occhi – Totalmente inutile. -  

- Ah, è inutile solo perché si sta parlando male di te, giusto? - Delfina alzò le braccia al cielo – Perché non vuoi che davanti a lui – indicò Brodie – si dica che è tutta colpa tua? Pensavo che dopo sei anni saresti riuscita a crescere, ma evidentemente non è così. - quelle parole uscirono dalla sua bocca come un fiume in piena.  

- Oh, Cristo, quante stronzate sto sentendo. - Abbey le dette le spalle e fece per allontanarsi.  

- Sei sempre stata egoista, ti prendevi tutto quello che volevano gli altri per il puro gusto di farlo e poi scappavi quando la gente te lo faceva notare. Sei la persona peggiore del mondo. - Delfina cacciò fuori tutti i rimorsi e le parole non dette che le avrebbe voluto dedicare gli anni addietro. E per Abbey sarebbe stato facile smontarla, ci avrebbe messo giusto qualche secondo e qualche parola affilata, ma non le fu possibile. Perché quello che diceva era vero, in particolare se razionalizzata all’interno della sua storia con Brodie. Esatto, Abbey si era avvicinata a Brodie solo per fare un dispetto verso Delfina. Sapeva che Delfina amava Brodie alla follia, perché tutti lo dicevano a scuola, e nonostante ciò aveva voluto sottrarglielo senza pietà. Il motivo? Quella famosa festa di compleanno alla quale era stata invitata. Abbey aveva visto tutto quello sfarzo, tutta quell’organizzazione minuziosa e si era sentita umiliata, perché lei mai sarebbe riuscita ad avere una cosa del genere per se. Così, per puro divertimento, ci aveva provato con quel Brodie che Delfina tanto amava e, dopo un rapido scambio di battute, si era resa conto che c’era del feeling tra di loro. Di certo per arrivare ad innamorarsi un po’ ce ne aveva messo, ma nemmeno così tanto. Le erano bastate due settimane passate fra le mani di un ragazzo che, invece del puro sesso adolescenziale, cercava qualcuno con cui confidarsi e di cui potersi fidare. Abbey e Brodie erano stati assieme per due anni, da due settimane dopo la festa di Delfina fino al giorno dell’incidente. A dirla tutta, sulla carta, non si erano mai lasciati. Brodie, dopo quell’avvenimento, non le aveva più rivolto la parola, arrivando addirittura a disertare le udienze in tribunale pur di non vederla.  

- Smettila di provocarmi. - disse Abbey con i denti digrignati.  

- Sto solo dicendo la verità, lurida puttana. 

 - Delfina non indietreggiò. - Dannazione, Brodie, le vuoi dire qualcosa?! - era esplosa Abbey che, sulle prime, nemmeno si rese conto di star invocando l’aiuto del ragazzo. I suoi occhi, da prima gettati rabbiosamente sul moro, si sgranarono sempre di più, sotto lo sguardo confuso di lui. Per un attimo Abbey pensò di essere ancora la sua fidanzata. Per un attimo solo. 

- Che dovrebbe dirmi, che si è lasciato fregare per due anni da te? - la mora rincalzò la dose. 

- No, niente. - Abbey si cucì la bocca quando capì che Brodie non sarebbe intervenuto in quella discussione. Glielo leggeva negli occhi. Però gli occhi non potevano dire tutto, ad esempio tralasciavano il dilemma interno che il ragazzo stava subendo in quel momento. 

- Nemmeno lui vuole avere niente a che fare con te. - gridò Delfina. Quelle urla colpirono Abbey come un martello contro un pezzo di vetro. La castana si sentì crollare per terra. La sua testa le stava giocando un brutto scherzo. Guardò Delfina, poi Brodie ed infine le scale. Sentì la gola secca e delle lacrime pizzicarle gli occhi.  

Era davvero colpa sua quell’incidente? Lo sapeva perfettamente, ma in quell’istante c’era altro ad intasarle la testa, cioè che dopo sei anni non era ancora riuscita a dimenticarsi del ragazzo che l’aveva fatta innamorare e che l’aveva lasciata di punto in bianco senza dirle una parola. Fu proprio per quel motivo che corse dritta verso le scale. 

 

 

- Noah, sono sicuro che tu abbia già sentito quello che è avvenuto due giorni fa. - il signor McPherson entrò nel suo studio di colpo senza neanche avvisare. 

- Si riferisce all’incidente in cui è coinvolta Ginevra? Alla TV non si parla d’altro. - Noah scosse la testa in segno positivo e vide il suo capo fare lo stesso.  

- Esattamente. - McPherson si avvicinò alla sua cattedra e vi appoggiò una cartellina marroncina contenente una discreta pila di documenti – Voglio che tu li guardi attentamente, Noah. - disse poi, invitandolo a leggerli. Seppur esitante, Noah fece come richiesto. 

- D’accordo. - disse, per poi iniziare a sfogliarli. I suoi occhi si spalancavano ad ogni riga che leggeva. Le prove erano schiaccianti, non c’era dubbio: Ginevra ed i suoi amici erano colpevoli. La macchina rotta, le ferite riportate dalla vittima e le testimonianze della pattuglia di quella sera. Tutto coincideva alla perfezione. 

- Ti sei fatto un’idea? - domandò il signor McPherson, che era immobile in piedi al centro della stanza ad osservare il suo miglior dipendente. 

- Sono chiaramente colpevoli. - Noah si lasciò andare ad un lungo sospiro – Diciamo che al massimo si potrebbe dare la colpa solo a chi stava guidando, ma sarebbe alquanto difficile. -  

- Proprio come pensavo. - il capo si avvicinò alla finestra ed iniziò a guardare fuori – Voglio che tu faccia in modo che nessuno di loro venga incolpato. - sulle prime Noah rimase spiazzato, non si aspettava un comportamento del genere da parte del signor McPherson. Lo aveva sempre visto come un uomo risoluto amante ferreo del lavoro che lasciava la vita sentimentale al di fuori delle questioni lavorative.  

- Vuole che salvi sua figlia? - aveva suggerito Noah, con voce sorpresa. 

- Una cosa del genere. - McPherson si prese un secondo per pensare bene a cosa dire – La mia immagine non può essere imbrattata per un simile incidente. Non è tollerabile. - e fu proprio dopo quella frase che si accorse di aver perso Noah. Se prima lo sguardo del giovane era ricolmo di ammirazione e rispetto, adesso era pieno di tutt’altro. Noah si era appena reso conto che quel mondo a cui tanto aspirava era piano di persone senza scrupoli disposte a tutto pur di mantenere la loro immagine. 

- Per cosa lo sta facendo? - chiese l’indiano – Per lei o per sua figlia? - aggiunse, così da non permettergli di sviare la domanda. 

- Ho impiegato anni ad arrivare a questo punto. - guardò Noah dritto negli occhi – Quello che fa mia figlia non mi interessa, almeno finché non mi reca danni. - concluse McPherson.  

- Quindi di Ginevra non le interessa. - Noah afferrò la penna accanto a lui ed iniziò a giocarci. 

- Non ho detto questo. - il capo scosse la testa – Comunque sia, non è tuo interesse. Io ti sto affidando un lavoro e tu devi fare come ti dico. Sono stato chiaro? - il tono intimidatorio di McPherson lasciò Noah interdetto.  

L’indiano gettò gli occhi sul fascicolo e ci pensò attentamente. Quei ragazzi erano colpevoli, ergo avrebbe dovuto mentire per salvarli. Ce l’avrebbe fatta? Oh, certo che sì. Era il migliore in circolazione, avrebbe sconfitto qualsiasi avvocato d’ufficio che Wawanakwa gli avrebbe posto davanti. Ne valeva la pena? Si era sempre detto un avvocato senza rimorsi, ma quella era la prima volta che un caso del genere gli si presentava davanti. Poteva scegliere la strada della verità, ma ciò lo avrebbe sicuramente portato ad un sacco di problemi, McPherson per primo. D’altra parte, mentire gli avrebbe anche consentito di salvare Ginevra. Poi, solo a quel punto, si ricordò dei soldi, ovvero il motivo principale per il quale era diventato un avvocato. Trasse un respiro e chiuse il fascicolo con un gesto secco. Odiava quando gli dicevano cosa dovesse fare, ma quella era senza ombra di dubbio l’occasione della sua vita. 

- Va bene, ci penso io. -  

 

 

Dopo la chiamata di Emma nella stanza era sceso il silenzio. Noah era troppo occupato a pensare alla moglie e al pargoletto che a breve sarebbe nato, mentre Ginevra aveva la testa intasata proprio dall’indiano che aveva al suo fianco. Perché, seppur lo odiava per essere sparito senza farsi sentire per sei lunghi anni, nel profondo sperava ancora di poterlo avere tutto per se e quando lo aveva rivisto si era ripromessa di riuscirci. Noah era acido, noioso e cinico, ma innegabilmente competente e ciò lo rendeva un marito perfetto, soprattutto per lei. Era l’unico che era riuscito a tenerle testa. Eppure lo aveva perso per colpa di una stupida insegnante di diritto che Noah aveva conosciuto durante gli studi in una conferenza indetta proprio dal padre di Ginevra e proprio per quel motivo provava un profondo odio verso di lui. 

- Quindi fra poco diventerai papà. - disse, nella speranza che parlare francamente con il diretto interessato potesse portarla a demordere definitivamente. 

- Sì, esatto. - Noah fece l’unica cosa che riusciva a fare bene in quelle situazioni: sospirare. Portò gli occhi verso il muro e scoppiò in una risata ironica. Sapeva perfettamente dove quel discorso sarebbe andato a parare. 

- Sempre con quella donna, immagino. - disse Ginevra, senza paura di essere troppo intrusiva. Ormai aveva poco in cui sperare, le conveniva giocarsi tutte le sue carte senza esitazioni. 

- Immagini bene. - Noah si grattò la testa. Sul lato giuridico era imbattibile, ma quando si parlava di relazioni interpersonali o amorose era un vero e proprio inetto. 

- Fra quanto nascerà? - domandò lei. 

- Qualche settimana, non lo sappiamo di preciso. - scosse la testa – Io dovrei essere lì in questo momento. - si dette un colpo sulla fronte.  

- Non sappiamo quando usciremo di qui. - Ginevra si guardò attorno. 

- Non sappiamo se usciremo di qui. - rettificò lui, con una punta di acidità. Ne seguì un breve silenzio che fece comprendere all’indiano quanto Ginevra stessa si sentisse in difficoltà a parlargli. 

- Quindi di noi cosa rimane? - Noah sentì gli occhi della ragazza addosso, come se stessero dilaniando le sue carni con degli artigli affilati. 

- Niente, Ginevra. - si alzò da terra e si pulì i pantaloni con le mani – Non rimane assolutamente niente. Ormai è passato parecchio tempo, io mi sono fatto la mia vita e tu la tua. -  

- Io ti ho cercato per questi sei anni. - Ginevra non riuscì a trattenersi – Non mi hai mai voluta vedere. Hai ignorato tutte le mie chiamate e i miei messaggi. - strinse i pugni con forza. Era vero, Noah lo sapeva benissimo. Più volte aveva detto alla sua segretaria di non rispondere a quelle chiamate che, soprattutto dopo la causa, si susseguivano di continuo. Perché Noah non voleva più avere niente a che fare con quella storia, ma soprattutto non voleva avere nulla a che fare con il signor McPherson. Aveva capito che lo scopo di quell’uomo era di farlo sposare con Ginevra, così da poterlo usare a suo piacimento. E questo non gli andava bene. Noah voleva essere il migliore in assoluto e per esserlo non doveva avere nessuno alle sue spalle e nessun punto debole. Fu propria la sua rigida fedeltà a quel suo credo che lo portarono a chiudere definitivamente la porta a Ginevra. Amava Emma, ma ancora di più amava la sua libertà e la sua indipendenza. 

- La nostra relazione è stata un errore. - disse schiettamente, senza darle possibilità di replica. E Ginevra non replicò. Non replicò perché non poteva e, soprattutto, non aveva modo di farlo. Avrebbe potuto urlare, gridare, dimenarsi ed anche aggredirlo, ma cosa ne avrebbe guadagnato? Una caduta di stile senza fondo. Provò, tuttavia, a rispondere per non lasciargliela vinta così platealmente. 

- Resta comunque - La porta si aprì all’improvviso con tale violenza da rischiare di crepare il muro. Sia Noah che Ginevra portarono gli occhi verso Abbey, appena entrata e con il fiatone. La castana rimase immobile con la mano sulla maniglia mentre riprendeva fiato. La prima cosa che fece, ancor prima di guardare i due, fu sgranare gli occhi non appena si rese conto della stanza in cui era entrata. Solo in quell’istante Noah e Ginevra si resero conto delle foto di Dawn appese sulle pareti, del letto rifatto pieno di pupazzi, degli armadi e delle tende tendenti al verdolino. Era proprio la stanza di un’adolescente, un’adolescente che Abbey conosceva fin troppo bene. Forse fu proprio per quel motivo, o per la semplice stanchezza o per i rimorsi, che perse i sensi. 

 

 

 

Clara stava attendendo l’inesorabile crisi che di lì a poco l’avrebbe senz’altro colpita. Non ne aveva certezza, ma sapeva che sarebbe capitata a breve, lo sentiva nel sangue. D’altronde poco poteva fare, era rinchiusa in quella stanza con una piccola nanerottola muta e dai grossi disturbi comportamentali, e l’idea di sniffare in continuazione le bustine di Oki non le sembrava propriamente la migliore in assoluto. Già il naso aveva incominciato a colare sangue, ma fino a quel momento niente di grave. 

L’Oki attenua la sensazione, ma sparisce all’improvviso.”  

Quella frase, che era un tormentone di una sua cara amica abbastanza tossica da essere finita in comunità, le ronzava in testa come un’ape intorno al nido. 

- Senti un po’, Aya – richiamò l’attenzione della ragazza rannicchiata al suo fianco, che inclinò leggermente la testa verso di lei – Perché mi stai sempre appiccicata? - domandò Clara guardandola fissa negli occhi. Aya si prese qualche secondo, poi estrasse le mani dalle grosse tasche della felpa di due taglia più grosse che portava addosso ed iniziò ad utilizzare il linguaggio dei segni.  

- No, no, no, no, frena. - Clara le afferrò le mani impedendole di andare avanti – Sono sei anni che non uso quel linguaggio dei segni del cazzo, non ricordo niente. - le dette un leggero schiaffo sulle dita – Inventati qualcos’altro. - 

Aya ci pensò su per qualche istante. La soluzione le arrivò non appena mise le mani in tasca, da lì estrasse un piccolo blocco note ed una penna, che di solito si portava dietro per quando era costretta a chiedere delle cose ai cassieri nei negozi e che aveva usato per far capire all’autista dell’autobus a quale fermata voleva essere lasciata. Questo perché i segnala fermata a Wawanakwa non funzionavano mai.  

Slipknot” scrisse sul blocco note giallo canarino. Clara alzò le sopracciglia e la guardò senza sapere cosa dire.  

- Sono una band, e quindi? - chiese, intimandola ad essere più chiara. Il volto di Aya si tramutò da serio ad arrabbiato in poco tempo, senza permettere all’altra di capire il perché. Prese la penna e cerchiò la scritta più volte per metterla in evidenza. 

- Scusami, ma continuo a non capire. - la mora scosse la testa – Anzi, ci capisco sempre meno. - Aya, sconfortata, si lasciò andare ad un lungo sospiro.  

- Ehi, dovrei essere io qui ad arrabbiarmi, non tu! - Clara le dette un colpetto in testa, ricevendo una linguaccia come risposta. L’altra strappò il foglio, lo accartocciò e lo lanciò via cercando di farlo cadere nel water senza tuttavia riuscirci.  

“Ho la voce come il cantante degli Slipknot” scrisse poi. L’espressione di Clara, sempre stranita e confusa, fece capire ad Aya di essere davanti ad un vero e proprio pesce rosso. 

- Eh, sono contenta per te. Questo però che c’entra? - Aya si dette una pacca sulla fronte. 

“Me lo hai detto tu” sottolineò la frase con una linea talmente spessa da rompere il foglio. Clara aprì la bocca e spalancò gli occhi, facendole capire che aveva finalmente compreso cosa volesse dire. La memoria di Clara ripescò da uno degli angoli più remoti del suo subconscio un evento accaduto più di sette, se non addirittura otto, anni prima.  

 

 

 

Aya odiava parlare. Odiava parlare perché odiava la sua voce, ma ancora di più odiava dover telefonare il medico. Perché le dottoressa Bridgette, così tanto premurosa con lei, insisteva affinché le parlasse, così da cercare in qualche modo di farle abbattere quel muro di silenzio che Aya si era creata. 

- Qui la dottoressa Bridgette Fairlie, chi parla? - Aya arricciò il naso. Bridgette sapeva benissimo chi fosse, perché lei era l’unica paziente che la chiamava direttamente al telefono cellulare. 

- Sono Aya. - disse, cercando di parlare con il tono più basso possibile e con la mano davanti alla bocca per evitare che qualsiasi altra persona potesse sentirla. Era nel bagno della scuola, ma non poteva sapere se qualcuno sarebbe passato di lì e, visto che all’interno dei gabinetti la connessione era scarsa, era costretta a stare ferma piantata davanti ai lavandini stando alla bella vista di tutte quelle che entravano.  

- Oh, Aya, che piacere sentirti. - quella frase, che andava a creare un brutto gioco di parole che ad Aya non piaceva per nulla, erano le solite con le quali Bridgette la salutava. Non lo faceva a posta, era solo l’abitudine. 

- Ti ho chiamato per la visita di domani. - sussurrò guardandosi attorno.  

- Ah, sì certo. Dimmi pure. - 

- Sarebbe possibile spostarla alle sedici e quindici? Ho una lezione nel pomeriggio, quindi non penso di arrivare in – 

- Cavolo che figata! - un urlo attirò la sua attenzione, costringendola a voltarsi di colpo. Aya sbiancò non appena vide il volto di Clara Deville. 

 La mora fece un passo avanti, portando Aya ad indietreggiare per la paura. Ansia, terrore e voglia di morire iniziarono a crescere in lei. Non voleva essere giudicata per la sua voce, il solo pensiero le faceva ritorcere lo stomaco. 

- Il tuo tono è simile a Corey Taylor quando grida. Che spettacolo! - detto ciò, la ragazza uscì dal bagno canticchiando il ritornello di “Psychosocial” allegramente. 

Aya rimase intontita, non credeva a quello che era appena successo.  

Aya, mi senti? Sei ancora al telefono? - fu Bridgette a riportarla alla realtà. 

- Eh? Ah, sì, ci sono. -  

 

 

Ripensando a quell’avvenimento, Clara scoppiò a ridere. Lo fece talmente forte da doversi mettere le mani sulla pancia per cercare di contenersi, il tutto sotto lo sguardo confuso, quasi offeso, di Aya. Resasi conto del modo in cui la stava guardando, la mora cercò di darsi una calmata.  

- Oddio, scusami è solo che – venne presa nuovamente dalla ridarella – Oh, Cristo, non riesco a – altre risate. Provò di nuovo, e di nuovo e di nuovo, ma non riusciva a smettere. 

 La storia andò avanti per quasi due minuti, dopo i quali le risate si trasformarono in colpi di tosse pian piano sempre più forti. Il prurito alla gola, che era diventato insopportabile, portò Clara a chiedere aiuto, perciò tentò di parlare senza alcun risultato. Boccheggiò per diverse volte mentre Aya, dopo aver poggiato penna e blocco note per terra, le dava dei sommessi colpetti sulla schiena per farla riprendere, ma Clara non riuscì comunque a dire nulla. I colpi si fecero ancora più forti, talmente tanto che Clara si sentiva sbalzata in avanti ogni volta. Poi, all’improvviso, così come era partita, la tosse si fermò e Clara riacquisì il perfetto controllo del suo corpo. 

- Ecco – prese fiato – adesso mi sento molto meglio. - un altro colpo di tosse, sapore metallico sulla lingua ed un rivolo di sangue che le uscì dalla bocca. Poi cadde per terra, segno che l’effetto dell’Oki era finito.  



ANGOLO AUTORE: Dannazione, sono proprio una drama queen! Se non metto un po’ di drammi all’interno di una storia non sono contento… beh, sono le parti che mi piace di più scrivere LOL.  

Quindi, carissimi, siamo giunti ad un punto di svolta: le sottotrame iniziano a dissiparsi e Clara si avvicina sempre più ad una morte lenta e dolorosa. Povera chicca!  

Abbey litiga con Delfina mentre Brodie mangia i pop corn come se fosse al cinema. Per non parlare di Ginevra, che riceve una father-zone. Pesantuccia davvero… 

E poi c’è la piccola Aya… cavolo, sento come se fosse mia figlia. L’aver plasmato il personaggio in questo modo mi da una soddisfazione immensa. Sono fiero di me, una volta tanto. 

Beh, direi che possiamo salutarci. Appuntamento a Venerdì prossimo!  

P.S.: ho aggiunto Zoey per due motivi: 1) perché la amo con tutto me stesso; 2)per evitare che mi venissero in mente collegamenti idioti fra le storie (perché un attacco Moonlight Camp – Care Project – Total Drama Series e House of Memories – The Bus ronvaza fin troppo nella mia testa.) boh, chi lo sa, magari quando mi stancherò di scrivere deciderò di fare un tutt’uno per davvero (anche se ci sarebbero parecchie incongruenze, ma vbb) 

P.S.S.: mi scuso per eventuali errori di stesura del capitolo, ma libre Office oggi non voleva collaborare. 

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


filefoto

Disegno di: reginaZoey1999


Pomeriggi al parco, passeggiate in riva al mare e chiacchierate su una delle moltissime panchine che ricoprivano tutti i punti panoramici più belli di Wawanakwa. Questi erano i ricordi che Abbey aveva della sua amicizia con Dawn. Erano state amiche per un sacco di tempo, dall’asilo fino alle scuole superiori. Abbey ricordava perfettamente quanto adorasse stare assieme a Dawn e quanto si divertiva quando giocavano assieme. Avevano un feeling unico, riuscivano a capirsi semplicemente guardandosi. 

Abbey non aveva più trovato una persona con la quale si intendeva così bene ed era ben conscia che mai ci sarebbe riuscita, perché il loro legame sembrava essere collegato da un lungo filo invisibile che, tuttavia, si era dimostrato troppo dissolubile. 

Il motivo principale per cui Abbey e Dawn avevano smesso di essere amiche fu l’adolescenza, ovvero quel periodo in cui si effettuano i salti di interesse che Dawn aveva sempre rifiutato di fare. Nel gruppetto di amiche di Abbey si parlava di vestiti e di ragazzi, Dawn preferiva altro, come giocare a nascondino o fare pigiama party nei quali parlava di cartoni e di libri fantasy. 

Non è quindi difficile capire il perché le due si erano allontanate. Abbey, come parecchie volte nella sua vita, aveva dovuto scegliere. Quella volta fra la sua migliore amica, quella che riteneva speciale ed unica, e la popolarità. 

Per lei fu parecchio ironico quando realizzò che, col senno di poi, fu proprio quella sua scelta ad uccidere, per vie traverse, Dawn. Se non si fossero mai separate, forse quella sera Abbey non sarebbe andata alla festa e Dawn non sarebbe stata investita. 

Rimorsi a parte, Abbey aveva sempre dato la colpa al destino e alla sfortuna, così da potersi incolpare il meno possibile. Tuttavia ogni volta che vedeva o sentiva qualcosa che parlava di Dawn, come telegiornali che rievocavano il fatto o articoli di giornale che in maniera sadica andava a rileggersi, si dava la colpa di tutto. 

Fu proprio quel condizionamento a farle perdere i sensi, seppur per pochi minuti. Vedere la stanza di Dawn, uguale a come l’aveva lasciata l’ultima volta che ci era stata, le aveva ricordato che quell’omicidio era solo e soltanto colpa sua, che tutti gli altri non erano che pedina mosse dalle sue scelte. Perché Abbey, come parecchie volte nella vita, aveva dovuto scegliere e, come ogni volta, aveva scelto male. 

Quando riaprì gli occhi, vide davanti a se il soffitto che nell’infanzia aveva amato un sacco. C’erano appiccicati numerosi adesivi a forma di stella ed un grosso lampadario con delle pale di legno, al quale il signor Medrek aveva attaccato delle copie in scala dei vari pianeti per far sì che girassero quando le pale venivano attivate. Non poteva dimenticare quel particolare, perché c’era anche lei quando le aveva montate. 

- Abbey, ti sei ripresa? - riuscì a staccare gli occhi dal soffitto solo quando sentì la voce di Ginevra chiamarla. Voltò la testa alla sua sinistra e la trovò seduta sul bordo del letto, mentre alla sua destra c’era Noah. 

- Sì, ho avuto solo un calo di zuccheri. - si tirò su e poggiò una mano sulla fronte, che le faceva ancora male. 

- Non credo. - le disse Noah, facendole prendere un colpo. 

- Ti dico di sì, è da un sacco che non mangio. - tentò di mantenere fede alla sua versione, seppur avesse davanti due belve spietate che erano fin troppo brave nel riconoscere le bugie. 

- Hai detto di essere stata amica di Dawn, vero? - Ginevra non ci girò molto intorno, andò dritta al punto come suo solito. 

- Sì. - rispose Abbey. 

- Vi conoscevate bene? - questa volta fu Noah a porre la domanda. 

- Non proprio. - abbozzò la castana, senza risultare convincente. 

- Dicci la verità. - Ginevra la gelò con un’occhiata e ciò porto Abbey a capire di non dover scherzare con il fuoco. Aveva già mentito durante il processo, farlo anche in quel momento non avrebbe avuto senso. 

- Da piccole eravamo migliore amiche, poi ci siamo perse di vista – si fermò per un istante, perché sentiva ancora la gola leggermente impastata – però, quando è accaduto l’incidente, già non ci parlavamo da due anni. - 

 Avresti dovuto dircele prima queste cose. - Noah scosse la testa e si lasciò andare ad un lungo sospiro. 

- A cosa sarebbero servite? Non penso che c’entrassero molto con il processo. - Abbey si lasciò cadere sul materasso e riportò gli occhi verso il lampadario. 

- Non in quel senso, idiota. - ribatté Ginevra – Quando eravamo fuori dalla casa. Se ce l’avessi detto prima, forse, avremmo agito diversamente. - specificò. 

- Ah, beh, sì, avete ragione. - lo sguardo di Abbey si perse fra Venere e Mercurio. 

- Comunque sia, il danno è fatto. Non possiamo far altro che capire come uscire da qui. - Noah si alzò dal letto ed iniziò a gironzolare per la stanza. 

- Se non erro, quella voce ci ha chiesto di tirare fuori il colpevole. - ricordò Ginevra. 

- Questa cosa non ha senso, siete tutti colpevoli. - Noah poggiò una mano sotto il mento – O, per certi versi, siamo. - scosse la testa. 

- Se siamo già tutti qui, cos’altro potrebbe volere? - domandò Abbey, dando voce a quello che era l’interrogativo che tutti e tre si erano posti nelle loro teste. 

- C’è qualcosa che non sappiamo, qualche dettaglio che ci sfugge. - Noah si morse un labbro e cercò di far ragionare il cervello al meglio che poté. 

- Mancano ancora dei pezzi. - sentenziò Ginevra - Ma chi -  

Sentirono un grosso colpo alla porta, che si ripeté per circa due volte. I loro occhi, sgranati, si focalizzarono sulla maniglia che, ad intermittenza, si muoveva a piccoli scatti. Un altro colpo, poi un altro e, infine, la porta si aprì. 

 

 

Clara cadde a terra di peso. Aya, che fino a quel momento si era limitata a starle accanto per cercare di placare la sua tosse, si fiondò al suo fianco. La mora respirava a malapena ed aveva della bava che, mischiata al sangue, le stava uscendo dalla bocca. Aya ci mise poco a capire cosa le fosse successo: aveva un’altra crisi di astinenza. Cosa poteva fare? Senza le pasticche praticamente nulla. L’unica cosa che le venne in mente fu di uscire dal bagno per cercare aiuto. Corse alla velocità della luce verso una delle tante stanze del corridoio e la aprì con violenza. 

Si trovò davanti allo stesso corridoio di prima e alle sue spalle c’era di nuovo Clara stesa a terra. 

Non perse nemmeno tempo a meravigliarsi della cosa, si limitò ad andare nella porta alla sinistra di quella che aveva attraversato prima, per finire esattamente nello stesso punto. Allora provò quella alla destra, quella accanto a quella a sinistra e quella accanto a quella a destra. Addirittura, quella accanto a quella accanto alla sinistra e quella accanto a quella accanto alla destra. 

Provò anche ad aprire le stesse due volte, ma si rivelò inutile.Stava andando in panne, nella sua testa c’era un piccolo timer immaginario che le diceva di fare presto, altrimenti Clara sarebbe morta. Vedeva i minuti, se ne era data circa cinque, scendere alla velocità della luce nella sua mente. 

Più quel timer scendeva e più l’immagine di Clara morta si focalizzava nella sua testa. Non poteva lasciarla morire, non poteva assolutamente farlo. 

Aprì ancora tutte le porte una ad una, senza riuscire a sbloccare quel labirinto intricato e dispersivo che sembrava non avere alcuna logica. 

Poi, quando il timer era sceso a zero e le sue gambe stavano per cedere, si fermò davanti ad una delle porte, che non riusciva nemmeno più a distinguere. Presa dalla frustrazione, la colpì con una testata talmente forte da farle tremare tutto il corpo. La colpì di nuovo, con più forza di prima. Appoggiò quindi la mano sulla maniglia e si rese conto che non scendeva. Era chiusa. 

Qualcosa, però, le diceva di essere sulla strada giusta. Trattenne il fiato e colpì nuovamente la porta con una testata talmente forte da rischiare di spaccarsela. Poi, con la testa che girava ed un senso di nausea misto a dolore, usò tutte le sue forze per tirare in giù la maniglia che, come per magia, scese e le permise di aprire la porta. 

Entrò di peso, rischiando di cadere, e sentì le lacrime bagnarle le guance quando vide davanti a se Noah, Abbey e Ginevra. I tre, sulle prime esitanti, le andarono incontro. 

- Che diavolo ti è successo? - domandò Abbey, che la aiutò a tenersi su. Aya, ancora nel panico, si discostò ed iniziò a gesticolare. 

- Cosa diavolo sta dicendo? - Noah si girò verso Ginevra. 

- Ah, non ne ho idea. Perché dovrei saperlo? - ribatté l’altra. 

- Che ne so, siete suoi amici. - l’avvocato alzò le spalle e cercò di decifrare tutte quelle mosse fatte con le dita da Aya.  

Aya, per piacere, non stiamo capendo. - le disse Abbey, portandola a fermarsi. A quel punto Aya si mise le mani nella tasca per prendere il blocco note, ma si accorse di non averlo dietro. Lo aveva lasciato per terra nel bagno. Capì quindi di non avere altra scelta. Non avrebbe mai voluto farlo, ma per salvare Clara era costretta. Fece un colpo di tosse e, dopo aver respirato a fondo, parlò. 

- Clara è svenuta, ho bisogno di aiuto. - disse tutto d’un fiato. La sua voce roca e bassa lasciò stupiti tutti che, sulle prime, non seppero bene come reagire. Nessuno di loro l’aveva mai sentita parlare e adesso capivano il perché. 

- Va bene, andiamo. - Noah guardò verso il corridoio davanti a loro, le cui porte erano tutte chiuse – Facci strada. - e così si incamminarono verso quel labirinto confusionario. 

 

 

Abbey se n’era andata da qualche minuto e l’aria all’interno della sala era tornata respirabile. Brodie non sentiva più quella sensazione di tensione e malessere che le litigate gli davano. Non era mai stato un grande amante delle liti, soprattutto perché i suoi genitori spessi si lasciavano andare a disgustose guerra fra di loro con il solo scopo di risultare più forte l’uno dell’altra. Due personalità egocentriche che, inesorabilmente, si andavano a scontrare in ogni occasione. Suo padre un poliziotto, sua madre un’imprenditrice di successo, nessuno dei due sapeva perdere. 

Però non poteva negare che, nel suo animo più profondo, si sentiva elettrizzato quando vedeva due persone litigare, in particolare se era lui stesso la questione della disputa. Aveva quel sano egoismo passatogli dai genitori che, di tanto in tanto, gli piaceva tirare fuori. 

Infatti, si nutriva di quell’aria tossica e pesante, anche se in cuor suo voleva credere di no. A riprova di ciò, non appena le acque si erano calmate un’irrefrenabile voglia di seguire Abbey lo pervase. 

- Vado da lei. - disse, senza aggiungere altro. Fece per muovere il primo passo, ma Delfina gli afferrò la mano. 

- Eh? Sei per caso impazzito? - la mora lo tirò a se di violenza, senza riuscire a spostarlo – Lei ti ha rovinato la vita. - lo tirò ancora. 

- Non mi interessa, voglio andare da lei. - la risolutezza con cui Brodie disse quelle parole fece vacillare non poco Delfina. La mora aveva pensato, visto il completo silenzio del ragazzo durante la discussione, di averlo dalla sua parte, in cuor suo l’aveva sperato con tutta se stessa. 

- No! - gridò, senza sapere cosa altro dire. Le ci volle qualche secondo per riuscire a trovare delle altre parole da abbinare a quell’urlo – Non puoi andare da lei. Tu dovresti stare con me. - lasciò la presa sulla mano di Brodie. 

- Con te? - il ragazzo strabuzzò gli occhi. 

- Esatto! Con me, che ti vengo dietro da quando ti ho conosciuto, che ti ho sempre trattato come un re e che ti ho dato l’anima! - Delfina agitò le braccia, mentre urlava incessantemente contro il ragazzo. La sua faccia si fece rossa ed il suo respiro affannoso. 

- Questo che c’entra? - domandò Brodie, che accennò ad una risata d’incredulità. Delfina inspirò aria con la bocca e lo guardò, facendo in modo che i suoi occhi lo colpissero nel profondo. 

- Dannazione, Brodie. - iniziò, per poi fermarsi subito senza però distogliere nemmeno per un istante lo sguardo da lui – Io ti amo! Ti amo più di quanto quella puttana possa farlo. Ti amo e ti ho sempre amato. - più che una dichiarazione, sembrava una confessione sotto tortura. 

Brodie rimase stecchito, trafitto in due da ciò che aveva appena sentito. Adesso nella sua testa tutte le volte che Abbey gli aveva detto, quando stavano ancora insieme, che Delfina lo amava prendevano senso. Lui non ci era mai arrivato, perché mai aveva pensato a Delfina come ad una spasimante. Per lui non era altro che la sua vicina di casa e migliore amica, che si comportava con fare materno perché si era affezionata. Già, però di mamma ce n’è una e Delfina non era certo sua madre. Ci sarebbe potuto arrivare, ma non gliene era mai fregato molto. 

- Mi fa piacere. - il suo tono non lasciò a Delfina nemmeno la speranza. Parlò con voce mortuaria, come se stesse dando l’ultimo saluto ad un parente passato a miglior vita – Però io amo Abbey. - e lo disse con un sorriso genuino in bocca, come se quei sei anni non fossero passati e lui fosse sempre all’ultimo anno di scuola. Perché, effettivamente, duemilacentonovanta, più o meno, giorni erano passati ed il pensiero che per tutto quel tempo Brodie avesse amato Abbey sembrava utopistico. 

Ma non lo era, non lo era affatto. L’aveva allontanata, era sparito e non si era più fatto sentire, ma questo non significava che aveva smesso di amarla. Se lo aveva fatto, era per stare a posto con la sua coscienza, quella che ogni sera gli ricordava di aver distrutto una vita e, paradossalmente, anche quella delle persone in macchina con lui. 

- Come puoi amarla ancora? - le lacrime, a quel punto, scesero da sole. Delfina aveva accettato il silenzio di Brodie per quei sei lunghi anni, perché anche lei, ovviamente, aveva provato a contattarlo senza ricevere mai una risposta. Però l’aveva presa con filosofia, si era convinta che un giorno l’avrebbe incontrato di nuovo e lo avrebbe avuto tutto per seCol senno di poi, aveva solo sprecato tempo. Aveva atteso ed atteso qualcuno che non la considerava, che non la vedeva più di una semplice amica intima. E questo non poteva accettarlo. 

- Non lo so. - Brodie scosse la testa e sorrise. Stava sottovalutando la situazione senza rendersene conto, non aveva idea della mina carica di esplosivo che aveva a meno di un metro. 

- “Non lo so” non è una risposta accettabile! Se pensi che dopo tutto questo tempo mi accontenterò di una stronzata del genere sei sulla cattiva strada! - gridò Delfina e a quel punto Brodie tornò sulla Terra. Fece fatica a risponderle, ma sapeva bene che fosse costretto a farlo. 

- L’ho sempre amata, ma l’ho capito solo ora. - quella, che pensava essere la risposta più scontata ed accettabile, fu la frase che accese la miccia. 

-L’hai sempre amata?! Hai sempre amato una puttana del genere, che non ha fatto altro che metterti nei casini? - Delfina rise – Preferisci un’idiota del genere a me, che ti sono sempre stata accanto tutto questo tempo. - calciò con violenza il bracciolo del divano. 

- Calmati, Delfina. - il ragazzo provò ad avvicinarsi, ma capì prontamente che non fosse il caso di procedere oltre.  

- No, cazzo, non mi calmo! Tu dovevi amare me, la nostra storia d’amore era già scritta. - fu lei a farsi avanti, costringendo Brodie ad indietreggiare – Avevo già deciso tutto: il nostro fidanzamento, la proposta, l’anello, il matrimonio, il vestito da indossare, il nome di nostra figlia e dei nostri due gemelli, addirittura la casa di riposo in cui saremmo invecchiati assieme! - estrapolò tutte le sue fantasie che fino a quel momento aveva tenuto per se – E scopro che andrà tutto in fumo per colpa stronzetta con le manie di egoismo?! - Delfina si tirò i capelli con talmente tanta forza che rischiò di strapparseli – Tu devi amare me! - gridò a pieni polmoni. Brodie, che delle urla ne aveva abbastanza, esplose. 

- Io non ti amo! - gridò più forte di lei, così da sovrastarla – Non ti amo e non ti amerò mai. Non potrei mai amare una persona come te. - preso dalla foga, colpì anche lui il bracciolo del divano, che si spezzò in due – Sei maniaca, nevrotica e permalosa. - ci aveva provato a contenersi, ma non ci era riuscito. Aveva convissuto con Delfina per abbastanza tempo da rendersi conto di quali fossero i suoi pregi ed i suoi difetti ed in quel momento riusciva a vedere solo quest’ultimi - Vaffanculo, tu ed il tuo matrimonio del cazzo! - la scostò con uno spintone e si diresse ad ampie falcate verso il piano superiore. 

- Bene, vai pure da lei. Va a vivere una vita di merda al suo fianco. Stare con lei ti porterò solo a soffrire, ma te lo meriti. Ti meriti anche tutto quello che hai passato! - ormai era una guerra a fuoco incrociato, Delfina, esasperata e portata allo sfinimento e al logoramento mentale dalle parole di Brodie, iniziò a sputare fuori tutto l’acido che aveva in corpo. Brodie smise di sentire le sue urla, che si alternavano a forti e profondi singhiozzi, solo quando arrivò alla fine della rampa di scale, dove ormai le grida non erano che un leggero eco inoffensivo. 

Si trovò davanti ad una porta rossa che, senza esitazione, attraversò con una certa foga. Stava ancora sbollendo la rabbia, sentiva le mani fremergli ed una voglia incessante di colpire qualcosa o, addirittura, qualcuno. Era arrivato al punto di non avere nemmeno paura del fantasma. 

Poi, all’improvviso, una voce giunse alle sue orecchie e la sua rabbia sparì in un istante. 

Se siamo già tutti qui, cos’altro potrebbe volere? - 

Era la voce di Abbey, non poteva sbagliarsi. Davanti a se Brodie aveva un corridoio con varie porte. Non riuscì a capire da quale di esse provenisse la voce, pertanto si limitò ad andare a tentoni. Aprì una prima, quella nel mezzo, e la trovò vuota. Mise un piede dentro e lo sentì gelare. La temperatura là dentro era sotto lo zero. Entrò dentro, preso dalla curiosità, e sentì qualcosa toccargli la spalla destra. Sulle prime sussultò, poi si rese conto che era la cordicella della luce. La afferrò, rabbrividendo per quanto fosse ghiaccia, e la tirò con un gesto secco. La luce sembrò esitare, ci fu un rapido susseguirsi di luce-buio che non gli permise di vedere bene, solo di distinguere una figura seduta su una sedia. Poi, tutto d’un tratto, la luce si accese. 

Davanti a lui, seduta con le mani sullo schienale e la testa appoggiata sopra di esse, c’era Dawn. O meglio, il cadavere di Dawn. Aveva la testa graffiata, il viso ed i capelli sporchi di sangue, gli occhi vitrei rivolti verso il pavimento, i vestiti completamente imbrattati di rosso e la pelle tendente al bluastro per il freddo. Inoltre la sua gamba destra era piegata in una posizione innaturale, perché quello era il punto dove la macchina l’aveva colpita, Brodie lo ricordava bene.Il ragazzo rimase impietrito, con gli occhi congelati sulle labbra blu di Dawn. Delle nubi di fumo bianche, causate dal suo respiro, iniziarono ad impedirgli di vedere bene. 

Brodie, ti sei dimenticato? - sussurrò Dawn, muovendo appena le labbra. Brodie irrigidì i muscoli – Io non l’ho dimenticato. - gli occhi della bionda si spostarono sempre più in su, fino a puntare contro quelli del castano. 

Brodie. - ripeté Dawn, con tono lagnoso – Perché, Brodie? - a quel punto, il ragazzo non ce la fece più, uscì dalla stanza e chiuse la porta, per poi appoggiarcisi con la schiena. 

Brodie, perché hai bevuto? - riuscì a sentire quella frase, prima di correre a tutta velocità verso un’altra porta. La aprì in fretta e furia, sperando cdi allontanarsi quanto bastava per non dover più sentire la voce di Dawn. 

Quando entrò nella nuova stanza, ebbe un attimo di deja . Però, invece che il cadavere di Dawn, c’era Clara che, stesa per terra, non sembrava passarsela bene. 

- Clara! - le andò incontro e tirò su la sua testa. Aveva un rivolo di sangue e di bava che le usciva dalla bocca, la sua faccia era bianca e gli occhi erano mezzi aperti. 

Capì subito di cosa si trattasse, perché una volta era successo anche a lui: era in crisi di astinenza. Istintivamente portò la mano sulla tasca dei pantaloni. Sentì subito la confezione di pasticche. La tastò per qualche secondo, indeciso sul da farsi. Aveva solo una pastiglia e, a breve, anche lui sarebbe potuto finire in quel modo. 

Cosa fare? Se lo chiese più volte. Aveva due scelte: lasciare Clara morire in quel modo e tenersi la pillola o darla a lei e rischiare lui stesso. 

La tentazione di andarsene era forte, aveva provato una crisi di astinenza in passato ed anche prima ci era andato vicino, perciò sapeva l’orribile sensazione che causava. Si alzò e, quasi in punta di piedi, si diresse verso la porta. Appoggiò la mano sullo stipite e fece per andarsene, quando una vocina nella sua testa, quella che non lo faceva dormire, lo chiamò a se. 

Vuoi farlo ancora, Brodie? - bastò quella domanda. Estrasse il contenitore dalla tasca, prese l’ultima pillola dal fondo e, dopo averla guardata come un cane guarda un biscotto, si avvicinò a Clara. Le aprì la bocca con le dita e le inserì la pastiglia in gola. Gli sembrò quasi di aver inserito una monetina per un vecchio gioco arcade. Uno, due, tre e poi, di colpo, Clara si tirò. Respirò pesantemente per qualche secondo, mentre con gli occhi sgranati guardava davanti a se, poi incominciò a tossire. 

- Merda, che cazzo è successo? - disse, sentendo la bocca impastata. Sia asciugò il sangue e la bava con una mano, con fare molto poco femminile, e poi provò a tirarsi su. 

- Ferma, non mi sembra il caso. - Brodie le mise le mani sulle spalle e la spinse in giù, impedendole di alzarsi. 

- Non sei mia madre. - riuscì a dire lei, anche se all’orecchio dell’altro arrivò come un insieme di parole ciancicate e senza senso. 

- Sì, sì, certo. Sta buona. - la liquidò lui, facendola indispettire. Nonostante non stesse per nulla bene, la sua voglia di discutere era comunque alta come suo solito, al punto che stava per controbattere, ma un forte rumore di passi la interruppe. 

Accadde tutto in un attimo, si ritrovò spinta contro il pavimento e con addosso un Aya piangente che l’abbracciava e singhiozzava come una bambina. Clara non fece nulla, si limitò ad appoggiarle una mano sulla testa e ad accarezzarle i capelli. Brodie guardò la scena, fino a quando non sentì degli occhi addosso. Quello sguardo lo avrebbe riconosciuto fra milioni. Si voltò verso l’ingresso e vide Abbey, appoggiata allo stipite della porta, che lo guardava. Nei suoi occhi leggeva la voglia di parlare, di dire qualcosa, ma sapeva bene quanto le fosse difficile farlo, perché prima Brodie l’aveva lasciata da sola e, giustamente, lei non credeva di averlo dalla sua parte. 

Il castano capì cosa doveva fare: le andò vicino, muovendo i passi con fare incerto, e si fermò a qualche centimetro da lei. La vide boccheggiare, con le labbra che tremavano dalla voglia di esprimersi, ma non ci riuscivano. Allora Brodie prese l’iniziativa. 

- Scusami. - disse, abbassando la testa fino a guardare il pavimento. Non dovette aggiungere altro, perché ad Abbey il messaggio arrivò forte e chiaro. Un secondo, due secondi, poi non riuscì più a resistere. La castana si fiondò fra le sue braccia e lo strinse con forza. 

- Non fa nulla, Brodie. Va bene così. - sussurrò.In quel clima così dolciastro e diabetico, Noah dovette irrompere come la pioggia in un giorno di sole. 

- Scusate se interrompo i vostri momenti magici - iniziò con schiettezza – ma qui c’è da risolvere qualcosa. - roteò il dito su se stesso, poi iniziò a contare – Manca Delfina, giusto? - domandò, ricevendo un cenno sommesso da parte di Brodie. 

- Dove si trova? - chiese Ginevra. 

- Al piano di sotto. - abbozzò Brodie con tono colpevole. 

- Perfetto, allora andiamoci. Dobbiamo indire una bella riunione. - Noah guardò i cinque e, dopo aver fatto cenno con la testa, si avviò verso una delle tante porte, conscio che avrebbe dovuto affrontare un bel labirinto per arrivare a destinazione. 

 

 

ANGOLO AUTORE: 

Ma ciao! Sembrerà strano, ma sto rivalutando questa storia. Cioè, quando l’avevo finita non mi piaceva, la sentivo troppo frettolosa e poco dettagliata. In effetti si poteva fare di meglio, ma ad essere onesto penso sia un prodotto discreto che mi ha divertito scrivere. 

Le tematiche “più adulte” mi hanno permesso di usare i personaggi con un senso, al contrario di quello che accadeva nelle vecchie storie, perciò... beh, in cuor mio sono soddisfatto. 

Spero che voi stessi vi divertiate a leggerla e spero vivamente vi piaccia 😉 

Detto ciò, solita storia: se qualche frase è sovrapposta è colpa di Libre Office, ho provato a sistemare il tutto ma, ehi, nessuno è perfetto. 

Alla prossima! 

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


filefoto

Disegno di: reginaZoey1999




L’agente Brick McArthur era nei guai fino al collo. Quando aveva ricevuto la chiamata che lo aveva informato della scomparsa di una giovane adolescente, mai avrebbe immaginato si potesse trattare di Dawn Medrek. Questo perché la notte prima l’aveva vista lui stesso mentre ritornava a casa a piedi passando per la strada meno trafficata di tutta Wawanakwa. D’altronde, la bella biondina abitava in una casa in aperta campagna e, essendo i genitori privi di un mezzo di trasporto, spesso tornava a piedi, nonostante la distanza di parecchi chilometri.  

Brick ricordava di averla vista passare mentre, fermo nella sua auto a bordo strada, stava ascoltando la radio, che raccontava una storia su un autobus infestato dallo spirito di un bambino. Era talmente preso dalla trasmissione che ebbe un sussulto quando vide Dawn passare proprio davanti a lui come se nulla fosse. 

- Signorina Medrek, dove sta andando? - uscì di fretta dall’auto e le andò in contro. Le piaceva parlare con lei, era una ragazza cordiale e socievole, un po’ svampita, ma che sapeva intrattenere una discussione. 

- Oh, agente McArthur, buonasera. - lo salutò con la mano libera – Sono andata a prendere delle erbe nella foresta qui vicina. - tirò su l’altra mano, con la quale reggeva un cestino pieno fino all’orlo di foglie verdastre. 

- Che cosa ci fai con quelle? - subito Brick pensò male, aiutato dalle voci che giravano intorno a quel luogo. 

- Tisane, tè, camomille. Se essiccate possono essere usate anche come condimento per il cibo. Mia mamma ci prepara un curry delizioso. - afferrò una foglia e la accarezzò lievemente. La poca luce fatta dai fanali dell’auto gli permise di vedere la forma circolare della foglia, che lo portò a tirare un sospiro di sollievo. 

- Vedo che te ne intendi di biologia. - commentò. 

- Sì, ho fatto il test di ammissione all’università di Pakhitew. A breve saprò i risultati. - disse Dawn, con un grosso sorriso in volto. 

- Wow, spero tu l’abbia passato. - la ragazza lo ringraziò con un cenno della testa – Vuoi che ti accompagni a casa? Stanotte è particolarmente buio. - le propose il poliziotto, puntando gli occhi verso la strada, praticamente invisibile, alla sua sinistra. 

- No, si figuri. Conosco bene la zona. - Dawn scrollò la testa in segno di negazione – Grazie lo stesso. Arrivederci, agente McArthur. - detto ciò, la ragazza mosse le dita della mano libera in segno di saluto e proseguì per la sua strada. 

Quella fu l’ultima volta che Brick la vide in vita.  Perché poi tre giorni dopo, a seguito di ore ed ore di estenuanti ricerche, avevano trovato il suo cadavere martoriato in un dirupo lungo quella stessa strada che la ragazza avrebbe dovuto percorrere. 

Dopo il ritrovamento del cadavere, Brick era stato ovviamente interrogato. Aveva ammesso di aver incontrato Dawn e di averle parlato, pertanto era già noto a tutti che in quella storia lui avesse un ruolo di primaria importanza. Era l’ultimo, ad eccezione dell’assassino, ad averla vista in vita, a meno che non fosse stato lui stesso l’artefice. Perché il pubblico ministero aveva subito proposto questa ipotesi, visti vari precedenti simili accaduti nella zona. Non era, infatti, difficile assistere ad omicidi di poliziotti ai danni dei cittadini che venivano nascosti e fatti passare per incidenti o per crimini irrisolti. 

Brick ne aveva avuto la prova con l’agente Tyler Oldring, che era finito al centro di un’inchiesta nella quale fu accusato di aver ucciso un protestante durante una manifestazione a favore dei diritti degli afroamericani. In quel clima di tensioni e di incertezze, Brick capì subito che avrebbe dovuto cercare il prima possibile il colpevole, così da evitarsi un bagno di indignazione pubblica che al novanta per cento lo avrebbe avvolto.  

Così iniziò a parlare al detective incaricato senza peli sulla lingua, andando a dirgli per filo e per segno tutto quello che aveva visto in quella sera: aveva iniziato il servizio alle diciannove in punto, appostando la sua macchina nella piccola strada secondaria che collegava Wawanakwa alle abitazioni confinanti con la foresta, perché di recenti gli era stata segnalata la presenza di numerose operazioni di spaccio lì intorno. Poi aveva ascoltato la radio per quasi due ore, senza vedere nessuno passare di lì, del resto era un martedì sera ed era autunno perciò le abitazioni nei dintorni, che erano principalmente adibite ai vacanzieri, erano tutte vuote. Verso le undici meno un quarto aveva incontrato Dawn, le aveva parlato, offerto un passaggio e, al suo rifiuto, l’aveva salutata. Da quel momento in poi, calma piatta, aveva passato tre ore senza vedere un singolo essere vivente, se non due volpi che aveva tagliato la strada per entrare nella foresta. All’una di notte, quando il suo turno era quasi finito, era passata una macchina che aveva fermato per via dei fanali rotti. Ed i nomi dei sospetti principali del caso erano proprio quelli delle persone presenti nella macchina: Abbey Shale, Delfina Lancaster, Aya Rogers, Clara Deville, Ginevra McPherson e Brodie Harper. 

 

 

E, a quel punto, aveva avuto inizio l’inchiesta. Era stata controllata l’auto dei signori Harper, che aveva dimostrato ammaccature plausibili di un incidente simile a quello avvenuto ai danni di Dawn Medrek, avevano interrogato uno ad uno tutti i ragazzi coinvolti e sembrava stesse andando tutto liscio. Erano colpevoli, l’opinione pubblica ne era certa, ma l’intervento di un solo individuo riuscì a stravolgere completamente il processo, fino a ribaltare il verdetto: Noah Hayden, l’avvocato difensore dei sei ragazzi. 

Noah ricordava alla perfezione il giorno in cui aveva conosciuti quei sei. Si erano presentati nel suo ufficio in gruppo e, dopo averli fatti sedere, aveva provato a farsi spiegare la situazione. Le uniche a parlare furono Ginevra ed Abbey, gli altri erano occupati a fare altro: Brodie si guardava attorno con fare paranoico, Delfina cercava di tranquillizzarlo con delle pacche sulla spalla, Clara sbuffava e ruotava gli occhi in continuazione ed Aya si limitava a stare in silenzio con lo sguardo rivolto verso la riproduzione di uno dei “Girasoli” di Van Gogh che Noah aveva appeso dietro di lui. A conti fatti, era stato un confronto a tre facce, dove le due ragazze più argute del gruppo avevano cercato di impacchettare, con l’aiuto di Noah, la perfetta versione da dare al pubblico ufficiale, così da venire assolti. 

In quel periodo Noah era un avvocato brillante ma alle prime armi, eppure riuscì a districarsi fra il codice penale, aiutandosi con menzogne varie, fino a raggiungere un risultato perfetto. Addirittura, l’avvocato disse ai ragazzi, uno per uno, cosa dire durante le deposizioni. Proprio grazie a questa meticolosità di Noah, il processo filò liscio come l’olio. Ci fu qualche svarione di Brodie, che per ben tre volte non si presentò alle udienze, e diversi problemi con Aya, che si rifiutò categoricamente di parlare, ma alla fine riuscirono nell’intento. A pagarne furono soltanto Brodie, che ricevette un’accusa per guida in stato di ebrezza, una sanzione per aver portato con se un totale di sei persone e per aver guidato con i fanali rotti, e l’agente McArthur, che venne sospeso dal suo incarico e risultò agli occhi dell’opinione pubblica il probabile autore dell’omicidio. Noah pensò anche che potesse esserci di mezzo lo zampino di McPherson, ce lo vedeva bene, alla luce di quella parte del suo carattere che aveva scoperto da poco, a passare mazzette ai giudici per far scagionare sua figlia e, di conseguenza, tutti gli altri. 

Da quella causa Noah prese un sacco di apprezzamenti ed applausi, perché aveva dimostrato l’innocenza di quei sei ragazzi che, altrimenti, sarebbero stati sicuramente condannati. La TV parlò di lui come di un eroe che aveva salvato quelle povere vittime innocenti da un’ingiusta incarcerazione. Insomma, lo zampino di McPerson c’era davvero alla fin fine e queste cose glielo confermarono. L’opinione pubblica iniziò a considerare Noah uno dei migliori al mondo e si convinse dell’innocenza dei ragazzi. Tutto bene quel che finisce bene. 

Però qualcuno non si bevve quella bellissima zuppa dal sapore fin troppo amarognolo fatta di bugie e corruzione. Il caso più eclatante fu quello di Scott Wallis. Scott era il ragazzo di Dawn ed aveva incolpato i sei fin dal principio. Del resto, le prove combaciavano alla perfezione. Noah più volte lo aveva visto in aula con lo sguardo freddo e glaciale di chi cercava vendetta senza sosta. Era chiaro il suo sdegno e la sua frustrazione, ma mai Noah avrebbe pensato di poter cadere vittima della sua sete di vendetta. 

Una sera, infatti, mentre tornava a casa dal suo studio, era stato avvicinato da uno sconosciuto incappucciato in una delle vie periferiche da cui passava per tornare alla sua abitazione. 

- Noah Hayden? - domandò quello, facendosi avanti. Al tempo Noah era ancora inesperto ed era nel pieno delle sue manie di egocentrismo. Il pensiero che qualcuno lo fermasse per strada era per lui fonte di orgoglio e vanto. 

- Sì, sono io. Come posso aiutarla? - si era inconsciamente avvicinato a lui, senza pensare a quali rischi sarebbe andato in contro. 

- Perfetto. - solo quando il ragazzo si fece avanti ed il suo cappuccio gli scivolò dalla testa capì cosa stesse per succedere. Era proprio lui, Scott. Il rosso, armato di coltello, provò ad aggredirlo. Ne seguì una breve lotta nel quale l’avvocato fu salvato dall’intervento di un passante nei dintorni. Noah se la cavò con una coltellata ad un fianco ed un taglio sulla spalla, mentre Scott, arrestato poco dopo, fu condannato a due anni di carcere per tentato omicidio. 

Dopo tale avvenimento, Noah mutò radicalmente. Comprese a pieno cosa volesse dire essere dalla parte di chi ha torto e cosa rischiava se seguiva solo i soldi nel suo lavoro. Quello era stato, probabilmente, l’insegnamento più importante che quel processo gli aveva lasciato. 

La cosa, però, che Noah aveva più impressa nella sua testa era l’incontro con i genitori di Dawn. Ricordava bene quel giorno, quando la sua assistente lo chiamò per dirgli che due persone senza appuntamento stavano cercando ripetutamente di andare nel suo studio. Sulle prime le aveva detto di ignorarli, ma dopo un’ora di tentativi da parte della coppia si era deciso ad incontrarli. 

Gli bastò guardarli in volto per riconoscerli: erano i coniugi Medrek, coloro che per tutto il processo erano stati seduti in prima fila con gli occhi rivolti verso il giudice. Non avevano pianto, non avevano mostrato segni di rabbia, al contrario di Scott, né avevano cercato vendetta. Si erano limitati ad accettare silenziosamente la decisione del pubblico ministero affondando nel loro dolore e nella loro disperazione. Una volta entrati, i due si fermarono sullo stipite della porta. 

- Prego, accomodatevi. - Noah fece loro cenno di sedersi e i due, seppur riluttanti, si misero sulle sedie davanti a lui. 

- Signor Hayden, ci scusi per questa introduzione forzata. - iniziò il signor Medrek – Dobbiamo portarle un messaggio. - 

 - Del tipo? - Noah alzò un sopracciglio, completamente spaesato da quelle parole. 

- Nostra figlia. - disse seccamente la moglie, senza cercare di essere più esplicativa. 

- Ci penso io, cara. - il signor Medrek poggiò una mano su quella della moglie per tranquillizzarla – Ci è apparsa in sogno nostra figlia. Ci ha detto di venire da lei per lasciarle un messaggio. - 

Noah non riusciva a credere alle sue orecchie, un misto fra incredulità e voglia di ridere iniziarono a pervadere il suo corpo. 

- Del tipo? - ripeté, cercando con tutto se stesso di trattenere le risate. 

- Dawn dice che se non direte la verità la pagherete, prima o poi. - a quel punto, Noah non riuscì più a trattenersi. Esplose in una sonora risata in faccia ai due coniugi, che rimasero impassibili. 

- Scusatemi, scusatemi. - provò a placare le risate, ma non ne fu in grado. In un certo senso, nemmeno voleva smettere. In quel periodo Noah era nel pieno della sua boria e sentiva di potersi permettere anche un atteggiamento del genere – Allora, dicevamo? - 

- Glielo abbiamo appena detto. - spiegò, con calma surreale, il signor Medrek. Noah abbozzò ad un’altra risata. 

- Pensavo mi stesse prendendo in giro. - ancora un’altra risatina – Ho pensato che mi abbiate preso per un deficiente. - il suo tono passò dal divertito al seccato in pochi istanti. 

- Non la stiamo affatto prendendo in giro, la stiamo avvisando. - furono gli occhi del signor Medrek a farlo arrabbiare, perché li vedeva pieni di dignità anche davanti ad una tragedia simile. 

- Voi osate minacciarmi? - sussurrò Noah. Appoggiò le mani, intrecciate fra loro, sul tavolo e guardò i coniugi dritti negli occhi – Avete davvero la faccia tosta di presentarvi davanti a me e dirmi queste cose? - si morse un labbro. 

- Nessuno l’ha minacciata. - la moglie tentò di intervenire, ma Noah la fulminò con lo sguardo. 

- Ah, no, signora Medrek? - l’avvocato aprì un cassetto e ne estrasse un codice penale – Perché, se ben ricordo male, l’articolo seicentododici dice che “Chiunque minaccia ad altri ingiusto – marcò molto su quella parola – danno è punito”. Penso possa bastare. - chiuse il codice e lo appoggiò sulla scrivania – Ecco, adesso io vi do un consiglio. So che per voi deve essere traumatico aver perso vostra figlia in questo modo ed avete tutto il mio appoggio, ma state oltrepassando il limite. Non solo mi devo sorbire un attentato da parte del fidanzato di vostra figlia, ma anche stare ad ascoltare queste cazzate che, francamente, mi stanno solo facendo perdere tempo. Ed il mio tempo è denaro. - si fermò, giusto per dare un’occhiata ad entrambi – Ora, se volete scusarmi, avrei un appuntamento con un cliente. - indicò la porta ad entrambi che, dopo qualche secondo di esitazione, si incamminarono verso l’uscita. 

- Noi l’abbiamo avvertita, signor Hayden. Se ne ricordi. - detto ciò, il signor Medrek e sua moglie si dileguarono e Noah non li vide mai più. 

Quell’incontro era rimasto impresso nella testa di Noah che, a sei anni di distanza, non lo aveva mai dimenticato. Aveva più impresse quelle parole del dolore di quando era stato accoltellato. E col senno di poi si disperava per non aver dato ascolto ai coniugi Medrek, perché aveva una moglie che lo aspettava a casa con un figlio in grembo ed era bloccato lì per un errore commesso anni prima. D’altronde, il karma prima o poi l’avrebbe dovuto colpire. Ne aveva rovinate fin troppe di vite per seguire il denaro. L’unico modo che aveva per redimersi era, per quanto poco potesse valere, risolvere il mistero che aleggiava attorno a quella sera. 

- Andiamo di sotto, dobbiamo parlare. - disse, invitando i cinque al suo seguito ad andare assieme a lui. 

- Piano, bello mio. Ho ancora un po’ di nausea. - Clara si alzò a fatica, venendo aiutata da Aya. Si sentiva come nei post sbronza di quando andava al liceo, con la differenza del sapore ferroso che sentiva in gola. 

- Ti fa male la testa, non le gambe. - Noah nemmeno la guardò, si limitò ad avvicinarsi ad una delle tante porte sperando si trattasse di quella giusta. 

- Diamole il tempo di riprendersi, ha rischiato di morire. - Ginevra, rimasta immobile davanti alla porta del bagno, richiamò l’avvocato. 

- Non ne abbiamo molto. - l’indiano si morse la lingua. Fremeva dalla voglia di tornare da Emma e da suo figlio. 

- Due minuti in più o in meno non cambieranno le cose. - con schiettezza, Ginevra lo costrinse a demordere – Piuttosto, di che cosa vuoi parlare? - si appoggiò con la schiena ad un muro e gettò gli occhi sulla camicia bianca che portava l’altro. 

- C’è qualcosa che non so di quella sera. - si avvicinò al gruppetto – L’ho sempre sospettato, ma onestamente non me ne fregava poi molto. Però mi pare evidente che per uscire fuori da questo casino dobbiamo indagare a fondo. - concluse. 

- Quindi solo uno di noi sa il motivo specifico per cui siamo qui? - domandò Abbey. 

- Il mio sospetto è quello. - confermò Noah. 

- In effetti questa storia ha sempre avuto poco senso. - anche Ginevra si accodò alla teoria – L’unico che potrebbe sapere qualcosa di più è Abbey. Sei stata tu a – le sue parole vennero interrotte sul nascere. 

- Okay, andiamo giù. Questa discussione incomincia già a darmi sullo stomaco. - Clara si alzò in piedi e, a tentoni, si fece in avanti. 

- Come vuoi. - Ginevra alzò le spalle ed andò dietro a Noah, che nel frattempo si era già avviato verso la porta. 

- Sei sicuro che sia quella giusta? - gli domandò Abbey. 

- Domanda stupida. - l’avvocato spinse in giù la maniglia – Come potrei saperlo? - concluse con acidità, facendo innervosire non poco la castana. Noah aprì la porta lentamente e si trovò davanti ad una rampa di scale che scendeva verso il basso. 

- Vuoi dire che ci hai azzeccato? - lo incalzò Abbey. 

- Queste scale non dovrebbero essere qui, forse Dawn vuole che ci ritroviamo. - l’avvocato era più che sicuro che quella rampa si sarebbe dovuta trovare da tutt’altra parte, ma decise di non soffermarsi troppo sulla cosa. L’unica cosa che gli interessava era sbrigare la faccenda al più presto possibile. 

- Guardate bene dove mettete i piedi. - disse, per poi iniziare a scendere i gradini uno ad uno. Fu una discesa rapida ed indolore, tanto che fecero fatica a credere di essere realmente tornati al piano terra senza essere andati incontro a qualche altro inconveniente. Quando scesa la rampa e svoltato a destra trovarono la sala ad aspettarli si lasciarono andare ad un respiro di sollievo. 

- Che diavolo è successo qui? - domandò Clara, notando le varie cornici spaccate ed i pezzi di vetro che ricoprivano il pavimento. 

- Abbiamo avuto un piccolo inconveniente. - Abbey decise di non approfondire troppo la faccenda. 

- Beh, dovete esservi divertiti. - disse ironicamente Ginevra, mentre con la scarpa schiacciava uno dei cocci di vetro. 

- Diciamo. - la castana si limitò ad accennare una risatina, poi iniziò a guardarsi attorno – Delfina dov’è? - chiese, guardando Brodie. Il ragazzo non le rispose subito, teneva le braccia incrociate e si strofinava le mani sui bicipiti per scaldarsi. 

- Ehi, sta parlando con te. - fu Clara a riportarlo al mondo dandogli una leggera botta sul braccio. 

- Ah, scusate. - Brodie guardò Abbey con la testa inclinata. 

- Ti ho chiesto dov’è Delfina. - ripeté la castana. 

- Non ne ho idea, l’avevo lasciata qui. - il ragazzo scosse la testa. 

- Ci mancava giocare a nascondino. - Noah roteò gli occhi. 

- Dove può essere andata? - chiese Abbey facendo un passo in avanti verso il divano. 

- Da quello che sappiamo, può essere ovunque. - Ginevra alzò le spalle e si guardò attorno – Questo posto è un labirinto. - 

- Dannazione, questa non ci voleva. - Abbey appoggiò una mano sul poggiamano e si rese conto che era rotto – Brodie, questo è – un dolore lancinante la colse al fianco destro. Barcollò per qualche secondo, poi cadde per terra sbattendo proprio sul punto della ferita. Fu tutto così rapido che nessuno riuscì ad intervenire. Videro Delfina spuntare dietro il divano con un pezzo di vetro in mano e gettarsi addosso ad Abbey che, inerme, si reggeva la ferita sanguinante. 

- Muori, brutta puttana! - urlò la mora, prima di conficcarle il vetro all’altezza dello stomaco. Abbey urlò con tutto il fiato che aveva in gola per il dolore, mentre il sangue incominciava ad uscire e ad imbrattare il pavimento. Fu quel grido a risvegliare Brodie dalla sorpresa del momento.  

Il ragazzo le corse incontro e riuscì a fermare Delfina prima che potesse assestare un altro colpo ad Abbey gettandosi contro di lei. La, breve, lotta che ne susseguì fu alquanto squilibrata. Brodie, preso dalla foga, colpì ripetutamente Delfina in volto, tanto da farle perdere coscienza. 

Gli altri quattro rimasero immobili per tutto il tempo. Trovarono la forza, e soprattutto il coraggio di muoversi, solo quando videro Brodie continuare ad infierire sul corpo inerme di Delfina. 

- Fermati, così la ammazzi. - Noah e Ginevra si fiondarono su di lui e, con non poche difficoltà, riuscirono a fermarlo. Brodie stava letteralmente tremando. Sapeva che di lì a poco avrebbe perso nuovamente il senno e quella scarica di adrenalina non aveva fatto altro che diminuire il suo autocontrollo. Si guardò le dita tremanti sporche del sangue di Delfina ed iniziò a respirare affannosamente, poi si ricordò di Abbey e gattonò verso di lei. 

- Abbey! - le alzò leggermente la testa da terra e la guardò affondo: i suoi vestiti avevano una grossa chiazza rossa al centro che continuava ad allargarsi fino a contagiare anche il pavimento attorno a lei. 

 - Dobbiamo fermare la fuoriuscita di sangue. - Ginevra liberò il divano dai cuscini – Portiamola qua sopra, veloci! - e così fecero, distesero Abbey sul divano e tamponarono alla meglio i due squarci che aveva sullo stomaco e sul fianco. Il taglio era molto profondo ed una scheggia di vetro era rimasta dentro alla ferita. Non poteva andarle peggio. 

- Ce la farà? - domandò Brodie, ancora tremante come una foglia. 

- Dovrebbe. Però abbiamo bisogno di un medico. - Ginevra, che di medicina non se ne intendeva poi così tanto, cercò di non mandare tutti nel panico. 

- Per uscire da qui abbiamo un solo modo. - Noah si fece un passo avanti ed attirò l’attenzione di tutti – Dobbiamo risolvere questa faccenda una volta per tutte. - 

 

 

ANGOLO AUTORE: 

Cari miei, ho cambiato ancora una volta il finale della storia. Beh... spero di non aver fatto come in Care Project, ma questa volta sono più che sicuro di aver fatto un buon lavoro. 

Conosciamo Brick, il nostro ex poliziotto preferito! E finalmente Dawn ci parla da viva. 

Il prossimo capitolo è lungo circa 12 pagine word e parla di... lo scoprirete a tempo debito 😉 

Ancora non so se spezzarlo, deciderò sul momento eheheh 

Ringrazio ancora reginaZoey1999 per la bellissima FanArt <3 

Alla prossima! 


 

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


filefoto

Disegno di: reginaZoey1999


- Abbey, ti ho detto che non posso accompagnarti. Ho la patente da poco, se mi fermano è la fine. E sai che non posso macchiare la fedina penale proprio adesso. - Brodie sbuffò, mentre al computer compilava i fogli per la leva militare. 

- Su, cosa vuoi che succeda? - dall’altro capo del telefono, appoggiato cautamente sulla scrivania e con il viva-voce attaccato, Abbey cercò di persuaderlo - È solo una serata, le possibilità che ci fermino sono pochissime. - il ragazzo scosse la testa, mentre leggeva con disattenzione i vari fogli sulla tutela della privacy. 

- È troppo pericoloso. - non aggiunse altro, continuò a passare gli occhi con sufficienza sulla moltitudine di righe che aveva davanti mentre teneva la mano chiusa a pugno a sorreggergli la testa. 

- No, non lo è. - dal tono di voce della fidanzata, Brodie capì che stava andando a schiantarsi conto un muro di ferro molto alto e resistente – Sai quanto sia importante per me questa festa. -  

- Fatti portare da tuo padre. - un altro sospiro, l’ennesimo di quella sera, uscì fuori dalla sua bocca. 

- Figurati se mi accompagnata in un luogo simile. - disse acidamente.  

- Chiediti il perché - ribatté Brodie, senza staccare gli occhi dallo schermo. A quel punto Abbey capì che aggredirlo non sarebbe servito a nulla. 

- Per favore, Brodie. - il suo tono mutò radicalmente – Fallo per me. - sussurrò con voce rotta, come se stesse per piangere. Furono quegli accenni di singhiozzi ad iniziare a piegare Brodie. 

- Abbey, non posso. Dopodomani ho le prove fisiche della leva. - le disse, con tono esitante. Ed Abbey marciò sopra quella dichiarazione che, almeno in teoria, sarebbe dovuta essere l’asso nella manica di Brodie. 

- Appunto, poi non potremo vederci per un sacco di tempo. - la sua voce si fece più provocante – Sai cosa potremmo fare lì, vero? - non gli permise di rispondere, rispose le stessa alla sua domanda – Hanno affittato una grossa villa a tre piani, perciò ci sarà sicuramente qualche stanza libera. - Brodie non poteva vederla, ma era sicuro che si stesse mordendo il labbro e solo quel pensiero lo fece impazzire. Ci mise un po’ a risponderle, perché era una persona ligia al dovere, ma era pur sempre un adolescente preda degli ormoni. 

- Va bene, ti porto io. - accompagnò quella parola da un lungo sospiro che venne seguito da un gridolino di gioia da parte della fidanzata. 

- Fantastico, allora passami a prendere domani alle sette di sera, tutto chiaro? - la rapidità con la quale Abbey organizzò il tutto gli fece capire di essere finito in pieno nella sua trappola. 

- D’accordo. - Brodie sbuffò per l’ennesima volta. 

- Ah, giusto, dobbiamo portare anche Clara, Delfina e Ginevra. - aggiunse la castana tutto d’un fiato. 

- Eh? Questo non me lo avevi detto. - protestò Brodie. 

- Che ti cambia, la tua macchina è a cinque posti, no? - sentì Abbey ridacchiare. 

- Va a farti fottere. - non riuscì a dirle altro. 

- Ti amo, Brodie. - sussurrò la ragazza, per poi mandargli un bacetto. 

- Anche io ti amo. - replicò Brodie, senza risultare molto convincente.  

- A domani. - disse Abbey. 

- A domani. - detto ciò, chiuse la chiamata e si gettò di nuovo a leggere il testo che aveva davanti. 

 

 

La serata fu uno spasso: fiumi di alcol, droga e divertimento per quasi cinque ore piene. Se per Abbey quella fu unoccasione per svagarsi e divertirsi, per Brodie non fu altro che la riconferma di non essere assolutamente in grado di gestire la sua fidanzata. L’aveva accompagnata lì, aveva scarrozzato le sue amiche e, per di più, era stato costretto a bere. Non avrebbe dovuto farlo, perché era l’unico della combriccola con la patente, ma l’insistenza di Abbey, e principalmente di Delfina, lo avevano fatto cedere. Soprattutto perché Brodie non era in grado di gestire l’alcol, gli bastava un cocktail per iniziare a barcollare. 

 - Brodie, c’è l’open bar, non fatti sfuggire questa opportunità. - gli aveva detto Abbey, già con in mano il suo bel bicchiere di Dark and Stormy a metà. Il ragazzo aveva guardato la bevuta con un sopracciglio alzato, poco invitato dal colore rossastro del liquido. 

- Non mi sembra il caso. - scosse la testa. Abbey sbuffò e roteò gli occhi. 

- Dannazione, cerca di divertirti. Forza, vieni con me. - lo prese per la mano e lo trascinò verso l’open bar. 

- Cosa vi preparo? - chiese il barman, mentre agitava due shaker e li faceva roteare su se stessi. 

- Che vuoi? - Abbey si girò verso Brodie, che boccheggiò senza sapere cosa dire – Ah, che palle che sei. Fagli un Dark and Stormy. - disse, indicando la bevuta che teneva fra le mani. 

- No, quello no! - il castano si fece un passo avanti. 

- Allora cosa vuoi? - la ragazza inclinò la testa di lato e sbuffò ancora. 

- Un Old Fashioned. - sussurrò lui, con fare sconfitto. 

- Ancora con quella roba dolce? Bah, che schifo. - Abbey assunse un’espressione disgustata. Il barman preparò l’Old Fashioned e lo passò a Brodie, per poi girarsi subito verso un altro ragazzo, dall’aspetto poco sobrio, che stava aspettando impazientemente dietro del castano. 

- Torniamo dentro. - Abbey fece cenno con la testa al ragazzo di seguirlo. I due tornarono nella sala, rischiando in più occasioni di rovesciare i cocktail, e si misero a sedere sul divano. Una volta seduto, Brodie bevve il primo sorso della bevanda e per poco non si strozzò. Tossì parecchie volte, sotto lo sguardo preoccupato della fidanzata. 

- Cazzo, è dolcissimo. - disse poco dopo, per poi appoggiare il cocktail sul tavolinetto davanti a lui. 

- Te l’avevo detto io. - Abbey alzò le spalle e riprese a bere il suo come se niente fosse. 

- A che ore pensi di andare via? - il ragazzo appoggiò la testa sullo schienale e la guardò di soppiatto. 

- Per le tre, penso vada bene. - rispose lei con sufficienza. 

- Assolutamente no. - Brodie scosse la testa. 

- Dai, non fare il guastafeste. - Abbey girò gli occhi e lo guardò con l’espressione più pietosa che riuscì a fare. 

- Di che cosa state parlando? - l’arrivo di Delfina salvò, in un certo senso, Brodie. La ragazza, anche lei con il suo cocktail in mano, si sedette alla destra di Brodie e si immise di netto nella conversazione. 

- Nulla che ti riguardi. - replicò Abbey, mantenendo tuttavia un tono allegro e cercando di essere la meno acida possibile. 

- Un uccellino mi ha detto che invece interessa anche me. - la mora assottigliò gli occhi e le sorrise. 

- Stiamo discutendo a che ore andare via. - disse Brodie, sperando di trovare appoggio nella sua amica di infanzia – Per te l’una e mezza va bene? - le domandò. 

- L’una e mezza? È anche troppo tardi. - rispose lei, per farlo contento. 

- Eccola che ricomincia. - sbuffò Abbey bacchettando con le dita sulla sua coscia per cercare di diminuire il nervoso che la stava attanagliando. 

- A fare cosa? - Delfina la guardò storcendo leggermente il capo. Era palesemente alla ricerca di uno scontro che, però, Abbey non sembrava intenzionata a voler concedere. 

- Che stai bevendo? - le domandò quindi, così da spegnere sul nascere ogni possibile litigata. 

- Un Moscow Mule. - rispose seccamente, per poi succhiare dalla cannuccia un po’ della bevuta. 

- Ehi, Abbey. - l’attenzione della castana venne richiamata da Ginevra che, dopo essersi fatta strada fra la folla a gomitate, le andò incontro. 

- Dimmi pure, Ginny. -  

- Indovina chi ho incontrato prima? - le chiese, con un sorrisetto in volto. 

- Non ne ho idea. - Abbey scosse la testa. 

- Ci sono Samantha ed Allisson. Sono qui con Marcus – Brodie storse il naso appena sentì quel nome – e gli altri. - spiegò Ginevra sorridendo. 

- Davvero? - domandò, con gli occhi pieni di sorpresa. 

- Perché non facciamo un salto a salutarli? - le propose Ginevra. 

- Certo! - Abbey si alzò in piedi – Torno fra poco, mi raccomando. - non aggiunse altro, si limitò a guardare Delfina con lo sguardo più serio che riuscì ad assumere e poi sorrise verso Brodie, che si limitò a darle un cenno positivo con la testa. Abbey sparì per più di un’ora. 

Quei sessanta e passa minuti furono per Brodie come per un criminale l’attesa del giudizio della corte. Provava a nascondere la sua paura, ma non ci riusciva particolarmente bene. Il pensiero che Abbey fosse assieme a Marcus, suo ex con il quale andava molto d’accordo, lo infastidiva particolarmente. Proprio per cercare di mandare giù quel nervoso che sentiva, bevette prima il suo Old Fashioned, poi il cocktail che, gentilmente, Delfina gli offrì perché, a detta sua, era troppo dolciastro. Oltre alla sua testa, contagiata dall’alcol, a dargli paranoie c’era Delfina che, ogni tre per due, gli ricordava cosa stesse facendo la sua ragazza. 

- Ancora non è tornata? Strano. - diceva, per poi guardarlo di soppiatto mentre lui, stizzito, beveva dal bicchiere facendo finta di non sentirla. 

- Praticamente è passata un’ora. È incredibilmente in ritardo. - continuava a mettere benzina sul fuoco, nella speranza che Brodie, influenzato dalle sue parole, potesse finalmente smetterla di frequentarsi con Abbey. 

- Pensare che è stata lei a costringerci a venire qui. - quelle frasi non facevano altro che aumentare la rabbia sopita di Brodie. Come se non bastasse, Delfina lo fece bere fino a stare male. Approfittando della situazione, riuscì a fargli bere altri due cocktail al bancone, mentre lei continuava imperterrita a buttare fango sulla rivale in amore. Il suo scopo, principalmente, era quello di fare sesso con Brodie dopo averlo fatto ubriacare pesantemente. Per questo continuava a dargli da bere e, di tanto in tanto, si abbassava la scollatura e si avvicinava a lui. 

- Vi state divertendo? - a “salvare” il soldato Brodie fu l’intervento di Clara che, completamente fatta, si avvicinò a loro con lo scopo di prendere un altro cocktail – Ehi, bellezza, dammi un Negroni sbagliato. - fece l’occhiolino al barman, senza essere cosciente di non avere proprio un bell’aspetto. 

- Quante canne ti sei fatta? - le domandò Delfina, con un sorrisetto in volto. 

- Non chiedermelo, ho perso il conto. - rispose la mora, ridendo di gusto – Su, dolcezza, ho la gola secca. - sbatté una mano sul tavolo e scoppiò a ridere incontrollatamente. 

- Sei in condizioni pietose. - Delfina la guardò e rise. 

- A me piace così. - urlò Clara, per poi alzare le braccia al cielo al tempo di musica. Sentire i Black Eyed Peas in sottofondo le dava un effetto ancora più di esaltazione. 

- Se lo dici tu. - l’altra alzò le spalle. 

- Che poi, ehi, se te lo vuoi scopare portalo dietro a quel cespuglio e dacci dentro. Non sfogare la tua frustrazione su di me. - barcollando e ridendo, Clara indicò Brodie. Delfina divenne rossa di colpo. 

- M-Ma di c-che stai parlando?! - scattò in piedi e strinse i pugni con forza. 

- Andiamo, amore, sei praticamente nuda. - le indicò la scollatura, decisamente eccessiva, del vestito e scoppiò in una risata. Contemporaneamente, il barman le allungò il suo cocktail – Grazie mille. Se vuoi ci vediamo dopo. - Clara le fece l’occhiolino, ma quello scosse la testa in segno di negazione. 

- Sono troppo giovane per finire in galera. - le disse, per poi girarsi verso un altro ragazzo dall’aspetto poco sobrio. 

- Comunque sia. - Clara si girò di colpo verso di loro, facendo cadere un po’ della bevuta – Dobbiamo accompagnare questa qui a casa. - indicò una ragazza dietro di lei che, fino a quel momento, né Brodie, né Delfina avevano visto. Aya si fece un passo avanti e li guardò senza dire niente. 

- Non abbiamo posto. - disse il castano, contando con le dita della mano quanti posti avesse liberi nell’auto. 

- Possiamo lasciare Abbey qui. - propose subito Delfina. 

- No, lei è la mia ragazza. - obiettò Brodie. Non appena si ricordò di Abbey, che per qualche secondo era sparita dalla sua testa, strinse con forza il bicchiere che aveva in mano. 

- Vuoi lasciarla qui? - Clara inclinò la testa. 

- Può chiedere a qualcun altro. - rispose lui, senza nemmeno guardarla. 

- Non può. Ma l’hai vista? - Clara afferrò Aya per le spalle e la scosse - È una fottuta bambola di pezza. - le affondò l’indice nella guancia, sotto il totale disinteressa di Aya. 

- La macchina è piena. - sussurrò Brodie, con la voce tipica di chi stava per demordere e, per l’ennesima volta, piegare al volere altrui. 

Aya è piccola, entrerà in auto senza problemi. - disse prontamente Clara. La mancata risposta da parte del castano, che si limitò ad affondare la testa sul bancone, fece capire alla mora di aver vinto – Perfetto, allora è deciso. A che ore ce ne andiamo? - chiese poi, mandando giù metà drink con un sorso solo. 

- Come puoi parlare così normalmente dopo tutte le canne che ti sei fumata e tutto l’alcol che hai bevuto? - Delfina la guardò con gli occhi spalancati. 

- Esperienza. Ho fatto di peggio. - le fece l’occhiolino e barcollò leggermente indietro, segno che non stava poi così bene – Spara l’ora, dolcezza. - aggiunse poi, cercando di ritrovare l’equilibrio. 

- L’una e mezza. - a rispondere fu proprio Delfina, che batté Brodie sul tempo. 

- Cazzo, allora devo godermi quanto manca. - urlò Clara. Afferrò la mano di Aya e la trascinò con se – Su, abbiamo ancora un’ora. - disse, rischiando di inciampare più volte e, soprattutto, di versare ciò che rimaneva del suo drink per terra. 

Il proseguo della serata non fu dei migliori: Brodie continuò a bere e a deprimersi e Delfina si sforzò, come meglio riusciva, nel tentare di conquistarlo, anche se lui non sembrava essere affatto interessato. Rimaneva fermo, con gli occhi fissi verso il bancone e, di tanto in tanto, sorseggiava la bevuta che, ciclicamente, finiva e richiedeva al barman. Così facendo, aveva ingerito più di sette cocktail. A salvarlo dal coma etilico era stato proprio il barman che, resosi conto della situazione disperata e molto poco felice del ragazzo, iniziò ad aumentare sempre di più le dosi di ghiaccio, tanto che Brodie, senza rendersene conto, arrivò a bere dei bicchieri d’acqua giallastra. 

Ainterrompere quel ciclo infinito fu il ritorno di Abbey e Ginevra dopo una mezz’oretta. La castana si rese subito conto che qualcosa le era sfuggito di mano. 

- Si può sapere che diavolo succede? - domandò non appena si avvicinò ai due. Non le servì nemmeno una risposta, le bastò guardare la lentezza con la quale Brodie sollevò la testa dal bancone per capire cosa fosse accaduto. 

- Ha solo bevuto un po’. - sminuì Delfina, facendole cenno con la mano di non preoccuparsi. 

- A me sembra completamente andato. - disse Ginevra, dopo avergli dato un’occhiata più approfondita. 

- Lo hai fatto ubriacare? - urlò Abbey a Delfina sgranando gli occhi – Deve guidare lui per portarci a casa! - 

 - Non è messo così male. - le parole di Delfina vennero prontamente smentite da Brodie, che provò ad alzarsi dallo sgabello e finì per terra di peso. 

- Brodie, stai bene? - la castana si precipitò al suo fianco e gli tenne su la testa. 

- S-S-S-Sì. - riuscì a dire, in malo modo, solo quello, poi sentì lo stomaco contorcersi e la sensazione di dover vomitare tutto ciò che aveva in corpo. Riuscì solo all’ultima a fermare il rigetto, venendo pervaso da quel sapore acre lungo tutta la gola. 

- Penso sia il momento di andare. - propose Ginevra, capendo che se fossero rimasti lì il tutto sarebbe potuto andare solo che peggio. 

- Hai ragione! Forza, andiamo a casa. - Abbey tirò su Brodie di peso, con l’aiuto di Ginevra, ed iniziò ad incamminarsi verso il parcheggio – Muoviti. - guardò Delfina con gli occhi da assassina. 

- Eh? Ma ho detto a Clara che saremmo andati via a l’una e mezzo. Non è nemmeno l’una. - protestò Delfina, ancora seduta allo sgabello. Abbey lasciò il ragazzo a Ginevra e si avvicinò verso la mora ad ampie falcate. 

- Ascoltami bene: adesso tu vai a prendere Clara, la porti al parcheggio e ce ne andiamo. - le premette un dito all’altezza del costato con forza – Spero di essere stata chiara. - Delfina avrebbe voluto ribattere, ma capì che in quelle condizioni non ne sarebbe uscita viva, soprattutto con Abbey arrabbiata in quella maniera. 

- Va bene, ma con Clara ci parli tu. -  

E così fece, Delfina prese Clara ed Aya per un orecchio e le portò al cospetto di Abbey che, sull’orlo di una crisi di nervi, stava tenendo d’occhio Brodie. Il moro, infatti, aveva vomitato per ben due volte in quel breve lasso di tempo e dal colorito della sua faccia non sembrava essere in grado di guidare. 

- Si può sapere che è questa storia? - Clara, barcollando, si avvicinò verso di Abbey. 

- Ce ne andiamo, Brodie sta male. - la castana non perse tempo, cercò di liquidare quella discussione per poter partire il più in fretta possibile. 

- Ehi, bambola, Brodie mi aveva detto che saremmo andate via all’una e mezza. Ho ancora trenta minuti per divertirmi. - ribatté Clara, con un sorriso in volto che faceva capire quanto poco avesse chiaro l’umore della ragazza davanti a lei. 

- Sti cazzi, ce ne andiamo ora. - disse autoritaria Abbey, per poi girarsi verso il fidanzato per controllare come stesse. 

- Ah, dannazione, va bene. - sbuffò la mora – Però prima fammi finire questa. - estrasse di tasca una canna e la girò su se stessa. Nonostante fosse sull’orlo di una crisi isterica, Abbey decise di concederle almeno quello, nella speranza di non dover più litigare con lei. 

- Sbrigati. - le disse, battendo a terra con i tacchi – Brodie come va? - chiese poi al ragazzo. 

- Tornatene da Marcus. - sbottò lui, senza degnarla nemmeno di uno sguardo. 

- Di che stai parlando? - la castana sgranò gli occhi e li sbatté più volte. 

- Lo so che sei stata con lui. - rispose lui, biascicando la maggior parte delle parole con difficoltà. 

- Oh, Gesù, di che cazzo stai parlando? Ero con le mie amiche. - Abbey roteò gli occhi e sbuffò profondamente. 

- Non prendermi in giro. - Brodie provò ad alzarsi, ma le sue cadde cedettero e si ritrovò sdraiato per terra – Che avete fatto, eh? - portò gli occhi, arrossati dall’alcol, verso di lei. 

- Abbiamo solo parlato, dannazione! - urlò Abbey, presa dalla foga. Si morse il labbro non appena si rese conto di cosa avesse detto. 

- Ah, quindi c’era anche lui. - la bacchettò subito il fidanzato. 

- Sì. - non aggiunse altro. 

- Sei riuscita a farti fregare da un ubriaco. - sussurrò Ginevra, che dall’occhiata che Abbey le dedicò, capì non fosse il caso di buttare ulteriore benzina sul fuoco.  

- Quindi, che avete fatto, eh? - Brodie assottigliò lo sguardo. 

- Non voglio parlarne. - la castana gli dette le spalle ed incrociò le braccia al petto. In realtà non era successo nulla, ma il solo pensiero che Brodie non si fidasse di lei la mandava in bestia. 

- Perché hai fatto qualcosa di male. - sputò acidamente lui, alzando il tono della voce. Intanto, mentre loro due si aggredivano come animali selvatici, Delfina osservava la scena con un sorrisetto in volto e Clara fumava la sua erba infastidita da quel continuo battibecco. 

- Oh, che palle che siete. - la mora si alzò di colpo e si diresse verso di Brodie ad ampie falcate barcollanti – Tieni, questa ti farà calmare. - afferrò il ragazzo per il mento e gli infilò la canna in bocca. Brodie, senza nemmeno pensarci, aspirò il fumo e finì per strozzarsi. 

- Basta Clara, lascialo stare. – Abbey gli strappò la canna di mano con violenza. 

- Su, andiamo, Abbey, non fare la rompipalle. Fra poco questo povero ragazzo parte militare, ergo non potrà mai più fumarsi una bella canna in pace. Lascialo vivere. E poi ha bisogno di darsi una calmata, non può guidare bene se è troppo incazzato. – Clara si avvicinò alla castana e, dopo essersi ripresa l’erba, la ridette in mano a Brodie che, seppur esitante, la afferrò. 

- Un ultimo tiro. – disse Abbey, in maniera parecchio stizzita. Non avrebbe voluto permetterglielo, ma forse grazie all’effetto dell’erba si sarebbe dimenticato di quella piccola lite. Perché sapeva che se avessero continuato sarebbe finita per rivelare di aver baciato Marcus quella sera stessa e, a conti fatti, sarebbe stata la sua fine. 

- Se vuoi non lo faccio. – Brodie, seduto sul marciapiede, guardò la castana con gli occhi leggermente arrossati. 

- Fa come ti pare. – quella scosse la testa e si allontanò di qualche passo. 

- Forza, ragazzone. Mostra un po’ di palle. – Clara afferrò la canna e gliela mise in bocca. Gliela tenne ferma mentre lui aspirava, senza accennare a toglierla. La rimosse solo quando, completamente soffocato dal fumo, Brodie la scostò con una mano ed iniziò a tossire. 

- Cavolo, sei davvero un principiante. – la mora scosse la testa, poi portò la canna alla bocca ed iniziò a fumarla. 

- Sei impazzita?! Così lo uccidi. – Delfina si avvicinò verso Brodie e si piegò sulle ginocchia per vedere le sue condizioni: faccia pallida ed occhi rossi, era completamente fuorigioco. 

- Oh, che palle. Per caso siete i miei genitori? Dannazione, fatemi divertire. – sbottò Clara roteando gli occhi. 

- Non c’è abituato, stupida puttana. – Delfina si alzò ed andò dritta verso di lei. La guardò con astio, poi le puntò l’indice verso il petto spingendolo con forza contro il suo torace. 

- Come ti permetti? – Clara afferrò il suo dito e lo strinse con forza. I loro occhi si scagliarono gli uni contro gli altri, facendo intuire che nell’aria c’era qualcosa di poco buono. L’erba e l’alcol stavano dando il loro effetto. A soffocare sul nascere la possibile rissa fu Aya che, nel silenzio più totale, afferrò la maglietta di Clara e la tirò a se. La mora guardò Aya e, dopo aver lasciato la presa sul dito di Delfina, si avvicinò alla macchina. Ci provò a trattenere la rabbia che sentiva, fece appello a tutte le sue energie per riuscire a contenere la voglia di spaccare la faccia a qualcuno. Ce la fece, o meglio, non colpì nessuno, bensì se la prese con i fari della macchina. Con un calcio ben assestato, spaccò prima uno e poi il secondo faro riducendo in piccoli brandelli le lampadine. 

- Ma sei impazzita? – urlò Ginevra.  

- Se non aveste rotto il cazzo questo non sarebbe successo. – replicò Clara prima di sbattere un pugno sul cofano dell’auto. 

- Ci dobbiamo tornare a casa con quest’affare, maledizione! – Ginevra la prese per le spalle e la spinse via, facendola cadere per terra. Dopodiché si fiondò verso la macchina per verificare i danni – Fantastico, siamo senza luci. Grazie mille, tossica. – sbottò. 

- Andate tutti a fanculo. – Clara, traballando, si alzò e si mise a sedere sul marciapiede. Aya le si avvicinò e si mise accanto a lei – Che cazzo vuoi? – le domandò, mentre con la coda degli occhi si perdeva nelle sue iridi celesti. Faceva sempre così, lottava contro se stessa per resistere alla tentazione di guardare quelle due gemme azzurre per tutto il tempo. Aya non disse nulla, appoggiò la testa sulla sua spalla e chiuse gli occhi. 

- Fottiti. – sussurrò l’altra ed incominciò a massaggiarle i capelli. 

- Salite tutti in macchina, in un modo o nell’altro dobbiamo andarcene. - Ginevra indicò l’auto, ormai ammaccata, e fece loro cenno di entrare dentro. Abbey si mise davanti assieme a Brodie, mentre Delfina, Ginevra e Clara si misero dietro, con Aya sopra di Clara come una bambina. 

- Riesci a guidare? - chiese Abbey a Brodie, che si limitò a farle un cenno positivo con la testa. Contro ogni aspettativa, riuscirono a lasciare il parcheggio senza fare ulteriori danni e si diressero verso la strada principale. 

- No, aspetta, non passare di lì. - disse Delfina – Ci sono un sacco di macchine, rischiamo di lasciarci le penne. - 

- Non avrei mai pensato di dirlo, ma hai detto una cosa intelligente. - replicò Ginevra, facendo finta di ignorare il dito medio che la mora le rivolse prontamente. 

- Gira a destra al prossimo svincolo, allunghiamo il giro ma almeno non incrociamo nessuna macchina. - spiegò Delfina, indicando con la mano la strada da percorrere. Infatti, come da lei predetto, nessuna macchina passava di lì. Proseguirono senza problemi per una ventina di minuti buoni, con Brodie che guidava a quaranta all’ora fissi ed il puzzo di alcol, che tutti avevano in corpo, che impestava la macchina. Procedette tutto liscio, fino a che non si imbatterono in una volante della polizia. Sbiancarono di colpo. Era la fine. Fine che si concretizzò nel momento in cui la paletta, che riuscirono a vedere per miracolo, dell’agente si rivelò essere rossa. Brodie, che per poco non morì d’infarto, fu costretto ad accostare la macchina. I battiti dei cuori di tutti e sei iniziarono a battere più rapidamente, mentre l’agente si avvicinava verso di loro. Questi bussò al finestrino, costringendo Brodie a tirarlo giù. 

- Buonasera. - disse l’agente. 

- Buonasera. - rispose Brodie, cercando con tutte le forze di non vomitargli addosso. 

- Vedo che ha i fari rotti. - l’uomo si sporse in avanti e controllò i fari, che erano completamente a pezzi. Ginevra colpì Clara con un pugno per sfogarsi. 

- Sì. - il castano non aggiunse altro, non si sentiva in condizione di sostenere una conversazione troppo approfondita. Il poliziotto estrasse una torcia dalla tasca e gliela puntò contro il volto, portandolo a chiudere gli occhi per non rimanere accecato. 

- Patente e libbre… Brodie? - disse quello con voce stupita. Il castano ci mise un po’ a riaprire gli occhi, ma riconobbe subito la persona che aveva davanti. 

- Agente McArthur. - disse, con tono stupito. 

- Cavolo, è da un pezzo che non ti vedevo! - il poliziotto si lasciò andare ad una risatina – Tuo padre mi ha detto vuoi entrare nell’esercito. - proseguì, sempre più euforico. 

- Sì. - Brodie accompagnò quell’affermazione con un movimento della testa e, per poco, non rischiò di vomitarsi addosso. L’agente McArthur si rese subito conto della situazione. Puntò la luce nei sedili dietro e vide le quattro ragazze tutte accatastate l’una sull’altra.  

- Sono costretto a portarvi in caserma. - disse sospirando, per poi estrarre il taccuino per iniziare ad annotare la, salata, multa che gli avrebbe dovuto fare. Iniziò a scrivere, ma un pensiero rapido valicò la sua mente – Brodie, quando hai le prove fisiche? - chiese di getto. 

- Dopodomani. - rispose il castano. Il poliziotto affondò la punta della matita nella carta istintivamente. Se lo avesse multato per una cosa così grave gli avrebbe impedito di entrare nell’esercito. Deglutì forzatamente e guardò il ragazzo, che dall’aspetto sembrava aver intuito cosa sarebbe successo se davvero lo avesse portato in caserma. Così come le ragazze con lui. McArthur sbuffò e ripose il taccuino all’interno della tasca. 

- Per questa volta farò finta di niente, ma fila dritto a casa. Sono stato chiaro? - gli chiese, guardandolo con espressione imbronciata. 

- Sì. - Brodie scosse la testa – Grazie mille. - aggiunse, per poi ripartire il prima possibile. Sentiva le gambe rigide ed una fortissima voglia di vomitare tutto quello che aveva in corpo. Aveva perso sette anni di vita, ne era certo. 

- Non posso credere che ci siamo salvati! - urlò Clara, dando un leggero schiaffo sulla coscia di Aya. 

- Ti giuro che se ci avesse portato in caserma ti avrei ammazzato. - Ginevra, con il volto pallido per lo spavento, guardò Clara negli occhi.  

- Esagerata, capisco che devi andare all’università, ma mica ti caccerebbero per così poco. - la mora sminuì la cosa con un cenno della mano. 

- Se hai reati alle spalle non ti prendono nelle migliori università. Anche in quella a cui andrò io è così. Siamo state fortunate. - Abbey si lasciò andare ad un lungo sospiro ed affondò nel sedile dell’auto. 

- Abbiamo rischiato grosso. - Ginevra portò una mano sulla fronte e se la massaggiò con calma. 

- Cavolo, che spavento. - Delfina si portò una mano sul cuore e lo sentì battere all’impazzata. Il solo pensiero che Brodie potesse finire nei guai per colpa sua la terrorizzava a morte. 

- Oh, andiamo, di che vi preoccupate? I poliziotti in questa città sono tutti dei deficienti, sarebbe bastato fargli un lavoretto e saremmo state a casa in un batter d’occhio. - Clara si lasciò andare ad una lunga risata. 

- Sei proprio malata. - Ginevra scosse il capo e girò la testa verso il finestrino. Era tutto completamente buio. 

- Questa è l’ultima fottutissima volta che ti porto con me da qualche parte! - passato lo spavento, Abbey iniziò a sentire la rabbia in corpo salire a dismisura. Guardò Clara con le sopracciglia abbassate e molta poca voglia di scherzare. 

- Quanto cazzo vi scaldate! Porca puttana, abbiamo solo fatto serata. - la mora si mosse di colpo, rischiando di far cadere Aya, che si tenne stretta alle sue gambe. 

- Mi pare normale, hai rischiato di mandare a puttane il futuro di tutti. - Ginevra si girò verso di lei e la guardò con gli occhi spalancati. 

- Ma che cazzo dite? Quel ragazzo era ubriaco fradicio già prima che arrivassi io. - Clara iniziò a scaldarsi, così come l’atmosfera all’interno della macchina. 

- Hai spaccato i fottuti fanali! - urlò Abbey a pieni polmoni. 

- E tu hai costretto Brodie a portarci qui! - anche Delfina si unì alla discussione, gettando ancora più benzina sul fuoco. 

- Eh? - la castana la guardò incredula. 

- Hai sentito bene, è colpa tua se Brodie è in questo stato. - replicò Delfina alzando la voce. 

- Io non capisco perché cazzo devo avere a che fare con gente come voi, dannazione! - Abbey colpì il poggiatesta con violenza. 

- Me lo chiedo anch’io. - urlò Delfina, per poi colpire con un piede il sedile davanti a se per la stizza. Quello fu il penultimo tassello per completare il puzzle della tragedia. Brodie, sentito il colpo, affondò erroneamente il piede sull’acceleratore.  

E in quel preciso istante Aya, che fino a quel momento si era limitata a stare seduta sulle gambe di Clara come una bambola di pezza, decise di stare zitta. Lei l’aveva vista, aveva visto, grazie alla luce interna dell’auto, la ragazza che camminava lungo il bordo della strada che le altre, troppo prese dalla lite, non avevano notato minimamente. La vide, ma non disse nulla pur di non parlare. Rimase in silenzio e, qualche istante dopo, accadde l’irreparabile.  

Un tonfo, tremò tutto ed il parabrezza si riempì di crepe. L’auto andò avanti per qualche altro metro, poi inchiodò di colpo e si spense. 

- Che cazzo è stato? - domandò subito Abbey, con il cuore in gola. 

- Un cinghiale, forse. - propose Ginevra.  

- Ha spaccato il vetro. - disse Delfina strabuzzando gli occhi. 

- Vado a vedere. - Abbey si slacciò la cintura ed aprì la portiera della macchina. 

- Vengo con te. - Ginevra fece lo stesso e, dopo di lei, anche gli altri. Scesero tutti dall’auto e si avvicinarono alla carcassa in mezzo alla strada con le torce puntate. Era una persona. Capelli biondi, un maglioncino verde, pantaloni scuri ed un cestello di erbe rovesciato al suo fianco. 

- Oh, Cristo santo. - Abbey si precipitò al fianco della ragazza stesa per terra 

 – Ehi, stai – si fermò di colpo. La riconobbe solo in quell’istante, la vista offuscata dall’alcol tornò normale ed il suo cuore iniziò a battere un miliardo di volte più forte di quanto non lo stesse già facendo. 

- Che succede, la conosci? - Clara fece un passo avanti. Anche a lei quel volto era familiare. 

- Dawn! - gridò Abbey con le mani tremanti. La prese per le spalle e provò a tirarla su. Il suo volto era coperto di sangue ed aveva gli occhi spalancati rivolti verso l’altro. 

- L’abbiamo ammazzata. - sussurrò Brodie. 

- Siamo nella merda. - Delfina deglutì amaramente, tenendo gli occhi rivolti verso il corpo. 

- Chiamo un’ambulanza. - Abbey estrasse il telefono e digitò il numero verde ma, proprio mentre stava per chiamarlo, Ginevra le tolse il telefono di mano. 

- Non possiamo. - la sua voce era seria e calma, come se avesse già avuto a che fare con situazioni del genere. 

- Di che cosa stai parlando? - la castana, preda del panico, la guardò spaesata. 

- La mia università. La tua università. L’esercito di Brodie. - si prese un secondo di pausa – Andrebbe tutto a puttane. - aggiunse. Abbey non disse nulla, si limitò ad osservarla con la bocca spalancate ed il corpo di Dawn ancora fra le braccia. 

- Ascoltatemi bene. - Ginevra prese il comando, come al solito – Adesso andiamo da qualche parte e facciamo sparire il cadavere. - disse, per poi avviarsi verso l’auto. 

- Dobbiamo avvisare la polizia. - suggerì Clara, mentre si ricordava della Dawn Medrek che andava nella sua stessa scuola ed era presa in giro da tutti per essere svampita e strana. Ginevra fece dietrofront e le andò sotto a brutto muso. 

- Se pensi che permetterò ad un incidente simile di rovinare il mio futuro sei sulla cattiva strada. Inoltre ricordati che questa cosa è penale e se dovesse saltare fuori saremmo nella merda tutti quanti, te compresa. - le puntò il dito alla gola – Così come voi due. - guardò Amy e Delfina – E adesso, muovete quel culo in macchina. - 

Così fecero, il corpo di Dawn venne riposto in un bagagliaio e partirono alla ricerca di un luogo nel quale far sparire il corpo. 

 

- E questo è quanto. - Ginevra finì di raccontare il tutto e guardò Noah negli occhi. Noah si morse un labbro e portò una mano sotto il mento. 

- Che ne avete fatto del cadavere? - chiese. 

- Abbey l’ha gettato da un dirupo. - rispose Clara. 

Infatti il cadavere era stato ritrovato in un dirupo vicino alla zona, se non ricordo male. - rimembrò Noah. C’era qualcosa che non gli tornava con questa ricostruzione – Dawn era morta? - domandò poi, lasciandoli parecchio confusi. 

- Eh? Che intendi dire? - chiese Ginevra, che ancora non aveva capito dove stesse andando a parare. 

- C’è la possibilità che Dawn non fosse morta quando avete nascosto il suo cadavere. - spiegò. Le bocche di tutti si aprirono ed i loro occhi si spalancarono. Non avevano mai pensato ad una simile conclusione, anche perché avevano tutti dato per scontato che Dawn fosse morta sul colpo. 

- No, non è possibile. - Brodie scosse la testa – Abbey se ne sarebbe dovuta accorgere. - il respiro del moro iniziò a farsi sempre più rapido. Noah lo guardò e gli fece cenno di sì con la testa, poi guardò la ragazza sanguinante stesa sul divano. 

- Abbey se ne sarebbe dovuta accorgere. - ripeté l’avvocato. 

 

 

ANGOLO AUTORE: 

Ma voi ci avevate fatto caso che Ginevra c’era anche in Care Project? Io me ne sono accorto ieri rileggendo CP. Cavolo, ho davvero la memoria corta LOL. 

Beh, signori miei, ho deciso, alla fine, di non spezzare il capitolo. Questo perché gli unici punti in cui potevo dividerlo avrebbero reso il capitolo dopo – o prima – fin troppo corto. 

Bene bene, saltano gli altarini... e si scopre qualcosa di parecchio piccante. L'avreste mai detto? Eheheheh. 

Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e, ad essere onesto, non so ancora se lo pubblicherò esattamente com’è scritto adesso. Forse qualche ritocchino glielo darò, ma in linea di massimo ormai il finale è impresso nella mia testa. 

Ah, vi racconto un piccolo funfact prima di lasciarci: durante tutto il primo pezzo di capitolo mi era scordato di Ginevra. Così ho dovuto riscrivere tutto per farla comparire... bene ma non benissimo LOL 

 

Alla prossima settimana! 

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


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Disegno di: reginaZoey1999


- Ti prego, dicci cosa è successo. Tu eri sua amica. - Abbey non poté mai dimenticare gli occhi tristi della signora Medrek. La donna piangeva a dirotto con il marito affianco che cercava di consolarla. Vedere quella scena fu per lei un colpo al cuore. Mai avrebbe immaginato che la signora Medrek, donna di classe e dall’aspetto altolocato, sarebbe arrivata a prostrarsi ai suoi piedi pur di scoprire la verità. “Le è morta la figlia” le suggerì una voce nella sua testa, che la portò a comprendere come in certe situazioni anche le persone più dure finivano inevitabilmente messe al tappeto dalla vita. 

- No, signora Medrek. - disse, con un groppo alla gola che le impediva di risultare convincente – Noi non c’entriamo nulla. Glielo giuro sulla mia vita. - si portò una mano sul cuore per sembrare più convincente. Era proprio un’ipocrita per giurare in quel modo nonostante sapesse perfettamente la verità, non si sarebbe stupita se fosse morta sul colpo. 

- Ne sei sicura? - chiese il signor Medrek. L’uomo aveva gli occhi stanchi, Abbey lo vide chiaramente. La stanchezza era dovuta dall’assenza di una giustizia sulla quale aveva fatto ciecamente affidamento e che, col senno di poi, l’aveva deluso. Fu proprio il suo sguardo a farla vacillare. Ci mise un po’ a rispondere. 

- Noi non c’entriamo nulla. - ripeté – Abbiamo fatto un incidente, ma è successo da tutt’altra parte rispetto al luogo in cui è morta Dawn. - le propose esattamente la versione che Noah le aveva detto di dire in giro. Delle lacrime argentee incominciarono ad uscire dai suoi occhi, tanto per rendere quella scenetta ancora più pietosa.  

Le bastò guardarli negli occhi per capire che non la credevano, che erano sicuri stesse mentendo. Però non dissero nulla, non obiettarono. Si limitarono a scuotere la testa con le facce rattristite e poi, dopo averla salutata, ad andarsene dalla sua stanza senza proferire parola. 

E a quel punto, quando fu rimasta da sola, Abbey si asciugò le lacrime con la manica della maglietta e si gettò di peso sul letto puntando lo sguardo verso il soffitto giallognolo della sua cameretta. Ci era riuscita, più o meno: aveva salvato il suo futuro, aveva fatto in modo che quell’errore non incidesse in alcun modo su quello che sarebbe stato il suo avvenire. Non poteva dire di esserne felice, ma al tempo stesso sentiva un forte sollievo che la induceva a ridere. E così fece, rise con le mani sulla pancia, la stessa pancia che dentro borbottava per i sensi di colpa. 

 

 

- No, non è possibile. - Brodie scosse la testa – Abbey se ne sarebbe dovuta accorgere. - il respiro del moro iniziò a farsi sempre più pesante. Noah lo guardò e gli fece cenno di sì con la testa, poi guardò la ragazza sanguinante stesa sul divano.  

- Abbey se ne sarebbe dovuta accorgere. - ripeté l’avvocato.  

- Dawn era sua amica. L’avrebbe sicuramente aiutata. - Brodie guardò Noah. L’indiano lesse nei suoi occhi il desiderio di sentirsi dire che era come diceva lui, che Abbey non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere.  

Solo lei può dirci la verità. - indicò Abbey con un dito. Tutti si voltarono nella sua direzione 

- Esatto. - concordò Ginevra. 

- Non può essere stata lei. - Brodie iniziava a capire dove Noah volesse andare a parare. Non poteva essere stato un semplice incidente, Abbey non poteva essersi sbarazzata del corpo di Dawn senza capire che fosse ancora viva. Le mani di Brodie iniziarono a tremare sempre più forte.  

- Chiediamoglielo. - Ginevra mosse la testa verso la castana. Sulle prime, rimasero tutti immobili. Clara era shoccata, perché non aveva minimamente pensato ad una soluzione del genere, mentre Aya si limitava ad ascoltare quanto detto con la bocca aperta. La prima cosa che le venne in mente fu che, paradossalmente, a quel punto Delfina avrebbe avuto ragione quando accusava Abbey di averli portati lì.  

Fu Brodie ad avvicinarsi, a passi incerti, verso di Abbey. Si piegò sulle ginocchia e le accarezzò il viso delicatamente. Sussultò quando vide la castana aprire gli occhi.  

- Abbey, sei stata tu? - iniziò, fermandosi subito – Hai ucciso tu Dawn? - sentì un enorme groppo formarsi all’altezza della gola. Il respiro si fece ancora più affannoso, così come il battito del suo cuore. Guardò la ragazza con gli occhi lucidi, sull’orlo di una crisi di nervi che l’assenza delle sue pasticche rendeva molto più facile.  

- Sì, sono stata io. -  

 

 

Brodie parcheggiò la macchina lungo il bordo della strada. Guardò Delfina dallo specchietto retrovisore che, dopo aver buttato un occhio fuori dal finestrino, fece cenno di sì con la testa. 

- C’è un fossato qui accanto, possiamo gettarla lì. - spiegò la mora, indicando il punto con l’indice tremante. 

- Okay. Vai Brodie. - Ginevra mosse la testa in direzione del ragazzo, che spalancò la bocca ed iniziò a tartagliare parole confuse 

- Non è in condizione di farlo. - lo sostenne Abbey, girandosi verso l’amica. 

- Allora fallo tu. Io di certo non mi metterò a nascondere il corpo della persona che lui ha ucciso. - Ginevra indicò Brodie e guardò Abbey. Il ragazzo spostò gli occhi tremanti sulla fidanzata che, dopo averlo visto in faccia, capì esattamente cosa doveva fare. Si slacciò la cintura con fatica ed aprì lo sportello. 

- Quanto ci vuole per arrivare al fossato? - chiese.  

- Due o tre minuti, è appena entri nel bosco. - spiegò Delfina.  

Abbey si avvicinò al bagagliaio e lo aprì lentamente. Sentì un tuffo al cuore quando i suoi occhi videro il corpo di Dawn tutto piegato all’interno di quello spazio ristretto. Si fece forza, la prese da sotto le spalle e la spinse di peso fuori, poi la trascinò, con fatica, fino al punto stabilito.  

Le ci vollero quasi dieci minuti per raggiungere il fossato. Il corpo di Dawn non pesava così tanto, ma erano comunque quaranta chili che lei, di poco più alta della bionda, non riusciva a trasportare con facilità. Per di più, i continui rami e foglie degli alberi le andavano a sbattere contro il volto, impedendole di vedere bene, senza contare la borsetta che, come un’idiota, aveva dimenticato di lasciare in macchina che le penzolava fra i piedi rendendole il tutto ancora più difficile e scomodo.  

Una volta giunta, sdraiò Dawn per terra e si mise a sedere su una roccia lì vicino, completamente stremata. Aveva il fiatone e sentiva le braccia staccarsi dal resto del corpo. Affondò la testa nelle gambe e si lasciò andare a dei lunghi sospiri. Aveva quasi finito, doveva solo gettare il corpo nel fossato e poi tornare a casa come se nulla fosse successo. Un ultimo sforzo che le avrebbe permesso di vivere la sua vita in pace, perché infondo Ginevra aveva ragione: non poteva buttare tutto via per colpa di un incidente.  

- Aiuto. - quando sentì quelle parole le venne la pelle d’oca – Aiutatemi. - un sussurro lento, lagnoso e stridulo, come quello di un bebè in una culla. Abbey sollevò lentamente la testa dalle gambe e guardò Dawn: aveva un braccio alzato e muoveva le dita della mano con fatica.  

- Dawn, sei viva? - Abbey si alzò di scatto e, con il cuore in gola, si avvicinò verso di lei. Si buttò al suo fianco e le prese la mano stringendola con forza.  

- Abbey, sei tu? - chiese l’altra, con un filo di voce.  

- Sì, sono io. Andrà tutto bene, non preoccuparti. Vado a chiamare gli altri, aspettami qui. - si alzò di scatto, facendo ben attenzione a riporle la mano a terra con cautela, e fece per tornare indietro.  

Ti prego, chiama un’ambulanza. Non sento più le gambe. - disse Dawn piangendo, per poi tossire un po’ di sangue. Fu quella frase a fermare Abbey. Cosa sarebbe successo se avessero chiamato l’ambulanza? A loro volta avrebbero chiamato la polizia e loro sarebbero stati arrestati. E, quindi, Abbey avrebbe potuto dire addio per sempre alla sua università. 

Abbey si guardò attorno: vicino a lei c’era un sasso grande quando la sua mano. Sarebbe stato perfetto. Si avvicinò e lo prese. Perse qualche secondo a guardarlo, mentre Dawn continuava a lamentarsi sottovoce.  

- Abbey, per favore. Fa male. - la castana si avvicinò a Dawn e la guardò fissa in volto. Dawn si rese subito conto che c’era qualcosa che non andava, anche se la sua vista era leggermente offuscata. L’espressione di Abbey non era quella giusta. Non sembrava in pena per lei, né vogliosa di aiutarla. Era seria, quasi infastidita da qualcosa che avrebbe dovuto fare per forza. La castana alzò il braccio che teneva in mano il sasso al cielo. 

- Abbey? - chiese Dawn con voce tremante. Abbey la guardò per qualche secondo, indecisa sul da farsi. Doveva scegliere, era tutto nelle sue mani: fare la scelta giusta e compromettersi l’esistenza, oppure nascondere le prove e fare finta che nulla fosse successo. Esitò parecchie volte, tenne il braccio rivolto al cielo per quasi due minuti prima di avere la risposta al suo quesito.  

- Abbey, io e te siamo amiche. - Dawn scoppiò a piangere ancora più forte. Non poteva muoversi, aveva le gambe fuori uso e troppe poche forze per difendersi.  

- Sì, lo siamo. - Abbey strinse la presa attorno al sasso e con tutta la forza che aveva in corpo lo sbatté contro la faccia della bionda.  

- Fermati, ti prego! - sussurrò Dawn, impotente. Ma Abbey non lo fece. Continuò imperterrita a colpirla in faccia con il sasso senza alcuna pietà, con l’espressione di chi uccide un ragno sul muro. La colpì fin quando non sentì la mano di Dawn afferrarle debolmente la maglietta. A quel punto si fermò di e, dopo pochi istanti, la bionda lasciò la presa.  

Abbey guardò quello che aveva fatto con gli occhi sgranati: il volto di Dawn era tumefatto e sporco di sangue, con il naso spaccato, un occhio spappolato e qualche dente sfracellato. Non riuscì a trattenere il vomito, rigettò fuori tutti i cocktail che aveva bevuto quella sera e, con la bocca ancora colante della sua saliva, rimase ad osservare il cadavere fino a quando non si riprese del tutto.  

Per prima cosa, gettò via la pietra nel bosco, poi prese Dawn per un piede e, con fatica, la lanciò giù dal dirupo. Sentì il corpo rotolare per qualche secondo, fino a quando non udì un schiocco sonoro che le fece capire fosse andato a sbattere su di un sasso infondo al fossato.  

Prese poi la sua inseparabile borsetta e ne estrasse un bottiglia d’acqua, con la quale si pulì il volto sporco di sangue, e, dopo aver tratto un enorme sospiro liberatorio, tornò indietro come se nulla fosse successo.  

- Perché ci hai messo tanto? - le chiese Ginevra, infastidita da tutta quell’attesa.  

- Pesava. - non aggiunse altro, si limitò a mettersi la cintura e a rimanere in silenzio per tutto il resto del tragitto. Nessuno avrebbe saputo la verità, nessuno avrebbe sospettato della sua piena colpevolezza ed andava bene così. Nel peggiore dei casi, le colpe sarebbero andate solo a Brodie. 

 

 

- L’ho uccisa io. - sussurrò Abbey con le poche forze rimaste. La casa iniziò a tremare – L’ho uccisa e poi gettata nel fossato. - più andava avanti e più le scosse aumentavano di intensità.  

- Abbey – sussurrò Brodie, senza riuscire a dire altro.  

- Oh, Cristo. - disse Ginevra portandosi una mano alla bocca. 

- Questo spiega un bel po’ di cose. - Noah scosse la testa e si massaggiò gli occhi con l’indice e il pollice della mano destra. Fu solo quando sentì un pezzo di calce cadergli sulla spalla che si accorse che la casa stava crollando.  

- Merda. - disse Clara dopo aver visto la grossa spaccatura sul soffitto che si faceva pian piano sempre più forte.  

- Dobbiamo andarcene da qui! - urlò Noah, per sovrastare il baccano.  

- Come facciamo? Non ci sono uscite. - replicò Ginevra, indicando la porta senza maniglia. L’avvocato si morse il labbro e, senza perdere tempo, vi si fiondò davanti. Iniziò a colpirla con foga, mentre alcuni pezzi di intonaco iniziavano a cadere dal soffitto. Della sottile polverina bianca si espanse per tutta la stanza e piccoli pezzi di calce lì colpivano di tanto in tanto.  

- Siamo morti! - urlò Clara, che tenne stretta a se Aya afferrandole la mano con forza. Noah non si fermò nemmeno per un istante, continuò a colpire la porta con calci pugni e testate, nella speranza di farla cadere giù. Anche Ginevra, presa dalla disperazione, iniziò a fare lo stesso. 

- Apriti, porca puttana! - le urla di Ginevra andavano a tempo con i colpi sulla porta, che non sembrava voler cedere. La stanza era completamente invasa dalla polvere, che gli impediva di vedere poco più in là del loro naso, e che ormai si era depositata nei loro occhi, costringendoli a proseguire quasi alla cieca.  

- Hai avuto quello che volevi, ora lasciaci andare! - gridò Noah con tutto il fiato che aveva in corpo. Dall’altra parte della stanza, Brodie stava tenendo la mano di Abbey che respirava a stento. 

- Perché non me l’hai detto? - chiese il moro con le lacrime agli occhi, mentre vari pezzi di calce lo colpivano – Ho vissuto per anni con il trauma, non sono riuscito a realizzare i miei sogni per questo motivo. - le lacrime scesero verso le guance, pulendo la polvere dalla sua faccia.  

- Non lo so. - sussurrò lei, guardando in alto – Volevo far finta che non fosse mai successo. - aggiunse, per poi sorridere. 

- Avresti potuto parlarmene. - Brodie abbassò lo sguardo – Avresti dovuto parlarmene! - alzò la voce di colpo.  

- Mi dispiace così tanto. - la castana allungò la mano. Gli accarezzò una guancia e gli fece cenno di alzare la testa – Mi dispiace per tutto. - disse, poi esalò un profondo sospiro e chiuse gli occhi.  

- Si è aperta! - l’urlo di Noah portò Brodie a girarsi verso di lui. Dal nulla, la porta si era aperta. Clara ed Aya si precipitarono fuori all’istante. Anche Ginevra fece per andare, ma Noah la afferrò per un braccio.  

- Dobbiamo prendere Delfina. - le disse, guardandola dritta negli occhi. La ragazza rimase immobile per qualche istante. Le venne in mente la volta in cui aveva deciso, a nome di tutti, di non aiutare Dawn. Chiuse gli occhi e scosse la testa: non lo avrebbe fatto mai più.  

- Andiamo! - urlò, per poi entrare di nuovo nella casa. Presero Delfina, appoggiata al bordo del divano senza coscienza, e la sollevarono insieme.  

- Brodie, sbrigati! - Noah guardò il moro che, in lacrime, era ancora fermo con la mano di Abbey fra le sue.  

- Dovevi dirmelo! - il ragazzo continuò ad urlare in direzione di Abbey, ignorando le parole di Noah. 

- Sbrigati! - gridò l’avvocato. Una forte scossa annunciò l’imminente crollo della struttura. I pezzi di calce, cemento e legno incominciarono a farsi sempre più grossi, la polvere aumentò ancora e le fondamenta si piegarono. 

- Andiamocene! - Ginevra indicò l’uscita. Aveva le braccia stanche e non sarebbe riuscita a tenere Delfina ancora per molto. Con il cuore in gola, Noah decise di lasciare Brodie lì.  

- Sì. - disse, per poi correre verso l’uscita mentre i pezzi della casa iniziavano a cadere attorno nel bel mezzo della sala.  

Appena uscirono, la casa crollò su se stessa. Un enorme alone bianco si espanse per tutta la zona circostante, ricoprendo di polvere tutto ciò che c’era intorno.  

Noah si girò giusto in tempo per vedere l’edificio crollare completamente a pezzi, poi le sue gambe cedettero e sprofondò nel prato verde assieme a Ginevra. Attorno a lui il silenzio. La polvere si stava pian piano dissipando permettendogli di vedere le stelle nel cielo nero della notte. Sentiva l’aria gelida perforargli la pelle ed una strana sensazione di euforia mista ad adrenalina in pancia. Avrebbe voluto vomitare, ma non riusciva a tirarsi su. Poté solo restare fermo ad osservare le piccole luci bianche che tappezzavano quell’infinito manto nero che vedeva sopra di se.  

 

 

Brodie si tirò su non senza qualche difficoltà. Attorno a se c’erano una marea di detriti di quella che, poco prima, era stata l’abitazione dei coniugi Medrek. Scosse la testa, che sentiva vuota e pulsante, poi si ricordò di Abbey e scattò sull’attenti.  

- Abbey, dove sei? - iniziò a guardarsi attorno e a cercare con lo sguardo la ragazza, della quale non sembrava esserci traccia. Iniziò quindi a spostare i detriti, noncurante del forte dolore che sentiva alla testa e alle gambe.  

Tirò su un pezzo di tavolo, poi un grosso calcinaccio, addirittura una stecca di ferro delle fondamenta. Infine, nel bel mezzo delle macerie, vide una mano. Corse in quella direzione ed iniziò a spostare tutto ciò che c’era sopra, fino a scovare il corpo di Abbey.  

La ragazza era ancora stesa sul divano, con il volto angelico piegato in un sorriso, mentre la fronte era sporca di sangue seccato per via della polvere. Aveva gli occhi socchiusi e non sembrava assolutamente triste, anzi, quasi era alquanto felice.  

- Abbey? - domandò, sperando con tutto il cuore che fosse ancora viva. Nessuna risposta. Spostò un altro macigno e, solo a quel punto, si accorse della trave di ferro che tagliava di netto lo stomaco della ragazza. Le toccò il polso, tanto per essere sicuro al cento per cento, e quando non sentì battito iniziò a ridere istericamente. Dovette premere con forza sulla pancia per riuscire a smettere, tanto era forte l’attacco isterico che gli era preso. Riuscì a calmarsi poco dopo e, appena fatto, si girò ed appoggiò la schiena contro il divano. 

- Sei sopravvissuto. - Noah apparve alle sue spalle. Non ricevette risposta, ma non ne ebbe bisogno. Si avventurò fra le calci e i detriti della casa distrutta e gli andò incontro.  

- Ho vissuto in una bugia. - sussurrò il moro, deglutendo poi con forza. Si asciugò una guancia dalla polvere con la mano ed abbassò la testa verso quello che restava del pavimento in legno.  

- Mi dispiace. È anche colpa mia. - Noah appoggiò una mano sui capelli del ragazzo ed iniziò a massaggiarglieli. Non capiva il perché, ma sentiva il forte bisogno di consolarlo. Forse era il suo istinto paterno che, pian piano, stava venendo fuori, o magari della semplice empatia che per la prima volta nella sua vita provava nei confronti di qualcuno. Perché se non l’avesse provata nei confronti di Brodie non ci sarebbe riuscito per nessuno altro. Tradito da chi amava, lasciato a marcire con il peso di qualcosa che non aveva fatto ed ormai arresosi ad un’inevitabile vita fatta di rimorsi e rimpianti.  

- Ho freddo. - disse Brodie, portando lo sguardo verso il cielo stellato notturno. 

  - Andiamo a casa. - Noah gli dette una leggera pacca sulla collo.  

- Che cosa succederà adesso? - il moro alzò lo sguardo verso l’avvocato e lo guardò con gli occhi di un cucciolo smarrito.  

- Non lo so, Brodie. - si sentiva fuori contesto nel fare quei discorsi, ma in quel momento soltanto lui poteva farlo, per quanto gli pesasse – Potremmo tornare alle nostre vite come se nulla fosse successo. Potremmo fare quello che abbiamo fatto per sei lunghi anni. - guardò da prima la luna, poi abbassò lo sguardo verso il cadavere di Abbey davanti a lui – Sarebbe giusto così. - Brodie lo guardò in silenzio per qualche secondo, poi, seppur con molta difficoltà, aprì la bocca.  

- Lo sai cosa sarebbe giusto? - non lasciò rispondere Noah, ci pensò lui stesso a porre fine a quel dubbio etico – Denunciare tutto. Ammettere quello che abbiamo fatto ai quattro venti. Dire la verità. - marcò particolarmente su l’ultima parola. 

- Vuoi fare la spia? - Noah esitò per un istante. Se lo avesse fatto sarebbe stata la fine per tutti loro. 

- Non è che voglio. - Brodie estrasse con fatica il telefono dalla tasca – Lo devo fare. - nonostante lo schianto, il cellulare era perfettamente intatto. In altre circostanze lo avrebbe definito un miracolo, ma non dopo quello che aveva vissuto quella notte. Sembrava chiaramente la volontà di qualcuno di superiore.  

- Così metterai tutti nei casini. - Noah sentì la gola farsi secca. Se davvero Brodie avesse rivelato a tutto il mondo cosa era successo avrebbe distrutto completamente la sua vita. Sarebbe passato da avvocato rispettato ad oggetto dell’odio pubblico, per non parlare di quello che avrebbe pensato Emma, alla quale aveva sempre detto che i ragazzi erano innocenti. Emma si fidava di lui ed odiava sentirsi dire bugie. Bugie che Noah perennemente le diceva per evitare di far crollare l’immagine perfetta che aveva costruito di se. 

- Non mi interessa. - Brodie aprì la rubrica e cercò quel numero che non aveva mai avuto il coraggio di cancellare. Guardò il nome del contatto con gli occhi sgranati, mentre il suo respiro si fece sempre più affannoso. 

- “Scott Wallis” – lesse sottovoce, per poi sospirare ed appoggiare lievemente il dito sull’icona della chiamata.  

Noah sentì la testa pulsargli come non aveva mai fatto prima. Se Brodie avesse fatto quella chiamata sarebbe tutto finito: la sua carriera, il suo matrimonio e tutto quello che gli rimaneva. Una marea di pensieri sul come poter risolvere la situazione iniziarono a ronzargli in testa, dai più ortodossi ai più estremi. E non ci mise molto a capire che solo con quegli ultimi sarebbe riuscito nel suo intento. Afferrò un pezzo di ferro da terra, probabilmente appartenente ad un qualche mobile andato a pezzi, e si avvicinò verso Brodie, ancora alla ricerca del coraggio per fare la telefonata.  

Alla fine il moro si convinse e schiacciò con forza l’icona. La chiamata partì. “Tuuu”, “Tuuu”, “Tuuu”. 

- Pronto? - una voce acida uscì dal telefono. Si sentì un grido distorto di aiuto in sottofondo – Chi cazzo è che chiama a quest’ora? - la mancata pronta risposta di Brodie si rivelò essenziale per Noah. L’indiano strinse la presa sul pezzo di ferro e si mise fermo dietro al moro.  

Non lo fare. - sentì una voce candida, che dopo quella notte riconosceva bene – Lascialo parlare. - aggiunse. Noah tenne l’arma in alto  - Fidati di me. - quella frase bastò a convincerlo. Col cavolo che si sarebbe fidato di quel demone.  

Strinse il pezzo di ferro saldamente e, con gli occhi chiusi, colpì Brodie alla testa. Un tonfo sordo vibrò nell’aria, poi il moro cadde faccia in avanti contro le macerie perdendo la presa sul cellulare.  

Noah guardò il corpo di Brodie con respiro affannato, mentre in sottofondo la voce di Scott contribuiva a rendere l’atmosfera ancora più cupa. 

- Oh, dannazione! Vuoi rispondere? Ho di meglio da fare. - urlò Scott, sovrastando le grida provenienti da dietro di lui, e a quel punto Noah si girò verso il cellulare. Alzò la spranga verso il cielo notturno e la rigettò con forza contro l’oggetto che, appena colpito, si frantumò in mille pezzi. La voce di Scott sparì immediatamente e tornò il silenzio. 

Hai fatto la tua scelta. - sussurrò la voce candida e pura nella sua testa.  

 

 

- Noah, hai trovato qualcosa? - domandò Ginevra quando lo vide tornare indietro. L’indiano abbassò lo sguardo verso il pavimento e fece cenno di no con la testa.  

- Sono morti. - sussurrò, per poi lasciarsi andare ad un lungo sospiro. Portò una mano alla bocca ed iniziò a piangere – Sono morti tutti e due. Ho trovato i loro cadaveri. - disse fra un singhiozzo e l’altro.  

Le quattro rimasero immobili con la bocca spalancata. Brodie ed Abbey avevano perso la vita. Le loro menti andarono in tilt, non sapevano esattamente cosa pensare e come farlo. Se da un lato c’era la consapevolezza di essere sopravvissute ad un inferno del genere, dall’altro quella di aver perso delle persone che, seppur in passato, erano state loro amiche.  

Questo valeva per Aya, Ginevra e Clara, ma non per Delfina. Lei, fra tutte, era l’unica a sentire in petto un peso da milioni, se non miliardi, di chili che la trascinava verso il pavimento. Si lasciò cadere giù di peso, finendo in ginocchio. Il respiro iniziò a mancarle e le lacrime a scendere con talmente tanta velocità che quasi non se ne rese conto. Brodie era morto. L’amore della sua vita, il ragazzo per il quale avrebbe volentieri sacrificato se stessa, quello che l’aveva fatta soffrire ma che, inevitabilmente, le stava a cuore. Delfina pianse, pianse senza sosta per tutto il tempo. Pianse talmente tanto che Clara sentì il dovere morale di cercare di consolarla abbracciandola, anche perché Brodie le aveva salvato la vita dandole la sua ultima pasticca e lei, per quanto fosse cinica e ingrata, non poteva che riconoscergli di averla salvata.  

- Mi dispiace. - le sussurrò nell’orecchio, mentre anche lei sentiva un leggero prurito agli occhi. Aya si unì all’abbraccio e allora Clara scoppiò definitivamente a piangere. Fu un scena triste e mielosa, che Ginevra guardò con un groppo in gola.  

- Andiamocene. - disse quasi mezz’ora dopo, ormai conscia che non ci fosse più alcun motivo per rimanere lì.  

- Con i loro corpi cosa facciamo? - chiese Clara, asciugandosi le lacrime.  

- Appena tornerò a casa chiamerò la polizia. - spiegò Ginevra – Poi, con calma, decideremo tutti assieme cosa fare. - concluse.  

- Concordo. - disse Noah. 

- Qualcosa da questa notte abbiamo imparato: nulla resta impunito. - constatò Ginevra, soffermandosi a guardare per un’ultima volta i detriti della casa – A qualcuno serve un passaggio? - estrasse le chiavi di tasca e le mosse davanti al gruppo. 

- Io ho la mia. - Noah scosse la testa.  

- Anche io, ma penso sia meglio venire con te. Non so se riuscirei a guidare e penso che sia meglio portare Delfina all’ospedale. Non ha una bella cera. - Clara, con l’aiuto di Aya, sollevò Delfina ed andò dietro Ginevra.  

- E sia, venite con me. - detto ciò, si diressero al cancello di ferro che, questa volta, si aprì senza fare troppe storie.  

 

 

Il rumore delle onde del mare, l’odore della brezza marina e il caldo del sole che le batteva sulla pelle.  Erano secoli che Clara non andava al mare.  

L’ultima volta, se non ricordava male, aveva circa sedici anni e ci era stata assieme alle sue amiche del tempo per fumare erba sulla scogliera più alta di Wawanakwa 

Tornare lì a distanza di anni le provocò un senso di nostalgia alla quale aveva pensato di poter essere indifferente. Eppure, lo sentiva, lo sentiva eccome. Si sarebbe volentieri gettata in mare se solo non fosse stato ottobre. Il sole era inaspettatamente cocente, da quelle parti era alquanto normale, tuttavia era piuttosto sicura che se avesse messo un piede nell’acqua sarebbe finita ricoverata per ipotermia. E all’ospedale c’era già Delfina, perciò voleva evitare di dare altre rogne ai medici.  

- Oh, Cristo. - sussurrò, per poi sedersi di colpo sulla sabbia. In altre circostanze sarebbe stata attenta a dove si sedeva, ma dopo quello che aveva passato sentivo il bisogno di concedersi del sano e meritato riposo – Sono stanca morta. - aveva dormito poco più di un’ora nella macchina di Ginevra, fino a quando non erano arrivate all’ospedale dove avevano portato Delfina per evitarle una, probabilissima, crisi respiratoria. E, dopo quasi cinque ore passate ad aspettare in sala d’attesa, il medico aveva detto loro che potevano andare a fare un giro visto che la situazione era sotto controllo.  

A Clara sarebbe piaciuto tornare a prendere la sua macchina, ma Ginevra l’aveva liquidata spiegandole che doveva tenere sott’occhio Delfina e non poteva assolutamente assentarsi, per di più voleva andare quel pomeriggio stesso dalla polizia per denunciare cosa era accaduto quella fatidica strada.  

Quindi l’unica cosa che Clara poté fare fu andare in spiaggia assieme ad Aya che, come un fedele cagnolino, l’aveva seguita silenziosamente. 

  - Spero di potermene tornare a casa il prima possibile. Ho bisogno di un po’ di riposo. - Clara estrasse dalla borsa una sigaretta e la accese. Tirò con tutte le sue forze e lasciò andare un’ondata di fumo verso l’orizzonte con sguardo malinconico – Che farai ora? - chiese ad Aya, seduta silenziosamente al suo fianco. La mora la guardò inclinando la testa, poi tirò fuori un pezzo di carta ed una penna, che aveva prontamente rubato all’ospedale, ed iniziò a scrivere. 

- “Non lo so” – lesse Clara ad alta voce. 

- Che significa? - chiese poi.  

- “Che non lo so”. - Aya aggiunse semplicemente la congiunzione e sottolineò di nuovo la frase. 

- Grazie tante, adesso ho capito. - sbottò ironicamente Clara roteando gli occhi.  

- “Tu?” - scrisse Aya, portandola a leggerlo ad alta voce. 

- Cazzo, mi sembra di parlare da sola. - la mora scosse la testa e si massaggiò la fronte – Comunque, non lo so nemmeno io. - sbatté la sigaretta per far cadere la cenere che vi si era accumulata. Aya alzò le sopracciglia e la guardò con un’espressione incredula, quasi indispettita. 

- Ehi, non rompere. - Clara sbuffò sonoramente e riportò la sigaretta alla bocca – Vuoi venire con me? - chiese, tenendo stretta la cicca fra i denti. 

Mh? - Aya la guardò e con gli occhi le fece cenno di ripetere. 

- Oh, Dio, che imbarazzo. - spinse i palmi delle mani contro gli occhi e cercò il coraggio che aveva perso quando la sua adolescenza era finita – Vuoi venire con me? - ripeté, stando ben attenta a guardarla solo con la coda dell’occhio. 

- Va bene. - disse Aya, lasciandola di stucco. Aveva parlato. Aveva usato la sua voce per rispondere alla sua domanda, senza scrivere sul foglio o usare quel maledetto linguaggio dei segni. 

- Okay, allora è deciso. - Clara si alzò di colpo e si pulì i pantaloni dalla sabbia – Facciamo un viaggio. - aggiunse. 

- “Dove?” - scrisse l’altra, facendole perdere tutta l’euforia che fino a poco prima l’aveva avvolta. Ne aveva ancora di strada da fare se voleva “guarire” Aya, ma forse con il passare del tempo ci sarebbe riuscita e chissà, forse sarebbe guarita anche lei.  

- Ti piace il freddo? Stavo pensando a Taloyoak. -  

 

 

Una volta salito in macchina, Noah si asciugò le lacrime dagli occhi con la manica della giacca. Accese l’auto e partì in direzione dell’autostrada che, in meno di un’ora, lo avrebbe riportato a casa. Si toccò le tasche per prendere il telefono, ma si rese conto di non averlo più. Con tutta probabilità gli era caduto durante la rocambolesca fuga dalla casa.  

- Maledizione. - sussurrò, per poi roteare gli occhi e lasciarsi crogiolare dal silenzio più totale.  

Solo quanto tutto tacque Noah si rese conto di quello che aveva fatto: aveva ucciso Brodie a sangue freddo, quello stesso ragazzo che poco prima aveva cercato di consolare per chissà quale motivo. Era un povero ipocrita, un bastardo approfittatore che per ottenere quello che voleva era disposto a tutto. Anche ad uccidere.  

Proprio mentre pensava a quanto fosse marcio, iniziò a sentire lo stomaco sempre più leggero. Ci era riuscito, aveva salvato la sua immagine, così chiara fuori e sporca dentro. Aveva evitato la rovina e, in un certo senso, il karma.  

Fu proprio il karma a venirgli in mente all’improvviso e a portarlo a ridere di gusto. Dicevano che al karma non si sfugge, ma lui ci era riuscito in pieno. Aveva completamente ribaltato la situazione, perché Noah Hayden era il migliore al mondo. Era il massimo ottenibile su quel globo inquinato e corrotto, di cui lui era il chiaro rappresentate: un uomo potente diventato tale con l’inganno e la truffa. Ripensò a quello che aveva detto poco prima Ginevra e rise ancora più forte. Tutte cazzate, pensava lui.  

E, proprio mentre derideva il karma, arrivò davanti casa sua. Sulle prime non si preoccupò quando vide un’ambulanza ed una macchina della polizia parcheggiate vicino all’entrata, lo fece solo quando una poliziotta gli andò incontro non appena lo vide uscire dall’auto.  

- Signor Hayden, sono l’ispettrice Sanders. - gli mostrò il distintivo.  

- Che succede? - domandò Noah con un sopracciglio alzato. Ci fu un secondo di silenzio.  

- Sua moglie è stata uccisa. - Noah non riuscì a sentire altro. Sentì il respiro mancargli e le forza abbandonarlo e, qualche istante dopo, si ritrovò in ginocchio sull’asfalto freddo.  

- Signor Hayden, si sente bene? - la donna si fiondò subito su di lui e si girò verso l’ambulanza – Venga qualcuno, presto! - gridò. 

- Che cosa è successo? - chiese nuovamente Noah, aggrappandosi con tutte le poche forze che gli rimanevano alla divisa della poliziotta.

- Un uomo è entrato all’interna della casa ed ha ucciso sua moglie. I vicini hanno sentito dei rumore sospetti e ci hanno prontamente avvisato, siamo intervenuti il prima possibile, ma non siamo riusciti ad evitare la tragedia. - sospirò - Però abbiamo già preso il colpevole. - sentendo quelle parole, Noah scostò la testa ed osservò la macchina della polizia al cui interno c’era un ragazzo ammanettato. 

Ci mise qualche secondo a riconoscerlo, perché l’unica fonte di luce erano le sirene dell’ambulanza a qualche metro di distanza. Appena intravide i capelli rossi, le lentiggini ed il ghigno impresso sul volto si ricordò perfettamente di lui: Scott Wallis. 

Noah si pietrificò sul posto, mentre l’ispettrice continuava imperterrita a parlare. Non sentiva nulla, solo un fischio nelle sue orecchie ed il battito del suo cuore andare sempre più forte.  

- Io ti avevo avvisato. - la voce candida e pura tornò alle sue orecchie – Se Brodie gli avesse parlato, questo non sarebbe successo. Spero tu ti sia divertito nella mia casa dei ricordi 

 

 

 

 

ANGOLO AUTORE:  

(Ebbene sì, signori, ho citato The Getaway [la frase su Taloyoak è la stessa che dice Duncan a Zoey nel finale di TG])  

Questo finale cosa significa? Significa che il karma torna sempre indietro, che niente resta impunito e che adoro troppo i colpi di scena per ometterli del tutto. Ho lasciato alla fine la scoperta di Noah, anche se nella prima stesura era prima del discorso fra Aya e Clara. Questo perché ho pensato potesse essere più incisiva da leggere alla fine, quando sotto l’ultima parola scritta in corsivo e grassetto si intravedono le parole “Angolo Autore” che fanno capire che, no, non ci sarà altro, che è finita così. Perché, ricordate bene, spesso colpire i familiari è peggio che far male alla persona stessa (ovviamente parlo di risvolti narrativi, non della vita vera, pls evitate omicidi AHAHAH) e mi sono reso conto che questa piccola chicca non c’era mia stata nelle mie storie. Spero che abbiate sentito un leggero gorgoglio allo stomaco, vorrebbe dire che sono riuscito nel mio intento. 

Che dire… questo finale mi piace tanto. Ero in dubbio se far morire Brodie oppure no e, giocandomela a testa o croce, è stata decretata la sua brutta fine. Mi dispiace per lui, ma per tutti gli altri sono contento e, ad essere onesto, non penso neanche serva un epilogo che parli delle loro vite dopo questo incidente. Anzi, addirittura non ho nemmeno parlato di ciò che trova la polizia e di tutto il resto. Perché, a mio modesto parere, non ce n’è bisogno.  

Sarebbe come infiocchettare con del velo di realismo una storia che in realtà di reale ha ben poco. E con questo, concludo le mie riflessioni LOL  

Vi lascio giusto due piccoli trivia, giusto per chi, come me, ama sapere le idee scartate ed il possibile evolversi degli eventi che, se avessi fatto altre scelte, ci sarebbe potuto essere. 

Partiamo dai tre finali: il primissimo finale vedeva Brodie colpevole dell’omicidio (cioè, che al posto di Abbey ad uccidere Dawn era stato lui) ed un finale nel quale Abbey moriva schiacciata dalle macerie e lui, rimasto in vita per miracolo dopo il crollo, chiamava Scott e gli confessava l’omicidio. Vi lascio qua un piccolo estratto: 

- Chi è? - domandò una voce assonnata e molto poco accogliente.  

- Scott Wallis? - sussurrò Brodie, con il tono più serio che potesse assumere. 

- Sì, sono io. Chi sei? - domandò il ragazzo. Brodie esitò per qualche istante, come se le parole non riuscissero ed uscire dalla sua bocca, le sentiva quasi congelate all’altezza della gola. Piegò la testa all’indietro e vide il volto di Abbey, e solo allora trovò la forza di andare avanti.  

- Sono Brodie. Brodie Harper. Abbiamo ucciso noi Dawn. -  

Il finale era proprio quello, senza specificare nient’altro su cosa accadesse al resto del cast. Mi era sembrata una bella idea, ma poi mi sono reso conto che fosse fin troppo sbrigativa.  

 

Il “secondo” finale vedeva un finale molto simile a questo: Noah uccide Brodie prima che possa chiamare Scott, poi riceve una chiamata dalla polizia che lo avvisa della morta di sua moglie e lui, a quel punto, confessa tutto. Però questo finale avrebbe portato non pochi problemi logici: 1) la morte di Emma sarebbe avvenuta in parallelo a quella di Brodie e perciò ci sarebbe stato un buco temporale di 30 minuti (supponendo che la polizia fosse intervenuta subito sul luogo del crimine) 2) Sarebbe stato difficile attribuire l’omicidio a Scott, perché dubito che una poliziotta direbbe una cosa del genere al telefono 3) Onestamente, lo trovavo noioso e, anche qui, non si sarebbe dovuto sapere nulla del resto del cast. Ve lo lascio qui: 

- Emma, amore, ce l’ho – non ebbe modo di finire. 

- Signor Hayden, sono l’ispettrice Sanders. - ci fu un secondo di silenzio – Sua moglie è stata uccisa. - non riuscì a sentire altro. Il telefono gli cadde di mano e si schiantò contro il terreno. Noah fece lo stesso: finì in ginocchio senza nemmeno la forza per respirare.  

- Signor Hayden, mi sente? - la voce dal cellulare gli venne alle orecchie. Noah, impassibile, tirò su l’aggeggio e lo portò all’orecchio. 

- Sì. - disse.  

- L’assassino è stato identificato come Scott Wallis, lo stesso che sei anni fa la aggredì. - proseguì la poliziotta. Sentendo quelle parole, Noah spalancò la bocca. Si pietrificò sul posto, mentre l’ispettrice continuava imperterrita a parlare. Non sentiva nulla, solo un fischio nelle sue orecchie ed il battito del suo cuore andare sempre più forte. 

- Io ti avevo avvisato. - la voce candida e pura tornò alle sue orecchie – Se tu avessi permesso a Brodie di parlare questo non sarebbe successo. Spero tu ti sia divertito nella mia casa dei ricordi. -  

- Sono stati loro. - disse Noah, con la voce di un robot – Loro hanno ucciso Dawn Medrek ed io li ho coperti. - aveva perso. Ormai non aveva più nulla da perdere. Riattaccò la chiamata e si gettò a terra in lacrime. Le gocce argentee scesero da sole, senza bisogno di muovere un muscolo. Era tutto andato. La sua famiglia, la sua carriera e la sua vita. Tutto distrutto.  

 

Il terzo è quello che avete letto nella storia ed è il mio preferito. Inizialmente pensavo che questa storia non fosse altro che un semplice spreco di tempo, ma con l’andare mi ha preso sempre di più e sono arrivato alla conclusione che mi è piaciuto davvero tanto scriverla. Sono davvero felice di essere riuscito a completarla!  

Adesso che succede? Ah, boh, non ne ho idea. Ho sempre dato per scontato che questa sarebbe stata la mia ultima storia ad OC ed attualmente sono ancora di quell’idea. L’altro ieri, se ricordo bene, ho riletto alcune delle recensioni che ho ottenuto alla mia prima storia ad OC (per capirci, le Total Drama’s) e mi sono accorto di quanto il tempo passi in fretta.  

Purtroppo, A Tutto Reality (Grazie mille FreshTv!) sta scemando ed è normale che, pian piano, il fandom diventi sempre più inattivo. Mancano le nuove leve, siamo rimasti ormai in pochi a scrivere qui. Ma alla fine amen, tutto prima o poi arriva ad una fine.  

Avevo pensato di spostarmi su Wattpad, ma onestamente non lo so. Lo trovo troppo espansivo e l’assenza di categorie in cui pubblicare le storie mi mette fin troppa paura. Vabbé, caso mai farò un tentativo.  

Detto questo, spero di scrivere a breve un capitolo di PSS (anche se ad oggi non ho fatto molto) e, nel caso, ci vediamo lì con quella. O forse su Wattpad con la storia dei Pokémon Zombie. Non lo so, voi, se volete, datele un’occhiata.  

Alla prossima ;-)  

Ah, quasi dimenticavo: il titolo della storia è tratto dalla canzone “House of Memories” dei Panic! At the Disco, vi consiglio caldamente di ascoltarla ;-) 

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