Un Buco Nell'Anima

di Relie Diadamat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sigarette ***
Capitolo 2: *** Incubi ***
Capitolo 3: *** Storie ***
Capitolo 4: *** Violino ***



Capitolo 1
*** Sigarette ***


Un Buco Nell'Anima
 


Where ever you've gone?
How, how, how?
I just need to know

That you won't forget about me
- Cloves
 




I. Sigarette

 

John avrebbe voluto essere morto. 

Era un'idea che appariva di tanto in tanto nella mente, una costante incostante che lo aveva accompagnato un po' da sempre. 

L'aveva desiderato da ragazzo, alcune volte, quando in famiglia si respirava aria nociva. 

La morte era una zanzara fastidiosa che la sua esperienza nell'esercito aveva saputo scacciare. Dio, ti prego, fammi vivere, era riuscito persino a supplicare, colpito da un proiettile, il sangue che fuoriusciva dalla ferita alla spalla. 

John aveva considerato di puntarsi la pistola alla tempia, di ritorno in patria, quando la sua vita era così grigia, così statica, da soffocarlo.

Ma non aveva mai agognato la propria fine come in quel momento, seduto con lo sguardo perso nel vuoto, in quel salotto ormai privo di alcun senso. 

Perché se Sherlock Holmes era sepolto sotto terra… John era già morto a metà. 

 

I morti sanno ogni cosa. 

John si lasciò scappare una risata aspra a quel pensiero, una risata che di allegro non conservava nulla. 

Pensò che morto o no, quell'idiota arrogante e saccente di Sherlock custodiva fin dal primo attimo di vita la convinzione di essere sempre nel giusto, di sapere tutto. 

 

È ovvio, John. Io deduco.

Tu guardi, ma non osservi. 

 

John poteva persino ricordare la sua voce.

Incazzato nero, prese un lunghissimo tiro dalla sigaretta quasi consumata. 

Le aveva ripescate, quelle stupide sigarette. Quelle stupide sigarette che lui stesso gli aveva nascosto. Erano le sette di mattina e John ne aveva già fumate tre. 

Tossì, portandosi un pugno alle labbra. Sherlock avrebbe messo il muso, se l'avesse visto. Perché Sherlock era melodrammatico, dedito all'autodistruzione. Perché Sherlock era pessimo nel dialogo. 

Era. 

Era. 

Era. 

 

Gli occhi di John luccicarono di collera. Una lacrima solitaria gli ferì il volto rasato.

Spense il mozzicone, meditando la possibilità di accendere la quarta sigaretta della giornata. Giusto per fargli un dispetto, tanto per fargli del male. 

Sherlock si era gettato dal tetto, davanti ai suoi occhi. Sherlock era morto… E John era di nuovo solo. Ma gli erano rimaste le sue stupide sigarette. 







 

Non poteva morire. 

Sherlock se lo ripeteva ogni giorno, da quando aveva lasciato Londra. Se lo ripeteva quando quell'assurda caccia all'uomo diventava estenuante. 

La rete di Moriarty era fitta, ma limitata. 

L'aria che si respirava a Parigi, alle sette di mattina di quel giorno plumbeo, gli diede quasi il voltastomaco. 

La faccia tumefatta di Xavier Dumont, reclinata sul petto come una marionetta senza fili, restituì a Sherlock un pizzico di buonumore: un nome in meno sulla lista. 

Un passo in più verso Londra, verso John. Verso tutto ciò a cui aveva rinunciato. Verso quella vita che non aveva mai saputo apprezzare davvero, sempre alla ricerca di un ago da infilare nelle vene; costantemente agonizzante di noia, tediato fino alle ossa. 

Ma gli mancava. 

Si accosciò all'altezza del criminale, rovistando nella tasca della giacca. L'aveva notato fin da subito, il pacchetto. Aveva riconosciuto il tipo di tabacco dall'odore impregnato sulle mani di Xavier Dumont. 

E pensò a John. 

 

Cosa hai fatto, oggi? 

Litighi ancora con la cassa automatica del supermercato? 

È finito il latte? 

Cosa ne hai fatto delle mie sigarette? 

 

Una sensazione fastidiosa, molto simile a un nodo stretto alla gola, arrivò senza preavviso. Come tutte le sensazioni fastidiose, come tutte le emozioni che distruggono l'anima fino ad annerirla. 

Sherlock ripensò alle giornate più noiose passate tra le mura di Baker Street, quando irritato borbottava nella sua vestaglia, fremendo dalla voglia di sopprimere la monotonia dell'esistenza. 

 

Non aveva mai sopportato la vita, a ben pensarci. 

 

In quei pomeriggi c'era John. 

John seduto sulla poltrona, intento a controllare il suo cellulare, fingendo noncuranza. John che lo spiava preoccupato, conscio di una possibile ricaduta. 

John irritato dalla sua irritazione. John che gli nascondeva le sigarette per il suo bene. 

John che adesso era distante. John che non avrebbe potuto fermarlo neanche volendo. John che non avrebbe potuto nascondergli più nessuna sigaretta. 

Quando le dita guantate del consulente investigativo incontrarono la superficie liscia del pacchetto, Sherlock tirò su col naso, alzandosi di scatto e riponendo la mano nella tasca. 

 

Niente sigarette.

Voleva tornare nel salotto del 221b di Baker Street il prima possibile. E necessitava di restare lucido, intatto, pur di riuscirci. 







 


Ok. Credo che siano passati davvero secoli dall'ultima volta in questo fandom.
La Raccolta nasce un po' per sbloccarmi: vorrei scrivere una storia, ma nada. Dunque mi butto sulla depressione. 
Il tipo della rete criminale di Moriarty me lo sono inventato di santa pianta, scusatemi.
Ho intenzione di trattare la raccolta in tutti i modi possibili e immaginabili: mezzetinte e non. Violenza, temi delicati, malinconia, leggera sofferenza, lutto assoluto... Tutto.
Il titolo è tratto dalla canzone citata all'inizio. Un verso recita: "Senza di te, c'è un buco nella mia anima".
Questa prima os si incentra sulle sigarette. 
Grazie a chiunque abbia deciso di arrivare fin qui. 

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Capitolo 2
*** Incubi ***


Un Buco Nell'Anima

And I get lonely without you
And I can't move on
-Cloves


Attenzione: 
In questo capitolo potrebbero essere presenti
scene un po' crude.




II. Incubi



 

Da quando Sherlock era morto, John dormiva più del solito, ma sognava molti più incubi. L'unica differenza, da prima, era che non si risvegliava mai del tutto. Gli incubi continuavano a tormentarlo anche da sveglio. 

La realtà era persino più amara. 

Un bicchiere d'aceto da mandare giù, a corrodere ogni briciola del suo interno. 


«Ha avuto un altro dei suoi incubi?»

Era stanco. Seduto sulla solita poltrona comoda, di fronte alla sua analista, John si sentì esausto, come se non avesse chiuso occhio da secoli.

Ingogliò della saliva, prima di rispondere:«Sì». 

«Ha rivisto l'Afghanistan? Era in guerra?» 

Ella si rigirava la penna tra le mani. John non poteva impedirsi di osservare ogni suo minimo gesto. Problemi di fiducia, sempre avuti, con chiunque. 

Non con Sherlock

Incamerò aria nei polmoni. Fece male. Era a pezzi e senza forze. «No. Ho rivisto il tetto». 

L'espressione della sua analista non cambiò. «Sta parlando del Barts?»

«Sì». 

«Cos'altro c'era, nel suo sogno, John?»

Lo ricordava molto bene. Con lucidità, come se lo stesse rivivendo in quell'attimo esatto. 

Sherlock apriva le braccia… E cadeva, schiantandosi al suolo, proprio dinanzi ai suoi occhi impietriti. E lui tentava di raggiungerlo. 

Qualcuno lo urtava, facendolo cadere. Batteva la testa contro l'asfalto. E poi si rialzava. Sherlock era lì. Circondato da gente. 

C'era sangue ovunque. Sul largo marciapiede, sulla faccia di Sherlock. Due linee rosse sulla pelle bianca, tra gli occhi spalancati. 

Era sempre la solita storia, ma un particolare era cambiato. 

John, in quell'incubo, fece qualcosa di diverso. Si mise a cavalcioni sul corpo senza vita del falso genio e allungò le mani verso il collo lasciato scoperto, lì dove il nodo della sciarpa si era allentato, facendola scivolare in modo innaturale verso il mento. 

Ricordava ogni cosa. 

Le dita che si serravano attorno all'epidermide ancora calda. E stringevano, forte, con disperazione, quasi a spezzare ossa non più utili. E urlava, John, urlava disperato. Bastardo, bastardo, sputava fuori insieme alle lacrime, alla rabbia, al dolore. 

Ti ammazzo. 

Ti sei ucciso da solo e io ti ammazzo. 

Lo odiava, John, lo odiava con ogni fibra di se stesso. Con ogni muscolo, ogni parola, ogni brandello di energia. Lo odiava, perché in realtà non era capace di odiarlo. 

«Lo ricorda, John?»

La voce di Ella lo ridestò da quello stato di incoscienza senza fine. Ma non abbastanza. Perché quell'incubo non mutava mai. E non sarebbe mai cessato. Perché, da quando Sherlock aveva deciso di sfracellarsi al suolo, non c'era più stata differenza tra la realtà e le reminiscenze dell'inconscio onirico. 

Serrò le labbra sottili, ma non scosse il capo. Restò immobile, come un morto. Chiuse la mano destra in un pugno, senza neanche accorgersene. «No, è tutto… Sfocato». 

Forse Ella se la bevve. Forse lo rimproverò. John non seppe dirselo, ma gli importava poco. Perché presto sarebbe tornato a casa, la notte sarebbe calata su tutta la capitale inglese, e avrebbe abbassato le palpebre un'altra volta. 

Avrebbe rivisto Sherlock uccidersi. E forse l'avrebbe strangolato di nuovo. Forse no. 

Ma John non vedeva l'ora. 

Non vedeva l'ora di toccarlo di nuovo. Di sentirlo reale, tangibile, seppur ricoperto di sangue e disteso in quel modo grottesco. 

Avrebbe potuto riavere un contatto con lui. E quella diventava la parte migliore delle sue giornate. 





 

Dormire era diventato quasi impossibile. 

Da quando era andato via da Londra, da quando aveva visto John piangere sulla sua tomba, da quando Mycroft lo aveva munito di passaporto e documenti falsi, chiudere gli occhi era diventata un'impresa titanica. Dormire era più stancante dello stare sveglio. 

Non dormiva mai come una persona normale, questo c'era da riconoscerlo. Ma Sherlock sapeva, nel profondo, che nulla di ciò che lo riguardasse potesse definirsi "normale". 

Poteva passare giornate intere senza riposare, vinto dall'adrenalina di un caso. Restava sveglio anche per tre giorni di fila, rischiando di impazzire, pur di dare un senso alla ragnatela di fili rossi di un omicidio. 

Quella notte non riuscì a dormire, ma fu diverso. 

I capelli ricci gli coprivano la fronte. Se ne stava seduto su un materasso, tra quattro mura scialbe, le ginocchia contro il petto. 

Si ritrovò a posare lo sguardo nel vuoto, senza nessuna corda di violino da poter pizzicare, senza le fiamme di un camino a riscaldarlo da quel gelo che sentiva fin dentro le ossa.

Moriva così un po' tutte le notti, Sherlock. Senza un ago nelle vene. Senza una tazza di tè, senza nessuno smile dipinto sul muro a cui poter sparare. 

Prima o poi, le palpebre sarebbero calate da sole, per lo sfinimento. Si sarebbe addormentato, ma non avrebbe rammentato nulla al suo risveglio. Non era spaventato dai demoni del sonno. Non era terrorizzato dalla malinconia dei sogni. 

Il vero incubo arrivava con le prime luci del mattino, quando la luce colorava e rischiarava i contorni della sua nuova quotidianità. Una nuova ruotine, un nuovo mondo con nuove abitudini… Senza John. 

Non c'era più il caffè bollente da condividere accanto a un tavolo di legno. Non c'era il rumore delle sue dita che scivolavano fameliche sulla tastiera del laptop. Non c'era un giornale da sfogliare, masticando distrattamente un muffin, il respiro pesante di John dall'altro lato. 

Non c'erano i suoi passi pesanti da soldato. Non c'era il suo odore nell'aria. E col nascere del nuovo giorno, rinverdivano le assenze. 

Gli occhi si inumidirono. Sherlock si odiò profondamente. Con tutta l'anima. Si detestò. Avrebbe voluto non dormire mai. Avrebbe voluto che il Sole non sorgesse mai più.



Ok, la raccolta continua... ed è sempre più introspettiva di quanto mi aspettassi. 
L'ho scritta di getto, questa os, in piena notte - quindi direi che il tema del giorno è validissimo, lol.
Spero di scrivere capitoli un po' più dettagliati, in futuro, magari non alle quattro di notte. Per il resto, spero che abbiate gradito: la scena in cui John strangola il cadavere ancora caldo di Sherlock... volevo troppo, troppo metterla. Ma non credo che vada ad alzare troppo il rating della raccolta, in tutta onestà. 
Grazie a chiunque sia arrivato fin qui. Grazie a chi ha aggiunto la storia nelle seguite/preferite/ricordate, e grazie a chi mi ha lasciato il proprio parere.

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Capitolo 3
*** Storie ***


Un Buco Nell'Anima
"Le storie...
i nostri ricordi vanno lì quando dimentichiamo."
- Doctor Who

 


III. Storie 
 

«Scrivere può aiutarla, John». 
«Non vedo come.»
Quella mattina pioveva. 
Lo studio di Ella era più grigio del solito. La pioggia picchiettava contro le grandi finestre, ma John non era sicuro di udire quei rumori. 
Era tutto distante. Irreale. Tutto così spento. Persino il tappeto sul quale ogni tanto posava lo sguardo pareva appesantirgli il petto. 
C'era questa pressione, lì sulla cassa toracica, che John non sapeva scacciare. Tentava di alleggerire quel macigno invisibile con lunghi sospiri avviliti, ma erano solo un disperato palliativo. 
Quel peso restava lì. 
Ella schioccò la lingua contro il palato. 
«Lei non si sta aprendo con me, John, e questo non le permette di andare avanti. Forse una tastiera e una pagina bianca le daranno più forza.»
John sbuffò una risata senza allegria, diffidente, disillusa. «Non credo sia ciò di cui ho bisogno, ad essere sincero. Non so nemmeno cosa dovrei scrivere.»
«Deve lasciar uscire tutti i pensieri che la stanno trascinando verso il basso. Deve mettere per iscritto tutto il dolore che sente dentro». 
 




John voleva andare avanti. Voleva guarire. Voleva riprendere in mano i brandelli della sua esistenza e ridargli un senso. Ritrovare una direzione. Una strada. Una ruotine. 
Ma nonostante tutto, per quanto si impegnasse, ogni singolo gesto e ogni singolo passo lo riportava a Sherlock. 
Le dita rimasero ferme sulla tastiera. 
Da quando era diventato così dipendente da Sherlock Holmes? Da quando la sua intera esistenza ruotava intorno a lui? 
Da quando, alla fine di ogni pensiero, compariva sempre quello strambo consulente investigativo? 
Le morti violente non mancavano nel suo curriculum. In Afghanistan, aveva assistito a urla agghiaccianti; uomini piangere e implorare che un Dio ponesse fine a quello strazio. Aveva conosciuto l'odore di una testa bucata dal foro di un proiettile. 
Ne aveva compiuti di peccati, che per confessarli avrebbe tenuto in piedi un prete per tutta la notte; ne aveva conosciuti di orrori, tanto che un'intera vita non sarebbe bastata per dimenticarli tutti. 
John Watson non era estraneo né alla morte né al dolore, ma ogni volta che la sua mente ritornava al salto dal tetto del Barts, il mondo smetteva di girare.
Scrivere può aiutarla, John. 
Ma cos'era rimasto da scrivere? 
Un tuono in lontananza fece eco alla sua domanda. Tutta Londra s'infracidava d'acqua e John Watson restava paralizzato dinanzi a uno schermo. 
 


Cosa scrivi? 

Di noi. 

Intendi di me. 

Perché? 

Beh, stai scrivendo molto. 
 


E quell'arrogante aveva ragione. Quel bastardo suicida di Sherlock aveva proprio ragione: tutto ciò che scriveva parlava di lui, dalla prima lettera all'ultimo punto. 
John non sapeva raccontare altro. Orbitava tutto intorno a lui. 
Congiunse le mani, portandole accanto alle labbra secche. E non seppe dirsi cosa fosse più patetico: il modo in cui guardava quella pagina bianca… O il semplice fatto che quella pagina rimanesse immacolata. 
Un secondo tuono. 
E qualcosa digitò. Ebbe la tentazione di cancellare tutto, ma represse anche quella vocina interiore. 
 


Da quando è andato via, non so più nemmeno buttare giù qualcosa. 
 


Il peso sul petto si alleggerì di poco, mentre Baker Street veniva lavata dalla pioggia. 








Tenere impegnata la mente era un principio sacro, per Sherlock. Lo era sempre stato. 
Mantenersi occupato preveniva il sopraggiungere della noia, la quale portava con sé fidi alleati: solitudine e angoscia. Consapevolezza di respirare aria di un'epoca che non gli apparteneva. 
E allora strisciavano infimi anche i guai. 
Tenere la mente impegnata era un dovere, un atto di sopravvivenza. 
Sherlock reggeva tra le mani un prepagato. Aveva appena inviato un messaggio a Mycroft, informandolo degli sviluppi: il suo fratellone avrebbe potuto sospirare tranquillo, Vienna era al sicuro. 
L'odore dolciastro dei buchteln gli invase le narici, facendo brontolare il suo stomaco. Forse avrebbe dovuto mandare anche una foto di quei dolcetti ripieni, a Mycroft. Solo per fargli un dispetto. 


John avrebbe preso del gulash. 


Quel pensiero piombò nel cranio come un'ape ubriaca. Sherlock scosse il capo, pur di scrollarselo di dosso. 
Poi lanciò uno sguardo al cellulare che ancora sorreggeva tra le dita. Se avesse avuto una connessione internet, se avesse potuto, si sarebbe fatto del male per bene. 
Come si deve. 
Avrebbe digitato repentino il nome di John e avrebbe scovato il suo blog. La storia di come si erano conosciuti. 
Gliele aveva sempre criticate, quelle storie. 


Smettila di annoiare il mondo con le tue opinioni. (Quella volta non contava, si era sentito offeso dalle parole di John). 

Sul serio, John? 

Perché continui a cercare dei titoli? Non sono utili. 

John. Tramuti in romanzi casi dettati dalla pura logica. Contamini la scienza col romanticismo. 


E il dottore ci credeva, anche se tendeva a ignorarlo, fiero del suo operato da blogger. L'orgoglio dello scrittore. 
Sherlock non glielo aveva mai confessato, ma la verità era che adorava quelle storie. Un sorriso spuntava tra le labbra tutte le volte che, nel suo letto, curiosava tra quelle righe. 
Perché John lo vedeva con occhi diversi. Lo descriveva come nessuno aveva mai fatto. 
Sherlock si sentiva più intelligente, nelle pagine del Dottor Watson. 
Si accorse di non poterne fare più a meno, di quei racconti. Li aveva collezionati nel suo palazzo mentale, riposti in un cassetto e lasciati nella stanza più calda. Erano una dipendenza. 
Un rifugio. Una speranza. 
 
Scrivi ancora di me, John? 
E cosa? 
Come mi vedi, adesso? 
 
Lo schermo del cellulare rimase spento. Sherlock non scandagliò nessun sito web. Distrusse l'apparecchio elettronico e addentò il suo dolcetto. Ma non ebbe più voglia di mangiare. 
 





 
Il tema di oggi sono proprio le storie.
Ricordo che nel canone, appena dopo la reunion con Watson, Holmes confessa di essersi consolato leggendo le storie del dottore, immaginando di essere lì con lui. Ecco, volevo troppo scrivere di una cosa simile. Tra l'altro, anche nella serie Sherlock rilegge le storie di John - la storia di come si sono conosciuti - appena prima di essere spedito verso morte certa e dopo aver detto addio al suo John.

Per quanto riguarda i viaggi di Sherlock... ho rivisto il mini-episodio prequel della terza stagione, ma in questa raccolta John è ancora nel vecchio appartamento. Arriveranno anche quelle destinazioni, giuro. Per il momento, è un po' uno scrivere di getto. Scusatemi.

Informazioni random: i buchteln sono dolcetti viennesi, ripieni di marmellata di albicocca. 

Grazie a chi è arrivato fin qui. Grazie a chi continua a inserire la storia nelle preferite/ricordate/seguite, e grazie a chi mi sta lasciando il proprio parere.
 

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Capitolo 4
*** Violino ***


Un Buco Nell'Anima
 



IV. Violino



 
Piangeva disperato. Si lamentava e continuava a singhiozzare. 
Sherlock rimase in ascolto come imbambolato, la faccia ben coperta da un cappuccio di cui avrebbe volentieri fatto a meno. 
Nell'aria c'era odore di salsiccia grigliata, curry e patatine fritte, ma Sherlock non riuscì a concentrarsi sugli odori. La sua attenzione era polarizzata sulla melodia prodotta dal violino, nell'imbrunire delle strade di Amburgo. 
L'artista di strada pizzicava le corde con l'archetto, ad occhi chiusi. Sherlock riconobbe la musica. 
L'aveva suonata anche lui, tempo addietro, in una serata tediosa nel salotto del 221b di Baker Street. 
 



Sherlock si immobilizzò, stroncando l'esecuzione con una nota stridula. 
«Perché ti sei fermato?»
Sollevò pian piano le palpebre, come chi si risveglia di malavoglia da un sogno bellissimo. Sapeva di avere John alle spalle, ma sapeva anche che era in vestaglia e i suoi capelli erano ancora umidi. 
«Dovresti asciugarli», fu la risposta laconica che gli riservò. 
«Sai, è buffo che tu lo dica a me» controbattè John con un pizzico di ironia. «Se fosse per te, gireresti per casa con l'accappatoio.»
«C'è una prima volta per tutto» sospirò con teatrale stoicismo Sherlock, abbassando l'archetto lungo il fianco come un'arma scarica. «E per tutti».
John restò in silenzio per un po'. Ciondolò leggermente sul posto, prima di buttare fuori: «Volevo solo sapere cosa stessi suonando. Era… Piacevole». 
 



Era ilare ai limiti del fastidio come alcuni ricordi si presentassero alle porte della sua mente, saltando fuori dal nulla. Era sconcertante e doloroso come una semplice immagine, una semplice azione potesse riportarlo da John. 
Una bambina stringeva la mano di sua madre, infagottata nel suo giubbotto rosa. Saltellava allegra, puntando l’indice verso l’esibizione. Sherlock scoccò una rapida e superficiale occhiata alla scena, giusto il tempo per osservare e dedurre l’ovvio: nessun anello al dito, una busta contenente una spesa settimanale per due persone - cereali zuccherosi e colorati per la bambina, verdura e carne preconfezionata e frutta fresca. Ragazza madre e la sua unica figlia.
Una vita in due. Una quotidianità che Sherlock non sentiva vicina al suo essere. Niente di meno affine con la sua persona; eppure - per un brevissimo periodo - aveva sperimentato qualcosa di simile: due tazze di tè, latte per due, suonare il violino in compagnia di un’altra persona. 
Sherlock non seppe quale scenario gli provocasse quel senso di vuoto in mezzo al petto. L’unica inconfutabile certezza era una sola: avrebbe venduto anche l’anima per stringere tra le mani il suo violino e suonare qualcosa di piacevole. Mattina o sera che fosse; annoiato o meno. 
«Buona interpretazione» commentò a sguardo basso, lanciando una monetina nella custodia aperta ai piedi dell’artista. Non attese nemmeno la risposta della ragazza. Nascose le mani nelle tasche e diede le spalle a quella musica, al tramonto cobalto della città tedesca nella quale si nascondeva e ai momenti impressi nella sua memoria come un tatuaggio indelebile. Una ferita che sanguinava ogni dannato giorno.





 
A John non fregava un cazzo della musica classica.
Mai provato interesse, mai ascoltata per puro sfizio personale. La musica classica esisteva e a John non importava un bel niente. Poi aveva conosciuto Sherlock - il pazzo psicopatico che pizzicava le corde del violino in piena notte, in preda alla noia, a un pensiero insistente, a un ragionamento arzigogolato noto solo a lui.
E allora John l’aveva ascoltata per davvero, quella benedetta musica classica. Si era lasciato riempire le orecchie con Vivaldi e Paganini; si era addormentato cullato dal pianto strozzato di un violino, e aveva letto romanzi - nei pomeriggi che trasudavano pigrizia - accompagnato dal sottofondo musicale che Sherlock gli offriva. A volte dolce, a volte amaro, a volte aggressivo.
Adesso la musica era finita. La quiete regnava sovrana nel 221b di Baker Street - e John sentiva di impazzire. 
Quel maledetto violino era ancora lì, però. In bella mostra, dormiente nella sua custodia scura. Spento, inanimato, morto - com’erano morte le mani che sapevano dargli un suono. 
John ci fece caso una sera, preparandosi del tè e facendo zapping davanti al televisore. Aveva distolto gli occhi dallo schermo, il fumo a sfiorargli il naso, e aveva incontrato con lo sguardo quella stupida custodia ai piedi della sua poltrona.
I morti vanno via, ma lasciano ogni cosa ai vivi. Di loro non resta nulla, ma non si portano via niente.
Il desiderio di spaccarlo in due non arrivò subito. John si perse a contemplare quell’oggetto statico per una manciata di secondi - la mente altrove e nello stesso posto in cui si trovava adesso; distante anni luce e appollaiata in un salotto simile a quello dove l’ex medico militare se ne stava seduto, ma non del tutto. 
La sua mente era ferma in un momento che aveva smesso di esistere. Qualcosa che non sarebbe più tornato indietro. Una serata banale - sciatta, semplice - che aveva trascorso facendosi una doccia calda, a ritmo di una melodia piacevole.
John rammentava i dettagli più inutili.
Sherlock era rivolto alle finestre, il violino sapientemente posizionato sulla spalla e l’archetto che si muoveva e muoveva… 
John era rimasto in piedi, accanto al muro, a osservarlo. I capelli erano ancora umidi e delle goccioline gli ricadevano sul collo. Era uscito dal bagno con una certa fretta, raggiungendo il suo assurdo coinquilino - ammaliato dalla melodia che stava suonando. 
Avrebbe voluto che Sherlock non si fosse mai fermato. Avrebbe voluto marcire incantato lì, ad ascoltarlo, almeno per un milione di anni. Perché un sorriso gli aveva incurvato le labbra crespe senza alcun motivo e John si era sentito stranamente in pace col mondo.
Fu in quel momento che capì qualcosa che sapeva già: adorava condividere la sua vita con Sherlock - per quanto impossibile, esasperante e pericolosa potesse essere. John la adorava e sentiva di aver trovato una ragione per sollevare le palpebre ogni mattina. Fosse stato per strozzarlo, per rimproverarlo o semplicemente per allungargli il giornale. 
Ma la musica era finita. Sherlock aveva deciso di buttarsi giù da un tetto e a John restavano le briciole di una quotidianità perduta.


 
Sbuffò risentito aria dal naso. Poi tornò a cambiare canale. 
Tornò alla sua meravigliosa vita di merda.




 
Nuovo capitolo di questa Raccolta Deprimente.
Il pezzo in questione non viene mai menzionato, ma non è una scelta dettata dalla pigrizia: volevo lanciare un po' un messaggio, del tipo "non è la melodia, ma il momento".
John che osserva Sherlock suonare il violino resterà sempre uno dei miei headcanon fav.

Ammetto che stavolta - però - il capitolo fa più schifo del solito. Probabilmente non ero nel giusto mood per scrivere.

Intanto, ringrazio chiunque sia arrivato fin qui. Ringrazio chi continua ad aggiungere la storia nelle preferite/ricordate/seguite. E grazie a chi continua a recensire, dandomi supporto e pareri.

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