Vita Rubina

di moonwhisper
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C & L ***
Capitolo 2: *** C & S ***
Capitolo 3: *** C & J ***
Capitolo 4: *** C & G ***



Capitolo 1
*** C & L ***


1 – C & L

 

I colori, come cose vive, si mordevano, uno dopo l’altro, nel corridoio stretto e sconosciuto. Ogni dieci passi ti ritrovavi a mettere il piede nel punto sbagliato, per via di dislivelli strani scavati sotto la moquette. Una di quelle sere allucinate ci ho quasi perso una caviglia, su quegli scivoli sbagliati.

Non credo di averti mai visto, prima di quel pomeriggio, o forse sei tu che non hai mai visto me. Del resto, cose del genere è impossibile stabilirle con certezza. Io scottavo di febbre malata e tu uscivi da quella porta trascinandoti dietro odore di fumo e cioccolato e buste di plastica arrotolate intorno ai sensori antincendio. Mi chiedevi la passeggiata delle quattro di mattina, ed assonnata io ti rispondevo che certo, non c’era niente di meglio da fare che parlare e muovere le gambe a perdere. C’era il freddo umido, ma io facevo finta di non avere più un giubbotto, solo per indossare il tuo. Sapevo che tu sapevi, e sapevo che ti andava bene così, che ti piaceva, anche se il vento ti spazzava via la pelle dalle ossa.

Mi raccontavi di Milano, di tua madre, della casa, del tuo cane, che ti dormiva nel letto. Te ne saresti andato, mi hai detto, perché qui non ti è mai piaciuto il sapore della gente. E mi spiegavi la tua vita, così diversa dalla mia, come fossimo nati in due cazzo di pianeti differenti, che a pensarci bene è l’unico motivo per il quale io e te potremmo non esserci mai visti. Non credo fossero bugie. Io ti parlavo di niente e tutto e mi stringevo addosso il tuo giubbino blu, morbido dentro, idrorepellente fuori. E discutevamo di punti interrogativi, che me li figuro ancora grandi e rosa e lampeggianti. Avevi gli occhi forse verdi o forse no, un po’ rossi ai bordi. Ripetevi che se avevo così freddo mi potevi anche abbracciare. Mi potevi anche abbracciare…

Una notte che non saprei spiegare. C’era il gelo, ma per davvero. Ed eravamo noi due soli, sopra il ponte. Non potevamo guardare quello che veniva, accogliere orizzonti nuovi, ma solo annegarci gli occhi di quello che era passato, di quello che il mare si portava via senza misericordia. Contro il nero, era tutto cielo sconfinato. Mi sono nascosta dentro di te, ti ho attaccato addosso quei miei respiri asmatici, incerti, e tu mi hai accolta come fossi sempre stato li, ad aspettarmi, con le braccia strette attorno al nulla. Avevo paura, di quella paura scivolosa. Mi hai sfiorato le labbra. Come per dire che non c’era niente di meglio da fare che baciarsi e fare l’amore a perdere.

Poi, parlando con qualcuno, non ricordo chi, mi sono ritrovata ad ascoltare storie di una fidanzata storica che ti aspettava, ed io la immaginavo dritta come un fuso sulla riva, pronta ad ingoiare amare bugie pur di riaverti. Una di quelle sceneggiature classiche, di cui io non sono mai riuscita a seguire il filo. E allora mi sono chiesta se alla fine eri anche tu come me, morbido, caldo dentro, idrorepellente fuori.

Sono trascorsi i mesi. Due giorni fa, o forse tre, non ha importanza, c’eri anche tu, in mezzo a quel frastuono morto di voci e fiamme di candela. Sei arrivato con il dolce, ed io ho pensato che certe volte la vita è proprio ironica, che forse c’è qualcuno che si diverte a guardarci morire seduti ad un tavolo di plastica, lo sguardo basso contro le ginocchia e il cuore abbandonato nel piatto, da mangiare con coltello e forchetta. Mi hai dato del Lei, con quella voce educata e asettica, che non so per quale assurdo motivo mi ha ustionato la gola di lacrime stupide.

E mi davi le spalle, mentre me ne andavo, quindi, ecco, ora mi è impossibile spiegare che colore ti brilla in mezzo al viso. Ti sono passata accanto arrancando sotto il peso di un vuoto inutile, pensando che in quel momento il freddo non stava fuori, ma dentro, e che per sensazioni così nessuno ha mai inventato gli indumenti giusti. E mi ripetevo che se avevo così freddo, mi potevi anche abbracciare. Mi potevi anche abbracciare…

 

*

 

Vita Rubina è una raccolta di visioni alterate. Funzionano come piccoli quadri incorniciati e appesi male alla parete, uno accanto all’altro. Alcune sono ricordi vividi, altre frammenti artificiali, danneggiati, storti. Odori e pelle insieme.

Vita Rubina è anche il titolo di una canzone di Moltheni, citata nell’introduzione. Potete leggere il testo qui, ed ascoltarla qui.

Adieu.

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Capitolo 2
*** C & S ***


2 – C & S

 

Barcollavamo verso il niente di un’altra notte. Senza cose da dire e da fare, con le dita nelle tasche. Che poi di tasche non ce n’erano mai, quando ne avevamo davvero bisogno.

Avremmo dovuto scrivere a quattro mani gli avvenimenti comici della nostra vita, per poi riderci su, un giorno. Invece abbiamo dimenticato.

Accasciati sui muretti, a bere dai bicchieri trasparenti dei cocktail, con quelle cannucce nere che sono sempre tutte uguali. E se ne stanno lì a ricordarmi quella merda dentro di me, che c’è sempre, che non importa scappare, perché per quanto veloce io corra, dal mio corpo non posso fuggire.

Qualcuno, sotto il manto di stelle, cantava di cuori sporchi e mani lavate. Ed era bello starsene fermi a respirare, nel buio degli alberi, io abbandonata contro di te, che mi accarezzavi il capo. Non riuscivo ad alzare troppo la testa, ma vedevo. Vedevo anime perse vagarci intorno, nei movimenti lo smarrimento che corrodeva anche il nostro, di sangue, anche la nostra, di mente, che ci trascinava giù, nell’abisso. E noi immobili, a guardarci affondare, ad ascoltare in silenzio la musica bella che ci invadeva le orecchie. Io ero sconvolta, dentro e fuori, con la matita sciolta attorno agli occhi e una maglietta rossa troppo scollata. Avevo il sonno nelle braccia, nelle mani, e non riuscivo a muoverle davvero, continuavo a spostarle, ma non trovavano mai il loro posto. Ti sussurravo frasi spezzate, affondando la bocca nei tuoi capelli. Sentivo il mio alito infrangersi contro le tue tempie e tornare indietro, caldo, umido, leggero contro le labbra.

Ti supplico, dimmi che ricorderai, anche quando saremo lontani, tanto lontani da non riuscire più a guardarci negli occhi. Dimmi che ricorderai cosa ti dissi. Perché le tue parole continueranno a perseguitarmi nei sogni, negli incubi, e il tuo sguardo d’amore mi schiaffeggerà forte il viso anche da sveglia.

Ricorderai?

 

Tentai nuovamente, provai ad alzare la testa, ma era così pesante. Era tutto così pesante. Mi pareva di sciogliermi, come in quel quadro degli orologi.

“Non volermi mai bene. Mai. Capito?” biascicai. E non sapevo se tu mi stavi a sentire, ma vedevo la tua sigaretta brillare nel buio. Mi pareva bella come poche altre cose al mondo. Tesi la mano per afferrarla, te la sfilai via dalle dita, e tu mi guardasti dall’alto, senza obiettare.

“Non dire stronzate”

“Stronzate”. “Stronzate” mi riecheggia ancora nel cervello, e rimbalza da una parete all’altra, come una fottuta pallina da pingpong.

Con un tiro lungo mi girò la testa, e provai il forte desiderio di buttare via la sigaretta, e di lanciarmi lontano insieme ad essa.

“Ecco, allora puoi volermi bene” risposi “Ma non troppo. Mai troppo. Troppo ti farà male”.

Ed ero sicura di quel che dicevo. Sapevo che quella mia lucidità strana, costante, mi permetteva di confessarti ciò che avevo sempre taciuto.

“Non me ne frega un cazzo. Non te ne devi preoccupare, non sarà colpa tua. Troppo mi viene naturale. Meno non mi riesce”

Avrei voluto piangerti addosso, ma non potevo, no. Mi sarebbero scese lacrime d’alcol, ti avrei rovinato la tua bella maglietta metallica.

 

Ti trascinai giù dagli scalini, in mezzo alla gente. Tutto era colorato e brillante, molto più del previsto. La luce mi violentava gli occhi, ed incrociavo gli sguardi dei passanti, allucinata.

Non ricordo come, ma ci risvegliammo su metri di erba sintetica, confusi in un mare di corpi, distesi a guardare il cielo notturno. Salivano fumo e voci, e cori, ed urla. Poi fu la volta di un silenzio magico. E prese a scorrere una melodia conosciuta, morbida e malinconica, di quelle melodie che ti straziano il petto a furia di martellate.

Ci sono molti modi. Ci sono molti modi anche di morire, come ad esempio morivamo noi, le mani strette e la convinzione di essere unici.

Eppure ero certa d’aver vissuto una delle mezz’ore più straordinarie della mia misera e breve esistenza.

E, in effetti, era proprio così.

 

*

 

NOTE

 

“Cuori sporchi e mani lavate” è il verso di una canzone degli Afterhours (Voglio Una Pelle Splendida). “Ci sono molti modi” è invece il titolo di un’altra canzone della band. Specifico che gli avvenimenti riportati nel testo, autentici o meno che essi siano, sono ambientati durante un concerto del gruppo in questione.

“Quel quadro degli orologi” non è altro che “La persistenza della memoria”, il dipinto più famoso del surrealista Salvador Dalì.

 

Detto ciò, ringrazio Bellis e Chamelion_ per aver inserito questa raccolta nelle storie seguite, e, di nuovo, Chamelion_, Keyra e MarilynStar_ per aver recensito. Grazie di cuore, specialmente a voi tre.

 

Au revoir.

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Capitolo 3
*** C & J ***


Nuova pagina 1

3 – C & J

 

Avanzavi nella notte col tuo cappotto lungo, colorato, slacciato sul davanti, che ondeggiava ad ogni passo, nella semioscurità della via, illuminata fiocamente da quei lampioni gialli che sanno d’ospedale. Avanzavi con quel passo deciso e barcollante insieme, di chi ha vissuto o visto troppo, e parevi un ballerino classico – questo mio pensiero ti faceva sghignazzare - . Ma da dove venivi, tu? Da dove venivi, con quell’odore di terre lontane che ti cresceva sulla pelle, ed i capelli lunghi e belli di una donna ad incorniciare quel tuo viso da bambino? Negli occhi grandi l’innocenza, nelle mani bianche il sangue. E questo tuo concetto ha sempre seguito un suo filo logico mirabile.

Sorridevi, e sorridevi. Ma ogni tuo sorriso sapeva essere triste e malinconico come i primi giorni di settembre, che ti vedevano andar via, dissolverti sull’orizzonte, con un sacco in spalla e dietro il mio cadavere, allacciato alla tua ombra tremula. Sorridevi, e sorridevi, e mi raccontavi le tue favole un po’ gotiche, sbagliando le parole. Di bambini e di fantasmi buoni, di vecchie case scricchiolanti.

Collezionammo albe, quelle estati. Albe luminose, immense, fatte di comete scintillanti e stelle che scorrevano nel cielo, lente e strafottenti. Ci abbracciavamo nella sabbia, riempiendoci i corpi, e di granelli ruvidi e di carne morbida. Ed io percepivo il tuo amare ogni cosa, il tuo amare me, come amavi ogni pulsione e stimolo vitale, ogni respiro acquistato e perso. Come il mare, che ti perdevi a bere con lo sguardo, e sembrava volessi ingoiarlo tutto, acqua, vele e sale.

No. Mai come il mare. Il mare ti si agitava dentro, ti scorreva nelle vene, rubino e caldo, ma indomabile. Ti lasciavi trasportare e distruggere da esso, e, come lui, non avevi una precisa forma, né una casa. Tutto il mondo era tuo, e lo aggredivi, e mi aggredivi, con onde di gigantesca furia e creste candide, pure, con il corpo e con le labbra. E non trovavi pace, nel tuo continuo e casuale vorticare, mosso da desideri e volontà agli umani estranei. Spirito d’oceano e d’aria, mi accarezzavi e poi fuggivi, senza sapere né da cosa, né per dove.

Sorridevi, e sorridevi. E quando avvertivi tra le tue ciglia lunghe il vento freddo, issavi quel tuo sacco strappato in spalla, e, col tuo cappotto lungo, ti allontanavi.  Soffiato via dall’autunno, scomparivi.

Ed io a cercarti ancora, anche se l’ultima estate mi ha portato indietro la tua morte e un ciondolo.

Ma io lo so, lo so che il mare non può morire. E lo ingoio tutto, acqua, vele e sale. E te.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al mio immortale babyface.

http://www.youtube.com/watch?v=wSy_TxOid6k

 

 

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Capitolo 4
*** C & G ***


Come scorre via Milano, schiantata fuori dal vetro pieno d’acqua del tram.
Come le melodie di resistenza e rivoluzione nelle orecchie. E adesso che sono lontana, e che non mi vedrai mai più barcollare sotto i portici, lungo le mura. Ora che non posso più sentirmi il mare dentro e che non posso odiarlo per la mia devastazione. Adesso che non ci sono più, muori. Scegliti un angolo lurido, sconosciuto e buio, e muori. E mi viene in mente che dentro di te hai una collezione di angoli luridi, sconosciuti e bui. E allora crepaci dentro, affogaci dentro, nella tua merda diseducata e squallida.
Ho raccolto la mia vita in due valige, e sono fuggita via con la faccia della redenzione. Dio mi ha bandita, soffiandomi contro un vento pesante e crudele. Come a dire che lì tanto non mi voleva più nessuno. Come a dire che non posso fottermi la vita sconvolgendomi per dimenticare e ridere. Che non posso starvi ancora a guardare, dopo che mi avete tagliuzzato il cuore con le forbicine.
Oggi piove, qui. Mi piace il freddo secco che non si appiccica alla pelle. Mi piace aver dimenticato l’ombrello, avere la testa bagnata e spalancare gli occhi sulle luci che si riflettono nelle pozzanghere di acqua acida. Ho paura. E sono drammaticamente sperduta e sola. Ho paura, ma tutto va bene, perché ho l’anima occupata da qualcosa di più bello, di più giusto e più pulito. Sono come quell’origami a forma di farfalla che svolazza sopra il mio nuovo comodino, come la bottiglia di rum accanto al letto, sigillata con lo scotch. E questa volta non la finirò in dieci minuti di panico, te lo giuro. Anche se di questo tu non puoi sapere niente.
Mentre mi perdo tra le strade sconosciute, ripeto tra me e me le frasi che per inutile bontà ti ho risparmiato. Cose come spiegarti che ho pensato di bruciare coi fiammiferi quella ciocca di capelli biondi che mi hai dato da conservare, oppure dirti prima o poi che l’odore del tuo corpo mi dava la nausea, ma mi accadeva spesso di volerti abbracciare. Che mi hai dedicato una canzone di Vasco, dopo cinque anni lanciati al vento di parole. Altri concetti magari no, ma credevo avessi capito che Vasco mi sta proprio sul cazzo, senza nessuna possibilità di recupero. Proprio come noi. Senza nessuna possibilità di recupero.
Eppure non ne ho la voglia. Di spiegarti perché mi hai riempito i polmoni di delusione. Desidero solo che muori, sai. Perché tra i due sono sempre stata la più intelligente, la più bella, la più forte, la più stronza. Ma non me lo dicevi mai, lo sottintendevi. E mi lasciavi credere di bastonarti con uno sguardo troppo severo anche quando fingevi e basta, cane maledetto. E allora muori, insieme ai tuoi “ti amo” di cartone. Muori.
Lasciami qui. A pensare che sono un po’ distratta e cinica, ma non lo faccio di proposito.
A credere che non è il cemento a scorrere, ma il cielo.









Note: mi dispiace per questa impostazione del menga ma sono su un pc che non possiede nessun tipo di versione di frontpage (programma che ho sempre usato per la pubblicazione). Spero che il carattere non sia troppo antipatico da leggere (già lo è il contenuto, sarebbe una fregatura totale). Comunque, insomma, cercherò di rimediare al danno. Adieu.

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