Vita Rubina di moonwhisper (/viewuser.php?uid=36486)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C & L ***
Capitolo 2: *** C & S ***
Capitolo 3: *** C & J ***
Capitolo 4: *** C & G ***
Capitolo 1 *** C & L ***
1 – C & L
I colori, come cose vive, si
mordevano, uno dopo l’altro, nel corridoio stretto e sconosciuto. Ogni dieci
passi ti ritrovavi a mettere il piede nel punto sbagliato, per via di dislivelli
strani scavati sotto la moquette. Una di quelle sere allucinate ci ho quasi
perso una caviglia, su quegli scivoli sbagliati.
Non credo di averti mai
visto, prima di quel pomeriggio, o forse sei tu che non hai mai visto me. Del
resto, cose del genere è impossibile stabilirle con certezza. Io scottavo di
febbre malata e tu uscivi da quella porta trascinandoti dietro odore di fumo e
cioccolato e buste di plastica arrotolate intorno ai sensori antincendio. Mi
chiedevi la passeggiata delle quattro di mattina, ed assonnata io ti rispondevo
che certo, non c’era niente di meglio da fare che parlare e muovere le gambe a
perdere. C’era il freddo umido, ma io facevo finta di non avere più un
giubbotto, solo per indossare il tuo. Sapevo che tu sapevi, e sapevo che ti
andava bene così, che ti piaceva, anche se il vento ti spazzava via la pelle
dalle ossa.
Mi raccontavi di Milano, di
tua madre, della casa, del tuo cane, che ti dormiva nel letto. Te ne saresti
andato, mi hai detto, perché qui non ti è mai piaciuto il sapore della gente. E
mi spiegavi la tua vita, così diversa dalla mia, come fossimo nati in due cazzo
di pianeti differenti, che a pensarci bene è l’unico motivo per il quale io e te
potremmo non esserci mai visti. Non credo fossero bugie. Io ti parlavo di niente
e tutto e mi stringevo addosso il tuo giubbino blu, morbido dentro,
idrorepellente fuori. E discutevamo di punti interrogativi, che me li figuro
ancora grandi e rosa e lampeggianti. Avevi gli occhi forse verdi o forse no, un
po’ rossi ai bordi. Ripetevi che se avevo così freddo mi potevi anche
abbracciare. Mi potevi anche abbracciare…
Una notte che non saprei
spiegare. C’era il gelo, ma per davvero. Ed eravamo noi due soli, sopra il
ponte. Non potevamo guardare quello che veniva, accogliere orizzonti nuovi, ma
solo annegarci gli occhi di quello che era passato, di quello che il mare si
portava via senza misericordia. Contro il nero, era tutto cielo sconfinato. Mi
sono nascosta dentro di te, ti ho attaccato addosso quei miei respiri asmatici,
incerti, e tu mi hai accolta come fossi sempre stato li, ad aspettarmi, con le
braccia strette attorno al nulla. Avevo paura, di quella paura scivolosa. Mi hai
sfiorato le labbra. Come per dire che non c’era niente di meglio da fare che baciarsi e
fare l’amore a perdere.
Poi, parlando con qualcuno,
non ricordo chi, mi sono ritrovata ad ascoltare storie di una fidanzata storica
che ti aspettava, ed io la immaginavo dritta come un fuso sulla riva, pronta ad
ingoiare amare bugie pur di riaverti. Una di quelle sceneggiature classiche, di
cui io non sono mai riuscita a seguire il filo. E allora mi sono chiesta se alla
fine eri anche tu come me, morbido, caldo dentro, idrorepellente fuori.
Sono trascorsi i mesi. Due
giorni fa, o forse tre, non ha importanza, c’eri anche tu, in mezzo a quel
frastuono morto di voci e fiamme di candela. Sei arrivato con il dolce, ed io ho
pensato che certe volte la vita è proprio ironica, che forse c’è qualcuno che si
diverte a guardarci morire seduti ad un tavolo di plastica, lo sguardo basso
contro le ginocchia e il cuore abbandonato nel piatto, da mangiare con coltello
e forchetta. Mi hai dato del Lei, con quella voce educata e asettica, che non so
per quale assurdo motivo mi ha ustionato la gola di lacrime stupide.
E mi davi le spalle, mentre
me ne andavo, quindi, ecco, ora mi è impossibile spiegare che colore ti brilla
in mezzo al viso. Ti sono passata accanto arrancando sotto il peso di un vuoto
inutile, pensando che in quel momento il freddo non stava fuori, ma dentro, e
che per sensazioni così nessuno ha mai inventato gli indumenti giusti. E mi
ripetevo che se avevo così freddo, mi potevi anche abbracciare. Mi potevi anche
abbracciare…
*
Vita Rubina è una raccolta
di visioni alterate. Funzionano come piccoli quadri incorniciati e appesi male
alla parete, uno accanto all’altro. Alcune sono ricordi vividi, altre frammenti
artificiali, danneggiati, storti. Odori e pelle insieme.
Vita Rubina è anche il
titolo di una canzone di Moltheni, citata
nell’introduzione. Potete leggere il testo
qui, ed ascoltarla qui.
Adieu. |
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Capitolo 2 *** C & S ***
2 – C & S
Barcollavamo verso il niente
di un’altra notte. Senza cose da dire e da fare, con le dita nelle
tasche. Che poi di tasche non ce n’erano mai, quando ne avevamo davvero bisogno.
Avremmo dovuto scrivere a
quattro mani gli avvenimenti comici della nostra vita, per poi riderci su, un
giorno. Invece abbiamo dimenticato.
Accasciati sui muretti, a
bere dai bicchieri trasparenti dei cocktail, con quelle cannucce nere che sono
sempre tutte uguali. E se ne stanno lì a ricordarmi quella merda dentro di me,
che c’è sempre, che non importa scappare, perché per quanto veloce io corra, dal
mio corpo non posso fuggire.
Qualcuno, sotto il manto di
stelle, cantava di cuori sporchi e mani lavate. Ed era bello starsene fermi a
respirare, nel buio degli alberi, io abbandonata contro di te, che mi
accarezzavi il capo. Non riuscivo ad alzare troppo la testa, ma vedevo. Vedevo
anime perse vagarci intorno, nei movimenti lo smarrimento che corrodeva anche il
nostro, di sangue, anche la nostra, di mente, che ci trascinava giù,
nell’abisso. E noi immobili, a guardarci affondare, ad ascoltare in silenzio la
musica bella che ci invadeva le orecchie. Io ero sconvolta, dentro e fuori, con
la matita sciolta attorno agli occhi e una maglietta rossa troppo scollata.
Avevo il sonno nelle braccia, nelle mani, e non riuscivo a muoverle davvero,
continuavo a spostarle, ma non trovavano mai il loro posto. Ti sussurravo frasi spezzate, affondando la bocca nei tuoi capelli. Sentivo il
mio alito infrangersi contro le tue tempie e tornare indietro, caldo, umido,
leggero contro le labbra.
Ti supplico, dimmi che
ricorderai, anche quando saremo lontani, tanto lontani da non riuscire più a
guardarci negli occhi. Dimmi che ricorderai cosa ti dissi. Perché le tue parole
continueranno a perseguitarmi nei sogni, negli incubi, e il tuo sguardo d’amore
mi schiaffeggerà forte il viso anche da sveglia.
Ricorderai?
Tentai
nuovamente, provai ad alzare la testa, ma era così pesante. Era tutto così
pesante. Mi pareva di sciogliermi, come in quel quadro degli orologi.
“Non
volermi mai bene. Mai. Capito?” biascicai. E non sapevo se tu mi stavi a
sentire, ma vedevo la tua sigaretta brillare nel buio. Mi pareva bella come
poche altre cose al mondo. Tesi la mano per afferrarla, te la sfilai via dalle
dita, e tu mi guardasti dall’alto, senza obiettare.
“Non
dire stronzate”
“Stronzate”. “Stronzate” mi riecheggia ancora nel cervello, e rimbalza da una
parete all’altra, come una fottuta pallina da pingpong.
Con un
tiro lungo mi girò la testa, e provai il forte desiderio di buttare via la
sigaretta, e di lanciarmi lontano insieme ad essa.
“Ecco,
allora puoi volermi bene” risposi “Ma non troppo. Mai troppo. Troppo ti farà
male”.
Ed ero
sicura di quel che dicevo. Sapevo che quella mia lucidità strana, costante, mi
permetteva di confessarti ciò che avevo sempre taciuto.
“Non me
ne frega un cazzo. Non te ne devi preoccupare, non sarà colpa tua. Troppo mi
viene naturale. Meno non mi riesce”
Avrei
voluto piangerti addosso, ma non potevo, no. Mi sarebbero scese lacrime d’alcol,
ti avrei rovinato la tua bella maglietta metallica.
Ti trascinai giù dagli
scalini, in mezzo alla gente. Tutto era colorato e brillante, molto più del
previsto. La luce mi violentava gli occhi, ed incrociavo gli sguardi dei
passanti, allucinata.
Non ricordo come, ma ci
risvegliammo su metri di erba sintetica, confusi in un mare di corpi, distesi a
guardare il cielo notturno. Salivano fumo e voci, e cori, ed urla. Poi fu la
volta di un silenzio magico. E prese a scorrere una melodia conosciuta, morbida
e malinconica, di quelle melodie che ti straziano il petto a furia di
martellate.
Ci sono molti modi. Ci sono
molti modi anche di morire, come ad esempio morivamo noi, le mani strette e la
convinzione di essere unici.
Eppure ero certa d’aver
vissuto una delle mezz’ore più straordinarie della mia misera e breve esistenza.
E, in effetti, era proprio
così.
*
NOTE
“Cuori sporchi e mani
lavate” è il verso di una canzone degli
Afterhours (Voglio Una
Pelle Splendida). “Ci
sono molti modi” è invece il titolo di un’altra canzone della band.
Specifico che gli avvenimenti riportati nel testo, autentici o meno che essi
siano, sono ambientati durante un concerto del gruppo in questione.
“Quel quadro degli orologi”
non è altro che “La
persistenza della memoria”, il dipinto più famoso del surrealista
Salvador Dalì.
Detto ciò, ringrazio
Bellis e
Chamelion_ per
aver inserito questa raccolta nelle storie seguite, e, di nuovo,
Chamelion_,
Keyra e
MarilynStar_ per
aver recensito. Grazie di cuore, specialmente a voi tre.
Au revoir.
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Capitolo 3 *** C & J ***
Nuova pagina 1
3 – C & J
Avanzavi nella notte col tuo
cappotto lungo, colorato, slacciato sul davanti, che ondeggiava ad ogni passo,
nella semioscurità della via, illuminata fiocamente da quei lampioni gialli che
sanno d’ospedale. Avanzavi con quel passo deciso e barcollante insieme, di chi
ha vissuto o visto troppo, e parevi un ballerino classico – questo mio pensiero
ti faceva sghignazzare - . Ma da dove venivi, tu? Da dove venivi, con
quell’odore di terre lontane che ti cresceva sulla pelle, ed i capelli lunghi e
belli di una donna ad incorniciare quel tuo viso da bambino? Negli occhi grandi
l’innocenza, nelle mani bianche il sangue. E questo tuo concetto ha sempre
seguito un suo filo logico mirabile.
Sorridevi, e sorridevi. Ma
ogni tuo sorriso sapeva essere triste e malinconico come i primi giorni di
settembre, che ti vedevano andar via, dissolverti sull’orizzonte, con un sacco
in spalla e dietro il mio cadavere, allacciato alla tua ombra tremula.
Sorridevi, e sorridevi, e mi raccontavi le tue favole un po’ gotiche, sbagliando
le parole. Di bambini e di fantasmi buoni, di vecchie case scricchiolanti.
Collezionammo albe, quelle
estati. Albe luminose, immense, fatte di comete scintillanti e stelle che
scorrevano nel cielo, lente e strafottenti. Ci abbracciavamo nella sabbia,
riempiendoci i corpi, e di granelli ruvidi e di carne morbida. Ed io percepivo
il tuo amare ogni cosa, il tuo amare me, come amavi ogni pulsione e stimolo
vitale, ogni respiro acquistato e perso. Come il mare, che ti perdevi a bere con
lo sguardo, e sembrava volessi ingoiarlo tutto, acqua, vele e sale.
No. Mai come il mare. Il
mare ti si agitava dentro, ti scorreva nelle vene, rubino e caldo, ma
indomabile. Ti lasciavi trasportare e distruggere da esso, e, come lui, non
avevi una precisa forma, né una casa. Tutto il mondo era tuo, e lo aggredivi, e
mi aggredivi, con onde di gigantesca furia e creste candide, pure, con il corpo
e con le labbra. E non trovavi pace, nel tuo continuo e casuale vorticare, mosso
da desideri e volontà agli umani estranei. Spirito d’oceano e d’aria, mi
accarezzavi e poi fuggivi, senza sapere né da cosa, né per dove.
Sorridevi, e sorridevi. E
quando avvertivi tra le tue ciglia lunghe il vento freddo, issavi quel tuo sacco
strappato in spalla, e, col tuo cappotto lungo, ti allontanavi. Soffiato via
dall’autunno, scomparivi.
Ed io a cercarti ancora,
anche se l’ultima estate mi ha portato indietro la tua morte e un ciondolo.
Ma io lo so, lo so che il
mare non può morire. E lo ingoio tutto, acqua, vele e sale. E te.
Al mio immortale babyface.
http://www.youtube.com/watch?v=wSy_TxOid6k
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Capitolo 4 *** C & G ***
Come scorre via Milano, schiantata fuori dal vetro pieno d’acqua del tram.
Come le melodie di resistenza e rivoluzione nelle orecchie.
E adesso che sono lontana, e che non mi vedrai mai più barcollare sotto i portici, lungo le mura. Ora che non posso più sentirmi il mare dentro e che non posso odiarlo per la mia devastazione. Adesso che non ci sono più, muori. Scegliti un angolo lurido, sconosciuto e buio, e muori. E mi viene in mente che dentro di te hai una collezione di angoli luridi, sconosciuti e bui. E allora crepaci dentro, affogaci dentro, nella tua merda diseducata e squallida.
Ho raccolto la mia vita in due valige, e sono fuggita via con la faccia della redenzione. Dio mi ha bandita, soffiandomi contro un vento pesante e crudele. Come a dire che lì tanto non mi voleva più nessuno. Come a dire che non posso fottermi la vita sconvolgendomi per dimenticare e ridere. Che non posso starvi ancora a guardare, dopo che mi avete tagliuzzato il cuore con le forbicine.
Oggi piove, qui. Mi piace il freddo secco che non si appiccica alla pelle. Mi piace aver dimenticato l’ombrello, avere la testa bagnata e spalancare gli occhi sulle luci che si riflettono nelle pozzanghere di acqua acida. Ho paura. E sono drammaticamente sperduta e sola. Ho paura, ma tutto va bene, perché ho l’anima occupata da qualcosa di più bello, di più giusto e più pulito. Sono come quell’origami a forma di farfalla che svolazza sopra il mio nuovo comodino, come la bottiglia di rum accanto al letto, sigillata con lo scotch. E questa volta non la finirò in dieci minuti di panico, te lo giuro. Anche se di questo tu non puoi sapere niente.
Mentre mi perdo tra le strade sconosciute, ripeto tra me e me le frasi che per inutile bontà ti ho risparmiato. Cose come spiegarti che ho pensato di bruciare coi fiammiferi quella ciocca di capelli biondi che mi hai dato da conservare, oppure dirti prima o poi che l’odore del tuo corpo mi dava la nausea, ma mi accadeva spesso di volerti abbracciare. Che mi hai dedicato una canzone di Vasco, dopo cinque anni lanciati al vento di parole. Altri concetti magari no, ma credevo avessi capito che Vasco mi sta proprio sul cazzo, senza nessuna possibilità di recupero. Proprio come noi. Senza nessuna possibilità di recupero.
Eppure non ne ho la voglia. Di spiegarti perché mi hai riempito i polmoni di delusione. Desidero solo che muori, sai. Perché tra i due sono sempre stata la più intelligente, la più bella, la più forte, la più stronza. Ma non me lo dicevi mai, lo sottintendevi. E mi lasciavi credere di bastonarti con uno sguardo troppo severo anche quando fingevi e basta, cane maledetto. E allora muori, insieme ai tuoi “ti amo” di cartone. Muori.
Lasciami qui. A pensare che sono un po’ distratta e cinica, ma non lo faccio di proposito.
A credere che non è il cemento a scorrere, ma il cielo.
Note: mi dispiace per questa impostazione del menga ma sono su un pc che non possiede nessun tipo di versione di frontpage (programma che ho sempre usato per la pubblicazione). Spero che il carattere non sia troppo antipatico da leggere (già lo è il contenuto, sarebbe una fregatura totale). Comunque, insomma, cercherò di rimediare al danno.
Adieu. |
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