Flame

di Miawolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


 

“Signor Black, mi duole doverglielo dire, ma la sua preparazione è alquanto insufficiente.” esordì il professore non appena ebbi finito, con la sua parlata lenta e il suo lessico così perfettamente cattedratico.

“La prego Prof, se non passo il suo esame andrò in fuoricorso, proprio l’ultimo anno non potrei permettetemelo”. 

Sfoderai tutto il mio appeal da bravo ragazzo di periferia, cosa che alla fine ero, ma con un pizzico di sfacciataggine che, se saputa usare, salva il culo.

“Domani tornerò a casa, e non sarei capace di trovare le parole per dire alla mia famiglia di aver perso la borsa di studio per un soffio”

 Tentai di sfoderare un sorriso e un paio di occhi da cucciolo nello stesso tempo, e rimasi in attesa di vedere se avesse funzionato. 

Il professore aveva già cominciato a scrivere data e materia sul mio libretto, poi si fermò, alzo lo sguardo sopra gli occhialetti, e mi fissò un paio di lunghissimi secondi. 

Gli occhi da cucciolo funzionarono, perché gli scappò un piccolo sorriso, e con la stessa mano che stringeva la penna decise di togliersi gli occhiali e guardarmi meglio. 

“E sia. A Natale siamo più buoni. Per questa volta se la caverà con un 18, signor Black, ma si ricordi che ci rivedremo per l’esame di Economia Gestionale, e non sarò così clemente”. 

“Grazie professore, le assicuro che non la deluderò assolutamente!” 

Mostrai tutta la mia sincera gratidudine, mentre lui indossò di nuovo gli occhialetti tondi per terminare la registrazione del voto sul libretto. 

Sì, stavo esagerando con tutta quella gratidudine risultava penosa, ma ero elettrico dall’inizio della giornata, e non per l’ansia da esame. Firmò con uno scarabocchio e mi porse il libretto.

“E ora vada, sparisca dalla mia vista, prima che cambi idea” 

Capii che la sua era una esortazione assolutamente bonaria. Scoppiai a ridere afferrando il libretto che mi stava restituendo e gli tesi l’altra mano in segno di saluto. Lui la strinse di rimando.

“La ringrazio infinitamente, professore. Le auguro Buon Natale”

Mi fece un cenno con il capo e un sorriso divertito, era chiaro che avevo conquistato le grazie di quel simpatico uomo dai capelli bianchi. 

Mi catapultai fuori dall’aula chiassosa, quel pesante brusio di gente che ripeteva e quell’aria calda e viziata mi stavano santo alla testa. Quasi di corsa mi diressi verso l’uscita. Ma perché correvo? Il volo era fissato per domani, ma ero eccitato come un bambino. Scesi le scale della metropolitana a ritmo frenetico, non riuscivo a restare calmo. Sarà stata l’atmosfera Natalizia che si respirava nell’aria, o la felicità di aver passato l’esame. Oppure sarà stata la contentezza di poter finalmente passare due settimane a casa mia, con il mio branco, i miei fratelli. Ma soprattutto, o forse soltanto, erano le farfalle nello stomaco a sol pensiero di poter finalmente rivedere la mia Resmie. 

“Hey Jake!” 

Una voce femminile mi fece trasalire. 

“Oh, ciao Pamela! Stai andando in facoltà?” 

“Si, ho appuntamento col mio prof per discutere dell’ultimo capitolo della tesi. Superato l’esame?” 

Strizzai un occhio accompagnando l’espressione schioccando le labbra trionfante.

“Alla grande!” La biondina di diede il cinque, rise frivola e poi mi passo una mano sulla spalla. 

“Esci stasera? Festeggiamo” suggerii, malizioso, ma non troppo.

Le si accesero gli occhi verdi e annnuì.

“Ma certo, oggi è l’ultimo giorno in città”

“Ci sei vede al pub allora” le strizzai l’occhio e mi incamminai verso la linea 7.

 Ero assolutamente consapevole del fatto che non fossero esattamente i pensieri di un gentiluomo quelli che mi stavano passando per la testa in quel momento. Il mio nè nemico nè amico Edward non avrebbe esitato un momento a farmelo presente con quel tono di  rimprovero da vecchietto ottantenne. Anzi, cento - tredicenne, per l’esattezza. Un angolo della mia bocca si sollevò in su. La metro arrivò e fischiò forte nelle orecchie. Un vento carico di smog e polvere si sollevò spostandomi i capelli, e feci una smorfia di disgusto. Mi mancava casa mia, i boschi, il verde, l’aria limpida e la natura incontaminata. 

Comunque Pam lo sapeva, e le stava bene così. Era una ragazza... libera. Viveva la sua vita come meglio credeva, si divertiva senza lasciarsi influenzare dal giudizio di qualche mente di provincia. Era una tosta, in fondo. Certo, nulla in confronto alla mia dolce Resmie, lei era decisamente più tosta. Anzi, Resmie era “più” tutto, più di tutte.  Era la più bella, più intelligente, dolce, genuina, meravigliosa creatura mai creata dal creato.  La più brillante, e ahimè, la più attraente, si miei occhi. Mi chiesi per l’ennesima volta se l’avrei trovata cambiata rispetto all’ultima volta che l’avevo vista. Ciò che avevo lasciato era una acerba ragazzina, troppo grande per essere chiamata bambina, troppo piccola per essere denifita donna. Durante quell’ultimo soggiorno per le vacanze estive presi coscienza del fatto che aveva definitivamente abbandonato l’età dell’innocenza, qundo per caso scoprii una confezione di assorbenti nel bagno dei Cullen. Appoggiato al palo al centro del vagone saturo di gente mi tuffai dentro al ricordo dì quell’episodio, e a tutte le emozioni che mi si scatenarono dentro. Il mio primo pensiero fu: “è diventata donna!” Quasi sentii una morsa allo stomaco, provai una specie di dispiacere nel vederla crescere, come un genitore nostalgico che realizza di non essere più indispensabile per il suo piccolo. Subito dopo pensai: “è fertile? Può diventare madre?” La malinconia fu sostituita immediatamente dalla gioia. Non che ne sapessi molto, da poter creare vita doveva essere un’emozione indescrivibile. E sapere che avrebbe potuto viverla mi riempì il cuore. Subito dopo mi chiesi: “cosa sarebbe stato, quel bambino? Un vampiro per un terzo? O un quarto? E se fossi stato io, un ibrido tra licantropo, umano, succhiasangue?” Per forza di cose la mia mente finì lì per la prima volta, dove non doveva finire. Immagini sostituirono domande senza che me ne rendessi conto.Quella fantasia mi risucchiò in un vortice di pensieri, e quando risalii a galla mi ricordai improvvisamente di essere nel bagno dei Cullen da almeno 10 minuti, e che suo padre al piano di sotto doveva aver sentito tutto. Mi ricomposi velocemente e raggiunsi in fretta Resmie che attendeva il mio ritorno. Prima di sprofondare e nascondermi nel divano guardai Edward, per controllare la sua reazione. “Scusa” gli dissi col pensiero, e lui mi fece ceno impercettibile col capo. Mi venne di nuovo da ridere, pensando a quella sua reazione. Decisi dal quel momento in poi che distrarmi con nuove compagnie sarebbe diventato un rituale quasi necessario, anche se non sarebbe bastato per fermare le mie speranze. Durante questi ultimi mesi, come le fiamme di un incendio divampavano libere e velocissime, così erano cresciuti i miei desideri verso di lei. Mi sorprendevo sempre più spesso a fantasticare su lei: mentre studiavo, mentre ero a lezione, perfino quando uscivo, tra un mare di altre distrazioni. Provavo a soffocarli con tutte le mie forze. Io dovevo, e non tanto per suo padre e quello snervante dono, che poi era talmente lontano da me che non avrebbe potuto neanche sentirli, per fortuna. No, io li soffocavo per lei. Mi sentivo terribilmente colpevole, come se avessi sporcato una creatura così pura e ingenua soltanto per averla immaginata come volevo io, storpiando la sua essenza. In fondo, anche se mancava ormai poco al raggiungimento della sua maturità, fisicamente parlando, questa non combaciava con quella anagrafica. La sua anima viveva da meno di sei anni, decisamente troppo pochi. Ed io ero diventato un uomo ormai, non potevo considerarmi più neanche un adolescente. Dovevo, per il suo bene, domare quelle fiamme impazzite dentro di me, soffocarle. Eppure, come avevo constatato negli ultimi mesi, non sempre ci riuscivo. Forse ero riuscito solo a indebolirle, a ridurle a una flebile piccola fiamma fatta di speranza. Speranza che prima o poi lei avrebbe smesso di considerarmi una specie di zio, o fratello, o amico. Speranza che sarebbe stata lei, un giorno, a voler alimentare quella piccola fiamma. 

Del resto, la decisione di allontanarmi era stata dettata proprio da questo miraggio. Conoscendomi, se fossi rimasto lì non sarei riuscito a starle lontano neanche per ventiquattro ore filate, e questo l’avrebbe portata a vedermi come una figura familiare, talmente familiare da considerarmi un suo familiare. Sembrava un paradosso, ma decisi di starle lontano nel presente per poterle stare vicino nel futuro. Era una cosa contro natura allontanarsi dal proprio imprinting, e i miei fratelli me lo fecero presente più e più volte. Io invece cercavo di vedere la cosa con razionalità, cercando di vincere il mio stesso gene che mi attirava a lei come una calamita. Mi sembrava un buon compromesso in fondo, quello di poter essere presente nella sua vita, senza diventare una presenza fissa che avrebbe inesorabilmente imparato a dare per scontato. L’unico che mi capiva e mi appoggiava era Quil, che poverino, aveva avuto l’imprinting con una piccola di soli sei mesi. E un’umana si sa, non ci avrebbe impiegato 6 o 7 anni per crescere, ma ben più del doppio. Questa sofferenza in comune ci avvicinò ancor di più di quanto non lo fossimo già, fin quando non ci balenò questa idea in testa dopo soli un paio d’anni dalla nascita di Nes. Partire, studiare lontano, tornare di tanto in tanto. Sempre razionalmente parlando, non era così necessaria la nostra protezione verso i nostri rispettivi imprinting: vampiri e licantropi erano andati oltre le loro stesse nature, opposte e antagoniste tra loro, e avevano imparato a volersi bene, rispettarsi e addirittura frequentarsi. Le ostilità tra le due parti si appianano non solo a causa della legge della tribù, secondo cui l'oggetto dell'imprinting di un lupo del branco è intoccabile, ma anche perché, come dice Bells, è impossibile non affezionarsi a Resmie. E poi il branco era diventato l’unico contatto col mondo per lei, costretta a nascondersi alla società a causa della sua crescita anomala. Aspettando di non cambiare più, loro erano diventati i suoi unici amici, e loro col tempo avevano cominciato a considerarla parte della tribù Quileute e, se mai si fosse trovata in pericolo, tutto il branco avrebbe agito per difenderla. Ciliegina sulla torta, viveva in una famiglia formata da ben otto vampiri immortali. Era in una botte di ferro, ricoperta di acciaio inossidabile, ricoperta di cemento armato. Ben presto mi fu chiaro che restare non era più un compito, una necessità. Era un capriccio, e dovevo vincerlo per suo bene, o forse, egoisticamente, per il mio. Perché speravo con tutto il cuore, ogni volta per tornavo a casa, di leggere in lei un segnale, un piccolo indizio che mi suggerisse che anche lei cominciava, finalmente, a guardarmi con occhi diversi. E ci speravo anche questa volta, come una sdolcinata ragazzina, che questo Natale mi regalasse finalmente il segnale che attendevo da anni.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


La mattina della Vigilia di Natale mi svegliai tesa. Prima di aprire gli occhi aguzzai le orecchie e constatai che casa era silenziosa, almeno, più silenziosa del solito. I miei dovevano essere andati a casa dei nonni per i preparativi del gran cenone, o forse a caccia, o a comprare gli ultimi regali. Ne fui felice, perché mi presi tutto il tempo che volevo per sonnecchiare ancora un po’ nel mio letto caldo, ma non prima di aver controllato se sul display del mio telefono ci fossero delle notifiche. Anzi, la notifica. Non trovai nulla di interessante, quindi provai a richiudere gli occhi per una buona oretta nella speranza di prendere di nuovo sonno, ma non funzionò. Mi arresi, abbandonai il letto, e pigramente mi diressi a fare colazione. Scendendo le scale ricontrollai il telefono e trovai un suo messaggio. Mi aveva inviato uno scatto della valigia piena ma ancora aperta sul letto. Le farfalle si svegliarono insieme a me, cominciando a svolazzare timidamente nel mio stomaco vuoto. Arrivata in cucina mi versai una tazza di caffè fumante già preparato dai miei, e mi diressi verso una delle poltrone rosse del salotto di fronte al camino che sempre i miei avevano acceso per me. Cominciai a sorseggiare il mio caffè osservando di nuovo la fotografia che Jake mi aveva inviato. Secondo quanto mi aveva detto ieri sera al telefono il volo sarebbe decollato tra un paio d’ore. Calcolando volo, viaggio in macchina e anche il tempo di prepararsi per la serata, mancavano all’incirca sette ore. Continuai a buttare giù il caffè bollente nella speranza che le farfalle ci si sarebbero annegate dentro. Mi ritrovai a scorrere ancora una volta la galleria del mio cellulare. I contenuti delle foto erano a dir poco ripetitivi: foto di me e Jake alla spiaggia di LaPush, foto di me e Jake che ridiamo di fronte ad uno dei falò notturni della tribù, foto di me a cavallo di Jake lupo, foto di me che dormo accucciata sulla pellliccia di Jake lupo, e così avanti fino ad arrivare alle foto più vecchie, dove dimostravo almeno 4 o 5 anni in meno di adesso. Mi sentii a disagio guardando la differenza abissale tra noi due. Io così aspra, con quell’aria da bambina, magrissima eppure così rotonda nei lineamenti, e lui, esattamente come è adesso, esattamente il contrario di me: Un armadio fatto di fibre muscolari, con un accenno di barba, la mascella squadrata e le vene che pareva volessero scoppiare sotto la pelle bruna. Ai suoi occhi io resterò per sempre la dodicenne di queste fotografie, o forse la bambina che si divertiva a farsi lanciare in aria sotto lo sguardo terrorizzato di mia madre. Magari mi ha cambiato pure qualche pannolino un tempo, ed io non lo ricordo neppure. Come potrebbe adesso vedermi sotto una luce nuova? Spensi il cellulare e spostai l’attenzione sulle lingue di fuoco di fronte a me, sospirando affranta.

 

Sapevo di sbagliare. Non potevo permettermi di desiderare una cosa del genere, era ridicolo, o forse addirittura disgustoso. Non condividevamo di certo lo stesso DNA, ma era lo stesso una cosa deprorevole, vergognosa. Quando ero nata lui era già maggiorenne. Mi ha imboccata, cullata, ha badato a me. Mi ha insegnato a cacciare e ad andare in bici. Questo fa di lui un fratello, un padrino, zio, cugino o amico di famiglia, non importa. Fatto sta che era assolutamente, totalmente sbagliato. Dovevo liberarmi di questa infatuazione pre-adolescenziale. Erano mesi ormai che provavo a psicanalizzarmi da sola, cercando articoli su internet, sbirciando in qualche manuale di psicologia infantile quando andavo in libreria insieme a mia madre. Ma nessuna delle mie ricerche mi aveva portato alla causa o alla soluzione di questo problema. Avrei tanto voluto parlarne con qualcuno, ma sarebbe stato troppo imbarazzante per me. Già dovevo convivere con la consapevolezza che mio padre sapesse tutto, e quella moritificazione bastava e avanzava. Per fortuna almeno, mio padre è sempre stato un tipo discreto, faceva finta di non sapere e non si è mai azzardato a chiedermi se avessi voglia di  parlarne. Ormai mi ero rassegnata alla completa mancanza di privacy. Mi limitavo ad apprezzare i momenti di solitudine per pensare in totale libertà, come in quel momento. Mi diressi verso il bagno e lasciai che l’acqua della doccia diventasse sempre più calda. Avevo bisogno di calore, mi aiutava a ricreare nella mia testa quella sensazione di pace che sentivo solo vicino al calore febbricitante di Jacob. Mi spogliai e solo quando vidi il fumo fuoriuscire dal box doccia entrai. 

Prima del mio debutto nel mondo speravo che questi sentimenti confusi fossero dettati dalla mia limitatissima vita sociale. La mia famiglia era anche la mia scuola, e gli amici erano i lupi. Pensavo di aver proiettato su Jacob una ricerca di riconoscimento, di affermazione di me. E speravo che una volta conosciuti dei nuovi ragazzi, umani, coetanei, prima o poi mi sarei infatuata di qualcuno in grado di rimpicciolire nella mia testa quel metro di misura che avevo fatto di Jake. 

Ma così non fu. Certo, di ragazzi di bell’aspetto doveva esserne pieno il mondo. Il problema però era che non appena scambiavo con loro qualche parola, l’incanto svaniva. Ma comuqnue, in silenzio o no, era inutile fare paragoni: quello che sentivo accanto a Jake non era minimamente paragonabile a quello che provavo quando ero insieme qualcunque altro ragazzo. Poggiai le spalle contro le piastrelle fredde lasciando che il flusso d’acqua bollente venisse trasformato dalla mia immaginazione nel corpo di Jacob.

Il cellulare squillò fastidiosamente, ma ne fui felice, tutto sommato. Non avrei voluto passare il cenone di Natale ad evitare di incrociare lo sguardo di mio padre per la vergogna, già sapere che avrei rivisto Jacob dopo mesi mi provocava un livello di ansia più che sufficiente. 

“Papà” risposi scocciata. Attivai il viva voce e mi infilai di corsa l’accappatoio poggiato allo scaldasalviette acceso.

“Buongiorno, mia adorata. Vedo che oggi sei di buon umore” 

Spiritoso. Sbuffai e alzai gli occhi al cielo, però mi scappò un piccolo, piccolo sorriso.

“Quando ci raggiungi? Sono appena tornato da caccia con gli zii, pensavo di trovarti”

“Sono appena uscita dalla doccia, tra poco arrivo”. 

“Qui i preparativi continuano. Fa’ presto”  

“Sì. A dopo papà”

Quando la chiamata terminò il display si accese mostrano a caratteri cubitali l’orario. Mezzogiorno: meno sei ore. Mi guardai nello specchio appannato. Avevo gli occhi tirarti dal turbante e le guance a chiazze rosse dal calore dell’acqua. E non solo. 

Decisi di mettermi in piega i capelli, per il grande cenone....

Sì, proprio il cenone.

Ipocrita” dissi col pensiero alla ragazza così capelli umidi nello specchio. 

Ormai da un paio d’anni avevamo cominciato questa strana tradizione. E tutto solo per tenermi contenta. Per me il giorno di Natale era il più triste dell’anno. Con una famiglia di otto persone che non si nutrivano di cibo, spesso finivo col passare la notte di Natale a casa di nonno Charlie o alla riserva. Tuttavia ci soffrivo un po’, e quando fu evidente a tutti nonna Esme iniziò un nuovo progetto: aveva costruito un grande pergolato dietro la villa, con una tettoia fatta di grandi lastroni di legno sorretti da quattro colonne in legno e pietra. Lì sotto si trovava un grosso salotto con divani e poltrone da esterno. Poco distante, un grosso pozzo fuoco in pietra  era delineato per metà da un muretto che seguiva la sua forma squadrata, e per metà da altri divanetti poltroncine e tavolini. Il tutto immerso ovviamente nella folta e rigogliosa foresta di Forks. L’obiettivo era quello di venirsi incontro: i vampiri potevano semplicemente smettere di respirare, ma i licantropi no, e in un luogo chiuso per tante ore avrebbero sofferto la “puzza di candeggina”, come diceva Jake. Certo, con i loro sensi sviluppati sarebbero riusciti a sentire quell’odore da metri e metri, ma sicuramente era meglio di niente. Il camino era stato creato per riscaldare l’ambiente, ma solo per me. Nè gli uni nè gli altri sapevano cosa volesse dire avere freddo. Entrambi usavano i vestiti solo per costume sociale, non di certo perché ne avessero bisogno. Più che altro il camino era solo un gesto simbolico, voleva dire: “rispettiamo le vostre usanze”.

Anche i Quileute avevano fatto dei passi verso di loro: niente cena e niente tavolata chilometrica. Il cenone era diventato una sorta di buffet, in questo modo sarebbe stato facile raggirare Charlie e Sue, o eventuali invitati umani, dal notare che otto persone non toccavano cibo. 

Spensi l’asciuga capelli e guardai soddisfatta il risultato. La mia chioma color castano ramato formava dei boccoli larghi che si poggiavano sulle spalle, e le curve sinuose mettevano in risalto alcune ciocche più chiare di altre.

Il passo successivo fu scegliere qualcosa di adatto da mettere. Volevo star calda, ma non scomoda dentro un cappotto. Il tutto cercando di essere carina per l’occasione. 

Sì... l’occasione. 

Sbuffai di nuovo, per la cinquantesima volta da quando avevo aperto gli occhi. 

Scelsi il maglione più caldo che avevo, con maglie grosse color nocciola e oro che formavano grossi treccioni. Invece dei soliti jeans scelsi un pantaloncino scamosciato nero, e sotto del collant leggeri, forse troppo. “Chi bella vuole apparire...” recitai il mantra di mia zia Alice immaginandolo nella mia testa recitato proprio dall sua voce acuta e cristallina.

Per non sembrare ridicola e fuori luogo optai per i miei soliti anfibi neri, quelli che mi salvano in ogni situazione. 

“Piedi sempre al caldo” questo mantra invece lo recitai con la voce di mia madre. Ricoprii le ciglia con una generosa quantità di mascara e potetti finalmente considerarmi soddisfatta del risultato. Afferrai cappotto e borsa,  diedi un’ultima occhiata al cellulare prima di salire in macchina. Meno cinque ore. Con le farfalle impazzite nello stomaco, misi in moto e mi avviai.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


“Jacob. Che piacere rivederti”. Carlisle mi venne incontro porgendomi la mano con fare settecentesco. Risposi con un sorriso sincero e gli strinsi la mano. 

“Accomodati, stavamo aspettando solo te”. Mi poggiò la sua mano di pietra sulla spalla e cercai di soffocare un sussulto. Era istinto di sopravvivenza o semplice nervosismo?

Non appena raggiungemmo il grande pergolato tempestato di lucine e decorazioni, Edward su il secondo a darmi il benvenuto.

“Jacob”. 

“Edward”.

Il nostro rapporto era migliorato notevolmente nel corso degli anni, avrei giurato di ricordare momenti in cui eravamo arrivati a ridere insieme come un paio di vecchi amici. 

“Se non fossimo nemici naturali e non cercassi di rubarmi la mia unica ragione di vita, mi saresti quasi simpatico” Disse una manciata di anni fa. E fu esattamente quello che successe, quando smisi di cercare di rubarle la fidanzata.

Per sfortuna però, con la crescita di Renesmee tornò di nuovo anche quel suo modo di fare così insopportabilmente diffidente.

Mi sollevai i jeans con un leggero imbarazzo cominciando a guardarmi intorno.

C’erano tutti. E dico proprio tutti. Sam ed Emily cercavano di far ingurgitare al loro mocciosetto un omogenizzato, seduti al divanetto sotto il patio. Poco lontano, Paul e Rachel chiacchieravano con mio padre, Rebecca e Salomone, suo marito. Charlie e Sue, insieme a loro, erano occupati a fare strane smorfie a Billy Jr, che li guardava stranito dentro al passeggino. Appoggiato ad un tronco d’albero invece, Quil sorseggiava una birra in compagnia di Emmett e Jasper. Claire poco distante era a caccia di chissà che cosa lì vicino. Embry, Leah e Seth se ne stavano per i fatti loro mangiando già come porci. Kim e Jared si stavano sbaciucchiando, come sempre. Esme e Alice stavano sistemando le varie portate sul tavolo del buffet. Ne mancavano giusto un paio. Bella, Rosalie e...

Eccola. 

La vidi.

Boom. Un tonfo.

Il sangue nelle vene si gelò per un istante. Il cuore era impazzito. Lo sentivo battere fuori dalla cassa toracica, lo sentivo in gola, lo sentivo nelle orecchie. Era assordante.

La mia Resmie sbucò fuori dalla porta di servizio della cucina illuminata, insieme a Collin e Brady. Chiacchierando con loro, si incamminò sul vialetto che conduceva a me. Le luci a cascata che costeggiavano la stradina la illuminavano mostrandomi tutto il suo splendore. Un paio di pantaloncini mostravano le sue gambe affusolate, il maglione ampio tradiva due piccoli seni appena sbocciati. 

I suoi bellissimi capelli dai riflessi caramello erano cresciuti smisuratamente, sparpagliati sulle sue spalle esili e un po’ spigolose. La trovai completamente cambiata, ma ormai mi ero abituato a vederla diversa ogni volta come se non la vedessi da anni. Il viso aveva preso forma, smagrendosi e riequilibrandosi di nuovi volumi e proporzioni. Gli zigomi erano diventati alti e sporgenti, ricreando la stessa forma a cuore del viso di sua madre. Le labbra erano rosse e piene, un po’ imbronciate, spiccavano sulla sua pelle di porcellana. Il naso, piccolo e tondo. E gli occhi. Quegli occhi. 

Proprio mentre mi ero soffermato su di loro, loro si soffermarono su di me: girò la testa, avendo Collin puntato il dito verso di me, come ad indicarmi. Incontrò il mio sguardo sorprendendomi a fissarla imbambolato, sicuramente con la faccia da scemo, da non so più nemmeno quanto.

“Jake!” Strillò.

Il suoi occhi si illuminarono e le gambe cominciarono a correre. 

Io non riuscivo neanche a parlare, il sorriso era diventata una risata da cretino, mi limitai ad aprire le braccia per inviarla a buttarsi addosso a me.

Perfino quell’attesa mi sembrò un momento di estasi.

Mi si scaraventò addosso senza badare ad essere troppo delicata. Il profumo che sprigionavano i suoi capelli sul mio viso mi riempì le narici. La strinsi forte a me sollevandola e mi beai di lei. 

“Ciao piccola” mi limitai a dire, troppo emozionato per aggiungere altro.

Presto, troppo presto, dovetti rimetterla giù e allontanarla da me. Per la prima volta il mio cuore non fu l’unica parte del mio corpo ad essere felice di vederla. Slacciai le braccia dalla sua schiena e le cinsi le mani sui fianchi per stabilire io stesso la giusta distanza. 

Vedevo una strana nuova luce in lei, non era la stessa di sempre. La percepivo tesa, non voleva guardarmi negli occhi anche se i suoi muscoli facciali mi parvero paralizzati dal sorriso fisso stampato sulla bocca.

“Come stai?” chiesi. Era… imbarazzata?! 

Impossibile.

La sua vita era così stretta dentro alle mie mani enormi, ma questa volta sentii sotto di esse anche la nuova rotondità dei suoi fianchi ad accennare ancor di più quella curva che stava cominciando a farmi girare la testa.

“Niente di speciale, Jake… E tu?” 

Le guance erano chiazzate di rosso e assolutamente adorabili. Ma continuavo a vedere una punta di tensione nel suo atteggiamento, nella risposta così vaga. Stavo volando con la fantasia? Sperai che nessuno notasse il mio entusiasmo… al piano di sotto. Decisi di stoppare ogni contatto fisico. Come cavolo era possibile che mi facesse questo effetto anche solo abbracciandola?

“Ma come niente di speciale? Hai iniziato la scuola, non hai nulla da raccontarmi?”

“Jake!” Sua madre arrivò dietro di lei dopo una manciata di secondi, la sua mano destra reggeva un vassoio con su almeno una dozzina di bicchieri di cristallo, e sembrava lo facesse oscillare con una grazia e una sicurezza a cui nemmeno dopo tutti questi anni riuscivo ad abituarmi. 

“Bells!” Esclamai. Lei si alzò sulle punte per schioccarmi un bacio sulla guancia. Ero contento di vederla, sul serio, ma in quel momento tutto e tutti erano passati in secondo piano. Volevo stare con Nessie almeno per un po’, anche se non avevamo tempo per stare in pace per i fatti nostri. Mi chiesi di nuovo come mai questa volta non si era fatta trovare già a casa mia, come faceva tutte le volte che tornavo... 

Intuitiva come sempre, Bella si allontanò per posare il vassoio sul tavolo del buffet. Arrivò anche Rosalie che come saluto personale sollevò un angolo di labbro superiore in una smorfia di disprezzo. Ormai la prendevo come una dimostrazione di affetto. Le mostrai il dito medio e le sorrisi beffardo.

Non mi sprecai in altri saluti; sia una che l’altra fazione avrebbero capito perfettamente il mio stato d’animo, e poi in ogni caso non ero mai stato un damerino fedele al galateo dello scorso secolo. 

Ops

Guardai Edward e capii dalla sua faccia che era in ascolto. Non avrebbe mollato la mia mente neanche per un istante, ovviamente.

Alzai gli occhi al cielo.

“Allora, nanerottola” ritornai alla ragione della mia esistenza. 

“Dai, dimmi qualcosa! Ti sei fatta dei nuovi amici?” Sperai di nuovo che l’uso del maschile non fosse così palesemente voluto. Stavo cambiando, con lei. Non ero più il fratellone sicuro di sè, tranquillo, protettivo e trasparente. La sua presenza cominciava ad offuscarmi i pensieri, e a farmi sentire così fastidiosamente insicuro ed emozionato.

Presi una birra dal buffet e la stappai con i denti.

“Si... Mi sono fatta un piccolo gruppetto di amiche”

“E...?” 

“Non sono il massimo, ma può andare. A volte mi sembrano stupide. Altre volte mi diverto insieme a loro... Non lo so, sto ancora cercando di capire come funziona”.

Corrugai la fronte di fronte a quella risposta bizzarra.

Prese una birra anche lei e me la porse con la faccia di chi si aspettava già una ramanzina.

“Cos’è questa storia?” Chiesi. Mi uscì fuori un tono un po’ severo, un po’ sorpreso, un po’ divertito. 

“Oh andiamo Jake, che sarà mai! E poi, non è mica la prima volta”

Ah

Gliela stappai senza fare una piega. Sapere che ormai era abbastanza grande da preferire una birra ad una Coca mi procurava un senso di inquietudine, era quasi malinconico vederla crescere. Ma una piccola parte di me era divertita ed eccitata. Ogni suo piccolo passo in avanti l’avrebbe portata più vicina alla mia età. 

Alla mia età, ma non a me. Io ero suo, e sicuramente, per sempre lo sarei stato. Ma lei non era mia, e forse, mai non lo sarebbe stata.

Deve. Vivere. La. Sua. Vita.

“Cin” sbattè la sua bottiglia con la mia ed io trasalii.

“E invece gli esami?” Chiese lei. Mi incamminai verso il falò, occupato soltanto da Charlie e Sue che giocavano col loro piccolo nipotino. Presi posto a circa un metro da loro, e lei si sedette accanto a me.

“Sono a buon punto. Non è affatto facile, col lavoro e tutto il resto... E poi non ho un super cervello da sanguisuga, sai com’è” provai a prenderla in giro, per vedere se sarei riuscito a scioglierla un po’. Non mi piaceva quella sua cera oggi, la sentivo... Distante. Era forse solo triste per la scuola? Non si trovava bene? O forse starle lontano stava raffreddando il nostro rapporto? Mi era sembrava felice di vedermi. Possibile stesse solo recitando?

Mi diede un pugno sul braccio, e di nuovo, mi fece trasalire.

“E tu invece, come lo trovi le lezioni del liceo?”

“È ok. Sono al passo con il programma, anzi forse sono anche avanti. Temevo di no…”

Perché non mostrarmelo? Perché si prendeva il fastidio di parlare? Era strana, pensavo fissando il suo viso illuminato dalle fiamme.

“Con le relazioni sociali credo di essere un po’ indietro… Cioè, sia troppo avanti che troppo indietro…”

Alzai un sopracciglio. “Cosa?”

Cosa cavolo aveva detto? Mi ero perso. Bevvi un altro sorso di birra e mi sistemai comodo davanti fuoco, aprendo la zip delle giacca da moto. Ero pronto a non perdere più il filo del discorso.

“Intendo dire…” Si prese un po’ di tempo. Non sapeva bene come trovare le parole. Bevve un sorso di birra con l’espressione accigliata. Ne approfittai.

“Perchè non me lo mostri?”

Fece una faccia strana. Sembrava in difficoltà.

“Beh, questo è un altro aspetto che mi mette a disagio a scuola. Sono troppo abituata a comunicare così. Devo sforzarmi di usare la parola, se non voglio sembrare una specie di disadattata con qualche fobia sociale”.

Non faceva una piega. Ma la sua espressione non mi convinse. Voleva evitare di mostrarmi il suo pensiero? Aveva dei segreti che non voleva rivelarmi?

Mi sentii speranzoso. Ma non voleva per forza significare che volesse nascondermi chissà quali sentimenti per me. Magari aveva un ragazzo, e non me lo voleva dire, protettivo e rompipalle com’ero. Mi sentii uno sciocco. E poi mi sentii agonizzato. 

Un fidanzato… Presi ancora un altro sorso di birra ghiacciata, stavolta più lungo.

“Diciamo che a volte le dinamiche sociali degli umani sono strane. Sono un po’… Infantili?” lo disse quasi come se fosse una domanda, come se cercasse una conferma da me. Mi venne da sorridere, ma fu un sorriso amaro.

“Non lo so, forse crescere tra centenari e pluri-centenari immortali mi ha reso un po’ snob, però a volte fanno delle cose così stupide”

Era umile. Non voleva mai peccare di presunzione, eppure era non uno, non due, ma dozzine di livelli più su rispetto alla massa. Era tutta sua madre.

“Però, non so come, mi trovo in difficoltà a volte. Avverto troppo la differenza tra me e loro. So di sapere molto di più rispetto a loro, e che le mie capacità celebrali sono assolutamente in linea con quelle di qualsiasi altro essere umano di diciassette anni...”

“Al di sopra” dovetti interromperla, per corregerla.

“Si... però ci sono così tante esperienze che loro hanno già fatto ed io invece no. Sempre qui, a casa, con i miei… Loro mi sembrano così a loro agio nelle loro dinamiche stupide, ma per me sono nuove e non so come comportarmi certe volte”. 

Mi sentii così scemo. Viaggiavo con la fantasia, volavo lontano… Ma la realtà era che suo aspetto costituiva solo un inganno per i miei occhi. Era soltanto una bambina. Guardai lontano, cercando Quil. Lo vidi continuare a chiacchierare con Jasper mentre Emmett aiutava Claire ad arrivare ai rami più alti tenendola in piedi sulle sue spalle. Ovviamente, mio fratello aveva gli occhi ben saldi sulla scena, pronto a intervenire se ce ne fosse stato bisogno. Claire era una bambina di sette anni, e Quil aveva tanto da aspettare ancora, ma almeno ne era ben consapevole. Io pensavo di essere più fortunato di lui, pensavo che avrei potuto attendere la metà del tempo che avrebbe dovuto attendere lui. Avevo cantato vittoria troppo presto, ma la verità era che Claire e Renesmee, in un certo senso, viaggiavano sulla stessa lunghezza d’onda. Entrambe bambine, non avevano ancora un affaccio sul mondo: il loro unico contatto era la famiglia. Entrambe stavano iniziando la scuola, entrambe stavano per la prima volta confrontandosi col mondo, cercando una propria individualità, mettendosi a confronto con dei loro simili. Entrambe stavano creando le loro prime amicizie, scegliendo chi fosse più adatto a loro, incline per carattere, interessi e personalità. Di fronte a loro c’erano ancora vittorie da raggiungere, traguardi da ottenere. Illusioni e disillusioni, fallimenti e sogni da inseguire. Il suo corpo adulto era sono un illusione che faceva male. Non era ancora il tempo, ammesso che ce ne sarebbe mai stato uno, per noi due. Tornai a guardarla. Che sciocco che ero stato. Le sfiorai una guancia col palmo della mia mano, e poi sistemai una ciocca di capelli dietro le orecchie.

“Non ti preoccupare, Resmie. Ci sarà un tempo per tutto”. Nel momento esatto in cui pronunciai quelle parole, mi chiesi se stavo parlando a lei o a me stesso.

La mia frase sembrò averla infastidita ulteriormente. Come se avessi detto una cosa che a lei non aveva fatto piacere.

“Non sentirti inadatta, mai. Sei molto più di tutti loro, e lo sai bene. Ti manca solo qualche esperienza in più. Tempo al tempo, farai tutto ciò che vorrai, quando lo vorrai.. E con chi vorrai”.

Stavo parlando contro il mio volere e contro il mio interesse. Il giovane uomo innamorato voleva lei, il giovane lupo voleva il suo bene. Amesso che lei avesse voluto me, ero anche il suo bene? 

Il suo bene era scegliere, me o chiunque altro, l’importante era che lo avesse scelto lei. Non costringersi, accontentarsi, arrivare poi troppo tardi a realizzare di non aver mai preso le sue posizioni e aver vissuto la sua vita. Volevo che provasse, inciampasse, sbagliasse. Volevo che, se il destino aveva in riservo questo per me, ogni suo piccolo gesto l’avrebbe portata da me. 

Annuì ma non disse nulla. Sembrava non volesse più coninuare quella conversazione. Mi voltai verso di lei e vidi che stava osservando attentamente la bottiglia che stringeva tra le mani, con la testa bassa. Sembrava triste

Volevo capire. Le sollevai il mento con un dito, e mi guardò. 

I nostri occhi si incatenarono. Ci fissammo per un tempo che mi sembrò lunghissimo. Mi parve uno sguardo che diceva tutto e non diceva niente. Uno sguardo carico di risposte e ancor di più di domande. Uno sguardo che aveva cambiato tutto. Il battito del suo cuore sembrava irregolare. O forse era il mio? 

Era quello di entrambi.

Non riuscii a dire nulla. E lei altrettanto.

Distolse lo sguardo, e mi parve ovvio. 

Sì, era imbarazzata. Forse anche triste, ma molto, molto più imbarazzata. 

E lo ero anch'io.

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