Sharon: La Pietra Di Blarney

di manpolisc_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Trama c: ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Trama c: ***


Trama c:

•Secondo libro della trilogia•

Sharon Steel ormai crede di aver scoperto tutto di sé grazie agli avvenimenti estivi che hanno caratterizzato le sue vacanze, quando in realtà non sa ancora nulla di ciò che realmente è. Sicura di aver detto addio ad una minuscola ma significativa parte della sua vita, si ritroverà ad affrontarla di nuovo, e questa volta le cose saranno troppo diverse e non sarà sicura di riuscire ad accettarle.

Dal testo:
- Era solo un sogno. - Cerca di rassicurarmi, e lo ringrazio per avermi interrotto. Non sono certa di voler dire ad alta voce quegli orrori da cui la mia mente è ormai segnata.
- Si realizzerà. - Affermo completamente sicura.
- Solo se tu vuoi renderlo realtà. -
Angolo autrice c:
Salve a tutti! Grazie per aver letto il primo libro della trilogia "Sharon: La Maledizione Dell'Albero" ed essere arrivati fin qui, spero che vi sia piaciuto :)
Se i capitoli ti piacciono e/o mi vuoi dire qualcosa, lascia pure una recensione sotto questi. Sarebbe molto gradita, dato tutto il lavoro svolto per creare questa storia. Alla fine mi piace parlare con nuove persone, non mordo :) 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

-Sharon-

Harry mi sorride con dolcezza mentre non distolgo il mio sguardo dal suo, sebbene il panorama che ci circonda sia qualcosa di splendido. La Luna risplende in un cielo pieno di stelle, privo di nuvole, e si specchia sulla superficie del lago intorno al quale non c'è neanche un po' di fango, a differenza dell'ultima volta in cui mi trovai vicino a un lago, nel bosco, quando ci imbattemmo in Albert Sanchez. C'è una distesa di erba il cui colore, verde scuro, è interrotto solamente da qualche margherita bianca sparsa di qua e di là. Un vento piacevole lambisce i nostri visi, i fiori, le foglie degli alberi che circondano questo posto. Anche l'acqua del lago si lascia sfiorare da questa leggera brezza. Il volto di Harry assume una colorazione ancora più pallida del solito per la luce della Luna, che gli delinea gli zigomi perfetti. Di tanto in tanto viene anche illuminato da una fioca luce gialla quando qualche lucciola ci svolazza intorno e lui si trattiene dall'ucciderla, schiacciandola magari in un pugno.
- Mi sei mancato... - Mormoro e abbasso lo sguardo sulle mie mani, lievemente in imbarazzo per quelle parole. Non sono il tipo di ragazza che dice apertamente questo genere di cose, soprattutto in un sogno. Lui mi afferra il mento, bloccandolo tra l'indice e il pollice, e mi alza il volto per farmi guardare nei suoi occhi, senza smettere di sorridere. Questi sono molto più accattivanti di quanto ricordassi e il loro blu lievemente più scuro.
- Sono ancora vivo, eh. - Mi rassicura. Non appena allungo la mano per accarezzargli la guancia, e credere sul serio alle sue parole, lo trapasso. A quel tocco, il suo volto si dissolve leggermente, come se fosse fatto di fumo. Ritraggo di poco la mano, spaventata che possa sparire del tutto. Non vorrei che anche questo momento sia rovinato per causa mia, come successe quando Jackson ed io andammo al cinema. Alcune volte rimpiango ancora di essere uscita da quell'edificio: forse le cose sarebbero potute andare in modo diverso; Jackson sarebbe ancora qui e non sentirei così disperatamente la sua mancanza, con la paura di non udire più la sua voce. Ciononostante, so che non è colpa mia se mi ha lasciato sola, ma solo sua. - Questi sogni del cazzo. - Sbuffa il riccio mentre il suo viso ritorna esattamente come prima.
- Questo è ingiusto. Tu puoi toccarmi, ma io non posso toccare te. - Sporgo leggermente il labbro inferiore in avanti, formando un piccolo broncio, con lo sguardo nei suoi occhi. È passato fin troppo tempo da quando ho sentito la sua pelle fredda. Darei di tutto per un suo abbraccio, o anche un suo messaggio che mi faccia capire che non ho perso anche lui per sempre.
- Cos'è? Una specie di porno? - Scoppia in una risata, cosa che mi fa ridere con lui mentre gli do uno schiaffo sul braccio per le sue parole, senza fargli sul serio male. Non che mi sia difficile: prima di tutto perché svanisce lievemente di nuovo, e secondo perché è una pietra in confronto a me. Anche se questo non significa che non si possa far male. In fondo è anche mezzo umano, oltre che vampiro: si ferisce come qualsiasi persona in questo mondo. Ricordo ancora quelle brutte ferite che June gli ha provocato quest'estate: lo spettacolo più brutto che abbia mai visto finora.
- Mi sono mancate queste tue stupidaggini. - Scuoto la testa, divertita, mentre lui ancora ride.
- A me sei mancata tu. - Dice dopo aver smesso di ridere, assumendo un atteggiamento serio ma affettuoso allo stesso tempo. Non ricevere notizie di alcun tipo da lui è straziante: è uno degli amici più cari che ho e non so se sia vivo o meno. A volte vorrei avere il numero di Avery per chiederle se sia riuscita a rintracciarlo in qualche modo. Non immagino come stia lei, che è la sua ragazza, in questa situazione.
- Tu non sei veramente qui. - Scuoto la testa di nuovo, affranta poiché cosciente della verità. Lui mi guarda e schiude la bocca, offeso per le mie parole: credo che anche lui sappia che tutto questo non è vero. Non so di che natura siano i suoi sogni, ma se stessimo condividendo lo stesso e lui si trovasse in una situazione davvero brutta, forse questa è l'unica cosa bella a cui riesce ad aggrapparsi ora. Spero con tutto il mio cuore di sbagliarmi.
- Buon compleanno. - Dice ancora con espressione indignata, guardandomi come se gli avessi rotto il suo coltellino. Aggrotto la fronte.
- Come? -
- Buon compleanno. - Ripete. Prima che possa chiedergli cosa significhi, un fischio, simile a quello prodotto da una trombetta di carta, lo fa sparire sul serio questa volta e il fumo che componeva la sua immagine svanisce nell'aria.
 
Sobbalzo nel mio letto ancora con gli occhi chiusi e mi aggrappo al cuscino, lamentandomi successivamente per quel rumore. Perché mi hanno svegliato quando l'unico posto dove posso ancora incontrarlo è nei miei sogni?
- Sveglia, dormigliona! - Esclama Delice, entusiasta, e suona di nuovo quella trombetta vicino al mio orecchio. La afferro istintivamente e la brucio tra le mani, stringendola con forza. Quando riapro il palmo, la cenere cade leggiadra sul pavimento. - Beh, era meglio quando non sapevi di essere un Elementale. Almeno gli altri anni ti limitavi a lanciarmi addosso la trombettina. - La risata di Albert riempie il silenzio dopo le parole di Delice dall'altro lato della stanza. Apro gli occhi e controllo il mio cellulare sul comodino: tredici settembre, le sette e mezzo.
- E mia madre credeva che essere una Salamandra non avesse i suoi vantaggi. - Commento mentre mi tiro su e mi strofino gli occhi, sbadigliando. Guardo Delice, ancora accanto a me, con le braccia incrociate al petto e un'espressione imbronciata in volto. Sospiro e allargo le braccia per invitarla ad abbracciarmi; lei mi sorride e mi stringe. Mi dimentico sempre quanto le stiano a cuore i compleanni, sebbene io li veda come eventi del tutto inutili. Cosa c'è di bello nel festeggiare il proprio invecchiamento? Al massimo celebrerei il fatto che un mostro ancora non stia saltando la corda con le mie budella. Quello sì che va festeggiato.
Appena Delice si stacca, Albert si avvicina con un sorriso sul volto e le braccia dietro la schiena. È cambiato parecchio quest'estate: la peluria che aveva sul viso adesso è leggermente più folta e i suoi lineamenti più decisi, più adulti; è alto almeno cinque centimetri in più e il suo fisico è più robusto e compatto, di certo merito del nuoto. Anche il nostro rapporto è del tutto cambiato, siamo inseparabili: passiamo la maggior parte della giornata insieme, divisa tra l'allenamento, le cacce ai mostri, momenti di svago e tra poco anche le lezioni e lo studio. L'unica cosa per la quale mi dispiace è che Delice si senta esclusa ogni tanto. Certo, usciamo molte volte noi tre insieme, ma Albert ed io spesso ci ritroviamo a chiacchierare tra di noi mentre lei rimane in silenzio e ogni tanto gira su Instagram per sentirsi meno sola, non sapendo come unirsi ai nostri discorsi. Ed io naturalmente mi sento in colpa, anche se non dovrei: sono stata per anni in silenzio mentre lei parlava con altre persone, senza preoccuparsi di farmi sentire meno a disagio. Ciononostante, so cosa si provi a essere esclusa e non mi va che questo tocchi anche a lei. È brutto guardarsi intorno e sentirsi più soli di quando lo si è davvero. Non vorrei farla sentire fuori luogo, ma non vorrei neanche che si facesse male seguendoci quando dobbiamo occuparci di qualche mostro. A volte viene comunque con noi a caccia per evitare di essere rimpiazzata da Albert, sebbene ci rallenti di molto e finisce che lui si occupa della creatura ed io di lei.
- Esprimi un desiderio. - Porta le braccia in avanti, tenendo sulle mani un piccolo cupcake alla cioccolata con una colorata candelina sopra. Sorrido mentre osservo la piccola fiamma oscillare. Un desiderio... ne ho fin troppi: che Harry stia bene, che i mostri non esistano, che mia madre sia davvero sincera con me, che la mia vita non sia così complicata, che Jackson si faccia sentire, anche solo con un messaggio. Sono ancora arrabbiata con lui e per il modo in cui mi ha trattato, però capisco anche le priorità che aveva. So perfettamente che per lui sono più che una semplice missione, o come diamine la vuole chiamare, ma lui sa solamente mascherare le proprie emozioni e quello era il modo più semplice per allontanarsi da me. Mi ha facilitato le cose, almeno credo. Nell'ultimo mese, infatti, non ho pensato più a lui, non tutti i giorni, se non altro. Anche se, fra tutti i desideri possibili che potrei esprimere, lui sarebbe comunque il primo. È stato il mio secondo vero amico dopo Delice e, sebbene non sappia neanche dove sia e cosa stia facendo in questo momento, gli voglio ancora bene. A volte mi chiedo soltanto se anche lui pensi ancora a me. Non può essere davvero tutto finito con una parola.
- Dai, soffia. - M'incita Delice con un sorriso sul volto. - Non abbiamo mica tutto il giorno. - In effetti, tra non molto inizieranno le lezioni. Non so se sentirmi felice che l'anno scolastico sia ricominciato, dal momento che è finalmente l'ultimo, o sentirmi angosciata perché dovrò di nuovo studiare. Lancio uno sguardo alla mia migliore amica e poi soffio sulla candelina, lei applaude e Albert mi sorride.
- Buon compleanno. - Lui si avvicina per darmi un bacio sulla guancia. Gli sorrido a mia volta e afferro il cupcake, levo la candelina da sopra e ci do un morso.
- È buono. - Commento masticando e guardando i due. - L'avete fatto voi? -
- Sì, ci abbiamo messo un po'. -
- L'abbiamo preso al bar in centro. - Dicono all'unisono, prima Delice, poi Albert. Accenno un sorriso divertito e mi alzo dal letto per andare in bagno a prepararmi mentre continuo a mangiare il cupcake. Non vorrei far tardi già il primo giorno di scuola.
***
- Quindi... - Albert mette un braccio sia intorno alle mie spalle sia a quelle di Delice mentre si ferma davanti al cancello della scuola. - ... eccoci qui. - Commenta mentre si guarda attorno. La scuola è esattamente come l'ho lasciata: tutti si comportano normalmente, come se le vacanze non fossero mai iniziate. I soliti ragazzi sul loro solito muretto; altri che si salutano e chiacchierano, raccontandosi aneddoti estivi; chi si vanta delle fantastiche vacanze che ha passato e dei luoghi esotici che ha visitato; chi mostra la macchina nuova agli amici; i nuovi ragazzi del primo anno tutti eccitati (ancora per poco) per questo ambiente nuovo... e infine ci siamo noi, il gruppo più strambo di tutta la scuola, ma a me sta bene così. Non m'importa più se vengo definita pazza: loro non potranno mai capire, ed è meglio così.
- Di nuovo. Spero che nessun tubo esploda anche quest'anno. - Delice sospira tristemente, osservando la scuola. Albert ed io ci scambiamo un'occhiata complice. Nonostante siano passati mesi da quell'incidente, ancora non abbiamo detto nulla alla bionda. Almeno, non la verità. Quando ho raccontato ad Albert cosa fosse successo realmente negli spogliatoi, stentava a credere alle mie parole. Naturalmente, è strano che un Adaro si trovi nelle tubature della scuola e non in mare, dove dovrebbe essere. Ancora mi chiedo come sia finito lì. Comunque, se dicessi la verità a Delice, ricordandole che era lì con me e Jackson, credo che le verrebbe un attacco di panico, ed è meglio non starle intorno quando ne ha uno.
- Già, un tubo. - Commenta Albert, in tono del tutto ironico, ma Delice sembra non prestargli molta attenzione. Infatti si libera dal suo braccio e lui la lascia andare immediatamente mentre ritorna a guardare l'edificio. - Solita scuola. - Dice dopo.
- Soliti professori. - Aggiungo.
- Solita rottura di palle. - Conclude l'altra mentre incrocia le braccia al petto. Lei, tra noi tre, è quella che odia di più la scuola. Come biasimarla? Verifiche ogni settimana, ore di noia, pomeriggi sui libri, compagni insopportabili e voti messi a caso (direttamente proporzionali alla popolarità del proprio padre). Almeno questo non succederà più poiché June è definitivamente scomparsa. Ancora mi sorprende il fatto che, in tutti questi anni, nessuno si fosse accorto che Mr. Edwards non esistesse davvero. Almeno ringrazio zia Tess per essersi occupata di far sparire June anche dai registri scolastici. E lei ancora è convinta che un po' di magia non possa sistemare tutto. Albert ed io, invece, non ci lamentiamo così tanto: la scuola è la cosa più normale che abbiamo nella nostra vita, e vorremmo conservarla per un po'. - Beh, biologia mi aspetta, purtroppo. - Sospira. - Ci vediamo a mensa. - Ci lancia un'occhiata fugace e, appena suona la campanella, si affretta a entrare. Albert la segue con lo sguardo, poi toglie il braccio dalla mia spalla e mi guarda negli occhi.
- A noi tocca Mr. Douglas, vero? - Chiede speranzoso in una mia risposta negativa. Gli sorrido e annuisco, rassegnata. Lui sospira e mostra un'espressione stanca. - Fantastico. So già che brucerà la mia ricerca di storia. - Lo seguo, affiancandolo, appena comincia a camminare.
- L'ho letta, non è male. - Lui accenna un sorriso divertito.
- Ecco la mia secchiona. -
- Non sono una secchiona. - Obietto sorridendo. - E poi tu sei un genio in chimica, biologia, fisica e matematica. Il secchione qui sei tu. - Dico mentre Albert mi apre la porta d'ingresso, poi se la chiude alle spalle dopo che entrambi siamo entrati.
- Ma non in storia. - Ribatte nuovamente lui mentre ci dirigiamo in classe. Alzo gli occhi al cielo, divertita. I corridoi sono ancora pieni di gente che si spinge a destra e a sinistra per raggiungere la propria classe o anche solo per orientarsi nell'istituto. Ci sono molti ragazzi del primo anno che non sanno neanche quale lezione abbiano alla prima ora. Ricordo ancora il mio primo giorno: ero fin troppo impacciata, non sapevo neanche chi fossero i miei insegnanti e sbagliare lezione non fu un buon inizio.
Appena arriviamo davanti alla nostra classe lo precedo e apro la porta. L'aula è stranamente più pulita rispetto all'anno scorso: hanno cambiato le finestre, rendendole scorrevoli e permettendo alla luce di entrare maggiormente, e i banchi sembrano più puliti, segno che i custodi si sono dati da fare ieri.
Sia io che Albert apriamo lo zaino per prendere le nostre ricerche, poi le poggiamo sulla cattedra mentre Mr. Douglas ci sorride appena ci nota. Anche lui è cambiato rispetto a giugno: i capelli sono leggermente più lunghi, ma in maniera giusta, ha la solita riga di lato e una parte dei capelli portata a destra. Si è rasato la barba: ora ha solo un po' di peluria scura. Tuttavia, al gilet non ci ha rinunciato.
- Sharon, Albert, che bello rivedervi. Spero che le vacanze siano state eccitanti. - Ci sorride mentre unisce le nostre ricerche con le altre. Beh, sicuramente sono state movimentate. È una fortuna non dover più scrivere il solito tema "parla delle tue vacanze estive", altrimenti mi avrebbero dato un premio per la fantasia, oppure una visita gratis dallo psicologo. Però, tutto sommato, non è stata neanche tanto brutta: credo sia stata l'estate più bella della mia vita. Tralasciando le parti in cui stavo per essere uccisa, ho capito finalmente chi e cosa sono e di non essere sola. Prima di tutto perché c'è Albert qui con me che mi capisce, e anche perché c'è un sacco di altra gente come me. E non so, è una cosa bella perché sento finalmente di far parte di qualcosa.
- Non immagina quanto. - Rispondo io con un sorriso sincero. Mi è mancato, devo ammetterlo: è l'unico insegnante per il quale vale la pena stare in classe per ore. Non ti fa pesare la lezione, chiama tutti per nome e gli importa più della persona che del numero che gli viene assegnato. È semplicemente una persona fantastica.
Albert ed io ci andiamo a sedere ai nostri soliti posti, appartati in fondo, mentre Mr. Douglas si alza per chiudere la porta una volta che la classe è al completo. Tutti cominciano a sistemarsi ai propri posti: alcuni scendono dal banco dove erano seduti, altri smettono di chiacchierare con gli amici e altri ancora si tolgono le cuffiette e le poggiano insieme al cellulare nel proprio zaino.
- Beh, direi che possiamo iniziare. -
***
Scrivo tranquillamente sul mio quaderno quando mi arriva l'ennesimo bigliettino da Albert. Mr. Douglas ci ha dato un questionario da svolgere affinché lui possa leggere in tutta tranquillità le nostre ricerche. Guardo l'Ondino, che sorride in modo divertito, e scuoto la testa per la sua infantilità mentre apro il bigliettino. Come sempre, c'è un altro disegnino che raffigura il vicepreside, Mr. Scott. Questa volta l'ha trasformato in un grosso burrito parlante, con una piccola vignetta con dentro scritto "FILA IN CLASSE, DISGRAZIATO!".
- Smettila. - Gli sussurro, trattenendo una risata. Gli lancio nuovamente quel foglietto mentre la campanella finalmente suona. Tutti ci affrettiamo a riporre i quaderni e le penne negli zaini per poi prendere questi ultimi e andare alla prossima ora di lezione, lasciando i questionari sui banchi: Mr. Douglas li raccoglierà dopo. Albert, come sempre, mi aspetta prima di uscire dalla classe. Appena ho preso tutto passiamo tra i banchi e davanti a Mr. Douglas per andare via, ma quest'ultimo mi ferma.
- Sharon. - Mi richiama il professore mentre alza lo sguardo dalle ricerche. - Posso parlarti? - Chiede in tono gentile, ma con sguardo fin troppo serio che mi fa leggermente preoccupare.
- Ti aspetto fuori. - M'informa Albert, poi mi lascia sola con lui. Mi giro a guardare Mr. Douglas.
- Certo. -

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

-Sharon-

Mr. Douglas tiene lo sguardo su di me mentre prendo una sedia per accomodarmi di fronte a lui e sentire ciò che ha da dirmi. Rigira la mia ricerca tra le mani e la guarda di tanto in tanto, rileggendo qualche frase prima di tornare a osservarmi.
- C'è qualcosa che non va in quello che ho scritto? - Tutto non va, a dire il vero. Non la relazione in generale, quello che ho scritto è la pura verità, nonostante per lui siano solo fatti storici, se non leggende. Ciò che mi sconcerta sono le fonti: ci sono informazioni scadenti riguardo agli Elementali su Internet, al contrario di quello che invece ho letto sull'Enciclopedia dei Mostri di mia zia Tess, che riporta qualcosa in più. Però non posso semplicemente dirgli che mi sono documentata sul libro dei mostri di una strega. Spero solo che non verifichi il sito delle informazioni.
- No, anzi, è davvero bella. Ci hai messo passione, ma avresti potuto trattare quest'argomento l'anno scorso. - Poggia il foglio sugli altri e ci incrocia le mani su mentre mi osserva. In effetti, gli elementi sono trattati soprattutto dagli alchimisti, diffusi specialmente durante il Medioevo, periodo storico che abbiamo studiato l'anno scorso. - Comunque, il motivo per cui ti ho chiesto di restare è un altro. È una ricerca rischiosa questa da fare, lo sai? - Aggrotto la fronte mentre parla. Non credo che la relazione potrebbe mai prendere fuoco arrabbiandosi, a differenza della sottoscritta. Questo è ancora un punto dolente per me: riesco a controllarlo di più rispetto ai mesi estivi perché non mi agito così tanto da quando Jackson è andato via, e le piccole litigate con mia madre non riescono a farmi irritare sul serio. Ormai ho perso le speranze che sia del tutto sincera con me. Certo, risponde alle mie domande adesso, ma comunque ho la sensazione che ci siano ancora delle cose che mi tiene nascoste. Tutto quello che avrei potuto sapere e di cui lei era terrorizzata l'ho già scoperto, cos'altro ha paura di dirmi?
- So che avrei dovuto trattare di un argomento che rientrasse nel programma, ma ho fatto delle ricerche e quest'argomento mi sembrava interessante e... - Lui alza una mano per zittirmi, senza irritazione o rabbia. È piuttosto rilassato e a suo agio mentre riprende a girarsi i pollici. Non ricordo che abbia mai urlato contro qualcuno durante una regolare lezione, figuriamoci per una ricerca che non ha un vero e proprio peso sulle valutazioni generali e sull'esame di fine anno. Servono solo a farci fare qualcosa durante l'estate, anche se tutti tendono a stampare il primo argomento che trovano su Wikipedia o su altri siti (per evitare una copia generale) qualche giorno prima dell'inizio della scuola. Mr. Douglas conosce perfettamente la verità, ma comunque apprezza che accendiamo il computer e la stampante per perdere dieci minuti per quest'assegno.
- Sharon, tranquilla. - Si alza, sempre con molta calma, portando la mia ricerca con sé mentre la strappa come se fosse una vecchia lista della spesa. Lo fisso incredula mentre i pezzettini di carta cadono nel cestino. Lui ritorna a sedersi nuovamente, come se la relazione non fosse mai esistita. - Se cercavi un buon modo per farti scoprire da qualche insegnante psicopatico ci sei riuscita. Non che sia psicopatico, per l'amor di Dio, ma non credo che dovresti rendere in modo così evidente il fatto che tu sia un Elementale. - Sussurra l'ultima parola per evitare che qualcuno possa sentirlo, anche se siamo soli. Mi guarda negli occhi, sempre in modo tranquillo come se mi avesse detto "oggi è una bella giornata, non trovi?". Sbatto le palpebre più volte, sperando di aver capito male e accertandomi che tutto questo sia vero. Apro la bocca per parlare e per negare, ma mi blocco quando lui mi sorride affettuosamente e mi anticipa. - Non devi preoccuparti. Io sono uno Gnomo. Il tuo segreto è al sicuro con me, ma magari saresti stata in pericolo se qualche altro tuo insegnante fosse stato segretamente un mostro. Non ci si può fidare di nessuno. -
- Lei è un Elementale? - Sussurro a mia volta l'ultima parola ancora sbalordita per la sua confessione. Credo che la mia faccia in questo momento non sia descrivibile. - E da quando? -
- Da quando avevo tredici anni, e anche no. - Mi sorride nuovamente, in modo amichevole. - Faccio parte degli Indifferenti. - Continua dopo.
- Come, scusi? -
- Questa era una cosa che mancava nella tua ricerca, infatti. - Commenta, annuendo. - Ma non mi stupisco del fatto che tu non ne sia al corrente. È una distinzione che si è fondata nei secoli, insensata d'altronde. - Porta una mano sul mento, massaggiandoselo pensieroso, e con l'altra picchietta con le dita sulla cattedra. Dovrei essere più basita per questa sua rivelazione, invece mi sento stranamente tranquilla, forse più protetta. Sapere che il proprio insegnante di storia, che può apparire estremamente noioso, combatte mostri da quasi trent'anni è una cosa incredibile. Se solo gli altri lo sapessero, le lezioni di storia le vedrebbero in modo diverso, professore incluso. - Comunque, che idea hai tu di tutta questa faccenda? - Mi chiede interessato mentre poggia i gomiti sulla cattedra e unisce le mani in aria, posandoci successivamente il mento sopra e prestandomi tutta la sua attenzione. È una sensazione strana ma bella: nessuno mi ha mai chiesto se mi stesse bene cacciare mostri, sono stata letteralmente catapultata in questo mondo e, anche quando c'ero dentro, nessuno si è accertato che stessi bene. Era il mio compito, tuttora lo è, e basta. Beh, nessuno si è preoccupato tranne Harry. Non riuscirò mai a ringraziarlo come si deve.
- Ehm... beh, è assurda, sicuramente e... -
- Intendo dire, non sei un Cacciatore Oscuro, vero? - Si affretta a chiedere, preoccupato. Lo sarei anch'io: ormai li conosco bene, i Cacciatori Oscuri, specialmente i loro modi di fare.
- No, no, certo che no. Non so come classificarmi se lei ritiene che ci siano diverse "categorie". Mi è stato insegnato solo che devo fermare i mostri, che sono un male. - Lui annuisce, come se avesse capito tutto.
- La maggior parte delle persone è così. Tu sei una semplice cacciatrice, ma oltre alla tua idea e a quella dei Cacciatori Oscuri, ci sono anche altri due gruppi, chiamiamoli così: gli Indifferenti, a cui appartengo, che fingono di non essere Elementali e pretendono che i mostri non siano un loro problema, rifiutando quello che sono; e gli Approfittatori, che sono contro i mostri, ma non li combattono perché pensano solo al guadagno che possono ricavare grazie ai poteri. Mangiafuoco e numerosi artisti di strada destreggiano con gli elementi per guadagnarsi da vivere, purtroppo, ed è una cosa scorretta. - Annuisco, concordando, ma ciò che m'irrita davvero è la categoria alla quale ha detto di appartenere: come può fingere che i mostri non siano un suo problema? Ha avuto un compito con questi poteri e li rifiuta, fingendo che tutto questo non esista, che non abbia queste abilità speciali? Se non ci pensassimo noi a tenere a bada i mostri, chi dovrebbe farlo? Pensare solamente che veda qualcuno in difficoltà e che non faccia nulla per aiutarlo, fregandosene, mi fa venire i crampi allo stomaco dalla rabbia. Lascerebbe morire una persona, non salvando una vita umana, pur di assicurarsi la propria. Non ha senso far ciò: alla fine i mostri potrebbero sempre attaccarlo per il suo odore da Elementale. Ormai ne è impregnato, non può farci più nulla. Cioè, potrebbe fare qualcosa e dare una mano, se solo non fosse così egoista.
- Quindi lascereste morire qualcuno in difficoltà pur di salvarvi il culo? - Chiedo, non badando al linguaggio per l'irritazione che provo per Mr. Douglas in questo momento. Lui mi guarda male per il modo in cui mi sono esposta, ma dopo questa rivelazione non riesco neanche più a vederlo come un mio insegnante, ma come un compagno di squadra. Nonostante ciò, mi affretto a scusarmi con lui: io lo vedo in maniera diversa, ma questo non vuol dire che le cose siano effettivamente cambiate. Lui è ancora il mio insegnante, io solo la sua alunna. Non posso permettermi un linguaggio del genere.
- Chi sceglie questa strada ha le proprie ragioni, Sharon. - Dice in tono tranquillo, nonostante l'occhiataccia. - Io ho scelto di smettere molto tempo fa, e non ho rimorsi. Tu sei ancora giovane e pensi che sia compito tuo salvare il mondo, solo tuo. - Aggiunge. - Ma non è così. C'è un sacco di gente come te che potrebbe farlo al posto tuo. Quando ho conosciuto mia moglie, Alex, le cose sono cambiate radicalmente. Non posso mettere in pericolo la mia vita e la sua. Credo che capirai perfettamente perché non sia sceso a occuparmi di quell'Adaro a giugno... -
- Lei lo sapeva? - Lo interrompo nuovamente, guardandolo ancora più incredula con occhi sgranati. - E non ha fatto nulla? -
- Mi dispiace, Sharon, ma non potevo rischiare... -
- Sarei potuta morire, per il suo egoismo! - Sbotto più furiosa questa volta. - Se Jackson Mitchell non fosse stato lì, sarei potuta morire. - Ripeto, cercando di calmarmi. Ho sempre ammirato quell'uomo, lo ritenevo una delle persone più leali e buone che abbia mai conosciuto, ma solo ora mi rendo conto del codardo che in realtà è. Adesso che lo guardo un altro dubbio mi balena in mente, e spero di sbagliarmi. - Lei non sapeva nulla di June Edwards, non è vero? - Lui appoggia la schiena alla sedia e sospira, guardandomi in modo dispiaciuto. Scuoto la testa, delusa. - Non posso crederci. Sapeva della strega, di quel Diwata, e non ha voluto fare nulla... -
- Sharon, non potevo rischiare di... -
- Di fare cosa? Salvare qualcuno prima che morisse? - Chiedo ancora con lo stesso tono irritato.
- Non potevo rischiare di morire! - Questa volta è lui ad alzare un po' il tono della voce, lievemente più infastidito, e ci giriamo entrambi verso la porta non appena sentiamo bussare. - Avanti. - Dice poi in modo più sereno mentre una piccola testolina di riccioli biondi fa capolino dalla porta.
- Scusate. Niklas, hai dimenticato il tuo pranzo. - La donna si aggiusta i piccoli occhiali rotondi che le sono caduti sul naso ed entra con timore in classe, come se si sentisse fuori luogo. Non è molto alta, ma ha una voce e un atteggiamento così dolci che fanno sorridere involontariamente. Un vestito nero con delle margherite bianche disegnate sopra mette in risalto un bel pancione. Con la mano sinistra regge la borsa bianca, che tiene sulla spalla, e con l'altra un sacchetto di carta, che poggia sulla cattedra. - Scusate ancora se ho interrotto. - Dice con un piccolo ghigno imbarazzato, ma io le sorrido a mia volta per tranquillizzarla.
- Grazie, Alex. - Le sorride sinceramente Mr. Douglas. La moglie gli stampa un bacio veloce sulla guancia e guarda di nuovo me. - Me ne vado subito. -
- Non si preoccupi. Ho lezione, quindi è meglio che mi sbrighi. - Afferro subito lo zaino mentre io e lui ci scambiamo un'occhiata, poi mi alzo. - Grazie per il consiglio, Mr. Douglas. Cercherò di migliorare nell'esposizione. - Gli sorrido in modo falso, per poi rivolgerne un altro più sincero alla moglie. - Arrivederci. - Saluto entrambi mentre lui mi osserva prima di voltarsi a guardare Alex ed io mi chiudo la porta alle spalle dopo essere uscita dall'aula.
Mi sento in colpa per avergli urlato contro in quel modo, ma non posso dire di capirlo dal momento che non ho figli. D'altro canto, sarei anche egoista a continuare a pensare che il suo compito sia cacciare mostri per difendere chiunque ne abbia bisogno: sua moglie e il suo futuro figlio vengono prima di chiunque altro, e se ha deciso di voler tenere al sicuro solo loro due non posso far nulla per fargli cambiare idea, e non voglio far nulla. È giusto così. So cosa significa crescere senza un padre, e non voglio la stessa vita che ho avuto io per il suo bambino, o bambina. Magari anch'io deciderò che un giorno questa vita non mi andrà più bene e la cambierò, ora che so che posso scegliere ancora più apertamente.
Albert è appoggiato contro un muro con il telefono in mano, ma distoglie subito lo sguardo da esso appena si accorge della mia presenza.
- Hey, allora che voleva Mr. Douglas? - Chiede curioso. Scrollo le spalle con un'espressione indifferente in volto.
- Nulla di che. Mi ha fatto i complimenti per la ricerca. - Sono migliorata nel raccontare bugie alle persone, cosa che mi torna molto utile ultimamente, soprattutto con mia madre. Non vorrei mentire anche ad Albert, ma credo che meno gente saprà della confessione che mi ha fatto Mr. Douglas e meglio sarà. Alla fine, mi ha fatto perfettamente capire che non vuole avere niente a che fare con questo mondo, e un po' sono d'accordo: i primi giorni pensavo la stessa cosa.
- E poi dici di non essere una secchiona. - L'Ondino mi sorride e mi dà una gomitata mentre sforzo una risata e comincio a camminare verso l'aula di biologia. Già siamo abbastanza in ritardo e mi dispiace che Albert si prenda un richiamo per colpa mia, per avermi aspettato, anche se non siamo gli unici fuori dalla classe. Effettivamente non siamo in ritardo, ma il nostro insegnante di biologia è una persona abbastanza precisa: anche con un minuto di ritardo scrive una nota sul registro. - Comunque, hai pensato a quello che ti ho chiesto? - Mi chiede mentre cammina accanto a me, prendendomi a braccetto. Corrugo la fronte. Sono stata così indaffarata con quella ricerca che mi sono completamente dimenticata quello che mi aveva detto.
- Quale delle tante? - Chiedo tranquillamente, cercando di non rendere evidente la mia confusione. Sono fin troppo con la testa tra le nuvole negli ultimi giorni tra Harry costantemente nei miei sogni e la preoccupazione per lui, le cacce e quel mostro di mia madre. Non vorrei che Albert si lamentasse che non lo sto ad ascoltare.
- Dell'appartamento insieme, dopo il liceo. Ho trovato alcuni posti davvero carini! Certo, dovremmo arredarli di nuovo, ma ce la possiamo fare se cominciamo quasi da subito! E lontano da Ruddy Village, ovviamente. - Dice entusiasta. Ma lui è l'unico che freme all'idea. Non credo di essere pronta a lasciare la mia cittadina. Per tutta la vita non ho aspettato altro ma ora, con tutto quello che è successo e sapendo quanto il mondo possa diventare crudele, non ne sono tanto sicura. Alla fine il quartiere non è così male: è piccolo e sicuro, diciamo, ma sempre meglio che vivere in una grossa città; non credo che riuscirei a sopportare lo smog o la vita frenetica a cui mi dovrò abituare, se lo farò.
- Ah, certo. Non ne sono tanto sicura. - Albert si ferma di botto e mi lascia il braccio, si mette di fronte a me e poggia le mani sulle mie spalle, scuotendomi.
- Pronto? Sharon? Sicura che nessun fantasma o mostro ti stia possedendo? - Lo fermo immediatamente, allontanando le sue mani. Lui ancora mi guarda un po' sorpreso. Appena ha proposto questa cosa ho fatto i salti di gioia, non letteralmente, non sono il tipo, ma ora non me la sento più di tanto. Credo perché si stia avvicinando il momento di lasciare tutto, lasciare la mia vecchia vita, mia madre, i soliti vicini e le solite facce. Forse non voglio lasciarli: sono comunque parte di me ormai.
- Certo, sono io. - Roteo gli occhi al cielo. - Solamente che è un periodo difficile con mia madre e non me la sento di lasciarla sola senza prima chiarire con lei una volta per tutte. È pur sempre mia madre. - Lui mi guarda per qualche secondo, elaborando le mie parole, poi annuisce.
- Hai ragione, ma hai tutto l'anno scolastico per far pace con tua madre. Solamente, non lasciarmi da solo, okay? - Mi sorride in modo dolce, poi gliene rivolgo uno a mia volta.
- Tranquillo. In questi giorni gliene parlo. - Lui annuisce, poi mi lascia un bacio sulla guancia.
- Ci conto Steel. - Mi punta il dito contro, come ad avvertirmi, mentre si allontana senza smettere di sorridere, però io lo guardo confusa, non capendo dove stia andando.
- Ma tu non dovevi venire con me a lezione? - Gli chiedo.
- Sì, dovevo. - Accenna una risata mentre cammina all'indietro per rispondermi. - Ma devo raggiungere Derek in biblioteca un momento. - Sbatte contro un armadietto e sorrido divertita involontariamente. Si allontana da esso e mi rivolge un'ultima occhiata prima di scomparire nell'altro corridoio. - O anche tutta l'ora. -

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

-Jackson-

Cacciare mostri in un parco non è la cosa migliore che possa capitare, soprattutto se si è costretti a sentire la propria cugina lamentarsi del fatto di dover star seduti su una panchina da troppo tempo invece di risolvere il problema. L'oscurità non aiuta per niente e purtroppo quell'essere è riuscito a far saltare la corrente elettrica dell'intera zona. Fortuna che non c'è neanche una nuvola in cielo e la Luna illumina un po' il parco, per quanto sia pallida la sua luce. Userei la torcia del mio cellulare, ma meglio non attirare troppo vicino quel lucertolone. Non voglio che si cibi di me, e tantomeno di Avery. Da un lato, è positivo che il parco sia enorme perché ciò impedisce a quella creatura di divorarci subito; dall'altro lato è anche un male, perché ci impieghiamo più tempo per cercarlo. Ci troviamo nella parte nord-ovest del Royal Victoria Country Park, in Hampshire, non molto lontano dalla Mossy Fountain. È ornata in ghisa con una base rotonda, costituita da quattro cigni di bronzo; al di sopra di questi si trova un tubo rotondo con un largo vassoio ornamentale dove poggia un altro tubo più tondeggiante, ma più piccolo, che regge un altro vassoio minuscolo. In cima a questo è presente un altro tubo sagomato con getto d'acqua. L'intera fontana, poi, poggia su una base di macerie di pietra che col passare del tempo sono state ricoperte di muschio, donandole quel tocco di antichità che amo, e anche quel nome. Infine, intorno, c'è una larga vasca d'acqua proveniente dalla fontana stessa. Accanto a questa ci sono un obelisco e un pozzo, con base in pietra assomigliante a uno di quelli antichi giapponesi e con un tetto verde scuro, dove sulla cima si erge una sfera dello stesso colore. In lontananza s'intravede la cappella del vecchio Royal Victoria Hospital, l'ospedale della famiglia reale, e la torre.
Io e Avery rimaniamo seduti su una panchina vicino alla fontana. Giocare a nascondino con un Hatcukliba non è esattamente il modo migliore in cui avrei voluto passare la serata, soprattutto ora che finalmente posso andare in un pub avendo compiuto i ventun anni. Beh, potevo dal dieci maggio, ma con tutto quello che è successo bere qualcosa con gli amici era l'ultimo dei miei pensieri. Però non sarebbe male fare qualcosa di normale per una volta.
- Se usassimo una torcia, riusciremmo a trovarlo più facilmente. Ti ricordo che le sue scaglie scintillano alla luce. - Mi guardo intorno, cercando di catturare con lo sguardo quella creatura, mentre lei sbuffa dopo aver parlato e si dondola con le gambe avanti e indietro sulla panchina, impaziente. I capelli lisci e neri, con le punte di un blu notte, danzano a ogni suo movimento. Si gira a guardarmi e i suoi occhi, ancora più scuri con questo buio, mi osservano. Scuoto la testa.
- Sai quanto può essere veloce, meglio non rischiare. - Mi alzo dalla panchina e lancio un'occhiata alla Jeep nera, parcheggiata non lontano dall'albero. So che non dovrei tenere la macchina lì, ma non c'è nessuno a quest'ora e non penso che al lucertolone dispiaccia. Mi soffermo con lo sguardo su di essa, notando qualcosa nel buio che ci striscia sotto. Perfetto, la creatura la utilizza perfino come rifugio.
- Ho fatto atletica, Jacky. - Usa quel nomignolo per irritarmi, sapendo perfettamente che non lo sopporto per nulla. In effetti io la innervosisco impedendole di alzarsi, in qualche modo deve farmi pentire di tenerla con me. - So essere più veloce di quel coso. - La zittisco con un gesto della mano mentre m'inginocchio a terra, cercando di comportarmi nel modo più naturale possibile e senza prestare molta attenzione alla macchina: se mi fossi messo a fissarla, il Hatcukliba si sarebbe accorto che so dove si trova e in un batter d'occhio sarebbe scappato. E addio pub più tardi, come avevo proposto prima ad Avery. Già siamo arrivati qua alle undici e mezzo, dal momento che il parco chiude ufficialmente alle nove, ma nel frattempo che si svuoti dei turisti passa sempre un sacco di tempo. - Non mi sembra il momento di mettersi a raccogliere fiori. - Continua, costringendomi a zittirla. Non ce ne sono neanche, tra l'altro. Lei sbuffa di nuovo: non è una persona paziente, per nulla. Se fosse venuta qua da sola avrebbe già messo sottosopra l'intero parco, la fontana e la guardia all'ingresso che ha addormentato con una polverina, gentilmente offertaci da nostra nonna, per farci entrare. Mi siedo col sedere a terra e scavo un po' per infilare una mano nel terreno e concentrarmi su di esso: se riesco a soffermarmi sulle vibrazioni che si diffonderanno non appena striscerà di nuovo, potrei capire le sue intenzioni e di conseguenza dove vuole andare. Alzo gli occhi mentre la mia mano si raffredda a quel contatto e guardo Avery, facendole successivamente l'occhiolino, sperando che capisca che deve tenermi il gioco ora. - Non flirtare con me, Mitchell. - La guardo storto mentre lei sorride in modo sghembo, formando su entrambe le guance due piccole fossette, poi annuisce, avendo già realizzato il motivo di quel mio gesto. Non che sia una cosa nuova: cacciamo spesso in questo modo. Fingiamo di non sapere che ci sia un mostro che ci vuole cogliere di sorpresa per poi fargliela noi, la sorpresa. Creare l'illusione che sia lui ad avere il controllo di tutto prima di morire è un'ottima tattica, o almeno ha funzionato finora.
Mia cugina comincia a giocare con l'orecchino nero che ha al lobo destro, comportandosi normalmente e cercando di trattenersi dal scaraventare via la mia macchina con una folata di vento. Essere una Silfide deve essere interessante, non tenendo conto della poca pazienza che si ha, però. O almeno per Avery è così. Anche fare una fila di cinque minuti riesce a farla arrabbiare.
- Comunque è una bella serata. - Commento senza dare davvero importanza alle mie parole, rimanendo concentrato sul terreno. A quanto pare, quella creatura è ancora sotto la macchina e sembra non voler muoversi.
- Ma non mi dire. - Commenta a sua volta in modo sarcastico, con le sue maniere sempre gentili, mentre prende una ciocca di capelli e la comincia a studiare con lo sguardo, tirando via qualche doppia punta. Le vibrazioni nel terreno sono a tratti impercettibili, ma ho una concentrazione sufficiente da permettermi di percepirle. Lancio uno sguardo fugace alla mia macchina, ma non vedo niente sotto e non so costatare se sia ancora lì o meno, quindi ritorno a osservare Avery.
- Senti qualcosa? - Le chiedo, speranzoso in una risposta positiva. Lei rimane qualche secondo in silenzio per concentrarsi sui suoni intorno, poi lancia uno sguardo alla macchina, infine scuote la testa.
- Nulla. Credi che sia ancora lì sotto? - Il mio sguardo allarmato, fisso oltre le sue spalle, le dà una risposta più che eloquente. Si gira anche lei a guardare nella mia direzione, assumendo la stessa espressione turbata appena si rende conto delle dimensioni dell'Hatcukliba. È risaputo che è un lucertolone, ma non ricordavo fosse così grosso. Infatti è di più grande di una panchina. La pelle, di un colore grigio scuro, tende a fondersi quasi completamente con il buio intorno. Tuttavia i suoi movimenti risaltano subito all'occhio: lesti e vaporosi. Sembra quasi volare sopra l'erba. Avery si alza velocemente dalla panchina per poi gettarla con una violenta folata di vento contro quella creatura. Peccato che il mostro l'abbia evitata come se nulla fosse, senza rallentare. Sembrerebbe davvero una normale lucertola, se solo fosse muta invece di emettere ruggiti, proprio come quelli di un leone. - Se continua a fare questi versi attirerà troppo l'attenzione! - Esclama Avery mentre cerca di rallentare il lucertolone scagliandoci contro tutto il vento che riesce a evocare e controllare.
- Beh, non ho di certo una museruola o qualcosa del genere per impedirgli di aprire quel muso! - Sbotto mentre mi guardo in giro per cercare qualcosa con cui attaccare il mostro: non possiamo di certo ucciderlo cercando di batterlo in velocità. Noto le braccia di Avery cominciare a tremare. Anche a costo di svenire lì, non ammetterebbe mai di non riuscire più a farcela. È troppo orgogliosa di se stessa. Non mi meraviglio che lei e Harry litighino quasi sempre: entrambi troppo testardi, essendo così simili caratterialmente.
- Posso provare a stordirlo e magari attaccarlo da dietro... -
- Non sei mica Hulk. - Taglio corto. La lucertola ancora cerca invano di battere quel vento, cosa che non gli costerà tanta fatica tra non molto. La corrente d'aria comincia a calmarsi sempre di più, facendo riacquistare velocità al Hatcukliba. - Però stordirlo non sarebbe una cattiva idea... - Rifletto qualche secondo mentre mi alzo da terra e mi pulisco le mani. Il lucertolone nel frattempo ha realizzato che continuare a lottare con il vento è uno spreco di tempo. Infatti conficca le zampe nel terreno e apre la corona intorno alla sua testa nello stesso modo in cui un pavone apre la propria coda, assumendo una dimensione ancora maggiore. Lo definirei stupido, dato che questo gesto andrebbe a suo sfavore, ma, non so come, sembra che stia assorbendo il vento in qualche modo. Mia cugina comincia a imprecare tra i denti: già odia i rettili in generale, combattere anche uno di essi non deve essere affatto divertente per lei. Mi guardo nuovamente intorno e cerco con gli occhi delle pietre da usare, ma noto solo quelle ricoperte di muschio nella fontana.
- Muoviti a cercare qualcosa! - Urla Avery con voce esausta, non riuscendo più a reggere il controllo sul vento. Qualche altro secondo e ci salterà definitivamente addosso. Ho a disposizione la terra, ma non riuscirei mai a ucciderlo nel suo stesso ambiente. L'unica cosa che posso fare è distrarlo. Allungo le mani verso la fontana e mi concentro sulle pietre finché cominciano a levitare. Ne sollevo quanto posso e le sposto al di sopra del Hatcukliba, poi comincio a farle roteare sulla sua testa per distrarlo. Lui sembra catturato subito da queste e non presta neanche più tanta attenzione ad Avery. Di tanto in tanto caccia la lingua fuori e la sbatte sul muso: non può pensare sul serio che siano mosche, ma non deve avere un cervello così sviluppato per far ciò. Comunque sembrano distrarlo e quindi comincio a muoverle a scatti, imitando gli stessi movimenti di quegli insetti. Avery poggia le mani sulle ginocchia e fa dei bei respiri per riprendersi, abbandonando definitivamente il controllo sul suo elemento. Io non perdo tempo a cercare un modo per liberarci di quel mostro. - Dimmi che hai una pistola o qualsiasi arma con te. -
- Quello che le ha sempre a portata di mano è il tuo ragazzo. - Ribatto mentre osservo l'acqua, pensando a qualcosa, poi la macchina: se provassimo a investirlo la ammaccherebbe, e non ho neanche tutta questa voglia di rovinarla. Sposto ripetutamente lo sguardo dalla fontana all'auto, poi un'idea si accende nella mente, e spero solo che funzioni.
- Non chiamarlo il mio ragazzo. - Dice a denti stretti mentre mi lancia un'occhiataccia. Alzo gli occhi al cielo mentre continuo a distrarre il lucertolone.
- Non abbiamo molto tempo, non credo sia davvero così stupido da lasciarsi distrarre da due pietre. -
- Credevo la stessa cosa di te eppure mi sono fatta delle belle risate quando Harry mi ha raccontato di June. - Sogghigna Avery. La fulmino con lo sguardo, assottigliando gli occhi. Sanno perfettamente che in quel periodo non ero in me eppure continuano a prendermi in giro. Come se lei non avesse mai fatto errori. Io e mio padre abbiamo anche avuto una discussione per questo. Lui non sa che cosa significhi non avere il controllo sul proprio corpo: un momento mi ritrovo con una bella ragazza a bere qualcosa al bar, il momento dopo mi sveglio nell'auto del mio migliore amico senza sapere cosa diamine sia successo. In certi momenti, purtroppo, ero anche cosciente mentre June parlava al posto mio, specialmente quando ho cominciato a picchiare Harry alla festa, ed è stato orribile. Non avrei dovuto mettere in mezzo Daisy, sua sorella, tantomeno sua madre Celeste, ma non ho potuto impedire a June di entrare nella mia testa e scavare nei miei ricordi, nonostante abbia combattuto contro il suo controllo mentale. Non ho sensi di colpa riguardo questo, però: non ero in me e non volevo dirgli quelle cose, Harry lo sa bene, quindi perché continuare a incolparmi inutilmente?
- Mi servono i cavi da attaccare alle morsette della batteria, nella macchina. - Mi affretto a dire non appena mi accorgo che il Hatcukliba sta cominciando a distrarsi. Lei mi guarda, confusa, mentre si tira su le maniche della felpa grigia, con su la scritta rosa "QUEEN WARRIOR". Si asciuga poi il sudore delle mani sui leggins, sempre grigi.
- Le morsette? Sei pazzo? Vuoi uccidermi? Non posso mica toccarli a mani nude! -
- Lo so! - Le rispondo con lo stesso tono. - Ci sono dei guanti, e porta la macchina qui, sbrigati. Non riesco a distrarlo ancora per molto! -
- E che ci faccio dopo? Gli do la scossa? - Chiede in modo ironico. Mi comporterei allo stesso modo se fossi al suo posto, pensando che quella richiesta sia una pazzia, ma al momento è l'unica cosa più intelligente a cui possa aver pensato.
- Fidati e basta per una volta, Avery! - Sbraito mentre lei sbuffa e corre verso la macchina. La mette in moto, fa il giro e parcheggia accanto a me. Ho temuto seriamente che il rumore potesse distrarre il mostro, ma cerca ancora di acchiappare le "mosche". Lei cerca di fretta i guanti di gomma e li indossa, poi il cavo nero e rosso e si sbriga a uscire dall'auto e ad aprire il cofano. - Attacca un'estremità del cavo rosso al polo positivo della batteria e un'estremità del nero a quello negativo. Le altre due estremità dei cavi posali lì a terra. - Con un cenno della testa le indico dove metterli, ovvero non molto lontano dai miei piedi, tra me e il lucertolone. - Corri in macchina e al mio "via" metti in moto, ma tienilo sui duemila giri. - Lei mi guarda per qualche secondo, poi annuisce. Spero vivamente che funzioni. Altrimenti posso definirmi morto. Avery entra in macchina ma non chiude la portiera, pronta a correre nell'eventualità mi serva una mano. Accende il motore, ma aspetta il mio segnale. Ora tocca a me. Passo a guardare l'Hatcukliba che ancora rincorre con la testa le "mosche". Muovo le pietre un'ultima volta e poi con tutta la forza possibile gliele lancio sul capo e sugli occhi. Lui emette un ruggito spaventoso per il dolore e gira su se stesso per orientarsi, non riuscendo a vedere, mentre io sorrido immediatamente. - Hey! - Urlo mentre muovo di nuovo le mani verso la fontana e con un solo gesto alzo tutta l'acqua presente lì. - Sono qui! Dai, so che hai fame! - Il mostro si gira subito nella mia direzione, più furioso che mai. Come biasimarlo dal momento che l'ho privato della vista? Non perde tempo e comincia a correre verso di me. Dispongo velocemente l'acqua sulle estremità dei cavi che si trovano a terra, continuando a tenerla ferma per evitare che la pozzanghera si disparga o venga assorbita, e giro la testa verso Avery, poi verso il mostro. Spero solo che funzioni. Non appena è abbastanza vicino a passare sopra l'acqua guardo mia cugina. - Ora! - Le urlo un'ultima volta mentre lei mette in moto. Non appena il lucertolone ci passa si ferma di botto e comincia a scuotersi, come se fosse colpito da delle crisi epilettiche. Il mio cuore batte a mille, sia per l'ansia che non possa funzionare sia per il controllo sulla terra e sull'acqua. Il mostro continua a prendere la scossa ma, non appena noto che comincia a non muoversi più, faccio segno ad Avery di spegnere il motore. Mi avvicino per controllare se sia definitivamente morto, facendo attenzione a non mettere i piedi sull'acqua. Storco il naso dal disgusto appena vedo il sangue colare da quello che resta dei suoi bulbi oculari, ma almeno non è vivo. Qualche secondo dopo, esplode in una polvere grigia che successivamente galleggia sull'acqua. Avery esce dalla macchina e mi osserva, poi sorride.
- Allora le lezioni di fisica al liceo ti sono servite a qualcosa, ah? - Chiede mentre incrocia le braccia al petto e mi osserva con un sorriso divertito. Si avvicina ai cavi, stacca le due estremità dalla batteria e allontana le altre dall'acqua, che ormai ho lasciato libera di scorrere. Le sorrido a mia volta.
- Non solo il tuo ragazzo ha idee geniali. - Lei rotea di nuovo gli occhi al cielo.
- Smettila di dire che è il mio ragazzo. Non lo è. - Dice in tono freddo mentre asciuga le estremità con la felpa. La guardo confuso.
- Come non lo è? -
- Abbiamo rotto. Basta parlarne. -
- E perché non me l'hai detto? - Chiedo sorpreso. Ci diciamo tutto, e non solo perché siamo cugini di primo grado alla fine, dato che mio padre e sua madre sono fratelli, ma perché ci fidiamo ciecamente l'uno dell'altra. È strano che non mi abbia detto della loro rottura. Però, è anche vero che non parliamo quasi mai di situazioni sentimentali: non siamo i tipi che piangono gli uni sulle spalle degli altri perché qualcuno ha rotto con uno di noi. Da questo lato siamo molto simili: preferiamo soffrire in silenzio e, forse, questa rottura non deve essere stata facile per lei.
- Abbiamo chiuso e basta. Diceva che era meglio rompere dal momento che, beh, non era sicuro di tornare. - Dice in modo vago. Ecco perché non me l'ha detto: lui l'ha lasciata. Lei non è stata mai mollata, sicuramente si sentiva in imbarazzo a dirmelo. È lei a interrompere le relazioni.
- Sai che torna sempre. - Lei annuisce, anche se poco convinta.
- Come le zecche. - Mi lascio scappare una risata mentre mi avvicino a lei.
- Sì, è una zecca. - Concordo con lei, ma comunque sono contento che torni sempre. È il mio migliore amico in fin dei conti e gli voglio bene, sebbene non glielo dica mai. Non siamo tipi da parole, più che altro da gesti. - Beh, mi dispiace, ma vedrai che appena torna vi rimetterete insieme, non è la prima volta che vi lasciate dopotutto. - Lei annuisce, poi sospira. Credo che detengano un record in questo: diciannove volte non è poco.
- Non m'importa. - Taglia corto. - Tu e lui siete uguali: lui lascia me, tu hai lasciato nostra cugina. Non mi meraviglio che andiate d'accordo. - La guardo male.
- Sai che ho dovuto lasciare Sharon. Non potevo restare. Le cose stavano degenerando. Se Luke non fosse apparso e June non mi avesse usato come bambola per la sua vendetta le cose sarebbero andate diversamente, e sarei potuto rimanere un altro po'. E non l'avrei trattata di merda. - Lei mi osserva per un po', poi annuisce con un'espressione diffidente. Non so se creda o meno alle mie parole. Mi sento in colpa, e lei lo sa perfettamente, però non posso farci molto: quello che è fatto è fatto. Non voglio stare a rimuginarci sopra e pensare a un modo per farmi perdonare, perché non la vedrò mai più. È inutile cercare di cambiare il passato nella nostra mente perché l'unica cosa che possiamo fare è andare avanti. Però mi dispiace di aver perso un membro della mia famiglia a cui mi ero un po' affezionato. - E poi Skah... -
- Lo so, me l'hai detto. - Taglia corto. Roteo gli occhi al cielo per i suoi modi di fare. Quella di restituire la memoria a Sharon non è stata una cattiva idea dopotutto, anche se ero diffidente riguardo alle incitazioni di Harry, totalmente d'accordo invece. In effetti, Sharon ormai aveva capito da un pezzo che il mondo è diverso da come lo conosce la gente normale, quindi inutile tenerlo nascosto per molto. Ma quello che è successo con Skah lo avrebbe potuto ritenere un sogno magari, spesso non si sa se qualcosa successa sia frutto della nostra mente o pura verità, ma non me la sono sentita per niente di darle ragione quando accadde quell'avvenimento negli spogliatoi, con l'Adaro, o con quei fogli in classe. Avrei dovuto proteggerla da tutto questo, non metterla in pericolo. Zia Tess ha usato un sacco di magia e di energie per occuparsi della casa e non farci pagare nulla, e mi dispiace di non aver fatto l'unica cosa che mi ha chiesto: tener d'occhio la nipote. Però non è stata del tutto colpa mia, ero ammaliato e lo sa bene, ma Harry ha fatto un ottimo lavoro comunque al posto mio. - Beh, muoviti Jacky. Sono stanca e vorrei andarmene a letto. Magari il pub lo rimandiamo a domani. - Dice mentre entra in macchina, sedendosi davanti. Chiudo il cofano e prendo il mio cellulare, scorrendo nella rubrica per cercare il numero di Sharon. Non dovrei scriverle, ne sono cosciente, ma credo che qualche chiarimento se lo meriti. Digito velocemente un messaggio su WhatsApp e lo invio. Non sono sicuro che abbia ancora il mio numero di telefono, ma credo capirà dalle parole. Almeno io ci ho provato.
Avery suona il clacson con forza e mi costringe a muovermi, ma mi fa solo roteare gli occhi al cielo, scocciato.
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

-Delice-

- "Ciao Sharon, sono Jackson, anche se credo che ormai tu abbia eliminato il mio numero", cosa non vera. - Aggiungo, guadagnandomi subito una gomitata da parte della mia migliore amica.
- Leggi e basta. - Alzo un sopracciglio mentre distolgo lo sguardo dal suo cellulare e lo porto su di lei, sorpresa. Ha passato tutto questo tempo a lamentarsi di quanto sia stato egoista e arrogante per averla lasciata senza un buon motivo e ora, al suo primo messaggio, s'interessa nuovamente a lui. Non che sia gelosa, lei e Jackson sono cugini, sebbene lei non lo sappia, quindi non potrei mai esserlo. E poi quella cottarella estiva le è completamente passata. Mi domando solo perché Jackson non le abbia detto la verità. Avrebbe evitato situazioni sconvenienti, anche se non sono del tutto sicura che ce ne siano davvero state. Forse mi sarei dovuta interessare e chiedere a Sharon cosa fosse successo al cinema, dato che non so assolutamente nulla, ma non è il tipo di ragazza da fare la prima mossa e Jackson non l'avrebbe permesso. Avrei dovuto informarmi prima e smetterla di tenere il broncio inutilmente. Dovevo accettare fin dall'inizio che non valevo niente per lui. È inutile rendere importanti le persone, pensando a loro, se a queste ultime non importa di te.
- "Comunque volevo sapere come stavi, e scusarmi con te. Avrei dovuto spiegarti tutto dall'inizio, invece ti ho solo riempito di ulteriori segreti e dubbi. Se non mi odi davvero, vorrei spiegarti tutto. Magari chiamami, così parliamo. Spero tu stia bene." - Finisco di leggere e le passo il cellulare. Lei osserva la vecchia casa di Jackson di fronte con lo sguardo perso nel vuoto e gli occhi lievemente lucidi. Di sicuro è così persa a ripensare al messaggio che non si accorge dell'iPhone che le sto porgendo. Lo lascio sul gradino accanto a noi, appoggio le mani sulle mie ginocchia e guardo il sole tramontare e colorare di un arancione scuro il cielo e le nuvole. Mi dispiace per quello che sta passando. So perfettamente quanto tutto sia sempre stato duro per lei, e l'arrivo di Jackson non ha migliorato di certo le cose. Credo che da un lato sia felice di aver trovato se stessa, ma dall'altro ha perso sia il cugino sia Harry, due persone che ormai erano entrate a far parte della sua vita quotidiana. E mi sento anche un po' in colpa perché di certo io non le sto rendendo le cose facili, né ora né prima. Certo, da un lato le sono accanto, ma dall'altro la sto mettendo in pericolo. - Potresti chiamarlo. - Propongo per rompere il silenzio mentre torno a guardarla. Lei deglutisce a fatica, cercando di non scoppiare a piangere, e scuote la testa. Chiude un attimo gli occhi per trattenere le lacrime e prende un bel respiro. Conoscendola, la sua testa sicuramente sta ritornando a quei giorni di giugno e luglio. È una cosa che non capirò mai: perché deve rimanere legata al passato? Ormai non esiste più, che se ne faccia una ragione.
- Non voglio parlargli. Ho passato settimane a cercare di dimenticarlo e appena sparisce ecco che esce di nuovo da quel piccolo angoletto della mia mente. - Dice con tono quasi rabbioso, gesticolando con le mani, agitata. Sospiro.
- Senti, per mesi mi hai torturato chiedendomi di fare chiarezza su tutti quei dubbi per cui tuttora non ho una risposta. - Mento. Non che sia una novità, ormai è da troppo tempo che tengo segrete tante cose a Sharon, anche se non cercherei mai di ferirla di proposito, ma non è stata una mia scelta nascere con una maledizione addosso che ormai la mia famiglia si porta dietro da ben nove generazioni nuovamente. Tutto iniziò quando un mio antenato, John Lambton, andò a pescare invece che andare in chiesa. Nulla abboccò, tranne che un misterioso animale di cui si liberò subito, gettandolo in un pozzo. John intraprese un lungo viaggio e quell'animale crebbe finché il pozzo non riuscì più a contenerlo, riversandosi all'esterno. Cominciò ad abbattere alberi e a cibarsi di agnelli, se non addirittura di persone. L'unico modo per fermarlo era fargli trovare litri e litri di latte, di cui era ghiotto ma, quando cominciò a scarseggiare, si ripresentarono gli stessi problemi. Quando John tornò dal suo viaggio, seppe cosa fosse successo e, riconoscendo la creatura, si assunse la responsabilità di occuparsene. Ottenuta la vittoria, avrebbe solamente dovuto uccidere il primo essere vivente che avesse incontrato per evitare la maledizione. Così si era accordato con il padre di liberare il cane ma il vecchio, dalla felicità di vederlo vivo, gli corse incontro e John, non potendo ucciderlo, lo risparmiò e così la maledizione colpì nove generazioni. La prima volta che successe questa cosa fu nel quattordicesimo secolo e di nuovo nel diciottesimo, per mano di Freddie Lambton per un insignificante incidente che ci è costato di nuovo questa situazione. Ora, con me, questa ha raggiunto la quinta generazione, ma non ho nessuna voglia di veder morire uno dei miei figli per causa sua. E spero sul serio che Gabriel sappia come fermarla. Per anni abbiamo provato a liberarcene in ogni modo ma alla fine ci ha sempre raggiunto, uccidendo qualcuno di morte violenta. Non importa quanto ci spostassimo o cercassimo di evitarla, prendendo tutte le precauzioni possibili: ci avrebbe sempre trovato. Prima della mia nascita, mio fratello morì ancora nel grembo di mia madre dopo che lei cadde dalle scale. Quest'ultima, "miracolosamente", non si era fatta nulla di grave: il bersaglio della morte era mio fratello, non mamma. Dopo la mia nascita, i miei genitori cominciarono a viaggiare molto per cercare una soluzione, dato che non vogliono che un loro futuro nipote muoia. La cosa più brutta di tutto questo è non sentirli anche per settimane per quei "viaggi di lavoro" che mi lasciano in costante ansia, non sapendo dove si trovino o cosa facciano. Viaggiano nelle parti più remote del mondo per cercare una cura, ma non hanno molta fortuna. La maggior parte delle volte credo che sia colpa di mia madre. Lei, purtroppo, ha sviluppato il controllo degli elementi (è una Nereide, legata all'acqua), e questo impedisce ai miei di far accordi con dei mostri. Non so come Gabriel riesca a controllarli facilmente, pur essendo una Silfide, e a stringerci accordi come se si scambiassero un semplice saluto, ma è bravo, sul serio. Sono contenta di aver incontrato lui in Inghilterra, meglio dell'inutile stregone che stavo cercando. Ho riposto troppe speranze nel biondo per voltargli le spalle: è la mia unica possibilità per liberarmi definitivamente di questa maledizione.
- So che non ne sai nulla di quest'intera faccenda. -
- Ecco, quindi dovresti chiedere a lui. - Lei scuote di nuovo la testa. Sospiro, esasperata dal suo rifiutarsi di convincersi. Mai vista ragazza più testarda. Non che vorrei spingerla di nuovo tra le braccia di Jackson, ma credo che tocchi a lui spiegarle che lei è un mostro, letteralmente. Per questo la reputo la ragazza più forte che possa mai esistere, perché non ha ceduto ancora al suo lato peggiore. Gabriel, però, mi ha raccomandato esplicitamente di attirarla più verso Luke e, beh, verso noi, verso i Cacciatori Oscuri, anche se non rientro sul serio nella loro categoria: non sono un Elementale come mia madre, Nina. Neanche mio padre, Nigel, lo è, ma da subito ha accettato mia madre. Fin dall'inizio, infatti, non hanno avuto segreti. S'incontrarono quando mio padre, sempre per cercare aiuto, andò a Lanrelas, in Francia, e s'innamorarono. Per me, mia madre fu una pazza a non scappare via nonostante fosse al corrente del destino a cui stava andando incontro; ma, d'altro canto, fu l'unica persona a non far pesare mai a mio padre questa maledizione. - E allora cosa vuoi fare? Hai detto che Jackson ti ha ferito troppo e ti ha riempito di bugie, che non gli credi più. A questo punto dovresti prendere in considerazione l'idea di parlare con Luke. Da quanto ho capito anche lui sa sempre più di te e conosce anche la verità che Jackson ti ha tenuto nascosto. -
- Sei impazzita? Il fatto che lui mi abbia ferito non vuol dire che cambierò, in primis me, e poi quelle che sono le mie idee. Luke non mi piace per nulla, e il fatto che Harry lo odi mi dà una ragione in più per non fidarmi di lui. - Sbuffo mentre lei mi guarda abbastanza sorpresa dal suggerimento che le ho dato. Non le ho mai proposto di parlare con Luke da quando mi ha raccontato dei loro "incontri", per non chiamarli rapimenti temporanei. Gabriel è un tipo paziente, questo è vero, ma fino ad un certo punto. Poi, il fatto che lei si fidi più di Harry che di me, beh, questo mi dà leggermente fastidio. Io non sono come lei, tantomeno come quello stupido dampiro, non ho abilità, ma sono la sua migliore amica! Qualcosa dovrò pur contare in tutto ciò. Okay, la sto anche tradendo in un certo senso, ma in buona fede. Non voglio morire né veder morire uno dei miei figli.
- Va bene, escludiamo Luke. Ma comunque lui potrà spiegarti qualcosa se proprio non vuoi parlare con Jackson... -
- Infatti. - M'interrompe. - Non voglio parlare con Jackson, per telefono, poi. - La guardo e annuisco, rassegnata. Gabriel non sarà contento di ciò. Ha aspettato fin troppo tempo per trovare Sharon, e ora deve attendere ulteriormente. Nel frattempo, sempre più mostri vengono uccisi, mostri buoni, e a lui questa cosa non sta bene. Se riuscissi a convincere Sharon a parlare con Luke, magari lui riuscirebbe a portarla dalla Silfide e finalmente Gabriel proverebbe al mondo intero che si può convivere perfettamente con un mostro e che non si deve per forza uccidere qualunque cosa s'incontri sulla propria strada, senza preoccuparsi se quella cosa è buona o meno. E non mi sembra che Sharon abbia problemi o altro, anzi: è migliore di un sacco di persone. Inoltre, in questo modo, riuscirebbe anche a distruggere queste categorie che si sono formate, soprattutto quella dei Cacciatori Oscuri, come se fossero i cattivi tra tutti i gruppi. Sharon dovrebbe solo capire che non siamo la parte da tenere alla larga. In fondo non lavoro per lui solo per il favore che mi sta facendo, ma condivido anche le sue idee. Per quanto non sopporti Harry, è l'unico che abbia aiutato Sharon, nonostante sia un mostro. In fin dei conti non è cattivo: se lo vogliono morto è solo per dei conti in sospeso che hanno con lui, specialmente con Luke. Il dampiro, anzi, è stato colui che si è preoccupato di non far scoprire a Taylor cosa fosse successo negli spogliatoi a scuola, anche se non so come, e di assicurarsi di soggiogare l'infermiera affinché Sharon bevesse tutto quel tè nell'ambulanza. Infatti, quando un Elementale sviene, perde non so quanti zuccheri che devono essere subito riacquistati. Non so bene cosa ci sia in quel tè, dato che è una specialità della nonna di Jackson, ma sembra funzionare. La stessa cosa con l'episodio con quell'Aitvaras, anche se a me sono state date solo quattro misere caramelle. Ma ovviamente loro devono recuperare più forze date le loro abilità sugli elementi.
Quindi, il fatto che Gabriel e Luke, e tanta altra gente, lo vogliano morto è dovuto solo alle sue azioni. È vero che i Cacciatori Oscuri tendono ad andare contro i mostri che potrebbero ucciderli, ma Harry non rientra in quelli. Alla fine il dampiro sta per i fatti suoi e non fa del male a nessuno. Beh, finché non viene minacciato.
Non tutti nascono per far del male, ce ne sono così tanti buoni che se si comportano male e agiscono in un determinato modo, è solo colpa del mondo in cui si trovano, e so perfettamente che Gabriel farà di tutto per cambiare questo posto.
Il mio telefono, accanto al suo, comincia a squillare e lo schermo s'illumina, mostrando il nome della Silfide. Sharon fa cadere subito lo sguardo lì, leggendo il nome. Forse credeva che fosse il suo cellulare e che fosse Jackson, cosa impossibile dal momento che in Inghilterra è notte fonda, qui sono le cinque e il fuso orario è di otto ore. - Chi è Gabriel? -
- Mio cugino. - Mi affretto a dire, raccogliendo la prima scusa che mi viene in mente, poi afferro in fretta il cellulare e la borsa accanto a me, mi alzo dal gradino e guardo la Salamandra. - Sicuramente starà una buona mezz'ora a lamentarsi della sua ex. - Le sorrido in modo falso e veloce, bramante di allontanarmi. Spero solamente che Sharon non si accorga che le sto mentendo, ma andiamo: sono anni che non se ne accorge.
- E da dove è sbucato fuori questo cugino? - Aggrotta la fronte, confusa. Lei conosce tutti i miei parenti, anche se non ne ho tanti: molti sono morti a causa della maledizione. Però non mi preoccupo più tanto delle sue conoscenze riguardo le parentele: non che sia una cima nel riconoscere cugini.
- Ti chiamo dopo, lo prometto. - Le lascio un bacio sulla guancia e mi affretto a scendere i gradini, mettendomi la borsa in spalla, infine accetto la chiamata.
- Finalmente. Ti stavo dando per morta. - Dice lui dall'altra parte del telefono con la bocca piena, sgranocchiando qualcosa. Mi sta venendo fame solo a sentire questo rumore. Avrei dovuto mangiare oggi invece che continuare con le mie ricerche su quella maledizione: mi sta prosciugando via tutte le energie.
- Ero con tua cugina, non potevo rispondere davanti a lei e prima che tu lo chieda no, non l'ho convinta. -
- Perché lavori ancora per me se effettivamente non servi a nulla? Dovevi fare una cosa, solo una. È la tua amica del cuore, no? Convincila. - Borbotta mentre cammino sul marciapiede a passo svelto, volendomi allontanare nel minor tempo possibile da casa di Sharon. Mi guardo dietro solo una volta per controllarla, ma lei sta tranquillamente con il cellulare in mano. Scommetto tutto quello che ho, non che sia molto, che sta rileggendo il messaggio di Jackson, ancora e ancora.
- Che cosa posso fare se ormai condivide le idee di tuo fratello?! - Sbotto, irritata dalle sue parole. Faccio un sacco per lui, ho fatto un sacco, e ancora mi manca di rispetto. Mi sono finta svenuta negli spogliatoi per far scendere Sharon, essendo al corrente di quell'Adaro che mi avrebbe potuto uccidere, e che avrebbe potuto anche divorare lei. La stessa cosa con quel dannato gallo. Okay, Gabriel non mi ha potuto avvertire su Skat, Skan o come diavolo si chiama. Quando quel gallo è arrivato, il biondo già era scappato di casa e, naturalmente, non ne sapeva nulla. Almeno ha trovato un modo per restituirmi la memoria. Essere il gemello del padrone di quel mostro non è completamente svantaggioso: è stato facile convincerlo a farmi ricordare tutto subito, fingendosi Jackson. Comunque, avrei potuto farmi scoprire se, quando eravamo in ospedale con Harry, quest'ultimo avesse visto il nome di Gabriel sullo schermo del mio telefono. Potevo finire in guai seri per recuperargli quella stupida cartellina all'anagrafe che non è servita assolutamente a nulla, sebbene il gemello volesse comunque studiarla. Sarei potuta morire per il solletico di uno stupido folletto per tenerla d'occhio alla festa di June e, soprattutto, avrei potuto giocarmi il diploma per far risultare Jackson un diciassettenne invece che un ventunenne nei registri scolastici per farlo ammettere alla classe: con quel documento mediocre che lo Gnomo aveva usato per l'iscrizione non sarebbe mai stato ammesso. Gli ultimi giorni di scuola, poi. Se non ci fosse in ballo la vita dei miei figli, smetterei subito di fargli tutti questi favori. Poi vediamo con solo due elementi come fa a controllare tutto. Anche perché la cosa più importante, Sharon, gliela sto tenendo d'occhio io. Se non ci fossi stata io, non l'avrebbe mai trovata. Non a caso Taylor è venuta in questa cittadina orribile per nasconderla, e lo stesso hanno fatto i miei. Ringrazio zia Tess che ha tenuto l'odore della mia amica lontano per anni, e ancora lo fa, altrimenti non avrebbe raggiunto questa età.
- Non lo so. Dovresti saperlo tu. Se non ci pensi tu, ci penso io, in un modo o nell'altro. - Attacca la chiamata mentre mi fermo dal camminare e guardo l'apparecchio in modo oltraggiato. Lancio un urlo di frustrazione, metto il cellulare in borsa e riprendo a camminare, cominciando già a pensare a un modo per convincere Sharon. Non devo mandar tutto all'aria, non di nuovo.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

-Sharon-

Accarezzo lo schermo del cellulare mentre osservo il suo messaggio. Ancora non riesco a capire come abbia fatto a uccidere tutto ciò che d’innocente c'era in me con un semplice sguardo. Non posso lasciare che mi controlli nuovamente: fa troppo male. Perché deve essere tutto così difficile? Lui non riesce a sentire quanto sia distrutta dentro? Come faccio ora? Cosa diamine mi ha fatto? Non riesco più a trovare me stessa, non riesco più a controllarmi. Non può semplicemente riapparire come se nulla fosse e stravolgermi di nuovo, non questa volta. Non lo sentivo da fin troppo tempo. È bastato un insignificante messaggio per farmi risentire tutte quelle emozioni che mi aveva fatto provare quel giorno quando mi ha detto addio. Qualcosa dentro, proprio all'altezza dello stomaco, comincia di nuovo a divorarmi le interiora. Sono stata così stupida a pensare che una persona potesse tenere sul serio a me. Quale pazzo lo farebbe? Albert e Delice mi sono amici, ma non potevo aspettarmi di certo lo stesso da lui. Voglio un bene dell'anima a loro due, ma devo anche riconoscere che nessuno riuscirà a colmare quell'illusione che Jackson aveva creato in così poco tempo e distrutto l’attimo dopo appena non aveva più bisogno di me. Sono stata stupida a pensare che valessi qualcosa per lui. Lui non mi era davvero amico. Forse mi vede solo come un altro Elementale o peggio, come uno dei tanti mostri da cui deve tenersi alla larga, date le sue ultime parole ad agosto. Anche se non lo ammetterò mai davanti a Delice, vorrei sul serio parlare con Luke e chiedergli meglio cosa stia succedendo perché, per quanto ci abbia provato, non riesco ancora a capire qualcosa in tutta questa storia. Jackson mi ha tenuto nascoste un sacco di cose, compresa quella riguardante questo probabile mostro con cui convivo. Se si riferisce a mia zia Tess, che ruolo ha in tutto questo? Per la maledizione dell'albero ne aveva uno (era praticamente la causa di tutto ciò, anche se non era voluto), ma ora? Mi sento morire dentro. Forse Delice ha ragione, dovrei provare a chiamare Jackson. Per quanto orgogliosa stia cercando di essere, so per certo che non lo sarò per molto. Ma se provassi a contattarlo, non devo per forza rimanere in rapporti con lui: quella nave è salpata da un pezzo. Non provo più le stesse cose che provavo le prime volte in cui lo vedevo da molto, molto tempo. Ormai non mi fa più effetto, tranne che per le ferite che ha lasciato. E non parlo solo della cicatrice sulla mia spalla dove precedentemente c'era un bel buco, causato dall'artiglio di una Ek Ek. Solo pensare di risentire la sua voce è difficile. Quando mi disse addio, ero sicura che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui l'avrei sentita e in cui l’avrei visto. Eppure eccoci di nuovo qui. Però questa lo sarà sul serio, devo promettermelo. Ho bisogno di quelle risposte, anche se ne sono terrorizzata. E se la verità fosse davvero troppo per me e mi servisse il suo sostegno? E se non ci fosse di nuovo? Lui è l’unico in grado di capirmi sul serio. So di doverla smettere con questi pensieri, perché ho affrontato di peggio, però lui comunque rimane ciò che più mi spaventa al mondo, perché non mi è indifferente rispetto al resto con cui ho dovuto fare i conti.
Smetto di pensare e prendo un respiro, poi avvicino il dito sul disegno della cornetta, accanto al suo numero, per chiamarlo. Sto per farlo quando il mio dito si ferma, quindi blocco lo schermo del cellulare prima che possa causare guai. Devo avere delle risposte, ma devo averle di persona. Non voglio che s’inventi altre bugie e che mi faccia creare problemi per altri mesi. Ho bisogno di guardarlo negli occhi.
Mi alzo subito dai gradini ed entro in casa mentre apro Google per cercare qualche biglietto aereo last minute per l'Inghilterra. Se gli avessi chiesto di venire qua, non l'avrebbe mai fatto. Sto facendo una pazzia, ne sono consapevole, ma non posso più andare avanti così, nel dubbio, vagando ciecamente tra le ombre. Mia madre mi spellerà viva, sono consapevole anche di questo, ma riuscirò a organizzarmi con Delice.
Salgo in camera e cerco il biglietto meno costoso. Qualche minuto dopo, non appena lo trovo, non perdo tempo a comprarlo: partirà alle dieci di questa sera. Fortunatamente questa volta non ho dovuto neanche rubare la carta di credito di mia madre di nascosto. Regalarmene una per il compleanno non è stata poi una cattiva idea.
Se non perdo tempo posso farcela, ma senza volerlo ho già perso un'ora tra i miei pensieri prima, sui gradini, e si sono fatte le sei di sera. Devo sbrigarmi, soprattutto perché devo evitare mia madre. Se tornasse prima, sarebbe un vero casino. Soprattutto se dovesse scoprire che ho speso quasi trecento dollari per questo viaggio.
Compongo il numero di Delice più in fretta che posso per farmi accompagnare all'aeroporto, ma non mi risponde: segreteria. Senza perdere altro tempo, chiamo Albert.
- Ti prego, rispondi... - Imploro con tutta me stessa mentre caccio uno zaino nero abbastanza grande da sotto il letto, buttandocelo sopra. Metto il vivavoce e lascio il cellulare accanto a questo, poi mi avvicino all'armadio per prendere qualche maglietta.
- Heilà, Shasha. Che cosa ha detto tua madre dell'idea di andare a convivere? - Chiede entusiasta mentre sento degli spari in sottofondo. Sta ancora giocando a quel gioco di guerra alla playstation nuova che ha ricevuto.
- Senti, ho bisogno di un passaggio all’aeroporto. - Ignoro completamente la sua domanda e butto le maglie nello zaino senza prestarci troppa attenzione. - E mi serve ora. -
- E dove vai? - Anche gli spari in sottofondo si sono ammutoliti, segno che ha messo in pausa il gioco. Per una volta ho la sua completa attenzione mentre gioca, il che è strano.
- In Inghilterra. - Rispondo come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Continuo a mettere vestiti a caso, senza rendermi effettivamente conto di quanti siano. Non rimarrò di certo a farmi una vacanza lì: il tempo di parlare con Jackson e torno, dicendogli addio una volta per tutte. Lui è stato il primo a voler interrompere il rapporto che si era creato tra noi, quindi perché devo essere io quella a riaprirlo? Il suo messaggio sarà di certo stato una debolezza: finalmente ha ritrovato i suoi sensi di colpa. Io ci parlo, cerco di capirci qualcosa in tutta questa storia perché davvero ancora non riesco a comprendere nulla, e me ne torno. Se non sarò forte per allontanarmi da lui, beh, devo farlo, in un modo o nell’altro. Non cadrò nuovamente nella sua trappola, non questa volta. Non sono più la ragazza spaventata, debole e che si sente sempre fuori luogo che ero qualche mese fa. Alla fine qualcosa di buono Jackson l'ha fatto: mi ha reso più sicura, facendomi capire che, sebbene sia diversa, questo non vuol dire che sia sbagliata. Mi ha reso più forte, meno ingenua.
- In Inghilterra? Cosa? E perché? E tua madre lo sa? -
- Sul serio? Certo che mia madre lo sa! - Esclamo col tono più convincente possibile, sentendo già il suo timbro di voce riempirsi di preoccupazione. - Se tu venissi qua, ti spiegherei tutto con calma. - Altra bugia. Beh, si fa per dire. Mi serve del tempo per pensare a una buona scusa. Albert sa tutto quello che è capitato tra me e Jackson e non c'è bisogno che dica che lo odia profondamente per il modo in cui mi ha trattato.
- Va bene, mi cambio e sono sotto da te. - Chiudo la chiamata e finisco lo zaino. Ci metto dentro il caricatore del cellulare e le cuffie, lo spazzolino, qualche paio di mutande (nel caso di qualche emergenza) e chiudo tutto. Mi siedo sul letto mentre aspetto Albert. Non so se dovrei lasciare un bigliettino a mia madre, chiamarla o altro. Se Delice mi rispondesse al cellulare, deciderei cosa fare, organizzando qualcosa con lei come sempre, del resto. Mi chiedo a volte cosa stia facendo o dove sia quando ho bisogno di lei. Però, se lasciassi a mia madre un biglietto, sarebbe troppo strano: spesso glielo dico e basta quando mi fermo a dormire da Delice. Mi torturo le mani nell'attesa. Qualche minuto fa pensavo che questa fosse una buona idea, non ottima, ma ancora accettabile. Invece ora mi sembra una stupidaggine enorme. Ho davvero reagito d'impulso e comprato un biglietto last minute per raggiungere un ragazzo che odio e che non voglio vedere, se non per togliermi definitivamente dubbi, che magari non esistono neanche, dalla mia mente? Sì, devo essere del tutto impazzita. Ma forse non odio lui, odio me stessa per essermi lasciata controllare dall'effetto che mi faceva. Forse ad Albert dovrei dire la verità. Anche lui mi dirà che è una pazzia e mi urlerà contro, e poi mi metterò di sicuro a piangere per aver gettato all'aria più di duecento dollari. Dovrei cominciare a essere più riflessiva quando si tratta di Jackson, ma non so, a volte mi sembra che qualcuno mi ostruisca il cervello per impedirmi di pensare razionalmente affinché mi butti sulla prima idea pazza che mi passa per la mente.
Cerco di distrarmi dai sensi di colpa e da quell'ansia che si sta formando dentro di me e prendo il cellulare per scrivere un messaggio a Delice dicendole che, se mia madre l'avesse chiamata, avrebbe dovuto dirle che rimango da lei per un paio di giorni poiché i suoi, come sempre, sono fuori per lavoro e non vuole rimanere sola. Inoltre abbiamo un progetto di scuola su cui lavorare. Quando arriverò in Inghilterra la chiamerò e le spiegherò tutto, così a sua volta avvertirà Albert, ma per ora voglio che sia un segreto per tutti, che non sappiano niente. Almeno si arrabbieranno dopo con me.
Sento un clacson fuori e scatto verso la finestra per controllare che ci sia Albert e non mia madre dal momento che alcune volte le danno un passaggio. Appena riconosco la DR Zero verde (con un adesivo raffigurante un arcobaleno e un altro con il nome della sua band preferita, gli Arctic Monkeys) del mio amico afferro lo zaino e il cellulare di corsa e mi catapulto giù, sbattendomi anche la porta alle spalle dalla fretta. Apro la portiera ed entro in macchina, poi la richiudo con il respiro affannato dalla corsa. Albert mi guarda abbastanza perplesso: non mi ha mai visto così di fretta per nulla.
- Sei ricercata dalla polizia, non è vero? - Scherza, nonostante la sua faccia sia più che seria. A volte non so se credergli o ridere con lui data la sua ironia, quindi nel dubbio accenno una risata e scuoto la testa. Lui sorride, più rilassato, e mette in moto. - Dove devo portarla, madame? -
- Al Las Vegas Mccarran International Airport. - Lui fa un fischio, sorpreso, e mi guarda, quindi ricambio l’occhiata, confusa per il suo gesto.
- Che lusso. – Commenta, quasi a giustificare la sua azione, mentre mette in moto e fa retromarcia, guardando nello specchietto retrovisore. - Non potevi partire con più calma? Magari andavamo in qualche bel casinò. -
- Magari. - Sospiro. Se solo conoscesse la vera ragione per cui sto facendo questa assurdità non sarebbe così calmo. Non lo sono neanche io, in realtà; sto cominciando a innervosirmi. Non ho mai mentito così ad Albert, tantomeno a mia madre. Credevo di odiarla per avermi tenuta nascosta la vera me, ma adesso mi sento solo terribilmente in colpa. Non se lo merita. Nonostante questo segreto, ha sempre fatto di tutto per cercare di rendermi felice e non mi piace ripagarla in questo modo. Prendo un bel respiro per evitare che gli occhi mi diventino lucidi: se l'Ondino lo avesse notato, tornerebbe immediatamente davanti alla porta di casa mia.
- Allora, cosa è successo di così urgente da farti partire all'improvviso? - Chiede mentre esce dal mio quartiere. Diamine, non ho pensato a una scusa da dirgli. Che cosa ho fatto tutto quel tempo mentre lo aspettavo? Già non ricordo più. Sapevo che avrei dovuto riflettere meglio su ciò che sto facendo e magari parlarne anche con mia madre. Che stupida che sono stata. Però, ormai quello che è fatto è fatto. Devo cercare di mantenere la calma e non perdere la testa.
- Oh, una zia a cui sono molto affezionata non sta bene e quindi ho deciso di andare a trovarla, ma starò solo un paio di giorni. Mia madre non può venire. Sai com’è, il lavoro, quindi ha accettato di farmi partire da sola. - Lui annuisce mentre tiene gli occhi sulla strada, avvicinandosi sempre di più al cartello di benvenuto di Ruddy Village, per poi sorpassarlo.
- Spero che non sia nulla di grave. - Commenta lui.
- Tutto sotto controllo. - Mormoro. Poggio la testa contro il finestrino e guardo fuori mentre la luce dei lampioni illumina di tanto in tanto i nostri volti. Spero di non pentirmi un giorno di quello che sto facendo.
***
Mi sento scuotere mentre intorno comincio man mano a risentire i suoni e i rumori, soprattutto di aerei in partenza, di macchine che parcheggiano o partono e schiamazzi di gente di fretta. Dobbiamo essere arrivati all'aeroporto.
- Su, sveglia Sharon. – M’incita con voce dolce, scuotendomi il braccio nuovamente. Apro piano gli occhi e me li strofino, allontanando la testa dal finestrino. Solo io posso addormentarmi in un viaggio di neanche un'ora. Sbatto più volte le palpebre e guardo fuori.
- Dimmi che non sono le dieci. - Lo imploro e mi volto a guardarlo. Non mi sono proprio resa conto dell'orario da quando sono uscita di casa, non che prima ci abbia prestato così tanta importanza.
- Le nove e cinque. Sei ancora in tempo per il check in e per assicurarti un posto vicino a una vecchietta noiosa. - Mi sorride mentre si sporge dietro, verso i sedili posteriori, per passarmi lo zaino. Non mi sono neanche accorta del fatto che me lo avesse tolto da dosso. Lo afferro e me lo metto su una spalla. - Mi chiami non appena arrivi, vero? - Sorrido per assicurarlo e lo abbraccio, poi annuisco.
- Tranquilla mamma, arrivo sana e salva. - Scherzo mentre lui ricambia il mio abbraccio e mi lascia un veloce bacio sulla guancia, poi mi libera dalla sua stretta.
- Sarà meglio per te. Mi farebbe schifo toccare la tua salma altrimenti. – Finge una faccia disgustata per scherzare e mi apre lo sportello. - Vai ora, o farai tardi. E chiama anche la tua vera madre per dirle che sei arrivata all'aeroporto. - Esco dalla macchina nel frattempo, poi lo guardo e annuisco per l'ennesima volta.
- Non preoccuparti, ora la chiamo. Grazie per il passaggio. - Lui mi fa il famoso saluto militare che si rivolge a un generale, sebbene sia seduto, e incrocia i miei occhi.
- Quando vuoi. Poi mi paghi la benzina. - Accenno una risata mentre chiudo lo sportello. Non appena si allontana con la macchina suona il clacson per salutarmi. Ricambio il saluto per l'ennesima volta, sventolando una mano, e infine spengo il cellulare. Lo accenderò quando sarò in Inghilterra, per ora è meglio concentrarsi a fare il check in per evitare di perdere l'aereo. Se lo perdessi, rimanessi qui e mia madre scoprisse dei soldi che ho speso, e ciò che volevo fare, mi ucciderebbe sul serio questa volta.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

-Taylor-

- Grazie per il passaggio, Melania. - La ringrazio in modo gentile mentre apro la portiera della sua macchina, una vecchia Ford Mustang del 1968, e scendo.
- Non preoccuparti. Ci vediamo domani al lavoro e, Taylor? - Mi giro a guardarla quando mi richiama, appoggiando un braccio sullo sportello aperto. - Dovresti prenderti la patente. - Dice con un sorriso scherzoso in volto mentre si passa una mano tra i corti capelli neri. Scuoto la testa e le sorrido.
- Ho la patente, ma non i soldi per riparare la macchina. A domani. - La saluto, prendo la borsa e chiudo lo sportello. Lei parte non appena mi allontano dalla macchina e raggiungo la porta d’ingresso, cercando le chiavi nella borsa. Appena avrò qualche soldo in più dovrò ricambiare tutti questi passaggi che mi dà, anche se per lei non sono nulla dopo anni che lavoriamo insieme. Purtroppo non è sposata, non ha neanche figli, e questo è triste: è una donna così gentile e simpatica, sempre solare, e adoro i suoi vestiti, soprattutto i colori. Ogni giorno ne indossa uno diverso che mi porta a chiedermi quanti armadi possieda. Oggi ne aveva uno viola melanzana, che le rendeva la carnagione ancora più scura di quanto non sia già. È leggermente in carne, ma porta questi vestiti con una disinvoltura da invidiare. Il suo viso è rotondo e le sue labbra sono carnose, si potrebbe anche pensare che siano state ritoccate chirurgicamente; gli occhi sono la parte migliore della donna: di un castano così scuro e dallo sguardo così profondo che potrebbe mettere in soggezione. Tra l’altro ha sempre una battuta pronta per far sorridere e ridere chiunque abbia intorno, rallegrando la giornata a tutti. Riuscirebbe a metter di buon umore in qualsiasi situazione. È davvero brutto che però non abbia nessuno con cui condividere la casa in cui vive, essendo questa anche abbastanza grande per una sola persona. Perciò molte sere, inclusa questa, andiamo fuori a mangiare qualcosa dopo il lavoro.
Lancio uno sguardo fugace alla finestra del soggiorno: strano che Sharon non abbia acceso la luce. Spero almeno che sia tornata. Ultimamente sta sempre fuori a zonzo con Albert. A volte mi chiedo se stiano insieme e se lei me lo tenga nascosto per qualche oscura ragione. Nell'ultimo periodo non mi racconta molto di quello che fa, ma credo che ormai abbia perso tutta la fiducia che riponeva in me. Forse per questo non parliamo più come una volta. Ho sempre saputo che un giorno avrei perso mia figlia, che se ne sarebbe andata di casa a convivere con il suo futuro marito e a farsi una famiglia, ma non immaginavo così presto e non per questa ragione. Forse ho sbagliato a tenerle nascosto per diciotto anni questo mondo a cui appartiene e al quale, prima o poi, avrebbe avuto accesso. Forse sono stata ingenua ed egoista nelle decisioni che ho preso, ma quale altra scelta avevo? Raccontarle tutto non sarebbe stato il caso, specialmente se l'avesse saputo da piccola. Tutta la sua vita si sarebbe basata su quell'unico costante puntino nella sua mente: suo padre. Forse, appena diventata più grande, avrei dovuto dirle tutto e cercare un modo diverso per proteggerla, avrei potuto fare le cose con calma e magari sperare che non avrebbe sviluppato i poteri. In questo modo, probabilmente, sarei stata anche più sicura che suo padre non avrebbe potuto prenderla in ostaggio se avesse trovato un modo per liberarsi. Avrei dovuto dirle che Harvey, mio marito, ormai era diventato un mostro che avrebbe cercato in tutti i modi di ucciderla. Ma come si fa a dire a una ragazzina, che non crede neanche a queste cose e non le conosce, che suo padre, che non ha neanche mai conosciuto, vuole ucciderla? Ho reagito d'istinto forse, o in modo egoistico, e non me lo perdonerò mai per aver rovinato per sempre la vita di mia figlia, sia quella normale, sia quella da Elementale. Avrei potuto evitare di trasformare in un mostro una bambina innocente. Da un lato, è meglio che tutto sia andato in questo modo: so per certo che non le avrei mai detto la verità e, se avesse scoperto tutto più tardi, credo che avrebbe potuto anche uccidermi, e ne sarebbe sul serio capace, purtroppo.
Alzo lo sguardo per controllare se la luce della sua camera sia accesa, ma stranamente anche quella è spenta. Controllo l'orologio al mio polso dopo aver afferrato le chiavi dalla mia borsa: le dieci. Non può essere già a letto, prima delle undici non va. Spero davvero che non sia ancora in giro o a caccia. Dovrei stare più attenta alla sua giornata, anche se mi viene difficile. Purtroppo io e Melania, la mia collega, siamo le ultime a lasciare l'ufficio e stasera abbiamo finito anche più tardi del solito, quindi abbiamo anche cenato dopo. Se solo non fosse caduto quel cassetto con tutte quelle cartelle saremmo uscite dall'ufficio anche alle otto. Apro la porta di casa e me la richiudo alle spalle, poi illumino il salotto e la cucina, poggio la borsa sul tavolo e infine apro il frigo per prendere una bottiglia d’acqua.
- Sharon. Sono a casa. - La informo, ma non ricevo nessuna risposta. - Sharon! - Riprovo. Molte volte sta in camera sua con le cuffie nelle orecchie, la musica ad alto volume, la porta chiusa e non sente se qualcuno la sta chiamando o meno. Sbuffo e chiudo il frigorifero prima di salire sopra e bussare alla sua porta, ma nessuno risponde. - Sharon! Rispondimi quando ti chiamo. - Dico con tono leggermente più alto per l'irritazione mentre spalanco la porta, sicura di trovare mia figlia, ma la camera è completamente buia e vuota: il letto disfatto, come sempre, i libri sulla scrivania, i vestiti sparsi sul letto... Sembra tutto normale, eppure Sharon non c'è. Se scopro che è ancora fuori questa volta sono dolori per lei. Non m’importa se mi odierà più di quanto non faccia già, ma deve cominciare a rispettarmi. Non può essere arrabbiata con me per sempre e questo non le dà il diritto di fare ciò che vuole e quando vuole. Dovrebbe cominciare a capire quali sono le sue priorità: la scuola, l'università che frequenterà e il buon lavoro che troverà. Non dico che debba rinunciare alla caccia e ai mostri, anche perché ormai quelli sono diventati parte della sua vita, della sua quotidianità, e si deve difendere da loro, ma almeno non dovrebbe del tutto rifiutare anche la vita che aveva prima.
Chiudo la porta e scendo giù. Vado a prendere il cellulare dalla borsa per chiamarla, ma subito risponde la segreteria; quindi cerco il numero di Delice. Se fosse andata a dormire da lei me lo avrebbe detto o mi avrebbe inviato un messaggio. Spero solo che non sia successo nulla di grave. Non riuscirei mai a perdonarmi se qualche Cacciatore Oscuro avesse fatto irruzione in casa e l'avesse rapita, o se qualche mostro fosse riuscito ad entrare. Tuttavia non c'è nulla di rotto, tantomeno segni di scassinamento. Oltre alla porta, controllo la finestra della cucina e quella del soggiorno nervosamente: nessun segno neanche qui. Quindi deve essere ancora fuori. Provo a chiamare di nuovo Delice. Fortuna che mi sono salvata il suo numero, non si sa mai. Purtroppo, per l’ennesima volta segreteria telefonica. Magari stanno insieme e stanno facendo la loro solita serata tra ragazze e hanno spento i cellulari, ma non capisco il motivo per cui Sharon non mi abbia avvisato se così fosse. Meglio comunque chiamare anche Albert, giusto per sicurezza. Non devo andare nel panico, non ancora. Non ho mai preso il numero degli amici di Sharon, ma da quando è arrivato Jackson, suo cugino, lei è cambiata e non posso negarlo. Non solo per la questione degli elementi, ma sotto ogni aspetto. È raro che adesso risponda al cellulare, cosa che prima faceva subito. Devo tenerla più sotto controllo, e per questo ho deciso di segnarmi i numeri dei suoi amici di nascosto. Sta sempre con uno dei due alla fine e loro rispondono, a differenza sua, quando sono insieme. Ciononostante, anche se è più matura, è pur sempre una ragazzina, e da tale compie degli errori. Non vorrei che facesse qualche pazzia e che la rimpiangesse per il resto della sua vita, tantomeno che si facesse male, o peggio. Jackson non sarebbe mai dovuto venire qui e sconvolgere tutto ciò che avevo creato. Quel giorno in cui scappai via con Sharon da Winchester per evitare che cominciasse a sviluppare i suoi poteri troppo prematuramente, quando lei aveva solo qualche mese, avvertii Lizzie che sarebbero dovuti sparire dalla nostra vita, lei e la sua famiglia, eppure ci hanno raggiunto anche nell'unico posto nel quale zia Tess si era impegnata duramente per tenere tutti nascosti, compresa la puzza di mia figlia. Non ho ancora capito il motivo di quel trasferimento temporaneo, e Lizzie non ha menzionato una ragione. Non sarebbero dovuti venire qua e basta, non ha avuto senso ciò che hanno fatto.
Cerco il numero di Albert nella rubrica, per poi chiamarlo. Fortunatamente, dopo qualche squillo mi risponde.
- Mrs. Diaz, salve. Come mai l'onore di questa chiamata? - Chiede con voce entusiasta e gentile come sempre. Mi domando come faccia a essere sempre così spensierato e rilassato.
- Ciao Albert. Tutto bene? -
- Sì, tranne che per il fatto che la scuola sia ricominciata. - Ridacchia. - Devo dirle che sono sorpreso di ricevere una sua chiamata, immagino che Sharon le abbia detto dell'università e della casa. - Corrugo la fronte alle sue parole. Sharon ed io non parliamo molto, ma non pensavo davvero che sarebbe rimasta in silenzio anche per quanto riguarda una delle decisioni più importanti della sua vita.
- Ah, sì. Mi ha accennato qualcosa. - Mento, tenendo il suo gioco nella speranza che m’informi su ciò.
- Finalmente! È da qualche settimana che glielo sto proponendo, ma non pensavo che glielo dicesse sul serio. Sa, l'idea che magari io e sua figlia ci trasferiamo lontano da Ruddy Village per l'università può spaventare, ma comunque sono cose che vanno fatte. Cioè, alla fine ha sempre saputo che prima o poi Sharon sarebbe cresciuta. - Rimango un attimo scossa per le sue parole. Non fatico a credere alla ragione per cui Sharon non mi abbia voluto dire nulla, perché sapeva già che la risposta sarebbe stata un no netto. Non posso permettere che vada via di casa, da Ruddy Village, con Albert poi. Non che non mi fidi di lui, alla fine è un Elementale, un Ondino, e saprebbe badare anche a lei, ma sarei preoccupata per lui solo con lei. Non posso essere sicura che un giorno mia figlia non si alzi con la voglia di uccidere lui, o magari l'intera università. Non posso permetterlo.
- Sì, beh, abbiamo detto che ne avremo discusso più avanti, non appena farà richiesta a qualche facoltà. Comunque, parlando di Sharon, è con te? -
- No. - Risponde dopo qualche secondo di silenzio. - L'ho appena accompagnata all'aeroporto. Può stare tranquilla. - Sono piuttosto sicura che il mio cuore abbia perso un battito e solo Dio sa che fine abbia fatto il mio respiro. Cerco di non farmi prendere dal panico troppo in fretta, altrimenti darei di matto e me la prenderei anche con lui.
- All'aeroporto? E dove sta andando? - Chiedo però con tono più allarmato di quanto volessi mostrare. Non vorrei che Albert si sentisse in colpa per una stupidaggine che ha commesso Sharon, dicendogli una menzogna tra l’altro, perché sono piuttosto sicura che gli abbia mentito.
- In Inghilterra... – Mi risponde più insicuro, timoroso della mia reazione, poi comincia a raccontarmi cosa è successo solo qualche ora prima. Mentre parla, mi siedo sulla poltrona: non credo che potrei reggermi sulle mie gambe. Se l'avessi davanti in questo preciso momento, la riempirei di schiaffi. Le darei tutti quelli che non le ho potuto dare in diciotto anni. Come le è saltato in mente di fare ciò? Non ha senso tutto questo. Sono sicurissima che c'entri Jackson con questa sua bravata. Lei non avrebbe il coraggio di fare una cosa del genere, così all'improvviso poi. Oppure non conosco sul serio mia figlia ed è la persona che, più di tutti, sarebbe capace di ciò. - Ma lei non ne sapeva nulla? -
- No, nulla. - Confermo. - Non posso credere che abbia mentito a entrambi, soprattutto a te. -
- Taylor, io davvero non ne sapevo niente. Pensavo che lei fosse al corrente di tutto e che fosse d'accordo. Se mi avesse detto la vera ragione per cui ha preso il primo aereo che ha trovato, le giuro che sarei stato il primo a fermarla. - Dice con tono abbastanza serio e sincero, ma so che lo è. Ormai sono arrivata al punto di fidarmi più degli amici di mia figlia che di lei.
- Non ne dubito, Albert. Lo so che sei un ragazzo con la testa a posto. Spero solo che non c'entri quel Mitchell di nuovo. Sharon è troppo intelligente per fare una stupidaggine del genere. - Cerco con tutta me stessa di avere la voce calma, ma sono sicura che le mie mani stiano tremando e che il terrore stia prendendo il sopravvento perché mi sento svenire. Mia figlia su un aereo da sola oltre l'oceano, ma cosa le dice il cervello?! E quei soldi spesi, una parte di quelli che ho faticato a guadagnare in un anno affinché li usasse per gli studi, non per raggiungere il cugino nel Regno Unito!
- Non credo che riguardi Jackson l'intera faccenda. Da quanto mi ha raccontato tra loro due... -
- So come si sono sviluppate le vicende, Albert, ma ci sono cose che Sharon non sa, e se è andata in Inghilterra, l'unica persona che potrebbe cercare è Jackson. E questa cosa non va bene. - Davvero non va bene. So che non farebbe nulla con lui, ma ho pur sempre la preoccupazione che se ne sia innamorata e che non riesca a toglierselo dalla testa. È pur sempre un’adolescente, e so come vanno a finire queste cose. Se fosse così, dirle che Jackson e lei sono cugini sarebbe un vero trauma. Già quando sono andati al cinema insieme non so cosa Jackson avesse in mente. Da un lato ha fatto bene a invitarla, l'ha tenuta sotto controllo al posto mio per una sera, ma dall'altra ha rischiato parecchio.
- Lo odia. Credo sarebbe incoerente. -
- A volte si odia per non amare e rimanere feriti più di quanto non vorremmo. – Sospiro. - E se lei fosse innamorata di Jackson beh, non andrebbe bene. - Dico scuotendo la testa, anche se lui non può vedermi.
- Concordo a pieno. Non mi piace quel tizio. L'ha trattata malissimo, l'ha fatta soffrire più volte e... -
- ... ed è il cugino. - Concludo la frase mentre dall'altro capo del telefono non si sente alcun suono. Non so se sia caduta la linea o Albert sia rimasto turbato, ma sono più sicura della seconda. Afferro il mio labbro inferiore tra i denti non appena comincia a tremare. Sono sul punto di piangere e sento già gli occhi lucidi, perché so perfettamente che tutto questo è colpa mia, soprattutto se adesso lei si trova da sola in una città che non conosce. Non troverà mai la loro casa, essendo in periferia, quindi sarà sola e diventerà una facile preda per i mostri, pervertiti, maniaci o solo Dio sa cosa.
- Sta scherzando, vero? - Chiede qualche secondo più tardi, con voce abbastanza bassa. Questa volta rimango io in silenzio. Avrei dovuto dirlo a Sharon, lo so, lo so benissimo, ma pensavo che Jackson se ne sarebbe andato, o che non si sarebbe mai avvicinato a lei, eppure ha incasinato tutta la sua vita in così poco tempo. E ora la mia bambina è su un aereo da sola.
- No, purtroppo. Pensi che troverei un altro biglietto last minute? -
- Non credo, ma posso sempre controllare. Mrs. Diaz, meglio che si riposi adesso. Si faccia una bella tisana e provi a riposare. Nel frattempo cerco qualche offerta per un volo e le mando il link per email dopo, okay? Basta che stia calma. - Mi rassicura con tono gentile e dolce. Annuisco mentre mi asciugo una lacrima che è scesa da sola e prendo un respiro, tremante.
- Sei davvero un tesoro, Albert. -
- Mi viene naturale. - Dice per strapparmi un sorriso, anche se non ci riesce.
- Ti mando la mia email per messaggio. Grazie tante. - Dico sinceramente. Anche se so che non riuscirò a dormire stanotte, meglio farglielo credere per adesso. Spero solamente che Sharon stia bene. Sono furiosa con lei, è vero, ma sono più che altro preoccupata che possa succederle qualcosa di brutto. Devo solo pregare Dio che nessun mostro o persona si avvicini a lei, anche se so che è un pensiero utopico da fare.
- Ma si figuri. Aspetto l'email così dopo gliela mando. Buonanotte, Mrs. Diaz. – Ricambio la buonanotte prima di chiudere la chiamata e affrettarmi a scrivere l'email al ragazzo. La controllo più volte, spaventata che potrei aver sbagliato a digitare, poi la mando, sperando che il suo messaggio non tardi ad arrivare. Nel frattempo, non perdo tempo e vado a preparare una valigia dove mettere dei vestiti. Questa volta Sharon non la passerà liscia per ciò che ha fatto, per nulla.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

-Luke-

Collego gli ultimi fili alla sedia, passandomi poi il dorso della mano sulla fronte per asciugare il sudore. Prendo l’elastico al polso e mi lego i capelli in una coda veloce, per poi continuare a concentrarmi sulla sedia. Gabriel sarà qui a minuti. Mi metto in piedi a fatica e vado a cercare un cacciavite. Se non fosse per la protesi alla gamba destra, riuscirei a muovermi più facilmente. Dannato Harry e i suoi denti. Ero sicuro che avrei dovuto ucciderlo prima che lui mi facesse del male. Potevo conficcargli un proiettile in mezzo agli occhi, avevo la possibilità di salvarmi, invece ho aspettato inutilmente perché non ce l’ho fatta ad ammazzarlo. E ora mi tocca questa gamba finta per colpa sua. Almeno la mia famiglia è ricca e non ha avuto problemi a comprarmene una. Tra l’altro, essendo figlio unico sono abbastanza viziato, e sono cosciente di ciò, anche se non mi è mai interessata la montagna di soldi che potrei ricavare entrando nell'impresa di famiglia: la grande azienda Callaway, invidiata da tutto il mondo. Non capisco questa sete di potere da parte dei miei ma, non essendo Elementali, non hanno nessuna preoccupazione, inclusa quella per il loro figlio. Non devono tenere a bada mostri che vogliono solo ingurgitarli. Sebbene sia un Cacciatore Oscuro, e sia dalla parte dei mostri, sono anche cosciente che molti di loro rappresentano un pericolo, e Harry me ne ha data la conferma. Alcune volte penso che i dampiri siano perfino più forti dei vampiri, o forse è solo una mia impressione dal momento che uno di loro mi ha quasi staccato una gamba a morsi, mentre un normale vampiro si sarebbe limitato a prosciugarmi.
Faccio il giro intorno al tavolo dove ci sono tutti i miei attrezzi e cerco il cacciavite. L'unica cosa che i miei genitori mi hanno regalato, e di cui sono veramente contento, è questo laboratorio dove posso creare e montare quello che mi passa per la testa. A differenza loro e della loro impresa, le cose che invento sono unicamente frutto della mia testa, sebbene ora stia fabbricando una sedia per Gabriel, che non userà lui, ovvio. Se devo essere onesto, non sono sicuro di chi la utilizzerà: non ha proferito parola su ciò.
Comunque il laboratorio è davvero fantastico. Non sembra uno di quelli scientifici e senza vitalità, bianchi e statici. Odio quel tipo di ambiente e per questa ragione l’ho fatto costruire simile a un vecchio garage: perfino per entrare va tirata su una saracinesca. Subito dentro c'è questo enorme tavolo quadrato pieno di fogli e di bozze riguardo diverse invenzioni a cui lavoro quando non ho nulla da fare. Una volta avevo anche dei quaderni, ma credo che mia madre li abbia strappati. Da quando mi sono voluto iscrivere all'università d’ingegneria lei è sempre stata contraria a questa mia scelta. Non voleva che facessi la fine di mio padre, sempre chiuso nel suo laboratorio, dimenticandosi di tutto e di tutti. Poi, senza rendermene conto, sono diventato esattamente come lui. Forse perché sono sempre stato il più giovane della mia classe, e i ragazzi più grandi tendevano a escludermi. Frequentare l'università a soli sedici anni è davvero difficile. Comunque alla destra del tavolo c'è una libreria abbondante di libri sulla fisica, sulla matematica e sull'ingegneria in generale, e su tutti i suoi rami; nella parte sinistra invece sono presenti alcune delle invenzioni a cui lavoro di tanto in tanto: un nuovo sistema di hackeraggio, un jetpack, un orologio che si illumina ogni volta che cambia ora (è infantile, lo so, ma cominciai a costruirlo quando ero piccolo) e una vecchia batteria di un'automobile. In fondo alla sala, poi, c'è la sedia su cui sto focalizzando la mia attenzione. A prima vista è una normale sedia d’acciaio, ma sotto di essa c'è un sistema elettrico che, azionato con un piccolo telecomando, manda una scarica di corrente lungo tutto il mobile. Ovviamente la tensione è bassa: non vorrei che qualcuno rimanga folgorato a causa di una mia invenzione. La corrente serve solo a infastidire. Sui braccioli sono presenti due manette (più simili a due bracciali spessi e neri), con cui possono essere bloccate le mani, e altre due ai piedi della sedia per gli arti inferiori. Tutte sono in ferro. Inoltre nel progetto iniziale era inclusa anche una bomba, ma meglio non esagerare. Comunque sono soddisfatto di questa sedia: credo sia il mio lavoro migliore. Di sicuro migliore dell'orologio, ma avevo nove anni quando ho iniziato a lavorarci, anche se non l'ho mai portato a termine. E ora, a venti, non credo che sia di vitale importanza. L'unica cosa che vorrei aggiungere al laboratorio, però, è una seconda entrata dal giardino, giusto dietro la sedia, naturalmente spostando questa.
Non appena afferro il cacciavite ritorno vicino a quest’ultima e mi metto dietro di essa. Devo alzare il sostegno dello schienale, altrimenti neanche un puffo riuscirebbe a starci seduto sopra. Non vorrei che questa invenzione diventasse l'arma per un omicidio, ma quando è una cosa di vitale importanza per Gabriel c'è sempre il dubbio, sebbene non abbia ucciso nessuno e questo vada anche contro i nostri principi. Forse la deve usare come arma di tortura, ma chi può dirlo con certezza? Mi ci siedo sopra e controllo bene l'altezza a cui dovrò posizionare il sostegno: qualche centimetro più in alto dovrebbe andare.
Da un lato è una fortuna che Gabriel ancora non sia arrivato perché odia rimanere a fare nulla senza dare una mano, soprattutto quando si tratta d’ingegneria ed io non voglio aiutanti con il mio lavoro; dall'altro, sto cominciando a essere un tantino nervoso perché non è mai in ritardo e non vorrei pensare che sia successo qualcosa. Oppure semplicemente si è perso per strada. Giungere a casa mia, infatti, può essere leggermente complicato: è tra Las Vegas e Ruddy Village. Gabriel ha passato praticamente l'ultimo anno a vivere da me, ma nonostante tutto ancora non ricorda la strada e mi tocca andare a prenderlo qualche volta. Decido di non importarmene troppo, alla fine lui è Gabriel Mitchell. Tutti sanno chi è, o almeno l'hanno sentito nominare. Nessuna persona può vivere così a lungo, da sola e con solo il controllo di due elementi, senza essere ucciso da qualche mostro. Ma lui, ancora in un modo totalmente ignoto a me, riesce a controllare questi ultimi. Riesce a cavarsela meglio di chiunque altro.
Blocco il sostegno con la mano e mi alzo dalla sedia, senza perdere la presa, mentre appoggio il ginocchio sinistro sulla sedia e comincio a incastrare nuovamente le viti. Appena sono abbastanza strette poso il cacciavite e prendo il telecomando. In quel momento suonano alla porta: finalmente Gabriel è arrivato. Non mi preoccupo di andare ad aprire dal momento che ci penserà Sebastian, il mio maggiordomo. Qualche minuto dopo, qualcuno bussa alla saracinesca. Mi avvicino a questa mentre prendo un panno e mi pulisco le mani, ormai fin troppo callose e sporche di fuliggine. Schiaccio un pulsante e subito questa si alza. L'ho progettata in modo che si apra solo dall'interno cosicché nessun altro possa aprirla da fuori, ovviamente tranne me con delle apposite chiavi che porto sempre con me, legate in vita. Prima, quando avevo solo una semplice porta, tutti entravano e uscivano a loro piacimento, la lasciavano aperta ed io ero costretto a interrompere ogni volta il mio lavoro per chiuderla. Mi dà fastidio poi quando la gente si mette dietro di me a osservarmi mentre cerco di lavorare. Sembra che non vedano l'ora che io faccia qualcosa di speciale per stupirli mentre aspettano silenziosamente, standomi con il fiato sul collo.
Continuo a pulirmi le mani mentre Gabriel entra con passo felpato e le mani nella tasca della felpa bordeaux con su scritto "OBEY" in nero, con il cappuccio in testa che gli copre i capelli biondi e che lascia solo un piccolo ciuffo uscire. Ha un paio di jeans neri e delle Vans dello stesso colore della felpa. Sento il suo sguardo profondo su di me, anche se i suoi occhi blu, simili a quelli del gemello, sono coperti dai capelli che gli ricadono sul volto.
- Mi ero perso. - Annuncia mentre si avvicina a me, facendo muovere il piercing nero che ha sul lato sinistro del labbro inferiore. Accenno una piccola risata, lasciando il panno sul tavolo. Faccio il giro intorno a questo e mi avvicino alla sedia dopo aver chiuso la saracinesca.
- Non avevo dubbi. - Gli faccio segno di seguirmi. - Spero che tu non abbia consumato tutta la benzina del mio scooter. - Gli lancio un'occhiata. Lui si stringe nelle spalle, indifferente.
- L'ho finita, ma l'ho riempito. - Mi rassicura. - Allora, questa sedia? - Chiede curioso mentre si avvicina per osservarla meglio.
- È terminata strutturalmente. Devo solo controllare che la corrente elettrica non ci tradisca. - Lo informo mentre gli faccio segno di sedersi. - Mi dispiace dirti che tocca a te provarla. - Lo fisso. Lui ricambia lo sguardo per qualche secondo, poi annuisce e scrolla le spalle, come se gli avessi chiesto di andarmi a prendere un bicchiere d'acqua. È incredibile: non riesco a capire come faccia a essere tanto imperturbabile.
- Ti ho preso una cosa che dovrai aggiungere alla sedia. – M’informa mentre si siede e poggia le mani dentro le manette.
- Non credo che si possa aggiungere altro, Gabriel. - Mi avvicino per bloccargli le mani in quei bracciali. - Cosa ti serve? -
- Ho fatto qualche patto con una strega e ho recuperato questa. - Mette una mano nella tasca della felpa prima che possa legargli anche questa e ne estrae una boccetta con un liquido verde dentro. La afferro appena me la passa e la studio con lo sguardo.
- Che cos'è? - Lui mi sorride in modo abbastanza inquietante, ma non mi risponde e si accomoda meglio, studiando ciò che ho costruito.
- Non mi uccide, vero? – Chiede, facendo riferimento alla sedia, quindi scuoto la testa per rassicurarlo.
- Ti dà solo fastidio e ti fa venire voglia di uccidermi dopo. - Sorrido in modo divertito mentre poggio la boccetta sul tavolo e gli blocco anche l'altra mano, poi lo guardo. - Pronto? - Lui annuisce mentre premo un tasto sul telecomando e subito s’irrigidisce sulla sedia di botto e stringe la mascella. Allontano il dito dal pulsante per interrompere la scarica, timoroso che si possa essere fatto male, mentre lui abbassa il volto, coprendolo di conseguenza con i capelli. - Gabriel? – Rimane qualche secondo in silenzio, facendomi percepire solo il suo respiro stranamente tranquillo, poi alza la testa con ancora con i capelli sul viso.
- Devi aumentare un po' la tensione. - Afferma dopo mentre mi avvicino subito per slegargli le mani. La cosa migliore di lavorare con lui è che non si pone al di sopra di noi altri, ma al nostro stesso livello. Beh, forse l'unica cosa migliore del cooperarci. Altre volte sa essere davvero troppo impaziente. Si aggiusta i capelli, levandoseli di poco dagli occhi per poter guardare i miei. - Fallo. Poi butta quella boccetta sui bracciali, sia delle mani sia dei piedi. - Corrugo la fronte alla sua richiesta, non capendone il motivo.
- A quale scopo? - Lui mi sorride nuovamente.
- Tutto a tempo debito. - Sospiro. Sa che lo supporto sempre, ma quando si comporta in questo modo diventa abbastanza insopportabile. Sono un mezzo genio, non sono mica stupido che non posso capire queste cose. Sembra che mi tenga nascosto il suo piano apposta, come se ci fosse sempre qualcosa che non può dirmi e che forse mi farebbe cambiare idea e scappare via.
- Non mi hai neanche detto a cosa ti serve questa sedia. - Osservo mentre lui ci gira intorno e la studia attentamente, facendoci passare sopra la mano con lentezza per accarezzarla. Alcune volte mi sembra fin troppo inquietante, ma è solo il suo modo di fare. Infatti è uno dei ragazzi più riflessivi che abbia mai conosciuto: è capace anche di rimanere in silenzio l'intera giornata, e magari parlare poi tutto il tempo quella successiva, dicendo una cosa più intelligente dell'altra.
- Non è importante. Anzi, mi serve qualcuno che la provi. - Mi giro a guardarlo.
- Ma l'hai appena provata. - Obietto. Lui mi sorride di nuovo in quel modo furbo, ma allo stesso tempo sinistro, mentre intravedo uno scintillio nei suoi occhi anche da sotto i capelli e nella penombra del cappuccio.
- Qualcuno che la provi sul serio, e ho un'idea di chi possa essere. -

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


 Capitolo 8

-Sharon-

Dopo dieci orribili ore di viaggio sono arrivata a Londra. Durante tutto quel tempo in aereo ho visto per due volte lo stesso film, una vecchia commedia di Jim Carrey, fino a sapere alcune battute a memoria. C’era questa bambina dietro di me che continuava a prendere a calci il sedile, neanche fosse la sua peggiore nemesi, infine si è addormentata. Non posso dire lo stesso di me invece che, nonostante bramassi di cadere in un sonno profondo in modo da far passare più velocemente il tempo, non ci sono riuscita. Non appena quella bambina aveva terminato di darmi fastidio, un uomo accanto a me, forse d'affari dal momento che indossava un completo blu abbastanza formale, ha cominciato questo interminabile monologo, commentando ogni scena del film. Di certo si è divertito, almeno lui. Da aggiungere a tutti quei fastidi c’erano anche i miei pensieri e i sensi di colpa che non aiutavano affatto. Fortunatamente il viaggio in autobus è stato molto più rilassante. Ho dormito una scarsa ora, riuscendo a prendere sonno solo per il fatto che ero distrutta, l'altra sono rimasta sveglia. Almeno ho recuperato un po’ di energia. E ora vago per le stradine deserte e buie di questa cittadina ignota. Accendo il cellulare: diverse chiamate perse di mia madre e più di venti da parte di Albert. Questo è decisamente strano: deve essere per forza successo qualcosa per aver cercato di contattarmi così tante volte. Non provo neanche a telefonargli, dal momento che già prima ho tentato di rintracciare Jackson per chiedergli dove abitasse e, non avendo credito, la mia speranza di trovare casa sua è andata in frantumi. Quindi sono ben due ore che sto girando a vuoto per cercarla. Sapevo di star dimenticando qualcosa prima di partire, infatti ho dato per scontato che avessi credito sufficiente anche per un messaggio. Forse mi sarei dovuta almeno informare prima riguardo alla via, così ora non starei camminando nell'oscurità, a mezzanotte, in una città che non conosco nemmeno. Inoltre, a quest’ora non troverò nessuno a cui chiedere informazioni. Se non avessi perso tutto quel tempo a Londra per trovare un autobus che portasse qui, a Winchester, ora sarebbe ancora giorno. Continuo a vagare nell'ombra, cercando di orientarmi. Giungo all'ennesimo incrocio e sbuffo, non sapendo quale delle tre strade prendere: se quella davanti a me, e quindi continuare sulla Bar End Road; quella a sinistra, la East Hill o quella a destra, la Wharf Hill. Decido infine di muovermi verso quest’ultima: la Bar End Road sembra fin troppo lunga, mentre la East Hill è inquietante e buia. Non vorrei imbattermi in qualche mostro, o maniaco.
Gli edifici, come del resto tutti quelli che ho visto finora, sono costruiti in mattoni bianchi o rossi e sono tutti adiacenti gli uni agli altri. La stradina sembra tranquilla, e quando dico tranquilla intendo che non c'è nessuno che potrebbe spuntare all'improvviso. Ed è una cosa positiva, sebbene non sia comunque serena per nulla. Prendo un respiro, mi aggiusto lo zaino sulle spalle e percorro la strada fino ad arrivare davanti a quello che deve essere un pub. L'edificio, che assomiglia più a una piccola casa a un piano, è interamente bianco e nello spazio tra il piano terra e il primo c'è scritto "BLACK BOY". Due luci esterne, simili ai famosi lampioni inglesi, si alternano alle tre finestre al primo piano; altre due si trovano al piano inferiore, all'estremità della porta nera al centro. Fuori è presente un ammasso di legna, appoggiato a un recinto nero che circonda l'intero pub. Non so dire se sia chiuso o meno: le luci esterne sono accese (e ne sono felice perché illuminano un po' la strada insieme ai lampioni), ma sembra non esserci nessuno dentro. Mi avvicino per controllare gli orari, scritti su una piccola lavagnetta al di sopra dei pezzi di legno. Mercoledì, ovvero oggi: da mezzogiorno alle undici di sera. Sospiro, sconsolata, e riprendo a camminare. Deve pur esserci qualcuno aperto da queste parti. Attraverso la strada, senza dare molta importanza all’improbabile arrivo di un’auto, dal momento che sembra una città fantasma, per andare a sedermi sulla sola panchina circondata da qualche albero nell'unica parte con un po' di verde. Prendo il cellulare dalla tasca e controllo l'ora. È inutile continuare a cercare qualcosa che non conosco. Sento il mio stomaco brontolare: avrei dovuto portarmi anche qualcosa da mangiare, o almeno avrei dovuto cambiare le banconote, ma comunque non c’è nessuno aperto. Mi guardo in giro, affranta. Ormai non so più neanche dove andare. Non è il caso di svegliare qualcuno, bussando alla sua porta, poiché non ho la certezza che conoscano Jackson e la sua famiglia. Mi levo lo zaino dalle spalle e lo poggio sull'estremità della panchina, poi ci poso la testa sopra, stendendomi. Ringrazio che non faccia freddo almeno, e che non piova, altrimenti la situazione sarebbe davvero critica.
Sono davvero esausta. Non so con quale convinzione io sia partita sicura che sarei arrivata qua e mi sarei trovata magicamente la casa di Jackson davanti ai miei occhi. Devo diminuire i miei sogni ad occhi aperti, e le mie speranze, altrimenti mi ritrovo in queste situazioni sconvenienti. Ora che ci penso, non ho neanche acquistato un biglietto per il ritorno, e non ho con me la carta di credito, ma solo quelle banconote che non sono riuscita neanche a cambiare per la fretta, e qui intorno non ho visto neanche una banca, o almeno una macchinetta. Sono fregata, in poche parole. Mi stendo a pancia in su. Non posso neanche addormentarmi, anche se lo voglio davvero tanto. Se qualcuno venisse e cercasse di derubarmi, o peggio? Chiudo gli occhi, giusto per riposare le palpebre, sperando di non addormentarmi. Rimango comunque in allerta. Quest’attimo di riposo che mi sto concedendo viene interrotto poco dopo dal suono di passi. Muovo di poco la testa per controllare se ci sia qualcuno, ma non vedo nessuno. La mia mente ha già cominciato a elaborare le peggiori ipotesi riguardo quel rumore, quindi fingo solo di essere rilassata per non dar troppo nell’occhio, quando non lo sono affatto. Qualche secondo dopo, un tonfo metallico in lontananza mi fa scattare in piedi con il cuore che mi martella nel petto. Afferro lo zaino in fretta e me lo rimetto sulle spalle mentre i miei occhi scorrono impazziti su ogni singolo angolo di questa strada. Come ho fatto a essere tanto precipitosa? Spero che sia chiunque, davvero chiunque, ma non qualche creatura. Non sono sicura che i mostri che combatto in America siano gli stessi qui, e non ho intenzione neanche di scoprirlo, soprattutto con questa stanchezza. Mi avvio dalla parte opposta al pub, cominciando ad aumentare il passo quando sento quel suono di suola delle scarpe sul cemento. Mi giro indietro solo una volta all'udire un altro colpo sordo prima di cominciare a correre, ma non vado molto lontano. Infatti mi scontro subito con quello che sembra un muro, anche se è solo un altro essere umano, spero. Il mio cuore sembra esplodermi nel petto dall'ansia e dal terrore che ho addosso. Mi allontano di fretta dal ragazzo contro il quale sono andata a sbattere e istintivamente accendo una fiamma sul palmo della mano per prevenire un suo attacco. Ho imparato a mie spese che, sebbene possa sembrare umano come me, in realtà potrebbe anche non esserlo. Come successe con quella ragazza-vampiro a giugno.
- Stammi alla larga! - Gli urlo contro mentre la fiamma comincia a tremare, come se fosse lambita da un vento forte. Non dovrei essere tanto agitata perché rischio di perdere quel briciolo di controllo sull’elemento per non essere concentrata, ma non posso far nulla per fermare la paura che mi sta man mano divorando.
- Wo! Allontana quell'affare. - Quel ragazzo alza le mani in alto, forse in segno di resa, forse per mostrarmi che non ha nulla con cui ferirmi se non una bomboletta spray. Guardo il ragazzo in volto mentre mi squadra dalla testa ai piedi, curioso, ma allo stesso tempo allarmato che possa bruciarlo. Noto i suoi occhi verdi, evidenziati dalla luce delle fiamme, quasi analizzarmi. Sposto lo sguardo sulla mia mano e ritiro le fiamme, terrorizzata. Ho fatto una stupidaggine assurda: non avrei dovuto mostrare ciò di cui sono capace. Mi sono già ritrovata in questa situazione con Delice e non è stata per nulla piacevole. Lei è la mia migliore amica e ha reagito abbastanza male, con un estraneo sarebbe perfino peggio. Tra qualche secondo scapperà e andrà a raccontare a tutto il mondo quello che ho appena fatto. Come eviterò una cosa del genere? Devo ancora lavorare per quanto riguarda mantenere la calma, perché so che mi distruggerà un giorno. Pensavo a quanto fosse assurdo il modo di ragionare di Jackson quando mi disse la verità a casa sua e mi fece l’esempio di quel bicchiere, che crede che tutto sia malvagio, ma ora mi rendo conto quanto avesse ragione in realtà. Significa essere prudenti, aspettandosi sempre il peggio dall’altro. L’errore che compio io, a differenza sua, è non saper gestire la cosa.
Tuttavia, il ragazzo rimane ancora di fronte a me e l'unico gesto che fa è quello di abbassare le mani e scuotere la bomboletta, assicurandosi che ci sia ancora della vernice dentro. E se mi volesse spruzzare la pittura negli occhi affinché possa scappare e diffondere la notizia su Facebook o dove vuole lui? Appena mi rendo conto di star diventando ridicola e troppo paranoica prendo un respiro, cercando di calmarmi. - Scusa se ti ho spaventato. Volevo buttare la bomboletta, ma un gatto è saltato fuori dal cassonetto e ha fatto casino. - Continua. Non sembra per nulla turbato dal mio gesto, a differenza di Delice, che mi associò all'alter ego di Elsa.
- Quello che hai... quello che hai visto... - Cerco di parlare tra i respiri spezzati a causa del fiato corto, un po' per la corsa, un po' per il timore che tra poco mi farà impazzire o paralizzare. Odio quando la mia mente, insieme alla paura, comincia a modellare la realtà a loro piacimento. Non provavo così tanto panico da, beh, un'eternità. Con il passare del tempo credevo di aver cominciato a gestirla, ma a quanto pare mi sbagliavo.
- Wow, una Salamandra. Non se ne vedono in queste zone, siamo tutti Ondini o Gnomi. Suppongo tu sia americana. – Osserva poi, dato il mio accento decisamente diverso dal suo. – Da dove vieni? - Mi chiede con un cenno della testa e un sorriso quasi invisibile ma furbo e allo stesso tempo beffardo. Lo squadro anch’io come lui ha fatto prima con me. Un semplice cappello di lana grigio, con dei teschi bianchi disegnati sopra, nasconde parte dei suoi capelli scuri, così neri da fondersi con il buio intorno a noi. Un ciuffo gli ricade sul lato destro della fronte, nascondendo l'occhio, ora di un verde più scuro per la poca luce. La sua carnagione è molto pallida, più bianca di quella di un fantasma. È piuttosto snello, ma per nulla gracile. Indossa un maglione nero con su scritto "MISFITS" in verde, simile al colore dei suoi occhi, e con l’immagine di uno scheletro con un panno rosso in testa che regge una pagina di giornale, rivolgendola verso di me. Poi ha un giubbino di jeans con le maniche grigie e il cappuccio dello stesso colore, un pantalone nero e così le Supra. Anche le punte delle dita della mano sinistra sono leggermente sporche di nero.
- Da una cittadina tra il Nevada e la California. - Lui tiene gli occhi puntati su di me per qualche secondo, poi sorride in modo divertito.
- E cosa ci fai qui? - Emette un verso breve, soffocato in gola, per ridere. - Cioè, abiti vicino a Las Vegas e vieni in campagna qui? - Scrollo le spalle.
- Non devo darti spiegazioni. Non ti conosco neanche. - Gli do le spalle e comincio a camminare nella direzione opposta alla sua, con l'intenzione di tornare all'incrocio. L'ultima volta che diedi più confidenza di quanto avrei dovuto a un estraneo davanti al cinema mi ha trascinato in un vicolo, quasi strangolato e cercato di portarmi via. Non vorrei che capitasse la stessa cosa adesso perché questa volta non ci sarà nessuno a difendermi, anche se non sembra affatto come Luke. Il ragazzo comincia a camminare e mi affianca, io mi allontano ulteriormente da lui mentre ripasso davanti al pub. - Scusa se sono finita contro di te. La prossima volta farò più attenzione. -
- Ti sei persa, non è vero? – Chiede, continuando a camminare accanto a me. Mi blocco e lo guardo, abbastanza curiosa. Non ho più così tanta paura, è un Elementale come me e saprei cavarmela in qualche modo, ma sono solamente confusa. Gli ho chiesto scusa, non ha senso che continui a camminare con me; può tornare benissimo al suo graffito. Non dobbiamo stringere amicizia per forza, e non voglio neanche: non sono venuta qua per conoscere nuova gente, soprattutto Elementali, ma solo per trovare Jackson. Jackson! Il ragazzo è di queste parti, posso sicuramente chiedere informazioni a lui. Se quest'ultimo è un Elementale, questo aumenta le mie probabilità di raggiungere casa Mitchell. Annuisco alla sua domanda e gli sorrido gentilmente.
- Sono venuta a trovare un mio amico, ma non ho la più pallida idea di dove abiti. Tu sei di Winchester, giusto? - Scuote la testa.
- Newtown, ma conosco bene la zona. Mi muovo spesso. - Si avvicina a un altro cassonetto e butta anche l'altra bomboletta, poi cerca di pulirsi le dita sporche. - Allora, chi cerchi? Ti accompagno, tanto ho finito il mio graffito. - Alzo un sopracciglio, guardandolo. Non sono così ingenua com’ero una volta, non mi fido di lui. Non posso escludere che lui non proverà a farmi del male solo perché ha un approccio diverso da quello di Luke.
- Non ti conosco neanche. Senza offesa, ma non mi fido di te. Tra l’altro anche tu sei un Elementale, quindi capisci la mia poca fiducia. - Incrocio le braccia al petto, scettica, e lo guardo. Lui continua a strofinarsi i polpastrelli mentre quel ciuffo ora gli nasconde la maggior parte del volto, rendendolo ancora più cupo, ma annuisce.
- Tranquilla, non ti uccido. Basta che tu non sia un Cacciatore Oscuro, altrimenti non avrai nulla da me. - Mi avverte e alza lo sguardo, facendo ritornare il ciuffo sull'occhio destro. La sua espressione si fa seria e dura, non più rilassata come prima. Scuoto la testa, anche se ancora non sono certa al cento per cento che non sia uno di loro.
- Non lo sono. Ho avuto brutte esperienze con loro. - Lui mi studia per qualche secondo, poi accenna un fugace sorriso. Rinuncia alla possibilità di pulirsi le dita e mette la mano sporca in tasca, l'altra me la porge.
- Sono Casian Trow. - Osservo la sua mano, poi la stringo mentre alzo lo sguardo sul suo volto.
- Sharon Steel. - Al mio nome sgrana gli occhi leggermente, alzando le sopracciglia, non so dire se per l'incredulità o per timore, di cosa non so. Continua solamente a fissarmi, come se avesse un fantasma davanti, poi molla la mia mano di colpo.
- Davvero? Sei come una leggenda, un mito, tra gli Elementali. - Dice ancora con sguardo meravigliato, come se non riuscisse a realizzare che sia qui per davvero. Gli rivolgo un sorriso imbarazzato, non sapendo cosa rispondergli per tentare di celare la mia confusione. Mito? Già è tanto che i miei insegnanti ricordino il mio nome, e ora mi dice che tutti gli Elementali sanno chi sono. Per quale ragione, poi? Sono come tutti loro, non ho nessuna abilità speciale, nessun potere in più rispetto agli altri, anzi mi ritengo anche inferiore, data la mia poca esperienza. Perché mi considerano una leggenda? Non mi conoscono neanche.
- Buono a sapersi. Comunque, ti prego, dimmi che conosci Jackson Mitchell. Ho passato l'ultimo giorno in viaggio e sono stanchissima. Ho bisogno di raggiungerlo al più presto. -
- So dove abita. Siamo amici, ma mi dispiace dirti che la strada è lunga. - Mi rivolge un sorriso dispiaciuto. Sospiro, immaginando già i chilometri che mi toccherà percorrere. – E casa sua è dispersa nel nulla. Oh, e a piedi ci impieghi un'ora. - Aggiunge mentre schiudo la bocca, turbata dalla sua affermazione.
- Un'ora? - Chiedo incredula, poi scuoto ripetutamente la testa, rifiutandomi di crederci. - Non esiste. Muoio prima. - Lui forza una risata. Sono sicura che non sia il tipo di ragazzo che potrebbe farsi anche cinque minuti di risata continua. Sembra un tipo piuttosto solitario ma gentile: non come Harry quando lo vidi la prima volta. Casian non sembra affatto misterioso, nonostante il suo aspetto potrebbe trarre in inganno, e non mette neanche in soggezione. Quando incontrai il dampiro, invece, ho avuto minuti d’ansia. Pensai davvero che avrebbe potuto lanciarmi il suo coltellino, e come dimenticarsi di quel suo sguardo così penetrante che, in soli pochi secondi, sembra riuscire a scavare così in profondità da portare alla luce ogni segreto più oscuro.
- Oppure ti fidi di me, e ti accompagno in macchina. - Mostra un sorriso sincero. Non vorrei seguirlo, sinceramente, ma neanche percorrere non so quanti chilometri da sola di nuovo: rischierei un infarto per la fifa. - Non ti faccio del male, parola di Elementale. - Non credo di riuscire a sopportare un'ora a piedi fino a casa di Jackson senza cedere prima.
- Oppure chiami Jackson e mi dai la conferma che siete amici. - Nonostante la stanchezza, non voglio che veda che sia vulnerabile affinché se ne possa approfittare, oppure pensi che non riesca a ragionare lucidamente. Sembra simpatico, un tipo a posto, ma mai dare nulla per scontato. A volte, anche ciò che si crede di conoscere di più, risulta essere totalmente differente.
- D'accordo. – Prende il cellulare dalla tasca del giubbino e scorre tra i contatti della rubrica dopo aver sbloccato lo schermo del suo Samsung. Un paio di secondi dopo dall’altro capo del telefono si sentono dei rumori, finché la voce di Jackson non diventa chiara attraverso l’apparecchio.
- Che c’è? – Risponde lo Gnomo con voce impastata dal sonno, roca.
- Hey, Jackson Mitchell. – Dice quindi Casian.
- Hey… Casian Trow? – Chiede, questa volta più confuso. - Cas, davvero che c’è? Non è l’ora per uno dei tuoi scherzi. –
- Lo so. Ci si sente. – Detto ciò spegne la chiamata e posa il cellulare, dopodiché mi rivolge uno sguardo, cercando di capire se mi fidi ora o meno. Quindi annuisco, sapendo almeno che è davvero suo amico e che quel nome è sul serio il suo. - Ora ci serve solo un'auto. - Si strofina le mani con un sorriso malizioso ed inquietante in volto.
 ***
Dopo che Casian ha preso "in prestito", come ha affermato, una Dacia Logan MCV del 2009 di un blu spento, mi accompagna a casa di Jackson, o almeno spero che sia quella la strada giusta. Ho fatto bene a imboccare la Wharf Hill invece che la Bar End Road: questa è davvero fin troppo lunga. La cosa strana in tutto questo è quella di doversi sedere a sinistra poiché in Inghilterra si guida a destra. È davvero bizzarro. Ringrazio però che Casian non guidi come un pazzo: se ci fosse stato Harry al suo posto ci avremmo impiegato la metà del tempo. Inizio anche a essere nervosa: ho voglia di parlare con Jackson, e anche di riposarmi magari, ma al tempo stesso sono in ansia proprio per lo stesso motivo. Almeno Casian non sta rendendo il viaggio in auto così pesante. È un tipo molto loquace, quasi logorroico. A prima vista sembra che sia riservato, che rimanga nel suo piccolo e che non voglia essere disturbato. È così all’inizio, ma appena ci si passano anche solo dieci minuti insieme cambia totalmente. È molto solare e subito ha cominciato a parlare di lui per passare il tempo, e mi fa piacere sia perché mi sta distraendo dalle mie preoccupazioni sia perché l’ho conosciuto un po’ meglio. Mi ha raccontato di essere un Ondino e di aver sviluppato i poteri qualche mese prima dei suoi ventidue anni, cosa rara dal momento che, una volta superati i diciotto, è difficile riuscire a controllarli. Ora ne ha ventiquattro. Suo padre è il manager di una band, anche se non ricordo il loro nome, mentre sua madre lavora come cameriera in un piccolo ristorante. Lui non ha finito il liceo: è stato espulso dopo una rissa nel cortile, anche se non mi ha accennato al motivo per cui è scattata. L'unica cosa che mi ha riferito è che non fosse molto amato nella sua scuola. Credo che sia stata vittima di bullismo, ma non ne sono sicura. Non ho voluto chiedere: mi sembrava scortese e fin troppo privato. In fin dei conti è stata solo una mia impressione e so anche che non è semplice parlarne. Anch’io, in un certo senso, lo sono stata. Sempre giudicata, allontanata, umiliata... È una cosa che fa schifo, subirla e farla subire.
Ciò che gli invidio è la sua indipendenza. Nel senso che è molto coraggioso a girare da solo per l'Inghilterra per esercitarsi nella sua arte. Vuole diventare un'artista, ma non vuole l'aiuto da parte dei genitori. Se la gente sapesse chi è suo padre, sicuramente lo guarderebbero con altri occhi. Ma a lui sta bene che lo reputino come un ribelle da cui stare alla larga: almeno non ha problemi con la gente. È stato quasi ovunque: Swavesey, Edinburgh, Bristol, Cambridge, Cardiff e molte altre. Deve essere bello viaggiare continuamente, malgrado la nostalgia di casa. È molto legato ai suoi che lo supportano sempre, sebbene stia lontano da loro.
Non ho seguito il percorso che ha fatto, ma l’ultima stradina che imbocca è la Bridge Ln. Continua a guidare per cinque minuti, poi si ferma dietro una Jeep nera, parcheggiata nel vialetto che interrompe il muretto in mattoni e muschio, con diverse radici intrecciate sulla ringhiera. Non so perché, ma ora il mio cuore batte più veloce. È la prima volta che lo rivedo dopo tanto tempo. Sempre se Casian non ha sbagliato abitazione o non mi abbia mentito per tutto questo tempo, ma ormai anche questo pensiero non dura più di un secondo. Mi volto a guardare la casa, nonostante non riesca a vederla del tutto a causa del buio: non c'è neanche una luce esterna. Esce dalla macchina e si aggiusta il giubbino mentre io rimango seduta, poi va a bussare alla porta d'ingresso. Mi giro e lo scruto da dentro l’abitacolo della macchina: lui gioca con le proprie dita mentre aspetta impazientemente che qualcuno gli vada ad aprire. Qualche secondo dopo la porta si apre, ma non riesco a vedere chi sia. L’Ondino fa un cenno con la testa nella mia direzione, poi un'altra figura esce dalla casa e cerca di guardare dentro la macchina. Appena riconosco i capelli biondi arruffati e la statura di Jackson, apro lo sportello per uscire, leggermente impacciata sotto il suo sguardo attento. Indossa dei pantaloncini a quadri blu scuro e una canotta bianca mentre ai piedi ha delle infradito del medesimo colore. Appena riconosce il mio volto, la sua espressione diventa irriconoscibile: incredulità, timore, sensi di colpa, imbarazzo. Non credeva che potessi fare una cosa del genere, ovvero venire fin qui per lui; neanch'io, in verità, ma l'ho fatto per la verità, mica per lui. Chiudo lo sportello e mi avvicino a loro due. Io e il biondo ci scambiamo un lungo sguardo: lui cerca di capirci qualcosa in questa situazione, io cerco di capire come comportarmi. Per tutti i mesi estivi ero furiosa con lui, non volevo sentirlo nominare o ricordarlo, ma la mia rabbia sembra scomparsa ora che è davanti a me. Tuttavia, il suo sguardo rimane indecifrabile. Lui inspira e lancia uno sguardo a Casian, non capisco se di rimprovero o altro, poi si avvicina a me. Nello stesso istante in cui lui mi circonda la vita con le braccia e mi stringe a lui unisco i polsi dietro il suo collo per abbracciarlo. Mi è davvero mancato, anche se non volevo ammetterlo a me stessa.
- Cosa ci fai qui? Stai bene? - Annuisco con la testa sulla sua spalla mentre rimango ancora abbracciata a lui, avvolta da questo tranquillo silenzio. Non vorrei staccarmi più dopo così tanto tempo lontano da lui, ma lo schiarirsi della voce di Casian interrompe questo momento.
- Allora… mi sa che io vado. Ho ancora qualche murales da fare in giro. - Non appena l'Ondino parla, Jackson si stacca dalla stretta e mi osserva per qualche secondo come a controllare che sia davvero io, poi gira il volto verso l'amico e annuisce.
- Puoi rimanere anche qui per la notte, lo sai. -
- Ho diverse cose da fare, come riportare al proprietario quella mezza cartuccia. - Casian fa un cenno verso la macchina. - E poi sai che sono un tipo notturno. Domani avrò tutto il giorno per dormire. - Jackson annuisce e rimane in silenzio, senza obiettare.
- Grazie Casian. - Dico dopo aver sciolto quel nodo in gola che mi si era creato, rendendola secca, e lui mi sorride.
- Ci vediamo Sharon. - Rivolge un sorriso a entrambi per salutarci e poi si avvia verso la macchina, infilandosi le mani in tasca. – Ah. - Apre lo sportello e richiama l'attenzione di Jackson. - Hai notizie di Harry? - Lo Gnomo scuote la testa.
- No, purtroppo. - Sospira, con sguardo triste. Ci credo che Jackson sia preoccupato: lo sono io per Harry, e lo conosco da meno tempo, mentre per lo Gnomo è il suo migliore amico. Sono passati mesi, e di lui nessuno sa nulla. Più volte ho cercato di rifiutare l'idea che fosse morto, ma altre volte non ho potuto fare a meno di pensarci. Nessuno è indistruttibile, neanche il più forte di tutti. Anche Casian sembra triste alle parole di Jackson, ma non sorpreso. Credo che anche lui abbia avuto le mie stesse paure. Avvilito, entra in macchina e mette in moto, per poi fare retromarcia e sparire in fondo alla strada da cui siamo venuti. - Sei venuta qua da sola. Non ci credo. -
- Neanch’io. - Ammetto. Un sorriso invisibile gli appare sul volto, poi mi fa segno di entrare.
- Vieni, c'è della pizza avanzata. - Il mio stomaco comincia a tremare di nuovo, ma sono felice che questa volta sia per la fame e non per paura o ansia. Non ho mangiato nulla durante le ultime ventiquattr'ore, se non qualche nocciolina sull'aereo. Non appena entro dentro casa la luce del corridoio si accende, mostrando un pavimento di legno, abbastanza antico, le pareti bianche e una rampa di scale che porta al piano superiore. Gli unici oggetti presenti in quello spazio sono un tavolino di marmo chiaro con sopra una statuetta di un pino e una pianta, uno specchio al di sopra di un termosifone e una lampada accanto alla porta, sopra un tavolino. Sposto lo sguardo sui gradini delle scale, dove sta apparendo un'ombra. In cima a queste c'è una ragazza con addosso dei pantaloncini neri e una canotta dello stesso colore, disegnati su questa due cuori che fanno da occhi a un sorriso, entrambi bianchi, all'altezza del diaframma. Ha la pancia leggermente scoperta e i capelli che le ricadono sulla spalla sinistra, con le punte colorate di blu. Mi osserva attentamente, poi sposta lo sguardo su Jackson.
- Chi è questa? - Domanda in modo abbastanza rude. In effetti, non potrebbe essere gentile dopo essere stata svegliata all'una di notte.
- Avery, lei è Sharon. Sharon, Avery. - Sorrido alla ragazza, la quale non ricambia. Mi sembra di incontrare Harry una seconda volta. La sua ragazza continua a fissarmi con aria minacciosa, in cima alle scale, senza aprire bocca. Ora ho capito perché Harry abbia perso la testa per lei: è bellissima. Se Jackson non avesse parlato e non mi avesse distratto non sarei riuscita a toglierle lo sguardo di dosso. Smetto di osservarla anche perché la porta, credo quella della cucina, si apre e una vecchietta fa capolino sulla soglia.
- Nonna, è l'una! - Esclama Jackson, spazientito. - Dovresti dormire. - La signora anziana esce completamente dall'altra stanza, scalza, e mi osserva. Indossa una camicia da notte bianca lunga fino alle caviglie e ha una treccia con cui regge dei folti capelli neri. Non appena nota la mia presenza sorride, evidenziando le rughe sul suo volto. Chiude il libro e si toglie i piccoli occhiali da lettura dalla punta del naso.
- Nora. - Mormora con voce rauca e strozzata. Corrugo la fronte e giro istintivamente la testa per controllare se ci sia qualcun altro dietro di me, poi torno a guardare la nonna di Jackson appena trovo conferma del fatto che non ci sia nessuno. Lei continua a fissarmi. Chi è Nora?

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

-Delice-

- Non sto scherzando. Sharon ha preso il primo biglietto aereo ed è andata in Inghilterra, a Winchester, a casa tua. - Indico Gabriel mentre insisto per l'ennesima volta, esausta di ripetere le stesse cose. Sono uscita di fretta dalla lezione di Zumba non appena Albert mi ha raggiunto lì e mi ha informato, ho guidato come una pazza per raggiungere la villona di Luke ed ora questi due mi guardano come se fossi una pazza psicopatica. Gabriel sta seduto comodamente su una sedia, che però di comodo non ha nulla dato che sembra uno strumento di tortura. Ha perfino dei bracciali all'altezza dei polsi e delle caviglie.
Il biondo ha il cappuccio in testa, ma i suoi capelli sbarazzini s’intravedono comunque. Graffia le altre unghie con quella del pollice mentre continua a tenere lo sguardo su di me. La somiglianza con Jackson è davvero incredibile (infatti ogni volta mi sembra di star parlando con quest'ultimo), sebbene Gabriel abbia un piercing nero al lato sinistro del labbro ed un tatuaggio sotto l'orecchio, raffigurante un triangolo con una linea che lo divide in due porzioni, una superiore ed una inferiore. Questo rappresenta il suo elemento, l'aria.
- E perché sarebbe dovuto andarci? Proprio oggi l'ho seguita un po'. Mi sembra strano che non sia più a Ruddy Village. - Luke gira lo sguardo verso il biondo, con le braccia incrociate al petto e uno sguardo indisponente.
- E se ti avesse visto? -
- L'avrei uccisa. - Si stringe nelle spalle, con fare diffidente. In questi momenti non riesco a capire se scherzi o meno. Ha sempre quest’atteggiamento rilassato, come se nulla potesse turbarlo quando in realtà c'è molto per cui esserlo: vuole rovesciare il sistema degli Elementali, praticamente. Se esplodesse qualcosa in questo momento, lui resterebbe tranquillamente seduto su quella sedia che mi mette i brividi. Non perde mai la calma: sembra un morto vivente, con tanto di pacchetto completo del "senza neanche un sentimento". Di questo non mi meraviglio, dato che non ha mai perso la calma durante tutto il trambusto che sta causando da anni, anche se in modo così invisibile da non suscitare preoccupazione negli altri Elementali che ormai sono abituati a questo sistema di regole. O, probabilmente, fingono di non vedere. Non a caso gli Indifferenti se ne lavano le mani. - Sto scherzando. – Ci rassicura dopo, rendendosi conto delle nostre facce sconsolate. So che lui non farebbe male a qualcuno per davvero, ma nessuno mi dà la certezza di ciò.
- Ci mancherebbe. - Commento.
- Sai che è la mia unica possibilità per dimostrare a quei deficienti, compreso mio fratello, che si sbagliano sul conto di alcune creature. - Sposta lo sguardo sulle sue unghie, o almeno di quello che ne rimane. Sono tutte mangiucchiate e c'è una sottile linea di sangue intorno ad alcune. Credo che abbia combattuto. Spero non contro un mostro, altrimenti gli verrebbe difficile provare il contrario. Anche se lui non vuole salvare tutti i mostri, ma solo quelli buoni. Non capisco perché gli altri Elementali si mettano contro i Cacciatori Oscuri, alla fine non hanno torto, ma ovviamente per dei semplici cacciatori qualsiasi cosa che non rientra nelle loro opinioni è malvagia.
- Ma ne sei sicuro? – S’intromette Luke. Ha il camice bianco da "scienziato" che gli dà un'aria assolutamente patetica, soprattutto se poi ha i capelli legati in quella coda orribile e una maglia blu che non si abbina per nulla con i pantaloni neri. È miliardario, diamine, potrebbe assumere qualcuno che gli prepari i vestiti la mattina o che lo leghi su quella sedia dell'orrore per evitare che possa uscire e che qualcuno si senta male a vederlo in quello stato. - Voglio dire... quando hai saputo che Sharon era un mostro eri piccolo. Magari sono storie che si raccontano... - Gabriel lo zittisce con un veloce gesto della mano.
- Sono storie, è vero, ma una piccola parte irrazionale di te tende sempre a crederci e prima che tu faccia una delle tue battutine, Delice... - Si volta verso di me in modo serio, ma senza rabbia o irritazione. Rilassato, come sempre. - ... no, non sono irrazionale. Sharon è un mostro e Jackson me ne ha dato la conferma venendola a cercare a Ruddy Village. Quindi, Luke, se hai qualche ripensamento meglio che abbandoni la mia squadra ora. - Quei due si scambiano degli sguardi colmi di tensione più volte e nessuno sembra aver intenzione di abbassare lo sguardo. Non so esattamente cosa Gabriel abbia promesso a Luke in cambio dei suoi favori, non ne ha mai voluto parlare, ma dall'aria di sfida che c'è tra quei due credo sia qualcosa di serio. Inoltre tra loro non corre sempre buon sangue. Più volte Luke mi ha confidato di sentirsi nel torto seguendo Gabriel, ma alla fine non gli ha mai voltato le spalle. Credo siano quelle cose d'impulso che vengono dette senza essere pensate sul serio. Luke comincia con queste storie sempre dopo qualche loro litigio, di cui io non so mai nulla. In fin dei conti, non c'entro con loro, ne sono cosciente, e non m’interessano neanche i loro litigi. Mi preoccupo solamente di questa maledizione che mi affligge ogni giorno.
- Non voglio rinunciare, mi sto solo accertando di non commettere un errore. - Parla poi Coda Di Pony. Sì, spesso lo chiamo così. È stupenda la sensazione di vederlo arrabbiato. È come un cucciolo di tigre: vuole colpirti, ma non lo fa sul serio. Luke è fin troppo buono e intelligente per far da cagnolino a uno come Gabriel, quindi spero che le sue ragioni per questa scelta siano serie. Altrimenti dovrei attribuirgli un nuovo aggettivo: idiota. Non che me lo sia risparmiato finora, gliel'ho detto un sacco di volte, ma renderlo ufficiale è tutt'altra cosa.
- Tu mi parli di errori dopo che mi hai confessato ciò che vorresti in cambio di queste invenzioni da quattro soldi? - Ribatte Gabriel, sempre sereno in volto, ma con sguardo serio. Ho capito adesso perché usa questa maschera: ti fa venir voglia di picchiarlo per questo suo menefreghismo, eppure la cosa gli interessa, eccome.
- Posso sempre tirarmi indietro. L'hai detto tu. - La Silfide accenna un ghigno, ma non gli risponde. In questi momenti invece non riesco proprio a capirlo. Sembra un pazzo, ma in realtà è davvero lucido e furbo. Credo che non sappia come rispondergli, oppure non vuole sprecare fiato con lui.
A volte mi dispiace per Luke. Si dà un gran da fare per poi non ricevere neanche un grazie in cambio. Gabriel assume gli stessi atteggiamenti con me, ma la posta in ballo è troppo alta per rivoltarmi seriamente contro di lui. Se Luke l'ha fatto fin troppe volte, invece, il favore che Gabriel gli deve restituire non deve essere così importante. Sicuramente sarà qualche capriccio da scienziato pazzo.
- Allora, Lambton, perché se ne sarebbe dovuta andare? - Chiede nuovamente, studiandomi con lo sguardo mentre Luke rotea gli occhi al cielo per aver subito l'ennesimo congedo e si appoggia col fondoschiena al tavolo dove ci sono tutti i suoi attrezzi. Comincio a raccontare a Gabriel del messaggio che Sharon ha ricevuto da Jackson, della chiacchierata tra me e lei e di cosa Albert mi abbia detto della pazzia che ha fatto. Il biondo muove tra le dita il piercing nero, giocandoci, mentre ascolta le mie parole. Anche quando ho finito, rimane in silenzio a pensare, poi prende un respiro e si alza dalla sedia. - E perché ha avvertito Albert e tu non ne sapevi nulla? Controllare Sharon dovrebbe essere il tuo compito, ti ricordo. -
- Ero, uhm, a lezione di Zumba. - Ammetto, in imbarazzo sotto lo sguardo duro di Gabriel. Luke scoppia a ridere mentre lo fulmino con lo sguardo. - Tu lo vedi almeno il Sole o rimani rinchiuso qui come un verme tutto il giorno? -
- Perché dovrei uscire se posso avere questi spettacoli direttamente qui? - Obietta lui, squadrandomi dalla testa ai piedi. In effetti, gli sguardi che mi lanciavano prima non erano senza senso. Sono uscita così di fretta dalla palestra che non ho avuto il tempo di cambiarmi. Indosso ancora quella stupida maglia gialla a pois neri raffigurante Spongebob che fa una linguaccia e i leggins neri. Non oso immaginare le condizioni in cui si trovano i miei capelli in questo momento. Prendo comunque l'elastico dal polso e mi faccio una coda veloce. Gabriel ci osserva con un sorriso divertito sul volto. Gli servono solamente i suoi amati pop corn che sgranocchia sempre e credo che per una volta sarebbe felice e non avrebbe quell'espressione da "pace e amore" in volto.
- Vedi? - Indico la mia acconciatura. - Questa è una coda di cavallo! - Sbuffo e incrocio le braccia al petto mentre Luke trattiene l'ennesima risata.
- Lo sai che ti adoro. Sei stupenda poi con quella canotta. - Dice Coda Di Pony, in modo abbastanza serio. Anche se lo nasconde, so benissimo che ha una cotta per me. Ci manca solo che mi stenda il tappeto rosso ogni volta che arrivo nella sua villona con tanto di piscina. Almeno non me l'ha confessato apertamente: non vorrei essere crudele nel rifiutarlo. Anche se non lo sopporto molto, è comunque mio amico, anche se mi costa davvero dirlo.
- Io no. Non sei il mio tipo. - Lo liquido freddamente.
- E chi è il tuo tipo? -
- Io. – S’intromette questa volta Gabriel mentre ritorna a guardarsi le unghie. - Ma la versione con meno neuroni. - Mi sorride poi in modo beffardo, riferendosi a Jackson. Non ho mai avuto dubbi che avesse capito che mi piace suo fratello, ma almeno potrebbe avere la decenza di non urlarlo ai quattro venti! Almeno non sono una persona che arrossisce facilmente, altrimenti Luke avrebbe un altro motivo con cui darmi fastidio. È strano: gli piaccio, ma mi prende in giro. Ragazzi, non li capirò mai.
- Ti ho informato appena l'ho saputo. Tua zia Taylor la raggiungerà a breve. Se ci sbrighiamo... -
- Sbrigarci? - Gabriel mi guarda stranito, come se stessi parlando arabo. – È inutile. Lei sarà già a casa di Jackson, sempre se l'ha trovata. Che cosa vuoi fare, spiarli da fuori la finestra? -
- Di nuovo? - Aggiunge Luke con un ghigno sul volto, riferendosi a quando abbiamo avuto quell'incontro con quel gallo.
- Ho portato Sharon a spiare Jackson per eseguire gli ordini, per farle capire che era un tipo strano a cui tenersi alla larga in modo che non si sarebbero parlati e guarda un po', è successo. - Dico leggermente più infastidita delle sue continue interruzioni.
- Beh, ottimo lavoro, vanne fiera. – Commenta Gabriel. - E ti sei dimenticata di Skah, seppur te l'abbia ricordato. - Aggiunge poi, riprendendo a giocare con l'anellino al labbro. Sebbene la Silfide non fosse a casa Mitchell quando quel pollo è arrivato, comunque è stata la prima cosa che ha notato con quel suo binocolo con cui riesce a spiare chiunque.
- Comunque, che si fa? - Per una volta ringrazio Luke che ha aperto bocca e ha cambiato discorso, altrimenti avremmo cominciato a discutere e non avremmo più finito. Alzo le spalle e scuoto la testa, non avendo nessuna idea. L'avrei in realtà, ma Gabriel l'ha bocciata a prescindere. Però ha ragione: se fossimo andati in Inghilterra e l'avessimo seguita, avremmo solo rischiato di farci scoprire. Luke non ha mai buone idee, se non materiali, quindi non ci rimane che aspettare l'ennesima idea geniale da parte della Silfide. Questo rimane in silenzio per qualche secondo, lo sguardo fisso sul pavimento, la mano che accarezza il braccio della sedia. Infine alza gli occhi su di noi.
- Rimani solamente in contatto con Sharon, ma non ci muoviamo da qui. -
- Cosa? E se Jackson le dicesse tutto? - Chiedo allarmata. La Salamandra annuisce, concordando.
- Dovremmo rapirla ora che ne abbiamo la possibilità. Forse è meglio andare in Inghilterra, ho una casa lì e possiamo... -
- Ti rendi conto delle cretinate che stai dicendo? - Lo interrompe Gabriel con un sopracciglio alzato per l'incredulità. Perfino io sono leggermente stupita della sua impulsività; solitamente Luke è più riflessivo.
- E cosa vorresti fare, rimanere seduto lì a far nulla? - Gabriel annuisce.
- Questa era più o meno la mia idea. - Si volta verso di Luke. - Chiama Phoebe ed Elya. Ho un lavoretto per loro. È ora di usare questa sedia. - Fa scorrere le mani sui suoi braccioli. - E di divertirci un po'. - Aggiunge con un sorriso inquietante. Luke ed io ci scambiamo un'occhiata preoccupata, poi lui annuisce all’ennesima richiesta della Silfide.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

-Sharon-

- Siamo cugini?! – Urlo, letteralmente scioccata. - Perché diamine non me l'hai detto?! Ho provato a baciarti! - Esclamo furiosa mentre Jackson mi rimprovera per il chiasso che sto facendo e tenta di zittirmi. Dovrei abbassare la voce dato che ci è voluto molto per mettere sua nonna (e anche mia zia, a quanto pare) a letto, lo so, ma come posso non urlargli contro? Non posso crederci... e pensare che mi piaceva! Avrebbe dovuto dirmelo, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe dovuto fare. Sono stata più di un mese cotta di lui, gelosa ed arrabbiata perché aveva preferito June a me. Beh, si fa per dire, l'aveva ammaliato, ma comunque stetti male quando quei due si baciarono in piscina. Davvero faccio fatica a credere che questo sia vero, e mi sento anche sporca al pensiero di aver voluto più che una semplice amicizia dallo Gnomo. Ho cercato così disperatamente di creare qualcosa con lui, e ora che mi ha detto il vero legame che ci unisce mi sento persa e arrabbiata; non perché non potrà esserci una relazione romantica tra di noi, non la voglio neanche dato che non ho più una cotta per Jackson, ma perché avrebbe dovuto dirmelo, non c’era motivo di tenermelo nascosto. Ogni volta che lo guardo in faccia non posso credere che è mio cugino, di primo grado per giunta dato che mio padre e sua madre erano fratelli! Lo prenderei a schiaffi sul serio. Non so neanche come comportarmi con lui e con Lizzie. Dovrei chiamarla zia da un giorno all'altro? È tutto troppo strano. La mia testa gira, così come lo stomaco che è sottosopra. Non posso credere che mi abbia mentito riguardo qualcosa di così importante, sapendo i problemi che avrebbe potuto creare e che alla fine ha reso reali, infatti mi ero presa una cotta per mio cugino!
- Io non sarei dovuto rimanere lì, non era il mio posto. Ero solo venuto a controllarti, ma poi quel mostro, quell'Adaro, ti ha attaccato, e poi quelle Ek Ek, e mi era impossibile non dirti che sei un Elementale. Non ti ho detto del nostro legame di parentela perché me ne sarei andato e non avrei dovuto più vederti… – Quindi gli conveniva rimanere in silenzio, in altre parole.
- ... ma poi la persona più intelligente della nostra famiglia, la sottoscritta, ha fatto ragionare Jacky. Ringraziami se ti sta dicendo che siamo tutti cugini qua, altrimenti avrebbe continuato a star in silenzio. - Conclude Avery, nascosta nelle tenebre. Il suo piccolo e malvagio sorriso, però, è fin troppo evidente. Rimane appoggiata al muro, con le braccia incrociate al petto e i capelli che le coprono il viso a ogni folata di vento caldo. A differenza sua, io e Jackson siamo seduti sulla panchina in legno bianco in un piccolo spazio tra tutto il verde di quel giardino enorme, pavimentato con mattonelle chiare, dove sono presenti anche un tavolo in marmo nero e diversi vasi bianchi e beige. Avery ha proposto di uscire fuori a parlare per evitare di disturbare di nuovo la nonna e sua madre, che già dorme. Da quanto ha detto la Silfide, in casa vivono i genitori di Jackson, anche se questa sera sono fuori a una cena, Sally Bannet (la madre di Ronald Mitchell), Avery e la madre, Diana mi sembra, che è la sorella di Ronald. E credo anche Harry, anche se ora non è qui, purtroppo.
- Smettila di fare la rompipalle. - Replica Jackson, scocciato. - Perché non vai a letto, Avery? -
- Oh, no. Ora arriva la parte più bella. - Controbatte con lo stesso sorriso in volto. Sa qualcosa che io non so, ovviamente, e non vede l'ora che io ne venga al corrente. Credo che brami l'attimo in cui possa godersi la mia ennesima reazione. Non penso che Avery mi odi sul serio, ma dai suoi atteggiamenti ha reso chiaro che non le sto tanto simpatica. Non ho idea del perché, non ci siamo mai viste e lei non mi conosce, come fa a giudicarmi? Beh, dal mio ultimo gesto, ovvero quello di prendere un aereo per venire fin qui, ci può anche stare che pensi che sia un tantino svitata, ma se Jackson mi avesse detto che siamo cugini tempo fa non avrei fatto questa stupidaggine. È vero, una parte di me ancora mi trascinava verso di lui, sebbene cercassi di reprimerla, ma ora allontanarmi mi è reso ancora più difficile dalla parentela.
- Quale parte? – Chiedo mentre alterno lo sguardo da Jackson a mia cugina, per poi posarlo sul biondo.
- Credo che sia meglio se ne parliamo domani. Sei stanca e hai fatto un lungo viaggio... - Comincia Jackson. Conosco fin troppo bene questo tono vago, sempre pronto a nascondermi tutto, ma sono stanca di questi segreti. Se ho intrapreso quel viaggio era per sapere la verità, non ulteriori bugie. Sì, okay, un po' l'ho fatto anche per lui, per rivederlo, ma ora mi sento così stupida per ciò. Non ho mai lasciato che i miei sentimenti per qualcuno mi annebbiassero la vista, soprattutto il cervello, eppure è successo. E mi vergogno di me stessa. Mi faccio schifo da sola per questo, e ora si è aggiunto anche il ribrezzo alla rivelazione di Jackson.
- Sharon non è il tuo vero nome. – S’intromette Avery, noncurante di quello che stava dicendo Jackson, per arrivare dritta al punto. Io la guardo confusa mentre lei mi osserva con occhi privi di emozione, ma con una scintilla di determinazione a voler distruggermi prima di tornarsene a letto affinché io non possa chiudere occhio. Da un lato la ringrazio di semplificarmi le discussioni con Jackson riguardo quello che mi sta tenendo nascosto, però così diventa fastidiosa. - Cioè, sì. - Accenna un ghigno beffardo, quasi antipatico. - Ma non era quello che tua madre voleva darti. Avevo due anni quando tu nascesti e quando successe tutto, ma zia Lizzie mi raccontò ogni cosa. -
- Io però lo ricordo. - La interrompe Jackson, guardandomi con aria triste negli occhi. - Ho ventun anni, quindi ricordo ciò che accadde, però voglio che mi presti la tua massima attenzione e che tu non dia di matto appena finisco, ti prego. - Mi supplica, ma già sto cominciando a innervosirmi anche perché mi ha mentito perfino sull’età, facendomi credere che fosse un diciassettenne. Avery scoppia a ridere.
- Come potrà non dare di matto? È assurdo tutto questo. -
- Stai un po' zitta? - Mi volto verso di lei, abbastanza irritata. - Cominci col dirmi che il mio nome... beh, non è il mio e poi rimani in silenzio su quello che è successo e che io non so. O parli seriamente, o stai zitta. - Avery mi rivolge un’espressione dura e colma d’ira per cercare di intimorirmi, ma non le do questo piacere. Sostengo lo sguardo finché non è lei a distoglierlo, non aggiungendo altro. Jackson, invece, mostra la sua gioia con un gran sorriso appena si rende conto dell'aria abbastanza imbronciata che ha assunto la cugina. Non credo che Avery sia quel tipo di persona che si ammutolisce facilmente, cosa abbastanza evidente dati i suoi modi, quindi non mi meraviglio che Jackson ne sia felice.
- Qualche giorno prima di partorire te, tua madre fu attaccata da un mostro. Succede spesso con gli Elementali perché purtroppo ci sono un sacco di creature che si cibano di feti. Comunque, tuo padre perse la vita per proteggerla. Beh, non morì esattamente, cioè la sua morte fu così violenta che si trasformò in un mostro, in un Bhuta. È una specie di vampiro ma, a differenza di quest’ultimo, si ciba d’interiora o escrementi, e può diventare tale solo dopo una morte davvero violenta, senza la necessità di bere sangue da un vampiro o un altro Bhuta. Harvey, meglio dire quell’essere, voleva vendetta ovviamente, ma voleva ottenerla uccidendo te perché ti vedeva come la causa della sua morte, anche se non è così. Tua madre di certo ti avrebbe protetto a tutti i costi, non avrebbe mai permesso a lui di farti del male. -
- E non voleva neanche perderlo. Dici per bene la storia, Jackson, falle capire quanto sua madre sia stata egoista. Avremmo potuto uccidere Harvey e basta, sarebbe finito tutto, ma no. - Si intromette nuovamente Avery, prolungando quella 'o' finale in un verso veramente fastidioso.
- Avery smettila! - Questa volta è Jackson a sbraitarle contro. -Non sei l'unica vittima in tutto questo. Smettila di fare la bambina capricciosa del cazzo! - Lei continua a squadrare il cugino per qualche secondo, poi si stacca dal muro senza aprire bocca, si avvicina alla porta-finestra ed entra in casa, sbattendola dopo averla fatta scorrere per chiuderla. Il biondo la segue con lo sguardo, poi sospira. - Scusala, non è davvero così insopportabile. Non sempre, almeno. – Annuisco, sebbene stia elaborando ciò che Jackson mi sta dicendo e sto cercando di capire perché non mi senta triste o male riguardo ciò che sia capitato a mio padre. Non lo conoscevo, ma non posso essere tanto indifferente. Forse sono ancora turbata per il fatto che Jackson sia mio cugino e non riesco ad esserlo per qualcosa che è accaduto addirittura prima che nascessi. D’altra parte sono sollevata di sapere finalmente la verità riguardo cosa è successo a mio padre. Tuttavia, dentro di me è più intenso il desiderio che mi spinge a capire cosa abbia fatto mia madre di così orribile per guadagnarsi l’odio di Avery. - Continua. - Lo incito. Ero sicura che mia madre mi tenesse nascosto dell'altro, ma non pensavo che ritornasse di nuovo a mio padre. In effetti, quando ne parlammo, lei si limitò a raccontarmi che fu ucciso da un mostro, ma non ritornammo mai più sull'argomento e non concludemmo mai il discorso, su che fine avesse fatto ad esempio. Quando chiedevo, lei mi liquidava con le stesse parole che mi ha sempre detto: è stato bruciato come tutti gli Elementali.
- Beh, è vero quello che ha detto Avery, non voleva neanche perderlo. Così mia nonna ha proposto a tua madre l'unico modo per evitare che qualcuno si facesse male cercando di uccidere tuo padre. - Si ferma per un attimo e prende un respiro. - Sei sicura che vuoi saperlo ora? Abbiamo tutto il tempo domani. -
- Ti prego, Jackson. Se sai qualcosa sulla mia vita, dimmelo. Non credi di avermi tenuto fin troppe cose nascoste? - Lo imploro con lo sguardo. Lui sospira e incastra i suoi occhi nei miei, leva i piedi dalle infradito e incrocia le gambe sulla panchina, girandosi verso di me. – Che cosa ha proposto tua nonna a mia madre? -
- Zia Taylor non rispettò la regola fondamentale degli Elementali, ovvero uccidere ogni malvagità, e mia nonna ne approfittò, da brava strega. Qualche settimana dopo la tua nascita, nonna riuscì a catturare il mostro in cui tuo padre si era trasformato e lo uccise, squarciandogli l'anima, ma un pezzo di quell'anima demoniaca riuscì a scappare e ha cercato l'anima più vulnerabile e pura a cui legarsi. - Pian piano, non appena lui comincia a guardarmi con occhi pieni di compassione, i miei iniziano a sgranarsi. No, non è vero quello che sta per dirmi. - Mia nonna legò insieme l'anima di tuo padre con la tua, e tua madre non si oppose, sebbene sapesse quanto rischioso sarebbe potuto essere se, beh, tu non fossi riuscita a controllarlo e a sottometterlo. Tua madre ti chiamò Nora, ma affinché le anime si fondessero completamente ed evitassero di slegarsi, serviva qualcosa che caratterizzasse entrambe, tipo un nome. Per la magia i nomi hanno un potere immenso su ogni persona. Quindi ci aggiunsero le iniziali di tuo padre: HS, Harvey Steel. - Mentre parla afferra il suo cellulare dalla tasca ed apre le note per trascrivere il mio nome: Sharon. Poi si alza e mi fa segno di seguirlo fino alla porta-finestra. Ci si ferma davanti e pone lo schermo del cellulare verso di essa, mostrando il mio nome al contrario: norahS. Fisso ancora quelle parole riflesse sul vetro della finestra, senza aprire bocca. Se prima pensavo di sentirmi persa, ora mi sento anche vuota, rotta. Non riesco neanche a respirare come vorrei, mi viene da rimettere davvero anche l’anima. Sono un mostro, praticamente, metà vampiro, demone, o qualunque ibrido sia per un egoismo d'amore di mia madre. Ora capisco perché Avery ce l'abbia tanto con lei: avrebbe dovuto uccidere mio padre, anche lui avrebbe voluto lo stesso. Io avrei voluto lo stesso. Mia madre sa meglio di me quali sono le regole che devono essere rispettate e invece è riuscita, con una sola decisione, a infrangerle tutte.
- Sono un mostro. - Mormoro con sguardo vitreo, puntato verso la porta-finestra. Verso il cellulare. Verso il mio vero nome. Noto Jackson dalla finestra scuotere la testa.
- C'è il rischio che tu possa diventarlo sul serio, che lui possa prendere il controllo sul tuo corpo in qualsiasi momento. - Mi mette una mano sulla spalla in modo da farmi girare e guardarlo. Sbatto più volte gli occhi per cercare di riprendermi da quello che mi sta dicendo. Non può essere uno scherzo, perché dovrebbe farmene uno del genere? Ma non può essere neanche la verità. È tutto fin troppo assurdo, anche se dovrei sapere che nella mia vita nulla più è impossibile ormai. Eppure questo peso all'altezza dello stomaco è troppo difficile da sopportare. E non mi riferisco solo al male fisico che sto provando per quel senso di nausea. - Quando ti dissi che dovevi controllare la rabbia, altrimenti avresti preso fuoco, mentivo. - "Che novità", vorrei rispondergli. - Se ti fossi arrabbiata troppo e avessi perso il controllo, ti saresti potuta trasformare. - Ricordo che Jackson, prima di abbandonarmi, mi disse che doveva assicurarsi che questo mostro non avesse già preso il posto di comando e che riuscissi ancora a controllarlo. In effetti non è ancora successo nulla, ma non posso gioire completamente di ciò. Ho pur sempre l'incertezza che potrebbe avvenire tra qualche secondo, tra un'ora, o tra mesi. Ora capisco anche perché mia madre non mi abbia neanche mai messo le mani addosso: perché ha sempre temuto di perdere me e di lasciare che il Bhuta mi sottomettesse.
- Però anche Luke mi ha parlato di questo mostro con cui convivo. Se è un segreto di famiglia, come fa lui a saperlo? - Chiedo confusa. È stato il primo a menzionarlo, ma non ci prestai tanta attenzione allora. Con la presenza di zia Tess nella mia vita, soprattutto in quel periodo, pensare che il mostro fossi io era un'opzione da scartare immediatamente. Eppure, a conti fatti, lei è più umana di me. Non so neanche più cosa sono. Un Elementale? Beh, sì, ma anche un mezzo vampiro, un mostro, seppur Jackson continui a sostenere il contrario.
- Purtroppo questa voce si è sparsa tra gli Elementali, anche se non ho idea di come sia successo. Il motivo per cui ti stava per rapire quella sera al cinema penso sia abbastanza palese: sei un mostro, Sharon, ma anche un Elementale. Quale prova migliore da mostrare per gli scopi dei Cacciatori Oscuri se non tu? Sei la persona più buona al mondo nonostante tutto, e sappiamo entrambi che i Cacciatori Oscuri credono in un mondo in cui mostri ed esseri umani possano convivere. Sei la prova perfetta. - Mi allontano da lui e prendo un respiro. L'aria sembra essersi bloccata nei miei polmoni, le gambe mi tremano e la testa mi sta ammazzando come non mai. Mi lascio cadere sulla panchina e mi passo le dita tra i capelli, incastrandocele dentro. Tutto questo non può star succedendo davvero. Infilzo di poco le unghie nella nuca, magari il dolore mi farà svegliare da questo incubo, ma sono ancora su questa fredda panchina e purtroppo anche in questo freddo corpo. Mi piacerebbe scappare da questa scatola che è il mio organismo e che ormai di umano non ha più nulla, ma sono ancora imprigionata qui. Non riesco a capire chi dei due sia davvero in controllo, se io o mio padre. Forse mi sta facendo credere di essere io quella a comandare, mentre aspetta il momento perfetto per causare danni. Ormai ciò che è dentro di me non è più mio padre. Forse aver attirato tutti quei mostri a Ruddy Village è stata solo colpa mia: l'odore di un Elementale e di un Bhuta insieme sono perfetti per l’appetito di altre creature. Però ancora non riesco a spiegarmi perché solo con l’arrivo di Jackson il mio odore ha cominciato a fare più effetto. Almeno ora capisco quella sensazione disumana che ho sempre provato: non era legato al mio essere Elementale, bensì al mio essere mostro. Sono più di quanto ho sempre creduto, ma sfortunatamente non posso dire in senso positivo. Mi chiedo se sia stata un’idea mia o di mio padre quella di bruciare Harry pur di evitare di essere uccisa da lui alla festa di June. Però riuscii anche a fermarmi, forse Jackson ha ragione: non sono così cattiva in fondo. Il fatto che abbia un Bhuta dentro di me non cambia quello che effettivamente sono, giusto? Vero?
Non riesco neanche a pensare razionalmente. Perché deve sempre essere Jackson a causarmi queste crisi? Sono diventata la mia paura peggiore.
- Non può essere... cioè. Questo intreccio con la mia anima... non è vero. – Balbetto mentre alzo lo sguardo su di lui che rimane in piedi accanto alla panchina e con le braccia incrociate al petto, a fissarmi in modo triste.
- Quando mio padre mi spiegò meglio cosa fosse successo, anch'io stentavo a crederci, ma questa è magia e non so nulla al riguardo. Posso dire che mia nonna è nata strega e... – S’interrompe quando nota le condizioni in cui mi trovo. Ho lo sguardo su di lui, ma è come se non lo stessi osservando, non lo stessi ascoltando. Infatti la sua voce arriva come un eco lontano alle mie orecchie. Nella mia mente ormai viaggiano senza sosta ricordi ed eventi in cui forse non avevo completamente il controllo sul mio corpo. Ad esempio, non può essere che alla festa di June sia stata io a bloccarla al muro non appena si è rivolta in modo minaccioso verso Harry. Non posso avere altri poteri, ma non può che essere stato mio padre, quel Bhuta, anche se non capisco ancora in che modo. Ho la testa che a tratti sembra scoppiare. Ho creduto in fin troppe cose, ma questa le batte tutte. Va davvero oltre tutto ciò che di più razionale c’è, e mi sto sentendo così male da non riuscire neanche ad avere una crisi come si deve. Mi sento esplodere dentro, ma non riesco a farlo fuori.
- Io ancora non ci credo... - Jackson si siede accanto a me non appena riprendo la testa tra le mani, poggiando i gomiti sulle mie gambe. Mi mette un braccio attorno alle spalle in segno affettuoso e mi stringe a lui.
- Lo so, è troppo per chiunque, ma è meglio se provi a dormire. Continuare a torturarti non ti fa bene. Ti accompagno in camera di Avery. Ha un altro letto. -
- Ma se mi odia. – Sbotto mentre mi passo le mani sul volto. Lui sogghigna e mi accarezza la spalla.
- Non ti odia. È solo costantemente mestruata. Su, hai bisogno di riposare. - Si alza e mi tira su con lui, afferrandomi dal braccio. Con la testa da tutt’altra parte ormai, e il corpo che sento di non controllare neanche più, mi accompagna fino in camera di Avery, l'ultima stanza sulla sinistra al piano superiore, e mi augura la buonanotte, poi entra nella camera di fronte. Come se riuscissi a dormire, poi.
Apro comunque la porta abbastanza timorosa: non ho dubbi che Avery mi potrebbe far fuori senza molta fatica. Non so quali problemi questa faccenda le abbia causato, ma mi dispiace per lei. Non ho mai voluto ferire nessuno, come avrei voluto? Eppure ora so che ne sono perfettamente capace.
La camera è minuscola e interamente buia; non si vede nulla eccetto una pallida luce celeste di un cellulare sul lato sinistro della stanza. Appena chiudo la porta, Avery mette il cellulare sotto il cuscino. Non ne sono sicura, ma sembra esserci qualcos'altro lì dato il piccolo bagliore di luce riflesso non appena ha voltato il cellulare. Qualunque cosa sia, spero che non la usi su di me mentre “dormo”. Ha detto che far fuori mio padre avrebbe risolto tutto, non voglio di certo che ora uccida me. O forse un po’ sì.
- Che cosa vuoi? - Mi chiede in modo scontroso quella che sembra la versione femminile di Harry, quando invece è solo mia cugina. - Cosa ci fai nella mia stanza? -
- Jackson ha detto che posso dormire qui. - Lei fa un verso di scherno e accende la luce del comodino, illuminando lievemente la stanza. Non c'è quasi nulla qui dentro. Ci sono solo due letti agli estremi della stanza: uno addossato alla parete sinistra, quello di Avery con le lenzuola blu scuro, e uno alla parete destra, con le lenzuola verde scuro. Entrambi hanno un comodino accanto e in mezzo a questi c'è una finestra, ma la luce della Luna viene bloccata dalle tende nere. Sempre contro il muro di sinistra c'è un grande cassettone di legno scuro, poi basta. È una stanza abbastanza triste e povera.
- Il letto è lì. Non darmi fastidio. Se parli durante il sonno ti trascino per i capelli in camera di Jackson. Buonanotte. - Spegne la luce nuovamente e si rigira nel letto, dandomi le spalle. Striscio i piedi fino al letto e butto lo zaino ai suoi piedi, poi mi ci butto sopra.
- Avery... - Sento lo strofinio delle lenzuola, poi si volta a guardarmi. Anche se è buio, sono sicura che la sua faccia non stia esprimendo gioia in questo momento, tantomeno felicità di aver ritrovato una cugina. In effetti mi sono presentata qui all'una di notte e l’ho svegliata. Non mi meraviglio se prima ha passato mezz'ora a lamentarsi di quanto infantile e stupida sia stata a intraprendere un viaggio da sola, in una nazione che non conosco e senza nulla dietro tranne le poche cose che ho nel mio zaino. So perfettamente di aver sbagliato e me ne pento, ma non so cosa mi sia successo. Sembravo non essere io in quei momenti, ma solo una bambina innamorata che avrebbe fatto di tutto per il ragazzo. Per il cugino. Ho così tanti pensieri nella mia mente, così tante cose da cercare di capire, che non so dove sbattere la testa per prima.
- Avevo detto che dovevi star zitta. -
- Lo so, ma volevo chiederti scusa per mia madre. Non voglio che tu sia arrabbiata con me per le sue decisioni. Neanche io avrei voluto questo. - Per un paio di secondi rimane completamente in silenzio, senza neanche muoversi, poi sento di nuovo quel fruscio delle lenzuola, infine silenzio tombale. Sospiro e mi accascio sul letto mentre il mio cellulare vibra. Lo afferro e controllo lo schermo, dove c’è un nuovo messaggio di Albert:
"Cosa diamine sta succedendo? Chiamami al più presto."
Mi sfilo le scarpe e mi metto sotto le coperte nel più assoluto silenzio, senza voler neanche cambiarmi. Vorrei sapere anch’io cosa sta accadendo, perché nella condizione in cui mi trovo non riesco a capire nulla, sebbene Jackson mi abbia spiegato tutto ormai. Lo spero almeno, perché non sarei in grado di reggere altre verità. Non sono neanche sicura di riuscire a sopravvivere a questa. Non riesco a trovare pace nella mia testa. Vari ricordi ed episodi che caratterizzano la mia vita ora sono ritornati a galla e ruotano come una centrifuga mentre cerco di darci un senso. Quello che più volte si sta distinguendo dagli altri, e mi sta provocando la pelle d’oca, è un ricordo legato a questo giugno, in quel parcheggio con Jackson ed Harry. Non era solamente attrazione fisica quella che mi spingeva verso lo Gnomo, davvero dentro di me era impresso il suo ricordo, il suo nome. Il mio sesto senso, che credo essere ciò che rimane di mio padre a questo punto, stava cercando di avvisarmi, non so di cosa, o solamente voleva che prestassi attenzione a quel ragazzo. E magari tutte quelle volte che avevo un ricordo nella mia mente, che sapevo non essere mio, non mi sbagliavo. Non ero pazza: ero solo al punto di partenza per capire cosa ero, e cosa sono, realmente.

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