sero 2
• Capitolo 2
– La vera Kurata
Le
bollicine risalivano dal fondo del boccale creando a poco a poco delle
crepe nella schiuma che un po’ fuoriusciva dalla cima.
Le
fissavo cercando di rimanere concentrata su quelle, come una parvenza
di dimensione estranea al brusio circostante.
Attraverso
il vetro appannato del boccale spostai l’attenzione sulle
facce di quelle persone sedute difronte a me.
Erano
così distorte, frenetiche, appannate, nervose eppure mi
parve
che fossero in qualche modo allineate, come a loro agio nel contesto.
Mi
chiesi se quell’immagine appannata che io avevo di loro fosse
speculare a quella che loro avevano di me, mi risposi che senza dubbio
io rendevo tutto più semplice, era probabile apparissi a
loro
tutti come distorta, nervosa e appannata anche senza il filtro di un
liquido ambrato e gorgogliante in un boccale.
O
forse ero io a sentirmi così in mezzo a loro.
Distorta,
appannata. Comunque poco allineata.
Dopo
l’improvvisata alla fermata dell’autobus, Gomi ci
aveva
trascinati in uno dei suoi locali. Io avevo provato a dire che non mi
andava, ma le mie parole forse non gli arrivarono.
Forse
c’era un muro tra noi, o forse semplicemente scelsero tutti
insieme di ignorarle e mi trascinarono lì.
Avevo
capito però che Gomi aveva fortemente insistito
affinché
fossi dei loro, addirittura Hisae mi aveva detto che si era parecchio
risentito non vedendomi a cena.
«Devi
dirlo almeno a loro che hai una relazione con Kamura, Sana… Non
può
controllarti così!» Mi aveva detto Hisae prima di
entrare.
Io
mi strinsi un po’ nelle spalle e scossi la testa.
Hisae
era una dalle convinzioni di ferro.
Per
quante volte le ripetevo che Naozumi non controllava affatto la mia
vita, non riuscivo mai a convincerla. Lei era proprio persuasa dal
fatto che Naozumi, non voleva che mantenessi una rete di contatti e che
con la scusa di tenere la nostra relazione segreta, mi mantenesse
chiusa in una torre d’avorio in cui ogni tanto decideva di
fare
capolino.
Oltre
al fatto che imputava molti dei miei “atteggiamenti poco
rispettosi verso me stessa” proprio a lui.
In
realtà, semplicemente non m’interessava che gli
altri sapessero della mia vita.
E
neanche Naozumi era così interessato a conoscere la mia, o
forse, pur di non crearsi fastidi, preferiva non mostrarsi in mia
compagnia davanti a tutti. In fondo lo aveva fatto anche quella
mattina, mi aveva come al solito rifilato quella scusa del
“non
conosco nessuno e poi ho da lavorare”.
Non
che m’importasse. Poteva fare quello che voleva,
però
ecco, di sicuro non mi sarebbe dispiaciuta un po’ di
sincerità.
Pur
di non ledere alla sua immagine si era dimenticato anche del suo
vecchio rancore per Hayama… Gli era bastato un mio
“Dacci
un taglio.” Per mettere a posto tutto.
Non
lo so, non mi erano chiare molte cose sul nostro conto, ma era come se
Naozumi con me si limitasse ad essere ciò che mi aspettavo
senza
mai preoccuparsi di mostrarmi ciò che era.
Chissà,
forse ero cattiva, ma io non gli credevo, non fino in fondo almeno.
C’erano
delle volte in cui avevo l’impressione che lui si
relazionasse a
me come se stesse mantenendo una parte…
O
forse, ero semplicemente ridicola io a ritenere possibile il fatto che
potesse ancora provare rancore per Hayama e tutta quella vecchia storia.
Quanto
a Gomi, qualunque fossero le sue reali motivazioni sul desiderio di
vedermi, restava una sua volontà che mi lasciava piuttosto
indifferente.
Hayama,
invece non si era seduto con noi che per un istante, mi aveva guardato
un paio di volte con una certa fretta e poi si era volatilizzato al
bancone del pub in compagnia di Gomi e due tipe che non conoscevo.
Non
c’era nulla di particolare che mi aspettavo di percepire nel
reincontrarlo, ma ecco, non sentire proprio nulla mi mise addosso una
sensazione ambigua e raggelante.
Allora
era vero?
Ero
rotta? Ero priva? Ero qualcuno e ora non lo sapevo più?
Sapevo
bene che c’era qualcosa in me che non funzionava, che avevo
una
malattia di cui mi rifiutavo di pronunciare persino il nome, ma
l’indifferenza che mi colse nel rivederlo mi
sembrò mi
stesse facendo toccare con mano il fatto che ci fosse
dell’altro
d’irrimediabilmente andato a male in me.
E
me lo stava facendo toccare con una perfidia e una freddezza
agghiacciante.
Non
riuscivo a provare niente, nessun sentimento positivo o negativo, non
mi sentii nascere dentro la benché minima emozione.
Mi
ero aggravata così tanto?
E
allora perché quei sogni mi tormentavano se poi lo avevo a
un passo da me e vederlo non mi provocava niente?
Più
ci pensavo, più me ne rendevo conto, più sentivo
l’ansia impossessarsi di me.
Avvertii
un senso di pressione al petto che mi schiacciava fin dentro le
viscere.
Avevo
la bocca secca, una sensazione fastidiosa alla gola, come una mano
stretta al collo. E poi sudavo. Quasi mi sentivo evaporare o forse
quasi ci speravo.
Avevo
bisogno delle medicine alla svelta o sarei scivolata sul pavimento.
Sentii
che stavo per avere un crollo e mi concentrai sulle mie percezioni
cercando di sedarle con dei respiri profondi.
Le
sopracciglia dei miei amici si muovevano insieme al suono della loro
voce, insieme alle espressioni che assumevano di volta in volta le loro
facce.
Mi
sembravano tante maschere.
Le
loro sopracciglia si muovevano esasperate, si curvavano,
s’increspavano, si allargavano e distendevano.
Le
mie sembravano immobili, ma confuse.
Quelle
di Hayama erano un po’ inarcate, forse Gomi gli stava dicendo
qualcosa che non gli andava a genio, poi una delle due ragazze ridendo
gli aveva portato una mano sulla pancia.
Allora
lui aveva riso, ma le sopracciglia non gli si erano distese.
Difronte
a me Tsuyoshi rideva di Fuka che non aveva vinto una causa importante,
quella che li vedeva l’uno contro l’altra. Aya
sembrava
soddisfatta dell’abilità di suo marito, ma cercava
di non
darlo a vedere troppo alla sua migliore amica.
Era
un bravo medico lei, non di quelli che frequentavo io. Lei si occupava
di ossa rotte, quelli di cui mi servivo io di teste vuote da riempire
di sicurezze in pillole.
Hisae
parlava del suo lavoro in banca con un lessico pieno di anglicismi,
forse le cose non andavano troppo bene con il suo capo
perché mi
accorsi che ne parlava e mentre lo faceva alternava lunghi sorsi di
birra a grosse risate, con le mani però arrotolava ogni
carta
che le capitava a tiro e la reggeva tra le dita a mo’ di
sigaretta.
Forse
anche lei doveva essere in astinenza.
Senza
dare troppo nell’occhio presi una medicina dalla borsa e la
calai giù con della birra.
Non
l’ideale forse, ma lo trovai disperatamente necessario, dal
momento che neanche la respirazione stava funzionando.
Le
mani avevano cominciato a diventarmi troppo fredde e le dita
somigliavano a dei pezzi di legno, riuscivo a vedere il grigio dei
nervi attraverso la pelle e dovetti nasconderle sotto al tavolo.
«A
te come vanno le cose, Sana?» Fuka non vedeva l’ora
di
togliersi da quella conversazione con Tsuyoshi e mi aveva scelta come
via di fuga.
«Beh…
Bene.»
«Poco
tempo fa lavoravi in quella lavanderia a gettoni e ora in un konbini.
Tu, amica mia sei sprecata per questi posti, ma lo vuoi capire o
no?!»
«In
verità ci lavoro da un anno e poi mi piace lavorare
lì.»
«Ma
sentitela!» Urlò richiamando
l’attenzione di tutti.
«A
chi la vuoi dare a bere! Una come te, abituata a calcare palcoscenici,
a lavorare su set cinematografici e in studi televisivi non
può
davvero involversi così!»
«Involversi…»
Ripetei.
«Dai
Sana, a noi puoi dirlo!»
«Sono
dodici anni che non faccio quel mestiere…»
«Lo
so, ma sai, noi abbiamo sempre pensato che tu in realtà dopo
il
diploma avresti ripreso in mano la questione e
invece…»
Mi
sentii le spalle scivolare verso il basso, la testa ciondolare un
po’ in avanti, vedevo le labbra di Fuka muoversi, la sua voce
arrivarmi al rallentatore.
Le
sorrisi un po’ distorta pensando che le medicine stavano
cominciando a disperdere nel mio corpo i primi cenni magici. Non stavo
assolutamente capendo niente, solo mi chiesi perché aveva
voglia
di rivangare quel discorso ogni volta che Hisae mi trascinava alle loro
feste.
Io
non mi prendevo certo la libertà di sindacare sulla sua
vita,
sulle sue scelte, né m’importava sbatterle in
faccia il
fatto che da promessa della giurisprudenza si fosse involuta in un
avvocato talmente mediocre da farsi battere da uno come Tsuyoshi Sasaki.
Fu
proprio Hisae a prendere le mie difese, le urlò qualcosa ma
io
mi limitai a sedare la questione regalando a entrambe un mite
“Non fa niente”.
E
infatti era la verità, non m’importava
assolutamente
niente delle illazioni di Fuka, del suo lavoro, del mio, volevo solo
tornare a casa, rimpinzarmi di medicine, mettermi sotto le coperte e
dormire per almeno tre giorni.
A
Hisae però le uscite di Fuka sulla mia vita non piacevano,
non
le erano mai piaciute in verità. Mi accorsi che
continuò
a sbraitarle contro parole che non volli ascoltare.
Mandai
giù un lungo sorso di birra e mi sembrò
cominciasse ad
avere un sapore più vischioso, mi accorsi che scivolava
verso il
basso come se lungo la gola si trasformasse in gelatina.
Ogni
potere magico aveva delle sbavature.
«Sana,
stai bene?»
La
voce di Aya, il suo tono dolce, mi sembrava arrivarmi da un tempo che
ormai non esisteva più.
«Si…»
«Mi
piacerebbe tanto se riuscissimo a vederci un po’
più
spesso, anche senza l’aiuto di Hisae…»
«Già…»
«Ora
che so dove lavori magari uno di questi giorni passo a farti una
sorpresa… Ti va’?»
«Come
vuoi.»
Mi
sembrò ci fosse rimasta un po’ male per quelle mie
risposte stringate, la verità era che non sapevo cosa dirle,
quella sera non riuscivo a sbloccarmi neanche con una dose mixata
all’alcol.
Le
medicine però avevano cominciato ad effondere il loro potere
perché da quando le avevo prese non avevo più
rigidità, ma ovviamente non percepivo nulla.
Sentivo
solo assenza, un’assenza più logorante del solito.
Nel
corpo e nella mente.
Come
la linea piatta di un elettroencefalogramma.
«Kurata!»
La voce di Gomi sulla mia schiena, mi voltai di tre quarti verso di lui.
«Lei
è Mizuo Koizumi.» Mi disse e
m’indicò la ragazza che stringeva a sé.
Era
una ragazza molto anonima, più giovane di noi di almeno
cinque
anni ma aveva dei lineamenti così marcati dal trucco e un
abbigliamento così appariscente da sembrare più
grande di
me di almeno cinque anni.
«Sana.»
Le dissi in un cenno.
«Ti
ha riconosciuta e mi ha chiesto di presentarvi.»
A
quel punto Mizuo cominciò a riempirmi di complimenti e a
sciorinarmi tutto il mio curriculum come se fossi desiderosa di testare
la sua sincerità e mi accorsi che mentre parlavamo Akito
aveva
cominciato a fissarci attentamente.
«Oddio
che onore! Sono cresciuta con il tuo mito, Sana! Non sai quanto mi
piacerebbe poter seguire le tue orme!»
«Beh…
Io ora lavoro in un konbini e siamo già al completo.
Però
puoi provare a portare un tuo curriculum.»
«Andiamo
Sana!» Fece Gomi a quel punto.
«Potresti
metterla in contatto con il tuo vecchio manager… Come
diavolo si
chiamava?» Si voltò a cercare Akito e lo
chiamò a
sé con un cenno.
«Te
lo ricordi il suo manager?» Akito si strinse un po’
nelle
spalle con un’espressione beffarda appiccicata sulla faccia e
ci
si avvicinò trascinandosi dietro la tipa con cui
chiacchierava
al bancone del pub.
«Io
e Rei non ci sentiamo da un pezzo, sono anni che vive con sua moglie
Asako a Los Angeles.»
«E
non puoi ricontattarlo? Magari conosce ancora qualcuno qui a
Tokyo!»
«No,
io… Io non posso.»
«Andiamo
Sana! L’hai vista la mia Mizu?»
«Si,
Gomi… La vedo. In quell’ambiente però
contano molto le referenze e…»
«Beh,
lei ne ha due belle sul davanti e una di dietro, possono
bastare?»
A
quella battuta agghiacciante notai che lei non si scompose, anzi
cominciò a ridere tastandogli il petto.
Akito
invece lasciò andare un risolino, afferrò il mio
boccale
e buttò giù un po’ della mia birra.
«Lascia
perdere Gomi, te l’avevo detto che vive a L.A.
ormai.»
Provai
a chiedermi cosa ne sapesse lui di Rei e d’istinto guardai
Hisae, era probabile fosse opera sua.
«Si,
ma vuoi che Kurata non sia agganciata? Per esempio con quel
tipo… Come si chiamava quell’attore effemminato
che le
ronzava intorno quando eravamo ragazzini?»
«Naozumi
Kamura, ed è un attore di fama internazionale
oggi.» S’intromise Fuka.
«Andiamo
Kurata, vuoi farmi credere che non vedi più neanche
lui?»
«Gomi…
Per favore… Non posso aiutarvi, mi dispiace.»
«Sei
una bugiarda! E poi questa stronzata delle referenze non me la bevo!
Andiamo! Di’ piuttosto che non vuoi aiutarci!»
Mi
accorsi che si stava scaldando, ma io non avevo neanche la forza di
seguire il discorso.
Mi
sentivo un corpo molle appoggiato su una sedia, neanche mi sentivo le
gambe se non fosse stato per il pavimento che sembrava pomparmi sotto
ai piedi a ritmo di musica.
C’era
un volume assordante lì dentro.
Gomi
dovette accorgersene perché smise di fissarmi e
palleggiò
il suo sguardo tra le facce dei miei amici e quella di Akito in piedi
accanto a lui.
«Ti
rendi conto, amico? Quando eravamo ragazzini la città era
tappezzata da tabelloni con la sua faccia e, diciamocelo, Kurata
è sempre stata una insipida, vuoi che Mizu non possa
competere?»
«Gomi,
piantala.»
«Dai
Akito, è la verità! Da ragazzino ci eri fissato
con lei,
ma ora guardiamola con sincerità!»
«Ti
ho detto falla finita, Gomi!» Urlò e poi
sbatté il
boccale di birra sul tavolo, proprio davanti alla mia mano.
«Lo
sai Mizu, il nostro Hayama qui si sta scaldando perché da
ragazzino aveva una cotta terribile per Kurata, spesso io e Tsu lo
beccavamo per strada a ripulirsi la bava sui cartelloni pubblicitari di
questa insipida qua. Tsu, amico, te la ricordi la sua faccia?»
Vidi
Tsu sorridere sotto i baffi, Hisae saltare in piedi, avventarsi contro
di lui come un cane rabbioso trattenuto da un guinzaglio.
«Per
favore, Hisae, lascia perdere…» Dissi tirandola a
me.
E
poi sentii qualcosa. Una rabbia crescente che non proveniva da me.
Mi
accorsi che zampillava dagli occhi di Akito, sembrava invaderlo per
intero, venire fuori dalle sue narici dilatate, dalle sue pupille rosse
e si sprigionava violenta. Come una nube densa di sangue si riversava
sulla testa di Gomi.
Vidi
la sua mano muoversi di scatto, Akito afferrò Gomi per un
braccio, glielo fece roteare dietro alla schiena facendolo
inginocchiare, mettendolo di fatto al tappeto in un movimento.
E
a quel punto scoppiai a ridere.
Una
nota stonata in una sinfonia che fino a quel momento neanche riuscivo a
sentire.
Ridevo,
ridevo come se fossi in una recita e in quel momento il mio personaggio
doveva reagire così, ridevo come se tutte le loro maschere
fossero crollate mentre la mia rimaneva salda sulla faccia.
La
mia medicina invincibile mi rendeva l’attrice migliore.
La
mia risata veniva fuori come un singhiozzo dispettoso e nonostante mi
portassi una mano sulla bocca, la mia faccia rideva ancora.
Io
stavo peggiorando, ormai avevo persino reazioni involontarie, neanche
riuscivo a mantenerle sedate, dentro.
Erano
come getti di una serie di geyser.
Mi
sembrò di capire che ero diventata una terra piena di
lacerazioni da cui fuoriuscivano senza permesso gas bollenti e
incontenibili.
La
mia uscita stonata comunque li fece calmare, Akito lasciò il
braccio di Gomi fissandomi disorientato.
Come
disorientati erano gli sguardi di tutti i miei amici.
Pensai
che fosse buffo il fatto che fino a quel momento ero stata io quella
disorientata da tutti loro.
«Tu
sei tutta matta, Sana…» Concluse Fuka cominciando
a ridere anche lei seguita dal resto della comitiva.
Tutti,
eccetto Hisae.
Lei
fissava il mio profilo con una certa agitazione,
un’agitazione
simile a quella che le avevo visto addosso in quello stesso pomeriggio
nel mio bagno.
Gomi
e Akito, a differenza del resto del gruppo, si volatizzarono
rapidamente senza proferire parola.
Tre
pinte di birra dopo mi accorsi che Gomi era seduto su un divanetto con
quella Mizuo spalmata addosso, Akito invece era sempre al bancone,
beveva qualcosa e mi fissava mentre la tipa che prima era in sua
compagnia gli baciava il collo spasimando per le sue labbra.
Mi
accorsi che lei alla fine, forse stanca di aspettare, gli aveva voltato
il viso e lo aveva baciato, a quel punto lui aveva sorriso sulla sua
bocca tirandosela più addosso.
Quanto
avrei voluto percepire qualcosa.
Mi
sentii dentro uno strano sfrigolio, desiderai si palesasse ma nello
stomaco non mi arrivò niente.
Avevo
anestetizzato tutto?
O
forse stavo bene e semplicemente non m’importava dove Akito,
ormai cresciuto, spalmava la sua lingua?
Com’era
giusto che fosse, in fondo.
Dopo
quindici lunghi anni.
«Basta…
Devo fumare.» La voce di Hisae mi riportò alla
realtà.
Provai
ad alzarmi ma mi accorsi che le gambe mi reggevano a fatica.
Hisae
però non si accorse del mio tentennamento, mi prese per mano
e mi trascinò fuori.
Mi
sentii immobile, mi sembrava di camminare senza muovere affatto le
gambe.
La
mano di Hisae nella mia sembrava trascinarmi in un cemento liquido che
si spostava e mi risucchiava a poco a poco.
Sotterrandomi.
Quando
l’aria esterna mi freddò il viso, ero ormai certa
di percepire il cemento solidificarmisi tutto intorno.
Mi
sentii di nuovo quelle sensazioni addosso.
Più
che di respirare, mi sembrava di annaspare.
La
magia stava per perdere ogni effetto, sperai di essere a casa prima che
fosse svanita del tutto.
«Ehi…
Vorrei tornare a casa…»
«Si,
finisco di fumare e andiamo… Comunque, lascialo perdere
quell’idiota di Gomi.»
«Figurati.»
«Sul
serio, Sana. Tu sei bellissima.» Trillò in un
sorriso, prendendomi il viso tra le mani.
L’odore
della sua winston mi arrivò alle narici mescolato al suo
profumo.
Abbozzai
un mezzo sorriso.
«E’
così!» Urlò stringendomi più
forte il viso
tra le mani. «Tu. Sei. Bellissima.»
«Interrompo
qualcosa?»
La
voce di Akito si stagliò alle mie spalle, Hisae lo
fissò inarcando un sopracciglio.
«Il
tuo amico è un gran cafone, Hayama! Con me ha
chiuso!»
Glielo disse livida dalla rabbia e mi lasciò andare
parandoglisi
sotto.
Akito
le regalò uno sguardo distratto, poi si cacciò
una sigaretta tra le labbra e l’accese.
Anche
lui fumava, ma non percepii la stessa sensazione di vicinanza che
percepivo con Hisae.
Il
suo fumare mi arrivava quasi sgradevole.
«Hai
capito, Hayama?»
«Te
lo sei portata a letto, eh Hisae?»
La
faccia della mia amica a quel punto divenne una marea di cose che per
me si traducevano solo in un visibile rossore. «Te
l’ha
detto lui?»
«No,
faccio solo due più due.»
«Per
tua informazione c’è stato solo un mezzo bacio ed
ero ubriaca!»
Akito
la superò in una lunga boccata. «Sono affari
vostri…» Disse e mi si avvicinò.
Una
morbida zazzera bionda, un sorrisetto sbruffone, la sigaretta stretta
tra i denti e labbra e le mani nelle tasche. «Ciao,
Kurata.» Sussurrò in uno sguardo furbo.
Pensai
che niente in lui mi ricordava il ragazzino che quindici anni prima se
n’era andato tra la rabbia di aver fallito e i denti stretti
di
doverlo ammettere.
Che
poi non era vero che aveva fallito.
Era
semplicemente la vita che ci aveva fatto credere di essere infallibili
e poi aveva mescolato le carte insegnandoci che infallibili non lo
eravamo affatto.
Era
semplicemente che doveva andare così.
Mai
fidarsi della vita.
«Come
sta la tua mano?»
Lui
mi sorrise e si allontanò la sigaretta dalle labbra con la
mano
destra. «Bene…» Disse e
continuò a studiarmi
con quello sguardo che non gli avevo mai visto.
Mai.
Neanche
una volta nella vita.
«Andiamo,
Akito?» La ragazza con cui l’avevo visto baciarsi
era
uscita dal locale seguita di lì a poco dal resto del mio
gruppo
eccetto Gomi e quella Mizuo.
Mi
sembrò ci stessero circondando, erano le stesse persone di
prima
ma in quel momento sentivo uno strano senso di soffocamento.
Senza
neanche accorgermene m’incollai ad Hisae e tirai il lembo
della manica del suo cappotto cammello.
«Io
e Sana andiamo!» Trillò. «Ci vediamo
presto!»
Il
cerchio si spezzò, tra risate e arrivederci stavamo per
prendere
anche noi la nostra strada quando Akito mi tirò per un
braccio.
«L’accompagno
io.» Disse guardando fisso Hisae. «Ti
dispiace?»
Gli
occhi di Hisae s’incollarono ai miei. «Per te va
bene?» Mi chiese sottovoce mentre la tizia con cui stava
Akito
gli si avvicinò piuttosto accigliata.
«Che
storia è questa?»
«Senti…»
Akito la fissò per un attimo come se stesse cercando di
ricordarsene il nome, poi fece un lungo tiro e gettò via la
sigaretta.
M’imbambolai
a fissare quella nebulosa che sapeva di tabacco. Mi sembrò
mi stesse avvolgendo.
«Ho
da fare con questa vecchia amica.» Le disse semplicemente
questo
mentre lei continuava a inveirgli contro e lui mi prendeva per mano.
«Dai
tesoro, non insistere, ci vediamo domani.» Le si
avvicinò
tenendomi ancora per mano e le regalò un leggero bacio sulle
labbra condito da un furbo occhiolino.
Ma
che atteggiamento era?
«Senti…
Lascia perdere, io vado con Hisae… O prendo un
autobus…
E’ uguale.» Dissi e tirai via la mano.
«No,
Kurata. Vieni con me. Lo sai chi prende l’autobus di sabato
alle
4 del mattino? Solo svitati che cercano svitate da
importunare.»
Perfetto,
pensai, era l’autobus giusto per me.
«E
poi Hisae vive dall’altra parte della città, io
sono di strada.»
Come
faceva a sapere dove abitavo?
Stavo
per chiederglielo, ma Hisae mi si parò accanto,
guardò
Akito tirandomi a sé, continuando a studiarne le movenze.
«Forse ha qualcosa da dirti…»
Farfugliò.
«Vuoi andare con lui?»
Percepii
nella sua voce dell’agitazione, ma non era più
come quella
che le avevo visto addosso quello stesso pomeriggio nel bagno di casa
mia o nel pub quando Gomi mi aveva dato dell’insipida, era
un’agitazione diversa, che le usciva fuori solo dagli occhi
che
mi sembrarono luccicare tremuli.
«Io
voglio solo andare a casa, Hisae.»
A
quel punto venne fuori dal locale anche Gomi in compagnia di Mizuo,
ci fissò in un risolino beffardo e tirò via
quella tipa
che ancora continuava a pellegrinare attorno ad Akito.
«Dai Sachiko,
ti riaccompagno io a casa…» Glielo disse
in
un tono stranamente ironico, poi le infilò una mano nella
tasca
posteriore dei jeans e la tirò a sé.
A
quel punto, mi accorsi che lanciò un breve cenno
d’intesa
ad Akito prima di defilarsi in compagnia di Mizua e quella Sachiko,
senza salutare né me né Hisae.
«Bene,
il cafone se n’è andato!»
Trillò la mia amica con un certo fastidio.
«Dio
mio, Hisae… Sono stato così
indimenticabile?» Le
urlò Gomi, ma rimase di spalle, continuando a comminare
verso la
sua macchina seguito da quelle due strane tipe.
«Ignoriamolo…»
Biascicò. «Che vuoi fare Sana?»
«Tornare
a casa… Ti prego.»
«Ti
va bene se ti accompagna Akito?»
Mi
era totalmente indifferente.
Ma
non ebbi neanche il tempo di risponderle che Akito mi
afferrò
nuovamente la mano e mi tirò più vicina a
sé.
«Ok, le va bene, andiamo Kurata…»
Hisae
gli sorrise divertita. «Solo perché mi fido e so
che sei
un tantino meglio di quello spaccone del tuo collega!»
Urlò, poi mi si avvicinò schioccandomi un bacio
sulle
labbra.
«Vedi
se puoi cavargli qualcosa di bocca!» Sussurrò.
Che
cosa voleva dire? Cosa avrei dovuto cavargli di bocca?
*****
La
macchina di Akito era un concentrato di stranezze e tecnologia. Non me
ne intendevo molto ma mi piacque molto la forma quasi affusolata dei
sedili e il colore scuro degli interni.
Mi
ci accomodai e socchiusi leggermente gli occhi lasciandomi andare un
po’ all’indietro.
Mi
sentivo uno straccio.
Quando
accese il motore sentii un rombo potentissimo, vidi le luci sul
cruscotto accendersi e spegnersi in preda a una specie di corto
circuito.
Balzai
in avanti portandomi una mano sul petto e lo fissai stranita.
Lui
lasciò andare un sorriso sfottente e si voltò a
guardarmi. «Allora, Kurata? Dove si va?»
«A
casa…»
«Non
so mica dove abiti, Kurata?»
«Avevi
detto di sì.»
«Dico
un sacco di cose se serve...»
«Alla
prossima gira a destra.» Gli dissi, prima di abbandonarmi
ancora su quel morbido sedile in pelle.
«Allora?
Oltre ad aver cambiato colore ai capelli e tendenze sessuali
cos’altro mi sono perso?»
«Diversi
anni uguali.»
«Che
risposta è?»
«Una
risposta.»
Lui
scosse un po’ la testa mentre io mi chinai in avanti, non
riuscivo neanche a parlare, digitai sul navigatore
l’indirizzo di
casa mia e lo avviai.
Lui
studiò per un po’ i miei movimenti ma non disse
nulla,
solo continuava a mantenermi addosso quello sguardo strano.
«Come
mai hai tinto i capelli?»
«Rossi,
castani… Fa differenza?»
«Beh…
La vera Kurata è rossa.»
La
vera Kurata.
Quelle
parole mi risuonarono nella mente, era davvero solo una questione di
capelli? Lui non vedeva altro di diverso in me?
Per
un istante mi chiesi che forma avevo nei suoi ricordi, ero quella Sana
allegra e incredula che aveva baciato davanti a un pupazzo di neve,
quella a cui in quel momento il cuore sembrava esplodere ma non aveva
saputo far niente perché ancora troppo giovane, inesperta,
senza
la benché minima comprensione dei suoi sentimenti, o quella
senza espressioni che aveva lasciato sul letto di
quell’albergo?
Mi
sarebbe piaciuto chiederglielo, ma dopo tutto quel tempo
d’assenza, una risposta sapevo darmela persino io.
Pensai
che fosse strana la mia vita, da ragazzina non avevo la minima idea che
tutto quel brusio interiore che percepivo accanto a lui si chiamasse
amore. Sentivo troppo, tutto insieme e quel caos di emozioni mi
confondeva.
Ora
invece, che avevo l’età per discernere
ciò che sentivo, non sentivo assolutamente niente.
Era
una condizione piuttosto paradossale, anche patetica.
«Quindi
tu e Gomi siete colleghi?» Gli dissi la prima cosa che mi
venne
in mente, non che m’importasse, tentavo solo di evitare la
questione del “com’eravamo”.
«Non
esattamente.»
«Cioè?»
«Non
lavoro per lui e non ho percentuali su nessuno dei suoi
locali.»
«Ma
Hisae vi ha definiti colleghi…»
«Beh…
Io faccio qualche favore a lui e lui lo fa a me, ma questo non ci rende
né colleghi, né soci, né grandi
amici.»
«E
allora cosa siete?»
«Due
che si prendono ciò che serve, credo.»
Mi
sentivo uno straccio e mi rendevo conto di non avere le forze per
continuare quella conversazione, non me ne fregava niente, soprattutto.
Soprattutto
non avevo l’esigenza di capire cosa stesse intendendo, cosa
lo
avesse reso così diverso dal mio Akito dodicenne.
Era
solo assenza, un logorante strazio.
Mi
limitai ad annuire in un sorriso di circostanza.
«Comunque,
Kurata… Sei diversa… Non l’avrei mai
detto ma sei
diventata più seria, più donna.»
«Già,
probabile.»
«Un
po’ mi dispiace.»
Mi
disse solo quello e per un istante m’imbambolai a guardarlo,
pensai avesse una gran faccia da culo.
Finalmente
arrivammo a destinazione, lo feci accostare un po’
più
distante dal mio palazzo e mi accorsi che si guardava intorno con
un’espressione sorpresa, forse disgustata.
«Abiti
qui?»
«Sì…»
«Assurdo…»
Pensai
che più assurdo fosse il suo baciare una tizia a caso
tenendomi
per mano, ma in fondo cosa m’importava? Soprattutto chi ero
io
per giudicare?
«Ti
ringrazio per il passaggio… Stammi bene.» Dissi e
senza
neanche guardarlo in faccia richiusi la portiera della sua auto e mi
avviai verso il mio portone.
«Ehi!»
Urlò uscendo fuori dalla sua auto. «Non
m’inviti neanche a salire?»
Era
curioso, mi accorsi che per la prima volta in quella serata le sue
sopracciglia fossero d’accordo con la sua faccia.
Comunque
feci appena in tempo a voltarmi che già era a pochi
centimetri da me.
«Scusa…
E’ che sono molto stanca…»
«Ah…
Giusto…» Fece lui in un sorriso ironico.
Ripresi
a camminare verso il portone regalandogli un veloce cenno, mi aspettavo
se ne ritornasse in macchina, ma invece mi accorsi che continuava a
seguirmi con le mani ficcate nelle tasche.
«Che
c’è? Ti sto solo accompagnando alla porta
Kurata…»
«Ma…
Non preoccuparti, non serve.» Feci e mi affrettai a fare gli
scalini che portavano al portoncino del mio palazzo.
Come
se non avesse recepito il senso delle mie parole continuò a
seguirmi e non appena feci per inserire le chiavi nella toppa, sentii
la sua presenza alle mie spalle farsi più insistente,
pressante,
mi fu dietro e con uno scatto mi fece voltare, spingendomi alla parete.
«A
questo punto dovresti invitarmi di sopra, Kurata, offrirmi da
bere… Io poi farò finta di apprezzare
quell’intruglio che spaccerai per whisky, parleremo di questi
ultimi quindici anni, ci racconteremo qualche bugia, qualche mezza
verità… Poi… Facendo finta che sia
involontario ci
baceremo e finiremo a letto insieme trovandolo
necessario…»
Il
suoi occhi addosso, la sua faccia sempre più vicina alla mia
mi
toglievano l’aria, mi resi conto che il mio sguardo si
muoveva
freneticamente, che i miei occhi inseguivano i suoi movimenti, ma non
riuscivo a scrollarmelo di dosso.
Neanche
capivo se volevo farlo o non avevo le forze per farlo.
O
se fosse esattamente la stessa cosa.
L’unica
cosa che sapevo era che le gambe mi tremavano e che i miei polmoni
elemosinavano ossigeno.
«Ora…
Mi piacerebbe tanto tutta questa situazione, Kurata, ma non ho tutto
questo tempo…»
Continuando
a guardarmi quasi divertito, mi passò una mano tra i capelli
e
se li riguardò per qualche istante tra le mani,
lasciandoseli
poi scivolare tra le dita. «Direi di passare direttamente
alla
parte divertente e toglierci questo sfizio, non sei d’accordo
con
me, Kurata?»
Soffiò
il mio nome sulla mia bocca prima di spingere le sue labbra sulle mie.
A
dispetto del suo atteggiamento, la lingua di Akito mi
accarezzò
le labbra senza irruenza, ma anzi si mosse delicata fino a schiudermele
e insinuarsi piano nella mia bocca.
Risposi
a quel bacio senza neanche capirne il perché, ma fu un
riflesso
quasi involontario, un istinto naturale che mi spingeva da dentro.
Le
sue mani mi s’infilarono sotto la maglietta, le sue dita
erano
fredde e percepii uno strano brivido, ma non aveva a che fare col
freddo e neanche con quei brividi che ero ormai abituata a sentire dopo
una crisi. Era qualcosa di diverso, qualcosa di più intimo
che
non mi faceva né tremare, né battere i denti.
Si
spinse più addosso a me, lo sentii quasi sorridere sulla mia
bocca mentre il suo corpo mi schiacciava alla parete, avrei voluto
spingerlo via, in realtà mi lasciai andare alla sua bocca
reggendogli il viso con le mani.
«Cazzo,
Kurata.» Sussurrò mordendomi eccitato il labbro
inferiore.
Sentivo
di non volerlo, eppure non riuscivo a staccarmi.
Poi
tutto d’un colpo, come una corda alla gola, mi sentii
strozzare.
Emisi
una sorta di rantolo.
«Hayama…»
Ansimai il suo nome sulla sua bocca e lo spinsi via.
A
quel punto cominciai ad ansimare allargandomi il collo del maglione.
Lui
mi fissò confuso e tornò immediatamente a me, mi
passò una mano sul collo e mi sollevò il viso con
il
pollice.
«Kurata?
Addirittura? Ti manca il fiato?» Me lo disse in un risolino
compiaciuto, con il solito fare sbruffone.
Avrei
voluto urlargli addosso e piazzargli un ceffone in pieno viso, ma
sentii le gambe cedermi, il cuore schizzarmi in gola, battere forte.
«Vattene…» Riuscii a farfugliare solo
quello prima
di strisciare nel portone richiudendomelo alle spalle.
*****
Non
lo so quanto tempo passò.
Ansimavo
rannicchiata sulle scale, cercai di regolare il respiro, dilatarlo ma
più lo facevo più sembrava salirmi qualcosa alla
gola e
al contempo avvertivo come una pressa che spingeva e per quanto
tentassi di rialzarmi mi manteneva giù, sul pavimento.
E
poi d’improvviso, quando ormai la fame d’aria mi
portò a rantolare sul pavimento togliendomi persino la forza
di
ansimare, quando ormai credevo che fossi arrivata alla fine, sentii
come uno scoppio.
Qualcuno
aveva tirato via il tappo e quei vapori che credevo di gittare
involontariamente come un geyser, si trasformarono in un fiume in piena
che mi esondava dagli occhi.
Lacrime.
Lacrime
forti e violente come il vomito.
Piangevo.
Io
manco me la ricordavo più quando era stata
l’ultima volta che era successo.
Mi
toccai il viso incredula, mi guardai le mani umide, bagnate da una
linfa vitale che neanche sapevo più di possedere.
Tremavo.
Mi
portai una mano alla bocca strozzando un lamento e finalmente mi alzai.
Come
se le gambe si muovessero da sole mi fiondai nell’ascensore,
vidi
me stessa riflessa in quello specchio e le lacrime cominciarono a
scendere ancora più insistenti, mi strozzavano, mi colpivano
perfide, più perfide di quella crisi che avevano magicamente
spazzato via.
Quando
sbucai al settimo piano cercai di placare i singhiozzi e i lamenti
mordendomi la mano tra le lacrime, ma più cercavo di oppormi
più strillavo.
Era
una sensazione strana, come se tutti i miei organi avessero covato
della linfa per tutto quel tempo e ora che lo squarcio si era aperto
così tanto, spingeva chiassosa per uscire.
Era
un fiume in piena, violentissimo ma immotivato.
Perché
il motivo di tutte quelle lacrime non mi era chiaro.
Quando
entrai nel mio appartamento mi fiondai nel bagno, non riuscivo a
smettere di vomitare lacrime e lamenti, addirittura lo stomaco sembrava
contorcersi, vibrare.
Percepii
la bile risalirmi nella gola, il suo sapore amaro si fondeva nella
bocca a quello salato delle mie lacrime.
Come
in preda alle volontà del mio corpo mi fiondai sulla tazza
del water.
Vomitai.
*****
«Sana?
Sana? Sana, che hai combinato?» La voce di Naozumi mi
riportò alla realtà.
«Ti
rendi conto che stai dormendo sul tappeto del bagno?»
Urlò.
«E
poi che schifo è qui dentro? Vomito? Che cazzo hai
fatto?»
Detestai
le sue urla, mi arrivavano come lame nei timpani, poi Naozumi, da brava
prima donna, quando s’irritava si lasciava andare a urla
stridule
e acutissime.
Succedeva
poco, per fortuna, ma quando accadeva mi sentivo quasi molestata dalla
sua voce.
Si
accorse che lo guardavo piuttosto rintronata, così mi
sollevò dal pavimento.
«Hai
bisogno di una doccia…» Mi disse.
«Voglio
solo dormire…»
Lo
sentii urlare, strattonarmi, ma non mi voltai neanche a guardarlo, mi
trascinai fino al letto e scivolai sotto le coperte.
Mi
rannicchiai al buio nascosta fin sopra alla testa.
Lo
sentii distendersi accanto a me, poggiarsi al di sopra del piumone,
rendendomi impossibile ogni movimento.
Finché
la sua mano non volò sulla mia testa e mi
accarezzò con dolcezza.
«Dovresti
lavarti… Sei piena di vomito… Ora sporcherai
tutte le lenzuola.»
«Non
ce la faccio.»
«Vuoi
dirmi cos’è successo ieri sera?»
«Ho
bevuto troppo, mi sa.» Mugugnai.
«Bere
sul posto di lavoro? Non è da te.»
«Dopo
mi sono vista con Hisae e gli altri, siamo andati a bere in un
posto.»
«Immagino
il posto…»
«No,
non lo immagini, non puoi.»
Lo
sentii sbuffare e poi si alzò.
Non
mi mossi neanche di un millimetro anche se, stranamente, nonostante mi
sentissi uno straccio, mi sentivo addosso la forza per farlo.
Nascosta
tra le coperte fissai il pavimento accanto al mio comodino, i piedi di
Naozumi fecero capolino dopo pochi istanti.
«Ti
ho portato le medicine.» Disse.
«In
cucina c’è la colazione…
L’avevo portata per
farla insieme a te, ma ti sei fatta trovare sul pavimento del cesso,
tra il vomito e i postumi di una sbronza…»
Pur
non guardandolo in faccia immaginavo chiaramente la sua espressione
avvilita, la sua mano ad allargarsi la fronte e la postura nervosa.
«Perché
non mi lasci, Nao?»
A
quel punto lo vidi inginocchiarsi difronte a me, sollevò
lievemente la coperta e mi scoprì il viso.
«E’
solo un periodo, piccola. Anche io ne ho avuti tanti, ma
passerà.»
«Non
credo sia solo un periodo.»
«Certo
che lo è… Ti senti priva di aspirazioni, di
obiettivi,
poi però qualcosa accade e quel periodo passa, deve per
forza.
E’ la vita.»
«Come
sei bravo, Nao.»
Mi
sorrise ignorando il mio tono ironico e provocatorio e fece per
baciarmi la fronte, a quel punto però, sentii di nuovo
quella
voglia di pianto immotivato nascermi dentro e mi voltai
dall’altro lato dandogli le spalle.
«Scusa,
lascia perdere. Voglio dormire.»
Lo
sentii sospirare, alzarsi e andar via dalla camera da letto.
Perché
quelle lacrime? Soprattutto perché senza motivo?
Il
bacio di Akito non mi aveva smosso nulla, certo, mi rendevo conto che
il mio corpo aveva reagito ai suoi stimoli in maniera quasi automatica,
quasi meglio di quando lo faceva sotto l’effetto delle
medicine,
era una sensazione anche più potente delle mie medicine a
dire
il vero, ma comunque le emozioni non mi erano tornate affatto.
Forse,
pensai, quella reazione era solo un altro scherzetto della mia malattia.
Che
senso aveva vivere a quel modo?
Mi
passai un dito sulle labbra, il sapore del suo bacio non
c’era
più, l’avevo vomitato via insieme a tutto il resto.
Tirai
su col naso, mi asciugai quelle lacrime dispettose che non avevano
senso né motivo di sgorgarmi così dagli occhi e
affondai
i singhiozzi tra i cuscini, finché sfinita non mi
riaddormentai.
*****
Mi
risvegliai sentendo la voce di Naozumi provenire dalla cucina.
Non
era bello addormentarsi dopo un lungo pianto.
Io
lo avevo dimenticato, ma quando ci si addormenta tra le lacrime poi ci
si risveglia con le narici tappate e un mal di testa insistente.
Senza
fare rumore mi alzai lentamente dal letto lanciando uno sguardo a tutte
le medicine che Naozumi aveva abbandonato sul mio comodino.
In
pratica aveva svaligiato l’intero armadietto dei farmaci.
C’era persino un antipiretico e uno spray decongestionante.
Nel
dubbio era meglio prendere tutto, pensai che fosse stato più
o
meno quello il suo pensiero mentre imbambolato davanti
all’armadietto delle medicine si chiedeva quali fossero
quelle
giuste.
Questo
perché io per lui non avevo problemi, semplicemente lasciavo
che
mia madre l’inventasse per me solo per giustificare il fatto
che
mi sentissi priva di qualsiasi tipo d’ambizione.
La
voce di Naozumi si fece più acuta, pensai a due probabili
alternative: o stava provando una parte, o si stava lamentando con uno
dei suoi manager perché non aveva chiesto cosa prevedevano i
cestini del pranzo su Dio solo sapeva quale set.
Fu
quando mi decisi ad alzarmi e ciondolare come uno zombie fino alla
cucina che mi accorsi che nessuna delle due ipotesi fosse quella giusta.
Naozumi
era seduto al tavolo, spalle alla porta. Davanti a lui aveva un paio di
copioni aperti ed evidenziati in alcuni punti con pennarelli
fluorescenti e parlava al telefono.
«Io
temo siano inutili tutti questi psichiatri che lei le sta facendo
incontrare… Sana non è malata, anzi penso che
loro le
mettano in testa teorie strane, più complicate di quel che
è la realtà!»
Era
al telefono con mia madre, me ne rimasi sulla porta ad origliare quella
conversazione.
«Le
ho detto già quello che è successo!
L’ho trovata
distesa sul pavimento del bagno, ieri sera si è sbronzata ed
ha
vomitato! Sono cose che accadono a tutte le persone normali! Non
c’è da ricercare tutta questa
psicologia!»
Naozumi
si portò una mano in viso con fare esasperato, mia madre
dall’altro lato stava sicuramente facendo valere le sue
ostinate
ragioni.
Su
questo loro due erano molto simili, non volevano perdere, mai.
Certe
volte pensavo che ormai aggiustarmi, come diceva mia madre, o togliermi
questo senso di privazione che Naozumi diceva io avvertissi nella mia
vita, era la mission di entrambi.
Mi
sembrava più uno scontro tra loro che una vera e propria
ricerca di ciò che era vero.
Che
poi cos’era vero?
Io
ero malata, mia madre aveva ragione, ma era solo colpa mia che forse
ero priva di quella lucidità che serviva per affrontare la
cosa,
su questo aveva ragione Naozumi.
Quello
che non capivano però, era che in tutto questo loro non
c’entravano affatto.
Ad
ogni modo a me facevano sorridere, certe volte pensavo che volevano
disperatamente guarirmi per poi dirsi tra loro: “Vedi? Avevo
ragione io?”
«Ci
è andata dopo il lavoro… Con Hisae e gli
altri…
No… Lo escludo, lui non ci va mai a quelle stupide feste,
poi
dubito le possa smuovere ancora qualcosa.»
Quell’ultima
frase mi colpì.
Dubito
le possa ancora smuovere qualcosa.
Naozumi
c’aveva preso.
Vivevo
una vita in cui rivedere Akito Hayama non mi smuoveva proprio niente.
Era
questo a farmi male?
Senza
lasciare che s’accorgesse di me, me ne tornai a letto e
rimasi
lì per un po’ col naso per aria e ancora quelle
lacrime
che mi scivolavano ai lati delle guance.
Non
volevo pensare a lui, soprattutto non volevo pensarci senza provare la
benché minima emozione.
Mi
andava bene anche la rabbia, il senso di colpa, la vergogna…
Ma l’indifferenza che avvertivo mi disarmava.
Sentii
il cellulare vibrarmi nella borsetta, pur di non pensarci scivolai dal
letto e lo raccolsi.
Erano
le sei del pomeriggio, avevo ricevuto un paio di chiamate da mia madre
e ben 21 da Hisae, c’erano anche 18 messaggi e mi meravigliai
non
fosse già a casa mia. Notai poi che c’era anche un
messaggio da parte di Nobu, mi era arrivato proprio in quel momento a
dire il vero.
Anche
se quel giorno ero libera, lo aprii pensando che doveva esser successo
davvero qualcosa d’importante a lavoro perché non
mi aveva
mai scritto.
“Un
ragazzo è appena venuto a chiedere di te. Non mi ha detto il
suo
nome, comunque era un tipo alto, dai capelli chiari e a giudicare dallo
sguardo era anche abbastanza scazzato… Quindi ce
l’hai il
ragazzo, allora! ;-P”
“Non è il
mio ragazzo.”
Gli
risposi solo quello e poi pensai ad Hayama.
Pensai
che era rimasto sicuramente sconvolto dal mio atteggiamento, non avrei
neanche saputo dargli torto.
Baciare
una donna che poi si faceva venire una crisi di panico non era certo
un’esperienza da mettere in cima alla lista delle esperienze
di
vita per una persona normale.
Pensai
che di lì a poco sarebbe arrivata Hisae, soprattutto pensai
che
non avevo voglia di vederla, così come non avevo voglia di
avere
Naozumi in giro per casa quel sabato.
Proprio
lui, come se avesse captato i miei pensieri, fece capolino sulla porta,
mi ritrovò seduta al centro del letto con il cellulare tra
le
mani.
«Ma
buon giorno!» Mi disse in un sorriso. «Lo sai che
ore sono?»
Io
gli mostrai il cellulare. «Si, ho visto…»
«Con
chi messaggi?»
«Hisae,
a momenti sarà qui, penso sia meglio che tu non ti faccia
trovare.»
Lui
mi fissò per un istante grattandosi la testa. «Non
puoi
dirle che per oggi è meglio se non vi vediate?»
«Pensi
che questo possa trattenerla?»
Lo
vidi sbuffare un po’, poi si avviò in cucina, dal
rumore
che produceva volutamente mi accorsi che la mia uscita non gli era
andata a genio.
«Nao…»
Lo chiamai e lui non si fece attendere, come una furia si
parò
avanti a me guardandomi con aria risentita.
«Lo
sai che sono rimasto tutto il giorno qui ad aspettare che sua
maestà si svegliasse? Non ti senti neanche un po’
in colpa
nel mettermi alla porta così perché la tua
stupida amica
decide sia il caso d’irrompere qui senza il minimo
rispetto?»
Odiavo
quando mi faceva sentire in colpa, soprattutto quando pensava non
capissi che gli faceva solo piacere lasciare il mio appartamento quando
facevo così.
«Resta
allora.»
«Come
faccio a restare?»
«Allora
lo vedi che non sono io a metterti alla porta? Sei tu che non vuoi
farti trovare qui.»
A
quel punto la sua espressione si ammansì, lasciò
andare
un sospiro e mi si avvicinò. «Lo abbiamo deciso
insieme di
mantenere segreta questa relazione, dico solo che puoi anche trattenere
la tua amica e startene con me.»
«Non
la trattengo affatto, se vuoi trattieniti tu.»
«Vabbè,
ho capito. Sei nervosa. Pensare che tua madre dice sempre che tu non
sia in grado di innervosirti, sai? Invece è come dicevo
io… E’ solo un periodo.»
Me
lo disse in un sorriso, accarezzandomi i capelli.
Nella
mente mi tornarono le parole di Akito.
La vera Kurata è rossa,
aveva detto.
Pensai
che Naozumi non ci aveva mai fatto caso, anzi, quando, appena ci
mettemmo insieme, gli avevo detto che volevo cambiare colore ai
capelli, si era mostrato entusiasta.
Anche
il suo modo di accarezzarmeli… Era così diverso
da quello di Akito.
Erano
sempre stati diversi loro due, ma il punto era che ormai era una
diversità che percepivo ma non sapevo cogliere
più.
Poi
si chinò a baciarmi. «Fa’ una
doccia.» Mi disse e se ne andò senza voltarsi
indietro.
*****
Sulla
coperta il cellulare prese a vibrare, era mia madre.
Le
risposi subito, non volevo si preoccupasse troppo e si precipitasse a
casa mia.
«Mamma…»
«Ciao
tesoro! Naozumi mi ha detto che ieri sera ti sei divertita un
po’ troppo!» Trillò.
«Già…
Troppo.»
«L’alcol
non si accoppia bene con le tue medicine, lo sai, no?»
«Lo
so…»
«Comunque…
E’ stata una bella serata, almeno? Chi
c’era?»
«Tutto
il vecchio gruppo… E Hayama.»
«Ah…»
«Già.»
«Ti
ha fatto piacere rivederlo? Insomma… Dopo tutto questo
tempo, dico.»
«Beh…
Non più di tanto.»
«Ma
come? Immagino sia diventato un bel ragazzo, no?»
«Mamma,
per favore…»
«Che
noia che sei!»
«Senti
mamma, tra un po’ viene a trovarmi Hisae, mangeremo qualche
schifezza, parleremo un po’ e poi andrà via e io
mi
metterò a letto. Sta tranquilla.»
«Non
vuoi parlare un po’ anche con me? Come ti senti?»
«No
mamma, sul serio. Sto bene… E… Ti voglio bene,
sta tranquilla.»
La
sentii sospirare, scontenta. Adoravo mia madre e lo sapevo che vedermi
così l’annientava, ma quel giorno proprio non ce
la facevo
a rasserenare le persone che mi circondavano con la classica
condiscendenza, stavo male e volevo semplicemente starmene per conto
mio.
A
quel punto mi venne in mente Hisae, di certo se non l’avessi
fermata sarebbe arrivata di lì a poco.
«Mamma,
adesso vado, devo ricordare ad Hisae di…
Comprare… Delle cose.»
Le
regalai un paio di baci poco convinti e misi giù alla svelta.
Poi
chiamai anche la mia amica.
«Sana!»
Urlò. «Che cazzo di fine hai fatto?»
«Scusa…
Ho dormito fino a poco fa.»
La
sentii sbuffare, la sua voce però mi arrivava coperta da un
frastuono simile allo sferragliare dei treni sulle rotaie.
«Ma
dove sei?»
«Alla
stazione, ho avuto una riunione di lavoro a Saitama oggi,
sennò
sarei passata, mi hai fatto spaventare!»
Tirai
un sospiro di sollievo sentendoglielo dire. Le volevo bene ma quella
giornata volevo solo finisse alla svelta.
«Sto
bene… Non ti devi preoccupare.»
Mi
sembrò come innervosita da qualcosa, mi accorsi che prese
tempo
sospirando rumorosamente più e più volte, poi un
tizio
doveva averla urtata perché ad un tratto la sentii anche
urlare
qualche improperio all’indirizzo di qualcuno.
«Hisae
non ammazzare nessuno, ti prego…»
«La
vedo difficile, sono nera! Mi fanno lavorare anche di sabato, ma ti
rendi conto?» Sbuffò.
«Senti…»
Fece dopo un po’. «Ho sentito Akito prima, voleva
il tuo
numero, io non gliel’ho dato…
Però… Penso
voglia vederti… Ehm… Scusa…
Cioè…
Immagino sia successo qualcosa tra voi.»
Quella
giornata della memoria proprio non voleva finire, ormai ero a quota tre
persone che mi chiedevano di Akito.
Pensai
che l’unica persona a cui sarebbe dovuto interessare si era
limitato a dire che ormai non mi smuoveva niente. Mi chiesi che faccia
avrebbe fatto se avesse saputo del bacio che c’era stato tra
noi
due, soprattutto mi chiesi perché non mi sentivo dentro
nemmeno
il senso di colpa nei confronti di Naozumi.
«Mi
ha baciata, poi sono andata via…»
«Sana…
Cazzo! Scusami! Come al solito non avevo capito niente, pensavo avesse
insistito per riaccompagnarti a casa perché voleva parlarti
di
me e Gomi…»
«Te
e Gomi?»
«Si…
Beh… Ora te lo dico ma prometti di non chiedermelo
più
perché potrei non ammetterlo una seconda volta…
Purtroppo
penso proprio che mi piaccia.»
«Ma
chi? Hayama?»
«Ma
no! Gomi.»
«Gomi?
Ma Hisae lui è un tale…»
«Lo
so, è un cafone troglodita, ma non posso farci niente,
è così.»
«Non
mi ha detto proprio niente di voi due…»
«Immagino…
Sono stata una stupida... Chissà cosa credevo…
Perdonami.
Comunque tu come ti senti? Ti ha dato fastidio? Ti è
piaciuto?»
«Mentre
mi baciava mi è cominciata una crisi di panico.»
«Dio
mio, Sana! Mi sento veramente una merda… Ma chi cazzo ci
pensava
che aveva dei doppi fini? Non è mai venuto a nessuna festa,
da
quando è tornato non si è mai fatto vivo con
te…
Avevo dato per certo fosse ormai acqua passata… Io proprio
non
credevo che…»
«Tranquilla,
Hisae, me l’ha detto chiaro e tondo che voleva solo togliersi
lo sfizio.»
«Che
merda…»
«Dici?
Io ho pensato fosse solamente sincero.»
«Beh…
Se mi dici così è perché magari lo
sfizio era venuto anche a te…»
«No,
Hisae…»
Mi
limitai a risponderle così, evitando di dirle che in
realtà non avevo sentito proprio niente e che se non fosse
stato
per il mio stupido corpo e la sua naturale predisposizione a rispondere
ossessivamente agli stimoli di Akito Hayama, - perché
sì,
era proprio quello che mi era sembrato - di certo quel bacio non
sarebbe durato che un istante.
«…E
dai! Non fare la timida, magari chissà dallo sfizio nasceva
altro, Naozumi andava al diavolo e tu tornavi con Hayama…
Sarebbe stata davvero un’ottima prospettiva. Via Naozumi, via
medicine, via attacchi di panico e benvenuta
felicità.»
«Felicita?»
A
quel punto, abbozzò un’aria fintamente
indispettita.
«Ah non lo so… Guarda che un tempo lo dicevi te
che era
lui la felicità di Sana Kurata!!!»
Già,
era vero, mi ricordai anche il momento esatto in cui
gliel’avevo
detto, tutte quelle sensazioni che avevo provato e che in quel momento,
neanche rievocandole riuscivo a percepire.
Mi
sentii addosso di nuovo quella voglia di pianto immotivato che ormai
riuscivo a collegare all’ennesima risposta naturale del mio
corpo
agli stimoli di Akito Hayama.
La
verità era che non provavo niente e più me ne
rendevo
conto, più lo collegavo a lui, più mi veniva da
piangere.
Non
volevo! E un po’ lo odiai, quanto meno mi convinsi di
riuscirci,
perché pur non sapendo nulla, mi aveva fatto toccare con
mano
quanto ormai questa malattia aveva invaso ogni angolo della mia testa.
«Hisae…
Quando l’ho visto… Soprattutto quando mi ha
baciata, io
non ho provato nulla. Perché…?»
Lasciai
quella domanda nell’aria come un lamento. Lo sapevo che Hisae
non
avrebbe saputo rispondermi, lo sapevo che quella situazione non aveva a
che fare con lei, forse neanche direttamente con lo stesso Hayama a cui
semplicemente una sera era passato per la mente di portarmi a letto, il
problema ero io e quel tunnel degli orrori che era la mia mente.
Perché
dovevo vivere se vivere era quell’elettroencefalogramma
piatto a
cui si aggiungeva qualche onda solo con un farmaco?
Perché?
Se alla fine sarei andata avanti sempre peggio?
La
mia amica ebbe uno strano sussulto, immaginai stesse cercando con lo
sguardo una panchina e ci si stesse sistemando in attesa di parlare con
la giusta calma.
«Tesoro…
Però piangi…»
«Già…
E non so neanche il perché.»
«Naozumi,
quella merda.»
Lasciai
andare un debole risolino, era sempre la solita. «Dai,
Hisae!»
«Guarda
che è vero, sai? Non provi niente perché quello
là
ti getta addosso tutto il suo grigiore e tu vivi la vita con quelle
lenti lì! Dovresti liberartene… E poi secondo me
a letto
non è neanche capace.»
«Non
ti dirò se Naozumi ci sa fare, Hisae.»
«Certo
che no, perché sei una signorina per bene, darmi ragione
sarebbe di cattivo gusto.»
«Pensala
come vuoi…»
Le
dissi così, poi parlammo ancora della sera precedente, delle
uscite infelici di Fuka, di quanto erano carini Aya e Tsu, di quanto
fosse odiosa quella Mizuo che Gomi si ostinava a trascinarsi
dietro… O meglio lei parlò, io mi limitai ad
ascoltare
finché il suo treno non arrivò in stazione e mise
giù.
*****
Mi
fiondai tra le coperte pensando al fatto che tutto quel pianto aveva
avuto almeno un lato positivo, mi sembrava di non percepire quelle
sensazioni orribili che mi rendevano così dipendente dalle
medicine.
Certo,
mancava ancora molto tempo prima che si facesse sentire il bisogno e
poi, anche se non l’avessi avvertito, non potevo in alcun
modo
sospendere le medicine così, però ecco, mi
riconoscevo
sempre addosso quella apatia, ma fisicamente non avvertivo molti altri
sintomi.
Mugugnai
un po’ prima di acciambellarmi su me stessa, desideravo
smettere di pensare e dormire almeno fino al giorno dopo.
Non
so quanto tempo passò, mi risvegliai di soprassalto sentendo
sbattere alla porta. Il cuore mi arrivò in gola e fissai il
buio
della mia camera con un profondo senso d’inquietudine addosso.
Il
rumore era assordante, per un istante pensai che provenisse da
un’altra abitazione e mi alzai dal letto per controllare.
«Kurata!»
Sentii urlare il mio nome e riconobbi all’istante quella voce.
Hayama.
«Apri!»
Urlò. «Lo sento che ci sei!»
Akito
Hayama era alla mia porta con un ritardo di quindici anni.
«Non
ci penso nemmeno, va via!»
«Apri
ho detto!»
Non
gli risposi e me ne tornai a letto, pensai che presto o tardi si
sarebbe stancato e sarebbe andato via.
Che
diavolo voleva?
Poi
d’un tratto sentii un colpo secco, la porta aprirsi e
sbattere.
Ma
era scemo o cosa?
Istintivamente
m’accovacciai sotto le coperte cercando di mantenere fermi i
lembi come meglio potevo. Che aveva per la testa quello là?
Lo
sentii entrare nella mia stanza, accendere le luci.
«Kurata?
Che cazzo fai? Vieni fuori!»
«Ti
ho detto di andare…»
Avrei
tanto voluto sapere dove stava posando gli occhi, cosa gli stesse
passando per la testa nel vedermi nascosta sotto una coperta, come una
ladra nella mia stessa casa.
Feci
appena in tempo ad articolare quei pensieri che lo sentii infilarsi
sotto le coperte, afferrarmi per i polsi e tirarmi giù dal
letto.
Mi
sentii letteralmente volare per aria, prima di atterrare proprio
lì, difronte a lui.
Le
sue mani stringevano ancora i miei polsi, mi accorsi che mi guardava
quasi sotto shock.
«Ma
che ti salta in mente di venire così a casa mia? Mi hai
sfondato la porta!»
Come
se le parole gli fossero morte in gola sbarrò gli occhi e mi
fissò con una certa insistenza mentre io tirai via le mani
da
quella stretta.
Mi
accorsi che si guardava intorno, che la sua espressione diventava via
via più indecifrabile.
«Ma
cos’è questo posto?»
Poi
i suoi occhi si posarono sul comodino dove ancora troneggiavano tutte
le medicine che Naozumi ci aveva abbandonato.
Ci
si avvicinò lentamente e ne prese una a caso.
«Che
succede, Kurata?»
«Ho
la febbre, ieri sera devo aver preso freddo…»
Trillai
avvicinandomi a lui, allontanando come potevo la sua attenzione da
lì. «Dovresti andartene o te la prenderai anche
tu!»
Come
se non fossi neanche presente, mi scavalcò afferrando
proprio
quelle medicine, ne lesse il nome a voce alta e mi fissò
incredulo.
A
quel punto scattai immediatamente, mi fiondai su di lui e gliele
strappai via dalle mani.
«Te
ne devi andare!»
Di
tutta risposta, lui mi venne contro costringendomi ad indietreggiare
fino ad arrivare al letto.
«Ti
prego, vattene…»
Lui
si guardò ancora intorno e poi tornò a posare i
suoi
occhi su di me. «Che vuol dire questo posto?
E’…
Umido, buio, sciatto… Non è…
Beh…
Te…»
«Cosa
ne sai di me, tu? Non ti permetto d’irrompere qui e sparare
giudizi!»
Con
una forza dirompente mi spinse sul letto, si parò tra le mie
gambe bloccandomele e strinse le sue mani sui miei polsi. Come aveva
fatto con Gomi, mi mise al tappeto con una sola mossa obbligandomi a
fare ciò che lui voleva da me in quel momento: Guardarlo.
Guardarlo
dritto in quegli occhi che non mi restituivano niente, non riuscivano a
replicarmi un emozione diversa dal disagio di sentirmelo addosso,
né un sentimento chiaro e distinguibile.
Risentii
quel desiderio di piangere, scossi la testa per cacciarlo indietro, o
forse per non farglielo vedere.
Il
suo sguardo però mi agitava, studiava fisso il mio che
tentava disperatamente di scappare.
Fissai
l’attenzione sulle sue braccia, erano ricoperte dalla pelle
scura
della sua giacca, ma dalle poche grinze che faceva capii che per
tenermi ferma non si stava sforzando neanche un po’.
Il
suo respiro caldo mi agitava la pelle del viso, del collo, forse in
un’altra vita avrei trovato quella situazione piacevole,
magari
eccitante, in quel momento non avvertii nessuno stimolo, se per caso mi
avesse strozzata, pensai, non avrei avvertito neanche la paura.
Volevo
solo che mi lasciasse, che sparisse alla svelta dal mio appartamento e
mi lasciasse sola. «Ti prego… Mi fai
male… Lasciami
andare…» Quella volta glielo chiesi quasi in un
lamento.
Sperai
mi desse ascolto, invece sentii il suo sguardo perforarmi la pelle
più del suo respiro, boccheggiai allungando un po’
il
collo cercando di prendere aria e mi accorsi che seguì il
mio
movimento sperando quasi di leggerci qualcosa dentro.
Il
cuore mi batteva all’impazzata, i sintomi forse stavano
tornando
e sperai lui non se ne accorgesse, soprattutto sperai la piantasse di
stringermi i polsi piantato su di me. «Kurata… Che
cazzo
ti è successo? Perché sei arrivata a
tanto?»
Cominciai
a voltare la testa quasi convulsamente, la sensazione delle lacrime
sulla pelle mi mandò in black out il cervello, il suo
sguardo
addosso non riuscivo a reggerlo. Non era che provavo vergogna, solo
fastidio che si fosse intromesso con tutta quella irruenza nella mia
vita con ben quindici anni di ritardo.
«Lasciami!»
«No!
Non ti lascio finché non me lo dici!»
«Sono
malata!» Urlai.
«Fin
qui ci arrivo, Kurata, voglio sapere che è successo,
perché che sei depressa lo capisco da me!»
Il
mio mostro aveva un nome.
Akito
con la sua irruenza, aveva dato un nome alla mia malattia senza girarci
intorno, senza temere di apparire sgarbato, senza usare con me quella
delicatezza e quell’atteggiamento accorto che utilizzavano
tutte
le persone che popolavano la mia vita senza abitarla realmente.
La
conoscevano tutti la mia malattia, molti la negavano, mia madre la
accettava, ma non la chiamava per nome nessuno, ne erano forse tutti
terrorizzati, forse lo vedevano come un virus contagioso che se
nominato ti compariva alle spalle, ti si legava alla testa
convincendoti con insistenza di esserti infettata e loro non volevano
farla la mia fine.
E
in fondo era quello che facevo anche io.
Non
l’avevo mai usata quella parola, neanche tra me e me, certe
volte
pensavo che se solo l’avessi nominata le avrei regalato
spontaneamente una parte di me.
E
allora dicevo malattia, dicevo apatia, dicevo spossatezza, dicevo
tristezza.
In
realtà quella malattia, proprio della tristezza, non aveva
niente, perché riusciva a toglierti persino quella.
La
prima volta in cui sentii parlare chiaramente di lei, fu quando avevo
23 anni, durante un incontro con uno dei tanti luminari a cui mia madre
mi sottoponeva. Scoprii che quella malattia non aveva niente a che fare
con i sentimenti o con le emozioni negative, era semplicemente
logorante assenza di tutto ciò che rendeva umano un essere
umano.
Eppure
noi siamo umani, siamo fatti per provare quelle emozioni e quei
sentimenti, - belli o brutti che siano - e allora, quando il corpo
viveva quelle situazioni in cui sentimenti ed emozioni dovevano essere
chiamate in causa e loro non arrivavano, ecco che rispondeva
così, con quei sintomi che tanto mi attanagliavano.
Non
era tecnica, né tantomeno scientifica come spiegazione, ma
era
l’unica che riuscii a darmi sentendo parlare
quell’uomo con
quel suo lessico pieno di termini che avrei voluto solo dimenticare.
Scoppiai
a piangergli in faccia e a quel punto, finalmente lasciò
andare
la presa sui miei polsi e si tirò accanto a me, mentre io mi
nascosi il viso tra le mani, girandomi su un fianco, dandogli le spalle.
Pensai
che pur non vedendola, riuscivo a percepire quella immagine distante e
presente di me e lui insieme sul letto di casa mia.
In
fin dei conti era simile a quella del nostro ultimo ricordo insieme.
Cambiavano solo i tempi.
Riuscivo
a immaginare il petto di Akito che si alzava e si abbassava quasi
freneticamente, riuscivo a immaginare il suo sguardo spaesato perdersi
sul soffitto umido e scolorito della mia camera da letto, riuscivo a
immaginare me di spalle con la testa tra le mani e quei capelli castani
sparsi tra la sua spalla e la coperta.
Forse
Akito me li stava guardando, chissà cosa si stava chiedendo.
Non
ero la vera Kurata, sperai che lo capisse e se ne andasse.
Invece
gli sentii lasciar andare un gran sospiro e mi passò una
mano
tra i capelli. «Beh… Piangi. E’ un buon
segno.»
«E
non so neanche il perché…»
«Mica
conta questo?» Chiese retorico, mentre, rimanendo immobile
accanto a me, continuava a muovere le dita tra i miei capelli in un
movimento ipnotico e rilassante.
«Si,
ma vorrei poterci capire qualcosa…» Frignai e a
quel punto lui mi fece voltare tirandomi a sé.
«Le
togli queste mani dalla faccia?»
Feci
no con la testa e senza neanche accorgermene mi rannicchiai su me
stessa quasi a nascondermi. Lui però non parve fregarsene
delle
mie reticenze, mi avvolse le braccia intorno alla vita – e
alle
gambe, data la mia posizione – e mi depositò
piccoli baci
sulle mani.
«Ti
prego, smettila. Non mi susciti niente…»
«Quindi
non mi sbagliavo sul tuo orientamento sessuale… Quel bacio
con Hisae parlava chiaro in fondo.»
«Hisae
mi saluta spesso così e no, non sono lesbica, se
è quello che stai tentando d’insinuare.»
«Non
l’ho insinuato, l’ho proprio detto.»
«Non
lo sono e seppure lo fossi non sarebbe un
problema…»
«Per
me sì. Insomma, l’avresti capito grazie a me, non
pensi alla mia virilità?»
«Senti,
piantala con questo umorismo da due soldi. E poi smettila di baciarmi
le mani, ti ribadisco che non sento niente e in più puzzo
ancora
del vomito di questa notte.»
«Già,
è vero. A questo punto dovremo fare una doccia.»
Successe
nel giro di una manciata di secondi, non ebbi neanche la
facoltà
di rendermene conto che mi ritrovai tra le braccia di Akito che vagava
per casa mia alla ricerca del bagno.
Cercai
di oppormi con tutta me stessa, ma lui aveva in sé una forza
davvero palpabile, sembrava scalpitargli dentro con irrequietezza e
trasudare dalle mani che pur senza stringermi le gambe mi mantenevano
salda al suo petto, dalle braccia ferme e marmoree, persino dallo
sguardo fiero e dritto che puntava avanti verso l’obiettivo
ignorando totalmente le mie parole e i miei movimenti.
Trovato
il bagno mi spinse nella doccia, mi tenne ferma con una sola mano
mentre con l’altra armeggiava con la manopola
dell’acqua
calda.
«Ma
sei impazzito? Che intenzioni hai?»
«Farti
una doccia, mi sembra ovvio.»
Tentai
di mollargli uno schiaffo, ma fu rapido a schivarmi, o forse ero io
troppo ingessata nei movimenti.
«La
farei volentieri anche io insieme a te, ma al momento ho altro da
fare!» Biascicò, lanciandomi addosso il getto
dell’acqua.
A
quel punto però fui rapida io nel voltargli il soffione
della
doccia dritto in faccia, lui non si scompose più di tanto.
Si
scrollò un po’ d’acqua dal viso
portandosi indietro
i capelli, spense il getto dell’acqua e mi mise il soffione
tra
le mani.
Mentre
io ansimavo affaticata dal suo modo di fare, lui mi sorrise e mi
guardava con quello stesso sguardo che mi aveva regalato tante volte
anni prima.
Quanto
avevo amato quegli occhi? Quante volte quello sguardo mi aveva confusa
e quante altre mi aveva riportato a casa? Nella mente però
ricordai nitidamente solo le volte in cui mi aveva lasciato indietro.
Le
gocce d’acqua gli rigavano il viso, scivolavano leggere dalla
fronte alle labbra che mi accorsi avevano un colorito più
intenso. Pensai fosse bello, ma quello lo era sempre stato.
Poi
i miei occhi si mossero, gli accarezzarono il collo bagnato, quasi in
automatico una mia mano volò proprio lì, con le
dita
giocherellai un po’ coi suoi capelli.
Rimasi
per un istante così in una sorta di contemplazione, come
ipnotizzata dallo sfrigolio dei suoi capelli tra le mie dita che
lentamente poi improvvisarono una sorta di camminata fino al lobo del
suo orecchio e ci giocherellarono. La cosa comunque dovette stranirlo
perché corrugò la fronte e mi strinse una spalla
quasi
scuotendomi.
«Fa’
la doccia.» Me lo disse in un filo di voce ma mi parve quasi
un ordine.
Allora,
quasi come se non avessi cognizione dei miei movimenti, allontanai la
mano da lui e mi sfilai la maglia.
Lo
vidi strabuzzare un po’ gli occhi, mordersi un labbro quasi
incantandosi a guardarmi.
Lanciai
la maglia alle sue spalle e continuando a fissarlo mi sfilai anche i
pantaloni. Mi accorsi che le sue mani si chiusero in due pugni stretti
ai lati delle gambe, che i suoi occhi fissavano attenti i miei
movimenti.
Cercai
con la mano il gancetto del reggiseno, ne avvertii il click o forse fu
solo il rumore del vetro opaco della doccia, quello che Akito chiuse in
fretta davanti ai miei occhi.
Mi
risvegliai bruscamente da quella specie di spogliarello che il mio
corpo aveva deciso di realizzare apposta per lui.
Istintivamente
mi portai una mano al collo sorprendendomi non poco del fatto che la
stretta alla gola che mi aspettavo dovesse arrivarmi a quel punto non
si presentò.
Percepii
la sua presenza ancora in quella stanza, attraverso i vetri consumati
lo vidi con le braccia tese sul lavandino, lo sguardo fisso allo
specchio.
«Se
cerchi il phon è in camera mia. Na…»
E
quel nome mi si strozzò in gola. Non ne capii neanche il
perché ma la voce smise di uscirmi dalla bocca.
Mi
strappai di dosso le mutande e il reggiseno, le lanciai fuori dalla
doccia e m’immersi sotto il getto caldo dell’acqua.
«Io
torno subito.» Gli sentii dire e dentro di me ricordai che
l’ultima volta in cui me l’aveva detto non era
tornato
più indietro.
*****
Quando
mi tirai fuori dalla doccia doveva esser passato molto tempo. Avevo la
pelle arrossata, i polpastrelli aggrinziti.
La
stanza era avvolta dal vapore. Mi sembrò una trasposizione
della mia testa, una nube piena di oggetti dismessi.
Soprattutto
capii in qualche modo che me ne stavo rendendo conto solo in quel
momento che in quel bagno tutto sembrava cadere a pezzi.
Sentii
silenzio tutto intorno, immaginai fosse realmente andato via senza
tornare indietro.
Mi
chiesi se non mi fossi tirata fuori dalla doccia così tardi
per ritardarmi quella consapevolezza.
Ma
durò un istante, i miei occhi si posarono sul phon poggiato
sul
lavandino, evidentemente Akito lo aveva usato e aveva pensato di
farmelo trovare lì.
Mi
colpii quella immagine e irrimediabilmente pensai a Naozumi, non
ammetteva fossi malata, ma indubbiamente quella fiducia non me la
riservava.
O
forse non la riservava alle sue convinzioni.
Mi
asciugai i capelli e venni fuori dal bagno, mi accorsi immediatamente
del brusco cambio di temperatura e mi nascosi in camera mia, tirai
dall’armadio dei leggings e la prima felpa che mi
capitò
tra le mani e m’imbambolai a riflettere su cosa fare.
Akito
era andato via e non sarebbe di certo tornato. Mi domandai cosa fosse
venuto a fare? Che senso aveva quel suo modo di fare?
Mi
strinsi nelle spalle rispondendomi che il mio atteggiamento della sera
precedente lo aveva evidentemente sconvolto, poi lui era sempre stato
un tipo piuttosto sveglio, non mi meravigliai più di tanto
che
gli erano bastati pochi elementi per tirare le somme sulla mia
situazione.
Sbuffai
un po’ davanti al mio armadio aperto, chissà che
ora era, avrei dovuto cercare il mio telefono.
Mi
dondolai un po’ sui piedi senza avere una chiara idea su
ciò che fare quando un odore di tabacco mi arrivò
alle
narici.
Possibile
fosse tornato?
Mi
avviai incredula verso la cucina e sorprendentemente lui era
lì.
Era
al buio, aveva spostato il tostapane e se ne stava seduto al suo posto,
sul mobile della cucina che dava sulla finestra, con una gamba
cavalcioni al cornicione.
Pensai
che neanche lui doveva avere tutte le rotelle al posto giusto.
Fumava
una sigaretta e guardava fuori con uno sguardo assorto, forse triste,
il viso illuminato solo dalla sua sigaretta ogni volta che ne aspirava
un tiro.
Il
vento freddo di Dicembre gli smuoveva un po’ i capelli
ricacciando il fumo di sigaretta all’interno.
Che
cosa gli passava per la testa?
Mi
resi conto che mentre mi ripetevo che non m’importava niente
di
lui, stavo cominciando a chiedermelo, soprattutto mi resi conto che non
provai quel desiderio di vederlo andar via come mi era successo con
Naozumi.
Non
provai neanche un definito piacere, però forse, qualcosa che
si
avvicinava allo stupore e all’incredulità.
Accesi
la luce spezzando quel momento e lui si voltò a guardarmi.
«Certo
che ci metti una vita a lavarti.»
Scrollai
le spalle e mi strinsi tra le braccia. «Come mai sei ancora
qui?»
«Sono
uscito a prendere la cena, il tuo frigo non vede cibo da quando ancora
avevi i capelli rossi, mi sa… Oltre al fatto che
è da
rottamare.»
«Già,
devo cambiarlo… Ma comunque cos’hai contro i miei
capelli, adesso?»
«Te
l’ho già detto, la vera Kurata è
rossa.»
Sollevai
gli occhi al cielo, certo che si era proprio fissato, cosa ne sapeva
lui di me dopo quindici anni e poi che avevano di male i miei capelli
castani?
«Ti
ho riparato la porta, adesso si chiude.»
Giusto,
la porta, neanche avevo fatto caso al fatto che se non
l’avesse riparata avrei dormito con la porta aperta.
«L’hai
rotta tu…»
«Non
c’è di chè.»
A
quel punto balzò verso l’interno, spense la
sigaretta in
uno dei tanti posacenere che Hisae disperdeva nel mio appartamento e mi
regalò un sorrisetto che in un’altra vita avrei
definito
irresistibile indicandomi il tavolo su cui erano poggiati molti
sacchetti di plastica.
«La
sai una cosa, Kurata? Io non lo so qual è il tuo piatto
preferito. Ci pensavo mentre cercavo di capire cosa prendere.»
«Non
importa, tanto non ho fame.»
Come
da prassi, ignorò le mie parole, mi si avvicinò e
mi
liberò dalle mie braccia conserte tirandomi al tavolo.
«Posso
sapere per quale motivo stai facendo tutto questo?»
«Beh
perché mi va.»
«Non
ho fame, Hayama.»
«Come
dicevo… Non sapevo cosa prenderti così ho
pensato… Magari del sushi.»
«Quello
piace a te.»
A
quel punto mi sorrise con fare sbruffone e tirò fuori dal
sacchetto della farina.
«Ma
poi mi sono ricordato che sei una viziata, che di certo non avrei
scelto il ristorante giusto, il sushi giusto e ho lasciato
perdere…» Continuò, tirando fuori dal
sacchetto
anche delle uova.
«Magari
il tonkatsu…
Ma poi avresti detto che non ti piaceva il maiale e che avresti
preferito del pesce…» Aggiunse e tirò
fuori dal
sacchetto dei gamberi, della pancetta e delle salse.
«Hayama?
Che stai facendo? Ti ho detto che non ho fame.»
«Il
ramen? Ho pensato anche a quello, ma quello… Beh, non andava
a
me.» Disse e tirò fuori dei porri, un cavolo e una
serie
infinita di verdure e spezie.
«Così
mi sono detto che forse, per accontentare una come te, sarebbe stato
meglio prendere tutto il necessario per una okonomiyaki
e lasciarti fare.»
Era
stato un gesto carino? Non riuscii a definirlo, soprattutto non
riuscivo a definire lui. Perché ora stava facendo
così?
Perché scomodarsi tanto per una che fino al giorno prima per
lui
neanche esisteva?
«Non
ho una teppan
in casa.»
«In
qualche modo ci arrangeremo.»
«Ma
ti ho già detto che non ho fame.»
«Io
sì, dammi una mano a prepararle.»
Sbuffai
sonoramente mentre lui mi diede le spalle e cominciò a
riordinare la spesa andando a tentoni tra i pensili della mia dispensa
e a mano a mano che lo faceva mi accorsi che non si era limitato ai
semplici ingredienti per le okonomiyaki, mi aveva letteralmente
riempito i mobili di ogni ben di Dio.
«Guarda
che sono in grado di farmela da sola la spesa…»
«Non
ho mica detto che sono per te queste cose?»
Lasciai
scivolare la conversazione roteando gli occhi al cielo, mi
balenò nella testa la possibilità di andarmene a
letto e
lasciarlo lì a fare ciò che voleva,
così, me lo
guardai per un po’ come se mi fosse appena arrivato in casa e
scrollai le spalle.
«Senti
io vado a letto, tu fa come ti pare.»
Neanche
mi rispose, m’afferrò per un braccio e mi
tirò al lavandino parandosi alle mie spalle.
La
sua figura mi avvolse, sentii il suo petto schiacciarmi la schiena, le
sue braccia incollarsi alle mie e le sue mani incastrarsi perfettamente
sulle mie.
Mi
sembrò di sussultare per quella assurda posizione in cui mi
aveva messa, ma sembrò curarsene poco, come se fossi una
marionetta mi piazzò il cavolo tra le mani e richiuse la sua
mano sulla mia, poi afferrò il coltello con quella che ormai
non
sapevo più se fosse la mia mano o un prolungamento della sua
e
cominciò a farmelo tagliare guidando i miei movimenti con i
suoi.
Niente,
non mi dava scelta né possibilità di scampo.
Sollevai
il viso a guardarlo, era così assorto da sembrarmi buffo.
«Hayama…»
Sussurrai scuotendo un po’ la testa.
«E’
questo il problema, Kurata, sei cocciuta e anche viziata.»
«Non
è vero.»
«Si
che è vero!»
«Ci
metteremo il doppio del tempo solo perché non vuoi
collaborare.»
Così
mi disse, nel tono della sua voce però non c’era
frustrazione né rabbia, ma una sorta di delicata e timida
dolcezza.
Non
mi arrivava tutto chiaramente, ma mi accorsi che mentre lui, incollato
a me guidava i miei movimenti facendomi di fatto preparare la cena,
avevo persino smesso di pensarci, di chiedermi perché fosse
lì, cosa significasse il suo modo di fare.
Semplicemente
mi lasciai andare.
E
più lo facevo, più mi accorsi che le mie
percezioni e le mie sensazioni si stavano dilatando.
Feci
caso all’odore della sua pelle, al suo respiro che da quella
posizione mi solleticava il collo, ai suoi movimenti sempre un
po’ nervosi che celavano dentro un’irruenza
istintiva che
mitigava con la sua proverbiale tendenza all’autocontrollo e
a
quella meticolosa precisione.
Era
un contrasto strano che però percepivo così,
pelle contro pelle.
Il
suo corpo mi parlava di qualcosa, qualcosa di scomodo che lui stava
tentando di nascondermi ma che io sentivo senza chiarezza, come avvolto
da una sorta di nuvola di fumo.
Come
una sensazione che intimamente conosci bene, ma non sai spiegare con
semplici parole.
I
miei occhi fissarono attenti le sue mani, mi accorsi che erano
così diverse da quelle di Naozumi, avevano un tocco
più
deciso, più virile, una pelle meno sottile e anche la forma
era
diversa.
Le
mani di Akito non sembravano affatto levigate dalla carta, ma anzi
sembravano aver fatto tanto, forse troppo, era come se gli sentissi
stretto intorno alle dita qualcosa simile a dei lacci, come se tra la
pelle delle sue mani e la mia ci fosse una sottile barriera fibrosa.
Mentre
pensavo a tutte queste cose, neanche mi accorsi che il petto di Akito
non era più contro la mia schiena, che le sue mani non
guidavano
più i miei movimenti, ma che avevo cominciato a fare tutto
da
sola, in una sorta di meccanica e involontaria autonomia.
Quando
lo realizzai mi accorsi che avevo già davanti
l’impasto per le okonomiyaki.
Mi
voltai a guardarlo e lo ritrovai poggiato braccia conserte ai fornelli
che mi guardava con una sorta di compiaciuto risolino negli occhi.
«E…
E ora che facciamo?» Gli chiesi.
«Direi
cuocere tutto e mangiare, ce l’hai una padella,
Kurata?»
Annuii
e cominciai a cercarla tra tutte quelle cianfrusaglie che neanche
ricordavo di avere, nel frattempo lo vidi prendere due birre dal frigo.
Le
aprii con il retro di una forchetta e me ne passò una non
appena venni fuori dalla mia ricerca.
Le
fece tintinnare e ne mando giù un lungo sorso mentre io me
ne
rimasi lì a guardarlo con la padella in una mano e la birra
nell’altra come incapace di capire se avrei dovuto mettere la
birra sul fuoco e attaccarmi alla padella o il contrario.
Forse
gli sembrai buffa perché mi sorrise avvicinandomisi e si
chinò su di me.
Mi
strappò via la padella dalla mano e poi si
allungò a baciarmi le labbra.
«Ma
che fai!» Urlai tirandomi via da quel contatto.
«Controllavo
i tuoi riflessi.» Mi disse, per poi mettere la padella sul
fuoco.
«Non
mi piace che approfitti così delle situazioni!»
Mi
fissò in uno strano risolino, ero certa stesse per
rispondermi
qualcosa di ironico e pungente ma il cellulare prese a suonargli nella
tasca dei jeans e se lo cacciò fuori guardando il display.
Si
adombrò di colpo e rispose spostandosi quasi
d’istinto verso la finestra.
Mi
sembrò di riconoscere la voce di Gomi, ma non ne ero proprio
sicura, quello che mi colpii maggiormente fu la sua espressione truce,
la sua postura che da rilassata mi sembrò contrarsi
involontariamente.
«Che
figlio di puttana!» Fece e mi diede le spalle, lo vidi mentre
si
cacciava una mano nelle tasche tirando su una sigaretta.
«Si,
lo so… Ho capito, però adesso no.»
M’imbambolai
a guardare i suoi movimenti, c’era qualcosa di strano in lui,
mi
sembrò stesse trasudando un qualche tipo di sentimento poco
chiaro, soprattutto poco sano.
C’era
della impercettibile veemenza nel suo modo di accendere la sigaretta,
c’era un chè di vagamente trattenuto, sedato, nel
modo che
aveva d’interagire con ciò che aveva tra le mani.
Mi
sembrò come se stesse fumando per evitare di scaraventare il
telefono al muro.
«Ti
ho detto dopo.» Scandii e io gli guardai le spalle
irrigidirsi, i
muscoli delle braccia vibrare impercettibilmente.
Poi
riattaccò quasi lanciando il telefono sul mobile e
buttò fuori un lungo sbuffo denso di fumo.
«E’…
Tutto ok?»
«Sì.»
«Se
hai da fare vai, non devi per forza…»
«Kurata,
la padella sta per andare a fuoco, dai sbrigati!» Fece e mi
superò afferrando la ciotola con l’impasto.
*****
Un’ora
dopo eravamo a tavola e io ero già arrivata alla seconda
okonomiyaki.
Dopo
quella telefonata Akito era cambiato, benché tentasse di
nasconderlo mi accorsi che era diventato più taciturno, mi
sembrò sempre molto presente, ma era evidente che con i
pensieri
fosse altrove.
I
suoi movimenti non erano più fluidi, ma quasi nervosi.
Il
tutto però, mi parve affievolirsi e svanire lentamente col
trascorrere del tempo.
Mentre
mangiavamo mi accorsi che tutta la sua attenzione era completamente
rivolta a me.
Mi
sembrò quasi mi stesse controllando e io non saprei dire se
quel
suo atteggiamento mi inquietò o mi confortò.
L’unica cosa che sapevo era che non avevo voglia di sentirgli
dire “Ora devo andare.” nè di dirgli
“Forse
è meglio se ora vai.”.
Per
tutto il tempo parlammo poco, ma lo percepii moltissimo.
«E il karate? Ti
alleni ancora?»
«No,
non più.»
Lo guardai un po’
stranita, il suo non mi sembrava affatto l’aspetto
di uno che stesse senza far niente, ma comunque decisi di non indagare
ulteriormente.
«I
takoyaki
dei mercatini del Tanabata e i taiyaki
al cioccolato.» Feci dopo un po'.
«Cosa?»
«Il
mio piatto preferito.»
«Giusto…
Sono i piatti preferiti dai bambini, dovevo semplicemente pensare in
maniera elementare.»
«Senti
chi parla! Il signor il sushi non mi dispiace! Almeno io so
dirlo!»
«Dire
cosa?»
«Mi
piacciono tantissimo queste okonomiyaki, ad esempio, io so
dirlo.»
Lui
si voltò a guardarmi e mi strizzò un occhio.
«Perché le ho preparate io.»
«Veramente
hai fatto solo finta, ho fatto tutto io.»
«Sottigliezze…
E comunque ti piacciono tantissimo.» Rimarcò.
Mi
sembrò di capire cosa stesse intendendo. «Guarda
che non
sono malata al punto da non rendermi conto se ciò che mangio
sia
commestibile o meno. Le mie papille gustative funzionano benissimo,
sono le emozioni che sembrano andate per i fatti loro.»
«Però
eri entusiasta mentre lo dicevi.»
«Sarà
stata la serotonina, ce n’è parecchia nelle uova,
sai?»
«Io
sì, tu che ne sai?»
«Me
l’ha detto Nobu.»
«E
chi sarebbe Nobu?»
«Il
mio collega.»
Inarcò
un sopracciglio e mi parve stesse per dire qualcosa, ma
buttò giù della birra e non aggiunse altro.
«Ieri
mi ero fatta un’idea molto diversa sul tuo
conto…»
«Del
tipo?»
«Beh,
del tipo “Dai tesoro non insistere, ci vediamo
domani” e
poi saresti voluto venire a letto con me.»
«Se
stai pensando che non mi è rimasta quella idea sei
totalmente fuori strada, Kurata.»
«Sei
un maniaco, Hayama.»
«Andiamo!
Sono solo sincero. Non era sbagliata la tua impressione.»
«Non
mi piace come hai trattato quella ragazza, neanche come hai trattato me
dopo.»
«Beh…
E’ comprensibile.»
«E
non ti scusi?»
«Che
senso ha? Lo rifarei.»
«Lo
sai che c’è un nome per quelli che trattano le
donne come fai tu?»
«Ma
io non tratto proprio nessuno, Kurata, né tanto meno sono
uno che si scopa tutte.»
«Quindi
vuoi farmi credere che quella era la tua ragazza?»
«Ti
sembrerebbe così assurdo?»
Mi
rigirai un pezzo di okonomiyaki nel piatto, mi chiesi molte cose tutte
insieme, ma non riuscii a tirar fuori niente.
Però
ecco, mi ritornò alla mente quando Akito mi disse che lui e
Fuka
stavano insieme, pensai fosse veramente strano il modo che aveva la mia
testa di rimandarmi tutte quelle immagini.
«Posso
chiederti perché sei qui?»
«Te
l’ho già detto, mi andava.»
«Perché
ora non sei più sincero?»
Mi
parve che quella domanda lo colse un po’ alla sprovvista, mi
guardò per un attimo con un’espressione un
po’
vuota, nei suoi occhi c’erano tante parole, ma forse non
sapeva
come metterle in fila per rispondermi, fatto sta che mi parve di
percepire un tempo lungo e denso prima che finalmente lo vidi muoversi.
Si pulì la bocca con un tovagliolo e lasciò
andare un
gran sospiro, poi allungò il braccio verso di me,
afferrò
lo schienale della mia sedia e mi tirò accanto a lui.
Che
diavolo gli era preso?
Lo
guardai stranita, ma lui, infischiandosene delle mie
perplessità, cercò i miei occhi e si
parò difronte
a me, mi accorsi che il suo sguardo mi studiava attento il viso, i
capelli.
Proprio
quelli mi sembrò li studiasse con un certo accanimento, me
ne
portò lentamente una ciocca dietro all’orecchio.
Non
riuscivo a spiegarmi niente, i suoi gesti mi avevano indubbiamente
catturata, tanto da impedirmi di reagire, ma non c’era niente
che
mi arrivava chiaramente.
«Che
stai pensando?»
«Che
hai avuto quindici anni per tornare indietro e non l’hai
fatto,
che ieri, semplicemente ti ho spaventato e ora sei tornato qui per
rimediare al passato… Hai dei sensi di colpa, ecco
tutto.»
Sorrise
tentando di non darmelo a vedere e abbassò un po’
lo
sguardo. «Non è niente di tutto
ciò.»
«E
allora?»
«Beh,
la verità è che io non ho saputo aiutarti allora
e temo
proprio di non saperlo fare neanche adesso.»
«Quindi
cos’è? Compassione?»
«No,
Kurata… E se vuoi saperlo, per molti aspetti che non ti
renderebbero certo fiera di me, non ti è nemmeno
d’aiuto
la mia presenza qui.»
«Non
ti capisco per niente, perché sei qui, allora?»
«Mi
hanno detto che eri guarita da quella malattia. E allora mi sono tenuto
alla larga, ti ho immaginata al sicuro, magari con un tizio non
affascinante quanto me, ma al sicuro.»
«Sei
troppo convinto, Hayama.»
«Può
essere… Il punto però è che quando
ieri ti ho
vista così io… E’ stata una doccia
fredda
perché io un mondo in cui tu non sei felice non ho saputo
proprio immaginarlo…»
Lui
sorrise e mi prese le mani. «E allora me lo sono dimenticato
che
quel che sono oggi non volevo fartelo vedere… Non potevo
più starmene alla larga, mi sa.»
Non
so cosa successe dentro di me, davvero non avevo cognizione del mio
corpo, delle mie sensazioni. Mi resi conto di essere incollata alla sua
bocca senza sapere neanche come avessi fatto ad arrivare a tanto.
Lui
però mi parve molto più consapevole di me, mi
tirò
stretta a sé infilandomi una mano dietro alla schiena, sotto
alla felpa troppo larga che avevo tirato a caso fuori
dall’armadio.
Come
la sera precedente mi accorsi che c’era una certa irruenza
nei
suoi movimenti, ma era come se su di me si smorzasse in una timida
delicatezza.
Mi
stringeva con forza e mi accarezzava le labbra con delicatezza, mi
sfiorava appena la pelle e mi manteneva salda.
Mi
sollevò piano e mi fece sedere sul tavolo, lo avvertii fra
le
mie gambe mentre ancora le sue labbra rincorrevano le mie.
Avrei
voluto disperatamente un segno, un’emozione, una stupida e
insignificante sensazione, ma più me lo sentivo addosso
più mi rendevo conto che era solo il mio corpo a desiderarlo
così tanto, io dentro non sentivo niente.
Forse
dovette capirlo anche lui perché di punto in bianco si
fermò e chinò la fronte sulla mia.
«Non
senti niente, eh?» Me lo chiese in un sussurro simile ad un
ansimo che richiuse in un bacio sulla punta del mio naso.
Scossi
un po’ la testa e non potei fare a meno di chiedermi come
avesse fatto a capirlo.
A
quel punto, scivolò pian piano sulla sedia, si mise a sedere
e poggiò la testa sulle le mie gambe.
«Cazzo…»
Sbuffò. «Perché…»
«Non
lo so, Hayama… Tu hai provato qualcosa?»
«Eccome.»
«Raccontamelo.»
«Cosa
dovrei raccontarti? Che mi stava già venendo duro?»
«Non
mi serve la spiegazione fisiologica, Hayama… Raccontami
quello che hai sentito!»
«Beh...
Malinconia, passione, desiderio, inadeguatezza, vergogna... E ora, se
proprio vuoi saperlo, una grandissima frustrazione.»
«Dove
li hai sentiti?»
Lui
a quel punto, senza muoversi dalla sua posizione, sollevò
una
mano e la portò in un punto preciso del mio corpo, una zona
tra
il cuore e lo stomaco.
La
mantenne lì per un po’.
Mi
sembrò stesse provando a infondermeli ma purtroppo non
avvertii
niente, se non la sensazione tangibile della sua mano in quel punto,
solo mi colpì il fatto che ancora una volta mi accorsi che
c’era una sorta d’irruenza nei suoi movimenti che
sembrava
arrestarsi di colpo incontrando una qualsiasi parte di me.
Quando
tolse la mano da lì, sbuffò nascondendo la testa
tra le
mie gambe e io, come se mi venisse in automatico, gli accarezzai i
capelli.
Per
un istante pensai al mio lavoro, al fatto che mi facesse sentire bene
nella sua meccanicità ed avvertii una strana sensazione. Non
mi
piaceva affatto quello che confusamente stavo percependo, soprattutto
non mi piacevano quelle immagini che la mia mente mi inviava senza
spiegazioni né contesto.
Se
anche quella mia naturale propensione a rispondere ai suoi stimoli
aveva qualche somiglianza con la meccanicità del mio lavoro
non
potevo affatto tollerarlo.
Forse,
formulando quel pensiero, lasciai andare un lamento, perché
ad
un tratto Akito sollevò la testa e mi guardò.
Mi
accorsi che stavo piangendo quando sentii le sue dita muoversi sulle
mie guance.
«Decisamente
venire qui non è stata una buona idea… Forse ti
sto solo
incasinando ancor di più, eh, Kurata?»
«Non
lo so… Però… Anche se non sento
nulla… Il
mio corpo ti risponde e non ne capisco il perché…
Ho un
po' paura... In più penso non sia rispettoso per le persone
che
abbiamo accanto.»
Quell’ultima
frase gli rabbuiò lo sguardo.
Rimase
a fissarmi per un po’ e poi si alzò in piedi.
Gli
riconobbi nei movimenti una certa pesantezza, mi sembrò che
le gambe gli fossero diventate come il piombo.
«Forse
adesso è il caso che vada.»
Sentirglielo
dire mi spiazzò e non me lo sarei neanche mai aspettata.
«E’ per qualcosa che ho fatto?»
Come
se la mia cucina fosse d’un tratto diventata claustrofobica
s’infilò la giacca di pelle e si cacciò
le mani
nelle tasche molleggiando un po’ sui piedi come a liberarsi
da
quel piombo che gli avevo percepito addosso.
«No,
è solo che… Gomi mi sta aspettando.»
Non
volevo se ne andasse, ma mi accorsi che la mia volontà non
si sposava con nessuna motivazione riconoscibile.
Lui
a quel punto si strinse nelle spalle e mi regalò uno sguardo
stentato. «Ciao, Kurata.»
Mi
disse solo questo e prese la porta.
Io
me ne rimasi lì, ferma su quel tavolo tra i resti
dell’unica cena che avevo fatto quella settimana, con le
gambe
che dondolavano e lo sguardo che non sapeva neanche dove posarsi.
Se
n’era andato in un «Ciao, Kurata.» Pensai
che fosse anche la prima frase che mi aveva detto.
Come
un cerchio meccanico che si chiudeva, come il mio lavoro al konbini.
E
comunque, non sentivo niente.
*****
Io
non lo vedevo da cinque giorni, ma pensavo confusamente a lui da sei.
Pensai
che fosse a causa del fatto che avessi trovato nella mia dispensa una
coppia di taiyaki al cioccolato il mattino dopo, o perché
Naozumi la domenica mi aveva invitato a casa sua ordinando delle
okonomiyaki da quel locale carino in centro. Fatto sta che comunque non
mangiai niente, mi facevano schifo, neanche mi aveva fatto piacere
andarci a casa sua.
Poi
però mi aveva detto che ci teneva mangiassi con lui
perché l’indomani sarebbe partito per girare un
film e
sarebbe stato via per almeno sei settimane, così mi ero
sentita
meglio e mi ero lasciata convincere.
Facemmo
l’amore e, mentre
le molle del materasso cigolavano fastidiosamente sotto di me, pensai
al fatto che non si era mai accorto che non mi avesse mai suscitato
nulla fare l’amore con lui e poi pensai anche che era la
prima
volta che mi accorsi mi desse fastidio.
Quel
giovedì pomeriggio ero a lavoro, per fortuna insieme a me
c’era Nobu e come al solito mi mise addosso una certa calma.
Mentre
me ne stavo alla cassa in attesa dei clienti e Nobu sfaccendava tra gli
scaffali, vidi entrare Aya.
Un
cappotto blu lungo fino al ginocchio e i capelli raccolti in quella sua
semplice acconciatura che profumava di ricordi, mi si
avvicinò
in un sorriso dolcissimo.
«Sono
felice di averti trovata.» Disse e mi schioccò un
bacio su una guancia.
Rimase
lì con me per un po’, mi disse che era di ritorno
dal
turno in ospedale, che le sottraeva molto tempo quel lavoro, ma le
piaceva e poi accennò vagamente al fatto che lei e Tsu
stavano
provando ad avere un bambino, quella confessione mi fece sentire
inaspettatamente bene, io pensai che sarebbe stata una madre
bravissima, soprattutto pensai che un figlio nato da un amore
così non poteva che essere un bambino fortunato.
Poi
tirò dall’espositore due taiyaki e me li mise
sulla cassa.
Li
fissai e pensai a lui, soprattutto pensai al fatto che quelli che mi
aveva nascosto in dispensa li avevo lasciati lì sbattendo
con
forza l’anta non appena collegai la loro presenza
lì ad
Akito.
Perché
era andato via così? Non c’era giorno in cui non
me lo chiedessi.
«Prendo
questi due, a patto che uno lo mangi fuori insieme a me.»
Nobu,
che per tutto il tempo non aveva fatto altro che ascoltare la nostra
conversazione, si precipitò alla cassa e si propose di
coprirmi.
«Offre
la casa, andate pure.» Disse e strizzò un occhio a
Aya.
Ci
sedemmo sulle scale che costeggiavano il retro del konbini, Aya mi
porse un taiyaki e cominciò a scartocciare il suo.
«Senti
Sana…» Fece dopo un po’. «Sai
qualcosa di Akito?»
«Che
dovrei sapere?»
«Beh…
Scusa se te lo chiedo ma Tsu è molto preoccupato per lui e
io non so proprio cosa fare…»
«Non
ti seguo…»
«Vedi,
lui e Akito ormai non sono più amici come un tempo,
però
quando gli ho detto quello che è successo sabato notte
è
andato in apprensione…»
«Aya…
Perdonami ma io davvero non capisco, cos’è
successo sabato notte?»
«Akito
è stato in ospedale, non ero al pronto soccorso in quel
momento
ma ho letto il suo nome tra i referti e ho visto che presentava varie
lesioni, contusioni e addirittura una paio di costole
incrinate…
Purtroppo però ha rifiutato il ricovero e nessuno di noi sa
dove
abita… Neanche in ospedale sanno dirmi molto... Ma Hisae non
ti
ha detto niente?»
«No…»
A
quel punto di sicuro continuò a parlare, ero certa stesse
continuando a raccontarmi di qualcosa che aveva a che fare con Tsu e la
sua preoccupazione, ma non mi arrivò chiaramente altro.
Quella
notizia mi schiantò su quelle scale, percepii il mio respiro
farsi irregolare.
Akito.
Quando
Aya se ne andò me ne rimasi lì con lo sguardo
fisso sui
gradini delle scale. Mi sentii dentro un chiasso gorgogliante che non
si esprimeva se non con dei crampi allo stomaco e una sensazione di
fiato corto.
Senza
neanche capire come mi ritrovai al telefono con Hisae.
«Akito…»
Fu l’unica parola che mi uscii dalla bocca.
«Dove
sei?»
«A
lavoro.»
«Arrivo.»
Penso che mi disse proprio così, mentre mi accorgevo di
alcune
goccioline sul display del mio cellulare.
Doveva
essere la pioggia, me lo dissi convinta, mentre il sole mi
contraddiceva la faccia.
Buongiorno a tutte ragazze!
Come
state?
Sono tornata con un nuovo capitolo -stranamente non in ritardo, mi
sorprendo di me stessa- e spero sia un po’ più
delineata
la condizione di Sana e il suo rapportarsi a ogni personaggio tirato in
causa.
Vi dirò la verità, ci ho messo più
tempo a
scrivere questo angolo autrice che a scrivere il capitolo…
I
motivi sono tanti e non mi vengono fuori con facilità, li
dico
così un po’ alla rinfusa, senza un particolare
ordine
d’importanza, non vorrei ferire la sensibilità di
qualcuno, non vorrei esser stata troppo cruda nel descrivere questa
condizione di Sana, temo di non aver detto tutto con precisione e al
contempo temo di aver detto troppo con estrema precisione.
Non lo so. Ho solo una marea di dubbi che forse un po’ mi
frenano e una marea di motivazioni che mi spingono.
Io
comunque chiedo scusa a prescindere se ho analizzato troppo degli
atteggiamenti o se ne ho romanzati di altri.
Non
vorrei mai peccare di superficialità o mancare di rispetto
parlando di cose così serie che mio malgrado ho sentito
l’urgenza di raccontare.
Spero che il fatto che la storia sia raccontata tutta attraverso il
filtro Sana non vi abbia un po’ straniato, soprattutto non vi
abbia appesantito, ma ci tenevo a raccontare questa storia con questo
sguardo quasi “assente”.
Comunque, dopo questa doverosa ammissione di scuse torno
l’imbecille di sempre X-D
Ma
sto Akito?
Eh…
Io ho chiaro chiaro chi è ma spero vi sia rimasta un
po’ ombrosa la sua natura.
Comunque mi rendo conto che questo aggiornamento non sia una ventata di
allegria ma spero possa piacervi ugualmente -Anche se ammetto che mi
dispiace avervi messo addosso una sorta di angoscia in un periodo
già di per se angosciante ma ormai sono in ballo e quindi
per
favore comprendetemi <3-
Ovviamente un ringraziamento speciale alle mie T-girl con cui ormai
scrivere è diventato ancora più entusiasmante e
significativo <3
Vi ringrazio tantissimo per aver letto la mia storia e per avermi fatto
sapere cosa ne pensate <3
Vi
abbraccio tanto tanto <3
A
presto
Stefy
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