Serotonina

di Lolimik
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preistoria ***
Capitolo 2: *** La vera Kurata ***
Capitolo 3: *** Campo gravitazionale ***
Capitolo 4: *** Intermittenza ***



Capitolo 1
*** Preistoria ***


SEROTONINA




• Capitolo 1 - Preistoria









“…E voglio un pensiero superficiale
che renda la pelle splendida
senza un finale che faccia male
coi cuori sporchi
e le mani lavate
a salvarmi
vieni a salvarmi …”

-Voglio una pelle splendida – Afterhours -








Quando Naozumi dormiva a casa mia facevamo l’amore due volte, guardavamo almeno un paio di episodi di una sitcom che ci piaceva poco e niente solo per ripeterci che non ci piaceva affatto e mangiavamo corn fleks a letto senza trovarlo né piacevole, né fastidioso.

Poi lui si addormentava girato su un fianco, io fissavo un po’ il soffitto, aspettavo attenta quella sensazione di stretta alla gola, di respiro via via più incalzante e a quel punto sgattaiolavo dal letto al bagno, prendevo le medicine e finalmente crollavo.

Già, le medicine.

Noi che neanche ci accorgevamo di avere le emozioni difettose le chiamavamo così, con un termine generico ma estremamente preciso.

Eppure c’è un nome per ogni medicina.

Se hai mal di stomaco prendi un antiacido, se hai la febbre un antipiretico, se hai mal di testa un analgesico.

Ma con che farmaco si cura un’emozione che non si prova?

C’era chi diceva che pronunciare per intero quel nome “psicofarmaci” creasse un certo imbarazzo quindi si tendeva al generico “medicine”.

Per me erano solo stronzate, dire di provare imbarazzo presupponeva uno stato d’animo e a quel punto era come dire che non c’era più bisogno di prenderle, le medicine.

Io ho sempre pensato che nessuno aveva la voglia di dirselo, ma la verità era che le chiamavamo così, con quel generico “medicine”, perché in realtà non sapevamo cosa cazzo stavamo curando.

Quando Naozumi si svegliava se ne restava sempre per un po’ seduto sul letto. Si stropicciava gli occhi guardando il cellulare, poi faceva tre sbadigli grattandosi la testa e andava in cucina.

Lo sentivo mentre apriva la dispenza, mentre cercava la confezione di pane a fette, la scartocciava, ne prendeva due e le infilava nel tostapane.

Poi prendeva la marmellata dal frigo, io dalla stanza da letto sentivo il cigolio della porta che si apriva fin dentro alle tempie, e a quel punto mi alzavo anche io, roteavo un po’ la testa da un lato all’altro e lo raggiungevo in cucina.

«Stasera non so se sarò dei vostri.» Me lo disse rimanendo di spalle, continuando a curiosare nel mio frigo che lui trovava sempre “privo”.

Aveva questa caratteristica Naozumi, usava il termine privo e lo accostava a molte cose della mia vita.

Io per esempio percepivo che lui fosse privo di alcune cose, cose non tangibili, che non facevano propriamente parte della sua vita, era una questione più intima, la cosa comunque mi lasciava piuttosto indifferente.

M’imbambolai a guardarlo grattarsi la testa confuso, diviso tra il prendere le fette ormai fin troppo tostate dal tostapane o cercare il coltello per spalmarci su la marmellata.

Ma non feci niente.

Aspettai si sistemasse al tavolo, lamentandosi del pane troppo caldo e della marmellata troppo fredda.

«Capito quello che ho detto?» Mi chiese, mettendomi davanti una fetta di pane ricoperta da appena una striscia di marmellata.

«Non sai se ci sarai.»

«Già… Ti dispiace?»

Rimirai la fetta di pane con poco interesse. Non ne avevo poi tanta voglia di quella roba.

«Se non vuoi venire, non venire, mica posso obbligarti?»

Sgranocchiò un pezzo di pane sporcandosi un po’ il labbro con la marmellata.

«E’ che siete tutti vecchi compagni di scuola, mi sentirei a disagio e poi ho due copioni da valutare con Miho e Take, ne approfitterei.»

«Fa come vuoi, Nao. Te l’ho detto.»

«Ci sarà pure Hayama?»

«Così mi sembra di aver capito, ma non lo so se ci viene mica.»

Lui mi guardò giusto un po’, alcune briciole gli erano rimaste attaccate sul labbro tra la marmellata.

«Uhm…»

«Già…»

«E dove vi vedrete?»

«Mi sembra al Mambo, dopo sento Hisae.»

«Non mangi?»

«Si…»

Fissai la fetta per qualche istante prima di addentarla con pochissima convinzione.

Lui si alzò, prese del succo all’arancia dal frigo e lo mise in tavola insieme a due bicchieri.

«Devo cambiarlo questo frigo, il cigolio di quella porta mi rimbomba nelle tempie… Appena ho voglia lo faccio.»

«Dici sempre così…»

Già, dicevo sempre così.

«Comunque, Sana… Tornando a stasera…»

Sapevo già dove stava andando a parare, sbuffai lasciando andare nel piatto quella fetta di pane tostato smangiucchiata e ormai fredda e mi alzai di scatto.

«Non ti devi preoccupare, pensa al tuo lavoro e va da Miho e Take. Io reincontrerò i miei vecchi amici, farò finta che ciò che dicono m’interessi, che il cibo sia buonissimo e poi ce ne torneremo a casa. Ognuno nelle proprie vite.»

«Non sono tranquillo… Ora.»

Sapevo benissimo quello che gli stava passando nella testa, chi soprattutto.

«Senti, Nao, non essere ridicolo! Se lo vedessi per strada non saprei neanche riconoscerlo, e poi, non credo verrà e se anche lui dovesse venire, non mi cambia certo la vita,.»

«E a lui?»

Una piccola parte di me se lo chiese. A lui avrebbe cambiato la vita? Durò un solo istante ma mi parve di sentire qualcosa. Mi sentii patetica.

«Potresti limitarti a me?»

«Lo sai che mi fido di te.»

«E allora dacci un taglio.»

Poi mi alzai lasciandolo lì a pulirsi la bocca.

*****

Quando andavo dalla mia psicoterapeuta, la dottoressa Aoki, mi colpivano due cose: i pomelli d’ottone antichi ad ogni porta della sala d’attesa e il numero eccessivo di piante che adornavano il suo studio.

Ci andavo ogni venerdì lì da lei perché mia madre lo trovava necessario, io invece non lo trovavo necessario, ci andavo solo per farmi prescrivere le medicine, ma non glielo avevo detto.

Durante la settimana potevo inviarle persino dei messaggi, lei si era mostrata disponibile ma io non avevo mai sentito il bisogno di farlo.

Non avevo niente da dirle, mi bastava quello che mi dava.

Avevo appena terminato il questionario, l’ennesimo propinatomi dalla dottoressa Aoki, e mi chiesi se fosse veramente possibile incasellare un individuo in un paio di fogli A4.

Io poi quei fogli li compilavo senza neanche più leggere le domande.

Pensai che quel mestiere fosse sopravvalutato.

Per me era solo una sorta di spacciatrice legalizzata, l’ennesima.

«Ha avuto bisogno di prendere più medicine della settimana scorsa in questa settimana?»

«Stanotte ho avuto un attacco di panico.»

«Uhm…»

«Mi sa dire perché?»

«Siamo qui per capirlo, Signorina Kurata… Quindi mi diceva che stasera ci sarà questa cena con i vecchi compagni del liceo… Pensa di andarci?»

Me lo chiese con una certa premura, mentre io ancora mi rimiravo quei fogli tra le mani.

«Già…»

«Ottimo signorina Kurata.»

«Dice?»

La mia domanda forse la mise un po’ a disagio, mi fece cenno di restituirle i fogli compilati e mi regalò un sorriso veloce.

«Beh se è la prima cosa che mi ha detto mettendosi a sedere, evidentemente ha piacere di andarci.»

«Io, veramente, rispondevo solo alle sue domande, mi ha chiesto se stasera avevo impegni e le ho risposto di sì. Mi ha chiesto di cosa si trattava e le ho risposto che era una cena tra vecchi compagni del liceo… Tutto qui.»

«Beh, però ha deciso di andarci. Come si sente a riguardo?»

Sospirai già esausta.

«Me lo dica lei, in fondo la pago per questo.»

«Signorina Kurata lei non mi paga per dirle come si sente, ma per capire…»

«Per capire come si sente… La conosco la tiritera! Gliel’ho detto, io non sento proprio niente se non la noia di ripeterglielo ogni volta.»

«Anche non sentire niente è qualcosa, lo sa, Signorina Kurata?»

Beata lei che aveva tutte quelle certezze.

«Io penso solo…»

«Cosa?»

«Niente, lasci perdere.»

«No, la prego, continui. Cosa pensa?»

«Penso che la gente non sappia starsene tranquilla, ecco quello che penso. Basterebbe rilassarsi, farsi andar bene le cose per quello che sono, senza farsi domande, senza annaspare di continuo alla ricerca di risposte…»

«Come ha fatto lei con la sua carriera d’attrice?»

«La mia carriera d’attrice è finita quando avevo 12 anni.»

«Dunque lei pensa che in questi quindici anni se n’è stata semplicemente tranquilla?»

«Lei che dice?»

«Che se sente sia stata la scelta giusta per lei ha fatto bene.»

Sollevai gli occhi al cielo.

Gli argomenti preferiti della mia psicoterapeuta erano la mia vecchia carriera, la mia relazione con mia madre, la mia relazione con Naozumi e l’odio che mia madre nutriva per il lavoro che mi ero scelta.

«Lei non sente che sia stata la scelta giusta, vero?»

«Non sono io che devo sentirlo…»

«Mi scusi, ha ragione, le riformulo la domanda: lei non sente che io sento di aver fatto la scelta giusta?»

«Le piace fare la cassiera in un konbini?»

«Mi piace che mi permetta di avere una casa mia in cui potermene stare tranquilla, sola e in silenzio senza troppe complicazioni.»

«Non crede che tranquillità, silenzio e solitudine siano sensazioni un po’ troppo drastiche da ricercare per una donna di 27 anni, soprattutto se combinate insieme, soprattutto se combinate alla sua storia clinica?»

«Può darsi.»

La mia risposta dovette sembrarle condiscendente, e in effetti lo era, perché a quel punto lasciò andare un gran sospiro e stemperò l’agitazione riordinandosi una ciocca di capelli dietro all’orecchio.

Ormai mi sentivo più strizzacervelli di loro.

«Questi vecchi amici chi sono? Persone che rivede o sente spesso?»

«Sento spesso solo una di loro, la mia amica Hisae, con il resto ho perso i contatti.»

«Non siete rimasti in buoni rapporti?»

Immancabilmente pensai ad Hayama. Non eravamo rimasti in buoni rapporti? Me lo chiesi nella mente almeno tre volte.

Avevo 12 anni l’ultima volta in cui l’avevo visto e a quella domanda, francamente, non sapevo rispondere.

«Uno di loro non lo vedo da 15 anni.» Mi uscì fuori senza che neanche me ne rendessi conto.

Notai che lo sguardo della dottoressa Aoki si strinse un po’, impercettibilmente.

«Ha voglia di rivederlo?»

Ci pensai un po’ su e mi venne da ridere.

«Sa, penso che sia probabile che in questi quindici anni io l’abbia addirittura incrociato da qualche parte senza neanche riconoscerlo.»

«Lo trova divertente?»

«Beh… Considerando che a 12 anni vivevo con la convinzione che sarebbe stato l’unico per me, mi viene un po’ da ridere.»

«Lo considerava importante, allora? Come mai vi siete persi di vista?»

«Certo, a 12 anni tutte le persone che ti circondano sono fondamentali, non crede?»

«Io ho parlato di persona importante, lei di fondamentale e poi mi sta parlando proprio di lui.»

«E’ la stessa cosa e poi le ho parlato di lui perché è l’unico che non vedo da 15 anni, gli altri li ho sempre rivisti grazie a queste feste che la mia amica Hisae ha organizzato nel corso del tempo!»

«Se lo dice lei…»

Come se la matematica fosse arrivata in suo soccorso, la dottoressa Aoki mi guardò perplessa per un attimo.

«Lei però non ha finito il liceo 15 anni fa… Dunque questa persona non è stata insieme a lei al liceo…»

«Già, però alle medie eravamo tutti nello stesso istituto.»

«Poi lui si è trasferito?»

«No, lui se n’è andato.»

«Come se n’è andato?»

«Si beh, si è trasferito con la famiglia a Los Angeles.»

«Singolare…»

«Cosa? Che un ragazzino giapponese si trasferisca a Los Angeles con la famiglia?»

«No, è singolare la scelta del verbo. Mi sembra di capire che lei lo incolpi di qualcosa, Signorina Kurata.»

Per la prima volta non sapevo cosa risponderle. Mi accorsi che la dottoressa Aoki portava una grossa spilla sul foulard gliela fissai per un po’ quasi in trance.

«Le si è aperta la spilla, Dottoressa.»

Lei mi guardò per qualche istante prima di risistemarsela.

«E verrà anche Naozumi alla festa?»

«No, non sono amici suoi, soprattutto non è gente con cui potrebbe sentirsi alla pari. Poi ha da lavorare.»

«Pensa che Naozumi non veda di buon occhio le sue amicizie?»

«Penso che possa pensare quello che gli pare, tanto non m’interessa…»

«Come vanno le cose con Naozumi?»

«Normali… Come tra due persone che stanno insieme da due anni, credo.»

«E il sesso? Ti piace fare l’amore con lui?»

«Si, molto, anzi moltissimo.» Mentii, ma lei per fortuna non se ne accorse.

*****

Le cose che mi piacevano di Hisae erano i suoi capelli miele e le sue risposte al vetriolo, soprattutto il fatto che avesse ancora voglia di regalarle a qualcuno sperando di sortire un qualche effetto.

Poi mi piaceva anche il fatto che fosse tanto esuberante e schietta.

Cercavo di vederla poco, comunque.

Mi rendevo conto che la sua voglia di vivere certe volte mi metteva a disagio. Da una parte mi stremava, dall’altra temevo di potergliela in qualche modo succhiare via senza rendermene conto e allora declinavo la maggior parte dei suoi inviti.

Però ecco, ad Hisae non importava molto del fatto che io mettessi delle distanze, senza curarsi di sembrarmi invadente si presentava a casa mia ogni volta che le andava.

C’erano delle volte in cui non le aprivo e allora lei si piantava lì e mi cantava dalla porta alcuni imbarazzanti jingle che canticchiavo da ragazzina nelle mie pubblicità, finché stremata non la lasciavo entrare.

Quel tardo venerdì pomeriggio, più o meno, andò così.

Superai il record di jingle pubblicitari ascoltati prima di desistere.

Sette.

Mi meravigliai li ricordasse tutti così bene.

«Sana cosa vuol dire che non vieni?» Hisae era bellissima, quel giorno notai lo fosse particolarmente, ma non era solo un qualcosa di meramente estetico, lei aveva dentro una luce e quella luce più di tutto la rendeva bella.

Ed era proprio quella luce, più di tutto, che quel giorno trovai insopportabile.

«Mi hanno cambiato il turno a lavoro.»

«Sana…» Trascinò il mio nome all’infinito guardandomi sospettosa, tamburellando un piede sul pavimento.

«Ho il turno 20-2. Mi dispiace.»

«E com’è che non ti credo?»

«Beh, quando tra un ora uscirò da questo appartamento lasciandoti qui, ci crederai.»

La vidi sbuffare a lungo, guardarmi senza sapere cosa dire.

Io neanche sapevo cosa dirle.

La lasciai sulla porta e mi avviai verso il bagno senza neanche guardarla in faccia.

«Dove vai?» Urlò.

«A fare un bagno, tra un ora devo andare a lavoro, te l’ho detto.»

Preparandomi la vasca pensai che la dottoressa Aoki mi aveva messo addosso una strana sensazione, non la decodificavo, ma sentivo mi stesse agitando.

Forse era per quello che avevo preferito un bagno caldo alla doccia.

Non glielo avevo detto che mi aveva agitata perché dirglielo l’avrebbe portata ad altre domande, soprattutto l’avrebbe convinta che stesse perseguendo la strada giusta per “aggiustarmi”, come lei e mia madre amavano dire.

Certe volte mi chiedevo se quel termine l’avrebbe usato anche Naozumi, poi però mi rispondevo che sicuramente mi trovava “priva” ma non “rotta”.

Lasciai andare un sospiro e m’immersi nella vasca.

Mi lasciai andare sentendo l’acqua invadermi le narici, gli occhi, i timpani.

Tutto era ovattato e calmo nel suo assordante rumore ondulatorio, tutto era distante.

Percepii i battiti del mio cuore, i muscoli e le ossa del mio corpo allentarsi.

Tutto si lasciava trasportare dall’acqua senza opporsi.

Mi sentivo in pace, con la testa vuota.

Tum- tum- tum.

Forse il mio cuore andava un po’ più veloce.

«Che cazzo fai, Sana!»

Le urla di Hisae mi trascinarono bruscamente alla realtà, le sue mani mi strapparono via dall’acqua e dalla quiete che finalmente stavo provando.

«Sei ancora qui?»

«Cosa cazzo pensavi di fare?»

«Il bagno… Non si può?»

Lo sguardo di Hisae aveva dentro delle preoccupazioni che non riuscivo a leggere chiaramente, mi accorsi che qualcosa l’agitava, ma la sua era un’agitazione diversa dalla mia.

La sua, a differenza della mia che non aveva sbocchi, veniva fuori da ogni parte, dalle mani che non stavano ferme, dagli occhi che non avevano smesso di guardarmi neanche per un istante, dal respiro affannato.

«Ti prego Sana…» Sussurrò prima di sparire dal bagno portandosi una mano alla fronte.

La sentii camminare per l’appartamento, imprecare e sbattere qualcosa con forza. Poi rientrò nel bagno come una furia, si sedette su un angolo della vasca e si accese una sigaretta.

Si, lei fumava.

Il fumo la calmava, lo faceva già al liceo quando mi trascinava dietro alla palestra dell’istituto e fumava almeno un paio di sigarette col timore e l’ansia di essere scoperta.

Il fatto che lei avesse quel vizio era forse la cosa che subdolamente mi legava a lei, ma non ne ero certa.

Sentivo solo che quando la vedevo fumare mi sentivo meno sola, un po’ più affine.

Era più o meno una sensazione così, la percepivo, ma era poco chiara, più intima.

Difficilmente inquadrabile.

Io prendevo le medicine e lei fumava.

Si esauriva in quelle sette parole.

«Perché hai chiesto un cambio turno?»

«Non l’ho chiesto, te l’ho detto.»

«Non mi prendere per il culo, Sana. E’ per Naozumi? Non vuole che vieni?»

«No… Figurati.»

«E allora perché?»

«Perché cosa?»

«Aspetta!» Urlò balzando un po’ all’indietro, regalandosi poi una lunga boccata. «Non dirmi che è per Hayama? Ti scoccia rivederlo?»

Hisae indossava un cappotto cammello con una cintura stretta in vita, pensai fosse ironico che lo indossasse mentre era in un bagno perché mi ricordava un accappatoio.

Mi accorsi che un lembo della cintura le penzolava nella vasca, lo sollevai con un piede e glielo mostrai.

Lei imprecò e si mosse per il bagno con una certa fretta alla ricerca del phon.

A quel punto mi alzai dalla vasca anche io e mi avvolsi nell’accappatoio che somigliava tanto al suo cappotto cammello.

«E in camera mia il phon. Naozumi dice che non è sicuro tenerlo in bagno.»

Lei allora lanciò la sigaretta nel water e mi seguì in camera.

Le posai il phon sul letto e cominciai ad asciugarmi la pelle dandole le spalle.

Lei parlò, mi disse qualcosa che non mi arrivava perché la sua voce era coperta da quella grossa del phon.

«Hai capito quello che ti ho detto?» Mi chiese dopo che ebbe finito.

«No.»

«Sono passati quindici anni, Sana. Andiamo! Non puoi privarti di una serata in compagnia degli amici per questo! Insomma stiamo parlando della preistoria!»

Quella parola, quel termine che Hisae aveva buttato fuori con derisione e compatimento mi colpì.

Preistoria.

Quindici anni fa era la preistoria.

Sentii che la preistoria di cui parlava Hisae corrispondeva ad un periodo storico che non c’era più.

Io, nella mia personale preistoria avevo sentito di amare per davvero per la prima e unica volta sempre la stessa persona, e di esser stata riamata sempre dalla stessa persona.

Capii che io, nella mia personale preistoria, avevo sentito per l’ultima volta un’emozione chiaramente.

Poi le ere si erano succedute, di quel che eravamo non c’era più nulla, nemmeno un reperto incastrato sotto un lembo di terra.

Un frammento inestimabile insabbiato tra il miele dei suoi occhi e la terra arida dei miei.

Nessuno me lo trovava dentro un frammento di Akito Hayama, ma io me lo sentivo.

Lo percepivo come un tesoro che avevo nascosto dentro di me, un tesoro che avevo fatto esplodere e i pezzi mi ballavano dentro senza senso, senza ordine preciso. Io che ormai non sapevo più raccogliere li avevo lasciati lì, esplosi, sparsi sulla bocca, negli occhi, sullo stomaco, nei timpani.

Non era facile capire, forse neanche volevo farlo, ma in qualche modo sottile un pezzo importante me lo sentivo ben conficcato in un punto preciso tra lo stomaco e il cuore.

Avrei potuto ma non volevo raccoglierlo.

C’erano delle notti in cui sognavo che l’Akito dodicenne tornava da me, mi scendeva nella bocca, rotolava verso lo stomaco e tentava di strapparmi via qualcosa, qualche pezzo che mi accorgevo chiaramente luccicasse come l’oro.

In ogni sogno io lo rincorrevo, lo scacciavo e c’erano delle notti in cui vincevo, altre invece in cui lui tirava via quel pezzo e veniva risucchiato tutto, io lui, il mio corpo intero.

Come un lavandino pieno d’acqua a cui veniva tolto il tappo.

E mi gorgogliava la gola, mi mancava il respiro.

Per quindici anni sempre lo stesso sogno.

Per fortuna c’erano delle notti in cui mi lasciava in pace.

C’erano giorni in cui la vita me lo faceva dimenticare, poi bastavano pochi dettagli combinati sadicamente insieme e tornava alla memoria tutta quella preistoria che avevo nascosto ben bene tra il miele dei suoi occhi e la terra arida dei miei.

«Infatti non ti ho mica detto che non ci vengo per lui?»

«Beh, lo spero davvero, guarda!»

«Sul serio Hisae, non è per lui, devo lavorare… Semplicemente.»

A quel punto mi passò il phon e cominciò a cercarsi qualcosa nella borsetta.

«Comunque la serata l’ha organizzata lui… Ci pensi? Non è mai venuto ad una delle nostre serate e poi così di punto in bianco…»

«Me l’hai già detto Hisae.»

«Si lo so, però… A dire il vero non è che lui abbia proprio organizzato, cioè noi due ci siamo incontrati la settimana scorsa per caso e lui mi ha detto che avrebbe avuto piacere di rivedere tutto il vecchio gruppo. Così…»

«Hai organizzato tutto.»

«Già… Lo sai come sono fatta!»

«Beh comunque sia andata, buon divertimento e salutami tutti.»

«Comunque se come dici “lui” non è un problema possiamo passare a prenderti all’uscita da lavoro e…»

«No, grazie. Sarà per la prossima volta.»

Poi accesi il phon, di quel che disse non mi arrivò niente, se non un brusio confuso che si faceva sempre più lontano insieme alla sua figura sorridente che si fiondava via dal mio appartamento allargando platealmente le braccia.

*****

 

La cassiera in un kombini.

Era quel che facevo, sotto sotto ciò che ero.

Mi piaceva molto quel lavoro, più di tutti quelli che avevo improvvisato negli anni dopo la fine del liceo.

Mi piaceva perché non era impegnativo, solo una sequela di gesti meccanici da memorizzare rapidamente, perché non mi faceva parlare troppo con le persone e perché, qualsiasi cosa accadesse a quelli che ci entravano, mi dava l’opportunità di percepire sempre un certo distacco, come un velo trasparente tra me e loro.

Tipo pellicola per alimenti.

Tipo quella che avvolgeva quasi ogni cosa venduta in quel posto, mi tranquillizzava quando la toccavo strisciando tutto sul lettore, poi prendevo i soldi, in caso davo il resto, dei sacchetti e tutto iniziava e finiva in poche azioni per poi ricominciare un attimo dopo in una catena infinita e sempre uguale.

Hisae una volta mi chiese se mi facesse sentire un robot quel lavoro, mia madre lo ammetteva categoricamente, Naozumi si limitava a tacere pensando di sicuro che quella fosse l’ennesima fase passeggera che stavo attraversando e che mi rendeva “priva” di ambizioni.

Io ammiravo la loro lucidità delle volte.

Quando lavoravo lì al konbini mi rendevo conto che il tempo mi passava velocemente. Certe volte mi accorgevo che alcuni clienti della mia età o anche più giovani, mi riconoscevano.

Ero certa che alcuni di loro mi ricordavano come la ragazzina esuberante e allegra che aveva contagiato di buon umore la loro infanzia, nutrivano per me un affetto sincero e per questo non si permettevano di farmi domande né di chiedermi se effettivamente ero io quella Sana Kurata della loro infanzia.

Poi ce n’erano degli altri che me lo chiedevano in un’espressione commiserevole a cui rispondevo con un sorriso finto almeno il doppio della loro compassione e un tranquillo. “Va tutto bene, l’importante è essere felici.”

Il fatto che io poi fossi la ragazza di Naozumi, il grande attore, astro chiaro e lucente nel firmamento delle stelle del cinema giapponese, non era noto al grande pubblico, i suoi due manager non lo avevano trovato opportuno per la sua immagine.

Da quella decisione scaturì una grossa crisi interiore di Naozumi che durò giusto il tempo di un mio laconico “Non importa.”

E così, Naozumi Kamura, con due parole, cominciò a concepire come opportuno il privarsi di me davanti al mondo intero.

Era la caratteristica che maggiormente ci teneva uniti questa attitudine al sentirsi “privi” di me.

Quando vidi Nobu entrare dalla porta con la sua camminata trascinata, sempre un po’ esitante, guardai l’orologio alla parete.

«Sei in anticipo…»

«Già, se fossi rimasto a casa sarei crollato tra le scartoffie...»

Nobu era una persona che m’infondeva una certa calma. Forse perché era più giovane di me di qualche anno, o forse perché non era un tipo particolarmente loquace, fatto sta che in sua compagnia mi sentivo particolarmente a mio agio.

Era un semplice collega, tra noi non c’erano mai stati incontri in posti diversi dal konbini in cui lavoravamo, ma era una delle poche persone al mondo che non percepivo distante.

Di me sapeva che ero stata una idol e che per qualche motivo quella carriera mi aveva stancato, che mangiavo di nascosto le caramelle riservate ai clienti e che mi piaceva parlare poco di me.

Tutto questo lo aveva capito senza chiedermelo.

Di lui io sapevo che studiava medicina, che non era abituato ad avere pochi soldi e che leggeva molti libri.

La cosa che trovavo affascinante in lui erano le mani, si vedeva che non avevano fatto molto nella vita se non sfogliare la carta stampata.

Anche mia madre le aveva così, anche Naozumi. Erano mani affusolate che poi si arrotondavano squadrate sull’ultima falange, erano particolari, come levigate dalla carta, ma quelle di mia madre e di Naozumi non mi affascinavano come quelle di Nobu.

«Giacché sono qui va pure a cambiarti, Sana. Tanto mancano appena 5 minuti alle 2.»

Lo vidi sbadigliare un po’, sfilarsi lo zaino e il cappotto e mi accorsi che sotto indossava già l’uniforme.

Pensai che gli studenti avessero una certa naturale predisposizione nell’ottimizzare i tempi, ma non gli dissi niente, mi limitai a sparire dietro alla porta degli spogliatoi.

Quando venni fuori lo trovai assorto nel leggere un libro di testo, se ne stava seduto alla cassa nascosto da un volume che somigliava a quello di un’enciclopedia da cui fuoriuscivano solo i suoi capelli scuri e incasinati.

«Che stai studiando?» Glielo chiesi avvicinandomi un po’ di più alla cassa, accorgendomi che nel mentre trangugiava un egg salad sandwich.

«Sistema nervoso centrale, nuclei del rafe, processi biochimici dei neurotrasmettitori, triptammina, 5-HT… Una pallosità… Ci capisci qualcosa tu?»

«Assolutamente no.»

«Ecco, neanche io.»

«Beh, almeno il sandwich è buono?»

«Eccome!» Disse e con una mano me ne allungò un pezzo offrendomelo.

«No grazie, Nobu. Proprio non mi va un sandwich alle uova alle 2 del mattino.»

«Ecco, sbagli! L’unica cosa che ho capito fino ad ora è che la 5-HT è presente nelle uova, nei carboidrati…» A quel punto allungò giusto un po’ la mano verso l’espositore della cioccolata e mi strizzò un occhio. «E nella cioccolata!»

«5-HT?»

«Sì, la serotonina, l’ormone della felicità. Pensi che non abbia bisogno di una dose massiccia di felicità uno che studia questa roba?»

Scossi la testa abbozzando un sorriso. «Forse hai ragione, Nobu...»

*****

Fuori dal kombini c’era una fermata dell’autobus, quando facevo quel turno mi appostavo lì anche un paio d’ore prima di decidermi a prendere l’autobus e far ritorno a casa.

Mi sedevo lì e non riuscivo più ad alzarmi.

La verità era che mi sentivo stanca.

Non era una stanchezza propriamente fisica, era più una condizione che percepivo.

La percepivo sempre in realtà, in tutte le ore del giorno.

Era una stanchezza che non si appagava mai totalmente, neanche con un riposo, e con cui convivevo tra molti alti e bassi.

Però, quando finivo di fare qualcosa, me la sentivo addosso in maniera pressante.

M’immobilizzava.

Il più delle volte mi bastava rimanermene immobile per un po’ e poi, in un modo e l’altro, mi rimettevo in moto.

Quella sera ero seduta proprio lì, alla solita fermata con la testa poggiata al plexiglas della banchina su cui roteavano pubblicità che un tempo parlavano anche di me.

«Sana!!!» Era un urlo stropicciato e scomposto.

Feci in tempo a sollevare lo sguardo e li vidi, proprio a un passo da me.

Hisae, Fuka, Aya, Tsu e Gomi.

E poi lui.






Sono stata colta da una improvvisa illuminazione.

Non so francamente cosa ne verrà fuori perchè l'ultima delle cose che avrei pensato di poter scrivere era proprio una what if? Ma sono stata totalmente catturata da questa storia che non ho potuto smettere di scrivere neanche un secondo.

Spero tanto tanto che vi piaccia <3


Un bacio grandissimo


Lolimik
















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Capitolo 2
*** La vera Kurata ***


sero 2 • Capitolo 2 – La vera Kurata







"What’s a sweetheart like you

doin’ in a dump like this?"

-Bob Dylan • Sweetheart like you -






Le bollicine risalivano dal fondo del boccale creando a poco a poco delle crepe nella schiuma che un po’ fuoriusciva dalla cima.

Le fissavo cercando di rimanere concentrata su quelle, come una parvenza di dimensione estranea al brusio circostante.

Attraverso il vetro appannato del boccale spostai l’attenzione sulle facce di quelle persone sedute difronte a me.

Erano così distorte, frenetiche, appannate, nervose eppure mi parve che fossero in qualche modo allineate, come a loro agio nel contesto.

Mi chiesi se quell’immagine appannata che io avevo di loro fosse speculare a quella che loro avevano di me, mi risposi che senza dubbio io rendevo tutto più semplice, era probabile apparissi a loro tutti come distorta, nervosa e appannata anche senza il filtro di un liquido ambrato e gorgogliante in un boccale.

O forse ero io a sentirmi così in mezzo a loro.

Distorta, appannata. Comunque poco allineata.

Dopo l’improvvisata alla fermata dell’autobus, Gomi ci aveva trascinati in uno dei suoi locali. Io avevo provato a dire che non mi andava, ma le mie parole forse non gli arrivarono.

Forse c’era un muro tra noi, o forse semplicemente scelsero tutti insieme di ignorarle e mi trascinarono lì.

Avevo capito però che Gomi aveva fortemente insistito affinché fossi dei loro, addirittura Hisae mi aveva detto che si era parecchio risentito non vedendomi a cena.

«Devi dirlo almeno a loro che hai una relazione con Kamura, Sana… Non può controllarti così!» Mi aveva detto Hisae prima di entrare.

Io mi strinsi un po’ nelle spalle e scossi la testa.

Hisae era una dalle convinzioni di ferro.

Per quante volte le ripetevo che Naozumi non controllava affatto la mia vita, non riuscivo mai a convincerla. Lei era proprio persuasa dal fatto che Naozumi, non voleva che mantenessi una rete di contatti e che con la scusa di tenere la nostra relazione segreta, mi mantenesse chiusa in una torre d’avorio in cui ogni tanto decideva di fare capolino.

Oltre al fatto che imputava molti dei miei “atteggiamenti poco rispettosi verso me stessa” proprio a lui.

In realtà, semplicemente non m’interessava che gli altri sapessero della mia vita.

E neanche Naozumi era così interessato a conoscere la mia, o forse, pur di non crearsi fastidi, preferiva non mostrarsi in mia compagnia davanti a tutti. In fondo lo aveva fatto anche quella mattina, mi aveva come al solito rifilato quella scusa del “non conosco nessuno e poi ho da lavorare”.

Non che m’importasse. Poteva fare quello che voleva, però ecco, di sicuro non mi sarebbe dispiaciuta un po’ di sincerità.

Pur di non ledere alla sua immagine si era dimenticato anche del suo vecchio rancore per Hayama… Gli era bastato un mio “Dacci un taglio.” Per mettere a posto tutto.

Non lo so, non mi erano chiare molte cose sul nostro conto, ma era come se Naozumi con me si limitasse ad essere ciò che mi aspettavo senza mai preoccuparsi di mostrarmi ciò che era.

Chissà, forse ero cattiva, ma io non gli credevo, non fino in fondo almeno.

C’erano delle volte in cui avevo l’impressione che lui si relazionasse a me come se stesse mantenendo una parte…

O forse, ero semplicemente ridicola io a ritenere possibile il fatto che potesse ancora provare rancore per Hayama e tutta quella vecchia storia.

Quanto a Gomi, qualunque fossero le sue reali motivazioni sul desiderio di vedermi, restava una sua volontà che mi lasciava piuttosto indifferente.

Hayama, invece non si era seduto con noi che per un istante, mi aveva guardato un paio di volte con una certa fretta e poi si era volatilizzato al bancone del pub in compagnia di Gomi e due tipe che non conoscevo.

Non c’era nulla di particolare che mi aspettavo di percepire nel reincontrarlo, ma ecco, non sentire proprio nulla mi mise addosso una sensazione ambigua e raggelante.

Allora era vero?

Ero rotta? Ero priva? Ero qualcuno e ora non lo sapevo più?

Sapevo bene che c’era qualcosa in me che non funzionava, che avevo una malattia di cui mi rifiutavo di pronunciare persino il nome, ma l’indifferenza che mi colse nel rivederlo mi sembrò mi stesse facendo toccare con mano il fatto che ci fosse dell’altro d’irrimediabilmente andato a male in me.

E me lo stava facendo toccare con una perfidia e una freddezza agghiacciante.

Non riuscivo a provare niente, nessun sentimento positivo o negativo, non mi sentii nascere dentro la benché minima emozione.

Mi ero aggravata così tanto?

E allora perché quei sogni mi tormentavano se poi lo avevo a un passo da me e vederlo non mi provocava niente?

Più ci pensavo, più me ne rendevo conto, più sentivo l’ansia impossessarsi di me.

Avvertii un senso di pressione al petto che mi schiacciava fin dentro le viscere.

Avevo la bocca secca, una sensazione fastidiosa alla gola, come una mano stretta al collo. E poi sudavo. Quasi mi sentivo evaporare o forse quasi ci speravo.

Avevo bisogno delle medicine alla svelta o sarei scivolata sul pavimento.

Sentii che stavo per avere un crollo e mi concentrai sulle mie percezioni cercando di sedarle con dei respiri profondi.

Le sopracciglia dei miei amici si muovevano insieme al suono della loro voce, insieme alle espressioni che assumevano di volta in volta le loro facce.

Mi sembravano tante maschere.

Le loro sopracciglia si muovevano esasperate, si curvavano, s’increspavano, si allargavano e distendevano.

Le mie sembravano immobili, ma confuse.

Quelle di Hayama erano un po’ inarcate, forse Gomi gli stava dicendo qualcosa che non gli andava a genio, poi una delle due ragazze ridendo gli aveva portato una mano sulla pancia.

Allora lui aveva riso, ma le sopracciglia non gli si erano distese.

Difronte a me Tsuyoshi rideva di Fuka che non aveva vinto una causa importante, quella che li vedeva l’uno contro l’altra. Aya sembrava soddisfatta dell’abilità di suo marito, ma cercava di non darlo a vedere troppo alla sua migliore amica.

Era un bravo medico lei, non di quelli che frequentavo io. Lei si occupava di ossa rotte, quelli di cui mi servivo io di teste vuote da riempire di sicurezze in pillole.

Hisae parlava del suo lavoro in banca con un lessico pieno di anglicismi, forse le cose non andavano troppo bene con il suo capo perché mi accorsi che ne parlava e mentre lo faceva alternava lunghi sorsi di birra a grosse risate, con le mani però arrotolava ogni carta che le capitava a tiro e la reggeva tra le dita a mo’ di sigaretta.

Forse anche lei doveva essere in astinenza.

Senza dare troppo nell’occhio presi una medicina dalla borsa e la calai giù con della birra.

Non l’ideale forse, ma lo trovai disperatamente necessario, dal momento che neanche la respirazione stava funzionando.

Le mani avevano cominciato a diventarmi troppo fredde e le dita somigliavano a dei pezzi di legno, riuscivo a vedere il grigio dei nervi attraverso la pelle e dovetti nasconderle sotto al tavolo.

«A te come vanno le cose, Sana?» Fuka non vedeva l’ora di togliersi da quella conversazione con Tsuyoshi e mi aveva scelta come via di fuga.

«Beh… Bene.»

«Poco tempo fa lavoravi in quella lavanderia a gettoni e ora in un konbini. Tu, amica mia sei sprecata per questi posti, ma lo vuoi capire o no?!»

«In verità ci lavoro da un anno e poi mi piace lavorare lì.»

«Ma sentitela!» Urlò richiamando l’attenzione di tutti.

«A chi la vuoi dare a bere! Una come te, abituata a calcare palcoscenici, a lavorare su set cinematografici e in studi televisivi non può davvero involversi così!»            

«Involversi…» Ripetei.

«Dai Sana, a noi puoi dirlo!»

«Sono dodici anni che non faccio quel mestiere…»

«Lo so, ma sai, noi abbiamo sempre pensato che tu in realtà dopo il diploma avresti ripreso in mano la questione e invece…»

Mi sentii le spalle scivolare verso il basso, la testa ciondolare un po’ in avanti, vedevo le labbra di Fuka muoversi, la sua voce arrivarmi al rallentatore.

Le sorrisi un po’ distorta pensando che le medicine stavano cominciando a disperdere nel mio corpo i primi cenni magici. Non stavo assolutamente capendo niente, solo mi chiesi perché aveva voglia di rivangare quel discorso ogni volta che Hisae mi trascinava alle loro feste.

Io non mi prendevo certo la libertà di sindacare sulla sua vita, sulle sue scelte, né m’importava sbatterle in faccia il fatto che da promessa della giurisprudenza si fosse involuta in un avvocato talmente mediocre da farsi battere da uno come Tsuyoshi Sasaki.

Fu proprio Hisae a prendere le mie difese, le urlò qualcosa ma io mi limitai a sedare la questione regalando a entrambe un mite “Non fa niente”.

E infatti era la verità, non m’importava assolutamente niente delle illazioni di Fuka, del suo lavoro, del mio, volevo solo tornare a casa, rimpinzarmi di medicine, mettermi sotto le coperte e dormire per almeno tre giorni.

A Hisae però le uscite di Fuka sulla mia vita non piacevano, non le erano mai piaciute in verità. Mi accorsi che continuò a sbraitarle contro parole che non volli ascoltare.

Mandai giù un lungo sorso di birra e mi sembrò cominciasse ad avere un sapore più vischioso, mi accorsi che scivolava verso il basso come se lungo la gola si trasformasse in gelatina.

Ogni potere magico aveva delle sbavature.

«Sana, stai bene?»

La voce di Aya, il suo tono dolce, mi sembrava arrivarmi da un tempo che ormai non esisteva più.

«Si…»

«Mi piacerebbe tanto se riuscissimo a vederci un po’ più spesso, anche senza l’aiuto di Hisae…»

«Già…»

«Ora che so dove lavori magari uno di questi giorni passo a farti una sorpresa… Ti va’?»

«Come vuoi.»

Mi sembrò ci fosse rimasta un po’ male per quelle mie risposte stringate, la verità era che non sapevo cosa dirle, quella sera non riuscivo a sbloccarmi neanche con una dose mixata all’alcol.

Le medicine però avevano cominciato ad effondere il loro potere perché da quando le avevo prese non avevo più rigidità, ma ovviamente non percepivo nulla.

Sentivo solo assenza, un’assenza più logorante del solito.

Nel corpo e nella mente.

Come la linea piatta di un elettroencefalogramma.

«Kurata!» La voce di Gomi sulla mia schiena, mi voltai di tre quarti verso di lui.

«Lei è Mizuo Koizumi.» Mi disse e m’indicò la ragazza che stringeva a sé.

Era una ragazza molto anonima, più giovane di noi di almeno cinque anni ma aveva dei lineamenti così marcati dal trucco e un abbigliamento così appariscente da sembrare più grande di me di almeno cinque anni.

«Sana.» Le dissi in un cenno.

«Ti ha riconosciuta e mi ha chiesto di presentarvi.»

A quel punto Mizuo cominciò a riempirmi di complimenti e a sciorinarmi tutto il mio curriculum come se fossi desiderosa di testare la sua sincerità e mi accorsi che mentre parlavamo Akito aveva cominciato a fissarci attentamente.

«Oddio che onore! Sono cresciuta con il tuo mito, Sana! Non sai quanto mi piacerebbe poter seguire le tue orme!»

«Beh… Io ora lavoro in un konbini e siamo già al completo. Però puoi provare a portare un tuo curriculum.»

«Andiamo Sana!» Fece Gomi a quel punto.

«Potresti metterla in contatto con il tuo vecchio manager… Come diavolo si chiamava?» Si voltò a cercare Akito e lo chiamò a sé con un cenno.

«Te lo ricordi il suo manager?» Akito si strinse un po’ nelle spalle con un’espressione beffarda appiccicata sulla faccia e ci si avvicinò trascinandosi dietro la tipa con cui chiacchierava al bancone del pub.

«Io e Rei non ci sentiamo da un pezzo, sono anni che vive con sua moglie Asako a Los Angeles.»

«E non puoi ricontattarlo? Magari conosce ancora qualcuno qui a Tokyo!»

«No, io… Io non posso.»

«Andiamo Sana! L’hai vista la mia Mizu?»

«Si, Gomi… La vedo. In quell’ambiente però contano molto le referenze e…»

«Beh, lei ne ha due belle sul davanti e una di dietro, possono bastare?»

A quella battuta agghiacciante notai che lei non si scompose, anzi cominciò a ridere tastandogli il petto.

Akito invece lasciò andare un risolino, afferrò il mio boccale e buttò giù un po’ della mia birra.

«Lascia perdere Gomi, te l’avevo detto che vive a L.A. ormai.»

Provai a chiedermi cosa ne sapesse lui di Rei e d’istinto guardai Hisae, era probabile fosse opera sua.

«Si, ma vuoi che Kurata non sia agganciata? Per esempio con quel tipo… Come si chiamava quell’attore effemminato che le ronzava intorno quando eravamo ragazzini?»

«Naozumi Kamura, ed è un attore di fama internazionale oggi.» S’intromise Fuka.

«Andiamo Kurata, vuoi farmi credere che non vedi più neanche lui?»

«Gomi… Per favore… Non posso aiutarvi, mi dispiace.»

«Sei una bugiarda! E poi questa stronzata delle referenze non me la bevo! Andiamo! Di’ piuttosto che non vuoi aiutarci!»

Mi accorsi che si stava scaldando, ma io non avevo neanche la forza di seguire il discorso.

Mi sentivo un corpo molle appoggiato su una sedia, neanche mi sentivo le gambe se non fosse stato per il pavimento che sembrava pomparmi sotto ai piedi a ritmo di musica.

C’era un volume assordante lì dentro.

Gomi dovette accorgersene perché smise di fissarmi e palleggiò il suo sguardo tra le facce dei miei amici e quella di Akito in piedi accanto a lui.

«Ti rendi conto, amico? Quando eravamo ragazzini la città era tappezzata da tabelloni con la sua faccia e, diciamocelo, Kurata è sempre stata una insipida, vuoi che Mizu non possa competere?»

«Gomi, piantala.»

«Dai Akito, è la verità! Da ragazzino ci eri fissato con lei, ma ora guardiamola con sincerità!»

«Ti ho detto falla finita, Gomi!» Urlò e poi sbatté il boccale di birra sul tavolo, proprio davanti alla mia mano.

«Lo sai Mizu, il nostro Hayama qui si sta scaldando perché da ragazzino aveva una cotta terribile per Kurata, spesso io e Tsu lo beccavamo per strada a ripulirsi la bava sui cartelloni pubblicitari di questa insipida qua. Tsu, amico, te la ricordi la sua faccia?»

Vidi Tsu sorridere sotto i baffi, Hisae saltare in piedi, avventarsi contro di lui come un cane rabbioso trattenuto da un guinzaglio.

«Per favore, Hisae, lascia perdere…» Dissi tirandola a me.

E poi sentii qualcosa. Una rabbia crescente che non proveniva da me.

Mi accorsi che zampillava dagli occhi di Akito, sembrava invaderlo per intero, venire fuori dalle sue narici dilatate, dalle sue pupille rosse e si sprigionava violenta. Come una nube densa di sangue si riversava sulla testa di Gomi.

Vidi la sua mano muoversi di scatto, Akito afferrò Gomi per un braccio, glielo fece roteare dietro alla schiena facendolo inginocchiare, mettendolo di fatto al tappeto in un movimento.

E a quel punto scoppiai a ridere.

Una nota stonata in una sinfonia che fino a quel momento neanche riuscivo a sentire.

Ridevo, ridevo come se fossi in una recita e in quel momento il mio personaggio doveva reagire così, ridevo come se tutte le loro maschere fossero crollate mentre la mia rimaneva salda sulla faccia.

La mia medicina invincibile mi rendeva l’attrice migliore.

La mia risata veniva fuori come un singhiozzo dispettoso e nonostante mi portassi una mano sulla bocca, la mia faccia rideva ancora.

Io stavo peggiorando, ormai avevo persino reazioni involontarie, neanche riuscivo a mantenerle sedate, dentro.

Erano come getti di una serie di geyser.

Mi sembrò di capire che ero diventata una terra piena di lacerazioni da cui fuoriuscivano senza permesso gas bollenti e incontenibili.

La mia uscita stonata comunque li fece calmare, Akito lasciò il braccio di Gomi fissandomi disorientato.

Come disorientati erano gli sguardi di tutti i miei amici.

Pensai che fosse buffo il fatto che fino a quel momento ero stata io quella disorientata da tutti loro.

«Tu sei tutta matta, Sana…» Concluse Fuka cominciando a ridere anche lei seguita dal resto della comitiva.

Tutti, eccetto Hisae.

Lei fissava il mio profilo con una certa agitazione, un’agitazione simile a quella che le avevo visto addosso in quello stesso pomeriggio nel mio bagno.

Gomi e Akito, a differenza del resto del gruppo, si volatizzarono rapidamente senza proferire parola.

Tre pinte di birra dopo mi accorsi che Gomi era seduto su un divanetto con quella Mizuo spalmata addosso, Akito invece era sempre al bancone, beveva qualcosa e mi fissava mentre la tipa che prima era in sua compagnia gli baciava il collo spasimando per le sue labbra.

Mi accorsi che lei alla fine, forse stanca di aspettare, gli aveva voltato il viso e lo aveva baciato, a quel punto lui aveva sorriso sulla sua bocca tirandosela più addosso.

Quanto avrei voluto percepire qualcosa.

Mi sentii dentro uno strano sfrigolio, desiderai si palesasse ma nello stomaco non mi arrivò niente.

Avevo anestetizzato tutto?

O forse stavo bene e semplicemente non m’importava dove Akito, ormai cresciuto, spalmava la sua lingua?

Com’era giusto che fosse, in fondo.

Dopo quindici lunghi anni.

«Basta… Devo fumare.» La voce di Hisae mi riportò alla realtà.

Provai ad alzarmi ma mi accorsi che le gambe mi reggevano a fatica.

Hisae però non si accorse del mio tentennamento, mi prese per mano e mi trascinò fuori.

Mi sentii immobile, mi sembrava di camminare senza muovere affatto le gambe.

La mano di Hisae nella mia sembrava trascinarmi in un cemento liquido che si spostava e mi risucchiava a poco a poco.

Sotterrandomi.

Quando l’aria esterna mi freddò il viso, ero ormai certa di percepire il cemento solidificarmisi tutto intorno.

Mi sentii di nuovo quelle sensazioni addosso.

Più che di respirare, mi sembrava di annaspare.

La magia stava per perdere ogni effetto, sperai di essere a casa prima che fosse svanita del tutto.

«Ehi… Vorrei tornare a casa…»

«Si, finisco di fumare e andiamo… Comunque, lascialo perdere quell’idiota di Gomi.»

«Figurati.»

«Sul serio, Sana. Tu sei bellissima.» Trillò in un sorriso, prendendomi il viso tra le mani.

L’odore della sua winston mi arrivò alle narici mescolato al suo profumo.

Abbozzai un mezzo sorriso.

«E’ così!» Urlò stringendomi più forte il viso tra le mani. «Tu. Sei. Bellissima.»

«Interrompo qualcosa?»

La voce di Akito si stagliò alle mie spalle, Hisae lo fissò inarcando un sopracciglio.

«Il tuo amico è un gran cafone, Hayama! Con me ha chiuso!» Glielo disse livida dalla rabbia e mi lasciò andare parandoglisi sotto.

Akito le regalò uno sguardo distratto, poi si cacciò una sigaretta tra le labbra e l’accese.

Anche lui fumava, ma non percepii la stessa sensazione di vicinanza che percepivo con Hisae.

Il suo fumare mi arrivava quasi sgradevole.

«Hai capito, Hayama?»

«Te lo sei portata a letto, eh Hisae?»

La faccia della mia amica a quel punto divenne una marea di cose che per me si traducevano solo in un visibile rossore. «Te l’ha detto lui?»

«No, faccio solo due più due.»

«Per tua informazione c’è stato solo un mezzo bacio ed ero ubriaca!»

Akito la superò in una lunga boccata. «Sono affari vostri…» Disse e mi si avvicinò.

Una morbida zazzera bionda, un sorrisetto sbruffone, la sigaretta stretta tra i denti e labbra e le mani nelle tasche. «Ciao, Kurata.» Sussurrò in uno sguardo furbo.

Pensai che niente in lui mi ricordava il ragazzino che quindici anni prima se n’era andato tra la rabbia di aver fallito e i denti stretti di doverlo ammettere.

Che poi non era vero che aveva fallito.

Era semplicemente la vita che ci aveva fatto credere di essere infallibili e poi aveva mescolato le carte insegnandoci che infallibili non lo eravamo affatto.

Era semplicemente che doveva andare così.

Mai fidarsi della vita.

«Come sta la tua mano?»

Lui mi sorrise e si allontanò la sigaretta dalle labbra con la mano destra. «Bene…» Disse e continuò a studiarmi con quello sguardo che non gli avevo mai visto.

Mai.

Neanche una volta nella vita.

«Andiamo, Akito?» La ragazza con cui l’avevo visto baciarsi era uscita dal locale seguita di lì a poco dal resto del mio gruppo eccetto Gomi e quella Mizuo.

Mi sembrò ci stessero circondando, erano le stesse persone di prima ma in quel momento sentivo uno strano senso di soffocamento.

Senza neanche accorgermene m’incollai ad Hisae e tirai il lembo della manica del suo cappotto cammello.

«Io e Sana andiamo!» Trillò. «Ci vediamo presto!»

Il cerchio si spezzò, tra risate e arrivederci stavamo per prendere anche noi la nostra strada quando Akito mi tirò per un braccio.

«L’accompagno io.» Disse guardando fisso Hisae. «Ti dispiace?»

Gli occhi di Hisae s’incollarono ai miei. «Per te va bene?» Mi chiese sottovoce mentre la tizia con cui stava Akito gli si avvicinò piuttosto accigliata.

«Che storia è questa?»

«Senti…» Akito la fissò per un attimo come se stesse cercando di ricordarsene il nome, poi fece un lungo tiro e gettò via la sigaretta.

M’imbambolai a fissare quella nebulosa che sapeva di tabacco. Mi sembrò mi stesse avvolgendo.

«Ho da fare con questa vecchia amica.» Le disse semplicemente questo mentre lei continuava a inveirgli contro e lui mi prendeva per mano.

«Dai tesoro, non insistere, ci vediamo domani.» Le si avvicinò tenendomi ancora per mano e le regalò un leggero bacio sulle labbra condito da un furbo occhiolino.

Ma che atteggiamento era?

«Senti… Lascia perdere, io vado con Hisae… O prendo un autobus… E’ uguale.» Dissi e tirai via la mano.

«No, Kurata. Vieni con me. Lo sai chi prende l’autobus di sabato alle 4 del mattino? Solo svitati che cercano svitate da importunare.»

Perfetto, pensai, era l’autobus giusto per me.

«E poi Hisae vive dall’altra parte della città, io sono di strada.»

Come faceva a sapere dove abitavo?  

Stavo per chiederglielo, ma Hisae mi si parò accanto, guardò Akito tirandomi a sé, continuando a studiarne le movenze. «Forse ha qualcosa da dirti…» Farfugliò. «Vuoi andare con lui?»

Percepii nella sua voce dell’agitazione, ma non era più come quella che le avevo visto addosso quello stesso pomeriggio nel bagno di casa mia o nel pub quando Gomi mi aveva dato dell’insipida, era un’agitazione diversa, che le usciva fuori solo dagli occhi che mi sembrarono luccicare tremuli.

«Io voglio solo andare a casa, Hisae.»

A quel punto venne fuori dal locale anche Gomi in compagnia di Mizuo, ci fissò in un risolino beffardo e tirò via quella tipa che ancora continuava a pellegrinare attorno ad Akito.

«Dai Sachiko, ti riaccompagno io a casa…»  Glielo disse in un tono stranamente ironico, poi le infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans e la tirò a sé.

A quel punto, mi accorsi che lanciò un breve cenno d’intesa ad Akito prima di defilarsi in compagnia di Mizua e quella Sachiko, senza salutare né me né Hisae.

«Bene, il cafone se n’è andato!» Trillò la mia amica con un certo fastidio.

«Dio mio, Hisae… Sono stato così indimenticabile?» Le urlò Gomi, ma rimase di spalle, continuando a comminare verso la sua macchina seguito da quelle due strane tipe.

«Ignoriamolo…» Biascicò. «Che vuoi fare Sana?»

«Tornare a casa… Ti prego.»

«Ti va bene se ti accompagna Akito?»

Mi era totalmente indifferente.

Ma non ebbi neanche il tempo di risponderle che Akito mi afferrò nuovamente la mano e mi tirò più vicina a sé. «Ok, le va bene, andiamo Kurata…»

Hisae gli sorrise divertita. «Solo perché mi fido e so che sei un tantino meglio di quello spaccone del tuo collega!» Urlò, poi mi si avvicinò schioccandomi un bacio sulle labbra.

«Vedi se puoi cavargli qualcosa di bocca!» Sussurrò.

Che cosa voleva dire? Cosa avrei dovuto cavargli di bocca?

*****

La macchina di Akito era un concentrato di stranezze e tecnologia. Non me ne intendevo molto ma mi piacque molto la forma quasi affusolata dei sedili e il colore scuro degli interni.

Mi ci accomodai e socchiusi leggermente gli occhi lasciandomi andare un po’ all’indietro.

Mi sentivo uno straccio.

Quando accese il motore sentii un rombo potentissimo, vidi le luci sul cruscotto accendersi e spegnersi in preda a una specie di corto circuito.

Balzai in avanti portandomi una mano sul petto e lo fissai stranita.

Lui lasciò andare un sorriso sfottente e si voltò a guardarmi. «Allora, Kurata? Dove si va?»

«A casa…»

«Non so mica dove abiti, Kurata?»

«Avevi detto di sì.»

«Dico un sacco di cose se serve...»

«Alla prossima gira a destra.» Gli dissi, prima di abbandonarmi ancora su quel morbido sedile in pelle.

«Allora? Oltre ad aver cambiato colore ai capelli e tendenze sessuali cos’altro mi sono perso?»

«Diversi anni uguali.»

«Che risposta è?»

«Una risposta.»

Lui scosse un po’ la testa mentre io mi chinai in avanti, non riuscivo neanche a parlare, digitai sul navigatore l’indirizzo di casa mia e lo avviai.

Lui studiò per un po’ i miei movimenti ma non disse nulla, solo continuava a mantenermi addosso quello sguardo strano. «Come mai hai tinto i capelli?»

«Rossi, castani… Fa differenza?»

«Beh… La vera Kurata è rossa.»

La vera Kurata.

Quelle parole mi risuonarono nella mente, era davvero solo una questione di capelli? Lui non vedeva altro di diverso in me?

Per un istante mi chiesi che forma avevo nei suoi ricordi, ero quella Sana allegra e incredula che aveva baciato davanti a un pupazzo di neve, quella a cui in quel momento il cuore sembrava esplodere ma non aveva saputo far niente perché ancora troppo giovane, inesperta, senza la benché minima comprensione dei suoi sentimenti, o quella senza espressioni che aveva lasciato sul letto di quell’albergo?

Mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma dopo tutto quel tempo d’assenza, una risposta sapevo darmela persino io.

Pensai che fosse strana la mia vita, da ragazzina non avevo la minima idea che tutto quel brusio interiore che percepivo accanto a lui si chiamasse amore. Sentivo troppo, tutto insieme e quel caos di emozioni mi confondeva.

Ora invece, che avevo l’età per discernere ciò che sentivo, non sentivo assolutamente niente.

Era una condizione piuttosto paradossale, anche patetica.

«Quindi tu e Gomi siete colleghi?» Gli dissi la prima cosa che mi venne in mente, non che m’importasse, tentavo solo di evitare la questione del “com’eravamo”.

«Non esattamente.»

«Cioè?»

«Non lavoro per lui e non ho percentuali su nessuno dei suoi locali.»

«Ma Hisae vi ha definiti colleghi…»

«Beh… Io faccio qualche favore a lui e lui lo fa a me, ma questo non ci rende né colleghi, né soci, né grandi amici.»

«E allora cosa siete?»

«Due che si prendono ciò che serve, credo.»

Mi sentivo uno straccio e mi rendevo conto di non avere le forze per continuare quella conversazione, non me ne fregava niente, soprattutto.

Soprattutto non avevo l’esigenza di capire cosa stesse intendendo, cosa lo avesse reso così diverso dal mio Akito dodicenne.

Era solo assenza, un logorante strazio.

Mi limitai ad annuire in un sorriso di circostanza.

«Comunque, Kurata… Sei diversa… Non l’avrei mai detto ma sei diventata più seria, più donna.»

«Già, probabile.»

«Un po’ mi dispiace.»

Mi disse solo quello e per un istante m’imbambolai a guardarlo, pensai avesse una gran faccia da culo.

Finalmente arrivammo a destinazione, lo feci accostare un po’ più distante dal mio palazzo e mi accorsi che si guardava intorno con un’espressione sorpresa, forse disgustata.

«Abiti qui?»

«Sì…»

«Assurdo…»

Pensai che più assurdo fosse il suo baciare una tizia a caso tenendomi per mano, ma in fondo cosa m’importava? Soprattutto chi ero io per giudicare?

«Ti ringrazio per il passaggio… Stammi bene.» Dissi e senza neanche guardarlo in faccia richiusi la portiera della sua auto e mi avviai verso il mio portone.

«Ehi!» Urlò uscendo fuori dalla sua auto. «Non m’inviti neanche a salire?»

Era curioso, mi accorsi che per la prima volta in quella serata le sue sopracciglia fossero d’accordo con la sua faccia.

Comunque feci appena in tempo a voltarmi che già era a pochi centimetri da me.

«Scusa… E’ che sono molto stanca…»

«Ah… Giusto…» Fece lui in un sorriso ironico.

Ripresi a camminare verso il portone regalandogli un veloce cenno, mi aspettavo se ne ritornasse in macchina, ma invece mi accorsi che continuava a seguirmi con le mani ficcate nelle tasche.

«Che c’è? Ti sto solo accompagnando alla porta Kurata…»

«Ma… Non preoccuparti, non serve.» Feci e mi affrettai a fare gli scalini che portavano al portoncino del mio palazzo.

Come se non avesse recepito il senso delle mie parole continuò a seguirmi e non appena feci per inserire le chiavi nella toppa, sentii la sua presenza alle mie spalle farsi più insistente, pressante, mi fu dietro e con uno scatto mi fece voltare, spingendomi alla parete.

«A questo punto dovresti invitarmi di sopra, Kurata, offrirmi da bere… Io poi farò finta di apprezzare quell’intruglio che spaccerai per whisky, parleremo di questi ultimi quindici anni, ci racconteremo qualche bugia, qualche mezza verità… Poi… Facendo finta che sia involontario ci baceremo e finiremo a letto insieme trovandolo necessario…»

Il suoi occhi addosso, la sua faccia sempre più vicina alla mia mi toglievano l’aria, mi resi conto che il mio sguardo si muoveva freneticamente, che i miei occhi inseguivano i suoi movimenti, ma non riuscivo a scrollarmelo di dosso.

Neanche capivo se volevo farlo o non avevo le forze per farlo.

O se fosse esattamente la stessa cosa.

L’unica cosa che sapevo era che le gambe mi tremavano e che i miei polmoni elemosinavano ossigeno.

«Ora… Mi piacerebbe tanto tutta questa situazione, Kurata, ma non ho tutto questo tempo…»

Continuando a guardarmi quasi divertito, mi passò una mano tra i capelli e se li riguardò per qualche istante tra le mani, lasciandoseli poi scivolare tra le dita. «Direi di passare direttamente alla parte divertente e toglierci questo sfizio, non sei d’accordo con me, Kurata?»

Soffiò il mio nome sulla mia bocca prima di spingere le sue labbra sulle mie.

A dispetto del suo atteggiamento, la lingua di Akito mi accarezzò le labbra senza irruenza, ma anzi si mosse delicata fino a schiudermele e insinuarsi piano nella mia bocca.

Risposi a quel bacio senza neanche capirne il perché, ma fu un riflesso quasi involontario, un istinto naturale che mi spingeva da dentro.

Le sue mani mi s’infilarono sotto la maglietta, le sue dita erano fredde e percepii uno strano brivido, ma non aveva a che fare col freddo e neanche con quei brividi che ero ormai abituata a sentire dopo una crisi. Era qualcosa di diverso, qualcosa di più intimo che non mi faceva né tremare, né battere i denti.

Si spinse più addosso a me, lo sentii quasi sorridere sulla mia bocca mentre il suo corpo mi schiacciava alla parete, avrei voluto spingerlo via, in realtà mi lasciai andare alla sua bocca reggendogli il viso con le mani.

«Cazzo, Kurata.» Sussurrò mordendomi eccitato il labbro inferiore.

Sentivo di non volerlo, eppure non riuscivo a staccarmi.

Poi tutto d’un colpo, come una corda alla gola, mi sentii strozzare.

Emisi una sorta di rantolo.

«Hayama…» Ansimai il suo nome sulla sua bocca e lo spinsi via.

A quel punto cominciai ad ansimare allargandomi il collo del maglione.

Lui mi fissò confuso e tornò immediatamente a me, mi passò una mano sul collo e mi sollevò il viso con il pollice.

«Kurata? Addirittura? Ti manca il fiato?» Me lo disse in un risolino compiaciuto, con il solito fare sbruffone.

Avrei voluto urlargli addosso e piazzargli un ceffone in pieno viso, ma sentii le gambe cedermi, il cuore schizzarmi in gola, battere forte. «Vattene…» Riuscii a farfugliare solo quello prima di strisciare nel portone richiudendomelo alle spalle.

*****

Non lo so quanto tempo passò.

Ansimavo rannicchiata sulle scale, cercai di regolare il respiro, dilatarlo ma più lo facevo più sembrava salirmi qualcosa alla gola e al contempo avvertivo come una pressa che spingeva e per quanto tentassi di rialzarmi mi manteneva giù, sul pavimento.

E poi d’improvviso, quando ormai la fame d’aria mi portò a rantolare sul pavimento togliendomi persino la forza di ansimare, quando ormai credevo che fossi arrivata alla fine, sentii come uno scoppio.

Qualcuno aveva tirato via il tappo e quei vapori che credevo di gittare involontariamente come un geyser, si trasformarono in un fiume in piena che mi esondava dagli occhi.

Lacrime.

Lacrime forti e violente come il vomito.

Piangevo.

Io manco me la ricordavo più quando era stata l’ultima volta che era successo.

Mi toccai il viso incredula, mi guardai le mani umide, bagnate da una linfa vitale che neanche sapevo più di possedere.

Tremavo.

Mi portai una mano alla bocca strozzando un lamento e finalmente mi alzai.

Come se le gambe si muovessero da sole mi fiondai nell’ascensore, vidi me stessa riflessa in quello specchio e le lacrime cominciarono a scendere ancora più insistenti, mi strozzavano, mi colpivano perfide, più perfide di quella crisi che avevano magicamente spazzato via.

Quando sbucai al settimo piano cercai di placare i singhiozzi e i lamenti mordendomi la mano tra le lacrime, ma più cercavo di oppormi più strillavo.

Era una sensazione strana, come se tutti i miei organi avessero covato della linfa per tutto quel tempo e ora che lo squarcio si era aperto così tanto, spingeva chiassosa per uscire.

Era un fiume in piena, violentissimo ma immotivato.

Perché il motivo di tutte quelle lacrime non mi era chiaro.

Quando entrai nel mio appartamento mi fiondai nel bagno, non riuscivo a smettere di vomitare lacrime e lamenti, addirittura lo stomaco sembrava contorcersi, vibrare.

Percepii la bile risalirmi nella gola, il suo sapore amaro si fondeva nella bocca a quello salato delle mie lacrime.

Come in preda alle volontà del mio corpo mi fiondai sulla tazza del water.

Vomitai.

*****

«Sana? Sana? Sana, che hai combinato?» La voce di Naozumi mi riportò alla realtà.

«Ti rendi conto che stai dormendo sul tappeto del bagno?» Urlò.

«E poi che schifo è qui dentro? Vomito? Che cazzo hai fatto?»

Detestai le sue urla, mi arrivavano come lame nei timpani, poi Naozumi, da brava prima donna, quando s’irritava si lasciava andare a urla stridule e acutissime.

Succedeva poco, per fortuna, ma quando accadeva mi sentivo quasi molestata dalla sua voce.

Si accorse che lo guardavo piuttosto rintronata, così mi sollevò dal pavimento.

«Hai bisogno di una doccia…» Mi disse.

«Voglio solo dormire…»

Lo sentii urlare, strattonarmi, ma non mi voltai neanche a guardarlo, mi trascinai fino al letto e scivolai sotto le coperte.

Mi rannicchiai al buio nascosta fin sopra alla testa.

Lo sentii distendersi accanto a me, poggiarsi al di sopra del piumone, rendendomi impossibile ogni movimento.

Finché la sua mano non volò sulla mia testa e mi accarezzò con dolcezza.

«Dovresti lavarti… Sei piena di vomito… Ora sporcherai tutte le lenzuola.»

«Non ce la faccio.»

«Vuoi dirmi cos’è successo ieri sera?»

«Ho bevuto troppo, mi sa.» Mugugnai.

«Bere sul posto di lavoro? Non è da te.»

«Dopo mi sono vista con Hisae e gli altri, siamo andati a bere in un posto.»

«Immagino il posto…»

«No, non lo immagini, non puoi.»

Lo sentii sbuffare e poi si alzò.

Non mi mossi neanche di un millimetro anche se, stranamente, nonostante mi sentissi uno straccio, mi sentivo addosso la forza per farlo.

Nascosta tra le coperte fissai il pavimento accanto al mio comodino, i piedi di Naozumi fecero capolino dopo pochi istanti.

«Ti ho portato le medicine.» Disse.

«In cucina c’è la colazione… L’avevo portata per farla insieme a te, ma ti sei fatta trovare sul pavimento del cesso, tra il vomito e i postumi di una sbronza…»

Pur non guardandolo in faccia immaginavo chiaramente la sua espressione avvilita, la sua mano ad allargarsi la fronte e la postura nervosa.

«Perché non mi lasci, Nao?»

A quel punto lo vidi inginocchiarsi difronte a me, sollevò lievemente la coperta e mi scoprì il viso.

«E’ solo un periodo, piccola. Anche io ne ho avuti tanti, ma passerà.»

«Non credo sia solo un periodo.»

«Certo che lo è… Ti senti priva di aspirazioni, di obiettivi, poi però qualcosa accade e quel periodo passa, deve per forza. E’ la vita.»

«Come sei bravo, Nao.»

Mi sorrise ignorando il mio tono ironico e provocatorio e fece per baciarmi la fronte, a quel punto però, sentii di nuovo quella voglia di pianto immotivato nascermi dentro e mi voltai dall’altro lato dandogli le spalle.

«Scusa, lascia perdere. Voglio dormire.»

Lo sentii sospirare, alzarsi e andar via dalla camera da letto.

Perché quelle lacrime? Soprattutto perché senza motivo?

Il bacio di Akito non mi aveva smosso nulla, certo, mi rendevo conto che il mio corpo aveva reagito ai suoi stimoli in maniera quasi automatica, quasi meglio di quando lo faceva sotto l’effetto delle medicine, era una sensazione anche più potente delle mie medicine a dire il vero, ma comunque le emozioni non mi erano tornate affatto.

Forse, pensai, quella reazione era solo un altro scherzetto della mia malattia.

Che senso aveva vivere a quel modo?

Mi passai un dito sulle labbra, il sapore del suo bacio non c’era più, l’avevo vomitato via insieme a tutto il resto.

Tirai su col naso, mi asciugai quelle lacrime dispettose che non avevano senso né motivo di sgorgarmi così dagli occhi e affondai i singhiozzi tra i cuscini, finché sfinita non mi riaddormentai.

*****

Mi risvegliai sentendo la voce di Naozumi provenire dalla cucina.

Non era bello addormentarsi dopo un lungo pianto.

Io lo avevo dimenticato, ma quando ci si addormenta tra le lacrime poi ci si risveglia con le narici tappate e un mal di testa insistente.

Senza fare rumore mi alzai lentamente dal letto lanciando uno sguardo a tutte le medicine che Naozumi aveva abbandonato sul mio comodino.

In pratica aveva svaligiato l’intero armadietto dei farmaci. C’era persino un antipiretico e uno spray decongestionante.

Nel dubbio era meglio prendere tutto, pensai che fosse stato più o meno quello il suo pensiero mentre imbambolato davanti all’armadietto delle medicine si chiedeva quali fossero quelle giuste.

Questo perché io per lui non avevo problemi, semplicemente lasciavo che mia madre l’inventasse per me solo per giustificare il fatto che mi sentissi priva di qualsiasi tipo d’ambizione.

La voce di Naozumi si fece più acuta, pensai a due probabili alternative: o stava provando una parte, o si stava lamentando con uno dei suoi manager perché non aveva chiesto cosa prevedevano i cestini del pranzo su Dio solo sapeva quale set.

Fu quando mi decisi ad alzarmi e ciondolare come uno zombie fino alla cucina che mi accorsi che nessuna delle due ipotesi fosse quella giusta.

Naozumi era seduto al tavolo, spalle alla porta. Davanti a lui aveva un paio di copioni aperti ed evidenziati in alcuni punti con pennarelli fluorescenti e parlava al telefono.

«Io temo siano inutili tutti questi psichiatri che lei le sta facendo incontrare… Sana non è malata, anzi penso che loro le mettano in testa teorie strane, più complicate di quel che è la realtà!»

Era al telefono con mia madre, me ne rimasi sulla porta ad origliare quella conversazione.

«Le ho detto già quello che è successo! L’ho trovata distesa sul pavimento del bagno, ieri sera si è sbronzata ed ha vomitato! Sono cose che accadono a tutte le persone normali! Non c’è da ricercare tutta questa psicologia!»

Naozumi si portò una mano in viso con fare esasperato, mia madre dall’altro lato stava sicuramente facendo valere le sue ostinate ragioni.

Su questo loro due erano molto simili, non volevano perdere, mai.

Certe volte pensavo che ormai aggiustarmi, come diceva mia madre, o togliermi questo senso di privazione che Naozumi diceva io avvertissi nella mia vita, era la mission di entrambi.

Mi sembrava più uno scontro tra loro che una vera e propria ricerca di ciò che era vero.

Che poi cos’era vero?

Io ero malata, mia madre aveva ragione, ma era solo colpa mia che forse ero priva di quella lucidità che serviva per affrontare la cosa, su questo aveva ragione Naozumi.

Quello che non capivano però, era che in tutto questo loro non c’entravano affatto.

Ad ogni modo a me facevano sorridere, certe volte pensavo che volevano disperatamente guarirmi per poi dirsi tra loro: “Vedi? Avevo ragione io?”

«Ci è andata dopo il lavoro… Con Hisae e gli altri… No… Lo escludo, lui non ci va mai a quelle stupide feste, poi dubito le possa smuovere ancora qualcosa.»

Quell’ultima frase mi colpì.

Dubito le possa ancora smuovere qualcosa.

Naozumi c’aveva preso.

Vivevo una vita in cui rivedere Akito Hayama non mi smuoveva proprio niente.

Era questo a farmi male?

Senza lasciare che s’accorgesse di me, me ne tornai a letto e rimasi lì per un po’ col naso per aria e ancora quelle lacrime che mi scivolavano ai lati delle guance.

Non volevo pensare a lui, soprattutto non volevo pensarci senza provare la benché minima emozione.

Mi andava bene anche la rabbia, il senso di colpa, la vergogna… Ma l’indifferenza che avvertivo mi disarmava.

Sentii il cellulare vibrarmi nella borsetta, pur di non pensarci scivolai dal letto e lo raccolsi.

Erano le sei del pomeriggio, avevo ricevuto un paio di chiamate da mia madre e ben 21 da Hisae, c’erano anche 18 messaggi e mi meravigliai non fosse già a casa mia. Notai poi che c’era anche un messaggio da parte di Nobu, mi era arrivato proprio in quel momento a dire il vero.

Anche se quel giorno ero libera, lo aprii pensando che doveva esser successo davvero qualcosa d’importante a lavoro perché non mi aveva mai scritto.

“Un ragazzo è appena venuto a chiedere di te. Non mi ha detto il suo nome, comunque era un tipo alto, dai capelli chiari e a giudicare dallo sguardo era anche abbastanza scazzato… Quindi ce l’hai il ragazzo, allora!    ;-P”

“Non è il mio ragazzo.” 

Gli risposi solo quello e poi pensai ad Hayama.

Pensai che era rimasto sicuramente sconvolto dal mio atteggiamento, non avrei neanche saputo dargli torto.

Baciare una donna che poi si faceva venire una crisi di panico non era certo un’esperienza da mettere in cima alla lista delle esperienze di vita per una persona normale.

Pensai che di lì a poco sarebbe arrivata Hisae, soprattutto pensai che non avevo voglia di vederla, così come non avevo voglia di avere Naozumi in giro per casa quel sabato.

Proprio lui, come se avesse captato i miei pensieri, fece capolino sulla porta, mi ritrovò seduta al centro del letto con il cellulare tra le mani.

«Ma buon giorno!» Mi disse in un sorriso. «Lo sai che ore sono?»

Io gli mostrai il cellulare. «Si, ho visto…»

«Con chi messaggi?»

«Hisae, a momenti sarà qui, penso sia meglio che tu non ti faccia trovare.»

Lui mi fissò per un istante grattandosi la testa. «Non puoi dirle che per oggi è meglio se non vi vediate?»

«Pensi che questo possa trattenerla?»

Lo vidi sbuffare un po’, poi si avviò in cucina, dal rumore che produceva volutamente mi accorsi che la mia uscita non gli era andata a genio.

«Nao…» Lo chiamai e lui non si fece attendere, come una furia si parò avanti a me guardandomi con aria risentita.

«Lo sai che sono rimasto tutto il giorno qui ad aspettare che sua maestà si svegliasse? Non ti senti neanche un po’ in colpa nel mettermi alla porta così perché la tua stupida amica decide sia il caso d’irrompere qui senza il minimo rispetto?»

Odiavo quando mi faceva sentire in colpa, soprattutto quando pensava non capissi che gli faceva solo piacere lasciare il mio appartamento quando facevo così.

«Resta allora.»

«Come faccio a restare?»

«Allora lo vedi che non sono io a metterti alla porta? Sei tu che non vuoi farti trovare qui.»

A quel punto la sua espressione si ammansì, lasciò andare un sospiro e mi si avvicinò. «Lo abbiamo deciso insieme di mantenere segreta questa relazione, dico solo che puoi anche trattenere la tua amica e startene con me.»

«Non la trattengo affatto, se vuoi trattieniti tu.»

«Vabbè, ho capito. Sei nervosa. Pensare che tua madre dice sempre che tu non sia in grado di innervosirti, sai? Invece è come dicevo io… E’ solo un periodo.»

Me lo disse in un sorriso, accarezzandomi i capelli.

Nella mente mi tornarono le parole di Akito.

La vera Kurata è rossa, aveva detto.

Pensai che Naozumi non ci aveva mai fatto caso, anzi, quando, appena ci mettemmo insieme, gli avevo detto che volevo cambiare colore ai capelli, si era mostrato entusiasta.

Anche il suo modo di accarezzarmeli… Era così diverso da quello di Akito.

Erano sempre stati diversi loro due, ma il punto era che ormai era una diversità che percepivo ma non sapevo cogliere più.

Poi si chinò a baciarmi. «Fa’ una doccia.» Mi disse e se ne andò senza voltarsi indietro.

*****

Sulla coperta il cellulare prese a vibrare, era mia madre.

Le risposi subito, non volevo si preoccupasse troppo e si precipitasse a casa mia.

«Mamma…»

«Ciao tesoro! Naozumi mi ha detto che ieri sera ti sei divertita un po’ troppo!» Trillò.

«Già… Troppo.»

«L’alcol non si accoppia bene con le tue medicine, lo sai, no?»

«Lo so…»

«Comunque… E’ stata una bella serata, almeno? Chi c’era?»

«Tutto il vecchio gruppo… E Hayama.»

«Ah…»

«Già.»

«Ti ha fatto piacere rivederlo? Insomma… Dopo tutto questo tempo, dico.»

«Beh… Non più di tanto.»

«Ma come? Immagino sia diventato un bel ragazzo, no?»

«Mamma, per favore…»

«Che noia che sei!»

«Senti mamma, tra un po’ viene a trovarmi Hisae, mangeremo qualche schifezza, parleremo un po’ e poi andrà via e io mi metterò a letto. Sta tranquilla.»

«Non vuoi parlare un po’ anche con me? Come ti senti?»

«No mamma, sul serio. Sto bene… E… Ti voglio bene, sta tranquilla.»

La sentii sospirare, scontenta. Adoravo mia madre e lo sapevo che vedermi così l’annientava, ma quel giorno proprio non ce la facevo a rasserenare le persone che mi circondavano con la classica condiscendenza, stavo male e volevo semplicemente starmene per conto mio.

A quel punto mi venne in mente Hisae, di certo se non l’avessi fermata sarebbe arrivata di lì a poco.

«Mamma, adesso vado, devo ricordare ad Hisae di… Comprare… Delle cose.»

Le regalai un paio di baci poco convinti e misi giù alla svelta.

Poi chiamai anche la mia amica.

«Sana!» Urlò. «Che cazzo di fine hai fatto?»

«Scusa… Ho dormito fino a poco fa.»

La sentii sbuffare, la sua voce però mi arrivava coperta da un frastuono simile allo sferragliare dei treni sulle rotaie.

«Ma dove sei?»

«Alla stazione, ho avuto una riunione di lavoro a Saitama oggi, sennò sarei passata, mi hai fatto spaventare!»

Tirai un sospiro di sollievo sentendoglielo dire. Le volevo bene ma quella giornata volevo solo finisse alla svelta.

«Sto bene… Non ti devi preoccupare.»

Mi sembrò come innervosita da qualcosa, mi accorsi che prese tempo sospirando rumorosamente più e più volte, poi un tizio doveva averla urtata perché ad un tratto la sentii anche urlare qualche improperio all’indirizzo di qualcuno.

«Hisae non ammazzare nessuno, ti prego…»

«La vedo difficile, sono nera! Mi fanno lavorare anche di sabato, ma ti rendi conto?» Sbuffò.

«Senti…» Fece dopo un po’. «Ho sentito Akito prima, voleva il tuo numero, io non gliel’ho dato… Però… Penso voglia vederti… Ehm… Scusa… Cioè… Immagino sia successo qualcosa tra voi.»

Quella giornata della memoria proprio non voleva finire, ormai ero a quota tre persone che mi chiedevano di Akito.

Pensai che l’unica persona a cui sarebbe dovuto interessare si era limitato a dire che ormai non mi smuoveva niente. Mi chiesi che faccia avrebbe fatto se avesse saputo del bacio che c’era stato tra noi due, soprattutto mi chiesi perché non mi sentivo dentro nemmeno il senso di colpa nei confronti di Naozumi.

«Mi ha baciata, poi sono andata via…»

«Sana… Cazzo! Scusami! Come al solito non avevo capito niente, pensavo avesse insistito per riaccompagnarti a casa perché voleva parlarti di me e Gomi…»

«Te e Gomi?»

«Si…  Beh… Ora te lo dico ma prometti di non chiedermelo più perché potrei non ammetterlo una seconda volta… Purtroppo penso proprio che mi piaccia.»

«Ma chi? Hayama?»

«Ma no! Gomi.»

«Gomi? Ma Hisae lui è un tale…»

«Lo so, è un cafone troglodita, ma non posso farci niente, è così.»

«Non mi ha detto proprio niente di voi due…»

«Immagino… Sono stata una stupida... Chissà cosa credevo… Perdonami. Comunque tu come ti senti? Ti ha dato fastidio? Ti è piaciuto?»

«Mentre mi baciava mi è cominciata una crisi di panico.»

«Dio mio, Sana! Mi sento veramente una merda… Ma chi cazzo ci pensava che aveva dei doppi fini? Non è mai venuto a nessuna festa, da quando è tornato non si è mai fatto vivo con te… Avevo dato per certo fosse ormai acqua passata… Io proprio non credevo che…»

«Tranquilla, Hisae, me l’ha detto chiaro e tondo che voleva solo togliersi lo sfizio.»

«Che merda…»

«Dici? Io ho pensato fosse solamente sincero.»

«Beh… Se mi dici così è perché magari lo sfizio era venuto anche a te…»

«No, Hisae…»

Mi limitai a risponderle così, evitando di dirle che in realtà non avevo sentito proprio niente e che se non fosse stato per il mio stupido corpo e la sua naturale predisposizione a rispondere ossessivamente agli stimoli di Akito Hayama, - perché sì, era proprio quello che mi era sembrato - di certo quel bacio non sarebbe durato che un istante.

«…E dai! Non fare la timida, magari chissà dallo sfizio nasceva altro, Naozumi andava al diavolo e tu tornavi con Hayama… Sarebbe stata davvero un’ottima prospettiva. Via Naozumi, via medicine, via attacchi di panico e benvenuta felicità.»

«Felicita?»

A quel punto, abbozzò un’aria fintamente indispettita. «Ah non lo so… Guarda che un tempo lo dicevi te che era lui la felicità di Sana Kurata!!!»

Già, era vero, mi ricordai anche il momento esatto in cui gliel’avevo detto, tutte quelle sensazioni che avevo provato e che in quel momento, neanche rievocandole riuscivo a percepire.

Mi sentii addosso di nuovo quella voglia di pianto immotivato che ormai riuscivo a collegare all’ennesima risposta naturale del mio corpo agli stimoli di Akito Hayama.

La verità era che non provavo niente e più me ne rendevo conto, più lo collegavo a lui, più mi veniva da piangere.

Non volevo! E un po’ lo odiai, quanto meno mi convinsi di riuscirci, perché pur non sapendo nulla, mi aveva fatto toccare con mano quanto ormai questa malattia aveva invaso ogni angolo della mia testa.

«Hisae… Quando l’ho visto… Soprattutto quando mi ha baciata, io non ho provato nulla. Perché…?»

Lasciai quella domanda nell’aria come un lamento. Lo sapevo che Hisae non avrebbe saputo rispondermi, lo sapevo che quella situazione non aveva a che fare con lei, forse neanche direttamente con lo stesso Hayama a cui semplicemente una sera era passato per la mente di portarmi a letto, il problema ero io e quel tunnel degli orrori che era la mia mente.

Perché dovevo vivere se vivere era quell’elettroencefalogramma piatto a cui si aggiungeva qualche onda solo con un farmaco?

Perché? Se alla fine sarei andata avanti sempre peggio?

La mia amica ebbe uno strano sussulto, immaginai stesse cercando con lo sguardo una panchina e ci si stesse sistemando in attesa di parlare con la giusta calma.

«Tesoro… Però piangi…»

«Già… E non so neanche il perché.»

«Naozumi, quella merda.»

Lasciai andare un debole risolino, era sempre la solita. «Dai, Hisae!»

«Guarda che è vero, sai? Non provi niente perché quello là ti getta addosso tutto il suo grigiore e tu vivi la vita con quelle lenti lì! Dovresti liberartene… E poi secondo me a letto non è neanche capace.»

«Non ti dirò se Naozumi ci sa fare, Hisae.»

«Certo che no, perché sei una signorina per bene, darmi ragione sarebbe di cattivo gusto.»

«Pensala come vuoi…»

Le dissi così, poi parlammo ancora della sera precedente, delle uscite infelici di Fuka, di quanto erano carini Aya e Tsu, di quanto fosse odiosa quella Mizuo che Gomi si ostinava a trascinarsi dietro… O meglio lei parlò, io mi limitai ad ascoltare finché il suo treno non arrivò in stazione e mise giù.

*****

Mi fiondai tra le coperte pensando al fatto che tutto quel pianto aveva avuto almeno un lato positivo, mi sembrava di non percepire quelle sensazioni orribili che mi rendevano così dipendente dalle medicine.

Certo, mancava ancora molto tempo prima che si facesse sentire il bisogno e poi, anche se non l’avessi avvertito, non potevo in alcun modo sospendere le medicine così, però ecco, mi riconoscevo sempre addosso quella apatia, ma fisicamente non avvertivo molti altri sintomi.

Mugugnai un po’ prima di acciambellarmi su me stessa, desideravo smettere di pensare e dormire almeno fino al giorno dopo.

Non so quanto tempo passò, mi risvegliai di soprassalto sentendo sbattere alla porta. Il cuore mi arrivò in gola e fissai il buio della mia camera con un profondo senso d’inquietudine addosso.

Il rumore era assordante, per un istante pensai che provenisse da un’altra abitazione e mi alzai dal letto per controllare.

«Kurata!» Sentii urlare il mio nome e riconobbi all’istante quella voce.

Hayama.

«Apri!» Urlò. «Lo sento che ci sei!»

Akito Hayama era alla mia porta con un ritardo di quindici anni.

«Non ci penso nemmeno, va via!»

«Apri ho detto!»

Non gli risposi e me ne tornai a letto, pensai che presto o tardi si sarebbe stancato e sarebbe andato via.

Che diavolo voleva?

Poi d’un tratto sentii un colpo secco, la porta aprirsi e sbattere.

Ma era scemo o cosa?

Istintivamente m’accovacciai sotto le coperte cercando di mantenere fermi i lembi come meglio potevo. Che aveva per la testa quello là?

Lo sentii entrare nella mia stanza, accendere le luci.

«Kurata? Che cazzo fai? Vieni fuori!»

«Ti ho detto di andare…»

Avrei tanto voluto sapere dove stava posando gli occhi, cosa gli stesse passando per la testa nel vedermi nascosta sotto una coperta, come una ladra nella mia stessa casa.

Feci appena in tempo ad articolare quei pensieri che lo sentii infilarsi sotto le coperte, afferrarmi per i polsi e tirarmi giù dal letto.

Mi sentii letteralmente volare per aria, prima di atterrare proprio lì, difronte a lui.

Le sue mani stringevano ancora i miei polsi, mi accorsi che mi guardava quasi sotto shock.

«Ma che ti salta in mente di venire così a casa mia? Mi hai sfondato la porta!»

Come se le parole gli fossero morte in gola sbarrò gli occhi e mi fissò con una certa insistenza mentre io tirai via le mani da quella stretta.

Mi accorsi che si guardava intorno, che la sua espressione diventava via via più indecifrabile.

«Ma cos’è questo posto?»

Poi i suoi occhi si posarono sul comodino dove ancora troneggiavano tutte le medicine che Naozumi ci aveva abbandonato.

Ci si avvicinò lentamente e ne prese una a caso.

«Che succede, Kurata?»

«Ho la febbre, ieri sera devo aver preso freddo…» Trillai avvicinandomi a lui, allontanando come potevo la sua attenzione da lì. «Dovresti andartene o te la prenderai anche tu!»

Come se non fossi neanche presente, mi scavalcò afferrando proprio quelle medicine, ne lesse il nome a voce alta e mi fissò incredulo.

A quel punto scattai immediatamente, mi fiondai su di lui e gliele strappai via dalle mani.

«Te ne devi andare!»

Di tutta risposta, lui mi venne contro costringendomi ad indietreggiare fino ad arrivare al letto.

«Ti prego, vattene…»

Lui si guardò ancora intorno e poi tornò a posare i suoi occhi su di me. «Che vuol dire questo posto? E’… Umido, buio, sciatto… Non è… Beh… Te…»

«Cosa ne sai di me, tu? Non ti permetto d’irrompere qui e sparare giudizi!»

Con una forza dirompente mi spinse sul letto, si parò tra le mie gambe bloccandomele e strinse le sue mani sui miei polsi. Come aveva fatto con Gomi, mi mise al tappeto con una sola mossa obbligandomi a fare ciò che lui voleva da me in quel momento: Guardarlo.

Guardarlo dritto in quegli occhi che non mi restituivano niente, non riuscivano a replicarmi un emozione diversa dal disagio di sentirmelo addosso, né un sentimento chiaro e distinguibile.

Risentii quel desiderio di piangere, scossi la testa per cacciarlo indietro, o forse per non farglielo vedere.

Il suo sguardo però mi agitava, studiava fisso il mio che tentava disperatamente di scappare.

Fissai l’attenzione sulle sue braccia, erano ricoperte dalla pelle scura della sua giacca, ma dalle poche grinze che faceva capii che per tenermi ferma non si stava sforzando neanche un po’.

Il suo respiro caldo mi agitava la pelle del viso, del collo, forse in un’altra vita avrei trovato quella situazione piacevole, magari eccitante, in quel momento non avvertii nessuno stimolo, se per caso mi avesse strozzata, pensai, non avrei avvertito neanche la paura.

Volevo solo che mi lasciasse, che sparisse alla svelta dal mio appartamento e mi lasciasse sola. «Ti prego… Mi fai male… Lasciami andare…» Quella volta glielo chiesi quasi in un lamento.

Sperai mi desse ascolto, invece sentii il suo sguardo perforarmi la pelle più del suo respiro, boccheggiai allungando un po’ il collo cercando di prendere aria e mi accorsi che seguì il mio movimento sperando quasi di leggerci qualcosa dentro.

Il cuore mi batteva all’impazzata, i sintomi forse stavano tornando e sperai lui non se ne accorgesse, soprattutto sperai la piantasse di stringermi i polsi piantato su di me. «Kurata… Che cazzo ti è successo? Perché sei arrivata a tanto?»

Cominciai a voltare la testa quasi convulsamente, la sensazione delle lacrime sulla pelle mi mandò in black out il cervello, il suo sguardo addosso non riuscivo a reggerlo. Non era che provavo vergogna, solo fastidio che si fosse intromesso con tutta quella irruenza nella mia vita con ben quindici anni di ritardo.

«Lasciami!»

«No! Non ti lascio finché non me lo dici!»

«Sono malata!» Urlai.

«Fin qui ci arrivo, Kurata, voglio sapere che è successo, perché che sei depressa lo capisco da me!»

Il mio mostro aveva un nome.

Akito con la sua irruenza, aveva dato un nome alla mia malattia senza girarci intorno, senza temere di apparire sgarbato, senza usare con me quella delicatezza e quell’atteggiamento accorto che utilizzavano tutte le persone che popolavano la mia vita senza abitarla realmente.

La conoscevano tutti la mia malattia, molti la negavano, mia madre la accettava, ma non la chiamava per nome nessuno, ne erano forse tutti terrorizzati, forse lo vedevano come un virus contagioso che se nominato ti compariva alle spalle, ti si legava alla testa convincendoti con insistenza di esserti infettata e loro non volevano farla la mia fine.

E in fondo era quello che facevo anche io.

Non l’avevo mai usata quella parola, neanche tra me e me, certe volte pensavo che se solo l’avessi nominata le avrei regalato spontaneamente una parte di me.

E allora dicevo malattia, dicevo apatia, dicevo spossatezza, dicevo tristezza.

In realtà quella malattia, proprio della tristezza, non aveva niente, perché riusciva a toglierti persino quella.

La prima volta in cui sentii parlare chiaramente di lei, fu quando avevo 23 anni, durante un incontro con uno dei tanti luminari a cui mia madre mi sottoponeva. Scoprii che quella malattia non aveva niente a che fare con i sentimenti o con le emozioni negative, era semplicemente logorante assenza di tutto ciò che rendeva umano un essere umano.

Eppure noi siamo umani, siamo fatti per provare quelle emozioni e quei sentimenti, - belli o brutti che siano - e allora, quando il corpo viveva quelle situazioni in cui sentimenti ed emozioni dovevano essere chiamate in causa e loro non arrivavano, ecco che rispondeva così, con quei sintomi che tanto mi attanagliavano.

Non era tecnica, né tantomeno scientifica come spiegazione, ma era l’unica che riuscii a darmi sentendo parlare quell’uomo con quel suo lessico pieno di termini che avrei voluto solo dimenticare.

Scoppiai a piangergli in faccia e a quel punto, finalmente lasciò andare la presa sui miei polsi e si tirò accanto a me, mentre io mi nascosi il viso tra le mani, girandomi su un fianco, dandogli le spalle.

Pensai che pur non vedendola, riuscivo a percepire quella immagine distante e presente di me e lui insieme sul letto di casa mia.

In fin dei conti era simile a quella del nostro ultimo ricordo insieme. Cambiavano solo i tempi.

Riuscivo a immaginare il petto di Akito che si alzava e si abbassava quasi freneticamente, riuscivo a immaginare il suo sguardo spaesato perdersi sul soffitto umido e scolorito della mia camera da letto, riuscivo a immaginare me di spalle con la testa tra le mani e quei capelli castani sparsi tra la sua spalla e la coperta.

Forse Akito me li stava guardando, chissà cosa si stava chiedendo.

Non ero la vera Kurata, sperai che lo capisse e se ne andasse.

Invece gli sentii lasciar andare un gran sospiro e mi passò una mano tra i capelli. «Beh… Piangi. E’ un buon segno.»

«E non so neanche il perché…»

«Mica conta questo?» Chiese retorico, mentre, rimanendo immobile accanto a me, continuava a muovere le dita tra i miei capelli in un movimento ipnotico e rilassante.

«Si, ma vorrei poterci capire qualcosa…» Frignai e a quel punto lui mi fece voltare tirandomi a sé.

«Le togli queste mani dalla faccia?»

Feci no con la testa e senza neanche accorgermene mi rannicchiai su me stessa quasi a nascondermi. Lui però non parve fregarsene delle mie reticenze, mi avvolse le braccia intorno alla vita – e alle gambe, data la mia posizione – e mi depositò piccoli baci sulle mani.

«Ti prego, smettila. Non mi susciti niente…»

«Quindi non mi sbagliavo sul tuo orientamento sessuale… Quel bacio con Hisae parlava chiaro in fondo.»

«Hisae mi saluta spesso così e no, non sono lesbica, se è quello che stai tentando d’insinuare.»

«Non l’ho insinuato, l’ho proprio detto.»

«Non lo sono e seppure lo fossi non sarebbe un problema…»

«Per me sì. Insomma, l’avresti capito grazie a me, non pensi alla mia virilità?»

«Senti, piantala con questo umorismo da due soldi. E poi smettila di baciarmi le mani, ti ribadisco che non sento niente e in più puzzo ancora del vomito di questa notte.»

«Già, è vero. A questo punto dovremo fare una doccia.»

Successe nel giro di una manciata di secondi, non ebbi neanche la facoltà di rendermene conto che mi ritrovai tra le braccia di Akito che vagava per casa mia alla ricerca del bagno.

Cercai di oppormi con tutta me stessa, ma lui aveva in sé una forza davvero palpabile, sembrava scalpitargli dentro con irrequietezza e trasudare dalle mani che pur senza stringermi le gambe mi mantenevano salda al suo petto, dalle braccia ferme e marmoree, persino dallo sguardo fiero e dritto che puntava avanti verso l’obiettivo ignorando totalmente le mie parole e i miei movimenti.

Trovato il bagno mi spinse nella doccia, mi tenne ferma con una sola mano mentre con l’altra armeggiava con la manopola dell’acqua calda.

«Ma sei impazzito? Che intenzioni hai?»

«Farti una doccia, mi sembra ovvio.»

Tentai di mollargli uno schiaffo, ma fu rapido a schivarmi, o forse ero io troppo ingessata nei movimenti.

«La farei volentieri anche io insieme a te, ma al momento ho altro da fare!» Biascicò, lanciandomi addosso il getto dell’acqua.

A quel punto però fui rapida io nel voltargli il soffione della doccia dritto in faccia, lui non si scompose più di tanto. Si scrollò un po’ d’acqua dal viso portandosi indietro i capelli, spense il getto dell’acqua e mi mise il soffione tra le mani.

Mentre io ansimavo affaticata dal suo modo di fare, lui mi sorrise e mi guardava con quello stesso sguardo che mi aveva regalato tante volte anni prima.

Quanto avevo amato quegli occhi? Quante volte quello sguardo mi aveva confusa e quante altre mi aveva riportato a casa? Nella mente però ricordai nitidamente solo le volte in cui mi aveva lasciato indietro.

Le gocce d’acqua gli rigavano il viso, scivolavano leggere dalla fronte alle labbra che mi accorsi avevano un colorito più intenso. Pensai fosse bello, ma quello lo era sempre stato.

Poi i miei occhi si mossero, gli accarezzarono il collo bagnato, quasi in automatico una mia mano volò proprio lì, con le dita giocherellai un po’ coi suoi capelli.

Rimasi per un istante così in una sorta di contemplazione, come ipnotizzata dallo sfrigolio dei suoi capelli tra le mie dita che lentamente poi improvvisarono una sorta di camminata fino al lobo del suo orecchio e ci giocherellarono. La cosa comunque dovette stranirlo perché corrugò la fronte e mi strinse una spalla quasi scuotendomi.

«Fa’ la doccia.» Me lo disse in un filo di voce ma mi parve quasi un ordine.

Allora, quasi come se non avessi cognizione dei miei movimenti, allontanai la mano da lui e mi sfilai la maglia.

Lo vidi strabuzzare un po’ gli occhi, mordersi un labbro quasi incantandosi a guardarmi.

Lanciai la maglia alle sue spalle e continuando a fissarlo mi sfilai anche i pantaloni. Mi accorsi che le sue mani si chiusero in due pugni stretti ai lati delle gambe, che i suoi occhi fissavano attenti i miei movimenti.

Cercai con la mano il gancetto del reggiseno, ne avvertii il click o forse fu solo il rumore del vetro opaco della doccia, quello che Akito chiuse in fretta davanti ai miei occhi.

Mi risvegliai bruscamente da quella specie di spogliarello che il mio corpo aveva deciso di realizzare apposta per lui.

Istintivamente mi portai una mano al collo sorprendendomi non poco del fatto che la stretta alla gola che mi aspettavo dovesse arrivarmi a quel punto non si presentò.

Percepii la sua presenza ancora in quella stanza, attraverso i vetri consumati lo vidi con le braccia tese sul lavandino, lo sguardo fisso allo specchio.

«Se cerchi il phon è in camera mia. Na…»

E quel nome mi si strozzò in gola. Non ne capii neanche il perché ma la voce smise di uscirmi dalla bocca.

Mi strappai di dosso le mutande e il reggiseno, le lanciai fuori dalla doccia e m’immersi sotto il getto caldo dell’acqua.

«Io torno subito.» Gli sentii dire e dentro di me ricordai che l’ultima volta in cui me l’aveva detto non era tornato più indietro.

*****

Quando mi tirai fuori dalla doccia doveva esser passato molto tempo. Avevo la pelle arrossata, i polpastrelli aggrinziti.

La stanza era avvolta dal vapore. Mi sembrò una trasposizione della mia testa, una nube piena di oggetti dismessi.

Soprattutto capii in qualche modo che me ne stavo rendendo conto solo in quel momento che in quel bagno tutto sembrava cadere a pezzi.

Sentii silenzio tutto intorno, immaginai fosse realmente andato via senza tornare indietro.

Mi chiesi se non mi fossi tirata fuori dalla doccia così tardi per ritardarmi quella consapevolezza.

Ma durò un istante, i miei occhi si posarono sul phon poggiato sul lavandino, evidentemente Akito lo aveva usato e aveva pensato di farmelo trovare lì.

Mi colpii quella immagine e irrimediabilmente pensai a Naozumi, non ammetteva fossi malata, ma indubbiamente quella fiducia non me la riservava.

O forse non la riservava alle sue convinzioni.

Mi asciugai i capelli e venni fuori dal bagno, mi accorsi immediatamente del brusco cambio di temperatura e mi nascosi in camera mia, tirai dall’armadio dei leggings e la prima felpa che mi capitò tra le mani e m’imbambolai a riflettere su cosa fare.

Akito era andato via e non sarebbe di certo tornato. Mi domandai cosa fosse venuto a fare? Che senso aveva quel suo modo di fare?

Mi strinsi nelle spalle rispondendomi che il mio atteggiamento della sera precedente lo aveva evidentemente sconvolto, poi lui era sempre stato un tipo piuttosto sveglio, non mi meravigliai più di tanto che gli erano bastati pochi elementi per tirare le somme sulla mia situazione.

Sbuffai un po’ davanti al mio armadio aperto, chissà che ora era, avrei dovuto cercare il mio telefono.

Mi dondolai un po’ sui piedi senza avere una chiara idea su ciò che fare quando un odore di tabacco mi arrivò alle narici.

Possibile fosse tornato?

Mi avviai incredula verso la cucina e sorprendentemente lui era lì.

Era al buio, aveva spostato il tostapane e se ne stava seduto al suo posto, sul mobile della cucina che dava sulla finestra, con una gamba cavalcioni al cornicione.

Pensai che neanche lui doveva avere tutte le rotelle al posto giusto.

Fumava una sigaretta e guardava fuori con uno sguardo assorto, forse triste, il viso illuminato solo dalla sua sigaretta ogni volta che ne aspirava un tiro.

Il vento freddo di Dicembre gli smuoveva un po’ i capelli ricacciando il fumo di sigaretta all’interno.

Che cosa gli passava per la testa?

Mi resi conto che mentre mi ripetevo che non m’importava niente di lui, stavo cominciando a chiedermelo, soprattutto mi resi conto che non provai quel desiderio di vederlo andar via come mi era successo con Naozumi.

Non provai neanche un definito piacere, però forse, qualcosa che si avvicinava allo stupore e all’incredulità.

Accesi la luce spezzando quel momento e lui si voltò a guardarmi.

«Certo che ci metti una vita a lavarti.»

Scrollai le spalle e mi strinsi tra le braccia. «Come mai sei ancora qui?»

«Sono uscito a prendere la cena, il tuo frigo non vede cibo da quando ancora avevi i capelli rossi, mi sa… Oltre al fatto che è da rottamare.»

«Già, devo cambiarlo… Ma comunque cos’hai contro i miei capelli, adesso?»

«Te l’ho già detto, la vera Kurata è rossa.»

Sollevai gli occhi al cielo, certo che si era proprio fissato, cosa ne sapeva lui di me dopo quindici anni e poi che avevano di male i miei capelli castani?

«Ti ho riparato la porta, adesso si chiude.»

Giusto, la porta, neanche avevo fatto caso al fatto che se non l’avesse riparata avrei dormito con la porta aperta.

«L’hai rotta tu…»

«Non c’è di chè.»

A quel punto balzò verso l’interno, spense la sigaretta in uno dei tanti posacenere che Hisae disperdeva nel mio appartamento e mi regalò un sorrisetto che in un’altra vita avrei definito irresistibile indicandomi il tavolo su cui erano poggiati molti sacchetti di plastica.

«La sai una cosa, Kurata? Io non lo so qual è il tuo piatto preferito. Ci pensavo mentre cercavo di capire cosa prendere.»

«Non importa, tanto non ho fame.»

Come da prassi, ignorò le mie parole, mi si avvicinò e mi liberò dalle mie braccia conserte tirandomi al tavolo.

«Posso sapere per quale motivo stai facendo tutto questo?»

«Beh perché mi va.»

«Non ho fame, Hayama.»

«Come dicevo… Non sapevo cosa prenderti così ho pensato… Magari del sushi.»

«Quello piace a te.»

A quel punto mi sorrise con fare sbruffone e tirò fuori dal sacchetto della farina.

«Ma poi mi sono ricordato che sei una viziata, che di certo non avrei scelto il ristorante giusto, il sushi giusto e ho lasciato perdere…» Continuò, tirando fuori dal sacchetto anche delle uova.

«Magari il tonkatsu… Ma poi avresti detto che non ti piaceva il maiale e che avresti preferito del pesce…» Aggiunse e tirò fuori dal sacchetto dei gamberi, della pancetta e delle salse.

«Hayama? Che stai facendo? Ti ho detto che non ho fame.»

«Il ramen? Ho pensato anche a quello, ma quello… Beh, non andava a me.» Disse e tirò fuori dei porri, un cavolo e una serie infinita di verdure e spezie.

«Così mi sono detto che forse, per accontentare una come te, sarebbe stato meglio prendere tutto il necessario per una okonomiyaki e lasciarti fare.»

Era stato un gesto carino? Non riuscii a definirlo, soprattutto non riuscivo a definire lui. Perché ora stava facendo così? Perché scomodarsi tanto per una che fino al giorno prima per lui neanche esisteva?

«Non ho una teppan in casa.»

«In qualche modo ci arrangeremo.»

«Ma ti ho già detto che non ho fame.»

«Io sì, dammi una mano a prepararle.»

Sbuffai sonoramente mentre lui mi diede le spalle e cominciò a riordinare la spesa andando a tentoni tra i pensili della mia dispensa e a mano a mano che lo faceva mi accorsi che non si era limitato ai semplici ingredienti per le okonomiyaki, mi aveva letteralmente riempito i mobili di ogni ben di Dio.

«Guarda che sono in grado di farmela da sola la spesa…»

«Non ho mica detto che sono per te queste cose?»

Lasciai scivolare la conversazione roteando gli occhi al cielo, mi balenò nella testa la possibilità di andarmene a letto e lasciarlo lì a fare ciò che voleva, così, me lo guardai per un po’ come se mi fosse appena arrivato in casa e scrollai le spalle.

«Senti io vado a letto, tu fa come ti pare.»

Neanche mi rispose, m’afferrò per un braccio e mi tirò al lavandino parandosi alle mie spalle.

La sua figura mi avvolse, sentii il suo petto schiacciarmi la schiena, le sue braccia incollarsi alle mie e le sue mani incastrarsi perfettamente sulle mie.

Mi sembrò di sussultare per quella assurda posizione in cui mi aveva messa, ma sembrò curarsene poco, come se fossi una marionetta mi piazzò il cavolo tra le mani e richiuse la sua mano sulla mia, poi afferrò il coltello con quella che ormai non sapevo più se fosse la mia mano o un prolungamento della sua e cominciò a farmelo tagliare guidando i miei movimenti con i suoi.

Niente, non mi dava scelta né possibilità di scampo.

Sollevai il viso a guardarlo, era così assorto da sembrarmi buffo.

«Hayama…» Sussurrai scuotendo un po’ la testa.

«E’ questo il problema, Kurata, sei cocciuta e anche viziata.»

«Non è vero.»

«Si che è vero!»

«Ci metteremo il doppio del tempo solo perché non vuoi collaborare.»

Così mi disse, nel tono della sua voce però non c’era frustrazione né rabbia, ma una sorta di delicata e timida dolcezza.

Non mi arrivava tutto chiaramente, ma mi accorsi che mentre lui, incollato a me guidava i miei movimenti facendomi di fatto preparare la cena, avevo persino smesso di pensarci, di chiedermi perché fosse lì, cosa significasse il suo modo di fare.

Semplicemente mi lasciai andare.

E più lo facevo, più mi accorsi che le mie percezioni e le mie sensazioni si stavano dilatando.

Feci caso all’odore della sua pelle, al suo respiro che da quella posizione mi solleticava il collo, ai suoi movimenti sempre un po’ nervosi che celavano dentro un’irruenza istintiva che mitigava con la sua proverbiale tendenza all’autocontrollo e a quella meticolosa precisione.

Era un contrasto strano che però percepivo così, pelle contro pelle.

Il suo corpo mi parlava di qualcosa, qualcosa di scomodo che lui stava tentando di nascondermi ma che io sentivo senza chiarezza, come avvolto da una sorta di nuvola di fumo.

Come una sensazione che intimamente conosci bene, ma non sai spiegare con semplici parole.

I miei occhi fissarono attenti le sue mani, mi accorsi che erano così diverse da quelle di Naozumi, avevano un tocco più deciso, più virile, una pelle meno sottile e anche la forma era diversa.

Le mani di Akito non sembravano affatto levigate dalla carta, ma anzi sembravano aver fatto tanto, forse troppo, era come se gli sentissi stretto intorno alle dita qualcosa simile a dei lacci, come se tra la pelle delle sue mani e la mia ci fosse una sottile barriera fibrosa.

Mentre pensavo a tutte queste cose, neanche mi accorsi che il petto di Akito non era più contro la mia schiena, che le sue mani non guidavano più i miei movimenti, ma che avevo cominciato a fare tutto da sola, in una sorta di meccanica e involontaria autonomia.

Quando lo realizzai mi accorsi che avevo già davanti l’impasto per le okonomiyaki.

Mi voltai a guardarlo e lo ritrovai poggiato braccia conserte ai fornelli che mi guardava con una sorta di compiaciuto risolino negli occhi.

«E… E ora che facciamo?» Gli chiesi.

«Direi cuocere tutto e mangiare, ce l’hai una padella, Kurata?»

Annuii e cominciai a cercarla tra tutte quelle cianfrusaglie che neanche ricordavo di avere, nel frattempo lo vidi prendere due birre dal frigo.

Le aprii con il retro di una forchetta e me ne passò una non appena venni fuori dalla mia ricerca.

Le fece tintinnare e ne mando giù un lungo sorso mentre io me ne rimasi lì a guardarlo con la padella in una mano e la birra nell’altra come incapace di capire se avrei dovuto mettere la birra sul fuoco e attaccarmi alla padella o il contrario.

Forse gli sembrai buffa perché mi sorrise avvicinandomisi e si chinò su di me.

Mi strappò via la padella dalla mano e poi si allungò a baciarmi le labbra.

«Ma che fai!» Urlai tirandomi via da quel contatto.

«Controllavo i tuoi riflessi.» Mi disse, per poi mettere la padella sul fuoco.

«Non mi piace che approfitti così delle situazioni!»

Mi fissò in uno strano risolino, ero certa stesse per rispondermi qualcosa di ironico e pungente ma il cellulare prese a suonargli nella tasca dei jeans e se lo cacciò fuori guardando il display.

Si adombrò di colpo e rispose spostandosi quasi d’istinto verso la finestra.

Mi sembrò di riconoscere la voce di Gomi, ma non ne ero proprio sicura, quello che mi colpii maggiormente fu la sua espressione truce, la sua postura che da rilassata mi sembrò contrarsi involontariamente.

«Che figlio di puttana!» Fece e mi diede le spalle, lo vidi mentre si cacciava una mano nelle tasche tirando su una sigaretta.

«Si, lo so… Ho capito, però adesso no.»

M’imbambolai a guardare i suoi movimenti, c’era qualcosa di strano in lui, mi sembrò stesse trasudando un qualche tipo di sentimento poco chiaro, soprattutto poco sano.

C’era della impercettibile veemenza nel suo modo di accendere la sigaretta, c’era un chè di vagamente trattenuto, sedato, nel modo che aveva d’interagire con ciò che aveva tra le mani.

Mi sembrò come se stesse fumando per evitare di scaraventare il telefono al muro.

«Ti ho detto dopo.» Scandii e io gli guardai le spalle irrigidirsi, i muscoli delle braccia vibrare impercettibilmente.

Poi riattaccò quasi lanciando il telefono sul mobile e buttò fuori un lungo sbuffo denso di fumo.

«E’… Tutto ok?»

«Sì.»

«Se hai da fare vai, non devi per forza…»

«Kurata, la padella sta per andare a fuoco, dai sbrigati!» Fece e mi superò afferrando la ciotola con l’impasto.

*****

Un’ora dopo eravamo a tavola e io ero già arrivata alla seconda okonomiyaki.

Dopo quella telefonata Akito era cambiato, benché tentasse di nasconderlo mi accorsi che era diventato più taciturno, mi sembrò sempre molto presente, ma era evidente che con i pensieri fosse altrove.

I suoi movimenti non erano più fluidi, ma quasi nervosi.

Il tutto però, mi parve affievolirsi e svanire lentamente col trascorrere del tempo.

Mentre mangiavamo mi accorsi che tutta la sua attenzione era completamente rivolta a me.

Mi sembrò quasi mi stesse controllando e io non saprei dire se quel suo atteggiamento mi inquietò o mi confortò. L’unica cosa che sapevo era che non avevo voglia di sentirgli dire “Ora devo andare.” nè di dirgli “Forse è meglio se ora vai.”.

Per tutto il tempo parlammo poco, ma lo percepii moltissimo.

«E il karate? Ti alleni ancora?»

«No, non più.»

Lo guardai un po’ stranita, il suo non mi sembrava affatto l’aspetto di uno che stesse senza far niente, ma comunque decisi di non indagare ulteriormente.

«I takoyaki dei mercatini del Tanabata e i taiyaki al cioccolato.» Feci dopo un po'.

«Cosa?»

«Il mio piatto preferito.»

«Giusto… Sono i piatti preferiti dai bambini, dovevo semplicemente pensare in maniera elementare.»

«Senti chi parla! Il signor il sushi non mi dispiace! Almeno io so dirlo!»

«Dire cosa?»

«Mi piacciono tantissimo queste okonomiyaki, ad esempio, io so dirlo.»

Lui si voltò a guardarmi e mi strizzò un occhio. «Perché le ho preparate io.»

«Veramente hai fatto solo finta, ho fatto tutto io.»

«Sottigliezze… E comunque ti piacciono tantissimo.» Rimarcò.

Mi sembrò di capire cosa stesse intendendo. «Guarda che non sono malata al punto da non rendermi conto se ciò che mangio sia commestibile o meno. Le mie papille gustative funzionano benissimo, sono le emozioni che sembrano andate per i fatti loro.»

«Però eri entusiasta mentre lo dicevi.»

«Sarà stata la serotonina, ce n’è parecchia nelle uova, sai?»

«Io sì, tu che ne sai?»

«Me l’ha detto Nobu.»

«E chi sarebbe Nobu?»

«Il mio collega.»

Inarcò un sopracciglio e mi parve stesse per dire qualcosa, ma buttò giù della birra e non aggiunse altro.

«Ieri mi ero fatta un’idea molto diversa sul tuo conto…»

«Del tipo?»

«Beh, del tipo “Dai tesoro non insistere, ci vediamo domani” e poi saresti voluto venire a letto con me.»

«Se stai pensando che non mi è rimasta quella idea sei totalmente fuori strada, Kurata.»

«Sei un maniaco, Hayama.»

«Andiamo! Sono solo sincero. Non era sbagliata la tua impressione.»

«Non mi piace come hai trattato quella ragazza, neanche come hai trattato me dopo.»

«Beh… E’ comprensibile.»

«E non ti scusi?»

«Che senso ha? Lo rifarei.»

«Lo sai che c’è un nome per quelli che trattano le donne come fai tu?»

«Ma io non tratto proprio nessuno, Kurata, né tanto meno sono uno che si scopa tutte.»

«Quindi vuoi farmi credere che quella era la tua ragazza?»

«Ti sembrerebbe così assurdo?»

Mi rigirai un pezzo di okonomiyaki nel piatto, mi chiesi molte cose tutte insieme, ma non riuscii a tirar fuori niente.

Però ecco, mi ritornò alla mente quando Akito mi disse che lui e Fuka stavano insieme, pensai fosse veramente strano il modo che aveva la mia testa di rimandarmi tutte quelle immagini.

«Posso chiederti perché sei qui?»

«Te l’ho già detto, mi andava.»

«Perché ora non sei più sincero?»    

Mi parve che quella domanda lo colse un po’ alla sprovvista, mi guardò per un attimo con un’espressione un po’ vuota, nei suoi occhi c’erano tante parole, ma forse non sapeva come metterle in fila per rispondermi, fatto sta che mi parve di percepire un tempo lungo e denso prima che finalmente lo vidi muoversi. Si pulì la bocca con un tovagliolo e lasciò andare un gran sospiro, poi allungò il braccio verso di me, afferrò lo schienale della mia sedia e mi tirò accanto a lui.

Che diavolo gli era preso?

Lo guardai stranita, ma lui, infischiandosene delle mie perplessità, cercò i miei occhi e si parò difronte a me, mi accorsi che il suo sguardo mi studiava attento il viso, i capelli.

Proprio quelli mi sembrò li studiasse con un certo accanimento, me ne portò lentamente una ciocca dietro all’orecchio.

Non riuscivo a spiegarmi niente, i suoi gesti mi avevano indubbiamente catturata, tanto da impedirmi di reagire, ma non c’era niente che mi arrivava chiaramente.

«Che stai pensando?»

«Che hai avuto quindici anni per tornare indietro e non l’hai fatto, che ieri, semplicemente ti ho spaventato e ora sei tornato qui per rimediare al passato… Hai dei sensi di colpa, ecco tutto.»

Sorrise tentando di non darmelo a vedere e abbassò un po’ lo sguardo. «Non è niente di tutto ciò.»

«E allora?»

«Beh, la verità è che io non ho saputo aiutarti allora e temo proprio di non saperlo fare neanche adesso.»

«Quindi cos’è? Compassione?»

«No, Kurata… E se vuoi saperlo, per molti aspetti che non ti renderebbero certo fiera di me, non ti è nemmeno d’aiuto la mia presenza qui.»

«Non ti capisco per niente, perché sei qui, allora?»

«Mi hanno detto che eri guarita da quella malattia. E allora mi sono tenuto alla larga, ti ho immaginata al sicuro, magari con un tizio non affascinante quanto me, ma al sicuro.»

«Sei troppo convinto, Hayama.»

«Può essere… Il punto però è che quando ieri ti ho vista così io… E’ stata una doccia fredda perché io un mondo in cui tu non sei felice non ho saputo proprio immaginarlo…»

Lui sorrise e mi prese le mani. «E allora me lo sono dimenticato che quel che sono oggi non volevo fartelo vedere… Non potevo più starmene alla larga, mi sa.»

Non so cosa successe dentro di me, davvero non avevo cognizione del mio corpo, delle mie sensazioni. Mi resi conto di essere incollata alla sua bocca senza sapere neanche come avessi fatto ad arrivare a tanto.

Lui però mi parve molto più consapevole di me, mi tirò stretta a sé infilandomi una mano dietro alla schiena, sotto alla felpa troppo larga che avevo tirato a caso fuori dall’armadio.

Come la sera precedente mi accorsi che c’era una certa irruenza nei suoi movimenti, ma era come se su di me si smorzasse in una timida delicatezza.

Mi stringeva con forza e mi accarezzava le labbra con delicatezza, mi sfiorava appena la pelle e mi manteneva salda.

Mi sollevò piano e mi fece sedere sul tavolo, lo avvertii fra le mie gambe mentre ancora le sue labbra rincorrevano le mie.

Avrei voluto disperatamente un segno, un’emozione, una stupida e insignificante sensazione, ma più me lo sentivo addosso più mi rendevo conto che era solo il mio corpo a desiderarlo così tanto, io dentro non sentivo niente.

Forse dovette capirlo anche lui perché di punto in bianco si fermò e chinò la fronte sulla mia.

«Non senti niente, eh?» Me lo chiese in un sussurro simile ad un ansimo che richiuse in un bacio sulla punta del mio naso.

Scossi un po’ la testa e non potei fare a meno di chiedermi come avesse fatto a capirlo.

A quel punto, scivolò pian piano sulla sedia, si mise a sedere e poggiò la testa sulle le mie gambe.

«Cazzo…» Sbuffò. «Perché…»

«Non lo so, Hayama… Tu hai provato qualcosa?»

«Eccome.»

«Raccontamelo.»

«Cosa dovrei raccontarti? Che mi stava già venendo duro?»

«Non mi serve la spiegazione fisiologica, Hayama… Raccontami quello che hai sentito!»

«Beh... Malinconia, passione, desiderio, inadeguatezza, vergogna... E ora, se proprio vuoi saperlo, una grandissima frustrazione.»

«Dove li hai sentiti?»

Lui a quel punto, senza muoversi dalla sua posizione, sollevò una mano e la portò in un punto preciso del mio corpo, una zona tra il cuore e lo stomaco.

La mantenne lì per un po’.

Mi sembrò stesse provando a infondermeli ma purtroppo non avvertii niente, se non la sensazione tangibile della sua mano in quel punto, solo mi colpì il fatto che ancora una volta mi accorsi che c’era una sorta d’irruenza nei suoi movimenti che sembrava arrestarsi di colpo incontrando una qualsiasi parte di me.

Quando tolse la mano da lì, sbuffò nascondendo la testa tra le mie gambe e io, come se mi venisse in automatico, gli accarezzai i capelli.

Per un istante pensai al mio lavoro, al fatto che mi facesse sentire bene nella sua meccanicità ed avvertii una strana sensazione. Non mi piaceva affatto quello che confusamente stavo percependo, soprattutto non mi piacevano quelle immagini che la mia mente mi inviava senza spiegazioni né contesto.

Se anche quella mia naturale propensione a rispondere ai suoi stimoli aveva qualche somiglianza con la meccanicità del mio lavoro non potevo affatto tollerarlo.

Forse, formulando quel pensiero, lasciai andare un lamento, perché ad un tratto Akito sollevò la testa e mi guardò.

Mi accorsi che stavo piangendo quando sentii le sue dita muoversi sulle mie guance.

«Decisamente venire qui non è stata una buona idea… Forse ti sto solo incasinando ancor di più, eh, Kurata?»

«Non lo so… Però… Anche se non sento nulla… Il mio corpo ti risponde e non ne capisco il perché… Ho un po' paura... In più penso non sia rispettoso per le persone che abbiamo accanto.»

Quell’ultima frase gli rabbuiò lo sguardo.

Rimase a fissarmi per un po’ e poi si alzò in piedi.

Gli riconobbi nei movimenti una certa pesantezza, mi sembrò che le gambe gli fossero diventate come il piombo.

«Forse adesso è il caso che vada.»

Sentirglielo dire mi spiazzò e non me lo sarei neanche mai aspettata. «E’ per qualcosa che ho fatto?»

Come se la mia cucina fosse d’un tratto diventata claustrofobica s’infilò la giacca di pelle e si cacciò le mani nelle tasche molleggiando un po’ sui piedi come a liberarsi da quel piombo che gli avevo percepito addosso.

«No, è solo che… Gomi mi sta aspettando.»

Non volevo se ne andasse, ma mi accorsi che la mia volontà non si sposava con nessuna motivazione riconoscibile.

Lui a quel punto si strinse nelle spalle e mi regalò uno sguardo stentato. «Ciao, Kurata.»

Mi disse solo questo e prese la porta.

Io me ne rimasi lì, ferma su quel tavolo tra i resti dell’unica cena che avevo fatto quella settimana, con le gambe che dondolavano e lo sguardo che non sapeva neanche dove posarsi.

Se n’era andato in un «Ciao, Kurata.» Pensai che fosse anche la prima frase che mi aveva detto.

Come un cerchio meccanico che si chiudeva, come il mio lavoro al konbini.

E comunque, non sentivo niente.

*****

Io non lo vedevo da cinque giorni, ma pensavo confusamente a lui da sei.

Pensai che fosse a causa del fatto che avessi trovato nella mia dispensa una coppia di taiyaki al cioccolato il mattino dopo, o perché Naozumi la domenica mi aveva invitato a casa sua ordinando delle okonomiyaki da quel locale carino in centro. Fatto sta che comunque non mangiai niente, mi facevano schifo, neanche mi aveva fatto piacere andarci a casa sua.

Poi però mi aveva detto che ci teneva mangiassi con lui perché l’indomani sarebbe partito per girare un film e sarebbe stato via per almeno sei settimane, così mi ero sentita meglio e mi ero lasciata convincere.

Facemmo l’amore e, mentre le molle del materasso cigolavano fastidiosamente sotto di me, pensai al fatto che non si era mai accorto che non mi avesse mai suscitato nulla fare l’amore con lui e poi pensai anche che era la prima volta che mi accorsi mi desse fastidio.

Quel giovedì pomeriggio ero a lavoro, per fortuna insieme a me c’era Nobu e come al solito mi mise addosso una certa calma.

Mentre me ne stavo alla cassa in attesa dei clienti e Nobu sfaccendava tra gli scaffali, vidi entrare Aya.

Un cappotto blu lungo fino al ginocchio e i capelli raccolti in quella sua semplice acconciatura che profumava di ricordi, mi si avvicinò in un sorriso dolcissimo.

«Sono felice di averti trovata.» Disse e mi schioccò un bacio su una guancia.

Rimase lì con me per un po’, mi disse che era di ritorno dal turno in ospedale, che le sottraeva molto tempo quel lavoro, ma le piaceva e poi accennò vagamente al fatto che lei e Tsu stavano provando ad avere un bambino, quella confessione mi fece sentire inaspettatamente bene, io pensai che sarebbe stata una madre bravissima, soprattutto pensai che un figlio nato da un amore così non poteva che essere un bambino fortunato.

Poi tirò dall’espositore due taiyaki e me li mise sulla cassa.

Li fissai e pensai a lui, soprattutto pensai al fatto che quelli che mi aveva nascosto in dispensa li avevo lasciati lì sbattendo con forza l’anta non appena collegai la loro presenza lì ad Akito.

Perché era andato via così? Non c’era giorno in cui non me lo chiedessi.

«Prendo questi due, a patto che uno lo mangi fuori insieme a me.»

Nobu, che per tutto il tempo non aveva fatto altro che ascoltare la nostra conversazione, si precipitò alla cassa e si propose di coprirmi.

«Offre la casa, andate pure.» Disse e strizzò un occhio a Aya.

Ci sedemmo sulle scale che costeggiavano il retro del konbini, Aya mi porse un taiyaki e cominciò a scartocciare il suo.

«Senti Sana…» Fece dopo un po’. «Sai qualcosa di Akito?»

«Che dovrei sapere?»

«Beh… Scusa se te lo chiedo ma Tsu è molto preoccupato per lui e io non so proprio cosa fare…»

«Non ti seguo…»

«Vedi, lui e Akito ormai non sono più amici come un tempo, però quando gli ho detto quello che è successo sabato notte è andato in apprensione…»

«Aya… Perdonami ma io davvero non capisco, cos’è successo sabato notte?»

«Akito è stato in ospedale, non ero al pronto soccorso in quel momento ma ho letto il suo nome tra i referti e ho visto che presentava varie lesioni, contusioni e addirittura una paio di costole incrinate… Purtroppo però ha rifiutato il ricovero e nessuno di noi sa dove abita… Neanche in ospedale sanno dirmi molto... Ma Hisae non ti ha detto niente?»

«No…»

A quel punto di sicuro continuò a parlare, ero certa stesse continuando a raccontarmi di qualcosa che aveva a che fare con Tsu e la sua preoccupazione, ma non mi arrivò chiaramente altro.

Quella notizia mi schiantò su quelle scale, percepii il mio respiro farsi irregolare.

Akito.

Quando Aya se ne andò me ne rimasi lì con lo sguardo fisso sui gradini delle scale. Mi sentii dentro un chiasso gorgogliante che non si esprimeva se non con dei crampi allo stomaco e una sensazione di fiato corto.

Senza neanche capire come mi ritrovai al telefono con Hisae.

«Akito…» Fu l’unica parola che mi uscii dalla bocca.

«Dove sei?»

«A lavoro.»

«Arrivo.» Penso che mi disse proprio così, mentre mi accorgevo di alcune goccioline sul display del mio cellulare.

Doveva essere la pioggia, me lo dissi convinta, mentre il sole mi contraddiceva la faccia.





Buongiorno a tutte ragazze!

Come state?

Sono tornata con un nuovo capitolo -stranamente non in ritardo, mi sorprendo di me stessa- e spero sia un po’ più delineata la condizione di Sana e il suo rapportarsi a ogni personaggio tirato in causa.

Vi dirò la verità, ci ho messo più tempo a scrivere questo angolo autrice che a scrivere il capitolo…

I motivi sono tanti e non mi vengono fuori con facilità, li dico così un po’ alla rinfusa, senza un particolare ordine d’importanza, non vorrei ferire la sensibilità di qualcuno, non vorrei esser stata troppo cruda nel descrivere questa condizione di Sana, temo di non aver detto tutto con precisione e al contempo temo di aver detto troppo con estrema precisione.

Non lo so. Ho solo una marea di dubbi che forse un po’ mi frenano e una marea di motivazioni che mi spingono.

Io comunque chiedo scusa a prescindere se ho analizzato troppo degli atteggiamenti o se ne ho romanzati di altri.
Non vorrei mai peccare di superficialità o mancare di rispetto parlando di cose così serie che mio malgrado ho sentito l’urgenza di raccontare.

Spero che il fatto che la storia sia raccontata tutta attraverso il filtro Sana non vi abbia un po’ straniato, soprattutto non vi abbia appesantito, ma ci tenevo a raccontare questa storia con questo sguardo quasi “assente”.

Comunque, dopo questa doverosa ammissione di scuse torno l’imbecille di sempre X-D

Ma sto Akito?
Eh… Io ho chiaro chiaro chi è ma spero vi sia rimasta un po’ ombrosa la sua natura.

Comunque mi rendo conto che questo aggiornamento non sia una ventata di allegria ma spero possa piacervi ugualmente -Anche se ammetto che mi dispiace avervi messo addosso una sorta di angoscia in un periodo già di per se angosciante ma ormai sono in ballo e quindi per favore comprendetemi <3-

Ovviamente un ringraziamento speciale alle mie T-girl con cui ormai scrivere è diventato ancora più entusiasmante e significativo <3

Vi ringrazio tantissimo per aver letto la mia storia e per avermi fatto sapere cosa ne pensate <3


Vi abbraccio tanto tanto <3
A presto
Stefy









     













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Capitolo 3
*** Campo gravitazionale ***


sero 3 Capitolo 3 • Campo gravitazionale




“Hai presente?

Quell’idea invasiva e sotterranea
che si inabissa o si palesa
e lo fa una volta sola per tutte
e se l’avverti non puoi far finta di niente
se hai un po’ di senno.
Come un sibilo fluttuante e sinuoso.
A me è successo questo:
 non sono riuscito a fare finta di niente,
non volevo, in fondo.
Non potevo far altro che cercare di portarti con me,
dal profondo,
 per egoismo quasi,
 per farmi stare bene.
Anche se sapevo di non potere.
Anche se era rischioso.
Anche se tu non vuoi,
anche se,
infine,
 la tua felicità non dipende da me.
E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo.
Solo per essere sicuro.
Verresti?”


- Italo Calvino (?) -








Per fortuna Nobu si era offerto di coprirmi a lavoro, a dire il vero io non gli avevo chiesto niente, però quando rientrai mi disse un flebile “Va a casa, ci penso io qui.” Non lo so, forse il mio atteggiamento ambiguo o la mia andatura un po’ molle dovette metterlo in allarme, fatto sta che riuscii a rispondergli solo con un lieve cenno e pensai che quel ragazzo fosse veramente singolare. Aveva un modo di comprendermi così intimo e silenzioso che pensai che se avessi provato a mettere in fila tutte quelle parole che mi roteavano dentro senza rigore né logica e fossi riuscita a dirgli qualcosa, lui non mi avrebbe capito così bene.

Poi era arrivata Hisae e avevo smesso di pensarci.

A dire il vero, nonostante quelle lacrime, non riuscivo a spiegarmi cosa provavo, un dolore fisico diffuso e intermittente e una strana esigenza di vedere Akito, non c’era un motivo preciso, lo percepivo così come un’urgenza non doverosa, né tantomeno necessaria, ma insistente.

Per qualche ragione doveva essere finito in ospedale dopo aver lasciato il mio appartamento e per qualche ragione Hisae si era convinta che Gomi c’entrasse qualcosa, forse perché io le avevo detto che Akito era stato da me quel sabato sera e che Gomi gli aveva telefonato mettendogli addosso una sorta di agitazione.

Sbuffai un po’ sperando di riordinare i miei pensieri, chiedendomi mille volte “Sana, come ti fa sentire questa situazione? Sei preoccupata per lui?” Neanche fossi la Dottoressa Aoki, ma per ogni volta io riuscivo a rispondermi solo in quella stessa maniera: Non sento niente.

Però qualcosa in realtà c’era, il fastidio.

Per la prima volta nella mia vita non provare niente mi diede fastidio, non era più una condizione con cui convivevo più o meno apatica e inerme, quella situazione mi mise addosso una sorta di frustrazione e di compassione per ciò che ero.

Un automa.

Non era stato così neanche per il sesso, non provare niente in quei momenti mi generava dentro più una scarsa stima di me stessa e del mio essere donna, con cui a conti fatti riuscivo a convivere, piuttosto che un vero fastidio.

Ma l’assenza di empatia o di emozioni in quel momento proprio non potevo tollerala.

«Senti, scusa se non te ne ho parlato, io non volevo saperne niente di questa storia perché non volevo sentirmi in colpa con te.» Mi disse Hisae, una volta sedute nella sua auto.

«Con me?»

«Beh… Aya mi ha avvisata subito, le ho detto che non m’importava niente dei casini di Gomi e Hayama. In verità non volevo saperlo perché non volevo parlartene… Lo sai che non mi piace avere segreti con te…»

Annuii lievemente e mi lasciai andare sul sedile della sua utilitaria. Mi ricordai di quella notte in cui Akito mi aveva riaccompagnata a casa.

«Come dovrei sentirmi?»

«Penso che tu sia molto preoccupata, Sana.»

«Non è quel che sento.»

«La tua faccia però dice così... Insomma mi hai chiamata in lacrime…»

Era ancora il mio corpo a rispondergli?

Non capivo, sentivo solo la testa ribollire insieme allo stomaco.

Guardai Hisae, mi chiesi se senza di lei sarei mai arrivata a tanto, mi risposi che di certo, anche se dentro sentivo la confusa e illogica esigenza di vederlo, non avrei fatto molto.

Avrei finito il mio turno di lavoro, avrei tirato dritto nel mio appartamento mi sarei calata giù le mie medicine e avrei dormito per almeno tre giorni consecutivi.

Eppure le avevo telefonato io. Forse, dentro di me c’era una Sana ancora viva e vitale che imponeva i suoi desideri e si muoveva con tenacia per vederli realizzati, anche al di là delle mie volontà apparenti.

Quando arrivammo davanti alla porta di casa di Gomi, avevo la testa talmente vuota che mi sembrò di avere un palloncino pieno d’elio tra il collo e la chioma castana.

Viveva in un bel quartiere lui, uno molto simile a quello in cui abitavo con mia madre, con grandi case sfarzose in stile occidentale, di quelle con cancelli imponenti che davano sulla strada alberata e scalinate che conducevano all’ingresso.

Fissai il dito anellato di Hisae premere sul campanello e lui venne fuori dopo pochi istanti.

«Tu guarda, la frigida e la svitata… Sareste un duo comico formidabile!» Gomi aveva in faccia un risolino sarcastico e provocatorio, Hisae gli si parò di fronte allungandosi sulle punte.

«Senti cafone, falla finita! Siamo qui per parlarti!»

Lui la fissò divertito per un po’, poi i suoi occhi rotearono verso di me e mi fissò a lungo.

«Tu, sta alla larga da Akito!» Mi disse solo quello, indicandomi con un dito a mo’ di minaccia, poi, in uno scatto, rientrò in casa chiudendosi la porta alle spalle.

Ovviamente Hisae non riuscì a trattenersi dallo sbattere i pugni sulla porta e urlare il suo nome condendolo di almeno una ventina di appellativi.

A me nella testa riecheggiò il suo. La svitata. E sì, forse aveva ragione, così come aveva ragione nel dirmi che dovevo stare alla larga da Akito. Fosse stato anche solo per quello.

Guardai la mia amica che continuava a sbattere sulla porta, così bella e agitata e al contempo così stridente con la compostezza della sua acconciatura, col suo trucco leggero e sofisticato, con quel morbido maglioncino a collo alto di un verde simile ad alcune venature che d’estate mi sembrava di riconoscerle negli occhi. In quel momento, in quegli stessi occhi, le riconobbi una follia che non avrei voluto alimentare.

Non volevo esserle così tanto di peso, mi sembrò ancora una volta di succhiarle via quella luce che emanava e che tante volte mi metteva a disagio.

Per cosa poi? Per un’esigenza oscura persino a me stessa, ombrosa e appannata come i vetri del mio bagno. Come la mia testa in quel preciso istante.

Le afferrai una mano e la tirai via da lì. «Andiamocene.»

Hisae roteò gli occhi furiosi verso di me, livida in viso dalla rabbia, stava per rispondermi, ma in quel momento Gomi venne fuori dalla porta, il viso coperto da degli occhiali da sole, un’espressione spavalda appiccicata sulla faccia e un paio di chiavi che si faceva roteare attorno a un dito.

«Sei troppo insistente per essere una che non la dà, lo sai?» Glielo disse tirandosela addosso e mi accorsi che il viso della mia amica divenne più rosso delle tende che s’intravedevano da una delle stanze di quella casa.

«Levami le mani di dosso!»

«Sì, sì… Dite tutte così.» Disse e si avviò verso il viale che portava alla strada.

«Che fate? Venite o volete continuare a godervi lo spettacolo da lì?»

«Quale spettacolo?» Chiesi candidamente.

«Si riferisce a sé stesso, Sana… Non lo vedi che è un egocentrico sbruffone?»

Mi voltai a guardarla perché mi accorsi che nonostante stesse dicendo di lui peste e corna, sulla sua faccia le rimaneva un lieve rossore e nei suoi occhi uno strano sbrilluccichio.

Mi chiesi quante e quali emozioni stessero guerreggiando dentro di lei e per quante fossero, anche se contraddittorie, ero certa le sapesse distinguere chiaramente tutte.

E mi ritrovai un po’ più sola, un po’ più malata.

Seguimmo Gomi verso la strada, ma quando Hisae lo vide raggiungere la sua auto si portò le mani sui fianchi arrestandosi.

«Dove stiamo andando?»

«Sbaglio o mi avete detto che volete parlarmi?»

«E non possiamo parlare a casa tua?»

«No.»

«Perché? Ah? Cosa nascondi? Cosa hai fatto ad Akito?!»

Gomi ci fissò sollevandosi gli occhiali insieme ad un sopracciglio.

La mia amica in preda a una crisi di nervi e io accanto a lei che non sapevo neanche cosa diavolo stesse architettando la mia mente per ovattarmi così tanto dal mondo.

«Dovreste guardarvi… Siete ridicole.»

«Cosa nascondi Gomi!?» Ripeté lei.

«Akito è a pezzi e sta riposando, non penso gli servano i vostri starnazzi, quindi ora salite in macchina e andiamo da qualche parte!»

«Posso vederlo?» Quella domanda mi scivolò fuori dalla bocca come un vomito, persino Hisae si voltò a guardarmi sorpresa.

«No, che non puoi Kurata!»

Così dicendo, spalanco platealmente la portiera del suo suv e ci fece cenno di entrare.

Quando l’auto partii persi il mio sguardo verso una finestra serrata al primo piano di casa Gomi, mi chiesi se dietro quelle imposte ci fosse lui e avvertii una certa agitazione nelle mani e nelle gambe.

Io mi ero sistemata sui sedili posteriori, Hisae accanto a lui continuava a bombardarlo di domande a cui rispondeva evasivo, piazzandole di tanto in tanto qualche battutina sagace.

«Senti perché tutto questo accorato mistero? Dove ci stai portando? Non puoi farla finita e raccontarci tutto qui dentro?»

A quella ennesima e ripetitiva domanda di Hisae, Gomi non rispose, fermo al semaforo cercò il mio riflesso nello specchietto retrovisore e mi fissò attento.

«Kurata…» Chiamò.

«Io non lo so quali problemi ti affliggono e francamente non m’interessano, voglio solo che torni nel buco nero in cui sei rimasta per questi quindici anni e ci resti fino alla fine dei tuoi giorni!» Mi accorsi che c’erano tante cose nel tono della sua voce, cose che comunque non ebbero il potere di ferirmi.

Io, in effetti mi sentivo proprio così.

La mia testa, pensai, doveva essere veramente un buco nero che non lasciava sfuggire né emozioni, né sentimenti. C’era solo da capire quale fosse l’intenso campo gravitazionale che lo impediva.

Forse la mia malattia.

A quel punto, Hisae, lo afferrò per il collo della camicia e se lo avvicinò con aria minacciosa. «Neanche commento l’inesattezza scientifica del tuo discorso, Gomi, ma osa rivolgerti ancora così alla mia amica e ti pianto un pugno sul naso!»

Non so quanto durò la lite che ne scaturì, la testa mi scoppiava e mi ritrovai a fissare più volte il semaforo rosso nella speranza che scattasse il verde e raggiungessimo al più presto il luogo in cui Gomi voleva portarci.

Li sentii ancora battibeccare tra loro, non riuscivo più a sostenerli, mi sembrava d’impazzire.

Le mie mani, a quel punto si mossero da sole, spalancai la portiera dell’auto di Gomi e scappai via.

Aria, avevo bisogno di aria!

Poi scattò il verde, l’auto di Gomi ripartì spinta dal rumore dei clacson delle auto dietro di lui.


*****


Sentivo il cuore battere all’impazzata, il fiato corto, i capelli al vento e il sudore che m’imperlava la fronte e le guance rosse.

Correvo e pensavo lo stessi facendo senza meta.

Quando mi fermai, mi accorsi di essere davanti al cancello di casa di Gomi, deglutii affannata e fissai attentamente quella finestra serrata al primo piano.

Il petto si sollevava e si abbassava freneticamente, senza capirne il senso mi affrettai a scavalcare il cancello dalla parte del muro di cinta, miravo inspiegabilmente a quella finestra del piano superiore, ma la porta era chiusa ed entrare in casa sarebbe stato davvero impossibile.

Mi guardavo attorno senza capire cosa fare, soprattutto senza capire cosa diamine stessi facendo in quel posto.

Le gambe si mossero ignorando i miei pensieri, mi avvicinai a una portafinestra del piano terra che dava sulla cucina.

Il mio respiro affannato ne appannò il vetro, con la mano cercai di cancellare quella patina e mi accorsi che la portafinestra strisciò via insieme al mio movimento.

Non mi aspettavo fosse aperta, ma come attirata da una mano invisibile, smisi di farmi domande ed entrai in casa di Gomi attraverso quella piccola fessura che avevo realizzato senza neanche capirlo.

Nell’aria si sentiva un odore strano, come una fragranza che miscelava tabacco e disinfettante.

Venni fuori dalla cucina e ispezionai l’ambiente che mi circondava, c’era un silenzio quasi fastidioso, mi sembrò di avvertire solo il rumore del mio respiro.

Le scarpe scricchiolarono sul legno delle scale, continuando a guardarmi attorno salii al piano di sopra.

Nella penombra del corridoio mi accorsi di alcune luci traballanti che si riflettevano al di sotto di una delle porte del piano.

Mi mossi lentamente proprio verso quella porta e l’aprii.

Un televisore muto, sintonizzato su un canale che in quel momento stava trasmettendo quello che mi sembrò un film d’azione, illuminava la stanza, sull’altro capo della parete, Akito sembrava agitarsi nel sonno.

Mi ci avvicinai cauta, le luci della tv gli illuminavano il viso a intermittenza, mi resi conto che aveva un piccolo taglio sotto al naso, dei lividi sul viso e che alcune fasce gli ricoprivano la spalla sinistra fino al torace e il braccio.

«Hayama…» Sussurrai.

Non capivo niente, me ne stavo lì a guardarlo in uno stato di semincoscienza, mi percepivo in quello spazio ma in qualche modo lontana da me.

Non mi capitava quasi mai di percepire quella sensazione, insomma nella mia apatia io mi riconoscevo sempre una brutale e feroce coscienza, però ecco, quando accadeva che smettessi di avere coscienza di me, mi rendevo conto che la mente mi spostava l’attenzione su cose stupide, su inezie che poco centravano.

E allora la forma precisa di un graffio sulla pelle, un bottone aperto, la piega storta di un lenzuolo ecco che diventavano fonte di estremo interesse per me.

Mi accorsi che il mio respiro si fece rumoroso, Akito si mosse agitato spiegazzando la piega del lenzuolo, a quel punto la mia attenzione tornò a lui. Si stava agitando davvero tanto e nel farlo assumeva delle espressioni contrite, dolenti, lamentose.

Mi chiesi se fosse vero tutto quel che stavo vedendo e desiderai solo toccarlo, quasi come per assicurarmi che fosse vero, quasi come per sedare un’illogica paura.

Mi avvicinai strisciando i piedi verso quel letto, con le dita gli sfiorai lentamente le labbra fino ad accarezzargli il viso, ma non appena lo toccai, si mosse in maniera brusca e sbarrò gli occhi nel riconoscermi lì accanto a lui.

Istintivamente indietreggiai allontanandogli la mano dal viso.

Respirava affannosamente e mi fissava immobile ma inquieto.

«Che ti è successo?» Sussurrai, ma lui seguitò a guardarmi con una strana agitazione negli occhi.

Mi ci avvicinai ancora, cercai il suo viso ma intercettò la mia mano chiudendola in un pugno.

Non disse una parola, ma era ovvio che con il suo sguardo di ghiaccio stesse tentando d’incenerirmi.

Non voleva avermi lì, me ne accorsi dal suo braccio teso, dalla sua stretta forte attorno alla mia mano e da quello sguardo così eloquente che scelsi solo irragionevolmente d’ignorare.

Feci leva proprio su quel pugno chiuso e mi sentii spingere in avanti dalla volontà del mio stesso corpo, portai la mano libera sul cuscino e mi chinai nell’incavo del suo collo, nascondendo il viso proprio lì. «Va tutto bene…» Glielo sussurrai lentamente quasi come una carezza. «Va tutto bene…» Ripetei sentendo il suo pugno aprirsi e la sua mano scivolarmi tra i capelli.

Che buon profumo aveva, io lo sentivo nascosto tra quelle bende e la fragranza acidula del disinfettante. Lo sentivo, o forse lo ricordavo e al contempo mi calmavo.

Mi tenne stretta senza dire una parola, mi accorsi però che le rigidità del suo corpo si erano volatilizzate, spinte via forse dalla leggerezza che muoveva il mio. Il suo respiro tornò a farsi regolare insieme al mio e i suoi muscoli diventarono mansueti.

Gli sentii però il cuore battere all’impazzata, mi chiesi perché non fosse lo stesso anche per me, soprattutto mi chiesi cosa gli stesse guerreggiando dentro a dispetto della sua immagine finalmente rilassata.

«Ciao, Kurata…» Fece dopo un po’, senza lasciarmi andare. «Che ci fai tu qui?»

«Non lo so…» Dissi e allora lui lasciò andare un risolino.

Gli strusciai la faccia sulla spalla libera dalle fasciature, feci per muovermi ma lui spostò fulmineo la mano destra dai capelli alla schiena e mi bloccò contro il suo petto impedendomi ogni movimento.

«Stai qui, Kurata, non andare da nessuna parte.»

«Anche se è illogico?»

«Si.»

«Anche se non sento niente?»

«Te lo dico io cosa sento, se vuoi.»

«Sentiamo.»

«Stupore e… E pace. E tante, tantissime altre cose.»

«Forse stupita lo sono anche io, non so neanche come ho fatto ad arrivare qui…»

Lui mi guardò per un istante, poi schioccò la lingua sotto al palato, ero certa che stesse per rispondermi, ma d’improvviso avvertii una forza tirarmi via dalle braccia di Akito, la luce accendersi senza darci il tempo di abituare lo sguardo.

Gomi, alle mie spalle mi stringeva un braccio mantenendomi sollevata un po’ dal pavimento. Mi guardava con uno sguardo rosso denso di collera. «Che cosa non ti è chiaro di quello che ti ho detto prima, Kurata?»

Hisae era sulla porta, con la mano ancora incollata all’interruttore, ci fissava quasi sotto shock e mi accorsi che boccheggiava piano, senza riuscire a dire una parola.

Neanche io sapevo cosa dirgli, sarebbe stato difficile spiegargli tutto dal momento che non era chiaro neanche a me.

A dispetto di tutti, però, Akito non aveva affatto intenzione di stare zitto. «Ehi, Gomi! Che cazzo stai facendo, lasciala!»

A quel punto tentò di alzarsi, ma riuscì solo a poggiare i piedi fuori dal letto prima di risentire il dolore alle costole ripresentarsi costringendolo di fatto a starsene seduto. «Cazzo!» Urlò. «Ti ho detto lasciala!»

Sentii la mano di Gomi allentare la presa sul mio braccio fino a lasciarmi andare e gli si parò difronte.

«Sei un povero coglione! Ma che cazzo ci ho parlato a fare con te, ah?»

«Gomi piantala… Stai diventando ridicolo!»

«Ah sono ridicolo?»

«Già, lo sei!»

«Kurata, mi faccio vivo io, credimi ora non è il caso di star qui.» Akito mi lanciò uno sguardo veloce reggendosi il busto con una mano.

Hisae mi tirò a sé, ma a quel punto Gomi mi afferrò di nuovo ignorando totalmente la mia amica che arretrò, quasi spinta via dalla forza che Gomi mise in quel gesto.

 Mi mise un braccio attorno al collo quasi abbracciandomi e fissò Akito con sfida. «No, no Kurata… Ormai che sei qui resta!» Trillò in un tono ironico denso di un sottotesto che sicuramente non colsi e mi limitai a roteare lo sguardo da lui ad Akito che lo fissava in preda ad un ira furibonda.

«Gomi, lasciala!»

«No, e perché? Non glielo vogliamo dire alla dolce Kurata quello che combini?»

«Taci!» Akito tentò di alzarsi ma era evidente che il dolore che provava alle costole gli impediva qualsiasi scatto.

A quel punto Gomi mi afferrò il viso stringendomelo con una mano, istintivamente tentai di sottrarmi a quella stretta, ma lui, con un’espressione che rimaneva in bilico tra l’ira e l’ironia mi voltò la faccia verso di lui.

Hisae gli strattonò il braccio, urlò il suo nome più volte implorandolo di lasciarmi andare, tentò persino di togliermelo di dosso, ma lui si liberò di lei abilmente.

«Gomi cazzo, non fare lo stronzo! Giuro che mi alzo e ti spacco la faccia!» Urlò Akito tentando disperatamente di farlo.

«Ma sentilo!» Gomi si lasciò andare a una fastidiosa risata isterica.

«Lo sai cosa fa questo qua, Kurata? Si fa pestare a sangue dalla gente, li provoca capisci? E poi si fa ridurre così, proprio come lo vedi.»

A quella notizia, roteai gli occhi verso Akito. «Mi ha confessato che è una cosa che gli piace!» Biascicò Gomi.

«Io non so neanche il motivo per cui una delle menti più brillanti del MIT si diverta così, Kurata. E tu?»

A quel punto Hisae gli piantò uno schiaffo così forte che lo fece indietreggiare, mi afferrò per una mano e mi trascinò via da quella stanza.

Mi accorsi che Akito la guardò quasi grato per quel gesto.

Di tutta risposta, Gomi venne fuori come una furia, ma la sua corsa si arrestò in cima alle scale.

«Kurata!» Mi chiamò, feci per voltarmi ma Hisae continuava a trascinarmi verso l’uscita.

«Non ho finito!!!» Urlò. «Non lo vuoi sentire il resto della storia?» Poi aggiunse altro ma non feci in tempo a capirlo che Hisae sbatté forte la porta.

Dall’esterno sentii poi distintamente le urla di Akito confondersi con quelle di Gomi.


*****


In macchina Hisae non parlò, ma mantenne costantemente il suo sguardo su di me. Io fissai un po’ gli interni cromati della sua auto. Mi chiesi perché non fossero grigi come la carrozzeria ma tendenti al beige.

Non era un bel contrasto.

Strideva.

«Lascia che riesca a mettersi in piedi… Vedrai… Darà un paio di calci in culo a quel gran cafone e si scuserà.»

«Di chi parli?»

Hisae si voltò a guardarmi, mi accorsi che la sua espressione scivolò verso il basso insieme alle spalle.

«Come di chi parlo, Sana? Di Hayama…»

«Oh… Beh, allora non hai ascoltato, mi sa. Gomi ha detto…»

«Lo so che ha detto!» Urlò. «Cazzo, Sana…»

Le sue urla rimbombarono nell’abitacolo, con un moto di stizza accelerò verso casa mia lasciando che ripiombassimo di nuovo in quel silenzio.

Arrivate sotto casa, Hisae parcheggiò l’auto anziché lasciarmi scendere e andar via, come faceva di solito.

Lasciò andare un sospiro e staccò la cintura di sicurezza con una certa flemme. «Gomi…» Sussurrò mentre io imitai il suo gesto.

«Quando sei scappata dalla sua macchina mi ha raccontato tutto… E ora sono veramente in difficoltà… Credimi.»

«Perché?»

La mia amica allora si voltò a guardarmi, aveva gli occhi lucidi e mi accorsi che mi fissava in una maniera strana, come se stesse soffrendo. «Che hai, Hisae?»

«Non so se sia giusto dirti quel che ho saputo da Gomi…»

«E non dirmelo, allora… Sta tranquilla.»

«Ti prego, Sana…» Sussurrò e a quel punto delle lacrime le rigarono il viso. «Si tratta di Hayama! Com’è possibile non t’interessi!?» Si asciugò il viso con stizza, mantenendomi addosso uno sguardo duro e sgomento.

Nelle parole dure d’Hisae, nei suoi occhi lucenti, si rifletteva tutta la mia inadeguatezza.

Perché scappare da lui se poi vederlo così non mi suscitava niente se non la necessità di sentirmelo addosso?

Perché le parole di Gomi mi facevano eco nella testa senza scalfire niente?

Avrei tanto voluto che avessero provocato uno squarcio sensibile dentro di me, una crepa da cui fuoriuscisse la benché minima emozione.

Ma io mi sentivo la testa come una palla di vetro con la neve, anche se scossa ci volteggiava dentro solo quel che era rimasto intrappolato, ma era così ineffabile che non mi restituiva nulla.

«Ma… Io non so cosa pensare… Cosa vuoi che ti dica?»

«Cazzo Sana… Perché fai così?» Mi strinse forte a sé affondando il viso nell’incavo del mio collo, pensai avesse un buon profumo, ma poi pensai fosse così diverso da quello di Akito.

«Pensi che sia a causa mia?»

La sentii sussultare e allora si staccò da me, per un po’ mantenne il mio sguardo, ma poi spostò l’attenzione altrove. «Io… Io non penso che Gomi, prima di questo weekend ti abbia ritenuta responsabile di questo lato di Hayama…»

«Perché dici così?»

«Perché è evidente che Gomi, come me, non ha valutato bene la situazione. Temo vi abbia definiti preistoria anche lui…»

«Preistoria?»

«Beh, lui mi ha detto che quando Hayama è rientrato in Giappone, partecipava a degli incontri in cui se le davano di brutto… Sai, di quelli in cui si fanno scommesse… Cose del genere… Hayama aveva contratto dei debiti con un tizio, Gomi gli ha ripagato tutto e ha tentato di rimetterlo in piedi.»

«E io cosa c’entro?»

«Niente, appunto… Ai suoi occhi Hayama era semplicemente imbizzarrito… Gomi mi ha detto che per quanti sforzi facesse per tenerlo buono, lui continuava a provocare risse… Anche nei suoi locali… Per darle, soprattutto per prenderle… Poi improvvisamente, circa un anno fa, ci diede un taglio… Così, dal nulla.»

«Tu pensi sia a causa mia se ha ricominciato con questa storia?»

«Io... Ecco…»

Era evidente che qualcosa le pesasse dentro, che fosse d’accordo con Gomi ma non volesse dirmelo apertamente, forse per non darmene un dispiacere.

«Io penso che Gomi ha ragione, devo stargli alla larga. Vedrai che lui saprà prendersi cura di Hayama.» Feci a quel punto, forse per toglierla dall’impasse.

«Però, Hisae… Dovrei rattristarmi? Sentirmi in colpa? Cosa c’è di così andato a male in me che non riesco a provare niente?»

A quelle parole la mia amica si lanciò verso di me e mi strinse forte a sé tra le lacrime.

«Mi manchi da morire!» Singhiozzò.

Ma non capii onestamente cosa stesse tentando di dirmi.


*****


Dopo quel pomeriggio, Hisae decise di trasferirsi in pianta stabile a casa mia, mi disse che almeno fino al ritorno in Giappone di Naozumi sarebbe rimasta a farmi compagnia.

Ovviamente tentai di dirle che non era necessario, che stavo benissimo anche per conto mio, ma fu irremovibile.

Quanto a Naozumi ci sentivamo poco, sia perché 14 ore di fuso non aiutavano, sia perché avevo capito che non aveva piacere di farsi beccare da Hisae mentre era al telefono con me.

Da quando gli avevo detto che si era trasferita da me per un po’ divenne sospettoso e dopo due settimane dalla sua partenza diradò le chiamate fino a farle scomparire del tutto.

Una volta mi chiese se le avessi raccontato di noi due, considerando strana la sua presenza fissa a casa mia proprio in sua assenza.

Io gli avevo risposto di no, ma lui non ci aveva creduto di certo. Nei giorni a venire mi inviò persino dei messaggi trabocchetto pensando di farmi crollare.

Io pensai solo fosse triste.

“Ti ho comprato un bracciale da Vivienne Westwood, sono sicuro che Hisae morirà d’invidia quando glielo dirai.”

Gli avrei voluto rispondere che ero depressa, non stupida, ma mi limitai a scrivergli:

“Vivienne chi?”

Per un Naozumi che latitava, di contro avevo mia madre che da quando aveva saputo del mio incontro con Akito a quella festa si faceva viva con telefonate e inviti a cena sempre più pressanti, per fortuna la consegna del suo nuovo libro era alle porte così riuscì a farsi una ragione dei miei continui rifiuti con maggiore diplomazia.

Anche perché spesso e volentieri le piazzavo proprio quella scusa del non voler sottrarre tempo al suo lavoro.

Mi dispiaceva ammetterlo, ma spesso il suo amore mi arrivava così ingombrante che mi toglieva il respiro.

Quanto a Hisae, dovevo ammettere che alla mia reticenza della prima settimana, si sostituì lentamente un indefinito senso di naturalezza nel vedermela girare per casa con il suo caotico modo di fare.

Lei al mattino si alzava prestissimo per andare al lavoro e non rientrava a casa prima delle sei, quanto a me, in quelle due settimane avevo turni perlopiù al pomeriggio quindi quasi ogni sera riuscivamo a trascorrere del tempo insieme.

Dovevo ammettere che certe volte Hisae mi disturbava perché era difficile per me stare al passo con lei che aveva mille idee per la testa, mille cose da farmi vedere e sperimentare mentre io volevo solo infilarmi a letto e dormire, ma comunque, nonostante le mie ritrosie, riusciva sempre a trascinarmi.

«Stasera ho pensato alle unghie!» Trillò entrando baldanzosa in cucina con una pochette tra le mani.

«Come, prego?»

A quel punto rovesciò la pochette sul tavolo e si sedette difronte a me, ordinando gli smalti uno per uno senza una logica apparente.

«Hisae, a lavoro non vogliono che metta lo smalto.»

«Chi se ne frega! Ho l’acetone!» Disse e sollevò come un trofeo acetone e dischetti.

A quel punto passò in rassegna tutti quei micro aggeggi per la cura delle unghie e tutti i colori di smalto che aveva a disposizione.

Aurora boreale, Fiore del deserto, Tramonto di passione, Una notte a Parigi, Dolore di donna, avevano più o meno tutti nomi del genere, lei li decantava uno per volta commentandone la nuance.

Io mi limitai a guardarla reggendomi il viso con una mano.

«Senti Hisae, mettimi Tramonto a Parigi e facciamola finita!» Esclamai esausta, prendendo il primo colore pescato che mi capitò a tiro.

«Si chiama Una notte a Parigi! E Comunque quello che hai scelto è Fiore del deserto

«Come vuoi… Mettimi questo.»

Mi parve abbastanza entusiasta della mia scelta, con un’immotivata esuberanza mi tirò la mano destra e cominciò a farmi la manicure.

«Ti posso dire una cosa?» Fece dopo un po’.

«Certo…»

«Frigida… Ti rendi conto che Gomi mi ha dato della frigida?»

Se era per quello a me aveva dato della svitata, senza sbagliare neanche.

«Forse per lui è così…»

«Ho avuto due frequentazioni piuttosto serie e più di venti storie di letto, questo fa di me una frigida?»

«Non credo… Penso…»

«Certo che no! Solo perché non sono caduta ai suoi piedi!»

Mi accorsi che la questione le stava particolarmente a cuore, che l’opinione di Gomi soprattutto le stesse parecchio a cuore, perché da quel momento scaricò tutta la sua frustrazione sulle mie povere unghie.

«La sai una cosa?» Trillò mettendo finalmente via la tronchesina.

«Una volta sono stata a letto con uno che mentre lo facevamo mi urlava di dirglielo!»

«Dirgli cosa?»

«E’ questo il punto! Non lo so!»

«Forse voleva gli dicessi che ti piaceva…» Ipotizzai.

«No, no, ci ho provato, non era quello… Anche se in verità mentivo, non mi piaceva e non era proprio capace. E poi ce l’aveva piccolo.»

Quelle conversazioni mi mettevano a disagio, afferrai un paio di smalti e feci finta di confrontarli con quello che avevo scelto.

«A proposito d’incapaci, com’è Naozumi a letto?»

«Come hai detto che si chiama questo colore?» Le chiesi avvicinandole un rosa perlato alla faccia.

«Andiamo Sana!»

«Hisae ti prego… Lo sai che mi mette a disagio parlarne!»

«Certo che lo so, perciò voglio parlarne!»

«No!»

«Dimmelo o ti metto Vendetta!» Urlò avvicinandomi un colore simile al vomito di un neonato.

Era esasperante. «Diciamo… Andabile

«E cos’è uno sciroppo per la tosse?! Andiamo Sana! Sbottonati un po’!»

«Sei una piaga…»

«Lo so, avanti dimmelo!»

«Un po’… Rapido, ok? Ti va bene così?»

«Ci avrei scommesso! E dimmi, com’è messo? E’ circonciso?»

«Dio mio… No! Come ti salta in mente?»

«Beh è straniero.»

«No, ha solo origini straniere e nessun giapponese penso sia circonciso.» Quella conversazione stava diventando esasperante.

«Beh, Akito lo è, ma forse perchè è vissuto in America... Lì sono tutti circoncisi...»

Non appena buttò fuori quella osservazione, sollevai lo sguardo verso di lei.

Hisae, come colta in fallo si morse un labbro e roteò gli occhi verso quegli arnesi del demonio che troneggiavano sul tavolo.

«Tu che ne sai di Akito?» Le chiesi, tirando via la mano.

«Devo ancora finire!!» Sbottò.

«Hisae, che ne sai di Akito?»

«Me l’ha detto Fuka…»

«E che ne sa Fuka?»

«Ci è andata a letto… Più o meno un anno fa, ma è successo solo una volta e lui era pure mezzo per aria…»

Quella notizia mi spostò verso un posto molto lontano da quella casa, in un luogo che ormai apparteneva al passato.

Non provavo niente di particolare per Fuka, neanche per Akito, o per Hisae che aveva ritenuto superfluo informarmene, eppure glielo chiesi.

«Mi hai detto che non ti piaceva avere segreti con me.»

«Infatti!»

«Beh, questo lo era.»

«No, Sana! E’ che… Lo sai… Te l’ho detto come la pensavo, non credevo t’interessava saperlo dopotutto…»

«Tranquilla… Tanto non mi fa né caldo né freddo.»

Così le dissi, di fatto però mi alzai di scatto e mi rifugiai nel bagno.

Fuka e Akito.

Quel binomio mi frullava nella testa ancora una volta, crollai ai piedi della porta chiusa alle mie spalle.

Cercai di pensare a quella ragazzina di dodici anni che seduta su un masso aveva ricevuto quella stessa notizia proprio dal diretto interessato.

Cosa avevo provato in quel momento?

In effetti proprio niente, o comunque, una marea di emozioni così potenti che di fatto mi mandarono in black out il cervello, lasciandomi incapace di capire che nome dare a quel vuoto improvviso che mi sentii nascere dentro.

Rannicchiata ai piedi della porta, mi strinsi le gambe al petto e mi chiesi se anche quello fosse stato un primo segno della mia malattia.

Assenza di percezioni.

Quella volta però durò poco, giusto il tempo di realizzare che il vuoto aveva lasciato spazio al dolore, ad un immotivato senso di tradimento per una promessa mai espressa.

Quel momentaneo black out, trovò poi un nome preciso, correlato da emozioni precise ma non altrettanto piacevoli.

Io amavo Akito Hayama, la Sana dodicenne l’aveva capito attraverso le parole di Asako e quelle lacrime che aveva versato.

Quell’amore era da me incompreso e per me incomprensibile, ma c’era. Non lo volevo sentire dentro perché non potevo averlo e quella consapevolezza mi straziava, mi faceva soffrire. Volevo soffocarlo quell’amore, tirarmelo via di dosso e sotterrarlo più lontano possibile, ma più ci provavo più mi esplodeva dentro appropriandosi di ogni angolo della mia testa.

La Sana che ero in quel momento, invece, continuava a non realizzare neanche con l’aiuto di medicine, psichiatri e amici.

Forse, pensai, la mia mente era sotto l’effetto di un lungo black out e aveva bisogno di una scossa potente per riattivare tutto.

O forse, la scossa era già arrivata, ma le croste spesse che quel black out aveva creato intorno alla mia mente negli anni, erano ormai impossibili da abbattere.

Perché quelle lacrime dopo averlo visto? Perché quella necessità immotivata e necessaria di rivederlo, di sapere che fosse vivo, che respirasse, se poi non soffrivo per lui o per la sua mancanza?

«Sana…» La voce di Hisae mi arrivò dall’altro lato della porta.

Non provò ad entrare, né tentò di spingere la maniglia, però sentii fosse seduta anche lei sul pavimento, dall’altro lato della porta.

«Sono proprio una frana… Non so fare un cerchio nemmeno con un compasso tra le mani… Vero?»

«Non sono arrabbiata, Hisae.»

«Certo… Lo so che non lo sei.»

«Non so perché ho reagito così… Forse per quella vecchia storia del passato, forse un dejavù.»

«Come ti senti?»

«Stavo pensando ad Akito.»

La sentii sbuffare, battere un po’ la testa sulla porta. «Vorresti vederlo?»

«No… Io… Diamine non so neanche cosa penso a riguardo… Ma ecco, forse Gomi ha ragione. Io l’ho visto in quel letto, ho sentito le parole di Gomi, ma non ho provato niente. Una linea piatta. Sono un cazzo di mostro insensibile, Hisae?»

«Vuoi sapere una cosa, Sana?»

«Un altro segreto?»

«Beh… Non so se chiamarlo così.»

«Sentiamo.»

Hisae sbuffò un po’ e la sentii poi ridere nervosamente. «A casa di Gomi, sono stata un po’ invidiosa di te.»

«Di me?»

«Sì… Quando sono entrata in quella stanza, prima che quel cretino ti tirasse via da Hayama io… Quella immagine mi ha sconvolta.»

«Ha sconvolto anche me, pensa.»

«Quello che voglio dire… E’ che io non penso riuscirò mai a provare certe cose per qualcuno.»

«Beh vale anche per me, Hisae.»

«Stupida… Tu dici di non aver sentito nulla, che sei un mostro insensibile, però ti assicuro che a me è arrivato tutto, con una potenza tale da stordirmi. Tu e lui… Sì… Mi avete… Non lo so, ma era potente.»

«Se lo dici tu…»

«Io non lo so come ho fatto a considerarlo preistoria… Puoi perdonarmi?»

A quel punto, mi spostai un po’ e, rimanendo seduta sul pavimento, aprii la porta.

Hisae era lì, dove mi aspettavo che fosse.

Rimase immobile e seguì i miei movimenti con la coda dell’occhio.

Gattonai un po’ verso di lei e le posai la testa su una spalla.

«Fuka è veramente una merda.» Le dissi.

«Già, è una merda.» Bisbigliò poggiando la testa sulla mia.


*****


Da quando l’avevo rivisto quel venerdì sera della rimpatriata i miei incontri con la dottoressa Aoki mi mettevano addosso una strana e indomabile agitazione.

Per due settimane non avevo fatto altro che entrare nel suo studio il venerdì alle 17 per uscirne alle 18 trascorrendo quell’ora seduta sulla poltrona in silenzio.

Lei si limitava a guardarmi e annotare qualcosa di tanto in tanto, senza proferire neanche una parola.

Io mi guardavo attorno giocherellando con una ciocca di capelli. Mi accorsi che non era una cosa usuale per me, in generale non amavo toccarmeli, trovavo più semplice lasciarmi andare le braccia ai lati del corpo, ridurre al minimo i movimenti, però ecco, cominciai a trovare un certo conforto in quel gesto.

Poi, però, ricordai il modo che aveva lui di guardarmeli, di toccarli, quasi con la speranza di cancellarci via quel colore che proprio non gli andava giù e allora smisi di farlo.

O forse no, forse neanche mi accorgevo più se la mia mano fosse ferma sulla coscia o roteava piano tra i capelli.

Quel venerdì pomeriggio, dopo circa quaranta minuti di silenzio, la Dottoressa Aoki mi regalò un sorriso soddisfatto.

«Siamo sulla strada giusta, signorina Kurata?»

«Come prego?»

«Beh, sono quasi tre settimane di silenzio.»

«Questo è un bene?»

«Beh, questa è una reazione.»

Sollevai gli occhi al cielo, non era certo la prima volta che trascorrevo ore seduta su una sedia a fare silenzio di fronte a uno strizzacervelli.

«Ha avvertito l’esigenza di assumere dosi maggiori in queste due settimane?»

«No…»

«Benissimo. Penso che possiamo anche considerare l’idea di cominciare lo scalaggio.»

«Guardi che in realtà mi sembra di essere anche peggiorata.»

«Perché dice questo?»

«In queste ultime settimane ci sono state delle situazioni che… Beh situazioni poco chiare in cui io non ho avvertito niente.»

«Gliel’ho già detto… Anche non sentire è comunque sentire, signorina Kurata. E poi questo non c’entra affatto con la sua malattia.»

«Ah no?»

«No… Il senso di vuoto interiore che lei avverte…»

«Già è proprio così… Un vuoto interiore.»

«Sì… Beh quello è dato solo da lei, signorina.»

«Da me? Questo è assurdo!»

«Lei non può essere distante da sé stessa... E’ un’illusione della sua mente.»

«E come diamine funziona la mia mente?»

«Sono meccanismi complessi, Signorina Kurata.»

«Ah, certo! C’era da scommetterlo!» Quel suo parlare vacuo mi accorsi che mi spazientì. «Lei, Dottoressa, dovrebbe aiutarmi invece di blaterare assurdità!»

«Dunque vuole che l’aiuti?»

Non risposi a quella domanda, mi limitai a lasciar andare un sospiro e strizzai un po’ gli occhi massaggiandomi le tempie.

«Ci arriveremo, Signorina Kurata. Siamo sulla strada giusta.»

«Le ripeto che io non sento niente.»

«Vede, la sua mente può illuderla di non sentire, ma non è così potente da impedirle di ricordare qualcosa di significativo e scolpito. Dunque, anche se in questo momento non riesce a provare niente, presto o tardi sentirà una piccola scintilla, piccola ma talmente forte da scuoterle un istinto…»

«Ne ho avute tante di scintille in queste settimane, mi creda. Non è successo niente… Porca miseria io mi sento un mostro!»

«Allora lo vede? Lei sente?»

Non risposi, neanche mi soffermai a cercare un senso in quella provocazione perché di fatto era solo quello, nulla di concreto, a quel punto però la vidi annotare su un foglio qualcosa, poi mi sorrise.

«Signorina, può chiamarmi quando vuole, anche prima del prossimo venerdì.»

Così mi disse, prima di chiudere il suo block notes e lasciarmi intendere che la nostra ora insieme era finita.


*****


Avevo il turno 20-2 quel venerdì, proprio come quel venerdì in cui avevo rivisto Akito.

Quando entrai nel konbini trovai Nobu seduto alla cassa che cercava di mettere ordine tra libri di testo e dei fogli sparsi.

«Oh, Sana!» Fece, continuando a raccattare i libri e quei fogli che mi accorsi fossero un po’ ingialliti, battuti con la macchina da scrivere.

Ne afferrai uno scivolato sul pavimento e glielo passai.

Pensai fossero un po’ come lui. Trasmettevano una certa consistenza, una certa calma.

«Com’è andato l’esame?»

«Veramente una schifezza!» Esclamò in una risata.

«Beh… Almeno ti è rimasta della serotonina ancora in circolo.» Constatai.

«Na… E’ che adesso sono anche preso da altro. Comunque non importa, andrà meglio la prossima volta.»

«Vai via? Ma non avevi doppio turno, oggi?» Gli chiesi, accorgendomi che aveva ormai sbarazzato il bancone della cassa da tutte le sue cianfrusaglie, mettendosi libri e fogli nello zaino.

«Sì, ma mi sono fatto sostituire da Masami, ho un appuntamento importante tra meno di due ore!»

«Beh… Allora buon divertimento…»

«No, Sana!» Trillò infilandosi il cappotto. «Dimmi buona fortuna!»

«E perché?»

«Se questa sera andrà bene te ne parlerò, per ora voglio essere scaramantico.»

«Ok… Buona fortuna, allora!»

«Ripensandoci… Meglio in bocca al lupo.»

«Nobu…»

«Sì, ho capito, vado!» A quel punto mi si avvicinò schioccandomi un bacio sulla guancia, non l’aveva mai fatto e tradussi quello slancio come una mera esternazione di entusiasmo per il suo appuntamento.

«Buon lavoro!» Urlò e scappò via di corsa, mentre il casco che aveva agganciato allo zaino gli si impigliò in almeno tre espositori e vari decori natalizi.

Si voltò a guardarmi con l’aria da cane bastonato, poi fissò la merce che il suo passaggio aveva spiattellato sul pavimento e si grattò un po’ la testa con aria colpevole.

«Lascia stare, Nobu, faccio io. Va pure!»

«Sei un angelo!» Urlò schizzando fuori dal konbini mentre io mi apprestai a riordinare i suoi pasticci.

Mi scocciava il fatto che Nobu si fosse fatto sostituire da Masami.

Sei ore in compagnia di quella ragazza non sapevo se avrei potuto reggerle, soprattutto se abbinate all’ora di saccenteria e disagio che mi aveva regalato la Dottoressa Aoki quel pomeriggio.

Almeno, pensai, Hisae l’avrei ritrovata già a letto, con la benda per le occhiaie sugli occhi e le gambe lunghe aggrappate al cuscino.

Non mi piaceva molto lavorare con Masami, era una ragazza carina e tanto dolce ma un tantino stressante per me. Aveva una voce stridula e acuta e adorava civettare con i clienti coinvolgendo anche me o chiunque si trovasse in turno con lei, ed era una cosa che proprio non mi piaceva.

Per fortuna ci beccavamo poco a lavoro perché lei prediligeva i turni del mattino mentre io li odiavo, mi ci voleva sempre un po’ di tempo per riuscire a tirarmi fuori dal letto e mettere un piede avanti all’altro.

Di lei si diceva avesse una tresca con il proprietario e forse anche con un paio di clienti abituali, io non avevo mai creduto a quelle voci, a mio avviso era semplicemente una bellissima ragazza di 23 anni con un modo di fare un po’ espansivo che forse veniva frainteso.

Forse c’era parecchia invidia che le aleggiava intorno, lei comunque pareva interessarsene poco.

A me di sicuro non me ne fregava niente, certo, trovavo un po’ bizzarri tutti i fermagli e le perline che metteva tra i capelli o le ciglia finte stile sailor moon, però ecco in verità a me sarebbe bastato solo che fosse meno esuberante e per il resto la trovavo ok, fermagli e ciglia finte incluse.

«Certo che è un mortorio qui di sera, non entra mai nessuno.» Urlò dalla cassa mentre io controllavo le scadenze di alcuni prodotti al banco frigo.

«Già…»

«Io lo odio il silenzio.» Piagnucolò mentre io decisi d’ignorarla sperando di rendere ancora più incisivo il mio punto di vista.

«Ce l’hai il ragazzo, Kurata?»

«No.»

«Strano… Forse perché sei sempre triste, per questo non vieni notata dai ragazzi.»

«Forse.»

«Io sì invece, lui è veramente fantastico, si chiama Tenma!»

Ecco anche quella era una caratteristica di Masami, rispondeva sempre a domande che nessuno le poneva. Certe volte pensavo che i suoi atteggiamenti sottintendessero delle mancanze, ma poi mi stringevo nelle spalle e lasciavo perdere perché mi bastavano già i miei di casini.

Non le risposi e lei non aggiunse altro, più tardi però, quando mi avvicinai alla cassa per registrare i prodotti andati a male e preparare l’inventario mi accorsi che mi fissava attentamente.

«Sei veramente bella, lo sai?»

Le regalai un lieve sorriso distratto e continuai a compilare le schede per gli ordini.

«Sto parlando con te!» Urlò.

«Ho capito, grazie… Sei bella anche tu.»

«Beh, sarebbe il minimo, spendo tutto quel che guadagno per essere così come sono!» Esclamò in una risata, passandosi platealmente una mano tra i lunghi capelli perfettamente in piega.

«Però tu… Non sembri come me.»

«Pazienza…»

Lei nascose un risolino e mi si avvicinò allungandomi le mani sul viso, cominciando a tastarmi il naso. «Avrei giurato avessi il naso rifatto, sai? E’ così da occidentale! E poi hai delle ciglia così lunghe, cazzo che belle!»

Quel contatto m’infastidì, arretrai guardandola un po’ di traverso, ma lei parve non badarci, infatti mi passò una mano tra i capelli e ne saggiò la consistenza con le dita. «Hai anche dei bei capelli… Sai? Perché li tingi?»

Mi scansai velocemente da lei e le spinsi via la mano fissandola astiosa, non sapevo neanche quello che mi stesse passando per la testa, però sentii dentro uno strano fastidio che sembrava non contenersi, neanche mi accorsi delle parole che mi uscirono dalla bocca.

«Senti, non toccarmi i capelli, ok?»

«Ok! Ok! Volevo solo …»

«Non m’interessa!» Urlai. «Non toccarli!»

Masami mi fissò interdetta, certo non s’immaginava quello strano moto di stizza per una cosa così innocente, soprattutto non si aspettava una reazione del genere da me che trascorrevo il 90% del mio tempo con la testa bassa, lasciandomi scivolare le cose di dosso.

«Scusa…» Mi disse e si allontanò alla svelta dalla cassa perdendosi chissà dove tra i corridoi.

Che diamine mi prendeva?


*****


Dopo il lavoro mi sistemai alla solita fermata dell’autobus, quella sera però, oltre alla solita stanchezza c’era anche altro a farmi compagnia. Un pensiero simile a una consapevolezza strana che mi si stagliava di continuo nella testa.

Mi ero arrabbiata.

Masami mi aveva messo una mano tra i capelli e io mi ero arrabbiata.

Mi domandai se quindici anni di psicoterapia potevano essere racchiusi in quella frase.

Se fosse stato così, avevo decisamente buttato al vento migliaia e migliaia di Yen.

Poi però mi chiesi perché mi fossi arrabbiata così tanto per un gesto così innocuo da parte di una semplice collega e non seppi trovare una risposta.

L’unica cosa che sapevo era che la rabbia ormai non c’era più, così come le sue mani tra i miei capelli.

Le mani di Hayama o di Masami?

Quella domanda cattiva mi risuonò nella mente.

Non sapevo francamente a quali delle due mi stessi riferendo, non lo sapevo forse perché sentivo che la rabbia di aver avuto una mano di Masami tra i capelli era molto simile a quella di non avere avuto la mano di Hayama tra i capelli per molto, troppo tempo.

Sbuffai nascondendomi il viso tra le mani.

Perché facevo così?

Senza alcun logico collegamento mi ripetei nella mente le parole di Gomi, ma neanche in quel momento avvertii rabbia o fastidio. Come cazzo funzionava la mia mente?

Mi illudeva o no? E se mi stava illudendo, anche quella rabbia era un’illusione?

Anche quelle lacrime senza senso lo erano?

Eppure mi erano parse così reali quella notte, dopo il bacio che Akito mi aveva rubato addirittura mi avevano spalancato i polmoni permettendomi di respirare senza ansimare.

Non capivo e non riuscivo nemmeno a percepire uno straccio di desolazione per quel mio malfunzionamento interiore.

Come stava Hayama? Perché non m’interessava saperlo?

Sentii l’ansia tendermi gli arti, le dita fredde mi s’indurirono sulla pelle della faccia, dovevo smetterla di rimuginare su cose che non portavano a nulla.

Mi sembrava di andare a tentoni in un gioco di labirinti e porte.

«Ciao, Kurata.»

La sua voce.

Ora la mia mente cominciava persino a farmela sentire. Pazzesco!

«Kurata…»

A quel punto mi bastò voltarmi di scatto per accorgermi che la mente non c’entrava affatto.

Akito, in piedi davanti a me, mi fissava con le mani nelle tasche, un berretto nero tirato sulla testa e l’espressione stravolta.

Ero io a procurargliela?

«Che ci fai qui?»

«Vieni, ti do un passaggio a casa.»

Mi disse semplicemente quello accompagnandolo con un cenno della testa, sperando forse facessi qualche capriola per l’emozione, in realtà me lo guardai per un istante prima di voltare il capo dall’altro lato della strada, volevo alzarmi, girare i tacchi e andarmene scrollando le spalle, ma le gambe come due pezzi di legno che non collaboravano nonostante gli impulsi che il mio cervello gli mandava, m’impedirono di schizzare via di lì.

Perché il mio stupido corpo trovava fastidioso staccarsi da lui?

«Kurata?»

«Va via.»

«Voglio solo accompagnarti a casa e parlarti.» Disse e mi tirò da quella panchina, trascinandomi di fatto difronte ai suoi occhi.

«Gomi… Lui… Non devi credere alle stupidaggini che dice…»

Non era sincero, i suoi occhi si allontanarono nell’esatto istante in cui quelle parole uscirono dalla sua bocca.

«Di stupidaggini ne dici parecchie anche tu.» Constatai fissandogli l’ombreggiatura lasciata dai lividi sul suo viso.

Lo vidi sollevare una mano, seguii attenta il suo movimento, mi sembrò stesse per accarezzarmi. «Mi se...»

«Per favore... Va a casa.» Così gli dissi e mi voltai dal lato opposto schizzando via, lasciandolo con la mano a mezz’aria.

Per fortuna le mie gambe collaborarono e lui non mi seguì.

Avrei voluto correre senza mai fermarmi fino a casa, ma avevo il cuore in gola e sentivo il respiro cominciare a mancarmi, pensai che a quel punto avrei aspettato l’autobus alla fermata successiva, l’importante era allontanarmi da lì, mettermi in salvo da quello sguardo e tutto il brusio confuso che mi provocava nella testa.

Quando pensai che fossi ormai lontana dal suo campo visivo, voltai l’angolo della strada e mi fermai cercando di riprendere fiato.

Fu a quel punto che mi sentii avvolgere alle spalle dalle sue braccia.

Fu come un’onda di calore che m’inglobava all’improvviso, mi sembrò di percepire solo quello.

Non c’era altro se non un conciliante tepore.

«Non devi pensare a me…» Sussurrò sulla pelle del mio collo.

Mentre me lo diceva, anche senza guardarlo negli occhi, percepii che stesse solo tentando di scacciar via il senso di colpa che pensava di avermi gettato addosso. Mi sembrò crudele quella sua convinzione, mi sembrò crudele perché quel suo parlare rinnegava il mio star male. Perché quel senso di colpa, a conti fatti, io me l’ero cercata dentro per settimane, per anni, ma non ero mai riuscita a tirarlo fuori.

«Lasciami!»

«Mi aveva detto che stavi bene… Scusami se ci ho creduto…»

Che diamine stava dicendo? Forse Gomi gli aveva parlato di me?

«Hayama, non respiro! Non ci sto capendo niente, lasciami andare!» Ansimai cercando di tirarmelo via di dosso, ma lui mi parve come marmo ben piantato sull’asfalto.

«Lei mi aveva detto che tu eri felice…»

«Ma lei chi? Ti prego, Hayama, lasciami andare!»

«Mi dispiace, non ci riesco proprio...»

«Beh, provaci perché io non ti voglio!»

«Bugiarda!»

«Sei troppo convinto, Hayama!»

«No, Kurata… Mi sei mancata!»

E a quelle parole, strozzate tra i capelli e la spalla, ebbero ancora una volta quel potere di farmi bagnare gli occhi, di scivolarmi come una colpa sulle guance. Lui forse capì, o forse lo sentii, fatto sta che mi strinse più forte e si nascose meglio nell’incavo del mio collo. Sentii il suo profumo, le sue labbra schiudermisi sul collo, ma dentro non ci fu niente se non la consapevolezza gelida di esser diventata un mostro insensibile e incapace di provare emozioni.

Di certo capii che quelle lacrime esprimevano solo del disagio. Ero veramente peggiorata.

«Hayama, da quando ti ho rivisto va solo peggio.»

A quel punto, le braccia di Akito scivolarono via dal mio corpo, non mi mossi da quella posizione, eppure lo sentii indietreggiare e immaginai alla perfezione la sua espressione sconvolta.

Lo sentii girare i tacchi e andarsene mentre io chinai la testa concentrandomi sulla forma tonda di alcune gocce che mi bagnavano la punta delle scarpe.

Non sentii nulla di particolare, neanche capii il senso di quelle mie parole.

Salvavano me e condannavano lui, o condannavano me e salvavano lui?

Non avevo chiara percezione nemmeno di quello.

Solo, sì, sentii freddo. Improvvisamente.


*****


Quando rientrai nel mio appartamento buio, mi sembrò di non avere neanche un nervo sciolto nel corpo, era tutto teso e al contempo aggrovigliato, che persino inserire la chiave nella toppa mi sembrò l’azione più difficile e faticosa da compiere.

Mi fiondai nel bagno e mandai giù le medicine senza neanche premurarmi dell’acqua. Mi attaccai al rubinetto e deglutii lasciando andare un sospiro soddisfatto.

Anestetizzare, smettere di pensare pensieri senza pensiero, ingoiare, mandare giù, sciogliere e dormire.

Quando sollevai lo sguardo a cercare la mia immagine riflessa nello specchio ci ritrovai dentro un viso stravolto che mi colpì.

Non c’era apatia nel mio sguardo, c’era sgomento.

Mi chiesi come fosse possibile apparire in quel modo senza sentirsi in quel modo.

Senza essere quel sentimento.

Mi passai una mano sul collo, in quel punto dove avevo sentito per l’ultima volta le sue parole accarezzarmi la pelle.

E mi strappai i vestiti di dosso lanciandomi nella doccia.

Sentii l’esigenza di lavarmi via Akito Hayama e tutto ciò che mi stava provocando, tutto quel brusio, quel disagio. Quelle lacrime e quella confusione, quel mio intero corpo che si muoveva verso di lui senza il mio permesso.

Perché era ricomparso nella mia vita?

Perché voleva che me lo sentissi dentro?

Io stavo così bene nella mia apatia, perché voleva a tutti i costi strapparmela di dosso, demolire il mio rifugio, anche a costo di distruggere sé stesso? Che senso aveva? Cosa voleva da me?

Era così difficile da capire che in quegli anni mi ero costruita solo uno riparo, un modo di sentire la vita senza accusarla troppo per essermi scappata via?

In fondo era un riparo tranquillo e gestibile che mi restituiva una dimensione, ma a lui a quanto pareva non piaceva affatto e dopo quindici anni si arrogava il diritto di tornare, mettere in dubbio la robustezza delle fondamenta del mio riparo, dettare legge, pretendendo addirittura che mi sentissi in colpa.

Quanto a lui, chi era diventato?

L’amore della mia vita trovava piacevole farsi massacrare per sedare un senso di colpa nei miei confronti.

E la cosa mi lasciava indifferente.

La mia apatia emotiva era tutta lì.

Quando mi tirai fuori dal bagno raggiunsi il letto in cui la mia amica dormiva da almeno un paio d’ore.

Lanciai uno sguardo distratto a tutte le creme e i flaconcini che mi aveva sistemato sul comodino e scossi la testa come se stessi rispondendo a una domanda.

Ero sopraffatta.

Mi rannicchiai sotto le coperte in un angolo del letto, ma poi, inspiegabilmente, mi feci più vicina a Hisae e le sfregai la testa sulla schiena.

Lei mugugnò un po’ e si voltò verso di me, per fortuna la benda anti occhiaie le impedì di guardare l’orribile spettacolo della mia faccia stravolta, mi nascosi tra le sue braccia e lasciai andare un sospiro, sperando di ritrovare in quella stretta la mia comoda apatia.

«Hai fatto la skin care?»

«No… Ti prego, sono stanca.»

«Le rughe amano la pigrizia.» Biascicò.

«Non fa niente, dormiamo.» Sussurrai stringendomi a lei.


*****


Poi quella notte successe qualcosa di strano, o meglio, sognai una cosa strana.

Ero seduta su un prato, poi d’un colpo la terra si apriva sotto di me come uno squarcio, una fessura stretta ma profonda.

Mi sembrò quasi volesse risucchiarmi e ci sarei sprofondata sul serio se non mi fossi mantenuta su un lato della fessura. Tentavo invano di tirarmi su, quando vidi l’Akito dodicenne affacciarsi su di me e guardarmi con quella sua espressione fredda, il suo sopracciglio inarcato e le mani nelle tasche dei jeans.

Gli chiesi aiuto ma lui non si mosse, si limitò a ghignare guardandomi dall’alto in basso.

«Come ci sei finita lì?»

«Non lo so…»

«Beh, se non lo sai, cadrai.»

Così mi disse e di fatto mi accorsi che le mani persero consistenza, scivolarono nella terra che a quel punto si fece molle come sabbia e caddi giù.

Mi rialzai di soprassalto, ansimavo rumorosamente mentre il cuore sembrava battermi forte in gola.

Lanciai uno sguardo a Hisae che, dritta sul letto come un fuso, mi guardava con tanto d’occhi sbarrati e la benda per le occhiaie sollevata a mo’ di cerchietto tra i capelli.

«Tutto bene? Digrignavi davvero tanto!» Mi disse e con una mano mi sfregò sulla schiena.

Annuii lievemente. «Devo… Il bagno. Dormi.» Per fortuna non fece storie, si morse un po’ il labbro e mi fissò attenta mentre mi trascinavo a fatica verso il bagno.

Pensai fosse passato troppo poco tempo per prendere delle altre medicine e mi misi a sedere sulla tazza del water cercando di regolare il respiro e riprendere i giusti battiti.

Ormai mi regnava dentro un caos che persino le medicine contenevano a fatica.

Per un istante mi chiesi se il metodo scelto da Akito per anestetizzare il disagio con il dolore fisico gli conferisse una sedazione più efficace.

Mi balenò nella mente l’idea di provarci.

Certo, dove lo trovavo io qualcuno disposto a farlo?

Solo io potevo farmi del male, la gente mi trattava sempre con una gentilezza che sapeva d’ovatta.

Con una certa frenesia presi dalla pochette di Hisae un tagliaunghie e ne estrassi la lama, sentii qualcosa di simile all’impazienza spingermi dentro quando bruciai la lama con l’accendino, poi mi guardai un polso e lo feci.

Il primo taglio era simile a un graffio, mi bruciò la pelle ma forse era solo il calore della lama, il secondo era un po’ più profondo ma impercettibile, il terzo più lungo e preciso non mi restituì nessuna sensazione se non quella tangibile del sangue che mi colava dal braccio.

Non sentii niente, solo un leggero bruciore, ma nessuna percezione, nessuna calma, né piacere, né tantomeno dolore.

Mi sembrò solo un inutile spreco d’energie.

Sciacquai il polso sotto l’acqua fredda e ci premetti su delle garze per un po’.

Il dolore fisico non mi restituiva nulla, non era appagante per me, non sedava, era solo fastidioso.

Forse Hayama doveva avere altri motivi per farsi ridurre così, pensai.

Non era il disagio quello che doveva lenire.


*****


Quando mi risvegliai vidi Hisae roteare per la stanza alla ricerca di qualcosa, o, per meglio dire, intenta a generare caos volutamente.

«Oh! Finalmente sei sveglia!»

«Mi hai svegliata…» Precisai continuando a mugugnare qualcosa che arrivò incomprensibile anche a me stessa, per poi nascondermi di nuovo tra le coperte.

«Già che sei sveglia…» Trillò tirandomele via. «Perché non ti vesti? Usciamo a mangiare qualcosa insieme!»

«Non ho tutte queste energie all’alba.»

«L’alba? Ma se sono le 11! Dormigliona!»

«No…»

«Ti prego, Sana…» Piagnucolò. «Fallo per me, devo tornare a casa dai miei oggi… Anche se non te ne sei accorta dopodomani è Natale, sai?»

Mi tirai su con molta flemme, Hisae mi guardò soddisfatta e mi schioccò un bacio sulla guancia.

«Ti preparo il caffè!» Esclamò, per poi avviarsi in cucina canticchiando una canzone.

Mi accorsi che la felpa che avevo addosso aveva un polsino sporco di sangue, mi ricordai la notte appena trascorsa e mi coprì immediatamente il polso, come colta in fallo.

Hisae dalla cucina canticchiava ancora la sua canzone e io lasciai andare un sospiro, non si era accorta di niente, per fortuna.

Prima di scivolare nel bagno afferrai il mio cellulare dalla borsa e controllai le notifiche, mi accorsi che Naozumi aveva provato a chiamarmi per ben tre volte, ma non mi aveva lasciato alcun messaggio.

Che diavolo di ore erano a New York?

Avviai la chiamata continuando a chiedermelo ma lui mise giù a terzo squillo.

Mi strinsi nelle spalle e lasciai correre, era strano anche lui.


*****


Indossavo un maglioncino attillato a collo alto dal colore simile all’avorio, una gonnellina a volant verde salvia a vita alta che mi arrivava a metà coscia, dei collant scuri a mezza coscia che Hisae aveva definito “parigine” e degli stivaletti alti fino alla caviglia.

La mia amica mi guardava soddisfatta.

«Vedi come stai bene quando mi dai ascolto?»

«Se lo dici tu.»

«Sei uno schianto!» Urlò sistemandomi il trucco nell’angolo dell’occhio con la punta delle dita.

«Certo, con i tuoi bei capelli rossi questi colori sarebbero risaltati di più, ma sei bellissima anche così!»

«Ti piacevo di più con i capelli rossi?»

«Tu mi piaci sempre!» Trillò schioccandomi un bacio sulla guancia.

Lei poi, con un morbido vestito di lana color crema e degli stivali neri che gli arrivavano fino alle cosce, s’infilò degli orecchini piuttosto importanti e mi sorrise.

«Andiamo, su!» Urlò.

Mi chiesi perché avesse insistito così tanto a propinarmi quel look, a cui fece aggiungere anche un cappellino alla francese, ma quando raggiungemmo il posto che aveva scelto per pranzare con me, tutto mi fu chiaro.

Lei andava matta per quei posti, avrei dovuto intuirlo.

Eravamo in un ristornate francese e quei vestiti ovviamente servivano, perché c’erano dei codici non scritti che a me scappavano ma che Hisae conosceva bene.

Poi lei si sentiva rinascere in quei posti sofisticati che trasudavano classe ed eleganza, anche se, a onor del vero, pensai che se qualcuno l’avesse conosciuta per davvero si sarebbe accorto subito di quanto la sua immagine e la sua natura fossero stridenti.

Comunque lei mi sembrava felice.

Io mi riguardavo con aria incerta quella pasta dalla forma strana che lei aveva definito “Quenelle de brochet”, galleggiare nel piatto.

Lei invece si divertiva ad assaggiare tante piccole portate dal nome pomposo e l’aspetto poco rassicurante.

«Non mangi?»

«Non ha un colore definito questa roba…» Commentai.

«Se vuoi ti faccio portare del…»

«No, no, ti prego. Va bene questo… Questo… Qualunque cosa sia.»

Hisae sospirò frustrata. «Pensavo fosse carino portarti qui come se fossi il mio unico amore.»

«Non sei il mio tipo, mi dispiace.»

«Lo sapevo mi avresti risposta così, Crudelia! Comunque ti ho preso un regalo per Natale, volevo aspettare il dessert per dartelo però, dato che ho toppato col ristorante, tento un recupero in extremis!»

Cazzo! In quell’esatto istante in cui la mia amica si chinò a prendere il regalo nella borsa mi resi conto di non aver pensato neanche per un istante a comprarle qualcosa.

A dirla tutta, neanche mi ero accorta che, mentre io mi crogiolavo nel mio disagio, Natale era arrivato.

«Hisae io…»

«Lo so che hai dimenticato il mio regalo, Crudelia, ma sta tranquilla, sono un’amante di poche pretese… Ti lascerò offrirmi il pranzo!» Disse e mi strizzò un occhio passandomi una scatola piuttosto voluminosa.

«Ma che borsa hai?» Le chiesi, considerando il fatto che c’avesse tenuto dentro una scatola lunga quanto il mio avambraccio.

«Una molto voluminosa.»

Scartocciai con calma il suo regalo e mi ci vollero giusto un paio d’istanti per capire cosa fosse.

«Ma tu sei matta!» Urlai, sentendomi il viso invaso da un folle calore.

«Non c’è di che!» Disse soddisfatta, bevendo un sorso del suo chardonnay. «Basta che non lo usi pensando a Naozumi o me lo riprendo.»

«Mi hai portata in un ristorante francese per regalarmi un vibratore?»

«E allora? Non si sconvolgeranno mica, i francesi sono un popolo molto aperto e molto passionale, sai?»

«Non siamo in Francia e comunque tu sei un controsenso in termini! Dove dovrei mettermelo adesso?»

«Devo spiegarti anche questo?»

«Smettila, cretina! Rimettiti questo coso nella borsa!» Commentai esasperata.

«Uhmmm… Come sei antipatica!»

Le passai velocemente quell’aggeggio e lei se lo rimise in borsa. «Te lo do dopo, sta tranquilla.» Mi disse, strizzandomi un occhio.

Le avrei voluto rispondere che poteva anche tenerselo ma mi limitai a fissarla di traverso.

Non potevo crederci, mi sembrò una situazione surreale.

«Vuoi farmi un regalo anche tu?» Fece a quel punto.

«Che vuoi?»

«Puoi mangiare qualcosa? Andiamo altrove se questa roba non ti va.»

Me lo disse in un tono così dolce e premuroso che non potei fare a meno di rimirare quelle pietanze cercando di trovarci dentro qualcosa d’interessante.

Sbuffai un po’, misi da parte la faccenda del vibratore e affondai la forchetta in quello che mi parve uno stufato di manzo e l’assaggiai.

Hisae mi sorrise compiaciuta.

«La fanno qui la Crème brûlèe?» Le chiesi.

«Sì!»

«Allora dopo potremmo assaggiarla.»

«Ma certo! Tutto quello che vuoi…» Mi disse e mi strinse forte la mano sul tavolo.

Cominciai a mangiucchiare un po’ di roba, ma fu inevitabile per me pensare a quanto fossero differenti tutte quelle portate elaborate, dalle semplici okonomiyaki che avevo preparato con Akito.

«Ieri sera ho visto Akito.»

La mia amica mi fissò sbarrando gli occhi, mi parve stesse cercando di contenere una reazione che se fossimo state in un semplice ristorante di okonomiyaki non avrebbe contenuto.

«Sei andata da lui?»

«No, lui è venuto da me, alla fermata… Dopo il lavoro.»

«Che ti ha detto?»

«Stupidaggini… Poi l’ho mandato via… Però mi ha detto una cosa che non ho capito…»

«Cioè?» Ormai quel cibo e la suggestiva atmosfera di classe aveva perso ogni interesse per la mia amica, il suo arrotolarsi il fazzoletto tra le dita mi lasciò intendere alla perfezione che avesse solo voglia di fumare.

«Mi ha detto… “Lei mi ha detto che tu stavi bene…” A chi pensi si riferisca?»

Hisae mi fissò inarcando un sopracciglio. «E non l’hai capito?»

«No…»

«A Fuka.» Disse e mandò giù un lungo sorso di chardonnay come se d’improvviso fosse diventata la più grezza delle bevande.

«Mi potresti dire sinceramente cosa faresti al mio posto?»

«Penso che spaccherei la faccia a Fuka, ma poi penserei che per non aver continuato la scopamicizia qualcosa tra loro sarà successo e a quel punto mi sa che le spaccherei di nuovo la faccia per farla parlare.»

«Hisae, ti prego… Non è questo quello che m’interessa.»

«Ah no?»

«No. E poi ricordati che Fuka non ha fatto tutto da sola. E poi magari non hanno continuato perché a lei non piaceva, che ne sai?»

«A quella là? Ma se non ha fatto altro che osannare quella scopata? Porca miseria! Mi ha anche descritto il suo affare per filo e per segno!»

Sollevai gli occhi al cielo con aria spazientita, perché continuava a battere su quel punto? «Ok, sei stata chiara, Hisae...»

«Beh… Sì… Scusa… Insomma … Voglio dire… Mi hai capita…»

«Lascia perdere, non è quello che volevo sapere… Solo… Vorrei chiederti se ho fatto bene a mandarlo via.»

Lei si morse un po’ il labbro e roteò gli occhi di lato. «Temo di sì, ma non lo so se è quello che vuoi.»

«Neanche io… Anche perché non capisco veramente cosa provo… O meglio… L’unica cosa che capisco è che non sento nulla oltre al disagio di non sentire nulla… Quindi ho pensato di fare ciò che è giusto.»

«Ti manca?»

«Lui così mi ha detto…»

«E a te?»

«Magari ci penso… Però… No. Non in maniera definita, ecco.»

«E ti manca Naozumi?»

«No… Anzi, averlo così lontano, è l’unica cosa positiva di queste settimane… Ma questo perché ho la mente già troppo…»

«Invasa da Akito Hayama, eh?»

«Mi dà fastidio che venga dopo quindici anni e voglia incasinarmi la vita riempiendomi la testa di domande e… Di quel senso di frustrazione che ne viene, perché non riesco neanche a sentire che di fatto me la stia incasinando. Mi accorgo solo che ho la mente come… Sotto bombardamento!»

«Dio mio! Che casino!»

«Benvenuta nella mia testa…» Sbuffai.

«Menomale che ti ho regalato Kanamara, lui non fa domande, da solo grosse soddisfazioni.»

«Hisae… Ti prego… Sei blasfema.»

«Senti, Sana? Lo vuoi un parere dalla tua vecchia amica?»

«Ormai…»

«Farò finta di non aver sentito e lo prenderò come un sì.»

«Era un sì, solo un po’ timoroso.»

«Lasciati andare e cerca di vivere ogni cosa per come verrà… Come diceva Grace Kelly “Que sera sera”»

«Era Doris Day…»

«Ma lo sai che con la vecchiaia sei diventata saccente e sbruffona come Hayama?»

E a quel punto scoppiò a ridere, in una maniera del tutto sconveniente per un ristorante francese.


*****


Quando rientrai nel mio appartamento in compagnia dell’imbarazzante regalo di Hisae, erano ormai le otto, mi sfilai gli stivaletti all’ingresso e mi trascinai lentamente sul letto.

Certo che la mia amica era davvero strana, che diavolo avrei dovuto farci con quell’affare?

Lo feci scivolare sotto al letto e sbuffai un po’ col naso per aria e lo sguardo rivolto al soffitto.

Ero stanca, però dovevo ammettere che la giornata insieme a lei non mi era dispiaciuta affatto.

Dio mio… Ora parlavo anche come lui.

Forse aveva ragione Hisae che cominciavo a somigliare ad Hayama e al suo muso lungo. O comunque a quello del mio Hayama dodicenne.

Perché in effetti io mica lo sapevo chi era oggi.

Uno che baciava una donna tenendone per mano un’altra?

Uno che sfondava le porte per entrare con irruenza nella vita di una ragazza depressa?

Uno a cui piaceva farsi massacrare di botte? Uno che diceva di non aver saputo immaginare un mondo in cui quella stessa ragazza non fosse felice?

Uno che tornava e poi se ne andava e poi ritornava e poi se ne andava… Senza alcuna logica apparente?

Io non lo sapevo chi era, non lo sapevo affatto, e sì, avrei dovuto seguire il consiglio di Hisae e smettere di pensarci.

Scacciai via tutto quel ragionare vuoto e mi tirai su a cercare il cellulare.

Non avevo ricevuto nessuna chiamata da Naozumi, neanche un messaggio. Mi sembrò strano.

Pensai per un istante di telefonargli, ma poi pensai al fuso e tutti quei calcoli mi stancarono ancora prima di cominciare a contare e lasciai perdere.

Sicuramente stava bene.

Se Hisae fosse stata lì mi avrebbe trascinata in bagno a struccarmi, mi avrebbe rimbeccata perché non avevo voglia di fare la skin care e mi venne un po’ da ridere.

“Ti farai venire le rughe…” Mi ripetei tra me e me, ma non ebbi la forza di alzarmi né di muovere un muscolo.

In fondo, anche il riposo scacciava via le rughe, pensai chiudendo gli occhi.

Hisae sarebbe stata fiera di me.


Quando mi risvegliai erano le 23. Sentii gli occhi appiccicati dal mascara che avevo messo circa undici ore prima e capii che tutte quelle parole spese dalle influencer e dalle pubblicità – e dalla mia amica - sull’efficacia dei mascara waterproof fossero solo fandonie.

Ero così stanca, mi chiesi perché diamine mi fossi già svegliata, neanche avvertivo rigidità, quando sentii distintamente suonare al campanello.

Pensai fosse Hisae e mi rimisi comoda, le avevo dato un doppione delle chiavi, sarebbe entrata tranquillamente.

Sentii ancora suonare. Di certo aveva perso le chiavi nei meandri della sua grossa borsa.

Poi però ricordai che mi aveva detto che doveva raggiungere casa dei suoi che ormai si erano trasferiti fuori città e allora capii che non doveva essere lei.

Me ne curai comunque poco e mi voltai dall’altra parte nascondendo la testa tra le coperte.

Quel suono, però, si fece sempre più insistente.

Mi tirai a fatica fuori dal letto e, sbuffando sonoramente, mi avviai alla porta.

Non volevo aprire, semplicemente volevo dare un volto allo scocciatore della serata, ipotizzai il ragazzino che viveva sopra di me dalla faccia rotonda. Suonava spesso alla mia porta per chiedermi i fumetti e i manga che la madre mi chiedeva di ritirare per lui al konbini.

Come diavolo si chiamava?

Ad ogni modo, non gli avevo ritirato nemmeno i fumetti…

Quando però mi allungai allo spioncino la mia ipotesi si volatilizzò all’istante, sentii il respiro farsi più denso.

Cosa diavolo ci faceva lì?

Gli aprì la porta e lo fissai turbata, ma il mio sguardo s’infranse dinnanzi a quella immagine di lui che mi fissava dritto negli occhi, con le guance rosse e una mano stretta sulla pancia.

Mi accorsi che respirava a fatica, neanche feci in tempo ad emettere un fiato che si piegò su di me quasi a sorreggersi.

«Che ti è successo?» Trillai sollevandolo un po’ per le spalle.

Lui strinse gli occhi e mi sorrise abbozzando un po’ quella sua espressione furbetta.

«Ciao, Kurata.» Biascicò.

Senza neanche rispondergli richiusi la porta, gli sfilai lentamente la giacca di pelle e gli portai un braccio attorno al mio collo, tentando come potevo di sorreggerlo.

Sperai di sentirgli addosso un vago sentore d’alcol ma non mi restituì nulla, non era affatto ubriaco.

Purtroppo, pensai, era ancora una volta quell’altro il suo problema. «Ce la fai a camminare fino in camera mia?»

Lui annuì un po’ e lentamente lo spinsi nella mia stanza buia, senza aver chiara idea di ciò che stessi facendo, un po’ a tentoni, - proprio come stavo procedendo con lui in realtà - lo feci sedere sul letto rimanendo in piedi difronte a lui.

Accesi la lampada sul comodino e lo guardai meglio.

Mi accorsi che nel mettersi a sedere aveva lasciato andare una smorfia di dolore che subito nascose in un mugugno.

«Mi dici che hai fatto?»

Scosse la testa e si distese su un fianco reggendosi ancora quella mano sullo stomaco.

Non sapevo dire le sensazioni che mi si stavano smuovendo dentro, era tutto nebuloso, confuso, cercai di non pensarci e tentai di essere sul momento senza chiedermi troppe cose, così gli sfilai le scarpe e ritornai lì, in piedi difronte a lui.

«Cosa… Cosa devo fare, Hayama? Io…»

Lui aprì un po’ gli occhi e mi guardò le gambe. A quel punto mi regalò un altro dei suoi sorrisetti sbruffoni, allungò una mano verso la mia coscia e la sfiorò lentamente.

M’irrigidì all’istante senza sapere come muovermi, senza sapere se volessi muovermi.

I suoi occhi seguirono attenti il movimento della sua mano.

Sentii le sue dita carezzarmi l’interno coscia, superare senza fretta la parte più spessa dei collant, le dita a quel punto mi sfilarono lente sulla pelle nuda, s’infilarono tra le balze della gonna e mi accorsi di aver lasciato andare un ansimo nell’esatto istante in cui raggiunsero il bordo interno delle mie mutande.

Quasi risvegliandomi gli posai una mano sul polso e l’allontanai da me. «Piantala, Hayama!»

Lui allora, indispettito, voltò la mano sul mio polso in un movimento fulmineo e mi tirò a sé.

«Hayama! Ma non stavi agonizzando fino a tre secondi fa?!» Urlai, o almeno ci provai dal momento che avevo la faccia spiaccicata sul suo petto. «Non puoi venire qui e fare quello che ti pare!» Aggiunsi allontanandomi da quella presa.

«Kurata… Sto male, sta un po’ zitta e fammi compagnia…» Biascicò, ma sentii ancora il suo respiro affannoso, la sua faccia tentare di mascherare un dolore che sicuramente sentiva nella parte alta dello stomaco.

«Ma non hai bisogno di un’aspirina, delle bende, qualcosa… Io non so cosa si fa in questi casi…» Protestai.

«Non mi serve niente, solo che resti.»

Sbuffai sollevando gli occhi al cielo, non lo capivo per niente, eppure mi era parso di esser stata chiara la sera precedente, ora che senso aveva la sua presenza lì?

Mi sollevai un po’ per tirarci addosso la coperta, lui sbarrò gli occhi e mi guardò con fare circospetto. «Non me ne sto andando, ho solo freddo…»

Perché diamine mi giustificavo?

Lui a quel punto richiuse gli occhi e posò la testa sul mio seno stringendomi più forte a sé.

Io ero sicuramente una svitata, ma neanche lui doveva avere tutte le rotelle al posto giusto.

Comunque, non so quanto tempo trascorse, ma mentre io me ne stavo lì con la mente vuota e lo sguardo che puntava a tutto meno che a lui, Akito sembrava essersi calmato sul serio.

Il suo respiro sembrava regolare, pensai addirittura si fosse addormentato e la cosa finì col calmare anche me.

Mi chiesi se fosse quella la potenza di cui parlava Hisae.

Così gli passai una mano tra i capelli e a poco a poco, scivolai con le dita sulla pelle del suo viso sfiorandoglielo delicatamente.

Quel movimento dovette conciliargli il sonno perché a quel punto sfregò un po’ la testa sul mio seno in un mugugno rilassato.

Chissà cosa diavolo nascondeva in quella testa, pensai.

E stranamente l’attenzione mi si concentrò su quella mano ancora stretta sullo stomaco e che di fatto si piantava tra noi dividendoci.

Approfittando del fatto che si fosse tranquillizzato, con una mano scivolai tra le coperte e lentamente la infilai sotto alla sua maglia.

Lui a quel punto, però, scattò subito. Intercettò la mia mano chiudendola nella sua e mi guardò.

«Kurata se volevi riprendere il discorso di prima bastava chiedere.»

«Volevo solo capire…» Gli dissi, tirando via la mano da quella stretta. «Non farti strane idee!»

Lui si morse un po’ il labbro e mi guardò sfacciato. «Per chi ti fai così carina?»

«Certo non per te… Sai com’è non ti aspettavo nemmeno…»

«Sennò l’avresti fatto?»

«Ovviamente no…»

«Per chi lo fai allora?»

«Sono uscita con Hisae…»

«Ma allora è una cosa seria?»

«Potresti farla finita con queste battute idiote e dirmi cosa ti è successo?»

«Qualcosa di buono, immagino.»

Sbuffai sonoramente per quel modo che aveva di rispondere alle mie domande senza rispondere. «Ritrovarsi in questo stato non è mai qualcosa di buono, Hayama.»

«Non mi sono mai sentito meglio di così, invece.»

Mi sembrò d’impazzire, gli avrei voluto tirare un pugno sul naso, perché si ostinava a tacere? Ma soprattutto, perché volevo saperlo così tanto? Perché quando stavo con lui non mi veniva dentro quell’indifferenza e quell’apatia che riuscivo a regalare a tutti?

Perché non faceva altro che bombardarmi la mente con tutte quelle domande che non mi restituivano né sensazioni definite né risposte chiare?

Scivolai giù tra le coperte e mi portai le mani sulla faccia ammazzando uno sbuffo infastidito.

Odiavo l’irruenza con cui m’investiva ogni volta.

Fu a quel punto che Akito si spostò meglio su un fianco e mi tirò a sé. «Non ti devi preoccupare per me.» Sussurrò togliendomi le mani dalla faccia.

«Non vorrei farlo, te lo giuro… E non so neanche se lo sono… A dirla tutta.»

Lui corrugò un po’ la fronte ma non disse nulla.

«Il fatto è che tu sei sbucato così dal nulla e… Non lo so… Da quando ti ho rivisto va sempre peggio… Ho la testa piena di domande e… E non sento niente… Neanche averti appiccicato addosso mi provoca qualcosa… Io solo penso… Di continuo io penso…»

«Kurata?» Mi chiamò, increspando poi le labbra in un sorriso sbruffone.

«Cosa c’è?»

«Non pensare…» Sussurrò guardandomi negli occhi con quello sguardo che anche da ragazzina aveva avuto quel misterioso potere d’immobilizzarmi.

Sentii che mi stava baciando, o forse quella volta ero stata io a baciare lui per prima. Successe tutto così velocemente che non ebbi la lucidità di capire.

Sentii solo che era successo mentre già stava succedendo.

La sua lingua cercò la mia mentre le sue mani già si perdevano tra i miei capelli. Mi prese uno strano impeto, di concreto non percepii nulla se non il desiderio tangibile di sentire le sue mani scivolarmi sulla pelle, la sua lingua calda leccare ogni punto del mio corpo.

Gli afferrai il viso tra le mani e ansimai sulla sua bocca quando mi accorsi che la sua mano era volata a stringermi un seno mentre la lingua mi disegnava piano una scia dal mento al collo. Percepii un brivido nel sentire il suo respiro strisciarmi lungo quel perimetro tracciato dalla sua bocca. «Hayama…» Lo chiamai, tirandogli un po’ i capelli, mentre con l’altra mano già mi lambiva i fianchi.

Cosa diamine stavo facendo? Perché il mio corpo si arrendeva così a lui? Perché ne assecondava ogni movimento?

Com’era successo poche ore prima, sentii la sua mano carezzarmi l’interno coscia, quella volta però gli percepii nelle dita un’urgenza che prima rimaneva silente.

Lasciai andare un gemito sulla sua spalla quando quelle stesse dita superarono il bordo delle mie mutandine e sfiorarono piano quella parte di me che non chiedeva altro che quel momento.

Per un istante ricordai le parole di Gomi.

“Torna nel buco nero in cui sei rimasta per questi ultimi quindici anni”, mi aveva detto, e lì, mentre le labbra di Hayama divoravano con foga le mie, mentre le sue dita stavano per infilarsi dentro di me, capii che dovevo spezzare quel momento, perché dovevo smetterla di alimentare quel violento campo gravitazionale che Akito Hayama aveva sempre generato dentro di me.

Lo allontanai con forza da me e voltai un po’ la faccia. «Basta… Non possiamo… Non posso permetterlo.» Ansimai.

Ovviamente non si arrese, approfittando del fatto che gli avessi voltato la faccia, si fiondò a baciarmi il collo.

Cazzo se era bravo, aveva proprio una sicurezza in quel suo modo di prendermi, che pensai si avvicinasse moltissimo a quel "capace" che Hisae usava sempre.

Per un po' cedetti alla sua bocca, ma poi lo spinsi via decretando la fine di tutto.

Lo sentii sbuffare avvilito e si lasciò andare su un fianco accanto a me. «Hai pensato di nuovo?» Chiese ironico.

«Non possiamo fare così, non ci serve a niente, Hayama.»

«Mi pareva di sì…»

«No, il fatto è che…» Stavo per aggiungere altro ma a quel punto sbuffò sonoramente e mi strinse tra le sue braccia agganciando le sue gambe alle mie. «Ho capito… Non dire niente.»

«Se hai capito perché sei ancora qui?»

«Voglio dormire con te.»

«Allora non hai capito proprio niente!» Scalciai fra le sue braccia provocandogli una smorfia di dolore che intuì non provenisse affatto dallo stomaco.

«Vuoi stare un po’ ferma Kurata?»

«Scusami… Pensavo fosse altro…» Bisbigliai con un certo imbarazzo, ormai certa di averlo colpito in un punto ancora troppo sensibile.

Mi sembrò stesse trattenendo una battuta, ma comunque mi tirò a sé e chinò il viso sulla mia testa, carezzandomi i capelli di tanto in tanto.

Quel movimento ipnotico sembrò calmarlo, sentii i muscoli delle sue braccia ammorbidirsi, le sue dita indugiare incastrate tra i miei capelli.

Avrei tanto voluto seguire il consiglio di Hisae e lasciarmi andare, ma c’era quel campo gravitazionale che lui mi generava dentro e che di fatto mi bloccava.

Perché fare l’amore con lui senza neanche sentirmi il cuore in gola, mi parve una brutalità che non potevo infliggermi.

O forse, non volevo infliggere a lui quell’ennesima frustrazione, quella ennesima motivazione da aggiungere alle tante motivazioni che evidentemente si dava per farsi ridurre così.

E poi pensai a Naozumi. Non riuscivo a sentirmi neanche un po’ in colpa nei suoi confronti, ma quello ormai era un aspetto con cui riuscivo a scendere a patti, in fondo non sentivo un coinvolgimento emotivo neanche per Akito.

Però ecco, mi resi conto che, al di là delle mie percezioni, Naozumi non meritava un simile trattamento da parte mia. Non era stato il migliore dei fidanzati in quei due anni, ma a suo modo, con tutti i suoi limiti e le sue convinzioni, aveva sempre cercato di capirmi.

«A che stai pensando?» La voce di Akito mi fece sobbalzare, sollevai lo sguardo con fare colpevole verso di lui.

«Stai digrignando…» Spiegò.

Neanche me n’ero accorta.

«Io… Beh… Pensavo che questo nostro… Neanche so come chiamarlo… Non è giusto per la persona con cui sto, né per quella con cui stai tu…»

«E’ vero.» Constatò, senza smuoversi di un millimetro da me.

«Hai da dire solo questo? Non sei neanche un po’ pentito?»

«Tu lo sei?»

«Te l’ho chiesto io, Hayama…»

«Beh… Sachiko e io… Tra noi è tutto poco definito. Quindi no, non sono pentito. Quanto al tuo tipo, è un coglione.»

«Ma come ti permetti?»

«Andiamo, Kurata. Non sarei qui se non lo fosse.»

«Guarda che sei stato tu a piombarmi in casa due volte, la prima perché mi hai sfondato la porta, la seconda perché hai suonato al campanello di casa mia con le budella tra le mani!»

«Non avevo le budella tra le mani. E comunque è chiaro che lui ti piace poco.»

«Ma che diavolo ne sai tu?»

«Kurata o ti piace poco o ti scopa male…»

A quel punto allungai le braccia sul suo petto e cercai di liberarmi dalla sua stretta, ma lui ovviamente, senza neanche sforzarsi troppo, mi mantenne a sé con un ghigno soddisfatto dipinto sul viso.

«Lasciami andare!» Urlai.

«Non ci penso nemmeno.» Fece divertito.

«Hayama, ti ho detto di lasciarmi!»

«Tu hai veramente un rapporto strano con la verità, Kurata. Lo sai? Ti fa irritare.»

«Forse perché questa non è la verità?»

«Hai ragione… Forse non lo è…  Forse è semplicemente che ti piaccio più io di lui.»

«Ma lo sai che sei veramente un pallone gonfiato?!»

«Però sei diventata rossa…»

La sua espressione tronfia m’indispettì più dello stupido calore che mi scoppiò in faccia.

«Hayama?»

«Cosa?»

«O dormi oppure…» Non riuscii a finire quella frase, non riuscii a dirgli oppure vattene via, o torna a casa, o semplicemente sparisci. Le parole mi si mozzarono in gola.

Forse a causa di quegli occhi che non volevano saperne di allontanarsi dai miei.

«Oppure?»

«Oppure ti…» I suoi occhi addosso mi confondevano sempre più, istintivamente chinai lo sguardo, gli fissai le labbra balbettando quel ti, trascinandolo come se fossi incapace di continuare quella frase.

«Vuoi ricominciare?» Fece lui, nascondendo una mano tra i miei capelli, attirandomi a sé premendomi sulla nuca.

«No, affatto! Dormi!» Urlai e affondai la testa sul suo petto, impedendomi di badare a quanto il mio corpo stesse vibrando per “ricominciare”.


*****


Quando mi risvegliai, di Hayama era rimasto solo il profumo sul cuscino e qualche capello castano che le sue mani avevano strappato via durante quei giochi ipnotici che le sue dita avevano improvvisato tra i miei capelli.

Pensai che mi fossi addormentata proprio così, ipnotizzata, con la sua mano tra i capelli.

Mi tirai su con flemme e mi guardai attorno come se non avessi mai visto quel posto, come se fosse diverso dalla stanza in cui mi ero addormentata con lui e avvertii uno strano senso di nausea alla bocca dello stomaco.

Gli occhi mi caddero su un foglio di carta poggiato sul comodino.

Ciao, Kurata.

Così c’era scritto, ma senza la sua voce mi parvero diverse quelle parole, più reali, più brutali.

Sapevano d’addio.

Mi lasciai andare sul letto e strinsi a me il suo cuscino. 

C’era un capello rosso sul mio polso, gli occhi mi caddero proprio lì.








Ciao a tutte!!!
Terzo capitolo arrivato, spero vi sia piaciuto e spero non vi abbia spiazzate e/o traumatizzate  troppo.

Lo so che non è da me, ma per questa volta non voglio dilungarmi troppo, soprattutto perché non vorrei commentare niente di quanto scritto per non influenzare le vostre opinioni.

Io mi rendo conto di sentire particolarmente questa storia e spero vi arrivi con tutta l’intensità che vorrei. <3
Detto ciò… Veramente taccio!

Come sempre un bacio speciale alle mie amichette preferite <3
E vi ringrazio tantissimo per aver letto questa storia e per avermi fatto sapere cosa ne pensate <3

A presto!
Lolimik





 



 




 





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Capitolo 4
*** Intermittenza ***


Capitolo 4 • Intermittenza




“…Ho conosciuto la felicità,
so cos’è,
posso parlarne con competenza,
e conosco anche la sua fine,
ciò che ne deriva di solito.
Un solo essere ti manca e tutto è spopolato,
come diceva quell’altro,
ma il termine ‘spopolato’ è proprio debole,
vi si sente ancora un po’ del suo XVIII secolo del cavolo,
non vi si trova ancora la sana violenza del romanticismo nascente.
La verità è che
 solo un essere ti manca e tutto è morto,
 il mondo è morto e sei morto tu stesso,
 oppure trasformato in una figurina di ceramica,
e anche gli altri sono figurine di ceramica,
isolante perfetto dal punto di vista termico ed elettrico,
a quel punto non può più succederti assolutamente niente,
 a parte i dolori interni
 provocati dallo sfaldamento del tuo corpo indipendente…”

Serotonina – Michel Houellebecq

 

 

 

 


 

 

Com’è che si mettevano in fila i pensieri? L’uno dopo l’altro, concatenati da logiche e associazioni precise o alla rinfusa?

Soprattutto cosa li muoveva? La curiosità o l’interesse?

Com’è che avveniva che di punto in bianco si pensava a qualcosa o a qualcuno? Serviva un oggetto che riaccendesse un’emozione? O forse un odore? O anche un ricordo, uno che magari arrivava così, mentre fai altro.

Mi resi conto che non lo sapevo più com’è che avveniva la cosa più elementare al mondo.

Dov’era la logica? La motivazione? Qual era la ratio?

Me lo domandai più volte mentre mi stringevo al cuscino su cui aveva dormito Hayama.

Soprattutto quand’è che io avevo smesso di farlo? Quando avevo cominciato a lasciarmi scorrere le cose?

Mi venne da dire che lasciarmi scorrere le cose era ciò che in quegli anni mi era riuscito meglio.

Era ciò che facevo per ogni cosa mi capitasse e con ogni persona che incontrassi.

Forse era per quello che avevo dimenticato cosa significasse pensare, soprattutto a cosa servisse.

Che poi a cosa serviva pensare?

Con Akito comunque non mi veniva, lasciarmi scorrere le cose, dico, o anche lui, perché, pur senza percepire, da quando era riapparso mi balenavano nella testa troppe domande, immagini senza logica né contesto.

Non ne venivo a capo, non me ne spiegavo il motivo.

Sbuffai un po’ e gettai sul pavimento il suo cuscino.

M’imposi di non pensare più ad Hayama, anche perché tutto quel pensare non portava a nessuna conclusione e soprattutto a nessuna sensazione.

Era solo un inutile spreco d’energie.

Forse aveva ragione lui, dovevo smetterla di pensare.

E forse aveva ragione Hisae, non dovevo lasciarmi scorrere le cose, ma dovevo rispondere a queste sul momento, vivere la vita così come veniva, senza rimuginarci troppo dopo.

Anche se si trattava di Akito Hayama.

Il punto era che dovevo riuscirci, soprattutto se il punto era l’unico punto che mi spingeva a non farlo.

Akito, quello ormai era assodato, avrei dovuto spedirlo lontano dalla mia testa e dalla mia vita, solo, mi resi conto, non era così semplice, dato che si divertiva a irrompermi in casa ogni volta in cui ne avesse voglia e il mio stupido corpo non collaborava affatto quando si trattava di rispedirlo lì da dov’era venuto.

Anche lui, poi… Perché faceva così?

Perché quella repentina fissazione con me quando erano trascorsi tutti quegli anni di morte apparente?

Io, poi, mica lo conoscevo più?

Perché chi era realmente non lo sapevo mica più, soprattutto, il fatto che avesse deciso di scegliere quella perversa maniera di sedare il suo senso di colpa, -ammesso che di quello si trattasse -  perché doveva essere un problema che riguardava me?

Quante cose gli erano capitate in quei quindici anni? Possibile che avevano tutte a che fare con me?

Lo trovai improbabile.

E poi, tra l’altro, fosse stato davvero così, non provavo neanche uno straccio di senso di colpa nel vederglielo fare. Solo disagio, quindi non avrei saputo certo aiutarlo.

C’era solo il buon senso che mi comunicava di tenerlo alla larga, ma di fatto la mia mente e il mio corpo se ne fregavano bellamente del buon senso e ogni volta che lui compariva il mio corpo lo voleva e quando lui non c’era la mia mente me lo riproponeva.

Quello poi, a onor del vero, la mia mente non si era mai stancata di farlo in quei quindici anni, però ecco, era molto più timida e compassata, agiva nell’intimo dei sogni, non mi assillava così come stava facendo negli ultimi tempi, così come stava facendo da quando Hayama aveva sentito un certo prurito e non aveva potuto fare a meno di comunicarmelo… Molto apertamente, con quella irruenza che chissà da quanto tempo era diventata una sua caratteristica.

E poi, a quel punto, mi chiesi, perché diamine pensavo così tanto a uno sconosciuto? Perché a conti fatti l’Akito Hayama che stavo rivedendo era a tutti gli effetti uno sconosciuto. Lui non aveva niente – o comunque molto poco – del mio Akito Hayama dodicenne.

C’era più sicurezza nei suoi modi di fare, più desolazione nei suoi occhi, ma certo, quel parlare per enigmi senza mai lasciarsi leggere gli era rimasto.

Immutato e fastidioso come innata caratteristica.

E io! Perché diamine gli avevo quasi aperto le gambe? Come mi era venuto in mente di dormirci insieme?

Ma soprattutto… Perché non l’avevo trovato così sconveniente, ma anzi non vedendolo accanto a me avevo quasi avvertito un inspiegabile senso di solitudine?

Quando ero diventata così malata? Ma poi, potevo ancora definire tutti quei miei atteggiamenti involontari, tutte quelle domande, malattia?

Se fosse stata malattia, comunque, mi parve chiaro che non doveva essere la mia, piuttosto qualcosa che mi aveva attaccato lui.

Maledetto.

Sbuffai sonoramente archiviando la questione in un punto tra la mia apatia e il mio vuoto interiore e mi tirai giù dal letto perché per la vigilia avevo promesso a mia madre che non mi sarei negata.

Mi aveva chiesto di pranzare insieme a casa sua, in quella stessa casa che un tempo definivo nostra, mia, della mamma, di Rei e della Signora Shimura e che col tempo, col lento scorrere degli anni e il lento ristagnare della mia malattia, aveva rimpicciolito sempre più il senso stesso di quell’aggettivo.

Ora che in quella grossa casa rimaneva solo mia madre, ora che era diventata solo casa sua, entrarci mi metteva addosso uno strano senso d’inappartenenza.

Forse perché mia madre, negli anni, aveva perso il brio dei suoi colori, i suoi copricapi strampalati, le sue risate chiassose, l’armonia della sua casa e la vitalità di quelli che la popolavano e aveva sostituito tutto con un grigio plumbeo che se l’era divorata a poco a poco.

Non saprei dire con esattezza quando successe, a me parve di ritrovarmela così, sola e grigia in una grande casa, di punto in bianco.

Eppure doveva esser stata una cosa lenta, covata dentro, e giorno dopo giorno, lentamente, era venuto giù tutto, pezzo per pezzo, come intonaco colorato raschiato via da della muffa.

Mia madre era sola. Aveva escluso dal suo mondo tutto e tutti eccetto me, il mio problema e il suo lavoro.

La sua solitudine, però, era diversa dalla mia.

La mia era volontà, non conosceva né disagi né sofferenze.

La sua era conseguenza, conseguenza di quel mio problema che ormai invadeva la sua mente come un’indomita ossessione che l’accecava, che le raschiava da dentro rendendola ruvida e impenetrabile all’esterno.

Certe volte, quando ricordavo la mia infanzia, quando ricordavo quella che era stata la mia mamma profumata di colori e la confrontavo con quel che mi restituiva la sua immagine da adulta, mi convincevo del fatto che fosse partita una notte in gran segreto per un viaggio intorno al mondo alla ricerca di un antidoto portentoso da consegnarmi come un graal, lasciandomi un suo clone maldestro nell’attesa del suo ritorno.

Presto o tardi tornerà con il suo antidoto, mi dicevo, e nel frattempo mi ero limitata ad essere condiscendente con quel clone che aveva l’aspetto di mia madre.

Nevicava quella mattina e i mezzi pubblici erano in tilt, così le inviai un messaggio chiedendole di spostare il nostro appuntamento da casa sua a casa mia, in fondo lei aveva un auto e un autista, ma rifiutò categoricamente dicendomi che sarebbe stato meglio un ristorante che era a metà strada tra le nostre abitazioni.

Lei non amava casa mia e non ne faceva mistero, mi aveva sempre detto che le metteva addosso disagio e tristezza, così come mi aveva detto che avrebbe voluto tornassi a vivere con lei perché sapermi sola in un appartamento lugubre e spoglio, pieno zeppo di condomini eccentrici come il mio, non la faceva stare tranquilla.

Io, ovviamente non commentavo, erano ormai tre anni che vivevo lì e avevo sempre pensato che quella fosse stata la scelta più saggia che avessi fatto negli ultimi quindici anni.

A me casa mia andava bene, spoglia o no. Era una dimensione solo mia che mi tranquillizzava, saperla sudicia, inappetibile e invalicabile mi metteva addosso anche una maggiore serenità.

Mi chiesi perché Akito o la stessa Hisae non l’avessero mai considerato un limite quel mio barricarmi in un posto simile, ma poi lasciai perdere, quella mattina non volevo più avere altri pensieri per la testa, già bastava mia madre.

Mi diede appuntamento al “Kodocha” un posto che entrambe conoscevamo molto bene perché mi ci portava spessissimo da bambina, soprattutto quando dovevamo festeggiare qualcosa d’importante per la sua carriera o la mia.

Mi ricordo che da piccola amavo quel posto perché era colorato e aveva l’odore dello zucchero filato e quell’odore io l’avevo sempre associato a lei.

Quando arrivai lì mia madre non c’era ancora, pensai di aspettarla all’interno perché quel giorno la neve gelava le strade e imbiancava le auto e gli ombrelli della gente che trafficava per strada, rendendo il panorama cittadino molto simile a come avrei voluto che fossero i miei pensieri.

Mi misi comoda e pensai che nonostante il passare degli anni, tutto lì sembrava rimasto fermo alla fine della mia infanzia, erano cambiate solo le facce dei gestori.

Mentre una cameriera mi salutò in un sorriso, sperai che per quel giorno, da quella porta, entrasse la mia vera mamma, anche senza quell’inutile antidoto.

«Aspetti da molto, tesoro?»

La guardai per un istante nel suo cappotto rosso, quasi mi convinsi fosse lei, poi se lo sfilò di dosso e si mise a sedere difronte a me. Mi restituì il solito sorriso nervoso nel suo solito abito grigio, più grigio del suo viso, e capii che la vera lei doveva essere ancora in viaggio.

«Sono appena arrivata…»

«Ma lo sai che sei molto bella oggi, tesoro?»

Mi riguardai un po’ seduta su quella sedia, non vidi qualcosa di particolare nel mio look, avevo i soliti piatti capelli castani, un semplice maglioncino verde e dei pantaloni neri.

«No, no, parlavo del viso, sei radiosa, sai?»

Mi strinsi nelle spalle, pensai che molto probabilmente era merito di tutte quelle cremine con cui Hisae m’impiastricciava la faccia ogni sera.

«Bene, sono contenta.» Commentò prima d’inforcare gli occhiali e sprofondare nel menù.

Quando era diventata così cieca da aver bisogno di lenti per la presbiopia? Da qualche parte avevo letto che cominciasse a colpire dopo i 40 anni e mi resi conto di non essermi mai accorta che anche lei avesse cominciato ad usarle.

«Da quando porti gli occhiali?»

«Mi servono solo per leggere. Ormai non metto più a fuoco le cose vicine. La tua mamma non è più così giovane, sai?» Fece e scoppiò a ridere, ma non era la sua vera risata.

Era a disagio con me, quella era una cosa che io avevo a fuoco da tempo ormai e con cui convivevo senza pormi troppe domande.

Mangiammo ramen e bevemmo acqua frizzante, le chiesi del suo libro e lei mi chiese dei miei incontri con la dottoressa Naoki, le chiesi del dei suoi programmi per capodanno e lei mi chiese perché non avessi voglia di trascorrerlo con lei piuttosto che perdere tempo dietro alle stramberie di Hisae, poi le parlai del mio lavoro e lei mi chiese di quello di Naozumi.

«Non ti ha mai chiesto di ricominciare?»

«Lo sai che lo fa.»

«Bravo ragazzo.» Commentò, attirando poi l’attenzione di una cameriera. «L’attrice, sei nata per fare l’attrice.» Concluse.

«Ordiniamo altro, ti va?» Me lo chiese quando ormai aveva già considerato l’idea di farlo a prescindere da una mia qualsiasi risposta e sospirai lievemente. Volevo solo che quel pranzo finisse alla svelta.

Avrei mangiato senza fare troppe storie qualsiasi cosa e sarei tornata a casa mia, sotto le coperte.

La vidi ordinare un tonkatsu per me e un chashu per lei, una diet coke per me e del vino rosso per lei e mi venne da pensare ad Akito.

«Ho rivisto Akito.» Le dissi guardando la cameriera allontanarsi.

Lei mi guardò stirandosi un po’ troppo il tovagliolo sulle gambe. «Sì… Me l’avevi detto. Com’è? Carino?»

Me lo chiese, ma mi sembrò poco desiderosa di ricevere una vera risposta, si limitò a guardarsi un po’ intorno senza prestarmi troppa attenzione.

Io, da canto mio, mi strinsi nelle spalle, pensai che in effetti se fosse carino ancora non me l’ero chiesto. Certo il mio corpo lo trovava irresistibile.

«Ho rivisto ancora Akito.» Precisai.

«Quando?» Mi parve irrigidirsi, si tolse gli occhiali e li poggiò su un lato del tavolo.

«Tre settimane fa, è venuto a casa mia e mi ha preparato la cena… E poi stanotte…»

«Stanotte?»

«Già. Ha dormito da me.»

A quel punto mia madre –o forse il suo clone- mi sembrò ingrigirsi più di quanto già lo fosse, mi chiesi se qualche circuito difettato non le stesse spuntando fuori dagli occhi perché mi accorsi che mi fissarono intermittenti, come se di tanto in tanto emettessero dei segnali di scarsa ricezione.

La cameriera arrivò al tavolo con le nostre bibite e mia madre si versò da bere senza lasciar andare una parola.

«Ce l’ho costantemente nella testa… Non sono sicura, forse non è saggio per lui, però… Penso che mi faccia piacere vederlo.»

«Io penso che sia una perdita di tempo.»

«Dici?»

«Dico.»

«Beh, io…»

«E’ duro di comprendonio quello là. Lascialo perdere.» Me lo disse quasi come se stesse dandomi un ordine, con un tono fermo, intransigete, guardandomi dritta in faccia senza alcuna intermittenza negli occhi.

«Buono questo ramen, vero?»

Quelle sue parole mi parvero stridere con la volontà che io avvertivo di parlargliene, corrugai la fronte fissandomi il ramen nel piatto, avrei voluto aggiungere altro ma mi limitai ad abbozzare un cenno poco convinto e non parlai più.

Per quanto ne avvertissi un oscuro bisogno, mi resi conto che non avrei dovuto parlare di lui a nessuno che non fosse Hisae, ma lei non era con me e io sentivo la testa scoppiare, dovevo pur dirlo a qualcuno che lui mi rombava nella mente come un motore fastidioso che m’impediva di sentire altro.

Non seppi dire se quel bisogno avesse a che fare con la paura. Lui non mi spaventava affatto, forse però tutto quel pensare a lui stava cominciando a spaventare me, altrimenti perché quella strana esigenza?

Mi concentrai sull’aspetto di alcuni clienti, sperai di trovare qualche dettaglio interessante su cui soffermare la mia attenzione, ma non c’era nulla di così potente da assorbirmi e reimmettermi al centro della mia apatia, neanche il copricapo storto che indossava la cameriera che ci svolazzava di fianco a ritmi regolari.

Lasciai andare un lungo sospiro e puntai ancora l’attenzione su mia madre che mangiava fissandomi il piatto ancora pieno di ramen.

«Devi mangiare.» Mi disse e io pensai che l’unica cosa che sentivo di dover fare era sapere cosa intendeva lei con quelle strane parole.

«Che vuol dire?»

«Che hai bisogno di nutrirti, mi sembra ovvio.»

«No. Che intendi con è duro di comprendonio?»

Mia madre mi guardò rigirandosi il calice di vino tra le mani, si mise meglio sulla sedia e ne mandò giù appena un sorso.

«Due anni e mezzo fa, quando è tornato da Los Angeles, è venuto a cercarti a casa nostra, sai? Penso sia la prima cosa che ha fatto dopo aver rimesso piede in questa dannata città.»

Quella notizia mi destabilizzò, fissai la mano anellata di mia madre stringere il calice con una certa intensità. Le erano sempre piaciuti gli anelli con le pietre turchesi o i rubini, mi chiesi quand’è che aveva cominciato a mettere le fasce dorate.

«Ho chiesto ad Hayama di tenersi alla larga da te.»

«E perché?»

«Era malconcio… Tu stavi frequentando Naozumi da poco e dopo tutti quegli anni avevi cominciato ad avere una sorta di stabilità.»

«Ma… Che gli hai detto?»

«Ma niente di che… Che avevi passato un periodo difficile ma che ora stavi bene ed eri felice al fianco di un’altra persona.» Lo disse come se stesse sciorinando la lista della spesa, mentre si riguardava il vino nel bicchiere con aria di sufficienza, quasi come se stesse parlando di un cencio vecchio, una faccenda che meritava meno attenzione delle caratteristiche di un vino rosso. «Un tempo qui il vino era migliore.» Commentò.

«Cos’altro gli hai detto?»

«Che sbucare così all’improvviso non sarebbe stato corretto da parte sua… Considerando anche il modo in cui se n’è andato.»

Sentii un lieve contraccolpo, come se per un istante l’aria non mi arrivasse ai polmoni. Pensai a Hisae, a Fuka, al fatto che con ogni probabilità lei non avesse affatto parlato ad Akito di me.

«Mamma ma perché mi hai fatto una cosa simile?»

«Andiamo Sana, eravate solo due ragazzini.»

«E allora perché gli hai mentito?»

«Per quanto sia certa delle mie convinzioni, era un’incognita che dovevo arginare, mi dispiace.»

«Un’incognita? Mamma è di Akito che stiamo parlando, non è un’incognita, lo hai sempre saputo chi era per me!»

Mi resi conto che quel discorso, cominciato con voce tremante, quasi incerta, si era indurito non appena le mie labbra avevano pronunciato il suo nome, non me ne accorsi neanche, ma di fatto le urlai addosso attirando l’attenzione di alcuni commensali.

«Abbassa la voce…» Disse, e finalmente mise in tavola quel bicchiere, guardandosi intorno in un risolino colmo di disagio. «Non gli ho mentito.»

«Non gli hai mentito?»

«Oh senti! L’ho fatto per il tuo bene e poi mi sembra che tu abbia una tua vita tranquilla e una relazione stabile con un uomo che ti ama.»

Io non dovevo avere percezione dei miei sentimenti, né delle mie emozioni, ma a quel punto mi parve chiaro che mia madre non aveva alcuna percezione di me.

Mi portai una mano ad accarezzarmi il collo, quella situazione, quella conversazione mi stavano agitando, mi sembrava di non riuscire a incamerare aria dalle narici, sentivo il mio respiro nella bocca e cercai di acciuffare una certa padronanza in un sorso d’acqua, mentre mia madre seguitava a guardarmi con l’aria di chi aveva una visione molto più lucida su un piano che andava ben al di là della mia comprensione.

«Mamma, rispondimi onestamente, pensi che io sia felice?»

«Hai una stabilità, mi pare, no?»

«Mi rimpinzo di farmaci, riempio alla rinfusa degli inutili questionari per una terapeuta e ho una relazione con uomo egocentrico e distratto che mi nasconde al mondo intero per non avere rogne. Ti sembra una stabilità questa?»

«La Dottoressa Aoki non piace neanche a me, la cambieremo. Quanto a Naozumi lo fa per il tuo bene, abbiamo pensato che non è positivo esporti ai media così.»

M’immobilizzai del tutto a quelle parole. Ma gli occhi sembravano schizzarmi ovunque, la studiarono attenti come mai avevano fatto prima di quel momento e registrarono frenetici ogni suo micromovimento. Beveva ancora quel vino rosso costoso che strideva con la diet coke che per quella volta mi aveva concesso, forse solo perché era un giorno di festa.

«Lo sai che non sono più la tua bambina?»

«Sana, piantala, stai facendo una scenata! Noi ti vogliamo bene, ti proteggiamo e sappiamo cosa sia giusto per te! Caspita! Io lo so, sono tua madre.»

Piegai un po’ la testa su un lato e strizzai gli occhi, come se stessi cercando di vedere anche io quel piano senza macchie né incognite che mia madre e il mio fidanzato avevano orchestrato per me, povera stupida vittima di un’apatia da cui loro volevano solo salvarmi. Ma non ci riuscii. Lessi solo del terrore negli occhi vitrei di mia madre che mi scrutavano con qualcosa di oscuro e incomprensibile, con quel possesso morboso e ingombrante che fino a quel punto non ci avevo mai riconosciuto dentro.

«E cos’altro avete deciso insieme tu e Naozumi per il mio bene, sentiamo?» Glielo chiesi senza neanche guardarla in faccia, con lo sguardo vuoto, fermo chissà dove su qualcosa alle sue spalle, come in trance.

«Non voglio che tu lo veda più, ci siamo intese?»

«Certo, poi che altro?»

Forse ci lesse dentro del sarcasmo in quelle mie parole, e forse c’era davvero, ma a quel punto non controllavo più nulla, avevo lasciato andare mente e corpo, vedevo solo una donna che non era mia madre muovere le labbra in un tremolio nervoso.

«Esamino io i tuoi medici a uno a uno, so io cosa hai attraversato a causa sua e soprattutto so io quanto è stato duro passare questi ultimi quindici anni a guardarti sprofondare e ridurti sempre peggio! Quindi adesso non permetto a nessuno di arrivare dalla preistoria e fare il bello e cattivo tempo! Ora fai quel che dico io, intesi?»

Ancora quella parola, schiusi un po’ le labbra nel sentirglielo dire. «Preistoria…» Mormorai. «Anche Hisae l’ha chiamata così.»

«Bene, per una volta io e quella strana ragazza sembriamo esser d’accordo.»

Non mi venne neanche da dirle che Hisae ormai non sarebbe stata affatto d’accordo con lei, non avrebbe capito, avrebbe frainteso e forse neanche m’importava capisse.

A quel punto, come se fossi tornata in quel posto, difronte a lei, a quel tavolo ricolmo di cose che non avrei voluto, la guardai dritta in faccia ricordandomi il viso di Akito, il suo sorrisetto furbo, la sua bocca sulla mia e le sorrisi reggendomi il viso con una mano.

«Avrei tanto voluto fare l’amore con lui stanotte…» Sussurrai.

Quella notizia proprio non le andò giù, la vidi perdere il suo aplomb, sbarrare gli occhi mettendo a tacere un improperio che una donna come lei non poteva lasciarsi sfuggire in un luogo pubblico e mi pizzicò con forza la mano che poggiavo sul tavolo, ma io neanche mi mossi, neanche provai dolore o fastidio.

Ormai, la pellicola che tanto amavo mettere addosso agli altri, l’avvolsi anche su di lei.

Non mi arrivava.

«La sai una cosa, mamma? Quando io e Naozumi facciamo l’amore non sento niente e l’unica cosa che penso è “Quando finisce tutto questo?” Però, quando stanotte Akito mi toccava, quando mi baciava e io non provavo nient’altro che il piacere di sentirglielo fare, mi sono scansata perché non potevo stare con lui senza sentirlo come avrei voluto.»

«Smettila, mi stai solo provocando.»

«Per ogni volta in cui l’ho visto, non ho saputo acciuffare neanche uno straccio di emozione, e mi ha disturbata. Lo capisci questo cosa significa, mamma?»

«L’unica cosa che capisco è che da quando mi sono seduta mi sto chiedendo per quale motivo mia figlia ha delle bende sul polso e ora mi sto chiedendo come la donna che ho cresciuto possa tradire gli altri senza neanche mostrarsi pentita.»

«Chi sarebbero gli altri, spiegati meglio.»

«Come chi sarebbero? Naozumi e me! Ti rendi conto che ti è bastato rivederlo solo tre volte per peggiorare in questa maniera?»

«Quattro…» La corressi e mi venne da sorridere, soprattutto mi vennero in mente le parole della Dottoressa Aoki. Se quel mio tacere nel suo studio era stata una reazione, ora che parlavo così a mia madre, ora che finalmente guardavo qualsiasi cosa mi stesse capitando -per merito, o a causa, di Akito- da una diversa angolazione, con quella prorompente indolenza, potevo ritenerla una reazione?

«Ti rendi conto che dopo quindici anni sto reagendo a qualcosa?»

«Nel peggiore dei modi!»

«Può darsi…» Le dissi, eppure, seduta a quel tavolo difronte a lei, per la prima volta dovetti ammettere a me stessa che rivedere Akito era stata l’unica cosa che mi aveva bombardato la mente dopo un sonno di quindici lunghi anni.

«Ma mi sto ponendo delle domande.»

«Dunque, mi stai dicendo che la risposta è Akito Hayama?» C’era astio e ironia nella sua voce, nell’increspatura che la bocca fece per fissarsi sulla emme del cognome di Akito e ancora a me venne da sorridere.

«Non avrei saputo dirlo con parole migliori, mamma.»

Non sapevo onestamente se fosse così, non lo sentivo chiaro quanto meno, perché nonostante le domande io non avevo né risposte né percezioni, ma volevo che lei comprendesse l’ampiezza di quel discorso, a prescindere da Akito. Era più una cosa che riguardava me e lei. Lei e quell’irrispettoso e ingombrante amore che mi gettava addosso e che rendeva quel legame una colpa.

A spezzare quell’assurdo gioco di sguardi, ci pensò la cameriera con l’ordinazione di mia madre. La ragazza si chinò al tavolo in un sorriso che presto, incrociando l’aria tesa che intercorreva tra me e il clone di mia madre, si dipinse di disagio.

«Da oggi ti trasferisci da me. Tornerai a casa tua quando Naozumi rientrerà da New York.» Concluse, affondando una bacchetta nel suo chashu. «Ora mangia.»

Neanche le risposi, mi riguardai con disgusto quel tonkatsu nel piatto, erano anni ormai che non riuscivo più a mandare giù il maiale, ma non avevo mai ritenuto necessario informarla.

Così non lo feci neanche quella volta, a cosa sarebbe servito? Era chiaro che non avrebbe ascoltato, che non le sarebbe importato.

Mi alzai di scatto e m’infilai il cappotto. Mia madre mi fissò impreparata, senza riuscire a connettere parole e ragionamento.

«Ciao, mamma.» Le dissi semplicemente quello, prima di prendere la porta e uscire da quel posto.

Mia madre non si mosse dalla sua sedia, non la vidi varcare la soglia di quel locale, ma seguirono innumerevoli telefonate a cui risposi secca con un unico stentoreo messaggio.

“Mi faccio sentire io, ho bisogno di tempo per riflettere su alcune cose.”

Pensai che quel verbo, riflettere, non lo usavo da parecchio tempo.

Vidi passare un taxi, mi venne in mente di chiamarne uno, così, quando arrivò, mi ci infilai alla svelta e sparì nel gelo di quella città.

 

*****

 

Quando scesi dal taxi e feci per bussare al campanello di quell’appartamento incastrato in un lussuosissimo complesso residenziale, stentai a credere che fossi proprio la stessa Sana che quel mattino aveva lasciato casa mia.

L’alterco con mia madre mi aveva galvanizzata, mi aveva addirittura spinta a inviare quel messaggio a Hisae solo per ricevere quell’indirizzo, consegnarlo al tassista e arrivare lì.

Non sapevo neanche se in quell’appartamento ci avrei trovato realmente qualcuno ma lasciai correre, affidai tutto al caso, ai movimenti del mio corpo guidati precisamente dal confluire dei miei pensieri su quell’unica ingombrante sagoma.

“Che hai intenzione di fare?”

Guardai la notifica di quel messaggio della mia migliore amica e scelsi d’ignorarlo, mi sentivo addosso una frenesia che non avevo intenzione di sprecare.

Quando quella porta si aprì i suoi occhi si sollevarono in una scia luminosa seguiti istantaneamente dal suo sorriso.

«Dio mio! Che piacere!» Urlò vedendomi su quella porta. «Qual buon vento?»

«Scusami… Io… Devo parlarti, posso entrare?»

Fuka si guardò l’orologio al polso. «Certo, tra un ora però devo uscire.» Così mi disse e mi fece cenno di seguirla.

Il suo appartamento era ampio e luminoso, ma freddo.

Pieno zeppo di quadri con uomini con le facce da animali incastrati in decori geometrici alle pareti, trovai quasi grottesca tutta quella perfezione.

Mi fece accomodare sul divano in pelle scura del salotto e s’avviò in quella che ipotizzai fosse la cucina. Io persi buona parte del mio tempo a fissare quei quadri.

Uno che raffigurava una donna opulenta con la faccia da piccione mi catturò davvero tanto, mi chiesi quale delle due parti avesse insidiato l’altra, era un piccione o una donna? Era la natura umana o quella animale a scimmiottare l’altra?

Mi persi in quel ragionamento per un po’ quando la vidi entrare nel salotto con dei biscotti e del tè servito in porcellane pregiate, sicuramente appartenenti a un antico servizio di famiglia.

«Non dovevi scomodarti, io non mi tratterrò molto.»

«Ma no! E’ che stanno arrivando i miei da Osaka, devo andare a prenderli in stazione, comunque il tempo per bere un tè insieme c’è, tranquilla.» Spiegò, mentre io mi chiesi quando questi fossero tornati nella loro città d’origine, io non ne sapevo assolutamente nulla.

A conti fatti non sapevo nulla della vita di Fuka, ma in quel momento non m’interessò poi molto scoprirne i particolari.

Particolari che sicuramente lei non reputava tali, dal momento che a quel punto cominciò a darmene notizia con un certo tono d’importanza.

«I miei sono tornati a Osaka cinque anni fa perché l’azienda per cui lavora mio padre l’ha richiamato in sede, io invece sono rimasta a Tokyo… Sai con l’università…»

«Immagino…»

«Beh lo so che domani è Natale e avrei anche potuto raggiungerli, ma sai, col mio lavoro il tempo non basta mai, tra un paio di giorni ho una causa importante e… Dio! Spero andrà bene, sono così agitata.»

Non lo so se era la mia frenesia, ma lessi in quelle parole una volontà d’importanza che non avevano, come se stesse informandomi che la sua vita, a dispetto della mia, le dava delle soddisfazioni, la mantenesse attiva e impegnata.

Le regalai un sorrisetto di circostanza. «Sei sempre la stessa, non sei cambiata di una virgola.»

«Già, sempre piena d’interessi, piena di cose da fare, piena d’impegni ma anche di soddisfazioni, ho una vita piena, sì, lo ammetto.»

Mi sembrò stesse rimarcando quel “piena” volutamente, continuai a notare nel suo parlare un fastidioso sottotesto che sapeva di rivalsa. E in effetti, presentandomi lì da lei così, nel giorno del suo compleanno, il sapore di quella rivalsa, che a conti fatti non sapevo neanche su quali basi sussistesse, un po’ dovevo averglielo dato.

«Beh… Vado subito al sodo, allora.»

«Oh, sì, dimmi pure… Mi ha fatto così strano vederti arrivare all’improvviso, non che mi dispiaccia, figuriamoci, però sì… Ecco… In genere, da quando hai smesso di fare la star, te ne stai sempre per conto tuo… Al massimo senti Hisae… Quindi…» Fuka lasciò cadere il discorso lasciando che traessi io le lecite conclusioni, mi sorrise con aria innocente e si mise comoda sul divano. La vidi sorseggiare del tè e rimase in attesa delle mie parole.

«Sei andata a letto con Akito un anno fa.»

La sua espressione a quel punto cambiò, sbarrò gli occhi e quello sciocco risolino le si cancellò dalla faccia. «Beh…» Sussurrò cercando di acchiappare un’espressione da appiccicarsi in faccia. «Io veramente…»

«Non è una domanda, sta tranquilla. La domanda è perché?» Glielo chiesi inespressiva, senza alzare il tono e senza nessun nervosismo, non era quello che mi aveva spinto fino a lei, anzi, a conti fatti non provavo niente, né gelosia, né delusione, neanche un senso di tradimento, era altro il motivo che mi aveva spinto in quella casa.

Fuka era evidentemente a disagio, in effetti, provando a mettermi nei suoi panni, non doveva essere una situazione facile neanche per una come lei. Si chinò in avanti dandosi del tempo, con una certa flemme posò la tazza di tè sul vassoio senza mai guardarmi in faccia. «Beh… Sana… E’ successo una sera e non eravamo propriamente…»

Stava cercando nervosamente di trovare le parole, una linea di difesa preventiva e io pensai non fosse un avvocato poi così brillante.

«Te lo ripeto. Perché?»

«Ma…ma perché… Non lo so… E’ capitato. E poi senti, ancora con questa faccenda Sana Kurata e Akito Hayama? Andiamo… Eravate dei ragazzini! Non pensavo mica di farti torto?»

«Non mi hai fatto torto per questo, per me ti puoi scopare chi ti pare.»

Quella mia risposta dovette farle guadagnare terreno, infatti mi guardò dall’alto in basso in un’espressione sarcastica. «E allora per cosa? Sei venuta fin qui per dirmi che non ti dispiace?»

«No, affatto. Sono venuta qui per chiederti perché, anche dopo quindici anni.»

«Ah… Quindi vuoi sapere perché a 27 anni mi sono portata a letto il nostro fidanzatino delle medie? O perché sono stata ancora una volta più sveglia di te?»

Pensò di certo di avermi colpita, in realtà, da canto mio, ero imperturbabile, me ne rimasi lì seduta sul suo divano a fissarla inespressiva, come un automa. «Sei veramente fuori strada, ti ripeto che di Akito non m’importa affatto.»

«E allora che cazzo vuoi?»

La rabbia, eccola che le apparve sulla faccia, nel tono della voce, nel corpo così proteso in avanti.

Mi chiesi da dove le arrivasse e pensai fosse una sorta di logica difesa delle menti deboli.

Poi però pensai ad Hayama, volli convincermi che non ci fosse realmente della rabbia nella sua strana perversione.

Non avrei mai saputo immaginargli in faccia l’espressione che Fuka aveva in quel momento.

«Allora?»

«In questi anni, per ogni volta in cui ci siamo riviste, non hai fatto altro che guardarmi dal tuo piedistallo e sbattermi in faccia quanto fosse sgradevole l’immagine che restituivo di me stessa, quanto fossi stupida nell’accettare lavori così poco edificanti, lavori per cui a tuo dire “ero sprecata”.»

«E te lo ribadisco!»

«Mi hai dato dell’involuta semplicemente perché non ti andava di vedere che sono depressa?»

«Credi che io ti abbia detto quelle cose per un senso di rivalsa su di te?»

«Sarebbe meschino, ma lo stai dicendo tu.»

«Io cercavo solo di aiutarti!»

«E come? Evidenziando l’ovvio e ignorando l’evidenza?»

«Non ho mai evidenziato né ignorato un bel niente, e lo sai!» Urlò e ancora le lessi in viso quella rabbia.

«Dimmi, Fuka, tu che scusa hai per non esser riuscita ad andare avanti? O… parafrasandoti… Che scusa hai per esserti involuta tanto?»

A quel punto, Fuka alzò le mani in segno di resa scuotendo un po’ il capo con fare disgustato.

«Tu sei molto malata, Sana. Veramente.»

Negazione dell’accusa e offesa della controparte. Procedura logica per una mente debole… O per un avvocato mediocre.

O forse ero io che avevo visto troppi psichiatri o troppi polizieschi.

«Certo, sono malata, mica dico il contrario. Il fatto è che però mi sento anche stupida se penso che a 12 anni sono caduta in un sorta di catalessi per dei sensi di colpa nati dall’assurda convinzione di aver rubato il ragazzo alla mia migliore amica.»

«Questo è ridicolo! Ora vuoi farmi credere che hai perso le espressioni per colpa mia? Rinfrescati la memoria, cara mia, sei caduta in catalessi perché Akito ti stava lasciando per trasferirsi a Los Angeles!»

Arringa d’effetto con prove schiaccianti. La rabbia era sparita, ora semplicemente gongolava nel farmelo notare e si vedeva nel suo sorriso sfacciato, nel rigonfiamento creatosi sotto le palpebre mentre atteggiava l’espressione soddisfatta di chi sapeva di non poter subire alcuna replica.

«Certo, ma molti dei miei sensi di colpa nascevano anche da te. Io mi ero innamorata del ragazzo della mia migliore amica, o meglio, mi hai fatto credere che te lo stavo rubando, ma è giusto dire così?»

«Beh… Se non fosse stato per Tsu… Mica sapevo cosa avevate passato prima del mio arrivo?»

«Perché tu avevi bisogno di Tsuyoshi? Vuoi farmi credere che la mia migliore amica, quella sveglia, molto più sveglia di me, non era stata sveglia al punto da rendersi conto anche senza le parole di Tsu che tra me e Akito ci fosse qualcosa?»

«Ovvio che lo avevo intuito, ma poi mi sembra di esser stata chiara, mi sembra che alla fine di tutto “non devi sentirti in colpa” è proprio quello che ti ho detto in quel parco.»

«No, è quello che hai sotteso, perché in verità mi hai solo rimbalzato con una domanda…»

«Già, ma è la stessa cosa comunque...»

Avevamo parlato a raffica, senza mai sovrapporci, immobili nelle nostre posizioni. Io lievemente rivolta a lei, nel fondo del divano, con le braccia che mi ricadevano inermi ai lati delle gambe, lei totalmente spostata in avanti, sul bordo, con le mani incrociate strette alla vita.

Però, pur nella nostra simile immobilità, c’era una differenza tra noi che forse a me parve irrilevante, ma che lei percepiva silente e che doveva agitarla.

Rimase ferma, rivolta a me senza però mai protendersi verso di me, i miei occhi non le restituivano nessuno sguardo di rimprovero, non le chiedevano niente se non di guardarla, i suoi viaggiavano inquieti, pronti a scovarmi dentro un impercettibile movimento, mi parve quasi lo stessero elemosinando.

Ma non mi mossi, neanche assecondai il prurito che il maglione stava cominciando a suscitarmi attorno al collo.

«Te lo ricordi in quel parco, sulle altalene? Io volevo scusarmi, tu però mi hai guardata in faccia e mi hai chiesto “Hai fatto qualcosa di sbagliato?”»

«E’ la stessa cosa.» Ripeté.

«Allora puoi davvero ammettere che neanche una parte di te abbia formulato quella frase senza il punto di domanda?»

 E a quel punto la vidi sprofondare sul divano in un gran sospiro, mi fissò con uno sguardo fermo, denso di collera.

«No.» Ammise.

Abbozzai un lieve cenno soddisfatto e mi passai una mano sul collo ad allargarmi il maglione, mi accorsi che ero fredda e al contempo sudata e mi chiesi se il mio corpo stesse tentando di dirmi qualcosa.

«Ecco... Allora cosa volevi dirmi per davvero?»

«Bene… Se la metti così… A me lui piaceva, lo avevo capito che eravate cotti l’uno dell’altra, ma non volevo vederlo, non volevo ammetterlo... E quando ti ho vista ritornare, quando ho capito che te lo saresti ripresa… Ti ho odiata, perché tu non te lo meritavi.»

«Ti è uscito, finalmente.»

«Già, non te lo meritavi... Tu non te lo meritavi e non lo meriti. Dio mio! Non sai che soddisfazione stia provando nel dirtelo.»

Avrebbe anche potuto evitare di sottolinearlo, perché si vedeva. Pensai che per la prima volta da quando avevo messo piede lì dentro stesse sentendo il pavimento di casa sua mantenerle il divano.

Mi chiesi quanto le fosse pesato addosso quel sentimento covato per quindici lunghi anni e che le veniva fuori stonato solo attraverso quelle umiliazioni pregne di un significativo sotteso che di tanto in tanto mi dedicava.

Forse a quel punto un po’ la capii e al contempo mi fece tenerezza.

«Lo immagino e sono contenta, in fondo.»

«Ah sei contenta? L’ho detto e lo ribadisco, sei da neuro!»

«Vedi, Fuka, io lo so, non ho mai capito niente con chiarezza, non c’entra solo la malattia. Io… Sono confusa di natura e anche da ragazzina, quando ancora non ero malata, se non fosse stato per te, non avrei mai capito neanche i miei sentimenti per Akito.»

«Esatto, per quello non lo meritavi. Io invece lo sapevo quello che provavo, sono sempre stata più sveglia di te, ed è per questo che ho agito, prima ancora che tu capissi, perché non volevo sentirmi in colpa.»

«E allora, perché… Perché non mi hai semplicemente detto che non c’era nessuna colpa nell’essere confusi? Perché non mi hai mai detto che il mio senso di colpa era immotivato perché eri tu quell’amica sveglia che non avrebbe dovuto approfittare della mia sbadataggine e della mia assenza per agire?»

«Andiamo… C’erano tutte quelle notizie su te e Kamura…»

«Avresti dovuto aspettarmi, soprattutto per te stessa.»

«Sana… Ma veramente? Ero solo una ragazzina… Ma poi, che cazzo serve rivangare così il passato?»

«Perché non mi hai mai scagionata da questo senso di colpa?»

«Perché non mi piaceva l’idea di uscirne così sconfitta, ecco. E perché ero solo una sciocca ragazzina di 12 anni e perché non capisco neanche perché ne stiamo riparlando a 27!»

«Perché io sto aspettando queste parole da quindici anni… Ma tu fino ad oggi hai preferito umiliarmi anziché dirmele.»

«Questo cosa c’entra con oggi? E tra l’altro, non so cosa ti abbiano riferito, ma io e Akito siamo stati insieme una sola volta un anno fa durante una festa.»

«Già… Mentre io ero altrove. Di nuovo.»

«Piantala! Tu non hai l’esclusiva su una persona che non vedi da quindici anni, sei veramente fuori luogo, tu e questa ridicola scenata di gelosia!»

«Non è affatto una scenata di gelosia, dovevo solo saldare un conto. Per quanto mi riguarda adesso puoi farti chi ti pare.»

A quel punto mi alzai e lei mi fissò interdetta, era chiaro che, nonostante avessimo parlato, non avesse capito a pieno il senso della mia presenza lì.

Ancora una volta quella volontà di affermarsi come donna migliore di me però, le si presentò prepotente sulla bocca.

«Penso che lo farò, sai? E’ stata una scopata indimenticabile.» Tuonò.

E a quel punto, senza neanche capire come, le mollai un violento schiaffo.

Mi venne da ridere nel guardare la sua faccia sorpresa, i suoi capelli rivoltati su un fianco. Mi venne da ridere perché pensai che quello schiaffo avrei dovuto darglielo molti anni prima.

E mi sentii stupida.

Poi, come se niente fosse, scrollai le spalle e fissai ancora i suoi quadri.

Erano animali vestiti da uomini, la natura animale dominava sempre su quella umana, pensai fosse quello il senso di quei quadri.

Le regalai un sorrisetto di circostanza e mi avviai verso l’uscita, lasciandola lì, in piedi davanti al suo divano in pelle a reggersi la faccia.

«Ah… Buon compleanno.» Le dissi voltandomi a guardarla dalla porta. Poi, finalmente, uscii da quell’appartamento.

Quello schiaffo, pensai, era stato come una botta istantanea di serotonina.

Mi sentivo molto stanca, ma inspiegabilmente felice.

Leggera.

 

*****

 

Quando rimisi piede nel mio appartamento, tutta la frenesia che avevo avvertito sembrò scendermi lungo gli arti intorpidendoli. Mi parve che qualcosa di simile alla melma mi stesse ristagnando nel petto, come se tutta la stanchezza che avvertivo si stesse concentrando lì, addensandosi e ammassandosi, bloccandomi l’aria alla gola.

Ansimai divisa dal desiderio di fiondarmi a letto o di trascinarmi verso il bagno.

Accadde però che mi accorsi di uno strano bruciore lungo il polso, le bende che ci avevo avvolto attorno, benché coperte dal maglione, erano zuppe di sangue. Mi chiesi come fosse possibile che quelli che a me erano sembrati solo tre graffi stentassero a rimarginarsi. Mi tirai via il maglione di dosso e mi sfilai pian piano le fasce, lasciando che ricadessero a mo’ di spirale sul pavimento.

Mi colpì il colore rosso intenso che colorava il bianco delle bende, me ne rimasi un po’ ingobbita a fissare quella spirale fatta di me più qualche fibra aperta sul pavimento, l’idea di avere dentro qualcosa di così vivo mi restituì una sensazione strana, quasi rincuorante.

Così, per averne conferma, mi guardai il polso, con l’altra mano scacciai via il sangue come se stessi pulendo un vetro appannato e cominciai a muoverlo, provando una incomprensibile soddisfazione nel notare che quel sangue vivido e caldo stesse fuoriuscendo dalla mia pelle a ogni movimento.

Quanti strati aveva attraversato per venir fuori?

Me lo chiesi stringendo la mano in un pugno più e più volte, con lentezza, continuando a guardarlo sgorgare da me. Mi accorsi che benché sottili, due dei tre tagli erano abbastanza profondi e che il sangue mi colava di lato.

Forse gocciolò un po’ sul pavimento grigio.

Sanguinavo, eppure ero fredda, come se in corpo non avessi avuto neanche un goccio di sangue, e al contempo sudavo. Pensai fosse strano, ma poi la testa cominciò a girare, così lasciai perdere e mi trascinai verso il bagno.

Ravvisai la mia immagine allo specchio e mi accorsi di essere pallida come un lenzuolo.

Dovevo prendere le medicine.

E lo feci, considerando che in quella giornata di fuori controllo, probabilmente, erano successe troppe cose che mi avevano sconvolto ma che quel mantello d’adrenalina doveva avermi nascosto.

Ora che, tornata a casa, mi era sembrato di riacciuffare la mia dimensione, tutto quel che ero stata fino a poche ore prima mi arrivò come sgradevole e insensato.

Mi ero ribellata alle cure di mia madre e avevo schiaffeggiato Fuka.

Mi chiesi cosa diavolo mi era preso, cosa mi aveva fagocitato così tanto.

Mi risposi mandando giù un'altra pillola.

Cominciai a sentirmi a disagio nel mio stesso corpo, il sangue che ora mi colava dal polso non mi evocava nessuna considerazione, come se me ne fossi accorta solo in quel momento lo tirai sotto il getto dell’acqua e lo avvolsi con delle bende nuove.

Poi a quel punto, non mi ricordo cosa successe, mi parve solo che tutto prese la forma di un loop che aveva a che fare con il mio letto, la spirale fibrosa sul pavimento, l’armadietto delle medicine e il lavandino.

Un loop continuo e frenetico dilatato in un tempo così lungo che sembrava declinarsi nell’eterno.

 

*****

 

La luce intermittente del neon del mio bagno che traballava.

Sì, mi parve fu proprio quella la prima cosa che vidi.

Poi un flebile colpo di tosse, la sensazione di avere altre due mani che mi reggessero all’in piedi difronte al lavandino e poi dell’acqua, tanta, che mi colava dal viso e dai capelli.

Un rantolio e poi un ansimo prolungato, simile a un’inspiegabile ripresa d’aria dopo una lunga apnea.

«Cristo!»

Delle parole e poi quelle mani ancora me le sentii addosso, capii che forse non erano le mie quando mi strinsero le spalle e mi trascinarono via dal lavandino.

Persi l’equilibrio, ma quelle mani mi sorressero, mi spinsero a piegarmi sul pavimento difronte alla tazza del water.

«Cazzo, Kurata! Devi vomitare! Ce la fai?»

Non riuscii neanche a capire se stessi pensando a voce alta o se quelle parole così urgenti arrivassero al di fuori di me, nemmeno riuscii ad acciuffare un contesto che sentii delle dita solleticarmi la gola e subito un vomito violento mi travolse la bocca.

Mi parve che gli occhi mi stessero schizzando dalle orbite, volevo smettere di starmene lì, con la faccia stravolta rivolta al gabinetto, mi sentivo una specie di Mark Renton, anche se per me non c’era niente di così eccitante da raccogliere lì dentro.

Provai a scostarmi da lì, ma sentii qualcosa mantenermi la schiena, una mano sorreggermi la fronte.

Tentando di strozzare i conati, roteai un po’ gli occhi di lato, mi accorsi che qualcosa alle mie spalle bloccava i miei movimenti e che una mano stringeva forte il bordo della tazza del water facendo bella mostra di alcuni tagli vividi sulle nocche sbiancate.

A quel punto, ebbi la totale consapevolezza che non fossi più sola e il vomito mi si fermò in gola.

Mi tirai un po’ indietro e la mano che prima mi manteneva la fronte si affrettò a scivolarmi sulla spalla, l’altra, quella che stringeva veemente il bordo della tazza, mi volò su un fianco.

«Cazzo, Kurata…»

Quando mi voltai, tirando un po’ su col naso, quando incrociai i suoi occhi, avrei voluto fargli tante domande, ma riuscii solo a boccheggiare qualche suono simile agli spasmi di un conato strabuzzando gli occhi.

Di tutta risposta lui si lasciò andare sul pavimento stropicciandosi la faccia e i capelli con una mano. «Cazzo! Cazzo! Cazzo!» Lo ripeté a lungo, come se volesse staccarsi la faccia dal viso, mentre io me ne rimasi lì in ginocchio a guardarlo, strozzando un conato sul dorso della mano.

Poi, d’improvviso, mi sembrò di non percepirmi più, né in me, né in quello spazio.

L’immagine di Hayama divenne come un grande mosaico colorato, i cui contorni sembravano distorcersi e precipitare verso il basso, mi sembrò di chinarmi in avanti, come desiderosa di rimetterglieli in sesto, sperando che non scivolassero sul pavimento, ma poi, tutti i colori che emanava, mi parvero accecanti, così tanto che chiusi gli occhi e tutto si tinse di nero.

«Kurata! Cazzo Kurata, no!» Perché diamine mi stava schiaffeggiando?

Stavo per rispondergli male, ma mi acciuffò il viso e mi strinse le guance con una mano. «Ehi! Resta, ok?»

«Sono stanca...»

«No, Kurata, sei solo strafatta come una pigna!»

Mi sembrò di non riuscire a tenere gli occhi aperti, ero così stanca, ma Hayama non capiva, proprio non mi permetteva di lasciarmi andare, mi tirò tra le sue braccia e muovendosi all’indietro si parò sotto al muro.

«Ti prego, Kurata, guardami!» Lo urlò e il suono della sua voce mi arrivò quasi come una supplica, ma io forse ero troppo persa per ascoltarla.

O forse lontana.

Già altrove.

«Lasciami andare…» Biascicai e forse addirittura mi ribellai ai suoi modi dispotici, ma lui parve infischiarsene, come se fossi un corpo senza vita, mi fece voltare verso di lui e mi mantenne su dritta sorreggendomi le spalle, mentre tutto il resto di me sembrava scivolarmi sul pavimento.

Mi parve tutto così freddo, nonostante sentissi il calore delle sue mani sulla pelle.

Pensai che fosse strano.

Stridente.

Parlò ancora poi, mi scosse e mi afferrò il viso tra le mani obbligandomi di fatto a restare.

Lo guardai storcendo un po’ la testa, c’era la sua bocca che si muoveva, incastrata in un’espressione un po’ troppo preoccupata per appartenergli sul serio e poi i suoi occhi.

Un tempo mi sarebbero bastati quelli e io li avrei trovati sempre una valida motivazione per restare, ma in quel momento, pensai che forse non bastavano più.

«Ehi! Non te la faccio fare la vigliacca questa volta, Kurata!»

A quelle parole sussultai, gli occhi mi si spalancarono e s’incollarono inspiegabilmente ai suoi.

Era quello che pensava di me? Che ero una vigliacca?

Non so cosa mi prese a quel punto, ma sentii divamparmi dentro un fuoco rabbioso che mi risalì dal fondo delle viscere per fermarsi di colpo al centro dello stomaco, una bomba di calore che ebbe come logica conseguenza un’intensa necessità di vomitare tutto quel che era rimasto.

«Sei tu il vigliacco…» Così gli risposi, anche se la rabbia con cui glielo urlai di fatto gli dava ragione.

Ero una vigliacca e mi ero arrabbiata perché lui lo aveva visto.

La rabbia, la logica difesa delle menti deboli.

Lo pensai in quel preciso istante e mi chiesi se la mia faccia fosse simile a quella di Fuka.

Poi sentii la saliva aumentarmi nella bocca, cominciai a deglutire, boccheggiare e Hayama mi afferrò di fretta e mi spinse verso la tazza.

Mentre vomitavo lo sentii lasciarsi andare a un lungo e intenso sospiro.

Per quella volta, pensai, era rimasto.

 

*****

 

Rasente alla parete era seduto lui, il suo maglione blu doveva fare un brutto contrasto con il marrone sbiadito dei miei capelli che gli si aprivano umidi e spettinati tra il petto e la spalla, lì dove io poggiavo la testa.

Il petto di Hayama si sollevava e abbassava lentamente, il cuore, invece, gli batteva esasperato, come se avesse appena finito di correre una maratona.

Non disse neanche una parola su quanto era appena successo, si limitò a riorganizzarsi il respiro mentre mi sfregava le mani sulle braccia nude cercando di darmi calore.

Perché io, me ne accorsi solo in quel momento, stavo tremando.

«Hayama… Ma tu perché sei sempre qui?» Biascicai dopo un po’.

Lui non rispose, mi parve solo molto agitato quando mi avvicinò una mano al collo e mi costrinse a guardarlo sollevandomi il mento.

Mi sembrò che schiuse le labbra come per dire qualcosa, ma poi lasciò perdere e ridusse tutto a uno sbuffo.

A quel punto, mentre ancora tremavo, sentii la sua mano accarezzarmi il collo, vidi i suoi occhi fissare intensamente lo scivolare delle sue dita fino alla mia guancia, e non potei fare a meno di chiedermi da dove mi arrivasse quell’assurdo tremare perché non avevo mai sentito tanto calore in vita mia.

Non saprei dirlo con molte parole, ma ecco, ebbi come la sensazione che il suo corpo era caldo come qualcosa che sedava e al contempo mi rassicurava.

Non glielo dissi che lì con lui cominciavo a star bene e lui non mi fece alcuna domanda, neanche quando smisi di tremargli addosso.

Non so quanto tempo passò, so solo che ce ne rimanemmo lì immobili ed era come se entrambi, in quel silenzio, stessimo cercando di acciuffare dei pezzi mal disposti e nascosti in lungo e in largo.

Era una ricerca disturbata, resa forse più difficile da quel neon allo specchio che sembrava impazzito.

Doveva essere lui a non farci vedere niente con chiarezza.

Se ne stava lì, appeso ad uno specchio, alternando psichedelico l’intensità della luce, dilatandola e strozzandola a intervalli irregolari.

Pensai che dovevo sostituirlo presto o tardi perché mi sembrava di volteggiare.

Prima di spegnersi del tutto, illuminò per un lungo istante le gambe di Hayama e una mia mano sulla sua coscia.

Mi chiesi perché, nonostante gli fossi addosso, avevo un intimo bisogno di toccarlo o forse di trattenerlo.

Come un desiderio inconscio, una specie di paura.

O forse non ero io, ma il mio corpo.

Poi però tutto sembrò farsi più buio.

Nella stanza fece il suo ingresso solo una luce fioca, annunciata dal suono del corto circuito del neon.

Il bagno di fatto rimase in penombra, illuminato solo grazie alla luce calda che proveniva dalla mia stanza.

Mi sembrò di poter riuscire a mantenere gli occhi aperti, finalmente.

Così lo realizzai davvero che ero proprio nel mio bagno, seduta sul pavimento, o per meglio dire rannicchiata sul pavimento, tra le braccia di Hayama. Soprattutto realizzai che indosso avevo solo i miei pantaloni neri, un reggiseno color carne e delle bende al polso.

Quelle in effetti mi imbarazzarono più di tutto il resto, mi nascosi il polso tra le gambe pensando al contempo quanto fosse stupido da parte mia sperare che non se ne fosse accorto.

Sussurrai il suo nome un po’ a disagio, ma lui parve non badarci.

Poggiato al muro sembrò non badare neanche alle luci, al fatto che fossimo rimasti lì in penombra, praticamente immobili.

Come sotto ipnosi faceva sfilare lentamente le dita di una mano tra i miei capelli, mentre con l’altra mi manteneva sul suo petto.

Pensai che a quel punto, se fosse crollato il mondo, non avrebbe fatto poi molta differenza.

Quello stesso pensiero, però, mi riportò alla realtà come uno schiaffo.

Allora scattai su dritta come una molla, o almeno ci provai.

Mi allontanai dal quel calore e mi voltai a guardarlo, lui corrugò un po’ la fronte e mi fissò quasi infastidito, con l’espressione imbronciata di un bambino a cui era stato strappato un regalo dalle mani.

«Ciao, Kurata.» Mugugnò, prima di riacciuffarmi e farmi poggiare ancora contro di lui. «Bentornata…»

Anche se eravamo quasi al buio, continuai a immaginarmi mezza nuda tra le sue braccia e sentii l’esigenza di muovermi da lì alla svelta, prima che il mio corpo potesse commettere una qualsiasi impudenza.

«Devo…» Farfugliai e ancora mi liberai da quella posizione, feci per alzarmi in piedi, ma mi accorsi di non avere la forza nelle gambe, mi sembrò di annaspare nel vuoto e di nuovo lui mi afferrò riposizionandomi lì, questa volta in ginocchio, tra le sue braccia.

«Kurata, dove vorresti andare?»

«Io… Gira tutto…» Farfugliai.

«Ma non mi dire.» Fece con una punta di sarcasmo sulla lingua e io mi rassegnai a rimanere lì, o almeno così mi sembrò perché a quel punto ricordo solo che schiacciai il viso sul suo petto e mi rannicchiai in posizione fetale tra le sue braccia.

Lui forse sospirò, almeno così mi parve, e mi strinse più forte.

Mi ritrovai a riflettere sul fatto che il mio corpo doveva sembrare estremamente piccolo sotto le sue mani, quasi inconsistente.

Sperai non avvertisse l’idea delle mie forme, che addirittura neanche ci pensasse.

Forse, mi dissi, se mi stringessi ancora di più, se mi rimpicciolissi al punto di svanire, smetterebbe anche di sentirmi su di lui.

E soprattutto, mi dissi, se fossi scomparsa, anche il mio corpo finalmente avrebbe smesso di percepirlo così come faceva.

Non glielo dissi, non avrei saputo spiegarlo a chiare lettere neanche a me stessa, ma lì, su quel pavimento gelido, mentre Hayama mi stringeva a sé, avvertii un piacevole tepore nel basso ventre che intuii avesse a che fare con lui e che per un istante m’annebbio.

Non mi piaceva quella sensazione.

Hayama comunque, mi sembrava un po’ inquieto, percepivo nel suo corpo una certa frenesia, come se i muscoli gli si stessero dilatando insieme al respiro, e al contempo gli percepivo dentro una strana tensione.

Chinai un po’ lo sguardo sulle sue mani, la luce dalla mia camera sembrava fare capolino nel bagno solo per illuminargliele e mi fissai a guardarle. Sulle nocche gli ravvisai alcuni tratti violacei e tanti piccoli graffi. Da alcuni si vedeva del sangue un po’ rappreso, su altri, invece, c’era del sangue fresco, ma non era vivido come il mio, non sgorgava affatto dalle sue piccole ferite, rimaneva compatto all’interno.

Era contenuto.

Mi chiesi se fosse una questione di spessore o di profondità e m’imbambolai così tanto a guardarle che a stento mi accorsi che una mia mano era volata proprio lì.

«Va un po’ meglio?» Me lo chiese afferrandomi di colpo proprio quella mano, coprendomela con la sua.

«Mi brucia la gola…» Glielo dissi in un soffio, ancora imbambolata su quel punto in cui prima c’era la sua mano e ora la mia nella sua.

«Tu però sei come… Rigido ma anche… Elettrico… Credo… Dovresti provare una delle mie pillole.»

Lui allora buttò fuori uno strano mugugno, simile a uno sbuffo incazzato e sollevò la mano a toccarsi il viso. Non mi voltai a guardarlo, ma sentii come se si stesse stringendo la fronte con le dita.

«Sul serio... Sono nel mobiletto…»

«Piantala, Kurata.»

«Guarda che sono buone, sai?»

«Già, da morire…»

Disse solo quello, ma mi parve volesse quasi incolparmi di qualcosa.

Scosse un po’ la testa e ancora mi strinse, forse anche più forte di prima, sentii le sue dita sfilarmi sulla pelle e d’improvviso, come se fosse stata una strana e libera associazione, un’immagine mi tornò alla mente.

Mi parai in ginocchio difronte a lui e lo guardai perplessa. «Ma tu… Dio mio… Ma prima mi hai messo le dita in gola?»

«Cosa avrei dovuto fare?»

«Ma… ma che schifo, Hayama!»

«Dici?»

«Beh… Sì.»

Lui allora mi guardò abbozzando un impercettibile sorriso.

«C’è di peggio, Kurata.»

Così mi disse e mi avvicinò una mano alla guancia, come se mi stesse sorreggendo la faccia.

La luce che proveniva dalla mia stanza gli illuminava il viso.

Sentii i suoi occhi nei miei, il lento tocco della sua mano, il suo pollice muoversi lentamente in su e giù sulla mia guancia e per un attimo mi parve di avvertire dentro qualcosa, sembrava adagiata sul cuore, ma in realtà non aveva locazione precisa perché sembrò attraversarmi per intero e per un solo istante, come un’intermittenza.

Come il neon allo specchio.

Io lo guardavo, eravamo in penombra, ma forse per la prima volta lo stavo vedendo per davvero, riscoprendo nella forma della sua bocca, nei precisi lineamenti del suo viso, nell’intensità dei suoi occhi che continuavano a fissarmi enigmatici e profondi, tutte quelle caratteristiche che un tempo chiamavo motivazione.

O, più semplicemente, tutte quelle caratteristiche che un tempo avevo legato a ciò che a me piaceva di più al mondo.

Le dita di Hayama mi sfioravano una guancia e io lo guardavo sentendo dentro una strana intermittenza adagiata sul cuore.

Pensai potesse riassumersi tutto lì.

Eppure io, anche se mi sentivo così stordita, mi resi conto di essere al contempo lucida.

Perché, quello lo capii proprio chiaramente, lui mi piaceva ancora.

E lo faceva in una maniera così potente che non poteva che essere intermittenza.

Come una luce talmente accecante che il mio cuore non poteva contenere tutta insieme, e allora si limitava a irradiare potenti fasci intermittenti.

Anche se non avvertivo nulla di preciso nello stargli così accanto, anche se non sapevo darmene alcuna spiegazione diversa da quella intermittenza di percezioni, sentii che era proprio così.

Mi chiesi se tutta quella luce sarebbe mai esplosa del tutto, come un qualcosa che non voleva più essere contenuto, soprattutto se sarei stata in grado di accorgermene.

«Cosa c’è di peggio?» E non seppi dire se lo stessi chiedendo a me o a lui.

Le sue dita a quel punto si mossero sulle mie labbra, sentii il suo pollice imprimermi sul labbro inferiore una certa pressione. «Tante cose che non vorresti sapere.»

«Fammi un esempio.»

«Non sono il tuo burattino, Kurata. Fattelo bastare.»

«Ma lo sai che sei veramente antipatico?»

Glielo chiesi senza veramente provare interesse per la sua risposta, forse perché sapevo che non sarebbe arrivata, o forse perché mi ricordai che di fatto a me di lui era sempre piaciuto anche quello.

 

*****

 

«Ti porto a letto.» Me lo aveva detto rollandosi una sigaretta, senza sorrisini sbruffoni, mentre eravamo davanti al lavandino.

Io mi ero lavata la faccia e Hayama mi era rimasto alle spalle, impegnato a fare altro con gli occhi costantemente puntati addosso a me.

Era sempre stato molto più abile di me in quello, mi aveva sempre studiato facendo finta di occuparsi di altro.

Infatti non la fumò affatto.

Però a letto mi ci aveva portato per davvero e il mio corpo avvertii una strana delusione quando vidi che mi aveva rimboccato le coperte e si era limitato a sedersi sul pavimento difronte a me.

E io non glielo dissi che mi sarebbe piaciuto sentire addosso ancora un po’ di quel calore che emanava e che sedava.

«Va un po’ meglio, Kurata?»

Mugugnai un sì tirandomi ancora addosso la coperta, mentre lui si limitò a guardarmi poggiando la testa sul materasso. «Sono così…» Sbuffò qualcosa, forse un’imprecazione, e poi sfregò la faccia sul bordo del letto, strozzando di fatto il suo parlare tra le lenzuola.

Gli occhi allora mi caddero sulle sue mani che stringevano con forza i lembi della coperta, non potei fare a meno di chiedermi cosa le avesse ridotte così e poi mi chiesi se quella notte c’entrasse qualcosa.

Se io e il mio essere me c’entrasse qualcosa.

«Perché sei venuto qui?»

Lui, allora sollevò la testa, mi ritrovai il suo viso a pochi centimetri dal mio, soprattutto i suoi occhi che non facevano altro che fissarmi intensi e pieni di parole che a conti fatti non mi disse.

Mi regalò solo quelli, sperando fossero abbastanza, o forse, sperando che fossi ancora in grado di leggerli e capirli come un tempo.

Purtroppo però, l’avevo persa quell’abilità.

Loro però non avevano affatto perso quella di schiantarmi e immobilizzarmi facendomi sentire nervosa e al contempo coinvolta.

«Non volevi dormire, Kurata?» Me lo chiese in tono acido, prima d’incrociare le braccia sul bordo del letto e nasconderci dentro la testa.

Sembrava un bambino in castigo, di quelli costretti al gioco del silenzio.

Feci una strana associazione proprio su quello e mi parve di sorridere tra me e me.

Hayama era in castigo da una vita o forse era diventato un asso in quel gioco perverso di cui aveva finito col diventare unico incaponito giocatore.

C’era della spavalderia in quel suo buffo atteggiamento, pensai.

Poi però passò del tempo, lui non si mosse, ma mi parve fosse crollato in un sonno profondo.

Il suo respiro regolare, i suoi capelli biondi e le mani rotte.

Rimanendo su un fianco gli portai una mano tra i capelli, dormiva tutto, pensai.

Era tutto avvolto da un sonno profondo.

Lui, io, i miei sentimenti e la mia comprensione intermittente.

«Mi hai sfondato la porta ancora una volta…» Glielo sussurrai e lui non sentii, non avrebbe potuto in effetti, ma non lo considerai affatto un problema, perché tanto quelle parole erano più per me che per lui.

E non saprei dire se fosse una domanda, un’affermazione o una constatazione.

 

*****

 

Quando mi svegliai lui era lì, con le braccia conserte e la faccia rivolta su un fianco.

Aveva la guancia rossa, quella espressione un po’ imbronciata e impertinente.

Pensai fosse tenero e che anche da addormentato sembrava quel bambino abilissimo nel suo gioco del silenzio.

Mi chiesi perché era lì, poi però le immagini di quella notte mi balenarono confuse davanti agli occhi, ricordai un paio di cose e allora a quel punto mi chiesi perché era ancora lì.

Mi sentii così a disagio a starmene lì accanto a lui e a ricordare quel che era successo che mi trascinai seduta sul bordo opposto del letto.

Avvertivo la gola secca e una lieve difficoltà a respirare e rimettermi in piedi.

Perché non se n’era andato? Soprattutto perché la sera precedente era entrato in casa mia?

Massaggiandomi gli occhi mi ricordai dei tagli che gli avevo visto sulle mani, mi chiesi se fosse venuto per quelli.

In fondo non lo trovai strano, meno di 24 ore prima aveva bussato alla mia porta con le budella tra le mani.

Non era per niente leggibile il suo modo di fare, pensai, e istintivamente mi voltai a guardarlo.

Che diamine aveva in quella testa?

Chi era veramente? Che stava combinando?

Sbuffai esasperata fino ad imbambolarmi a guardarmi i polsi.

Lui aveva visto, mi parve chiaro, mi chiesi cosa ne aveva dedotto, se si fosse recriminato qualcosa e mi sforzai di cercarmi dentro un senso di colpa che non arrivò.

Così come non arrivò neanche la riconoscenza.

Se ero lì, se respiravo, se ancora potevo guardarlo, avrei dovuto realmente sentirmi riconoscente?

Anche se tutto, persino lui, mi arrivava a intermittenza?

Aveva senso vivere così o era semplicemente crudele?

Mi stropicciai la faccia con le mani.

Dovevo smetterla di farmi quelle domande, comunque.

La luce del giorno cominciava a investire persino il mio appartamento, lo considerai un motivo per tirarmi almeno fuori dal letto.

Scrollai le spalle, ma lo feci un po’ a disagio.

Perché quello scrollare per la prima volta mi parve più una difesa che una risposta.

Mi avviai in bagno, ignorai volutamente dei solchi sul muro che giurai di non aver mai visto, le bende colorate dal mio sangue ormai secco e marrone buttate in un angolo sul pavimento, proprio in corrispondenza di quei solchi e la porta d’ingresso sfondata.

Ignorai tutto e mi nascosi nel bagno.

Mi feci una doccia con la speranza che potessi lavarmi di dosso anche quella giornata appena trascorsa, mia madre, Fuka, Hayama, le domande, le comprensioni e le intermittenze.

 

*****

 

Fuori dal bagno avvertii un forte odore di caffè.

Hisae ne aveva comprato uno con un aroma e un profumo inconfondibile, per un istante pensai fosse tornata, che quella notte era stata solo un sogno o che forse quella doccia aveva lavato via davvero tutto.

Mi avviai in cucina quasi con quella speranza, ma poi ci ritrovai Hayama.

Lo vidi poggiato al mobile su cui Naozumi l’anno prima aveva installato il tostapane e a quel punto pensai anche a lui dall’altra parte dell’oceano.

Avrei dovuto chiamarlo, ma che diavolo di ore erano a New York?

Quando si accorse di me abbozzò un cenno e mi squadrò da capo a piedi a lungo prima di sollevare la tazza di caffè a mezzaria come se fosse stata una coppa di champagne.

Non gli vidi nessuna particolare espressione sul viso, era indecifrabile come al solito.

Mi avvicinai alla moka e ne presi un po’ anche per me.

Per tutto il tempo non fece altro che studiarmi senza neanche regalarmi un cenno o una parola, nemmeno il suo laconico “Ciao, Kurata.”

Semplicemente mi tagliò il suo sguardo addosso, me lo sentii ovunque, come una lama rovente.

Forse non era stata una buona idea entrare lì con indosso solo il mio accappatoio, comunque, pensai mentre soffiavo sulla tazza, ormai era fatta.

Me ne rimasi accanto al lavello e concentrai tutte le mie attenzioni su quel liquido bruno evitando di guardarlo troppo.

«Stai meglio.» Mi disse, e non capì se fosse una domanda o una constatazione.

«Ho fatto una doccia…»

«Vedo…» Disse e mi si avvicinò, pensai volesse provocarmi, addirittura pensai volesse cogliermi in fallo e approfittare della situazione, così mi scansai un po’.

Lui però mi guardò inarcando un sopracciglio e poggiò la tazza nel lavandino. «Posso farla anche io?»

«Cosa?»

«Secondo te?»

Ero inspiegabilmente confusa e capii che i suoi occhi addosso non mi aiutavano affatto a rimettere ordine tra i miei pensieri troppo affollati, era come se, quell’intermittenza che avevo provato quella notte tra le sue braccia mi si stesse riproponendo anche più veloce e irregolare.

Tentavo di non farci caso ma proprio non ci riuscivo.

Che voleva Hayama? Forse fare una doccia? Lo capii solo in quel momento.

«Oh… Sì… certo.» Gli dissi. «Vieni, ti do qualcosa… Per… Insomma, qualcosa da usare per te…»

Mi accorsi di essere un po’ impacciata nel dirgli quelle cose che sapevano un po’ troppo d’intimità, così come mi accorsi che anche lui se ne accorse, lo vidi abbozzare un risolino a cui non volli dare troppa attenzione.

Così abbandonai la tazzina nel lavandino e mi avviai in camera mia lasciando che mi seguisse.

Spalancai il mio armadio e gli presi un accappatoio.

«Puoi usare questo…» Gli dissi e gli poggiai sul letto disfatto uno dei tanti accappatoi con le cifre ricamate di Naozumi.

Lui lo fissò per un po’, mi sembrò che con le mani ne stesse studiando la consistenza. «N… K…» Sussurrò arricciando un po’ lo sguardo e a quel punto afferrò l’accappatoio e lo lanciò tra le coperte. «Sul serio, Kurata? Kamura?»

«Volevi qualcosa per asciugarti, no?»

«Dio! Non ci credo! Ancora Kamura? Non sei per niente originale, Kurata.»

«Beh, mi pare che anche tu in quanto a originalità non sia andato poi così lontano!»

Non saprei dire se quella mia uscita spiazzò più lui o me, se ne rimase lì a guardarmi inarcando un sopracciglio, forse sperando che aggiungessi altro, ma poi fu più abile di me a nascondere tutto con un velo di strafottenza.

Mi si avvicinò in una maniera che avvertii pericolosa già dai primi movimenti. «Quindi sei andata in giro ad informarti sul mio conto?»

E a quel punto mi resi conto che lui non aveva fatto lo stesso con me, si era praticamente arreso alle parole di mia madre e me ne chiesi il perché.

«No, affatto, l’ho semplicemente saputo.»

Lo vidi annuire lievemente nascondendo un risolino sarcastico e soddisfatto.

«Sei libero di non crederci, Hayama.» Ribattei notando che a conti fatti quella situazione mi stesse dando parecchio fastidio e non solo per il suo modo di fare, ma anche perché mi tornò addosso quella insana frenesia di andare da Fuka e urlarle che a conti fatti aveva rubato anche quello.

E non c’entrava affatto il sesso, era quella intimità che mi aveva rubato a infastidirmi, il pensare che lei conoscesse di lui persino un dettaglio che io non avrei voluto condividere con nessun altro, figuriamoci con lei.

Era svilente.

Io, lui, lei, Naozumi.

Tutta la mia vita e il mio non sentire, non percepire, non capire o comunque farlo fino a un certo punto, con poca chiarezza, poca consistenza.

Vivevo una cazzo di vita svilente in cui mi arrivavano pensieri svilenti random.

Per un istante mi tornò alla mente il sogno che avevo fatto qualche sera prima, la terra mi si era squarciata tra le gambe e io ero scivolata giù, cercavo appigli ma tutto sembrava franarmi tra le mani, e a quel punto Akito era comparso e mi aveva detto “Se non lo sai, cadrai.”

Mi chiesi se quel suo parlare avesse a che fare con il modo in cui mi arrivavano quei pensieri, ci scivolavo dentro senza sapere né capire. Mi franava tutto tra le mani perché quella terra, quei pensieri sparsi, non avevano né appigli né consistenza.

«Beh comunque piuttosto che usare la roba di quello là mi asciugo col tappeto del cesso!»

«Non ce l’ho un tappeto…»

«Bene…» Sussurrò. «Vorrà dire che mi darai il tuo.»

«Il mio cosa?»

«Secondo te?»

«Non ti darò il mio accappatoio, Hayama.»

«Non userò la roba di quello là.»

A quel punto mi chiesi cosa ne avrebbe pensato Naozumi se avesse saputo che colui che a suo parere ormai non sarebbe più stato in grado di smuovermi niente, era proprio nel mio appartamento a rifiutare indignato la sua roba.

Mi sembrò una specie di realtà capovolta quella in cui il mio ragazzo non mostrava il benché minimo interesse per il mio ex e il mio ex riteneva uno scherzo la presenza del mio ragazzo nella mia vita.

«Allora vuoi farla a casa tua la doccia.» Constatai.

Lui non mi rispose, allungò una mano a mezzaria e mi mantenne addosso il suo sguardo inarcato.

Non riuscii a sentirmelo addosso a lungo, complici forse tutti quei pensieri che avevo nella testa.

Avrei solo voluto rimanere in silenzio, soprattutto in solitudine.

I suoi occhi però non davano scampo, parlavano troppo, facevano rumore.

Mi arresi all’evidenza e capii che se non avessi fatto quel che mi chiedeva non mi avrebbe dato scampo.

«Voltati.»

«Vuoi togliermi la parte migliore, Kurata?»

«Hayama? Vuoi il dannato accappatoio sì o no?»

Feci come gli avevo detto e lo sentii sbuffare, ma per fortuna non durò a lungo.

Presi dall’armadio una felpa bianca e dei jeans attillati e dal mio comodino delle mutande.

M’infilai prima quelle e poi i jeans, a quel punto mi feci scivolare di dosso l’accappatoio e infilai la felpa. Non persi neanche tempo a cercare un reggiseno, volevo solo che Hayama sparisse dalla mia stanza e mi lasciasse in pace, anche solo per un po’.

Poi, di punto in bianco, senza neanche aspettare un mio cenno, si voltò.

Gli riconobbi sulla faccia un risolino sfrontato. «Sei crudele…» Mi disse prima di raccattare dal pavimento il mio accappatoio.

Non capì il senso di quelle parole, poi però si avviò verso il bagno e il mio riflesso fece capolino nello specchio sull’anta aperta dell’armadio.

Aveva visto tutto.

 

*****

 

Avvolgere.

O forse riavvolgere.

Come il nastro di una vecchia MC, con la matita infilata dentro.

Mi chiesi se ficcandomene una nelle orecchie avrei potuto ruotarla e riavvolgere il nastro per riportare tutto indietro.

Poi però mi domandai fino a che punto avrei voluto riavvolgere quel nastro, sarebbe stato sufficiente un mese o avrei dovuto girare la matita e riavvolgere il nastro sbiadito fino a quindici anni prima?

Che strana cosa che era il tempo o forse strano era il modo che avevo io di percepirlo nella testa.

Sentivo l’acqua scorrere dalla doccia, la mia mente la immaginò infrangersi sui vetri, scivolare piano sulla pelle di Hayama, lambirlo, accarezzarlo… Sentirlo.

Come desiderosa di non pensarci mi voltai verso la finestra, il panorama era candido ma freddo.

Una nuvola bianca che copriva la città anestetizzandola e gelandola. Avrei voluto essere neve, avrei voluto sentire anche io quel bianco nella testa, quel gelo tra i pensieri.

Ma Hayama era così caldo…

Quasi come per darmi un impegno scostai le coperte e le lenzuola dal mio letto, le avvolsi tutte in un’unica palla variopinta e le lanciai in un angolo sul pavimento.

C’erano dentro troppi odori, troppe considerazioni che era arrivato il momento di accantonare.

Mi sfilai l’asciugamani dai capelli e ci lanciai dentro anche quella.

Fu a quel punto che lui arrivò, entrò nella stanza col mio accappatoio azzurro avvolto in vita e i suoi vestiti in una mano.

Mi chiesi perché non si fosse rivestito lì, comunque lasciai perdere tutte le motivazioni che si celavano dietro i suoi modi di fare e mi avviai verso la porta, pronta a lasciarlo solo, ma feci appena in tempo a fare qualche passo che si sfilò l’accappatoio dalla vita.

«Ma cazzo, Hayama! Non puoi neanche aspettare che esco?» Urlai voltandomi di spalle.

Lui di tutta risposta s’infilò i jeans, sentii pericolosamente il fruscio del tessuto sfregargli sulla pelle, il suono dei bottoni che sbattevano tra loro.

A quel punto lasciò andare un risolino. «T’imbarazza Kurata?»

«No, è semplicemente che sei fuori luogo!»

Ancora di spalle sentii i suoi passi sul pavimento, poi il suo respiro tra i capelli ancora umidi e le sue braccia avvolgermi i fianchi.

«Sciogliti, Kurata… Sei troppo ingessata.» Me lo sussurro sulla pelle, lentamente, scandendo ogni singola lettera come una carezza leggera, tanto che non capii se mi stesse sfiorando la pelle con le labbra o col respiro che scandiva quelle parole.

Non mi mossi, ero bloccata, come sotto un incantesimo, socchiusi gli occhi quando percepii le sue labbra muoversi tra il lobo e l’orecchio, la sua bocca schiudersi, la sua lingua confondersi tra la forma delle sue labbra che scivolavano lente ad accarezzarmi il collo.

Sussultai buttando fuori un ansimo, come un contraccolpo che cercava l’aria, mentre dentro mi sentii chiaramente ancora quell’intermittenza.

Come la sera precedente sembrò attraversarmi per intero, ma a differenza di quella notte, non durò un solo istante, anzi.

Senza neanche rendermene conto chinai la testa su un fianco offrendo un campo d’azione più ampio alla sua bocca, la sua mano, a quel punto, volò sul mio viso, mi bloccò, quasi come se avesse voluto fermare un mio repentino dietrofront.

Sentii le sue dita premermi le labbra, la mia lingua accarezzarle senza fretta.

Neanche mi chiesi cosa mi stesse guidando, né cosa diamine accadesse al mio stupido corpo quando se lo sentiva addosso.

Lasciai scorrere tutto e assecondai solo quello.

Per una volta, pensai, dovevo smetterla di sperare in emozioni e sensazioni che non sarebbero arrivate, perché mi sembrò solo di provare un frenetico bisogno di sentirmelo addosso, un bisogno così intenso che stava per esplodermi dentro.

C’era solo il desiderio, lo avvertii fin dentro le ossa, e sentii di volermi affidare a quello.

Mentre il suo petto nudo mi premeva dietro alla schiena, avvertii dentro le mani l’esigenza di toccarlo, volevo voltarmi, leccargli le labbra, toccargli il petto, ma lui fu più abile di me, una sua mano si mosse lentamente dal mio fianco alla pancia.

Ansimai stringendogli le dita tra i denti quando la sua mano mi scivolò verso il basso, tra le gambe.

Era eccitante il modo che aveva di toccarmi, c’era una oscura sicurezza nelle sue mani, ma volevo sentire di più.

Volevo qualcosa di più intenso con cui stordirmi, intenso come la sua bocca sulla mia, il suo sapore nel mio.

Senza rendermene realmente conto, mentre lo pensavo, mi voltai verso di lui, incrociai la sua espressione in bilico tra l’eccitato e l’insoddisfatto e mi fiondai sulla sua bocca.

Avvertii un profondo senso di eccitazione quando mi accorsi che le labbra di Hayama sembravano anche più affamate delle mie, le dita gli s’incollarono ai lati del mio viso mantenendomi ferma su di lui in un bacio che mozzava il fiato e che sapeva di fame e urgenza.

La sua lingua lambiva la mia, le sue labbra me la succhiavano in un gioco erotico e seducente che afferrava e rincorreva e che sentii non avrebbe mai voluto fermare.

Eppure anche io mi sentivo così.

Ero come inarrestabile, fuori controllo.

Le mie mani volarono sul suo petto, le dita ne tastarono avide la consistenza per poi percorrere frenetiche una scia che sembravano conoscere bene e che portava verso il basso.

Ma fu proprio a quel punto che le mie mani persero il contatto con il centro esatto del loro desiderio e la sua bocca si allontanò pericolosamente dalla mia, lasciandomi ansimante e insoddisfatta.

«Cazzo, Kurata…» Sbuffò tirandomi a sé.

Sentii un bruciore irradiarsi dal suo tocco, e fu così che mi accorsi che con una mano mi reggeva il polso. «Credimi… Non farei altro che mangiarti così… Ma…»

Mangiarti.

Mi aveva detto proprio così, mentre lo guardavo passarsi freneticamente una mano tra il viso e i capelli pensai che non avrebbe potuto scegliere verbo migliore.

Mi sembrò volesse staccarsi via la faccia con le mani.

«Ho fatto qualcosa di sbagliato?»

«No… Anzi… Era tutto così…»

Mi sembrò avesse difficoltà a trovare le parole, io, da canto mio avevo difficoltà a trovarmi dentro dei pensieri da elaborare, delle ipotesi da vagliare.

Mi chiesi solo perché si fosse fermato tutto così, senza alcuna motivazione apparente.

Sbuffò sonoramente e s’infilò la maglietta raccattandola dal pavimento.

Poi continuò a guardarmi come se avesse voluto dilatare il tempo senza ammettersi che non sapeva cosa dire, perché quel suo sbuffare e muoversi senza riuscire a contenersi mi suggerì che ancora non riuscisse ad articolare pensieri in accordo con le parole.

Il suo corpo però mi parve stesse parlando in maniera ben più chiara e leggibile. Era agitato, teso, un fascio di nervi che si esprimeva con movimenti irruenti e scattosi.

Pensai che fosse molto diverso da quel corpo caldo e sicuro che neanche pochi minuti prima avevo sentito sotto le mani.

«Cazzo, Kurata! Dannazione!»

Akito in piedi davanti a me sembrava dannarsi l’anima, senza trovare parole diverse dalle imprecazioni da buttar fuori, io allora, sempre più confusa, mi voltai a guardare fuori dalla finestra.

«Sta nevicando, hai visto?»

Forse furono le mie parole, o magari il tono asettico che avevo usato, fatto sta che a quel punto Akito mi guardò lasciando andare un sospiro e mi tirò accanto al bordo del letto.

Mi spinse a sedermi e poi si chinò davanti a me, prendendomi le mani nelle sue.

«Scusa per prima… Io… Non so che mi è preso…»

Gli avrei voluto rispondere che non lo sapevo neanche io, ma mi piaceva.

«A quale prima ti riferisci?»

Lui a quel punto mi sorrise, ma era un sorriso strano, sapeva di qualcosa simile alla malinconia.

Mi passò una mano tra i capelli e me ne portò una ciocca dietro all’orecchio, mi accorsi chiaramente che i suoi occhi avevano inseguito i movimenti lenti della sua mano per tutto il tempo.

Non avevo idea di ciò che gli stesse passando per la testa, ma intuii che gli martellavano dentro delle cose che lo squarciavano in due.

«Che succede, Hayama?»

A quelle parole, lui non mi guardò, la sua mano però, mi scivolò piano dall’orecchio alla nuca e mi tirò a sé.

«Credo che dovremmo parlare di questa notte…»

Il buon senso.

Fu così che mi ricordai di lui, mentre strizzavo lo sguardo sul petto di Hayama e catturavo disperata il suo profumo.

Fece capolino come un ospite che non avrei voluto ma che sapevo di non poter mettere alla porta.

Scossi un po’ la testa sul petto di Hayama e mi strinsi tra le mani il suo maglione.

Perché il buon senso illuminava così bene le cose sbagliate da renderle affascinanti e desiderabili?

Quasi necessarie.

«Io… Penso che per il bene di entrambi sia meglio continuare ognuno per conto proprio…» Sussurrai.

Il buon senso si era posato sulla mia bocca.

Mi rendevo perfettamente conto che c’era solo quello nelle mie parole, così come mi rendevo perfettamente conto che per il bene di entrambi, avrei dovuto convincere anche il mio corpo ad allontanarsi da lui e da quella assurda volontà di sentirselo addosso.

Ma la mia volontà aveva una sua ragione che mi opprimeva.

Perché semplicemente non voleva vederlo andar via ancora una volta dalla mia vita.

La mia volontà, pensai, era debole, ma aveva delle ragioni così incaponite che se ne infischiavano del mio buon senso.

«Già…» Sussurrò solo quelle pesanti parole prima di sollevarmi il viso tra le mani.

Sicuramente sperò che bastasse quello per costringermi a guardarlo, invece gli occhi mi scivolarono giù, verso il basso, sulle sue gambe coperte dai jeans.

«Anche se in realtà non è ciò che voglio.» Aggiunse.

E a quel punto, persino i miei occhi risalirono verso i suoi.

Mi chiesi se Hayama ci stesse cercando dentro un appiglio, se stesse sperando anche lui che la volontà potesse avere la meglio sul buon senso.

“Nemmeno io.”

Così avrei voluto rispondergli, ma proprio in quel momento una mia mano volò sulla sua, sentii sotto le dita i tagli sulla sua pelle e forse mi bastò solo quello, perché anziché rispondergli come avrei voluto, gli allontanai le mani dal mio viso e gli risposi come avrei dovuto.

 

*****

 

Forse era passato troppo tempo da quando era andato via.

Distesa sul mio letto mi riconobbi addosso una stanchezza che non provavo da tempo.

Da almeno un mese, pensai.

Fu il vibrare eccessivo del mio cellulare a destarmi da quel pesante e apatico torpore.

Lo guardai vibrare e illuminarsi sul comodino a lungo prima di strisciare sul letto e raccoglierlo.

«Pronto…»

«Ehilà! Alla buon ora!» La voce di Naozumi m’investii i timpani. «Buon Natale, dormigliona!»

«Ehi… Buon Natale.»

Fu strana la sensazione che m’investii sentendolo parlare di tante cose messe insieme di cui non m’importava assolutamente niente.

Era come se la sua voce m’arrivasse da un'altra dimensione più che da un altro continente, soprattutto, ebbi come la sensazione che mi arrivasse come ovattata, avvolta da quella speciale pellicola.

«Non vedo l’ora di tornare, non sai quanto voglia fare l’amore con te...» Me lo disse in un tono quasi famelico, mentre io mi resi conto di faticare persino a ricordare la sua faccia.

Era come se davanti agli occhi avessi avuto solo Akito.

E allora mi morsi le labbra sperando di riacciuffare un po’ del suo sapore e fu proprio quando lo avvertii che mi sentii la terra mancare sotto i piedi, l’aria lasciare le pareti di casa mia.

Era giusto comportarmi così con Naozumi?

Avrei dovuto dirgli che non era più il caso di rimanere insieme, che era per il suo bene, ma le parole non mi vennero fuori.

Mi chiesi perché quel maledetto buon senso non mi facesse capolino sulla bocca.

Perché si metteva in moto solo con Hayama?

Tutto mi sembrò simile a quel sogno, dopo lo squarcio le pareti mi si stavano stringendo addosso e dovevo tirarmi fuori da lì.

Naozumi parlava di ciò che avrebbe voluto farmi al suo ritorno mentre io vagavo agitata nel mio appartamento in cerca di aria, di una via di fuga.

«Senti, Nao…» Ansimai. «Ci sono cose di cui dobbiamo parlare...» Gli dissi solo quello, neanche aspettai una sua risposta che gettai il telefono sul pavimento.

Mi lanciai fuori dal mio appartamento considerando il fatto che persino quella porta sfondata mi sembrò una crudeltà che non riuscivo più a tollerare.

Era come se improvvisamente tutto mi si stesse stringendo addosso, asfissiandomi e sollevandomi con una potenza dirompente.

Feci gli scalini a due a due presa da una foga che non avevo mai avvertito, mentre mi sembrava di correre fuori, verso la luce.

Riacciuffai l’aria quando il vento gelido della città mi tagliò la faccia.

Ero salva.

Mi chinai in avanti e inspirai profondamente, pensai di esser riuscita a mettermi in salvo, martoriata ma viva.

Restavo.

Così pensai, ma poi ci fu lo schianto.

Violento e improvviso.

Perché gli occhi mi si posarono in un punto e, nonostante fossero passati quindici anni da quella volta, io quel pupazzo di neve lo riconobbi immediatamente.

E allora mi rannicchiai al suolo senza neanche rendermene conto e mi nascosi il viso tra le mani.

Ero come sopraffatta.

Sopraffatta da quelle lacrime che a quel punto mi vennero fuori come una resa evidente.

«Sana?»

Sentii delle mani afferrarmi i gomiti, sollevarmi piano dal suolo.

«Che succede?»

La voce calma di Nobu mi arrivò quasi come un appiglio. Lo guardai incapace di riuscire a buttar fuori una parola, neanche un “Che ci fai tu qui?”

«Dio… Io… Stavo cercando proprio te, sai?»

«Me?»

«Si, ho preso il tuo indirizzo a lavoro ma… Perché stai piangendo?»

Mi guardava perplesso, forse si stava chiedendo che diamine ci facevo il giorno di Natale in lacrime fuori dal mio palazzo a piedi nudi sull’asfalto.

Poverino, pensai. Dovevo sembrargli una specie di fantasma.

«Ehi, Sana? Che succede? Perché stai così?»

Cosa avrei dovuto rispondergli?

Sarebbe bastato un non lo so?

Anche se a conti fatti era una bugia?

«Senti, Nobu… La sapresti riparare tu una porta sfondata?»

Buttai fuori solo quelle semplici parole e a quel punto sentii le sue braccia avvolgermi, il mio respiro riaccendersi.












Salve a tutte!!!
Spero abbiate passato un bel Natale, nonostante il periodo terrificante che stiamo attraversando.
Mi spiace non esser riuscita ad aggiornare prima e lasciarvi gli auguri, ma purtroppo sono stati giorni frenetici.
Cosa dire di questo capitolo?
Mi rendo conto che sia realmente l’apoteosi della disperazione… (O della rinascita? Boh… Chi lo sa!)
Però a me è piaciuto un sacco scriverlo, -se sa che con i drammi ci vado a nozze, insomma. X.D- e spero possiate apprezzarlo anche voi, nonostante la tragicità della situazione.
A questo proposito, mi piacerebbe tantissimo sapere a che conclusioni siete giunte, anche perché tutto è volutamente costruito per declinarsi verso più interpretazioni, quindi sul serio, fatemi sapere perché so troppo curiosa!

Come sempre un bacio speciale va alle mie amichette preferite <3
E vi ringrazio tantissimo per aver letto questa storia e per avermi fatto sapere cosa ne pensate <3

Sperando in un 2021 un po’ più sereno, vi bacio tutte e vi faccio tanti tanti auguri di buon anno, ragazze mie <3
A presto
Lolimik

 

 

 

 

 

 

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