Il domatore di emozioni

di Dragonfly92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno Verticale - Prologo ***
Capitolo 2: *** Uno Orizzontale - Acuto e persistente senso di ripugnanza fisica e morale ***
Capitolo 3: *** Due Verticale - Tre Orizzontale ***
Capitolo 4: *** Quattro Verticale - Cinque Orizzontale ***
Capitolo 5: *** Sei verticale - Sette orizzontale ***
Capitolo 6: *** Sette Verticale ***
Capitolo 7: *** Otto Orizzontale - Verbo... indispensabile ***
Capitolo 8: *** Nove Verticale – Inusuale situazione priva di sicurezza ***
Capitolo 9: *** Dieci Orizzontale - Dieci Verticale ***
Capitolo 10: *** Dodici Orizzontale ***
Capitolo 11: *** Tredici Verticale - Quattordici Orizzontale ***



Capitolo 1
*** Uno Verticale - Prologo ***


Uno Verticale

 

 

Uno Verticale - Stato di perfetta felicità

Undici caselle bianche.

 

Avrei potuto lasciarle così: piccole gabbie gemelle, quadrate e vuote.

Silenziose.

Icone della mia Uno Verticale.

 

Stato di perfetta felicità: solitudine.

Dieci lettere.

Ne mancava una.

Quando si era trasformata in dogma, la definizione di felicità?

Quando aveva iniziato a dettare legge in fatto di atteggiamenti, parole, posture, abitudini, preferenze, significati?

 

Non sorridi, non sei felice.”

 

Non fu patetico il planare dei mie pensieri nella sua direzione ma lo fu il passivo permesso che gli concessi facendoli volare indietro di sette mesi.

Sette mesi e tredici giorni, mi correggo.

Nessun freudiano motivo.

Solo avversione per il pressapochismo.

 

Non sono un malinconico romantico.

Sono un puntualizzatore professionista.

 

Andrea se n'era andato da sette mesi e quattordici giorni.

Era scoccata la mezzanotte.

Oh, sì.

Ricordo tutto di quel giorno.

 

Uno Verticale - Stato di perfetta felicità: beatitudine.

 

Vedi, sono un uomo che non riesce a sorridere raggiunta quella soglia.

Io la respiro, la beatitudine.

La guardo, la ascolto, la godo in silenzio.

E Andrea si era stancato.

I rari, preziosi sorrisi non gli bastavano più.

 

Né gli bastava più supporre che la differenza fosse dettata anche dal nostro lavoro.

Lui è un pediatra specializzato in espressioni rassicuranti.

Io un botanico restio a sorridere alle Peonie.

 

“Potresti sforzarti!”

“Perché?”

 

Sbatté la porta, uscendo.

Se fosse tornato, mi avrebbe dato ragione.

Avrebbe compreso la differenza tra il non sorridere e l'essere infelice.

 

Ma non tornò.

 

Se non fossi in me, direi che eravamo ad una lettera di distanza.

Direi anche che sono state quelle caselle ad ucciderci.

Il mio bisogno di conoscere ogni definizione, il suo bisogno di metterle in pratica.

Ma sono in me e l'unica cosa che posso dire è che nessuno dei due ha sbirciato al di fuori della sua cella.

 

Andrea mi chiamava il domatore di emozioni.

 

Era una definizione adatta, un titolo giusto.

Per il soggetto sbagliato.

 

Ma sei servito tu, per farcelo capire.

 

Ed è stato un processo lungo.

 

Assolutamente non indolore.

Decisamente indesiderato.

 

Obbligatoriamente accolto.

 

In un giorno banale stravolto senza pietà.

Insieme a definizioni.

Concetti.

E alla mia beatitudine.

 

Ricordo con nitidezza il primo tonfo.

Che fece sussultare il pugno chiuso attorno Parker, sfregiando la pagina e il silenzio della notte.

 

Mi colse di sorpresa.

E, come sai, sono poco propenso ad esse.

Soprattutto quando appaiono come scintille d'illusione. Non poteva essere lui.

Per quanto impulsivo, è un romantico praticante: non avrebbe buttato le chiavi.

 

Il secondo colpo lo ricordo con meno rancore.

Me lo aspettavo e non mi scomposti troppo.

 

Mi domandai per quale arcano motivo, costui avesse ignorato il campanello.

Il cancello chiuso, la tarda ora.

 

Cercare spiegazioni a comportamenti sconsiderati: inutile.

 

Qui lo dico e qui lo nego: mio padre aveva ragione.

Tobia, un cancello non è sufficiente!

Il muricciolo deve essere alto almeno due metri se non vuoi che lo scavalchino!”

Fu forse la frase più sensata che le sue labbra mi dedicarono.

 

Non lo ascoltai, un po' per l'eccitante sensazione provocata dalla disobbedienza, un po' perché l'umanità meritava qualche centimetro di fiducia.

Che persi quando il nono colpo si abbatté sulla porta.

 

Mi concessi un breve applauso mentale per la dosata calma con la quale posai l'amato passatempo.

Ed un altro, per l’estenuante lentezza dei passi coi quali raggiunsi il legno abusato dai colpi innervositi dal tempo trascorso.

 

La maschera, era sistemata sul mio volto.

Impassibile.

Glaciale.

Impeccabile.

 

Tuttavia, a causa della brezza notturna che alitò sulla mia pelle mentre aprivo la porta, la copertura ebbe un cedimento.

 

L'espressione mutò.

Il corpo s’irrigidì.

La mascella si contrasse.

 

E al suono di quella voce, il pugno strozzò la maniglia della porta facendo impallidire le nocche.

 

“Devi aiutarmi.”



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Post-it autrice 

Grazie, per avermi regalato il tuo tempo.
Grazie, per esserti addentrato in questa storia.
Scaveremo nel dolore, nella solitudine, in un'infanzia livida, in una vita arresa.
alla ricerca di un'emozione sconosciuta, spaventosa, dolorosa in maniera buona: l'amore.

Grazie a Syila, che questa storia l'ha editata con pazienza, affetto, dedizione.
Lei ama la scrittura e questo potete sentirlo, 
attraverso le sue parole.

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Capitolo 2
*** Uno Orizzontale - Acuto e persistente senso di ripugnanza fisica e morale ***


Uno Orizzontale - Acuto e persistente senso di ripugnanza fisica e morale

 

 

“Cosa. Diavolo. Ci fai. Qui.”

Il ringhio di Tobia è carico di rancore.

Rabbia.

Il viso si infiamma, i muscoli si tendono.

 

“Devi prenderlo!”

Ma l’interlocutore è troppo occupato a guardarsi le spalle per cogliere l'assenza di una nota interrogativa.

Lo stato d'allarme muove parole e mani, che passano frenetiche nei capelli fino a far diventare i palmi lucidi e appiccicosi di brillantina.

 

“Senti, l’hanno arrestata e…”

“Non mi interessa!”

 

Un colpo secco alla porta.

Rimbalzo.

Lo scarponcino ne impedisce la chiusura.

 

“Dovrebbe, invece.”

Il nervosismo abbandona d'un tratto il corpo dell'uomo che, raddrizzandosi, scrolla dalle spalle gli ultimi granelli d'agitazione.

 

Le sue parole puzzano d’avvertimento.

E a giudicare da quell'espressione nauseata, Tobia deve averne colto il sentore.

 

Gli sguardi si trovano.

 

“Non credo che sarebbe una bella pubblicità per te, non trovi? Il proprietario di una delle attività più proficue e benemerite del paese che si rifiuta di prendersi cura del povero nipote! Sarebbe proprio…”

 

Il monologo viene interrotto da una mano arpionata al colletto della polo.

La nuca cozza contro il muro.

Un rumore secco, poi, la pressione.

 

Tobia ghigna di fronte al vano tentativo di sottrarsi alla sua presa.

Il braccio preme sulla giugulare.

 

“Adesso sei meno spavaldo, vero Corrado?”

 

I nasi si sfiorano.

Sguardi assottigliati dal risentimento.

 

“Sai…

Sai bene che ho ragione…”

 

La presa non si allenta.

Corrado si aggrappa alle mani che lo imprigionano contro il muro.

 

“Mi stai soff… cando…”

 

Un sorrisetto compiaciuto.

Un temporeggiare calcolato.

 

La stretta si scioglie violenta, la caduta è scomposta.

 

“Silvia ha ragione.

Hai dei modi di merda!”

 

Corrado, a distanza di sicurezza, gonfia il petto e la bocca di spavalderia.

Ma le parole si afflosciano all'avvicinarsi di Tobia, mutando in rassicurazione.

 

 

“Uscirà presto.

E verrò a riprenderlo.”

 

Tobia stringe la mascella fino a produrre uno scricchiolio.

 

Non può permettere che quella feccia getti ancora fango sul suo nome.

Non dopo tutto ciò che è successo.

 

La sua attività, il suo Orto Sociale, ha impiegato anni per tornare ad esser considerato per l'effettivo valore.

 

Perché le visite riprendessero e le persone smettessero di considerarla l'azienda della famiglia del tossico.

Di quello morto per overdose.

Di quello che era un così bravo ragazzo.

Di quello abbandonato al suo destino.

Di quello che si vedeva, che si sarebbe rovinato.

 

L’attività di coloro che aiutano e non si accorgono dei propri cari.

Dei negligenti, degli ipocriti.

Di coloro che in tutti i modi hanno cercato di aiutare il figlio, il fratello.

 

Ha impiegato anni, per riuscire a scrollarsi di dosso tutte le etichette contrastanti.

Sentite.

 

Vere.

 

E Tobia non può tornare indietro.

Non può permetterlo.

 

“MUOVITI!”

 

Il vociare lo scuote.

Il disprezzo gli macchia lo sguardo; altre due figure stanno scavalcando il muro.

 

Un tonfo annuncia l’entrata in scena di un ragazzo.

Dai capelli scuri e dalla quantità di gel che li tiene all'indietro, Tobia suppone essere il figlio di Corrado.

Stessa appiccicosa acconciatura.

Viscida, come ogni membro della famiglia Giunta.

 

Il secondo tonfo, più tenue, è simultaneo ad un breve guaito, soppresso da una sequela di offese.

 

“Stupido idiota.”

 

Corrado si dirige a passi veloci verso la causa della sua attuale irritazione.

Il figlio gli dedica un sorrisetto compiaciuto nel vederlo trascinare in piedi il ragazzino, afferrandolo per la maglia.

Sorrisetto che si spegne nel preciso istante in cui la mano del padre schiocca sulla sua nuca.

 

“Ahia!

Ma perché, papà?”

Si lamenta offeso massaggiandosi la testa.

 

“Dovresti prendertela con quello...”

“Vedi di chiudere la bocca, Toni!”

 

L'ammonimento risulta efficace.

Il ragazzo tace all'istante.

 

Tobia rimane immobile, per tutto il tempo.

Le braccia conserte, la maschera di nuovo in posizione.

 

Si è sforzato, in quei minuti, nel cercare una plausibile soluzione.

Potrebbe chiamare le forze dell'ordine.

Ma sarebbe incapace d'impedire le scontate conseguenze.

La donna ha organizzato tutto.

Un ‘No’ e lui si ritroverà di nuovo con un mirino proiettato in faccia.

Sul petto.

 

 

“Perché non lo tieni tu?”

La domanda è plausibile.

La risposta sbrigativa.

 

“È meglio se io ed i miei figli spariamo per un po'…” dice strattonando il ragazzino.

 

Tobia distoglie lo sguardo, cercando di reprimere un nuovo moto di irritazione.

 

Il figlio di lei.

È il figlio di lei.

 

Che sia anche il figlio di lui è soltanto un dettaglio irrilevante.

 

Tobia sa, nel momento in cui tre paia di scarpe entrano nel suo campo visivo, di non avere più scelta.

Il suo viso si fa, se possibile, ancor più contrito.

 

Il figlio di lei.

Di lei.

Di lei che lo ha trascinato di nuovo nel baratro.

Della scansafatiche.

Sanguisuga.

 

Una scarica d’odio represso lo porta ad alzare il volto.

E, di nuovo, la maschera s'incrina.

 

“Non dovrebbe avere sette anni?” sputa all'improvviso, perforando con lo sguardo l'erede del suo risentimento.

Basso, testa china.

Un maglione consunto, talmente slabbrato da lasciar intravedere le spalle.

Un groviglio di capelli chiari, sudici.

 

La stessa scarsa igiene della donna, evidentemente ereditaria.

 

“Sei sordo?

Sta parlando con te!”

 

Yuri si sbilancia quando qualcuno lo spinge.

Incespica fra i lacci sciolti delle scarpe e per poco non finisce disteso ai piedi dello sconosciuto.

Facendo forza sulle mani, si rialza, spolverando i palmi insieme.

 

“I-Il, i-il…”

 

Il cuore batte talmente veloce che teme di poter disturbare gli adulti, col ritmo impazzito.

Ma si costringe a provare, nonostante l'agitazione, la paura, il terrore di farsi scoprire dallo sconosciuto alto e vestito di nero.

 

“I-Il…”

E ci riprova, deglutendo forte e conficcandosi le unghie nei palmi sudati, sforzandosi di mettere insieme una frase in poco tempo.

E più spinge la voce, più questa si incastra nella gola, esce frammentata, disobbediente.

 

Frustrazione, ansia, consapevolezza d'esser tremendamente deludente.

Sbagliato.

Difettoso.

 

“Ti vuoi muovere!” “Non mi interessa!”

 

Il bambino incassa la testa nelle spalle, mortificato dalla rabbia simultanea.

Meritata.

 

Vorrebbe tanto scusarsi, ma l'uomo sulla soglia ripete a gran voce il suo disinteresse.

 

“Sparite!” ordina Tobia, liquidando la faccenda.

 

“Avete ottenuto quello che volevate, adesso fuori dai piedi!”

 

La sua voce fa paura.

Yuri si affretta a seguire il Signor Corrado, quando il più giovane si volta facendolo pietrificare.

 

“Sei stupido o cosa?

Tu rimani con lui!”

 

“S-Signore…”

“Ti diverti a farci perdere tempo?”

“N-No, Signore.”

“Tieni la bocca chiusa.

E forse tua madre potrebbe anche decidere di venirti a riprendere…”

 

L'irritazione di Tobia si impenna ad ogni parola sprecata, ad ogni secondo di forzata attesa.

 

“Se non ti decidi ad entrare, dormirai in giardino!

Mi sono spiegato?”

 

Un brivido percorre la piccola schiena.

Le risate di Toni si allontanano.

 

Non vuole dormire in giardino.

La notte fa freddo e l'erba diventa tutta bagnata.

Ed è buio, ci sono i rumori e a lui viene da piangere e…

 

“ALLORA?”

 

Stando attento a non inciampare si affretta verso casa.

L'ombra dell'uomo è alta.

Copre quasi tutta la luce proveniente dalla stanza.

 

Con gli occhi bassi, si ritrova di fronte a lui.

Ad osservare le sue scarpe lucide che sembrano così dure e dolorose.

 

Stringe gli occhi, cercando di domare tutti i pensieri che lo fanno agitare, spostarsi da un piede all'altro, mordersi le guance per trattenere i respiri che sa, sarebbero troppo.

 

“Tua madre non ti ha insegnato nemmeno le basi dell'educazione, eh?” ringhia l'uomo.

 

Cosa deve rispondere?

Si o no?

Cosa deve fare?

 

“Alza quella dannata testa, quando ti parlo!”

 

Il comando viene eseguito all'istante.

Una condanna auto inflitta.

 

Gli occhi, quegli occhi.

 

 

Caratteristica somatica dettante differente colorazione di parti del corpo omologhe: Eterocromia.

 

Secondo te, sto meglio con gli occhi azzurri o castani?”

Una mano copre l'occhio destro.

Poi, il sinistro.

Un sorriso si riflette nello specchio, ad ogni profilo.

Secondo me avrebbero dovuto darti meno colore e più cervello.”

Diego ride.

Tobia si sforza di rimanere serio.

Potrei inventarmi una storia, sai?

Tipo un incidente…

Anzi, no!

Un incendio, il mio tentativo (riuscito, ovviamente) di salvare una povera famigliola!

Che mi è costato un occhio!

Ho perso il colore e…

Ok, non regge.”

Rimani sulla storia dell'incidente.

Quello spiegherebbe molte cose.”

Stronzo.”

Narciso.”

Occhio bionico.”

Naso da provincia!”

Bastardo.”

Lo penso anch'io! Non si spiega una bellezza come la mia in questa famiglia, altrimenti.”

Occhi al cielo, un braccio gli circonda il collo, stringendolo in una presa fraterna.

Puoi sempre essere il fratello intelligente, Tobi”

Se mi chiami Tobi sarò l'unico, fratello.

Sappilo.”

 

Tobia vacilla.

E col suo corpo, il suo impeccabile autocontrollo.

 

Gli occhi.

Quegli occhi.

 

Gli occhi di suo fratello, nel volto di quella cagna.

È un oltraggio!

Un affronto.

 

Il bambino abbassa velocemente il viso, alla sua reazione.

Per poi rialzarlo, memore dell’intimidazione di poco prima.

 

Si muove a disagio, insicuro.

Il Signore alto gli ha detto di guardarlo.

 

Ma poi…

Poi lo ha fatto e lui ha sbattuto veloce le palpebre, come quando il sole ti ferisce gli occhi.

Ed ha fatto quell'espressione…

Che fanno tutti.

Tutti.

Tutti.

 

“M-Mi d-dispiace, Signore.”

 

È così alto.

Così grande e…

Spaventoso.

 

Come le sue mani chiuse a pugno.

Che fanno così tanta paura che Yuri proprio non ci riesce, a stare fermo.

E a non far traballare le gambe.

 

“Mi d-dispia…” “Entra!”

 

Un lieve senso di soddisfazione sfiora Tobia, nel notare il sobbalzo del ragazzino.

 

Non permetterà alla donna di rovinargli la vita.

Nemmeno per vie traverse.

Non un'altra volta.

 

 

Il tonfo della porta, chiusa alle sue spalle, lo fa rabbrividire.

Ancora.

A giugno l'aria dovrebbe essere più mite.

Ma è notte.

Piena notte.

 

In un breve momento di coraggio, Yuri si prende la libertà di pensare che probabilmente la casa è sempre così fredda.

Gelida.

 

Anche di giorno.

 

Forse però, con la luce del sole farà un po' meno paura.

Tutto, fa un po' meno paura di giorno.

Quasi, tutto.

 

“Non muoverti di lì!”

“S-Sì, Signore!”

 

La riposta tempestiva, inaspettata.

Tobia lo fissa con disprezzo.

 

“Ti credi divertente?”

“N-No, Signore!”

 

Urgenza.

L’uomo si è avvicinato.

E Yuri non può muoversi.

 

“Te lo chiedo di nuovo: ti credi divertente?”

 

Le unghie graffiano la pelle, sotto lo strato di stoffa.

 

È arrabbiato, il Signore.

 

Preme un po’ di più, le dita affondate nella carne.

Ma i tremiti.

Quelli non riesce ad impedirli.

E sentendo i denti iniziare a cozzare fra loro, stringe forte la mascella.

 

Non.

 

Deve.

 

Fare.

 

Rumore.

 

Tobia guarda.

Gli occhi del ragazzino fuggire dai suoi.

Dalla sua figura.

 

E gioisce silenzioso, decantando la sua prima vittoria.

Non occorrerà ripetere l’ammonimento prima di lasciare la stanza.

 

Un passo.

Due passi.

Tre.

 

Quattro.

 

Scalini.

 

Le scarpe emettono un suono diverso, quando salgono dei gradini.

Ed ecco infatti che il rumore si sposta sopra la sua testa.

 

Più lontano.

 

Le braccia sciolgono la stretta convulsa.

Yuri avverte il vuoto, il freddo provocato dall'allontanamento.

 

Ma gli bastano pochi secondi.

Vuole soltanto, ecco.

Le dita strigliano i capelli, che si sono spostati scavalcando il muro.

Li stropicciano velocemente, appiattendoli contro la fronte, sul viso.

Sugli occhi.

 

A sinistra i capelli sono più lunghi, ed è più facile.

D'altronde, basta coprire uno.

 

Passi.

Scalini.

 

Le braccia tornano al loro posto.

Attorno al piccolo busto.

A stringerlo forte.

 

Perché così è più semplice, Yuri lo ha imparato.

È molto più semplice rimanere fermi.

 

Passi veloci; il Signor Corrado – no, stupido, stupido! – il Signore Alto ha scordato qualcosa.

 

Il bambino si guarda intorno, svelto.

Forse se riesce a capire cosa il Signore ha dimenticato…

Forse può dare una mano e…

 

 

Ancora lì, in quel punto preciso.

Tobia passa a rassegna ogni superficie, per cogliere il minimo spostamento.

Sembra che niente sia stato toccato.

Sembra.

 

O forse, il suo essere truce ha sortito l'effetto sperato.

 

Probabile.

Madre Natura è un personaggio generoso ma sbadato.

Ha abbondato in centimetri, come altezza e naso possono testimoniare.

Ma si è dimenticata di condire il tutto con un pizzico d'armonia.

 

Non che Tobia se ne faccia un cruccio, anzi.

Il suo aspetto impone soggezione e detta distanza.

 

E lui non può che bearsene.

 

“Seguimi.”

 

Sì, è riuscito nel suo intento: obbedienza istantanea, rispettoso silenzio.

Durato troppo poco.

 

“S-Signore, d-dove…”

 

Tobia assottiglia gli occhi, incrocia le braccia.

 

“S-Signore…

D-Dove d-dev…”

 

Si morde l'interno delle guance per non ordinargli di darsi una mossa.

 

“D-Dormire?”

 

Tobia sbuffa, una mano ancora sul pomello della porta che ha aperto.

 

“Se il letto non è all’altezza delle tue aspettative, prova con l'armadio, ragazzino!” commenta sarcastico, sopprimendo la voglia di rispondere con uno scappellotto al Sì, Signore che segue.

 

Sta cercando di provocarlo, questo è evidente.

Ma non cederà.

La porta sbattuta sul nascere di una nuova, stupida domanda.

Le spalle voltate ad una stanza che adesso racchiude troppe cose.

Troppe spiacevoli cose.

 

 

Yuri fa per aprir bocca, ma il Signore se n'è andato.

 

Vorrebbe sospirare di sollievo, ma c'è qualcosa, nella sua gola, che lo impedisce.

Un qualcosa di conosciuto, doloroso.

Di difficile da ignorare.

Da ingoiare.

 

La porta è chiusa.

 

I passi lo distraggono dal male.

 

Attesa.

 

Si stanno allontanando.

Yuri li conta ed è un pochino più facile, adesso.

Respirare, respirare è più facile.

 

Dieci passi.

Dieci è un buon numero.

 

Yuri abbassa piano la maniglia.

Piano piano, col cuore che sembra essersi fermato.

Con lo stomaco che brucia.

Come gli occhi.

 

Lucidi di apprensione, poi di sollievo.

 

Si apre.

La porta, si apre.

 

Il sospiro, adesso, esce naturale, gradito.

 

È stato gentile, il Signore.

Ha anche lasciato la luce accesa.

 

La tensione cala, l'energia scema insieme ad essa.

I sensi stanno allentando lo stato d’allerta, scacciando la nebbia che offuscava tutto il resto.

 

La pulsazione del basso ventre, è la prima cosa a rendersi nitida.

 

Vorrebbe.

Vorrebbe aver avuto il coraggio di chiederglielo.

Di chiedergli di andare in bagno, veloce.

Giusto un attimo.

 

E subito si pente del pretenzioso pensiero, della richiesta che non fa altro che dar ragione a quelle voci.

Ragazzino ingrato.”

L'uomo è già stato abbastanza paziente e lui è già pronto con una nuova pretesa.

 

Apre le ante dell'armadio.

 

C'è anche una coperta, lì dentro.

 

Sì, è proprio un bambino ingrato.

 

Lo sa, Yuri.

Per questo, adesso gli viene da piangere.

 

Anche se non ne ha motivo, perché è al caldo e c'è la luce accesa.

E vorrebbe non farlo, è una cosa che fa arrabbiare i grandi e potrebbe svegliare la mamma.

Ma la mamma adesso non c'è e il Signore arrabbiato è lontano, allora…

 

Una lacrima scappa e lui non ci riesce, a fermarla.

 

“C-Cattivo.”

 

E il crampo allo stomaco sembra dargli ragione.

 

“C-Cattivo!”

 

Il viso affonda nelle ginocchia, strette al petto.

 

Strette, strette.

Come il suo piccolo cuore martoriato.

 

 

Tobia si lascia sprofondare nella poltrona.

Il liquido ambrato ondeggia nel bicchiere, dipingendo sul vetro un’impronta destinata a svanire.

Guarda la traccia dissolversi ed inclina appena il bicchiere, di nuovo, fino a provocare il whisky, pericolosamente vicino al bordo del cristallo.

Lo ruota, compiaciuto del rame che adesso lo ricopre totalmente.

Ma prima che possa svanire lo congiunge alle labbra, senza schiuderle, per riuscire a carpirne l’aroma del legno, della botte, dell’invecchiamento.

Soltanto allora, si concede l'abbandono al gusto avvolgente, amato e conosciuto.

Ritrovato.

 

Tobia si immerge, sensi e mente annegati in un bicchiere.

In un'illusione.

 

Ora posata lontano.

 

Qualche minuto, prima che la necessità di proseguire a navigare nell'oblio lo sproni ad allungare la mano.

I benefici dei pochi sorsi sfumano, accorgendosi del perfetto cerchio umido che allarga linee e lettere del cruciverba, sciogliendole.

 

Andrea saprebbe trovare il lato ironico della faccenda, magari ribattezzando le scritte piangenti un moderno Dalì.

Ma Tobia non è Andrea ed Andrea non è lì, e come se non bastasse lui odia Dalì, i suoi orologi sciolti ed anche le sue giraffe in fiamme, ed ogni dannata immagine che rappresenta il surreale.

 

Surreale.

 

Ecco cos'è tutto questo.

 

Surreale, come il ragazzino che poco prima ha sentito aprire la porta e che con cautela l'ha richiusa, troppo codardo per dar vita ad un'idea o all'esecuzione di un comando altrui.

 

Il ragazzino che da suo fratello ha ereditato soltanto gli occhi, con i quali si troverà a fare i conti per i prossimi indefiniti giorni.

 

Il ragazzino che è uno schiaffo di ricordi, di un passato che lui voleva soltanto dimenticare e che invece adesso se ne sta al piano di sopra, rilassato fra lenzuola che nessuno toccava più da anni.

E che Adele sicuramente l'indomani si prenderà la briga di cambiare e sistemare.

 

Tobia riprende fiato, come se avesse davvero dato voce al monologo rimasto però privo di voce.

E riprendere fiato, sembra un’azione tanto banale quanto utile, al momento.

 

Allenta la presa dalle pagine che non si era accorto d’aver accartocciato e torna a posare la schiena sulla morbidezza dell'amata poltrona, compagna di momenti e anni.

La schiena rigida trova sollievo e ci si adagia, come la mente, che galleggia piacevole nella nebbia donata da un terzo bicchiere.

 

Nebbia che però non dissipa il sapore ripugnante, che sente in bocca.

Quel disgusto amaro che punge la lingua.

 

Se ripensa a Corrado.

O alla donna.

O al ragazzino.

 

O a se stesso.

 

Ma, ci penserà domani.

 

Domani, sarà tutto più chiaro.

Domani, farà tutto meno schifo.

Meno

Male.





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Post-it autrice

Grazie per il tempo che hai regalato a me, al mio collage di parole.
Se ti va di lasciare un consiglio, un appunto, un parere, un abbraccio, sentiti libero.
Se non ti va, sentiti comunque libero.
La libertà è un diritto meraviglioso.


 

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Capitolo 3
*** Due Verticale - Tre Orizzontale ***


Due Verticale - Rendere mansueto, docile, ubbidiente
 
 
Sai qual è stata la prima cosa che ho pensato quando mi sono svegliato cercando di scrollarmi di dosso i postumi di una notte scomoda?
 
Che te l'avrei fatta pagare.
 
Se tua madre aveva deciso di rovinarmi la vita usando te, avrebbe trovato pane per i suoi denti.
I pochi denti rimasti, quelli ancora non mangiati dalla droga.
 
Te l'avrei fatta pagare, perché avevi sette anni e sicuramente avresti combinato qualcosa.
Ed avevo già in mente il tono per rispedirti in camera senza cena.
O per ordinarti di scrivere frasi all'infinito.
 
Ma le ore passavano.
E tu, ancora, non mi avevi dato un pretesto moralmente accettabile per sfogare la mia frustrazione.
 
Nel frattempo, Adele aveva fatto la tua conoscenza.
 
Tozza, nerboruta, russa.
Atterrata in Italia ed in questa casa da quelli che, al tempo, erano tredici anni.
 
Adele, che in realtà si chiama Aglaida Dobrava Kuznetsovia, ma ha optato per un nome d'arte nonostante le mie rimostranze di fronte al suo annuncio.
“Non si è mai sentito di una domestica con un nome d'arte!”
“Ma io è artistia! Io sopporta Siniore Tobia, io è quasi mago!”
Niente da ribattere.
 
Adele, che si pronuncia senza la e finale.
Delicato, etereo.
In perfetto ed armonico disaccordo col suo essere.
 
Le avevo dato un'idea generale della situazione.
Poche, semplici, brevi spiegazioni e una sola raccomandazione: “Non dargli confidenza.”
Non c'era stato bisogno di aggiungere molto, Adele già conosceva la mia storia e la fama di Silvia, tua madre.
 
“Y-Yuri....”, ti ho sentito rispondere ad una raffica di parole pronunciate con la fierezza di chi è intollerante agli ordini. Non hai aggiunto altro.
Eri ancora troppo spaesato per lasciar libero il tuo vero essere.
 
Ero convinto.
O, forse, solo ostinato: il fatto che le mie convinzioni vacillassero di fronte all'evidenza era irrilevante.
 
“Bambino non ha viestiti. Perché bambino non ha viestiti?”
 
Tu, non rispondevi.
Immobile, di fianco alla tavola apparecchiata.
Pronta per la colazione.
 
“Non mi riguarda.”
Adele ha borbottato qualcosa in russo e si è congedata.
Ricordo le sue incomprensibili lamentele accompagnarla alla porta, al vialetto, al cancello.
 
Niente di nuovo.
 
A parte te, ovviamente.
 
Credevo fosse arrivato, sai?
Il momento.
Quello giusto.
Pensavo fosse arrivato quando mi sono seduto a tavola e tu invece sei rimasto lì, imbambolato in piedi, intento a fissarti le scarpe e a giocare con l’orlo della maglia logora.
“Siediti. Non lo ripeterò.”
Lo hai fatto: ti sei seduto per terra.
Non ricordo con esattezza ciò che successe dopo.
Dopo che la rabbia aveva infuocato la mia voce, dopo che i miei occhi ti avevano trapassato fino al punto da far quasi lacrimare i tuoi.
L’immagine successiva delle mie memorie è il tuo sederti a tavola con le mani sotto le cosce, senza toccare cibo.
 
Avrei potuto approfittare ed infierire, suppongo.
Ammetto di aver soppesato l'idea, ma ho optato per una soluzione migliore: ti ho ignorato.
Se non volevi mangiare, non era un problema mio.
 
L'ho fatto la mattina, poi a pranzo in una sorta di deja-vu.
Hai atteso l'ordine di prendere posto, mani sotto le cosce, una ferma presa di posizione nel non mangiare.
 
Volevi provocarmi, ragazzino e ci stavi riuscendo bene.
 
Ma c’era qualcosa… Qualcosa di stonato.
La mia assurda incapacità di godere appieno del tuo timore evidente.
Ed il fastidioso formicolio all'altezza dello stomaco, provocato dall’udire ogni tua scontata risposta.
Dallo sfiorare con lo sguardo i tuoi occhi lucidi.
D'orgoglio.
La mascella costretta.
Sempre orgoglio.
 
Cercavi attenzione?
Non l'avresti ottenuta.
 
“Usciamo.”
“S-Sì, Signore!”
 
Un pugno sbattuto sul tavolo.
 
Mi ricordo di come il tuo corpo ha sobbalzato.
Mi ricordo di come hai spalancato gli occhi, sottoponendomi ad un supplizio che ignoravi.
 
“Sai dire qualcos'altro oltre a Sì, Signore e No, Signore?”
“Sì, Signo…”
 
Ti bloccasti.
Poi, violenti scatti del tuo corpo, del tuo braccio.
 
Eccoti, che reprimevi la voglia di dedicarmi chissà quale volgare gesto.
 
“Non ti permettere!”
“M-Mi d-dispiace, S-Signore!”
 
Avevi perso.
E un po' avevo perso anche io.
 
“Piantala e seguimi.”
 
Il mio formicolio mi irritava.
Il tuo tremore mi irritava.
La tua obbedienza ostentata mi irritava.
Il tuo camminare con la schiena curva, i lacci sciolti delle scarpe, il nascondere le mani, mi irritava.
 
O forse, non era irritazione.
Tuttavia ho sempre deciso io quali emozioni provare.
E non era disagio.
Non era timore.
Era irritazione.
Lo avevo deciso.
Il caso, era chiuso.
 
Ti ho assegnato degli esercizi.
Scrittura, compiti di base.
Volevo vedere fino a che punto arrivava l'eredità di tua madre.
 
Non hai chiesto perché stavamo rimandando l'uscita.
Non eri spocchioso o deliberatamente provocatorio come lei, questo potevo ammetterlo.
Eri solamente più furbo.
 
Hai svolto tutti gli esercizi assegnati.
Senza fiatare.
Eppure sulla sedia continuavi a muoverti: piccoli e quasi impercettibili movimenti di disagio che tentavi di celare.
Come lo scuotere il braccio indolenzito dall'esercizio.
Orgoglioso come tua madre.
 
I tasselli combaciavano.
 
Ho pensato non fossi abituato a lavorare così a lungo.
E la mia tesi è stata confermata da un'occhiata veloce alle pagine: frasi quasi illeggibili, una scrittura pessima.
Ovviamente, te l’ho detto.
Ti ho detto di non aver mai visto niente di più vergognoso del tuo compito.
Poi ho preso le pagine e le ho accartocciate.
 
Sai cosa avrebbe fatto tua madre?
Forse no.
Alla luce dei fatti, posso affermare che tu non l'abbia conosciuta.
Ma io la ricordavo bene.
Frequentavamo la stessa scuola superiore e nonostante io fossi all'ultimo anno e lei soltanto al primo, le sue reazioni nei confronti dei professori, erano leggenda.
Ero quindi talmente preparato a vedere la sua proiezione in te, che il tuo Mi dispiace, Signore, mi ha travolto.
Stravolto.
 
Ho sentito la necessità di voltarmi, per ignorare il tuo viso.
“M-Mi d-dispiace, Signore…”
Le tue scuse.
La testa china sul fallimento d'inchiostro.
 
Ed ho odiato quella necessità.
“Bugiardo.”
 
Domare.
 
Lo avevo sempre fatto, con le mie emozioni.
Non avrei certo smesso a causa tua.
 
“È stato nominato Tutore provvisorio del minore, in quanto parente più stretto.
La tutela verrà revocata alla fine della condanna.
A quel punto, il suo ruolo si assolverà automaticamente e la custodia tornerà ad essere esclusivamente della madre, qualora sia ritenuta idonea, ovviamente. Ha qualche domanda?”
Li fissai.
Ero in bilico.
Avrei potuto troncare sul nascere quella farsa.
Avrei potuto consegnarti a loro.
E condannare la mia reputazione.
 
Firmai odiando ogni lettera del mio nome.
Vollero vederti,  ma  per non destabilizzarti  evitarono di interrompere i tuoi esercizi.
“Se ha qualche dubbio, ci contatti.”
Stritolai il biglietto da visita tra le mani,  riducendolo ad un pugno di inutile carta.
 
 
 
“Scendi.”
Alzai una mano per bloccare la tua ovvia risposta, guardandoti dallo specchietto retrovisore.
E tu, di rimando, alzasti entrambe le braccia per coprirti la testa.
Possibile, che ti avessi spaventato a tal punto?
Spostai lo sguardo dal tuo al mio riflesso.
Possibile, sì.
 
“Va' a prendere le tue cose, vestiti, libri per i compiti, spazzolino, pigiama e…”
Ti vidi deglutire più volte.
Aprire e chiudere la bocca.
E forse…
Forse sperai, che tu dicessi qualcosa.
 
 
Ma non ha importanza.
Perché tutto ciò che uscì, a fatica, dalle tue labbra, fu un Sì, Signore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Tre Orizzontale - Amaro turbamento interiore, per parole o azioni riprovevoli
 
 
“Bene.
Bene.
Bene.
Guarda un po' chi è tornato…”
 
Yuri schiva la mano che sibila sopra la sua testa ma non riesce ad evitare la spinta; finisce disteso a pochi centimetri dal camino ancora sporco dei residui dell'inverno.
 
La risata lo raggiunge.
Ed il fatto che ad essa non si unisca un coro, lo fa in qualche modo tranquillizzare.
 
“K-Kevin…”
 
K-K-K-Kevin!
K-K-Kevin!
 
C'è abituato.
Alle risate.
A sentire l'eco dei suoi frastagliamenti accentuati.
C'è abituato.
 
E allora perché fa sempre così male?
 
“I-Il S-Signore ha d-detto che…
C-che d-deve p-prendere le c-cose e…”
 
Di nuovo risate.
Di nuovo spinte e, adesso, rialzarsi è più difficile.
 
“K-Kevin…”
 
K-K-Kevin!
K-K-Kevin!
Ma ti senti quando parli?
E quello dove stai ora lo sa di quanto sei anormale?
Si sarà fatto un'idea, se ha avuto il coraggio di guardarti in faccia!”
 
Il telefono sfilato dalla tasca.
 
Lacrime offuscano gli occhi.
 
“P-Per f-favore…”
“Dovrebbe saperlo, non credi?”
 
La voce intrisa di una cattiveria che mal s'intona ad un'anima di nove anni.
Crudeltà spontanea, maturata.
Imitata, incitata.
Che risuona dopo aver scorso la galleria, strusciando con saputa conoscenza il display crepato.
 
“Che dici? Glielo facciamo vedere al tuo nuovo S-S-Signore come sei frignone?”
 
Play.
Le urla si propagano dal contenitore digitale.
E poi, è tutto troppo veloce.
 
“NO!”
 
Yuri gli si scaraventa addosso.
Troppo spaventato, troppo allarmato per rendersi conto di quel che ha fatto.
 
“Come cazzo ti permetti di toccarmi!”
 
Vuole soltanto andare via.
Ubbidire al Signore.
Prendere le sue cose.
Tornare da lui.
Dall'uomo che gli fa paura, ma che è stato paziente.
 
Dall’uomo che…
Ha appena spalancato la porta.
E si sta dirigendo verso di loro.
 
“E così è questo il tuo zietto! E dai, facciamogli ascoltare!”
 
È tutto confuso.
Le frasi, le parole, le mani che lo allontanano e lo tirano su.
Le urla, le risate interrotte.
Le parole cattive.
Che però, adesso, Kevin non sta rivolgendo a lui.
 
“Ridammelo, stupido vecchio!”
 
“Taci ragazzino o ti giuro che queste saranno le ultime parole che dirai!”
 
E ancora insulti ed ordini.
Offese e risposte.
 
Il telefono smette di fare rumore.
Il suo rumore.
 
“Vai a prendere le tue cose e andiamo!”
 
Le gambe tremano nello sforzo di eseguire il comando.
 
“Questo lo tengo io!”
 
Le proteste lo inseguono e lui cerca di ignorarle.
 
Yuri esce sul retro.
Non guarda, il casottino in legno.
Ma lo sente.
Nel sudore che gli fa frizzare la schiena, nei brividi.
Caldi, freddi.
Caldi, freddi.
 
Maledetti.
 
Affretta il passo, per chinarsi poi sotto la siepe che vorrebbe poter annaffiare.
Così farà i fiori.
I fiori fanno sorridere la mamma qualche volta.
 
Dissotterra il suo sacchetto azzurro, di plastica, lo infila sotto la maglia e il terriccio finisce anche dentro i pantaloni.
Yuri corre per raggiungere il pilone.
L'innaffiatoio dove c'è già un po' d'acqua dentro.
 
Lo solleva e lo sbattere contro il marmo grigio fa traboccare un po' di liquido, che inzuppa la manica.
Ma non ci bada.
Può farcela .
 
Ce l'ha fatta.
 
Se non fosse qualcosa di troppo stupido da fare, probabilmente Yuri sorriderebbe.
Lo fa, dentro di sé, per un momento percepisce il solletico dentro al pancino.
Una sensazione buona.
Si presenta, ogni tanto, quando sa di non aver sbagliato.
Quando sa che, forse, non li farà arrabbiare.
 
Tuttavia Yuri sa quanto breve sia la sua durata.
Ed assiste alla prematura trasformazione nell'esatto opposto: un opprimente, angosciante sentimento.
 
“Sei diventato totalmente stupido?”
L'incontro con la miniatura di Corrado ha riacceso la rabbia e carbonizzato i rimasugli del suo autocontrollo.
 
“Sul serio, ragazzino? Io ti dico di sbrigarti e tu ti metti ad annaffiare un cespuglio?”
 
Il bambino stringe l'innaffiatoio al petto.
La testa bassa, le scarpe tracciano solchi agitati nel terreno.
“S-S-Sennò…
M-M-M… M-Muore, S-Signore…”
 
Per un attimo, Tobia rimane interdetto.
L'attimo successivo, è nuovamente furibondo.
E cieco.
Incapace di vedere il terrore che la sua vicinanza scatena nel bambino.
E sordo.
Incapace di sentire la vera natura delle sue pavide obiezioni, additate come capriccio.
Vissute come preghiere.
 
 
 
“Va' a tavola!”
“Oh, buonasera anche voi, Siniori!”
Adele sventola la mano su di un pentolone fumante.
Non si cura dell’astio che trapela dalla voce dell'uomo, abituata al suo essere scostante e presumendo le difficoltà che una persona come il Siniore Tobia incontra nell'affrontare una situazione del genere.
Ma la renderà orgogliosa, ne è sicura.
Il tempo di adattarsi ed accoglierà il ragazzino magro.
Il quale ha decisamente bisogno di una bella doccia, si dice guardandolo.
Magari anche di una rassicurazione, aggiunge, facendogli l’occhiolino.  
 
Sedendosi, l'uomo è disturbato da una pressione insistente ed inusuale alla coscia.
Allungando la gamba e inarcando la schiena, estrae il marchingegno dalla tasca del jeans scuro, stringendolo nella mano.
 
Tobia prova a canalizzare nel pugno la rabbia bollente aizzata dalla figura immobile davanti a sé.
 
Fa per aprir bocca, ma non è sua, la voce che dà vita ad una domanda rubata.
 
“Perché Bambino non mangia? No piace?”
 
Il colpevole deglutisce, la salivazione aumentata alla vista della carne.
Oh, quanto vorrebbe assaggiarne un pezzetto.
 
Gli occhi desiderosi, lucidi e resistenti la guardano.
In una tortura lenta che fa urlare lo stomaco.
E lo fa dolere così tanto.
 
Yuri non si arrischia a guardare in direzione dell'uomo arrabbiato.
Sa che sarà lui a dare una spiegazione alla donna col vestito a fiorellini.
Le spiegherà perché non può assaggiare nemmeno un pezzettino della carne che sembra tanto morbida e…
Dolce, forse.
Bagnata dal sugo che ha lasciato qualche gocciolina sui bordi del piatto bianco, che sicuramente il Signore raccoglierà con la mollica del pane.
Chissà se anche lui, getta via la crosta come il Signor Corrado.
Se gli permetterà di prenderla o...
“Dannazione, ragazzino!”
Un pugno sbattuto sul tavolo, il telefono ancora stretto fra le mani.
Quel telefono.
Gli occhi di Yuri si sgranano.
Il sobbalzo provocato dal colpo violento, lo spavento scaturito dalla scatola di ricordi, lo fanno scivolare, scattare via dalla sedia.
“S-S-S…
S-Signore…”
“Perché diavolo non mangi, ragazzino?”
L'uomo si è alzato.
Enorme.
Furioso.
 
“N-Non lo s-s-sapeva, S-Signore! P-per…”
 
Inspira forte, Yuri, per sciogliere il tremore delle sue parole.
 
“N-N-N-Non lo sa-sapeva che po… poteva!”
 
C'è una supplica, nella voce.
Nelle mani che corrono alla bocca.
Nell'accorgersi del madornale errore.
Sta per piangere.
 
Sta.
Per.
Piangere.
 
“Piantala con questa messinscena!  Ti serviva forse il permesso per mangiare da…”
“Sì, Signore!”
 
Un singhiozzo malcelato.
Un indietreggiare istintivo.
Un avanzare che blocca il respiro.
 
“N-No…”
Un pigolio.
 
L'uomo arrabbiato si avvicina.
“S-Signore…”
Con il telefono ancora in mano.
 
“Q-QUELLO N-NO!”
Un ruggito.
 
Tobia rimane interdetto, in un limbo fra il reale e l'inconcepibile.
E quando Yuri urla di nuovo, spingendolo nella realtà, la sua ripresa è violenta.
 
“IN PIEDI! SUBITO!
È questo il tuo problema, RAGAZZINO?”
 
Il comando eseguito, il telefono sventolato, un passo indietro.
Un rifugiarsi nel buio creato dalle palpebre serrate ma deboli.
 
Le mani sporche di terra strusciano il viso umido, premendo, tentando di comprimere tutto il suo vergognoso mondo.
Che vacilla, vacilla.
 
“P-P-P…”
“È QUESTO?”
 
Ancora quell’oggetto e ancora una paura così cattiva.
Che lo fa mugolare, stavolta più forte.
 
Sì, è il suo stupido problema.
 
Per questo Tobia lo sbatte sul tavolo.
Insieme alla sua furia.
“ECCO RISOLTO IL TUO PROBLEMA!”
 
Yuri è paralizzato.
Crocifisso da quella voce strizza gli occhi, si torce i capelli aggrappandosi a quei fili, a quel dolore, per non guardare.
Per non vedere il suo viso tremante, rosso, le vene del collo gonfiate di rabbia, e le striature sanguigne in quegli occhi che sporgono, sporgono, sporgono, spor-
“E ADESSO VAI A DARTI UNA RIPULITA! O vuoi dirmi che nemmeno quello ti  era permesso, piccolo bugiardo?”
 
“SINIORE TOBIA!”
È Adele, a porre fine all'agonia.
La sua coscienza russa è in piedi, in uno sguardo che solo lei osa rivolgergli.
“È bambino!”
 
Una scontata constatazione, ha il potere di schiaffeggiarlo.
 
Si blocca, Tobia, col petto che si alza ed abbassa veloce, reduce di una sfuriata interrotta.
Abbassa il viso.
E il ragazzino si rialza ed inciampa, si rialza ed inciampa di nuovo fra i lacci ancora sciolti che non si prende la briga di allacciare, troppo frettoloso di allontanarsi.
È bambino.
 
In un silenzio assordante, l’eco del rimprovero rimbomba.
Costringendolo ad ascoltare.
A guardare.
 
E per un attimo, Tobia lo fa.
Vede un piccolo corpo spaventato che non osa emettere fiato.
Vede le maniche lunghe strusciare sugli occhi.
Fermarsi sulla bocca.
Percepisce il suo stesso sguardo gridare vergogna in direzione di un mucchio di abiti sudici.
Vede Yuri obbedire.
 
Vergognarsi.
Degli abiti che stropiccia, delle mani che nasconde.
Degli occhi, che abbassa e tenta di celare con i capelli ora unti di sudore, lacrime, terra.
“Io va a preparare banio! Bambino viene con me!”
 
Adele è determinata nella sua decisione.
 
E da quella determinazione Tobia si sente scalfire.
 
Vergonia!”
 
Trafiggere.
 
“Rimani al tuo posto, Adele.”
È la risposta concisa.
Fredda.
Portata dall'involontaria accettazione di quell'imperativo: vergogna!





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Post It Autrice

Grazie, a chi ha superato il caos del capitolo scorso ed ha affrontato questi.
Stiamo entrando nel vivo, nel punto cruciale.
Il prossimo capitolo, sarà quello su cui si basa tutta la storia.
Sarà lo snodo, la deviazione, quello che farà decidere, a chi legge, se proseguire o meno.

Quindi intanto grazie, per essere arrivati fin qui.
Grazie per avermi fatto capire cosa non andava, nelle parole scorse.
Siete fondamentali.
Vi abbraccio, forte.




 

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Capitolo 4
*** Quattro Verticale - Cinque Orizzontale ***


Quattro Verticale – Pena affannosa, disperazione
 
 
Il ragazzino singhiozza parole.
Tobia, dal piano di sotto, le sente spezzarsi.
E quello che sta provando non somiglia nemmeno un po' alla soddisfazione
“S-Signora!”
Nessun pentimento, solo un principio di spaesamento.
“S-Signora, p-per f-favore!”
Per quella reazione esagerata che dovrebbe farlo infuriare.
Invece di lasciarlo lì, mascella contratta e stomaco teso nella speranza che la smetta.
Di gridare.
 
E implorare.
E piangere.
E disperarsi.
 
“N-Non può!
N-Non può!”
 
Ma Tobia persevera, ingozza la mente ripetendole che è solo il capriccio di un moccioso.
Non è a causa sua se il ragazzino è così spaventato.
E, ha ragione
O, almeno, una parte, di ragione.
Perché l'argine si è rotto a causa di un telefono.
Di uno stupido, moderno telefono.
Lo afferra.
Lo stringe sino a causare l'involontaria illuminazione del display dove fa bella mostra di sé uno sfondo strafottente, infantile: un dito medio, forse appropriato e meritato.
 
Il pollice sfiora il vetro percorrendone la crepa.
Sblocco.
C'è un video, in stand-by.
Un cerchietto, un triangolo bianco al suo interno.
 
“P-Per F-FAVORE!”
 
È il disagio, a fare pressione.
Potrebbe ammetterlo, Tobia.
Potrebbe ammettere d'aver premuto play per mettere in pausa la voce al piano di sopra.
Potrebbe farlo.
Se le parole che desiderava sfumassero, non si riproducessero ora fra le sue mani.
 
C'è un bambino nello schermo rotto.
C'è un bambino costretto in piedi, su una sedia.
Su un tavolo.
 
C'è la sua voce sfibrata.
Ci sono risate grasse, dominanti.
Ci sono preghiere e risposte divertite.
 
“Così impari!”
“Appena lo saprà papà…”
 
C'è angoscia e terrore in due occhi diversi che cercano un appiglio per scendere.
In due mani piccole che cercano il bordo della sedia e sono costrette a ritrarsi.
 
“Provaci!”
 
E allora ci sono di nuovo preghiere.
 
“Se lo dici per bene ti facciamo scendere!”
 
Ed un tentativo.
“P-P… p-p…”
Un fallimento acclamato da risate, un background cattivo.
La messa a fuoco di un bambino terrorizzato.
 
Ma non c'è la sua voce, adesso.
Non riesce ad uscire, se non frastagliata.
Ed atterrita ad ogni avvicinarsi.
Ad ogni mano che si allunga in un sadico dondolare la sedia.
Così alta.
 
“P-Per…
f-favor…
NO!”
 
Una scossa di panico.
Violenta.
Crudele.
Bastarda.
 
“Hai pisciato sul nostro tavolo, stupido mostro?”
 
Risate.
Risate.
Risate.
La testa premuta sul legno.
 
“Lecca!”
 
Nella fretta di chiudere, Tobia cambia pagina.
Un nuovo capitolo di miseria prende vita.
E lui rimane impotente, immobile.
Con gli occhi fissi su una casuale riproduzione di violenza.
 
Un cortile trascurato.
Una porta spalancata all'improvviso.
Mugolii, luce che acceca.
La ripresa eccitata, mai ferma.
Un bambino trascinato, capelli in pugno, disperazione dei movimenti.
Occhi gonfi di lacrime e botte.
 
Nessuno stupido, crudele gioco, adesso.
Solo violenza.
Nuda violenza.
Tobia si porta una mano al petto, sente qualcosa sgretolarsi insieme a quella voce rotta.
Che si frantuma, pezzi sempre più piccoli ad ogni colpo.
Un uomo di spalle, mani che si sfogano su una schiena già livida.
Disprezzo gridato.
E, suppliche.
Giuramenti.
Non lo faccio più.
Suoni di carne battuta.
 
Cosa non avresti dovuto fare?
L'uomo se lo chiede, inchiodato sulla sedia.
E guarda la risposta riprodursi.
 
“Non
Impari
Mai.”
Corrado alterna ogni parola con un colpo.
Uno alla schiena.
Uno sulla spalla.
Uno sul viso.
Che cerca salvezza e si ritrova esposto, una mano a stringere i capelli.
“Non dovevi nascere.”
Una porta chiusa, la promessa di non riaprirla mai più.
 
Voglia di  fuggire.
Incapacità di sottrarsi.
A quelle immagini.
Che forse rappresentano soltanto un increscioso, irripetibile episodio.
Ed invece è solo un frammento.
C'è lo stesso bambino adesso, forse un po' più piccolo.
Ripreso in segreto.
Inginocchiato a terra, per strofinare il pavimento.
La testa che si alza e poi distoglie lo sguardo, ora che la telecamera è più vicina.
Ci sono scarpe nuove battute sul parquet.
C'è fango che macchia un lavoro finito.
Ora ripreso, ora bloccato da una suola premuta sulle nocche.
E c'è desolazione, in due occhi sbagliati.
 
“Piccolo mostro, sorridi al pubblico!”
 
Angoscia, il rumore di una macchina arrestata.
Terrore, una porta spalancata.
Un compito non finito.
Passi che risuonano mentre lacrime scivolano.
Quanto male può fare il rumore di una fibbia sganciata?
 
“S-Signore …”
Quanto può diventare assordante una cinghia sfilata dai jeans?
“S-Signore!”
I colpi veloci, la carne che si lacera.
“T-TI P-PREGO!
P-PER FAVORE!”
Gemiti trattenuti che si evolvono, sfociano in urla angoscianti, finché anche urlare diventa dolore.
“M-Mamm…”
La voce, adesso, è così diversa.
È straziata.
“M-Mamma.”
È straziante.
La salvezza chiamata in un sussurro, che non arriva.
 
Una porta, sempre la stessa.
Un interruttore spaccato.
Una stanza buia.
La conosci bene.
Eppure non ci si abitua mai alla sofferenza, vero?
Tobia si trova a pregare, insieme al bambino.
Prega che la porta si apra.
La porta ripresa ogni singolo giorno.
Ma rimasta chiusa per tre notti, testimoniate in un montaggio curato.
Sadico.
Che riempie la pelle di brividi.
Lo stomaco di bile.
La porta che si apre su un mondo buio.
Blu, viola, giallo.
Un piccolo spazio occupato da enormi atrocità.
Commesse a voce, a mano o con una striscia di pelle.
Ribadite, schiacciate, pressate dal suolo di una scarpa, da un pugno chiuso.
 
C'era un bambino, dentro lo schermo rotto.
Adesso c'è un bambino rotto, dentro lo schermo.
 
“S-Signora!”
“Боже мой!”
Tutto tace.
Tutto, all'improvviso, così come è iniziato, finisce.
Col vociare spaventato di Adele.
Con la sua lingua madre, mai ascoltata prima, che sfuma.
Dissolvenza di rumore.
Pulviscolo di silenzio.
Surreale, fa ronzare le orecchie.
 
Con lentezza, i suoni più tenui si ricompongono.
Piccoli  frammenti si ricongiungono, dapprima insensati, confusi, poi, via-via più coerenti.
 
Tobia, in una tomba priva di suono, sente il mugolare lieve del bambino.
Attutito, labbra che premono insieme, mani a tappar la bocca.
Non lo vede, però lo sente.
Come sente il singhiozzo soffocato di Adele.
Dovrebbe correre, probabilmente.
Ma un peso si è rigettato sulle sue gambe.
Che sembrano macigni ad ogni scalino.
Come i pensieri, ovattati, scoordinati.
 
La porta del bagno è aperta.
La figura di Adele si sposta, si volta spiazzandolo con un'espressione che mai le è appartenuta.
Ha gli occhi lucidi.
Le mani tremano, posate ai lati del viso.
Scuote la testa, ma non è un rimprovero.
È incapacità di parlare.
Sgomento.
 
Tobia avanza.
Il cuore, cessa di battere.
“Va' a chiamare Andrea.”
 
La donna lascia la stanza.
Sono soli, adesso.
 
“N-non l'ha u-usata…
I-Il b-b-b…
I-Il b-bambino n-non l'ha usata.”
Yuri si dondola, nell'angolo in cui si è rannicchiato.
Fra il lavandino e la doccia.
C'è un piccolo spazio.
Troppo piccolo.
“N-Non l'ha f-fatto.”
Le mani grattano le gambe, strette al petto.
Le braccia, non sono più nascoste.
La maglia lercia sbuca dal piccolo incavo che Yuri ha creato col suo corpo.
“F-Fatto…
Fatto n-niente.
F-Fatto nien…”
Le parole si interrompono, minacciate dal pianto.
Ma Yuri combatte, affonda la testa, la rialza, si culla.
Si stringe le gambe, si abbraccia.
Arti fini.
Nudi.
 Macchiati.
Sporchi.
 Di violenza.
Che si intravede, sulla schiena.
Ogni volta che il dondolare lo porta all'indietro, dove la luce riesce a raggiungerlo.
Ad illuminare lividi.
Cicatrici.
A far chiarezza su una pelle marchiata nel tempo.
I movimenti, il dondolare, gli scatti, continuano.
E poi Yuri lo vede, vede il Signore in piedi che lo sta guardando.
 
E Tobia coglie il mutamento delle parole che scopre aver rivolto, fino ad ora, soltanto a sé stesso.
In uno scatto nervoso, Yuri si afferra il viso, lo stringe, mentre il corpo prende a muoversi più veloce, come fosse l'unico modo per ordinargli controllo.
“N-N-N…
N-on l'ha f-fatto, Si-Signore…
T-Ti p-p-p…
p-prego!”
Un brivido si propaga con la preghiera d’esser creduto.
“F-Fatto n-n-n…
N-Niente, Signore…
F-Fatto nie-niente!”
“Lo so.” riesce a rispondere Tobia, nell’impeto della necessità di arrestare la sua disperazione.
La sua angoscia.
E Yuri, si stringe.
Si abbraccia.
Quel Signore gli crede.
Quel Signore, gli crede.
 

  
Cinque Orizzontale – Rimettere i peccati 
 
 
Andrea scende le scale e si sofferma sul terzultimo gradino, poggiando le dita sul corrimano.
Pensieri persi in macchie ancora vivide.
Nelle orecchie l'eco di sibili dolorosi.
 
In tutti i suoi anni di carriera, mai una volta si è trovato di fronte ad un qualcosa di così…
Mostruoso.
Disumano.
 
I passi riprendono, lenti ma decisi.
Acquisendo volontà nello scorgere il caos che regna in salotto.
 
“Hai finito?”
 
Il  tono è una fusione di ordine e rimprovero.
Sdegno.
 
“Li ammazzo.”
 
Tobia lo giura.
A se stesso e ad Andrea, nel quale scorge un moto di compassione.
 
“Lo stai facendo di nuovo.”
“Cosa?”
“Stai boicottando le tue emozioni.”
 
La frase non ammette replica, ma questo non frena Tobia.
 
“Non mi sembra! Sono arrabbiato e non lo sto nascondendo!”
 
La mano aperta in un invito a guardarsi intorno.
Non che ve ne sia la necessità.
È impossibile ignorare la mobilia scomposta, i fogli sparsi sul pavimento, i vetri sul tappeto.
 
“Sei arrabbiato.” constata mesto il pediatra.
 
E dio sa se Tobia avrebbe voglia di dargli un pugno.
 
“Ma lo sei con te stesso.”
“Io non ho fatto niente!”
 
Adesso, invece, avrebbe voglia di prendersi a pugni da solo.
Perché non c'è bisogno che Andrea risponda.
Basta il suo sopracciglio inarcato.
Un “Appunto!” silenzioso che gli si legge in faccia.
 
“Io …”
 
Tobia non è mai a corto di risposte.
Non lascia frasi a metà, ha sempre l'ultima parola.
Andrea ne è consapevole.
Anni di convivenza gli hanno insegnato a leggere quell'uomo criptato.
Che ha amato, odiato e ammirato con la stessa intensità e dal quale è stato ricambiato, nello stesso modo criptico  che, ad un certo punto, non gli è bastato più.
 
Adesso comunque ha poca importanza, nonostante la pulsazione insistente di un punto interrogativo.
Perché?
Vorrebbe chiedergli.
Perché non mi hai cercato, fermato?
 
L'uomo accantona il dubbio, come certamente lo sta facendo l'ex compagno e il suo sguardo scivola lontano, fuori dai ricordi.
 
“È tuo nipote. È il figlio di Diego.”
Il Sottolineatore d'ovvio era il soprannome di Andrea.
Ancora molto appropriato, a quanto pare.
Il giudizio di Tobia non è ironico; Andrea dà voce all'ovvio che nessuno vuole sentire.
 
“Trovagli una sistemazione…”
Andrea lo scruta, torvo.
“Per favore.” aggiunge Tobia con scarso convincimento.
“Questo è ciò che ho potuto comprendere da una visita sommaria…”
Ignorando la precedente richiesta, il pediatra allunga una cartellina.
La calligrafia è a tratti scomposta.
Non è mai stato bravo, Andrea, a domare le sue emozioni.
“Leggila.”
Stavolta è Tobia a guardarlo torvo.
“Per favore...” aggiunge allora, facendo curvare verso l'alto le labbra che da tanto non vedeva.
E che subito si ricompongono.
 
C'è un quadro di violenza, fra le sue mani.
Che tremano, sfiorando parole crude.
 
Ecchimosi.
Contusioni.
Abrasioni.
 
 Righe livide.
 
Contratture involontarie dell’arto superiore sinistro.
Ansia, disturbo del linguaggio.
 
Che, insensibili, sintetizzano l’atrocità di un'infanzia ridotta a brandelli di carne martoriata.
 
Evidente malnutrizione.
Evidente.
Come i tic.
E le risposte preimpostate.
Ed il terrore del quale ha gioito, sul quale ha erto la sua figura.
 
Evidente.
Come adesso è il suo non aver voluto guardare.
 
“Dove credi di andare?”
“Lo sai!”
La cartellina viene gettata sul tavolo.
Un rumore secco, lussato dalle congratulazioni di Andrea.
“Una soluzione geniale.”
La voce assume una sfumatura sarcastica, tradita dalle braccia che si incrociano, severe, sul petto.
 
“Davvero, Tobia?
Davvero?”
Ogni traccia di ironia è sparita.
C'è sfida.
“Hai visto o no, cosa hanno fatto?”
“E tu?”
Lo sguardo assottigliato, giudice. 
 
“E tu, Tobia?”
La domanda viene ripetuta in un bisbiglio forzato ma destinato a tramutarsi.
“Me lo ha detto, sai? Adele. Mi ha detto come ti sei comportato. Con un bambino! Con il figlio di tuo fratello, porca puttana!”
“LO SO!”
Andrea accoglie quella che sa, essere una confessione.
Un'ammissione di colpa.
Che costringe Tobia a sedersi.
 
“Ti cercava…”
“Prego?”
“Il bambino, ti cercava.”
“Non essere sciocco!”
“Stai mettendo in dubbio la mia professionalità?”
 
Sia mai.
Pensa.
“Che tu ci creda o meno, sei stato il primo a non avergli fatto del male. Non quel tipo di male, almeno…”
Tobia è ferito dalla constatazione,  però la incassa in silenzio sapendo di essere doppiamente colpevole.
“Cosa devo fare?”
C'è una punta di rassegnazione, nella sua voce.
E di colpa, nelle iridi adesso più cupe.
Andrea accenna un sorriso, sedendosi sul bracciolo della poltrona occupata da Tobia.
Sulla poltrona che insieme, avevano scelto.
“Comincerai dall'inizio…”
“Oh, illuminante, dico davvero!”
Sputa ironico, guadagnandosi un’occhiata minatoria.
“Per dopodomani dovrei riuscire a prenotare tutte le visite necessarie. Non sappiamo, dove quell’abominio finisca…”
Tobia annuisce silenzioso, in un invito a continuare.
Ed Andrea accetta, spiega.
Narra la storia d’orrore che è riuscito a ricostruire.
Di fatti e teorie che si fondono in una tela di violenza, esposta nella stanza al piano superiore.
Di un bambino piegato all'obbedienza, spogliato della sua dignità, dei suoi anni.
 
Parla di strategie di azione, Andrea, di piccoli passi.
Di guarigione che, più che certezza, è speranza.
Di necessità.
Di imparare a parlare.
Di imparare a non avere paura.
Parla di teoria e pratica, da gesti a nutrizione.
Di tisane specifiche, naturali, che Tobia preparerà.
Di necessità di capire e scoprire.
Non accenna a vendette, denunce.
Non parla, di colpevoli.
Di loro, esseri spregevoli.
Omette quella parte, perché adesso è superflua.
 
Hanno a che fare con un bambino dall’anima rotta.
E questo, è tutto ciò che conta.
 
Gli occhi di Tobia brillano nel loro essersi spenti.
Brillano di colpa.
Che Andrea non può alleggerire.
Che Tobia potrà riscattare soltanto con le azioni.
E con il sentimento che è sempre stato così bravo a reprimere.
 
è  questa, la sua condanna.
Lo svincolarsi dal suo soprannome.
Dalla sua essenza.
Per Yuri.
Soltanto per il bambino.
 
“Mi ha dato questa…”
Una mano allungata, sul cui palmo aperto spicca una moneta.
“Per il lavoro del Signor dottore…” recita, prima che il silenzio si frapponga fra di loro.
Un’occhiata superflua alle annotazioni.
Consigli, quei pochi necessari ed elaborati dopo una visita che dev’essere approfondita.
 
Parla con lui.
Chiedi.
Osserva.
Controlla.
Avvicinati.
Sii paziente.
 
Un passo alla volta.
“Deve capire che è… solo un bambino.”
 
La banalità che si trasforma in una profonda ingiustizia.
 
Andrea parla e scrive, raccomandazioni banali che banali non sono.
Piccoli pasti, frequenti.
Movimenti cauti.
Parole gentili.
Domande.
Domande.
Domande.
“Che vuol dire domande?”
“Quante volte lo hai visto andare in bagno?
Bere?
Mangiare?”
Silenzio, di nuovo.
Colpa e comprensione.
 
“Non posso farlo.”
 
“Domani ti farò avere ulteriori istruzioni. E ti manderò qualcosa che possa aiutarti…”
“Smettila di ignorare quello che dico!”
“Lo faccio perché dici cose stupide!” risponde l’uomo, scaldandosi.
“Non…”
Andrea riprende fiato, cercando di calmarsi.
“Non… Non tradirlo anche tu, Tobia.
Hai sprecato abbastanza anni, facendoti divorare da stupide recriminazioni. Adesso basta. Non c'è tempo da perdere stavolta.”
È con quella frase che si alza.
Lasciando sulla poltrona la voglia di insistere.
Perché sa che altre parole sarebbero inutili.
 
“Andrea…”
L'uomo si volta, con le sue aspettative.
E comprende.
Annuisce piano.
Ce la farai, dice il suo sguardo.
Non senza di te, risponde muto l'uomo.
Ma a questo, Andrea non ribatte.
 
I due si avviano alla porta.
Ancora parole non dette, informazioni che schiacciano, verità che echeggiano.
Ed Andrea è già sull'uscio, quando riprende a parlare.
Con le spalle rivolte al botanico.
“Non li denuncerai, vero?”
“Non si meritano tanta clemenza. E lui… Il ragazzino. Si merita giustizia. Non credi?”
“Credo che si meriterebbe d'esser chiamato per nome.”
 
Yuri.
Yuri, Yuri.
 
Ha un sapore amaro, quel nome.
Sa di coraggio, di accettazione, di un errore volontario.
Sa di ricordi.
Di memorie infrante.
“Yuri si merita giustizia. Non credi?”
Ma soprattutto, sa di decisione.
E per questo, Andrea sorride.
 
“Scoprirai presto quello che si merita.”
E senza aggiungere altro se ne va, lasciando nella casa due anime sole ed ignare dell'esser accomunate dallo stesso bisogno: perdonare.
Perdonare, loro stesse.

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Capitolo 5
*** Sei verticale - Sette orizzontale ***


Sei Verticale – Chi la fa, è tenuto a mantenerla
 
 
“Puoi… chiamare il bambino? E preparargli qualcosa da mangiare…”
Lo sguardo di Adele è duro.
Tobia lo comprende.
Lo accetta.
Lo merita.
Per questo rimane in silenzio anche quando la donna si allontana gorgogliando rabbia senza preoccuparsi di evadere dal suo ruolo.
“Io chiama bambino soltanto adiesso! Poi ci piensa Siniore Tobia!”
Un singolo cenno col capo.
Fine della discussione.
Un lungo sospiro stanco accompagna il sedersi sul divano.
E solo appoggiando i gomiti sulle ginocchia Tobia si accorge del frenetico e nervoso movimento della gamba.
Che blocca subito.
Per poi alzare gli occhi.
 
Passi leggeri, le scale non scricchiolano quando il bambino vi posa le sue scarpe grandi.
Evidentemente grandi.
Qualche secondo di autocommiserazione, uno scuotere la testa rivolto alla propria anima.
Qualche secondo che avrebbe dovuto impiegare per avvertire Yuri dell'ultimo gradino, lo stesso che gli è quasi costato una rotula.
Yuri inciampa, le ginocchia si scontrano col parquet e subito lo abbandonano, come se niente fosse successo.
 
Ed eccolo lì.
Di fronte a lui.
Come gli è stato chiesto.
Fermo, immobile.
Come gli è stato insegnato.
 
Tobia lo osserva alzare leggermente lo sguardo, riabbassarlo.
Deglutire più volte, più forte, alla ricerca della cosa giusta da fare.
O da non fare.
La pressione pulsa nelle tempie e l'uomo le massaggia nel vano tentativo di comprimerle e riuscire a catalogare le idee in maniera coerente.
 
“Yuri.”
Fatica.
Ecco cosa prova Tobia: un'immensa, terribile fatica.
Non solo nel pronunciare il nome ma nel sopportarne la sorpresa, l’intensa emozione suscitata.
 
“Vieni, siediti.”
Tobia cerca di ignorare il disprezzo per la nota troppo morbida che ha assunto il suo invito,  accompagnato dall'indicare la poltrona di fronte.
Eppure il bambino non si muove.
L’uomo apre e richiude la bocca.
Gli sfugge qualcosa.
“Non dare niente, per scontato.”
Secondi ben impiegati.
Che lasciano perdere i rimproveri mentali e si dedicano alla comprensione.
All’osservazione della sua palese incertezza.
“Puoi sederti, sulla poltrona…”
Yuri si muove a disagio.
Non è sicuro di aver capito bene ma non vuole neanche fare la figura dello stupido.
Però, il Signore ha proprio detto ‘Poltrona’!
Forse è come quando Kevin gli dice che può toccare i suoi giochi e…
“Ragazzino!”
Gli occhi scattano subito verso l'alto.
Il Signore gli ha detto di fare una cosa semplice, perché deve far sempre arrabbiare i grandi?
I passi si muovono veloci, per poi bloccarsi.
Di fronte alla stoffa così importante sulla quale si siede con cautela, pronto a cogliere ogni contrordine.
 
“Yuri…”
 
Un applauso mentale.
Più lo ripete, più diventerà semplice.
Per entrambi.
Vero?
 
“Cos'è quella?”
Lo sguardo si posa sull'oggetto sferico chiuso nella piccola mano.
Andrea gli ha già spiegato di cosa si tratta, però ha anche detto di farlo parlare, di fargli domande e quello è un buon punto di partenza.
È un buon punto di partenza?
Forse.
Forse per lui, non per Yuri.
Che subito si tende, incespicando nelle parole e stringendo forte le mani, per vincere la voglia di catapultarsi giù dalla poltrona dove gli è stato detto di stare.
 
“M-Mi d-dispiace, Signore! I-Il, i-il, i-il…”
Desolazione.
Forza.
“I-Il b-bambino l-l-la… L-L-La re-re-restituisce e…”
“Yuri.”
Tobia frena il turbinio di parole, prima che degeneri.
Ed è sorprendente come il solo fatto di chiamarlo per nome riesca a sconvolgere tanto il bambino da togliergli le parole.
“No, Yuri. Quella è tua. Volevo soltanto sapere cosa fosse…”
 
Il piccolo pugno si apre e si chiude veloce, stringendo la pallina.
Deglutire sembra un'impresa ardua.
Così come riuscire a capire cosa e dove deve guardare.
“Sì, Signore! Il…I-il Signor D-Dottore… I-il Signor D-Dottore l'ha d-data al b-bambino.”
“Bene e ti ha detto a cosa serve?”
“Sì, Signore.”
Per l'amore del cielo, sarà una conversazione estenuante!
Anche la più breve risposta sembra costargli una fatica immensa.
Gli costa, una fatica immensa.
Col tempo sarà più facile ha detto Andrea.
Tobia si ritrova a sperare che abbia ragione.
 
“Puoi spiegarmelo, Yuri?”
Il bambino inspira a fondo.
Quel Signore…
È così paziente con lui!
E gentile.
Ecco, deve soltanto impegnarsi e rispondere bene.
Ah, e respirare.
Quello, a volte, lo dimentica.
“Sì, Signore!”
Una piccola pausa.
Respirare.
Respirare, di nuovo.
“I-Il Signore ha d-d-detto… C-Che s-serve p-per la m-mano, Signore. C-così poi f-funziona d-di nuovo e…
P-P-P… P-Per sc-scrivere e p-p-p… P-P-Per…”
È mancino!
La deduzione viene accolta con la stessa euforia di un bocciolo schiuso nonostante il gelo, ma con la stessa rapidità con cui è nata, appassisce.
Probabilmente Andrea lo ha compreso molto prima di lui.
Sicuramente, l'ex compagno avrebbe avuto più ponderazione, nell'osservare gli esercizi di scrittura che gli aveva assegnato ed avrebbe anche colto l'immenso sforzo che il ragazzino stava compiendo.
Scrivendo con la mano opposta, nel tentativo infantile e coraggioso di non rovinare il foglio con le contratture nervose del braccio.
Adesso Tobia lo vede.
Un sospiro colpevole, un portarsi la mano sotto il mento per contemplare la situazione.
“M-Mi dispiace, Signore.”
“Per cosa ti stai scusando?”
“P-Perché s-sono l-l-lento e n-non… N-Non s-s-s… S-Spie-go b-bene, v-v-v…
V-Ve-Ve…
L-lento.”
Gli occhi tornano a fissare le scarpe, proiettando nella tela consumata la sua anormalità.
 
Perché non può parlare come tutti gli altri bambini?
“Yuri, guardami, per favore…”
 
Stupore.
Un ‘Per favore’.
Inatteso, mai avuto.
“Non devi  scusarti per cose che non dipendono da te. Vedrai che col tempo riuscirai a parlare più…Velocemente, se è quello che desideri, ma non scusarti, non ce n'è bisogno.”
Il piccolo sembra soppesare le parole.
Davvero un giorno ci riuscirà?
Proprio come gli altri bambini?
O forse è uno scherzo?
 
“Senti, Yuri…”
Di nuovo il suo nome.
Oh, è così bello sentirsi chiamare così!
Che Signore così…
Buono!
E che bellissima poltrona!
Le piccole dita sfiorano la stoffa ruvida, percorrendone il ricamo il rilievo.
È una sensazione tanto bella!
“Yuri, tu sai… O forse non lo sai, ma io sono il tuo…”
Zio?
Zio!
Z-I-O
ZIO.
“Tutore.”
Se i suoi pensieri fossero corporei, spalancherebbero la bocca per lo shock.
Il bambino non osa fare domande.
Ma quella, quella è proprio una parola strana.
 
Tobia coglie lo sforzo che il bambino sta facendo per seguire il suo discorso e prende una pausa dalla sua lotta interiore.
Racimola tutta la pazienza, per trovare parole comprensibili.
Deve spiegare con lentezza. Deve risultare convincente.
Deve semplicemente fare ciò che non ha mai fatto.
Semplicemente.
 
“Insomma, sai che starai qui, in questa casa, con me; quindi ci saranno delle nuove regole.”
 
“Sì, Signore!”
Più tardi.
Più tardi gli farà perdere anche quell'odiosa abitudine.
Un passo per volta, si rammenta.
 
“La prima regola, Yuri, è che qui nessuno e MAI, alzerà le mani su di te.”
Tobia fa una breve pausa, studiando gli occhi concentrati del bambino.
Che si socchiudono appena, per mettere bene a fuoco il senso delle sue parole.
“Faremo i compiti, degli esercizi. Studierai e migliorerai la lettura e la scrittura, tuttavia, se sbaglierai, non verrai mai punito con… Come quando eri nell'altra casa. Capisci cosa ti voglio dire?”
La bocca si apre e si chiude.
Incertezza, titubanza.
“Puoi parlare, se vuoi…”
L'incoraggiamento non ottiene risultato.
“Yuri, nella casa dove stavi prima…Ti punivano?”
“Sì, Signore!”
La risposta tempestiva, istantanea, sembra soddisfatta.
E lo è, in realtà.
Yuri è felice quando conosce le risposte giuste.
“Chi, Yuri? Chi era che ti puniva?”
“I-il Signor C-C-Corrado, Signore…”
Quel nome è doloroso.
Tobia lo vede e il suo stomaco si stringe.
“Soltanto lui?”
“N-No, Signore. A-anche… A-Anche T-T-Toni, a v-volte.”
“Il ragazzino che era in casa?”
“N-No, Signore. K-K-Kevin… L-Lui e-era K-Kevin.”
 
K-K-Kevin! K-K-Kevin!
Ma ti senti quando parli?
E quello dove stai ora lo sa di quanto sei anormale?
 
Tobia studia la crescente agitazione muovere le dita sul braccio.
Andrea gli ha riferito dell'abitudine nervosa.
Dello scavare la pelle, per seppellirci le emozioni.
Della necessità di insegnargli a sfogarle in maniera più sana.
Con quella pallina.
E col suo aiuto.
Probabilmente, dimentico del soprannome che lui stesso gli aveva affibbiato.
“Tua madre?”
La domanda è schietta, violenta.
Come, Tobia si sorprende, esserlo anche la risposta del bambino.
“L-La mamma è s-stanca! L-La mamma dorme!”
C'è un'espressione di sfida ad incorniciare la dichiarazione.
“Ti ripeterò la domanda ed esigo un tono consono, Yuri. Tua madre ti…”
“È s-stanca! D-Dorme! N-Non.”
Tobia freme nell'impulso di redarguirlo.
“N-Non…”
Ma c'è un riprendere fiato, il mento che trema.
I denti digrignati.
Piccoli scatti, le unghie nella pelle.
E forse non è lui che Yuri sta sfidando.
Non è lui che ha interrotto, ma un moto di emozione.
Di dolore. 
Che nessuno dei due è pronto ad affrontare.
Un passo per volta.
Un Passo
Per Volta.
“Yuri, loro ti facevano male? Corrado e Toni… Ti facevano male?”
“Sì, Signore!”
Di nuovo il tono orgoglioso.
Il nodo alla gola è sceso.
Di nuovo la sensazione di nausea.
Il nodo allo stomaco è cresciuto.
“Questo non è bello”
Tobia si sporge appena dal divano, calamitando lo sguardo perplesso e mortificato del bambino.
Non doveva dirlo?
“Ciò che ti hanno fatto, farti male… Non è bello.”
Osserva i piccoli occhi divenire grandi per lo stupore.
“È sbagliato, Yuri. Loro, sono stati… Molto cattivi.”
Il bambino porta entrambe le mani alla bocca, come se lui stesso avesse detto un qualcosa di impronunciabile.
“Non si picchiano i bambini, Yuri. E qui nessuno, ti farà del male. Niente schiaffi, niente calci, niente…
Cinghia. Ora capisci?”
Il piccolo rabbrividisce, ad ogni parola.
Gli occhi diventano liquidi.
Perché gli sta dicendo quelle cose?
Forse…
Forse perché non sa.
Sicuramente, perché non sa.
 
E quello dove stai ora lo sa di quanto sei anormale?
 
E lui è quasi tentato di non dire niente ma…
Ma il Signore è così bravo.
Ed è stato così paziente e gentile che deve dirgli la verità.
Deve.
Anche se fa male alla gola, anche se fa dolore il petto.
Anche se è difficile perché l’aria sembra così poca.
Tanto da schiacciare le sue parole e le speranze che per un attimo, uno soltanto, si erano aggrappate alla voce seria dell'uomo.
Alla sua nuova regola, così…
Così bella.
Ma Yuri non può.
Davvero, non può.
E allora cerca di compattare il nodo, spingerlo giù, via dalla gola, via dal cervello.
Il Signore non sa con chi sta parlando.
Trattiene un sorriso, perché per la seconda volta in vita sua ha provato una sensazione travolgente.
Ma non dolorosa.
 
Niente schiaffi, niente calci, niente cinghia.
Oh!
Una volta l'ha sognato.
Yuri lo ricorda e se chiude gli occhi può rivivere la stessa, identica emozione.
E anche…
Anche l'altra.
Quella che gli aveva strappato più lacrime di quante mai ne avesse versate prima.
Perché Yuri non aveva mai pensato che le cose potessero andare diversamente per lui.
E sognarlo, vederlo, viverlo e respirarlo, poi aprire gli occhi ed essere preso a schiaffi dalla realtà era stato atroce.
Si era illuso.
Ci aveva creduto.
 
“Smettila o te lo do io un buon motivo per frignare!”
 
Non era riuscito a smettere.
E le conseguenze le porta ancora addosso.
 
Insieme alla consapevolezza che le cose belle, non sono per lui.
Che non potrà mai essere un bravo bambino, però… Può essere coraggioso.
E sincero.
Sì, quello può sceglierlo.
 
“S-Signore…”
L'attesa di un cenno, per poter proseguire.
“È c-che… F-forse il Signore n-non lo s-sa ma…”
 Lo sforzo, di trattenere il pianto.
“M-Ma i-il b-bambino n-non è…
La voce si incrina, sotto il peso di una verità così dolorosa.
“N-N-N… N-Normale.”
Yuri glielo dimostra indicandogli i suoi occhi sbagliati, poi distoglie lo sguardo e prosegue.
 
“È… I-Il b-bambino è d-diverso e…”
Ancora la terza persona.
Per un io, che non si accetta.
“E n-noi d-dobbiamo per f-forza d-dare… Le… L-L-Le… Lezioni!”
Una parola, che fa così male.
“S-Siamo co-costretti sennò…”
Dolore, che scivola sulle guance.
“S-Sennò n-non capisce…”
Una piccola mano, che le scaccia arrabbiata.
“N-Non c-capisce! N-Non capisce! È ca… Cattivo!”
Yuri la sputa, quell'accusa.
E riprende fiato, per cercare di comprimere tutto ciò che prova.
Che rischia di tracimare.
Tobia si ritrova impotente di fronte ad una forza innaturale, ingiusta.
Un dolore composto, domato dal dondolare, dallo stringersi.
Una confessione, la convinzione d'aver meritato tutto.
 
“Tu non sei cattivo, Yuri.”
E di nuovo la mano sulla bocca, stavolta a coprirne lo stupore.
“Non sei cattivo.”, ripete Tobia.
“Né sbagliato. O diverso. O anormale.”
Fermandosi un attimo, per accompagnare con uno sguardo determinato le sue affermazioni.
Per farle arrivare alla mente abusata, massacrata, del bambino.
Al suo cuore livido.
“E nessuno, Yuri. Nessuno ti darà più quelle lezioni.”
Tobia guarda l'involucro costretto di emozioni, allentarsi appena.
Le lacrime solcano le guance.
“Non sei cattivo.”
Gli occhi si appannano.
“Nessuno ti darà più quelle lezioni.”
La gola si stringe.
“Non sei diverso.”
“Non sei cattivo.”
Ed il cuore rimbomba con il suo bisogno, con la voglia, la necessità di credere.
“N-Non p-piange! N-on p-piange, n-non piange!”
 
Ma è impossibile fermarle, come è impossibile spegnere la speranza riaccesa.
Perché forse il Signore non lo sta prendendo in giro, forse lui può davvero essere normale e…
“N-Non piange! N-Non…”
“Non fa niente.”
Un sussurro, rispetto per la sofferenza.
Per l'anima piccola ed il suo dolore grande.
“Yuri…”
Una pausa, un silenzio quasi sacro.
Poi, una mano tesa.
Un gesto di rispetto, un modo per suggellare un patto o presentarsi per la prima volta.
Un tentativo di ricominciare.
Tuttavia Yuri, che è solo un bambino e di gesti di rispetto non ne ha mai ricevuti, porge all'uomo tutto ciò che pensa di potergli offrire: la sua pallina blu.
 
Un lieve scuotere la testa, un sorriso amaro.
Occhi che non mostrano disprezzo per i suoi.
E la mano che si avvicina cauta, al piccolo viso.
Perché?
Paura, voglia di scappare.
Aveva detto che nessuno gli avrebbe più dato quelle…
Occhi chiusi, mascella contratta.
Aveva detto…
Preparazione al colpo, immobilità.
Tremore.
Poi, due dita sotto il mento.
Il tentativo di ignorare la paura.
Perché…
Perché non fa male?
Il pollice, che sfiora la guancia umida.
Piano.
Che cattura una goccia di dolore, la asciuga.
“Nessuno ti farà più del male.”
Le palpebre che tremano, schiudendosi.
Non è possibile.
Un gesto goffo, quasi rude, impacciato.
Ma, sentito.
 
Una carezza.
 
Vera.
Reale.
Sulla pelle.
Dell’anima.
 
“Te lo prometto.”
 
Ed una promessa.
 
 
 
 
 
 
 
 
Sette Orizzontale – Riscatto della colpa
 
 
Da quel giorno, Yuri, ho iniziato ad osservarti.
Osservarti, per poterti comprendere.
 
Andrea ripeteva ad ogni chiamata di non dare niente per scontato con te.
Ed avevo iniziato a sbuffare ai suoi continui promemoria; avevo capito, per la miseria!
 
“Adele non è di riposo oggi?”
“Come ogni Lunedì da diversi anni a questa parte...”
 
Era venuto a visitarti.
Ed il suo temporeggiare mi stava spazientendo.
 
“E allora chi lo ha rifatto il letto?”
 
Maledizione!
 
Evitai di supporre che fossi stato tu.
Il baldacchino era troppo alto.
 
“Yuri, puoi mostrarmi dove dormi?”
 
Fu Andrea a chiedere e forse il mio volto cinereo ad impedirti di rispondere subito.
 
“Andrea ti ha fatto una domanda, Yuri.”
“Sì, Signore!”
 
Apristi le ante dell'armadio.
Ed io mi sentii ignobile.
 
Quel che seguì fu un frenetico ed agitato scambio di domande e risposte.
 
Quasi mi offesi quando balbettasti quel “Il Signore ha detto…”
Ma lo sguardo che mi rivolse Andrea, mi convinse a tacere.
A pensare.
 
“C-Che è t-troppo a-alto… P-Per il bambino.”
“Cosa diavolo…”
Di nuovo lo sguardo ammonitore, un invito a riflettere.
Ti avevo detto che se il letto non era all’altezza delle tue aspettative avresti potuto provare con l'armadio.
Era sarcasmo, un dannato modo di dire!
Non era evidente?
“Evidente quanto la condizione in cui versava Yuri quando è arrivato qui…”
Fui costretto ad incassare.
 
 
Le visite che Andrea ti aveva prenotato furono un calvario, perché non volevi essere toccato però non potevi sottrarti.
Mi cercavi con lo sguardo, cercavi me ogni qualvolta ti facevano avvicinare ad un macchinario.
Ogni volta che tentavano di tastare la tua pelle.
Mi imploravi, in silenzio.
Ti aggrappavi alle mie promesse.
Ed io mi ritrovai spaventato all'idea di tradirti.
 
“Per oggi è più che sufficiente.” sentenziai e Andrea si trovò d’accordo con me.
“Ricordati che non siamo mai stati qui...”
Mi guardò senza dire niente.
“Mai stati qui.” ripetei.
Non lo dimenticò.
 
 
 
 
 
 
“Qual è il tuo colore preferito?”
Era una domanda semplice.
Chiara.
Vaga.
Erano le indicazioni di Andrea: dovevo incentivarti, incoraggianti ad esprimere le tue opinioni.
Oh, e tu lo hai fatto.
 
Ti sei appiattito la frangia, hai sbirciato le mie vesti e hai detto: “I-Il n-nero, Signore.”
Dando la risposta che, l'ambiente ti suggeriva, fosse la più giusta.
 
 
Tuttavia…
Non c'era niente di giusto, bambino.
Niente, nel tuo trattenere il fiato, nel sudore delle tue mani.
Niente, nella tua spasmodica ricerca della risposta meno dolorosa.
I tuoi erano pensieri distorti dalla violenza, piegati dalla crudeltà.
Pensieri che, scoprii, avevano scatenato la prima crisi con Adele.
“Il bambino non può usare l’acqua calda. Non è sua. È del Signore”.
 
Maledetti.
Schifosi.
Bastardi.
Avrebbero pagato anche per quello.
 
Cercavo di rassicurarti a modo mio.
Provavo ad ammorbidire lo sguardo, la voce.
E qualche volta mi crogiolavo nell’illusione di esserci riuscito.
Nella speranza che tu potessi credermi.
 
Invece quando, a distanza di cinque giorni dall’orribile scoperta delle tue condizioni, ti ho accompagnato a letto ed ho allungato la mano per scostare la coperta…
Ti sei portato le braccia sopra la testa.
Per proteggerti.
 
Quel gesto mi ha ferito.
Hai idea di quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che avevo permesso a qualcuno di ferirmi?
Di farmi sentire incapace?
 
“Volevo aiutarti, non farti male.”
Forse lo stesso che era passato dall'ultima volta che qualcuno era stato umano con te.
“M-Mi d-dispiace, Signore.”
 
Eri deluso.
Mortificato.
Volevi rimediare.
Così hai disteso le braccia lungo il busto.
Come a dirmi “Se lo fai di nuovo, non mi sposto. Ho capito.”
E, l’ho fatto.
Hai chiuso gli occhi e li hai strizzati forte.
“M-Mi dis…”
“Va bene, Yuri. Va bene.”
Era difficile mandare via la paura, vero bambino?
 
Il messaggio che Andrea mi inviò quella notte conteneva, oltre alle solite raccomandazioni imprecate, una citazione:
“Gli hanno piantato dentro così tanti coltelli  che quando gli regalano un fiore, all'inizio, non capisce neanche cos'è.  Ci vuole tempo.”
Non mi rincuorò.
Perché io avrei voluto guarirti subito ma dovetti assecondare un’ovvietà: il tempo.
 
Il tempo.
Sarebbe stata la tua cura.
 
Il tempo.
Sarebbe stata la mia espiazione.


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Post It Autrice

Se lì c'è qualcuno, mi scuso per aver fatto aspettare così tanto.
Sono stata sommersa dalle emozioni queste settimane, dopo aver scoperto che diventerò
mamma.

Ma bando alle ciance.
Stiamo entrando in quella che sarà la missione della storia: parlare di emozioni sconvolte,
distrutte, ferite, ricostruite.
Daremo tempo al dolore, all'amore, alla crescita.
Spero... spero con tutto il cuore che possa farvi provare qualcosa, questa storia.
E se aveste consigli, pareri, anche solo una parola...
Sono prontissima ad ascoltarvi.
Mi farebbe un piacere immenso.


 

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Capitolo 6
*** Sette Verticale ***


Sette Verticale – Atteggiare le labbra come espressione di un'emozione

 

 

Yuri, col busto chino sulla scrivania e la fronte aggrottata per la concentrazione, è intento a concludere gli esercizi che Tobia gli ha dato.

Stringe la penna fra le dita, le nocche bianche per lo sforzo di imporle i suoi movimenti.

Il Signor Tutore ha detto che deve ricominciare ad usare la sinistra e lui lo sta facendo anche se quella, cattiva, disobbedisce sempre.

Ed eccola, infatti: una scossa la fa accartocciare ed il braccio elettrizzato schiocca sul legno con un gong! , seguito dalle consuete vibrazioni che annunciano il suo fallimento.

 

Incapace! Piccolo, stupido incapace!”

 

Yuri guarda lo sfregio deturpare il bellissimo foglio.

Lo fissa, distoglie lo sguardo, poi lo fissa di nuovo.

La bocca si stringe, le labbra costrette e premute insieme, per non dar suono al dispiacere.

 

Andrà meglio. Se continui ad usare la pallina e a provare, col tempo tornerà a posto, vedrai.”

 

Glielo ha detto il suo Tutore buono.

Ed un pochino il viso si distende, quando la voce gentile sovrasta quelle che per anni si sono ripetute.

Nella sua vita.

Nella sua testa.

 

Andrà meglio…”

Yuri non è proprio sicuro che sia vero, però un pochino ci crede.

Deve, gli adulti non dicono le bugie!

Quindi, è piacevolmente costretto.

Anche se vorrebbe essere bravo da subito, per poter ringraziare il Signore gentile.

Che gli ha dato da mangiare.

Tante volte, un milione di volte!

Che gli ha permesso di dormire sul letto, uno vero, uno grande.

Lo stesso, che usa da ormai sei giorni.

E Yuri può starci sopra, non accanto.

Non ci sono cose importanti ad occupare lo spazio, può occuparlo lui.

E poi…

E poi il Signore non gli ha mai dato una lezione, mai, nemmeno una.

Yuri non è così stupido da pensare che non succederà, però adesso si sente così bene, che non gli importa.

Non gli importa assolutamente, lui vuole soltanto impegnarsi e magari avere il permesso di rimanere lì, non per sempre, certo, ma ancora un po'.

 

Raddrizza la schiena determinato a finire il suo compito.

Il cuscino che il Signore buono gli ha messo sulla sedia è così morbido!

Le piccole mani trillano d’emozione, stropicciando il viso.

Ora è pronto; Pronto a diventare un bravo bambino.

 

Tobia affretta il passo, spalanca la porta.

Le chiavi gettate in fretta sul comodino, un veloce pit stop sotto il getto del lavello.

Dovrebbe usare il bagno, ne è consapevole, ma non ne ha il tempo.

Non che sia in apprensione, giammai!, però aveva previsto il rientro per le undici e mezza ed il fatto che manchino pochi minuti a mezzogiorno, lo disturba.

C'è un minore in casa.

Un minore che lui ha lasciato alla custodia di Adele, ma che è sotto la sua, responsabilità .

 

“Siniore sembra uragano! Spavienta bambino!”

Oh, quanto vorrebbe toglierle quell'aria da domestica vissuta!

Saccente e strafottente!

 

I passi, si fanno più ponderati.

 

Tobia si affaccia nel salotto, poggiando una spalla contro lo stipite.

“Ciao Yuri…”

E cerca di non soffermarsi troppo sull’espressione tragicomica del bambino.

Prima o poi, si abituerà ad essere salutato.

 

Yuri posa la penna, che cede il posto alla pallina.

Il busto girato il poco che gli basta per guardare l'uomo.

“B-B-Ben… B-Bentornato, Signore…” dice con un filo di voce.

Il suo Tutore gli ha detto che è buona educazione salutare chi arriva, e così lo ha fatto.

Anche se forse…

Forse ha sbagliato o ha capito male o questa regola non vale per lui, oppure…

“Grazie Yuri. Hai fatto i tuoi esercizi?”

Il Sì, Signore trabocca d'incertezza.

“Posso vedere?”

 

Quel che segue, invece, è accompagnato da un vigoroso annuire.

Certo, che può farlo!

Lui è grande e rispettabile e quindi può fare tutto quel che vuole!

 

Tobia si avvicina, portando il foglio all'altezza degli occhi.

Le lettere ripetute nelle prime righe hanno un tratto vagamente deciso.

Dalla quarta, i contorni si fanno vacillanti e sono alternati da freghi caotici.

“È… accettabile…”

Andrea e Adele non sono presenti.

Quindi, preferisce una morbida verità ad una forzata bugia.

Ha colto l'impegno del bambino e non ha dato di matto di fronte a quell'obbrobrio; è un gran bel passo avanti.

Quindi, può ritenersi soddisfatto di entrambi.

“C-Ci, c-ci sono t-tante m-macchie, Signore…”, confessa il piccolo, aprendo e serrando i pugni.

E Tobia abbassa di poco il foglio maculato, per poterlo vedere.

“È vero, ma col tempo ce ne saranno meno.”

 

L'irruzione di Adele li fa sobbalzare entrambi.

“E poi sarei io, l'uragano?” domanda stizzito, mentre la donna si limita ad ignorarlo.

“Pranzo è pronto!”

Annuncia entusiasta, cinguettando un motivetto dal dubbio gusto che la riaccompagna fuori dalla stanza.

Tobia alza gli occhi al cielo per poi riportare la sua attenzione sul bambino.

“Yuri, dopo pranzo devo sbrigare delle commissioni. Quindi usciamo…”

“Sì, Signore!”

L’espressione sul suo viso è adesso indecifrabile per Tobia.

“I-Il…”

Oh, ecco.

Attende qualche attimo, prima di decidersi ad andargli incontro.

“Yuri, lo sai che puoi parlare, vero?”

“Oh, Sì, Signore! G-Grazie, Signore! E-ecco…”

Una sbirciatina attraverso i capelli.

Giusto per assicurarsi che il Tutore non abbia cambiato idea.

 

“E-Ecco, il… B-bambino può s-sistemare l-la t-tavola per q-quando t-tornate… E-e i p-piatti, li s-sa l-lavare…

S-Se p-può.” aggiunge, memore della conversazione di qualche giorno prima.

 

Che stai facendo con quel panno?”

P-Pulisce.”

I domestici puliscono o le persone adulte, Yuri. I bambini fanno i compiti, giocano, studiano. Al massimo, e questo lo esigo, ripongono le cose che utilizzano.”

Sguardo basso.

Silenzio.

Hai capito?”

Silenzio.

Sguardo basso.

 

Comprensione.

 

Yuri, dimmi cosa non hai capito.”

Confessione.

I-il b-bambino è s-s-stupido, n-non lo s-sa…

Ri-ri… R-Ripongere, Signore.”

Riporre, Yuri.

E non sei stupido perché non sai qualcosa, al massimo ignorante e...”

 

Qualche secondo di flagellazione mentale.

 

E comunque, ‘riporre’ vuol dire rimettere al loro posto.”

Oh, g-grazie S-Signore! I-il b-bambino p-può r-riporrere l-le p-pentole?”

Riporre. E no, Yuri. Solo le cose che usi tu.”

Il p-piatto, Signore?”

Sì, il piatto può andare.”

 

Tobia aggrotta le sopracciglia, guardandolo stordito.

Gli occorre qualche secondo di riflessione, per realizzare cosa abbia effettivamente recepito il bambino.

E qualche altro, per trattenere una mezza risata.

“Oh, sono sicuro che uscire con Adele sarebbe un'esperienza davvero… Fuori dagli schemi. Ma no, Yuri.

Usciamo io e te…”

Gli occhi del bambino si spalancano.

“E niente visite, stavolta. Dobbiamo semplicemente andare a fare delle compere.”

La bocca semiaperta, la piccola mano che si appresta a coprirla.

E Tobia rimane interdetto, da ciò che adesso vede.

“G-Gra…”

 

Dall'emozione che fa vibrare le dita piccine.

Che le fa attorcigliare, sciogliersi, posarsi sulle guance.

Vicine alla bocca.

Dove premono, coi palmi aperti, poi voltati.

Adesso sono i dorsi a strusciare sulla pelle.

Tobia comprende.

Il trillare che il bimbo non riesce a smorzare.

L’abbassare la testa, voltarla appena.

Il nascondere la piccola, lieve, accennata curva.

Che combatte per stirarsi verso l'alto.

E che Yuri copre, stropiccia.

“Gra…”

Ed è doloroso, assistere a quella visione.

Prendere atto dell'incapacità di Yuri.

“Gr-Gra…”

Che non sa come fare.

Yuri, non sa come fare a sorridere.

 

“G-Grazie, Signor Tutore.”

Ma Tobia, promette, glielo insegnerà.

 


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Post it autrice

Ehi.
Intanto grazie, per essere arrivato fin qui.
D'ora in poi avremo capitoli più piccini nella pubblicazione.
Questo perché queasi in ognuno di essi ci sarà un passo - in avanti o indietro -,
e vorrei che si percepisse l'impegno, la fatica, l'evoluzione dei nostri personaggi.
Cercherò di pubblicare una volta a settimana, così da non farvi aspettare troppo.
Se ci siete, battete un colpetto, se potete, e sappiate che ogni vostro pensiero è importante.
Grazie, a tutti.

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Capitolo 7
*** Otto Orizzontale - Verbo... indispensabile ***


Otto Orizzontale – Verbo… Indispensabile

 

 

Yuri cammina a testa bassa, le gambe si muovono svelte.
Tenere il passo del Signor Tutore non è semplice, ma ce la sta mettendo tutta.


Le rare volte in cui il Signor Corrado è stato costretto a portarselo dietro, si è assicurato che rimanesse ad una conveniente distanza di sicurezza.

E durante ognuna di quelle uscite , Yuri ha pregato di diventare invisibile agli occhi del mondo, per accontentarlo.

Ora, ora invece deve stare “Dove ti posso vedere” .

Ed anche se il motivo gli è sconosciuto, Yuri si azzarda ad essere appena contento; non deve più mimetizzarsi, adesso può esistere.

È bellissimissimo.

Essere fuori, con il suo Tutore.

Che... Oh! Come cammina veloce!

Tempo di pensarlo che il suo passo rallenta.

 

Che Signore gentile.

 

Yuri farà di tutto per non farlo pentire.

Anche se, in realtà, ha già commesso un errore.

Ha indossato la felpa prima di uscire.

Quella della tuta nuova, che gli ha portato la Signora Adele.

Il Signore, quando lo ha guardato, ha piegato la bocca esattamente come quando aveva visto i suoi compiti la prima volta.

 

L'agitazione aveva iniziato a scalpitare, nelle mani, nelle gambe.

“Fuori è caldo, Yuri… La felpa è inutile"

 

Il Signore non aveva fatto gli occhi cattivi nonostante il suo sbaglio.

 

Ed era stato talmente stupefacente che Yuri aveva annuito repentino, togliendola e rimanendo a mezza manica.

Con la maglietta celeste che profumava di nuovo.

Di pulito.

E che gli piaceva così tanto, però…

“S-Signore…”

Non era riuscito a spiegarlo bene.

Così aveva indicato le macchie.

I segni dei suoi errori.

“N-N-Non si…P-P-Può…”

Che deturpavano le braccia.

Spuntando da sotto la manica, diradandosi e schiarendo nello scendere verso i polsi.

Ad un'occhiata esterna e superficiale, sarebbero parse semplici manifestazioni dell'irruenza caratteristica di quell’età.

“Nessuno ci farà caso, Yuri.”

Aveva risposto Tobia, inghiottendo il sapore violento causato da quella vista.

Ma Yuri continuava a strofinare la pelle, cercando di coprirla a sguardi che non osava incrociare.

“Yuri, non sei tu quello che deve vergognarsi.”

“Sì, Signore.”

Il bambino non aveva compreso.

“M-mi d-dispiace, Signore…”

E nemmeno Tobia.

Nemmeno Tobia, aveva compreso.


Yuri segue le grandi scarpe scure con devozione.
Vi tiene gli occhi sopra, affrettando o rallentando il passo in perfetta sincronia con esse.

Il cemento grigio che stanno percorrendo è rallegrato qua e là da aiuole di fiori talmente brillanti da risultare innaturali.
Accarezza con gli occhi dei tulipani poco distanti; anche nella casa vecchia, in Via Dante, qualcuno li aveva piantati, tanto tempo fa.

Lui li innaffiava però non erano così belli.

Nemmeno i fiori in Via dei Mille lo erano.

La mamma non sorrideva più, quando li guardava.

 

Chissà se anche il Tutore ce li ha nell'orto di cui ha parlato con la Signora Adele.

Potrebbe chiederlo, ma esita a disturbarlo con le sue domande lente e stupide.
Un giorno glielo domanderà.
Quando sarà bravo e coraggioso, lo farà.
Lo giura a sé stesso così, quando sarà grande, potrà piantare tanti bei fiori dai colori brillanti.
In un giardino enorme, che guarderà dalle finestre della sua grande casa, dove avrà anche tanti, tantissimi animali: gatti, conigli, papere e…
Una tigre.
Si può avere una tigre?
Forse sì, Aladdin e Jasmine ce l'hanno una tigre.

Sarà bianca, come quella disegnata sul suo album, che nasconde gelosamente nel sacchettino di plastica.


È il suo tesoro segreto.
E sì, è suo, glielo ha dato la maestra.
Non lo ha rubato, non lo avrebbe mai fatto.
Un giorno, lo colorerà.
E sarà ancora più bello di adesso.

Un giorno, forse.
Se riuscirà, no, quando riuscirà ad essere bravo.
Quando riuscirà ad essere normale.
Un giorno…
Sarà un bellissi-missi-missimo giorno.


“Tutto bene?”
Ecco.
Il Signore ha incontrato qualcuno.
E lui, adesso, cosa dovrebbe fare?
Forse nascondersi, però gli è stato detto di rimanere vicino, quindi no.
Forse allontanarsi, giusto un po’...
Forse, forse…
Ecco!
La Buona Educazione!

Salutare Sempre.

Questo lo ricorda.

Quindi alzerà la testa e saluterà.
O forse alzerà solo la testa.
O forse saluterà soltanto.

Il tempo passa e lui ancora non ha fatto niente.
Deve darsi una mossa.
Gli occhi saettano in alto, schiudendosi soltanto dopo un lunghissimo respiro.
Ed è pronto davvero, tuttavia i suoi occhi non inquadrano nessuno.

Non…

Non c’è nessuno.


Tobia ha osservato il comportamento del bambino per tutto il tragitto.
Sembrava sereno, mentre camminava al suo fianco.
Poi, qualcosa è cambiato.
Ha visto i pensieri riflettersi nel volto scavato, modellandolo in una smorfia di disapprovazione.

Lo ha visto pietrificarsi al suono della sua domanda.
E non può far a meno di scrutarlo, mentre mille dubbi si infrangono su di lui lasciandolo in balia dell'incertezza.


Nessun interlocutore sconosciuto.
Nessuno.
Tutto ciò che riesce ad inquadrare è una via percorsa da negozi perlopiù deserti, dai quali qualche negoziante annoiato si affaccia.

La testa scatta verso sinistra dove il Tutore, dall’espressione perplessa, lo guarda strano.
“Tutto bene, Yuri?”

Oh!
Perché è così stupido?

Stupido, stupido, stupido.


“Sì, Signore! N-No, Signore! C-cioè il… b-bambino n-non… n-non ave-aveva c-c-c… c-capito e…

M-m-m... M-mi…”

Tobia scavalca il fiume di scuse appena sfociato, ignorandolo.

“Va tutto bene?”
“Sì, Signore.”
Yuri abbassa la testa, colpevole.
“Bene, allora adesso entriamo qui e dopo ci fermiamo un po’ , se vuoi…”
 

Tobia avanza senza attendere oltre.
Hanno già fatto tappa in diversi negozi; tutto questo girovagare e spendere inizia ad innervosirlo e dover tener d’occhio ogni passo del bambino non è un’impresa così semplice.
Più volte ha dovuto spronarlo ad entrare vista la sua reticenza, ma mantenere un tono pacato gli costa un grande sforzo.
Deve solamente entrate, dannazione!
L’ennesima porta si apre, provocando un fastidioso scampanellio.
 

Tobia detesta quell’aria finta, che sibila gelida fuori dal condizionatore e ha cosparso le braccia del bambino di brividi.

“Metti la giacca, Yuri.”

Ma il piccolo, lo ha già fatto.

Lo ha capito nella loro seconda tappa: deve coprirsi, quando entrano nei negozi.

Deve coprirsi agli occhi di quei signori rispettabili.

 

“Buonasera!”
Una volta dentro, la bocca di Yuri si schiude ricalcando una perfetta O.

La bellezza del posto lo lascia senza parole.
Un odore di libri, di carta, cuoio e inchiostro da stampa permea l'aria.
Yuri lo adora quel profumo.

Essenza di nuovo, di parole e conoscenza.
Gli piace leggere, ama farlo.

Perché nella sua testa le parole scorrono fluide.
E lui può sentirsi un bambino normale.


Poco distante c'è un ripiano tutto colorato che fa mostra di copertine con disegni così veri! da attirare i suoi passi.

Un libro aperto si vanta in mezzo a tutti gli altri.

I suoi personaggi cartonati, ribelli, escono dalle pagine.

Si erigono in altezza.

La tridimensionalità rende ancor più fiero il mago dalla barba lunghissima che sguaina la spada dorata ed il mastodontico drago dalla lingua biforcuta e le zanne affilate, che sputa fuoco; la fiamma arancione e gialla è così viva che verrebbe da chiedersi se sia in grado di emanare calore.


E mentre i due, proiettati fuori dalle righe, combattono senza sosta, il bambino avvicina l’indice, desideroso, ammaliato.

Vorrebbe sfiorare le fiamme, il mago e perché no, anche il drago che combatte coraggioso.


“Non si tocca!”

L’indice si ritira, raggiungendo le altre dita, serrandosi in un pugno.
“Cosa-
Un colpo.
“Credevi-
Una altro colpo.
“Di fare?-
Il rumore del legno che colpisce le ossa
“Piccolo, stupido, imbecille!”

Ed il pugno si ritrae sul petto, mentre l’altra mano lo soccorre, coprendolo.

Non devi toccare le nostre cose! Né quelle di nessun altro, mostro infetto!”
Gli occhi si dilatano.
Il volto scatta verso l’alto.
Ma non c’è nessuno pronto a colpirlo.
Nessuno che lo guarda con disprezzo.
Nessuno, se non l’uomo che urla nella sua testa.

E gli schiaccia il petto.
“Andiamo…”
Il Signor Tutore ha una mano sul pomello della porta.
Ha concluso i suoi acquisti ed è arrivato il momento di uscire.
Yuri lo guarda, lo studia di sottecchi: l'uomo sembra semplicemente in attesa.

Allora si sbriga ad obbedire, affrettando il passo quando gli passa accanto.

Abbassandosi lesto, nel vedere la mano sollevarsi.

Occhi chiusi.

Per spingere la porta.

Non è successo niente.

 

Yuri può respirare.

Fin qui tutto bene.

Fin qui, tutto bene.

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Capitolo 8
*** Nove Verticale – Inusuale situazione priva di sicurezza ***


Nove Verticale – Inusuale situazione priva di sicurezza
 
 
“Vieni, devi fare merenda.”
 
Il braccio teso di Tobia tiene la porta aperta.
Il bambino temporeggia spostando il peso del corpo da un piede all'altro.
 
Il Signore non è contento:
Ha camminato veloce, tanto veloce.
La sua voce è più profonda.
Sbuffa.
Lo ha sentito quando stava provando ad allacciarsi la scarpa, lo ha sentito quando ha detto Faccio io stringendo i lacci.
“Stringo di più?”
No, per favore, Signore, avrebbe voluto rispondere lui, o altre mille cose che però hanno solo lampeggiato nella sua testa e sono rimaste abbagliate dallo sguardo così vicino del Tutore.
Non gli era mani capitato di non dover alzare la testa per guardare un adulto.
 
“Yuri…”
 
Lo ha fatto, lo ha fatto di nuovo.
Ha sbuffato il suo nome e Yuri sa bene, benissimo, che quando un adulto sbuffa un nome – o ragazzino o mostriciattolo o idiota –  quando soffia una parola, dice in realtà: Mi stai facendo perdere la pazienza.
E sa anche bene-benissimo che se lui non si dà una mossa, l’adulto sarà costretto a lasciar perdere quel che stava facendo, sarà costretto ad alzarsi – una piccola spinta per abbandonare la poltrona – e sarà costretto a perdere la pazienza.
E tutto questo accadrà se lui continuerà a starsene lì come un Ragazzino imbecille! dalle ascelle sudate – Cristo, quanto puzzi!- e dalla gola secca.
 
Mi metto la felpa, Signore.
Nella sua testa scoppia una risata stridula e crudele.
Era questo che volevi dire? Invece no, dalla tua bocca sono uscite tante, piccole consonanti appiccicate che hanno trasformato la tua frase in un m-mmmugolio patetico.
 
“Bene, vieni.”
Quel Bene è ossigeno e Yuri ne prende una boccata avida.
Che schiarisce i pensieri e lo catapulta nel presente.
Per poco.
Troppo poco tempo.  
 
Musica.
La musica esce dallo spiraglio che il Tutore sta creando mentre attende che lui entri.
Si amplifica, fondendosi a quella delle casse esterne al bar.
Musica.
 
Una donna ringrazia Tobia per il gesto galante.
Che non fosse dedicato a lei, poco sembra importarle.
“Su, andiamo.”
 
Persone.
Ci sono un sacco di persone in fila.
 
“Questo è il nostro numero. Aspetteremo il nostro turno, nel frattempo scegli i gusti del gelato.”
 
Ventotto, ventotto.
È il numero che serve per prendere il gelato.
 
Una parola buona recepita da una mente bambina, sospende il caos.
 
“G-Gelato?”
“Sì, non ti piace?”
“N-non lo s-sa, Signore.”
“Bè, ora lo scoprirai.”
Il commento sbrigativo è un tentativo di boicottare il fastidio nato dalla risposta del bambino.
Per tutto il non detto che racchiude.
 
“M-Ma i-il b-bamb…”
“Yuri.”
L'ammonimento risulta più duro di quel che avrebbe voluto.
“S-S-S… S-soldi, Signore. I-IO n-non ho i sold…”
“Evitiamo commenti sciocchi, Yuri.”
 
Ventiquattro.
 
Un passo simultaneo, la fila avanza insieme al panico.
 
Tante scarpe.
Tante gambe, tanti vestiti, tanti pantaloni.
E cinture.
 
Tante voci.
                  Nervose.
                Allegre.
                 Nervose.
 
Tante persone.
                         Alte.
                       Grandi.
 
Tanta musica.
                    Forte.
 
E, il gelato.
 
Un'incognita.
Un'ansia.
Una scelta da fare.
 
Venticinque.
 
“Sarebbe opportuno optare per qualcosa alla frutta.”
Un consiglio soffiato.
 
Frutta.
Frutta.
 
La visuale è coperta.
Ma se Yuri si impegna, può scegliere senza vedere.
 
Forse fragola.
 
Ma il Tutore ha detto gusti.
Più di uno.
 
Deve, deve dirne due.
 
Ventisei.
 
Musica.
            Gambe.
Voci.
 
“Coppetta piccola, media o grande?”
“Media. Con cioccolato e menta. E una cialda, grazie.”
 
Discorsi fluidi.
                       Veloci.
                       Come il cuore.
 
Ventisette.
 
“Vieni avanti, Yuri.”
Limone, limone.
Fragola e limone.
 
Ma il limone è un frutto?
No, non… Non lo sa, non lo sa.
 
Musica.
Contatti  inevitabili.
 
Persone alte.
                   Gelato.
Gusti.
                   Frutta.
Musica.
 
Due giovani a separarli dal loro turno.
I jeans si muovono a destra e sinistra, le mani sfiorano la base del vetro.
 
“E stracciatella!”
 
La stracciatella non è un frutto.
Quasi sicuramente.
E comunque non riuscirebbe a dirlo.
 
“Anche un po' di panna, grazie!”
“Sei un ingordo!”
“Ah, sta' zitto! Tieni qua e aspettami fuori, che intanto pago.”
 
 
Ventotto, ventotto.
 
Ma la soffice piramide non regge al veloce voltarsi del ragazzo.
 
“Non ci credo!”
“Allie, guarda che casino!”
 
Yuri non sente le loro risate.
Le prese in giro che si scambiano a vicenda.
Il ridacchiare della folla.
 
C'è una chiazza d'orrore, per terra.
Che cola e si allarga, riempiendo la mattonella e imbrattando la mente di Yuri.
 
“Guarda cos'hai combinato!
Ora ti faccio vedere io!”
 
La musica, la musica si alza e diventa veloce.
 
“Alza la musica o questo mostro attirerà tutto il vicinato!”
 
Veloce.
Come il suo respiro.
Che si spezza appena Tobia lo afferra.
 
“F-Fatto n-niente, -fatto n-niente!”
 
Ma indietreggiando sbatte contro le ginocchia di qualcuno.
Si volta.
Altre ginocchia che lui ha toccato, con la schiena.
Un cerchio psichedelico.
 
  Un vortice di 
     persone
      parole
       suoni
        mani
           .
 
E gelato per terra.
E pavimento sporco.
Sporco!
 
“NO, NO, NO!”
 
Le mani alzate non servono a fermare la furia del suo Tutore.
Le sue preghiere non lo salveranno dall'inevitabile.
 
“N-NON È S-STATO I-IL BAMBINO!
S-SIGNORE!
T-TI PREGO!”
 
La musica ovatta la realtà.
 
Confonde mani con altre mani, voci con altre voci.
Presente e passato.
 
Che si riflette in una stretta che lo soffoca.
Che lo fa dimenare, scalciare, pregare.
 
“P-PREGO, TI P-PREGO!
M-MI D-DISPIACE!”
 
Ma non lo ascolta, nessuno lo fa mai.
 
Nessuno ascolta le parole stupide di un bambino anormale.
Che urla e cerca di parlare  ma quando il terrore accartoccia, schiaccia tutte le sillabe, si ritrova a singhiozzare.
Il panico echeggia in vocali disperate, allungate fino a graffiare la voce.
 
Ma poi qualcuno lo blocca.
E la disperazione fa vomitare preghiere.
Implorare un aiuto.
 
“M-MAMMA!
MA-MMA!”
 
L'impatto col cemento è doloroso, graffia la pelle nuda delle gambe che strusciano il selciato nel tentativo di allontanarsi.
 
“Vieni qui o sarà peggio per te!”
 
Lacrime, sudore.
Strilli dell'anima.
 
Perché l'hanno preso e ora sarà peggio.
Farà più male.
 
Brucerà.
 
“P-per F-FAVORE!
T-TI PREGO!”
 
Brucerà.
 
“M-MI D-DISPIA…”
 
Brucerà subito e dopo e sempre.
E ancora.
 
“NO, T-TI PREGO!”
 
La schiena, le gambe, le braccia.
 
La gola.
Il petto.
 
Il viso .
 
Che Yuri ora graffia, forte.
Unghie conficcate nella pelle seguono scie bagnate dagli sbagli.
 
“F-faccio più, f-faccio più, f-faccio più.”
 
False confessioni che forse abbrevieranno la pena.
Come l’immobilità.
Forzata.
 
Dalla perdita di ogni energia.
Di ogni speranza.
 
Realtà che vortica.
 
Parole lontane.
 
Freddo.
 
 
Lo ha visto boccheggiare.
Rimanere a fissare il pavimento iniziando a tremare.
 
“Yuri…”
Fare il danno è stato terribilmente semplice.
È bastato sfiorarlo.
 
Ed il fragile equilibrio di Yuri gli si è sciolto fra le dita.
 
Il primo urlo ha zittito la confusione, attirando sguardi perplessi e curiosi.
 
E la sequenza di No  è seguita fin oltre la porta, trascinandosi dietro commenti, Capricci, Severità, Meno tempo da attendere.
 
“Yuri alzati, alzati!”
 
Ha subito colto la confusione del bambino.
“Lo so che non sei stato tu, smettila.”
Ma era impreparato.
Non si aspettava di ritrovarsi di fronte al bambino che aveva visto nel display.
Di fronte ad altre conseguenze che non fossero lividi o balbuzie.
C'è un lunghissimo momento in cui Tobia tenta, senza avvicinarsi, rispettando la richiesta di Yuri, di porre fine all’increscioso fraintendimento.
Un momento di umana incapacità seguito da una voce agonizzante, una disperata richiesta di salvezza, che lo forza a sollevare Yuri.
Via dalla strada.
Via dai ricordi.
Via dal dolore.
 
“Yuri, ascoltami…”
 
Lui non lo fa e Tobia non riesce a parlare.
 
“S-SIGNORE, T-TI PREGO!
T-TI PREGO!”
 
È impotente, è nulla di fronte alla viva sofferenza di un bambino.
Che prega, prega.
Tobia si domanda per un attimo se è lui o forse Corrado quello che sta implorando davvero.
O quel dio tanto lodato dalla gente.
Lo stesso dio che ha sempre ignorato i lamenti di Yuri.
 
“Ascoltami bambino, ascoltami…”
 
Yuri fra le sue braccia è un animale in gabbia, eppure quella gabbia è l'unica protezione che Tobia riesce ad offrirgli.
 
Yuri lotta, la disperazione ha preso possesso del piccolo corpo che già una volta gli è scivolato dalle mani.
Non se lo aspettava.
Il terrore fa fare cose inimmaginabili, fa trovare forze inesistenti.
Tobia è costretto ad osservare la paura scuotere Yuri, soffocarlo.
È costretto a sentirla nei denti che sbattono insieme, a provarla sottopelle.
Iniettata da grida che prega, non dover sentire mai più.
 
“Yuri, va tutto bene. Bambino, nessuno ti fa del male. Nessuno te ne farà mai più, mai più.”
 
“M-MAMMA V-VIENI! Vieni…”
 
La voce è l’ultima a perdere energia.
Continua a pregare un uomo, a giurare la propria buona volontà di non ripetere l’errore.
E ad implorare una madre.
Che non arriva.
Non arriva mai.
 
“Va tutto bene. È passata, è passata…”
 
Yuri emana calore, stretto al suo petto.
Una posizione nata per bloccarlo.
In cui si è arreso.
Ha le braccia molli lungo il corpo.
Gli unici movimenti sono scosse residue da un pianto profondo.
 
“Mmm… M-mamm…”
 
La sua maglia è zuppa di sudore.
Quella di Tobia, delle sue lacrime.
 
“N-Non viene, n-non p-può, s-stan… S-Stanca, d-dorme. D-Dorm… Shhh…”
 
Yuri si parla.
Una nenia, una cantilena di rassicurazioni.
 
“Shhh…”
 
Una spiegazione che Tobia comprende come il tentativo di giustificare a sé stesso un'assenza.
Una spiegazione diretta alla sua piccola anima martoriata, che stenta a trattenere i singulti.
I miagolii.
I mugolii.
Che si impone il silenzio.
 
“Ci sono io, qui con te. Va tutto bene, Yuri…”
 
Lenire.
È quel che spera di fare Tobia con le sue parole, con la sua stretta.
Lenire le mancanze, le assenze, i salvataggi mai avvenuti in quella breve vita contusa.
 
“Mmm… Mmm… Shhh...”
 
Tobia pensa, in quel momento  che se c'è qualcuno che ha più colpa di dio,  è una madre che volontariamente non salva il proprio figlio.
Sarebbe buffo, riflettere sul quanto siano simili, no?
Ma no, non c'è niente di buffo.
E non c'è nemmeno il tempo per la colpa, adesso.
Perché Yuri si è arreso.
Si è arreso e adesso non riesce a sentire niente.
Nemmeno la musica.
Ha freddo, ma posa su un qualcosa che emana tanto calore.
Vorrebbe guardare, ma non riesce a voltare la testa.
È così stanco…
Forse sta sognando.
Sì, sta sognando.
Ne è sicuro, adesso, perché sente due mani su di sé.
Ma non fanno male.
Anche se sono grandi, non fanno male e non lo spingono.
Gli piace sognare.
Sembra vero.
Si sente sollevare e per un attimo ha paura, ma passa subito perché quelle mani sono ancora lì.
E… Fanno bene.
Poi sente qualcos’altro.
Un rumore, no, un suono.
Un suono dolce, bello e anche se non lo ha mai sentito prima, capisce cosa è.
È un cuore.
È bello, anche se strano.
Sente una stoffa posarsi sulle sue spalle.
Di nuovo quelle mani.
Oh, ora capisce.
Non ci può credere.
Se avesse un po’ di forza ed altrettanto coraggio, sorriderebbe.
Però non ce la fa.
 
È il sogno più bello che abbia mai fatto.
Un abbraccio.
Qualcuno lo abbraccia.
Non ha mai sognato un abbraccio.
Non immaginava che fosse così.
E adesso che ha capito gli sembra quasi sbagliato.
È come dire una bugia.
Allora inspira forte e racimola tutta la sua energia.
Perché, almeno nei sogni, lui è forte e coraggioso.

Tobia lo sente sospirare, scostare leggermente il volto dal suo petto.

Il piccolo parla, sono parole intellegibili.
Continua a dondolarlo.
A contemplarlo con un cipiglio serio, la fronte aggrottata nasconde rabbia e rammarico.
“N.. N-on.. N-non si.. a-abbracc…”
Lacrime si staccano dalle ciglia affaticate.
“N-non si a-abbracciano i… i m-mostri…”
Un soffio, una confessione.
Altre gocce di male.

Lo stomaco di Tobia si serra.
L'espressione s’indurisce.
La stretta si intensifica.

“Non si abbracciano i mostri…”
Ripete.
“Ma i bambini si, Yuri.
E quando hanno paura, si abbracciano un po’ di più…”



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Post It Autrice

Ed eccola qua, uno dei capitoli che più di tutti, ha richiesto ogni mia
emozione. E tempo, tanto.
Qui si vede quanto, il dolore ha scavato dentro Yuri.
Ma si intravede anche quanto, Tobia possa fare qualcosa per lenirlo.
E' un capitolo importante.
Se vi facesse piacere lasciarmi il vostro pensiero...
ve ne sarei davvero grata.

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Capitolo 9
*** Dieci Orizzontale - Dieci Verticale ***


Dieci Orizzontale - Azione per cui uno stimolo provoca una reazione di esagerata intensità
 
 
“Prima che accettino la tua richiesta, passerà tempo. Inizia a muovere il culo, Tobia! E nel modo giusto stavolta!”
 
Tobia afferra le carte che Andrea ha preparato.
Firma soltanto.
Gli spazi bianchi sono già stati accuratamente riempiti.
In blu.
Ma l'uomo evita saggiamente di esternare il proprio disappunto.
 
“E se ti avessero colto sul fatto?”
“Quale fatto?”
Colui che finge furbesca indifferenza: Gnorri.
Lo sguardo di Andrea è risentito.
Alterato
“Tobia, quella non è una soluzione!”
“Lo so.”
La discussione, è conclusa.
Entrambi ne sono consapevoli.
I Giunta hanno avuto un assaggio.
Tobia, il modo di canalizzare la sua frustrazione.
La conversazione è giunta al termine, lo stesso non si può dire della giornata.
Ci sono ancora questioni da sistemare, domande prive di risposta.
Perché anche se Tobia evita di dare voce al suo sgomento, è rimasto scosso dalla crisi del bambino.
 
Il fatto che Yuri sia divenuto più silenzioso, non è un buon segno.
Né lo è stato il suo “Il bambino può andare in bagno, Signore?” domandato con le lacrime agli occhi e le mani strette sulla vescica.
 
“Devi stare più attento e osservare meglio.”
Finalmente Andrea ha ripreso a parlare.
Ha abbandonato o forse accantonato, la sua irritazione.
Ed ha addirittura speso qualche parola per lodare la reazione che ha messo in pratica fuori dalla gelateria.
Ogni tanto, Tobia riscopre le sfumature che ha amato di quell'uomo; l'essere in grado di mettere da parte la rabbia di fronte a questioni più importanti, ad esempio.
Riesce a farlo così bene da riuscire a complimentarsi sinceramente con la persona che qualche minuto prima ha definito infantile.
Non che l’abbia apertamente detto, però lo ha pensato, scuotendo la testa ed incrociando le braccia al petto.
Scrutandolo dai capelli, fino alle scarpe, come fa con i suoi piccoli pazienti.
Solo con un cipiglio di disappunto.
 
“Senti…”
Un sospiro, l'espressione si ammorbidisce.
“Davvero, so che hai fatto del tuo meglio…”
 
MA...
 
“Ma devi imparare a parlare con lui costantemente. A leggere i suoi gesti, il modo in cui tiene le mani, in cui si muove. Soltanto così puoi cercare di prevenire altri episodi del genere.
Che ci saranno comunque, considerando le statistiche…”
 
Incoraggiante, continua pure.
 
“E non è da escludere nemmeno un crollo nervoso, se si pensa allo stato di perenne ansia in cui…”
“Andrea! Non mi occorre una lista di tutto ciò che potrebbe andare storto!”
Non era lui quello che odiava chi addolciva la pillola?
Andrea vorrebbe puntualizzare la questione, ma demorde.
Tobia è un uomo intelligente, a prescindere dalle azioni stupide che può commettere.
Si limita quindi ad annuire ed appuntare una serie di azioni da compiere.
Strategie da attuare.
Che Tobia scorre scettico, finché il suo sopracciglio non si inarca vertiginosamente.
“Cosa diavolo vorrebbe dire questo?”
Il dito minaccia la quarta voce e stavolta, è Andrea a reinventarsi colui che finge furbesca indifferenza.
 
“Ti ho portato anche queste…”
Due casse bianche e gialle vengono frettolosamente spinte fra le sue mani, distogliendo l'attenzione dal punto quattro.
Attività Ricreative: Gioco, Letture di storie.
“Cosa…”
“Delle radioline. Ti permetteranno di vegliare sul sonno del bambino.”
Può andare.
Quello, può andare.
“Non gli leggerò delle storie.”
“Allora fallo fare a lui! Dovete CONDIVIDERE, Tobia! Non puoi sommergerlo di compiti e pretendere di instaurare un rapporto umano con lui. Fallo giocare, provaci!”
 
“I Siniori può andare in piscina!”
Tobia si schiaffa una mano sulla faccia mentre Adele sventola la sua per invitarlo a scansarsi.
“Ecco, Tè!”
Annuncia la donna, trillando contenta al sorriso grato del pediatra.
“La piscina è una buona idea!”
“Voi state delirando.”
Il ringhio di Tobia viene bellamente ignorato e soppiantato dal tintinnio di due tazze che cozzano insieme.
“Cin cin!”
Ridacchia Adele, sorridendo complice ad Andrea.
Quell’odiosa, stupida abitudine.
Miseria, quanto gli era mancata quell'odiosa, stupida abitudine.
“Avete finito voi due?”
 
La scena è buona.
Il déjà-vu completo.
C'è lo sguardo sfrontato di Adele.
Il suo muto Siniore Tobia si pierde in ricordi!
Dannata donna.
C'è quello nostalgico di Andrea.
Il suo “Andiamo avanti…” poliedrico.
C'è Tobia che schiarisce la voce.
Un rullo di tamburi, le maschere tornano in scena.
 
“Appurato che non gli leggerò una storia e che non lo porterò in piscina…”
“Gli fai bere la tisana?”
Occhi al cielo.
“Certo che sì!”, risponde piccato.
“Io piensa che è meglio se biambino beve in camera! Su letto! Per relax! Ma Siniore Tobia…”
“Ottima proposta Adele!” esclama Andrea.
“Non avevo dubbi.” sentenzia Tobia acido, squadrandola.
“Senti, devi costruire una routine e la sera è un momento importante. Tutti questi fattori… Sono fondamentali.”
 
Lo sa.
Madre Natura o chi per lei, lo ha dotato di un quoziente intellettivo discreto.
Non ha bisogno che sia uno specialista a spiegargli l'importanza di una routine.
Lui è un sostenitore, della routine.
Un fan accanito, della routine.
E la sua sta vacillando pericolosamente.
 
“Bene. Ma non gli leggerò nessuna storia.”
“VEDREMO!”
Un coro!
Quei due lo hanno appena detto in coro.
 
Irritazione: Azione per cui uno stimolo provoca una reazione di esagerata intensità.
L'omicidio è da considerarsi esagerato?
Forse.
 
“Gli hai detto che non sarà punito per quel che è successo?”
“Gli ho chiaramente detto che non sarebbe mai stato…”
“Si, si.
Ma lo hai fatto dopo quel che è successo?”
“Saranno passati tre giorni da quando gli ho spiegato…”
“Intendo DOPO. DOPO la crisi!  DOPO, devo farti lo spelling? È importante, porca miseria!”
Tobia si domanda per un attimo da dove esca fuori, quell'irascibilità
Forse, anche lui ha rivisto quei piccoli spicchi di passato.
Forse, in lui hanno toccato la leva sbagliata.
“Ha BISOGNO che tu lo rassicuri! Se non parli, come pretendi che lui capisca o…”
Andrea si gratta la nuca, cercando le parole adatte.
“È come quando, ad esempio…”
“Stai parlando di te o del bambino?”
 
La provocazione gela la stanza.
Forse quei déjà-vu hanno toccato più di una leva sbagliata.
“Fottiti!”
Andrea si muove a passo di carica verso la porta.
“Dopo di te…” ghigna Tobia, incapace di trattenersi.
Andrea fa per ribattere.
Ma i suoi occhi inquadrano qualcosa che rasenta la vittoria.
Il passo flemmatico, il sorrisetto compiaciuto.
“Ah, Tobia…”
Il voltarsi teatrale, un piede già fuori dall'uscio.
“Ottima scelta.”
Il mento alzato ad indicare la pila di libri acquistati durante la tragica uscita.
I colori delle emozioni recita la copertina.
 
Oh, dannazione!



Dieci Verticale - Far proprio, dopo un processo di elaborazione
 
 
Metabolizzare.
Entrando in camera tua, mi resi conto di non averlo ancora fatto.
Le tue gambe sbucavano da sotto il letto.
Stavi evidentemente cercando qualcosa.
O nascondendo, qualcosa.
Fu istintivo, il mio “Ma che stai facendo?”
Istintivo e stupido.
 
Avevo parlato senza consultare il cervello e quando la tua nuca cozzò contro il letto, sentii male anche io.
 
“Tutto bene?”
 
Non rispondesti.
Ma iniziasti a graffiarti le braccia.
Più forte.
Sempre più forte.
 
“Yuri…”
 
Un mio passo, il tuo arretrare.
 
Mi hai detto che non lo avresti fatto più.
Che ti dispiaceva.
 
Ed io, bambino, mi resi conto di una cosa.
Anzi, di due:
Non sopportavo l'idea che tu fossi spaventato da me.
Ma, soprattutto.
Avevo accettato quella consapevolezza.
 
 
“Hai paura, Yuri?”
 
I denti incidono il labbro, scavando nei solchi di un nervosismo frequente.
Gli occhi bassi, poi alzati, poi abbassati.
L'inadeguatezza che striscia, l'ansia che preme.
 
“Hai paura, Yuri?”
 
La voce non obbedisce.
Lo fa sempre, quando Yuri sente lo stomaco stretto ed il petto compresso.
Allora deve annuire, perché non è che non voglia rispondere, è che proprio non può.
I grandi dicono che lo fa apposta.
Lo dicono sempre, quindi dev'essere vero, ma Yuri non sa come non farlo apposta.
Sa solo che il Signore sta facendo delle domande.
E lui non riesce a rispondere.
Qualche lettera fugge a fatica dalla gabbia che è la sua gola.
Niente di più.
La frustrazione piega la bocca, fa stringere le labbra.
 
Tobia guarda l'ansia dimenarsi nel corpo del bambino.
Più la doma con l’immobilità, più lei reagisce frustandogli i nervi, bloccandogli la mascella.
Tappandogli la bocca, strizzandogli i polmoni.
Lo sta incatenando e Tobia deve salvarlo.
Distrazione.
Gli serve una distrazione.
 
“Esercizi! Hai, hai fatto tanti esercizi oggi… Mi fai vedere?”
 
Di nuovo un annuire dalla testa abbassata, dalle labbra sigillate.
Yuri prende i suoi fogli, li stringe.
Un po' troppo forte.
Tuttavia si è avvicinato di due passi nel ritornare di fronte a Tobia, che fa delle sei pagine un ventaglio e dice: “Accidenti, ne hai fatti davvero tanti.”
Tanti sono troppi?
Yuri non ha tempo d'indagare, perché il suo Tutore ha iniziato a parlare.
Commenta, indica, mostra e spiega.
Ed è, stupefacente, ogni volta, davvero.
Talmente incredibile da far accantonare la tensione.
Perché Yuri capisce quando il Signore gli dice che “Gatto si scrive con due T, altrimenti si leggerebbe Gato”.
E quando allora il Signor Tobia gli chiede di correggere l'altra parola, quella indicata, il bambino lo sa.
 
“C-Ci v-v…
V…
V-v-v…”
 
È mortificato, Yuri.
Lo è mentre riprende fiato e deglutisce inghiottendo un nodo di lettere.
Si scuserebbe, se potesse farlo, invece non può farlo, perché è talmente stupido, lento e…
 
“Non c'è fretta. Fai un bel respiro e riprova, d'accordo?”
 
D'accordo, d'accordo.
Ecco, un bel respiro.
È bello?
È un bel respiro?
 
Yuri obbedisce subito, apre anche la bocca per mangiare l'ossigeno.
Ma quello non scende, non arriva, non va giù.
E si incastra, fra il Quando arriva la lezione? ed il Mi dispiace, Signore.
Si blocca, lì dove tiene le mani stringendo la maglia, dove le dita si attorcigliano fra la stoffa.
Sulla bocca dello stomaco.
 
Forse c'è una possibilità: Yuri prova a dar voce alla risposta che il Tutore vuole, che lui può dare e che forse renderebbe meno dolorosa la lezione futura.
“C-C…
C-Ci v-v…”
La V si allunga, fa inciampare la lingua e uscire un suono disgustoso.
Le scarpe cigolano, ridono spostandosi agitate sul pavimento.
 
È frustrante guardarlo, è frustrante ritrovarsi a fare il tifo per una voce.
E Tobia può soltanto immaginare, quanto possa essere frustrante per il bambino.
“Che dici se facciamo una pausa e riprendiamo dopo? Avrai fame, immagino…”
 
Ed ecco un'altra cosa che Tobia ignora essere così frustrante: la sua gentilezza.
Il bambino non riesce a ricambiarla, se non evitando di lasciar andare le lacrime che sente accumularsi.
“Vieni…”
Il Tutore apre la porta e lo invita ad uscire.
Yuri lo guarda, senza farsi vedere.
Com'è alto, il Signor Tutore.
E com'è buono.
E le sue mani sono così grandi…
Chissà che male, faranno.
Yuri pensava che lo avrebbe scoperto presto, però ancora non è successo.
Le ha viste vicine, le ha viste muoversi piano.
Le ha viste indicare parole, insegnargli delle cose.
Che belle mani, che mani buone, ha il suo Tutore…
 
Quando Tobia si volta per controllare d'esser seguito, vede il bambino perso in contemplazione.
E un po' gli dispiace d’essersi fatto scoprire nel guardarlo, perché, per un momento, ha visto l'ombra della serenità passare sul viso del piccino.
 
“Siedi, arrivo subito.”
 
Adele ha il sorriso di chi la sa lunga e non prova nemmeno a nasconderlo.
Una curva soddisfatta ha illuminato il viso tondo, nell’udire il suono della notifica.
Due bip brevi: il suono di Andrea.
Ne è consapevole, l’impicciona.
Tobia la ignora, passeggiando verso la privacy.
La mente sorride nel leggere l'incipit del messaggio.
 
-Undici Verticale:
Liberare da timore, dubbio, incertezza.
 
Un cliccare rapido.
 
-Rassicurare.
 
Compiacimento per gli otto secondi occorsi nel rispondere.
Bip Bip.
 
-Esatto. E togliti quel ghigno dalla faccia, era semplice da dire.
L'esempio che avevo in mente di farti non sarebbe stato in grado di entrare in quella testa di cazzo che ti ritrovi. Quindi te l’ho sintetizzato.-
 
Tobia nasconde l'embrione di un sorriso dietro la mano.
Andrea non è cambiato di una virgola.
Un visualizzato basterebbe a sottolineare il suo aver fatto altrettanto.
Un selfie al suo sorriso compiaciuto ribadirebbe quanto sopra.
Quel grazie dirà invece molto di più.
E il ps. Altrettanto servirà alla sua autostima.
Gli ha appena dato della testa di cazzo; e pur essendo perfettamente in grado di domare le proprie emozioni, non è abbastanza rammollito da ignorare una provocazione.
 
Tobia non ha mai sentito la necessità di essere rassicurato, perciò, riflettendo sul messaggio, si ritrova a fare i conti la perplessità e con un pizzico di scetticismo.
 
Secondo Andrea, dunque, sarebbe bastato un suo “Guarda che sono felice insieme a te!” per salvare il loro rapporto?
Per estirpare i dubbi e scongiurare il suo essersene andato?
Non lo saprai mai, suggerisce una voce sgradita. La sua.
 
Il suo arrivo a tavola, dà il via al pasto.
Al suo, almeno.
Perché dopo il terzo boccone il bambino è ancora fermo, immobile.
 
“Yuri…”
 
Seppur meno marcatamente, il suo respiro è ancora alterato.
 
“Puoi mangiare, lo sai vero?”
 
L'interpellato non sa cosa rispondere, però sfila le mani da sotto le cosce e le posa piano sul tavolo.
Sarebbe pronto, se il Signore gli dicesse che stava scherzando.
 
“Puoi mangiare”
 
“G-G-G… G-Gra-gra-zie Signore.”
 
Tobia conta cinque scatti nervosi, durante il pasto.
Ha egregiamente tenuto il suo sguardo indirizzato al piatto, ma non ha potuto non percepire quello ansioso del bambino.
Che ad ogni rumore involontariamente provocato, sembrava scongiurarlo.
 
“Yuri.”
“Sì, Signore.”
 
La forchetta riposta.
Le mani aggrovigliate.
 
“Non sarai… Non ti verrà data nessuna lezione, per quel che è successo.”
 
Respiro.
Respiro.
Sollievo.
Un tono serio, una verità.
 
Un abbassare la testa, gli occhi.
L’abbozzare di un inchino, sinceramente dedicato.
Sinceramente commosso.
 
“Ma se avessi dei dubbi, delle domande… Voglio che tu me le faccia. È permesso.
Voglio che tu mi dica quando hai paura, così che possa cercare d'aiutarti. Hai capito, bambino?”
 
Oh, si che ha capito!
Per questo adesso i suoi occhi luccicano.
L'ultima volta che ha avuto paura, davvero tanta paura, il Signore ha fatto una magia con le sue mani buone.
E adesso ha detto che se succede di nuovo, lui cercherà di aiutarlo.
Farà di nuovo la magia, Signore?
La farà davvero?
Perché?
Vorrebbe chiedere.
Perché tanta fortuna?
 
Eppure Yuri non può parlare senza farsi scappare delle lacrime sciocche allora tace, annuendo ed afferrando la forchetta.
 
Lo stomaco un pochino si scioglie.
Quel poco che gli permette, lunghissimi minuti dopo, di prender un bel respiro profondo.
Proprio bello.
Come quello che aveva chiesto il suo Tutore.
 
“P-P…”
 
Tobia lo guarda, curioso.
Yuri strizza gli occhi e inghiotte una mollica di sillabe.
 
“P-P.
C-Ci v-voleva un…
Un'altra P-P.
S-Sennò…
S-Sennò è è…
T-Tappo.
N-No, t-tappo…
C-Cioè…”
 
Uno sguardo breve, molto breve.
 
È difficile dire quella cosa.
Pronunciare la parola sbagliata.
Yuri sa dirla, nella sua testa, ma la voce fa raddoppiare le sue lettere.
 
“T-Tapp…”
Le preme così a lungo che sembrano due o forse tre.
 
“S-Sennò è…  S-Sbagliato.”
 
Un sigillo di labbra, a nascondere un sorriso che potrebbe esser mal interpretato.
Ma che non è altro che orgoglio.
 
Ce l'ha fatta, Yuri.
Strigliando le sue difficoltà.
Spiegando.
 
E sono in due, adesso, ad aver gli occhi che brillano.
Perché il bambino ha capito.
Perché il bambino, si sta fidando.
 
Ed ha aggirato le sue difficoltà, per far felice il suo Tutore.
Che sorride appena, ma sorride davvero.
 
“Bravo bambino.”
 
Ingenuamente Tobia non si aspetta quello sguardo.
In realtà, non si aspetta alcuno sguardo.
 
Ma Yuri, invece, ha alzato gli occhi e lo ha fissato.
Dimenticando i colori diversi, la paura, la vergogna.
 
Bravo bambino.
 
Continua, a fissarlo.
 
Bravo bambino.
 
E c'è talmente tanta commozione.
In quella bocca schiusa.
Nel fiato sospeso fra le labbra, incapaci di liberare parole o respiri.
 
E c'è talmente tanta commozione.
In quelle iridi liquide.
Talmente tanta, che nella singola, composta lacrima che rotola sulla guancia, sotto il mento di Yuri…
Tobia affoga il suo lato astioso e i suoi rammarichi.
Mentre le maschere, si sciolgono.

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Capitolo 10
*** Dodici Orizzontale ***


Dodici Orizzontale – Viltà d'animo, pusillanimità
 
 
“Che lettera hai pescato?”
“È-è la l-lettera A, Signor T-Tobia!”, squittisce Yuri mostrando il quadratino di legno che tiene nel palmo della mano.
L’uomo è lieto di constatare che il tremore, fedele compagno della voce del bambino quando pronuncia il suo nome, si sta affievolendo.
Gli ha dato – imposto – il permesso di chiamarlo così, dietro insistenza di quell’adorabile donna dai vestiti a fiori.

“Il Siniore deve mietere a suo agio Bambino!”, aveva sentenziato.
“Mettere. Non mietere, mettere!”, era stata invece la sua seccata risposta.
Accompagnata dell’accettazione del consiglio.
Se non altro per metterla a tacere.

La stessa scena si era ripetuta la settimana prima, quando Adele aveva fatto un rumoroso ingresso nello studio, sorreggendo una scatola talmente grande da coprirle la visuale.
A causa di questo, probabilmente, era inciampata e, scoordinata a causa della sua stazza impegnativa, aveva tentato di mantenere l'equilibrio e la dignità, con scarso successo.
Le sincere risa di Tobia però si erano  spente riconoscendo il contenuto dello scatolone.

“Non pensarci nemmeno!”

Ma l’essere malefico aveva già pianificato tutto: Yuri era infatti entrato nella stanza, affrettandosi a spiegare il perché della sua comparsa.


“L-La Signora Adele, S-Signore…
Ha d-detto ch-che vo-voleva mo-mostrare al… b-bambino, S-Signore.
Una co-cosa per i c-compiti, Signore.”

Tobia aveva allora indossato il suo sguardo più tagliente, si era voltato e, come da copione, la diabolica donna si era già dileguata.

A quel punto, non gli era rimasta altra scelta: aveva tirato fuori dalla scatola uno degli oggetti meno impegnativi e lo aveva mostrato al bambino.
La piccola mano di Yuri era corsa a coprire la bocca.
Un cumulo di letterine era stato rovesciato sul tavolo.
“Devi… Pescarne una...”, gli aveva spiegato Tobia, mentre una voce gentile ripeteva le stesse parole al suo io-bambino nel corridoio dei ricordi.
“E quella che riesci a prendere, la useremo per formare delle frasi.
Quelle usate, invece, le mettiamo su questo tabellone. E quando ne avremo a sufficienza, formiamo una parola anche qui. Vuoi provare?”

Non era occorsa risposta.
Sbucava il raggio di un sorriso da dietro le mani del bambino.

Osservandolo adesso, mentre schiude il pugno voglioso di scoprire la nuova lettera, Tobia ammette a se stesso (e solo a se stesso), che non è stata affatto una cattiva idea.
Può andare, borbotta, accantonando temporaneamente l’idea di nascondere ad Adele il detersivo al muschio bianco che le piace tanto.

“Bene, cosa ti viene in mente?”

Yuri si sfiora il mento con l'indice e dalle palpebre abbassate si può spiare la sua concentrazione.
Un sorriso storto piega le labbra di Tobia;  le prime volte Yuri si sforzava per trovare parole…  Giuste.
Giuste per il suo Tutore.

Non mi piacciono molto i Dolci.
Mi piace molto il Nero.

 
E l’infantile eccitazione per quella pesca alle lettere , svaniva nell’istante in cui il cervello captava la possibilità di un errore.
Yuri passava dall'essere piacevolmente incantato dal gioco all'essere ipnotizzato dalle conseguenze.
Tobia poteva vederle proiettarsi fra le righe del quaderno.
Poteva sentirle nel respiro trattenuto e nella voce spinta fuori a suon di minacce.
 
Parla ora o sarà peggio.
Non dire cose stupide.
Non dire cose stupide.

Tobia aveva così deciso di interrompere l’esercizio ma soprattutto quell'errato, distorto processo mentale.
Con pazienza, gli aveva (ri)spiegato che non esisteva – “Né esisterà mai” – una frase giusta o una sbagliata.
Non esisteva un colore più bello in assoluto, né un fiore e nemmeno uno sport.
La pazienza si era poi trasformata in necessità, in vigore, in un'esasperata speranza che Yuri capisse, e gli esempi si erano susseguiti come sparati da un lancia-palle impazzito.
“Ad Andrea piace il Blu, ad Adele il Verde, a me il Rosa!”
“R-Rosa, Signore?”
Per la miseria, se si era vergognato.
Possibile, possibile che di tutto il suo discorso Yuri avesse colto solo quel detestabile colore?
 
“A-Al b-b-bambino n-non p-piace t-t-tantiss… T-tanto i-il r-r-rosa, Signore, m-ma i-il Signore n-non s-si arr-arrabbia, n-non s-si arr…
A-A-Arr…”
 
“Non mi arrabbio, Yuri. Sono davvero felice che non ti piaccia il Rosa.”
 
Era una mezza verità: Tobia era felice ma lo sarebbe stato anche se al bambino fosse piaciuto il grigio-topo o l'amaranto.
 
Molte ripetizioni e parecchi undici verticali* dopo, era anche riuscito a fargli abbandonare il tragicomico modo di impostare le frasi:

Mi piacciono i Colori, grazie Signore.

Quella volta era stato più difficile non cedere alla tentazione di prendere a testate la scrivania, eppure aveva resistito ed il suo impegno era stato ripagato.

Adesso, a due settimane di distanza, percepisce una nota d’orgoglio pungolargli il petto mentre lo guarda fare piccoli, grandi progressi.

“A-Animali!”

Yuri esulta, alzando l’indice verso l’alto ed incrociando lo sguardo soddisfatto del Tutore.

Quest’ultimo annuisce, ed il bambino afferra la penna senza timore.
 
Eccola, un'altra cosa da aggiungere alla lista di ciò che ha imparato su di lui: gli piacciono gli Animali.

Poi i Libri, i Colori ed i Fiori.
Non gli piacciono i Ragni, gli piace poco il Nero, per niente la Birra.
E se su quest'ultima Tobia si è rifiutato d’indagare, al “Mi piace sognare”  ha intravisto e sfruttato l'opportunità un dialogo, che Yuri ha accolto fermandosi di tanto in tanto con la richiesta di un permesso a proseguire scritta nel viso.
“Continua, Yuri.”

“P-perché qua-quando sogna, i-il b-bambino p-parla bene.
E, e l-le per-persone a-allora n-non sono a-arrabbiate.
E q-quando…
E…
Q-quando la…
M-mamma d-dice: “P-parli b-bene a Mamma?”
I-il b-bambino l-lo fa e…
L-La m-mamma è c-contenta e…
E n-non dorme, n-non d-dorme, è c-contenta, S-Signore.”
 
“Yuri…”
 
 
Non aveva trovato parole giuste da aggiungere.
Gli aveva posato una mano sulla testa.
 
E il bambino era rimasto ad ascoltare il suo tocco.
 



“N-Non va b-bene, Signore?”
Tobia viene strappato dai suoi ricordi.
“Fammi vedere…”
Mi piacciono tanto gli animali.
“Si, invece. La frase va bene, Yuri. E dimmi un po’, quali animali ti piacciono?”

Il bambino si sistema meglio sulla sedia, voltandosi per guardare il Tutore seduto alla sua destra.
Le manine iniziarono ad intrecciarsi ed attorcigliarsi, ma non afferra la pallina.
È nervoso, sì, ma Tobia sta imparando ad interpretare la sua agitazione: l’argomento gli piace.

“M-i p-piacciono t-tanto i-i gatti.
Ma a-anche i pesci e…
E le ta-tartarughe!
D-di più qu-quelle ch-che nuotano p-però!”

“Le hai mai viste?”
Una domanda posta con la consapevolezza del valore del momento.
“No, Signore  P-però…”
Attende qualche istante.
“Continua, Yuri.”
“Sì, Signore! G-grazie S-Signore!
L’animale c-che però mi…
Mi piace di più è l-la tigre!”


“Immagino che tu non abbia mai visto nemmeno quella.”
L'ironia dà vita ad un suono.
Un minuscolo ed ancor più breve risolino, poi attutito.
 
“No, no!
Ma su-sul mio Album c-ce n’è una da c-colorare e…
Ed è q-quella c-che mi piac…”

Il bambino si interrompe all’improvviso.

Perché l’ha detto?
Perché è stato così stupido?
Nessuno deve sapere del suo tesoro, nessuno!
Ma si è fatto scoprire, un’altra volta!
Succederà, succederà di nuovo come in Via dei Mille!
 
Occhi carichi di terrore.
Dita che si ancorano ai bordi della sedia.
Contrazioni, spasmi.
“Yuri, guardami.”
Attesa.
“Che succede, bambino?”
Le palpebre tremano, le mani scorrono sulle braccia scoperte.

“Io e te abbiamo un patto… Ricordi?”
Un annuire accennato, un accordo che va assimilato.
Unghie che graffiano, due mani grandi che si posano sulle sue.
Un sussulto.
Terrore.
Uno sguardo.
Rassicurazione.
Niente dolore.
Fiducia.
“N-nero.”, soffia piano.
“Cosa? Cosa hai detto?”
“N-Niente, d-detto n-niente!”
Determinazione.
Yuri non deve allontanarsi.
“Non ho capito, Yuri.
Non ho capito davvero.
Puoi ridirmelo?”
 
“Ripetilo se hai coraggio!”
 
“S-Signore…”
Pigolio, tremore.
“Per favore, Yuri. Puoi ripeterlo?”
 
Per favore.
Gentilezza.
Voce bassa, nessuno urla.
“N-Nero.”
“Cosa?”
 
Un flash.
Un'illuminazione.
 
“Nero, come la paura?”
Yuri trema.
E Tobia, esulta.
Perché nel libro che non hanno letto insieme, Anna Lleans ha racchiuso in barattoli diverse emozioni.
Da una tavolozza confusa, ad un ordinato ripiano di vasetti dipinti.
Di Giallo per l'allegria.
Di Blu per la tristezza.
Di Rosso per la rabbia.
Di Verde per la calma.
E di nero.
Per la…
 
“Paura?”
Yuri annuisce e Tobia ne è inevitabilmente sollevato.
Ci sta riuscendo, ce la sta facendo.

“È per quello che hai detto, Yuri? Per questo ‘Album degli animali’?”
“Il b-b-bambino…”
“Yuri…” lo rimprovera bonariamente ed il piccolo inspira ed espira a fondo per continuare.
“I-IO n-non l’ho rubato, S-Signor Tobia! I-il b-bambino, cioè… Lo g-giura, S-Signore!” afferma con forza, arrischiandosi nel guardarlo.

“Yuri, non hai bisogno di giurare. Se tu mi dici qualcosa, io ti credo.”
Il bambino lo guarda, lo scruta, lo studia.
Le spalle si rilassano poco a poco.
“D-Davvero, Signore?”
“Davvero, Yuri.”
Il piccolo sembra riflettere sulla conversazione.
Forse può fidarsi di questo Signore.
E poi hanno fatto un patto.
Come quelli dei grandi, si sono stretti la mano!

“La m-maestra, Signor T-Tobia.
L-la m-maestra lo ha d-dato al…
C-cioè a m-me.
P-Però s-se il Signor T-Tobia l-lo vuole..”

“No, Yuri. È tuo. Lo ha regalato a te ed è giusto che sia tu a tenerlo.”

Yuri quasi si commuove a sentire quelle parole.
Quel Tutore è davvero l’uomo più buono che lui conosca!
Annuisce più volte in risposta e si volta, prima che i suoi occhi lo facciano sbagliare.
E mentre il corpicino vibra di gratitudine, il pugno stringe il tassellino nascosto nel sacchetto.
E si allenta piano.
P, ha acciuffato la P.
Subito, nella sua testa, la parola lampeggia a caratteri cubitali.
Forse non è quella giusta, forse dovrebbe pensarne un’altra.
Forse il suo Tutore si potrebbe arrabbiare, se scrivesse una cosa del genere.
Ma forse no.
Allora raduna tutto il coraggio ed impugna la penna.
Audace, come il cavaliere che sguainando la spada, combatteva contro il drago.
L’inchiostro si imprime fra le righe, crea onde imperfette, agitate dall’emozione malamente placata da una maggiore pressione.
Il piccolo domatore sta forse allentando le redini e le parole sono addirittura più imprecise delle precedenti, ma non importa.
Non quando Tobia legge la frase ed il suo cuore si crepa.
Ancora e ancora.
Forse adesso è lui, a dover tirare le redini.
Perché vorrebbe dire tante cose ma tacerle è meno doloroso.
Mai, la codardia gli è appartenuta.
Mai, prima d’allora.
 
Tobia riesce ad imporsi un cenno d’assenso, segno della corretta formulazione della frase.
Ed il bambino sembra sereno.
Va bene così, sentenzia l'uomo.
Ma passano le ore, il mattino, il pomeriggio, la sera.
Le lancette corrono, spronando il primo di Luglio a raggiungere il suo termine.
Ed il suo cervello non si dà pace.

Ancora ore, l’orologio annuncia la mezzanotte.
È il due Luglio.
Yuri non dorme, lui lo sa, le radioline imposte riproducono un continuo fruscio di lenzuola.
Tobia bussa, ignora il tono sorpreso dell' “Avanti” ed entra.
Guarda il bambino, i suoi occhi curiosi, timorosi e stanchi.
Ai quali non si avvicina, impegnato nello stringere il pomello fra le dita.

“Diego.” dice soltanto.

Yuri capisce.
La comprensione lo immobilizza.
Lo destabilizza.
Lo accarezza.

“C-Come…C-Come Zorro, Signore?”
Tobia non è certo della nota interrogativa del commento ma non può esimersi dal confermare, alimentando quell'idealizzazione eroica, fanciullesca.
“Si, Yuri. Il tuo papà si chiamava Diego, come Zorro.”

È lui, il primo ad abbassare lo sguardo.
La stanchezza gli è piombata addosso nello stesso istante in cui ha pronunciato quel nome.
Si volta ed ha quasi chiuso la porta quando Yuri reclama timido la sua attenzione.
L'emozione vibra nei suoi occhi, sfumandoli di dolcezza.
Gratitudine.
 
“G…G-Grazie t-tantissimo, S-Signor Tobia!”

È felice, Yuri.
Così felice che gli viene da piangere.
Adesso sa come si chiama il suo papà.
 
Ed è il regalo più bello del mondo.





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Ehi, come state? 
Io meglio.
Sto cercando di riprendere il ritmo sulla tastiera, di 
battere via ogni altro pensiero.
Se mi avete aspettata... grazie.
Vi mando un abbraccio grande, grandissimo.

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Capitolo 11
*** Tredici Verticale - Quattordici Orizzontale ***


Tredici Verticale - Affannosa agitazione
 
 
“Che succede, bambino?”
Stavo imparando.
Qualcosa, lo avevo capito.
Come il tuo accumulare emozioni.
Che accartocciavi, schiacciavi e spingevi in fondo.
Finché, non diventava troppo.
Finché i dubbi non superavano le poche, ma continue certezze.
Sovrastate da immagini che vedevi soltanto tu.
Che avevi vissuto, soltanto tu e si riproducevano esclusivamente nella tua testa.
Un play invisibile che io potevo premere inciampando, fisicamente.
Un bottone che tu potevi pigiare lasciando scivolare la forchetta, urtandomi per errore.
I tuoi muri, crollavano.
Si sfracellavano.
L’onda di panico affogava la realtà.
E non potevo che provare a tenerti a galla, provando a lenire le tue mancanze.
Camminavo dalla cucina al salotto, dal salotto alla cucina.
Dondolandoti in un  movimento continuo scandito da piccole rassicurazioni.
“Va tutto bene, va tutto bene”.
“Ci sono io”.
Quelli erano i giorni peggiori.
Imparai a coglierne i sintomi.
Ci sono sempre le nuvole, prima della tempesta.
Ovvio, che lo avesse detto Andrea.
Ovvio che avesse ragione.
 
“Che succede, bambino?”
Eri in pigiama.
E tu scendevi a fare colazione soltanto indossando i vestiti, come ti avevo insegnato.
“I-Il b-b-b… B-B-Bambino…”
Quell'odiosa terza persona, la stavamo combattendo.
Era evidente, che qualcosa non andasse.
E riuscivo a vederlo anch'io.
“V-V-Va in b-bagno.”
Attesi qualche istante.
“Perché me lo stai dicendo?”
I piedini strusciavano per terra.
La pallina blu, veniva martoriata.
“F-Forse… I-Il S-Signore… D-Deve a… A-A…”
 
Grattavi le braccia.
Il petto si alzava veloce.
 
“A-AndarE! E… s-se i-il b-bambino n-non… n-non l… lo sa e…”
Eri ancora un piccolo, efficace domatore.
Cercavi di non sbattere le palpebre.
Di non sbagliare.
“S-Signore! N-Non… a-arrivA!”
 
Non arriva!
 
La prima volta che lo hai detto, non ho capito.
Non arriva nella pancia!
Cercavi di spiegare quando ormai i singhiozzi rimbombavano nella stanza.
L'aria!
Indicavi la bocca dello stomaco e cercavi di riprendere fiato.
 
Sindrome caratterizzata da difficoltà respiratoria: Asma.
Pensai a quello, me ne convinsi, mentre cercavo di dosare il tono della voce, al telefono con Andrea.
Poi, mi chiese: “Stai ascoltando il tuo respiro?”
Lo offesi.
Non riattaccò.
Nutro una certa remora nel dover ammettere che, ancora una volta, il suo aiuto si rivelò fondamentale.
 
Non soffrivi d’asma.
Soffrivi.
Di  Ansia.
Non che fosse poi una diagnosi tanto migliore.
Tu iperventilavi.
Ed io non avevo idea di come aiutarti.
Giorni più tardi, te l'ho spiegato, come fossi un adulto.
“Quando è tutto nero, quando hai paura… Vai in iperventilazione, Yuri. Respiri veloce ma ti sembra di non riuscire a respirare più. Allora, devi ascoltarmi. E vedrai che passerà, passerà ogni volta.”
Mi guadagnai l’occhiata perplessa del pediatria.
Che, episodi dopo, divenne un'occhiata quasi orgogliosa.
 
“Yuri, lo sai cosa stai facendo, vero?”
Non ti spostasti, mentre mi avvicinano, inginocchiandomi davanti a te.
Credo, invero, che nemmeno lo notasti.
“I… I…”
“Piano, piano. Dillo più lentamente, bambino.”
Ti guardavo, annuivo.
Mi muovevo cautamente.
“I-Il… s-super v-ventilatore.”
 
Mi fuggì un sorriso.
Avevi compreso.
A modo tuo.
Ed io compresi che stavi prendendo atto del tuo essere.
Delle tue reazioni, delle tue emozioni.
Anche se questo ti faceva sentire sbagliato.
 
Quando capisti che il processo andava e veniva, iniziasti a cercare di nasconderlo.
Rimanevi in camera, in bagno.
A combattere.
Da solo.
A volte non riuscivi.
Venivi a cercarmi.
Avevi bisogno di accertarti che fossi ancora lì.
Che fossi reale.
Ti sedevi nella stanza dove mi trovavo.
Mi davi le spalle.
Ed inghiottivi aria nella speranza che non vedessi le tue difficoltà.
Altre volte, la tua assenza mi spingeva a cercarti.
Ti trovavo fra il comodino ed il letto.
Tra la doccia ed il lavandino.
A soffocare in silenzio.
A soffocare cercando di fare il meno rumore possibile.
Eri forte, bambino.
Così ingiustamente forte.
 
 
“Non cambierà, Yuri. Non mi sveglierò una mattina e deciderò che non puoi più andare in bagno. O mangiare. Oggi ci sono le stesse regole di ieri. E domani sarà lo stesso.”
 
Respirare nel sacchetto ti aiutava.
O forse, erano le tue piccole mani appoggiate alle mie.
Fatto sta, che ogni crisi portava ansia.
Che portava a una crisi.
Che portava all’ansia.
Perché avevi paura.
Quando la paura diventava troppa, facevi il super ventilatore.
Quando riuscivi a smettere, ti sentivi in colpa.
Poi, tornavi ad avere paura.
E così via.
Era, complesso.
Dannatamente complesso.
Ed in quella complessità, cercavo una soluzione altrettanto studiata.
Dimentico del tuo essere bambino.
 
 
 
 
 
Quattordici Orizzontale -  Atteggiamento di resistenza a credere
 
 
“È per te…”
Avevi le braccia tese in avanti.
Reazione istintiva al “Tieni” di Andrea.
Tuttavia, nell'inquadrare la realtà, ti bloccasti.
Al centro del tappeto, immobile, fra le mani un peluche.
 
“È un regalo…” insistette il Sottolineatore d'ovvio.
Ed il danno, era fatto.
Aveva rotto i tuoi margini; E tu, non potevi sopportarlo.
 
“N-No, Signore.”
“Si, Yuri. È per te.”
Il respiro veloce.
L'ansia.
Le braccia ancora tese e lo sguardo disperato, alla ricerca di una soluzione.
Non insistevi, per farglielo riprendere.
Non ci riuscivi.
Guardavi con gli occhi carichi di apprensione il pavimento, ma lì non lo avresti mai posato.
Poi la poltrona, ma non andava bene, era occupata.
Il tavolo, la sedia, la panca.
 
“S-Signore!”
 
Andrea era mortificato.
Io, semplicemente dispiaciuto.
Forse, triste.
Sicuramente, triste.
Eri un bambino che non riusciva ad accettare un regalo.
Ed anche se adesso posso raccontarlo con un certo distacco… È nitida l'immagine del tuo non poter essere soltanto un bambino.
 
“S-Signore!”
Non presi il regalo, quando lo porgesti a me.
 
Pensavo sarebbe passato presto.
Come quando ti avevo chiesto se preferivi la mela o la pera.
L'agitazione, la paura.
Una rassicurazione.
Una scelta.
E poi, quasi un sorriso.
Quasi, un sorriso.
 
“È tuo, Yuri. Puoi tener…”
 
Indietreggiasti fino a poggiare la schiena al muro.
Le braccia tremanti di tensione.
 
“N-Nero!”
 
Ed il pianto, quel pianto digrignato fra i denti, la bocca stretta, gli occhi imploranti.
 
“N-Nero!”
 
Hai incassato la testa fra le braccia tese.
L'ho vista abbassarsi.
La bocca tremare e gli occhi strizzati forte.
 
“N-Nero!”
 
Il tuo nero mi schiaffeggiò.
 
Mi alzai di scatto.
Ti chiudesti ancora di più.
 
Mi avvicinai piano, poi, mi accucciai.
 
Uno sguardo indietro.
 
“Andrea, puoi uscire?”
“Certo che no.”
Stronzo.
Uscì.
Tu, eri più importante dei suoi riscatti morali.
 
“N-Non v-vuole, n-non p-può, n-no… N-Nero. N-Nero!”
 
Ti faceva male, quel peluche.
Averlo fra le mani, non sapere dove posarlo.
Lo presi.
Ed i tuoi piccoli palmi si fecero grandi per coprire occhi, faccia, emozioni.
Vergogna.
E pianto.
 
“Non ti nascondere, Yuri. Guardami…”
 
Avrei voluto dire cose.
Adottare tattiche.
Mettere in pratica consigli.
 
Trovare, le giuste parole, le giuste azioni per farti sciogliere quel nodo, per dimostrati che non dovevi avere paura e se ce l'avevi, non era sbagliato.
 
Ma come succedeva sempre, in quei momenti, durante quelle crisi, diventavi sordo ad ogni rassicurazione.
Però avevi obbedito.
Mi stavi guardando, mordendoti forte il dorso della mano destra mentre l'altra strizzava i capelli.
Ed ogni soluzione complessa, ogni consiglio tecnico, mi scivolò dalle dita.
Quando tesi le braccia verso di te.
Pensai d'aver fatto un errore.
Un altro.
Perché mi hai guardato e sul tuo viso è comparsa la stessa espressione di quando avevi realizzato che l'animale di pezza era un regalo per te.
 
E forse, è stato proprio così, ma, a quello, non riuscisti a rinunciare.
 
Mi fissasti fra le emozioni che ti scivolavano dagli occhi.
Scuotesti la testa.
E continuando a negare, facesti un passo.
Avanti.
Altri due.
Indietro.
Pugni serrati, compressi sullo stomaco.
Poi sciolti, appena.
Morsi.
Alle mani, ai polsi.
Un lieve allungarsi delle mie braccia.
Un sussurro.
 
“Vieni…”
Ingoiavi le tue reazioni, martoriandoti la pelle coi denti.
I passi avanti divennero tre.
“Vieni…”
Quattro.
Poi, si interruppero.
“I-Il…  I-il ba-mbino?”
Era inconcepibile, la tua dolorosa incredulità.
Niente di ironico.
Niente di ovvio.
“Sì, tu. Vieni.”
 
Tremavi, in ogni piccolo passo.
Gemevi e ingoiavi lacrime sempre diverse.
Perché era un invito.
Un invito per te.
Erano due braccia.
Due braccia per te.
E sapevi, che non ti avrebbero fatto male.
Ma questo, in qualche modo, ti faceva male comunque.
Sfiorasti i miei polsi.
Poi ci posasti le mani.
Vibravano.
 
Sarebbe mai giunto il momento in cui saresti riuscito ad accettare una cosa buona, senza soffrirne?
Sarebbe mai giunto il momento in cui saresti riuscito a sorridere, senza lacrime?
 
La felicità, il bene.
Il sollievo.
Erano così sconosciute per te.
Erano state così desiderate.
Ma mai provate.
 
E allora il pensiero dell'essere immeritevole, il pensiero di una speranza viva, poi uccisa, ora risvegliata.
Era enorme, era spaventoso, era ambito.
Ed erano così tante le frasi nella tua testa, così tanti le escoriazioni sulla tua anima.
Che non riuscivi, a metabolizzare, a decidere, ad accettare, a capire.
E dovevano, tutti quei perché dovevano essere buttati fuori, e straripavano, punti di domanda al sapore di sale.
Ti chiusi fra le mie braccia.
Stritolai, quelle domande.
 
Per la prima volta, non c'erano i ricordi a inquinare quel momento.
Per la prima volta, ti aggrappasti.
Fu…
Fu doloroso, il lamento che le tue labbra liberarono e la mia spalla attutì.
Fu doloroso sentire quell'ululato, soffocante nel suo apparire lamento di sofferenza.
E lo fu anche cercare di comprendere le parole rotte da quel sovraccarico di emozioni.
Che si placò poco a poco e mi diede modo di capire.
 
“M-Magia…M-Magia…”
 
I respiri più profondi, brevi strette sulle mie braccia per tastare la realtà.
 
“P-Per i-il b-bambino… M-Magia... P-Per i-il bambino?”
 
Volevo togliere quel punto di domanda, potevo farlo.
 
“Per te, Yuri.”
 
Rafforzai la presa.
 
“Per te. Solo per te.”
 
Un sospiro più grande, un peso tolto.
Un sollievo.
 
Si può respirare un abbraccio, pensai.
Tu, me lo stavi dimostrando.

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