Prigioniera

di _deleted
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***



Capitolo 1
*** I. ***


I.

La sveglia suona e Cecilia sa che sarà un giorno come tutti gli altri. Di prigionia e apatia, noia e quelle piccole gioie amare e fuggevoli dell’autocommiserazione. Quei rari sprazzi di quiete tra il delirio, le grida, gli occasionali lividi.
Lei è già in piedi; con un sorriso lezioso le serve la colazione. Gli otto gatti, pasciuti e di diverse razze, già serviti, scodinzolano ottimisti, sperando in qualche briciola prima di raggomitolarsi tra le coperte stinte, ormai rammendate troppe volte. Cecilia sbocconcella il pasto senza parlare, ignorando il “Buongiorno, amore” e il successivo “Dormito bene?” di Lei.
Come al solito, è stanca e ha mal di schiena. Hanno diviso il letto e Lei si è rigirata in continuazione, sgranando il rosario e pregando a ore alterne. Santini e candele consumate “contro i demoni” sono impilati su tutte le superfici disponibili: credenza, ripiano del piccolo televisore, tavolo, comò.
Cecilia ha gli occhi secchi e disabituati alla luce. Lei tiene sempre le tende tirate. nessuno deve entrare lì. La porta è chiusa con un catenaccio e tutti i risparmi Lei li ha usati per installare delle telecamere sul pianerottolo. Pochi sono i conoscenti che hanno lì, tutti disinteressati alla loro squallida routine. Forse fingono di non vedere il dramma che si svolge quotidianamente sotto ai loro occhi. In fondo, le urla devono averle sentite. Cecilia non lo sa, non è mai venuto nessuno.
 
Lei esce solo per fare la spesa e andare al lavoro, del quale si lamenta di continuo. Lamentarsi è il suo passatempo preferito: della cattiveria della gggente, pronunciato con almeno tre g; del padre di Cecilia, che ha venduto l’anima al diavolo e le ha abbandonate – da qui l’obbligo morale di pregare per lui, da brave cristiane – e anche della figlia stessa, che “non capisce” le precauzioni da seguire, “necessarie per la loro incolumità.”
Tra queste rientrano: il divieto assoluto di uscire senza di Lei; le visite settimanali a un esorcista locale perché salvi l’anima del padre di Cecilia, mentre lei è costretta a subire i suoi scongiuri convulsi, conditi con l’occasionale agitarsi dell’acquasanta quando le preme le mani sul cranio per “far uscire il male”; i continui controlli al ritorno da una passeggiata, quando Lei si sente abbastanza intraprendente per proporle un giro o una cena fuori. Questo “è necessario” perché la setta satanica che ha risucchiato l’anima e i risparmi del padre di Cecilia le segue sempre, vuole prendere anche loro. L’ultima volta, Lei non si è dichiarata soddisfatta del “depistaggio” se non dopo due ore di corsa forsennata in autostrada, a fari spenti, rischiando di farle schiantare contro il guard-rail.
Cecilia ha ancora i segni delle sue ultime percosse su braccia, gambe e fianchi della settimana scorsa. Sa che deve restare zitta per sopravvivere, che deve proteggersi in attesa di poter scappare. Ma davanti ai deliri di Lei, al disgusto che le ispira la sporcizia di quelle due stanzette anguste, sempre più spesso non ce la fa.
Esplode.
Le urla che è pazza, che non esiste alcuna setta, che suo padre le ha lasciate perché non vuole vedere più Lei, e che si vedrebbero ancora se Lei non glielo impedisse. Vuole andarsene, trovare un lavoro dopo gli studi. Senza di Lei. La odia.
Cecilia legge la paura nei suoi occhi, quando diventa violenta. “Lo faccio solo per il tuo bene”, “perché non capisci”, “come fai a essere così ingrata”, “dopo tutto quello che faccio per te?”
Al ricatto morale seguono le minacce, mentre la mano e, a volte, la cinghia, calano ancora e ancora a colpirla. “Finirai sul lastrico”; “tuo padre lo faccio arrestare”; “ti seguirò in capo al mondo, non puoi impedirmelo”; “non ti conviene andartene”; “non sei capace a fare nulla.”
 
Cecilia si rannicchia in un angolo senza muoversi, stanca perfino per le lacrime. È vero, Lei non le permette di fare niente a casa. Non ha mai viaggiato, non ha soldi, non ha amici né contatti. Lei ha provveduto a isolarla da tutti i loro parenti, quelli del padre di Cecilia non li vede da anni. Immaginare una vita al di fuori di quelle mura le è impossibile, nel concreto.
Non conosce niente del mondo, eppure fantasticare su una vita migliore è proprio ciò che la aiuta ad addormentarsi e a trascinarsi stancamente un giorno dopo l’altro, confortata dalle fusa dei suoi compagni di prigionia.

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Capitolo 2
*** II. ***


Ciao Ceci, come stai? Tanti auguri per i tuoi vent’anni, spero saranno splendidi come te. Io ti vorrò sempre bene, non dubitarne mai!
Mi manchi!
Anche zio Giacomo e zia Teresa ti salutano, ti scrivo dalla loro mail perché io non ne ho una, ma puoi rispondere qui.
Un bacio grande, tuo padre.
 
Cecilia legge queste righe la mattina presto, prima di iscriversi all’appello per un esame.
Sbatte più volte le palpebre, incredula: suo padre le vuole bene, suo padre si ricorda di lei! Forse non è ancora troppo tardi per ricucire il rapporto brutalmente troncato cinque anni prima, per esclusiva volontà di Lei, che ha deciso di farle cambiare città perché frequentasse una scuola migliore. Di fatto, cercava solo la scusa buona per trasferirsi con Cecilia e farle terreno bruciato intorno. La sua prigionia è iniziata progressivamente, ma inesorabilmente. Ancora si chiede perché non si sia opposta prima, perché non l’abbia fermata in tempo. Forse non se n’è accorta o ha minimizzato i segni della sua follia; forse ha avuto paura, pensava che non fosse così grave e che tanto valeva sopportare in attesa che finisse. Magari questa è la sua ancora di salvezza, l’unica che le rimane e che potrebbe non ripresentarsi mai più.
Decisa, preme il tasto rispondi.
Scrive tutto ciò che ha passato e che sente dentro in un flusso ininterrotto.
Non ha mai avuto un ragazzo, sua madre gliel’ha impedito. L’ha picchiata e le ha urlato contro, chiudendola a chiave in casa per giorni, tutte le volte che tornava tardi da scuola per vedere un’amica. Poi, Lei ha preso l’abitudine di appostarsi fuori dalla scuola prima e dopo l’uscita, per controllare che ci rimanesse e che non perdesse minuti preziosi. Minuti esclusivamente per loro due, in cui scontare la sua condanna con Lei, perché “è pronto il pranzo”, “sono stanca, voglio andare a casa a dormire”, “sei un’irresponsabile”. 
 
Cecilia allega le foto dei lividi risalenti a pochi giorni prima.
Mi ha spaccato un piatto sulle le ginocchia, era molto arrabbiata.
Riflette sulla frase appena scritta e la cancella: troppo melodrammatica.
Non vuole fargli pena, vuole risultare credibile.
Ti prego, dammi la possibilità di avere una vita normale prima che sia troppo tardi. Anch’io ti voglio bene, mi manchi.
Conclude la mail con le lacrime agli occhi e attende, ansiosa.
Non ottiene risposta prima della sera inoltrata.
Ceci, stiamo venendo a prenderti. Non preoccuparti di niente, segui le nostre istruzioni. Sii forte, tempo due giorni e ti portiamo via da lì.
Papà.
 

Cecilia si preoccupa, invece. Teme che Lei possa intercettarla. Già la sovrasta, le urla contro, diffida delle sue intenzioni.
“Stai troppo zitta, che fai con quel telefono? Dammelo.”
È costretta a consegnarlo per non destare sospetti, sconsolata. Per fortuna, ha fatto in tempo a uscire dal suo account. Aspetta e si mangia le unghie, corrosa dall’ansia. Lei la scoprirà, farà arrestare suo padre. Coinvolgerà avvocati, polizia, tutte le sue “conoscenze”, che sanno “la verità” sul padre di Cecilia. E a quel punto, cosa farà? Forse le porteranno via insieme…
Suona il campanello. Silenzio tombale.
Lei va ad aprire, si aspetta il capo di un sedicente gruppo di preghiera locale che ha invitato.
Si blocca prima di farlo, corrugando la fronte davanti allo spioncino. Aziona la telecamera e borbotta, contrariata: “Non conosco questo tizio. Ha una cartellina scura. Forse è un emissario della setta di tuo padre. Beh, oggi non si esce.”
Inarca un sopracciglio e aggiunge, ancora sovrappensiero: “Meglio non uscire per tutta la settimana.” Ora è soddisfatta.
Cecilia non si muove e non parla, sconfitta. Non riusciranno mai a portarla via di lì, non rivedrà mai più suo padre…
 
Il mattino dopo, Lei riceve una telefonata. Inveisce, pensando a un collega che ha cambiato numero. In genere la rimproverano per assenze e ritardi non giustificati, e lei li insulta di rimando.
“Non rischio niente, ho l’indeterminato nel pubblico. Appena ti laurei sistemo anche te”, ripete sempre a Cecilia, e questo pensiero basta a riempirla di orgoglio e determinazione.
Lei riattacca, apparentemente contrariata, e il cuore della ragazza perde un battito. Qualcuno ha fatto la spia?
Poi, con sua estrema sorpresa, Lei sorride, rinvigorita.
“Mi ha convocato la Questura!” annuncia, come se avessero appena dichiarato una nuova festa nazionale in suo onore. “Hanno preso quei bastardi, finalmente! Devo andare subito a rendere la mia deposizione, la mia testimonianza sarà essenziale per farli condannare!”
Cecilia non l’ha mai vista così trionfante. Lei va talmente di fretta che dimentica perfino di sequestrarle il cellulare. Non riesce a credere a tanta fortuna, specialmente quando il telefono vibra pochi minuti dopo.
È la voce di suo padre, più rauca di quanto se la ricordava.
“Ceci, scendi! Ti stiamo aspettando con una macchina bianca qui sotto. Stai tranquilla, torniamo dopo a prendere tutto quello che ti serve. Sei libera!”

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Capitolo 3
*** III. ***


Gli eventi si susseguono frenetici. La interrogano, firma carte. Cerca di ricordarsi le cose nell’ordine giusto, firma altre carte. Riesce perfino a portare via il suo gatto preferito.
Rossiccio, grosso, rassicurante.
Non sente nemmeno la pressione di quel lungo interrogatorio e del successivo.
Vede solo suo padre, invecchiato ma felice. Infine, quando escono, i suoi parenti, che la attorniano festosi e increduli.
Ha ancora una famiglia.
 
I primi giorni, ha un mal di testa costante. Non ce la fa a reggere la velocità delle conversazioni, la varietà degli input, tutti quegli stimoli ai quali era disabituata da anni. I suoi zii hanno avuto un altro nipotino, sua cugina si è sposata. Deve organizzarsi per seguire le lezioni e non rimanere indietro.
I suoi denti, capelli, vestiti, sono in condizioni orribili. Passa le prime settimane a fare analisi, a entrare e uscire da diversi studi medici. Non è mai stata da un ginecologo. Vuole farsi visitare da una donna, ha paura. Non sa come vestirsi, non ha mai imparato a comprarsi le cose da sola e a fare gli abbinamenti giusti. Sua cugina la aiuta come può, ma spesso è lei a rifiutare: non vuole leggere la compassione e lo sconcerto nei suoi occhi.
Si tinge i capelli, prova a truccarsi.
Suo padre assiste a quegli esperimenti con indulgenza mista a preoccupazione. Le vuole bene, ma è anziano. Molto più anziano di Lei. Non sa di cosa parlare con Cecilia, gli anni trascorsi in totale solitudine hanno minato anche lui. Lei lo aveva già isolato da tutti i suoi amici e non se ne è mai fatti di nuovi, ma si è abituato ai confini ristretti della sua esistenza: fa le parole crociate, guarda la TV, cucina i suoi pasti preferiti. Alle dieci di sera chiude la porta a chiave, a mezzanotte spegne tutte le luci.
Non c’è più posto per Cecilia nella sua vita, sebbene si sforzi molto. E ama ancora Lei.
Questo non riesce a perdonarglielo, anche se l’ha salvata: dopo mesi d’indagini, il padre l’ha convinta a ritirare la denuncia.
I suoi parenti sono della stessa opinione.
“Troppe spese, non ne ricaveresti nulla.”
“Pensa a vivere tu, lei si è fatta abbastanza del male da sola. Non ne vale la pena.”
“Ed io, invece, non valgo la pena?” Vorrebbe rispondere Cecilia, con rabbia.
Nessuno pensa agli anni che le ha fatto sprecare; nessuno sembra preoccuparsi che Lei avrebbe bisogno, per prima cosa, di assistenza immediata per la propria malattia mentale.
“Disturbo delirante, manie di controllo e allucinazioni”, dichiara la terapeuta di Cecilia, gli occhi pieni di comprensione.
 
Dopo un po’, smette di andarci.
Non vuole pagare qualcuno perché la ascolti, vuole degli amici veri.
Ma è fuori tempo per tutto, se non per prendere occasionalmente un caffè con qualche compagna di corso. Intorno a lei, tutti parlano di feste, gruppi di amici consolidati, ex e fiamme più recenti.
Un mondo dal quale lei è irrimediabilmente esclusa: non sa come inserirsi, non conosce le regole. Non la invita mai nessuno e, le rare volte in cui capita, si ritrova a fare da tappezzeria.
Anche il padre è ansioso se torna tardi, si sente “tranquillo” solo quando lei è al sicuro a casa.
“Per tuo padre sei una mina vagante che si sposta e fa cose, Cecilia. Dovresti andartene quanto prima, per il bene di entrambi” le consiglia la terapeuta all’ultima seduta.
 
Lei sa che ha ragione, ma tergiversa. Andarsene dove, e a fare cosa?
Ha una laurea ora, ma nessuna idea su che lavoro vorrebbe fare o dove le piacerebbe vivere. A che serve andarsene di nuovo e privarsi perfino delle briciole degli affetti familiari ritrovati da poco, se è sempre sola e nessuno le dà un’occasione?
Il senso di vuoto la consuma.
Di notte, si ritrova a pensare che è stato tutto inutile: è ancora prigioniera.

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Capitolo 4
*** IV. ***


 
Cinque anni dopo
 
Una città dopo l’altra, un lavoro dopo l’altro, un viso dopo l’altro. Un corpo dopo l’altro: ormai ha avuto amanti in numero sufficiente da poter dire anche questo.
Cecilia sospira e trascina le buste della spesa lungo le scale, entra nel suo bilocale e si accascia sul divano, esausta.
È il suo quarto trasloco in due anni e si è già stufata di vivere lì.
Le pareti si restringono sotto i suoi occhi e le si richiudono addosso, impedendole di respirare, esattamente come quando era a casa con Lei.
Il pensiero di farsi la cena e delle azioni complesse da seguire per mettere un piatto caldo in tavola la scoraggiano.
Cucinare, accendere i fornelli, ripulire tutto.
Forse andrà a letto digiuna. Non può spendere tutti i suoi soldi in cibo da asporto, ha un affitto da pagare.
È stanca dopo otto ore di lavoro, non vuole più uscire. È ancora più stanca di farsi additare appena scende al ristorantino di sotto, la imbarazza mangiare da sola. Ormai la conoscono.
“È la ragazza dell’interno 7. Poverina, sta sempre sola.”
“È gentile, solo che parla poco.”
“Si vedeva con un ragazzo, si sono lasciati il mese scorso. Peccato, sembra tanto dolce.”
 
L’eco degli stessi discorsi la perseguita, anche tra quattro mura. Lei è quella adattabile ma mediocre, lavorativamente efficiente ma senza una vita, destinata a sopravvivere per soddisfare i propri bisogni.
Si chiede se dovrebbe prendere una nuova coinquilina, ma il confinamento durante la pandemia della scorsa primavera insieme a una semisconosciuta, con la quale non andava affatto d’accordo e la assillava perché si “tirasse su”, stampandosi in faccia un sorriso forzato per tutti i mesi di reclusione, le ha dato il colpo di grazia. Meglio vivere da sola e non avere altre brutte sorprese, non potrebbe sopportarlo.
Ha fatto la postina, la bigliettaia, la receptionist, la cassiera, la segretaria, la magazziniera e, ora, l’addetta a un reparto vendite. Nessuno di questi lavori l’ha entusiasmata, a fine giornata prova soltanto quel vago senso di essere a posto con la coscienza per aver svolto il proprio dovere. Forse un retaggio dell’educazione ricevuta, principalmente da Lei.
Ha visto un po’ di mondo: le piace leggere, andare al cinema, alle mostre. La musica, anche se non trova mai qualcuno a cui piaccia ascoltare quello che ama lei senza aver l’aria di tollerarlo a stento, di farle un’estrema concessione.
Le sue relazioni sono naufragate tutte, non si è mai sentita amata. Forse si è solo illusa di essersi innamorata, la prima volta. Forse ormai è rotta, rovinata, compromessa per sempre, a tal punto che non sarà mai più in grado di amare. Ricorda il sollievo di aver perso la verginità, tre anni prima, quando temeva che non sarebbe più avvenuto. Con lui è finita presto, non avevano niente in comune, o almeno così ha detto quando l’ha lasciata.
 
Niente in comune.
Ogni tanto riflette su quell’espressione. Avere qualcosa in comune presuppone che entrambi abbiano una personalità, degli interessi. Cecilia dubita di averne: non sente di avere un’identità, a venticinque anni suonati non sa ancora chi è e per quale motivo si trova al mondo.
Eppure, non smette di chiederselo. Per questo non le pesa fare dei lavori a tempo, per questo tiene sempre d’occhio gli annunci, senza precludersi altre occasioni in posti nuovi.
Ha anche rinunciato a farsi rinnovare un contratto, una volta. Aveva litigato con quella che considerava un’amica, che la rimproverava di “non saper andare avanti” e di “rifiutare ogni aiuto”, di “scappare dai problemi invece di affrontarli.”
Il suono di quelle parole le fa ancora male. Perché lei si sente speranzosa e ottimista tutte le volte che intraprende un cambiamento, lei si paga da sola ogni cosa e non chiede mai soldi a casa, anche se ogni tanto sente suo padre e lo va a trovare.
Ogni trasferimento è una nuova avventura, a ogni appuntamento è entusiasta e brillante, parla a raffica e, quando s’impegna con qualcuno – chiunque voglia impegnarsi con lei per primo – dà tutta se stessa per far funzionare le cose. Che male c’è ad andarsene, se poi le cose vanno per il verso sbagliato? Perché rimanere?
 
Cecilia ricaccia indietro le lacrime, più di frustrazione e di rabbia che di tristezza. Non vuole un’altra amica con la quale confidarsi per poi essere giudicata senza pietà. Le ha raccontato tutto ciò che ha passato, come ha potuto essere così insensibile e formarsi un’opinione tanto negativa di lei?
Un angolo razionale della sua mente sa la risposta: mancanza di empatia. L’ha letto in un manuale di auto miglioramento, ma alle persone non importa nulla di essere empatiche, quando possono mostrarsi forti e vincenti e sparare giudizi gratuiti sulla vita altrui.
È ciò che ha fatto anche il suo ultimo ex, dandole della depressa psicolabile. Le cose andavano bene, fino al confinamento per la seconda ondata della pandemia. Da quando sono ricominciate le restrizioni, Cecilia è ansiosa e si sente di nuovo in prigione. Si dà anche della stupida ed egoista, si vergogna a pensare al passato e ai propri problemi con la gente che le muore intorno, ma non può farne a meno.
 
Sono ancora in prigione, non ho mai smesso di essere in prigione.
Se lo ripete come un leitmotiv, una melodia che caratterizza l’entrata di un personaggio in scena, come ha letto in un libro di musica. La cosa peggiore è che anche gli altri sembrano pensarlo: nessuno vuole liberarla dalla sua cella, anzi: è come se ogni volta, senza volerlo, fagocitasse gli altri.
“Non voglio finire nella tua gabbia”, sono state le ultime parole del suo ex.
Si era trasferito da lei per il secondo lockdown, ma dopo appena una settimana si è deciso a fare i bagagli. Per sempre.
Ora è di nuovo fidanzato, con la cameriera del ristorantino di sotto. Cecilia ha visto le loro foto sorridenti su Instagram. Vorrebbe cancellarli entrambi con un colpo di spugna: le sembrano così falsi e plastificati, quei sorrisi.
Ho mai sorriso veramente, io?
Che senso ha continuare?
 
I pensieri le si affastellano in testa, è sempre più confusa. Indossa automaticamente la mascherina ed esce, i crampi allo stomaco per la fame, ma fermamente decisa a evitare il ristorantino di sotto.
Fuori è deserto, rischia di essere fermata da una volante, anche se non è ancora passata l’ora del coprifuoco.
I pensieri la riportano a Lei, a quanto stia sicuramente godendo di una catastrofe come quella. Una pandemia mondiale, neanche nelle sue più rosee previsioni! Ora sì che le persone come Lei, da sempre diffidenti e paranoiche all’estremo, potranno crogiolarsi e godere delle disgrazie altrui, predicendo altre catastrofi.
La immagina benissimo, le labbra strette mentre cita l’Apocalisse, uno scintillio fanatico negli occhi.
“I quattro Cavalieri sono già qui: Pestilenza, Carestia, Guerra e Morte!”
Pestilenza, Carestia, Guerra. E Morte.
I piedi la portano meccanicamente alla sua passeggiata abituale sul lungofiume.
E Morte.
Anche il suo gatto l’ha abbandonata l’anno scorso. Prenderne un altro significherebbe tradirlo, quindi ormai Cecilia è inutile per tutti. L’angoscia e la solitudine la corrodono a ogni minuto che passa, si rifiuta di vivere solo per lavorare e sostentarsi.
È arrivata alla fine del ponte. C’è un parapetto che potrebbe scavalcare velocemente, se solo volesse: le acque sono abbastanza profonde, e lei non sa nuotare.
Spalanca le braccia, pensando ancora: Sono ancora in prigione, non ho mai smesso di essere in prigione.
 
“Ehi! Tutto bene?”
Una voce giovanile, squillante, la costringe a porre l’attenzione su qualcosa al di fuori di se stessa, bloccando il vortice di quei pensieri martellanti.
Appartiene a un ragazzo dai lineamenti irregolari e un filo di barba, ancora sospeso tra l’adolescenza e l’età adulta. Ha i denti un po’ storti, capelli ricci lunghi e aggrovigliati come nidi, cuffiette nelle orecchie e occhiali vecchi e spessi come fondi di bottiglia, aggiustati con lo scotch, sui quali ricade la luce giallastra del lampione più vicino a loro.
Lei apre la bocca per rispondere e abbassa le braccia, sentendosi improvvisamente ridicola, ma il ragazzo sembra amichevole. Si toglie le cuffie e lei smette di prestargli attenzione.
Non potrebbe fare altrimenti, la melodia che ne esce è troppo pervasiva per ignorarla.
Trascinante, trionfale e del tutto fuori luogo per quella serata, ancor di più per il suo umore. È come se volesse invitarla a una festa, meglio ancora: a un ballo in cui tutti gli invitati ballano e ridono, col fascino e l’eleganza di chi appartiene a un’altra epoca.
Il ragazzo sorride allo stupore che deve riflettersi nei suoi occhi.
“Potente, vero?” le chiede, sempre in tono allegro, porgendole una delle cuffie pendenti. “Vuoi ascoltare?”
“Cos’è?” Cecilia si ritrova a chiedere, avvicinandola all’orecchio.
Musica sull’acqua di Georg Friederich Haendel, devo studiarla per il Conservatorio. Io studio Composizione, tu invece?”
Lei vorrebbe rispondere che non fa nulla di particolare, ma qualcosa la ferma: non è realmente importante. Accetta la cuffia e si ritrova a sorridergli: quel ragazzo è così giovane, energico e maldestro, che le suscita un’immediata simpatia.
Aspettano in silenzio che la melodia finisca, poi lei gli restituisce la cuffia, in silenzio.
“Sì… è veramente potente. Grazie.”
 
Talmente tanto che ha scacciato i suoi pensieri. Fissa l’acqua e le luci riflesse in tranquille increspature, l’eco degli ultimi accordi ancora nelle orecchie. Ora è semplicemente un fiume, una parte di qualcosa di più vasto, che ha ispirato quella musica così monumentale e allo stesso tempo familiare, piacevole.
Man mano, durante l’ascolto, immagini più liete si sono sostituite ai suoi pensieri tetri. Il sorriso di una bambina che, una volta, giocava con un soffione al parco, disperdendone i petali. Un ragazzino che faceva parkour vicino casa sua e che le urlava, incoraggiante, dall’alto della sua prodezza atletica: “Sei un campione! Sei un campione! Anche tu sei un campione, siamo tutti campioni!”
Lo sguardo gentile della sua maestra delle elementari, che le diceva che il suo nome, Cecilia, era quello della patrona dei musicisti.
Il ragazzo annuisce, serio. “Hai una bella voce. Secondo me hai anche un buon orecchio” aggiunge, pensieroso.
“Davvero?” chiede Cecilia, sorpresa.
Il cuore le batte forte, come se stesse per accadere qualcosa di fondamentale importanza.
“Oh, sì. Potrei chiedere a un maestro di canto che conosco di farti lezione. Viene anche incontro con gli orari, se lavori …”
Cecilia annuisce, commossa. “Ti ringrazio, mi piacerebbe molto.”
“Beh, ti lascio il mio numero, ci parlo domani e poi ti dico” dice il ragazzo. “A proposito, abiti qui vicino? Vuoi che ti accompagni a casa? Tra poco scatta il coprifuoco.”
Cecilia scuote la testa e gli lascia il proprio biglietto da visita del lavoro. “No, grazie.” Gli sorride. “So perfettamente dove andare, adesso.”
Si scambiano una stretta di mano, dimenticando di darsi il gomito per prudenza, e si salutano come se fossero due vecchi amici. Cecilia continua a sorridere, grata, mentre s’incammina verso casa. Finalmente ha un obiettivo, quella serata sembra improvvisamente sorridergli.
Inizierà presto a studiare canto.
 
Rientrando, si rende conto di non aver chiesto il nome del ragazzo, il suo improbabile salvatore.
A volte, basta trovarsi al posto giusto al momento giusto. Una melodia, una parola gentile, un ricordo felice, possono fare la differenza tra la vita e la morte.
In fondo, pensa, con una nuova forza che sente sbocciare dentro di sé, il suo nome non ha alcuna importanza.

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