Amaranto

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ciano - prima parte ***
Capitolo 3: *** Ciano - seconda parte ***
Capitolo 4: *** Li boni festi - prima parte ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

Antonio Romeo aveva la nomea di essere, da giovane, lo scapolo più ambito e allo stesso modo più temibile di tutta la provincia reggina. Quando camminava impettito per le strade acciottolate e scoscese del borgo di Chianalea, tutti rimanevano pietrificati, come se perfino il tempo si stesse inchinando al suo cospetto. Le ragazze nubili del posto venivano costantemente incantate dalla vista di quel giovane dai capelli mori e dagli occhi penetranti, di un verde così intenso da fare invidia al basilico di Elisabetta da Messina. Con l'intento di sedurre il bel ragazzo, lo attendevano sedute sul bordo della fontana della sirena, sperando di attirarlo furtivamente così come la figura mitologica aveva, secoli prima, stregato il bel marinaio di Itaca. Eppure, sembrava che nemmeno le loro cosce tornite riuscissero a scuotere l'attenzione di Antonio, che con fare superiore stava alla larga dalle signorine del borgo; anche gli uomini non potevano fare a meno di fermarsi ad osservarlo e rivolgergli una riverenza. La maggior parte delle volte il ragazzo era addirittura più giovane di chi lo squadrava, ma, grazie alle sue conoscenze con la famiglia Ruffo, poteva permettersi di atteggiarsi con autorevolezza.

Le orecchie di tutti, da Reggio a Palmi, erano state investite almeno una volta dai pettegolezzi su Romeo e la Principessa di Scilla. Entrambi nati nell'ormai lontano 1869, si erano conosciuti durante un ricevimento tenutosi al castello Ruffo per celebrare l'avvento del nuovo anno. Alla famiglia Romeo, dolcieri proveniente da Bagnara Calabra, era stato affidato l'incarico di produrre una quantità di torrone tale da soddisfare l'ingente quantità di ospiti famelici e spocchiosi che i principi avevano invitato. Si diceva che la prima fabbrica di torrone a Bagnara fosse nata poco prima della nascita di Antonio grazie al padre Francesco, che aveva ripreso la vecchia ricetta dei monaci del posto. Apportando necessarie modifiche, era riuscito a far diventare i Romeo i fornitori della Real Casa Savoia. Per i Ruffo la prospettiva di poter gustare i dolcetti tanto adorati da Umberto I era motivo di orgoglio, ma non potevano che essere invasi dalla vergogna ogni qual volta Eleonora Margherita gettava un'occhiata estasiata al figlio del pasticcere, ormai ricco abbastanza da potersi permettere un completo che gli mettesse in risalto l'aitante figura. Per mettere a tacere le voci riguardanti una presunta relazione tra i due, fomentate dalle frequenti commissioni di torrone da parte della principessa, Eleonora fu promessa sposa a un membro dell'antica famiglia fiorentina dei Torrigiani.

Nonostante il matrimonio e l'allontanamento dalla terra natale, però, la Ruffo non interruppe i rapporti con Antonio Romeo. Tra i due, col tempo, si era infatti instaurata una complicità e un'amicizia tale che fu per merito di Eleonora se il giovane e seducente dolciere riuscì a sposare Isabella Bini, membro del ramo più umile dello storico casato fiorentino. Come regalo di nozze, i principi di Scilla regalarono loro una modesta villa situata nella pianura di Melia, vicina tanto alla montagna quanto alle località di mare. La chiamarono "Martiniana", come la varietà di torrone più apprezzata dal monarca italiano. Tuttavia, i tramonti sullo Stretto e il lusso della residenza non attenuarono l'impazienza di Isabella, troppo adirata nel vedere Antonio costantemente ebbro e vittima di una nuova fiamma. Lasciò la Martiniana nel 1904 e mai vi fece ritorno. 

Per anni nei saloni vuoti della villa continuò a risuonare la cadenza stilnoviana della padrona, ridotta a un sussurro dai passi pesanti dell'agghiacciante uomo a cui avevano provato ad affibbiarla. Antonio Romeo decise di non accompagnarsi più con donna alcuna, ma tentò sempre di colmare l'assenza di quel qualcosa di cui era stato privato. Quello era stato per lui Isabella: una sua proprietà, un ulteriore oggetto su cui poter esercitare il suo dominio. E così, tra un sorso e un altro del nettare del vino Marsala, si ripromise, in un gelido pomeriggio di dicembre, che mai nessuno avrebbe più compromesso ciò.

 

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Capitolo 2
*** Ciano - prima parte ***


CAPITOLO 1
CIANO

 

Triangulu di Luna, triangulu di cima,

populu di mari 'nchjana lu Cianu.

Nu rre sedutu supr'a na petra   

guarda lu mari, guarda lu mari,

guarda lu mari di la muntagna.

Genti chi 'nchjana carricata di guerra

'ntra li friscuri, 'ntra li friscuri,

'ntra li friscuri di Cianu.

Triangolo di Luna, triangolo di cima,

popolo del mare sale al Ciano.

Un re seduto sopra una pietra

guarda il mare, guarda il mare,

guarda il mare dalla montagna.

Gente che sale carica di guerra,

tra le frescure, tra le frescure,

tra le frescure di Ciano.

La guerra mondiale aveva mietuto con più foga di Cerere in luglio. Rabbiosa come Attila, era piombata nel continente portando miseria e desolazione nei paesi che, sventurati, vi si erano imbattuti. La sofferenza non aveva fatto sconti: ogni trincea sul campo di battaglia era una crepa nel cuore di chi era rimasto a casa, ad aspettare, invano molte volte, che una divisa verde oliva si facesse strada nella penombra. Non erano solo mitraglie, mine, ferro spinato; era perdita e mancanza, era incubo e disillusione. Non era necessaria un'uniforme per trovarsi nella terra di nessuno: l'Europa intera, stuprata, spodestata, era ormai priva di guida. Viaggiavamo alla deriva, profughi su una zattera troppo stretta e precaria.

Col cessate il fuoco, però, la guerra aveva deciso di mostrare l'altra sua faccia. La paura era scemata come il fumo e la polvere che avevano dominato gli anni precedenti, lasciando spazio a una speranza violenta, capace di trascendere supposizioni e ovvietà. Ogni giorno giungevano notizie di nuovi soldati rientrati dal fronte; l'idea di non essere più dei sottoposti, delle pedine di un gioco le cui regole erano ancora a loro sconosciute, sembrava lenire quella moltitudine di ferite, lividi, traumi che li avevano inevitabilmente segnati. Ci trovavamo così ai blocchi di partenza, pronti a correre verso l'abisso di una vita a noi ancora estranea.

Mi fu immediatamente chiaro che già tutti avessero fatto i conti con il proprio passato, mentre io proprio non avevo intenzione di guardarlo negli occhi. Riuscii, non senza sforzi, a scansarlo per mesi, crogiolandomi nella possibilità che mai mi avrebbe trovata. Ma fu infine lui a fare la prima mossa, quando un giorno di metà estate bussò alle dannate porte della Martiniana.

Non faceva mai caldo in quelle stanze umide in cui ci avevano relegati, eppure quel mattino c'era un'afa insopportabile, di quelle che ti assalgono intrappolandoti nella loro morsa. Già dal risveglio percepii che ci fosse qualcosa fuori posto. Ricordo che non volevo alzarmi dal letto per alcuna ragione al mondo. Lo sapevo, ovviamente, non facevano altro che parlarne per i corridoi e nelle cucine. "Il ritorno del figliol prodigo" lo avevano definito tutti elettrizzati, ma io avevo le mie ragioni per sottrarmi a tale eccitazione. Più che un ritorno, mi sembrava un tradimento, la beffa di uno spregiudicato. Mai mi sentii male come in quella mattina di attese e di ricordi. E lo percepivo quel male, non si nascondeva in chissà quali pensieri reconditi. Voleva uscire, urlare e mi sfruttava come mezzo per far avvertire la sua presenza. Oltre che sguattera, ero divenuta anche schiava, di un padrone ben più temibile del burbero Romeo.

La dependance non aveva molti sbocchi sull'esterno, solo qualcuno aveva il privilegio di dormire in una stanza provvista di una piccola finestra. Pochi raggi osavano oltrepassare quel vetro graffiato e incrostato, ma erano abbastanza per annunciare l'alba del nuovo giorno. Avvertii una voragine allo stomaco non appena mi resi conto che il buio della notte aveva già fatto il suo corso.

Scelsi di non alzarmi subito, decisione fin troppo audace per chi non deve far altro che sottostare e obbedire agli ordini. Semplicemente, non ce la facevo. Finché mi rintanavo in quel bugigattolo che osavo definire "stanza", mi convincevo che niente potesse raggiungermi. Né il peso di un passato lacerato né il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere.

Stetti immobile sulla branda e per poco non scivolai ancora una volta nel sonno. Poi la porta si spalancò.

«Si può sapere cosa ci fai ancora a letto? Iàsati!»

Non fu necessario voltarsi, a dirla tutta non ne avevo la benché minima voglia. Già sapevo che se mi fossi girata, mi sarei imbattuta nello sguardo contrariato di quella vecchia dall'aria fredda e scostante.

«Non mi sento bene» mi limitai a rispondere.

Sbuffò, convinta che le stessi mentendo. Poi con uno strattone scostò le lenzuola.

«Ti rissi mi ti iàsi! Ci sono ancora troppe cose da fare, non puoi startene qui per i fatti tuoi»

Non cambiai il mio atteggiamento e riuscii a mantenere un tono deciso mentre, con una tranquillità decisamente fuori luogo, le dissi «Gli altri se la caveranno benissimo senza di me».

Le stavo dando le spalle, ma fui certa che avvampò dalla rabbia e dall'esasperazione.

«E poi è presto - continuai - abbiamo ancora tempo per sistemare il tutto»

Fu allora che sbottò «Ma si simu ancora o peri r'a 'nchianata! Maria, muoviti, che sunnu i sei 'i matina e aund'è che si fici menzjornu»

Così disse e lanciò sul letto la mia uniforme. Non si prese la briga di chiudere la porta, probabilmente per far sì che il frastuono proveniente dal corridoio mi incitasse a cominciare a prepararmi. Fu quello, o forse il timore di un'ulteriore sgridata, che mi convinse.

Mia nonna era la capocameriera. In parole povere, aveva il permesso di rimproverare chiunque tergiversasse o non rispettasse i piani da lei impartiti. Se poi ero io il soggetto da riprendere, non risparmiava qualche commento in più o una botta sulle mani. Al diavolo il nepotismo. Stremata da tutte le strigliate di capo, arrivai al punto di giustificarla, addirittura. D'altronde, non era certo colpa sua se sua figlia, morendo, l'aveva condannata a condividere il resto della sua esistenza con una scalmanata con tendenze ribelli. Non che incoraggiassi una qualsivoglia forma di rivoluzione e disobbedienza, tutt'altro. Semplicemente, non amavo sottostare alle regole. Per me era come indossare scarpe troppo strette.

In paese, lavorare per l'uomo più in vista della zona era di certo considerato un privilegio. Non importava che tu facessi la sguattera, che riattizzassi il fuoco del caminetto o che ti occupassi dell'automobile, poiché tutto ciò che accadeva alla Martiniana appariva come parte di un ingranaggio, di una macchina volta all'alimentare il lusso, il prestigio, la curiosità degli altri. Lavoravamo per far parlare, per stupire. Sapendo cosa ci fosse dietro ogni singola trovata di Romeo, però, eravamo estranei alla meraviglia di cui i suoi ospiti si inebriavano. Così un gala, un banchetto importante e anche il ritorno dell'unico figlio dopo quindici anni di assenza dalla tenuta caricava noi domestici di compiti e di responsabilità. Il tutto, ovviamente, stando attenti a rimanere nelle retrovie, che, a dirla tutta, quel giorno non mi pesava affatto.

Indossai l'uniforme, lasciando che mi scivolasse lungo il corpo, fasciandomelo come solo un sacco di patate avrebbe saputo fare. Mi resi conto che l'orlo era sfilacciato e per un istante rabbrividii al pensiero di ciò che avrebbe potuto dire mia nonna in merito. Poi, senza pensarci due volte, tirai il filo ancora di più, speranzosa che mai avrebbero permesso a una cameriera in disordine di servire il padrone e il signorino. Con questo pensiero in testa, sorrisi mentre annodavo il grembiule.

Quando mi richiusi la porta alle spalle, fui assalita da imprecazioni, rimproveri e rumori di stoviglie. Eravamo in tanti a lavorare alla Martiniana, decisamente troppi per servire un unico altezzoso signorotto. Oltre a me, avevano il privilegio di sottostare ai desideri di Romeo anche un'altra cameriera, un cameriere zoppo, una cuoca senza un dito, un maggiordomo che all'occorrenza si improvvisava anche valletto, che nelle famiglie rispettabili era consuetudine che ci fosse, e infine mia nonna, il cui ruolo era del tutto superfluo, a mio parere; se me lo aveste chiesto allora, non avrei esitato nel dire che lavorasse lì per sola gentile concessione. Quella mattina fremevano tutti, non facevano altro che aprire, chiudere, sbattere porte, arrancando mentre tentavano di trasportare pile di oggetti sempre diversi che oscuravano loro la visuale. Sembrava quasi comica l'importanza che veniva attribuita a quello che, in circostanze diverse, sarebbe stato considerato un giorno come un altro a quei tempi. La stazione di Reggio era più gremita della fiera del bestiame all'ora di punta: tornavano in massa dal fronte, coloro che il Cielo aveva deciso di graziare. Rientravano così tanti soldati che ormai era diventata cosa naturale sentirsi dire "è di nuovo a casa". Per quanto fosse ignobile ammetterlo, c'eravamo ormai abituati al suono dolce di quelle parole, tanto da dover nascondere talvolta l'apatia che seguiva questo ormai consueto annuncio. Ci si sarebbe potuto chiedere, dunque, da cosa derivasse l'eccitazione riservata per il ritorno di chi, dato il suo rango, con molta probabilità non aveva fatto altro che intrattenere con una partita a carte l'ufficiale a cui era stato affibbiato. Era decisamente vile da parte nostra. Ma non era di certo la coerenza che mi impediva di condividere l'entusiasmo degli altri.

Decisi di sottrarmi al trambusto generale e mi diressi in cucina. Graziella era intenta a tagliare grossolanamente dei pomodori con la sua mano mutilata. Erano le sei di mattina e già una moltitudine di odori pungenti aveva cominciato a invadermi le narici.

«Che prepari per oggi?» le chiesi con tono vivace mentre faceva cadere i pomodori nella pentola.

Si portò una mano sul petto e sobbalzò. Si girò a guardarmi e si morse la mano, come a ragguaglio «Mannaia, mi facisti schiantari!»

Sorrisi, colpevole e divertita.

«Sto preparando il sugo. Sarà qua per pranzo, dicono».

Annuii e mi avvicinai a un'alzatina che racchiudeva una dozzina di biscotti ripieni.

«I petrali?» chiesi guardandoli «non è mica Natale.»

«E quindi? Chi ci faci? Quando eravate piccoli vi intrufolavate di continuo qua dentro per mangiarli di nascosto. Tu sperdisti

No che non l'avevo dimenticato, credo che, anche se avessi potuto, non ne sarei stata capace. Faceva parte di quei ricordi che nel corso degli anni mi avevano scaldato il cuore e, al contempo, avevano contribuito a soffocarlo.

Sgraffignai un biscotto sollevando il coperchio dell'alzatina. Il sapore dei fichi secchi era talmente familiare da trasportarmi in un istante agli anni che mi ero lasciata alle spalle. Avevo una domanda che mi balenava in testa da settimane, così decisi di condividere con Graziella la mia curiosità.

«Secondo te com'è diventato?»

Si pulì le mani con uno strofinaccio e si appoggiò sul tavolo, sovrappensiero.

«Secondo me...»

«Spocchioso, arrogante, prepotente» rispose un'altra voce «e potrei continuare».

Giuseppe fece capolino in cucina, appoggiando le cesoie su un tavolo vicino all'ingresso. Era il giardiniere.

«Ma si no' canuscisti mancu!»

Alzò le spalle «Non c'è bisogno di conoscerlo, la razza è quella» disse indicando la villa.

Giuseppe era arrivato alla Martiniana quando, diventata grande, avevo cominciato a lavorarci anche io. Non abitava lì con noi, veniva giusto qualche volta alla settimana per sistemare siepi e cespugli. Un tempo mio padre aveva svolto le stesse mansioni.

«Mattiniero oggi, come mai?»

Prima di rispondermi, indicò il mio petrale. Gliene porsi uno.

«Non sia mai che le rose siano fuori posto, quando il signorino varcherà il cancello. Potrebbe rimanerne traumatizzato».

Ridacchiai, cogliendo la sua ironia.

«E poi volevo vedere se avevate bisogno di aiuto. A quanto vedo, però, te la stai prendendo comoda».

Feci un cenno in direzione del corridoio. «Ci sono già loro, non vorrei intralciarli, sai?»

«Ah, capisco, sì» disse sorridendo.

Si voltò verso il giardino. «A 'sto punto, ti faccio vedere cosa ho preparato là fuori»

Strofinai le mani facendo cadere le briciole «Sì, dai».

Arrossì un po' e aprì la porticina che dava sull'esterno.

«Ma sì, rutta pi' rutta, rompimula tutta!» cantilenò Graziella quando uscimmo.

Romeo possedeva ettari ed ettari di terreno. Alcuni li aveva acquistati sperperando la dote della moglie, altri attingendo dal patrimonio che il padre gli aveva lasciato in eredità. Nessuno si era lasciato convincere dal successo dei torroni, non smise mai di campare sulle spalle degli altri. Bisognava riconoscergli che aveva ben capito come mettere a frutto i vari appezzamenti, tra pascoli, orti e piccole casette. Il giardino antistante la villa, però, quello era un orgoglio che non aveva intenzione di delegare, voleva prendersi il merito del pregio che conferivano i cespugli ordinati e i fiori dai colori vivaci. Anche se, nemmeno a dirlo, dietro c'era sempre la mano di Giuseppe.

«Guarda un po' là» mi disse lui indicando la fontana davanti al portone di ingresso. Era stata posizionata là, a pochi passi dal cancello, come a voler anticipare il lusso che avrebbe stupito gli ospiti una volta entrati alla Martiniana. Peccato che non fosse mai stata messa in funzione. Troppo dispendioso, troppo inutile. Come il suo proprietario. Quel giorno, però, sembrava diversa.

«Mi stai forse dicendo che ora funziona?»

Giuseppe ridacchiò. «No, per carità! Però l'ho ripulita. Ah, sì, ci ho aggiunto anche qualche geranio».

Era bella, così chiara e splendente. Era bello anche il fatto che l'avessero voluta rimodernare, come a lasciarsi alle spalle gli anni di sporcizia, polvere e trascuratezza. Ma forse ero io che mi imponevo di trovare una metafora in ogni qualcosa che catturasse il mio occhio. Cosa poteva saperne una fontana di negligenza e rinascita?

Mi complimentai: «Hai fatto proprio un bel lavoro, a volte ci vuole qualche cambiamento».

Si mise le mani sui fianchi e si guardò attorno. «Non è proprio come quando c'era tuo padre, ma credo di starmi avvicinando. Un poco alla volta»

Mi voltai verso di lui. Quella sua affermazione mi aveva incuriosito. «L'hai conosciuto, tu? Mio padre, intendo»

Fece un sospiro, probabilmente soppesando cosa dire o cercando di rivangare vecchi ricordi. Mi piaceva che si stesse sforzando di trovare una risposta adeguata.

«Sì. Lo vedevo ogni tanto quando mia mamma mi portava qui, da piccolo. O almeno, quando ancora le era permesso di varcare il cancello».

I genitori di Giuseppe, così come i miei, si erano conosciuti alla villa. Sua madre era la cameriera personale della signora Isabella, la moglie di Romeo, mentre suo padre era il cocchiere. Doveva essere bello, molto bello. Graziella mi aveva raccontato che erano state in molte a fargli la corte, tentando di ammaliarlo. La mamma di Giuseppe, invece, non era granché affascinante. Seppe prenderlo, però, quel giovane vanitoso e scostante. Le concesse solo una notte, niente di più, ma a lei bastò per innamorarsi perdutamente. E per rimanere incinta. Il cocchiere non ne volle sapere: un figlio per lui era una presenza scomoda, un mero impiccio. Rise in faccia alla madre di Giuseppe e la ignorò nei mesi seguenti, quando lei, con la pancia sempre più grande, tentava un approccio. Poi lei decise di fargliela pagare. Una sera, dopo che lui aveva riaccompagnato alla Martiniana i signori Romeo, lo prese di sorpresa, affondandogli un coltello nella gola. Il colletto inamidato lo salvò da morte certa, ma rimase comunque sfregiato. Dopo quell'episodio, decise di abbandonare la villa. Si dice che se ne andò in America, dove riuscì ad arricchirsi col passare degli anni.

La madre di Giuseppe crebbe il figlio da sola, in una bettola di Bagnara. Ogni tanto tornava alla Martiniana per aiutare la signora Isabella, ma, quando anche lei scoprì dell'accaduto, non le fu più concesso di rimettervi piede.

«Quando mia mamma lavorava, io me ne stavo in giardino con tuo padre. Ricordo poco di lui: aveva un buon cuore, maneggiava i fiori con una grazia senza pari. Diceva che ci fosse un linguaggio segreto, che ogni varietà portasse un suo messaggio. Il compito del giardiniere era riuscire a comunicarlo con le composizioni. E le sue erano belle, dannatamente belle».

Sorrisi, orgogliosa di quell'uomo che neppure avevo conosciuto.

«Poi ci è arrivata la notizia dell'incidente. Ammetto di aver pianto. Ci saremmo visti tre o quattro volte, ma era una di quelle persone che lasciano il segno. E infatti, guarda dove sono adesso».

Quando menzionò l'incidente, mi sentii un peso sul cuore. Mia madre era incinta quando mio padre fu ucciso. Fu per uno scambio di persona, mentre stava rientrando a casa col suo carretto. Non lo conobbi mai e niente mi rimase di lui. Nemmeno le fattezze, che la gente riporta immediatamente al viso di mia madre.

Con un groppo in gola, riuscii comunque a proferire qualche parola: «C'è altro oltre alla fontana?».

Mi girai verso Giuseppe in tempo per coglierlo mentre gongolava. «Oh certo» affermò «Per di qua».

Ci avvicinammo ai limiti del giardino, là dove alberi e rampicanti svettavano tra gli arbusti disseminati nel prato. Sembravano una fila di soldati: disciplinati, ordinati, posati. Non ce n'era uno che fosse simile a un altro, eppure, nel loro insieme, risultavano incredibilmente armonici e ben proporzionati.

«Ammennulara, nucara, olivara e cerasu» elencò riferendosi alle varie piante. Dai rami stanchi pendevano i frutti maturi.

«Sarà l'ora di raccoglierli, no?» riflettei.

Giuseppe alzò le spalle «Vedrai quanto ci farà sgobbare Romeo quando gli spunteranno di nuovo i capelli bianchi». Romeo era vanitoso, tanto, troppo. Non permetteva a sé stesso di essere succube degli anni, non osava esibire i segni del tempo, che per lui simboleggiavano fatica e perdita di vigore. Per questo motivo si tingeva periodicamente col mallo della noce. Così, quando alle feste si trovava a parlare con vecchi membri del patriziato o con delle belle donne, poteva stupire tutti con la sua chioma folta e scura, in netto contrasto, studiato a tavolino, con il colore chiaro dei suoi occhi.

Studiando uno a uno gli alberi che mi stavano davanti, mi resi conto di una pianta mai vista prima, ben più bassa e costellata di fiori dal colore violetto.

«E questa?» domandai «Non mi sembrava che ci fosse»

Lo vidi fare una smorfia. «L'ennesimo capriccio. Si chiama tipo arama...amata...amaranto, sì.»

Storsi un po' il naso «È insolita, no?». I boccioli cadevano come i grappoli del glicine.

«Viene dal Sud America, come l'annona.» si limitò a dire Giuseppe. «Solo che questa l'ha fatta piantare a posta Romeo»

Aggrottai la fronte assumendo un'espressione confusa «Per farci cosa, scusa?»

Fece un respiro profondo, come se dovesse incanalare la pazienza per andare incontro alle assurde richieste del padrone.

«L'amaranto è anche un colore» spiegò «e si dà il caso che sia il colore ufficiale dell'Unione Sportiva Reggio».

Ridacchiai, stupita ancora una volta dalle stramberie a cui Giuseppe, indolente, doveva star dietro. Poco prima che scoppiasse la guerra, un gruppo di impiegati pubblici di Reggio aveva dato origine a una squadra di calcio. All'inizio sembrava una cosa improvvisata, una trovata tra amici. Poi però erano arrivati i campionati interregionali, le prime vittorie e Dio solo sa quanto Romeo amasse stare dalla parte del cavallo vincente. Era lui, infatti, che si era offerto di rifornire i calciatori di nuove uniformi e nuove attrezzature. Si diceva anche che stesse contribuendo alla progettazione di quello che, negli anni seguenti, divenne il primo stadio dell'équipe che oggi conosciamo con il nome di Reggina.

«È bella. Pianta strana, sì, ma bella».

«Concordo.» concluse poi Giuseppe, arrossendo un po'. Lì per lì non mi fu chiaro quale tra i suoi mille pensieri l'avesse portato ad avvampare.

Restammo così, l'uno a fianco all'altro, in piedi in quel giardino che non ci apparteneva, ma che ogni giorno contribuivamo a far crescere. Ogni tanto, confrontandoci, ci chiedevamo se ne valesse la pena, se non partecipassimo alla nostra miseria anche solo semplicemente spolverando una delle mensole dei tanto sfarzosi saloni. La verità è che servire ci mortificava ed elevava allo stesso tempo. Eravamo coscienti che non saremmo mai arrivati a possedere anche solo la metà del patrimonio di Romeo, ma, per lo meno, gli eravamo utili. Lo servivamo e gli servivamo. Lo spirito di adattamento, il duro lavoro, l'impegno non si possono acquistare né tantomeno barattare. Eravamo la prova che l'umiltà non fosse un difetto, una macchia. Era piuttosto un orgoglio, sotto il tetto della Martiniana.

A un tratto un grido tranciò il silenzio. « Maria! Veni subitu cca'!». Dalla piccola porta della cucina aveva fatto capolino il viso di mia nonna, contratto, come suo solito, in un'espressione delusa e al contempo feroce.

Percorsi il giardino a passo veloce, ma non abbastanza da impedire a Giuseppe di accostarsi a me. Non ebbi la possibilità di toccare la maniglia della porta: mi si parò davanti.

«Spostati, dai, sono in ritardo» lo intimai.

Ghignò «Ah, adesso ti importa, eh?».

Emisi una risata, più esasperata che divertita.

«Dai, su, che cosa vuoi?».

Mi guardò fisso negli occhi.

«Un'uscita» confessò.

Alzai gli occhi al cielo, visibilmente snervata. «Smettila, fammi passare». Ma lui non si scostò di un passo.

«Sono serio, Maria. Un'uscita e poi non ti stresso più».

Decisi di tagliare corto. «Sì, va bene, ora spostati però».

Mi intenerì osservare il suo volto mentre si illuminava, chiaramente su di giri. Farfugliò qualcosa e poi si fece da parte, permettendomi di aprire, finalmente, la dannata porta che dal giardino portava alla dependance.

In cucina la temperatura era aumentata considerevolmente a causa del forno acceso. Graziella si stava asciugando la fronte imperlata di sudore, passando dalla preparazione di una pietanza a quella immediatamente successiva. Le porsi il mio fazzoletto e mi avviai spedita verso il ripostiglio per acciuffare un secchio e qualche pezza. Sentii un cigolio e l'irrompere di una voce maschile.

«Reggio, venerdì?».

Mi girai, guardando Giuseppe in faccia.

«Va bene.» confermai senza alcun tono particolare.

«Va bene?» rispose lui in fibrillazione.

Repressi un ultimo sospiro seccato, incurvando la bocca in un sorriso. In fondo, voleva essere un gesto galante, il suo. Una lusinga, sebbene con un pessimo tempismo, è pur sempre una lusinga.

Decisi di concedergli un ultimo "va bene" prima di sparire.

 

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Capitolo 3
*** Ciano - seconda parte ***


Ciò che affascinava della Martiniana non risiedeva unicamente nel lusso dell'abitazione. C'era il suo sottrarsi all'estrema pretenziosità dei palazzi reggini, sia quelli dai richiami arabeggianti come Villa Genoese Zerbi sia quelli di stampo neoclassico come Palazzo Nesci. C'era la ricerca costante del nuovo e mai visto, anche a costo di risultare disorientante e troppo spinto. Ma soprattutto c'era quell'affascinante via vai di personaggi-perché definir loro 'persone' conferirebbe a ciascuno di essi una banalità che non merita- che si autoalimentava: la gente veniva per poter vantare la loro conoscenza e loro venivano proprio per farsi conoscere.

Ero io la prima vittima di quel turbinio di soggetti, nonostante vi fossi inclusa unicamente per la manutenzione di quel bell'altarino che Romeo era riuscito a creare. A volte, quando sul calar della notte gli altri domestici si ritrovavano in cucina per cenare, stremati dall'intensa giornata di pulizie e preparativi, provavo a sgattaiolare via dalla dependance per appostarmi sotto alla finestra della sala da fumo, quella adiacente al salone principale, dove i rampolli dell'alta borghesia reggina si inebriavano dell'odore del sigaro, prestando comunque attenzione ai discorsi di una delle tante menti brillanti che la Martiniana ospitava. Le due stanze erano comunicanti e la porta rimaneva costantemente spalancata. L'acustica da sotto la finestra era dunque perfetta: fatta eccezione per qualche colpo di tosse, indice dell'aver fumato troppo in quella serata, che sovrastava occasionalmente la voce dei vari relatori, questa risultava comunque squillante e comprensibile. Per questo motivo, durante le pulizie della saletta, facevo attenzione a lasciare già dalla mattina quella finestra aperta, cosciente che nessuno l'avrebbe richiusa più tardi per lasciar che la coltre di fumo abbandonasse la stanza. Così feci anche quel giorno.

Nonostante vi entrassi principalmente per svolgere questa mia mansione, mi piaceva quella stanza. I mobili di legno scuro erano impregnati dell'odore caldo e signorile di tabacco, che rendeva l'intero ambiente più intimo e accogliente; i posacenere erano incantevoli, di ottone e madreperla intagliata, souvenir che la famiglia Florio aveva portato da Trapani a Romeo, convinti che ne avrebbe apprezzato la fine fattura; c'era poi un abat-jour che mi aveva rubato il cuore: era ornata con frammenti di vetro colorati, quasi fosse una cupoletta del duomo di Monreale, con un arcobaleno di scaglie. Mi è stato riferito qualche tempo dopo che si trattava di "Art Déco", la nuova tendenza proveniente dal nord Europa.

Era tutta così la Martiniana: unica per i suoi pezzi unici, fossero essi oggetti od ospiti.

«Mi spieghi perché continui a perdere tempo con questa stanza? È piccola, ci sono tre oggetti in croce, quanto ci vorrà mai a pulirla?»

A invadere la saletta era stata Giuseppa, l'altra cameriera. Condividevamo i compiti, ci spartivamo la stessa camera da letto, ma per il resto eravamo diametralmente opposte: lei era tutta apparenza, aspirava a ottenere il consenso degli altri, nonostante fosse discutibile riporre in lei la propria fiducia; io semplicemente facevo di testa mia e incrociavo le dita. Tutto considerato, andavamo d'accordo. Infondo, in quella casa c'era sempre bisogno di un confidente o di qualcuno che fosse disposto a darti manforte quando necessario.

«Già che ci sono, preferisco farle bene le cose. Non ci vedo niente di sbagliato» sostenni mentre con una pezza lucidavo il tavolino di mogano.

Assunse l'espressione di chi non vuole sforzarsi di capire. «Se ne accorgesse qualcuno, ti darei ragione...ma qui non entra mai nessuno».

Si avvicinò all'abat-jour e cominciò a osservare il suo riflesso negli specchi colorati. Non era graziosa, né elegante o raffinata. Sapeva prepararsi, vendersi e, inevitabilmente, qualche cristiano riusciva pure ad accaparrarselo. La invidiavo per questa sua spavalderia? Forse un po' sì, lo ammetto. Io ero solita girare i tacchi non appena sentivo un paio d'occhi poggiati addosso.

«Avresti potuto aiutarmi al piano di sopra, al posto di startene rintanata qui. Almeno saresti stata utile a qualche cosa».

Alzai lo sguardo, trovandola che si passava le dita sui denti, quasi a volerli sbiancare. Soffocai sia uno sbuffo spazientito che una sincera risata per quel suo gesto stravagante.

«C'erano da pulire la matrimoniale di Romeo e la cameretta del signorotto» le comunicai, impiegando un tono aspro per quell'ultima parola «che c'è, ti serviva aiuto per due sole camere?».

Spalancò gli occhi «La cameretta? Credi che non debba servire una matrimoniale anche al figlio?»

Incrociai le braccia sul petto, quasi in imbarazzo. «Beh...quando stava qui aveva quella cameretta -e io lo sapevo bene- perché non dovremmo lasciargliela anche questa volta?».

Giuseppa ridacchiò, senza fingere alcun contegno. «Andiamo Marì, come se non gradisse avere un posto in più accanto a lui nel letto, a ventun anni».

«Peppa!» esclamai, decisamente scossa da quel suo commento.

Mi aveva messo la pulce nell'orecchio. Non mi ero disturbata di voler prendere in considerazione un altro scenario rispetto a quello che mi ero prefigurata: l'arrivo di un ragazzo adulto, certamente, ma con quell'indole dolce, pacata, innocente che l'aveva contraddistinto da bambino. Quel carattere a cui ero abituata, quello a cui ero affezionata. Non potevo ammettere anche solo l'idea che la natura del padre avesse potuto intaccare la bella persona che ricordavo.

«E poi non è detto che gli serva proprio un letto matrimoniale. Magari un singolo gli basta e avanza.»

Lei fece spallucce. «Se ha preso da Romeo, gli servirà eccome. E proprio se ha preso da Romeo, potrei essere io ad accertarmi che ne abbia bisogno».

Il disgusto non fece in tempo ad assalirmi, che un cane fece irruzione nella stanza, macchiando tutto il pavimento con le sue zampe fangose.

«Chi mm'era focu!» urlai chiaramente in preda a una crisi di nervi «guarda tu se devo rimettermi a pulire sto maledetto pavimento per colpa di questo dannato...» mi fermai. Non avevo mai visto quel cane prima.

Gettai uno sguardo stranito a Giuseppa. «Oh Pe', ma tu lo conosci?».

Sbarrò gli occhi «Non ho idea di chi sia».

L'animale si era seduto impettito sul tappeto, dopo aver finito di lasciare le sue impronte sudice per tutta la saletta. Non sembrava mordace, né squilibrato. Se ne stava lì, aspettando che qualcuno gli desse un comando. Era sicuramente stato ammaestrato da qualcuno. Da chi, però?

Col cuore in gola, lessi l'orario sull'orologio poggiato sul comò. Era quasi mezzogiorno.

Mi resi conto di avere la voce tremante, mentre comunicavo a Giuseppa: «Avevano detto che sarebbe arrivato per l'ora di pranzo»

L'espressione sul suo volto mutò da confuso a elettrizzato. Si fiondò alla finestra, vittima della sua eccessiva curiosità.

«E infatti...»

Ben più timorosa, mi avvicinai anche io al vetro. Sul viale d'ingresso c'era un'auto posteggiata. Non era quella di Romeo, era decisamente più nuova, dalle linee più moderne e dal colore più acceso. Di automobili del genere, non se ne vedevano da quelle parti. Provai a pensare a quanto potesse costare una bestia di quel calibro, ma decisi immediatamente di non permettere alla mia mente di concentrarsi su quel dettaglio inutile, non in quel momento, almeno.

Quando la portiera si aprì, avvertii decisamente un sussulto. Avevo paura. Paura, sì, e lo realizzavo solo in quell'istante. Quel giorno, quella visione, mi avevano infestato i pensieri per oltre quindici anni e non avrei potuto sopportare il peso di veder sgretolarsi sotto ai miei occhi tutte le mie supposizioni, le mie congetture, le immagini che mi ero creata nell'attesa; il peso dell'aver avuto torto, dell'aver puntato troppo in alto. Ma così non fu.

Una scarpa di pelle lucida si appoggiò sul selciato, poi emerse l'intera figura: i capelli color sidro, il pallore della pelle erano così familiari che sentii una fitta al cuore. Tirai un ultimo, sfinito sospiro di sollievo quando mi resi conto che non c'erano evidenti segni di ferite da guerra, purtroppo incredibilmente comuni tra chi riusciva a ritornare a casa. E invece lui sembrava che nemmeno li avesse visti i combattimenti, che non avesse lasciato che gli marchiassero il corpo o gli incupissero lo spirito. Lo notai, lo riconobbi quel guizzo di entusiasmo quando abbracciò finalmente suo padre. Era lui. Anche con sessanta centimetri in più, era lui; anche con la camicia di lino, le bretelle e i pantaloni sartoriali, era lui; anche senza i lineamenti più dolci e arrotondati, era sempre lui. E, dopo tanto tempo, sentii di poter cominciare a respirare di nuovo.

«Beh», pronunciò poi Giuseppa, ricordandomi dove fossi. «Non ha preso dal padre. Ma non ne sono per niente dispiaciuta, per carità!»

Un'ondata di gelosia si impadronì di me. Cercai di reprimerla per non lasciare che rovinasse quel tanto agognato momento.

«Dimmi, com'era da piccolo? Voglio dire, secondo te è tutto merito dell'aria del nord o...?»

Fu in quel momento che lo vidi sorridere, come allora, con gli occhi che diventavano fessure e il petto che si gonfiava. Non mi misi a cercare altre risposte, furono le parole stesse a rimbalzarmi fuori dalla bocca:

«Così. Era esattamente così.»

«Puru u cani!» esclamò Graziella esasperata. Dai piani alti non era ancora stato dato il comando di portare i piatti in sala da pranzo, nonostante fosse passata ormai un'ora dall'arrivo di quel ragazzo. Proprio per questo motivo, il tavolo della cucina era carico di portate che nel frattempo si freddavano e che, dato il loro odore allettante, avevano attirato il cane del figlio di Romeo. Si era appostato proprio vicino alla sedia di Graziella, sperando di riuscire con i suoi mugolii a convincerla a concedergli un morso del capretto in umido. Era un cane da caccia, di quelli col muso stretto e il pelo lungo a macchie. Agli altri disturbava non poco la presenza di un animale alla villa, mentre io, dopo avergli gridato contro per aver sporcato il pavimento della sala da fumo, avevo capito che, tutto sommato, averlo là avrebbe contribuito a risollevare il morale di tutti. Bastava gettare un occhio sul suo viso piccino e affabile per addolcire il proprio temperamento.

Graziella, però, non era di quell'avviso.

«Nun d'aju chi mi ti fazzu!» continuava a ripetergli «cibo da qua, non ne cavi. Ci doveva pensare prima il tuo padrone».

Sentendo quelle parole, Sebastiano, il cameriere, abbassò il giornale che stava leggendo e lo poggiò sul tavolo.

«Il tuo padrone ci pone un po' sullo stesso piano di 'sto cane. Dobbiamo obbedire alla stessa persona, dopo tutto.»

Giuseppa fece spallucce «Io non ho problemi al riguardo». Si guadagnò tutti i nostri occhi puntati addosso. Non avevamo dubbi che fosse seria, che fosse veramente disposta a esaudire qualsiasi richiesta di quel giovane, potesse questa anche deviare dai normali ordini a cui era costretta a rispondere. Nel suo tono, infatti, c'era una punta di malizia decisamente fuori luogo, che era riuscita a infondere imbarazzo ai più pudici e gelosia ai più passionali. È facile ipotizzare da quale sentimento fui invasa io dopo quelle parole.

«Ma è davvero così affascinante?» domandò allora il cameriere.

Non risposi. Quando lo intravidi da quella finestra, avevo rifiutato di scrutarlo, di analizzare il suo volto con attenzione o anche solo di incrociare il suo sguardo. Mi ero limitata a gettargli una piccola occhiata, necessaria per poter riconoscere quei tratti, fisici certamente, ma soprattutto quelli della sua spiccata personalità, che mi avevano accompagnata per anni e che speravo non fossero sbiaditi col passare del tempo. Non avevo interesse a comprendere quanto fosse cambiato, bensì mi serviva la certezza che, in un modo o nell'altro, fosse riuscito a rimanere lo stesso.

«Si direbbe un attore da cinematografo!» rispose lei di rimando. Portò le mani all'altezza del collo. «Due spalle così! Bello piazzato eh, ma non eccessivamente robusto. Avrà fatto attività fisica o chissà che, là dove stava. Poi la camicia non lasciava granché spazio alla fantasia, se sapete cosa intendo...». Disgustoso. «E poi il viso- continuò – da capogiro. Non è come Romeo, non è moro o bello abbronzato. Sembra uno di quegli emigranti tedeschi, nemmeno quelli che da qua si trasferiscono, ma come i figli di chi parte e si sposa qualche crucca bionda, chiara, affascinante. Quelli che quando tornano qua con i genitori non spiccicano una parola di italiano, o dialetto più che altro, però riescono comunque a fare uscire di testa tutte le ragazze. Ecco, lui è più o meno così. Ma non l'ho osservato bene, eh, ci devo fare attenzione la prossima volta».

Mi stupii di come lei fosse riuscita a studiarlo con un fare quasi scientifico, mentre io avevo a malapena intravisto i suoi occhi. Forse eravamo alla ricerca di cose diverse. Forse è meglio togliere quel forse.

«Mi raccomando, Peppa, poi vogliamo i dettagli» scherzò Graziella.

Giuseppe si alzò dalla sedia «Io ne faccio a meno, invece, grazie». Tirò fuori dai pantaloni un pacchetto di sigarette. Giuseppa allora lo guardò facendogli gli occhi dolci.

«Chi bboi?» domandò lui sconcertato.

«Posso una?»

Lui gettò gli occhi al cielo e ne estrasse due. «To'. Cattattilli a prossima vota»

«Perché comprarle se ci sei tu che mi rifornisci?».

Aprirono la porticina della cucina e scomparvero in giardino. Mi sedetti al posto di Giuseppe, vicino a Sebastiano.

«Hai sentito come ne ha parlato? Na vota u vitti e si 'nnamurau».

«Ma chi, Peppa? Macché, quella cerca prede, non fidanzati». Ironizzai.

Rimase zitto. Mi faceva quasi tenerezza.

«Perché non la inviti a fare una passeggiata?»

«Sì, vabbò...» si limitò a dire, tornando a leggere il suo giornale.

«Sono seria» gli strappai il giornale dalle mani. «Anche Giuseppe mi ha chiesto di uscire, perché tu non dovresti proporlo a lei?»

Incrociò le braccia sul petto. «Perché rifiuterebbe».

Lo guardai con sguardo indagatore «E chi lo dice?»

Si fissò i piedi. «Io» sussurrò poi.

Sbuffai «Che noia tu e le tue pare!»

«Oh, io mica entro qui e comincio a insultarti!» disse indignandosi mentre io ridacchiavo di rimando.

«Dammi il giornale, va, non è giornata».

«Te lo rendo se chiedi a Giuseppa di uscire» lo sfidai.

Mi gettò un'occhiata seccata. «Marì, dammelo, su».

Mi alzai sulla sedia, ancora col giornale in mano. «Chiedile di uscire o lo strappo».

«Strappalo, allora, chi mi n'da futti».

Ci rimasi male, non soddisfatta.

«Allora se non le chiedi di uscire, strappo il giornale e le urlo che ti piace».

Si allarmò. Posai le mani sul margine del foglio.

«Non oserai» mi intimò.

«PEPPAAAA!!!» gridai.

«Sta' zitta, mannaia la morti!»

Si aprì la porta. Mia nonna entrò di colpo, trovandosi davanti a una scena chiaramente indecorosa.

«Maria, scindi ddocu!»

«Solo un attimo» la congedai.

«No, ora!» mi ordinò.

Fissai Sebastiano con attenzione.

«Se non glielo chiedi, non scendo».

Lui si girò a guardare mia nonna. Il suo sguardo glaciale gli fece tremare i polsi.

«Va bene, basta che scendi».

«Giuralo!»

«Che gioco state giocando voi due?» si intromise la vecchia, ancora sulla porta.

«Nessuno, Maria scendi!» implorò lui chiaramente nel panico.

«Giura!»

«Giuro!» promise stremato.

Gli porsi il giornale con fare compiaciuto e scesi dalla sedia. La freddezza dell'espressione di mia nonna era un ammonimento silenzioso. Ne fui prima spaventata, poi me lo scrollai di dosso.

«Dov'è Giuseppa?» chiese con voce ferma.

«Sta fumando con Giuseppe» la informai.

Si portò la mano sulla fronte, come se questa affermazione le avesse scombussolato i piani.

«È successo qualcosa?» domandò Sebastiano.

«Doveva servire il pranzo, ora che si erano decisi a mangiare, finalmente».

Graziella si alzò di scatto e cominciò a sistemare tutte le portate sul vassoio. La testa del cane la seguiva nei movimenti, come se stesse osservando una partita di tennis. Andavano in concerto.

«La vado a chiamare, che problema c'è?» proposi.

«Che poi arriva tutta puzzolente di fumo!» sbottò.

Aveva senso. In momenti come quello, uno non può far altro che limitarsi ad acconsentire, evitando perfino di suggerire alternative, che potrebbero addirittura contribuire ad alimentare quel clima di tensione, non portando a niente se non a ulteriore confusione. Per questo restammo zitti, nonostante la nostra mente galoppasse alla ricerca di una soluzione che potesse non essere fraintesa o aspramente criticata dalla donna di piombo che era da poco entrata nella stanza. Non dissi niente, ma sapevo come sarebbe finita. E avevo paura. Ansia, meglio. Entrambe inducono alla ricerca di un nascondiglio, di una realtà alternativa, ma almeno la paura si cura col coraggio. L'ansia non si può curare, invece; ti puoi assuefare, arrenderti a quella costante sensazione di inquietudine e apprensione. In qualunque modo la si veda, questa porta comunque a una sconfitta. Non ero pronta a perdere, a espormi, non ancora. Ma sono convinta che nessuno sia mai pronto a ricevere la propria sentenza.

«Verrai tu, Maria».

Non mi mossi subito, tanto meno fece mia nonna. Era come se anche lei soffrisse quella decisione. Che non mi ritenesse all'altezza? Che avesse paura di far brutta figura? Forse avrei dovuto marciare su questi possibili scenari, per convincerla a cambiare idea. Capii anni dopo perché non lo feci e la motivazione risiedeva in quei labirinti della mente che a una ventenne priva di esperienze non possono risultare che estranei e inarrivabili. Si stava giocando tutto sul non detto.

Strinsi il grembiule dietro la schiena, quasi a volermi dare forza. Mia nonna mi porse il vassoio preparato da Graziella, non nascondendo una smorfia.

«Dove state andando?» chiese Giuseppa rientrando nella cucina. La vecchia la fulminò con lo sguardo.

«Dove credi? A servire, ovvio!»

La vidi sussultare. «Ma ci dovevo andare io! Maria, passami sto vassoio, va'».

Fui spinta in avanti, verso il corridoio.

«Ma va lavati, nzivata!» le fu risposto in tono aspro.

Mia nonna continuò a spingermi, desiderosa di concludere quel teatrino il prima possibile. Chiuse la porta alle sue spalle e cominciò a farmi strada verso l'abitazione principale. Voci ovattate attraversavano il legno spesso che ci stava dietro.

«Peppa, ma...» cominciò una voce timida. Sorrisi d'impulso.

«che ne diresti di, non lo so, uscire insieme, qualche volta?»

Ci fu silenzio. In tutta onestà non sapevo cosa aspettarmi.

«Ma chi, io e te?» chiese allora lei a Sebastiano.

Di nuovo silenzio. Immaginai che lui avesse annuito.

L'unica risposta che gli concesse fu una sonora risata derisoria.

A collegare la residenza dei Romeo con quella della servitù, c'era solo un lungo corridoio. Era ironico, quasi, il fatto che due mondi apparentemente così distanti fossero separati da un semplice passaggio e una pesante porta in mogano. Oltre quella soglia, ogni mattina, noi domestici prendevamo vie diverse: chi doveva riordinare le camere da letto saliva le scale, chi era destinato alla pulizia delle sale passava per l'androne. La sala da pranzo era anch'essa al piano terra, ma vidi che mia nonna si avviava verso il piano superiore.

«Cough cough» finsi di tossire cercando di attirare la sua attenzione.

Si girò. Era già a metà scala.

«Dimmi»

«La sala da pranzo è ancora qui a sinistra o l'hanno spostata per il lieto evento?» scherzai.

Non colse l'ironia.

«Si dà il caso che vogliano mangiare in camera»

Inclinai la testa «Oh»

Nel frattempo, migliaia di pensieri si stavano rincorrendo nella mia testa. Quale camera? Ma soprattutto, quella camera?

Salii i primi gradini. Era strano, ero solita fare su e giù per quelle scale da quelli che ormai erano anni, eppure quel giorno mi parevano diverse. Come se, oltre a un vassoio, stessi portando con me un macigno. Sentivo il peso dei miei passi e non riuscivo ad avanzare se non a passo incredibilmente lento.

«E dai! Moviti!» mi esortò la nonna.

Fu allora, con quelle parole, che si presentò davanti ai miei occhi un'immagine: due bambini, un maschietto e una femminuccia, che scorrazzavano su quelle esatte scale. Vidi la bambina inciampare e il ragazzino, ormai arrivato al piano di sopra, voltarsi per vedere dove fosse finita. Anche dalla sua bocca uscì un «E dai! Muoviti!». Fu allo stessi tempo uno schiaffo e una tenera carezza.

«Maria!» gracchiò poi la vecchia che mi stava davanti, riportandomi al presente. Accelerai il passo.

Arrivata di sopra, mi resi conto che l'agitazione si era tramutata in qualcosa di diverso. Non ero più spaventata o nervosa, ma piuttosto curiosa ed eccitata. Volevo incontrarlo di nuovo, non aveva più senso nascondersi. Ne presi piena coscienza quando bussai alla porta della sua camera. Peccato, però, che sentii il coraggio scivolarmi addosso non appena una voce dall'altra parte pronunciò «Avanti».

Aprii la porta. Niente in quella camera era stato spostato dall'ultima volta che c'ero entrata, ormai quindici anni prima. Era come se ogni mobile, ogni quadro appartenesse a un preciso punto, a una precisa posizione dalla quale non poteva allontanarsi. Constatare ciò mi rincuorò, sì, ma al contempo fui pervasa da una nostalgia quasi velenosa. Faceva male.

Mia nonna entrò con un sorriso smagliante, di facciata, naturalmente. Io non mi sforzai nemmeno, tanto ero pietrificata. Nel centro della stanza, l'uno di fronte all'altro, separati da un mero tavolino da caffè, c'erano Romeo e il figlio. Il primo sfogliava le pagine del suo quotidiano, probabilmente perché al mattino non aveva avuto il tempo di consultarlo; il secondo era nel procinto di accendersi una sigaretta. Nessuno di due aveva badato a noi e io decisi di fare altrettanto: andai dritta verso l'altro capo della stanza e poggiai lì il vassoio. Cominciai allora a distribuire i vari piatti sul mobile.

«Io non capisco perché tu abbia insistito per venire in automobile» ruppe il silenzio Romeo, rivolgendosi al ragazzo. Lui tirò una boccata dalla sua sigaretta prima di rispondere.

«Te l'ho già spiegato, mi pare».

Rimasi stupita da quanto la sua voce fosse cambiata. C'era da aspettarselo, certamente, ma forse, in cuor mio, mi ero illusa che potesse continuare a suonare tenera e innocente, così come me la ricordavo. Era una voce più matura, sì, ma limpida, calma, impostata. Pareva davvero quella di un attore del cinematografo.

«Continuo a non trovarci il senso, allora» continuò Romeo.

«Non c'è molto da capire: volevo avere la mia automobile anche qui e, voilà, l'ho portata con me. Cosa avrei dovuto fare, venire col treno e lasciare che fosse una concierge a guidarla fino a qua? Che spreco.»

Il padre sbuffò contrariato.

«I ragazzi dell'alta società se ne devono infischiare degli sprechi. Così hai fatto un viaggio sfiancante e da solo, per giunta!»

«Oh, non ero solo. C'era Oreste, innanzi tutto.» Guardò in basso, convinto di trovare il cane vicino a sé. Allora si girò, per vedere dove fosse. Io ero esattamente dietro di lui. Non mi voltai, continuai ad armeggiare con i piatti come se nulla fosse, ma avvertii i suoi occhi puntati addosso; stava cercando di inquadrarmi. Sentivo il cuore esplodermi nel petto. Passarono dei secondi, poi mi diede le spalle di nuovo. Sospirai.

«E poi c'era anche Salvatore»

«Chi?» domandò Romeo

«Oh, un siciliano. L'ho incontrato in una taverna a Firenze. È stato un soldato anche lui, sai? Era nella Marina, così come Rizzo. Era con lui quando ha affondato la corazzata Wien, ci credi? Incredibile, davvero incredibile. Dovevi sentire come descriveva l'accaduto, sembrava di...»

«E che c'entra ora sto siciliano?»

«Te l'ho detto, l'ho incontrato in una taverna a Firenze. Stava riscendendo l'Italia a piedi da Trieste, per tornare a casa in Sicilia. Roba da pazzi. Aveva giusto i soldi per pagarsi il traghetto e una corriera. Allora che ho fatto: gli ho offerto del vino, l'ho ammorbidito bene bene e quando gli ho chiesto se fosse disposto ad accettare un passaggio da uno sconosciuto, ha acconsentito senza problemi. Così ho avuto compagnia e un cambio alla guida. Certo, eh, non è abbia capito tutto quello che mi ha detto, però ci siamo arrangiati. Mi chiamava baruni . All'inizio pensavo che mi stesse dando del baro, ma in realtà credeva fossi un barone. Bel tipetto Salvatore.»

Mi piaceva come parlava di quell'uomo. Non lo considerava inferiore solo perché squattrinato e poco istruito, ma sembrava quasi che stesse descrivendo un suo pari. Addirittura, dal modo in cui ne esaltava le gesta, pareva che lo volesse esaltare. Fu dolce.

«Che stai facendo tu, qui?» mi sussurrò mia nonna.

«Metto a posto» sibilai.

Si morse la mano per trattenere le urla.

«Chi mmi ti bbampava, li devi servire, Maria!»

«Ma perché, non ce la fanno da soli?»

Sgranò gli occhi. La vidi diventare tutta rossa.

Acciuffai due piatti «Va bene, va bene».

Mi avvicinai verso di loro e velocemente poggiai i piatti sul tavolino da caffè. Con passo svelto, per non dare nell'occhio, tornai verso il mobile a prendere le pietanze.

«Come pensi di servirli senza posate?»

Mi guardai attorno, senza sapere come rispondere.

«Beh...»

«Al diavolo, le prendo io»

Feci per riappoggiare le cose sul tavolino, ma mia nonna inclinò la testa, indicandomi di chinarmi per lasciare che fossero loro a prendere il proprio cibo.

Mi avvicinai sempre di più al ragazzo, reggendo il vassoio con le mani sempre più tremanti. Lui non si accorse subito della mia presenza.

«Prego» dissi quindi con un filo di voce.

Si voltò. E fu la fine. Per me, per lo meno.

Lo lessi nei suoi occhi che mi aveva riconosciuta, dal modo in cui le sue pupille si ingrandirono, dal modo in cui corrugò leggermente le sopracciglia, dal modo in cui sollevò un angolo della bocca.

Mia nonna gli porse le posate, permettendogli di servirsi.

«Signorino Antonino, è un piacere rivedervi»

«Anche per me, Agata» rispose lui sorridendo. Continuò a guardarmi mentre portava al suo piatto un pezzo di capretto.

«È un piacere rivedere anche te» mi disse.

Restai immobile, congelata. Nella schiena sentivo tanti piccoli spilli conficcati nella carne, che mi impedivano di muovere un passo. Non sapevo cosa dire, non sapevo come reagire. Ero paralizzata ed elettrizzata. Non c'erano più dubbi sul fatto che si ricordasse di me e, anche se ciò mi riscaldava il cuore, riusciva a infondere anche una grande amarezza. C'era tanto di nascosto e pesante in quel nostro gioco di sguardi.

Romeo abbassò il giornale per prendere il cibo. Quando vide me e non Giuseppa, sobbalzò, quasi. Forse non se lo aspettava, forse non approvava, forse mi riteneva un'incapace che nemmeno sapeva come si dovesse servire il cibo ai padroni di casa, non che avesse torto. Fu per uno di questi motivi che guardò mia nonna e con voce fredda affermò «Bene, Agata, puoi poggiare il piatto qui, grazie. Facciamo da soli»

Mia nonna gli sorrise ancora, nonostante si sentisse profondamente in imbarazzo.

Ci avviammo verso la porta della stanza, seguite dallo sguardo insistente ma buono di Antonino.

Non appena ci lasciammo la camera alle spalle, mia nonna mi diede un pizzicotto.

«Ma chi cumbinasti, ah

Sorrisi, esausta. Il primo incontro era andato.

 

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Capitolo 4
*** Li boni festi - prima parte ***


CAPITOLO 2

LI BONI FESTI

 

Partivi di duv'era e vinni apposta, veniri a chista casa cunsulata,

veniri a chista casa, bella, cunsulata;

puru sei mastri e setti 'mperaturi, tutta la puntijaru di diamanti.

Vu' siti ammenz'a nui, perla d'amuri, ca tutti quanti si ponn'ammucciari

La nivi vi dunau la sua jianchezza , la rosa russa sì lu so' culuri.

 

Partii da dov'ero, e venni a posta in questa casa consolata,

venni in questa casa, bella, consolata;

pure sei maestri e sette imperatori la puntinarono tutta di diamanti.

Voi siete in mezzo a noi, perla d'amore, che tutti quanti si possono nascondere.

La neve vi donò la sua bianchezza, la rosa rossa, sì, il suo colore.

Antonino Romeo era arrivato alla Martiniana ormai da una manciata di giorni, ma nessuno di noi domestici poteva vantare di aver veramente fatto la sua conoscenza. La mattina commissionava il suo solito caffè, leggeva il giornale che Francesco, il maggiordomo, stirava per lui ogni mattina e, dopo aver fatto una carezza a Oreste, usciva dalla villa e montava sopra la sua automobile. Non era quasi mai nei paraggi e, in tutta onestà, per me era meglio così.

Erano Sebastiano e Giuseppa a servirlo quando rientrava in tarda serata. Se si ritirava nella sua stanza, era la ragazza a portagli quanto da lui richiesto, considerato che Sebastiano non riusciva a salir bene le scale; nel caso in cui, invece, avesse preferito cenare col padre in sala da pranzo, non c'erano ostacoli che impedissero al cameriere di svolgere le sue normali mansioni. E forse un po' gli dispiaceva.

Da quando l'aveva visto, Giuseppa si era perdutamente invaghita del piccolo Romeo. Quando tornava nella dependance, dopo avergli consegnato il vassoio, aveva sempre un'aria gaia e su di giri. Ne decantava le lodi anche poco prima di mettersi a letto, costringendomi ad ascoltare lusinghe e complimenti che, parecchi anni addietro, sarebbero potute uscire proprio dalla mia bocca. "Mi ha sorriso in una maniera che le gambe hanno iniziato a tremare" oppure "ha preso in mano il vassoio senza aspettare che lo appoggiassi. Le nostre mani si sono sfiorate!". Roba da far venire il voltastomaco.

Ero quasi contenta quando Sebastiano, chiaramente in preda a una gelosia feroce, cominciava a elencare, invece, i vizi e i difetti del signorino. "Si crede il padrone del mondo, paru paru peri peri. Non sa che sono i vagabondi a gironzolare dalla mattina alla sera?". Aveva apprezzato, però, che avesse rifiutato di assumere un valletto o, peggio ancora, di affidare questo compito allo stesso Sebastiano. Ormai era desueto possederne uno e non c'erano ragioni per cui Antonino avesse bisogno di un aiuto nel vestirsi o nel farsi la barba. Sotto questo punto di vista, era stato saggio.

Non essendoci dunque un gran bisogno della servitù, se non alle prime ore del mattino e sul calar del sole, avevamo molto tempo libero. Ci svegliavamo presto sì, pulivamo la casa da cima a fondo, ma, senza i padroni tra i piedi, potevamo permetterci di fare più pause e di prenderci i nostri tempi. Quella mattina Antonino era sparito, come suo solito, e il padre aveva comunicato che avrebbe mangiato a Bagnara con il Cavaliere De Leo.

Era appena passata l'ora di pranzo ed eravamo tutti riuniti attorno al tavolo della cucina, mentre terminavamo il nostro pasto. Graziella sfregava la buccia di un bergamotto tra le mani per profumarle. Giuseppa la guardava stranita, non l'aveva mai visto fare.

«Ma che, non ci hai mai provato?» le chiese la cuoca.

«No, non ci ho mai nemmeno pensato, in realtà».

Le porse la buccia, invitandola a sperimentare lei stessa.

«Devo strofinare, sì?» domandò.

Ci guardammo tutti, divertiti ma anche inteneriti dalla sua ignoranza. Poi cominciò.

«Che buon odore!» esclamò mentre si passava la buccia sui palmi.

«Ci fanno i profumi con quello» la informò mia nonna.

Peppa spalancò la bocca. «E perché costano così tanto? Non basta strofinarsi la scorcia addosso?»

Mi portai le mani sul viso, non credendo alle mie orecchie.

In quel momento entrò Francesco con una lettera in mano. Lanciò un'occhiata curiosa a Giuseppa, che si stava divertendo a passarsi la buccia di bergamotto sul collo, poi mi guardò in cerca di una risposta. Scossi semplicemente la testa.

«Bene» esordì.

Peppa saltò in aria, non aspettandosi di trovarselo dietro. Posò la buccia all'istante.

«C'è posta, signori!»

Poggiò la lettera davanti a Giuseppa.

«Ma non mi scrive mai nessuno».

«Me l'ha data tua mamma oggi in paese».

Lei fece una smorfia. «Mia mamma non sa scrivere».

Francesco sorrise. «Chi ti dice che l'abbia scritta lei?».

La guardammo aprire la busta con diffidenza. Poi il suo atteggiamento cambiò: spalancò gli occhi, cominciò ad ansimare e si alzò di scatto.

«Che giorno è oggi?» domandò velocemente a Francesco.

«Mercoledì, penso»

Lei tornò a guardare la lettera.

«Santo cielo! Santo cielo!» continuava a ripetere.

Si tolse il grembiule in tutta fretta e lo lanciò sul tavolo.

«Che stai facendo?» le chiesi confusa.

«Marì, alzati, andiamo a Pellegrina»

Guardai mia nonna, ma nemmeno lei sembrava intendere.

«È tornato Sebastiano!» annunciò poi, trionfante.

Per un secondo non capimmo, poi ci rendemmo conto di avere in mente il Sebastiano sbagliato. Anche il fratello di Peppa aveva questo nome, motivo per cui si rivolgeva al cameriere chiamandolo "Ba'", un po' a scherno, come se gli stesse dando del babbo.

Mi alzai e le andai incontro.

«Fa vedere» le chiesi, tendendo la mano per prendere la lettera. Me la porse con aria entusiasta.

Suo fratello era partito per la guerra anni prima e, stando a quanto riportato nella sua prima lettera, era stato assegnato a un corpo d'armata che operava nel nord est, là dove scorre l'Isonzo. Era da tempo che non si avevano sue notizie e, sebbene Giuseppa tentasse di giustificare il fatto con un semplice "magari non ha tempo", eravamo tutti coscienti che la paura le stesse logorando l'anima, specialmente dopo la distruzione del piccolo paesino di San Martino del Carso. Il messaggio che stringevo tra le mani era la prova che, per fortuna, i nostri presentimenti erano sbagliati.

«È fantastico, Peppa!» esultai.

«Là ha scritto che sarebbe arrivato a metà della settimana successiva. Oggi è la metà della settimana successiva»

Le diedi indietro la lettera.

«Mi sembra un po' vaga come indicazione, però. Franco» mi rivolsi a Francesco «dove l'hai vista la madre di Giuseppa?»

«Alla fermata della corriera» rispose.

Guardai Peppa con aria complice. Era quello il giorno, allora.

Slegai anche io il grembiule e lo abbandonai su una sedia.

«Andiamo, su» la esortai «quand'è la prossima corriera?»

La ragazza non riusciva a rifletterci, tanto era emozionata. Francesco si intromise nel discorso «Se camminate svelte, potreste prendere quella delle due e un quarto. È quella che prendo per accompagnare mia madre a messa, nel pomeriggio». Afferrai il polso di Giuseppa «Allora andiamo, su». Lei si girò per guardare mia nonna. Con uno sguardo intenerito, ci diede il permesso di uscire. Dopo aver trascinato Peppa in giardino, mi richiusi la porta alle spalle.

«Come sei, carica?»

«MaronnaMaria! Ci credi? Non solo è vivo, è anche a casa!» dai suoi occhi scendevano sincere lacrime di commozione. Il nostro rapporto poteva pure non essere idilliaco, ma in quel momento sentivo la necessità di gioire per lei, con lei. Sapevo cosa voleva dire attendere a lungo notizie di una persona per poi ritrovarsela, da un giorno all'altro, come nuova parte della propria quotidianità. Era una sensazione travolgente, enorme, irrefrenabile. E il caso volle che la mia persona fosse proprio lì, in giardino, in procinto di rientrare alla villa.

Ci venne incontro. Serrai la presa sul polso di Peppa, quasi a voler respingere con forza il senso di piacere e al contempo di frustrazione che la sua vista mi suscitava. Lei continuava a piangere, ma accennò un sorriso.

Antonino si fermò a pochi passi da noi, le mani dietro la schiena. «Signorine...» disse abbassando il capo. Non era usanza fare la riverenza a una persona che non fosse di nobile lignaggio. La moglie di Romeo apparteneva a una famiglia di aristocratici, era noto, ma Antonino rimaneva pur sempre il figlio di un borghese arricchito e, in quanto tale, eravamo esonerati da inchini o gesti simili.

«Ci vogliate scusare, signorino, ma siamo un po' di fretta, come vedete» lo informai.

«Oh, chiedo scusa se vi ho intralciate» rispose formale. «Dove siete dirette?»

«A Pellegrina» rispose veloce Giuseppa «mio fratello è rientrato oggi dal fronte».

Gli occhi del ragazzo brillarono contenti. «Immagino la gioia! Posso offrirvi un passaggio con l'automobile?» propose cogliendoci di sorpresa. Da dove proveniva tutta quella galanteria? E perché mai sprecare tutto quel tempo a conversare con due semplici cameriere? Era insolito, addirittura oltraggioso a detta di suo padre, ma Antonino non aveva mai badato a regole o consuetudini.

«Vi ringraziamo, signorino Antonino, ma siete appena rientrato, non vorremmo scomodarvi» risposi per entrambe. Giuseppa mi guardò come se stessi delirando.

«Nessun disturbo, sul serio. Sempre che a voi non dispiaccia».

«Figuriamoci!» esclamò emozionata Peppa, prima di incamminarsi con Antonino verso l'automobile. Gliela diedi vinta, non che non fossi nervosa o in imbarazzo, ma preferii non guastare l'entusiasmo della ragazza.

L'automobile di Antonino era il classico gingillo con cui poteva divertirsi il rampollo di una famiglia nobile e agiata. Modelli di quel genere non se ne vedevano da quelle parti: non aveva la capote, o meglio, probabilmente era stata rimossa per far fronte alle giornate calde e afose; i sedili erano imbottiti, non come quelle scomode panche che si trovavano sulle corriere; splendeva sotto al sole, come se fosse appena uscita dalla fabbrica. Faceva quasi impressione toccarla, quasi si stesse oltraggiando una reliquia.

Giuseppa non si fece grandi problemi, invece. Spalancò la portiera del posto accanto al conducente «Io davanti!». Il piccolo Romeo ridacchiò.

Rimasi ferma a qualche passo dall'automobile. Lo guardai mentre mi scrutava con sguardo inquisitorio. Poi aprì per me la portiera dei posti dei passeggeri. «Dopo di Lei, signorina». Arrossii per quell'insensata cortesia. Mi sedetti dietro a Giuseppa. «Quelli dietro sono i posti per le signore per bene», mi informò poi Antonino con un sorriso prima di richiudere lo sportello. Peppa si girò di scatto «Marì, facciamo cambio di posto, ora!».

Feci una smorfia «Che stai dicendo?»

«Dai, su, voglio essere anche io una signora per bene!»

«Peppa, va riggettiti» le dissi allora, suggerendole di lasciar perdere. La sentii sbuffare.

«Pronte?» domandò il signorino, sedendosi. D'un tratto sentii un calore inaspettato, complice la vicinanza o più semplicemente il motore che scoppiava. Lasciammo la Martiniana sotto gli occhi increduli dei domestici che ci osservavano dalle finestre della cucina.

La bellezza e la varietà dei paesaggi che la Calabria offriva non smettevano mai di stupirmi. Percorrevamo le strade di montagna serpeggiando tra alberi alti e sottili, ma, al contempo, il mare sembrava non volerci abbandonare. Da un lato il bosco, dall'altra ecco Messina. Non so se fosse una sensazione comune a tutti quelli che vivevano sulle due coste contrapposte, ma lo Stretto riusciva a infondermi sicurezza. Continuavano a descrivere il mare come sconfinato, interminabile, eppure la Sicilia distava da noi poco più di un paio di chilometri. Ed era dunque quel riuscire a porre un limite all'illimitato che ti faceva sentire protetto e al riparo. Mentre ci dirigevamo verso Nord, guardavamo l'antica Zancle salutarci per sparire dietro al monte, consapevoli, però, che al nostro ritorno sarebbe comunque stata lì ad aspettarci, almeno lei. Era questo che intendevo con lo Stretto indispensabile.

Ci impiegammo un'ora per arrivare a Pellegrina, tra un tornante e quello successivo. Il paese era piccolo e claustrofobico, ma gli abitanti erano gente accogliente e generosa. Quando facemmo capolino nella piazza principale, tutti si girarono per capire a chi appartenesse quell'automobile dalle linee così moderne. Giuseppa salutava a uno a uno i signori che incontravamo, sentendosi una matrona davanti al popolino. Cercava questo lei: l'invidia degli altri, lo stupore, la meraviglia. E con accanto uno come Antonino di certo non passava inosservata. Lasciammo l'automobile sul ciglio della strada, proprio davanti a casa di Peppa. Prima di venire alla Martiniana, aveva abitato in un terratetto che si affacciava sulla piazza della chiesa, lì dove c'era il panificio dei suoi genitori. Pellegrina era famosa per la sua tradizione della pitta e del pane di grano e quello della famiglia Cuzzopodi era stato uno dei primi forni ad aprire e farsi conoscere nel paese e nei dintorni. Tuttavia, con la morte del padre di Giuseppa e la partenza del fratello Sebastiano, la produzione aveva subito un calo considerevole, tanto da costringere i Cuzzopodi a chiudere il locale. Fu proprio il giorno della chiusura che Francesco, il maggiordomo della Martiniana, anche lui pellegrinese, propose a Peppa di racimolare qualche soldo diventando cameriera. Ora però Sebastiano era tornato e, Dio permettendo, l'attività avrebbe anche potuto riaprire i battenti.

Giuseppa bussò con forza alla porta di casa.

«Oh Ma'! Sono io! Iapri ! »

Si sentì un cigolio. Da una fessura sbucò un occhio marrone. 

«Si' tu, Peppa?»

«E certo mamma, chi deve essere?»

La porta si spalancò. Davanti a noi c'era una donna alta meno di un metro e mezzo, coi capelli raccolti in uno chignon basso e un grembiule legato attorno alla vita.

«Gioia mia, Pe'!» esclamò abbracciando la figlia. Cominciarono entrambe a singhiozzare. Era un vuoto incolmabile, quello dell'amore materno. Nessuno mi aveva mai abbracciata con tale vigore, con un'emozione così forte da sentirsi il petto esplodere. Mi ero sempre accontentata delle briciole di affetto che mia nonna si lasciava scappare di tanto in tanto. Non mi ero mai lasciata abbattere dal dolore dell'assenza, forse perché, non avendo sperimentato se non per pochi giorni cosa volesse dire avere una madre, non ero ben cosciente di cosa significasse quel qualcosa di cui ero stata privata. Eppure, in quel momento avrei solo voluto che qualcuno mi abbracciasse in quel modo.

Sussultai quando sentii la mano di Antonino poggiata sulla mia schiena, come se avesse potuto leggermi i pensieri e cercare di colmare quella mancanza. Il mio gesto repentino colse l'attenzione della signora.

«Oh, scusatemi. Non vi ho nemmeno invitati ad entrare. Voi siete?» ci domandò.

«Scusate voi l'intrusione, signora Cuzzopodi» esordii io «sappiamo che per voi oggi è un giorno importante».

La donna si coprì la bocca con le mani, ricominciando a piangere.

«Sì», mormorò tra i singhiozzi «è proprio un giorno importante».

Io e Antonino si scambiammo un'occhiata perplessa, chiedendoci se fosse inopportuna la nostra presenza in un momento così intimo. Fu Peppa che ci tolse dall'imbarazzo.

«Mamma, loro sono Maria...»

«Oh!» disse spalancando gli occhi «tu sei l'altra cameriera, giusto?»

«Esatto» le risposi timidamente.

«E lui» si sovrappose Giuseppa «lui, mamma, è il signorino Romeo».

La donna fu sul punto di avere un mancamento.

«Buon pomeriggio, signora» pronunciò il ragazzo sollevando leggermente il cappello dal capo.

«Si-si-signorino» balbettò la madre di Peppa «che onore avervi qui. Entrate, prego. La casa è piccola, ma ce la facciamo a starci tutti».

La signora Cuzzopodi e la figlia si avviarono all'interno dell'abitazione.

«Dopo di Voi» «Dopo di te» dicemmo in coro noi rimasti sull'uscio.

«Insisto» continuò poi lui. Avanzai.

La casa era sicuramente modesta, ma nei miei anni fuori dalle mura della Martiniana avevo certamente visto di peggio. Si entrava subito nella sala principale, una camera con giusto un tavolo, quattro sedie, una stufa a legna e una poltrona. Giuseppa fece per sedersi sulla poltrona, poi però sua madre l'ammonì. Lasciò il posto ad Antonino.

«Non si preoccupi» le rassicurò subito il ragazzo «sono a posto così».

«Allora mi siedo io» concluse Peppa.

«Dove ti siedi, tu?» chiese una voce apparentemente stanca.

Nella stanza entrò un ragazzo reggendosi da delle stampelle improvvisate. Era di bell'aspetto: alto e longilineo, con capelli e occhi di un nero intenso, la pelle olivastra. Solo dopo mi accorsi che non portava una scarpa e che il pantalone gli stava fin troppo largo sui polpacci. Poi ci arrivai: non aveva una gamba.

«Sebastiano!» urlò Giuseppa in visibilio. Gli andò incontro a passo spedito, desiderosa di stringerlo tra le braccia. Lui porto le mani avanti e la avvertì «Piano, Peppa, piano». Lei allora ci andò cauta. Gli portò una mano sul viso e cominciò di nuovo a piangere.

«Dai, su, sono qua. Sono tornato, per Dio!»

Lei cominciò ad esaminarlo, trattenendo il respiro quando i suoi occhi caddero sulla gamba amputata.

«Ah, sì. Subito ti n'accorgisti, ah?» disse Sebastiano con tono spento.

«Chi succiriu?» gli chiese la sorella, decisamente impaurita.

Lui cominciò a muoversi piano verso la poltrona, nella quale sprofondò nel vano tentativo di sedervisi con grazia. Provai una pena senza precedenti.

«E chi succiriu, Peppa?» domandò sarcastico. «Ma tagghiaru!»

Giuseppa rimase con la bocca aperta, pietrificata. Certamente ci doveva essere una ragione se il fratello aveva tardato così tanto a dare segni di vita negli ultimi tempi.

«Quindi sei sciancato

«Che brutta parola!» affermò lui inorridito. «Zoppo, sono, sì. E mi iu bbona!». Il suo ottimismo mi rincuorò e mi fece male al tempo stesso. Constatare che a lui era andata bene voleva dire saper riconoscere che c'erano persone che erano andate incontro a una sorte ben peggiore. Il solo pensiero mi faceva venire le lacrime agli occhi.

«Jacques si chiamava un mio commilitone». Si trascinò un dito sulla faccia, dalla narice all'angolo della mandibola. «Si è aperto in due qua. L'hanno dovuto ricucire come una bambola di pezza. Continuava a ripetere "Su na...na ghel...na ghel ca..." » non riusciva a ricordarsi le parole esatte.

«Gueule cassée?» provò ad aiutarlo Antonino.

Sebastiano lo guardò con gli occhi sbarrati, tendendo il braccio nella sua direzione.

«Bravo! Così diceva! Sacciu ieu chi boliva diri» confessò poi, colpevole di non capire cosa stesse dicendo l'altro soldato.

Antonino gli si avvicinò. «È così che i francesi chiamano i militari sfigurati sul viso. Brutta sorte, la loro» spiegò.

«Non li considerano nemmeno veterani, capito? Sono mutilati e non ricevono niente, nessun'indennità. È assurdo»

«È davvero assurdo» gli diede ragione il signorino, prendendo una sedia e piazzandosi davanti a lui. Si guardarono, gli occhi negli occhi. Ci fu silenzio, uno di quelli pesanti che non si sa dove vogliano portare. Noi donne stavamo lontane da quei due, per non disturbarli mentre si studiavano e cercavano di scavare l'uno nel profondo dell'altro.

Poi fu Sebastiano a parlare. «Dove?» chiese.

«Bassano Veneto» gli rispose Antonino. Cozzapodi sollevò le sopracciglia e guardò in basso. «Caporetto, eh?» pronunciò poi.

«Anche» si limitò ad aggiungere il signorino.

Cadde di nuovo il silenzio. Fu ancora una volta Sebastiano a romperlo con un semplice «Io Carso».

Sugli occhi di Antonino si stese un velo di pietà. Piegò il braccio, invitandolo ad afferrargli la mano. Si strinsero in un gesto simbolico che sembrava andare oltre barriere sociali, ostacoli fisici e potenziale disprezzo. In quel momento non erano altro che due sopravvissuti, due che la morte aveva osato scalfire, ma non abbattere. Forse è vero che è nella sofferenza che siamo tutti uguali.

 

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