I'll call out a name: your name (just as you once called out mine)

di ffuumei
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***




 
note: ebbene sì, a distanza di tre anni sono riuscita a concludere qualcosa che non mi fa pentire di essermi messa a scrivere. sono molto arrugginita, purtroppo, e non credo di aver scritto il testo al massimo del mio potenziale, ma è ugualmente un gran traguardo per me essere riuscita a finirlo.

quella che segue è una storia nata da una stupidaggine che si è trasformata sotto i miei occhi in questa cosina molto più elaborata. il testo è un po' lungo e ho deciso di dividerlo solo in due parti perchè l'università sicuramente non mi consentirà di aggiornare rispettando le scadenze. il tempo medio complessivo di lettura, comunque, si aggira intorno a un'ora/un'ora e mezza.

il titolo è tratto da Namae Wo Yobu Yo dei Luck Life, la prima ending theme di Bungo Stray Dogs. all'interno della storia ci sono un paio di riferimenti alle opere originali, ma niente di importante: se li notate, forse sarà carino, ma se non li notate non cambierà nulla, trattandosi di una au.

spero possa piacere a qualcuno; spero possa emozionarvi come ha emozionato me, mentre scioglievo i nodi della trama, uno per uno.


@ffuumei, 2020


 

 
 
I'll call out a name: your name
(just as you once called out mine)






 
 
I found a thought in my brain
Something I haven't seen in here for days
I watched it walk through my veins
Out through my fingertips, into the page.

Thoughts, Jacob Lee










Risponde la segreteria telefonica di Akutagawa Gin. Prego, lasciate un messaggio.

Beep.

"Gin. È notte fonda. Ho usato le ultime monete che avevo per chiamarti. Non dirlo allo zio, non voglio sentirmi giudicare debole e incapace da un uomo come lui."

Silenzio.

"Volevo dirti..." un sospiro, celato dal palmo della mano, "... niente, io-" la mano si strinse a pugno, "mi dispiace."

Silenzio.

"Non ce l'ho fatta. Non ancora- non so quanto tempo mi servirà, ancora." Aveva la gola secca, arida. "Non lo so. Non richiamarmi," le parole scivolavano amare sulla sua lingua, "non lo fare, non voglio sentire la tristezza nella tua voce."

Tossire non bastava a togliergli quel peso dal petto.

"Ti prometto che, un giorno, quando ti telefonerò ancora, avrò qualcosa di bello da dirti."

Silenzio.

Beep, beep, beep.









Tre mesi prima.


Nakajima Atsushi lo guardava da lontano, un po' come fanno i gatti con gli estranei.

Alle sette del mattino gli rivolgeva un'occhiata discreta, entrando con finta disinvoltura nel bar dove lavorava (e fin troppo spesso incespicava sulla scritta "welcome" del tappetino all'ingresso); alle quattordici, durante la pausa pranzo, fingeva di aver bisogno di fare due passi e sgranchirsi le gambe, ma il tratto di strada più lungo che gli avesse mai visto fare comprendeva sempre lui all'interno del suo campo visivo (e quel suo sguardo, discreto ma non troppo, indugiava sui suoi lineamenti ogni giorno per qualche secondo in più); quando arrivava l'orario di chiusura del bar, era sera e Nakajima Atsushi spesso non era di turno ma, quando capitava che si attardasse per aiutare con le pulizie, non era raro sentirsi quei suoi occhi bruciare addosso (e quello era il momento in cui il ragazzo tendeva a guardarlo con meno discrezione, come se la notte potesse celare al mondo le sue azioni).

Akutagawa Ryuunosuke, comunque, era abituato a sentirsi osservato. Centinaia di paia di occhi si posavano su di lui ad ogni ora del giorno, sia quando suonava che quando se ne stava semplicemente lì, seduto in quell'angolo della strada, con le mani nelle tasche della giacca scura e l'aria di qualcuno che non ha alcun interesse nel mondo.

Anche lui guardava Nakajima Atsushi da lontano, solo che la parte del gatto selvatico che non si fida degli estranei gli riusciva decisamente meglio.

Per cominciare, non inciampava mai da nessuna parte (sarebbe stato difficile, dal momento in cui raramente lasciava il posto che occupava - come se qualcuno potesse rubarglielo, come se avesse marchiato il suo territorio), non aveva bisogno di nessuna scusa per guardarsi intorno, poteva farlo quanto gli pareva, e la sera era troppo occupato a controllare che le sue dita premessero sulle corde giuste, per preoccuparsi di osservare qualcos’altro (eppure, eccola lì, quell'occhiata furtiva che gli sfuggiva, di tanto in tanto, e si posava sul vispo ciuffo di capelli soffici che pizzicava lo zigomo del ragazzo, costringendolo ad arricciare il naso quando tirava vento).

Tutto ciò che Akutagawa sapeva per certo di lui, poteva riassumersi in tre punti: uno, era giovane e doveva aver terminato gli studi da poco, perché il suo era ancora l'aspetto fresco dei fiori alle prime luci dell'alba; due, quello era apparentemente il suo primo impiego in assoluto; tre, il suo nome, Nakajima Atsushi (questo solo perché Nakahara Chuuya - lavorava lì da prima che Akutagawa si appropriasse dell'angolo della strada di fronte, forse era il proprietario, oppure solo un veterano del mestiere - lo urlava a tutte le ore del giorno, seguito dalle imprecazioni più fantasiose, perché: "Nakajima, sbrigati a portare l'ordinazione, sei troppo lento!", "Atsushi, com'è possibile che ti ustioni ogni volta una parte diversa del corpo mentre fai un semplice caffè?", "Nakajima, quanto potrà mai essere difficile lavare due tazzine senza romperne una?", "dannazione, Atsushi, mi farai venire tutti i capelli bianchi per la frustrazione!", e via discorrendo).

Tutto qui, non c'era nient'altro. E Atsushi doveva sapere ancora meno di lui, dato che poteva conoscere solo ciò che vedeva di Akutagawa: un ragazzo un po' trasandato, seduto all'angolo della strada davanti al bar in cui lavorava da poco, che suonava una vecchia chitarra notte e giorno per due spiccioli.

Dazai (Dazai Osamu, l'impiegato dell'agenzia investigativa che aveva l'ufficio qualche centinaio di metri più in là, un uomo del tutto singolare che dava l'impressione di essere più disoccupato di Akutagawa, a giudicare da quanto tempo libero avesse) lo prendeva in giro in continuazione, quando non era impegnato a bere alcolici in quel bar, a provarci con tutte le donne che si accomodavano al bancone o ai tavolini, a stuzzicare Atsushi o ad infastidire il già precario equilibrio psicofisico di Chuuya.

Sorprendentemente, tra tutti i suoi hobby di dubbio gusto, trovava spazio anche per sedersi accanto ad Akutagawa sulla strada e fare osservazioni come "il tuo sguardo truce fa scappare le persone", oppure "se suoni sempre la stessa canzone, finiranno per chiederti indietro anche quei cinque centesimi che ti hanno lasciato". Osservazioni che nessuno gli aveva chiesto e di cui Akutagawa faceva volentieri a meno, perché servivano solo a ricordargli in maniera spiacevole tutte le cose che non riusciva a cambiare.

Per fortuna, quel supplizio aveva vita breve. Talvolta Dazai veniva rimproverato direttamente da Chuuya, strofinaccio alla mano e grembiule da cameriere addosso, che usciva dal bar solo per urlargli dietro: "hai finito di importunare anche i ragazzini fuori dal mio negozio?" con tutta l'eleganza di una vecchia signora di mezza età che sgrida i nipoti quando fanno i capricci. Altre volte, arrivava quello che Akutagawa aveva imparato a riconoscere come il suo capo (Kunikida Doppo, il responsabile della loro agenzia investigativa), tutto impettito e solenne, gli occhiali rigorosamente aggiustati sul setto nasale, e lo prendeva per il colletto della camicia con l'intenzione di trascinarlo nel suo ufficio perché "sono stanco di occuparmi di tutte le tue pratiche perché sei un raccomandato e non hai voglia di fare il tuo lavoro, disgraziato!".

In ogni caso, la reazione di Dazai era sempre la stessa: faceva spallucce, un sorrisetto impertinente, e se ne andava nella direzione opposta, trotterellando allegramente verso il prossimo luogo dove avrebbe portato il suo caos.

Queste erano le giornate a cui Akutagawa aveva imparato ad abituarsi. Tutto sommato, procedevano senza troppi problemi e per un po' avrebbe potuto anche accontentarsi di quella bizzarra quotidianità.

A volte, però, le cose non vanno come avevi immaginato. Akutagawa lo sapeva bene.

Non sperava certo di trovare un milione di euro sotto una panchina e di fare la bella vita, quando aveva lasciato la casa dei suoi per non dover più dipendere da nessuno. Certo, non si aspettava neppure di perdere, nel giro di sei mesi, gran parte di ciò che aveva guadagnato fino a quel momento, lavoro compreso.

Le aspettative non coincidono sempre con la realtà e anche ciò che progetti con la massima cura, spesso non va a finire come speri. Ogni azione compiuta, più o meno consapevolmente, non farà che aggiungere pietre lungo il sentiero di un percorso alla cieca. E nessuno può davvero sapere dove conduce, questo sentiero: se ne può avere solo una vaga idea.

Da questo punto di vista, osservare Nakajima Atsushi lo irritava. Al suo posto, Akutagawa sarebbe stato licenziato dopo la prima settimana di lavoro, se non avesse imparato in fretta a svolgere i suoi compiti rapidamente e senza errori. Ma a Nakajima Atsushi tutto era concesso, seppure il suo superiore Chuuya non ne sembrasse per nulla felice (a giudicare dalla situazione, pareva che lui e Dazai stessero contribuendo a pari merito nel causargli una crisi di nervi dopo l'altra).

Akutagawa non sapeva nulla di lui, a parte quei tre punti frutto della sua deduzione e capacità di osservazione, e nonostante questo lo irritava da morire - soprattutto quando lo vedeva lasciare il bar, alla fine del suo turno di lavoro, con quell'espressione da cane bastonato di chi si sta autocommiserando e basta, piuttosto che prendere in mano la sua vita con risolutezza e farne qualcosa di buono.

Lui non era come Nakajima Atsushi. Era più forte. Non si era lasciato andare né quando non gli avevano rinnovato il contratto come commesso al supermercato, né quando la pizzeria per la quale lavorava come fattorino aveva fallito, non dandogli un centesimo per i mesi passati a consegnare pizze su una bicicletta sgonfia e piena di ruggine. Anche quando aveva passato giorno e notte in giro per la città, accettando qualsiasi mansione gli assicurasse quantomeno un pasto e i soldi dell'affitto (le bollette non riusciva più a pagarle da un po' e gli avevano tagliato l'acqua e la luce, nel suo appartamento) e si era trovato a consegnare volantini porta a porta, ad aiutare una famiglia a raccogliere i pomodori nell'orto e a fare la spesa al posto di qualche signore anziano.

Persino ora che suonare la vecchia chitarra di suo padre in piazza - e per fortuna che, oltre ai vestiti, almeno quella se l'era portata dietro, prima di andarsene di casa - era tutto ciò che gli restava da fare, Akutagawa non perdeva tempo a piangersi addosso per la sua miseria. Non sarebbe servito a niente. In un certo senso, si diceva, erano più costruttive le prese in giro di quel disgraziato di Dazai, piuttosto che le lacrime di coccodrillo sul viso di Nakajima Atsushi. Almeno, quelle potevano essergli utili. Piangersi addosso non lo sarebbe mai stato.




Per quanto lo infastidisse, però, non poteva fare a meno di catturare la sua attenzione. Persino in quel momento, sotto la luce fiacca di un lampione, chitarra in grembo e sguardo assorto, non riusciva proprio a non lanciare un'occhiata furtiva nella direzione di quel ragazzo che, con gli occhi lucidi, usciva dal bar accompagnato da Chuuya, appena dopo aver chiuso l'attività per quel giorno.

"Atsushi, guarda il lato positivo: almeno hai imparato come si accende la friggitrice," gli diceva Chuuya, dandogli una pacca un po' troppo forte che gli fece perdere l'equilibrio, "la prossima volta imparerai anche come si fa a non bruciare tutto."

"La fai facile," Atsushi tirò su con il naso, "sono troppo imbranato per fare il barista."

Chuuya gli mise un braccio intorno alle spalle. "Sì, sei un disastro tremendo e invece di aiutarmi mi fai lavorare tre volte tanto, era quasi meglio quando gestivo il bar da solo. Però," gli sorrise, ammiccando, "stai migliorando, piano piano. E non sei come quei principianti che si credono chissà chi, senza mai aver acceso un fornello nemmeno a casa loro. Prima o poi imparerai anche tu."

"Non ne sono molto convinto, Nakahara..."

"Chiamami Chuuya. E adesso, si va a festeggiare!"

Akutagawa proprio non lo riusciva a capire, quel cipiglio sconsolato che ancora era impresso sul viso di Nakajima Atsushi. Lui non aveva mai ricevuto l'aiuto sincero di qualcuno sul lavoro, figurarsi la proposta di andare a festeggiare cosa? Il fatto che non avesse dato fuoco al bar nel tentativo di friggere le patatine?

Anche i complimenti del datore erano fuori dal mondo, per uno come lui. Forse, solo la sua sorellina sarebbe stata abbastanza gentile da rivolgergli qualche parola dolce, ma non ne era sicuro: Gin era un po' come lui, sempre sulle sue, meno rigida e orgogliosa, ma ugualmente testarda. E da un po' di tempo le cose non andavano granché bene tra di loro. Mantenere rapporti a distanza non è mai facile, fin troppo spesso non riusciva a capirla.

Non riusciva nemmeno a comprendere come mai, tra tutte le cose che potesse fare in quel momento, Nakajima Atsushi scelse di alzare lo sguardo e incontrare il suo, inconsapevolmente ancora lì dove lo aveva lasciato, incollato alla sua figura. Non era niente di che e nel giro di un paio di secondi entrambi interruppero il contatto visivo, come due gatti spaventati, colti con le zampe nel sacco.




La sera, Akutagawa fece rientro nel suo appartamento e contò tutti i soldi che aveva, compresi gli spicci guadagnati in strada. Mancavano ancora un centinaio di euro per pagare l'affitto del mese. Forse, d'ora in avanti, avrebbe potuto fare a meno di mangiare anche quell'unica volta al giorno, quando il cibo non era indispensabile per la sua sopravvivenza, in modo da garantirsi almeno un tetto sopra la testa. L'inverno era vicino.




Spesso, Akutagawa si perdeva nei suoi pensieri. Capitava soprattutto mentre suonava quella canzone, sempre la stessa, con gli stessi accordi e la stessa melodia. Dazai aveva ragione, era davvero un disco rotto, ma Akutagawa non se la sentiva di ampliare il suo repertorio di spartiti. Primo, non era un vero musicista (tutto ciò che conosceva lo doveva a suo padre, che gli aveva insegnato qualcosa durante i primi anni della sua adolescenza, perciò non ne sapeva poi così tanto, di musica) e secondo, quella canzone gli piaceva. Tanto, anche.

Poco prima lo aveva detto a Gin. Le loro telefonate erano rare, ma mai quant'era raro che fosse lei a chiamare lui e non il contrario. Akutagawa non riusciva a capire.

Le aveva detto: "ho iniziato a suonare di nuovo. L'unica canzone che mi riesce è quella che canticchiavi da bambina, ricordi? La sera, sotto le coperte, al buio. E ti arrabbiavi se mi addormentavo prima che fosse finita."

Ma Gin era rimasta in silenzio, in un silenzio troppo pesante perché fosse naturale. Akutagawa non riusciva a capire, pur sforzandosi con tutto se stesso di sciogliere i nodi di quell'intricata situazione, ma più ci provava e più quei nodi se li sentiva in gola e doveva tossire per cercare di liberarsene, per tornare a respirare bene.

Forse fu per questo che non si accorse subito del sacchetto di carta posato sul marciapiedi, appena vicino al lampione che la sera lo faceva sembrare come un vero artista di strada, con tanto di riflettore improvvisato.

Impegnato a districare i nodi nella sua testa, mentre suonava distrattamente quella canzoncina, i suoi occhi vagarono sulla superficie di quel sacchetto. Poi, piano piano, quell'oggetto insolito prese possesso della sua mente. L'ipotesi assurda che potesse contenere del cibo quasi gli fece mancare l'accordo successivo, costringendolo a posare per un momento la chitarra (non poteva permettersi più di mangiare regolarmente - infatti, ora che ci pensava, non mangiava da un paio di giorni - figurarsi di sbagliare a suonare, che era l'unica attività che gli dava la speranza di riuscire a comprare un pezzo di pane).

Seduto sul marciapiedi, osservava quel sacchetto come un beduino nel deserto, ancora troppo cosciente per lasciarsi andare al miraggio di un'oasi vicina. Era diffidente. Se anche quel sacchetto avesse contenuto del cibo, come poteva accertarsi che non fosse stato avvelenato? Lo prese con cautela tra le dita screziate dal freddo, tastando con i polpastrelli la superficie porosa della carta, liscia in alcuni punti, accartocciata con cura in altri. Ed era tiepido sul fondo.

Lo annusò, come fanno i gatti con le scatolette, prima di fidarsi e mangiare. Sentendosi scemo, alla fine, decise di posarlo di nuovo lì dove lo aveva trovato e solo a quel punto si accorse del post-it che giaceva a terra, sull'asfalto, al posto che prima doveva aver occupato il sacchetto.

Sul post-it, c'era scritto: per il ragazzo che suona la chitarra.

Nessun nome, nessun segno di chi l'avesse lasciato lì.

"Non ti fidi?"

Akutagawa si voltò di scatto verso quella voce, come un gatto davanti ai fanali di un'automobile.

"Ho appena imparato come si fa il cappuccino, non penso di essere ancora in grado di avvelenarlo- e oggi le brioches sono particolarmente buone! Ah, ma quelle non le ho fatte io..."

In effetti, quegli occhi, che un attimo lo guardavano e l'attimo dopo gli sfuggivano, brillavano come i fanali di un'automobile, da così vicino. Akutagawa era rimasto abbagliato, impietrito, bloccato sul posto, come un gatto spaventato sul ciglio della strada.

"... quindi, se proprio non ti fidi, puoi prendere solo la brioche e lasciare il cappuccino. Anche io non mi fiderei di me stesso, a dirla tutta."

Nakajima Atsushi non stava fermo un attimo. Si spostava prima su un piede, poi sull'altro, e un attimo aveva le mani davanti, l'attimo successivo le univa dietro la schiena. Un leggero rossore gli colorava le guance, come se fosse imbarazzato, o mortificato, o se si stesse pentendo di ogni sua scelta fino a quel momento, o forse tutto insieme.

"Non voglio la tua compassione," furono le parole aspre che Akutagawa gli diede in risposta, senza pensarci tanto.

Non seppe cosa, di preciso, ma in quella situazione assurda c'era qualcosa che lo disturbava, che lo infastidiva profondamente, che lo faceva vergognare di se stesso e di essere lì, seduto sul marciapiedi, con quella chitarra logora accanto e una giacca che ormai non era altro che uno straccio, mentre Nakajima Atsushi se ne stava in piedi, impettito in tutto il suo imbarazzo, con le sopracciglia aggrottate a tradire il principio di un muso offeso.

"Non è compassione. Si chiama gentilezza," replicò, assumendo una posa più stabile di quella con cui si era presentato, "non ti vedo quasi mai mangiare, per tutte le otto ore del mio turno in negozio, e resti qui per molto più tempo di me. Lo so."

Lo so che lo sai, mi guardi almeno tanto quanto ti guardo io, avrebbe voluto rispondergli Akutagawa.

"Grazie, allora, ma non ho bisogno della tua gentilezza," disse invece, osservando un angolo qualsiasi della strada, "non sai nemmeno chi sono. Vai a lavorare, prima che Chuuya riprenda ad urlarti contro. È fastidioso, a volte la sua voce è più forte del suono della mia chitarra."

"Me li sono guadagnati i miei quindici minuti di pausa, sai? E mi dispiace se sono un disastro e sbaglio in continuazione e non sono affatto bravo come barista-" sospirò, frustrato, "ci sto provando, okay?"

"Oh, lo vedo."

Poteva essere sarcastico, poteva essere serio, poteva essere tutto e poteva essere nulla, quella banale affermazione. Akutagawa era solo sincero: ignorando per un attimo la sua tendenza all'autocommiserazione, vedeva davvero i miglioramenti del ragazzo, nonostante continuasse ad essere imbranato come pochi. Vedeva, in generale. Se lo avesse voluto, avrebbe potuto scrivere su un foglio l'intera routine settimanale di Nakajima Atsushi, fatta eccezione per il suo giorno libero e per i festivi, gli unici momenti in cui non aveva idea di dove fosse o di cosa stesse facendo. Probabilmente, anche lui avrebbe potuto fare lo stesso, con la differenza che la routine di Akutagawa era estremamente meno complicata.

Nakajima Atsushi elaborò lentamente la sua affermazione e quando l'ebbe registrata per bene, rimase in silenzio. Akutagawa sbirciò, curioso, nella sua direzione, e certamente non si aspettava quel timido sorriso sulle sue labbra.

"Come ti chiami?" gli chiese poi, di punto in bianco.

"Akutagawa Ryuunosuke."

"Akutagawa."

"Sì."

Akutagawa pensò che il ragazzo fosse un idiota, lì impalato, con quello stupido sorriso stampato in faccia che, dagli angoli delle labbra sottili, raggiungeva i suoi occhi limpidi.

"Io sono Atsushi e ti prego di accettare la mia gentilezza, Akutagawa. Per favore."

La colpa fu tutta del profumo di dolci e di caffè se, stordito, finì per accettare davvero.




"Sembrate due gatti randagi," li prendeva in giro Chuuya.

Akutagawa aveva imparato, con il tempo, ad abituarsi anche a quella nuova, strana forma di normalità. Atsushi non era l'idiota che pensava che fosse (aveva dovuto ricredersi perché, certo, era imbranato, sbadato, confusionario e con la testa sempre tra le nuvole ma, in realtà, il suo istinto - o forse una percezione particolarmente acuta, sviluppata nel corso della sua vita, ma non gli era dato saperlo - gli permetteva con precisione di capire quale fosse il momento adatto per parlare, cosa potesse chiedere, fin dove potesse spingersi, e questo andava contro ogni aspettativa iniziale). In qualche modo, giorno dopo giorno, la lista di cose che sapeva di lui era aumentata sensibilmente, pur trattandosi di sciocchezze come la sua età (aveva due anni in meno di Akutagawa) e il suo amore incondizionato per il riso.

Talvolta, durante la pausa pranzo, Atsushi si presentava con una ciotola più grande del solito e doveva combattere con le unghie e con i denti perché Akutagawa accettasse di dividerla. Dopo un po', però, Akutagawa aveva imparato ad abituarsi anche a questo, insieme a tutti i sacchetti che Atsushi gli faceva trovare al mattino, ogni tanto, sotto il lampione spento, con dentro una brioche e un cappuccino ancora tiepidi.

Alla fine, aveva deciso di smettere con quell'ostinata resistenza nei suoi confronti. Non che ci fosse qualcosa che potesse fare per impedire che ciò accadesse, comunque. Atsushi era testardo tanto quanto lui e quando si metteva in testa una cosa, nessuno riusciva a fargli cambiare idea.

Akutagawa, tuttavia, non gli aveva concesso di sapere molto altro sul suo conto. Sospettava che Atsushi fosse curioso, a giudicare da come lo guardava mentre suonava, convinto che Akutagawa fosse troppo concentrato per accorgersi del suo sguardo incollato addosso (ma Akutagawa lo sentiva pizzicare i suoi vestiti e quei ciuffi di capelli troppo lunghi che gli incorniciavano il viso, lo percepiva solleticare sulle sue dita - e rabbrividiva, quando si faceva più intensa l'impressione che quegli occhi gli scavassero sotto le maniche della giacca consumata, lungo le braccia, alla ricerca della storia scritta sulla sua pelle fredda).

Avevano firmato di comune accordo un tacito patto di reciproca distanza, come se questo potesse bastare ad entrambi per entrare in confidenza ma non troppo, ed era sancito dal posto in cui Atsushi si accovacciava portandosi le ginocchia al petto, un po' più in là: né troppo vicino, né troppo lontano, quel che bastava per cogliere i dettagli del profilo di Akutagawa mentre spostava le dita lungo i tasti della chitarra, ma senza invadere i suoi spazi. Il giusto compromesso per indagare su di lui con meno discrezione, ma senza costringerlo a parlare di cose che avrebbe preferito dimenticare.

In quell'angolo di strada, seduti sul marciapiedi, loro erano davvero due gatti randagi che imparavano a conoscersi.

(In realtà, quel tacito accordo venne violato quasi subito, un po' perché Atsushi riduceva la distanza che li separava ogni giorno un pochino di più - un paio di centimetri, le loro ginocchia che si sfioravano - e un po' perché Akutagawa, attratto dal suo calore come una falena dalla luce dei lampioni, non si sottraeva al fugace contatto della sua spalla con quella dell'altro.

A volte, appena appena, impercettibilmente si sporgeva al di fuori della sua zona sicura - come un gatto verso la mano di chi lo accarezza - ma tutto questo avveniva solo per sbaglio, secondo lui).




Akutagawa faceva rientro nel suo appartamento sempre intorno alle undici di sera.

La primavera e l'estate andavano bene per camminare (non gli era mai passata per la testa neppure l'idea di usare un mezzo di trasporto, privato o pubblico che fosse, in ogni caso non avrebbe potuto permetterselo e c'erano cose più indispensabili di cui aveva bisogno), ma quando il vento si faceva più capriccioso e la sua giacca logora non bastava più a ripararlo dal freddo, era difficile. Durante il giorno, tutto sommato, il calore del riscaldamento degli edifici e le persone in città rendevano la strada meno gelida e più sopportabile, ma il tragitto verso il suo appartamento non godeva dello stesso privilegio e quando arrivava a destinazione aveva sempre i piedi congelati e le dita piene di tagli.

Quella sera, Akutagawa aveva il cellulare scarico e non poteva chiamare Gin per distrarsi, mentre camminava. Non poteva neanche sperare in una sua telefonata, perché tanto non l'avrebbe ricevuta e non avrebbe potuto risponderle. Si domandava se qualcuno, tra i suoi vicini, sarebbe stato ancora disposto a permettergli di ricaricare la batteria a casa loro. Non ne era più così sicuro. Non era più sicuro di molte cose, a dirla tutta.

Quando arrivò davanti al suo appartamento, con le chiavi già fuori dalla tasca e tutta l'intenzione di fregare l'inverno e lasciarlo fuori dalla porta, Akutagawa si rese conto per la prima volta che, forse, per tutto quel tempo, aveva dato per scontati troppi elementi appartenenti al quadro della sua bizzarra quotidianità.

La serratura era stata cambiata e sul pianerottolo c'era una busta con quel che rimaneva delle sue cose (poco, in realtà, perché di recente aveva venduto quasi tutto, pur di aggiungere un paio di spicci ai miseri ricavi ottenuti dalle sue performance come musicista improvvisato). Appiccicato sopra con il nastro adesivo, se ne stava un foglio di carta a righe, strappato da qualche quaderno con poca cura. Akutagawa lo prese e ne lesse il contenuto lo stesso, anche se lo aveva già capito.


A me non interessa se hai vent'anni e sei scappato di casa e ambisci a chissà quali sogni assurdi nella tua vita, io non sono tuo padre, tu non sei mio figlio, e l'affitto dell'appartamento me lo devi pagare.

La quota di questo mese non basta, dove pensi che li vada a prendere i soldi che mi devi per tutti i trascorsi, in cui hai vissuto qui praticamente gratis?

Tornatene a casa tua, ragazzino, e riprova a recitare la parte dell'uomo autosufficiente quando ne avrai le capacità.

Qui non c'è più posto per te.


Ben presto avrebbe capito che, di cose che non avrebbe fatto per nessuna ragione al mondo, ce n'erano poche. In quel momento, però, Akutagawa se ne andava a passo lento lungo una strada che non sapeva dove lo avrebbe portato, aveva la sacca con le sue cose in spalla, faceva un freddo tremendo e tutto ciò a cui riusciva a pensare era: non pregherò mai nessuno, per nessuna ragione al mondo. Non mi metterò mai in ginocchio davanti a nessuno, per nessuna ragione al mondo.

Resterò a testa alta, in piedi sulle mie gambe, e andrò avanti.


Sarò forte. Sarò forte. Sarò forte.

La verità era diversa, però. Per quanto cercasse di togliersela di dosso, di grattarla via dalla sua pelle, di tossirla fuori dal suo corpo, quella non se ne andava. Impassibile, imperturbabile, la verità aveva messo radici nel suo petto, nei suoi polmoni, nella sua gola. Prese possesso della sua voce, quando spese tutti i soldi che gli restavano in tasca nella cabina telefonica - conosceva a memoria il numero di Gin - e Akutagawa, così, la scoprì terribilmente amara mentre gli riempiva la bocca e lo soffocava.

Non poteva più tornare indietro.

Tra quelle quattro pareti di vetro, Akutagawa si lasciò asfissiare, ma soltanto per quella notte. Soltanto a quella notte avrebbe concesso di vedere quant'era caduto in basso, su un paio di ginocchia che non lo reggevano più - e che la verità era che era debole e non riusciva a rialzarsi un'altra volta.

Avrebbe potuto maledire la luna e le stelle per la disgrazia che era diventato, ma nulla gli avrebbe lavato la coscienza della colpa di essere il solo ed unico artefice della trama della sua vita. Avrebbe potuto maledire se stesso, per tutte quelle cose che non riusciva a cambiare, per tutte quelle scelte che aveva compiuto pensando che fossero giuste, ma non avrebbe avuto senso - autocommiserarsi lo avrebbe reso solo più patetico, stretto in gomitolo di braccia e di gambe, seduto a terra con la schiena premuta sul vetro della cabina, come un gatto che si è perso e non trova più la via di casa.

In un momento come quello, Akutagawa si sentì un idiota perché gli venne in mente il sapore del cappuccino che Atsushi preparava per lui, quasi ogni giorno, da qualche settimana, o forse qualche mese. Non ci aveva mai prestato troppa attenzione, ma improvvisamente sentì il bisogno di chiedersi come mai fosse sempre così dolce. Non glielo aveva mai detto, ma gli piaceva, quel cappuccino dolce tanto quanto un cucchiaino di miele. Avrebbe dato via anche quel poco che gli rimaneva pur di berne un altro, seduto in quell'angolo di strada, con Atsushi accanto e quei suoi occhi che non la smettevano mai di curiosare  da qualche parte tra le sue mani e il suo viso.

Ma non sarebbe più tornato lì.

La cornetta del telefono ondeggiava a destra, a sinistra, e poi ancora, di nuovo a destra, a sinistra, a ricordargli che il tempo avrebbe continuato a scorrere.





Un mese dopo.


"Mamma, voglio sedermi, sono stanco di camminare!"

"Va bene, tesoro, ma... non lì, aspetta, andiamo in un altro posto."

"Secondo me si droga."

"Forse è solo malato e non ha un posto dove stare..."

"È un problema suo. Stiamogli lontani, non si sa mai."

"Guarda quello lì. Mi dispiace per lui."

"Oh, poverino..."


Aveva venduto tutto ciò che possedeva. Le cose, tutt'a un tratto, gli erano sembrate soltanto uno scomodo fardello che doveva trascinarsi sulle spalle, e meno roba aveva addosso, meglio era. Non gli servivano più, comunque. Tutto ciò che gli rimaneva erano i vestiti che indossava, la giacca logora e sporca che non lo riparava più dal vento e dalla pioggia, un cellulare scarico e senza credito, una foto conservata con cura nella tasca dei pantaloni.

Aveva venduto anche la vecchia chitarra di suo padre. I quattro soldi che ne aveva ricavato bastarono per tenerlo in piedi solo due settimane e adesso - fermo immobile nell'ostinata convinzione che mai, per nessuna ragione al mondo, si sarebbe messo in ginocchio a chiedere l'elemosina - non gli restava neppure un centesimo.

Il modo in cui le persone lo guardavano - dall'alto al basso, giudicandolo, pensando che bastasse solo uno sguardo per capire chi fosse e quale fosse la sua storia - gli dava la nausea. Non aveva alcuna importanza dove andasse, che fosse in un parco o sotto un ponte, quegli sguardi lo seguivano fino in fondo ad ogni buco in cui cercava rifugio, lo stanavano e gli graffiavano la pelle fino alle ossa, come il freddo, come la pioggia quando batteva e se la sentiva entrare dentro. Lui aveva male allo stomaco, aveva male alla gola, aveva male alla testa, le gambe deboli lo avevano costretto a sedersi su una panchina qualsiasi nella periferia del centro città e tutti quegli occhi indiscreti puntati addosso, tutta quella compassione che non aveva mai chiesto - tutto gli faceva ribollire il sangue nelle tempie. Avrebbe voluto urlare al mondo: state tutti zitti!, ma in realtà era già troppo oneroso tenere gli occhi aperti e non cedere al sonno (aveva paura: se avesse chiuso gli occhi, sarebbe riuscito ad aprirli ancora?), perciò stringeva i denti e ignorava quel mondo che non si sarebbe curato di un gatto randagio come lui.

"Akutagawa?"

Non sentiva chiamare il suo nome da un po', tanto che non reagì subito. Poteva essere di chiunque quella voce, poteva appartenere a chiunque quel nome. Quando si guardava le dita delle mani, rigide e rovinate, a volte non le riconosceva come proprie.

"Akutagawa!"

A quel punto, sollevò il capo e incontrò un paio di occhi diversi da quelli della folla che gli passava accanto senza fermarsi. Quel paio di occhi erano fissi su di lui, mentre la gente continuava a fluire tutt'intorno.

"Sei davvero tu. Pensavo che non ti avrei più incontrato da nessuna parte, e invece... quant'è piccolo il mondo."

Akutagawa si strinse nelle spalle. Era rimasto fedele ai suoi pensieri, quella notte ormai distante, e non era più tornato a sedersi su quel marciapiedi. Aveva preferito sparire, piuttosto che farsi vedere in quello stato da Dazai, Chuuya, Kunikida - dalle persone che tacitamente avevano accettato la sua presenza, ma prima - ora avrebbe preferito morire, piuttosto che farsi vedere così debole da Atsushi.

"Come mai non sei più venuto a suonare davanti al bar? Chuuya dice che quell'angolo di strada sembra ancora più desolato, da quando non ci sei più tu a suonare la tua canzone. Ci stavamo chiedendo tutti dove fossi andato... non mi aspettavo di trovarti qui- è... è successo qualcosa?"

Vattene, avrebbe voluto ringhiare Akutagawa, non c'è niente da dire, non c'è niente da vedere. Quando schiuse le labbra, però, ne uscì solo una serie di colpi di tosse, tanto profondi e gutturali da scuotergli le membra.

"Stai bene?"

Vattene, lasciami stare, non voglio parlare, non voglio dire niente, non guardarmi con quegli occhi--

"Akutagawa, da quanto tempo sei solo e stai così male? Vieni con me, lascia che ti aiuti."

"No."

La voce di Akutagawa era roca, bassa, secca. Atsushi rimase senza parole, colto alla sprovvista.

"Andiamo," gli disse sorridendo, prendendogli il braccio, "non ti fidi?"

Akutagawa saltò su con un'irruenza che non credeva nemmeno di possedere, come un gatto che aveva rizzato il pelo.

"Non toccarmi."

"Akutagawa, per favore-" Atsushi lo guardava con preoccupazione, con comprensione, "per favore, non puoi andare avanti così."

Il sangue che gli ribolliva nelle tempie esplose, dirompente, bruciando anche quel poco di autocontrollo che aveva sempre cercato di mantenere su se stesso.

"Stai zitto!" Si scrollò di dosso le sue mani, dandogli una spinta. "Nessuno vorrebbe l'aiuto di una persona debole come te, di un ragazzino che non fa altro che lamentarsi in continuazione di tutte le cose che non sa fare, senza rendersi conto di quanto è fortunato ad avere qualcosa che può fare." Tossì. "Vattene, lasciami stare. Tu non sai niente di me. Io non sono come te."

Quello era un punto di non ritorno. Lo lesse nell'espressione perplessa di Atsushi, che presto si trasformò in una ferita aperta, e poi si trasfigurò in una rabbia che cozzava con la sua, in un testa a testa dal quale nessuno dei due sarebbe uscito vincitore.

"E tu non sai niente di me. Sarò anche debole, ma almeno non sono un ingrato che ferisce chi cerca di dargli una mano."

"Non ho mai chiesto a nessuno di aiutarmi."

"Akutagawa--"

Ma Akutagawa si era già voltato dall'altra parte, la giacca sporca e logora scossa dal vento, e a passo svelto se ne stava andando. Lontano da Atsushi, lontano dai suoi occhi, lontano da quella sua faccia triste e preoccupata - come se lo conoscesse, come se sapesse cosa aveva passato fino a quel momento, quali pensieri gli attraversassero la mente - quand'era stata l’ultima volta che aveva mangiato come si deve, che aveva dormito senza sentirsi divorato dal freddo, senza che gli mancasse il fiato nei polmoni, e cosa poteva saperne uno come lui? Uno come lui aveva tutto, tutto quello che Akutagawa poteva solo guardare da lontano, mentre suonava la sua stupida chitarra scordata sul ciglio di un marciapiedi.

Non molto tempo dopo, quando l'adrenalina era scemata e un peso infinito gli era crollato addosso, Akutagawa era caduto per terra, sull'asfalto, senza fare rumore. C'era qualcosa che gli stringeva il petto, all'altezza dello stomaco, ma non aveva la forza di pensare a cosa fosse (probabilmente la fame, o la tosse, o forse quella vergogna e quel senso di colpa che ignorava, fingendo la loro inesistenza come un pazzo davanti alla sua malattia).

Si domandò se quell'idiota di Atsushi avesse continuato a guardare la sua schiena, come un gatto abbandonato in una cesta, anche mentre lui se ne andava senza più rivolgergli uno sguardo. Poi, Akutagawa lasciò che il nero della notte si mangiasse vive le sue quattr'ossa, senza preoccuparsi se domani avrebbe ancora aperto gli occhi.




Ci volle un po', per riabituarsi alla luce del sole.

Akutagawa si sentiva stordito. Aveva tutti i capelli sul viso, una guancia premuta sull'asfalto e il resto del corpo a seguirla. Buttato lì, come un sacco della spazzatura, il suo primo pensiero andò a Gin. Chissà con quali occhi lo avrebbe guardato, lei, se lo avesse trovato in quelle condizioni. Chissà cosa ci avrebbe visto nel suo sguardo. Akutagawa non voleva immaginarlo (non voleva che il ricordo dell'ultima volta che l'aveva vista si sporcasse di assurde fantasie - non voleva che diventasse soltanto una memoria distorta, quell'ultima volta in cui l'aveva stretta tra le sue braccia) e per non pensarci più, cercò di rialzarsi.

Quando si sollevò sulle ginocchia, la sua testa prese a vorticare come se fosse nel bel mezzo di un audace giro sulle montagne russe, tanto che dovette subito reggersi al muro, stremato e nauseato. Con la schiena e il capo abbandonati contro la parete, Akutagawa respirò profondamente, un brivido che gli correva lungo la spina dorsale. Poi, con cautela, aprì di nuovo gli occhi. Si trovava in un vicolo della città, uno qualsiasi, senza nessun particolare degno di nota. Davanti a lui c'era un'altra parete, identica a quella che lo sosteneva, e poco più in là c'erano un paio di cassonetti e con loro il vicolo finiva, cieco.

Portandosi le ginocchia al petto, Akutagawa si chiese se qualcuno potesse averlo scambiato davvero per un sacco della spazzatura gettato a terra.

"Ti sei svegliato?"

Akutagawa reagì come i gatti quando vengono spaventati a morte: impietrito sul posto, gli occhi sgranati nella direzione di un uomo che mai si sarebbe sognato di trovare lì, con la schiena appoggiata allo stesso muro, un pesante cappotto nero sulle spalle, le braccia incrociate e lo sguardo perso in un punto indefinito tra il tetto di un palazzo e il cielo del mattino.

"Dazai?" La sua voce era talmente bassa e roca che appena si sentiva, anche se c'era silenzio. Provò a tossire per schiarirla, ma la tosse era diventata fuoco nella sua gola e nei suoi polmoni, bruciava troppo. "Che cosa ci fai qui?"

Dazai fece spallucce, come al solito. "Passavo per caso."

Akutagawa lo guardava dal basso, con le ginocchia strette e il mento appena poco più sopra. Gli occhi dell'uomo erano sempre fissi altrove, in un luogo troppo distante perché riuscisse a cogliere i dettagli del mondo circostante. Eppure, Akutagawa aveva l'impressione che Dazai vedesse tutto lo stesso.

"Sai, ieri Atsushi è tornato al bar ed è scoppiato a piangere. Chuuya ci ha messo un secolo per farlo smettere."

Non è una novità.

"Ha detto che ti ha incontrato per caso, mentre era in pausa."

Chissà cosa vi ha raccontato. Non mi interessa. Vi avrà detto che sono una persona orribile, che l'ho trattato male e che non ne vuole più sapere niente di uno come me.

"Akutagawa."

Se fosse successo qualche tempo prima, quell'espressione seria sul viso di Dazai sarebbe stata un ossimoro, un tragico errore nell'interpretazione del personaggio svincolato da ogni regola e buon senso, adito soltanto all'ozio e al seminare caos nella serenità altrui - ma adesso Akutagawa non era più avvezzo a quel genere di bizzarra, tranquilla normalità. Perciò, quando Dazai aveva richiamato la sua attenzione, si era limitato ad incontrare quel suo sguardo, senza dire nulla.

"Atsushi è solo un ragazzino che non sa starsene con le mani in mano, quando vede qualcuno soffrire. Kunikida ha cercato di spiegargli che non tutte le persone possono essere salvate, che per quanto si voglia disperatamente tendere la mano a qualcuno, non sempre la stretta viene ricambiata - e noi dell'agenzia lo sappiamo bene, che non tutti i casi possono essere risolti, che non tutti i nodi si sciolgono come vorremmo. Ad Atsushi, però, di tutto questo non interessa niente: non gli interessano né il tuo passato, né il tuo presente. Tutto ciò che lo spinge a cercarti è la speranza che nutre per il tuo futuro. Lui vuole vederti vivere, Akutagawa - vivere, non morire come un gatto randagio sul ciglio della strada."

Dazai si sedette accanto a lui, sull'asfalto, con la schiena appoggiata allo stesso muro.

"Mi ricordate di me e di Chuuya, di com'eravamo tanti anni fa. Non dirlo in giro, ma era ancora più basso di com'è adesso," appena un accenno di risata, dolce e un po' amara, "quel piccoletto... con lui è stata una continua lotta per la supremazia, non accettava in alcun modo di essere in svantaggio - attaccava con le unghie e con i denti pur di sentirsi superiore a me e io mi divertivo terribilmente a provocare quel suo lato permaloso e altezzoso. Certe cose non sono mai davvero cambiate tra di noi ma, con il tempo, lui ha imparato a fidarsi di me ed io a contare su di lui, senza alcuna riserva. Se entrambi non ci fossimo presi le mani, durante quei giorni, forse oggi Chuuya non sarebbe il barista spigliato, diretto e festaiolo che hai conosciuto, e forse io non sarei qui."

Dazai sospirò, tornando a guardare il cielo. Akutagawa non riusciva ad immaginare quali memorie stesse rievocando, troppo distanti dalla realtà presente, dagli stralci della quotidianità di cui era stato spettatore. Anche adesso, testimone di quella confessione che diceva tante cose e non ne diceva nessuna, Akutagawa si chiese se, forse, il vento tra i capelli di Dazai non fosse in grado di sfiorare quei pensieri che, incisi da qualche parte nella sua testa, non avrebbero visto la luce del sole.

"A volte, vorrei che le cose fossero diverse. Vorrei trovare la forza di fare quel passo che serve per cambiare il corso degli eventi, per invertire questa ruota che gira e non si ferma, ma se dovessi sbagliare- a quel punto, se dovessi sbagliare, combinerei un casino ben peggiore di tutti quelli che ho fatto fino ad ora."

Il freddo costrinse Akutagawa a tossire di nuovo. Nel silenzio di quel vicolo abbandonato dal mondo, un morbido fruscio di stoffa si unì agli spifferi crudeli del vento, e così Dazai si tolse il suo pesante cappotto nero per metterglielo sulle spalle.

"Ecco, ora va meglio." Sorrise, soddisfatto, come se avesse appena creato un'opera d'arte, da cima a fondo, tutto da solo (e invece aveva solo gettato una giacca spessa sulle spalle di un ragazzino magro e ricurvo su se stesso, non era niente). Subito dopo starnutì rumorosamente, lamentandosi di come avesse fatto Akutagawa a sopravvivere in quel clima ostile, con solo un pezzo di stoffa consumato a proteggerlo dalle intemperie. Akutagawa non seppe cosa rispondergli, perciò continuò semplicemente a guardarlo, come faceva dall'inizio.

"Akutagawa, tu sei forte. Non hai bisogno che te lo dica io."

Il cappotto di Dazai era ancora caldo e profumava di colonia e di sigarette.

"La vera forza, però, non sta nel dimostrare a qualcuno che siamo bravi da soli, che non abbiamo bisogno di nessuno per andare avanti. Ci vuole molto, molto più coraggio, per ammettere a se stessi di essere bloccati in un vicolo cieco - e ne serve altrettanto per imparare a fidarsi delle persone che ci tengono a noi, per afferrare quella mano che vorrebbe sostenere il nostro peso per un po', per aiutarci a camminare ancora sulle nostre gambe."

Quando Dazai se ne andò, lasciandolo di nuovo solo, lì dove lo aveva trovato (non prima di tirare rumorosamente su con il naso, saltellare a destra e a sinistra, sfregandosi le braccia con le mani, lamentandosi assiduamente per il freddo come un bambino petulante), Akutagawa non si era spostato di un millimetro. Non si era nemmeno infilato per bene il cappotto: ce l'aveva ancora sulle spalle, sistemato alla buona. Non osava toccarlo, non osava spostarsi, perché chissà cosa sarebbe successo, se lo avesse fatto. Avrebbe potuto accorgersi che in realtà non c'era niente sulle sue spalle; avrebbe potuto svegliarsi, ancora gettato sull'asfalto come un sacco della spazzatura, e a quel punto avrebbe dovuto fare i conti con quel delirio onirico frutto delle fantasie di un ragazzino stremato dalla fame e dal freddo.

Akutagawa si infilò una mano nella tasca dei pantaloni, quel poco che bastò per toccare la sua foto, per assicurarsi che fosse ancora lì. Come tutte le cose che aveva posseduto, temeva che presto avrebbe dovuto lasciarla andare; come tutte le cose che aveva lasciato andare, aveva paura che anche quel cappotto nero non sarebbe rimasto per molto, sulle sue spalle; come con tutte le cose di cui aveva paura, quando gli occhi limpidi di Atsushi si affacciarono alle porte del suo inconscio, macchiati del gelo lasciato dalle lesioni che lui stesso gli aveva inferto, Akutagawa rimase in silenzio a contemplarli.




Qualche giorno dopo, al calar della sera, Akutagawa aveva le mani infilate nelle tasche del cappotto nero, un passo deciso ma pur sempre misurato, in testa tutta l'intenzione di tornare a sedersi in quell'angolo di strada che aveva marchiato come territorio di sua proprietà.

Simile ad un gatto che decide di tornare indietro sui propri passi, per chissà quale ragione sconosciuta agli esseri umani, Akutagawa avrebbe reclamato quel luogo, il marciapiedi, il lampione e le vetrate del bar lì di fronte - e avrebbe atteso la fine del turno di lavoro di Nakajima Atsushi, per rivedere i suoi occhi.

Gli sarebbe bastato quello. Non si aspettava di vedere Atsushi incespicare sul tappetino con la scritta "welcome", dopo aver notato la sua presenza, e non si aspettava di vederlo affrettare il suo passo per raggiungerlo più velocemente, sedersi accanto a lui e parlare del più e del meno, come se non esistesse alcun problema al mondo, come se non fosse successo nulla.

No, Akutagawa non era un sognatore, non si sarebbe lasciato andare alle illusioni: sarebbe rimasto con i piedi per terra, accettando quel che sarebbe accaduto, e solo dopo avrebbe agito di conseguenza - perché era uno scettico e un disilluso, ma non un inerte e un passivo, un rassegnato.
Faceva un po' più freddo del solito. Forse avrebbe nevicato, quella sera. Lo pensò nel momento in cui raggiunse quell'angolo di strada, e improvvisamente seduto lì si era sentito terribilmente scomodo.

"Ma guarda, è tornato il barbone!"

"Poveraccio, dai, lascialo stare. Non ha nemmeno più la chitarra."

Akutagawa era abituato ai commenti indiscreti e infelici delle persone che gli passavano accanto. La maggior parte delle volte nemmeno ci faceva caso, perché non avevano senso. Loro non sapevano niente di lui, lui non sapeva niente di loro, e la vita sarebbe andata avanti lo stesso, ad ogni modo.

"Meglio così, era una tortura per le orecchie, quella canzoncina che strimpellava."

Ma quella tortura che strimpellava giorno e notte era la melodia che lo aveva accompagnato per tutto quel tempo, era il suono che, come un fragile nastro di raso, lo teneva legato a ciò che aveva lasciato indietro, ricordandogli che, prima o poi, sarebbe tornato a riprendersi ciò che era suo e che nessuno al mondo mai gli avrebbe portato via. Loro non sapevano niente di lui.

"L'avrà venduta per comprarsi quello straccio che ha addosso."

"Che ne sai? Potrebbe averlo rubato."

Akutagawa sentì il peso del cappotto nero sulle sue spalle, della stoffa spessa che finalmente riusciva a proteggerlo dal freddo e dalle intemperie. Si chiese se Dazai, quando gliel'aveva messo addosso, si fosse sentito derubato di qualcosa che gli apparteneva. Si chiese se Dazai, in quel vicolo sporco, avesse pensato: sto dando una possibilità ad un ragazzino debole e incapace.

Ma Dazai gli aveva detto: tu sei forte. Se lo ricordava, Akutagawa, quel suo sguardo così diverso dal solito, così estraneo all'immagine che aveva di lui, mentre tra le righe tentava di sciogliere i nodi che anch'egli si portava dentro.

Akutagawa era caduto sul fondo di un pozzo e faticava a rialzarsi sulle sue gambe, ma quel bagliore di luce lontana lo avrebbe tenuto legato stretto alla realtà. Strinse i pugni nelle tasche del cappotto, serrò la mascella, le sue spalle si irrigidirono. Non sarebbe mai, per nessuna ragione al mondo, caduto ancora più in basso di così. Loro non sapevano niente di lui.

"Non penso abbia la forza di derubare qualcuno..."

"Hai ragione, magro com'è, non sarebbe in grado neanche di scippare una vecchietta."

"Magari c'è qualcosa che sa fare, a parte pena."

"Secondo me no."

Qui non c'è più posto per te, c'era scritto nel foglio di carta che gli aveva lasciato il proprietario dell'appartamento. Senza voler sentire ragioni, senza nemmeno dare ad Akutagawa la possibilità di replicare, evidente dalla decisione di non presentarsi per parlarne faccia a faccia con lui. Forse non voleva neppure vederlo più, forse lo irritava quel suo viso sempre uguale, come se nulla al mondo fosse in grado di turbare la superficie statica della sua epidermide; forse non avrebbe retto il suo sguardo, quei suoi occhi cerchiati di notti insonni e giornate di stenti, e non avrebbe voluto sentirsi chiedere ancora tempo che non sarebbe bastato. Akutagawa non ci aveva mai pensato. Si era soltanto soffermato su quelle poche parole, scritte in fretta e freneticamente, ricordando il sapore amaro della sensazione di non appartenere più a nessun luogo. 

Digrignò i denti. Quello era un sapore che conosceva bene: era il motivo per cui si era spinto a tanto, pur di arrangiarsi da solo, lontano da una famiglia che non lo faceva più sentire a casa. Loro non sapevano niente di lui.

"Secondo me non sopravvivrà a lungo, in strada. È già tanto se non è ancora morto. Guarda com'è ridotto male."

Gin lo aveva trattenuto per la manica della giacca, prima che se ne andasse di casa. La sua era una stretta lieve, ma decisa; le sue dita sottili mantennero salda la presa su quel lembo di stoffa, come se avesse voluto dirgli: non te ne andare, resta qui; non lasciarmi sola. Ma Akutagawa se n'era andato lo stesso, convinto che ce l'avrebbe fatta, che sarebbe tornato da lei e le avrebbe dato tutto ciò che non avevano più. Era una promessa che avrebbe mantenuto a tutti i costi.

Loro non sapevano niente di lui.

"Che te ne importa? È ancora un bambino, sarà scappato di casa per capriccio e quando suo padre lo troverà, se lo riporterà dietro a calci."

Il sangue gli ribolliva nelle vene, risaliva tutto il corpo e formicolava nelle sue tempie; la testa prese a girargli, vorticosamente, pericolosamente. Voi non sapete niente di me.

"Per me è solo uno sfigato che non è riuscito a concludere niente nella vita e adesso nessuno lo vuole più."

Voi non sapete niente di me.

"Chi lo vorrebbe uno debole come lui?"

"Voi non sapete niente di me!"

Urlò, con tutto il fiato che aveva nei polmoni. La voce gli uscì tremendamente ruvida e lugubre, come un cane che ringhia agli estranei, da dietro le sbarre di un cancello. Però, se Akutagawa fosse stato un cane, nessun recinto avrebbe protetto i passanti lungo la strada: lui sarebbe stato un randagio senza catene e senza guinzaglio, un selvaggio, con i canini affilati e gli occhi vitrei, iniettati di sangue.

"Oh, ragazzino, ti sei offeso? O è la verità che ti ha fatto sentire scomodo nei tuoi panni sporchi?"

Una sola parola in più, un solo movimento azzardato, e il cane randagio sarebbe esploso in un impeto di rabbia convulsa, distruggendo tutto ciò che c'era intorno, mordendo e graffiando senza pietà alcuna, ferendo e ferendosi senza timore, né per gli altri, né per se stesso.

"State zitti."

Akutagawa si era alzato in piedi, lentamente si stava avvicinando a quel gruppo di ragazzi che non avevano assolutamente idea di quanto potesse essere pericoloso, provocare una bestia come lui.

"Hey, hey, hey," uno di loro gli diede una spinta, facendolo arretrare di un paio di passi, "nessuno ti ha insegnato che tutti abbiamo il diritto alla parola?"

"State zitti!"

Akutagawa balzò in avanti. Il sangue era fluito, instabile, nella sua fronte e nelle sue mani, annebbiandogli la vista e lasciando che scaturisse una frenesia animale, l'istinto di supremazia, di sopravvivenza. La pressione di quel sangue era alta, molto alta. Il mondo smise di esistere, per un attimo, e tutto ciò che Akutagawa vedeva era nero, tutto ciò che sentiva erano le pulsazioni convulse del suo cuore, stretto nel petto ed esangue, freddo, mentre le mani diventavano bollenti e quel sangue rompeva le barriere della carne, sporcandogli le nocche. Che fosse suo o di qualcun'altro, non gli importava.

"Come ti permetti di alzare le mani su di noi? Sei solo un bastardo senza dignità!"

Akutagawa era stanco. Stanco di quel mondo che lo aveva messo in ginocchio e non se ne curava affatto; stanco di quel mondo che lo aveva visto cadere in ginocchio e non lo avrebbe aiutato a rialzarsi; stanco di essere a carponi sull'asfalto e di strisciare come un verme, pur di non cedere a quella debolezza intrinseca agli esseri umani, la stessa natura che lui avrebbe rinnegato fino ai suoi ultimi giorni. Piuttosto avrebbe continuato a strisciare nella polvere e nel fango, a ringhiare in faccia a chi si prendeva gioco di lui, ma non avrebbe chinato il capo; non se ne sarebbe andato con la coda tra le gambe e le orecchie basse, come un cane rimproverato dal suo padrone, lui che un padrone non l'avrebbe mai neppure accettato. Avrebbe tenuto la testa alta, orgoglioso e testardo com'era, a prescindere da quanto gli sarebbe costato caro.

"È inutile che ci provi: non hai speranze, sfigato."

Uno di quei ragazzi lo strattonava da dietro. Akutagawa si divincolava, come una bestia messa con le spalle al muro, e ad un certo punto sentì il fiato mancare, la gabbia toracica implodere e stringersi come una morsa alla bocca del suo stomaco. Il pugno che aveva ricevuto lo fece tossire, violentemente, mentre la lucidità dei suoi pensieri veniva a meno e il nero si impossessava ulteriormente del suo campo visivo.

"Akutagawa!"

Nella confusione, la voce che lo chiamava era limpida; limpida come quegli occhi che lo guardavano, da lontano, spalancati e spaventati, come un gatto che non sa quando è il momento adatto per attraversare la strada, ma alla fine si butta lo stesso.

"Nakajima..."

Tra tutti gli epiloghi che aveva immaginato, Akutagawa non si sarebbe mai sognato di sollevare appena le palpebre, sofferente, e vedere Atsushi correre nella sua direzione, senza preoccuparsi né del tappetino con la scritta "welcome", né quantomeno di chiudersi la porta del bar alle spalle. Non aveva nemmeno idea di cosa dirgli, adesso che se l'era ritrovato davanti, che aveva tirato un pugno in faccia al ragazzo che lo stava picchiando (occhio per occhio, dente per dente).

E non sentiva il bisogno di parlare, in quel momento. Un po' perché non ce la faceva, con quel male diffuso dalla bocca dello stomaco all'esofago, e un po' perché quegli occhi che lo guardavano, da così vicino, anche mentre si divincolava dalla presa dell'altro ragazzo, anche quando faticava perché l'avevano spinto a terra - quegli occhi che lo cercavano, che volevano assicurarsi che lui fosse lucido, che lui fosse presente, che fosse lì e che non se ne andasse - quello sguardo che Akutagawa ricambiava ogni volta, senza esitare, non necessitava di alcuna parola in più.

"Nakajima!"

Se entrambi non ci fossimo presi le mani, durante quei giorni, forse io non sarei qui, gli aveva confessato Dazai, in quel vicolo dimenticato dal mondo. Quelle parole riecheggiavano nella sua mente come un sussurro distante, rimbalzando di qua e di là nelle pareti della sua memoria - e forse il pugno che aveva ricevuto era stato un po' troppo forte, ma ne era valso la pena: aveva sbattuto il ragazzo che strattonava Atsushi al muro, anche se l'altro, poi, aveva buttato lui stesso a terra.

"Akutagawa!"

Invece di prendersi le mani, loro le mani le stavano usando. Combattevano l'uno accanto all'altro, lottavano senza perdersi di vista per un secondo, senza mai cedere; e chiamavano i loro nomi, li urlavano a pieni polmoni, come a dirsi: io ci sono, io sono qui; puoi contare su di me, perché non ti lascio solo.


 

 

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***





"Ah, merda- non riesco più a muovere un muscolo..."

Alla fine, Atsushi lo aveva tirato su di peso e avevano iniziato a correre lontano, insieme, perché non ce la facevano più a lottare. Quei ragazzi erano più grandi di loro, in numero maggiore, meglio piazzati e sicuramente più in forze - almeno, se paragonati ad Akutagawa, che adesso non solo non riusciva più a muovere un muscolo, ma i muscoli proprio non se li sentiva. Non riusciva a percepire neanche il resto del suo corpo, come se fosse stato separato con la forza dalla sua coscienza.

Il respiro pesante, gli arti abbandonati lungo il busto, Akutagawa rimaneva in silenzio a contemplare il vicolo in cui si erano nascosti, stremati dalla fuga, esausti dalla battaglia, e avevano deposto le armi, cedendo alla stanchezza. Erano entrambi seduti per terra, sull'asfalto. Atsushi lo teneva ancora vicino a se, con un braccio sulla sua spalla; era molle e debole, la sua presa, ma pur sempre lì, salda. 

"Vieni con me, se non curi le tue ferite si infetteranno. Questa volta non accetto un no come risposta."

Akutagawa sbirciò nella sua direzione. Atsushi aveva un sopracciglio rotto e un rivolo di sangue lungo il mento, tutti i vestiti sgualciti e rovinati, eppure quei suoi occhi erano ancora limpidi, mentre ricambiavano il suo sguardo e gli dedicavano un sorriso un po' sbilenco.
Non sapendo cos'altro rispondergli, si limitò ad annuire, senza neppure sforzarsi di rendere evidente quel gesto. Era troppo stanco per opporre qualsiasi tipo di resistenza.

Lungo la strada, con Atsushi che si ostinava a voler essere il supporto delle sue membra intorpidite e sofferenti, Akutagawa si chiese come fosse possibile che, mentre tutti lo guardavano dall'alto al basso, lo giudicavano, lo insultavano per le pessime condizioni in cui si trovava - mentre il mondo gli puntava il dito contro e lo spingeva a rintanarsi nel suo buco, come una bestia in gabbia che può solo sfoderare gli artigli, senza riuscire a mordere nessuno - Atsushi, invece, gli rivolgesse quel sorriso a metà, timido e incerto, ma anche determinato e sicuro di se, di quello che stava facendo, e come fosse possibile che i suoi occhi non vedessero naufragi, che restassero sempre limpidi e cristallini, anche quando riflettevano il mare d'acqua torbida nei suoi.

Dopo un po', camminando piano, in silenzio, arrancarono davanti al portone socchiuso di un palazzo grigio. Atsushi spinse la maniglia con il braccio libero e, sostenendosi a vicenda, salirono le scale che conducevano verso gli appartamenti all'interno.

"Casa mia non è un granché," disse poi, di punto in bianco, "in realtà non è neanche mia, sono in affitto. È un monolocale," parlava senza guardarlo, come se si vergognasse, mentre tirava fuori un mazzo di chiavi, "ma dovrei avere tutto quello che ci serve."

Non era un granché, aveva ragione: con un'occhiata veloce, persino al buio, Akutagawa aveva già visto tutto quel che c'era da vedere. Il bagno sulla destra, la cucina sulla sinistra, un mobile pieno di cassetti e scomparti subito accanto, un tavolo al centro e un letto singolo addossato alla parete opposta. Tutto qui. L'ambiente era essenziale, privo di decorazioni di alcun tipo, spoglio e quasi anonimo - ma l'aria che si respirava era tiepida e sapeva di vissuto.

Atsushi accese la luce, si tolse il giubbotto e lo appese all'ingresso, poi sparì quasi subito in bagno, chiudendosi la porta alle spalle come se temesse che lo sguardo inquisitorio di Akutagawa potesse seguirlo fino a lì. Akutagawa, dal canto suo, fu invitato ad accomodarsi e a "fare come se fosse a casa sua", nell'attesa che l'altro si fosse fatto la doccia. Perciò rimase in piedi, lì dove Atsushi lo aveva lasciato, stringendosi nel cappotto nero che lo proteggeva dalle ostilità del tempo e del mondo.

Il suo sguardo continuò a vagare per quella singola stanza spoglia, alla ricerca di qualche dettaglio che potesse catturare la sua attenzione ed intrattenerlo per qualche minuto. Tre faretti sul soffitto illuminavano ora i ripiani della cucina, con una serie di utensili ordinatamente appesi; c'era una massa informe di coperte e cuscini sul letto addossato alla parete, alcuni lembi di stoffa sfioravano le piastrelle del pavimento, pulite; sul tavolo era stesa una tovaglia semplice, a quadretti rossi e bianchi, invece la finestra in fondo alla stanza non aveva le tende: dava su un angolo di città che Akutagawa non era in grado di riconoscere, da quella posizione, e la notte era in procinto di reclamare a se tutte le luci che illuminavano i tetti delle case, in lontananza.

Quando l'acqua smise di scorrere, dal bagno provennero una serie di fruscii e il rumore di qualcosa che cadeva rovinosamente a terra, seguito da imprecazioni soffocate. Dopo qualche minuto di silenzio e passi frenetici, la porta si aprì e Atsushi apparì timidamente, un paio di asciugamani in grembo, i capelli ancora bagnati e appiccicati alla fronte, le guance tutte rosse e accaldate, scalzo, con un paio di pantaloni della tuta e una felpa con una tigre stilizzata stampata davanti.

"Eccomi, ci ho messo un po', è che stavo cercando-- ma sei ancora lì?"

Akutagawa sbatté le palpebre, perplesso, "dovevo andare via?" 

"No, no, assolutamente no!" Atsushi sospirò, prima di ridacchiare, "ma non mi aspettavo di trovarti ancora in piedi, con il cappotto, le scarpe e tutto e- insomma, potevi almeno sederti."

Akutagawa diede un'occhiata al letto disfatto, con le coperte che minacciavano di cadere sul pavimento da un momento all'altro, trascinandosi dietro anche i cuscini.

"Ah--" a quel punto, Atsushi parve realizzare chissà cosa, agitandosi, "facciamo così: tu ora vai a farti la doccia - è tutto pronto, tieni, questi sono i tuoi asciugamani e un cambio di vestiti, dentro troverai tutto quello che ti serve - e intanto io sistemo la confusione che ho lasciato. Non pensavo che avrei avuto ospiti oggi- in realtà, non ho mai ospiti, quindi non mi preoccupo troppo dello stato in cui lascio le mie cose--"

C'erano anche le sedie del tavolo, se volevo sedermi, pensò Akutagawa, tra se e se, che bisogno hai di agitarti tanto per un paio di coperte fuori posto?

"Posso?" Chiese invece, guardando gli asciugamani che gli erano stati praticamente buttati addosso.

"Certo che puoi," gli sorrise in risposta, "te l'ho proposto io."

Akutagawa non se la sentiva di rifiutare, non dopo tutto quello che era successo. E poi - ma questo non l'avrebbe mai ammesso - non si lavava come si deve da troppo tempo, perciò non gli dispiacque l'idea di farsi una doccia gratis, almeno per quella volta.

Quando si tolse il cappotto nero, la camicia, i pantaloni, le calze, le scarpe, si sentì libero e profondamente vulnerabile, al contempo. L'acqua tiepida bruciava sulla sua pelle fredda, solcava il suo corpo e raggirava le sue ossa sporgenti, levigandolo come una pietra in un torrente. Privato delle sole, uniche cose che gli erano rimaste, Akutagawa si stava lavando via di dosso i segni della vita che aveva condotto, lo sporco che appesantiva i suoi movimenti, e si sentiva libero, come se avesse finalmente deciso di posare a terra il suo pesante bagaglio, al termine di un pellegrinaggio interminabile. Tuttavia, spogliato di quelle poche cose che gli erano rimaste, nudo sotto la doccia, in un bagno che non era il suo, in un appartamento che non gli apparteneva, Akutagawa si sentiva vulnerabile, esposto a quell'acqua tiepida che desiderava e da cui fuggiva, al contempo, non più abituato a percepirla, spaventato dalle conseguenze che avrebbe potuto lasciare sulla sua pelle.

Nel giro di una manciata di minuti, non di più, spense il getto della doccia e poi si asciugò in fretta, mettendosi infine i panni che Atsushi gli aveva gentilmente prestato (si chiese come avrebbe fatto a restituirglieli: doveva toglierseli prima di andare via da casa sua, altrimenti non avrebbe avuto modo di lavarli e riconsegnarglieli puliti). Quando uscì anche lui dal bagno, aveva indosso un paio di pantaloni larghi e neri, morbidi al tatto, e una maglietta bianca, semplice, priva di scritte o di stampe bizzarre. Teneva tra le braccia i suoi vecchi vestiti logori e il cappotto pesante, ripiegato con cura.

"Dalli a me, dopo li metto in lavatrice," Atsushi tese le braccia, come per prendergli le cose dalle mani, ma Akutagawa fece due passi indietro, irrigidendosi e guadagnandosi un'occhiata stranita da parte del ragazzo, "non vuoi?" 

"No, è che- aspetta," Akutagawa frugò nelle tasche dei suoi vecchi pantaloni, reggendo il resto dei vestiti con l'altro braccio, e ne estrasse il cellulare scarico e la fotografia che custodiva gelosamente, "ecco, adesso va bene."

Atsushi continuava ad essere stranito e perplesso, guardava prima Akutagawa e poi gli oggetti che stringeva tra le mani - ma non disse nulla, mentre prendeva con cura i suoi vestiti e li appoggiava sul mobiletto del bagno.

"Vediamo un po', dove l'avrò messo..." si lamentava, cercando qualcosa di sconosciuto ad Akutagawa, da qualche parte nel bagno, "eccolo!" 

E così, Atsushi chiuse definitivamente la porta di quella piccola stanza, portandosi dietro una valigetta del pronto soccorso.

"Non abbiamo delle ferite così tanto gravi. Basterà un cerotto, al massimo," protestò Akutagawa.

"Stai zitto, sei a casa mia, qui decido io." 

Nonostante le parole dure e quella spinta poco aggraziata che lo fece cadere sul letto, con le spalle al muro - Atsushi gli sorrise quasi subito, giocosamente, come se l'intera situazione lo stesse divertendo. Effettivamente, quando prese un batuffolo di cotone per applicare il disinfettante sui tagli che aveva sul viso, a vedere le sue smorfie per il fastidio e il bruciore, pareva proprio che si stesse divertendo. Akutagawa avrebbe voluto dargli un pugno, ma ne avevano presi già a sufficienza (per quel giorno, almeno).

"Okay, abbiamo quasi finito," esordì Atsushi, esaminando con attenzione il suo viso. Da così vicino, Akutagawa poteva vedere le rughe di espressione sulla sua fronte, la punta del suo naso, leggermente curvata all'insù, e le sue labbra rosee, appena dischiuse (non l'avrebbe mai ammesso, ma con Atsushi avrebbe giocato volentieri più e più volte al malato e all'infermiere, magari invertendo i ruoli, chissà - era talmente assorto, studiava i suoi lineamenti come un erudito, ignaro di non essere l'unico appassionato, in quella stanza). 

Atsushi annuì, tra se e se, soddisfatto del suo lavoro con le ferite sul viso di Akutagawa. A quel punto, fece scorrere le dita sulle sue braccia scarne e piene di lividi, fino a prendergli le mani tra le sue. 

"Dovresti avere più cura di te stesso," gli disse, sfiorando il perimetro delle ferite sulle sue nocche con il pollice.

Akutagawa spostò lo sguardo dal suo viso alle loro mani. "Anche tu sei ferito. Guarda," con l'indice pulì il rivolo di sangue che stava colando, come un serpente scarlatto, sul dorso della mano di Atsushi. Lui rise appena, seguendo i suoi movimenti con gli occhi.

"Ci siamo ridotti abbastanza male, prima."

"Nakajima." 

Le loro mani erano tese ora, ancora le une nelle altre, come se le avessero dimenticate entrambi lì. 

"Sì?" 

"Grazie."

Akutagawa gliel'aveva detto guardandolo fisso, serio e impassibile. Finalmente, pensò, finalmente ho trovato quelle parole che avrei dovuto dirti sin dall'inizio. Ora posso andare avanti, senza più alcun rimorso.

Ma Atsushi, dopo un attimo di silenzio in cui aveva soltanto sbattuto le palpebre, reggendo il suo sguardo serio, scoppiò a ridere senza contegno.

"Se me lo dici con quella faccia non riesco a prenderti sul serio- sembri un cane bastonato--" era evidente che volesse un'altra serie di pugni, non c'era altra spiegazione razionale per quell'affermazione infelice, secondo il ragionamento logico di Akutagawa, "potresti sorridere un po', ogni tanto, sai?"

A quel punto, Akutagawa distolse lo sguardo, aggrottando le sopracciglia sottili, "perché mai dovrei farlo?" 

"Potresti, non è che devi," Atsushi si asciugò le lacrime ai lati degli occhi, "ma non ha importanza ora, e comunque-" prese un respiro e le sue guance assunsero un tono più roseo, quando gli rivolse un timido sorriso, "non devi ringraziarmi di niente, ho fatto solo quello che volevo fare."



La lista di cose che sapeva di Atsushi, ormai, era composta da talmente tanti punti che sarebbe stato impossibile elencarli tutti. Si trattava pur sempre di sciocchezze, di dettagli futili - perché Atsushi non parlava mai di se e Akutagawa non se la sentiva di chiedere, perché lui stesso non avrebbe voluto rispondere a domande tanto dirette e troppo personali - ma ciò che lo incuriosì di più, quella sera, fu la sua incredibile incapacità di trattare gli ospiti.

Akutagawa, per qualche ragione sconosciuta persino a se stesso, si era convinto che Atsushi, nella sua vita, fosse sempre stato circondato da amore, affetto, comprensione, accettazione - da persone che gli avrebbero voluto bene lo stesso, non importava quanti errori avesse compiuto. Eppure, mentre lo osservava ingegnarsi per salvare il riso che minacciava di incollarsi alla pentola, con una spatola di qua e un mestolo di là, a girare le verdure nella padella, tutto questo con le spalle inequivocabilmente rigide come il marmo - era teso, irrimediabilmente teso, come il manico dell'utensile di legno che teneva in mano - Akutagawa si domandò se non si fosse sbagliato, per tutto questo tempo. D'altronde, se anche un soggetto singolare come Dazai Osamu, alla fine dei conti, aveva rivelato di possedere un lato profondo, serio e pensieroso, non c'erano più tante altre cose che sarebbero riuscite a stupirlo.

"È quasi pronto!"

La parte divertente era che, in quella bizzarra situazione, Atsushi ci si era infilato da solo. Akutagawa, dopo averlo aiutato a rimettere a posto la valigetta del pronto soccorso, aveva detto che se ne sarebbe andato, ma lui lo aveva preso per il braccio, insistendo perché rimanesse almeno per cena. E si era rifiutato di ricevere aiuto in cucina, dando libero spettacolo delle sue pessime abilità culinarie sotto pressione.

"Ecco," esordì, voltandosi verso Akutagawa, già seduto, per posare le cose al centro del tavolo, "non fare complimenti--" quasi inciampò sui suoi stessi piedi, rischiando di rovesciare tutto sul pavimento. 

A cosa, alla cena mezza bruciata o a quanto sei goffo? ma Akutagawa non avrebbe mai dato voce ad un pensiero simile (non quando qualcuno gli aveva gentilmente offerto la doccia, le cure, la cena e qualche ora al riparo dal freddo dell'inverno, in ogni caso - senza contare la rissa in cui era intervenuto, risparmiando ad Akutagawa ferite ben peggiori di quelle superficiali che si erano fatti entrambi).

Atsushi divise il contenuto delle pentole in due porzioni identiche, riempiendo prima il suo piatto e poi il proprio. Akutagawa si sentiva come i cani davanti alle bistecche, con la salivazione a livelli estremi, e il suo stomaco faceva male per quanto bramava ricevere qualcosa con cui quietare la corrosiva azione dei succhi gastrici, ma cercò di darsi un contegno. Non avrebbe mai voluto sembrare ancora più patetico di così. 

Mentre mangiavano, nessuno dei due disse molto. Atsushi si assicurò che il pasto da lui cucinato fosse quantomeno commestibile e ricevette in risposta soltanto un grugnito. Akutagawa chiese se poteva avere un tovagliolo per pulirsi, perché Atsushi si era dimenticato di metterli sulla tavola. Niente di importante. 

Poco più tardi, però, quando Atsushi si alzò per fare il caffè e gli servì una tazzina già zuccherata (e quella probabilmente era la cosa più galante e a modo che gli avesse visto fare fino ad ora, ma non lo disse ad alta voce: la probabilità che desse fuoco alla cucina era ancora assai elevata, dati i suoi trascorsi come apprendista al bar di Chuuya), Akutagawa cedette alla curiosità. 

"Come mai è così dolce?" 

Atsushi parve preso alla sprovvista. "Cosa?"

"Il cappuccino. Anche il caffè," precisò, facendo oscillare il liquido nella tazzina, "perché?" 

"Oh," si ricompose, "quello..." parve pensarci su per un attimo, come se non sapesse cosa dire, o come dire ciò che avrebbe voluto esprimere, "sai, lo zucchero viene considerato un bene di lusso. Difficilmente si trova, quando non sei molto fortunato. E se si trova, a quel punto dipende tutto da quanto sei veloce a prendertelo, prima che finisca. Ora che posso permettermelo senza problemi, non riesco a farne a meno." 

Girava distrattamente il cucchiaino nella tazzina.

Akutagawa volle azzardare. 

"Orfanotrofio?" 

Atsushi alzò lo sguardo all'istante.

"Come fai a saperlo?" 

Sollevò un angolo della bocca, in un sorriso più ironico che sincero, "ci ho vissuto anche io, per un po'." 

In realtà, non c'era alcuna ironia nella sua espressione. Solo lo stupore sincero per una scoperta che mai avrebbe immaginato, se fosse tornato indietro a quei giorni in cui si sedevano sul marciapiedi, nell'angolo di strada, davanti al bar. Il problema di Akutagawa era che non aveva più tanta dimestichezza con il linguaggio corporeo, la colpa probabilmente era di tutto il tempo trascorso da solo, a vivere di stenti.

Atsushi posò la tazzina sul tavolo, poi rise piano. Era una risata un po' triste.

"Non so perché, ma immaginavo che avessimo qualcosa in comune."

Forse, quella curiosa attrazione magnetica che coesisteva tra i loro sguardi, dipendeva da questo. O, forse, si era trattato di una banale coincidenza, di un assurdo scherzo nell'assurda vita di entrambi.

"Quando ero là," cominciò Atsushi, guardandosi le dita delle mani, "non ricordo di aver vissuto nemmeno un giorno felice. Gli altri bambini si prendevano gioco di me, mi facevano i dispetti, mi prendevano a botte, anche- e il direttore dell'orfanotrofio non era un uomo gentile. Continuava a dirmi che ero inutile, che ero un debole, perché mi lasciavo maltrattare senza reagire- piangevo e basta, aspettando che quella tortura finisse. E non dormivo la notte, perché avevo paura- avevo paura che qualcuno venisse e mi torturasse ancora, avevo paura di addormentarmi perché vedevo solo incubi nei miei sogni. Poi," si toccava nervosamente le dita, mentre parlava, "poi, una famiglia gentile ha scelto di adottarmi. Ero piccolo, non avrò avuto più di sette anni, e pensavo che quello fosse il mio primo ricordo felice.

"Come tutte le cose belle, però, anche quello non è durato molto. Mio padre e mia madre - avrei voluto chiamarli così, ma non ci sono mai riuscito sinceramente - hanno cominciato a dirmi le stesse cose. Anche per loro io ero un debole che non reagiva, che rimaneva a testa bassa, che non sapeva prendere in mano la sua vita e farne qualcosa di decente," aveva gli occhi lucidi, "è per questo che me ne sono andato, appena ho concluso gli studi. Ho aspettato di trovare un posto dove stare e un lavoro che mi assicurasse di avere abbastanza soldi per vivere. Volevo dimostrare a tutti che non sono debole, che non sono un vigliacco, che ho la forza di reggermi sulle mie gambe e di prendere in mano la mia vita, da solo."

"Pensi di esserci riuscito?" 

Atsushi sollevò lo sguardo solo in quel momento.

"Continuo a provarci. Lo vedi. Sono un disastro e la maggior parte di ciò che ho adesso lo devo alla fortuna di aver incontrato Chuuya e Dazai. Senza di loro, forse... forse, non ce l'avrei fatta."

Akutagawa bevve un sorso di caffè. Poi, posata la tazzina sul tavolo, tirò fuori dalle tasche il cellulare scarico e quella foto che conservava con tanta cura. Mise il telefono accanto al caffè e tenne la foto tra le mani, delicatamente, come se potesse disintegrarsi da un momento all'altro e diventare polvere. 

"Noi siamo stati adottati quando eravamo un po' più grandi. L'orfanotrofio non era il miglior posto al mondo, ma non stavamo male. Avevamo degli amici. Non è stato facile andare via. I nostri nuovi genitori - anche noi facevamo fatica a chiamarli mamma e papà, all'inizio - erano due brave persone. Nostro padre riempiva mia sorella Gin di attenzioni e mi portava ovunque, con se. Mi ha anche insegnato a suonare la chitarra, quella che avevo era la sua. Nostra madre, invece, era una donna piuttosto austera e rigida, ma a suo modo ci voleva bene. Qui," mostrò la fotografia ad Atsushi, lasciando che la prendesse tra le sue mani, "eravamo in vacanza. È uno dei ricordi più felici che ho. Vale più di qualsiasi somma di denaro, più di qualsiasi quantità di zucchero al mondo," Atsushi sorrise, ma non seppe se per il sottile umorismo o perché stava osservando con cura le espressioni buffe che avevano Akutagawa e la sua famiglia in quella fotografia (lui e Gin erano seduti su una panchina, c'era un parco divertimenti sullo sfondo e un uomo stava pizzicando le guance ad entrambi i bambini, da dietro - e intanto, una donna distoglieva lo sguardo, apparentemente infastidita, ma teneva ugualmente stretta la manina della piccola Gin).

"Però, come tutte le cose belle, anche questo non è durato a lungo. Se ne sono andati in un tragico incidente," Atsushi posò la fotografia, riportando il suo sguardo su di lui, le labbra schiuse e gli occhi di nuovo lucidi, "e io e Gin siamo rimasti di nuovo soli. Questa volta eravamo già adolescenti. I parenti dei nostri genitori hanno accettato di farsi carico di noi, ma non è stato così semplice. La zia non era mai a casa e lo zio ci faceva sentire come se fossimo un peso, un fardello che era stato obbligato a caricarsi sulle spalle. Non lo ha mai detto chiaramente, ma queste sono cose che si vedono, che si sentono- e io non volevo restare in una casa che non era più la mia, in un posto che mi faceva sentire come un ladro, un parassita."

Akutagawa bevve l'ultimo sorso di caffè, sotto lo sguardo scosso di Atsushi. 

"E poi, cos'è successo?" 

"Poi," riprese, "me ne sono andato. Non ce la facevo più a restare lì. Ho promesso a mia sorella che sarei tornato a prenderla, che le avrei dato tutto ciò che meritava e che in quella casa non c'era più." Rimase un attimo in silenzio, assaporando lo zucchero sulle sue labbra, mentre si mescolava con l'amaro delle sue parole. "Non so quando, ma io ce la farò. L'ho promesso. Dimostrerò che sono forte abbastanza da reggermi sulle mie gambe e andare avanti. Quando richiamerò mia sorella, sarà solo per dirle che sto andando a prenderla, che la riporterò a casa."

Atsushi spinse la fotografia di nuovo verso di lui, tra le sue mani. Il dolce sorriso di Gin era ancora lì, impresso per sempre sulla carta, immortalato in un attimo eterno. Anche quei suoi stessi occhi grandi e scuri che, vispi e curiosi, guardavano dritti nell'obbiettivo della fotocamera, non sarebbero svaniti nel corso del tempo. Sarebbero rimasti lì, su quella fotografia, insieme a tutte quelle cose che non avrebbe mai dimenticato.

A quel punto, per qualche strana ragione, Akutagawa cercò lo sguardo di Atsushi. Come se avesse chiamato il suo nome, Atsushi rispose subito, e i loro occhi ora si riflettevano gli uni negli altri, acque limpide e torrenti torbidi si mescolavano insieme, nel silenzio. 

Non potevano saperlo, nessuno dei due, se il loro incontro aveva un senso, se c'era un significato nascosto dietro a quel gioco di occhi che scappano e che si riprendono, persino seduti a quel tavolo, davanti a due caffè dolci tanto quanto cucchiaini di miele. Forse erano solo due stupidi gatti che avevano giocato a nascondino per troppo tempo, finendo per acchiapparsi all'unisono, stanchi di nascondersi.



Dopo un po', Atsushi aveva sentito la necessità di smorzare quell'atmosfera particolare che si era creata tra di loro. Akutagawa si chiese se anche lui riuscisse a sentire la stessa pressione, la stessa pesantezza di quei ricordi che, tornati a galla, difficilmente venivano ricacciati nelle profondità del lago da dove erano riemersi. La condivisione scalda il cuore e allevia quel peso, ma non è in grado di cancellare alcunché. Si tratta di un sollievo fragile, momentaneo.

"Oh, guarda cosa ho trovato!"

Atsushi stava rovistando da un po' nei cassetti del mobile accanto alla cucina, tra i vestiti e i libri e le cianfrusaglie varie - sorprendentemente, tutto ciò che non era visibile dall'esterno, in quel monolocale anonimo e spoglio, si trovava al suo interno, se si aveva la pazienza di mettersi a cercare. E Atsushi aveva trovato un vecchio giradischi tutto pieno di polvere e ingiallito dal tempo, sommerso da una marea di altre cose.

"Penso che sia del proprietario dell'appartamento. Mi aveva detto di non fare caso a ciò che avrei potuto trovare in giro, ma questo non me lo sarei mai aspettato- guarda, ci sono un sacco di vinili!" 

Sembrava un bambino in un negozio di caramelle. Akutagawa lo guardava dal lavello della cucina - aveva insistito per lavare almeno i piatti, in segno di riconoscenza - e pensò che non fosse così male, quel suo lato ancora infantile. Era leggero, fresco - di gran lunga migliore del suo viso affranto, quando si autocommiserava per ogni singolo errore commesso, e dei suoi occhi lucidi di tristezza.

Tuttavia, dovette ricredersi fin troppo presto, perché Atsushi aveva trovato questo vinile troppo bello (di un certo F. R. David, datato 1983), che doveva assolutamente ascoltare e adesso stava trascinando Akutagawa, con ancora i guanti di plastica addosso, al centro della stanza. Non servì a nulla dimenarsi: la presa di Atsushi era particolarmente decisa a non lasciarlo fuggire.

"Rimani con me," gli aveva chiesto, tirandogli il braccio, "solo un altro po'." 

E Akutagawa, per l'ennesima volta, non se l'era sentita di opporre resistenza nei suoi confronti. Per quanto fosse riluttante a fare qualsiasi cosa il ragazzo volesse fare - e intanto stava sistemando la puntina sul disco in vinile, facendo attenzione a non graffiarlo - la realtà era che il freddo delle notti d'inverno era bello solo se trascorso al caldo, nel tepore di una piccola stanza, in compagnia di qualcuno con cui lasciare che il tempo scorra.

 
Words don't come easy to me
How can I find a way
to make you see I love you?
Words don't come easy.

Atsushi prese a canticchiare la melodia oscillando il capo a destra e a sinistra, a ritmo, come se conoscesse quella canzone da una vita intera. Akutagawa non l'aveva mai ascoltata prima d'ora e non aveva la più pallida idea di cosa fare, con Atsushi che si era sciolto i muscoli delle spalle solo per cominciare a saltellare di qua e di là, in maniera sconclusionata e piuttosto imbarazzante (che fosse una strana specie di danza propizia per esorcizzare la negatività nelle stanze chiuse?).

Eppure, quando Atsushi si voltò verso di lui, con tutti i capelli scompigliati e il viso arrossato dalla frenesia dei suoi movimenti, e gli prese con delicatezza le mani tra le sue - quando gli sfilò lentamente i guanti di plastica, dito dopo dito, continuando ad ondeggiare a ritmo di quella canzone d'altri tempi, e intanto canticchiava, indisturbato, indifferente a qualsiasi altro problema al mondo che non riguardasse le mani di Akutagawa - per un attimo, o forse un po' di più, il tempo smise di scorrere. Akutagawa rimase bloccato in un momento eterno ed in movimento, un tragico errore nelle leggi della fisica, un tremendo sbaglio nelle regole del cosmo.

Atsushi aveva intrecciato le loro dita, ora libere dall'impiccio di quei guanti scomodi, e stava guidando i movimenti delle sue braccia, a ritmo con la musica. Che lo avesse voluto o meno, non aveva alcuna importanza: Akutagawa avrebbe ugualmente seguito i passi del ragazzo che rideva, spensierato, a pochi centimetri di distanza da lui, ed era terribilmente attratto da quella sua stupida, momentanea, fragile forma di felicità. Voleva tenerla stretta anche lui tra le dita delle mani, voleva percepirla a contatto con la sua pelle, voleva viverla con il suo corpo e con tutta la sua anima. 

 
Words don't come easy to me
This is the only way for me
to say I love you
Words don't come easy.

Inspiegabilmente, entrambi parvero firmare di comune accordo un nuovo, tacito patto: lasciamo perdere la musica, lasciamo perdere tutto ciò che non siamo io e te.

Akutagawa respirava piano, le mani che erano scivolate lentamente verso il basso, trovando il loro appiglio sui fianchi sottili di Atsushi. Atsushi, invece, aveva chiuso gli occhi, la fronte premuta contro l'incavo del collo di Akutagawa, e ascoltava i battiti del suo cuore mescolarsi con i propri, piano piano. Le sue dita si aggrappavano alla maglietta bianca che Akutagawa indossava, quella che in realtà non era sua e profumava di lavanda, proprio come i capelli di Atsushi (forse, anche Akutagawa aveva lo stesso odore - aveva usato il suo bagnoschiuma, qualche ora prima, per lavarsi - e c'era qualcosa di profondamente intimo in questo semplice, banale dettaglio - qualcosa che Akutagawa avrebbe paragonato al modo in cui Atsushi lo stava stringendo a se, come se volesse tenerlo più vicino, come se temesse che se ne sarebbe andato, da lì a poco, e non volesse vederlo andare via).

Alla fine, stremati, si erano seduti sul letto addossato alla parete. Akutagawa aveva appoggiato la schiena contro il muro, Atsushi si era accoccolato contro la sua spalla come un gatto, tenendo gli occhi chiusi. Presto il suo capo era scivolato sul petto di Akutagawa, e allora lui si era messo un po' più comodo, cercando di tirare su le coperte per mettergliele sulle spalle, in modo che non prendesse troppo freddo.

Il giradischi si era interrotto da un po'. Gli unici rumori presenti nella stanza erano il respiro di Atsushi, tra il sonno e la veglia, che cercava una posizione più comoda, o forse solo un modo per circondare il suo torace con le braccia e continuare a stringerlo a se, seppure più debolmente. Le sue dita erano di nuovo impigliate alla maglietta bianca, come a dirgli: tu non sei solo, ci sono io qui. Puoi contare su di me, in qualsiasi momento; e Akutagawa, in quel momento, non aveva alcuna possibilità di districarsi da lì, prendere le sue cose e andarsene via. Non poteva farlo. Non voleva nemmeno.

Come un gatto che piange alla luna, Akutagawa lasciò scorrere sulle sue guance tutte le lacrime a cui aveva sempre proibito di esistere. Solo la luna sarebbe stata testimone del peso che si era levato dalle spalle, dopo tutto quel tempo, e di quanto sentirsi più leggero lo facesse sentire fragile, al contempo. Ma non un singolo essere vivente ne sarebbe venuto a conoscenza, no, perché Akutagawa pianse tutte le sue lacrime in silenzio, senza fare un movimento, respirando appena, impercettibilmente. Poi, prese coraggio e strinse quel corpo che dormiva su di lui, raggomitolato come un gatto su un cuscino. Gli cinse piano le spalle e la vita con le braccia, e si addormentò con il profumo di lavanda che gli pizzicava le narici. 

Akutagawa non voleva più rivedere la luce del giorno (significava cedere al passato la proprietà di quei ricordi che erano solo suoi, che non voleva lasciare andare per nessuna ragione al mondo).



Mi dispiace di non essere lì, in questo momento. Sono andato al lavoro perché stamattina ero di turno, ma ti ho lasciato la colazione sul tavolo. Spero che ti piaccia, in casa non ho molte cose, rispetto a quelle che ci sono al bar.

Puoi restare quanto vuoi a casa mia, non preoccuparti. Anzi, resta e basta, non andartene. Mi piacerebbe trovarti ancora lì, quando sarò di ritorno.

Per Ryuunosuke, da Atsushi.



Quando si era svegliato, il sole era già alto. Illuminava tutta la stanza, da cima a fondo, senza concedere neppure un millimetro all'ombra. Akutagawa si era trovato steso su quel letto, con la testa appoggiata ad un cuscino e una coperta fin sopra le spalle. Non c'era più nessuno accanto a lui. All'inizio non ci aveva fatto troppo caso, districandosi tra le lenzuola e mettendosi seduto. Si sentiva stordito, come quando ci si addormenta con le prime luci dell'alba e dopo si ha la testa pesante e tutta la voglia di restare a letto il resto del giorno (era un lusso che non immaginava di poter vivere di nuovo - non a breve, almeno - e, in ogni caso, si sentiva più come se tutta la stanchezza gli fosse ricaduta addosso, intorpidendo le sue membra fino alle ossa).

Alla fine, aveva deciso di alzarsi e, a fatica, aveva raggiunto il tavolo - solo un paio di passi più in là - perché non ricordava di aver lasciato tutte quelle cose sulla tovaglia, la sera prima. C'erano una tazza di caffellatte, un piatto con diversi tipi di pane e di fette biscottate, un sacchetto di biscotti bruni, un barattolo con quella che doveva essere marmellata di fragole, o forse di ciliegie - e quel biglietto, ripiegato con cura, infilato con un angolino sotto la tazza tiepida.

Akutagawa ne aveva letto il contenuto una volta, poi una seconda, una terza, una quarta, e alla fine le parole avevano perso il loro significato, mentre gli risuonavano nelle pareti del cervello con la voce di Atsushi - o con la voce che Akutagawa immaginava avrebbe avuto Atsushi, se fosse stato lì e quelle cose gliele avesse dette di persona, prima di infilare le chiavi nella serratura, salutarlo con un sorriso e andare a lavoro, chiudendosi la porta alle spalle (chissà se Atsushi si era fermato a guardarlo, quando ancora dormiva e lui, invece, era sveglio - lì, fermo sulla soglia di casa sua, chissà se Atsushi aveva tentennato sulla porta, indeciso se restare, chiamare Chuuya e dirgli che non la sentiva di presentarsi al bar, per quel giorno - se aveva solo sospirato, sperando che Akutagawa non sarebbe scappato via, temendo di non rivederlo mai più, e se n'era andato perché non poteva venire a meno al suo dovere, e nessun altro motivo - chissà, chi poteva saperlo?).

Akutagawa rimase lì, in piedi davanti a quel tavolo pieno di cose, le guardava come fanno i gatti quando girano intorno al cibo, indecisi se consumare immediatamente il pasto o farselo durare più a lungo, perché chissà quando sarebbe stata riempita di nuovo, la loro ciotola. E, in primo luogo, ai gatti randagi nessuno riempie la ciotola perché la ciotola neanche ce l'hanno.

Come un animale selvaggio messo in una stanza chiusa, Akutagawa si sentì scomodo, a disagio, in piedi davanti a quel tavolo. Fece scontrare il suo sguardo su ogni oggetto, ogni parete - finché i suoi occhi non tornarono a cozzare sulle scritte del biglietto.

Resta e basta, non andartene. Mi piacerebbe trovarti ancora lì, quando sarò di ritorno, gli aveva scritto Atsushi, e Akutagawa non poteva nemmeno fingere di esserlo immaginato, di aver capito male, che fosse un sogno o un'assurda fantasia - non poteva, perché quelle parole erano impresse sulla carta, inequivocabili.

Akutagawa si chiese se anche Gin, quando si era chiuso la porta di quella casa alle spalle, l'ultima volta che l'aveva vista - se anche sua sorella, in un angolo della sua mente, avesse desiderato ardentemente svegliarsi, il mattino dopo, e scoprire che lui, in realtà, non se n'era mai andato.

Akutagawa si chiese: chissà se mi odia, per averla lasciata sola mentre inseguivo il sogno di cancellare la nostra stessa solitudine, mentre la lasciavo tra quelle mura fredde e me ne andavo, convinto che sarebbe stato semplice, che in poco tempo sarei tornato a prenderla.

E invece lei è ancora lì, sola. Chissà se mi odia. Ho sbagliato tutto. Forse non me ne sarei mai dovuto andare.

Forse...

Akutagawa si sedette al tavolo, continuando a guardare la colazione che gli aveva preparato Atsushi. La tovaglia a quadretti rossi e bianchi, le sedie, la cucina semplice, il mobiletto pieno di cassetti lì accanto, la porta socchiusa del bagno, le coperte disfatte del letto illuminato dalla luce del giorno - tra tutte quelle cose che non gli appartenevano, Akutagawa era come un soprammobile fuori posto, un aggeggio che non c'entrava niente, messo lì.

Però, il ricordo delle mani di Atsushi che guidavano i suoi movimenti, la memoria di quelle dita che si stringevano alla sua maglietta - la stessa maglietta che aveva ancora addosso, stropicciata dalle ore di sonno - e quel profumo di lavanda che adesso si mescolava a quello del caffellatte, freddo, davanti a lui - in qualche modo, gli davano la certezza di essere esistito, un tempo, tra quelle quattro mura. Erano la prova intangibile, ma presente, che lui c'era stato, che c'era un motivo se si trovava lì, e le parole scritte disordinatamente sul biglietto erano un invito a rimanere, la richiesta di entrare a far parte di quel mondo, di considerarsi come parte integrante di esso.

Akutagawa consumò la colazione in silenzio, senza fare rumore lavò le stoviglie, pulì la tavola dalle briciole, mise al loro posto le coperte sul letto, si occupò di spolverare meglio il giradischi che avevano dimenticato su un ripiano del mobile. Ad un certo punto, senza che se ne rendesse conto, il tramonto aveva dipinto i tetti delle case e li faceva sembrare come un quadro espressionista - le ombre erano più dense, le luci erano più intense, gli spigoli si confondevano nel vortice delle nuvole nel cielo, il vento portava già l'odore della pioggia, presagio di quel che avrebbe macchiato le strade di lì a non molto.

E Akutagawa, a quel punto, capì che non voleva più che il tempo scorresse. Non voleva più aspettare niente. Avrebbe preso in mano la sua vita, avrebbe camminato sulle sue stesse gambe, avrebbe cambiato tutte quelle cose che parevano immutabili e avrebbe tenuto bene a mente tutte quelle cose che aveva preferito rinnegare in un angolo della sua testa.

Si mise il cappotto nero sulle spalle e uscì di casa, chiudendosi la porta dietro, correndo sotto la pioggia come un gatto randagio che scappa, in cerca del riparo di una tettoia di legno.

In poco tempo, era riuscito a bagnarsi da capo a piedi e a raggiungere quell'angolo di strada, sempre lo stesso, sempre sotto la luce fioca del lampione che lo aveva fatto sembrare un artista di strada, sempre davanti a quel bar, con il tappetino con la scritta "welcome" davanti e la condensa che scivolava lungo le vetrate, a simboleggiare il contrasto esistente tra il gelo dell'inverno lasciato fuori e il calore delle persone riunite all'interno.

Akutagawa aveva il fiato corto. Si resse con le mani sulle ginocchia, cercando di riprendersi dalla corsa, la pioggia che scorreva dalle punte dei suoi capelli, accarezzava i tratti del suo viso e scivolava fin sotto il colletto del cappotto nero.

Una figura gettò la sua ombra sulla strada, da dietro la porta d'ingresso del bar. Il tintinnio delle campanelle si univa alle gocce che battevano sull'asfalto, nelle pozzanghere.

"Akutagawa, che cosa ci fai qui?"

Pioveva a dirotto.

Atsushi incespicò sul tappetino con la scritta "welcome", poi imprecò, tornò indietro sui suoi passi, prese un ombrello dal portaoggetti lì accanto e raggiunse Akutagawa, in quell'angolo di strada, poco più avanti.

"Volevo uscire."

Non volevo stare ad aspettare il tuo ritorno come un cane. No, non volevo stare ad aspettare e basta. No, no. Non volevo... Io non volevo stare solo.

Atsushi aprì in fretta il suo ombrello, ma il vento lo fece ribaltare al contrario. Dopo qualche minuto di inutile lotta, ci rinunciò, chiudendolo e bagnandosi tutto, come Akutagawa.

"Andiamo a casa, adesso?"

Era la cosa più naturale del mondo quella mano che, timida, prendeva la sua e la stringeva. Né troppo piano, né troppo forte. Akutagawa guardava le loro dita intrecciarsi.

"Non ti fidi?"

Quando alzò lo sguardo, c'erano un paio di occhi limpidi che aspettavano, con un po' di timore e di impazienza, di imbarazzo e di incertezza, la sua risposta.

Akutagawa non disse nulla, ma strinse la presa.



(Nessuno dei due aveva la più pallida idea degli sguardi indiscreti che seguivano ogni minimo loro movimento, da dietro le vetrate del bar.

Dazai sorrideva, sornione, "vuoi essere accompagnato a casa anche tu, piccoletto?"

Ma Chuuya era come un gatto che soffia e che rizza il pelo, indisponente, "chiedilo a tutte le donne che scappano quando provi a portartele a letto, cretino."

Lontani dagli occhi taglienti di Chuuya - che, nonostante tutto, aveva un sorrisetto compiaciuto, mentre li guardava sparire lungo la strada - e dagli occhi criptici, incomprensibili, di Dazai - che seguiva le loro figure mentre svanivano nella nebbia, lontane, e chissà su cosa stava rimuginando, con quel sospiro che si sciolse con il ghiaccio nel suo drink - loro due erano come due gatti che si erano conosciuti, ormai; talvolta si erano avvicinati con le zampe felpate, altre volte avevano sfoderato i denti e gli artigli - ma quelle ferite che si portavano addosso, indelebili, sarebbero state la prova del legame che adesso li accompagnava lungo la via, verso un posto in cui potevano esistere insieme.

E solo la luna sarebbe stata testimone delle mani di Akutagawa che sfioravano il mento di Atsushi, sulla soglia di casa; nessun altro avrebbe potuto vedere i suoi occhi diventare grandi come due lune piene e poi socchiudersi, piano piano, quando Akutagawa si era sporto un po' più avanti, senza aspettare che Atsushi lo raggiungesse a metà strada - e gli aveva baciato le labbra, lentamente, come se stesse assaporando ancora la dolcezza del caffellatte freddo che aveva bevuto prima.

Solo la luna poteva conoscere i sussurri, pelle contro pelle, di quei due gatti che giocavano a nascondino sotto le coperte, arrotolando le loro code insieme - e che quei sussurri, quei baci dolci, quella timidezza che tingeva le guance di entrambi, alla fine si sarebbe sciolta come zucchero in una tazzina di caffè - quando Akutagawa gli chiese di guardarlo negli occhi, chiamando il suo nome contro la pelle del suo collo - Atsushi - e quando lui gli cinse le spalle con le braccia, stringendo con le dita i suoi capelli, sussurrando piano il suo nome, nel suo orecchio - Ryuu, Ryuu, Ryuu… - come una melodia tiepida che gli toglieva il fiato e lo faceva rabbrividire, dalla base della schiena fino alla nuca, in silenzio.)



A volte, le cose non vanno come avevi immaginato. Akutagawa lo sapeva bene.

Non era un sognatore, difficilmente si sarebbe lasciato andare a dolci fantasie, perché quando la realtà ti ricade sulle spalle, il peso è insostenibile. Eppure, eccolo lì, nel bel mezzo di quello che pareva un delirio onirico a tutti gli effetti, considerando la vita che aveva vissuto.

Fino a una settimana prima aveva dormito su una panchina dimenticata da tutti e adesso era seduto su uno sgabello del solito locale, a guardare perplesso quanto sembrasse ampia ed irraggiungibile la distanza che lo separava da quell'angolo di strada che era stato il suo unico posto nel mondo. Lo guardava come un estraneo, come chi guarda il luogo che ha lasciato e nel quale è tornato, dopo anni di pellegrinaggio. Lo guardava e non lo riconosceva più, così lontano e così piccolo, così buio e così triste.

Atsushi gli aveva regalato una chitarra nuova solo perché voleva sentirlo suonare ancora (dentro al bar, questa volta, e non fuori in quell'angolo di strada che non gli apparteneva più). Pizzicando le corde morbide per abituarsi alla sensazione di sentirle scivolare sotto i polpastrelli (erano uguali in tutto e per tutto alle corde della vecchia chitarra, ma allo stesso tempo non lo erano), Akutagawa osservava di soppiatto i dintorni, come se temesse di disturbare soltanto con i suoi occhi troppo curiosi.

Atsushi era indaffarato a servire alcuni tavoli, Kunikida sedeva al bancone ed era immerso nella lettura di una miriade di volantini colorati (stava cercando, tra le offerte di lavoro, quelle che potevano essere più adatte per un ragazzo come Akutagawa. Tutti quanti avevano accettato subito di aiutarlo a redimersi e a risollevarsi dalle macerie della sua vita. Akutagawa si era sentito svuotato, come se qualcosa, dentro di lui, si fosse sciolto). Dazai, accanto al suo capo, svogliatamente faceva tintinnare il ghiaccio nel bicchiere del drink che gli aveva servito Chuuya qualche minuto prima, e si stava lamentando, come al solito.

"Le donne hanno davvero pessimi gusti, al giorno d'oggi. Chuuya, secondo te perché nessuna accetta mai di uscire con un uomo affascinante come me?"

Chuuya roteò gli occhi, "ma ti sei sentito?"

"Oh, andiamo, non dire così... potresti anche farmelo un complimento, ogni tanto. Ci conosciamo da quando andavamo a scuola, piccoletto."

Non c'era anima viva che osasse parlarne, ma in quel bar esisteva una regola implicita che nessuno doveva permettersi di infrangere: mai fare commenti sull'altezza del barista, mai, se ci tieni alla tua vita.

"Dazai!" Saltò su Chuuya, sporgendosi sul bancone e puntando un dito nella sua direzione, minaccioso. "È da quando andavamo a scuola che non fai altro che darmi fastidio e stressarmi continuamente!" Aggrottò le sopracciglia, esasperato. "Cosa c'è di tanto divertente? Le donne non ti vogliono più e allora hai deciso di provarci con me? In modo patetico, aggiungerei."

Cercò di darsi un contegno (era pur sempre in servizio) ma Dazai fece spallucce e gli rivolse uno sguardo strano, da sotto tutti quei capelli che gli ricadevano sulla fronte.

"Te ne sei accorto solo adesso?"

Seguì un attimo di silenzio.

La gente del locale aveva interrotto qualunque cosa stesse facendo, convogliando l'attenzione su di loro, come se fossero diventati l'attrazione principale di un parco divertimenti. Akutagawa aveva smesso di suonare, perché lo shock era troppo. Atsushi era rimasto impietrito sul posto, con la bocca aperta e una scopa tra le mani.

Vedendo il colore lasciare le guance di Chuuya e poi, in un attimo, salirgli così tanto alla testa da fargli bruciare gli occhi e tremare le mani - solo Kunikida riuscì a reagire in tempo, prendendo Dazai per il colletto della camicia e trascinandolo fuori, prima che si scatenasse il caos.

Dio solo sa cosa sarebbe successo, se fosse rimasto un secondo di più. Leggende di strada narravano che Chuuya lo avesse maledetto così tante volte, insultando la porta dalla quale era uscito (sorridendogli, oltretutto, quel disgraziato gli aveva anche sorriso) fino a perdere la voce, e alla fine si era dovuto prendere il resto della giornata libero, per calmarsi. Dazai, invece, pareva che non fosse tornato nel suo ufficio, per il dispiacere di Kunikida, ma che avesse vagato fino al tramonto per le strade del centro, con la testa tra le nuvole, senza dare fastidio a nessuno (il che rappresentava uno scenario talmente assurdo che spinse la gente a non credere a nulla di tutto ciò, mettere da parte le fantasie e i pettegolezzi, e tornare alle loro solite vite).

A nessuno fu dato sapere, però, che Chuuya si era lasciato sfuggire qualche lacrima (non lo avrebbe mai ammesso nemmeno a se stesso e non seppe dirsi se fosse per il sollievo, per la frustrazione che levava la morsa dalle sue spalle stanche, o forse solo per una strana forma di soddisfazione - dopo tutti quegli anni passati a guardare ogni singola donna e a chiedersi che cosa ci trovasse, Dazai, in ognuna di loro). Però successe davvero, proprio quando Dazai, quella sera stessa, gli aveva chiesto di uscire: fu una telefonata breve, senza provocazioni e prese in giro, per una volta (forse Dazai aveva capito che era arrivato il momento di crescere, oppure aveva soltanto raggiunto il suo obiettivo primario e si riteneva soddisfatto - o, forse, aveva deciso di dare una spinta a quella ruota che gira e che non si ferma, l’aveva mossa con un soffio più deciso degli altri, aveva trovato il coraggio per agire senza più quella tossica paura di fare passi falsi e sbagliare - chi poteva saperlo?).

Fuori dalle divise dei loro impieghi e ben lontani dal comico teatrino che recitavano da troppo tempo; privi di quelle maschere talmente tanto spesse che, per riscoprire ciò che vi si celava dietro, probabilmente non sarebbe stata sufficiente quella singola serata trascorsa insieme, davanti a due calici di vino: sarebbero stati solo Chuuya e Dazai, il mondo distante, slegato da quel che avrebbero potuto essere.

Era un epilogo che nessuno avrebbe mai immaginato, ma entrambi - sotto sotto sotto - un po' avevano osato sperarci.



Tre mesi dopo.

"Dazai, disgraziato, ti sembra il caso di ridere così? Sei un adulto ormai, comportati come tale!"

Kunikida stava perdendo ogni speranza, non c'era nulla che potesse fare con quell'uomo: avrebbe continuato a comportarsi come un bambino viziato e dispettoso persino sulla soglia dei quarant'anni, ne era convinto. Se non fosse stato per il suo spiccato senso del dovere e per la responsabilità che il suo lavoro gli gettava sulle spalle (essere a capo di un'agenzia investigativa non è affatto una passeggiata, specialmente se devi avere a che fare con dipendenti raccomandati di quel tipo) probabilmente ci avrebbe rinunciato. Vedere un uomo adulto ridere così tanto da rischiare di soffocarsi, non era una scena particolarmente esilarante, per lui che si considerava una persona matura e con la testa saldamente fissata al collo. Per cosa ridesse, poi, lo sapeva solo lui: non era divertente guardare un ragazzino fare il suo lavoro, nell'ottica di Kunikida.

"Ti aspetti davvero che un tale idiota ti dia ascolto?" Chuuya, dal canto suo, quella speranza che Kunikida stava perdendo, non l'aveva neppure mai avuta. "Guardalo, non so come tu faccia ad averci a che fare- io non gli affiderei nemmeno una tazzina da sciacquare."

"Ah, Chuuya..." Dazai si ricompose e finse di essersi offeso, mentre si asciugava le lacrime ai lati degli occhi, ancora l'ombra della risata sulle labbra, "... però non dicevi così, la scorsa notte."

Con questo, ricominciò a ridere (anche Kunikida avrebbe voluto ridere, ma era troppo imbarazzato per Chuuya che, nel giro di qualche secondo necessario per realizzare cosa fosse accaduto, era diventato rosso quanto l'insegna del fast food e aveva minacciato di riempire di botte Dazai fino a farlo tornare sano di mente - avrebbe dovuto dargliene tante, veramente tante, una quantità inimmaginabile).

Intanto, Akutagawa continuava in silenzio a svolgere il suo lavoro, fingendo disinteresse nei confronti del mondo e mal celando quanto si sentisse a disagio. Mentre lasciava scorrere la bibita gassata in un bicchiere talmente grande che avrebbe potuto dissetare una persona normale per almeno tre giorni consecutivi, si chiese cosa ci fosse di così tanto divertente nel guardarlo prendere le ordinazioni, gestire la cassa e preparare i panini in quel fast food. Come Kunikida, anche lui non ne aveva la più pallida idea. Era già troppo complicato gestire quell’assurda euforia che lo prendeva, quando si rendeva conto di avere un posto assicurato, uno stipendio basso ma fisso, la possibilità reale di reggersi sulle sue gambe e di camminare.

Dove, non lo sapeva ancora. Ma avrebbe camminato con la certezza di non cadere più e che, se anche in futuro dovesse succedere, ci sarà qualcuno a sedersi accanto a lui, sull'asfalto.

E forse, piano piano, ce l'avrebbe fatta, a sistemare anche tutte quelle cose che non riusciva a cambiare.

"Ryuu, dovresti sorridere un po'."

Atsushi se ne stava con i gomiti sul bancone, aspettando quello che gli aveva chiesto di preparare.

"Perché?"

"Perché se no i clienti ti scambieranno per la solita cassiera frustrata..." e rise anche lui, ma in maniera più contenuta e socialmente accettabile rispetto a Dazai.

Akutagawa avrebbe voluto nascondersi sotto un tavolo, oppure infilarsi dentro la friggitrice, insieme alle patatine. Il lavoro glielo avevano trovato loro (Kunikida, per la precisione, che era riuscito a sfruttare le sue conoscenze per fargli avere quel posto) e adesso si prendevano gioco di lui, come se fosse improvvisamente passato da dipendente del fast food a pagliaccio di turno. Purtroppo, con quel bicchiere quasi colmo fino all'orlo in mano, non poteva fare nulla. Ci mise dentro una cannuccia con poca grazia e lo appoggiò sul vassoio, insieme a tutto il resto.

"Non mi pagano per sorridere," rispose, rivolgendo uno sguardo tetro e annoiato ad Atsushi.

"Ma non costa nulla farlo. E poi, mi piaci quando sorridi."

La colpa fu tutta di quegli occhi sinceri e limpidi che non avevano alcun timore di incontrare i suoi, se Akutagawa dovette distogliere lo sguardo e celare parte del suo viso con il palmo della mano, per coprire l'ombra di un timido sorriso.








Risponde la segreteria telefonica di Akutagawa Gin. Prego, lasciate un messaggio.

Beep.

"Gin. Sono le cinque del mattino. L'alba è fredda, ma dipinge i palazzi e le strade di una sfumatura tenue, tiepida. Vorrei che vedessi quello che vedo io."

Era appoggiato al davanzale, il vento fresco che gli scompigliava i capelli.

"Adesso ho un lavoro, uno serio," si sentiva ridicolo, "e presto potrò di nuovo permettermi l'affitto e forse persino tutte quelle cose che non servono davvero."

Silenzio.

"Chiamami, quando puoi. Vorrei sapere come stai. Mi manca sentire la tua voce e ho così tante cose da raccontarti."

Silenzio.

"Io sto bene, ora," sorrideva. "Non ho molto, ma ho tutto ciò di cui ho bisogno."

Raggi di luce erano dipinti sul viso di Atsushi: dormiva ancora, raggomitolato tra le coperte come un gatto. Fuori, il sole illuminava l'intera città adesso.

"Penso di aver trovato un posto che potremmo chiamare casa."

Silenzio.

Beep, beep, beep.








[Hai ricevuto una chiamata persa da: Gin]
[Tocca per richiamare]


 

note: rileggendola, questa storia non smette di imbarazzarmi ed emozionarmi al contempo, quasi come se non l'avessi scritta io. effettivamente, è molto diversa dalle solite cose che scrivo, sarà per questo che sono un po' insicura del risultato finale, oltre ai tre anni di blocco dello scrittore che l'hanno preceduta.

la canzone che ho citato nel testo vi consiglio di ascoltarla, se non la conoscete già! mi piaceva tantissimo l'atmosfera che creava, almeno nella mia testa, mentre immaginavo la scena e cercavo le parole per descriverla.

se volete, fatemi sapere cosa ne pensate, se ci sono errori o parti poco chiare, se vi ha lasciato qualcosa. mi farebbe piacere saperlo. in ogni caso, ci tengo a ringraziare di cuore chi ha avuto la pazienza di leggere ed è arrivato fin qui. <3

@ffuumei, 2020



 

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