A Silly Black Duckling

di artemide88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

Picchiai la testa sul legno, vecchio di un secolo, della scrivania. Non riuscivo a trovare le parole adatte a esprimere quello che nella mia testa era fin troppo chiaro. 
Se avessi dovuto scrivere su carta, il cestino sarebbe stato pieno di palline accartocciate. Invece, battevo al portatile una serie di frasi che cancellavo dopo pochi secondi. 
La poltrona in cuoio scricchiolava sotto la mia irrequietezza da prestazione. Avrei dovuto riportare al precedente proprietario quella vecchia sedia e acquistare qualcosa di più moderno ed ergonomico. E tanti cari saluti alla tradizione, firmato: la mia schiena.
Mi stropicciai gli occhi, cercando di ritrovare la concentrazione. Il discorso nella mia testa era ben delineato e non riuscivo a capire da dove venisse tutta quella difficoltà di espressione. Mi sentivo così sotto pressione...battei di nuovo la testa sulla scrivania, sperando di avere più successo dell’ultima volta.
Sussultai quando vidi che avevo un ospite, appostato sulla soglia dello studio. Il mio predecessore mi osservava come un falco, preoccupato.
“Tutto bene?”
“Insomma...” Borbottai, non proprio felice che mi avesse sorpreso in un momento di debolezza.
“Ti serve una pausa, che ne dici se ti faccio fare un giro?” Fece quel sorriso sotto i baffi che adoravo e accettai volentieri il suo invito, anche se conoscevo quel posto come le mie tasche.
“Il tuo discorso procede bene?” Chiese con noncuranza.
Scossi la testa, sapeva bene che non stava procedendo affatto.
“Ti darò qualche consiglio non richiesto, mia cara.” Mi prese sottobraccio con fare cospiratorio. “È il tuo primo discorso e vuoi sia sensazionale.”
“Certo, dopotutto entro ufficialmente in carica con quel discorso.” Non potei evitare una nota di panico e disperazione nella voce.
“È qui che sbagli, tesoro. Non deve essere sensazionale, deve essere sincero. Ripensa a quello che vuoi esprimere, quello che è davvero importante per te.”
Passeggiamo ancora un po’ e poi mi concessi di dargli un bacio vicino ai baffi per quei consigli non richiesti che mi avrebbero di certo fatto scrivere un buon discorso. 
Sensazionale no, sincero sì.




p.s. dell'autrice. Questa storia nasce così, quasi per caso, verso l'inizio di maggio, quando avevo bisogno di qualcosa di leggere per distrarmi. Ieri è stata conclusa e ho deciso di pubblicarla, visto che qui siamo sempre più zona rossa. vi terrò compagnia per parecchie settimane, sperando di passare a un colore migliore. 
Buona lettura 
Sara

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***



Buona lettura.



CAPITOLO 1

Mi guardai allo specchio e pensai solo che fossi una sopravvissuta. Sì, ok, forse era un poco esagerato dire che fossi una sopravvissuta. Ma mi sentivo così a ogni fine e inizio anno scolastico. 
Ero sopravvissuta alle elementari, alle medie e ai primi due anni di liceo. Ed ero persino riuscita a passare indenne l’asilo. 
Storsi il naso per la mia piccola battuta mentale. Mia madre non avrebbe approvato per niente il mio sarcasmo. Avevo qualche possibilità in più di far sorridere papà.
Ritornai con la mente sulla mia immagine riflessa. Avevo cambiato tutte le taglie in una sola estate, il seno si era riempito e mi ero alzata di qualche centimetro. La pelle non sembrava più quella dell’adolescente brufolosa e con l’apparecchio che ero stata fino a giugno. Lo scorso giugno. Erano passati solo tre mesi? Mi sembrava un’eternità! Mi permisi di pensare che qualche miglioramento apprezzabile c’era stato.
Potevo finalmente iniziare il terzo anno di liceo con un po’ più di autostima. Questo pensiero mi fece incurvare le spalle. Perché alla White Swan Prep Accademy nessuno avrebbe fatto passare sotto silenzio il mio cambiamento. O meglio ancora, a nessuno sarebbe importato del fatto che fossi così cambiata perché era la loro mentalità da cavernicoli che non sarebbe cambiata nemmeno in tre secoli, figurarsi in tre miseri mesi. Avrebbero trovato lo stesso un pretesto per prendersela con il Brutto Anatroccolo.
Sconfitta dai miei stessi pensieri presi la giacca nera, con lo stemma bianco della scuola sul taschino, e lo zaino.
“Isabella!” Mia madre urlava dalla tromba delle scale per avvertirmi che era tardi, maledettamente tardi.
“Non vorrai finire in presidenza il primo giorno, vero?!” Mio padre rise sotto i baffi mentre mi sedevo al tavolo per la colazione. Stava leggendo il suo quotidiano preferito.
“Che palle.” Sbuffai nella tazza dei cereali.
“Isabella!” A mia madre le parolacce proprio non piacevano. “Caro, anche tu farai tardi.” Papà rivolse uno sguardo indolente all’orologio e scattò sull’attenti.
“Maledizione!” Papà sputò l’imprecazione assieme a qualche goccia di caffè.
“Charlie!” Ecco, a mamma non piacevano nemmeno le imprecazioni condite da schizzi di caffè sulla sua tovaglia candida. Soffocai una risata nei cereali o mia madre ne avrebbe fatto una tragedia e non sarei mai arrivata in orario a scuola. Di andare in presidenza non avevo proprio voglia.
“Vado.” Comunicai a mia madre qualche minuto più tardi, dopo una tappa in bagno per lavarmi i denti e pettinarmi per l’ennesima volta i capelli. Era forse ora di tagliarli visto che arrivavano ormai oltre la metà della schiena, ma era proprio perché non ero molto attenta al mio aspetto esteriore, che per tutti ero il Brutto Anatroccolo.
“Buona giornata, tesoro.” Mamma mi diede un bacio in fronte e mi lasciò andare con un sorriso, ma lei non sapeva nemmeno quanto potesse essere schifosa una giornata alla White Swan, quindi non commentai.
Invece, risposi svogliata al cellulare, ben sapendo che era l’orso nero. “Sorellina!” Era mio fratello maggiore, già al college da due anni. Quando io iniziavo il liceo, lui lo finiva. Io la sfigata della scuola, lui il dio supremo. Io il Brutto Anatroccolo, lui il Cigno Bianco.
“Ciao, Jake.” Sospirai sconfitta mentre mettevo gli auricolari per poter guidare fino alla scuola. “Come stai?”
“Io benissimo, ma dimmi di te? Quanto sei eccitata dal primo giorno.” Come dicevo, lui amava il liceo, io lo odiavo con tutta me stessa. 
“Odio il liceo.” Non mi aspettavo davvero che mio fratello mi ascoltasse. Gli volevo bene, ma era seriamente troppo preso da sé.
“Su su Isabella, vedrai che quest’anno andrà meglio.” Ogni anno sarebbe dovuto andare meglio del precedente, ma ogni anno faceva schifo più del precedente. Solo che lui era una stella del football, il re del ballo, lo studente modello, il rappresentante degli studenti. Il più amato, il più acclamato.
A che pro ricordargli tutto ciò? Mio fratello aveva già un ego super sviluppato, senza che anche io lo adulassi. Interpretò il mio silenzio come un incoraggiamento a riprendere ancora una volta il suo discorso preferito.
“Se la smettessi di fare la sostenuta e ti decidessi a...”
“MAI!” Urlai con quanto fiato avevo in corpo, facendo voltare verso di me qualche studente che ancora bighellonava nel parcheggio. Avevo dimenticato di avere il finestrino abbassato per l’aria calda di un settembre appena iniziato. Dovevo sembrare una pazza, gli auricolari invisibili, coperti dai capelli. “Mai.” Ripetei abbassando la voce e nascondendomi a sguardi indiscreti con i capelli. Averli così lunghi mi permetteva di avere una vera e propria cortina protettiva. “Mai e poi mai sfrutterò qualcosa che non mi sono conquistata io stessa.” 
“Isabella...” Jacob sospirò pesantemente, sapendo bene che non l’avrebbe mai avuta vinta. 
“Devo andare.” Chiusi seccamente la telefonata e mi avviai verso l’entrata della più rinomata scuola dello Stato. Oltre ad essere quella con la retta più alta, dove i figli di papà se la spassavano facendo cazzate. Tanto i danni li pagavano i genitori.
Scesi dalla macchina, senza darmi la pena di guardare chi avessi disturbato con i miei schiamazzi. Non ero nessuno per loro e loro non erano nessuno per me.
“Oh, ma è il nostro piccolo Anatroccolo!” 
Jessica Stanley, il mio incubo personale, si piantò decisa davanti a me, il tacco 10 ben saldo sull’asfalto. Io invece con le ballerine rischiavo di cadere a terra.
“Jessica. Passato belle vacanze?” Borbottai cercando di oltrepassarla. Ovviamente non me lo permise. Mi prese il volto tra le mani e mi soffio sul viso quel suo alito profumato da duemila dollari. “Mi sei mancata tanto Anatroccolo.” Strinsi i pugni attorno ai lacci della cartella perché non avrei mai ceduto alla violenza. Anche se avrei tanto voluto vederla traballare sui suoi tacchi. Si allontanò da me con un sorriso beffardo in volto e si mise una mano alla bocca, in posa da finta sorpresa. “Oh, ma ti sono cresciute le tette!” 
Cercai di nuovo di oltrepassarla e di entrare a scuola, il primo giorno il preside teneva un discorso nella palestra e non erano ammessi ritardi.
“Non così in fretta, Black.” Le sue amichette del cuore formarono un muro impenetrabile. Tenni lo sguardo basso, per non mostrare quanto fosse la mia voglia di spaccarle la faccia o il mio odio per i suoi capelli biondissimi e il suo fisico da paura. “Questo è il mio ultimo anno e voglio divertirmi. Quindi da oggi in poi mi farai i compiti. Chiaro, Anatroccolo?”
“Perché, sei così stupida da non riuscire neanche a fare 2+2?” Alzai il volto fintamente scioccata e allo stesso tempo avrei voluto mangiarmi la lingua. L’anno scolastico era appena iniziato e io mi stavo già mettendo in un mucchio di guai con la reginetta del ballo.
“Attenta, insetto.” Mi squadrò altezzosa e sdegnata. “Troverai mie notizie nel tuo armadietto.”
Se ne andò perché la prima campanella stava già suonando. Se non avessi volevo finire dal preside mi sarebbe convenuto darmi una mossa, ma il misi il piede in fallo. Una delle amichette della stronza mi aveva fatto lo sgambetto e io finii dritta a terra, dentro una pozzanghera, scatenando le risate perfide di tutte quelle oche bionde. Appoggiai la fronte sull’asfalto, sconsolata. Sarebbe stato un anno lunghissimo.

Ovviamente arrivai in ritardo in palestra. Cercai di farmi piccola piccola e di entrare senza dare nell’occhio. Ero stata in bagno per togliermi alcuni sassolini di asfalto dai capelli, senza per altro riuscire a ripulirli del tutto. Almeno la giacca era ancora passabile, mentre avevo dovuto cambiare camicia e gonna. Il bianco non andava d’accordo con il fango. Avevo una discreta scorta di indumenti a mia disposizione nell’armadietto proprio perché questi incidenti erano all’ordine del giorno con persone come Jessica Stanley.
La porta antipanico della palestra sbatté alle mie spalle, facendo voltare metà del corpo studentesco verso di me. L’altra metà abbassò il capo, ridacchiando per la mia figuraccia. Il preside, in piedi, al centro della palestra interruppe il suo discorso e si voltò a guardarmi. Mi feci ancora più minuscola e scivolai lungo la parete per rendermi invisibile, borbottando qualche scusa insignificante.
Quando la cerimonia d’apertura del nuovo anno scolastico terminò, non fui abbastanza svelta da dileguarmi prima che il preside mi convocasse nel suo ufficio.
La Stanley mi oltrepassò sdegnata, per lei ero solo un insetto che occupava abusivamente il suo territorio di ape regina. Dovevo essere schiacciata, umiliata e sbattuta fuori dal suo regno.
“Signorina Black, entri.” Il preside mi fece entrare dopo di lui nel suo studio. Quando chiuse la porta mi fissò a lungo arricciandosi i baffi.
“Così mi irriti.” Gli comunicai andando a sedermi a una delle poltrone davanti alla scrivania. 
“Sei uscita con me. Come hai fatto a essere in ritardo?”
Lasciai cadere la domanda. “Il tuo discorso lo so a memoria, papà, ti ho aiutato a scriverlo, ricordi?” 
Charlie Swan, preside e proprietario della White Swan Prep Accademy, sospirò e si sedette finalmente alla scrivania, vecchia di un secolo appartenuta al nostro antenato e fondatore della scuola.
“Se qualcuno ti dà fastidio...”
Lo interruppi subito, sapendo dove voleva andare a parare. “Non userò il mio cognome, non ho intenzione di dire che sono tua figlia e la sorella di Jake.”
“Quanto sei testarda!” Sbottò per l’irritazione, allentando la cravatta e slacciandosi il primo bottone della camicia. “Zia Sue...”
“Zia Sue dice sempre tante cose. Per lei conta solo il cognome. Io voglio che tutto quello che ho sia mio.” E mentalmente aggiunsi che non avrei mai voluto essere in quella scuola perché non pagavo la retta astronomica né avevo contribuito a costruire alcunché. Era l’unico commento che faceva davvero infuriare papà perché, secondo lui, la sua figlia preferita si meritava, e aveva tutto il diritto, di studiare in quella scuola.
“Il tuo maledetto orgoglio. Torna in classe e non fare altri ritardi, signorina Black.” Oltrepassai la scrivania vecchia di un secolo e diedi un bacio sulla guancia al mio preside preferito. Charlie rise sotto i baffi.





p.s. dell'autrice: ho deciso di pubblicare subito il primo capitolo perchè credo che il solo prologo sia poco intrigante. Si inizia già a scoprire il grande segreto di Isabella e parte del suo carattere. Inoltre si capisce anche il senso del titolo dell storia. Black non è solo riferito al cognome scelto da Isabella, ma anche al Cigno Nero, ma questo è un tema che si affronterà meglio in seguito.
A presto
Sara

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Buona lettura


CAPITOLO 2

Il primo giorno di scuola caddi nella pozzanghera.
Il secondo trovai dei reggiseni osceni nell’armadietto.
Il terzo giorno delle alette di silicone per sostenere il seno. Sembravano pezzi di carne viscidi.
Il quarto giorno una cartelletta piena di compiti da fare per il lunedì successivo. Jessica Stanley proprio non si arrendeva. Diedi una sbirciata ai fogli. Io frequentavo tutti i corsi avanzati, ma lei era proprio idiota se quelli erano i suoi compiti. Forse sarebbe stato meglio se i genitori le avessero pagato qualche lezione privata, oltre al botox. Beh, con il patrimonio che avevano gli Stanley...
Una spallata mi fece volare tutti i fogli per terra. Il rumore metallico mi informò, invece, che la mia testa aveva sbattuto contro l’armadietto. 
“Oh, Brutto Anatroccolo, hai battuto il becco?” Le risate si propagarono velocemente nel corridoio. Anche chi non aveva assistito alla scena si stava preparando a sbellicarsi. Tutti volevano ingraziarselo.
Edward Cullen mi era arrivato alle spalle senza che me ne accorgessi con il suo circolo di amici psicopatici del football. Se Jessica era l’ape regina, Cullen era proprio un bastardo. Gli stavo lontana e lui puntualmente mi prendeva alla sprovvista con qualche dispetto. 
Un anno avanti a me, era bello, ma proprio bello, con il suo viso assolutamente perfetto, gli occhi di un profondissimo verde e capelli ramati e ribelli. Ma oltre all’aspetto fisico non c’era nient’altro di bello in lui. 
Mi chinai a prendere i fogli sparsi a terra. Non potevo permettere che andassero persi o che si...
“Cullen, togli il piede. Stai sporcando...” 
“Cosa? Questo?” Impresse con forza l’impronta della suola sul foglio bianco. E adesso come lo spiegavo alla strega?
Mio fratello aveva lasciato lo scettro e il potere a questo essere abbietto, designandolo come suo successore sul campo da football e nei corridoi della scuola. Ma Jake, per quanto preso da sé, non era mai stato cattivo con nessuno. Forse essere il figlio del preside lo doveva in qualche modo trattenere dal fare il bullo.
Cullen voleva che mi umiliassi, che implorassi la sua pietà per fargli togliere il piede. Ero sì disperata, ma non fino a quel punto. Le lacrime stavano affiorando, ma le trattenni, abituata come ero a non mostrare nessuna emozione davanti ai bulli. Se ne sarebbero approfittati e mi avrebbero fatto mangiare ancora più polvere. 
“Cullen!” Il grido arrivò dal nuovo professore di biologia. Era in fondo al corridoio e il suo ingresso fece riprendere a scorrere la vita studentesca. Come se a un lavandino pieno d’acqua fosse stato tolto il tappo, gli studenti defluirono silenziosamente dal corridoio, non prima di essersi goduti Edward Cullen che faceva gli occhi dolci a quello di biologia, dicendo che era tutto un clamoroso equivoco.
“Sta bene, signorina Back?” Sentivo la testa pulsare, probabilmente per un incipiente bernoccolo, ma annuii. Presi il manuale di storia e mi fiondai verso la classe.
“Ehi, Black.” Lo stronzo non voleva ancora lasciarmi andare. Mi aveva rincorso con il compito di Jessica tra le mani. “Attenta, potrebbero essere troppo difficili per te.” Rise beffardo lanciandomi quel maledetto foglio e se ne andò. Voleva umiliarmi un’ultima volta, l’intervento del professore gli aveva tolto l’ultima parola, sua di diritto.
Corsi per i corridoi fino al bagno femminile e ci sprofondai dentro, dimenticandomi che storia mi attendeva. 
Edward Cullen si divertiva a tormentarmi dal mio primissimo giorno al liceo. Mi aveva sorpreso a guardarlo con gli occhi a cuoricino e da allora mi prendeva in giro, ma finché il regno era stato di Jake si era contenuto, limitandosi ad affibbiarmi il soprannome di Brutto Anatroccolo, forse pensando che fosse qualcosa di arguto, dato il nome della scuola. Di sicuro agli altri era piaciuto molto, così in contrasto con il titolo per il re del ballo, il Cigno Bianco.
Da quando era lui il Cigno Bianco...beh, era diventato più perfido di Jessica. Lei era stupida, lui era solo cattivo.
Strinsi il bordo del lavandino e mi chiesi se non dovessi ingoiare un po’ di orgoglio e dire a tutti che il mio cognome non era Black, ma Swan, così almeno avrebbero avuto un po’ di remore a prendersela con la figlia del preside. 
Ma avrei perso la stima per me stessa rifugiandomi nel mio cognome. Inoltre, avrei solo fatto arrabbiare le api dell’alveare, che mi avrebbero di certo punto come punizione.
Passai il resto della giornata nel bagno femminile del secondo piano, ala nord, vicino all’aula di informatica. Avevo sempre nello zaino un cartello con scritto fuori servizio proprio per occasioni come questa.

Il cartello non disturbare appeso alla porta della mia stanza, purtroppo, non funzionò così bene. 
“Si può sapere che cosa è successo?”
Papà si sedette sul letto e mi fissò in attesa di spiegazioni.
Feci finta di nulla, ma mi sarei dovuta aspettare che qualche professore si lamentasse della mia assenza o che quello di biologia facesse la spia.
“A che ti riferisci?”
“Isabella...” Charlie si strofinò gli occhi. “Passo tutto il giorno a cercare di non pensare alle stronzate che fanno i miei studenti, ma credi davvero che non sappia quello che succede nei corridoi?” Indicò la mia fronte, dove un brutto livido violaceo stava facendo la sua comparsa. Scostai i capelli per tentare almeno in parte di nasconderlo.
“Stanno iniziando a darti più fastidio del solito, vero?” Alzai le spalle.
“Mi diplomo in anticipo e l’anno prossimo sarò al college, lontano da qui, papà.” Stavo dando il massimo per potermene andare prima, al college nessuno sapeva chi fossi e avrei potuto ricominciare da zero. “Posso resistere. E no.” Fermai la sua mano prima che prendesse i compiti finiti di Jessica. Li avevo terminati in meno di un’ora. “Non puoi fare rapporto alla Stanley, perché lei se la prenderebbe con me.”
“Che schifo essere la figlia segreta del preside.” Papà proprio non accettava la mia scelta di non usare il suo cognome. “Non puoi nemmeno...”
“Cosa papà? Nascondermi? Usare il cognome come un parafulmine? Credi davvero che si fermeranno e non insulteranno anche la famiglia?” Al primo anno di medie avevo deciso di cambiare il mio cognome, così per gioco, perché io volevo essere il Cigno Nero per ripicca nei confronti di Jake che aveva già iniziato il liceo e prometteva di essere il prossimo Cigno Bianco. Ero una bambinetta molto gelosa del suo talentuoso fratello. “Con chi pensi che se la prenderanno poi? In ogni scuola c’è un bullo e quel bullo se la prende con quello che crede che sia il più debole, papà.”
“Non sanno proprio con chi hanno a che fare.” Papà sorrise facendomi arrossire. “Sei così straordinaria e nessuno lo sa.”
“Tu lo sai, papà. Non voglio che se la prendano con chi non sa difendersi. Pensi davvero che la piccola Maggie O’Shea o l’imbranato Erik York possano sopravvivere senza di me che attiro i fulmini più grandi?”
“Vorrei solo poter fare di più, ma sai benissimo che senza una denuncia formale...”
“E davvero pensi che il comitato esecutivo della scuola ti permetterebbe di inimicarti qualcuno come il Dottor Cullen?” Il padre di Edward proveniva da un’antica famiglia coloniale, forse scesa direttamente dalla Mayflower. Tuttavia, sapevano tutti che il patrimonio famigliare si era assottigliato parecchio finché il dottore non aveva infuso nuova linfa, investendo sulla sua carriera di primario e di proprietario di ospedali. Con la vita e la morte si facevano bei soldi, a quanto pare. “Lascia stare papà.”
“Posso almeno fare qualcosa per te?”
Mi morsi il labbro inferiore perché c’era davvero qualcosa che avrebbe potuto fare, ma la tradizione di famiglia era dura a morire. Anche gli Swan sembravano essere arrivati con la Mayflower, ma non avevano navigato sempre nell’oro. Solo con il mio trisavolo che aveva fondato la scuola avevamo avuto fortuna. La mentalità, però, si era proprio arenata alla nave inglese: solo i maschi Swan del ramo principale della famiglia potevano ereditare la casa e la scuola. Non una figlia femmina sarebbe diventata preside della White Swan. Credo fosse per dare una linea di continuità al cognome Swan, anche se il pettegolezzo preferito in famiglia era che il trisavolo fosse arrabbiato a morte con la figlia minore per aver sposato un mercante di stoffe e che per questo avesse giurato che nessuna femmina Swan sarebbe stata mai un Cigno Bianco.
Quindi, anche se il mio desiderio più grande era di sedere oltre la scrivania nello studio del preside, scossi la testa. La nomina ufficiale, ma del tutto superflua, avveniva in una solenne riunione famigliare allargata fino al quarto grado e nessuno avrebbe apprezzato il fatto che la tradizione venisse sovvertita. Jacob sapeva bene quale fosse il suo destino, sposarsi, fare figli maschi e diventare preside.
Queste stupide regole patriarcali mi davano il voltastomaco, anche perché mio fratello non sembrava minimamente interessato a prendere il posto di mio padre. Io invece...
Scossi di nuovo la testa. “No papà, tranquillo. Voglio solo andare al college e dimenticarmi di questi anni. Ho fatto il massimo.”
Papà trattenne un commento che gli stava scivolando sulla lingua. Lo invitai a rendermi partecipe dei suoi pensieri. Essere la figlia prediletta aveva i suoi vantaggi.
“L’anno prossimo, quando te ne andrai, cosa faranno la Maggie O’Shea o l’Erik York di turno?”
Non capivo cosa intendesse. “Li stai proteggendo, senza però ribaltare lo status quo, Isabella. Pensi davvero che l’anno prossimo non ci saranno bulli e che nessuno se la prenderà con i più deboli? Hai davvero fatto il massimo proteggendoli senza combattere?”
Detto ciò se ne andò, lasciandomi l’amaro in bocca.



p.s. dell'autrice: ok, potete picchiare Edward, ma sappiate che mi serve ancora per qualche capitolo e non lo vorrei troppo malconcio. vi giuro che lo farò redimere e che poi farà il bravo, forse. 
A presto
Sara

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Buona lettura




CAPITOLO 3

La settimana dopo arrivai a scuola molto presto per mettere i compiti di Jessica nel suo armadietto. Gli allenamenti delle squadre di football e delle cheerleader sarebbero terminati dopo poco e dovevo sbrigarmi per non farmi trovare nei paraggi. Sarei stata un bersaglio troppo ghiotto. Passai il resto del tempo a mettermi in pari con le lezioni che avevo perso la settimana prima per nascondermi da Edward Cullen.
La mattinata trascorse tranquilla e senza incidenti degni di nota. Ero felice che un’altra giornata fosse arrivata a termine, ma il pericolo era sempre dietro l’angolo. Restare costantemente all’erta era sfiancante.
All’ultima ora avevo biologia e come sempre sedetti al tavolo del laboratorio da sola. Sapevo bene che nessuno dei miei compagni di corso mi avrebbe affiancato, dato che ero considerata peggio della morte nera. Tutti evitavano di parlarmi o salutarmi per non finire ancora più in basso nella gerarchia sociale. Io ero così concentrata sullo studio e sulla possibilità di un diploma anticipato che non me ne fregava molto. Avere degli amici non era contemplato nella mia visione scolastica.
Tolsi gli auricolari dalle orecchie quando il professore fece il suo ingresso e ci alzammo in piedi. Come dicevo, le assurde tradizioni erano dure a morire e il White Swan aveva un rigido codice di comportamento e tante regole disciplinari. Per lo più i ragazzi ricchi se ne fregavano delle regole, ma non avrebbero mai apertamente mancato di rispetto ai professori. 
Il professore alla cattedra stava ricapitolando gli argomenti già affrontati la settimana precedente, per essere sicuro che nessuno fosse rimasto indietro. Essere nel corso avanzato all’ultimo anno non era una passeggiata.
La porta dell’aula si aprì e si richiuse con un tonfo sordo. “Ah, Cullen. Mi chiedevo quando sarebbe arrivato.” Il professore di biologia aveva un ghigno trionfante in faccia. “Prego, si accomodi. Credo che l’unico posto libero sia vicino alla signorina Black.” Mi irrigidii all’istante, mentre il professore faceva un ampio gesto per indicarmi al mio aguzzino.
“Grazie professore.” Cullen si avvicinò a me e depose con malagrazia la cartella sul bancone. Io di riflesso allontanai la sedia il più possibile.
Per il resto della lezione restammo come sospesi, in attesa che succedesse qualcosa, lui con il broncio da bimbo rimproverato, io in allerta. Mi concessi di guardarlo e ammirarlo da vicino, aspettando una sua mossa che non avrebbe mai osato fare di fronte a un professore. Era molto più che bello, era bellissimo e la mia cotta adolescenziale era sempre lì, in agguato per tendermi una trappola e azzannarmi alla giugulare e farmi dimenticare quanto fosse disgustosa come persona.
La campanella suonò e io tirai un sospiro di sollievo perché almeno sarei potuta andare a nascondermi nel mio bagno all’ala nord finché non fossero usciti tutti gli studenti dalla scuola. 
“Solo un secondo. Quest’anno farete molti lavori di coppia e non sarà possibile cambiare il vostro compagno di laboratorio.” Gemetti impercettibilmente perché il professore di biologia avanzata era anche più perfido del mio compagno di banco. Un intero anno con Cullen. Potevo morire lentamente.
“Signor Cullen e signorina Black, fermatevi. Devo parlarvi.” Il mio proposito di fuggire e nascondermi doveva attendere ancora un poco. Mi feci forza e andai alla cattedra.
“Mi aspetto che collaboriate. Non ammetterò nessun comportamento scorretto nelle mie lezioni o nei corridoi.” 
“Professor Molina...” Cullen tentò di dire qualcosa forse per affasciare il professore ma con scarso successo visto che venne subito interrotto.
“No, Signor Cullen. Non voglio sentire scuse di alcun tipo. Ho accettato di averla nella mia aula solo per costringerla a essere educato con la sua compagna di classe.”
“Professore...” Tentai anche io, ma allo stesso modo venni messa a tacere.
“Mi aspetto, Signorina Black, che faccia in modo che il Signor Cullen si rimetta in pari con il programma. È biologia avanzata dell’ultimo anno e non si può rimanere indietro.”
Quell’uomo era un sadico bastardo. Molina ci congedò senza dire altro. Per punire lui, puniva me.
Cullen non mi degnò di uno sguardo mentre se ne andava dall’aula.
“Aspetta.” Gli presi il braccio per fermare la sua fuga e me ne pentii subito, per lo sguardo di fuoco che mi rivolse. “Non è colpa mia se Molina è uno stronzo. Anche a me non piace doverti stare accanto, poco ma sicuro.”
“Cosa vuoi Black?” Domandò duro.
“Ti fotocopio i miei appunti di biologia e te li lascio nell’armadietto, va bene?”
Lui sembrò vagamente sorpreso della mia offerta. “Perché?”
“Perché cosa?”
“Perché lo faresti?”
“Perché io non voglio doverti aggiornare sul programma tanto quanto tu non vuoi stare in mia compagnia. Ma se Molina non cede...”
“Puoi sempre abbandonare il corso. Non sei troppo piccola?” 
Ah già. In effetti non era il mio corso, ma quello del quarto anno. Feci spallucce. “Vattene tu, c’è anche il corso base di Smith.”
Mi guardò in cagnesco. “Aspetto i tuoi appunti.” Disse e se ne andò. Perfetto nemmeno lui avrebbe ceduto, avremmo dovuto convivere pacificamente per il resto dell’anno. Se quelle erano le intenzioni di Molina...
Mi fiondai in presidenza e non ascoltai nemmeno la segretaria che mi diceva che il preside era impregnato. Spalancai la porta di scatto, ma me ne pentii subito. Abbassai la testa colpevole perché nello studio c’era proprio il mio nuovo professore di biologia che parlava con il preside davanti a un bicchiere di scotch.
“Torno dopo.” Mormorai al colmo dell’imbarazzo. I professori non sapevano chi fossi e di certo la prossima volta avrei atteso che la segretaria mi annunciasse. 
“No, signorina Black, perché non si unisce a noi?”
“Non ho l’età per bere scotch alle quattro del pomeriggio.” Dissi dirigendomi alla mia poltrona preferita, fregandomene per una volta di mantenere le apparenze. “Bessy, può portare del tè? Nero all’arancia, senza zucchero né latte.” Dannazione a mio padre che conosceva così bene i miei gusti. Anche Molina ne sembrava quanto meno sorpreso. “Isabella, io e Xavier stavamo giusto parlando della tua ultima ora.”
“La mia ultima ora da schifo, grazie, professore.” Mi lasciai sprofondare nei cuscini senza dire altro. Ero troppo arrabbiata per il brutto scherzo.
“Sembra proprio che anche a lei serva della disciplina.” Commentò solo Molina stringendo il bicchiere. Stavo per ribattere quando Bessy entrò con il tè. 
Venne congedata da papà e lui si rivolse al professore. “Xavier, siamo stati compagni di scuola e per questo penso che tu debba sapere due cosucce sulla signorina Black.” Storsi il naso, ma tanto papà non si sarebbe arreso. Era un vecchio commilitone dei bei tempi che furono, quindi non avrebbe taciuto. “Xavier Molina ho l’onore di presentarti mia figlia, Isabella Swan. Testarda come un mulo, ma orgoglio del suo papà.”
Mi alzai e tesi la mano al professore, leggermente scioccato. “Perché?”
“Il perché glielo ha detto papà, sono testarda come un mulo. Ora, veniamo a noi: deve togliermi Cullen di dosso.”
“Avevo immaginato che fossi arrivata qui come una furia per quello, tesoro.” Fulminai con lo sguardo il preside. “A te serve il corso di biologia avanzata per diplomarti in anticipo, a Cullen serve perché lo vuole suo padre e non andrà mai contro il genitore. Nessuno può abbandonare il corso e la decisione non è di Xavier, ma mia, e non ho intenzione di fare marcia indietro.”





p.s. dell'autrice: se pensate che Edward o Charlie meritino qualche ceffone, beh, contenetevi, si stanno solo riscaldando. Questa storia nasce dopo che ho letto un libro consigliato dalla mia beta e vi assicuro che il protagonista maschile era anche più odioso.
, lo so, sono all'antica, ho una beta che prima di essere tale, è una carissima amica. Oltre a consigliare bei libri (giuro solennemente che non leggerò per l'ennesima volta quel libro che sai tu), si assciura che scriva cose decenti, tiene sotto controllo la struttura logico narrativa dei miei racconti e non si fa sfuggire un verbo scorretto.
Consiglia anche anime a tempo perso. Quindi un sentito grazie. 
Grazie anche a chi segue e legge di questi due pazzi.

Detto questo, vi do appuntamento alla settimana prossima, devo andare a scrivere la letterina a Santa Lucia.
A presto
Sara


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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Buona lettura


CAPITOLO 4

Ero d’accordo con la decisione di Molina? O con quella di mio padre? Assolutamente no e sembrava che tutto il cosmo stesse complottando contro di me. 
A mia madre fece molto piacere sapere che Xavier Molina era diventato il mio insegnante, sembrava che tutti in casa lo conoscessero. Perché io invece avevo un buco nero enorme in testa? Possibile che non lo avessi mai sentito nominare, se era tanto amico dei miei genitori? 
Decisi che da allora in avanti sarei stata decisamente più attenta a quello che si diceva in casa. Per un anno avrei dunque sopportato di buon grado le chiacchiere inutili quando la famiglia era riunita attorno al tavolo.
“Pensi di parlarmi prima o poi?” Mio padre mi sventolò la mano davanti agli occhi.
“Hai detto qualcosa?” Chiesi confusa alzando gli occhi dai legami ionici su cui Molina ci avrebbe fatto la verifica. Storsi il naso perché papà mi aveva fregato, prendendomi in contropiede.
“Oh, ben tornata tra noi, tesoro.” Papà rise sotto i baffi mentre beveva il suo solito caffè per colazione, il giornale ripiegato e posato vicino a lui. E per fortuna che mi ero ripromessa di non distrarmi più tanto da perdere le conversazioni. Chiusi il libro e me ne andai senza salutare. Erano passate quasi due settimane e no, non avevo ancora perdonato mio padre per il suo scherzetto innocente
Non mi aveva reso di sicuro la vita più facile. Edward Cullen restava uno stronzo di prima categoria che cercava in tutti i modi di mettermi in imbarazzo solo per divertirsi a mie spese.
La notizia che facevamo coppia a biologia si era diffusa per i corridoi e mi sentivo più osservata che mai. Ogni tanto coglievo qualche brandello di conversazione sussurrata. 
Edward dovrà farsi coraggio...
Edward è davvero un gentiluomo a sopportare questa punizione...
Edward dovrà fare del suo meglio con un’idiota del genere...

Certo, perché l’unico che ne stava facendo le spese era il povero Edward Cullen, che non si era degnato nemmeno di rivolgermi la parola dopo che gli avevo offerto i miei appunti, nemmeno un grazie aveva sfiorato le sue dolci labbra.
“Non sederti così vicino a me.”
“Ciao anche a te, Cullen.” Non mi aveva nemmeno lasciato sedere al tavolo che già mi sussurrava parole dolci. 
“Sì, ciao. Questa situazione non può andare avanti così. Dobbiamo intervenire e parlare con il preside, lui può sicuramente...”
“Alt. Ci ho già tentato e non ha funzionato.”
“Certo se ha chiederglielo sei tu...”
“Cosa vorresti dire?” Sibilai sospettosa.
Alzò le spalle con non curanza. “Sei povera e non puoi pretendere che accetti le tue richieste.”
Inarcai il sopracciglio, scettica. Mi aveva definito povera? Vero, forse la mia famiglia non possedeva il patrimonio dei Cullen e non lo sbandieravamo ai quattro venti, ma la sua arroganza non aveva fine. Il fatto che non sapesse nulla di me e del rapporto privilegiato che avevo con il preside, che andava ben oltre i suoi dannanti soldi, mi irritò ancora di più perché era uno stupido supponente. 
“Cosa intendi per povera?”
“Sei una borsista.” Non gli scoppiai a ridere in faccia solo perché arrivò Molina.
Dopo qualche minuto in cui il discorso di Cullen sulla mia presunta povertà era andato nel dimenticatoio, mi arrivò un bigliettino dal mio compagno di banco. Sul serio? Come alle elementari?
Quando il professore si girò vero l’altro lato della classe lessi il bigliettino perché la mia curiosità era troppa. 
Sei una borsista.
Cosa te lo fa credere? Gli ripassai veloce il foglietto.
Nessuno sa chi siano i Black.
Quindi?
Quindi sei povera e hai una borsa di studio.
Quindi?

Sembrava una partita di pingpong, la pallina di carta che viaggiava tra di noi a velocità folle.
Quindi mi irriti, tu e la tua povertà.
A me irrita la tua povertà di spirito.

La mia ultima frase gli fece stringere nel pungo la pallina di carta e assottigliare le labbra, preso dalla rabbia, e non commentò più. A fine lezione usò la nostra conversazione per fare canestro nel cestino dei rifiuti.
Mi guardò gelido e un brivido mi risalì sulla colonna vertebrale. “Quello è il tuo posto.”
Mi aveva appena dato del rifiuto. Mi alzai dal mio posto, facendo finta che quel commento sprezzante e tutta la nostra silenziosa conversazione non mi avessero punto sul vivo, come se non mi importasse nulla di essere disprezzata ancora una volta.
Impiegai più tempo del dovuto a radunare i miei libri e a metterli in cartella per evitare che qualcuno potesse anche solo sospettare che ci fossi rimasta male. Era vero che ormai convivevo ogni giorno con gli insulti, con gli scherzi e con il disprezzo di questi ricchi e viziati figli di papà, ma ero stanca. Ero così stanca che quest’estate avevo preso la decisione di fare due anni in uno per potermi liberare dall’oppressione delle loro angherie. Il mio cuore non avrebbe retto ancora a lungo l’assenza di amici.
Potevo mentire quanto volevo ai miei genitori o a mio fratello. La verità era che non ero abbastanza forte per quel posto e che desideravo solo fuggire.
Lentamente andai alla mia macchina, senza nemmeno passare dall’armadietto a depositare i libri inutilizzati. Era una vecchia berlina bianca, con un po’ di ruggine qua e là, ma che funzionava ancora ottimamente. Mi scarrozzava in giro per la città da quando avevo fatto la patente l’anno prima. In confronto alle auto super lusso e super costose del parcheggio, però, era davvero un rottame. Ma quanti in quella scuola, potevano dire di essersi potuti pagare la loro prima macchina?
L’idea che io lavorassi per potermi prendere quel catorcio aveva fatto ridere Jacob per settimane. Mamma e papà gli avevano regalato una Jaguar per il suo sedicesimo compleanno e avrebbero fatto lo stesso con me se non mi fossi opposta strenuamente.
Già, la mia macchina, la mia incredibile macchina che...aveva le ruote a terra. Tutte e quattro. 
Mi chinai a osservare il danno. Erano state squarciate da una lama piuttosto sottile e non potevano essere semplicemente gonfiate.
“Voglio una Jaguar.” Mi lagnai a bassa voce mente mi rialzavo e toglievo dalle mani i sassolini di asfalto.
Sobbalzai quando udii dietro di me un clacson che strombazzava impazzito.
“Ehi, Cenerentola!” Edward Cullen doveva essere un appassionato di fiabe. “La carrozza è diventata una zucca?” Rise della sua stessa battuta.
“Fottiti.” Sibilai tra i denti mentre cercavo il cellulare per chiamare mamma. Batteria scarica, perfetto.
Valutai l’opzione di tornare nell’edificio e chiedere a papà un passaggio quando sarebbe tornato a casa, ma il solo pensiero di dovergli parlare mi fece marciare a passo spedito verso la fermata dell’autobus, distante circa un chilometro dalla scuola. Nessuno aveva bisogno del pullman.
Ricordavo vagamente quale linea dovessi prendere e mi misi a studiare attentamente l’orario alla pensilina.
“Dai, ti do un passaggio.” Edward Cullen aveva accostato l’auto al marciapiede e mi osservava curioso. “Sai come si legge quella roba?” Alzai gli occhi al cielo, era davvero un figlio di papà fuori dal mondo.
Il primo pullman passava dopo un’ora e non avevo voglia di aspettare. Inoltre, il percorso durava circa quarantacinque minuti. In tutto sarei arrivata a casa dopo quasi due ore. Due ore di preziosissimo studio perse perché qualche idiota mi aveva bucato le gomme.
Oppure potevo accettare il passaggio di quell’essere infido. Titubante, sicura che me l’avrebbe fatta pagare alla prima occasione, mi fiondai nella sua macchina.
“Quanta fretta.”
“Pensavo saresti partito a razzo non appena mi fossi avvicinata alla macchina.”
“Non sono così meschino.” Lasciai cadere il commento perché per me era proprio così meschino. “Abbassati, stiamo per passare davanti a scuola e non voglio che qualcuno ti veda.” Ecco, se questo non era essere meschino. Ma lo feci, perché alla fine mi stava portando a casa.
Quando ci fummo allontanati abbastanza, decise che potevo anche sedermi decentemente sui sedili di morbida pelle color crema. 
Quando mi chiese l’indirizzo, rimase accigliato, sentendo che era nella zona più in della città. Ovviamente gli diedi un indirizzo a caso, abbastanza vicino a casa, ma abbastanza lontano per non fargli vedere dove abitassi di preciso.
Quando gli chiesi di fermarsi, protestò vivacemente. “Siamo in mezzo a un incrocio. Non puoi certo abitare sulla rotonda!”
“Grazie, Cullen.” Scesi sbattendo la portiera per la frustrazione. 
“Black! Risali in questa dannata macchina!” Mi incamminai verso la collina dove c’erano alcune eleganti villette e Cullen mi seguiva a passo d’uomo, la testa piegata verso il sedile del passeggero.
“Cullen, vattene a casa. Non saprai mai il mio indirizzo!” 
“Hai paura che ti veda entrare dall’ingresso riservato ai domestici? Sali, dannazione!”
“Fottiti!” Tornai indietro per tirargli un calcio sulla lucida carrozzeria blu e, soddisfatta della mia piccola infantile vendetta, mi fiondai verso una stradina a solo uso pedonale, lasciandolo in mezzo alla strada a imprecare e maledirmi.
Me l’avrebbe fatta sicuramente pagare.
Arrivata a casa chiamai un’officina che potesse andare a ritirare la macchina e mi sostituisse le gomme. La scelsi perché era lungo il tragitto del pullman che avrei potuto prendere la mattina dopo. Non avevo intenzione di dire nulla ai miei genitori. 
Dopo mezz’ora mi arrivò la chiamata irritata del meccanico perché lui in stupidi giochetti di ragazzini non voleva entraci e non voleva di certo mettersi anche a pulirmi l’auto per trovare le ruote. Io gli chiesi una foto per vedere che era successo, lui un centone per il disturbo e chiuse la conversazione.
Mi trascinai sul letto, con il volto nascosto nel cuscino. Ero esausta.




p.s. dell'autrice: Non dite nulla, per favore. Ho a che fare con dei bambini, non delle persone quasi adulte. Spero solo che non vi facciano venire mal di testa, come ne fanno venire a me. Eventualemnte ditemelo nelle recensioni che vi consiglio poi i miei rimedi. 
Detto ciò, spero davvero che la storia vi piaccia e vi appassioni.
Bene, alla prossima settimana,
Sara.


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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Buona lettura



CAPITOLO 5

Uscii di casa all’alba per prendere il pullman e andare a scuola a controllare la mia auto. Sonnecchiavo parecchio quindi non mi accorsi subito di cosa ci fosse di così strano nella mia auto bianca...troppo bianca, troppo piena di carta igienica e appiccicosissimi miele e sciroppo d’acero. In alcuni punti la melassa si era cristallizzata per il primo sole del mattino e appariva come un guscio di cristallo. Entrai nella scuola da una porta secondaria di cui possedevo le chiavi e presi un secchio d’acqua dallo sgabuzzino degli inservienti. Con calma e pazienza ripulii quel macello al meglio. Gettai in un sacco dell’immondizia interi rotoli di carta appiccicosa e mi ripromisi di non mangiare più i pancake con lo sciroppo, anche se erano i miei preferiti.
Sospirai pesantemente mentre anche l’ultimo pezzetto di carta venne rimosso. In qualche modo l‘autore di quello scherzetto mi aveva reso un buon servizio: la carta aveva protetto la carrozzeria dai danni più pesanti del miele. Sciolsi lo zucchero restante con secchiate di acqua calda e sembrò andare molto meglio.
Restava comunque il fatto che non potessi utilizzare l’auto per via delle gomme bucate. Si stavano avvicinando pericolosamente le otto e presto il parcheggio sarebbe stato invaso dagli studenti. Decisi di mettere in moto l’auto e rischiare di rovinare i cerchioni per spostarla fin dietro la scuola, dove c’era una rimessa che nessuno utilizzava. Ad ogni centimetro macinato le gomme sgonfie emettevano un lento sbuffo di protesta.
Alle otto e quindici minuti ero riuscita a parcheggiare e a sgusciare nell’edificio senza essere vista.
“Posso offrirti un tè dopo tutto quel duro lavoro?” Sussultai quando sentii la voce di mio padre alle spalle. Mi girai lentamente, con la vaga sensazione di essere colpevole. Alcune voci iniziarono a provenire dal fondo del corridoio, salvandomi dal dover dare spiegazioni o accettare quel tè della pace. Alzai sdegnosa il capo e proseguii per la mia strada.
“Prima o poi dovrai cedere, lo sai vero?” Sentivo lo sguardo di papà sulla mia schiena.
“Non so cosa intenda, preside.” Forse aveva ragione a dire che ero maledettamente orgogliosa, oltre che testarda.
“Isabella...” Gli studenti si stavano avvicinando. “Vatti a cambiare.” Mi allontanai in fretta mentre lo sentivo riprendere gente a caso per cazzate inesistenti. Probabilmente anche lui doveva sfogare in qualche modo il malumore. 
Andai nel mio bagno preferito e mi cambiai, indossando la divisa. Mi concessi due minuti di assoluta vanità riguardandomi allo specchio mentre pensavo a quanto non avessi proprio voglia di affrontare una nuova giornata di scuola.

La mia personale punizione arrivò fin troppo presto. Punizione...mi passai la lingua sulle labbra ripetendo tra me e me, punizione. In realtà, con il passare delle settimane, la certezza di cosa avrei trovato stava iniziando a diventare stranamente confortevole. I soliti agguati erano cessati e sapevo che ad aspettarmi c’era uno sguardo freddo e un’assoluta indifferenza. Da un certo punto di vista era un vantaggio, potevo studiare il mio avversario per capire se avesse un punto debole. 
Quel giorno Molina ci assegnò un esperimento da fare in coppia, con immenso disgusto mio e del mio compagno di laboratorio. 
Il permanganato di potassio di per sé non era pericoloso, ma bisognava comunque fare attenzione, come mi ripeteva in continuazione quello stronzo seduto all’estremo del tavolo. Nessuno dei due voleva misurare la velocità delle reazioni chimiche, ma ci ben disponemmo a svolgere il nostro compito, sperando che la campanella suonasse il prima possibile. Mentre analizzavamo il tempo impiegato dal permanganato a decolorarsi del tutto a contatto con l’acido ossalico, scattò l’allarme antincendio e spruzzi d’acqua iniziarono a piovere dal cielo.
Rimasi inebetita, fissando il mio becher con il liquido viola, ancora stretto tra le mani. Mi stavo bagnando tutta, mentre attorno a me si scatenava il putiferio, con Molina che urlava di uscire e minacciava chiunque di punizioni disciplinari.
All’improvviso una mano mi afferrò e mi trascinò giù dalla sedia, portandomi al riparo del tavolo da laboratorio.
“Cazzo fai?”
“Scusa se ti ho salvato dal raffreddore. Qualche idiota deve aver usato acido solforico invece di acido ossalico.” Rimasi stupida dalla preparazione chimica di Cullen. “Che c’è?” 
Mi aveva sorpreso a fissarlo, stupita che sapesse che i due elementi combinati insieme facevano prendere fuoco alla carta. Forse non era solo bello, ma anche intelligente: la mia idea di batterlo sul piano scolastico sembrava sempre più irrealizzabile. Sembrava che non gli importasse di avere gli abiti zuppi e restava tranquillamente seduto con le gambe piegate strette tra le braccia, dondolandosi leggermente sul sedere.
“Che c’è?” Mi domandò di nuovo. Lo stavo davvero fissando come una stalker.
“Niente.” Mi ricomposi in fretta, ma questa volta era lui che fissava intensamente me.
“La camicia.” Abbassai subito lo sguardo e vidi con orrore che il tessuto pregno d’acqua era diventato trasparente, rivelando il reggiseno a fiori che portavo. Strinsi forte la giacca al petto cercando di nascondere il mio imbarazzo mentre diventavo di un tenue colore scarlatto.
“Uscite.” Abbaiò Molina chinandosi verso di noi e facendoci presente che ormai l’antincendio era stato spento. Era livido di rabbia e non esitammo a obbedire per raggiungere il resto della classe che stava commentando euforica quanto era successo. Una noiosissima lezione di chimica si stava trasformando in una lezione leggendaria.
Molina ci raggiunse in corridoio, gli occhi fuori dalle orbite. Parlò lentamente e scandendo bene le parole, cosicché tutti gli idioti presenti potessero capire le sue istruzioni. Era davvero arrabbiato.
Ci diede un tema da fare sui giusti comportamenti da adottare in un laboratorio per lavorare in sicurezza e su quali agenti chimici non andavano mai mischiati. Ovviamente il compito era da fare in coppia entro lunedì.
La sfuriata del professore non si era ancora esaurita all’arrivo frettoloso del preside. 
“State tutti bene?” Domandò mio padre, senza rivolgersi a nessuno in particolare, ma soffermandosi un attimo di più su di me e sulla mia camicetta fradicia. Tutti gli studenti si limitarono ad annuire, con un vago senso di colpa nell’aria. Venimmo tutti congedati e rispediti a casa.
“Ti do un passaggio.” Quello di Cullen non era propriamente un invito ma un ordine. Lo seguii alla sua Maserati blu senza dire una sola parola, ancora piena di vergogna per il suo sguardo sul mio seno. 
Lui aprì il bagagliaio e ne estrasse due magliette pulite. Senza dire nulla tolse la camicia bagnata e si infilò una delle magliette, lanciandomi l’altra. Mi ero dimenticata di rifornire l’armadietto di camicie pulite.
E la mia vergogna esplose ancora di più. Vedere i suoi pettorali nudi scolpiti dagli allenamenti di football mi mandò in escandescenza il cervello e le parti intime. “Cambiati, non voglio che goccioli sui sedili.” Cercai di nascondermi e di essere il più rapida possibile, ma il tessuto mi aderiva come una seconda pelle, e mi incastrai malamente. “Sei proprio un Brutto Anatroccolo.” Borbottò mentre mi districava. Ora sì che potevo morire sepolta da un cumulo di merda.
Il viaggio trascorse nel silenzio più assoluto, finché non arrivammo alla rotonda dove mi sarei fatta lasciare ancora una volta. Lui però chiuse le portiere con la sicura perché intuì che sarei scappata via non appena la macchina si fosse fermata.
“Dobbiamo decidere dove fare il tema.”
“C’è la biblioteca della scuola.”
Lui scosse la testa e qualche gocciolina che gli imperlava i capelli scese a bagnargli la maglietta. “No, non posso oggi. Dovremo pensare di farlo nel week-end quando la scuola è chiusa.”
“Casa tua?”
“Perché non la tua?” Mi domandò di rimando.
“La biblioteca civica? È aperta fino a tardi.” Mi guardò come a dire che lui in un luogo pubblico non ci avrebbe mai messo piede. “E allora resta solo casa tua.”
“Vuoi davvero usarla come scusa per vedere dove abito?” Come se nessuno conoscesse la reggia dei Cullen. Era una splendida villa di fine Ottocento, sulla collina che dominava la città. La proprietà si estendeva per ettari e comprendeva, a quanto si diceva, anche un campo da tennis, un maneggio privato e una piscina olimpionica.
“Ti farò avere l’elaborato lunedì mattina, così dovrai solo metterci il tuo nome e leggerlo, nel caso Molina ci interrogasse a riguardo.”
“Certo Black che tu sei proprio collaborativa.” Mi diede un biglietto da visita con il suo numero di cellulare. “Chiamami così ti faccio sapere quando possiamo incontrarci.” Fece scattare le sicure e mi fiondai ancora una volta verso il passaggio pedonale.
Una volta a casa, notai del fermento in cucina. “Mamma?” Mi avvicinai e vidi che la mia genitrice stava cucinando per un esercito, il che voleva dire solo una cosa, Jacob era tornato dal college. Di sera c’era una cuoca che preparava la cena per noi tre, ma a Jake non piaceva, voleva che fosse mamma a occuparsi dei suoi pantagruelici pasti. Dava sempre la colpa al fatto che dovesse mantenere il suo fisico da atleta, giocando a football anche al college. 
“Sorellina!” Jacob Swan a casa per il fine settimana, altro che finire sepolta da un cumulo di merda.
“Vado in camera mia.” Borbottai scontrosa prima che quell’ammasso di muscoli mi potesse intercettare e abbracciare.
Io e Jake proprio non ci assomigliavamo. Lui era estroverso, io timida; lui sempre solare, io cupa e triste; lui aveva un fisico massiccio ed era alto quasi un metro e novanta, io ero mingherlina e gli arrivavo a malapena al petto con il mio metro e sessanta. Ma più di tutto lui portava con orgoglio il cognome Swan, cosa che non faceva che ricordarmi ogni volta che ne aveva occasione.
“Brava, sorellina. Questo sì che è lo spirito giusto per stasera!” Mi fermai accigliata prima di poter imboccare le scale. “Però devi proprio dirmi dove hai trovato quella maglia.” Il mio sguardo confuso seguì il suo e si posò sull’indumento che mi aveva prestato Cullen. Era decisamente un capo da uomo, troppo grande per me e quasi mi copriva la gonna della divisa. 
“La maglia del quarterback è ambitissima.” La vergogna per quanto successo a lezione e nel parcheggio mi assalì di nuovo e cercai di defilarmi dalla scomoda conversazione chiedendogli che cosa sarebbe successo quella sera.
“Andiamo tutti a vedere la prima partita del campionato, te lo sei dimenticata?” Certo che me lo ero dimenticata, perché a me non interessava andare a una stupida partita. Non andavo nemmeno a quelle di Jake!
La risposta mi morì in gola quando il campanello suonò. “Apro io!” Tuonò gioviale mio fratello, dimenticandosi totalmente di me con un piede già sulle scale. Quella poteva essere la mia migliore occasione per fuggire. Feci solo un gradino e immediatamente mi nascosi dietro la colonnina di legno intagliato alla base delle scale.
“Edward! Che sorpresa!” Jacob stava abbracciando felice come una Pasqua il mio acerrimo nemico che sorpreso da quell’eccesso di calore ricambiò titubante la stretta. “Che ti porta qui? Combinato qualche guaio e devi parlare con mio padre?”
Cercai di strisciare lentamente verso il piano superiore, sperando che il legno antico mi proteggesse e che Cullen fosse abbastanza distratto da mio fratello.
“Tesoro, che stai facendo?”
“Shh!” Intimai a mio padre che era magicamente tornato a casa prima di me, aveva deciso di comparire nel momento meno opportuno sul pianerottolo e mi guardava accigliato. Gli indicai la porta e vide con chi stava parlando Jacob. 
“Prima o poi lo scoprirà, se volete fare il tema di Molina in tempo.” Il preside scese le scale e si fermò vicino a me, appoggiandosi alla balaustra. “Buon pomeriggio, signor Cullen. Cercava qualcuno?” Edward gli rivolse tutta la sua attenzione.
“In effetti sì, preside Swan. Ero convinto di aver visto entrare qui la signorina Black.”
Strizzai gli occhi e appoggiai la testa contro il gradino, quel bastardo mi aveva pedinato perché sicuramente la sua Maserati scintillante non poteva passare nella stradina pedonale. Nell’ingresso scese il silenzio e rivolsi un’occhiata implorante a mio padre. Sta zitto, sta zitto cercai di comunicargli con il pensiero. Jacob, invece, si era fatto sospettoso.
“Che rapporti hai con la signorina Black?” Oh, no, ti prego, il fratello geloso, no. “La maglia del quarterback la si dà solo alla propria ragazza.” Due cumuli di merda, non uno. Mi afflosciai sugli scalini, suscitando le risate di mio padre che continuava a guardarmi. Non parlava, ma mi avrebbe fatto scoprire lo stesso.
“Siamo solo compagni di corso.” Edward tentò di difendersi dal tono aggressivo di Jake.
“Isabella, è vero?” Avrei odiato Jake per il resto della mia vita. “Isabella...lo sappiamo tutti che sei lì, quindi esci fuori.”
Allora Cullen aveva preso anche lo scettro della stronzaggine da Jacob. Lentamente mi alzai e borbottai una scusa assurda sul fatto di aver perso un orecchino che non portavo.
“Non credi che questa farsa sia durata abbastanza, sorellina?” E così Jacob alla fine ci sarebbe riuscito, mi avrebbe fatto usare il mio vero cognome.
“Certo, ammettiamolo con il mondo intero. Sei uno stronzo di prima categoria, Jacob Swan.”
Mi fiondai in camera mia accertandomi di sbattere abbastanza forte la porta.




p.s. dell'autrice: eccomi qui, oggi è passata anche per voi Santa Lucia e ha lasciato questo capitolo da pubblicare...scusate, ho avuto un'invasione dal Cretaceo superiore e mi ritrovo fin troppi dinosauri che vagano nel soggiorno. sto abusando anche degli zuccheri destinati al pupo; lui è già sovraeccitato dal cioccolato e dai regali.
Bando alle ciance, siamo arrivati a un capitolo di svolta, Edward ha scoperto il segretuccio di Bella. Come si evolveranno ora i rapporti? ne saprete di più nel prossimo capitolo!
a presto.
Sara


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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Buona lettura.



CAPITOLO 6

A svegliarmi fu il mio zaino che suonava. Ancora confusa per il sonno, avanzai a tentoni verso la scrivania, alla ricerca del mio cellulare. 
“Pronto?” La voce impastata non era certo un bel biglietto da visita. Mi guardai allo specchio e storsi il naso. I capelli erano una massa informe, tutta spettinata, dove gli uccellini avrebbero potuto benissimo fare il nido. Non mi ero cambiata e i vestiti erano tutti spiegazzati.
“Pronto?” Domandai di nuovo, cercando di schiarire la voce.
“Ehi Black, abbiamo vinto.”
“Eh?” Era un numero che non conoscevo. Cercai di connettere il cervello, qualcuno mi aveva chiamato sul mio cellulare privato verso le tre di notte. Quel qualcuno probabilmente era un mio compagno di scuola, visto che mi aveva chiamato Black. Ma nessuno a scuola aveva il mio numero di cellulare.
“Ehi, ci sei? La partita di football, Swan, la partita. Abbiamo vinto.” 
Black, Swan, Swan, Black. 
“Cullen.” Sibilai tra i denti. “Fottiti. Tu e la tua dannata partita.” Gli chiusi il telefono in faccia, ma lui non si diede per vinto e chiamò di nuovo.
“Cazzo vuoi?”
“Sei nervosa?”
“Sono le due e quarantasette. Stavo dormendo. Tu mi irriti. Sì, sono nervosa.”
“Ero alla festa dopo partita. Non potevo chiamare prima.”
“Ora che abbiamo stabilito che non hai un cazzo da fare nella vita, posso tornare a dormire?” Cercai con lo sguardo il pigiama. Mi ero addormentata come un sacco di patate sul letto e non avevo nemmeno spento la luce. Mi ci erano volute ore per assimilare quello che era successo al pian terreno e le urla che arrivavano in camera mia non aiutavano. Che potesse andare all’inferno, Edward Cullen e la sua Maserati. 
Quando il mio compagno di classe era uscito, papà aveva sgridato Jake, perché secondo lui ero io a dover fare il primo passo. Un passo che per mio fratello non avrei mai fatto senza una spintarella. 
Mi aveva buttato giù dalle scale con quella sua spintarella. E ora, nella mia mente, sferragliava un treno impazzito procurandomi un mal di testa martellante. Non sapevo da dove fosse partito quel treno e non sapevo nemmeno dove sarebbe arrivato.
“Vengo a prenderti alle 8. Fatti trovare pronta.”
“Fanculo.” Gli sbattei di nuovo il telefono in faccia. Volevo prendermela con qualcuno in quel momento, sfogare tutta la rabbia che provavo verso mio fratello e la sua lingua lunga. E cercare anche di dimenticare che immensa figura di merda avevo fatto con Cullen. Mi sarebbe venuto a prendere per espormi al pubblico ludibrio? Voleva che lo implorassi di non dire niente a nessuno?
Mi tolsi velocemente la sua maglietta e la mia gonna per infilare il comodo pigiama a quadretti.  Avrei lavato la sua dannata divisa di football e gliela avrei resa. Però...aveva il suo profumo.
Il resto della notte dormii male e poi mi svegliai ancora peggio. Il treno continuava a sferragliare a una velocità impressionante lungo il pendio di una montagna di merda.
Scesi in cucina che non erano nemmeno le sette e mi misi a cucinare per distrarmi dal pensiero Edward Cullen o dal pensiero cognome.
“Giorno.” Sobbalzai quando dietro di me comparve Jacob. La sua massa di muscoli era appoggiata allo stipite della porta. “Hai fatto i pancake? Adoro i tuoi pancake.”
“Waffle.” Borbottai aprendo la piastra per controllare che non stesse bruciando. “E li ho fatti solo per me.” 
“E dai, Isabella, non puoi avercela con me.”
Gli scoccai un’occhiataccia mentre prendevo i waffle già pronti dal forno dove li avevo messi perché restassero caldi. Presi anche la crema di yogurt e la frutta fresca. Niente miele, niente sciroppo d’acero. “Oh sei super, sorellina.” Gli misi davanti il piatto e Jake si avventò come un cavernicolo sul cibo e parlò con la bocca piena. “Zia Sue dice che...”
“Zia Sue parla sempre troppo.” Lo rimbeccai mentre si serviva un’altra generosa dose di waffle che inondò con la crema. “L’hai già chiamata!” 
“Papà.” Sollevò le spalle, come se non fosse colpa sua che avessero chiamato la vecchia zia che non vedeva l’ora che accettassi il mio cognome a scuola. Gemetti per la frustrazione e per poco il waffle non bruciò.
Guardai l’ora e considerai di mangiare qualcosa prima di andare dalla zia Sue. Dovevo fare i conti anche con lei, adesso.
“Buongiorno, tesoro.” Papà si unì a noi per la colazione. “Perché non i pancake?” Alzai gli occhi al cielo e tentai di non scottarmi con la piastra calda. “Ne hai avuto abbastanza dello sciroppo?” Gli misi davanti il piatto con un colpo secco e gli riservai una delle mie occhiate indignate. 
“A questo punto perché tu e Jake non andate in cerca di una nuova auto?” Avevo deciso di continuare a non parlare con papà, ogni volta che apriva bocca combinava guai. “Visto che la tua è fuori uso e che ormai sei una Swan...”
“Alt. A scuola sarò ancora Isabella Black.” Annunciai fiera -non avevo proprio intenzione di cedere a quel vile ricatto- smorzando ogni loro entusiasmo sul nascere. “Sarà meglio che vada a sistemare questo casino.” Mi fiondai fuori dalla cucina mentre Jake chiedeva cosa fosse successo al mio rottame. 
In camera cercai di dare un senso ai miei capelli, indossai una felpa extralarge e un paio di jeans con le toppe, un abbigliamento non adatto una signorina a modo, come diceva sempre zia Sue, ma era mia ferma intenzione irritare qualcuno con la mia prossima visita. Presi lo zaino con il libro di chimica e biologia e andai alla porta. Presi le chiavi dell’auto di mamma, non avevo proprio voglia di andare in giro in bici o a piedi. La casa di zia Sue era parecchio isolata.
Guardai l’orologio, erano quasi le otto. 
“Ah, bene, sei puntuale almeno.” Appoggiato alla sua scintillante auto blu elettrico, il mio incubo personale mi fissava. Sembrava aver dormito serenamente per tutta la notte. Il suo viso rasato di fresco era rilassato e gli occhi gli scintillavano nel sole mattutino.
“Cazzo vuoi Cullen?” 
“Fare il tema per Molina. Allora, mi fai entrare o prevedi di restare qui ancora a lungo?”
Non poteva essere serio. La sua chiamata alle tre di notte era già stata un pessimo scherzo e di pessimi scherzi per quel week end ne avevo avuti abbastanza. 
“Senti ho delle cose da fare. Ti mando via mail il compito, va bene?” Cercai di oltrepassarlo e feci scattare la serratura della Mercedes classe A di mamma.
“Ti do un passaggio.” Mi aprì la portiera della sua Maserati in un chiaro invito a salire. “E dai, Black...no, scusa Swan...non so più nemmeno come chiamarti. Non pensi che qualche spiegazione tu me la debba?” Mi morsi il labbro inferiore. Non gli dovevo nessuna spiegazione, in realtà, ma dovevo chiedergli un favore enorme. Potevo dirgli qualche segretuccio sperando che mantenesse un segreto ben più grande? Potevo fidarmi di Edward Cullen, lo stronzo colossale che mi torturava nei corridoi?
Decisi di accettare il suo invito, gli diedi l’indirizzo di villa Clearwater e lui ne rimase stupito. Va bene, primo segreto in arrivo.
“Susanne Clearwater, la zia di mio padre, è una Swan fino al midollo e ha un debole per il nome di famiglia. Devo parlarle di tutta questa...assurda messinscena.”
Lui non commentò e guidò tranquillo fino alla grande villa. Era una casa un po’ spettrale, con quel grande cancello in ferro battuto e le colonne in stile greco che si ergevano sul porticato in legno scuro.
“Aspetta qui, sarò di ritorno in dieci minuti al massimo.”
Per tutta risposta Cullen si slacciò la cintura di sicurezza e mi seguì fino al portone principale. Prima che salisse anche solo un gradino lo fermai. Se proprio fosse voluto venire con me, avrebbe dovuto rispettare qualche regola.
“Uno, non parlare, ma soprattutto, non fare domande. Ci sono codici di comportamento ben precisi con zia Sue.”
Alla porta ci attendeva il compito maggiordomo, Carlton. 
“Buongiorno, Miss. Sua zia l’attende nel salottino verde per il tè.”
“Grazie Carlton.” Notai il sorrisetto un po’ troppo compiaciuto per uno che raramente mostrava emozioni. “Le notizie viaggiano veloci, eh?” 
“Se posso permettermi, Miss, sono lieto di queste notizie. Chi devo annunciare?” Mi chiese guardando il mio compagno di sventura.
“Edward Cullen.”
Venimmo condotti al salottino preferito della zia. Bussai leggermente e attesi che mi permettesse di entrare. Zia aveva davvero delle strane fisse per il bon ton. Lei era seduta con la schiena ritta nella poltrona davanti al tavolino d tè. Appena mi vide mi fece un cenno di accomodarmi e prese la teiera.
“Come stai zia?”
“Starei meglio se ti fossi vestita in modo adeguato.” Lo sapevo che l’avrei indisposta e ne fui segretamente lieta. “Il tuo giovane amico come gradisce il tè?”
“Un cucchiaino di zucchero, grazie.” Fulminai Edward, prima regola infranta. E aveva pure risposto alla domanda della zia come un navigato esperto di buone maniere. “Edward Cullen, signora.” Ovviamente zia sapeva benissimo chi fosse, Carlton doveva averla informata che non ero sola.
“Ah, tuo padre è il Dottor Cullen? Brav’uomo.” Edward sembrò non gradire l’apprezzamento della zia, la mascella contratta, ma non ribatté.
“Allora, mia cara. È giunto il momento del corso per le debuttanti.”
“Zia...” Mi lagnai tentando di protestare, ma lei alzò la mano, fermandomi subito.
“Isabella, ho già parlato con tuo padre e lui concorda con me, questa inutile farsa del cognome ormai è finita, da oggi sei ufficialmente una Swan e non posso dirti la mia gioia nell’apprendere che sei rinsavita.”
“Zia,” Tentai di nuovo e questa volta non mi avrebbe fermato nessuna mano alzata. “Sono venuta per dirti che a scuola sarò sempre Isabella Black, non ho intenzione di...”
“Il segreto è svelato.” Disse solo per poi sorseggiare il suo tè. “Devi assumerti le responsabilità che il tuo cognome comporta.”
“L’unico a saperlo è Cullen e lui non dirà una sola parola.” Lo guardai sfidandolo a contraddirmi.
“Quello che conta è che lo hai detto a un tuo compagno di classe.”
“Tecnicamente è stato Jacob.”
“Tecnicamente non ha importanza.” Alzò gli occhi dalla tazza e mi trafisse con lo sguardo. “Isabella, sono stanca di questi inutili giochetti.” Sospirò e posò la tazza. La severità con cui mi guardò mi impose di non controbattere. Io volevo solo far valere le mie idee e invece ero rimasta invischiata in quelle della zia. “È giunto il momento che tu impari come ci si comporta. Un giorno avrai un’eredità da amministrare.”
“Penso proprio che resterò il Cigno Nero della famiglia, zia. Non mi interessa l’eredità e le cazzate sull’essere un Cigno Bianco.” La zia non diede alcun segno di essersela presa per il tono duro e le parolacce. Mi alzai per andarmene e tanti saluti al bon ton. Cercai di riprendere il controllo dei nervi e della discussione o sarei stata messa nel sacco, ancora una volta, da quella magra signora anziana in tailleur Chanel. “Quello che promisi all’inizio delle medie è ancora valido. Ora, scusami ma devo andare a studiare.” Mi diressi alla porta quando la zia mi fermò di nuovo.
“Questa discussione non è finita, solo rimandata.”
Purtroppo, ero ben consapevole dell’implicata minaccia. “Posso usare lo studio?” Chiesi come per accettare la tregua alla guerra.
La zia non disse nulla per un periodo interminabile e infine ci comunicò che avrebbe mandato Carlton con il tè e i pasticcini.




p.s. dell'autrice: Buon giorno, buon pomeriggio o buona sera. Pubblico al volo il capitolo nuovo, adesso che ho un attimo di pace.
se fossimo al casinò il croupier direbbe, les jeux sont faits. Dobbiamo solo attendere come si evolverà questa partita.
ah, io adoro zia Sue.
a presto
Sara


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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Buona lettura


CAPITOLO 7


Come promesso, Carlton arrivò con un vassoio pieno di ogni ben di Dio nel vecchio studio che avevo eletto a mio regno parecchi anni prima. Ero ancora scossa per la discussione con zia Sue perché, benché non lo ammettessi volentieri, ero molto affezionata a quella donna. Lei sembrava ricambiare sinceramente l’affetto e per me era come avere una nonna premurosa che mi guardava le spalle. Sapevo che le sue intenzioni erano buone, voleva che trovassi il mio posto nella famiglia. Una famiglia con regole retrograde e vecchie di secoli che io facevo fatica ad accettare.
Presi i libri e non dissi niente a Edward che continuava a fissarmi.
“Adesso posso parlare e fare domande?” Grugnì un no secco e ripresi a leggere la stessa pagina su cui avevo gli occhi da ben mezz’ora. “Molto signorile, signorina Swan. Forse il corso di buone maniere ti serve proprio.”
“Cazzo vuoi Cullen dalla mia vita? Non potevi continuare a fare lo stronzo a scuola e ignorarmi per il resto del tempo?!” Chiusi il libro seccata e afferrai la teiera, le mani tremanti mi fecero versare un po’ di tè sul libro.
“Attenta.” Sibilò lui cercando di asciugare il danno.
“Chi ti ha dato il mio numero?” Voleva delle risposte? Bene, anche io.
“Sono Edward Cullen.” Disse con un’alzata di spalle, come se quello giustificasse tutto. “E così sei un’ereditiera.”
Risi beffarda e posai la tazza che tremava tra le mie mani. “Allora è per quello che sei interessato a me, all’improvviso? Per i soldi? Ebbene sì, Cullen, un giorno tutto il patrimonio dei Clearwater sarà mio. Sempre ammesso e non concesso che lo voglia.”
“Perché non dovresti?” Mi fissò sorpreso. “Proprio non ti capisco. A scuola tutti ti fanno scherzi...” Gli scoccai un’occhiataccia. “Ok, io ti tratto di merda, ma basterebbe che facessi valere il tuo status sociale.”
“È proprio questo il nocciolo della questione. Non sono io ad avere uno status sociale, ma la mia famiglia. Volevo andare alla scuola pubblica, lo sai?” Mi fissò inorridito come se avessi appena bestemmiato in indonesiano. “Ovviamente papà si è opposto e abbiamo litigato per la prima volta nella nostra vita.” Ripresi in mano la tazza e mi andai a infossare nella poltrona vicino al camino spento, i piedi sotto al sedere. Sentivo il freddo penetrarmi nelle vene. Di solito la zia faceva accendere il camino se sapeva che andavo nello studio. In quella grande casa, lo studio era il mio posto preferito con quell’arredamento dall’impronta decisamente maschile. Le boiserie, di uno scuro legno intagliato si alternavano a scaffalature con un’impressionate collezione di prime edizioni rilegate in pelle. Era un posto magico per me perché mi ricordava lo zio Harry, anche se era morto quando ero ancora piccola. Eppure, nella mia memoria erano impresse le nostre risate su quelle poltrone quando mi faceva salire sulle sue ginocchia e faceva finta di essere un cavallo al trotto.
“Cosa hai promesso all’inizio delle medie?” Cullen mi strappò a forza dai miei pensieri.
Soffiai sul tè e l’aroma di arancia mi riempì le narici. Zia Sue aveva sempre un occhio di riguardo per me e io ero stata davvero scortese. “Qual è il tuo obiettivo, Cullen? Finché pensavi fossi una borsista...beh, non sono una borsista, ovviamente, ma non pago nemmeno la retta…ero un rifiuto, giusto? Adesso?” Lui non rispose, ma mi rivolse una di quelle sue occhiate penetranti. Io pensavo di essere brava a piegare al mio volere papà con un solo sguardo, ma, dannazione, Cullen era un maestro. 
“Ho promesso che da grande sarei diventata una Yankee.”
“A Swan deve essere venuto un infarto.” Più o meno, ammisi. La risata cristallina di Edward si diffuse per tutta la stanza. “Sarà meglio finire il tema.” Propose e io accettai volentieri per non scivolare e rivelare altri segreti peccaminosi della mia breve esistenza.
“Però davvero, Edward, perché?” Lasciai cadere il libro davanti a me. Anche io avevo il diritto di sapere perché mi aveva reso la vita un inferno in quegli anni costringendomi a desiderare di fuggire e perché improvvisamente era cambiato. E sapevo bene che i soldi non c’entravano, aveva scoperto solo oggi dell’eredità.
“Perché sei un interessante passatempo.” Disse solo con un’alzata di spalle. Rimasi a bocca aperta per la sua infantile motivazione. Mi stava dicendo davvero che mi torturava solo per divertimento? Scelsi di non continuare a chiedermi quanto poco profonda fosse la sua anima e mi concentrai sullo studio. 
Dopo aver mangiato il pranzo a base di sandwich che ci aveva portato Carlton, decisi che il tema mi soddisfaceva e potevo dichiarare conclusa quell’insana collaborazione con Cullen. Almeno per quel giorno.
Mi stiracchiai e gli chiesi di attendermi all’ingresso, volevo parlare ancora un attimo con zia Sue.
“Carlton sai dove sia la zia?” Andai direttamente dal maggiordomo, invece di cercarla per l’immensa villa.
“È fuori a pranzo, Miss.” Un brivido mi percorse la schiena, aveva ragione la zia. La nostra discussione non era proprio finita e il fatto che fosse uscita di casa, lo confermava. Doveva esserci un motivo di vitale importanza se aveva deciso di interrompere la clausura che si era autoimposta dopo la morte dello zio Harry. Sospettai che quel motivo fossi io e il corso per debuttanti.
“Grazie Carlton. Quando rientra le porgeresti i miei saluti e ringraziamenti?” L’uomo annuì sempre con quel il sorrisetto irritante che mi aveva riservato per tutto il giorno, ben stampato in faccia.
Il mio autista in Maserati mi aspettava davanti alla sua macchina lucida, con la portiera aperta. Mi guardò curioso mentre salivo, la testa persa nell’ansia di cosa stesse macchinando zia Sue. 
Mi ricossi dai miei pensieri quando vidi che non stavamo andando verso casa mia. 
“Cullen, hai sbagliato strada.” Lui per tutta risposta iniziò a fischiettare il motivetto che passava l’autoradio, ingranò la marcia e accelerò. “Cullen, dannazione, se questo è l’ennesimo dei tuoi scherzi...”
“Rilassati, Swan. Oggi è sabato, abbiamo finito il compito per Molina e possiamo divertirci un po’. Ti offro il gelato.” Si diresse verso il Country Club, ma appena l’edificio principale fu in vista, prese una stradina sterrata sulla destra. Giudò per un altro paio di chilometri, senza pensare che la polvere stava creando una patina sulla sua lucida carrozzeria. Continuava a fischiettare sereno e non sapevo come tutto ciò mi facesse sentire.
Chi era davvero il ragazzo seduto vicino a me? Un nemico? Uno stronzo? O un compagno di classe con cui avrei anche potuto fare amicizia? Oppure un freddo calcolatore che voleva solo farmi abbassare le difese?
Parcheggiò la macchina vicino a una casetta in legno che ospitava un noleggio di canoe e un bar.
“Un giorno andiamo in canoa. Oggi ti dovrai accontentare di un gelato.” Pagò la nostra merenda e ci sedemmo a una panchina, in una piccola radura oltre il parcheggio.
“Io non vado in canoa. Sono troppo maldestra.”
“Quante cose che non so di te, piccola Swan.” 
“E di grazia, cosa vorresti sapere, Cullen?” Mi aveva chiamato piccola Swan. Da un lato, il mio cuore sussultò perché quella stupida cotta adolescenziale era sempre in agguato, dall’altro la voglia di staccargli la testa mi fece prudere le mani.
“Tutto.” Il tono ardente mi fece abbassare gli occhi a disagio. “Tutto.” Ripeté ammorbidendo la voce intrisa di una sincerità sconcertante. 
“Per usare questo tutto a tuo vantaggio a scuola? No, Edward, sai già fin troppo.”
“Isabella...davvero, ho smesso di farti la guerra.” Sembrava sincero e desideroso di conoscermi. Fidarmi di Edward Cullen. Un meteorite stava per colpire la Terra, vero? “Va bene, adesso ti dico un segreto.” Leccò il gelato e desiderai che quella lingua sfiorasse anche le mie labbra in quel modo sensuale. Il gelato mi colò sciolto sulla mano, facendomi riprendere. 
“Ti ho bucato le gomme per poterti dare un passaggio a casa.” Il gelato per poco non mi cadde di mano, ma avrei tanto voluto tirarglielo addosso. “Emmett e Jasper hanno dato il loro tocco personale.”
“Siete...siete dei bastardi psicopatici.” Mormorai furente.
“E devo dire che dalle foto hanno fatto un ottimo lavoro.” Mi fece vedere orgoglioso delle foto in cui i suoi due migliori amichetti di bastardaggine si facevano selfie davanti alla mia povera macchina martoriata. “Non potevo certo permettere che le facessi aggiustare, non dopo che mi avevi mollato alla rotonda come un cretino.” Sembrava soddisfatto del suo piano.
“Perché?” Sibilai mentre trattenevo con tutte le mie forze il gelato, per evitare che accidentalmente volasse sul suo bel faccino.
“Mi hai intrigato sin dal tuo primo giorno di liceo.” Confessò. “Ma sei sempre stata così...riservata e irraggiungibile. Pensai di doverti far abbassare le tue arie da bimba viziata e iniziai a tormentarti. Ma più ti tormentavo più mostravi quella tua aria da stronza menefreghista.” Si era avvicinato mentre confessava, le sue labbra a un centimetro dalle mie. 
Il mio gelato finì sui suoi pantaloni.
“Ma che cazzo, Swan!”
“Che cazzo lo dico io, Cullen! La mia macchina!”
“Era un rottame!”
“Non è una giustificazione! E se fossi stata davvero povera?! Come avrei potuto permettermi un’altra macchina?”
“Hai almeno ascoltato quello che ti ho detto dopo o ti sei fissata solo sulla tua fottuta macchina? E comunque avrei provveduto a riparartela ma è sparita!”
Ci fronteggiammo come due animali inferocirti, le narici dilatate e gli occhi spiritati. Ancora incazzata, me ne tornai alla macchina, volevo solo andare a casa. Cullen mi seguì subito, camminando come una papera per il gelato che gli sgocciolava dai pantaloni.
“Ho ragione a dire che sei una stronza.”
“Fottiti.” 
Cullen andò al bagagliaio e tirò fuori un paio di jeans puliti. Senza dire una parola, si sfilò quelli sporchi e rimase in boxer. 
“E che cazzo. Ma il pudore?” Arrossii violentemente e mi girai per non doverlo guardare. Sentivo tanto, ma tanto caldo, e di certo non era colpa del sole al tramonto. “Hai un armadio nella macchina?”
Mi assicurò di essersi rivestito, poi mi invitò a guardare nel bagagliaio. All’interno c’era davvero un mini armadio, o meglio, un trolley con dei ricambi, non solo magliette e jeans, ma anche la divisa scolastica, calzini e boxer. Non avevo mai conosciuto qualcuno più maldestro di me che avesse bisogno di cambiarsi così spesso da avere una tale riserva.
“Quella valigia è lì da un anno.” Mi disse in macchina, lo sguardo fisso davanti a sé. “Da quando i miei hanno divorziato.” Avevo sentito qualcosa a riguardo, la notizia si era diffusa in fretta a scuola, ma io amavo poco i pettegolezzi, mi ero accorta che qualcosa in lui non andava solo perché era più stronzo del solito. Volevo dirgli che mi dispiaceva, ma lui proseguì. “I miei genitori si sono comportati in modo molto civile e, non volendo discutere per l’affido, chiesero a me con chi volessi stare. Mia madre è una Yankee.” Si voltò a sorridermi ironico. “Voleva tornare a New York dalla famiglia ed era sicura che l’avrei seguita.”
“Ma tu sei rimasto qui, con tuo padre.” Conclusi io per lui. Strinse il volante così forte che le nocche sbiancarono, forse pentito per l’errore.
“Io e mio padre non siamo mai andati molto d’accordo, ma qui avevo la mia vita e non volevo lasciarla.”
Era decisamente comprensibile il suo punto di vista. Forse i genitori, pensando di essere civili, avevano di fatto chiesto a un adolescente a chi volesse più bene tra i due. “Quando seppe della decisione mia madre mi disse che non ero più suo figlio, che mi odiava e che sarei diventato un bastardo come mio padre. Il civilissimo Dottor Cullen la cacciò di casa quel giorno stesso.” Sospirò, il dolore troppo fresco per essere solo un ricordo lontano. “Ho preparato quella valigia il giorno dopo, convinto che avrei avuto il coraggio di andare da lei, anche solo per chiederle scusa. È evidente che io sia un codardo: sono ancora qui e la valigia non si è mossa di un millimetro.”
Alzai la mano verso il suo braccio, per confortarlo, ma mi fermai a metà strada, sopra il cambio.
“Mi dispiace per il gelato, era buono.” Edward mi sorrise, timido e triste. “Vuoi sapere come sono finita ad avere un altro cognome?” Cercai di stemperare la tensione. Alla fine Edward mi aveva raccontato un segreto enorme. “Tutto ebbe inizio il primo anno di liceo di Jacob...”





p.s. dell'autrice: sono in ritardo? sì. Non ho scuse per il ritardo, non è colpa delle feste (ah, auguri anche se in ritardo.). Non è copa del poco tempo, non è colpa di niente e nessuno. semplicemnte non avevo voglia di pubblicare, visto lo scarso successo del capitolo precedente. anche se la storia è già completa, fa piacere a chi scrive, leggere le ipotesi, i pensieri di chi legge. 
Oggi è il primo giorno di un anno nuovo e i pensieri negativi si sono sciolti come la neve portata via dalla pioggia di stamattina. 
ci si sente la settimana prossima.
ancora auguri di anno decente (non vorrei pretendere troppo dopo il 2020).
Sara


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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Buona lettura


CAPITOLO 8

Lunedì mattina sgattaiolai fuori dalla mia camera il più silenziosamente possibile. Alle sette e mezzo il mio autista in Maserati sarebbe venuto a prendermi. Per l’occasione avevo tentato anche di truccarmi con un po’ di matita, ma avevo finito per ficcarmela in un occhio, decidendo che il mio look poteva restare ancora una volta quello sciatto di sempre. Quanto meno i capelli sembravano più lucidi e, stranamente, avevano preso una forma composta, senza sembrare come al solito quelli di Medusa.
Scesi le scale come un ninja, stupendomi del mio incredibile equilibrio.
“Tranquilla, il tuo amichetto è stato già spedito a scuola.” Trasalii con una mano sulla porta. Jacob era alle mie spalle con una tazza di caffè in mano e sembrava aver dormito poco. 
“Cosa ci fai ancora a casa? Non dovevi rientrare al college?”
“Mi sono preso una settimana di pausa per il tuo inserimento scolastico. Ho trascurato fin troppo i miei doveri di fratello maggiore.” Ero incredula.
“Smettila di fare il cretino, non sei divertente.”
“Da oggi si cambia registro, sorellina. Papà ci aspetta in presidenza.” Prese le chiavi della sua Jaguar e mi invitò a precederlo fuori dalla porta.
In macchina non fece che ripetermi che essere una Swan aveva privilegi e doveri e che dovevo assumermi le mie responsabilità. Io lo ascoltavo solo con un orecchio, abbattuta, nel mio sedile, pensando solo al messaggio di Edward di quella notte, successivo alla sua offerta di un passaggio per la mattina.
Amici?
Amici. 

“Terra chiama Isabella.” Eravamo a scuola e nemmeno me ne ero accorta. Sentivo il mormorio degli studenti che si stavano accalcando attorno alla Jaguar, stupiti che il loro idolo fosse venuto a trovarli.
“Ah, ragazzi! Che bello!” Jake era nel suo elemento, godendosi l’adulazione. “Dopo passo da tutti a salutarvi.” La squadra di football gli chiese anche una partitella nel pomeriggio, in memoria dei vecchi tempi. Gli occhi scintillanti tradirono la sua voglia di giocare, ma mi lanciò solo un’occhiata prima di rispondere. “Vedremo. Oggi ho affari di famiglia.” Lo sguardo di tutti si posò su di me e iniziarono i mormorii sorpresi. Le ipotesi più assurde stavano circolando per quelle menti ristrette, le potevo sentire vorticare nei loro cervelli bacati.
Volevo solo scomparire in una voragine profonda. Senza aspettare domande indiscrete mi avviai verso l’ingresso, ma sentivo che il corpo studentesco mi fissava come se avessi tre teste.
“Isabella, aspetta.” Jake con due falcate mi raggiunse, mi prese per il gomito e mi trascinò in presidenza senza dire una sola parola. 
La segretaria di papà quasi svenne quando vide mio fratello, ma si affrettò ad aprirci la porta della sala riunioni, dove mi attendevano tutti i miei professori.
“Jake...” Sibilai. “Non ho dato il mio consenso.”
“Tutta la famiglia è stata fin troppo paziente.” Già, la famiglia. Papà fece il suo ingresso dopo di noi, mettendo a tacere il brusio confuso ed entusiasta degli insegnanti, sorpresi come dei bambini che il loro alunno preferito fosse lì. 
“Bene, signori e signore, ci siamo tutti.” Il preside li invitò a sedersi lungo il tavolo ovale. Rimanemmo in piedi solo noi tre, io non riuscivo a far altro che guardarmi i piedi mentre spostavo della polvere invisibile dal pavimento. “Penso che tutti conosciate mio figlio Jacob.” Mormorii di assenso e mani levate in saluto. “E che sappiate che la signorina Black è una delle nostre studentesse più meritevoli. Quello che non sapete è che è una ragazza che ha la fissa di fare tutte le cose a modo suo, contando sulle sue sole forze. Sono molto orgoglioso di lei come preside e....” Bomba in arrivo. “Come padre.” Silenzio assoluto. La polvere era davvero molto interessante. Poi mille domande, mille perché volarono nell’aria. Papà alzò la mano in un gesto che mi ricordò tanto zia Sue. “Isabella ha sempre temuto che essere riconosciuta e additata come una Swan le avrebbe fatto avere dei privilegi che non meritava.”
“Posso andare?” Il preside mi negò il privilegio di svignarmela perché doveva ancora chiarire che per alcuni giorni sarei stata ancora la signorina Black e che la notizia sarebbe stata divulgata agli studenti solo in seguito.

Amici. Questa parola poteva anche mettersela in quel posto, il mio caro nuovo amico. Tutto questo casino non sarebbe mai successo se lui non fosse stato un maledetto stronzo curioso.
“Tutto bene, amica?” Mi ero accasciata sopra il tavolo degli esperimenti, in attesa che quella giornata di merda finisse. Era stata la peggior giornata alla White Swan. Peggio di quando mi avevano chiuso nel gabinetto, peggio degli sgambetti, peggio del cibo rovesciato a mensa. E Edward Cullen invece mi sorrideva sereno prendendo posto.
“Se non ti fossi impicciato...” 
Non sopportavo più gli sguardi curiosi e indagatori che mi avevano perseguitato nei corridoi, in attesa di risposte. Eppure, qualcosa doveva essere trapelato perché la Stanley si presentò al mio armadietto con una pila di compiti da fare e chiedendomi perché Susanne Clearwater si era incontrata con il comitato del ballo delle debuttanti per far partecipare me. Sembrava che anche la nonna di Jessica fosse in quel comitato e le avesse riferito il succoso pettegolezzo. Presi i suoi compiti e la liquidai con un semplice non lo so.
La lezione di Molina filò liscia e il professore ci ricordò di fare attenzione mentre riprendevamo l’esperimento della settimana precedente. 
Cullen mi seguì al mio armadietto perché intenzionato a riportarmi a casa. Quando vide i compiti di Jessica tra i libri che mi sarei portata via, me li strappò di mano, dicendo che ci avrebbe pensato lui.
“Davvero, Edward, sono cose elementari per me. Non dovresti andare agli allenamenti?”
“Il coach ha dato appuntamento tra un’ora, partitella con tuo fratello.” Gli sibilai di abbassare la voce. 
Se il mio arrivo con Jacob aveva suscitato tantissimi pettegolezzi, il fatto che il Cigno Bianco mi parlasse senza insultarmi era un evento epocale. Ci mancava solo che sentissero la nostra conversazione. “Anzi, perché non vieni a vederci? Non ti ho mai vista a una partita.”
“Perché non mi interessa venirci. Odio il football e la squadra.”
Magicamente evocati, arrivarono i balordi psicopatici amici di Edward. Emmett McCarty e Jasper Whitlock. 
I genitori di Emmett si erano arricchiti con il commercio fluviale e marittimo. Tutte le merci che transitavano sul Potamac e dai porti sull’oceano erano trasportate dalla loro flotta commerciale. Invece la famiglia Whitlock aveva puntato sul più florido mercato americano, le armi. Suo padre era in possesso di un patrimonio a moltissimi zeri, generatosi da quasi due secoli dalla produzione di strumenti di morte. 
Zia Sue sarebbe stata fiera di me, le sue lezioni sulle famiglie della città mi erano rimaste impresse.
“Ah, adesso le parliamo?” Emmett era un colosso e incombeva su di noi con un vago senso di minaccia.
“Forse...forse è perché sta con Jake.” Azzardò il biondo figlio dell’industriale.
“O forse perché non vi fate i cazzi vostri?” Risposi incazzata come una iena.
“Forse è meglio se ci calmiamo tutti e andiamo a parlare in un posto più tranquillo.” Propose Edward.
“Cullen!” La voce potente di Jacob ci raggiunse dal fondo del corridoio. Oh, no, no, ti prego! Non di nuovo il fratello geloso.
“Approvo il posto tranquillo.” Mi affrettai a scappare dalla direzione opposta da quella in cui Jake incedeva fendendo la folla. Dietro di me sentivo i passi dei tre giocatori di football.
Per fortuna mio fratello venne fermato dalla folla adorante. E da una miriade di ragazze innamorate.
Li invitai a entrare nel mio bagno preferito, soffocando le proteste riguardo al fatto che fosse un bagno femminile. Per ogni evenienza appesi il cartello fuori servizio.
“Allora cosa è questa storia?” Emmett proprio non aveva pazienza. Tutti e tre mi fissavano impazienti che dicessi qualcosa. Era una situazione surreale. Io che dovevo giustificarmi con gli amici del mio nuovo amico.
“Non c’è nessuna storia.” Non ero molto propensa a dare spiegazioni. Il patto con zia Sue aveva una clausola molto importante: dovevo essere io a diffondere la notizia sul mio vero nome. Era un tecnicismo, e io mi ci stavo aggrappando con tutte le mie forze. Avevo già fatto presente che era stato Jacob a dirlo a Edward e io ero stata ben attenta a non confermare né smentire la notizia.
Ma lì, nel bagno, Edward non aveva intenzione di dire alcunché, perché sapeva che la decisione spettava solo a me.
“Volevo ringraziarvi per la macchina, siete due stronzi.” Edward rise per le facce dei suoi amici. “È nella rimessa, dietro a quella del giardiniere. L’ho già ripulita, potete montare gli pneumatici nuovi quando volete.”
“Ecco dove l’avevi nascosta!” Alzai gli occhi al cielo per il commento ilare di Cullen. “Mi ha sporcato un jeans da seicento dollari per lo scherzetto.”
Emmett e Jasper si scambiarono occhiate incredule, non sapendo che pensare della situazione.
“Senti Black, se sei la ragazza di Swan, puoi anche dirlo. Però, ecco, evita di menzionare con lui quel rottame.”
“Jacob sa dello scherzetto che mi avete fatto e anche il preside.”
“Merda, questa stronza ci metterà nei guai.” Emmett strinse i pugni, furibondo.
“Isabella...” Edward mi richiamò all’ordine. “Di loro ti puoi fidare.” Io mi fidavo a malapena di lui. Ma feci uno sforzo perché tanto zia Sue quanto papà non avrebbero mai gradito che mi nascondessi dietro un tecnicismo. Ormai il fiume aveva rotto gli argini e tanto valeva iniziare a cavalcare la piena.
“Ecco...” Mi torturai le mani. “Ecco…”
“Isabella non sta con Jacob.” Ringraziai Edward per l’imbeccata, anche se era la parte più facile da spiegare. A un mio cenno d’assenso, però, continuò. “Non sta con lui, perché Jacob è suo fratello.”
Le mascelle dei giocatori di football caddero a terra.
“Non ci credo che il preside Swan abbia avuto una bastarda.”
Tirai un calcio negli stinchi a Emmett, rischiando di cadere. Saltellai su un piede solo, l’altro ferito dopo essersi infranto contro un fascio di muscoli. 
“Papà non tradirebbe mai mia madre.” Sibilai tra i denti, ancora dolorante.
“Isabella è una figlia legittima, scimmione. Solo che non ama essere associata al preside o a Jacob.” Precisò Edward, tirandogli uno scappellotto. 
Jasper mi fissava in silenzio, mettendomi a disagio. “Sei una Swan.” Annuii. “Che io sia dannato, ragazzina. Prevedo molti guai per te quando lo sapranno anche gli altri. Alla Stanley non piacerà che qualcuno sia di rango superiore al suo.”

La profezia si rivelò esatta. Il giorno dopo Jessica si presentò al mio armadietto. Mi spinse sotto al naso i suoi compiti chiedendomi perché non li avevo fatti. In un angolo in bella calligrafia c’era scritto, fatteli da sola.
“Questo scherzetto ti costerà caro.” Mi minacciò. Sospirai perché ormai non avevo più niente da perdere, era solo questione di giorni, forse solo di ore perché tutti venissero a conoscenza della sfuriata che Jacob aveva fatto nel bagno femminile quando ci aveva raggiunto. Aveva anche minacciato Edward di starmi lontano. Alla partita organizzata in suo onore aveva placcato malamente il mio nuovo amico.
“Jessica, sparisci, non è proprio il momento giusto.”
“Scoparti Swan non ti dà alcun diritto e nessun potere. Ricordati chi comanda. Swan tornerà al college e tu sarai sola.” Mi tese i fogli. “Mi servono entro la prima ora.”
“Dovresti ritenerti fortunata che tu non abbia avuto nessun richiamo ufficiale per questo.”
“Mi stai davvero minacciando, insetto?” Rise perfida.
“No, è solo un dato di fatto. Il preside sa che ti ho fatto i compiti e non è molto contento della cosa.” Mi diede della spia bastarda. Incassai come un pugile professionista. “Senti, Jessica, io non voglio guai. Tu non vuoi guai. Finiamola qui.”
Lei si avventò su di me, preda della rabbia più cieca, ma venne tirata indietro da Edward che era magicamente comparso al mio fianco.
“Faresti bene a ascoltare il suo consiglio.” Le disse. Lei traballò sui suoi tacchi vertiginosi.
“Ora difendi il Brutto Anatroccolo.”
“Oh, merda Jessica. Finiscila.” Ero stanca dei suoi soprusi. Ero stanca dell’aria tesa che si respirava a casa, con me incazzata nera con mio padre e mio fratello. Ero al limite della sopportazione. “Susanne Swan Clearwater è mia zia. Io sono una Swan e quindi, no, non mi scopo Jacob. Che schifo, è mio fratello.”
Me ne andai lasciandola completamente spiazzata.
“E per fortuna che non volevi farlo sapere in giro. L’ape regina starà serrando i ranghi.”
“Tornerà strisciando a implorare perdono, stai tranquillo.” Edward rise prima di portarsi una mano sullo sterno ed emettere un sibilo di dolore. Quel cretino di Jacob gli aveva fatto male con il placcaggio. “Sarà sempre peggio, vero, amico?” 
Lui mi sorrise e mi promise che sarebbe andato tutto bene.




p.s. dell'autrice:
La Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte...
In casa non ho nessuna calza appesa al camino (dalle mie parti la Befana proprio non è considerata, povera vecchia...). Domani arriva anche l'Epifania che tutte le feste porta via e si torna alla solita routine. 
Buona ripresa, insomma.
Passando al capitolo...se avesse un titolo, sarebbe sicuramente "Amici." Le cose tra i due stanno evolvendo, qualche muro è caduto. Stanno correndo troppo? E' davvero possibile cancellare anni di offese? 
Edward si sta comportando in modo civile, le ha mostrato una parte di sè che aveva tenuto ben nascosta. 
Ah, l'amore...
Sara



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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Buongiorno e Buona Lettura.



CAPITOLO 9

Il sorrisetto compiaciuto di papà durava già da due giorni e i miei nervi non avrebbero sopportato oltre. 
“Basta, papà, davvero, adesso smettila.”
“Di fare, tesoro?” Sorrise più apertamente, aveva vinto. Erano poche le volte che Charlie Swan riusciva a segnare una vittoria così schiacciante contro la sottoscritta. Di solito ci limitavamo a schermaglie di poco conto in cui alla fine giungevamo a un pareggio o alla sua completa capitolazione. Ma dopotutto gli piaceva lasciar vincere la sua bambina. Erano proprio inezie, come lasciarmi lavorare, farmi comprare il mio catorcio...ma il cognome era sacro e lui non avrebbe mai ceduto. Ormai tutti a scuola sapevano che ero la figlia prediletta del preside. Qualcuno pensava che fossi una figlia illegittima, qualcuno che fossi solo matta.
“Fai ripartire Jacob per il college all’istante.” Erano tre giorni che si occupava del mio inserimento scolastico da bravo fratello maggiore ed era più un mastino furioso che un aiuto. Fondamentalmente si fermava ogni volta che poteva a chiacchierare con chiunque, a meno che io e Edward non ci avvicinassimo a meno di tre metri l’uno dall’altro. Allora iniziava a schiumare di rabbia e mi allontanava con una scusa. Più di una volta aveva cercato di prendermi il cellulare e tentava sempre di leggere i messaggi al di sopra della mia spalla. “È un cane rabbioso.”
Papà soffocò la risata colpevole nel caffè, confermando che dietro il comportamento di mio fratello c’era lui. 
“Hai vinto, non è sufficiente? Devi proprio punirmi?” Papà si face serio e addolorato. Mamma, che aveva assistito alla discussione, prese la parola, appoggiando una mano sul braccio del marito. Disapprovava che non mi facessi chiamare Swan, ma rispettava più di tutti la mia decisone.
“Tesoro, gli uomini pensano sempre che le donne della loro vita abbiano bisogno della loro protezione. E quando gli facciamo notare che non è così, involvono a uno stato di cavernicoli iperprotettivi. Perdona tuo padre, da oggi si comporterà bene e considera già pronta la valigia di Jake.” Lieve come la carezza che mi lasciò tra i capelli, mamma andò al piano superiore, nella camera dell’uomo di Neanderthal.
“Ti farà soffrire.”
“Chi? Ah...Cullen?” Rimasi sinceramente stupita della sua osservazione. “Io e Edward siamo solo amici, papà.” Cercai di non arrossire perché avevo sempre la mia cara cotta adolescenziale attaccata alla giugulare, che mi risucchiava il sangue dal cervello ogni volta che ero in sua compagnia. Sì, era probabile che il mio amico mi avrebbe fatto soffrire, ma quello era un problema mio e ci avrei fatto i conti solo quando fosse successo. Sperai solo che mio padre si sbagliasse e che per una volta la ruota girasse in mio favore. 
“Vorrei che fosse così piccola mia, lo vorrei tanto.” Si alzò, mi diede un bacio tra i capelli e posò la tazza di caffè nel lavello, il giornale sotto il braccio. “Se non vuoi venire con me, chiedi a tua madre la sua macchina. Ci vediamo a scuola, signorina Swan.”

L’offerta di pace di papà era allettante e decisi di interpretarla a modo mio. Mandai un veloce messaggio a Edward, chiedendogli se fosse disponibile come autista. In risposta mi mandò un vocale, facendomi sentire il motore della Maserati che rombava. Mi fiondai nell’ingresso, oltrepassando con passo sicuro e determinato mio fratello che non poté far altro che vedermi uscire.
Edward mi stava già aspettando, bello come non mai, nei suoi pantaloni neri di sartoria, mentre la giacca della divisa era stata sostituita da un giubbino di pelle nera. La cravatta, sempre nera era mollemente allentata sopra una camicia bianca che sembrava risplendere. Mi concessi pochi secondi per ammirarlo nella sua perfezione, prima che si accorgesse del mio arrivo.
“Buongiorno, piccola Swan. La sua carrozza è arrivata.” Mi strizzò l’occhio e mi aprì la portiera. Aveva i tipici geni degli uomini del Sud per i quali essere galante era scritto nel loro DNA.
Sì, Edward avrebbe potuto ferirmi da un momento all’altro. Ma, intanto, mi sarei goduta tutti quegli istanti in cui mi faceva stare bene ed era carino con me.
“Sai mi piacerebbe proprio capire cosa ti passi per la testa.” 
“A me? Niente.” Borbottai, ma sembrò non esserne convinto.
“Sai, se vuoi essere una Yankee dovresti sapere che loro dicono sempre quello che pensano, senza peli sulla lingua.”
Mi stava prendendo in giro, ma decisi di rispondergli riprendendo il discorso interrotto in macchina quel sabato pomeriggio.
“Quello in cui confessi che sei perdutamente innamorata di me?” Alle sue parole mi strozzai con la mia stessa saliva. “Scherzavo Swan, scherzavo.” Mi batté delicatamente sulla schiena, ridacchiando sotto i baffi.
“Dovresti ricordarti che sei tu quello che rischi di più, perché la mia volontà di diventare una Yankee comporta che non mi sposerò mai e che ci rimarrai malissimo quando, perdutamente innamorato di me, rifiuterò la tua proposta di matrimonio. Ovviamente non farò nemmeno il ballo delle debuttanti.”
“Sì, ma abbiamo anche concordato che tua zia non accetterà mai questa tua decisione e che, avendola già avuta vinta sul cognome, non si arrenderà facilmente sul resto.”
Purtroppo, aveva ragione. Quel sabato avevo suscitato la sua incredulità quando gli avevo spiegato che dopotutto la volontà di cambiare cognome era stata dettata principalmente dal capriccio infantile di mettermi in competizione con il mio super fratello perfetto. Papà aveva trovato divertente la cosa per gli anni delle medie e decisamente irritante quando dovevo iniziare il liceo, ma a quel punto non era più un capriccio, era diventata una questione di principio.
“Vorrei dire che la mia famiglia ha una mentalità aperta e illuminata, ma sono i più sessisti e mentalmente ristretti proprietari di una scuola che tu possa trovare in tutta la Virginia.” 
Edward alzò gli occhi al cielo in modo teatrale, come se avessi colpito il suo orgoglio di uomo della Virginia. “Hai già la mentalità di una Yankee.”
“Oh, ma stai zitto.” Gli tirai un buffetto sul braccio. “Mamma ha pianto tutta la sera e tutta la domenica per la gioia. Ha ricevuto una telefonata da zia Sue per concordare i dettagli del mio abito da debuttante.” Storsi il naso al solo pensiero di una sessione con la sarta per il vestito. Avrei anche dovuto prendere lezioni di buone maniere, partecipare a tè infiniti per scegliere il mio accompagnatore, sperando sempre che non fosse un modo per la zia di accasarmi. Così non avrei avuto tempo per lo studio e non sarei mai riuscita a diplomarmi.
“Ehi, ehi, frena quel cervellino. Tra poco ti uscirà il fumo dalle orecchie e non sono nemmeno le otto di mattina.” Posò una mano sulla mia gamba e lì sì che le orecchie rischiarono di andare a fuoco, così come le mie guance. Per fortuna aveva appena parcheggiato e mi fiondai fuori dall’auto. Peccato per il mio pessimo equilibrio che mi fece inciampare nel battitacco. Afferrai al volo la portiera, recuperai l’equilibrio, ma mi tolsi il fiato tirandomi addosso il metallo.
E aspettai. Aspettai che arrivassero le risate e la derisione. Chiusi gli occhi mentre si accumulavano lacrime tra le ciglia e aspettai.
“Ehi Bella!” Edward era davanti a me preoccupato. “Ti sei fatta male?” Azzardai ad aprire un mezzo occhio, perché non ero sicura che la sua voce non fosse solo un miraggio. Fino a pochi giorni fa un episodio del genere avrebbe fatto ridere tutti gli studenti e avrebbe fatto sì che Edward Cullen mi perseguitasse nei corridoi per deridermi. E invece ora era davanti a me, preoccupato, che mi faceva scudo con il suo corpo perché mi potessi ricomporre senza che nessun altro vedesse quanto fossi imbranata. Estrasse un fazzoletto bianco dalla tasca e mi asciugò le piccole goccioline che avevo agli occhi. Il suo sguardo era sincero, non beffardo e la mia cotta sussultò come una bestia che si era appena nutrita. “Stai bene?” Domandò ancora. Scossi la testa, no, che non stavo bene. Non pensavo che Edward mi avesse fatto così male, così nel profondo. Come potevo comunque avere una cotta per lui?
“Quanto male ti ho fatto?” Accarezzò la mia guancia, sinceramente pentito.
“Devo andare.” Mi scostai da lui e lo lasciai davanti alla sua auto blu elettrico.

Appena prima di andare in mensa, passai dal mio armadietto per prendere il libro di Kerouac che avrei dovuto finire per la lezione di letteratura. Un formicolio mi percorse da capo a piedi, come se ci fosse un pericolo all’orizzonte. Ero così abituata a stare in guardia che il mio stesso corpo reagiva quando avvertiva qualche cosa fuori posto. Mi voltai di scatto e vidi un grande pericolo che, tentando di non farsi notare, mi osservava di sottecchi.
“Maggie O’Shea, forza dimmi che vuoi.” La minuscola ragazzina dai capelli rosso fuoco sussultò spaventata dal mio richiamo. Anche se eravamo sempre state dalla parte delle sfigate, di quelle che venivano evitate perché di rango sociale inferiore, non avevamo mai stretto amicizia, né fatto fronte comune contro i bulli. La ragazzina con le lentiggini si avvicinò timida.
“Posso chiederti perché?” Si strinse i libri al petto, a disagio. “Perché non hai mai detto che eri la figlia del preside e hai lasciato che tutti ti prendessero in giro?”
“Si sarebbero accaniti su di me lo stesso, per un motivo o per l’altro.” Sapevo bene che non avrei mai usato il mio cognome come parafulmini contro le angherie.
Maggie scosse la testa, poco convinta della mia risposta. “Grazie. In questi anni hai sopportato le prese in giro anche per quelli come me.”
“Maggie...”
“Magari potresti andarci un po’ leggera con noi, non credi?” La fissai senza capire. “Beh, ora che sei al comando della scala sociale immagino che ti rifarai su quelli come me.” Ero sconvolta.
“Grazie per il pensiero, ma ti assicuro che non sono una pazza schizofrenica. Non cambio personalità perché ho cambiato cognome. Purtroppo, penso proprio che ti sia fatta aspettative sbagliate su questo mio fantomatico potere sociale.”
Lei alzò le spalle. “Lo sanno tutti che sei la nuova ape regina.”
Qualcun altro ribatté al mio posto. “Devi accettarlo Bella, sei in cima alla scala sociale, ora.” Maggie impallidì nel vedere Edward così vicino a sé. Lui per tutta risposta le sorrise, le tese la mano e si presentò. La ragazzina scappò terrorizzata.
“Ma che ho fatto? Perché voi donne state scappando tutte da me?”
Avevo deciso di parlare con il mio nuovo amico, ma non mi aspettavo che mi comparisse davanti così. “L’hai spaventata a morte, pensa di essere un nuovo bersaglio.” Anche io ero stata come Maggie? Essere una Swan portava con sé il privilegio di essere intoccabile. Me ne ero accorta da come mi guardavano tutti da giorni, o dal fatto che Jessica mi aveva chiesto, come se fossimo grandi amiche, di andare a prendere il tè da lei. L’avevo gentilmente mandata a quel paese, non sopportando oltre il suo falso sorriso. Non avevo nessuna intenzione di soffiarle il posto come ape regina, ma non glielo dissi per lasciarla crogiolare nell’incertezza. Una piccola rivincita potevo anche permettermela.
Già l’alveare. Le api erano impazzite e rischiavano di pungere chiunque a caso, senza un ordine. Era questo che intendeva papà che avevo inutilmente protetto quei ragazzi senza dar loro la forza di ribellarsi? Era giunto il momento della rivincita per tutti?
“Oggi vuoi davvero farti esplodere il cervello.” Ewdard mi riportò con i piedi per terra.
“Scusa, devo finire Sulla strada.”
Mi avviai per il corridoio, verso la biblioteca, deserta all’ora di pranzo. Cullen mi fu dietro con una sola falcata. Mi prese per il braccio per farmi voltare verso di lui. “Mi vuoi dire che ti prende, Bella?”
“Bella?” Lo guardai scettica, era da stamattina che mi aveva affibbiato quel nomignolo. Nessuno prima d’ora lo aveva fatto. Prima erano solo insulti. “Lascia perdere.” Me ne andai dal corridoio, ma sembrava che a lui proprio non andasse giù di essere mollato lì. 
Eravamo nell’ala più isolata della scuola. La biblioteca era una costruzione piuttosto recente: mio nonno aveva voluto ampliarne i locali e collocarli in un luogo più appartato perché fosse lontano dal trambusto quotidiano. 
“Ti vuoi fermare e dirmi cosa hai?”
“Sono un Cigno Nero!” Gli urlai contro ricordando le parole dette a zia Sue tanti anni prima quando era venuta a casa nostra dopo aver saputo che avrei mantenuto il cognome Black anche al liceo. Mi aveva preso da parte e avevamo fatto due chiacchere tra donne, senza gli isterismi di mio padre. Ascoltò le mie ragioni, in silenzio, senza interrompermi. E poi mi convinse a stringere un patto con il diavolo, se avessi voluto essere la sua erede avrei dovuto dire ai miei compagni di liceo il mio vero cognome, entro l’ultimo giorno dell’ultimo anno. Era impallidita quando a giugno le avevo comunicato che avrei fatto due anni in uno, perché si era resa conto che non volevo un centesimo da lei e che i soldi non erano una leva sufficiente. Ovviamente accettando il mio cognome avrei anche accettato tutta una serie di doveri legati ad esso. Zia Sue in cambio avrebbe convinto mio padre a farmi avere un posto nel consiglio direttivo della scuola.
“Io non sarò mai capace di avere un posto in questa scuola e non voglio nemmeno averlo. Se...se la tua amicizia è subordinato a questo, è meglio che dimentichi i nomignoli e quant’alto.” Ero davvero disposta ad assumermi le responsabilità del cognome Swan se non proteggevo i miei compagni?
Edward per tutta risposta mi attirò a sé e mi baciò.
Ma era sempre presente nella mia testa la vecchia maledizione della famiglia.
Nessuna femmina Swan sarà mai un Cigno Bianco.” Recitai, stordita dal suo profumo celestiale e dalle labbra sensuali. 
“Tu non sei un Cigno Bianco.”
“Grazie, Capitan Ovvio.” Lo ripresi caustica, con le gambe tremanti e il cuore a mille.
“Sei un Brutto Anatroccolo. I Brutti Anatroccoli diventano sempre i più belli.” 
E mi baciò ancora.




p.s. dell'autrice: uh, uh, uh...le acque si sono smosse! Un mezzo maremoto, visto che siamo già al nono capitolo e Edward non aveva ancora fatto la sua mossa. però, però, però...mi chiedo quale sia il vero Edward, quello un po' (tanto) cattivello o quello baciatore?
a voi ardua sentenza!
Bella, per quanto cotta di Edward, deve ammettere che lui non si è comportato bene con lei.
alla prossima,
Sara.



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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Buona lettura



CAPITOLO 10

“Che stiamo facendo, Edward?” Mi allontanai da lui prima che il bacio si facesse ancora più profondo e mi facesse perdere del tutto il contatto con la realtà. Feci un altro passo indietro per non cedere alla tentazione.
“Ci stiamo baciando.” La semplicità delle sue parole mi colpì. Avevo bisogno di riflettere e finire il mio libro prima della fine della pausa mensa. Provai a spiegarglielo ma sembrava che le parole non mi salissero alla bocca. “Non c’è niente di male nel baciarsi.”
“Questo doveva essere il mio anno più semplice e si sta rivelando il più complicato. Non siamo nemmeno a ottobre!”
Edward mi guardò sorridendo lievemente e coprì la distanza tra di noi. Mi accarezzò la guancia, scostandomi i capelli dal volto, e mi affidai a quel tocco, ancora troppo emotivamente instabile per rifiutarlo. Un solo bacio poteva davvero aver cambiato il nostro rapporto? Potevo davvero perdonarlo per tutto il male che mi aveva fatto?
“Mi hai sempre intrigato, fin dal tuo primo giorno qui.” La sua mano sulla pelle del mio volto bruciava. “Non puoi solo accettare che io sia stato stronzo con te perché ti volevo e non potevo averti?”
“Perché adesso, perché hai deciso che questo era il momento giusto per cambiare?”
“Perché mi sono sempre sbagliato su di te. Perché questo è l’ultimo anno e non voglio sprecare altro tempo.”
Il suo profumo inebriava i miei sensi e volevo solo sentire di nuovo le sue labbra sulle mie, ma avevo bisogno di riflettere lontano da lui. Dovevo capire se potevo davvero fidarmi, se i tempi bui erano finiti.
Gli chiesi un po’ di spazio, per togliermi dalla mente le sue labbra e per far smettere di girare la mia testa. Ero abituata ad analizzare la situazione e ad agire freddamente. Per lo più lo facevo per sopravvivere alle brutte giornate di scuola, quando la voglia di piangere mi assaliva. 
“Devo proprio finire questo libro.” Sollevai il volume tra di noi, creando un piccolo muro di Berlino. Edward capì quello che gli stavo comunicando e si fece da parte. 
Cambiai la mia destinazione e, invece di dirigermi in biblioteca, optai per il mio bagno preferito. Stranamente ci trovai appeso un cartello che impediva l’accesso. Non sapevo che fosse scoppiata qualche tubatura. Sospettosa, aprii la porta e capii subito che qualcuno stava abusando del mio bagno per fare sesso. I mugolii che provenivano da uno dei cubicoli erano inequivocabili. 
“Temo che abbiamo compagnia, baby.” La porta alle mie spalle aveva prodotto un colpo secco nel chiudersi. Il ragazzo che aveva parlato sembrò non fermarsi, continuando a dare piacere alla sua compagna, e ignorando bellamente di non essere più solo. Rimasi lì impalata, come una stupida, non riuscendo a muovermi. 
Qualche minuto dopo, la ragazza venne con una serie di sospiri e di imprecazioni, mentre il ragazzo grugnì per il piacere. Uscirono dal bagno, ricomponendosi alla ben e meglio.
“Cazzo.” La ragazza, Hale qualcosa, mi squadrò preoccupata. La scuola aveva un rigido codice di comportamento che veniva osservato da tutti. O meglio, tutti lo infrangevano senza farsi notare perché in caso contrario sarebbero stati espulsi. E essere espulsi per codice di condotta inadeguato alla White Swan era una macchia indelebile che nemmeno i soldi di tutti i ricconi lì dentro avrebbero potuto cancellare. Qui nessun preside aveva mai accettato bustarelle per far promuovere i figli o per passar sopra a qualche cazzata. Per lo più papà faceva finta di non vedere, diceva che i tempi erano cambiati da quando la scuola era stata fondata e che il suo bisnonno era un po’ troppo puritano, ma che un po’ di sano terrore non guastava mai. O forse qualche soldo in più nelle casse scolastiche non faceva male.
“Non ti agitare, baby, Isabella non è una spia.” Jasper mi lanciò un’eloquente occhiata e congedò la sua amante con una pacca sul culo.
“Cosa ci fai qui?” Mi chiese mentre si lavava le mani, guardandomi nello specchio.
“Sei nel mio bagno.”
“Ah non sapevo fosse un bagno privato. Ho preso spunto da te.” Quel ragazzo mi inquietava leggermente. Se Emmett era il ragazzo esuberante e spumeggiante, sempre un po’ sopra le righe, ma le cui mosse erano facili da inquadrare e prevedere, Jasper era il suo esatto contrario. Sempre compito e silenzioso, aveva nello sguardo la fredda minaccia di un soldato votato alla causa. Edward stava nel mezzo, più o meno.
Appoggiò il culo al lavandino, le gambe incrociate e le braccia conserte. Mi studiava e attendeva che dicessi qualcosa. 
“Hai occupato il mio bagno.” Mormorai di nuovo, sempre più a disagio sotto il suo sguardo indagatore.
“Capisco. Edward ha fatto finalmente il primo passo?” Lo disse come se stesse parlando del sole nel cielo.  Sussultai e abbassai il viso verso le mie mani, almeno i capelli mi avrebbero coperto le guance in fiamme. “Sono due anni che mi rompe le palle con te.”
Lui non si spazientì per il mio mutismo o disse alcunché. Continuava a fissarmi indagatore, come se fossi io quella sotto accusa, scoperta a fare sesso nei bagni femminili.
“Per me è difficile crederlo.”
“Ah, bassa autostima, eh?” Si passò la mano tra i folti capelli color miele.
“Se è solo per il cognome...”
“Il tuo cognome è solo una complicazione.” Sbottò infastidito, mostrando per la prima volta un’emozione. “Sei la figlia del preside e la sorella di Jake, a nessuno è permesso fare passi falsi con te, o anche solo avvicinarti per una storia romantica.” La voce si spense nella caustica osservazione. Fece una pausa. “Ti facevo più intelligente, sinceramente.” Era tornato il freddo soldato che osservava il suo obbiettivo, prima di sferrare l’attacco. Inclinò la testa da un lato, pensieroso. “Oppure sei davvero la stronza menefreghista con la puzza sotto il naso che crediamo tu sia. Ho detto più volte a Edward di lasciarti perdere.” Un pugno nello stomaco sarebbe stato più delicato. “Quando sei arrivata, non ti facevi avvicinare da nessuno, con quel nasino all’insù. Edward ci ha tentato e gli hai servito un due di picche colossale. Non fa bene all’ego di un uomo della Virginia.”
Traballai sui talloni, mi sembrava che la stanza stesse vorticando attorno a me. Quando mai Edward ci avrebbe provato? Ero io quella con gli occhi a cuoricino, non se ne era mai accorto?
Jasper continuò nel suo monologo, perché non era importante una mia partecipazione attiva. 
“E poi gli arrivò la batosta tra i denti più forte di tutte, alla partita di chiusura dell’anno scolastico, a maggio.” La nausea si attenuò solo per un secondo. Non mi ricordavo di aver assistito a nessuna partita di football. “Quella in cui il Cigno Bianco uscente cede il passo a quello entrante.” Ah, io a quella partita non ho proprio assistito perché... “Hai litigato furiosamente con Jake, nel tunnel che porta al campo.” Annuii, ricordando vagamente il volto paonazzo di mio fratello, le minacciose righe nere sotto gli occhi e il corpo reso ancora più possente dalla divisa. Mi aveva preso per il gomito e io gli avevo vomitato addosso tutto il mio odio per la scuola e le gerarchie sociali.
Quanto aveva sentito Edward? A quella stupida partita io non ci volevo andare, ma papà mi aveva costretto perché tutta la scuola sarebbe stata presente. In quell’occasione, il titolo di capitano e Cigno Bianco sarebbe stato ceduto al successore di Jacob, Edward. Una specie di passaggio di testimone.
“Sai adesso mi spiego tutto. Non vuoi essere condizionata dal tuo cognome e ne sei completamente succube. Ti sforzi tanto di non essere una Swan che prendi gli atteggiamenti sdegnosi tipici delle bellezze del Sud. Sei una Swan più di quanto ti piaccia ammettere.”
Si diresse alla porta, intenzionato ad uscire, una mano sul pomello.
“Non so proprio cosa ci trovi in te Edward, ma è evidente che voglia correre il rischio.”

Ovviamente saltai la lezione di letteratura inglese, troppo stordita da quello che mi aveva rivelato il biondo soldatino. Mi ritrovai a girovagare senza meta nei territori dietro la scuola. Finii, ironicamente, proprio nel modernissimo stadio di football con quegli alti pali dell’illuminazione che sembravano esserne i silenziosi guardiani. Imboccai il tunnel in salita che portava dagli spogliatoi al campo di erba verdissima.
Era proprio lì che io e Jacob avevamo litigato. Mi stava trascinando sugli spalti, per farmi sedere con mamma e papà. Anche se avevo acconsentito a presenziare, non ero intenzionata a fare la docile figlia del preside. L’unico obbiettivo di mio fratello era sempre lo stesso, una continua litania che risuonava per la casa da mattina a sera.
Ero così stanca quel giorno, esasperata dalle continue frecciatine che mi faceva, da un anno finito senza che mi fossi fatta un solo amico, che quando mi trovò che restavo nell’ombra delle gradinate e si infuriò prendendomi per il gomito e spingendomi verso la mia famiglia, persi definitivamente le staffe. 
Gli dissi cose terribili, che odiavo lui e qualsiasi Cigno Bianco, passato, presente e futuro, che mi faceva schifo anche solo pronunciare il cognome Swan. Gli dissi anche se sarei stata sempre orgogliosa di non assomigliare a lui e ai suoi stupidi amici. Mi lasciò andare, come se lo avessi scottato con la pece bollente e mi guardò con disprezzo. Mi disse che ero solo un Brutto Anatroccolo che non sarebbe mai diventata un Cigno Nero, tanto meno un Cigno Bianco.
La rabbia tra di noi continuò per i mesi estivi, finché lui non partì per il college e la lontananza attenuò il risentimento. Ecco perché quando mi assaliva con il solito argomento, mi chiudevo a riccio e non gli davo modo di continuare la conversazione: temevo di litigare ancora con il mio fratellone.
Sedetti sulle gradinate, guardando verso il curatissimo prato, nell’aria ancora l’odore di erba appena tagliata. Cosa aveva sentito Edward di quella conversazione? Mi odiava perché pensava che disprezzassi così tanto lui e quello che rappresentava?
Mi misi le mani nei capelli. Gli anni di liceo potevano essere migliori e io avevo sputato contro questa possibilità? Capii perfettamente come dovevo essere sembrata a Edward. Una stupida ragazzina che se rifiutava il ragazzo più popolare, avrebbe rifiutato anche lui. E forse aveva ragione. Perché lo avrei guardato dall’alto al basso, per proteggere il mio cuore cotto a puntino.
“Posso sedermi vicino a te?” Alzai lo sguardo e mi ritrovai davanti papà. “Sei sparita a pranzo e così ti ho cercata. Non pensavo proprio di trovarti qui.”
Già, odiavo il football. Portai le ginocchia al petto e vi appoggiai il mento. 
“Non ci metti più piede da quando hai litigato con tuo fratello.” Alzai il viso verso di lui, sorpresa. “Oh, sì, tesoro. Io so sempre tutto.” Mi fece l’occhiolino. Papà era davvero una persona in gamba, con quei baffoni che da piccola mi facevano sempre il solletico, la giacca un po’ consunta con le toppe sui gomiti. Si sciolse il nodo della cravatta. “Ho una riunione con il consiglio d’amministrazione tra un po’, e mi piacerebbe saltarlo come tu salti le lezioni.”
“Scusa, sono una pessima figlia.” Borbottai sulle ginocchia. Charlie mi avvolse le spalle con un braccio.
“Sei la figlia migliore che un padre possa volere e va bene se salti le lezioni ogni tanto, ma che non diventi un vizio, non vorrei proprio essere chiamato dal preside.” Mi accoccolai contro il suo fianco, grata del suo conforto.
Restammo così per un po’ di tempo finché papà non disse che doveva per forza andare a incontrare quei vecchi stronzi bavosi. “Non dire a tua madre come li chiamo, me lo rinfaccerebbe finché campo.”
“Perché dire parolacce è sconvenite.” Alzai gli occhi al cielo, afflitta. Io e papà scoppiammo a ridere pensando a mamma che si arrabbiava a ogni imprecazione.
“Essere un Cigno Nero può anche essere più impegnativo che essere un Cigno Bianco, tesoro.” Papà si fece improvvisamente serio mentre ci incamminavamo verso la scuola. “Seguire e combattere per le proprie idee è molto più stancante che essere allineata con la famiglia. Promettimi che sarai sempre fedele a te stessa. Ma che non salterai più le lezioni.”
Quando arrivammo all’edificio principale, papà mi stringeva ancora a sé con un braccio. Ci fermammo alla porta del suo studio, gli diedi un bacio vicino ai suoi teneri baffoni e gli aggiustai la cravatta, strappandogli una smorfia di sconfitta e disgusto.
“Vai papà, falli neri.” Gli tirai un pugnetto sul braccio per incoraggiarlo, ma lui aveva lo sguardo fisso oltre di me. Indurì la mascella perché qualcosa lo stava infastidendo. 
“Ha bisogno di qualcosa, signor Cullen?” Mi irrigidì sul posto, i sensi all’erta, e mi voltai molto lentamente. 
“No, preside.” Edward si passò una mano tra i capelli sempre scompigliati. Sembrava turbato. “Porto a casa Isabella, se a lei sta bene.” Si rivolse a me con un timido sorriso. “Ti sta bene?” Io annuii solo, totalmente in balia del suo sguardo magnetico. Scivolai via da mio padre senz’altro che un saluto.
Edward Cullen era diventato il mio nord e io ero l’ago della bussola impazzita. 




p.s. dell'autrice: permettetemi solo cinque parole: io adoro Jasper e Charlie. sono i mei personaggi preferiti nell'intera ff.
Ho deciso di puntare per una volta, su Jasper invece che Alice e sono felice di come il mio esperimento mi abbia ripagato (poi ho ripetuto l'esperimento in quello che sto scrivendo adesso -.-"). Non vi preoccupate, arriverà anche Alice...
a presto
Sara


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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Buona lettura.


CAPITOLO 11

Per tutta la settimana rimasi anestetizzata perché non avevo voglia di pensare a nulla, non al mio ruolo nella scuola, né a come si stesse costruendo il mio rapporto con Edward. Avevo deciso di vivere ogni giorno così come sarebbe venuto, senza saltare le lezioni per non infrangere la promessa fatta a papà, ma permettendo comunque che Edward mi distraesse più del dovuto dallo studio. Il preside non aveva preso per niente bene questa novità e a casa si limitava a burberi mugolii.
Ovviamente tutti a scuola si erano accorti come il nostro rapporto fosse cambiato. Qualcuno lanciava continue occhiatine, qualcun altro allusioni, qualcuno aveva anche avuto il coraggio di chiedere. Noi avevamo concordato di non dare in pasto ai lupi la nostra storia e a scuola ci comportavamo come due semplici amici di lunga data. Ma quando mi accompagnava a casa, o quando veniva a prendermi...mi salivano i brividi sulla schiena al solo pensiero dei suoi baci ardenti e di suoi tocchi gentili. 
Beh, all’inizio ero davvero in imbarazzo. Tutti sapevano che Edward Cullen era molto attivo, sessualmente parlando. Io invece ero quanto di più diverso da lui. Ero proprio una suora mancata. Ma avevo tempo per recuperare e mi sarei lasciata guidare da quelle mani esperte.
Edward aveva appreso con sconcerto che avevo parlato con Jasper. Mi confermò che temeva che Jacob fosse interessato a me e che aveva origliato, con il fido amico, la nostra conversazione. 
“Chissà cosa avrai pensato quando ad aprirti fu Jake, quel giorno.” Lui rise e mi confessò di aver avuto un mezzo infarto. Lo presi in giro per un quarto d’ora perché mai avrei pensato che i ragazzi potessero confessarsi amori e dispiaceri come le ragazze.
“Devi stare attenta a Jasper, il suo è un intuito che rasenta la lettura nella mente, ma almeno è un amico fedele.” Ci ero rimasta male, perché io non avevo nessuno con cui confidarmi, doveva proprio essere bello avere degli amici di cui fidarsi. “E no. Noi non ci facciamo le treccine e non ci mettiamo lo smalto.” Concluse ridendo. Scacciai l’immagine che si era formata nella mia mente di un circolo privato di uomini che sceglievano il colore della French. 
Sospirai, guardando il mio pranzo ormai freddo. Ripensavo a ogni momento con Edward e ai suoi baci, distraendomi pure dal cibo. 
Di solito non restavo a mangiare in mensa per non sentire in modo struggente la solitudine di un pasto consumato completamente da sola. O per sfuggire agli scherzi che di solito la Stanley mi faceva. 
Da qualche giorno mi ero convinta a non scappare e a trascorrere la pausa pranzo come da mio diritto nella sala mensa. 
Mangiavo ancora da sola, in compagnia di un buon libro, ma almeno facevo vedere a tutti che non avevo paura di loro. Edward mi aveva proposto più di una volta di mangiare con lui e i suoi amici ma temevo di non riuscire a tenere giù le mani da tanta perfezione. 
Raddrizzai la schiena, il sesto senso per i guai in allarme. 
“Ciao.” Una ragazza bionda, alta e procace si parò davanti a me. La salutai, valutando la sua comparsa con sospetto. “Noi non ci conosciamo.”
“No, non ci conosciamo.” Le feci segno di accomodarsi al mio tavolo. Lei sedette con il vassoio pieno di cibo. Dove mettesse tutte quelle calorie era un mistero. Mi sentivo tanto la regina di Inghilterra che concedeva udienza al popolino. Era una sensazione sgradevole e…intrigante. Potevo davvero parlare con qualcuno in modo civile. Cercai di nascondere la mia emozione. “Isabella Swan.” Strusciai, senza farmi vedere, la mano nella giacca per pulirla dal sudore, e gliela porsi sorridendo. Forse era troppo il mio entusiasmo perché mi squadrò sospettosa.
“Tutti sanno chi sei.” Replicò, ma strinse la mia mano. La sua pelle era morbida e ne sentivo il profumo fruttato fin da dove ero seduta. Lei abbozzò un sorriso e mi chiese cosa stessi leggendo. “Oh, sì, non mi piace.” Commentò guardando la copertina di Neanche gli dei di Asimov. Iniziammo a parlare di quei libri che ci piacevano e del professore di letteratura inglese, Fuller, e della sua incipiente calvizie. La mensa si stava lentamente svuotando e mi resi conto che il tempo era volato.
“Immagino che dovremmo parlare di quello che hai visto in bagno l’altro giorno.” Una punta di delusione mi colpì nel vivo. Forse, una volta rassicurata che non avrei fatto la spia, lei sarebbe scomparsa. E addio alla possibilità di avere un’amica.
“Non so proprio a cosa tu ti stia riferendo.” Giocherellai con il tappo della bottiglietta d’acqua, sempre più nervosa perché non sapevo come sostenere una conversazione così imbarazzante con una ragazza così bella. Aver parlato con lei per tutta la durata della pausa mensa era già una grande conquista per me. Di solito mi limitavo a qualche risposta secca e acida, ma con nessun mio coetaneo avevo avuto un rapporto paritario. Beh, nessuno eccetto Edward.
“Davvero non farai la spia?” Era davvero incredula. “Non dirai nulla a papino di certe...attività ludiche?”
“No, Rosalie Hale.” Non mi era sfuggito che non si fosse presentata. Sussultò nel vedere che sapevo il suo nome. “Essere la figlia del preside non vuol dire che corro da papà a digli qualsiasi cosa capiti nella scuola. Anzi, non gli racconto mai un bel niente.” Mi alzai, infastidita da come si stava concludendo la conversazione. “Scusa, devo proprio andare.” 
Non appena beccai nel corridoio Whitlock, gli consigliai in un sibilo furioso di tenerselo nelle mutande, la prossima volta. Lui mi sorrise compiaciuto, ma Edward scoppiò a ridere.
“Che hai combinato?” 
“Mi hai rubato il bagno. Quel bagno è off-limits, chiaro, Whitlock?” Suscitai altre risate dal mio nuovo amico–baciatore. Mi chiese addirittura di parlargli delle prodezze sessuali del suo amico. Io, a differenza di Jasper, avevo ancora un po’ di pudore e arrossii fino alla punta dei capelli.
Il biondo storse il naso e mi restituì il commento acido di poco prima. “Io uso almeno un luogo privato, voi avete battezzato i corridoi della biblioteca.” Feci un passo di lato per allontanarmi da Edward, il traditore che si faceva le treccine con il suo amico.
“Io mi sono fidata di te, perché tu non puoi fare lo stesso? Hai mandato la tua ragazza a...”
“Mia cara Isabella, se mi diverto con Rosalie non è detto che lei sia la mia ragazza.” Mi fece notare Jasper con un sorrisetto da stronzo.
“Oh, stai facendo amicizie!” La Stanley si avvicinò al mio gruppetto e si strinse le mani al petto e gli occhi luccicanti, fingendo di essere emozionata per me.
“Vattene Jessica.”
Lei affilò lo sguardo. “Vedi, piccola Swan, non credo che tu possa soffiarmi il posto.”
“Nemmeno lo voglio.”
“Paura Stanley?” Edward si fece avanti.
“Mi deludi, Cullen, mi deludi tanto.” Gli si avvicinò e gli posò un dito laccato sul petto, gli occhi da cerbiatta. “Vuoi davvero mischiarti con i perdenti.” Il suo seguito rise all’unisono. 
“Ha decisamente paura.” Edward mi fece l’occhiolino. Io volevo solo che quell’arpia se ne andasse e mi lasciasse ribadire il concetto che il bagno era mio.
Per dimostrare che la teoria di Edward era sbagliata, se ne andò ridendo sguaiatamente per nascondere un lieve tremolio e mi tirò una spallata. “Ora, ti prego, vai a dirlo a papino.” Il suo seguito calpestò i libri che mi erano caduti.
Sembravano uno sciame compatto che si incuneò nella folla degli studenti, facendoli aprire in due ali. Chi non ebbe il tempo di spostarsi ricevette spallate e sgambetti. La sua prepotenza era ormai fuori controllo.
“Ha ragione.” Jasper aveva lo sguardo fisso sul culo di Jessica. “Il suo alveare è intatto.”
“Non me ne frega niente.” Il suo sguardo penetrante mi fece arrossire e perdere mordente. Io volevo solo vivere tranquilla il mio ultimo anno in quella scuola.
“Se volete uscire allo scoperto, dovrai avere le spalle coperte.” Mi chinai a raccogliere i libri per nascondere il mio imbarazzo. Questo era decisamente peggio che parlare di prodezze sessuali.
“Non so di cosa tu stia parlando.”
“Di strategia, mia piccola Swan. Dobbiamo iniziare subito le lezioni, temo.” Jasper raccolse il mio libro di letteratura e lo soppesò. “Rosalie non sarà la mia ragazza, ma è la figlia del sindaco, sarebbe un’ottima alleata.”
“Io non voglio né alleati, né un alveare.” Dissi a denti stretti strappandogli il libro di mano. 
“Invece dovresti.” Edward impresse un piccolo rimprovero nella voce. “Sei una Swan, ma il fatto che tu ti sia nascosta...a molti ha fatto pensare che sia una codarda.” Si avvicinò a me. “Stringiamo un’alleanza, Swan.” Il suo sorriso sghembo un giorno mi avrebbe fatto morire con il batticuore. “Io e te conquisteremo la White Swan Prep Accademy. Io dalla mia ho già la squadra di football.” Il suo fido e porco amico annuì. “Devi infoltire le tue schiere. Vai da Rosalie.” Mi fece voltare verso la bionda che stava sistemando i suoi libri nell’armadietto a una decina di metri da noi.
Tentennai, la voglia di togliere il sorriso alla Stanley era tanta. In quel momento qualsiasi cosa io facessi, non ne sarei uscita vincitrice. Se fossi andata a lamentarmi con il preside sarei stata una piccola piagnucolona, se fossi stata zitta, una codarda. Ero tra l’incudine e il martello e la mia unica possibilità era agire sullo stesso piano di Jessica che sarebbe stata così costretta a riconoscere il mio status e a fare un passo indietro. Questo voleva dire prendere il pieno possesso del cognome Swan.
“L’unione fa la forza.” Ricevetti uno spintone da Jasper e mi fece fare almeno quattro metri. Me ne mancavano solo sei per arrivare da Rosalie. Il miglio verde sembrava essere molto più corto, in confronto.
Sentivo gli occhi di Edward e Jasper perforarmi la schiena. Strinsi a me ancora di più i libri e mi avvicinai a Rosalie.
“Ehm...Rosalie?” Le si voltò sdegnosa e io mi sentii ancora più in imbarazzo. “Ok.” Feci un bel respiro e mi gettai. “Ok, non sono...pratica di queste cose e forse in mensa potrei anche essere stata scortese.”
Le sue spalle rimasero rigide e non disse una parola. “Quindi...quindi mi vorrei scusare. È ovvio che tu sia preoccupata che scoppi uno scandalo sessuale.” Forse non avevo scelto bene le parole perché mi fulminò con un solo sguardo glaciale. Nei circoli che contavano si diceva che la bella figlia del sindaco si sarebbe presto fidanzata con l’erede dei King, Royce. Anche se nessuno si aspettava che la ragazza arrivasse illibata all’altare, non si poteva certo far sapere ai ben pensati che si divertisse nei bagni della scuola.
Mi armai di santa pazienza e mi scusai di nuovo, rassicurandola che mai avrei raccontato qualcosa a mio padre.
“A lui importa solo del ballo delle debuttanti.” E che stessi lontana da Edward, mi ricordai mentalmente. Charlie stava decisamente caldeggiando il progetto di zia Sue. “Comunque, pensavo che potremmo parlare di letteratura. Ne sai più dei professori.”
“Essere bionda non significa essere stupida.”
Forse sarebbe stato più onesto dirle che la stavo usando. Un vago senso di colpa mi fece attorcigliare lo stomaco.
“Ballo delle debuttanti, eh? Dopo scuola, da me, per un tè.”
Tirai un sospiro di sollievo mentre se ne andava ondeggiando sui tacchi con una classe che mai io avrei potuto raggiungere.  




p.s. dell'autrice: scusate il ritardo. purtroppo sono successe un po' di cose che mi hanno rallentato, spero solo che la situazione migliori in fretta. 
Ecco che entra in scena l'amate di Jasperino...quando mi sono divertita con Rosalie! attendo le vostre opinioni =) 
a presto
Sara


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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Buona lettura


CAPITOLO 12

Casa Hale era stupenda. Non c’erano altre parole per definire quella maestosa e moderna dimora dalle linee pulite e spigolose. Ogni mobile era lucido e senza un solo granello di polvere. Sui pavimenti in marmo ci si poteva specchiare, mentre la scalinata che portava al piano superiore era di metallo e vetro. 
Rosalie mi condusse sul retro della casa, dove grandi vetrate si aprivano su un patio delimitato da delicate colonne bianche scanalate. Il tavolo di legno, coperto da una candida tovaglia ricamata con pallide rose, era già apparecchiato con piattini e dolcetti. La cameriera ci servì il tè mentre io mi sentivo ogni minuto di più fuori posto. Rosalie, invece, era rilassata e abituata a quella opulenza. Inspirai l’aria frizzante che proveniva dall’oceano: era quasi ottobre, ma l’estate si stava pigramente trascinando rendendo l’aria mite. 
“Siediti e dimmi che cosa succede davvero. Non prendiamoci in giro, Swan.”
Forse non dovevo stupirmi di averla trovata nel mio bagno, non era la delicata ragazza che tutti credevano.
“È un’idea assurda di Cullen e Whitlock. Vogliono che noi due facciamo una specie di alleanza contro la Stanley.”
Lei non rispose e strinse la tazza nelle mani. 
“Però si può davvero parlare solo di letteratura.”
Finalmente Rosalie parlò. “Il loro piano è rovesciare la Stanley.” Storsi il naso. “E insediare te sul trono.” Tagliare la testa alla regina con un’ascia molto affilata non era nei miei piani per il futuro. “Posso sapere perché io?”
“Whitlock pensa che tu possa essere la mia carta vincente. Non so perché, ma lo pensa.”
“Perché anche io andrò al ballo delle debuttanti e anche io voglio che lo strapotere di Jessica finisca.” Posò la tazza e si fece ancora più seria, se possibile. “Odio Jessica Stanley e quella pettegola di sua nonna. Dovrebbe spettare a mia madre il compito di preparare il ballo. O meglio, le dovrebbe essere riconosciuto il suo ruolo, ma è la nonna di Jessica che formalmente detiene quel titolo per una questione di anzianità.”
Zia Sue aveva parlato con la nonna di Jessica, in effetti. Mi sembrava una motivazione piuttosto blanda, ma non dissi niente se potevo avere la mia prima alleata.
“Quindi mi aiuterai a detronizzarla?” Chiesi sarcastica.
“Sì, ma voglio qualche garanzia.” Tornò a soffiare sul suo tè, il volto girato verso l’oceano, con un’eleganza d’altri tempi che io potevo solo sognare.
“Ovvero?”
“Mai più allusioni ai bagni femminili.”
“Concesso, sempre che tu non usi più i bagni femminili.” Storse il naso e annuì. “La prossima volta potresti non essere così fortunata.” Le feci notare. “Non voglio essere moralista, ma so che i tuoi sperano in un buon matrimonio con i King.” Assottigliò le labbra, ma promise che avrebbe interrotto qualsiasi attività extrascolastica con Jasper.
“Secondo, Alice Brandon sarà dei nostri. È più piccola di noi e può essere una volontaria nella preparazione del ballo. L’anno prossimo io e te le faremo da sponsor per farle fare il debutto.”
Alice Brandon. Scartabellai mentalmente la mia personale rubrica dove catalogavo ogni studente della White Swan.
“Alice Brandon. Secondo anno. Orfana, borsista. Giocatrice di scacchi.”
Rosalie tradì la sorpresa. “Non pensavo la conoscessi così bene...ah, già, essere la figlia del preside ti da accesso ai fascicoli personali.”
Non proprio. Il caso di Alice era molto particolare e papà aveva parlato a lungo con la mamma di questa alunna prima di concederle la borsa di studio e ovviamente mi era stato impossibile non ascoltare qualche stralcio di conversazione. Alice era una ragazzina abbandonata ancora in fasce e cresciuta all’orfanotrofio cittadino senza sapere chi fossero i suoi genitori. Aveva un talento innato per gli scacchi, sembrava predire le mosse dell’avversario e alla nostra scuola una giocatrice così formidabile avrebbe portato gloria.
“Penso proprio che abbiamo un problema. Io non farò il ballo, né quest’anno, né un altro anno, quindi non so quanto ti possa essere d’aiuto.” Rosalie scoppiò a ridere. 
“Oh, ti prego, Isabella. Non essere anticonformista in tutto e per tutto. Qui è fondamentale essere presentate in società e non credo che la tua famiglia ci rinuncerà facilmente.”
Ignorai il commento, ma promisi lo stesso di aiutare Alice, magari presentandola a zia Sue. 
Trascorremmo l’ora successiva ad ascoltare il mare e a parlare di letteratura inglese. Fu una conversazione stranamente piacevole.
La nostra appena nata amicizia venne interrotta dalla madre di Rosalie, Lilian. Sembrava la mia compagna di scuola, solo una versione più avanti con l’età e con qualche peso in più sulle spalle. Rosalie da brava ragazza del Sud fece le presentazioni.
“Oh, Isabella, sono felicissima di conoscerti, finalmente, e di sapere che stai diventando amica di mia figlia.” La mia faccia e quella della bionda al mio fianco dicevano tutto il nostro sconcerto. “Sono una grande amica di Renèe e non sai quanto si è tormentata l’anima perché tu prendessi il cognome di famiglia.” Adesso qualche peso in più sulle spalle lo avevo io. “State parlando dell’abito per il ballo?” Ritenni inutile specificare ancora una volta che non sarei andata a quello stupido ballo e mi congedai.
Una volta a casa, scappai a fare i compiti. Ma il tarlo che mia madre avesse come amica Lilian Hale mi fece andare in cucina, con la scusa di un bicchiere di latte potevo fare qualche domanda a mamma.
Come previsto, lei era in cucina che sfogliava un catalogo di abiti da sera che mise subito da parte quando feci il mio ingresso.
“Ehi tesoro, una pausa dai compiti?” Il mio mutismo la spinse a chiedere se andasse tutto bene.
Mi ripresi e schiarii la voce. “Volevo da bere.” Rimasi con il bicchiere vuoto tra le mani, senza muovermi. “Hai parlato di me con la signora Hale?”
“Con Lilian?” Mamma sembrò sorpresa. “Certo, è una delle mie migliori amiche.” Il bicchiere restava sempre vuoto e le mie gambe ferme. Mamma si alzò, prese il latte dal frigo e me lo versò. “Non credi che sia difficile nascondere l’esistenza di una figlia a tutta la città?”
“Ma se tutti sapevano...”
“Le madri, e forse qualche padre, sapevano.” Renèe mi sorrise. Scossi la testa perché proprio non capivo. “Il Figth Club deve aver preso spunto dal circolo femminile.” 
La regola più importante del Fight Club? Non parlare mai del Fight Club. Seconda regola del Fight Club: non parlare mai del Fight Club. L’insana ossessione di mamma per Brad Pitt e quel film era una delle poche stranezze di Reneè Swan che altrimenti incarnava alla perfezione l’ideale di donna del Sud.
“Quindi sanno tutti che sono la pecora nera della famiglia?” Guardai il latte senza davvero vederlo.
“No, sanno tutti che sei la mia bimba meravigliosa.” Mamma mi baciò tra i capelli. “Nessuna del circolo avrebbe mai detto ai figli che Isabella Black era Isabella Swan perché era un segreto del circolo. Tutto quello che ci diciamo resta tra di noi.”
“Un Fight Club.” Lei annuì solo.
“Sei diventata amica di Rosalie?” Anche io mi limitai a un cenno del capo, inutile rivelarle gli estremi del nostro accordo. Stavo gettando le basi del mio Fight Club. “Ne sono felice. È una brava ragazza.”
“Vuole che partecipi con lei al ballo delle debuttanti.”
“Mi sembra un’ottima idea. Stavo giusto guardando le ultime tendenze...”
“Mamma, io voglio solo diplomarmi e andare all’università.”
“La Brown a Providence?”
Annuì di nuovo. Il mio progetto di diventare una Yankee aveva come punto di partenza l’università.
“Potresti sempre andare a Georgetown. Non sarebbe l’università di Richmond, ma...”
Ma restava comunque al Sud. Conclusi mentalmente per lei. 
“Oh, beh, né la Brown né Georgetown mi hanno risposto.” Posai il bicchiere, perché sentivo la mano che vibrava. “Mamma...” Deglutii a fatica, mentre il latte si inacidiva e mi risaliva la gola. “Come sai della Brown e di Georgetown? Non vi ho mai detto che ho fatto domanda.”
Renèe non ebbe nemmeno la decenza di fingersi colpevole. Estrasse da sotto il cassetto delle posate due spesse buste. 
“Sono arrivate un mese fa. Non trovavo mai il momento giusto per dartele.” Finsi di credere alla sua bugia. “Complimenti, sei stata accettata in entrambe.” Dalle sue parole trapelò una nota di risentimento, ma nessun senso di colpa per aver aperto e sbirciato il contenuto. 
Quindi quella in errore ero io e una ridda di sensi di colpa primordiali mi assalì. Eva in confronto era una principiante, io avevo colto tutto l’albero di mele.
Come avevo scelto di essere una Black, così avevo scelto di essere una Yankee e niente mi avrebbe fatto cambiare idea.
“Scusa se non te l’ho detto, ma so che non avresti approvato.” Mi sarei scusata solo per la mia omissione. Tesi la mano per farmi consegnare le mie buste e mamma me le diede stizzita. Le mani mi tremavano per la gioia di essere stata accettata in entrambe le università.
Dovevo assolutamente dirlo a Edward. Lui dove sarebbe andato a studiare l’anno prossimo? Non avevamo parlato molto negli ultimi giorni. Mi morsi le labbra al dolce ricordo di come erano state baciate.
“Dovrai dire a tuo padre quale sceglierai. Ti prego di considerare Richmond.”
Certo, perché volevo farmi perseguitare da mio fratello al college. 
Corsi in camera senza salutare mamma, dovevo assolutamente parlare con Edward e magari assaporare di nuovo i suoi baci.
Ma lo chiamai almeno quattro volte, senza ottenere risposta. Sulle mie spalle comparvero il diavoletto e l’angioletto dei catoni animati. L’angioletto diceva, razionalmente, che era impegnato e che mi avrebbe chiamato il prima possibile o che avremmo parlato a scuola. Il diavoletto, invece, insisteva sul fatto che mi fossi fatta abbindolare da uno sguardo dolce e da capelli arruffati, ma che il mascalzone non sarebbe cambiato tanto facilmente. 
Edward non mi richiamò.
Vinse il diavoletto. 

La mattina dopo uscii di casa con il morale sotto le scarpe. Edward non aveva richiamato e papà aveva fatto una scenata per le lettere dell’ammissione. Visto che stavo già male, tanto valeva far sprofondare nella merda anche la relazione padre-figlia. Meglio affrontare lo sconforto tutto in una volta sola.
Ero decisa a prendere il pullman fino scuola con il mio autista disperso nelle prime nebbie autunnali, mio padre che a mala pena mi parlava e la mia macchina ancora fuori uso. In realtà sapevo bene che era nella rimessa della scuola con quattro nuove gomme scintillanti, ma se l’avessi presa di nuovo, non avrei avuto più la scusa per passare del tempo a baciarmi con il mio nuovo amico autista. 
Borbottai insoddisfatta di come stavano trascorrendo i giorni, tra alti e bassi in casa, e a scuola. Inoltre, non sapevo come definire il mio rapporto con Edward. Non avevo una vera relazione con lui, più che altro ci limitavamo a baciarci in macchina e a mantenere un freddo decoro nei corridoi.
Mi incamminai verso la fermata, la mente persa nei miei pensieri.
“Ehi! Bella Addormentata!” Sentii qualcuno che mi chiamava e un clacson suonare impazzito. Una Maserati che conoscevo fin troppo bene accostò e ne discese il mio personale dio greco. Sussultai quando mi sbarrò il passo. Non avevo voglia di vederlo quella mattina e glielo avevo scritto quando, come al solito, mi informava che mi sarebbe venuto a prendere.
“Capisco che per te il cellulare sia un optional, signor Cullen. Ma ogni tanto prova ad usarlo.” Lo scostai infastidita. Continuai a camminare imperterrita, senza un’altra parola. 
“Ehi.” Mi afferrò il braccio e finii sul suo petto muscoloso. La sola vicinanza mi fece perdere nel suo calore e desiderai abbracciarlo. “Mi vuoi dire che succede, piccola?”
Strinsi i pugni sul fianco per non lasciarmi avvolgere dalle sue braccia, troppo simili a spire di serpente.
“Ieri sera non hai risposto al telefono e non mi hai nemmeno richiamata.” Sembravo un’adolescente con squilibri ormonali che si lamentava che il suo ragazzo fosse uno stronzo. Uno stronzo con un profumo delizioso.
“Scusa.” Borbottò lui, stringendomi più forte a sé. “Hai ragione avrei dovuto richiamarti, ma stavo...avevo da fare e quando sono tornato a casa, ho avuto qualche problema con mio padre.”
La ragazzina innamorata che era in me provò tanta gelosia da diventare un mostro verde. Ma non potevo di certo fare una scenata in mezzo alla strada al mio...amico?
Scivolai lontano dalla sua stretta e ripresi a camminare, il mio pullman sarebbe passato tra pochi minuti. 
“Dai Bella, non essere arrabbiata. Scusa, davvero ero impegnato.” A far cosa? Avrei voluto chiedergli, ma temevo di espormi troppo.
“Nessun problema, Cullen. Ci vediamo a scuola.” Peccato che proprio in quel momento vidi scivolare via il mio pullman, proprio oggi in anticipo. “Oh, no!”
“Temo proprio che dovrai accettare il mio passaggio.” Edward era già alla sua macchina, la portiera del passeggero aperta, un sorrisetto da stronzo in faccia.
Mi chiusi in un assoluto mutismo, ma Edward non si scoraggiò.
“Cosa dovevi dirmi ieri sera?” Alzai le spalle con noncuranza. “Ti prego, parla con me. Mi stai facendo morire.” Edward fermò la macchina alla stessa rotonda dove mi ero fatta lasciare qualche tempo prima e ancora una volta chiuse le sicure. Sembrava passato un secolo. “Non andremo a scuola finché non mi dirai che succede. Sono serio, Bella. Posso restare qui tutto il tempo che vuoi.” Passarono i minuti, ma lui non si decideva ad accendere di nuovo il motore. Sganciò la cintura di sicurezza e assunse una posa rilassata.
Le lancette dell’orologio si stavano spostando pericolosamente vicino alle nove.
“Come sei infantile.” Borbottai sconfitta. “Sono stata ammessa a Georgetown.”
Lui sussultò dalla felicità e mi abbracciò nello stretto spazio dell’abitacolo. Mi persi nel bacio che mi diede. “Sei fantastica, signorina Swan.”
“Beh, papà non la vede proprio così. Anche perché...sono stata ammessa anche alla Brown.” Questa volta scoppiò a ridere. 
“Paura che non ti paghino la retta?” Scrollai le spalle, perché quella era davvero l’ultima delle mie preoccupazioni. Se anche non mi avessero fatto accedere al fondo fiduciario, avrei sempre avuto la possibilità di chiedere il prestito universitario. Mai mi sarei fatta sconfiggere dai pregiudizi dei miei genitori.
“Tu...tu dove andrai?” Chiesi in un sussurro.
“UC Berkeley o Stanford, credo.” Ah, California. “O forse Harvard, chi lo sa.” Boston?
“E poi sarei io la Yankee.” 
“Ricorda che nel mio sangue sorre puro sangue newyorkese.” Gli chiesi di mettere in moto, perché era tardi e la mia confessione ormai era stata fatta. 
Il parcheggio era pieno. Di solito, quando arrivavamo, era semideserto. Edward non si fece scoraggiare a trovare un buco e puntò dritto all’ingresso, dove c’era il posto riservato al Cigno Bianco.
“Sei un privilegiato viziato.” Lui mi sorrise e io tentai di sfuggire a quegli occhi magnetici, ma le sicure erano ancora abbassate. “Davvero, Edward, farò tardi. E poi chi lo sente il preside.” Tentai di ridere della mia battuta, ma mi uscì un penoso latrato. 
“Ancora non mi hai detto tutto quello che ti passa nella mente, piccolo Anatroccolo.”
“Non è importante.”
“Per me lo è.”
“Perché? Tanto l’anno prossimo tu andrai sull’altra costa. Io tonerò il meno possibile in questa città e ci perderemo di vista. Siamo amici e...” Eravamo amici che si baciavano a ogni occasione, per la verità.
Edward fece scattare la sicura, ma prima che potessi anche solo aprire la mia portiera, lui era al mio fianco. Mi tese la mano in un gesto davvero galante e io, stupida affascinata, gliela porsi. Mi attirò a sé e mi sussurrò all’orecchio se ero pronta.
“Pronta?” Sussurrai anche io, spaesata. Le sue labbra intrappolarono le mie prima che potessi chiedere altre spiegazioni. Sul parcheggio calò il silenzio, esistevamo solo noi che ci baciavamo vicino al portone d’ingresso.
“Noi non siamo solo amici.” Mi disse quando si staccò da me. Mi sentivo un’assetata nel deserto. Non mi bastavano mai i suoi baci e fui io a baciarlo quella volta.
“Ci stanno guardando tutti, vero?” Lui si voltò per perlustrare la popolazione studentesca. 
“Hanno la bocca spalancata, in realtà.”
La campanella suonò e tornai con i piedi per terra. Edward mi prese la mano ed entrammo a scuola come una coppia di reali, la folla che si apriva in due al nostro passaggio.



p.s. dell'autrice: Sono molto felice di essere tornata con tempi accettabili a postare questa storia (il che vuol dire che tutti gli impedimenti sono per fortuna spariti)
Angioletto o diavoletto? chi avreste seguito? Io il secondo, sicuro come l'oro. Bella non vuole fidarsi ancora totalmente di Edward, certa che prima o poi la sorpresa sia dietro l'angolo. Ma ormai la loro relazione ha fatto altri passi in avanti...
alla prossima
Sara


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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Buona lettura


CAPITOLO 13

Sobbalzai quando un vassoio pieno di cibo venne sbattuto con forza accanto a me. Mi scollai dal petto granitico di Edward perché Jasper Whitlock si frappose con prepotenza tra di noi. 
“Quando deciderete di usare il cervello, fatemi un fischio.” Sibilò irritato, mentre faceva spostare Edward una sedia più in là per mettersi tra di noi. Prese una forchettata della sua pasta e se la mise in bocca. Io e Edward ci guardammo sconcertati dietro le sue spalle, ma lui se ne accorse.
“Baciarvi in pubblico, usare il tavolo degli innamorati, tubare come una coppietta...dovreste studiare entrambi strategia.”
Il biondino era davvero arrabbiato con noi. Io scrollai le spalle, perché davvero non mi interessavano i suoi piani diabolici, ma farglielo presente aumentò la sua irritazione. Per me contava solo poter riprendere a baciare Edward.
“Beh, piccola Swan, dovrebbe interessarti abbastanza da non voler finire in presidenza e rischiare una bella strigliata di papino, se non peggio.” Mi fece segno di guardare dietro di noi, dove, come un falco, ci osservava la responsabile della mensa. Sussultai per la sorpresa e mi lasciai sfuggire un’imprecazione. 
“Tranquillo, papino è già arrabbiato con me.” Commentai a denti stretti.
“Ecco, appunto, cerca di non alimentare la sua furia. Io vi capisco, sul serio, siete due idioti con gli ormoni a mille. Ma posso perdonarvi perché non avete ancora pregiudicato nulla.” Edward, come me, alzò gli occhi al cielo e mi concessi di ridere con lui perché la situazione era davvero comica.
“Prendetemi pure in giro, ma qui la situazione è grave. Siete usciti allo scoperto troppo presto. Non avete stretto abbastanza alleanze.”
“Jasper...” Tentai di ritornare seria, questo ragazzo aveva gli occhi dietro la schiena. “Non vorrei essere scortese, ma questi non sono affari tuoi.”
“Hai ragione, sono affari nostri.” Una ragazzina minuta, con capelli a caschetto si sedette con un movimento fluido al nostro tavolo. “Mai avrei pensato di sedermi al tavolo degli innamorati.” Concluse sovrappensiero.
“Tu saresti?” Jasper la fulminò.
“Alice Brandon, Jasper Whitlock.” Feci le presentazioni formali. Alice tese una mano al biondo, ma i suoi occhi erano fissi su di me. “Volete spiegarmi cos’è questo tavolo degli innamorati?”
Le guance mi andarono a fuoco quando mi dissero che quel tavolo veniva usato per dichiarare a tutta la scuola che una nuova coppia si era formata. Avrei ucciso volentieri Edward, se non ci fosse stato in mezzo Jasper.
“Hai dimenticato l’acqua.” Rosalie passò una bottiglietta ad Alice e si accomodò al suo fianco.
“Questo tavolo sta diventando un po’ troppo affollato.” Borbottai cercando di non giocare con il cibo.
“Facci l’abitudine.”
“Stai esagerando, Jasper.” Il rimprovero duro di Edward non sortì alcun effetto. “Io e Bella abbiamo deciso che non ce ne frega proprio niente delle tue strategie.” Approvai il suo discorso con un bel cenno del capo e venni fulminata dagli altri tre.
“Non pensavo che ti rimangiassi così la parola. Abbiamo un patto.” Il tono di Rosalie non ammetteva repliche e non mi permise nemmeno di tentare di spiegarle che avrei comunque onorato la mia parte del contratto d’alleanza.
“Però devi proprio spiegarmi cosa ci guadagni. Hai scelto davvero la persona spagliata come chaperon per Alice. Giochiamo a carte scoperte, Hale.” Incrociai le braccia sotto al seno, in attesa. Non ero così stupida come credevano. I miei tre nuovi alleati si scambiarono un cenno d’assenso.
“La famiglia Stanley ha troppo potere in città.” Alzai le sopracciglia. Detta dalla figlia del sindaco, sembrava più una dichiarazione di guerra politica più che una fotografia della realtà. “Mio padre si illude che un matrimonio possa fare la differenza. I King sono i cugini di Jessica.” 
“Puoi sempre dire a tuo padre che non vuoi sposarti.”
Lei fece spallucce. “Non mi importerebbe poi molto, se Royce non fosse...vecchio. Ha già ventitré anni.”
Per poco non le risi in faccia. Ventitré anni non mi sembravano poi così tanti. “Quello che è davvero sbagliato è che tu ti debba sposare a diciotto anni per gli interessi politici dei tuoi genitori.” Edward mascherò con un colpo di tosse Yankee. Alzai il dito medio verso di lui.
“Uh, la piccola Swan ha le palle, allora.”
“Resta sempre il fatto che far perdere il consenso a Jessica non cambierà nulla.”
Questa volta fu Jasper a rispondere. “Vero. Ma lo sanno tutti che il padre di Jessica è un fantoccio e che sono le donne Stanley a portare i pantaloni: si stanno facendo amiche le altre signore dei circoli perbene.”
Se alla nonna di Jessica fosse stato tolto il potere del ballo delle debuttanti, già l’ascendente della famiglia sarebbe diminuito.
“Mi fate venire mal di testa con questi complotti, sembriamo dei cortigiani. Temo, Edward, che i nostri alleati fossero alleati ben prima che venissero da noi e che ci stiano usando.”
“Nah, piccola Swan, vogliamo anche la vostra felicità.” Il sorrisetto ironico di Jasper mi stava per far saltare i nervi.
“Allora è di questo che parlavate nelle vostre riunioni in bagno?” Affilai lo sguardo, non mi sarei fatta mettere nel sacco dal generale. Era bello poter condividere un progetto con qualcuno, ma volevo davvero essere usata?
“Oh, su ragazzi. Ci stanno guardando tutti, siamo il tavolo più interessante al momento e possiamo sfruttarlo a nostro vantaggio.” Jasper si fece attento alle parole di Alice. “Sorridiamo, siamo felici e potenti. Biondo vicino a me, lascia Bella vicino a Edward. E voi due, per carità, fatevi gli occhi dolci.” 
Scoppiarono tutti a ridere, tranne me, rossa di vergogna e Edward che si prodigò in una serie di facce buffe, sbattendo in modo ossessivo le palpebre. Avrei deciso in seguito se approvassi il loro piano, perché, odiavo ammetterlo con me stessa, mi piaceva troppo la loro compagnia. 
“Dobbiamo dimostrare di essere una cricca esclusiva. Credo che manchi ancora un elemento.” La ragazzina si fece pensierosa, rivolta alla sedia vuota. “Sì, direi che sei è il numero perfetto.”
Come magicamente evocato, ecco il sesto elemento del nostro gruppo. Emmett McCarthy sembrava un orso inferocito quando arrivò al nostro tavolo. Posò con malagrazia il suo vassoio sul tavolo.
“Mi volete spiegare cosa vi hanno fatto i vassoi oggi?” 
Emmett mi sibilò di stare zitta e si rivolse ai suoi migliori amici. “Adesso facciamo anche comunella con ‘sta stronza?” 
“McCarthy, il mio mal di testa ha bisogno di una dose doppia di aspirina, anche senza il tuo bel faccino.” Gli risposi, mentre Edward mi massaggiava la nuca. Mi morsi la lingua per non fare le fusa.
“Confermo, la piccola Swan ha le palle.” Disse Jasper con approvazione e le ragazze soffocarono le risate.
“Sei proprio stronza.” Concordò invece Edward, ma mi fece l’occhiolino. “Siediti orso.”
Emmett mise il suo culo sull’unica sedia libera, vicino a Rosalie.
“Ma che problemi ha?” Tirai un colpetto al ragazzo al mio fianco, con fare cospiratorio. Whitlock si avvicinò e mi sussurrò che odiava mio padre per la sospensione dell’anno scorso.
“Oh!”
“Già, oh! Ci sono delle signore, altrimenti ti direi io che cosa è tuo padre!”
“Guarda che si può dire che ti ha salvato il culo, McCarthy!” Emmett stava ribollendo di rabbia e Edward mi sussurrò di andarci piano. “Rompere la mascella a Sam Uley ti poteva far espellere, idiota, come previsto dal codice etico.” Era evidente che nessuno sapeva di che stessi parlando. “Ti sei preso una settimana di sospensione e non è stato nemmeno messo nel tuo fascicolo scolastico.”
Emmett non parve convinto. “Ti assicuro, McCarthy che l’amministrazione voleva buttarti fuori, ma il preside è stato dalla tua parte.” 
“C’è un codice etico?”
“Edward, ma hai letto il modello dell’iscrizione prima di firmarlo?” In quel tavolo nessuno lo aveva letto, era evidente. Sospirai, perché a questo punto dovevo proprio fare la saccente figlia del preside. “Iscrivendosi si accettano determinate regole, tra cui, non usare la violenza e non compiere atti osceni o contro morale nella scuola.” Guardai in modo esplicito prima Jasper, poi Rosalie.
“Io non ho mai capito che ti aveva fatto Sam. Sembrava uno a posto.” Edward si rivolse all’orso che sembrava aver sbollito la rabbia e si era già avventato sul proprio cibo.
“Aveva insultato Emily, una matricola.” Alzò le spalle con noncuranza, mentre ripuliva il piatto dal sugo della pasta. Davvero Emmett McCarthy aveva difeso una matricola? 
“Non so chi sia.” Jasper non era l’unico, anche io non avevo sulla mia rubrica mentale nessuna Emily, matricola.
“Emily La Push. Se ne è andata poco prima di Natale. Era in classe con me a matematica.” A rispondere fu l’altra ex matricola, Alice. “Giravano brutte voci su di lei, Jessica non la lasciava in pace.” Mi toccava davvero allearmi con loro, Jessica si beava del dolore altrui e io non potevo sopportarlo.
“Colpa di Sam, comunque. Disse che Emily era una deliziosa bocca da scopare.” 
Il disgusto serpeggio per il tavolo e fui felice che Emmett gli avesse rotto la mascella e nient’altro. I tre ragazzi strinsero i pugni, ma, Sam Uley, per sua fortuna, era già stato espulso per condotta immorale o si sarebbe trovato a mangiar pappette un’altra volta.
Emmett mi guardò con malcelato sospetto per tutta la giornata, ma non mi scoraggiai perché prima o poi avrebbe cambiato idea su di me. Mi interessava? Sì, mi interessava che avesse una buona opinione. Mi stavo facendo degli amici e non avevo mai provato una tale sensazione di benessere e calore.
Alice e Jasper confabulavano ogni momento utile e dettarono la strategia per tutti. Io e i miei nuovi amici dovevamo farci trovare spesso insieme nei corridoi, sorridere agli altri studenti e cercare di mostrarci amichevoli con tutti. 
Sospettavo, e purtroppo sia Alice che Jasper furono d’accordo, che avremmo dovuto agire in seguito alle azioni di Jessica, non prima. Non potevamo attaccarla direttamente o saremmo stati noi quelli cattivi, ma intanto puntavamo sul farci riconoscere come gruppo elitario. Per la prima volta nella mia vita, ero parte attiva, mi prudevano le mani dalla voglia di agire. 
E, sempre per suggerimento di quella coppia infernale, non potevo usare in altro modo le mani. Mi avevano caldamente consigliato di limitare le esternazioni affettuose con il mio ragazzo. Il mio ragazzo...mi faceva arrossire il solo pensiero.
“Mi piace quando diventi tutta pensierosa e ti si arrossano le guance.” Edward mi fece fermare di fronte al suo armadietto e stronfiò il naso sul mio viso e il calore aumentò. “Ma dimmi cosa passa per quella testolina.”
“Oggi pomeriggio viene mia madre a prendermi. Ho un tè da zia Sue.” Gli dissi la cosa più innocente a cui stavo pensando. Perché confessargli che la sua sola presenza mi faceva scaldare certe parti del corpo, era decisamente troppo. Il messaggio che avevo ricevuto da Renèe, invece, era irritante, ma innocente.
“Bella, forse ti devi arrendere davvero.” Edward alzò gli occhi al cielo, esasperato. “Tua zia non ti chiede poi molto. So che non ti piacciono le convenzioni sociali, ma...”
“Convenzioni sociali? Davvero?” Forse dovevo specificare un piccolo problema. “Hai presente il mio precario senso dell’equilibrio? Non credo di essere capace di ballare senza rendermi ridicola. Certo che mi chiede molto!”
Edward mi prese il viso tra le mani e fece scontrare le nostre fronti. “Ti serve solo un buon cavaliere.” Peccato che l’unico cavaliere che volessi era Edward e zia Sue non lo avrebbe mai approvato, soprattutto se papà le spifferava che ci baciavamo come due cozze. 
Proprio in quel momento passò Molina che ci squadrò inarcando le sopracciglia, perplesso e sconcertato. Istintivamente mi ritrassi dal tocco di Edward e mi avviai verso la nuova lezione.



p.s. dell'autrice: le alleanze sono state strette. Se ne vedranno delle belle.
a presto
Sara


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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Piccolo riassunto della puntata precedente: Bella e Edward sono usciti allo scoperto. I loro amici stanno complottando per detronizzare Jessica, la bulletta della scuola. Nel frattempo Bella deve anche gestire la vecchia zia che la vuole portare al ballo delle debuttanti...
Buona lettura



CAPITOLO 14

Dovevo aspettarmi che zia Sue stesse architettando qualcosa. La mia ingenuità senza limiti mi fece sentire una vera idiota.
Il tè da zia Sue avrebbe potuto un bel passatempo, se non avessi avuto la testa altrove, verso Edward e la montagna di compiti che Molina mi aveva affibbiato. Quell’uomo era sempre più sadico.
“Isabella?” Il richiamo della zia mi riscosse. “Isabella, sarà almeno la terza volta che ti chiamo.” Ops. Mi scusai e le prestai finalmente attenzione con sua enorme soddisfazione. “Dicevo che ogni pomeriggio mi aspetto che tu sia qui alle quattro in punto. Inizieremo le lezioni di bon ton e cercheremo anche di dare una sistemata a quei capelli cespugliosi.”
Il piano della zia era di rivoluzionare la mia vita. Provai di nuovo a oppormi, ma quando un editto di zia Sue era stato proclamato, ci si poteva far poco. Provai a ricordarle anche che non sapevo ballare.
“Prenderai lezioni.” Rispose tranquilla. “Non voglio certo che tu mi faccia fare brutta figura, ovviamente.”
Ovviamente. 
Strinsi le labbra per non rischiare di farne uscire qualche cosa di sconveniente. 
Mamma prendeva il tè come una consumata donna del Sud, mentre io ero spalmata nella poltrona.
“Devo studiare.” Mi alzai per porre fine alla tortura.
“Puoi usare lo studio. Carlton ti porterà a casa più tardi.” L’invito di zia Sue mi sorprese, ma era chiaramente un modo elegante per congedare mamma che si alzò senza battere ciglio. Probabilmente quelle due erano già d’accordo. Mi sedetti di nuovo, perché la mia tortura non era ancora finita, invece.
“Zia, devo davvero studiare.”
“Vorrei che riconsiderassi la possibilità di diplomarti l’anno prossimo.”
Scossi la testa. Niente e nessuno mi avrebbe impedito di diplomarmi in anticipo, anche se sembrava che il progetto di zia Sue fosse di rallentarmi tanto da far saltare i miei progetti e impedirmi di andare al college.
“Ho ancora tempo per inviare qualche altra domanda di ammissione. Pensavo alla California.” Zia Sue trasalì e la tazza le vibrò tra le mani. Avevo anche io qualche asso nella manica, forse merito dei miei due nuovo amici-strateghi da strapazzo. “Ti voglio bene zia, ma non voglio che tu ti intrometta in questa mia decisione. L’ostinazione di papà mi sta spingendo a scegliere la Brown.”
“Capisco.” La zia riprese il controllo dei suoi nervi. “Devi pur sempre dargli atto che non gli stai rendendo le cose facili.” Posai la mia tazza, vuota per metà.
“Nemmeno lui. Solo perché sono una donna devo limitare le mie ambizioni?” Non attesi la risposta perché non la volevo nemmeno sentire. Mi premeva di più sapere un’altra cosa. “Cosa ne pensi degli Stanley?”
Lei mi osservò a lungo. “So che Jessica ti da filo da torcere a scuola. La sua famiglia ha buoni agganci in città.” La diplomazia di zia Sue era leggendaria, ma per una volta si lasciò andare a un commento personale. “Mantengo rapporti di convenienza con la vecchia Staney. È lei che guida la famiglia e il comitato del ballo e non penso se lo meriti. Cerca sempre un proprio tornaconto.”
“Sono imparentati con i King.”
“E questo è un altro buon motivo per cui...non ammiro troppo la famiglia Stanley.” Sottinteso che i King proprio la disgustavano. 
“A scuola c’è chi vorrebbe togliere il potere a Jessica.”
“Tu?” Non mi volli esporre. “È una questione di potere e di equilibrio. Non puoi pensare di spodestare il re senza metterne un altro sul trono. La scuola è lo specchio di quello che è la nostra società, Isabella.”
“Approvi, allora?”
“Mantenere le apparenze è importante.” Dichiarò criptica. Mi alzai e mi avviai verso il mio studio privato.

Come ordinato dalla zia, ogni pomeriggio lo passavo in compagnia sua e di qualche suo ospite. Poteva essere una truccatrice, una parrucchiera, o una sarta.
Tra un devi versare il tè così, un tieni la tazza cosà, con il mignolo abbassato, un stai dritta sulla sedia e un partecipa attivamente alla conversazione, c’era solo una cosa che avevo capito: tutta questa messinscena serviva alla zia per trovare un pretendente per il ballo che fosse anche un pretendente alla mia mano. Lasciavo che zia Sue vagliasse i candidati e li bocciasse uno a uno. Sapeva che non avevo intenzione di sposarmi e che, anche se avesse trovato il cavaliere giusto, si sarebbe dovuto limitare ad accompagnarmi al ballo.
Più passavano i giorni, più mi sentivo come un leone in gabbia. O come un chihuahua con la museruola. Volevo urlare, strapparmi i capelli e fuggire lontano. Invece restavo seduta composta sui divanetti di zia Sue e sorseggiavo il mio tè.
Nonostante gli sguardi di disapprovazione che la zia mi scoccava ogni tre per due, la mia non era una parte attiva nella conversazione. Mi concentravo solo sul pensiero della Brown o ripassavo mentalmente qualche lezione per non rimanere indietro con lo studio. O rivivevo sognante i baci che io e Edward ci scambiavamo nel mio bagno a scuola.
E poi alla maggior parte dei convitati non interessava per niente di una ragazzetta struccata e con un nido nei capelli, infilata in una bella divisa scolastica. Li ascoltavo svogliata, ma tenendo sempre la tazza come mi aveva detto l’insegnate di buone maniere. Qualcuno ciarlava del college o dell’azienda di famiglia. Qualcuno, con poco buon gusto, delle ville, delle barche e degli aerei che possedeva. Soffocavo le risate nella tazza del tè nel vedere il sopracciglio di zia Sue inarcarsi in segno di disapprovazione.
Erano giorni che non dormivo granché per poter studiare e finire i compiti. A scuola, Edward, preoccupato, mi aveva proposto di andare a schiacciare un pisolino a casa sua, giusto per potermi riprendere.
Da zia Sue, quel pomeriggio di metà ottobre, la truccatrice si mise le mani nei capelli perché disse che le mie occhiaie erano impossibili da coprire.
“Zia...” La implorai. “Adesso basta, scegli qualcuno, ma liberami, ti prego. Devo studiare!” la truccatrice mi zittì, perché doveva mettermi non so cosa sulle labbra.
“Se tu fossi più partecipe!” Capivo bene quanto la zia fosse frustrata dal mio comportamento poco collaborativo. Anche io ero frustrata dal suo di comportamento poco collaborativo. Poteva scegliere direttamente lei chi dovesse essere il mio cavaliere e avrebbe evitato a chiunque di sopportare quelle torture. “La mia lista di possibili accompagnatori è già esaurita!”
“Vorrà dire che non è destino...” Tentai di convincerla a desistere con questa storia del ballo.
“Fosse così semplice.” Allontanò truccatrice e parrucchiera che come sempre avevano fatto un mezzo miracolo. “Il comitato per il ballo ha chiesto che incontrassi anche qualche loro candidato. Per lo più ragazzetti insignificanti che vogliono partecipare, ma non hanno ancora chi accompagnare. Ma oggi la questione si è fatta più...delicata.”
“Sei troppo diplomatica. Che ha fatto nonna Stanley?”
“Ha chiesto che oggi incontrassi Royce King.” Sobbalzai per lo stupore.
“Sei troppo diplomatica.” Ripetei. “La questione si è fatta proprio di merda.” Per la prima volta da che ricordassi, zia Sue sorrise a una mia parolaccia.
Come da galateo, Royce King si presentò a un quarto alle cinque e servimmo il tè nel salottino al piano terra alle cinque in punto. La zia lo osservava come un falco pronta a beccare la sua preda. Io, invece, anche se leggermente curiosa di scoprire che tipo fosse il promesso di Rosalie, cercavo di ignorarlo. Forse avrebbe desistito come tutti gli altri.
Sicuramente non era un vecchio. Aveva ventitré anni, il viso gioviale e senza una minima ruga o imperfezione. I loro figli sarebbero stati bellissimi, biondissimi e con gli occhi azzurri. Il corpo, che immaginai essere allenato, era fasciato da un completo sportivo, ma elegante e di alta sartoria. Non riuscii a trovare niente di vecchio in lui. Nemmeno i modi compiti erano leziosi o ostentati. Nella mia mente ammisi che sarebbe stato un ottimo partito, se non fosse stata per quella luce diabolica che sostava nei suoi occhi. Tutta quella perfezione era pericolosa, sembrava un diavolo travestito da angelo.
“Signora Clearwater, devo chiederle una cortesia immensa.” King rivolse un sorriso sfavillante alla zia. “Vorrei parlare da solo con Isabella. So che è contro il galateo, ma credo che Isabella sarebbe più a suo agio.”
Davvero, restare da sola con una serpe mi avrebbe messo a mio agio? Lo scetticismo mi si leggeva in faccia. Tuttavia, zia Sue acconsentì e disse che gli avrebbe concesso cinque minuti e avrebbe lasciato la porta aperta.
“Allora, mia piccola Isabella.” Il suo era il sibilo del serpente pronto a colpire e iniettare veleno. Royce King era un essere pericoloso e forse più spregevole della sua cara cugina. “Sei un’ereditiera.”
“Le interessano i miei futuri soldi, signor King?” Il mio tono monocorde con lo destabilizzò. “La informo che la signora Clearwater gode di ottima salute.”
Lui sorrise freddamente. Io presi la mia tazza e posai le labbra sul bordo, fingendo di bere solo per prendere tempo. I suoi occhi non mi lasciavano e io non abbassai lo sguardo. “E la prego di chiamarmi signorina Swan.”
“Già, perché Brutto Anatroccolo sarebbe inappropriato.” Gli resi il sorriso freddo.
“Signor King, cosa vuole di preciso da me?”
Prese una pasta dal vassoio e se la mise in bocca, accentuando il movimento delle labbra, facendole sporgere in fuori. Disgustoso, sconcio e poco dignitoso. Se voleva che mostrassi il mio fastidio, sarebbe rimasto deluso. Per quanto il suo comportamento mi nauseasse, rimasi impassibile. Presi anche io una pasta e la morsi, con delicatezza, secondo le regole che mi aveva ripetuto fino allo stremo zia Sue.
“Oh, la piccola Swan vuole giocare secondo le regole. Allora devi proprio dirmi a che gioco stai giocando.”
“Come, prego?” Volevi risposte, Royce? Dovevi fare le domande giuste, non ti avrei reso la vita più facile. 
“Perché tu e quelle canaglie dei tuoi amici volete il controllo della White Swan? Vuoi essere la nuova ape regina?”
“Signor King, così mi ferisce. A scuola siamo tutti amici e nessuno prevarica sull’altro e non esistono api regine. Chi le ha dato queste erronee informazioni?” Mantenere la calma era sempre più difficile, ma la mia migliore faccia da innocentina era stata collaudata a lungo.
“Mia cugina...”
“La conosco?”
Royce iniziò a mostrare segni d’irritazione. “Jessica Stanley…”
“Oh, che cara ragazza.” Non gli piaceva proprio che lo interrompessi. La vena sulla fronte iniziava a pulsare con maggior frequenza. 
“Mia cugina mi ha riferito certe voci...”
“Che voci? Non saranno pettegolezzi?” Mi finsi scandalizzata. La vena stava per scoppiagli.
“Swan, tu sei una nullità. La White Swan è il nostro territorio e nessuno potrà mai privarcene.”
“Il vostro territorio?” Ribattei freddamente. Mi alzai in piedi e lisciai la gonna. “Signor King, temo proprio che su questo punto non andremo mai d’accordo. La White Swan Prep Accademy non è il territorio di nessuno. È una scuola. Inoltre, credo che il suo tempo qui sia finito.” Gli indicai la porta, cortese e sorridente.
“Piccola puttana. Te ne pentirai.”
Se ne andò sbattendo la porta. 
“Che è successo?” Zia Sue rientrò, preoccupata.  
“Credimi, zia, non lo so nemmeno io.” Far infuriare il serpente mi aveva dato una scarica di adrenalina. Quando questa mi abbandonò le vene, mi lasciai andare nella poltrona. “Penso che King sia incline alla rabbia e alla violenza. Sicuramente ha poca pazienza.” Zia Sue mi accarezzò il braccio e posi una mano sulla sua. “Ti prego zia, ti scongiuro. Anche la mia vescica implora pietà, basta questi tè. Basta pretendenti.”
Lei sospirò come se le costasse molto dirmi ciò che doveva. “Mantenere le apparenze è importante.” Iniziavo a odiare quella frase. “Comunque ho già scelto da tempo il tuo cavaliere.”





p.s. dell'autrice: Ecco il tasto dolente, il ballo delle debuttanti. Zia Sue non molla l'osso, anche se Bella sta cercando di svicolarsi dall'impegno sociale. E Royce King...non ci piace, non ci piace, ma ci serve per vivacizzare la storia.

vi ringrazio per la pazienza con cui aspettate gli aggiornamenti. Purtroppo la vita mi si è movimentata e, pur essendo la storia già scritta, ho difficoltà a postare con regolarità (spero di poter riprendere con l'aggiornamento settimanale a breve). Questo anche e soprattutto perchè io voglio capitoli buoni (se non perfetti) da un punto i vista linguistico/grammaticale. Mi sentirei male a darvi un capitolo scritto male e con molti errori di battitura.
Per questo ringrazio infinitamente di avere al mio fianco una beta che mi sopporta dal lontano 2009, ovvero dal giorno in cui ho messo piede in questo sito. Non la ringrazierò mai abbastanza (inchino).

a presto
Sara


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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Buona lettura

CAPITOLO 15

Lezione di danza.
La zia mi aveva fissato la prima lezione di danza per quel pomeriggio. 
“Attenta.” Edward evitò che finissi con il naso per terra per la...credo fosse la quinta volta. Pensare di testare il mio senso dell’equilibrio in una lezione di danza sembrava averlo annullato del tutto. Traballai sulle ginocchia per rimettermi in piedi correttamente, il mio baricentro completamente sbilanciato. Il mio ragazzo mi guardò preoccupato mentre andavamo alla nostra prima lezione della giornata.
Avevamo appena avuto una riunione nel mio bagno femminile e io avevo, per l’occasione, gentilmente dissuaso delle matricole a usarlo oggi o in futuro. Jasper aveva annuito soddisfatto, commentando che finalmente l’aura di potere mi stava invadendo le ossa. Stupido generale biondo.
Sospirai sotto lo sguardo attento di Edward. Riferire per l’ennesima volta l’incontro con Royce King nei minimi dettagli mi aveva spossato. Il generale mi aveva riempito di domande. E non era riuscito a trattenere la soddisfazione per le mie riposte. 
“In così poso tempo!” Gli brillavano gli occhi. “Ti ho ammaestrato bene.” Mi sentii una foca che giocava con la palla e alzai il naso all’insù. 
Il silenzio e l’indifferenza che Jasper riservava a tutti a scuola erano più intimidatori delle spacconerie di Emmett. Ma poteva rivelarsi un gran chiacchierone se entravi nella sua ristretta cerchia.
Stupido generale biondo.
“Ti prometto che King non sarà un problema.” Edward mi distrasse dai miei pensieri e mi salvò ancora una volta da un armadietto che si era fatto fin troppo vicino. 
“Lo so.” Potevo contare sul supporto dei miei nuovi amici. Che strana parola, amici. “C’è qualche strategia che potete insegnarmi per sfuggire a un corso intensivo di danza?”
Edward si fermò in mezzo al corridoio e scosse la testa sorridendo. “Come può farti paura un ballo?”
Feci una smorfia, ma riprese a parlare, togliendomi la fatica di ribattere. “Te l’ho già detto, ti serve solo il cavaliere giusto.”
L’incubo del cavaliere giusto e della lezione mi perseguitò per tutta la mattinata e alla fine ne ero completamente terrorizzata. La pausa pranzo trascorse tra le chiacchiere dei miei nuovi amici e le carezze di Edward sulla mia schiena. I pigri movimenti circolari erano inframmezzati da sollecitazioni a mangiare qualche boccone nel mio hamburger, ma sembrava che il mio stomaco si fosse totalmente chiuso per l’ansia. Edward alla fine rinunciò anche a farmi spiaccicare parola, ma la sua sola vicinanza mi fece sentire un po’ meglio.
Un cavaliere decente, mi serviva solo un cavaliere decente. 
Quel pensiero mi sostenne anche per le lezioni del pomeriggio. E mi sostenne ancora di più che Edward mi accompagnasse alla sala da ballo dove avrei dovuto fare la mia prima lezione di danza.
“Non ci vado.” Dissi come una bambina piccola, restando ostinatamente ferma in macchina.
Lui mi fece un sorrisetto furbo e mi disse che magari mi sarei anche potuta divertire.
Storsi il naso, poco convinta che sarebbe successo. Solo la suoneria insistente del mio cellulare, mi fece decidere di scendere, dopo un lungo bacio a Edward. Non risposi nemmeno alla chiamata, sapevo che era zia Sue che voleva sapere dove fossi finita.
“Vai.” Mi sussurrò sulle labbra. “Cerca solo di divertirti.” Mi spinse praticamente giù dall’auto e partì sgommando, la mano fuori dal finestrino in segno di saluto. Stronzo.
Mi avviai come un condannato a morte nell’edificio. Buttai la cartella a terra, sotto la poltrona che la scuola di danza aveva messo a disposizione di zia Sue che mi guardò scocciata per la mia poca femminilità. Alle sue spalle, come un inquietante corvo, Carlton spense il telefono e anche il mio smise di suonare.
“Sei in ritardo. E pure il tuo cavaliere.” Scoccò un’occhiataccia l’orologio al polso, mentre l’insegnate arrivò con un fluido turbinio portandomi delle scarpette con il tacco. Grugnii in riposta, beccandomi un altro rimprovero silenzioso. La prossima lezione avrei anche dovuto indossare qualcosa di più comodo della divisa.
“Scusate il ritardo. Non trovavo parcheggio.” Mi si bloccò il fiato in gola, mentre infilavo quelle trappole ai piedi. Sollevai lo sguardo e quello stronzo del mio ragazzo era in piedi di fronte a zia Sue mentre le prendeva la mano per un baciamano perfetto. 
“Allora? Iniziamo?” Era rilassato e divertito dalla mia espressione sbigottita. Infilai anche l’altro piede nella scarpetta e mi alzai.
“Che ci fai qui?”
“Te lo avevo detto che ti serviva solo il cavaliere giusto.” Strinsi le labbra perché avrei voluto mandarlo a quel paese. Mi aveva fatto passare una giornata infernale e lui era lì, bello come sempre, pronto a prendermi la mano per condurmi in pista.
“Che significa?” 
“Significa che avrai me come affascinate cavaliere per il ballo delle debuttanti.” La voglia di togliergli quel sorrisetto mi fece stringere i pugni.
“Perché?” Volevo una riposta chiara. “Perché sei qui? Perché non mi hai detto niente?”
“Mi sono divertito a vederti soffrire.” Quel sorriso stronzo...fece un sospiro e mi fissò con tanta intensità da farmi tremare le ginocchia.
L’insegnate di ballo ci interruppe e Edward si posizionò al centro della sala, ma per me l’argomento non era chiuso.
Edward fece scorrere la mano sulla mia schiena, avvicinandomi a lui, mentre mi prese l’altra e la portò alle labbra.
“Fidati di me.” E io mi affidai a lui, nonostante lo sguardo severo della zia, nonostante l’insegnate che continuava a dirmi che avevo la postura di un topo da biblioteca. Ogni tre per due riposizionava le mie mani, mi diceva di tenere il tacco sollevato o mi rimproverava per qualsiasi cosa secondo lei non andasse bene. Il mio cavaliere avrebbe avuto i piedi lividi alla fine della giornata.
Edward a un certo punto fece fermare la musica del valzer. Andò dalla zia, si abbassò sulle ginocchia di fronte a lei e si misero a parlottare sottovoce, mentre io aspettavo come una stupida al centro della stanza, spostando il peso da un piede all’altro. Probabilmente si stava tirando indietro. Poverino, lo capivo anche, ero davvero una pessima ballerina. Ero un caso senza speranza...e mi spiazzò del tutto quando zia Sue si alzò, chiamò a sé l’insegnate che rispose al cenno come un cagnolino scodinzolante e insieme a Carlton lasciarono la sala.
Edward mi fece togliere quelle scarpe assurde che mi facevano dolere i piedi e mi strinse di nuovo tra le sue braccia, dopo aver fatto partire la musica.
“Guarda me.” Mi disse mentre per l’ennesima volta gli pestavo i piedi nonostante controllassi sempre dove li mettessi. “Ci sono io con te, anche se fai un passo falso, non avrà importanza, perché sono io che ti guiderò.”
I suoi occhi erano sinceri, così come il suo sorriso. Mi fermai, aveva mandato via tutti, quindi qualche spiegazione me la poteva dare.
Lui sospirò, pronto alla dura battaglia che lo attendeva.
“Ho saputo solo ieri che tua zia aveva accettato la mia proposta di essere il tuo accompagnatore.”
“Quando hai contrattato con lei?” 
“Sono andato da lei quella sera in cui non risposi al telefono. Mi ha fatto promettere di non dirti niente finché non si fosse fatta sentire lei, semmai avesse accettato la proposta. Voleva che ti impegnassi in quegli stupidi pomeriggi sociali.”
“Potevi dirmelo.”
“E quando?” Sopirò. “Una parte di me avrebbe voluto, ma sono un uomo del sud.” Concluse ironico. Sapeva che mi irritava e affascinava allo stesso tempo il suo codice d’onore d’altri tempi. “Onoro sempre i patti.”
“E l’altra parte di te?”
“Amo stuzzicarti, Piccolo Anatroccolo.” Rise sulle mie labbra e, forse, se non fosse stato per il bacio e la luce giocosa negli occhi, mi sarei davvero arrabbiata per essersi divertito sulle spalle della mia ansia.
La melodia si concluse in ultime note armoniose.
“Adesso balliamo.” Edward mi prese le mani, una la mise sulla sua spalla, l’altra la intrecciò alla sua. “Fidati davvero di me. I passi base li sai, guarda me, non i piedi.”
“Sai ballare.” Scrollò le spalle, come se non fosse importante. “Sai ballare.” Ripetei.
“Mia madre è una donna del sud mancata, ricordalo sempre.”
 “Devi stare attento a zia Sue, le vorrò anche bene, ma è una serpe quando fa accordi.” Perché con zia Sue era sempre un do ut des.
“Le ho solo chiesto di poter essere il tuo cavaliere. Non mi ha chiesto niente in cambio. È stata una cena piacevole.” Una cena con zia Sue...piacevole. Ne ero sbalordita. Forse Edward Cullen aveva sfoderato il suo fascino e lei ne era rimasta abbagliata come me. “Tua zia vuole solo il tuo bene.”
Senza che me ne accorgessi, Edward mi condusse piano piano per la stanza, ballando. 
“Sai già bellare, non ti servono lezioni.” Accese la musica. “Devi solo restare concentrata su di me. O distratta da me.” Rise. In effetti non gli avevo pestato i piedi, in quei momenti, e non avevo perso l’equilibrio nemmeno una volta, stretta tra le sue braccia.
“Ho già preso lezioni. Sono state disastrose.”
“Ti serviva solo il cavaliere giusto.” Si fermò e mi baciò.




p.s. dell'autrice: certo che Edward non ha perso la sua vena stronzetta....ma ci piace anche per questo.
a presto
Sara


 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


Buona lettura.


CAPITOLO 16

Nelle settimane successive passammo ogni momento libero a provare il valzer. Nella pausa pranzo prendevamo giusto un panino e una bottiglietta d’acqua e ci fiondavamo in qualche aula vuota a mangiare e ballare. Edward accendeva la musica sul suo telefonino e poi mi prendeva la mano, e volteggiavamo, volteggiavamo come se fossimo due professionisti. 
In realtà gli pesavo ancora i piedi, soprattutto quando mi distraevo o qualche rumore improvviso mi faceva sussultare. La mia conoscenza della scuola ci permetteva di trovare sempre un’aula libera, ma non ero proprio sicura che mio padre avrebbe approvato. Anche perché le mie lezioni di danza si concludevano sempre con un’appassionata sessione di baci e carezze.
Ero, però, sempre più inquieta perché sentivo su di me gli occhi degli insegnati. Quelli dei compagni avevo imparato a ignorali già da tempo. Ma avevo la strana sensazione di essere osservata e stavo diventando talmente tanto paranoica che cercavo di non farmi vedere con Edward. Gli avevo imposto percorsi differenti, tempistiche diverse, solo per non dare nell’occhio. Jasper aveva commentato che stavo rasentando la follia più pura e che presto avrei dato fuori di matto. La mia parte razionale concordava con lui, quella irrazionale conosceva fin troppo bene dove potevano spingersi le macchinazioni di mio padre.
Edward sopportava il tutto con sbuffi spazientiti e borbottii contrariati su quanto fossi esagerata.
“Ti ha seguito qualcuno?”
“Bella...” 
Sistemò le sedie e i banchi in fondo alla classe, creando uno spazio vuoto dove potessimo ballare.
“Molina mi stava seguendo, te lo giuro.”
Scosse la testa perché non voleva iniziare di nuovo questa discussione. “Non stiamo facendo niente di male.” Avvampai al ricordo di quel niente di male. Edward ammiccò. “Una terza base da brividi.” 
I brividi vennero a me ricordando le sue mani sul mio seno, tra le mie gambe, le mie mani su di lui, sotto la cintura...e il piacere che avevamo provato.
Accese la musica e ci dedicammo al ballo, ma ero distratta dalla voglia di sentirlo ancora sul mio corpo.
“Mmm...” Edward si fermò e iniziò a baciarmi il collo. “Facciamo un patto”
“Mh mh...” 
“Se fai giusti tutti i passi, possiamo replicare ieri nel resto della pausa pranzo.”
“Sei uno stronzo.” Ridacchiò sul mio collo, ma mi ben disposi a eseguire quei maledetti passi. Se la ricompresa era ancora una terza base...per la quarta ci avremmo pensato.
Tuttavia, i buoni propositi finirono quando, senza volerlo, inciampai nei miei stessi piedi, cadendo a terra e trascinando con me Edward. 
“Scusa.” Mormorai con il fiato corto per l’impatto e il corpo caldo di Edward su di me. “Forse dovremmo rialzarci.” Dissi, senza nessuna convinzione. Edward rimase sollevato sopra di me, i gomiti appoggiati al pavimento. I nostri visi erano a pochissimi centimetri l’uno dall’altro. Sollevai la mano per accarezzargli gli zigomi, le guance, il collo. Sotto il mio tocco chiuse gli occhi, appagato. Il suo membro tra le mie gambe si stava facendo sempre più grosso. Se avevo dei dubbi sul fatto che gli piacessi davvero, quella era la prova definitiva che mi trovasse quantomeno attraente. 
Edward deglutì a fatica, proponendo, con voce roca, di rialzarci, senza però compiere il primo passo. Se lui non si fosse alzato, io non avrei potuto far altro che restar sotto di lui ad ammirarlo e godermi quella sensazione di completezza e potenza.
Il momento idilliaco venne interrotto dalla porta che si apriva. I nostri volti scattarono verso l’intruso.
“Merda.” Mi lasciai sfuggire in un lamento. Edward si rialzò come un felino e mi aiutò a ritrovare una parvenza di equilibrio e di dignità. 
“Penso proprio,” Iniziò Molina con un sorriso beffardo. “Che vi stiano aspettando in presidenza.”
“Merda.” Ripetei senza farmi sentire dal professore. Ci mancava che allungasse l’elenco delle cose di cui lamentarsi. Aggiustai la camicia e la gonna e mi avviai con Edward dietro a Molina, che avanzava fin troppo compiaciuto verso l’ufficio di mio padre. Strinsi la mano del mio ragazzo.
“Quanto è brutta?” Mi sussurrò ricambiando la stretta.
“Tanto.” Non solo alla White Swan era considerato disdicevole essere trovati in atteggiamenti troppo intimi, tanto che portava alla sospensione o all’espulsione nei casi più gravi, ma il vero problema era che le persone coinvolte fossimo io e Edward. 
“Dovrai usare tutto il tuo ascendente sul preside.”
“Temo che sarebbe inutile, anzi potrei aggravare la situazione.”
“Tuo padre non approva la nostra relazione.” Storsi il naso a conferma delle sue parole. Disapprovare...papà non disapprovava, odiava il mio ragazzo e ultimamente tra me e lui i rapporti erano glaciali. Non riuscivamo più a parlare come una volta, forse perché si era accorto che ero cresciuta, che ero una persona diversa da quella che pensava lui e non sapeva come rapportarsi a me. O almeno questo era quello che sosteneva mamma.
In presidenza venimmo lasciati a crogiolarci su scomode sedie di plastica, un arredamento attentamente studiato per far sentire a disagio il colpevole. 
Il preside entrò nel suo ufficio con Molina, senza degnarci di uno sguardo. Era peggio delle mie più nere previsioni. Anche Edward iniziava a dare segni di nervosismo, nonostante disegnasse pigri cerchi sul mio polso. Il suo piede continuava a battere contro la gamba della sedia. 
Molina uscì dallo studio con un sorrisetto soddisfatto in volto. Pessimo segno.
La conferma che la situazione era grave arrivò con l’uomo che entrò nella segreteria, ci rivolse un breve e severo sguardo e bussò alla porta del preside. 
“Merda.” Questa volta fu Edward a imprecare sottovoce. “Ha convocato mio padre.” Mi afflosciai completamente sulla sedia, incapace di fingere che qualcosa si potesse salvare. E anche quando il mio unico conforto mi venne tolto, sentii ogni speranza abbandonarmi. Edward venne convocato nella stanza e iniziarono le urla di papà.
“Inammissibile… indecoroso...indecente...scandaloso…”
Mi tappai le orecchie per non sentirlo, ma le urla erano troppo forti. Probabilmente lo avrebbero sentito anche dall’altro lato del fiume Potamac.
“Sospensione...espulsione…”
A quel punto scattai in piedi, incapace di tollerare altro. La rabbia sostituì l’imbarazzo e il senso di colpa.
Spalancai la porta e Charlie e gli uomini nella stanza si voltarono verso di me, stupiti. Edward, seduto in poltrona, scosse impercettibilmente la testa, come per mandarmi via, ma ormai ero decisa ad affrontare mio padre e le sue manie. Il dottor Cullen, in piedi dietro la poltrona di Edward, assottigliò lo sguardo, cercando di capire che cosa stesse veramente succedendo. Strinse la spalla del figlio, in segno d’avvertimento.
“Con te parlo dopo.” Il tono di papà era affilato come un rasoio.
“No, con me parli subito. Perché è con me che sei arrabbiato. Edward non c’entra nulla.” Sapevo giocare a questo gioco anche meglio di Charlie. Visto che voleva la guerra, avrei affilato tutte le mie armi. “Penso proprio che Edward e suo padre possano andare.”
Charlie era livido di rabbia.
“Bella...” Edward non mi aveva mai visto così arrabbiata e non pensava proprio che potessi sfidare mio padre così platealmente. Scossi io la testa questa volta.
“Bene, se vuoi parlare Isabella, ti accontento. Cullen sei sospeso per una settimana.”
Sbattei la porta alle mie spalle. “Cosa non ti è chiaro del fatto che devi prendertela con me? Devi proprio rovinargli l’ammissione al college?”
“Va bene, che ne dici se sospendo te allora?”
I Cullen erano stati dimenticati, io e mio padre ci fronteggiavamo come due tori davanti a un drappo rosso. 
“Così non mi potrò diplomare quest’anno e non andrò alla Brown giusto?”
Charlie ebbe almeno la decenza di assumere un’aria colpevole per una frazione di secondo.
“Va bene, la metti così? Allora mi appello al codice etico dei presidi.”
I suoi tentativi di nascondere la sorpresa fallirono miseramente. “E tu che ne sai del codice?” Feci spallucce. Secondo zia Sue era fondamentale che io lo imparassi a memoria, perché mi sarebbe servito. 
“Di che...?” Mi girai verso i Cullen, sorpresa di vederli ancora lì. Misi a fuoco Edward e gli spiegai con calma che esisteva una sorta di regolamento anche per i presidi per evitare decisioni poco sagge.
“In caso di conflitto di interesse, si può chiedere a una terza parte, di solito il membro più anziano della famiglia Swan di dirimere la questione.” Non ero sicura che zia Sue mi avrebbe appoggiato al 100%, ma speravo che il mio bluff reggesse con papà.
“Pensi di vincere, Isabella? Le regole valgono anche per te. Niente atteggiamenti sconvenienti nella scuola.”
“Le regole valgono per me, ma non per Jacob, che scopava come un riccio ovunque. Sai quale era il suo posto preferito? Il bagno femminile del secondo piano.” Papà trasalì, ma sapevo che ne era a conoscenza. “Inoltre, non stavamo facendo nulla di male, papà.” Adesso fu il dottore al sobbalzare. Perfetto, non stava capendo niente perché non sapeva che suo figlio stava con la figlia del preside. “Stavamo solo ballando e...” Volevo mordermi la lingua per la vergogna. “Sono caduta.” Borbottai guardandomi i piedi, quella sembrava una scusa patetica, ma Charlie sospirò. Sapeva che poteva essere la verità dati i miei problemi di equilibrio.
“Ci vai con lui...” 
Annuii. “Molina è arrivato nel momento sbagliato e ha travisato.”
“Xavier Molina?” Quante cose si era perso per strada il dottor Cullen?
“Insegna biologia avanzata e ha l’ingrato compito di pedinarmi di tanto in tanto.” Sfidai mio padre a negare, ma Charlie restò in silenzio confermando i miei sospetti. 
“Preside Swan, consideri rifatto il tetto della palestra. Le farò avere l’assegno entro domani mattina.” Il dottor Cullen si sistemò i polsini della camicia e fece un cenno a Edward di precederlo fuori dallo studio. La questione era sistemata, per quello che lo riguardava, con una generosa donazione.
Stavo per girare sui tacchi, ma papà mi richiamò di nuovo per una conversazione privata. Mi sedetti, buona buona e con un bruciante senso di colpa per avergli mancato così tanto di rispetto, nella poltrona lasciata libera da Edward. Anche papà si sedette.
“Te lo giuro papà, non stavamo facendo niente di male. Mi dispiace essermi arrabbiata.” Portai le ginocchia al petto e vi appoggiai il mento sopra. 
“So benissimo che tuo fratello non era un santo a scuola, ma lo potevo ignorare. Tu, invece, sei la mia bambina e non posso, non posso permettere che ti faccia del male.”
“Se mi prometti che richiami il cane da guardia, ti prometto che non succederà mai più.”
“Affare fatto. Almeno mi sono risparmiato di dover chiamare tutti i genitori per il tetto della palestra.”
Mi congedò dicendomi che potevo andare a casa: ero esonerata dalle lezioni del pomeriggio. Aggiunse di dirlo anche a Edward visto che, probabilmente, erano i suoi i passi impazienti che si sentivano fuori dalla porta.
“A casa.” Si raccomandò Charlie. Potevo fare uno sforzo e dargli almeno una prova della mia buona volontà. Gli baciai la guancia, vicino ai baffi, prima di andare da Edward che stava scavando un solco nel parquet secolare.
Ma a parlare per primo, non appena chiusi la porta alle mie spalle, fu suo padre.
“E così ti fai la figlia del preside.” Avvampai sotto l’attento esame che mi riservò. “Hai gusti strani, Edward. Cerca di non metterti più nei guai, se non ne vale la pena.” 
Edward strinse i pugni lungo i fianchi, pronto a scagliarsi contro il genitore, ma questo aveva velocemente concluso che sarebbe tornato a casa per cena e se ne era andato.
Presi la mano destra al mio ragazzo e gli sciolsi il pugno. Lui sembrò accorgersi della mia presenza solo in quel momento, mi fece un sorriso tirato e in silenzio andammo nel parcheggio. 
“Mi è concesso accompagnarti a casa?” 
Dovetti declinare l’offerta perché avevo una nuova macchina che sarebbe altrimenti rimasta incustodita nel parcheggio con il rischio di ritrovarmela di nuovo imbrattata di sciroppo d’acero. Inoltre, non mi fidavo di me stessa. Avrei voluto passare ore a baciarlo in macchina, ma papà aveva probabilmente già avvisato mamma del mio arrivo: non potevo sgarrare. 
“Mi hai difeso con tuo padre.” Sembrava a disagio, si passò più volte la mano tra i capelli. 
“Cosa dovevo fare? Se fosse stato per lui ti avrebbe davvero sospeso. Non potevo permettergli che i suoi sentimenti privati ti rovinassero la carriera scolastica.”
“Sono io l’uomo...”
“Oh, già.” Lo presi in giro. “Il valoroso uomo del sud non si fa difendere dalla sua donna.”
Riuscii a strappargli una risata. “Mi dispiace per il mio, di padre.”
“Ti riferisci al fatto che non sapesse nemmeno chi fossi, o che non creda che stare con me ne valga la pena?” Ecco, qui doveva far valere il suo spirito da uomo del sud. Il fatto che non mi avesse difesa...
“Io e mio padre abbiamo un rapporto...complicato.”
“Per via di tua madre?” Osai chiedergli. Lui annuì e avvicinò il suo viso al mio, le fronti unite.
“Mi dispiace, davvero. Con Carlisle non...non parlo da quasi un anno, a parte frasi di cortesia. Avrei voluto dirgli di te, ma sei la cosa più bella che mi sia capitata da un anno a questa parte e...lui...hai visto come è fatto.” Si raddrizzò, prese le chiavi della macchina e aprì la portiera. Si fermò, indeciso, guardando dritto davanti a sé. “Lui rovina sempre tutto, Bella. Non volevo che si avvicinasse a noi due.”
Salì in macchina, senza dire nient’altro. Mi si strinse il cuore, certa di amarlo ancora di più per quella dichiarazione tra le righe.
Edward era un vero uomo del sud.




p.s. dell'autrice: qui ha inizio la mia parte preferita della storia. se mi piacciono i momenti in cui i protagonisti combattono, si scontrano e si innamorano, in questa storia per me ha grande importanza il consolidamento della loro relazione. si entra, come dire, nel vivo della storia.

alla prossima
Sara


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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


Buona lettura

CAPITOLO 17

Come promesso io e Edward ci comportammo in modo impeccabile nei giorni che seguirono, restando a una distanza ritenuta accettabile dai più. Per mio padre, ovviamente, non era abbastanza, ma se la faceva andare bene.
Il professor Molina sembrava essere l’unico a cui la tregua raggiunta stava stretta. Ogni volta che mi vedeva mano nella mano con Edward, faceva una faccia così arcigna da farmi sospettare che abusasse di limoni acerbi.
Papà bussò alla porta della mia stanza. Era quasi l’una di notte.
“Non vai a letto?” 
Scossi la testa. Tra i compiti e il ballo erano sempre più le ore di sonno perse.
“Devo finire biologia.” Molina ci stava massacrando, anche per un corso avanzato dell’ultimo anno. “Si sta vendicando per caso?”
“Probabile.” Papà si sedette sul letto. Mi voltai verso di lui in attesa di spiegazioni. “Non è un fan di Cullen.”
“Ma Edward...”
“Oh, no. Carlisle. Eravamo a scuola insieme, tutti e tre. Ci sono stati...” Papà sembrava voler trovare le parole giuste. “Dei contrasti. Xavier fu uno dei primi borsisti della White Swan. La famiglia Cullen era fortemente contraria alle borse di studio.”
“E vedere che il circolo elitario si allargava non gli avrà fatto piacere.” Papà annuì. “Quindi adesso si deve vendicare su di noi? Immagino che sia stato davvero deluso quando ha saputo che non siamo stati nemmeno sospesi o che il dottore ha fatto una generosa donazione.” Il silenzio di Charlie fu eloquente. Se avesse saputo che nemmeno le nostre famiglie ci avevano punito, a Molina sarebbero scoppiate le coronarie. “Richiama il cane da guardia, papà. Non ho bisogno di difensori della mia verginità.” Mi morsi la lingua troppo tardi, vedendo che papà era sbiancato. 
“Sei ancora...sì, insomma...”
“Non vorrai davvero affrontare questa discussione all’una di notte, vero? Non quando ho così tanti compiti che potrei non dormire affatto.”
Papà batté sul materasso vicino a sé, invitandomi a sedere vicino a lui. Avevo una montagna di compiti da finire ed ero stanca, ma avevo anche bisogno di una pausa e di stare un po’ con papà, come ai vecchi tempi. Mi accoccolai contro di lui e mi lasciai avvolgere dal suo abbraccio.
“Potrei farti una giustificazione. O potresti restare a casa a dormire, domani.”
“Ah, che bello essere la figlia privilegiata del preside.” Alzai gli occhi al cielo mentre i baffi di papà tremavano per la risata trattenuta. Chiusi solo gli occhi per un attimo per sentire il suo corpo vibrare contro il mio.
Spalancai gli occhi e guardai l’orologio, imprecando. Cercai di scansare le lenzuola, ma l’unica cosa che ottenni fu di finire con il culo per terra, dove, dolorante, mi rassegnai al fatto che avevo perso una giornata di scuola. Era quasi mezzogiorno.
Papà mi aveva fregato, mi ero addormentata contro di lui e non mi aveva svegliata, anzi mi aveva messo sotto le coperte. E stamattina avrebbe coperto la mia assenza. 
Bene. Fantastico. 
Ero una piccola privilegiata. 
Ancora imbronciata scesi in cucina, dove trovai mamma intenta a preparare il pranzo per noi due.
“Ben svegliata, tesoro.” 
Sedetti scomposta sul davanzale del bovindo. Era uno dei miei posti preferiti in quella grande cucina. Potevo anche stare ore a guardare fuori, verso la strada, lì seduta tra i cuscini. In primavera aprivo le finestre così che il dolce profumo dei fiori del giardino di mamma arrivassero a solleticarmi il naso.
“Hai dormito male?” Mamma voleva fare conversazione.
“Ho dormito troppo.”
“Meglio dormire nel tuo letto piuttosto che sul banco di scuola e finire dal preside.” Le scoccai uno sguardo scocciato. Basta battute sul preside. “Ti stai impegnando tanto per la scuola, per il college, per il ballo...è giusto prendersi una pausa ogni tanto.”
Non risposi, ma mi alzai per andare a prendere il sandwich che mi porgeva e tornare in camera.
“Ti sei alzata con il piede sbagliato?” Mamma mi fermò sulla soglia della cucina. “Potresti anche fare uno sforzo e mangiare con me.”
“Scusa.” Mi sedetti al tavolo, mamma era solo una vittima innocente del mio malumore. “È solo che...” spiluccai il pane, senza davvero aver fame. “Non capisco papà.”
“Se è per quello, lui non capisce te.” Mamma mi sorrise dolcemente, invitandomi a continuare.
“Mi ha fatto perdere un giorno di scuola.”
“Avevi bisogno di riposare, Isabella. Ti puoi permettere di non andare a scuola almeno un giorno.”
“Sta diventando eccessivo. Un iperprotettivo eccessivo, ecco cos’è.” Smisi di fingere che mi interessasse mangiare.
Mamma mi spinse di nuovo il piatto sotto il naso. “Tuo padre si è trovato impreparato. Mettiti nei suoi panni. Da un giorno all’altro si è ritrovato con una figlia cresciuta e indipendente che fa di testa sua, che non ha più bisogno del suo papà. Il suo istinto di genitore ne è rimasto ferito.”
“Per ogni passo avanti ne fa cento indietro.”
“Oh, Isabella!” Mamma si spazientì. “Non ho mai sentito nessuno che fosse arrabbiato per aver dormito tutta mattina invece che andare a scuola. Jacob faceva carte false per saltare un giorno e tu ne stai facendo una tragedia.”
Stava succedendo proprio quello che avevo voluto evitare cambiando il mio cognome. Non volevo avere privilegi o saltare scuola come se niente fosse per essere poi additata il giorno dopo come una volgare figlia di papà.
Quando tornai in camera mi sembrò di non aver dormito affatto, ma era il mio cervello quello stanco, non il corpo. 
Mandai un messaggio a Edward per sapere della sua mattinata. Mi diede appuntamento davanti a casa mia per le sei del pomeriggio, dopo gli allenamenti di football. Mi scrisse che mi avrebbe aggiornato su biologia e portato fuori per un vero appuntamento, per una volta non aveva una partita di venerdì sera e il giorno dopo era sabato e non saremmo andati a scuola. 
Passai il pomeriggio in fermento. Riordinai una camera già linda, finii di studiare biologia e cercai di concentrarmi anche su storia, ma più di avvicinavano le sei e più la mia mente vagava. Per una volta, stavo considerando di aprire davvero l’armadio e cercarvi qualcosa di carino all’interno, non solo mettere dentro una mano e togliere la prima cosa che mi capitava tra le dita.
Scelsi con cura una camicetta blu e un paio di jeans stretti. Novembre stava allungando i suoi artigli gelati sulla fine di ottobre e quindi presi anche un maglioncino e il giubbino di pelle.
Mi guardai allo specchio e per una volta non vidi solo una sopravvissuta, ma una ragazza, carina, con le guance rosee e le labbra carnose, gli occhi lucidi per l’emozione di rivedere il suo ragazzo.
Patetica. Ero patetica, una lontananza di ventiquattrore non poteva ridurmi così il cervello in pappa. Storsi il naso e mi diedi una mossa per andare da aspettare Edward in strada. Mamma e papà non erano molto contenti che uscissi, ma non dissero nulla.
Aspettai seduta sul cofano della mia auto e il libro di letteratura tra le mani, un po’ per scena un po’ per non farmi sopraffare dall’ansia. 
Presto avrei rivisto il dottor Cullen e magari avrei anche sbirciato la camera di Edward.
Ma soprattutto avrei rivisto Edward e baciato le sue labbra.
Come evocato, il mio ragazzo arrivò con solo dieci minuti di ritardo e un sorriso stupendo. Mi fece spaventare, arrivando alle spalle, concentrata com’ero sul mio libro.
Lanciai un urletto, scivolando sul cofano. 
“Ehi.” Mi avvolse tra le sue braccia, impedendomi di fatto di cadere sull’asfalto.
“Ehi.” Gli risposi prima di baciarlo. “Mi sei mancato.”
“Anche tu. Pronta ad andare?” Annuii perché non potevo continuare a baciarlo in strada. Guidò rilassato, una mano sulla mia gamba. Parlammo della sua mattinata e di Molina, ci divertimmo a lamentarci di lui. 
Quando giungemmo al grande cancello in ferro battuto della villa, Edward mi strinse il ginocchio, un sorriso nervoso. Ricambiai il sorriso, stavo per entrare nel suo mondo un altro po’ e non sapevo come era l’Edward casalingo.
Un grande viale lastricato conduceva alla villa. Ogni metro percorso era una scoperta verso la grande casa, riparata da occhi indiscreti dai pini e altri alberi sempreverdi. Ogni metro aumentava l’attesa e la sorpresa. La villa era bellissima, con quei tetti spioventi, dalle tegole scure, caratteristici della Virginia, in netto contrasto con il bianco dell’intonaco e delle pietre che sottolineavano il profilo imponete del camino che spuntava da un lato del tetto. Il porticato era sostenuto da colonnine di granito grigio e dal lato sinistro si dipanava un groviglio intricato di rampicante della Virginia che sembrava retrocedere di fronte a una rigogliosa pianta di rose. Tra giungo e luglio si doveva assistere a una meravigliosa fioritura.
Il viale si concludeva con una rotonda disegnata da una siepe in bosso che contornava una fontana. Edward l’oltrepassò per parcheggiare nello spiazzo poco distante.
“Pronta a entrare nella tana del lupo?” Gli tirai un buffetto sulla spalla. 
Venne ad aprirmi la portiera e, mano nella mano, ci incamminammo verso il portone rosso scuro.
“Che ne dici, vediamo un film e poi usciamo per una pizza?”
“Direi che è un’ottima idea.” Non avevamo fatto un solo passo in casa che già ci stavamo baciando perché eravamo davvero due adolescenti con gli ormoni in subbuglio. Non dedicai nemmeno un minuto a guardarmi attorno, sicura che l’opulenza della villa mi avrebbe fatto sentire a disagio. Mi lasciai condurre, tra un bacio e l’altro, verso le scale che salivano al piano superiore. 
Quasi inciampai quando un neonato gattonò verso di noi.
Edward sbuffò e si guardò attorno, in cerca di qualcuno che venisse a recuperare il pupo.
“Ah, Edward. Sei tornato.” Una donna, dal passo elegante e dallo sguardo dolce si avvicinò a noi e ci sorrise prima di prendere tra le braccia il bambino.
Mi guardava intensamente, mettendomi a disagio, soprattutto perché il suo sorriso era ancora dolcissimo. E velenoso, mi trovai a pensare. Il tono freddo di Edward non fece che aumentare i miei brividi di disagio.
“Isabella, lei è Esme.” La donna mi tese la mano e io gliela strinsi. “La...la compagna di mio padre.” Ah, già, il padre era un argomento tabù per Edward e il fatto che lui avesse una compagnia a poco più di un anno dal divorzio...ritrassi la mano dalla stretta di Esme e intrecciai le dita a quelle di Edward. La sua presa ferrea diceva quanto gli costasse usare quell’appellativo e quella presentazione.
“E quel lestofante in pannolino...” Il tono e lo sguardo di Edward si addolcirono. “È mio fratello Seth.” Mi si strozzò qualcosa in gola. Non mi aspettavo davvero che Edward avesse un fratellino di...a quanti mesi/anni gattonano i bambini?
Edward non disse altro e mi condusse al primo piano, fino in fondo al corridoio. 
“Prego Madame.” Il tono scherzoso gli uscì fin troppo forzato per risultare davvero tale. Abbandonai il giubbino e il maglioncino su una sedia della scrivania, lasciando a Edward il tempo di chiudere la porta e riordinare le emozioni. Sperando di non dovergli togliere le parole di bocca, mi sedetti sul letto in pelle scura, ma lui quasi mi ignorò. 
Si sdraiò e accese la tv enorme di fronte al letto, perso in qualche tetro pensiero.
“Edward...”
“Scusa.” Si passò la mano tra i capelli, segno che il suo nervosismo non era svanito. “Non doveva esserci nessuno a casa. Non volevo che la incontrassi.” Esme, non voleva che incontrassi Esme. “Lei...lei non mi piace, ecco. Mi rende...”
“Ombroso? Suscettibile? Nervoso? Di cattivo umore?”
Questa volta la risata cristallina era sincera. “Esattamente. Cerco di evitarla il più possibile.” Si sedette in modo da essere a un centimetro dal mio viso. “Sono felice che tu sia qui.” 
Qui era la sua stanza, una stanza enorme, con un letto enorme, una tv enorme e una scrivania, piena di libri. Nient’altro, a parte qualche locandina di film alle pareti grigie.
“Anche io.” Venimmo distratti da una canzone proveniente dalla tv. Edward cercò il telecomando, ma io fui più veloce. “Che cosa sarebbe?” 
“Ogni tanto faccio vedere a Seth L’incantesimo del lago. Si addormenta.”
Risi per i suoi metodi da fratello maggiore e mi accoccolai con la testa sulle sue gambe per vedere con cosa educasse il fratellino. Voleva cambiare, ma era tanto tempo che non vedevo un cartone, né che guardavo la tv. Era una cosa così familiare, intima. 
“Oh, mio Dio. È terribile.” Gli feci presente ridendo, guardano il principe Derek che dichiarava in modo patetico il suo amore a Odette. “Devi educare meglio il lestofante. Devi insegnargli a dire che c’è altro oltre la bellezza.”
“Effettivamente fa fare una figura meschina al genere maschile. Ma lei è diventata un cigno, dopo essere stata un brutto anatroccolo per tanti estati.”
“Vorresti dire che anche per me c’è speranza?”
“Oh, piccola Bella. Tu resterai sempre il mio Anatroccolo, così gli altri non potranno vedere la tua bellezza.” Avvampai per il suo sguardo fisso nel mio.
“Che altro?” Sussurrai ripetendo stupidamente le parole di Odette. 
“Sei la persona più incredibile che conosca. Sei un pericolo per gli altri e per te stessa con il suo scarso equilibrio, ma non hai paura di camminare a testa alta tra la gente. Sei fiera come una regina, testarda come un mulo, ma assolutamente affascinate nella tua inconsapevolezza di essere così unica.” 
Arrossii, ma non riuscii a distogliere gli occhi dalle sue labbra che si avvicinavano sensuali, promettendo un bacio focoso. 
“Adoro il colore che prendono le tue guance quando qualcosa ti mette in imbarazzo. E adoro quando ti arrabbi perché sei in imbarazzo. Lo sai almeno quanto sei forte e coraggiosa?”
“Edward...” Restai senza parole e non trovai di meglio da fare che gettarmi tra le sue braccia. La camicetta che tirava sui fianchi e qualche bottone che saltava. Ci baciammo appassionati e rimasi senza fiato quando invertimmo le posizioni e mi trovai sotto di lui. 
“Edward! Apri.” L’incanto venne spezzato dal bussare alla porta.



p.s. dell'autrice: L''incantesimo del Lago è un film d'animazione del 1995. L'ho visto per la prima volta nel 2020, appositamente per questa storia. (beh, meglio tardi che mai. anzi forse è meglio mai, dato che non è un gran cartone) però è stato divertente poterlo utilizzare in una ff, soprattutto come materiale educativo per il piccolo lestofante (*adoro*). 
Torno a studiare i Pokemon con il figlio.
Buona domenica a tutti.
Sara


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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


Buona lettura.

CAPITOLO 18

“Vattene!” Edward non mi lasciò per andare ad aprire la porta, anzi. La sua stretta sul mio seno si fece più intensa e lo sguardo malizioso.
Bussarono ancora alla porta. “Forse è il caso che apri.” Sussurrai con il fiato corto. Lui non ne fu felice, ma si alzò, si ricompose e io feci lo stesso.
“Pronta a incontrare di nuovo il lupo cattivo?” Mi fece l’occhiolino, ma poi controllò l’orologio. “Non dovrebbe essere qui, è raro persino che rientri per cena.” Il nervosismo tremò nella sua voce. “Esme avrà fatto la spia e sarà venuto a controllare.” Dubitai fortemente che il dottore lasciasse il lavoro solo perché ci eravamo chiusi in camera o che la sua compagna si comportasse come una liceale lamentosa.
All’ennesima intimazione di aprire la porta, Edward si decise. Io cercai di sembrare rilassata e mi sedetti composta alla scrivania.
“Che stavate facendo?” Il dottor Cullen avanzò di un solo passo nella stanza osservandoci sospettoso. Il corpo muscoloso di Edward gli impediva di proseguire oltre: la sua presenza non era gradita in quella stanza.
“Guardavamo la tv.” Edward alzò le spalle con noncuranza. Per fortuna non avevamo spento L’incantesimo del lago.
“Fa niente. Devo parlarti, vai nel mio studio. Chiederò a Polson se può accompagnare la signorina Swan a casa.”
“E perché mai il tuo autista dovrebbe portare a casa Bella? Lei resta, dimmi quello che devi e poi io e lei usciamo a cena.”
“Perché sì. Tra cinque minuti nel mio studio.” Carlisle Cullen riportò l’attenzione sul figlio e il gelo calò nella stanza. Così come nei giorni precedenti io avevo sfidato il mio di padre, adesso Edward stava sfidando l’autorità del suo. Noi ragazzini volevamo farci valere con i nostri genitori e non potevo impedire a Edward di combattere le sue battaglie, quindi me ne restai zitta perché era giusto che non intervenissi, come aveva fatto lui dal preside.
Quando il padre se ne andò mi avvicinai a lui e gli dissi che non era un problema rimandare la nostra serata. Sussultò sentendo la mia mano sul suo braccio, lo conoscevo abbastanza da sapere che era arrabbiato, e forse preoccupato, per quell’inaspettata convocazione. Il rapporto con suo padre era molto più teso di quello che mi aveva fatto intendere. 
Portarmi qui, in casa sua, era davvero una grande prova per lui.
“Aspettami. Torno subito.” Mi diede un bacio veloce sulla guancia e si decise a scendere dal padre. 
Avrei voluto seguirlo e invece tornai a sedermi e iniziai a curiosare distrattamente tra i suoi libri. 
Stavo guardando uno spaccato della vita di Edward attraverso le sue letture, per lo più testi scolastici e qualche libro di chimica. Sotto una pila di traballanti libri vidi anche testi giuridici ed economici, molto più consumati dei precedenti.
Stavo per afferrane uno, quando mi sentii osservata: Esme era alla porta con il piccolo Seth in braccio che cercava di tirarle una ciocca di capelli.
“Carlisle mi ha chiesto di venirti a dire che Polson ti attende all’ingresso.” Era un congedo. Non potei ribattere nulla, mi stava tenendo la porta della stanza aperta, invitandomi gentilmente a uscire da quella casa. 
Cercai di sorridere, infilai il maglioncino, presi in mano il giubbino e mi avviai verso l’atrio. 
Ero a metà delle scale quando il silenzio fu interrotto da un urlo. Edward stava urlando qualsiasi tipo di insulto da qualche parte oltre le porte chiuse sulla destra. Immaginai che una fosse quella dello studio del dottore.
“Meglio se ti sbrighi.” Esme mi fece segno di continuare a scendere, chiaramente nervosa per le urla. 
“E tu saresti un medico? Sei solo un figlio di puttana!” Rimasi bloccata sul gradino per la rabbia di Edward. 
Comparve schiumante di rabbia e il volto stralunato, seguito dal padre che lo chiamava e lo implorava di ascoltarlo.
“Non me ne frega un cazzo! Sei uno stronzo!”
“Ascoltami per favore!”
Edward si girò verso di me. “Andiamo.” Un ordine secco che mi fece tremare. Dove era finito il ragazzo che amavo? Quello dolce e spensierato che mi prendeva in giro facendomi sentire speciale? Quello che guardava i catoni con il fratellino? 
Cosa era successo?
Mi riscossi dal mio stato di shock e scesi di corsa gli ultimi gradini, andando verso la porta principale. Edward la stava già oltrepassando a passo di carica, forse diretto alla sua auto. 
La mano del dottor Cullen mi afferrò un braccio mentre passavo vicino a lui. “Stagli vicino, per favore.” Annuii confusa anche se non sapevo bene che stesse succedendo.
La Maserati mi aspettava proprio di fronte al portone. Entrai senza dire una parola e Edward partì all’istante, lo sguardo indurito, fisso oltre il parabrezza.
Non tentai nemmeno di dirgli qualcosa, avrei lasciato a lui la prima mossa.
Guidò per ore, il buio avvolse ogni cosa attorno a noi, l’autoradio stranamente spenta. L’unica luce che a tratti illuminava l’abitacolo era quella dei lampioni che scorrevano veloci accanto a noi. Non sapevo dove stessimo andando e cercavo di non guardare il tachimetro: segnava velocità ben oltre il limite consentito. 
Edward era immerso in una bolla di rabbia e dolore. 
Erano quasi le dieci di sera, quando finalmente Edward rallentò e parcheggiò in riva a un fiume. Non sapevo dove fossimo, ma immaginai che viste le dimensioni fosse il Potomac, forse verso il suo estuario. L’altra sponda non era visibile, nonostante fossimo in un punto panoramico illuminato dalla luce gialla dei lampioni. La città alle nostre spalle era in pieno fermento.
Edward scese senza aspettare che lo seguissi. Feci appena in tempo a vedere che armeggiava con il bagagliaio, che ne estrasse qualcosa e si diresse al parapetto.
“Edward...” Sussurrai il suo nome mentre con un grido di dolore lanciava la valigia che portava con sé nel fiume. Lanciò un secondo urlo e si appoggiò alla staccionata in legno e si prese la testa tra le mani, come se si fosse svuotato di quello che lo tormentava. Mi avvicinai a lui, tremando per il freddo e per la sua disarmante vulnerabilità.
“Edward.” Ripetei toccandolo appena. Si voltò verso di me, gli occhi pieni di lacrime.
“È...è morta, Bella. Mia madre è morta.”
Mi si bloccò il respiro. Non feci altro che appoggiare la testa sulla sua schiena, sotto la sua spalla destra, abbracciando il suo fianco. La sua schiena era scossa dai tremiti del pianto e cercai di stringerlo il più forte possibile come se potessi impedirgli di andare in mille pezzi per il dolore. Mi afferrò le braccia come se fossero la sua ancora di salvezza.
Restammo lì per ore, affinché sfogasse tutto il suo dolore. Non sentivo il freddo o i muscoli delle braccia che mi dolevano per lo sforzo di stringerlo. Il fiume sotto di noi portò al mare tutto il suo dolore, in silenzio.

“Davvero, sto meglio.” Lo squadrai scettica. Sua madre era morta, aveva passato ore a piangere e continuava a sostenere di stare bene. Senza considerare che le ultime parole della madre erano state d’odio e aveva gettato nel fiume la valigia che aveva preparato per andare a trovarla. 
Lasciò cadere la forchetta nel piattino di torta al cioccolato che avevo ordinato per lui alla tavola calda sulla strada del ritorno. “Che schifo di appuntamento. Dovrò farmi perdonare.”
“Edward. Smettila.” Non poteva davvero scusarsi per l’ennesima volta per gli occhi gonfi e rossi o perché era saltata la nostra cena. Fece per protestare ma alzai la mano.
“Sembri tua zia.” Una risatina sincera, mentre io mi imbronciavo, ma ero segretamente lieta di averlo fatto sorridere. “Vuoi finirla tu?” Aveva mangiato sì e no due forchettate. 
“Il cioccolato fa bene.” Prese un altro boccone per farmi contenta. “Vuoi parlarmi di lei?”
Scrollò le spalle. “Magari domani.” 
Domani...era già domani. I miei mi avrebbero scuoiata viva per un ritardo del genere. Presi il cellulare per avvertirli che avrei fatto tardi, ma trovai un messaggio di mio padre: Mi fido di te.
“I tuoi saranno preoccupati. Ti porto a casa.” Gli sottrassi le chiavi dalle mani. Non poteva guidare per ore, non in quelle condizioni. “Bella...” 
“Sei uno di quegli uomini che non fanno toccare la propria macchina nemmeno alla loro donna?” Alzò le mani, in segno di resa. Era di poche parole, ma almeno sembrava che stesse reagendo. Tuttavia, il fatto che fui io a pagare il conto, fu indicativo di come stava.
“Dovrai dirmi che strada prendere.” Edward ammise che aveva solo seguito la strada, senza sapere nemmeno lui dove stava andando. Trovammo, per fortuna, alcune indicazioni per cittadine vicino alla nostra e le seguimmo.
“Mamma è una bella donna...era una bella donna. Il suo punto di forza erano i capelli, simili ai miei per il colore, ma ricci, tanto ricci. La pelle era chiarissima, con qualche lentiggine. Sembrava una bambina quando si imbronciava.” Nel silenzio della macchina, Edward iniziò a parlare a ruota libera. Mi tenne compagnia fino a casa con piccoli aneddoti sulla sua vita con sua madre. Lei gli aveva insegnato a nuotare, a cavalcare, a suonare il piano. Era da lei che aveva preso la sua parte più artistica e passionale. Quella parte che lo faceva andare in canoa o in campeggio solo per sfidare la natura o restare sveglio la notte per vedere le stelle. 
Sentivo le lacrime premere per uscire. Parlava di sua madre con una tale dolcezza...e lei non aveva minimamente capito quanto suo figlio l’amasse.
“Tutto è precipitato alcuni anni fa. Mamma era cambiata, tanto cambiata. Carlisle la voleva solo come bella bambolina al suo fianco, non come compagna. La trascurava e lei era sempre più infelice. Ma non lo lasciò. Continuò a fingere che il loro matrimonio andasse a gonfie vele, perché era una Yankee ma aspirava a essere una donna del sud.” Anche Edward era stato infelice per il comportamento dei genitori, ma qualcuno lo aveva capito? “Sarebbe stato meglio se se ne fosse andata prima, magari sarebbe ancora viva.”
Osai togliere la mano dal volante e accarezzagli il braccio. Avevo paura di rovinargli la macchina, e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era la macchina sfasciata per colpa mia.
“Non è colpa tua.”
“No, è colpa di mio padre.” Ecco la rabbia che sostituì il dolore e la dolce malinconia. “Non ha mai fatto nulla. Anzi...la relazione con Esme andava avanti da anni. Solo quando lei è rimasta incinta ha chiesto il divorzio.”
“Non è comunque colpa tua.” Gli dissi ancora.
“Mi ha detto...” La voce gli si spense.
“Ti ha detto cose terribili, che nessuna madre dovrebbe dire. Eppure tu le vuoi bene, le hai sempre voluto bene. Non è colpa tua se è tornata a New York o se è morta. Non è colpa tua se sei rimasto a vivere qui e non l’hai seguita. Non è colpa tua se non sei andato da lei.”
Edward rimase in silenzio, ma mi strinse la mano sul suo braccio.
Il silenzio durò finché non parcheggiai davanti a casa, slacciai la cintura di sicurezza, ma non scesi dalla macchina.
“Resta ancora un po’ con me.”
Stagli vicino per favore.
“Non vuoi andare a casa? Magari se parli con tuo padre...” Non voleva parlare con lui, ma stare con me. Non potevo lasciarlo andare in quelle condizioni, anche a costo di rovinare definitivamente il rapporto con mio padre. “Dai, vieni.” 
Entrammo nel silenzio opprimente e soffocante dell’atrio mano nella mano. I miei stavano dormendo e potevamo sgattaiolare in silenzio nella mia camera. Il letto non era grande come il suo ma ce lo saremmo fatti andare bene.
La porta dello studio di papà si aprì e uscirono entrambi i miei genitori, in vestaglia.
“Isabella!” Sembravano sollevati di vedere che ero tornata.
“Mamma...papà...” Mi avvicinai a loro e li abbracciai. “Mi dispiace aver fatto tardi...io...”
“Il dottor Cullen mi ha chiamato, tesoro.” Papà mi guardò comprensivo. “Voleva sapere se foste rientrati. Dov’è Edward?” Voltai solo un po’ il viso per indicare la porta. Era rimasto in disparte, nel buio, mentre affrontavo i miei. Anche da quella distanza potevo vedere le spalle ingobbite, la testa china, gli occhi spenti. 
“Ci dispiace per tua madre, Edward.” Il mio ragazzo si avvicinò e ringraziò mio padre. Cercò di prendermi le chiavi della macchina.
“Oh, caro. Ho preparato una stanza per te, se vuoi restare qui stanotte.” Edward rimase spiazzato dalla gentilezza di mamma. Io gliene fui grata soprattutto perché nella sua voce si leggeva solo dispiacere e non pietà.

Dormii sì e no tre ore e quando mi svegliai il sole non aveva ancora bucato la coltre di nubi. Non riuscivo a riprendere sonno, né a stare nel letto a rigirarmi continuamente. Non sapendo che Edward era a due piani sotto di me, in una delle stanze per gli ospiti e che gli era appena morta la madre. Avrei voluto stringerlo a me per tutto quel che restava della notte e consolarlo, ma i miei erano stati fin troppo compresivi e disponibili.
Avevo solo potuto stringerlo a me e coccolarlo finché non si era addormentato, poi ero andata nella mia stanza, dove ero rimasta in uno stato di dormiveglia preoccupata per lui.
Scostai le lenzuola e andai in cucina. Avrei preparato la colazione, così da non pensare.
“Ti facevo più tipa da pigiamone di flanella. Magari a quadretti.”
“Quello è nell’armadio.” Avevo indossato la sua maglietta da quarterback e un paio di short per dormire, abbandonando i quadretti sulla sedia. Per ripararmi dal freddo mattutino avevo scelto una delle mie maxi felpe. Con abile mossa girai il pancake che rischiava di bruciare. Per Edward avevo deciso di mettere da parte ogni mia ritrosia verso lo sciroppo d’acero.
“Se Jake sapesse che ti sto facendo i pancake...non te ne lascerebbe nemmeno uno.”
“Allora ne devo proprio approfittare.” Si sedette alla panca del tavolo, vicino alla finestra. Mi accoccolai al suo fianco. “Io...grazie per ieri.”
Annuii senza aggiungere altro. Se lo faceva stare bene ringraziare e scusarsi, glielo avrei permesso. 
“Ha ragione Jacob. I tuoi pancake sono fantastici.”
“Pensare che qualcuno ha anche tentato di farmi odiare lo sciroppo d’acero.” La sua risata bassa e melodiosa riempì la cucina e io sospirai di sollievo. Non mi illudevo certo. Il dolore doveva essere lì, sotto la superficie, pronto a ritornare con la forza di un uragano a spazzare via questa tranquillità.
Restammo in silenzio, solo il rumore delle posate sui piatti. Ma non sentivamo la necessità di riempirlo in alcun modo.
Sobbalzammo entrambi quando il campanello suonò, un rumore esageratamente acuto in quel silenzio mattutino.
Andai subito ad aprire, immaginando benissimo chi potesse essere. Il padre di Edward mi squadrò da capo a piedi, la mia mise non proprio decorosa. Ma erano anche le sette del mattino e decisi di non farmi intimorire da lui. Lo condussi in cucina, senza una parola di saluto. 
Edward ci aspettava, lo sguardo nel piatto e le posate strette nelle mani, come se potesse usarle come armi.
Chiesi al dottore se volesse del caffè. Anche lui sembrava aver dormito poco quella notte. Per un po’ gli unici rumori furono quelli della macchinetta del caffè e di me che ne servivo una tazza a entrambi i Cullen. Presi la mia e mi congedai.
“No, resta.” Il dottor Cullen non ne era per niente felice. “Se lei non resta, tu puoi anche andartene.” L’uomo non si azzardò a dire alcunché e io tornai a sedermi vicino a Edward. Una sua mano scattò sotto il tavolo, aperta, in un chiaro invito a stringergliela. Potevo sentire la vena del polso pulsare furiosa, immaginai che anche il suo cuore pompasse a tutta potenza. Eppure non mostrava alcuna emozione, tranne una maschera di fredda pietra.
Il dottor Cullen non distolse mai lo sguardo dal figlio e bevve solo un sorso del suo caffè.
“Avrei dovuto dirti prima che Elisabeth era malata.”
“Già, avresti dovuto.” Edward non sembrava intenzionato a essere minimamente disponibile con il padre.
“Era già malata quando ti disse che...che ti odiava.” 
“E quindi mi hai fatto un favore a sbatterla fuori di casa, giusto?” Gli strinsi la mano.
“Non lo sapevo allora, né lo sapeva lei. Mi ha chiamato sei mesi fa.”
Edward sussultò. “Perché non...” La voce di Edward si spezzò e la sua stretta mi fece dolere la mano, ma non dissi nulla. Gli accarezzai il braccio come conforto.
“Prima che io iniziassi la relazione con Esme, Elisabeth era solita tradirmi e provava una certa soddisfazione a farmelo sapere. Avrei dovuto fare qualcosa, ma il suo cambiamento mi aveva spiazzato. Pensavo che fosse infelice e le permisi di comportarsi in quel modo anche se mi feriva e mi allontanava.” Edward ascoltava ed ero certa che presto sarebbe scoppiato. “Ma andava bene perché era tua madre e ti voleva bene.” Il dottore fece una pausa, bevve un sorso di caffè e mi chiese del latte. Lasciai la mano di Edward per alzarmi, controvoglia. Mi sembrava di abbandonarlo, mentre suo padre gli rivelava qualcosa che lui nemmeno aveva sospettato. 
Così l’imperturbabile Carlisle Cullen si era innamorato di Esme, ma aveva continuato a restare sotto le mentite spoglie di devoto marito di Elisabeth solo per il bene del figlio. Ma quando i figli si erano fatti due, aveva fatto una scelta egoistica e aveva chiesto il divorzio. 
“Tua madre era arrabbiata con me, non con te. Non sono stato un gentiluomo a cacciarla quella sera, ma non sopportavo oltre il suo comportamento. Sono stato da lei sei mesi fa e mi ha detto che aveva un tumore al cervello inoperabile. La chemio non stava funzionando.”
La conversazione si faceva sempre più difficile e il pallore di Edward aumentava.
“Mi fece promettere di non dirtelo, mi lasciò solo una lettera per te. Probabilmente i suoi comportamenti così strani erano dettati dalla malattia e io non me ne ero accorto.”
“Sei tu il medico in famiglia.” Edward sembrava sul punto di vomitare. “Dovevi...”
“Dovevo. Ma così non è stato.”
Edward si alzò dal tavolo e se ne andò, incapace di sostenere altri segreti.
“Una lettera, dottor Cullen?” Il silenzio era troppo opprimente e sentii il bisogno di riempirlo. Ero rimasta sola con il padre del mio ragazzo al tavolo della mia cucina, la colazione abbandonata a metà.
L’uomo mi porse una pesante busta bianca, sul retro, in bella scrittura il nome
Edward.
“Dagliela quando deciderà che, forse, non sono un mostro.”



p.s. dell'autrice: questo è IL capitolo. quello in cui succede di tutto all'improvviso. come reagiranno i nostri eroi? 
Purtroppo non sono riuscita a postare prima di Pasqua, ma spero abbiate passato una bella giornata =) 
Vado a nascondermi nel mio angolino mentre voi leggete e mi fate sapere che ne pensate...
a presto.
Sara

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Buona lettura.



CAPITOLO 19

“Se ne è andato?” Edward mi aspettava nel corridoio che portava alla stanza degli ospiti che aveva occupato quella notte.
“No, sta parlando con papà, forse per i giorni di scuola che perderai.” Mi guardò come se non capisse perché doveva saltare dei giorni di scuola. “Non vuoi andare al funerale?”
Edward sussultò, non aveva minimamente pensato che ci sarebbe stato un funerale e che sarebbe dovuto andare a New York per qualche giorno.
“Vieni.” Gli tesi la mano e lo condussi nella mia camera. Era la stanza più piccola della casa, a malapena ci era entrato un letto a una piazza e mezza, la scrivania e l’armadio. Edward sembrò riempire il poco spazio residuo.
“È minuscola.”
Alzai le spalle. Era minuscola solo se confrontata alla sua, ma proprio perché era così piccola mi piaceva tanto. L’avevo scelta perché mi dava la sensazione di essere abbracciata dalla casa stessa e, in più, aveva l’assoluto vantaggio della privacy. Essendo l’unica stanza del piano, sottotetto, era isolata e bisognava per forza salire le scale per arrivarci. Non ci si poteva capitare davanti per caso.
La lettera mi pesava nella tasca della felpa.
“Sempre anticonvenzionale, vero?” Storsi il naso, facendolo ridere. “Però il pigiama esiste davvero.” Sollevò appena il tessuto appoggiato alla sedia. 
“Sono più prevedibile di quel che credi.” Presi la lettera e la posai sulla scrivania. 
“Dovresti bruciala, è un falso.” 
“Perché non provi a dargli una seconda possibilità?”
“Perché è un traditore bugiardo.”
Alzai gli occhi al cielo. Era così arrabbiato con se stesso e con suo padre da non pensare che entrambi fossero solo umani e potessero sbagliare. Il fatto che il dottore fosse venuto qui, a spiegarsi...forse non era davvero il mostro che Edward credeva. Se solo Edward gli avesse dato una possibilità...
“Non vuoi leggerla, allora?”
“Per quanto ne so, sono bugie che ha scritto mio padre.”
“E se così non fosse?” Decisi di giocare sporco. “Se fosse davvero di tua madre e le negassi la possibilità di spiegarti che cosa è successo, il suo punto di vista? Te lo perdoneresti?” 
Edward assottigliò lo sguardo, decidendo se arrabbiarsi anche con me. Capivo i suoi sentimenti contrastanti.
“Leggila tu.”

Caro Edward,
Approfitto di un raro momento di lucidità per scriverti. Le medicine mi tolgono i pensieri prima che possa metterli su carta e i momenti in cui mi sento me stessa sono così rari. 
Non sai quanta sia la fatica di esprimere quello che provo, il dolore alla testa sembra aumentare nel cercare le parole giuste.
Quando ho scoperto di questo grande male, in un primo momento ne ero terrorizzata. Poi, ne sono stata sollevata, quasi. Le mie azioni con tuo padre trovavano una giustificazione. Ma quello che ho fatto a te...quello che ti dissi quella notte maledetta...non posso perdonarmelo.
Volevo dirti che andava tutto bene, che capivo che volessi restare con i tuoi amici e invece le parole uscirono da sole dalla mia bocca, senza che potessi controllarle o frenarle. Parole velenose, non veritiere. Avevo deciso di tornare dalla mia famiglia, ma la mia famiglia eri tu.
Avrei voluto dirti quanto fossi orgogliosa e fiera di te. Eri il mio Cigno, dal manto splendente e immacolato.
Te lo dico adesso, sperando che nonostante la rabbia che provi verso di me, tu riesca ad di accettarlo.
Sono orgogliosa e fiera di te, del meraviglioso ragazzo che sei.
Mi hai reso una persona migliore, anche se ho dato il peggio di me proprio con te.
Sono felice che tu non sia venuto a New York. È una città troppo triste e grigia per un Cigno Bianco. Ti avrebbe solo sporcato il piumaggio, rovinando la tua anima pura, indurendola e gettandola via senza tanti complimenti. Sei nel posto migliore in cui tu possa essere.
Sono anche felice che fino all’ultimo non saprai della mia malattia. Tuo padre me lo ha promesso. Ha promesso che non ti dirà nulla e che questa lettera ti verrà consegnata solo quando sarò morta. 
Vorrei tanto rivederti, ma il solo pensiero che tu mi possa vedere in queste condizioni, mi distrugge. Sei arrabbiato e ferito per quello che ti dissi, ma almeno non devi vedermi deperire o comportarmi da estranea. 
Vorrei tenerti la mano e dirti che tutto andrà bene. Il solo ricordo della tua stretta mi sostiene nei momenti più difficili, allevia il dolore della malattia e delle terapie.
Ogni notte ti sogno. Sogno i nostri campeggi improvvisati, la tenda piantata nella radura in mezzo al bosco abbastanza lontano dalle luci della città. Sogno le notti stellate e il tuo telescopio. Lo portavi tutte le volte e tutte le volte mi chiedevi il nome delle stelle e il mito a esse legato. Li conoscevi tutti a memoria, ma mi pregavi e restavi con il naso all’insù per ore mentre te li raccontavo, finché non ti addormentavi. Voglio addormentarmi per sempre con queste immagini negli occhi. 
Sono stati i momenti migliori della mia vita. Oltre a quando ti presi in braccio per la prima volta.
Non essere toppo duro con tuo padre, non avrebbe mai potuto salvarmi. Tu non avresti mai potuto salvarmi. Il tumore è in punto che nessun chirurgo si sarebbe mai azzardato a toccare, anche se lo avessimo scoperto prima. Sono grata che così non sia stato.
Non essere toppo duro con tuo padre, ti prego. Abbiamo sbagliato entrambi. Siamo stati tanto innamorati, ma qualcosa nel tempo si è rotto. Forse eravamo solo troppo presi dalle nostre vite per curarci dei sentimenti altrui. Siamo stati egoisti. Tuo padre ha fatto solo il tuo bene a cacciarmi quella sera e io gliene sono grata perché so che tu sarai sempre al primo posto per lui.
Conosco il tuo animo buono e gentile. So che sarai furioso con lui. 
Carlisle ti vuole bene e anche lui ha sofferto per colpa mia. Non gli sono stata fedele e mi vergogno ad ammettere con te i miei errori. Spero solo che un giorno anche lui mi possa perdonare.
Perdonalo.
Perdona me.
Perdona te stesso.
Sii gentile con Esme, lei non ha colpe. 
Tuo padre ti dirà di concentrarti su un obbiettivo per tenerti impegnato e non pensare al dolore. Ma tu sei un sognatore come me. Guarisci sognando, non agendo. Prenditi del tempo per il lutto e poi vai avanti per la tua strada. Ti guarderò sempre dal cielo e ti proteggerò.

Ti amo con tutto il mio cuore.
Tua maman

p. s. Nella busta ho lasciato anche il mio anello, quello di famiglia che ti piace tanto. Quando troverai la tua donna del sud, daglielo e insegnale a guardare le stelle con te. Spero che sappia tenere testa alla tua parte Yankee.


Conclusi a fatica la lettera. Avevo le lacrime agli occhi che mi impedivano di leggere e la voce roca. Non poteva averla scritta il dottore, quello era il cuore di una madre messo a nudo.
Edward si era gettato con il viso nel mio cuscino. Non voleva farsi vedere piangere per la seconda volta. Gli accarezzai i capelli mentre i singhiozzi lo scuotevano, senza dire nulla. 
Quando alla fine, stremato dal pianto e da una probabile notte insonne, si addormentò, gli diedi un bacio tra i capelli e andai al piano inferiore.
Papà mi aspettava nel suo studio, come se sapesse che prima o poi sarei andata da lui.
“Come stai?” Mi chiese mentre mi sedevo sul divanetto, le mani incastrate sotto le cosce.
“Potrei stare meglio.”
“Edward?”
“Potrebbe stare meglio.”
Restammo in silenzio qualche minuto.
“Papà...”
“Edward è giustificato per un’assenza di due settimane. Ci sono delle cose a New York che dovrà sistemare con la famiglia di sua madre. Invece tu...ti voglio in classe mercoledì mattina.”
Lo abbracciai perché era il papà migliore del mondo.





p.s. dell'autrice: sincera? mi aspettavo qualche riscontro in più sullo scorso capitolo.
Detto questo, spero sempre di poter leggere la vostra opinione. 
a presto
Sara


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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


Buona lettura. Leggete le note in fondo!


CAPITOLO 20

Tre settimane.
Erano passate tre settimane dal mio rientro da New York e Edward era ancora in visita nella Grande Mela. Ogni giorno gli inviavo i compiti e gli appunti delle lezioni. Ogni giorno mi chiamava e parlavamo del più e del meno. Sembrava stare meglio e mi raccontava della Statua della Libertà, di Central Park o della tenuta della famiglia Masen negli Hamptons.
Tre settimane lunghissime. 
Non accennò mai, però, a quando avrebbe ripreso l’aereo. Nemmeno papà sapeva darmi indicazioni precise. Mi disse solo che il dottor Cullen aveva chiesto alla scuola un altro po’ di tolleranza. La situazione con la famiglia dell’ex moglie si era rivelata più complicata del previsto.
Pronta per un’altra giornata solitaria, chiusi l’armadietto e sussultai. Appostato dietro l’anta di metallo c’era, come ogni mattina, Jasper. Mi stupivo sempre di come comparisse senza far rumore e ogni volta venivo colta di sorpresa. 
“Ti spaventi proprio per poco.” Il mio sesto senso per i guai era andato in vacanza. O mi fidavo troppo di Jasper per considerarlo un pericolo. Alzai gli occhi al cielo e non commentai. 
“Pronta ad andare?” Ed ecco il comandante in seconda, Emmett, che sembrava aver fatto pace con il mio cognome. 
Io e le mie guardie del corpo ci avviammo lungo il corridoio. Mi scortavano ovunque, a qualsiasi lezione, Jasper alla mia destra, Emmett alla sinistra. Gli studenti si dividevano come il Mar Rosso al nostro passaggio, intimoriti dall’aura di potere che pervadeva ogni nostro passo. Ogni tanto si univano a noi anche Rosalie e Alice.
Davanti alla mia classe, mi fermai e li affrontai, contrariata, come ogni mattina.
“Questa è stata è l’ultima volta che voglio vedere il vostro brutto muso la mattina presto.” Sibilai a denti stretti. L’élite non poteva litigare apertamente.
“Swan, non fare la difficile.” Scoccai un’occhiataccia a Emmett che fece un passo indietro. Peccato che il generale non fosse altrettanto d’accordo a cedere terreno. 
“Queste vostre manie devono finire, so badare a me stessa.”
“Isabella.” Oh oh, tono da predica in arrivo. “Ti costa tanto lasciarci fare come vogliamo?” Annuii e feci notare che rischiavo sempre di arrivare in ritardo a lezione a causa loro. “Abbiamo perso il nostro quarterback.” Temporaneamente perso, avrei voluto precisare. Ma il groppo che sentivo in gola, mi fece tacere. 
“Il sostituto non è così male. Avete vinto la scorsa partita.”
Emmett e Jasper di scambiarono uno sguardo complice e sconsolato. Per essere la sorella del precedente quarterback e la ragazza dell’attuale, non capivo proprio nulla di football. Né andavo a vedere una sola partita. 
“Abbiamo vinto per il rotto della cuffia, perché gli avversari erano delle pippe e perché io e Jasper abbiamo preso in mano la partita. Ecco perché abbiamo vinto.”
“La prossima settimana perderemo sicuramente se non torna. Dobbiamo sfogare il nervosismo.” Gli mancava il loro amico. E io ero un buon diversivo. “Lasciaci fare quello che ci pare.” Sbuffai alle parole di Jasper. “Piuttosto. Fino a quando tollererai la sua assenza?”
Già, mancava anche a me. Mi aveva fatto provare qualcosa che nemmeno comprendevo bene e il mio cuore soffriva per la lontananza. 
“Aspetto i vostri appunti a fine giornata.” E me ne andai in classe.

Respiro e concentrazione. Piedi ben piantati a terra. Braccia tese, corda tesa.
Scoccai l’ennesima freccia in un centro perfetto.
Mossi il collo a destra e sinistra. Erano mesi, dalla fine della scuola, a giugno, per l’esattezza, che non venivo al poligono per tirare con l’arco. Usavo l’arco come valvola di sfogo per sopportare le angherie a scuola e da quando...da quando Edward era entrato nella mia vita, cambiando da carnefice a...qualunque cosa fosse, non avevo più sentito la necessità di sfogarmi. Quel sabato mattina, invece, avevo ripreso quella sana pratica, e mi sarei dedicata solo a tirare, tirare e tirare, finché non mi avessero fatto male le braccia.
I miei muscoli protestarono, indolenziti dallo sforzo. 
La quadra di football aveva perso. Una sonora batosta, a quanto aveva detto papà.
Presi un’altra freccia e la incoccai. 
Un respiro, due respiri. Lasciai andare la corda, ma sbagliai completamente il bersaglio perché venni distratta dal cellulare che suonava.
“Merda.” Risposi mentre andavo a prendere le frecce e cambiare il bersaglio, ormai forato.
“Ehi, bell’Anatroccolo, che fai?”
Edward. Il mio cuore mancò un battito. 
“Esercizio fisico.” Rise.
“È così impossibile pensare che mi stia allenando?” Ribattei più acida del voluto.
“Sei arrabbiata.” Era una constatazione. Sì, ero arrabbiata perché non tornava. Ero arrabbiata perché mi sentivo una sciocca innamorata e abbandonata. Ero arrabbiata perché non era qui con me.
Addolcii il tono perché sapevo che se restava a New York era per stare vicino ai parenti della madre e per cercare il più possibile di ricordarsi di lei.
“Scusa. È stata una settimana pesante.”
“Quante cose non so di te, Bella. Che sport pratichi?”
“Tiro con l’arco.”
Rise di nuovo e quasi mi unii a lui perché pensare a me con in mano una freccia, con i miei problemi di equilibrio era davvero divertente. Ovviamente era stata zia Sue a spingermi a praticarlo. Pensava che avrebbe migliorato il mio portamento goffo e stabilizzato il mio equilibrio. Peccato che solo quando ero concentrata al massimo non mi facessi male con la corda tesa e centrassi il bersaglio.
“Vorrei proprio vederti.”
“Torna e ti mostro quanto sono brava.”
“Bella...” Ormai accennavo al suo ritorno a ogni conversazione. E ogni volta mi rispondeva triste che non era ancora il momento.
“Sì, sì lo so.” Tagliai corto. Non mi andava di sentirmi in colpa perché mi mancava.
“Vorrei essere lì con te.”
Guardai il bersaglio. In qualche modo era lì con me. 
“Sappi che passavo molto tempo al poligono l’anno scorso. Mi ha sempre aiutato a sfogarmi. Invece i tuoi amici si stanno disperando. Avete perso malamente.”
Ammise di aver parlato con Jasper.
“Potrei proporre anche a loro di scoccare qualche freccia. Di tue fotografie ne ho ancora parecchie.”
Presi la sua fotografia dell’annuario che avevo ingrandito e la posizionai sul bersaglio. 
“Vado, Edward. Fatti sentire.” 
Chiusi la chiamata perché stavo troppo male a parlare con lui, con il suo bel viso davanti agli occhi e una voglia matta di bucherellargli di nuovo la faccia.

Le mani mi tremavano, oltre ad essere sudaticce.
Vai a riprendertelo, tesoro.
Erano le uniche parole che mi aveva detto mamma quando come una furia ero entrata in casa. A lei era bastata un’occhiata per leggere sul mio volto che intenzioni avessi. 
Era sabato e avevo prenotato il volo di ritorno per la domenica mattina. Meno di ventiquattro ore per convincere Edward a tornare con me, ma non mi sarei mai umiliata a implorarlo, farlo sarebbe stata solo una perdita di tempo. Se avesse scelto di restare ancora a New York, per me sarebbe potuto anche restarci tutta la vita e non farsi più vedere.
Approfittai della distrazione del portiere ed entrai nell’atrio del bel palazzo dell’Upper East Side, fiondandomi verso gli ascensori. Temevo che la mia presenza non fosse gradita e allo stesso tempo volevo cogliere di sorpresa Edward.
L’ascensore impiegò solo due minuti a raggiungere i tre piani dedicati all’appartamento di nonna Masen. 
Suonai il campanello, le mani sempre più sudate e tremanti. Mi aprii il lacchè dei Masen, lo sguardo arcigno. Non mi piaceva Mike Newton, lo trovavo troppo pomposo. Anche Edward sembrava sopportarlo poco, forse perché gli faceva da babysitter ogni estate e così sua madre finiva per sapere sempre esattamente tutti i guai che combinava.
“Desidera?” Mi guardò come se fossi un insetto e un’estranea. Ci eravamo conosciuti al funerale, eppure voleva ignorare a tutti i costi la mia esistenza.
“Devo vedere il signor Cullen.” Inarcò le sopracciglia. Non mi avrebbe fatto entrare, glielo leggevo in faccia.
Vai a riprendertelo, tesoro.
“Spiacente, non è in casa.” Fece per chiudere la porta, ma inserii, senza nemmeno sapere io come, un piede nella fessura e lo costrinsi a riaprire la porta. Avevo sopportato abbastanza bastardi nella mia vita per non perdermi d’animo. Mi resi conto, con un certo stupore, che sapevo combattere. E per riavere Edward a casa avrei combattuto con le unghie e con i denti.
“Lo aspetterò all’interno, se non le spiace.” Il disprezzo gli si leggeva in faccia. Oh, mio caro lacchè, non hai ancora visto che cosa può fare una donna del sud se vuole il suo uomo, pensai.
“Mike?” 
Vedevo nello spiraglio rimasto aperto, la nonna di Edward che ci osservava.
“Falla entrare. Portaci un caffè nel salottino.”
Perfetto, voleva giocare con le buone maniere: ero una campionessa, grazie a zia Sue.
“Non si disturbi, signora Masen, voglio solo parlare con Edward.” Lei mi ignorò e aprì una porta in un chiaro invito a entrare. “Preferirei del tè, se non le spiace.”
Ovviamente arrivò solo il caffè. Ne presi lo stesso una tazza, per non essere scortese.
“Esattamente, cosa ti porta qui?”
“Voglio vedere Edward, signora.”
Vai a riprendertelo, tesoro.
Sollevò il sopracciglio, scettica.
“Voglio vedere Edward, devo parlargli.” Posai la tazza. Inutile fingere di essere interessata al caffè. Era sabato pomeriggio inoltrato, il mio volo sarebbe partito alle quattro della domenica mattina, non avevo tempo da perdere.
“E di cosa esattamente?”
“Credo che questi siano affari miei.” Riposi secca. Non avevo nemmeno tempo da perdere con inutili interrogatori.
“Voi ragazze del sud...” Disse sprezzante.
“Ne fa davvero una questione di provenienza? Non mi piace essere giudicata solo perché sono nata e cresciuta in Virginia.”
“Mia figlia voleva a tutti i costi essere una di voi e ha solo sofferto.” Già, il matrimonio di Elisabeth e Carlisle Cullen era naufragato nel rancore e nel dolore. “Non permetterò che mio nipote si invaghisca di una ragazzetta qualunque, moscia e senza spina dorsale.”
Avrei voluto stringere ancora tra le mani la tazza di caffè per non far vedere il tremore della rabbia che mi scuoteva. Cercai di mantenere salda la voce.
“Che problema ha, signora Masen?”
“I tuoi modi così falsamente gentili non mi piacciono, ragazza. Sei una serpe pronta a colpire, come ogni ragazza del sud. Fingeresti di svenire se ne avessi un tornaconto, a voi importa solo dei soldi e dello status sociale.”
“Ebbene, signora Masen, si dimentichi quello che sa delle ragazze del sud. Perché io non sono una ragazza del sud molto convenzionale.”
“No, tu sei una Yankee mancata.” A me mancarono fiato e parole quando mi voltai verso la porta che avevo appena varcato. Edward mi stava osservando, la testa inclinata, il corpo mollemente appoggiato allo stipite. “Forse un giorno, nonna, ti dirò un paio di cosette su Isabella Swan che ti faranno cambiare idea.”
Scattai in piedi mentre lui mi raggiungeva con passo fluido. I nostri occhi si incatenarono e non ci fu altro oltre al suo volto per me. Edward si sporse verso di me e mi baciò, così davanti alla nonna che emise un singulto.
“Mi sei mancata.”
Edward mi prese la mano per andare nella sua stanza. Alla soglia mi voltai verso l’anziana signora.
“Di una cosa può star certa, signora Masen. Io non sono fatta per piegarmi o rinunciare. Buona giornata.”
Edward non mi lasciò il tempo di chiudere la porta alle mie spalle perché iniziò subito a baciarmi.
“Mi sei mancata.” Ripeté.
“Beh, potevi sempre tornare.” Non gli diedi il tempo di aprire la bocca, questa volta mi avventai io su di lui. Mi era mancato più di quanto osassi ammettere.
Quando ci staccammo avevamo il fiatone.
“Mia nonna mi sta facendo pressioni perché finisca il liceo qui. Sono l’unico nipote e l’unico legame con la figlia. Mio zio,” Uno stronzo, aggiunsi io mentalmente. E la moglie era anche peggio. “É deciso a tenermi sotto controllo, forse teme che gli rubi i soldi da sotto il naso.” Aspettai che continuasse, poi avrei parlato io. “Mia zia vorrebbe l’anello di famiglia.” Quello che Elisabeth aveva lasciato al figlio? Una richiesta di pessimo gusto. Lo avevo detto che quella donna era anche peggiore.
“Hanno la tendenza a volerti controllare, sbaglio?” Fece un piccolo cenno del capo. Mi accarezzava i capelli, le guance, il collo, il seno, facendomi perdere il mordente. “Smettila.” Mi allontanai dalle sue mani tentatrici e mi spostai verso la finestra, oltre il letto.
“Sono venuta a dirti solo una cosa, Edward. Non me ne frega niente di essere giudicata male dai tuoi parenti, anche se non capisco bene come tu faccia a sopportarli. Io sono qui per te. Sono venuta per riportarti a casa, anche a calci in culo se serve. Ti ho lasciato i tuoi tempi, il tuo spazio, ma anche io ho bisogno di te, a casa. Perché non è giusto. Non è giusto che prima mi fai innamorare perdutamente di te e poi sparisci così.”
Mi portai le mani alla bocca, ma ormai lo avevo detto. La mia cotta adolescenziale si era trasformata in amore e ormai ero innamorata persa di Edward Cullen. 
Lui aggirò il letto, venne a un soffio da me.
“Anche io sono innamorato di te, Isabella Swan.” Mi fece voltare verso la scrivania, dove c’era la sua valigia. Pronta. “Stavo per tornare. Perché anche io ho bisogno di te.”




p.s. dell'autrice: ecco la nota (dolente) finale. Per il mese di maggio mi sarà molto difficile pubblicare per impegni ultra mega importanti. Spero di potervi dare qualche capitolo qua e là, ma non garantisco la regolarità settimanale. perdonatemi, ma non posso davvero far altro.
pero continuerete a seguire la storia (non manca molto, davvero).
grazie per l'affetto dimostrato finora. 
a presto (spero)
Sara



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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


Scusate l'attesa.
Buona lettura.




CAPITOLO 21

“Baciami. Baciami ancora come se fosse l’ultimo bacio che mi dai.” Adesso che sapevo che sarebbe tornato a casa con me, potevo implorarlo e avevo i miei buoni motivi per farlo. “Pensi che a tua nonna dispiaccia se ci chiudiamo qui in camera?”
“Signorina Swan,” Mi disse fintamente inorridito. “Non la facevo così audace.”
Visto che pensava solo a fare lo spiritoso, presi io l’iniziativa, scattai veloce verso la porta, la chiusi a chiave e poi mi avventai su di lui. Quasi un mese di lontananza per me, che ero diventata dipendete dai suoi baci e dalle sue carezze, era un’eternità.
Ci trovammo a rotolare sul letto, presi dalla passione. Emisi sospiri di piacere così forti che Edward mi tappò la bocca con un bacio per non farmi sentire dagli altri abitanti della casa.
“Shhh, piccola, o ti sentiranno pure in strada.” 
In strada. Un barlume di lucidità mi riscosse dal vortice di piacere. Avrei continuato volentieri a dedicarmi alla terza base con Edward, ma ricordai fin troppo bene il motivo per cui ero stata così sfacciata.
Rimandai a un altro momento le esternazioni meno pudiche. 
Proposi quindi di salutare i Masen, cenare e andare direttamente in aeroporto. Avevo anche paura che Edward cambiasse idea, meglio uscire il prima possibile da quella casa. 
“Oh, ma c’è la piccola Rossella.” La zia di Edward nemmeno ci provava a essere carina con me. Mi aveva chiamato sempre così. Nei due giorni che ero rimasta con loro per il funerale; mi ero mostrata superiore, senza cedere agli insulti che sentivo bloccati sulla lingua.
“Camilla.” Nonna Masen non approvava la scortesia della nuora, anche se non le andavo a genio. Si vedeva lontano chilometri che adorava suo nipote e che avrebbe voluto tenerlo lì con sé per sempre. “Hai deciso di partire, Edward?” Il suo sguardo si spostò dalla nuora alle nostre mani intrecciate e infine sulla valigia pronta alle nostre spalle. Mi voltai verso il mio ragazzo che si passò la mano libera tra i capelli, colpevole. Non aveva detto ancora nulla alla nonna.
“La piccola Rossella è venuta a rimetterti il guinzaglio?”
Sospirai pesantemente. “Via col vento è ambientato in Georgia, non in Virginia.” Edward trattenne a stento una risatina. Alla zia andò di traverso la bile, tanto era verde.
“È ora che io torni a casa, nonna. Ho abusato fin troppo della tua ospitalità.”
“Non devi per forza vivere con tuo padre, se non vuoi. Qui hai una famiglia che ti vuole bene.”
Edward si fece avanti e prese le mani di sua nonna tra le sue. “Grazie di tutto. Ma non posso nascondermi qui ancora a lungo. Mamma...mamma non voleva che vivessi a New York e non credo di volerlo nemmeno io. È stato bello stare qui per un mese, mi è sembrato di stare vicino a mamma in qualche modo.” La nonna annuì, il dolore ancora fresco, ma addolcito dalla vicinanza del nipote.
“Inoltre ho perso fin troppi giorni di scuola.” Si voltò per farmi l’occhiolino. “Il preside mi ha garantito una certa libertà data la situazione, devo solo sostenere alcune verifiche.”
“Potrei farti ammettere domani stesso nella migliore scuola della città se tu lo volessi. Sei lo studente migliore della Virginia.” Edward sbuffò ridacchiando.
“Vorrei fosse così, ma temo di doverti deludere. È Isabella la migliore. Frequenta tutti i corsi avanzati dell’ultimo anno e si diploma con un anno di anticipo.” La signora Masen mi squadrò oltre la spalla del nipote. Per essere una Yankee ne aveva di pregiudizi. 
“Non credo proprio di esser più dotata di suo nipote. Faccio fatica a stargli dietro a biologia.” 
Lui tese la mano all’indietro perché la stringessi. Eppure la signora non si diede per vita e attaccò anche il titolo di Cigno Bianco. Ripensai alla lettera di Elisabeth, a come lei avesse compreso che il Cigno Bianco non era solo un titolo scolastico, ma qualcosa di più profondo, un’attitudine caratteriale e morale. Sarà stata anche di New York, ma aveva un’anima molto più del sud di quanto sospettasse la madre la quale conosceva davvero poco Edward e la nostra realtà.
Lungo le nostre mani intrecciate passò in silenzio la vecchia maledizione di famiglia.
“Nonna ti prego. Non rendere questo arrivederci ancora più difficile.”
Interruppi il pesante silenzio che si era creato.
“Ti aspetto all’ascensore, Edward.” Volevo lasciare loro un attimo privato per salutarsi a dovere. Io accennai freddamente un arrivederci alle due donne e mi avviai all’ingresso. Avevo solo fatto un passo in quella direzione che sentii dire dalla zia Camilla che Edward non doveva tornare in Virginia solo per seguire una gonnella. Aveva davvero un’alta considerazione dell’amore.
Mike Newton mi teneva la porta aperta per farmi uscire il prima possibile dalle loro vite. Avevo il terrore immotivato che volessero chiudere Edward in quella casa per sempre. Presi un biglietto sulla consolle del corridoio e vergai in fretta un breve messaggio per nonna Masen, restando nello spazio vuoto della porta, così il lacchè non avrebbe potuto chiuderla.
Quando Edward arrivò dopo cinque minuti, consegnai il biglietto a Mike e ce ne andammo.
“Baciami ancora, ti prego.”
“A cosa devo questa focosità?” Ridacchiò sul mio collo, le ombre scure che gli adombravano il viso per i saluti alla famiglia erano quasi sparite.
Il plin dell’ascensore mi tolse la possibilità di avvertirlo.
“Ce ne avete messo di tempo!”
Purtroppo Jacob era a casa quel week end e aveva fatto spuntare la sua testa dal soggiorno quando ero tornata dal poligono, insistendo per accompagnarmi a New York, non appena mamma mi aveva dato il permesso di partire. Voleva assicurarsi che non finissi nei guai e che almeno io tornassi a casa. 
Fratello stupido e iperprotettivo. 
In più papà aveva caldeggiato la sua presenza al mio fianco. Senza dubbio, si era rivelato almeno utilissimo nel distrarre il portiere del palazzo per permettermi di salire indisturbata sull’ascensore, ma sapevo che non avrebbe gradito troppe esternazioni affettuose da parte nostra. La fretta di andarmene dall’appartamento era dettata anche dal comportamento da cavernicolo di Jacob, che avrebbe potuto stendere il portiere, salire al piano dei Masen e buttar giù una serie di porte se avesse anche solo sospettato, giustamente, cosa stavamo facendo.
Le porte dell’ascensore si chiusero alle nostre spalle e fui costretta a guardare il brutto muso di mio fratello. Edward storse il naso. “Poteva essere un volo interessante.”
Mi venne quasi da piangere al pensiero del volo, funestato dalla presenza di Jacob.
Mio fratello, come previsto, cercò di tenerci il più possibile separati. Sul taxi spedì Edward vicino al taxista e al ristorante si mise tra di noi.
Eravamo seduti nella vip lounge dell’aeroporto, in attesa del nostro volo e Jacob si era allontanato per andare in bagno. Gli doveva proprio scoppiare la vescica se aveva deciso di lasciarci soli, senza trascinarmi con lui.
“Dormi, Bella.” La testa mi cadeva in avanti con scatti che mi svegliavano all’improvviso. Non erano passate neanche ventiquattro ore dal mio intenso allenamento al poligono. Era davvero troppo tempo che non ci mettevo piede e la fatica e l’acido lattico riempivano i miei muscoli che protestavano a ogni piccolo movimento. 
“Tu pensi davvero che io sia la migliore a scuola?” Domandai tra uno sbadiglio e l’altro.
“Meriteresti tu il titolo di Cigno Bianco. O forse no.” Edward mi fece accoccolare sulle poltroncine, le sue gambe come cuscino. “Tu sei un Cigno Nero. Sai che prima della scoperta in Australia, si pensava che tutti i cigni fossero bianchi? Tu sei l’evento inaspettato, imprevedibile e raro. Per questo sei la migliore.”
Avrei dovuto mettermi a piangere a questa dichiarazione, ma non ebbi la forza di far altro che sorridere debolmente sulle sue cosce muscolose. 
“Dorme, finalmente?” La voce possente di Jake mi arrivò attutita attraverso il velo del sonno. “Ai miei è preso un colpo quando l’hanno vista togliere l’arco dal ripostiglio.”
“...per tua madre.” La voce di mio fratello andava e veniva, come se fosse su una radio sintonizzata male e che trasmetteva solo la sua voce. Ma apprezzai che volesse conversare civilmente con il mio ragazzo. La mia coscienza fluttuava nel limbo dei sogni, al di qua e al di là del sonno profondo. Al di là quando parlarono di football, al di qua quando l’argomento ero io.
“Voglio solo sapere che intenzioni hai.”
“Non credo proprio che siano affari tuoi.” Edward manteneva un tono di voce vellutato che accarezzava i miei sensi, così come la sua mano accarezzava la mia schiena. 
“Tutto d’un tratto ti accorgi che esiste, le dai la tua maglia da quarterback e smetti di insultarla?”
“Dovresti esserne felice, no? Io e Bella abbiamo risolto i nostri...contrasti.” Jake disse qualcosa che non compresi e Edward sbottò. “Non riesci proprio a capacitarti del fatto che tua sorella mi piaccia? Il vero peccato è che in pochi sappiano quanto sia straordinaria.”
“Io devo proteggerla.”
“Tu devi rispettarla.” Temevo che si mettessero a litigare in mezzo alla stanza. Per fortuna c’erano pochi altri passeggeri vista l’ora. Involontariamente la mia schiena ebbe un sussulto. La mano di Edward si fermò per un secondo e poi riprese la sua carezza, come se avesse intuito che ero solo in dormiveglia.
“E tu la rispetti? Isabella è…insomma, ha poca dimestichezza con i ragazzi.”
“Oh beh, lo avevo intuito.” Jake poteva anche tenere la bocca chiusa, una volta tanto.
“È ingenua. Noi ci divertiamo con le ragazze Edward. Siamo indelicati, soprattutto con i loro sentimenti.”
“È indelicato parlare di tua sorella alle tre di notte, in aeroporto, con lei presente, anche se addormentata. Ma non stiamo parlando solo dei suoi sentimenti.” Lo sbuffo di Jake valse più di mille parole. “Davvero vuoi parlarne?”
“Noi ci divertiamo con le ragazze.” Ripeté mio fratello, come se il fatto di essere vergine inducesse Edward a stare con me per divertimento. Sprofondai nel sonno pur di non sentir più parlare della mia verginità.
Dormii forse cinque minuti, forse un’ora. Mi svegliai all’improvviso quando annunciarono il nostro volo all’altoparlante.
Jake stava chiedendo qualcosa circa il successore.
“Successore?” Chiesi con la voce impastata. Mi sentivo stordita e mi alzai a fatica dalle gambe di Edward.
“L’anno prossimo qualcuno andrà al college, no? Non si può lasciare il posto di Cigno al primo che capita.” 
Mio fratello alzò gli occhi al cielo perché non si capacitava mai della mia indifferenza per le tradizioni scolastiche. "Il sostituto del tuo ragazzo è un inetto, ha voti mediocri. Per me era stato facile scegliere.”
“Potrebbe anche essere una ragazza per una volta.” Feci notare, ma il sibilo di Jacob mi tolse ogni dubbio. Ah, il maschilismo intrecciato alle vecchie tradizioni famigliari.
Alzai le spalle, mentre Edward che se la rideva sotto i baffi, mi aiutò a rimettermi in piedi e recuperò il mio zaino, oltre che la sua valigia. 
Stupido uomo del sud.

Il nostro tavolo a mensa era troppo affollato per i miei gusti quel lunedì a mezzogiorno. Un’interminabile processione di strette di mano e condoglianze tali da indurre Edward a chiedermi di fuggire, la mano dolorante e il cuore pesante. Troppi commenti fuori luogo e sentimenti falsi.
In corridoio, gli strinsi delicatamente la sinistra e camminammo lenti, godendoci il silenzio.
“Infilzare qualche freccia...funziona?”
“Funziona se sai su chi indirizzare la tua rabbia, tipo bambolina vudù.”
“Hai qualche foto della Stanley?”
“Qualcuna. Dipende da quante te ne servono.” Ne avevo circa un centinaio, ma avrei voluto tenermene qualcuna di scorta. Il plico di quelle di Edward si era assottigliato parecchio il sabato precedente. Una era finita anche nel mio comodino. “Se becchi il naso sono cinquanta punti, la bocca cento, la fronte mille. Che ha fatto?”
La stronza, come al solito. Dopo l’allenamento prescolastico, perfetto a detta di Edward, il mio ragazzo era andato a prendere i libri al suo armadietto, i capelli ancora umidi di doccia, prima di raggiungermi al mio come stabilito.
Lì aveva però trovato Jessica in attesa. La voce del rientro del Cigno Bianco a scuola si era diffusa in fretta e lei ne aveva subito approfittato per sbarragli la strada, per accarezzagli in modo provocante il braccio, prima di singhiozzare il suo finto dolore per il lutto di Edward. Gli aveva offerto conforto, anche fisico.
Avrei totalizzato un bel punteggio, pensai vista la rabbia che quell’arpia riusciva sempre a suscitare in me. 
Strinsi di più la mano di Edward.
Quella stupida vipera. Forse avrei portato l’arco anche a scuola, stile amazzone selvaggia, e avrei messo una sua foto bucata sul suo armadietto. Bucata con una freccia in fronte. E che mi sospendessero pure, la soddisfazione sarebbe stata troppa. Forse avrebbe capito che non ci guadagnava nulla a sfidarmi o a cercare di prendere ciò che era mio.
Edward stava ancora troppo male per sopportare quei finti cordogli e lacrime ipocrite.
“Speravo venissi a salvarmi.” Disse rivolgendomi un’occhiata da cerbiatto ferito.
“Un uomo del sud come te che non sa difendersi?” Lo provocai ironica. “Sono stata trattenuta. Emmett e Jasper piangevano come femminucce perché sei tornato e volevano ringraziarmi. Ho offerto loro un fazzolettino.” Emmett mi aveva spintonato e i miei muscoli avevano emesso un gemito di protesta.
Riuscii a farlo ridere. “Anche il coach non scherzava stamattina.”
Avevamo mantenuto il segreto sul suo rientro e papà era stato una tomba con chiunque per fare una sorpresa a tutta la scuola. “Potrebbe anche farti una statua in mezzo al campo di football se sapesse che gli hai riportato il suo preferito.”
Restò in silenzio qualche secondo, l’eco della risata ormai lontana, prima che osasse chiedere quante fossero le sue, di foto.
“Quindi i miei mal di testa continui erano dovuti a te e alle tue frecce. Che bei punteggi devi aver fatto.” Sorrise timido e imbarazzato.
“Come i miei erano dovuti a te. Mi facevi impazzire e mi piacevi così tanto allo stesso tempo.” Confessai arrossendo come una scolaretta.
“Siamo stati lontano troppo a lungo. New York è stata una pausa non necessaria e decisamente troppo lunga.”
Scossi la testa. “Ne avevi bisogno. Tuo padre e tua nonna ne avevano bisogno.” Edward mi aveva raccontato della lunga conversazione, per una volta civile e sincera, avuta con il padre dopo che quest’ultimo era venuto, a sorpresa, a prenderlo in aeroporto. Si erano scambiati una rigida stretta di mano e un abbraccio non meno impacciato e erano andati a casa senza nessuna parola. Il dottor Cullen mi aveva solo sorriso e rivolto un cenno oltre la spalla, a mo’ di ringraziamento.
In quel gesto avevo rivisto così tanto del ragazzo al mio fianco che nemmeno di rendeva conto di quanto assomigliasse a suo padre.
“Ho fatto richiesta per Georgetown e per la Brown.” Mi annunciò Edward.
“Niente California o Boston?”
“Niente California o Boston.” Confermò.
“Peccato. Io ho fatto richiesta per la California o Boston.” Eravamo arrivati quasi alla biblioteca, nel corridoio testimone del nostro primo bacio. “Quando avremo le risposte, decideremo dove andare, insieme.”
Ci baciammo come era successo quasi due mesi prima.
“Spero tu non abbia impegni per Capodanno.” Osai chiedergli quando ci staccammo, senza fiato. “Avevo pensato di festeggiarlo insieme a Time Sqare.” Proposi con nonchalance. Dovevo confessare tutto d’un fiato per non perdere il coraggio della mia bravata. Non era facile con la sua bocca a pochi centimetri dalla mia. “Potrei aver promesso a tua nonna che saresti tornato a farle visita per l’anno nuovo.”
“Mi stavo giusto chiedendo quando me lo avresti detto. A nonna è preso un colpo quando ha letto il tuo biglietto e ieri mi ha chiamato per dirmi che le farebbe piacere ospitarci e che forse si è sbagliata su di te. Ha riso, come non faceva da un anno, leggendo che un’educata ragazza del sud di buona famiglia usa espressioni come a costo di prenderlo a calci in culo.”
Mi strinse di più nel suo abbraccio e soffocò le risate tra i miei capelli. Il bacio che seguì fu casto e pieno di tutto il nostro amore.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


Buona lettura

CAPITOLO 22

Posai la tazza di tè e ringraziai la mia ospite per la sua disponibilità, prima di congedarmi.
“Spero solo che Rosalie possa accompagnarmi per la scelta.”
“Sono sicura che ne sarà lieta.”
Mi alzai e tesi la mano alla signora Hale proprio mentre entrava Rosalie che, appena si accorse della mia presenza, mi fissò incuriosita.
“Grazie ancora, signora Hale.”
“È stato davvero un piacere Isabella. Salutami tua madre.” Un cenno del capo e mi avviai all’ingresso.
Rosalie mi tallonava, in attesa di spiegazioni. Non le avevo detto che sarei andata a bere il tè da sua madre, mentre lei era agli allenamenti delle cheerleader. 
“Cosa stai architettando?”
“Vieni a fare shopping con me e lo saprai.” Le risposi enigmatica e me ne andai.
Nell’ultima settimana, dopo il falò dei Malandrini, ero decisamente molto più sicura di me stessa. Avevo trovato ben nascoste nel profondo della mia anima, una forza e una determinazione che non immaginavo di avere. Aveva ragione mio padre, essere un parafulmine per gli studenti più deboli non era sufficiente contro i bulli. Dovevo agire, essere una Swan fino al midollo e combattere per la mia scuola e per chi non poteva farlo.
Già frequentare una star come il Cigno Bianco mi aveva infuso un po’ di coraggio, ma il falò...ripensai alla faccia di Jessica Stanley e sorrisi tra me e me.

La mia pausa pranzo era tranquilla. Io e Edward eravamo chiusi nella nostra bolla d’amore, rilassati sulle sedie, la conversazione piacevole e allegra, a tratti sussurrata e carica di promesse. Stavamo evitando le manifestazioni d’amore più plateali per non urtare mio padre, ci accontentavamo di tubare innamorati.
A ripensarci, era una pausa pranzo troppo tranquilla e troppo anomala. I nostri compagni di scorribande non si erano ancora fatti vedere e ci stavano regalando la pace. Le loro macchinazioni e i loro intrighi erano ben lontani da noi.
Ma lo dovevo sapere che non sarebbe durato a lungo. All’improvviso quattro vassoi vennero sbattuti con forza sul tavolo e del cibo schizzò dai piatti. Sussultai per la sorpresa e per la veemenza del gesto. Anche quando io e il mio ragazzo tubavamo in modo più deciso, gli altri non erano mai stati così incavolati neri.
“Sono stanco di questa situazione.” Jasper era forse il più scuro in volto dei quattro. Tentai di fargli presente che io e Edward non stavamo facendo nulla di male. “Oh, Isabella, non dire sciocchezze! Non hai sentito l’ultima bravata della Stanley?”
Io e Edward ci guardammo e alzammo in contemporanea le spalle. Decisamente non eravamo al corrente di tutti i fatti della scuola.
“Se stavamo aspettando l’occasione giusta per agire, questo è il nostro momento.” Rosalie poteva competere con il biondino per il titolo di generale. “Possiamo fargliela pagare, ingraziandoci tutta la popolazione studentesca.”
“Ok. Fermi.” Cercai di mettere un freno alla rabbia e alla guerra che stavano preparando. “Che ha fatto di preciso?” I quattro si scambiarono occhiate cupe. Fu Alice a rispondermi.
“Ha dato fuoco ai compiti di una ragazza che ovviamente si è beccata una D e un richiamo ufficiale perché non ha consegnato l’elaborato di storia.”
Emmett sospirò. “La poveretta si è rifugiata in bagno e non vuole uscire. Non smette di piangere perché teme l’ira dei genitori, ma non vuole nemmeno andare dal preside.”
“Quale bagno?” Chiesi, alzandomi. L’avrei convinta io a denunciare quell’arpia. Edward e gli altri abbandonarono i loro piatti e mi seguirono.
Trovai Maggie O’Shea in lacrime, rannicchiata in un angolo, consolata da una sua amica che le accarezzava i capelli cercando di calmarla. Rimasi spiazzata dalla sua fragilità e mi ritornò in mente in discorso che mi aveva fatto papà qualche mese prima. Non avevo protetto i miei compagni dai bulli perché non avevo insegnato loro a combattere e a ribellarsi. Mi sedetti vicino e cercai di parlarle con dolcezza, cercando di consolarla e di spronarla a denunciare Jessica, perché venisse punita, come meritava. Ma Maggie continuava a scuotere la testa e a dire, tra i singhiozzi, che non poteva mettersi contro l’ape regina. 
Ogni mio tentativo fu vano. 
“Io...io non sono come te.” Mi disse.
“Puoi esserlo. Ti accompagno io dal preside.”
Negò con il capo chino. “Non può mettersi contro di lei.” Ripeté l’amica.
“Perché lo ha fatto?” Chiesi alla ragazza. Da Maggie non avrei avuto più una sola parola. Era troppo turbata e il pianto aveva ripreso intensità.
“Maggie non ha svolto bene i suoi compiti e ha preso una misera C.” Mi rispose l’amica.
Emmett e Jasper si scambiarono una rapida occhiata, tentando di non farsi notare.
Maggie ululò e dovetti resistere all’impulso di tapparmi le orecchie. La ragazza vicino a me non poteva svolgere i compiti di quell’arpia, era solo al secondo anno. Una C era già un risultato apprezzabile.
“Jessica ha detto che...” Jasper intervenne, interrompendo la ragazza, e ribadendo che Jessica doveva essere denunciata, anche perché mio padre era su tutte le furie per il cestino della carta andato a fuoco.
Emmett voleva completare la frase della ragazzina, ma si beccò una gomitata nello stomaco dal biondo.
“Cosa ha detto?” Assottigliai lo sguardo perché sapevo che c’era qualcosa che non erano intenzionati a dirmi. Infusi tutta la mia volontà in quella singola occhiata, per piagarlo al mio volere. Era l’anello debole in quella conversazione. Voleva dirmi tutto, dovevo solo insistere.
“Ha detto che Maggie doveva solo dare la colpa a te. Se tu non avessi smesso di farle i compiti, lei non avrebbe dovuto trovare una sostituta e ora i compiti di Maggie sarebbero salvi.” Ancora una volta l’amica di Maggie intervenne.
Emmett si guadagnò due gomitate nello stomaco, una da Edward, l’altra da Jasper.
Lasciai che l’amica di Maggie si occupasse di lei e andai alla mia lezione successiva, pensando a quanto era successo.
A biologia, Edward interruppe i miei pensieri.
Mi arrivò un bigliettino appallottolato. 
Non è colpa tua.
E ribadì il concetto mentre andavamo a casa, ma io mi sentivo sempre più turbata. Non solo non avevo sconfitto Jessica, ma lei si stava rifacendo sui miei compagni. Come potevo permetterlo?
A cena, mio padre mi chiese se sapessi qualcosa di cestini bruciati e compiti andati in fumo, ma rispettai la volontà di Maggie e mi chiusi in un silenzio carico di sensi di colpa. La notte passò senza che potessi chiudere occhio. 
Il giorno dopo, con le occhiaie che arrivavano fino al mento, radunai la squadra di complottisti nel mio bagno prima dell’inizio delle lezioni.
“Dobbiamo fare qualcosa.” Dissi loro. “Pensateci, è il momento giusto per agire. Ha esagerato questa volta.” Erano indecisi sul da farsi, così diedi loro appuntamento all’ora di pranzo per esporre le nostre idee di vendetta.
Peccato che i loro piani fossero irrealizzabili, senza coinvolgere il preside.
“Io la spia non la faccio.” Emmett aveva tentato per tutto il tempo di convincermi a parlare con mio padre.
“E allora Jessica deve essere umiliata davanti a tutti.” Rosalie prese la parola. “Deve essere qualcosa a cui l’intera scuola possa assistere.”
“Non faremo niente nei corridoi o la sospensione ce la becchiamo noi.”
“Insomma, Isabella, cosa proponi, allora?” Jasper era esasperato per le mie continue bocciature ai suoi piani.
“Venerdì c’è l’ultima partita di campionato.” Edward era rimasto in silenzio per tutto il tempo. Si guadagnò tre sguardi fulminanti. Per noi ragazze non era proprio il caso di pensare al football in quel momento.
I ragazzi, invece, sembrarono rianimati. Parlottarono tra loro, senza metterci al corrente della loro idea. 
Jasper finalmente si degnò di rivolgersi anche a noi.
“Venerdì è il giorno giusto per agire, ma come?” Si prese il mento tra le mani, come un generale che sta pianificando la strategia.
“Un modo c’è, ma Bella deve essere d’accordo.” 
“Non ho intenzione di fare nulla che...”
Edward si avvicinò a me e mi baciò. “Se sarai tu a punirla, lo smacco sarà doppio. Devi solo essere te stessa.”
E così decidemmo i dettagli, Jasper e Alice si incaricarono di organizzare il tutto e studiarono la serata nei minimi dettagli. L’idea non mi piaceva per nulla, ma Edward mi assicurò che sarebbe stata una serata perfetta.
Dopo la partita, per festeggiare il trionfo della squadra, vincitrice del campionato, si sarebbe tenuto il tradizionale Falò dei Malandrini, una specie di festa goliardica, con falò ovviamente, con l’obbligo di indossare delle maschere.
“Una specie di Martedì Grasso, insomma.”
Il mio ragazzo si concesse un ghigno. “Sì, qualcosa del genere.”

Mi ritrovai ad assistere, senza voglia, con l’ansia che mi faceva martellare il cuore nel petto, alla prima partita di football della mia vita. Mi accompagnò persino Jacob, rientrato appositamente per l’ultima di campionato. Era rimasto con il muso lungo per tutta la cena perché sarei andata alla partita. Per lui non avevo mai fatto uno sforzo simile. Mentre andavamo allo stadio, non mi disse una sola parola se non per chiedermi, con studiata casualità, se sarei andata al falò. Uno sbuffo, come risposta, fu per me più che sufficiente. Non mi interessava quali risvolti sociali potesse avere andare al falò, o quali film mentali si stesse facendo Jacob.
Io avevo solo accettato di attuare la vendetta contro Jessica, poco mi importava di quel fuocherello dal diametro enorme che avrebbe potuto incendiare tutta la città. Sul posto, per fortuna, sarebbe stata presente una squadra di volontari di vigili del fuoco. 
“Pronta?” Edward mi posò un braccio attorno alle spalle, fresco di doccia dopo che la squadra aveva sonoramente battuto gli avversari. Jacob era in visibilio per la vittoria e aveva dato fondo a tutto il suo fiato per il tifo, cercando al contempo di spiegarmi ogni azione. Io avevo ascoltato piuttosto disinteressata, cercando di trovare la calma per attuare il piano dei congiuranti. Mio fratello era ancora troppo esaltato per notare il mio nervosismo e per dire alcunché quando salii in macchina con Edward, invece che con lui.
“Tieni.” Edward mi porse una maschera. “È la più semplice che ho trovato per non ostacolare la visuale.”
Mi rigirai la semplice mascherina di pizzo nero intagliato.
“Tranquilla, andrà tutto bene.” Edward mi strinse una mano, con fare rassicurante.
“Ci sarà tutta la scuola. E anche Jake.” Mormorai dando voce alle mie paure. 
“Ma ci sarò anche io con te.” Strinse più forte la presa sopra il mio ginocchio e mi fece il suo sorriso mozzafiato. Spense la macchina e mi distrasse dai miei pensieri con un bacio. “Cerca di divertirti, stiamo pur sempre andando a una festa.”
“Io non vado mai alle feste.” Borbottai poco convinta. Edward alzò gli occhi al cielo. Sapevo che non capiva come avessi potuto vivere così fuori dal mondo scolastico per ben tre anni.
“Quando sarà il momento, pensa solo a che lezione darai a quella maledetta zanzara.” Mi strappò una risatina e scesi più serena dalla Maserati.
Jake, il volto nascosto solo da una mascherina argentata, era nel suo elemento e festeggiava con chiunque gli capitasse a tiro, ignorando per lo più la mia mano intrecciata a quella di Edward. Forse le rassicurazioni sussurrate in aeroporto lo avevano convinto a darci tregua.
O forse la rassicurazione che fossi ancora vergine.
“Venghino, gentili signori e dolci donzelle, è ora dei giochi!” Jasper, con una macabra maschera da medico della peste, urlava con un megafono a tutti i partecipanti, metà dei quali ubriachi, di avvicinarsi al falò per assistere ai giochi offerti dalla popolazione studentesca. Era lui il gran cerimoniere, aiutato da una solerte Alice che gli faceva da spalla, commentando, con ironia e un vocabolario desueto, i compagni.
La squadra di football sfilò, con il sottofondo della banda che suonava la colonna sonora di Momenti di Gloria. 
“Spacconi.” Sussurrai e Edward, tornato al mio fianco, rise.
Poi fu il turno delle cheerleader che intrattennero il pubblico con piroette e acrobazie. Oltre che a una impressionate piramide umana.
Visto che era un Carnevale, si erano appositamente formate delle finte squadre di football e di cheerleader che presero in giro quelle ufficiali, facendo pose esagerate e saltelli imbarazzanti. Ma tutto faceva parte del rovesciamento dei ruoli. 
Qualche altro studente fece del suo meglio con giochi di prestigio e scenette comiche. Non sapevo che i miei compagni di classe avessero così tanti talenti nascosti. 
Infine, fu il momento del gran finale. Il mio gran finale. Se il mondo poteva capovolgersi per una notte, allora anche il Brutto Anatroccolo poteva sconfiggere l’Ape Regina.
Jasper annunciò la mia performance, tacendo cosa avrei fatto, anche se il bersaglio era un chiaro indizio.
Calò il silenzio mentre affiggevo il mio bersaglio e mi allontanavo a sufficienza. Edward mi porse la patella per proteggere le dita, il parabraccio e il paraseno. Poi mi diede arco e frecce.
La squadra di football si strinse in un cordone di sicurezza per impedire che la folla di intralciarmi. 
Mossi il collo a destra e sinistra per rilassarmi. Il mio ragazzo mi baciò davanti a tutti e nel silenzio generale risuonò un grugnito e vari insulti, tutti di Jake. La tensione sembrò stemperarsi un attimo e la folla ridacchiò. Qualcuno sussurrò la sua preoccupazione sulle mie capacità e tutti si spostarono alle mie spalle, allontanandosi dal cordone umano dei giocatori.
Presi l’arco e una freccia. Tesi la corda. La rilasciai perché mi tremavano le mani per l’ansia. Mi diedi della sciocca e trassi un profondo respiro escludendo tutti i presenti dalla mia mente. Per me esisteva solo l’arco, la freccia incoccata e i compiti della Stanley appesi al bersaglio. L’arpia aveva visto che i suoi fogli erano scomparsi dal suo armadietto, forzato nel pomeriggio da un Emmett abile scassinatore?
Liberai la mente da qualsiasi pensiero e mi concentrai al massimo, piantai bene i piedi nel terreno per avere più stabilità e mi ritrovai sola con il calore del fuoco vicino al viso. Nemmeno la mascherina era d’intralcio.
Notai appena la folla trattenere il respiro come un solo uomo quando rilasciai la corda. Durò solo qualche secondo prima che esplodesse in un turbinio festoso e io mi rilassassi. 
Edward mi prese l’arco e mi strinse in un abbraccio folle, facendomi vorticare tra le sue braccia.
“Stupenda, stupenda!” Continuava a ripetere e io mi rilassai davvero, ridendo come una pazza.
Alice, saltellando come un folletto degno della maschera che indossava, andò al bersaglio e staccò la freccia.
“Signori e signore, questi sono dei compiti. Jessica? Jessica Stanley?” Chiamò guardandosi attorno nella folla. Calò di nuovo il silenzio mentre il sibilo infuriato di Jessica fendeva la folla mentre lei si avvicina traballante sui tacchi. Dei tacchi su un campo di erba bagnata dalle recenti piogge e dai drink rovesciati e calpestata da studenti ubriachi, non sembravano essere stati una buona idea. 
Strappò i fogli dalle mani di Alice e li sventolò in aria. Il buco della freccia, ben visibile, aveva rovinato gran parte della sua grafia svolazzante.
“Stronza!” Mi urlò in faccia.
“Tranquilla Jessica.” Replicai serafica, mentre Alice mi porgeva la freccia. “Li abbiamo fatti correggere al tuo professore e ne abbiamo fatto delle copie.” Jasper ed Emmett presero a distribuirle. Le mani si allungavano per poterne prendere una copia, come se fossero caramelle gratis. “Sappi che ti sei meritata un inclassificabile.” Jasper le tese una copia con un bel voto in rosso sulla prima pagina. Io rigiravo la freccia tra le mani, soffermandomi a saggiare la punta acuminata, in un chiaro invito ad attaccarmi fisicamente. 
Lei si sprecò in insulti e sembrava volersi strappare i capelli per la rabbia.
“Questo è quello che ti attende. Ogni volta che tu farai un torno a un compagno di scuola, o che pretenderai che qualcuno ti faccia i compiti o brucerai un cestino della carta...ebbene sarai punita.” Mi avvicinai come una gatta al suo orecchio. “La prossima volta la freccia ti sgonfierà le tette in silicone.” Sbiancò e indietreggiò di un passo, portando istintivamente una mano al seno. 
Raccolse la poca dignità che le era rimasta, mentre la popolazione studentesca ululava il suo apprezzamento per le mie doti d’arciere e perché l’avevo fatta, finalmente, pagare alla stronza. Anche Jake si avvicinò per complimentarsi. Mi prese tra le braccia e mi fece volteggiare con meno grazia di Edward, rischiando di farmi vomitare. Urlava che ero la sua sorellina e nei suoi occhi vidi tutto l’orgoglio fraterno. 

Ovviamente, le ripercussioni non si fecero attendere.
Il giorno dopo venni convocata da zia Sue, sconvolta perché la nonna di Jessica aveva bocciato il mio abito per il ballo delle debuttanti a poco più di una settimana dall’evento. Aveva dovuto disdire l’ordine fatto alla sarta. Segretamente ne fui felice. Un abito di chiffon bianco, vaporoso, non era proprio nel mio stile.
La vecchia megera mi aveva anche impedito di indossare il bianco. 
Zia Sue voleva sapere che avessi combinato, era fuori di sé, anche se in realtà se la rise quando le raccontai la mia prodezza, complimentandosi con se stessa per avermi iniziato al tiro con l’arco.
“Dobbiamo scegliere un altro abito e un altro colore. Temo che la sarta non farà in tempo a confezionarlo.” Disse quando smise di ridere.
“Io avrei un’idea, zia. Mi basta l’approvazione di un membro del comitato giusto?”
Ero andata a parlare con la madre di Rose proprio per quello e anche se io odiavo lo shopping mi ero ritrovata con le mie due nuove amiche nella boutique più rinomata della città a scegliere un abito.
“Isabella!” Rosalie si stava spazientendo. Aveva trovato già da alcuni minuti il suo abito, rosso a sirena, e voleva che mi concentrassi per trovare il mio.
Ogni proposta della commessa veniva bocciata.
Anche Alice stava perdendo la pazienza.
“Non vanno bene.” Dissi loro. “Voglio qualcosa di unico, anche se non proprio adatto a un ballo.”
“Certo che per non amare lo shopping, ne hai di pretese.” Rosalie alzò gli occhi al cielo. “Questi” Indicò la carrellata di abiti bocciati “Hanno tutto quello che è richiesto.”
“Ma non vanno bene.” Ripetei.
La commessa, esasperata come le mie accompagnatrici, stava per stramazzare al suolo per la disperazione.
“Facciamo così. Troviamo un abito per Alice, poi ne riparliamo.”
“Rose me ne presta uno dei suoi.” Rispose la piccoletta, perplessa. Non volevo metterla in imbarazzo per essere un’orfana che viveva grazie all’assistenzialismo statale, ma dovevo attuare la seconda parte del mio piano contro le Stanley.
“No, Alice. Non va bene. Quest’anno debutterai anche tu, non sarai solo una volontaria.” Le due mi guardarono stralunate. “Ho chiesto alla madre di Rose di inserirti nella lista. Il vestito te lo regalo io, così non dovrò pensare ai tuoi regali di compleanno e Natale per i prossimi dieci anni.”
“Io...io non posso.” Alice era a corto di parole. Si torturava le mani.
Le presi le mani tra le mie.
“Permettimi di farlo. Voglio farlo, voglio che tu sia con noi quella sera. So che sai ballare e che puoi essere una grandiosa debuttante. Sarebbe stupendo essere tutte e tre in pista. Accetta per favore.” Annuì solo e ci dedicammo alla ricerca del suo abito. A un’unica condizione, che potesse contribuire alle spese dell’abito con i risparmi guadagnati dalle vittorie nelle competizioni di scacchi, perché non voleva rinunciare per così tanto tempo ai suoi regali di Natale.
Alice stava provando una serie di abiti argentati e io vagai per il negozio in cerca di ispirazione per il mio abito.
“Qual è il tuo piano?” Rosalie era comparsa alle mie spalle, di soppiatto. “Non ti permetto di far diventare Alice una tua pedina.”
“Se ero io la pedina, però, andava bene.” Le risposi con freddezza, senza voltarmi. “Voglio davvero che Alice debutti con noi.” Mi decisi ad affrontarla a viso aperto, tanto lo sapeva che avevo anche un secondo fine. “Il nostro obbiettivo principale è farla pagare a Jessica. Se lei sarà dei nostri, le assesteremo un duro colpo. Sua nonna perderà molto potere, invece tua madre ne acquisterà di nuovo. Cattureremo più di due piccioni con una fava e saremo tutti più contenti.” Intravidi nei suoi occhi una scintilla di pericolosa freddezza. 
“Le servirà un cavaliere.”
“Non ti preoccupare, ho già organizzato tutto io.” Edward aveva già iniziato con le ripetizioni di ballo.
“Sono ammirata, non pensavo che avessi così tanto fegato.”
Stavo per ringraziarla, quando vidi dietro le sue spalle, il mio vestito.





p.s. dell'autrice: nelle mie più rosee previsioni, questa storia avrebbe dovuto vedere la parola fine già agli inizi di maggio. Purtroppo non è stato così e mi dispiace, perchè è una storia completa e solo da revisionare. gli impegni sono tanti e gli imprevisti mi stanno rallentando.
posso solo ringraziarvi per la pazienza...
alla prossima
Sara


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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


Buona lettura



CAPITOLO 23

Sì. Ancora un pochino e ce l’avrei fatta. Solo un secondo in più e finalmente mi sarei addormentata. 
Stavo cercando di illudere la mia mente che in poco tempo si sarebbe finalmente abbandonata al sonno.
La suoneria del mio cellulare appoggiato sulla scrivania, mi fece tirare un sospiro di sollievo. Non dovevo più fingere di stare per addormentarmi: la mia mente, in subbuglio, e lo stomaco, stretto nella morsa dell’ansia, allentarono la tensione.
“Pronto?” Mormorai non troppo convinta, anche se potevo immaginare chi mi stesse chiamando alle tre della notte che precedeva il ballo delle debuttanti.
“Ehi piccola Swan.”
“Cullen, non hai di meglio da fare?” Sorrisi e mi sdetti sul letto. “Non dirmi che non riesci a dormire.”
“Immagino che quella che non riesce a dormire sia tu. Ma sì, sono stato fuori con Emmett e Jasper e mi sono liberato solo ora.” Alzai gli occhi al cielo.
“Devi davvero trovarti un hobby che ti riempia la vita.”
Edward rise. Forse ricordava come me la nostra prima conversazione telefonica notturna. In quell’occasione lo avevo mandato a quel paese senza troppe remore. Sembrava passata un’eternità. Tra poche ore mi avrebbe accompagnata al ballo delle debuttanti, l’impegno sociale numero uno per una brava ragazza del sud.
“Volevo solo sapere come stavi. Immaginavo che non stessi dormendo.” Grugnii una non precisata risposta, conscia del fatto che sapesse di aver ragione. “Sono sotto casa tua tra dieci minuti.”
“Edward! No! Edward!” Cercai in tutti i modi di trattenerlo al telefono, ma aveva già chiuso la conversazione. 
Passai i successivi sei minuti a fissare con la mente annebbiata il cellulare muto, ben sapendo che Edward non avrebbe mai cambiato idea e che, quindi, non potevo far altro che alzarmi, controllare che nessuno soffrisse di insonnia come me e aggirarmi come una ladra nella mia stessa casa. 
Scesi le scale il più silenziosamente possibile. Bello essere nella stanza più isolata della casa, tranne quando dovevi progettare una fuga d’amore e ogni gradino scricchiolava come le ossa di una vecchia signora decrepita.
Spiai dalle tende del soggiorno per vedere se Edward fosse già arrivato. Ovviamente trovai una Maserati blu sotto il lampione più vicino. Il suo proprietario, appoggiato alla portiera, alzò la testa proprio in quel momento, forse richiamato dal guizzo della tendina, o dalla mia presenza, e sorrise.
“Sei un pazzo. E io sono più pazza di te che ti sto facendo entrare.” Borbottai mentre passava dalla finestra. Non avevo avuto il coraggio di farlo entrare dalla porta principale che aveva la brutta abitudine di chiudersi sempre con un sonoro slam, soprattutto se si cercava di chiuderla con delicatezza.
“Dici che il preside Swan non gradirebbe?” Guardai in cagnesco il mio ragazzo per la battuta fuori luogo. Eravamo pur sempre due adolescenti in preda agli ormoni nella cucina del suddetto preside alle tre di notte.
“Ehi, piccola Swan...” Edward mi si avvicinò nel buio e mi distese con le sue abili e lunghe dita la ruga tra gli occhi. “Sono qui per intrufolarmi nel tuo letto, ma solo per farti dormire.” Mi disse serio. “Se ti mette a disagio agire alle spalle di papino, me ne vado subito.” 
Sospirai. Avrei preferito che fosse venuto per intrufolarsi nel mio letto ma non per dormire. “Attenta, piccola Swan. Conosco i tuoi pensieri libidinosi.” Avvampai, sperando che almeno il buio della cucina mi proteggesse dalle indesiderate reazioni del mio corpo. “Devi davvero dormire.”
“Sì...no…ecco…io…” Farfugliai monosillabi incomprensibili, finché non ebbe pietà di me e ridacchiando disse che se proprio avevo bisogno di rilassarmi per dormire era disponile a giocare qualche base. Non me lo feci ripetere due volte e, assicuratami che saltasse i gradini più rumorosi, lo trascinai in camera mia.

Mi stiracchiai soddisfatta, ripensando alle ore appena trascorse con Edward nel mio letto, le basi conquistate e le risate soffocate. Mi rigirai e per poco non finii con il culo a terra, Edward occupava più della metà del materasso.
“Cazzo.” Mormorai, sentendo un incipiente mal di testa pronto a colpirmi il lobo frontale. 
“Bella?” Sentivo lo sguardo del mio ragazzo su di me con quel suo sorriso un po’ storto e beffardo. “A cosa stai pensando? Non mi dirai che è stato un risveglio così brutto...”
“Un risveglio troppo brusco.” Replicai e mi azzardai ad aprire un occhio, che prontamente volsi verso la sveglia. Non mi sarei mai abituata alla sua perfezione. Era incredibilmente perfetto anche alle sette di mattina. Avevamo dormito sì e no tre ore e lui era impeccabile come sempre, i capelli scompigliati dal sonno gli davano l’aria di bello e dannato da film hollywoodiano. I miei, di capelli, erano sempre più simili a quelli di Medusa al risveglio.
Proposi di vestirci in fretta e ancora più in fretta di scendere a preparare la colazione, sperando che il sonno pervadesse la casa ancora per qualche minuto. 
Dalla cucina, purtroppo, si sentiva lo sfrigolare del bacon. Mamma stava cucinando la colazione dei campioni, bacon, uova e pancake. 
“Calma, Swan.” Edward mi massaggiò le spalle per togliermi la tensione. “Hai troppi pensieri.”
“Ho mal di testa.” Mi lagnai. “La mia mente mi sta punendo per stanotte.”
“La tua è una mente brillante e come tutte le menti brillanti soffre perché sono le più pensati da sopportare. Madre Natura ti ha dato un dono, ma te lo fa anche pagare a caro prezzo.”
Si guadagnò un’occhiataccia. Io ero seriamente preoccupata per la reazione dei miei genitori. 
“Possiamo sempre dire che sono passato all’alba a portarti una cosa.” Edward fece spallucce.
Azzardai a mettere un piede in cucina e mia madre si accorse di me, senza distogliere la sua attenzione dai fornelli.
“Puoi entrare, non ti mangio. E non mangio nemmeno il tuo ragazzo.”
“Mamma, io...”
“Credo che fossero le tre quando è arrivato, sbaglio?” Merda. Colta in flagrante. 
“Più o meno, signora Swan.” Edward sorrise e io gli pestai un piede. “Mi dispiace averla svegliata.” 
Mamma sventolò la mano senza guardarci. “Nessun problema, caro.” Ero allibita. Mi sarei aspettata una bella sfuriata. “Ero sveglia, è un gran giorno per Isabella e non riuscivo a dormire.”
Merda. Mi ero completamente dimenticata perché non riuscivo a dormire e Edward era passato a trovarmi. Da lì a poche ore avrei fatto il mio debutto ufficiale nella società adulta con un bell’abito da sera.
“Mamma...” Azzardai titubante.
“Sedetevi o si raffredda.” Mamma ci mise davanti un bel piatto pieno di cibo che spandeva il suo profumo per tutta la cucina. Il mio stomaco era chiuso al pensiero che presto si sarebbero uniti a noi anche gli uomini di casa. “Io mi fido di te, Isabella. Spero che tale fiducia non sia mal riposta e che tu non abbia commesso sciocchezze.” Le pareti della stanza mi videro arrossire per la seconda volta in poche ore.
“Tuo padre non sarebbe felice di sapere come hai trascorso la notte. Ma qui vigono le leggi del Figth Club.” Mia madre mi stava facendo l’occhiolino. Il mondo sarebbe crollato tra poco. “Non credere che tuo padre fosse un santo alla tua età.”
“Grazie, signora Swan.” Edward non si riferiva solo al cibo che si stava mettendo generosamente nel piatto.
“Oh, caro, chiamami pure Renèe.”
“Chi ti dovrebbe chiamare Renèe?” Papà fece il suo ingresso in vestaglia, sbadigliando. 
Mamma tornò ai fornelli, lasciando a me l’ingrato compito di affrontare il mio genitore più intransigente che ovviamente si fece di tutti i colori alla vista di Edward.
A nulla valsero le mie rassicurazioni sul fatto che il mio ragazzo fosse arrivato da poco in casa. Forse perché balbettavo e Edward rideva sotto i baffi. Papà ci guardò in cagnesco per tutta la colazione e rimase chiuso in un silenzio di ostinata disapprovazione.
“Signora Swan, una colazione divina. Grazie. Ora devo proprio tornare a casa, devo finire alcune commissioni per il ballo.”
“Renèe, Edward. È stato un piacere averti a colazione. Ci vediamo questa sera, caro.”
Accompagnai Edward alla porta, senza parole per il comportamento di mia madre.
“Ah, Bella. Ero venuto davvero per darti una cosa.” Edward si fermò davanti alla porta di casa ed estrasse una scatolina di velluto blu dalla tasca interna della giacca. “Consideralo un piccolo incoraggiamento per stasera.”
Presi scettica la scatolina e la soppesai, aveva l’aria preziosa. “Sai che non mi piacciono le sorprese e i regali costosi.”
Edward mi diede solo un bacio all’angolo della bocca, rivolgendo poi uno sguardo di sfida a mio fratello, appena apparso in fondo alle scale e pronto a intervenire con la clava in mano. 
E uscì di casa senza nessun’altra parola.

“Sei meravigliosa.” A zia Sue si riempirono gli occhi di lacrime quando mi vide comparire nel suo salottino preferito vestita di tutto punto.
“Approvi?” Chiesi facendo una piccola giravolta. L’abito non era proprio convenzionale.
“Non ti toglieranno gli occhi di dosso, stasera.”
“Ne farei volentieri a meno.” Risposi storcendo il naso.
Zia Sue aveva organizzato un pomeriggio per sole ragazze a casa sua. Estetisti, parrucchieri e truccatori si erano riuniti per preparare al ballo tre debuttanti. Mi aveva fatto piacere sapere che aveva invitato anche Rosalie e Alice a unirsi alle mie torture, almeno non sarei stata sola e potevo dividere con qualcuno le inopportune attenzioni di quello squadrone della morte. Solo lo sguardo eccitato e pieno di gioia della zia mi aveva convinto a non scappare a gambe levate. Per lei, che non aveva mai auto figli, era un momento importante e le si leggeva in faccia che era al settimo cielo.
Alle mie spalle fecero il loro ingresso anche Rose e Alice.
“Possiamo andare?” Chiese sbrigativa la bionda. Poi mi fissò perplessa. “Va bene fare l’anticonformista in tutto e per tutto, Isabella, ma almeno un gioiello potevi indossarlo.”
“Io non indosso gioielli.” Ma a nulla valsero le mie poteste. Entrambe le mie amiche si indignarono e si aggiunse anche zia Sue a dire che avevano ragione. 
Rose indossava una parure di diamanti che esaltavano la sua carnagione chiara e il vestito a sirena, dal vibrante colore rosso intenso, quasi purpureo. Alice, invece, aveva infine optato per un vestito acquamarina dalla profonda scollatura e la zia si era offerta di prestarle un ciondolo di smeraldo. La piccoletta aveva saltellato come un folletto per tutta la casa alla vista del pendente, promettendo di averne cura.
Io tutta quell’eccitazione non la capivo. Sentivo solo lo stomaco stringessi in un nodo da marinaio, resistente e difficile da sciogliere. La notte passata con Edward era un lontano ricordo.
“Questa volta, Isabella, mi devo impuntare. Hai scelto il nero e ti ho lasciato fare.” Zia Sue era stata fin troppo diplomatica quando le avevo mostrato il mio vestito. Aveva solo commentato che mi piaceva proprio sovvertire le regole perché il nero, pur essendo un colore da sera, raramente veniva scelto per il debutto. Ma io sapevo bene perché lo avevo scelto, perché una parte di me era ancora Isabella Black, il Cigno Nero. 
“Beh, peccato.” Presi il mantello e mi voltai verso l’uscita. “Non ho chiesto a mamma nessun gioiello e non ne voglio in prestito. Potrei perderlo.” Presi anche la mini borsetta che mi avevano detto essere un must alle serate di gala. Ovviamente mi cadde e si aprì sul pavimento, facendo rotolare fuori la scatolina di velluto blu di Edward.
“E questa?” Alice fu più veloce di me nel raccoglierla. 
Tesi la mano. “Devo restituirla al legittimo proprietario.” Mi dovevo aspettare che quelle tre, che avevano legato tra loro in pochissimo tempo, si alleassero ancora contro di me. Alice mi superò e mostrò il contenuto alla zia. “Edward ha fatto un errore di valutazione se pensa che possa accettare un regalo così costoso.”
Image“Isabella.” Il tono della zia era quello delle prediche. Mi sedetti sul divanetto di fronte a lei per ascoltarla docile. Tanto avrei reso il regalo, qualsiasi cosa mi avesse detto. “Credo che sia un’immensa scortesia rifiutarlo. Inoltre, non è troppo impegnativo come una collana.”
“Sono orecchini di diamanti, zia. Non sono proprio nel mio stile.”
“Per una sera puoi anche farlo diventare il tuo stile. Sono colpita dalla scelta della forma.” 
In un primo momento avevo riso anche io per il regalo di Edward. Erano dei meravigliosi orecchini a lobo formati da due triangoli sovrapposti, ricordavano immediatamente la punta di una freccia. Poi avevo osservato bene e fatto qualche ricerca. Erano diamanti veri e il loro prezzo contava troppi zeri perché li potessi indossare.
La zia sospirò, ma non mollò la presa. Anche le mie amiche mi diedero filo da torcere, ma il colpo di grazia me lo diede Rosalie. Secondo lei era come rifiutare l’amore di Edward. Quasi li strappai di mano alla zia e me li misi alle orecchie.
“Bene.” Disse la bionda malefica soddisfatta. “Possiamo andare.”





p.s. dell'autrice: io gli orecchini di Bella me li immagino così:


Sono un po' presa in questo periodo, ma spero di poter rispondere presto alle recensioni e di aggiornare il prima possibile.
Siamo quasi alla fine. Tenete duro!
Sara


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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


Buona lettura



CAPITOLO 24

Le mani erano sudate, il cuore palpitante. L’anfitrione della serata chiamava le debuttanti in ordine alfabetico. Alice e Rosalie mi avevano già lasciata sola e si erano dirette a testa alta oltre il tendone: senza incidenti erano arrivate in fondo alle scale dove il loro cavaliere le attendeva per portarle a bordo pista. 
Zia Sue era rimasta con me, comodamente seduta sulla poltrona messa a sua disposizione. Anche le altre madrine erano sedute su poltrone simili. Le debuttanti stavano loro accanto in silenziosa, ma tesa, attesa. 
La zia mi toccò lieve la mano e mi sorrise. Mi sporsi verso di lei e mi confessò che faceva fatica a trattenere il sorriso. Doveva stare molto attenta a non guardare verso Jessica e nonna Stanley.
“Come ti sia venuto in mente…” Zia scosse la testa. Io mi toccai istintivamente quei meravigliosi orecchini a forma di freccia. Con la coda dell’occhio vidi la mia acerrima nemica trasalire.
Nonostante la mia apparente sicurezza, stavo tremando. Mi attendevano ancora le scale e un ballo. Anche se il mio cavaliere mi conduceva in modo perfetto, sentivo che le gambe avevano una consistenza gelatinosa.
“Isabella Marie Swan.” Era arrivato il mio turno. Il patibolo per la mia pubblica esecuzione era scintillante e pieno di voci che avrebbero assistito alla mia auto decapitazione per la clamorosa caduta che sicuramente avrei fatto.
Zia Sue mi sorrise incoraggiante e mi avviai verso il tendone che mi venne scostato da una solerte volontaria.
Guardai spaesata tra la folla, accecata dai fari potenti che illuminavano la mia discesa.
Un passo.
Poi un altro, a testa alta, con orecchini di diamante che irradiavano anche più luce dei fari.
Un terzo passo e così via finché a metà scalinata, finalmente, non vidi il mio premio. Edward mi attendeva, serio e composto, un vero uomo del Sud. Sorrisi e mi dovetti trattenere dal corrergli incontro e gettarmi tra le sue braccia. Restai concentrata per non fare un gran ruzzolone, ma era davvero difficile mantenere il contegno.
Giunsi sana e salva tra le braccia del mio cavaliere mentre l’anfitrione ne annunciava il nome.
“Sei meravigliosa.” Edward ripeté le parole di zia e quasi ci credetti anche io. Mi baciò la mano e si complimentò con se stesso per la scelta degli orecchini. Mi condusse al limitare della pista, dove si erano già allineate le altre debuttanti. 
Vidi Alice, piena di energia e felicità, mano nella mano con Jasper e sorrisi. Magari avevo creato una nuova coppia. Mi sentii meno Cupido quando vidi il volto scuro di Rosalie. Due giorni prima del ballo le avevo chiesto carta bianca e che non si stupisse di nulla quel giorno. Avevo convinto sua madre a non farla debuttare con quel viscido di Royce King e le avevo trovato un altro cavaliere.
Emmett era un armadio e sovrastava la folla, e anche se la dama era poco felice dell’abbinamento, ero convinta di aver fatto la scelta giusta per lei. Non poteva sposarsi con quella serpe e noi avremmo assestato un colpo decisivo contro gli Stanley.
“Sei meravigliosa.” Ripeté Edward.
“Merito di questo straccetto.” Lisciai la gonna nera che lasciava intravedere gli strati sottostanti di diverse tonalità, dal grigio più chiaro a quello più scuro. La parte alta della gonna e tutto il corpetto erano impreziosite da un impalabile e finissimo pizzo che decorava il tessuto con volute che ricordavano il collo sinuoso dei cigni. E quel pizzo proseguiva, oltre lo scollo a cuore del corpetto, fino a formare un collo, quasi alla coreana. La schiena, invece era per la maggior parte scoperta. Non era solo il colore a essere stravagante, era tutto l’abito a suscitare i brusii che sentivo tra la folla dal mio arrivo, il nero non era certo il colore più gettonato. Molte sceglievano il bianco, come Jessica. Aveva di certo pensato di toglierlo a me per potersene appropriare, assomigliando più a una meringa senza carattere che a una ragazza. Altre puntavano sul colore per risaltare nel mare del bianco. Il nero...anche se elegante, era ritenuto fuori luogo. 
Zia Sue aveva puntato sul bianco per omaggiare il Cigno Bianco, io sul nero, come mia autocelebrazione. Un po’ arrogante da parte mia, ma anche la zia aveva concordato che potevo permettermelo per una volta.
Edward rise proprio mentre l’ultima debuttante arrivava vicino a noi.
“Prego i nostri gentili cavalieri di condurre le bellissime dame in pista. Benvenute nella nostra società, signorine.” Come da protocollo ci inchinammo leggermente al cerimoniere, in segno di ringraziamento.
“Sei pronta?” Deglutii a fatica, il nervosismo minacciava di sopraffarmi. “Tranquilla, conduco io.” Edward era rassicurante e quando la musica iniziò, ci muovemmo con le altre coppie. Sembravamo un corpo solo che danzava per tutta la sala. “Rilassati, stai andando bene. Mi hai pestato il piede solo una volta.” 
Guardai male il mio cavaliere che si permetteva di fare dell’ironia nel momento più inopportuno. 
Solo quando la musica finì e uno scrosciate applauso invase la sala, mi accorsi che avevo davvero ballato davanti a tutti senza rendermi ridicola.
“È…è già finito?” Domandai inebetita. Era durato meno di un battito di ciglia. O forse ero io che non mi accorgevo di quello che succedeva attorno a me, non quando Edward mi stava accanto e mi sorrideva innamorato. Aveva ragione, mi dovevo solo far distrarre, o meglio guidare, da lui e non avrei commesso passi falsi.
“Ne sei delusa?” Tutti i cavalieri si inchinarono alle loro dame. Qualche coppia, tra cui, notai con piacere, Alice e Jasper, restò sulla pista per un secondo giro di danze. “Spero che mi concederai un altro ballo prima della fine della serata.” Annuii entusiasta, mi piaceva ballare con lui. Ero al sicuro tra le sue braccia.
Venimmo raggiunti da Rose e Emmett che non si parlavano e si guardavano solo in cagnesco.
“Forse con loro hai esagerato.” Mi sussurrò Edward all’orecchio. “Emmett non sopporta molto la bionda.”
“Emmett non sopporta nessuno.” Replicai. “Non potevo lasciare Rose nelle mani di Royce King.”
Il mio ragazzo concordò. Quando era stato dato l’annuncio che il cavaliere della figlia del sindaco sarebbe stato Emmett McCarthy, aveva visto il cugino di Jessica impallidire e diventare livido nel giro di tre secondi. Edward aveva temuto che facesse una scenata e in molti lo avevano guardato sconcertati perché si era presentato sulla pista per prendere la mano di Rose che invece era stata prontamente afferrata dal giocatore di football. Il mio piano era riuscito anche meglio del previsto. Royce King aveva fatto una brutta figura, era stato escluso dal ballo e dalla vita amorosa della ragazza. La madre di Rose era stata, non solo molto disponibile a inserire Emmett al suo posto, ma anche sollevata dalla mia proposta di cambio cavaliere. Non approvava il matrimonio tra la figlia e il bell’imbusto di casa King. Inoltre lo smacco per la famiglia Stanley sarebbe stato totale. E anche Lilian Hale odiava nonna Stanley.
“Questa me la paghi.” Rose sibilò all’altro mio orecchio. “Potevi scegliere chiunque...chiunque.”
“È il primo che mi è venuto in mente.” Mentii. In realtà trovavo molto romantico che tre amiche fossero accompagnate da tre amici. “Prova ad andarci d’accordo, potrebbe sorprenderti...”
Edward mi trascinò di nuovo sulla pista prima che Rose potesse replicare.
“Un giorno si accorgeranno di quanto stanno bene insieme e mi ringrazieranno.” Affermai convinta.
“A King sembrava fosse andato di traverso qualcosa di acido, quando è stato annunciato Emmett. Come tu abbia fatto a convincerli, rimane ancora un mistero per me.”
“Mi dovevano un favore.” Gli avevo o no riportato a casa il loro amico? “E gli ho concesso di usare il mio bagno per le loro attività ludiche.” Avrei rimpianto per il resto dell’anno quella promessa. Sapevo già che non avrei più avuto indietro il mio personale rifugio.
“Anche io vorrei approfittare di quel bagno.” Mi sussurrò all’orecchio, dopo aver soffocato le risate. Io avvampai. “Sei meravigliosa quando arrossisci. E stasera sei più che meravigliosa. Sei la regina dei Cigni Neri.” Mi guardò ammirato. Sentivo il vestito fluttuare attorno a me e mi sentivo davvero una regina.
Questa volta più che ballare, dondolammo sul posto, stringendoci in un abbraccio pieno d’amore. Restammo in silenzio, godendoci il momento e escludendo tutti dalla nostra bolla.
Quando tornammo dai nostri amici, sembrava che le cose tra Rose e Emmett stessero andando meglio, non si parlavano, ma almeno non si guardavano più male, visto che stavano entrambi parlando con altre persone.
Emmett si accorse del nostro arrivo: non mi fece nemmeno sedere o prendere il bicchiere di sidro che mi stava offrendo Alice che mi trascinò sulla pista.
“Ehi!” Protestai, ma era tutto inutile. Lo scimmione era scuro in volto e non avrebbe sentito ragioni. Edward chiese cortesemente la mano a Rosalie. Stupido uomo del sud.
“Perché lei? Perché io?” Ah, Emmett voleva parlare lontano da orecchie indiscrete.
“Perché sì.” Ogni tanto lui gettava un occhio all’altra coppia che volteggiava vicino a noi. Io, invece, mi affidavo ai muscoli del mio cavaliere per non cadere. Una strana idea mi solleticò la mente. “Emmett...per caso...per caso, ti piace Rosalie?” Domandai con un luccichio di malizia negli occhi. Lui cercò di negare, ma lo pressai così tanto che alla fine confessò che Edward non era l’unico ad avere delle fissazioni in fatto di ragazze. 
“Il tuo è stato un colpo basso.”
“Un inconsapevole colpo basso, Emmett. Prova a essere carino con lei, offrile da bere...sorridi...” 
Ogni mio ulteriore consiglio venne stroncato da un biondo ricciolino che chiese di poter concludere con me il ballo. Mi pentii di aver scelto Emmett e Jasper come cavalieri per le mie amiche, altro che idea romantica. 
“Io...io ci proverò.” Emmett mi fece una gran tenerezza. Dentro di sé nascondeva un cuore davvero tenero da cavaliere senza macchia e senza paura. Viveva, però, questa bontà come un fardello e si trincerava dentro una pesante armatura di ruvido menefreghismo alternato a esuberanti spacconerie. 
“Forza, dimmi che cosa vuoi.” Con Jasper era sempre meglio giocare in attacco.
“Non posso ballare con una delle dame più affascinati di questa sera?” Lo invitai a non prendermi in giro. “Ok, ok, rendi sempre più orgoglioso il tuo insegnate.” Il mio sguardo gli ribadì il concetto di prima. “Se frequento Alice per te non è un problema, vero? Lo so che sotto sotto sei perdutamente innamorata di me, ma non sono fatto per le relazioni a tre.” Sopirai e casualmente gli pestai un piede. Lui fece una smorfia che subito si trasformò in un sorriso. 
“Devi chiederlo ad Alice se vuole uscire con te. Io ho già fatto abbastanza, come Cupido.” Le ultime note lasciarono il posto a un ennesimo applauso. 
Jasper si inchinò e mi prese la mano per portarsela alla bocca. Poi mi abbracciò e mi sussurrò alcune parole all’orecchio. Mi irrigidii e mi allontanai da lui che se la ghignava.
Edward mi raggiunse, capì che qualcosa mi aveva turbata, guardò male l’amico, ma non disse niente mentre raggiungevo a passo di carica i miei parenti al tavolo del buffet. 
Cercai di riprendere tutto il contegno di cui fui capace prima di presentarmi da loro.
Edward mi appoggiò una mano sul fianco, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di mio padre.
 “Renèe, zia Sue.” Fece il baciamano a mamma e zia. Io alzai gli occhi al cielo perché era sempre un uomo del Sud. “Preside Swan.” Edward tese la mano a papà. Passò un interminabile momento in cui ebbi paura che papà facesse il vecchio cavernicolo e non stringesse la mano al mio ragazzo. Ma noi donne, alla fine, potemmo tirare un sospiro di sollievo.
“Siamo così orgogliosi di te, Isabella.” Mamma aveva le lacrime agli occhi e mi stringeva le mani.
“Non sono caduta.” Dissi con una certa fierezza.
“Sei davvero bella.” Edward mi passò prontamente un fazzolettino per mia madre perché mancava davvero poco e i rubinetti della sempre composta Renèe si sarebbero aperti, mettendomi in imbarazzo.
Zia Sue stemperò la tensione spostando la conversazione sul ballo e sui suoi partecipanti.
“Hai delle amiche preziose, Isabella. Ne sono molto felice.” Annuii alla zia, ero felice anche io, nonostante avessi dovuto ingoiare il mio orgoglio Yankee tutto intero per essere a quel ballo. “Pensi che Alice accetterebbe in regalo il ciondolo che le ho prestato? A me non serve più e a lei sta divinamente.” Sorrisi e proposi alla zia di lasciarlo in eredità al folletto. Alice avrebbe apprezzato il gesto e non si sarebbe sentita in difetto per le sue umili origini.
Papà non spiaccicò parola e rimase imbronciato a osservare la mano di Edward che mi accarezzava il fianco. Il mio ragazzo voleva proprio perderla, quella mano.
“Entro mezzanotte a casa, signorina.”
“Charlie...” Lo ammonì mamma. Io mi sentii una bimbetta in castigo.
“Charles.” Ah, papà era proprio nei guai se zia Sue lo chiamava con il nome di battesimo che ormai nessuno usava più. “Penso che Isabella si sia meritata il resto della serata tutto per sé.” Zia mi fece persino l’occhiolino, complice. Mamma, invece, pregò papà di non fare il cavernicolo armato di clava.
Io avrei solo voluto sprofondare per il leggerissimo odore di figura di merda che aleggiava nell’aria.
All’improvviso Charlie scoppiò a ridere, abbandonando lo sguardo torvo. “Ah, Cullen. Credo che per te non ci sia peggior punizione che stare con una Swan.”
“Papà!” Lo sgridai indignata.
“Scoprirai a tue spese quanto le donne Swan possano essere meravigliose e terrificanti nello stesso momento.”
Edward si fece serio, tese di nuovo la mano a papà e disse: “Mi prenderò cura di sua figlia, preside Swan.”
Tra le loro mani passò un filo invisibile a suggellare quella promessa. Cose da uomini, mi dissi, e alzai gli occhi al cielo. Stupidi uomini del Sud. Mamma e zia Sue, invece, erano commosse.
Decisi che era arrivato il momento di dileguarsi per prendere una boccata d’aria, la mia famiglia poteva essere emotivamente stancante.  Mamma aveva anche voluto fare una serie di foto da inviare a Jake che non era potuto venire. Erano ammessi solo i genitori e le madrine come accompagnatori.
In un angolo vidi i nostri amici e proposi di andare tutti a fare un giro sulla terrazza panoramica. Il piano dell’hotel dove si svolgeva il ballo delle debuttanti, era diviso in due. Da una parte la sala da ballo, dall’altra una bella terrazza con piccole lucine decorative sulle piante ornamentali.
Passammo dal guardaroba a prendere i cappotti e le borse perché era comunque metà dicembre. 
Stavamo chiacchierando nel corridoio, Edward scherzava con i compagni di squadra e mi teneva un braccio sulle spalle. Alice raccontava dei volteggi, Rosalie era più taciturna.
“Tuo padre era davvero commosso.” Mi disse Edward ad un tratto, aveva osservato il preside più di quanto mi aspettassi.
“Spero che si ricordi di questo momento mentre preparerò le valigie per Boston.” Mormorai un po’ triste. Io e Edward avevamo parlato a lungo su dove andare l’anno successivo. Alla fine avevamo ottenuto entrambi l’ammissione per le università prescelte e avevamo adottato un metodo più o meno scientifico per la decisione. Presi i programmi di tutte le università in lizza, avevamo assegnato dei punti. Per Edward le migliori erano Stanford e Harvard. Per me la Brown e Harvard. Ovviamente avevamo optato per Harvard, visto che andava bene a entrambi.
“E tu? Hai parlato con tuo padre?” Da come arricciò il labbro immaginai che no, non aveva parlato con suo padre. “Prima o poi dovrai dirgli che non vuoi diventare medico.” Quella decisione gli aveva fatto passare notti insonni.
Ci fermammo a pochi passi dalla porta finestra che dava sulla terrazza perché un gruppo di uomini stava discutendo animatamente. Una meringa bianca vicino a loro cercava di placare le urla di uno di loro.
“Dove sono quelle puttanelle? Tanto brave a fartela annusare e basta.”
Royce King era ubriaco e alcuni impiegati dell’hotel stavano cercando di calmarlo.
“Signor King, andiamo...”
“Andiamo a fanculo!” Urlò più forte Royce. Jessica si stava per mettere a piangere. Il suo debutto era del tutto rovinato e quasi mi dispiacque per lei. Quasi. “Oh, eccole che arrivano.”
Ci eravamo fermati a qualche metro da loro, Edward mi strinse di più a sé e anche gli altri cavalieri si avvicinarono alle loro dame.
“Devo insistere, signor King...” L’impiegato venne scansato malamente e questo diede ordine a qualcuno di chiamare la sicurezza.
“Allora, Miss Rosalie, hai fatto un patto con il diavolo?” Intendeva me, anche se il suo braccio tremava così tanto che poteva aver indicato chiunque. “Siete solo delle patetiche ragazzine che giocano a fare le grandi.”
“Jessica, porta tuo cugino a casa e fagli passare la sbronza.” Emmett si era fatto avanti.
“Uh, uh, il protettore delle virginali...virginali...” Royce cercava la parola ripetendo all’infinito virginali. Era un ubriaco dalle dubbie proprietà linguistiche. “Vagine!” Urlò schioccando le dita, felice di aver trovato la parola.
Tirai la manica di Edward perché ce ne andassimo, ma Royce non aveva finito.
“Scappate, scappate conigli. Andate a scopare quelle puttanelle finché ve la danno.”
Emmett era agile per la stazza e in un attimo gli fu addosso, colpendolo con violenza alla mascella. Gli diede solo un pugno, poi si rialzò.
“Sei feccia che non merita nemmeno di essere mandato al pronto soccorso. Questo è solo un assaggio di quello che ti succederà se non sparisci immediatamente.” Tremava. Voce e corpo tremavano per lo sforzo di trattenere la rabbia che lo stava consumando. Si rialzò e andò subito sulla terrazza a prendere il fresco della notte, mentre quelli della sicurezza, appena arrivati, portarono via Royce King, svenuto.
Rosalie aveva ancora le mani sulla bocca, pensai fosse spaventata. Mi mossi verso di lei per vedere se era sotto shock, ma mi precedette e andò in terrazza ad abbracciare la schiena di Emmett.
“Andate, piccioncini. A quei due ci pensiamo noi.” Jasper ammiccò e avrei voluto replicare le gesta di Emmett, ma preferii prendere Edward per mano e nascondermi con lui nel primo sgabuzzino che trovai.
Mi appoggiai alla parete e chiusi gli occhi per rasserenare la mia mente provata con il silenzio.
“Serata intensa.” Concordai con il mio ragazzo. “Però ammetti che ci stiamo divertendo.” Passato il primo momento di stupore per la scena a cui avevamo appena assistito, sì, dovevo ammettere che quella sera non ci saremmo certo annoiati. “E hai anche ballato senza pestarmi i piedi. Ti serviva solo il cavaliere giusto.” Edward si era avvicinato e mi sorrideva malizioso. “Odio avere sempre ragione.”
“A me serve solo un bacio.” Lo tirai per la camicia per farlo avvicinare di più e mi godetti le sue labbra morbide e calde.
In una pausa per riprendere fiato mi chiese se doveva picchiare il suo amico per avermi sconvolta. Non capii subito che si riferiva a Jasper e al nostro ballo.
“Mi ha preso alla sprovvista. Mi ha comunicato che già lunedì userà il mio bagno.” Storsi il naso. La seconda parte non l’avrei mai confessata. Jasper mi aveva consigliato di prendere esempio da lui. E forse inconsapevolmente lo stavo facendo, lì, in quel lo sgabuzzino.
“Bella,” Edward aveva il fiato corto. “Non sono un santo.”
“Nemmeno io.” Estrassi dalla mini borsetta una tessera magnetica di una stanza dell’hotel.
Edward strabuzzò gli occhi. “Miss Swan, non starà cercando di ghermire la mia virtù?”
“Come se ci fosse una virtù da ghermire.” Sbuffai. Edward mi accarezzò una guancia e mi chiese se ero sicura. “Possiamo sempre giocare qualche base e vedere che succede.” Il mio sorriso malizioso non era paragonabile al suo, ma lo convinse a uscire dallo sgabuzzino e andare nella stanza.
Pensai che sì, ero sicura, molto sicura di me, di noi e del nostro amore.





p.s. dell'autrice: eccomi con il capitolo dedicato al ballo. mi scuso per la lunga attesa, ma finalmente sono tornata e tra pochi giorni arriverà anche il prossimo capitolo. 
grazie a chi legge e chi commenta (dovrei rispondere tra poco alle recensioni...salvo imprevisti) 
a presto
Sara


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Capitolo 26
*** Epilogo ***


Buona lettura. Ci vediamo nelle note dell'autrice. 






EPILOGO

Appoggiai la schiena alla porta chiusa alle mie spalle e mi godetti il silenzio dello studio, le palpebre abbassate, i muscoli rilassati dopo la lunga tensione.
Avevo appena tenuto il mio primo discorso come preside ed ero sopravvissuta a quella folla di adolescenti. Li avevo congedati dopo il loro tiepido applauso e ne ero rimasta insoddisfatta.
Dalla folla si era staccato mio padre che invece si era dichiarato molto soddisfatto del mio discorso e orgoglioso di me. Mi aveva accompagnato al mio studio e mentre passeggiavamo per i corridoi mi aveva fatto notare che metà dei miei studenti non mi avrebbe mai ascoltata, mentre l’altra metà non avrebbe capito il messaggio che volevo comunicare, e che non dovevo essere delusa dall’accoglienza che avevano riservato alle mie parole. Perché dopotutto avevamo a che fare con degli adolescenti. Avevo alzato gli occhi al cielo, riconoscendo che il mio predecessore aveva ragione e molta più esperienza di me. Dovevo solo sperare che qualcuno avesse recepito anche solo un po’ del mio discorso incentrato su giustizia e amicizia. Avevo ripensato al mio terzo anno e avevo trovato lì l’ispirazione per iniziare il mio primo anno come preside.
Promisi a Charlie che una delle sere successive sarei andata a cena da loro e sulla porta dello studio mi concessi di dargli un bacio vicino a quei baffi che avevo sempre adorato. Papà se ne era andato trattenendo una lacrima.
Andai nel piccolo bagno annesso allo studio e mi diedi una rinfrescata dopo quell’impegnativo inizio giornata. Mi permisi di impiegare alcuni minuti davanti allo specchio congratulandomi con me stessa per quello che stavo vedendo, una giovane donna sicura di sé e del suo ruolo. 
Ero nata per essere la preside della White Swan Prep Accademy.
Il lavoro di preside sarebbe stata una vera passeggiata se paragonato ai miei primi anni in quella stessa scuola. Ma la terza liceo era stata la vera svolta, quella che mi aveva reso più forte e determinata. Ripensai con tenerezza a quell’anno. Augurai a ogni ragazzo di trovare la propria strada, così come io avevo trovato la mia, e di percorrerla con degli amici sinceri. Magari meno complottisti dei miei.
Sorrisi e tornai a osservarmi, non potevo essere più diversa dal mio primo giorno di terza liceo. Ricordo bene come mi sentissi una sconfitta davanti allo specchio della mia camera, mentre adesso...adesso ero la preside. 
Allora indossavo una anonima divisa da studentessa, ora portavo con orgoglio la mia stessa pelle. Non erano tanto la giacca grigio antracite che scendeva sul mio corpo, sottolineando la vita stretta, o il fiocco della camicia bianca che dava importanza a tutto l’outfit, a rendermi preside. L’analisi del mio guardaroba era ovviamente opera di Alice, grande esperta di moda e di comunicazione. Oltre che essere una delle mie più grandi amiche. 
No, a fare la differenza, era il mio atteggiamento. Ero il potere e tutti dovevano sapere che lo avrei esercitato da quel giorno e per molti altri a venire. Sarebbe stato un potere giusto e equo che non avrebbe mai accettato l’abuso. E forse sarei stata più tollerante di mio padre con le scappatelle amorose degli studenti.
Il mio sorriso si velò di nostalgia, ripensando alle ultime parole di zia Sue sull’orgoglio della famiglia e sulla gestione del potere. Mi aveva raccomandato di non inciampare nei miei stessi piedi e di camminare sempre a testa alta, portando con fierezza il nostro cognome. Dovevo proprio averla fatta soffrire con la mia decisione infantile di essere Isabella Black. 
Mi mancava terribilmente quella vecchia signora in tailleur Chanel. 
Beh, mi mancavano un po’ meno le sue lezioni di bon ton e di ballo. Ma dovevo ammettere che andare al ballo delle debuttanti aveva segnato per me una tappa importante. Ero riuscita a dimostrare a Jessica e a sua nonna che mettersi contro di me, la mia famiglia e i miei amici era molto, ma molto pericoloso. Da quel giorno le donne Stanley avevano perso sempre più consenso negli ambienti che contavano e la famiglia aveva dovuto ridimensionare le proprie pretese. Anche perché il sindaco scoraggiò le pretese matrimoniali del cugino di Jessica, Royce King, per la figlia Rosalie.
Il pensiero di Rosalie, indaffarata con le pappe del suo secondogenito, mi risollevò del tutto il morale. Ero stata un Cupido maledettamente bravo a accoppiarla con Emmett. Quei due litigavano sempre come cane e gatto, ma si amavano profondamente e erano felici.
Vivevano in una piccola casa vicino a quella dei genitori di Rose e mi ripromisi di andare a trovarli appena fosse finita quella giornata. Forse avrei chiesto anche a Alice di unirsi a me e distrarre così la mammina dalle incombenze genitoriali per qualche ora. Alice...sperai solo che non avesse da ridire sui semplici jeans neri che indossavo. Si era autoeletta mia consulente d’immagine. Dopotutto lavorava in un’agenzia di moda e comunicazione.
Alzai gli occhi al cielo, era impossibile contenere il suo entusiasmo. Da quando ero tornata nella mia città natale, il vecchio circolo del bagno femminile del secondo piano, ala nord, si era riformato e non potevo che esserne felice. Jasper aveva anche organizzato un’uscita di gruppo per festeggiare la reunion e sospettavo, per fare una corte serrata a Alice. Dopo il liceo si erano persi di vita, Jasper era andato a studiare a Princeton e era tornato con la moglie, Maria, per dirigere l’impero di famiglia. Il loro era stato un matrimonio breve e intenso e avevano ufficializzato il divorzio dopo neanche un anno. Sospettavo che al biondo generale non fosse mai uscito dalla mente il folletto dal caschetto nero e che Maria odiasse la città e fosse gelosa della rivale.
Sì, mi erano mancati i miei amici, con i loro complotti e piani segreti. Eravamo una bella banda e a New York non avevo ritrovato amicizie così speciali, ma avevo avuto bisogno di iniziare la mia carriera negli istituti scolastici lontano da casa. Ero stata per alcuni anni un’insegnate di letteratura inglese, poi avevo avuto l’opportunità di diventare vice preside di una rinomata scuola femminile. Stavo per accettare una vice presidenza nel liceo più importante della città, quando mio padre mi aveva chiamato.
Nonostante la tradizione che non voleva donne sedute alla scrivania del mio trisavolo, mio padre aveva deciso di lasciarmi il posto. Voleva andare in pensione e Jacob, diventato un ranger forestale, preferiva correre dietro ai grizzly piuttosto che a piccoli teppisti adolescenti. Charlie non avrebbe mai lasciato la scuola a un ramo cadetto della famiglia, quindi ero la sua unica alternativa, anche perché zia Sue gli aveva fatto promettere che sarei stata io il suo successore. E a zia Sue non si poteva mai dire di no. La riunione di famiglia per l’ufficializzazione della mia nomina era stata divertente. In molti si erano opposti, poi papà aveva detto che non gliene fregava niente dei pareri contrari e che io ero la nuova preside. 
E così quella mattina avevo dato il via al nuovo anno scolastico. Uscii dal bagno e inspirai il buon profumo di quello studio che tanto adoravo. Il legno, il cuoio, i vecchi libri...
Bussarono alla porta interrompendo il flusso disordinato dei miei pensieri.
Mi diedi un certo contegno, ma appoggiai il culo alla scrivania per sembrare totalmente rilassata.
“Avanti.”
“Sei meravigliosa.” Sorrisi, non c’era giorno in cui Edward non mi ripetesse quando mi amasse e quanto fossi speciale per lui. Mi baciò e passò il dito sui preziosi orecchini che mi aveva regalato per il ballo delle debuttanti. Non li avevo più tolti da quella sera.
“Stasera mio padre mi ha chiesto se andiamo a cena da lui.” Erano ormai quasi quattordici anni che stavamo insieme e sapevo bene quanto fossero ancora contrastanti i suoi sentimenti verso il genitore. Da un lato si era riappacificato con lui tanto che Edward gli aveva dato anche il benestare al matrimonio con Esme, poco prima di partire per l’università. Dall’altro era sempre sulle spine tutte le volte che doveva incontrarlo, anche perché Carlisle non aveva perso occasione per sottolineare come la scelta di Edward di diventare avvocato e non medico lo avesse deluso.
“Seth inizia quest’anno il liceo e magari gli farà piacere parlare con il suo fratellone preferito. Ecco, magari non raccontargli proprio tutto tutto quello che facevi a scuola.” Edward non poteva certo negare quanto gli mancassero i fratelli minori mentre abitavamo a NY. Quasi ogni sera si intratteneva con loro, anche solo per cinque minuti, in una videochiamata. Seth era ormai un adolescente vivace, mentre la piccola Leah era una bimbetta di dieci anni che non stava mai zitta. Adorabile, ma da mal di testa. “Inoltre sai bene che a tuo padre sarò debitrice a vita.” Edward sospirò, ma annuì.
La famiglia Stanley aveva fatto un ultimo disperato tentativo di riconquistare il potere perso e il dottor Cullen aveva aiutato tutta la mia famiglia. Eravamo tutti troppo distratti dal dolore per la perdita di zia Sue, che quasi ci avevano messo nel sacco. Gli Stanley non aspettarono che il corpo della zia fosse freddo per tentare di prendere il posto di quella saggia signora nel consiglio di amministrazione della scuola. Seggio che poteva essere occupato solo da un componente della famiglia Swan o da un genitore di un ex alunno; in caso di più candidati sarebbe stato scelto il parente dell’alunno più meritevole. Nessuno della famiglia era preparato a una simile eventualità e non avevamo trovato un candidato adatto in tempo. Edward aveva esposto i fatti a suo padre che si era presentato, a sorpresa, il giorno delle elezioni e, ovviamente, aveva ottenuto il posto di zia Sue, impedendo che gli Stanley si intrufolassero nella nostra scuola e la distruggessero dall’interno.
Senza pensare ulteriormente ai contrasti padre e figlio, iniziammo a baciarci e ci facemmo travolgere dalla stessa passione di quando eravamo adolescenti. 
“Tornare in questa scuola, mi riporta alle mente piacevoli ricordi.” Il sorriso malizioso di Edward mi fece arrossire.
“Potremmo anche battezzare l’ufficio del preside.” Proposi audace, andando letteralmente a fuoco. I nostri corpi scalpitavano quando stavamo troppo vicini.
“Potremmo...o potremmo fare i bravi.” Sospirando si allontanò da me. “Siamo già fin troppo Yankee per questa città.”
Dovetti concordare con lui. 
Esserci diplomati alla White Swan e laureati a pieni voti a Harvard ci aveva aperto molte opportunità lavorative e avevamo ottenuto entrambi un lavoro nella Grande Mela. Finché abitavamo a New York nessuno aveva avuto da ridire sul fatto che convivessimo senza essere sposati. Eravamo una coppia di giovani brillanti concentrati sulle loro promettenti carriere. Tuttavia, sapevamo che quello non era il nostro posto e il bisogno di tornare in Virginia era ogni giorno più impellente. La chiamata di papà era stata una inaspettata benedizione dal cielo. 
Ci eravamo trasferiti nella vecchia casa di zia Sue, ma mamma mi aveva detto che la comunità non vedeva di buon occhio che non fossimo sposati. Da moralisti quali erano, molti avevano detto che non potevo essere una buona preside, con una etica così discutibile. Qualcuno si era spinto fino a dire che era uno schiaffo al ricordo della defunta signora Clearwater.
“Non hanno ancora visto niente.” Ribattei acida e mi sedetti alla scrivania, imbronciata.
“Forse dovresti...”
“Non è un anello a definire chi sono o le mie capacità.” Ribattei acida. 
“Ecco, quindi puoi benissimo indossarlo. A me, il mio, piace tantissimo.” Mi mostrò orgoglioso la mano sinistra, dove il cerchietto d’oro brillava al suo anulare.
Arricciai le labbra, ma cercai nel cassetto della scrivania la scatolina di velluto rosso contenente la mia fede e l’anello di fidanzamento e me li misi al dito. Mi alzai dalla mia nuova sedia ergonomica e gli puntai l’anulare sotto il naso.
“Questo potrebbe anche complicare la cena di stasera, lo sai vero?” Sospettai che Edward fosse segretamente soddisfatto di creare scompiglio a Villa Cullen. “Non abbiamo detto niente a nessuno e qui al sud...sai come ragionano.”
“Siamo due Yankee, moglie mia.” Mi baciò la punta del naso. Era così bello sentirmi chiamare moglie e ripensare a quella cerimonia improvvisata che sorrisi.
Un giorno di tre anni prima, mi aveva dato l’anello di sua madre e mi aveva fatto la proposta, dicendomi che ero l’unica che comprendesse le sue due anime, quella Yankee e quella del Sud. 
Volendo essere fedele alla mia intenzione di essere Yankee fino al midollo, stavo per rifiutare, quando Edward mi propose un matrimonio segreto. Nessuno, a parte i testimoni, avrebbero saputo che ci eravamo sposati. Jake, stranamente, fu ben lieto di essere al mio fianco, sostenendo che era da me evitare abito bianco, invitati e festa. Promise anche di mantenere il segreto con il resto della famiglia.
“E poi,” Edward mi abbracciò. “Non pensi che sia venuto il momento di dirlo?”
“A papà verrà un infarto.” Mormorai contro il suo petto. Sapevo che Edward, prima di partire per l’università gli aveva chiesto il permesso ufficiale di frequentarmi, ma da lì ad avere il consenso di sposarmi la strada era ancora lunga. “Magari potremmo pensare di dargli il doppio cognome, così anche il lato Swan della dinastia prosegue.” Già, perché oltre al matrimonio avrei dovuto anche dire a Charlie che sarebbe diventato nonno e che per alcuni mesi avrebbe dovuto interrompere la pensione.
“Ma sì.” Concordò Edward. “Possiamo farlo. Magari tuo padre si ammorbidisce abbastanza da non spararmi.”
“Papà è più vecchio stile, arco e frecce.” Già, stile cavernicolo. “Ma lascerà da parte qualsiasi arma solo se dirai che sono state tutte mie idee.” Lo rassicurai. Non avevo dubbi che Charlie gli avrebbe creduto senza batter ciglio.
“Oh, quello è poco ma sicuro.” Mio marito rise. “Sei il mio Cigno Nero.”
Mi accoccolai di più contro il suo petto, sorridendo felice. 
Sarei stata sempre fedele a me stessa. 
Sarei stata per sempre un Cigno Nero.


FINE



p.s. dell'autrice: eccomi infine alla conclusione di questa storia.  Ho chiuso il file "stupido.docx" per l'ultima volta e una lacimuccia scende solitaria per la sua fine, ma sono molto felice e soddisfatta di questa storia. Ha avuto un naturale sviluppo e questa è la naturale conclusione.
Sono molto soddisfatta non solo per come si è sviluppata, quasi senza intoppi, ma anche (e soprattutto) perchè ha segnato il mio ritorno su questo sito e più in generale alla scrittura. Tornerò, forse no, chi lo sa. Ho moltissime storie in cantiere e voglio prima concluderne una, prima di pubblicarla. Sicuramente non sarà a breve (io spero per settembre, ma mi sembra utopistico) perchè la ff in stato più avanzato è un progetto un pelo più grande e impegnativo di questa storia e ha bisogno di molte e maggiori cure.
Il 2020 stato un anno molto impegnativo per tutti e questa storia nasce dalla voglia di evasione e dal bisogno di sorridere. La mia più grande gioia sarebbe di avervi regalato almeno un sorriso con le avventure di Bella e Edward.
Un abbraccio
Sara

 

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