Encuentro De Dos Manos

di Black_in_Pain
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


L'aula è silenziosa, piacevolmente illuminata solo dalle ampie vetrate che filtrano la tiepida luce del sole.
Mentre, controvoglia, do un morso al tramezzino al formaggio che ho preparato questa mattina, rileggo la traduzione della poesia che il professor Delgado ci ha assegnato come compito per l'ora di spagnolo.

E' un opera di Juan Ramón Jiménez, s'intitola "Incontro di due mani".

" Incontro di due mani

in cerca di stelle,

nella notte!

Con che pressione immensa

si sentono le purezze immortali!

Dolci, quelle due dimenticano

la loro ricerca senza sosta,

e incontrano, un istante,

nel loro circolo chiuso,

quel che cercavano da sole.

Rassegnazione d'amore,

tanto infinita come l'impossibile!"

Sorrido. 
Credo sia un tratto d'istintivo degli spagnoli, struggersi nella passione e annegare in un mare d'amore drammatico e idealizzato.
Posso, però, spezzare una lancia a suo favore, ammettendo che questa poesia è davvero graziosa e trasognante. Coincisa nella sua complessa delicatezza.
L'unica pecca, dopo averla tradotta, sta nel dover allegare un commento personale sull'opera, spiegandone il significato, per cercare di avvicinarsi il più possibile a ciò che il poeta desiderava realmente trasmettere nel momento in cui scriveva.
Questo mi infastidisce.
La mia teoria è che, alla fine, possiamo solo congetturare e ricamare sul vero senso di qualcosa, soprattutto se essa appartiene a qualcun altro.
Noi siamo noi. E ciò che creiamo, pensiamo e sentiamo è solo nostro. L'egoistica e presuntuosa ostinazione di voler conoscere alla perfezione quello che non viene direttamente da noi stessi, è forse il tratto più irritante e fittizio dell'essere umano.
Ma un compito rimane un compito. L'importante è fare un buon lavoro, preciso, meticoloso, strutturato nella direzione in cui l'insegnate ti vuole condurre.
Per me è semplice assecondare le volontà altrui, rassegnandomi alla posizione che mi è stata data in questa società di doveri da rispettare e onorare.
In questo caso specifico, è bastato esagerare un po', sia con le metafore, che con le associazioni. Trasportare le parole in simboli, riempire di dramma e miele le parole, per poi finire con la solita morale sulla vita e le sue dolci complicazioni.
In men che non si dica, concludo la mia piccola opera d'arte e richiudo il quaderno a righe sul banco immacolato. Il risultato complessivo è impeccabile, anche se non ne traggo nessuna soddisfazione individuale.
L'obbiettivo a cui ambisco sta unicamente nel giudizio positivo del professore, che elargirà alla mia pagella, già colma di voti eccellenti, ulteriore prestigio.
Il silenzio si spezza e i passi di una presenza conosciuta si avvicinano, accompagnati dal consueto profumo di lavanda. Una nuvola di capelli biondi mi si para davanti e un'espressione crucciata, costeggiata di lentiggini, mi osserva da sotto gli occhiali.
«Hai saltato di nuovo il pranzo in mensa» esordisce Camille, appoggiando una mano sul fianco, in segno di rimprovero.
«Non ho molto appetito» rispondo, sventolando il tramezzino ancora praticamente integro come prova.
Sbuffa. «La verità è che preferisci la compagnia dei libri a quella della tua migliore amica.»
Scuoto il capo, rassegnata, spostando la sedia all'indietro, mentre stiracchio le braccia intorpidite.
«Vieni qui» dico e con le mani indico le mie gambe pronte ad accoglierla.
Non se lo fa ripetere due volte.
Si siede sulle mie ginocchia, avvolgendomi il collo con le braccia. «Mi sei mancata.»
Sogghigno «Nha... Di sicuro Oliver mi avrà sostituito con estremo piacere.»
Il suo viso diventa paonazzo e capisco di aver fatto bingo.
«Tranquilla, nessuno sospetterà di voi se ci vedono avvinghiate in questo modo» la rassicuro, pizzicandole un fianco.
Finalmente il suo viso si rilassa e assumere un'espressione maliziosa «La nostra storia d'amore è ormai di dominio pubblico. Siamo la coppia lesbica più quotata per il prossimo ballo scolastico.»
Scoppiamo entrambe in una risata cristallina.
«Sarebbe interessante vedere sul palco due reginette quest'anno» ipotizzo, disegnando sopra le nostre teste una coroncina immaginaria con le dita.
Rimaniamo abbracciate per un po', finche Camille non riapre il mio quaderno per leggerne il contenuto.
«Come fai a decodificare questa roba?» chiede, corrugando le sopracciglia.
«Questa roba si chiama spagnolo e dovresti deciderti a decodificarla anche tu».
Mi guarda con gli occhi sgranati. «E' il compito per oggi?»
Annuisco.
«Merda, l'ho scordato» strilla.
Improvvisamente la sua espressione si trasforma in quella di un cucciolo ferito, bisognoso di protezione.
«Ti prego, Rin» supplica, spalancando quegli occhioni verdi a cui non so dire di no.
«D'accordo» mi arrendo.
Lei applaudisce, stampandomi un bacio alla fragola sulla guancia.
«Conosci le regole, vero? » le ricordo, inclinando la testa come una madre severa.
«Ovvio. Copiare male, distorcere il significato e aggiungere qualche errore.»
Faccio cenno d'approvazione «Brava ragazza.»
Mi abbandona fulminea per andare a recuperare il suo quaderno, poi si siede davanti a me per consultare i miei appunti.
Le aiuto a far sembrare suo ciò che è mio e modifichiamo insieme la parte del commento personale.
Il risultato è una sorta di brutta copia ben fatta. Proprio quello che volevamo ottenere.
Lei è parzialmente salva. Io parzialmente innocente.
Missione compiuta.
«Mi hai salvato la vita» Camille mostra il suo lato di promettente attrice drammatica, simulando di asciugare finte lacrime in un fazzoletto invisibile.
«Succede spesso» mi vanto, per poi lanciarle un occhiataccia. «Forse troppo spesso» aggiungo.
Si scusa accovacciandosi in maniera bambinesca «Ma tu sai che odio lo spagniolo...»
«E la matematica, e la letteratura e, aspetta... » mi soffermo teatrale «Oh si, scienze ! Come ho fatto a dimenticare quanto detesti scienze.»
Mi fa la linguaccia e io l'occhiolino.
Camille non sarà certo una cima negli studi, ma per me è il massimo in praticamente tutto il resto. Soprattutto nell'ardua impresa di essermi amica. L'unica, vera amica che ho.
La campanella suona e pian piano tutti rientrano in classe e si siedono ai rispettivi banchi.
Do una pacca al sedere di Camille per incitarla a tornare al suo posto, lei mi dice "ci vediamo alla fine delle lezioni" e io annuisco, mostrando la mano in segno di saluto.
Il professor Delgado entra con la sua borsa in falsa pelle, reggendo sotto braccio la sua cartina preferita.
E' un uomo di bell'aspetto, di un'altezza spropositata e dal fisico asciutto, veste in modo elegantemente improvvisato, nel disperato tentativo di somigliare ad un rispettabile insegnate universitario.
Ma si capisce che ama il suo lavoro più della sua immagine.
Parla della materia come un innamorato farebbe della sua splendida fidanzata. Illustrandone i pregi, le caratteristiche, i vanti.
Finisco sempre a ritrovarmi appassionata e, senza neanche rendermene conto, anch'io inizio a stravedere per questa fidanzata immaginaria che si chiama Spagna, restando incantata dal suo accento e dall'inconsueto, ma efficace, metodo d'insegnamento che ci propone.
Quando giunge il momento di consegnare il compito, ci chiama in ordine alfabetico e, al turno di Camille, lei si alza leggiadra e sicura di sé, porgendogli il quaderno come se sapesse cosa realmente ci sia scritto all'interno.
Il prof mi guarda di sottecchi e io esibisco la mia indiscutibile faccia da poker. Lui alza le spalle, forse rassegnato, forse convinto, e accetta il compito di Camille senza obbiettare.
«Grazie, signorina Prayers» mormora, congedandola.
Improvvisamente un mormorio generale riempie il silenzio e anche il professore esita un momento prima di ricominciare a parlare.
«Charles» chiama.
Nessuna risposta.
Il mormorio si infittisce e delle risatine soffocate lo accompagnano.
Mi volto verso il protagonista di questa imbarazzante situazione.
E' seduto infondo all'aula, abbandonato sulla sedia come se stesse per appisolarsi. Ha la giacca della divisa stropicciata, sbottonata sulla camicia aperta fin sotto le clavicole. I capelli castani, raccolti in una sorta di codino arruffato, contornano un viso pallido, asettico.
Gli occhi, scuri come la pece, si posano sopra a occhiaie visibilmente croniche.
«Charles Amery, il tuo compito» ripete il professor Delgado, con voce irritata.
Finalmente il ragazzo alza lo sguardo e piega la testa di lato, confuso. Poi fa un sorrisetto e riporta il capo dritto verso il suo interlocutore «Scusi, non credo di parlare la sua lingua.»
Mi sento a disagio e un brivido mi corre lungo la schiena, in attesa di ciò che potrebbe accadere.
Non credo di conoscerlo, forse non frequentiamo gli stessi corsi, magari è uno studente inserito a metà semestre.
Esamino il suo banco e mi accorgo di averlo visto spesso vuoto o occupato da qualcun'altro.
Non posso esserne del tutto sicura, dato che tendo a socializzare il meno possibile e dimenticarmi i volti di chi non cattura il mio interesse.
Palesemente, i miei compagni non la pensano allo stesso modo. Anzi, paiono abituati, se non addirittura febbricitanti all'attesa di ciò che sta per succedere.
Il professore sorride indifferente, schioccando le dita.
Brutto segno.
«Bene, magari potrai trovare un dizionario che possa aiutarti nell'ufficio del preside.»
Charles si alza, l'aria trionfante, mettendosi lo zaino verde militare sulle spalle.
Tutta la classe lo segue fino alla soglia e lui, prima di chiudere la porta dietro di se, fa la sua uscita con un impeccabile "Adios señor", rivolto al professore.
Una sfida vera e propria, visto che ha appena vantato una pronuncia spagnola al dir poco disarmante.
Se ne va via, congelando completamente la situazione.
Delgado cerca di spezzare il ghiaccio con ironia. «Un talento sprecato, digo bien
Nessuno ride. Neanche lui.
Così la lezione riprende, tornado ad un'apparente normalità, anche se non posso fare a meno di notare l'umiliazione, nascosta con impacciata disinvoltura, del mio insegnante.Le ore passano lente, ma serene. Niente interruzioni, nessun colpo di scena, proprio come piace a me.
La campanella che annuncia la fine delle lezioni suona, ed è un inno di liberazione per tutti quelli che non aspettavano altro che alzare i tacchi e tornare alle loro vite da adolescenti spensierati.
Appaiono completamente diversi, trasformati. Come se la maschera dello studente fosse solo una mera copertura.
Io rimango la stessa. Non evolvo. Non cambio personalità.
Nel mio caso, il bruco non diventa farfalla. Resta il bruco ordinario che è.
Camille invece è euforica e, mentre saltella nella mia direzione, i suoi capelli dorati ondeggiano in ogni direzione.
«Faccio un salto al club di teatro a prendere un copione. Ci metto un secondo. Ci vediamo nel vialetto, okay?» dice, mandandomi un bacio con la mano.
Lo afferro «A dopo.»
Sistemo i libri nella cartella, poi raccolgo gli scarti della mia gomma da cancellare, buttandoli nel cestino.
Quando sono pronta, mi dirigo verso la porta e percorro il corridoio, ma prima che possa raggiungere le scale, qualcuno mi tira delicatamente il colletto della camicia.
Mi giro repentina, alzando gli occhi al cielo.
«Scusa per stamattina. Non riuscivo a svegliarmi» spiega Simon.
«Sono stata sotto casa tua per quindici minuti. Pensavo che qualcuno si sarebbe fermato a farmi l'elemosina» sembro seccata, ma scopre immediatamente il mio bluff.
Lui ride «Altri dieci minuti e magari un'anima buona avrebbe finito per adottarti.»
Gli do un pugno sulla spalla «Ehi, guarda che sei tu a voler fare la strada insieme ogni giorno.»
Gonfia il petto, come il pavone apre la coda, glorioso «Ovvio, non si può lasciar scorrazzare da sola una ragazzina, così impacciata, oltretutto.»
Stavolta il pugno glielo tiro forte e dritto sullo stomaco «Non vantarti solo perché sei un anno più grande di me. Me la so cavare, sai?»
Ondeggia, accusando il colpo «Con un simile gancio sinistro... Potrei anche darti ragione» si lamenta, massaggiandosi la parte lesa.
Stento a credere di averlo ferito, costatato che è la stella nascente del club di atletica leggera.
Alto come un giocatore di basket, snello e muscoloso, è la riproduzione moderna e rivisitata del Davide di Michelangelo.
Madre natura è stata ampiamente generosa con lui. Lo si poteva intuire già da quando eravamo piccoli.
Nelle nostre gare di velocità, creava subito una distanza incolmabile tra noi, raggiungendo il traguardo prima ancora che potessi arrivare a metà del percorso.
Mi ha curato ogni sbucciatura, insegnato ad arrampicarmi sugli alberi e perfino a nuotare a stile libero nella piscina pubblica, nei caldi pomeriggi d'estate.
Da quando ne ho ricordo, Simon c'è sempre stato. Ed è impossibile immaginare una realtà in cui lui non esiste.
E' un porto sicuro, una certezza.
«Allora Rocky Balboa, ci avviamo verso casa?» mi punzecchia, spingendomi verso le scale.
Abitiamo a soli due isolati di distanza e condividiamo il tragitto casa-scuola, e viceversa, ogni giorno.
«Cam mi aspetta nel vialetto, credo voglia provare la sua parte e chiedermi un parere» lo avviso. «Sai che puoi assistere, ma potrebbe volerci un po'».
«Adesso te ne intendi anche di recitazione, Rin?» ridacchia e io gli lancio uno sguardo truce.
Alza le mani in segno di pace «Okay, okay, ricevuto. Rimarrò in disparte e farò il bravo spettatore.»
Rilasso i nervi e sospiro «Ne sarà felice. Adora i tuoi applausi a fine battuta. Dice che sei il "miglior pubblico non pagante" che esista.»
Mi mostra un sorriso brillante e inizia a scendere le scale, fermandosi due gradini dopo in attesa che io lo raggiunga.
Ma prima che possa muovere un solo passo, sento una voce chiamarmi in lontananza.
«Erin» è il professor Delgado, che cammina a passo spedito dal fondo del corridoio, intento a raggiungermi con una certa urgenza.
Faccio cenno a Simon di aspettare.
«Prof, le serve qualcosa?» domando tranquilla. Dopotutto faccio parte del consiglio studentesco, rapportarmi e riferire con gli insegnanti sta all'ordine del giorno.
Lui recupera fiato e mi guarda con aria supplicante «Ho bisogno del suo aiuto, signorina River. Parlo anche per a nome dell' intero copro insegnanti.»
Sgrano gli occhi.
Tutti gli insegnati?
«Di cosa si tratta?» domando turbata.
Il professore lancia un occhiata verso Simon –deve averlo appena notato– e infatti sembra ovvio che preferisca parlarne in privato.
«Raggiungi Camille, scusati da parte mia e dille che la chiamo stasera» spiego, poi mi avvicino e gli poso una mano sul braccio. «E tu non aspettarmi, vai pure a casa.»
Lui annuisce, un po'titubante, poi scende le scale, voltando di continuo la testa nella nostra direzione, finché i nostri sguardi non possono più raggiungersi.
«Mi spiace, so che ha i suoi impegni » il prof si scusa, chiudendosi nelle spalle.
Scuoto il capo, provando a sorridere «Non si preoccupi. Piuttosto, mi dica che succede.»
Delgado incrocia le braccia e poggia la schiena conto il muro «La tua condotta non si può discutere. I tuoi voti sono impeccabili, così come il tuo comportamento e il numero delle tue assenze.»
Arrossisco lievemente.
«Noi insegnati ne abbiamo discusso a lungo e siamo tutti della stessa idea, Erin» dice, come se stesse per mettermi in gabbia. «Vorremmo che tenesse delle lezioni di recupero.»
«Lezioni di recupero?» ripeto sbalordita. «Non penso di esserne capace. Non ho mai insegnato nulla a nessuno».
«Però ci è andata vicino» mormora, massaggiandosi il mento. «Pensa davvero che non mi sia accorto di come aiuta la signorina Prayers? Compiti più che sufficienti ma test e interrogazioni disastrose. Strano, non pensa?»
Il mio viso inizia letteralmente a bollire.
Lo ha sempre saputo, allora.
«Stia tranquilla, non può fare miracoli e non sono qui per punirla» mi rassicura. «Vogliamo solo che faccia un tentativo. Se non ci sono speranze, potrà tornare alla sua normale vita scolastica. Me se, al contrario, avrà successo, la sua collaborazione verrà ricompensata con crediti extra e ciò la porterebbe vicino alla borsa di studio che tanto ambisce».
Mi si stringe il cuore. L'immagine dei miei genitori, ambiziosi e severi, si fa nitida nella mia mente.
Il loro sogno... Un futuro promettente, una carriera prestigiosa: ciò per cui mi hanno educata tutta la vita. Il motivo per cui mi addormento sui libri, mentre studio tutta la notte. La ragione per cui non esco più del necessario, non mi caccio nei guai e allontano ogni sorta di distrazione considerata superflua.
Deglutisco, stringo i denti. Sopprimo la rabbia, il rancore, le lacrime.
«A chi dovrei dare lezioni, professore ?» mormoro, con un filo di voce.
Lui sospira rincuorato, capendo che accetterò la sua proposta.
Ma la risposta mi colpisce violenta, come uno schiaffo in pieno viso.
«Amery» svela lui, il tono freddo. «Charles Amery». 





*ANGOLO AUTRICE *
Ciao a tutti e grazie di aver letto il primo capitolo della mia storia! Spero di avervi messo almeno un'po di curiosità e che i personaggi inizino a materializarsi nella vostra immaginazione. 
Sarei molto felice di sapere cosa ne pensate e se siete tentati di continuare a leggere. Perciò, sarò grata di ricevere qualsiasi commento, recensione e critica costruttiva e mi scuso anticipatamente se troverete errori grammaticali o inconguenze ( se  gravi, informatemi subito e porrò rimedio.) 
Detto questo spero ci rivedremo nel prossimo capitolo <3 

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Capitolo 2
*** 2. ***


Scendo le scale, un passo per volta, lentamente.
Vorrei durassero all'infinito.
Mi sento come Alice che cade nella tana del Bianconiglio, la differenza è che davanti a me non si prospetta nessun paese delle meraviglie.
Guardo il cellulare. Ci sono cinque chiamate perse da parte di Camille e un messaggio che dice "chiamami" a caratteri cubitali. Sospiro e blocco lo schermo, ignorando la sua richiesta, almeno per ora.
Quando arrivo all'uscita, la porta si apre magicamente, ma presto mi accorgo che questa non è l'opera di un incantesimo.
«Ehi...» mormora Simon.
Lo osservo con aria stupita e, prima che possa ribattere in qualche modo, lui si affretta ad aggiungere «Ho aspettato così tanto che credevo mi avrebbero fatto l'elemosina.»
Mi sciolgo in un sorriso, cogliendo la mia stessa battuta di questa mattina.
«Ti avevo detto di andare a casa» ribadisco, fingendo che il suo gesto non sia gradito.
Alza le spalle «Dovevo farmi perdonare e adesso siamo pari.»
«Eri già stato assolto» sospiro, alzando gli occhi al cielo, per poi ammiccare.
Mi guarda con aria furba «Lo so. Mi piace abusare della mia posizione privilegiata.»
Scuoto il capo e gli do una spinta «Forza, andiamo. Si è già fatto troppo tardi.»
Ci incamminiamo verso la strada di casa, il tramonto colora il cielo di variegate sfumature arancioni. Il vento mi solletica il naso. 
Restiamo in silenzio per alcuni minuti poi Simon mi prende il braccio facendo pressione, costringendomi a fermarci.
«Hai l'aria di chi sta per piangere» dice, scrutandomi il volto con i suoi occhi a raggi x color ghiaccio.
Sposto lo sguardo sulle mie scarpe da ginnastica, ricacciando indietro le lacrime.
Mi solleva il mento con le dita «Rin... Non devi nasconderti. Non da me.»
«Sono solo frustrata» singhiozzo, le gambe che tremano e il cuore a mille.
Mi abbraccia e la sua giacca profuma di bucato, pulito e puro come la sua anima. Questo non fa altro che alimentare il pianto che cercavo di trattenere.
«Erin, raccontami tutto» mi sprona, stringendomi con più forza.
Ci sediamo su una panchina scarabocchiata, poco lontano dal parco in cui giocavamo da piccoli. Simon mi lascia i miei spazi e aspetta paziente che io mi ricomponga.
«Il professor Delgado mi ha chiesto di dare lezioni di recupero ad uno studente» inizio, giocherellando nervosamente con le pieghe della mia gonna blu scuro. «E' un emarginato, uno scansafatiche di prima categoria. Ha ripetuto l'anno due volte ed è stato sospeso all'inizio di questo semestre per aver marinato la scuola e fatto rissa con dei ragazzi più grandi di lui.»
Simon annuisce lentamente, facendomi cenno di continuare.
«Lo hanno fatto rientrare a metà corso e questa è l'ultima possibilità che ha per rigare dritto e finire gli studi. Ma sembra che non abbia proprio nessuna intenzione di collaborare. Lascia i test in bianco, salta le lezioni, non svolge i compiti e rifiuta qualsiasi dialogo con il corpo insegnanti.»
«Ed è qui che entri in gioco tu?» domanda Simon, l'espressione confusa.
Mi chiudo nelle spalle «Già... Pensano che io possa farlo ragionare, rappresentando una figura scolastica non autoritaria.»
Poi aggiungo «Dicono che potrei avere una buona influenza su di lui, essendo una ragazza promettente, con la testa sulle spalle.»
«E tu cosa ne pensi?» dice lui, avvicinandosi.
Mi alzo in piedi, furiosa «Cosa ne penso? Penso che sia assurdo! Come possono credere che io riuscirò dove loro hanno fallito per due anni di fila? A quello non frega nulla, di niente e di nessuno. Perché con me dovrebbe essere diverso?»
Simon mi tira la gonna, spingendomi a risedermi accanto a lui.
Poi mi sposta una ciocca ribelle dietro l'orecchio «Perché sei intelligente e persuasiva» il suo sguardo, lentamente, si incupisce. «E poi perché sei carina. E ai reietti piacciono le studentesse carine.»
Scaccio la sua mano, arrossendo violentemente. «Non credo proprio che la loro sia una manovra sessista. «E poi... Io non sono affatto carina.»
Simon sospira, portando la testa all'indietro, ora la luce del sole fa riflettere i sui capelli ramati.
«Non hai intenzione di accettare, vero?» chiede lui, chiudendo gli occhi.
Deglutisco.
«Erin?» ribatte, spalancando le palpebre all'improvviso.
Non riesco a guardarlo in faccia.
Ora è lui ad alzarsi e sbraitare «Non posso credere che tu lo stia davvero prendendo in considerazione!»
«Simon, mi hanno offerto una borsa di studio» sussurro, senza quasi più un filo di voce. «I miei genitori mi stanno col fiato sul collo per questo da quando ho iniziato gli studi. E' quello che volevamo.»
«Parli al plurale, adesso?» è visibilmente irritato. «Questo è quello che loro vogliono. Tu non hai fatto altro che assecondarli per tutta la vita, mettendo da parte ciò che sei.»
«E' questo quello che sono» dico.
Simon mi arriva ad un palmo di naso. «E quindi ti arrendi così ? Ti vendi per una borsa di studio che neanche vuoi. E' da pazzi, cazzo.»
Lo spingo, alzandomi a mia volta. «Non mi sto vendendo! Mi sto assicurando un futuro, una vita tranquilla.»
«Una vita da burattino» incalza lui, riallacciando la vicinanza tra noi. «Tu vali più di questo. Più di quello che i tuoi vogliono per te.»
Mi viene di nuovo da piangere e Simon se ne accorge, addolcendosi di conseguenza.
«Voglio solo che tu sia felice» dice, grattandosi la guancia.
Annuisco, abbandonandomi sulla panchina, sfinita.
«Non giudicarmi» lo supplico.
Prende posto accanto a me «Sai che non lo farò.»
Appoggio la testa sulla sua spalla e sento i suoi muscoli rilassarsi. «Ci devo provare, credo» mormoro, non del tutto sicura delle mie parole.
«Non costringerti a fare qualcosa fuori dalla tua portata» aggiunge lui.
Alzo il mignolo e prendo il suo, per farli intrecciare, come facevamo da piccoli.
«Prometto che stavolta lo farò solo per me. Se sento di non reggere, mollo. E fanculo quello che penseranno i miei genitori.»
Simon sugella la promessa dicendo «E io prometto di impedirti di infrangere questo patto.»
«Andata» confermo.
«Andata» ripete lui.
Sappiamo entrambi che sto mentendo in parte, ma Simon conosce la mia situazione famigliare meglio di chiunque altro. La rigidità, le regole e i doveri che mi vengono imposti fin da quando ne ho memoria.
Non lo accetta, ma lo rispetta, per quanto gli è possibile.
Lo invidio.
Lui è un ragazzo normale. La sua famiglia è umile, comprensiva. Lo amano così com'è e desiderano per lui unicamente ciò che lo fa sentire veramente appagato. Non danno importanza al denaro, allo stato sociale e alle convenzioni. Vivono la vita, accontentandosi di tutto ciò che di buono può offrire. E anche se le cose non vanno nel verso giusto, trovano sempre il modo di scavare un altro tunnel verso la luce, sacrificandosi se necessario.
Facciamo ritorno a casa, condividendo un paio di cuffiette collegate al suo telefono. Non me ne intendo molto di musica, ma tutto quello che Simon ascolta mi risulta bello e interessante. Canticchiamo le canzoni che sappiamo a memoria e inventiamo il testo di quelle che non ricordiamo.
L'abitazione di Simon è piccola e graziosa, il suo giardino è pieno di fiori meravigliosi che la signora Balin, sua madre, accudisce con cura e dedizione. La cassetta della posta rossa è un po' arrugginita e la piccola staccionata in legno, bisognosa di essere ridipinta, ci arriva alle ginocchia.
«Ti accompagno fino al tuo isolato» esclama Simon, già proiettato verso la direzione che porta a casa mia.
Scuoto il capo «Vado da sola per oggi. In più Camille sarà preoccupata. La chiamerò mentre cammino.»
«Allora ci vediamo qui domani mattina, come al solito» ricorda lui.
«Puntuale» specifico e lui ride.
Ci salutiamo con un cenno della mano e sento il suo sguardo sulla mia schiena, anche se non posso vederlo.
Prendo il cellulare e digito il contatto di Camille, salvato con un sacco di stelline luccicanti, proprio come lei.
Risponde al secondo squillo e mi subisco l'immancabile ramanzina che deve essersi preparata durante tutto il pomeriggio.
Quando le racconto quello che è successo, lei, al contrario di Simon, non sembra affatto contrariata.
Anzi, il fermento nella sua voce mi fa capire quanto sia incuriosita da questa faccenda.
Le dico che non deve essere così elettrizzata e, in tutta riposta, comincia a ricamare trame inverosimili, come solo lei sa fare.
«La ragazza più intelligente e austera della scuola, che farà da maestrina al bel ribelle incasinato... Che bomba!»
Le ricordo che non siamo in una delle sue serie tv preferite e che non c'è proprio niente di eccitante nel dover aiutare un ragazzo emarginato e con problemi comportamentali.
«Sei davvero noiosa» sbuffa Camille. «Ti farò cambiare idea, vedrai.»
«Ne dubito» rispondo, esausta della sua fervida immaginazione da fanatica di Hollywood.
Dice di volerne parlare di persona, perché ora è troppo presa dal suo copione e non vuole perdere l'occasione di affrontare il discorso a quattrocchi.
«A domani, allora» conclude svelta. «Ti voglio bene, Rin.»
«Ti voglio bene anch'io, Cam. Buonanotte» e la comunicazione si chiude.
Sono un po' delusa.
Forse, nel profondo del cuore, speravo in una sua reazione preoccupata o in un disperato tentativo di persuadermi. E invece, mi ritrovo divisa tra due fuochi contrastanti, che bruciano e mi consumano dall'interno.
Vorrei essere positiva come la mia migliore amica. Oppure, completamente in disaccordo come Simon.
Ma alla fine, sto bloccata nel mezzo, incapace di capire cosa sento veramente.
Una volta arrivata a casa, apro il cancello in ferro battuto, rimasto socchiuso e cerco le chiavi nella borsa. Quando entrato, non c'è nessuno a darmi il benvenuto. Le luci sono spente e il silenzio regna sovrano.
Sfilo le Converse e le ripongo nella scarpiera, mi dirigo in cucina dove un post-it verde, posato sul tavolo in mogano, richiama la mia attenzione.

"Siamo in ufficio. La cena è nel frigorifero.
Mamma."

Lo straccio, gettandolo nella spazzatura.
Come al solito, il loro lavoro viene prima di ogni cosa
Gestiscono una società in pieno centro, occupandosi di marketing e comunicazione. Interagiscono con numerose aziende internazionali, stipulano contratti che valgono somme di denaro inimmaginabili ed investono in imprese emergenti, trasformandole in colossi del mercato.
Ovvio pensare che chiunque nel settore vorrebbe lavorare con loro o per loro.
Chiunque, tranne me, ovviamente.
Ma questo è un tasto dolente, che non deve essere premuto, anzi, nemmeno sfiorato o preso in considerazione.
Perché io sono la prossima nella linea di successione e diventerò il prolungamento della loro carriera. L'anello della catena che porterà la società al livello più alto e prestigioso mai raggiunto.
In poche parole, sulle mie spalle erge il compito di espandere l'impero e tenere alto il nome di famiglia.
Un peso che non ho chiesto, ne accettato. Semplicemente, viene dato per scontato che io lo sorregga, con il sorriso sulle labbra e l'orgoglio nel petto.
Eppure, nel mio petto, ora non c'è altro che ansia e sgomento.
Salgo nella mia camera, entro lentamente, sentendo le morbide setole del tappeto blu accarezzarmi le piante dei piedi. Tocco la superficie liscia della mia scrivania, dominata da imponenti libri di testo, penne multicolore, evidenziatori e quaderni.
Mi scappa un sorriso.
Alla fine questo è il posto che più considero parte di me.
Ci passo intere ore, seduta qui. A studiare, a leggere. Per fino a dormire e addirittura sognare...
Non riesco ad odiarla, seppur sia così terribilmente collegata al futuro stritolante che mi spetta.
Perché, dopo tutto, immergermi nell'apprendimento è forse l'unica cosa che mi riesce davvero bene.
La sola a darmi uno scopo, un'identità.
Mi sdraio sul letto, affondo il viso nel cuscino. Ripenso alla promessa fatta a Simon. Al suo sguardo preoccupato, alla sua reazione funesta.
E a quel commento: "Perché sei intelligente e persuasiva... E poi perché sei carina." 
Carina, ha detto.
Non si era mai sbilanciato in questo genere di apprezzamenti prima d'ora, e la cosa mi fa uno strano effetto. Tanto da sentire le guance ribollire e le mani inumidirsi .
Mi alzo di scatto, correndo in bagno e, indignata, osservo la mia immagine allo specchio.
I miei occhi, color nocciola-dorato, hanno le pupille dilatate. Ho le gote arrossate e la fronte leggermente sudata. Questo rende la mia frangetta spettinata, ancora più ingestibile.
Afferro la spazzola, per tentare di sistemare i capelli corvini, che arrivano a malapena sotto le orecchie.
Poi sciacquo il viso accaldato con un getto di acqua fredda.
La figura che vedo riflessa davanti a me, è quella di un'estranea, una vera e propria sconosciuta.
E' come se mi vedessi per la prima volta in balia dalle emozioni che solitamente disdegno e respingo.
Faticherei a riconoscermi, se non fosse per il piccolo neo che mi caratterizza, posto al lato del occhio destro, appena sopra lo zigomo.
Mi arrendo all'evidenza dei fatti, alla stupida emotività che mi invade e finalmente decido di spogliare la divisa scolastica, lasciando cadere i vestiti sul pavimento freddo. Sgancio il reggiseno rosa cipria, sfilo le mutandine. Scruto la mia femminilità.
Ho la pelle pallida, costellata da piccoli nei, i seni minuti, le gambe sottili, lunghe e magre.
Passo le dita sul torace, poi passo alla pancia, al basso ventre, all'inguine...
"Sei carina..."
Mi sveglio come da un sogno ad occhi aperti. Ritraggono subito la mano, indignata da me stessa.
Apro l'acqua calda della doccia, mi ci inondo completamente. Sperando di lavare via questi immondi pensieri che mi attanagliano la mente. Sfrego la spugna così forte da farmi male. Eppure, è come se mi stessi depurando dalle tossine accumulate durante la giornata.
Penso a quel ragazzo, Charles. Al modo in cui ha preso in giro il professore, rifiutandosi di collaborare, nonostante trasparisse che lo spagnolo non gli fosse poi così sconosciuto.
Mi si accende una lampadina.
Indisciplinato ma reattivo, eh ?
Se proprio devo buttarmi in questa pazzia, dovrò pur aver un appiglio da cui cominciare.
E sarà questo, il mio appiglio.
Forse sto sottovalutando l'intelligenza di quel ragazzo. Forse ce qualcosa che loro non sanno e che lui non dice.
Forse posso davvero fare qualcosa...
L'acqua scorre sulle mie spalle, e così i pensieri nella mia testa.
Lo stomaco torna a riaprirsi e la cena lasciata nel frigorifero acquista un improvviso interesse.
Devo essere in forze, ricompormi e stringere i denti. La Erin che devo essere adesso è forte, sicura di se e impassibile. Non posso permettermi di perdermi in quel groviglio di sensazioni che il mio corpo sta cercando di far riemergere.
Sono brava a sopprimere, nascondere, fingere. E' come il compito di questa mattina: insignificante.
Basterà tradurre e dare la descrizione che ci si aspetta, annullando ciò che realmente penso.
Devo solo compiacerli e otterrò quello che mi spetta.
Sì, non è importante ciò che voglio io ora. A quello darò attenzioni in seguito, come ho promesso a Simon.
Così saranno tutti felici.
Mamma, papà, il mio migliore amico, i professori.
E io? Sono felice ?
Anche a questo penserò più avanti. 
Credo. 
 


*ANGOLO AUTRICE *
Eccoci alla fine del secondo capitolo... Le cose iniziano a prendere corpo e man mano la situazione inizierà a costruirsi in maniera ben precisa. Per ora, mi auguro che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Come sempre, vi chiedo, se volete, di lasciare un commento o una recensione, così che io possa capire se la storia è scritta decentemente e risulta interessante e scorrevole. 
Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate!
Vi ringrazio per la lettura e spero ci rivedremo nella terza parte <3 

 

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Capitolo 3
*** 3. ***


Quando mi sveglio, gli occhi faticano ad aprirsi. Sono gonfi e bruciano da impazzire, come se durante la notte, invece della sabbia dell'omino del sonno, mi si fosse stato versato addosso acido bollente.
Vorrei dare la colpa ai raggi del sole che penetrano nella mia camera, ma guardando fuori dalla finestra noto che sta piovendo a dirotto.
La verità è che ho passato una notte pressoché insonne, intrappolata da incubi travestiti da sogni.
Mi alzo prima che la sveglia suoni e sfilo dall'appendiabiti la divisa scolastica: una gonna blu scuro, con giacca abbinata. La camicia bianca, decorata solo dallo stemma del nostro istituto, che risalta appena sotto il colletto.
Indosso le solite calze nere pesanti, leggermente velate, finisco di vestirmi e con svogliatezza pettino i capelli e mi lavo il viso.
Ho davvero un aspetto terribile.
Sono più pallida del solito e le nere ciocche dei capelli non fanno altro che incupire ancor di più il mio volto già lugubre.
Spruzzo un po' del profumo alla cannella che Camille mi ha regalato per il compleanno e mi pizzico le guance per donarmi un leggero colorito rosato. Il risultato è uno dei più scarsi mai ottenuti. 
Scendo le scale, dirigendomi in soggiorno. Mia madre, nella sua vestaglia di flanella rossa, sta già sorseggiando il suo caffè americano, mentre scrive velocemente al pc, comodamente seduta sul divano. E' truccata e pettinata in maniera perfetta. Uno chignon stretto a raccogliere la sua chioma fiammante, fresca di tinta e l'ombretto dalle molteplici sfumature verde smeraldo.
Alza appena lo sguardo, accorgendosi della mia presenza «Buongiorno, tesoro.»
Fingo un sorriso «Buongiorno.»
La conversazione inizia e finisce lì.
Sulla penisola, la macchina del caffè è mezza vuota, ma ancora calda. Perciò, verso quel che rimane del liquido scuro e fumante nella mia tazza verde preferita e bevo a piccoli sorsi, gustando a pieno quel gusto forte e intenso. Amo il caffè. Ritengo sia uno dei massimi piaceri della vita. Anche se preferirei che i miei genitori non se lo sbaffassero tutto ancoral prima che io possa mettere piede in soggiorno.
Mangio dei biscotti integrali, accompagnati da uno yogurt alla frutta - la mia colazione preferita. Alterno il caldo al freddo e le mie papille gustative si risvegliano ogni volta.
Non so se sia merito del caffè - cosa assai probabile - ma la pesantezza agli occhi pare alleviarsi un poco e me ne rassereno.
Finisco il mio pasto e ripongo la tazza nel lavello, guardo l'orologio attaccato alla parete e il mio battito cardiaco inizia ad accelerare.
Parto sempre una decina di minuti prima del necessario, per arrivare a casa di Simon in tempo e percorrere la strada insieme, arrivando così puntuali a scuola.
Questo quando decide di non addormentarsi, ovviamente.
Prendo gli stivali alti dalla scarpiera, quelli con la suola spessa e il tessuto lucido. Osservo con la coda dell'occhio le mie amate Converse rosse, che se ne stanno lì, a supplicarmi di indossarle, ma ascoltando la pioggia borbottare sul tetto, decidere di lasciarle dove sono è sicuramente la scelta più giusta per entrambe.
Afferro la borsa, do un occhiata veloce al suo interno, assicurandomi che il contenuto sia ben organizzato e senza dimenticanze.
Mi avvicino al divano, sporgo il mento vicino al viso di mia madre, lei mi da un bacio in tutta risposta. «Passa una buona giornata, tesoro» mi augura apatica. «Stasera, sia io che tuo padre, rincaseremo prima di cena, perciò, mi raccomando, non fare troppo tardi.»
Fantastico cenetta di famiglia.
«Va bene, io vado. Salutami papà.»
Mi fa cenno di sì con la testa e per me è abbastanza.
Infilo il cappotto autunnale beige chiaro e mi preparo all'impatto con l'aria gelida del mattino.
Non faccio nemmeno in tempo ad aprire l'ombrello, che ne vedo uno celeste spuntare da dietro al cancello.
Simon mi saluta con la mano, un po' impacciato.
«Ma che... » borbotto confusa.
Lui sorride e alza le spalle «Puntualità volevi e puntualità avrai.»
Rivolgo gli occhi al cielo.
«Tu non hai mezze misure, vero?» esclamo, scuotendo il capo.
Ammicca e mi fa segno di aprire il cancello. Non me lo faccio ripetere due volte e faccio un passo verso la sua direzione, ma in men che non si dica, lui mi raggiunge, proteggendomi dalla pioggia con quel enorme ombrello celestino.
«Non ci pensare neanche» dico ritraendomi. «Posso usare benissimo il mio.»
Finge un'espressione offesa «Quando eravamo piccoli, andavamo sempre in due con un ombrello solo.»
«Da bambini, appunto» puntualizzo. «Vorrei ricordarti che siamo al liceo.»
Sbuffa.
Sembra proprio un bambino quando è contrariato. E io penso sia adorabile, ma ovviamente non lo ammetterò mai.
Iniziamo a camminare, ognuno con il proprio parapioggia, lontani ma vicini. Il cielo è grigio, spento, il vento spinge i rami degli alberi, facendoli danzare. Mi perdo ad osservare questa esibizione della natura e il cuore mi si stringe. 
«Vorresti scattare una foto, vero?»  mi domanda Simon, accorgendosi del mio comportamento.
Mi chiudo nelle spalle. Sono stata colta in flagrante.
«Il club di fotografia ha ancora posti disponibili» mi rammenta. «Sarebbero felici di avere un membro con le tue capacità artistiche.»
Simon conosce le sfaccettature più segrete del mio essere interiore. Al contrario di me, vorrebbe farle emergere e sfruttarne il potenziale. Ma sa anche quanto io sia riluttante a questo proposito.
«Non ho tempo per una cosa simile» svio il discorso. «E saper usare la macchina fotografica non significa avere talento.»
«Lo sai che non è di questo che parlo » incalza lui, caparbio a tornare sull'argomento.
Inchiodo in mezzo alla strada e abbasso lo sguardo al suolo «Devo studiare e ho promesso a Camille di aiutarla con il suo copione e poi..» mi blocco.
Simon mi congela con i suoi occhi cristallini «Le ripetizioni a quel ragazzo, giusto?»
Annuisco a fatica. Non so perché mi sento così agitata ed in imbarazzo, eppure non posso farne a meno.
Mi sento sporca, colpevole, stanca.
«Non hai dormito stanotte» e la sua non è una domanda. Sono un libro aperto per lui.
«Non devi preoccuparti » lo rassicuro, prendendogli la mancia della giacca. «Ho promesso che non supererò il limite. Non mi sforzerò. Ho un piano d'azione. Posso farcela.»
Il suo viso si colora di un'espressione tragicomica. «Un piano d'azione, eh?» sorride.
Lascio la sua giacca e stringo la mano a pugno, in segno di sfida «Puoi dirlo forte!»
Il suo sguardo cambia, diventando malinconico e serio contemporaneamente.
«Anch' io ho fatto una promessa» ricorda. «Se noto che qualcosa non va, non ti permetterò di continuare.»
Il suo viso è talmente autorevole, che non trovo il coraggio di controbattere. Ricordo di rado l'ultima volta che ho visto Simon così rigido e irremovibile.
Mi fa quasi paura...
Capisce di avermi turbato e, con nonchalance, tira fuori il cellulare munito di cuffiette dalla tasca, passandomene una.
«Cammina, o arriveremo in ritardo» dice, facendo partire la nostra canzone preferita.
Mi calmo e Il vento fa lo stesso. La pioggia ora è solo una leggera manciata di gocce che solletica la pelle.

Arriviamo a scuola in anticipo, e sulle scale ci salutiamo.
La sua aula è al terzo piano, la mia al secondo. Due anni diversi, due classi diverse.
Osservo la sua schiena allontanarsi. E' ampia e slanciata, come ci si aspetta da un membro del club di atletica.
E' uno dei migliori del suo corso ed eccelle in quasi tutti gli sport. Per quanto io sia brava, lui è sempre un passo avanti a me. Il bello è che questo non mi infastidisce affatto, anzi ci permette di studiare e fare i compiti insieme, di conseguenza passiamo più tempo l'uno con l'altra.
Essere aiutata da lui non mi dispiace per niente ed è per questo che non provo alcun tipo di gelosia nei suoi confronti.
In realtà, lo ammiro. Ma principalmente, lo invidio.
Ogni sua decisione è autonoma e chiara. Sceglie il suo percorso con serenità. Se qualcosa non è di suo gradimento, lo esclude e trova il modo di passare oltre, ottenendo lo stesso risultato, se non migliore. Studiare non è uno sforzo per lui, gli viene istintivo, come respirare. E' naturalmente intelligente, una spugna che assorbe tutto ciò che ascolta e vede.
Brilla di luce propria. Mentre io vivo nell'ombra dei miei genitori.
Raggiungo l'aula e noto che il banco di Camille è vuoto. Arrivare prima che suoni l'ultima campana è uno dei suoi tanti talenti.
Sarà nella classe di Oliver, ad amoreggiare, come al solito.
Sono due calamite, attratte morbosamente l'uno al polo dell'altra. Preferirebbero una nota di ritardo, piuttosto che sprecare anche solo un secondo del loro tempo insieme.
Ed ecco che mi ritrovo ad invidiare pure lei.
Al contrario di Simon, non ha alcun interesse negli studi e passa i test per il rotto della cuffia, ma possiede un animo estroverso, ricco di creatività, puro e gioioso. Nessuno sa resisterle, compresa io.
E' dolce, sprovveduta, maldestra. Eppure, non mi ha mai giudicata ne abbandonata, nonostante il mio carattere sia nettamente opposto al suo.
A lei piacciono le serie tv, i drammi romantici, i magazine di moda e le tecniche di make-up.
Non sarà di certo una cima a scuola, ma è imbattibile nella recitazione. Per due anni di fila si è aggiudicata il ruolo di protagonista nello spettacolo di fine trimestre e, ogni volta che la ammiro danzare e pronunciare le sue battute, rimango ammaliata dalla sua bellezza.
Per questo motivo so di non essere carina...
La campana suona e l'aula inizia a riempirsi. Piano piano, ogni alunno occupa il suo posto. Anche la mia migliore amica, con un balzo da primato, finalmente entra in classe e, dopo avermi stampato un veloce, ma affettuoso, bacio alla fragola sulla guancia, corre a sedersi , prendendo dalla cartella a fiori i quaderni per l'ora di matematica. Si sistema gli occhiali un po' storti e si passa le mani nella chioma dorata, che s'è tutta arruffata per colpa della foga – o meglio, di Oliver – preparandosi, riluttante, a subire la lezione che più odia in assoluto.
Non manca nessuno, solo il professor Briston.
Anzi, No, mi sto sbagliando.
Lui non c'è.
Lancio un'occhiata al suo banco vuoto, infondo all'aula. 
Ci penso su mille volte, dimenandomi tra sentimenti e orgoglio. 
Alla fine, insicura, decido e mi alzo diretta verso la porta.
Sento gli occhi di tutti puntati su di me. Non avevo mai lasciato la classe dopo il suono della campanella. Ma il mio piano d'azione inizia proprio da qui.
Mi sento male, ma devo avere la forza di andare avanti.
Chiederò scusa e darò spiegazioni al professore più tardi. Sono sicura che, data la situazione delicata, chiuderà un occhio sul mio comportamento indisciplinato. Il primo che abbia mai commesso in tutta la mia vita, a dire il vero.
Percorro il corridoio, controllo vicino alle macchinette, nell'anticamera dei bagni, infondo alle scale.
Nulla. Non c'è ombra di lui.
Forse non è venuto. Forse cercarlo è inutile. Forse sono proprio una cretina.
Sto per tornare indietro quando, un lampo nella mia mente, accende una lampadina.
Il tetto della scuola.
Salgo fino al terzo piano, chiedo scusa mentalmente a Simon ,che si trova in un aula poco distante, e continuo a risalire. L'uscita di sicurezza che da all'esterno ha la porta socchiusa e sento il mio sesto senso vibrare. Mi faccio coraggio e varco titubante la soglia.
Quanto odio avere sempre ragione.
Eccolo lì, seduto a terra, la sigaretta accesa, lo sguardo perso nel vuoto.
Charles Amery.
Le mie gambe si bloccano e l'aria fredda del mattino mi fa venire i brividi lungo la schiena.
Lui si accorge della mia presenza e inizia ad osservarmi. E' identico alla prima volta che l'ho visto, solo che oggi i suoi capelli castani sono sciolti e gli coprono leggermente il volto.
Ha occhi cosi profondi da paralizzarmi. Due pozzi neri e indecifrabili.
Un sogghigno gli nasce sulle labbra e fa un lungo tiro di sigaretta. Poi, goffamente, si alza sistemandosi la camicia stropicciata e inizia a camminare nella mia direzione.
Sono immobilizzata.
Solitamente nessuno riesce ad incutermi timore o suggestione, ma questo ragazzo è terribilmente minaccioso.
Vorrà insultarmi? Aggredirmi? O magari deciderà di ignorare la mia presenza, passandomi accanto come se non ci fossimo mai incontrati.
«Non credevo saresti venuta da me così presto» sussurra, arrivandomi ad un palmo di naso. Espelle il fumo dalla bocca e me lo butta in faccia.
Tossisco e indietreggio, irritata.
«Oh, scusami, ovviamente non fumi» ridacchia, spegnendo la sigaretta sulla parete dove mi sono involontariamente appoggiata. E' alto il doppio di me e mi sovrasta completamente.
«Neanche tu dovresti, è vietato in quest'area» rispondo, la voce tremante.
Charles piega la testa di lato e sorride ancora «E' questa la tua prima lezione per me?»
I suoi occhi tenebrosi mi inchiodano al muro, come un animale in gabbia.
Ora la paura si trasforma in rabbia e il mio corpo si muove in avanti.
Sarò un animale, allora. Ma libero e inarrestabile. 
La paura si trasforma in rabbia e il mio corpo si muove in avanti. Sento i muscoli tendersi, la fronte corrugarsi e lo spirito rinvigorirsi. 
Non ti permetterò di trattarmi in questo modo, brutto stronzo.
Tendo il braccio e appoggio la mano sulla sua spalla, spingendolo all'indietro con tutta la forza che ho.
Lui mi guarda stupito. Anzi no, divertito.
Questo suo atteggiamento mi fa oncazzare ancora di più.
«Stare a debita distanza» esclamo, il tono fermo. «Sarà questa la mia prima lezione.»
Charles alza le sopracciglia e mette le mani in tasca «A questo giro, il corpo inseganti non ha proprio badato a spese, eh?»
Le sue parole sono un chiaro segnale del fatto che sia a conoscenza del mio accordo con i professori.
«Sono pronto a restituire il favore» continua lui, annullando di nuovo la distanza che ci separa.
«E tu sei pronta per me, Erin River 
Improvvisamente, il mio nome assume il suono più sinistro e sgradevole che io abbia mai sentito. Ed  è come se fossi nata una seconda volta e venissi ribattezzata ad una vita completamente diversa.
Qualcosa nella mia coscienza cade, rompendosi in mille pezzi, nell'infinito abisso del mio essere. 
Allora perché questo crollo, nonostante la palese distruzione in atto, assomiglia tanto ad una rinascita?     




*ANGOLO AUTRICE*
E anche questo capitolo è finito. So che potrebbe risultare più corto rispetto agli altri, ma voglio dare un briciolo di suspense e creare una nuvola di mistero attorno a Charles. Per adesso, voglio ampliare il carattere dei personaggi e le ambientazioni in cui si muovono e spero che questa scelta venga apprezzata.
Fatemi sapere se vi è piacuto e se la piega che sta prendendo la trama vi intriga.
Il prossimo capitolo è in stesura, perciò non vedo l'ora di rivederci alla prossima lettura. 
Grazie a chiunque commenterà e recensirà. Significa molto per me <3 

 

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