Spirals

di Vento di Fata
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** What do you expect from a therapy session? ***
Capitolo 2: *** I am a lost boy from Neverland ***
Capitolo 3: *** Please don't say you love me, my chest is about to burst ***
Capitolo 4: *** I know you're built to love, but broken now, so just try, yeah ***
Capitolo 5: *** Well everything has changed, and now it's only you that matters ***



Capitolo 1
*** What do you expect from a therapy session? ***


Nota dell’autore, valida per tutti i capitoli:
questa fanfiction parla di argomenti pesanti, tra i quali l’uso e abuso di droga da parte di minorenni e non, l’abuso sessuale e la violenza sui bambini. Ci sono anche delle scene di intimità (non sessualmente esplicita, in quanto ciò infrangerebbe le regole del sito) tra un quattordicenne e un diciottenne, quindi con una differenza di età che può facilmente essere considerata problematica. È un’opera di finzione e tale va considerata, il rating esiste per un motivo.


 
"I am aware it's aggressive
I am not here for acceptance
I don't know what you expected
But what you expect when you walk in a therapy session, huh?"
- Therapy session, NF
What do you expect from a therapy session?
 
 
La periferia di World That Never Was è sempre sporca, grigia e piena di smog.
 
Roxas vi si trasferisce pochi giorni dopo aver compiuto nove anni. È estate e il caldo gli appiccica i capelli al collo mentre osserva il mare che scorre vicino alla strada, plumbeo e pesante come il cielo e come il suo cuoricino.
«So che non è molto bella,» dice suo fratello Ventus mentre guida, facendogli dallo specchietto retrovisore un sorriso tirato come poche cose al mondo. Hanno guidato per sei ore senza quasi sosta ed è stanco morto. «ma è vicino alla scuola elementare e alle medie per quando ci andrai.» Roxas non risponde, stringendo tra le braccine un peluche stracciato, una delle poche cose oltre ai vestiti che sono riusciti a portare via da casa. “Ti compreremo delle cose nuove quando saremo a World That Never Was, va bene?” aveva promesso Ventus mentre gli allacciava in fretta la cintura prima di precipitarsi al posto del guidatore della macchina e partire a tutta velocità, lasciandosi alle spalle la loro casa e le sirene della polizia. «C’è un bel balcone sulla tua camera, se chiediamo a Vanitas di aiutarci potremo piantare dei fiori o della verdura, che ne dici?»
«mhm» sospira Roxas, e vede il viso di suo fratello venire attraversato dalla tristezza che ha tentato di nascondere per l’intero viaggio mentre torna a guardare la strada, una canzone che non conosce alla radio a riempire il silenzio.
Quando arrivano, Ventus gli dice di restare fuori mentre entra nel condominio per andare a chiamare Vanitas, ma almeno lo lascia sedere all’ombra sui gradini dell’ingresso, mentre si gratta un morso di zanzara sul ginocchio che dopo due settimane non è ancora guarito, grattando via la crosta e osservando pigramente il sangue che esce e scende lungo la gamba.
È così concentrato a osservarsi che non si accorge dei ragazzini che stanno camminando verso di lui. Due paia di sandali azzurri compaiono di fronte ai suoi verdi, e i piedi al loro interno sono arrossati dal sole e pieni di cerotti e piccoli lividi.
«Sei il bambino nuovo,» uno dei due afferma, più che chiedere, ma Roxas annuisce comunque, alzando lo sguardo verso di loro. Sono due ragazzini di qualche anno più grandi di lui, con i capelli scuri e gli occhi verdi, che si tengono per mano. Sembrano gemelli. «Come ti chiami?» chiede quello che ha parlato per primo, e Roxas si stringe nelle spalle, continuando a grattarsi la ferita sul ginocchio. «Sei muto?» scuote la testa, premendo le unghie nel ginocchio. Il dolore lo aiuta a stare concentrato.
«Isa, vieni subito qui!» urla una voce adulta da lontano. Il gemello che non ha parlato sbuffa e lancia un’occhiataccia a Roxas, prima di lasciare la mano del fratello e correre via. I suoi sandali sono rotti dietro, come a fare spazio a un piede troppo grande. L’altro continua a fissarlo con un broncio sulla bocca, gli occhi verdi pensierosi, ma anche lui è chiamato da qualcuno – un bambino come loro, che grida «Lea! Zexion continua a tirarmi i capelli!» - e dopo un “ciao” sbuffato scappa via. Roxas resta solo fino a che Ventus e Vanitas non lo raggiungono («Come stai, pulce? È da tanto che non ci si vede» dice Vanitas prendendolo sulle spalle, e Roxas si permette, solo un po’, di rilassarsi a quel contatto così familiare) ed entrano insieme in casa.
Il giorno dopo ottiene il permesso di andare a giocare nel parchetto del quartiere – più simile a una scena da film apocalittico che a un parco giochi – e mentre legge un fumetto seduto all’ombra di un albero gli si avvicina uno dei ragazzini del giorno prima, tutto capelli sparati e braccia magre piene di lividi.
«Isa dice che dovremmo fare amicizia.» considera schietto Lea. Ha un livido sotto l’occhio e un cerotto sul mento. «È mio fratello.»
«mh.» Roxas alza le spalle e continua a leggere.
«È tutto quello che sai dire?»
«mh.»
Ed è in quel momento che Lea scoppia a ridere, forte e di pancia. Roxas lo osserva con occhi perplessi fino a che il ragazzino non si ricompone ed esclama: «Vieni a giocare con noi!» Roxas annuisce timidamente – non è mai stato bravo a giocare con gli altri – e Lea finalmente gli sorride mentre lo tira verso suo fratello e un gruppetto di ragazzini che non conosce, e Roxas tenta di sorridere di rimando.


Nonostante siano gemelli, Isa e Lea non possono essere più diversi tra di loro. Dove Lea è estroverso ed esplosivo, Isa è taciturno e costantemente sulle sue. Lea è sempre la mente dietro i loro migliori casini, che finiscono sempre col fare a botte, gridare e tirare pallonate ai bambini più piccoli e a riderne, mentre Isa è seduto in un angolo, imbronciato e perennemente con il naso in un libro. Ogni tanto Ienzo, uno dell’altra coppia di gemelli che vive nel condominio accanto, si unisce a lui e leggono insieme.
Isa e Lea a tredici anni, con i loro lividi e graffi e le sigarette nascoste nelle tasche sono i più grandi del gruppo e sembrano prendere con estrema naturalezza la parte dei leader. Xion con i suoi dieci anni che indossa sempre gli stessi vestiti per settimane e ha mollato un pugno in un occhio a Roxas l’unica volta che le ha toccato una mano era la più piccola prima che arrivasse Roxas, poi ci sono Ienzo e Zexion con il taglio di capelli uguale e gli occhiali scheggiati e fin troppo intelligenti per la loro età che di anni ne hanno dodici, infine Demyx di undici anni con la sua chitarra sempre in mano e le sue fisse e gli strani versi che fa quando è felice.
Sono tutti quel tipo di bambini che gli insegnanti definiscono “problematici” o “disagiati”, e forse è questo che li ha fatti avvicinare, come un branco di cani randagi che si raduna per difendersi contro il mondo e per leccarsi le ferite dopo ogni battaglia. Alle volte Roxas, con i vestiti di seconda mano che ha troppa paura di sporcare e la cartella di scuola nuova e un fratello che gli vuole bene che lo aspetta a casa, si sente un pesce fuor d’acqua, sembra sempre che ci sia qualcosa che li divide, una consapevolezza che non riesce a comprendere, qualcosa che non li fa avvicinare. Ma in fondo gli piacciono quella nuova vita e quegli amici, anche se ogni tanto sente Ventus che torna tardi dal secondo lavoro e piange in salotto, quando crede che sia lui che Vanitas stiano dormendo.
Un giorno di maggio Roxas, Lea, Isa, Demyx e Zexion sono seduti nell’erba ingiallita del parco, le cartelle e gli zaini abbandonati a terra, intorno a un grasso gatto nero che a pancia all’aria si lascia accarezzare. Demyx, che ha compiuto dodici anni la settimana prima, dice che somiglia ad Lea e si prende uno scappellotto che gli arruffa tutti i capelli, e tutti ridono mentre Roxas si abbraccia le ginocchia e continua ad accarezzare la testa del gatto.
«Roxas, a te piacciono i ghiaccioli al sale marino?» gli chiede in quel momento Zexion, facendogli alzare lo sguardo. Dopo un momento a pensare, scuote la testa, e Lea fa il verso più offeso che abbia mai sentito.
«Ma da che cazzo di pianeta vieni?!» esclama. Isa ride piano e Roxas resta lì a fissarlo, gli occhioni spalancati.
«Hai detto una brutta parola.» considera a bassa voce. Lea batte le palpebre una, due, tre volte, e un sorriso che promette birichinate gli si apre sul viso.
«Cazzo» urla. Roxas sobbalza e Isa ride di nuovo. «Cazzo! Cazzo! Cazzo!» Lea continua a cantilenare mentre il gatto scappa via spaventato dalle urla e Roxas indietreggia offeso, e dopo poco anche Demyx si aggiunge al coro e poi Zexion.
«Scemi!» grida Roxas oltraggiato, prima che Lea gli catturi la testa nell’incavo del braccio e gli arruffi i capelli con le nocche, e le sue strilla si trasformino in risate. Poco dopo stanno camminando verso casa, Roxas pochi passi dietro tutti gli altri, fino a che Demyx non lo afferra per la manica e lo tira avanti, prendendogli la mano nella sua, e Roxas si lascia sfuggire un sorriso.

 
«Ven ha detto che devo tornare per cena. Domani ho una verifica e se vado bene mi compreranno una macchina fotografica.» dice Roxas a Demyx e Xion mentre camminano verso il parco. Sono nella stessa classe di prima media nonostante Dem abbia due anni più di lui e Xion uno, e hanno preso l’abitudine di camminare a casa insieme. Xion grugnisce qualcosa in segno di assenso, grattandosi il gesso al braccio. Se lo è rotto cadendo dallo skate, ha detto.
«Io devo andare da un dottore a fare degli esami,» Demyx fa una faccia storta; «secondo la prof sono autista o qualcosa del genere. Dice che è per questo se sono fissato con gli strumenti musicali e l’inglese e faccio i versi quando sono contento.»
«È una cosa buona che te lo dicano se hai qualcosa, no?»
«Dunno. Mamma è arrabbiata perché dice che io sono normale e non come dice la prof» Demyx si stringe nelle spalle. Entrano nel parco e vanno a sedersi vicino alle altalene, Demyx tira subito fuori la chitarra dalla custodia che porta sulle spalle e si mette a suonare quella che sembra una versione stonata di Don’t You Worry Child mentre Xion si siede sull’altalena e dondola distrattamente i piedi. Roxas si siede all’ombra di un albero e tira fuori un quaderno nero dalla copertina rigida, iniziando immediatamente a scrivere; ha iniziato a scrivere una storia, di sette avventurieri che partono per andare a combattere un drago. Esternare in un’avventura i suoi pensieri e i suoi desideri li fa sembrare più concreti ai suoi occhi, e lo aiuta a concentrarsi su di essi come prima lo aiutava premere le unghie nelle ferite.
Dopo un po’ di tempo ad aspettare arrivano anche Zexion e Ienzo, e persino Roxas riesce a vedere il modo in cui il viso di Demyx si illumina alla vista del più alto dei gemelli, come se improvvisamente fosse arrivato il sole in persona.
«Dove sono Lea e Isa?» chiede Xion, e Zexion risponde con un’alzata di spalle prima di ricominciare a parlare con Demyx di musica.
Passano un paio di ore, e dei gemelli non c’è nemmeno l’ombra, finché quando ormai stanno per salutarsi e sentono Lea chiamarli con un tono stranamente eccitato. Quando finalmente corre da loro, seguito da Isa, è evidente il perché. I capelli neri di Isa e Lea, distinguibili solo perché Isa li teneva legati e bassi e Lea li aveva sparati da tutte le parti, sono spariti: o meglio, hanno cambiato colore. Adesso Lea li ha di un brillante colore rosso fuoco, mentre Isa li ha colorati di azzurro.
Roxas resta bloccato insieme a Demyx, che fa una smorfia. «Che diamine avete combinato?» chiede.
«Il vostro vecchio volpone ha trovato un lavoretto per pagare a sé stesso e a suo fratello un bel cambio di look, Dem, questo abbiamo combinato» risponde Lea con un sorriso sornione, che però non contagia quasi nessuno nel gruppo. Tutti sanno l’unico tipo di lavoro può fare in quel quartiere un quindicenne. «Levatevi quei brutti musi, non sono andato a vendere il culo. Faccio il ragazzo delle consegne, se così possiamo dire.»
«Sarà meglio,» è il commento di Xion. «Quando mi levano il gesso posso farvi le trecce?»
Il resto della conversazione sfuma dalle orecchie di Roxas mentre continua a osservare il rosso fuoco che tinge i capelli – e le sopracciglia, forse? – di Lea. È un bel colore, gli sta bene e si adatta alla sua personalità. Anche Isa col suo blu è veramente bello.
La prima foto che Roxas fa con la sua macchina fotografica che riceve due settimane dopo – una polaroid di quarta mano e probabilmente dell’età di Ventus – è proprio di Isa e Lea, seduti sul muro con il sole che illumina ancora più intensamente il colore dei loro capelli.


«Cosa scrivi, Roxaaaaahs?» chiede Lea, saltando sul muretto con una prontezza di riflessi insolita per uno che si è appena fumato abbastanza erba da stendere un elefante. Lo guarda con gli occhioni spalancati, come un bambino, e scoppia a ridere quando per tutta risposta Roxas chiude il quaderno e lo infila nello zaino.
Roxas fa una smorfia e allontana Lea spingendogli una mano contro la guancia. «Puzzi come se fosse andato a fuoco un campo di marijuana» sbuffa, «io non mi prendo la responsabilità se cadi e ti spacchi la testa.»
«Già fatto» commenta con estrema nonchalance Lea, sorridendogli sghembo. «e poi dobbiamo festeggiare il compleanno di Dem!»
Roxas si concede un sorriso, distogliendo lo sguardo dal rosso collassato e rivolgendolo a Demyx, che già in piena fame chimica sta divorando un sacchetto di confetti come fossero noccioline, con la testa appoggiata sulla spalla di Zexion che per quella sera ha preso in carico la chitarra del biondo. Xion è già andata a casa da un pezzo, dicendo di dover fare da babysitter a sua sorella, e Ienzo e Isa si sono dileguati da qualche parte a leggere.
«Non sei divertente» dice in quel momento Lea, sdraiato sul muretto a testa in giù e un broncio sul volto. «Perché non ti unisci a noi?»
E come mai siamo amici noi? È sul punto di dire Roxas, ma la vista degli occhioni che Lea fa sempre quando è fatto lo fa troppo ridere perché riesca a stare serio. «Perché qualcuno qui deve fare l’adulto e assicurarsi che non sveniate, e visto che tu sei troppo fatto per farlo e Demyx e Zexion tra poco si addormentano tocca a me.» spiega.
Lea borbotta qualcosa e alza la testa, spostandosi in modo da appoggiarla contro la gamba di Roxas. Restano in silenzio per un po’, nell’aria solo il frinire dei grilli e il rumoroso masticare di Demyx.
«Tu che sei in classe con lui, cosa gli hanno regalato i genitori di Demyx?» chiede improvvisamente Lea.
«Da quel che ne so, un bel niente.» risponde Roxas. «A quanto pare gli sta ancora sul cazzo l’idea di avere un figlio autistico, immagino.»
«Che merda.»
«Già.»
Lea sbuffa, stiracchiandosi le gambe lunghissime – a diciassette anni lui e Isa stanno sfiorando il metro e ottanta, con grande fastidio di Roxas e di quasi tutti gli altri. Sembra riflettere un po’, poi si illumina e corre da Demyx, parlottandogli a un orecchio.
Quello che succede dopo solo Roxas che era sobrio se lo ricorda, e ne custodisce gelosamente le foto nel suo album, ma la settimana seguente Demyx arriva a scuola con una custodia di pelle per la chitarra, con il suo nome inciso delicatamente sopra. Non dice a nessuno da dove viene, ma quel pomeriggio prima ancora di salutare Zexion si lancia tra le braccia di Lea gridando ringraziamenti ai quattro venti.


Il giorno del quattordicesimo compleanno di Roxas, Lea gli fa provare la sua prima canna.
Sono seduti al parchetto insieme a tutti i ragazzini della compagnia – Zexion e Ienzo, quest’ultimo impegnato in una lettura con Isa, Demyx che strimpella la chitarra che ha due corde rotte da ormai tre mesi, e Xion con i capelli rasati per via dei pidocchi e sua sorella piccola Naminé in braccio, che anche se è ancora una poppante è ammessa solo perché i loro genitori sono quasi sempre fuori a spassarsela e per quanto siano tutti scemi non vogliono un bambino sulla coscienza.
Bisogna festeggiare il suo ingresso ufficiale tra loro grandi, gli spiega Lea mentre prepara la canna e la accende. Prende una boccata e la passa a Xion che fa lo stesso – spostando la testa in modo da non far finire il fumo addosso a Naminé e la dà a Demyx, fino a che non arriva in mano a Roxas, che incerto la porta alle labbra e aspira come ha visto loro fare mille volte. Il primo tiro non va quasi mai a buon fine, infatti Roxas si trova a sputacchiare e tossire come un idiota mentre tutti si fanno grasse risate. Alla fine, Isa prende pietà di lui e una volta finito di ridere gli mostra come fare, sorridendogli da sopra il colletto della felpa quando riesce a prenderci la mano.
«Benvenuto tra gli adulti, piccolo» gli dice. Ventus, che già guarda storto quella compagnia più grande di lui, lo ucciderebbe se lo sorprendesse a fumare, erba per di più, ma Roxas non può fare a meno di sentire un sorriso allargargli il volto per la felicità di sentirsi accettato. Rifiuta il secondo tiro però, promettendosi di limitarsi alle sigarette, e si appoggia al tronco dell’albero con un sorriso pigro mentre guarda Xion ridere a crepapelle a una battuta di Ienzo.
Piano piano, finita la canna, finite le risate e quando hanno smesso di sembrare troppo fatti, se ne vanno tutti alla spicciolata nelle rispettive case, fino a che non restano solo Lea e Roxas. Isa è l’ultimo ad andarsene, con un’occhiataccia a Lea e un «fai in fretta» detto tra i denti, prima di correre via.
«Non dovevi andare con lui?» chiede Roxas, sdraiato sul prato secco, arrotolandosi una ciocca di capelli intorno al dito – dovrebbe chiedere a Ventus di tagliarglieli.
«Devo prima darti il tuo regalo di compleanno» dichiara il diciottenne, sdraiandosi accanto a lui. Non c’è molto da vedere sopra di loro, il cielo è scuro per lo smog e la luce della luna è di un pallore giallastro che a malapena illumina i contorni degli edifici.
Roxas sospira e si gira verso di lui; «e cosa devi darmi?» chiede. Lea si gira a sua volta e nei suoi occhi verdi brilla una luce malata, la luce di un incendio boschivo e di un abisso mortale. Un sorriso pazzo gli si apre sul volto prima che afferri il viso di Roxas tra le mani e gli dia un bacio sulla bocca.
La prima reazione di Roxas è di tirargli una testata. «Sei scemo?!» gli dice, le guance che bruciano come fiamme, indietreggiando col sedere finché non si trova con la schiena contro il muretto. Lea sembra perplesso, quasi estraniato mentre si tocca il naso sanguinante prima di scoppiare a ridere. Ride forte, come un pazzo, e Roxas si sente come se l’universo lo stesse prendendo in giro. Sente lo stomaco torcersi in mille nodi e si alza ficcandosi le mani nelle tasche. «Scusa,» borbotta imbarazzato. «ti sei fatto male?»
Lea si pulisce il sangue dal viso, strofina la mano sporca sui pantaloni e gli fa un sorriso sornione; «assolutamente no, piccolo. Hai una bella testa dura» considera come se niente fosse, raccogliendo da terra lo zaino distrutto. Si avvicina a Roxas e lo attira in un abbraccio, premendogli le labbra tra i capelli. «Ti voglio bene Rox. Buon compleanno.»
Quel migliaio di nodi nello stomaco di Roxas si fa di nuovo sentire mentre stringe tra le mani la maglietta di Lea, ascoltando il battito del suo cuore. «È per l’erba che sei così o sei diventato sentimentale?» mormora. Sente Lea ridacchiare e stringerlo un po’ di più.
«Guai a te se lo dici a qualcuno.»
Lo accompagna davanti alla porta del condominio e aspetta che suoni il citofono e Vanitas gli apra, prima di salutarlo con un sorriso sghembo e andare via. Roxas resta per un po’ sulla porta a guardarlo mentre cammina via, i capelli rossi illuminati dalla luce arancione del lampione, tutto braccia ossute e vestiti scuri e lividi, l’8 in numeri romani che si è tatuato l’anno prima sopra il gomito e un pacchetto di sigarette che spunta dalla tasca posteriore dei pantaloni stracciati. Quasi senza accorgersene Roxas porta una mano al viso, sfiorandosi con le dita le labbra dove Lea lo ha baciato.
Guai a te se lo dici a qualcuno.
Con un sorriso e un calore nel petto, entra in casa.
*

«È da allora che avete iniziato a stare insieme?»
Roxas fa un sospiro, lasciando ricadere sul tavolino basso la foto che aveva tenuto fino a quel momento tra le mani – l’ultima che aveva scattato con Lea. «Non ci siamo mai dati un’etichetta vera e propria,» sentenzia fissandosi la punta dei piedi; «era tutto come prima, solo che ogni tanto ci tenevamo per mano e quando eravamo da soli ci baciavamo.»
«Non lo avete mai detto agli altri?» gli occhi verdi della psicologa – Aerith – lo scrutano, e Roxas sa che sta cercando il minimo segno di disagio o agitazione. Non sarebbe la prima volta che fa una scenata quando parlano di Lea.
«A un certo punto lo avranno capito, immagino. Più che altro ci tenevamo nascosti da Ven e dai genitori di Lea, per gli altri credo non ci importasse molto.»  spiega Roxas; «E poi erano Demyx e Zexion la coppietta che non si decideva a mettersi insieme, era molto più divertente prendere in giro loro.»
Aerith fa un cenno d’assenso, scrivendo qualcosa sul suo foglio. «E dopo quel giorno cos’è successo? Eri felice?»
Roxas annuisce, piegando le gambe fino ad abbracciarsi le ginocchia e vi poggia sopra il mento. «Mi sembrava di essere sulle nuvole. Eravamo in un posto di merda con gente di merda, girava più droga che voglia di vivere, ma improvvisamente non mi importava. Non mi importava nemmeno che dovessimo nasconderci, ero il suo mondo, mi guardava come se fossi la cosa più bella e non con la pietà con cui si guarda un bambino sperduto e triste.»
«I vostri amici non lo facevano?»
«Sì, ma con lui era diverso... puoi capire come mai.» Aerith sorride allo sguardo di Roxas, che è tornato a guardare la foto sul tavolino con una dolcezza infinita negli occhi.
«Continua pure se te la senti, Roxas. Abbiamo tempo.»
 
 
 

Buonasera, buongiorno e buonanotte signori!
Dopo tre mesi di iperfissazione con Kingdom Hearts, dopo aver divorato tutte le Akuroku trovabili e non su ArchiveofOurOwn e qui su EFP (in particolare quelle di _Ella_, che sono di una bellezza incredbile), ho deciso di scriverne una io.
Ma ovviamente a casa Auditore la felicità non è di casa, quindi ecco a voi l'hurt/comfort.
Come ho detto nelle note dell'autore, i temi in questa ff saranno piuttosto forti, e non sono sicuro che la storia d'amore sia particolarmente sana, maaaaa guess who doesn't care :D
Il prossimo capitolo verrà pubblicato domenica, quindi se volete scoprire come continui Spirals assicuratevi di seguirla e/o ricordarla!

Detto questo vi saluto, spero che abbiate gradito il capitolo e se lo avete fatto vi invito a lasciare una recensione per dirmi cosa ne pensate, anche le critiche se costruttive sono ben accette.
See you on the flip side.
Vento di Fata


p.s. ho composto una playlist Spotify con una serie di canzoni per dare il mood delle storie, sono divise in quattro gruppi da cinque, tra cui le canzoni che danno il nome ai capitoli. Se volete andate a darci un ascolto.

 

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Capitolo 2
*** I am a lost boy from Neverland ***


Link alla playlist della storia, le canzoni per il capitolo iniziano da "When you Love Someone" e finiscono con "Lost Boy"
Nota dell’autore: qui oltre agli avvisi del precedente capitolo vi segnalo anche la presenza di una scena di violenza tra un genitore e un figlio, discussione di abusi famigliari passati e di un attacco di panico descritto. La differenza di età, nonostante le età cambino in questo capitolo, resta comunque di quattro anni.
 
 
I am a lost boy from Neverland
Usually hanging out with Peter Pan
And when we're bored we play in the woods
Always on the run from Captain Hook
"Run, run, lost boy", they say to me
"Away from all of reality"

Neverland is home to lost boys like me
And lost boys like me are free

- Lost Boy, Ruth B 
I am a lost boy from Neverland
 
 
 
Non cambia nulla tra di loro, le prime settimane.
Lea è sempre Lea, che ride troppo e fa lavoretti poco legali per pagarsi la tinta e i tatuaggi e ha sempre l’erba in tasca da smezzare con Zexion e Demyx, e Roxas è sempre Roxas, che a scuola passa il tempo a scrivere storie che si vergogna di rileggere e promette a Ventus di non fumare e di non fare tardi quando usciva e che no, nessuno dei suoi amici fuma marijuana quando c’è lui, anche se poi torna a casa all’una con i vestiti che puzzano di tabacco ed erba.
Nessuno dei due menziona la sera del suo compleanno, e se qualcuno del gruppo ha intuito qualcosa, nessuno parla.
Le cose cambiano quando Lea gli fa una domanda.
«Hai mai pensato di fuggire da qua?» chiede un pomeriggio d’autunno. Sono nella camera che dividono Lea e Isa, sdraiati sul letto mentre si passano una sigaretta e guardano i poster ingialliti e i disegni attaccati al soffitto. Quel giorno Lea si è presentato con un livido che gli anneriva il collo, un cerotto sulla fronte e il labbro inferiore medicato malamente, ma ha sorriso comunque e gli ha proposto di andare a casa sua a fumare, dato che i suoi genitori sono fuori e Isa è con il suo misterioso fidanzato.
«Non proprio da qui, ma quando ero piccolo sì.» confessa Roxas onesto, soffiando fuori un po’ di fumo e guardandolo mentre sale verso il soffitto e scompare. Lea mugola con aria interrogativa. «I miei genitori litigavano sempre, anche prima che papà venisse arrestato. Ven viveva già con Vanitas e io ero da solo a sentire due adulti che si urlavano addosso e poi facevano sesso per fare pace dimenticandosi di avere un figlio che dormiva nella stanza accanto.»
«Che schifo.» commenta Lea. «Perché non sei scappato?» Roxas non risponde. «Dove ti sarebbe piaciuto andare?»
Roxas si gira a guardarlo. Ha una risposta sulla punta della lingua, ma troppa paura per dirla. Magari Lea alzerebbe un sopracciglio e farebbe una battuta, prima di rubargli la sigaretta e soffiargli il fumo in faccia per dargli fastidio. O riderebbe di lui, chiedendogli se veramente è così ingenuo. Mettendo su un sorriso forzato, Roxas ride e gli passa la sigaretta. «Non lo so.» dice. «Tu dove vorresti andare?»
«Twilight Town» risponde Lea senza esitazione, «dicono che ci sia un tramonto bellissimo e il miglior gelato al sale marino del mondo. Il mio posto ideale.» sposta lo sguardo verso Roxas, uno strano sorriso che gli aleggia sul volto e fa scendere un rivolo di sangue dal labbro spaccato. «Vorrei andarci insieme a te, sai.»
A quelle parole Roxas fa un suono del tutto simile a uno squittio, sentendo un calore invadergli le guance. «E come mai proprio con me?» riesce a chiedere attraverso il nodo che sente alla gola.
Una mano sale ad accarezzargli il viso, e Lea resta per un po’ a contemplarlo, come se stesse cercando di memorizzare ogni particolare del viso di Roxas. «Perché credo che la luce del tramonto su di te sarebbe bellissima.»
Il bacio che viene dopo sa di tabacco e sangue, e stavolta è Roxas a iniziarlo, sfiora con le dita la mano che arriva a cullargli la guancia come un uccellino ferito e muove impacciatamente le labbra contro quelle di Lea, il cuore che batte forte come se volesse uscirgli dal petto. Quando si separano dopo quella che gli sembra un’eternità sente un sorriso aprirglisi sul viso arrossato e Lea non smette di accarezzarlo, un’espressione indecifrabile negli occhi verdi.
«Fammi una foto, durerà di più.» sfugge a Roxas, facendolo ridere piano.
«Bel modo di rovinare un momento, Rox.» risponde Lea senza cattiveria prima di chinarsi di nuovo a baciargli le labbra, con una dolcezza quasi insolita per il ragazzo tutto spine che è abituato a vedere. Roxas si sente sorridere nel bacio e stringe nella mano il davanti della maglietta di Lea, sentendo contro le dita il battito del suo cuore. «Potrei abituarmici a tutto questo miele.» sussurra contro le sue labbra, facendolo ridere.
Nella luce del pomeriggio il viso di Lea e i suoi capelli brillano d’oro e d’arancio, come l’incendio che gli arde nel petto e lo spinge verso la vita, e Roxas si trova a pensare che per una volta tutto sembra essere a posto, chiusi in quella cameretta che puzza di fumo e di solitudine.
E tutto non è più a posto quando la porta d’ingresso sbatte contro il muro del corridoio e dei passi entrano in casa. Lea spalanca gli occhi e si tira a sedere di scatto, più agitato di quanto Roxas abbia mai visto, e con un gesto veloce spegne la sigaretta premendosela sul polso e balza in piedi. «Vai fuori» sibila, aprendo la portafinestra che sta dietro ai letti.
«Lea, ma che...»
«Lea!»
«Arrivo! Muoviti Rox.» il tono di Lea non è solo urgente, ma sembra quasi spaventato. Spinge Roxas sul balcone, in modo che sia dietro al muro e nascosto, accostando poi le imposte. «Dammi un minuto mamma, mi sto cambiando!»
«Se scopro che stai ancora fumando, ragazzo...»
Roxas rimane in ascolto, non azzardandosi a muovere un muscolo mentre sente Lea muoversi nella stanza, probabilmente nascondendo l’accendino e le sigarette e la giacca di Roxas che ha lasciato sulla testiera del letto, prima che la porta si apra con un tonfo. «Avevo detto che stavo arrivando!» sente Lea protestare.
«Non usare quel tono con me, Lea.» la voce di sua madre da sola è abbastanza da far capire a Roxas perché Lea si sia agitato in quel modo. Non sembra la voce di qualcuno da cui ti vorresti far scoprire in camera con un ragazzo a fumare. «Sai bene che non voglio vedere porte chiuse in questa casa. Stavi fumando di nuovo, non è vero?»
Lea sbuffa, fingendo una tranquillità che Roxas sa che non ha in quel momento. «Non stavo fumando. Ero al telefono con un amico.» dice. «Adesso non posso più chiamare i miei amici?»
«Bugiardo. Te l’ho già detto molte volte, Lea, che non voglio che fumi o che ti chiudi in camera.» il tono è di avvertimento, e per una volta Roxas non sente Lea rispondere per le rime. «Dove diamine è tuo fratello?»
«È fuori con i gemelli. Sono andati in biblioteca. E tu non dovresti essere a lavorare?» è una bugia bella e buona, Ienzo e Zexion sono dall’oculista, ma il rumore secco di uno schiaffo che segue la frase e il tonfo del peso di Lea che cade sul letto fa intuire a Roxas il motivo per cui non ha detto la verità.
«Non è compito tuo decidere come o quando posso tornare a casa, checca ingrata.» silenzio, solo il cigolio delle molle del materasso mentre Lea si muove. «a volte mi chiedo cos’abbiamo sbagliato con te e Isa.»
«Il primo errore è stato concepirci cred-» un altro ceffone. Roxas si copre la bocca con la mano per nascondere un sussulto, il cuore che batte a mille. Vorrebbe alzarsi, correre dentro e afferrare la mano di Lea e scappare via con lui, ma può solo restare contro il muro ad ascoltare.
«Chiedi subito scusa.»
«...scusami mamma.» la voce di Lea è talmente bassa da sembrare un pigolio.
«Bravo.» sente i passi allontanarsi e la porta aprirsi; «un giorno farete morire sia me che vostro padre, voi due.» i passi si allontanano, e anche da balcone Roxas può sentire il respiro profondo che prende Lea. La portafinestra si apre di nuovo e lui esce, con entrambe le guance arrossate, un graffio sullo zigomo e il labbro che ha ricominciato a sanguinare, e immediatamente afferra la mano di Roxas e lo tira in piedi.
«Dobbiamo levare le tende, Rox» lo dice con urgenza, stringendogli la mano talmente forte da fargli sbiancare le nocche; «appena usciamo dalla camera corri come se ci inseguisse il diavolo, ok?»
«Lea ma che...» non finisce la frase perché Lea gli tappa la bocca con la mano e lo tira insieme a lui nella camera. Può sentire, distante ma non troppo, il rumore di un televisore acceso. Lea mette la testa fuori e scruta il corridoio, e prima di accorgersene stanno correndo.
La porta d’ingresso si apre con un botto, ci sono delle urla sopra il rumore dei loro piedi sui gradini, Roxas stringe la mano di Lea mentre escono dal condominio e corrono per la strada, ignorando le macchine che passano vicino a loro. Quando si fermano, abbastanza lontani da essere in un posto che riconoscono a malapena, Roxas riesce a stento a respirare, si appoggia al muro cercando di riprendere fiato mentre alza lo sguardo su Lea. Lo sta guardando con gli occhi spalancati, anche lui col fiatone, il mento sporco di sangue e gli occhi lucidi, e prima che lo realizzi Roxas gli getta le braccia intorno al petto e lo stringe forte, premendo la fronte sudata contro la sua maglietta. Sente Lea espirare, e le sue braccia che lo stringono di rimando.
Cambia qualcosa, quel giorno.
 
È strano fare finta di niente, poi. Roxas, come gli altri, ha sempre visto la conseguenza, il dopo, di ciò che Isa e Lea passano in casa, i lividi e i cerotti e la tristezza quando devono tornare. E tutti cercano di distrarre tutti dai loro problemi, senza mai parlarne apertamente, e allo stesso tempo sono così concentrati sul loro vissuto da non accorgersi degli altri.
Ma dopo quel giorno è come se Roxas si rendesse conto di cose che non aveva notato prima. Non solo guardando Isa e Lea, il modo in cui sembrano chiudersi quando qualcuno alza la voce o sobbalzano se vengono afferrati con troppa forza, ma anche osservando gli altri da dietro il suo taccuino, mentre scrive storie e prende spunto da ciò che lo circonda.
Vede le occhiaie sui volti di Ienzo e Zexion, il modo in cui sembrano ripiegarsi l’uno sull’altro per sorreggersi a vicenda, l’ansia di Ienzo di essere il migliore e di sapere tutto, vede il tremolio nel labbro inferiore di Zexion quando vorrebbe dire qualcosa ma non ci riesce, perché non trova le parole o forse non ha il coraggio di dirle, il fatto che dopo tutti questi anni ancora si rivolgano ai loro genitori adottivi per nome, come se non fossero certi di restare.
Vede la paura di Xion quando il suo cellulare squilla e Naminé non è con lei, i vestiti troppo grandi che sembrano quasi cercare di nasconderla agli occhi del mondo, i capelli che non ha più smesso di tenere quasi del tutto rasati, le unghie spezzate e sporche di sangue perché se le mangia fino alla carne viva, i gesti nervosi e il modo in cui cammina come se le facesse male qualcosa.
Vede Demyx che ha smesso di fare quei suoni quando è felice e si zittisce prontamente quando inizia a parlare troppo animatamente di musica o in inglese, le sue chiacchere fin troppo entusiaste di come i suoi genitori lo stiano aiutando a smettere tutte le sue abitudini e comportamenti che fino a quel momento non si era nemmeno sognato di nascondere, il modo in cui sembra “normale” ma che di normale su di lui non ha nulla.
E guardandosi dentro, vede sé stesso: timido, piccolo, nascosto ai margini di due vite quasi parallele, che volta la testa quando sente Ventus parlare con Vanitas di quanto sia preoccupato per lui, per sua madre che continua a chiamarli, per le sue compagnie, il suo silenzio; che guarda il mondo attraverso la carta di un quaderno e l’obbiettivo di una macchina fotografica, troppo impaurito forse, per avvicinarsi, come un bambino che guardi un acquario di squali.
È come se rivedesse tutto per la prima volta.
E quello che vede lo spaventa.
 
Anche chiuso in camera e con la testa immersa nei compiti di filosofia, Roxas riesce a sentire lo squillare del telefono. Sente Vanitas alzarsi e andare a rispondere, chiedere chi parla. «Roxas sta facendo i compiti adesso, non può- non urlare, ti capisco benissimo. È urgente? Va bene...» la porta si apre e Vanitas mette la testa nella porta. «C’è un tuo amico al telefono. Dice che è urgente e non la smette di urlare.»
Chiudendo il libro di filosofia, Roxas prende il cordless scassato che gli porge Vanitas e risponde. «Pronto?»
«Roxas, vieni subito a casa di Xion!» la voce di Demyx quasi gli rompe un timpano. «Sai dove abita, alza quel culo e vieni!»
«Dem, ma che...» Demyx chiude la chiamata prima che possa finire. Ancora confuso, restituisce il telefono a Vanitas e valuta il da farsi, ma senza accorgersene si è già mosso per infilarsi la giacca a scacchi e andare a recuperare le scarpe. Anche senza pensarci, sa che se qualcuno dei suoi amici lo chiama direttamente a casa è perché c’è qualcosa di serio in ballo.
«Roxas...» il tono di Vanitas sembra pronto per una predica, ma nemmeno lui ci crede. «...non fare tropo tardi.» conclude. Roxas annuisce, infilando gli stivaletti senza nemmeno allacciarli e uscendo di casa, iniziando a correre non appena mette piede all’esterno.
Già dopo pochi metri sente, lontane, delle voci, e quando svolta col fiatone nella via dove Xion abita vede due macchine della polizia, e un piccolo capannello di persone tra cui riconosce i capelli rossi di Lea e quelli biondi di Demyx.
«Xion!» chiama Roxas, accelerando il passo per raggiungere i suoi amici. Si fa largo fino a raggiungerli, in tempo perché veda Xion uscire con in braccio Naminé, accompagnate da un poliziotto e da una donna in giacca e pantaloni, che tiene una mano sulla spalla di Xion e nell’altra tiene in mano quello che sembra un borsone.
«Xion!» stavolta è Demyx a chiamarla. «Che diamine è successo?» grida. Xion sobbalza, sorpresa dalle urla, ma si volta verso la donna e le parla a bassa voce, facendo nascere un’espressione confusa sul suo viso. La donna alza lo sguardo verso Demyx e dopo di lui guarda Roxas, Lea, Isa, Ienzo e Zexion, prima di lasciare la spalla di Xion e prendere in braccio Naminé, per permetterle di raggiungerli. «Che cosa è successo, Xi? Tutto il quartiere ha sentito le sirene!» chiede Demyx, ma Xion sembra quasi sollevata quando risponde.
«Hanno arrestato mio padre.» dice, la voce poco più che un sussurro. «E porteranno me e Nami in una casa-famiglia.»
«Cosa?! Ma che diamine... non posso-» Zexion mette una mano sulla bocca di Demyx prima che possa finire la frase, perché per la prima volta Xion sembra sorridere senza l’aiuto di una sigaretta o dell’erba.
«Non capisci, Dem?» le sta venendo da piangere, si sente nella voce, e Roxas vorrebbe tanto abbracciarla. «È finita. Non farà più nulla a me e Nami non rischierà...» si blocca, ma è in quel momento che tutto va a posto. Per questo è felice.
Nessuno sa cosa dire. Cosa si può dire, in quella situazione?
Ienzo si fa avanti per primo, allunga una mano e accarezza la testa a Xion, l’unico gesto che non l’abbia mai gettata nel panico. «Siamo tutti felici per voi, Xi. Ci chiamerai, non è vero?» dice, cercando e fallendo di nascondere l’emozione nella sua voce. Xion annuisce, chiudendo gli occhi contenta. Piano piano tutti loro imitano Ienzo.
Non sanno bene cosa dire, nessuno di loro è bravo con le parole, ma riescono a mettere su abbastanza frasi di senso compiuto, abbastanza da far capire la loro felicità per Xion e Naminé.
«Xion, dobbiamo andare.» la richiama la donna, senza alzare la voce, con il tono di chi sa come comportarsi in quella situazione. Xion le lancia un’occhiata e poi si gira verso di loro, e ha gli occhi veramente pieni di lacrime.
«Vi voglio bene, ragazzi.» dice prima di allontanarsi.
L’”anche noi” resta sospeso nell’aria mentre tutti la guardano salire su una delle macchine e partire, lasciandoli indietro ma andando verso qualcosa di migliore.
Si sente tanto il vuoto, all’inizio, come è giusto che sia. Le risate di Naminé, le parolacce, lo skateboard, manca tutto.
Quei vuoti vengono riempiti dalle chiamate e dalle lettere.
Quest’ultime iniziano, dopo qualche settimana, ad arrivare a tutti, a volte identiche e a volte diverse tra i vari componenti del gruppo. Lì Xion racconta tutto, della casa-famiglia, delle persone che incontra, dei dottori e di una dottoressa in particolare con cui deve parlare tutti i giorni. A volte insieme alle lettere arrivano anche dei disegni di Naminé, dove sono tutti disegnati con la fantasia di una bambina di sei anni. E nella sua fantasia Lea diventa una palla di spine rosse e Isa una nuvola, a quanto pare.
Le lettere ricordano a tutti loro che non stanno dimenticando, che anche se sono separati sono comunque amici.
Roxas spera di non doverne avere ulteriori prove.
 
«Lea, mi spieghi dove stiamo andando?» chiede Roxas, stringendo nervosamente la tracolla della borsa e dondolandosi sui talloni. Intorno a loro la stazione è vuota, forse per il caldo torrido di agosto e forse perché sono tutti in vacanza, ma esita comunque a stare troppo vicino a Lea in pieno giorno e in città.
«In culo alla balena, biondo» è la risposta pronta di Lea mentre salgono sul treno. «Lo scoprirai quando arriveremo.» Roxas sbuffa e si lascia guidare a due posti liberi, sfilandosi la borsa e lasciandosi cadere sul sedile. Lea si siede davanti a lui con un certo sorriso sghembo, dandogli un colpetto alla caviglia con il piede. «Avvisa tuo fratello e il suo fantasma che sei fuori a festeggiare il tuo compleanno, prima che chiamino la polizia.»
«Posso sempre dire che mi hai rapito» risponde senza perdere un colpo Roxas, anche se ha già in mano il telefono e senza nemmeno guardare digita un messaggio per Ventus e Vanitas. Sono con Dem e gli altri a festeggiare, mi sa che faccio tardi. «e non sarebbe tanto lontano dalla verità, visto che non mi dici dove mi stai portando.» Lea gli fa un ennesimo sorriso storto e prende a guardare fuori dal finestrino, volutamente ignorandolo e facendogli galoppare ancora di più la frustrazione nel petto. «Dai Leà, lo sai che odio le sorprese.» lo prega, usando il nomignolo che ha preso ad usare per dargli fastidio, sbagliando apposta l’accento e la pronuncia e guadagnandosi un’occhiata di fuoco dal più grande.
«Con quel nomignolo sei su del ghiaccio fottutamente sottile, Roxas Carol. Ora zittisci quella boccuccia e mettiti le tue adorabili cuffiette da gatto.» lo canzona Lea, riferendosi alle cuffie che Roxas ha ricevuto da Demyx quella mattina, un adorabile paio di cuffie bianche e blu con due orecchie da gatto sull’archetto di plastica. Roxas gli fa una boccaccia ma obbedisce e guarda Lea fare lo stesso con le sue cuffie, perdendosi entrambi nella musica mentre accanto a loro la città scorre via.
Piano piano Roxas perde il conto dei minuti che passano e delle stazioni in cui si ferma il treno, occhieggiando ogni tanto Lea che sembra assolutamente rilassato e tranquillo, il viso per una volta pulito da lividi che però gli anneriscono la parte di petto che riesce a vedere dallo scollo della maglia, gli occhi che ogni tanto incontrano i suoi e sembrano scintillare di malizia e impazienza, ma continua comunque a non proferire parola. Quando finalmente il treno si ferma un’ennesima volta e Lea si alza, Roxas sente di nuovo l’agitazione che gli stringe il petto, ma quando Lea gli sorride e gli porge una mano non può fare a meno di prenderla e stringerla forte.
La stazione dove scendono e da cui escono è piccola e pulita, quasi del tutto deserta, e un cartello sopra l’ingresso che dà sulla piazza fa sgranare gli occhi a Roxas.
Stazione di Twilight Town.
Si volta di scatto verso Lea, che continua a tenergli la mano e sorridergli con quel dannato ghigno sghembo che vorrebbe cancellargli a schiaffi e poi a baci come se non lo avesse appena portato a due ore da World That Never Was per il suo compleanno, e come se non lo avesse fatto per lui e lui solo, senza portare nessun altro dei loro amici e...
«Allora? Bella la sorpresa?» chiede.
Roxas si ritrova a dover raccogliere i pensieri per un attimo prima di riuscire a parlare. «Mi... mi hai portato... perché?» è l’unica cosa che riesce a gracchiare, il cuore che sembra soffocarlo, le guance che vanno a fuoco e i palmi sudati.
Lea gli fa un sorriso vero, aperto, raro come una gemma. «Te lo avevo detto che volevo venirci con te, Rox.»
Twilight Town è bella come se la era immaginata. È così diversa da World That Never Was, così bella e quasi famigliare, che Roxas non può fare a meno di guardarsi attorno come un bambino in un luna park, la mano saldamente stretta in quella di Lea – “nessuno ci conosce qua e nessuno lo andrà a dire a tuo fratello o ai miei genitori, Rox, non farti seghe mentali” – e l’altra che è infilata nella borsa, stretta intorno alla macchina fotografica che tira fuori a ogni via che incontrano e scorcio di cielo che vedono tra gli edifici, e presto le tasche posteriori dei suoi jeans sono piene di polaroid scattate, divise tra quelle che terrà e quelle che vuole mandare a Xion. Riesce a fare qualche foto anche a Lea, sia di nascosto che per sua richiesta, e dopo un po’ di convincimenti ottiene anche di farsi una foto insieme a lui, e quest’ultima non la mette in tasca ma la infila nella tasca sul petto della camicia, proprio sopra il cuore.
Anche Lea sembra catturato dalla città, gli occhi verdi illuminati dal sole brillano di una gioia quasi sconosciuta a Roxas, la gioia di un ragazzino spensierato che forse non è mai riuscito a essere. Con i suoi capelli rossi, così simili al colore degli edifici e del tramonto che stanno aspettando (sa che sono lì per questo, lo ha capito dal primo momento in cui ha realizzato di aver messo piede a Twilight Town), sembra appartenere a quel posto, e forse è così, perché Roxas non riesce a immaginarselo in nessun altro posto se non lì, che cammina in quelle strade illuminate dal sole col rumore del mare in lontananza, e non può fare a meno di pensare che dovrebbe essere l’unico posto in cui Lea può essere trovato. Lontano da World That Never Was, dal grigio e dallo smog, lontano da fumo e dai lividi, dalla droga e dal disordine.
Quando Roxas si volta verso Lea, dopo essersi fermato per guardare una vetrina, nota però un’ombra sul suo viso. Gli occhi sembrano perdere lo scintillio che li aveva animati, le labbra corrucciate in un’espressione di profondo pensiero, il fantasma di una tristezza che sembrava aver dimenticato. Senza pensarci Roxas alza l’obbiettivo e scatta una foto, catturando quel momento così intimo, quell’incrinatura nella maschera, così impercettibile e nascosta che quasi subito se ne pente. La foto finisce nella sua tasca e non ne fa parola, lo raggiunge di corsa e gli prende di nuovo la mano, osando alzarsi sulle punte – e comunque non arrivandogli sopra le spalle – per chiedergli un bacio, e vede l’ombra scomparire dal viso di Lea.
Il tramonto inizia ad avvicinarsi e Roxas si ritrova seduto su un muricciolo, i piedi a penzoloni verso una scarpata di qualche metro. Tra le mani tiene la foto che ha rubato a Lea, sfiorando con i polpastrelli delle dita il viso assorto stampato sulla fotografia. Vorrebbe chiedergli cosa stesse pensando in quel momento, quale nube avesse attraversato il suo viso, ma quell’attimo era stato così effimero e veloce che forse nemmeno lui aveva realizzato di averlo.
«A che pensi, Rox?» un bicchiere di plastica con una cannuccia gli compare davanti al viso e Roxas lascia andare la foto, infilandola nella tasca e prendendo il bicchiere. Lea si siede vicino a lui, una gamba piegata contro il petto e una a penzoloni accanto a quelle di Roxas, e si ficca in bocca il ghiacciolo al sale marino, dandogli un morso sperimentale prima di illuminarsi. «Avevano ragione a dire che qui fanno il ghiacciolo al sale marino migliore del mondo.» considera a bocca piena, facendo sfuggire una risatina a Roxas.
«Non pensavo a niente, in verità...» prende una pausa per bere un po’ del suo frappè alla fragola; «è stato un bel compleanno questo.» Lea annuisce soddisfatto a quelle parole, toccandogli una caviglia con il tacco della scarpa come aveva fatto sul treno; «Sono felice di essere qui... con te.»
«Mi fai arrossire con questi modi, screanzato» risponde Lea con fare melodrammatico, togliendosi il ghiacciolo di bocca per agitarlo verso Roxas, facendolo ridere nuovamente. «Scherzi a parte, sono felice che ti sia piaciuto il regalo... per un secondo in stazione ho pensato che mi avresti insultato.»
«Non volevo insultarti, solo... non me lo aspettavo. Che facessi tutto questo per me, intendo.» considera Roxas, guardando di fronte a loro il sole che inizia a calare e colorare di giallo e rosso il cielo. «È la prima volta che qualcuno mi fa un regalo del genere.»
Lea lo guarda, studiando il modo in cui la luce del sole illumina il profilo del viso di Roxas e da una sfumatura aranciata ai capelli biondissimi. Se avesse con sé il suo album da disegno, che tiene gelosamente nascosto sotto il letto, starebbe già disegnando un suo ritratto. Con un sorriso gli tocca la base della schiena con la mano che non tiene il ghiacciolo, invitandolo ad avvicinarsi di più, finché non sono praticamente fianco a fianco, la spalla di Roxas contro il torace di Lea e la sua testa appoggiata sulla sua spalla. «Se tu me lo chiedessi, Rox, penso che potrei andare a chiedere al sole di non calare mai e rimanere sempre qui con te in questo momento.» ammette a bassa voce, voltando la testa in modo da affondare le labbra tra i suoi capelli profumati e nascondere così quella confessione.
Col cuore che galoppa come un puledro nel petto, Roxas si lascia andare a quei contatti che gli fanno provare così tanto tutto insieme, chiudendo gli occhi per un momento e godendosi il calore del suo corpo e del sole su di loro. «Vorrei poter restare qui per sempre e tenerti lontano da tutto quello schifo.» confessa a sua volta, non osando aprire gli occhi né muoversi. Sente Lea irrigidirsi per un secondo, prima che il braccio che era appoggiato alla sua schiena scenda a cingergli un fianco, tenendolo ancora più vicino a sé. «Vorrei che sparisse tutto tranne questo.»
«Occhio che poi Dem e gli altri se la prendono a male...» scherza Lea, lasciandogli un bacio sulla tempia. Il ghiacciolo si scioglie sulla sua mano, dimenticato come il frappè di Roxas, ma a nessuno dei due importa per davvero. «Sei tu il più normale fra di noi, quello con la famiglia perfetta, dovresti essere il paladino delle caste inferiori e salvarci tutti per portarci nel tuo castello.» a quelle parole Roxas lascia cadere il frappè, improvvisamente rigido, il fantasma di un ricordo che gli afferra la gola. Si appoggia nella sua stretta, cercando una sicurezza che non ha. «Che ti prende Rox? Carenza d’affetto?»
«Mio padre è in prigione per violenze domestiche, dopo che Ven lo ha denunciato.» confessa improvvisamente Roxas fissandosi le scarpe; «per questo sono andato a vivere da lui, ma nostra madre continua a difendere papà, anche ora che è in galera, e continua a chiamare Ven e Vanitas e li accusa di continuo di aver distrutto la famiglia portandomi via.» lo confessa tutto d’un fiato, strappando il cerotto prima che possa fargli troppo male. «A ogni compleanno chiama Ven e gli chiede di parlare con me, li sento urlarsi contro per ore e mi sento in colpa perché soffrono tutti per colpa mia.» ora che lo ha detto non riesce più a trattenersi, una voce da qualche parte nella sua testa dice che sta rovinando il momento ma non riesce a costringersi a zittirsi; «A volte vorrei risponderle e dirle di smetterla di chiamarci, una volta per tutte, ma so che finirei col cedere alle sue richieste e non voglio, so quanto male ha fatto a me e Ven, ma... a volte vorrei solo tornare a essere una famiglia.» Lea non parla, gli accarezza con il pollice il fianco e lo lascia sfogarsi, lascia che gli racconti dei suoi sensi di colpa e della sua tristezza, prima che la sua voce si spenga lentamente.
«Che merda.» commenta infine, stringendolo un po’ di più a sé e lasciando cadere lo stecco del ghiacciolo ormai sciolto per potergli stringere una mano nella sua appiccicosa. «Se mai finirò in galera e incontrerò il tuo vecchio mi assicurerò di tirargli un cazzottone da parte tua, che ne dici?»
Roxas tira su col naso, sentendo una fastidiosa umidità negli occhi. «Ci sto» risponde, azzardando un timido sorriso. «...grazie.»
«E di cosa, Rox? Parlare di queste cosa fa bene, non bisogna tenersele dentro. Lo so per esperienza, carino.» Lea sorride a sua volta, prima di voltarsi verso l’orizzonte. «Guarda... c’è il tramonto.»
Roxas sposta lo sguardo e vede un’esplosione di colori, rossi e arancioni e gialli che sfumano e colorano il cielo, illuminando d’oro e di rubino tutta Twilight Town, lanciando ombre affilate che sembrano solo rendere il cielo ancora più brillante. Resta in silenzio, guardando senza parole quello spettacolo che sembra lì solo per loro.
Il tramonto di Twilight Town è veramente bellissimo.
Roxas osa voltare lo sguardo e vede Lea, che sembra prendere fuoco immerso in quella luce, i capelli un incendio e gli occhi due tizzoni smeraldo. La luce di un incendio boschivo e di un abisso mortale. Sente il cuore esplodergli nel petto e vorrebbe mettersi a gridare, perché non vuole che finisca, non vuole che scenda la notte e non vuole tornare a casa.
Vuole solo essere lì.
Anche Lea si volta a guardarlo, forse sentendosi osservato, e gli sorride, sorride davvero, come se lo vedesse per la prima volta. Si china su di lui, fino a che loro labbra non sono separate da poco più che un respiro, la luce del tramonto che li avvolge come una coltre dorata, e Roxas si ritrova a spingersi contro di lui per catturare le sue labbra in un bacio impacciato, intimidito anche dopo quasi dieci mesi di baci e carezze dati in segreto che finalmente possono darsi all’aria aperta.
Sente Lea sorridere nel bacio e salire a tenergli una guancia con la mano appiccicosa di ghiacciolo per guidarlo, e in quel momento esiste solo lui, il suo sapore, il suo profumo e il suo abbraccio. Esiste solo Lea ed esiste anche Roxas, esistono insieme e per la prima volta Roxas pensa di sapere cos’è la pace.
Intorno a loro il mondo continua ad andare a fuoco.
 
C’è qualcosa che non va. Roxas lo capisce non appena mette piede in casa, già pronto a chiamare Lea che insieme a Isa non si è fatto sentire né vedere per tutta la giornata, e vede Ventus e Vanitas sul divano, gli occhi rivolti alla porta come se lo stessero aspettando. Ventus tiene aperto sul tavolinetto quello che sembra un libro.
«Come mai siete già qui?» chiede Roxas scalciando via le scarpe e lasciando cadere la borsa, mettendosi le mani in tasca. Ventus apre la bocca per parlare ma la richiude quasi subito e rivolge un’occhiata a Vanitas, quasi una supplica, e questo sospira e gli stringe la mano.
«Abbiamo ricevuto una chiamata molto grave, Roxas,» inizia mentre un gelo si abbassa sulla stanza; «riguarda il tuo amico Lea.» immediatamente Roxas si mette dritto e lo fissa.
«Cosa gli è successo? Sta male?» chiede, un artiglio gelido che gli viaggia su per la schiena e gli stringe le viscere. Pensa immediatamente a tutto ciò che potrebbe essere successo, da una rissa finita male a un incidente stradale, ma lo sguardo di Vanitas promette molto peggio.
«Roxas, Lea è stato arrestato.»
Ci vuole qualche secondo perché le parole acquistino un senso nelle orecchie di Roxas. Lo hanno arrestato. Hanno arrestato Lea. Per cosa? Cosa ha fatto? Potrebbe conoscere la risposta e questo lo spaventa ancora di più. «Come... come è successo?» riesce a biascicare, cercando di ignorare lo sguardo di Ventus che sembra sul punto di scoppiare a piangere o di avere una crisi di rabbia.
Vanitas non lo guarda più, ha spostato lo sguardo sul libro che è ancora aperto sul tavolinetto, ed è solo in quel momento che Roxas lo guarda meglio e lo riconosce: non è un libro, è il suo album di foto. È aperto all’ultima pagina che ha riempito, quella del suo compleanno che ormai è stato quattro giorni fa, e una foto in particolare è stata staccata, come a volerla osservare meglio.
Roxas, illuminato dalla luce del tramonto, sorride all’obbiettivo e fa un segno di vittoria con le dita della mano libera, e Lea lo abbraccia da dietro ma invece di guardare l’obbiettivo gli sta stampando un bacio sull’angolo della bocca.
Lo aveva rimproverato perché in nessuna foto era riuscito a convincerlo a stare fermo e a sorridere, preferendo invece le boccacce o i baci rubati. Ne aveva scattate un paio in cui si baciavano per davvero, ma insieme a quelle in cui Lea gli rubava vari baci sul viso le aveva nascoste in una scatola insieme alle sigarette e alle foto di Demyx e Lea fatti che provavano a volare. Quella era l’unica che aveva deciso di lasciare nell’album normale, pensando sarebbe passata inosservata in mezzo alle loro boccacce e sorrisi.
«Ven...»
«Che cosa c’era tra te e lui, Roxas?» la voce di Ventus vacilla ma è dura, che non ammette repliche. È la stessa voce che usa quando chiama sua madre. Roxas trema prima di cercare di rispondere.
«Eravamo amici, Ven.» bugia, bugia, due amici non si baciano così, ma non vi siete mai dati un’etichetta vero? Non vi siete mai fermati a pensare. Idioti. «...ci volevamo bene e basta.»
«In che senso tu intendi volersi bene, Roxas?! Non mi pare ti volesse solo bene.» l’album viene chiuso con un tonfo, intrappolando la foto proprio in mezzo alle due pagine e immediatamente Roxas pensa che la foto si piegherà e resterà il segno, ma Ventus continua a parlare. «Ho chiuso un occhio sul fatto che continuaste la vostra amicizia nonostante tutto quello che sentivo su quel ragazzo, dopotutto siete amici da quando sei arrivato e capisco il volergli bene, ma questo è ben altro!»
«Ven,» Vanitas gli posa una mano sul braccio. «Ven, calmati. Lascia parlare Roxas. Sono sicuro che ci saprà spiegare tutto, ma devi lasciarlo parlare.» alza lo sguardo su Roxas, e nei suoi occhi vede che lo sta pregando di dare una spiegazione, di negare, di dire qualsiasi cosa.
 «Noi... non eravamo quello» riesce a dire nel panico Roxas, non sa cosa dire, non sa come giustificarsi, c’è veramente qualcosa di cui doversi giustificare? «È solo che quando ho compiuto quattordici anni... ci siamo avvicinati e io ero felice di averlo vicino...»
«Ai tuoi quattordici anni lui ne aveva diciotto e passa, Roxas!» grida Ventus. Ventus non grida mai con loro. «Ti rendi conto di quanto sia sbagliato? Avrebbe potuto farti qualsiasi cosa! E oggi ci chiama la polizia e vogliono interrogare te, perché il tuo migliore amico è stato scoperto a spacciare droga!»
Droga? Lea non spaccia... ma ci ha mai detto cosa faceva per pagarsi le tinte e i tatuaggi? Come lo ha pagato il biglietto del treno per Twilight Town? Roxas boccheggia come un pesce fuor d’acqua, vorrebbe dire qualcosa, qualsiasi cosa, per difenderlo, ma non gli riesce niente. «No! N-non... ha mai costretto.» riesce a dire, rendendosi conto che gli bruciano gli occhi e il petto. Sta piangendo? Può almeno cercare di ripulire la faccenda di loro due. «Io non sapevo niente...»
«Cosa ne sai, Roxas?» Vanitas cerca di fermarlo, ma Ventus lo scansa e raggiunge Roxas, afferrandogli le spalle e quasi scuotendolo. «Era più grande e basta poco per abbindolare un bambino fragile come te, le parole giuste al momento giusto per farti pensare che ti voglia bene...»
«NO!» stavolta è Roxas a urlare, allontana Ventus con una spinta mandandolo contro il tavolino e si sente scoppiare in singhiozzi isterici, gli fa male il cuore e nella testa pensa alla foto spiegazzata nell’album, a Lea che ride e lo bacia sulla guancia mentre si fanno le foto e gli compra il gelato e non può aver fatto finta, non ha mai cercato di spingersi in là, non ha mai toccato nulla di Roxas che lui non avesse toccato per primo su Lea, nessuno può fingere così bene, nessuno può fingere quell’incrinatura nella maschera che è riuscito a fotografare. «Lea non... Lea mi... non è papà, Ventus.» le ultime parole le grida nuovamente, le lacrime gli rigano il viso come dei fiumi e gli fa male tutto.
«Roxas. Roxas calmati, ti farai venire un attacco di panico...» Vanitas gli stringe le mani e le allontana dalle braccia in cui stava affondando le unghie, ma Roxas continua a piangere e quasi non respira, scuote la testa e cerca di spiegarsi, di spiegare a Ventus che si sbaglia, che... «Roxas, lo sappiamo che Lea ti vuole bene. Ti vuole così tanto bene che per questo non ti ha mai detto niente di quello che faceva per avere soldi, non è vero?»
È sempre stato Vanitas quello che capiva di più la sua amicizia con i ragazzi. Il bene che si volevano e ciò che facevano per proteggersi... nessuno diceva niente agli altri e cercavano di distrarsi a vicenda dai loro problemi. Avevano sempre fatto così. Roxas annuisce, ancora col respiro che gli si blocca in gola e col cuore a pezzi, ma Vanitas non smette di parlare, gli parla e intanto gli fa sentire il suo respiro e piano piano a Roxas sembra di riuscire a respirare con più chiarezza, le macchie nere davanti ai suoi occhi iniziano a sbiadire e si ritrova seduto sul divano, con le mani ancora strette in quelle di Vanitas. Ventus è sparito e dietro la testa di Vanitas Roxas riesce a vedere che la porta della loro stanza è chiusa, e il dolore torna di nuovo perché forse ha spezzato Ven, ora hanno litigato e romperà anche questa famiglia, come era successo con mamma e papà. «Ven...» riesce a balbettare, guardando Vanitas con gli occhi nuovamente pieni di lacrime.
«Ven è andato in camera a calmarsi, esattamente come stai facendo tu in questo momento. Non ti odia e non spezzerai proprio niente.» risponde Vanitas, facendo capire a Roxas che quelle parole le aveva dette davvero, balbettando e gemendo come un idiota. «Adesso avete solo bisogno di calmarvi tutti e due. Fai una cosa per me, vai a mettere via l’album di foto nella tua camera mentre io vado a parlare con Ven.» l’album gli viene messo tra le mani e Roxas annuisce, concentrarsi su un compito singolo lo aiuta sempre a concentrarsi, come lo fa lo scrivere e il premersi le unghie nelle ferite. Si alza e va in camera, scavalca il cuscino gettato per terra e si alza sulle punte dei piedi per mettere sulla mensola più alta, vuota ed impolverata, l’album di foto. Nell’altra stanza sente la porta aprirsi e Vanitas entrare.
«Ven...»
«Lasciami stare Vanitas, non... non è il momento.»
«Ventus, non puoi chiudere fuori Roxas. Ha bisogno di te, ora più che mai.»
«Mi pare che abbia già altri su cui contare.»
«Adesso sei solo crudele, perché ti fa incazzare che Roxas non sia più bambino e stia soffrendo.»
«Mi fa incazzare che qualcuno si possa approfittare di nuovo...»
«Ventus, fino a che tuo fratello non ci dirà qualcosa, nessuno si è approfittato di nessuno qua. Rox sta crescendo e ha preso una cotta, per la persona sbagliata forse, ma in quelle foto era felice come non ho mai visto Roxas da quando lo conosco, e non è colpa sua se è andata a finire male.»
Roxas smette di ascoltare e afferra le cuffie, infilandole velocemente e facendo partire la musica. Prende da terra il cuscino e se lo preme sul viso, permettendosi di piangere di nuovo.
 
Isa: Vieni giù al parco, ho una cosa da darti.
Roxas: È tardi e non sono dell’umore, Isa.
Isa: Me ne sbatto. Muoviti.
Isa lo aspetta seduto sul muretto, rigirandosi una ciocca di capelli sfuggita dalla treccia disordinata in cui sono legati i suoi capelli blu. Roxas si avvicina con le mani nelle tasche, cercando di non pensare al fatto che il suo blu senza il rosso di Lea è come un girasole in un campo di grano.
«Cosa dovevi darmi?» chiede a mo’ di saluto, scalciando il terreno con un piede e quasi perdendo le ciabatte – è ancora in pigiama. Isa lo guarda come a volerlo studiare, l’espressione indecifrabile identica a quella del gemello, prima di prendere dalla tasca un foglio arrotolato e darglielo.
Una volta aperto, Roxas sente l’istinto di gridare. Sul foglio spiegazzato c’è un ritratto di Roxas il giorno in cui sono andati a Twilight Town, con l’espressione meditabonda sul viso mentre beve il suo frappè. Lo stile disordinato è inconfondibile. Nell’angolino più in basso, in una scrittura decisamente diversa da quella di Lea, c’è scribacchiato un indirizzo... di una prigione.
«Ha detto di darti il disegno, ma ho pensato che ti avrebbe fatto anche piacere scrivergli. Sei anni sono lunghi da passare da soli, e conoscendoti non mi avresti dato pace finché non te lo avessi dato.» Isa si alza, le mani ficcate nelle tasche della felpa. «Lea ti voleva un gran bene, Rox.»
Roxas si sente soffocare. «...lo so.» dice. Tra di loro cala un silenzio imbarazzante. Con Isa non ha mai avuto molto da dire. «Adesso... cosa farai con i tuoi genitori?»
«Non sono più un problema, visto che me ne vado.» Isa lo dice in modo tranquillo, come se stesse parlando del tempo. «Lea era l’unica cosa che mi teneva in casa con quegli stronzi, e senza di lui non ci sto lì.»
«E... dove andrai?» non vuole chiedergli come farà, con che soldi, se anche lui spacciava come Lea, se lui sapeva e non ha detto niente.
«Non lo so onestamente. Finché alla macchina di Xemnas dura la benzina, immagino...» quel nome, non del tutto sconosciuto a Roxas, gli fa alzare lo sguardo dal foglio che sta praticamente stritolando tra le dita. Anche Isa sembra a disagio in quel momento, vede le sue mani muoversi nelle tasche. «Mi mancherete.» ammette infine, arrossendo come se si vergognasse. «Tutti. Anche quello sciroccato di Demyx.»
Ingoiando il groppo in gola, Roxas forza un sorriso. «Anche a noi mancherai, Isa. Fatti sentire, ok?»
«Ok.»
Finisce così, senza saluti o convenevoli, Isa gli da un ultimo sguardo e poi si allontana, raggiunge un uomo alto dai capelli chiari che lo aspetta fuori dal parco e che lancia un’occhiata di sfuggita a Roxas, prima di prendere per mano Isa e andare via con lui. Roxas si gira e corre a casa, facendo i gradini a due a due ed entrando in casa con più fretta di quando era uscito, ignorando le domande di Vanitas e andando a chiudersi in camera.
Si siede alla scrivania, accende la luce e riprende in mano il disegno. Non riesce a guardarlo, gli fa troppo male, ma con un gesto preciso strappa l’angolo dove è scritto l’indirizzo prima di nascondere il disegno sotto i quaderni di scuola. Lo guarda ancora un po’, girandoselo e rigirandoselo tra le mani, e intanto prende un foglio dal cassetto e recupera una penna.
Dopo qualche altro minuto, Roxas posa il pezzo di carta e si mette a scrivere.
 
 
 

Rieccoci qui, a un orario improponibile, ma l’insonnia è una brutta bestia e io pubblico solo di notte.
Che dire, questo capitolo è stato un vero e proprio rollercoaster di emozioni, passando dal fluff all’angst all’hurt/comfort, tornando nel fluff più assoluto (la scena di Twilight Town mi ha fatto venire almeno sei carie a scriverla, lo giuro) e finendo nell’angst with an hopeful ending. Spero che tutte le parti siano state di vostro gradimento, ho fatto del mio meglio per scrivere tutto come me lo immaginavo e al meglio delle mie capacità, per quanto possa essere difettoso.
Il prossimo capitolo verrà pubblicato domenica, quindi se volete scoprire come continui Spirals assicuratevi di seguirla e/o ricordarla! Sarà un lavoraccio, con un po' di fortuna sarà quasi completamente illustrato, almeno nelle sue parti più importanti, quindi spero che potrete apprezzarlo.
Detto questo vi saluto, spero che abbiate gradito il capitolo e se lo avete fatto vi invito a lasciare una recensione per dirmi cosa ne pensate, anche le critiche se costruttive sono ben accette.
See you on the flip side.
Vento di Fata

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Capitolo 3
*** Please don't say you love me, my chest is about to burst ***


Nota dell’autore: qualche accenno ad abusi famigliari passati, ad attacchi di panico e all’uso di medicine psicotrope. Niente di troppo pesante ma ritengo comunque giusto avvisare. Come sempre questo è il link alla playlist della fanfiction, le canzoni di questo capitolo vanno da “Words” a “First Love/Late Spring”.
 
And I was so young
When I behaved
Twenty-five

Yet now I find
I've grown into
A tall child


And I don't wanna go home yet
Let me walk to the top of the big night sky


Please hurry leave me
I can't breathe
Please don't say you love me

- First Love / Late Spring, Mitski 
 
Please don’t say you love me, my chest is about to burst
 
 
3 settembre - Lettera numero 1
Non so di preciso cosa scrivere. Come iniziano le lettere? Con un saluto e un “come stai” credo.
Ciao Lea.
Come stai?
Ok, è un inizio stupido. Ovvio che non stai bene, sei in galera. Isa mi ha detto dove mandare questa lettera, così posso tenerti compagnia. Subito dopo mi ha detto che stava scappando col suo ragazzo. Te lo ricordi Xemnas, quello che abita in fondo alla strada e ha un bel po’ di soldi? Alla fine è lui il fidanzato di Isa. Ma immagino tu lo sapessi, è tuo fratello.
Ventus ovviamente non sa che ti sto scrivendo, ha trovato la foto del mio compleanno che avevo messo nell’album e abbiamo fatto la litigata del secolo, e adesso non ci parliamo. Perciò ho chiesto a Vanitas di comprarmi i francobolli, e stranamente non ha fatto storie, si è solo raccomandato di non mandare in giro foto di me nudo. Come se ti interessassero. Ti mando una foto che ho fatto l’altro giorno però, di Demyx che suona. Quella chitarra nuova gli piace proprio, adesso sta imparando una canzone dei Polyphia che si chiama G.O.A.T., e non so come siano ancora integre le sue dita.
Non so di preciso cos’altro scrivere... sono passate poco più di due settimane ma mi sembra un’eternità. Mi Ci manchi. Almeno, a chi è rimasto, per gli altri non so. Ma sono sicuro che anche loro sentono la mancanza del nostro scemo di quartiere.
Stammi bene. Cerca di non raccogliere la saponetta nelle docce.
Roxas
 
28 settembre – Lettera numero 2
Ciao Lea.
Xion mi ha chiamato ieri. Ha detto che hanno dato lei e Naminé in affido a una famiglia a Land of Departure. Sembrava felice, mi ha raccontato della casa-famiglia e degli amici che hanno trovato. La loro famiglia affidataria ha regalato loro delle valigie per portare a casa le loro cose e le hanno portato dei fiori, spero siano brave persone come me le ha descritte. Se lo meritano.
Io non sto facendo niente di nuovo, a parte la nuova grande idea di Ventus di andare da uno psicologo, lo stesso dove va lui da quando sono arrivato: devo iniziare anche io perché dice che dobbiamo parlare con qualcuno. Traumi infantili e strade sbagliate e tutte quelle cose lì. Ce ne ha messo di tempo a realizzare che forse ad avere una famiglia come la nostra saremmo cresciuti un po’ fottuti.
Oltre a questo, tutto è come al solito. Io continuo a fare foto e scrivere, Demyx continua a suonare e Ienzo e Zexion stanno per andare all’università. È un po’ che non vado avanti con la mia storia, sai quella che continuo a scrivere da quando avevo undici anni. Forse è perché ora che non siamo più tutti vicini ho perso l’ispirazione. Ti manderò uno spoiler quando andrò avanti, e quando uscirai te la farò leggere intera. Sei anni sono abbastanza per finirla, spero.
Chissà che faccia avremo tra sei anni. Ti riconoscerò senza capelli rossi?
Ci manchi. Stammi bene.
Roxas
p.s. la foto l’ho fatta in gita la settimana scorsa in un museo. Il porcospino preistorico mi ricordava te.
 
19 ottobre – Lettera numero 3
Nessuna risposta eh? Non so nemmeno se ti arrivano queste lettere. Preferisco pensarlo piuttosto che tu le stia ignorando volontariamente. Sei abbastanza stronzo da farlo ma sono ottimista.
Anyway.
Ienzo e Zexion sono andati all’università, con scorno di Demyx che ancora piange quando nomino Zex. Biologia e chimica, borsa di studio con più di tre quarti della retta coperti. Bastardi fortunati. Io non so dove voglio andare a studiare, magari letteratura? O filosofia. Sono bravo a scrivere e farmi seghe mentali, direi che fanno entrambi per me. Forse prima dovrei pensare a finire le superiori. Odio la matematica.
La psicologa sembra una tipa a posto alla fine. Si chiama Aerith e sa un sacco di cose sulla fotografia. Abbiamo parlato di quello e le ho mostrato un paio di foto nostre di quando ero appena arrivato. Non quelle degli ultimi anni, è simpatica ma i cazzi miei non se li può ancora fare così tanto. Ha detto che sembriamo bravi ragazzi, sicuro.
Potete leggere libri in prigione? Ho appena finito di leggere un libro e secondo me potrebbe piacerti, parla di un principe che viene fatto prigioniero e mandato come schiavo in una nazione straniera. Chiederò a Vanitas.
Questa volta niente foto, ho finito la pellicola e non posso svuotare il mio album per farti piacere.
Occhio al tuo bel faccino.
Roxas
 
24 novembre – Lettera numero 4
Vai a farti fottere, Lea. Tu e il tuo silenzio.
La psicologa mi ha chiesto di noi due. Ha chiesto che rapporto avevamo e se mi hai mai costretto a fare qualcosa che non volevo. Le ho detto che se fosse stato così lo avrei detto a Ventus, non sono un idiota, mi ha risposto che non devo avere paura di dirle la verità. Perché non è colpa mia, ero piccolo e tu più grande, ero in un momento fragile della mia crescita e così via.
Glielo ha detto Ventus di parlarmene, ovviamente, io nemmeno avevo accennato che fossimo mai stati soli. Quando siamo arrivati a casa gli ho fatto una scenata, ci sono venuti a bussare i vicini da quanto urlavamo, ed è finita che ho dormito al parco.
Odio tutto questo e mi sento una merda, mi sembra che ogni cosa che tento di fare sia sempre la cosa peggiore. Voglio solo fumare insieme a te come facevamo prima e guardarti mentre dormi con la luce che ti illumina il viso e baciarti fino a stare male e parlare di stronzate con tutti gli altri e fare gli idioti insieme e dimenticarmi di ogni cosa. Ma se ne stanno andando tutti e ovviamente a nessuno di loro importa, e immagino nemmeno a te.
Perché non mi rispondi?
Andate a fanculo tutti.
 
28 febbraio – Lettera numero 5
Buon Natale e buon anno in ritardo.
Scusami. Non pensavo davvero quello che ho scritto. Ero arrabbiato con Ven e con la psicologa, con te e con il mondo intero immagino.
Lo so che ti importa di me, e che anche agli altri importa. Persino Demyx me lo ha detto, una sera che eravamo al parco, e ha pure chiamato Xion per insultarmi in due. E hai tutto il diritto di non rispondermi, visto come è finita l’ultima volta che eravamo insieme di persona.
Io e Ventus ancora non abbiamo fatto pace, non che prima l’avessimo fatta, ma non ha commentato quando ho chiesto a Vanitas i francobolli per ricominciare a mandarti lettere, quindi immagino che sia un passo avanti. Tanto penso lo sapesse dall’inizio che ti scrivevo.
Per farmi perdonare ti mando un paio di foto, una di Xion che va in skate e quella di te e Isa quando avevate entrambi i capelli lunghi. Come regalo di Natale ti riscrivo anche una parte della storia. Leggi con parsimonia e rispetto, sei il primo al mondo a vederla.
Un abbraccio.
Roxas

"Forse era stato destino che si incontrassero tutti e sette quel giorno, forse sfortuna o forse semplice caso. Madain non lo sapeva. Sapeva solo di volere vendetta..."
 
24 marzo – Lettera numero 7
Ciao Lea.
Buon compleanno! Adesso hai vent’anni, hai smesso di essere un teenager e sei ufficialmente un adulto. Magari adesso metterai su un po’ di giudizio e quando uscirai ti troverai un noioso lavoro da impiegato.
Ti mando il libro di cui ti ho parlato come regalo di compleanno. Non è molto lungo ma è d’intrattenimento.
Scusami se non scrivo molto, ma ultimamente sono sempre triste e mi sembra di essere perso e non so nemmeno cosa sto pensando. Forse sto crescendo. Che schifo.
Auguri.
Roxas
 
10 dicembre – Lettera numero 16
Ciao Lea.
Oggi io e Ventus abbiamo parlato.
Stavo studiando ed è entrato in camera con una fetta di torta al cioccolato e mi ha chiesto se potesse sedersi con me. Gli ho detto che è casa sua, non ha bisogno di fare tanti convenevoli.
Poi mi ha chiesto come stavi. Quello non me lo aspettavo, ma secondo me c’era sotto qualcosa quindi non gli ho risposto. Però ha detto che non ce la fa a vedermi così miserabile, e se scriverti mi rende felice non dovrebbe impedirmelo. Anche Aerith mi ha detto una cosa simile l’altro giorno.
Final-fottutamente direi. Magari adesso Ventus la può piantare di guardare storto le nostre foto ogni volta che entra in camera.
La professoressa di letteratura ha letto una mia storia e ha detto che ho talento. Potrei fare lo scrittore, mi ci vedi? Roxas Carol, autore mondiale di libri fantasy.
La foto che ti mando stavolta è quella di Xion e Demyx il giorno del compleanno di Dem. Quella notte tu e lui eravate talmente fatti che volevate provare a volare. Idioti.
Vi ricatterò fino alla tomba con le foto che ho fatto.
Un abbraccio.
Roxas
 
21 agosto – Lettera numero 24
Ciao Lea.
Ho diciassette anni da otto giorni e tu sei al gabbio da due anni e quattro giorni.
Sono andato al mare insieme a Demyx per festeggiare il mio compleanno. Abbiamo fatto il bagno e lui ha suonato la chitarra sulla spiaggia e abbiamo videochiamato tutti gli altri.
Xion ha una nuova amica! Si chiama Kairi e fa la scuola d’arte. Ce l’ha presentata ed è veramente simpatica, penso proprio che ti piacerebbe. Naminé invece è cresciuta tantissimo, è identica a Xion quando aveva la sua età. Anche Isa mi ha chiamato. Gli ho chiesto se ti ha parlato e ha detto di sì, ma non ha voluto dirmi nulla, il maledetto, nemmeno se leggevi le mie lettere. Tenetevi i vostri segreti da gemelli immagino, lo scoprirò quando uscirai. Ienzo e Zexion si stanno ammazzando di studio ma niente di nuovo in quel caso, sembrano felici e Demyx ha pianto di nuovo quando Zexion ha detto che gli mancava. All’inizio dell’estate ha iniziato a cercare dei conservatori vicino alla loro università e si è iscritto ai test d’ingresso per quanti più possibili.
Anche io dovrei pensare a dove andare a studiare. Ho sentito che a Twilight Town c’è un’università con un corso di letteratura. Immagino dovrò tornarci di persona a vedere com’è. Ti manderò le foto, promesso.
Un abbraccio.
Roxas
 
13 ottobre – Lettera numero 26
Ciao Lea.
E anche Demyx è andato. Conservatorio di Radiant Garden, pianoforte e chitarra classica, a cinque minuti di bus dall’università dove vanno Ienzo e Zexion. Sono rimasto solo io, non pensavo che avrei potuto sentire la mancanza di quando eravamo un branco di randagi, ma immagino sia parte della nostalgia. L’anno prossimo finirò la scuola e andrò via anche io. È strano pensare che sono passati solo tre anni da quando abbiamo iniziato a separarci.
Immagino che crescere sia anche questo, allontanarsi, prendere strade diverse e alla fine dimenticarsi... non è una bella sensazione. Spero che non ci dimenticheremo gli uni degli altri. Tu sicuramente non lo farai, finché ci sarò io a ricordarti tutto.
Hai fatto amicizia con una cozza, adeguati.
Un abbraccio.
Roxas
 
20 dicembre – Lettera numero 28
Ciao Lea.
Grandi novità: Xion e Naminé sono state adottate ufficialmente! Ho convinto Ven e Vanitas a farmi prendere il treno così da andare a trovarle per festeggiare. Land of Departure è un posto bellissimo. C’è una cattedrale enorme con dei rosoni magnifici, appena avrò finito di mettere nell’album le foto che voglio tenere per me te ne manderò alcune, intanto ti mando quella che ho fatto a Xion, Naminé e anche Kairi, che mi hanno presentato.
Sembrano così felici qui, le loro mamme sono fantastiche, e sono contento che lo siano. Dopo quello che è successo qui a World That Never Was se lo meritano.
Hanno chiesto di te e di Isa, dato che nemmeno lui si degna di farsi sentire abbastanza, ma come puoi immaginare non avevo molto da dire. Vogliono che ti saluti e si raccomandano che tu passi a trovarle appena fuori da lì, altrimenti ti cercheranno e ti prenderanno a schiaffi di persona.
Non fare l’occhio da triglia, io sono solo il messaggero.
La settimana scorsa Aerith mi ha chiesto di parlarle di te. Ha detto che è inutile discutere di ciò che c’era se io non gliene parlo. Non sapevo cosa rispondere, onestamente. Forse non sono ancora pronto a parlare di quello che c’è stato, fa ancora male pensarci. Non mi pento di niente, ma ripensarci mi ricorda di quanto dolore nascondessimo pur di sorriderci. Vorrei aver capito prima quanto tu fossi nella merda, e so che tu diresti che ero solo un ragazzino e non potevo farci niente, ma almeno non avrei fatto così tanto il coglione.
Ora che anche Demyx non c’è e sono rimasto solo qui, è inutile nascondersi dietro un “ci”.
Mi manchi, Lea.
Un abbraccio.
Roxas
Wow, sto imparando a esprimere i miei sentimenti, Aerith sarà fiera di me.
 
10 maggio – Lettera numero 33
Ciao Lea.
Oggi ero a casa da solo e ho risposto a una telefonata. Era mia madre.
Appena ha capito che non ero né Ventus né Vanitas, è scoppiata a piangere e mi ha pregato di rivederci, ha detto che vuole ricominciare da capo senza l’ombra di papà su di noi. Non sapevo cosa risponderle e le ho sbattuto il telefono in faccia.
Non so cosa pensare, onestamente. Ho ricordi vaghi di quando ero lì con loro, sono passati quasi dieci anni, ma ricordo che non ha mai mosso un dito per allontanarmi da papà. E non ho dimenticato che ha avuto la faccia tosta di incolpare Ventus se la nostra famiglia è così spezzata. Perché non è colpa di tuo marito che picchia te e tuo figlio maggiore, ma di quest’ultimo che ha avuto il buon senso di allontanare suo fratello da quello schifo, giustamente.
Ah. Immagino di essere ancora incazzato, meglio se mi fermo qui. Ne parlerò stasera con Ven.
Un abbraccio.
Roxas
 
13 agosto – Lettera numero 36
Ciao Lea.
Buon compleanno a me. Indovina chi ha richiamato? Per la prima volta ha risposto Vanitas, pensavo di conoscere le sue capacità di distruggere qualcuno a parole, ma oggi ha toccato nuovi e altissimi livelli, forse perché gli ho raccontato della telefonata di qualche mese fa. Le ha detto che se veramente avesse voluto il mio bene e quello di Ventus ci avrebbe allontanati da papà al primo schiaffo, e avrei dovuto essere lontano da lui non appena era stato chiaro che non sarebbe cambiato.
Ventus poi è venuto in camera con me e mi ha chiesto se volessi rivederla. Ha detto che è una scelta solo mia, visto che sono grande e anche un adulto (da poco più di sedici ore, ma dettagli) e che per quanto lui pensi che sia una cattiva idea posso decidere di darle un’altra possibilità. Non sapevo cosa dire. Penso che una seconda possibilità si debba dare a tutti, vero? Dopotutto credo che lei fosse una vittima tanto quanto me e Ven. Ci penserò.
Tu al mio posto immagino non avresti esitazioni a dire di no. Sei sempre stato deciso quando si parla di genitori di merda, io evidentemente lo sono di meno.
Prometto che non prenderò decisioni stupide. E non ridere, sono capacissimo di non prenderle.
Un abbraccio.
Roxas
p.s. siccome mi sentivo nostalgico ho ritrovato le foto che ho fatto il giorno del mio compleanno, quando mi hai portato a Twilight Town. Visto che ora sei lontano e non puoi rompermi le palle, penso di poterti confessare che ti ho scattato una foto di nascosto e che è la mia preferita tra quelle che ti ho fatto quel giorno, e no non te la mando perché so che la bruceresti, ma ti mando una di quelle che ci siamo fatti al tramonto. È stato bello guardarlo insieme.
Vorrei aver fermato il tempo in quel momento.
 
13 settembre – Lettera numero 37
Ciao Lea.
Alla fine ho deciso di accettare di vederla. Sono scemo? Forse. Ventus mi guarda come se avessi detto che voglio scappare di casa con il mio sugar daddy, e Vanitas deve decidere se stare dalla sua parte o dormire sul divano? Assolutamente sì.
Siccome Castle Oblivion è a sei ore da qua ci incontreremo a metà strada, a Traverse Town, per la fine del mese. Ventus non vuole vederla, ma ha detto che mi accompagnerà Vanitas, per assicurarsi che tutto vada bene e nostra madre non faccia scherzi. Dire che sono nervoso sarebbe un eufemismo, ma spero che tutto vada liscio e di riuscire a dare un po’ di chiusura a questa faccenda.
In caso, se in prigione incontri un certo Kuja Carol rompigli un braccio da parte mia, di Ven e di Vanitas.
Un abbraccio.
Roxas
 
1° ottobre - Lettera numero 38
Direi che dal fatto che su questo foglio ci sia scritto “Ospedale di Traverse Town” tu possa intuire che non è andata per niente bene.
Non sono morto, non mi hanno picchiato, ho solo avuto un attacco di panico che mi ha fatto finire al pronto soccorso. Hanno detto a Vanitas che si tratta di nevrastenia, che è un parolone per dire che ho avuto un esaurimento nervoso. Sono svenuto e ho passato la notte in ospedale, che gioia. Adesso sto aspettando che Vanitas finisca di parlare con Ventus e poi potremo andare a casa.
Avrei dovuto immaginarlo, onestamente.
Avrei dovuto cazzo immaginarlo che ci fosse qualcosa sotto per volermi vedere quando ci ha ignorati per dieci anni.  A quanto pare la riduzione di pena per buona condotta vale anche per i pezzi di merda. Già, paparino caro era lì con lei. Tutti e due belli lindi e imbellettati, pronti ad accogliermi a braccia aperte, e Vanitas sembrava pronto a compiere un omicidio.
Penso sia inutile fare la cronaca della litigata, ma non so come mentre Vanitas litigava con mia madre, papà ha avuto il coraggio di avvicinarsi e dirmi che gli ero mancato. Mi ha chiesto di ricominciare e ha pure provato ad abbracciarmi. Penso sia in quel momento che ho avuto l’attacco di panico e sono svenuto.
Ricominciare. Ma anche no, cazzo? Non ha nemmeno mai nominato Ventus, quello che tecnicamente sarebbe il suo primo figlio, ma immagino che sia più facile cercare di abbindolare quello che non si è preso le legnate da te. Non voglio mai più vederli. Non voglio ascoltare le loro fottute scuse e belle parole o qualsiasi cazzata esca dalla loro bocca di merda. Non avrei mai dovuto accettare questa stronzata.
Lo odio.
 
24 ottobre - Lettera numero 39
A quanto pare, ho paura a lasciar andare il mio conflitto con i miei genitori perché senza di esso non avrei chi incolpare della mia infelicità. Col cazzo.
Ha rovinato la vita di mio fratello al punto non riesce a nominarlo senza mettersi a piangere, e dovrei far finta che non sia successo?
Vaffanculo. Vaffanculo.
Sono stanco di tutta questa merda.
 
13 maggio - Lettera numero 40
Ciao Lea.
È un po’ che non ti scrivo. Sei mesi? Sette? Non lo so, ero in un brutto momento e immagino di aver avuto bisogno di processare tutto per conto mio. Ho almeno una ventina di lettere che non ti ho mandato perché erano sempre le stesse parole di rabbia e odio e per quanto fossi in un pozzo di autocommiserazione non sono stato così idiota da mandartele.
Ho passato tutto novembre a fare visite e test e quanto pare alla radice del mio esaurimento nervoso a Traverse Town c’è un disturbo d’ansia generalizzata, che ha fatto in modo che il mio piccolo cervellino smettesse di funzionare quando lo stress è diventato troppo. Semplice biologia pare, la mia fantasmagorica infanzia ha fatto sì che alcuni cavi nel mio cervello siano collegati male e per questo non riesco ad affrontare le situazioni di pressione o emotività senza perdere il controllo della mia ansia.
Sorpresa sorpresa, il mio cervello si è fritto da solo prima che ci pensasse qualsiasi delle mie tante brutte abitudini. E quindi dopo un paio di prescrizioni e fin troppe visite da Aerith e dallo psichiatra, ora sono ufficialmente parte del club traumatizzati con medicazioni al seguito. Accoglietemi con festoni e trombette, prego.
E a proposito della mia ansia, Aerith mi ha suggerito di provare a scriverti di meno. Secondo lei affidarmi troppo a queste lettere per sfogarmi o esprimere ciò che penso potrebbe portarmi a usarle come unico “tubo di scappamento” e quindi a non migliorare nella gestione delle mie emozioni e della mia ansia, dato che non farei altro che reprimere tutto fino alla prossima lettera. Oltre al fatto che probabilmente stai già di merda per conto tuo, e non posso continuare a spalarti addosso anche i miei problemi, ma quello è un ragionamento mio.
Non smetterò di scriverti, ovviamente, perché mi manchi sempre (sudo miele ogni volta che lo dico, apprezza lo sforzo) e mi piace pensare che queste lettere e le foto ti facciano un po’ di compagnia, ma cercherò di concentrarmi sulle cose belle e a non sfogare tutto ciò che provo su questi fogli, così magari riuscirò a strapparti un sorriso. Credo che più di tutti tu ne abbia bisogno.
Stammi bene.
Un abbraccio.
Roxas
 
12 agosto – Lettera numero 43
Ciao Lea.
Questa sarà l’ultima lettera che ti scriverò dalla mia vecchia stanza. Anzi, a dire la verità in questo momento dovrei proprio fare le ultime scatole, ma prima di finire volevo scriverti.
Ci stiamo trasferendo a Twilight Town. Mi hanno preso all’università lì, e Vanitas ha detto che erano anni che mettevano da parte i soldi per una casa più grande, e aspettavano solo di avere un buon motivo per andarsene da World That Never Was. Quindi adesso stiamo svuotando casa e domani passerò il mio compleanno traslocando.
Sarà strano andare a Twilight Town senza di te. Il pensiero mi fa andare il cuore a mille, ma non potrei mai pentirmene. Ti manderò qualche foto, promesso.
Ora devo correre, prima che Ventus si accorga che non sto facendo scatole.
Stammi bene.
Un abbraccio.
Roxas
 
27 giugno – Lettera numero 53
Ciao Lea.
Passare da un ansiolitico a un altro fa schifo. È come se mi avessero schiaffato in un barile di catrame, ho sempre freddo e non riesco a fare nulla di troppo impegnativo perché inizia a girarmi la testa. Sto lentamente abbassando le dosi del vecchio ansiolitico, poi dovrò fare una settimana o qualche giorno senza nulla e infine ricominciare con la nuova cura, forse non con un farmaco solo perché Aerith ha parlato anche di antidepressivi.
Spero che questo schifo che sento sia solo per le dosi che diminuiscono, perché mi sento uno straccio e non riesco nemmeno a studiare.
Il lato positivo, ho scoperto che mi piacciono i ghiaccioli al sale marino, ne sto mangiando a chili ultimamente quando mi sento veramente di merda. So che saresti fiero di avere ragione sul fatto che sono buonissimi.
Stammi bene.
Un abbraccio.
Roxas
 
24 luglio – Lettera numero 54
Perché non mi rispondi
Sono passati quasi cinque anni, perché non vuoi più parlarmi?
Manchi tantissimo a tutti
Ti voglio bene e odio pensare che tu mi stia lasciando indietro
Mi dispiace di non essere riuscito ad aiutarti
Mi manchi.
 
14 febbraio – Lettera numero 61
Ciao Lea.
Tra un esame e un altro, oggi sono riuscito ad andare a trovare Demyx, Ienzo e Zexion. Adesso Demyx e Zexion vivono assieme, e da qualche parte lungo la strada sono riusciti finalmente a mettersi insieme mettendo fine a dieci anni di sofferenze, mentre Ienzo lavora e i suoi unici amori sembrano essere quello e i suoi tre gatti.
Pensavi che Demyx si sarebbe dato una calmata una volta che finalmente si fosse dichiarato? Illuso. Mi ha fatto venire un’emicrania dopo quindici minuti, e avrei sopportato tutto se le sue chiacchere non fossero stato tutte riguardo a Zexion. Come se non fosse stato seduto accanto a me tutto il tempo. Quel poveraccio sembrava ancora più imbarazzato di me.
Anche se confesso che sentirlo di nuovo così allegro mi ha fatto felice. Sta superando le cazzate che gli avevano messo in testa i suoi genitori sui suoi tic e i suoi comportamenti, e si vede quanto lo sollevi. Abbiamo parlato dell’università e dei lavori che stiamo trovando, di Xion che si sta facendo crescere un po’ i capelli e anche di te e Isa, che come sempre si fa sentire poco e vedere anche meno. Due assenteisti siete, ecco.
Ci mancate però.
Vedi di farti sentire, idiota!
Questo lo ha voluto aggiungere Demyx, non dare la colpa a me.
Un abbraccio.
Roxas
 
8 agosto – Lettera numero 67
Ciao Lea.
Sei un gran bello stronzo, lo sai?
Tra poco meno di due settimane uscirai, e Isa ha detto che preferisci che non ti scriva più una volta fuori. Stronzo tu e stronzo lui che non mi ha dato uno straccio di motivo, anche se lo so che glielo hai detto il perché. Bastardo.
Non te lo meriteresti, ma da una parte di capisco. Anche io dopo tutta quella merda vorrei ricominciare da zero. Quindi, questa sarà l’ultima lettera. Non sono mai stato bravo con gli addii, e non so cosa scrivere.
Mi mancherai? Sicuramente. Mi mancherà scriverti e mandarti le foto, anche se eri un muro di silenzio, ma se non altro potevo scrivere quello che volevo senza preoccuparmi di un giudizio o peggio, di una psicoanalisi. Mi mancherai come mi sei sempre mancato in questi sei anni, forse anche di più perché non ci saranno nemmeno le lettere. Sei uno dei miei migliori amici e ti ho sempre voluto e continuerò a volerti così tanto bene da starci male quando ci penso. Ma adesso è passato, siamo cresciuti entrambi e capisco che proprio perché ti voglio così bene devo accettare il fatto che vuoi allontanarti. Non sono uno che crede molto nel destino, ma forse già dall’inizio era scritto che prima o poi ci saremmo separati. Fa un po’ meno male pensarla in questa ottica, se devo essere sincero.
Ok, la lettera sta diventando un po’ troppo lunga e probabilmente l’avrai gettata via, perciò credo sia meglio chiudere qui. Buona fortuna con tutto, Lea. Ti voglio bene.
Un abbraccio.
Roxas
 
*
 
«Dopo quella lettera non c’è stato più niente?» chiede Aerith. Roxas scuote la testa, lasciando di nuovo la foto sul tavolo.
«Non ha mai risposto a nessuna delle lettere, e pochi giorni prima che gli spedissi l’ultima lettera Isa mi disse che non voleva essere contattato una volta uscito.» racconta, un velo di tristezza sugli occhi. «Non mi ha voluto dire perché.»
«Quanto è passato da quel giorno?»
«Poco più di un anno credo. I primi giorni sono stati orribili, pensavo di essermi rassegnato ormai all’idea che non mi rispondesse, ma sapere con certezza che non voleva che gli scrivessi o lo chiamassi... ha fatto molto più male di quanto avrei creduto.» le lacrime che riempiono gli occhi di Roxas non sorprendono né lui né Aerith. Con un gesto brusco Roxas si asciuga gli occhi con la manica del maglione, cercando di ignorare il modo in cui gli trema il labbro inferiore.
«Ne soffri ancora molto?» chiede gentilmente Aerith, porgendogli la scatola di fazzoletti che è ormai diventata una presenza stabile nei loro appuntamenti. Roxas la prende con la mano che non tiene premuta sul viso, e si asciuga gli occhi e soffia il naso prima di continuare.
«Penso sia evidente che ancora ci sto male,» inizia; «ma non posso certo stare qui a piangermi addosso. Se ha deciso di voltare pagina devo farlo anche io.»
Aerith gli sorride, annuendo mentre scrive. «Sei anni fa non lo avresti mai detto, lo sai?» dice.
«Sei anni fa non ero in terapia e non ero sotto psicofarmaci» ribatte senza perdere un colpo Roxas, ma senza cattiveria nella voce. Aerith ride delicatamente a quella battuta, come fa sempre, ma poi si fa di nuovo seria e gli fa una domanda.
«Se lui venisse da te oggi, cosa faresti?» lo chiede gentilmente, come ogni volta che gli fa questa domanda, lasciandogli lo spazio se vuole di rifiutarsi e cambiare argomento, di parlare dell’università, del lavoro o di qualcun altro dei suoi amici.
«Gli tirerei un pugno in faccia e gli urlerei addosso perché non si è degnato di rispondermi o di farsi sentire per sette anni, poi chiamerei tutti gli altri perché lo prendano a pugni anche loro,» risponde, tormentandosi con le mani l’orlo della gonna color carta da zucchero che indossa, l’ansia che gli fa sudare i polpastrelli e battere forte il cuore; «e gli chiederei perché cazzo ci ha mollati come idioti quando noi ci saremmo ammazzati per lui, anche dopo sei anni di lontananza, e poi...» Roxas si zittisce quando un piccolo singhiozzo gli spezza la voce, gli occhi bassi, cercando di trattenere ulteriori lacrime. «Possiamo finire qui per oggi?» chiede, sentendosi quasi soffocare dalle emozioni che stanno di nuovo alzando la testa dopo tutti questi anni.
Aerith fa un sorriso gentile e alza lo sguardo verso l’orologio, bianco come quasi tutta la stanza. «Direi di sì, sono quasi le cinque e abbiamo parlato abbastanza per oggi.» raccoglie i fogli e li mette in una cartellina, alzandosi imitata da Roxas, che prende lo zaino da terra e se lo mette in spalla. «Ci vediamo la settimana prossima con il dottor Cid per rivedere il dosaggio delle medicine, va bene?»
«Certo» Roxas si liscia un’ultima volta la gonna e riesce a fare un sorriso ad Aerith. «Buona serata, Aerith.»
«Buona serata, Roxas.»
 
Nonostante sia ottobre inoltrato, fa ancora abbastanza caldo perché Roxas una volta tornato a Twilight Town possa godersi un’oretta da solo prima di tornare a casa.
Con i denti strappa l’incarto del ghiacciolo al sale marino mentre cammina, le cuffie – sempre quelle con le orecchie da gatto che gli aveva regalato Demyx, che anche se mezze scassate e probabilmente pagate sei munny scarsi ancora funzionano – sulle orecchie e l’altra mano che digita un messaggio a Ventus per avvisarlo che è arrivato. Cammina per un po’ nella luce del tramonto, fermandosi a guardare le vetrine di qualche negozio, prima di avviarsi per andare a sedersi sul muretto del suo solito spiazzo.
Quando volta l’angolo però, si blocca vedendo che qualcuno è già seduto su quel muretto, il fumo di una sigaretta che sale e si disperde nell’aria dorata dal tramonto, e l’incarto ancora sigillato di un ghiacciolo vicino alla sua gamba.
Col cuore in gola, Roxas fa qualche passo per avvicinarsi, e lo sconosciuto sembra accorgersene, ma resta con lo sguardo verso il tramonto. I capelli appena lunghi da essere legati in un codino si muovono per la brezza leggera, rossi come il fuoco e come il sole che cala davanti a loro.
Le cuffie gli scivolano sul collo e Roxas si siede non lontano da lui, una mano in grembo e l’altra che ancora tiene il ghiacciolo. «Si scioglierà se non lo mangi.» dice a nessuno in particolare.
«Lo avevo comprato per te, a dire la verità, ma mi pare tu sia già fornito.»
Roxas si volta verso di lui, stringendo lo stecco talmente forte che lo sente spezzarsi, il cuore in gola che sembra voler esplodere.
«Cosa ci fai qui, Lea?»
 
 

 
Boom, cliffhanger.
Lo so, sono in ritardo di una settimana e nemmeno ho illustrato come promesso, ma in queste due settimane sono successe talmente tante cose che non ho avuto tempo né presenza di mente per occuparmene. Nell’ordine l’università mi ha fatto a pezzi, ho compiuto gli anni, mio padre mi ha detto che a gennaio avrò una gattina per casa (si chiamerà Garnet Til Alexandros I, a chi coglie la citazione un biscottino), ho litigato con la mia migliore amica e per consolarmi ho comprato Cyberpunk 2077 al day one per poi scoprire che su ps4 gira come un gioco della ps3, anche se mi piace comunque, e per finire in bellezza Conte ha permesso lo spostamento tra i comuni quindi la prospettiva di un Natale a videogiochi e pizza d’asporto è volato via dalla finestra in favore di parenti antipatici e “ma perché non sei più femminile, guarda che sei ingrassat*”. Wohoo.
Ma non sono qui per tediarvi con i miei problemi! Che dire, questo capitolo mi ha dato un bel po’ di emozioni, e ancora non ne sono pienamente soddisfatto, ma so che se rimanessi troppo ad arrovellarmici finirei per non pubblicarlo mai, quindi ecco a voi. Spero di avervi un po’ coinvolti, io in più riprese mi sono immedesimato tanto nel Roxas che stavo scrivendo da mettermi a piangere, ma forse è una cosa che succede a tutti quando si scrive fanfiction.
Il prossimo e ultimo capitolo verrà pubblicato domenica (stavolta per davvero), quindi se volete scoprire come continui Spirals assicuratevi di seguirla e/o ricordarla!
Detto questo vi saluto, spero che abbiate gradito il capitolo e se lo avete fatto vi invito a lasciare una recensione per dirmi cosa ne pensate, anche le critiche se costruttive sono ben accette.
See you on the flip side.
Vento di Fata

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Capitolo 4
*** I know you're built to love, but broken now, so just try, yeah ***


Nota dell’autore: Come sempre, prima di iniziare, questa è la playlist della fanfiction, le canzoni del capitolo vanno da Lit a Be Kind. Menzioni leggere di abusi passati e attacchi di panico, ma per la maggior parte è puro fluff. Lavatevi i denti.
 
I know you're chokin' on your fears
Already told you I'm right here
I will stay by your side every night


I don't know why you hide from the one
And close your eyes to the one
Mess up and lie to the one that you love
When you know you can cry to the one
Always confide in the one
You can be kind to the one that you love

- Be Kind, Halsey

Prima di cominciare, una piccola dedica.
Questo capitolo è dedicato alla mia Axel, che ha creduto in me
e in Spirals prima che lo facessi io.
Il tuo Roxas
 
I know you're built to love, but broken now, so just try, yeah
 
«Cosa ci fai qui, Lea?»
Roxas non lo guarda, tiene lo sguardo fisso verso il tramonto perché sa che se si girasse il suo cuore potrebbe esplodere. Sente Lea vicino a lui prendere un respiro, e il rumore della carta del ghiacciolo che viene strappata.
«Volevo rivedere il tramonto.» dice semplicemente. Il tramonto. Il fottuto tramonto.
«Il tramonto, eh?» commenta Roxas, le parole come veleno sulla sua lingua. «Non gli amici che hai abbandonato per sette anni. Il tramonto di Twilight-fottuta-Town.» lo stecco del ghiacciolo si spezza definitivamente e lo osserva mentre cade, gli occhi che bruciano e un dolore immenso che si fa strada nel suo petto. «Sei un gran bel pezzo di merda a dirmi in faccia una cosa del genere.»
Lea soffoca una risata amara. «Hai tutte le ragioni per dirmelo.» risponde, dando un morso al ghiacciolo. «Cosa dovrei dire, secondo te?»
Stavolta è la rabbia ad avere la meglio e Roxas si gira verso Lea, stringendo i pugni per la furia. «Non ne ho idea, forse “scusa per avervi mollati come degli stronzi per poi tornare e fare finta di nulla”?» le parole fanno fatica a superare il nodo che sente in gola ed escono con molta meno cattiveria di quanto in realtà volesse. «Ci sono milioni di cose che potresti dire in questo momento, e non ne stai dicendo nemmeno una giusta.»
Lea volta lo sguardo verso di lui a sua volta, e quegli occhi sono così dolorosamente verdi e identici a quelli che ricorda che Roxas vorrebbe mettersi a urlare. Il suo viso non è cambiato quasi per niente, a parte una piccola cicatrice sul labbro e i capelli più corti. «Non vi ho abbandonati, Roxas. Ero in galera.» le parole sono dure e controllate, ognuna una lama rovente che affonda di più nel cuore di Roxas.
«Ma poi sei uscito» riesce a dire; «e per un anno non ci hai nemmeno fatto sapere che eri vivo, e quel pezzo di merda grande quanto te di tuo fratello non ci ha detto niente perché tu non volevi che sapessimo più nulla di te.» il nodo in gola si scioglie, così come il bruciore agli occhi che diventa una cascata di lacrime. Abbassa lo sguardo e le osserva cadere sulla gonna, la stoffa azzurra che si scurisce sotto le piccole gocce. Ci sono mille cose che vorrebbe dirgli in quel momento, così tante parole di odio, rabbia e tristezza che vorrebbe rovesciargli addosso come un fiume in piena, per fargli capire quanto ha sofferto, quanto ha sentito la sua mancanza, quanto dolore gli provochi averlo lì in quel momento ma imporsi di essere arrabbiato con lui. «Immagino ti importasse veramente poco di noi.» sussurra Roxas, infine, stringendo l’orlo della manica del maglione nel pugno per portarla al viso e asciugarsi le lacrime.
«Roxas...» inizia Lea, ma si zittisce quasi subito. Con la coda dell’occhio Roxas vede che sta dondolando nervosamente una gamba, come se non sapesse cosa dire o come dirlo, e nella parte più egoista e cattiva del suo cuore è contento che sia così a disagio. Se lo merita. «Non sono venuto qui per fare finta che tutto sia come prima.»
«Lo spero bene» risponde Roxas a voce bassa, senza voltarsi a guardarlo.
«So di avervi fatto stare tutti male... specialmente tu. E non meriterei nient’altro che di bruciare come un fiammifero per quanto vi ho fatto soffrire...» Lea si ferma di nuovo, come se stesse raccogliendo i suoi pensieri e stesse cercando le parole giuste. «non volevo che mi vedeste diversamente da prima. Ho pensato che... che forse sarebbe stato meglio sparire e lasciarvi solo i bei ricordi. E quando leggevo di come le vostre vite andavano avanti e stavate trovando la vostra felicità, io-»
«Hai letto le mie lettere.» lo interrompe Roxas. Non crede alle sue orecchie. «Hai letto le mie lettere.»
«Rox-»
«Hai letto le lettere. Hai letto le mie cazzo di lettere!» urla Roxas, scattando in piedi e allontanandosi di un passo dal muro e da Lea, «Hai letto le mie lettere, e non hai pensato nemmeno per un secondo che... dannato bastardo!»
Non ci pensa due volte.
Afferra Lea per il davanti della giacca costringendolo a girarsi e gli tira un pugno in pieno viso. Lea non reagisce tranne che per un sussulto sorpreso, e ciò fa infuriare ancora di più Roxas, perché probabilmente il pugno ha fatto più male a lui che a Lea, e perché vorrebbe vederlo dolorante come il suo cuore, vorrebbe che quel pugno avesse aiutato sé stesso a sentirsi meglio.
Ma colpirlo non lo fa sentire meglio. E colpirlo di nuovo probabilmente non lo farà. Se continuasse si farebbe solo male.
«Devo essere proprio scemo.» sussurra Roxas, lasciando la giacca di Lea e allontanandosi di qualche passo. Alza lo sguardo verso di lui e lo vede che porta una mano al viso, toccandosi lo zigomo che già si sta arrossando, come se non comprendesse bene ciò che è successo, e quella vista ricorda a Roxas di quando gli aveva fratturato il naso con una testata a quattordici anni, il giorno che... scuote la testa frustrato, stringendo i pugni con abbastanza forza da sentire le unghie minacciare di rompere la pelle. Quasi sente la voce di Aerith nel suo cervello ricordargli che il dolore non è un buon modo per rimanere presenti, Roxas, concentrati su ciò che ti circonda e che puoi sentire e istintivamente allenta la tensione nelle mani e lascia cadere le spalle.
Lea non si è mosso da dove si trova, guarda Roxas come se lo vedesse per la prima volta, e per dei lunghi agonizzanti minuti il vento è l’unica cosa che riempie il silenzio. Roxas vorrebbe andarsene, tornare a casa e piangere da solo nella privacy della sua stanza, ma non riesce a muoversi né a staccare gli occhi da Lea.
«Il giorno del tuo compleanno... quando stavamo tornando in treno,» dice infine Lea, la voce che trema come se fosse sull’orlo delle lacrime, anche se nei suoi occhi non ce ne sono. «Mi hai chiesto- mi hai chiesto perché non lo dicevamo a nessuno.»
Di nuovo quel nodo alla gola. «Non ricordo... e non c’entra nulla.» riesce a dire Roxas.
«Era tardi, tu ti stavi addormentando e ti avevo svegliato perché dovevamo scendere. Non...» Lea abbassa lo sguardo e porta di nuovo una mano al viso, come a coprirselo. «Non ero sicuro che te lo ricordassi. Ma io...» è in quel momento che la sua voce si spezza in quello che è senza dubbio un singhiozzo, e nella luce del tramonto Roxas vede una lacrima scendere lungo il viso di Lea. «È per questo che non l’avevo detto. Perché stavo- ci stavo affogando in tutta quella merda, Roxas, e sapevo che non sarebbe durato per sempre, ma sono stato egoista e volevo che-» alla prima lacrima ne seguono altre che scivolano sul suo volto, scintillanti alla luce e cadono sul terreno tra di loro. «volevo tenere quelle cose per me, perché ci tenevo così tanto, e tu eri solo un ragazzino e non volevo trascinarti giù con me. E io- io non respiro quando penso che ti ho abbandonato, e mi dispiace di averti fatto soffrire- di aver fatto soffrire tutti voi.» Lea abbassa la testa come sconfitto, il ghiacciolo completamente dimenticato che si scioglie nel suo pugno.
Roxas resta immobile, ammutolito da quelle parole e dal pianto di Lea. Non lo ha mai visto piangere in tutti quegli anni, e la vista gli è così strana e aliena che fatica a capacitarsene.
Forse è abbastanza. Forse quelle scuse sono abbastanza, quel pianto e quel rimorso che incurva la schiena di Lea al punto da farlo sembrare un bambino spaventato.
«Non è solo a me che dovresti fare questo discorso.» si sforza di dire.
«Lo so e... lo farò. Volevo che tu fossi il primo, perché so che più di tutti ho ferito te.» altre lacrime rigano il volto di Lea, ma questa volta se le asciuga con il dorso della mano. «Non potrò mai perdonarmelo, Roxas, ma credimi quando ti dico che mi dispiace, e che l’unico motivo per cui non sono tornato è stato perché sapevo di non meritare di rivedervi, non perché non mi importava. Forse non lo merito ancora.»
«Ti avremmo perdonato qualsiasi cosa, Lea.» dice Roxas, sentendosi di nuovo pericolosamente vicino alle lacrime. La luce del sole sta iniziando a sparire per lasciare il posto alla notte, come la rabbia che lentamente sente abbandonarlo, sostituita da qualcosa di molto simile alla tristezza. «Nessuno di noi ti avrebbe mai odiato, e io...» una stretta tremenda gli afferra la gola, strozzandogli le parole prima che possa dirle. Fa un passo verso Lea, le mani che tremano per la voglia di avvicinarsi di nuovo, di toccarlo, di dargli un altro pugno forse, o abbracciarlo. «Io ti voglio bene, Lea.» riesce solo a dire, anche se vorrebbe dire mille altre cose, milioni, ma non riesce a farsi uscire nient’altro. Una persona più forte se ne sarebbe già andata e avrebbe detto a Lea che non lo avrebbe mai perdonato, ma Roxas non riesce a farlo.
Lea gli fa un sorriso pieno di tristezza. «Anche io te ne voglio, Rox. Fin troppo per quanto sia sano per entrambi, temo.»
È in quel momento che qualsiasi cosa tenesse ancora in piedi Roxas cede. Le lacrime vengono prima che riesca a fermarle, può solo fare un passo tremante verso Lea prima che gli cedano le gambe, e Lea lo afferra prima che possa cadere a terra, stringendogli le braccia intorno al torace e rialzandolo in piedi, una mano che va ad affondare nei suoi capelli e l’altra che gli stringe il fianco. Roxas singhiozza ancora più forte a quell’abbraccio così famigliare, che è come tornare a casa dopo tanto tempo.
«Stronzo, stronzo, pezzo di merda...» lo insulta tra i singulti, la fronte poggiata contro il suo petto e le braccia strette intorno a lui, e Lea lo lascia parlare, ascolta ogni suo insulto con gli occhi pieni di lacrime, ma non lo lascia andare, e Roxas non vuole che lo faccia.
Il sole è calato del tutto, lasciando solo la luce dei lampioni a illuminarli, quando Roxas lentamente smette di singhiozzare e si zittisce piano piano, lasciando che le ultime lacrime vadano a bagnare la maglietta di Lea, che non si è mosso di un millimetro. Roxas prende un respiro e volta la testa in modo da avere la guancia premuta sul suo cuore, sentendolo battere all’impazzata come il suo in quel momento. «Non ti ho perdonato» sussurra.
«Non mi aspetto che tu lo faccia.» risponde Lea contro i suoi capelli.
«E non so se lo faranno gli altri.»
«Non mi aspetto nemmeno questo.»
«Smettila di essere così zerbino o ti tiro un altro pugno.» lo minaccia Roxas senza cattiveria. «Dicevo... non ti ho perdonato. Ma immagino di poterti dare una possibilità... per vedere se davvero hai messo la testa a posto.»
Sente Lea sbuffare una risata. «Sei sempre stato troppo buono, biondo.» dice, carezzandolo come se fosse un uccellino ferito. «Vorrei solo che facessi una cosa per me.»
Roxas annuisce. «Finché non è di buttarmi dalla torre dell’orologio...»
«Idiota.» lo lascia andare e fa un piccolo passo indietro, guardandolo. «Vorrei... che non mi chiamassi più Lea.» quello non se lo aspettava. Roxas piega la testa come un cucciolo confuso, guardandolo interrogativo. «È un nome idiota, e paparino caro amava ripetermi che un nome da femmina era appropriato per una checca come me. Quindi preferirei... che mi chiamassi Axel, se puoi.»
«...credo di capire.» Roxas pensa a Ventus, che ha preso il cognome di Vanitas da anni perché non sopporta di essere legato ai loro genitori. «Axel...» ripete poi, lasciandosi scivolare il nome sulla lingua, come se stesse tastando come suona. «Mi piace. Ti sta bene.»
«Grazie, l’ho scelto tutto da solo.» il sorriso che gli fa è soddisfatto, come se non aspettasse altro che un’occasione per fare quella battuta, ma dura solo qualche secondo prima che Axel torni serio, e Roxas si ricorda in quel momento che dovrebbe essere ancora infuriato con lui, nonostante sia così facile ricadere nel loro botta e risposta da dimenticarsi che sono passati sette anni. A disagio Roxas si dondola sui talloni, improvvisamente senza parole.
«Dovrei andare a casa» dice infine. «Ven e Vanitas mi staranno aspettando per cena.»
Axel fa un cenno con la testa e si infila in tasca lo stecco e l’incarto del ghiacciolo. «Anche io devo andare a prendere il treno. Domani lavoro e vorrei arrivare a casa in un orario decente.»
Casa... «dove abiti adesso?» chiede Roxas, iniziando a camminare nella direzione della stazione, sentendo subito i passi di Axel seguirlo.
«In quel buco di Traverse Town» risponde lui, le mani in tasca; «è l’unico posto dove l’affitto è abbastanza basso da vivere decentemente quando sei fuori di galera da un anno e non sai fare niente che non sia disegnare, e ho lì un amico che mi ha dato una mano a sistemarmi.»
Roxas annuisce a quelle parole, cercando di non pensare a cosa è successo a Traverse Town. Insieme camminano in silenzio fino alla stazione, dove quando arriva il momento di salutarsi Roxas si ritrova con la gola secca, senza sapere cosa dire. Improvvisamente si rende conto che ha paura che una volta salutato, Axel sparisca di nuovo, e che è l’ultima cosa che vuole. «Ascolta...» inizia, fissandosi testardamente la punta delle scarpe. «Tu quando non lavori?»
«Mh... il venerdì di solito è il mio giorno libero. Come mai?» risponde Axel, che sembra a disagio quanto lui.
«Io il venerdì non ho lezioni all’università e ho il pomeriggio libero perché vado da Aerith» dice Roxas, sperando che colga l’allusione e di non doversi spiegare.
«Buono a sapersi» il sorriso leggero che gli fa è una buona conferma. «Stammi bene, biondo.» lo attira di nuovo in un abbraccio esitante, quasi timido, e Roxas trema prima di riuscire ad alzare le braccia e stringere tra le mani la giacca di Axel. Quello che sente sussurrato dopo è così fievole che pensa di esserselo immaginato.
Mi sei mancato.
 
È strano ricominciare a conoscersi.
Lea – no, Axel, continua a ricordarsi Roxas – è cambiato tanto quanto lui in questi sette anni. È sempre altissimo e magro come uno stecco, i suoi occhi sono sempre stupidamente verdi e i suoi capelli anche se più corti sono ancora tinti di rosso, ma è molto diverso da come si erano lasciati. È più serio, più raccolto, sembra scegliere sempre le parole con cura e pensarci su dieci volte prima di dirle, i suoi sorrisi sono sempre più incerti che altro, e si muove come se non volesse occupare troppo spazio, come se non fosse ancora sicuro di poter stare lì.
Il venerdì, quando Roxas scende dal treno dopo essere andato da Aerith, Axel lo aspetta fuori dalla stazione di Twilight Town, sempre con due ghiaccioli al sale marino in una mano e una sigaretta spenta nell’altra, e insieme camminano fino allo spiazzo illuminato dal tramonto e passano le ore che mancano al buio a parlare. Roxas gli racconta dei suoi studi, del lavoretto che ha trovato in biblioteca, del suo gatto che Ventus aveva iniziato a chiamare Catitas per dar fastidio a Vanitas ma che ora risponde solo a quel nome; e Axel gli parla dell’odioso pappagallo del suo vicino e dei tipi di ubriachi che incontra al lavoro, dei tatuaggi che si vuole fare e della sua disperata ricerca di un negozio di belle arti che non gli chieda l’anima per dei pastelli.
Axel, cresciuto e adulto, entra a fare parte della sua routine con la stessa facilità con cui il Lea ragazzino ne era uscito, e Roxas fatica sempre di più a ricordarsi che dovrebbe essere arrabbiato con lui. Quei pomeriggi al tramonto sembrano riempire un vuoto che nemmeno lui sapeva di avere, e che forse aveva solo aspettato che Axel tornasse per farsi di nuovo sentire.
Entrambi continuano a evitare l’elefante nella stanza, all’inizio, ma non ci vuole molto prima che la linea venga superata.
«Com’era la prigione?» sbotta una sera Roxas prima di riuscire a trattenersi. Stanno finendo i loro ghiaccioli e Axel ha appena finito di raccontargli di quando ha indossato un vestito per andare al lavoro e quasi si è preso un pugno, quando Roxas sputa la domanda, quasi di fretta, prima di potersene pentire. Guarda Axel bloccarsi sul posto, spiazzato, prima che si lasci sfuggire un sospiro e le sue spalle sembrano incurvarsi ancora di più quando lo fa.
«Siamo arrivati a quel punto eh?» dice con un piccolo sorriso amaro. «Non c’è molto da dire, Rox... era uno schifo. Cento uomini sudati e incazzati cacciati in trenta celle per venti ore al giorno, ma se non altro non sono capitato con un pedofilo o un assassino di bambini.» da un ultimo morso al suo ghiacciolo e getta via lo stecco, osservandolo mentre sparisce giù dalla scarpata, «Il mio compagno di cella era una drag queen finito dentro per una rissa in cui era scappato un morto.»
«Mi prendi in giro.»
«Assolutamente no!» il sorriso da leggero che era si allarga di più sul viso di Axel, come se stesse ricordando qualcosa di divertente. «Da quel che mi ha raccontato, degli idioti stavano importunando la sua ragazza e le sue amiche, quindi insieme ai suoi colleghi li hanno presi e gli hanno fatto sentire ogni singola punta di tutti i loro tacchi a spillo su per il culo.»
Roxas si lascia sfuggire un sorriso, prendendo un morso dal ghiacciolo. «Sembra simpatico.»
«Oh lo è, se solo non fosse così dannatamente primadonna.» Axel si passa una mano tra i capelli, che quella sera sono sciolti invece che raccolti in una coda, e nella luce morente del tramonto sono illuminati come un incendio. Roxas si trova a fissarli quasi senza rendersene conto, il ghiacciolo che gli si scioglie lentamente contro le labbra senza morderlo, e non si accorge che il diretto interessato ha smesso di parlare e si è accorto di essere fissato. Axel guarda i suoi occhioni blu assorti, il viso che è ancora leggermente arrotondato dall’adolescenza, lo spruzzo di lentiggini sul nasino e le labbra che è sicuro non siano lucide solo per il ghiacciolo che sta mangiando, e dannazione, quando è diventato ancora più bello? Axel vorrebbe allungare una mano a toccargli il viso, sentire se ancora è morbido come ricorda, se ancora arrossisce sugli zigomi e sul naso e se i suoi capelli ancora profumano di mela, ma sa bene che questo vorrebbe dire aprire tutta un’altra faccenda che non crede di avere la forza di affrontare. Sospira e quello sembra scuotere anche Roxas, che batte le palpebre un paio di volte e morde di nuovo il ghiacciolo per raffreddare il fuoco che sente accendersi sulle sue guance. «Diciamo anche che devo a quella primadonna di Marluxia di avermi fatto mettere la testa a posto.»
«Ah sì? Deve avere il favore di qualche dio allora.» commenta Roxas.
Axel fa un cenno con la testa. «Anche se già finire al fresco mi aveva fatto realizzare di non aver fatto le migliori scelte, alcune cose che ha detto mi hanno fatto veramente riflettere su tutto. Prima mi sembrava di avere tutto il tempo del mondo, di essere invincibile e che sarebbe durato tutto per sempre, ma poi ho capito che era solo una stronzata, e che quelle scelte mi stavano facendo scavare una fossa da cui avrei rischiato di non uscire.» Axel volta il viso verso la luce morente del sole. «Mi ha fatto realizzare... che non mi aspettavo di arrivare vivo a questa età.»
Quella frase spiazza Roxas più di tutto. Tra di loro Lea era quello che più si era voluto spingere verso la vita, che desiderava qualcosa di più e che aveva il coraggio di cercare quel qualcosa e dirlo ad alta voce, correndovi incontro a discapito dei lividi e delle sbucciature. Come può una persona così non aspettarsi di sopravvivere? «Come- perché?» chiede, la gola improvvisamente secca. Quel pensiero gli è così famigliare che può sentirne il peso sul cuore.
«Perché per quanto mi rifiutassi di ammetterlo, sapevo che non ero buono a fare niente. Ero un idiota che credeva di essere intoccabile e di potere fare quello che voleva, ed ero troppo cieco per vedere quanto mi stessi bruciando e che avrei finito per incenerire anche chi mi stava intorno.» Axel scuote la testa e si lascia sfuggire un sorriso triste. «Scusa, Rox. So che l’hai avuta molto peggio di me. Non dovrei buttarti tutto questo addosso.»
«Non dirlo nemmeno per scherzo» lo ferma Roxas, allungando una mano a toccargli il braccio. «Hai sofferto quanto e più di noi, hai tutto il diritto di volere parlare.» gli fa una carezza sull’avambraccio, sfiorando con le dita il contorno della freccia infuocata che si era tatuato anni prima. «E io ci sarò sempre per ascoltarti.»
Il sorriso amaro di Axel diventa più dolce, e stringe la mano di Roxas nella sua. «Grazie Rox.» dice sottovoce, e Roxas gli risponde solo con un sorriso che brilla come una stella al punto che Axel si chiede come ha fatto a restare senza vedere quel sorriso per così tanto tempo.
 
Xion è la prima a parlare con Axel.
Accade più per caso che per effettiva volontà. Roxas non aveva tirato più fuori l’argomento, pensando che una volta che fosse stato pronto Axel lo avrebbe fatto da solo, ma la chiamata di Xion prende entrambi alla sprovvista. Mentre insieme aspettano il treno di Axel per Traverse Town, il telefono di Roxas inizia a vibrare insistentemente contro la sua gamba, e quando lo alza e risponde, Xion nemmeno lo saluta: «Fammi parlare con quel pezzo di merda.» ordina, la voce dura e furibonda.
«Xion...» prova a placarla Roxas.
«Passami quel rottinculo maledetto prima che dia fuoco a tutto ciò che ami, Roxas.» Roxas deglutisce rumorosamente e volta lo sguardo verso Axel, che è sbiancato al punto da essere quasi trasparente. Toglie il telefono dall’orecchio e glielo porge.
«È per te.»
Anche se distante di qualche passo, Roxas sente ogni singolo insulto che Xion grida dall’altra parte della linea, ricoprendo Axel di improperi e bestemmie, chiedendogli come diavolo si fosse permesso di sparire in quel modo, credevano tutti che li avesse abbandonati, perché veniva a sapere da Isa che era andato da Roxas ma non aveva pensato di farsi sentire dagli altri? Axel rimane immobile durante quella cascata di insulti che dura quasi dieci minuti, rispondendo solo con dei piccoli “mhm” e “lo so”, aspettando che la furia si calmi. Quando la voce di Xion si spegne, Axel tiene lo sguardo sulle scarpe e la mano gli trema.
«Mi... mi dispiace Xi.» dice sommessamente. «Ti prometto che ti spiegherò tutto... lo so che non ti fidi, ma te lo giuro. Sì, parlerò anche con gli altri... come sta Naminè? Me la ricordo come uno scricciolino... puoi dirle che la saluto? Sì, lo so, vaffanculo. Ti voglio bene, Xi. Sì, mi dispiace. Ci sentiamo presto.» Axel chiude la chiamata con le mani che tremano, e porge di nuovo il cellulare a Roxas. Ha gli occhi lucidi e il labbro inferiore che trema. «Beh... è andata bene credo.» dice a bassa voce. Roxas fa un cenno con la testa e gli stringe la mano per rassicurarlo, carezzandogli le nocche con il pollice.
«È arrabbiata come lo ero io. Dalle del tempo e vedrai che andrà meglio, le sei mancato tanto.» gli dice. «Adesso credo sarà ora di fare il giro di telefonate a tutta la banda, però.»
«Immagino di sì.» con un rumore di ferraglia, il treno per Traverse Town rallenta fino a fermarsi sul binario. «Mi mandi tu i numeri degli altri?»
Roxas annuisce, lasciando la mano di Axel e lisciandosi una piega invisibile sulla felpa. «Ci vediamo.» dice. Axel gli fa un cenno della testa e sale sul treno.
Dopo Xion a chiamare è Demyx, probabilmente avvisato da Xion o da Isa. È ancora più furibondo di lei, se possibile, e minaccia Axel di morte più volte prima di scoppiare in un pianto disperato. Lo insulta per minuti interi tra le lacrime, con la voce di Zexion in sottofondo che cerca di calmarlo. Fa promettere ad Axel di incontrarsi il prima possibile, rovesciandogli addosso altri improperi, e di prendersi tutti i cazzotti che merita. Zexion approfitta per prendere la parola, e dire ad Axel che solo per aver fatto piangere il suo ragazzo ha tutto il suo disprezzo. Con Ienzo non va molto meglio, è più calmo e si dice contento di sapere che sta bene, ma sotto la sua calma c’è una delusione mal celata, che fa più male di cento pugni.
Li ha delusi, è questa la verità.
Roxas è lì con lui quando Axel chiude la chiamata, pericolosamente vicino alle lacrime, e non può fare altro che abbracciarlo, e se lo sente piangere, lo tiene per sé.
 
Roxas non desidera altro che andare a casa e dormire fino al mese successivo quando esce dall’università. Sbadiglia platealmente e si incammina verso casa, quando un clacson fin troppo vicino lo fa sobbalzare.
«Vieni perdente, andiamo a fare shopping!» gli grida la voce di Axel, e Roxas sbuffa mentre si gira, perché solo Axel può citare Mean Girls e credere di essere divertente. Lo stupisce però vedere che Axel è alla guida di quello che un tempo sarebbe stato un pickup, e che sembra avere visto ere geologiche migliori.
«Da quando guidi?» chiede Roxas avvicinandosi. Axel risponde solo con un sorriso sornione e aprendo la portiera del passeggero.
«Da quando sono riuscito ad accaparrarmi questo gioiellino con il mio stipendio schifoso, e siccome ne vado particolarmente fiero ho voluto venire a vantarmene con te» risponde mentre Roxas sale e si toglie lo zaino dalle spalle. Roxas si gira a guardarlo con un sopracciglio alzato, ben consapevole che c’è qualcosa sotto. «Ok ok, siccome ho finalmente un mezzo mio Xion e Naminé mi hanno invitato ad andare a trovarle e ho bisogno di qualcuno che mi faccia da scudo umano nel caso Xi decida di spararmi.»
«E io che pensavo volessi essere gentile.»
«Zitto biondo, io sono un amore.»
Roxas ride e scrive a Ventus di essere fuori con dei compagni di università e che farà tardi – negli ultimi tre mesi ha accuratamente evitato di lasciarsi sfuggire qualcosa sul fatto che Axel sia tornato, l’ultima cosa che vuole è un nuovo litigio – prima di piegarsi e abbassare la zip degli stivaletti, sfilandoli e incrociando le gambe. «Gita in macchina, yay!» esclama con fin troppa eccitazione, sorridendo ad Axel, che gli sorride di rimando prima di premere il piede sull’acceleratore.
Per arrivare a Land of Departure ci vuole almeno un’ora e mezza, che Roxas passa cercando e fallendo di rileggere gli appunti di storia medievale mentre Axel canta il più sguaiatamente possibile apposta per distrarlo, finendo col coinvolgerlo in un appassionato karaoke di una serie di canzoni dei Tokio Hotel. Quando Axel prende una nota particolarmente acuta mentre canta Darkside of The Sun Roxas inizia a ridere sguaiatamente, guadagnandosi un pugno sul braccio prima di unirsi nella maniera più stonata possibile. Roxas lo guarda e vede il sorriso di Axel che gli evidenzia le fossette sulle guance e il sole che illumina d’oro il suo volto, e il suo cuore salta un battito. Le loro urla sfumano nelle risate, che vengono trasportate lontano dal vento lungo la strada.
Quando arrivano però, l’allegria lentamente scompare, e quando parcheggiano non lontano da dove Axel e Xion si erano dati appuntamento, Axel è un fascio di nervi. Roxas lo guarda sistemarsi nervosamente la giacca, prendere il cellulare e scrivere un messaggio – probabilmente a Xion, prima di prendere un respiro profondo per calmarsi. «Andrà bene» prova a rassicurarlo Roxas. «se ti ha invitato vuole dire che non ti odia.»
«Oppure che vuole uccidermi.»
Scendono insieme e si incamminano – si sono dati appuntamento in un parco, in un luogo abbastanza tranquillo per poter parlare. Axel continua a essere nervoso, giocando continuamente con le chiavi del pickup per distrarsi, e anche Roxas inizia a sentire qualcosa di simile all’ansia montargli dentro.
Xion e Naminé sono già lì, sedute insieme su una panchina, Naminé chinata sul suo album da disegno e Xion che legge un libro. Sembrano identiche ma allo stesso tempo completamente diverse da come le ricorda Axel, e quasi gli viene da voltarsi e chiedere a Roxas se sono davvero loro; ma non ha bisogno di farlo perché nel momento in cui si avvicinano Xion alza la testa di scatto, fissandolo con gli stessi occhi blu di sempre, ma che si riempiono subito di rabbia. Si alza e marcia verso di loro, lasciando Naminé che alza lo sguardo e resta a guardare dal suo posto.
«Tu» inizia Xion, piantandosi di fronte ad Axel e puntandogli un dito contro il petto; «sei un pezzo di merda egoista e stronzo. E tu» aggiunge rivolgendosi improvvisamente a Roxas «sei doppiamente un pezzo di merda perché non hai pensato nemmeno per un secondo che volessimo sapere che questo stronzo schifoso era vivo.»
«Xi, lascia Roxas fuori da-»
«Tappati quella fogna o te la cucio, bastardo.» Xion zittisce Axel con uno sguardo che potrebbe polverizzare una montagna. Roxas guarda prima lui, poi Xion, e infine fa qualche passo indietro, andando a sedersi vicino a Naminé per lasciarli soli, anche se continua a tenerli d’occhio per evitare che ci siano omicidi.
Naminé alza lo sguardo dal suo blocco e gli sorride timidamente. «Ciao Roxas» lo saluta, la voce quieta e bassa, come un soffio di vento.
«Ciao Nami» Roxas si sforza di sorriderle, «sei cresciuta tanto dall’ultima volta, eh?»
Naminé annuisce, la matita che picchietta contro il foglio. «Come l’hanno presa gli altri?» chiede.
Mentre Roxas inizia a raccontarle delle chiamate e di ciò che è successo, Axel gli lancia un’occhiata da sopra la testa di Xion, l’agitazione che gli attanaglia le viscere come un cane furioso. «Ascolta, Xi...» inizia, continuando a rigirarsi le chiavi tra le dita, pensando che forse farebbe meglio a voltarsi e correre via. «non sono qui per implorare il tuo perdono.»
«Lo spero bene, Lea, perché non te ne meriteresti nemmeno un briciolo.» considera lei, altrettanto agitata per la rabbia e il nervoso, e il suo vecchio nome gli fa male come una coltellata. Axel annuisce, abbassando la testa.
«So di aver ferito te e tutti gli altri, vi ho abbandonati senza spiegazione e so che vi ho fatto del male facendolo, nonostante credessi fosse la cosa migliore per tutti...» Axel si ferma, prende un respiro, imponendosi di calmarsi. «Roxas mi ha raccontato di quanto tu sia felice qui, con la tua famiglia, di come tutti siete felici e state vivendo la vostra vita, e io... io ho pensato che non avrei dovuto fare parte di quel quadro dopo sei anni di assenza.»
Xion non risponde, lo guarda soltanto, le braccia ora incrociate. Ha i capelli più lunghi adesso, una ciocca le ricade sul naso e se la sposta con un gesto nervoso, ma così simile a quello che Axel ricorda di lei che si sente quasi più tranquillo. «Non è tuo diritto scegliere se noi vogliamo averti nella nostra vita o no.» dice Xion infine. «E so che tu pensavi di star facendo la cosa migliore, ma ci hai ferito tutti invece.»
«Lo so, e non potrò mai fare nulla che sia abbastanza per farmi perdonare.»
«Puoi esserci, invece.» quella risposta sorprende Axel, ma Xion sembra mortalmente seria. «Puoi esserci di nuovo per noi e starci di nuovo vicino. Ci sei mancato, Axel.»
Sentire il suo nome fa spezzare qualcosa nella tensione che teneva Axel dritto come un fuso. Si passa una mano tra i capelli e scaccia la voglia di piangere, cercano di tirare fuori invece un sorriso. «Roxas te lo ha detto, eh?»
Xion annuisce. «Me lo ha scritto appena dopo la prima chiamata. E hai ragione, Lea era proprio un nome di merda. Axel ti sta meglio.»
«Grazie, Xi.» Axel le sorride di nuovo, stavolta sinceramente. Senza pensarci alza una mano per arruffarle i capelli, come hanno sempre fatto, e il fatto che Xion lo lasci fare lo fa sentire infinitamente meglio. «Tu e Nami mi siete mancate.»
Xion non risponde, ma gli prende il polso e si gira, tirandolo con sé mentre raggiungono Roxas e Naminé. «Ti restituisco il rosso, Rox» annuncia, «visto che non l’ho ucciso?»
Sembra tutto incastrarsi perfettamente, dopo quello. Axel e Xion superano il resto dell’iniziale tensione dopo mezz’ora, quando Axel fa una battuta sui roditori che fa ridere Xion al punto da cadere dalla panchina. È come essere tornati a essere ragazzini, Naminé parla della scuola e mostra loro i suoi disegni, Xion racconta del suo lavoro e delle loro madri adottive, Yuffie e Tifa, che hanno indirettamente adottato anche l’intero gruppo ogni volta che qualcuno veniva a trovarle, e Axel mostra loro il tatuaggio che si è fatto sul polso appena uscito di prigione e le racconta del suo compagno di cella con cui lavora adesso. Roxas li guarda parlare, giocherellando con un braccialetto per tenersi impegnato, un sorriso sulle labbra mentre sente Xion ridere insieme ad Axel.
È tutto così giusto, in quel momento, che non sembra passato nemmeno un mese da quando erano una banda di ragazzini pieni di lividi con più sogni che altro, e Roxas sente il cuore esplodergli nel petto per quanto tutto questo gli è mancato. Axel incontra i suoi occhi e accenna un piccolo sorriso, poggiandogli discretamente una mano sul ginocchio e stringendo quel tanto che basta da far capire a Roxas che anche lui sta sentendo quelle cose. Xion nota quel gesto e lancia uno sguardo a entrambi, senza smettere di raccontare una storia sulla sua amica Kairi e degli amici di lei che a quanto pare hanno impiegato più tempo di Zexion e Demyx per mettersi insieme.
Il pomeriggio passa tra chiacchere e risate, e quando inizia a farsi sera Xion li porta a vedere la cattedrale di Land of Departure, che anche se chiusa basta la vista dall’esterno a far illuminare gli occhi di Axel come se avesse visto un angelo, e dalla tracolla tira fuori improvvisamente un taccuino e una matita e inizia a disegnare furiosamente, muovendo la matita a velocità quasi inumana sulla carta. Naminé subito fa lo stesso con il suo album, e Roxas si ritrova accanto a Xion a osservarli disegnare con un’espressione confusa sul viso. «Come fanno a disegnare così velocemente?»
«Non ne ho idea, tu come fai a sparare fuori mezzo Signore degli Anelli in dieci minuti quando siamo in chiamata?» rispose Xion, appoggiandosi a un lampione come se fosse abituata a quelle occasioni. Roxas fa un cenno con la testa e guarda Axel disegnare, il viso contratto in una smorfia di concentrazione e un ciuffo di capelli sfuggito alla coda che gli dondola davanti al naso. «Ti sei accorto che ad Axel piaci ancora, vero Roxas?»
Quello prende alla sprovvista Roxas, che si gira a guardare Xion con gli occhi spalancati. «Ma che dici, Xi?» le chiede, sentendo suo malgrado le guance arrossarsi. Non ha più pensato a quell’aspetto del loro rapporto dopo il loro primo incontro tre mesi prima e se Axel ci ha pensato, non se ne è accorto.
«Non so se te ne sei reso conto, Rox, ma ogni volta che apri bocca Axel ti guarda come se avessi appeso la luna e tutte le stelle» spiega Xion con il tono accondiscendente di chi sta spiegando qualcosa a un bambino un po’ lento, «e per quanto mi faccia ancora incazzare il pensiero di quello che ha combinato, si vede che è sincero.»
Roxas non risponde, ma volta di nuovo lo sguardo verso Axel, che proprio in quel momento ferma il suo disegnare e si raddrizza, guardando soddisfatto il disegno sul suo taccuino, e quando si accorge di essere osservato si volta verso Roxas e gli fa un sorriso talmente bello che Roxas sente il cuore saltargli un battito, e Xion accanto a lui sbuffa un esasperato “te lo avevo detto”.
Dire di nuovo “arrivederci” è più difficile del previsto. Roxas guarda Axel salutare sia Xion che Naminé, promettendo di farsi sentire e di venire a trovarle, di andare insieme in spiaggia con tutto il gruppo un giorno, ma ha sentito il senso di colpa mordergli le viscere per ogni parola, la paura che sia una bugia, il dubbio che sia tutto un sogno, ma scaccia quel pensiero in fondo alla sua mente.
Roxas tiene i piedi sul cruscotto. I suoi stivaletti sono sotto il sedile insieme al suo zaino, e le calze blu sono illuminate dalla luce dei lampioni a lato della strada. Axel tiene lo sguardo sulla strada, una mano sul volante e il gomito dell’altro braccio sporge dal finestrino aperto, la giacca di pelle sullo schienale del sedile.
Roxas sbadiglia e si volta a guardare Axel, che sembra esausto quanto lui. «Sei stanco?» gli chiede a bassa voce. Fuori è già buio e la strada è deserta nonostante non siano nemmeno le otto di sera, l’unica luce quella dei lampioni e della luna che sorge e si riflette sul mare che costeggiano.
«Un po’» risponde Axel, gli occhi ancora fissi sulla strada, «ma siamo quasi arrivati a Twilight Town.»
«Se vuoi possiamo fare una pausa. Preferisco fare tardi a cena che finire nell’oceano perché hai avuto un colpo di sonno.»
«Scemo» Axel alza gli occhi al cielo, ma rallenta e accosta, infrangendo con ogni probabilità qualche regola del codice della strada, ma il modo in cui si strofina gli occhi con le nocche tatuate suggerisce che ne abbia più che bisogno.
Si trovano quindi appoggiati alla portiera del passeggero del pickup, il motore ancora acceso che brontola piano, entrambi rivolti verso il mare. Axel si accende una sigaretta e d’istinto dopo aver preso una prima boccata la passa a Roxas, che però gliela restituisce subito. «Sei diventato un bravo ragazzo mentre non c’ero?» chiede Axel scherzando. Roxas gli fa un ghigno divertito e gli tira una gomitata.
«No, idiota, il fumo fa casino con le mie medicine» gli spiega. La luce di un lampione li illumina, e solo il rumore basso del motore e delle onde del mare infrange il silenzio della sera. Una folata di vento freddo fa rabbrividire Roxas, e gli ricorda che stare fuori con le calze e una maglietta a inizio febbraio non è l’idea migliore che abbia mai avuto.
Axel lo nota e si gira di nuovo verso di lui, una mano che va ad abbassare la zip della sua giacca di pelle. «Tieni» gli dice, sfilandosela e appoggiandogliela su una spalla, la sigaretta incastrata all’angolo della bocca. Anche senza volerlo Roxas sente le guance scaldarsi e accetta la giacca, infilandovi le braccia e stringendosela intorno. Il cuoio è caldo per il calore del corpo di Axel, e inspirando piano riesce a sentirne quasi il suo odore, di tabacco e grafite e tinta per capelli. Roxas mormora un ringraziamento e si avvicina un po’ di più ad Axel, le loro spalle che quasi si toccano, e torna a guardare il mare, mentre Axel in tutta tranquillità alza un braccio per appoggiarglielo sulle spalle, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ma Roxas non fa nulla per spostarlo. Anzi, piega la testa per appoggiarsi ad Axel, sentendo il suo respiro sfiorargli i capelli.
Roxas alza lo sguardo e per un attimo si perde per l’ennesima volta nel verde delle iridi di Axel, quel verde dietro a cui aveva fantasticato per anni nel privato della sua camera e del suo quaderno, ed erano stati una delle prime cose che aveva amato di Axel-
Roxas si blocca, pietrificato, il cuore che dapprima si blocca e poi inizia a galoppare all’impazzata. Quel pensiero non gli ha mai sfiorato la mente prima, la possibilità di essere innamorato, ma gli sembra subito una verità quasi innegabile. E improvvisamente le lacrime, le pagine e pagine che aveva riempito di pensieri e ricordi, il dolore della separazione acquisiscono un significato nuovo ai suoi occhi, molto più sensato del sentire la mancanza di un amico.
Roxas ama Axel, lo ama da prima che se ne potesse rendere conto, da prima di avere le parole per dare un nome a ciò che provava; forse lo ama dal primo giorno in cui si sono incontrati, quando Roxas non era che un bambino con le ginocchia sbucciate e Axel era un ragazzino pieno di lividi che lo aveva fatto sentire a casa per la prima volta.
Axel continua a guardarlo, battendo ogni tanto le palpebre colorate di ombretto blu, e anche lui sembra pensare a qualcosa. Roxas apre la bocca per parlare, ma la gola gli si stringe in una morsa quando sul volto di Axel si apre un minuscolo sorriso, adornato da un rossore leggero sulle guance, e con l’altra mano sale a toccargli il viso, sfiorandolo appena con la punta delle dita. «Rox...» lo dice sottovoce, come se avesse paura di spezzare quel momento se parlasse troppo forte, e Roxas ci mette qualche secondo a ritrovare la sua voce.
«Si?»
«Posso baciarti?»
Il modo in cui Roxas chiude gli occhi è una risposta sufficiente per Axel, che si china su di lui e lo bacia con una dolcezza infinita, come se non avesse aspettato altro e volesse fare le cose per bene, e a Roxas sembra di impazzire. La mano di Axel che prima toccava la sua spalla sale a stringergli con dolcezza la nuca, affondando tra i capelli biondi e stringendolo a sé, il freddo completamente dimenticato. Stringe le braccia intorno al suo torace e afferra la sua maglietta, sentendo il suo cuore battere veloce come un colibrì quando si volta completamente verso di lui al punto che i loro toraci si toccano. Il respiro di Axel sa di tabacco e le sue labbra di lucidalabbra alla ciliegia, e non sono più i baci da ragazzini che si scambiavano sette anni prima, lo stringe quasi con ansia e si azzarda a sfiorare il labbro inferiore di Roxas con la lingua prima di allontanarsi, e prima che possa accorgersene o vergognarsi un piccolo mugolio lamentoso lascia le labbra di Roxas, sentendo già la sua mancanza.
Axel ride piano, il naso che fiora il suo, e le sue labbra salgono a premergli un bacio sullo zigomo, sulla palpebra e poi sulla fronte, una mano ancora sulla sua nuca e l’altra che scende a sfiorargli un fianco e lo fa rabbrividire. «Non sai da quanto volevo farlo» dice contro la sua fronte, lasciandogli un altro bacio. Roxas si sente avvampare, e la sua stretta sulla maglietta di Axel aumenta.
«Idiota» dice sottovoce, ma un’improvvisa emozione gli fa spezzare la voce, come un vetro che si infrange. Sposta la testa e preme il viso contro l’incavo del collo di Axel, che lo sente respirare tremolante, come fosse sull’orlo delle lacrime. «Non sparire di nuovo,» lo prega Roxas, la voce talmente fievole da essere quasi impercettibile, «giuramelo. Se vuoi che rimanga con te, devi prometterlo.»
«Roxas...»
«Se tu sparissi di nuovo dopo aver ricominciato questa cosa morirei, Axel» continua Roxas, tremante come un uccellino caduto dal nido, improvvisamente fragilissimo tra le sue braccia. «Morirei, lo capisci?»
Axel all’inizio non risponde, continua a stringerlo come se avesse paura che fuori dalle sue braccia Roxas si sarebbe spezzato. «Te lo prometto, Rox» sussurra contro i suoi capelli, baciandogli la testa e la punta dell’orecchio, il cuore che batte forte contro quello di Roxas. Gli prende il viso tra le mani, i pollici che sfiorano la pelle umida di lacrime sotto i suoi occhioni blu, e si avvicina per baciarlo di nuovo, tenendolo come fosse la cosa più preziosa del mondo.
«Ti amo, lo sai vero?» sospira contro le sue labbra, e il modo in cui Roxas lo bacia tanto basta come risposta.
 
Il treno si ferma con uno stridio di ferraglia, che risuona nelle orecchie di Roxas nonostante abbia le cuffie e la musica al massimo. Si mette lo zaino sulla spalla e scende di corsa, cercando di arrivare il più in fretta possibile al coperto per proteggersi dalla pioggia battente.
Oltre a fare schifo, Traverse Town è pure sommersa da un temporale, e proprio il giorno in cui si è vestito bene.
Roxas sbuffa e si infila velocemente nella stazione, tirando fuori il telefono per chiamare Axel. «Sono arrivato, dove diamine sei?» chiede non appena risponde, dondolandosi sui tacchi degli stivali. Sta approfittando del fatto che stia iniziando a fare più caldo per ricominciare a mettere le gonne che gli piacciono, come quella scozzese bianca e nera che indossa in quel momento, o almeno è ciò che si ripete, rifiutando categoricamente l’idea di aver pensato al modo in cui Axel lo guardava ogni volta che ne indossava una. Ma ovviamente il meteo doveva cospirare contro di lui.
«Sto staccando adesso Rox, resta in stazione- dì ancora una cosa del genere mentre sono al telefono con Roxas e ti tingo di verde, Marly, giuro che lo faccio» risponde Axel, rivolgendosi a metà frase verso qualcuno dalla sua parte. Roxas sente una risposta indistinta a cui Axel replica con un insulto, e sorride divertito quando un’ulteriore voce interviene e chiede se intendono andare a lavorare o devono ancora stare a battibeccare come vecchie pettegole. «Scusami, qui c’è gente che non ha imparato la sacra arte dello stare zitti.»
«Ho notato. Allora, mi vieni a prendere o mi lasci a prendere acqua?»
«Chi lo sa, magari sotto l’acqua cresci.»
«Vaffanculo.»
«Ti amo anche io, biondo. Ci vediamo tra dieci minuti.» Roxas chiude la chiamata senza salutare e si lascia cadere su una panchina, mettendo di nuovo le cuffie. Ripensa al “ti amo” che Axel gli ha detto e si sente avvampare: nonostante sia già passato quasi un mese, e se lo senta dire tutti i giorni più volte al giorno, non riesce ancora ad abituarsi a sentirlo dalle labbra di Axel. Mentirebbe se dicesse che non lo ha mai immaginato, anche quando non la riteneva più che una cotta da ragazzino, ma la realtà è molto diversa – e molto migliore – della fantasia.
Per distrarsi gioca con un filo del maglioncino mentre aspetta, ignorando il resto delle persone che gli passano intorno. È la prima volta che torna a Traverse Town da quando ci era andato insieme a Vanitas quattro anni prima per incontrare i suoi genitori, e aveva finito per fare una conoscenza più accurata di quanto desiderasse del pronto soccorso locale. Il solo ricordo gli fa venire il cuore a mille, e scuote la testa per scacciarlo: non è lì per farsi venire un attacco di panico o per tenere il broncio tutto il giorno. È lì perché è il compleanno di Axel e lo ha invitato a venire a trovarlo.
Il festeggiato arriva dopo una ventina di minuti, con un ombrello gocciolante di un giallo che fa male agli occhi in mano e i capelli sciolti sulle spalle. È infagottato in un cappotto nero e una sciarpa dello stesso orribile colore dell’ombrello, e appena vede Roxas da sopra la sciarpa gli fa un sorrisone, prima di bloccarsi a mezzo passo quando si accorge di com’è vestito.
Roxas non ama mettersi in mostra, anzi, ma si trova ad ammettere anche a sé stesso di aver prestato particolare attenzione al modo in cui si è vestito quel giorno. Oltre alla gonna e al maglioncino scuro ha vinto il suo imbarazzo indossando un paio di parigine nere con una riga bianca sull’orlo e un paio di stivali con appena più tacco del normale per sembrare leggermente più alto, e per completare l’opera si è truccato con più cura del solito; e improvvisamente si sente consapevole di ogni singolo dettaglio del suo aspetto quando Axel non nasconde nemmeno il modo in cui lo guarda, gli occhi che sembrano quasi brillare di una luce che non ha mai visto.
«Buon compleanno a me» dice infine, avvicinandosi a Roxas e poggiandogli le mani sui fianchi prima di chinarsi a baciarlo sulle labbra. «è questo bel ragazzo il mio regalo?»
Roxas ride nel bacio e lo lascia fare, appoggiandogli una mano sul petto. «Se ti basta questo...» risponde con un sorriso che è quasi timido. «Buon compleanno, Ax.»
Axel gli sorride a sua volta e lo lasci andare, impugnando di nuovo l’ombrello che aveva appeso all’incavo del gomito. «Possiamo festeggiare in un luogo con meno occhi, direi» conclude, prendendo Roxas per mano e uscendo con lui nella pioggia.
Tenere Axel per mano è ancora strano per Roxas. Se prima lo facevano quando si consolavano a vicenda o casualmente, ora Axel stringe la sua mano come a non volerla lasciare, come se avesse paura che Roxas scappi. È cambiato anche il modo in cui lo guarda, il suo sorriso, la tenerezza con cui lo sfiora, quel nuovo affetto gli fa esplodere il cuore di un sentimento che capisce a malapena.
Il bar dove lavora Axel – e sopra cui vive – non dista molto dalla stazione, e insieme si infilano sotto il portico dell’edificio per ripararsi dalla pioggia. Fuori dalla porta del bar c’è un uomo alto, dai lunghi capelli tinti di un rosa pastello e truccato in maniera decisamente troppo appariscente, che fuma una sigaretta, e sembra illuminarsi quando vede Axel. Il suo sguardo azzurro si sposta da lui a Roxas, che si tiene al braccio di Axel, e un sorriso gli si apre sul volto. «È lui il famoso fidanzato?» chiede, avvicinandosi con sorprendente velocità visti i tacchi che porta e squadrando Roxas, «È così carino... hai proprio buon gusto, Axe. Sicuro che vuoi stare da solo con lui?»
«Ficcati le mani nel culo, Marluxia, e pensa alla tua di fidanzata.» risponde senza perdere un colpo Axel, apparentemente tranquillo, ma la sua stretta sulla mano di Roxas sembra stringersi un po’ di più.
«Io e Larx siamo una coppia aperta, tesoro, lo sai bene» ride l’uomo. «Godetevi il pomeriggio, ragazzi» li saluta infine, lanciando a terra la sigaretta. Quando Marluxia è rientrato nel locale, Roxas è convinto di sentire Axel tirare un sospiro di sollievo, e si volta verso di lui, alzando un sopracciglio.
«Sei geloso?» gli chiede per provocarlo, la voce leggermente divertita, e Axel si gira verso di lui e gli fa una boccaccia.
«Non sarebbe mai all’altezza di qualcuno come te» dichiara. «quindi no, non sono geloso.»
Roxas ride e lo tira per la mano. «Entriamo, dai. Sono curioso di vedere come tieni la tua bella casetta senza Isa che ti costringe a mettere nei cassetti le tue mutande.» Axel gli fa un’altra boccaccia, ma prende dalla tasca del cappotto un mazzo di chiavi e insieme a lui apre ed entra in una porta a vetri adiacente al bar.
L’appartamento di Axel è incastrato in fondo a un corridoio del secondo piano, ed è disordinato esattamente come il suo inquilino. Roxas si guarda intorno mentre si toglie gli stivali, notando subito i disegni e le tele appesi ai muri in quantità, e i fogli sparsi su quello che davanti al divano dovrebbe fungere da tavolino, ma che nella pratica è un banco da disegno. Nell’aria c’è odore di colori che si asciugano e di carta bruciata. È decisamente come Roxas si immaginerebbe la mente di Axel: disordinata, piena di oggetti e idee, ma con un’armonia di fondo che la rende bellissima da vedere. Gli sembra di aver messo piede in uno spazio intimo e privato, che pochi possono vedere e ancora meno possono capire.
«Scusa il casino» si scusa Axel, che si è tolto cappotto e l’orribile sciarpa restando con una camicia a quadri rossi e neri, con i primi tre bottoni slacciati. Roxas fa un cenno con la testa e si avvicina al tavolino, lasciando a terra lo zaino e inginocchiandovisi accanto e sfiorando curiosamente uno dei disegni su di esso, di un gatto addormentato su un davanzale in mezzo a dei vasi di fiori.
«Non ricordavo fossi così bravo» considera Roxas a mezza voce.
«Beh Rox, ho avuto sette anni per migliorare.» gli risponde Axel, lasciandosi cadere dietro di lui e circondandolo con le braccia, premendogli un bacio sulla nuca. «ti piacciono?»
Roxas annuisce, spostando altri disegni per vederli meglio. Sono disegni e schizzi normalissimi, di animali, persone ed edifici, e tra di essi riesce a vedere qualche ritratto dei loro amici. Axel li ha disegnati in ogni tecnica possibile, con il carboncino così come con gli acquerelli, e la varietà di tecniche stupisce moltissimo Roxas. «Sono bellissimi, Axel» lo complimenta ammirato, una mano che accarezza un foglio di carta sul tavolo e l’altra che scende a tenere una di quelle di Axel tra le sue, intrecciando le loro dita. Axel fa un piccolo suono di assenso e continua a lasciargli piccoli baci sui capelli e sul collo, facendolo rabbrividire quanto sfiora la giugulare.
Restano per po’ così, con Roxas che studia con interesse i disegni di Axel e quest’ultimo che continua a riempirlo di baci e carezze innocenti, prima che Roxas riprenda a parlare. «Lo sai...» ricomincia, guardando il disegno di un mazzo di fiori, «mi sono ricordato che c’è una cosa che non ti ho mai detto.»
«Ovvero?» chiede lui, non smettendo di baciarlo. Quando Roxas esita a rispondere dischiude un po’ le labbra e gli preme leggermente gli incisivi sulla pelle, non abbastanza da far male ma quel tanto che basta da farlo sobbalzare. «Allora?»
«Idiota... se mi molli te la mostro.» risponde Roxas, cercando di ignorare il modo in cui le guance gli si infiammano e un fastidioso nodo gli si forma nella pancia all’idea. Axel sbuffa ma allenta la presa delle sue braccia quel tanto che basta da farlo spostare, e Roxas esita con le dita sull’orlo del maglioncino, il cuore che inizia a martellargli nel petto, prima che con un respiro se lo alzi sopra la testa e lo sfili, rabbrividendo quando l’aria gli tocca il petto nudo, e si impone di interessarsi particolarmente alla trama delle sue calze mentre quasi sente gli occhi di Axel guardarlo.
Un singolo fiore di camelia sboccia dietro la spalla di Roxas, colorato da schizzi di rosso e rosa, qualche foglia intorno colorata di verde, e sotto di essa un otto in numeri romani, abbastanza piccolo da passare quasi inosservato sotto il fiore.
Roxas sente Axel prendere un respiro, e gli viene la pelle d’oca quando sente le sue dita sfiorargli la pelle tatuata, seguendo prima il contorno della camelia e poi fermandosi dove c’è il numero. «Cosa vuol dire?» chiede Axel a bassa voce, come se non volesse rovinare quel momento, ma prima che Roxas possa rispondere abbassa la testa, baciandogli il tatuaggio e la pelle circostante.
«Vuol dire… ah-» Roxas si lascia sfuggire un sospiro per i baci di Axel, interrompendosi prima di continuare. «Il rosso- la camelia rossa significa “sei la fiamma del mio cuore” e il rosa vuole dire-» si interrompe di nuovo quando le mani di Axel gli sfiorano lo stomaco con un tocco quasi impercettibile; «le camelie rosa sono quando desideri avere qualcuno vicino.»
«Mh» considera distrattamente Axel, ancora così vicino alla sua pelle da riuscire a percepire il suo respiro quando parla. «E l’otto immagino che sia lì a caso, non è vero...?»
Roxas si sente avvampare, imbarazzato da quell’improvviso cambio di atmosfera, e abbassa la testa. «Lo sai bene che vuol dire, idiota...» borbotta sottovoce, quasi intimidito. Ha quasi paura a dirlo lui ad alta voce, come se confessare di essersi fatto un tatuaggio per Axel non appena è diventato maggiorenne potesse rendere le cose forse ancora più strane, forse più intime, ed è proprio quel pensiero che lo blocca. Gli sta mostrando un lato che pochissimi conoscono di lui, quello che piangeva la notte e si disperava e aveva preso il suo cuore spezzato e cercato di rimetterne insieme i pezzi, quel lato di sé stesso che Roxas vorrebbe tanto fingere che non ci sia, ma che è sempre lì e in quel momento chiede prepotentemente di essere ascoltato.
Axel non risponde, si limita a baciargli nuovamente la spalla nuda e lo stringe un po’ di più, sentendo contro le sue dita aperte sul suo petto il battito del suo cuore. «È bellissimo» dice infine. Roxas riesce solo a sussurrare un “grazie” fievole, e Axel sorride contro la sua pelle. «siamo timidi adesso, Roxas?» gli chiede, convincendolo poggiandogli le mani suoi fianchi a girarsi, tirandolo un po’ verso il suo corpo finché Roxas non si trova a cavalcioni delle sue gambe, le mani che stringono la camicia di Axel e lo sguardo ancora basso. Le sue guance hanno preso un colore rosato che risalta ancora di più le lentiggini che gli macchiano il visino come mille stelle, e Axel vorrebbe contarle e baciarle una ad una.
Si limita invece a lasciargli un bacio sullo zigomo, sulla guancia, sul naso e infine scende a catturare le sue labbra, godendosi il lieve respiro che Roxas fa quando lo bacia e approfittandone subito per accarezzargli il labbro inferiore con la punta della lingua.
Roxas sente le mani di Axel scendere ad accarezzargli le gambe, alzando con la punta delle dita l’orlo della gonna, e il suo cuore salta un battito per la sorpresa e non solo. Mentre lascia che il bacio si approfondisca al punto che non sa più se il suo respiro è veramente suo o è quello di Axel, lascia anche che le sue dita risalgano sotto la stoffa della gonna, sospirando piano nella sua bocca quando stringono con delicatezza la presa sulla sua carne. «Axel...» la sua voce è quasi come una preghiera che Axel non riesce a ignorare, sussurrata sulle sue labbra e facendolo quasi impazzire.
«Mi sa che non ero l’unico un po’ impaziente...» si lascia sfuggire, guardando mentre il rossore sulle guance di Roxas si fa più intenso. Roxas non gli risponde, le sue dita che lentamente allentano un altro bottone della camicia di Axel e si insinuano dentro, accarezzandogli il petto con la punta delle dita e percorrendo la linea di un ennesimo tatuaggio. Chiude di nuovo gli occhi, rosso come non mai, e si china di nuovo per baciarlo, ma Axel lo ferma poggiandogli due dita sulle labbra, un sorriso che sembra promettergli l’universo sul viso.
«Abbiamo tutto il tempo del mondo...»
Roxas sa che stavolta non sta mentendo.
 

Hello there. Lo so, sono in ritardo apocalittico, ma l’universo ha deciso che mi odiava e dovevo passare delle vacanze schifose all’insegna dello studio e della rottura di coglioni, e spero di essermi fatto perdonare con questo mega capitolo, che avrebbe dovuto essere l’epilogo, ma stava uscendo veramente troppo lungo, perciò ho deciso di tagliare e pubblicare l’epilogo un altro giorno. Spero che comunque vi sia piaciuto, mi sono impegnato tanto e in questo capitolo ho sperimentato per la prima volta con azioni e argomenti che non ho mai toccato prima, da quest’ultima scena (la più difficile da scrivere di tutto il capitolo, infatti non mi soddisfa del tutto) al chiarimento con Xion e Naminé, ma mi auguro di essere riuscito a trasmettere ciò che volevo trasmettere. Ringrazio tantissimo la mia beta reader, Sel, che mi ha aiutato a superare imbarazzi e dubbi per questo capitolo. Ciao Sel, so che mi leggi!
Spirals si avvia ufficialmente al suo epilogo, signori, e sono fiero di stare riuscendo ad arrivarci. Spero di riuscire a dare a questa storia una conclusione soddisfacente, e se non dovesse essere così vi autorizzo a legnarmi.
Detto questo vi saluto, spero che abbiate gradito il capitolo e se lo avete fatto vi invito a lasciare una recensione per dirmi cosa ne pensate, anche le critiche se costruttive sono ben accette.
See you on the flip side.
Vento di Fata

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Capitolo 5
*** Well everything has changed, and now it's only you that matters ***


Note dell’autore: per l’ultima volta, questa è la playlist della fanfiction. Le canzoni per l’epilogo partono da “Touch” e finiscono con “Wild Heart”.
 
They boarded up the windows and the doors to my house
No one will ever read the letters or the lies that I told
From the years I was changed
By crooked hearts
Why did they have to go and do us like that?
Why did they have to go and run from the dream far away

Were we there? Was I brave?

To think everything must die
For anyone to matter
Got to find any way to your wild heart

I will find any way to your wild heart


- Wild Heart, Bleachers
 
Well everything has changed, and now it's only you that matters
 
 
Quando Roxas aveva sette anni, Ventus gli aveva detto che Vanitas era il suo ragazzo. Si erano seduti in camera di Ven, la porta chiusa e un piatto di pane e marmellata per terra in mezzo a loro, e mentre Roxas lo guardava con il visetto sporco di briciole Ventus gli aveva detto che il ragazzo gentile con cui uscivano sempre dopo la scuola, che comprava a Roxas il gelato tutti i giorni e aveva la moto “ultrastellare” su cui lo aveva portato a fare un giro una volta, era il suo fidanzato.
Di quel giorno Roxas ricorda bene di essere stato prima stupito, poi arrabbiato perché credeva che volesse dire che Vanitas lo trattava male – i loro genitori erano fidanzati dopotutto, no? – e poi, mentre Ven gli spiegava meglio la cosa, ricorda di essere stato felice. E Ventus sembrava felice anche lui, mentre parlava, con il sorriso sulle labbra anche se aveva un occhio nero e fuori dalla porta c’erano i loro genitori che urlavano.
Allora perché adesso si sente così?
Roxas cerca di inghiottire il nodo alla gola. Si sta preparando per uscire, Vanitas è sul tappeto che gioca distrattamente con il gatto e Ventus legge sul divano. Fuori c’è un acquazzone estivo in piena regola, e le gocce battono sulle finestre con la stessa forza del cuore di Roxas in quel momento.
«Vi devo dire una cosa.» dice, cerca di sembrare neutro, magari disinvolto, ma invece suona come un idiota. Vanitas alza lo sguardo e alza un sopracciglio interrogativo.
«Che succede?» chiede Ven, mettendo giù il libro.
Roxas si morde la punta della lingua e giocherella con le chiavi di casa. Lui non ci sa parlare con la gente, dannazione. In quello sono sempre stati bravi Axel e Demyx, non lui.
«Sei etero» spara Vanitas, un sorriso di presa in giro sulle labbra. «ti sei fidanzato in segreto. Hai ucciso qualcuno.»
Roxas riesce a strozzare fuori una risata. «Sono etero.»
«Lo sapevo!» esclama Ventus, unendosi alla pantomima. «Lo sapevo che c’era qualcosa di strano ultimamente.»
Roxas stringe il portachiavi abbastanza forte che la plastica scricchiola sotto le sue dita. «No, idioti. Ho un ragazzo.»
C’è un momento di silenzio.
«Beh, era anche ora che uscissi dal celibato» è il commento immediato di Vanitas, e che gli guadagna una pedata sulla nuca da Ventus. «Leva quel piede, Venty-Wenty! Sto scherzando!»
«Hai la sensibilità di una mazza da baseball, Vani. Sono diciotto anni che te lo ripeto e ancora non lo hai capito.» lo riprende Ventus, togliendo il piede dalla nuca del fidanzato e alzandosi per avvicinarsi a Roxas. Gli fa un sorriso e gli arruffa i capelli, facendogli sfuggire uno sbuffo e un mezzo sorriso. «Sono felice per te, Rox. Chi è il fortunato?» dice, e Roxas immediatamente sente lo stomaco sprofondare. Gli viene in mente il loro litigio, il modo in cui Ven aveva gridato, la rabbia nella sua voce e anche la delusione. Potrebbe essere sul punto di deluderlo di nuovo. Come può farlo una seconda volta?
Ormai è tardi.
«Lo conoscete già...» dice quasi distrattamente, sottovoce, e guarda da un’altra parte, per non vederli, per non vedere la loro delusione quando aprirà di nuovo la bocca. «...è Lea.»
Il passo indietro che fa Ventus basta a trasformare il principio di panico che Roxas sente in una morsa che inizia a stringergli il cuore e i polmoni. Stringe il portachiavi a forma di panda fino a farsi diventare le nocche bianche, ancora si rifiuta di guardarli, sente il rumore del sangue nelle orecchie e la forza con cui il suo cuore batte all’impazzata. Idiota. Idiota.
«Dici sul serio?» chiede Ventus, e la sua voce è sorpresa. «credevo che fosse sparito.»
Roxas scuote la testa, cerca di parlare attraverso la matassa di filo spinato che sente nel petto. «Non... non è sparito. Mi ha cercato un anno dopo essere uscito, a ottobre, e ci siamo... riavvicinati, ecco.»
«E tu non ci hai detto nulla?» stavolta Ventus non sembra solo sorpreso, ma anche ferito. Roxas si forza di alzare lo sguardo verso di lui, e ha gli occhi spalancati, blu come i suoi, con la stessa espressione di tanti anni prima. Vanitas si è alzato dal tappeto e gli è andato a poggiare una mano sul braccio, stringendo quel tanto che basta da fargli sentire che è lì con lui. «Rox, perché non ce lo hai detto? Quel ragazzo-»
«Perché sapevo che avresti reagito così» lo interrompe Roxas, sputando le parole come se gli facessero del male fisico. Forse è davvero così. «Perché sapevo che sareste stati arrabbiati e delusi, e che avreste pensato che fossi impazzito e mi avreste detto di smettere di parlargli.»
Vanitas fa un sospiro, poi lascia andare Ventus e si siede su una delle sedie, poggiando i gomiti sul tavolo. «Siediti e raccontaci tutto.» dice. È calmo, come sempre, e Ventus di riflesso sembra calmarsi un po’ anche lui. E Roxas lascia le chiavi, e il cappotto che aveva mezzo indossato, si siede, prende un respiro, chiude gli occhi per un attimo e vuota il sacco, si fissa ostinatamente le unghie delle mani strette in grembo e racconta di quando ha rivisto Axel, di ciò che si sono detti, del pugno, del nome, delle lettere, delle scuse e di come si fosse sentito come se finalmente un vuoto si fosse colmato. Racconta di quando sono andati a Land of Departure e del suo compleanno, tralascia i dettagli che vuole tenere per sé, ma per ogni parola che dice sembra che il muro tra quelle che letteralmente sono due vite separate che aveva costruito lui stesso piano piano si disfi, mattone per mattone. E quando finisce di parlare gli sembra di stare in piedi tra quei mattoni, a guardare quelle due vite che finalmente sono unite, e pensa perché non l’ho fatto prima?
«Lo so che non vi fidate di lui per quello che è successo prima» conclude infine, lo sguardo ancora fisso sulle sue mani, senza il coraggio di alzarlo. «ma Axel sta facendo l’impossibile per migliorare. È già una persona dieci volte migliore di quella che conoscevate, e ci tiene davvero a quello che c’è tra di noi, e io vorrei tanto che voi provaste a dargli una seconda possibilità.»
Il silenzio che segue quando Roxas finisce di parlare è pesante come una montagna. Quando alza lo sguardo, Ventus lo sta guardando come se lo vedesse per la prima volta, Vanitas invece ha un’espressione pensierosa in faccia. «Rox...» dice Ventus, infine, le mani anche lui strette in grembo in un gesto identico a quello di Roxas. «Tu sei sicuro di quello che stai dicendo, non è vero? Non... stai dicendo qualcosa che non pensi, vero?»
Roxas scuote la testa. «Ven, per favore...»                                         
«Ti ha ferito già una volta, Rox, come puoi essere così certo che non lo farà di nuovo?» Ventus non sembra arrabbiato, non più, solo triste.
«Non posso esserne certo... ma mi fido di lui, Ventus.» Roxas si zittisce dopo quella frase, perché non sa più cosa dire, non ha più armi per difendere sé stesso e Axel, può solo sperare che Ventus capisca. Suo fratello si alza e si avvicina a lui, e Roxas pensa per un attimo che voglia andarsene prima di trovarsi stretto in un abbraccio che quasi gli fa scricchiolare le ossa. Resta un attimo immobile, stupito, prima di sentire finalmente ogni pesantezza nel cuore sciogliersi e ricambiare l’abbraccio, gli occhi che pizzicano per la voglia di piangere.
Ven lo stringe forte, come per paura che scappi, e Roxas sente che gli poggia il mento sulla testa. «Non posso prometterti di cambiare opinione dalla sera alla mattina, Rox» dice, «ma se sei veramente sicuro di tutto questo, allora... possiamo provare, sia io che Vani.»
Roxas annuisce, sentendosi pericolosamente vicino alle lacrime – di nuovo. «Mi basta questo, Ven.»
Axel lo chiama mentre è ancora abbracciato a Ventus, dopo che in qualche momento si è unito anche Vanitas, e dopo quelle che gli sembrano delle ore. Roxas lancia un’occhiata al telefono, poi ai suoi fratelli, che gli fanno un cenno con la testa. «Finalmente rispondi, biondo! Ti aspetto da quaranta minuti sotto la pioggia, lo sai?» è l’esclamazione di Axel non appena Roxas risponde. Si lascia sfuggire un piccolo sorriso istintivamente, poi torna subito serio.
«Scusami Ax... ho avuto un contrattempo» spiega. «E... potresti venire a casa mia?»
«Verrei volentieri, Rox, ma non ci sono i tuoi fratelli a casa?» la voce di Axel cambia subito tono, diventando quasi preoccupata. «È successo qualcosa?»
Roxas guarda di nuovo Ventus, poi prende un piccolo respiro. «Sì, è successo qualcosa. Gli detto di tutto.»
Silenzio. Poi... «Ah.» commenta Axel. «Sicuro che se vengo ne esco vivo? Vorrei morire in modo più glorioso che ucciso dal fratello iperprotettivo del mio fidanzato.»
Malgrado la tensione, Roxas sbuffa una risata. «Vedi di arrivare e basta.»
Va esattamente come ci si aspetterebbe: non appena Axel mette piede in casa sembra quasi rimpicciolirsi sotto lo sguardo di Ventus e Vanitas e Roxas subito si allontana dal fratello e, ignorandoli, abbraccia Axel come fa sempre per salutarlo, gli sorride attraverso l’ansia e lo prende per mano.
È Vanitas che cerca di tenere le cose civili, dopo averli fatti sedere – non appena Axel si siede, dritto come un fuso, su una delle sedie del salotto Roxas ne tira una vicino e si siede accanto a lui, le gambe incrociate e la mano stretta saldamente in quella di Axel appoggiata sul suo ginocchio, rivolgendo uno sguardo a Ventus come a sfidarlo a dire qualcosa – inizia a chiedergli cose normali, che lavoro fa adesso e dove vive, e lui mentre risponde ha la voce che trema per il nervosismo, il palmo della sua mano contro quello di Roxas è sudato e se si voltasse Roxas è sicuro che vedrebbe la vena sul suo collo pulsare al ritmo del suo battito impazzito.
Per tutto il tempo Roxas tiene lo sguardo fisso su Ventus, che non ha ancora detto una parola, e forse è il silenzio che più spaventa Roxas e lo rende ansioso.
Quando gli argomenti più triviali sono finiti, è chiaro che Vanitas stesse solo cercando di prendere tempo, cercando di far sentire Axel meno a disagio, perché non appena finisce di parlare Ventus attacca subito: «Perché non hai risposto a Roxas in tutti quegli anni?» chiede a bruciapelo, gli occhi fissi su Axel, freddo come l’acciaio.
La stretta di Axel sulla mano di Roxas aumenta di nuovo, al punto da far sentire quasi una punta di dolore alle sue dita e torna a raddrizzarsi. Si tormenta per qualche secondo il labbro inferiore, pensandoci su, fa un respiro e risponde. «Perché non sapevo con che faccia avrei potuto scrivergli, dopo aver saputo di quanta sofferenza gli ho causato» dice, volutamente piano, dando l’impressione di una tranquillità che in realtà non ha; «e realizzare a pieno il tipo di giri in cui mi ero andato a cacciare e quanto danno avrei potuto fare a Roxas se avessi finito per trascinarlo con me, mi ha solo aiutato a decidere che fosse meglio sparire dalla sua vita e da quella di tutti gli altri.»
«Però poi hai cambiato idea.» Ventus non molla, lo disseziona con lo sguardo come farebbe un chirurgo con un cadavere, ogni parola pensata e ripensata. «E sei tornato pur sapendo quanto male avrebbe fatto a Roxas rivederti, dopo aver passato sette anni a cercare di andare avanti.»
«Chiamatelo egoismo se volete. Sapevo che non sarebbe stato contento di rivedermi e ci ho pensato e ripensato per almeno sei mesi dell’anno in cui sono stato fuori prima di tornare, ma sentivo che era qualcosa che andava fatto. Per dare una chiusura a quella pagina della nostra vita, di cui avevo bisogno io ma ancora di più Roxas, perché lo conoscevo bene e sapevo che in fondo non si sarebbe mai dato pace a meno che non mi fossi fatto avanti io.»
Roxas lancia un’occhiata ad Axel, sorpreso da quelle parole. Quei dettagli, quei pensieri di Axel, erano stati un mistero anche per lui e forse non ha mai chiesto per paura, o per evitare di toccare ferite ancora aperte. Vanitas sembra sorpreso dalla sincerità di Axel, mentre Ventus resta impassibile. «Invece la chiusura non c’è stata.» commenta.
Axel scuote la testa, la stretta sulla mano di Roxas che sembra quasi stringersi e rilassarsi ritmicamente, come un battito. «C’è stata per ciò che è successo prima, e io mi sarei accontentato di quello, ma è stato Roxas a voler ricominciare. Non mi ha perdonato subito, ma ha voluto darmi una seconda possibilità quando niente lo obbligava a farlo.» spiega, sincero, il cuore in mano. Per Roxas, solo per lui. «Così come voi non siete obbligati a darmene una adesso.»
«Quello che vogliamo sapere prima di arrivarci, Axel» interviene Vanitas, quasi gentilmente in contrasto con la freddezza di Ventus, «è quali intenzioni tu abbia con Roxas, e con questa... relazione che avete.»
«Non ho altre intenzioni se non quella di renderlo felice finché vorrà avermi accanto» risponde immediatamente Axel, improvvisamente sicuro, come se la risposta a quella domanda fosse ovvia e se la fosse preparata da sempre. «Niente di più, niente di meno. È tutto quello che posso dargli con più sincerità possibile.»
La stretta di Axel è più forte, adesso. È come uno strano specchio, nota Roxas. Vanitas, allo stesso modo di Roxas, tiene una mano a Ventus, le loro dita intrecciate in maniera identica a quelle di Roxas con Axel, gli occhi che ogni tanto vanno a guardarlo come ad assicurarsi che stia bene. Sono così simili, Roxas si ritrova a pensare, ma c’è mai stata tanta differenza?
«Quando tu e Roxas eravate piccoli,» commenta all’improvviso Ventus; «Roxas mi raccontava spesso di quanto facile fosse trovarti a fare a botte. Spero che sia un’abitudine che riservi unicamente ai teppisti per strada.»
È la cosa peggiore che potesse dire. Roxas lo capisce subito, sia dal modo in cui Axel si raddrizza improvvisamente come colpito da una scarica elettrica, sia dall’espressione dei suoi occhi, che prima si spalancano e poi diventano bui, duri. La sua mano stringe quella di Roxas fino a sbiancare, e Roxas stringe di rimando. «Ven, stai zitto.» sibila.
«I miei genitori hanno picchiato me e mio fratello abbastanza volte da permetterci di capire la differenza tra violenza e amore,» dice Axel, mortalmente serio, ogni nervosismo scomparso, freddo come il ghiaccio. «e l’unica cosa che non posso accettare è che crediate che toccherei Roxas anche solo per sbaglio. Non sarò la persona che speravate di vedere accanto a lui, ma non sono una bestia.» abbassa gli occhi, diventando fragile come vetro nel giro di un secondo. «Io non sono come loro.» conclude, a voce talmente bassa che forse lo sente solo Roxas.
Ignorando Ventus, che è sbiancato a sua volta, Roxas si volta verso Axel, sorridendogli nonostante l’ansia. «Lo sappiamo, Ax» lo rassicura a voce bassa.
«Io...» Ventus sembra quasi vacillare in quel momento. «Dio... non immaginavo che-»
«Penso che questo sia un esempio di quanto poco conosciamo di lui, Ven» interviene Vanitas, «tranne quello che abbiamo sentito dire o visto.» dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio, rivolge lo sguardo verso Axel, il viso sempre serio. «Roxas ci ha chiesto di darti una seconda possibilità, e noi ci fidiamo del suo giudizio e siamo disposti a dartela, se ti dimostrerai degno della fiducia che Roxas ripone in te.»
Axel annuisce con un gesto brusco, ancora rigido dall’affermazione di Ventus. «Grazie» dice, la voce nervosa e gli occhi ancora bassi. Roxas lo guarda, la preoccupazione che inizia ad appesantirgli il cuore, e vorrebbe solo abbracciarlo e scacciare qualsiasi pensiero che gli sta passando per la testa in quel momento.
Il silenzio cade per degli agonizzanti minuti, finché Ventus non prende un respiro ricomponendosi. «Mi dispiace di aver insinuato una cosa del genere. Non immaginavo che anche tu avessi certe esperienze alle spalle.»
«Posso immaginare» risponde Axel, cercando in ogni modo di mantenersi civile.
La tensione c’è ancora, tutti possono sentirla, ma non più rivolta a un estraneo in casa. Vanitas guarda Axel, poi Roxas, infine si lascia sfuggire l’ombra di un sorriso. «Direi che per oggi l’interrogatorio è finito.» dice, cercando di scherzare, e strappando un sorriso nervoso ad Axel. «Mi dispiace se ti abbiamo messo troppo a disagio.»
«Non c’è problema.» Axel si volta verso Roxas, senza lasciare la stretta sulla sua mano. «Sei ancora dell’umore di uscire?» chiede.
Roxas guarda Vanitas e Ventus, che sembra sul punto di dire qualcosa ma quando alla fine chiude gli occhi e gli fa un cenno affermativo con la testa, Roxas non se lo fa ripetere due volte.
Non appena sono fuori dal cancello Roxas getta le braccia al collo di Axel e lo stringe forte, sentendolo il suo respiro tremare e il suo cuore galoppare, poi lui lo stringe di rimando, appoggiando il mento sulla sua spalla. Restano così per un minuto che sembra durare un’eternità, poi Axel chiede sottovoce, la voce poco più di un respiro: «Tu non pensi che potrei mai farti del male, non è vero?»
«Mai, Axel» risponde immediatamente Roxas, allontanandosi quello che basta da poter accarezzare il viso di Axel con la mano. «Tu non sei come loro, è chiaro? Ven ha detto una cazzata, e lo abbiamo capito tutti.» riesce a sorridergli, cercando di farlo sentire almeno un minimo tranquillo. L’ansia non è sparita, così come la tensione che è sicuro resterà per un bel po’ di tempo, ma Roxas sa che anche Axel in quel momento si sente mille volte più leggero.
Axel annuisce, incerto, un re sbattuto sulla scacchiera. Gli tiene la mano nella sua, accarezzandone il dorso con il pollice, prima di sollevarla al viso e lasciargli un piccolo bacio sulle nocche. «Non so come ho fatto a meritarti.» confessa.
Roxas gli sorride, e tanto gli basta.
 
«Che è quel livido sulla gamba, Rox?» chiede Xion, sdraiata come un gatto al sole sul suo asciugamano di Hello Kitty accanto a Kairi che sta in mezzo a lei e Naminé e dorme della grossa. Roxas, seduto sul suo asciugamano con il quaderno in mano e un paio di occhiali da sole eccessivamente pacchiani per proteggersi dal sole che batte come un martello, si guarda il ginocchio scoperto dai pantaloni del costume da bagno, colorato da un livido viola e blu, e sbuffa una risata.
«Axel mi ha buttato giù dal letto» spiega, lanciando un’occhiataccia ad Axel, che sta giocando col cane di Isa e Xemnas lanciando un frisbee nell’acqua e aspettando che vada a riprenderlo. «con una bella ginocchiata in pancia.» conclude, alzando la voce al punto di gridare, in modo che lo senta. Il suddetto si gira dal bagnasciuga, illuminato dalla luce del sole, i capelli legati in uno chignon che lascia sfuggire delle ciocche intorno al volto, e gli fa una boccaccia, probabilmente senza nemmeno capire di cosa stiano parlando.
Xion ride rauca e si mette a sedere. «Dio li fa e poi li accoppia» commenta, spostandosi dalla pancia il braccio di Kairi che continua tranquillamente a dormire, l’altro braccio intorno alle spalle di Naminé.
L’idea di andare in spiaggia era stata di Demyx, che con pochi giri di telefonate aveva convinto – o meglio, costretto facendo leva sul senso di colpa – tutti ad accettare. Sarebbe stata la prima volta da quasi dieci anni che sarebbero stati tutti insieme, e se il pensiero da una parte ha reso Roxas emozionato e felice, dall’altra ha sentito l’ansia disturbarlo come sempre: il dubbio che forse sono tutti troppo cambiati, che non sia più nulla come prima.
Ovvio che non sarà come prima, idiota. Aveva pensato Roxas lungo il tragitto, giocando con la collana che porta al collo, gli angoli che gli punzecchiavano le dita, ma non per questo vuol dire che non sarete più amici. Lancia un’occhiata a Xion, che crede di essere subdola negli sguardi che rivolge a Kairi, e sente un piccolo sorriso aprirglisi sul volto. Per una volta, il cambiamento non gli sembra troppo brutto.
È in quel momento che Demyx grida dal pontile: «Roxas! Roxas vieni a farci una foto!». È in piedi insieme a Zexion, Ienzo, e in qualche modo è riuscito a convincere anche Isa ad abbandonare il suo fidanzato per unirsi a loro. «Riesci a scattarla mentre saltiamo?» chiede non appena Roxas si avvicina, polaroid stravecchia alla mano e seguito da Xion.
«Hai troppa fiducia nelle mie abilità di fotografo, Dem, io te lo dico» lo avverte Roxas, entrando comunque nell’acqua fino a che non gli arriva alla vita ed è posizionato abbastanza bene da fare la foto, mentre Xion coglie la palla al balzo e sale anche lei sul pontile, la maglia troppo grande dei Metallica che svolazza al vento. «Saltate quando volete, signori.»
«Ehi, aspettate!» grida Axel, accortosi di ciò che sta succedendo, arrivando di corsa seguito dal cane. «Cosa fate le foto senza di me?» chiede, quasi offeso.
«Ti stavi divertendo così tanto con Nobody, non volevamo disturbarti» gli risponde Isa, un sorriso pieno di presa in giro sul volto. Nobody uggiola a sentire il suo nome e con un balzo è accanto a Isa, alzandosi su due zampe e appoggiando quelle davanti sul suo fianco, senza apparentemente rendersi conto di essere un Malamute di cinquanta chili e che Isa ha più o meno la stessa fisicità di Axel, quindi di un ramoscello secco.
Roxas ride mentre scatta la foto di Isa che cade rovinosamente in mare grazie alla spinta del suo cane, seguito da Demyx, Ienzo, Axel, Zexion e Xion, che si gettano subito dopo di lui con un grido collettivo.
È strano essere di nuovo insieme dopo così tanti anni, realizza Roxas. In quei momenti sembra quasi che non sia cambiato niente, che siano ancora ragazzini, ma poi basta uno sguardo più attento, ai capelli cresciuti di Naminé, all’anello al dito di Isa, Zexion e Demyx che si tengono per mano, Xion che parla di Kairi come se avesse appeso la luna, Ienzo che parla sempre più apertamente, e si accorge di quanto in realtà tutto sia cambiato.
L’unica cosa che non è cambiata sono i sorrisi, le battute, la familiarità del loro gruppo sgangherato che tale è rimasto attraverso gli anni, ed è quella la cosa più importante.
«Rox-aaaaaaahs!» grida Axel riemergendo dall’acqua vicino a lui e prendendolo improvvisamente da sotto le gambe, sollevando come una principessa. «Manchi tu a fare il tuffo!»
«Ma che- Axel se lo fai giuro che ti ammazzo!» urla di rimando Roxas, scalciando disperatamente mentre il rosso ride come unica risposta, esce dall’acqua e lo porta sul pontile. Axel si scambia un sorrisetto d’intesa con Xion, che gli sfila la polaroid dalle mani per tenerla lontana dall’acqua di mare, e si mette sull’orlo della passerella, sorridendo con fare sornione a Roxas. «Ti raso a zero mentre dormi, rosso schifoso- CAZZO!» senza preavviso Axel lo lascia andare, facendolo finire in acqua con un botto decisamente forte. Roxas annaspa e si dimena un po’ sott’acqua, l’acqua salata che gli brucia il naso e le orecchie, prima di ricordarsi le – poche – lezioni di nuoto che ha fatto alle medie e riemergere sputacchiando, guardando da dietro la frangia bagnata Axel che sta morendo dal ridere, lo stronzo.
«Questa me la paghi, Garland!» grida Roxas, furioso, e Axel ride ancora più forte perché con i capelli fradici e appiattiti contro la testa, la frangia negli occhi e l’espressione incattivita sembra un gatto arrabbiato, difficilissimo da prendere sul serio anche quando Roxas esce dall’acqua e inizia a inseguirlo, gridandogli dietro insulti a non finire.
Il pomeriggio sembra passare nel giro di pochissimo, e quando inizia a calare la sera Demyx convince tutti a radunarsi in cerchio intorno a un fuoco che solo lui e Axel sanno come hanno prodotto, e Roxas preferisce non chiedere. Demyx è seduto praticamente addosso a Zexion, la chitarra in mano che strimpella una versione molto più accordata di quanto Roxas ricordasse di Don’t You Worry Child, Ienzo e Naminè stanno parlando fitto fitto davanti all’album da disegno di lei, Xion e Kairi giocano a carte, mentre Isa è seduto in mezzo alle gambe di Xemnas con Nobody accoccolato addosso, che ancora non sembra rendersi conto della sua stazza. Axel invece è sdraiato a pancia in giù con la testa appoggiata sulle gambe di Roxas, contento di lasciarsi usare come tavolino mentre Roxas scrive.
Demyx continua a suonare e Axel a dormire, mentre Roxas si perde nella storia, solo il suono della chitarra, del mare e del fuoco intorno a lui. È strano quel silenzio, quella calma. Anche da bambini, la calma non c’era mai stata davvero: erano tutti attenti, tutti pronti nel caso dovessero tornare a casa, dovessero nascondere le sigarette, scappare dai bulli o dai loro genitori. Adesso quella sensazione di urgenza, come se tutto stesse per andare male, è sparita.
Il tramonto inizia a scomparire nel mare, e Demyx si schiarisce la voce. «Avete presente le cose che vi ho detto di portare?» dice, lasciando da parte la chitarra. Roxas fa un cenno con la testa, imitato dagli altri. Quando li aveva avvisati della sua idea di andare al mare, Demyx aveva chiesto loro di portarsi qualcosa di cui volessero liberarsi. Vedrete quando sarà il momento, aveva detto. «Bene, spero che siano tutte cose infiammabili, perché stiamo per bruciarle!»
«Per quanto sia un’aspirante piromane e dare fuoco alle cose mi dia un piacere indescrivibile, Dem, come mai dovremmo bruciarle?» chiede Xion, girandosi insieme a Kairi verso di lui, tenendo le carte in mano per evitare che gliele veda.
«Dovrebbe essere qualcosa di terapeutico, credo» spiega Ienzo al posto di Demyx. «Bruciando qualcosa che per te rappresenta il passato o qualcosa che vuoi dimenticare significa lasciare andare quel ricordo e aprirsi a un nuovo capitolo della propria vita.»
Axel ridacchia. «Bello, hai studiato quello all’università, Ienzo?» dice senza cattiveria nella voce.
«Almeno qualcuno qui studia, rosso» commenta Isa grattando le orecchie a Nobody, serio come la morte.
«Ah ah ah, molto simpatico, Ize.»
Si avvicinano tutti un po’ di più al fuoco, frugandosi nelle tasche e nelle borse per trovare ciò che si sono portati. Il primo è proprio Demyx, che prende un plettro di plastica e lo getta nel fuoco senza dire una parola, e dopo un po’ Ienzo butta quello che sembra un pacchetto di sigarette, seguito da Zexion che invece teneva in mano una lettera ancora sigillata.
Xion e Naminé, insieme, lanciano nel fuoco un fiocco rosso, e Isa un elastico per capelli macchiato e rovinato. Axel da uno sguardo a Roxas. «Foglio e penna, prego» chiede. Roxas gli lancia un’occhiata perplessa, ma strappa dal quaderno una pagina e gliela porge insieme alla sua penna. Axel prende entrambe, appoggia il foglio sul ginocchio e scrive a caratteri grandi e svolazzanti, con un ghirigoro alla fine, un nome di tre lettere. Dopo di che, ripiega il foglio e lo getta nel falò. «A mai più rivederci.» dice sottovoce.
Resta solo Roxas, che ha preso dallo zaino un quaderno nero, dalla copertina rigida, con un titolo scritto in pennarello indelebile dorato sbiadito dagli anni di usura. Isa lo nota e alza un sopracciglio verso di lui, come a chiedergli se è sicuro. Lo hanno riconosciuto tutti, quel quaderno, ma Roxas non ci pensa due volte e lo lancia tra le fiamme, guardando mentre prende fuoco e le pagine iniziano ad annerire e bruciare. E guardandolo bruciare si rende conto che è come se si stesse distruggendo un mondo intero fatto di parole non dette e cose non fatte, in cui viveva attraverso quei sette avventurieri che aveva inventato, pur di non affrontare in volto ciò che lo circondava.
Ma adesso non gli servono più.
«Devo dire che hai ragione, Dem, mi sento più leggera» commenta Xion, le gambe incrociate, Kairi accanto a lei che guarda il fuoco.
«Visto? Miscredenti» dice Demyx sorridendo, riprendendo in mano la chitarra. E il momento di raccoglimento finisce come era iniziato, Demyx riprende a strimpellare una canzone che Roxas non conosce, Isa ritorna a sedersi vicino a Xemnas e Nobody gli si sdraia sulle gambe muovendo pigramente la coda, Xion si appoggia a Kairi sbadigliando e socchiudendo gli occhi rivolti al falò, Naminé disegna insieme a Ienzo, Axel torna a sdraiarsi e appoggia nuovamente la testa sulle gambe di Roxas, che inizia distrattamente ad accarezzargli i capelli.
Nel fuoco, tra le spirali di fumo, la sua storia ormai finita continua a bruciare.
 
La periferia di World That Never Was è sempre sporca, grigia e piena di smog.
Roxas ci ritorna poche settimane prima di compiere ventidue anni. È sempre estate, fa sempre un caldo infernale e il sudore gli appiccica sempre i capelli contro il collo, ma il cielo stavolta è chiaro e senza nuvole. Tiene le mani nelle tasche dei pantaloni, mastica una cicca, e guarda il parchetto del quartiere, circondato da transenne e praticamente raso al suolo.
«Ci costruiranno un altro condominio, da quel che ho capito.» lo informa Axel, raggiungendolo mentre scarta il pacchetto di sigarette che si è andato a comprare mentre Roxas camminava in giro. Gli fa un sorriso stanco – invece di dormire per recuperare il sonno perso con un turno di notte al bar, ha comunque voluto accompagnarlo fino a lì per la visita da Aerith, e poi, quando Roxas ha avuto un’illuminazione improvvisa, fino al loro vecchio quartiere. «Tanto non è che aiutasse molto al decoro pubblico, visto che cadeva a pezzi da prima che arrivassi tu.»
Roxas fa un cenno col capo e accetta la sigaretta spenta che Axel gli porge, sputando la cicca in favore di stringere tra i denti il filtro. Nonostante non possa fumare, la sensazione della sigaretta sotto gli incisivi gli procura ancora un senso di calma, come stringere un antistress o premersi le unghie nelle punture di zanzara come faceva da bambino. «Non ti manca, a volte?» chiede, voltandosi verso Axel.
«Cosa, essere costantemente fumato dall’età di quattordici anni e con un incontro di boxe che mi aspettava a casa ogni sera? Nah. Passo volentieri, biondo.» risponde tranquillo Axel, sbuffando un po’ di fumo come a sottolineare il concetto.
«Non intendevo questo, idiota.»
«E allora che volevi dire?»
«Intendo... quando il mondo iniziava e finiva qui» spiega Roxas, tornando a guardare il parco. «Era tutto più piccolo e facile da capire qui dentro, ed eravamo tutti insieme. Sognavamo di andarcene, sì... ma intanto tutto il nostro universo era a portata di mano.»
Axel, quando Roxas si volta di nuovo, lo guarda come se avesse iniziato a parlare al contrario, ma dopo poco la sua espressione si addolcisce e gli fa un piccolo sorriso. «Penso di capire. Anche a me ogni tanto manca essere piccolo» dice, rigirandosi la sigaretta tra le dita. «almeno da ragazzini ancora potevamo convincerci che la vita non fosse uno schifo.»
«Già...» Roxas mordicchia un’altra volta il filtro della sigaretta, le mani di nuovo nelle tasche dei pantaloni. Se chiudesse gli occhi e si concentrasse, probabilmente sarebbe come essere tornato indietro nel tempo. Vedrebbe Demyx che suona la chitarra e Xion che lo insulta perché sbaglia gli accordi, Zexion che cerca di nascondere il fatto che non riesce a staccare gli occhi da Demyx, Ienzo e Isa che leggono nel loro angolino, Lea che disegna e fuma seduto sull’altalena. «Sarebbe bello se fosse stato vero.»
Nella sua mente l’immagine sarebbe ripulita e vista con una lente rosa: Lea e Isa senza i lividi, Xion con i capelli legati e i vestiti che le piacciono e Demyx che sorride davvero. E Roxas sa che per quanto sia bello, non è la verità di ciò che erano.
«Una delle cose più dolorose quando sei un adulto che ha passato lo schifo che abbiamo passato noi,» dice improvvisamente Axel. Non guarda più Roxas, ma ha anche lui rivolto il viso verso il parco. «è accettare che nessuno verrà a salvarti. Tuo fratello, il suo fidanzato, la tua terapista, non potranno darti l’aiuto di cui avevi bisogno da piccolo. Io non posso rendere tutto migliore con un bacio, per quanto mi piacerebbe. Con i nostri amici possiamo supportarci e volerci bene a vicenda ma non possiamo far tornare indietro l’orologio per nessuno, non possiamo ridarci gli anni che abbiamo perso.»
Roxas resta per un po’ in silenzio, guarda Axel che continua a non incontrare il suo sguardo. Stringe i pugni nelle tasche, sentendosi i palmi sudare non solo per il caldo. «Parli come se fosse per esperienza.» commenta infine.
«Non hai idea di quante volte io abbia sognato di tornare indietro e cambiare tutto. Di risparmiare a me e Isa tutte le botte... di avere il coraggio di fare qualcosa di veramente utile.» Axel prende un’altra boccata dalla sigaretta e osserva il fumo sparire quando espira. «Ma nessuno può tornare da quel ragazzino spaventato e confuso che hai nascosto nel cuore e abbracciarlo e dirgli che va tutto bene. Devi essere tu davanti allo specchio a prenderlo per mano e dirgli che è finita, e a sfogare finalmente tutto il dolore e le lacrime. E fa schifo. Ma un giorno, probabilmente molto lontano, sono certo che smetterà di fare così male.»
Roxas fa un piccolo cenno di assenso, e quando sente la mano di Axel stringergli con delicatezza il gomito china la testa di lato, appoggiandola sulla sua spalla. «Immagino tu abbia ragione.» sussurra.
Restano così per un po’, guardando insieme il parco che per anni è stato il loro rifugio, la loro casa. Ma adesso non è più casa. Adesso la loro casa è in altri posti, dove c’è il sole e ci sono le persone a cui vogliono bene. Casa forse, sono sempre stati loro sette. Alla fine, Axel getta a terra il mozzicone e lo spegne con la punta della scarpa, afferrando la mano di Roxas.
«Andiamo a casa, Rox. Non c’è più niente per noi qui.»
La sensazione delle dita di Axel intrecciate alle sue, del metallo dei suoi anelli, basta a farlo scuotere.
Roxas si gira e lo segue, e non si volta più indietro.
 
«Posso restare?» chiede Roxas, seduto sul letto di Axel in una delle sue felpe in cui sembra annegare, un album di foto nuovo di zecca appoggiato sulle gambe incrociate.
«Finché vuoi, biondo.» risponde lui, mentre recupera una foto da una cartelletta verde e gliela passa.
Roxas nella foto ha appena quindici anni è abbracciato ad Axel, illuminati dal tramonto di Twilight Town, due ragazzini idioti e innamorati. Attaccato sullo spazio bianco del cartoncino, Roxas aveva scritto in pennarello blu mi manchi.
«Per sempre?» chiede all’improvviso, quasi sottovoce.
Axel gli sorride e lo guarda come se fosse la luna in persona. «Per sempre.»
 

Hello there. Ci siamo quindi, Spirals è ufficialmente finita. Con quasi un mese di ritardo, ma comunque.
È la prima volta che termino una storia al cento per cento, di solito già entro il secondo/terzo capitolo mi ero annoiat* o avevo iniziato qualcos’altro, invece questa volta sono riuscito a portare a termine, in modo più o meno soddisfacente, Spirals. E ne sono felice, perché questa storia è un piccolo tesoro che probabilmente terrò sempre nel mio cuore.
Ringrazio tutti voi che avete letto silenziosamente la storia, chi l’ha recensita e chi l’ha seguita, grazie di aver avuto la pazienza di leggere questa pazzia e di aspettare i miei aggiornamenti anche quando si sono fatti attendere. Un grazie specialissimo a quell’angelo di Sel, senza i cui consigli e incoraggiamenti non sarei riuscito ad andare avanti più del terzo capitolo. So che mi leggi!
Insomma, grazie davvero. Spero di essere stato all’altezza delle vostre aspettative, e se mi rivedrete in questo fandom spererò di continuare a esserlo.
Detto questo vi saluto, spero che abbiate gradito l’epilogo e se lo avete fatto vi invito a lasciare una recensione per dirmi cosa ne pensate, anche le critiche se costruttive sono ben accette.
See you on the flip side.
Vento di Fata

 

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