Always look on the bright side of life

di Saelde_und_Ehre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Nuova avventura, nuovo delirio.

Questa novella nasce da una challenge tra appassionati di scrittura: per una volta ho provato a "cambiare schieramento" e tirare fuori dal cilindro personaggi nuovi (anche se i vecchi, in un modo o nell'altro, torneranno a fare capolino tra le pagine) e si spera che il risultato sia decente.

Potreste trovare: british humour come se piovesse, stereotipi culturali usati a scopi goliardici, britannici sofferenti.

Se non siete ancora scappati a gambe levate, vi lascio alla lettura.

La storia è dedicata alla carissima Spoocky, che spero apprezzerà.

 

Capitolo 1

L’accampamento britannico era ancora immerso nel silenzio, interrotto soltanto dalle voci di meccanici e armieri e dall’affaccendarsi dei cuochi da campo che preparavano la colazione per i piloti.
Il sergente di squadriglia Samuel MacPhearson tastò la tasca dell’uniforme, incontrando la consistenza familiare di un libro in edizione tascabile, poi strinse il nodo della cravatta e di soppiatto uscì nel piazzale senza degnare di ulteriori sguardi il suo parigrado e compagno di tenda, che russava scomposto sulla branda.
Indugiò per un po’ all’esterno, fece qualche passo nell’atmosfera sospesa della prima alba, riconoscendo gli edifici di legno della base e le figure familiari degli Spitfire che riposavano sul prato, vicini alla pista di decollo. Una brezza leggera, proveniente dalla costa, diffondeva nell’aria la fragranza dei cedri e del legno di sandalo, alle quali andavano a sovrapporsi le note umide del limo, e increspava le onde di un mare nero come pece su cui la luce dell’alba spandeva una colata di metallo fuso. Ancora avvolta dall’oscurità, la foresta riecheggiava dei cinguettii di svariati uccelli. La Union Jack e la bandiera azzurra della Royal Air Force ondeggiavano pigre sul pennone.
Di nuovo, il sergente sfiorò i contorni del libro che teneva in tasca, poi aspirò con voluttà l’aria frizzante del mattino: era quello il momento della giornata che preferiva, quando non c’era ancora nessuno in giro.
Dalle cucine proveniva l’odore di pane tostato, bacon, caffè e uova; qualche minuto dopo riecheggiò nell’aria il suono della sveglia e i piloti iniziarono a svegliarsi con grugniti, sbadigli e fruscii di coperte, mentre il sole si alzava all’orizzonte e i contorni delle cose si facevano più nitidi. Alcuni erano già usciti e blateravano con aria svagata parole a cui MacPhearson non prestò ascolto.
Il sottufficiale arricciò il naso, consapevole che i momenti di pace non duravano mai abbastanza. Rivolse un saluto militare al tenente Woods e si diresse a grandi passi verso le cucine, dove i cuochi gli fecero trovare un piatto già pronto e una tazza di tè, poi lanciò un’ultima occhiata ai suoi commilitoni che continuavano a chiacchierare e si allontanò tenendoli accuratamente a distanza.
Con la coda dell’occhio notò che si stavano tutti quanti riunendo intorno alla tavola allestita sotto un tendone, riempiendosi i piatti di cibo e scambiandosi frasi di circostanza, e che il sergente Fowler comparve alla vista quando gli altri erano già tutti seduti.
Camminava con la sua solita andatura dinoccolata e svagata, spostando lo sguardo dalla tavola imbandita al cielo striato d’arancio. Si sistemò il berretto, che come al solito gli ricadeva sulle ventitré, poi salutò il tenente e si scusò con una risatina nervosa.
Quel damerino con la faccia da cavallo è di nuovo in ritardo, pensò MacPhearson, reprimendo un leggero ghigno mentre rievocava l’immagine del suo compagno di tenda spiaccicato sulla branda. Decise in ogni caso che la cosa non lo riguardava, drizzò le spalle e, come ogni mattina prima di una missione, con passo marziale si avvicinò agli aerei: otto di essi, a imitazione delle Tigri Volanti, avevano fauci dentate dipinte sul muso; il nono aveva soltanto la mimetica regolamentare della RAF, il codice di serie e i simboli di ventisei abbattimenti – bandiere tedesche, giapponesi e italiane – sotto il cockpit.
Un giovane meccanico con la faccia e i vestiti sporchi di olio lo raggiunse, si mise sull’attenti e salutò militarmente. “Buongiorno, signor sergente.”
“È a posto, John?” chiese il sottufficiale, indicando l’unico Spitfire senza personalizzazioni.
“Già pronto, armato e tirato a lucido, signore, come da lei richiesto. L’abbiamo rimesso in sesto abbastanza in fretta.”
MacPhearson annuì asciutto. “Buono a sapersi.”
Quando il meccanico se ne fu andato, prese la sua solita sedia da campo e si sedette all’ombra dell’ala, il vassoio della colazione poggiato sulle ginocchia, e trasse fuori dalla tasca una copia consunta di Waverley di Walter Scott.
Un leggero sorriso gli stirò le labbra mentre, sorseggiando il tè, si immergeva nell’atmosfera selvaggia e familiare delle Highlands. Il chiacchiericcio di sottofondo scomparve e a lui parve di sentirsi di nuovo a casa, tra le verdi distese ondulate e battute dalle intemperie, i castelli solitari, i laghi che riflettevano il cielo e le scogliere a picco, anche se a separarlo dalla Scozia c’era una mezza giornata di fuso orario di distanza.

Anche dopo aver salutato il tenente Woods, il sergente Thomas Fowler rimase in piedi di fronte alla tavola con le braccia dietro la schiena, a osservare attentamente i vassoi, il modo in cui erano disposti e tutto ciò che contenevano.
“Non si siede, sergente?” domandò cortesemente l’ufficiale.
Egli si limitò a fare spallucce. “Sono un aviatore, per me la visuale dall’alto è sempre la migliore,” replicò con un sorriso, i muscoli tesi come molle. Prese una fetta di pane ancora caldo, vi spalmò una cospicua dose di burro e due fette di bacon arrotolate, e iniziò a mangiare con una mano mentre con l’altra si versava il caffè.
Woods alzò gli occhi al cielo. “La vedo in forma, sergente.”
“Sempre in forma, signore, soprattutto quando c’è da andare a caccia.”
L’ufficiale annuì, si sistemò il tovagliolo sulle ginocchia e tornò a mangiare come se quel discorso non avesse mai avuto luogo. Fowler si sorprese per quello scambio che era durato anche più del previsto: di solito Woods rivolgeva la parola ai suoi subalterni solo per le comunicazioni ufficiali ed era sempre calmo, quasi flemmatico, ma quel giorno sembrava in vena di parlare più del solito.
“Notizie dal capo squadrone, signor tenente?” gli domandò.
Woods sorbì pensieroso il suo tè. “Se la passa sicuramente meglio di noi: dorme venti ore al giorno ed è costantemente servito e riverito, senza nemmeno pagare il soggiorno.”
“Ineccepibile.”
Tra i commensali si diffuse un mormorio costernato: gli ultimi ricordi che avevano del comandante Bennett erano uno Spitfire che precipitava in vite avvolto dalle fiamme e un paracadute difettoso che si apriva in ritardo. Quando era stato raccolto era ancora vivo, ma decisamente malridotto, tanto che i medici avevano preferito mantenere assoluto riserbo sulle sue condizioni.
“Non siate tristi,” disse Fowler, notando che l’atmosfera andava incupendosi, “almeno finché ai giappi non verrà l’idea di romperci le scatole all’ora del tè, avremo sempre un motivo per sorridere.”
“In verità è successo già due volte che fossimo in aria a quell’ora,” intervenne il sergente Wilson. “Quindi sì, abbiamo buone ragioni per essere irritati.”
“Mi dispiace contraddirla, signore…” Il caporale Wright si sistemò sul naso gli occhialini rotondi, guardò l’orologio che portava al polso e fece un breve calcolo. “Se volessimo rispettare il fuso orario, l’ora del tè sarebbe all’incirca alle undici di sera.”
Fowler sollevò un sopracciglio. “Lo tieni ancora sincronizzato con l’orario di Londra?”
Wilson scrollò le spalle mentre si versava del latte nella tazza. “Lui è rimasto indietro a quarant’anni fa, qualche ora di ritardo non farà sicuramente la differenza.”
“Oh, insomma, quante storie. Sembrate un circolo di zitelle vittoriane!” Fowler fece un sospiro teatrale. “Proprio tu, Wilson, dovresti dare l’esempio.” Indicò la fusoliera di uno degli Spitfire, su cui tra le coccarde blu, rosse, bianche e gialle campeggiava la sigla identificativa GAY. “Vedi, anche il tuo aereo è felice.”
“In realtà, quando ero in America ho sentito dire che ‘gay’ vuol dire anche invertito.”
“E tu li capisci pure gli americani quando parlano? Mio Dio, sembra che mastichino chewing-gum anche quando non lo fanno!”
“Anche tu dovresti smetterla di parlare a bocca piena: stai zitto e mangia.”
“È senz’altro un buon consiglio. Bravo, Wilson.” Fowler ingurgitò l’ultimo morso di pane tutto intero, poi prese un’altra fetta e ci spalmò altro burro, incurante dello sguardo torvo del suo parigrado.
Smise di prestare attenzione alle chiacchiere dei compagni e mentre mangiava si perse a guardare di fronte a sé, senza pensare a nulla.
Tutto era ancora avvolto in un’atmosfera arancione, quasi vellutata, ma l’abitudine lo portò a scorgere subito la testa rossiccia di MacPhearson che spuntava da dietro l’ala di uno Spitfire.
Un ronzio proveniente dall’alto e un’ombra scura che calava sulla pista lo avvertirono dell’arrivo dell’aereo della posta. I piloti si alzarono tutti insieme e gli corsero incontro, dimenticando subito la tristezza che li aveva assaliti. Solo lui rimase fermo al suo posto, approfittandone per prelevare una manciata di biscotti mentre osservava la scena: sapeva già che, se ci fosse stata posta per lui, qualcuno di loro gliel’avrebbe consegnata.
Il rumore del motore si fece più forte, un pacco fu calato giù con delle corde e gli aviatori si fiondarono su di esso come sciacalli su una carcassa. Vociando e motteggiando si spartirono i rispettivi pacchi, lo scozzese ricevette il proprio e tornò a sedere all’ombra del caccia.
Gli altri, alla spicciolata, tornarono alla tavolata con lettere e altri doni dalle famiglie; Wright annunciò che per Fowler non c’era nulla. Fowler annuì: da quando, un mese prima, l’avevano trasferito dall’altra parte del mondo, i manicaretti di sua madre e le lettere di sua sorella giungevano più sporadici.
L’aviere Chris Harris, ultimo arrivato della squadriglia, guardò dentro la scatola che aveva ricevuto e arrossì per l’imbarazzo, per poi richiuderla con fretta ladresca. Un ragazzo lentigginoso sui vent’anni gli piombò alle spalle, sbirciò a sua volta e sul suo viso comparve un sorriso ilare.
“Giù le mani!” brontolò Harris, cercando di nascondere il pacco sotto il tavolo.
L’altro, però, aveva già agguantato il contenuto e lo stava sventolando trionfante davanti agli altri. “Guanti di lana, una sciarpa fatta ai ferri e… guardate, anche un cappellino bordato di pelliccia!” Trovò un biglietto e lo lesse ad alta voce: “Mi raccomando, copriti bene e non prendere freddo. Con affetto, mamma.”
“Non è vero, non c’è scritto così!”
Evans, che doveva avere almeno il doppio dei suoi anni, posò una mano sulla spalla di Harris con fare paterno. “Ma tu gliel’hai detto a tua madre che da questa parte del mondo le stagioni sono impazzite?”
Per tutta risposta, le guance pallide del più giovane divennero ancora più rosse. “No, io…”
“A casa hanno scambiato la nostra vacanza ai tropici per il fronte orientale, a quanto pare,” commentò Collins. Con ostentata indifferenza teneva stretto al petto un involto che probabilmente nascondeva una bottiglia di rum della sua distilleria di famiglia.
“È pur sempre il quindici gennaio,” puntualizzò Wright con aria compita, una copia del Daily Telegraph arrotolata sotto l’ascella, “E pare che i mangiacrauti non se la stiano passando molto bene a Stalingrado.”
“Ben gli sta,” ringhiò Wilson, paonazzo in viso. Stava per rievocare uno dei suoi aneddoti sulla battaglia d’Inghilterra, probabilmente, ma alzò di scatto la testa e strizzò gli occhi, fissando un punto indefinito all’orizzonte. Woods gli scoccò uno sguardo inceneritore, ma fu ignorato. Tutti gli altri tornarono a dedicare l’attenzione alle loro lettere.
Fowler sorrise indulgente. “Ecco, voi che vi lamentate, provate a guardare il lato positivo della vita…”
“Oh, no, di nuovo!”
“Cosa c’è adesso, Stephen?”
Qualunque cosa Wilson stesse per dire, fu coperta dal gemito stridulo e insistente dell’allarme antiaereo.
Il sergente Fowler scattò come un veltro aizzato e, prima ancora che il flemmatico tenente Woods potesse dare ordini in merito, iniziò a correre verso i caccia.
“Oh, che seccatura!” commentò Evans alzandosi, in un tono di voce che voleva scimmiottare quello del comandante Bennett. “Ma i giapponesi non fanno colazione?”
Wilson strinse i denti. “Evidentemente no, altrimenti ci penserebbero due volte prima di importunare gli altri.”
Collins gli batté una pacca sulla spalla. “Sai qual è la differenza tra un pilota di caccia e il suo aereo? L’aereo non frigna quando i motori sono spenti.”
A quel punto, anche Woods si alzò. “Come si suol dire, ragazzi, è la guerra. Si decolla!”

L’ululato delle sirene riportò MacPhearson tra i profumi esotici dell’Asia, dissolvendo il suo sogno a occhi aperti. Subito dopo scorse le divise blu degli altri aviatori, udì le loro voci che si avvicinavano.
I meccanici stavano già togliendo i fermi alle ruote ed eseguendo gli ultimi controlli.
Il primo pilota ad arrivare fu proprio Fowler, con la sua solita andatura elastica e un vago sorriso che gli aleggiava sulle labbra. “Eccolo, il lupo solitario.”
Infastidito, MacPhearson fece scivolare la lettera di suo fratello tra le pagine del libro, lo richiuse e lo fece sparire nella tasca dell’uniforme, reprimendo tra i denti qualcosa di scortese.
“Tanto lo so che è sempre lo stesso libro, te lo porti dietro da due anni,” lo prese in giro l’altro, mentre calzava la cuffia. “Sembri uno di quei preti che vanno in giro con la Bibbia sempre aperta per recitare versetti a caso.”
MacPhearson lo guardò in cagnesco. “La prossima volta che mi tagli la strada con una delle tue virate improvvisate lascerò che ti guardi le spalle da solo.”
L’altro non rispose: aveva già richiuso il tettuccio e stava mettendo in moto, pronto per decollare.
MacPhearson aggrottò le sopracciglia, ma decise di non dargli ulteriore corda. Gli lanciò un’occhiata fugace, poi indossò a sua volta la combinazione di volo, salì sull’ala dello Spitfire e balzò all’interno della cabina di pilotaggio. Il motore si avviò con un ruggito, l’elica iniziò a girare e il caccia si mosse sulla pista.
Diede manetta per aumentare la velocità, poi si guardò indietro alla ricerca del suo parigrado. “Stammi dietro, mi raccomando,” gli disse attraverso il segnale radio, quindi si staccò da terra e si librò in volo, avendo cura di precederlo.

***

Gli Spitfire e gli Zero si inseguivano in un cielo altrimenti terso, infiammato dalle raffiche di traccianti e dalle scie nere degli aerei abbattuti. Ci fu qualche istante di immobilità, in cui le due formazioni si scrutarono a vicenda nel tentativo di sondare le rispettive intenzioni, poi i britannici picchiarono per prendere velocità, virarono e cabrarono per riguadagnare altitudine sugli avversari.
Il sergente MacPhearson approfittò del momentaneo acquietarsi della mischia per guardarsi intorno: mentre a qualche migliaio di piedi di quota si lottava per la supremazia aerea, sulla superficie del mare era in corso una battaglia tra navi americane e giapponesi. I raggi del sole già alto creavano giochi di luce abbagliante sul mare turchese, così trasparente che perfino da quelle altezze si aveva l’impressione di scorgerne le profondità; una striscia di terra verde profondo spiccava vivida in lontananza, lambita da una spiaggia bianca contornata di palme.
Per un attimo gli parve che i giapponesi guizzassero qua e là come uccelli sbandati, poi si ricompattarono e cabrarono a loro volta nella direzione opposta, senza perderli di vista.
Si aspettano di trascinarci nella mischia per sfruttare il loro vantaggio, pensò il sergente. Alle sue spalle, al di sopra del ronzio costante del motore, riusciva a intravedere l’elica dell’aereo di Fowler e le fauci digrignate dipinte sul muso affusolato.
I britannici salirono fino a quando i filamenti di nubi non arrivarono ad attorcigliarsi intorno alle loro ali, poi MacPhearson tornò a guardare giù: i cerchi rossi sembravano macchie di sangue sulle ali dei caccia giapponesi, che come piranha in una vasca svolazzavano a quota più bassa. Rammentò con nostalgia i tempi, neanche troppo lontani, in cui erano loro a dare filo da torcere agli aerei tedeschi, con la stessa tattica che contro gli Zero si sarebbe rivelata suicida. Strinse i denti: era fastidioso, per non dire snervante, essere costretti a improvvisare ogni volta senza poter sfruttare il pieno potenziale delle loro macchine volanti. E soprattutto, dover rinunciare al brivido del duello sapendo che lo Spitfire era stato concepito per esserne il campione assoluto.
“Tenetevi pronti,” disse il tenente Woods attraverso la radio. “Toccata e fuga come sempre.”
Vi furono alcuni mormorii, che però furono subito coperti dal rombo dei motori.
Si accertarono che i giapponesi fossero abbastanza distanti, poi si disposero nella classica formazione a V, il comandante di squadriglia a formarne la punta, e si lanciarono in picchiata a tutta velocità con le ali affilate che squarciavano il cielo. “Fuoco!” Le mitragliatrici ruggirono e una pioggia di proiettili si abbatté sui più leggeri caccia nipponici.
MacPhearson fu uno dei primi a piombare nella mischia; individuò il bersaglio e fece fuoco. Vide pezzi di rivestimento staccarsi dalle ali, un lampo arancione che avvolgeva il motore, poi lo Zero puntò il muso verso il basso e iniziò a precipitare in vite.
Gli altri cercarono di eludere la tempesta di piombo con brusche virate, poi si dispersero in vari gruppi come uno stormo d’uccelli all’arrivo di un predatore più grosso. Un paio di essi si allontanarono rapidi verso la portaerei più vicina, lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
“Uno è mio!” esclamò il sergente Fowler, mentre gli Spitfire si sganciavano e cabravano per riguadagnare altitudine.
MacPhearson strinse i denti. “Non dire gatto finché non l’hai nel sacco…”
Con tutta la calma del mondo, la voce di Woods annunciò: “I giappi sono passati al contrattacco.”
Il sergente si voltò: i caccia giapponesi erano in formazione compatta dietro di loro, le bocche da fuoco strepitavano vomitando traccianti. D’istinto, spinse la manetta al massimo mentre l’ululato del motore gli rimbombava negli orecchi e i proiettili rimbalzavano contro le ali dello Spitfire. “Dannazione,” ringhiò, eseguendo una manovra evasiva che fece quasi sbandare l’aereo. “Fowler, dove sei? Wilson?”
“Sto dando la caccia ai piccioni, come direbbe Fowler,” brontolò il secondo.
Dall’altro interpellato non ottenne risposta, ma notò di sfuggita il muso dentato del suo caccia, contratto in una sorta di ghigno sardonico, che virava per mettersi in coda a un avversario.
“Idiota,” brontolò tra sé e sé.
Lo Zero continuava a tallonarlo, così vicino che gli parve quasi di scorgere il volto concentrato del pilota. Consapevole che prima o poi la velocità di salita sarebbe calata fino a spingerlo allo stallo, col rischio di renderlo una preda facile, puntò verso le acque cristalline in un tuffo quasi verticale.
Se il pericolo della picchiata non fosse bastato a far cambiare idea al giapponese, pensò, i riflessi di luce lo avrebbero confuso abbastanza da fargli mancare il bersaglio.

Infiammato dal fumo e dai traccianti, il cielo era affollato di aerei. Gli Spitfire con la mimetica macchiata di grigioverde e d’azzurro cercavano disperatamente di sfuggire al fuoco degli Zero, che si distinguevano per la colorazione verde scura e i cerchi rossi sulle ali e la fusoliera.
Due di loro, tra cui quello di Evans e quello di Collins, erano già stati costretti a un atterraggio d’emergenza sulla spiaggia; gli altri lottavano nel tentativo di ricomporsi.
Anche Fowler doveva aver subito qualche danno – lo avvertiva dalla strana resistenza opposta dal suo aereo – ma si sentiva a tal punto elettrizzato che, dopo aver crivellato il motore di un avversario, sfrecciò subito in coda al successivo. Azionò le mitragliatrici, lo Zero schivò con una virata e lui gli andò dietro incalzandolo.
Non ebbe il tempo di attaccare di nuovo, perché una raffica proveniente dall’alto lo costrinse a schivare. Proprio davanti ai suoi occhi, lo Spitfire contrassegnato con la sigla GAY si torse come un uccello ferito, poi iniziò a precipitare senza controllo. Il sergente notò con orrore che un pezzo d’ala si era staccato e che la forza di gravità si opponeva fermamente ai tentativi del pilota di mantenere un assetto stabile.
“Stephen!” gridò.
Dall’altra parte, attraverso il segnale disturbato da fruscii simili al grattare delle unghie su una lavagna, giunse una sequela di imprecazioni rivolte all’aereo, ai musi gialli e a tutte le categorie del creato. “Maledizione, questo trabiccolo volante non risponde. Devo uscire.”
“Buona fortuna, Steve.”
Gli rispose un grugnito, poi la comunicazione si chiuse e Wilson si buttò col paracadute.
Fowler si inclinò appena per guardare in basso: a giudicare dal traffico di natanti che solcava le acque, a raccogliere il sergente sarebbe stata qualche unità navale giapponese – sempre che, come la sua esperienza aveva già più volte dimostrato, non fosse così fortunato da finire su una torpediniera a stelle e strisce. E a quel punto, i suoi amici yankees avrebbero di sicuro saputo come rispedirlo al mittente, con tanto di pacchetti di chewing-gum e sigarette.
Stava per ritornare sulla sua rotta, quando vide uno Spitfire guizzare a qualche centinaio di piedi di distanza con uno Zero alle calcagna, minacciosamente vicino alla superficie dell’acqua e al raggio d’azione delle navi. Dall’assenza di segni distintivi lo riconobbe come il caccia di MacPhearson.
Aggrottò le sopracciglia. “Ma tu guarda quell’idiota, non chiede nemmeno aiuto.”
Si lanciò in picchiata come un falco sulla preda e sparò una raffica dall’alto. Colto di sorpresa, il giapponese sbandò e scivolò d’ala, annaspando per riprendere il controllo.
Fowler cabrò appena, i denti stretti e gli occhi fissi sul collimatore, quando il lampo arancione di un’esplosione lo abbagliò prima che potesse sparare di nuovo. Sbatté le palpebre mentre una nube di fumo denso e nero gli invadeva la visuale, e vide il muso spoglio del caccia di MacPhearson riaffiorare dalla caligine.

Il sergente MacPhearson distolse lo sguardo dallo Zero abbattuto e rialzò la testa, curioso di sapere chi fosse stato a coprirgli le spalle durante quella manovra delicata. Quasi sussultò quando si trovò di fronte il ghigno, più grottesco che minaccioso, che Fowler aveva fatto dipingere sul suo Spitfire. Stupito, cercò di scrutare dentro la cabina, ma l’altro virò e si allontanò come se non fosse successo nulla.
Come non detto, sospirò.
Rassegnato alle stravaganze del suo collega, virò a sua volta e lo seguì senza dire niente.
In quel momento, la voce del tenente Woods riecheggiò in frequenza. “Si torna indietro!”
MacPhearson controllò il quadrante degli strumenti, che indicava una leggera perdita di carburante. Per la prima volta accolse l’ordine del comandante quasi con sollievo, e sperò che l’aereo riuscisse a riportarlo indenne alla base.

***

Dal mare proveniva una leggera brezza che faceva ondeggiare le fronde degli alberi, così alte e intricate da dare l’impressione di voler tagliare l’accampamento britannico fuori dal resto del mondo. Sul piazzale, i lampioni gettavano una luce fredda e asettica.
Quando gli aviatori uscirono dalla capannina del tenente Woods, il sole aveva già iniziato la sua parabola discendente e le ombre scure si stagliavano contro un cielo violetto. Il cane-mascotte della squadriglia, un piccolo terrier dagli occhi vispi e il pelo marrone, corse loro incontro scodinzolando.
MacPhearson andò subito a cercare il suo meccanico; gli altri si fermarono sulla veranda, dove una lampada tremolante illuminava un tavolino su cui erano poste una scacchiera con tutti i pezzi sparpagliati e una pila di giornali provenienti dalla madrepatria.
Wright recuperò una copia del Daily Mail, una del Times e una del Telegraph, si sistemò gli occhiali sul naso e senza indugio s’immerse nel suo passatempo preferito: confrontare le notizie riportate dalle varie testate, criticare i giornalisti faziosi e commentare i fatti di cronaca nera. Il cane si accoccolò sulle sue ginocchia e si mise a sonnecchiare affondando il muso nella sua divisa.
Assorto nei propri pensieri, il tenente Woods si appoggiò al parapetto e si accese una pipa già preparata in precedenza; Fowler rimase con lui, ad ascoltare il frinire degli insetti che si levava dalla vegetazione nascosta nel buio.
“Tre missioni al giorno sono una faccenda alquanto seria,” sentenziò il tenente. “Questi giapponesi vanno rimessi al loro posto. Non crede, sergente?”
“Però abbiamo fatto una bella caccia,” disse il sottufficiale.
“Siamo stati fortunati, altroché,” ribatté Woods, “anche oggi abbiamo perso tre aerei e due piloti.”
“E i giapponesi almeno il doppio, signor tenente.”
L’ufficiale soffiò un’ampia boccata di fumo dalla pipa, poi annuì. “Di cui due abbattuti dal sergente MacPhearson e due da lei, se non erro.”
“Sissignore.”
“Com’è che la chiama lei, sergente?” domandò, scrutandolo di sotto in su per compensare la differenza d’altezza. “Caccia ai piccioni?”
Rigido e impettito, Fowler cercò di darsi un contegno professionale. “Signore, se il mio cognome non m’inganna, dare la caccia agli uccelli era il mestiere dei miei antenati.”
Per un attimo gli parve che Woods fosse sul punto di dire qualcosa, ma rimase a fumare in silenzio, limitandosi a volgere lo sguardo alle ombre scure degli aerei.
“È arrivato il tè!” Mentre i giornali venivano spostati su una sedia per fare spazio al vassoio con le tazze fumanti, Collins si sedette al tavolo e iniziò a sistemare i pezzi sulla scacchiera, quindi alzò lo sguardo su Fowler. “Una partita a scacchi, signor sergente?”
“No, grazie, non ti darò ancora una volta l’opportunità di vincere.”
Il caporale aggrottò le sopracciglia, tuttavia decise di non insistere e si rivolse agli altri piloti in cerca di un malcapitato a cui infliggere uno scacco matto in due mosse. Rifiutarono quasi tutti; l’unico ad accettare la sfida fu Harris, il novellino, ignaro dell’umiliazione che ne sarebbe seguita.
Imparerà in fretta, si disse il sergente, con un sorrisetto sulle labbra mentre sorseggiava il suo tè.
“Ma dov’è MacPhearson?” chiese il tenente, alludendo all’unica tazza ancora nel vassoio.
Fowler fece spallucce. “Credo sia andato a sentire il meccanico per quella perdita di carburante… sa quanto tiene al suo aereo.”
L’altro lo spinse in avanti con fare paterno. “Vada lei a portarglielo, altrimenti si raffredda.”

Ancora una volta, Fowler scorse la figura robusta del sergente MacPhearson seduta sotto l’ala del suo Spitfire. Anche se ostentava un atteggiamento da vecchio nostalgico, doveva avere all’incirca venticinque o ventisei anni, come lui; si conoscevano da almeno tre e insieme ne avevano passate parecchie, ma per un qualche strano motivo non erano mai riusciti a entrare in confidenza. Rimase per un po’ a fissare la sua ombra, irresoluto, poi gli si avvicinò con l’impressione di star camminando scalzo sui carboni ardenti.

“Sei in ritardo per l’ora del tè.”
MacPhearson si stupì nel trovarsi di fronte il sergente Fowler che gli porgeva una tazza ancora calda. Richiuse il libro, la prese tra le mani e sorbì un lungo sorso. “Suppongo che dovrei ringraziarti.”
“Ancora con quel libro?” Nelle iridi verdi del suo collega passò un guizzo divertito. “O sei uno di quelli che leggono dieci parole al giorno, oppure lo sai a memoria.”
Egli scosse il capo. “Sei un Sassenach [1], non puoi capire.”
“Guarda che Sir Walter Scott l’ho letto anch’io,” replicò Fowler. “Il mio preferito era Ivanhoe, mi sono sempre piaciute le storie di cavalieri.”
MacPhearson annuì, tuttavia lasciò cadere il discorso. “Comunque, per la faccenda di stamattina…”
“Non c’è bisogno.”
Egli lo scrutò assottigliando gli occhi: l’unica strategia conosciuta da Fowler era individuare un aereo nemico, fiondarglisi addosso e colpire fino a che l’altro non cadeva, fin dai tempi degli scontri contro i tedeschi. Solo che gli Zero erano tutta un’altra cosa rispetto ai Messerschmitt, e se duellare contro un Me 109 poteva essere considerato uno scontro alla pari, a tratti anche stimolante e avvincente, pensare di usare lo stesso approccio contro uno Zero era un errore da incoscienti.
“Sono preoccupato per Stephen,” disse l’altro, cambiando ancora una volta argomento.
“Chi?”
“Come, chi? Wilson.”
“Tornerà.” MacPhearson alzò lo sguardo su di lui. “Ti ricordi quella volta in Tunisia, quando tutti lo avevamo dato per spacciato e poi ce lo siamo visto ricomparire con quel 109?”
“Sai, prima di entrare nel 606° Fighter Squadron, io e Wilson volavamo su un ricognitore notturno.” Senza chiedere il permesso, Fowler si sedette a gambe incrociate sull’erba e appoggiò la schiena al carrello d’atterraggio. Finì di bere, quindi posò la tazza vuota per terra e proseguì: “Facevamo parte dello stesso equipaggio: io ero l’osservatore e lui il mitragliere. Fu lui a permetterci di sorvolare la Manica senza riportare danni, tenendo a bada ben tre uccellini tedeschi che avevano deciso di volare troppo lontano dal nido.”
MacPhearson fu tentato di chiedergli cosa l’avesse portato a diventare pilota di caccia, tuttavia scelse di tacere. “Io sono in questo stormo più o meno dall’inizio della guerra. Quando sei arrivato tu, avevamo già ottenuto un discreto numero di vittorie sopra i cieli inglesi,” disse invece, guardando dritto di fronte a sé. “Ma di quelli che conoscevo e che prestavano servizio già all’epoca, oltre a me, sono rimasti solo il caporale Wright e il capo squadrone Bennett.”
Notò che quella conversazione stava scendendo troppo nel personale e s’interruppe, portandosi la tazza alle labbra. Con la mente tornò a quando, durante una sortita nei pressi di Calais, aveva abbattuto un famoso asso degli Stuka. Neanche Fowler rispose, né si voltò verso di lui.
“Non consumarlo troppo, quel libro,” disse infine, dopo una pausa indefinita. Si alzò ripulendosi i pantaloni, poi indicò con un sorrisetto la capanna del comandante. “Perché non sei venuto? C’era Collins che cercava qualcuno in grado di batterlo a scacchi.”
“Perché non ci provi tu, visto che ci tieni tanto?”
“Credo che la mia dignità di giocatore di scacchi sia già compromessa, anche senza che lui infierisca.” Con quelle parole, il sergente Fowler si congedò.
MacPhearson alzò gli occhi al cielo e tornò alla sua lettura.

***

Ogni giorno, la routine era sempre la stessa: alzarsi, fare colazione, decollare, tornare alla base per rifornire piloti e aerei, volare fino a che il sole non calava.
Evans era stato ripescato da un ricognitore britannico e paracadutato alla base, stanco ma illeso, mentre di Wilson non c’erano notizie.
Fowler era impegnato a passare in rassegna le scarse possibilità che il sergente non fosse annegato in mare o finito nelle mani dei giapponesi, quando un rombo assordante lo richiamò all’attenzione.
La sagoma di un grosso aereo da trasporto oscurò il cielo, lo spostamento d’aria generato dalle eliche parve spazzare gli alberi e il velivolo iniziò a scendere di quota, diretto verso la pista d’atterraggio.
Gli altri aviatori si radunarono sul piazzale, incuriositi dalla novità. L’aviere Cook, che stava dormendo stravaccato su due sedie, il capo reclinato sul petto, si risvegliò imprecando.
“Sono bombardieri giapponesi, George,” lo prese in giro Collins.
Apparve anche MacPhearson, che si fermò accanto al suo parigrado fissando con le sopracciglia aggrottate i militari che erano appena scesi dall’aereo e si stavano schierando sull’attenti davanti al tenente Woods. Avevano volti sbarbati di fresco, le divise impeccabili, che parevano appena uscite dalla lavanderia, e gli stivali lucidi. Il più anziano di essi doveva avere una ventina d’anni; tra essi figurava anche un giovanissimo ufficiale pilota col viso lentigginoso e un’uniforme troppo larga per il suo fisico esile.
“Chi sono quelli?” chiese MacPhearson, sollevando un sopracciglio con diffidenza.
Il sergente Fowler fece spallucce. “Suppongo… nuovi piloti, freschi di brevetto.”
“Poverini.” Evans scosse la testa. “Se, come tutti gli altri, sono venuti qui col sogno di ingaggiare combattimenti mozzafiato nei cieli, avranno una brutta sorpresa.”
“Sempre che sopravvivano abbastanza per constatarlo di persona,” borbottò Cook con aria torva.
Un’occhiataccia del tenente Woods li zittì e i quattro uomini si immobilizzarono sull’attenti.
La presentazione durò per un tempo che a Fowler parve interminabile, poi i nuovi arrivati furono spediti ai rispettivi alloggi e il comandante rivolse un cenno a lui e a MacPhearson. “Seguitemi.”
I due sottufficiali si scambiarono un’occhiata perplessa; per un istante, Fowler temette che il tenente volesse riprenderlo per la sua distrazione o per il suo atteggiamento irriverente, su cui sia lui che Bennett avevano già soprasseduto fin troppe volte.
“Ci passerò sopra solo perché lei è uno dei migliori piloti dello squadrone,” gli diceva ogni volta Bennett. “Ma la prossima non sarò così magnanimo.”
Woods, tuttavia, sembrava tranquillo come sempre. Li fece entrare nella sua cabina e si richiuse la porta alle spalle, dirigendosi verso la scrivania ingombra di mappe e strumenti di calcolo.
Guardò prima MacPhearson, che rimase impassibile sotto la lampadina che pendeva dal soffitto, poi lui.
A disagio, Fowler spostò il peso del corpo da un piede all’altro, poi fece vagare lo sguardo sulle tavole prospettiche degli aerei giapponesi che occupavano quasi tutta la parete.
“Ho ricevuto una comunicazione dal comandante di stormo,” annunciò il tenente, mostrando a entrambi un foglio con la sua firma. “Per il vostro contributo allo sforzo bellico della nostra nazione, e per i successi in combattimento conseguiti su questo fronte, vi sono state concesse due settimane di licenza premio.”
Quelle parole trasmisero a Fowler una sensazione simile a quella che si provava dopo aver concluso con successo un atterraggio d’emergenza nonostante il carrello gravemente danneggiato.
Ancora una volta, gli venne da voltarsi verso MacPhearson, e per un istante gli parve addirittura di intravedere un sorriso sul suo volto sempre imbronciato.
 

[1] da sasunnach (sassone), è il soprannome che gli scozzesi danno agli inglesi

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Il sergente MacPhearson alzò lo sguardo verso il cielo: in un azzurro sporcato da banchi di nubi passeggere, il sole del mattino splendeva senza abbagliare. Guidato dalla forza dell’abitudine, si concentrò per determinare la direzione e la potenza del vento, cogliendovi un sentore di vegetazione umida e piante a cui non avrebbe saputo dare il nome. Se tendeva l’orecchio, al di sotto del ronzio degli insetti avvertiva anche quello dei caccia che erano appena decollati per andare a intercettare i giapponesi. Strinse gli occhi e scorse le loro sagome affusolate, come puntini lontani che solo la vista allenata di un pilota poteva cogliere, e gli parve quasi strano non essere insieme a loro.
“E così, si torna a casa,” disse una voce alle sue spalle.
Il sergente si voltò: Fowler era a pochi passi da lui e lo osservava con aria divertita. Aveva il colletto della camicia spiegazzato e un ciuffo di capelli castani che gli sfuggiva dal berretto, segno che anche quella mattina doveva essersi preparato in fretta e furia per non fare tardi. “Vedo che non hai perso il tuo vizio di avvicinarti di soppiatto.”
“No, eri tu che non eri abbastanza attento.”
“Di solito sei tu quello con la testa tra le nuvole,” ribatté MacPhearson.
Il suo cipiglio torvo si infranse contro l’espressione svagata del collega, che allargò le braccia e alzò gli occhi al cielo. “Sono un aviatore, ne hai mai visto uno che non l’avesse?”
MacPhearson decise di non dargli corda. Gli voltò le spalle, si allontanò di qualche passo e tornò a guardare le nuvole, che coprivano il sole come un velo e poi si disperdevano sospinte dal vento, e immaginò di trovarsi lassù a bordo del suo Spitfire. Se c’era una cosa che gli sarebbe mancata durante la licenza, era il brivido del combattimento nei cieli ma, una volta tornato a casa, avrebbe ritrovato ad accoglierlo la selvaggia natura scozzese e l’aria familiare della sua fattoria – e, soprattutto, non avrebbe avuto tra i piedi il suo parigrado, non avrebbe dovuto condividere con lui i pasti e l’alloggio per la notte, né sopportare il suo umorismo non richiesto.
Spesso gli veniva da pensare che gli sarebbe piaciuto avere un aeroplano tutto suo, per sorvolare dall’alto i paesaggi delle Highlands e raggiungere anche i luoghi più isolati.


L’aereo arrivò con qualche minuto di ritardo. Ad attenderlo, oltre a loro, c’erano anche piloti di altri squadroni, marinai della Royal Navy e personale di terra, tutti più o meno impazienti di partire.
MacPhearson si preoccupò di trovare un posto il più possibile appartato, si mise comodo e rimase a guardare fuori dal finestrino mentre gli altri passeggeri continuavano a salire. Sapeva già che lo aspettava un viaggio parecchio lungo, e diversi scali prima di poter rivedere i cieli della sua isola.
“Tutti a sedere, allacciare le cinture di sicurezza!” ordinò un ufficiale.
Il portello si richiuse, il brusio di sottofondo venne coperto dal rombo del motore.
Fowler, l’ultimo a salire, fece un paio di giri della corsia, poi si sistemò accanto a lui e si allacciò la cintura. Prima ancora che MacPhearson potesse chiederlo, l’altro fece spallucce e disse: “Ne avrei fatto volentieri a meno, credimi, ma da qualche parte dovevo pur sedermi.” Ostentò un’espressione innocente, quindi tirò fuori dallo zaino un barattolo di biscotti e iniziò a mangiare.
Almeno sta zitto, pensò il sergente. Appoggiò la guancia alla mano e volse lo sguardo altrove, verso il paesaggio che si stagliava fuori dal finestrino: una distesa sconfinata di risaie terrazzate, attraversate da un fiume serpentino; tra le sfumature di verde smeraldo e d’azzurro cupo spuntavano qua e là ciuffi di palme.
All’orizzonte andavano ad addensarsi nuvole nere, cariche di pioggia, che tagliavano a metà il cielo.


Un fulmine squarciò la quiete della tarda mattinata, con un boato che parve far tremare tutta l’intelaiatura dell’aereo. Subito dopo, una pioggerella fitta iniziò a picchiettare contro i vetri e la fusoliera, producendo un crepitio che sovrastava ogni altro rumore.
“Come direbbe Evans, da queste parti anche le stagioni sono impazzite,” commentò. “Non deve essere il massimo per gli altri trovarsi a ventimila piedi d’altitudine con questo tempo.”
“Tra poco smette, non ti preoccupare,” si sentì quasi in dovere di rassicurarlo il suo collega.
“Senti, non c’è niente di normale da queste parti. Io non mi fiderei troppo di questa pioggia.”
“Ma no, ma no.” Fowler si rilassò sul sedile e scelse un biscotto al cioccolato. “A me piace, mi fa sentire a casa. Direi che è perfetto, visto che è proprio lì che stiamo tornando.” Gli allungò il barattolo di latta. “To’, prendine uno anche tu.”
Nonostante l’acquolina in bocca, MacPhearson si costrinse a scuotere la testa in segno di diniego e rimase voltato verso il finestrino. Corrugò la fronte: il sole non era ancora scomparso, ma le nubi nere avanzavano compatte e le raffiche di vento spazzavano le palme, piegandole come esili fuscelli. Sembrava quasi che nelle regioni più alte del cielo fosse in corso una battaglia tra gli elementi.
Un lampo accese i nembi di una luminescenza fosforescente, seguito da un tuono che fece tremare i finestrini. La pioggia s’infittì, la visuale si ridusse a una tela di macchie verdi, velate di grigio.
“Andrà tutto bene, è solo un po’ di pioggia. Tra poco smette, vedrai,” riprese l’altro, poi soggiunse: “Siamo inglesi, non ci lasceremo mica impressionare da questo?”
MacPhearson scattò come se fosse stato morso da una vipera e gli rivolse uno sguardo glaciale. “Tu sei inglese.”
Fowler roteò gli occhi ed emise un sospiro spazientito. “Oh, insomma, come sei pedante!”
Egli tornò a rivolgere la propria attenzione all’esterno. “Sarò anche pedante, ma di sicuro non sono inglese.”


Fowler ammutolì: non si aspettava un’uscita del genere dal suo parigrado, pronunciata con una tale serietà da fargli quasi dubitare di averla udita davvero.
“E comunque,” riprese MacPhearson, “questo temporale non è normale. Guarda.”
Quando, vincendo la propria resistenza, si affacciò al finestrino, il biscotto gli andò quasi di traverso. “Per tutti i fulmini,” sfiatò, fissando come ipnotizzato lo scenario. Stavano sorvolando la giungla, che in quella luce livida appariva ancora più cupa e impenetrabile. Venti impietosi scuotevano gli alberi e i rovesci di pioggia sferzavano ogni cosa, infrangendosi contro il tetto di lamiera dell’aereo con l’impeto di una raffica di mitragliatrice. I fulmini dilaniavano il cielo plumbeo come lame di luce fosforescente. D’istinto sprofondò nel sedile, vi si aggrappò e tastò l’imbragatura del paracadute come se fosse un’ancora di salvezza. “Che cosa diavolo…”
L’aeroplano venne risucchiato da una turbolenza e sbandò bruscamente, inchiodando i passeggeri ai rispettivi sedili. Il vento s’insinuava sibilando negli spifferi, l’intera struttura scricchiolava e gemeva. MacPhearson recuperò il barattolo dei biscotti prima che cadesse per terra, poi alzò lo sguardo su di lui. I suoi occhi celesti tradivano un luccichio febbrile. “Adesso mi credi, testa di legno?”
Fowler annuì. “Dobbiamo fare qualcosa.” Si morse le labbra, chiedendosi che cosa avrebbe fatto se fosse stato lui il pilota.
Un tuono, uno schianto come di qualcosa che si spezzava interruppero le sue elucubrazioni; al di sotto dell’ululato della pioggia era quasi impossibile distinguere le voci dei membri dell’equipaggio.
“Qualcosa… ma cosa?” disse l’altro. “Buttarsi col paracadute adesso sarebbe un suicidio, ma non credo che stare qui sopra offra prospettive tanto migliori.”
I due sottufficiali si fissarono a lungo, sconvolti, e in qualche modo Fowler riuscì a intuire che entrambi stavano pensando la stessa cosa: essere piloti di caccia li aveva abituati ad affrontare gli inconvenienti del volo, ma trovarsi come passeggeri su un velivolo del quale non avevano alcun controllo li faceva sentire improvvisamente esposti e vulnerabili, uniti nella stessa sventura.
Tese l’orecchio: tra gli stralci di frasi urlate, mentre l’aeroplano ondeggiava e sobbalzava come un fuscello tra le raffiche di vento, le uniche informazioni utili che riuscì a carpire furono “ala danneggiata” e “atterraggio d’emergenza”.
Tuttavia, non c’erano strisce di terra in vista: solo acri ed acri di giungla incontaminata, su cui probabilmente si sarebbero sfracellati prima ancora di scorgere un’illusione di salvezza.
La mente gli tornò al lurido appartamento che condivideva con sua madre e sua sorella zitella nella periferia di Birmingham, all’odore di porridge che pareva impregnarne le pareti, alla sirena dell’allarme antiaereo che aveva fatto saltare tutti giù dal letto e a lui che dava la precedenza alle due donne per spingerle nel rifugio nella concitazione generale. Si chiese come stessero, se mai le avrebbe riviste. Ricordava ancora l’ultima licenza, quando, arrivato nel quartiere in cui aveva trascorso l’infanzia, aveva trovato gli edifici vuoti distrutti dai bombardamenti e le macerie che ostruivano la strada. A casa lo acclamavano come una specie di eroe di guerra, un difensore della Patria, e sembravano aver dimenticato che, nemmeno vent’anni prima, in quella stessa strada suo padre lo inseguiva per prenderlo a cinghiate e il signor Chapman gli inveiva contro ogni volta che lo beccava a rubare ciliegie dal suo albero.
“Mi sa che non abbiamo altra scelta,” concluse lapidario. “Ma se proprio devo morire senza la gloria del combattimento, preferisco farlo con la pancia piena.” Si sistemò il barattolo dei biscotti sulle ginocchia, drizzò la schiena e riprese a mangiare. “Mi permetto di insistere: non saranno gli shortbread che mangiate dalle vostre parti, ma vengono pur sempre dalla migliore pasticceria di Birmingham.”
A quel punto, seppur titubante, MacPhearson non poté far altro che accettare l’offerta.


All’improvviso, il fragore della grandine cessò e una lama di luce abbagliante penetrò da una spaccatura tra due banchi di nubi nere. L’aereo si raddrizzò a fatica, scricchiolando, e riprese un volo livellato nel cielo livido.
MacPhearson guardò fuori: scendeva solo una lieve pioggia, e i raggi del sole creavano sfumature cangianti sopra la distesa di vegetazione lussureggiante che si estendeva infinita.
“Pare che il peggio sia passato,” azzardò Fowler, con inconsueta cautela.
Si voltarono in simultanea verso il personale di bordo: l’ufficiale responsabile aveva la testa infilata nella cabina del pilota e stava intrattenendo con lui una fitta conversazione.
Gli altri passeggeri avevano ripreso a bisbigliare tra loro, qualcuno russava.
MacPhearson non provò alcuna meraviglia quando l’ufficiale annunciò che il motore aveva subito un’avaria e che, di quel passo, l’aereo si sarebbe schiantato prima di raggiungere un terreno su cui poter atterrare. “Sbrigatevi, dobbiamo buttarci col paracadute.”
Aveva perso il conto di tutti gli atterraggi di emergenza che aveva effettuato a bordo di un caccia, Hurricane o Spitfire che fosse, ma una situazione del genere gli era del tutto nuova.
“Ma c’è la giungla, signore!” protestò qualcuno, ignorato da tutti gli altri.
Si scatenò subito il tafferuglio: i passeggeri iniziarono ad accalcarsi verso le uscite, urlando, armeggiando febbrilmente con le imbragature dei loro paracadute, incuranti delle ammonizioni dell’equipaggio che tentava invano di ripristinare la disciplina.
Anche Fowler e MacPhearson si alzarono, gli unici a mantenere una qualche parvenza di calma. Diedero la precedenza ai marinai e al personale di terra, che probabilmente non avevano mai maneggiato un paracadute in vita loro.
Giunse infine il loro turno; MacPhearson spinse avanti il collega. “Vai prima tu.”
“Ci troviamo troppo in basso, c’è il rischio che i paracadute non si aprano per tempo,” li avvertì il pilota. “Voi della RAF lo sapete bene: quando lo schianto è inevitabile, l’unica cosa che ci resta da fare è cercare di urtare l’oggetto più morbido nelle vicinanze, nella maniera più delicata possibile.”
D’istinto, MacPhearson afferrò la spalla di Fowler, già affacciato all’esterno, e lo tirò verso di sé per trattenerlo. “Hai sentito? Ti spiaccicherai per terra.”
“O la va o la spacca,” replicò l’altro. “Vedrò di cadere su un cespuglio.”
E saltò, dinanzi allo sguardo sconcertato del suo parigrado.
MacPhearson strinse i denti. “Idiota,” ringhiò. Per un attimo fu tentato di buttarsi insieme a lui, ma il velivolo iniziò a puntare il muso verso il basso e lo costrinse ad aggrapparsi a una maniglia.
Sull’aereo ormai ingovernabile, con la terra che si avvicinava a velocità vertiginosa, erano rimasti soltanto lui, il pilota e il comandante.
“Che cosa dobbiamo fare, adesso?”
“Pregare, sergente, non c’è altro da fare,” rispose l’ufficiale.

Col vento che gli sferzava la faccia e gli sibilava negli orecchi, il cuore in gola, il sergente Fowler iniziò a contare mentalmente i secondi che lo separavano dall’impatto.
Ricordava di aver sentito cantare una canzone diversi mesi prima, da un gruppo di paracadutisti americani.
The canopy became his shroud, he hurtled to the ground.
And he ain’t gonna jump no more…
Abbassò lo sguardo: l’informe muraglia d’alberi doveva trovarsi a poco più di cinquecento piedi sotto di lui, e la gravità lo attraeva verso di essa con la propria forza inesorabile.
Rivoli di sudore freddo cominciarono a colargli lungo la fronte, per poi raffreddarsi subito a contatto con l’aria, incollandogli i capelli alle tempie.
Non voleva immaginare cosa sarebbe successo se il paracadute non avesse fatto in tempo ad aprirsi: molto probabilmente lo avrebbero trovato ridotto a una poltiglia umana come il tizio della canzone – sempre che si potesse ritrovare qualcuno in quell’orrido intrico di vegetazione incontaminata.
He was a mess, they picked him up and poured him from his boots.
And he ain’t gonna jump no more.
Non era la prima volta che si paracadutava giù da un aeroplano in fiamme, ma di sicuro sarebbe stata la prima, e di sicuro anche l’ultima volta che il paracadute lo tradiva.
Gory, gory, what a hell of a way to die,
And he ain’t gonna jump no more…
Mentre il ritornello gli risuonava beffardo nella testa, si sentì trattenere da una forza che lo privò del suo peso e si ritrovò a fluttuare sospeso in aria: il fungo bianco del paracadute si era gonfiato.
Qualche secondo dopo, il suo corpo impattò contro qualcosa di morbido, ma decisamente instabile. Uno stormo d’uccelli volò via strepitando e sbattendo le ali, le fronde si spezzarono graffiandogli il volto e le funi si impigliarono alla vegetazione. Tonfi, scricchiolii, crepitii e fruscii accompagnarono la caduta, che si arrestò lasciandolo appeso a un ramo ad almeno trenta piedi da terra. Paralizzato dallo spavento, con gli occhi fuori dalle orbite e l’adrenalina che gli pompava il sangue nelle vene, il sergente si lasciò dondolare con gli occhi strabuzzati sul vuoto.
Un forte odore di terra umida gli invase nelle narici, e una vibrazione continua, quasi assordante, di friniti e cinguettii pervadeva l’intero ambiente, come se fosse la giungla stessa ad emettere quei suoni. La luce del sole faticava a farsi strada tra gli intrichi di foglie, e i tronchi contorti degli alberi erano stritolati dal muschio. L’aria era immobile, madida, ed emanava un sentore marcescente. Sotto i cespugli di felci, il suolo era a malapena visibile e rendeva quasi preferibile spostarsi da un ramo all’altro come le scimmie.
Si aggrappò alle funi del paracadute come se fossero liane, si issò a forza di braccia e salì a cavalcioni sul ramo, rimpiangendo di non essere agile come Tarzan.
Col coltello tagliò le corde che lo tenevano legato, quindi appoggiò la schiena al tronco e tirò il fiato, ringraziando di essere ancora vivo.
La sensazione di sollievo durò poco, spazzata via da un’urgenza pressante: si trovava in mezzo alla giungla, a chissà quante miglia dal primo avamposto di civiltà, né sapeva se quel territorio fosse sotto il controllo delle forze alleate oppure del nemico. Non aveva radio, a differenza di quando veniva abbattuto in volo, e non aveva modo di mettersi in contatto con nessuno.
E gli altri? Erano riusciti a saltare? Se sì, stavano vagando anche loro in quella foresta sconfinata, oppure si erano sfracellati da qualche parte? Inevitabilmente, il suo pensiero tornò a MacPhearson e non poté fare a meno di chiedersi che fine avesse fatto.
Non aveva altra scelta: doveva uscire al più presto da quella giungla, e per farlo poteva contare solo sulle sue forze. Scese giù lungo il fusto, spostandosi da una cavità all’altra, poi saltò. Un mucchietto di ramoscelli marci crepitò sotto i suoi piedi e gli stivali affondarono fino alla caviglia in una fanghiglia umida, sollevando schizzi che gli macchiarono l’uniforme.
Senza farci caso – nessuno lo avrebbe redarguito per l’aspetto trasandato – con passi incerti iniziò a farsi strada attraverso la vegetazione, pensando che gli sarebbe piaciuto avere con sé un machete.

L’aeroplano si abbatté al suolo con un fragore assordante, di lamiere accartocciate e legno che si schiantava.
Sballottato come in una centrifuga, MacPhearson fu scaraventato contro il sedile, sbatté la testa e la vista gli si oscurò.
Quando tornò in sé, il silenzio che avvolgeva la scena gli parve irreale.
Con gesti febbrili slacciò la cintura di sicurezza e si passò una mano sulla fronte, ritraendola umida di sangue e sudore. Un piede gli era rimasto schiacciato tra due lamiere e dovette stringere i denti mentre lo estraeva. A parte qualche graffio su tutto il corpo, non aveva ferite vistose o invalidanti, e realizzò di riuscire a reggersi in piedi se si costringeva a ignorare il dolore.
Si arrischiò barcollando verso ciò che restava della cabina di pilotaggio, ma dovette fare subito un passo indietro: intrappolati tra i rottami, il pilota e il comandante erano due fagotti irriconoscibili nelle uniformi intrise di sangue. Guardando di sfuggita, gli parve di notare anche qualche arto mancante. Si ritrasse inorridito, rendendosi conto di essere l’unico sopravvissuto di quell’incidente.
Gli tornarono in mente le ultime parole famose prima dell’impatto: Pregare, sergente, non c’è altro da fare.
A lui non era mai importato molto di pregare, ma non poté fare a meno di chiedersi se quell’ufficiale lo avesse fatto prima di ridursi in quel modo.
Tornò indietro e frugò alla ricerca del suo bagaglio, che ritrovò sepolto sotto un sedile; infine voltò le spalle alla macabra scena e, scavalcando mucchi di rottami, frasche e alberi spezzati che si erano insinuati all’interno, uscì fuori dal relitto dell’aereo.
Fu investito da una cascata di raggi verdi che cadevano obliqui dall’alto, dalle fessure tra fronde di alberi alti fino a cento piedi e forse anche di più. Nugoli d’insetti lo assediarono, costringendolo ad agitare le mani per scacciarli; nascoste da qualche parte nel folto, alcune rane gracidavano.
Sicuramente, l’ufficiale comandante si era messo in contatto via radio coi soccorsi, segnalando la loro posizione; ma se la sua conoscenza delle mappe del luogo non lo ingannava, quella foresta non figurava su di esse. Per quanto ne sapeva, avrebbe potuto anche trovarsi in una zona controllata dal nemico – e se così fosse stato, c’erano altissime probabilità che qualche osservatore giapponese avesse avvistato l’aereo e dato l’allarme.
E lui, quasi disarmato, solo e ferito, difficilmente avrebbe potuto avere la meglio su di loro.
Aveva sentito storie agghiaccianti sui campi di prigionia giapponesi e non aveva alcuna intenzione di constatare con la propria pelle se fossero vere o gonfiate: gli erano bastate quelle due settimane in Libia, in mano agli italiani, per farsi un’idea di quanto fosse umiliante essere prigionieri di guerra.
Cauto, si munì di un bastone e si allontanò rapido dal luogo dello schianto: tutt’intorno c’era una barriera impenetrabile di rami contorti, liane e cespugli; per terra, un tappeto di poltiglia viscida da cui riaffioravano ciuffi d’erba alta fino alla cintola, nel quale i piedi s’impantanavano acuendo il suo dolore. Un animale emise uno strido acuto, saltando da un ramo a un altro con un fruscio. Il sergente si infilò nella cavità di un albero e da lì, tra i ciuffi di felci, rimase a osservare la scena.
L’uniforme blu della RAF, unita al giallo del giubbotto salvagente, non era l’indumento più adatto per mimetizzarsi nella foresta, ma non poté far altro che appiattirsi e aspettare: se fossero arrivati i nemici, avrebbe cercato di minimizzare il respiro e diventare un tutt’uno con l’albero; se fossero arrivati gli alleati, avrebbe palesato la propria presenza.


MacPhearson aveva perso il conto del tempo passato in quella tana improvvisata, senza muovere un muscolo, col sudore che gli incollava i capelli alla nuca e i vestiti alla schiena.
Doveva essere ferito più gravemente di quanto pensasse, ma non aveva modo di controllare: quello stato d’immobilità gli impastava le membra, inchiodandole al suolo. Gli parve che il suo corpo fosse diventato un unico blocco di materia inerte.
Il cielo si era oscurato di nuovo, avvolgendo la foresta in una penombra grigiastra; l’orologio da polso, sulla cui precisione aveva iniziato a dubitare, rimaneva il suo unico riferimento temporale. Poi iniziò a piovere: una pioggia lenta, pesante, che sgocciolava dagli alberi e scendeva giù in copiosi rivoli. Irrorava il terreno e gli inzuppava l’uniforme, ridotta a uno straccio umido che aveva ormai assorbito il tanfo rancido del sottobosco.


Il sedicesimo giorno aveva tentato la fuga.
A distanza di mesi, rabbrividiva ancora rievocando le urla nella notte, l’eco della detonazione che squarciava il silenzio, e la frustata, rovente e al tempo stesso gelida, del piombo che gli sferzava la spalla. Si ritrovò pancia a terra a mordere la sabbia, che in bocca si mescolava al sapore metallico del sangue, a nascondersi sotto la sabbia e fingersi morto per evadere una seconda cattura.
Era stato il quarto d’ora più angosciante che avesse mai provato, in cui la paura e il dolore fisico annichilivano ogni altra sensazione: l’odore del sangue gli intrideva i vestiti e la pelle, i granelli sottilissimi s’insinuavano ovunque, gli grattavano le ferite aperte come carta vetrata. Quando un silenzio tombale tornò ad avvolgere la scena, MacPhearson pensò che sarebbe morto lì, seppellito sotto quella duna mentre l’umidità della notte gli perforava le ossa.
Strinse i denti mentre una fitta lancinante lo passava da parte a parte, ridestandolo da quell’ottundimento. Forse la follia, forse l’istinto di sopravvivenza o forse entrambe, fecero riecheggiare nella sua testa un unico imperativo: non aveva sfidato la sorveglianza armata del campo per lasciarsi morire nel deserto.
Represse un gemito e iniziò a strisciare alla cieca, gomiti e ginocchia a terra, come gli scorpioni che popolavano le sabbie. Ogni movimento era una stilettata di dolore che partiva dalla spalla e si irradiava in ogni parte del suo corpo, ma una forza sconosciuta continuava a spingerlo in avanti, nonostante i tremiti che gli scuotevano le membra. Per la prima volta si aggrappò con tutto se stesso alla speranza di arrivare vivo da qualche parte.
Da qualche parte…


Allontanò quel ricordo con un sospiro: se ci ripensava, faticava ancora a spiegarsi come fossero riusciti a trovarlo ancora vivo. Sapeva solo che, poco dopo la convalescenza in Scozia, il suo squadrone era stato trasferito sul fronte del Pacifico e loro avevano dovuto rivedere completamente le proprie strategie di combattimento.
Spossato, il sergente abbasso le palpebre e sprofondò in un leggero torpore. Si ritrovò nelle Highlands, a pescare in un laghetto circondato da amene colline. All’orizzonte, le guglie di un castello fendevano la nebbia evanescente che danzava intorno alle creste di abeti, tessendo ricami nel paesaggio. Un falco passò a volo radente sul pelo dell’acqua, lanciò verso il cielo i suoi versi acuti e sfrecciò via.
La coscienza non doveva averlo del tutto abbandonato quando, percepito un fruscio nella foresta, si ridestò come una bestia selvatica coi sensi di nuovo all’erta. Il sogno si dissolse più rapido della nebbia e la giungla tornò a stritolarlo coi suoi arti frondosi.
Anche se aveva smesso di piovere, un lento stillicidio continuava a scendere dagli alberi e il sentore dell’umidità gli penetrò fin nelle ossa, facendolo rabbrividire nei suoi abiti zuppi.
Udì delle voci riecheggiare nell’aria, in una lingua che di sicuro non era inglese. Tendendo ulteriormente l’orecchio, colse qualche sillaba: era giapponese. Fulmineo, trasse la pistola dalla fondina e la caricò, avendo cura di fare meno rumore possibile. Si appiattì ulteriormente nel tentativo di scorgere presenze umane, e non passò molto tempo prima che dai cespugli riemergessero quattro soldati dell’IJA [1] coi fucili in spalla. Snelli e agili nelle loro uniformi verde fango, si muovevano con destrezza in quei luoghi incontaminati, facendo a malapena rumore; i lineamenti affilati tradivano espressioni attente. Quello che sembrava un graduato diede un ordine e il gruppo andò a ispezionare il relitto dell’aereo.
Passò un istante inquantificabile, poi i fanti tornarono indietro portando con sé solo qualche bottiglia e riserva di cibo. Aguzzando la vista, MacPhearson riconobbe dai colori il barattolo dei biscotti di Fowler.
Già, Fowler. Chissà che fine ha fatto…
Un altro scambio di frasi in giapponese, poi lo sguardo del graduato indugiò per un attimo nella sua direzione. Se ci fosse stato il suo parigrado, probabilmente avrebbero cercato di ammazzarli tutti, ma per lui da solo, neanche nel pieno delle sue forze, contro quattro uomini sarebbe stato un suicidio. Rassegnatosi a quella consapevolezza, il sergente non si mosse di mezzo pollice, si impedì addirittura di respirare.
Ancora una volta, la voce del graduato pronunciò qualcosa che suonava come un ordine.
Hai, sensei.
I soldati si guardarono le spalle per l’ultima volta, quindi fecero dietrofront e tornarono da dove erano venuti.
MacPhearson si concesse di esalare il fiato che aveva trattenuto solo quando furono del tutto scomparsi alla sua vista: anche se ciò non lo rassicurava affatto, aveva ricevuto la conferma che quella zona era controllata dal nemico, e l’urgenza di allontanarsi ebbe la meglio sul suo fisico prostrato.

Attento, Mac! È dietro di te!” La voce gracchiante del caporale Waddington invase il segnale radio, seguita dal tintinnio di un proiettile che rimbalzò contro il vetro della capottina.
Il caporale MacPhearson tossicchiò e girò la testa di scatto, appena in tempo per vedere un’elica dipinta di bianco e nero e il muso giallo di un Me 109, pericolosamente vicini alla coda del suo Hurricane.
Schiacciò il pedale per virare un istante prima che l’Aquila Prussiana potesse sparare di nuovo, poi invertì bruscamente la rotta e tentò di metterglisi in coda con un loop, ma il tedesco, come un rapace che si divertisse a giocare con le sue prede, riuscì in qualche modo ad anticipare la sua mossa. Strinse i denti mentre la fronte gli s’imperlava di sudore: una raffica di traccianti gli piovve addosso, pezzi di rivestimento si staccarono dall’intelaiatura dell’aereo. Ancora una volta, tossicchiò attraverso la radio e non disse niente.
“Ci penso io a quel piccione crucco!” Quella volta, fu la voce del caporale Fowler a riecheggiargli nelle cuffie. “Tu pensa solo a non farti colpire.”
Con la coda dell’occhio, vide un altro Hurricane che manovrava per mettersi in coda al tedesco, poi dal muso del suo aereo iniziò a levarsi un fumo grigio che andava via via addensandosi.
“Mi ha già colpito!” gridò MacPhearson, sputando quelle parole tra i denti. “Sto perdendo olio, il motore è andato. Devo atterrare!”
“Va bene, ti copro io!


Quando vide l’aereo di MacPhearson perdere quota, l’Aquila Prussiana si limitò a sganciarsi e volò in cerca di un’altra preda. “Eccolo!” esclamò Fowler trionfante, allineando il collimatore col bersaglio. “Non mi scapperai.”
Azionò le mitragliatrici e sparò. Von Kleist – questo il nome del tedesco – si avvide di lui e derapò per schivare la raffica, ma il Messerschmitt già danneggiato volò letteralmente in mezzo alle pallottole e iniziò a precipitare dilaniato dalle fiamme. “L’ho preso!” esclamò Fowler. “Ho abbattuto l’Aquila Prussiana!” Il tedesco spalancò il tettuccio e si lanciò nel vuoto col paracadute. Come di riflesso, l’inglese controllò il contatore delle munizioni, trovandolo vuoto, e con un brivido si rese di avergli svuotato un intero caricatore addosso.
“Fowler! Fowler, mi sta sentendo?” chiamò il tenente Bennett. “Fowler!”
Il caporale si riscosse. “Sissignore!”
“Sta forse dormendo?” ringhiò l’altro, che doveva trovarsi dietro di lui. “Ha due Fritz alle spalle!”
Fowler se ne accorse troppo tardi: i due Me 109 si erano già allontanati, l’elica si era inchiodata e il suo Hurricane aveva iniziato inesorabilmente a perdere quota. Il messaggio era chiaro: non avrebbe potuto continuare a volare a lungo.
“Io e lei faremo i conti quando tornerà alla base, caporale!” gli urlò contro Bennett, prima ancora che annunciasse in frequenza di dover atterrare.
Abbassò lo sguardo e, diverse centinaia di piedi più in basso, notò la carcassa abbandonata di un 109 in fiamme. Non poté fare a meno di chiedersi se von Kleist fosse ancora vivo. Non molto distante riconobbe le coccarde blu e rosse sull’aereo di MacPhearson, che giaceva ai margini di un bosco con un’ala spezzata. Senza ulteriore indugio, iniziò a manovrare per raggiungerlo.
Dopo una discesa che gli parve interminabile, l’aeroplano impattò al suolo scavando un solco nel campo. Le ali si sfasciarono e il rivestimento del motore cedette definitivamente. Il caporale uscì dalla cabina, si lasciò scivolare fuori e corse incespicando verso il relitto dell’altro Hurricane, chiamando a gran voce il nome del collega.
“Smettila di strillare, sono qui,” bofonchiò MacPhearson dal tettuccio sollevato della capottina, tentando di tirarsi fuori dall’abitacolo.
Fowler salì sull’ala ancora integra e gli tese la mano. L’altro sospirò, si strappò dal capo la cuffia da aviatore e la lanciò per terra, poi si passò una mano tra i capelli madidi di sangue e sudore. “Ho visto che hai abbattuto il mangiacrauti,” commentò, quindi tentò ancora una volta di rialzarsi, ricadendo sul sedile con una smorfia di dolore.
Fowler alzò gli occhi al cielo. “Sei incastrato, lascia che ti aiuti.” Lo scozzese gli rivolse un’occhiata accigliata, ma poi l’ombra di un sorriso gli increspò appena le labbra e, seppur riluttante, accettò la mano che lui gli porgeva. Ricaddero entrambi all’indietro sull’erba, e MacPhearson soffocò tra i denti un grugnito di dolore. Egli abbassò lo sguardo sulla sua divisa blu, sporca di sangue e strappata in più punti, e si lasciò scappare un sorrisetto sbilenco. “Meno male che sono arrivato io,” lo canzonò in tono bonario. “Testardo come sei…”
Fece per avvicinarsi a controllargli le ferite, ma l’altro, che ancora sedeva sul prato, si schermì. “Anche tu stai sanguinando,” si limitò a dire.
Fowler si portò una mano alla tempia e la ritrasse sporca di sangue; tuttavia, liquidò la questione con una scrollata di spalle. “Tu sei messo peggio di me.”
In quel momento, un fruscio di foglie fece voltare entrambi di scatto verso il bosco: tra i cespugli era comparsa una testa bionda che avanzava circospetta.
“Fermo!” gli intimò MacPhearson, riconoscendolo all’istante. “Capitano Manfred von Kleist, stia fermo!” Incurante delle ferite, balzò in avanti come un veltro aizzato e si fiondò contro l’Aquila Prussiana.
Nel volto sporco di sangue e fumo nero del tedesco, gli occhi celesti ebbero un guizzo. Li strabuzzò con l’aria di una bestia spaventata, poi gli voltò le spalle e scomparve nella fitta vegetazione.
Lo scozzese emise un ringhio di frustrazione. Si piegò in avanti sulle gambe malferme e strappò un ciuffo d’erba.
“Lascialo stare,” lo blandì Fowler. “Siamo in territorio inglese, non andrà tanto lontano.”
Senza dire altro, MacPhearson si rimise a sedere sull’ala spezzata dello Hurricane e si prese la testa tra le mani, scuotendola con veemenza. Non oppose resistenza quando il commilitone gli scostò l’orlo del giubbotto, rivelando una ferita sul fianco sinistro.
Fowler gli tamponò l’emorragia alla bell’e meglio e gli fasciò la parte offesa avvolgendola nella giacca dell’uniforme che si era tolto, poi lo aiutò di nuovo ad alzarsi. “Andiamo, ti porto al posto di medicazione.”

Mentre avanzava tra fasci di liane e cespugli che gli si aggrappavano ai polpacci, il sergente Fowler si costrinse a ignorare i morsi della fame.
Dopo il breve acquazzone si era sollevata una nebbia densa e umida, che creava strane illusioni tra gli alberi. L’aria calda gli alitava sul collo come il respiro di un predatore in agguato nell’oscurità, in attesa che lui abbassasse la guardia per saltargli alla gola.
La luce andava scemando, come preludio al tramonto del sole: ogni possibilità di uscire dalla giungla prima di sera era sfumata. Non aveva idea di dove avrebbe passato la notte: probabilmente si sarebbe arrampicato su un albero abbastanza robusto e lì sarebbe rimasto per tutto il tempo, con gli occhi aperti e i sensi vigili ad aspettare il sorgere del sole.
Il suo olfatto ormai assuefatto agli odori della giungla gli permise di cogliere l’anomalia quando alcune sottili note d’incenso e curry iniziarono a diffondersi nell’aria stagnante. Pur rimanendo guardingo, si mosse incuriosito in quella direzione: aveva sentito dire che gli abitanti di quelle zone solevano allestire dei tempietti nel cuore della giungla; forse lì vicino avrebbe trovato anche un villaggio.
Un fruscio tra gli alberi lo fece appiattire contro un tronco, figgendo gli occhi nei grovigli di liane in cerca della fonte del rumore. Una creatura pelosa gli balzò sulla testa e afferrò i suoi occhialoni da volo, tentando di strapparglieli di dosso.
Fowler sobbalzò per lo spavento e agitò le braccia per allontanarla. “Giù le zampe, scimmietta dispettosa!” sibilò. “Sciò!” Il macaco emise un verso simile a una risata acuta e si dileguò con la refurtiva, arrampicandosi agile sull’albero. Subito dopo, altre due scimmie cadute da chissà dove gli piombarono addosso, seguite da una terza. Lo fecero inciampare in una radice, gli strapparono qualcosa dalla giubba della divisa e se ne andarono ridacchiando beffarde.
A tastoni, il sergente riconobbe la forma allungata del distintivo da pilota e, con sgomento, constatò l’assenza dell’onorificenza a cui era più affezionato. “La medaglia di distinto volo! Ladre!” inveì, per poi pentirsi subito dopo di averla tenuta così in bella vista.
Affranto, ansante e privato dei suoi trofei, si rialzò ingoiando l’amaro boccone della delusione. Non aveva una torcia, né una mappa; l’unica fonte di luce – se così si poteva definire – erano i pallidi raggi lunari che arrivavano a malapena a toccare le fronde più alte.
Quando giunse in vista di un edificio seminascosto tra cespugli alti quanto un uomo, le tenebre erano così fitte da consentirgli di vedere solo ombre più chiare o più scure a seconda della colorazione degli oggetti. Si acquattò tra le frasche e iniziò ad avanzare carponi, i gomiti affondati nel fango, poi alzò cautamente la testa: a circa trecento piedi da lui vi era una capanna bassa, spartana, col tetto di fango e paglia da cui pendeva una lampadina.
Intorno a essa, un reticolato di filo spinato, una tana di volpe e varie postazioni di tiro.
Prima ancora che potesse determinare lo schieramento di appartenenza della postazione, qualcuno gridò in giapponese. Il fascio di luce di una torcia lambì le zone d’ombra, uno sparo riecheggiò come ammonimento. Fowler si appiattì fino quasi ad affondare il viso nel fango, cercando di trattenere il respiro come se fosse in apnea.
Forse si aspettano che io mi faccia avanti con le mani alzate, pensò.
Non ottenendo risposta, la sentinella gridò di nuovo e una salva di fucilate squarciò l’aria greve.
Il sergente dovette mordersi la lingua, più per la sorpresa che per il dolore, quando il morso del piombo gli sferzò il polpaccio. Subito dopo subentrò un bruciore lancinante; l’odore del sangue si mescolò a quello del fango che gli imbrattava i pantaloni.
Devo andarmene… devo allontanarmi… magari mi crederanno morto…
Ma il suo corpo si era fatto pesante come un sacco di patate e si rifiutò di obbedire alla sua volontà.


[1] Imperial Japanese Army

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

L’unica cosa di cui MacPhearson poteva ritenersi abbastanza sicuro, era che i territori occupati dagli alleati si trovavano a nord. Tuttavia, per quanto avesse camminato per allontanarsi dal luogo dello schianto, nonostante il piede che gli faceva male a ogni passo, non riusciva a scorgere la fine di quella foresta infida, né poteva essere certo di non stare in realtà girando intorno a un punto morto.
A rendere più faticosa la marcia, di tanto in tanto radici sporgenti gli facevano lo sgambetto e il fango gli risucchiava gli stivali, mentre animali mai visti lo scrutavano furtivi dagli alberi.
Alzò lo sguardo verso il cielo: l’oscurità cominciava a calare, lenta ma inesorabile. Avrebbe dovuto trovare un rifugio per la notte, più per l’impossibilità di proseguire col buio che per l’esigenza di un riposo che sapeva essergli precluso. Quando stava in Scozia gli era capitato diverse volte di accamparsi sotto le stelle insieme a suo fratello, ma la differenza stava nel fatto che l’ambiente in cui si trovava non gli ispirava alcuna fiducia.
Approfittò degli ultimi strali di luce per individuare il posto adatto, quindi si arrampicò su una formazione rocciosa ai piedi di uno stagno e lì allestì il suo accampamento per la notte.
La sua posizione, che gli permetteva di vedere anche al di là dei cespugli più alti, gli diede il tempo di effettuare una rapida ispezione prima che le ombre inghiottissero tutto.
Col sopraggiungere del buio, anche la temperatura si abbassò, e la divisa umida divenne una sorta di seconda pelle fredda e viscida. Nel suo bagaglio c’erano dei vestiti di ricambio, ma il solo pensiero di eseguire un’operazione così delicata in quel frangente bastò a farlo rabbrividire per l’orrore.
Per scaldarsi si limitò ad avvolgersi nel giubbotto da aviatore foderato di pelliccia, quindi usò gli ultimi accendini che gli rimanevano e accese un fuoco con un fascio di legni marci.
Forse sarebbe servito a tenere lontane le belve, ma non i giapponesi. “Di notte, in trincea, mai accendere tre sigarette con un solo fiammifero,” ripeteva sempre suo fratello William, che in quel momento si trovava in Nordafrica con un reggimento di fanteria. “Il fuoco desta l’attenzione dei cecchini.”
Se dovessero arrivare non mi farò cogliere impreparato, pensò. Tolse la pistola dalla fondina e rimosse la sicura.
Infine, appoggiò la schiena allo zaino e si sedette per terra, lasciando che il tepore del fuoco gli sciogliesse le membra intorpidite. Mangiò un panino spiaccicato dalla sua riserva di cibo, poi tirò fuori carta e penna e ricominciò da capo la risposta per suo fratello, alla quale si sentì in dovere di aggiungere i dettagli sulla sua disavventura.
Subito sotto le rocce, un coro di ranocchie gracidava sguazzando nello stagno; dagli alberi si levava il canto di qualche uccello notturno. Friniti e ronzii riempivano il silenzio, mentre il fuoco crepitava e scoppiettava.
Un’improvvisa detonazione lo fece sobbalzare, scivolò in copertura e la mano corse ad afferrare la pistola. Un paio di uccelli sbatterono le ali spaventati. Seguì qualche istante di sospensione, poi altri spari in rapida sequenza rimbombarono amplificati dall’eco. Altri uccelli svolazzarono via.
MacPhearson rimase immobile. Aveva riconosciuto il suono: erano fucili giapponesi. Ne aveva sentiti pochi, essendo poco avvezzo agli scontri di terra – e si augurò di non compensare quella lacuna, dopo aver assaggiato il piombo degli italiani – ma ricordava ancora molto bene le poche volte che li aveva sentiti. Quello poteva voler dire solo una cosa: qualcuno degli uomini che si erano buttati col paracadute si era imbattuto in una pattuglia nemica.
Il pensiero che quegli spari potessero essere per Fowler – l’unico che conoscesse, tra tutti i passeggeri dell’aereo – gli fece stringere i denti. Anche se non poteva definirlo suo amico, era pur sempre un suo compagno di squadriglia, un suo commilitone, uno che volava con lui da anni. Un bravo pilota, uno su cui poter contare durante una caotica battaglia aerea: quando volavano in formazione e si guardava alle spalle, scorgere il muso dentato dello Spitfire di Fowler era per lui come una garanzia che l’altro gli avrebbe coperto le spalle, come quella volta contro l’Aquila Prussiana.
E ora poteva essere ferito, forse sperduto nella giungla, forse morto…
“Sei un idiota, Fowler,” ringhiò tra sé e sé.
Decise tuttavia che l’indomani sarebbe andato a cercarlo, vivo o morto che fosse.

Immobile, il viso affondato nel fango, il sergente Fowler pensò di essere morto.
L’odore del sangue che impregnava l’uniforme si mescolava a quello del fango e delle foglie putride, risalendogli fino alle narici a zaffate che gli davano la nausea. Di lontano, come ovattate, gli giungevano ancora le voci dei giapponesi che parlamentavano tra loro.
La lucidità ricompariva a tratti, lo abbacinava come un fascio di luce improvvisa, poi lo faceva di nuovo ripiombare nel buio.
In uno dei pochi sprazzi di coscienza, il dolore lo colpì di nuovo come una frustata e gli infuse nelle vene quel primordiale istinto di sopravvivenza tipico degli animali in pericolo. Le voci dei giapponesi si erano acquietate, e in ogni caso non aveva alcuna intenzione né di morire lì come un povero maccabeo, né di farsi catturare da loro. L’aroma del curry e dell’incenso continuava a solleticargli il naso, quasi come una beffa. Ma se fosse riuscito a raggiungere il villaggio…


Thomas si appiattì contro il muro e arrischiò cautamente la testa al di là del bordo: ciliegie mature ornavano l’albero come decorazioni natalizie, di un rosso così lucido da sembrare smaltate. Dopo settimane intere a mangiare soltanto porridge, fagioli stufati e patate farcite, bastò la sola vista a fargli torcere lo stomaco per la fame.
In quell’ora pigra e senza vento, nemmeno le foglie del giardino si muovevano e, come ogni giorno, il signor Chapman doveva essere immerso nel suo sonno pomeridiano.
Indugiò ancora per qualche istante, la schiena appoggiata al muretto scrostato. Una ragazza in bicicletta passò canticchiando una canzone, la voce stonata che si sovrapponeva al fastidioso cigolio delle ruote, e svoltò l’angolo senza far caso a lui.
Quando fu sicuro che fosse abbastanza lontana, poggiò i gomiti sul muretto, lanciò un’ultima occhiata alle proprie spalle, poi si issò a forza di braccia e balzò agilmente sul prato del suo vicino.
Camminando curvo per non farsi vedere, raggiunse l’albero, si tolse il cappello e iniziò a riempirlo di ciliegie.
Il rumore di una finestra che si apriva lo costrinse ad aggrapparsi all’albero, come se desiderasse diventare un tutt’uno con esso. “Ehi, ragazzino!” gridò irato il signor Chapman. Da lì, Thomas non riusciva a vederlo, ma gli sembrava quasi di ritrovarsi davanti il suo volto paonazzo, con le narici dilatate e le vene che si gonfiavano. Cercò di minimizzare il respiro, mentre rivoli di sudore freddo gli scendevano lungo la fronte. “Ragazzino, dico a te! Non fare il finto sordo!”
Il ragazzo non rispose; sperò soltanto che Chapman si convincesse di avere avuto un’allucinazione e tornasse in casa. Tuttavia, qualche istante dopo la porta si aprì e il padrone di casa iniziò a percorrere a grandi falcate la distanza che li separava, agitando un bastone. “Ragazzino, guarda che so chi sei!”
Thomas rabbrividì, col terrore che gli si agitava nel petto e gli impastava la gola: se suo padre fosse venuto a sapere che rubava le ciliegie, altro che cinghiate…
L’istinto gli suggerì di fuggire a gambe levate, sapendo che nessuno in quel quartiere sarebbe riuscito a eguagliarlo in velocità, ma le sue membra erano come paralizzate.
Un dolore bruciante gli lambì la gamba e, quando abbassò gli occhi, si avvide che i suoi pantaloni erano intrisi di sangue dal ginocchio al polpaccio. La parlata di Chapman era divenuta incomprensibile – sembrava una di quelle lingue esotiche di cui si parlava nei romanzi d’avventura che comprava con pochi risparmi prima che la crisi economica investisse anche la sua famiglia.
Ma era davvero Chapman, quello? Lanciò uno sguardo furtivo nella sua direzione e vide un ometto dal viso schiacciato e scuri occhi a mandorla, che lo fissava con astio.
In mano teneva un fucile. Lo caricò e lo puntò contro di lui…


Fowler strinse i denti e con le ultime forze che gli rimanevano riprese a strisciare facendo forza sui gomiti, a tentoni come un cieco, senza sapere dove sarebbe finito: l’unica cosa che gli importava era allontanarsi da lì e in fretta.
Forse era quella la direzione giusta, forse no, ma che importava? L’unica cosa che importava era allontanarsi da lì.
Si ritrovò invischiato in un groviglio di piante intorno alle quali si annidavano nugoli d’insetti, incontrò una pendenza e ruzzolò lungo un declivio, travolgendo cespugli e spezzando rami.
La caduta si arrestò su un letto di foglie marce, che crepitarono appena sotto il suo peso.
L’atmosfera era greve e malsana, appesantita dai miasmi palustri, infestata da zanzare che lo intontivano col loro ronzio.
Gli parve di sprofondare nell’incoscienza, mentre strane ombre barcollavano dinanzi al suo sguardo allucinato e creature dagli occhi fosforescenti lo osservavano ridendo in segno di scherno.
Forse era tutto un sogno, forse si era addormentato sull’aereo, forse si era schiantato insieme agli altri e quella era solo un’illusione post-mortem. Oppure…
Tutto perse improvvisamente d’importanza, e la sua coscienza sprofondò nell’oblio.

L’alba lo colse ancora sveglio, diffondendo una luce verdastra che trapelava dalle cime degli alberi. Il fuoco era ridotto a un ammasso di braci sfrigolanti da cui si levavano esili serpentelli di fumo. Il sergente MacPhearson lo soffocò del tutto, attento a non lasciare neanche un carbone acceso, quindi si mise lo zaino in spalla e, recuperato il bastone, si incamminò nella direzione da cui aveva sentito provenire gli spari.
Procedeva claudicando, le orecchie tese e gli occhi attenti a cogliere ogni minimo movimento, con la sensazione che la notte avesse acuito i suoi dolori anziché alleviarli. L’uniforme era ancora umida, così come i calzini e la pelliccia del giubbotto che aveva assorbito l’acqua, e un fastidioso bruciore iniziava a invadergli la gola.
Per l’ennesima volta imprecò mentalmente contro il suo parigrado, immaginando di ritrovarsi davanti la sua espressione scanzonata. Quasi si rammaricò di essere stato mandato in licenza: se fossero stati al campo d’aviazione, lui si sarebbe trovato a leggere all’ombra del suo aereo, senza altro pensiero se non quello di fare una buona caccia. Fowler, invece, avrebbe fatto di nuovo tardi a colazione e si sarebbe ingozzato senza ritegno mentre la squadriglia aspettava di decollare.
Si sorprese, tuttavia, quando si rese conto che percepiva l’idea di cercare il suo commilitone più come un’urgenza pressante che come una seccatura, anche se ciò significava tornare a calpestare il territorio dei nemici.


I caccia sciamavano in un cielo gremito di bombardieri pesanti, piccoli pesci che nuotavano tra gli squali.
Colpito da un mitragliere laterale, lo Spitfire si sbilanciò come un giocattolo rotto. Con la coda dell’occhio, MacPhearson vide un’estremità dell’ala che si staccava di netto.
Lo Heinkel 111 sempre più vicino sembrava un ostacolo ormai impossibile da schivare. Strinse i denti: se proprio non poteva evitarlo, avrebbe cercato di schiantarsi in modo da fargli più danni possibile.
Mentre manovrava disperatamente per riprendere il controllo dell’aereo, uno dei motori esplose e lo squalo volante iniziò a puntare il muso verso il basso, avvolto da una nube di fiamme.
“Pensavo che l’obiettivo fosse quello di abbattere i nemici, non quello di suicidarsi andandogli addosso,” disse Fowler attraverso il segnale radio, per poi sfrecciare via tra nugoli di traccianti.


La verità – dovette ammettere, seppur a fatica – era che non voleva abbandonarlo al suo destino perché, dopo tutte le battaglie combattute ala ad ala, sentiva di essersi affezionato a lui.

Quando Fowler tornò in sé, una luce malata illuminava la palude, affollata di rane colorate e mosche grosse quanto un pugno. Un rospo rosa a macchie rosse spalancò un paio di ali membranose e spiccò il volo.
L’aria era satura del ronzio degli insetti e del gracidio degli anfibi, le canne già alte si allungavano a vista d’occhio. Sembrava che gli alberi fossero cresciuti fino quasi a toccare il cielo.
All’improvviso, un cicaleccio di voci sovrapposte lo fece sobbalzare, col cuore che minacciava di scoppiargli nel petto: una pattuglia di giapponesi camminava in circolo sull’orlo del pendio, guardavano in basso ma nessuno riusciva a vederlo. Avevano tutti quanti la cuffia con gli occhialoni da pilota, qualcuno di loro portava anche la maschera dell’ossigeno che lasciava scoperti solo gli occhi a mandorla.
Una figura svettava per altezza sulle altre: lo riconobbe subito per il berretto sulle ventitré, il sorriso irriverente e la croce di cavaliere al collo, così com’era apparso su tutte le riviste militari dopo la sua centesima vittoria. Quando gli occhi chiari del tedesco si posarono su di lui, balenarono sinistri come in cerca di vendetta: una vendetta che, a distanza di oltre due anni, non era mai riuscito a ottenere.
Si chiese che cosa ci facessero così tanti aviatori giapponesi insieme a Manfred von Kleist nella giungla. E perché non li aveva visti prima? Ma soprattutto, perché loro non vedevano lui?
Provò ad alzarsi, ma ricadde bocconi con la faccia nel fango: la sensazione che la pelle della gamba stesse per strapparsi gli ricordò soltanto che era ferito, non sapeva quanto gravemente, e che rischiava di morire di una morte indegna di un asso dell’aviazione.
Con le ultime forze che gli restavano, strisciò sotto un cespuglio di felci e lì rimase nascosto.
Gli occhi gli si richiusero e il sergente sprofondò in un sonno torbido e senza sogni.

La luce aveva già cominciato a scemare, incupendo le ombre che si allungavano tra gli alberi.
Se il suo senso dell’orientamento non lo ingannava, la pista che MacPhearson stava seguendo era quella giusta, ma già da diverse ore vagabondava avanti e indietro senza trovare tracce – né dei giapponesi, né di eventuali superstiti dello schianto. Aveva setacciato ogni cespuglio, scrutato le cavità e i rami di ogni albero, ogni sasso e ogni anfratto, e niente era riuscito a suggerirgli che qualcuno potesse esser passato di lì – né rami spezzati, né impronte di stivali, né vegetazione calpestata. Tutto appariva vergine e incontaminato, come se lui fosse il primo e unico uomo a calcare quel terreno selvaggio.
Inoltre, trascorrere la notte all’addiaccio coi vestiti inzuppati non doveva aver giovato alla sua salute: starnutiva di frequente, la gola gli faceva male anche solo a deglutire, e le ossa gli dolevano come se uno schiacciasassi gli fosse passato addosso.
Sentiva avanzare lo sconforto, come un macigno che gli gravasse sul petto, ma non volle darsi per vinto: sarebbe stato inutile tornare indietro dopo tutto il tempo impiegato in quella ricerca.
‘Arrendersi’ non era una parola che apparteneva al suo vocabolario – a pensarci, aveva pure un suono sgradevole al suo orecchio. Non per nulla, tutti nello squadrone lo conoscevano per aver attraversato la Manica solo per inseguire l’ultimo Stuka superstite di una squadriglia, sfidando le FLAK e i caccia tedeschi pur di abbatterlo. Al ritorno, le ali del suo Hurricane sembravano due fette di groviera, il carburante era a livelli critici, ma lui poté vantarsi di aver portato a termine la missione e fu promosso sergente.
Mentre si crogiolava nei ricordi, uno strano luccichio attirò il suo sguardo: semisepolto sotto il fango c’era un piccolo oggetto estraneo a quel luogo selvaggio. Incuriosito, MacPhearson si chinò e lo raccolse, ripulendolo sommariamente. Lo riconobbe subito: era un elefantino indiano dipinto con smalti di colori sgargianti, che Fowler aveva preso a un mercatino durante un pomeriggio di libera uscita. Ricordò che lo teneva sempre in tasca come portafortuna; doveva essergli caduto.
Guardando più attentamente, notò una traccia: erba schiacciata, fango smosso, tracce di sangue, e un brandello di stoffa blu scomparivano in una depressione del terreno da cui si levava l’odore mefitico di una palude. Erano tracce del passaggio di Fowler, che a quel punto poteva essere già con un piede o addirittura con tutto il corpo nella fossa.
Un brivido gelido gli corse lungo la schiena a quell’ultimo pensiero. Iniziò a temere ciò che avrebbe trovato al termine di quella pista, tuttavia si appiattì tra le frasche e continuò a seguirla.

Accovacciata sotto un cespuglio di felci, c’era la figura allampanata di un aviatore inglese con le vesti stracciate e la faccia sporca di fango. A separarli c’era un nugolo d’insetti che vorticavano in aria. Quando si accorse della sua presenza, Fowler scattò come un animale e gli rivolse uno sguardo allucinato.
MacPhearson aggrottò le sopracciglia. “Thomas, che ci fai qui?”
L’altro sbatté le palpebre gonfie, come se non si aspettasse di vederlo lì. “Sam?” Si passò una mano sul viso per ripulire il velo di sporcizia che gli oscurava la vista. “Sam, hai la faccia sporca di sangue.”
“Sono io, sì.” La voce gli uscì dalla gola stranamente roca. Si avvicinò a grandi passi, scacciando gli insetti con ampi gesti delle braccia, mentre Fowler cercava di tirarsi su. Notò che aveva una ferita alla gamba, i gomiti e le ginocchia scorticati. “Stai perdendo pezzi. Che cosa ti è successo?”
Con un cenno del capo, l’altro indicò un punto indefinito della giungla. “I… giappi…”
“Cosa?” MacPhearson lo fissò, incredulo e allarmato al tempo stesso. “I giapponesi ti hanno ridotto così?” Mentre attendeva una risposta che tardava ad arrivare, gli ripulì il viso con un fazzoletto inumidito, quindi sganciò la borraccia dallo zaino e gli offrì da bere. L’altro ci si attaccò con avidità, sorbendo lunghe sorsate che gli colarono sul mento. Era più pallido del normale, e gli occhi verdi apparivano cerchiati da profonde occhiaie.
Si dissetò a lungo, sciolse il nodo che aveva alla gola, poi disse, con voce flebile: “No… sono scappato… prima che mi prendessero.”
“Sei un idiota, volevi forse crepare? Da quanto tempo sei qui?”
“Che ne so, mi sono svegliato per colpa tua,” rispose l’altro con un sospiro stanco. “Da qualche parte c’è un tempio… un villaggio… sento l’odore del curry.”
“Figurati se ti credo. Tu vaneggi, e poi il curry fa schifo.”
Un rombo di motori proveniente dall’alto interruppe la discussione: aerei da caccia.
“Sono nemici?” sfiatò Fowler allo stremo delle forze, rannicchiandosi di nuovo sotto le foglie.
MacPhearson alzò lo sguardo e riconobbe subito le forme affilate dei P-40 con sulle ali una stella bianca inscritta in un cerchio blu. “No, sono americani.” A quelle parole, l’altro si rilassò appena. “Ma se ci vedono i giappi ci sparano a vista. Dobbiamo allontanarci da qui.” Gli porse la mano. “Ce la fai ad alzarti?”
“Se ce la facessi, secondo te sarei qui?” replicò l’altro.
MacPhearson roteò gli occhi, ma decise di non replicare. Lasciò che Fowler gli avvolgesse un braccio intorno alle spalle, per poi cingergli la vita col suo. “Ti porterò io. Tu, però, non azzardarti a crepare.”
L’altro si lasciò scappare una debole risatina. “Figurati se ti faccio questo favore.”
MacPhearson starnutì. “Smettila di fare lo spiritoso e dimmi dov’è quel tempio.”
“Non lo so… segui l’odore.”
Con un sospiro, lo scozzese iniziò a camminare cautamente tra le sponde invase da giunchi e rane, cercando di non farsi risucchiare gli stivali dalla melma appiccicosa. Teneva lo sguardo abbassato, attento a dove metteva i piedi, mentre il naso cercava di individuare note d’incenso al di sotto del marcio che pervadeva ogni cosa. Fowler, aggrappato alla sua spalla, zoppicava a ogni passo ma cercava di fare leva sulla gamba sana per non gravargli troppo addosso.
Nessuno dei due parlava, e a fare da sottofondo a quell’insolita camminata vi erano soltanto i loro respiri accelerati e lo sciacquettio degli stivali. In sottofondo, la giungla mai silenziosa pullulava di rumori.
“L’ho… sentito…” biascicò l’inglese, a un certo punto. Tese la mano libera e indicò un punto tra gli alberi lussureggianti. “Va’… sempre dritto. Lì lo troverai.”
MacPhearson dilatò le narici, ma non riuscì a cogliere alcuna variazione. Tuttavia, decise di fidarsi e seguì la direzione indicata dal compagno. Non trascorse molto tempo prima che l’odore giungesse anche al suo naso, quando ormai le ombre si erano allungate e non si poteva vedere che a pochi piedi di distanza.


Arrancando e zoppicando, guidati dall’aroma acre dell’incenso, giunsero in una specie di radura al centro della quale sorgeva un edificio in pietra rossiccia, con la facciata finemente elaborata e un tetto a guglia composto di più strati sovrapposti. La perizia con cui ogni ghirigoro era stato cesellato faceva pensare a un’opera d’arte senza tempo.
Un ampio spicchio di cielo, di un cupo cobalto, emergeva dagli spazi tra gli alberi, e la luna piena illuminava la terra battuta intorno al tempio. Non c’era nessuno in giro, ma il fumo era così intenso da invadere, in sottili volute, anche lo spiazzo all’esterno.
Le porte erano aperte, e il piccolo ambiente li accolse con la sua avvolgente penombra.
MacPhearson buttò lo zaino ai piedi di un’enorme statua bronzea e lo offrì come cuscino al commilitone ormai stremato, poi si fermò in piedi di fronte all’altare, dove aggraziate composizioni di frutta, fiori e riso erano poste ai piedi delle statue di Buddha con le mani giunte in preghiera. La vernice dorata riluceva nel bagliore delle candele profumate. L’atmosfera di sacralità che pervadeva quell’ambiente, pur appartenente a una spiritualità sconosciuta a uno che fin da piccolo era stato cresciuto in una famiglia di fede presbiteriana, lo fece esitare prima di allungare le mani su quei doni, nonostante la fame. Abbassò lo sguardo su Fowler: giaceva rannicchiato per terra con gli occhi semichiusi e la fronte imperlata di sudore; la divisa era ridotta a un ammasso di panni laceri, irriconoscibili. Nel volto provato dalla sofferenza pareva non esservi più traccia della sua usuale ironia. Con un sospiro, frugò nella tasca, staccò due banane da un casco e lasciò una monetina in pegno alle divinità che abitavano il tempio. Infine, si sedette con la schiena contro l’altare, sbucciò una delle due banane e la porse al compagno, tenendo per sé l’altra. Per un po’ mangiarono in silenzio, storditi dai fumi dell’incenso e troppo stanchi anche solo per intavolare una conversazione.


Disteso per terra con la testa sotto lo zaino, Fowler seguiva come ipnotizzato i serpentelli di fumo che si torcevano nell’aria. “Suppongo che dovrei ringraziarti,” disse infine.
MacPhearson ignorò la provocazione. “Beh, non hai una bella cera.” Gli scostò un ciuffo di capelli umidi e gli portò una mano alla fronte, ma dovette ritrarla subito dopo a contatto con la pelle rovente. “E hai pure un febbrone da cavallo,” constatò, fissandolo con le sopracciglia aggrottate. “In quel pantano c’era pieno di zanzare, non ti sarai mica buscato la malaria?”
“Credo che sia… per colpa della pioggia,” rispose l’inglese. MacPhearson si accorse che si era stretto le braccia intorno al petto e che le sue membra erano scosse da impercettibili tremiti.
Senza dire nulla, frugò nello zaino e ne trasse un panino alquanto malridotto. Tolse l’incarto, ne prese un morso per sé e diede il resto al collega. “È di ieri, ma ti aiuterà a rimetterti in forze.”
L’altro forzò un sorriso sbilenco, che accentuò il luccichio febbrile nel suo sguardo. “Non è che hai un po’ di quel rum della distilleria di Collins?”
“No, purtroppo niente rum.”
Fowler mangiò per un po’ in silenzio, ed egli ne approfittò per controllargli la ferita. Delicatamente, cercando di stare attento a non fargli male, gli arrotolò i pantaloni luridi fino al ginocchio e scoprì la ferita: il segno del proiettile che l’aveva sfiorato era ben visibile sulla pelle pallida della gamba, e l’area intorno a esso era gonfia e arrossata.
Quando iniziò a tamponargliela con un fazzoletto imbevuto d’acqua, l’inglese fece una smorfia di dolore ma non ebbe la forza di reagire.
“Stai buono, non ti agitare.” MacPhearson trasse dallo zaino un pacchetto di medicazione individuale, svolse la benda e gliela arrotolò intorno alla ferita, poi gli riabbassò i pantaloni. “Come ti senti adesso?” gli chiese, quando ebbe finito. Tirò fuori una coperta e gliela sistemò addosso.
“Come prima. Debole, stiracchiato… come del burro spalmato su troppo pane.”
Lo scozzese aggrottò di nuovo le sopracciglia. “Ma tu pensi sempre al cibo?”
“Com’è che si dice, Sam? Bisogna sempre guardare il lato positivo della vita…” concluse l’altro con un debole sorriso, stringendosi nella coperta.


“Samuel?” La voce di Fowler interruppe il silenzio, ridestandolo dal leggero torpore in cui era piombato. Doveva essere ormai notte fonda, anche se aveva perso la cognizione del tempo passato.
“Che c’è, Tom?”
“Mi chiedevo… come hai fatto a trovarmi?”
“Ho trovato una cosa per terra, e da lì ho notato le tracce del tuo passaggio.” MacPhearson trasse dalla tasca l’elefantino e glielo posò sul palmo della mano. “Dimenticavo: questo è tuo.”
“Grazie… è il mio portafortuna.”
Egli annuì. “Forse lo è davvero,” osservò, ripensando alle dinamiche del ritrovamento.
Di nuovo, tra loro cadde una coltre di silenzio imbarazzato. Ogni parola gli raschiava la gola come un sasso, e l’acqua, che pure scarseggiava, non bastava ad alleviare quella sensazione; anzi, la acuiva. MacPhearson alzò lo sguardo: l’aria era densa di un fumo evanescente che catturava il lucore delle candele, e sembrava donare una forma visibile all’aura mistica che pervadeva l’atmosfera. Ma, invece di farlo sentire fuori luogo, lo faceva sentire protetto, lontano dalle insidie dell’ambiente esterno. “Ti ricordi quella volta che gli italiani mi avevano catturato?” chiese infine.
“E chi non se lo ricorda?” mormorò Fowler. “Arrivasti alla base più morto che vivo, su un camioncino dei soccorsi.” Fece una pausa come per recuperare le forze, poi proseguì: “Io e quello scimunito di Steve ci bevemmo una birra alla tua salute.”
A quelle parole, MacPhearson si sciolse un tenue sorriso. “E io mi berrò dello scotch alla tua, se usciamo vivi da questa giungla.”
“Certo che ne usciremo vivi, uomo di poca fede. Ricordi quello che ho detto poco fa? Bisogna sempre guardare il lato positivo della vita…”
Lo scozzese annuì, poco convinto, ma non replicò.
“C’è una cosa che non ti ho mai chiesto, Sam,” riprese l’altro.
“Cosa?”
“Com’è che hai deciso di arruolarti nella RAF?”
MacPhearson sgranò gli occhi, meravigliato nel sentirsi rivolgere dall’altro la stessa domanda che aveva sempre evitato di fargli. Indugiò qualche istante, poi rispose: “Avevo uno zio aviatore durante la Grande Guerra, che una volta mi raccontò di aver duellato nientepopodimeno che con Max Immelmann… ero affascinato dalle sue storie, dalle poesie che scriveva, dal rispetto che c’era tra piloti di schieramenti opposti. Era tutto così diverso dalla guerra di trincea, anche se non meno pericoloso…”
“Tuo zio scriveva poesie sul volo?”
Voglio librarmi tra argentee nubi
dove né preoccupazioni né umani tormenti
violano l’immensità del cielo…
O qualcosa del genere. Era un dilettante, nessun editore aveva mai voluto pubblicarlo, ma mi perdevo sempre ad ascoltarlo mentre le recitava: questa era la mia preferita. E tu, perché hai deciso di diventare pilota di caccia?”
“Ti sembrerà strano detto da me…” Fowler soffocò un risolino. “Ho maturato questa decisione quando i tedeschi hanno tentato di invadere l’Inghilterra: mi ero stancato di fare il ricognitore senza prendere parte attiva alla guerra. Ho visto dei manifesti di reclutamento per piloti di caccia e mi sono detto: perché no? Allora ho fatto l’esame da pilota, l’ho superato a pieni voti ed eccomi qui.”
MacPhearson rimase in silenzio, e il discorso cadde così com’era iniziato. Quando si voltò verso Fowler, si accorse che si era assopito e decise di lasciarlo dormire in pace: ne aveva sicuramente bisogno. Lui, invece, col naso ostruito e le ossa dolenti, sospettava che sarebbe riuscito a prendere sonno solo quando fosse crollato. Trasse il libro dalla tasca e si mise a leggere.
“Perché non mi leggi qualcosa dal tuo libro?” gli chiese flebilmente l’altro, dal dormiveglia.
Lo scozzese si limitò a un cenno d’assenso, si schiarì la gola e iniziò a leggere con voce nasale.
Non trascorse molto tempo prima che Fowler si riaddormentasse, stremato dalla febbre e dalle ferite.
Egli ripose il libro sotto lo zaino e si distese a sua volta, invocando il rassicurante conforto del sonno.

I due sottufficiali si risvegliarono su due lettini nella corsia di un ospedale da campo. Anche se conservava solo qualche sprazzo di ricordo legato ai momenti successivi all’arrivo nel tempio, Fowler apprese che erano stati ritrovati da un monaco – la sua faccia rasata e ieratica continuava a visitarlo in sogno come se fosse un’apparizione del Buddha – che li aveva affidati a un gruppo di missionari britannici che operavano nella zona, e da loro avevano ricevuto le prime cure mentre la febbre alta divorava la loro lucidità.
“Quando ho deciso che in licenza mi sarei concesso qualche giorno di riposo, non intendevo esattamente questo,” commentò. In quel momento, una giovane infermiera passò di fronte a loro e per qualche secondo lo fissò coi suoi grandi occhi da cerbiatta. Egli la ricambiò con un’occhiata ammiccante. “Però almeno ci sono le infermiere carine…”
Nel letto accanto al suo, MacPhearson corrugò la fronte. “Dovresti placare i tuoi bollori. Guarda che se si fa strane idee poi ti tocca sposartela.”
Egli alzò le spalle. “Sai già come la penso, Sam: non ho grandi pretese, spero soltanto che la mia futura moglie sappia cucinare come si deve.”
Lo scozzese piegò un braccio sotto la testa e guardò fuori dalla finestra: in cielo splendeva il sole, che diffondeva il suo tepore anche all’interno della corsia. “Oggi è il venticinque di gennaio. Avevo promesso ai miei amici che ci sarei stato per la Burns Nicht [1].”
Fowler distolse lo sguardo dalla giovane infermiera per voltarsi verso di lui. “La che?”
“È una serata in onore di un poeta delle mie terre, Robert Burns. Ogni anno ci ritroviamo tutti quanti per festeggiare: si brinda alla sua memoria, si leggono le sue poesie, si beve whisky e si mangia haggis.”
“E cos’è che sarebbe lo haggis? Stomaco di capra ripieno di cosa?”
“È stomaco di pecora, innanzitutto, e poi è un piatto squisito.”
Fowler fece una smorfia. “Capirai.”
MacPhearson scosse la testa con ostentata indulgenza. “Non puoi capire, sei un Sassenach.”
“Ah, no?” Egli sollevò un sopracciglio. “Allora perché non introduci questo povero Sassenach alle secolari tradizioni del popolo dei Jocks [2]?”
Negli occhi celesti dell’altro passò un luccichio beffardo. “Ma certo, perché non fai un salto dalle mie parti durante la prossima licenza? Finiresti soltanto per darmi ragione: è sempre così.”



[1] scozzese per “Burns Night”

[2] diminutivo di John, è un termine con cui gli inglesi definiscono gli scozzesi

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