La Stella di Amtara

di Baudelaire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La lettera ***
Capitolo 2: *** Prove generali ***
Capitolo 3: *** Le gemelle ***
Capitolo 4: *** Demetra ***
Capitolo 5: *** Impatto ***
Capitolo 6: *** Verità nascoste ***
Capitolo 7: *** Azione e reazione ***
Capitolo 8: *** Premonizioni ***
Capitolo 9: *** Angela ***
Capitolo 10: *** La festa di Halloween ***
Capitolo 11: *** Natale ad Amtara ***
Capitolo 12: *** Il sogno ***
Capitolo 13: *** Primi sospetti ***
Capitolo 14: *** Justine ***
Capitolo 15: *** Sandra ***
Capitolo 16: *** Brenda ***
Capitolo 17: *** Nella foresta ***
Capitolo 18: *** Nella tana del lupo ***
Capitolo 19: *** Il segreto rivelato ***
Capitolo 20: *** Confronto ***
Capitolo 21: *** Il fantasma ***



Capitolo 1
*** La lettera ***


PROLOGO

“Ora sai quello che devi fare.” – mormorò la voce.
“Sì.”
Jack si alzò dal letto. Aveva atteso per ore che tutti gli altri si addormentassero. Doveva essere notte fonda. Il silenzio era glaciale, come l’aria là fuori.
Si gettò sulle spalle il vecchio mantello logoro, afferrò la piccola valigia e aprì piano la porta. Si voltò a guardare, sprezzante, la camera sudicia dove aveva trascorso tutta la sua vita.
Una vita d’inferno.
Attraversò il lungo corridoio. Gli sembrava quasi di sentire il respiro lento e misurato dei suoi compagni.
Ma forse compagni non era il termine esatto. Lo si diventava quando si condivideva qualcosa. A lui questo non era mai stato permesso.
Ricordava solo di essere sempre stato escluso da qualsiasi attività di gruppo. Fin dal suo primo giorno lì dentro, lo avevano confinato in una stanza isolata, buia.
Del resto, chi poteva desiderare la compagnia di uno come lui?
E poteva forse biasimarli, quando la prima persona a ripudiarlo era stata proprio colei che gli aveva dato la vita?
Sentì la rabbia montare, ancora una volta.
Strinse i pugni, cercando di dominarla.
Doveva riprendere il controllo di se stesso, se voleva compiere la sua missione e andare fino in fondo. Non doveva permettere alle emozioni di dominarlo, o avrebbe fallito.
Aprì il portone e uscì nel vento freddo della notte. Lo richiuse alle proprie spalle senza voltarsi indietro.
Quella non-vita era finita per sempre. Nessuno avrebbe sentito la sua mancanza, né lui avrebbe avuto nostalgia di quei miserabili. Era sempre vissuto in solitudine, ma nel suo cuore sentiva che la vita, per lui, iniziava adesso.
Si strinse nel mantello e si avviò nella notte.
 
 
 


Capitolo 1
“LA LETTERA”
 
Bunkie Beach era deserta, quel pomeriggio d’agosto. Solo poche ore prima il termometro registrava trentacinque gradi e la spiaggia era affollata di turisti. Poi il cielo si era rannuvolato, la temperatura era precipitata e gradualmente i bagnanti avevano fatto ritorno nei loro alberghi, visibilmente seccati per l’inatteso cambio di programma.
Un forte vento ululava per tutta la costa e dalla grande villa sopra la collina, che abbracciava in un solo sguardo tutto il litorale, i mulinelli di sabbia sollevati dal vento somigliavano a piccole ombre che si rincorrevano allegre. Un cielo nero, gravido di pioggia, incombeva minaccioso sulla maestosa abitazione in pietra bianca, come una leonessa pronta a divorare la sua preda.
Villa Bunkie Beach era una vecchia costruzione immersa nel verde, con un ampio giardino pieno di roseti che digradava dolcemente verso il mare e lunghi filari di pini marittimi che ne costeggiavano il perimetro.
Prima che il paesaggio fosse deturpato dagli innumerevoli stabilimenti balneari, creati ad uso e consumo di orde di turisti schiamazzanti e spesso irrispettosi dell’ambiente, il panorama della costa nuda e selvaggia che si tuffava nell’oceano era da togliere il fiato. La villa era situata in posizione isolata, a notevole distanza dalla spiaggia cosicché, anche nei giorni di maggiore affluenza turistica, chi vi abitava non udiva altro che un mormorio indistinto provenire dalla costa.
L’interno dell’abitazione richiamava la maestà e lo splendore dell’esterno. Una larga scalinata in pietra conduceva all’interno, attraverso un portone in legno bianco. Nell’ampio salone al pianterreno troneggiava un tavolo ovale in cristallo, sorretto da un basamento in pietra a forma di drago. Sulla destra, un divano e due poltrone con ricami dorati erano posizionati di fronte ad un grande camino antico. Dal salone si accedeva alla cucina attraverso una porta in legno e, attraverso una grande porta finestra, si aveva accesso ad una veranda con una vista mozzafiato sull’oceano.
Un’ampia scalinata in marmo nero conduceva al piano superiore.
Qui, in una delle due camere da letto, Rebecca Bonner sognava sua madre. Camminavano fianco a fianco in riva al mare, i piedi dolcemente accarezzati dall’acqua. Rebecca parlava e sua madre l’ascoltava sorridente.
Erano felici.
Nel sonno, le sue labbra sottili s’incresparono in un sorriso.
Il suono del campanello al piano di sotto spezzò l’incanto e Rebecca si rigirò nel letto, infastidita, rimboccandosi ancora di più le coperte, come se quel gesto avesse potuto scacciare il fastidioso visitatore.
La notte precedente non aveva chiuso occhio e si era rigirata invano nel letto fino a notte fonda, nella vana speranza di prendere sonno.
All’alba, ormai rassegnata al fatto che quella notte Morfeo non l’avrebbe cullata tra le sue braccia, si era alzata e aveva cominciato a sbrigare le faccende di casa, fino all’ora di pranzo.
Nel pomeriggio aveva fatto una lunga passeggiata fino al porto, intimamente grata al maltempo che aveva fatto volatilizzare la massa di turisti che in quei giorni gremivano come formiche Bunkie Beach.
La lunga camminata l’aveva ritemprata e, di ritorno a casa, si era infilata a letto, crollando subito in un sonno profondo.
Il campanello suonò di nuovo.
Rebecca aprì gli occhi, intontita e si alzò a sedere di scatto.
Al terzo squillo saltò fuori dal letto, si infilò la vestaglia azzurra e si scaraventò in gran fretta giù dalle scale, rischiando di rompersi l’osso del collo scivolando sull’ultimo gradino.
Piuttosto seccata, aprì la porta e si trovò davanti un ometto calvo intento a scarabocchiare qualcosa su un cartoncino giallo.
“Rebecca Bonner?” – domandò alzando gli occhi.
Rebecca annuì.
“Una raccomandata per lei.” – disse porgendole una busta, il cartoncino giallo e una penna.
Rebecca prese carta e penna e firmò, poi richiuse piano la porta reggendo tra le mani la busta e scrutandola diffidente.
Andò a sedersi in cucina e rimase a guardarla per qualche istante, senza aprirla.
Poi si alzò e si preparò una tazza di caffè.
Pochi minuti dopo salì di sopra e spalancò le persiane della sua camera, lasciando che la fresca brezza salmastra inondasse la stanza. Inspirò a lungo l’aria frizzante, con gli occhi chiusi. Poi andò in bagno, si spogliò e s’infilò sotto la doccia.
Più tardi, dopo essersi asciugata i lunghi capelli mossi e ramati, si vestì e scese di nuovo in cucina.
Lesse l’indirizzo vergato a mano:
“Alla cortese attenzione della sig.na Rebecca Bonner
presso Villa Bunkie Beach n. 15
Country Road - Bunkie Beach”
Inspirò profondamente, prese la busta e l’aprì.
 
“Gent.ma sig.na Rebecca Bonner, ho il piacere di informarLa che lei è stata ammessa alla “Scuola di Protezione per Streghe Bianche Prescelte AMTARA”.
La convocazione per le studentesse del primo anno è prevista per il giorno quindici settembre alle ore sedici davanti al cancello d’ingresso della scuola.
Tutti i libri e il materiale necessari all’anno di studi sono disponibili gratuitamente presso il nostro Istituto, il quale garantisce a tutte le Prescelte vitto e alloggio per tutto l’anno scolastico.
Lieta di poterla annoverare tra le nostre privilegiate studentesse e in attesa di fare la Sua conoscenza, Le porgo i miei migliori saluti.”
Professoressa Dana Collins – Preside di AMTARA
 
Rebecca posò la lettera.
Ecco, il momento che tanto aveva temuto era arrivato.
Rebecca era una Strega Bianca. Sua madre, Banita Presley, era morta due mesi prima a causa di una brutta malattia. Rebecca era vissuta sempre con lei da quando suo padre, uno Stregone di nome Anshir, era morto lasciandola orfana a soli due anni.
Banita aveva cresciuto da sola la loro figlia, insegnandole i primi rudimenti della Magia Bianca.
Quando Rebecca fu grande abbastanza, Banita aveva capito che era arrivato il momento di dirle tutta la verità.
Un pomeriggio, mentre fuori un tremendo temporale allagava il giardino e un forte vento sferzava con violenza i pini marittimi, Banita sedette sul divano accanto alla figlia. Rebecca stava leggendo un libro, cercando di scaldarsi al tepore del caminetto acceso.
“Tesoro, ti devo parlare.” Il suo sguardo serio allarmò Rebecca, che si affrettò a posare il libro e la fissò, in attesa.
Banita le rivelò il segreto della sua nascita, spiegandole che, molti secoli prima, le Streghe Bianche e le Streghe Nere avevano combattuto quella che veniva tuttora ricordata come la Guerra dei Due Mondi, per stabilire il predominio nel Mondo Magico.
Le Streghe Bianche avevano lottato fino allo stremo delle forze, riuscendo infine ad avere la meglio sulla Stregoneria Nera.
Dopo il conflitto, il Mondo della Magia Bianca aveva vissuto lunghi anni di pace e prosperità, seppur a caro prezzo. Moltissime Streghe Bianche avevano perso la vita nella guerra e nessuna avrebbe mai dimenticato quei sanguinosi anni. Ogni Strega Bianca sapeva di dovere la vita alle sorelle morte in battaglia.
Ma la pace non era durata a lungo.
Molto presto, le Streghe Nere avevano ripreso ad attaccare e uccidere le Streghe Bianche, gettando il Mondo della Magia Bianca nel più totale sconforto, avendo fino ad allora nutrito la convinzione di aver sconfitto ed eliminato per sempre la Magia Nera.
Stavolta fu anche peggio, perché ora le Streghe Nere attaccavano anche i figli e le figlie delle Streghe Bianche, fino ad allora risparmiati.
Il mondo della Magia Bianca non riusciva a spiegarsi da dove provenisse l’orda di Streghe Nere che, di punto in bianco, aveva fatto ritorno nel loro mondo. Né tantomeno riusciva a spiegarsi il motivo di tanta ferocia contro la loro progenie.
Fino a quel momento si era sempre trattato di Magia Bianca contro Magia Nera. Le Streghe Nere si erano sempre accanite contro le Streghe Bianche, ma mai nessuna aveva attaccato i loro figli.
Le Streghe Bianche, del tutto prese alla sprovvista, inorridirono quando i primi omicidi dei loro figli furono perpetrati. Stavolta le Streghe Nere sembravano accese da una follia mai vista prima. Una luce malvagia brillava nei loro sguardi. Non risparmiavano nessuno e si accanivano con ferocia sia sui figli sia sulle madri che, nel disperato tentativo di proteggerli, morivano sotto i loro colpi mortali.
Fu una carneficina senza precedenti. La Guerra dei Due Mondi non poteva essere minimamente paragonata a quanto stava accadendo ora. I figli delle Streghe Bianche erano vittime sacrificali immolate sull’altare di un odio antico, ma rivolto alle loro madri.
Molte furono le Streghe Bianche che, sopravvissute ai loro figli, non ressero il peso del dolore e scagliarono Incantesimi mortali contro se stesse. Solo una madre può comprendere il vuoto e l’abisso che la morte della propria creatura lascia nel suo cuore. Molte sono le madri coraggiose che affrontano questo peso atroce e continuano a vivere. Ma per alcune Streghe Bianche il peso della colpa ricadde come un macigno su di sé. Si addossarono la colpa di quella carneficina, inspiegabile e atroce.
Fu infine una Strega Nera a rivelare la verità al mondo della Magia Bianca. O, perlomeno, a lasciare un piccolo ma significativo indizio.
La Strega Nera aveva attaccato una giovane Strega Bianca e il suo bambino di otto anni.
La povera madre non era riuscita a difendere il figlioletto, che era caduto, privo di vita, tra le sua braccia.
Disperata, lanciò un grido sovrumano, lanciandosi come una furia contro l’assassina.
“Perché state facendo questo? Perché?” – urlò con quanto fiato aveva in corpo, lanciando Incantesimi come una forsennata, che l’abile nemica riusciva a schivare con estrema facilità, con un ghigno diabolico dipinto sul viso deforme.
“Per il nostro padrone. Il Demone Supremo, Posimaar.” – fu la risposta.
Il sorriso malvagio della sua nemica fu l’ultima cosa che la Strega Bianca, di nome Anna, vide, prima di cadere sotto il suo ultimo terribile Incantesimo.
La Strega Nera non poteva certo immaginare che Anna sarebbe miracolosamente uscita illesa dal suo attacco. Credendola morta, se ne andò.
Anna si risvegliò parecchie ore dopo. Fu soccorsa e curata dalle ferite magiche riportate nel duro scontro e poté così raccontare quello che la Strega Nera le aveva rivelato.
Non era molto, in realtà, ma perlomeno ora si sapeva che il mandante delle Streghe Nere era un Demone. Un Demone dal nome strano, che mai nessuno prima di allora aveva mai nemmeno sentito nominare.
Chi era questo Demone Supremo che aveva risvegliato la Magia Nera?
Qual era il motivo del suo odio contro la Magia Bianca?
Cosa voleva dalle Streghe Bianche?
Il Consiglio Superiore di Stregoneria Bianca, presieduto da Calì Amtara, aveva svolto  approfondite ricerche su di lui, senza risultato. Il suo nome non compariva nei libri di storia e la sua nascita non era registrata da nessuna parte. Naturalmente, Posimaar doveva essere un soprannome o qualcosa del genere. Era praticamente impossibile risalire alla sua vera identità.
Mentre il numero della vittime delle Streghe Nere aumentava a dismisura, il Consiglio si rese conto che era necessario un intervento immediato per impedire lo sterminio delle Streghe Bianche e la conseguente fine del Mondo della Magia Bianca.
Calì Amtara convocò una seduta straordinaria, durante la quale propose di affidare il compito di difendere i figli e le figlie delle Streghe Bianche alle Prescelte: si chiamavano così le giovani Streghe nate dall’unione di una Strega Bianca con uno Stregone. Ogni Prescelta, dalla nascita, possedeva il dono dell’Antiveggenza, era cioè in grado di prevedere eventi futuri.
Il fatto curioso era proprio che le Streghe Nere stavano annientando le Streghe Bianche, ma nessuna aveva torto un solo capello alle Prescelte.
Le Prescelte costituivano una minoranza nel mondo della Magia Bianca. Molte Streghe Bianche avevano creato una famiglia con uomini privi di poteri magici. Erano sempre meno le Streghe Bianche sposate con autentici Stregoni. Anche per questo, e in virtù del loro particolare dono, le Prescelte erano considerate un prezioso tesoro da custodire e proteggere.
Furono in molti a domandarsi il motivo per cui il misterioso Demone Supremo aveva risparmiato le Prescelte. Paura del loro potere? Poter vedere in anticipo il futuro costituiva indubbiamente un problema per il nemico. Con le Prescelte le Streghe Nere non avrebbero avuto vita facile come con le Streghe Bianche e i loro figli.
Fu proprio questa convinzione che spinse Calì Amtara a credere che le Prescelte fossero le uniche in grado di  fermare gli attacchi delle Streghe Nere. Fino ad allora Posimaar le aveva risparmiate. Ma nessuno conosceva i suoi piani. Presto il Demone avrebbe potuto attaccare anche le Prescelte e trovare un modo per arginare il loro potere, finendo per avere la meglio anche su di loro.
E allora il mondo della Magia Bianca sarebbe stato irrimediabilmente perduto. Questa era la più grande paura di Calì Amtara. Il loro destino era nelle mani delle Prescelte.
Ma la sua proposta incontrò molti dissensi in sede consiliare.
“Le Streghe sono troppo giovani.” – affermò qualcuno.
“Non hanno l’esperienza necessaria.” – disse un altro.
“E’ troppo pericoloso.”- sentenziò un terzo.
Dopo ore di discussione, a seguito della quale Calì Amtara cominciò ad avvertire un cerchio alla testa, la proposta fu messa ai voti e approvata con una conditio sine qua non: Calì Amtara avrebbe dovuto istituire una scuola preposta all’istruzione e all’addestramento delle Prescelte, che le avrebbe accolte al compimento del diciottesimo anno di età e avrebbe avuto la durata di tre anni, al termine dei quali ciascuna sarebbe stata assegnata dal Consiglio stesso ad un Protetto o una Protetta (così erano chiamati i figli delle Streghe Bianche).
Fu così che il Consiglio fondò la Scuola di Protezione di Amtara, che prese il nome dalla sua Presidentessa.
 
Rebecca aveva ascoltato il racconto di sua madre in silenzio. Solo quando finì di parlare, cominciò a comprendere il significato di quello che le aveva appena raccontato: Banita era una Strega Bianca e Anshir uno Stregone.
Sgranò i suoi occhi azzurri, guardando sua madre in cerca di una conferma.
“Proprio così.” – rispose Banita annuendo.“Sei una Prescelta, e molto presto riceverai la lettera di ammissione ad Amtara.”
“Ma io non so se sarò in grado …” – protestò debolmente.
“Certo che sarai in grado.” – la interruppe sua madre con un largo sorriso. “Ce l’hai nel sangue.”
 
Tre anni dopo l’istituzione di Amtara, il numero degli omicidi era notevolmente diminuito e questa fu la conferma per Calì Amtara che la sua idea si era rivelata vincente.
Ciononostante, le perdite rimanevano numerose e a volte le stesse Prescelte perdevano la vita.
Non era un gioco. Le Prescelte non avevano scelta, esattamente come le Streghe Bianche. Si trattava di una lotta senza precedenti, qualcosa in cui, loro malgrado, erano coinvolti tutti. Ma la cosa peggiore era combattere contro un nemico sconosciuto, senza conoscerne il motivo.
Questo era ciò che più faceva infuriare Rebecca ogni volta che ci pensava. Ma quando accennava il discorso a sua madre, Banita la distoglieva dai suoi pensieri per farla concentrare sullo studio.
Sì, perché da quando aveva rivelato la verità a sua figlia, Banita era diventata un’insegnante intransigente. Nell’attesa che la figlia diventasse maggiorenne per poter essere ammessa ad Amtara, aveva deciso di anticipare i tempi e cominciare a tramandare alla figlia tutti gli Incantesimi che conosceva. Voleva che Rebecca arrivasse preparata quanto più possibile alla Scuola di Protezione.
Era vero quello che le aveva detto, ce l’aveva nel sangue e credeva fermamente che la figlia avrebbe svolto il suo compito egregiamente. Tuttavia, in fondo al suo cuore, sapeva che questo non sarebbe bastato. Stavolta avevano di fronte un nemico pericoloso, senza scrupoli, che non si fermava nemmeno di fronte alla vita di ragazzini e ragazzine innocenti. I suoi piani, quali che fossero, dovevano essere ben precisi e Banita aveva paura per Rebecca. Pur sapendola forte e coraggiosa, l’idea che la figlia avrebbe dovuto combattere contro un nemico sconosciuto e chissà quanto potente, la spaventava.
Banita era sola. Anshir se n’era andato e lei aveva giurato di proteggere Rebecca facendole da padre e da madre. Ogni volta che guardava la figlia, si diceva che aveva fatto un buon lavoro.
Rebecca era dolce e gentile, ma allo stesso tempo forte e determinata. Era molto difficile riuscire a distoglierla da un proposito, quando si metteva in testa di portarlo a termine.
Banita ammirava queste sue doti ma ora aveva paura che il coraggio della figlia, da solo, non sarebbe bastato.
Per questo divenne intransigente con lei, obbligandola a ore e ore di studio alle quali, inizialmente, Rebecca si oppose con ostinazione.
“Che motivo c’è mamma?” – ribatteva contrariata. “Presto riceverò la lettera. Imparerò tutto là. Perché devo iniziare adesso?”
“Rebecca” – replicava sua madre paziente – “ Questo non è un gioco. Amtara non è una scuola qualsiasi. Il nostro mondo sta vivendo forse il periodo peggiore di tutta la sua storia. Abbiamo a che fare con qualcosa di grande e pericoloso, cui non sappiamo nemmeno dare un nome. Se il progetto di Calì Amtara non funzionerà, sarà la fine, per tutti noi.”
“Ma….”
“Non voglio sentire scuse o lamentele. Sai bene quanto io tenga a te. So che darai il meglio di te ad Amtara ma, tesoro, desidero prima insegnarti tutto ciò che conosco. Anche se ora ti sembrerà inutile, un giorno forse questi Incantesimi potranno salvarti la vita.”
A quelle parole Rebecca non aveva saputo ribattere.
Banita, intuendo il suo disagio, le mise le mani sulle spalle, in un gesto protettivo.
“Tuo padre se n’è andato. Io sono qui per te, amore mio, ma non so fino a quando. Se mai dovesse succedermi qualcosa, voglio avere la certezza di aver fatto tutto ciò che era in mio potere per tramandarti tutto quello che so. Non potrei mai perdonarmelo….”
Rebecca aveva alzato gli occhi celesti nei suoi. “Mamma, cosa dici? Cosa mai dovrebbe succedere?”
Banita aveva sorriso. “Niente, tesoro. E’ solo che non voglio avere rimpianti.”
 
Così, Rebecca aveva ceduto. Si mise di buona lena a studiare i libri di Banita, per diverse ore al giorno, sacrificando splendide giornate di sole durante le quali, pensava frustrata, avrebbe potuto scendere alla spiaggia e divertirsi. Poi cominciò ad esercitarsi con la pratica, aiutata da sua madre che, Rebecca non lo aveva mai notato prima, era una combattente eccellente e schivava i suoi colpi con abilità da maestro.
Rebecca ripensava spesso alle sue parole.
Perché mai Banita pensava che sarebbe potuto accaderle qualcosa? Forse la verità era che non aveva mai del tutto superato la morte di suo padre. E ora che tutto era cambiato, aveva paura per lei. Cosa avrebbe fatto Rebecca senza sua madre? Come avrebbe affrontato Amtara da sola, senza nessuno a sostenerla? Era davvero pronta per una cosa tanto più grande di lei?
In fondo, lei era una semplice Strega Bianca. Certo, aveva le Premonizioni, anche se fino ad allora non le erano sembrate poi così utili. Forse perché, fino adesso, la sua vita non si era rivelata particolarmente eccitante. La verità era che Rebecca si sentiva una Strega qualunque, anche se si era ben guardata dal confidarlo a sua madre. Sapeva che le Prescelte erano un tesoro prezioso per tutti.
Per tutti, meno che per lei.
Sì, forse ora avrebbero davvero potuto essere utili ai Protetti. Forse era davvero arrivato il momento di dimostrare che non erano Streghe qualunque.
Ma era davvero così? In fondo, lei era solo una ragazza come tante, che aveva sempre vissuto in una casa vicino alla spiaggia. Cosa conosceva davvero della Magia Bianca? Non aveva mai combattuto contro nessuno. Tutto quello che conosceva di una guerra era la storia di quella dei Due Mondi, raccontata dalle vecchie generazioni e tramandata fino a loro affinchè sapessero, affinchè non dimenticassero, affinchè il sacrificio delle Streghe Bianche rimanesse vivo nel ricordo.
 
Fu con questi cupi pensieri che arrivarono i 18 anni.
Il tempo passava, inesorabile, e lei non avrebbe potuto fermarlo.
Ancora pochi mesi e poi tutto sarebbe cambiato per sempre. La sua vita, le sue giornate, il suo futuro. Tre anni di studio per andare forse incontro alla morte.
“Basta, devi smettere di pensarci.” – si imponeva, scuotendo con decisione la testa.
Non aveva alcun senso indugiare su pensieri tanto malsani.
D’altro canto, aveva forse un’alternativa? No. Tutto era stato deciso per lei, e per tutte le altre Prescelte.
Già, le altre Prescelte.
Rebecca non ne aveva mai conosciuta una. Forse, dopotutto, non sarebbe stato tanto male. Avrebbe fatto amicizia. Si sarebbe divertita, forse. Magari le lezioni si sarebbero rivelate perfino piacevoli. E poi, con tutto quello che aveva studiato a casa con sua madre, non si sarebbe fatta trovare impreparata.
Sì, doveva convincersi che tutto sarebbe andato bene. Non sarebbe stata da sola, dopotutto. C’era sua madre. E avrebbe finalmente trovato delle nuove amiche.
 
Nel mese di gennaio accadde qualcosa che fece dimenticare a Rebecca qualunque preoccupazione su Amtara e Posimaar.
Banita si ammalò.
Per uno strano scherzo del destino, le parole di sua madre su una sua possibile dipartita si rivelarono purtroppo profetiche.
All’inizio Rebecca pensò che Banita fosse solo stanca. Le lunghe lezioni di Incantesimi dovevano essere state impegnative tanto quanto lo furono per lei.
Purtroppo, con il passare dei giorni, entrambe si resero conto che si trattava di ben altro.
Alla fine Banita fu costretta a letto.
Rebecca consultò diversi medici, i quali espressero tutti la medesima diagnosi. Il morbo aveva attaccato diversi tessuti, tanto da diventare incurabile e a sua madre non restavano che pochi mesi di vita. Un anno, forse, con un po’ di fortuna e le cure adeguate.
Rebecca era annientata. Trascorse i mesi più difficili di tutta la sua vita, durante i quali si dedicò totalmente a Banita. Le dava le medicine, la vegliava durante la notte, le preparava i pasti, anche se sua madre aveva perso del tutto l’appetito ed era ormai l’ombra della donna forte e vitale che era stata un tempo. Rebecca inghiottiva in silenzio le lacrime, cercando di non pensare al momento in cui sarebbe rimasta sola.
Ripensò alle sue parole pronunciate solo pochi mesi prima, come una profezia. Possibile che sua madre sentisse dentro di sé che sarebbe giunta presto la sua fine? Sapeva in qualche modo che l’avrebbe lasciata sola, come aveva fatto suo padre molti anni prima?
E così, il peggiore dei suoi timori sarebbe diventato realtà. Proprio adesso che aveva più bisogno di lei. Proprio adesso che il fatidico giorno stava per arrivare.
Cosa avrebbe fatto? Come avrebbe affrontato tutto quello che l’attendeva?
Il terrore si impossessava di lei ogni volta che ci pensava. Ma Rebecca si costringeva, con uno sforzo sovrumano, a distogliere la mente per dedicarsi totalmente a sua madre.
Non sapeva quanto tempo sarebbe rimasta con lei. Le previsioni mediche erano incerte. Banita peggiorava di giorno in giorno. Sarebbe potuto succedere da un momento all’altro.
La vegliava giorno e notte, addormentandosi sulla poltrona accanto al suo letto, ignorando il dolore alla schiena e il mal di testa. Se fosse successo mentre non era accanto a lei, non se lo sarebbe mai perdonata.
Trascorsero così quei primi mesi dell’anno, finchè la primavera lasciò il posto ad un inizio d’estate afoso e soffocante.
Banita ormai parlava a stento, soffocando violenti colpi di tosse che la colpivano a più riprese ogni volta che apriva bocca. Per Rebecca era una sofferenza inaudita vederla così. Si maledì anche solo per averlo pensato, ma a volte pregava in cuor suo che venisse posta fine a quel dolore inutile. Che senso aveva ormai? Non aveva alcuna speranza. Solo un miracolo avrebbe potuto salvarla, un miracolo nel quale Rebecca non credeva più. Ci aveva sperato, all’inizio, prima che il morbo si impossessasse del suo fragile corpo. Per un certo periodo aveva quasi pensato che i medici si sbagliavano, perché sua madre era forte e avrebbe superato anche questa.
Ma molto presto fu costretta a fare i conti con la realtà. Era stanca…. Stanca di quelle giornate interminabili, stanca di quella poltrona logora che l’aveva accompagnata in tante notti insonni, stanca dei lamenti di Banita, del dolore che provava e dinanzi al quale si sentiva totalmente impotente. Era annientata, sconfitta.
Era solo una piccola Strega Bianca, la cui stupida Magia non sarebbe servita a salvare sua madre.
Non aveva avuto alcuna Premonizione sulla sua malattia. Ma se anche fosse accaduto, cosa avrebbe potuto fare? Avrebbe forse potuto cambiare il destino?
No.
Al diavolo la Magia.
Al diavolo le Premonizioni.
E al diavolo Calì Amtara e la sua stupida idea.
 
Era il 15 giugno. L’estate era arrivata con largo anticipo e Rebecca aveva spalancato tutte le finestre di casa, cercando di portare un po’ di frescura nella stanza dove Banita dormiva tranquilla.
Aveva passato una notte serena. Non si era svegliata nemmeno una volta e Rebecca, dopo molto tempo, era riuscita a riposare un po’.
Scese per una colazione veloce, approfittando del fatto che sua madre stesse ancora dormendo, tendendo l’orecchio al minimo rumore. Ingurgitò velocemente una tazza di latte con i cereali e poi tornò di corsa di sopra.
Entrò in camera e si accorse che Banita era sveglia.
Aveva profonde occhiaie ed era visibilmente dimagrita, ma i suoi occhi brillavano di una strana luce. Una luce che Rebecca vedeva per la prima volta, da quando si era ammalata.
“Mamma, cosa c’è?” – chiese in un soffio.
Banita cercava, a fatica, di sollevarsi sul cuscino. Corse in suo aiuto e la fece sedere con la schiena appoggiata al cuscino.
“Non ti devi affaticare.”
“Devo parlarti.” – disse Banita con voce roca.
“Di cosa? Mamma, non voglio che ti stanchi. Sei molto pallida.”
Si allarmò. Sua madre sembrava preda di un’agitazione improvvisa, mai vista prima. Eppure, aveva dormito tutta notte, senza emettere nemmeno un lamento.
“Ti senti male?”
Banita scosse la testa a più riprese.
“No no, mi devi ascoltare.” – rispose, con una punta di irritazione nella voce.
“Va bene mamma, ti ascolto, ma ti prego stai tranquilla.”
Rebecca sedette sulla poltrona accanto a lei e quel gesto sembrò tranquillizzarla.
Banita allungò una mano e Rebecca la prese tra le sue. Poi, la mano risalì sul suo volto, per imprimervi una leggera carezza.
A quel tocco, Rebecca deglutì, cercando di ricacciare indietro le lacrime.
“Non piangere.” – le sussurrò.
“Come posso, mamma?” – rispose con rabbia, asciugandosi gli occhi col dorso delle mani.
“Io sarò sempre con te.”
“Sì, proprio come papà, vero?”
Si pentì immediatamente di quelle parole.
Distolse il viso da lei, vergognandosi un po’.
Sapeva quanto era stato difficile per sua madre crescerla da sola. Era crudele ora parlarle in quel modo. Ma non poteva farne a meno, perché la verità era che sarebbe rimasta da sola, né più né meno.
“So quanto ti è mancato.” – riprese Banita. La sua espressione era dolce. Non c’era traccia di risentimento sul suo volto. “Ma non è di questo che voglio parlarti, ora. C’è qualcosa che devi sapere, prima che io me ne vada.”
 
Venti minuti dopo, Rebecca era paralizzata dallo stupore. Pensò seriamente che sua madre non fosse in sé.
Delirava.
Sì, non c’era alcun dubbio.
Tutto quello che le aveva appena raccontato doveva essere frutto della sua fantasia. I farmaci, la malattia, le notti agitate e insonni passate a lamentarsi per colpa di quel maledetto dolore fisico che ora sembrava essersi portato via anche la sua salute mentale.
Non c’era altra spiegazione.
Sua madre era impazzita.
 
“Stai mentendo.” – disse gelida.
“Credi davvero che potrei farlo?” – mormorò Banita esausta. “Nelle mie condizioni?”
“Eppure, stando a quanto dici, è quello che hai fatto finora.”
Banita ammutolì.
Rebecca strinse i pugni, respirando pesantemente.
Era arrabbiata.
Non avrebbe voluto sentire una sola parola di tutta quella storia.
Tutto quello che voleva era riavere una madre in salute e la vita di prima.
Tutte cose che non sarebbero tornate mai più.
“Sì, è vero. Non ti ho detto la verità. Ma solo perché pensavo che non fossi pronta.”
“Oh. E adesso invece lo sono?” – esclamò Rebecca furiosa. “Ora che stai per andartene per sempre, ora che rimarrò sola per il resto della mia vita… ORA è il momento giusto?”
Le sue labbra tremavano e quando vide una lacrima spuntare negli occhi di sua madre non riuscì più a trattenere il pianto.
“Ho sbagliato.” – mormorò Banita. “Ma non c’è più tempo. Devi promettermi che imparerai ad usarlo. Dovrai esercitarti a lungo, ma è necessario…”
“Per quale ragione?”
Gli occhi di Banita si inchiodarono nei suoi. “Perché questo fa di te una Strega speciale.”
“Credevo che tutte le Prescelte fossero… speciali.”
“Tu di più.”
Banita inspirò a fondo, con uno sforzo sovrumano, come se i polmoni si rifiutassero di riempirsi di quell’aria tanto benefica.
“Promettimelo.”
“Perché? A cosa mi servirà?”
“Al momento giusto lo saprai.”
Rebecca fece una smorfia. “Non è una risposta che posso accettare, mamma. Non puoi uscirtene così, di punto in bianco, con tutta questa storia e impormi la tua volontà. Lo capisci? Ho bisogno di sapere.”
“No, hai bisogno solo di fidarti di me.”
“Fidarmi dopo questo?”
Banita puntò gli occhi nei suoi. “Sì, figlia mia. Devi fidarti di me.”
Rebecca non distolse lo sguardo. Era ancora arrabbiata, Banita lo sapeva.
Ma sua madre stava morendo.
Sospirò, chiudendo gli occhi.
“Perché me lo hai detto solo adesso?”
“Perché sto per morire.”
“Avresti dovuto dirmelo prima. Avresti dovuto aiutarmi ad usarlo, se ci tieni così tanto. Ora mi chiedi qualcosa che non so nemmeno se sarò in grado di fare.”
“Ci riuscirai.”
“Non l’ho mai fatto. Non l’ho mai usato. Possibile che non ti renda conto di quello che mi stai chiedendo?”
Rebecca ora piangeva.
Banita si sollevò un po’ di più sul cuscino.
“Tesoro, non eri pronta. Non ancora. Ne hai passate così tante…. La mancanza di tuo padre, la scoperta di essere una Prescelta. Non me la sono sentita di gravarti anche di questo peso. Ma adesso non c’è più tempo. E’ una cosa che fa parte di te. Ti rende speciale. Ed è essenziale che tu lo comprenda.”
Rebecca alzò lo sguardo.
“E’ pericoloso?” Ora la sua voce era calma, misurata.
Banita sorrise. “No. Fa parte di te. Questa sei tu. Non avere paura di quello che sei…. Non averne mai.”
Rebecca abbassò lo sguardo.
“Devi promettermelo. Prometti che lo farai. Prima di entrare ad Amtara dovrai averlo imparato alla perfezione.”
Rebecca sgranò gli occhi. “Mancano solo 3 mesi!”
“Per questo dovrai lavorare sodo.”
Rebecca sospirò, posando la mano sulla fronte. Come diavolo avrebbe fatto in così poco tempo? E poi, per quale dannata ragione?
Era inutile. Sua madre non le avrebbe spiegato altro. Dalla fermezza del suo sguardo capì che era irremovibile. La durezza e la determinazione che vi leggeva sembravano quasi aver cancellato un po’ i segni lasciati dalla malattia. Doveva essere qualcosa di importante, altrimenti Banita non avrebbe insistito tanto. E anche se Rebecca non capiva, anche se era ancora arrabbiata con lei, anche se tutta quella dannata storia che era la sua vita ormai non aveva più alcun senso per lei, come avrebbe potuto dirle di no?
Era sua madre, sangue del suo sangue, la persona che si era sempre presa cura di lei.
Dirle di no sarebbe stato come ucciderla prima del tempo. E lei sarebbe riuscita a vivere con quel rimorso per il resto dei suoi giorni?
Una promessa era una promessa. Avrebbe dovuto mantenerla, anche dopo la sua morte. Non l’avrebbe mai tradita. Anche se sarebbe stata dannatamente sola. Anche se non aveva idea di come accidenti avrebbe fatto.
Le girava la testa. Perché la sua vita doveva essere così maledettamente difficile? Perché non poteva tornare bambina, quando non aveva altri pensieri che giocare e stare tutto il tempo con sua madre? Da quando, esattamente, le cose erano precipitate in quel modo assurdo?
“Rebecca, promettimi che lo farai.”
La voce di Banita la riportò bruscamente alla realtà.
Non aveva scelta.
Doveva fidarsi di lei. Anche se questo significava aggiungere un ulteriore problema da risolvere alla lunga lista…
Probabilmente se ne sarebbe pentita amaramente. O forse, un giorno, l’avrebbe ringraziata per questo. Solo il futuro le avrebbe dato la risposta.
“Va bene mamma. Te lo prometto.”
 
Il resto della giornata trascorse apparentemente tranquilla. Banita si addormentò a più riprese e Rebecca potè dedicarsi alla casa, sbirciando di tanto in tanto in camera per controllare il suo stato di salute.
Fu alla sera che tutto precipitò, così velocemente che, in seguito, Rebecca faticò a ricordare come fosse accaduto.
Banita cominciò a delirare, agitandosi furiosamente nel letto, in preda a lancinanti dolori.
Rebecca chiamò subito il medico, che rimase in camera con lei a lungo.
Rebecca aspettava fuori, al colmo dell’angoscia. Non sentiva più alcun rumore provenire dall’interno della stanza, ma non era sicura che fosse un buon segno.
Quando il medico aprì la porta, le bastò guardarlo negli occhi per capire.
Il dottore scosse piano la testa, con aria affranta.
Non c’era bisogno di parole.
Rebecca aveva capito.
 
Le rimase accanto per tutto il tempo, guardandola dormire tranquilla. Il calmante somministrato dal medico doveva essere molto potente.
Infine, si addormentò sulla poltrona.
Quando si svegliò, il mattino dopo, il sole era già alto.
Il corpo senza vita di sua madre giaceva immobile accanto a lei, il viso disteso in un’espressione di nuovo serena.
Banita se n’era andata per sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Prove generali ***


Capitolo 2
“PROVE GENERALI”    
 
I mesi seguenti furono un inferno, perché al dolore per la perdita di Banita si aggiunse il pensiero della sconcertante rivelazione che le aveva fatto in punto di morte. Rebecca si tormentava giorno e notte, dilaniata dalla rabbia e dal dolore. Soffriva terribilmente per la perdita di sua madre ma, allo stesso tempo, provava una rabbia cieca al pensiero di quel segreto che le era stato celato tanto a lungo.
Adesso, lentamente, tutti i pezzi del mosaico cominciavano ad andare a posto.
“Mamma, io da dove vengo?” – aveva chiesto allegra a sua madre, un giorno di molti anni prima. Doveva avere non più di quattro o cinque anni.
“Che significa da dove vengo?” – aveva risposto Banita sorridendo.
Rebecca aveva indicato l’incavo del suo polso destro:“Da una stella?”
Banita l’aveva fissata seria, per un istante. “Sì, una stella molto lontana.”
Rebecca aveva sgranato gli occhioni azzurri. “Davvero? E come si chiama?”
“Si chiama proprio come te.”
“Una stella col mio nome?!” – aveva esclamato, fuori di sé dalla gioia.
Mucchi di bugie, una dopo l’altra. Era molto piccola, è vero, ma Banita aveva avuto tante altre occasioni, in seguito, per dirle la verità. Era pur vero, pensò Rebecca con un improvviso senso di colpa, che lei stessa non aveva mai fatto domande in proposito. Non aveva mai chiesto cosa significasse quel piccolo simbolo che sia lei che sua madre avevano sul polso destro.
Una piccola voglia, di colore blu, a forma di stella. Aveva sempre pensato si trattasse di una semplice coincidenza.
Che stupida.
Adesso, più ci pensava, più si rendeva conto che avrebbe dovuto capire. La stella era assolutamente perfetta, quasi il disegno di un artista esperto e dalla mano ferma.
Non poteva essere una coincidenza. Doveva esserci qualcosa di più.
Eppure, Rebecca non avrebbe mai immaginato che nascondesse un potere magico. Forse anche perché sua madre non l’aveva mai usato.
Almeno, non davanti a lei.
Ripensò alle sue parole. “Questa stella nasconde un grande Potere, un Potere che solo io e te possediamo. È sufficiente toccarla, mentre pronuncerai il nome del posto in cui vorrai andare, e lei ti condurrà lì.”
Rebecca aveva corrugato la fronte. “In che modo?”
“Io lo chiamo Spostarsi”. – aveva risposto Banita.
“Spostarsi?”
“Una sorta di orbitazione. Potrai viaggiare da un posto all’altro nel giro di pochi secondi.”
Adesso la rabbia, pian piano, cominciava a svanire e Rebecca avrebbe tanto voluto avere sua madre ancora con sé. Avevano ancora così tanto da condividere.
La vita era ingiusta. Si era già portata via suo padre quando era piccola. Non ricordava niente di lui. Quando guardava le sue foto, Rebecca aveva l’impressione di vedere un estraneo.
Perché le era stata tolta anche sua madre? E perché proprio in un momento cruciale della sua vita? Pensava alle altre Prescelte, che sarebbero state accompagnate ad Amtara dai loro genitori. Loro, almeno, avevano qualcuno a cui appoggiarsi, un sostegno, qualcuno che li amava. Per lei, tutto questo non c’era più.
Era sola. E aveva paura. Paura di non farcela, paura di fallire, paura di farsi male. E soprattutto, paura di deluderla, perché era certa che Banita, ovunque fosse, non l’avesse abbandonata. La sentiva, in ogni momento, costantemente. Una presenza silenziosa e invisibile, ma c’era. Ne era certa. E si aspettava grandi cose da lei.
E se non fosse stata all’altezza delle sue aspettative? Se avesse fallito? Come avrebbe potuto continuare a vivere? Come avrebbe potuto guardarsi di nuovo allo specchio? E che ne sarebbe stato della sua vita?
Ma era una Prescelta, che le piacesse o meno.
Questo era il suo destino.
Non aveva scelta.
Doveva dare il massimo.
E non poteva permettersi di fallire.
 
Quella sera cenò tardi e poi si rilassò sul divano. Fuori, il vento si era placato e l’aria era tornata afosa e irrespirabile, nonostante il temporale di poche ore prima.
Sebbene avesse riposato pochissimo, i suoi sensi erano all’erta come quelli di un gatto. Rebecca rimuginava su quegli ultimi giorni. Dalla morte di sua madre, in realtà, non aveva combinato un granché. Inizialmente si era chiusa nel suo dolore, rifugiandosi in casa. Poi, a poco a poco, aveva ricominciato ad uscire, giusto il necessario per comprare qualcosa da mangiare e le piccole commissioni che non poteva tralasciare.
Era una fortuna che Banita l’avesse resa indipendente fin da subito. Ma, a parte le piccole incombenze quotidiane, Rebecca aveva trascorso la maggior parte del tempo ciondolando per casa e riflettendo sulla nuova scoperta. Si guardava continuamente il polso, con il terrore di toccarlo per timore che potesse accadere qualcosa di terribile. Stava evitando proprio quello che, invece, avrebbe dovuto fare da molto tempo ormai.
E i giorni passavano, inesorabili. Mancava poco meno di un mese al giorno in cui avrebbe dovuto lasciare Villa Bunkie Beach per raggiungere Amtara.
Se avesse aspettato ancora, non avrebbe mai imparato a Spostarsi. E non avrebbe certo potuto farlo ad Amtara, in mezzo alle altre Prescelte che non sapevano nulla del Potere e mai avrebbero dovuto saperlo. Banita era stata molto chiara: il segreto non doveva essere rivelato a nessuno. D’altro canto, Rebecca non aveva la minima intenzione di farlo, dal momento che non era nemmeno sicura di riuscire ad usarlo correttamente. E poi, a quale scopo raccontarlo a qualcuno? Non le sembrava qualcosa di così importante, dopotutto. E non si sentiva certo più speciale delle altre, nonostante quello che aveva detto Banita.
Immersa nel silenzio, la camicia che cominciava ad appiccicarsi alla pelle per il caldo, Rebecca prese la decisione. Non aveva senso continuare ad aspettare, e l’ulteriore attesa non avrebbe fatto altro che incrementare la paura.
Le sembrava perfino di vedere sua madre che la osservava in silenzio, con una profonda delusione dipinta sul volto. Aveva lasciato passare due mesi senza aver mosso un dito. Sentiva che Banita era lì, da qualche parte, e la stava guardando. Sapeva che non era orgogliosa di lei. Sapeva che, in qualche modo, l’aveva ferita.
Non era quello che le aveva promesso. Aveva giurato di farlo, ma poi la paura aveva preso il sopravvento.
Che senso aveva aspettare ancora?
Non sarebbe stato facile, certo.
Sarebbe stato pericoloso? Probabile.
Si sarebbe fatta male? Meglio non pensarci.
“Al diavolo!” – pensò.
Si alzò in piedi, di scatto. Il cuore cominciò a martellarle in petto, ma lo ignorò.
In fondo, cosa sarebbe potuto succedere di tanto grave? Era o no una Strega?
Fece un profondo respiro. Poi, con delicatezza, sfiorò piano la piccola stella.
“Alla spiaggia di Bunkie Beach.”  - disse.
Non sapeva di preciso come funzionasse la cosa. Sua madre non era entrata nei dettagli.
Restò lì a guardarsi il polso.
Non accadde nulla.
Perplessa, ci riprovò.
Stavolta premette con forza il pollice sinistro sulla stella.
“Alla spiaggia di Bunkie Beach.” – ripeté, in tono più deciso.
Funzionò. Fu risucchiata in un vortice e tutto attorno a lei cominciò a roteare così velocemente da darle la nausea. L’istinto le suggerì di chiudere gli occhi, mentre una forza invisibile e potente la trascinava via.
Era orribile, una sensazione mai provata prima. Era come stare in una lavatrice al livello massimo di centrifuga. Provò a riaprire gli occhi, ma si pentì immediatamente. Non distingueva nulla, solo una massa indistinta di oggetti e forme che non la finiva di roteare.
I residui della cena cominciarono a rimescolarsi nel suo stomaco. Si maledì mentalmente. Se lo avesse saputo, avrebbe saltato il pasto.
Ora capiva il motivo per cui sua madre le era sembrata tanto ansiosa. Questa era una cosa terrificante da gestire, e sicuramente la prospettiva di riprovarci non era per niente allettante.
Nel momento esatto in cui il suo stomaco stava per ribellarsi definitivamente a quella tortura, tutto finì. In un attimo, le vertigini cessarono. La paura si smaterializzò, subito sostituita dal panico, non appena Rebecca si accorse di trovarsi in acqua.
A giudicare dalla temperatura dell’acqua, piuttosto bassa nonostante fosse piena estate, doveva trattarsi dell’oceano. Rebecca era affondata per parecchi metri, quasi senza rendersene conto. Doveva essersi Spostata direttamente sott’acqua, invece che sulla spiaggia.
Quel pensiero la terrorizzò.
Aria. Aveva bisogno d’aria, o presto i suoi polmoni sarebbero esplosi. Il panico, di certo, non aiutava.
Disperata, cominciò a nuotare verso l’alto, pregando il cielo di riuscire a trattenere il respiro abbastanza a lungo. Si fece strada con ampie bracciate, spingendo al massimo sulle gambe, ignorando il dolore al petto.
“In alto. Guarda in alto. Concentrati su questo.”
Era un’impresa disperata, e lo sapeva. Era sempre stata una buona nuotatrice, ma non sapeva a che profondità si trovava e il senso di costrizione al petto stava diventando sempre più opprimente. Per quanto tempo ancora sarebbe riuscita a trattenere il fiato? Cominciava a girarle la testa, ma non poteva mollare. Non adesso.
Pensando a quanto sarebbe stato ridicolo morire così stupidamente, scalciò con più forza nelle gambe, pregando che la superficie dell’acqua non fosse così lontana.
“Ti prego, aiutami.” – pregò mentalmente.
Ora anche le gambe cominciavano a farle male e aveva dolori alle spalle per le potenti bracciate con cui, disperatamente, cercava di risalire in superficie.
Il suo bisogno di aria diventava sempre più urgente, ma non doveva pensarci. Non ancora. Se avesse aperto la bocca sarebbe stata la fine…
“Nuota. Nuota. Nuota.” Lo ripeteva nella sua testa come un mantra. E continuò a ripeterlo anche quando, senza nemmeno rendersene conto, il suo viso finalmente affiorò dalla superficie dell’acqua.
Tirò un respiro lungo e profondo, il più gratificante della sua intera esistenza. Il suo corpo si rilassò e Rebecca assaporò pienamente quella meravigliosa sensazione.
Aveva dolori ovunque, ma non le importava.
Inspirava ed espirava, come se fosse la prima volta.
Era inebriante.
Ce l’aveva fatta.
“Grazie, mio Dio.” – mormorò, con le lacrime agli occhi.
Non sarebbe morta. Perlomeno, non ancora.
Cercando di tenersi a galla tra le onde, si guardò attorno. Era buio pesto ed era impossibile calcolare la distanza dalla terraferma.
Poi, le vide.
Delle luci, in lontananza.
A quella distanza non riusciva a distinguere se si trattasse o meno di Bunkie Beach. Tecnicamente, se il suo Potere avesse funzionato, avrebbe indubbiamente dovuto trattarsi della sua spiaggia. Ma poteva anche essersi sbagliata ed essere finita chissà dove.
Poco male. In qualche modo sarebbe comunque riuscita a tornare a casa. Il problema, casomai, era riuscire a raggiungere la terraferma a nuoto.
Era spossata. Aveva dolori ovunque e non era così sicura di poter nuotare così a lungo senza difficoltà. Avrebbe sicuramente rischiato di annegare durante lo sforzo.
Ma che altra scelta aveva? Non poteva certo restare in alto mare tutta la notte. Sarebbe sicuramente morta assiderata.
All’improvviso, fu di nuovo assalita dal panico. Deglutì, sforzandosi di non pensare al peggio.
Non poteva morire così, dannazione. Doveva tornare a casa, in un modo o nell’altro.
Soffocando un’imprecazione, cominciò a nuotare in direzione delle luci, lentamente, per non affaticare il suo corpo già abbastanza provato.
Dopo cinque minuti, rallentò. Aveva il fiatone. Le onde erano aumentate e Rebecca cominciava a tenersi a galla con molta difficoltà. La stanchezza e i dolori ai muscoli non l’aiutavano di certo e l’affanno le impediva di respirare regolarmente.
Non sarebbe mai riuscita a raggiungere la spiaggia, in quelle condizioni.
Doveva nuotare più piano, dosare le bracciate, rilassare le gambe.
Ci riprovò, decisa ad impedire alla paura di prendere il sopravvento su di lei.
Non poteva morire così, accidenti. Doveva almeno provarci a salvarsi la pelle.
Nuotò a lungo, non seppe dire per quanto tempo. Minuti? Ore? Le spalle e le gambe le facevano male da morire e le luci sembravano ancora così lontane!
Si fermò un momento, per riprendere fiato e far riposare i muscoli, cercando di capire quanta distanza fosse riuscita a percorrere. La terra sembrava ancora tanto lontana…. Possibile che stesse andando così piano? Era stanchissima. Il freddo cominciava ad intorpidirle le gambe. Non poteva rischiare un crampo, non adesso.
“Dio, ti prego, non ora.”
Doveva ricominciare a muoversi, altrimenti il suo corpo l’avrebbe tradita. Non poteva permettere ai muscoli di raffreddarsi, o non sarebbe più riuscita a muoversi e, con ogni probabilità, sarebbe affogata.
Cercando di ignorare il panico che stava tornando ad impossessarsi di lei, ricominciò le sue lunghe bracciate.
Fu in quel momento che lo udì.
Un suono.
Tese l’orecchio. Erano cominciate le allucinazioni?
Lo udì, di nuovo.
Non c’erano dubbi, era il rumore dell’acqua che si infrangeva contro qualcosa. Una superficie dura, indubbiamente.
Forse una barca.
Si guardò intorno, ma era difficile riuscire a vedere qualcosa con quel buio pesto.
Poi, il suo cuore fece una capriola.
Poco distante da lei una debole luce illuminava una piccola imbarcazione. Qualcuno a bordo canticchiava una canzone. Poteva udire distintamente le parole.
Non era molto lontana. Sarebbe riuscita a raggiungerla senza problemi.
Rebecca aveva voglia di piangere.
Era salva.
Salva!
Con il cuore ricolmo di gioia cominciò a nuotare verso la barca.
 
Harry White, un anziano pescatore che viveva nei pressi di Bunkie Beach, era uscito in mare più tardi del solito quella sera. Sua moglie era rientrata tardi dal suo pomeridiano tè con le amiche, e avevano cenato tardi.
Appena finito di mangiare, Harry uscì subito di casa, avvisando la moglie che, probabilmente, dato l’orario, non sarebbe rincasato prima di mezzanotte.
“L’importante è che non torni a mani vuote.” – era stata la risposta.
“Tranquilla, tesoro, lo sai che i pesci mi aspettano, come sempre.”
Sogghignò. Quella era un’annata davvero favorevole per il suo lavoro. Le cose non erano mai andate meglio.
Harry era felice della sua vita serena e tranquilla. Bunkie Beach era il posto ideale in cui vivere, e lui e sua moglie non avrebbero voluto essere da nessun altra parte. Tranne che in estate, quando arrivavano i turisti. Ecco, quello era l’unico momento dell’anno in cui Harry avrebbe volentieri fatto le valigie per trasferirsi altrove. Ma non poteva. Il suo lavoro non glielo avrebbe permesso.
Per questo, in estate, trascorreva le giornate chiuso in casa, evitando accuratamente il caos e aspettando che la moglie tornasse dai suoi giri in paese con le amiche.
In questo erano molto diversi. A lei piaceva la compagnia. A lui no.
Forse per questo aveva scelto di fare il pescatore.
Era il momento migliore della giornata, quando saliva sulla sua piccola imbarcazione e scivolava via a pelo dell’acqua, lontano dalla terra, lontano dai pensieri, lontano dalle preoccupazioni.
Il mare era la cura migliore per qualunque male.
E lui era l’uomo più fortunato del mondo, perché con il mare ci lavorava, ed era un amico speciale, unico. Il mare non faceva domande, non chiedeva nulla. Gli donava quei pesci che gli permettevano di vivere serenamente e la pace interiore di cui aveva bisogno.
No. Il vecchio Harry White non aveva bisogno di altro per essere felice.
 
Quella sera, come sempre, partì verso il mare aperto. L’estate era ormai inoltrata, ma di notte, in mare aperto, faceva un po’ freddo. Prese la giacca e se la mise sulle spalle. L’ultima cosa che voleva era buscarsi un raffreddore.
Giunto ad una certa distanza dalla terraferma, gettò le reti e aspettò.
Passarono diversi minuti, durante i quali si udiva solo lo sciabordio dell’acqua contro l’imbarcazione e un motivetto che Harry era solito canticchiare mentre aspettava che i pesci arrivassero.
Era una canzoncina che aveva imparato da suo nonno, quando usciva a pesca con lui da piccolo. Harry non l’aveva mai dimenticata e ogni volta che andava per mare la cantava a bassa voce.
 
“Quando la rete getterai
Che bottino a casa porterai
Tutta la famiglia festa farà
Perché ancora una volta si mangerà!”
 
Sua moglie diceva che era una canzone stupida, ma a Harry non importava. Era un ricordo della sua infanzia, il legame più stretto che aveva con suo nonno.
Gli ricordava che la pesca era parte di lui. Suo nonno era un pescatore, così come suo padre. Harry non avrebbe potuto essere nulla di diverso.
I White la pesca ce l’avevano nel sangue.
 
“Aiuto!”
Harry sobbalzò.
Si guardò intorno, ma non vide nessuno. La spiaggia era troppo lontana perché quella voce provenisse da lì.
Perplesso, si rilassò. Doveva averlo solo immaginato.
“Per favore, mi aiuti!”
Per poco ad Harry non venne un colpo.
Spaventato, si tirò indietro d’istinto, quando vide qualcosa muoversi nell’acqua.
“Corpo di mille balene! Ma chi è?” – esclamò tutto agitato.
“Sono qui! Da questa parte!”
Harry afferrò la torcia e la puntò dritta verso il punto da cui veniva la voce.
Si trattava di una ragazza che annaspava faticosamente tra le onde.
Che diavolo ci faceva in mezzo al mare in piena notte?
“Dio del cielo, ma cosa ci fa lì?”
“La prego….. non ce la faccio più.”
Rebecca era ormai allo stremo delle forze.
Harry si sporse subito dalla barca, cercando di afferrarla, ma le sue mani scivolarono.
Sporgendosi di più, tese le braccia e riuscì ad afferrare la mano di Rebecca.
Con uno sforzo sovrumano, la tirò su, facendola cadere con poca grazie sul pavimento duro della barca.
Rebecca represse un grido di dolore. Si accasciò a terra, respirando rumorosamente.
Era salva. Finalmente quell’odissea era finita.
Piano piano, il respiro tornò regolare. Era scossa da brividi di freddo.
Harry se ne accorse, e le diede una coperta di lana.
Rebecca la prese e se l’avvolse attorno alle membra fradicie.
Alzò gli occhi e si accorse che quel vecchio signore, cui doveva la vita, la fissava incredulo.
Rebecca si lasciò sfuggire una risatina nervosa.
“Probabilmente si starà chiedendo cosa ci facevo in mezzo al mare….”
Harry si ridestò dal torpore.
“Beh, effettivamente…. La domanda viene spontanea. Aveva voglia di un bagnetto serale?”
Harry ridacchiò, nel timido tentativo di stemperare la tensione. Non gli era mai accaduta una cosa del genere. Forse quella ragazza non aveva tutte le rotelle a posto…
“Un bagnetto serale con i vestiti addosso?” – replicò Rebecca.
Harry rise. “No, forse no.”
Rebecca sorrise, imbarazzata. Cosa avrebbe dovuto dirgli? Che era una Strega con un Potere speciale e che si era di colpo materializzata sott’acqua nello stupido tentativo di imparare ad usarlo?
L’avrebbe riaccompagnata a terra e avrebbe chiamato un medico. Uno psichiatra, con ogni probabilità.
Sospirò, esausta. “E’ una lunga storia. E probabilmente non mi crederebbe.” – fu tutto quello che riuscì a rispondere.
“E io non farò domande. L’importante è che stia bene. Ma adesso è meglio se la riaccompagno a casa, o si prenderà una polmonite.”
“Già.” – rispose Rebecca, rabbrividendo. Aveva un bisogno disperato di un bagno caldo, di vestiti asciutti, di una tazza di tè bollente nel calore della sua casa.
Quel pensiero le riscaldò il cuore.
Rimase in silenzio mentre il vecchio pescatore tirava su le reti da pesca, con quello che aveva tutta l’aria di essere un ben magro bottino.
“Mi dispiace.” – gli disse.
“Oh, di solito va meglio. Ma non si preoccupi, non è la fine del mondo. Ora dobbiamo solo pensare a riportarla a casa. I pesci saranno qui anche domani.” Harry le sorrise.
“Io….. non so come ringraziarla.” – mormorò Rebecca, in evidente imbarazzo.
“Cosa avrei dovuto fare, secondo lei? Lasciarla in acqua?”
“No, certo che no.”
“Ho fatto quello che chiunque altro avrebbe fatto. Non mi deve ringraziare.”
“Sì. Resta il fatto che se lei non fosse stato qui, probabilmente sarei morta. Stavo cercando di raggiungere quella spiaggia laggiù.”
“Bunkie Beach?”
Rebecca sgranò gli occhi. “Quella è Bunkie Beach?” – mormorò allibita.
“Ma certo. Dove credeva di essere?” Harry ora la fissava, perplesso. Da dove veniva quella strana ragazza?
Rebecca stava riflettendo velocemente. Allora non si era sbagliata poi di molto. Per qualche oscura ragione, però, il Potere non aveva funzionato correttamente e si era Spostata appena qualche decina di metri più in là.
In mare aperto.
Sospirò, depressa. Avrebbe dovuto dare retta a sua madre e cominciare molto prima con le esercitazioni. Ora mancava solo un mese all’inizio della scuola e non aveva molto tempo per imparare padroneggiare il suo Potere.
Imprecò mentalmente contro di sé e la sua testardaggine.
Harry decise di non fare altre domande. Non ne avrebbe cavato un ragno dal buco e, dopotutto, cosa importava? Le aveva salvato la vita, questo è ciò che contava.
Sistemò i pochi pesci pescati, poi avviò il motore in direzione del porto.
Nessuno dei due parlò nel breve tragitto che li riportò a terra.
Harry l’aiutò a scendere dalla barca.
“Non per essere indiscreto, ma posso chiederle dove abita?”
“A Villa Bunkie Beach, proprio sopra la spiaggia.”
“Ah, allora anche lei è del posto.” – disse Harry sorpreso. “Prima mi era sembrato che non conoscesse la zona…”
“No, sono cresciuta qui.” – disse Rebecca sorridendo.
“Vuole che l’accompagni?”
“Non ce n’è bisogno.”
“Ne è sicura?”
“Ma sì, faccio due passi e sono a casa.”
“E’ sicura di stare bene?”
“Sì, la ringrazio.”
Era la verità. Ora che era finalmente di nuovo a terra, tutte le sue paure erano svanite.
“Beh, allora arrivederci.” Harry le tese la mano.
Rebecca la strinse tra le sue. “Non so davvero come ringraziarla. Grazie, grazie davvero.”
“E’ stato un piacere.”
La guardò allontanarsi lentamente.
Quella sera avrebbe avuto qualcosa di molto interessante da raccontare a sua moglie.
 
Rientrata a Villa Bunkie Beach, Rebecca si tolse in fretta i vestiti inzuppati e si immerse nella vasca da bagno.
Ci volle almeno mezz’ora prima che il calore penetrasse in ogni centimetro di pelle, fino a raggiungere le ossa. Purtroppo, l’acqua non servì a scacciare la sgradevole sensazione di essere una perfetta idiota. Tutto quello che sapeva, ora, era che sua madre non le aveva mentito. Il Potere era reale, e di certo funzionava. Il problema era riuscire a farlo funzionare correttamente.
Si pentì di aver perso così tanto tempo inutilmente. Se avesse cominciato subito, probabilmente ora sarebbe stata in grado di Spostarsi senza troppe difficoltà. La paura l’aveva frenata e, dopotutto, non si era rivelata vana. Rabbrividì al pensiero di cosa sarebbe successo se il vecchio pescatore non si fosse trovato lì. Qualcuno lassù aveva pensato a lei. Qualcuno….. forse era stata Banita a mandarle quell’uomo in suo aiuto. Anche se le aveva disobbedito, anche se aveva permesso alla paura di prendere il sopravvento, sua madre l’aveva protetta. Sì, le piaceva pensare che le cose fossero andate proprio così.
“Io sarò sempre con te.” Le aveva detto.
Rebecca non le aveva creduto, ma si sbagliava. Sua madre era sempre con lei. E quella notte glielo aveva dimostrato.
Non poteva arrendersi. Doveva riprovarci. Doveva farlo per lei.
E per se stessa.
Era ormai mezzanotte passata quando, sfinita, andò a dormire. Aveva davanti a sé ancora molti giorni per dedicarsi al suo Potere. Non li avrebbe sprecati.
 
Dormì fino a tardi. Quando si alzò, scoprì di avere dolori ovunque. Non c’era una singola parte del corpo che non le facesse male.
Si infilò la vestaglia e scese a fare colazione. Aveva urgente bisogno di carboidrati.
Scaldò del pane tostato, che spalmò con marmellata di arance amare e preparò un’abbondante tazza di caffelatte.
Mentre mangiava, valutò le diverse opzioni. Poteva provare a Spostarsi di nuovo alla spiaggia, ma la terribile esperienza appena vissuta la indusse a desistere. C’erano buone probabilità di ritrovarsi un’altra volta in mare aperto e stavolta non era sicura che un anziano pescatore fosse di nuovo lì pronto a raccoglierla dall’acqua.
Senza contare che era sabato e Bunkie Beach sarebbe stata troppo affollata. Anche nel caso in cui il Potere avesse funzionato correttamente, avrebbe avuto serie difficoltà a spiegare ai bagnanti la sua improvvisa apparizione dal nulla. Certo, questo discorso valeva praticamente per qualsiasi altro luogo. Bisognava trovare un posto poco affollato, ma in pieno agosto, in una cittadina di mare, sarebbe stata un’impresa impossibile.
Non aveva scelta, doveva correre il rischio.
Archiviata la spiaggia, le venne in mente che avrebbe potuto unire l’utile al dilettevole, provando a Spostarsi per fare la spesa al supermercato. Il frigo era quasi vuoto.
Perché no? Tanto valeva tentare.
Finì la colazione e salì a vestirsi. Indossò un paio di jeans, una leggera maglia in cotone e scarpe da jogging. Qualunque cosa fosse accaduta, almeno avrebbe avuto un abbigliamento comodo.
Le nuvole del giorno prima si erano quasi completamente diradate e un sole infuocato risplendeva nel cielo limpido. Anche quel giorno, la temperatura avrebbe superato i trenta gradi.
Come la sera prima, il cuore cominciò a batterle forte. Probabilmente ora era perfino peggio, perché sapeva esattamente a cosa andava incontro. Si domandò se lo stomaco, fresco di colazione, avrebbe retto alla pressione. Si era completamente dimenticata dell’orribile effetto che il Potere aveva avuto sul suo povero stomaco. Ma si era svegliata con una fame da lupi e non sarebbe mai riuscita ad affrontare quello che l’aspettava senza mangiare niente.
Forse sarebbe stato meglio aspettare un po’. Giusto il tempo di digerire….
“Questa scusa è pietosa, Rebecca. Puoi fare di meglio.” – si disse a voce alta.
Sghignazzò. Erano questi i primi sintomi della pazzia? Quando cominci a parlare da sola e ridere come una scema delle tue stesse battute?
Sedette sul letto e inspirò profondamente. Stavolta l’oceano era lontano. Non poteva accaderle nulla di male. Sarebbe andato tutto bene.
Abbassò gli occhi sul polso e lo toccò con decisione.
“Al parcheggio del Wingot!”
Chiuse immediatamente gli occhi e trattenne il fiato.
Il vortice la risucchiò di nuovo, come un tornado che trascina con sé tutto ciò che trova sul suo cammino e Rebecca, stavolta, non oppose resistenza. Si lasciò trasportare, avendo cura di non aprire gli occhi fino a quando non fosse stata sicura che l’incantesimo fosse finito. Aveva anche l’impressione che la nausea fosse più leggera. Forse cominciava già ad abituarsi. Questo pensiero la mise di buonumore.
Sentì che il vortice rallentava. Tuttavia, aspettò a riaprire gli occhi.
Poi, all’improvviso, un dolore lancinante al fondoschiena la costrinse a riaprirli. Qualcosa le cadde addosso e alzò istintivamente le braccia per proteggersi.
Imprecando a voce alta, Rebecca riemerse da un mucchio di scatole di cartone.
Si guardò intorno, incredula.
Aveva sbagliato di nuovo, maledizione.
Non si era Spostata nel parcheggio del supermercato, ma all’interno, direttamente sullo scaffale dei cereali per la prima colazione, che le erano appena rovinati addosso.
“Non ci posso credere” – mormorò tra sé, mentre alcuni clienti del supermercato facevano capolino nel corridoio, attirati dal rumore che aveva provocato.
Dandosi mentalmente dell’idiota, si alzò in piedi, con le scarpe che scricchiolavano sotto i cornflakes usciti dalle confezioni.
Abbozzò un sorriso alle persone, sempre più numerose, che la guardavano di sottecchi, incuriosite.
“Ehi, ma che diavolo è successo?”
Una voce emerse dal nulla.
Rebecca si voltò.
Un ragazzo con la faccia coperta di lentiggini la stava fissando. Indossava una maglietta con il logo del supermercato.
“Ahi ahi, guai in vista.” – pensò Rebecca.
Poi, lo sguardo del ragazzo cadde sulle confezioni di cereali sparse a terra.
“E’ stata lei a fare questo?” – le domandò, allibito.
“Mi dispiace.” – mormorò Rebecca, diventando paonazza.
Molti, troppi clienti si stavano godendo la scena divertiti.
Rebecca avrebbe tanto voluto sprofondare nel pavimento.
“Ma come ha fatto?”
“Beh…. Ecco…. Io….. volevo prendere una di quelle scatole là in alto ma….”
“E si è arrampicata sullo scaffale?” Il ragazzo la fissava con aria di rimprovero, facendola sentire come una scolaretta dinanzi al maestro. La situazione era a dir poco ridicola. Non aveva nulla di cui scusarsi, dopotutto.
“Sì.” – ammise a malincuore, sperando che il ragazzo si bevesse la storia.
Il giovane sospirò. “Poteva farsi molto male, signorina, lo sa?”
“Già.” – rispose Rebecca, cercando di ignorare il dolore al fondoschiena.
Ora che non c’era più nulla da guardare molti clienti tornarono ad occuparsi della spesa e Rebecca non se ne dispiacque. Era irritante sentire tutti quegli sguardi addosso.
“La prossima volta chiami un addetto al reparto. Saremo lieti di aiutarla e lei non rischierà di rompersi l’osso del collo.”
Rebecca abbozzò un sorriso. “D’accordo.”
“Ok. Ora sarà meglio che cominci a pulire questo disastro.”
Mortificata, Rebecca rimase a fissarlo mentre si accingeva a liberare il pavimento da tutte quelle scatole.
 
Rebecca decise di rimandare la spesa ad un altro momento, e uscì dal supermercato avviandosi verso casa.
Doveva ricominciare tutto da capo. Non aveva senso usare il Potere su distanze così grandi. Non era ancora pronta.
Decise che avrebbe cominciato ad esercitarsi in casa dove, sicuramente, non avrebbe corso alcun rischio.
Arrivata a casa mangiò un panino al volo, una mela e bevve una tazza di caffè. Aveva bisogno di riflessi pronti, per affrontare il pomeriggio di intenso lavoro che l’attendeva.
Cominciò subito. Prima si Spostò dalla sua camera a quella di sua madre. Poi dalla stanza di sua madre al bagno.
Funzionò.
Poi, tentò da un piano all’altro. Dal soggiorno alla camera e poi dalla camera alla cucina.
Alle cinque, aveva perso il conto delle esercitazioni.
Non ne aveva sbagliata neanche una. Certo, in casa era tutta un’altra storia. Ma questo significava che il Potere funzionava. E sarebbe stata solo questione di tempo, ma molto presto avrebbe funzionato ovunque. Rebecca adesso lo sapeva e questo pensiero la elettrizzava.
Prima di cena, volle tentare un piccolo esperimento. Se riusciva a Spostarsi in casa, allora perché non provare in giardino? Uscì nell’aria fresca del crepuscolo, ad una certa distanza dall’ingresso.
“Al soggiorno di Villa Bunkie Beach!”
Dieci secondi dopo era sdraiata sul divano, con un largo sorriso sulle labbra.
 
Quella sera cenò di buon gusto e andò a dormire presto. Era stanca, ma felice. In soli due giorni aveva fatto passi da gigante.
Era certa che per il 15 settembre sarebbe stata assoluta padrona del suo Potere.
Le successive tre settimane furono le più intense di tutta la sua vita. Si allenò duramente dalla mattina alla sera, facendo solo brevi soste per i pasti.
Fu estenuante. Ma ne valse la pena.
Ad appena una settimana dall’inizio della scuola, era in grado di Spostarsi quasi perfettamente da un posto all’altro. Cominciare da Villa Bunkie Beach le era stato di grande aiuto. Con il tempo prese la mano e raramente le capitava di sbagliare un colpo. Accadde poche volte, una delle quali si spaventò così tanto che si rinchiuse in casa per due giorni senza più riprovarci.
Accadde un venerdì. Nel tardo pomeriggio aveva deciso di fare un po’ di jogging sulla spiaggia. Il sole stava tramontando e Bunkie Beach era pressappoco deserta.
Quello era il momento della giornata che Rebecca preferiva. Amava correre a piedi nudi sulla sabbia umida quando il sole moriva all’orizzonte, accendendo il cielo di mille colori, sentendo solo il suo respiro e il suono carezzevole della risacca.
Corse per mezz’ora, poi le venne l’idea di usare il Potere per tornare a casa. La spiaggia era ormai vuota. Era il momento ideale.
Passati i primi tempi in cui usarlo le provocava ancora ansia, ora cominciava a prenderci gusto. La cosa stava diventando divertente.
Pensandoci successivamente, a mente fredda, Rebecca si domandò se non fosse stata quella eccessiva fiducia nelle proprie capacità a farle commettere l’ennesimo passo falso.
Assicuratasi che nessuno la stesse guardando, si toccò il polso.
“A Villa Bunkie Beach!”
Tutto accadde in un attimo. La rassicurante certezza che di lì a pochi secondi si sarebbe ritrovata tra le familiari pareti di casa cedette il posto, in un battibaleno, al panico assoluto.
Rebecca inorridì quando scoprì di trovarsi su un ottovolante in corsa, per di più nel preciso istante in cui stava per lanciarsi nel primo di una serie di giri della morte.
Rebecca detestava l’alta velocità e tutto ciò che aveva a che fare con essa. Riusciva a malapena a tollerare il senso di vuoto che Spostarsi le provocava, ma riusciva a sopportarlo chiudendo gli occhi fino a quando la nausea non passava. E, in fin dei conti, quello era il suo Potere. Volente o nolente, doveva farci i conti.
Ma con le giostre, no. Rebecca evitava i luna park come la peste bubbonica. Non era mai riuscita a capire come la gente potesse divertirsi in posti simili. Il suo concetto di divertimento aveva ben altre fondamenta. Soffriva di vertigini e detestava il caos e i luoghi affollati.
Fortunatamente, si era Spostata proprio all’ultimo posto dell’ottovolante, così che nessuno si accorse della sua apparizione.
In preda al panico, senza avere nemmeno il tempo di pensare, si aggrappò con forza alle protezioni, un attimo prima che la giostra si lanciasse nei giri della morte.
Rebecca urlò con quanto fiato aveva in corpo. Urlò e urlò fino a quando non ebbe più forza nei polmoni.
Dopo quelle che sembrarono ore, la giostra finalmente si fermò.
Le protezioni furono sollevate e Rebecca si alzò sulle gambe tremanti, seguendo gli altri verso l’uscita.
Le veniva da vomitare.
Si abbandonò sulla prima panchina che trovò, pregando che lo stomaco non la tradisse proprio adesso, lì, in mezzo alla folla allegra di quel dannato luna park.
Si prese la testa tra le mani, pregando che smettesse presto di girare.
Respirò a pieni polmoni, sperando che questo l’aiutasse a riprendersi.
Doveva andarsene da lì e tornare a casa sulle sue gambe.
Perché era accaduto di nuovo?
Qualcosa non aveva funzionato, ma cosa?
Forse non si era concentrata abbastanza.
Forse aveva tralasciato qualche dettaglio? Scosse la testa. Impossibile. Non aveva commessi errori, ne era certa.
Più ci rimuginava sopra, meno ci capiva.
Venti minuti dopo, cominciò a sentirsi meglio. Si guardò intorno. Il luna park era pieno di famiglie con bambini. Poco lontano, un carretto di dolciumi distribuiva gelati e bibite fresche ai turisti accaldati. Aveva sete. Acquistò una bottiglietta d’acqua e la bevve tutta d’un fiato. Si sentì meglio. All’imbrunire, uscì dal luna park e tornò verso casa.
Non uscì di casa per due giorni. Sapeva che questa non era la soluzione. Le paure andavano affrontate al di fuori della propria zona di confort, come le aveva sempre detto Banita, non rifugiandosi in casa. Il problema era che non riusciva ancora a capire per quale assurda ragione si fosse Spostata al luna park. Non era un luogo vicino casa. Possibile che commettesse ancora simili errori? Si maledisse per non aver ascoltato subito sua madre. Se non avesse perso tempo e avesse cominciato subito ad allenarsi, forse ora le cose sarebbero state diverse.
Ma era del tutto inutile rimuginare sul passato. Doveva ricominciare, non c’era più tempo da perdere. Anche a costo di sbagliare ancora.
E lo fece. Da qualche parte dentro di sé trovò il coraggio di riprendere gli allenamenti. Stavolta non commise più errori e, con il passare dei giorni, la sua fiducia in sé aumentò sempre di più. Era orgogliosa di se stessa.
 
Il giorno della partenza si avvicinava sempre più. Presto avrebbe dovuto dire addio a Villa Bunkie Beach. Certo, non era esattamente un addio. Sarebbe tornata per le vacanze di Natale, anche se non riusciva a pensare a nulla di più deprimente che trascorrere il Natale da sola. E ci avrebbe trascorso le vacanze estive. Ma niente sarebbe più stato come prima.
Eppure, chissà, forse ad Amtara avrebbe stretto nuovi legami…. Forse non si sarebbe più sentita così sola. Le avrebbe fatto bene stare a contatto con le altre Prescelte, di questo ne era sicura. Meglio, indubbiamente, che rimanere tutto il giorno in quella casa vuota senza nessuno con cui parlare. All’improvviso, Rebecca si rese conto che era stato proprio il suo Potere ad averla distratta dai lugubri pensieri sulla morte di sua madre. L’urgenza di imparare ad utilizzarlo prima del suo arrivo a scuola aveva fatto sì che la sua mente rimanesse focalizzata su quello. Diversamente, era certa che sarebbe impazzita. Se non avesse avuto qualcosa su cui concentrarsi, avrebbe trascorso quei tre mesi a piangere e disperarsi per la morte di Banita. Si sentì intimamente grata per questo. Per la prima volta fu grata a sua madre per averle svelato il suo segreto solo in punto di morte. In qualche modo, senza saperlo, Banita l’aveva salvata da se stessa.
 
Amtara si trovava in un luogo sperduto, sulle rive di un fiume di nome Silos e a ridosso di una foresta. Calì Amtara in persona aveva provveduto a celarne l’ubicazione a possibili nemici, Streghe Nere e Posimaar in primis, attraverso Incantesimi di protezione noti solo agli insegnanti e alla preside. Era una roccaforte inespugnabile.
Pochi giorni prima della partenza Rebecca decise che l’avrebbe raggiunta con il suo Potere.
Sarebbe partita con largo anticipo, nella spaventosa eventualità che qualcosa non funzionasse a dovere. Era fiduciosa, ma meglio non rischiare di arrivare tardi il primo giorno di scuola…
 
La sera prima della partenza, Rebecca era sdraiata sul divano. Era tardi, ma non riusciva a prendere sonno. Era troppo agitata. Quella era l’ultima volta che avrebbe dormito nel suo letto caldo e comodo. Da domani tutta la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Mille domande affollavano la sua mente. Come sarebbe stata la sua camera? Con chi l’avrebbe condivisa? E se le compagne di stanza non le fossero piaciute? E se lei non fosse piaciuta a loro?
Con un sospiro, si mise seduta e lasciò vagare lo sguardo sulla sua casa. Il divano, il tavolo in cristallo, i soprammobili, le foto di mamma e papà. Ne aveva prese alcune e le aveva messe in valigia. Non poteva portarle via tutte o le sue compagne non avrebbero avuto spazio per i loro effetti personali. C’erano tante foto dei suoi genitori e altrettante di lei e sua madre. Rebecca ne aveva prese un paio per ciascuna. Voleva che fossero lì con lei, che l’accompagnassero silenziosi nel lungo viaggio che stava per intraprendere.
Quella era la sua casa, il posto in cui era cresciuta, il custode silenzioso di tutti i suoi ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. Il luogo in cui aveva conosciuto la Magia e quello in cui aveva appreso di non essere una Strega qualsiasi, ma una Prescelta. Una Strega il cui destino era segnato.
Da piccola sognava di fare grandi cose, di incontrare l’uomo dei suoi sogni, proprio come era accaduto a sua madre,  sposarsi e poi chissà… un giorno forse avere dei figli.
Adesso sapeva che difficilmente tutto questo sarebbe accaduto. Poteva considerarsi fortunata se fosse sopravvissuta alle Streghe Nere. Questo, al momento, era il massimo a cui potesse aspirare.
Banita le aveva sempre detto che essere una Prescelta era un grande privilegio. Forse aveva ragione, ma a volte, come quella sera, Rebecca si domandava se fosse davvero così. Ogni Prescelta portava sulle spalle un pesante fardello: le sorti della Magia Bianca. Erano davvero delle privilegiate? Certo, finora erano state le sole ad essere risparmiate dal Demone, forse proprio in virtù del loro potere speciale. Ma, in fin dei conti, anche loro avrebbero rischiato la vita, direttamente sul campo. La differenza, forse, era che non avevano scelta. L’ammissione ad Amtara non era un diritto, ma un dovere. Nessuno la metteva in questi termini, ma era la pura realtà dei fatti.
Si vergognò un po’ di quei pensieri. Sapeva che era la paura a parlare per lei. In fondo al suo cuore, Rebecca sapeva che non c’era ormai alcuna differenza tra le Prescelte e le altre Streghe Bianche, che venivano trucidate ogni giorno insieme ai loro figli. Come poteva pretendere di essere esclusa da tutto questo? Senza Streghe Bianche, la Magia Bianca sarebbe scomparsa e il suo stesso mondo sarebbe svanito in una bolla di sapone. Non ci sarebbero stati né mariti, né figli. Nessuna futura generazione per loro. Nessun futuro per lei.
Guardò l’orologio. Era mezzanotte passata. Aveva bisogno di una bella dormita, o il mattino dopo non sarebbe stata abbastanza lucida da utilizzare il Potere senza commettere stupidi errori. Non poteva rischiare di Spostarsi su un altro ottovolante, stavolta con valigie al seguito.
Salì in camera, per l’ultima volta. Si infilò nel letto sperando di addormentarsi presto e cercando di non pensare che, la notte seguente, avrebbe dormito altrove, molto lontano dal suo mondo ovattato e sicuro.
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Le gemelle ***



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Rebecca Bonner



Tutti i disegni che saranno pubblicati per questa storia sono di Lucciola67, che ringrazio ancora una volta per la preziosa collaborazione.



Capitolo 3
“LE GEMELLE”
 
Il mattino dopo Rebecca si alzò presto. Non aveva dormito molto, eppure era serena e pronta ad affrontare quella nuova avventura. 
S’infilò una tuta e scese alla spiaggia. Voleva assaporare per l’ultima volta quella sensazione che solo il mare riusciva a darle. Voleva udire ancora una volta il richiamo dei gabbiani, sentire la salsedine sulla pelle, il vento che sa di buono scompigliarle i capelli.
Camminò per un breve tratto, poi sedette sulla sabbia umida delle prime ore del mattino. Alzò gli occhi sopra l’orizzonte. Gli uccelli volteggiavano alti, poi scendevano in picchiata ad afferrare i pesci col loro becco adunco. Erano liberi, senza condizionamenti, senza costrizioni. Per un istante, Rebecca li invidiò.
Rimase seduta a lungo a godere di quella pace. Era ancora presto e la spiaggia era silenziosa. Nel giro di un’ora, i primi turisti della giornata avrebbero spezzato l’incantesimo. Questo era l’unico aspetto di Bunkie Beach che non aveva mai amato. Aveva la sensazione che le folle riuscissero in qualche modo a sporcare quello che considerava il suo mondo, pulito, semplice, ordinato, fatto di profumi buoni, di silenzio e di natura libera. Il mare era la sua vita, da sempre. Nessuno avrebbe mai dovuto sporcarlo, inquinarlo, oltraggiarlo. Rebecca aveva sempre pensato che fosse come violentare una parte di se stessi. Si era sempre sentita tutt’uno con la natura, credeva che l’uomo stesso fosse una sua creatura e che non avrebbe mai potuto esistere senza di lei. Non tollerava l’arroganza e la mancanza di rispetto, il modo in cui l’uomo si sentisse padrone del mondo e si arrogasse il diritto di distruggere tutto ciò che di bello gli era stato concesso, per la sua stessa sopravvivenza. Quanto riuscivano ad essere stupidi gli esseri umani…
Avrebbe voluto rimanere così per sempre, sedere in riva al mare a guardare la risacca, ascoltare il suono della natura e non udire niente altro, non preoccuparsi di nulla, non pensare a nulla…
Intuì di aver indugiato troppo a lungo quando udì delle voci. Si voltò e vide un gruppo di persone, armate di ombrellone e borse da spiaggia, venire nella sua direzione.
Sospirò. L’incanto era spezzato. Prima che potessero raggiungerla, si alzò e tornò verso casa.
Dopo pranzo, sistemò le ultime cose prima della partenza.
Quando tutto fu pronto, portò fuori la valigia e chiuse a chiave la casa.
Abbassò lo sguardo sulla polsiera che aveva deciso di utilizzare per coprire la stella. Ci aveva riflettuto a lungo, negli ultimi giorni. Probabilmente nessuno le avrebbe fatto domande su quello strano simbolo ma, almeno inizialmente, preferiva non correre rischi. Non aveva ancora pensato ad una risposta sensata e credibile da dare. Certo, avrebbe potuto dire di essersi fatta una tatuaggio, ma la verità era che temeva la sua totale incapacità di raccontare bugie. Fin da piccola, non era mai riuscita a tenere nascoste a lungo le sue marachelle a sua madre. Semplicemente, era una pessima attrice.
No, era meglio cercare di nasconderla. Meno persone l’avrebbero notata, meglio sarebbe stato per lei.
Sollevò la polsiera.
“Ad Amtara.” – disse, toccando forte la stella. Ormai la paura era un lontano ricordo. Si era Spostata così tante volte nelle ultime settimane, che nemmeno la nausea la spaventava più. Certo, non era mai una sensazione piacevole, ma Rebecca cominciava a pensare che, col tempo, anche quel leggero malessere sarebbe passato.
Quando riaprì gli occhi, si guardò intorno. Si trovava in un bosco, talmente fitto e con alberi così alti da lasciar passare appena i timidi raggi del sole. Era pieno giorno, ma l’ombra conferiva al posto un aspetto vagamente sinistro ed inquietante. L’unico suono che riempiva il silenzio era il frusciare degli uccelli che svolazzavano da un ramo all’altro. Uno scoiattolo attirò la sua attenzione, correndo tra le foglie sul terreno umido e arrampicandosi veloce sul tronco di un albero. Salì così in alto, che presto la sua figura si confuse tra il verde delle fronde.
“Lo sapevo.” – pensò con amarezza e una punta di panico. Ma non era il momento di perdere la calma. Aveva messo in conto che potesse accadere. Del resto, Amtara era molto lontana da Bunkie Beach. Troppo lontana, forse, per il suo Potere ancora così debole.
“La scuola dev’essere sicuramente qui vicino. Forse questa è la foresta di cui parlava mamma.”
Banita le aveva spiegato che Amtara si trovava in prossimità di un fiume e di un bosco. Avrebbe cercato il fiume.  Tutti i corsi d’acqua, prima o poi, sbucano da qualche parte. Se avesse trovato il fiume Silos, avrebbe trovato la scuola. O, perlomeno, la strada per arrivarci.
Rabbrividì. L’umidità del bosco era pungente. Guardò l’orologio. Aveva ancora tutto il tempo per orientarsi e trovare la via giusta. Era stata una mossa saggia quella di partire prima.
Decise di seguire quello che aveva tutta l’aria di essere un sentiero: delle foglie più schiacciate rispetto alle altre. Sicuramente qualcuno era già passato di qui. Rebecca si augurò che si trattasse di un essere umano e non di qualche creatura pericolosa. Banita non le aveva accennato nulla a quel proposito ma, in ogni caso, si sarebbe sentita molto più al sicuro una volta uscita da lì.
Afferrò la valigia e si mise in cammino.
Seguì il sentiero camminando per venti minuti, domandandosi dove la stesse portando. Non riusciva a sentire nessun rumore d’acqua che potesse indurla a pensare di essere in prossimità del fiume. E se stesse andando nella direzione sbagliata? Non c’era altro modo per scoprirlo se non andando avanti.
Dieci minuti dopo, finalmente, il bosco si aprì su una strada asfaltata. Rebecca, ormai esausta, trascinò la valigia sul ciglio della via. Si asciugò il sudore della fronte col dorso della mano e quando alzò gli occhi rimase a bocca aperta.
Dall’altra parte della strada c’era un grande cancello nero. Un lungo sentiero di ghiaia conduceva ad una maestosa costruzione in pietra.
Amtara.
Ce l’aveva fatta. Era arrivata.
Si guardò attorno, senza vedere anima viva. Controllò l’ora. Mancava ancora un po’. Attraversò la strada, per dare un’occhiata più da vicino.
L’imponente edificio le ricordava i magici castelli delle fiabe di cui Banita le raccontava sempre quando era bambina. La pietra era bianca, luccicante e le gigantesche guglie che s’innalzavano verso il cielo ricordavano le grandi cattedrali gotiche. Una piccola scalinata conduceva al portone d’ingresso e il giardino era adorno di siepi e aiuole.
Nel complesso, pensò Rebecca, il primo impatto era notevole. Aveva davvero tutta l’aria di una costruzione inespugnabile. Dunque, qui avrebbe trascorso i successivi tre anni della sua vita. Qui, avrebbe imparato a difendersi e a difendere. Da qui, sarebbe un giorno partita per la sua nuova vita. Sentì una fitta allo stomaco. Quanto avrebbe voluto che sua madre fosse lì con lei…
Sedette sulla valigia e aspettò.
Mezz’ora dopo il silenzio fu rotto dall’arrivo delle prime auto. Rebecca si alzò e si allontanò dal cancello, restando a guardare, incuriosita, l’improvviso andirivieni intorno a lei. Tutte le ragazze erano accompagnate dai familiari che, a suo modo di vedere, sembravano molto più agitati di loro. Parcheggiavano alla bell’e meglio sul bordo della strada (un parcheggio avrebbe indubbiamente fatto comodo) e scaricavano i bagagli parlando e gesticolando concitati. Le mamme si assicuravano che le figlie non avessero dimenticato nulla e non la smettevano di fare raccomandazioni.
Nell’eccitazione generale, Rebecca quasi non si accorse che il portone della scuola si era aperto e che una figura alta e magra stava venendo verso di loro. Si sporse per guardare. Era una donna di mezza età e indossava un austero abito nero e un ridicolo cappello a punta dello stesso colore. Solo quando fu abbastanza vicina, Rebecca notò il naso a punta e i grandi occhi scuri scrutare con aria severa i nuovi arrivati. D’un tratto, s’era fatto silenzio. La sola presenza della donna aveva di botto zittito tutti. Rebecca non faticava ad immaginarne il motivo. L’aspetto non era certo dei più rassicuranti.
Quando fu certa di aver catturato l’attenzione generale, la donna si schiarì la voce.
“Benvenute ad Amtara. Il mio nome è Dana Collins e sono la preside di questa scuola. State per entrare in quella che sarà la vostra nuova casa per i prossimi tre anni. Al vostro ingresso vi consegnerò personalmente la chiave della vostra stanza. Avrete tutto il tempo per disfare le valigie e sistemare le vostre cose. La cena sarà servita alle diciannove in punto nella Sala da Pranzo al piano terra. Potete salutare qui le vostre famiglie.”
“Ma come? Non possiamo accompagnarle?” Rebecca, come tutti, si voltò in direzione della donna corpulenta che aveva fatto la domanda. Accanto a lei, quella che doveva essere sua figlia, arrossì fino alla radice dei capelli.
Dana Collins, senza scomporsi, la guardò. “Ho paura di no, signora. Non oggi.”
“Ma…” – protestò la donna.
“Un’ultima cosa.” – proseguì la Collins ignorandola e tornando a rivolgere la sua attenzione al gruppo di fronte a lei. “Le vostre compagne più grandi stanno facendo lezione. Siete quindi pregate di non fare troppo rumore, per non disturbarle. Ora, se volete seguirmi.”
Si allontanò a passo spedito in direzione del portone e ci fu un tramestio generale in cui tutti si affannarono a salutarsi in tutta fretta. Nessuno voleva suscitare le ire della preside e Rebecca impiegò diversi minuti prima di riuscire a mettersi in coda insieme alle altre, mentre i genitori, man mano, risalivano in macchina e ripartivano.
“Non preoccuparti, tesoro, andrà tutto bene.” – disse la donna corpulenta alla figlia. “Verrò presto a trovarti.” A Rebecca non era sfuggita la sua espressione offesa, a seguito della secca risposta della Collins. Sinceramente, non riusciva a darle torto. Le premesse erano tutt’altro che rincuoranti.
Mentre camminava piano oltre il cancello, Rebecca notò due ragazze bionde che abbracciavano una donna bassa e tarchiata, coi capelli striati d’argento.
“Mi raccomando, scriveteci!” – la sentì dire.
“Tutte le settimane.” – rispose la ragazza col caschetto. Rebecca si accorse che la sola cosa che differenziava le due sorelle era il taglio di capelli. Una, leggermente più bassa rispetto all’altra, li portava piuttosto corti, mentre la sorella li aveva lunghi e mossi. I lineamenti del viso, fini e delicati, erano identici.
“Dai Barbara, muoviamoci.” – la sollecitò la ragazza più alta.
Un uomo alto, con capelli e baffi grigi, si allontanò dalla sua auto bordeaux e corse ad abbracciare le figlie.
“Ciao papà!” – dissero in coro.
Poi, con bagaglio al seguito, si accodarono al gruppo.
Quando entrò, Rebecca rimase colpita dal netto contrasto dell’interno con l’esterno. L’unica fonte di luce proveniva dalle torce appese alle pareti. L’atrio era molto buio e il silenzio spettrale faceva quasi pensare di trovarsi in chiesa.
D’istinto, Rebecca pensò a Villa Bunkie Beach, al chiarore della sua casa, al camino acceso, al panorama mozzafiato. Non riusciva a credere che avrebbe dovuto vivere in un luogo del genere!
Alzò gli occhi. Il soffitto era altissimo e sulle pareti c’erano dei rosoni raffiguranti donne con i capelli lunghi e la pelle candida. Sì, sembrava decisamente una chiesa.
Davanti a loro, una serie di porte chiuse, una delle quali più grande delle altre, sopra cui c’era scritto: “Sala da Pranzo.” Poco più in là, un’ampia scalinata nera conduceva ai piani superiori.
La Collins stava sfogliando un grosso volume, con aria meditabonda. Rebecca la fissò, domandandosi quanto avrebbe impiegato per la consegna delle chiavi. La passeggiata fuori programma nel bosco l’aveva stancata da morire, unitamente all’attesa fuori dal cancello. Aveva bisogno di cambiarsi e mettersi comoda. Il suo umore non era dei migliori. Non era stato molto piacevole vedere le altre arrivare con i genitori e restare a guardarle, sentendosi un’aliena. Faceva molto più male di quanto non fosse disposta ad ammettere.
“AAAAHHHH!!!”
Rebecca trasalì. Tutte si voltarono, terrorizzate.
“Guarda dove metti i piedi, Strega!”
Rebecca, inorridita quanto le sue compagne, fissò a bocca aperta il fantasma che, con aria indispettita e borbottando tra sé, si stava allontanando. Era una figura femminile che ricordava quelle dipinte sui rosoni, con lunghi capelli blu, che le arrivavano fino ai piedi, e gli occhi a mandorla. Indossava una veste bianca quasi trasparente, sotto la quale si intravedeva il corpo etereo e sottile.
Rebecca notò una ragazza che tremava come una foglia. Doveva essere quella che aveva gridato.
“Che cosa è successo?” – domandò qualcuno.
“E’ passata attraverso il mio corpo.” – rispose la giovane, senza smettere di tremare. “Ho sentito un freddo improvviso e quando mi sono girata ho visto qualcosa di bianco uscire dal mio stomaco. Oh, è stato orribile.”
“Ma che cos’era?” – domandò una ragazza.
“Non ne ho proprio idea.” – pigolò l’altra, sull’orlo delle lacrime.
La Collins, che aveva assistito alla scena, le si avvicinò silenziosa.
 “Stai bene?” – le chiese.
La ragazza annuì, anche se Rebecca avrebbe giurato il contrario: era più bianca del fantasma che l’aveva appena trapassata così impudentemente.
“Professoressa … ehm …cos’era quella … cosa?” – chiese una Strega con voce incerta, marcando l’accento sull’ultima parola.
“Una fata.” – fu la risposta. “O meglio, il fantasma di quella che un tempo è stata una fata.”
Tutte la guardarono costernate e Rebecca si rese conto solo in quel momento di essere l’unica a conoscere uno dei segreti di Amtara. Evidentemente, non tutte le madri erano state precise e dettagliate nella descrizione della scuola come Banita.
“Anticamente questo edificio era abitato da fate.” – spiegò la Collins. “Erano talmente legate a questo posto che non vollero abbandonarlo nemmeno dopo la morte. Il Consiglio ha contrattato a lungo con loro, per ottenere il permesso di fondare qui la scuola, ritenendolo ovviamente il luogo più idoneo per il nostro progetto.” Sospirò. “Non è stato facile, ma alla fine ci hanno concesso l’autorizzazione.”
“Quindi… vivremo qui, con loro?”
A Rebecca non sfuggì il tono allarmato della domanda.
“Naturalmente.” – rispose la preside, come se si trattasse della cosa più ovvia del mondo.
Tutte la fissarono, interdette.
“Non vi faranno alcun male.” – rispose la Collins dinanzi ai loro volti increduli. “Fate solo attenzione a dove mettete i piedi. E non disturbatele per nessun motivo.”
Detto questo, evidentemente considerando chiuso l’argomento, tornò al suo registro.
Ma non ebbero il tempo di metabolizzare la notizia, che subito una nuova presenza attirò la loro attenzione. Un gruppo di piccoli ometti buffi avanzava verso di loro. Avevano guance rosee e paffute, cappelli a punta rossi, pantaloni dello stesso colore e giubbe verdi.
Sotto gli occhi stralunati delle Streghe e senza dire una parola, presero i bagagli di ciascuna e li portarono di sopra, apparentemente senza il minimo sforzo.
Rebecca soffocò una risata.
“E quelli, invece, che cosa sono?” – chiese la stessa Strega di prima.
“Sono Gnomi, signorina.” – replicò la Collins, con l’aria di chi cominciava ad averne abbastanza delle domande.
Di nuovo, Rebecca ebbe la sensazione di essere l’unica a conoscere la verità.
 “Gli Gnomi di Amtara,” – spiegò la preside, “lavorano in cucina, in giardino e tengono pulito il castello. Sono assolutamente straordinari, lavoratori instancabili dotati di una forza fuori dal comune. Si prenderanno cura di voi e mi aspetto che li trattiate col dovuto riguardo.”
Le fissò per qualche istante con aria severa, come a sincerarsi che avessero colto il messaggio.
“Ora, possiamo cominciare l’appello. Vi chiamerò ad una ad una per verificare che ci siate tutte e vi darò in consegna la chiave della vostra stanza.”
 “Angela Garrett.”
Una ragazza con lunghi capelli neri e il naso a patata avanzò timorosa. La Collins le consegnò la chiave e le indicò le scale.
“Arianna Corner.”
Rebecca guardò la ragazza coi capelli rossi prendere la sua chiave e seguire Angela sulle scale.
“Jessica Apple.”
Cinque minuti dopo, Rebecca era rimasta sola con le due sorelle bionde e poche altre.
“Brenda Lansbury.” – chiamò la Collins.
La giovane con i capelli lunghi si fece avanti.
“Barbara Lansbury.”
Dietro di lei, la sorella con i capelli corti.
“Rebecca Bonner.”
Rebecca sussultò e fece un passo avanti.
“Questa è la chiave della tua stanza.”– le disse la preside, porgendole una grossa chiave dorata. “La numero 49, al terzo piano.”
“Grazie.” Afferrò la chiave e si congedò. Era piuttosto pesante ed era talmente grande che si domandò che razza di porta avrebbe mai dovuto aprire.
Arrivata al terzo piano, attraversò un lungo corridoio poco illuminato. Camminò svelta, leggendo i numeri sulle porte, come se si trovasse in un hotel.
Infine, la vide. L’ultima porta sulla sinistra. Inserì la chiave nella serratura ma quando abbassò la maniglia quella non si aprì.
“E’ aperto.” – disse una voce dall’interno.
Rebecca alzò un sopracciglio, rendendosi conto solo in quel momento di aver chiuso la porta, invece che aprirla. Girò la chiave dalla parte opposta e quando aprì si trovò davanti le due sorelle bionde.
“Oh.” – mormorò, sorpresa.
“Ciao!” – la salutò allegra la ragazza con i capelli corti. “Io sono Barbara.”
Sedeva su uno dei due letti di fronte alla finestra e si alzò per stringerle la mano.
“Piacere, Rebecca. Rebecca Bonner.” – disse, ricambiando la stretta di mano.
“Ti ho vista, poco fa. Eri sola.”
“Ehm… già.” L’osservazione la prese in contropiede e non seppe cosa rispondere.
“Ciao, io sono Brenda.” – si presentò l’altra, porgendole la mano. Rebecca notò il calore dei suoi occhi grigi e la delicatezza dei lineamenti. I capelli le ricadevano morbidi intorno al viso.
“Vi somigliate davvero tanto.” – disse, stringendole la mano.
“Gemelle.” – disse Brenda.
“Eterozigote.” – spiegò Barbara.
“Capisco.” – disse, abbozzando un sorriso imbarazzato.
“Quale letto preferisci?” – le chiese Barbara.
Rebecca esitò. Avevano messo le valigie sui due letti davanti alla finestra.
“Oh, non abbiamo ancora deciso.” – puntualizzò Barbara, seguendo la direzione dei suoi occhi.
“Questo qui andrà benissimo!” – rispose Rebecca, indicando il letto vicino alla porta.
“Sei sicura?”
“Certo.” Afferrò la valigia che gli Gnomi avevano lasciato accanto al comodino e l’aprì. Lo sguardo indagatore di Barbara, per qualche motivo, la metteva in imbarazzo ed era grata di aver qualcosa da fare per sfuggirlo.
“Da dove vieni?” – le chiese Brenda, tornando a sistemare i suoi abiti nell’armadio.
“Bunkie Beach.” – rispose, voltandosi appena.
“Oh sì, lo conosco!” – esclamò Barbara. “Ci siamo state una volta in vacanza. E’ un posto fantastico. Un sacco di bella gente, feste a tutto andare. E il mare è semplicemente spettacolare! Beata te che ci abiti!”
Rebecca rise. “Mi fa piacere che qualcuno apprezzi la vita mondana, anche se non è esattamente il mio genere.”
“Ah no?” Un’ombra di delusione passò sul viso di Barbara.
“No. Sono più un… lupo solitario.”
“Se ti può consolare, anch’io.” – disse Brenda. “E’ mia sorella che ama il casino. Comunque dev’essere bello vivere vicino al mare.”
“Sì, sono molto fortunata. Voi di dove siete?”
“Viviamo in città. Si sta bene, abbiamo tutte le comodità, solo che in estate il più delle volte si scappa via.”
“Troppo caldo, eh?”
“Altroché!”
“Che ti sei fatta al polso?”
La domanda cadde su Rebecca come un fulmine a ciel sereno. Aveva appena cominciato a rilassarsi, lieta di avere qualcosa di cui parlare che l’aiutasse a stemperare la tensione, quando Barbara aveva notato la polsiera.
Istintivamente, nascose il braccio destro dietro la schiena, pur sapendo che non era una mossa saggia. Se voleva assumere un atteggiamento indifferente, si sarebbe dovuta comportare di conseguenza.
“Niente di grave. Sono caduta.”
“Oh, mi dispiace.”
Rebecca scosse la testa. “Solo una piccola slogatura. Passerà.”
Con suo immenso sollievo, Barbara non aggiunse altro.
 
Quando ebbero finito di disfare le valigie, si diedero una rinfrescata, aspettando il momento di scendere a cena.
“Sai, quando i nostri genitori ci hanno detto di Amtara, non riuscivamo a crederci.” – disse Barbara. “Voglio dire, abbiamo sempre saputo che mamma era una Strega e babbo uno Stregone e fin da piccole abbiamo avuto entrambe delle Premonizioni. Una volta Brenda ebbe la visione di un nostro compagno di scuola investito da un’auto. I suoi genitori da allora non hanno mai smesso di ringraziarla.”
“L’hai salvato?” – chiese Rebecca ammirata.
“Appena in tempo.” – rispose Brenda.
“Il fatto è” – riprese Barbara. “che non riesco a capire come, in soli tre anni, pensano di insegnarci a difendere i Protetti.”
“Questo lo sapranno loro, no?” – rispose Brenda, con una punta di sarcasmo che non sfuggì a Rebecca.
“Beh, mi spiace tanto doverlo puntualizzare, ma non tutti i Protetti sopravvivono. E nemmeno le Prescelte.” – rispose Barbara in tono secco.
“Il tuo ottimismo è confortante, cara sorella.”
“Dico solo che forse tutto questo non è abbastanza. Tu cosa ne pensi?” – aggiunse poi rivolta a Rebecca.
Rebecca la guardò. “Beh, a dire la verità, mi sono fatta la stessa domanda molte volte.”
Le dava una certa consolazione il fatto di non essere la sola a nutrire dei dubbi.
“Mamma è molto preoccupata per noi.” – disse Brenda, seria. “Non crede che questa sia la soluzione giusta per salvare la Magia Bianca. All’inizio non voleva nemmeno che venissimo qui.”
“Davvero?” – esclamò Rebecca meravigliata. “ Non sapevo si potesse scegliere.”
“Infatti non si può.” – confermò Brenda.
“Lei e papà hanno avuto una lunga discussione.” – spiegò Barbara. “Mamma voleva chiamare la Collins e far intervenire anche il Consiglio, se necessario. E’ stata molto dura convincerla.”
“Come ci siete riusciti?”
“Abbiamo cercato di farle capire che le nostre Premonizioni sono l’ultima possibilità per le Streghe Bianche.” – disse Brenda. “Senza di noi, tanti saluti alla Magia Bianca.”
Un silenzio carico di tensione seguì quelle parole e Rebecca desiderò all’improvviso che avessero parlato d’altro.
“Ad ogni modo,” – disse Barbara rompendo il silenzio, “ormai siamo qui e ci tocca ballare, giusto?”
“Già.” – mormorò Rebecca.
Non le era di nessun conforto sapere che qualcuno avrebbe voluto opporsi alla decisione di Calì Amtara. Si trattava di una madre, era comprensibile che fosse in ansia per le sue figlie. Ma questo riportò a galla i tanti dubbi e le insicurezze che l’avevano dilaniata negli ultimi tempi.
Quando scesero a cena, aveva completamente perso l’appetito.
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Demetra ***



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Brenda Lansbury


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Barbara Lansbury






Capitolo 4
“DEMETRA”
 
Quando Rebecca e le gemelle entrarono in Sala da Pranzo, i posti erano quasi tutti occupati e gli Gnomi stavano già servendo le portate correndo come forsennati da una parte all’altra. Rebecca notò una lunga serie di tavoli rotondi, destinati alle allieve, e una lunga tavolata rettangolare davanti alla porta finestra, dove sedevano gli insegnanti.
Trovarono un tavolo, poco distante da quello dei docenti, occupato da alcune ragazze del secondo anno. C’erano tre posti liberi.
“Possiamo?” – chiese Barbara a una di loro.
“Certo.”
Sedettero e aspettarono l’arrivo degli Gnomi. Rebecca provò quasi un moto di compassione per loro. Erano così piccoli che perfino i vassoi sembravano più grandi di loro e la Sala era così piena che sfrecciavano da un tavolo all’altro senza sosta. Per un attimo si domandò se quella mole di lavoro non fosse eccessiva per degli esseri così minuscoli.
“Ho una fame da lupi!” – esclamò Barbara, allungando il collo verso un vassoio traboccante di gamberoni che uno Gnomo stava servendo ai professori.
Due minuti dopo, due Gnomi raggiunsero il loro tavolo con un piatto colmo di antipasti e una teglia di lasagne al ragù. Non ebbero nemmeno il tempo di finire le lasagne che videro spuntare uno Gnomo con un vassoio enorme di risotto ai funghi.
Quando fu servito il branzino alla griglia con contorno di patate arrosto e gamberi alla fiamma, Rebecca non aveva più spazio nemmeno per una briciola di pane. Mentre fissava, con un certo disgusto, Barbara che si gettava a capofitto sul pesce, pensò che nemmeno sua madre le aveva mai cucinato tutto quel bendiddio. Se questi erano i pasti normali ad Amtara, nel giro di tre anni avrebbe raggiunto il doppio del suo peso.
Si rilassò sulla sedia osservando di sottecchi i professori.
Una donna minuta, con i capelli neri e occhiali spessi che nascondevano due occhietti da topo si stava riempiendo il piatto di gamberi e patate, mentre parlava ad un uomo con i capelli grigi e l’aria assente, che non sembrava particolarmente interessato all’argomento.
Accanto a loro sedeva una donna giovane, con corti capelli corvini che non parlava con nessuno e consumava la sua cena guardandosi pigramente intorno.
Al centro della tavola sedeva la preside; alla sua destra, una signora anziana con una folta chioma bionda e il viso solcato da profonde rughe e, al suo fianco, un uomo con i capelli neri e folte sopracciglia, dall’aria arcigna.
“Dove sono gli altri professori?” – chiese alla ragazza seduta accanto a lei.
La giovane la guardò smarrita. “Quali altri professori?”
“Sono solo cinque?” – replicò Rebecca esterrefatta.
“Certo. Qui si studiano solo cinque materie.”
“Solo cinque?” – ripetè Brenda, sorpresa.
“Non ve l’hanno detto?” La ragazza e le sue compagne risero.
“No.” – rispose Brenda, un po’ offesa da quella reazione.
“Allora non sarà così dura come temevamo.” – disse Barbara allegra rivolta a Brenda.
“Fossi in te non ci giurerei.” – disse la ragazza, frenando il suo entusiasmo. “Vedete la vecchia bionda?” – aggiunse indicando la donna anziana.
Brenda e Barbara annuirono.
“E’ Ignatia Poliglotter, insegnante di Lingue Demoniache. L’anno scorso se n’è uscita con un compito in classe a sorpresa alla fine dell’anno. E’ stato un disastro e ha rovinato la media dei voti a tutte.”
La ragazza parve crudelmente bearsi degli sguardi delusi e preoccupati delle nuove arrivate.
“E la Rudolf è anche peggio.” – continuò la Strega.
Rebecca seguì il suo sguardo e capì che si riferiva alla donna con gli occhiali.
“E’ l’insegnante di Protezione. L’anno scorso una della nostra classe, Demetra, si è azzardata a chiederle di ridurci i compiti, perché avevamo già molto da studiare per Lingue Demoniache e Gestione Antiveggenza.”
“E lei cos’ha fatto?” – domandò Barbara, ingoiando un boccone di gamberetti.
La ragazza si girò a guardarla, con espressione seria.
“Ci ha dato altri compiti e ha bocciato Demetra.”
“Che cosa!?” – esclamò Brenda facendosi paonazza. Una patata le era andata di traverso e per poco non si strozzò.
“Ha fatto gli esami di recupero, ma non li ha passati.” – spiegò la ragazza. “La Collins ha scritto una lettera ai suoi genitori dicendo che non sarebbe mai diventata una Prescelta.”
“L’hanno mandata a casa!?” – esclamò Barbara.
La ragazza annuì, con aria solenne.
Rebecca fissò la torta al limone e il gelato alla crema con salsa al lampone che uno Gnomo le stava servendo. Si versò dell’acqua e la trangugiò tutta d’un fiato.
Dopotutto, a quanto sembrava, le sue più grandi paure non erano prive di fondamento. La vita scolastica ad Amtara era dura. E se avessero bocciato anche lei? Se non fosse riuscita a portare a termine i tre anni di studio e la Collins l’avesse rispedita a casa? Quella prospettiva le fece venire il mal di stomaco. Non era allettante l’idea di andare a difendere un Protetto rischiando la vita ogni santo giorno. Ma non lo era nemmeno l’idea di non superare gli esami ed essere rispedita a casa come una povera inetta. Sì, questo era decisamente peggio.
Le ragazze del secondo anno finirono di cenare prima di loro. Rebecca restò a guardarle mentre uscivano.
“Non la mangi?” – le chiese Barbara, indicando la sua torta al limone ancora intatta.
Rebecca scosse la testa e Barbara le prese il piatto.
“Sei veramente senza fondo!” – esclamò Brenda, osservandola disgustata mentre divorava il dolce.
“Ho fame!” – rispose sua sorella con la bocca piena.
“Beata te che la prendi così bene.” – osservò Rebecca.
Barbara la guardò, senza capire.
“Beh, la storia di Demetra.” – spiegò.
“Sei preoccupata?” – chiese Brenda.
“Perché, tu no?”
Brenda si strinse nelle spalle. “Mamma sarebbe sicuramente contenta.”
“E tu?” – insisté Rebecca.
Brenda si fece pensierosa. “Beh, certo non ne sarei entusiasta. Senza contare che non diventerei mai una Prescelta e non saprei che altro fare nella mia vita.” – rispose.
Rebecca fece un risolino sarcastico. “Io avrei almeno un centinaio di alternative.”
“Ad ogni modo, ora abbiamo un vantaggio.”
“Quale?”
“Sappiamo che è meglio non provocare la Rudolf.”
 
Dopo cena, la Collins comunicò alle Streghe del primo anno che il mattino dopo avrebbero dovuto presentarsi in Sala Professori per la consegna del calendario scolastico.
Rebecca e le gemelle tornarono subito in camera, spossate per la lunga giornata e definitivamente messe ko dal pasto luculliano.
Rebecca s’infilò a letto. Non era comodo come quello di Villa Bunkie Beach, ma poteva andare. La tappezzeria a fiori alle pareti e le tende rosa rendevano la stanza calda e accogliente. Brenda e Barbara avevano lasciato aperta la finestra e una lieve brezza faceva svolazzare la tenda. Rebecca intravide uno spicchio di luna. Lo fissò, mentre ripensava alla giornata appena trascorsa. Era felice di aver trovato due buone compagne di stanza. Brenda e Barbara le piacevano. Certo, Barbara era esuberante, forse anche troppo. Un pochino invadente, anche. Brenda era molto più sobria e posata nei modi e nelle parole. Incredibile come due gemelle potessero somigliarsi tanto fisicamente ed essere tanto diverse caratterialmente.
Si girò dall’altra parte, aspettando che il sonno arrivasse. Il suo pensiero tornò a Demetra. Doveva essere stato terribile essere cacciata da scuola. Alle gemelle la sua storia non aveva fatto particolarmente effetto. Brenda si preoccupava solo di cos’altro avrebbe potuto fare nella vita. Le venne ancora da ridere. Erano talmente abituate al fatto di essere delle Prescelte, che non avevano mai considerato effettivamente possibili alternative.
Beh, loro forse no. Ma lei sì. Rebecca aveva sempre desiderato viaggiare per il mondo. E, per uno strano scherzo del destino, ora che aveva scoperto il suo Potere avrebbe anche potuto farlo, se solo avesse imparato a Spostarsi in luoghi molto lontani da casa. Ci sarebbero voluti anni per imparare a farlo, probabilmente, ma era comunque una possibilità.
Una possibilità che si era vista sfumare una volta saputo quale sarebbe stato il suo destino.
Sospirò, pensando a come dovesse sentirsi Demetra e a cosa stesse facendo in quel momento.
Poi, la stanchezza prese il sopravvento e, finalmente, si addormentò.
 
Il mattino dopo Rebecca si svegliò tardi. Se ne rese conto non appena vide Brenda e Barbara che, vestite di tutto punto, la fissavano. Sgranò gli occhi e lanciò un’occhiata all’orologio sul comodino. Le otto e dieci.
Balzò in piedi. La Collins le aveva convocate in Sala Professori alle otto e trenta.
“Ma perché non mi avete svegliata?” – gridò correndo in bagno.
“Brenda non ha voluto.” – rispose Barbara, placidamente. “Ahi!” Si massaggiò il braccio, nel punto colpito dalla gomitata di Brenda.
“Cosa?!” – urlò Rebecca.
“Non è vero.” – rispose Brenda. “Comunque ti stavamo per svegliare. E’ solo che stanotte non hai fatto altro che agitarti nel letto. Ho pensato che avessi bisogno di dormire un po’, vista la nottataccia che hai passato.”
Rebecca sporse la testa fuori dal bagno.
“Ho parlato nel sonno?” – domandò, un po’ in ansia.
“Sì. E mi hai svegliata un paio di volte.”
“Io non ho sentito niente.” – disse Barbara.
“Perché a te non ti svegliano nemmeno i cannoni.” – puntualizzò sua sorella.
“E cosa dicevo?” – chiese Rebecca, cercando di nascondere il panico che si stava impossessando di lei.
“Qualcosa a proposito di un potere.”– rispose Brenda. “E poi continuavi a chiamare qualcuno.”
Rebecca impallidì. “Chi?” – chiese con un filo di voce.
“Banita.”
Rebecca arrossì. Non si era mai accorta di parlare nel sonno. Perlomeno, sua madre non glielo aveva mai detto. Non ricordava di aver sognato Banita, ma in fondo erano rare le volte in cui riusciva a ricordare i suoi sogni.
“Chi è Banita?” – chiese Barbara, curiosa.
“Mia madre.” – rispose secca, senza guardarla.
Brenda e Barbara si scambiarono un’occhiata. L’evidente imbarazzo di Rebecca e il tono gelido della sua risposta le indusse a non fare ulteriori domande.
 
Appena Rebecca fu pronta, scesero in Sala da Pranzo per una velocissima colazione prima di andare in Sala Professori. Considerato l’orario, pensavano di essere le uniche ritardatarie, ma scoprirono che non era così. A giudicare dai volti assonnati di molte Streghe Rebecca capì di non essere stata l’unica ad aver dormito fino a tardi.
“Probabilmente neanche loro hanno avuto una nottata tranquilla.” – pensò amareggiata.
Dunque, aveva sognato sua madre e il suo Potere. Non ricordava proprio nulla ma era intimamente grata alle gemelle per non aver fatto domande. Non se la sentiva di parlare di Banita e certamente non avrebbe potuto parlare con loro del suo Potere. Non avrebbe potuto farlo con nessuno. Era il suo segreto.
Uno Gnomo dalla barba bianca servì caffelatte e spremuta di arancia. Brenda e Barbara si lanciarono sul ricco buffet di croissant, cereali, plumcake, biscotti, frutta e yogurt.
“Non mangi niente?” – Brenda chiese a Rebecca, intenta a sorseggiare il suo caffelatte.
“Non ho fame.” – rispose. “Ho ancora sullo stomaco la cena di ieri.”
“Prendi almeno un croissant.” – disse Barbara porgendole un piattino di paste, che Rebecca rifiutò.
“Ma non puoi stare a stomaco vuoto fino all’ora di pranzo.” – protestò Brenda.
Rebecca sospirò. “D’accordo. Magari una brioche.”
Andò al buffet e ne scelse una piccola. Tornò al tavolo e la sbocconcellò con aria distratta.
Sapeva che Brenda e Barbara avevano intuito che c’era qualcosa che la tormentava e, per questo, apprezzava infinitamente la loro delicatezza nei suoi riguardi. Perfino Barbara si era astenuta dal fare commenti. Probabilmente avevano capito che era orfana, dal momento che era stata l’unica ad arrivare a scuola non accompagnata. Non ci voleva un genio per arrivarci. Chissà, forse, col tempo, ne avrebbe parlato. Avrebbe fatto bene anche a lei. Dalla morte di sua madre non aveva più parlato con nessuno. Le settimane erano volate, tra i preparativi per la partenza e le esercitazioni. Non aveva mai sfogato con nessuno il suo dolore, nemmeno con se stessa.
Tutto era accaduto troppo velocemente. La rivelazione di Banita, la sua morte, il suo Potere, il pensiero fisso e costante di Amtara. Erano stati tre mesi infernali, durante i quali Rebecca aveva a malapena avuto il tempo di pensare a se stessa.
Ora, forse, era arrivato il momento di rallentare. Lo studio l’avrebbe distratta, indubbiamente, ma sapeva che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con il dolore. Non avrebbe potuto tenersi tutto dentro per sempre o presto o tardi sarebbe esplosa. Il sogno di quella notte ne era un segno inequivocabile.
Sì, un giorno lo avrebbe fatto.
Ma non adesso. Non ancora.
 
Alle otto e venticinque Rebecca e le altre uscirono svelte dalla Sala da Pranzo in direzione della Sala Professori al primo piano.
Quando arrivarono videro un folto gruppo di Streghe fuori nel corridoio. La Sala Professori era ancora chiusa. Rebecca e le gemelle si unirono a loro, aspettando la Collins. Un quarto d’ora dopo, la preside spalancò la porta così all’improvviso che tutte sussultarono.
Rebecca la squadrò. Non indossava più il lungo abito scuro del giorno prima, ma una gonna in velluto rosso e una camicia bianca, che le conferivano un’aria più femminile.
Entrarono e presero posto di fronte al tavolo a cui sedevano tutti i professori.
“Buongiorno a tutte.” – esordì la preside, quando tutte si furono sedute.
Rebecca lanciò un’occhiata fugace alle proprie spalle. Contò una ventina di ragazze, più o meno.
“Questa mattina, come prima cosa, vi presenterò i vostri insegnanti.” La Collins indicò i cinque professori seduti al tavolo dietro di lei.
“Ad Amtara le materie di studio sono cinque: Protezione, Lingue Demoniache, Incantesimi, Gestione Antiveggenza e Storia della Stregoneria. Ci tengo a precisare fin d’ora che questo non la rende una scuola di livello inferiore alle altre. Anzi, come sapete, Amtara è una scuola speciale, destinata a persone speciali, quali voi siete. Proprio per questo, i vostri insegnanti sono stati istruiti a dare il massimo, e a pretendere altrettanto. Essere una Prescelta non basta. Ci aspettiamo da voi rispetto delle regole, impegno, serietà, determinazione, disciplina. Vi è stato affidato il destino della Magia Bianca. Per quello che mi riguarda, lo ritengo un motivo sufficiente per pretendere il massimo da ciascuna di voi. In caso contrario…” – fece una pausa – “prenderemo i dovuti provvedimenti.”
La mente di Rebecca tornò a Demetra e si agitò inquieta sulla sedia.
La Collins tacque per qualche istante, per assicurarsi che il significato delle sue parole si imprimesse adeguatamente nella mente delle nuove arrivate. Nessuna di loro osava quasi respirare.
“Bene.” – riprese poi, in tono più leggero. “Adesso, ciascun professore illustrerà brevemente la propria materia e il suo programma di studi. Al termine, vi verrà consegnato il calendario scolastico.”
La preside andò a sedersi e gli occhi di tutte si volsero verso il professore che si era alzato in piedi. Rebecca notò che aveva la stessa aria arcigna della sera prima a cena. Le sopracciglia erano così folte da riuscire quasi a toccarsi, la peluria sulle mani talmente fitta da fare quasi impressione.
“Buongiorno.” – esordì, con voce gutturale. Rebecca pensò che avesse ingoiato un rospo. S’intuiva un vago accento francese.
“Il mio nome è Joseph Garou e sarò il vostro insegnante di Storia della Stregoneria.” 
Più lo ascoltava, più Rebecca si rendeva conto che, per qualche oscura ragione, il suo modo di gesticolare e piegare la testa di lato le dava sui nervi.
Garou fu breve e conciso, seguito dall’uomo dall’aria svampita che la sera prima sedeva accanto alla Rudolf.
“Sono Gustav Cogitus e sono professore di Gestione Antiveggenza.” – esordì in maniera teatrale.
Al contrario di Garou, Rebecca provò subito un’istintiva simpatia per lui. L’aria da sognatore incallito, i capelli spettinati, la calma serafica che accompagnava ogni suo gesto…. Il professor Cogitus non aveva affatto l’aria di uno che si prendesse sul serio e Rebecca aveva buone ragioni per credere che avrebbe fatto lo stesso con le sue allieve.
Illustrò il suo programma di studio passeggiando avanti e indietro con il naso per aria, quasi rivolgendosi più a se stesso che al suo pubblico.
Rebecca udì delle risatine soffocate dietro di lei. Non faceva fatica ad indovinarne la ragione. Il professor Cogitus era davvero buffo. Dubitava che qualcuna lo stesse ascoltando. Lanciò un’occhiata in direzione della Collins, che prendeva appunti su un block notes e si domandò cosa stesse scrivendo.
Fu poi la volta della donna coi capelli corti. A giudicare dall’aspetto, sembrava più giovane degli altri professori. Si chiamava Imperia Cornell e insegnava Incantesimi.
Rebecca soffocò uno sbadiglio. Cominciava ad averne abbastanza. Che senso aveva presentare nei dettagli ogni materia? Era certa che non importasse a nessuno, tanto più che molto presto avrebbero fatto la conoscenza di ogni professore e avrebbero cominciato a studiare da subito. Avrebbe quasi preferito iniziare le lezioni, invece che perdere tempo in quel modo.
Finalmente, fu il turno dell’insegnante anziana, con i capelli biondi. Si presentò come Ignatia Poliglotter, professoressa di Lingue Demoniache. Inaspettatamente, il suo intervento fu il più breve di tutti e Rebecca stava per prepararsi ad alzarsi quando Barbara la fermò.
“Ne manca ancora una.” – le bisbigliò.
Con sommo disappunto, Rebecca si accorse che era arrivato il turno dell’ultima insegnante. Era la donnina con gli occhiali e gli occhietti da topo, che si alzò tutta impettita per fare il suo intervento. Quasi tutte, ormai, erano annoiate a morte.
Rebecca tentò di prestarle attenzione e scoprì che Alamberta Rudolf, insegnante di Protezione, era di una loquacità impressionante. Provò uno slancio di solidarietà per il professor Cogitus, costretto a sorbirsi i suoi discorsi a cena la sera prima. Agitava continuamente le mani, cosa che le dava sui nervi più del professor Garou. Ma quando accennò alle Cinque Maledizioni Assassine, l’attenzione di Rebecca si ridestò. Non sapeva che le Streghe Nere utilizzassero delle Maledizioni specifiche per uccidere. Sua madre non glielo aveva spiegato. Era curiosa di saperne di più, ma la Rudolf non si soffermò a lungo sull’argomento e Rebecca si distrasse nuovamente.
Erano ormai le dieci quando anche la professoressa Rudolf terminò il suo intervento. I professori si congedarono e la Collins si alzò e distribuì a ciascuna l’orario scolastico.
Rebecca, Brenda e Barbara sostarono in corridoio per qualche minuto, leggendo accuratamente il calendario delle lezioni. Per ogni giorno della settimana era riportato l’orario, il nome della materia e dell’insegnante e il numero dell’aula.
“Per essere solo in cinque, si sono dati da fare, eh?” – borbottò Barbara leggendo, sgomenta, il suo orario. Avevano pochissime ore libere e alcuni giorni il pomeriggio pieno.
“Già. Fanno sul serio, a quanto pare.” – replicò Brenda, in tono depresso.
“Mi domando quando troveremo il tempo per studiare.” – disse Rebecca, preoccupata.
“Di notte, probabilmente.” – rispose Barbara in tono tetro.
Brenda puntò il dito sul suo calendario, indicando un punto preciso. “Tra venti minuti comincia Storia della Stregoneria. Ci conviene muoverci.”

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Capitolo 5
*** Impatto ***


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Dana Collins



Capitolo 5
“IMPATTO”
 
Entrarono in classe seguite da un gruppo di ragazze, che le superarono in fretta e andarono ad occupare i posti in fondo. Barbara, che li aveva adocchiati per prima, le incenerì con lo sguardo e seguì Rebecca, che le aveva indicato dei posti liberi in seconda fila.
Il professor Garou non era ancora arrivato. Rebecca notò che su ogni banco c’era la copia di un libro dal titolo “Origine ed evoluzione della Stregoneria Bianca”. Lo aprì sfogliandolo velocemente. Era scritto in caratteri minuscoli, senza illustrazioni, a parte alcune tavole a colori nelle ultime pagine.
Sospirò. L’aspettava un duro anno di lavoro. E la cattiva impressione che gli aveva fatto il professor Garou quella mattina non era un buon auspicio. Rebecca apparteneva a quel genere di persone che impiegavano dieci secondi per farsi un’idea di chi avevano di fronte. In genere, si fidava del suo istinto ed era molto difficile farle cambiare opinione. Sapeva che si trattava di un limite, non di un pregio. Anche sua madre le aveva spesso rimproverato questa sua eccessiva rigidità.
“Spesso le apparenze ingannano, Rebecca.” – le aveva detto. “A volte vediamo solo quello che vogliamo vedere e ci basiamo sui nostri stupidi pregiudizi. E così, ci rifiutiamo di andare oltre, perdendoci il meglio delle persone.”
Ma Rebecca non ne era troppo convinta. Per lei, l’istinto non sbagliava. Mai. E l’istinto le diceva che del professor Garou non c’era da fidarsi.
Il brusio in classe, improvvisamente, si spense. Rebecca alzò gli occhi dal libro e si voltò.
Sulla soglia era apparsa la figura alta e magra del professore, che scrutava con occhi indagatori le nuove allieve. Alcune abbassarono istintivamente lo sguardo, fingendo di frugare distrattamente nella borsa o mostrando un improvviso interesse per le proprie unghie.
Senza dire una parola, il professore avanzò verso la cattedra, appoggiò i libri, sedette e rivolse la sua attenzione al registro di classe.
Per qualche minuto non si sentì volare una mosca. Tutte tacevano, in attesa dell’inizio della lezione e intimorite dall’atteggiamento dell’insegnante. A nessuna era sfuggito che Garou non si era nemmeno degnato di salutare.
Quando ebbe firmato il registro, senza alzare la testa, disse:
“Andate a pagina 5 e leggete l’introduzione.” 
Tutte obbedirono e per qualche minuto il silenzio fu interrotto solo dal rumore delle pagine sfogliate. Rebecca scoprì che l’introduzione era una lunga e noiosa pappardella di otto pagine sulla nascita della Magia Bianca. A pagina quattro le si chiusero gli occhi e soffocò uno sbadiglio. Dopo la noiosa introduzione in Sala Professori, aveva sperato un inizio un pochino più vivace. Alzò gli occhi e si accorse, sorpresa, che il professore la stava fissando. Non riuscì a definire il significato di quegli occhi scuri fissi nei suoi, ma non distolse lo sguardo fino a quando non fu lui, con un gesto secco, ad intimarle la continuazione della lettura.
Rebecca tornò a concentrarsi sul libro, con la sgradevole sensazione di sentirsi continuamente osservata. Lesse per altri dieci minuti, senza capire una parola. La sua mente era altrove.
Garou aspettò che tutte terminassero la lettura.
“Come vi ho anticipato questa mattina,” – disse – “quest’anno studieremo la nascita della Magia Bianca e di quella Nera, i primi processi dell’Inquisizione e le origini della Guerra dei Due Mondi. Il libro che avete davanti sarà la vostra bibbia per i prossimi tre anni, per quanto riguarda la mia materia. Tratta ogni argomento in maniera approfondita e lo porterete con voi fino al termine dei vostri studi ad Amtara. Sì?”
Angela Garrett, la ragazza con i capelli neri e il naso a patata, aveva appena alzato la mano.
“Mi scusi, professore. Volevo chiederglielo stamattina in Sala Professori ma non c’è stato il tempo. Ha elencato tutti gli argomenti di studio di quest’anno ma…” – Angela esitò, cercando le parole giuste – “beh… ecco… mi domandavo …non dovremmo studiare anche il Demone Supremo?”
Rebecca tornò a guardare Garou e l’espressione dei suoi occhi l’allarmò. Fissava Angela con un misto tra il sorpreso e l’irritato.
Dovremmo studiare.” – ripeté lentamente, scandendo le parole e ponendo l’accento sulla prima.
Angela arrossì con violenza. Qualcosa nell’atteggiamento del professore le suggerì che avrebbe fatto meglio a tacere.
“Angela Garrett, giusto?”
Angela annuì. Il rossore sul suo viso si estese fino alla radice dei capelli. Sentiva gli occhi delle compagne puntati addosso come spilli infuocati e avvertì l’improvviso desiderio di sprofondare nel pavimento.
“Che cosa ti fa pensare che… dovresti studiare il Demone Supremo nelle mie lezioni?”
Angela non rispose.
Garou la fissava, in attesa.
“Sto aspettando.”
“Io…credevo…” – le parole le morirono in gola.
“Dimmi, Garrett, non ti ha spiegato nessuno che, ad oggi, il mondo della Magia Bianca non conosce nulla riguardo al passato di Posimaar?”
“S-sì.” – mugolò Angela, ormai prossima alle lacrime.
“Quindi, ritengo sarai d’accordo con me quando dico che non è … effettivamente possibile studiare alcunché lo riguardi, a parte, naturalmente, i recenti attacchi delle Streghe Nere.”
Angela avrebbe voluto morire.
“Non ho sentito la risposta.” – disse Garou.
“Sì.”
“Sì cosa?”
“S-sì professore.”
“Mm.” – mormorò compiaciuto. “La prossima volta che ti verrà in mente una domanda stupida, fammi la cortesia, pensaci due volte prima di alzare la mano.”
Garou distolse l’attenzione da Angela e cominciò la lezione.
Rebecca si girò a guardarla. Era paonazza e fissava il libro che aveva sul banco.
Rebecca fremeva dalla rabbia. Che bisogno c’era di trattare Angela in quel modo? Era necessario umiliarla così, davanti a tutte, il primo giorno di scuola?
Non ascoltò una parola della lezione.
Sua madre si era sempre sbagliata: la prima impressione era davvero sempre quella giusta.
 
“Povera Angela.” – disse Barbara. “Non la finiva più di piangere.”
Erano appena uscite dall’aula e camminavano lungo il corridoio, con i libri sottobraccio, verso Lingue Demoniache.
“Già.” – disse Brenda, in tono depresso. “Non c’è male come inizio, eh?”
“Me lo sentivo che di lui non c’era da fidarsi.” – disse Rebecca con rabbia. “Fin dal primo momento in cui ha aperto bocca. E’ semplicemente odioso.”
Una ragazza le superò di corsa, singhiozzando rumorosamente. Accorgendosi che si trattava di Angela,  Rebecca fece per seguirla, ma Brenda la fermò.
“Forse è meglio lasciarla sola, almeno per un po’.”
Rebecca la guardò, esitante, poi annuì. Era meglio darle il tempo di calmarsi. La guardarono sparire dietro l’angolo, poi si incamminarono verso l’aula della professoressa Poliglotter.
La stanza era molto più grande di quella di Garou e trovarono subito posto agli ultimi banchi. Appena sedettero, Barbara si coprì lo stomaco con una mano, per attutire il suo brontolio sordo.
“Ho una fame da lupi.” – borbottò.
Rebecca guardò l’orologio. Era mezzogiorno passato e il pranzo veniva servito all’una. Aveva praticamente saltato la colazione, ma quello che era accaduto con Garou l’aveva messa di cattivo umore, togliendole l’appetito. Sperava che con Lingue Demoniache fosse andata meglio.
“Buongiorno a tutte.” – disse la professoressa Poliglotter entrando in classe.
“Se non altro questa saluta.” – mormorò Barbara rivolta a Rebecca.
Dopo aver firmato il registro, si alzò e distribuì a tutte una copia di “Nozioni di base di Orchese.”
Rebecca lesse il titolo, stralunata.
“Che diavolo è Orchese?!” – sussurrò alle gemelle.
“La lingua degli Orchi.” – spiegò Brenda, sottovoce.
Rebecca alzò un sopracciglio, perplessa. Fino ad allora non aveva nemmeno immaginato che gli Orchi parlassero una lingua diversa e si rese improvvisamente conto che, nonostante gli insegnamenti di Banita, aveva ancora molto da imparare. Ma in che modo, in nome del cielo, conoscere la lingua degli Orchi sarebbe mai potuto tornare utile nella difesa di un Protetto?
La Poliglotter le annoiò per tre quarti d’ora con una descrizione dettagliata degli Orchi e del loro stile di vita, costringendole a prendere appunti. Con la mano dolorante, Rebecca sbirciò l’orologio. Mancava ormai una manciata di minuti all’una e la campanella che annunciava l’ora di pranzo sarebbe suonata di lì a poco. Era stata una mattinata estenuante e aveva assoluto bisogno della cucina degli Gnomi per ritemprarsi a dovere.
Quando la Poliglotter terminò la spiegazione, Rebecca posò la penna, cominciando a radunare i libri nella borsa.
“Ora, prima di congedarvi, mi piacerebbe sentire qualcuna di voi leggere un brano in Orchese.”
Rebecca impallidì. Lanciò un’occhiata allarmata a Brenda e Barbara. Dalle loro espressioni, intuì che anche loro, come lei, non avrebbero saputo riconoscere una parola in Orchese da una in Vampirese.
Il resto della classe non era messo meglio. Tutte osservarono, con crescente orrore, il dito della professoressa scorrere lento e inesorabile sul registro di classe, come la punta di un pugnale che accarezza lentamente la pelle un attimo prima di affondare spietato nella carne. Rebecca avvertì un brivido lungo la schiena, con uno sgradevole presentimento.
Il dito si fermò e le labbra della Poliglotter si dischiusero per emettere il verdetto finale.
“Bonner!” – esclamò.
Come in un sogno, Rebecca sbatté le palpebre, fissandola inebetita.
“Rebecca Bonner?” – ripeté la professoressa, corrugando l’ampia fronte solcata dalle rughe e guardandosi attorno.
Rebecca pensò di essere sul punto di svenire. Si sentiva le gambe molli e le membra intorpidite. Qualcuno le toccò la spalla. Si voltò e vide Barbara.
“Rebecca.” – le disse in un sussurro, facendole segno di alzarsi.
Non si mosse.
“Rebecca, per amor del cielo!” – ripeté Barbara.
Con uno sforzo sovrumano, Rebecca fece leva con le mani sul banco e si alzò in piedi.
La Poliglotter la guardò. “Ah, eccoti. Per favore, apri a pagina 37, Bonner e comincia a leggere il capitolo 7.”
Come un automa, Rebecca aprì il libro. Il silenzio in classe era glaciale. Tutte la fissavano, con il cuore colmo di gratitudine per non trovarsi al suo posto. Barbara e Brenda trattenevano il fiato, consapevoli del disastro imminente.
Rebecca fissò la prima riga, senza capire una parola. Proprio come Angela durante la lezione di Garou, desiderò che una voragine si spalancasse nel pavimento, per inghiottirla e risparmiarle l’umiliazione che stava per abbattersi su di lei come un’onda anomala su una piccola imbarcazione. Quel pensiero le fece tornare in mente Harry White e la sera in cui l’aveva salvata. Forse, dopotutto, non sarebbe stato male morire annegata.
“Allora?” – la incalzò la Poliglotter, cominciando a spazientirsi.
Messa alle strette, Rebecca, disperata, cominciò a leggere, incespicando come se avesse la lingua incollata al palato. Non aveva la minima idea di quello che stava leggendo e quando la Poliglotter le disse che poteva bastare, non ebbe il coraggio di alzare la testa dal libro, sentendosi avvampare.
La professoressa la fissò per alcuni secondi, come incerta sul da farsi.
“Puoi sederti, Bonner.” – disse infine.
Rebecca, che si era aspettata il peggio, si affrettò ad obbedire.
Con la coda dell’occhio vide i volti sorpresi di Brenda e Barbara. Era possibile che avesse letto in modo corretto? Represse un sorriso, ringraziando la sua buona sorte. Brenda catturò la sua attenzione e alzò un pollice in segno di vittoria.
Finalmente, la campanella suonò e tutte si alzarono e uscirono. Rebecca radunò i libri e si apprestò a seguire Brenda e Barbara fuori dall’aula.
“Un momento, Bonner!” – la bloccò l’insegnante.
Il suo cuore sprofondò. Deglutì e si girò verso le gemelle, lanciando loro uno sguardo disperato. Le due amiche la fissavano, impotenti.
“Ti aspettiamo qui fuori.” - fu tutto quello che riuscirono a dirle.
Sentendosi morire, Rebecca le guardò uscire e, con il cuore che le martellava nel petto, si voltò per avvicinarsi alla cattedra.
La Poliglotter le porse un foglio. Rebecca lesse:
“Spiegare l’origine dell’Orchese e la sua evoluzione nei secoli.”
“Da consegnare entro lunedì prossimo.”
Rebecca la guardò sgomenta, senza rispondere.
“Approfondire l’argomento ti farà bene.” – spiegò la Poliglotter.
“Potrei almeno sapere il motivo?” Lo stupore iniziale si stava tramutando in rabbia. “Che cos’ho fatto?”
La Poliglotter corrugò la fronte. “Dimmi, Bonner, cos’hai capito del brano che hai letto poco fa?”
Rebecca esitò. Se avesse detto la verità, si sarebbe data la zappa sui piedi da sola. Ma l’insegnante la conosceva già, era inutile mentire.
“Neanche una parola.” – rispose, sentendosi una stupida.
“L’hai detto.”
“Ma se non vado errato, sono qui apposta per imparare. O no?” Il suo coraggio stupì perfino se stessa.
“Mettiamo in chiaro una cosa, Bonner.” – disse la Poliglotter, punta sul vivo. “In tre anni non si possono imparare le Lingue Demoniache.”
Allora lei che ci sta a fare, qui?
“Forse non ti ha spiegato nessuno che ad Amtara è richiesto avere almeno le basi delle Lingue?”
“Le basi?” – ripeté Rebecca, sconcertata. “Ma sono pronta a scommettere che nessun’altra…”
“Questo starà a me giudicarlo.” – la interruppe. “Mi è già capitato in passato qualcosa del genere…”
Chissà come mai…
“…E non ho lasciato correre.”
Rebecca si domandò se avesse per caso fatto espellere qualche allieva anche lei, come la Rudolf. Forse non era stata una buona idea disfare la valigia….
“Preparerai questa relazione per lunedì. Poi vedremo il da farsi.”
“Ha intenzione di mandarmi via?”
Quella domanda colse la Poliglotter del tutto impreparata.
“Perché se è così, può dirlo subito e me ne vado.”
“La tua sfacciataggine ha dell’incredibile, Bonner. Comunque, se credi di cavartela con un’espulsione, ti sbagli di grosso. E poi, chi ti ha messo in testa queste idee assurde?”
Rebecca non rispose. Forse, dopotutto, la Poliglotter non era come la Rudolf…
“Come ti ho detto,” – ripeté la professoressa alzandosi e radunando le sue cose, “voglio quel compito per lunedì. E questo è tutto.”
Rebecca rimase a guardarla mentre usciva dall’aula, con una sgradevole fitta alla bocca dello stomaco.
 
“Illuminatemi!” – sbottò Rebecca irritata, mezz’ora dopo, in un’affollata Sala da Pranzo.  “Che cosa le fa pensare che io sia in grado di leggere in Orchese il primo giorno di scuola? E soprattutto, a che diavolo ci serve conoscere la lingua di quegli stramaledetti Orchi? E perché nessuno mi ha detto che bisognava studiare Lingue Demoniache da autodidatta per essere ammesse qui dentro?” Addentò con furia una coscia di pollo fritto.
“Scusa, posso rispondere ad una sola domanda alla volta.” – disse Barbara.
“Ho parlato con alcune del terzo anno.” – disse Brenda. “Non c’è niente di vero. E’ tutta una paranoia della Poliglotter.”
“Una … paranoia?” – ripeté Rebecca, incredula.
“Proprio così. Pretende che arriviamo qui sapendo leggere le Lingue, ma in realtà non siamo tenute a farlo.”
“E la Collins sa di avere assunto una pazza furiosa?” – domandò Rebecca.
Brenda alzò le spalle.
“Quindi, se vado dalla preside e le spiego ogni cosa, non sarò tenuta a fare la relazione, giusto?” – ragionò Rebecca.
“Sì, ma ti sconsiglio di farlo.” – disse Brenda.
“E per quale ragione?”
“Perché potresti inimicarti la Poliglotter per il resto dell’anno.”
“Cosa?”
“Preferisci una punizione o nove mesi di tartassamenti? A te la scelta.”
“Ma è assurdo!” – protestò Rebecca.
“Sì, lo è. Ma a quanto pare sono poche le cose… normali in questa diamine di scuola. Guarda Garou con Angela!”
“Sì, ma almeno lei non dovrà fare lavori extra.”
“Non è bello nemmeno essere umiliate così davanti alla classe.” – considerò Barbara.
Rebecca sospirò. “Allora che devo fare?” – chiese, sconfitta.
“Ti aiuteremo noi a fare il compito.” – disse Brenda.
“Certo!” – esclamò Barbara.
 “Vedrai, basterà copiare qua e là da qualche libro in biblioteca, non  sarà difficile.” – la consolò Brenda.
“Se lo dici tu.” – mormorò Rebecca depressa.

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Capitolo 6
*** Verità nascoste ***



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Amtara



Capitolo 6
“VERITA’ NASCOSTE”
 
Rebecca trascorse tutta la settimana dividendosi tra lezioni e biblioteca, cercando di stare alla pari con lo studio e restando alzata fino a tardi per portare a termine la relazione della Poliglotter. L’aiuto di Brenda e Barbara fu fondamentale. Senza di loro, era certa che non ce l’avrebbe mai fatta.
Il tempo trascorso insieme le consentì di approfondire la loro conoscenza. Come aveva intuito fin dal primo giorno, erano due persone diametralmente opposte. Barbara era briosa, allegra, piena di vita, senza peli sulla lingua. Brenda era seria, posata, riflessiva, poco espansiva. Brenda, a volte, cercava, invano, di smorzare il carattere impetuoso della sorella ma Barbara era come un cavallo selvaggio, impossibile da domare.
“Certi giorni mi fa diventare matta.” – confidò Brenda a Rebecca un mattino a colazione, approfittando della momentanea assenza di Barbara, impegnata a servirsi di uova e pancetta al buffet. “Ha sempre questa mania di dire e fare tutto quello che le passa per la testa, senza pensarci. E a volte sembra così superficiale! Non mi fraintendere, le voglio molto bene, ma mi domando se abbia davvero preso consapevolezza di quello che ci aspetta. Mamma e papà sono molto preoccupati.”
“Per questo tua madre non voleva farvi venire ad Amtara?” – le domandò Rebecca.
“Sì. E’ preoccupata per entrambe, naturalmente, ma soprattutto per Barbara.”
“A me non sembra affatto superficiale.” – osservò Rebecca. “Ha solo un carattere diverso dal tuo, ma questo non significa che non sia una persona con la testa sulle spalle, no?”
Brenda cominciò a spalmare la marmellata di fragole sul suo pancake. “Lo so.” – rispose, con un sospiro. “E’ solo che a volte vorrei proprio che si comportasse diversamente.”
Rebecca stava per replicare ma non ne ebbe il tempo, perché Barbara stava tornando al tavolo. Mangiarono in silenzio e Rebecca non poté fare a meno di lanciarle occhiate divertite, osservandola rimpinzarsi di cibo senza mai alzare gli occhi dal piatto. Se anche Barbara fosse stata preoccupata per il suo futuro di Prescelta, questo non aveva minimamente intaccato il suo indomabile appetito.
Rebecca la trovava incredibilmente simpatica e divertente e, anche se si sentì un po’ in colpa ad ammetterlo, meno tediosa della sorella. Non che Brenda non le piacesse, ma il senso dell’umorismo di Barbara le aveva risollevato l’umore in più di un’occasione durante quella prima, difficile settimana. Forse, invece di giudicarla, Brenda avrebbe dovuto prendere esempio da lei, ma Rebecca si guardò bene dal farglielo notare. Brenda se la sarebbe presa a morte e Rebecca, che si stava affezionando ad entrambe, non voleva intromettersi rischiando di compromettere la nascita di una bella amicizia. Inoltre, erano problemi familiari nei quali non desiderava essere coinvolta.
La domenica pomeriggio, il giorno prima della consegna della relazione, Rebecca decise di andare a studiare in giardino. L’autunno era quasi alle porte, ormai, ma un tiepido sole faceva ogni tanto capolino tra le nuvole e lei voleva approfittare di quell’ultimo scampolo d’estate per passare un po’ di tempo all’aperto. Brenda e Barbara le fecero compagnia.
Rebecca sedette in riva al fiume, con la schiena appoggiata ad una grande quercia e tirò fuori la relazione, la cui stesura era quasi terminata. Era lunga otto pagine. Lei e le gemelle avevano consultato tutti i testi reperibili in biblioteca che trattassero l’argomento Orchi, copiando minuziosamente dall’uno e dall’altro. Rebecca sapeva di essersi impegnata al massimo delle proprie capacità e pregava in cuor suo che alla Poliglotter questo fosse bastato. Tremava al pensiero di quello che “Vedremo il farsi” avrebbe potuto significare.
Brenda le sedette accanto, aiutandola a scrivere l’ultima pagina. Barbara andò a sedersi sulla sponda del fiume, si tolse scarpe e calze e immerse i piedi nell’acqua.
“E’ fredda?” – le chiese Rebecca, alzando gli occhi dal foglio.
“Un po’.” – rispose Barbara.
“Ti prenderai un raffreddore.” – disse Brenda.
Barbara non rispose, limitandosi ad alzare gli occhi al cielo.
Rebecca impiegò mezz’ora per completare la stesura, tempo durante il quale nessuna parlò. Barbara continuava a giocherellare con i piedi nell’acqua e Brenda non faceva che lanciarle continue occhiatacce, che non sfuggirono a Rebecca. La cosa la infastidì parecchio, perché Brenda perdeva continuamente la concentrazione.
“Posso fare da sola, se vuoi.” – le disse, spazientita.
“Cosa?” – domandò Brenda con gli occhi puntanti su Barbara.
“Ho detto” – ripeté Rebecca scandendo ogni sillaba “che posso anche continuare da sola.”
“No. Perchè?”
Brenda ricominciò a dettarle il compito e Rebecca, dissimulando la sua irritazione, riprese a scrivere.
“Finito!” – esclamò Rebecca trionfante dieci minuti dopo. 
“Evviva!” – disse Brenda. “Domattina la Poliglotter sarà costretta a ricredersi.”
Rebecca riordinò i fogli. “Puoi giurarci. Con tutta la fatica che ho fatto.”
“Che ABBIAMO fatto.” – precisò Barbara.
“Giusto.” – rispose Rebecca. “Non ce l’avrei mai fatta senza il vostro aiuto. Grazie infinite, ragazze.”
Esausta, si sdraiò sull’erba. Il cielo era di un azzurro intenso e non si udiva altro che il gorgoglio del fiume e lo svolazzare degli uccelli tra i rami. Chiuse gli occhi ed assaporò il tepore del sole sulla pelle.
Una fresca aria pungente cominciò a soffiare dalle montagne. Era tutto così diverso dal clima mite di Bunkie Beach. Eppure, l’aria di Amtara le piaceva. Certo, l’inizio dell’ anno non era stato dei più rosei, ma Rebecca era ottimista e sperava che, con il tempo, si sarebbe abituata ai ritmi di studio e al carattere dei professori. Sì, anche alla follia della Poliglotter e alla scontrosità di Garou.
“Barbara, è da più di mezz’ora che stai con i piedi nell’acqua.” La voce di Brenda incrinò il silenzio. “Rischi di prenderti un accidenti.”
Barbara la ignorò.
“Sto parlando con te!”
“Ho sentito, non sono mica sorda!”
Brenda aggrottò le sopracciglia. “Non c’è bisogno di rispondere in quel modo.”
“Non c’è neanche bisogno di fare la mammina protettiva, se è per quello.”
Rebecca si sollevò a sedere.
“Cos’hai detto?” – sibilò Brenda. Rebecca la guardò. Era scura in volto e fissava sua sorella con un’espressione che non le aveva mai visto prima. Un leggero rossore le colorava le guance e ansimava come se le mancasse il respiro.
Barbara si decise a girarsi, fissandola con aria truce.
“Mi hai sentito.”
“Come ti permetti di parlarmi così?”
“Mi permetto eccome, dal momento che non fai altro che starmi addosso tutto il tempo!”
“Starti addosso? Ti ho solo detto di non tenere i piedi nell’acqua così a lungo!”
“Appunto.”
Brenda alzò gli occhi al cielo, esasperata. “Sei veramente ridicola.”
“Certo! Tutto ciò che non è in linea con il tuo modo di pensare è ridicolo, vero?”
“Ma che stai dicendo?”
Rebecca le fissava, imbarazzata. “Ehm…Ragazze…che sta succedendo?”
Brenda si voltò. “Non saprei. Chiedilo a lei.”
“Vuoi sapere qual è il problema?” – continuò Barbara, ignorando Rebecca.
“A questo punto mi piacerebbe proprio.”
“Prova a guardarti allo specchio.”
Una smorfia si delineò sulla bocca di Brenda, incredula e ferita.
“Ecco, brava, fai la finta tonta, come al solito.”
Brenda spalancò gli occhi. “La finta tonta?”
Barbara esplose. “Oddio Brenda! Non posso credere che tu non capisca! Sei peggio della mamma! Mi tratti come se fossi una bambina deficiente!”
Brenda non rispose, limitandosi a fissarla con aria assente. Quelle accuse la colpirono come un macigno nello stomaco.
“Come fai a non rendertene conto?” – proseguì Barbara. “Da quando abbiamo saputo di Amtara, tu e la mamma non avete fatto altro che preoccuparvi per me.”
“Ed è un delitto preoccuparsi per le persone che si amano?” – replicò Brenda, ferita.
“No, ma lo è non avere fiducia in loro.”
“Mamma e papà si fidano di te. E anch’io.”
“E allora perché con te si sono comportati diversamente? Perché ho sempre avuto la sensazione di essere la sorella stupida, fin dal momento in cui abbiamo ricevuto quella dannatissima lettera? E perché sei così cambiata da quando siamo arrivate qui? Quasi stento a riconoscerti.” Le spuntò una lacrima dagli occhi e l’asciugò con rabbia col dorso della mano.
Rebecca si sentì di troppo. Forse avrebbe dovuto inventare una scusa e allontanarsi, ma qualcosa le impediva di farlo.
“Vuoi davvero sapere perché l’ho fatto?” – chiese Brenda, con gli occhi lucidi. “Perché me l’hanno chiesto mamma e papà.”
“Cosa?” – mormorò Barbara, incredula.
“Quando è arrivata la lettera, erano spaventati a morte. E lo ero anch’io. Tu invece no.”
“Non è vero…”
“Oh sì che è vero! Ti sei comportata come se nulla sarebbe cambiato. Come se … come se la nostra vita non fosse in pericolo. Non sapevamo più cosa pensare. Eri strana. Il tuo comportamento non era normale.”
Barbara abbassò lo sguardo.
“Per questo, prima di partire, mi hanno chiesto di… starti addosso, per usare le tue parole. Pensavano che non ti rendessi realmente conto di cosa significasse quella lettera, di cosa significasse entrare in questa scuola. La loro paura di perderti era talmente grande che hanno affidato a me il compito di proteggerti.”
“Quindi, la mia famiglia non si è fidata di me.”
“La fiducia qui non c’entra niente!” – urlò Brenda.
“Sì invece! Se solo vi foste confidati con me…”
“Confidarci con te?! Sei tu quella che evitava volutamente l’argomento! Ogni volta che se ne parlava non facevi che minimizzare dicendo che sarebbe andato tutto bene! Non venirmi a parlare di fiducia!”
“E non vi siete chiesti perché?” – ruggì Barbara, furiosa. Era paonazza e il petto si sollevava a ritmo frenetico. “Non vi è venuto in mente che forse ero terrorizzata e non riuscivo a parlarne?”
“Come avremmo potuto? Non abbiamo ancora la facoltà di leggere nel pensiero.” Per la prima volta, Brenda cominciava ad intuire il reale disagio della sorella e quella sensazione la fece star male.
“Beh, che avrei dovuto fare? Strapparmi i capelli e legarmi con le catene al letto per non essere strappata alla mia casa per sempre? Ero troppo spaventata per parlarne. E non volevo far soffrire mamma e papà. Pensavo che se mi fossi mostrata coraggiosa, non si sarebbero preoccupati. E poi c’eri tu che sembravi così tranquilla..”
“Tranquilla?!” – ripeté Brenda scoppiando in un riso sarcastico. “Non troverai una sola Prescelta, in tutta la scuola, che ti dirà di non aver avuto paura, quando ha ricevuto la lettera.”
“Beh, in ogni caso, non mi sembravi spaventata quanto lo ero io. Non volevo sembrare una… debole.” Abbassò gli occhi, imbarazzata. Pensava che la sua famiglia avesse capito, e invece aveva combinato un disastro. “Ho fatto la figura della stupida.”
“Non abbiamo mai pensato che fossi una stupida.”
“Scusa, ma faccio fatica a crederlo.”
“Abbiamo pensato che fossi uscita di testa. E’ diverso.”
Barbara scoppiò in un risolino nervoso. “Questo sì che è rincuorante.”
“Eravamo preoccupati per te.”
Barbara non rispose e distolse lo sguardo.
Brenda fissava il fiume, forse, pensò Rebecca, per evitare di incrociare i suoi occhi.
Per alcuni istanti nessuna parlò.
Poi Barbara, forse per trovare qualcosa da fare, cominciò ad asciugarsi i piedi nell’erba.
Rebecca era visibilmente in imbarazzo. Per la prima volta, da quando le conosceva, le ragazze avevano avuto una spiacevole discussione. Davanti a lei, per giunta.
Sentendosi di troppo, la sua mente lavorava febbrilmente per trovare le parole giuste da dire in un simile frangente. Ma non le venne in mente nessuna. La tensione era palpabile.
A volte rimpiangeva di non avere avuto fratelli o sorelle. Sarebbe stato bello avere qualcuno con cui condividere la propria vita, con cui litigare furiosamente come avevano appena fatto Brenda e Barbara, perché sapeva che sarebbe stato altrettanto bello fare la pace.
E soprattutto, se avesse avuto fratelli, ora non si sarebbe sentita così sola.
Fu Barbara a rompere il silenzio. “Sai, posso capire il comportamento di mamma e papà.”  Si era rimessa le scarpe e si era voltata verso di loro. “Ma tu sei mia sorella. Pensavo che avessi capito.”
Brenda la fissava come se la vedesse per la prima volta. Rebecca pensò che probabilmente era proprio così. Forse tutta quella storia di Amtara aveva portato alla luce segreti e verità nascoste anche nella loro famiglia, proprio come nella sua. Forse le due sorelle si stavano conoscendo ora per la prima volta.
“Avresti dovuto confidarti con me.” – rispose Brenda. “Se non te la sentivi di farlo con mamma e papà, potevi fidarti di me. Almeno non avrei pensato che eri diventata pazza.” – aggiunse con un mezzo sorriso.
Anche Barbara abbozzò un sorriso.
“Rimane il fatto che da quando siamo qui hai assunto un comportamento nei miei confronti che non mi piace.” – disse Barbara. “Non ti riconosco più. Non sei più la sorella di un tempo.”
“Perché non abbiamo più la vita di un tempo.” – rispose Brenda veemente. “Sono cambiata perché la nostra vita è cambiata.”
“Ma io ho bisogno della Brenda di prima!”
“Barbara, non posso fingere che non sia successo niente. Siamo due Prescelte. Siamo qui per un motivo preciso. Dopo questi tre anni tutto cambierà. E probabilmente ci separeremo per sempre.”
“Lo so.”
Brenda sospirò. “Io vorrei tornare come prima, ma non ci riesco. E non sopporto il fatto che tu riesca a mascherare tutto dietro quella facciata di perenne allegria.”
Barbara aprì la bocca per protestare, ma stavolta fu anticipata da Rebecca, che pensò fosse arrivato il momento di dire la sua.
“Ehm…. Brenda….” – cominciò Rebecca cauta.
Brenda si voltò di scatto, quasi si fosse dimenticata della sua presenza.
“Non vorrei intromettermi nella discussione, ma dal momento che sono qui e ho sentito ogni parola, vorrei provare a dire la mia.”
Attese qualche secondo, aspettandosi di vederla scagliarsi come una furia contro di lei, ma quando questo non accadde, continuò.
“Non è mia intenzione prendere le parti dell’una o dell’altra ma….. questa cosa coinvolge tutte noi e al di là delle vostre problematiche familiari, nelle quali non metto becco, penso di poter affermare con certezza che non ha alcun senso vivere i prossimi tre anni con la paura. È vero, la nostra vita è già cambiata e non sappiamo cosa ci aspetta. Ma personalmente penso che l’allegria di Barbara sia un toccasana per tutte.”
Ecco, l’aveva detto.
Si aspettava che Brenda la prendesse a male parole, ma con suo stupore questo non avvenne.
L’amica si limitò a fissarla, senza dire nulla.
“Probabilmente quello è il suo modo per reagire a tutta questa storia.” – continuò. “E penso che dovremmo prendere esempio da lei. Dopotutto, affrontare tutto questo con il sorriso è sempre meglio che piangersi addosso, non credi?”
“Tu credi che io mi pianga addosso?” – replicò Brenda tagliente.
“No.” – rispose Rebecca tranquilla. “Credo solo che Barbara stia affrontando la cosa meglio di te e di me. E personalmente ammiro il modo in cui riesce sempre a stemperare la tensione. E’ una grande dote.”
Brenda la fissò.
A Rebecca non sembrava vero di averle detto chiaro e tondo in faccia quello che pensava. Pregò in cuor suo che l’amica non se la prendesse a male, perché teneva alla sua amicizia come a quella della sorella. Ma era quello che pensava. Brenda stava affrontando la cosa nel modo sbagliato, esattamente come lei. Non la stava incolpando di nulla e probabilmente le sue parole erano rivolte più a se stessa che a Brenda. Perché sapeva che era arrivato il momento di mettere da parte la paura e affrontare con coraggio il futuro. Questo era quello che il mondo si aspettava da loro. Questo era quello che si aspettava sua madre. E questo era quello che si aspettavano sicuramente anche i genitori di Brenda e Barbara, a dispetto della paura.
“Finalmente qualcuno che ragiona.” La voce allegra di Barbara ruppe il silenzio.
“Sei contenta che ti stia dando ragione, vero?” – fece Brenda.
“Brenda, non sto dando ragione a lei….”
Brenda alzò una mano. “Tranquilla Rebecca. Ho capito quello che volevi dire.”
Rebecca sgranò gli occhi. “Davvero?”
Brenda annuì. “Ho capito le motivazioni di mia sorella. D’altra parte, abbiamo sempre avuto due caratteri molto diversi. Ognuna di noi ha reagito diversamente alla notizia. E poi c’era la mamma che non voleva assolutamente farci venire qui. E’ stato tutto un caos a casa nostra negli ultimi tempi. Ognuno di noi ha reagito a suo modo, inclusa mamma, che è letteralmente uscita di testa.”
“Posso immaginare come deve essersi sentita.”
A dire il vero, Banita aveva avuto esattamente la reazione opposta. Sua madre non aveva mostrato la minima paura per lei. Sembrava assolutamente convinta che se la sarebbe cavata alla grande, o almeno questo è quello che Rebecca aveva sempre pensato.
Ma sua madre era diversa, una lottatrice nata, consapevole del valore di sua figlia e convinta che, per quanto il destino potesse essere crudele, lei avrebbe affrontato qualunque prova con coraggio e determinazione.
Questa era Banita. Fiduciosa, incrollabile, forte come una roccia.
“Appena la rivedo ci devo fare due chiacchiere.” – disse Barbara.
“Con chi?” – chiese Brenda.
“Con mamma. Deve imparare a fidarsi di me.”
“Lei si fida di te. È solo spaventata a morte.”
“Spaventata o no, le parlerò.”
Brenda sospirò. “Non sarà un argomento facile da trattare con lei.”
“Beh, non è stato facile nemmeno accettare questa scuola. Ma alla fine ha dovuto farlo, no?”
Brenda ripensò agli avvenimenti delle ultime settimane. Avevano vissuto momenti di estrema tensione in casa. Mamma era quasi impazzita quando era arrivata la lettera. Anche se sapevano tutti da tempo che sarebbe successo, in qualche modo era come se lei realizzasse solo in quel momento il peso di ciò che quella lettera significava. Di colpo, mamma era cambiata. Aveva scatenato l’inferno e smosso mari e monti per impedire alle figlie quel destino che lei non poteva accettare. Le avrebbe perse per sempre, continuava a ripetere.
Sì, erano state settimane da incubo, tanto che Brenda fu quasi contenta il giorno della partenza per Amtara. La loro casa era diventata un inferno, i pianti di mamma erano all’ordine del giorno. Aveva bisogno di cambiare aria. Tuttavia, si stupì di come mamma aveva affrontato il viaggio verso Amtara. Forse incoraggiata da papà, non aveva versato una lacrima. Brenda sapeva che aveva fatto un tremendo sforzo su se stessa per alleggerire quel peso a lei e Barbara. E ora che sapeva che anche la sorella, dietro quella facciata di gioiosa indifferenza, era preoccupata e in ansia per il futuro, si sentì intimamente grata a sua madre per il suo coraggio.
“Che ne dite di rientrare?” – disse alzando gli occhi al cielo. “Comincio ad avere freddo.”
Guardò Barbara che, senza dire una parola, le andò vicina.
Rebecca fissò le due sorelle stringersi in un leggero abbraccio.
“Aspettate.” – disse.
Era arrivato il momento. Doveva parlare con qualcuno o sarebbe scoppiata.
Si voltarono.
“Che c’è?” – le chiese Brenda, aggrottando la fronte.
“Io….. c’è una cosa che vorrei dirvi…. E se non lo faccio ora probabilmente non lo farò più.”
Non sapeva perché lo stesse facendo, ma qualcosa dentro di lei le diceva che era il momento giusto. Era così stanca di tenersi dentro tutto quel dolore. Erano più di tre mesi che non parlava con qualcuno. Forse era stata la discussione a cui aveva appena assistito. Forse, semplicemente, aveva capito di potersi fidare di loro.
Le due gemelle si avvicinarono.
Dall’espressione di Rebecca Brenda aveva intuito che si trattava di qualcosa di importante, qualcosa che probabilmente aveva a che fare con il sogno che aveva avuto la prima notte ad Amtara.
Rebecca si voltò verso il fiume. Il sole basso, all’orizzonte, creava obliqui giochi di luce sulla superficie lucida. Socchiuse gli occhi, colpiti dal riverbero.
“Si tratta di Banita.”
“Il nome che pronunciavi nel sonno, quella notte.” – mormorò Brenda.
Rebecca annuì lentamente.
“Era mia madre.”
“Beh…” – disse Barbara, esitante “lo avevamo intuito, sai? Solo che pensavamo fosse giusto aspettare che fossi tu a volerne parlare.”
Rebecca non rispose. Apprezzava la loro delicatezza.
“Forse quel momento è arrivato.” – disse.
“Ma non sei costretta a farlo.” – disse Brenda.
Rebecca la guardò. “Lo so, ma ho bisogno di raccontarlo a qualcuno e … non mi fido di nessun altro.”
Le gemelle tacquero e lei cominciò a raccontare.
Fu una liberazione. Per la prima volta da quando sua madre era morta, aveva qualcuno a cui aprire il suo cuore.
Parlò a lungo, raccontò di suo padre e della sua morte, della vita trascorsa con Banita.
“Un giorno, molto tempo prima di morire, mi raccontò della Guerra dei Due Mondi e dell’avvento di Posimaar. Mi disse della nascita di Amtara e che io ero una Prescelta. Era ovvio. Mio padre, Anshir, era uno Stregone. 
All’inizio, la mia mente si rifiutava di accettare l’idea. Non ero pronta, non mi sentivo abbastanza forte. Ma lei mi disse che ce l’avevo nel sangue e che l’avrei resa orgogliosa.
Poi, pochi mesi dopo, se n’è andata, lasciandomi sola, e il mondo mi è crollato addosso. Non so come ho fatto a continuare a vivere. Non so dove io abbia trovato la forza per non lasciarmi morire.
Niente aveva più senso. Presto avrei dovuto lasciare la mia casa per sempre, affrontare la mia nuova vita. Ed ero sola. Distrutta. Annientata. Ero furiosa con il destino che mi aveva tolto l’ultima cosa bella che mi restava. La vita non aveva più alcun senso. Perché avrei dovuto restare fedele ad un dovere che non sentivo mio?
Quando è arrivata la lettera volevo stracciarla e andare avanti con la mia vita come se niente di quello che stava accadendo fosse reale. Non sarei mai diventata una Prescelta, il solo pensiero mi inorridiva.
Era impossibile, naturalmente. Sapevo che sarebbero venuti a cercarmi. Avevo il destino segnato, che mi piacesse o meno. Questo pensiero mi faceva impazzire. E’ stata forse la cosa più difficile che io abbia fatto in tutta la mia vita, a parte affrontare la malattia e la morte di mia madre.
Alla fine, fu proprio il pensiero di lei a darmi la forza. Mia madre aveva sempre creduto che sarei diventata una grande Prescelta.
Non potevo deluderla. Glielo dovevo.”
Rebecca tacque, cacciando indietro le lacrime. Non voleva mettersi a piangere davanti a loro.
“Hai avuto un grande coraggio.” – disse Brenda. “Devi essere fiera di te stessa.”
“Già. E io mi sento una perfetta idiota paragonata a te.” – aggiunse Barbara.
Ascoltare il racconto di Rebecca aveva improvvisamente ridimensionato la sua situazione. Perfino la discussione appena avuta con la sorella ora le appariva ridicola e priva di senso.
Rebecca era rimasta orfana di padre da piccola e proprio nel momento più cruciale della sua vita aveva perso l’unico punto di riferimento che le rimaneva nella vita. Aveva dovuto affrontare tutto da sola, al contrario di lei che aveva comunque due genitori e una sorella a cui potersi appoggiare.
“Hai vissuto un’esperienza terribile e nonostante questo sei riuscita a guardare avanti.” – continuò Barbara.
“Non avevo scelta.”
“Beh, c’è sempre una scelta.”
“Cosa avrei dovuto fare secondo te?”
Barbara si strinse nelle spalle. “Non lo so. Scappare, per esempio.”
“Per andare dove?”
“Ovunque. La Collins mica ti avrebbe sguinzagliato dietro le fate per venirti a prendere.”
Rebecca scoppiò a ridere. “Non ne sono così sicura.”
“Beh, avremmo potuto farlo anche noi, allora.” – disse Brenda.
“Sono certa che mamma avrebbe preferito saperci fuggiasche in giro per il mondo, piuttosto che chiuse qui dentro.” – replicò Barbara.
Brenda ridacchiò.
“Non sarei più riuscita a guardarmi allo specchio se fossi scappata.” – disse Rebecca, tornando seria. “E poi io amo la mia casa. Non vedo l’ora di poterci tornare durante le vacanze.”
“Ah sì? E cosa avrebbe di tanto speciale questa casa?” – domandò Barbara curiosa.
Rebecca le descrisse nei minimi dettagli Villa Bunkie Beach, il suo posto del cuore.
“Wow. Mi piacerebbe venirci, un giorno.”
“Certo che dovete venirci!”
Rebecca, felice, raccontò della meravigliosa vita che aveva sempre condotto lì e di tutte le cose divertenti che avrebbero potuto fare insieme. Le sembrava incredibile l’idea che avrebbe finalmente avuto qualcuno con cui condividere lo splendore di Bunkie Beach. Questo era ciò che più le mancava.
Quando salirono i gradini per rientrare ad Amtara, Rebecca si voltò a guardare le cime innevate delle montagne, dipinte di rosa nella luce del crepuscolo.
Aprì il portone ed entrò, sentendosi, per la prima volta, come a casa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** Azione e reazione ***


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Alamberta Rudolf



Capitolo 7
“AZIONE E REAZIONE”
 
Quella notte Rebecca dormì beatamente. Si sentiva incredibilmente in pace con il mondo, sia per essersi finalmente confidata con qualcuno, sia perché Brenda e Barbara, a seguito del loro chiarimento, avevano riscoperto il loro rapporto. Rebecca, da quando le conosceva, non le aveva mai viste così unite e spensierate. L’atteggiamento di Brenda si era decisamente ammorbidito e questo aveva influito positivamente sull’umore di Barbara. E anche sul suo.
Tuttavia, la sera prima, a cena, si era chiesta per un attimo se l’essersi confidata così apertamente con loro fosse realmente stata una buona idea. Brenda e Barbara l’avevano ricoperta di attenzioni al punto da farla sentire in imbarazzo.
“Ehm, Barbara, sono ancora in grado di servirmi il pesce da sola, grazie.” Barbara aveva preso il vassoio del pesce e le aveva servito sul piatto una quantità industriale di gamberoni allo spiedo.
“Lo so. Ma stasera mi va di essere gentile.” – era stata la risposta.
Anche Brenda non era stata da meno. Ogni volta che Rebecca finiva il suo bicchiere d’acqua, lei tornava a riempirglielo con precisione maniacale.
Rebecca non sapeva se sentirsi lusingata o irritata. Non le piaceva l’idea di essere compatita e aveva la netta impressione che fosse proprio quello che stava accadendo. Tuttavia, non protestò. In fondo, tutte quelle premure erano solo un segno di amicizia e solidarietà per tutto quello che aveva passato. Apprezzava il loro sforzo.
Quella sera andarono a letto presto e il mattino dopo si alzarono di buon’ora.
“Non dimentichi niente?” –  chiese Brenda a Rebecca, prima di scendere a colazione.
Rebecca, sulla soglia, la guardò per qualche istante, senza capire.
“La relazione di Orchese!” – esclamò Brenda spazientita.
“Oh cavolo!” Rebecca tornò indietro di corsa e afferrò il compito. Doveva consegnarlo quella mattina e, dal momento che quel giorno non avevano lezione con la Poliglotter, pensò di portarlo direttamente in Sala Professori, prima di colazione. Voleva fare una buona impressione, dopo tutto quello che era successo.
Quando Rebecca bussò, la preside aprì la porta. Indossava lo stesso abito scuro del primo giorno di scuola.
“Bonner! Che ci fai qui?” – chiese stupita.
“Buongiorno professoressa. Io … dovrei consegnare questo alla professoressa Poliglotter.” – rispose mostrandole il compito.
Il volto rugoso dell’insegnante di Lingue Demoniache fece capolino dietro la Collins.
“Che tempismo, Bonner.” – osservò, facendosi avanti e afferrando in modo brusco la pila di fogli. “Spero che tu abbia fatto un buon lavoro.” – aggiunse, lanciando al compito un’occhiata di sufficienza.
Il sangue le ribollì nelle vene, ma Rebecca ebbe la saggezza di tacere. Dietro di lei, la Collins la fissava con espressione interrogativa. Si domandò se la Poliglotter avrebbe parlato con lei della sua punizione.
Il solo pensiero le provocò una fitta allo stomaco. Le sarebbe dispiaciuto molto se la Collins si fosse fatta un’idea sbagliata sul suo conto. Per qualche ragione, il suo giudizio contava molto per lei, pensò dirigendosi verso l’Aula di Protezione.
Prese posto accanto alle gemelle giusto qualche attimo prima che la Rudolf entrasse.
L’insegnante spiegò che avrebbe insegnato a contrastare le Cinque Maledizioni Assassine usate dalle Streghe Nere. Durante le lezioni avrebbe dato dimostrazioni pratiche delle Maledizioni stesse, insegnando le Cinque Contromaledizioni da utilizzare in difesa dei Protetti. Per farlo, si sarebbe servita di comuni topini bianchi, che sarebbero stati usati come cavie.
Rebecca, animalista da sempre, inorridì. Trovava la cosa semplicemente disumana. Che bisogno c’era di fare del male a degli esseri innocenti? E come poteva la Collins tollerare una cosa simile? Non riusciva a credere che in una scuola come Amtara fosse permesso un tale abominio.
Tuttavia, cercò di controllare i suoi impulsi, limitandosi a prendere appunti mentre la Rudolf parlava e lanciando, di tanto in tanto, occhiate piene di compassione ai topi in gabbia che si agitavano inquieti.
Più tardi, in pausa pranzo, Rebecca parlò con le gemelle, esprimendo il desiderio di presentare formale protesta alla Collins per i barbari metodi di insegnamento dell’insegnante di Protezione.
“Che cosa?!” – esclamò Brenda, tossendo. Un pezzo di pane le era appena andato di traverso.
“Sei impazzita?” – fece Barbara picchiettando gentilmente sulla spalla della sorella. “La Rudolf insegna qui probabilmente da quando questa scuola è nata.”
“Già. Ed è evidente che nessuno ha mai fatto niente per fermarla.”
Barbara alzò gli occhi al cielo. “Cosa ti fa pensare che ti ascolteranno?”
“E soprattutto” – aggiunse Brenda con slancio, il viso paonazzo – “chi ti dà il diritto di giudicare?”
Rebecca la guardò storto. “E questo che vorrebbe dire?”
“Che non hai il diritto di criticare i metodi degli insegnanti.” Brenda sembrava seccata.
“Io mi limito all’osservazione dei fatti.” – replicò Rebecca, punta sul vivo. “Se a te non fa né caldo né freddo la sorte di quei poveri animali, allora mi dispiace per te. Per quanto mi riguarda, la Collins non dovrebbe permetterlo. Ci insegnano a Proteggere torturando altri esseri viventi, è disumano!”
“Rebecca,” – spiegò Brenda paziente, con lo stesso tono che avrebbe usato con un bambino di cinque anni, “i topi non vengono torturati. Le Contromaledizioni hanno effetto immediato. Sono sicura che gli animali nemmeno se ne accorgono.”
“Davvero?” – rispose Rebecca. “Allora perché non usare direttamente noi come cavie?”
“Dì un po’,”– le disse Barbara puntandole contro una forchettata di frittata, “per caso il tema di Orchese non ti è bastato? Guarda che alla prossima punizione io non ti aiuto, eh!”
Un pezzo di frittata roteò in aria finendo dritto sulla testa di Brenda, che fulminò con gli occhi la sorella e imprecò sottovoce, ripulendosi i capelli col tovagliolo.
Rebecca non rispose. Era convinta che le gemelle fossero dalla sua parte e il fatto che così non fosse non migliorò affatto il suo umore. La Rudolf maltrattava quei poveri animali, questo era fuor di dubbio, ed era assolutamente decisa ad andare a fondo della faccenda.
Tuttavia, le parole di Brenda l’avevano indotta a riflettere. Prima di compiere qualunque azione sarebbe stato saggio aspettare e vedere coi propri occhi in cosa consistevano esattamente le lezioni della Rudolf. Dopotutto, come diceva Barbara, aveva appena subito una punizione. Non era il caso di affrettare i tempi. Se, come diceva Brenda, si fosse resa conto che gli animali non soffrivano, allora avrebbe lasciato perdere. In caso contrario, era pronta a dare battaglia per una causa che considerava giusta e doverosa.
Alcuni giorni dopo la Rudolf si presentò in classe con un topo particolarmente grosso.
“Oggi vi mostrerò una Maledizione molto usata dalle Streghe Nere.” – esordì, posando la gabbia sulla cattedra. “E il motivo per cui viene usata tanto spesso è il fatto che la vittima crolla subito a terra, inerme. L’attacco è micidiale e occorre una grande preparazione per riuscire a contrastarlo in maniera efficace. E’ necessaria una straordinaria rapidità che, naturalmente, può essere solo frutto di un allenamento duro e costante. Vi invito a prestare molta attenzione alla formula che utilizzerò.”
La Rudolf aprì lo sportellino della gabbia e afferrò l’animale, che sgambettò lesto tentando di fuggire. L’insegnante strinse la presa, alzò la mano sinistra e gridò:“Insanio!”
Il topolino cominciò ad emettere striduli squittii e a dimenarsi furiosamente, prima di stramazzare sul tavolo, privo di sensi.
Rebecca, che non aveva tolto gli occhi di dosso un solo istante dalla bestiola, sussultò quando la Rudolf urlò “Sanificum!”  
Non accadde nulla, o almeno così le parve. Il topo non si svegliava.
Poi, la professoressa lo prese fra le mani, con delicatezza, e lo adagiò nuovamente nella gabbia.
Fu in quel momento che Rebecca si accorse che l’animale stava riaprendo gli occhi. All’improvviso si risollevò sulle zampe, puntando i suoi occhietti vivaci sulla classe che lo fissava, inebetita.
Tutto era tornato come prima. L’animale non mostrava il minimo segno di sofferenza, come se l’Incantesimo non avesse avuto alcun effetto su di lui.
 
“Qualcuna sa dirmi che Maledizione ho usato? Sì, signorina Apple?”
Jessica Apple aveva alzato la mano.
“E’ la Maledizione della Follia.” – rispose. “La vittima sente un gran dolore dentro la testa, come se avesse il cervello in fiamme. E’ chiamata così perché può portare rapidamente alla pazzia.”
“Proprio così!” - esclamò la Rudolf, compiaciuta. “La Maledizione della Follia è terribile. Il suo scopo è quello di portare alla pazzia nel più breve tempo possibile. Quello che vi serve sapere è che, per salvare il vostro Protetto, la vostra sola ed unica possibilità è di scagliare la Contromaledizione il più velocemente possibile. Dal momento in cui la Strega Nera lancia la Maledizione, ogni secondo è prezioso e può significare la vita o la morte, vostra e del vostro Protetto.”
Rebecca deglutì. Il solo pensiero che qualcuno potesse infliggere un tale dolore a un altro essere umano le risultava inconcepibile. E questa non era che una delle Cinque Maledizioni Assassine.
“Più a lungo aspetterete, più probabilità avrete di fallire.” – continuò la Rudolf. “Il vostro Protetto non resisterà per molto e se non agirete in tempo, tutto quello che vi resterà da fare sarà augurarvi che la morte sopraggiunga al più presto, per porre fine alla sua sofferenza.”
La Rudolf fece una pausa significativa, durante la quale le Streghe la fissarono, in un silenzio carico di tensione.
“E adesso tocca a voi.” – riprese. “Voglio che vi esercitiate. Vi chiamerò a turno e, quando avrò enunciato la Maledizione, voi scaglierete la Contromaledizione. Ripetete con me: “Sanificum!”
“SANIFICUM!” – ripeterono in coro.
La Rudolf cominciò l’appello, chiamando per prima Jessica Apple, che si avvicinò lentamente alla cattedra. Rebecca ebbe la netta impressione che tutta la baldanza di pochi istanti prima fosse evaporata. Le sembrò di notare un leggero tremolio nelle mani.
Insanio!” – gridò la Rudolf.
Jessica, terrorizzata dagli spasmi convulsi dell’animale, rimase a fissarlo senza muovere un muscolo.
Sanificum!” – gridò la Rudolf.
Il topolino smise di colpo di agitarsi.
“Che cosa stavi aspettando, Apple?” – la rimproverò la Rudolf, scura in volto. “Ho appena detto che dovete cercare di essere il più veloci possibile.”
“M-mi dispiace, professoressa.” Jessica era pallidissima.
“Vai al tuo posto, ci riproveremo più tardi.”
Rebecca fissò Jessica, con un misto di compassione e solidarietà.
“Barbara Lansbury.” – disse la Rudolf.
Barbara sussultò.
Rebecca assistette incuriosita alla prova dell’amica che, con suo enorme stupore, se la cavò brillantemente. Fu così veloce a lanciare la Contromaledizione che Rebecca a malapena si accorse dell’agitazione del topo.
“Ottimo lavoro, Lansbury, davvero.” – si congratulò la Rudolf.
Barbara tornò a posto con un largo sorriso sulle labbra.
“Angela Garrett.”
Il sangue defluì dal viso di Angela.
Con passo pesante si trascinò verso la cattedra, fissando impietrita ora il topo, ora la Rudolf.
“Pronta?”
Angela annuì debolmente, anche se Rebecca avrebbe giurato che non lo era affatto.
“Insanio!”
Per alcuni terribili istanti il topo emise striduli squittii che fecero accapponare la pelle a Rebecca. Era tentata di tapparsi le orecchie con entrambe le mani.
Che cosa aspettava Angela a scagliare la Contromaledizione?
“SanTificum!”
Gli squittii cessarono di botto. Rebecca alzò la testa e per poco non le venne un colpo. Sulla testa del topo era spuntata una specie di piccola aureola dorata. Perplessa, guardò meglio. Sì, era decisamente un’aureola.
Si udirono delle risatine sommesse.
La Rudolf si massaggiò piano le tempie. “Garrett, potresti ripetermi la Contromaledizione che hai usato, per favore?”
“S-sanificum.” – balbettò la ragazza, ignara del danno che aveva combinato. Angela si ostinava a non voler guardare la bestiola, convinta di averla uccisa.
La Rudolf sospirò, paziente. “No, Garrett. Non è questa la formula che hai usato. Hai detto Santificum, con la t.”
Ci furono altre risatine.
“Guarda il topo, Garrett.”
Angela non si mosse.
“Ho detto: voltati a guardare il topo.” – ripeté la Rudolf aspra.
Angela fu costretta ad obbedire e spalancò gli occhi, inorridita.
Ora la classe rideva rumorosamente.
“Oh.” – fu tutto quello che riuscì a dire.
“Vai pure al tuo posto.”
Angela, mortificata, obbedì.
Con un leggero movimento delle dita, la Rudolf annullò l’incantesimo e l’aureola svanì in una nuvola di fumo dorato.
Prima che l’insegnante potesse chiamare qualcun altro Rebecca, incapace di trattenersi oltre, alzò la mano.
“Cosa c’è, Bonner?”
“Professoressa… avrei una domanda.”
“Sì, dimmi pure.”
“Ecco… mi stavo chiedendo… non crede di aver torturato abbastanza quel povero topo per oggi?”
Un silenzio glaciale scese nella stanza. Tutta la classe si girò a guardarla, chi con stupore, chi con sincera ammirazione, chi chiedendosi se fosse uscita di testa.
Brenda e Barbara, sedute vicino a lei, la fissavano a bocca aperta, ma Rebecca le ignorò, continuando a guardare la Rudolf che sembrava la vedesse solo ora per la prima volta.
Brenda si mise una mano sulla fronte, dolorosamente consapevole del disastro imminente. Non poteva credere che Rebecca l’avesse detto sul serio. Se non lo avesse udito con le proprie orecchie non ci avrebbe mai creduto.
Barbara tratteneva il fiato, guardando ora Rebecca, ora la Rudolf.
“Che cos’hai detto?” – mormorò la Rudolf, con una luce pericolosa negli occhi.
Nessuna allieva si era mai permessa di osare tanto.
“Le ho chiesto se non pensa di aver fatto abbastanza danni per oggi.”
“Rebecca!” Era la voce di Brenda.
Rebecca continuò ad ignorarla.
Gli occhi della Rudolf, ora ridotti a due fessure, lampeggiavano.
“Oh mamma….”- mormorò Barbara scuotendo piano la testa. Rebecca aveva fegato, non c’era alcun dubbio, ma ora stava esagerando. Il confine tra il coraggio e la stupidità si stava facendo sempre più labile.
“E dimmi, Bonner, di quali danni stai parlando, esattamente?” La voce della Rudolf non tradì la minima emozione.
“Quelli che ha inflitto a quel povero animale.”
La Rudolf si girò a guardare il topo, che non dava alcun segno di agitazione né di sofferenza.
“Quali, Bonner?” – ripetè la Rudolf.
Rebecca sapeva esattamente dove voleva andare a parare. La stava sfidando. Sapeva perfettamente che ora il topo stava bene, non era una stupida. La Rudolf stava rigirando la frittata a suo piacimento, ma non glielo avrebbe permesso.
“Abbiamo assistito tutte a quel terribile Incantesimo poco fa. Tutte abbiamo visto cos’ha fatto.”
Brenda scosse il capo. Rebecca stava coinvolgendo tutta la classe nella sua battaglia personale. Non le avrebbe retto il gioco ed era pronta a scommettere che nessuna delle compagne lo avrebbe fatto.
“Tu non approvi i miei metodi di insegnamento?” – domandò la Rudolf, tranquilla.
“Li approverei se non implicassero delle torture a poveri esseri innocenti.”
“Torture…” – ripeté la Rudolf, sottolineando la parola.
L’insegnante annuì stancamente. Poi si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi.
Rebecca intercettò lo sguardo di Brenda, che la stava fulminando con gli occhi. Sapeva benissimo cosa pensava, ma non era assolutamente pentita di quello che aveva detto.
“Vedi, Bonner” – disse la Rudolf “ quella che tu definisci tortura, di fatto, altro non è che il tentativo di salvarti la vita. Tu non hai la minima idea della potenza delle Streghe Nere. Non sono più quelle di un tempo. Sono peggio, molto peggio. Il Demone Supremo le ha ricreate più forti, spietate, crudeli. Uccidono senza sosta, instancabili. Non hanno la minima pietà. Non cercano vendetta, non lottano per il predominio. Sono come automi addestrati per uccidere. Questo è il loro compito e lo porteranno a termine a qualunque costo. Credi sia stata una passeggiata allestire questa scuola? Credi che siamo qui per perdere tempo? Credi che io mi diverta e non abbia altro da fare nella vita?”
L’insegnante si alzò e si avvicinò a Rebecca. Si chinò su di lei. Rebecca ora poteva sentire il calore del suo alito sul viso.
“Credi davvero che quel topo abbia sofferto oggi, Bonner? Aspetta di essere al cospetto di una Strega Nera e capirai cos’è davvero il dolore. Cosa farai quando il tuo Protetto verrà colpito e tu non sarai in grado di fare nulla per salvarlo? Cosa farai quando lo sentirai urlare, quando lo vedrai cadere a terra e contorcersi dal dolore? Sarai pronta? Sarai abbastanza veloce da scagliare la Contromaledizione? Perché solo di questo si tratta. E’ questo il mio compito, farti uscire da qui con la consapevolezza di averti insegnato a fare questo. Credi che mi importi di quello che ti succederà se non ne sarai in grado, Bonner? E’ la tua vita ad essere in pericolo, non certo la mia.”
A quel colpo basso, Rebecca strinse i pugni.
La Rudolf se ne accorse e fece una risatina sarcastica. “La verità fa male, ragazza mia, ma le cose stanno così. Faresti bene ad occuparti di questo, piuttosto che di quello stupido topo che, oltretutto, come puoi ben vedere, gode di ottima salute al momento. Hai tre anni di tempo e le Maledizioni Assassine sono cinque.”
L’insegnante si risollevò e tornò a sedere in cattedra.
“Non intendo tollerare altri affronti del genere, Bonner. O sarò costretta a fare intervenire la preside. Per quello che mi riguarda mi hai già fatto perdere abbastanza tempo durante la mia lezione, tempo che avremmo potuto impiegare, ad esempio, a vedere come te la saresti cavata tu con la Contromaledizione. Sono certa che non avresti sbagliato un colpo, ma sicuramente ce ne darai dimostrazione alla prossima lezione.”
Rebecca non rispondeva. Continuava a sostenere lo sguardo glaciale dell’insegnante senza battere ciglio.
“Ciononostante, se le mie lezioni non ti sono gradite, puoi sempre prendere in considerazione l’idea di abbandonare la scuola. Sono certa che il Mondo Magico Bianco troverà la giusta collocazione al di fuori di qui per una Strega del tuo calibro.”
A Rebecca non sfuggì il tono offensivo. La Rudolf sogghignava soddisfatta. L’aveva sconfitta, su tutti i fronti e, non contenta, la stava ora umiliando davanti a tutte.
Con la coda dell’occhio vide Brenda che la fissava, di nuovo, ma non la guardò.
La campanella suonò, ma nessuna si mosse. Erano troppo curiose di vedere come sarebbe andata a finire.
La Rudolf si rivolse alla classe. “Continueremo con la Maledizione della Follia la prossima volta. Non passeremo alla Maledizione successiva fino a quando non avrete ottenuto tutte una perfetta padronanza della Contromaledizione. Capito, Garrett?” – aggiunse poi, rivolta ad Angela.
“Sì professoressa.” – mormorò la ragazza.
“E da te voglio anche una relazione sugli effetti delle Contromaledizioni pronunciate male, sono stata chiara?”
“S-sì.”
Poi tornò a rivolgersi alla classe. “E per la prossima lezione mi dovrete portare una relazione di almeno 15 pagine su questa Maledizione, i suoi effetti e l’uso della Contromaledizione.”
In aula si levò un borbottio indignato.
“Se avete qualcosa in contrario, rivolgetevi a Bonner. Il compito non era previsto, ma dato che questa classe si sta rivelando piuttosto indisciplinata, troveremo il modo di aggiustare le cose.”
“Ma professoressa, non è giusto….” – protestò qualcuna.
“Noi non c’entriamo niente…” – disse un’altra.
“Bonner, la tua relazione dovrà essere lunga 10 pagine in più. In caso contrario, non disturbarti a tornare.” – aggiunse la Rudolf, ignorando le proteste.
Rebecca non rispose.
“Hai capito quello che ti ho detto, Bonner?”
“Sì, professoressa.” – rispose Rebecca in tono funereo.
Con uno sguardo di trionfo, l’insegnante si alzò e uscì.
Rebecca, incredula per quanto successo, non si mosse dalla sedia.
Non poteva crederci. La Rudolf l’aveva battuta con le sue stesse armi, mettendole contro tutte le compagne le quali, ora, la fissavano con odio.
“Ma brava Rebecca, complimenti.”
“E’ tutta colpa tua.”
“Me la scrivi tu la relazione?”
“Non potevi startene zitta?”
Furono solo alcuni dei commenti che la colpirono come schegge. Poi sentì qualcuno prenderla per un braccio e trascinarla via, accorgendosi solo quando fu uscita che si trattava di Brenda.
“Dai andiamo, prima che ti mettano alla gogna. Hai combinato già abbastanza guai per oggi.” – disse in tono tagliente, seguita da Barbara.
 
“Dovevi proprio farlo?” – sbottò Brenda più tardi, in Sala da Pranzo. “Te lo avevamo detto che era un’idea stupida. Ma tu no, hai dovuto fare di testa tua! E con quale risultato? Ora ci ritroviamo tutte le compagne contro e per di più con una dannata relazione da fare. Hai idea di cosa significhi?”
“15 pagine!” – disse Barbara, con voce acuta “15!!! Oh, non ce la faremo mai….”
Rebecca era al colmo della mortificazione. Non aveva detto una parola da quando era stata trascinata via di peso dalla classe. Avevano raggiunto la Sala da Pranzo ma nessuna di loro sembrava avere appetito. Lei, di sicuro, non avrebbe toccato cibo, o avrebbe vomitato seduta stante. Poteva sentire addosso come spilli le occhiate infuocate delle compagne di classe attorno a lei. Non ebbe nemmeno il coraggio di alzare la testa.
Brenda sospirò. “Ti prego, dimmi almeno che quello che è successo ti è servito di lezione.” – disse stancamente.
Rebecca non rispose. Non voleva ammettere che le parole della Rudolf avevano avuto un certo effetto su di lei. Aveva pensato solo ai topi e non aveva considerato tutto il resto.
Tutto quello cui riusciva a pensare ora era l’odio profondo che tutta la classe covava contro di lei. Non sarebbe mai riuscita a fare ammenda. Non la elettrizzava nemmeno il pensiero delle notti insonni che avrebbe trascorso sui libri per scrivere quelle dannate 25 pagine.
“Guarda, se non ti odiassi a morte per la punizione che dovremo scontare per colpa tua, quasi quasi ti ammirerei.” – disse Barbara.
Brenda si voltò piano a guardarla, stralunata. “Ammirare? Ammirare? Cosa ci sarebbe mai da ammirare, sentiamo!”
“Beh, non puoi negare che ha avuto fegato.”
“Io la chiamerei stupidità.”
Rebecca sussultò, offesa. “Grazie tante, Brenda.” – disse, ferita.
“Beh, scusa tanto se non riesco ad essere comprensiva. Avresti dovuto contare fino a dieci prima di parlare e metterci tutte nei guai. Dopotutto, nessuno di quei dannati topi è mai morto sotto l’effetto di quella Maledizione, no?”
“Non è questo il punto.”
“Altrochè se lo è. Hai sentito cos’ha detto la Rudolf. Hai sentito quello che ci aspetta. Se non impareremo a difendere noi e il nostro Protetto, per noi sarà la fine. E’ questo che vuoi? Beh, io certamente no.”
Rebecca non disse nulla. Sapeva cosa provava Brenda perché era la stessa identica paura che aveva lei. Ma continuava a pensare che ad Amtara avrebbero potuto trovare altri modi per insegnare che non implicassero l’uso di altri esseri viventi.
“Io non metto in discussione il fine, ma il mezzo.” – disse.
“Oh, dai Rebecca!” – fece Barbara. “Quei topi non stanno poi così male. E poi cos’avrebbero dovuto fare? Usare esseri umani come cavie?”
“Beh, non è una giustificazione. Continuo a pensare che è crudele e disumano.”
Barbara e Brenda sospirarono, scambiandosi una breve occhiata. Non sarebbero mai riuscite a farla ragionare.
“Ascolta, ormai quel che è fatto è fatto.” – disse Brenda. “Tu puoi continuare a pensarla come ti pare, resta il fatto che la Rudolf continuerà ad utilizzare i suoi metodi di insegnamento e tu non potrai farci proprio un bel niente.”
“A meno che tu non decida di andare a parlare con la Collins.” – suggerì Barbara.
“Barbara, ti prego, non metterle certe idee in testa…”
Rebecca sospirò. “Mi sono già guadagnata 2 punizioni in pochi giorni, non metterò altra carne al fuoco coinvolgendo la preside.”
“Dio sia ringraziato.” – disse Barbara.
“Puoi cercare di metterci una pietra sopra? Sai, almeno il tempo necessario per pensare a come finire quella relazione per la prossima lezione di Protezione.”
“Sì, e magari, nel frattempo, cercare di sopravvivere alla furia cieca delle nostre compagne di classe.” – aggiunse Barbara in tono tetro, guardandosi attorno con aria circospetta.
Rebecca seguì i suoi occhi. Sguardi omicidi la fissavano come se avessero voluto scuoiarla viva.
L’aspettavano giornate molto, molto difficili, pensò depressa.
“Sai, nonostante tutto, ho avuto quasi l’impressione che la Rudolf ci abbia goduto un mondo a punire tutta la classe.” – disse Barbara, pensierosa.
“Certo, il suo scopo era proprio quello.” – considerò Brenda. “Quale miglior vendetta che fare sì che tutte ce l’avessero con Rebecca?”
“E’ stata davvero meschina.” – disse Barbara. “E ingiusta.”
“Si è divertita un mondo.” – disse Rebecca lugubre. “Ho visto come rideva sotto i baffi quando ha lasciato la classe.”
“Beh, la cosa importante ora è non darle più modo di attaccarti.” – disse Brenda. Poi diede una breve occhiata alle altre, che non la smettevano di fissare nella loro direzione, confabulando sottovoce tra loro. “E per quello che riguarda le altre, parleremo con loro, se necessario. È lampante che la Rudolf ha voluto metterci tutte contro Rebecca. Ma noi non le daremo questa soddisfazione. Dobbiamo rimanere unite.”
“E che cosa ti fa pensare che ti daranno retta?” – domandò Barbara, scettica. “Dopotutto, Rebecca finora ha stretto amicizia solo con noi. Nessuna di loro ha un rapporto così stretto con lei.” – aggiunse, come se Rebecca non fosse presente.
Rebecca, un po’ risentita, si accigliò.
“Non è questione di amicizia. Siamo Prescelte. Dobbiamo rimanere unite, a prescindere. Rebecca chiederà scusa, se necessario.”
“Che cosa?!” – esclamò Rebecca. “Io non ho nulla di cui scusarmi!”
“Altrochè, mia cara. E lo farai. O sarai costretta a scrivere anche le nostre di relazioni, oltre alla tua.” – replicò Brenda veemente. “Tu hai combinato questo pasticcio e ora farai tutto quello che sarà necessario per tirarcene fuori.”
Rebecca aggrottò la fronte. Era un’idea che non le piaceva affatto. “Ce l’hanno con me, non con voi.”
“Sì, ma se non te ne sei accorta, noi viviamo con te 24 ore su 24.” – precisò Barbara. “Personalmente ci tengo alla pelle.”
“Non è il momento di fare la sostenuta, Rebecca.” – aggiunse Brenda.
Rebecca distolse lo sguardo. L’orgoglio le diceva di non cedere. In fin dei conti, loro stesse avevano ammesso che la Rudolf era stata ingiusta. Ma era un’insegnante e aveva il coltello dalla parte del manico. Che alternative aveva?
Sospirò. “Non mi piace affatto l’idea di dover chiedere scusa.”
“Non piace neanche a me l’idea di scrivere 15 pagine di relazione ma, guarda un po’, dovrò farlo!” – la punzecchiò Barbara.
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Premonizioni ***


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Gustav Cogitus




Capitolo 8
“PREMONIZIONI”
 
Se Rebecca aveva pensato che le cose non potessero andare peggio di così, si sbagliava.
Molto presto tutta la scuola venne a sapere di quello che era accaduto con la Rudolf, così Rebecca si ritrovò a dover affrontare non solo la rabbia delle compagne di classe ma anche le risatine alle sue spalle di tutte le altre Prescelte.
“Ehi, Bonner, ma davvero volevi proteggere i topi?” – la canzonò un giorno una ragazza in corridoio.
“Squitt squitt squitt!” – fece l’amica che l’accompagnava.
Con un immenso sforzo su se stessa, Rebecca tirò dritto, decisa ad ignorarle.
“Passerà.” – disse Barbara quando Rebecca raccontò a lei e Brenda l’accaduto. “E’ la notizia del momento. Si stancheranno presto, vedrai.”
“E alla nostra classe? Quando passerà?” – replicò Rebecca, in tono acido. “Nessuna di loro mi ha più rivolto la parola dopo la lezione con la Rudolf.”
“Augurati che prendano tutte un buon voto nella relazione. Altrimenti sì che sarai nei guai.”
“A proposito della relazione, voi a che punto siete?” – domandò Brenda.
“Io sono indietro.” – rispose Barbara. “Mi devo dare una mossa o non riuscirò mai a finirla in tempo.”
“E tu Rebecca?”
Rebecca abbassò lo sguardo. “Io….. non l’ho ancora iniziata.”
“CHE COSA?!” – esclamarono le gemelle all’unisono.
“Non riesco a concentrarmi!”
“Beh, ti conviene farlo, se non vuoi essere espulsa.” – disse Barbara in tono allarmato. “Hai sentito la Rudolf. Non disturbarti a tornare.”
“Lo so.” – rispose Rebecca con un sospiro. “Stasera devo assolutamente cominciare.”
A farla stare peggio era il senso di colpa nei confronti di Angela Garrett, che aveva cominciato subito il suo lavoro per la Rudolf passando ore e ore in biblioteca. Rebecca e le gemelle la vedevano sempre china sui libri, talmente assorta nel suo lavoro da non accorgersi di loro.
Angela era l’unica persona della loro classe che si comportava con Rebecca esattamente come prima. Nonostante tutto, sembrava che nulla per lei fosse cambiato e se da una parte Rebecca le era infinitamente grata, dall’altra si sentiva un po’ a disagio. Non le era piaciuto il modo in cui la Rudolf l’aveva trattata nell’ultima lezione e sentiva il bisogno di fare qualcosa per lei. In fin dei conti era per causa sua che Angela passava tutto quel tempo china sui libri. Meritava il suo aiuto e ne parlò con le gemelle.
“Scusami” – disse Barbara piccata “ Anche io passo le mie serate china sui libri per colpa tua. Quale sarebbe la differenza?”
“Beh, tu te la sei cavata alla grande con il Controincantesimo.”
“Precisamente. Lei invece no. Perché questo dovrebbe essere un vantaggio?”
“Perché dovrebbe invece essere una colpa?”
“Senti, Rebecca” – intervenne Brenda aggrottando la fronte “non è che vuoi aiutarla perché è l’unica che non ti ha tolto il saluto?”
“Centro!” – esclamò Barbara puntando un dito contro sua sorella.
Rebecca la fulminò con gli occhi.
“Sentite, non sto dicendo che farò il lavoro per lei. Non ne avrei il tempo. Ma potremmo comunque studiare insieme e darci una mano, no?”
“Io preferisco lavorare di sera in camera nostra.” – ribattè Barbara. “Riesco a concentrarmi meglio.”
“Lo stesso vale per me.” – disse Brenda.
“E’ una ripicca bella e buona la vostra.” – mugolò Rebecca.
“No, è solo buon senso.” – rispose Brenda. “Lascia perdere Angela e per una volta pensa a te stessa. Manca poco alla prossima lezione di Protezione. Stasera subito dopo cena ci chiudiamo in camera e ci mettiamo a lavorare di buona lena. Tutte quante.”
Furono giorni di intenso e febbrile lavoro. Nei giorni successivi Rebecca non avrebbe ricordato pressoché nulla di quelle giornate che la assorbivano completamente. Lei e le gemelle arrivavano per prime in Sala da Pranzo per la cena, mangiavano di corsa e poi si rifugiavano in camera a lavorare.
Due giorni prima della lezione di Protezione riuscirono tutte e tre a finire il compito.
Rebecca era soddisfatta. La sua relazione era lunga esattamente 25 pagine, come aveva chiesto la Rudolf. Quella di Brenda e Barbara poco più di una quindicina.
Avevano Protezione alla prima ora.  Uscirono dalla Sala da Pranzo con un certo anticipo, per non rischiare di arrivare in ritardo.
Rebecca sedette al suo posto, ignorando le occhiate delle compagne. Chissà se erano riuscite tutte a finire la relazione. Si augurò di sì e pregò in cuor suo che la Rudolf fosse magnanima con tutte loro, altrimenti non avrebbe più avuto vita facile ad Amtara.
Quando l’insegnante entrò in classe scese un silenzio di ghiaccio.
La Rudolf sedette e alzò gli occhi, incrociando subito quelli di Rebecca seduta davanti a lei.
“Bonner. Ci degni ancora della tua presenza. Devo dedurre che hai portato a termine il compito.”
“Sì, professoressa.”
“Molto bene, consegnatemi tutte le vostre relazioni.”
Una ad una si alzarono e obbedirono.
Poi, come Rebecca si era aspettata, la Rudolf le fece esercitare ancora con la Maledizione della Follia e la prima ad essere chiamata fu lei.
“Vediamo come te la cavi, Bonner. O ritieni che il dolore che infliggerò a quel topo sia troppo grande da sopportare per te?”
Alcune ragazze sghignazzarono.
Rebecca si fece paonazza, reprimendo l’istinto di prenderla a schiaffi. C’era da aspettarselo, la Rudolf non le avrebbe reso la vita facile e la risatine delle compagne non erano certamente d’aiuto. Avrebbe voluto voltarsi per vedere chi aveva riso di lei e atterrarle con un pugno.
Ma non era il momento di lasciarsi sopraffare dalla rabbia. La Rudolf non aspettava altro che vederla cedere per poi prendersi gioco di lei ancora una volta, lì, davanti a tutte.
Non gliel’avrebbe permesso. Non stavolta.
“Allora, sei pronta?” – chiese la Rudolf, che intanto aveva preso tra le mani il topo e lo aveva messo sul tavolo.
Prima che quello potesse scappare e prima ancora che Rebecca potesse formulare qualunque pensiero, la Rudolf gridò “INSANIO!” e l’animale, sotto gli occhi terrorizzati di Rebecca, fu scosso da quelle che avevano tutta l’aria di essere violente convulsioni.
Restò lì immobile a guardare l’animale contorcersi dal dolore per quello che parve un tempo infinito.
“TI VUOI MUOVERE, BONNER?”
La voce della Rudolf la fece scattare.
“SANIFICUM!” – gridò Rebecca con quanto fiato aveva in gola.
Di colpo, il topo si fermò e si accasciò sul tavolo. Rebecca pregò che non fosse morto. Era la prima volta che faceva quel tipo di magia e non aveva la più pallida idea se avrebbe funzionato o meno. Si chiese come avesse fatto Barbara a farla funzionare così bene la prima volta.
Poi, piano piano, prese consapevolezza di quanto accaduto. Vide il topo rimettersi dritto sulle zampe, gli occhietti vispi che la fissavano, curiosi.
Ce l’aveva fatta.
Un largo sorriso le spuntò sulle labbra.
“Brava!” – esclamò Barbara dietro di lei.
“Grande Rebecca!” – le fece eco la sorella.
Rebecca guardò la Rudolf e notò con un certo compiacimento l’espressione risentita che aveva dipinta in faccia. Naturalmente non era quello che l’insegnante si era aspettata.  Probabilmente aveva pensato che Rebecca avrebbe fatto la stessa figuraccia di Angela Garrett, ma si sbagliava. A quanto pare le sue doti magiche non erano poi tanto male, pensò con una punta di orgoglio.
“Puoi tornare a sederti, Bonner.” – le disse la Rudolf in tono gelido.
Con espressione trionfante Rebecca obbedì. Alcune compagne la guardavano in cagnesco, ma ormai non le importava più.
Aveva vinto lei.
 
La settimana successiva la Rudolf riconsegnò le relazioni. Rebecca guardò il voto scritto in alto a destra, un po’ sconfortata. Aveva preso 6.
Brenda e Barbara avevano preso 8 e Angela 5.
Rebecca scoprì che alle altre era andata piuttosto bene. La classe aveva avuto la media del 7.
“Questo dovrebbe cambiare le cose, no?” – disse Brenda.
“Cosa intendi?” – chiese Rebecca.
“Torneranno a parlarti.”
“Tu dici?”
“Lo spero bene.”
Ma ci volle più tempo del previsto. Non tutte erano disposte a dimenticare, sebbene, nei giorni successivi, Rebecca notò che alcune di loro non la fissavano più con aria ostile.
Era un inizio.
Forse aveva ragione Barbara, con il tempo avrebbero dimenticato e tutto sarebbe tornato come prima.
Rebecca tirò un sospiro di sollievo quando anche la Poliglotter le restituì la relazione di Orchese.
“Sei.” – commentò a voce alta.
“Esatto, Bonner.” – rispose l’insegnante. “Avresti potuto impegnarti di più, ma ho saputo che hai avuto del lavoro extra da fare anche in Protezione. Forse questo ti ha distolto un po’ dal tuo impegno con la mia materia.”
Rebecca non seppe cosa rispondere. A quanto pareva le voci correvano veloci ad Amtara.
Doveva immaginarlo che gli insegnanti avrebbero parlato tra loro. Probabilmente la Rudolf e la Poliglotter si erano perfino accordate sul voto.
“Non ti lamentare.” – le disse Barbara. “Poteva andarti molto peggio.”
E Rebecca scoprì che era proprio così.
Archiviate le punizioni, le lezioni delle due insegnanti ripresero in un clima decisamente più leggero, lo stesso che si respirava durante le lezioni di Gestione Antiveggenza con il professor Cogitus.
Il professore aveva un costante atteggiamento bonario e sornione e il fatto che non desse mai compiti gli aveva guadagnato immediatamente tra le ragazze la nomea di miglior insegnante di Amtara. Rebecca sospettava che il fatto che nessuna fosse mai stata bocciata nella sua materia avesse molto a che vedere con la spropositata stima delle allieve nei suoi riguardi.
Il professor Cogitus sedeva già in cattedra quando le ragazze entrarono per la loro prima lezione, ma questi non parve accorgersene perché continuò a leggere il suo libro in religioso silenzio, senza alzare gli occhi. Solo dopo alcuni minuti, quando tutte furono sedute, il professore alzò la testa e posò distrattamente lo sguardo sulle nuove arrivate, ignorando le risatine soffocate provenienti dalle file in fondo.
Poi, senza dire una parola, si alzò e cominciò a camminare tra i banchi, con aria pensierosa. Rebecca lo fissava divertita, domandandosi se fosse davvero così o stesse semplicemente recitando.
“La Gestione dell’Antiveggenza, cioè delle Premonizioni, ha radici molto antiche.” – cominciò Cogitus, col naso per aria. “Fin dalla nascita della Magia Bianca le figlie di Streghe Bianche e Stregoni erano dotate dello straordinario Potere di prevedere eventi tragici. Molte furono le stragi e gli omicidi sventati grazie a loro.”
“Con l’avvento del Demone Supremo, il vostro ruolo di Prescelte è divenuto essenziale per la sopravvivenza del Mondo Magico Bianco. A partire da oggi, durante le mie lezioni, imparerete a gestire le vostre Premonizioni, a controllarle e ad agire di conseguenza e la prima cosa che faremo sarà analizzare le vostre Premonizioni passate. È importante capire come funziona questo Potere, perché solo conoscendolo a fondo sarete in grado di gestirlo.”
Cogitus tornò a sedersi e fece vagare lo sguardo sulla classe. “Allora, chi vuole cominciare?”
Nessuna alzò la mano.
Rebecca ripensò a quella volta in cui, da piccola, aveva salvato uno scoiattolo che stava finendo dritto dentro una trappola.
Ricordava molto bene quel giorno. Lei e Banita stavano camminando in un bosco e all’improvviso Rebecca si era messa a correre davanti a sua madre, come se stesse inseguendo qualcosa. Banita le era subito corsa dietro, spaventata. Quando l’aveva raggiunta, Rebecca era accanto ad un albero e reggeva qualcosa fra le mani. Banita si era avvicinata. Era una piccola trappola per animali. Lì accanto, ai piedi dell’albero, c’era uno scoiattolino rosso. Veloce come un fulmine, l’animale si era arrampicato sull’albero ed era sparito tra i rami. Banita aveva afferrato la trappola e l’aveva lanciata lontano. Poi, senza dire una parola, erano tornate a casa.
Diversi anni dopo Banita le aveva spiegato che era convinta che Rebecca avesse avuto una Premonizione, anche se lei era troppo piccola per ricordare se fosse andata effettivamente così. Ma sua madre le disse che non poteva esserci altra spiegazione, perché quando Rebecca si era messa a correre lo scoiattolo e la trappola erano molto lontani dal punto in cui si trovavano lei e Banita. Era impossibile che Rebecca fosse riuscita a vedere la trappola. Doveva per forza aver avvertito il pericolo attraverso una Premonizione.
Un anno prima della morte di sua madre, invece, aveva avuto una Premonizione che riguardava proprio Banita. Stava camminando lungo Bunkie Beach quando, all’improvviso, le era apparsa la visione di Banita a letto, le guance scavate, il viso pallido e sudato. Rebecca le sedeva accanto, tenendole la mano, le guance rigate di lacrime.
Poi, l’immagine cambiò. La mano di Banita ora giaceva inerte nella sua. Rebecca era crollata sul letto, le spalle scosse dai singhiozzi.
Gli occhi di sua madre fissavano il vuoto.
Rebecca, sulla spiaggia, si era sentita male. La Premonizione le aveva provocato un violento capogiro. Era caduta in ginocchio e si teneva la testa fra le mani, tremante e madida di sudore.
Un uomo gentile si era chinato su di lei, per prestarle soccorso.
“Si sente bene?” – le aveva chiesto.
Rebecca aveva sollevato lo sguardo e aveva annuito debolmente. L’uomo l’aveva aiutata ad alzarsi. Lentamente, Rebecca aveva cominciato a riprendersi.
Aveva ringraziato l’uomo ed era tornata verso casa, con il volto ancora in fiamme e la testa che le scoppiava.
Dopo quella terribile rivelazione, Rebecca aveva deciso di custodire il segreto. Non poteva rivelare la verità a Banita. Semplicemente, non poteva. Così, si tenne tutto dentro. Banita non seppe mai della Premonizione, nemmeno in punto di morte.
Ad un certo punto, Rebecca si era perfino illusa che si fosse trattato di un terribile sbaglio. “Probabilmente è stato solo un errore.” – pensava durante le sue lunghe notti insonni, in cui ascoltava il ritmo lento e regolare dei respiri di sua madre, che dormiva tranquilla nella camera accanto.
Banita era viva.
Stava bene.
Si era trattato solo di un brutto sogno.
Tutto qui.
Quello che accadde in seguito fu la prova che le Premonizioni non mentivano mai.
 
Rebecca non aveva avuto problemi a parlare con Brenda e Barbara della morte di sua madre, anche se aveva omesso la parte riguardante la Premonizione.
Ma parlarne di fronte a tutta la classe era tutt’altro paio di maniche. Inoltre, temeva di apparire ridicola se avesse raccontato la storia dello scoiattolo. Non era nemmeno sicura che si fosse trattato di una Premonizione, anche se Banita era convinta fosse così.
“Signorina Corner?”
La voce del professor Cogitus la riportò bruscamente alla realtà. Arianna Corner, la ragazza dai capelli rossi, aveva alzato la mano.
“Io ho visto morire mio nonno.” – annunciò.
Il professore annuì gravemente. “Te la senti di raccontarcelo?”
“Beh… Mio nonno paterno è morto quando avevo quindici anni. Aveva gravi problemi di cuore. Un giorno lo andai a trovare in ospedale ed ebbi una terribile visione del suo funerale, in cui era presente tutta la famiglia. Ero lì accanto al suo letto e all’improvviso la mia mente mi stava mostrando la sua sepoltura. Mia madre si accorse che non mi sentivo bene e mi accompagnò fuori. Dissi che avevo avuto un capogiro e che preferivo tornare a casa.  Non ne parlai mai con nessuno, ma ne fui sconvolta.”
La voce le si incrinò per l’emozione. Il professor Cogitus le si avvicinò e le appoggiò una mano sulla spalla.
“Poi cos’è successo?” – la incoraggiò.
“Poco tempo dopo il nonno ebbe delle complicazioni. Un mese dopo, la mia Premonizione si avverò.” – concluse Arianna con un filo di voce.
Rebecca la guardò. Probabilmente nessuno meglio di lei poteva capire quello che provava.
“So che molte Prescelte preferiscono non rivelare a nessuno le loro Premonizioni, proprio come è accaduto alla signorina Corner.” – disse Cogitus. “Questo è comprensibile, soprattutto se si tratta di eventi tragici riguardanti la propria famiglia. Di fronte alla malattia, perfino la Magia Bianca è del tutto impotente.”
Cogitus fece una pausa, poi si guardò intorno. “Qualcun’altra?” – domandò.
Con grande stupore di Rebecca, ci furono molte mani alzate. Evidentemente, il racconto di Arianna aveva contribuito a rompere il ghiaccio.
Durante la successiva mezz’ora altre cinque ragazze raccontarono la loro esperienza. Poi, il professor Cogitus le divise in gruppi e le invitò ad analizzare per iscritto le Premonizioni. Rebecca fu spedita in fondo all’aula insieme a Barbara, Arianna e Jennifer Watson, una ragazza con un cespuglio di ricci in testa.
Avevano appena cominciato a scrivere la Premonizione di Arianna, quando un grido riecheggiò per tutta la classe facendole sussultare.
Si voltarono.
Una ragazza si era accasciata al suolo, ma Rebecca non riuscì a vedere chi fosse perché le compagne si stavano radunando intorno a lei.
“Mi dispiace, mi è crollata addosso!” - farfugliò in preda al panico Melissa Gray, una ragazza con i capelli biondi e le lentiggini. “Io … ho sentito qualcosa di pesante, mi sono scansata e … e lei è caduta!”
“Brenda!” – gridò Barbara e Rebecca, avvicinandosi, scoprì inorridita che la ragazza a terra era proprio sua sorella.
“Largo! Fate largo!” – fece il professor Cogitus avvicinandosi e chinandosi su di lei.
Brenda era di un pallore mortale.
“Buon Dio figliola, ti senti bene?” – le chiese il professore.
Rebecca vide che l’amica aveva riaperto gli occhi e si guardava intorno smarrita.
“C-cos’è successo?” – farfugliò.
“Sei svenuta.” – le rispose Barbara, con una nota di panico nella voce.
Rebecca, accanto a lei, poteva percepire tutta la sua tensione.
“Sì, credo di aver avuto un capogiro.” – disse Brenda, tenendosi la testa tra le mani.
“Ora va meglio?” – chiese di nuovo Cogitus.
Brenda annuì debolmente.
“Te la senti di alzarti?” – chiese Rebecca.
“Sì.”
Cogitus, Rebecca e Barbara l’aiutarono a rimettersi in piedi.
“Forse dovresti andare in infermeria.” – suggerì l’insegnante.
“Posso accompagnarla, professore?” – chiese Barbara.
“Sì, certamente.”
Tutte si scansarono per farle passare.
Rebecca guardava Brenda con ansia mentre Barbara la sorreggeva con un braccio.
Le passarono davanti.
Era una sua impressione o Brenda stava volutamente evitando il suo sguardo?
Si strinse nelle spalle mentre uscivano dalla classe. Probabilmente Brenda era solo profondamente imbarazzata. Ciononostante Rebecca non riusciva a scrollarsi di dosso la sgradevole sensazione che ci fosse qualcosa di molto strano nel suo comportamento.
“Una pozione calmante è quello che ti ci vuole, figliola.”
Rebecca si voltò. Cogitus stava parlando a Melissa, che era in preda ad una violenta agitazione.
“Su, coraggio, vieni con me. E voi potete andare. La lezione per oggi direi che è terminata.”
Rebecca seguì le compagne fuori dall’aula e corse in infermeria.
Vi trovò due Streghe del secondo anno, che conosceva di vista, che si erano ferite alla mano durante una lezione di Protezione (perché la cosa non la stupiva?) a causa di una Contromaledizione pronunciata male.
Un’altra Strega aveva avuto la brillante idea di sperimentare su di sé un Incantesimo Allungante per Capelli. L’esperimento aveva funzionato fin troppo bene, a giudicare dalla folta chioma che ricopriva il letto, ricadendo in folte e lunghissime ciocche dappertutto. La ragazza piangeva.
Rebecca fermò l’infermiera Anderson, che si stava dirigendo a passo spedito verso il letto con un paio di enormi forbici in mano.
“Mi scusi, dove posso trovare Brenda Lansbury?” – domandò.
“Chi?”.
“Brenda Lansbury. E’ una Strega del primo anno. L’hanno appena portata qui.”
“No.”
“Prego?”
“Non hanno portato qui nessuno.”
La Anderson la fissò, perplessa e Rebecca la ringraziò, affrettandosi ad uscire.
Perché Barbara non l’aveva portata in infermeria? Forse Brenda non aveva voluto. Forse aveva solo bisogno di riposare e Barbara l’aveva accompagnata in camera loro.
Quando Rebecca giunse sull’uscio fece per aprire la porta ma si arrestò di colpo.
All’interno le due sorelle stavano parlando.
“Pensi che dovrei dirle la verità?” Era la voce di Brenda.
“Sì.” – rispose Barbara. “E’ una cosa che la riguarda.”
“Hai ragione. Ma secondo te cosa significa?”
“Non ne ho idea, ma se hai avuto una Premonizione su di lei, significa che è in pericolo, o che lo sarà molto presto.”
“Ma potrei essermi sbagliata.”
“Brenda, sai meglio di me che le Premonizioni non mentono mai. Dobbiamo dirglielo.”
Poi ci fu qualche attimo di silenzio.
“E’ nostra amica.” – disse Barbara. “Se fosse successo a lei tu vorresti che facesse lo stesso con te.”
Rebecca udì Brenda sospirare. “Sì, lo so.”
Era chiaro che stavano parlando di lei. Brenda si era sentita male perché aveva avuto una Premonizione su di lei durante la lezione di Cogitus.
Rebecca ci aveva visto giusto, Brenda aveva deliberatamente evitato il suo sguardo. Ormai la conosceva troppo bene per lasciarsi ingannare tanto facilmente.
Cosa aveva visto Brenda su di lei di tanto terribile da indurla a tenerle nascosta la Premonizione? Non erano forse amiche, come aveva detto Barbara?
Se Brenda aveva dei dubbi, doveva trattarsi di qualcosa di grave, non c’era altra spiegazione.
Qualcosa che riguardava il suo Potere, forse? A quel pensiero Rebecca inorridì. Era possibile che Brenda l’avesse vista Spostarsi? Con un sospirò, abbassò lo sguardo verso il polso destro, che teneva sempre fasciato con la polsiera. La sollevò quel tanto che bastava per vedere la piccola stella blu perfettamente disegnata sulla pelle.
Come si sarebbe giustificata? Cos’avrebbe raccontato? Era forse già arrivato il momento di rivelare alle due amiche il segreto del suo Potere? Avrebbe preferito non doverlo fare.
Pregando in cuor suo che non fosse così, bussò piano alla porta.
Doveva affrontare la questione. Se Brenda non era pronta a farlo, lo avrebbe fatto lei.
“Ragazze, siete qui?”
“Rebecca!” Udì gridare Barbara.
“Posso entrare?”
“Ma sì, certo.”
Rebecca entrò.
Erano sedute sul letto. Barbara sembrava tranquilla mentre Brenda evitava nuovamente il suo sguardo tormentandosi le unghie, nervosa.
Rebecca decise di ignorarla, rivolgendosi direttamente a Barbara.
“Vi ho cercato in infermeria.” – le disse, con un lieve tono accusatorio.
“Oh! Già, scusa, il fatto è che Brenda stava meglio e non ha voluto andarci.” Ora era Barbara quella in imbarazzo.
“Ti senti meglio, quindi?” – chiese Rebecca a Brenda, che stavolta fu costretta ad alzare il viso su di lei.
“Sì, meglio, grazie.” Abbozzò un lieve sorriso.
“Cosa ti è successo?”
Brenda non rispose. Aveva le dita arrossate dalla foga con cui si tormentava le pellicine delle unghie.
Rebecca attese.
“Mi sono sentita male.”
“Sì, questo l’abbiamo visto tutte. Ma perché?”
Ci fu un’altra pausa.
Barbara si mise una mano sulla fronte, emettendo un lungo sospiro.
“Qualcuna di voi vuole dirmi cosa sta succedendo?” – insistette Rebecca con una punta di impazienza nella voce.
Barbara si voltò verso sua sorella. “Se non lo farai tu, lo farò io.” – disse in un tono che non ammetteva repliche.
Brenda, con le spalle al muro, capitolò.
“Siediti, Rebecca.”
Rebecca obbedì.
“Io…..ho avuto una Premonizione. Ecco perché mi sono sentita male.”
“Capisco. E ti succede ogni volta che ne hai una?”
Brenda scosse la testa. “Solo quando sono molto violente.”
Rebecca strinse gli occhi. “Quindi non è stata molto piacevole.”
“Direi di no.”
“E cosa riguardava questa Premonizione?” – chiese Rebecca.
Rebecca non distolse gli occhi da Brenda nemmeno per un secondo. Sapeva che le avrebbe detto la verità, qualunque essa fosse.
Brenda sollevò gli occhi in quelli azzurro cielo di Rebecca. Ripensò alle parole di Barbara.
Glielo doveva, erano amiche.
“Te. Riguardava te.”
Rebecca non sapeva se fosse stato più saggio fingere di non sapere nulla oppure ostentare una sicurezza che, in ogni caso, non possedeva. Optò per la prima opzione.
“Me.” – ripeté.
Brenda annuì.
“In che senso riguardava me?”
Di colpo Brenda smise di tormentarsi le unghie.
“Ti ho vista nella foresta. Eri in piedi, accanto ad un albero. Era buio. All’improvviso hai guardato la tua mano destra, ti sei toccata il polso e, di colpo, sei scomparsa.”
Rebecca impallidì.
Dunque era così, esattamente come aveva immaginato. Brenda, senza saperlo né volerlo, aveva scoperto il suo Potere.
“Poi ho sentito delle grida.” – continuò Brenda. “Voci di donne. Urlavano come pazze. E poi ….. e poi ho sentito un lamento …. Ma era strano, non sembrava la voce di un essere umano. Sembrava quasi un animale ferito…”
Rebecca era confusa. Perché Brenda aveva visto tutte quelle cose?
Che cosa ci faceva nel bosco, di notte?
Di chi erano quelle voci?
E soprattutto di quale animale stava parlando?
Un brivido di paura le percorse la schiena.
Le Premonizioni non sbagliavano mai. Tutte le Prescelte lo sapevano.
Era una scena del suo futuro, quanto imminente…. nessuno poteva saperlo.
La cosa certa, per il momento, era che, presto o tardi, Rebecca avrebbe utilizzato il suo Potere ad Amtara.
“Ti senti bene?” Stavolta fu Brenda a chiederlo a Rebecca. L’amica era sconvolta, era evidente.
Rebecca la guardò, senza rispondere. Avrebbe voluto chiederle cosa pensava di quello che aveva visto ma non ne ebbe il coraggio.
Quasi le avesse letto nel pensiero, fu Brenda a parlare. “Sai, ho pensato fosse un errore.”
Rebecca corrugò la fronte. “Come può essere un errore una Premonizione?” – chiese contro ogni buon senso.
“E’ quello che ho detto io.” – disse Barbara, scuotendo la testa.
“Per il semplice fatto che quello che ho visto non ha alcun senso. Come hai fatto a scomparire in quel modo? E quelle voci? Quel lamento? Cosa ci facevi nella foresta di notte?”
“Scusa, come fa a saperlo se non è ancora accaduto?” – fece Barbara, ragionevole.
Rebecca non disse nulla. Poteva rispondere solo alla prima domanda, ma non era sicura che fosse la cosa giusta da fare.
D’altra parte, Brenda e Barbara non erano stupide. Se le Premonizioni non mentivano mai, allora doveva essere chiaro anche per loro che quello che Brenda aveva visto apparteneva al futuro di Rebecca. E certamente Rebecca non avrebbe mai potuto inventarsi il potere di svanire nel nulla così, da un giorno all’altro.
Riflettendo su tutto questo, tacque.
Per la seconda volta nel giro di poco tempo, si ritrovò a chiedersi se fosse o meno il caso di dare fiducia alle due amiche. Non l’avrebbero mai tradita, di questo era sicura.
Sua madre le aveva detto di custodire gelosamente il suo segreto e non rivelarlo a nessuno. Ma sua madre non era lì. Se Banita avesse conosciuto le gemelle era certa che avrebbe fatto un’eccezione. Rebecca ormai si stava affezionando a loro come se fossero le sorelle che non aveva mai avuto.
“Ehm…. Rebecca…. Ti senti bene?”
Rebecca alzò gli occhi. Barbara e Brenda la fissavano, intimorite e incuriosite allo stesso tempo.
Era chiaro che dovevano avere intuito qualcosa dall’espressione del suo viso.
Si coprì il volto con una mano e si abbandonò sul letto, esausta.
All’improvviso, si sentì stanchissima.
Era in pericolo?
Per quale motivo avrebbe usato il suo Potere?
Chi erano le donne che urlavano? Forse Brenda e Barbara? Le avrebbe coinvolte in qualcosa di estremamente pericoloso?
Se così fosse, allora avevano tutto il diritto di conoscere la verità.
C’era di mezzo Posimaar?
Chi era l’animale che si lamentava nella foresta? Una belva feroce creata dal Demone, forse?
Queste e mille altre domande si affollavano nella sua mente, che sempre di più si stava lasciando prendere dal panico.
E poi, perché era stata proprio Brenda ad avere quella Premonizione? Sarebbe potuto accadere a chiunque altra. Perché proprio a una delle sue migliori amiche?
Rebecca sapeva che nulla succedeva per caso.
Brenda le aveva dimostrato la sua fiducia confessandole tutto. Avrebbe anche potuto tacere, dopotutto.
Sospirò, sfregandosi gli occhi. “C’è una cosa che non vi ho detto.” – disse.
Raccontò di come sua madre l’avesse messa a parte di questo segreto solo in punto di morte, di come si fosse esercitata per giorni interi, terrorizzata che qualcosa potesse andare storto. Raccontò di Harry White e del suo provvidenziale salvataggio. (“Oddio, che avresti fatto se non ti avesse trovata!” – aveva esclamato Barbara).
Raccontò del supermercato (“Avrei tanto voluto esserci!” – aveva commentato nuovamente Barbara, divertita) e, infine, di come si era ritrovata sull’ottovolante.
Barbara scoppiò a ridere.
“C’è poco da ridere, sai! Se c’è una cosa che detesto è l’alta velocità!”
“E’ proprio questa la parte più divertente!”
Raccontò tutto, di come si fosse sentita una perfetta idiota le prime volte che aveva sperimentato quel Potere e di come, man mano che i giorni passavano, avesse acquisito sempre più fiducia in se stessa, fino al punto di decidere di Spostarsi per arrivare ad Amtara.
“Ecco perché sei stata la prima ad arrivare!” – esclamò Barbara.
“Già, non volevo correre il rischio di ritrovarmi su qualche altro ottovolante…” – rispose Rebecca con un mezzo sorriso. “In realtà non sono arrivata proprio a scuola, ma nella foresta…”
“Davvero?”
“Sì, ma poi ho seguito il sentiero e sono arrivata comunque in anticipo.”
“Ma poi non l’hai più usato?” – le chiese Barbara. “Voglio dire…. il tuo Potere.”
Rebecca scosse la testa. “Come avrei potuto? Non sono mai stata da sola da quando ho messo piede qui.”
“Quindi…. Tua madre non voleva che ne parlassi proprio con nessuno.” – disse Brenda.
“Queste sono state le sue parole. Ma sono certa che si sarebbe fidata di voi se vi avesse conosciuto.”
Le gemelle non risposero, un po’ compiaciute da quelle parole.
“Ehm…. Ce la fai vedere?” – domandò Barbara con cautela.
Rebecca sapeva che si riferiva alla stella.
“La copro non questa polsiera per non dare troppo nell’occhio. Non è un simbolo comune. Ho preferito non suscitare troppa curiosità attorno a me.”
“Quindi non ti sei mai fatta male al polso, in realtà?” – le chiese Barbara inarcando un sopracciglio.
Rebecca sghignazzò. “No.”
“Mi pareva un tempo troppo lungo per una semplice slogatura.”
Rebecca  sollevò la polsiera e mostrò la voglia blu.
“E’ piccola.” – disse Barbara.
“Ma fuori dal comune.” – aggiunse Brenda, osservandola. “Hai detto che tua madre ne aveva una uguale?”
Rebecca annuì. “Sì, ma non ha mai usato il suo Potere davanti a me. Anche se immagino funzionasse allo stesso modo.”
Brenda alzò gli occhi su di lei. “E’ un dono speciale, Rebecca. Qualcosa che appartiene solo a te. Credo che tua mamma abbia fatto bene a dirti di custodirlo con molta cura e di non farne parola con nessuno.”
“Non l’ho mai detto ad anima viva. Voi siete le prime a saperlo, e resterete le uniche. Dovete giurare che non ne farete mai parola con nessuno. Nemmeno con i vostri genitori.”
“Sai che puoi fidarti di noi.”
Rebecca annuì.
“Quindi, nella Premonizione di Brenda, ti trovavi nella foresta, probabilmente di notte, e ti sei Spostata.” – disse Barbara, pensierosa. “La domanda sorge spontanea: per quale accidenti di motivo?”
Rebecca la fissò. Nella foga del racconto, aveva quasi dimenticato la Premonizione.
Deglutì. Non aveva la più pallida idea di cosa significasse, ma era assolutamente sicura che non si trattasse di nulla di buono.
“Forse stavi andando a salvare qualcuno.” – buttò lì Brenda.
Rebecca sgranò gli occhi. “E chi mai dovrei salvare io? E da cosa poi?”
“Un Protetto?” – ipotizzò Barbara.
“Ma i Protetti non sono ad Amtara.” – protestò Rebecca. “E poi non verremo assegnate ad un Protetto prima dello scadere dei prossimi 3 anni.”
Brenda scosse piano la testa. “No, dev’essere qualcos’altro.” – mormorò.
“Qualcosa di grave, indubbiamente.” – disse Barbara. “Rebecca non userebbe mai il suo Potere se non in casi di estrema necessità. E poi non dimentichiamo le voci che hai sentito, Brenda. Qualcuno gridava. Forse Rebecca stava andando in loro soccorso. Magari nella foresta c’è qualche bestia feroce che ha attaccato queste persone.”
A Rebecca tremarono le gambe. Il pensiero che le parole di Barbara potessero nascondere un fondo di verità era a dir poco raccapricciante.
“Ehm, Barbara…. Non mi fai sentire molto tranquilla, sai…”
Barbara la guardò. “Sappi che di qualunque cosa si tratti noi non ti lasceremo mai sola.”
“Già, ma hai considerato per un attimo che le voci che tua sorella ha sentito potrebbero essere le vostre?”
Dall’espressione di Barbara capì che non aveva affatto considerato la cosa sotto quel punto di vista.
“Lo credi davvero?” – fece Brenda, allarmata.
Rebecca alzò le spalle. “Hai riconosciuto le voci?”
Brenda scosse la testa. “E come avrei potuto? Erano tante e troppo lontane.”
“Allora potrebbe essere chiunque. Incluse voi.”
“Stai cercando di farci paura?” – le chiese Barbara.
“No, ma ho paura di mettervi in pericolo a causa mia.”
Barbara e Brenda sgranarono gli occhi. “E come pensi sia possibile?”
“Non lo so. Non ne ho la più pallida idea.” – rispose Rebecca, impotente. “Ma è proprio il fatto di non sapere cosa accadrà a farmi più paura.”
Brenda sospirò. “Ascolta, io ti ho vista Spostarti per andare a salvare qualcuno. Di certo non eri tu la causa. E  come ha detto Barbara, qualunque cosa accada noi saremo insieme.”
Rebecca non rispose. Apprezzava le loro parole perché sapeva che erano sincere, ma non era affatto convinta che sarebbe andato tutto bene. Il fatto che le due amiche fossero dalla sua parte la confortava da una parte e la terrorizzava dall’altra. Non si sarebbe mai perdonata se fosse accaduto loro qualcosa per causa sua.
Ormai era chiaro che qualcosa di terribile sarebbe accaduto ad Amtara, anche se non sapeva né cosa né quando.
Come avrebbe potuto prepararsi a qualcosa di totalmente inaspettato? Si poteva combattere un nemico quando si conoscevano le sue mosse, i suoi piani. Come poteva difendersi da qualcosa che non aveva nè nome né forma?
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** Angela ***


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Angela Garrett


Capitolo 9
“ANGELA”
 
“Ehm … Rebecca, lo stai rovesciando dappertutto.” Barbara fissò la macchia scura che si stava allargando sulla tovaglia.
Rebecca, resasi conto del disastro, imprecò. Si stava versando il tè, soprappensiero e, inavvertitamente, lo aveva fatto fuoriuscire dalla tazza. Afferrò un tovagliolo di carta e cominciò a tamponare la tovaglia.
“Si può sapere che ti succede?” – domandò Brenda, esasperata. Il suo panino imburrato era diventato una poltiglia appiccicosa.
“Scusa.” – mormorò Rebecca.
“E’ dal giorno della Premonizione che sei strana.”
“Chissà come mai.” – commentò Barbara.
Rebecca sospirò, depressa.
Era la verità. Da quel giorno non aveva più avuto un attimo di pace. Tutto quello che fino al giorno prima era importante, di colpo aveva perso ogni interesse per lei. Non le importava più un accidenti dei topi della Rudolf, di imparare le Lingue Demoniache, delle noiose lezioni di Cogitus. La sua mente tornava continuamente alle immagini della Premonizione che Brenda era stata costretta, suo malgrado, a descriverle fin nei minimi dettagli. Rebecca aveva sperato di captare qualche segnale, qualunque cosa che avrebbe potuto aiutarla a fare luce su quello che sarebbe successo. Ma Brenda non era stata in grado di aiutarla più di tanto. Il ricordo della Premonizione, con il passare dei giorni, diventava via via sempre più sbiadito e alla fine Rebecca dovette arrendersi all’evidenza: non ne avrebbe cavato un ragno dal buco.
“Te l’abbiamo già detto, non serve a niente torturarsi in questo modo.” – disse Barbara ragionevole. “Tanto non c’è niente che tu possa fare.”
“E’ proprio per questo che mi preoccupo.”
“Non riesco a seguire il tuo ragionamento.” – rispose Barbara con gli occhi ridotti a due fessure. “Illuminami.”
Rebecca sospirò. “Sono terrorizzata che possa accadere qualcosa a qualcuna di noi. E se Posimaar in persona decidesse di attaccare Amtara?”
Brenda corrugò la fronte. “Non ti sembra di galoppare un po’ troppo con la fantasia?”
“Con il Demone Supremo potrebbe accadere qualunque cosa.”
“Sì, ma non possiamo smettere di vivere per questo, ti pare? Sono giorni che a malapena tocchi cibo e stai trascurando un po’ troppo lo studio.”
“Quello mi pare il minore dei mali….” – mormorò Barbara, che tacque subito di fronte all’occhiataccia della sorella.
“Non riesco a smettere di pensarci.” – disse Rebecca in tono tetro.
“Lo so. Ma non hai considerato per un momento che magari accadrà tutto in modo molto più semplice di quanto ti aspetti?”
Rebecca inarcò un sopracciglio. “Cosa intendi?”
“Voglio dire che, probabilmente, quando accadrà, qualunque cosa sia, tu sarai pronta per affrontarla. Anche se adesso hai paura, e anche se probabilmente ne avrai anche in quel momento, riuscirai a fare quello che devi e tutto andrà per il meglio.”
Rebecca non rispose. Apprezzava infinitamente il tentativo di Brenda di farla sentire meglio, anche se dubitava che le cose sarebbero andate proprio così.
Ma l’amica aveva ragione. Non poteva continuare a torturarsi in quel modo.
“Vedrai che la festa di Halloween ti aiuterà a distrarti.” – disse Barbara.
“Tu dici? Non ho mai partecipato ad una festa di Halloween. Sarà divertente?”
“Se le fate non verranno a rompere i cocomeri, sicuramente sì.”
“Potresti moderare il linguaggio, per cortesia?” – disse Brenda acida.
Era stata la Collins in persona a dare l’annuncio a tutta la scuola.
Rebecca aveva scoperto che, da vive, le fate avevano sempre celebrato Halloween con un grande banchetto. Ma da quando il loro castello era diventata la scuola che ospitava le Prescelte, inspiegabilmente, le padrone di casa avevano vietato qualunque celebrazione.
“E perché mai?” – aveva chiesto Rebecca alle gemelle.
Barbara si era stretta nelle spalle. “Secondo me perché non possono più rimpinzarsi come suini.”
Rebecca era scoppiata a ridere, ma era subito tornata seria vedendo l’espressione di Barbara.
“Stai scherzando, vero?”
“Quelle cretine sono invidiose di qualunque cosa. Non possono più mangiare nulla, quindi invidiano gli umani che possono mangiare. Non sono più padrone a casa loro, quindi detestano le Prescelte. Il loro cervello funziona così.”
“Ma è ridicolo.”
“E’ roba da fate.”
La preside aveva dovuto impiegare tutte le sue armi di persuasione con le fate per raggiungere un accordo: avrebbero permesso la celebrazione della festa di Halloween a condizione che la stessa si fosse svolta nei sotterranei, in modo tale da non disturbare il loro riposo.
Rebecca trovava la cosa semplicemente ridicola, considerato il fatto che i fantasmi non dormivano mai. Ma, dopotutto, aveva spiegato la Collins, i sotterranei erano il luogo perfetto per quel tipo di festa.
“Per fortuna la festa di Natale la faranno in Sala da Pranzo.” – commentò Barbara con aria sognante. “Un banchetto luculliano tutto per noi, prima di partire.”
A quelle parole Rebecca ebbe un sussulto. A dire la verità non aveva ancora pensato alle vacanze di Natale, sia perché mancavano ancora due mesi, sia perché aveva avuto altro a cui pensare negli ultimi tempi.
Sarebbe tornata a Villa Bunkie Beach, da sola. Non era un pensiero molto confortante, ma l’alternativa era restare ad Amtara e non aveva alcuna intenzione di ritrovarsi a condividere il pranzo di Natale con la Rudolf…
“Mi raccomando, prepara le valigie un po’ in anticipo, così non dimenticherai niente.” – disse Barbara in tono pratico.
Rebecca la fissò con aria stralunata. “Come dici?”
“Per la partenza. Verrai a stare da noi, ovviamente.”
“Io…. Cosa?”
“Mica vorrai stare a scuola?”
“No… io…”
“E non puoi certo tornare a casa tua a passare il Natale da sola.”
“Ma…. Quando lo avete deciso?”
Le gemelle si scambiarono un’occhiata.
Fu Brenda a parlare. “Ne abbiamo parlato con mamma e papà. Pensavamo ti avrebbe fatto piacere. Naturalmente loro sono felicissimi di ospitarti.”
“Mamma non vede l’ora di conoscerti!” – aggiunse Barbara raggiante.
Rebecca era confusa. Perché non gliene avevano parlato?
Le ragazze dovettero accorgersi del suo disagio, perché l’entusiasmo sui loro volti svanì.
“Non sei contenta?” – fece Barbara delusa.
“No no! Niente affatto! E’ solo che… non ne sapevo niente.”
“Lo so, hai ragione, scusa ma…. Il fatto è che ci sembrava la cosa più naturale del mondo. Voglio dire, non era nemmeno da discutere, no? Uno non può mica passare il Natale da solo.”
“Avevi altri programmi?” – fece Brenda. “Perché se è così noi possiamo…”
“No, nessun programma.” – la interruppe Rebecca. “A dire la verità non ci avevo ancora pensato. Mancano più di due mesi.”
“E’ vero” – disse Barbara “ma abbiamo raccontato di te a mamma e papà e anche a loro è sembrato naturale ospitarti da noi. E poi ci divertiremo un sacco e non vedo l’ora di farti vedere casa nostra!”
L’entusiasmo di Barbara era alle stelle e Rebecca sorrise.
Non era una cattiva idea, dopotutto. Barbara aveva ragione, che razza di Natale avrebbe passato da sola a Villa Bunkie Beach? Si sentì profondamente grata di aver trovato due persone come loro. Era come avere di nuovo una famiglia.
“Siete sicure che non sarà un disturbo per i vostri genitori?”
“Ma quale disturbo!” – fece Barbara dandole una pacca sul braccio.
“Beh, allora…. D’accordo!”
 
Quando la professoressa Rudolf giudicò che tutte le allieve avevano ormai imparato a padroneggiare dignitosamente la Contromaledizione della Follia, passò all’argomento successivo: La Maledizione Accecante.
La formula era “Conflagro Oculus”. Quando l’insegnante la utilizzò per la prima volta davanti a loro, tutte sussultarono inorridite. Rebecca vide addirittura Angela alzarsi in piedi e fare un balzo all’indietro.
Gli occhi del topo presero immediatamente fuoco.
“Aquatio Oculus!” – gridò la Rudolf.
Un potente getto d’acqua si riversò dagli occhi dell’animale. Il fuoco si estinse subito, lasciando nell’aria un lieve odore di bruciato.
Rebecca osservava impietrita il rivolo d’acqua che gocciolava dalla cattedra. Il topo era tutto bagnato ma, come sempre, non sembrava avere minimamente risentito degli effetti della Maledizione.
“Dovete sempre ricordare che la tempestività è fondamentale.” – disse la Rudolf, riponendo il topo nella gabbia. “E’ l’unica cosa che vi salverà la vita.”
Cominciarono le esercitazioni.
La prima fu Debora Lamington che se la cavò alla grande. Veloce come un fulmine, scagliò la Contromaledizione non appena vide il fuoco e due rivoli d’acqua presero a zampillare dagli occhi dell’animale. Rebecca non potè fare a meno di notare che non erano minimamente paragonabili alla cascata d’acqua della Rudolf, tuttavia il risultato fu lo stesso. Il topo reagì come se nulla fosse accaduto.
“Ottimo lavoro Lamington!” – cinguettò l’insegnante.
Poi fu la volta di Angela.
Rebecca aveva notato che negli ultimi tempi la ragazza era sempre molto nervosa durante le lezioni della Rudolf. Era stata l’unica a non aver raggiunto la sufficienza nella relazione sulla Maledizione della Follia e aveva impiegato più tempo del dovuto ad imparare la Contromaledizione. La Rudolf, senza alcun tatto, l’aveva redarguita davanti a tutta la classe.
“Hai intenzione di imparare la formula, Garrett, o dovrò darti ripetizioni private?”
Angela era arrossita di fronte alla risatine glaciali delle compagne.
Rebecca avrebbe tanto voluto tirare un pugno alla Rudolf. Come riusciva ad essere tanto detestabile?
Rebecca non fu affatto sorpresa di vederla tremare dinanzi alla cattedra, quando la Rudolf la chiamò. Non avrebbe retto ad un’altra umiliazione e a quel punto Rebecca dubitava che la ragazza avrebbe azzeccato la formula al primo colpo. Come avrebbe reagito stavolta? Se la Rudolf l’avesse canzonata nuovamente di fronte a tutte, dubitava che Angela avrebbe retto il colpo stavolta.
Pregò mentalmente che tutto andasse bene.
La Rudolf scagliò la Maledizione ma questa volta Angela non si fece trovare impreparata.
Aquatio Oculus!” – gridò.
Rebecca fu certa che stavolta la ragazza avesse fatto centro al primo colpo. La formula era esatta.
Ma qualcosa andò storto e Rebecca ne ebbe la certezza nel momento esatto in cui un’inondazione in piena regola scaturì dagli occhi dell’animale, riversando potenti getti d’acqua ovunque. Nel giro di pochi istanti, tutta l’aula era allagata.
Tutte urlarono, in preda al panico. Alcune salirono in piedi sulle sedie, per non essere investite dall’acqua. Altre, coi vestiti già zuppi, corsero in fondo all’aula, sperando di riuscire ad aprire la porta per correre fuori.
Inorridita, Rebecca capì che se non fossero subito uscite di lì, presto il livello dell’acqua avrebbe raggiunto un livello allarmante. Sarebbe stato davvero ridicolo morire affogate per colpa di Angela Garrett….
“La porta è bloccata, non si apre!” – gridò Jennifer Watson.
Rebecca si voltò e vide che stava cercando di aprirla, aiutata dal alcune compagne. Evidentemente la pressione dell’acqua era troppo forte.
Corse ad aiutarle, ma era tutto inutile. La maniglia era bloccata.
L’acqua le arrivava ormai alla vita.
Rebecca si guardò intorno, alla disperata ricerca di qualcosa che potesse aiutarla a sbloccare la porta, quando qualcuno la spinse via bruscamente.
“SPOSTATEVI TUTTE QUANTE!”
Era la Rudolf.
Aperio!” – urlò.
Rebecca trattenne il fiato, sicura che la porta si sarebbe aperta.
Ma non accadde nulla.
Aperio!” – gridò di nuovo la Rudolf.
La porta non si apriva.
“Dannazione!” – imprecò l’insegnante.
L’acqua salì ancora e Rebecca udì un gemito strozzato.
Era Barbara, che si ritrovò sollevata dall’acqua e ora annaspava a fatica cercando di tenersi a galla.
Presto tutte furono costrette ad imitarla.
Ancora pochi minuti e sarebbero state perdute.
Rebecca si teneva a galla, accanto a Brenda e Barbara. Poco distante, Angela faceva lo stesso, una maschera di puro terrore.
Poi vide la Rudolf nuotare verso la porta.
“Imbibo!” La sentì gridare.
Rebecca pregò che la porta si aprisse, o sarebbe stata la fine. La Rudolf era un’insegnante, avrebbe sicuramente trovato un Incantesimo che avrebbe funzionato, prima che morissero tutte annegate!
La porta rimase chiusa ma Rebecca avvertì che il livello dell’acqua, lentamente, cominciava ad abbassarsi. Infatti, di lì a poco, i suoi piedi toccarono di nuovo terra, fino a che l’acqua non scomparve del tutto.
Non aveva idea di quale Incantesimo si fosse servita la Rudolf, ma in quel momento avrebbe voluto correre ad abbracciarla.
Erano salve.
Stremate, molte Streghe si accasciarono a terra, tossendo e cercando di riprendere fiato.
Alcune piangevano.
“State bene?” – chiese alle gemelle.
“Sì.” – rispose Barbara.
“Siamo vive.” – rispose Brenda. “Grazie all’Incantesimo Assorbente della Rudolf.” Si girò a guardare l’insegnante, che girava per l’aula per controllare che tutte stessero bene.
“Conosci quell’Incantesimo?” – le chiese Rebecca.
“Devo averlo letto in qualche libro.”
“Credevo avesse cercato di nuovo di aprire la porta.” – disse Rebecca.
“Qualcosa non ha funzionato con quell’Incantesimo. Non so perché.” – rispose Brenda.
Rebecca sospirò. “Per fortuna l’altro sì.”
“Cosa credete che accadrà ad Angela?” – chiese Barbara, indicando la compagna che ora sedeva in un angolo, profondamente depressa. “Secondo me in questo momento non desidera altro che il pavimento si spalanchi sotto di lei per inghiottirla in un solo boccone. Qualunque cosa, piuttosto che dover affrontare l’ira funesta della Rudolf.”
Rebecca lanciò un’occhiata ad Angela, provando un moto di pena per lei. Poteva immaginare come dovesse sentirsi. Stavolta l’aveva fatta davvero grossa.
Barbara aveva ragione, qualunque cosa sarebbe stato meglio che dover affrontare la Rudolf…
La ragazza, bianca come un cencio, i capelli neri appiccicati intorno al viso, sollevò gli occhi e cominciò a tremare quando vide la Rudolf avanzare verso di lei.
Tutte fissavano la scena. Non si sarebbero perse lo spettacolo per nulla al mondo.
Rebecca guardava la Rudolf. Mai prima d’ora l’aveva vista così arrabbiata. Respirava affannosamente, poteva chiaramente intuirlo da come il suo petto si alzava e si abbassava velocemente. Gli occhi lanciavano fiamme.
“Angela Garrett.” – mormorò con voce apparentemente pacata. “Come diavolo hai fatto a scatenare tutto questo? Razza di incosciente che non sei altro!” Il tono di voce aumentò, mentre Rebecca vide Angela farsi piccola piccola.
“Per colpa tua siamo quasi morte.”
Angela scoppiò in lacrime. “Io…. M-mi dispiace…. Io …. Non so come….”
“Oh no, mia cara! NO! Non te la caverai così. Non stavolta.”
Poi l’insegnante, scura in volto, si rivolse alle altre. “Andate, voi. Dovete togliervi quei vestiti di dosso o vi prenderete un accidente.”
Un po’ deluse, le Streghe uscirono.
Rebecca e le gemelle esitarono. Avevano una voglia matta di sapere come sarebbe finita.
Senza accorgersene, furono le uniche allieve rimaste.
La Rudolf le guardò come si guarda un insetto da schiacciare. “Che ci fate voi ancora lì?” – tuonò.
Le ragazze non se lo fecero ripetere due volte e uscirono leste dalla classe.
“Non so cosa darei per essere una mosca e poter entrare là dentro.” – disse Barbara, fissando la porta chiusa.
“Per fortuna non lo sei.” – disse Brenda. “Dai, su, saliamo in camera.”
Barbara sospirò, seguendo la sorella. “Non vedo l’ora di farmi una doccia bollente.” – disse rabbrividendo.
“Voi cominciate ad andare.” – disse Rebecca. “Vi raggiungo.”
Brenda inarcò un sopracciglio. “Che intenzioni hai?”
“Aspetterò Angela.”
“E perché?” – fece Barbara, sgranando gli occhi.
“Voglio parlare con lei.”
“Per dirle cosa?” – domandò Brenda, con aria sospetta.
Rebecca si strinse nelle spalle, senza rispondere.
“La Rudolf non sarà contenta di trovarti qui fuori. E poi non puoi tenerti i vestiti bagnati addosso.”
“Non importa. E poi sono certa che usciranno presto.”
Brenda si mise di fronte a lei, con uno strano cipiglio in volto. “Rebecca, che intenzioni hai?”
Rebecca sostenne il suo sguardo. “Te lo dirò dopo, ok? Ora andate.”
Per nulla convinta, Brenda si allontanò insieme a Barbara.
Rebecca ne aveva in mente una delle sue, ma stavolta non aveva alcuna intenzione di discutere con lei, soprattutto perché aveva un disperato bisogno di togliersi quei vestiti di dosso. Era certa che la Rudolf non avrebbe gradito di trovarla lì. Cosa c’era di tanto importante di cui parlare con Angela che non avesse potuto aspettare?
 
Rebecca, allontanandosi un po’ dalla porta dell’aula, aspettò.
Rabbrividì. Anche lei aveva un disperato bisogno di una doccia calda e di abiti asciutti e puliti. Ma c’era qualcosa di più importante, ora, che non poteva aspettare.
Passarono i minuti. Cosa diavolo stava succedendo là dentro? Perché non si sbrigavano?
L’umidità cominciava a penetrarle nelle ossa. Di questo passo le sarebbe venuto un febbrone da cavallo.
Alcune Streghe le passarono accanto, lanciandole un’occhiata divertita.
Rebecca si costrinse ad ignorare le loro risatine.
Cominciava a fare freddo, o era una sua impressione? Scossa dai brividi, represse l’impulso di andarsene per raggiungere il confortevole calore della sua stanza, dove probabilmente le gemelle si erano già cambiate.
Finalmente la porta si aprì.
La Rudolf si bloccò sulla soglia, decisamente sorpresa di trovarla lì.
Angela, dietro di lei, fissava Rebecca con aria sgomenta.
Era chiaro che nessuna delle due si aspettasse di trovarla lì.
“Bonner, cosa ci fai qui?” – esclamò la Rudolf, squadrandola da capo a piedi. “Perché non ti sei ancora cambiata?”
“Ehm….professoressa…. io…. Vorrei scambiare due parole con Angela.”
La Rudolf inarcò un sopracciglio. “Non avete lezione?”
“C’è ancora tempo, professoressa. E’ questione di un minuto.”
La Rudolf non sembrava convinta, ma evidentemente il suo bisogno di cambio d’abito superava di gran lunga il desiderio di metterle i bastoni tra le ruote.
“Fate in fretta.” – replicò asciutta, avviandosi per il corridoio.
Quando furono sole Rebecca notò che Angela evitava il suo sguardo.
“Vuoi sapere che punizione mi ha dato stavolta la Rudolf?” – le chiese senza preamboli. Non sembrava avesse molta voglia di parlare e il suo tono era acido.
Rebecca represse l’istinto di prenderla a schiaffi. Non era per quello che era rimasta e la indispettiva un po’ che pensasse questo di lei.
“Veramente no. Volevo solo sapere come stai.”
Angela la guardò. “Tu come pensi che stia?” Il suo tono non era cambiato.
Rebecca decise di riprovarci.
“Senti, l’altra volta non c’è stato modo di parlare, ma volevo dirti che mi è dispiaciuto per la punizione sulla Maledizione della Follia.”
“Beh, non è stata una grande mossa la tua.” – replicò Angela. “Ma nemmeno io me la sono cavata troppo bene. Non sono molto brava con gli Incantesimi, come ti sarai accorta…”
“E io non sono molto brava in diplomazia, come ti sarai accorta….”
Angela abbozzò un mezzo sorriso.
Rebecca la imitò, lieta che finalmente fosse riuscita a sciogliere un po’ il ghiaccio.
“Non ti piace la Rudolf, eh?” – fece Angela.
“Perché a te sì?”
Angela rise. “No, davvero. Però oggi l’ho fatta veramente grossa…”
“Abbiamo rischiato la pelle, sì.” – convenne Rebecca. “Ci hai dato del filo da torcere.”
“Mi dispiace.”
Rebecca non rispose. In realtà, moriva dalla voglia di sapere cosa le avesse detto la Rudolf là dentro. Quando erano uscite, l’insegnante sembrava aver perso tutto il suo livore e anche Angela appariva decisamente più serena. Possibile che avessero risolto tutto in così breve tempo?
Ma non voleva passare per la compagna ficcanaso. Non era questo il suo intento e non era certo di questo che Angela aveva bisogno.
“Sai, avrei voluto aiutarti nella stesura della relazione, l’altra volta. Ti vedevo sempre in biblioteca e avevo pensato di offrirti il mio aiuto…. Solo che poi…. Sono a malapena riuscita a finire la mia appena in tempo…”
“25 pagine, vero?”
Rebecca annuì. “Non è stata una passeggiata.”
Angela sospirò. “Neanche per me. Comunque ormai è andata.” – replicò, ripensando all’insufficienza presa. Poi alzò gli occhi su di lei e Rebecca vi lesse un moto di gratitudine. “Però ti ringrazio per le tue parole, sei davvero gentile, Rebecca.”
“Beh, possiamo studiare insieme qualche volta, se ti va. Sai, io in genere lo faccio con Brenda e Barbara, ma sono certa che anche a loro non dispiacerebbe.”
Angela sorrise. “Sì, è una buona idea.”
Rebecca pensò che doveva essere la prima volta che qualcuno offrisse il suo aiuto ad Angela, che stava sempre per conto suo e aveva stretto amicizia con poche Prescelte.
“Quando c’è bel tempo andiamo giù al fiume.” – proseguì Rebecca. “Sai, è bello fare i compiti all’aperto.”
 
Qualche minuto dopo, Rebecca era in camera. Si era appena fatta una doccia calda che l’aveva rimessa al mondo e si stava vestendo.
“Siamo in ritardo per Incantesimi?” – chiese alle gemelle mentre si infilava un morbido maglioncino color prugna.
“La Collins avrà avvisato la Cornell di quello che è successo.” – disse Brenda. “E comunque la lezione inizia tra un quarto d’ora.”
Rebecca andò in bagno ad asciugarsi i capelli, godendosi il calore del phon.
Brenda comparve sulla soglia, con le braccia incrociate.
I loro occhi si incontrarono attraverso lo specchio. Rebecca sapeva esattamente cosa volesse.
“Ho parlato con Angela.” – disse.
Brenda annuì. “E…?”
“E credo che qualche volta verrà a studiare con noi il pomeriggio.”
Brenda aggrottò la fronte. “Tutto qui?”
“Tutto qui.”
Barbara apparve accanto alla sorella. “Dai, sputa il rospo. Cosa le ha detto la Rudolf? Le farà pulire il pavimento con la lingua per l’eternità?”
Rebecca si strinse nelle spalle. “Non ne ho idea.”
Barbara inarcò un sopracciglio. “Che vuoi dire?”
“Voglio dire che non gliel’ho chiesto. E comunque non mi importa. Volevo solo farle capire che può contare su di me. Su di NOI.” – disse sottolineando l’ultima parola.
“E questo perché?” – domandò Barbara, con aria corrucciata.
Rebecca alzò gli occhi al cielo. “Perché è una ragazza sola. Le farà bene avere qualche amica.”
“Ti fa pena?” – fece Barbara senza troppi preamboli.
Rebecca s’indispettì. “La pena non è un sentimento che mi appartiene. Ho semplicemente voluto tenderle una mano. È un peccato, forse?”
“No, ma in fin dei conti non la conosci nemmeno. Se non fosse stato per le lezioni della Rudolf probabilmente non ti saresti nemmeno accorta di lei.”
Non c’era alcun dubbio sul fatto che Barbara non si facesse scrupoli sul dire sempre quello che pensava, anche se Rebecca a volte rimaneva un po’ spiazzata dalle sue esternazioni.
“Invece, grazie alla Rudolf, mi sono accorta di lei e voglio esserle amica. Non credo ci sia nulla di sbagliato in questo, no?” – rispose, un po’ spazientita.
Perché Barbara la faceva tanto lunga? D’altra parte erano sempre insieme, solo loro tre. Avrebbe fatto bene a tutte condividere il loro tempo con altre Prescelte, ogni tanto.
“Va bene, va bene, non ti scaldare. Dicevo così per dire.” – rispose Barbara sulla difensiva.
Poi un’espressione furba lampeggiò all’improvviso sul suo volto.
“Barbara, a cosa stai pensando?” – le domandò Brenda, sospettosa.
“Oh, beh… nulla di importante… pensavo solo che quando Angela si unirà a noi ci penserò io a chiederle cosa si sono dette lei e la Rudolf oggi…” – sghignazzò.
Rebecca e Brenda alzarono gli occhi al cielo, scambiandosi un’occhiata eloquente. Sapevano che l’avrebbe fatto e che alla fine l’avrebbe spuntata. La povera Angela non aveva idea di cosa l’aspettasse….
Poi uscirono in fretta per non arrivare in ritardo dalla Cornell.
 
Mancava ormai solo una settimana alla festa di Halloween e ad Amtara non si parlava d’altro. Tutte le Streghe erano eccitatissime e si scambiavano pareri e opinioni su cosa avrebbero indossato.
Rebecca, che non era per niente abituata alle feste e non si era mai travestita da nulla in vita sua, era un po’ in agitazione. Non aveva ancora deciso da cosa si sarebbe mascherata e un nodo le stringeva lo stomaco al pensiero di fare una figuraccia davanti a tutta la scuola.
Disperata, chiese aiuto alle gemelle.
“Credevo ci avessi già pensato!” – esclamò Barbara quando scoprì che Rebecca non aveva ancora il costume pronto.
“Ci penso da settimane, ma non ho la più pallida idea di cosa mettere!” – rispose Rebecca con voce acuta, sentendosi anche peggio.
“Perché, voi avete già scelto?” – domandò, incerta.
“Ma certo!”
Rebecca si mise una mano in faccia, scuotendo piano la testa. A quanto pareva era l’unica idiota che si era ridotta all’ultimo minuto prima di decidersi…
“Non ti preoccupare Rebecca, ho io la soluzione.” – intervenne Brenda in tono sbrigativo.
“Davvero?” – chiese Rebecca speranzosa.
“Ho un abito nero che dovrebbe essere più o meno della tua misura. Ora te lo tiro fuori così lo provi.”
“Voi da cosa vi vestite?”
“Io da Orco!” – tubò Barbara raggiante.
“E tu?”
Brenda non rispose, ma aprì il suo armadio cercando qualcosa. Rebecca pensò che stesse cercando l’abito nero di cui le aveva parlato, ma poi ebbe un sussulto quando ne uscì con una maschera lunga di pelo marrone.
“Ti vesti da orso?” – domandò Rebecca, inclinando la testa, perplessa.
“Ma no!” – fece Brenda, alzando gli occhi al cielo. “Guarda!”
E così dicendo le mostrò la testa del costume, i denti aguzzi spruzzati di rosso, la bocca grande dischiusa in un ghigno grottesco.
“Un lupo!” – esclamò Rebecca.
“Licantropo, per l’esattezza. Ti piace?”
Rebecca tentennò. “Come mai non avete scelto qualcosa di meno terrificante?”
“Perché è Halloween.” – rispose Barbara, con la voce di chi stava parlando ad un ritardato mentale. “Hai presente? Mostri, fantasmi, sangue, morte…. Quel genere di robe là. Ma se ti vuoi vestire da principessa fai pure…” – aggiunse sghignazzando.
“Spiritosa…”
Brenda tornò a rovistare nel suo armadio.
“Oh, eccolo qua!” – esclamò poi, uscendone con un lungo vestito nero tra le mani.
Poi lo appoggiò al petto di Rebecca, stringendo un po’ gli occhi. “Mmm… sì, la misura dovrebbe essere quella giusta. Perché non lo provi?”
Rebecca prese il vestito tra le mani. Non aveva nulla di speciale. Era nero, in velluto, con qualche fronzolo in tulle. Le ricordava vagamente l’abito che la Collins indossava il primo giorno di scuola. Represse un brivido.
“Ma che cosa rappresenta, esattamente?” – domandò in tono innocente, e augurandosi di non fare la figura dell’idiota. Non aveva proprio dimestichezza con quel genere di cose.
Brenda, di fronte a quella domanda, era allibita. “Ma come cosa rappresenta? Una Strega, no?”
Rebecca corrugò la fronte. “Ma io sono già una Strega…”
Barbara scoppiò a ridere.
“Una Strega del Medioevo…” – spiegò Brenda paziente, reprimendo l’istinto di prenderla a schiaffi.
A volte Rebecca si perdeva davvero in un bicchiere d’acqua…. “Dai, provalo.”
Rebecca, obbediente, si svestì e lo indossò.
Brenda aveva ragione, le calzava a pennello. Portavano la stessa taglia.
“Mancano scopa e cappello, ma li rimedieremo da qualche parte…” – mormorò Brenda scrutandola da capo a piedi. Poi aprì un cassetto e tirò fuori una cintura nera. “Tieni, metti anche questa.”
“Oh, stai una meraviglia!” – esclamò Barbara tutta felice.
Rebecca si avvicinò allo specchio. A stento si riconosceva. Il velluto nero risaltava il rosso fuoco dei capelli e accentuava ulteriormente il suo incarnato roseo. Le maniche un po’ troppo lunghe, notò con sollievo, ricoprivano i polsi.
“Così potrai toglierti la polsiera.” – puntualizzò Barbara. “Almeno per una sera.”
La cintura nera le fasciava come un guanto la vita sottile.
L’effetto finale non era poi così male, pensò Rebecca.
“Dici che può andare?” – chiese, voltandosi verso Brenda.
“Sei perfetta.”
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** La festa di Halloween ***


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Capitolo 10
“LA FESTA DI HALLOWEEN”
 
Era venerdì mattina e mancava solo un giorno alla festa. Gli spiriti delle fate scivolavano via silenziosi e di malumore per i corridoi del castello, percependo nell’aria l’allegria e l’eccitazione per il grande evento.
Rebecca stava trascorrendo una brutta giornata. La sera prima si era addormentata tardi e la sveglia alle 7 l’aveva messa subito di cattivo umore.
Se tutta la scuola era euforica per la festa imminente, lei era parecchio dubbiosa. Non aveva detto nulla alle gemelle per non fare la figura dell’ingrata, ma il fatto che loro vestissero da mostri mentre a lei era toccato un semplice costume da Strega non la metteva molto a suo agio.
Dopotutto, era grazie a Brenda se ora aveva un costume da indossare. Aveva aspettato fino all’ultimo e questo era il risultato. Non doveva biasimare altri che se stessa. Se avesse parlato prima con Brenda, probabilmente ora avrebbe avuto anche lei un costume originale che non l’avrebbe certo fatta sfigurare di fronte alle altre.
Ma ormai era inutile piangere sul latte versato. Aveva un abito, questo era ciò che contava.
Rebecca stava per celebrare Halloween per la prima volta. Banita non aveva mai amato questa festa e non le aveva mai permesso nemmeno di suonare alle porte dei vicini per fare razzia di dolciumi come facevano invece tutti gli altri bambini.
“E’ una festa ridicola.” – diceva.
Sua madre apriva sempre la porta ai bambini e riempiva i loro cesti di cioccolato e caramelle, ansiosa di toglierseli di torno.
Quindi Rebecca era cresciuta nell’idea che Halloween fosse una festa idiota celebrata solo da chi non aveva niente di meglio da fare.
Ora, per la prima volta nella sua vita, avrebbe partecipato ad una festa di Halloween in piena regola. Era curiosa e anche un po’ elettrizzata. Sarebbe stato divertente e l’avrebbe distolta dai tanti pensieri cupi che l’avevano assorbita in quei primi due mesi di scuola.
Sarebbe stata una piacevole evasione soprattutto dal pensiero della Premonizione di Brenda. Rebecca era tornata a pensarci con ansia crescente. Anche se faceva finta di nulla, specialmente con le gemelle, si sentiva inquieta per la maggior parte del tempo. Cercava di concentrarsi nello studio e doveva ammettere che l’idea di invitare Angela a studiare con loro ogni tanto si era rivelata vincente. Lei e le gemelle avevano scoperto che Angela era una ragazza allegra e divertente, con un carattere piuttosto simile a quello di Barbara, anche se Rebecca non l’avrebbe mai immaginato. Studiare insieme rendeva i pomeriggi più leggeri e distoglieva Rebecca dal pensiero fisso di quelle ultime settimane.
Quel giorno, però, non vedeva l’ora che arrivasse sera per mettersi a letto e recuperare il sonno perduto. Aveva bisogno di un lungo riposo perché la sera seguente avrebbero sicuramente fatto le ore piccole e voleva godersi ogni momento della festa.
Dopo pranzo, la stanchezza raggiunse livelli allarmanti. Le si chiudevano gli occhi.
“Quasi quasi salgo in camera a schiacciare un pisolino.” – buttò lì distrattamente mentre uscivano dalla Sala da Pranzo.
“Abbiamo Storia della Stregoneria tra venti minuti.” – le fece notare Brenda in tono piatto.
“Ma che ti prende oggi?” – le chiese Barbara. “Hai una faccia….”
“Ieri sera non riuscivo a dormire.”
“Sei agitata per la festa?” – fece Barbara strizzandole l’occhio.
“No, niente affatto.” – rispose Rebecca evasiva.
“Stanca o no, non puoi saltare la lezione.” – disse Brenda.
“Non le reggo due ore con Garou.” – piagnucolò Rebecca.
“Però lo farai.”
Rebecca le lanciò un’occhiata truce. “Sai, certi giorni proprio non ti sopporto.”
“Perché io sono la voce della tua coscienza, mia cara…”
 
Quando entrarono in classe, le loro compagne chiacchieravano ad alta voce. Garou non era ancora arrivato.
Rebecca prese posto al suo banco, soffocando uno sbadiglio. Sperò con tutto il cuore che quelle due ore sarebbero passate velocemente, ma ne dubitava. Le lezioni di Garou non erano mai leggere.
“Sarebbe stato meglio Cogitus, in una giornata come questa…” – pensò depressa.
Ad un tratto, il brusio in aula si spense. Convinta che fosse arrivato il professore, Rebecca si girò a guardare ma quello che vide la spiazzò.
La figura alta e magra della Collins si stagliava sulla porta. Indossava una gonna verde e una camicia bianca dal colletto alto.
Senza dire una parola, la preside entrò in classe e sedette in cattedra, posandovi pesantemente i libri che aveva sotto il braccio.
All’improvviso, il sonno abbandonò Rebecca, che si raddrizzò sulla schiena, attenta.
Che diavolo ci faceva lì la preside?
Dov’era Garou?
“Oggi sostituirò il professor Garou.” – annunciò la Collins quasi le avesse letto nel pensiero.
“Come mai?” – chiese Rebecca ad alta voce.
La Collins la fissò per un secondo. “Non si sente molto bene, Bonner.”
Poi, cominciò la lezione.
Due ore dopo, con le palpebre pesanti come macigni, Rebecca e le gemelle salirono finalmente nella loro camera.
Rebecca si gettò subito sul letto, sfinita.
“Avrei preferito di gran lunga Garou.” – mormorò in tono tetro.
Non avevano mai assistito a nessuna lezione con la Collins e Rebecca ringraziò mentalmente la buona sorte di non averla tra i professori. Le sue lezioni erano di una noia mortale.
“Vi prego, domattina non svegliatemi.” – disse sbadigliando.
“A che ora inizia la festa?” – chiese Brenda a sua sorella.
“Alle otto.”
“Prima di vestirmi devo sistemarti i capelli e truccarti, Rebecca.” – le disse Brenda. “Dobbiamo cominciare presto.”
Rebecca si drizzò a sedere. “Truccarmi?”
“Certo. Non vuoi essere una bellissima Strega del Medioevo?” – aggiunse facendole l’occhiolino.
Rebecca alzò le spalle. “Sono nelle tue mani.”
“A proposito, hai visto il cappello?”
“No.”
“Me lo sono fatta mandare da mamma. Mi ha scritto di averne uno in casa che faceva proprio al caso nostro.” E così dicendo tirò fuori dall’armadio un grande cappello nero a punta, pressoché identico a quello della Collins.
Brenda glielo mise in testa e quando Rebecca si specchiò ormai non aveva più alcun dubbio: con quel cappello e il vestito sarebbe stata la fotocopia della preside.
“Fantastico.” – pensò.
“Ma non è finita qui.” – disse Brenda.
Rebecca la guardò, domandandosi quale altra diavoleria si fosse inventata.
Poi vide la scopa di saggina.
“No, quella proprio no.”
“Ma come no?” – fece Brenda, delusa. “E’ il tocco finale.”
“Non mi serve il tocco finale.” – replicò decisa.
Brenda inarcò un sopracciglio. “Tutte le Streghe del Medioevo ne avevano una.” – puntualizzò.
“Tutte, tranne me.”
“Ma perché no, scusa?”
“Ma come faccio ad andarmene in giro tutto il tempo con questa cosa in mano?”
“Fa parte del costume. E poi la puoi sempre appoggiare da qualche parte.”
Per poco Rebecca non scoppiò a riderle in faccia.
“Dove dovrei appoggiarla, secondo te?”
“Ovunque ti capiti.”
“Oppure puoi sempre montarci sopra e farci un giro.” – disse Barbara.
Rebecca le lanciò un’occhiataccia.
“La scopa fa parte del costume, Rebecca.” – insistette Brenda.
Rebecca lanciò un’occhiata malevola anche a lei.
“La prossima volta organizzati per tempo, così il costume te lo scegli da sola.” – puntualizzò Brenda.
Ma Rebecca non aveva nessuna voglia di litigare. Era esausta e l’unica cosa che desiderava ora era una bella dormita.
Al diavolo. Si sarebbe portata dietro anche quella dannatissima scopa, ma giurò a se stessa che il prossimo anno, proprio come le aveva suggerito Brenda, avrebbe fatto tutto da sola.
 
Il mattino dopo Rebecca dormì fino a tardi e quando aprì gli occhi scoprì che Brenda era già sveglia. Quando furono pronte uscirono piano, per non svegliare Barbara, che dormiva ancora profondamente.
La Sala da Pranzo era semideserta. Trovarono solo alcune ragazze del secondo e terzo anno, oltre a Jennifer Watson e Debora Lamington che sorseggiavano caffelatte con aria assonnata.
Rebecca si rilassò, godendo della quiete di quella mattina e sbocconcellando pigramente un croissant.
La sera prima si era addormentata presto. Doveva aver dormito almeno 10 ore e quel sonno ristoratore l’aveva rimessa in sesto.
Quando rientrarono in camera, Barbara si era appena svegliata.
“Buongiorno, dormigliona!” – fece Brenda, sedendole accanto.
Barbara si stropicciò gli occhi. “Che ore sono?”
“Le undici passate.”
Barbara sgranò gli occhi. “Ho dormito così tanto?”
“A quanto pare.”
“Sei ancora in tempo per fare colazione, prima che gli Gnomi portino via tutto.” – le disse Rebecca.
“Non ho tempo per mangiare.”
Rebecca e Brenda la fissarono ammutolite. Sentire che Barbara non aveva appetito era qualcosa talmente fuori dal normale che per un istante Rebecca pensò di avere frainteso.
“Ho capito bene? Tu non hai fame?”
“Non ho detto che non ho fame. Io ho SEMPRE fame. Ma non c’è tempo. Ho dormito troppo, dannazione. Perché non mi avete svegliata?”
“Perché non ci hai detto di farlo.” – puntualizzò Brenda. “Si può sapere che ti prende?”
Barbara uscì veloce dal letto, fiondandosi in bagno.
“Ehi, devo lavarmi i denti!” – le gridò dietro Rebecca.
Ma Barbara aveva già chiuso la porta.
Rebecca si girò a guardare Brenda, frastornata.
“Che le succede?”
Brenda fece una risatina. “Succede che è Halloween. E’ sempre stato così, fin da piccole. È una festa che ama quasi più del Natale.”
“Davvero? Non lo sapevo.”
Brenda annuì. “Mamma e papà ci vestivano da fantasmini e ci facevano fare il giro dell’isolato. Finivamo sempre per tornare a casa con una montagna di caramelle, cioccolatini, lecca-lecca e torte fatte dai nostri vicini di casa.” Sorrise. I suoi occhi fissavano il pavimento, persi nel ricordo di quegli anni. “Era divertente.”
“E’ una bella cosa.”
“Sì, abbiamo un ricordo meraviglioso della nostra infanzia, sai? Sono stati anni meravigliosi. Mamma e papà non ci hanno mai fatto mancare niente. E il periodo di Halloween, in effetti, è quello che ricordo con più affetto e nostalgia.” Sospirò. “Sai, adesso che tutto è cambiato, capisco che niente sarà più come prima. Nemmeno la festa di stasera, per quanto fantastica possa essere, può comunque cancellare quello che siamo.”
Rebecca non rispose. Capiva perfettamente le parole di Brenda.
Da piccole, sapevano solo di essere Streghe Bianche e nulla più. Sapevano che la Magia faceva parte del loro mondo, ma non avrebbero mai immaginato che la magia nascondesse anche un lato oscuro e che quel lato oscuro un giorno avrebbe fatto parte della loro esistenza.
Era quello che anche lei più rimpiangeva dell’infanzia: l’illusione che tutto sarebbe sempre andato bene e che non sarebbe mai accaduto nulla di terribile. Quanto avrebbe voluto tornare bambina, sentirsi cullata da Banita e Anshir senza doversi preoccupare tutti i giorni che qualcosa di terribile potesse accadere.
“Ma per Barbara penso sia un modo per rivivere quel periodo.” – continuò Brenda. “E in fondo, chi può biasimarla? Almeno per una sera, non saremo più Prescelte, ma potremo fare finta di essere qualcun altro, no?”
Rebecca abbozzò un sorriso. “E il cielo sa quanto ne abbiamo bisogno.”
Sussultarono entrambe quando la porta del bagno si spalancò di colpo.
“Se ti serve il bagno sbrigati, Rebecca.” – disse Barbara uscendo. “Ho i minuti contati.”
“I minuti contati per fare cosa?”
“Per prepararmi!”
“Ma non è neanche mezzogiorno!”
“Ma io ho bisogno di tempo.” – fu la secca risposta. “Allora, ti dai una mossa?”
Sbuffando, Rebecca obbedì, ignorando la risatina di Brenda.
 
Più tardi, Barbara uscì dal bagno con espressione raggiante.
Rebecca e Brenda storsero il naso.
“Che c’è?” – chiese Barbara allarmata.
“Che diavolo è questa puzza?” – fece sua sorella, reprimendo un conato di vomito.
Dal bagno fuoriusciva un forte odore di tabacco stantio.
“Ti sei messa a fumare la pipa là dentro, per caso?” – fece Rebecca, nauseata.
“Ma cosa vi salta in mente? E poi….” All’improvviso il suo viso si illuminò, colpito da un’immediata consapevolezza. “Oh, ma forse vi riferite alla Pozione Orcheggiante…”
Se non avesse avuto il forte istinto di vomitare, Rebecca le sarebbe scoppiata a ridere in faccia.
“Cos’hai detto?”
“La Pozione Orcheggiante. Dev’essere quella. Ha un odore così forte?” – rispose Barbara con aria innocente.
“E’ vomitevole.” – fece Brenda. “Non vorrai venire alla festa con quella roba addosso? Non ti faranno entrare!”
“Ma che stai dicendo? Ci ho messo giorni interi per prepararla. Guarda qua!” E così dicendo le mostrò un barattolino vuoto. “Ho usato la Pozione per prepararmi una crema da spalmarmi addosso. Sai, per avere il classico puzzo di Orco.”
Rebecca non poteva crederci. No, non poteva essere vero. Barbara non poteva essere pazza fino a quel punto.
“In nome del cielo, ma era proprio necessario?” Gli occhi di Brenda lacrimavano.
Tutta la stanza ora puzzava di fumo e a Rebecca venne il sospetto che se l’odore si fosse sparso per tutto il corridoio, molto presto qualcuno sarebbe venuto a controllare che non fosse in corso un incendio. O, peggio, che una di loro si fosse messa a fumare.
“Devi toglierti di dosso quella roba, Barbara. E’ un ordine.” – disse Brenda, che non ce la faceva più a controllare la nausea.
“Non ci penso nemmeno!”
Rebecca spalancò la finestra, sperando che l’aria fresca di ottobre riuscisse a disperdere almeno un po’ quell’odore.
“Dove hai trovato la formula?” – chiese Rebecca, incuriosita. Non aveva mai sentito parlare della Pozione Orcheggiante.
“In biblioteca. C’è un libro che si chiama Pozioni Mostruose.”
“E spiegava anche come fare la crema?” – domandò Brenda, indecisa se prenderla a sberle o fare finta di niente.
Rebecca aveva una gran voglia di ridere. Tutta quella situazione era dannatamente comica.
“Certo.”
Brenda si passò una mano sul viso. Non poteva credere che sua sorella si fosse spinta fino a quel punto.
“Scusa, ma tu non te la senti addosso tutta questa puzza?”
Barbara si strinse nelle spalle. “A me non sembra così terribile come dite ….” – commentò candidamente.
“Ti si saranno bruciate le narici mentre te la spalmavi, non c’è altra spiegazione.”
Rebecca scoppiò a ridere.
“Oh, piantala!” - fece Barbara, dandole uno spintone.
Ma Rebecca non riusciva a smettere di ridere.
“Senti, adesso tu ti infili sotto la doccia e ti levi di dosso tutta questa roba.” – ripeté Brenda senza mezzi termini. “E guarda che non scherzo, sorellina cara. Stavolta l’hai combinata davvero grossa.”
“Oh Brenda…”
“Oh Brenda un corno! Non ti faranno entrare alla festa conciata così, è questo che vuoi?”
L’argomento sembrò fare leva su Barbara. Brenda sapeva quanto ci tenesse a questa festa. Non se la sarebbe certo fatta scappare per colpa di una stupida Pozione…
“Così non puzzerò mai come un Orco.” – brontolò Barbara.
“E per fortuna. Su, ora vai.”
Quando Barbara si fu chiusa di nuovo in bagno, Brenda lanciò un’occhiata sconsolata a Rebecca. “Hai mai conosciuto qualcuno più pazzo di lei?”
“No. E penso che non accadrà mai.” – rispose Rebecca con un grande sorriso.
 
Quando Barbara uscì dal bagno Rebecca e Brenda scoprirono con sollievo che non puzzava più. Lo stesso, però non si poteva dire della stanza, in cui aleggiava ancora un forte odore di tabacco, nonostante la finestra aperta.
Anche Rebecca e Brenda si fecero una doccia e si cambiarono d’abito, convinte che anche i loro vestiti puzzassero di fumo. Dovevano fare tutto il possibile affinchè nessuno si accorgesse di quello che aveva combinato Barbara. Sarebbe stato davvero molto difficile spiegare che nessuna di loro si era messa a fumare sigari in camera ma che, molto più semplicemente, la loro compagna di stanza aveva avuto la brillante idea di prepararsi una cremina al tabacco fatta in casa, in occasione di Halloween.
No, decisamente sarebbe stato meglio fare di tutto per disperdere quel dannato odore nel più breve tempo possibile.
Spalancarono la finestra anche in bagno e scesero a pranzo.
“Ho una fame da lupi.” – annunciò Barbara, che aveva saltato la colazione.
“Io invece no, grazie a te.” – fu la secca risposta di sua sorella.
“Non ti è ancora passata?”
“A cosa ti riferisci? Alla nausea o alla rabbia?”
“Lascia perdere…” – rispose Barbara, alzando gli occhi al cielo.
Quando sedettero a tavola, in effetti, l’unica che mangiava di buon appetito, come faceva sempre, del resto, fu Barbara.
Rebecca avrebbe tanto voluto addentare una coscia di pollo, ma aveva ancora nelle narici l’odore di fumo e la coscia di pollo rimase nel piatto, a raffreddarsi.
“Dopo devo truccarti, Rebecca.” – annunciò Brenda. “Sperando di non doverlo fare con la puzza…” – aggiunse contrariata.
“Ci vorrà molto?”
“Almeno un’ora. Meglio farlo prima di vestirti, così non rischieremo di rovinare il trucco.”
 
Mezz’ora dopo tornarono in camera. Quando aprirono la porta si accorsero, sollevate, che la puzza di fumo era quasi del tutto svanita.
Rebecca andò a chiudere le finestre. Rabbrividì. L’aria di Amtara era decisamente più fredda e pungente di quella di casa sua, a causa dei venti gelidi che scendevano a valle dalle montagne che circondavano la scuola. A Bunkie Beach era estate fino ad ottobre inoltrato.
Rebecca doveva ancora abituarsi a molte cose della sua nuova vita ad Amtara e il clima era una di queste.
Brenda la fece sedere di fronte allo specchio. Rebecca fissò l’immagine riflessa, gli occhi smisuratamente grandi, che piacevano tanto a sua madre, i capelli mossi che ricadevano morbidi sulle spalle, il volto magro e affilato, gli zigomi pronunciati. Era una sua impressione, o le guance erano più scavate? Strano. Eppure, mangiava molto più adesso di quanto non facesse a casa sua, grazie alle ineccepibili doti culinarie degli Gnomi.
No, non era per via del cibo. Anche i suoi occhi erano diversi, velati da un’ombra che Rebecca non aveva mai notato prima di arrivare ad Amtara. La sua vita era cambiata, irrimediabilmente, e il suo corpo non era che un riflesso delle sue emozioni, delle ansie, delle preoccupazioni, della paura per il futuro. Di colpo, si era trasformata da ragazza in giovane donna.
 
“Ecco fatto!” – esclamò Brenda molto tempo dopo.
Rebecca non riusciva a togliere gli occhi di dosso da quel viso che vedeva riflesso nello specchio e che non riconosceva per niente.
Brenda aveva usato una cipria chiara che, a suo giudizio, non faceva che risaltare ancora di più il suo pallore, rendendo la sua pelle simile a porcellana.
Gli occhi erano truccati di nero e la generosa dose di mascara che Brenda aveva usato metteva in risalto le sue ciglia naturalmente folte e all’insù.
Quello che non la convinceva per niente, però, era il colore del rossetto che l’amica aveva usato: rosso carminio.
Rebecca, che non era solita truccarsi, inorridì di fronte a quelle labbra così pronunciate.
“Ehm…. Brenda…. Questo rossetto….” – cominciò, titubante.
“Ti piace? Io dico che ti sta d’incanto!” – cinguettò l’amica, troppo impegnata ad ammirare il risultato del suo lungo lavoro per accorgersi del suo disagio. “E poi risalta tantissimo sulla tua carnagione bianca.”
“Ecco, appunto. Non ti sembra che risalti un po’ troppo?” – rispose Rebecca cauta. L’ultima cosa che voleva era offendere l’amica, che si era prodigata tanto minuziosamente per lei, ma era più forte di lei, proprio non ci si vedeva con quel trucco addosso e già cominciava a pensare a come si sarebbe sentita in imbarazzo presentandosi alla festa così.
Brenda aggrottò la fronte. “No, perché? Non ti piace?”
“Mi sembra un po’ troppo forte.” – mormorò Rebecca quasi in tono di scusa. “Sei proprio sicura che le Streghe del Medioevo se ne andassero in giro così?”
“Oh Rebecca, chi se ne importa! Questo è un trucco personalizzato, fatto da me. Si intona a meraviglia con l’abito e con i tuoi meravigliosi capelli. Non passerai inosservata.”
Rebecca pensò che era proprio questo il problema, ma non se la sentì di affliggere Brenda con ulteriori lamentele, o avrebbe davvero pensato che non avesse apprezzato il suo sforzo, cosa che non corrispondeva a verità.
Sospirò. A quanto pare, le toccava fare buon viso a cattivo gioco. Dopotutto, sarebbe bastato ingurgitare subito del cibo al buffet e buttare giù qualcosa di liquido per far svanire un po’ di quel colore eccessivo dalle sue labbra. Questo pensiero la confortò un po’ e non disse altro.
 
“Ma sei bellissima!” – fece Barbara quando la vide, uscendo dal bagno.
La puzza di fumo era ormai evaporata da tutta la stanza, con loro immenso sollievo.
“Complimenti, sorellina, ottimo lavoro!”
“Grazie!” – rispose Brenda compiaciuta.
“Lo pensi davvero?” – le chiese Rebecca.
“Certo! Perché non ti piace?”
“Non lo so, è solo che non mi trucco mai, non sono abituata a vedermi così.”
“Beh, una volta tanto è bello sembrare diversi da come si è tutti i giorni. Personalmente non vedo l’ora di essere un Orco!”
“Appunto, che cosa ci fai vestita ancora così?” – le chiese Brenda. “Manca poco ormai.”
“Devo darmi un’ultima sistemata ai capelli prima di indossare il costume, altrimenti la maschera mi darà troppo fastidio. E tu non ti prepari?”
“Ho appena finito con Rebecca, adesso mi vesto.”
Un’ora dopo, erano pronte a scendere.
Era uno strano trio, pensò Rebecca mentre scendeva le scale accompagnata dall’Orco e dal Lupo. Le scappò da ridere.
Rebecca non aveva idea di come le due amiche riuscissero a respirare sotto quei costumi pesanti. Si sentì intimamente grata per quell’abito leggero che, se non altro, non la soffocava.
“Vi sentite bene là sotto?” – ebbe la premura di chiedere prima di scendere nei sotterranei.
“Fa un po’ caldo, in effetti.” – rispose Barbara.
“Vedrai che nel sotterraneo sentirai più fresco.” – disse Brenda.
“Speriamo.”
Un gruppetto di fate passò accanto a loro, scoppiando in risa sguaiate. Rebecca non seppe dire a quale dei tre costumi fosse dovuta tanta ilarità, ma non le importava. Le fate erano poco gentili per natura e quella sera lo erano, ovviamente, meno del solito.
“Ignoratele” – disse Barbara a voce alta, passando oltre. “Sono solo invidiose perché noi potremo abbuffarci quanto ci pare, e loro invece no.”
Rebecca giudicò poco opportuno quel commento. Sapeva quanto potessero essere suscettibili le fate e personalmente non aveva nessuna voglia di intavolare una discussione con loro proprio mentre stavano andando alla festa.
Pregò mentalmente che le fate non l’avessero udita, anche se era impossibile, dal momento che Barbara aveva parlato a voce molto alta.
Ma, a quanto pareva, il gruppetto tirò dritto, senza cogliere la provocazione.
Rebecca tirò un sospiro di sollievo.
“Dovevi proprio provocarle così?” – fece Brenda quando le fate si furono allontanate.
“Beh, non è stato molto carino ridere di noi!”
“E quando mai le fate sono state carine con noi?”
Scesero la lunga scalinata che portava ai sotterranei. Rebecca si domandò per quale motivo la preside si ostinasse a sottostare alla volontà delle fate. A differenza dei piani superiori, il piano interrato era estremamente buio e umido. Rabbrividì, rimpiangendo di non aver portato una giacca per coprirsi.
“Ecco, qui si sta decisamente meglio.” – disse Barbara, godendo di quel refrigerio.
“Ecco, io invece muoio di freddo.”
Ma quando entrarono nella stanza, un piacevole tepore le accolse.
C’era una lunga tavolata in legno, piena di cibi e bevande di ogni genere: riso con i funghi, spaghetti al ragù, pasticcio di patate, torte salate, tacchino ripieno, teglie fumanti di patate arrosto, verdure fritte, gamberoni allo spiedo, cozze gratinate e ostriche al limone, torte di mele, torte al cioccolato, cheesecake alle fragole e muffin ripieni ai mirtilli, punch al rum e all’arancia, succhi di frutta, birra, vino e acqua minerale spruzzata di limone. Rebecca non aveva mai visto una tale quantità di cibo tutta insieme. Dal soffitto pendevano finti ragni neri e piccoli fantasmi, mentre sul pavimento grosse zucche intagliate illuminavano la sala.
L’atmosfera era davvero suggestiva, Rebecca doveva riconoscerlo. Felice come non si sentiva da tempo, cominciò a rilassarsi, decisa a godersi ogni momento di quella serata. Il salone era gremito di gente e la musica sovrastava le voci.
Rebecca notò la Collins, in un angolo. Indossava un vestito bianco e rosso. Accanto a lei il professor Cogitus portava il solito abito grigio, un po’ trasandato. Beveva un punch e si guardava intorno, senza entusiasmo.
Rebecca notò che erano gli unici due a non essere mascherati. Non riconobbe praticamente nessun altro. Si spaventò quando vide qualcuno, vestito da fantasma, avanzare verso di lei. Poi sorrise quando Angela sollevò leggermente il mantello bianco per farsi riconoscere.
“Bello il tuo costume.” – le disse Angela. “Che cosa rappresenta, esattamente?”
“Una Strega del Medioevo.”
Angela gettò un’occhiata all’oggetto che Rebecca teneva tra le mani. “Oh. Non sapevo che usassero la scopa.”
Rebecca, leggermente irritata, preferì non rispondere. Era stato già abbastanza deprimente essere costretta e portarsi dietro quel dannato oggetto ingombrante. Non aveva bisogno che Angela rincarasse la dose.
“Il mio non è molto originale, vero?”
“No, niente affatto.” – mentì Rebecca.
“Beh, non sapevo proprio cosa fare. Non ho una grande fantasia.” Si guardò intorno. “Ci sono maschere davvero belle, vero? Ad esempio, guarda quei due. Lupo e Orco. Non so proprio come riescano a respirare sotto quelle teste enormi.”
“Brenda e Barbara saranno felici di sapere che apprezzi i loro costumi.” – disse Rebecca, senza riuscire a trattenere un risolino.
Angela sgranò gli occhi. “Sono loro?! Oh, ma allora devo subito andare a complimentarmi.”
Le gemelle, che si erano già lanciate nelle danze al centro della pista, si fermarono a parlare con Angela, che muoveva freneticamente le mani sotto il mantello bianco.
Rebecca restò lì a guardarle. Sembrava tutto così strano, surreale. La musica, le luci, il caldo opprimente della stanza affollata, le maschere.
Non aveva molta voglia di buttarsi nella mischia. Non aveva mai amato molto il ballo. Ma si sentiva un’idiota a restarsene lì impalata mentre tutti gli altri si divertivano. Decise di gratificarsi con un drink, per sciogliere la tensione. Si versò una generosa dose di punch all’arancia, prese un piatto e cominciò a riempirlo a casaccio di qualunque pietanza trovasse sul tavolo. Quando il piatto fu così colmo da non riuscire più a contenere altro cibo, afferrò il bicchiere e si diresse su una sedia che aveva adocchiato poco prima. Cominciò a mangiare, più in fretta di quanto non avesse voluto, innaffiando il tutto con piccole sorsate di punch. Il primo sorso le bruciò in gola. Gli Gnomi non erano andati al risparmio con l’alcol.
“Bella festa, vero Bonner?”
Per poco non le cadde il bicchiere. Silenziosa come un gatto, la Collins si era avvicinata senza che lei se ne accorgesse.
Alzò gli occhi. La preside le sorrideva.
“Buonasera professoressa.”
“Posso sedermi?” Indicò la sedia vuota accanto a Rebecca.
“Certamente.” – rispose, con il punch che le bruciava lo stomaco.
Non aveva molta voglia di parlare, tantomeno con la preside.
“Perché Brenda e Barbara non sono con me quando più ne ho bisogno?” – pensò, agitata.
Le cercò con gli occhi, ma erano sparite dalla pista, così come Angela. Forse erano andate a servirsi al buffet, ma c’era talmente tanta gente davanti che era impossibile riuscire a trovarle.
Con la coda dell’occhio, vide che la Collins la fissava. Rebecca continuava a reggere il piatto tra le mani come un’idiota, ma di colpo aveva perso l’appetito.
“Io e il professor Cogitus, a quanto pare, siamo gli unici a non aver scelto nessun costume.”
Rebecca tacque.
“Personalmente, non ho mai amato particolarmente Halloween. Ma è una tradizione del nostro paese, e le tradizioni vanno rispettate, giusto?”
“Giusto.” – rispose Rebecca meccanicamente.
“E’ stata dura riuscire ad ottenere il consenso delle fate. Sanno essere molto ostiche, quando vogliono.”
Dove voleva andare a parare con quel discorso? Rebecca non capiva. Tutto quello che desiderava era alzarsi e andarsene da lì.
“Ma per fortuna, grazie alla mia insistenza, alla fine hanno acconsentito. E, a giudicare da tutto questo” – indicò la fiumana di gente dinanzi a lei – “ne è valsa la pena, non credi?”
“Sì, penso di sì.”
“Oserei dire che hanno tutte superato se stesse, per quanto riguarda la scelta dei costumi. Quest’anno premierei davvero l’originalità. Beh, certo, a parte Garrett, forse. Un po’ scontata la sua scelta, non trovi?”
Perché le stava facendo tutte quelle domande?
Rebecca cominciò a sudare freddo. Qualcosa in tutto quel discorso non la convinceva. Aveva come l’impressione che la preside sapesse esattamente dove colpire e che tra non molto lo avrebbe fatto, anche se non aveva la più pallida idea di cosa volesse esattamente da lei. In fondo, era appena arrivata, si era seduta per cenare e non stava dando fastidio a nessuno.
“Trovo molto bello anche il tuo costume, Bonner.”
“La ringrazio, professoressa.”
“Solo….non capisco. Che cosa rappresenta, esattamente?”
Rebecca le lanciò un’occhiata. La Collins sorrideva ancora, ma un lampo di rabbia nel suo sguardo le fece tremare le gambe.
“E’… una Strega del Medioevo.”
“Oh. Capisco.”
Cos’aveva che non andava il suo costume? Forse era colpa del trucco? Ecco, sapeva che non avrebbe dovuto dare retta a Brenda. Quel rossetto era troppo acceso. Represse l’istinto di toglierselo di dosso con la mano. Non sarebbe servito a niente, ormai, e probabilmente sarebbe stata ancora più ridicola con del rossetto sbavato sulle labbra. Ormai il danno era fatto. Brenda aveva esagerato e non vedeva l’ora che la festa finisse per dirgliene quattro!
“Sai, ho trovato poco divertente il professor Cogitus, questa sera.”
Rebecca aggrottò la fronte.
Cogitus? Che diavolo c’entrava Cogitus con il suo rossetto?
“Come, scusi?” – mormorò, senza capirci più niente.
La Collins annuì. “Non mi è piaciuto per niente quando si è azzardato a dirmi che, a quanto pare, c’era qualcuno qui, stasera, che aveva pensato bene di travestirsi da Dana Collins.”
Rebecca spalancò la bocca, ma non ne uscì alcun suono.
“Io gli ho chiesto di cosa stesse parlando, poi mi ha indicato te, che eri seduta qui a goderti la cena.”
Rebecca non poteva credere alle sue orecchie. La verità era che ci aveva pensato in più di un’occasione, fin dal giorno in cui Brenda le aveva fatto provare il vestito. Era identico a quello della Collins il primo giorno di scuola e l’aggiunta del cappello aveva reso la somiglianza ancora più accentuata. Ma non avrebbe mai pensato che qualcuno potesse notarlo, tanto meno il professor Cogitus, che sembrava l’essere più distratto e svampito sulla faccia della terra!
“Ma…professoressa…io” – balbettò, imbarazzata.
“Oh, stai pure tranquilla, mia cara. So benissimo che non lo avresti mai fatto. Infatti ho subito liquidato il professor Cogitus dicendogli che nessuna Prescelta si azzarderebbe mai a tanto.”
“Ma hai pensato di venire a controllare che fosse proprio così.” – pensò Rebecca, con una punta di irritazione.
La Collins aveva giocato sporco, ma la rabbia sul suo volto sembrava svanita e ora le sorrideva sinceramente.
“Certo, il pensiero di essere paragonata ad una Strega del Medioevo non è molto gratificante per me. Voglio dire, ho un aspetto così antico, io?”
Rebecca trattenne il fiato, ritenendo opportuno tacere.
Tra tutti i professori di Amtara, lei era indubbiamente quella dall’abbigliamento più strano. Le sue improbabili gonne ampie e le camicie antiquate, gli abiti lunghi e svolazzanti pieni di fronzoli e i cappelli strampalati che portava non erano esattamente quello che Rebecca avrebbe definito un abbigliamento moderno.
Distolse lo sguardo, nel timore che la preside potesse in qualche modo indovinare i suoi pensieri, e tornò a rivolgere la sua attenzione al piatto. Addentò voracemente una fetta di torta al formaggio e subito dopo mandò giù una generosa sorsata di punch. Aveva bisogno di stordirsi con l’alcol.
“Sai, mi è venuta fame. Credo che andrò al buffet a vedere se è rimasto qualcosa per me.”
Così dicendo la preside si alzò e se ne andò.
Rebecca ricominciò a respirare. Il punch le fece girare un po’ la testa e rimase lì seduta ancora un po’.
Poi si alzò e andò a cercare le gemelle.
Vagabondò per tutto il salone, facendosi largo a spintoni tra la gente, fino a quando, finalmente, le vide, poco lontano dal buffet, intente a bere punch al rum e succo d’arancia.
“Ma dove vi eravate cacciate?”
“Siamo sempre state qui.” – rispose Barbara, sorseggiando il punch.
Rebecca si guardò intorno, guardinga.
“Che ti prende?” – le chiese Brenda.
“Controllo se c’è ancora la Collins nei paraggi.”
“E perché?”
“Questa ve la devo raccontare.” – e cominciò a narrare per filo e per segno la  penosa conversazione con la preside.
“Ma per quale motivo a Cogitus è venuta in mente un’idea tanto strampalata?” – domandò Brenda.
“Ricordi il vestito che indossava la Collins il giorno in cui siamo arrivate qui?”
“No.”
“Me lo ricordo io.” – intervenne Barbara. “In effetti, somigliava un po’ a questo…” – aggiunse indicando il costume di Rebecca.
“Io non me lo ricordo.” – proseguì Brenda. “E comunque non ha nessuna importanza. Come gli è venuto in mente a quello zoticone di pensare che volessi prenderti gioco della preside? Pensa forse che sei così stupida?”
“Magari ci ha dato dentro con l’alcol, stasera, e non sa più quel che dice.” – buttò lì Barbara.
“La Collins è venuta da me in avanscoperta. Io le ho semplicemente detto la verità.”
“Meno male che ti ha creduto.” – disse Barbara. “Vuoi un po’ di punch?”
“No grazie, ho già dato.” – rispose Rebecca, che aveva ancora le guance accaldate per via del troppo alcol che aveva bevuto.
“Torniamo a ballare?” – propose Brenda.
Barbara la seguì ma vedendo che Rebecca era rimasta dov’era, si voltò. “Tu non vieni?”
“Ehm…. Non so ballare.”
“E allora? Dai vieni che ci divertiamo!”
E così dicendo Barbara la trascinò con sé, ignorando le proteste di Rebecca, che si ritrovò schiacciata in mezzo alla folla e fu costretta a seguire i movimenti delle due amiche tentando disperatamente  di seguire il ritmo.
Non aveva idea di come se la stesse cavando, ma cominciò a rilassarsi quando si rese conto che nessuno faceva caso a lei. Erano tutti troppo occupati a divertirsi per notare i suoi goffi movimenti. Si rilassò e scoprì che ballare, in fondo, non era poi tanto male.
Venti minuti dopo, stremata dal caldo e dalla fatica, tornò a sedersi, lasciando le due instancabili sorelle in balia della musica.
Rebecca le osservò per un po’, divertita. Brenda e Barbara adoravano la musica e sembrava davvero che non sentissero minimamente la fatica, nonostante i loro costumi pesanti. Dovevano proprio amare il ballo alla follia se non avvertivano il minimo fastidio là sotto. Lei indossava un abito leggero ed era tutta sudata, dopo aver danzato solo per alcuni minuti.
“Bel costume.”
Rebecca si voltò.
Seduti accanto a lei c’erano Dracula e il mostro di Frankenstein.
A parlare era stato il vampiro, d’aspetto assai curioso: aveva lunghi capelli neri e lisci tirati indietro con una quantità di gel che Rebecca giudicò eccessiva, legati all’altezza della nuca, due occhi verdi scintillanti, la carnagione diafana e canini aguzzi che spuntavano dalle labbra vermiglie. L’abbigliamento era assolutamente impeccabile: pantaloni neri, scarpe di vernice dello stesso colore, una camicia bianca a collo alto e un lungo mantello scuro legato al collo.
Le sorrideva.
“Grazie. Anche il tuo.” – rispose.
“Mi chiamo Elettra Gambler.” – disse la ragazza, porgendole la mano.
Rebecca la strinse.
“E questa è Justine Delacroix.” Indicò con un cenno la compagna, che si affrettò a togliersi la maschera di Frankestein, rivelando un cespuglio di capelli biondi, un volto magro e due occhi marroni dal taglio orientale.
“Rebecca Bonner.” – rispose, stringendo la mano anche a lei.
“Ti ho vista in giro.” – disse Elettra. “Sei al primo anno, vero?”
“Già.”
“Noi al secondo. Balli piuttosto bene.”
“Davvero? Era la prima volta…”
“Non sembrava.”
Rebecca abbozzò un sorriso. “Voi non ballate?”
“Già fatto. Ci riposiamo un po’.”
Rebecca lanciò un’occhiata di sottecchi a Justine, che non sembrava particolarmente interessata alla conversazione, e sorseggiava una bevanda gialla da un bicchiere pieno di ghiaccio.
Elettra sorseggiò lentamente il suo punch. Sembrava decisamente più loquace della sua amica. Forse, pensò Rebecca, si stava annoiando e aveva voglia di parlare con qualcuno di nuovo.
“Allora, che ne pensi di Amtara dopo questi primi due mesi?”
La domanda la spiazzò un po’, forse perché la ragazza l’aveva presa in contropiede.
Rebecca ci pensò un po’. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Non poteva certo raccontare delle punizioni che era riuscita a guadagnarsi in così poco tempo. L’avrebbero presa per pazza.
“Mi trovo bene.” – fu tutto quello che riuscì a dire.
“I professori ti piacciono?”
Rebecca la guardò e notò uno strano guizzo nei suoi occhi.
“Beh, non proprio tutti, se devo essere sincera…”
Elettra le lanciò un’occhiata interrogativa.
Rebecca sghignazzò. “Diciamo che ho qualche problema con Garou e la Rudolf.” – confessò.
Tralasciò di aggiungere che nemmeno la Poliglotter la faceva impazzire, ma nulla a che vedere con la profonda antipatia che nutriva verso gli altri due.
“Ah, ma allora sei assolutamente normale!” – rispose Elettra ridendo.
“Non piacciono neanche a te?”
“Diciamo che la prima impressione non è stata delle migliori. Ma poi, con il tempo, ti accorgerai che sono due buoni insegnanti.”
Rebecca aggrottò la fronte. “Tu credi?” – disse con evidente scetticismo.
Elettra sorrise. “So che adesso è difficile credermi, ma tra un anno vedrai le cose in modo diverso.”
Rebecca si strinse nelle spalle. Dubitava che questo sarebbe mai accaduto, ma non aveva molta voglia di parlare dei professori, soprattutto in quel momento in cui voleva pensare solo a divertirsi.
“Se lo dici tu…”
Elettra tacque per un po’. Il suo punch, notò Rebecca, era quasi finito. Pensò di alzarsi per andare a prendere da bere, quando la ragazza tornò a rivolgersi a lei.
“Ho visto che parlavi con la Collins, poco fa.”
Rebecca all’improvviso fu colpita dalla strana sensazione che quella ragazza l’avesse spiata per tutto il tempo.
“Sì.” – rispose un po’ freddamente. Non aveva alcuna intenzione di rivelare il motivo per cui la preside l’aveva avvicinata.
Ma non ce ne fu bisogno, perché in quel momento vide Brenda e Barbara venire verso di loro.
Barbara si era tolta la maschera da Orco dalla testa. Era tutta sudata e i capelli le si erano un po’ appiccicati sulla fronte e ai lati del viso.
Anche Brenda si era sfilata la testa da Lupo e aveva la faccia stravolta.
“Siete stanche di ballare?” – chiese loro Rebecca, canzonandole un po’.
“Non posso continuare con questo coso addosso.” – rispose Barbara irritata. “Stavo facendo la sauna.”
“Avresti dovuto scegliere meglio.”
“Il prossimo anno solo costumi traspiranti.”
“Io ho bisogno di levarmelo di dosso.” – disse Brenda.
“Ti senti bene?” – le chiese Rebecca. Brenda era tutta sudata e un po’ pallida.
“Sì, ma non vedo l’ora di togliermi il costume. Ti dispiace se ce ne andiamo?”
“Certo, vengo con voi.”
Elettra e Justine erano rimaste in disparte tutto il tempo e Rebecca si era completamente dimenticata di loro.
Solo quando si alzò per andarsene notò che erano ancora lì sedute.
“Oh, scusatemi tanto.” – disse, sentendosi una perfetta idiota. “Ragazze, queste sono Elettra e Justine.”
Le ragazze si strinsero la mano.
“Sono al secondo anno.”
“Fantastica idea Dracula e Frankestein.” – commentò Barbara osservando ammirata i loro costumi. “Niente sudore, niente peli.”
Elettra e Justine risero.
“Puoi sempre riciclare l’idea per l’anno prossimo.” – disse Elettra.
“Già. Me ne ricorderò. Costumi traspiranti…. Costumi traspiranti…”
Salutarono Elettra e Justine e si avviarono verso l’uscita. La festa non era ancora finita ma molte persone se n’erano già andate. Rebecca non aveva idea di che ore fossero, ma notò che sui tavoli era rimasto ben poco da mangiare e da bere. Anche i professori erano spariti.
“Sapete che mi è successa una cosa strana, prima?” – disse Brenda mentre salivano le scale.
“Cosa?” – chiese Rebecca.
“Cogitus mi ha fatto i complimenti per il mio costume.”
“E che ci sarebbe di strano, scusa?” – domandò Barbara.
“Non lo so.” – rispose Brenda pensierosa. “E’ il modo in cui l’ha detto. Non te lo so spiegare … aveva una strana luce negli occhi. Per un attimo mi è perfino sembrato che cambiassero colore.”
“Quanto punch hai bevuto?” – chiese Barbara, divertita.
“Guarda che non sto scherzando.”
“Sarà stato il riflesso delle luci.” – disse Rebecca.
Brenda fece una smorfia. “Non lo so. Ma in ogni caso non mi è piaciuto per niente il modo in cui mi ha guardata.”
“Stiamo parlando dello stesso Cogitus che cammina col naso per aria, non si accorge mai di nessuno ed è sempre perso nei suoi pensieri, vero?” – disse Barbara.
“Beh, in quel momento non era affatto così.” – rispose Brenda irritata. “Aveva … qualcosa di sinistro che mi ha fatto paura.”
“Chissà, magari era solo stanco. Non aveva una bella cera, stasera.” – disse Rebecca.
“E quando mai ce l’ha avuta?” – domandò Barbara mentre si spogliava.
Rebecca rise.
“Piuttosto, sapete che Garou non c’era?” – continuò Barbara.
“E tu come fai a saperlo?” – chiese Rebecca.
“Ho sentito la Collins parlare con Cogitus.”
“Ora ti metti anche a spiare le conversazioni dei professori?” – fece Brenda.
“E’ stato un puro caso.” – puntualizzò Barbara.
“Sì certo…”
“Beh, ma cosa hanno detto?” – chiese Rebecca impaziente.
“La Collins ha detto che si augura che Garou guarisca presto e che il solo pensiero di doverlo rimpiazzare tutti i mesi la manda fuori di testa. Beh, non sono state proprio le parole esatte, ma il senso è quello.”
“Tutti i mesi?” – ripeté Rebecca.
“Proprio così.”
“Cos’ha da fare Garou di tanto importante?” – domandò Brenda.
“Boh.” – rispose Barbara.
“Forse la malattia è soltanto una scusa.” – disse Rebecca.
“Perché dovrebbe inventarsi di stare male, scusa?” – replicò Barbara.
Rebecca alzò le spalle. “Non lo so. Ma se è così, dev’essere davvero qualcosa di molto importante.”
“Ma figurati!” – esclamò Brenda. “Non crederai davvero ad una cosa del genere?”
“Sto solo facendo delle ipotesi.”
“Beh, io direi di dormirci sopra.” – disse Barbara, che nel frattempo si era infilata il pigiama. “E’ stata una giornata molto lunga.”
Quando spensero la luce, Rebecca restò sveglia a lungo prima di riuscire ad addormentarsi. Sognò di essere rincorsa da Orchi e Lupi Mannari che puzzavano di tabacco. Mentre correva a perdifiato, col cuore in gola, udì le grida della Collins mentre aizzava le belve contro di lei.
Si svegliò di soprassalto, madida di sudore.
Quando riuscì a riaddormentarsi, era quasi l’alba.
 

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Capitolo 11
*** Natale ad Amtara ***


Capitolo 11
“NATALE AD AMTARA”
 
Dopo la festa di Halloween, con notevole anticipo, ad Amtara arrivò l’inverno. Fin dalle prime ore del mattino una leggera brina imbiancava l’erba del giardino e un vento gelido spazzava via le foglie che ricoprivano il sentiero che portava alla foresta.
Novembre trascorse in un baleno e, prima che Rebecca potesse rendersene conto, a scuola si cominciò a pensare al Natale e alle vacanze e questo la mise in agitazione.
Ci aveva pensato per un mese intero e alla fine aveva deciso di rimanere a scuola. Per quanto si fosse affezionata a Brenda e Barbara, non se la sentiva di condividere il Natale con la loro famiglia. Aveva bisogno di un po’ di tranquillità e solitudine, soprattutto da quando Brenda aveva avuto la Premonizione.
Dopo la morte di sua madre si era abituata a stare sola e da quando era arrivata ad Amtara non aveva mai avuto tempo per stare un po’ per i fatti suoi. Le gemelle erano sempre con lei e, sebbene questo non le dispiacesse affatto, sentiva il bisogno di staccare un po’ la spina. E poi era curiosa di vivere la scuola senza la quotidiana ressa di studentesse che si affrettavano per la prima colazione, senza le lezioni, senza i rumori cui ormai era abituata. Era convinta che un po’ di sana solitudine le avrebbe giovato.
Ora, però, doveva dirlo a Brenda e Barbara.
Si era arrovellata il cervello per tutto il mese di novembre pensando alle parole giuste da dire, ma non aveva trovato nulla di convincente. Aveva accettato il loro invito e ora stava per declinarlo senza una giustificazione plausibile. Temeva che non avrebbero accettato la sua motivazione, specialmente Barbara, che era sembrata così entusiasta di ospitarla a casa loro. Rebecca era certa che avesse già programmato fin nei minimi dettagli tutte le attività da fare durante le vacanze.
Si tormentò per giorni, cercando di trovare il momento giusto per affrontare l’argomento. Ma ogni volta che provava a cominciare il discorso le parole le morivano in gola. Aveva paura di ferirle e continuava a rimandare, sperando ogni volta di trovare un momento più adatto.
Ma intanto i giorni passavano, il Natale si avvicinava sempre più e Rebecca malediceva se stessa e la sua codardia.
Ma non dovette aspettare ancora a lungo, perché l’occasione le venne servita su un piatto d’argento proprio da Barbara, un mattino a colazione.
“Mamma e papà intendono portarci in montagna a sciare. Hanno detto che, se vuoi, possono accompagnarti a comprare l’attrezzatura.”
Un boccone di toast al formaggio andò di traverso a Rebecca, che tossì forte.
“A meno che tu non l’abbia già, naturalmente.” – aggiunse Brenda, dandole forti pacche sulla schiena.
Rebecca, paonazza, si asciugò la bocca con il tovagliolo e allungò una mano verso il bicchiere pieno di succo d’arancia. Ne trangugiò tutto il contenuto in pochi istanti.
Era arrivato il momento, ormai non poteva più aspettare e non poteva certo mentire dicendo che sarebbe stata entusiasta di andare a sciare con loro. Non era nemmeno capace di sciare, ma non era il caso di farlo presente, dal momento che non ci sarebbe andata.
Per un istante, si diede mentalmente della stupida. Chiunque altro avrebbe accettato con grandissima gioia quell’invito e sarebbe stato grato alla vita per avergli fatto incontrare due persone così speciali in un momento tanto delicato della sua vita.
Lei, invece, stava per rovinare tutto.
“C’è qualcosa che non va?”
A Barbara non era sfuggita la sua espressione triste.
Rebecca non ebbe il coraggio di guardarla in faccia.
“Non ti piace sciare?” - le domandò Brenda.
“A dire il vero non ho mai imparato. Ho sempre vissuto al mare, ricordi?”
Ecco, alla fine lo aveva detto. Ma perché poi?
“Oh, ma puoi prendere lezioni!” - esclamò Barbara. “Non è difficile, sai? Noi abbiamo imparato da piccole. Beh, immagino che sia un po’ più complicato doverlo fare da adulti… Sai, da piccoli si impara tutto molto più velocemente….”
“Barbara, non è questo il problema.” L'espressione seria di Rebecca spense il suo entusiasmo.
E ora come avrebbe fatto a dirglielo?
Sospirò. “Ho cercato a lungo il modo giusto di dirvelo...”
“Di dirci cosa?” - chiese Brenda, inarcando le sopracciglia.
Rebecca abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello amareggiato dell’amica, che probabilmente stava cominciando a capire.
“Non me la sento di venire con voi.”
“CHE COSA?!” – esclamò Barbara.
“Non mi fraintendete. Sarei felicissima di stare con la vostra famiglia.”
“E allora?” – disse Brenda allargando le braccia.
La loro reazione non la stava certo aiutando a trovare le parole giuste, ma doveva aspettarselo che sarebbe stato così dannatamente difficile.
“Ho voglia di godermi Amtara da sola per un po’, di vedere com’è senza tutte le Prescelte in giro, di fare delle passeggiate lungo il fiume, di godermi un po’ di pace e silenzio.”
Barbara la fissò. “Tu non stai bene.”
“Credevo che ti avrebbe fatto piacere passarlo.... in famiglia.” – disse Brenda.
“Lo so, ma…”
“E poi qui sarai sola come un cane.” – la interruppe Barbara. “Se ne andranno quasi tutte, forse resteranno solo i professori. E’ davvero questo che vuoi?”
Come Rebecca si era aspettata, Barbara non capiva. La ferì leggere tanto risentimento nei suoi occhi. Era convinta che sarebbe stata felice di stare con loro e ora, all’improvviso, stava realizzando che non era così.
Rebecca avrebbe voluto spiegarle che non era un affronto personale nei loro confronti, che semplicemente in quel momento aveva bisogno di questo. Ma capì che sarebbe stato tutto inutile. Barbara non avrebbe compreso.
“Beh, questo non è proprio esatto.” – disse Brenda.
Barbara la guardò, irritata. “Che vuoi dire?”
“Ho sentito in giro delle voci, qualcuna rimarrà a scuola per le vacanze, chi per un motivo, chi per un altro.”
“Beh, magari nessuna di loro ha ricevuto un invito in piena regola.” – puntualizzò Barbara.
Rebecca, ferita, tacque. Sapeva che Barbara avrebbe reagito così, era esattamente la reazione che si era aspettata. Quello che non si era aspettata era che le sue parole facessero così male.
“Barbara, ora stai esagerando…” – l’ammonì Brenda.
“Ma scusa, vuoi paragonare Amtara col tepore della nostra casa in montagna? La cucina di mamma, la neve, le giornate sulle piste da sci, la cioccolata calda…”
“Lo so, ma non possiamo obbligare Rebecca. Se in questo momento lei preferisce restare qui, noi dobbiamo accettarlo. E’ questo che fanno gli amici.”
Rebecca avrebbe voluto abbracciarla.
Quelle parole sembrarono ammorbidire un po’ sua sorella.
“E poi la cioccolata calda c’è anche qui.” – aggiunse Brenda.
“Quella degli Gnomi non ha niente a che vedere con quella che fa mamma.” – precisò Barbara, glaciale.
“Vorrà dire che Rebecca si accontenterà della cioccolata degli Gnomi!”- rispose Brenda spazientita.
A Rebecca venne quasi da ridere, ma si trattenne. Non era il caso di istigare Barbara più di quanto non avesse già fatto. Era immensamente grata a Brenda per aver capito e per il suo tentativo di convincere la sorella.
Barbara tacque. Non sembrava molto convinta, ma aveva perso un po’ dello spirito battagliero di poco prima.
“Quando l’hai deciso?” – chiese girandosi verso Rebecca.
“Da un po’. E mi dispiace tantissimo, avrei voluto dirvelo prima ma…”
“Sì, avresti dovuto.”
“…non riuscivo a trovare il coraggio. Sapevo che avreste reagito così e avete ragione. Ma io…. In questo momento sento che per me è la cosa giusta da fare.”
Barbara abbassò lo sguardo.
“Vi prego non prendetela come una cosa personale, perchè non lo è. Da quando mia madre è scomparsa voi siete state le prime persone ad avermi fatto sentire parte di una famiglia. Dico davvero. Non saprete mai quanto io apprezzi questa cosa. E vale anche per i vostri genitori. In fin dei conti, nemmeno mi conoscono, eppure sono stati così gentili da invitarmi a casa loro…”
“Loro sanno chi sei.” - disse Brenda. “E sanno quanto ci siamo affezionate a te.”
Barbara continuava a tenere la testa bassa, giocherellando con le uova strapazzate che aveva nel piatto.
“Tu non hai niente da dire?” – la sollecitò sua sorella.
Barbara le lanciò un’occhiataccia. “No.”
Brenda alzò gli occhi al cielo. Sua sorella riusciva ad essere più ostinata di un mulo.
Rebecca non disse nulla e si dedicò alla sua colazione. Avrebbe lasciato a Barbara tutto il tempo di cui aveva bisogno per accettare la cosa, senza più infastidirla.
Ricominciarono a mangiare in silenzio e per un po’ l’unico rumore che si udì al loro tavolo fu quello delle forchette sui piatti e del succo d’arancia versato dalla caraffa.
Rebecca era in imbarazzo. Da quando erano ad Amtara era la prima volta che sedevano a tavola insieme senza dire una parola.
E tutto per causa sua.
Brenda, di tanto in tanto, lanciava delle occhiatacce eloquenti in direzione di Barbara, che però faceva finta di non vederle, ostinandosi a tenere la testa bassa senza guardare nessuno.
Quando finirono la colazione Rebecca stava per alzarsi, ma la voce di Barbara la bloccò.
“Senti, puoi almeno farmi un favore?”
“Quale?”
“Puoi evitare di metterti nei guai mentre noi siamo via?”
Rebecca, cui non era sfuggito il tono addolcito della sua voce, aggrottò la fronte. “Perché dovrei mettermi nei guai?”
Barbara la fissò con insistenza, fin quando alla fine Rebecca sgranò gli occhi, improvvisamente consapevole del significato delle sue parole.
“Oh ti riferisci…”
“…alla Premonizione. Esatto.”
Rebecca si agitò sulla sedia, inquieta, cosa che non sfuggì a Brenda.
“Non per metterti ancora più in agitazione, Rebecca, ma credi davvero sia il caso che ti lasciamo qui da sola per due intere settimane, dopo quello che …. “ – e così dicendo abbassò la voce, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno stesse ascoltando “… che sappiamo potrebbe accadere?”
Per un attimo, Rebecca soppesò l’ipotesi di chiedere anche a loro di restare a scuola con lei, ma cancellò subito dalla mente quell’idea assurda. Non avrebbe mai potuto chiedere loro una cosa del genere. E poi non era più una bambina, era perfettamente in grado di badare a se stessa e di affrontare qualunque pericolo. Era o no una Prescelta, per di più con un Potere speciale?
“Andrà tutto bene. So cavarmela da sola. In fondo l’ho sempre fatto, no?”
“Potremmo restare a scuola anche noi.” – propose Barbara a sua sorella, quasi le avesse letto nel pensiero.
“Cosa?” Brenda non credeva alle sue orecchie. “Hai appena finito di fare il diavolo a quattro e ora vuoi restare a scuola anche tu?! Sei impazzita?”
Rebecca non se la sentiva di darle torto. A volte era molto difficile comprendere gli strani comportamenti di Barbara…
“Lo so ma non avevo pensato alla Premonizione.” – si difese Barbara. “Come faremo ad aiutarla se dovesse succedere qualcosa?”
“In quel caso userò il mio Potere e verrò a chiamarvi.” – disse Rebecca con semplicità.
“Potresti non averne il tempo.”
“E questo che vorrebbe dire?”
“Potresti essere ferita, o in fin di vita, o intrappolata da qualche parte…”
“Ora sì che mi sento meglio…” – borbottò Rebecca.
“Sto solo cercando di soppesare tutti i pro e i contro!”
“E non hai pensato a mamma e papà?” – intervenne Brenda. “Cosa gli diremo? Lo sai quanto ci tengono a questa vacanza…”
Barbara non rispose. In effetti, l’idea di perdersi le vacanze sulla neve non l’attraeva per niente. Rebecca avrebbe anche potuto desiderare la pace e la tranquillità natalizia di Amtara, ma lei preferiva di gran lunga l’affollamento sulle piste da sci e il tacchino ripieno che mamma cucinava sempre per Natale. A quel pensiero le venne di nuovo l’acquolina in bocca, nonostante avesse appena finito di fare colazione.
“Sei davvero sicura della tua decisione?” – le chiese Brenda. “Se cambi idea e decidi di venire con noi, in qualunque momento, basta dirlo.”
“Ti ringrazio, ma non penso che lo farò.”
“E come la mettiamo con la Premonizione? C’è il rischio concreto che possa avverarsi in qualunque momento, e se dovesse accadere mentre noi non ci siamo…”
“Saprò cavarmela.”
“Ti abbiamo promesso di non lasciarti sola.”
“Ma non potete essere la mia ombra 24 ore su 24. E’ impossibile.” Rebecca sospirò, stancamente. “So che siete preoccupate per me, ma…”
“Lo so benissimo, Rebecca. Promettici solamente che ci chiamerai se dovessi avere bisogno. A noi basta questo.”
Brenda aveva capito. Rebecca cominciava ad avere bisogno dei suoi spazi e avvertiva il desiderio di tornare a cavarsela da sola, come aveva imparato a fare dalla morte di sua madre. Non aveva bisogno di due balie, ma di due amiche.
“Ve lo prometto.”
 
Il professor Garou, ripresosi dalla malattia, ricominciò le sue lezioni a pieno ritmo, seppur con le guance un po’ pallide e scavate, gli occhi arrossati e l’aria di uno che era appena uscito da un incontro di boxe.
“Che cosa l’avrà ridotto in quello stato?” – si domandò Rebecca ad alta voce.
“Non ne ho idea.” – rispose Brenda.
“Qualunque cosa sia, spero solo non sia contagiosa.” – disse Barbara, preoccupata.
Ma le preoccupazioni sullo stato di salute del professor Garou passarono subito in secondo piano quando la Rudolf annunciò che era arrivato il momento di passare ad un nuovo argomento di studi: la Maledizione Agghiacciante.
Come sempre, tutte ebbero modo di assistere agli effetti della Maledizione lanciata dalla Rudolf e alla Contromaledizione, poi fu il loro turno.
Rebecca fissò, con ansia crescente, il topo che tremava come una foglia, fino a quando non lo vide accasciarsi inerme sul tavolo, in evidente stato di ipotermia. Gradualmente, il pelo dell’animale cominciò a diventare blu.
Faveo!” – gridò Debora Lamington, indirizzando le sue mani verso il topolino.
In un lampo, come se nulla fosse accaduto, il pelo della bestia tornò del suo colore normale e Rebecca lo vide rialzarsi sulle zampe.
“Splendido, Lamington!” – cinguettò la Rudolf.
Debora tornò a posto con un sorriso compiaciuto sul volto.
Rebecca continuava a pensare che le lezioni della Rudolf avessero un non so che di cruento. Non aveva del tutto cambiato idea per quanto riguardava i topi, nonostante stesse sempre molto attenta a non farne parola con nessuno, nemmeno con le gemelle. Sapeva perfettamente che l’avrebbero attaccata ferocemente, dopo che aveva fatto guadagnare a tutta la classe una punizione coi fiocchi il primo mese di scuola. Restava il fatto che le lezioni di Protezione erano le uniche a farla sempre sentire piuttosto a disagio, anche se si rendeva conto, sempre di più, di quanto la Rudolf avesse ragione. Man mano che scopriva le Maledizioni, Rebecca capiva sempre di più quanto potere malvagio stesse utilizzando Posimaar sulle sue vittime e quanto le Prescelte e i Protetti fossero in grave pericolo. Rebecca cercava, dunque, di prestare sempre la massima attenzione durante le lezioni della Rudolf, ignorando la vocina interiore che le suggeriva di intervenire ogni volta che il malcapitato topolino di turno subiva gli effetti di una Maledizione.
Per quanto fosse dura ammetterlo, la Rudolf aveva ragione. Aveva a disposizione solo tre anni per imparare a contrastarle perfettamente tutte e cinque e non era un lavoro da poco.
Da quando aveva comunicato alle gemelle la sua decisione di restare ad Amtara per le vacanze natalizie, inoltre, Rebecca aveva cominciato ad avere un incubo ricorrente.
Nel sogno la Premonizione di Brenda si avverava e lei era nel bosco, sola. Chiamava a gran voce Brenda e Barbara, ma per tutta risposta non udiva altro che il sinistro rumore del vento tra gli alberi ed echi di lamenti lontani che le provocavano brividi nelle ossa e, puntualmente, la svegliavano in un bagno di sudore.
Per fortuna, né Brenda né Barbara si erano mai accorte di nulla e Rebecca si guardava bene dal raccontare loro quegli incubi. Non voleva sapessero che era preoccupata perché sapeva benissimo che, in quel caso, avrebbero subito cambiato i loro programmi natalizi.
E lei non voleva che rinunciassero alla loro vacanza per le sue stupide paure.
 
I giorni volavano e Natale si avvicinava sempre più. Una settimana prima dell’inizio delle vacanze, la Collins organizzò una grande festa in Sala da Pranzo (come aveva detto Barbara, le fate erano del tutto indifferenti al Natale), per festeggiare tutte insieme prima che la maggioranza delle Streghe partisse. Rebecca cominciò seriamente a pensare che, se avesse continuato ad ingurgitare cibo con quel ritmo, era assai probabile che l’anno successivo non sarebbe più entrata nei suoi vestiti.
Ma come si poteva non rendere onore al sontuoso banchetto preparato dagli Gnomi per l’occasione? Tartine al cetriolo, pizzette, torte al formaggio, salmone affumicato e pane tostato, lasagne, risotto ai mirtilli, tagliatelle al ragù, faraona ripiena, crostacei in salsa di yogurt e menta, budino di pesche, mousse al cioccolato e cheesecake alle fragole.
Dopo il pranzo fu costretta ad allentare la cintura dei pantaloni, o sarebbe esplosa.
Era piena come un uovo e le suscitò un vago senso di nausea la vista di Barbara che, seduta di fronte a lei, divorava un’enorme porzione di cheesecake.
Barbara aveva mangiato almeno il doppio di lei e Rebecca non capiva dove finivano tutte quelle calorie che assumeva ogni santo giorno, dal momento che era perfino più magra di lei.
Senza alcun dubbio Barbara, oltre ad un vorace appetito, aveva anche uno stomaco di ferro, perché quella sera riuscì ad addormentarsi subito dopo cena senza problemi, mentre Rebecca si rigirò ripetutamente nel letto prima di riuscire a prendere sonno, con la fastidiosa sensazione che un montone le fosse appena salito sulla pancia.
Il mattino dopo Rebecca saltò la colazione e fu nuovamente assalita dalla nausea nel momento in cui vide Barbara servirsi la colazione.
“Non posso credere che hai ancora fame dopo ieri sera…” – le disse sua sorella, che si era limitata, come Rebecca, ad un sobrio cappuccino.
“Perché?” – chiese Barbara in tono innocente. “Sono passate più di otto ore…”
Brenda scosse la testa, alzando gli occhi al cielo.
“E poi ci aspetta un lungo viaggio, devo mettermi in forze.”
Rebecca si guardò intorno. C’era aria di festa. Non aveva mai visto un clima tanto allegro in Sala da Pranzo, se si escludeva la vigilia di Halloween. La maggioranza delle Streghe era in procinto di partire per le vacanze.
Dal canto suo, anche Rebecca si sentiva euforica. Brenda e Barbara le sarebbero mancate, ovviamente, ma era curiosa di passare un po’ di tempo da sola in quella che, ormai, era la sua nuova casa.
A dispetto di tutto, doveva confessare che Amtara le piaceva. Amava l’atmosfera a volte un po’ sinistra dei corridoi bui, la quiete del bosco, l’aria frizzante del mattino rorido di rugiada, la sua camera tappezzata di rosa, le aule grandi e smisurate. C’era qualcosa che l’attraeva, che la faceva sentire davvero a casa e che rendeva la lontananza da Villa Bunkie Beach assai più sopportabile.
Quando accompagnò le gemelle al cancello, però, fu assalita dalla tristezza. Non le avrebbe viste per due intere settimane. Si sentiva ancora vagamente in colpa per aver rifiutato l’invito e non era sicura che Barbara avesse davvero compreso, per quanto non le avesse dato nessun motivo di dubitarne.
“Rebecca!” La signora Lansbury scese dall’auto e corse verso di lei. “Oh, finalmente ho l’occasione di conoscerti! Brenda e Barbara non hanno fatto che parlarmi di te nelle loro lettere.”
Rebecca ricambiò l’abbraccio, imbarazzata.
“Fatti guardare.” Le prese il viso tra le mani. “Oh sì, sei perfino più carina di quanto immaginassi.”
“Mamma, non è il caso…” – disse Brenda, più in imbarazzo di Rebecca.
Sua madre la ignorò.
“Sei proprio sicura di non voler venire con noi?”
Rebecca si sentì avvampare. “La ringrazio, ma preferisco di no.”
La donna sospirò. “Che peccato…”
“Mamma.” Stavolta fu Barbara a richiamare la sua attenzione.
Il signor Lansbury aveva caricato i bagagli in macchina e aspettava accanto alla portiera aperta.
“Ok, ok, sto arrivando.”
Salutò Rebecca stampandole un bacio sulla fronte.
“Scusa.” – le disse Barbara quando sua madre fu salita in macchina. “Fa sempre così.”
“Già, è molto… plateale.” – aggiunse Brenda con una smorfia.
Rebecca rise. “E’ simpatica. E molto affettuosa.”
“Sì, anche troppo.” – disse Barbara.
Si guardarono, imbarazzate.
“Beh…. Allora … Buon Natale.” – disse Rebecca, per spezzare il silenzio.
“Buon Natale, Rebecca.” Brenda l’abbracciò forte. “Mi raccomando, eh!”
Rebecca annuì, sapendo perfettamente a cosa si riferisse.
“Buon Natale.” – disse Barbara, abbracciandola a sua volta.
“Divertitevi.”
Restò a guardarle mentre salivano in macchina e partivano. Quando l’auto bordeaux sparì dopo la curva, si voltò e rientrò a scuola.
 
I professori non si erano certo risparmiati con i compiti per le vacanze, al punto che Rebecca si domandò per quale motivo le chiamavano vacanze, se poi erano costrette a studiare più che durante il resto dell’anno. Ma fece un patto con se stessa: si sarebbe dedicata allo studio dopo Natale e avrebbe trascorso quelle giornate nell’ozio totale. Aveva bisogno di ricaricare le batterie e di prendersi del tempo per se stessa.
E così fece. La mattina si alzava piuttosto tardi e faceva lunghe passeggiate in riva al fiume. Le montagne erano innevate e tirava sempre un’aria frizzante in quelle gelide mattine invernali, ma a Rebecca bastava coprirsi adeguatamente per non dover rinunciare a quelle passeggiate nel verde che avevano il potere di rigenerarla ogni mattina.
Durante i pasti, Rebecca si rese conto che la scuola si era davvero svuotata. Le allieve rimaste si potevano contare sulle dita di due mani e gli unici due professori presenti erano la Collins e la Rudolf. Gli Gnomi avevano modificato la disposizione dei tavoli in modo che tutti potessero ricevere i pasti allo stesso tavolo. Come aveva immaginato, era piuttosto imbarazzante condividere colazione, pranzo e cena con la Rudolf e Rebecca cercava in tutti i modi di evitare di incrociare il suo sguardo. Quello sarebbe stato l’unico motivo per preferire la vacanza in montagna, ma Rebecca dovette ammettere che si stava bene ad Amtara senza la solita confusione.
Inoltre aveva scoperto, con piacevole sorpresa, che anche Elettra Gambler era rimasta a scuola per le vacanze e Rebecca pensò potesse essere un’ottima occasione per conoscerla meglio. Aveva scambiato solo poche parole con lei la sera di Halloween, ma nel complesso le aveva fatto una buona impressione, anche se le era sembrata forse un tantino invadente. Ora era curiosa di approfondire la conoscenza e scambiare con lei idee e opinioni sul mondo di Amtara.
 
La mattina di Natale Rebecca si svegliò presto. Scostò la tendina dalla finestra e guardò fuori. Il cielo era pallido. Forse, con un po’ di fortuna, avrebbe nevicato. Sarebbe stato il Natale perfetto.  A Bunkie Beach le temperature non scendevano mai al di sotto dello zero e in diciotto anni Rebecca non aveva mai visto la neve. Sarebbe stato bello vedere Amtara in quella luce nuova.
Non aveva voglia di vestirsi subito per scendere a colazione e decise di aprire i regali delle gemelle.
Scartò subito il primo pacchetto, che conteneva un orologio da polso placcato in oro. Aprì il biglietto e lo lesse.
“Meglio se lo metti al sinistro. Buon Natale. Brenda e Barbara.”
Rebecca sorrise e aprì l’altro pacchetto. Era una foto incorniciata che ritraeva lei e le due amiche in riva al fiume. Ricordava bene quel pomeriggio di settembre in cui era stata scattata. Barbara ci aveva messo un bel po’ per riuscire a posizionare la macchina fotografica in equilibrio su un grosso sasso, prima di far partire l’autoscatto.
Rebecca appoggiò la foto sul comodino e la guardò, pensierosa. Si domandò che cosa stessero facendo le amiche in quel momento. Poi guardò l’orologio. Probabilmente dormivano ancora.
Stava ancora sorridendo quando scese in Sala da Pranzo.
Sedute al tavolo c’erano due volti familiari.
“Ciao ragazze.” – le salutò Rebecca, sedendo accanto a loro. “Buon Natale.”
“Buon Natale Rebecca.” – rispose Elettra con un gran sorriso.
“Buon Natale!” – le fece eco Justine.
Rebecca si versò il caffelatte, poi si alzò e andò a servirsi al buffet, che per l’occasione era stato ampliato con una lunga tavolata imbastita di frutti tropicali e grosse fette di pandoro, panettone e torrone di tutti i tipi. Quando tornò al tavolo, si accorse che Elettra e Justine avevano già finito di mangiare.
Justine si alzò. “Io salgo in camera.”
“Ti raggiungo più tardi.” – disse Elettra.
“Ci vediamo a pranzo.” – disse Justine a Rebecca, allontanandosi.
Rebecca ricambiò il saluto con la mano poi, affamata, si lanciò su una grossa fetta di pandoro.
“Non sapevo che eri rimasta qui anche tu.” – le disse Elettra.
Rebecca ingoiò il boccone. “Brenda e Barbara mi hanno invitata in montagna a sciare, ma ho preferito rimanere qui.”
“Hai preferito rimanere qui piuttosto che fare una vacanza?”
“Beh, che c’è di male?” – rispose Rebecca, un po’ offesa.
“Niente.” – rispose Elettra tranquilla. “Solo mi sembra strano. Non sei in buoni rapporti con loro?”
“Al contrario!” – esclamò Rebecca. “E’ solo che non volevo approfittare dell’ospitalità dei loro genitori. E poi mi andava di starmene un po’ per conto mio.”
“Capisco.”
Per qualche istante non parlarono. Rebecca sorseggiò il caffelatte bollente, scottandosi la lingua.
“Perdona la mia invadenza ma … non hai una famiglia?” – chiese Elettra.
Rebecca scosse la testa. “I miei genitori sono morti.” – rispose. Per qualche ragione, la curiosità di Elettra non la disturbava affatto.  
“Io ho passato il Natale qui anche l’anno scorso.”
“Anche tu hai perso la tua famiglia?”
Elettra scoppiò in un risolino triste. “Oh no. I miei sono vivi e vegeti. Si sono separati quando ero piccola e oggi hanno entrambi dei nuovi compagni. Mio padre è ai Caraibi con la sua ultima fiamma e mia madre è in montagna.”
Rebecca non rispose, limitandosi a fissarla con aria triste.
“Prima di venire ad Amtara,” – continuò Elettra, “passavo il Natale con la nonna. Poi lei è morta, e da allora ho deciso di restare a scuola.”
“Ma è terribile!” – esclamò Rebecca.
“Per niente.” – rispose Elettra. “A me va bene così. Anche quando sono insieme a loro, il più delle volte mi ignorano, e allora tanto vale restare da sola.”
“Ma come possono voler passare il Natale lontano da te? Sei la loro figlia.”
Elettra si strinse nelle spalle, senza rispondere.
Rebecca non poteva credere alle sue orecchie. Esistevano davvero genitori tanto egoisti e sconsiderati che anteponevano i loro comodi alle necessità di una figlia? Per lei, che era stata cresciuta da due genitori amorevoli e che sapeva cosa significasse perderne uno, che aveva ricevuto così tanto amore da sua madre da farle scoppiare il cuore…. Era semplicemente assurdo che un genitore potesse infischiarsene altamente di un figlio come stavano facendo i genitori di Elettra.
Eppure la ragazza non era apparsa minimamente turbata nel raccontarlo. Doveva averci fatto l’abitudine, ormai, anche se Rebecca si domandò se fosse realmente possibile abituarsi a cose del genere.
Ad Elettra non sfuggì l’espressione rattristata di Rebecca.
“Ehi, è la mattina di Natale! Non dovremmo parlare di cose tristi.”
Rebecca si riscosse ed annuì, cercando di sorridere.
“Tu sei in camera con Brenda e Barbara?”
“Sì.”
“Io sono in camera con Justine. Ci troviamo bene. E ogni tanto mi insegna un po’ di francese.”
“Avevo notato un leggero accento, in effetti…” – osservò Rebecca.
“Lo parla molto bene. Sua madre è di Parigi.”
“Anche il professor Garou ha origini francesi?”
“Sì, ma non si sa molto di lui. Pare che venga dalla Francia ma non sappiamo dove ha insegnato prima di venire qui. Quando la professoressa Dustin è andata in pensione, la Collins l’ha assunto subito.”
“Che idea ti sei fatta di lui?” – domandò Rebecca, curiosa.
Voleva confrontare l’opinione di qualcuno che non fossero le gemelle con l’idea che si era fatta lei del professore, in quei pochi mesi ad Amtara. Elettra lo conosceva da più tempo di lei.
Elettra respirò profondamente. “Non so darti una risposta precisa. Al momento, mi sembra che sia un insegnante valido, anche se forse un po’ cagionevole di salute.”
Rebecca si chiese se fosse il caso di informare Elettra della conversazione tra la Collins e Cogitus alla festa di Halloween , ma decise di tenere la bocca chiusa.
“Non lo trovi un po’ strano?” – le chiese Rebecca.
“In che senso?”
“Beh, nella nostra classe è stato assente per un po’. Lo ha sostituito la Collins. Le ho chiesto cosa gli era successo e mi ha risposto che aveva avuto problemi di salute. Poi, quando è tornato, aveva l’aspetto di uno che era appena stato investito da un treno.”
Elettra rise.
“Gli succede piuttosto spesso, in realtà, ma non abbiamo mai capito se soffra di una malattia particolare. In fin dei conti, rimane assente per un po’ ma poi torna sempre a fare lezione. Credo che per la Collins sia un bravo insegnante, altrimenti lo avrebbe già sostituito. Noi comunque evitiamo di fare domande.”
Rebecca non rispose. Non la trovava una cosa normale. Ripensò alle parole di Barbara: e se si fosse trattato di qualcosa di contagioso? Impossibile. La Collins non avrebbe mai permesso che qualcuno gravemente malato insegnasse ad Amtara, rischiando di mettere in serio pericolo tutte le Prescelte. Restava il fatto che Garou non godeva affatto di una buona salute. Perché la preside non lo sostituiva? Avrebbe potuto assumere decine di professori competenti quanto lui (e forse anche un po’ meno antipatici).
Stava per esternare questi pensieri ad Elettra, quando la ragazza, scusandosi, si alzò e uscì dalla Sala da Pranzo.
Rebecca rimase da sola per alcuni minuti, durante i quali finì la sua colazione.
Quando Elettra tornò a sedersi aveva in mano un giornale.
“Leggi il Corriere delle Streghe?” – domandò Rebecca, dando un’occhiata alla prima pagina.
“Sono abbonata.” – rispose Elettra, sfogliando le pagine. “Mi arriva tutte le mattine per posta.”
Elettra cominciò a leggere distrattamente il giornale, quando qualcosa attirò la sua attenzione.
A Rebecca non sfuggì l'espressione di orrore che d'improvviso si dipinse sul suo volto.
“Che c’è?” – chiese allarmata.
Elettra non rispose, fissando la pagina con occhi sbarrati.
Rebecca seguì la direzione dei suoi occhi e lesse:
“Una giovane Strega Bianca di nome Bonnie Stage, neo diplomata alla “Scuola di Protezione per Streghe Bianche Prescelte Amtara” è rimasta uccisa ieri sera insieme al suo Protetto Jack Sommerville nell’abitazione di quest’ultimo. Secondo le prime fonti l’attacco sarebbe avvenuto in tarda serata per opera di una Strega Nera. Sembra che le vittime siano state uccise da una Maledizione Dissanguante. A dare l’allarme, i genitori del ragazzo, che non erano in casa al momento dell’omicidio e che al loro rientro hanno fatto la macabra scoperta.”
“Bonnie Stage.” – mormorò Elettra, ripiegando il giornale.
“La conoscevi?”
Elettra scosse il capo. “Dev’essersi diplomata prima del mio arrivo a scuola. Poverina. Che morte orribile.”
“Che cos’è la Maledizione Dissanguante?”
Rebecca era sconvolta. Le Prescelte rischiavano la vita tutti i giorni ed era ormai evidente che non bastavano tutte le nozioni apprese ad Amtara per salvar loro la vita. Quella ragazza si era appena diplomata in quella scuola e a cosa le erano serviti tre anni di studio? Proprio a niente. Lei e il suo Protetto erano morti comunque.
Che senso aveva restare lì? Calì Amtara si era davvero illusa che la sua scuola le avrebbe salvate tutte dalla follia di Posimaar?
Un brivido le percorse la schiena e la colazione appena fatta le provocò un vago senso di nausea.
“Non la conosci?”
Rebecca scosse il capo, lentamente. “Non l’abbiamo ancora studiata. Anche se…. Beh, il nome non lascia adito a dubbi…”
Elettra annuì. “La studierai l’anno prossimo. Per come la vedo io è la più terribile, almeno tra quelle che ho studiato finora…”
“Perché?” – chiese Rebecca con un brivido.
“Ti prosciuga il sangue da tutto il corpo. Se non si interviene subito la vittima perde i sensi e muore.”
“Muore dissanguata?”
“Peggio. Non lascia ferite evidenti. Non si vede il sangue. Semplicemente ti viene tolto dal corpo. Un po’ come se un vampiro ti succhiasse tutto il sangue che ti scorre nelle vene, solo che in questo caso il vampiro è invisibile. Non lascia segni.”
Rebecca deglutì.
Fino ad ora non avrebbe saputo scegliere la Maledizione peggiore tra quelle che avevano affrontato nelle lezioni con la Rudolf, ma se solo provava ad immaginare l’effetto della Maledizione Dissanguante pensò che Elettra probabilmente avesse ragione.
Non era poi così complicato accorgersi della Maledizione Accecante, visto che il fuoco era qualcosa di molto concreto e ben visibile a occhio nudo.
Non era nemmeno difficile riconoscere i segni della Maledizione della Follia, e per quanto riguardava la Maledizione Agghiacciante, il colore blu che veniva ad assumere il corpo della vittima era un segnale inequivocabile.
Ma questo era qualcosa di totalmente ingestibile. La vittima, molto probabilmente, avrebbe gradualmente perso ogni traccia di colore sul viso ma sarebbe stato dannatamente difficile accorgersene in tempo. Se il suo Protetto fosse mai stato colpito da quel tipo di Maledizione, Rebecca dubitava che sarebbe riuscita a salvarlo in tempo. E se per caso quella ad esserne colpita fosse stata lei….. beh, in quel caso avrebbe presto rivisto sua mamma e suo papà, pensò con un crescente senso di oppressione al petto.
“Quella povera ragazza non ha avuto scampo.”
La voce di Elettra la fece sussultare, persa com’era in quei pensieri atroci.
“Non dev’essere facile.” – proseguì Elettra. “Sai, qui ci fanno studiare tanto, ci esercitiamo per ore e ore…. Ma sai cosa penso? Che la realtà là fuori non sarà mai come cercano di mostrarcela qui. Quando ci troveremo davanti ad una Strega Nera tutto sarà maledettamente diverso. Chi ci assicura che avremo i riflessi pronti? Chi ci assicura che saremo davvero capaci di salvarci la pelle? La verità è che nessuno lo sa. Nemmeno Calì Amtara in persona, che ha avuto la brillante idea di creare questa scuola.”
Rebecca non potè fare a meno di notare il tono amaro delle sue parole.
Ma Elettra aveva ragione. Leggendo quell’articolo Rebecca aveva avuto lo stesso identico pensiero. All’improvviso tutto le sembrava inutile, come se stessero cercando di combattere una guerra che in realtà era già persa. Le avrebbero spedite al macello, ma pretendevano che fossero rigorosamente preparate per affrontarlo. E la verità era che non lo sarebbero state mai.
Al diavolo, pensò. Tanto valeva tornare a Villa Bunkie Beach a godersi gli ultimi tre anni di vita, visto che, con ogni probabilità, sarebbe morta subito dopo.
Per un istante, si diede della stupida per essere rimasta lì. In quel momento avrebbe potuto essere in montagna, dove avrebbe visto finalmente la neve, per la prima volta nella sua vita (e probabilmente anche l’ultima). Avrebbe potuto trascorrere lunghe giornate con le gemelle a divertirsi e ingozzarsi di buon cibo e cioccolata bollente, avrebbe potuto imparare a sciare, o perlomeno provare a farlo. In altre parole, avrebbe potuto godersi la vita, cosa che ad Amtara non avrebbe potuto fare.
Improvvisamente, quella che solo poco tempo prima le era sembrata una fantastica opportunità per rilassarsi e godere di un po’ di pace, le sembrò l’idea più stupida che potesse venirle in mente.
Perché era stata tanto idiota da cambiare idea?
Si maledì mentalmente, imprecando tra sé.
Bonnie era morta la vigilia di Natale. Non era riuscita a salvare se stessa e il suo Protetto dalla follia omicida di Posimaar.
Due giovani vite spezzate. Due famiglie distrutte. Quattro genitori che, Rebecca ne era sicura, non si sarebbero mai più ripresi dallo shock.
Le tornarono in mente le parole della Rudolf:
“Aspetta di essere al cospetto di una Strega Nera e capirai cos’è davvero il dolore. Cosa farai quando il tuo Protetto verrà colpito e tu non sarai in grado di fare nulla per salvarlo? Cosa farai quando lo sentirai urlare, quando lo vedrai cadere a terra e contorcersi dal dolore? Sarai pronta? Sarai abbastanza veloce da scagliare la Contromaledizione? Perché solo di questo si tratta.”
Bonnie non era stata pronta, o forse, semplicemente, non era stata abbastanza veloce. Nessuno lo avrebbe mai scoperto. Magari era stata una brillante allieva di Amtara, ma a cosa le era servito se, alla fine, era morta proprio a causa di quella Maledizione che aveva imparato proprio lì e contro cui si era certamente esercitata per giorni e giorni?
Un lampo di fuoco fiammeggiò nell’azzurro dei suoi occhi.
Posimaar.
Lui, solo e soltanto lui era la causa di tutto. Trovarlo e sconfiggerlo avrebbe posto fine a tutto questo. Le Streghe Nere sarebbero scomparse, non ci sarebbe stato più alcun bisogno di Proteggere nessuno, le Prescelte sarebbero tornate libere e perfino le fate, pensò Rebecca con un sorriso amaro, avrebbero riavuto il loro amato castello tutto per sé.
Tutto riconduceva a lui. Scoprire chi fosse, cosa volesse dalle Streghe Bianche, dove si nascondeva sarebbe stata la soluzione di tutto.
“A cosa stai pensando?” – le chiese Elettra.
Rebecca si girò a guardarla. “A Posimaar.”
“Già.”
“E’ lui la causa di tutto. Trovarlo e sconfiggerlo una volta per tutte è l’unica soluzione.”
“Certo, ma nessuno sa chi sia, da dove venga e soprattutto per quale accidenti di motivo ce l’ha tanto con la Magia Bianca.”
Rebecca allargò le braccia, esasperata. “Ci deve pur essere un indizio, da qualche parte! Qualunque cosa!”
Era terribilmente frustrante pensare di combattere un nemico senza volto. Il Demone era il mandante delle Streghe Nere e nessuno sapeva niente di lui.
“E’ già stato un miracolo scoprire della sua esistenza.” – rispose Elettra. “Se non fosse stato per quella Strega Bianca….Anna…. noi brancoleremmo ancora nel buio.”
“Sì, lo so, ma è proprio questo che mi fa impazzire. Deve pur aver lasciato delle tracce dietro di sé.”
Elettra si strinse nelle spalle. “Non necessariamente. Credo sia per questo che sta utilizzando le Streghe Nere. Loro agiscono, lui resta nell’ombra. È questo il suo scopo.”
“Ma perché?”
“Per non essere scoperto, è ovvio. Sa che se lo trovassimo, sarebbe la fine dei giochi. E sono sicura che si sta divertendo un mondo. Qualunque sia il suo obiettivo, è un giocatore davvero abile. È lui il nostro vero nemico, ma è abilissimo nel non farsi trovare. Se anche dovessimo mai riuscire a catturare una Strega Nera e sottoporla a tortura, sono certa che non confesserebbe mai nulla sul suo padrone. È anche probabile che agiscano sotto l’effetto di qualche Incantesimo di Magia Nera molto potente. Non lo sappiamo.”
Rebecca sospirò.
“Insomma stai dicendo che dobbiamo metterci il cuore in pace.”
Elettra annuì. “Abbiamo le mani legate. Non c’è altro che possiamo fare. La difesa, al momento, è la nostra unica arma. I Protetti stanno morendo, la Magia Bianca ci ha chiamato a difenderli. Per quanto la cosa non ci piaccia, è il nostro compito e dobbiamo portarlo a termine.” Elettra sospirò. “O morire, cercando di farlo.”
Rebecca, per nulla rincuorata da quelle parole, ripensò a Banita.
“Sai, mia madre mi disse che ce l’ho nel sangue.”
“Cosa?”
“La difesa. Secondo lei essere Prescelte è un dono. Non è un caso che abbiano scelto noi. Ma io non ne sono mai stata convinta fino in fondo.”
“La morte di Bonnie è terribile, come lo sono state tutte le altre. Ma penso che tua madre avesse ragione. C’è un motivo se ci hanno scelto e non credo si tratti solo delle Premonizioni.”
“Ah no?”
“Forse no. Ma noi dobbiamo credere in noi stesse. Il Mondo della Magia Bianca ha bisogno di Streghe coraggiose.”
Erano tutte belle parole, pensò Rebecca, ma restava il fatto che le Prescelte morivano, i Protetti morivano e nessuno stava riuscendo ad impedire tutto questo.
 
Quando salutò Elettra Rebecca salì in camera sua. Aveva bisogno di una boccata d’aria fresca e prese cappotto, guanti e cappello per andare a passeggiare lungo il fiume.
C’era ancora tempo per il pranzo di Natale, e dopotutto non aveva più molta voglia di festeggiare. Non le importava un accidente di celebrare il Natale dopo quella terribile notizia.
Sulla soglia del portone d’ingresso incrociò la Collins e la Rudolf. La preside aveva gli occhi rossi e si stava soffiando il naso. La Rudolf le circondava le spalle con un braccio.
Evidentemente Elettra non era l’unica a leggere il Corriere delle Streghe.
Le due insegnanti conoscevano sicuramente Bonnie, che era stata studentessa ad Amtara. Si era diplomata da poco, quindi indubbiamente il suo ricordo era ancora molto vivido.
Tre anni inutili, tre anni buttati al vento. Tre anni che Bonnie avrebbe potuto impiegare vivendo appieno la vita, invece che tra quelle quattro soffocanti mura.
Rebecca camminò svelta verso l’uscita e respirò a pieni polmoni l’aria frizzante di dicembre, sperando che il freddo cancellasse l’orribile senso di vuoto e di smarrimento che sentiva dentro di sé.

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Capitolo 12
*** Il sogno ***


Capitolo 12
“IL SOGNO”
 
Il pranzo di Natale ad Amtara fu probabilmente il più triste che Rebecca avesse mai vissuto. Tutti mangiarono pochissimo, con grande indignazione degli Gnomi che si erano prodigati oltre il dovuto per rendere quella giornata tanto speciale. D’altro canto, nessuno si sarebbe aspettato che una notizia così tragica avrebbe spezzato l’incanto della festa.
Rebecca spiluccò qualche pietanza, tanto per mettere qualcosa nello stomaco. La Collins non toccò cibo, nonostante la Rudolf, seduta accanto a lei, la invitasse continuamente ad assaggiare ora questo ora quello.
Rebecca non aveva mai visto la preside così sconvolta. Doveva essere stato un colpo durissimo per lei. Evidentemente conosceva molto bene Bonnie Stage, forse avevano avuto un rapporto molto stretto, o forse la sua disperazione derivava dal fatto che, come pensava Rebecca, Amtara non era una garanzia di successo per le Prescelte. Ogni volta che una Prescelta e un Protetto morivano era una sorta di fallimento per Calì Amtara, e dunque anche per loro. Rebecca era quasi certa che fosse questo il pensiero fisso della preside e che non riuscisse a darsi pace per questo.
Non poteva biasimarla. Doveva essere tremendo sentirsi così frustrati e impotenti, lo capiva perfettamente perché era esattamente così che si sentiva anche lei. Oltre, naturalmente, ad essere arrabbiata praticamente con tutti, con Posimaar per tutto quello che aveva causato, con Calì Amtara per aver creato quella stupida scuola e con gli insegnanti che tenevano lezioni perfettamente inutili.
Sapeva, in fondo al suo cuore, che in realtà l’unico ad avere colpa era solo e soltanto il Demone. Tutto il Mondo Magico Bianco stava combattendo disperatamente una guerra senza nome e cercava di fare tutto ciò che era in suo potere per non soccombere. Ma era così terribilmente ingiusto che a farne le spese dovessero essere proprio le Prescelte! Sì, Rebecca sapeva che erano pensieri tremendamente egoisti, ma non poteva fare a meno di pensarci. Aveva diciotto anni e tutta la vita davanti! Proprio come Bonnie Stage, che aveva forse due o tre anni più di lei.
Mentre pranzava udì una Strega del terzo anno raccontare ad un’altra che Bonnie si era diplomata ad Amtara solo tre anni prima e che la Collins aveva insegnato Gestione Antiveggenza nella sua classe, prima dell’arrivo del professor Cogitus.
Dunque era questo il motivo per cui la Collins stava così male. Bonnie era stata una sua allieva.
Finirono di mangiare in un pesante silenzio. Elettra e Justine sedevano in un angolo, scambiandosi di tanto in tanto qualche parola.
Rebecca non aveva più voglia di parlare, con nessuno. La lunga passeggiata di quella mattina aveva contribuito solo in parte ad alleviare il suo dolore.
Tutte le Prescelte presenti erano profondamente abbattute e Rebecca sapeva esattamente quale fosse il motivo. Ognuna di loro pensava a quando sarebbe toccato a loro.
Bonnie aveva resistito tre anni, duranti i quali si era sicuramente battuta con coraggio contro gli attacchi delle Streghe Nere. Poi, un giorno, il suo coraggio non era bastato più. Era bastata una piccola disattenzione e la sua vita si era spenta.
E loro, quanto avrebbero resistito?
 
I giorni seguenti trascorsero pigri. Rebecca andava spesso in biblioteca a studiare o a leggere. Era un luogo che amava perché non si veniva mai disturbati da nessuno, e soprattutto adorava il profumo della carta stampata.
Sperava che il silenzio della biblioteca l’avrebbe aiutata a concentrarsi e a togliersi dalla testa il pensiero di quanto era accaduto. Ma non fu così. Ogni volta che apriva un libro, aveva l’improvvisa visione di Bonnie che lanciava la Contromaledizione e la Strega Nera che succhiava via la vita dai corpi esanimi di lei e di Jack.
Per quanto Rebecca cercasse di concentrarsi nello studio, quell’immagine riaffiorava continuamente nella sua testa, fino a che decise che avrebbe ripreso in mano i libri solo dopo il ritorno delle gemelle. Sperava che parlandone con loro si sarebbe tolta quel macigno dal cuore e sarebbe finalmente riuscita a finire i compiti delle vacanze, anche se allora avrebbe avuto pochissimo tempo per farlo. Ma era del tutto inutile perdere ore china sui libri quando la sua mente era altrove.
La sua amicizia con Elettra si consolidò durante quegli ultimi giorni di vacanza. Si fermavano spesso a chiacchierare dopo pranzo e facevano lunghe passeggiate in riva al fiume. Rebecca scoprì di avere molte cose in comune con lei, prima fra tutte il grande amore per il mare. Elettra invidiava la sua casa a Bunkie Beach e disse che le sarebbe piaciuto molto poterne avere una simile.
“Se vuoi, puoi venirmi a trovare, la prossima estate.” – le disse Rebecca.
Elettra sgranò gli occhi. “Dici davvero?”
Rebecca annuì. “Certo. Possiamo fare lunghe nuotate in mare, o andare in barca, se vuoi.”
“Hai anche una barca?”
Rebecca le fece l’occhiolino. “No. Ma possiamo sempre noleggiarne una.”
Elettra era una persona dolce e sensibile e Rebecca era felice di aver approfondito la sua conoscenza ma, dovette ammettere con se stessa, non era come con Brenda e Barbara. Il loro rapporto era speciale, diverso da quello con chiunque altro. Era come aver trovato due sorelle.
Le mancavano, soprattutto da quando aveva saputo della morte di Bonnie. Sentiva il disperato bisogno di confidarsi con loro, di aprire il suo cuore, di parlare di quello che la sua morte aveva scatenato ad Amtara e di come avesse fatto riaffiorare tutte le sue paure. Sarebbe stato lo stesso per loro?
Al momento era quasi sicura che non sapessero nulla. Le avevano spedito un paio di lettere dalla montagna ma non avevano minimamente accennato alla morte della ragazza. Rebecca aveva avuto la tentazione di informarle scrivendo una lettera, ma poi ci ripensò. Non poteva rovinare così la loro vacanza e, del resto, mancavano ormai pochi giorni al loro ritorno. Avrebbe raccontato tutto, con calma, al loro rientro.
Brenda e Barbara tornarono a scuola un paio di giorni prima dell’inizio del secondo trimestre. Il giorno prima una violenta tempesta di neve si era abbattuta su Amtara, imbiancando il giardino di una morbide coltre immacolata. Rebecca ammirava estasiata la bellezza di quel paesaggio meraviglioso. Era la prima volta che vedeva la neve in vita sua ed era semplicemente indescrivibile. Tutto appariva ammantato da un velo ovattato che attutiva i rumori. Tutto era più silenzioso e il candore infinito di quel paesaggio contribuì un po’ ad alleviare le pene del suo cuore. Era il fascino incontrastato della natura, lo stesso di Bunkie Beach, seppure così diverso, che riusciva ogni volta a riportare tutto nella giusta dimensione.
Rebecca non si stancava di guardare la neve cadere, di posare lo sguardo sugli alberi imbiancati nella foresta e poi più in là, all’orizzonte, dove le cime delle montagne si ricongiungevano con quel cielo pallido.
Tutto era ammantato di magia. E alla magia di quel momento si aggiunse la felicità per il ritorno delle sue amiche.
Scese ad aspettarle al cancello, perché le avevano scritto indicandole il giorno e l’ora in cui sarebbero tornate.
Corse loro incontro quando le vide scendere dall’auto del signor Lansbury, seguita a ruota da due Gnomi che la superarono lesti, trotterellando verso la macchina per farsi carico delle valigie.
Rebecca le abbracciò forte, e fu abbracciata a sua volta da una commossa signora Lansbury.
“Oh cara, sarebbe stato meraviglioso averti con noi! Le ragazze hanno sentito così tanto la tua mancanza…”
“Mamma, ti prego…” – mormorò Brenda.
Rebecca arrossì. La signora Lansbury aveva la straordinaria capacità di metterla in imbarazzo come pochi altri. Non sapendo cosa rispondere, si limitò ad allargare le labbra in un sorriso ebete.
“Come stai Rebecca?” – le chiese il signor Lansbury.
“Bene, grazie. Spero abbiate passato un buon Natale.”
“Sì, un sacco di neve in montagna, e a quanto vedo è arrivata anche qui.” – rispose guardandosi intorno. Poi, rivolgendosi alla moglie. “Cara, è meglio se andiamo, con tutta questa neve rischiamo di rimanere imbottigliati nel traffico.”
Brenda e Barbara salutarono i genitori.
“Spero di rivederti presto, mia cara.” – disse la signora Lansbury a Rebecca stritolandola in un forte abbraccio.
“Grazie, signora Lansbury, a presto.”
Rientrarono a scuola e salirono in camera, dove lo Gnomo aveva già provveduto a portare i loro bagagli.
Barbara si lasciò cadere sul letto. “Questo posto non mi è mancato per niente!”
“Com’è andata la vacanza?” – chiese Rebecca.
“Fantastica.” – rispose Barbara sollevandosi a sedere. “Mi dispiace dovertelo dire, mia cara, ma ti sei persa il meglio del meglio.”
“Ha nevicato continuamente.” – fece Brenda. “Non ha mai smesso. Abbiamo sciato tantissimo.”
“E la cioccolata…” – aggiunse Barbara con aria sognante. “La meravigliosa cioccolata di mamma….”
“Insomma, stai cercando di farmi rimpiangere la mia vacanza a scuola.” – fece Rebecca, inarcando un sopracciglio.
Barbara alzò le spalle. “Qui com’è andata?”
Rebecca si scurì in volto. Il suo pensiero tornò immediatamente a Bonnie.
Brenda e Barbara erano appena tornate, avrebbe voluto aspettare ancora un po’ prima di parlarne, ma entrambe si accorsero che qualcosa non andava.
“E’ successo qualcosa?” – le domandò Brenda allarmata.
Barbara spalancò gli occhi. “La Premonizione!”
Rebecca alzò le mani. “No, no!”
“Allora cosa?” – la incalzò Brenda. “Hai una faccia…”
Rebecca abbassò lo sguardo, cercando di trovare le parole adatte. Non era facile tornare a parlarne e sapeva che tutti i benefici della loro vacanza sulla neve si sarebbero volatilizzati nel giro di pochi istanti.
Ma dovevano sapere. Prima o poi avrebbero avuto la notizia da qualcun altro o, peggio ancora, l’avrebbero letta da qualche parte. Preferiva essere lei a dirglielo.
“La vigilia di Natale è successa una cosa.”
Le gemelle aggrottarono la fronte.
“Qui a scuola?” – chiese Brenda.
“No, non qui. E’….. si tratta di una Prescelta, Bonnie Stage.”
“Bonnie Stage?” – ripetè Barbara. “Mai sentita. Non è del nostro anno, vero?”
“No, lei….. si è diplomata qui tre anni fa.”
Brenda, all’improvviso, capì. Si coprì la bocca con una mano. “Era assegnata ad un Protetto.”
Rebecca la guardò e annuì.
“Cosa le è successo?”
Rebecca raccontò della Maledizione Dissanguante e di come la notizia fosse sul Corriere delle Streghe la mattina di Natale.
“Una Maledizione Dissanguante….” – ripetè Brenda sconvolta.
“Io non vi ho detto nulla perché non volevo rovinarvi le vacanze. Ma qui il clima era davvero tremendo. È stato il giorno di Natale più brutto della mia vita.”
“E ci credo.” – disse Barbara.
“E poi ho scoperto che tre anni fa la Collins insegnava Gestione Antiveggenza al posto di Cogitus.”
“Davvero?” – fece Brenda.
“La Collins era fuori di sé. Non ha praticamente toccato cibo durante il pranzo di Natale.”
“Doveva conoscerla molto bene.”
Rebecca annuì.
“Ma come funziona quella Maledizione?” – chiese Barbara.
Rebecca spiegò quello che le aveva raccontato Elettra.
“Mio Dio…. È terribile…” – mormorò Brenda.
“Poveraccia…” – fece Barbara.
Come Rebecca aveva previsto, non c’era più traccia di gioia sui loro volti. Di colpo, Rebecca le aveva fatte tornare prepotentemente alla dura realtà della loro vita di Prescelte.
A giudicare dalle loro espressioni, sapeva che si stavano domandando se una sorte simile sarebbe toccata anche a loro, proprio come se lo erano chieste tutte.
“Non sono stati giorni facili.” – spiegò Rebecca. “Avevo il pensiero fisso su Bonnie, non riuscivo a studiare. Ho fatto lunghe passeggiate con Elettra e questo un po’ mi ha aiutata a distrarmi. Ma credo che tutta la scuola sia rimasta sconvolta. Il clima era tetro, non sembrava assolutamente che fosse Natale.”
Le gemelle non risposero. Non sapevano cosa dire. Mentre loro si divertivano, la scuola riceveva quella notizia spaventosa. Anche se nessuna di loro conosceva Bonnie, era una di loro, una Prescelta che aveva affrontato quello che stavano affrontando loro. Era terribile pensare alla sua morte così ingiusta…
“E la Collins non ne ha parlato?” – chiese Brenda.
“Non si è fatta mai vedere. L’ho vista la mattina di Natale, mentre uscivo per andare a fare una passeggiata. Piangeva, doveva aver avuto da poco la notizia. Poi durante il pranzo è stata in silenzio tutto il tempo. C’era sempre la Rudolf vicino a lei che, sinceramente, non mi è sembrata particolarmente sconvolta dalla notizia.”
“Forse la preside aspettava il ritorno di tutte le allieve per parlarne a tutta la scuola.” – considerò Brenda.
“E per dire cosa, scusa?” – replicò Barbara in tono acido. “Guardate, una di voi è appena stata uccisa da una di quelle Maledizioni che la Rudolf sta cercando di insegnarvi. Non vi preoccupate, però, continuate a studiare e probabilmente eviterete di fare la sua stessa fine.”
Rebecca fece una risatina sarcastica. La pensava esattamente come Barbara.
“Non credo che la Collins farà alcun discorso.” – disse Rebecca. “Ogni Prescelta morta è un punto in meno a favore di questa scuola.”
“Che vuoi dire?”
Rebecca puntò gli occhi nei suoi. “Che voglio dire? Cosa ci stiamo a fare qui? Vogliono farci credere che questa scuola ci salverà la pelle, ma mi pare evidente che non è così.”
Brenda la fissò, gli occhi ridotti a due fessure. “Sai benissimo che le cose non stanno così. Nessuno ci ha mai dato la garanzia che Amtara ci proteggerà per sempre. Nessuno potrà mai garantire la nostra incolumità al cento per cento. Nemmeno noi forse potremo farlo. Ma siamo qui per un motivo, Rebecca, e tu lo sai. Siamo l’ultima speranza…”
“…per la Magia Bianca, sì lo so.” – concluse Rebecca al suo posto. “Intanto, però, le Prescelte e i Protetti muoiono…”
“Non tutti. Sai benissimo che da quando c’è Amtara le morti sono diminuite.”
“Quindi la morte di Bonnie non conta niente?”
“Non ho detto questo.” – rispose Brenda duramente.
Guardò l’amica e provò molta pena per lei. Non doveva essere stato facile sapere della morte di Bonnie mentre loro erano in montagna a divertirsi. Certo, aveva parlato con Elettra, ma doveva comunque essersi sentita molto sola. Brenda sapeva che se ci fossero state loro con lei, probabilmente non avrebbe avuto quel tipo di reazione. Indubbiamente la morte di Bonnie aveva riportato a galla le sue antiche paure, al punto tale da indurla a pensare che la scuola stessa fosse inutile.
Rebecca le voltò le spalle, avvicinandosi alla finestra. Fissò il paesaggio innevato. Tutto sembrava così calmo e tranquillo là fuori. Il male sembrava qualcosa di lontano, irreale…. Ma lei sapeva che il male esisteva e molto presto l’avrebbe raggiunta. La Premonizione si sarebbe avverata, un giorno, e lei avrebbe dovuto fare i conti anche con quella. Chissà, pensò amaramente, forse non avrebbe dovuto attendere la fine di quei tre anni per trovarsi davvero in pericolo. Per un folle istante, si augurò che Posimaar in persona la venisse a cercare, perché era lui la causa di tutto e Rebecca era così piena di rancore che non avrebbe desiderato altro che affrontarlo personalmente.
All’improvviso sussultò. Brenda, in silenzio, le si era avvicinata senza far rumore, posandole una mano sulla spalla.
“So come ti senti. E so che non dev’essere stato facile per te…”
Rebecca fece un profondo respiro e si voltò a guardarla. “Sono stati giorni difficili. Io…. Ho pensato di tutto. Ne ho parlato a lungo anche con Elettra, ho pensato a Posimaar, al fatto che sia tutta colpa sua quello che sta succedendo…”
“Questo lo sappiamo tutti.” – disse Brenda. “Ma non c’è molto che possiamo fare, non credi?”
Rebecca non rispose. Scovare il Demone sarebbe stata la soluzione di tutto, ovviamente, ma Brenda aveva ragione. Non sarebbero mai riuscite a trovarlo, dal momento che non sapevano nemmeno che aspetto avesse.
“E’ tutto così maledettamente frustrante.”
Barbara, che era rimasta in disparte, si avvicinò. “Sai, detesto doverlo ammettere, ma forse mia sorella ha ragione. Amtara è la nostra unica speranza. Se vogliamo fare in modo che la morte di quella ragazza non sia stata vana, l’unica cosa che possiamo fare è metterci d’impegno per non fare la sua stessa fine, non credi?”
Brenda la fissò, un po’ sorpresa. Non era da Barbara fare discorsi così sensati e ragionevoli.
Rebecca alzò gli occhi su di lei. Si sentiva in trappola, frustrata e terribilmente angosciata per il futuro. Ma dovette ammettere con se stessa che le due amiche avevano ragione.
Al momento, Amtara era la loro unica salvezza, per quanto detestasse ammetterlo.
Il suo viso si ammorbidì in un lieve sorriso.
Era felice che fossero tornate.
 
Quando le lezioni ricominciarono, Brenda dovette ammettere che Rebecca e Barbara avevano ragione: la preside non aveva la minima intenzione di parlare della morte di Bonnie Stage alle Prescelte. Si comportò come se nulla fosse accaduto e le lezioni ripresero a pieno ritmo. D’altra parte, tutta la scuola era venuta a conoscenza dell’accaduto e in più di un’occasione Rebecca udì alcune Streghe parlarne a bassa voce tra di loro. Naturalmente non era un avvenimento di poco conto, considerato il fatto che le riguardava tutte da molto vicino. Molto presto ciascuna di loro si sarebbe ritrovata a fare i conti con la stessa realtà con cui si era dovuta confrontare la povera Bonnie. Proprio per questo, insistette Brenda, sarebbe stato opportuno che la preside facesse un discorso a tutte le Prescelte.
Ma questo non avvenne.
Quello che, invece, occupò fin da subito le loro giornate fu la quantità spropositata di compiti che tutti gli insegnanti avevano deciso di dare con il riprendere delle lezioni.
Rebecca aveva trascorso gli ultimi due giorni di vacanza a recuperare disperatamente il tempo perduto. Maledicendo se stessa e la sua mancanza di concentrazione nello studio durante le vacanze natalizie, aveva passato due giorni interi in biblioteca a finire il lavoro, con l’aiuto delle gemelle che, invece, avevano portato a termine i compiti tra una sciata e l’altra.
Il risultato fu che il primo giorno di scuola Rebecca aveva un terribile mal di testa, che aumentò progressivamente nell’arco della giornata man mano che scopriva che i professori, non contenti della mole di lavoro appioppata alle studentesse durante le vacanze, avevano stabilito di rincarare la dose. Lo fecero tutti, senza alcuna distinzione, incluso il professor Cogitus, che mai aveva dato compiti in tutta la sua carriera accademica.
“Si sono messi d’accordo, è chiaro.” – borbottò Rebecca, massaggiandosi le tempie con le dita.
“Sai, credo che la morte di Bonnie abbia qualcosa a che fare con tutto questo…” – mormorò Barbara in tono lugubre.
“Tu credi?” – replicò Rebecca sarcastica.
Non furono le uniche a lamentarsi. Come Rebecca scoprì molto presto, anche le Streghe del secondo e terzo anno si erano viste raddoppiare la mole di lavoro, specialmente quelle dell’ultimo anno, che a giugno avrebbero dovuto affrontare gli esami finali per essere poi assegnate ad un Protetto.
Quando scendeva a colazione, al mattino, Rebecca riusciva sempre ad indovinare chi fossero le Prescelte del terzo anno: le riconosceva dalle occhiaie e dall’umore particolarmente tetro che avevano fin dal primo mattino. Era sicura che restassero tutte alzate fino a tardi per studiare ma Rebecca era certa che lo studio non fosse l’unica loro preoccupazione. Di lì a pochi mesi avrebbero avuto un Protetto e la loro vita stava per cambiare per sempre. La morte di Bonnie, naturalmente, non aveva fatto altro che ingigantire le loro paure.
Rebecca non le invidiava per niente. Sotto un certo punto di vista, era contenta di essere solo al primo anno…
La neve caduta i primi giorni dell’anno aveva lasciato il posto a splendide giornate di sole. Il cielo era terso e limpido e un’aria frizzante scompigliava allegramente le chiome degli alberi. I residui di neve si erano trasformati in lastre di ghiaccio e le poche allieve che si avventuravano fuori per una passeggiata dovevano prestare la massima attenzione per non finire col sedere per terra.
Durante le loro passeggiate, Brenda e Barbara sfoggiavano orgogliose le sciarpe rosa e turchese, lavorate a mano, che Rebecca aveva regalato loro a Natale. Barbara, in particolare, non se ne separava mai, nemmeno durante le lezioni, sebbene nelle aule la temperatura fosse sempre superiore ai venti gradi. Anche Rebecca portava sempre il loro orologio da polso e aveva messo la foto ricevuta a Natale sul comodino accanto al letto.
“Non ho finito il saggio sulla Stregoneria Nera.” – disse Barbara, una sera mentre erano già a letto.
“Oh, ti prego, non parliamo di compiti!” – la supplicò Rebecca.
“Brenda, non è che potrei dare una sbirciatina al tuo, domani?” – domandò Barbara.
“Non se ne parla nemmeno!”
“Eddai, ti giuro che non copio! Solo un’occhiatina veloce, giusto per farmi un’idea.”
“Sì, lo conosco il tuo modo di farti un’idea. Al massimo ti aiuto a finirlo, ma di leggere il mio non se ne parla!”
“Se vuoi ti presto il mio.” – propose Rebecca.
“Rebecca!” – esclamò Brenda, in tono scandalizzato.
“Solo per leggerlo, non per copiarlo!” – disse Rebecca in fretta.
“Grazie Rebecca.” – disse Barbara. “Tu sì che sei un’amica.”
Il letto di Brenda fece rumore, quando si girò dall’altra parte per mettersi a dormire. “Fate proprio una bella coppia, voi due.” – borbottò.
Rebecca e Barbara sghignazzarono.
 
Era notte fonda. Rebecca era sveglia. Si guardò intorno. La luce argentea della luna illuminava la stanza. Le ragazze dormivano profondamente.
La finestra, all’improvviso, lentamente, si aprì. Qualcuno, agile come un gatto, entrò.
Terrorizzata, appoggiò svelta la testa sul cuscino, fingendo di dormire. Trattenne il fiato, con il cuore che le martellava nel petto.
Nessun rumore.
Aprì l’occhio destro e vide a pochi passi da lei una sagoma gigantesca, con il respiro affannoso, simile a quello di una belva. Rebecca chiuse in fretta gli occhi, pregando non si accorgesse che era sveglia.
Trattenne il respiro.
Si udì un rumore. Poi più nulla.
Quando ritrovò il coraggio di aprire gli occhi, quella “cosa” era fuggita.
Guardò il letto accanto alla finestra e inorridì.
La ragazza che solo un attimo prima dormiva lì era scomparsa.
 
Rebecca aprì gli occhi e si guardò intorno. Si asciugò la fronte, madida di sudore.
Tremava.
Si strinse nelle coperte.
Era stato solo un incubo.
Si girò sul fianco destro, cercando di calmarsi.
Dopo qualche minuto, si riaddormentò.
 
Il mattino seguente fu svegliata da una voce che chiamava il suo nome con insistenza. Si rigirò nel letto, infastidita. Poi qualcuno le scosse la spalla dolcemente e quando Rebecca aprì gli occhi incontrò quelli di Brenda, che la fissavano.
“Finalmente!”
Rebecca si strofinò gli occhi. “Che ore sono?”
“Quasi le otto.”
“Così tardi? Perchè non mi avete svegliata?”
Scese al volo dal letto e corse in bagno.
“Che cosa credi che abbiamo cercato di fare negli ultimi dieci minuti?” – le gridò dietro Barbara, stizzita.
Rebecca aprì il rubinetto e si sciacquò il viso.
Mentre si lavava i denti, la testa di Barbara fece capolino sulla porta.
“Senti, pensavo che potresti farmi leggere il saggio di Garou a colazione, che ne dici?”
Rebecca annuì.
Brenda comparve accanto alla sorella, fissando Rebecca con sguardo corrucciato.
“Ti senti bene?” – le domandò.
Rebecca si asciugò la bocca. “Sì, perché?”
“Perché non hai per niente una bella cera, stamattina.”
Rebecca si guardò allo specchio. Brenda aveva ragione. Era pallida e aveva gli occhi cerchiati.
“In effetti non ho dormito molto bene.” – rispose evasiva.
Era la verità. Ripensando al sogno un brivido le percorse la schiena. Era così vivido da sembrare reale. Ma non aveva voglia di parlarne in quel momento e poi per colpa sua erano spaventosamente in ritardo. Si vestì in tutta fretta e scesero a colazione.
Sedettero al solito tavolo. Rebecca diede il suo saggio sulla Stregoneria Nera a Barbara che cominciò a leggerlo avidamente, addentando un croissant alla crema.
Rebecca sorseggiò il suo caffelatte bollente, godendosi quel momento. Aveva passato una nottataccia. Le era successo altre volte di avere degli incubi, ma mai nessuno era stato così realistico come quello avuto quella notte. Cominciò a domandarsi se non avesse dovuto attribuirgli un significato particolare. Chi mai poteva essere quella specie di bestia che era entrata in camera da letto? E chi era la ragazza che, ormai le era chiaro, era stata portata via? Rebecca non riusciva a ricordare bene i dettagli, ma non le sembrava che la stanza fosse la sua… Eppure, in qualche modo le somigliava. Gli arredi erano simili, così come i letti… Aveva sognato Amtara?
Mentre era persa in questi pensieri fu distratta da un gruppo di ragazze che parlavano ad alta voce al tavolo accanto.
“Oh, per la miseria, non potrebbero parlare un po’ più piano?” – esclamò Barbara spazientita, fulminandole con sguardo torvo.
A quel tavolo sedeva Justine, l’amica di Elettra. Sembrava preoccupata. Poi Rebecca vide arrivare la Collins, scura in volto, marciare a grandi falcate verso il tavolo della ragazza. Si chinò su di lei e mormorò qualcosa al suo orecchio. Justine impallidì e sgranò gli occhi, terrorizzata.
Tutte le Streghe presenti in Sala da Pranzo fissarono il tavolo di Justine, che sembrava talmente sconvolta da far fatica a respirare.
La preside le posò un braccio sulla spalla, chinandosi nuovamente per dirle qualcosa. Poi, ignorando le occhiate incuriosite delle Prescelte, uscì velocemente.
“Ma che diavolo è successo?” - domandò Barbara a voce alta, a nessuno in particolare.
Rebecca si alzò e si avvicinò a Justine che, non appena si accorse della sua presenza, si asciugò in fretta gli occhi umidi.
“Justine, qualcosa non va?” – le chiese Rebecca.
Era evidente che doveva essere successo qualcosa di grave. L’ultima volta che aveva visto un’espressione così  sul viso della Collins era stato il giorno di Natale, dopo aver saputo della morte di Bonnie.
Justine alzò gli occhi.
“Elettra.” – mormorò con voce spezzata.
Rebecca impallidì. “Che le è successo?”
Un terribile presentimento si fece strada nella sua mente.
“E’ scomparsa.”- rispose Justine con gli occhi pieni di lacrime.
Rebecca sgranò gli occhi. “Cosa significa che è scomparsa?”
Justine scoppiò in lacrime e una ragazza che le sedeva accanto cercò di rincuorarla battendole piano una mano sulla spalla e lanciando un’occhiataccia a Rebecca, che la ignorò.
Justine, cercando di ricomporsi, riprese a parlare. “Stamattina, quando mi sono svegliata, non era nel suo letto. Ho pensato che fosse già scesa a colazione, anche se mi sembrava strano, visto che di solito ci alziamo alla stessa ora e scendiamo insieme. Così mi sono preparata e sono venuta giù, ma qui non c’era.”
“D’accordo, ma potrebbe essere uscita a fare due passi, no?” – tentò Rebecca.
Justine scosse la testa. “Quando ho visto che non c’era ho subito avvisato la preside. Non è da lei allontanarsi così senza dire niente.”
Justine ricominciò a piangere.
“Ma non è possibile!” – insistette Rebecca. “Nessuno può scomparire così di punto in bianco. E poi Amtara è immensa, sono sicura che si trova da qualche parte…. Vedrai che la troveranno, ne sono sicura.”
Aveva parlato forse più per tranquillizzare se stessa che Justine. Aveva un terribile presentimento ma il solo pensiero che potesse essere accaduto qualcosa ad Elettra la fece inorridire.
Per un istante le venne in mente la Premonizione di Brenda, ma non era quello il momento di farsi prendere dal panico. Era sicura che Elettra fosse da qualche parte lì intorno. Probabilmente era andata a fare due passi lungo il fiume, come facevano durante le vacanze di Natale. Le lezioni stavano per cominciare, senza alcun dubbio entro pochi minuti l’avrebbero vista entrare dalla porta.
“Tu non capisci…” – disse Justine con voce strozzata. “La preside è appena venuta a dirmi che gli Gnomi hanno appena finito di setacciare tutta la zona fino ai confini della foresta. Non l’hanno trovata. E’ svanita nel nulla.”
Quando la ragazza scoppiò di nuovo in lacrime, la sua amica decise di intervenire.
“Scusami, ma forse ora è meglio se la lasci un po’ in pace.” – disse a Rebecca in tono duro. “Vieni, Justine, bevi un po’ di tè, ne hai bisogno…”
Per alcuni istanti Rebecca restò lì impalata, incapace di muoversi.
Non poteva essere vero. Nessuno poteva scomparire nel nulla in quel modo. Ma se Elettra non se n’era andata di sua spontanea volontà da Amtara, doveva per forza esserle accaduto qualcosa di grave….
Lentamente, un pensiero si fece strada nella sua mente.
Non può essere...
Scosse la testa. No, non era possibile...
“Ehi! Rebecca!”
La voce di Barbara la riportò bruscamente alla realtà.
Rebecca si era completamente dimenticata delle due amiche, che la fissavano sgomente dal loro tavolo. Tornò a sedere con loro e, senza dire una parola, si voltò verso il tavolo dei professori. C’era solo il professor Cogitus, che mangiava del pane imburrato con la sua solita aria sognante. Probabilmente tutti gli altri si erano mobilitati per Elettra.
“Allora, vuoi dirci o no che diavolo è successo?” – le chiese Barbara, sulle spine. “La Collins è uscita con una faccia da funerale, di professori ce n’è rimasto soltanto uno (e così dicendo indicò Cogitus) e anche la tua faccia non scherza… Cos’ha Justine?”
“Si tratta di Elettra. E’ scomparsa.” – rispose Rebecca in tono piatto.
La sua mente lavorava febbrilmente. Un terribile dubbio si era insinuato in lei e più ci pensava più quella possibilità le appariva terribilmente concreta.
“Che vuol dire che è scomparsa?” – disse Brenda, impietrita.
Rebecca raccontò tutto quello che le aveva detto Justine.
“Ma com’è possibile?” –  disse Barbara incredula. “Nessuno può sparire così, nel nulla.”
“Infatti.” – le fece eco Brenda. “Non è possibile...”
“Venite, ho bisogno di parlarvi, lontano da qui.” – disse Rebecca alzandosi di colpo.
“Rebecca, aspetta! Dove vai?” – le urlò dietro Barbara.
Ma Rebecca si era già lanciata fuori dalla Sala da Pranzo e a loro non restò che seguirla.
Rebecca spalancò il portone di ingresso e si avviò velocemente verso il giardino. Aveva bisogno di condividere i suoi dubbi con le gemelle, ma non poteva farlo ad Amtara, dove chiunque avrebbe potuto origliare la loro conversazione.
Ignorando il freddo pungente e il fatto che fosse senza cappotto, si accertò che la stessero seguendo e accelerò il passo.
Quando furono in giardino, si voltò verso di loro, che l’avevano appena raggiunta, col fiatone.
“Santo cielo, ma che ti prende?” – esalò Brenda, rabbrividendo.
“Ti ha dato di volta il cervello?” – esclamò Barbara, stringendosi nel maglione. “Si gela qui fuori!”
“Lo so ma non potevamo parlare dentro la scuola. Non di questo.”
Rebecca respirava affannosamente, ma non per via della corsa, né per il freddo.
“Di cosa vuoi parlare?” – fece Brenda.
“E sbrigati perché io non resisterò a lungo così…” – aggiunse Barbara, che in quel momento avrebbe tanto voluto tirarle un pugno sul naso.
“Stanotte ho avuto un incubo.” - cominciò Rebecca. “O perlomeno, credevo fosse un sogno, ma ora non ne sono più tanto sicura.”
“Potresti spiegarti meglio?” - domandò Brenda, battendo i denti.
“Io … io credo che abbia a che fare con la scomparsa di Elettra.”
Rebecca raccontò per filo e per segno il sogno avuto quella notte. Aveva già avuto la sensazione che non si trattasse di un comune sogno, era troppo vivido e realistico per essere tale. No, era qualcosa di diverso.
“Credi di aver avuto una Premonizione nel sonno?” – esclamò Barbara, con voce stridula.
“SSSHH!” – la zittì Rebecca, guardandosi intorno, furtiva. “Parla piano!”
“Scusa!”
“Sono sicura si tratti di una Premonizione.” – riprese Rebecca. “Anzi, credo che nel sogno io... fossi Justine.”
“Tu... cosa?”
“Sì, credo di essere stata nel letto di Justine e di aver visto tutta la scena dal suo punto di vista. Ma naturalmente ho fatto finta di dormire, fino a quando non mi sono accorta che Elettra non c'era più.”
“Vuoi dire che Justine ha visto tutto e non ha detto niente?” - chiese Barbara, sconcertata.
“No, certo che no! Io vedevo le cose dal suo punto di vista ma... non ero lei! Io ero io!”
Barbara si girò verso sua sorella. “Tu ci stai capendo qualcosa?”
Brenda la ignorò. “Rebecca, sei proprio sicura di quello che dici?”
“Tu in quale altro modo lo spiegheresti?”
Brenda si strinse nelle spalle. “Io non ero nel tuo sogno. Sei sicura che si trattasse della stanza di Elettra e Justine?”
“Aveva qualcosa di familiare. Somigliava alla nostra e i letti erano uguali.”
“Ricordi qualche altro particolare della camera?”
Rebecca sbuffò, spazientita. “No, la mia attenzione era tutta rivolta a quella “cosa” che ha rapito Elettra.”
“Stai dando per scontato che si tratti di lei, ma non hai nessuna prova…”
“Ma quali altre prove ci servono, scusa? Ho avuto una Premonizione e si è avverata.”
Rebecca cominciava ad arrabbiarsi. Brenda era sempre stata la persona più razionale fra loro tre, ma stavolta non poteva ostinarsi a negare l’evidenza. Era lampante che Elettra fosse stata rapita e non c’era un minuto da perdere.
“E se fosse stato davvero soltanto un sogno?” – insistette Brenda. “Ci hai pensato?”
Rebecca incrociò le braccia, inarcando le sopracciglia. “Piuttosto curioso che io faccio un sogno del genere e il mattino dopo scopriamo che una Strega è sparita, non trovi?”
“Rebecca, stiamo parlando di una cosa grave. In pratica stai dicendo che Elettra è stata rapita da qualcuno che si è introdotto nella sua stanza in piena notte, senza peraltro che Justine si accorgesse di nulla!”
“Come poteva accorgersi? Quella.... cosa ha fatto pianissimo. E Justine dormiva.”
“Quella cosa?” - ripeté Barbara.
Rebecca esitò. “Beh... non aveva affatto l'aria di essere … umano. Era gigantesco e sembrava quasi che ringhiasse… Ma non sono riuscita a vederlo perché era buio pesto. Ho solo intravisto la sua sagoma spaventosa, ma questo mi è bastato. Sono sicura che non era un uomo, ma qualcos’altro.”
Barbara deglutì. “Questa cosa non mi piace per niente. Se è come dici tu, significa che Amtara non è affatto un posto sicuro, per nessuno.”
“Proprio per questo ho voluto parlarne con voi subito. Non c’è un minuto da perdere!”
Brenda assottigliò lo sguardo. “Che intenzioni hai?”
“Ovviamente parlarne con la Collins.” – rispose Barbara al posto suo.
Rebecca si girò a guardarla. “Niente affatto.”
Barbara la fissò. “Stai scherzando?”
“Se non vuoi parlarne con la preside, cos’hai in mente?” – fece Brenda guardinga, che cominciava a farsi un’idea delle sue intenzioni.
“Te la ricordi la tua Premonizione?”
Brenda annuì. Era esattamente quello che si era aspettata.
“Tu non vuoi coinvolgere la preside che, per come la vedo io, avrebbe tutto il diritto di sapere quello che è successo, ma vuoi fare di testa di tua. E siccome io ho avuto quella dannata Premonizione, tu non aspetti altro che metterla in pratica per Spostarti nella foresta alla ricerca di Elettra.”
“Che cosa?!” – esclamò Barbara, fissando Rebecca con aria truce.
“Non è così, Rebecca?” – la incalzò Brenda.
“Mi ero aspettata un po’ più di comprensione da parte vostra.” – disse Rebecca in tono piatto.
Sapeva che era un rischio, ma le Premonizioni, come aveva detto Brenda, non mentivano mai. Era quello il motivo per cui si era Spostata nella foresta e ora sapeva per certo che quel lamento udito laggiù era la bestia che aveva rapito Elettra.
Era compito suo trovarla e salvarla. Non avrebbe coinvolto la Collins. E poi c’era un motivo se era stata proprio lei ad avere quella Premonizione su Elettra, Rebecca ne era convinta.
Nulla accadeva per caso, e non era per caso che si erano conosciute alla festa di Halloween, in mezzo a tante gente. Non era stato un caso nemmeno il fatto che si fossero ritrovate ad Amtara, insieme, durante le vacanze di Natale. Avevano approfondito la loro conoscenza, erano diventate amiche. Rebecca glielo doveva. Aveva un Potere speciale, lo avrebbe utilizzato per salvarle la vita. Tutti i pezzi del puzzle ora combaciavano alla perfezione, era quello il senso di tutto.
Probabilmente c’era di mezzo Posimaar, ma Rebecca scoprì, sorpresa, che la cosa non la intimoriva affatto, non ora che c’era di mezzo la vita di una persona a lei cara.
“Non puoi farlo, Rebecca.” Brenda la fissava duramente. “Non puoi fare di testa tua e decidere anche per gli altri. La Collins ha il diritto di sapere.”
“No che non ce l’ha. Le Premonizioni sono personali.”
“Non quando c’è di mezzo la vita di una persona.”
“Cosa credi che farà la Collins?” – sbottò Rebecca alzando la voce. “Sguinzaglierà gli Gnomi attorno ad Amtara e nessuno troverà un bel niente. Credi che Posimaar si lascerà trovare tanto facilmente?”
“Sei convinta si tratti di lui?” – fece Barbara, sgomenta.
“Potrebbe.”
“E tu credi di poterlo affrontare da sola, invece?”  - disse Brenda, in tono gelido.
“Ho il mio Potere.”
“Il tuo Potere non ti salverà la vita.”
“Esattamente come Amtara non l’ha salvata a Bonnie, dico bene?”
Brenda non rispose, limitandosi ad un lungo sospiro. Conosceva Rebecca da pochi mesi, ma ormai aveva capito che quando si metteva in testa qualcosa, niente e nessuno sarebbe mai riuscito a distoglierla dal suo intento.
“Colpito e affondato.” – disse Barbara a sua sorella, che le restituì uno sguardo omicida.
“Bonnie non se l’è andata a cercare.” – replicò Brenda veemente. “Lo sai bene. Stava facendo solo il suo dovere.”
“E io farò il mio.” – rispose Rebecca decisa. “Elettra ha bisogno di me.”
Brenda scosse la testa. Cominciava ad essere stanca e il freddo le stava penetrando sempre di più nelle ossa.
Rebecca era più testarda di un mulo e a loro non restava che fare buon viso a cattivo gioco. Non avrebbe più tentato di convincerla perché sapeva che era fiato sprecato. Inoltre, Brenda sapeva che Rebecca lo avrebbe fatto con o senza di loro. E non potevano abbandonarla, le avevano promesso che sarebbero state sempre con lei e avrebbe mantenuto la promessa.
Maledicendosi mentalmente per la sua debolezza, Brenda sospirò.
“Cos’hai in mente?”
“Non lo so. Non ci ho ancora pensato. Per questo volevo parlarne con voi.”
Barbara si girò a guardare sua sorella. “Noi l’aiuteremo, vero?”
“Abbiamo alternative?” – rispose Brenda allargando le braccia. Poi, rivolta a Rebecca. “Tu però ci devi fare una promessa.”
“Quale?”
“Se non riusciremo a trovare Elettra tu andrai dritta dalla preside e le racconterai tutto.”
Rebecca si morse un labbro, soppesando quella richiesta che, dopotutto, le sembrava ragionevole.
“D’accordo.”
 
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** Primi sospetti ***



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Elettra Gambler





Capitolo 13
“PRIMI SOSPETTI”
 
Dopo la scomparsa di Elettra, la Collins cominciò ad assentarsi da scuola per giorni interi, ricomparendo solo per l’ora di cena, durante la quale toccava a malapena il cibo. A Rebecca sembrò che si facesse di giorno in giorno sempre più pallida e tesa. Poteva solo immaginare cosa significasse dover affrontare la scomparsa di un’allieva della propria scuola. Era già stato un duro colpo, per lei, la morte di Bonnie Stage.
Nessuno ne parlava, ma era chiaro che tutti sospettavano che quanto accaduto ad Elettra avesse qualcosa a che fare con Posimaar. In che modo, era ancora un mistero, ma più passavano i giorni, più la possibilità che la ragazza potesse non fare mai più ritorno a casa si concretizzava sempre più.
Rebecca aveva i nervi a fior di pelle. Aveva discusso a lungo con Brenda e Barbara sul piano di azione per andare alla ricerca di Elettra ma, di fatto, ancora non avevano preso una decisione definitiva. L’atteggiamento di Brenda non era di grande aiuto perché, nonostante avesse promesso di aiutarla, non sembrava ancora convinta della sua decisione. Barbara era quella che appariva più tranquilla e sembrava non aspettasse altro che mettersi in azione, anche se nessuna di loro aveva ancora stabilito quando muoversi e in che modo.
Rebecca mordeva il freno, ma Brenda smorzava il suo entusiasmo adducendo diverse ragioni, prima fra tutte il fatto che non avevano nessun indizio su dove potesse trovarsi Elettra. Per quanto ne sapevano, poteva essere chilometri lontana da Amtara.
A gennaio il professor Garou si assentò di nuovo. Stavolta fu il professor Cogitus a sostituirlo, entrando in classe con la sua solita aria svampita e annunciando che il professore di Storia della Stregoneria era malato.
“Meglio lui della Collins.” – era stato il commento di Barbara.
La preside era troppo occupata con le ricerche di Elettra per fare supplenza a Garou.  Le Prescelte cominciavano a domandarsi quale misteriosa malattia costringesse il professore ad assentarsi quasi ogni mese per poi tornare a far lezione con un aspetto sempre più emaciato e smagrito.
Justine non parlava quasi più con nessuno. Era come se qualcosa si fosse rotto dentro di lei. Salutava a malapena e trascorreva la maggior parte del suo tempo libero chiusa in camera.
Rebecca provava una profonda pena per lei. In più di un'occasione era stata presa dalla tentazione di raccontarle la sua Premonizione, ma si era trattenuta. Sicuramente sarebbe corsa a dirlo alla preside e l'avrebbero sottoposta ad un interrogatorio senza fine.
Tuttavia, sentiva il bisogno di parlare con Justine. Da quel terribile giorno, non aveva più scambiato una sola parola con lei, anche perchè la ragazza evitava il più possibile il contatto con gli altri, al di fuori delle ore di lezione.
Rebecca riuscì a fermarla un giorno subito dopo pranzo, un attimo prima che Justine scappasse via dalla Sala da Pranzo come al solito.
“Justine, aspetta!”
“Oh, ciao Rebecca.”
“Ciao. Io... ehm... Posso parlarti un attimo?”
Justine esitò, guardando l’orologio. “Veramente ho lezione tra dieci minuti.”
“Me ne basterà uno.”
Justine esitò. “Sì, d’accordo.” – rispose.
“Nessuna novità su Elettra?” – le domandò Rebecca quando uscirono in corridoio.
Justine scosse la testa.
“Sai a che punto sono le ricerche?”
“Non ne ho idea.” – rispose Justine.
“Oh.” Rebecca non riuscì a dissimulare la delusione. “Credevo ti tenessero al corrente.”
“Perchè dovrebbero? Gli unici ad averne diritto sono i suoi genitori.”
“Già, immagino di sì. E' solo che... sai, dal momento che tu e lei eravate molto amiche...”
Siamo, vorrai dire.”
Rebecca trasalì.
“Scusa, non intendevo...”
“Non voglio assolutamente pensare che le sia successo qualcosa. Non voglio nemmeno prendere in considerazione questa ipotesi.” Il labbro inferiore di Justine cominciò a tremare.
Rebecca si maledisse mentalmente.
“Justine, sono sicura che Elettra sta bene. Puoi star certa che la troveremo.”
Justine annuì, inghiottendo le lacrime. Gli occhi azzurri di Rebecca la fissavano, colmi di qualcosa che non riusciva a definire.
“La mia lezione sta per cominciare..”
“Aspetta. Dimmi solo una cosa. La sera prima della sua scomparsa, ricordi se è accaduto qualcosa di particolare, di anomalo o inconsueto?”
Justine aggrottò la fronte. “No, non è successo niente..”
“Pensaci bene, Justine. Anche il minimo particolare, all'apparenza più insignificante, potrebbe rivelarsi di estrema importanza. Non potresti.... non potresti raccontarmi tutto quello che avete fatto quella sera?”
Justine ci pensò su. “E' difficile, è passato un po' di tempo...”
“Sì, me ne rendo conto, ma prova a concentrarti. E' importante.”
“Beh, vediamo... Ricordo che c'era qualcosa di urgente da fare... qualcosa... Ah sì! Il compito in classe di Lingue Demoniache! Ora ricordo! Subito dopo cena siamo salite in camera per rimetterci a studiare.”
“Niente altro?”
“Abbiamo studiato tutta la sera, poi siamo andate a dormire.”
“E non vi siete mosse dalla vostra camera?”
“No. Eravamo stanche.”
“E dimmi... come avete passato la notte?”
Justine la guardò di traverso. “Che vuoi dire?”
“Non avete sentito nessun rumore che vi ha svegliato?”
“Che genere di rumore? Io ho dormito come un sasso. Anche Elettra, credo...”
Un'ombra di delusione attraversò il volto di Rebecca.
Justine la guardò, sospettosa. “Credi che le sia successo qualcosa durante la notte? E che io non mi sia accorta di nulla?”
Rebecca arrossì. Non poteva tradirsi così, non poteva rivelarle la sua Premonizione.
“Io… non lo so…”
Justine guardò di nuovo l’orologio. “Senti, ora devo proprio andare.”
E, senza che Rebecca potesse aggiungere altro, scappò via.
Più Rebecca pensava alla Premonizione di Brenda, più tutta quella faccenda cominciava ad avere un senso. Quello che non si spiegava, però, era il motivo per cui Posimaar avesse deciso di spingersi fino ad Amtara. Era convinta ci fosse lui dietro la scomparsa di Elettra e non era da escludere che l’intruso in camera di Elettra e Justine fosse proprio lui. Non gli bastavano più le Streghe Nere? Quali erano le sue intenzioni?
Aveva sperato di ottenere qualche informazione in più da Justine, ma a quanto pareva la ragazza non ricordava nulla di particolarmente significativo che avesse potuto darle anche un minimo indizio. E per quanto riguardava la Collins, manteneva il più assoluto riserbo sulle ricerche. Era lampante che, fino ad ora, erano risultate infruttuose. Rebecca dubitava, ormai, che riuscissero a trovarla, ma più il tempo passava, più le probabilità che fosse viva diminuivano drasticamente. Non poteva più aspettare, doveva agire.
Stava pensando proprio a questo quando, un giorno, entrando in aula per la lezione di Storia della Stregoneria, si bloccò sulla soglia.
In cattedra sedeva il professor Garou, visibilmente dimagrito ma, nel complesso, con un aspetto decisamente migliorato rispetto all'ultima volta in cui lo aveva visto.
La lezione si svolse in totale tranquillità e Rebecca ebbe la netta sensazione che qualcosa in lui fosse cambiato. All'improvviso, sembrava non esserci più traccia dell'arroganza passata. Forse, la lunga malattia lo aveva messo così a dura prova da dissipare ogni malumore.
“Se stare male gli fa questo effetto, ben venga!” - commentò Barbara, subito dopo la lezione. Anche a lei non era sfuggito il cambiamento.
“Certo, sarebbe stato carino spendere almeno due parole per Elettra, però.” - puntualizzò Rebecca.
“Del tipo?”
“Beh, per esempio poteva dire che gli dispiace di quanto è successo, mentre lui era assente.”
“E per quale motivo avrebbe dovuto dirlo?” - domandò Brenda, con la fronte corrugata.
“Perchè Elettra è una Prescelta, ecco perchè.”
“Ho come la sensazione che tu abbia l'assoluta necessità di trovare a tutti i costi dei difetti in quest'uomo.” - annunciò Barbara.
“Mi dà solo fastidio la sua insensibilità.” - precisò Rebecca. “E spero tu non abbia dimenticato come si è comportato con Angela all’inizio dell’anno.”
“Beh, se vogliamo parlare del comportamento dei professori, non è certo l'unico da biasimare, mi sembra, no?”
Il riferimento alla Poliglotter era evidente.
“La Poliglotter, però, lavora qui da molto più tempo di lui.” - rispose Rebecca.
“E tu come lo sai?” - le chiese Brenda, sbalordita.
“Me lo ha detto Elettra, durante le vacanze di Natale. Prima di lui c'era una certa professoressa Dustin.”
“E allora?”
“E allora si sa poco o niente di lui.”
“Scusa, immagino che la Collins conosca bene le persone che assume, no?” - disse Barbara. “O pensi sia un'idiota?”
“Questo potevo pensarlo fino a qualche tempo fa. Ma da quando Elettra è stata rapita, è tutto diverso.”
“In che senso, diverso?” - domandò Brenda. Non capiva dove Rebecca volesse andare a parare.
“Avete mai preso in considerazione la possibilità che a rapirla sia stato qualcuno della scuola?”
“Qualcuno come un professore?” - chiese Barbara.
Brenda sgranò gli occhi. “Non starai mica pensando a Garou?”
Rebecca la fissò con sguardo eloquente.
Brenda si mise una mano sulla fronte. “Rebecca, ti prego…”
“Ti ha dato di volta il cervello?” - fece Barbara.
“Scusate, ma a questo punto potrebbe essere stato chiunque!” - esclamò Rebecca.
“E chi meglio del professore che tu detesti di più?” - disse Brenda.
“Questo non c'entra niente.”
“Davvero?”
“Scusa, ma non hai detto che si trattava di un essere non umano?” - le ricordò Barbara.
Rebecca annuì. “L'impressione era quella.”
“Quindi?”
“Quindi potrebbe anche essere che la persona in questione possieda dei poteri.... come dire.... particolari.”
Le gemelle si scambiarono un'occhiata fugace, che a Rebecca non sfuggì.
“Sì, lo so, state pensando che io sia pazza...”
“Ci hai azzeccato in pieno.” - confermò Barbara.
Brenda fece un profondo respiro. “Ok, stammi a sentire. Supponiamo per un istante che tu abbia ragione. Supponiamo che qualcuno, e non voglio fare nomi, si sia trasformato in questo... essere per entrare di soppiatto nella camera di Elettra e portarla via. Chiaramente, non può averla uccisa subito, altrimenti le sue grida avrebbero svegliato Justine, e probabilmente il resto della scuola. Giusto?”
“Giusto.”
“Diamo per scontato che Elettra sia ancora viva, perchè è questo che tutte vogliamo credere, no?
Ora, la mia domanda è: per quale motivo è stata rapita? Se ci fosse davvero lo zampino di Posimaar, allora quale occasione migliore, una volta introdottosi a scuola, di sterminare direttamente tante Prescelte in una volta sola? Invece no! Si limita a portarne via una sola, senza torcerle nemmeno un capello. Un po' strano, non trovi?”
Rebecca tacque. Il ragionamento non faceva una piega. Per quale dannato motivo non erano state uccise tutte quante?
“Vedo che ti ho messo in crisi.” – constatò Brenda nel notare la sua confusione.
“Mi stai chiedendo risposte che non posso darti, Brenda. Io so solo che Garou ha qualcosa che non va.”
“E non è il solo...” - puntualizzò Barbara.
Rebecca la ignorò.
“Questi continui malesseri non possono essere normali. Dev'esserci qualcosa sotto che nessuno vuole dirci.”
“Sì, ma questo non significa che sia stato lui a fare del male ad Elettra.” - rispose Brenda.
Rebecca decise di lasciar perdere, per il momento, ma era comunque decisa a scoprire quale fosse la misteriosa malattia di Garou, con o senza il loro aiuto. Se i suoi sospetti erano fondati ed era lui il responsabile del rapimento di Elettra, avrebbe preso due piccioni con una fava: avrebbe salvato Elettra e si sarebbe liberata una volta per tutte di lui.
Nei giorni successivi, l'argomento Garou venne accuratamente evitato sia da lei, sia da Brenda e Barbara. Rebecca si guardò bene dal confidare alle amiche la sua decisione di tenere d'occhio Garou, almeno per un certo periodo. Aveva deciso che solo nel caso in cui avesse scoperto qualcosa di importante le avrebbe rese partecipi. Avrebbe fatto tutto da sola, perché sapeva quello che pensavano: era la sua antipatia per il professore ad indurla a pensare che fosse lui il colpevole. Credevano che avesse bisogno di un capro espiatorio e chi meglio di Garou, che non aveva mai goduto delle sue simpatie?
Rebecca si domandò se fosse veramente così. Poteva essere stato chiunque a rapire Elettra, perché si stava accanendo proprio contro di lui? La verità era che aveva bisogno di risposte e, dal momento che non ne aveva ottenuta ancora nessuna, non le restava che fare un altro tentativo, prima di Spostarsi alla ricerca dell’amica. Non poteva aspettare oltre. Se avesse scoperto che Garou non aveva nulla a che fare con tutta quella storia, allora avrebbe agito.
 
Negli ultimi giorni Rebecca aveva notato che il numero degli Gnomi che servivano in tavola era drasticamente diminuito. Pensò che questo avesse qualcosa a che vedere con le ricerche di Elettra, e la conferma arrivò un pomeriggio in cui, mentre stava andando in biblioteca con Brenda e Barbara per una ricerca sugli Incantesimi Sbloccanti, incrociarono un gruppo di Gnomi che discutevano animatamente tra loro. Fecero appena in tempo a nascondersi dietro un angolo, per ascoltare di nascosto la conversazione.
“Per quanto tempo dovremo continuare le ricerche?”
“Fino a quando non la troveremo, immagino!”
“E se non dovessimo trovarla?”
“Non possiamo cercare la ragazza e nello stesso tempo prenderci cura della scuola! E' impossibile andare avanti così!”
“Abbiamo bisogno di rinforzi, perchè la Collins non ci ascolta?”
“Se ne approfittano perchè siamo sani, forti e robusti, ma a tutto c'è un limite! Questo si chiama sfruttamento!”
Quando le voci concitate si allontanarono, le tre ragazze si scambiarono occhiate eloquenti.
“La situazione è più grave di quanto pensassi.” - disse Rebecca.
“Poveretti, non posso dar loro torto.” - disse Barbara. “Già si ammazzano di fatica normalmente, ora che sono in numero ridotto, poi...”
“Già, se poi pensiamo a quelli che mangiano per tre..” - commentò Brenda lanciandole un’occhiata.
Barbara non colse l'allusione.
Ma una settimana più tardi, ancora nessun aiuto era stato dato ai poveri Gnomi rimasti a lavorare nelle cucine. Evidentemente la preside non era riuscita ad assumerne degli altri per la gestione di Amtara, troppo presa dai suoi impegni.
Un mattino la preside convocò tutta la scuola in Aula Magna per una comunicazione urgente.
Quando lo venne a sapere, il cuore di Rebecca perse un colpo. Che avessero trovato Elettra? E se...? No, non voleva nemmeno pensarci.
Quando entrò in Aula Magna, seguita dalle gemelle, i suoi occhi cercarono subito Justine. Era già lì, seduta in prima fila, con un'espressione indecifrabile sul volto. Che sapesse già? Oppure era all'oscuro di tutto, proprio come loro?
Barbara avvicinò le labbra all'orecchio destro di Rebecca. “Se non ti dispiace, preferirei sedermi un po' più in là.”
“Buona idea.” - rispose.
Passò davanti alla Collins, che sedeva rigida e impettita, e sorrise a Justine. Poi andarono a prendere posto circa a metà sala. Nel giro di pochi minuti, tutta Amtara si raccolse in aula e un sommesso mormorio ruppe il silenzio, fino a quando la preside, verificato che tutti fossero presenti, si alzò per chiudere la porta.
Tutti, di colpo, tacquero.
A Rebecca non sfuggì l'espressione carica di tensione sul volto della preside. Quelle lunghe settimane dovevano essere state a dir poco estenuanti per lei. Sembrava di colpo invecchiata di dieci anni.
La Collins si schiarì la voce, prima di cominciare a parlare.
“Come sapete, qualche tempo fa, si è verificato un grave episodio che ha sconvolto la pace e la serenità di noi tutti. Mi riferisco, naturalmente, alla scomparsa di Elettra Gambler. Ad oggi, purtroppo, le ricerche sono state vane. Questa ragazza sembra svanita nel nulla.”
Fece una pausa.
“Abbiamo valide ragioni di ritenere che la vostra compagna possa essere stata vittima di un sequestro.”
Un brusio sommesso si sparse per tutta la sala. Rebecca, Brenda e Barbara si scambiarono un’occhiata sgomenta.
La Collins alzò una mano per far tornare il silenzio.
“Ignoriamo tuttora l’identità del colpevole e proprio per questo mi sento di invitare tutte voi ad usare la massima prudenza. Non è da escludersi che quanto accaduto alla povera Elettra possa ripetersi.”
Di nuovo, un brusio sommesso si sparse per tutta l'aula.
“Naturalmente, stiamo continuamente setacciando i dintorni della scuola per cercarla, e continueremo senza sosta. Non smetteremo di cercare Elettra, fino a quando non l'avremo riportata a casa sana e salva. E posso assicurarvi che stiamo facendo tutto il possibile perchè questo accada.”
“La sua famiglia sta per arrivare ad Amtara, per seguire direttamente le ricerche. Naturalmente, la vita qui dovrà continuare come sempre. Le lezioni non verranno sospese e mi aspetto che ognuna di voi continui ad impegnarsi nello studio come ha sempre fatto. Credo sia la cosa migliore che possiate fare per Elettra, al momento.”
Una mano, lentamente, si alzò dalla prima fila. Rebecca sporse il busto in avanti e scoprì che si trattava di Justine.
“Sì, signorina Delacroix?”
“C'è qualcosa che possiamo fare per aiutare nelle ricerche? Qualunque cosa.”
La Collins esitò per un secondo.
“Come ho appena detto, stiamo facendo tutto il possibile. Tutto quello che vi viene chiesto è di impegnarvi nello studio come sempre.”
Barbara si sporse verso Rebecca. “Forse non sono le parole più giuste da dire a chi ha perso un’amica…”
Rebecca non poteva che darle ragione. Ma comprendeva il punto di vista della Collins. Che altro avrebbe potuto dire? Se anche avessero setacciato tutti insieme ogni singolo angolo della foresta, a che sarebbe servito? Posimaar, o chi per lui, non era certo uno sprovveduto. Doveva averla nascosta in un luogo sicuro, molto difficile da trovare.
Sperava solo che fosse ancora viva... Doveva essere viva...
“Potete andare. E' tutto.”
La preside uscì e tutta la scuola, lentamente, la seguì.
Rebecca e le gemelle attesero che tutte fossero uscite e solo allora si accorsero che Justine non si era mossa. Sedeva ancora al suo posto, immobile, nell’aula ormai vuota.
“Justine, ti senti bene?” - le domandò Rebecca, facendola sussultare. “Scusa, mi dispiace, non volevo spaventarti.”
Justine si riscosse. “No, è solo che... stavo riflettendo.”
“Stai bene?” - ripeté Barbara.
Justine annuì. “E' meglio che vada.”
Rimasero a fissarla mentre usciva.
“Mi fa così pena.” - disse Barbara.
“Anche a me.” – disse Rebecca con un sospiro. “Vorrei poterla aiutare, ma non so in che modo…”
“Brancolano nel buio.” - disse Brenda.
“Chi?” – fece Rebecca, stupita da quelle parole.
“Tutti quanti. Non sanno più dove cercarla, è evidente.”
Rebecca le lanciò un’occhiata ma Brenda fissava il pavimento. Forse aveva capito anche lei che era arrivato il momento di mettersi in azione? Quanto avrebbero potuto aspettare ancora?
“La Collins ha detto che sta per arrivare la sua famiglia.” – disse Barbara.
“Sì e non è una buona notizia.” – disse Rebecca.
“Perché?”
“Perché i suoi genitori sono separati, me lo ha detto Elettra a Natale. E non sono mai stati particolarmente affettuosi con lei. Ha sempre trascorso il Natale con sua nonna.”
“Ma è una cosa terribile!” - esclamò Barbara con una smorfia.
“Già. Sua mamma ha un compagno e suo papà una compagna.”
“Credi che non verranno da soli?” – chiese Brenda.
Rebecca si strinse nelle spalle. “Non lo so.”
“Beh, qui si sta parlando della loro figlia.” – osservò Barbara. “Secondo me farebbero bene a venire insieme, DA SOLI.”
“Da come me li ha descritti, dubito che lo faranno.” – mormorò Rebecca.
 
Infatti, Rebecca aveva fatto centro. O quasi.
I genitori di Elettra arrivarono a scuola il giorno dopo. Rebecca e le gemelle stavano scendendo a colazione, quando videro la Collins entrare nel suo ufficio con altre tre persone. Una era una donna piccola di statura, con il mento appuntito, che camminava con aria impettita. L’altra, molto più giovane, aveva lunghi capelli biondi e indossava una gonna cortissima, che Rebecca giudicò decisamente fuori luogo, considerate le circostanze. Dietro di loro, un uomo di mezza età, con i capelli striati di grigio e l’aria malinconica. Rebecca capì al volo che si trattava dei signori Gambler e della compagna di lui. Se non altro, sua madre aveva avuto il buon senso di presentarsi da sola.
Non videro la Collins per tutto il giorno. Nel tardo pomeriggio Rebecca, Brenda e Barbara stavano uscendo dall’aula del professor Cogitus quando udirono delle urla concitate provenire dall’ufficio della preside.
La porta si spalancò e Rebecca vide i tre uscire, seguiti dalla Collins.
“Che cosa è venuta a fare qui, lei?” – ululò la signora Gambler all’ex marito, indicando la bionda.
“Te l’ho già detto, Amanda fa parte della famiglia, ormai.” – rispose l’uomo, paziente.
“Ma quale famiglia!” – abbaiò la signora Gambler. “Figuriamoci! Quando mai te n’è importato qualcosa della famiglia!”
“Signora Gambler, la prego, si calmi.” - disse la Collins, visibilmente in imbarazzo.
Le grida della donna avevano attirato la curiosità di tutti. Perfino alcuni Gnomi erano sbucati fuori dalla Sala da Pranzo e osservavano la scena, sbigottiti. Molte Prescelte si erano radunate nei corridoi e li fissavano, ammutolite.
“Forse è meglio se torniamo nel mio ufficio e ne parliamo con calma.” – propose la Collins, che non desiderava assolutamente che i tre dessero spettacolo in quel modo indegno nella sua scuola.
“La ringrazio, professoressa Collins, ma credo sia meglio per tutti se togliamo il disturbo.” – rispose il signor Gambler risoluto, guardando in cagnesco la ex moglie.
“Ma... io... credevo vi sareste fermati ...” - rispose la Collins, preoccupata.
L'uomo si voltò a guardarla, con aria torva. “Mi dispiace, ma credo che, allo stato attuale delle cose, non mi resti altro da fare che informare personalmente il Consiglio Superiore di Stregoneria Bianca.”
“Come?” - mormorò la Collins, pallidissima.
“Sono settimane che mia figlia è svanita nel nulla. Francamente, ritengo sia stato perso fin troppo tempo. Si ricordi bene le mie parole, mia cara signora: se a mia figlia è accaduto qualcosa di grave, lei sarà ritenuta la diretta responsabile.”
“Ma...” Le parole le morirono in gola.
Rebecca non aveva mai visto la Collins in quello stato, nemmeno dopo la notizia della morte di Bonnie Stage.
“Buongiorno.”
Senza degnare di uno sguardo la ex moglie, il signor Gambler prese Amanda sotto braccio e si avviò verso l'uscita.
La Collins, incapace di proferire parola, rimase lì a fissarli, impotente. Poi, si girò verso la madre di Elettra e si accorse che mezza scuola aveva assistito alla scena.
“Non avete nient’altro da fare, voi?” – tuonò minacciosa.
Alcune Streghe sussultarono e se la diedero a gambe. Gli Gnomi trotterellarono via di corsa e Rebecca, Brenda e Barbara schizzarono su per le scale, dirette in camera loro.
Solo in quel momento la Collins si accorse che la signora Gambler era sull'orlo di una crisi isterica.
“Venga,” - le disse, circondandole le spalle con un braccio, “credo che una tazza di tè sia quello che ci vuole, ora.”
E rientrarono nel suo ufficio.
 
“Non ho mai assistito ad uno spettacolo tanto penoso.” - disse Barbara, gettandosi sul letto.
“Però la mamma di Elettra ha ragione.” – considerò Brenda. “Suo padre non avrebbe dovuto portare qui quella.... Amanda.”
“Sì, ma non era il caso di fare quella sceneggiata davanti a tutti.” – osservò Rebecca. “La signora Gambler sembrava un'isterica.”
“Dev’essere molto scossa per quello che è successo a sua figlia.” – ragionò Barbara. “E sicuramente non si aspettava che ci fosse anche lei. Avete visto che gonna corta indossava?”
“Già. Un abbigliamento decisamente consono alla situazione.” – disse Rebecca con triste sarcasmo.
“Se il signor Gambler si rivolgerà al Consiglio scatenerà un putiferio.” - disse Brenda. “Scommetto che ci ritroveremo qui Calì Amtara in persona.”
“Sì, ma non è giusto incolpare la Collins.” - disse Barbara.
“Già. Spero solo che non la mandino via.”
Barbara sgranò gli occhi. “Credi che potrebbero farlo?”
Brenda alzò le spalle. “Non lo so. A questo punto qui potrebbe succedere di tutto.”
 
Un paio di giorni dopo trovarono appeso nella Bacheca vicino all’ingresso un comunicato della preside.
 
“A tutte le Prescelte:
A seguito della scomparsa di Elettra Gambler, si comunica che a partire da oggi, 1° febbraio, sarà imposto il coprifuoco alle ore 21.00.
Chiunque si troverà fuori dalla sua camera oltre questo orario, sarà severamente punito.
La Preside Dana Collins”
 
“Grandioso.” – commentò Barbara con una smorfia. “Peccato che Elettra sia stata rapita proprio in camera sua.”
“Ma loro questo non lo sanno.” - disse Rebecca.

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Capitolo 14
*** Justine ***


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Justine Delacroix



Capitolo 14
“JUSTINE”
 
Per quanto le era stato possibile, Rebecca aveva cercato di spiare ogni movimento di Garou, senza però venire a capo di nulla. All'apparenza, il professore conduceva una vita assolutamente normale. Quando finiva le lezioni, si rinchiudeva nella sua stanza e ne usciva solo per mangiare. Solo occasionalmente, Rebecca e le gemelle lo incontravano in giardino per una boccata d'aria fresca. Suo malgrado, fu costretta ad ammettere che non c'era niente di strano o di anomalo nel suo comportamento né nel suo stile di vita.
Verso la fine di febbraio, Garou si ammalò nuovamente e, di nuovo, fu la Collins a sostituirlo. Si cominciò a mormorare che fosse affetto da un virus misterioso, forse contagioso, e che la preside doveva essere pazza a non prendere provvedimenti.
“Quante idiozie!” - ruggì Barbara un mattino a colazione, mentre ne parlavano.
“Tu credi?” - le chiese Brenda, poco convinta.
“Se fosse davvero così, a quest'ora dovremmo essere tutte malate, no?”
“Beh, immagino di sì. Comunque, tutta questa faccenda è ben strana.”
Febbraio lasciò il posto ad un marzo freddo e pungente, che portò giornate limpide e serene, accompagnate da un glaciale vento di tramontana. Era chiaro che la primavera era ancora lontana.
Garou era da poco tornato al lavoro, dopo una settimana di assenza. Stavolta la malattia aveva lasciato profondi segni sul viso e occhi lucidi e febbricitanti, al punto che alcune Streghe si spaventarono seriamente quando lo videro.
Si era appena seduto in cattedra, quando bussarono alla porta.
“Avanti” – disse.
La professoressa Collins entrò. Era bianca come un morto e Rebecca si spaventò. L’ultima volta che le aveva visto quell’espressione in viso era stato il mattino in cui Elettra era scomparsa.
La preside marciò a passo spedito verso la cattedra, ignorando gli sguardi delle ragazze.  Rebecca lanciò un’occhiata in direzione di Brenda e Barbara che, come lei, mostravano chiari segni di inquietudine.
Tutta la classe restò in silenzio mentre i due professori confabularono tra loro per qualche istante. Rebecca guardò Garou, che però non sembrava sconvolto tanto quanto la Collins.
Quando la preside uscì, Garou cominciò la lezione come se nulla fosse accaduto.
Rebecca, assalita da mille dubbi, non ascoltò una parola.
Quando scesero a pranzo, il tavolo dei professori era vuoto.
“Non mangiano?” – domandò Barbara.
“Lo sapevo, è successo qualcosa.” – disse Rebecca, preoccupata.
Prima che potessero aggiungere altro, la Collins entrò. Rebecca si aspettava che prendesse posto al suo tavolo, ma non fu così.
“Posso avere la vostra attenzione, per cortesia?”
Tutte si voltarono a guardarla. Rebecca notò che aveva gli occhi arrossati.
“Ho appena convocato tutta la scuola in Aula Magna.” Guardò l’orologio. “Tra dieci minuti.”
Poi, senza aggiungere altro, uscì.
“Che altro sarà successo?” – domandò Barbara ad alta voce, guardando attonita la porta attraverso cui si era appena dileguata la preside.
“Qualcosa di molto grave, questo è certo.” – rispose Rebecca. “Andiamo.”
Seguirono le altre su per le scale e raggiunsero l’Aula Magna, che era già quasi piena. Fecero appena in tempo a prendere posto, quando la Collins entrò, seguita dai cinque professori.
Le Streghe parlottavano tra loro ad alta voce, preoccupate.
La preside impiegò parecchi minuti per ristabilire l’ordine e, quando vi riuscì, nella stanza calò un silenzio carico di tensione.
“Vi ho convocate qui, di nuovo, per comunicarvi, mio malgrado, un'altra terribile notizia.”
Rebecca trattenne il fiato.
“Purtroppo, un’altra allieva di Amtara risulta scomparsa.”
Un brusio si sparse per tutta l’aula. Rebecca udì qualcuno emettere un grido strozzato. Alcune Streghe si coprirono la bocca con la mano, con gli occhi dilatati dalla paura.
“Si tratta di Justine Delacroix.”
Un violento capogiro costrinse Rebecca ad afferrare con forza i braccioli della sedia, fino a farsi sbiancare le nocche delle mani. Con la coda dell'occhio vide Barbara prendersi la testa fra le mani e Brenda scuotere lentamente la testa.
“Questa mattina non si è presentata a lezione e quando abbiamo controllato la sua camera l’abbiamo trovata completamente a soqquadro. Alla luce di quanto accaduto a Elettra Gambler, tutto porta a pensare che anche Justine sia stata vittima di un sequestro.”
In aula era ormai il panico e la preside, con l’aiuto degli altri professori, impiegò alcuni minuti per ristabilire l’ordine.
“Abbiamo valide ragioni, ormai, di ritenere che le Prescelte siano in pericolo e che Amtara potrebbe non essere più un luogo sicuro per voi. Le lezioni di oggi sono sospese. Avete l’assoluto divieto di uscire da scuola. Domani mattina riceverete nuove disposizioni.”
Senza aggiungere altro, la Collins le congedò.
“Che senso ha chiuderci qui dentro quando è proprio qui che il colpevole agisce?” - esclamò Barbara, furiosa, quando furono uscite.
Salirono di corsa in camera e Rebecca si gettò sul letto.
È solo un brutto sogno. Tra poco mi sveglierò e scoprirò che niente di tutto questo è reale.
“Ti senti bene?” – le chiese Brenda.
Rebecca, che si copriva gli occhi con un braccio, lo sollevò per guardarla.
“Avevi ragione tu. Avrei dovuto dire tutto alla Collins. E ora invece è troppo tardi. Anche Justine è stata rapita e chissà se sono ancora vive.”
“Non dire così!” – l’ammonì Barbara. “Non sarebbe cambiato niente, Rebecca! Tu non hai visto in faccia il rapitore e la preside non avrebbe potuto fare niente per impedirgli di catturare anche Justine.”
“Non ne sono così sicura.” – rispose Rebecca, avvilita.
“Non è il momento di darsi colpe inutili.” – proseguì Barbara, risoluta. “Ormai quel che è fatto è fatto. Adesso dobbiamo assolutamente restare unite per scoprire chi è stato.”
Brenda e Rebecca la osservarono, non senza un certo stupore. Raramente Barbara si dimostrava così decisa e risoluta.
“Barbara ha ragione.” – disse poi Brenda rivolta a Rebecca. “Elettra e Justine hanno bisogno di noi.”
Rebecca si alzò a sedere sul letto. Non potevano più aspettare e finalmente anche Brenda lo aveva capito. Si augurava solo che non fosse troppo tardi…
Barbara si grattò il mento con la mano destra, pensierosa. “La Collins ha detto che la camera di Justine era completamente a soqquadro.”
“Forse ha cercato di difendersi.” – considerò Rebecca.
“Pensi che abbia lottato contro di lui?” – chiese Brenda.
Rebecca annuì. “Potrebbe essere.”
“Ma è impossibile che nessuno abbia sentito niente.” – protestò Barbara.
“La loro camera è l’ultima in fondo al corridoio e non è collegata alle altre.” - ragionò Rebecca. “Potrebbe anche essere che nessuno abbia sentito nulla… Piuttosto, mi domando se hanno trovato la finestra aperta o chiusa questa mattina.”
“Perchè?” - chiese Brenda.
“Perchè, se non ricordo male, Justine mi aveva detto che la finestra della loro camera era chiusa, il mattino in cui Elettra è scomparsa.”
“E allora?”
“Non è un po' strano che quell'essere si sia premurato di chiudere la finestra?”
“Non ricordi questo particolare nella tua Premonizione?”
Rebecca scosse la testa. “Nel momento esatto in cui mi sono accorta che Elettra non c'era più, mi sono svegliata.”
“Se non avesse chiuso la finestra, Justine si sarebbe svegliata per il freddo, prima o poi.” – ragionò Barbara.
“Rebecca, sei assolutamente certa che sia entrato dalla finestra?” – chiese Brenda.
“Certo. L'ho visto scavalcare ed entrare. Me lo ricordo benissimo.”
“Beh, questo riduce di molto le probabilità che si tratti di qualcuno della scuola. Voglio dire, dalla finestra aperta sarebbe potuto entrare chiunque dall’esterno. Sarebbe bastato scavalcare il cancello.”
“Dunque ne dobbiamo dedurre che il professor Garou non ha rapito né Elettra né Justine.” – disse Barbara, lanciando un’occhiata a Rebecca.
Rebecca sospirò, depressa. Aveva tenuto d’occhio Garou per giorni e non ne aveva cavato un ragno dal buco. Ora era costretta ad ammettere, suo malgrado, che Barbara aveva ragione. C’erano pochissime probabilità che il colpevole fosse lui.
Dunque, erano di nuovo in alto mare e stavolta il numero delle Prescelte scomparse era salito a due.
 
Il mattino dopo, alle otto, la Sala da Pranzo era già gremita. Evidentemente c'era forte attesa per le nuove disposizioni della preside.
Rebecca non mangiò nulla. Era troppo nervosa. Non aveva chiuso occhio e aveva trascorso la notte a pensare ad Elettra e Justine e, soprattutto, a quali decisioni avrebbe preso la Collins. Avrebbero chiuso Amtara? Elettra non era ancora stata ritrovata, a Justine era toccata la stessa sorte e Rebecca temeva che il Consiglio avrebbe sottoposto la Collins a pressioni talmente forti da costringerla a chiudere la scuola, fino a quando il colpevole non fosse stato smascherato.
Guardò la preside mentre faceva colazione. Di lì a pochi minuti, avrebbe parlato a tutta la scuola.
Rebecca provò ad immaginare come sarebbe stato il resto della sua vita se fosse stata costretta a tornare a Villa Bunkie Beach. Curiosamente, quel pensiero la fece sentire male. Ormai si era talmente abituata alla vita ad Amtara, alla vicinanza di Brenda e Barbara, ai ritmi scolastici, che il pensiero di tornare nella villa di famiglia da sola le provocava un senso di malessere. Nonostante solo fino a due mesi prima aveva avuto grossi dubbi sul fatto che quella scuola servisse a qualcosa per loro, dovette ammettere che quel posto le piaceva, si respirava un’atmosfera che a Bunkie Beach non aveva mai vissuto e, soprattutto, ad Amtara non era sola. Ormai Rebecca si era talmente affezionata a Brenda e Barbara che non riusciva più ad immaginare la sua vita senza la loro presenza. E negli ultimi tempi si era affezionata anche ad Elettra. No, non avrebbe mai potuto tornare a Villa Bunkie Beach senza sapere di aver tentato tutto il possibile per trovare Elettra e Justine.
Inoltre, se anche fosse tornata a casa, era sicura che non avrebbe mai potuto vivere la vita tranquilla di una volta. Sarebbe stato solo questione di tempo, prima che Posimaar le avesse trovate, una ad una, per ucciderle. E allora sarebbe stata veramente la fine per la Magia Bianca.
Doveva impedire tutto questo.
La Collins stava mangiando uova e bacon. La Sala da Pranzo era piena, tutte aspettavano che lei finisse la colazione per ascoltare i provvedimenti che erano stati presi a seguito della scomparsa della signorina Delacroix.
Mentre beveva il suo succo d’arancia, vide qualcuno venire verso di lei.
“Professoressa, potrei parlarle un momento?”
“Non ora, Bonner.” – replicò la Collins seccamente. “Come vedi, sto finendo la mia colazione e subito dopo, in caso te ne fossi dimenticata, ho un annuncio importante da dare alla scuola.”
“E' proprio di questo che vorrei parlarle. La prego, non lo faccia.”
“Fare cosa?” - domandò la Collins, sbalordita.
“Professoressa, non può dargliela vinta in questo modo. Se Amtara chiuderà, allora che ne sarà dei Protetti? Che ne sarà di noi? Moriremo tutti. Senza nemmeno combattere.”
La Collins avvampò. “Ma di che accidenti stai parlando, Bonner?”
“Sto parlando di Amtara. Non può permettere che venga chiusa.”
Rebecca ci aveva pensato a lungo, prima di farlo. Alla fine, aveva deciso di mandare al diavolo il buon senso e di esporsi in prima persona. La Collins non poteva permettere che la scuola chiudesse, l’avrebbe perfino supplicata, se necessario. Doveva fare l’impossibile affinchè il Consiglio non prendesse quella fatale decisione, che avrebbe significato la fine della speranza per tutte loro. Doveva farlo soprattutto per Elettra e Justine.
Rebecca ignorò le risatine sommesse delle compagne dietro di lei, ma si rese conto che questo non fece che accrescere ulteriormente l’ira della preside, che ora le lanciava sguardi di fuoco.
“Si può sapere chi ti ha messo in testa una simile idea?” – sibilò la preside.
Rebecca non rispose. All’improvviso, un terribile presentimento si affacciò alla sua mente.
E se avesse frainteso tutto?
“Ti ho fatto una domanda, Bonner.” - ripeté la Collins. “Chi diavolo ti ha detto che chiuderemo la scuola?”
Con la coda dell'occhio Rebecca vide Garou, seduto vicino alla preside, soffocare un sorrisino.
Il suo cuore sprofondò.
“Voi…non…” – balbettò, con il volto paonazzo.
“Chiariamo due cose, Bonner. Punto primo: non permetterti mai più di rivolgerti a me in questo modo. Punto secondo: questi, in ogni caso, non sono affari che ti riguardano. Sono stata abbastanza chiara?”
Rebecca deglutì.
“Non ti ho sentita, Bonner.”
“S-Sì, professoressa.”
Rebecca avvertì un principio di nausea, nonostante fosse ancora a digiuno.
“Ora torna al tuo posto, prima che io decida di farti espellere. E bada che non ho bisogno che la scuola chiuda, per farlo!”
Rebecca avrebbe tanto voluto obbedire, ma non poteva: era come se i suoi piedi si fossero incollati al pavimento. Tutti gli insegnanti la fissavano, sgomenti. Tutti, tranne Garou che, a giudicare dalla sua espressione, era l’unico che si stava divertendo un mondo. Rebecca evitò il suo sguardo, con un misto tra irritazione e imbarazzo. Avrebbe tanto voluto tirargli un pugno in faccia.
L’unico insegnante totalmente indifferente a lei era Cogitus, che masticava il suo toast al formaggio come se nulla fosse accaduto. In effetti, Rebecca non era nemmeno sicura che si fosse accorto della sua presenza.
Poi sentì qualcuno alle sue spalle afferrarla bruscamente per un braccio e trascinarla via.
Era Brenda.
Attraversarono la Sala da Pranzo sotto gli sguardi divertiti delle altre.
Rebecca sedette al suo posto senza dire una parola, guardando le gemelle finire la colazione. Brenda non la degnò di uno sguardo, troppo furibonda per parlare, mentre Barbara, al contrario, esattamente come Garou, sembrava divertirsi un mondo.
Rebecca si sentiva una perfetta idiota ma ritenne opportuno non dire nulla, soprattutto considerando l’atteggiamento di Brenda, che sembrava parecchio infastidita perfino dalla sua presenza.
D’altra parte, non ci fu nemmeno il tempo di parlare, perché, subito dopo la sua interruzione, la preside finì di mangiare e fece un cenno a tutte le Prescelte di seguirla in Aula Magna.
“I genitori di Justine Delacroix sono arrivati ieri.” - esordì la preside quando tutte ebbero preso posto in aula. “Di comune accordo con la famiglia Gambler, hanno deciso di chiedere al Consiglio Superiore di Stregoneria Bianca di aprire un’inchiesta. Il Consiglio, dopo aver valutato attentamente il caso, ha accettato la loro richiesta.”
Ci furono insistenti mormorii di protesta.
Rebecca era incredula. Alla fine, dunque, il padre di Elettra l'aveva spuntata.
“Fate silenzio, per favore!” - gridò la preside.
Il brusio si spense.
“Mi rendo conto che è un momento molto difficile, per tutti noi, ma vi chiedo, per un momento, di mettervi nei panni di queste famiglie. E' loro sacrosanto diritto agire nel modo che più ritengono opportuno. L'unica cosa che conta, ora, è ritrovare le due ragazze vive.”
Rebecca ebbe quasi la sensazione che quelle parole fossero rivolte più a se stessa che alla platea di ascoltatori che le sedeva di fronte. Trovava ammirevole che la Collins difendesse pubblicamente le due famiglie, anche se questo fosse andato a discapito della scuola o della sua posizione.
“Non ci saranno cambiamenti di sorta, per quello che vi riguarda.” - proseguì. “La vita ad Amtara continuerà come sempre, e questo include anche il coprifuoco alle 21.”
Qualcuno, in fondo all'aula, protestò su quell’ultimo punto.
“Non sono ammesse eccezioni a riguardo.” – fu la sua gelida risposta. “Chi sarà trovato in giro per la scuola oltre l’orario consentito ne subirà la conseguenze.”
Rebecca sapeva che erano molte le Streghe che non avevano gradito quell’imposizione. Avrebbe tanto voluto informare la Collins che il nemico aveva attaccato proprio in camera da letto. Chissà che faccia avrebbe fatto… Ma non aveva alcuna intenzione di parlare. Avrebbe fatto di testa sua, lieta di avere finalmente Brenda e Barbara completamente dalla sua parte.
“Vi ricordo, inoltre, che vi è concesso uscire in giardino solo nelle ore diurne e che vi è fatto assoluto divieto di avvicinarvi al fiume e alla foresta. Gli Gnomi faranno dei turni di guardia, in caso a qualcuno venisse la brillante idea di infrangere le regole…”
 
Quella sera si ritirarono presto in camera.
“Che vuol dire che apriranno un’inchiesta?” – domandò Barbara, sfogliando distrattamente il libro di Storia della Stregoneria.
“Che cercheranno un colpevole.” – rispose Brenda.
“L’unico colpevole da ricercare è Posimaar, ma qui nessuno sembra capirlo.” – soggiunse Rebecca. “Stanno continuando a perdere tempo.”
“Tu invece non hai perso tempo stamattina a colazione.” Barbara ridacchiò.
Rebecca le lanciò un’occhiataccia. “Perché vuoi farmi sentire peggio di quanto già non mi senta?”
“Ma come ti è venuto in mente che volessero chiudere la scuola?” Barbara ora rideva senza ritegno.
“Perché, tu non l’hai pensato?”
“Francamente no.”
Rebecca non rispose. Aveva fatto una figura da perfetta imbecille praticamente di fronte a tutta la scuola. Nemmeno la storia dell’inchiesta, ne era sicura, sarebbe riuscita a far dimenticare a tutti la divertente scenetta di quella mattina in Sala da Pranzo.
“Hai visto Garou come si divertiva?” – disse ancora Barbara.
“Sì e avrei voluto ucciderlo con le mie stesse mani.” – rispose Rebecca, che ancora fremeva al pensiero dell’espressione allegra del professore. Era sicura che avrebbe tirato fuori quella storia nel corso delle sue lezioni, tanto per il gusto di umiliarla davanti a tutta la classe.
“Per fortuna sono intervenuta io.” – disse Brenda.
Rebecca si girò a guardarla. “Già. Non ti ho ancora ringraziato per stamattina. Ero talmente in imbarazzo che le gambe non volevano muoversi.”
“Bisogna comunque riconoscere che hai avuto del fegato.”
“Ma io ero davvero convinta che avessero già deciso di chiudere la scuola. In fin dei conti, sono scomparse due Streghe e, come hai detto tu, brancolano ancora nel buio.”
“Non è escluso che non lo facciano, comunque.” – disse Brenda, seria. “Se l’inchiesta dovesse finire male, potrebbero decidere di chiudere Amtara.”
“E noi cosa faremo?” – domandò Barbara.
“Noi dobbiamo fare qualcosa prima che si arrivi a quel punto.” – rispose Rebecca decisa.
Brenda la guardò.
“Siete ancora con me?” – le chiese Rebecca.
Brenda annuì.
“Barbara?”
“Certo che sì!”
 

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Capitolo 15
*** Sandra ***


Capitolo 15
“SANDRA”
 
Il giorno dopo si sparse la voce che la Collins aveva deciso di rinforzare le difese del castello, ponendo gli Gnomi di guardia lungo tutto il perimetro dell’edificio. Lo scopo era quello di evitare che le Prescelte si allontanassero troppo dai confini della scuola e che rispettassero gli orari di uscita previsti dal nuovo regolamento. Gli Gnomi, già gravati dai loro impegni quotidiani, non furono particolarmente lieti della notizia, ma i loro animi si risollevarono quando la Collins comunicò che aveva predisposto nuove assunzioni per i servizi scolastici.
Si respirava un’aria di grande tensione ad Amtara. Con l’aumento della sorveglianza, la maggior parte delle studentesse trascorreva il tempo libero in biblioteca, che era diventato il luogo più rumoroso e affollato della scuola. Nonostante la primavera fosse ormai alle porte, poche ragazze si avventuravano fuori dalla scuola, soprattutto per via dei rigorosi controlli da parte degli Gnomi. Era praticamente impossibile avvicinarsi al bosco o al fiume e, anche mantenendosi in prossimità del castello, era difficile non provare un certo disagio sotto i loro sguardi vigili e attenti. Le Prescelte preferivano restare a scuola dove, se non altro, non erano marcate a vista.
Rebecca aveva deciso di mettere in atto il suo piano e Spostarsi nella foresta insieme a Brenda e Barbara, una sera dopo il coprifuoco. Quel pensiero la metteva in grande agitazione, non tanto perché si sarebbe ritrovata in un bosco buio e probabilmente pieno di pericoli in piena notte, quanto perché non si era mai Spostata portandosi dietro altre persone. Inoltre, era da parecchio tempo che non utilizzava più il suo Potere e aveva il terrore di commettere nuovamente qualche errore. Stavolta non sarebbe stata l’unica a subirne le conseguenze, ma avrebbe coinvolto altre due persone, che per di più erano sue amiche. Cosa avrebbe fatto se fosse accaduto loro qualcosa di grave per causa sua? Come avrebbe spiegato il tutto ai signori Lansbury?
Rebecca cercava di non pensare al peggio, ma non era facile. Dal canto loro, Brenda e Barbara non mostravano il minimo segno di inquietudine al pensiero di venire trasportate nella foresta da un Potere a loro estraneo. Barbara era addirittura elettrizzata e non vedeva l’ora di farlo.
Non avevano ancora deciso il giorno, ma ad Amtara accadde di nuovo qualcosa che le costrinse a rivedere nuovamente i loro piani.
Una notte Rebecca fu svegliata da un grido. Si alzò a sedere e accese la luce.
Brenda e Barbara la fissavano con orrore, l’urlo aveva svegliato anche loro.
“Che cosa è stato?” – chiese Barbara.
“Qualcuno ha gridato.” – rispose Brenda.
Si udirono dei rumori in corridoio. Uscirono dal letto e aprirono piano la porta. Non dovevano essere le uniche ad aver udito il grido, perché il corridoio era gremito di Streghe.
“Che cosa è stato?”
“Chi ha urlato?”
“Veniva dalla camera in fondo.”
“E’ quella di Sandra e Giorgia.”
Tutte si scambiavano sguardi inquieti. Ad un tratto, la porta dell’ultima stanza in fondo al corridoio si aprì e una ragazza magra, dai lunghi capelli castani, uscì. Avanzò barcollando, avvolta in una camicia da notte viola. Seppur lontana, Rebecca distinse chiaramente il suo volto pallidissimo. Poi, all’improvviso, la giovane crollò a terra.
Tutte accorsero in suo aiuto.
“Bisogna chiamare la Preside, presto!” – gridò Brenda.
“Vado io!”  Barbara si lanciò di corsa verso le scale.
Brenda e Rebecca si avvicinarono alla ragazza. Rebecca aveva creduto fosse svenuta ma, da vicino, si rese conto che era ancora in sé, anche se tremava come una foglia e mormorava parole che non riusciva a comprendere.
Barbara tornò subito, accompagnata da una Collins avvolta in una lunga vestaglia di lana color crema.
Tutte fecero spazio alla preside, che si chinò sulla giovane.
Fortitudo!”
L’Incantesimo Energizzante funzionò, perché il corpo di Giorgia Davis smise di tremare e la ragazza alzò i suoi occhi spaventati sul volto pallido dell’insegnante.
“Che cosa è successo, signorina Davis?”
Giorgia la fissò per alcuni secondi, gli occhi pieni di terrore.
“Su, su, coraggio.” – la incoraggiò la Collins in tono pacato. “Va tutto bene. Puoi dirmi cos’è successo?”
Giorgia abbassò lo sguardo, come a cercare le parole per descrivere quello che aveva visto.
“Qualcuno ti ha attaccato?” – domandò la preside.
Giorgia scosse la testa.
“Allora che è successo? Parla, benedetta ragazza…”
Rebecca notò che la Collins, nonostante la delicata situazione, cominciava a perdere la pazienza.
Rebecca aveva la sgradevole sensazione di sapere esattamente quello che avrebbe raccontato.
“S-si tratta di Sandra.” – mormorò pianissimo.
“Che le è successo?” A Rebecca non sfuggì il tono acuto della Collins.
Sandra doveva essere la sua compagna di stanza.
“E’ stata rapita.”
Il cuore di Rebecca perse un battito. Alzò il viso per guardare la Collins, che a quelle parole si era coperta la bocca con una mano.
Tutte le Prescelte inorridirono. Rebecca udì qualcuna gridare e qualcun’altra mettersi a piangere.
Era accaduto di nuovo, Posimaar aveva attaccato un’altra volta. Quanto tempo avrebbe impiegato per rapirle tutte, una ad una? Aveva dunque deciso di lasciar perdere le Streghe Nere e venire direttamente ad Amtara per agire indisturbato dall’interno?
Giorgia, forse istigata dalla reazione di alcune Streghe, cominciò a piangere.
La Collins sembrava talmente sconvolta da non riuscire nemmeno a consolarla. Lo fece Brenda, che si chinò su di lei e la circondò con un braccio, cercando di darle un po’ di conforto. La povera ragazza sembrava ancora sotto shock per quanto accaduto.
“Raccontami quello che è successo.” – disse la preside, dopo che ebbe riacquistato un po’ del suo sangue freddo.
Giorgia, ancora tremante tra le braccia di Brenda, prese un profondo respiro.
“Io… stavo dormendo, quando ho sentito un rumore. Mi sono svegliata e ho acceso subito la luce e….e…”
“Cosa? Cos’hai visto?” – la incalzò la Collins.
“C’era…. C’era un lupo!”
“Cosa?!” – sbraitò la preside, atterrita.
Rebecca ebbe un tuffo al cuore. Si appoggiò alla parete, temendo di cadere. Se era stato un lupo a rapire Sandra, doveva essere lo stesso che aveva preso anche Elettra e Justine. Cercò di ricordare se la sagoma che aveva intravisto nella Premonizione poteva somigliare ad un lupo, ma il ricordo ormai era sbiadito e la stanza era troppo buia per distinguere chiaramente chi fosse l’intruso. Ma com’era possibile che un lupo riuscisse ad entrare dalla finestra portandosi via delle Streghe? No, non poteva essere…. Giorgia doveva essersi sbagliata.
“Ma come ha fatto ad entrare?” – domandò la Collins.
Era la stessa domanda che si stava ponendo Rebecca in quel medesimo istante.
“Io… non lo so.” – piagnucolò Giorgia. “La porta era chiusa a chiave, la chiudiamo sempre a chiave la sera prima di dormire e anche la finestra ovviamente era chiusa.”
“Sei proprio sicura che fosse un lupo?” – insistette la Collins. “Forse non hai visto bene…. Potrebbe essere che ti sia sbagliata…”
Rebecca lanciò un’occhiata alla preside, che sembrava ostinarsi a non voler credere alla versione della ragazza. Non poteva darle torto, il racconto di Giorgia faceva acqua da tutte le parti. Se la porta e la finestra erano chiuse, nessuno sarebbe riuscito ad entrare nella loro camera. A meno che non si trattasse di Posimaar in persona sotto le sembianze di un lupo, che con qualche oscura magia era riuscito a penetrare ad Amtara. Poteva avere un senso, pensò Rebecca frustrata, dal momento che nessuno conosceva i poteri magici del Demone né che aspetto avesse.
“Sono sicura.” – ripeté Giorgia alzando gli occhi verso la preside con aria di sfida. Doveva aver intuito che la Collins faticava a credere alle sue parole. “L’ ho visto benissimo. Aveva gli occhi rossi come il diavolo ed era enorme, non era un lupo qualsiasi. Non ho mai visto un animale così grosso. Appena l’ho visto mi sono spaventata a morte e ho gridato e poi…. E poi ho visto Sandra per terra. Sembrava svenuta, ma io ero inchiodata al letto, ero terrorizzata da quella bestia e non sarei riuscita a muovermi nemmeno se avessi voluto. Poi … è successo tutto così in fretta e …. Non ho potuto fare niente…”
La ragazza scoppiò di nuovo in lacrime.
A Rebecca non sfuggì lo sguardo della preside, che represse un moto d’impazienza.
“Su…su…coraggio…” – le disse Brenda, cercando di confortarla come meglio poteva.
“Cos’è successo a Sandra?” – domandò la Collins.
Rebecca temeva di conoscere già la risposta.
Giorgia deglutì, cercando di ricomporsi. “Quella bestia orribile l’ha presa e l’ha portata via…. È scappato dalla finestra.”
A quelle parole nel corridoio scese il silenzio assoluto. Si udivano solo i singhiozzi strozzati di Giorgia.
Rebecca si sentiva annientata. Un lupo fuori dal comune, indubbiamente una creatura magica, stava agendo indisturbato ad Amtara per rapire le Prescelte. Le stava uccidendo una alla volta? Quel pensiero la fece rabbrividire.
“Va bene, forse ora è meglio se ti accompagno in infermeria.” – disse poi la preside, riacquistando il pieno controllo della situazione. “Sono sicura che l’infermiera Anderson ti darà qualcosa che ti aiuterà a calmarti.” E così dicendo aiutò la ragazza a rialzarsi.
“Voi tornate a dormire.” – disse poi alle Streghe che la fissavano, sgomente. “Convocherò oggi stesso fate e Gnomi per mettere qualcuno di guardia anche fuori dalle vostre camere.”
Barbara spalancò gli occhi. “Le fate? Perché le fate, professoressa?”
La preside si girò a guardarla. “Perché gli Gnomi sono già fin troppo impegnati tra il lavoro a scuola e i turni di guardia esterni, Lansbury, ecco perché.” . replicò seccata.
“Ma…”
“Ho assoluta necessità dell’aiuto delle fate, o non riusciremo a gestire questa situazione. D’altra parte, il castello appartiene a loro e direi che, visti gli ultimi avvenimenti, siamo in piena emergenza.”
Barbara deglutì e non rispose.
Rebecca, al pari di lei, dubitava fortemente che la Collins fosse riuscita a mettere le Fate di guardia alle loro stanze. Il loro perenne atteggiamento fiero e altezzoso e la loro naturale predisposizione a contrastare tutto ciò che riguardava le Prescelte la induceva a credere che avrebbero preferito partecipare alla festa di Halloween piuttosto che aiutarle. Tuttavia, era curiosa di scoprire quali argomenti avrebbe utilizzato la preside per riuscire a convincerle. Rebecca era convinta che il fatto stesso che le Prescelte fossero in pericolo non avrebbe minimamente suscitato il loro interesse.
“Ora tornate a dormire.” – ripeté la preside avviandosi verso le scale con Giorgia sottobraccio.
Rebecca dubitava che qualcuna di loro sarebbe riuscita a chiudere occhio, ma obbedì rientrando in camera con Brenda e Barbara
Trascorsero il resto della notte parlando dell’accaduto.
“Era un lupo quello che hai visto nella Premonizione?” – chiese Barbara a Rebecca. Era seduta a gambe incrociate sul letto e si tormentava i capelli attorcigliandoli attorno a un dito, ripetutamente.
Rebecca sapeva che era nervosa, esattamente come lei. La rivelazione di Giorgia era stata uno shock per tutte. Sapere che un lupo gigantesco sarebbe potuto entrare anche in camera loro non poteva certo farle sentire tranquille, a dispetto di tutte le disposizioni di sicurezza che la Collins stava mettendo in atto per proteggerle.
“Non lo so.” – rispose Rebecca affranta. “Non ricordo…. E poi era troppo buio per poterci capire qualcosa. Ricordo solo che era una sagoma enorme.”
“Allora potrebbe trattarsi dello stesso lupo che ha appena preso Sandra.”
“Sono certa che è così.”
Brenda alzò gli occhi su Rebecca. “Credi si tratti di Posimaar?”
Brenda appariva più tranquilla di sua sorella, ma era molto pallida e, di tanto in tanto, buttava giù un lungo sorso d’acqua dalla bottiglia che teneva sul comodino.
Rebecca si strinse nelle spalle. “Non mi viene in mente nessun altro. Chi altri potrebbe avere interesse a rapire le Prescelte?”
“E se fosse un licantropo?” – buttò lì Barbara.
Brenda e Rebecca la fissarono per un attimo, aggrottando la fronte.
“Un licantropo?” – le fece eco Brenda.
“Sì, hai presente? Quegli esseri umani apparentemente innocui che si trasformano con la luna piena?”
“E perché mai un licantropo dovrebbe volere noi?” – domandò Brenda.
“Per mangiarci?”
Brenda fece una smorfia. “E’ disgustoso.”
“E’ impossibile.” – asserì Rebecca con decisione.
“E perché?” – domandò Barbara.
Rebecca si alzò e andò alla finestra, scostando leggermente la tenda. Uno spicchio di luna faceva capolino tra le nubi. “Niente luna piena, ecco perché.”
“Magari è un licantropo particolare.”
Rebecca e Brenda le lanciarono un’occhiata piena di scetticismo.
Barbara alzò le spalle, tornando ad intrecciarsi distrattamente i capelli.
“Non possiamo più aspettare.” – disse Rebecca.
Brenda la guardò. “Hai deciso di Spostarti.”
Rebecca annuì. “E’ arrivato il momento. Le cose ad Amtara stanno degenerando, non posso più rimandare.”
“Noi siamo con te.” – le disse Barbara.
“Lo faremo una delle prossime sere.”
 
Il giorno seguente la notizia di quanto accaduto la notte precedente si sparse velocemente per tutta la scuola, suscitando panico e terrore.  Molte Prescelte pensavano che le tre ragazze rapite fossero già morte e che sarebbe stata solo questione di tempo prima che fosse toccato anche a loro. Qualcuna pensava di fare ritorno a casa, prima che la situazione degenerasse, ma altre ritenevano che non sarebbero state più al sicuro a casa propria di quanto non fossero ad Amtara. In un modo o nell’altro, Posimaar le avrebbe trovate, ovunque si fossero nascoste.
Le Prescelte non gradirono particolarmente la decisione della preside di mettere anche le Fate di guardia fuori dalle loro camere. Rebecca si domandava come avesse fatto a convincerle. Dopotutto, se Amtara fosse stata chiusa, loro avrebbero potuto riavere il castello tutto per sé. Rebecca sospettava che la Collins avesse promesso qualcosa in cambio, ma era assai probabile che non lo avrebbe mai scoperto. Ormai a Rebecca non sembrava più di essere a scuola, ma in una sorta di prigione. Le Streghe venivano scortate praticamente ovunque, tranne che in bagno. Erano sorvegliate a scuola, fuori dal castello e ora anche la sera, quando si chiudevano in camera.
La Collins non si fece vedere per tutto il giorno. Rebecca sospettava che fosse andata a riferire al Consiglio della scomparsa di Sandra. Non lo avrebbe certo fatto a cuor leggero, ma non poteva tenere nascosto ciò che stava accadendo ad Amtara, anche se questo avesse significato la chiusura definitiva della scuola. Inoltre, era già in corso un’inchiesta su Elettra e Justine che, per il momento, non aveva portato ancora a nessuna decisione.
Avevano lezione con Garou subito dopo pranzo. Rebecca, Brenda e Barbara schizzarono fuori dalla Sala da Pranzo a tutta velocità, dirette verso Storia della Stregoneria. Avevano pranzato tardi ed erano già in ritardo. Rebecca sapeva esattamente quale sarebbe stata la reazione del professore se fossero arrivate tardi alla sua lezione.
Per fortuna, quando entrarono in classe, Garou non era ancora arrivato. Rebecca sedette al suo posto, respirando affannosamente.
Garou entrò in quel momento. Rebecca notò che aveva di nuovo l’aspetto malaticcio e, per la prima volta, il suo volto era ricoperto di graffi e lividi.
“Andate a pagina 178.” – disse, appena seduto in cattedra. “Da oggi affronteremo un nuovo argomento: i processi dell’Inquisizione contro le Streghe Bianche.”
Rebecca, perplessa, cominciò a sfogliare il libro, cercando di non farsi notare da Garou. Fino ad ora avevano studiato gli Orchi, i Vampiri e l’alleanza delle Streghe Bianche con gli Elfi e con le Fate. Mancava il capitolo sui lupi mannari. Perché Garou era saltato subito ai processi dell’Inquisizione?
“Che cosa c’è, Bonner?”
Brenda e Barbara si girarono a guardare Rebecca, che aveva appena alzato la mano.
“Professore, mi scusi, ma abbiamo saltato il capitolo 24.”
“Sì, e allora?”
Rebecca lo fissò. “E allora me ne domandavo il motivo.”
Si udì un gemito e, con la coda dell’occhio, Rebecca vide che proveniva da Brenda.
“Il capitolo 24 non è previsto nel programma di studio del primo anno, Bonner. Qualche problema?” La voce di Garou era tagliente come una lama, ma il viso deformato dalle ferite esprimeva assoluta calma.
Barbara fece un eloquente gesto con la mano, che non sfuggì a Rebecca, con il chiaro intento di metterla a tacere. Brenda si prese la testa fra le mani e distolse lo sguardo.
“No, professore.” – rispose tranquilla. “Nessun problema.”
 
“Mi spieghi che ti è preso, questa volta?” – le chiese Brenda in tono rassegnato, mentre bevevano un tè in biblioteca nel tardo pomeriggio.
“Ha mentito.” – disse Rebecca, furibonda. “Durante le vacanze di Natale Elettra mi ha detto che i lupi mannari si studiano il primo anno. E’ uno sporco bugiardo.”
Barbara era sorpresa. “Sei sicura?”
“Assolutamente.”
“Ma perché Garou avrebbe dovuto saltare un argomento di studio?” – domandò Brenda.
Per tutta risposta, Rebecca si girò verso Barbara. “L'altra sera hai detto che potrebbe essere un licantropo l'aggressore delle Streghe.”
“E allora?”
“La misteriosa malattia di Garou, il capitolo sui lupi mannari saltato di sana pianta. Riuscite a fare due più due?”
“Aspetta.” - disse Barbara. “Stai dicendo che Garou è un licantropo?”
“Hai visto i segni che aveva in faccia oggi? Ad ogni plenilunio, guarda caso, lui sparisce.”
“Ma l’altra sera non c’era la luna piena.” – intervenne Brenda. “L’hai detto tu stessa. Quindi il lupo, in ogni caso, non potrebbe essere lui.”
“Beh, che sia lui o meno ora ha poca importanza. Il fatto è che la Collins ha assunto un licantropo come insegnante.”
“Questo è quello che pensi tu.” – disse Brenda.
“Sono certa che è così. È l’unica spiegazione possibile! Ecco perché la Collins si lamentava di doverlo sostituire ogni mese, perché ogni mese c’è la luna piena e ogni mese lui sta male, perché si trasforma.”
“Quindi, avrebbe saltato il capitolo sui lupi mannari per evitare che qualcuna di noi potesse intuire il suo segreto?” – ragionò Barbara.
“Esattamente. Ma siccome io non sono un’idiota, il suo segreto non è più al sicuro.”
Brenda sospirò. “Ammettiamo che tu abbia ragione e che Garou sia effettivamente un licantropo. Che intenzioni hai?”
Brenda la fissava con scetticismo. Sapeva che da Rebecca ci si poteva aspettare qualunque cosa, anche che fosse andata dritta dalla Collins per informarla che l’insegnante di Storia della Stregoneria era un licantropo, cosa di cui, probabilmente, la preside era già a conoscenza.
“Nessuna, al momento. Ma se mai dovessi scoprire che è lui il colpevole, non esiterò a parlare.”
“In altre parole, userai questa cosa come arma di ricatto.” – disse Brenda.
“Se necessario, sì.”
“Ma non si era detto che l’aggressore non può essere un licantropo, visto che non c’era la luna piena ieri?” – domandò Barbara, confusa.
“Per quanto ne sappiamo noi.” – rispose Rebecca. “Io ho sempre saputo che i lupi mannari si trasformano con il plenilunio. Ma ormai non mi stupirei più di niente.”
“Avevamo detto anche che era impossibile si trattasse di qualcuno all’interno di Amtara.” – aggiunse Brenda. “Non avevamo scagionato Garou una volta per tutte?”
Rebecca alzò le spalle. “Sì, ma ora sappiamo che l’aggressore è un lupo e che Garou è quasi certamente un licantropo. Onestamente non mi sentirei di escluderlo a priori.”
Barbara sospirò. “E quindi siamo punto e a capo.”
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 16
*** Brenda ***


Capitolo 16
“BRENDA”
 
“Non vedo l’ora che arrivi stasera!” – cinguettò Barbara allegra.
“Guarda che non è un gioco.” – disse Brenda in tono di rimprovero.
Rebecca sospirò. Era dal giorno prima che Brenda e Barbara si rimbeccavano a vicenda. Ne avevano parlato a lungo e avevano deciso di mettere in atto la Premonizione quella sera stessa.
Rebecca aveva spiegato loro più in dettaglio come funzionava il suo Potere e, un paio di volte, mentre erano chiuse in camera, lo aveva provato sotto i loro occhi increduli. Si era Spostata dalla camera al bagno e fu sollevata nello scoprire che, anche se era passato del tempo dall’ultima volta, era ancora in grado di farlo piuttosto bene. Certo, la distanza era minima. Spostarsi nella foresta con altre due persone sarebbe stata tutt’altra questione.
“WOW! Ma è fantastico!” – aveva esclamato Barbara tutta felice.
Rebecca sorrideva della sua eccitazione mentre lei, al contrario, cominciava a sentirsi nervosa. Aveva paura che qualcosa potesse andare storto. Ricordava molto bene come si era sentita la prima volta… e se fosse accaduto anche a Brenda e Barbara? Se si fossero sentite troppo male e fossero state costrette a tornare ad Amtara? Spostarsi non era una passeggiata di salute, soprattutto la prima volta. Era sicura che anche loro avrebbero avuto nausea e capogiri, ma poteva solo augurarsi che riuscissero a riprendersi in fretta una volta giunte a destinazione. Rebecca aveva considerato a lungo l’ipotesi di non dire nulla a riguardo, ma poi pensò che era giusto che sapessero a cosa andavano incontro. Era loro diritto saperlo, soprattutto perché erano ancora in tempo per cambiare idea.
“Io ho lo stomaco di ferro.” – disse Brenda dopo aver ascoltato Rebecca raccontare della sua prima volta.
“Lo so, ma potresti comunque sentirti male. E’ una cosa….. piuttosto forte.”
L’ultima cosa che avrebbe voluto fare era spaventarle, ma non poteva nemmeno mentire.
“A me non importa se starò male.” – replicò Barbara tranquilla. “Al massimo darò di stomaco e dopo starò meglio.”
Rebecca la fissò. “Ti entusiasma davvero tanto questa cosa.” – constatò, sorpresa.
“Altroché!” – rispose Barbara raggiante.
Brenda non condivideva molto il suo entusiasmo, preoccupata non tanto di stare male, quanto di quello che le avrebbe attese là fuori, in piena notte. Se davvero un lupo mannaro si aggirava nei dintorni di Amtara, la nausea sarebbe stata davvero l’ultima cosa di cui avrebbero dovuto preoccuparsi.
Rebecca condivideva la sua preoccupazione. Cercava di non darlo a vedere, ma non si sentiva affatto tranquilla. L'immagine della Premonizione di Brenda continuava a figurarsi nella sua mente. Sentiva le urla che, ormai ne era certa, erano quelle delle compagne rapite. Cosa avrebbe fatto una volta nella foresta? Dove sarebbe andata? Avrebbe trovato Posimaar in persona o avrebbe dovuto fare i conti con un lupo mannaro… forse proprio Garou? Sarebbe riuscita a salvare Elettra, Justine e Sandra? Sarebbe riuscita a fare in modo che non accadesse nulla a Brenda e Barbara? Sarebbe riuscita a sopravvivere lei stessa?
Con una fitta di nostalgia, ripensò a Villa Bunkie Beach, la sua casa, ripensò al profumo del mare, ai tramonti meravigliosi… li avrebbe mai più rivisti? Avrebbe udito ancora una volta il suono del mare, a lei tanto caro? O quella notte tutto sarebbe finito?
Cercò di scacciare questi pensieri mentre, dopo colazione, si avviava con le gemelle verso l’aula di Protezione. L’attendeva una giornata molto lunga e doveva fare il possibile per concentrarsi nello studio, altrimenti sarebbe impazzita prima che arrivasse sera.
“Oh, accidenti!”
Rebecca si voltò.
Brenda si era fermata e stava frugando nervosamente nella sua borsa.
“Che c’è?” – le chiese.
“Ho dimenticato in camera i libri di Protezione!”
“Vuoi che te li prenda io?” – le chiese sua sorella.
“No, ci penso io. Voi andate avanti e avvisate la Rudolf, se dovessi tardare.”
Brenda salì di corsa le scale mentre Rebecca e Brenda si avviarono in classe.
 
Venti minuti più tardi, mentre Jessica Apple si accingeva a bloccare una Maledizione Agghiacciante, Brenda non era ancora tornata.
“Ci sta mettendo un po' troppo, non trovi?” - disse Barbara a Rebecca.
Rebecca alzò le spalle. “Forse non riesce a trovare i libri.”
“E' strano. Di solito è sempre così ordinata.”
Passarono altri quindici minuti.
Barbara, ormai, si agitava inquieta sulla sedia. “Rebecca, credo che dovremmo andare a controllare.”
Rebecca assentì e alzò la mano proprio nell’istante in cui la Contromaledizione di Arianna sortiva il suo effetto sul topolino bianco.
“Eccellente lavoro, signorina Corner!” – esclamò la Rudolf, soddisfatta. Poi notò il braccio alzato di Rebecca e il suo sorriso si spense. “Che cosa c’è, Bonner?”
“Mi scusi, professoressa, ma Brenda non è ancora arrivata. Se non le dispiace, vorrei andare a controllare…”
“Sì e dille che non tollero ritardi nella mia classe.” – rispose l’insegnante gelida.
Sotto lo sguardo ansioso di Barbara, Rebecca uscì.
Corse sulle scale in direzione della loro stanza. Per qualche motivo, aveva un terribile presentimento.
Senza fiato, spalancò la porta.
La camera era vuota e la finestra aperta.
A terra, vicino al letto di Brenda, c’erano dei libri e alcuni fogli sparsi. Con il cuore in gola, Rebecca si chinò a raccoglierli. Erano i libri di Protezione di Brenda e gli appunti delle ultime lezioni.
Il sangue le si gelò nelle vene.
Rebecca deglutì, cercando di calmare il suo respiro.
Ti prego….non può essere vero….
Corse alla finestra e guardò giù.
Il giardino era vuoto. Che fine avevano fatto gli Gnomi a guardia del castello?
Con il cuore che le martellava nel petto, Rebecca si lanciò fuori dalla camera, correndo come una furia.
“Ehi, fa’ attenzione!” – le gridò dietro una fata. Rebecca non si era nemmeno accorta di esserle passata attraverso.
Spalancò la porta con un tale impeto che fece sobbalzare sulla sedia le sue compagne e la Rudolf.
“Bonner, che modi sono questi?” – tuonò l’insegnante.
“Professoressa, bisogna chiamare subito la preside!” – gridò Rebecca.
“Cosa?! E perché mai?”
“Perché un’altra Prescelta è scomparsa!”
“Che cosa vai blaterando, Bonner?” La Rudolf la guardava, smarrita.
“Brenda Lansbury.” – proseguì Rebecca, con il fiatone. “E’ sparita!”
“NO!”
Era stata Barbara a gridare, ma Rebecca non ebbe il coraggio di guardarla.
“Come sarebbe a dire sparita?” – domandò la Rudolf.
“In camera non c’è, la finestra è aperta e non ci sono Gnomi di guardia in giardino. Dev’essere stata rapita!”
In classe fu il caos. Molte Streghe si alzarono in piedi, qualcuna urlava, qualche altra cominciò a piangere.
“Dio mio… non di nuovo…” – mormorò la Rudolf, terrorizzata.
“Professoressa, non c'è tempo da perdere! Bisogna chiamare la preside!” - la incalzò Rebecca.
La Rudolf, a quelle parole, si riscosse. “La preside non è a scuola, Bonner.”
“Cosa?”
“Credo che tornerà domani.”
“Domani?!” Rebecca la fissò, incredula.
“E’ stato il lupo!” - urlò una ragazza. “E' venuto a prenderci tutte!”
“Ci ammazzerà!”
“Dobbiamo scappare!”
La Rudolf sembrò accorgersi solo allora del panico che si era scatenato nella sua classe.
Le Streghe corsero verso la porta, urlando.
“Dove andate?” - urlò l’insegnante. “Tornate indietro! E' UN ORDINE!”
Ma nessuna l’ascoltò.
Solo Barbara era rimasta seduta al suo posto, incapace di muoversi.
Rebecca corse da lei.
“Barbara... Barbara...” – disse scuotendola gentilmente.
Ma la ragazza non si mosse. Fissava il vuoto dinanzi a sé, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
“Barbara, per l'amor del cielo, ascoltami.” – ripeté Rebecca, scuotendola con maggior vigore.
Lentamente, Barbara si girò a guardarla, il volto una maschera di terrore.
“L’ha presa…” – mormorò.
“Dobbiamo andare a cercarla.” – disse Rebecca. “Presto! Non c’è un minuto da perdere!”
La prese per un braccio costringendola ad alzarsi e se la trascinò dietro.
“Dove credi di andare, Bonner?” – le gridò dietro la Rudolf, rimasta ormai sola in classe.
Rebecca la ignorò. In quel momento la Rudolf non sarebbe riuscita a fermarla nemmeno se le avesse scagliato addosso un Incantesimo Dissanguante. Il terrore che la perdita di Brenda le aveva suscitato l’avrebbe resa capace di qualunque cosa.
“Dove vuoi andare?” – le chiese Barbara, costretta a starle dietro, dal momento che Rebecca non mollava la presa sul suo braccio, facendole quasi male.
Rebecca si rese conto che Barbara non era del tutto in sé. Era comprensibile, si trattava di sua sorella. Ma quello non era il momento di farsi prendere dallo sconforto.
“Dobbiamo cercarla. Potrebbe essere riuscita a fuggire. O forse il suo aggressore è ancora nei paraggi. Dobbiamo perlustrare tutta la scuola e dobbiamo farlo ora!”
Setacciarono ogni angolo di Amtara, dai bagni comuni alle cucine, dalle aule fino ai sotterranei.
Uscirono da scuola e si spinsero fino ai confini con la foresta e poi giù, lungo il fiume, dove trovarono gli Gnomi che si scagliarono contro di loro spingendole via con le loro manine forti per farle rientrare subito ad Amtara.
Brenda era svanita nel nulla.
Tornarono in camera. Barbara sedette sul letto e cominciò a piangere.
Rebecca non ebbe più nemmeno la forza di consolarla. In fondo, piangere le avrebbe fatto bene.
Sospirò, affranta ed incredula. Non riusciva ancora a credere che fosse successo davvero. Era accaduto tutto talmente in fretta…
Se solo avesse potuto parlare con la Collins…. Dove diavolo si era cacciata? Era di nuovo andata a consultarsi con il Consiglio? Beh, ci sarebbe stato qualcos’altro di cui parlare, ora, con il Consiglio….
Si maledisse mentalmente per aver aspettato tanto, era tutta colpa sua se ora anche Brenda era stata rapita. Sarebbe riuscita a guardarsi ancora allo specchio se le fosse accaduto qualcosa di grave? E come avrebbe potuto guardare ancora negli occhi Barbara?
Brenda le aveva detto di rivolgersi alla preside fin da subito, invece lei si era ostinata a voler fare di testa sua.
Stavolta il lupo non si era fatto scrupoli ad entrare ad Amtara alla luce del giorno. Dove diavolo erano finiti gli Gnomi che avrebbero dovuto stare di guardia in giardino? Con un colpo al cuore, Rebecca pensò che forse Posimaar li aveva uccisi. Era così grande la sua sete di sangue? E se avesse ucciso anche Brenda?
Rebecca scosse la testa. Non poteva farsi prendere dal panico. Barbara era fuori di sé, doveva cercare di restare lucida per lei e per Brenda. Non poteva indugiare su quei pensieri terribili, doveva credere che Brenda fosse viva. L’avrebbero trovata…. Non sapeva come… ma l’avrebbero trovata.
 
All'ora di cena, tutta la scuola era a conoscenza del quarto rapimento. I professori ebbero un gran da fare nel cercare di tenere calmi gli animi, soprattutto senza la supervisione della preside.
“Come ti senti?” – chiese Rebecca a Barbara.
Per la prima volta da quando la conosceva, Rebecca aveva dovuto insistere per convincerla a scendere a cena.
Ma quando sedettero al tavolo, Barbara non toccò cibo.
“Come se avessi perso una parte di me.”
Rebecca non disse nulla. Non aveva fratelli né sorelle, ma aveva perso suo padre e sua madre e sapeva molto bene cosa significasse perdere qualcuno che si ama. Rebecca si era sentita annientata, svuotata, aveva perso la voglia di vivere quando Banita era morta.
Ma Brenda non era morta, si rifiutava di crederlo. Sarebbe tornata tra loro, sarebbe tornata da Barbara e dai loro genitori, avrebbe riavuto la sua famiglia. E lei avrebbe fatto di tutto per restituirgliela.
“Dovresti mangiare qualcosa.”
“Non ho fame.”
Rebecca sospirò. Si sentiva terribilmente stanca. Erano passate solo poche ore da quando Brenda era sparita e le sembrava fossero passati giorni interi. Vedere Barbara in quelle condizioni non le era certo di conforto: era molto preoccupata per lei e temeva che si sarebbe lasciata andare, invece di reagire.
Ma non voleva Spostarsi nella foresta senza di lei. Non l’avrebbe lasciata sola ed era certa che Barbara non sarebbe mai rimasta ad Amtara, soprattutto ora che sua sorella era là fuori, da qualche parte.
“Lo facciamo stasera.” – disse Barbara, improvvisamente.
Rebecca mandò giù il boccone di vitello che stava masticando. Sembrava che le avesse letto nel pensiero. “Te la senti?”
Una luce sinistra brillò negli occhi di Barbara. “Ora più che mai.”
“Sei sicura di non voler aspettare? Possiamo rimandare a domani, se oggi sei troppo scossa per farlo…”
“Non se ne parla nemmeno. Abbiamo aspettato anche troppo. Avremmo dovuto farlo prima, forse ora Brenda sarebbe ancora con noi.”
Rebecca non rispose. Barbara, proprio come lei, si sentiva in colpa per aver atteso tanto a lungo. Avrebbero dovuto andare alla ricerca di Elettra fin da subito.
“E non pensare minimamente di andare da sola.” – aggiunse Barbara in tono deciso.
Rebecca la guardò. “Non ne avevo alcuna intenzione. Abbiamo deciso di affrontarla insieme, ricordi?”
Barbara si rilassò. “Lo so, scusami.”
Rebecca allungò il braccio e le strinse la mano. “So come ti senti. La troveremo e la riporteremo a casa. Insieme.”
Barbara annuì.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 17
*** Nella foresta ***



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CAPITOLO 17
“NELLA FORESTA”
 
Stabilirono di partire verso mezzanotte. Rebecca cominciava a sentirsi nervosa, ma sapeva che doveva calmarsi, o c’era il rischio che il Potere non funzionasse. Barbara, al contrario, appariva stranamente tranquilla. Il suo atteggiamento apparentemente freddo e distaccato, però, con la convinceva. Solo fino a poche ore prima aveva pianto tutte le sue lacrime e ora era lì, serena e pacata come se non fosse successo nulla. Rebecca pensò che fosse solo concentrata su quello che stavano per fare e si augurò che l’amica riuscisse a mantenere quel sangue freddo anche dopo. Ne avrebbe sicuramente avuto bisogno.
“La smetti di camminare avanti e indietro in quel modo? Mi fai venire il mal di mare.” – le disse Barbara.
Rebecca si fermò. “Scusa, sono un po’ nervosa.”
“Beh, dovresti cercare di calmarti o rischieremo di trovarci da qualche altra parte, invece che nella foresta.”
“Hai ragione.”
Rebecca sedette sul letto, cercando di dominare l’ansia e facendo lunghi respiri.
“Hai pensato a cosa faremo una volta arrivate?”
“Perlustreremo la zona, alla ricerca di qualche indizio.”
Barbara annuì.
“Non ho idea di dove si trovi Posimaar, ma da qualche parte dovremo pur cominciare.” – continuò Rebecca. “Dobbiamo rimanere unite, ma se qualcosa dovesse dividerci…. Qualunque cosa…. Allora una di noi dovrà correre qui per dare l’allarme. Siamo intesi?”
“Intesi.”
Barbara deglutì. Forse solo in quel momento cominciò a rendersi conto del rischio che avrebbero corso. Ma non le importava. Nulla aveva più importanza, senza Brenda. Era disposta a tutto per lei, anche sacrificare la sua stessa vita, se necessario.
Ripensò a tutti i momenti che avevano passato insieme, una vita intera, senza separarsi mai. Brenda era la sua gemella, l’altra parte di lei. Come avrebbe potuto vivere se lei non le fosse più stata accanto?
“A cosa stai pensando?”
“A Brenda. Alla nostra infanzia, ai tantissimi ricordi che ho di lei, ad una vita intera passata insieme…”
“Hai paura?”
Barbara la guardò. “Ho paura di non riuscire a trovarla, non di quello che dovremo affrontare.”
“La troveremo. Andrà tutto bene.”
Barbara si sentì profondamente grata per la presenza di Rebecca. Le era di grande conforto poter condividere quel momento con lei.
“Sai, è una gran fortuna che tu abbia questo Potere.”
“Perché?”
“Perché altrimenti avremmo dovuto fare a pugni con ogni singolo Gnomo che la Collins ha messo di guardia, per poter uscire da qui.”
Rebecca sorrise. “Ti sei dimenticata delle fate.”
“Ah no, io con quelle avrei gettato la spugna da subito!”
“Anche perché è impossibile riuscire a prenderle a pugni.”
“Quelle ci avrebbero fatte passare senza problemi.” – disse Barbara tornando seria. “A loro non importa un accidente delle Prescelte.”
 
Si vestirono con calma, indossando abiti caldi e comodi.
Barbara tirò fuori qualcosa dall’armadio.
“Cosa sono?” – domandò Rebecca.
“Due mantelli. Tieni, questo è quello di Brenda.” – rispose Barbara lanciandoglielo.
Rebecca lo afferrò al volo e lo guardò, esitante.
“Fa freddo, là fuori.” – disse Barbara indovinando i suoi pensieri. “E poi ci aiuteranno a nasconderci meglio. Non si sa mai…”
Rebecca, un po’ a malincuore, lo indossò. Si sentiva un po’ a disagio nel portare qualcosa che apparteneva a Brenda, ma dovette ammettere che il mantello teneva caldo. Si legò i capelli con un elastico, per stare più comoda.
Poco prima dello scoccare della mezzanotte, erano pronte per partire.
“Pronta?” – chiese Rebecca.
“Sì.”
Barbara le si avvicinò. Rebecca chiuse gli occhi e prese un lungo e profondo respiro.
“Dammi la mano.”
Barbara obbedì.
“Ricorda, per nessuna ragione al mondo devi lasciare la mia mano, finché non saremo arrivate, ok?”
“Ok.”
Rebecca sollevò la mano sinistra, insieme a quella di Barbara, stretta nella sua e toccò con forza la stella sul polso destro.
“Alla foresta.” – disse.
Rebecca sentì i piedi sollevarsi da terra e una forza potente trascinare via di peso il suo corpo e quello di Barbara. Tutto cominciò a ruotare attorno a loro, sempre più velocemente.
“Chiudi gli occhi!” – urlò.
Barbara non rispose. Rebecca strinse ancora più forte la sua mano ma, in quel preciso istante, senti l’amica divincolarsi, come se cercasse di scappare.
Poi, la sentì urlare.
Spaventata, d’istinto Rebecca aprì gli occhi, ma fu subito assalita dalla nausea non appena vide tutto roteare intorno a lei.  Barbara era ancora accanto a lei e Rebecca le strinse la mano, più forte che poté. L’amica aveva assunto un preoccupante colorito giallognolo e non le stringeva più la mano, come se il suo corpo avesse improvvisamente perso ogni forza.
Temendo di perdere il contatto con lei, Rebecca le si fece più vicina, cercando di sostenerla con le braccia. Non doveva assolutamente permetterle di allontanarsi. Non sapeva cosa sarebbe potuto accadere, perché aveva sempre usato il suo Potere da sola, ma era meglio non rischiare.
Barbara si accasciò su di lei e Rebecca cercò di mantenere salda la presa. Cercando disperatamente di sorreggere l’amica, chiuse nuovamente gli occhi, sperando che il malessere si affievolisse almeno un po’. Non sapeva quanto avrebbe potuto resistere. Sentì dei rivoli di sudore colarle lungo la schiena. Quanto mancava, ancora? Pregò mentalmente di non aver commesso errori. Date le condizioni di Barbara, dubitava che avrebbero potuto Spostarsi nuovamente.
Rebecca l’aveva avvisata che sarebbe potuto accadere, ma lei aveva sottovalutato la cosa, scherzandoci sopra. Se solo ci fosse stata Brenda lì con lei, avrebbe potuto aiutarla a sostenerla…. Non ce la faceva più a sorreggerla….
 
Barbara pensò di essere sul punto di vomitare. Nel momento esatto in cui Rebecca si era toccata il polso, aveva sentito il proprio corpo sbalzato in aria da una forza dirompente che le aveva tolto il fiato. Subito dopo, tutto intorno a lei aveva cominciato a girare e una nausea fortissima, mai avuta prima, l’aveva colpita, obbligandola a chiudere gli occhi per non dare di stomaco. Ma poi, vinta dalla curiosità, li aveva riaperti e se n’era pentita immediatamente.
Era come trovarsi all’interno di un uragano. Barbara non distingueva né forme né oggetti, vedeva tutto ruotare vorticosamente e pensò che non avrebbe retto a quella pressione ancora a lungo. Ostinandosi a tenere gli occhi aperti, aveva lanciato un’occhiata a Rebecca, accanto a lei, che teneva gli occhi chiusi e le stringeva la mano. Sembrava stare bene, al contrario di lei.
Chiuse di nuovo gli occhi, pregando che il suo stomaco smettesse di ballare la samba, ma non fu così. Cercò disperatamente di resistere, ma il malessere, invece che diminuire, aumentò d’intensità. Se non fossero arrivate subito a destinazione, avrebbe dato di stomaco e sarebbe stato terribilmente umiliante farlo mentre Rebecca le teneva ancora la mano. Provò a lasciarla andare ma l’amica, per tutta risposta, strinse maggiormente la presa. Ricordò quello che le aveva detto, non avrebbe mai dovuto lasciarle la mano, per nessuna ragione, ma stava per sentirsi male e non voleva che accadesse con lei così vicina. Le restava ancora un briciolo di dignità…
In un ultimo barlume di lucidità, strinse i denti, cercando di ritrovare un briciolo di autocontrollo. Presto sarebbe tutto finito, doveva resistere ancora un po’… solo un po’…
Poi, le forze l’abbandonarono. Smise di lottare e si lasciò cadere nel vuoto.
 
Finalmente, dopo quelle che le erano sembrate ore, il vortice si richiuse e Rebecca fu scaraventata a terra. Riaprì gli occhi, cercando Barbara. Era stesa accanto a lei.
Rebecca si alzò e si guardò intorno, reprimendo un grido di gioia. Aveva funzionato: si erano Spostate nella foresta.
Si chinò sull’amica, preoccupata e le scostò i capelli dal viso. Sembrava che dormisse.
“Barbara.”
La ragazza non si mosse.
Provò a scuoterla un po’.
“Barbara? Ti prego, rispondimi.”
Finalmente, Barbara aprì gli occhi.
“Meno male, stavo cominciando a preoccuparmi!”
Lentamente, Barbara si tirò su. La sua faccia ora era verde.
“Stai male?” – le chiese Rebecca, un po’ in ansia.
“Puoi dirlo forte.” – gemette Barbara.
Premette una mano sullo stomaco e Rebecca pensò fosse sul punto di vomitare.
Barbara fece dei respiri profondi e Rebecca le diede il tempo di riprendersi.
“Va meglio?” – le chiese dopo un po’.
“Penso di sì.” – biascicò l’amica.
“Ma perché hai cercato di lasciarmi la mano?” – le chiese a quel punto Rebecca, cercando di nascondere la sua irritazione.
Se si fossero separate durante il viaggio non sapeva cosa sarebbe potuto succedere. Probabilmente Barbara sarebbe finita chissà dove e lei si sarebbe ritrovata a dover cercare anche lei, insieme alle Prescelte scomparse.
“Perché stavo male!” – rispose Barbara aspra. “Scusa tanto se non volevo vomitarti addosso!”
“Beh, non avresti dovuto farlo. Io non so cosa sarebbe potuto accadere se ci fossimo separate.”
“Beh, comunque adesso siamo qui, no?” – rispose Barbara con noncuranza.
Rebecca si irritò ancora di più, ma decise di lasciar perdere.
“Te l’avevo detto che sarebbe stato così.”
“Già. Ma non avrei mai immaginato di stare così male. E nemmeno di svenire!”
“E’ stato tremendo anche per me, la prima volta.”
“Non so come hai fatto ad abituarti.”
“Con il tempo ci si riesce. E comunque non avevo scelta. Avevo promesso a mia madre che avrei imparato ad usarlo. Dovevo farlo.”
Barbara non rispose. Ammirava Rebecca per il suo coraggio e si sentì un’idiota per la reazione che il suo corpo aveva avuto.
“Comunque l’importante è che ora tu stia bene. Ce la fai ad alzarti?”
“Credo di sì.”
Barbara si alzò, un po’ malferma sulle gambe. “Ce l’abbiamo fatta, a quanto pare.” – disse guardandosi intorno.
“Già. Tutta questa fatica è servita a qualcosa, dopotutto.”
“Non si vede un accidenti, però.”
“Sai… può succedere, di notte, nei boschi….” – replicò Rebecca, con una vena d’ironia.
“Il tuo sarcasmo è confortante.”
Rebecca ridacchiò.
Poi un rumore sopra le loro teste la zittì.
Barbara trasalì. “Cos’è stato?”
“Gli uccelli, credo.”
Barbara represse un brivido, per nulla tranquillizzata. “Sai, credo che faremmo meglio a muoverci.” – disse, ansiosa di andare via da lì.
“Sono d’accordo.”
“Da che parte?”
Rebecca esitò. I suoi occhi si stavano lentamente abituando al buio. Riusciva ad intravedere il sentiero tra gli alberi, di fronte a loro. Non sapeva dove le avrebbe portate, ma di certo non potevano restare lì tutta la notte. Dovevano pur cominciare da qualche parte.
Si strinse nel mantello. “Proviamo da questa parte.”
Camminarono per alcuni minuti, senza una direzione precisa. La luna faceva ogni tanto capolino tra le nuvole, illuminando lievemente il cammino.
Rebecca non aveva la più pallida idea di dove stesse andando.
“Perché non abbiamo portato una torcia?” – chiese Barbara alle sue spalle. Cercava di tenere il passo di Rebecca e ogni tanto inciampava in qualche radice. Non era facile camminare al buio.
“Per non farci scoprire.”
Barbara borbottò qualcosa che Rebecca non riuscì a capire.
All’improvviso, Barbara andò a sbattere contro qualcosa. “Ehi!”- si lamentò, massaggiandosi il naso.
Rebecca era di fronte a lei e le voltava le spalle. Si era fermata improvvisamente e lei le era andata a sbattere contro.
“Che succede? Perché ti sei fermata?”
Rebecca si voltò verso di lei. “L’hai sentito anche tu?”
“Cosa?”
“Ascolta.”
Barbara tese l’orecchio e udì distintamente il rumore dell’acqua.
“E’ il fiume Silos!” – esclamò, spalancando gli occhi.
“Penso proprio di sì.”
“Da che parte viene il rumore?”
“Da quella parte, mi pare.”
“Dovremmo andare in quella direzione. Se non altro la luna illuminerà il nostro cammino e riusciremo ad orientarci meglio. Qui nella foresta è impossibile capire dove stiamo andando.”
Rebecca sapeva che Barbara aveva ragione. Stavano camminando da un po’, ormai e non aveva idea di quale direzione avessero preso. Raggiungendo il fiume avrebbero potuto capire meglio in che punto si trovavano.
Ma prima che Rebecca potesse risponderle, udirono un fruscio poco lontano.
Istintivamente, Rebecca afferrò l’amica per un braccio e la trascinò dietro il tronco di una grande quercia lì vicino. In quell’istante, la luna rischiarò il volto di Rebecca e Barbara riuscì a vederla distintamente portarsi l’indice sulle labbra, intimandole di fare silenzio. Con il cuore in gola, annuì.
Rimasero immobili, in attesa, cercando di appiattirsi il più possibile contro l’albero, che fortunatamente era grande abbastanza da riuscire a celare entrambe.
Di nuovo, qualcosa si mosse tra le foglie, stavolta più vicino.
Barbara si posò una mano sul petto, pensando che il cuore sarebbe potuto esploderle da un momento all’altro. Trattenne il fiato, poi quello che vide la inorridì. Rebecca, in modo del tutto incosciente, si era sporta al di fuori del tronco, per scoprire la fonte di quel rumore. Subito dopo, si ritrasse, addossandosi di nuovo contro l’albero.
Barbara le lanciò uno sguardo interrogativo, che Rebecca non riuscì a vedere.
Barbara sentì l’amica posarle una mano sulla bocca. Avrebbe tanto voluto dirle che non era lei quella che stava facendo di tutto per farsi scoprire, ma la situazione la costrinse a tacere.
Poi, spinta dalla curiosità, azzardò a sporgere leggermente la testa oltre il tronco, avendo cura di restare nascosta con il resto del corpo. Per poco non lanciò un urlo quando vide, a pochi passi da loro, la sagoma di un uomo. Non riuscì a vedere nulla, finché la luna non arrivò ad illuminarne il volto per qualche secondo.
Fu sufficiente per far perdere un battito al cuore di Barbara, che ritrasse immediatamente la testa, coprendosi la bocca con entrambe le mani per non mettersi a urlare.
Restarono nascoste ancora un po’, fino a quando non udirono i passi dell’uomo allontanarsi nella direzione opposta.
“Oh mio Dio!” – gemette Barbara a voce bassissima, nel timore che l’uomo potesse ancora sentirla. “Non ci credo! Non può essere vero!”
Scuoteva la testa, ancora incredula per quello che aveva visto.
“Visto?” – fece Rebecca trionfante. “E tu e Brenda l’avete sempre difeso! Lo dicevo io che aveva qualcosa di strano! Ah, quell’uomo non mi è mai piaciuto, e ora capisco perché!”
Rebecca tacque, cercando di riprendere fiato. La scoperta appena fatta le aveva fatto ribollire il sangue nelle vene e ora ansimava, come dopo una lunga corsa.
Aveva sempre avuto ragione lei, fin dall’inizio.
L’uomo nella foresta era Garou.
“Dove vai?” – le chiese Barbara sentendola muoversi.
“Come dove vado? Dobbiamo seguirlo, no?”
“E se ci scopre?” – replicò Barbara con voce acuta.
“Faremo in modo che non ci scopra.”
Rebecca le afferrò la mano e corse nella direzione opposta da quella che avevano percorso finora, per quanto la visuale le permettesse.
Non appena tornarono ad udire lo scricchiolio dei passi di Garou sulle foglie, rallentarono il passo, avendo cura di rimanere celate ai suoi occhi. Rebecca, per la prima volta quella notte, fu grata al buio della foresta, che la nascondeva al suo nemico e allo stesso tempo le permetteva di inseguirlo. Nel momento in cui aveva scoperto che Garou era lì di fronte a lei, un impeto di gioia le aveva riempito il cuore. Ora sapeva che era lui il colpevole, il lupo mannaro che aveva rapito le Streghe. Non dovevano fare altro che seguirlo e lui le avrebbe condotte dritte al suo nascondiglio, dove probabilmente teneva prigioniere le Prescelte. Rebecca pregò in cuor suo che fossero ancora vive. Tutto quello che avrebbe dovuto fare era mettere in salvo le amiche e consegnare il traditore alla Collins, poi ci avrebbe pensato lei a sistemarlo a dovere.
Si domandò se la preside sapesse di aver assunto un licantropo. Probabilmente no. Dubitava che avrebbe mai potuto mettere spontaneamente le Prescelte nelle mani di una creatura tanto pericolosa. Garou doveva essere una spia di Posimaar, infiltrata ad Amtara per agire dall’interno.
E c’era riuscito, dannazione a lui. Ma non aveva ancora fatto i conti con lei, che era stata l’unica ad averlo smascherato. Provò ad immaginare la sua faccia, quando l’avrebbe vista arrivare. Di certo non si aspettava che Rebecca fosse andata a cercarlo. Garou non aveva la minima idea di essere stato scoperto e questo era indubbiamente un elemento a suo favore. Avrebbe dovuto agire molto velocemente, giocando sul fattore sorpresa.
Eppure, Garou era stato maledettamente bravo a non lasciare tracce. Rebecca lo aveva pedinato per giorni interi, senza riuscire a scoprire nulla di insolito nelle sue attività giornaliere. Per forza, all’inizio aveva agito di notte. Solo con Brenda si era azzardato a colpire in pieno giorno.
Era stato bravo, doveva riconoscerlo.
Camminarono a lungo, cercando di trattenere il respiro, per non farsi scoprire. Mai come in quel momento la foresta era sembrata tanto silenziosa. Rebecca sentiva Barbara dietro di sé tenere il passo. Garou aveva accelerato, probabilmente la sua destinazione era vicina. Rebecca non aveva alcun dubbio sul fatto che le stesse conducendo dalle Prescelte.
Poi, del tutto inaspettatamente, il professore si fermò.
Rebecca e Barbara fecero appena in tempo a nascondersi dietro il primo albero, prima che l’uomo si voltasse di scatto.
Trattennero il fiato, con il terrore di essere state scoperte.
Rebecca represse un’imprecazione. Non doveva finire così, aveva puntato tutto sul fattore sorpresa e ora Garou si era accorto di essere pedinato.
Aspettandosi da un momento all’altro di vederselo comparire di fronte, Rebecca pensava febbrilmente a cosa fare. Avrebbe potuto tirargli un pugno e fuggire via, oppure affrontarlo come si conveniva ad una Prescelta, usando la magia.
In fondo, non era sola, c’era Barbara con lei. Per quanto Garou potesse essere spietato, sarebbero pur sempre stati due contro uno. A meno che, naturalmente, Garou non avesse deciso di trasformarsi in lupo. In quel caso, Rebecca dubitava che ne sarebbero mai uscite vive…
Contrariamente alle sue aspettative, però, Garou non si mosse.
Poi, riprese il cammino, come se nulla fosse.
Rebecca e Barbara ricominciarono a respirare.
“Ho creduto di morire.” – borbottò Barbara, pallidissima e tutta sudata.
“A chi lo dici. Forza, andiamo!”
In pochi istanti raggiunsero di nuovo Garou, facendo attenzione a porre maggiore distanza tra lui e loro, onde evitare che stavolta le scoprisse davvero.
Giunsero ad una radura.
Restarono nascoste, cercando Garou, che pareva essersi volatilizzato nel nulla.
“Dove diavolo è finito?” – si domandò Rebecca ad alta voce.
“Era qui poco fa.” – replicò Barbara sconcertata.
Dovevano essersi allontanate di molto, perché il fiume ora era solo un gorgoglio lontano.
“Dove siamo?” – chiese Barbara.
“Non lo so.”
Poi udirono un rumore di sassi.
Rebecca udì un grido strozzato e si voltò. Era Barbara, che ora si teneva una mano sulla bocca, indicando qualcosa con l’altra.
Rebecca seguì la direzione della mano e inorridì. Non molto distante dalla radura, lungo un sentiero ripido e roccioso, una figura s’inerpicava faticosamente.
“E’ lui.” – disse Rebecca.
“Dove sta andando?”
“Con ogni probabilità, nel posto dove tiene prigioniera tua sorella.”
“Allora seguiamolo.”
Rebecca annuì.
Si avviarono lungo lo stesso sentiero e cominciarono a salire.
“Fai attenzione a non scivolare.” – disse Rebecca, precedendola nel cammino.
Salirono per un po’, fermandosi di tanto in tanto per riprendere fiato. La salita era molto ripida e non era molto sicuro percorrere quel sentiero al buio. Rebecca cercava di non guardare giù e intimò a Barbara di fare lo stesso.
“Dov’è finito?” – chiese Barbara qualche minuto più tardi, durante una sosta.
Rebecca seguì il suo sguardo, verso l’alto.
Garou era nuovamente sparito.
“Ma che diavolo…” – mormorò Rebecca, frustrata.
All’improvviso, un urlo lacerante squarciò il silenzio della notte. Era la voce di una donna e proveniva da un punto imprecisato sopra di loro.
Rebecca sentì i peli drizzarsi sulla nuca. Quel grido era stato a dir poco raccapricciante, come di qualcuno che venisse sgozzato. Reprimendo un brivido, s’impose di calmarsi. Con ogni probabilità Garou teneva prigioniere le Streghe da qualche parte all’interno della montagna e quella voce non poteva che appartenere ad una di loro.
Dio, ti prego, fammi arrivare in tempo….
“Cos’è stato?” – chiese Barbara con un filo di voce.
Rebecca non ebbe il coraggio di rispondere. Per quanto ne sapeva, quella poteva anche essere la voce di Brenda…
Ma non ci fu bisogno di parlare. Udì Barbara cominciare a piangere e si voltò, cercando di non perdere l’equilibrio sul sentiero stretto e ripido.
“Barbara, ti prego…”
“Hai sentito anche tu, vero? E se fosse Brenda? E se stesse per ucciderla? O magari è già morta…”
Barbara era disperata e Rebecca fece qualche passo in discesa verso di lei.
“Ti prego, calmati…”
Ma Barbara singhiozzò ancora più forte.
“Ascoltami, non è questo il momento di farsi prendere dal panico. Ormai ci siamo quasi, siamo venute fin qui per questo. Sono sicura che non è successo niente, ma dobbiamo andare avanti o sarà stato tutto inutile.”
“L-lo so… Ma non sappiamo nemmeno dove stiamo andando.”
“Dobbiamo salire ancora più su. Sono certa che troveremo il punto esatto. Ma dobbiamo muoverci.”
Rebecca lanciò un’occhiata al sentiero sopra di loro. La visuale era molto limitata. Doveva esserci un’apertura, da qualche parte, attraverso la quale sicuramente era sgattaiolato Garou. Maledì mentalmente il buio della notte che non le permetteva di vedere ad un palmo dal naso. Sarebbe stato molto difficile trovare il nascondiglio in quelle condizioni.
Poi, all’improvviso, spalancò gli occhi, colpita da una rivelazione.
Ma certo! Che razza di idiota! Perché non ci aveva pensato prima?
“Barbara, ascoltami. Ricordi la Premonizione di Brenda?”
“Sì, ma questo adesso cosa c’entra?”
“Brenda mi ha visto Spostarmi da sola, giusto?”
Barbara corrugò la fronte. “Ma…”
“Devo andare da sola.”
“No, è troppo pericoloso.”
“Grazie al mio Potere troverò il nascondiglio di Garou.”
“Ma io posso venire con te.”
“No. Staresti di nuovo male e non possiamo permetterci nessun passo falso in questo momento.”
Barbara tacque.
Rebecca, temendo di aver osato troppo, proseguì in tono più dolce “E’ così che deve andare. Tutto combacia alla perfezione. Per questo Brenda ha visto solo me nella Premonizione. Devo farlo io. E poi ho bisogno che tu stia qui fuori, di guardia, in caso…. In caso dovesse accadermi qualcosa…”
Aveva considerato anche quella possibilità. Se fossero andate insieme e le cose fossero andate male, nessuno avrebbe potuto dare l’allarme ad Amtara. Così, invece, Barbara avrebbe potuto avvisare la Collins, o comunque mettere in salvo le Prescelte se lei fosse riuscita a liberarle e, per disgrazia, non fosse riuscita ad uscire viva da lì. Non era un pensiero molto confortante, ma quello che più contava, ora, era pensare a portare in salvo le loro compagne. Tutto il resto passava in secondo piano, anche la sua stessa vita.
C’era un motivo se le era stato offerto in dono quel Potere. Non era un privilegio qualunque e, nonostante finora non l’avesse apprezzato come avrebbe dovuto, per la prima volta Rebecca si rendeva conto di che regalo prezioso le era stato fatto. Il Potere ora era l’unica possibilità che aveva fra le mani per salvare la vita a quattro persone…. Sperando che fossero ancora vive.
Non l’avrebbe sprecato.
“Ma come farai ad affrontare Garou da sola?” – le chiese Barbara, in ansia.
“Ho il mio Potere, stai tranquilla.”
In realtà, Rebecca ostentava una sicurezza che non provava affatto. Sapeva a cosa andava incontro e la morte era una possibilità. Ma per nulla al mondo si sarebbe tirata indietro, anche se la paura cominciava a provocarle una dolorosa fitta al di sotto dello stomaco.
Non poteva condividere il suo tormento con Barbara, già duramente messa alla prova dal viaggio e dalla paura per sua sorella. Indubbiamente, tra le due, quella più lucida, in quel momento, era Rebecca.
Ora era assolutamente necessario che Barbara accettasse la sua proposta e che lo facesse subito. Non c’era più tempo da perdere. Ogni minuto che perdevano poteva significare un minuto di vita in meno per le loro amiche.
Barbara non rispose. Da una parte si sentiva una vigliacca all’idea di abbandonare Rebecca proprio in quel momento. Dall’altra, capiva che la sua idea aveva comunque un senso. Usando il suo Potere, Rebecca avrebbe guadagnato del tempo prezioso e avrebbe potuto raggiungere le ragazze più facilmente. Inoltre, Barbara non poteva permettersi di Spostarsi di nuovo, con il concreto rischio di stare ancora male. Non sarebbe stata di alcun aiuto a Rebecca con lo stomaco in subbuglio e la pressione sanguigna sotto le scarpe.
Si vergognò miseramente di sé stessa… non avrebbe mai creduto di stare male al punto da costituire un intralcio invece che un aiuto per Rebecca.
“Ricordi cosa ti ho detto prima di partire?” – riprese Rebecca. “Se le cose dovessero andare male, una di noi due correrà a scuola a dare l’allarme.”
“Ma come avrò la certezza che… che le cose sono andate male?”
Rebecca deglutì. Avrebbe preferito non dover affrontare quel discorso, ma sapeva perfettamente a cosa stava andando incontro. C’era la concreta possibilità che lei non facesse ritorno. Tuttavia, non voleva spaventare Barbara oltre il dovuto.
“Calcola un’ora.” – rispose. “Se non tornerò entro un’ora, allora corri ad Amtara.”
Barbara emise un gemito strozzato. “Oh Rebecca…”
“Se vuoi rivedere Brenda viva, devi fare come ti dico.” – replicò in tono secco, inghiottendo il groppo che le era salito in gola.
Non poteva farsi vedere da Barbara in quello stato e non poteva lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento proprio adesso. Aveva bisogno di tutto il suo sangue freddo per affrontare Garou.
“Ti prego, fai attenzione.” – mormorò Barbara.
Rebecca annuì. “Ci vediamo presto.”
Poi, si toccò il polso destro.
“Alla montagna.”
La potenza del Potere di Rebecca fu tale che Barbara, del tutto inaspettatamente, ne fu colpita suo malgrado. Fu scaraventata qualche metro più in basso dal vortice che aveva investito Rebecca e andò a sbattere violentemente con il sedere sopra un grosso sasso.
Imprecò ad alta voce e si rialzò in piedi, massaggiandosi il didietro dolorante con una smorfia. Guardò in alto e vide Rebecca svanire in un turbine di polvere.
Poi, fu di nuovo il silenzio e si ritrovò sola.
 
 
 
 

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Capitolo 18
*** Nella tana del lupo ***



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Capitolo 18
“NELLA TANA DEL LUPO”
 
“Ahi!” – gemette Rebecca.
Il vortice l’aveva scaraventata a terra ed era atterrata sulla roccia fredda e umida.
Si alzò in piedi lentamente, guardandosi intorno guardinga, nel timore che Garou fosse lì vicino e potesse accorgersi di lei.
Il Potere doveva aver funzionato. Si trovava sicuramente all’interno della montagna, a giudicare dall’umidità e dal buio pesto che la circondava. Non c’era più la luna a rischiarare il cammino, ora.
Alzò le braccia, alla ricerca di un appiglio. Le sue mani toccarono una fredda parete bagnata. Doveva trovarsi dentro una specie di grotta, o forse un tunnel.
Era un buon segno. Sicuramente lì attorno, da qualche parte, Garou aveva nascosto le Prescelte.
Aveva fatto un buon lavoro. Nessuno si sarebbe mai sognato di andarle a cercare oltre la foresta, all’interno di una montagna. Se Brenda non avesse avuto quella Premonizione, Rebecca non avrebbe mai trovato quel nascondiglio. Benedisse mentalmente la Premonizione dell’amica, pregando con tutto il cuore che fosse ancora viva.
Tese l’orecchio, ma nella grotta c’era un silenzio assoluto, spettrale. Non poteva restare lì ferma. Per quanto le incutesse paura l’idea di avanzare al buio e a tentoni, non le restava altro da fare.
E così fece. Tenendo le mani ben salde lungo la parete, avanzò a piccoli passi. Il suono delle sue scarpe sul pavimento umido faceva un rumore infernale, o almeno così le sembrò. Poteva solo augurarsi che Garou fosse molto lontano, o si sarebbe accorto della sua presenza.
Avanzò, un passo dopo l’altro, barcollando un po’, fino a quando la sua spalla destra non urtò contro qualcosa. Un po’ dolorante, sollevò il braccio per cercare di capire cosa avesse arrestato il suo cammino. Era, di nuovo, roccia umida. Seguì con la mano tutta la superficie, il passaggio deviava leggermente a sinistra.
Senza mai staccare le mani dalla roccia, proseguì ancora.
Dov’era Garou? Con una fitta di paura, Rebecca pensò che, per quanto ne sapeva, poteva anche trovarsi lì vicino. Magari aveva sentito il suo odore, o i suoi passi… E se fosse pronto a tenderle un agguato? Rebecca era senza difese. Non vedeva niente ed era terrorizzata. Come sarebbe riuscita a difendersi lì da sola, senza alcun aiuto?
Certo, aveva sempre il suo Potere. Sarebbe potuta fuggire e tornare da Barbara, ma non avrebbe mai trovato le Prescelte. Oppure avrebbe potuto lottare con le unghie e con i denti contro il suo nemico, sperando di non morire.
Entrambe le prospettive non erano molto allettanti.
Non aveva scelta, doveva proseguire e rischiare il tutto per tutto.
Cercando di ignorare l’immagine di Garou che le compariva alle spalle trasformandosi in un lupo gigantesco, continuò a camminare.
Di nuovo, il suono dei suoi passi produsse un’eco assordante all’interno della montagna.
Rebecca si fermò.
Non poteva continuare così, rischiando di essere scoperta da un momento all’altro.
Doveva togliersi quelle dannate scarpe.
Si inginocchiò per sfilarsele, rabbrividendo nell’attimo in cui i piedi poggiarono sul pavimento gelido.
Sollevò nuovamente le mani per toccare la pietra e proseguì il cammino, notando, con immenso sollievo, che i suoi passi ora erano silenziosi e felpati come quelli di un gatto.
Improvvisamente, con il cuore in gola, si fermò.
Le era sembrato di aver sentito una voce.
Con il cuore che le martellava furiosamente nel petto, rimase in ascolto.
Udì di nuovo qualcosa. Sembrava la voce di un uomo, ma era troppo lontana per distinguere chiaramente la sua origine. Avrebbe potuto trattarsi della voce di Garou, o di una delle Prescelte. Era impossibile dirlo con certezza.
In ogni caso, pensò Rebecca con espressione di trionfo, era la strada giusta. Il Potere l’aveva portata esattamente dove voleva andare. Benedicendo dentro di sé Banita, per averle rivelato quel segreto prima di andarsene per sempre, Rebecca ebbe voglia di urlare. Finalmente stava per portare a termine il suo piano. Finalmente si sarebbe trovata faccia a faccia con Garou. Finalmente, la resa dei conti era arrivata.
Ma cos’avrebbe fatto una volta lì?
Come avrebbe liberato le compagne? E soprattutto, in che condizioni le avrebbe trovate? Rebecca, finora, non ci aveva pensato, ma se le sue amiche non fossero state in grado di camminare sulle proprie gambe verso la salvezza, come le avrebbe fatte uscire da lì? L’unica soluzione possibile sarebbe stato, di nuovo, il Potere, ma questo avrebbe significato rivelare il suo segreto a tutte le Prescelti presenti nella grotta.
Non poteva permetterselo.
Augurandosi che non fosse troppo tardi e che le Prescelte stessero bene, si costrinse ad andare avanti.
Calma. Devi stare calma.
Andrà tutto bene.
Camminò ancora, fino a quando non udì nuovamente delle voci.
Stavolta erano molto più vicine e poté distinguere chiaramente una voce maschile, bassa e profonda.
Avanzò ancora di qualche passo fino a quando non vide una luce.
Doveva essere arrivata alla fine della grotta, nel cuore della montagna.
Si acquattò un po’, per non essere vista e trattenne il fiato.
Due torce illuminavano la grotta. Un uomo, di media statura, le dava le spalle, poco lontano da lei.
Davanti a lui, dentro una prigione, c’erano quattro giovani donne.
Rebecca le riconobbe, una ad una.
Erano le Prescelte scomparse.
Grazie al cielo erano vive.
Anche da quella distanza, Rebecca poteva notare che non erano indubbiamente nella loro forma migliore, ma tutte e quattro sembravano comunque stare bene.
Brenda, Elettra e Justine erano in piedi di fronte a lui. Sandra, invece, era in ginocchio, a terra e piangeva.
Rebecca guardò l’uomo di fronte a lei, che le dava ancora le spalle e si sporse leggermente per poterlo osservare meglio. In quel momento si accorse che stava ridendo, ma era una risata gutturale e priva di gioia.
“Siete veramente delle povere ingenue.” – gracchiò l’uomo.
Il cuore di Rebecca perse un colpo.
Non può essere…
Si aggrappò con più forza alla roccia bagnata davanti a lei, fino a farsi sbiancare le nocche.
Non poteva essersi sbagliata. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille, una voce che aveva sempre interpretato come quella di un uomo posato, calmo, riflessivo, dotato di grande acume e un po’ sognatore.
Quella era la voce del professor Cogitus.
 
“Ingenue come lei, che è tanto convinto di riuscire a farla franca.”
Rebecca non si era ancora ripresa dallo shock, quando alzò gli occhi verso Elettra.
Era stata lei a parlare.
I suoi occhi lanciavano fiamme e Rebecca non scorse la minima traccia di paura sul suo viso. Provò uno slancio di ammirazione per lei.
Il professore soppesò per un istante le sue parole.
“Sei molto sicura di te, Gambler.” – disse, in tono posato.
Elettra si limitò a fissarlo con sguardo omicida.
“Insomma, si può sapere cosa vuole da noi?”
Stavolta era stata Brenda a parlare. Rebecca notò che aveva i capelli arruffati e gli occhi lucidi.
Vide Cogitus avvicinarsi a loro, tenendosi a distanza dalle sbarre di ferro che delimitavano il ristretto spazio in cui erano imprigionate.
“Brenda Lansbury.” – disse, pronunciando lentamente il suo nome.
Brenda, per nulla intimorita, sostenne il suo sguardo, senza mai abbassare gli occhi.
“Tu sei sua amica, vero?”
Il respiro di Brenda accelerò. “Cosa vuole da Rebecca? Perché la sta cercando?”
A Rebecca per poco non prese un colpo. Trattenne il fiato, cercando di placare il battito accelerato del suo cuore.
Cogitus stava cercando lei?
“Vuole ucciderla?”
Stavolta era stata Justine a parlare.
Dalla gola di Cogitus uscì un’altra risata sinistra che le fece venire la pelle d’oca.
La mente di Rebecca lavorava velocemente, cercando di ricomporre i pezzi di un puzzle che credeva di aver completato e che, al contrario, era andato in frantumi nell’attimo stesso in cui si era ritrovata di fronte il professor Cogitus, al posto di Garou.
Dove diavolo era finito Garou? Era sicura che fosse entrato all’interno della montagna, non poteva essersi sbagliata. Eppure, a quanto pareva, il complice di Posimaar era Cogitus, non lui.
Rebecca stentava ancora a crederci. Com’era possibile che dietro quell’insegnante apparentemente così posato e tranquillo si nascondesse invece un demonio? Non l’aveva mai sentito parlare con quel tono, non l’aveva mai udito ridere così sguaiatamente. Chi era davvero Cogitus? E perché la stava cercando? Se davvero lavorava per il Demone Supremo, allora questo poteva significare solo una cosa: Posimaar stava cercando lei.
Ma per quale motivo?
“Sei perspicace, mia cara Delacroix.” – rispose Cogitus in tono gelido.
“E’ Posimaar che la manda, non è vero?” – chiese Elettra.
“Questo non è affare che ti riguarda!”
“Altrochè se mi riguarda! Riguarda tutte noi, dal momento che ci ha portate qui!”
Cogitus non rispose e, per Elettra, quella fu la conferma dei suoi dubbi. Ma non era abbastanza, voleva sentirlo direttamente dalla sua bocca.
“Andiamo! Ormai può confessarlo. Tanto non usciremo vive da qui, giusto?”
Rebecca sussultò a quelle parole. Elettra aveva fegato da vendere.
Non sapeva a che gioco stesse giocando, ma le sue parole scatenarono una violenta reazione nella povera Sandra che, sempre accasciata a terra, ricominciò a piangere. Rebecca vide Justine chinarsi su di lei, tentando di confortarla.
Elettra scrutava il professore con sguardi di fuoco. Rebecca, ancora una volta, ammirò il suo coraggio. Tra tutte le compagne, sembrava quella più ardita. Non sembrava assolutamente aver paura di lui ma, anzi, provava quasi piacere nello stuzzicarlo.
Rebecca pensò che stesse giocando col fuoco e si tenne pronta ad intervenire, qualora Cogitus avesse deciso di attaccare.
“Hai ragione, Gambler. Non vedo perché non dovrei dirvelo, visto che tra pochi istanti sarete tutte morte.”
Rebecca udì Sandra lanciare un grido strozzato, tra le lacrime.
“Oh, sta zitta!” – abbaiò Cogitus verso di lei.
Elettra, temendo forse una qualche reazione contro Sandra, rincarò la dose. “Coraggio, professore. Stava dicendo?”
Cogitus riacquistò subito il controllo. “Sì, è il Demone Supremo ad avermi mandato qui, in questa dannatissima scuola.”
Rebecca trasalì. Dunque era vero, Cogitus lavorava per Posimaar.
E Posimaar voleva uccidere lei.
Perché?
Vide Brenda spalancare la bocca, in un’espressione di puro terrore. “Rebecca aveva ragione…” – mormorò, sconvolta. “Ma pensava si trattasse di Garou…”
Rebecca fissava l’amica, sconcertata.
Ad Amtara esisteva realmente una spia di Posimaar, ma non era Garou.
Cogitus rise di nuovo. “Davvero un’idiota la vostra amica, vero? D’altra parte, come darle torto? Garou era il sospettato ideale. Così duro, arrogante, arcigno, con quei modi di fare così sprezzanti. Semplicemente odioso, vero?”
“Già.” – rispose Elettra, con evidente sarcasmo. “Invece lei era al di sopra di qualunque sospetto, giusto? Il professore disincantato, quello che non dava mai compiti, sempre con quell’aria sognante, perennemente perso nei suoi pensieri, incurante di tutto ciò che lo circonda. Chi mai avrebbe sospettato di uno come lei?”
“Ho interpretato bene la mia parte, non trovi, Gambler?”
“Mai fidarsi delle apparenze.” – rispose Elettra.
“Eppure vi siete fidate. Tutte quante. Inclusa quella stupida della vostra preside, che mi ha accolto a braccia aperte ad Amtara.”
Rebecca era sconvolta. Era riuscita a rimanere in piedi solo perché aveva appoggiato la schiena alla fredda parete dietro di lei, altrimenti sarebbe crollata a terra, proprio come Sandra.
Aveva sbagliato tutto. Garou era innocente. Era Cogitus il nemico da combattere.
Non solo. Ora sapeva che Posimaar non stava dando la caccia alle altre Prescelte, ma a lei. Per questo le aveva rapite? Perché sapeva che lei sarebbe andata a cercarle? Era una trappola destinata solo ed esclusivamente a lei?
Ma perché Posimaar voleva ucciderla? Cosa sapeva di lei? Era forse a conoscenza del suo Potere? Impossibile. Nessuno, a parte Brenda e Barbara, conosceva il suo segreto.
“Ci ha rapite per arrivare a lei, non è così?” – gli chiese Elettra.
“Certo.” – rispose Brenda, anticipando la risposta di Cogitus. “Ma il punto è perché il Demone Supremo vuole uccidere Rebecca?”
Brenda le aveva letto nel pensiero. Rebecca trattenne il fiato, in attesa della risposta di Cogitus.
Forse ora avrebbe saputo la verità.
Ma il professore si strinse nelle spalle. “Quando arriverà lo scoprirai.”
“Cosa le fa credere che stia per arrivare?” – domandò Elettra.
Cogitus rise ancora. “Mi credi tanto stupido? Sappiamo tutti quanto sia generosa ed altruista. Non lascerà nulla di intentato, pur di salvare le sue adorate amichette. Sono sicuro che verrà. Anzi, per dirla tutta, sono sorpreso che non sia già qui…”
“Come vede non l’ho delusa, professore.”
Le quattro Prescelte sussultarono non appena Rebecca uscì allo scoperto pronunciando queste parole. Perfino Sandra alzò la testa, fissandola sbigottita.
“Rebecca!” – gridò Brenda.
Rebecca si fece avanti, fino a trovarsi faccia a faccia con Cogitus.
L’uomo sembrava sorpreso di trovarla lì, a dispetto delle sue parole. Forse non credeva davvero che sarebbe arrivata?
“Pazza…” – mormorò Elettra, scuotendo la testa.
Rebecca non ci aveva pensato due volte. Aveva sentito abbastanza, per quella sera e, d’altra parte, non avrebbe avuto alcun senso restare ancora nell’ombra. Era arrivata fin lì per liberare le sue amiche, poco importava se il suo nemico fosse Cogitus piuttosto che Garou.
Cogitus aveva organizzato tutto questo per arrivare a lei e non si sarebbe tirata indietro.
“Bene bene bene….” – disse Cogitus, riprendendosi subito dalla sorpresa. “Rebecca Bonner. Finalmente!”
“Ho sentito che mi stava aspettando, professore.” – rispose, ponendo l’accento sull’ultima parola.
“Lupus in fabula, direi.” – rispose Cogitus, esplodendo in una risata sguaiata che le fece accapponare la pelle.
A Rebecca non sfuggì l’allusione e un brivido di paura le percorse la schiena.
Non aveva dimenticato che Giorgia aveva detto che era stato un lupo a rapire Sandra.
“Da quanto tempo sei qui? Hai ascoltato ogni parola?” – le chiese Cogitus, gli occhi ridotti a due fessure.
“Abbastanza da sapere quel che dovevo sapere.”
“Ovvero?”
“Ovvero che Posimaar sta cercando me, giusto? E che lei è la sua spia. Dunque, ha compiuto il suo dovere. Mi ha trovata. Ora le lasci andare, loro non c’entrano niente. Questa è una questione tra me e lei.”
Rebecca aveva deciso di giocare la carta della ragionevolezza, anche se non era sicura che Cogitus avrebbe accettato le sue condizioni tanto facilmente.
Infatti, il professore scoppiò a ridere. “Credi di cavartela così?”
“Le serviva un mezzo per arrivare a me. Io sono qui. Le lasci andare.” – replicò con fermezza.
“Tu non sei nella posizione di dare ordini!” – disse Cogitus alzando la voce.
“Oh no, non mi permetterei mai! A quello ci pensa già il Demone Supremo, giusto? Professore?”
Rebecca vide chiaramente Justine portarsi le mani alla bocca.
Anche le altre la fissavano sgomente, trattenendo il fiato.
Si era spinta oltre e lo sapeva.
“Come osi?” – sibilò Cogitus.
“Non ho detto forse la verità? Non prende ordini da Lui? Mi domando quale grossa ricompensa le ha promesso, per indurla a fare tutto quel che ha fatto.”
Cogitus prese tempo, scrutandola attentamente. Non aveva alcuna intenzione di reagire alle sue provocazioni.
“Sei veramente una stupida, Rebecca Bonner.”
“E questo perché? Perché non ho paura di lei?
“Oh no! Non per questo, no…. Ma perché sei convinta che lascerò andare le tue amiche solo perché sei arrivata tu.”
Rebecca perse d’un colpo tutta la sua baldanza.
“Loro non hanno niente a che vedere con tutta questa storia.”
“Oh, lo so. Hai ragione. Sì….. in effetti….. è un vero peccato che debba finire così….”
A quelle parole, Rebecca cominciò a tremare.
Aveva tentato la carta del buon senso, prima, e della spavalderia, poi. Ma non era servito a niente.
Cogitus non era così ingenuo e nemmeno stupido.
Doveva immaginarlo. Sarebbe stato troppo facile ottenere la liberazione delle Prescelte senza nulla in cambio. Ma ora Rebecca capiva che, probabilmente, l’intenzione di Cogitus era di ucciderle tutte. Non gli importava di liberare le Streghe e forse non ne aveva mai avuta l’intenzione.
Disperata, non gli toglieva gli occhi di dosso, mentre il professore camminava su e giù davanti a lei, tenendosi pronta ad un eventuale attacco che, ne era certa, prima o poi sarebbe arrivato.
“Sai, mi sono divertito un mondo a scatenare il panico a scuola.” – riprese Cogitus. “Ero certo che nessuno avrebbe mai sospettato di me, nemmeno quando quell’idiota di Gambler ha preteso l’intervento del Consiglio dopo che sua figlia era sparita.”
Nel sentire il nome di suo padre, Elettra emise un grugnito, che Cogitus ignorò.
“Il Demone Supremo mi ha lasciato carta bianca. Potevo agire a mio piacimento, purché riuscissi a mettere le mani su di te, Bonner.”
Cogitus ridacchiò. “Oh sì. Avrei potuto farlo in mille modi diversi, più in fretta, anche. Ma, ne sono certo, non mi sarei divertito allo stesso modo. Sapevo che la tua grande generosità non ti avrebbe permesso di restare indifferente di fronte alla scomparsa delle tue amiche. Così, dopo Gambler, ho preso Delacroix, la sua compagna di stanza. Credevo ne bastassero due. E invece no. Sei stata un osso duro, molto più del previsto.”
Rebecca ripensò alla Premonizione di Brenda e a tutte le volte in cui aveva pensato al momento in cui si sarebbe avverata. Ora sapeva che la decisione finale spettava solo a lei. Avrebbe dovuto seguire subito il suo istinto, agire secondo quello che le dettava il cuore.
“Così, ci ho riprovato con Penny, ma solo quando ho catturato la tua amica Lansbury ti sei decisa ad entrare in azione.”
“E’ stato solo un caso.” – disse Rebecca, sulla difensiva.
“Ne sei sicura?”
Rebecca non rispose. Cogitus non sarebbe mai riuscito a farle ammettere che la vita di Brenda contava più di quella delle altre.
“Eppure, guarda caso, ora sei qui.”
Nel vedere la sua espressione, Cogitus ridacchiò. Rebecca sentì di odiarlo con tutte le sue forze.
“Chissà, se avessi preso subito Lansbury, forse avremmo risolto la faccenda molto tempo fa.”
“LA SMETTA!” – urlò Rebecca.
“Oh oh oh! A quanto vedo, ho colpito nel segno.” – disse il professore, compiaciuto.
“Sta solo cercando di confonderti, Rebecca!” – gridò Brenda.
Cogitus si voltò a guardarla e Brenda indietreggiò di un passo.
Il professore sogghignò. “Hai paura, Lansbury?”
“La lasci stare.” – disse Rebecca.
“TU NON SEI NELLA POSIZIONE DI DARMI ORDINI, BONNER!” – ruggì Cogitus.
Rebecca ammutolì, pallida come un morto. Per la prima volta vide Cogitus veramente arrabbiato.
Tacque, trattenendo il respiro e chiedendosi quale sarebbe stata la sua prossima mossa.
Anche Brenda tacque, probabilmente ponendosi la stessa domanda.
L’ultima cosa che dovevano fare era scatenare la sua ira.
“Tu non capisci.” – riprese Cogitus, ritrovando il suo normale tono di voce. “Tu non puoi capire…” Camminava veloce avanti e indietro, a passi lenti e misurati.
Istintivamente, Rebecca fece un passo indietro.
“Tutti questi mesi passati ad aspettare, a programmare ogni singolo dettaglio, a studiare ogni mossa, perché niente andasse storto… Non potevo permettere che ci fossero intoppi, altrimenti….altrimenti…” Si girò a guardare Rebecca dritto negli occhi. “Tu non sai di cosa è capace.”
Quelle parole le fecero gelare il sangue nelle vene. Sapeva che si stava riferendo a Posimaar.
“Perché mi vuole morta?” – domandò a bruciapelo, senza pensarci.
Cogitus riacquistò tutta la sua baldanza. “Non ne ho la minima idea.” – rispose, candidamente.
“E si aspetta che io le creda?”
“Quello che tu credi o meno non è affare che mi riguarda.” – replicò in tono secco.
Rebecca sapeva che mentiva spudoratamente e sapeva altrettanto bene che non ne avrebbe cavato un ragno dal buco. Non c’era ragione per cui Cogitus avrebbe dovuto rivelarle quel particolare. Evidentemente, l’unico suo interesse era svolgere il lavoro per il quale era stato assoldato e intascare poi la sua ricompensa.
Ma Rebecca dubitava che Posimaar lo avrebbe lasciato vivere, né tantomeno che lo avrebbe ricompensato. Lo aveva appena affermato lui stesso: era capace di cose orribili. L’ingenuità di Cogitus, in un certo senso, la sorprendeva.
“E’ stata una Premonizione a portarti qui?” – le chiese il professore all’improvviso.
Rebecca ebbe un fremito.
Non si era aspettata quella domanda.
Cos’avrebbe dovuto rispondergli? La verità era che aveva seguito Garou nella foresta ed era stato lui a portarla lì. Ma dove si era cacciato? Era complice di Cogitus? Oppure aveva scoperto il suo segreto e stava arrivando lì per affrontarlo? No, Garou non era il tipo. Eppure, lei e Barbara l’avevano visto chiaramente salire il ripido sentiero che portava fin lì.
“Sì.” – rispose, in un soffio.
In fondo, era la verità. Era stata la Premonizione di Brenda a condurla lì, pensò Rebecca sorridendo tra sé.
“Straordinario dono le Premonizioni, non è vero?” – disse Cogitus. “Ma, in ogni caso, sarei venuto a prenderti io, prima o poi… L’avrei fatto, stanne certa ma…. Devo dire che così è stato tutto molto più divertente.”
“Sono lieta che almeno lei si sia divertito.” – replicò seccamente.
Cogitus si fece di nuovo serio e ricominciò a passeggiare avanti e indietro, con le mani giunte dietro la schiena.
Rebecca cominciava a domandarsi quando avrebbe attaccato. Lanciò un’occhiata alle amiche, che assistevano al colloquio tra lei e Cogitus con crescente tensione. Anche loro sapevano che presto o tardi il momento sarebbe arrivato e probabilmente si stavano chiedendo come avrebbe fatto Rebecca ad affrontarlo da sola. Cosa che, effettivamente, si stava domandando anche lei. Qualunque Incantesimo avesse potuto usare, era certa che Cogitus fosse molto più forte e potente di lei. Non aveva molte chance di riuscire a batterlo usando la magia, ma non le veniva in mente nessun altra soluzione se non l’utilizzo del suo Potere.
Avrebbe potuto evitare il suo attacco Spostandosi accanto alle Prescelte e poi portarle via da lì. Sarebbe riuscita a Spostare 5 persone contemporaneamente? Non l’aveva mai fatto, ma se aveva funzionato con Barbara allora non c’era motivo per cui non dovesse funzionare anche con altre persone. Avrebbe dovuto agire molto in fretta, perché Cogitus non si sarebbe arreso tanto facilmente. Le avrebbe seguite fino ad Amtara ma almeno, una volta lì, Rebecca non sarebbe più stata sola.
L’unica pecca di quel piano era che anche Elettra, Justine e Sandra avrebbero scoperto il suo segreto ed era l’ultima cosa al mondo che voleva. Le parole di sua madre continuavano a martellarle nella testa come un mantra. Non doveva rivelarlo a nessuno. Aveva già fatto un’eccezione con Brenda e Barbara, ma loro ormai erano come due sorelle per lei.
Conosceva Elettra e sentiva di potersi fidare anche di lei, ma non fino a questo punto. Quel Potere era solo ed esclusivamente suo, un dono speciale che apparteneva alla sua famiglia. Doveva custodirlo.
Sospirò. Decise che lo avrebbe usato solo nel caso in cui si fosse ritrovata seriamente in pericolo di vita. Avrebbe cercato di contrastare gli attacchi di Cogitus con altri mezzi, almeno inizialmente.
“Sai, Bonner, voi Prescelte non siete le uniche ad avere un potere speciale…” – stava dicendo Cogitus.
Il riferimento al loro potere la riscosse dai suoi pensieri, facendole drizzare la schiena.
Cogitus ora aveva tutta la sua attenzione.
Di cosa diavolo stava parlando?
“Voi credete di essere tanto speciali, credete davvero che il mondo della Magia Bianca si salverà grazie alle vostre Premonizioni. E quella stupida di Calì Amtara pensa davvero di avere il coltello dalla parte del manico. Ma si renderà conto, molto presto, chi è che comanda. Alla fine anche lei sarà costretta ad inginocchiarsi di fronte alla potenza infinita del Demone Supremo. E’ solo questione di tempo…”
Rebecca ascoltò quelle farneticazioni senza battere ciglio.
Dove voleva arrivare?
“Calì Amtara non sa che non esistono solo le Prescelte. Ci sono forze oscure, magie speciali, poteri che lei non si sognerebbe mai di possedere. La verità è che la Magia Bianca è debole e destinata a soccombere dinanzi al vero potere.”
Di quale potere stava parlando?
Il respiro di Rebecca accelerò. Sapeva che stava per accadere qualcosa di terribile e, d’istinto, si mise in posizione di attacco, pur non avendo la più pallida idea di quello che Cogitus avrebbe fatto.
Il professore tacque e chinò la testa, poi cominciò a mormorare parole che lei non riuscì a comprendere.
Rebecca deglutì, chiedendosi che accidenti stesse facendo.
Forse era quello il momento giusto per scappare, ma non poteva usare il suo Potere, non ancora, dannazione.
Doveva farsi venire in mente qualcosa e doveva farlo alla svelta.
“SCAPPA!” – le gridò Elettra.
Rebecca la ignorò.
No, non sarebbe fuggita via come una codarda, lasciandole sole. Qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe rimasta a combattere.
Ma quando vide quello che stava per accadere, tutto il suo coraggio si dileguò in una nuvola di fumo.
Con crescente orrore vide il corpo di Cogitus cambiare lentamente forma e assumere le sembianze di una bestia terrificante.
Il suo abito grigio si strappò in diversi punti, mentre il torace e le gambe assumevano proporzioni gigantesche. Le scarpe furono letteralmente strappate via dai piedi.
L’ombra che si delineava sulla parete della caverna aveva improvvisamente raddoppiato di volume e non aveva più alcunché di umano.
La testa di Cogitus era completamente sparita per lasciare spazio a quella di un lupo enorme, così come il suo corpo.
Rebecca ripensò alle parole di Giorgia. Non era un lupo normale, ma una creatura atavica.
Le sue dimensioni erano tali che la grossa testa sfiorava il soffitto della grotta. Il suo corpo era ricoperto di pelo folto e grigio, le zampe erano enormi così come le mascelle che avrebbero tranquillamente potuto ingoiare un cinghiale intero.
Rebecca era immobile. Fissava intontita la spaventosa creatura dinanzi a sé. Il suo cervello era come svuotato, non riusciva nemmeno a pensare.
Il lupo si girò verso di lei.
Rebecca non riuscì a sentire le grida disperate delle Prescelte dietro di lei, troppo concentrata sugli occhi gialli del lupo e la sua bocca enorme. La belva emise un ringhio basso profondo e digrignò i denti.
Sapeva di essere morta. Nulla avrebbe potuto contro un avversario di quelle proporzioni.
Ma prima ancora che riuscisse a formulare questo pensiero nella sua mente, la bestia le fu addosso.
Rebecca cadde all’indietro, schiacciata dalla sua mole imponente.
Annaspò, cercando di ritrovare il respiro e spingendo con entrambe le mani contro il torace mastodontico del lupo, che le opprimeva il petto impedendole di respirare.
Ma era tutto inutile. La belva la schiacciava sempre di più contro il pavimento e per quanti sforzi facesse era impossibile avere la meglio su di lei.
Improvvisamente, un dolore lancinante al braccio sinistro la strappò un urlo. Sentì distintamente la carne lacerarsi sotto i morsi del lupo e l’odore del sangue riempì la caverna.
Il suo sangue.
Istintivamente portò la mano destra al braccio ferito. Il sangue sgorgava a fiotti. Premette con forza per arrestarne il flusso, cercando di non pensare al dolore e alla nausea che la ferita le aveva provocato.
Impiegò un po’ prima di rendersi conto che la bestia non le era più addosso.
Udì un rantolo, si voltò e vide il lupo dietro di lei. Era talmente grosso che Rebecca non riusciva a vedere nient’altro che la sua mole poderosa occupare tutto lo spazio di fronte a lei. Il lupo ora le dava le spalle e sembrava concentrato su qualcos’altro.
Per quale motivo non la stava più attaccando?
Perchè si era improvvisamente disinteressato di lei?
Per un istante tornò ad occuparsi della ferita. La mano destra era ormai coperta di sangue fresco. Non era riuscita a bloccare l’emorragia e cominciava a sentirsi sempre più debole.
Guardò di nuovo il lupo, che sembrava stesse combattendo contro qualcuno. Udì una serie di ringhi e rantoli, che si mescolavano alle voci delle Prescelte dietro di lei. Le sembrò che chiamassero il suo nome, ma non ne ebbe la certezza. I suoni diventarono sempre più ovattati e cominciò a girarle la testa.
Il dolore era quasi scomparso quando, senza più nemmeno la forza di stare seduta, Rebecca si abbandonò all’indietro e perse i sensi.
Fu risvegliata dalle urla delle Prescelte e, non appena aprì gli occhi, il dolore al braccio tornò a farsi sentire, più forte di prima. Non sapeva per quanto tempo era rimasta lì, stesa a terra, priva di sensi, ma sapeva che doveva fare qualcosa, o sarebbe morta dissanguata.
Cercò di tirarsi su, appoggiando tutto il peso del corpo sul braccio destro. Il dolore era intollerabile, ma doveva farcela. Strinse i denti e riuscì a sollevarsi, quel tanto che bastava per assistere allo spettacolo raccapricciante che si presentava dinanzi ai suoi occhi.
A pochi passi da lei, il gigantesco lupo stava attaccando qualcuno.
Si sporse appena e inorridì. Il corpo martoriato di Garou giaceva a terra, in un lago di sangue. Le sue grida erano terribili.
Attorno a lei c’era sangue dappertutto. Cercò disperatamente di rimettersi in piedi, ma scivolò sul duro pavimento roccioso. Atterrita, senza distogliere gli occhi da quella scena orripilante, arretrò strisciando fino alla parete dietro di lei.
Garou emetteva urla sovrumane. Lottava con tutte le sue forze per liberarsi dalla belva, menando pugni alla cieca.
Improvvisamente, Rebecca capì. Doveva essere stato lui a distrarre il lupo, poco prima che lei svenisse. Se non fosse intervenuto, lei sarebbe sicuramente morta.
Garou stava rischiando la vita per salvarla.
 “REBECCA!”
Rebecca si voltò. Elettra si era tolta il suo maglioncino bianco e glielo aveva lanciato, da dietro le sbarre.
La guardò, senza capire.
“Mettitelo intorno al braccio, servirà a bloccare l’emorragia!”
Rebecca obbedì. Impiegò alcuni minuti per compiere l’operazione. Strinse più forte che poté e il dolore fu talmente forte da provocarle un violento capogiro.
Lanciò una rapida occhiata a Garou che, non sapeva come, era riuscito a rimettersi in piedi.
I loro occhi si incrociarono.
“LIBERALE!” – gridò Garou.
Ma Rebecca non si mosse. Il lupo era nuovamente in posizione di attacco e Garou era solo, inerme, indifeso.
Non poteva permettere che Cogitus lo uccidesse.
Si sentiva terribilmente in colpa nei suoi confronti. Aveva trascorso gli ultimi mesi sospettando di lui e adesso lui era lì e stava mettendo a rischio la sua vita per lei, per loro.
“ORA!” – urlò ancora Garou.
“Rebecca, per l’amor del cielo!” – gridò Brenda.
Nell’attimo stesso in cui il lupo ripartì all’attacco, Rebecca si riscosse.
Aveva due opzioni: approfittare della distrazione del lupo per liberare le amiche, oppure mettersi in mezzo nella lotta tra lui e Garou.
“Le chiavi, laggiù!” – urlò Brenda.
Rebecca seguì i suoi occhi e capì. Un mazzo di chiavi scintillava sotto la luce delle torce, poco distante da lei. Doveva averle perse Cogitus nel momento in cui si era trasformato.
Lanciò ancora un’occhiata al lupo, che cercava di staccare la testa a Garou.
Emise un grugnito di frustrazione e si lanciò di corsa a prendere le chiavi, pregando in cuor suo che Garou riuscisse a resistere.
“Presto! Presto!” – la incalzò Justine.
Rebecca afferrò le chiavi e corse verso la gabbia. Fece un tentativo con la prima chiave, ma le sue mani tremavano così tanto che il mazzo scivolò a terra.
“Dannazione!” – esclamò.
Provò con la seconda, poi la terza, la quarta….
“Quale diavolo è quella giusta?” – esclamò in preda al panico.
“Prova quella!” – gridò Brenda.
Rebecca inserì la chiave nella serratura e quella scattò.
Le quattro ragazze uscirono dalla cella. Stavano tutte bene, a parte Sandra che appariva visibilmente provata.
Rebecca si voltò verso Garou. Era riuscito a rimanere in piedi ma aveva perso tanto di quel sangue che probabilmente non avrebbe resistito a lungo.
Doveva intervenire, ma come? Se si fosse avvicinata troppo al lupo non avrebbe avuto scampo.
Eppure, doveva pur esserci un modo.
Obscuro!” – urlò Garou.
L’Incantesimo Oscurante funzionò. Rebecca perse completamente di vista il professore e le scappò quasi da ridere quando il lupo restò impalato a mezz’aria, nel tentativo di mordere il vuoto.
Ma il riso le morì immediatamente sulle labbra quando lo vide voltarsi verso di lei.
Ruber bulla!” – urlò Elettra alle sue spalle.
Improvvisamente, il corpo di Cogitus si riempì di grosse bolle rosse. L’animale prese a dimenarsi furiosamente, emettendo lunghi ululati che echeggiarono per tutta la caverna.
“Idea grandiosa, Elettra!” – esclamò Justine.
“Grazie amica.” – rispose Elettra con un sorriso.
Rebecca si voltò verso di loro per ringraziare Elettra, quando un bagliore attirò la sua attenzione.
Fece pochi passi e raccolse da terra un pugnale.
“Questo di chi è?” – chiese alle amiche.
Tutte e quattro la fissarono, senza rispondere.
Possibile che appartenesse a Cogitus?
In quel momento udì un altro ululato e vide Garou, di nuovo perfettamente visibile, che era tornato a lottare contro il lupo. Cogitus era in evidente difficoltà e aveva perso tutta l’energia di poco prima, grazie all’Incantesimo di Elettra.
Non c’era più tempo da perdere. Doveva approfittare della debolezza della bestia, o non sarebbero mai riusciti a uscire vivi da lì.
Rebecca guardò il pugnale, rigirandoselo tra le mani. Era d’argento, piccolo e leggero.
“Rebecca, che vuoi fare?” Udì la voce di Brenda dietro di lei.
La guardò, senza rispondere e quando la vide spalancare gli occhi seppe che aveva capito.
“Oh mio Dio…” – mormorò Brenda.
Senza più alcuna esitazione, Rebecca si lanciò verso il lupo. Si scagliò con una tale forza contro di lui che fu costretto a mollare la presa su Garou.
Rebecca montò in groppa al lupo con estrema facilità. Era chiaro che le bolle rosse che gli ricoprivano il corpo dovevano essere molto dolorose, perché lo udì lamentarsi come mai aveva fatto prima d’ora.
Era il momento giusto. Tenendo ben saldo il pugnale nella mano, lo sollevò per uccidere la bestia ma quella rotolò su un fianco e Rebecca cadde.
Si rimise subito in piedi, ansimante.
Evidentemente il lupo non aveva gradito il suo tentativo di sottomissione, perché ringhiò ferocemente avventandosi su di lei.
Ma stavolta Rebecca non si fece cogliere impreparata e deviò di lato, riuscendo a schivarlo per un soffio. Scivolò sul pavimento, ancora intriso del sangue di Garou, e batté il gomito destro cadendo a terra. Ignorando la fitta di dolore, scattò di nuovo in piedi un istante prima che Cogitus tornasse all’attacco. Ora sembrava davvero arrabbiato.
Si guardò intorno, alla ricerca di Garou e lo vide a terra, semi intontito.
Il lupo attaccò di nuovo, facendo un balzo verso di lei e Rebecca colpì, affondando a più riprese il pugnale nel suo stomaco. Un tremendo guaito si sparse per tutta la grotta, ma Rebecca non si fermò. Ritrasse il pugnale e poi tornò ad affondarlo nella carne, più e più volte. Sapeva che una sola pugnalata non sarebbe bastata, l’arma era piccola e il corpo della bestia sproporzionato.
Rebecca fu travolta dal sangue del lupo, che colava a fiotti dalla pancia e le macchiava i vestiti, ma non le importava. Doveva ucciderlo, una volta per tutte.
Fu solo quando il corpo della bestia ricadde su di lei, rischiando di schiacciarla, che capì di avercela fatta.
Scivolò velocemente di lato e si sollevò a guardarlo.
Il lupo giaceva a terra, inerte.
Si avvicinò, con grande cautela, alle sue fauci spaventose, convinta di averlo ucciso.
Per poco non le venne un infarto quando la bestia si drizzò nuovamente sulle zampe, pronta a combattere di nuovo.
“Che diavolo…” – pensò Rebecca, facendo un balzo all’indietro.
Possibile che fosse ancora vivo?
Le faceva male il braccio destro dal numero di colpi che gli aveva inferto. La bestia era coperta di sangue, ma respirava ancora. Nonostante le ferite, Rebecca lo capì dai suoi occhi, era pronta a colpire ancora.
E stavolta sarebbe stata davvero una lotta all’ultimo sangue.
Con un balzo il lupo si avventò ancora su di lei ma Rebecca, con estrema agilità, saltò di nuovo sul suo dorso, provocando la sua ira.
Il lupo prese a dimenarsi con forza per disarcionarla, ma lei si aggrappò al suo collo e affondò il pugnale sul dorso, ripetutamente.
Cogitus guaì e cadde a terra, ma Rebecca non mollò la presa e continuò ad infierire fino a sentire delle tremende fitte al braccio destro e al sinistro ferito. Il maglione bianco di Elettra, ormai rosso, era scivolato un po’ più in basso, lasciando scoperto lo squarcio che il morso del lupo le aveva provocato. Il sangue si era ormai rappreso ma il dolore non le dava tregua.
Finalmente, il lupo si accasciò a terra e Rebecca cadde a terra.
Esausta e tremante, si abbandonò sul pavimento, con il respiro affannato e il pugnale intriso di sangue ancora in mano.
Sapeva che non poteva starsene lì immobile, doveva controllare che fosse morto davvero stavolta, ma non ne ebbe la forza.
Se il lupo fosse sopravvissuto ancora, stavolta dubitava di poterlo uccidere davvero. Era troppo stanca, aveva perso molto sangue e non aveva più energie.
“REBECCA!”
Il grido contemporaneo di Brenda ed Elettra la fece scattare.
Si voltò verso di loro e vide che indicavano il lupo.
Rebecca lo guardò e rimase impietrita.
Il corpo gigantesco del lupo si stava di nuovo trasformando nel professor Cogitus.
L’uomo era nudo e lei fu tentata di distogliere lo sguardo, ma non ne ebbe il tempo perché, all’improvviso, una nube polverosa scaturì dal pavimento e si portò via il suo corpo.
Quando la polvere svanì, Cogitus era sparito.
 
Le Prescelte corsero verso Rebecca.
“Come ti senti?” – le chiese Brenda.
“Garou. Pensate prima a lui.” – mormorò Rebecca.
Garou era a terra e rantolava, in preda a spasmi di dolore inauditi.
“Non… non credo che ce la farà.” – rispose Brenda, con voce spezzata.
Elettra si era avvicinata a lui e gli stava tastando il polso. “E’ debole.” – disse, voltandosi verso di loro. “Dobbiamo portarlo via da qui. Ha bisogno di aiuto. Subito.”
Rebecca si sollevò a sedere.
“Sta morendo.” – disse Elettra guardandola in faccia.
Rebecca deglutì, fissandola a sua volta. “Non faremo mai in tempo.” – disse.
“Lo so.”
E Rebecca capì che stavano pensando la stessa cosa.
Senza aggiungere altro, si alzò in piedi.
“Barbara vi aspetta alla radura.” – disse a Brenda. “Seguite il sentiero roccioso per scendere dalla montagna e la troverete.”
Brenda annuì. “Sei sicura di farcela?”
“Sì, non preoccuparti.”
“Allora vai. Presto.”
Rebecca, ignorando gli sguardi interrogativi delle altre, si avvicinò a Garou.
Aveva un aspetto spaventoso. I suoi abiti erano talmente intrisi di sangue da non riuscire più a distinguerne il colore.
Si chinò su di lui. Respirava ancora, grazie al cielo.
Rebecca gli prese dolcemente la mano, poi si toccò il polso destro e disse “Ad Amtara!”
 
“Ma che diavolo è successo?” – mormorò Justine, fissando a bocca aperta il punto in cui Rebecca e Garou erano svaniti.
“Dove sono finiti?” – domandò Sandra.
Elettra guardò Brenda. “Tu sapevi, vero?”
Brenda alzò il viso su di lei. Elettra era sempre stata la più perspicace.
Sospirò, abbassando gli occhi. “Non ha importanza, ora. Venite, dobbiamo uscire di qui.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 19
*** Il segreto rivelato ***


Capitolo 19
“IL SEGRETO RIVELATO”
 
Barbara aveva trascorso le ore più terribili della sua vita. Divorata dall’ansia, aveva atteso a lungo il ritorno di Rebecca. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato dal momento in cui Rebecca era partita, ma aveva atteso molto, molto a lungo.
Forse troppo.
Rebecca era stata molto chiara, le aveva detto di tornare ad Amtara se lei non fosse tornata entro un’ora e Barbara sapeva di essersi attardata ben oltre quel tempo.
La verità era che non se la sentiva di abbandonarla. Da una parte sapeva che, se fosse corsa a chiamare aiuto, probabilmente tutto si sarebbe risolto per il meglio. D’altro canto, se avesse abbandonato Rebecca proprio quando lei avrebbe avuto più bisogno? Sarebbe mai riuscita a perdonarselo, se i soccorsi non fossero arrivati in tempo?
Aspettandosi di vederla ricomparire da un momento all’altro, e continuando a ripeterselo per ore, rimase seduta in attesa, rifiutandosi ostinatamente di andarsene da lì.
Probabilmente Rebecca se la sarebbe presa a morte con lei, ma non le importava.
Era seduta su un grosso sasso, chiedendosi, per l’ennesima volta, se stesse facendo la cosa giusta, quando udì dei rumori poco sopra di lei.
Scattò in piedi, in preda ad una forte agitazione, e il suo cuore perse un battito quando vide quattro figure che scendevano lentamente lungo il sentiero.
Strinse gli occhi, cercando di mettere meglio a fuoco l’immagine, ma fu solo quando le ragazze furono più vicine che riuscì a distinguerle.
Riconobbe le teste bionde di Justine e di sua sorella, reprimendo l’istinto di correre ad abbracciarla. Dietro di loro, Elettra sorreggeva per un braccio Sandra.
Guardò meglio, cercando con gli occhi Rebecca.
Ma erano solo in quattro.
Dov’era Rebecca?
Dio, ti prego, fa’ che non le sia successo niente….
Brenda le corse incontro e le due sorelle si strinsero in un forte abbraccio.
Barbara cominciò a piangere.
“Credevo che non ti avrei più rivista.” – le disse Brenda, con gli occhi lucidi.
I suoi abiti erano sudici e logori ed era un po’ pallida, ma Barbara fu felice di vedere che stava bene.
Si sciolsero dall’abbraccio e Barbara guardò le altre.
“Dov’è Rebecca?” – chiese. “Perché non è con voi?”
Le ragazze non risposero. Nessuna di loro, a parte Brenda, aveva capito cosa fosse successo. Rebecca era semplicemente svanita nel nulla, portandosi via Garou.
“Credo che dovresti chiederlo a tua sorella.” – rispose Elettra.
Brenda le lanciò un’occhiata, visibilmente in imbarazzo.
Sapeva che Rebecca non aveva avuto scelta. Se non si fosse Spostata con Garou, lì davanti a loro, non sarebbero mai riuscite a riportarlo a scuola in tempo per salvarlo. Non avrebbe potuto fare diversamente. Il professore aveva rischiato grosso per portarle in salvo. Era il minimo che Rebecca potesse fare, anche se questo avrebbe significato rivelare il suo Potere anche alle altre.
Ma Brenda non se la sentiva di spiegare loro quanto accaduto. Ci sarebbe stato tutto il tempo. Avrebbero fatto domande, questo era fuor di dubbio.
“Rebecca è a scuola.” – rispose Brenda, con un’occhiata eloquente.
Non le andava di dirle apertamente che Rebecca si era Spostata, ma sperò che sua sorella lo intuisse da sola.
“A scuola? Ma…”
“Ti spiegherò tutto quando saremo là.”
La prese per un braccio e ricominciarono a scendere, seguite dalle altre.
Barbara era esterrefatta, ma conosceva sua sorella e sapeva che quando usava quel tono che non ammetteva repliche l’unica cosa da fare era assecondarla.
Dopotutto, era stanca morta, dopo tutte quelle ore passate al freddo, da sola, ad aspettare.
Le ragazze stavano bene, sua sorella era sana e salva, anche se lanciò un’occhiata sospetta alle macchie di sangue sui suoi vestiti. Non disse nulla, avrebbero avuto tutto il tempo per parlare.
E fu felice di sapere che anche Rebecca stava bene.
Arrivarono alla radura e si avviarono lungo il sentiero che le avrebbe ricondotte a scuola.
Era quasi l’alba, ormai e non ebbero difficoltà ad orientarsi nella foresta con le prime luci del giorno. La notte precedente era tutto molto diverso, pensò Barbara con un brivido. Aveva ancora ben chiara in mente la sensazione di gelo che l’aveva assalita trovandosi al buio nel bel mezzo della foresta. Ogni minimo rumore, ogni suono della natura assumeva contorni inquietanti con la complicità della notte. E quando avevano scoperto la presenza di Garou….
Si bloccò di colpo.
“Che succede?” – le chiese Brenda, che le camminava accanto e si era fermata a sua volta.
Barbara sgranò gli occhi. “Garou. Che fine ha fatto Garou?”
“Tu l’hai visto?” Brenda era visibilmente sorpresa.
“Certo che l’ho visto! Lo abbiamo incontrato nella foresta io e Rebecca prima di…. Beh, prima che lei venisse a cercarvi.”
Brenda sospirò. “Stava cercando noi. E ci ha trovate.”
“Vi ha fatto del male?”
Brenda scosse la testa. “No. A dire la verità, ci ha salvato la vita.”
Barbara la fissò, sgomenta.
“Vieni, raggiungiamo le altre. Ti racconterò tutto.”
 
Quando giunsero ad Amtara, Barbara conosceva i dettagli di tutto ciò che era accaduto nella grotta con Cogitus. Era rimasta semplicemente sconvolta nel sapere che il professore di Gestione Antiveggenza era colui che aveva aggredito le Prescelte. Ed era rimasta impietrita nello scoprire che Garou era venuto nella foresta, proprio come lei e Rebecca, per trarre in salvo le sue allieve.
Barbara accompagnò le ragazze in infermeria, dove trovarono anche Rebecca e Garou.
Rebecca era già stata medicata. Aveva una brutta ferita al braccio sinistro, che l’infermiera Anderson aveva già provveduto a fasciare ben stretta.
“Come stai?” – le chiese con un sorriso.
“Felice di rivederti.” – rispose Rebecca restituendole il sorriso.
“Le ho riaccompagnate qui.”
“Quindi non mi hai dato ascolto.”
Barbara arrossì. “Non volevo lasciarti.”
Rebecca fece un profondo respiro. “Alla fine hai fatto bene.”
Mentre l’infermiera si prendeva cura delle altre, Barbara guardò il letto accanto a quello di Rebecca.
Garou sembrava in fin di vita.
Distolse lo sguardo, un po’ impressionata dalle ferite sul suo corpo.
“Come sta?” – chiese Brenda a Rebecca, sedendo sul suo letto.
“Male. La Anderson dice che ha perso troppo sangue. È un miracolo se è ancora vivo.”
“Sopravvivrà?” – domandò Barbara.
“Sì. Con tanto riposo e le cure adeguate. Ne avrà per un bel po’.”
“Brenda mi ha raccontato tutto.” – disse Barbara. “Chi mai l’avrebbe detto che Cogitus….”
“Già. E io che come un’idiota sospettavo di lui…” – rispose Rebecca, indicando Garou.
“Alla fine, comunque, l’hai portato qui in tempo.” – osservò Brenda.
“Sì. La Anderson dice che se avessimo aspettato ancora, probabilmente non ce l’avrebbe fatta.”
“Quindi siete pari.”
Rebecca la guardò. “Tu credi? Io non mi perdonerò mai per la mia stupidità. E comunque lui ha rischiato molto più di me.”
“Non so se saremmo uscite vive da lì senza il suo aiuto.” – disse Brenda.
Tacquero, voltandosi a fissare il volto martoriato del professore a cui dovevano la vita.
 
Rebecca fu felice di sapere che Sandra, Elettra e Justine non avevano riportato danni durante la loro prigionia. Sandra era indubbiamente quella che ne aveva risentito maggiormente a livello psicologico, ma solo il tempo avrebbe potuto risanare le sue ferite interiori.
Furono dimesse il giorno seguente, mentre Rebecca fu costretta a rimanere in infermeria ancora un po’, a causa della ferita al braccio.
La Collins aveva fatto ritorno a scuola e, naturalmente, era venuta subito a conoscenza dell’accaduto.
Rebecca sapeva che avrebbe dovuto affrontarla, prima o poi, e infatti la preside andò a farle visita subito dopo il suo ritorno.
La Collins avrebbe voluto confrontarsi con lei, ma Rebecca fu salvata dalle insistenze della Anderson, secondo cui la ragazza aveva ancora bisogno di riposo e doveva evitare nella maniera più assoluta qualsiasi situazione di stress.
“Sono la preside e ho bisogno di parlare con lei.” – aveva tuonato la Collins in risposta a quelle obiezioni.
“E io sono la responsabile della sua salute, almeno finché resterà qui. Sii ragionevole, Dana, ti chiedo ancora un paio di giorni. Solo un paio di giorni, poi la ragazza sarà abbastanza in forze per affrontare qualunque discorso.”
La preside era stata costretta a cedere.
Rebecca aveva assistito alla scena, reprimendo un brivido. Sapeva che la Collins le avrebbe fatto un mucchio di domande. Avrebbe voluto sapere per quale motivo lei e Barbara avevano deciso di infrangere il coprifuoco per andare alla ricerca delle Prescelte, per di più nella foresta e in piena notte.
Le avrebbe chiesto cosa fosse successo nella grotta, anche se Rebecca era sicura lo sapesse già. Brenda e Barbara le avevano detto che tutta la scuola sapeva quello che era accaduto là dentro. Ma la Collins avrebbe preteso di sentirlo dalla sua bocca.
Le avrebbe sicuramente anche chiesto che cosa ci faceva il povero professore di Storia della Stregoneria nel letto accanto a lei, più morto che vivo.
E Rebecca sapeva che, stavolta, non avrebbe più potuto tirarsi indietro.
Avrebbe dovuto rispondere a tutte le domande.
E poi? Cos’avrebbe fatto la preside? L’avrebbe cacciata da Amtara?
Impossibile. È vero che Rebecca aveva disobbedito e infranto le regole, ma era anche vero che aveva ucciso Cogitus, la spia di Posimaar. A ben pensarci, lei e Garou avrebbero dovuto ricevere un encomio, dopo il pericolo che avevano affrontato per il bene della scuola e delle Prescelte.
Il giorno seguente ricevette, come ogni giorno, la visita delle gemelle.
“Come stai?” – le chiese Barbara prendendo una sedia.
“Un po’ meglio.”
La ferita al braccio le faceva ancora un po’ male, soprattutto di notte, ma ormai era solo questione di giorni prima che la Anderson acconsentisse a farla uscire da lì.
Aveva un bisogno disperato di uscire all’aria aperta, rivedere le montagne, respirare l’aria frizzante del mattino e togliersi di dosso la sgradevole sensazione che la sua vita fosse contaminata.
Non aveva pensato ad altro, da quando era tornata da quella caverna.
Posimaar le dava la caccia. Certo, Cogitus era morto, ma quante altre spie avrebbe assoldato il Demone per arrivare a lei? Sarebbe stato un gioco da ragazzi, per lui, e sarebbe stata solo questione di tempo prima che riuscisse ad ucciderla. E nessuno avrebbe potuto fare niente per lei, nessuno avrebbe potuto aiutarla, stavolta.
“A cosa stai pensando?” – le chiese Brenda, vedendola così assorta nei suoi pensieri.
“A Posimaar.”
Brenda e Barbara si scambiarono un’occhiata. Brenda aveva raccontato alla sorella che, stando a quanto aveva detto Cogitus, l’obiettivo del Demone era lei.
“Tu… tu non hai idea del perché ti stia cercando?” – azzardò Barbara cauta.
“No, come potrei? Non so niente di lui, non so nemmeno che aspetto abbia. Ma, a quanto pare, lui conosce bene me.”
“Non potrebbe essere che…” – cominciò Barbara esitante.
“Cosa?”
“Beh, forse lui conosce il tuo Potere. Sappiamo che mira ad eliminare tutto ciò che potrebbe distruggerlo, no? Per questo sta attaccando le Prescelte. Magari conosce il tuo Potere e vuole distruggerti perché sei un pericolo ben peggiore per lui.”
“In che modo il mio Potere potrebbe essere un pericolo per lui?” – replicò Rebecca confusa.
“Non so. Certo è che, se non fosse stato per il Potere, ora Garou sarebbe morto.”
Rebecca la fissò.
No, non era possibile.
“E’ impossibile che lui sappia. Solo voi e mia madre conoscete questa storia. Io…”
“Beh, non è proprio esatto.” – la interruppe Brenda.
Rebecca aggrottò la fronte. “Che vuoi dire?”
“Ora anche Elettra, Justine e Sandra sanno.” – le ricordò.
Rebecca spalancò la bocca. Aveva completamente dimenticato quello che aveva fatto nella grotta.
“Gliel’hai detto?”
Brenda allargò le braccia. “Che altro avrei potuto fare? Da quando abbiamo fatto ritorno qui non hanno fatto altro che tempestarmi di domande. Alla fine ho dovuto confessare tutto.”
Rebecca non rispose, chiudendosi in un silenzio che preoccupò Brenda.
“Mi dispiace, lo so che avevamo promesso, ma…”
Rebecca sollevò una mano. “No, non è colpa tua. In fondo mi sono Spostata davanti ai loro occhi, è normale che abbiano fatto domande. E tu non potevi fare altro.”
“Mi dispiace.”
Rebecca scosse la testa. “Cos’hanno detto?”
“Niente. Sono rimaste tutte piuttosto sorprese. Insomma, non è un dono comune. Ma sono contente che tu abbia deciso di usarlo per salvare Garou.”
Rebecca abbozzò un sorriso.
“C’è solo un piccolo problema.” – aggiunse Brenda, nervosa.
“Quale?”
“Beh, ecco… ci… ci sono altre ragazze che hanno sentito quello che ho raccontato e….”
Rebecca scattò a sedere sul letto. “COSA?!”
Brenda arrossì, mortificata.
“Ecco, io…. Non mi ero accorta…”
Rebecca si appoggiò con la schiena al cuscino, mettendo una mano sulla fronte e chiudendo per un attimo gli occhi.
“Quante?” – domandò in un soffio.
“Tutta la scuola.” – rispose Barbara al posto di Brenda.
Rebecca emise un gemito.”Tutta la scuola sa del mio Potere?” – mormorò incredula.
“M-mi dispiace tanto, Rebecca…” – mugolò Brenda.
Rebecca sospirò profondamente. Non poteva prendersela con lei. Era stato un incidente, anche se, forse, Brenda avrebbe potuto fare più attenzione ed assicurarsi che non ci fossero orecchie indiscrete nei paraggi.
Ma ormai quel che era fatto era fatto. Non recriminava nulla. Non era pentita della sua scelta.
Lanciò un’occhiata a Garou, immobile nel letto accanto a lei.
Aveva fatto la scelta giusta.
“Quindi, anche la Collins lo sa?”
“Probabile.” – rispose Barbara.
“Grandioso.” – disse Rebecca, con un gemito di frustrazione.
 
Come Rebecca si era aspettata, il giorno dopo la Collins venne a parlare con lei.
Quando la vide entrare in infermeria, mille pensieri affollarono la sua mente.
Era sicura, ormai, che anche lei sapesse del suo Potere. L’avrebbe punita per non averglielo detto? In fin dei conti, era una cosa privata. O, perlomeno, lo era stata fino al momento in cui lo aveva usato davanti alle altre per salvare Garou. Ma il fatto che il professore fosse ancora vivo non era un motivo più che sufficiente per chiudere un occhio su quella faccenda?
Indubbiamente era arrabbiata per la sua fuga da Amtara insieme a Barbara. Avevano rischiato grosso e lo sapevano. Non si aspettava indulgenza da parte sua riguardo a questo, ma in fondo al suo cuore Rebecca non recriminava nulla, visto che aveva ottenuto quello che voleva.
Qualunque punizione la Collins le avrebbe dato, ne era comunque valsa la pena.
Rebecca la osservò mentre prendeva una sedia accanto a lei, cercando di scorgere rabbia o risentimento nei suoi occhi. Ma tutto quello che vi trovò fu solo una grande tristezza.
“Come ti senti, Bonner?” – le chiese con il solito tono freddo.
“Meglio, professoressa, grazie.”
“L’infermiera Anderson dice che presto potrai uscire di qui.”
Rebecca annuì.
“Purtroppo non possiamo dire lo stesso di lui.” – aggiunse la preside, indicando Garou.
Dal giorno in cui Rebecca lo aveva ricondotto ad Amtara, il professore non si era mai svegliato. La Anderson gli somministrava continuamente delle pozioni dagli odori nauseanti che, diceva, avrebbero accelerato la guarigione delle ferite.
Negli ultimi giorni, in effetti, Rebecca aveva notato che alcune ferite si stavano rimarginando, anche se molto lentamente.
Cogitus aveva infierito su di lui senza alcuna pietà.
Rebecca si considerò fortunata ad essersela cavata solo con una ferita al braccio e doveva ringraziare solo Garou per questo.
“Si sta riprendendo.” – disse Rebecca. “Ci vorrà tempo ma…”
“…ma almeno è ancora vivo.” – terminò la Collins al suo posto.
“Già.” – rispose Rebecca a voce bassa.
La preside sospirò. “Sono venuta qui perché ho bisogno di sapere tutto quello che è successo, Bonner. Dall’inizio.”
Rebecca sostenne il suo sguardo per qualche istante.
Poi, cominciò a raccontare.
“Sei stata coraggiosa, non c’è che dire.” – commentò la Collins quando, dieci minuti dopo, Rebecca finì il racconto.
Non aveva tralasciato nulla, pensando che, se la preside era già a conoscenza dei fatti, sarebbe stato stupido da parte sua omettere i dettagli.
“O forse, soltanto molto stupida.” – aggiunse.
Rebecca non rispose ed evitò il suo sguardo.
La Collins attese qualche istante, prima di riaprire bocca. “E’ stato un colpo durissimo per me scoprire che è stato un insegnante a … a fare tutto questo.” – continuò, sfregandosi gli occhi stancamente. “Mi fidavo ciecamente di lui. Non avrei mai potuto immaginare…”
“Professoressa, come avrebbe potuto? E’ stato incredibilmente astuto.”
La Collins alzò gli occhi su di lei. “Sì, ma a quanto pare il professor Garou aveva compreso tutto. Ed è anche riuscito a scovare il suo nascondiglio.”
“Sì, lui è stato…. Davvero grande.” – mormorò Rebecca.
“Sì, il suo comportamento è stato encomiabile. Mi dispiace non poter dire lo stesso del tuo.”
Rebecca la guardò.
Ecco, era arrivato il momento.
“Hai una vaga idea della quantità di pericoli a cui hai esposto non solo te stessa ma anche la tua amica Lansbury?”
“Barbara ha voluto venire con me. Non mi avrebbe mai lasciata andare da sola alla ricerca di sua sorella.”
“Non è questo il punto!” – replicò la Collins alzando la voce. “Tu non saresti mai dovuta andare. Avresti dovuto venire subito da me e dirmi della Premonizione di Lansbury, per prima cosa, e della tua, dopo la scomparsa di Sandra Penny. Perché non l’hai fatto?”
Rebecca si fissò intensamente le unghie. Cosa avrebbe potuto rispondere? Che era stata terribilmente egoista e che era andata alla ricerca del suo momento di gloria, mettendo a rischio la vita di altre persone?
“E poi, perché non mi hai detto di avere un Potere speciale, quando sei arrivata ad Amtara?”
“Professoressa, io non credo che questo abbia qualcosa a che fare…”
“Qualunque cosa riguardi le Prescelte riguarda anche me, Bonner.”
Rebecca le lanciò un’occhiata di traverso.
“E’ inutile che fai quella faccia. Che ti piaccia o meno, le cose stanno così. Sei una Prescelta, sei stata ammessa in questa scuola per uno scopo ben preciso. E se tu, a differenza delle altre, possiedi un Potere particolare, io, in qualità di preside di questa scuola, avevo tutto il diritto di esserne informata.”
“Per quale ragione?” – domandò Rebecca, cercando di controllare la rabbia.
La Collins strabuzzò gli occhi. “Per quale ragione? Perché io non posso proteggerti se tu non mi racconti tutta la verità, ecco perché!”
“Mia madre, prima di morire, mi ha fatto promettere di non farne parola con nessuno.”
“Però alle gemelle Lansbury l’hai detto.”
Rebecca tacque.
Era diverso. Brenda e Barbara erano sue amiche.
“E’ capitato per caso. All’inizio non lo sapevano. Poi, un giorno, dopo una discussione, ho deciso di dirglielo. Non so nemmeno io perché.”
“Hai fatto bene. Non c’è niente di male e non hai nulla di cui vergognarti. Ma anch’io avevo il diritto di saperlo.”
“Io…non credevo fosse una cosa così importante.”
La preside sospirò stancamente. “Amtara è nata a causa di Posimaar. Ogni cosa che riguarda le Prescelte che vivono qui è di fondamentale importanza, dal momento che abbiamo un Demone da sconfiggere. Lo capisci?”
Rebecca annuì.
Trasalì quando vide la preside chinarsi un po’ su di lei e prenderle delicatamente la mano destra. Le fece voltare il palmo all’insù e sfiorò leggermente la stella blu con un dito.
Rebecca si sentì terribilmente a disagio. Nessuno, nemmeno Brenda e Barbara, aveva mai toccato quel simbolo così prezioso per lei.
“Ti ho infastidito?” – domandò la Collins ritraendosi e lasciandole andare la mano, essendosi accorta della sua reazione.
“No…io…”
“Ti chiedo scusa. Volevo solo vederla.”
Rebecca fu sorpresa del tono improvvisamente dolce della sua voce.
La guardò di sottecchi, cercando di indovinare cosa le passasse per la mente.
“Professoressa, mi dispiace, per tutto. Io…. Non avrei dovuto ma…. L’ho fatto per salvare le mie compagne. Quando anche Brenda è scomparsa io… Barbara era fuori di sé. Pensavamo che presto l’aggressore avrebbe colpito ancora. Non potevamo più aspettare.”
“Potevate venire da me.”
“Ci ho provato, ma quando è scomparsa Brenda lei non era a scuola. Sono corsa ad avvertire la Rudolf e mi ha detto che lei non c’era.”
“Questa non è una giustificazione, Bonner. Sono tornata il giorno dopo. Un giorno in più non avrebbe fatto alcuna differenza.” – replicò la preside gelida.
Rebecca non rispose. Sapeva che aveva ragione. La verità era che aveva organizzato quel piano molto tempo prima e aveva già preso la sua decisione, molto prima che Brenda fosse rapita.
“Avresti potuto morire. Se non ci fosse stato il professor Garou con te, non oso pensare cosa sarebbe successo. Sei stata fortunata a trovare quel pugnale.”
Rebecca avrebbe voluto rispondere che non erano state pura fortuna le pugnalate che si era premurata di infliggere a Cogitus, ma non era il momento di fare la pignola.
In fin dei conti, la Collins si stava comportando in maniera fin troppo magnanima con lei, considerando i fatti, e non era il caso di provocarla ulteriormente.
“Naturalmente saprai che ora tutta la scuola sa del tuo Potere.”
“Sì, Brenda e Barbara me l’hanno detto.” – rispose, in tono depresso.
“A quanto pare la discrezione non è prerogativa delle Prescelte.”
Rebecca abbozzò un mezzo sorriso.
Sapeva quello che l’attendeva, una volta uscita da lì. L’avrebbero tempestata di domande, avrebbe avuto tutti gli occhi puntati su di lei.
Ma non le importava. Ne era valsa la pena, in ogni caso.
La Collins tornò a guardare Garou. “Quando il professore si rimetterà, avrò molto di cui parlare anche con lui.”
Rebecca pensò che non sarebbe stata l’unica.
“Quanto a te, Bonner, spero che quanto accaduto in quella grotta ti abbia indotta a riflettere sulla sconsideratezza delle tue azioni. E mi auguro che in futuro farai tesoro dei miei consigli. Ricorda che io sono vostra amica, sono qui per voi. Non c’è nulla di cui non possiate parlare con me.”
“Grazie, professoressa. Me lo ricorderò.”
La Collins le batté dolcemente sulla mano, alzandosi. “Bene, ora è meglio che vada, o la Anderson finirà per buttarmi fuori a calci.”
“Professoressa.”
“Sì?”
Rebecca esitò, cercando di trovare le parole giuste.
“Il professor Cogitus lavorava per Posimaar.”
“Sì.”
“Quando eravamo laggiù, mi ha detto molto chiaramente che il Demone mi sta dando la caccia per uccidermi.”
La Collins apparve sorpresa. “Davvero?”
Rebecca annuì. “Lei non immagina perché?”
“Perché sei una Prescelta, suppongo.”
“Anche Elettra, Justine, Sandra e Brenda lo sono. Ma non ha torto loro un capello. Le ha usate come esca per attirarmi nella sua trappola. Ha cercato di uccidere me, non loro. Garou ha dovuto difendere me, non loro.”
La Collins non rispose, ma dall’espressione sul suo volto Rebecca capì che era preoccupata.
“Dev’esserci una ragione.” – insisté Rebecca, in cerca di risposte.
“L’hai chiesto a Cogitus?”
“Sì.” Rebecca fece un risolino sarcastico. “Ha detto di non sapere niente. Lui si limitava solo ad eseguire gli ordini per ottenere poi la sua ricompensa.”
“Ricompensa che non ha fatto in tempo ad ottenere.” – precisò la preside.
“Dubito che Posimaar lo avrebbe mai ricompensato. Io penso che avrebbe ucciso anche lui.”
“Sì, è molto probabile. Non lo sapremo mai, comunque.”
“Io credo mi abbia mentito.” – disse Rebecca.
“Tu credi?”
“Lei no?”
La Collins sospirò. “Non lo so. E’ probabile che Cogitus non sapesse davvero nulla dei piani del suo signore. Posimaar non era tenuto ad informarlo e dubito che lo abbia fatto. Io credo si sia semplicemente servito di lui per arrivare a te.”
“Allora non scoprirò mai il motivo per cui mi vuole morta.” – replicò Rebecca, allargando le braccia.
“Per il momento sappiamo che sei il suo bersaglio. Non è cosa da poco. Ora tutta Amtara dovrà fare il possibile per proteggerti.”
A quelle parole Rebecca si mosse sul letto, a disagio. Cosa intendeva veramente la Collins quando parlava di protezione?
Ma c’era un’altra domanda che le frullava in testa.
“Professoressa, lei crede ci possa essere una relazione tra il mio Potere e Posimaar?”
“Come posso saperlo, Bonner?”
“Lei cosa sa precisamente di lui?”
“Nulla più di quanto tu già non sappia. Le informazioni che circolano su di lui sono quelle note a tutto il mondo della Magia Bianca.”
“Sa, prima di attaccarmi, Cogitus ha detto una cosa…”
“Cosa?”
“Stava parlando di lui e … ad un certo punto ha detto… Tu non sai di cosa è capace.”
“Beh, a dire la verità nessuno lo sa meglio di noi, con tutto quello che stanno combinando le Streghe Nere.” – replicò la Collins duramente.
Rebecca era convinta che Cogitus si riferisse ad altro, ma non avrebbe mai conosciuto la risposta. Ormai era morto e la Collins ne sapeva quanto lei riguardo al Demone.
Sospirò, depressa.
“Prima che vada via, c’è un’altra cosa di cui discutere riguardo al tuo Potere, Bonner.”
Rebecca tornò a guardarla. “Cosa?” – domandò, perplessa.
La preside esitò, come se stesse cercando il modo migliore per dirglielo.
“Io… ho bisogno che tu mi faccia una promessa.”
Rebecca aggrottò la fronte. “Che genere di promessa?”
Il suo tono non le piaceva per niente.
La Collins la guardò dritta negli occhi.
“Non dovrai mai più utilizzare il tuo potere ad Amtara.”
“CHE COSA?!” – gridò Rebecca.
“Ti pregherei di non urlare, Bonner.”
“Ma…. Professoressa… lei non può…”
“Altroché se posso. Mi dispiace, ma sono costretta a farlo. Ti sei già messa in pericolo una volta, non posso permetterti di farlo di nuovo.”
“Ma perché?”
“Perché Posimaar ti sta cercando ed è mio dovere assicurarmi di garantirti la massima protezione.”
“Ma potrebbe comunque entrare a scuola. Non sappiamo di quali poteri dispone, potrebbe comunque venirmi a cercare perfino in camera mia, se solo lo volesse. Non usare il Potere non mi garantirà la sicurezza, in ogni caso.”
“A scuola posso gestire tutto. Ma fuori di qui, mi è molto più difficile.”
“Professoressa, le garantisco che non farò niente di stupido, ma lei non può impedirmi…”
“L’ho appena fatto, Bonner. E sappi che se verrò a sapere che hai disobbedito ai miei ordini, sarai in guai grossi. Per questa volta ho chiuso un occhio, la prossima volta non lo farò.”
“Ma…”
“Non intendo più discuterne.”
“Lei lo sa, vero, che se non mi fossi Spostata nella foresta, probabilmente Garou sarebbe morto? E anche le Prescelte?”
Rebecca ormai era senza freni. La richiesta della Collins l’aveva completamente spiazzata. Sapeva che era in collera con lei, sapeva di aver sbagliato, ma non poteva accettare quell’assurda imposizione. Il Potere era una cosa sua, l’eredità di sua madre, apparteneva alla sua famiglia e la Collins non aveva nessun diritto di impedirle di usarlo.
“Qualunque cosa dirai, non cambierò idea, Bonner. Mi dispiace.”
“Non può farlo, professoressa… la prego…” – la supplicò Rebecca.
“Lo faccio per il tuo bene. Non voglio che ti accada niente di male. Come credi che mi sentirei se Posimaar dovesse catturarti e ucciderti mentre sei qui, sotto la mia Protezione?”
La Collins sospirò. “Non posso perdere una sola Prescelta. E’ stato già terribile venire a sapere della morte di Bonnie Stage…”
A quel nome, Rebecca trasalì. Non aveva dimenticato la reazione della preside, la mattina di Natale in cui avevano saputo della morte di quella ragazza.
“Era una mia allieva, qui ad Amtara.” – proseguì la preside con voce spezzata. “Si era diplomata con il massimo dei voti. Era straordinariamente in gamba. Ma purtroppo, questo non è bastato. Certo, lei è morta facendo il suo dovere. Non ho potuto fare nulla per proteggere lei, ma farò tutto quanto è in mio potere per proteggere te.”
A quelle parole, Rebecca non replicò. Capiva che, in qualche modo, la Collins si sentiva in colpa nei confronti di Bonnie, anche se, naturalmente, non avrebbe potuto fare nulla per salvarla.
Non era morta a causa sua, ma questo la faceva sentire ancora più responsabile per le Prescelte di Amtara.
Non le avrebbe mai più permesso di cacciarsi nei guai, l’avrebbe tenuta costantemente sotto tiro.
E quello non era che il primo passo.
La preside si alzò. “Guarisci presto, Rebecca.”
A Rebecca non sfuggì l’utilizzo del nome, al posto del cognome, quasi volesse scusarsi per aver dovuto prendere quella decisione.
Sapendo che non c’era più niente da dire, Rebecca la guardò uscire, in silenzio, con un terribile senso di oppressione nel petto.
 
Rebecca era molto arrabbiata per la decisione della Collins. Le ci sarebbe voluto del tempo per abituarsi all’idea e non era nemmeno sicura di poterla accettare davvero. Ma sapeva che la preside non scherzava. Aveva tutte le intenzioni di proteggerla e se lei avesse disobbedito sarebbe stata in guai seri.
Era così ingiusto, pensò con amarezza. Aveva messo a rischio la sua stessa vita, è vero, però alla fine aveva ucciso Cogitus, liberato le Prescelte e riportato Garou ad Amtara in tempo. Non era quella la cosa che più contava? Possibile che la Collins non se ne rendesse conto?
Rimase in infermeria ancora per qualche giorno, poi la Anderson la congedò, dopo averle fasciato il braccio con una benda leggera che le avrebbe consentito ampia libertà nei movimenti.
Il dolore era quasi del tutto sparito e Rebecca si augurò che le cure di Garou avrebbero avuto la medesima efficacia. Non vedeva l’ora che il professore si riprendesse per poter parlare finalmente con lui di quanto successo nella caverna. Aveva molte cose da dirgli e domande da fargli.
“Sei dimagrita.” – le disse Barbara quando uscì dall’infermeria.
“Vorrei vedere te a mangiare pane e brodo di pollo per due settimane.”
“Non credo che avrei resistito. Piuttosto mi sarei data alla macchia.”
Rebecca entrò in Sala da Pranzo con le gemelle e, come si era aspettata, tutte si voltarono a fissarla.
Come se nulla fosse, prese posto al tavolo, tenendo ostinatamente gli occhi bassi.
“Sono diventata famosa, a quanto pare.” – commentò acida.
“Una celebrità.” – confermò Barbara. “Pensa che ieri una ragazza del secondo anno mi ha offerto del denaro.”
“Perché?” – domandò Rebecca sgranando gli occhi.
“Per sapere tutto sul tuo Potere, è ovvio.”
“E tu che hai fatto?”
Barbara sospirò mestamente. “Sta tranquilla, ho rifiutato.”
Rebecca si rilassò.
“Ma non è l’unica.” – continuò Barbara. “Sono tutte preda di una curiosità morbosa. Fossi in te non mi stupirei di venire aggredita solo per poter vedere la tua stella.”
A Rebecca andò di traverso il pollo.
“Si stancheranno presto, vedrai.” – disse Brenda. “In realtà non gli importa niente se hai salvato la vita a quattro persone.”
“Cinque, se includiamo Garou.” – precisò sua sorella.
“Gli interessi solo perché hanno scoperto che sei…diversa.” – continuò Brenda.
“Io non sono diversa.” – replicò Rebecca punta sul vivo.
Le gemelle la fissarono.
“Perché mi guardate così?”
“Beh, un po’ lo sei…” – disse Barbara.
“Ho solo un Potere che le altre non hanno.”
“Appunto. Quindi sei diversa.”
“Sono una Prescelta come tutte le altre. E non ho intenzione di farmi condizionare la vita qui ad Amtara solo per la loro stupida curiosità.” – rispose Rebecca arrabbiata.
“Nessuno ti ha detto di farlo.” – disse Brenda, sorpresa da quella reazione.
Le gemelle si scambiarono un’occhiata perplessa.
“Sicura di stare bene?” – le chiese Barbara, dopo un attimo di silenzio.
Sia lei che Brenda avevano intuito che c’era qualcosa che non andava e non poteva essere solo per via dell’attenzione delle Prescelte nei suoi confronti.
“Benissimo, perché?”
“Sembri un po’ nervosa.”
Rebecca lanciò un’occhiata alle Prescelte presenti in sala, che confabulavano tra loro lanciando, di tanto in tanto, occhiatine curiose nella sua direzione.
Si versò dell’acqua e bevve tutto d’un fiato.
Doveva darsi una calmata.
“Cosa c’è che non va?” – la incalzò Brenda.
Rebecca sapeva che ormai la conoscevano troppo bene per poter nascondere loro qualunque cosa.
Afferrò la forchetta e cominciò a giocherellare con il pollo avanzato.
“Si tratta della Collins.” – rispose.
“Che è successo?”
Rebecca raccontò della conversazione con la preside in infermeria e del divieto di usare il suo Potere.
“CHE COSA?!” – esclamò Barbara, facendo voltare parecchie teste verso di lei.
“Potresti abbassare la voce, per cortesia?” – sibilò Rebecca lanciandole un’occhiata di fuoco.
“Scusami.”
“Beh, in qualche modo dovevi aspettartelo.” – commentò Brenda.
Rebecca la guardò. “Non so perché, ma ero sicura che l’avresti detto.”
“Ragiona, Rebecca, e prova a metterti nei suoi panni. Se ti dovesse accadere qualcosa la sola ed unica responsabile sarebbe lei.”
“Penso di essere abbastanza grande per essere responsabile per me stessa.”
“Certo, fuori di qui. Ma in questa scuola no. Sei una Prescelta, ci sono regole da rispettare. Non puoi fare tutto quello che ti passa per la mente.”
“Ad ogni modo, non mi pare ti sia dispiaciuto vedermi comparire in quella grotta per liberarvi.” – replicò Rebecca acida.
Si era aspettata quella reazione da Brenda. A volte detestava la razionalità con cui affrontava qualunque argomento, una razionalità che né lei né Barbara possedevano.
“Sto solo considerando la cosa dal punto di vista della Collins.” – rispose Brenda pacata.
“E dal mio punto di vista, come la consideri, invece?”
Brenda si strinse nelle spalle. “Capisco che ti dia fastidio. Ma hai appena scoperto che Posimaar vuole ucciderti. Non ti sembra un motivo sufficiente, questo, per mettere da parte il tuo orgoglio per una volta?”
“Io non sono orgogliosa.”
Brenda tacque, limitandosi a fissarla con un sopracciglio inarcato.
“Nel caso vi interessasse la mia opinione, io penso che la decisione della Collins sia un’idiozia bella e buona.” – intervenne Barbara, approfittando dell’improvviso silenzio.
“Perché la cosa non mi stupisce?” – disse Brenda con malcelato sarcasmo.
“Andiamo, Brenda, la Collins non può mettere Rebecca sotto una campana di vetro. Per quanto ne sappiamo Posimaar potrebbe venirla a cercare proprio qui, in questo preciso istante. Non serve usare il Potere per considerarsi in pericolo. Rebecca è GIA’ in pericolo. Questa scelta non ha alcun senso.”
“Questa non è una  buona ragione per farle usare il Potere a suo piacimento. Proprio perché è in pericolo bisogna fare tutto il possibile per ridurre al minimo i rischi.”
Rebecca ascoltò quella conversazione, un po’ a disagio. Sembrava che le due amiche avessero dimenticato che stavano parlando di lei e che lei era lì, davanti a loro. Tutto ad un tratto si sentì come un pupazzo da proteggere e tutelare, invece che un essere umano in carne e ossa con dei sentimenti.
“Bah, io non sono d’accordo.” – disse Barbara, liquidando la questione con un gesto della mano.
“Beh, purtroppo per voi è la Collins che decide.” – replicò Brenda.
Rebecca la fulminò con gli occhi.
“E’ inutile che mi guardi così. Dovrai fare buon viso a cattivo gioco.”
 
Rebecca non aveva ancora avuto modo di rivedere Elettra e Justine dopo quanto successo con Cogitus. Voleva parlare con loro e trovò l’occasione per farlo un pomeriggio piovoso, in biblioteca.
Voleva saperne di più sul loro rapimento.
“Mi dispiace, Rebecca, ma io non ricordo un gran che.” – rispose Elettra mortificata. “Credo di essere svenuta e quando mi sono svegliata ero prigioniera in quella grotta, con un gran mal di testa.”
“Quindi non ricordi nulla del momento in cui Cogitus ti ha presa?”
“Temo di no. Mi spiace.”
“Io ricordo benissimo, invece.” – disse Justine accalorata.
“Davvero?”
“Come se fosse successo ieri. Credo che non lo dimenticherò per il resto della mia vita.” – aggiunse in tono tetro.
“Ti va di raccontarlo?”
“Mi sono svegliata perché ho sentito un rumore. La finestra, stranamente, era aperta ed entrava un vento gelido. Ho capito che c’era qualcuno nella stanza, ma era buio pesto e non si vedeva niente. Poi ho sentito qualcosa, una specie di rantolo, che mi ha fatto accapponare la pelle.”
Justine represse un brivido.
“Ho sentito qualcuno avvicinarsi a me e poi toccarmi il braccio. Ho urlato e sono balzata fuori dal letto. Lui ha cercato di bloccarmi ma sono riuscita a divincolarmi e, non so come, ho raggiunto la porta, anche se non vedevo niente. Ma non sono riuscita ad aprirla perché lui mi ha afferrata con forza spingendomi indietro. E’ stato orribile. Ho provato a gridare ma mi ha tappato la bocca e poi… e poi mi sono ritrovata aggrappata a lui e l’aria fredda della notte mi ha investito. Poi… credo di aver perso i sensi perché non ricordo altro. So solo che al mio risveglio ero nella prigione, con Elettra.”
Rebecca ed Elettra rimasero in silenzio per alcuni istanti. Non era stato facile per Justine rivivere il ricordo di quel giorno e Rebecca apprezzò molto il fatto che avesse accettato di condividerlo con lei.
“Mi dispiace molto, Justine.”
Justine scosse la testa. “E’ passato. Ma credo che non dimenticherò mai. È impossibile farlo.”
“Sandra come sta?”
Rebecca sapeva che Sandra aveva reagito molto male a tutto quello che era accaduto. Non aveva più avuto sue notizie da quando erano state liberate.
“Credo sia ancora molto scossa.” – rispose Elettra. “Anche se dice di stare bene e cerca di non darlo a vedere. Ma è evidente che non è così. Mi sento quasi fortunata ad essere svenuta quel giorno, altrimenti credo che nemmeno io la vivrei troppo bene, sai?”
“Sì, lo immagino.” – rispose Rebecca. “Sapete come è stata rapita? Ve lo ha raccontato?”
“L’ha raccontato a Giorgia. Ha detto di essere stata colpita nel sonno e di essersi risvegliata nella caverna, proprio come me.”
Rebecca sospirò. Cogitus aveva seminato il panico ad Amtara con il solo ed unico scopo di attirarla in trappola.
“Sei stata molto coraggiosa laggiù, sai?” – le disse Elettra.
“Sì. Il professor Garou è vivo grazie a te.” – disse Justine.
Rebecca sorrise.
“Senti, c’è una cosa di cui vorrei parlarti.” – disse Elettra, cauta. “Ecco, riguardo al tuo… beh, ecco, il tuo…”
“Il mio Potere?” – suggerì Rebecca.
“Sì. Abbiamo saputo che tutta la scuola ormai lo sa.”
“Già. Diciamo che Brenda non è stata il massimo della discrezione.” – commentò Rebecca in tono affranto.
“Sì, beh…. In effetti… non è stata colpa sua. Noi abbiamo fatto domande… sai, eravamo curiose.”
“Ti abbiamo vista sparire all’improvviso…” – si giustificò Justine.
“Sentite, non dovete spiegarmi nulla. Io… capisco benissimo e sapevo perfettamente che le cose sarebbero andate così. Ma l’unica cosa importante, in quel momento, era portare al sicuro Garou.”
“Beh, ad ogni modo mi dispiace per come sono andate le cose.” – continuò Elettra. “Voglio dire, so che ora tutte ti guardano come se venissi da un altro pianeta.”
“Ma noi non volevamo crearti problemi, davvero.” – disse Justine.
Rebecca sapeva che erano sincere ed apprezzò infinitamente le loro parole.
“Davvero, ragazze, non mi importa niente di quello che pensano le altre. E poi forse ha ragione Brenda, una volta sbollita la curiosità torneranno a guardarmi come prima. In fondo sono una Prescelta come tutte le altre.”
 
Quando lasciarono la biblioteca, era ormai il crepuscolo. Rebecca stava per salire in camera sua per cambiarsi per la cena, quando uno Gnomo la raggiunse per comunicarle che la Collins la stava aspettando nel suo ufficio.
“Adesso?” – gli chiese, sorpresa, ma lo Gnomo era già sgattaiolato via.
Cosa poteva mai volere da lei la preside ancora? Non si erano già chiarite quel giorno in infermeria? Non aveva nessuna voglia di intavolare un’altra discussione con lei e fu con passo pesante e l’animo depresso che si avviò verso il suo ufficio, sperando che la loro conversazione non fosse durata più di qualche minuto, così che avrebbe potuto raggiungere tranquillamente Brenda e Barbara a cena.
Arrivata di fronte alla porta, bussò.
“Avanti!” – disse la Collins.
Rebecca entrò.
La preside sedeva dietro la scrivania e di fronte a lei c’erano due persone che riconobbe immediatamente, anche se le davano le spalle.
La signora Lansbury si alzò di scatto correndole incontro e stringendola in uno dei suoi calorosi abbracci.
“Oh, Rebecca! Come sono felice di vederti! Stai bene?” – le domandò, guardandola in viso e accarezzandole i capelli.
Rebecca si ritrasse leggermente, presa alla sprovvista. Non si era aspettata di trovare lì i genitori di Brenda e Barbara. Il signor Lansbury le sorrideva tranquillo dalla poltrona.
“Sto bene, grazie, signora Lansbury. Ma… come mai siete qui?”
“Volevamo vederti, cara, per ringraziarti.”
“Ringraziarmi? Per cosa?”
“Come per cosa? Per aver salvato nostra figlia!” – esclamò la donna, evidentemente sconcertata per quella domanda.
Rebecca, rossa in viso, tacque, non sapendo cosa rispondere.
“Se non fosse stato per te ora la nostra Brenda probabilmente sarebbe morta!” – pigolò la signora Lansbury con voce acuta. “Non so cos’avrei fatto se fosse successo…. Ma grazie al cielo c’eri tu! Oh, cara! Cara!”
La signora Lansbury tornò ad abbracciarla e Rebecca, seppur in evidente imbarazzo, la lasciò fare.
Il signor Lansbury continuava a sorriderle e Rebecca gli fu intimamente grata per averle risparmiato quella manifestazione di affetto di fronte alla Collins.
Lanciò una breve occhiata alla preside che stava fissando intensamente alcune carte sulla scrivania. Era evidente che provava il suo stesso imbarazzo.
Rebecca sapeva che non era d’accordo con la signora Lansbury. Secondo la sua opinione lei non avrebbe dovuto trovarsi in quella grotta ma, pensò trionfante, era un dato di fatto che la sua decisione aveva salvato la vita a parecchia gente. E quella dimostrazione di gratitudine da parte dei genitori delle gemelle ne era la prova lampante.
Poi, anche il signor Lansbury si alzò, venendole incontro.
Limitandosi a posarle le mani sulle spalle, le sorrise di nuovo. “Sei stata molto coraggiosa, Rebecca, ti ringrazio dal profondo del cuore.”
“Beh, c’era anche Barbara con me.”
“Sì, lo sappiamo.”
“Quando Brenda è scomparsa era fuori di sé.” – continuò Rebecca, incurante della presenza della Collins. “Avrebbe fatto di tutto per ritrovarla.”
“Il loro legame è qualcosa di unico.” – disse la signora Lansbury, con gli occhi lucidi.
“E comunque, se non ci fosse stato il professor Garou non ne sarei uscita viva.” – aggiunse Rebecca. “E’ anche merito suo se tutto è andato per il meglio.”
“Ehm ehm.”
Si voltarono tutti e tre.
La preside, evidentemente, ne aveva avuto abbastanza.
“Sono certa che ora vorrete incontrare le vostre figlie, signori Lansbury.” – disse in tono glaciale.
I signori Lansbury si riscossero, un po’ imbarazzati.
“Sì, certo, naturalmente.” – rispose la donna. Poi si voltò di nuovo verso Rebecca. “Ma prima ci devi fare una promessa, mia cara. E bada che stavolta non accetteremo un no come risposta.”
“Quale?” – chiese Rebecca.
“Quest’estate dovrai passare qualche giorno con noi in montagna.” – rispose la donna raggiante.
Rebecca sorrise.
“Lo so che sei abituata al mare,” – disse il signor Lansbury “e la nostra casa non è molto grande ma, si respira aria buona, il cibo è buono e…”
“Accetto più che volentieri, signor Lansbury. Vi ringrazio infinitamente.” – lo interruppe Rebecca con un largo sorriso.
“Splendido! Oh, sono veramente felice!” – cinguettò la signora Lansbury. “Ma devi farci un favore. Non dire niente alle ragazze, vogliamo che sia una sorpresa, va bene?”
“Va bene.”
Quando uscirono dall’ufficio, Rebecca stava ancora sorridendo.
Sarebbe stata un’estate meravigliosa.

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Capitolo 20
*** Confronto ***


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Capitolo 20
“CONFRONTO”
 
All’inizio di giugno il professor Garou fu dimesso. Camminava con l’aiuto delle stampelle e il suo volto era ancora deturpato dalle ferite riportate nella terribile lotta contro il lupo.
Rebecca andò nel suo ufficio un pomeriggio, dopo la fine delle lezioni.
Garou stava sistemando le sue carte sulla scrivania.
“Disturbo?” – domandò Rebecca, affacciandosi sulla soglia.
Il professore alzò la testa, sorpreso di vederla.
“Niente affatto. Entra.”
Rebecca notò la pila di fogli sul tavolo. “Posso tornare in un altro momento, se ha da fare.”
“Oh no, non ti preoccupare. E’ tutto lavoro arretrato, ma può aspettare.”
Rebecca entrò, chiudendo la porta.
Aveva deciso da tempo di affrontare Garou, ma ora che era lì scoprì di sentirsi in imbarazzo. Non era facile, specialmente dopo tutti quei mesi passati a criticarlo e sospettarlo di essere una spia del Demone Supremo.
“Accomodati.” – la invitò il professore.
Rebecca obbedì.
“Come si sente?” – gli chiese.
“Un po’ acciaccato ma, considerate le circostanze, piuttosto fortunato.” – rispose sorridendo.
Rebecca abbozzò un sorriso e abbassò subito lo sguardo.
“Tutto merito tuo.” – disse Garou. “La Anderson mi ha detto che se non mi avessi portato subito qui, per me sarebbe stata la fine.”
“Ho fatto quello che dovevo.”
“Però mi dispiace per il prezzo che hai dovuto pagare.”
Rebecca lo guardò di sottecchi.
“Sì, le voci sul tuo Potere sono giunte fino a me.” – confermò il professore.
“Lo rifarei altre mille volte. Ma non sono venuta qui per parlare di questo.”
“Ah no?”
“No. Sono venuta per chiederle scusa.”
Garou aprì la bocca, sorpreso. “Per chiedermi scusa? E di cosa, buon cielo?”
“Per averla giudicata male fin dall’inizio. Per aver sospettato di lei, per averla detestata con tutte le mie forze.”
Il professore scoppiò a ridere. “Quando sei sincera, sei sincera!”
Rebecca arrossì, temendo di aver esagerato. Ma non ce la faceva più a tenersi tutto dentro.
“Mi dispiace.”
“Sai, mi ero accorto di non piacerti particolarmente, ma da qui a pensare che fossi io il colpevole…”
“Beh, le sue assenze erano quanto meno sospette. E ogni volta che tornava a far lezione aveva un aspetto terribile.”
Garou tornò serio. “Stavo male.”
Rebecca avrebbe tanto voluto chiedergli il motivo del suo malessere, ma c’erano altre cose che voleva sapere prima.
“Lo so. Per questo ho cominciato a pensare che qualcosa non andava. E poi che mi dice del giorno in cui Elettra è scomparsa?”
“Che vuoi dire?” – rispose Garou, inarcando un sopracciglio.
“Quel giorno in classe, quando la Collins è entrata per dire che Elettra era scomparsa, lei non ha battuto ciglio.”
“Che avrei dovuto fare?”
“Non lo so… mostrare un minimo di dispiacere, per esempio.”
“Cosa ti fa pensare che non fossi dispiaciuto?”
“Ma è ovvio! Se ne stava lì come se nulla fosse… La preside era fuori di sé, mentre lei…”
“La preside ha un carattere diverso dal mio.” – ribattè il professore accalorato.
Rebecca non rispose, limitandosi a fissarlo, scettica.
Garou respirò profondamente. “In realtà, queste mi sembrano tutte motivazioni piuttosto deboli a sostegno della tua tesi.”
“Ci sono altre cose che non mi quadrano.”
“Ad esempio?”
“Ad esempio il capitolo sui lupi mannari.”
Garou corrugò la fronte, frastornato. “Cosa?”
“Il capitolo 24, quello sui lupi mannari, che lei ha deciso di saltare. Mi ha detto che non faceva parte del programma del primo anno. Sa benissimo di aver mentito.”
“E tu come lo sai?”
“Questo non ha importanza.”
Il professore si stropicciò gli occhi, con aria stanca. “Sei bene informata, a quanto vedo.”
“Perché l’ha fatto?”
Garou alzò la testa. “Credo che tu conosca già la risposta.”
Rebecca spalancò gli occhi.
“Allora è vero…” – mormorò. “Lei è un licantropo.”
No, non era possibile. Era Cogitus quello che si era trasformato in lupo davanti ai suoi occhi. Era lui il mostro da combattere. Possibile che anche Garou fosse un lupo mannaro?
Il professore non rispose.
“Tutte quelle assenze,” – continuò Rebecca, parlando più a se stessa che all’uomo che le sedeva di fronte “le ferite, il suo aspetto…”
Ci aveva indovinato fin dall’inizio.
“Da quanto tempo lo sai?” – le chiese Garou.
“Da un po’.”
Garou abbozzò un sorriso stanco. “Devo riconoscerlo. Sei una Strega maledettamente in gamba, Rebecca Bonner. Qualcun altro lo sa?”
“Ne ho parlato solo con Brenda e Barbara, ma non penso mi abbiano mai creduto. La preside ne è al corrente?”
“Naturalmente. Non avrei mai potuto nasconderle una cosa simile.”
Rebecca lo fissò.
“Non ho mai costituito un pericolo per le Prescelte.” – precisò il professore, intuendo i suoi pensieri. “Se così fosse, la preside non mi avrebbe mai permesso di insegnare qui.”
Rebecca aveva qualche dubbio sul fatto che un licantropo come insegnante fosse cosa da niente, ma non lo disse.
“Per questo hai pensato fossi io a rapire le Prescelte, non è così?”
“E’ stato dopo la Premonizione su Elettra che ho capito.”
“Capito cosa? E di quale Premonizione stai parlando?” – domandò Garou, confuso.
“Poco prima che Elettra fosse rapita ho avuto una Premonizione. Vedevo la scena dalla parte di Justine e ho capito che l’aggressore aveva ben poco di umano. Doveva essere una bestia, o qualcosa del genere.”
“E così, quando hai capito che sono un licantropo, hai pensato che l’aggressore fossi io.”
“E’ logico. Chiunque al mio posto l’avrebbe pensato, perfino lei, lo ammetta.”
Garou annuì. “Assolutamente, non lo nego. Il tuo ragionamento è del tutto sensato.”
“Ma poi è successa una cosa. La notte in cui Sandra è stata rapita, ho notato che non c’era la luna piena.”
Garou si rilassò sullo schienale. “E così, di punto in bianco, tutte le tue congetture andavano a farsi benedire.” – replicò, sarcastico.
“Sì, più o meno. Com’era possibile che si fosse trasformato, se non c’era il plenilunio? C’era qualcosa che non quadrava. Ma poi, quando io e Barbara l’abbiamo vista nella foresta…”
Garou scattò sulla sedia, facendola sussultare. “Cosa? Mi avete visto?”
Rebecca annuì. “Eravamo nascoste dietro agli alberi. Poi l’abbiamo seguita fino alla radura. All’improvviso, pensavo che tutti i miei sospetti fossero fondati. Per quale altro motivo avrebbe dovuto trovarsi lì, se non perché aveva rapito le ragazze?”
“Certo, naturalmente.” – sussurrò Garou, strofinandosi gli occhi.
“L’abbiamo vista salire su quel sentiero e l’abbiamo seguita per un po’. Fino a quando ho lasciato lì Barbara e mi sono Spostata direttamente nella caverna. Volevo affrontarla di persona, una volta per tutte.”
“E quando hai visto che il vero nemico, invece, era il professor Cogitus? Come hai reagito?”
Rebecca arrossì di nuovo.
“Ero sotto shock.” – ammise, a malincuore. “Mi ero aspettata di trovare lei, e quando l’ho visto, quando ho sentito la sua voce, il tono con cui si rivolgeva alle prigioniere…. Era tutto talmente assurdo…”
Garou sospirò tristemente. “Certo. Chi mai avrebbe potuto sospettare del tranquillo e pacato professor Cogitus?”
Rebecca non rispose e abbassò gli occhi, sentendosi un’idiota.
“Sai, proprio per questo ho volutamente evitato l’argomento sui lupi mannari, in classe. Ero sicuro che qualcuna di voi avrebbe capito. Ma tu sei stata incredibilmente furba, hai intuito tutto, nonostante i miei sforzi per nascondere la mia… natura. La preside è stata molto buona con me, mi ha accolto in questa scuola, nonostante tutto. Sì, è vero, non sono mai stato un pericolo per nessuna di voi, forse solo per me stesso. Ma, in ogni caso, ero e rimango un licantropo. Dana Collins avrebbe potuto scegliere qualunque altro insegnante al mio posto, e invece ha scelto me, dando prova di estrema fiducia nei miei confronti. Ho cercato di evitare di destare sospetti su di me e credo di esserci riuscito. Penso tu sia l’unica ad essersi resa conto di cosa sono. Ma quando sono cominciate le sparizioni delle Prescelte, ho cominciato ad avere paura… paura che qualcuno potesse scoprire il mio segreto e accusarmi dei rapimenti. Proprio quello che hai fatto tu.”
Rebecca distolse lo sguardo, mortificata.
Deglutì a vuoto, con il senso di colpa che le mordeva le viscere. Non era piacevole ascoltare quelle parole, ma era esattamente così che erano andate le cose.
“Per questo, quando anche Brenda Lansbury è scomparsa, ho capito che non potevo più aspettare. Quanto tempo mi restava, ancora, prima che qualcuno venisse a conoscenza del mio segreto accusandomi di crimini che non ero stato io a commettere? Era tempo di agire. Dana Collins non avrebbe potuto proteggermi per sempre. Era arrivato il momento di porre fine a tutta quella storia e smascherare definitivamente il colpevole.”
“Quindi lei sapeva che era Cogitus? E’ andato a cercarlo quella notte perché aveva capito che si trattava di lui?”
“Niente affatto! Non avevo idea che fosse lui, finchè non sono arrivato nella grotta, proprio come te.”
Rebecca era incredula. Quindi Garou aveva fatto esattamente quello che avevano fatto lei e Barbara. Pur brancolando nel buio, aveva deciso di agire.
“E come mai ha deciso di andare a cercarlo nella foresta? Come sapeva che il suo nascondiglio era proprio lì? Io sono riuscita a scovarlo solo seguendo lei…”
“Mi sono fatto guidare dalle grida delle tue compagne. Sai, probabilmente il solo ed unico vantaggio di essere un licantropo è quello di avere un udito molto fine. Ero nella foresta quando ho udito le grida, e non ho fatto altro che seguire le voci.”
“Mentre io non ho fatto altro che seguire lei.”
Rebecca era sconvolta. Aveva creduto fino a quel momento che Garou avesse sospettato di Cogitus. Invece non era così. L’insegnante di Gestione Antiveggenza era stato tanto abile da riuscire ad ingannare tutti. Era stato solo per un caso fortuito se lei e Garou si erano ritrovati in quella grotta nello stesso momento, ritrovandosi a lottare insieme contro il nemico.
“E’ curioso, non trova? Il fatto che abbiamo preso la stessa decisione nella stessa sera.”
“Sì, anche se so che la preside non ha gradito molto la tua scelta.”
Rebecca si rabbuiò. “Gliel’ha detto?”
Garou sorrise. “Sei una Prescelta. Sei sotto la sua responsabilità. E’ stata una scelta piuttosto azzardata. E incosciente.”
Rebecca si infervorò. “Però ho ucciso Cogitus. E l’ho portata in salvo.” – puntualizzò in tono aspro.
“Lo so benissimo, non mi fraintendere.” – replicò Garou sulla difensiva. “Dico solo che comprendo il punto di vista della preside. Tuttavia, comprendo anche il tuo. Del resto, anch’io ho deciso di agire dopo l’omicidio dei due Gnomi…”
Rebecca sussultò. “Omicidio? Quale omicidio?”
Garou sollevò un sopracciglio. “Che significa quale omicidio? Non lo sai?”
“Due Gnomi sono stati uccisi?” – esclamò Rebecca, pallidissima. “Ma quando? Come?”
“Credevo lo sapessi.” – mormorò Garou, incredulo.
“E’ stato Cogitus? Ma com’è successo? Perché la Collins non mi ha detto niente?”
“Calma, calma.”
Ma Rebecca era fuori di sé e non aveva alcuna intenzione di calmarsi. Possibile che la preside avesse deciso di tenerglielo nascosto? Probabilmente aveva taciuto con tutta la scuola, per non destare preoccupazioni. Era sicura che nemmeno Brenda e Barbara ne sapessero nulla.
Poi, i suoi occhi si spalancarono in un’espressione di autentico stupore.
“Ma certo… Il giorno in cui Brenda è stata rapita. Sono salita in camera, ho guardato in giardino e non c’era nessuno. Mi era sembrato strano, visto che la Collins aveva messo Gnomi di guardia praticamente ovunque.”
Garou annuì con espressione grave. “Proprio così. E’ accaduto proprio quel giorno. Due Gnomi di guardia in quella parte del castello sono stati barbaramente uccisi. Li hanno ritrovati poche ore dopo, vicino al fiume. Ti risparmio i dettagli.”
“Cogitus li ha uccisi?”
“E chi altri? Erano un ostacolo per lui, ma era deciso più che mai a rapire Brenda per attirarti in trappola. Sapeva che se avesse preso una delle tue migliori amiche, non avresti avuto più esitazioni e ti saresti precipitata a cercarla.”
Rebecca strinse i pugni, piena di rabbia.
Due Gnomi, due creature innocenti erano morte per causa sua. Se solo non avesse aspettato tanto, se solo si fosse decisa ad agire molto tempo prima… ma la sua più grande fortuna era stata la provvidenziale presenza di Garou con lei in quella grotta. Se si fosse ritrovata sola con Cogitus probabilmente non sarebbe mai riuscita a sconfiggerlo da sola. Forse, dopotutto, c’era un motivo per tutto quello che era successo.
“Ma come faceva a sapere che Brenda sarebbe salita in camera proprio in quel momento?” – domandò Rebecca, ripensando agli avvenimenti di quel giorno. “Aveva dimenticato i libri di Protezione, è stato solo un caso…”
“Forse la stava spiando. O forse, semplicemente, aveva deciso di attendere il suo ritorno. In ogni caso, i due Gnomi che facevano da sentinella andavano eliminati.”
Rebecca rabbrividì. “Perché la Collins non mi ha detto niente?”
“Nessuna delle Prescelte lo sa. Abbiamo ritenuto opportuno non dire nulla. Ma, onestamente, ero convinto che a te lo avesse detto, considerate le circostanze.”
“Perché lo avete fatto?”
“Per non spaventarvi ulteriormente. Quello che è successo quest’anno ad Amtara è più che sufficiente, mi pare.”
Rebecca non rispose. Probabilmente avevano ragione, le Prescelte sarebbero andate in panico sapendo che Cogitus aveva commesso due omicidi proprio sotto il loro naso. Rabbrividì ancora, ripensando al momento in cui si era affacciata alla finestra. Forse Cogitus aveva ucciso proprio in quel momento, forse stava nascondendo i loro corpi lontani da lì, mentre conduceva Brenda con sé. E lei era rimasta lì senza fare nulla, correndo a cercare la Collins che non era nemmeno ad Amtara.
Cosa sarebbe successo se avesse agito immediatamente? Se fosse corsa in giardino, se fosse uscita da scuola e avesse cercato subito l’aggressore nella foresta? Avrebbe trovato Cogitus e Brenda, probabilmente, ma poi? Come lo avrebbe affrontato da sola?
No, non ce l’avrebbe mai fatta senza l’aiuto di Garou. Ma lui, forse, avrebbe potuto ucciderlo da solo…
“Perché non è mai andato a cercarlo quando… quando si trasformava?”
La domanda le era affiorata sulle labbra quasi senza che se ne rendesse conto.
“Come?” – sussurrò il professore, totalmente spiazzato da quella domanda.
“Cogitus. Si trasformava in lupo, esattamente come lei. Avrebbe potuto affrontarlo da pari a pari, in una qualsiasi notte di luna piena. Perché non l’ha mai fatto?”
“Ti ho appena detto che non sapevo che fosse lui. E non sapevo nemmeno che fosse una specie di licantropo.”
“Ma sapeva che c’era qualcuno che rapiva le Prescelte. Avrebbe potuto andare a cercarlo, fare qualcosa.”
“Le mie notti da licantropo non sono così tranquille come credi.” – puntualizzò Garou in tono gelido.
Rebecca arrossì. Aveva toccato un nervo scoperto, senza rendersene conto. D’altra parte, l’aspetto emaciato del professore ogni volta che riprendeva le lezioni non lasciavano spazio a dubbi. Doveva essere terribilmente doloroso per lui affrontare la trasformazione e subirne le conseguenze. Avrebbe voluto chiedergli di più, spinta dalla curiosità di conoscere i dettagli, sapere come accadeva, dove andava, se aveva mai incontrato qualcuno, o ucciso qualcuno… Ma si trattenne.
“E poi dimentichi un particolare fondamentale.” – aggiunse Garou.
“Quale?”
“Io non sono un assassino.”
“Nemmeno io. Ma ho dovuto ucciderlo.”
“E’ diverso. Tu l’hai ucciso per difesa. Non vado certo fiero della mia natura. Non mi piace ciò che succede ogni volta che mi trasformo e temo per l’incolumità di coloro per i quali potrei costituire un pericolo. Per quanto malvagio possa essere stato il professor Cogitus, non avrei mai potuto approfittare del mio stato per battermi con lui.”
Rebecca strinse gli occhi. “Qualcuno doveva pur farlo.” – precisò, un po’ aspra.
Non capiva le sue parole. Cogitus si era rivelato un essere talmente infimo che la morte era l’unica cosa che meritava. Perché Garou si dimostrava tanto magnanimo verso chi lo aveva ridotto in fin di vita?”
“So che non comprendi appieno le mie parole…”
“No, infatti.”
Garou sospirò. “Cogitus era un assassino. Tu ed io non lo siamo, Rebecca.”
“Ma io l’ho ucciso.”
“Non intenzionalmente. Non di tua spontanea volontà. Lui ha ucciso quegli Gnomi a sangue freddo, senza alcuna pietà. E avrebbe fatto lo stesso con te e con me. Questa è la grande differenza. Come ti sei sentita dopo averlo pugnalato?”
Rebecca ripensò a quel momento. Non ricordava poi molto, era spossata e vicina al crollo. La lotta contro Cogitus l’aveva ridotta in uno stato pietoso.
“Ero sollevata, perché finalmente era tutto finito. Ma… allo stesso tempo… ero come svuotata. Triste. Non so come spiegarlo.”
Garou annuì. “Ecco, è esattamente così. Non riesci a spiegarlo, ma è proprio la differenza di cui ti ho parlato. La differenza tra chi uccide perché vuole farlo, e chi lo fa solo per legittima difesa.”
Rebecca tacque.
Il professore si alzò, afferrò le stampelle e le si avvicinò.
“Devo dedurre che dopo questa conversazione hai finalmente sotterrato l’ascia di guerra?” – le chiese con una punta di sarcasmo.
Rebecca arrossì. “Beh… penso di sì.”
Garou scoppiò a ridere. “Non volevo metterti in imbarazzo. Su, andiamo. Devo prepararmi per la cena. Non vedo l’ora di tornare ad assaggiare le squisitezze dei nostri cari Gnomi.”
Si avviò verso la porta e Rebecca lo seguì.
“Però, mi raccomando, non dire nulla all’infermiera Anderson. Non vorrei pensasse che io non abbia apprezzato il suo brodo di pollo.” – aggiunse strizzandole l’occhio.
Rebecca rise.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 21
*** Il fantasma ***


Questa storia si conclude qui, ma le avventure di Rebecca ad Amtara non sono finite.
Presto pubblicherò la seconda parte.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto la mia storia, che hanno tremato, gioito, pianto insieme alla mia Rebecca.

A presto!



CAPITOLO 21
“IL FANTASMA”
 
L’ultimo giorno di scuola Rebecca, Brenda e Barbara si alzarono presto. I signori Lansbury sarebbero arrivati per le nove e avevano giusto il tempo di fare colazione e chiudere le valigie.
Quando scesero al piano terra, era il caos. L’atrio di fronte al portone d’ingresso era gremito di Streghe e dei loro bagagli. Con il graduale arrivo dei familiari, la confusione aumentò e Rebecca e le gemelle si dileguarono in Sala da Pranzo per fare colazione con calma e godersi il loro ultimo pasto ad Amtara.
Quando scesero con i loro bagagli, scoprirono che molte Streghe erano già partite.
Trascinarono le valigie lungo il vialetto e si fermarono fuori dal cancello, in attesa.
Rebecca guardò l’orologio. Mancavano dieci minuti alle nove.
Faceva già un caldo terribile.
Si voltò per un momento ad osservare l’imponente edificio che era stata la sua casa per tutti quei mesi. Il primo anno ad Amtara era volato. Era stata bene, nonostante tutto, e aveva scoperto, forse per la prima volta nella sua vita, il vero significato dell’amicizia.
Amtara le sarebbe mancata, ne era sicura. Ma era felice di rivedere la sua casa, di respirare di nuovo l’aria salmastra, di poter tornare alle sue lunghe passeggiate sul bagnasciuga. Villa Bunkie Beach le era mancata moltissimo…
Rebecca osservò le Streghe partire con le loro famiglie, provando una punta di irritazione. Se non fosse stato per il divieto impostole dalla Collins, avrebbe potuto tranquillamente usare il suo Potere per tornare a casa. Ma non aveva avuto scelta e si era vista costretta ad accettare l’invito delle gemelle a tornare a casa con loro.
Come promesso alla signora Lansbury, non aveva detto nulla a Brenda e Barbara sulla vacanza che avrebbero trascorso insieme e si chiese che faccia avrebbe fatto Barbara quando l’avrebbe vista arrivare da loro in montagna. Ricordava molto bene quanto ci era rimasta male quando Rebecca aveva deciso di passare il Natale a scuola. Ora, finalmente, avrebbero potuto recuperare il tempo perduto anche se, ripensando agli avvenimenti degli ultimi mesi, Rebecca era felice di aver passato il Natale a scuola. Aveva avuto modo di conoscere meglio Elettra e grazie a lei aveva scoperto il segreto di Garou. No, non si era affatto pentita della sua scelta, ma ora era pronta ad affrontare quella lunga estate con il cuore più leggero. Ora avrebbe potuto godere pienamente di quella vacanza in montagna, anche senza le neve.
Quando i signori Lansbury arrivarono con la loro vecchia auto bordeaux, il signor Lansbury scese subito per caricare i bagagli. Rebecca vide correre verso di loro uno Gnomo, tutto trafelato, per dargli una mano.
“Faccio da solo, grazie.” – gli disse il signor Lansbury.
Lo Gnomo, un po’ offeso, se ne andò via, borbottando qualcosa a proposito di genitori ingrati.
“Non sei stato molto gentile, papà.” – lo rimproverò Barbara.
“Che ho detto di male?”
“Agli Gnomi fa sempre piacere dare una mano. Sono qui per questo.”
“Beh, ma io non ne ho bisogno. Non volevo essere scortese.” – ribattè l’uomo mortificato. “Credi che dovrei andare a scusarmi con lui?”
Barbara alzò gli occhi al cielo. “Lascia perdere.”
Intanto, la signora Lansbury era scesa dall’auto.
“Oh, Rebecca, come stai cara?” – esclamò, correndo verso di lei e stritolandola in uno dei suoi calorosi abbracci.
“Bene, grazie, signora Lansbury. Mi dispiace solo darvi tanto disturbo…”
“Oh, cara, non dirlo nemmeno per scherzo.” – rispose la donna, picchettandole dolcemente sulla spalla. “Per noi è un piacere accompagnarti a casa.”
“Ciao mamma, anche noi siamo felici di vederti.” – disse Barbara, con evidente sarcasmo.
La signora Lansbury abbracciò entrambe le figlie.
“Ecco qua, è tutto a posto.” – disse il signor Lansbury, chiudendo il portabagagli. “Possiamo andare.”
La signora Lansbury prese posto davanti, Rebecca salì dietro di lei, seguita da Brenda.
“Cavolo!” – esclamò Barbara, toccandosi la fronte con una mano.
“Che c’è?” – le chiese sua sorella.
“Ho dimenticato il beauty case in bagno!”
“Sei sicura?”
“Ma sì, dovevo metterlo in valigia dopo essermi lavata i denti e invece l’ho lasciato lì. Papà, dammi due minuti. Vado a prenderlo e arrivo.”
“D’accordo.” – rispose il signor Lansbury.
“Aspetta!” – le gridò dietro Rebecca.
Barbara si fermò.
“Ci vado io. Così saluto la Collins. Nella fretta della partenza, mi sono dimenticata di farlo.”
Barbara aggrottò la fronte. “Cosa?”
Ma Rebecca era già scesa dall’auto e si stava avviando a passo deciso verso la scuola.
In realtà, il saluto alla preside era soltanto una scusa. Rebecca non aveva la minima intenzione di parlare con lei, anche perché non aveva mandato giù il suo divieto di usare il Potere a scuola.
In realtà, voleva approfittare dell’occasione per salutare Amtara, che ora era immersa in un silenzio che appariva surreale, rispetto al caos di solo pochi minuti prima.
Superò agilmente alcune fate che stavano chiacchierando, evidentemente felici di poter avere nuovamente il castello tutto per loro. Poi, prima di salire sulle scale, vide un gruppo di genitori che parlavano con la preside.
“Bonner, dove stai andando?” – le domandò la Collins vedendola passarle accanto a tutta velocità.
Rebecca represse un’imprecazione. Parlare con lei era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare.
Si fermò.
“Devo tornare in camera, professoressa. Barbara ha dimenticato il suo beauty case.” – rispose arrossendo di fronte agli sguardi incuriositi dei genitori.
Si domandò se sapessero di lei. Probabile, dal momento che tutta la scuola era a conoscenza di Rebecca Bonner e dello straordinario Potere grazie al quale aveva salvato la vita al professor Garou.
Senza attendere la risposta della preside e ignorando le occhiate curiose degli altri, si precipitò sulle scale.
Arrivò nel corridoio, vuoto, gustandosi il silenzio.
Era così strana Amtara senza le Prescelte…
Entrò in camera, andò in bagno e trovò l’oggetto che cercava proprio sul lavandino.
Sorrise tra sé, pensando alle parole di Brenda. “Se non avesse la testa attaccata al collo, mia sorella dimenticherebbe anche quella.”
Prese il beauty case e si voltò, ma si bloccò immediatamente, colpita da una luce abbagliante che proveniva dalla stanza da letto.
Schermandosi gli occhi con una mano, fece un passo indietro, spaventata.
Poi, il beauty case le scivolò tra le mani e cadde a terra.
Con il respiro mozzato, Rebecca non riusciva a credere ai propri occhi.
Attirata da quella visione, fece due passi avanti, finchè non uscì dal bagno e si ritrovò di fronte a qualcosa che era semplicemente inconcepibile per la sua mente.
Eppure non stava sognando.
Davanti a lei c’era una donna.
Quando i suoi occhi si abituarono alla luce, Rebecca per poco non svenne.
Tremando, si appoggiò allo stipite della porta, per non cadere.
Non era possibile, non poteva essere lei.
Eppure…
Rebecca trovò il coraggio di guardarla negli occhi, quegli stessi occhi che l’avevano accompagnata per una vita intera.
Era un angelo? Era reale? O era solo la sua immaginazione che le stava giocando uno scherzo di pessimo gusto? Sì, doveva essere per forza così. Non era reale, non era possibile che lei fosse lì, di fronte a lei, i suoi stessi capelli rossi, la pelle di porcellana e il suo sorriso…. Quel sorriso…
“Rebecca.”
“M-mamma?”
La donna sorrise, in un tacito assenso.
Rebecca si coprì la bocca con entrambe le mani.
Era proprio lei.
Banita era lì, ad un passo da lei e le tendeva la mano.
“Tesoro, vieni, non avere paura.”
Ma Rebecca non riuscì a muoversi.
“N-non è possibile. Sei proprio tu?”
“Si, sono io. Vieni, avvicinati.”
Rebecca mosse un piccolo passo, senza mollare la presa sullo stipite della porta. Era certa che se lo avesse lasciato sarebbe crollata a terra. Le gambe le tremavano e il suo cuore stava per esploderle nel petto.
“Tu… tu sei morta.” – balbettò.
“Sono tornata indietro, per te.” – rispose la donna, senza smettere di sorridere.
“Credevo che queste cose accadessero solo nei sogni. Non è possibile…”
“Ormai dovresti avere imparato che non c’è niente di impossibile.”
Rebecca fece un risolino nervoso.
Stava forse impazzendo? Era in quella stanza per puro caso, solo perché Barbara aveva dimenticato quello stupido beauty case. E sua madre aveva deciso di mostrarsi a lei proprio in quel momento. Perché non era venuta prima? Non sapeva quanto avesse sofferto dopo la sua morte? Perché soltanto ora?
“Sono venuta per parlarti.”
“Di cosa?”
“Di molte cose. Ma non ho molto tempo.”
“Perché proprio adesso? Perché non sei venuta prima?” – replicò Rebecca, con le lacrime agli occhi.
Avrebbe voluto correre da lei e abbracciarla, ma non era Banita, era solo l’ombra di ciò che era stata. Quell’abbraccio sarebbe stato inconsistente, vuoto, privo di calore.
“Perché mi è stato concesso solo ora.” – rispose la donna facendosi tutto ad un tratto seria. “Non possiamo mostrarci a voi. Ma stavolta hanno fatto un’eccezione.”
“Hanno fatto? Chi?”
“Non ha importanza. Ora devi ascoltarmi, Rebecca. Io non me ne sono mai andata. Ho sempre vegliato su di te. Sempre.”
“Mamma…” – mormorò Rebecca, ma le parole le morirono in gola.
Soffocò un singhiozzo e non potè impedire alle lacrime di scendere. Le lasciò scorrere, sperando che portassero via tutto il dolore tanto a lungo accumulato.
“Tesoro, non piangere. Lo so che ti senti sola…”
No, la verità era che non lo sapeva. Avrebbe tanto voluto dirle cosa significasse restare a Villa Bunkie Beach senza di lei, senza il suo calore, senza il suo conforto. Si, ci aveva provato ad essere forte, ma la sua vita non era più la stessa da quando se n’era andata. Avrebbe voluto gridarglielo in faccia, ma le parole non uscirono.
Rebecca, le braccia abbandonate lungo i fianchi, piangeva sommessamente.
Sua madre era venuta per lei, ma se ne sarebbe andata via di nuovo, stavolta per sempre. Come avrebbe potuto sopportarlo? Non sarebbe stato meglio se non fosse venuta? Perché era lì? Perché voleva riportare a galla tutto il suo dolore?
Eppure, la dolcezza che lesse nel suo sguardo cancellò tutta la sua rabbia. Banita era lì, sorridente, dolce, amorevole, come era sempre stata. Oh, quanto avrebbe voluto sentire ancora una volta le sue braccia attorno a lei! Una sola, ultima volta!
“Da quando me ne sono andata non ho mai smesso un solo giorno di proteggerti. Sempre. Quel pugnale d’argento…”
Rebecca sgranò gli occhi. “Sei stata tu?” – mormorò.
Banita annuì.
“Ma io…. Credevo appartenesse a Cogitus…”
“No. Sapevo che con quello avresti potuto ucciderlo e salvare le Prescelte e Garou. Solo un’arma d’argento avrebbe potuto spezzare la maledizione di Posimaar e uccidere il suo fedele alleato.”
“Non lo sapevo…”
“Tesoro, sei stata magnifica, e incredibilmente coraggiosa. Sono così fiera di te…”
Rebecca non rispose. Non aveva minimamente immaginato che Cogitus fosse sotto l’incanto di una maledizione del Demone Supremo, né tantomeno che occorresse una lama d’argento per ucciderlo.
Senza l’aiuto di sua madre, non sarebbe mai riuscita a sconfiggerlo e probabilmente non sarebbe sopravvissuta. Sarebbero morti tutti, lei, le ragazze e Garou.
“Sono venuta per questo. Dovevi saperlo, Rebecca, dovevi sapere che io sono con te, sempre, in ogni momento. E dovevi sapere quanto io sia orgogliosa di te.”
“Oh mamma…”
“So quanto hai sofferto, tesoro mio, so quanto ti è costato affrontare tutto questo da sola. Ma sei stata incredibile, hai imparato ad usare il Potere, hai salvato delle vite…”
“Perché non sei venuta prima?” – sbottò Rebecca, tra le lacrime. “Io avevo bisogno di te!”
“Te l’ho detto. Non potevo.”
“Avresti potuto mandarmi un segno, qualunque cosa… Ero sul punto di mollare tutto…”
“Però non l’hai fatto! Sei andata avanti e ce l’hai fatta! Sapevo che sarebbe andata così, perché sei mia figlia. Ce l’hai nel sangue.”
Ce l’hai nel sangue… glielo aveva ripetuto così tante volte, quando era piccola.
“E’ stato terribile.” – disse, asciugandosi le lacrime.
“Lo so. Ma ora sei più forte. Sei diventata una vera Prescelta.”
“Non m’importa!”
“Invece deve importarti! Questo è quello che sei, è il tuo destino.”
“Torna da me.” – la supplicò. “Ti prego.”
“Io ci sono. Non me ne sono mai andata.”
“Non è vero…” – mormorò Rebecca, disperata, ma ormai consapevole che presto anche quel miraggio se ne sarebbe andato per sempre.
“Mi stanno chiamando. Devo andare.”
“Aspetta…”
“Ricorda sempre le mie parole, amore mio. Mi hai reso una madre orgogliosa. Sono fiera di te.”
“Ti prego, non andartene..”
“Ti voglio bene. Vivi la tua vita meravigliosa. Io veglierò sempre su di te.”
“Mamma..”
Banita svanì e il cuore di Rebecca ripiombò nel buio.
 
“Ci hai messo un secolo!” – esclamò Barbara, quando la vide arrivare.
Erano tutti scesi dall’auto e la stavano aspettando.
“Scusate. La Collins aveva delle cose da dirmi…” – si giustificò Rebecca, evitando i loro sguardi.
Non era scesa subito, ancora troppo sconvolta per quello che era accaduto. Si era seduta sul letto, aspettando che il cuore rallentasse i battiti e respirando a fondo.
Poi si era asciugata le lacrime e aveva sceso le scale, con il cuore in tumulto e un’angoscia profonda che le opprimeva il petto.
Aveva ignorato le occhiate incuriosite delle fate ed era uscita dal portone, nel sole del mattino, senza più voltarsi indietro.
“Ti senti bene?” – le domandò Brenda.
Rebecca avrebbe voluto urlare.
“Sì, perché?”
“Sei un po’ pallida.”
Rebecca non rispose e salì in macchina.
Non l’avrebbe mai più rivista, lo sapeva. Ma era stato bello poter parlare di nuovo con lei, anche se per poco, rivedere il suo volto dolcissimo, sapere che non l’aveva abbandonata.
No, sua madre non sarebbe mai morta, non finchè sarebbe vissuta nel cuore di sua figlia.
Il signor Lansbury avviò il motore e partì.
Rebecca si voltò per guardare, un’ultima volta, le bianche mura di Amtara, fino a che non sparirono dietro la prima curva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
JACK
 
“Ha fallito! Quel miserabile!”
Jack strinse convulsamente il bicchere di vino tra le mani e lo scagliò contro lo specchio davanti a lui. Il vetro s’infranse e un rivolo rosso scivolò giù lungo la superficie.
“Non ha alcuna importanza.” – sussurrò la voce. “Questo era solo l’inizio.”
“NO!” – gridò Jack. “Lei doveva essere mia!”
“E lo sarà. A tempo debito.”
“Non avrei dovuto fidarmi di lui… così debole… così stupido…”
“Inutile piangere sul latte versato. Ora devi guardare avanti, trovare un altro modo.”
“Sì, ma quale? QUALE?”
Jack si prese la testa fra le mani, disperato.
“Sta calmo. Forse ho un piano…”
Lentamente, Jack alzò la testa.
Fissò la sua immagine spezzata, riflessa nello specchio in frantumi e ascoltò.
Quando la voce finì di parlare, un ghigno feroce gli increspava le labbra.
Finalmente, Rebecca Bonner sarebbe stata sua.
 
 

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