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Lista capitoli: Capitolo 1: *** A first meeting to forget *** Capitolo 2: *** I don't believe it! *** Capitolo 3: *** When words hurt *** Capitolo 4: *** They are all better with cream *** Capitolo 5: *** Supermarkets have the red colour of embarrassment *** Capitolo 6: *** The old wound burns, isn't it? *** Capitolo 7: *** How can you forget those eyes? *** Capitolo 8: *** «You didn't understand a fucking fucking thing!» *** Capitolo 9: *** "I have to like to you" *** Capitolo 10: *** What is he really thinking? *** Capitolo 11: *** Why? *** Capitolo 12: *** It's better that you go *** Capitolo 13: *** Opposites attract? Or who looks alike? *** Capitolo 14: *** Wait a moment: one, two... three? Who's he? *** Capitolo 15: *** 15. Who's who? *** Capitolo 16: *** Take care of your own stuff, ok? *** Capitolo 17: *** Lee Min Soo *** Capitolo 18: *** Remember when... *** Capitolo 19: *** Let's try again *** Capitolo 20: *** Welcome back, Mr. Youtuber *** Capitolo 21: *** Give me another shot, please *** Capitolo 22: *** The library of idiotic revelations *** Capitolo 23: *** Grethe *** Capitolo 24: *** High expectations vs facts *** Capitolo 25: *** The meaning of shipping ***
La
ragazza si voltò indietro in direzione di una voce familiare.
L'amica Aya le stava correndo appresso col fiatone.
«Ciao!
Che ci fai qui?»
«Ma
come, non hai sentito la novità?»
Visibilmente
confusa la guardò alzando le spalle: «di cosa?»
«Dove
vivi? Soprattutto tu poi! La Sho.Nen ha dichiarato di aver in
programma la distribuzione di nuovi progetti yaoi in occidente. È
un miracolo, potremmo trovare molti più titoli qui da noi!»
«E
tu sei venuta fino a qui solo per dirmelo?»
«Stronza
come sempre, cerca di limare un po' questo caratterino altrimenti non
ti troverai mai un ragazzo.»
Scoppiò
a ridere sonoramente in mezzo alla strada. «Chi lo vuole un
ragazzo? Portano solo a delle grane, vogliono svuotarsi i coglioni e
poi andarsene come nulla fosse successo.»
«Sei
senza speranze.»
«Hai
una visione troppo romantica della vita, e ne soffrirai. Ricordati
delle mie parole.»
«Sì,
Nostradamus.»
Nonostante
l'effettivo tono ironico con cui la mora s'era rivolta all'amica, le
due erano molto unite fin dagli anni del liceo.
«Comunque
non vedo l'ora: basta scan incomprensibili, io sono proprio negata
con l'inglese figuriamoci. Non come te, che tutti i giorni controlli
gli aggiornamenti sui siti internazionali.»
«Beh,
l'idea di non dover ordinare volumi stranieri su internet mi intriga,
lo ammetto.»
Le
due camminavano una accanto all'altra sul marciapiede: spiccavano per
il loro essere praticamente agli antipodi. Raon, coreana di origine,
dai tipici canoni fisici orientali discostava nettamente dalla
biondissima Aya, alta più di lei di almeno quindici
centimetri. Distanti sì, ma con la stessa passione per gli
shojo manga, per le storie d'amore su carta ed il mondo dello shonen
ai e dello yaoi. Frequentavano persino gli stessi corsi all'ateneo.
Raggiunsero
il loro solito ritrovo dopo essersi fermate a prendere un caffè
al volo. Lo definivano la loro seconda casa: la fumetteria più
fornita della città. Conversarono un paio di minuti con il
titolare per poi dirigersi verso il reparto che più
preferivano.
«Allora?
Trovato qualcosa?»
Raon
stava passando in rassegna i vari scaffali, non trovando ciò
che desiderava portarsi a casa; la rassegnazione s'era impossessata
di lei ormai, come era dipinta sul volto di Aya. Difficilmente i suoi
occhi grigi si spegnevano, ma il ritardo sulle pubblicazioni era
qualcosa che tollerava poco. Molto poco.
«Qualche
problema ragazze?» L'uomo dietro alla cassa aveva sempre una
parola di conforto per chi amava quel mondo di fantasia.
«Il
solito: aggiornamenti inesistenti.»
«Sapete
com'è. È un genere non ancora reperibile facilmente.
Però stando alla Sho.Nen le cose dovrebbero cambiare a breve.
Su, non abbattetevi.»
«Fossero
tutti come te...»
«Eccomi,
unico e inimitabile. Beh, nel caso arrivi qualcosa, vi avvertirò
via mail come sempre.»
Il
discorso venne interrotto dal tintinnio del campanellino della porta:
il ragazzo appena entrato focalizzò un attimo lo sguardo su
Raon per poi darle le spalle e rivolgersi al padrone del negozio. Aya
strattonò l'amica per il cappotto; «ehi, quel biondino
non ti ricorda qualcuno?»
«Chi
vuoi che...» osservò meglio i lineamenti, il taglio
spigoloso del viso, i capelli biondi fino alle spalle. «Ehi,
hai ragione!»
Stavano
cercando di focalizzarsi sulla figura alta e magra, riconoscendo lo
stile di vestiario decisamente ricercato. Continuarono a sussurrare
tra loro, constatando che di tutte le possibilità esistenti,
ritrovarselo lì sarebbe stato davvero quasi impossibile. Aya
estrasse il cellulare controllando l'identità del non più
sconosciuto cliente grazie alla ricerca delle immagini su internet.
«Raon, è lui!»
Il
diretto interessato, accortosi del farfugliare continuo alle sue
spalle si girò sorridendo, scusandosi un momento con l'uomo e
raggiungendo le due.
«Tutto
bene?»
«Sì,
ci stavamo solo chiedendo se tu fossi davvero...» la bionda
arrossì un attimo, indicando lo schermo dello smartphone.
«Hai
ragione, sono io. E voi?» Si chinò sul reparto di manga
esposti, assumendo un'espressione divertita. «Direi delle
pervertite che leggono porno giapponesi, eh?»
Raon
non riuscì a tenere a freno la lingua: «sei una testa di
cazzo lo sai?»
Lui
rise di gusto poggiando la mano sulla spalla della bruna minuta.
«Lieto
di esserlo per te.»
«Toglimi
di dosso quelle dita sennò te le spezzo.»
I
toni decisamente alti vennero smorzati dall'intervento del titolare.
Lo "sconosciuto conosciuto" si staccò dalle ragazze
ritirando una borsa di articoli preordinati e pagando rapidamente;
posò lo sguardo su di loro sorridendo ancora prima di uscire,
continuando ad osservarle dall'esterno attraverso l'ampia vetrata del
negozio. Dall'interno la mora mimò una smorfia con la lingua
ed alzò il dito medio, voltandosi poi stizzita.
«Può
essere chi vuole, non fa differenza: un vaffanculo se lo merita
comunque.»
Buongiorno
a tutti! Direi che questa storia non è certo cominciata nel
migliore dei modi, giusto?
Questa
è la prima long ispirata a personaggi esistenti (che non siano
attori che vestono panni di supereroi XD) in cui mi cimento, e mi
auguro di fare un buon lavoro. Non essendo considerati cantanti
famosi, i loro nomi non sono previsti nell'elenco e dunque li ho
messi nelle original, rifacendomi semplicemente al nome e l'aspetto
fisico. Tutto ciò che riguarda abitudini, carattere,
quotidianità è di mi invenzione.
Raon
Lee è una youtuber sudcoreana e cantante cover K-Pop della
Worner Music Korea, per intenderci interpretazioni di opening di
Naruto e altri anime... Beh, riguardo al protagonista maschile, non
ve lo svelo adesso altrimenti l'alone di mistero si perde, ahahah!
Non
nego di sentirmi un po' in soggezione all'idea di cominciare un
progetto simile (visto che non ho ancora altri progetti da
concludere, nooooo -.-), eppure sono entusiasta, addirittura euforica
all'idea! Mi auguro di essere all'altezza di ciò che la
mia testa ha concepito, e riuscire a dare forma a qualcosa di
interessante e gustoso da leggere.
«Spiegami
ancora questa faccenda del trasferimento?»
«Non
voglio parlarne, lasciamo perdere.»
«E
poi perché proprio questo posto?»
Åsli
si spazientì, fulminando l'amico con lo sguardo: «senti
Josh, lasciamo stare. Sono qui per questioni personali e sinceramente
non vedo l'ora di arrivare a casa e andare a dormire.»
Il
guidatore svoltò a destra inforcando la strada indicata dal
navigatore. Accese la radio nel tentativo di scacciare via il
silenzio pressante e disperdere almeno parte dell'atmosfera tesa. Il
genere scelto non era certo tra i favoriti del biondo al posto del
passeggero, che cominciò a toccare convulsamente i tasti del
frontalino cercando di sfogare la propria rabbia.
«Hai
intenzione di rompermelo per caso? Il tempo che trovi qualcosa che ti
piace e siamo già arrivati.»
Quel
giorno le parole dell'amico stavano davvero minando alla sua ben poca
capacità collaborativa di convivere con gli altri esseri
umani.
«Josh,
sei stressato tu e sono stressato io. Perché non ti prendi i
tuoi begli occhialini firmati, la tua pseudo barbetta da mancato
hipster e non te li ingoi insieme a quel farfallino del cazzo che
tieni al collo?»
«Senti
biondino metallaro mancato, tu e i tuoi zigomi alla cazzo di can post
anime giapponese anni '80, potete anche uscire da questa macchina e
andare a piedi.»
Scoppiarono
a ridere: gli insulti facevano parte del loro rapporto quotidiano.
Nessuno dei due era solito utilizzare il famoso filtro cervello-bocca
che solitamente si attiva nell'essere umano in quanto animale
sociale, eppure andava bene così. Si sopportavano poco,
litigavano spesso eppure davano la massima fiducia l'uno all'altro.
Non per niente Åsli aveva scelto proprio lui come
accompagnatore per raggiungere la nuova casa. Stufo di alloggiare
ogni volta in una stanza diversa in qualche hotel della zona, riuscì
a trovare una piccola abitazione in affitto disponibile fin da
subito; certo, il basso costo mensile comprendeva una certa distanza
dal centro, la mancanza di mezzi pubblici a orari decenti, e pure la
lontananza da qualsiasi punto di svago. Insomma, una certa differenza
dalla vita precedente. Proveniente da una grande cittadina, abituato
a servizi efficienti e trasporti rapidi, avrebbe fatto fatica a
prendere ritmi tanto distanti da quelli usuali, ma tutto pur di
sentirsi nuovamente stabile. Non avere radici, non vivere più
nel luogo natale, stare lontano da tutti, da lei.
Aveva
bisogno di un posto da poter considerare casa,
almeno per un po'. Raggiunta la destinazione, il ragazzo uscì
ringraziando l'amico e recuperando il borsone che portava con sé.
Osservò meglio l'abitazione piccola e un po' trasandata, ma
pur sempre tranquilla e con un saldo tetto sulla testa. Il piccolo
giardino che la circondava racchiuso in un muretto di pietra era
completamente abbandonato a se stesso e le erbacce avevano recuperato
parte dello spazio che era stato adibito ad aiuola decorativa.
«Per?
Per Fredrik, è lei?»
Una
voce femminile dai toni scalmanati nonostante la profondità
tremolante di un'anziana signora, scosse il suo animo lievemente
turbato, e sentitosi preso in causa entrò dall'uscio
lievemente schiuso.
«Sì,
sono io signora. Mi dica.»
Una
simpatica vecchietta curva dal peso dell'età sbucò
dalla prima sala. Si presentò con un sorriso socievole e
sincero. Spiegò al nuovo inquilino qualche regola base, come
il rispetto per la mobilia, la cura della casa, persino la presenza
di ogni oggetto preso in considerazione durante la conversazione;
sembrava amare ogni singolo muro, ogni centimetro di pavimento, e
mantenere un bel ricordo di molti eventi del passato legato ad essa.
Si dilungò in aneddoti superflui mentre accompagnandolo a fare
un breve giro di ricognizione.
«È
davvero sicuro le vada bene alloggiare qui? Sa, non viene tinteggiata
da parecchio, i mobili poi non sono recenti e sono convinta ci sia
qualche spiffero che...»
Il
ragazzo la interruppe con estrema dolcezza, rassicurandola sulla
scelta fatta. Le stava spiegando con calma che era comunque sicuro di
fermarsi, visto il bisogno di una sistemazione in tempo zero e con un
arredamento minimo già presente. La prese per mano, la
accompagnò a sedersi nella stanza adibita a cucina e sala e le
permise di riposare. Si mosse nel perimetro interno dell'abitazione,
constatando la presenza di altre due stanze oltre a quella
principale: una camera da letto e un bagno con lo stretto
indispensabile.
"Perfetto.
Non sarà molto, ma è sufficiente almeno."
Si
sentì chiamare un paio di volte ancora dall'altra parte, e
sbuffò spazientito: finse un altro sorriso di cortesia,
desideroso di sistemare quel paio di cose che s'era portato appresso
e concludere quella giornata snervante e fastidiosa. Si sporse dal
breve corridoio con il capo inclinato, aspettando un altro
sproloquio.
«Volevo
avvertirla che ci sono gli spiriti qui.»
Inghiottì
rumorosamente.
Era
ufficiale, si sentiva decisamente preso in giro.
«Signora,
posso capire la stanchezza, anche un po' la senilità, però...»
«Senta
giovanotto, non sono rincretinita perché vecchia, ma sto
solamente tentando di metterla in guardia.»
Un
tonfo sordo, seguito da lievi scricchiolii si udì
perfettamente.
«Forse
avrei dovuto metterla al corrente prima, ma qui c'è un piano
superiore, una vecchia mansarda in disuso, inizialmente adibita a
studio di un vecchio scrittore. Una storia risalente a più di
una settantina di anni fa. Si dice sia impazzito...»
Altro
rumore.
«Si
dice anche che abbia fatto a pezzi la moglie, nascondendone il
corpo.»
Lo
scricchiolio raggiunse l'altezza delle loro teste.
«E
che la figlia, una bimba di pochi anni, sia sopravvissuta dopo aver
visto l'orrore di tutto quanto. Da quella volta, il piano di sopra
porta le tracce della sua esistenza.»
«Suvvia,
è solo una favola per spaventare i bambini...» Åsli
si tese leggermente, osservandosi nervosamente in giro. Cercava un
appiglio, una distrazione, qualcosa che lo riportasse alla realtà
senza aver timore di nulla: dopotutto, sarebbe stata la sua casa.
«Potrebbe essere un topo, un
animale intrappolato. Potrebbe aver ceduto una parte del soffitto, o
un vecchio mobile.»
La
vecchietta rise sonoramente, alzandosi a fatica e aggrappandosi al
braccio del ragazzo. Si fece accompagnare in corridoio: ogni singolo
passo produceva un rumore sinistro, rimbombando nei timpani e
provocando eco sorde all'interno del cervello.
«La
vedo preoccupato, vuole andarsene o accompagnarmi di sopra?»
Strinse
i pugni ed inspirò profondamente, socchiudendo gli occhi. Era
sempre stato un tipo razionale, che non si perdeva dietro a certe
sciocchezze; si definiva realista.
Criiiik.
Decisamente
realista.
Tap...
Tap... Tap tap tap tap tap.
Oltre
ogni ombra di dubbio.
Bum.
Un
tonfo ed un grido.
«Sa,
sono sicura si tratti della moglie. Starà ricordando con
rammarico quello che è successo.» La signora assottigliò
lo sguardo, abbassando il tono di voce ed avvicinandosi lentamente ad
una porta a soffietto.
Scale.
Un
vano buio, stesso parquet vissuto e cigolante. Una rampa ripida, che
terminava nel nulla completo.
«Sa
perché sono convinta sia lei?»
"Smettila,
chiudi quella boccaccia."
«Perché
io sono la figlia.»
Raggelato
sul posto. Si voltò verso di lei, che strategicamente s'era
tenuta fuori senza insinuarsi all'interno poco illuminato.
Una
rapida immagine bianca passò per un secondo davanti ai suoi
occhi, ed urlò.
Un
secondo gemito di rassegnazione uscì dal piano superiore,
prima che la figura artefice dei rumori uditi poco prima si
scagliasse contro Åsli. Quest'ultimo tentò di
proteggersi il volto con le braccia, cadendo all'indietro e finendo
di schiena sulla pavimentazione del piano inferiore.
La
vecchietta se la rideva di gusto, a un metro di distanza.
«Ma
che cazzo?!»
Il
peso che lo stava schiacciando lì steso aveva un volto, o
almeno così credeva: un telo chiaro ingiallito dal tempo,
ricamato ai lati e stropicciato, stava coprendo qualcosa - qualcuno
– che non gli stava permettendo di rialzarsi.
«E
levati!» Scostò con malagrazia il tessuto, rivelando un
volto giovane dal taglio orientale e dai lunghi capelli scuri
arruffati. Sgranò completamente gli occhi, osservandola senza
sapere cosa aggiungere.
«Nonna,
orca miseria! Mi avevi detto che avrei dovuto liberare la soffitta
entro oggi, ma sono inciampata dopo aver recuperato i tessuti dalla
cassapanca e...» lei poggiò finalmente gli occhi sul
ragazzo su cui era praticamente caduta ruzzolando dalle scale. «Ma
tu che cazzo ci fai qui?! Nonna, cosa ci fa lui qui?!»
«Nonna?
Signora, mi scusi ma questa sarebbe sua nipote?»
Ancora
a terra i due si staccarono in fretta, alzandosi ed allontanandosi
come scottati. La vecchietta intervenne sorridendo e prendendo in
giro il ragazzo, che offeso attendeva una spiegazione plausibile.
«Orsù,
non faccia quell'espressione mio caro, il mio era solamente uno
scherzo. Certo, ha giocato a favore avere mia nipote al piano di
sopra, e mi sono sentita ispirata. Siete davvero buffi, lasciatevelo
dire!»
Il
silenzio imbarazzante pesò sui presenti.
«Immagino
non vi conosciate: lei è Raon, mia nipote, ed è qui per
aiutarmi a riprendere le mie cose. Il tempo non è stato dalla
nostra, deve ancora finire di liberare la soffitta. Non credo sia un
problema per lei, se finirà di recuperare ciò che
manca, vero?»
Una
richiesta che non lasciava spazio ad alcun rifiuto: Åsli
rassicurò quell'irritante presenza, assecondandola ancora una
volta. Raon dalla sua tentò di ribattere.
«Niente
se e niente ma: avresti dovuto finire prima del suo arrivo.»
«Ho
una vita, sai? Può tranquillamente pensarci lui.»
Rincarò con scetticismo sull'ultima parola pronunciata,
accompagnata da una notevole dose di ironia. Il ragazzo
intervenne a dar man forte: «esattamente signora, non ci sono
problemi. Posso fare io, se mi da il permesso.»
«Nulla
da fare. Non posso permettere che il nuovo inquilino si prenda la
responsabilità di sistemare delle vecchie cianfrusaglie. A
proposito, impagabile l'espressione nel momento in cui ha aperto la
porta delle scale. Dovrei passare più spesso a raccontare
qualche altra storia, che ne dice?»
Due
pensieri distinti quelli dei ragazzi, ma il succo era lo stesso: "per
l'amor del cielo, no."
«Bene,
io adesso vado. Tesoro, tua madre mi sta aspettando che deve
accompagnarmi a casa. Entro domani vorrei le mie cose pronte e
impacchettate.»
«Stai
scherzando? È quasi sera e ci saranno chissà quante ore
di lavoro ancora! Non posso rimandare di un giorno?»
La
signora sorrise appoggiandosi all'avambraccio del nuovo arrivato.
«Non ci penso nemmeno, avresti dovuto organizzarti meglio. Bene
caro: non è che mi accompagneresti alla porta? Sei sempre così
gentile.»
°
«Ora
spiegami che cazzo ci fai qui.»
«Dovrei
dirlo io: ci vivo!»
Raon
lo stava osservando di sottecchi: era lui, non c'era dubbio. Aveva
davanti a sé Per Fredrik Åsli, ne era sicura:
cantante famoso, youtuber internazionale,
insomma, era riconoscibilissimo. Non solo: era l'idiota che aveva
avuto da ridire poco tempo prima sui gusti letterari della giovane
all'interno di una fumetteria di quartiere.
«È
la casa di mia nonna, e la sto aiutando a spostare le ultime cose.
Naturalmente non ho finito in tempo, e devo far tutto prima di
domani. Adesso scopro che la persona a cui ha affittato è un
emerito imbecille.»
«Senti,
tomboy,se l'avessi saputo fidati che
sarei andato a cercare un'altra sistemazione. Avere a che fare con
una pervertita fissata non mi piace.»
«Ne
sai di cose riguardo ai miei gusti eh.»
«Ho
avuto a che fare con parecchie ragazze appassionate del genere.»
Rise
ironica: stava facendo lo sbruffone per tentare di far colpo o
semplicemente per darle fastidio? Optò con convinzione per la
seconda. Sbuffò mimando il dito medio voltandosi in direzione
delle scale.
«Non
preoccuparti, mi leverò presto dalle palle, devo solo finire
questa benedetta cosa. Tu fatti i cazzi tuoi, e andrà bene per
tutti. Appena avrò fatto, me ne andrò.»
La
guardò sorridendo ironico.
Odio
a pelle, decisamente.
I
rumori ripresero ad un ritmo accelerato, mentre Åsli tentava
invano di rilassarsi e godersi la prima giornata nella nuova casa;
sistemò tre volte le sue poche cose in giro, valutando con
dispiacere che il frigo era quasi vuoto (naturalmente), e che la
stanza da letto era spoglia e poco accogliente.
«Poco
male, mi guarderò un po' di televisione.»
Prese
il telefono e cercò nelle vicinanze un take away, nella
speranza di mangiare in breve qualcosa di caldo. Attese un momento,
riflettendo sul da farsi.
Una
buona mezz'ora dopo suonò il campanello e il fattorino
consegnò i due menù precedentemente ordinati. Il
ragazzo pagò ringraziando, dirigendosi poi verso la porta a
soffietto stringendo tra le mani le due scatole da asporto.
«Ehi,
tomboy,
sto per salire.»
"Guarda
cosa mi tocca fare."
Buonasera
a tutti ^^ Eccomi qui con il secondo capitolo: finalmente si è
scoperto chi è il famoso stronzo
tizio incontrato in fumetteria nel capitolo precedente, e nonostante
la speranza di non rivedersi, il destino ha giocato un brutto tiro ad
entrambi.
Per
Fredrik Åsli, PelleK in arte, è il ragazzo
a cui mi sono ispirata per il protagonista: cantante e youtuber
norvegese, ha avuto modo di interpretare molte original opening
giapponesi in cover, duettando spesso con Raon Lee. Svelato il
mistero insomma! ^^ Mi auguro vi stia appassionando, perché
io sono completamente persa a dire la verità! Mano a mano
creerò il dovuto spazio anche per Aya e Josh, e non solo, ma
questo lo scoprirete più in là.
Grazie
a tutti come sempre, sono entusiasmissima di questo progetto e del
fatto che mi leggete e seguite; grazie di cuore, davvero. Alla
prossima!
«Cazzarola
che buono!» Raon stava letteralmente divorando quello che Åsli
le aveva portato. Addentò con foga il panino riempiendosi
completamente la bocca e spargendo briciole ovunque. «Miss
eleganza proprio, sei incredibile.» La ragazza rispose
decisamente piccata. «Potresti ripetere scusa, signor
perfettino? Vuoi forchetta e coltello per mangiare un
cheeseburger?» «Preferirei, piuttosto che mangiare
come un animale.» Il minuto di silenzio che seguì non
fu per nulla imbarazzante: era palese che ogni dialogo si sarebbe
concluso con un litigio. Uno dei rari casi in cui la mancanza di
conversazione era in effetti la soluzione migliore. Non si guardarono
neppure: lei osservava abbattuta il magro risultato degli sforzi
affrontati nella sistemazione di quella spaziosa quanto satura
soffitta, mentre l'altro stava concludendo la cena intingendo le
ultime patatine fritte nella monoporzione di salsa. Il ragazzo notò
quasi stupito le notevoli dimensioni di quello stanzone poco
illuminato e fermo da chissà quanto tempo; strati di polvere
stanziavano negli angoli e sui teloni che ricoprivano qualche cosa
che ancora non era stato disotterrato da anni, se non decenni interi.
Un'unica apertura dava sull'esterno, da cui ormai entravano le luci
rassicuranti dei lampioni sulla strada. Il buio lento e silenzioso
aveva oscurato la città, ed il lavoro di trasloco non era
neppure concluso. Raon sbuffò appallottolando energicamente la
carta che aveva contenuto il pasto, lanciandola centrando la scatola
del cibo da asporto di Åsli che giaceva sul vecchio pavimento
di legno: uno yeah
pronunciato sottovoce e con soddisfazione sancì la fine della
pausa. «Hai finito?» «Che domande, certo che
no. Non vedi? Mi ci vorrà ancora un'ora come minimo.» Il
giovane sbuffò raccogliendo l'immondizia in un sacchetto,
adagiato poi ordinatamente in un angolo. Considerando l'orario il
tutto si sarebbe concluso parecchio tardi. «Cosa manca
ancora?» «Un po' di affaracci tuoi direi.» "Vipera",
pensò, mentre cominciava a raccogliere dei vecchi libri e a
riporli per ordine di grandezza in uno scatolone; lei lo squadrava
sospettosa. Si fermò dal piegare malamente un altro di quei
lenzuoli che le erano capitati tra le mani. Un'improvvisa quanto
improbabile gentilezza? Gli si piazzò davanti squadrandolo
dall'alto. «Beh?» Continuava a sistemare
meticolosamente, senza badare alla sua presenza. «Ehi, dico
a te.» Sospirò senza fermarsi: «che c'è?» «È
roba tua questa?» Il tono contrariato accompagnò
l'ovvietà di quell'inutile domanda che le era uscita dalle
labbra senza neppure pensare. Åsli si fermò battendo i
palmi delle mani con forza sulla chiusura dello scatolone ormai
pieno. «Indubbiamente no, però a una certa ora vorrei
anche andarmene a dormire, non so tu.» «E chi ti ha
chiesto una mano?» Rise di quella spontaneità
sfacciata per poi risponderle che non aveva nessuna intenzione di
passare la sua prima notte in quella casa con una sconosciuta in
soffitta. Era un concetto così semplice. Difficilmente
restava senza parole, ma quella era proprio una situazione strana:
quell'individuo antipatico aveva maledettamente ragione, e stava
odiando con tutta se stessa l'idea di doverlo ammettere. «Non
frugare, sistema e basta.» «Signorsì,
signore.» «Sai di essere un idiota, vero?» Lui
rise di nuovo scuotendo la testa: si stava divertendo parecchio.
Stuzzicarla stava diventando piacevole. «Quelle come te
diventeranno delle zitelle acide, sappilo.» Un dito medio
mostrato con nonchalance e una risata stipularono una tregua. Raon si
soffermò per un attimo sul fatto che era già la seconda
volta: un vaffanculo dedicato con fin troppa leggerezza.
«Ecco,
questo era l'ultimo.» Åsli sigillò con lo scotch
un grande pacco. «Ora manca solo scaricarli di sotto e il gioco
è fatto.» Ne impilò un paio per poi dirigersi
verso le scale. «Ehi.» Si avvicinò
all'uscita con un carico voluminoso. «Ehi, non vorrei fare
la figura dell'impicciona...» Non ricevette risposta
naturalmente, anche se la tentazione di non continuare e lasciare a
lui la sorpresa era sempre più grande. «... ma il primo
gradino è sciv...» Un tonfo sordo seguito da una
serie di imprecazioni rimbombarono diffondendosi per tutta la casa.
Raon si sporse in fretta dalla cima della rampa di scale spiando
incuriosita. «Se tu mi ascoltassi ogni tanto.» «Dirmelo
prima no, eh?» La ragazza si precipitò allungando il
braccio ed aiutandolo a rialzarsi. «Sei un vero
disastro.» Per un attimo si guardarono senza dire nulla, ed
il silenzio venne interrotto da una duplice risata cristallina e
sincera: stava ancora stringendo la sua mano tra le dita senza
accorgersene neppure. Solo poco dopo Åsli scivolò via
con una lieve nota di imbarazzo. «Qui possiamo fare
domattina.» «Perfetto, anche perché mi sento
completamente incriccata! Non vedo l'ora di infilarmi a letto e di
dormire come un sasso. Beh, allora io vado.» Il ragazzo
attese un attimo prima di intervenire. Lei si voltò dalla
porta di casa schiusa, ringraziandolo dell'aiuto ricevuto. Si
avvicinò e si offrì di accompagnarla fino a casa, senza
sapere esattamente il motivo che lo aveva spinto a farsi avanti: il
buio, si diceva, o la stanchezza di entrambi. L'aver condiviso un
lavoro di fatica nonostante l'orario. Potevano essere tutte
plausibili, ma nessuna di queste lo convinceva davvero. Raon
sorrise nuovamente: «tranquillo, non ce n'è bisogno. Non
preoccuparti. Non volevi andare a dormire?» Assunse un tono
impettito e rigonfio d'orgoglio. «Ti pare? Lasciare sola una
ragazza a quest'ora? Ragazza, insomma. Un maschiaccio dalle fattezze
femminili semmai. Andiamo dai, non voglio sentire scuse.» Fuori
dalla piccola casa tutto sembrava così diverso: l'aria fresca
della sera scompigliava i capelli, accarezzava la pelle regalando una
dolce sensazione piacevole. Un toccasana dopo ore passate chiusi in
una stanza piena di polvere e segni di una vita passata. I due
camminavano lentamente, fianco a fianco. «Sai, il soprannome
che mi hai dato è assolutamente idiota. So di non essere
particolarmente femminile, ma essere apostrofata così, beh, mi
sta un po' sul cazzo.» «Sei permalosa, tomboy?» Sbuffò
dedicandogli una linguaccia. «Proprio questo
intendevo.» «Vorresti privarmi del
divertimento?» «Senti, sarai abituato a prendere per
il culo, a parlare con tanta gente, ad avere a che fare con il meglio
ed il peggio che si può trovare, ma io non faccio parte di
quel mondo. Non trattarmi come fossi una qualsiasi delle persone che
ti stanno attorno solo perché sei chi sei.» Lo zittì.
Riuscì a togliergli la capacità di risponderle. C'era
verità in quello che aveva appena ascoltato? Davvero gli altri
lo vedevano così? Lei lo vedeva in quella maniera? Si sentì
particolarmente contrariato ad un'idea simile. Non le aveva fatto
nulla di male, anzi: s'era prodigato ad aiutarla anche se non sarebbe
stato compito suo, le aveva pure offerto la cena e tutto questo sotto
il suo tetto. Si sentiva apostrofato per qualcosa che non riteneva
veritiero, ma come avrebbe potuto rinfacciarglielo, visto che
sembrava fin troppo convinta? Il filo contorto dei suoi pensieri
venne spezzato da un tono acido. «Sono arrivata,
buonanotte.» «Come? Avremmo percorso sì e no
tre minuti di strada.» Raon si voltò corrucciata,
alzando altezzosamente il mento: «non ho mai detto di abitare
lontano da qui.» Osservandosi attorno constatò di
trovarsi a un paio di edifici di distanza. "Abita qui
accanto?!" Raggiunto il cancello lei entrò. Si fermò
davanti all'ingresso voltandosi un'ultima volta. «Non sono
cattiva, solo che vorrei tu capissi che non tutti siamo uguali, e che
tu non sei migliore degli altri. Tutto qui. Se questo ti da fastidio,
me ne farò una ragione, altrimenti, beh... sai dove abito.»
Non attese alcuna risposta e rientrò in casa. Il ragazzo
rimase fermo davanti al muretto osservando quella porta chiusa. Il
vialetto illuminato da un lampione era l'unica fonte di luce prima
della strada che curvava verso sinistra. Tornò sui propri
passi riflettendo sulle parole che gli erano state rivolte senza
malizia, con un pizzico di cinismo ma niente più. Spesso aveva
incontrato persone che lo assecondavano, o al contrario i classici
haters che
facevano di tutto per affossarlo nella vita reale e sui social;
difficilmente trovava qualcuno che riusciva ad essere spontaneo.
Ecco, aveva trovato la parola giusta. Nella sua vita spesso mancava
proprio spontaneità. La cosa assurda era che la stava trovando
in una delle persone che mai avrebbe immaginato fossero disposte a
tanto nei suoi confronti. Tornò sui suoi passi, entrando in
casa e sentendo un opprimente senso di vuoto dove prima c'erano state
vita, risate, qualche battibecco. C'era stato qualcuno prima, dove
non c'era più anima viva. Si sedette sul divano controllando i
commenti e le affluenze sul canale ufficiale di YT.
Esempi
di commenti positivi da tutto il mondo. Lo caricavano, gli facevano
certo piacere e non poteva negarlo. Eppure...
x
Q. 1 mese fa
He
got a nice voice, but the pronunciation kinda sucks, but I know he'll
be able to pronounce it correctly someday, and I noticed that some of
his lyrics are off, what I mean is some of the lyrics are not
correct, and he's kinda pushing himself hard while singing, like
trying to reach the high notes.
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Naturalmente
c'era anche chi non apprezzava il lavoro, la ricerca e la cura in ciò
che faceva. Non lo dava mai a vedere, ma messaggi del genere lo
ferivano, e anche in modo pesante. Cosa avrebbe dovuto fare? Esporsi
giornalmente al mondo ed ai frequentatori di uno dei siti di maggior
fruizione dava per scontato che non sarebbe mai potuto piacere a
tutti. Cercava di evitare di reagire in maniera troppo emotiva, ma
quell'ultimo commento capitato quasi per caso nella lunga lista lo
aveva irritato. Complice la stanchezza, il posto non suo, la
sensazione di estraneità, ma scaraventò lo smartphone
sul divano con malagrazia, si alzò ed andò a sbattere
contro uno degli scatoloni accatastati accanto all'ingresso. Una
parolaccia non ben definita scivolò dalle sue labbra seguita
da una seconda e una terza; si strinse il ginocchio poggiandosi ad
una mensola vuota, per poi tentare di risistemare ciò che era
uscito dal contenitore chiuso male. «Non è neanche
capace di chiudere una scatola, ma guarda te.» Raccolse con
disinteresse una vecchia fotografia: stava per riporla al proprio
posto, assieme a delle scartoffie ingiallite, quando i soggetti
ritratti attirarono la sua attenzione. Una bambina dai capelli
raccolti in due alte codine, tenuta in braccio da un uomo dai tratti
somatici orientali. Al loro fianco una donna minuta e dal sorriso
dolce. Sembravano felici, una foto di famiglia qualsiasi. Saranno
stati i cerotti su quel visino, oppure le ginocchia sbucciate, ma
qualcosa gli stava dicendo: "è Raon, sicuro al cento per
cento." Voltò l'immagine: riportava l'anno 1995, 24 anni
prima. Vederla sorridente, accolta da un'atmosfera tenera e
rassicurante lo rese triste. Richiuse i lembi di cartone al di sopra
del contenuto rimesso a posto, e strinse tra le dita la vecchia
carta. S'incupì ed entrò in camera. Nella confusione di
quella giornata assurda non aveva avuto il tempo di fare nulla per
sé, neppure sistemare le poche cose che si era portato
appresso. Con infinita gratitudine notò il letto rifatto di
fresco: le lenzuola profumavano di pulito, come il resto della
stanza. Vuota, solo un armadio a muro ed un comodino, ma pulita. Si
spogliò accoccolandosi sotto le coperte; il tepore lo avvolse
accompagnandolo presto in uno stato di dormiveglia, da cui non si
svegliò neppure quando il telefonino cominciò a
trillare ad alto volume nella sala, vibrando sul divano. Due
conversazioni in 2 chat: una, quella di Josh, presentava
nell'anteprima una GIF di dubbio gusto sull'universo del nudo
femminile, seguita da un "come stai, uomo?" La seconda
riportava toni decisamente più tesi.
Fred,
ehi... Amore? 22.53
Perché
non rispondi? 23.02
Ti
prego, torna... Ti stiamo aspettando tutti qui, anche gli altri non
sanno più che fare. Se è per colpa mia, potremmo
rimediare. Possiamo ricominciare, davvero.
23.17
Il
mittente della conversazione era lo stesso della chiamata ricevuta
poco prima: Kisha.
Ma
salve! Eccomi qui con questo terzo capitolo che sta facendo piano
piano avvicinare due persone così diverse da non avere
assolutamente nulla in comune l'una con l'altra. Cominciano a
sopportarsi un po' di più forse, o sarebbe meglio dire odiarsi
un po' meno. Qui sbuca indirettamente un nuovo personaggio, che a
quanto pare ha a che fare strettamente con il nostro Per Fredrik: che
abbia a che fare con il motivo che lo ha portato a trasferirsi? Mhhh
chissà, chissà.
I
commenti riportati qui sopra sono effettivamente presenti nel canale
di PelleK, sul video con maggiori visualizzazioni: ho censurato i
nomi dei profili presenti, ma le parole sono testualmente riportate
qui sopra. Ringrazio tutti voi che avete sempre un poco di tempo
da dedicarmi, e grazie anche a chi regala 5 minuti della sua vita per
poter recensire i miei deliri romantici – perché sì,
qui ce ne saranno dai! Alla prossima donzelli e donzelle :D -Stefy-
“Posponi”: al terzo
tentativo la sveglia sul cellulare dichiarò sciopero e si arrese. Raon si rigirò nel letto un paio di volte per poi
infilare la testa sotto le coperte e distanziarsi dal bagliore che tentava invano
di accecarla entrando furtivamente dalle persiane al di fuori della finestra.
Si sentiva così bene: il caldo tepore del letto, la morbidezza dei due cuscini
su cui s’era adagiata la sera prima, mentre un terzo stava praticamente
soffocando sotto la sua stretta da wrestler in fase di catalessi.
Ottimo.
Mattinata da mezza stagione, niente pioggia o maltempo a influire sull’umore; mezza
nottata passata a dormire beatamente. Nessun pensiero per la testa.
Lo smartphone si rimboccò le maniche nel tentativo di svegliarla ancora una
volta: ricevette un’imprecazione, s’offese e si silenziò definitivamente.
«Per Fredrik, tesoro, buongiorno. Dormito bene durante
la prima notte nella nuova casa?»
Il ragazzo avrebbe voluto rispondere con sincero trasporto, ma le occhiaie
presenti sul suo viso e le tre tazzine macchiate di caffè rappreso presenti
nell’acquaio parlavano praticamente da sé. «Signora buongiorno. Beh, avrei preferito
dormire un po’ di più in tutta sincerità. Non male dai.»
«E mi dica, mia nipote si è comportata bene? Ha concluso il lavoro che le avevo
assegnato?» La nonna di Raon stava osservando perplessa le scatole impilate una
sull’altra all’ingresso.
«Certo, non si preoccupi. Abbiamo svuotato tutta la soffitta, non è rimasto più
nulla.»
«Venga qui giovanotto, venga che le devo chiedere una cosa in confidenza.»
Si avvicinò cauto, ricordando con un lieve brivido alla spina dorsale il senso
dell’umorismo leggermente macabro, e un filino sadico della vecchietta che lo
stava chiamando a sé con un cenno della mano raggrinzita.
«Mi dica, alla fine ha trovato qualcosa?»
Non riusciva a comprendere completamente quella domanda così generica: cosa
avrebbe dovuto trovarci lassù esattamente? Scosse la testa leggermente
arruffata in risposta.
«Nessun resto?»
Ecco, la sensazione glaciale di qualcosa di impalpabile, invisibile e di impossibile
concezione si delineò perfettamente sulla sua pelle. «No, avrei dovuto?»
«Si narra che siano stati nascosti sotto a uno dei listelli del pavimento del
primo piano.»
«La smetta di burlarsi di me, per cortesia.»
Le dita tremule si aggrapparono alle giovani spalle.
«Se mi ci accompagna, le mostrerò volentieri dove si trovano.»
“È una stronzata. Ricorda, è una stronzata.” Suscettibile a tutto ciò che
appartiene al mondo paranormale, alle anomalie fisiche, ai mondi al di là dei
confini della scienza, Åsli inspirò ed espirò profondamente, scostandosi di
poco da quel contatto malfermo. «Se l’accompagno di sopra, mi promette che non
toccheremo più l’argomento?»
«Glielo prometto, giurin giurello.» Un gesto semplice, infantile. Affidabile.
«Venga allora. Poi l’aiuto a caricare i suoi effetti personali.»
Un passo dopo l’altro, avanzando piano, raggiunsero la porta che li separava da
quelle benedette scale ripide. L’aprì con un braccio teso e fece cenno alla
signora di anticiparlo nella salita. Lei si aggrappò ad entrambi i corrimano,
issandosi con forza di volontà ma poca convinzione da parte delle gambe.
«Ne è davvero sicura?»
«Le ripeto che non mi muoverò di qui senza portarmi via ciò che appartiene alla
mia famiglia.»
“Sì, un cadavere ad esempio.”
Con ritmo calmo e impiegando parecchio tempo, lei riuscì a raggiungere la
pavimentazione lignea e scricchiolante di quel salone vuoto. Estrasse dalla
tasca una candela e una confezione consunta di cerini, dando vita ad una
fiammella tremolante. Il ragazzo la raggiunse poco dopo entrando in
un’atmosfera eterea, fuori dal mondo: gli venne la pelle d’oca. Nel buio
riusciva a percepire solamente quella piccola fonte di luce, null’altro, se non
un raschiare rovinoso di legno su legno a cui aveva affidato parte del proprio
coraggio. Sapeva cosa stava accadendo, era consapevole del fatto che fosse una
mera idiozia perpetrata da un’anziana con un pizzico di senilità, eppure
l’atmosfera così spettrale lo stava mettendo in soggezione. «Ha bisogno di una mano?»
La figura inginocchiata a terra non rispose se non con un sospiro. Åsli le si avvicinò incuriosito dall’improvviso silenzio:
notò un buco da cui era stato sicuramente estratto qualcosa. Fece il giro per
poter osservare meglio la donna che ancora stringeva tra le dita la candela.
«Signora, sta bene? Posso fare qualcosa per lei?»
Non rispose immediatamente. Si puntò sulle ginocchia consumate per issarsi da
terra; prontamente venne aiutata. Ridiscesero la ripida rampa raggiungendo il
salotto. Il ragazzo era indubbiamente curioso, nonché assolutamente grato di
essere uscito da quello stanzone vuoto e angosciante. I piccoli tremiti della
donna colpirono i suoi nervi, portandolo ad accompagnarla nella piccola sala;
le tolse di mano la candela ancora calda per la cera sciolta e l’aiutò ad adagiarsi sul divano.
Dita tremanti stringevano un vecchio involto ingiallito.
Lei si sforzò di scherzarci ancora sopra, di ricreare un paio di battute dal
gusto interessante ma cedette: carezzò la carta increspata portando il
pacchetto al petto e vi si accoccolò trattenendo a stento nuove lacrime. Åsli mantenne il silenzio nel tentativo di non disturbare
qualcosa che sentiva non appartenere al presente. Sistemò l’oggetto ormai
inutile che stringeva ancora tra le mani e mise a bollire dell’acqua in un
pentolino, e per i minuti successivi l’unico suono presente tra quelle mura era
il borbottio sul fuoco. Rovistò tra i pensili nel tentativo di ritrovare uno
degli infusi che si era portato appresso nel viaggio, riempiendo una tazza di
ceramica dell’aroma di menta.
«Prego, tenga.»
Gli occhi stanchi e rigonfi si posarono su quel giovane magro, dal volto ancora
sconvolto dal poco sonno e dai capelli spettinati mal gestiti. Si spostarono su
quel contenitore fumante e dal profumo rinfrancante, mantenendo il contatto con
la superficie calda.
«Lei è proprio un bravo ragazzo.»
«Ma va, si figuri. Posso farle una domanda?»
Sospirò. Probabilmente riguardava il tesoro che stava custodendo gelosamente
tra le mani, o non solo quello. «Immagino riguardi ciò che sto stringendo qui,
giusto? Oppure il motivo per cui scherzo sempre in maniera così strana e dal
gusto un po’ noir. Per Fredrik, lei è davvero una
persona a modo, anche se tendenzialmente non sa farsi i fatti suoi. Diciamo
che…»
Il campanello suonò più volte, ed una voce esterna interruppe la riflessione,
lasciandola sospesa a metà: «signora Luciye, il
furgone è già in sosta! Possiamo cominciare a caricare?»
La donna tolse un fazzolettino di stoffa dalla tasca passandoselo con
delicatezza sul volto, per poi sospirare chiudendo gli occhi ed inspirare
fortemente riaprendoli. «A quanto pare non potremo concludere il nostro
discorso mio caro Per, vorrà dire che mi inviterà per un tè questi giorni.
Perfetto quello di oggi, la ringrazio.» Con un sonoro “issa” si alzò dal divano
camminando con passo quieto verso l’ingresso; parlottò con il traslocatore e
lanciò un ultimo sguardo al ragazzo, portandosi l’indice ricurvo verso le
labbra in un voto di silenzio.
Ciò che era stato detto ed era stato visto sarebbe rimasto esclusivamente tra
loro.
⋆
«Oh no, no no… no no no!» L’orario improponibile che la sveglia stava segnando
muta fece impallidire Raon. «Mia nonna mi ucciderà!»
Corse in bagno infilandosi i primi vestiti incrociati per strada, raccattati
direttamente dalla pila dei panni da stirare. Uno sguardo rapido allo specchio:
due segni scuri sotto agli occhi, un colorito leggermente pallido. «E ho
dormito pure. Se non lo avessi fatto, chissà che faccia!»
Si lavò viso e denti ad una velocità tale da schizzare acqua, sapone e
dentifricio sulla specchiera e pure sul pavimento. Si bloccò un attimo: le due
opzioni si formarono rapidamente nella sua testa. La prima, fermarsi a pulire;
la seconda, essere felice di avere un bagno adiacente alla propria camera, al
piano di sopra, e fregarsene enormemente.
Optò per la seconda.
Raccattò un paio di All Stars consumate, fermandosi
davanti allo specchio dell’armadio ed osservandosi ancora un momento: leggins scuri, scarpe in tela color fluo e felpa a zip
aperta su maglietta con disegnato un unicorno che espelleva arcobaleni da
luoghi poco consoni. “Vorresti uscire davvero così? Sai che è una pessima idea,
vero?”
Pessima idea. Quelle due parole non le lasciarono scampo, ma fece spallucce e
corse giù per le scale.
«Ehi ehiehi, signorinella.
Dove pensi di andare a quest’ora? Guarda che tra dieci minuti si pranza.»
Non solo era in ritardo osceno, ma avrebbe pure saltato il pasto, cosa
assolutamente improponibile. Il fratello si tolse il grembiule da cucina con
stampato il fisico di una modella in bikini: un regalo di Raon
di un anno prima. Lo posò ordinatamente su uno degli appendini
a forma di gattino obeso, altro regalo di Raon, tre
anni prima. Si mosse verso la tavola apparecchiata versandosi dell’acqua in un
bicchiere in ceramica con stampata l’immagine di un ippopotamo voltato di
schiena.
«Non posso, ora devo scappare! Ma… è lui?»
«Se ti riferisci al tuo ultimo regalo, sì: lo uso ancora adesso e lo sai.»
La ragazza guardò il fratello maggiore sfoggiando uno dei suoi più grandi
sorrisi: «mi chiedo come tu faccia a tollerarli, non li trovi orribili?.»
«Per lo stesso motivo per cui sopporto te. Allora? Il pranzo?»
«Mi tocca saltare!»
«Guarda che papà si incazza.» Non concluse neppure la frase, venne interrotto
dal rumore della porta d’ingresso sbattuta con violenza. Sorrise scuotendo il
capo. “Non cambierà mai.” Raon corse percorrendo il breve vialetto e superando
il cancello praticamente saltando, fermandosi poi ad un bivio: la casa di Åsli alla sua sinistra, la panetteria di quartiere a pochi
edifici sulla destra. Si avviò con lo sguardo basso verso il proprio lavoro, in
direzione di sua nonna che sicuramente si sarebbe infuriata per l’enorme
ritardo. Dopo tre passì si voltò dalla parte opposta e riprese a correre per
poi fermarsi di nuovo. “Non ho mangiato.”
Indecisa sul da farsi si girò di nuovo un paio di volte. “Ma sì, due minuti.”
Entrò col fiatone salutando cordialmente l’inserviente alla cassa ed ordinò un
paio di dolci fragranti dall’aspetto delizioso. Dentro di sé contava i secondi
che la separavano dal conto e dalla partenza, sentendo l’imbarazzo crescere per
l’ora orribile in cui si sarebbe presentata. Ringraziò stringendo tra le dita
un sacchetto di carta e camminò a passo svelto.
Un unico pensiero la accompagnava per quei pochi metri ancora da percorrere:
“fa’ che non sia lì, fa’ che nonna Luciye non sia più
lì!”
Non solo l’anziana era presente davanti alla sua vecchia casa, accanto all’uomo
che l’aveva sicuramente aiutata a svolgere il lavoro che lei stessa avrebbe
dovuto fare quel mattino; c’era pure quel simpaticone del nuovo inquilino che
stava amabilmente offrendo l’avambraccio alla signora. “Bene, perfetto.” Si
bloccò a qualche passo di distanza, inspirò profondamente e si dipinse in volto
il più classico dei sorrisi di circostanza: il meglio che avrebbe potuto
sfoggiare in quel momento.
Il primo a notare il suo arrivo fu proprio Åsli. Le
sorrise spavaldo, senza paura di nascondere un tocco di ironia. Lei arrivò nel
momento in cui il tuttofare stava serrando il portellone posteriore del furgoncino.
Lavoro terminato.
Troppo tardi per poter recuperare il tempo perso. Raon
avrebbe tentato comunque di uscire da quella situazione con astuzia, un tocco
di grazia, una furbizia studiata e ben ponderata: «scusatemi, ho avuto dei problemi
fisiologici stamattina.» Grazia, decisamente.
L’anziana Luciye si voltò dopo aver salutato l’uomo
che le aveva dato una mano, lo ringraziò con una stretta di mano tremolante e
un sorriso dalla lucente dentiera. Alla partenza del mezzo cambiò completamente
espressione.
«Raon Lee, ti trovi in un mare di guai.»
«Buongiorno nonna. E buongiorno anche a te. Mi spiace essere arrivata tardi,
però…»
«”Però” proprio niente, signorina: ho dovuto chiedere al quell’uomo gentile di
fare quello che avresti dovuto fare tu. Sai cosa significa? Dovrai sdebitarti
in qualche modo.»
Sapeva che sarebbe andata a finire così: si scusò più volte con la parente e
non solo. Si sentiva stranamente in colpa anche davanti ad Åsli
e questo la metteva ancora più in imbarazzo. Non poteva sicuramente dire no,
vista la colpa effettiva.
«Darai una mano a questo caro giovanotto quando ne avrà bisogno, finché non
avrà sistemato casa.»
«Che cosa? Stai scherzando spero! Nonna? Ehi, nonna? Dove stai andando?»
Così come era apparsa quel mattino, la vecchietta se ne andò dopo aver
crudelmente, quanto giustamente sentenziato. Si portò due dita nodose davanti
agli occhi, in segno di osservazione e sorveglianza stretta. Raon se ne stava tesa, rimasta sola a un paio di
metri dal ragazzo. Quest’ultimo scoppiò a ridere tenendosi la pancia.
«Avresti dovuto vedere la tua espressione!»
«Mi stai per caso prendendo in giro?» Offesa gli tirò un pugno sul braccio.
«Pensare che ti avevo portato questi per scusarmi.» Gli assestò un secondo colpo
accompagnato da un “ahia”, per poi scostare lo sguardo e tendere il sacchetto
contenente i dolcetti. Åsli la invitò in casa,
ringraziando del pensiero. La fece accomodare un attimo in sala appoggiando la
busta sul tavolo ed estraendone il vassoietto. Inspirò e si leccò
involontariamente il labbro inferiore assumendo un’aria contrariata subito
dopo.
«Dunque, signorina Lee,» disse con finto scherno soffermandosi sul cognome
appena appreso, «abbiamo mancato ai nostri doveri oggi.»
«Non prendermi per il culo per favore, sai che non lo sopporto proprio?
Comunque scusa, non sono riuscita a svegliarmi in tempo.»
«E hai fatto fare il tuo lavoro a qualcun altro. Mi sembra corretto, no?»
«Non bastano quelle a scusarmi?» Åsli addentò con foga e soddisfazione una delle due
paste ripiene, sporcandosi il volto di zucchero a velo e ingoiando con
golosità. Raon fece lo stesso, impiastricciandosi di
crema e mugugnando qualcosa riguardo all’ottimo sapore. Colti entrambi da un’improvvisa
ilarità si indicarono il viso a vicenda.
«Diciamo che ti sei sdebitata. Ora sarai costretta a darmi comunque una mano.»
«Ahahah! Se lo dici tu…»
«Non l’ho detto io, ma tua nonna. Se non mi credi, senti qui.» Estrasse dalla
tasca lo smartphone, avviando una registrazione audio.
«Ehm, come funziona questo
coso? Ah, basta che ci parli vicino? Va bene così? Allora Raon, ho parlato con il mio caro inquilino, e mi ha
confessato che avrebbe bisogno di una
mano per andare a prendere un paio di cose. Visto che non sei venuta ad
aiutare prima, lo farai adesso. Naturalmente passerò a vedere come procede
la sistemazione. Confido in te tesoro, così imparerai la prossima volta
ad arrivare in tempo.»
«Sono fregata, vero?»
Note
dell’autrice (note dell’autrice? Uhhh ci stiamo dando
un tono qui, eh?)
Lo so, adoro scrivere della nonna di Raon: inizialmente pensavo ad un personaggio marginale, ma
è troppo dolciosa e stronzetta per poterla mettere in
un angolo! I due sembrano andare più d’accordo forse, ma direi che dei dolcetti
dal fornaio metterebbero d’accordo chiunque, non solo loro ahahaha!
Alla prossima, vi ringrazio enormemente per essere il carburante delle mie dita
sulla tastiera! Un enorme grazie a tutti voi che mi leggete e sostenete in
tutti i modi!
-Stefy-
Capitolo 5 *** Supermarkets have the red colour of embarrassment ***
Singing
is
the answer
5-Supermarkets
have the red colour of embarrassment
«Ferma,
ehi… Ehi!» Åsli tentò un’ultima volta
di bloccare il carrello pieno nell’attraversare l'ennesima
corsia di articoli per la casa; Raon lo guardò distrattamente,
chiedendogli invece quale dei due stracci da cucina preferisse. Le
scelte ricadevano tra il cagnolino triste o la giraffa con la
cravatta. «Ah ah.» “Certo, ti sento ma non ti
ascolto.” «Lo sapevo. Sapevo che non avrei mai dovuto
accettare. I tuoi gusti sono assolutamente pessimi, te lo ha mai
detto nessuno?» «Più o meno tutti credo.» Il
ragazzo sbuffò ma la sua attenzione venne attirata da un
semplice servizio da tè in ceramica: la trama floreale dai
colori accesi gli aveva ricordato la scanzonata vecchietta che
adorava prenderlo in giro ad ogni occasione. Raccolse teiera e
tazzine complete di piattino e tentò di adagiare il pacchetto
delicatamente nel carrello. La giovane non s’era neppure
accorta del tentativo, fino a che non venne letteralmente bloccata
con i piedi. «Che carino! Estimatore di tè?» «Beh,
non proprio. Tu invece? Estimatrice del cattivo gusto?» Raon
rise sincera: gli chiese il motivo di tale domanda, un po’ per
burla, un po’ per farlo ridere, nel momento in cui una tovaglia
a cuori rosa venne fatta cadere su un cuscino da divano verde acido
con il prezzo volutamente nascosto. Lui indicò gli
innumerevoli articoli scelti quasi esclusivamente da lei: «cattivo
gusto.» «Che crudele. Io lo definirei carino, non
certo kitch.» Åsli afferrò le presine da forno
in stile naïf sventolandogliele davanti agli occhi. «Non
devo mica arredare la cucina delle bambole.» Sbuffò
sonoramente contrariata nel tentativo di far pesare in maniera palese
il suo disappunto; era lì per dargli una mano, voleva e anzi
doveva, ed era anche per colpa sua. Non aveva certo scelto lei di
trovarsi in una situazione simile. «Se ti fossi fatto
bastare i dolcetti, ora non saresti qui a sorbirti il mio cattivo
gusto, come adori chiamare il mio senso estetico nell'arredo.» «Se
tu non fossi arrivata a lavori fatti, ora te ne staresti a casa a
leggere scan yaoi sbavando davanti al computer.» Forse aveva
esagerato, forse non avrebbe dovuto dirlo in una maniera così
cinica. Non poteva farci niente, la frase aveva preso l’autostrada
cervello/lingua senza neppure una sosta intermedia. Era fatto così,
e non se ne vergognava in nessun modo. «Portatile.» «Cosa?» «Ho
detto portatile. Le scan le leggo lì.» “Non
funziona neppure l’ironia con lei. Non ha proprio peli sulla
lingua.” «Senti, che ne dici se poggiamo tutta questa
roba da qualche parte e ci fermiamo un attimo? Sarà almeno
un’ora che siamo chiusi qui dentro.» «No, prima
passiamo in cassa, paghi e poi andiamo via. Prima finiamo prima ce ne
andiamo.» «Così puoi tornare a guardare le tue
cose porno.» Touché. «Ovvio.» Ironia
destabilizzata. Il ragazzo si passò le dita sulle palpebre
scuotendo la testa: possibile che prendesse sul serio ogni singola
frecciatina che le lanciava con noncuranza? Un assurdo carattere
cristallino e prevedibile. Il fatto di non averla mai vinta con lei
in maniera assoluta risiedeva nelle risposte ricevute senza neppure
pensare alle conseguenze. «D’accordo, passiamo in
cassa e poi usciamo di qui. Ho un sacco di cose da fare.» «Immagino:
leggere commenti su YT, rispondere a qualche ragazzina arrapata che
ti dice quanto ti ama sotto alle foto del tuo profilo, gongolare dei
fan che ti seguono ad ogni video.» «Hai parlato
proprio tu di arrapate?» «Io almeno non mi sciolgo in
brodo di giuggiole a scrivere messaggi osceni tramite google
traduttore per far sapere ad un ragazzo famoso quanto sia
sensuale.» «Andiamo a pagare.» «Sì,
che è meglio.» Nemmeno stavolta era riuscito ad avere
l’ultima parola, ma l’espressione che aveva usato per
ribattere era mirata, come se fosse cambiato per un attimo il suo
atteggiamento. Chissà perché poi, gelosa non sarebbe
potuta essere di sicuro. La notorietà portava ad avere a che
fare anche con persone che riversavano sul web il proprio
apprezzamento in maniera esplicita ed alle volte imbarazzante, e di
questo Åsli era a conoscenza. Caricò per metà la
spesa notando la presenza di una piccola cornice d’argento: non
riuscendo a trovare l’utilità di un oggetto simile, la
prese tra le dita rigirandola un paio di volte e la poggiò su
uno dei ripiani. Venne letteralmente fulminato con lo
sguardo. L'appoggiò con movimento lento e studiato per
evitare di ricadere nelle ire della vicina decisamente pepata,
continuando a riporre il tutto; cose di ogni tipo gli erano passate
davanti agli occhi, di dubbio gusto decisamente ma utili. Non aveva
mai dato troppa importanza a quello che serviva davvero in casa,
considerando che di quel genere di cose s'era occupata Kisha a suo
tempo. L'immagine della ragazza si stagliò nella sua mente, ma
venne cancellata con un colpo di spugna subito dopo, finendo
nuovamente nell'oblio. Non doveva pensare a lei, in nessuna
maniera. Non lo avrebbe fatto più, non ora che s'era deciso
a cambiare vita e città. Doveva pensare esclusivamente al
suo lavoro, non alle cazzate, nemmeno al passato che saltuariamente
tornava a tormentarlo. Pagò con la certezza che una ragazza
avrebbe decisamente pensato a tutto in occasioni simili, non
tralasciando nessun particolare. Sospirò spingendo il pesante
carrello verso l'area ristoro sperando in una pausa più che
meritata, e non dal supermercato, bensì da Raon stessa: quando
ci si metteva, non era in grado di stare zitta per più di
cinque minuti di fila. «...sli?» Come
facesse a riversare così tante sillabe una dopo l'altra
poi. «Signor notorietà? È diventato sordo?» Si
stupì d'essere richiamato in maniera così impertinente
e si voltò corrugando la fronte: «che c'è? Di
cosa vuoi blaterare stavolta, logorroica?» «L'ordinazione.» Sbuffò
nascondendo l'imbarazzo di quella uscita senza senso, tentando di non
focalizzare l'attenzione sulla banconiera che se la stava ridendo
sotto ai baffi. «Un caffè va bene,
grazie.» «Perfetto.»
Raon saldò il conto alla cassa e si portò all'altezza
di uno di quei tavolini da bar accostati ad alti sgabelli, famosi per
la mancanza di comodità; faticò a mantenere
l'equilibrio dall'alto del suo metro e sessanta, per poi affondare i
denti in uno dei croissant più golosi tra quelli esposti. Il
ragazzo la raggiunse trattenendo tra le dita la tazzina
bollente. «Mangi sempre così?» «Sì,
perché?» «Complimenti, riesci ad essere un
figurino nonostante le calorie che fagociti ad ogni sfizio o merenda
extra.» Lei restò per un attimo sul chi va la: non
sapeva se interpretare la cosa come un complimento oppure come un
insulto al suo stile di vita. «Se te lo stai chiedendo, era
proprio un insulto. Ingorda.» «Eh vabbé, l'idea
di stare a dieta e mangiare esclusivamente sano mi mette ansia, va
bene?» La domanda retorica piccata si mostrò per quello
che era: un tentativo di mascherare la sensazione allo stomaco di
aver percepito un minimo di apprezzamento, scavando in profondità
all'interno di quel sarcasmo che tanto caratterizzava ogni singola
osservazione del ragazzo. Lui scoppiò a ridere macchiandosi la
felpa, rigorosamente bianca, con evidentissime gocce scure. «Almeno
io non sono un completo disastro.» Rise pure lei sporca di
zucchero a velo fino alla punta del naso. Per un attimo si
guardarono mentre Åsli le passava il polpastrello sulla pelle
recuperando la sostanza dolce e portandosela alle labbra,
succhiandola con entusiasmo. «Mhn, buono. Quasi quasi la
prossima volta ne prendo una anche io. Saprai sicuramente
indirizzarmi in qualche buon posticino scommetto. Chissà
quanti ne avrai provati, no?» «Smettila!» Gli
rispose improvvisamente, senza riflettere. «Ehi, non voleva
essere un'offesa la mia!» «Non è per quello,
imbecille!» Si sollevò dallo sgabello raggiungendo la
toilette del centro commerciale e richiudendosi con violenza la porta
alle spalle. «Certo che è davvero strana.»
Raon
sospirò davanti allo specchio dell'antibagno, reggendosi al
lavabo con entrambe le braccia: tentava invano di regolarizzare il
respiro ed il battito cardiaco. “Quanto sono stupida, cosa
cavolo mi prende adesso?” L'ideale sarebbe stato rinfrescarsi
un attimo, ma neppure il lavello sembrava voler collaborare. Aprì
una, due, tre volte il rubinetto, senza alcun risultato, colpendo la
base stessa: il getto uscì d'improvviso ad alta pressione,
amplificato dalla mano che erroneamente aveva premuto contro di esso.
L'acqua le si rovesciò completamente addosso, inzuppandole il
torso ed il volto. Rise
isterica come non mai e prese a calci il lavandino lasciando
un'evidente impronta di scarpa; l'imprecazione si levò con
tutta la mancata grazia possibile, attirando l'attenzione di Åsli
che si premurò di rassicurare la barista e chiederle di
sorvegliare il carrello della spesa. La prima reazione dopo aver
spalancato la porta offese palesemente la ragazza: le risate si
stavano sprecando. «Che cazzo stai ridendo a fare?» «No,
scusa... è che... è che sei davvero ridicola, sul
serio!» Faticava ancora a trattenersi, ritrovandosela
completamente zuppa da capo a piedi. «Carino però
l'intimo, non si direbbe tu fossi capace di scegliere qualcosa di
femminile.» Aveva ancora parlato a sproposito senza neppure dar
peso ad ogni singola parola detta; si rese conto d'aver fatto
un'altra gaffe solo quando il volto di lei si riempì di
lacrime. «Ehi, no aspetta... cosa fai adesso? Ti metti a
piangere pure?» «Sei un vero idiota, vattene!»
Raon non stava capendo più come gestire le emozioni che le
stavano letteralmente sfuggendo di mano. Si trovava in un bagno
pubblico, bagnata fradicia, senza un solo cambio di vestiti e
arruffata come un pulcino sotto la pioggia. Riaprì gli occhi e
si ritrovò il giovane a petto nudo a pochi centimetri di
distanza. «Aspetta un momento, non vorrai mica
approfittare?» lo spinse via con foga contro la porta schiusa
del bagno, facendo levare un'ulteriore imprecazione. «Certo
che a volte non capisci proprio un cazzo. Ti pare che approfitterei
in situazioni simili? Ti sto prestando una maglietta, scema.» Si
girò imbarazzata, più per il fatto d'aver travisato il
gesto di cortesia che non ritrovarsi in maglietta chiara e intimo
evidente davanti ad un mezzo estraneo. «Come farai?» «Io
sono capace di arrangiarmi, mica come te. Senti, lascia fare,
altrimenti perderemo pure il bus per tornare a casa.» Raon
si ritrovò voltata di schiena, mentre il giovane le stava
sfilando
la maglietta e pure sganciando i ferretti del reggiseno; la sua
schiena venne scossa da brividi profondi, ed abbassò la testa
nella speranza di non far notare la pelle paonazza fino alla punta
delle orecchie. «Non
era necessario.» «Che cosa? Se non ti fossi levata
anche questo,» disse lui indicando l'intimo stretto tra le
mani, «non avresti potuto infilarti nemmeno questa.» La
voce ferma tremò per un attimo mentre la guardava di sottecchi
nel suo rivestirsi. «Beh, io esco.» La ragazza lo
seguì a ruota leggermente a disagio, mantenendo lo sguardo
basso e le mani infilate nella felpa aperta che miracolosamente s'era
salvata dall'incidente. Alzò le iridi giusto per notare Åsli
che chiedeva con noncuranza un sacchetto di plastica alla barista,
sbandierando le coppe in pizzo chiaro che stringeva tra le dita come
fossero un trofeo. Se possibile, il colore delle sue guance superò
il disagio precedentemente dimostrato. «Andiamo, ti
prego...» lo strattonò nascondendo il volto con l'altra
mano e recuperando il carrello di corsa, mentre la banconiera le
faceva l'occhiolino con il pollice alzato sorridendo
sorniona.
Angolo
dell'autrice (che per una volta s'è divertita un sacco e ha
fatto fare figuracce a non finire!) Rieccomi,
salve a tutti! Un altro capitolo che mi è piaciuto scrivere,
che mi ha donato il buonumore in un periodo in cui manca da far
schifo. Mi ci è voluta un'eternità, ma i contrattempi
sono tanti e insormontabili. Mi auguro comunque che la storia abbia
preso una piega piacevole, questi due più si odiano più
sono divertenti insieme! Alla prossima, grazie a tutti voi per
essere passati di qui, per avere un pensiero dedicato e per aver
letto e recensito: siete dolcissimi.
«Sul
serio? Cioè, tu vorresti dirmi che non solo sei stata in giro con quello
stronzo, ma sei pure finita mezza nuda in bagno con lui?»
Detta così, sembrava davvero una cosa equivoca, ma Raon
non ci aveva dato peso più di tanto. D’accordo, la faccenda era precipitata ma
si era conclusa in maniera tranquilla.
«E poi cos’è successo? Siete andati a casa sua e ci sei andata a letto?»
«Aya!»
«Sembrerebbe ovvio, visto quello che mi hai detto.»
«Beh, hai decisamente sbagliato strada. Non è accaduto nulla, non ci sono
finita a letto e sai che mi sta sul cazzo quel ragazzo.»
«Allora spiegami perché sei sempre con lui.»
Una deduzione acuta e fraintendibile sotto ogni punto di vista; la telefonata
stava prendendo una piega imbarazzante e la ragazza si stava spazientendo
davanti ai riferimenti dubbi dell’amica. Doveva darci un taglio prima di
perdere completamente le staffe e spedirla in un posto preciso, non molto
lontano, decisamente affollato. «Senti, vai a fare in culo.» Non aveva
resistito.
«Se non imparerai ad essere più femminile e tranquilla difficilmente riuscirai
a colpirlo ed attirare la sua attenzione.»
«La fai finita? Sei fuori strada! Quel tizio non mi piace, non mi è mai
piaciuto e non mi piacerà mai, chiaro?»
Le note di una risata cristallina si levarono ben al di là del microfono dello
smartphone. Non era divertente, per Raon non lo era
affatto e si sentiva continuamente presa in giro da chi solitamente si mostrava
pacata e tranquilla. Solitamente.
«Come è andata a finire davvero?»
«Aya scusami ma devo andare. Han mi ha appena
chiamata di sotto, sai che si arrabbia se non sono puntuale.» Riattaccò dopo un
saluto frettoloso; il fratello non l’aveva richiamata ma aveva bisogno di una
scusa repentina per tagliare corto e riprendere un attimo fiato. L’altra aveva
la tendenza a non saper farsi i fatti propri, soprattutto quando si trattava
dell’altro sesso. Naturalmente la giovane era di tutt’altro pensiero riguardo
all’argomento, per nulla interessata o quasi.
S’era stesa sul letto lasciando da parte il cellulare silenziato, l’avambraccio
a coprire gli occhi e la strana sensazione del nodo in gola che ancora non
l’aveva abbandonata nel ripensare al tocco di quelle dita affusolate sulla
pelle della schiena. Sospirò rendendosi conto solo in quel momento di stare
indossando ancora la maglietta che Åsli le aveva
prestato. Un tessuto che le accarezzava il seno libero da costrizioni con
delicatezza, morbido e scuro, dal profumo strano per nulla sgradevole. Si
ritrovò ad arrossire violentemente, levandosi immediatamente quel capo non
appartenente al proprio armadio e lanciandolo sullo schienale della sedia
accanto alla scrivania. Recuperò veloce una cosa qualsiasi da infilarsi e si
precipitò al piano di sotto sperando di deviare l’attenzione dei pensieri verso
altro.
Han stava cucinando e il gustoso odore speziato della pentola s’era diffuso in
tutto il salone; Raon godeva dell’avvolgente aroma
del mix orientale di aromi, catapultata per un attimo nei lontani ricordi
dell’infanzia. Si rabbuiò per un attimo per poi azionare distrattamente la
macchinetta del caffè. Il ragazzo la guardò dubbioso, osando chiederle
l’accaduto solo dopo qualche minuto di forzato silenzio.
«Cosa c’è che non va?»
Sbottò infastidita da quelle continue intromissioni: «possibile che tutti non
facciate altro che chiedere cosa succede? Non ho assolutamente nulla che non
va, è tutto a posto.»
«Non direi proprio.»
«Farsi i cazzi vostri mai? Non ne siete proprio capaci.»
«Non ho idea di chi tu stia parlando, cercavo solo di essere gentile.»
Sbuffò sonoramente, con il puro intento di palesare il proprio dissenso.
«Senti, non devi per forza prendere il posto della mamma solo perché non c’è.»
Han si sentì colpito tristemente più che offeso: il suo intento non coincideva
affatto con l’idea errata della sorella, semplicemente si stava sforzando di
reggere una di quelle solite crisi di rabbia che facevano parte di quel
carattere spesso ingestibile.
«Non sto cercando di sostituirla però tieni a mente che domani passerà a trovarci,
quindi fatti trovare pronta, levati quella faccia da incazzata di dosso e
ricordati d-»
«Di fare finta che mi importi? No, grazie. Adesso devo uscire, a dopo.» Ingoiò
tutto d’un fiato il caffè scaraventando malamente la tazzina nel lavello, seguito
da un sonoro crack di ceramica rotta.
Corse per le scale raggiungendo la propria stanza e recuperò il telefono
infilandoselo in tasca, non dando importanza ai messaggi ricevuti su WA.
Aya uscì di corsa dall’aula stringendo con desolata
rassegnazione i volumi inerenti la lezione appena
conclusa: geografia. Si stava ripetendo una volta ancora quanto le sarebbe
potuto servire nella vita studiare le divergenze politiche mondiali inerenti lo sfruttamento delle risorse idriche nelle regioni
asiatiche. A nulla, decisamente a nulla. Avrebbe dovuto preparare un esame su
quell’argomento, sicura di approfittare dell’appello successivo; beccare
l’insegnante in un giorno “no” avrebbe sicuramente portato a qualche punto in
meno all’orale, cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Una materia
difficile da mandar giù ma confidava in una soluzione congeniale; si chiese
divertita se disegnare la cartina geopolitica del continente europeo sulla
carrozzeria dell’auto della professoressa, rigorosamente con una grossa chiave
da cancello in ferro battuto, rientrasse tra i piani di risoluzione. Scansò la
succosa ipotesi ridendoci sopra, ma svoltato l’angolo in direzione della
macchinetta del caffè mancò per miracolo un ragazzo che stava parlando
contrariato al telefono.
“Maleducato. Se solo non fosse così carino…” Spinta da un’innata curiosità selezionò
con finta noncuranza una delle opzioni date dal distributore automatico per poi
avvicinarsi allo scorbutico sconosciuto che stava visibilmente litigando con
l’interlocutore. Forse non avrebbe dovuto intromettersi eppure la situazione era
sfiziosa.
«Sul serio, tu credi che Kisha mollerà la presa così
facilmente? No, te l’ho detto che non… no, aspetta… ok, facciamo così, in
questi giorni passerò a trovarti e ne parleremo. Ora stacco, devo andare.»
Un litigio per telefono? Aya stava sorseggiando il
proprio bicchiere avida di ulteriori informazioni, quando il ragazzo si voltò
improvvisamente osservandola con sufficienza. «Origliare non è bene.»
«Nemmeno gridare al telefono in sala comune.»
«Stai cercando di cavartela? Sei stata beccata in pieno, fatti un favore ed
evita di fare altre figure di merda.»
La simpatia non era certo di casa.
«Quello che ha fatto la figura di merda sei tu.»
«Che linguaccia ti ritrovi.»
Non era lì certo per litigare, ma la situazione stava degenerando.
«Sul serio, non volevo farmi i cavoli tuoi, però gridi invece di parlare. Ti
avrei sentito persino di sopra. Non credo comunque di averti mai visto qui,
quale facoltà frequenti?»
Il giovane selezionò scocciato una delle bibite al distributore refrigerato
infilandosi in tasca il cellulare; suonò un paio di volte, ma venne ignorato
alla scoperta del mittente. «Io? Non studio, lavoro. Non mi chiuderei mai tra
quattro mura sepolto dai libri per tutto il giorno. Che palle, avrà capito che
non ho intenzione di parlare con lei sì o no?!» Aya rise senza neppure premurarsi di nasconderlo: lo
sguardo si fissò su quelle iridi chiare limpide e languide, mentre si
concentrava sulla barba curata, i capelli cerati ben pettinati e quella
montatura d’occhiali elegante e ricercata.
«Io adesso devo andare, mi aspettano in azienda.»
«Aspetta, non so nemmeno come ti chiami.»
«Josh Miles. Ora scusami, sono già in ritardo. Allora ci si vede in giro,
signorina maleducata.»
La ragazza gonfiò le guance corrugando la fronte: un atteggiamento altezzoso e
molto sicuro dunque, non sarebbe stato facile avere a che fare con una personalità
simile.
«Aya, mi chiamo AyaGrady.»
«Bene Aya, la settimana prossima sarò di nuovo qui
per dei contratti con dei clienti. Ci si vede per un caffè?»
Gli occhi le si illuminarono. «Certo, allora a presto.»
La salutò con un cenno della mano ed un sorriso assolutamente perfetto. Lei
rimase lì in piedi, il bicchierino di plastica ancora stretto tra le mani
tremanti. “Calma, stai calma, non è un invito ad uscire. È solo un odioso fighetto
maledettamente carino.”
«Mezzo negozio. Quella ragazza mi ha svaligiato i reparti, e adesso dove la
metto tutta questa roba?» Åsli osservava con pressante
irritazione il quantitativo di oggetti da sistemare: sicuramente il piccolo appartamento
non sarebbe più parso tanto vuoto dopo aver riposto tutto quanto. Il lavoro pareva
eterno e ad ogni nuovo sacchetto sbucava fuori qualche cosa di assurdo o
incomprensibile; tutto, tranne quella cornice. Non era ancora riuscito a
comprendere il motivo per cui Raon l’avesse comprata.
Il tempo passava rapido, rapendo sempre più minuti alla quotidianità ed ogni
cosa con lentezza certosina stava trovando il proprio posto. Un insieme colorato
di accessori e utensili diede nuova vita alle stanze spoglie, donandone calore
e senso di appartenenza. Non era stato lui a scegliere, ma ad un certo punto
non si pentì poi molto d’aver seguito quell’istinto selvatico e incontrollabile
appartenente ad una ragazza così assurda.
Ripose il portafoto sulla mensola della sala, indeciso sul da farsi: le avrebbe
chiesto spiegazioni alla prossima occasione.
Si preparò una cena rapida con l’intento di gustarla davanti al televisore
acceso ma prima di accomodarsi sul sofà il telefonino trillò. «Ho bisogno di parlarti.
Per favore rispondi.»
Si spazientì una volta di più: Kisha non gli stava dando
pace, lo stava contattando fin troppo spesso. “Possibile non capisca?” Digitò
rapido un messaggio scostante tinto di disprezzo. La risposta naturalmente non
si fece attendere.
«Ancora con la storia di Erik?
Ti ho già detto che non c’è stato nulla tra noi.»
Ancora un paio di parole spedite, i polpastrelli rapidi sul total
touch screen per ribadire il concetto.
«Dammi solo la possibilità
di spiegare.»
Lasciò il cellulare sul tavolo incurante delle nuove notifiche sull’app di
messaggistica. Qualcuno aveva suonato alla porta, e solo tre persone avrebbero
potuto presentarsi da lui senza preavviso: l’amico Josh, la cara Luciye e…
All’uscio era apparsa Raon, l’aria afflitta, gli
occhi lucidi e un sacchettino di carta in mano.
«Dolcetti?»
La fece accomodare senza richiedere alcuna spiegazione.
Nota dell’autrice (che adora incasinare la situazione e tirare fuori un
bel popò di personaggi ogni volta che può!) Buongiorno a tutti! :D
Qui gli aggiornamenti proseguono decisamente a buon ritmo: poco tempo, capitoli
brevi ma idee chiare e sempre più succose in mente mi aiutano a mettere su
foglio elettronico tutto quello che serve per mandare avanti questa mia amata
long.
Insomma, sembra che Aya abbia incontrato Josh, ma lei
non sa che lui è amico di Åsli e lui non immagina
nemmeno che la ragazza sia la migliore amica di Raon.
Anzi, Raon non sa neppure che faccia abbia. Secondo
voi si beccheranno ancora? La figura di Kisha riappare
al momento da dietro le quinte, perché per lei non è ancora giunto il tempo di
palesarsi, però adesso sbuca fuori un certo Erik. E chi sarebbe? Beh, sarebbe
troppo facile se ve lo dicessi ora, giusto?
Ringrazio tutti quanti voi per le bellissime parole, per il tempo dedicato e
per il bene che dimostrate a questa storia che amo, come adoro i personaggi che
ne fanno parte. Thank you!
-Stefy-
Era
passato qualche minuto ma la situazione non era cambiata: Raon se ne
stava silenziosa a mordicchiare distrattamente il dolce che aveva
recuperato una mezz'ora buona prima. Voleva scusarsi anticipatamente
con Åsli
per essersi presentata inaspettatamente a casa sua a quell'ora. Aveva
passeggiato per qualche tempo cercando di levarsi dalla testa l'idea
legata al ritorno della madre il giorno dopo; non solo la notizia non
le aveva donato il buonumore sperato, anzi, detestava il solo
pensiero di rivederla. Sarebbe sparita piuttosto. «Dai,
spara. Cosa è successo?» La ragazza non si sentiva a
proprio agio all'idea di buttare fuori tutto ciò che si teneva
dentro, ma si sentiva logorare dalla rabbia, percepiva le fibre del
proprio corpo tendersi e rilasciare energia negativa, senza darle la
possibilità di deviare l'attenzione su qualsiasi altro
argomento. Passata in precedenza davanti alla solita pasticceria,
s'era ricordata di quanto il giovane avesse apprezzato quelle paste,
e d'improvviso si illuminò: probabilmente distrarsi sarebbe
stata la soluzione migliore, indipendentemente dalla compagnia.
Perché non provare, s'era detta, e senza rendersene conto i
passi uno dopo l'altro l'avevano direzionata verso la vecchia
abitazione della cara nonnina. S'era arrestata dubbiosa un paio di
minuti davanti alla porta, sacchetto dal profumo delizioso alla mano,
l'indecisione che le stava bloccando ogni movimento. Chissà
per quale motivo le sembrava così difficile presentarsi in
casa sua. «Ehi, tutto bene?» Gli occhi ancora umidi
e arrossati erano di così facile lettura: Åsli si rese
conto che era incredibilmente semplice riuscire a leggerle dentro in
quel momento, ma non osava insistere sul motivo per cui lei si
trovava lì. «Mi spiace vederti così. Vuoi
qualcosa? Che so, un tè, un caffè.» Lei
sospirò visibilmente optando per un semplice infuso. «Così
potremo inaugurare quello che hai comprato oggi, no?» L'acqua
bollente borbottava rumorosamente, e più i minuti avanzavano
meno il ragazzo capiva quella situazione surreale: Raon silenziosa,
mogia, incapace di intrattenere attivamente una conversazione. A un
certo punto s'era chiesto se quella non
fosse la gemella opposta di chi stava imparando a conoscere giorno
per giorno. Mentre sorseggiava con delicatezza la bevanda aromatica
si chiedeva una volta di più cosa fosse accaduto, senza
riuscire ad arrivarci; il flusso dei sui pensieri venne
improvvisamente interrotto da una voce bassa, cupa, ombra di quello
squillante turbinio di imprecazioni che solitamente lei non era in
grado di gestire o trattenere. «Sai, quando sono arrivata
qui mi sono chiesta se ne valesse davvero la pena. Sono rimasta ferma
davanti alla tua porta come una scema, ad aspettare chissà
cosa. Mi sono chiesta da chi altro sarei potuta andare. Ho un
fratello ma non sono in grado di affrontare una simile faccenda con
lui, semplicemente perché è in pieno disaccordo con
quello che penso. Piuttosto che litigarci sono uscita immediatamente,
senza rifletterci. Gira e rigira, mi sono ritrovata qui.» «Strano,
vero? Da come ci siamo incontrati la prima volta, non mi sarei
aspettato tale considerazione.» Åsli si bloccò un
attimo scontrandosi con l'aria contrariata di Raon; «no, non è
per offenderti, anzi. Mi ha fatto piacere sapere che tu abbia scelto
me per poter trovare un po' di serenità.» Quella
frase vorticò pericolosamente più e più volte
nella testa della ragazza; cercò di ricacciare indietro lo
stupore che tali parole le stavano scatenando. Cosa avrebbe dovuto
rispondere? Sicuramente una simile affermazione era stata detta con
leggerezza, nel tentativo di tranquillizzarla, era solo lei che ci
stava vedendo chissà cosa. Chinò il capo nascondendo il
volto tra le braccia incrociate nel tentativo di mascherare il
rossore che stava avvertendo pervaderle le guance. Una mano
gentile, questo sentì un attimo dopo. Un tocco delicato le
stava accarezzando i capelli con movimento lento ed ipnotico. Si
sentì andare completamente a fuoco una seconda volta ed
affondò ancor di più. «È tutto ok, non
devi preoccuparti. Qualsiasi cosa sia, vedrai che passerà.
Anche se non vuoi parlare fa nulla, non voglio costringerti ad
aprirti per forza.» Gentilezza: mai avrebbe pensato di
incontrare questa emozione in lui. La stava trattando con tatto, che
nulla aveva a che fare con i precedenti battibecchi, con i botta e
risposta tanto acidi quanto divertenti. Che stesse finalmente
dimostrando un lato più umano, al di là del cinismo e
degli scontri continui? Si accucciò sul divano sfiancata
dal malumore, assopendosi e riprendendosi poco dopo con la testa
ciondolante. «Scusami, non credo di essere proprio di buona
compagnia stasera.» «Fa niente, se sei stanca riposa
pure un po', in fondo non è poi così tardi.» Raon
poggiò la testa sullo schienale del sofà stringendo tra
le mani uno dei morbidi cuscini comprati quello stesso pomeriggio. Si
tranquillizzò e le palpebre lentamente scesero.
Åsli
accese la televisione mantenendo basso il volume: si sintonizzò
ad uno dei canali di distribuzione anime in lingua originale,
seguendo distrattamente i sottotitoli. Per quanto fosse un
interessante titolo di vecchia data non riusciva a dedicare
il giusto interesse; qualcosa lo distraeva costantemente, levando
l'attenzione da qualsiasi cosa decidesse di fare. Optò per un
giro rapido sul proprio canale YT constatando quanto fosse in ritardo
con la pubblicazione del nuovo video di cover sulle opening di anime
giapponesi: molti dei messaggi ricevuti erano visibilmente pieni di
preoccupazioni. Chi chiedeva come mai un ritardo simile, chi non si
capacitava di tale mancanza di rispetto per tutti i followers –
mancanza di cui Åsli non si sentiva responsabile – e chi
scriveva concitato frasi di sostegno. Non riusciva ancora a credere
che certe persone potessero sentirsi così coinvolte da
pubblicare tali pensieri, nonostante gli anni passati ad esternarsi a
milioni di profili in tutto il mondo. Si irritò alla lettura
di certe voci di corridoio che si stavano diffondendo a macchia
d'olio sulla sua pagina ufficiale: ognuna di queste faceva
riferimento ad Erik e Kisha. Possibile che i fatti personali
venissero travisati e portati alle bocche di tutti quegli affamati di
informazioni pronti a mangiarsi viva la sua reputazione? Tutto quello
che riguardava lui e suo fratello minore non sarebbe dovuto mai
finire sul Web, eppure la fantasia stava assumendo tali e tante forme
da rischiare di coinvolgere chiunque. “Razza di creduloni.
Se fossero capaci di farsi i cazzi propri vivrebbero meglio.”
Sbuffò scompigliandosi i capelli e sentendo improvvisamente un
peso sul braccio: Raon s'era sbilanciata dormendo e aveva posato il
capo sulla sua spalla, accoccolandosi al cuscino, stringendolo con
forza ed assumendo un'espressione contrariata nel sonno. Sorrise a
tale buffa immagine davanti agli occhi e le carezzò la fronte
corrugata, stendendo con i polpastrelli i solchi formatisi per via di
un brutto sogno, o dei pensieri inconsci e tesi. Il distacco dal
gesto gli sembrò innaturale, così la carezzò
ancora e di nuovo, scansandole le ciocche dei capelli dal viso e
passandole le dita sul naso e sui contorni degli zigomi. Gli mancò
letteralmente il fiato nel momento in cui vide scendere delle lacrime
improvvise, senza apparente motivo. Si premurò di accoglierle
sui pollici e tamponare le guance. Non gli piaceva vederla star
male, per quanto andassero in continuo disaccordo. Lei era diretta,
un poco difficile, alquanto fastidiosa, ma non meritava di soffrire;
non aveva ancora capito cosa la stesse affliggendo in tale maniera,
ma si sentiva in dovere di poter fare qualcosa, una cosa qualsiasi
per alleviare quel peso che minava il suo sorriso. Avvicinò il
volto al suo, osservando il taglio orientale degli occhi, la pelle
straordinariamente chiara e le labbra sottili. Avvertì un
profumo leggero e gradevole solleticargli le narici, profumo che
ormai s'era insinuato nei suoi neuroni, nei muscoli, fino alle ossa.
Si sporse ancora fino ad incontrare gli occhi schiusi che si
spalancarono all'improvviso. «Che cosa?» Raon si tirò
indietro fino a sbattere il coccige sul bracciolo del divano,
osservando dubbiosa il ragazzo. «Cosa pensavi di fare?» «Ehi,
aspetta, non saltare a conclusioni strane. Non ti stavo facendo
niente di male, sei tu che ti sei appoggiata sulla mia spalla.» «Io
che?» L'impeto della ragazza si affievolì
improvvisamente, conscia di aver superato
la barriera di intimità tra i due che era stata innalzata
qualche giorno prima in fumetteria. Non se n'era neppure resa conto:
inconsciamente aveva cercato un appiglio e del calore nella speranza
di sentirsi meglio. Il problema di base era colui a cui aveva
affidato queste sensazioni nel dormiveglia. Stava cercando invano una
scusa per potersi levare dall'impiccio quando il suo telefonino
cominciò a squillare insistentemente. Han. Raon rispose
parlando con foga ed avvertendolo che sarebbe rincasata
immediatamente. Scattò in piedi e salutò Åsli in
fretta e furia dirigendosi verso l'ingresso; lui la seguì ma
lei fu più veloce e si richiuse la porta alle spalle
appoggiandosi ad essa e respirando profondamente. Gli occhi, quegli
occhi che la stavano guardando, quelle iridi chiare e profonde così
tremendamente vicine, troppo vicine. Non riusciva a levarsele dalla
testa in nessun modo, e l'unica maniera che aveva per togliersi da
quell'enorme imbarazzo era fingere di dover tornare a casa e usare la
chiamata del fratello come scusa; in realtà non aveva
ascoltato una sola parola di quelle pronunciate dall'altra parte
dell'apparecchio, ma almeno si trovava fuori da lì, lontana da
lui. E questo era solo un bene. All'interno Åsli
osservava ancora la porta di casa chiusa, confuso e contrariato:
avrebbe voluto sapere qualcosa di più, capire, comprendere
cosa rendesse il cuore di Raon così cupo e grigio. Invece si
era perso completamente a guardarla, così indifesa e scoperta,
cosa che non avrebbe dovuto assolutamente fare. Si passò la
mano sulla fronte, colto da un improvviso mal di testa. Aveva
bisogno di riposare e di schiarirsi le idee, di capire cosa gli
stesse effettivamente passando per la mente. Raon era solo una
ragazza qualsiasi, allora perché quando aveva raccolto quella
fotografia durante il trasloco, le era sembrata così
familiare? Infilò la mano dentro ad un cassetto del mobile del
corridoio e ne estrasse il ritratto di famiglia della ragazza,
concentrando ancora la propria attenzione sulle figure rappresentate.
Gli ricordavano qualcosa, ne era certo. Ancora doveva capire, ma
avrebbe scavato piano piano, cominciando dalla signora
Luciye.
«Sono tornata.» il rientro a casa non
era stato dei più sereni per Raon: aveva la testa
completamente immersa nell'immagine di quello sguardo da cui non
riusciva a staccare minimamente l'attenzione. Forse neppure voleva.
Il suo pensiero venne interrotto dalla voce contrariata del
fratello. «Posso capire che tu sia arrabbiata, ma sbraitare
parole senza senso al telefono senza neppure ascoltarmi...» «Mi
spiace, va bene? Ora scusami, vorrei solo andarmene a letto.» «Vorrei
parlarti un attimo.» Il tono serio non permetteva
repliche. «Senti, Han, sono stanca e vorrei dormire.» «Ti
rubo solo pochi minuti. Riguarda la mamma.» La ragazza entrò
in salotto, incrociando lo sguardo del padre rincasato da poco da
lavoro.
Lo salutò con un sorriso debole ed assonnato, attendendo con
disappunto. «Cara,
so che preferiresti essere già a letto, posso capirlo. Io da
giovane ero come te, pieno di energia fino a una certa ora per poi
cedere al sonno d'improvviso.» La smorfia di cortesia
falsamente rassicurante stonava tremenda su quel volto scavato dagli
anni e dalla fatica. «Papà, se devi dirmi qualcosa
fallo subito. Sai che non sopporto chi ci gira intorno senza arrivare
mai al punto.» L'uomo scosse il capo sorridendo
nell'ammettere che quel lato del carattere della figlia era
decisamente un lascito della madre. A quell'espressione lei trasalì
mossa dalla rabbia. «Domani tua madre non verrà, mi
ha appena avvisato. Mi spiace.» Un altro giorno, un altro
aneddoto deludente da aggiungere alla lunga lista di ricordi negativi
riguardanti la donna. Raon aprì bocca ma la richiuse subito
dopo, senza trovare alcuna parola da aggiungere; riteneva non fosse
necessario dire più nulla. Si voltò di scatto in
direzione dei familiari un'ultima volta, sentenziando con un
sussurro. «Lei è interessata solo alla nonna, non
gliene frega più un cazzo di noi, ve ne rendete conto sì
o no?! Come se lei fosse sua figlia, oltretutto!» Corse via
su per le scale, sbattendo violentemente la porta della propria
camera; atterrò di pancia sul letto ancora sfatto, il sonno
completamente sparito. Era consapevole d'essere sbottata crudelmente
davanti al padre ed al fratello, ma non era riuscita proprio a
trattenersi. Le aveva dato fastidio l'idea di doverla rivedere, ma
ancora peggio l'aveva fatta infuriare sapere che all'ultimo momento
aveva dato buca; non aveva neppure lasciato il tempo di farsi
raccontare la frottola che s'era inventata una volta ancora.
Preferiva rimanere all'oscuro e non pensarci più. Raccattò
il cellulare dalla tasca entrando istintivamente nell'app WA alla
ricerca del numero di Åsli: lo trovò e compose qualcosa
per poi cancellarla velocemente. Rifletté un attimo sul testo,
ma non trovò nulla di sufficientemente intelligente da
spedire. Al quarto tentativo scagliò l'apparecchio dietro
di sé tra le lenzuola. Non era capace di riflettere a mente
lucida quando era arrabbiata, e non era riuscita neppure a
comprendere il bisogno di contattarlo. Il telefonino mandò un
bip.
«Ehi, volevo solo chiedere come stavi. Oggi
ti ho vista proprio giù e mi spiace, non sopporto
vederti così. Cerca di riprenderti.»
Era
Åsli. Raon sgranò gli occhi e sorrise pensando
all'incredibile coincidenza avvenuta. Digitò poche semplici
parole e la risposta non tardò ad arrivare.
«Sono
contento di sapere che non stai così male, sei più
bella quando sorridi. Beh, allora buonanotte.»
Cose
forse scritte con leggerezza, probabilmente buttate lì solo
per risollevare un morale a terra; la ragazza semplicemente alzò
le spalle e si appisolò accantonando per quella sera il
malumore ed il risentimento.
Note
dell'autrice (che mi sa mi sa comincia ad allargarsi con sti
due): Indubbiamente
una ragazza difficile la nostra Raon, eh? Caratterino che sicuramente
avrà preso da qualcuno, qualcuno che a quanto pare non gode
delle sue simpatie. Adoro intrufolarmi nelle dinamiche familiari
analizzandone i nei ed i conflitti, e chissà che tutto questo
malumore non porti alla ricerca sempre maggiore di qualcuno. Eheh!
Come sempre vi ringrazio, ringrazio ognuno di voi che mi aiuta a
far crescere questa storia e le altre, ringrazio tutti! Siete il mio
sostegno! Alla prossima :3 -Stefy-
Josh spalancò gli occhi perplesso e per un attimo tentò
di soppesare le parole da dire, anche se da dire non c’era granché:
un’accozzaglia di stili diversi che si prendevano a pugni a turno era il risultato
dell’arredo di casa.
«Adesso mi spieghi che cosa è successo qui dentro, a meno che tu non ti sia
affidato ad una scimmia cieca e pure monca per scegliere queste cose: solo allora
avrebbe senso.» Åsli porse il bicchiere colmo di liquore all’amico,
brindando con il proprio. Bevvero un sorso alla loro, ed al primo incontro
ufficiale nella nuova abitazione.
«Sul serio, ti sei fatto arrivare tutto per corrispondenza? Lo sai che avresti
potuto chiedere una mano in caso di bisogno.»
Il ragazzo sorrise ripensando alla seduta assurda di shopping sfrenato con la
ragazza più strana mai incontrata prima; era stata tutta colpa di Raon, del suo istinto terribilmente antiestetico e delle
sue emerite figuracce in giro per i supermercati. Josh gli sventolò una mano
davanti agli occhi nel tentativo di attirare la sua attenzione, come a
riportarlo sul pianeta con i piedi a terra dopo essersene volato chissà dove
per qualche istante.
Dal giorno del trasloco non s’erano più visti: avevano avuto modo di comunicare
ma gli impegni lavorativi del coetaneo lo avevano allontanato più del dovuto.
Finalmente erano riusciti a ritrovarsi in una tranquilla serata di mezza
stagione. Per l’occasione l’ospite s’era premurato di recuperare una buona
bottiglia: un incontro così andava festeggiato.
«Allora, come ci si sente in una nuova città? Come sta andando il primo
periodo?»
Il padrone di casa ingollò in un sorso l’abbondante contenuto del cristallo che
gli era stato regalato quella sera stessa; se ne versò un’altra dose roteandolo
tra le dita e perdendosi nel movimento ondoso del liquido scosso con
delicatezza.
«Va. Faccio ancora fatica ad abituarmici.» Sospirò mantenendo basso lo sguardo.
Sapeva che quella sera la conversazione avrebbe toccato tasti che avrebbe
preferito mantenere celati, ma Josh mai avrebbe mollato la presa, lo conosceva
fin troppo bene. «Non è come prima, è tutto più difficile. I mezzi pubblici sono
rari, e bisogna muoversi qui e là per ogni singola sciocchezza.» “E poi non
conosco nessuno o quasi…” avrebbe voluto aggiungere, ma riteneva non ce ne
sarebbe stato bisogno; buttare altro sale sulla ferita ancora aperta non
serviva.
«Non sei contento di essere qui, vero?»
Una domanda inutile quanto patetica. No, non lo era per niente: gli era
semplicemente sembrata l’unica cosa da fare quella di allontanarsi dal mondo a
cui apparteneva. Serate con il gruppo, impegni giornalieri, tabelle di marcia
serrate e Kisha. Tutto era diventato soffocante.
«Penso sia stupido dirti di esserti comportato come un ragazzino. Come mai hai scelto
proprio questo?» Åsli sbuffò di malavoglia, non aveva certo invitato
Josh a casa per farsi fare un terzo grado da genitore apprensivo. «Ho parlato
con mia madre prima di andarmene, solo lei lo sapeva. Mi ha consigliato il
posto dopo aver fatto un paio di chiamate, ed io ho accettato di buon grado di
prendere la mia roba e andarmene.»
«Lasciando sola la tua ragazza e i membri della tua band col culo per terra.»
«Ex, Josh. Cazzo, ex.» Si stava alterando. Un’insistenza inutile su un argomento
che riteneva superfluo affrontare ancora una volta.
«Sei comunque scappato, che tu la veda così o meno. E così, sei capitato qui
con poche cose appresso e niente da fare insomma. Perché tua madre ha scelto
proprio questa città?»
Non era affatto una coincidenza: lei aveva vissuto lì da giovane, e come aveva
organizzato la sua sistemazione – provvisoria, s’era fatta promettere – non gli
riguardava affatto. Dopo il ritrovamento della fotografia in casa però la
sensazione sempre più schiacciante di familiarità nei confronti della bambina
ritratta aveva suscitato in lui dei dubbi. Avrebbe dovuto esporli al genitore alla
prima occasione.
«Dunque lei abitava da queste parti. Quanto tempo fa?»
Esattamente non avrebbe saputo quantificare: presumeva prima del matrimonio,
sicuramente in gioventù. Spronò l’amico a cambiare argomento, non gli andava di
immergersi nel passato e nelle decisioni prese in fretta e furia. Deviò la
conversazione indirizzandola verso Josh stesso; parlarono di lavoro, di come si
sentisse soddisfatto nel procedere con un numero sempre maggiore di clienti, e
di quante belle ragazze si potessero incontrare un po’ per caso e un po’ per
sfortuna. Il nome di una certa AyaGrady non tardò ad arrivare, dopo il quarto bicchiere. Gli
animi s’erano scaldati e la lingua srotolata dalle labbra.
«Non hai idea di quello che ti stai perdendo a startene qui da solo in casa.
Sai quell’appuntamento all’ateneo di cui ti avevo accennato? Beh, ho conosciuto
una tipetta niente male.» Åsli, alterato dall’alcool e scordatosi dei cattivi
pensieri rise di gusto, bevendo a fiato il contenuto dell’ennesimo bicchiere.
«La solita milf depressa che cerca cazzi da toy boy?»
Risero entrambi riportando alla luce aneddoti, nomi, luoghi un po’ confusi.
Risero anche mentre Josh descriveva quella che aveva intenzione di portarsi a
letto senza troppi convenevoli; sapeva di avere colpito la sconosciuta, ed era
sicuro di poter ottenere da lei quello che desiderava tra le lenzuola.
Bastavano un sorriso ed uno sguardo ammiccante, un aspetto ordinato, qualche
allusione.
«Sei un vero bastardo, davvero. Cosa succede se poi lei si innamora?»
Il ragazzo parve allibito, visibilmente irritato da una domanda simile: prese
tempo pulendosi gli occhiali da vista ed osservandoli in controluce prima di
rispondere con tono ironico e un filino acido. «Semplice, la mando a cagare.»
«Il solito gentiluomo. Non sei stufo di passare da una all’altra come niente
fosse?»
Josh inforcò nuovamente la montatura sul naso guardandolo con fare cinico.
«Meglio invece impegnarsi e poi andarsene, vero? Non sei nessuno per poter
giudicare quello che faccio.»
Poco dopo scoppiarono di nuovo a ridere. Per quanto fossero estremamente
sinceri, espliciti fino a cadere nella mera cattiveria, non riuscivano ad odiarsi. Troppo diversi forse, ma non per questo
inconciliabili.
Le ore si rincorrevano una con l’altra senza limitazione. Gli argomenti, i più
svariati, si ripetevano ed alternavano, tornando al passato, riportandoli al
presente, ricordando e giustificando, progettando qualsiasi cosa per una vita
alternativa che non sarebbe mai arrivata. Chiacchieravano completamente
estranei all’orologio, alla luna alta nel cielo, ai lampioni color arancio che
illuminavano quella strada poco trafficata. Uscirono dalla porta secondaria che
dava sul giardino posteriore, prendendosi una meritata quanto necessaria
boccata d’aria. Åsli voltò lo sguardo in direzione
dell’abitazione a destra, quella poco lontano, che faceva angolo con un
cancelletto in metallo che cigolava da matti.
La casa di Raon.
Si chiese distrattamente cosa stesse facendo la ragazza in quel momento ed
estrasse il telefono dalla tasca. Erano passate le due del mattino: se le
avesse scritto l’avrebbe disturbata? Preferì non aprire l’app e se lo infilò
nuovamente nei jeans. L’amico lo fissava incuriosito.
«Ti sento strano. No, dico, da quando sei qui. Sei… non saprei, diverso.»
«Forse perché ho lasciato per strada un po’ di veleno e me ne sto finalmente
tranquillo.» Sentiva il bisogno di mandare giù un altro sorso, ma improvvisamente
la bottiglia vuotata quasi del tutto sembrava troppo lontana, poggiata su quel
tavolino a pochi metri, dove svettava una cornicetta d’argento vuota; Åsli immaginò il volto di Raon
racchiuso in quel portafoto, se lo figurava perfettamente.
«Ci starebbe proprio bene.»
«Cosa?»
«No, niente. Sai, ho conosciuto una ragazza.»
Josh si avvicinò con aria complice, accendendosi una sigaretta ed inalando con
gusto e soddisfazione il sapore acre che pungeva in gola. «Così presto? Non
sembri il tipo.»
«Non capisci un cazzo. È un’altra cosa, non ci sopportiamo nemmeno, anzi,
semmai è lei che non sopporta me.»
L’altro lo squadrava con occhio critico. «Cosa hai combinato per farti odiare
subito?»
«Sai che tendenzialmente sono una testa di cazzo e non so come comportarmi con
il genere femminile. Non sono mica come te. Ti basta uno sguardo e riesci a
metterle a loro agio.»
Josh rise aspirando ed espirando fumo bianco e denso che serpeggiava verso il
cielo notturno. «La differenza è che io ho il coraggio di provarci. Se non va,
andrà meglio la prossima volta, ma è davvero difficile che non vada, ecco.
Dovresti liberarti un po’ di questa tua maschera da divo difficile, perché non
ti sta per niente bene addosso fidati. Tu fai lo stronzo, non lo sei. Io sì, tu
no.» La vibrazione insistente del suo cellulare si intromise nella
conversazione. «Toh, di nuovo lei. Adesso ci parli.»
«No, no ma che cazzo fai, asp…!» Åsli
non era riuscito ad allontanare per tempo lo smartphone, ritrovandoselo
attaccato all’orecchio.
«Åsli… Sei tu? Oddio, finalmente! Non sai da quanto
volevo parlarti…»
Una voce delicata entrò in lui, passando dai timpani fino ad arrivare al
cervello e scatenargli un susseguirsi rapido e doloroso di ricordi ed immagini,
suoni e profumi, risa, lacrime, il tutto fino a sballottarlo mosso dal liquore
e dalla solitudine indotta.
«Kisha…»
«Perché non mi hai mai risposto? Ho dovuto rompere le palle a Josh non sai
quanto per poter sapere qualcosa di te. Perché non torni a casa?»
Il ragazzo strinse il labbro inferiore tra i denti e sospirò. Cosa avrebbe
dovuto dirle, dopo quei giorni di silenzio costretto? Che non voleva più
vederla, nonostante provasse ancora qualcosa per lei? Che l’averla vista con
suo fratello in atteggiamenti decisamente inequivocabili lo aveva spezzato
letteralmente a metà? Avrebbe dovuto darle della puttana forse, ancora una
volta, una su tutte e lasciarla perdere. Definitivamente. In un attimo tentò di
formulare delle risposte plausibili, ma una soltanto uscì e forse non era
neppure quella corretta. «Cristo, non hai idea di quanto mi manchi…»
Pentitosi di quelle parole riversate di getto si morse la lingua imprecando.
Chiuse la chiamata in fretta e restituì a Josh il telefono combattendo con
l’impulso di sbatterlo al pavimento e calpestarlo fino a disintegrarlo.
«Che cazzo ti prende adesso?»
Respirò e chiuse gli occhi. I pugni gli tremavano visibilmente. Mandò l’amico a
fare in culo desiderando che non lo avesse mai raggiunto, ed inventandosi una
scusa qualunque, un malessere momentaneo che nemmeno lo stava sfiorando, lo
intimò di uscire di casa ed andarsene. Lo stava accusando inconsciamente di essere
la causa di quella sensazione nauseante che gli faceva girare la testa e
pentire di aver parlato.
«Josh, per cortesia, va’ a casa.»
«Dai, non prendertela. Sapevi che prima o poi sarebbe riuscita a romperti le
palle.»
«Ho detto vai, te lo sto chiedendo con gentilezza.» Il tono alterato non era
voluto, semplicemente era uscito così, con estrema naturalezza. «Vattene fuori
di qui, adesso!»
L’amico alzò le mani in segno di resa, scuotendo il capo con ironico
disappunto. «Lei ti ama ancora, razza di idiota.» Åsli respirò profondamente, espirando con la bocca e
riflettendo su ogni singola parola da dire: la lucidità rimasta stava
macchinando una costruzione della frase perfetta, in linea con il sentimento
provocato dall’aver udito ancora quella voce. Delicato, soave. «Andatevene a fare
in culo tu, lei e Erik.» Delicato.
Il ragazzo comprese l’improvviso cambiamento d’umore, ma d’altronde le cose
dovevano andare così; era lì per smuoverlo e spronarlo, la situazione era precipitata
e voleva aiutarlo a tornare alla solita vita, a casa, dalla sua ragazza e al
suo lavoro. Aveva intuito, come molti altri, che i problemi personali stavano
barbaramente intromettendosi nelle tabelle di marcia, nelle scadenze e in quel
famoso nuovo progetto che tanto lo entusiasmava.
Entusiasmo che non aveva più visto nei suoi occhi negli ultimi giorni.
«Cerca solo di tornare in te. La soluzione esiste per tutto.»
«Se è lei che ti ha mandato qui solo per tentare di parlarmi, allora non hai
capito proprio un fottuto cazzo di niente. Né tu, né lei.» La volgarità non rientrava
nel suo solito modo di parlare, ma sentiva di aver superato il limite; quello
stesso confine che si era imposto nel giorno stesso in cui aveva deciso di partire
e lasciare tutto per ricominciare da un’altra parte, ora stava collassando in
un cumulo di dolorose macerie scomposte.
Note dell’autrice
(cazzarola, volano paroloni grossi oggi!): Buonabuonasera a tutti ragazzi miei, questo è stato
uno dei miei capitoli preferiti da gestire: qui i personaggi li ho sentiti
molto più umani e liberi di esprimersi, andando al di là delle apparenze e di
tutto ciò che solitamente viene celato da una faccia sorridente. Ora si è
scoperto qualche cosa di più nei confronti di Kisha e
del rapporto con il protagonista: non scorre proprio buon sangue, no? Lei è una
di quelle figure che si portano avanti centellinandone informazioni e
sensazioni, ma prima o poi potrebbe davvero apparire, e lì mi sa che verrebbe
fuori un putiferio. Voi che dite?
Come sempre un grazie di cuore a tutti voi che dedicate il vostro attimo di
vita alle mie storie, sono davvero contenta di tutto questo. Ci metto il cuore
e l’anima in quello che faccio e vengo spronata da ogni singola parola,
lettura, recensione. Grazie ancora! :3 P.s. ma quanto è bello il titolo estrapolato
direttamente dal dialogo finale e riportato in inglese? L’ho letteralmente
adorato!
-Stefy-
Raon stava riflettendo spesso sulle situazioni completamente
assurde in cui s’era trovata coinvolta negli ultimi giorni: aveva sempre
ritenuto i tipi come Åsli spocchiosi ed egocentrici,
fissati con le cazzate e troppo impegnati a passare il tempo a registrare video
in cui loro erano protagonisti indiscussi, piuttosto che dare importanza al
quotidiano ed alla vita reale. Forse il suo ragionamento divergeva un poco dai
tempi attuali, ma nel suo piccolo aveva modo di osservare da vicino
un’esperienza diversa: veder rientrare il padre dal lavoro con l’espressione di
chi ha dato anche l’anima allo stabilimento, regalando spesso straordinari e
nascondendo le mani stanche e grigie, le aveva impostato un concetto di lavoro
più propenso alla fatica ed al sacrificio, cosa che non riteneva fosse
necessaria per poter pubblicare su una piattaforma multimediale di video. Tutto
ciò probabilmente era ingiusto, forse retrogrado, ma ancora non riusciva a
comprendere come uno di quegli “youtuber”, nome coniato nel nuovo millennio per
rappresentare quella nuova branca di persone che abbracciavano un certo tipo di
lavoro, quale la creazione di filmati per la rete mondiale, potesse vivere
facendo solo quello.
Proprio non ci arrivava.
«Raon?»
Eppure s’era ricreduta un poco, dopo quel primo disastroso incontro in
fumetteria: parte della brutte cose che aveva pensato in quel momento,
particolarmente pesanti e decisamente volgari, erano sfumate durante il tempo passato
in compagnia di quel ragazzo davvero strano. Non era poi così male.
«Ehi, Raon, mi stai ascoltando?»
No, aveva mostrato un lato migliore che pensava non avesse, ed aveva in qualche
modo superato quelle aspettative negative che gli aveva afibbiato dopo solo due
minuti di un cinico scontro verbale.
La sua proverbiale testa tra le nuvole venne riportata a terra da una mano
sventolata con energia davanti agli occhi: Aya stava
tentando di richiamare la sua attenzione senza particolari risultati. «Senti, cosa
ti passa per la testa?»
«Eh?»
La ragazza stava ancora mescolando il caffè nella tazzina, tiepido ormai.
Neppure il tintinnare continuo l’aveva distratta dai propri pensieri.
«È una cosa seria, a breve ci sarà quel benedetto esame. Dovremmo prepararci, non
voglio mancare all’appello.»
«Ah, sì, certo Aya, scusami. Allora qual è
esattamente il problema?»
L’amica aveva fretta di smaltire alcune questioni e dissipare i dubbi relativi
alle lezioni a cui era mancata per poter coprire i turni lavorativi di una collega
assente, per poter poi scappare in fretta e raggiungere l’area ristoro dell’ala
est dell’ateneo. Anche quel giorno era speranzosa, ed anche quel giorno avrebbe
passato il resto della pausa pranzo in quella stanza, in attesa. Gli scambi di
fotocopie di intere pagine di appunti, in aggiunta alle dovute delucidazioni
allentarono un po’ la tensione che le stava mordendo lo stomaco. Al terzo
controllo dell’orologio Raon si spazientì: prima la
contattava all’ultimo momento e poi non le dava nemmeno la dovuta attenzione.
Inconsapevole d’aver riservato ad Aya lo stresso
trattamento poco prima, tamburellò le dita con impazienza.
«Allora, cosa c’è che non va?»
«Te l’ho detto, in questi giorni ho dovuto fare gli straordinari e sono mancata
a buona parte delle lezioni. Conosco quella donna cazzo, ci aveva già avvertiti
che per passare la materia avremmo dovuto partecipare alle lezioni, altrimenti
saremmo stati penalizzati. Quella stronza.»
Non era certo ciò che Raon voleva sapere, tutta
quella distrazione poteva essere giustificata solo in parte da un motivo
simile; si conoscevano da anni e sapeva che sotto c’era dell’altro. «Non sto
parlando di questo, non prendermi in giro. Cosa ti sta incasinando davvero?» Aya sospirò gonfiando le guance.
«Lasciatelo dire, non sei cambiata neanche di una virgola. Sembri sempre una
bambina troppo cresciuta!» Le due risero, e la bionda raccolse i propri appunti
ficcandoli con poca grazia nella borsa a tracolla. Si alzò e salutò l’amica
frettolosamente avanzando verso la porta della caffetteria. La mano già sulla
maniglia, e si sentì chiamare da un fischio: Raon
sventolava uno smartphone con aria saccente. Corse a recuperarlo in velocità
ringraziandola due o tre volte, prima di prendere la direzione del piano
inferiore, una deviazione precisa verso i distributori automatici.
Aya aveva percorso almeno quindici volte il perimetro
della stanzetta, avanti e indietro, destra e sinistra: se avesse avuto del buon
vino tra le mani al posto del caffè, a quell’ora si sarebbe sentita alticcia.
Attendeva, così come gli altri giorni, tentando di deviare il pensiero
concentrandosi su cose importanti, come la macchia di umidità nell’angolo del
soffitto, in alto a destra, o l’intonaco disincrostato a lato del distributore
automatico in fondo.
Cose importanti.
Fissò nuovamente il quadrante dell’orologio da polso: a breve sarebbe dovuta
tornare al lavoro. Si morse il labbro inferiore nervosamente, dandosi della
stupida per tutti quei giorni spesi ad aspettare con inutile interesse; non era
certo la prima volta che un ragazzo si approfittava del suo tempo, ma qualcosa
in quel Josh l’aveva colpita. Alzò le spalle sbuffando sconsolata, lanciando il
bicchierino ormai vuoto, l’ennesimo, che non raggiunse neppure il bordo del
contenitore dell’immondizia.
“Merda.”
«Dovresti stare più attenta la prossima volta, lo sai che non si sporca in
giro?»
Riconobbe quella voce all’istante.
Era lui, Josh.
Era venuto, come le aveva promesso. Si sentì stupidamente persa in quel
momento. Abbassò gli occhi verso il pavimento spaesata. Lui si avvicinò e le
sorrise.
«Allora? Dov’è tutta la spavalderia dimostrata l’altra volta? Non dovevamo
prendere un caffè?»
Lei alzò il volto cercando un’argomentazione, una qualsiasi, per rispondere a
quella domanda: non ne trovò neppure una, e si mise a ridere. Resasi conto poco
dopo del gesto sciocco e fuori luogo si coprì la bocca con il dorso della mano
concentrando lo sguardo su un punto qualsiasi, arrossendo in modo lampante. Il
ragazzo rise di rimando, sfiorandole la mano ed abbassandola.
«Non coprirti il volto, è davvero un peccato.»
Un sorriso smagliante, un tocco leggero e caldo, confortante.
Iridi luminose e vive, labbra rosee ed invitanti.
La ragazza si scostò di poco, allontanandosi abbastanza da mantenere fermo il
proprio spazio vitale. Si fece coraggio e parlò, cercando di uscire dal momento
di enorme imbarazzo che stava vivendo quasi con disagio. La conversazione
toccava punti semplici e comuni, senza sforare troppo nel privato; l’incontro
sembrava pilotato dalle emozioni molteplici che Aya
stava provando, senza di fatto arrivare ad un dialogo sciolto e rilassato.
Josh non era un ragazzo stupido, ed era un ottimo osservatore: ogni sfumatura,
gesto, sguardo non sfuggivano al suo sguardo attento. Tentava di scrutarle
dentro, di capire quanto in là avrebbe potuto spingersi… in pratica, cercava di
conquistarla passo passo, la spavalderia tinta da un
pizzico di ironia che rendeva intrigante ogni sua frase, osservazione, ogni
battuta. La desiderava, e voleva prendersela. Sapeva di poterci riuscire, e per
lui una ragazza era sempre una nuova sfida. Aya era
semplicemente il nuovo obiettivo e studiarla faceva parte del suo programma.
Cercava di stimolarla ad esprimersi, di vezzeggiarla un po’, puntava a farla
sentire speciale, bella, unica. E naturalmente lei si crogiolava in tutte
quelle sensazioni positive che stava provando, si sentiva coccolata da quella
voce calma e suadente. Così tanto che le dispiacque troncare a metà il discorso
e dover rimandare per via del lavoro.
«Di già? Così presto? È un vero peccato, avevo intenzione di andare a bere
qualcosa assieme.»
«Mi spiace, proprio non posso. Tra poco dovrò iniziare il turno. Non è colpa
mia se sei arrivato a un orario pessimo.»
Josh colse la palla al balzo per vederla avvampare in volto ancora una volta:
«orario pessimo? Significa che mi stavi aspettando.»
Colpita in pieno, e quasi se ne vergognava. Certo che lo stava aspettando.
«Facciamo così, dammi il tuo telefono.» Le salvò il contatto, per poi
restituirglielo ed avvicinarsi al suo volto, parlandole all’orecchio con tono
basso. «Stasera sono libero, che dici se mi mandi la posizione e vengo a
prenderti?»
Il turno era stato particolarmente pressante: Aya
aveva bisogno di una doccia, un cambio di vestiti e di buon riposo. Avrebbe
potuto scartare l’ultima delle opzioni ma alle prime due non avrebbe mai potuto
rinunciare. Passò rapida a casa infilandosi in sotto il getto dell’acqua calda con
lo spazzolino da denti, perdendo un’eternità nel prepararsi e nello scegliere
con cura ogni singolo dettaglio dell’abbigliamento e della forma: voleva apparire
bella, voleva sembrarlo davvero. Curata,
perfettamente impeccabile, affascinante, questo era il suo obiettivo.
Voleva con tutta se stessa che Josh la desiderasse. Si
guardava allo specchio tutti i giorni ricercando quei difetti inesistenti che
le sembravano voragini a minare la sua personalità. Ogni particolare del corpo,
un neo, una macchia, anche solo una sfumatura diversa, le dava una angosciante
sensazione di inadeguatezza.
“Quanto sono stupida…” pensò, passando il correttore con perizia prima di
stendere il fondotinta a coprire l’incarnato naturale. “Veramente stupida…” Che
facesse riferimento al presente o al rimasuglio della ragazzina che veniva
presa costantemente in giro per il proprio aspetto, era un mistero pure per
lei. Aveva lavorato con fatica e sacrifici su di sé: ricordava con stizza le
risate, i gruppetti che si instauravano a scuola escludendola da tutto, le
occhiatacce. Tutto.
E poi era cambiata. E con lei, anche le necessità. Gli occhi le si inumidirono
mentre sistemò un’ultima volta l’abito attillato, il seno prosperoso messo in
evidenza. Voleva piacere a Josh.
Aveva bisogno di piacergli.
Attivò il GPS al cellulare per spedire poi la posizione del luogo dell’incontro
al ragazzo. Uscì di fretta, nella speranza di non incontrare il padre durante
il breve tragitto dalla camera alla porta d’entrata, ma poco prima di
richiudersi la maniglia alle spalle udì distintamente: «se ti vesti da troia, è
normale che tutti poi ti trattino come tale.»
Inveì contro di lui stringendo a sé la borsa e spostandosi sul marciapiede: mai
l’avevano tanto rassicurata due fanali che si stavano avvicinando lentamente.
Note dell’autrice (ehhhh
sì, mi sa che le cose qui stanno cambiando poco a
poco. In meglio? Mmhn.) Buongiorno a tutti! Eccomi di ritorno nell’original, dedicando spazio agli amici dei protagonisti,
perché anche loro esistono ed è giusto sia così. Il secondo incontro tra Aya e Josh svela un paio dipunti fondamentali di ciò che potrebbe
essere il loro futuro rapporto: non buono, dite? Beh, effettivamente pure io lo
penso, ma mica si è tutti belli e santi, no?
Spero come sempre che la lettura sia stata piacevole, ora torno ai miei
progetti che tanto per cambiare sono sempre di più ahahah!
Grazie a tutti per l’attenzione, le parole e l’affetto dimostrato come sempre,
siete dolcissimi. Alla prossima! :3 -Stefy-
Una buona cena era ciò con cui Josh s’aspettava di
cominciare: non avrebbe mai pensato di dover deviare dalla destinazione scelta
in precedenza. Era rimasto stranamente sorpreso dalla richiesta inconsueta di Aya: «potremmo andare fuori città?», gli aveva chiesto con
un tono stranamente piatto. Non aveva espresso obiezioni, non era certo un
problema per lui, ma la ragazza che aveva davanti era completamente differente
rispetto a chi aveva conosciuto qualche giorno prima; c’era qualcosa di diverso
in lei, non c’era traccia dell’entusiasmo imbarazzato che aveva dimostrato nei
loro incontri precedenti. Che fosse accaduto qualcosa? Non era certo un
problema suo, aveva ben altro in testa che stare ad accollarsi i fastidi di
altre persone, ne aveva già a sufficienza di pensieri grazie a quell’insistente
di Kisha che non faceva altro che stressarlo ogni
giorno, nella speranza di poter avvicinare Åsli.
Scacciò il pensiero di lei dalla testa con noncuranza continuando a guidare
verso la periferia per poi uscire dalla cittadina, ed alzò lo sguardo in
direzione di Aya cercando per un attimo di cogliere
qualche cambiamento, anche minimo.
L’espressione della ragazza si rasserenò nel momento in cui superarono il
cartello di ingresso al comune vicino: lei sospirò tenendosi il petto con la
mano per poi voltarsi verso Josh e sorridere. «Finalmente, non ne potevo più!
Allora, cos’hai in programma?»
Sembrava un’altra, di nuovo quella di prima.
«E tu chi sei? Dove se ne sta la musona che guardava fuori dal finestrino senza
spiccicare una parola?»
Lei arrossì
leggermente indicando le loro spalle con un gesto della mano: «lì, è rimasta
indietro assieme a quel posto di merda.» Risero entrambi ad una tale
affermazione ma lui non aveva ancora colto completamente l’enorme disagio che
provava nel vivere lì, sentirsi intrappolata in un posto troppo piccolo per le
sue ambizioni di vita.
Valutarono sul dove e il come passare la serata vagando a vuoto per un po’
nella zona agricola fuori al centro abitato, parlando principalmente di tutto e
di nulla; avevano da poco superato un paio di vecchi casolari abbandonati,
completamente divorati dall’edera e da altri rampicanti infestanti. Alcuni
alberi s’erano ripresi il giusto spazio prosperando tra una finestra sfondata e
una parte del tetto crollato. Aya intimò Josh di
fermare l’auto a sinistra, lì dove la strada si stringeva e deviava in un
bianco sterrato che riluceva sotto la luce delle stelle. D’impulso afferrò il
braccio del ragazzo guardandolo con occhi sognanti ed un sorriso sincero
stampato in volto. «Dai, usciamo un attimo.»
Il silenzio li avvolgeva completamente, ad illuminare il paesaggio soltanto
alcuni lampioni lontani laddove la via svoltava verso il prossimo centro
cittadino. Gli aveva chiesto timidamente di potersi appoggiare alla carrozzeria
della macchina ottenendo un “e sia” strascicato: si issò con poca fatica grazie
all’altezza sopra la media ed i tacchi indossati per l’occasione ma subito
s’era fatta prendere dallo sconforto. L’abito non voleva starsene al suo posto
a causa della posizione assunta e più cercava di lisciarlo e coprirsi meglio le
cosce, più il tessuto attillato risaliva dall’altro lato.
«Finirai per strapparlo…» le dita di Josh avevano fermato quel nervoso
tentativo ripetuto, stringendo le sue e stendendole con la dovuta calma.
«Lascia stare, non si vede nulla tranquilla. Sei fin troppo tesa, perché non ti
rilassi un po’?» Le labbra a sfiorarle il collo, il busto inclinato su di lei,
una mano tra i capelli a lisciarli con delicatezza. Aya
tentò di allontanarsi spingendolo con poca convinzione e quando si accorse che
il ragazzo stava scendendo sui suoi seni fasciati dal vestito si impuntò con
maggior decisione. «Josh, aspetta… ehi, ehi aspetta…!»
Lo sguardo luminoso e confuso di lui la scrutò un paio di secondi per poi dare
chiaramente voce al dubbio.
«Dai, non essere così timida.» La bocca a un centimetro dalla sua, fronte
contro fronte. «Non è per questo che siamo qui?»
No, non lo era: non era lì per farsi una scopata, non lo aveva fatto accostare
per farsi prendere di notte in mezzo ad un campo. Era lì per altro, non certo
per gemere sulla carrozzeria di una macchina. Doveva dirglielo prima che la
situazione precipitasse. Corrugò la fronte ed indicò il cielo con un dito,
prima di scoppiare a ridere per colpa della tensione e dell’eccitazione che
stava comunque tentando di nascondere. Non era certo indifferente alla presenza
di Josh ma da lì ad accorciare le distanze e procedere con troppa foga…
Lui si ritirò osservandola con un sopracciglio alzato.
Senza dire nulla s’infilò a recuperare un pacchetto di sigarette in auto per
poi raggiungerla con fare contrariato, affiancarla sul cofano e porgerle una
paglia accendendola con lo zippo. Soffiò fuori dai polmoni il fumo acre e denso
osservandolo salire verso l’alto e disperdersi nell’aria fresca. Sospirò e rise
di sé e di quella folle idea che s’era fatto di lei in soli due incontri: s’era
reso conto di aver sbagliato in pieno, ed aveva sorriso scuotendo il capo.
«Allora dimmi, perché mi hai portato qui?»
«Per questo.»
I lontani puntini luminosi brillavano in un cielo blu profondo. Ogni singola
stella unita alle altre mostrava un manto notturno da togliere il fiato, la cui
vista era accompagnata da un silenzio surreale e quieto.
Josh la guardava e cercava di comprendere ciò che stava dietro a quelle parole,
ai gesti, agli occhi vibranti ed accesi incollati alla volta celeste.
«Sembri un animale in gabbia che cerca di scappare da qualcosa.»
«Chi lo sa, potrebbe essere. Potrei scappare da te per cominciare, no?»
Risero smorzando parte della tensione accumulata per l’incomprensione – non
certo da poco – di qualche minuto prima. Il ragazzo si voltò bloccandola con
uno sguardo curioso ed amareggiato: «sei strana, sai?»
«Solo perché non ho ceduto alle tue avance quando mi sei saltato addosso? Fai
così con tutte?»
«Se ti dico di no, mi credi?»
Lei scosse la testa: no, non ci avrebbe creduto neppure se glielo avesse
giurato.
«Sai, Aya, sembri una delle poche di questo posto a
puntare a qualcosa di meglio, senza adagiarti su ciò che la vita ti ha fatto
trovare pronto. »
«Un padre testa di cazzo e una madre remissiva che non è capace di dire ciò che
pensa veramente solo per paura? Un’istruzione faticata perché i miei non hanno
voluto aiutarmi in nessun modo? Lavorare e studiare non è sempre facile, ma
sono sicura che quando mi sarò laureata me ne andrò via da qui, in un posto
dove il rispetto ed il valore di una persona contano davvero.»
Josh si voltò accarezzandole il viso. Aveva sbagliato a giudicarla, civettuola
ed interessata come l’era sembrata fino a quello stesso pomeriggio; sembrava
custodire qualcosa di molto più profondo, un orgoglio inaspettato. Non era
interessata a portarselo subito a letto e la cosa lo stava stuzzicando.
Avrebbe dovuto lottare per conquistarla, ed il desiderio di averla si insinuò
più profondamente in lui. La invitò a scendere e l’abbracciò senza dire una
sola parola. Aya si perse in quel gesto inaspettato ricambiando ed
inebriandosi della sua presenza, del suo profumo, del suo essere alto quanto
lei e non di più; le parve strano cingergli la vita e ritrovarselo a poca
distanza dalle labbra, sentiva la fredda montatura degli occhiali pizzicarle la
pelle e non era per nulla spiacevole.
«Ma chi cazzo è adesso?» Raon farfugliò nel sonno.
Quella sera aveva fatto una fatica immane ad addormentarsi, e il suono del
cellulare non era certo la migliore delle sveglie notturne. L’ora era
improponibile, e non aveva affatto intenzione di accecarsi per controllare il
mittente di qualsiasi cosa fosse arrivata: non era neppure riuscita a
distinguere chiaramente se fosse stata una notifica, un messaggio, oppure WA.
Non gliene importava nulla.
Voleva dormire, e questo le bastava.
Secondo suono fastidioso, stavolta prolungato. Mugugnò nervosa biascicando un
paio di imprecazioni, per poi voltarsi di nuovo verso lo schermo illuminato.
“Porca miseria. A quest’ora proprio? Ma la gente non ha niente di meglio da
fare?”
Controllò di malavoglia: un messaggio e uno squillo.
Mittente: Åsli.
Gli occhi le si spalancarono e si alzò dal letto con un colpo secco sbattendo
la testa contro la lampada a fianco sul comodino, nel tentativo di accenderla. Era
stata contattata per qualche strano motivo che ancora non riusciva a figurarsi:
avrebbe voluto scoprirlo, tanto oramai era completamente sveglia. Sei libera?
Niente di più. Un messaggio insipido non educato. S’aspettava di meglio da lui,
di solito era diverso: gli scambi di battute faccia a faccia o tramite un’app di messaggistica erano più diretti, coloriti.
Sembrava freddo.
Una sensazione che mai aveva provato prima standogli accanto. Incuriosita dall’ora
e dalla richiesta rispose con un rapido “sì” e si vestì infagottandosi all’interno
di una calda felpa oversize ed amati leggins a
fasciarle le gambe magre. Si sciacquò rapidamente cercando di riprendere colore
dal pallore del sonno interrotto e senza far rumore sgattaiolò fuori casa.
Il silenzio della notte amplificava ogni singolo rumore, optò dunque per saltare
il muretto di casa piuttosto che far cigolare il cancelletto in metallo. Divorò
la distanza tra la sua abitazione e quella del ragazzo senza neppure rendersi
conto del passo accelerato: in cuor suo sentiva che c’era qualcosa che non andava,
era palese.
Bussò con un certo fremito alle nocche, e dopo il terzo tentativo lo chiamò
piano per nome.
Nulla.
Bussò ancora e s’aggrappò alla maniglia, constatando che la porta era aperta.
Entrò chiamandolo ancora. «Åsli? Ehi, sono Raon. Scusami se sono entrata così ma sai, la porta era
aperta e…»
S’ammutolì varcato l’ingresso, incontrando il giovane seduto sul pavimento, il
cellulare stretto in una mano, una bottiglia quasi vuota nell’altra.
«Tutto bene?»
Gli corse incontro con fare preoccupato, alzandogli il volto con le mani
temendo chissà quale orribile reazione, o una serie di rimproveri poco civili,
ma non riscontrò niente in tutto ciò.
Solo lacrime.
Note dell’autrice (str*nza che non è altro!): Buongiorno a tutti! Sono tornata nell’original!
Finalmente, potremmo dire, eh certo, avrò pubblicato altre sei o sette volte
nel mentre. Adesso sono di nuovo qui approfondendo un po’ di più Aya e Josh, per poi gettare il sasso e nascondere la mano
nei confronti di Raon e Åsli.
Lo so, sembro cattiva ma non è certo questo il mio intento, anzi. ^^
Grazie a tutti per l’attenzione, le parole, grazie per l’affetto dimostrato sempre.
Alla prossima! :3 -Stefy-
Gli occhi di Åsli rilucevano liquidi di tristezza e
d’alcool. Notata la presenza di Raon si scompigliò
malamente i capelli affranto. La bottiglia rotolò sul pavimento abbandonata
dalla presa incerta delle dita.
La ragazza chiese ancora una volta cosa fosse successo per sincerarsi quanto
meno non si trattasse di un problema di poco conto, ma la risposta tardò ad
arrivare e non era certo qualcosa di piacevole: «sarebbe stato meglio se non ti
avessi scritto. Non credevo saresti venuta davvero.» Un sorriso amaro
accompagnava l’insieme incoerente di parole che l’avevano colpita violentemente
e di sorpresa: prima la contattava e poi pretendeva di non voler avere a che
fare con lei. Raon gli si piazzò davanti con le mani
strette a pugno poggiate sui fianchi, sguardo duro, animo irritato.
«Allora, mettiamo bene in chiaro una cosa: mi hai cercata in piena notte
svegliandomi con delle pretese, io mi sono preoccupata come una deficiente per
te,» riprese fiato cercando di calmare il cuore accelerato per la rabbia, «e a
malapena ti conosco, ma questo è un altro discorso. Insomma, mi sono alzata con
i coglioni già girati e mi sono fiondata qui pensando a chissà quali cose
orribili. Non rispondi, non apri, entro pensando al peggio e invece sei qui a
bere come un imbecille?» Gli puntò un dito accusatorio contro, forse avrebbe
dovuto trattenersi ma ormai era inarrestabile. «E te ne esci pure con quella
frase del cazzo? Sul serio? Ti conviene abbassare la cresta perché la gente si
stufa di quelli come te, sappilo. Succederà a tutti, perché gli stronzi non
vanno a genio a nessuno.»
Tremava nervosa e a stento riusciva a trattenere le lacrime: rabbia, emotività,
qualsiasi cosa stesse lavorando in lei in quel momento la stava spingendo oltre
al limite dei paletti posti per il rispetto dell’altro. Aveva il fiatone ed
espirò tutto il malessere accumulato con un unico sospiro.
Silenzio.
Tutto quello che aveva detto aveva suscitato in Åsli
una reazione pari a zero, la stava completamente ignorando tenendo il volto
basso rivolto al pavimento. Spazientita si inginocchiò di fronte a lui, a pochi
centimetri da quei capelli chiari che ricadevano disordinati a coprirgli il
viso. Avvicinò i polpastrelli a sfiorare la testa, esitando per un attimo; una
voce roca lievemente impastata, tanto diversa da quella a cui ormai si stava
abituando, la fece desistere. Il ragazzo cominciò a parlare senza neppure
guardarla.
«Non volevo tu venissi qui per non coinvolgerti.»
Di nuovo silenzio.
«Non volevo trascinarti in questo posto squallido e grigio.»
«Che stai dicendo?» Lei gli carezzò infine il capo, costringendolo ad alzare il
mento e a guardarla. Occhi vitrei, spenti. «Non è poi così male, no? D’accordo,
non sarà una reggia, però è sempre meglio di nulla…» Le sensazioni negative che
aveva percepito la stavano abbandonando, lasciando il posto ad un rozzo
tentativo di tirargli su il morale in qualche modo – qualsiasi modo in realtà.
Non sapeva come comportarsi, una cosa era avere a che fare con Aya e le paranoie da ragazze, lavoratrici o studentesse;
aveva davanti a sé qualcuno di cui invece sapeva poco o nulla. Quando si rese
conto di sfiorarlo ritrasse il braccio come scottata, sedendoglisi accanto.
«Non è la casa il problema, vero?» Åsli rispose semplicemente scuotendo la testa a
destra e a sinistra, rovistando con agitazione tra le tasche dei jeans ed
estraendone un pacchetto di sigarette; l’accendino malfermo faticò ad
accenderne una, ma il primo tiro dal filtro fu un sollievo. Alzò lo sguardo al
soffitto socchiudendo le palpebre.
«Dimmi, Raon, sai cosa significa scegliere di
rimanere soli? Non sono qui per aspettare che tu risponda, voglio farti capire.
Tu hai tua nonna, tuo fratello, dei genitori immagino. Quando torni a casa da
quel cazzo che fai durante la giornata, qualcuno ti prepara la cena, ti aspetta
e ti abbraccia.»
«Adesso non farla tanto pesante, è solo un po’ di nostalgia, su.» Una pacca
sulla spalla ed un sorriso: Raon credeva potessero
davvero bastare per risolvere la faccenda e restituire un po’ di buonsenso in
quella testa annebbiata dal troppo liquore. Lui si girò di scatto bloccandole
il polso tra le dita, inchiodando tra le iridi le sue, immobilizzandola con lo
sguardo.
«Nostalgia un cazzo, proprio un cazzo! Lo vedi, il modo semplice con cui
ragioni ti rende tutto così impostato e scontato, soltanto perché ti riempi la
testa di stronzate leggendo porcherie e credi che la tua vita perfetta sia
peggio di quella di chi ti sta intorno. Cristo, apri gli occhi.»
La ragazza non era sicura di avere colto esattamente il punto, si era beccata
una serie di insulti gratuiti e se ne stava lì comunque. Sentiva il calore
salire mano a mano, diffondersi sulle guance umide e
rigate.
Non s’era accorta di stare piangendo.
Gli occhi di lui glielo avevano fatto capire, sgranati e vibranti.
Aveva parlato troppo e a sproposito.
«Sei tu che non sai niente della vita di chi ti circonda. Sei tu che cerchi gli
altri nella speranza che assecondino i tuoi desideri, le tue paure, i tuoi
bisogni. Sei come un bambino, anzi peggio… sul serio, avevi ragione. Non sarei
dovuta venire. Ora scusami, me ne vado e torno dalla mia vita perfetta, la mia
famiglia perfetta, le mie giornate meravigliose.» Il tono si fece più alto, più
insicuro. «Me ne torno a quelle che tu chiami con disprezzo porcherie, intanto
però mi aiutano a distrarmi, dimenticare quello che mi fa male e regalarmi
qualche sorriso. Tu stattene qui a sbronzarti pure, a piangerti addosso come un
disperato, sta qui a veder spegnere una dopo l’altra le sigarette finché non
viene giorno. Passa la notte in bianco, prendi a pugni il muro, spacca il
tavolo, non me ne frega un cazzo. Stupida io ad essere venuta qui perché mi ero
preoccupata davvero, avevo pensato ch-»
Il fiato corto, la mente annebbiata, il battito del cuore ad esplodergli in
testa.
Le mani di lei intrecciate alle sue, le dita a stringerle convulsamente la
testa e spingerla verso di sé. Le labbra bollenti, le palpebre serrate ed il
tentativo di scacciarlo che risultò inutile fin da subito. Raon
si abbandonò adÅsli
accasciandosi contro il muro, aggrappandosi a quei capelli spettinati,
strattonandolo verso di sé per poi tentare di allontanarlo subito dopo. Il
sapore di alcool misto a fumo in bocca la stordiva.
«Devo… devo andare…»
La presa ferma non le permetteva di muoversi come avrebbe voluto.
«No, stavolta no. Non ti lascerò scappare di nuovo.»
«Ehi, ehi ma che cazzo pensi di… aspetta! Å… Åsli
aspetta!»
Le lasciò lo spazio di respirare, di muoversi, di riprendere a parlare. Il capo
inclinato da un lato e la bocca schiusa nell’attesa; non staccava le pupille da
lei, non le avrebbe permesso di uscire da lì con una scusa futile come la volta
precedente. Esigeva risposte, per il proprio bene e per l’equilibrio che non esisteva
più.
«Dimmi, allora. Ti ascolto.»
L’aveva lì, davanti a sé, irato e in attesa. Era lì, alticcio, sconsolato,
vinto dalle proprie scelte. Cosa avrebbe fatto? Non riusciva a muovere un passo
dopo l’altro, non riusciva a distogliere il viso, qualcosa l’attirava e non le
permetteva di andarsene di nuovo. Deglutì a fatica cercando un modo per
divincolarsi, un qualsiasi motivo per non rimanere più lì.
Non ne trovò neppure uno.
Lo odiava, non sopportava il suo atteggiamento egoista. L’aveva insultata, sottovalutata,
e lei aveva fatto semplicemente lo stesso con l’altro. Egoista, pensando di
aver fatto la cosa giusta presentandosi come buona samaritana in aiuto di una
persona in difficoltà. In base a cosa poi? Cosa ne poteva sapere lei davvero?
«Tu mi odi.» Esordire in una maniera così idiota non era nemmeno da lei, ma non
sapeva da dove partire. «Non mi sopporti, non ti piace quello che piace a me,
non puoi soffrire la mia presenza, credi io sia una perfettina che vive in un
mondo di rose senza spine. Beh, non è così. Anche io ho i miei problemi, e non
faccio a gara a chi sta peggio, però,» abbassò volutamente lo sguardo, si stava
sentendo in imbarazzo e sapeva che avrebbe dovuto continuare: «però il fatto di
sentirmi in qualche modo a mio agio con il tuo caratteraccio, con le tue moine
da prima donna, non lo so. Non so come spiegare, mi è tutto familiare ecco.»
Familiare.
La stessa identica sensazione che lui aveva provato durante il trasloco, quando
aveva ritrovato tra le cose della vecchia Luciye una
foto di anni prima. Familiare, come quella buffa espressione di bambina, le
ginocchia sbucciate, i codini. Familiare come il volto delle persone
immortalato su carta.
Lui come per lei, inspiegabilmente.
Avrebbe dovuto dirle di aver ritrovato quel ricordo, avrebbe forse dovuto
riferirle del pacchetto che la vecchina aveva recuperato dalla soffitta.
Accennarlo almeno e cercare un collegamento. Sarebbe stato utile per capire,
sbrogliare la faccenda, riordinare la testa e cercare tra le varie informazioni
il motivo per cui Raon sembrava far parte del suo
passato in qualche modo. Quest’ultima gli sfiorò il petto con la mano cercando
di tranquillizzarlo e farlo a sua volta. «Ti va di raccontarmi cosa è
successo?» Un passo indietro per il suo orgoglio, una volta tanto; un passo
avanti verso di lui, nel tentativo di comprenderlo.
Nota dell’autrice (se non parte la ship prepotente qui in seduta stante, non ho fatto bene il
mio lavoro! XD):
Eccomi, sono tornata da Singing, da Raon e Åsli, dal loro meraviglioso
battibeccare senza peli sulla lingua ed incazzarsi come niente fosse per ogni
cosa. Non riescono a trovare un punto in comune neanche per sogno, ma non
riescono a staccarsi per qualche motivo. Chissà perché poi, ehehe.
Io lo so, e voi no! Ok, basta cavolate, ora ho altre millemila
cose a cui pensare e progetti con cui procedere, ma mi auguro che questo
capitolo di svolta vi sia piaciuto.
Grazie a tutti voi che leggete, grazie a chi lascia le recensioni, qualche
critica e argomento costruttivo che mi permette di migliorarmi sempre più.
Siete dei tesori, alla prossima!
-Stefy-
«Cazzo, non ricordo dove l’ho messo.» Åsli cercava il posacenere con noncuranza passando nervosamente da una parte all’altra della stanza, optando per uscire dal retro e lanciare il mozzicone consumato che stringeva ancora tra le dita; Raon lo seguì stringendosi nella felpa ed alzando il cappuccio sulla testa a coprire le orecchie, mentre il ragazzo se ne stava a suo agio con la maglietta leggera a scoprire la pelle chiara ed il fisico leggermente definito. Lei cercava di distogliere lo sguardo e concentrarsi su qualsiasi cosa ma dopo ciò che era appena successo non era in grado di pensare ad altro: non capiva il motivo, non ne usciva. Perché quella sera? Perché in uno stato simile? Forse appunto per colpa dell’ebbrezza data dall’alcool.
«Ne vuoi una?» La domanda di rito la risvegliò dal mondo in cui s’era chiusa da un paio di minuti, richiamata al presente con una semplicità tale da spiazzarla.
«No, grazie, non fumo. Odio quella robaccia. E poi scusa, non canti tu?»
«Certo, e questo che vorrebbe dire?»
«Non ti rovinano la voce queste schifezze?»
«Anche se fosse? Che me ne frega.»
«Guarda che lo dicevo per te, sai? Razza di…»
«Cretino? Stupido? Alcolizzato?»
«Perché no?» Raon si appoggiò al parapetto che dall’esterno dava al giardino posteriore della piccola abitazione. Si strinse maggiormente nella maglia felpata che stava indossando, nel tentativo di ritrovare un minimo di calore in più; l’ora tarda non aiutava certo con la temperatura sempre più bassa.
Åsli sparì un attimo all’interno per poi tornare con una coperta di pile stretta sotto al braccio. Senza aggiungere nulla la poggiò sulle sue spalle per poi tornare alla bellezza anonima di quella piccola città ricoperta dal velo scuro della nottata.
Lei arrossì d’impulso sussurrando un semplice grazie a fior di labbra.
«Guarda che non mi sembra faccia tanto freddo, sei troppo delicata. Arrossire così per un po’ d’aria, mah.»
Aria, certo. Il freddo ad arrossarle le guance, perché no… poteva essere una motivazione valida, certo la più semplice da gestire a livello emotivo.
Meglio glissare sulla faccenda. Meglio, decisamente, perché l’umore di Raon si stava destabilizzando nuovamente minuto dopo minuto, e la cosa non le stava piacendo affatto. «Allora, ancora non mi hai detto cosa sia successo di tanto brutto.»
La guardò con aria contrariata sbuffando sonoramente. Il suo atteggiamento non era affatto migliorato, anzi. «Non riesci proprio a stare zitta per più di un paio di minuti?»
«Ringrazia che sia venuta qui e che non abbia silenziato il telefono.» Acida, tanto acida, tanto da sentire pizzicare la lingua in bocca. «Spara.»
«Potrebbe volerci un po’.»
La risata di Raon attirò l’attenzione di un cane che cominciò ad abbaiare furioso interrompendo di fatto il silenzio tra le abitazioni. Un’imprecazione proveniente dall’altro lato della strada la fece ridere di nuovo. «Non sono più una bambina, guarda che non ho il coprifuoco.»
«Mah, sembrava, da come ti eri comportata l’altra volta.»
L’aveva zittita di nuovo e l’aveva pure vista avvampare. Un motivo futile, una scusa, sufficiente a sviare l’attenzione dal rimescolamento di stomaco di lei. Åsli aspirò dal filtro dell’ennesima sigaretta della sera, trattenendo il fumo a lungo sentendolo espandersi acre nel petto. Avrebbe potuto impiegarci un minuto come mezza nottata, una volta cominciato, ma poco importava: ormai s’era avviato nella parte più spinosa della conversazione. «Kisha. È sempre stata colpa sua. Quando Josh, quello stronzo, è passato di qui per una bevuta, mi ha costretto a parlare con lei.» Quasi si soffocò con l’ennesimo tiro dalla paglia, lacrimando forse per la tosse, forse no. La scaraventò ancora accesa senza curarsi di controllare dove sarebbe atterrata. «Continuavo a sentirla nelle orecchie, e ancora adesso è così. Non riesco a levarmela dalla testa, cazzo, anche se sono stato io a decidere di andarmene. Per quanto questa casa possa essere bella, calda, ariosa, non sarà mai come vivere ancora con qualcuno.» Battè rumorosamente i palmi sul parapetto scaricando parte della rabbia accumulata, fomentata dal liquore ingerito e dall’instabilità che alternava il cinismo alla palese sofferenza.
«Ecco, lo immaginavo: ti senti sol-»
«Ti ho detto di non interrompermi, ma è più forte di te. Lo sapevo.» Non tentava nemmeno di velare l’aria spazientita. «Però hai ragione, una ragione fottuta. Mi sento solo, e tanto da fare schifo. Mi sento solo tanto da essere tentato di tornare indietro e riprendere come niente fosse.»
Tornare indietro: due parole che erano entrate prepotenti nella testa di Raon scatenando una reazione di fastidio: la rabbia stava montando, quella stessa rabbia che stava cercando invano di trattenere dal momento in cui s’era resa conto di non essere particolarmente gradita. La voleva lì, la chiamava, l’aveva pure baciata, per poi tornare ad essere il solito irritante deficiente che giocava a fare il bambino, questo sentiva lei addosso e dentro. Doveva parlare, doveva dire quello che pensava veramente, ne andava della sanità del suo stomaco grazie alla bile venefica che s’era accumulata.
Parlare o esplodere, meglio la prima.
«Aspetta, aspetta un attimo. Allora, prima che ti pigli a schiaffi, chiariscimi bene la faccenda che magari ho capito male io. Hai mollato tutto, hai preso le tue cose e te ne sei andato convinto, e adesso te ne esci con una cosa del genere del tipo chi se ne frega? Sei serio?» Un tono acuto, stridulo. Non ci stava ancora capendo molto, ma aver a che fare con un rinunciatario le aveva sempre dato fastidio; aveva a che fare con un doppio rinunciatario, ed era ancora peggio. «Credi di poter tornare lì con il tuo borsone pieno di niente?»
Åsli la guardò con un’espressione a metà tra lo stupore e la stanchezza che stava avanzando di pari passo con l’irritazione data da certe espressioni chiare, gettate in faccia con una certa leggerezza: Raon non smetteva mai di stupirlo, non sempre in positivo, non s’aspettava certo un trattamento simile proprio in quello stato d’animo. Carezze o parole dolci non rientravano nel suo stile, ma un ipotetico calcio alle costole come quello che lei gli assestava continuamente non se l’aspettava. Erano lì, qualcosa era successo, accantonato subito come se avesse avuto minima importanza. Ne aveva? Poca o molta non era la questione fondamentale; lei voleva saperne di più, voleva conoscere tutto chissà per quale desiderio sadico di vederlo rivangare il passato, ma forse una simile strigliata pure se la meritava. Inspirò cercando di fare mente locale in quei neuroni annebbiati e confusi, cercando di rimettere insieme un discorso che s’era creato e ricreato centinaia di volte in quegli ultimi giorni.
«Kisha era la ragazza di mio fratello. L’ho conosciuta durante uno dei set fotografici di Erik. Lei era lì, bellissima, provocante. Era fuoco puro, non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso in nessuna maniera.» Prese una breve pausa ingoiando a forza un lieve nodo alla gola; le nocche erano bianche, tanto forte le dita si stringevano tra loro. Sospirò spostando gli occhi al cielo e si perse ad osservare le stelle che a sprazzi brillavano in quel cielo nero blu variabile: piccoli gioielli incastonati, brillanti, lontani. «Una voce particolare, unica, credimi. Canta, lo sai?»
Cosa poteva saperne lei? Stava scoprendo cosa stesse marcendo all’interno del ragazzo, un poco alla volta, ma qualcosa stava macinando all’interno della tua testa; quelle parole rivolte a quella figura che stava ancora perseguitando Åsli nei ricordi erano intrise di malinconia, e stavano in qualche modo ledendo Raon. Impossibile ancora capire se dentro al cuore o vicino al fegato, ma il fastidio era palese: il broncio dipinto inconsapevolmente sul suo viso parlava chiaro.
«Ha cominciato a seguire Erik alle prove della mia band, fino a diventare un’abitudine comune. Spesso si univa a noi durante le cover, finché non ha cominciato a venire da sola. Mi sono fatto coraggio, spinto non so ancora da che cazzo di motivo, e le ho chiesto di uscire.»
Silenzio.
Silenzio prolungato, silenzio che non ne voleva sapere di interrompersi in nessuna maniera. Innaturale, irritante, insoddisfacente. Raon tentò di spezzarlo per riuscire a scappare da quell’improvviso imbarazzo che continuava a tormentarla. «Tutto qui? E poi?» Curiosa, affamata di nuove informazioni, in bilico tra il voler sapere tutto e il non voler conoscere nulla di più; le dava fastidio sentir pronunciare il nome di Kisha, non c’era nulla da fare. Gli occhi di lui si tinsero di rosso, le pupille liquide s’erano dilatate nel tentativo di mettere a fuoco l’immagine della ragazza in quel buio spezzato dalla luce dei lampioni nel viale.
«Poi ci sono andato a letto.»
Un gran bel pezzo di bastardo.
Questo fu il primo pensiero di Raon a quella rivelazione: ecco perché tergiversava, ecco perché aveva preso il racconto tanto alla larga e nel modo più distante possibile. Digrignò i denti per il fastidio e la fatica nel trattenere le parole che violente volevano uscire dalle labbra.
Finché non scoppiò. «Ti sei permesso di fotterti la ragazza di tuo fratello e hai pure il coraggio di sentirti dalla parte della ragione? Cristo santo, che schifo. E io credevo fossi migliore di così. Odio queste cose, odio chi fa così, e soprattutto…» tratteneva a stento le lacrime di rabbia che stavano gridando dentro di lei per poter uscire, «odio chi tradisce i familiari.»
Lo aveva zittito con gli occhi bagnati, non con le parole.
Åsli non riusciva a guardarla, stava cercando un modo di evadere da quelle sensazioni così dirette e fisiche osservando un punto fisso, casuale: stava scappando di nuovo dal passato che era tornato ancora una volta a ferirlo, e dal volto complesso e contrariato di una ragazza.
Raon non sopportava quello stesso silenzio che aveva ricreato, ne era spaventata; credeva fermamente potesse nascondere un significato intrinseco.
Esattamente com’era solita fare la madre con lei.
Il disagio si impossessò delle sue mani umide: tremavano dell’impulso di prendere a schiaffi quel volto sofferente, risvegliare in qualche modo la mente ebbra e far ragionare i neuroni malsani e colpevoli dell’altro. Le prudevano le dita di desiderio, il desiderio di colpire il volto pallido e contratto. Si fermò respirando a fondo.
No, non avrebbe perso il controllo, non lei. Non quella sera.
Un sussurro la richiamò al presente ed alla realtà.
«Più volte ho pensato di andarmene.» Uno sbuffo verso la notte, un’altra interruzione dell’innaturale assenza di suoni. Il ragazzo rovistò frenetico alla ricerca dell’ennesima paglia da consumare avidamente, ma fu bloccato da Raon che gli strappò letteralmente di mano il pacchetto infilandoselo in tasca; gli fece cenno di continuare con un gesto rapido della mano fingendo disinteresse. In realtà una parte di lei – abbondante, morbosa – avvertiva il bisogno di continuare, perfettamente in contrasto con la razionale ragazza che era cresciuta a pane e disinteresse familiare da parte di chi s’era accollato il titolo di „mamma“ solo per il semplice fatto d’averla messa al mondo. Quella porzione più piccola ma più forte insisteva sul rammentarle la direzione della porta, cercando di darle una via d’uscita da quelle scemenze, dalle rivelazioni scomode e da quel bacio rifilato con fame e bisogno, agli occhi sperduti in cerca di sostegno che lei non era neppure certa di riuscire a dare.
«Allora?» Aveva optato per restare, sperando di non pentirsene poi.
Lui la guardò amaramente un’ultima volta prima di afferrarle il polso trascinandola in casa: nel volto di Åsli il bisogno di dimenticare, la fatica di rivelare un ultimo, fondamentale dettaglio. Quello più doloroso, quello che non lo lasciava mai in pace.
«Si è fatto tardi, ti accompagno alla porta.» Il bipolarismo alcolico di cui lui era capace era una novità, e non sapeva come gestirla.
«No, aspetta, ehi… ehi aspetta un attimo, cosa stavi per dire prima?»
«Ciao Raon, ci sentiamo domani. Te lo chiedo per favore, vai e fa attenzione.»
No, non ci stava.
Non dopo quello che era accaduto, non dopo ciò che aveva scoperto. Era contrariata, tremendamente incazzata, confusa, ma voleva sapere, sapere ancora. «Non me ne vado.»
«Fino a prova contraria questa è casa mia, e tu sei solo un’ospite. Buonanotte.»
Le sorrise. Uno dei sorrisi più amari mai visti in vita sua.
Raon decise in quel momento di smettere di insistere: lui era uno stronzo, certo, aveva avuto a che fare con la ragazza di suo fratello per poi lasciarla assieme agli impegni lavorativi , scappando in un’altra città. Non contento aveva pure ripreso lei direttamente più e più volte, sarcastico e indelicato su più fronti. Allora perché non riusciva ad abbassare quella benedetta maniglia? Un gesto semplice, stupidissimo, elementare.
Non era stata in grado di farlo.
Åsli lo fece per lei. Le sfiorò il volto con le dita mostrandole una smorfia dolceamara fissandola intensamente. L’altra mano spalancò rapida la porta alle loro spalle costringendola ad uscire.
Lei battè più volte il pugno sulla superficie dura, chiamandolo ad alta voce: nessuna risposta, nessuna reazione.
Un ultimo „per favore“ sussurrato al legno freddo, prima di incamminarsi verso casa infervorata ed affranta allo stesso tempo.
Il ragazzo si maledì d’averla trattata così, d’averla spinta fuori malamente, senza volerla allontanare davvero: ricordava ancora con famelica pretesa di possessione il calore della sua bocca e la stretta spasmodica delle sue dita sottili tra i capelli. Ricordava chiaramente, e con rammarico poggiò la testa contro quella stessa barriera che aveva posto tra loro.
Come avrebbe potuto dirle della gravidanza di Kisha, dopo le sue parole?
Note dell’autrice. (Sono tornata… sono tornata? Davvero?! Sì!)
Eccomi qui, prima pubblicazione post Writober – mannaggia, ci ho impiegato quasi 10 giorni a ripigliarmi da quell’iniziativa infernale. E come riprendere, se non direttamente da Singing? Ferma da due mesi, m’era dispiaciuto, e parecchio pure. Oltretutto voi forse non sapete, ma Raon e Åsli si sono incontrati davvero a ottobre, e tutto questo mi ha dato una carica ed un’ispirazione tale che non potete neppure immaginare! Una gioia enorme, che condivido con voi dedicando questo capitolo al loro incontro nella real life.
Approfitto di ringraziare la mia patata compagna di scleriBloody Wolf, a cui finalmente ho chiesto di creare la grafica per questa storia: tesoro, è davvero bellissima, sono loro! Ti ringrazio di nuovo, come ringrazio anche voi tutti lettori e lettrici che passate, leggete, recensite e dite la vostra. Siete la mia benzina, siete la bistecca di maiale nel mio piatto, la coperta di pile del mio novembre freddoloso: insomma, per chi mi conosce ha compreso che rappresentate davvero tanto, tantissimo per me e le mie storie.
Alla prossima cari, buona vita, buoni sorrisi e buona ispirazione!
-Stefy-
Capitolo 13 *** Opposites attract? Or who looks alike? ***
13 - Opposites attract? Or who looks alike?
Aya l’aveva già chiamata al cellulare almeno tre volte: strano, non era da Raon dimenticare completamente di vivere nell’epoca digitale. Scrisse un paio di parole inviandogliele rapidamente per poi tornare al tomo voluminoso che la stava aspettando in biblioteca. Studiare era diventato ostico in facoltà, quindi s’era accordata con l’amica per poter procedere con la preparazione dei futuri esami incontrandosi di fronte al palazzo storico in centro città, per poi passare i pomeriggi a prendere appunti, annotare, studiare ed imprecare fino a sera.
Primo appuntamento ufficiale di studio andato in fumo. Scoraggiata riprese il volume tra le mani, saggiandone la consistenza ed il peso considerevole, e gelide le parole del professore del corso continuavano a ripetersi nella sua mente, con il tono di una condanna: “ogni singola immagine. Dovrete essere in grado di riconoscere, datare e collocare ogni singola immagine di quelle presenti, altrimenti non passerete l’esame.”
Trecentoventiquattro manufatti di vario genere appartenenti alla civiltà greca e romana.
Trecentoventiquattro.
Rabbrividì alla sola idea di dover memorizzare ogni figura, nome, anno. Impossibile.
Si stiracchiò sfiancata alla sola idea di ciò che avrebbe dovuto fare nei prossimi giorni, stampandosi sul volto la copertina del quaderno di appunti attirando l’attenzione del ragazzo che le sedeva accanto. Silenzioso, contrariato, le sopracciglia contratte: la fulminò con lo sguardo prima di immergersi nuovamente nel proprio lavoro. Lo fissò per un attimo constatando quanto le ricordasse Raon, forse per i tratti tipici orientali, forse per l’immenso odio che era stato capace di dimostrare in un solo battito di palpebre. Cercò di scusarsi con un rapido gesto della mano, ricevendo di rimando una sorta di sbuffo indefinito. Sì, una versione di sesso maschile dell’amica, non avrebbe mai trovato paragone più azzeccato di quello. Un leggero senso di vergogna – leggero – l’avvolse facendola arrossire e portandola a spostarsi nuovamente, approfittando di leggere un paio di notifiche apparse sullo schermo dello smartphone. Si stupì nel constatare l’identità del mittente.
Josh.
L’aveva contattata chiedendole semplicemente di uscire. Un paio di emoji dallo sguardo accattivante, un testo semplice, diretto, efficace. Represse un sorriso che tentava di strapparle le labbra ai lati e si fiondò a recuperare il materiale, dimenticandosi di mantenere il dovuto silenzio. Uno nuovo mugugno attirò la sua attenzione, il suo vicino mostrò disappunto scuotendo il capo; Aya non ci fece poi tanto caso, semplicemente mimò un ennesimo “scusa” con le labbra per poi andarsene. Non aveva fatto tutta quella confusione, perché ricevere un trattamento simile? Varcò la soglia dell’edificio cancellando dalla mente immediatamente la figura di quello studente spocchioso che non tollerava neppure il battito d’ali di una mosca, e registrò un messaggio vocale da spedire a Josh. Tanto, che altro avrebbe potuto fare? Raon sicuramente non l’avrebbe raggiunta ormai, tanto valeva prendersi una pausa approfittando di una buona compagnia.
«Raon, mi spieghi come fai a dormire così tanto? E poi dove sei stata ieri sera? Non ti ho sentita tornare.» Han tentava di attirare l’attenzione della sorellina sventolandole davanti agli occhi una mano come a richiamarla da un altro mondo a cui non apparteneva. La trovava strana, inquieta e silenziosa, un campanello d’allarme da non dover assolutamente trascurare: la solita vivace ragazza che non lo lasciava stare neppure nei momenti più delicati non lo degnava neppure di uno sguardo, di una minima attenzione.
Neppure il pranzo stava risvegliando il dovuto interesse, le papille gustative stavano ancora riposando evidentemente.
«Allora? Credi che non possa far parte della ristretta cerchia dei tuoi pensieri privati? Raon? Ohi?»
Nulla da fare, le occhiaie parlavano per lei.
«Tieni, almeno beviti un caffè.» Caffè.
La parola aveva acceso un bagliore in quegli occhi spenti dalla troppa stanchezza e dall’irritazione irragionevole che non voleva andarsene; sollevò il volto come distolta da uno stato di ipnosi indotta, illuminandosi alla vista della tazzina fumante: una manna dal cielo, un dono di un’entità superiore che aveva le sembianze del fratello maggiore. Caffè.
Caffè.
Si alzò di scatto ustionandosi la lingua, senza neppure dire una parola, imprecando contro se stessa e il suo dare troppa attenzione ad Åsli tanto da non permetterle di dormire, e conseguentemente non sentire la sveglia. La connessione le riportò automaticamente una interazione precisa in testa: caffè, appuntamento con Aya, studio in biblioteca. Aveva completamente rimosso il programma del giorno, e senza neppure pensarci corse in direzione del centro cittadino, dimenticando di fatto il libro sulla scrivania e ricordando di recuperare solamente il cellulare; tentò di contattare l’amica con un rapido scambio di messaggio, ma non vennero neppure visualizzati. Solo dopo riprese la lettura delle conversazioni ricevute, e la notifica delle chiamate.
Che idiota.
Si sentiva un’imbecille sbadata e pasticciona, tanto fissata su un discorso affrontato la notte precedente da non riuscire a concentrarsi su altro. Correva nella speranza di non ricevere la solita strigliata da parte della compagna di corso che sicuramente la stava ancora aspettando. Correva col fiatone, tentando di inventarsi una scusa plausibile. Sono stata sveglia tutta la notte a leggere le nuove scan.
No, plausibile ma non credibile fino a quel punto. Sono stata sveglia a studiare fino all’alba.
Non ci credeva nemmeno lei. Ho avuto l’indigestione.
Forse quella era la migliore, probabilmente la più verosimile. In realtà sono stata con Åsli: era ubriaco, mi ha baciata, l’ho baciato, l’ho mandato a fare in culo, l’ho visto piangere. Ho capito che è un vigliacco, uno che cede facilmente e che difficilmente riesce ad essere equilibrato.
Bacio.
Si fermò sentendo il calore improvviso salirle alla testa, non certo per lo sforzo fisico.
Bacio.
Si riprese con un respiro profondo, ricominciando a correre per la stradina laterale che aveva inforcato quale scorciatoia. Il sapore di sigaretta e di alcool, non dei più buoni, anzi, però era stato il loro primo contatto tra labbra.
«E l’ultimo!» L’affermazione le uscì nel modo più naturale possibile, prendendo alla sprovvista una vecchietta a cui cadde dalla mano una borsa della spesa. Si chinò ad aiutarla scusandosi più e più volte, senza notare Aya e Josh che stavano passando a pochi metri da lei, ridendo come una coppia di vecchi amici. Si diede della stupida riprendendo il passo rapido giù per la lieve discesa e voltandosi di scatto andò inevitabilmente a scontrarsi con un passante, cadendo rovinosamente a terra. Imprecò ancor prima di aprire gli occhi.
«Ehi, tutto ok?»
La cadenza straniera leggermente marcata nella voce colse la sua curiosità, portandola ad aggrapparsi senza timore a quelle lunghe dita affusolate che s’erano sporte come appiglio, un aiuto.
Il suo stesso accento.
Erano anni che non sentiva una parlata simile, una tale sensazione di casa, di famiglia, di papà che ancora utilizzava qualche parola giusto per non dimenticare le proprie origini, le loro.
Spalancò le palpebre verso il malcapitato che l’aveva praticamente scaraventata a terra – no, non lei, non colpa sua che stava correndo come una forsennata senza neppure guardare davanti a sé – e due iridi scure e luminose la stavano scrutando preoccupate. Stava tentando di scusarsi in qualche modo al posto suo?
«Sicura di non esserti fatta male?»
Aveva battuto il fondoschiena sul duro porfido, certo che s’era fatta male, che domande. Aveva pure appoggiato male la caviglia e le stilettate di dolore le stavano dando una fastidiosa scossetta dai nervi del piede fino alla colonna vertebrale; non lo avrebbe ammesso comunque, non con uno sconosciuto. Si issò stringendo i denti non curandosi però di mascherare il disappunto scavato nelle sopracciglia aggrottate. Perse l’equilibrio colta da una seconda fitta acuta.
«Ehi!»
Temeva di cadere di nuovo Raon, quando si sentì sollevare con facilità da una stretta forte e sicura. Calda. Avvolgente.
«Così mi fai preoccupare, devo portarti in ospedale?»
Incontrò per sbaglio quegli occhi così simili ai suoi.
Tre secondi, quattro secondi.
Troppi, troppo contatto.
Nota dell’autrice (ahhhh, ma allora ti ricordi di avere una long da portare avanti!)
Buonaseeera, eccomi qui pronta e carica, piena di ispirazione e con tante cose da fare – e naturalmente poco tempo per portarle avanti. Ed ecco che è arrivato un nuovo personaggio, e la faccenda mi sa che comincia a farsi delicata qui.
Dai, quante possibilità ci sono che Raon si perda immensamente in Åsli chiudendosi automaticamente a riccio? Soprattutto dopo come l’ha trattata. È libera, impulsiva, emotiva. Uno sguardo un po’ troppo intenso mi sa.
Grazie a tutti voi, le vostre letture silenziose, i vostri commenti, le vostre interazioni nelle chat e sui blog mi aiutano a radunare le idee e andare avanti sempre con entusiasmo: siete il mio caffè bollente ragazzi!
Alla prossima,
-Stefy-
La situazione pareva completamente surreale: non solo Raon
aveva palesemente mancato l’appuntamento con Aya, che
dal canto suo non l’aveva contattata neppure nonostante l’insistenza nel
cercarla tramite telefono; si ritrovava aggrappata ad uno sconosciuto che la
stava aiutando a tornare a casa, instabile sulle proprie gambe, causa un
incidente che definire stupido sarebbe stato riduttivo. Si sentiva imbarazzata
e pure in colpa, non certo l’unica però: il terzo “mi spiace” l’aveva colpita
prima nella pazienza per poi scavarsi un pezzetto nel petto.
«Non serve che ti scusi ancora, anche perché è più colpa mia che tua. Insomma,
ero io quella a correre come una deficiente senza guardare, non certo tu. Stare
più attento però, eh?»
Il ragazzo la stava sorreggendo per un braccio, una mano sul fianco a ricreare
un equilibrio in parte stabile. «Stavo pensando.»
«E quando pensi non guardi dove vai, di solito?» Lingua lunga quella di lei, lo
era sempre stata, ma ormai aveva parlato. Arrossì lievemente per il tono
impudente utilizzato nel rivolgersi a chi la stava aiutando, perdendo di fatto
il resto del pomeriggio. «Scusami, tendo a parlare troppo e a sproposito.»
Una risata aperta, spontanea e coinvolta: Raon si
sentiva ancora peggio di prima data la reazione.
«Faccio così tanto ridere?»
«Eh?»
«No, dicevo, faccio davvero così ridere? Non zoppico perché mi diverto, sai…»
Non aveva capito assolutamente nulla: credeva d’essere presa in giro per la
propria condizione, non certo per altre motivazioni più plausibili. La seconda
risata la irritò di più.
«No, certo che no. È che sei così… ehm, vedi, non saprei proprio come
definirti…»
«Strana?»
«Forse.»
«Ti stai approfittando della mia pazienza solo perché siamo degli estranei?»
Lui si fermò intensificando la stretta sul polso e sul fianco. «Tae[i], puoi chiamarmi Tae, così non
puoi più dirmi di essere uno sconosciuto che si sta approfittando della tua
pazienza, per poterti deridere senza remore.» Raon assottigliò lo sguardo per poi presentarsi a sua
volta distendendo la fronte leggermente corrugata. Gli chiese da dove venisse e
per quale motivo si trovasse in città: scoprì che sì, i tratti non tradivano
certo la provenienza comune e no, non s’era trasferito da poco. Il ragazzo spiegà amabilmente che l’accento non era stato perso grazie
all’assiduo divieto di parlare “una lingua straniera” in casa – concetto
sottolineato perfettamente dal mimo delle virgolette. Raon
aveva sorriso a una simile ammissione: lei si sentiva invece appartenere in
tutto e per tutto a quello stato occidentale, a quella regione, quella città,
anche se i piccoli occhi color nocciola, la statura bassa ed i capelli scuri e
sottili erano un tesoro orientale custodito dal proprio sangue, dalla famiglia,
dal passato scritto nel DNA. Gli aveva raccontato di come il padre
difficilmente toccasse l’argomento, e ciò che conosceva della lingua d’origine
certo non le era stato insegnato dalla madre. Era sempre stata convinta che i
genitori in qualche modo si rifiutassero di dimostrare al mondo la propria
provenienza in modo palese, ma non aveva mai osato approfondire la faccenda con
loro. Anche il fratello maggiore non s’era mai sbilanciato troppo, fino a che
non crebbe e smise definitivamente di chiedere certe cose.
La perplessità sulle notizie apprese era palese, pesante, tanto da portare il
ragazzo a permettersi di intervenire. «Non senti come se ti mancasse qualcosa?»
«Come scusa?» Ormai arrivata a fianco della porta di casa, superando con fatica
il cancelletto al limitare del piccolo giardino e seguendo il sentiero in
pietra dalla superficie irregolare, Raon si poggiò
allo stipite tastandosi le tasche alla ricerca delle chiavi.
Non c’erano.
Non certo stupita della propria sbadataggine, ripensò a come fosse
letteralmente scattata dalla sedia e si fosse precipitata fuori con solo il
telefono cellulare tra le dita, e nient’altro, chiavi comprese. Suonò il
campanello con la convinzione di poter risolvere la faccenda in poco.
Non rispose nessuno, naturalmente.
Si scostò leggermente osservando il vialetto con la dovuta attenzione alla
ricerca della macchina del padre.
Mancava, certo.
Suonò ancora una volta nella speranza di ritrovare il volto del fratello dietro
alla vetrata opaca della porta. Niente, Han non era arrivato per lei, e non sarebbe
comunque venuto. Non c’era nemmeno lui. Sperando di sbagliarsi batté con la
solita delicatezza che la contraddistingueva: un pugno ben serrato, il suono
secco di nocche violente su legno. Sollevò in questo modo una certa ilarità in
Tae, osservatore divertito in quella commedia che era la vita quotidiana di Raon, di cui ancora non conosceva nulla.
«Non ci sono.»
Una sentenza pesante quanto ovvia.
«E quale sarebbe il problema? Non mi sembra tu sia una bambina, credo tu possa
cavartela lo stesso.»
Impudente pure lui, pensò Raon prima di rispondergli.
«Certo, ovvio che sì razza di... ah, lasciamo stare… ma se mi mancano le chiavi,
cazzo. Va che hai una bella linguaccia, eh.»
Lui rise di lei più che con lei. «Anche tu non scherzi.»
L’incredibile e strana sensazione di benessere riscoperta nella compagnia
reciproca si stampò sui volti di entrambi, ricreando un clima leggero e ilare. Lei
tentò di sedersi sullo scalino d’ingresso perdendo di fatto l’equilibrio ed
imprecando per il dolore.
Un attimo dopo Tae era già lì, tastandole con estrema delicatezza la zona lesa;
il volto teso, gli incisivi a mordicchiare nervosi il labbro inferiore. «Si sta
gonfiando. Dobbiamo applicarci del ghiaccio e farti riposare, altrimenti
peggiorerà. C’è un bar dove chiederne qui vicino?»
Una zona appartata in una via laterale non presentava certo il luogo adatto ad
attività di ristorazione di successo: Raon credeva
fosse un concetto ovvio, e lo dimostrò alzando un sopracciglio e schioccando la
lingua con fare saccente. Estrasse il cellulare dalla tasca nella speranza di
trovare una risposta di Aya, così da chiederle una
mano: nulla, zero, neppure una visualizzazione dei messaggi spediti in
precedenza. Non poteva contare su di lei, suo padre era al lavoro, suo fratello
sicuramente aveva ripreso il turno lungo.
Un nome si formò nella sua testa, chiaro, diretto, un nome fastidioso e
ridondante ormai dopo i pensieri di quella notte passata a cercare di trovare
una soluzione ad uno stupido, stupidissimo momento passato proprio accanto a
quella persona. Odiava essersi persa a pensare a lui tutto quel tempo dopo
essersene tornata a casa, odiava non averci dormito su se
non la mattinata stessa; odiava essere stata baciata ed aver ricambiato in
maniera imperante ed affamata.
E soprattutto, odiava quello che avrebbe dovuto fare.
«È successo qualcos’altro?» La voce di Tae la riportò al presente. Incuriosito
da tale spontaneo caratteraccio tentava di inquadrare lo sfortunato incontro
che aveva decisamente dell’assurdo, tanto strano da sembrare surreale, finto,
costruito.
«Niente, c’è una sola cosa, e questa mi scoccia terribilmente. Dovrò andare a
chiedere una mano a quello che ieri mi ha ficcato la lingua in bocca per poi
sbattermi fuori casa.» Credeva di averlo pensato, a malapena sussurrato forse.
Il ragazzo scoppiò a ridere chiedendole di ripetere; le guance di lei assunsero
il tipico colore vivace delle tovaglie di Natale che aveva pensato di regalare
ad Han per l’imminente nuova stagione. Rosso vivo. Rise isterica. «Facciamo
finta che non abbia detto nulla, va bene?»
«Dai, vieni qui, ti aiuto a rialzarti. Mi raccomando, fai attenzione che ti
rimane un piede solo.»
«Con la fortuna di oggi sarei in grado di farmi fuori tranquillamente pure
quello, da seduta, mentre dormo. Perché mi stai aiutando?»
Tae la squadrò perplesso, mimando una finta faccia – palese – corrucciata e
pensierosa. «Per quanto mi sia facile ammettere che sia stata tutta colpa tua,
non posso lasciarti certo da sola in questo stato, chiusa fuori casa. Che uomo
sarei?»
«Direi uno che non sa assumersi la propria parte di colpa.»
La risposta si perse nella risata cristallina e sincera di lei, distratta dal
dolore e dalla tensione all’idea di doversi presentare a casa di Åsli dopo tutto ciò che era accaduto meno di dodici ore
prima.
La testa ancora pulsava: il post sbornia era una delle cose che Åsli sopportava meno in assoluto. Nausea, fatica a
ragionare e a focalizzarsi su qualsiasi cosa, concentrazione pari a nulla. E vuoto assoluto.
Da una certa ora in poi, non ricordava assolutamente più niente. Sapeva della
presenza di Raon in casa sua, sapeva d’averle parlato
e di essere riuscito ad aprirsi un po’ di più, conversando di cose che mai
avrebbe creduto di poter dire, soprattutto a lei. Aveva aperto uno
spiraglio nella sua mente riferendosi a Kisha e ciò
che era accaduto tra loro. Fino a che punto però? Non lo sapeva. Vaghi stralci
di conversazione si facevano largo tra una tazza di caffè doppio e una
sigaretta cercata con perizia, senza trovarne alcuna traccia. Niente da nessuna
parte, eppure era sicuro d’aver tenuto da parte un pacchetto d’emergenza.
Sembrava sparito, così come metà della nottata ma fece spallucce, tanto sapeva
che se si fosse trovato in casa prima o poi sarebbe venuto fuori. Passeggiava per
il corridoio cercando di trovare un po’ di quiete da quei maledetti sintomi che
non gli erano mancati per nulla, chiamando l’amico Josh al telefono per
accordarsi per un viaggio da dover fare a breve.
Non rispondeva né a quelle, tanto meno ai messaggi.
Tipico.
«Sarà a scopare come al solito, stronzo.»
L’umore non migliorava col passare dei minuti, nemmeno la consapevolezza di
avere dei buchi tra un neurone e l’altro: più cercava di ricordare, meno ci
riusciva. Possibile che bere qualche bicchiere riuscisse davvero a ridurlo
ancora in quello stato? Si sentiva uno stupido ragazzino alle prime sbornie.
Raggiunse il piano di sopra senza neppure accorgersene, spalancando la finestra
della soffitta alla ricerca di un po’ di aria fresca, inspirando con vigore
nella speranza di mandare via la nausea. Rapide immagini si srotolavano davanti
agli occhi: il caotico trasloco con una vecchina impudente e dal senso
dell’umorismo deviato, Josh che lo aveva abbandonato lì con la sua roba per
andare a farsi i cazzi propri, e poi l’incontro assurdo con quella razza di
ragazzina troppo cresciuta dai gusti dubbi e la lingua lunga. Davvero non aveva
mai conosciuto nessun’altra così testarda, volgare, distratta, goffa.
Tutto il contrario di ciò che aveva sempre ricercato in una persona con
l’intenzione di interagire, e perché no, andare oltre.
L’aveva spaventato a morte quel giorno, gli era letteralmente caduta addosso
ribaltandolo dalle scale, aveva preteso di impicciarsi nei suoi fatti, sotto il
suo tetto, tra le sue cose; non era l’unica però, e lo sapeva bene. Scese a
recuperare la fotografia che aveva tenuto nascosta, risalendo nuovamente e
sedendosi sul vecchio pavimento di legno; l’odore di chiuso aveva lasciato
spazio alla pungente fragranza di natura autunnale, quel brivido di frescura
che avrebbe presto lasciato spazio al freddo vero e proprio.
«Åsli, guarda!»
Alzò di scatto gli occhi dalla vecchia carta che stringeva tra i polpastrelli,
convinto di aver udito qualcosa.
Impossibile, si trovava solo in casa. Fissò lo sguardo su quegli occhietti
vispi ritratti accanto ai familiari. Quei codini arruffati…
«Ho trovato un verme, vuoi vederlo?»
Strizzò gli occhi avvicinando il naso alla foto cercando ogni piccolo
particolare. Riconobbe l’ambientazione ritratta alle spalle di quelle persone:
era il suo giardino. Ne era sicuro, certo, gli alberi un po’ più piccoli, i
fusti più snelli, e delle aiuole presenti che mancavano decisamente da tempo,
viste le condizioni attuali; non poteva certo sbagliarsi. Quella era Raon, ne era sicuro, come era sicuro quelli fossero i suoi
genitori, a casa sua. Aveva senso, considerando che l’affittuaria era la nonna
della ragazza.
Quello che non capiva era perché riconosceva esattamente ogni centimetro del
paesaggio immortalato.
Non ricordava di esserci mai stato prima.
Doveva assolutamente incontrare la vecchia Luciye,
c’erano cose che non tornavano e odiava non essere a conoscenza di particolari
che riteneva importanti.
«Raon, tesoro, torna a casa che è arrivato papà.»
«Mamma, può fermarsi anche Åsli?»
«Sì, oggi starà a cena da noi. Avvertirò io sua nonna, andate a lavarvi le
mani.»
Il ragazzo si massaggiò le tempie: cosa diamine stava ricordando? Scese
alla ricerca di un qualsiasi medicinale che potesse aiutarlo a gestire il
fottuto mal di testa che non lo lasciava quasi respirare, e ad ogni passo ogni
scricchiolio, una parete, una porta, tutto gli stava parlando in immagini
nitidissime, come guardando un film ad alta definizione su un televisore di
ultima generazione.
Ricordi vivi, estremamente vivi.
Tanto da farlo barcollare a sorreggersi a malapena al muro.
«Dove le ho messe?»
Rovistò nel cassetto del primo soccorso estraendone un blando antidolorifico
generico. Ne ingollò una, poi due cercando di rendere la dose efficace,
abbastanza da recargli sollievo.
Sarebbe andato a riposare, dimenticando tutte quelle strane sensazioni senza
tempo, e se avrebbe tratto ristoro: una buona idea, decisamente la migliore che
avrebbe potuto partorire in quel momento – l’unica.
Il trillo insistente del campanello distrusse il suo sogno di pace.
«La vuoi smettere?» La voce irritata di Aya aveva
riportato Josh coi piedi per terra: non s’era neppure reso conto di aver
stretto la mano al fianco di lei con possessività.
«Pensavo ti piacesse.» Finto tono di scuse ed una falsa innocenza nella voce.
Ci stava provando in maniera evidente, come suo solito: aveva compreso al volo
che non avrebbe avuto vita facile con la ragazza ma non ci avrebbe rinunciato
facilmente, anzi, sarebbe stato molto più intrigante conquistarla passo passo.
«Josh, molla.» Unghie perfettamente laccate piantate sul palmo avevano lasciato
il segno al passaggio.
«Come? Credevo di piacerti…» Aya inciampò sui propri passi, le gote arrossate
sotto lo strato compatto di fondotinta: Josh non si sarebbe certo accorto del
cambiamento. Ne era convinta.
«Ti ho fatta arrossire? Guarda le tue orecchie!»
A quello non aveva pensato, s’era fregata da sola: non poteva certo nasconderle
ma si vergognava di mostrare apertamente sentimenti e sensazioni che le stavano
esplodendo nel petto. Solo con Raon solitamente
tendeva ad essere sincera e disattivare i filtri che ricostituiva poi per
tornare al mondo che la circondava, soffocandola. Josh però non era Raon, lui faceva parte di tutto il resto. Odiava il proprio
atteggiamento nei confronti degli altri ma tendeva a comportarsi così
dall’adolescenza, da quando aveva avuto modo di rendersi conto di quanto
potessero di fatto fare schifo gli uomini. Suo padre, il bastardo del ragazzino
che le aveva spezzato il cuore dopo essersela scopata qualche volta, quello che
le aveva mentito sfruttandola per la propria intelligenza dimenticandosi
dell’emotività e della sensibilità calpestate. Soltanto un volto le si era
focalizzato contraendole lo stomaco e bloccandole il ragionamento.
Han.
Lui era stato l’unico a trattarla con dolcezza e rispetto.
E non era riuscita a tenerselo stretto come avrebbe voluto.
«Ehi?» Josh la richiamò da quel piccolo mondo in cui s’era persa per un attimo,
«andiamo a berci qualcosa? Offro io.»
«Dovrei provare a contattare una mia am-»
«Lascia stare il telefono, avrai tempo dopo per scriverle.»
Certo, l’avrebbe fatto: tanto non era stata lei a darle buca ad un incontro di
studio intensivo pre esame, la sua coscienza era piacevolmente pulita. Se solo
si fosse ricordata d’aver silenziato il cellulare all’ingresso in biblioteca si
sarebbe resa conto degli insistenti messaggi spediti dall’amica nel tentativo
di contattarla e ricercare un aiuto fidato.
«Dai, ti porterò in un bel posticino, e non guardarmi così, prometto di non
fare nulla.»
“Difficile crederci…” pensò con una punta di diffidenza in contrasto con una
buona parte di lei, irrazionale e incontrollabile che tentava di dar credito a
parole simili; forse gli occhiali che contornavano gli occhi accesi e languidi,
o quei corti capelli chiari che avrebbe voluto accarezzare immergendoci le
dita. Probabilmente pure tutta la sfacciataggine palese faceva parte del suo
fascino. Sentì un nodo in gola ed uno allo stomaco contrarsi e contorcersi,
avvertendo il calore aumentare al bassoventre ed espandersi fino alla propria
intimità: inspirò con la bocca socchiudendo le palpebre per calmarsi, non era
certo quello il momento di farsi coinvolgere fisicamente in maniera tanto
profonda. Si bloccò per strada scuotendo la testa e cercando di eliminare quei
pensieri per nulla innocenti che la stavano portando a focalizzarsi su immagini
precise.
Troppo precise.
Josh le strinse la mano sorridendole ed un brivido le attraversò la schiena
salendo su ogni vertebra e fermandosi alla nuca; non poteva continuare così,
avrebbe dovuto fermarsi per tempo. Un pensiero fisso, il bisogno di doversi
allontanare, ma le dita calde e morbide di lui la stavano accompagnando sul
marciapiede fino a raggiungere la fumetteria in cui lei e Raon
erano solite fare acquisti: abbassò il capo distraendosi dal desiderio di
entrare, bloccata dalle tipiche reazioni passate tra i suoi conoscenti. Otaku,
immatura, fissata, bambina, tante volte se l’era sentito dire, a sufficienza
per portarla a diffidare dal giudizio di terzi, abbastanza a farle evitare di
entrare come d’istinto avrebbe invece fatto. Alzò le iridi accigliate solamente
per incontrare quelle curiose ed entusiaste del negoziante che aveva alzato una
mano nel salutarla.
Gesto che lei non ricambiò neppure, vergognandosene. Se ne sarebbe certo
pentita ma ci avrebbe pensato a casa: in quel momento era più importante
mantenere la propria reputazione di fronte al ragazzo che le interessava,
attuando un ragionamento egoista e forse stupido ma necessario. Qualcosa di
studiato che le permetteva di evitare frecciatine e commenti di cattivo gusto.
Josh aveva rallentato sussurrando qualcosa tra sé e sé attirando
l’attenzione di Aya. S’era fermato esattamente di
fronte alla vetrata del negozio e con sua grande sorpresa venne trascinata
all’interno, colpita dalla leggera tensione nell’uomo dietro al bancone;
un’espressione completamente in contrasto con quella del ragazzo che stava
curiosando alla ricerca di qualcosa di preciso. Osservava assiduamente la
vetrina espositiva contenente delle action figures,
passando in rassegna i vari modelli sigillati all’interno delle confezioni, con
fare speranzoso. Aya si sentiva confusa, richiamata da un reparto di
cartacei ben definito: lo sguardo sondava le nuove copertine presenti nell’ala
yaoi-shonen ai, ala che non visitava da tanto, troppo
tempo per i propri gusti. Ancora non aveva aperto bocca, ma lo fece lui
esordendo con un gran sorriso. «Buongiorno, sono Josh, l’ho contattata via mail
per un ordine e vorrei sapere se per caso è già arrivato.»
Il commesso rispose cordiale salutando ancora la giovane in modo pacato, quasi
nascosto, come avesse dovuto cogliere qualche segnale implicito e reagire di
rimando. Mentre l’uomo stava cercando al computer il codice di spedizione
dell’ultimo carico, lei spiava l’eventuale presenza di volumi sigillati
all’interno dello scomparto alle spalle della cassa – dedicato ai clienti
abituali per gli acquisti internazionali e gli arrivi delle ultime
pubblicazioni.
C’era qualcosa.
Il volume che stava aspettando era finalmente arrivato, difficile
da reperire, lungo nell’attesa, ma c’era: una doujinshi
yaoi tra le più crude, complesse ed esplicite mai concepite nell’intero
panorama mondiale del fanmade. Inghiottì il boccone
amaro ricco di aspettative avvolto da rassegnazione. Avrebbe atteso, sarebbe
tornata con Raon in un secondo momento e si sarebbero
divertite ad osservare con occhio attento il tratto aggraziato e
particolareggiato dell’autrice, tra le preferite delle due.
Sì, ci sarebbe tornata. La sua passione per l’erotismo omosessuale maschile
esplicito doveva restare dentro di sé. Il rimuginare ormai era diventato
un’abitudine durante quella giornata, ma un sospiro aveva attirato la sua
attenzione in direzione dell’accompagnatore che stringeva soddisfatto la
confezione di una statuetta rappresentante uno dei personaggi femminili più
famosi – e provocanti – tra gli anime diffusi e
tradotti in Occidente. Le iridi chiare brillavano entusiaste, pareva un bimbo
la mattina di Natale. «La ringrazio, non ha idea di quanto l’abbia cercata.»
L’immagine ammiccante raffigurata sulla scatola lasciava intravedere lussuria e
divertimento, nudità ben disegnata e curve generose esposte. Si avvicinò ad Aya mostrando trionfante il proprio acquisto.
«L’ho trovato, visto? Possiamo andare, oppure devi fare qualcosa qui?»
Lei respirò profondamente, se la sarebbe giocata rischiando parecchio.
«A dir la verità, sì.»
«Sul serio ti vergognavi a comprare fumetti?»
«Manga e manhwa, si chiamano così a seconda della
provenienza.»
«Quello che sono, per me sono tutti fumetti, ma non è questo l’importante.
Perché dovresti vergognartene? Che cazzata.»
“Sono tutti fumetti…” Per un attimo il pensiero si fermò su quelle parole e su
tutto ciò che avrebbe potuto affermare per stroncare la sua tesi, intenzione
che morì nel momento stesso in cui si rese conto che per la prima volta il
ragazzo che le piaceva stava accettando senza riserve una delle sue passioni
più radicate. Il locale dove stavano sorseggiando un ottimo aperitivo era
piccolo e confortevole, un angolo privato e tranquillo dalle luci calde e
soffuse, la musica un gradevole sottofondo: un’oasi quieta nel trantran del
centro cittadino.
«Insomma, ti piacciono gli yaoi.» Nessun tono acido. «Non sono ferrato, io
leggo hentai anche se diciamo che non disdegno certo gli yuri.»
Un ammiccamento complice il suo. «Non posso farci niente, ho un debole per le tet-»
Josh venne interrotto repentinamente dall’arrivo del terzo bicchiere,
sorridendo lascivo alla barista che rossa in viso si congedò stringendo il
vassoio al petto.
«Ma lo vedi? Fornicheresti con tutto ciò che si muove e respira.»
«Lo ammetto, ma che c’è di male?» Alzò le spalle in un gesto di menefreghismo
completo, come se non suonasse affatto strano ciò che aveva appena rivelato;
sorseggiava dal calice di vino bianco dalle note d’erbe e spezie godendo d’un
aroma particolare e stuzzicante, osservando Aya
attraverso il bordo del cristallo.
«Nulla, d’altronde ognuno è libero di fare ciò che vuole.» Avrebbe voluto
aggiungere anche che lei faceva esattamente la stessa cosa, perciò non avrebbe
mai giudicato un comportamento simile. Si scrollò dalla testa il pensiero di
come si assomigliassero più di ciò che credeva, avvicinandosi al bancone in
marmo poggiandoci le braccia in attesa del bartender: avrebbe ordinato un altro
giro, aumentando la gradazione alcolica. Puntava a dare una svolta divertente
al pomeriggio anche solo per rimuovere lo smacco da parte di Raon, gliene avrebbe cantate quattro più tardi,
sicuramente.
«Han? Che ci fai qui?» Sorpresa si irrigidì ritta come ad aver paura di crollare
sul pavimento. Un attimo di stasi e stupore, un attimo solo in cui avrebbe
dovuto decidere se scappare o starsene lì e sorridere come un’ebete.
«Aya? Ehi, ciao! È un bel po’ che non ti vedo, dimmi
di te, come va?»
Scelse la seconda opzione.
Le stava costando una certa fatica, la salivazione aumentata le creava un
leggero gioco di liquido in bocca mentre tentava di parlare senza balbettare. “Stupida,
è solo lui”, si ripeteva cercando di calmarsi, “non guardarlo negli occhi, che
ci caschi di nuovo.”
Inspirò e cercò di concentrare altrove i neuroni. Ordinare, ringraziare, sedersi
di nuovo: semplice. Il programma però stava prendendo una piega diversa e s’erano
persi completamente, immersi nel chiacchiericcio casuale di chi non si sentiva più
a disagio nonostante il passato condiviso e gli anni di assenza di contatti;
certo la ragazza non avrebbe mai immaginato di incontrare proprio lui in un
posto qualsiasi, un pomeriggio qualunque. La conversazione si dilungò tanto da
attirare l’attenzione di Josh, fermo ad attendere il ritorno dell’altra
stringendo nervosamente tra le dita lo stelo di un calice ormai vuoto; si stava
chiedendo cosa potesse trattenerla, o chi. L’irritazione si muoveva rapida
dentro la gola scendendo fino allo stomaco e s’annodò nel momento in cui notò Aya in compagnia di un ragazzo con cui sorrideva cordiale.
La raggiunse stringendole il fianco con fare possessivo, fulminando
letteralmente Han con lo sguardo. Quest’ultimo lo osservava confuso celando una
leggera contrarietà attraverso le iridi scure.
Una sfida fatta di muti silenzi.
«Allora? Andiamo?»
Impaziente tentava di trascinarla via.
«Che ti prende adesso?» Lei si bloccò poco dopo essere usciti dal bar
staccandosi dalla mano che ancora le conteneva il fianco in maniera protettiva.
«Lasciami.»
Josh arretrò improvvisamente distogliendo le pupille e concentrando
l’attenzione sul tombino sotto ai propri piedi prima di affrontare l’ira di
lei.
«Chi era?» Aya scoppiò a ridere con ironia palese: «adesso non
posso nemmeno parlare con qualcuno? Sei geloso per caso, geloso di una che non
è neanche la tua ragazza?»
Lo era eccome: vederla chiacchierare con uno sconosciuto dimostrando tanta
naturalezza lo aveva spaesato e colmato la sua mente ed i nervi di invidia.
Invidia per quelle risate sincere, invidia per lo scambio di sguardi.
Invidia.
Lei lo osservava tentando di captare le sensazioni che lo avevano bloccato di
fianco alla strada. «Si tratta solo del fratello maggiore di una mia amica.»
Muscoli meno tesi, un sospiro profondo e finalmente le labbra di lui s’erano
mosse in un lieve accenno di sorriso.
«Ed è il mio ex ragazzo.»
Capitolo 16 *** Take care of your own stuff, ok? ***
Singing
is the answer
16 – Take care of your own stuff, ok?
«E tu che cazzo ci fai qui?»
Un’accoglienza perfetta quella di Åsli, degna degli esseri umani più detestabili.
Raon percepì l’improvviso nodo in gola che le stava bloccando il passaggio della saliva all’esofago: si stava già sentendo in ansia. Si strinse d’istinto al braccio di Tae che l’aveva accompagnata davanti all’unica possibilità disponibile. Morse il labbro con gli incisivi mandando giù finalmente il boccone, consapevole che per nessun altro motivo si sarebbe mai ripresentata subito dopo i loro trascorsi precedenti. Restava in piedi davanti alla soglia guardando il padrone di casa in cagnesco, il piede leso sospeso da terra e l’orgoglio sotto la suola dell’altra scarpa su cui tentava di stare in equilibrio in modo malfermo.
La voce dell’accompagnatore spezzò il gelido, imbarazzante silenzio che sembrava durare già fin troppo. «Ciao, avremmo davvero bisogno del tuo aiuto.»
Il ragazzo soppesò quelle parole osservando curioso l’interlocutore: il medicinale ancora non aveva fatto effetto, la testa galleggiava dolorosamente ed il contenuto liquido dello stomaco stava già premendo sul cardias. La valvola minacciava di aprirsi.
«Entrate.» Si fece da parte nonostante la nausea, lasciandoli passare con non poche perplessità. Si accomodarono in salotto mentre Raon saltellava e Tae le stringeva il fianco cercando di alleggerirne il peso e lenire il dolore. Entrambi approfittarono del divano poggiandovisi con un sospiro; lei grugnì sbuffando e maledicendo l’innata capacità di mettersi nei guai e crearne altrettanti agli altri. S’era ritrovata a rovinare la giornata ad un perfetto sconosciuto ed intensificare il post sbornia di un tizio che conosceva a malapena e che per buona parte ancora detestava.
Tranne per il bacio.
Quello ancora non aveva capito se lo odiava o meno, ma non era il momento adatto per porsi certe domande scomode. Possibile fosse così difficile trovare chiarezza nel suo cervello? Certo, sarebbe stato più semplice se in quel momento delle dita particolarmente delicate – s’era stupita a constatare quanto potessero esserlo quelle di Åsli – non le avessero sfilato una delle sneackers scolorite con una cura tale da farla rabbrividire. Tae le stava carezzando lievemente l’avambraccio in un improbabile tentativo di rilassarla e questo particolare non mancò d’essere osservato dall’altro mentre recuperava un blocchetto refrigerante dal congelatore sopra al frigorifero; lo aveva avvolto in un canovaccio da cucina con stampato un orsacchiotto con un cappello di lana ed una sciarpa al collo, uno delle tante scelte dubbie di Raon nell’acquisto della biancheria di casa, e se lo rigirò più volte tra le mani continuando a spiare i due da dietro. Chi fosse il nuovo arrivato non ne aveva idea, anche se una congettura chiarissima s’era già fatta strada nella sua mente confusa. La sua attenzione venne richiamata rapida da un gemito e un sospiro: doveva muoversi, sembrava la ragazza stesse male davvero. Le si inginocchiò di fronte notando il volto tinto di porpora. Che fossero le dita dell’altro, muovendosi ancora lente sulla sua pelle?
Reputò tremendamente fastidioso quel gesto.
Straordinariamente irritante.
Richiamò Tae all’attenzione con aria di sufficienza facendogli cenno di scansarsi e poggiò l’involto alla caviglia che si mostrava visibilmente gonfia. Lei gemette di nuovo stringendo d’impulso l’avambraccio dell’altro.
«Fa male?» L’apprensione palesata in modo tanto chiaro non era prerogativa certo di Åsli ma era fin troppo stanco per poter far finta di non preoccuparsi troppo per la gente, per lei. Al diavolo, si disse, avrebbe capito prima o poi cosa scatenasse in lui quella ragazza imbranata, un maschiaccio sempre fuori posto, proprio come in quel momento.
Ci sarebbe arrivato forse, dopo averla vista lontana da quel tizio.
Il più lontano possibile.
Al Polo ad esempio, o sull’Himalaya. Non aveva una casa dove tornare? Sorrise ironico ai propri pensieri strappato con poca delicatezza da essi da un’imprecazione diretta per una domanda tanto inutile; Tae scoppiò a ridere tentando di mascherare la reazione spontanea quanto inappropriata. Lei rise di rimando massaggiandosi accanto alla caviglia e il padrone di casa, beh, lui odiava già l’ospite, ma in qualche modo ad ogni azione lo detestava sempre di più; sussurrò un “ma che cazzo vuole questo” prima di rivolgersi a lei.
«Allora, tomboy,» ancora quel soprannome stupidissimo che scatenò nella diretta interessata un moto di stizza tale che la spinse ad allungare il piede per tirargli un calcio, fallendo miseramente; «ho un mal di testa terribile, e vorrei solo andarmene a dormire. Invece sono qui a tenerti del ghiaccio su una caviglia grossa come una zampogna. Si può sapere cosa diavolo hai combinato questa volta?»
«Senti, primadonna di sto cazzo, qui non sei l’unico ad aver avuto una giornata di merda, eh.»
«Mi scusi, signorina Finezza, immagino che le terribili avventure sue e del cavaliere senza macchia che abbiamo qui, siano degne di un’epopea da tramandare ai posteri. Mi dica dunque, come posso rendere meno deleterio il suo tempo passato in compagnia di questo umile essere umano, che non ha di meglio da offrire che del misero refrigerio?»
«Lo vedi? Vedi perché non volevo venire qui?» Lei indicò il ragazzo con il pollice, rivolgendosi a Tae, «ma senti le stronzate che dice, o me lo sto immaginando solo io?»
Se avesse riso, Åsli avrebbe tentato di torcergli il collo, ne era sicuro; già a prima vista l’aveva odiato profondamente, ma ora la faccenda stava degenerando. “Se ridi ti strozzo.” Se lo ripeteva continuamente, e in cuor suo sapeva che l’altro in qualche modo aveva recepito il messaggio.
Si fece serio Tae invece, tanto da voler prendere in mano la situazione prima di vederli attaccarsi come cani randagi. «È stata colpa mia.»
Si voltarono entrambi nella sua direzione.
«È caduta per colpa mia.»
Era ufficiale: dall’iniziale antipatia al mancato apprezzamento totale fu un solo passo. Le parole uscite dalla bocca dell’altro fecero ribollire il sangue di Åsli nelle vene; sentiva la rabbia muoversi insieme alla bile rimescolandogli le costole e la pressione. «Tu cosa? Razza d-»
Raon scattò verso Tae spingendo il petto del ragazzo all’indietro con mano tesa ma tremante. Non s’era ancora chiesta il motivo di una reazione simile, si era mossa come una molla nel momento in cui aveva intuito le intenzioni dell’altro e una possibile reazione fisica. Lo fulminò con pupille taglienti e le iridi vivaci brillavano di una determinazione particolare, accesa, sentita.
Una determinazione che non era per lui, bensì per un semplice nessuno dal taglio di occhi come il suo.
«Lascialo stare. Sono stata io, sai che sono un’imbranata.» Lei aveva tentato di addolcire la situazione modellando il tono di voce con un pizzico di ironia e una spolverata di tenera sbadataggine, ma la mano non s’era spostata dalla maglietta nera spiegazzata e più grande, troppo grande per il corpo di Åsli. «Gli sono semplicemente andata addosso, e il risultato è questo. Mi spiace davvero, non volevo creare tutto questo casino.» La voce si era tramutata in poco più di un sussurro, si sentiva in colpa e sapeva d’averli coinvolti entrambi nel risultato di una semplice disattenzione; perché allora sentiva l’improvviso bisogno di piangere? Tremò nell’avvicinare al petto entrambe le mani in un gesto protettivo nei propri confronti.
«Ehi ehi, tranquilla, guarda che è tutto a posto, vero?» Tae si voltò verso l’altro che stava osservando muto le reazioni instabili della ragazza; stava cambiando tutto troppo in fretta e lui era ancora completamente rincretinito dai bagordi della sera precedente, di cui tra l’altro ricordava ancora poco o nulla.
«Sì, ovvio, beh sì, certo che sì.» Si stava mangiando le parole tentando di tranquillizzare lei, sentiva d’aver bisogno di calmarsi e riprendere fiato. Forse le lacrime agli angoli degli occhi di Raon, o le mani dello sconosciuto che la stavano toccando con incomprensibile familiarità, o entrambi. Avrebbe bevuto volentieri un bicchiere o due per stemperare il fastidio che ribolliva nelle viscere ma no, non poteva a causa dell’antidolorifico assunto poco prima. Inspirò. Si sarebbe concentrato sulle proprie congetture più avanti, da solo, prima di andarsene a letto. Decise di sviare l’argomento e distrarre i presenti: buon viso a cattivo gioco, doveva accantonare momentaneamente l’astio naturale e prepotente che quel tizio stava alimentando, consumando la sua pazienza.
«Hai bisogno di qualcosa? Che ne so, da bere, o una pastiglia contro il dolore…»
«Beh, in realtà…» si fermò diventando completamente rossa in volto, «dovrei andare in bagno.»
Tae si sollevò subito proponendosi di darle una mano ma l’altro lo bloccò al posto con un’occhiata truce: che tipo di libertà confidenziali si stava prendendo in casa sua? Sottolineò il concetto con un paio di parole sibilate a denti stretti aiutandola ad alzarsi camminandole accanto e sostenendola. Assicurandosi di essersi allontanato abbastanza dal salone diede fiato alla propria perplessità.
«Lo conosci?»
«In verità no, però si è propos… ahi, ahi ahia cazzo…» si bloccò a metà corridoio riprendendo fiato per poi ripartire con lentezza, «dicevo, si è proposto di accompagnarmi a casa ma lì non c’era nessuno, e io avevo bisogno di una mano.»
Si fermò davanti alla porta del bagno mentre ancora lui le cingeva il fianco con più forza del dovuto, presa che si fece ferrea nel momento in cui lei confessò: «quindi ho pensato a te.»
Tae soppesava l’area della stanza con i piedi passo dopo passo riflettendo su come fosse stato davvero un imprevisto assurdo quello in cui era stato coinvolto: stava aiutando una sconosciuta in casa di uno sconosciuto che dava l’aria di essere un emerito stronzo dalla simpatia completamente assente. La situazione stava diventando surreale, soprattutto nell’essere a conoscenza di quel particolare, quel particolare non propriamente trascurabile recepito dalle prime conversazioni con Raon. Adorava i pettegolezzi, le storie complicate, e non disdegnava di provar un certo piacere nel ficcanasare nelle vite degli altri; questo suo essere un grande impiccione, perché incapace di farsi i fatti suoi in maniera viscerale, lo aveva portato a formulare tante e tali congetture su quei due da portarlo a fotografarseli insieme nei più svariati momenti. Lavorava molto di fantasia e credeva fossero perfetti assieme proprio perché tanto diversi da risultare quasi complementari. Lui sapeva del bacio, lei ricordava il bacio, l’altro però sicuramente no.
Ne era certo, come si è certi del sole che sorge ad est al mattino. Ne era certo perché sapeva leggere le espressioni delle persone, sapeva andare al di là di semplici congetture ed era capace di capire molto di più da un gesto che non dalle parole pronunciate. Ad un semplice sguardo Åsli era tranquillo in presenza di Raon, mentre lei era agitata, troppo per aver accantonato la faccenda del loro contatto intimo. Quella consapevolezza lavorava nel suo cervello rapidamente, intarsiando trame complesse dove quell’informazione era il punto focale, la svolta in un rapporto. Stava pregustando ipotetici colpi di scena, cavilli, litigi sotto la pioggia battente, notti insonni a piangere per la disperazione, amori difficili con risvolti ancora più complessi.
Tutto quanto nell’arco di pochi secondi.
La sua fantasia non aveva limiti.
Notò una cornice in un angolo della sala, un piccolo riquadro d’argento che custodiva una fotografia con una famiglia ritratta in un giardino; curioso, pensò, come non c’entrasse nulla con il proprietario di casa, visto e considerato che le persone ritratte avevano lineamenti differenti da quelli del padrone di casa, comuni invece allo stesso Tae. Incuriosito da una tale stranezza osservò meglio la bambina al centro della foto, riconoscendone Raon: era uguale, soltanto in versione miniaturizzata. «Cosa ci fa lui con questa?» Se la rigirò un paio di volte tra le mani, curioso, per nulla imbarazzato. Se la sarebbe portata a casa volentieri soltanto per tentare di capirci di più.
«Senti, non è che potresti andartene? Posso gestire io la faccenda qui adesso. Aspetta, cosa stai facendo? Mettila giù.»
Åsli era tornato da solo, lasciando la giusta privacy alla ragazza; trovò Tae a toccare le sue cose, in casa sua… un ragazzo di cui non sapeva nulla si stava permettendo di lasciare impronte qui e lì nel suo quotidiano, nell’intimità di quelle quattro mura. Lo stava maledicendo, avrebbe voluto volentieri spezzargli le dita.
«Ehi, non è come sembra.»
«Allora appoggia quella foto ed esci. Ora.»
«Non fare il permaloso, dai. Stavo solo guardando.» Tae sorrideva complice. «Come mai ce l’hai tu? Non mi risulta viviate sotto lo stesso tetto, dovrebbe essere sua, giusto?»
Dal corridoio la voce di Raon arrivava lontana, stizzita: stava giustamente chiedendo un aiuto per poter uscire dal bagno e tornare in sala.
«Io adesso vado, ti conviene sparire prima che torni.»
L’altro alzò le braccia in segno di resa, giustificando il gesto con pura sincerità: «sul serio, ero solo curioso. Me ne vado me ne vado, ma non prima di averla salutata.»
«Non farti più vedere qui da me.»
«Sei forse geloso?»
Åsli rise, punto sul vivo; rise perché aveva dannatamente ragione.
«Quindi secondo te io dovrei sparire solo perché lo dici tu. Interessante. Hai detto che non sarei più dovuto venire qui. Allora nessuno mi vieta di continuare a vederla. Ottimo. Ora scusami, ma qualcuno ha bisogno di una mano di là, e stavolta ci vado io. Ah, non guardarmi così, non mi interessa, sai? È più divertente vedere come reagisci tu alle provocazioni. Chissà cosa direbbe lei, se sapesse di piacerti.»
Che stronzata, pensò lui.
Una grandissima cazzata.
Allora perché la sola idea che l‘ospite irritante potesse dirle una cosa del genere gli urtava tanto i nervi?
Note dell’autrice (che ha finalmente trovato la giusta colonna sonora per la storia, yeeh!):
Ohhhh ma quanto è benefico scrivere di Raon, Åsli e Tae? Si cominciano a delineare le dinamiche di questi tre, e penso siano molto diverse da ciò che vi aspettavate fin dall’inizio.
Vero?
Vero??
VERO??
Comunque spero questa storia sia in grado di soddisfarvi nella lettura almeno quanto me nello scriverla, perché è davvero intrigante per me mandare avanti questo progetto in maniera tanto ispirata. Mi auguro di trovarvi sempre in tanti qui, a supportarmi come fate sempre con parole gentili, entusiaste, anche con la sola presenza e lettura silenziosa. Siete preziosissimi, sappiatelo!
P.s. la mia dolcissimaBloodyWolfha aggiornato l’aesthetic inserendoci anche Tae, non sono adorabili? Grazie tesoro!
Alla prossima,
-Stefy-
«Corri!»
«Ehi, Aya, aspetta… aspetta!» Josh strattonò la
ragazza attirandone l’attenzione ma lei sembrava non ascoltarlo neppure.
«Adesso ti fermi e mi spieghi, perché io non correrò un solo metro di più.»
La resistenza fisica non era propriamente il suo forte; a lui non interessava,
non era un fan sfegatato del fitness e di tutte quelle cose che l’amico Åsli era solito praticare nel tempo libero. Semi manubri,
addominali, macchinari, palestre non facevano per lui.
Tanto meno il jogging.
«Zitto e seguimi.»
Lei non avrebbe accettato un no, lo stava trascinando verso la fermata
dell’autobus nella speranza di accorciare il tragitto il più possibile. Non
ascoltò l’altro neppure quando le propose di tornare indietro e recuperare la
macchina. Non ne voleva sapere, si stava dando della stupida ad intervalli
regolari, controllando l’orologio più e più volte e battendo a terra la punta
della scarpa con tale impazienza da sbuffare rumorosamente. Josh la prese per
le spalle incastonando gli occhi nei suoi: «Guardami, stai calma. Adesso
respiri e mi spieghi cosa è successo.» Aya indicò spazientita lo smartphone con un dito,
parlando spedita, mangiandosi qualche sillaba nel mentre: aveva letto in
ritardo i messaggi dell’amica, disse, e lei s’era fatta male ed aveva bisogno
estremo di aiuto. Il suo aiuto. Spiegò che ci teneva a lei, erano legatissime,
avrebbero dovuto vedersi per studiare per un esame ma non s’era presentata. Si
massaggiò la testa strizzando gli occhi.
«Lo sapevo, sapevo che non avrei dovuto farlo.»
«Farlo cosa?»
«Uscire con te.»
Un’accusa pesante, considerando che il giovane non era coinvolto in nessuna
maniera nella faccenda.
«Aya, adesso non esagerare per favore. Anche se tu
non fossi stata con me, lei si sarebbe fatta male lo stesso, giusto? Ora ti
calmi e poi ce ne andiamo a fare un giro, così ti rilassi.»
Lei lo guardava allibita: calmarsi e andarsene senza fare nulla non era certo
il suo stile, avrebbe dovuto trovare il modo di raggiungerla, ma come? Spostò
le iridi lucide da lui al cellulare per poi parlare rivolta all’assistente
vocale: chiese informazioni riguardo al locale segnato nella memoria della
posizione del dispositivo. La voce artificiale le rispose cordiale d’aver
trovato i dati che le servivano.
Han aveva risposto al telefono del bar con la solita accortezza, pensando di
avere a che fare con una semplice richiesta di asporto da parte di uno dei
clienti abituali; non era certo la prima, né la decima volta che accadeva.
Quando riconobbe la voce di Aya leggermente distorta
dal ricevitore si stupì chiedendosi il motivo di un gesto tanto inusuale. Non
comprese fino a che la ragazza non lo pregò di starla ad ascoltare.
Ed erano bastate poche parole per convincerlo.
Incurante della presenza dei clienti al bancone chiamò da parte il collega di
lavoro, occupato nella preparazione degli stuzzichini per l’aperitivo,
pregandolo di coprire la fine del suo turno in cambio di un grosso favore.
Solitamente non avrebbe osato tanto, ma la notizia ricevuta l’aveva portato ad
agire d’impulso, come poche volte in vita sua. Un assenso veloce, il grembiule
blu notte lanciato in un angolo del magazzino e poi subito fuori. Tentò nel
mentre di chiamare Raon ma non rispose al telefono.
Imprecò. Aya gli aveva appena riferito che la sorella s’era
fatta male. Non c’era nessuno in casa a darle una mano. Certo, lui era al
lavoro, il padre pure e la madre… scacciò il pensiero scuotendo il capo; non
sarebbe stata una buona idea coinvolgerla, ma non aveva capito esattamente
cos’era successo e s’impensierì. Decise di mandarle un messaggio veloce nella
speranza che potesse riceverlo e leggerne il contenuto: qualsiasi cosa stesse
facendo, avrebbe trovato un attimo di tempo per la figlia. Non attese neppure
la conferma dell’invio, accese il motore dell’utilitaria di un grigio anonimo
sbiadito dagli anni e partì. Il traffico non perdonava a quell’ora e sembrava
non lasciargli alcuno spazio di manovra. Sbuffava picchiando il volante con il
pugno, ogni singolo minuto passato in coda gli stava costando un’immane fatica.
Impostò spazientito il navigatore satellitare sul cellulare ancorato al
cruscotto cercando qualche via laterale, di difficile lettura per colpa dei
sensi unici che serpeggiavano nella zona, intersecandosi in semafori
sovraffollati e rotonde – troppe rotonde – poste in tratti insensati. La voce
gracchiante e meccanica lo apostrofò designando percorsi secondari
chilometrici, svolte improbabili, lavori in corso insormontabili; avrebbe volentieri
mandato a quel paese il suono preregistrato ma non poteva permettersi un nuovo
cellulare.
Sospirò ancora mentre un nuvolone scuro, veloce, troppo veloce si muoveva in
direzione della città, nella sua direzione: il ticchettio sulla carrozzeria e sul
parabrezza non tardò ad arrivare.
«Allora dillo che mi odi.» Rivolto ad un’identità imprecisata si lagnò della
sfortuna che stava lavorando giusto per rovinargli l’intera giornata: aveva una
fretta indicibile, era stato contattato proprio dall’ultima persona che
immaginava di incontrare in quel periodo e ci si metteva pure la grandine. No,
non era possibile, si trattava di un qualche scherzo del Karma forse, e
sfogandosi contro il clacson maledicendo gli altri autisti ripercorreva la
propria vita nel tentativo di trovare qualche falla, un buco che potesse
spiegare tutto quell’accanimento immotivato. Forse c’era, ma giustificare i
primi chicchi ghiacciati sul tetto della macchina, quello no. Si guardava le
mani tremanti, la rabbia era tanta e tale da legargli l’esofago e sigillare la
bocca dello stomaco. Sarebbe esploso a breve di sicuro.
Miracolo, la macchina si mosse di qualche metro.
Urlò un sì trionfante, sbeffeggiando le entità avverse.
Di nuovo fermo.
E allora quelle stesse entità le mandò a fare in culo nel posto più lontano
possibile e immaginabile. Scorse con la coda nell’occhio la gente correre nel
tentativo di scappare dall’improvviso maltempo, e tra loro notò una figura
familiare che correva verso il centro città.
«Aya?»
Nel momento in cui cercò di richiamarla abbassando il finestrino il traffico
riprese a scorrere.
«Ma che c… Ehi, ehi Aya, di qua!» Fermo in mezzo alla
carreggiata la chiamò ancora mentre un paio di auto dietro mostravano il loro
disappunto ruggendo infastidite. «Di qua, Aya, Aya!»
Al terzo tentativo si voltò, inchiodando i grandi occhi sui suoi.
L’aveva sentito. Ormai fradicia la ragazza si sedette in auto, ringraziandolo
d’averla trovata e lo pregò di accompagnarla da Raon.
Erano entrambi preoccupati, ma Han riuscì a ridere lo stesso constatando quanto
la pioggia avesse lavorato sull’aspetto di lei: i capelli chiari disordinati le
ricadevano sul volto adagiandosi sugli abiti fradici mentre tremava per il
freddo del diluvio improvviso. Non riusciva a parlarle, non aveva ancora metabolizzato
la presenza di lei accanto dopo anni di separazione forzata; avrebbe voluto
porle qualche domanda di rito, ma fu solo capace di stringere le dita al
volante consunto.
Lasciati i lavori in corso alle spalle, causa del rallentamento e della riduzione
di una delle corsie, la strada si mosse rapida sotto agli pneumatici
impazienti. Come sarebbe stata Raon, da sola sotto
alla tettoia del garage, dolorante e infreddolita? Quello il pensiero di Aya e Han, che tentavano in tutti i modi di sfuggire all’imbarazzo
di quella coesistenza praticamente impossibile in un universo normale dove la
loro storia s’era conclusa in uno dei modi peggiori. L’unico suono ad
accompagnare i loro silenzi era dato dalle gocce numerose e violente,
insistenti. Caotiche.
Esattamente come i neuroni nella testa di lei.
Più volte aveva aperto bocca, sembrava le mancasse l’aria; non stava pensando
neppure a Josh e al fatto che l’aveva lasciato solo per poter raggiungere
l’amica, in quel momento non poteva importargliene in alcun modo. Contava le
perle gelide che ticchettavano.
Uno.
Due.
Ventotto.
Cinquantasette.
Il rapido procedere dell’inutile passatempo venne interrotto dall’altro.
«Aspetta un momento, non c’è. Dove diavolo è finita?»
Erano arrivati a destinazione, ma della ragazza infortunata nessuna traccia.
Il campanello suonò ancora una volta.
«Tu sta qui.» Åsli fissava torvo Tae senza neppure
chiudere le palpebre. «Sta qui e non toccare nulla. Non permetterti.»
«Agli ordini capo. Immagino se chiami Raon…»
«Non andare. Ci vado io.»
Dal corridoio aveva sentito chiaramente un rumore di passi trascinati, segno
che la ragazza si stava arrangiando da sola. “Testarda. Che cazzo ti costava
fermarti?” Avrebbe dato fiato a un pensiero simile?
Certo che sì.
«Vi avrò chiamati venti volte, ma che problemi avete? Siete sordi o
deficienti?» Raon s’era appoggiata al muro
dell’ingresso sospirando affaticata. Imprecò tenendo la caviglia sollevata,
accarezzandola con le dita stanche. Espirò rumorosamente, faceva tremendamente
male e ormai era più che gonfia. «Stai aspettando qualcuno? Non vai ad aprire?»
Il padrone di casa avrebbe dovuto farlo, certo: ormai aveva perso il conto di
quante volte quel dannato suono aveva forato il timpano sinistro. Ringhiò un
contrariato “arrivo” lanciando un’ultima occhiata alla ragazza. Aprì la porta
inveendo contro Josh, l’unico che avrebbe potuto raggiungerlo in quel momento,
quando il sorriso cordiale ma teso di una donna di mezz’età lo colpì: minuta,
mora, magrolina.
Era lei, quella della foto. Ne era certo al cento per cento. Era lei perché
aveva avuto modo di rigirarsi l’immagine tra le mani più di quel che avrebbe
dovuto.
«Signora Lee?»
«Sono io, e ho l’onore di parlare con… con…» Åsli s’era bloccato: davanti a sé la madre di Raon, non sapeva esattamente come comportarsi, cosa dire.
Si presentò rapido, rammentando la propria presenza in casa come nuovo
inquilino. Porse la mano in un gesto di cortesia e rispetto, stringendola con
risolutezza. C’era qualcosa di rassicurante in quegli occhietti scuri che lo
scrutavano curiosi.
Dal corridoio Raon si gelò letteralmente sul posto,
dimenticando per un attimo il dolore, i trascorsi, l’essere in casa del ragazzo
che non ricordava nemmeno d’averla baciata in un momento di debolezza,
accostato ad uno sconosciuto che in qualche modo l’aveva fatta stare bene fin
dal primo momento. Forse il secondo momento, visto che l’impatto le aveva
creato danni. Era confusa, tanto da cominciare a respirare dalla bocca in modo
accelerato.
«C’è mia figlia per caso?»
Il no mugolato sottovoce era giunto alle orecchie del ragazzo troppo tardi.
Certo, fu la risposta, e ormai la donna s’era diretta in sala senza nemmeno
notare la presenza di lei; quest’ultima s’era nascosta mimando all’altro di
fare silenzio, come non fosse mai esistita.
Un cenno d’assenso e Åsli fece accomodare la signora
Lee sul divano.
«Se posso esserle utile, mi dica pure.»
Tae aveva osservato la scena dall’angolo opposto della sala ridendo per nulla
velatamente: si stava godendo ciò che stava accadendo, molto più di quello che
avrebbe potuto immaginare. Salutò da lontano l’ospite con un vivace gesto della
mano, sedendosi su una delle sedie accostate al tavolo.
«Potrei avere un tè per cortesia? Mi sono spostata in fretta appena ricevuta la
notizia, e non avendo trovato la mia piccola Raon a
casa, ho pensato all’unico altro posto dove avrebbe potuto trovarsi. Sai, non
ha un ragazzo, quindi pensavo avrebbe raggiunto casa di sua nonna. Solo quando
hai aperto la porta mi sono ricordata che mia madre aveva affittato.» Riprese
fiato un attimo poggiandosi il palmo aperto sul petto in un gesto teatrale
volto a sottolineare una preoccupazione forse eccessiva. «Allora, dove si trova
il mio tesoro?»
«Tesoro un cazzo.»
L’entrata in scena della ragazza non era stata delle migliori: aggrappata allo
stipite della porta, il fiatone evidente – per la rabbia, più che per il dolore
– il piede gonfio sollevato da terra. Gli occhi ridotti a due fessure
osservavano con disprezzo la figura seduta sul sofà che di rimando la guardava
stupita, punta sul vivo. La donna annaspò prima di scuotere il capo con dissenso,
fingendo mancato interesse per una risposta che difficilmente poteva tollerare.
«Eccoti, sono corsa qui appena tuo fratello mi ha contattata e…»
«Posso arrangiarmi da sola. Sono stata accompagnata qui e mi hanno aiutata loro.
Non c’era certo bisogno della tua presenza qui.»
La signora Lee si morse il labbro sbiancandone la superficie a cui mancava ormai
parte di un rossetto che aveva esaurito le ore di posa; si massaggiava ripetutamente
la tempia con dita esili e rovinate, segno di un lavoro di fatica portato
avanti per anni senza dovute protezioni a preservarne l’epidermide ormai lesa.
Tae stava notando tutto quanto con occhio indagatore, come contava
malinconicamente le lacrime trattenute a fatica da Raon
in quel insolito colloquio con quella che presumibilmente era la madre, ma che
di fatto sembrava essere un’intrusa indisponente.
«Ritengo la situazione sia sotto controllo ormai.» La voce di Åsli si alzò nella stanza pregna di nervosismo palese,
mentre lo stesso Tae lo guardava cercando di capire in che direzione volesse
poi muoversi. Voleva inquadrarli tutti e tre, certe cose le aveva intuite a
pelle ma quel ragazzo davvero era un continuo mutamento di reazioni.
«Ora penso sua figlia debba riposare, per poi andare a farsi visitare da un
medico domani.»
La cordialità della donna passò in secondo piano all’udire le parole dell’affittuario.
«Immagino tu sia un dottore, perdonami se non l’ho capito subito. Scusami, ma
adesso prendo Raon con me e la porto a casa, credo di
sapere di cosa abbia bisogno.» Le si avvicinò prendendola per il braccio,
stringendo la morsa delle dita più del dovuto. «Adesso vieni con me, andiamo via
dal signor “So tutto” e dallo spione qui a fianco.» Raon strattonò l’avambraccio con forza,
sbilanciandosi ed imprecando ad alta voce nell’appoggiare il piede a terra
cercando di divincolarsi dalla presa della madre. «Io resto qui, non me ne vado
a casa se ci sei tu.»
«Cosa scusami? Puoi ripetere?»
«Che cazzo credi di fare, venire qui chissà per quale idiota di motivo per poi
avanzare pretese su quello che devo o voglio fare? Ma se non te n’è mai fregato
un emerit-»
La parola si estinse in gola: Lee MinSoo stava piangendo.
Lei non era triste.
Non lo era affatto.
Non era offesa, no.
Sua figlia le aveva mancato di rispetto davanti ad altre persone, e questo non
l’avrebbe tollerato. Si passò rapida la manica del maglione sugli occhi lucidi,
soffiando esasperata. «Raon, torniamo a casa.»
«No. Non ci vivi nemmeno lì.»
«Raon, ascoltami, andiamo.»
Tae si mosse verso di loro ma venne fermato da Åsli
stesso, l’indice sulle labbra a mimare un silenzio necessario; aveva scosso il
capo in un no secco, come se non fosse stato per loro il momento di
intervenire. La ragazza li guardò entrambi, prima di chinare il capo sconfitta.
Digrignò i denti ed inspirò dal naso nel calmarsi, masticando parole non
pronunciate e ricacciate a fatica dentro alle corde vocali.
Aveva perso su tutti i fronti.
Aveva cercato sostegno nei due, e la risposta fu un solo, lungo silenzio.
Note dell’autrice (ce l’ho
fatta? Sì? Davvero? Beh, mai ci avrei creduto in questi giorni):
Buonaseeeera! Chissà come l’avrà presa qualcuno di voi? Aya che fanculizza Josh
per Raon e si ritrova in macchina con il suo ex, senza sapere cosa dire e
preoccupata da far schifo. La madre di Raon si palesa così, a cazzo di can,
avanzando pretese che non le competono nemmeno. E quest’ultima che fa? Cerca
sostegno, parole, attenzione, cerca un segno da parte di Tae e Åsli che se ne
stanno lì senza dire nulla.
La donna si chiama Min Soo,è nome coreano
neutro ma dalle mie ricerche risulta prettamente maschile, ho deciso di darle
questo perché di femminile avrà ben poco e più avanti capirete perché.
Bene, mi sa che questo capitolo è davvero frutto del periodo difficile che sto
passando.
Beh, ecco la prima pubblicazione da 31enne ragazzi, visto che ieri era il mio
compleanno. Da vecchietta con un anno in più sulle spalle, un abbraccio.
Alla prossima,
-Stefy-
«Han, almeno tu…» Raon guardava affranta il fratello che se ne stava
poggiato sul top della cucina, accanto al lavello, le braccia conserte;
quest’ultimo stava ascoltando in silenzio ciò che la signora Lee stava affermando
con convinzione.
«Non posso lasciarti da sola che combini guai. Si può sapere cosa succede? E
poi ritrovarti in casa con due ragazzi, così, a caso. È questo che ti ho
insegnato? Che hai combinato con loro? Dì la verità.» Stava procedendo senza
sosta, non stava dando alla figlia neppure la possibilità di ribattere; Raon si stava mordendo il labbro inferiore cercando di
trattenere le imprecazioni createsi una dopo l’altra a distanza di qualche
secondo.
Variopinte, fantasiose, particolarmente pesanti.
Non poteva parlare, sapeva che l’equilibrio già instabile si sarebbe spezzato
altrimenti: il loro era un rapporto precario che si reggeva a malapena in
piedi, ma se avesse aperto bocca, sarebbe stato il putiferio.
«Sicura non si tratti di una scusa? Che volevi fare, fermarti a dormire a casa
di quello lì?» La madre sottolineò con disprezzo le ultime parole. Alla ragazza
non era mai passato per la testa, non che avesse eliminato a prescindere l’idea
di poter incontrare nuovamente l’inquilino di casa di sua nonna, non sembrava
poi così male come al loro primo incontro… passarci la notte, però, quello no.
Mai.
Senza ombra di dubbio. Aya dal canto suo se n’era stata in disparte, essendo
entrata assieme ad Han: l’ex padrona di casa non aveva fiatato nel vederli assieme
ancora una volta, anche se non s’era risparmiata osservandola con aria di
contrariata superiorità. Vedendo però Raon in
difficoltà decise di intervenire a costo di risultare stronza, impicciona o
quant’altro – era comunque abituata a chi la considerava negativamente. «Mi
scusi signora, se mi permette, ma non credo fosse sua intenzione fermarsi da
lui.»
«Senti, Aya, per quanto possa averti voluto bene,»
l’utilizzo del tempo passato del verbo non era stato affatto casuale, «non ti
permetto di immischiarti in faccende che non ti riguardano. Hai deciso di non
far parte più della famiglia dal momento in cui hai lasciato mio figlio, adesso
ti prego di andartene.»
«Lasciala in pace, non è stata colpa s-»
«Raon, non intrometterti per favore. Signora Lee, le
chiedo solo di capire: sua figlia ha avuto un incidente e sta male, è stata
aiutata e non capisco dove stia il problema.»
«Il problema non è lei, ma chi era con lei.»
Naturalmente ad Aya mancava un piccolo passaggio,
quello della presenza di Tae in casa di Åsli: aveva
capito cos’era successo collegando i vari messaggi ricevuti, ma nulla più. Non
era a conoscenza del litigio avvenuto poco prima, non sapeva neppure che faccia
potesse avere il ragazzo che aveva soccorso l’amica. Nulla di necessario al
momento, a lei bastava Raon non fosse seppellita da
spalate gratuite di merda dalla stessa presenza che l’aveva messa al mondo, per
poi abbandonare la famiglia e la propria casa qualche anno dopo in cerca di un
compagno migliore e benessere economico stabile.
Un esempio di madre e moglie che ancora credeva di poter mettere becco nelle
faccende private di coloro che aveva deciso di lasciare.
Coerente.
Decisamente coerente.
«Non trattare male Aya, lei non c’entra nulla in
tutto questo!» La pazienza della giovane ormai s’era ridotta all’osso, aveva
scavato tra le costole, scavato e scavato rischiando di consumarla da dentro.
Basta.
Era stata zitta più che a sufficienza.
Avrebbe anche potuto subire sfuriate da chi non avrebbe dovuto permettersi
nemmeno di parlare, ma il limite era stato superato.
«Ti da fastidio l’idea di vedermi accanto ad un
ragazzo? O forse due magari, chissà. Pensi avrei potuto portarmeli a letto e
restare incinta come è successo a te, e credi che io sia così stupida per
caso?»
Il sonoro ceffone la zittì e bruciò tanto da portarla alle lacrime.
«Beh, che ci fai ancora qui? Hai sparato le tue cazzate, te ne sei uscito con
il tuo essere un impiccione senza speranza, hai toccato tra le mie cose e
adesso non dici nulla?» Åsli aveva fatto cenno
all’ospite indesiderato di andarsene indicando la porta d’entrata, invitandolo
a levarsi dalle scatole. Il mal di testa era tornato più forte di prima,
martellante e distruttivo.
Lui. Raon.
La madre.
La sbornia da smaltire.
Ne avrebbe avuta per tutta la sera e la notte sicuro, altro che antidolorifico.
E quella dannata sensazione d’aver tralasciato qualcosa, qualche piccolo
stupido particolare accantonato da qualche parte nel suo cervello dolorante e
fastidioso.
«Sei un vigliacco, lo sai?»
Aveva parlato Tae, tagliente, cinico forse, fuori luogo di sicuro. «Lei era lì,
ti ha guardato negli occhi cercando sostegno. Cosa hai fatto per lei? Un cazzo.
Anzi.»
Il ragazzo gli si avvicinò tanto da spingersi contro la sua fronte, sollevando
il labbro superiore in una smorfia mista a dolore e sopportazione minima. «Era
sua madre, tu che avresti fatto al mio posto?»
Tae incastrò gli occhi scuri su quelli chiari e liquidi dell’altro, sorridendo
sarcastico: «io avrei tirato fuori le palle e l’avrei difesa. Ed era quello che
avrei fatto se tu non mi avessi fermato. Paura? Sei solo un piccoletto abituato
ad avere tutto ciò che vuole senza dover lottare, ci scommetto quello che
vuoi.»
«Da quale buco d’inferno sei venuto fuori, per rompermi tanto i coglioni?
Perché non te ne torni dalle tue parti a mangiare riso e zuppe di pesce?»
«Sei ridicolo, ti prego non cominciare con le battute offensive, potrei
divertirmi davvero. E se ti chiedi perché ti tratto così, è perché so chi sei,
ho visto i tuoi video, gli edit, ti ho sentito
cantare. Ah, e per la cronaca, la tua pronuncia della lingua giapponese fa
cagare. Io intanto torno a mangiare riso e pesce come un cinese qualsiasi,
anche se sono coreano per la cronaca ma grazie per aver spiegato qualcosa delle
mie origini che nemmeno io sapevo. Tu e i tuoi luoghi comuni del cazzo
statevene qui in casa rintanati dal mondo, che tanto chi ti si fila ormai… la
gente si è accorta che sei sparito dalla scena, non canti più, non pubblichi
più, non registri nemmeno una cover. Attento, ancora poco e non sapranno
neppure come ti chiami. Puff, come una bolla di
sapone che esplode. Arrivederci, mi auguro davvero Raon
non sia così stupida da perdere la testa per uno che non ricorda neanche di
averla baciata.»
Un sorriso sincero stampato in volto, un semplice cenno del capo, e si congedò
soddisfatto. Åsli sbuffò spazientito, rassegnato: non ne andava
una giusta dal momento in cui s’era trasferito. Sapeva d’essersi allontanato da
Kisha e da suo fratello, dopo tutto ciò che era
accaduto era naturale. Idiota lui ad esserci cascato senza rifletterci troppo;
era colpa sua, come di Erik, come di lei. Tutti e tre erano stati coinvolti in
un disastro senza possibilità d’uscita, considerando che la sua compagna
dell’epoca, se avesse potuto definirla tale visti i trascorsi e considerando la
relazione segreta, continuava ad uscire con Erik nonostante frequentasse il
fratello maggiore; non bastava uno solo, ne voleva di più a discapito di un
sereno rapporto equilibrato. Ma lei non lo era mai stata, era volubile e non
s’accontentava di nulla. Una stronza opportunista che aveva fatto un errore, e
più d’uno, ma quello più grande lui non l’avrebbe dimenticato tanto facilmente:
la cosa era diventata insostenibile, il test positivo effettuato qualche tempo
dopo l’inizio dei loro incontri clandestini lo aveva fatto desistere dal
mantenere ogni tipo di contatto. Aveva la certezza assoluta che il bambino non
fosse il suo, lo sapeva, se lo sentiva.
Era di suo fratello.
Il padre doveva essere Erik, per forza.
Tutto avrebbe dovuto concludersi lì, con quella notizia sussurrata a bruciapelo
tra gli occhi velati di lacrime. No, non era suo anche se non era affatto innocente,
ma l’orgoglio non gli aveva mai permesso di richiamare Erik per sistemare a suo
modo parte del disastro.
«Stronza.»
Lo disse ad alta voce tentando di rinnegare l’attrazione impulsiva e travolgente
che l’aveva spinto tra le gambe di Kisha.
«Stronza!» Lo ripeté ad un volume maggiore sapendo che nessuno avrebbe comunque
ascoltato e chiesto che era successo di così grave da spingerlo ad abbandonare
tutto quanto. La terza volta sentì pungere gli angoli degli occhi, sfregandoli
con tale energia da farsi male.
Era colpa di lei. Aveva tradito la fiducia di suo fratello per lei.
Era colpa di lei. Aveva abbandonato il gruppo e la propria casa per lei.
Era colpa di lei. Aveva mandato in fumo ispirazione e registrazioni, sempre per
lei.
Avrebbe dovuto lavorare ad un singolo inedito ma Kisha
aveva assorbito completamente il suo tempo, fino alla notizia che l’aveva
spaccato a metà. E così ogni singola probabilità di trovare un briciolo di equilibrio
se n’era andata a puttane: non aveva più combinato nulla di concreto, le visite
ai vari blog ufficiali erano calate e molti fan sui social avevano smesso di
chiedere – e probabilmente chiedersi – il motivo di tale prolungata assenza ingiustificata.
«Forse quello ha ragione.» Aveva riflettuto sulle dure parole di Tae, ed
effettivamente erano state efficaci, pungenti, un pugno diretto allo stomaco.
Veritiere.
Canzoni, cover, ore non quantificabili ad armonizzare la propria voce, studio
dei testi e dello strumento facevano tutti parte di una routine quotidiana dura
e scandita da esercizi continui e sfiancanti; interagire con gli users sulle varie
piattaforme inoltre era una parte fondamentale del proprio ruolo e del lavoro
che aveva sempre sognato di fare, quella dell’artista musicale. Un’arma a
doppio taglio, perché come aveva predetto l’indesiderato impiccione che aveva
impudentemente frugato tra le sue cose, a cominciare a perdere contatto con le
persone che lo sostenevano avrebbe portato solo a conseguenze negative. La
reputazione andava mantenuta, era importante tanto quanto gli sforzi che aveva
fatto per arrivare dov’era. E per quanto la notizia di un ipotetico bacio
scambiato con quell’assurda ragazza che sembrava perseguitarlo avesse scatenato
in lui un curioso senso di soddisfazione ed improvviso possesso, affiancato ad
un semplice ed efficace “ma allora sei proprio un coglione” pensando di sé,
decise di accantonare il fatto per quella sera. I suoi neuroni non ci sarebbero
neppure arrivati, sfiancati com’erano. Un problema alla volta, si disse e senza
un apparente motivo salì in soffitta, pulita e risistemata a dovere: la chitarra
classica giaceva in un angolo, abbandonata a se
stessa. Avrebbe dovuto riprendere a suonare almeno, sentire ancora la
consistenza delle corde sotto ai polpastrelli induriti dall’allenamento costante
e dalla passione che era venuta meno in quel periodo. Sì, avrebbe dovuto. Fece
per prendere la custodia di tela nera quando un flash improvviso lo bloccò sul
posto.
«Åsli, guarda, guarda qui è bellissimo!»
La bambina scosse il capo muovendo i codini scuri arruffati da ore intere di
gioco entusiasta, sbattendo i piedi sul pavimento di legno della soffitta indicando
un vecchio mobile impolverato, tarlato, consumato dal tempo. Il legno consunto mostrava
tracce di spostamenti, gli angoli smussati ed i graffi su tutta la superficie
parlavano da soli. Una fotografia della piccola in compagnia dei giovani
genitori era racchiusa in una semplice cornice color bronzo. «Vedi? Questa sono
io, questo è mio papà e questa mia mamma. Ma cosa è questo?»
«Raon, smettila. Non dovresti toccare le cose di tua
nonna. Cosa direbbe se ti scoprisse?»
La voce di una donna che aveva passato da un po’ la mezza età si levò tonante
dal piano inferiore richiamando l’attenzione di entrambi.
«Ecco…» sussurrò il ragazzino, «ci ha scoperti, lo sapevo! Rimetti a posto
quello che hai trovato, non voglio avere guai con la signora per colpa tua,
piccola peste.» Raon strinse a sé il pacchetto che aveva appena scoperto
in uno dei cassetti superiori della vetrina da salotto, su in alto a destra,
spingendosi sulla punta dei piedi per raggiungerlo. L’involto sembrava essere
già vecchio ed avrebbe tanto voluto aprirlo e scoprirne il contenuto.
«Lascia stare, andiamo.»
Åsli si sbilanciò stringendo la testa con una mano:
da dove venivano quei ricordi sepolti, completamente dimenticati fino a poco
prima? Erano lui e Raon, ne era certo, come aveva
riconosciuto la pavimentazione ed il lucernaio del sottotetto.
«Ma quello…» aveva visto chiaramente il pacchetto, lo stesso che l’anziana padrona
di casa teneva stretto tra le mani il giorno del trasloco, come anche la foto:
cornice diversa, ma gli stessi soggetti ritratti. Frugò in tasca alla ricerca
del telefono, fanculo alla giornataccia, avrebbe dovuto saperne di più: era
giunto il momento di interrogare la ragazza sulle informazioni che aveva appena
ricordato, aveva come la sensazione che l’aria di quella casa avesse qualcosa
di particolare.
L’odore di legno in soffitta.
Il profumo degli alberi in giardino.
Le immagini.
Quelle più di tutto, quelle stavano riportando il giovane in un mondo che
credeva d’aver dimenticato.
Note dell’autrice (sopportatemi
per come sono, perché a una certa c’è da chiedersi che memoria di merda abbia Åsli, e non solo lui; Raon? Ancora
peggio.) Ahhh beh, le cose piano pianino si
stanno mostrando.
O stanno incasinando tutto, non so.
Sicuro è che i due hanno un passato condiviso di cui non mantengono memoria non
perché siano delle emerite teste di PLIN, o perché i loro neuroni facciano
PLIN, ma semplicemente gli anni passano; i ricordi vengono accantonati
lasciando spazio a responsabilità e vita da adulti. Io pure non ricordo tre
quarti dei bambini con cui ho giocato per anni durante l’infanzia, e pure per
tanto tempo continuativo: quindi perché non dovrebbe succedere anche a loro? Insomma,
più si va avanti e peggio è. Ottimo, così mi piace!
Grazie grazie e ancora grazie a voi che mi supportate
con commenti, interazioni, con recensioni e letture silenziose… mi date la
carica e non avete idea di quanto!
Alla prossima,
-Stefy-
«Tesoro, come stai?»
Una frase d’esordio tipica la sua: Aya stava
chiamando Raon al telefono per l’ennesima volta, così
spesso ormai da averne perso il conto. Gli ultimi giorni per le ragazze non
erano stati particolarmente facili: dopo l’incontro scontro con la madre di lei
non avevano avuto più modo di rivedersi. Non che Aya
non ci avesse provato, semplicemente l’amica sembrava essersi chiusa a riccio
all’interno di casa, o almeno questo pensava. Riusciva soltanto a scambiare
qualche parola rapida ma quando tentava di scavare un po’ più a fondo, riceveva
solamente parole di incoraggiamento vaghe e fumose.
“Tutto a posto, tranquilla.”
“Ho trascurato lo studio negli ultimi giorni, sto solo tentando di recuperare
le ore perse.”
“Mi fa ancora male la caviglia, ma vedrai che passerà presto.” Aya era convinta fossero semplici scuse ma non ne
aveva ancora compreso il motivo: perché mai qualcuno con cui aveva instaurato
un rapporto solido e sincero, cresciuto nel corso del tempo con incredibile
profondità, avrebbe dovuto raccontarle delle bugie? Eppure
lo sentiva, ne avvertiva le tracce tra i messaggi – pochi – ed i vocali sempre
più brevi. Le chiamate non erano più proficue, anzi: nascondevano un imbarazzo
sempre maggiore. Aveva pensato alle possibili cause di un tale cambiamento
nelle loro abitudini, riconducendo il tutto a qualche giorno prima in casa Lee.
«Tutta colpa di quell’incidente.» Avrebbe voluto dirle, ma l’altra aveva già
riattaccato liquidandola con qualche parola di scuse e con un sommesso “sono
stanca, mi butto a letto.”
Alle nove e quarantasette.
Altra abitudine completamente sballata rispetto ai classici ritmi.
Non che stesse andando meglio in altre direzioni, anzi. Non si sentiva affatto
fortunata, anche perché dal momento in cui aveva messo da parte Josh per andare
da Raon, quest’ultimo non l’aveva più considerata.
Nessuna risposta, e ancor peggio, messaggi visualizzati: lui la stava
deliberatamente ignorando senza curarsi di nasconderlo in alcun modo. Possibile
stesse diventando una presenza sgradita a tutti coloro cui teneva? Sbuffò
stendendosi a letto sulla coperta leggera, morbido sostegno fittizio in un
momento simile. Si sentiva rifiutata, rigettata.
Fuori casa, così come dentro.
Da chi avrebbe potuto cercare conforto?
Era notte, casa Lee era particolarmente silenziosa e Han sapeva perfettamente
cosa mancava: Raon, la
vivace sorellina che lo stressava continuamente con il quotidiano, i piccoli
grandi problemi, inezie accostate alle incomprensioni, preoccupazioni per lo studio,
per il futuro. Avevano sempre o quasi parlato di tutto da bravi parenti quali
erano, senza risparmiarsi faccende private o questioni imbarazzanti; la
complicità che caratterizzava la loro convivenza era invidiabile.
Fino a che non si spezzò quell’equilibrio tanto rincuorante che li aveva sempre
contraddistinti. La ragazza non parlava più neppure con lui, se non lo stretto
necessario: niente scherzi, niente risate o battutacce, niente sguardi
impiccioni a tentare di decriptare da lontano messaggi apparsi sul suo telefono.
Sembrava cambiata, una persona diversa, qualcuno che neppure lui riusciva più a
riconoscere. Non era certo la prima volta che madre e figlia s’erano scontrate
in casa e fuori, eppure la questione veniva liquidata con un mancato saluto,
fredde risposte a messaggi scarni, contatti telefonici rari ma mai apprezzati.
Il vantaggio di Raon però era quello di incassare e
trasformare l’energia negativa di quegli scontri con la donna in sorrisi,
entusiasmo, carica.
Non era più accaduto.
Non più dall’incidente.
Non più, dallo schiaffo ricevuto da una persona infilatasi senza permesso
nuovamente nella sua vita, impicciandosi di affari non propri. Senza alcun
diritto, avrebbe potuto tranquillamente aggiungere.
Aveva sempre tentato fin da giovane di fare da paciere tra le due, ma MinSoo e Raon
Lee erano nate assolutamente incompatibili tra loro e neppure la crescita aveva
appianato i loro continui disaccordi. Adolescenza difficile passata nel
chiedersi se fosse essa stessa la causa della separazione dei genitori, fino a
rassegnarsi all’inevitabile sensazione di abbandono che s’era palesata quasi
senza alcuna traccia, arrivando all’esplosione di rabbia, ansia e stress
sfociati in attacchi e crisi difficili da superare. Han credeva nella ragazza,
nelle sue ragioni, ma sapeva anche che lei guardava e aveva sempre letto la
situazione da un unico, coinvolto punto di vista. E questo era male per lei, un
dolore misto a mancata rassegnazione per i trascorsi che tanto l’avevano fatta
soffrire. Temeva di rivederla passare da un medico all’altro nella speranza di
riuscire a mantenere un equilibrio psicologico che non sempre era in grado di
gestire, e dunque vederla ricadere nei pianti incontrollati, in improvvisi
piccoli tremori, tra le occhiaie brune per il sonno disturbato e il conteggio
delle ore da una somministrazione di ansiolitici all’altra.
Se avesse potuto tornare indietro le avrebbe evitato tutto quel carico sulle
spalle, ma era giovane pure lui e veder disgregarsi la famiglia davanti agli
occhi giorno dopo giorno, non era stato affatto facile.
Si sarebbe rifatto delle mancanze di fratello – inesistenti forse – di cui
ancora si stava incolpando dopo tutti quegli anni… sì, avrebbe fatto il
possibile per poter mantenere un nuovo equilibrio in casa Lee. Si alzò dal
divano, motivato come non mai, una nuova energia a scuotergli i muscoli
indolenziti dalla tensione di quei giorni; cucinò dei pancake con la dovuta
calma, decorandoli con burro fuso e zucchero, estremamente dolci ma
speranzosamente efficaci. Si dipinse in volto un sorriso di cortesia gioviale e
accondiscendente e salì al piano di sopra, in direzione del rifugio personale
della sorella.
Bussò quattro volte, così come pretendeva il codice segreto inciso nella
memoria da bambini. Nessuna risposta naturalmente, ma questo se l’aspettava.
Tentò di invogliare la ragazza ad uscire rimarcando con voce complice quanto
avesse lavorato a quel piatto stuzzicante ipercalorico e goloso. Appoggiò la
fronte alla porta di legno nel captare qualsiasi suono provenire dall’altra
parte, invano. Aspettò un minuto o due, e ormai convinto dell’inutilità del
proprio gesto lasciò cadere mollemente le spalle dalla posizione rigida che
aveva assunto nell’attesa. Aveva perso, così come tutte le volte precedenti da
quel maledetto litigio. Ci avrebbe provato ancora, ancora senza arrendersi, non
avrebbe gettato la spugna tanto facilmente. Ciò che non sapeva era che
all’interno della stanza Raon stava strappando ogni
singola fotografia rimasta che ritraeva lei e la madre. Una soltanto s’era
salvata dalla distruzione, dalla foga del gesto di disprezzo che si stava
ripetendo automatico, scatto dopo scatto. La rappresentava assieme ai genitori,
ritti in posa nel giardino di casa della nonna: i codini disordinati, le
ciocche selvatiche ad incorniciarle un visino perennemente sorridente, le
ginocchia sbucciate come di consueto. La prese tra le mani, racchiusa in una
cornice risalente a chissà quanti anni prima, l’estrasse dal vetro leggermente
sbiadito e ne lacerò una sola parte, risistemandola con un pezzo mancante.
Raccattò con distacco il risultato del suo tempo, ripulendo con perizia ogni
singolo frammento di carta fotografica sparso sul letto, ne fece un mucchio
incredibilmente ordinato sul davanzale della finestra, e dette fuoco con un
accendino recuperato dal cassetto della scrivania.
Guardò momenti preziosi andare in fumo e cenere, sbiadire fino a scomparire. Il
suo volto non mostrò alcuna emozione, s’era stancata di provarci ancora una
volta a perdonare la madre: tante volte aveva dato una chance al loro rapporto
deteriorato, inesistente, ma l’ultima era stata la peggiore. L’aveva umiliata
davanti ad altri, estranei, non familiari, in un momento di difficoltà; l’aveva
giudicata davanti ai parenti senza risparmiarsi nulla, e non era stato lo
schiaffo a bruciarle, ma tutto ciò che aveva cancellato tra loro in un singolo momento.
Soffiò via fuori dalla finestra quello che era rimasto dei ricordi fisici di
un’infanzia all’apparenza nella norma, per poi scrivere un messaggio ad Aya. Digitò qualche lettera in maniera apatica, evitando
per l’ennesima volta i messaggi di Åsli. Ne aveva
ricevuti più d’uno, ma non era intenzionata ad aprirli, non dopo aver intuito
che quel pezzo di idiota – testuali parole – non sapeva neppure d’averla
baciata.
E lei cretina, s’era data della cretina a lasciarsi trasportare da un momento
tale, per poi faticare a dormirci sopra e rendersi conto di quanto poco potesse
valere per qualcuno un gesto simile. Non certo per lei, ci dava il giusto peso.
Evidentemente aveva a che fare con un pallone gonfiato dallo stesso ego con cui
si stava strozzando, rovinandosi la vita. Prima o poi sarebbe esploso con tutte
quelle arie. Fece spallucce, bloccò la schermata dello smartphone e si rese
conto una volta di più che non aveva neppure avuto modo di recuperare il
contatto di Tae; ecco, lui sì l’avrebbe ringraziato volentieri ancora, magari
davanti ad un caffè, magari mangiando qualcosa.
Magari passando un po’ di tempo con lui.
«Bene, io vado.» Raon passò di corsa dal piano di
sopra a quello inferiore, stringendo tra le mani la borsa contenente il laptop
con cui avrebbe preso appunti a lezione. Era mancata il tempo necessario a
riprendere completa mobilità senza avvertire troppo dolore, constatando con suo
grande sollievo che la caduta di qualche giorno prima non aveva portato a
conseguenze gravi. Il dolore avvertito accompagnato alla sensazione di
instabilità era dato dalla botta, non da una distorsione seria. Con la scusa
dell’incidente però, la ragazza s’era presa dello spazio per sé, distanziandosi
da Aya, dai familiari e non ultimo dallo stesso Åsli che più volte aveva tentato di contattarla, senza
ricevere risposta. Era giunto il momento di riprendere i propri ritmi, le
abitudini giornaliere e un po’ di sana vita sociale di cui cominciava ad
avvertire la mancanza.
Auricolari alle orecchie, salì sull’autobus diretta all’ateneo. La musica era
stata la sua amica più grande in quel breve isolamento imposto, dove non le
andava di vedere né sentire anima viva; l’aveva sostenuta nelle notti insonni,
durante gli scoppi di rabbia, le morse allo stomaco ed alla gola. L’aiutava a
pensare, così come in quel momento la stava aiutando a riflettere su parecchie
cose: constatò come la vita stesse prendendo una direzione decisamente strana
ai suoi occhi, e di come certe persone che prima non esistevano nemmeno erano
ormai in grado di scombussolarle il cervello. Era arrivata ad un’unica grande
conclusione: avrebbe dovuto fregarsene, di tutto.
La fronte appoggiata al vetro dell’autobus vibrava al motore del mezzo, la cosa
le faceva quasi ridere, però le permetteva di focalizzare l’attenzione sul
mondo esterno, quel mondo che aveva rigettato con tanto disprezzo fino alla
sera prima. E che grazie al primo giorno di ciclo mestruale, sembrava più
ostile del solito. Un giorno orribile, un inspiegabile bisogno spinto dalla
gola, dagli ormoni, dalla mancanza di zuccheri nel corpo, il giorno in cui aveva
ceduto alle avances culinarie del fratello finalmente, dopo tutto quel
chiudersi tanto da risultare più testarda del solito. Ne aveva sentite tante di
ramanzine, ma mai come quella ricevuta la stessa mattina. Ancora rimbombava il
tono accorato e non proprio pacato – incazzato nero, l’aveva definito tra sé e
sé – della voce di Han, che le aveva rovesciato addosso frustrazione e paura
come se lei fosse stata in guerra e tornata quasi morta di stenti. S’era messa
a ridere constatando quanto potesse essere incostante suo fratello.
Solo un’altra volta aveva reagito in maniera simile, quando lui e Aya s’erano lasciati. Anzi, quando lei aveva deciso di troncare.
L’unico elemento tabù dell’amicizia che le coinvolgeva da anni era proprio la
relazione con il fratello di Raon. Aveva provato ad
insistere a sufficienza, anche di più, ma infine aveva gettato la spugna: il
silenzio stampa era stato l’arma di difesa dell’amica, e quasi si sentiva in
colpa adesso perché aveva fatto altrettanto. Non aveva pensato affatto d’aver
ferito le persone che la circondavano e le volevano bene.
Si stava sentendo in colpa.
Non con tutti però.
«Coglione.»
«Come, scusi?»
Un uomo sulla sessantina s’era seduto accanto a lei, le giacche a sfiorarsi per
via dei sedili troppo attaccati. La ragazza però era concentrata nel suo mondo,
persa tra i suoi pensieri, quindi non s’era accorta d’aver parlato ad alta voce:
boccheggiò presa completamente alla sprovvista.
«Mi scusi, mi scusi lo giuro, non intendevo lei. Mi creda, guardi…» sembrava
inciampare sui propri piedi tentando di alzarsi ed uscire da quell’angolo
imbarazzante. «Vede? Devo scendere. Ecco, è la mia fermata. Arrivederci, cioè
buongiorno.»
S’era mangiata le sillabe nel tentativo di giustificare una parola sbagliata
pronunciata nel momento peggiore. Si scagliò contro il tasto della richiesta di
fermata e fece per scendere, notando con la coda nell’occhio gli auricolari bluetooth presenti alle orecchie dello sconosciuto che le
stava sorridendo cordiale. Non l’aveva sentita, ma lei ormai aveva già poggiato
il piede sul marciapiede.
«Sono una scema. Aya mi ucciderà.»
Rise esasperata mentre estraeva il cellulare dalla tasca, mettendo in pausa di
malavoglia il video in riproduzione su YouTube e contattando Aya con un rapido messaggio di scuse. Avrebbe tardato, non
di molto, giusto qualche fermata.
Qualche.
Un po’ più di qualche.
Almeno mezzora a piedi, quantificando la strada: avrebbe camminato tagliando in
diagonale tra le due vie principali della zona nord della città, intrufolandosi
tra un passo carraio e un passaggio pedonale. Escludendo i lavori in corso in
centro, avrebbe dovuto passare davanti alla biblioteca comunale, quella dove
era solita studiare con l’amica; ritrattò il messaggio precedente proponendole
di andare lì, proprio come avevano programmato qualche giorno prima. Saltò poi
a piè pari il numero di Åsli, nonostante le
quattordici notifiche presenti accanto all’immagine del profilo nell’app.
Non le andava di rispondere, non ancora.
Rilesse ad alta voce ciò che aveva spedito, sicura di non creare
incomprensioni, e si avviò. Sgattaiolava sicura tra una stradina in
acciottolato e una laterale tra vecchi appartamenti, superando vasi di fiori in
cemento, cucce di cani impolverate, ed un paio di sdraio abbandonate alle intemperie.
Non le piaceva particolarmente quella zona, la metteva in soggezione, ma
permetteva di recuperare almeno duecento metri di vantaggio.
Ed eccola, ecco l’edificio che stava cercando. Alto, in parte ristrutturato
mantenendo le forme rigorose e geometriche di uno stile architettonico non
proprio fresco; ingrigito dagli anni, ancora sotto manutenzione nella fascia
laterale destra, permetteva un ingresso secondario raggiungendo direttamente il
terzo piano, evitando lo scalone principale. Si fermò Raon,
osservando quella facciata che aveva ormai imparato a memoria: lo stemma degli
antichi Signori della cittadina svettava all’altezza del primo piano, sopra la
terrazza chiusa al pubblico. Lo guardava con nostalgia, ripensando a quanto le
sarebbe piaciuto poterlo toccare, saggiarne la consistenza ruvida, constatare
come fosse conservato. Scosse il capo, dandosi della stupida. Stava ancora
ragionando come quando la madre l’aveva costretta a scegliere un indirizzo idoneo
ma non il suo, quando le aveva urlato contro tutto il suo odio, sotto la
minaccia di un semplice e gelido “pago io, decido io cosa sia meglio per te.”
Aspettava soltanto l’occasione di poter essere autonoma e quindi reindirizzare
i propri studi, ma non aveva ancora trovato un’occupazione che le permettesse
un tale passo. Deglutì nervosa, consapevole d’aver probabilmente sbagliato
approccio. Forse doveva essere meno dura con la donna. Sarebbe bastato
accettare le sue direttive tanto da facilitarsi la vita; non le aveva fatto
mancare nulla, non aveva bisogno di vestiti, di oggetti per la cura di sé.
Semplicemente riceveva un contributo ogni quattro settimane, gentilmente
consegnato dalla nonna che faceva da triste tramite a una transazione tanto
subdola. Sentì pizzicare gli occhi all’idea di dover dipendere da quella che
non chiamava “madre” già da qualche anno, anche se di fatto si stava
riappropriando di arretrati di mantenimento di cui aveva diritto. Si morse la
lingua e l’interno bocca come quando era nervosa, odiava essere così emotiva: gli
ormoni la stavano distraendo dall’attenzione che voleva dare allo studio, e già
stava saltando la prima lezione che si era ripromessa di seguire. Avrebbe
bilanciato la cosa con una sessione di studio, ma non riusciva a concentrarsi
in modo preciso. Aya aveva risposto chiedendole di aspettarla all’ingresso
principale.
Poco male, la pioggia non scendeva ancora nonostante la minaccia da parte del
cielo, ed era piacevole stringersi nella giacca autunnale che ne avvolgeva il
corpo esile. Si sarebbe guardata un altro paio di video nell’attesa.
Che male avrebbe potuto farle?
Nessuno, se non la presenza di un nuovo aggiornamento sul blog di colui che
aveva riconosciuto immediatamente.
«Cosa? E questo da dove viene?» Åsli apparve sullo schermo dello smartphone, il volto
nascosto dai capelli slegati, le dita intente a pizzicare le corde di una
chitarra.
Stava suonando.
Ed era tremendamente triste.
«Ma che cazzo vogliono questi adesso?» Åsli sbuffò notevolmente irritato. Possibile non
fossero in grado di lasciarlo in pace nemmeno volendo? Quando non pubblicava, i
follower dei vari social rompevano irrimediabilmente le scatole; ora che si era
deciso a riprendere a suonare, a farsi vedere, a dare voce al proprio disagio
ed alla frustrazione, veniva subissato da commenti e domande, decine di
domande, centinaia di domande. Stavolta centinaia, sì. Faticava a seguire i
continui aggiornamenti delle pagine, delle home.
Avevano fiutato qualcosa quei benedetti esseri umani che volevano di nuovo
vederlo su internet. Cosa poi, lo sapevano solo loro, ma intanto l’entusiasmo
per il nuovo video aveva scatenato reazioni contrastanti. Cosa avrebbe dovuto
fare? Rispondere a ogni singolo commento e sperare avrebbero finito con le loro
elucubrazioni? Sia mai, ci avrebbe impiegato un’eternità. Poco prima di uscire
dal sito scorse un messaggio che attirò la sua attenzione, colpendolo in modo
diretto, inaspettato. KSH11.
Era solo un accostamento di lettere e numeri, che altro avrebbe potuto
significare?
“Duerveldiggod. Ikkeglemmeg.”
Gli si gelò il sangue nelle vene, le mani si informicolarono improvvisamente e
gettò il cellulare sul divano, fregandosene della probabile caduta; si sarebbe
rotto forse, poco importava. Imprecò impallidendo per poi andare a sbattere
contro il frigorifero accanto all’ingresso del corridoio. La rabbia saliva
accompagnata da una frustrazione tale da scombussolargli i pensieri: non era
uno stupido, i segnali erano più che chiari, non potevano esserci equivoci. Strizzò
gli occhi ed inspirò cercando di calmarsi, avrebbe potuto e dovuto contrastare
lo scatto d’ira che lo avrebbe portato a rompersi una mano contro al muro.
Trattenne a stento un gemito mentre si stringeva un polso con le dita sbiancate,
frenando l’impulso di farsi del male e gettare all’aria la possibilità di poter
suonare di nuovo la chitarra.
Era lei.
Soltanto lei avrebbe potuto fargli i complimenti in norvegese sul suo link
diretto, davanti a tutto il mondo. Solo lei avrebbe potuto scrivergli “ikkeglemmeg, non dimenticarmi”. Che cazzo le stava prendendo?
Con che faccia tosta si era ripresentata così? Stupido lui ad averle dato un
minimo di speranza il giorno in cui Josh li aveva messi in contatto. Un idiota
patentato il suo amico, e lui ancora di più, perché di fatto dopo aver chiuso
con lei, dopo aver lasciato la band, finito di pubblicare sul profilo le proprie
esibizioni, mollato tutto e trasferitosi nella periferia anonima di una
cittadina qualsiasi, ancora non era riuscito a dimenticarsela. Quel “KSH”
poteva stare tranquillamente per Kisha. E sapeva che
era così, non c’era margine di errore.
Si avvicinò alla vetrinetta della sala, dove conservava un paio di bottiglie di
quelle forti, per poter riuscire a reggere momenti simili senza andare
completamente fuori di testa. Voleva ricominciare, riprendere a lavorare in
autonomia senza far preoccupare nessuno, e invece di trarne giovamento s’era
ritrovato a bere di nuovo quel liquido acido che neanche gli piaceva più di
tanto, però era efficace: la foschia che avrebbe annebbiato il cervello di lì a
poco era meglio di qualsiasi medicina, o terapista. Stavolta ci sarebbe andato
piano, e si promise di prenderne solo un paio di sorsi. Recuperò un bicchiere
da shot, se lo sarebbe fatto bastare.
Un ippopotamo dall’aspetto orrido e dal sorriso sghembo se la rideva beffandosi
di lui, un adesivo inquietante su quel bicchierino di vetro da quattro soldi.
Che regalo pessimo: era stata Raon a darglielo quando
l’aveva aiutato a sistemare la spesa per la casa, dopo poco il suo
trasferimento. Sbuffò ridendo un po’ a casaccio, un po’ isterico, nemmeno lui
sapeva come sentirsi. Ingoiò trovando conforto nella gola bruciante, nell’acido
allo stomaco, negli occhi strizzati per lo sforzo a trattenere il tutto oltre
l’esofago. Se ne versò un altro, tanto che male avrebbe potuto fare? Nulla di
che, era solo in casa, nessuno l’avrebbe disturbato e sarebbe stato in grado di
rovinargli il pomeriggio; avrebbe canticchiato ancora qualcosa, probabilmente
pulito un po’ in giro e perché no, anche dormito prima di cena. Sembrava
davvero un ottimo programma.
Irrimediabilmente rovinato dal campanello, insistente, pressante sui timpani,
eterno.
Avrebbe dovuto staccarlo prima o poi. Anzi, l’avrebbe fatto quella stessa sera.
Rifletté in piedi sul corridoio, limitandosi a tre scelte: quel
idiota di amico infame puttaniere di Josh, Raon
che lo evitava come la peste dopo l’episodio della caviglia della madre, e…
«Per… Per Fredrik? Signor Fredrik?»
Lei, naturalmente. Probabilmente l’ospite più gradito tra le possibilità che
aveva preso in considerazione. L’unica che avrebbe potuto evitargli una sbronza
epocale, solo come un cane, in un pomeriggio triste di una stagione di mezzo.
Niente di speciale sotto quel cielo grigio e atono, se non la presenza stessa
della signora Luciye. Non si premurò nemmeno di
richiudere la bottiglia, aveva già rimosso la sua presenza dalla mente così
come il sapore dalla bocca. La accolse in casa con un sorriso amaro, la sua
presenza lo rasserenava in qualche modo nonostante i brutti tiri lanciati al
suo ingresso in quell’appartamento.
Si accomodò la vecchina, scricchiolando come un pavimento in legno del secolo
scorso – proprio come la soffitta in cui Åsli ancora
faticava a salire per via dello shock; si stiracchiò allungando le braccia
stanche e osservando il ragazzo da dietro gli occhiali da vista che indossava
con un certo disagio. Infine si decise a toglierli
borbottando contro l’incapacità di sostenerli e sopportarli.
«Signora, quanto tempo! Mi dica, come sta?»
«Oh, figliuolo, con un cicchetto di quel buon whiskey probabilmente andrebbe meglio.»
«Come, scusi?»
«Orsù non faccia quello che non sa di cosa sto parlando. Sono anziana, non
rimbambita. Su su, allunghi un bicchierino e
beviamocene un paio.» Åsli sorrise consegnandole ciò che aveva richiesto, e
riempiendone una parte per sé.
«E questo cosa sarebbe? Ho chiesto un cicchetto, non un assaggio. Ah, questi
giovani di oggi… bisogna proprio insegnargli tutto. Si sieda caro ragazzo, si
sieda pure.» Con mano malferma recuperò il distillato cercando di versarsene
una dose abbondante, rovesciandone una parte sul tavolino. Imprecò in una
cadenza dialettale che il ragazzo non era riuscito a riconoscere e collocare,
per poi mandare giù con un colpo secco il contenuto.
«Questo sì che farà bene alla pressione bassa! Ah, bene, ora che mi sono
sciacquata il sapore di medicinale dalla bocca, possiamo cominciare.»
Cosa intendeva con cominciare se lo stava chiedendo l’inquilino, ancora stupito
del gesto superbo di colei che poteva tranquillamente portare una cinquantina
d’anni più di lui sul groppone.
«Cominciare?»
«Certo, tesoro. L’interrogatorio. Per quale motivo crede sia qui?»
Confuso più di prima, sorseggiò il contenuto del proprio bicchiere prima che Luciye glielo strappasse di mano.
«Raon, eh? Vittima anche lei del suo pessimo gusto,
noto.» Åsli si mosse agitato sulla sedia avvicinata al
tavolino del soggiorno, così da mantenere la dovuta distanza di cortesia
dall’ospite.
«Chiunque la conosca è condannato a ricevere cose simili. Io ho un plaid che
tengo rigorosamente nascosto nell’armadio della camera. Sa cosa significa
avvolgersi con dei ragnetti disegnati? Non posso avere una nipote che mi regala
i centrini di pizzo, come tutte? Santa ragazza, che ho fatto di male… mi dica,
che ho fatto di male? E beva per la miseria, mandi giù che fa bene.»
Ingollò immediatamente sentendosi punto sul vivo, convinto che la moderazione
potesse essere una buona dimostrazione di cortesia e bon ton. Cortesia un
corno, decise di spostare la bottiglia e riporla in vetrina prima che lei se la
scolasse e si facesse venire un arresto cardiaco in sala.
«La conserva per quanto tornerà Raon?»
Avrebbe voluto rispondere “ovvio che no.”
«Tanto non tornerà.»
Risposta idiota, inadatta, sincera una volta tanto.
«E per quale motivo, stellina?» Åsli tentò di nascondere con un colpo di tosse
l’ilarità suscitata dai continui nomignoli affibbiatogli, ma si sentiva certo
più leggero. Complice la presenza della donna, poteva evitare di pensare a tutto
ciò che lo circondava, che lo stava stritolando ripresentandosi come uno
spettro.
«Oh lasciamo stare questa faccenda, se pensa che quella impiastra di mia nipote
non si ripresenti, farà bene a prepararsi. A breve sarà qui, sa, io queste cose
le sento, il mio fiuto non sbaglia mai.»
Lui scosse il capo, convinto che l’unica assunzione di alcool le avesse già
dato alla testa portandola a fantasticare delirando. Un improvviso trillo ben
distinto e costante richiamò l’attenzione del ragazzo, mentre la signora se ne
stava ancora tranquilla e sorridente ad osservare la modifica degli arredi in
casa propria con una certa curiosità.
«Ehm, mi scusi…»
Aveva alzato la testa ed assottigliato lo sguardo, corrucciando le sopracciglia
massaggiandosi il mento con gesto ritmico: no, non ricordava di aver lasciato
quel mobile in quella posizione.
«Signora?»
E da quando una plafoniera sul soffitto? No, non andava bene, doveva
assolutamente regalare al nuovo arrivato uno di quei bei lampadari a goccia,
con le candele finte, proprio come andava di moda nel nuovo millennio.
«Il telefono!»
Sì, un bel lampadario di quelli eleganti, preciso preciso
a quello del salone di casa dell’amica di lunga data – lunghissima.
«Non si preoccupi, ciccino, risponda pure.»
«No, il suo telefono!» Luciye per qualche secondo si tastò, controllando la
tasca destra, quella sinistra, entrambe quelle dei pantaloni, per poi aprire il
giaccone che indossava rovistando nel golf. Niente. Allora scavò più in là,
nella tasca interna dell’indumento, estraendolo con gesto trionfante. Strinse
le palpebre nel tentare di tradurre il nome a lettere cubitali nello schermo
del moderno smartphone che i nipoti avevano avuto la bella idea di regalarle
qualche mese prima, per poi decidersi ad indossare nuovamente gli occhiali,
così da vederci di nuovo.
«Visto, signor Per, che le avevo detto? Ho fiuto.» Sorrise gongolando,
toccandosi la punta del naso con il dito. «Sì? Pronto tesoro!»
Capitolo 22 *** The library of idiotic revelations ***
Singing
is the answer
22 – The
library of idioticrevelations
«No, nonna, non insistere. Sono fuori per studiare, devo prepararmi per un es…
no, non torno sub… nonna, nonna?» Raon aveva notato Aya da lontano facendole cenno di raggiungerla, per poi
indicarle silenziosamente il telefono che stringeva ancora tra le dita.
«Niente, ha riattaccato. Boh, avrà avuto da fare. Allora? Andiamo a studiare
per questo cazzo di esame, sì o sì?»
L’amica scosse la testa sorridendo per poi fiondarsi su di lei abbracciandola,
stringendola forte al petto: la differenza di altezza era palese, ed i lunghi
capelli biondi solleticavano una Raon indispettita
quanto confortata. Le erano mancati i suoi abbracci, le era mancato il suo
bisogno di affetto; per una volta quella fisicità non la stava irritando poi
molto. Si scostò quel tanto per constatare che quella stretta non si allentava
minimamente.
«Aya… sto… sto soffocando!» Puntò le mani sul suo
stomaco spingendola, con il solo risultato di sentirsi nuovamente a contatto
con il seno dell’altra.
«Zitta. Così impari a sparire e farmi preoccupare come una disgraziata. Sei
stata una emerita stronza, sappilo.»
Di ragione, in fondo, ne aveva da vendere.
E questo lo sapevano perfettamente entrambe.
«Stavo male, lo sai.»
«Stare male non vuol dire staccare il cellulare, eliminare i messaggi,
visualizzare le conversazioni senza rispondere. Credi che non me ne sia
accorta? Sul serio? Pensi che non sappia?»
Sapere cosa, si chiese Raon curiosa: cosa era
trapelato da un comportamento del genere? Sembrava Aya
avesse tratto conclusioni su tutto, soltanto analizzando gli ultimi giorni
caratterizzati da una assenza forzata.
«Quindi?»
Forse il malessere dato dall’umiliazione subita a causa della madre.
Oppure la sensazione di non sentirsi compresa, inadatta pure, inadatta a quel
mondo che voleva vederla sempre sorridente, sempre perfetta. Sempre bene. O
semplicemente, la sua inadeguatezza di fronte ai problemi, portandola a
comportarsi spesso come una bambina offesa.
«È chiaro come il sole, è colpa sua.» Raon affondò ancor di più nella giacchetta leggera,
consolandosi di quella breve sensazione d’essere pienamente capita.
«E ti sta facendo male, perché vorresti levarti dalla testa tutto quanto, ma
non ci riesci.»
Certo, certo non ci riusciva, e la sua anima intanto veniva sondata pezzo per
pezzo. Possibile fosse così facile per Aya scavarle
dentro, toccarla ovunque e cogliere ogni sfumatura? La loro amicizia aiutava,
sì, ne era sicura: il rapporto che avevano instaurato tempo prima aveva
raggiunto uno step successivo, una consapevolezza maggiore. Annuì, staccandosi
a malincuore stringendo ancora tra le dita il telefono, trovando una seconda
chiamata a scuoterla; lo infilò in tasca, sentendo gli occhi pizzicare.
Maledire ancora una volta la propria emotività non rientrava nei programmi, ma
così era stato: sentiva un impulso pesante a riversare un indefinito
quantitativo di lacrime e di insulti a caso, ma non era certo il luogo adatto.
L’imponente ingresso della vecchia biblioteca comunale si stagliava su di loro
con una certa opulenza.
«Dai, andiamo. Sappi che ne hai di cose da recuperare, e ti ho portato tutti
gli appunti. Non è un grazie che voglio…»
Che carina. Raon si sentiva grata di averla accanto.
«Una cena sarà più che sufficiente.»
«Come, scusa?»
«Certo, dovremo pur risolvere questa faccenda di quel pagliaccio triste di Åsli, no? So che lo hai visto, non fai altro che pensare a
lui, vero?»
La ragazza strinse gli occhi e socchiuse le labbra nel vano tentativo di
parlare, fallendo miseramente. L’altra non faceva affatto riferimento alla
madre o all’accaduto in casa Lee, anzi, aveva ricondotto il tutto
all’antipatico cantautore, vigliacco senza palle incapace di intervenire al
momento giusto – e ci era andata leggera con i pensieri, stavolta.
«Visto? Ti ho detto che ormai so leggerti dentro. Sei come un libro aperto,
tesoro, e sai che non potrai sfuggirmi. Dai dai, letteratura non si studia da sola.
Preparati, chiederanno tutti gli autori che abbiamo studiato finora.»
Alla parola “tutti” le cedettero le ginocchia.
«Taci.»
«Dai, guardalo.»
«Aya, cazzo, siamo dentro, non si può parlare…»
sussurrava Raon, spazientita e svenata di tutta la buona
volontà che si era portata appresso. Si stava già pentendo di aver ricominciato
ad uscire.
Così, senza motivo apparente.
«Raon? Psss, Raon?»
Sbuffò sbattendo il volume di letteratura di quasi cinquecento pagine contro la
superficie liscia del grande tavolo verde oliva su cui si erano accomodate per
studiare. Mezza aula si voltò, osservando le due in cagnesco.
«Che cazzo vuoi? Me lo potresti dire, per favore?» il bisbiglio si stava
tramutando in un rantolo di pura follia omicida.
«Da quando non vi vedete?»
Lei si alzò, recuperò cellulare, libro e quaderno per gli appunti – svuotato di
ogni aspettativa di inchiostro – e li scaraventò in malo modo all’interno della
borsa. Squadrò lo stanzone per intero, cercando di calmarsi senza insultare
l’amica che la stava osservando con un’aria contrariata. Le grandi librerie di
legno consunto accoglievano innumerevoli volumi per serie di quattro livelli,
seguendosi una con l’altra fino all’accesso alla stanza successiva; alzò lo
sguardoal soffitto, bianco pallido,
completamente vuoto. Qualsiasi decorazione fosse stata presente in passato
sbiadiva al ricordo, le luci al neon appiattivano ogni sensazione di calore e
intima ricercatezza di quiete. Stonavano terribilmente con le decorazioni
esterne, sapore d’antico che lasciava spazio al bisogno di modernità. Raon tagliò corto e si trasferì di fretta alla stanzetta
laterale, un piccolo spazio dedicato a tomi di un certo spessore e volume, un
ritaglio appartato in quel susseguirsi di banali sedie in plastica bianche e
computer in standby. Strattonò senza troppi complimenti una di esse verso di sé
per accasciarvisi sopra con impazienza, rovesciando il contenuto della tracolla
su un tavolo ruvido, liso dal tempo e dall’utilizzo costante; l’illuminazione
meno impattante rendeva in un certo qual modo l’ambiente più intimo,
silenzioso. Scribacchiò un paio di frasi a caso ma non riusciva a concentrarsi
poi più di tanto: era tentata, le prudeva la mano all’idea di recuperare lo
smartphone, collegarsi nuovamente su Youtube e
scrivere ciò che pensava in pubblico, sotto all’ultima pubblicazione di quello
youtuber che le stava dando i nervi per il solo semplice fatto di esistere. Gliene
avrebbe dette di ogni sorta, avrebbe scritto ben bene in caps
lock e l’avrebbe fatto pure in inglese, giusto per farsi capire da chiunque
avrebbe scorso l’elenco di interazioni sotto al video del giorno stesso.
«Sai che non dovresti usare il cellulare qui dentro, vero?»
Si voltò alzando le sopracciglia in un moto di stupore misto all’imbarazzo più
totalizzante, all’ascolto di quel tono familiare.
«E tu che cavolo ci fai qui?»
Aya non si sarebbe arresa: sapeva, capiva,
probabilmente tentava di far ammettere all’amica ciò che lei vedeva, e aveva
visto fin dall’inizio. Strinse le dita a pugno masticandosi l’interno della
guancia, da una parte così dall’altra, tornando con la mente al ricordo del primo
incontro con Per Fredrik Åsli. Quel gesto del dito
medio che Raon gli aveva dedicato all’udire una battuta
decisamente di pessimo gusto, se l’era meritato pure, e senza alcuna remora. Quello
che però Aya aveva pensato era chiaro: da tale
romantica quale era, li aveva immaginati assieme fin da subito, stuzzicando l’amica
in più di una occasione tra telefonate, messaggi ironici e frecciatine ben
piazzate. Forse le tante storie lette in giro, i manga shojo
aggiunti ad una già folta collezione presente in camera sua, oppure gli innumerevoli
anime che aveva seguito per anni, l’avevano portata a rimescolare le due
personalità contrastanti, unendole in un assurdo presunto rapporto. Un ipotetico
amore nato dopo mille peripezie vissute dalla protagonista del suo film
mentale. Rise coprendosi le labbra velate di un colore tenue, perfettamente
intonato alla carnagione ed agli occhi chiari; rise ancora mentre seguiva la direzione
presa da Raon, incurante della reazione non certo entusiasta
che le aveva scatenato contro poco prima. Adorava vederla arrabbiata, era uno
sfogo per lei ed una forma di intrattenimento per se
stessa.
Si bloccò all’entrata della stanzetta, i pugni poggiati con vigore sui fianchi:
Raon sorrideva paonazza, sfiorando l’avambraccio di
un ragazzo di spalle. Era sicura di non conoscerlo, aveva buona memoria fotografica
– soprattutto per il genere maschile, anche se non amava ammetterlo – e quello
non rientrava certo nella cerchia di conoscenze che avevano in comune. Chi poteva
essere? Una figura così particolare da riuscire a far arrossire l’amica, nota
per il disinteresse palese verso i sentimenti e l’altro sesso, doveva essere
straordinariamente bella. Interessante. Coinvolgente.
Doveva scoprirlo.
Era più forte di lei.
Si schiarì la voce attirando l’attenzione dei due.
«Ehi, credevo fossi di là.» Raon era visibilmente imbarazzata.
Si allontanò istintivamente dal ragazzo che le sedeva accanto, ricreando una certa
distanza.
«Siamo venute per studiare insieme, dobbiamo dare lo stesso esame e devi recuperare
un sacco di lavoro.»
«Buongiorno.»
«Ah, certo, buongiorno. Comunque, Raon, sei indietro,
tremendamente indietro, come pensi di fare se… ma aspetta, tu sei quello che mi
ha guardata malissimo qui dentro, l’altro giorno!» Aya
aveva riconosciuto il maleducato che l’aveva osservata dall’alto in basso
qualche tempo prima. Era lui, non poteva sbagliarsi, anche perché vedendolo a
fianco dell’altra, parevano cugini. Come dimenticarlo?
«Piacere, sono Tae. E tu? Oltre ad essere una gran casinista.»
La giovane si voltò indicandolo con un’espressione perplessa.
«Lei è Aya, una mia amica. Aya,
lui è il ragazzo che mi ha accompagnata a casa quando mi sono fatta male.»
Aveva omesso “è stato la causa della mia caduta”, non riteneva neppure
necessario sottolinearlo più. Lei si scusò imbarazzata, chiedendo qualche secondo
di privacy e scuotendo Raon per le spalle: era
preoccupata, i suoi piani si stavano sgretolando. Le stava sussurrando all’orecchio
domandandole se per caso ci fosse qualcosa tra loro: no, la risposta secca
seguita da uno sguardo furente.
Certo che no, rincarata la dose con sospiro piccato.
Ovviamente no.
E allora perché si stava vergognando da morire alla sola idea di ciò che le era
stato chiesto?
«E di quel Åsli? Non pensi a lui?»
Il sussurro s’era fatto più sommesso, non voleva farsi sentire.
«Ma che cazzo c’entra lui adesso? Che domanda è?»
La strattonò verso la stanza precedente, colpendola nell’orgoglio e allo
stomaco con poche semplici parole. «Non vedi che sei persa di lui?»
«Stai zitta, fatti i cazzi tuoi…» le parole di Raon s’erano ridotte a un semplice sussurro, nel tentativo
di non farsi sentire, di non farsi scoprire. «Non dire cose del genere
quando c’è lui vicino, ti prego, non fare la stronza.» Era visibilmente
arrossita, le guance rosee avevano assunto un colorito sorprendentemente
acceso. Aya la scosse osservandola con la dovuta attenzione,
cercando di cogliere quella verità che cercava da qualche tempo. No, non stava
parlando di quell’antipatico tizio che avevano incontrato in fumetteria,
decisamente no: Per Fredrik Åsli stavolta non era
coinvolto. L’imbarazzo che aveva colto sul suo volto era causato da ben altro.
«Aspetta, vuoi dirmi che?» indicò infatti con il capo la stanza della biblioteca
dove ancora risiedeva Tae, docile nei modi, sarcastico nelle parole, carino
forse, ma nulla di più. Questo ciò che pensava senza mezzi termini. «Sul serio?
Raon, davvero?»
La ragazza osservava il pavimento piastrellato, seguendo le fughe con interesse
incredibilmente profondo.
«Ma non ha senso, e Åsli?»
Piccata, l’altra alzò lo sguardo e la fulminò, incapace di nascondere il
malcontento e tante altre cose non dette che certo l’amica non avrebbe potuto
immaginare.
«Lui potrebbe anche andarsene a fare in culo, sul serio.»
L’aveva detto.
Dopo quel bacio amaro dal sapore mischiato d’alcool e nicotina, umido, che si è
portato dietro più domande irritanti che risposte soddisfacenti, dopo aver
accantonato la cosa come fosse stato un semplice gesto impulsivo dato
dall’irrazionale bisogno di contatto fisico, si era ripromessa di non pensarci
più. Durante la convalescenza aveva deliberatamente evitato di rispondere a
quei messaggi, aveva soltanto colto l’anteprima di qualcuno di essi per poi
bloccare lo schermo. Lo aveva fatto apposta? Certo. Non avrebbe risposto
ancora, ovviamente. Aveva ben altro a cui pensare rispetto ad un instabile
ragazzino troppo cresciuto con la pappa sempre pronta e la testa piena di sé.
Un ego smisurato, un bisogno ossessivo di trovare risposte addosso agli altri e
mai dentro se stesso. Questo pensava. Tae invece era…
era diverso, si disse in quel momento guardandolo voltato verso i libri,
intento a studiare per un esame di chissà quale corso. Da quanto era lì? Da
dove veniva? Quanta strada doveva percorrere per venire a studiare? E poi, la
facoltà a cui era iscritto? Si rese conto di non conoscere nulla di lui né
della famiglia.
Sapeva solo che era gentile, premuroso, forse un filino cinico e un
chiacchierone. Bastava?
«Raon?»
Sì, bastava.
«Raon, ehi, mi senti?»
«Mi allunghi ancora un sorsetto, signor Per Fredrik.» Åsli scosse la bottiglia constatando con una certa
punta di divertimento quanto liquido fosse stato trangugiato dai due in quel
tempo indefinito. InfineRaon
aveva contattato sua nonna al telefono, anche se alla richiesta di raggiungerla
senza nemmeno confermare luogo e ora, la ragazza aveva rifiutato per una
sessione di studio. Il telefono s’era poi spento, lasciando cadere la chiamata.
Aveva riso Luciye, ammettendo di non aver nemmeno
pensato di caricarlo prima di uscir di casa e andare a passeggiare con le gambe
stanche: non abbastanza da evitarle di raggiungere l’ex appartamento.
«Ne è sicura? Penso abbia bevuto abbastanza, mi rifiuto di servirle ancora da
bere.»
Rassegnata la donna poggiò il bicchierino e raccolse le proprie mani in grembo,
rovesciando all’indietro il capo sul divano: sospirò, lasciandosi andare ai
ricordi socchiudendo le palpebre rugose. Le labbra si incresparono in un
sorriso tirato, lasciando fuoriuscire le parole in un monologo che voleva non essere
interrotto in alcun modo.
«Sa, i suoi occhi mi ricordano molto quelli Grethe.»
I pochi secondi successivi lasciarono il tempo al ragazzo di metabolizzare: Grethe Jensen era sua nonna, la madre di sua madre. Luciye la conosceva dunque. Doveva stupirsene? Stupirsi di
come Benedikte avesse indirizzato il figlio in quella
precisa città, in quel quartiere fuori mano, distante dal centro, dai maggiori
luoghi di divertimento, lontano da casa propria abbastanza da non trascinarsi
dietro i problemi? Fallito miseramente poi. Sapeva quando dare la giusta
attenzione alle informazioni, e quello era il momento adatto.
«Chiari, lucidi, immensi. Per, lei è squisitamente bellissimo, proprio come sua
nonna. Rivedo in lei la sua determinazione, il suo essere ribelle, stanca della
vita che le stava troppo stretta.» Una seconda pausa, più breve: Luciye si accoccolò chiudendo definitivamente gli occhi,
biascicando assonnata un’ultima frase: «dovevamo scappare assieme, io e lei.»
Il russare si mangiò quasi le ultime lettere, ma la parola “lei” era stata
colta chiaramente. Åsli si sedette sul tappeto di fronte al tavolino
dove ancora giacevano umide le ultime gocce di liquido alcolico in bicchieri
abbandonati, la bottiglia accanto vuota per tre quarti. Alzò la testa al
soffitto senza dire niente, non voleva disturbare la vecchietta che s’era
addormentata, complici l’assunzione di una dose decisamente interessante di liquore
e la camminata precedente. Era passata a trovarlo appositamente per rivelare
quelle informazioni? Avrebbe mentito a se stesso
dicendo di non voler interessarsi a ciò che era stato detto: era coinvolta la
sua famiglia, la famiglia di sua madre, come era coinvolta quella di Raon.
Che fosse così stupido da non ricordare parte dell’infanzia, una parte
fondamentale, in cui loro avevano intrecciato il quotidiano, dividendo
settimane intere o mesi forse? Poteva essere, ma in quel caso l’unico stupido
non era lui. Si alzò insicuro sul da farsi, stava metabolizzando le poche
nozioni apprese mischiandole con un fumoso tentativo di scavare nella memoria.
Raccolse tra le mani la cornice della foto di Raon,
era certo l’anziana l’avesse notata prima, ci aveva buttato lo sguardo soffermandosi
qualche secondo di troppo. Osservò l’immagine sforzandosi di ripescare qualcosa,
andava bene qualunque cosa. Qualunque altra.
Come aveva fatto la volta scorsa? Era in post sbornia forse, o ubriaco. Nel
dubbio raccolse ciò che era avanzato in un paio di bicchieri e mandò giù. Se
avesse funzionato sul serio, se ne sarebbe accorto a breve. Reggeva
relativamente bene ciò che assumeva, che fosse un bene o meno, fino alla
penultima goccia – perché la colpa era sempre dell’ultima, d’altronde; girovagò
alla ricerca di una coperta con cui avvolgere il corpo della signor, si sporse poi
e le carezzò i capelli sbiancati dal tempo ponendosi la domanda più semplice
che il cervello perso potesse concepire: perché Raon
e la madre erano orientali di origine – era palese, i tratti distintivi erano
evidenti – ma la padrona di casa portava un nome europeo?
«Come ho fatto a non chiedermelo prima? Quante cose nasconde, in realtà?»
“Più di quelle che pensi, idiota.” Il proprio pensiero esaustivo concluse la
breve crisi di notizie.
«Avete intenzione di studiare, sì o no?» Tae s’era presentato con la tracolla
carica del lavoro delle ore precedenti, visibilmente stanco ma con una
espressione poco tesa. Pareva ben sicuro delle nozioni apprese, contrariamente
ad Aya che andava facilmente in crisi e ormai l’esame
era vicino, troppo vicino.
«Ovvio, siamo qui per questo, giusto Raon?» Aya cercava supporto, ma voltando lo sguardo trovò l’altra
torturare l’orlo della manica dello sgargiante maglione a quadri che indossava.
«Anche perché abbiamo l’appello tra meno di una settimana. Te lo ricordi? Io
non ho intenzione di aspettare il prossimo, devo prepararmi.»
«Eh? Ah, beh, cazzo è vero…» Si rabbuiarono quei sottili occhi scuri, per poi illuminarsi
all’idea salva giornata. «ormai è tardi, andiamo a mangiare?»
«Raon, dobbiamo studiare, devo recuperare un sacco di
appunti, poi le immagini, il libro. Dobbiamo sapere tutto, altrimenti non
pass-»
«Allyou can eat, dai.»
Tae sbuffò divertito alla proposta, quando una signora dal buon bagaglio d’età
gli si avvicinò picchiettando il dito artritico sulla spalla, lamentandosi
della confusione perpetrata; ella sistemò gli occhiali a mezzaluna sul profilo
aquilino, riducendo le palpebre a due fessure ed indicando l’uscita. Una
indistinta minaccia riguardo all’esclusione obbligatoria e lo stracciare delle
tessere ipotetiche le uscì in un soffio, mentre i tre uscivano scoppiando a
ridere poco dopo.
«Allora? Io ho fame, una gran fame.»
«Non mi stupisce, sai? Io opterei volentieri per un giap…
un cin… Ehm, Tae, giusto? Per non fare gaffe…»
«Sono coreano, tranquilla. Kim Tae, piacere.»
«Io sono AyaGrady,
piacere.» strinse la mano che le era stata porta, ancora poco convinta. Era un
nemico, lo stava identificando come colui che poteva seriamente rovinare il
quadretto futuro che aveva immaginato per Raon e Åsli, nonostante i due fossero peggio di cane e gatto. La
strinse forte, pensando a quanto potesse essere un intruso nei fili che stava
tessendo nella storia perfetta.
«Vi chiedo solo di non portarmi in uno di quei vostri locali dove pensate
davvero di conoscere il cibo orientale, vi prego. Vi ci porto io, piuttosto,
detesto mangiare schifezze.»
«E questo tu lo chiameresti il migliore? Ma è…» Raon non
sapeva esattamente come continuare senza rischiare di offendere Tae. Il locale
era situato al piano terra di un piccolo edificio grigio in una via laterale
del centro città, raggiungibile tramite un breve passaggio pedonale. L’entrata
era modesta, uno spartano menù scritto a mano in lingua coreana era appeso ad
una delle due vetrate trasparenti contornate dal vecchio legno scuro. Raon e Aya erano scettiche non avendo mai dedicato alcuna attenzione
a quel viottolo anonimo.
«Sei sicuro sia aperto? Guarda, potremmo andare al solito, invece, lì si mangia
bene.» Lo scetticismo di Raon aveva contagiato anche l’amica, ma non Tae: lui
le stava osservando divertito.
«Immagino non siate mai venute dalle mie parti. Beh, dall’altra parte del
mondo, intendo. Ecco, questa è la cucina che più si avvicina a quella con cui
sono cresciuto.»
«Non dirmi che adesso entriamo e troviamo tua nonna dietro ai fornelli, sarebbe
troppo…»
«Da anime giapponese?» Rise Raon concludendo l’affermazione lasciata a metà da Aya.
«No, no! Mia nonna vive ancora in Corea, non la sradicheresti da lì neanche
prendendola di peso e caricandola su un aereo. Ha il suo orticello, i polli, i
pesci a cui badare.»
«I pesci?» L’ilarità lasciò spazio ad una leggera sorpresa.
«Mica tutti hanno cani e gatti, lei ha dei pesci da compagnia, diciamo. Tanti
anche. Dai, non guardatemi così, giuro che non vi sto prendendo per il culo.
Entriamo, sto morendo di fame.»
Il luogo era decisamente piccolo rispetto ai soliti ristoranti a cui due
cittadine erano abituate, del tipico sfarzo opulento orientaleggiante fatto di
simboli, colori precisi e soggetti riconducibili alle tradizioni di un luogo
lontano e affascinante non v’era traccia: tavolini di legno quadrati a ridosso
di pareti dipinte già da qualche annetto, ricoperte da vecchie fotografie e
decorate da disegni dai tratti tradizionali e in bianco e nero s’intonavano a
un’atmosfera senza tempo – e senza pretese – e al corto bancone ligneo che dava
accesso diretto al cucinino nascosto da una tendina rosso brillante. Una voce
tonante e annosa si levò da dietro la parete in una lingua che a Raon parve
straordinariamente familiare quanto incomprensibile; le ragazze si bloccarono
all’entrata allarmate, mentre Tae avanzava a proprio agio verso la cassa. «I
signori Park sono fatti così, lavorano qui da parecchio tempo e non fanno altro
che litigare, ma fidatevi. Oh, coraggio, venite. Giuro che non sono cattivi,
solo un po’…» esitò prima di riprendere, «particolari, ecco. Lo capirete da
voi.»
La figura minuta che li raggiunse era vestita in modo semplice ma vivace, i
colori accesi dei suoi vestiti brillavano risaltando sul pallore della pelle
raggrinzita e dei capelli ingrigiti stretti in una crocchia disordinata; i
piccoli occhi scuri osservavano i tre ospiti, ma si rivolse soltanto al
ragazzo. La vecchietta parlava fluida accompagnandoli al tavolo in fondo, il
più distante dall’entrata, uguale a tutti gli altri: Tae afferrò una sedia da
quello adiacente e si mise sul lato esterno, a stretto contatto con le due
ragazze. Lo spazio era angusto ma piacevolmente caldo, ed un lieve vociare
proveniva dai pochi avventori presenti. Nessun occidentale, a parte Aya, sembrava essere presente ai tavoli. Raon si guardava
attorno perplessa e meravigliata allo stesso tempo, consapevole di trovarsi in
uno di quei piccoli luoghi di ritrovo tipici di chi ricerca all’estero le
proprie origini culinarie. Avrebbe voluto chiedere tante cose a Tae riguardo al
posto, a quella che pareva la titolare, al menù alla carta assente.
«Siete allergiche a qualcosa?»
«Come?» Risposero le due all’unisono.
«Chiede se avete problemi di allergie, altrimenti ordino un mix da dividere.»
Negarono entrambe mentre il ragazzo ordinava sorridendo.
Non avevano capito una sola parola e per quanto ad Aya
sembrasse assolutamente normale, a Raon infastidiva terribilmente. Avrebbe
voluto, potuto comprendere tutto quanto, e invece a parte la musicalità
familiare di una lingua morbida e tonale, non aveva colto una sillaba.
«Ma è squisito! Cazzarola, qualsiasi cosa sia questa è straordinaria, giuro!» Aya avanzava con entusiasmo bacchette alla mano, pescando
dall’una all’altra ciotola e riempiendo il proprio piatto, gli occhi lucidi e
le papille gustative in fermento. Tae aveva esposto gli ingredienti principali
ed i sapori presenti sul vassoio ingombrante, faticando a trovare spazio per
riuscire a mangiare; l’aspetto casalingo delle pietanze profumate e speziate
riempiva l’aria, scaldava il palato e stuzzicava la gola. Aveva pure tentato di
insegnarne i nomi originali, ottenendo scarso risultato ma sollevando l’ilarità
delle presenti, constatando ancora una volta come Raon non si sentisse a
proprio agio in un posto simile.
«Qualcosa non va? Forse non ti piace lo stufato?» Aya si voltò verso l’amica, la bocca ancora piena:
come poteva non piacerle? Raon adorava mangiare, e ancor più mangiare bene.
«No, non è quello, scusatemi. È che, fa strano, ma queste cose non le ho mai
mangiate se non da piccola, quando mia nonna badava a me e Han mentre i miei
lavoravano.» Si rabbuiò, faticava a ricordarne i sapori ormai, doveva essere
passato parecchio tempo. «Mi sa che i miei si sono occidentalizzati troppo
anche per potermi insegnare qualsiasi cosa…» la risata triste si fermò a metà,
interrotta da un altro boccone di carne.
«Possiamo tornarci insieme, se vuoi.»
Le ragazze si voltarono verso Tae che stava sorbendo rumorosamente del brodo
saporito e denso da una ciotola. Si guardarono piombando nel silenzio più
assoluto.
«Ovvio, l’invito è esteso anche a te, Aya.»
«Ah, sì, che domande, pensavo per un attimo tu avessi chiesto a Raon di uscire
con lei.» Era nervosa lei, si era ripromessa di controllare che andasse tutto
bene ma questo prevedeva anche un riavvicinamento tra Raon e Åsli, e questo ancora non era successo. Sapeva che lei non
aveva ancora risposto a nessun messaggio o chiamata, ne era sicura perché
l’altra non aveva toccato il cellulare neppure una volta.
«Anche fosse?»
«Mi sembrerebbe strano, ecco…»
«Va bene.» Raon finì inesorabilmente al centro dell’attenzione, arrossendo
lievemente sul viso chiaro. «In fondo, mangiare con qualcuno non ha mai fatto
male, no?» Aya strattonò da sotto il tavolo il maglione di lei,
cercava di attirare la sua attenzione con occhiatacce eloquenti.
«Ovvio, se non è un problema.»
«Ma ti pare! Mi sono proposto io, che problema c’è?»
Sollevò il bicchiere sorridendo ad entrambe: «al nostro primo appuntamento,
dunque.»
Raon sorrise, era la cosa più strana che le era accaduto in quel periodo.
La seconda cosa strana, dopo aver incontrato Åsli
in fumetteria qualche tempo prima.
L’atmosfera s’era improvvisamente alleggerita, Tae e Raon conversavano di
studio, università, lavoro e progetti per il futuro, come ogni tipico ragazzo
che s’avvicinava ai trent’anni con precisi obiettivi in testa. Aya completò il pasto osservandoli silenziosa: non andava
bene, si ripeté, non andava affatto bene. Non era ciò che aveva previsto per
l’amica, no, e oltretutto mai avrebbe immaginato il giovane si sarebbe fatto
avanti così presto. Chi era? Perché si stava intromettendo nella vita di loro
due, dei suoi progetti per lei, delle evoluzioni che aveva immaginato potessero
portarle nuovamente il sorriso?
«E tu, Aya, cosa farai dopo la laurea?»
Ci pensò un po’ su: aveva scelto la facoltà che più le piaceva, la stava
portando avanti senza infamia né gloria ma si stava impegnando. Certo, qualche
esame era saltato, ma in fondo nessuno le aveva mai accennato quanto potesse
essere stressante, e debilitante a volte, studiare per poter ottenere ciò che
desiderava. «Me ne andrò da qui.» Era risoluta, convinta, fin troppo seria.
«Prenderò le mie cose, le ficcherò in valigia e andrò a cercare lavoro da
qualche parte.»
«Bene, hai le idee chiare. E cosa ti piacerebbe fare esattamente?»
Quanto sapeva essere snervante, si disse, prima di riprendere fiato e calma con
un sonoro sospiro. Cosa, di preciso? Cosa avrebbe potuto fare, con quel
percorso, in una situazione economica simile, instabile a livello globale? Inseguire
i suoi sogni, e sperare un giorno di poterli raggiungere.
«Lavorare con le istituzioni dei Beni Culturali per la conservazione del nostro
patrimonio artistico.» Solenne, convinta. «Se continuerò a vivere qui coi miei,
in questa città, non potrò mai riuscire a fare l’esperienza necessaria, e lo so
bene. Come so che non potrò mantenermi senza il loro sostegno, quindi prima
dovrò riuscire a trovare un lavoro più proficuo e mettere i soldi da parte.»
Faccenda spinosa la sua, odiava farsi mantenere: il part time le permetteva il
minimo necessario, la completa autonomia economica le era necessaria per poter realizzare
i propositi che si era prefissata qualche anno prima, nell’unico liceo
artistico presente nel capoluogo.
«Fantastico!» L’entusiasmo improvviso di Tae la prese alla sprovvista. «È
straordinario avere un obiettivo, mi piace tu abbia le idee così chiare, sai? È
raro al giorno d’oggi.» Il sorriso che le rivolse la spiazzò, e rispose con un
cenno del capo. Non doveva cedere alle lusinghe, lui era il nemico.
«Tu? Non mi dici niente di te?»
Raon sollevò lo sguardo dalla tazza di infuso che aveva ordinato, un liquido
scuro fumante dall’aroma particolarmente forte. Lo scrutò sconsolata,
masticandosi l’interno della bocca indecisa se parlare con sincerità o meno.
«Da quel che ho capito frequentate gli stessi corsi, anche tu quindi fai studi
umanistici. Dove vorresti arrivare?»
Inspirò, espirò, bevve lentamente e mandò giù incurante della temperatura
lavica della ceramica e del suo contenuto. «Grafica.»
«Come?» Aya la guardò amareggiata, sapeva quanto Raon
detestasse affrontare l’argomento.
«Vorrei fare la grafica e l’illustratrice.»
Tae aggrottò le sopracciglia riflettendo sulla notizia appresa. Non ci voleva
certo un genio per capire che l’indirizzo scelto e l’obiettivo fossero ben
lontani dall’incontrarsi a metà strada. Era confuso, e tremendamente curioso.
Non si pose nemmeno il problema nonostante avesse incrociato lo sguardo torvo
di Aya, rivolto nella sua direzione. No, gli stava
dicendo, non continuare, lascia stare.
Non stette certo zitto, aggiudicandosi una fulminata da parte di due occhi
azzurri e inquisitori.
«Allora hai sbagliato proprio sezione, non credi? Che sappia io, gli studi sono
ben altri, e…»
«E non c’entra un cazzo con quello che sto facendo, credi non lo sappia?» Raon
sbatté i palmi sul tavolino, attirando gli sguardi dei pochi presenti rimasti:
qualcuno bisbigliò contrariato accanto al bancone del locale. Scattò in piedi e
uscì sbattendo la porta del locale, trascinandosi dietro il malcontento di un
irritato cuoco nascosto in cucina.
«Cosa ho detto di male?» Tae era sinceramente spiazzato da un comportamento
simile.
«Vuoi veramente saperlo? Non ti sei fatto i cazzi tuoi, ecco. Lo prendiamo
questo dolce, o no?»
«Ma tu sai perché ha reagito così?» Aya sorrise compiaciuta, certo che lo sapeva: la
conosceva bene, come avrebbe potuto non saperlo? Il tono saccente con cui
rispose alla curiosità fuori luogo dell’altro uscì spontaneo. «Sua madre aveva
promesso di pagarle gli studi alla condizione di scegliere una facoltà che
avrebbe portato a un buon lavoro. Lei ha scelto un percorso di studi incentrato
sulla storia dell’arte, non che le dispiaccia, ma non è quello che vuole fare.
E sai anche tu che più passano gli anni più è difficile cercare lavoro in
apprendistato. Sta sprecando tutto questo tempo per prendere un pezzo di carta
che non vuole nemmeno.»
Il ragazzo si rabbuiò, si diresse al bancone salutando la coppia di anziani
proprietari, pagò l’intero conto e si affrettò ad uscire.
«Ehi, aspetta, e il dolce?»
«Non volevo, sai?» Tae inspirò fumo dalla sigaretta osservando il cielo poco
stellato: la sera era calata ormai e l’aria pizzicava sulla pelle scoperta
nonostante la stagione stesse mutando in fretta. Soffiò verso il velo scuro
puntinato a tratti, a tratti cancellato dalle luci della grande città. «A volte
so essere curioso, troppo, tanto da dare fastidio alla gente.»
«Non importa,» Raon stringeva il bottone di chiusura della tasca della giacca
con troppa convinzione, un’inutile convinzione, «è la realtà dei fatti. Prima
mi laureo, prima sono libera di fare ciò che voglio. Al giorno d’oggi se non si
ha un titolo tra le mani, non si va da nessuna parte, giusto?» Aya annuì sfregandosi i palmi delle mani: quella sera
era decisamente fredda, contrariamente alla primavera che si stava avvicinando.
Imprecò mentalmente contro la scelta sbagliata di vestirsi leggera, fin troppo.
«E lasciar perdere?» La sua domanda era schietta, ma era raro sentire l’amica
parlare di quello specifico argomento, quindi ne avrebbe approfittato. Ormai
erano in gioco, esapeva che ogni
sfuriata di Raon prevedeva un periodo di quiete, una sorta di ricarica del
livello di scontrosità: ora lei era in stato di recupero, quindi non avrebbe
sbottato di nuovo, almeno per un po’.
«Sprecare tutto quello che mi è stato pagato? Davvero pensi che butterei via
tutti quei soldi nel cesso? A questo punto mi conviene finire, sono a più di
metà percorso e lo sei anche tu.»
«Dopo cosa farai?»
La ragazza si voltò in direzione di lui. «Seguirò qualche corso nazionale
organizzato da studi di grafica, e farò gavetta. Prima o poi ci arriverò, avrei
anche già cominciato ma sarebbe impossibile incastrare questo e lo studio.»
«Ce la farai, vedrai. Hai detto che hai già fatto più di metà strada, quindi
non mancherà poi molto, no? Ho fiducia in te.»
Il sorriso che Tae le regalò era luminoso, non avrebbe saputo definirlo
diversamente; Raon rovesciò lo sguardo prima sull’acciottolato e poi verso
l’uscita del vicolo. «Beh, che dire, grazie. E grazie per la cena. Penso ora
sia il momento di andare a casa, vero, Aya?»
L’amica annuì, i brividi che le stavano scuotendo la schiena la infastidivano
non poco, poco più dell’idea di tornare a casa. «Direi di sì, e a proposito,
grazie.» Si avvicinò a Tae abbassando successivamente il tono e guardandolo in
cagnesco, «sappi che ti tengo d’occhio.»
Rise lui senza nemmeno nasconderlo. Ora a tremare non erano solo le vertebre di
Aya, ma anche i nervi e la pazienza. «Vedremo.»
«Aspettate prima di andare, questo è il mio numero, segnatevelo. Non sarebbe
una cattiva idea andare in biblioteca e studiare assieme, a meno che non
vogliate fare un altro teatrino come quello di oggi. Prima o poi ci sbatteranno
fuori da lì, ne sono sicuro. Ah, e la mia proposta per la cena è ancora valida,
per tutte e due.»
I cellulari segnarono rapidi la successione di dieci cifre, ed i tre si
salutarono con un sorriso.
«Raon, sei cotta, e non credo sia un bene.»
«Ma sei scema? Siamo solo andati a mangiare tutti assieme, e poi non si può
chiamare appuntamento se non siamo soli, giusto?»
«Certo, ma non mi fido di te. E poi Åsli come la
prenderebbe?»
Raon staccò di un paio di metri l’amica per poi guardarla con uno sguardo
furioso.
«La smetti di vivere in una fanfiction? Se lui è stronzo, è stronzo. Almeno Tae
non mi ha strattonata baciandomi per poi dimenticarsene come un semplice pezzo
di merda.»
L’aveva detto e non se n’era nemmeno accorta, le parole semplicemente avevano
scelto di uscire da sole.
Raon Lee non amava soffermarsi troppo a pensare su ciò
che le accadeva intorno, di fianco e dentro di sé. Raon Lee era una ragazza
pratica, lunatica, non sempre incline alla socialità e ai sorrisi di circostanza.
Quella volta però si ritrovava in completo stato confusionale, incapace di
riuscire a contenere gli eventi degli ultimi tempi: rimuginare sulle proprie
azioni e reazioni le riusciva abbastanza bene, doveva fare il punto della
situazione prima di ritrovarsi ad annaspare per cercare di restare a galla.
Sua madre, il primo punto, il più dolente ma anche quello lontano. Sua madre
era quella presenza che aveva creato un vuoto, una voragine che si era espansa
dal petto risucchiando tutto l’odio che la figlia aveva covato per lei dalla
prima adolescenza, da quando la donna decise che era giunto il momento di
cambiare vita. Lee Min Soo aveva nascosto più che bene ciò che era accaduto,
fino a quando non aveva varcato la soglia di casa con un paio di valigie in
mano e la promessa di far decidere ai figli a quale figura genitoriale
aggrapparsi. Han e la giovane Raon avevano optato per restare in casa Lee, una
decisione pilotata dalle circostanze – e da un preavviso inesistente – che
portò a un primo punto di rottura. La madre nel corso degli anni s’era
impegnata a rattoppare gli squarci che quella decisione aveva creato tra lei ed
i ragazzi, un po’ riuscendoci, il più delle volte no. Raon aveva cominciato ad
anestetizzare le sensazioni che provava per lei, accantonando tutto il bagaglio
emotivo che l’aveva portata all’ansia, alle sensazioni di inadeguatezza e di
incapacità di comprensione del rapporto che le legava. Anni di lavoro su se stessa, a sopprimere quelle emozioni che le toglievano il
fiato e le tagliuzzavano la gola con rantoli, lacrime inghiottite
nell’annaspare in cerca di respiro. Anni. E ce l’aveva fatta, grazie al
sostegno di un buon terapeuta, anni di autocommiserazione, e la vicinanza del
fratello e del padre.
La rabbia era l’unica cosa che le era rimasta. Raon detestava arrabbiarsi, ma
piccoli gesti avventati le donavano tanta di quella soddisfazione che lasciarsi
andare all’ira non sempre le dispiaceva. Quando strappò e bruciò tutte le foto
stampate che aveva in compagnia della signora Lee, sentì qualcosa sollevarsi e
lasciarla andare, come se sulle sue spalle si fosse mosso un volume lieve ma opprimente;
aveva respirato a pieni polmoni l’odore di fumo e carta plastificata
accartocciata e andata in cenere. Le era servito, ma la macchiolina pulsava
sempre lì, nell’angolino della testa, quello dedicato alle cose che non si
potevano dimenticare nemmeno con i tentativi più accaniti.
Per Fredrik Åsli, altro nodo, altro motivo per prendere a cuscinate le pareti
della camera quella sera – e si era limitata, aveva già rotto due lampade e
scheggiato la scrivania sotto alla finestra della camera, negli ultimi scatti
d’ira. Il ragazzo aveva quella innata capacità di farle perdere le staffe anche
soltanto guardandola o rivolgendole il saluto; era proprio qualcosa di antico,
una eredità ancestrale quella di doverlo detestare per ogni singola scemenza.
Lo conosceva per fama, come altri milioni di utenti che osservavano, spiavano
la sua vita da cantante sui social e ascoltavano le canzoni sulle piattaforme
di streaming. Certo non sarebbe mai andata da lui a dire apertamente: sono
iscritta al tuo canale YouTube, ti seguo su Facebook e su Instagram, posto le
tue foto sul mio profilo personale commentandole e condividendole con il sorriso.
Certo che no, Raon non l’avrebbe mai fatto.
Era cocciuta, e orgogliosa, tanto orgogliosa.
Eppure aveva ben riconosciuto il ragazzo quel giorno, in fumetteria. Incredula
forse, anzi, depennando il forse: cosa aveva spinto un cantante talentuoso con
una propria band, una minima discografia originale e tante cover di brani
indimenticabili a mollare tutto e infilarsi in quella cittadina? Cosa? Pure
Raon aveva avuto delle storie che non erano andate a buon fine, come tutti: non
credeva certo nell’amore eterno, tantomeno al colpo di fulmine, e sapeva, anzi
era perfettamente convinta che qualsiasi cosa sarebbe potuta cominciare e
dovuta finire prima o poi. Un amore curato è comunque un amore che si
consuma nel tempo, invecchia e lascia spazio al semplice affetto: aveva
fatto di questo pensiero un mantra, un balsamo per alleviare il dolore di un
rapporto finito, e per spiegarsi ancora una volta il motivo per cui la sua
famiglia era andata in pezzi e lei si ritrovasse a un quarto di secolo della
sua vita senza aver mai combinato qualcosa di serio dal punto di vista
sentimentale. La riflessione che si ripeteva spesso era come l’olio di mandorla
per le smagliature: non avrebbe mai funzionato ma ci si ostinava a crederci
fino alla fine, per autoconvinzione. L’amore era l’olio alla mandorla di Raon
Lee.
Senza considerare la faccenda del bacio, quella l’aveva mandata proprio in
bestia. E per ripicca, perché naturalmente a suo parere soltanto un deficiente
con una certa carenza di neuroni non avrebbe potuto ricordare di averla baciata; uno così, o un rincoglionito ubriaco. Åsli faceva
parte della seconda categoria, e perché no, un po’ anche della prima. Ed era
per questo che Raon ancora non aveva letto e risposto ai suoi messaggi,
arrivati a diciassette la mattina precedente, per l’esattezza.
L’ultimo nodo cruciale era Tae Kim. Ah, Tae Kim, ragazzo dalle mille sorprese.
Era sud coreano, come lei.
Studiava all’università, proprio come lei.
Amava mangiare cose buone e ridere di tutto, esattamente come lei.
Era perfetto, tanto, troppo, una figura che aveva creato danno ma le aveva
dedicato tempo, sorrisi, pazienza, pareva sincero ed entusiasta. E qui si
sentiva fregata, perché nonostante non riuscisse a capire il giro di circostanze
che l’intero universo aveva creato per farli incontrare, di una cosa era
sicura: Tae le piaceva, aveva sempre una parola buona per lei, un’aria
familiare data dalle origini comuni (i lineamenti cara, quelli non mentono, si
era detta nei giorni in cui era rimasta ferma a casa per via della caviglia) un
sorriso che la faceva inspiegabilmente arrossire e dimenticare i malumori del
periodo. Stavolta aveva pure recuperato il suo numero di cellulare, e anzi, era
stato lui a darglielo. Ok, un contatto condiviso con Aya,
ma poco importava. Ce l’aveva, e tanto bastava, avrebbe deciso in seguito cosa
farne.
La serata era passata veloce, il ricordo ancora vivido delle pietanze
assaggiate, di tutte quelle spezie differenti, il sorriso di Tae, i sapori
forti, i profumi caldi e carichi, gli occhi di Tae; ancora Raon ricordava certi
disegni dipinti sul muro con vecchie tinte, ne aveva accarezzato la superficie
constatando fossero stati fatti a mano con pennelli dalle setole dure e colori
un tempo brillanti, colori che si sposavano con la carnagione color miele – che
paragone sdolcinato, sembrava un meme vivente a pensarla così, ma non le
interessava – dell’altro. La sua compagnia era gradevole, anche se le era parso
impiccione e chiacchierone fino alla nausea, ma aveva anche dei difetti,
giusto? Tentò di scansarsi dal fascio di luce del lampione che la colpiva dai
balconi schiusi, infastidita dall’insistenza di quella stimolazione visiva
costante e snervante: lasciò il lato del letto per poi gettarsi con la testa
sui due cuscini al posto dei piedi, dimenticando il cellulare attaccato alla
presa di corrente, ancora spento dopo qualche ora. Crollò in un patetico
dormiveglia fatto di stufato, riso, carni dalle salse appetitose accompagnate
da verdure croccanti saltate, inondate di aromi e note di piccante; mugugnò
qualcosa di incomprensibile rotolandosi sul materasso e avvolgendosi nel
lenzuolo, aveva freddo ma era troppo pigra per recuperare la coperta
abbandonata sul pavimento, quindi si raggomitolò facendo affidamento sui
vestiti del pomeriggio che ancora indossava.
Pessima idea.
Si svegliò affamata, infreddolita e con un dolore alla cervicale che non la
voleva lasciare in pace; spazientita raccattò il plaid dal parquet e se lo
avvolse completamente addosso a mo’ di mantello, trovando il tepore di cui
aveva bisogno. Andò a sbattere contro il comodino cercando il cellulare per
controllare l’ora, imprecò sonoramente con tutta la fantasia che il sonno
permetteva, e constatò con uno sbuffo di averlo carico ma ancora spento. Si
sedette sul materasso dalle lenzuola sfatte, avvolta dal pile
fino a sopra la testa, riaccendendo con noncuranza l’apparecchio.
Gli avvisi di chiamata non si erano sprecati, il bip continuo la spazientì, i
messaggi arrivavano da tre conversazioni differenti escludendo le notifiche dei
social network: avrebbe voluto prendere ciò che stava stringendo in mano e
schiacciarlo sotto la suola di una scarpa, senza alcun rimorso. Memore della
mancanza di soldi per comprare un nuovo modello, rinunciò all’idea e cominciò a
sfogliare gli avvisi, scavalcando automaticamente quelli di Åsli – pensarci a
quell’ora non le avrebbe fatto bene – e concentrandosi sulla chat di Aya, che le aveva rifilato un papiro di 7:03 minuti di
registrazione vocale.
«Ma tu sei scema.» Non lo aprì nemmeno, si rifiutava di credere che qualcuno
potesse davvero dire così tante cose al microfono di uno smartphone.
L’altro numero interessato era quello della madre, che spediva le maledette
“buonanotte” con GIF e immagini colorate di gattini, farfalle e glitter con
frasi fatte idiote nel gruppo di famiglia.
Sospirò, raccolse tutta la pazienza di cui era capace e finse di non vedere.
«Non la capirò mai.»
Rimanevano soltanto quei diciassette messaggi, era tentata.
A quell’ora, con una coperta a farle da mantello in pieno stile Compagnia
dell’Anello di Tolkien in viaggio sulle catene montuose circondata dalla gelida
bufera, non aveva voglia di scoprire novità. Bastò però l’anteprima della
conversazione per farle drizzare le antenne, lanciare l’involucro caldo sotto
cui si era nascosta fino a poco prima, infilare un paio di All
Star, dei jeans sbiaditi, una felpa sotto alla giacca invernale recuperata a
caso dall’armadio, e correre giù per le scale incurante della confusione che stava
facendo a tarda notte.
«Sei un idiota.»
Esordire con tre semplici parole era stato efficace, nonché divertente: Raon si
era beata per un attimo dell’espressione mortificata di Åsli, un misto tra la
preoccupazione malcelata e il senso di colpa evidente. Erano giorni che non si
vedevano, dopo ciò che era accaduto in casa loro con la signora Lee non si
erano più incontrati e il ragazzo non aveva più avuto notizie di lei, della sua
salute, di cosa era successo poi con sua madre. Aveva tentato di cercarla, con
scarsi, scarsissimi risultati. Stavolta però si trattava di qualcosa di
importante davvero, avrebbe scavalcato il muro di indifferenza che Raon aveva
sollevato nei suoi confronti.
«Perché non mi hai avvisata prima?» Sapeva non avesse senso una domanda simile,
non pretendeva neppure una risposta, era l’unica cosa che era riuscita a
formulare prima di entrare, superare l’inquilino e andare verso il salotto. Sua
nonna dormiva beatamente sul divano, incassata ad occupare meno di un terzo del
tre posti. Beata russava con vigore.
«Ti conviene venire qui.»
Åsli provava una certa soggezione, doveva ammetterlo: Raon era assurda, non era
capace di dare un freno a ciò che provava, mai, e lo mostrava senza alcun
filtro.
Quanto la invidiava.
Anche se ora ne aveva paura.
«Senti, signor musicista che fa le serenate su YouTube, ti ho detto di venire
qui.» Era preoccupata, e a malapena ragionava su ciò che stava dicendo e il
modo in cui si esprimeva nei confronti del coetaneo. «Cosa cazzo hai
combinato?»
Gola secca, terrore.
«Io? Lei! Non cosa ho combinato io, ma cosa ha combinato lei.» Non era
un infame, semplicemente i fatti erano questi: Luciye
aveva bevuto insieme a lui, che già era alticcio di suo, si era svuotata del
patema che stringeva dentro per poi rovesciare la testa sul divano e
addormentarsi di colpo. Non che avesse mostrato qualche sintomo particolare, a
parte gli occhi lucidi e il rossore ad accendere il colorito spento tra le rughe;
semplicemente il suo istinto l’aveva messo in stato di allerta. Una vecchina
che s’era scolata bicchieri dalla gradazione alcolica che viaggiava di norma
dai trenta tre ai quaranta gradi poteva sentirsi male. Che ne poteva sapere
Åsli? Non aveva mai avuto a che fare con anziani dal gran movimento di gomito.
Raon si gettò a peso morto sull’altro lato del divano: carezzò la nonna,
confortandosi nel respiro regolare e nella temperatura corporea nella norma,
sospirando un paio di volte e massaggiandosi gli occhi e le tempie. Era stanca,
occhiaie scure segnavano il volto niveo mostrando un gran bisogno di dormire. «Non
ti hanno mai detto che non si dovrebbe offrire da bere ai vecchi?»
«Puoi farmi spiegare, per favore?»
Lei acconsentì, incrociando le braccia al petto e sporgendosi verso il ragazzo
che intanto s’era accomodato sul tavolino della sala, giusto di fronte. «È
comparsa qui, ha visto la bottiglia, ha chiesto da bere e si è incazzata perché
centellinavo le dosi. Ha cominciato a farfugliare qualcosa riguardo a me e a
mia nonna, per poi addormentarsi così, di botto. È da quando ti ha chiamata che
è qui, ma tu non hai voluto lasciarla parlare.»
«Ero impegnata a studiare in biblioteca, ma non è questo il punto. Hai
rischiato di farle venire un colpo, ti rendi conto?!»
Il senso di colpa si schiantò sul capo di Åsli con tale violenza da rischiare
di farlo cadere sul tappeto. Era una verità assoluta la sua, aveva tentato di
fermarla ma non ne era stato capace. La preoccupazione era parzialmente
scemata, lasciando spazio lucidamente alla curiosità.
«Tu invece come stai? Hai bevuto anche stavolta? C’è un gruppo di alcolisti
anonimi in città, non lontano dalla stazione dei treni, potrei accompagnartici.»
Il tono ironico era palese.
«Non sono ubriaco, se è questo che pensi. Ho bevuto molto meno di lei, fidati,
e sembra pure stare meglio di me. Tu?»
«Io cosa?»
Åsli rise la prima volta dopo ore. «Come sta il piede?»
«Ah, quello, è a posto: gonfio, tenuto a riposo qualche giorno, era solo una
brutta botta, non potevo rischiare di peggiorare la situazione quindi ho fatto
la casalinga. Guarda che preoccuparti per me non è un modo per farti perdonare automaticamente,
eh.» Eppure sorrise lei nel dire quelle parole,
facendosi subito di nuovo seria. «Ora sto meglio, ho ricominciato a uscire.»
Lui voleva chiedere tante cose, davvero tante, ed aveva cominciato da quella
che gli premeva di più: avrebbe voluto continuare e domandare ancora, con il
rischio di infastidirla. Che poi, cosa non avrebbe infastidito Raon? Ci provò,
era lì davanti a lui, disordinata come sempre, stanca come troppo spesso, ma
gli aveva sorriso. Era pur sempre un passo avanti rispetto a tanti insulti ricevuti
in precedenza.
«Come mai non mi hai risposto?»
«Senti, ti trovavi tra un buongiornissimo in una chat
di donne di mezza età frustrate, e no, non fare domande, e un’amica isterica
convinta che la mia vita sia una storia inventata da lei dove tutto deve filare
liscio e dove io vengo shippata come una scema
con te.»
Åsli tentò di collegare il termine che la ragazza aveva usato nel riferirsi a
loro, ma non ci arrivava.
«Non sai cosa significa shippare, beh, meglio.
Meglio per me.»
In poco lo smartphone di lui catturò l’attenzione di entrambi e la parola
acquisì il giusto significato. Rise, mascherandosi gli occhi con la mano.
«Questa tua amica pensa che noi dovremmo tipo cosa, stare insieme? Non ci
conosciamo nemmeno, se non per te che mi hai mandata a fare in culo in fumetteria,
o te che mi sei caduta addosso rotolando giù dalle scale, oppure sempre te che
mi hai insultata più o meno un numero indefinito di volte. Spiegami, ti prego,
perché non ce la faccio a smettere di ridere, in base a cosa lei dovrebbe
vederci assieme. Seria, però.»
«Per il semplice fatto che l’enemies to
lovers è uno dei suoi filoni preferiti.»
«Ok, non mi serve la traduzione per questo, ma parlate sempre così voi? Sono
termini tecnici specifici per gente da…?»
«Da fandom, si dice. Il fandom è… ma che cazzo te lo spiego a fare, sono qui e
dovrei essere incazzata nera con te, e invece mi stai facendo ridere tutto il
tempo. Mi spieghi come fai?»
Più la sentiva parlare più Åsli cercava di interpretarla: alle volte Raon era
cristallina, le sue emozioni si muovevano vorticandole addosso per poi essere
sbattute violentemente contro ogni malcapitato che sarebbe stato a tiro, ma con
le parole non sempre ci sapeva fare. Inspirò, e un’altra domanda si fece largo,
sicuro che avrebbe scatenato una tempesta: lui non aveva comunque nulla da
perdere, era lì, lei stava di fronte a poco più di un metro di distanza. «Sono
tutte supposizioni le sue, quindi. Il bacio non c’entra niente, allora?»
Silenzio.
Gelo.
Esplosione.