Ab imo pectore

di Kaayyn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Personaggi ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Capitolo I ***
Capitolo 4: *** Capitolo II ***
Capitolo 5: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Personaggi ***


Sett

Augustus        


Augustus

Ogni volta che verrà presentato un nuovo personaggio nella storia, verrà inserito in questa lista        

Ogni volta che verrà presentato un nuovo personaggio nella storia, verrà inserito in questa lista.

 

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Capitolo 2
*** Prologo ***


Com'ero rimasto aggrappato disperatamente alla vita quella notte di tanti anni prima, lo ero in quel momento a quelle lenzuola.

Seta, bianca come la luna piena nel cielo d'estate, liscia come la mia pelle. Odoravano di pulito, di costoso profumo, di sangue. 
Immacolate, com'era un tempo il mio sorriso.

Di quel maledetto giorno mi rimangono i suoni, gli odori, i sapori, le ombre, il dolore.

Tacevo, con le mani abbandonate ai lati del capo. 
I lunghi capelli erano sparpagliati sul letto, macchiato da quel liquido scarlatto, che scorreva, come un minuscolo fiume, dal mio naso e dalla mia bocca, semiaperta, ansimante.

La vittima era sola a curarsi le ferite.
Inesorabile, il mio presente scorreva infinito.

Tra le dita tremanti stringevo un pugnale, un bellissimo stiletto la cui lama affilata era abbracciata dalla coda di un drago d'argento, tra le cui fauci risplendeva un rubino scarlatto.

C'era silenzio nella stanza. Si avvertiva a malapena il fruscio dei tendaggi leggeri che oscillavano con il vento. L'oscurità mi pervadeva, a meno di un raggio argenteo che faceva scintillare la punta di quella meravigliosa arma.

L'avevo guardata, per poi perdendomi tra le pieghe e le incisioni del metallo. L'avevo alzata e me la ero avvicinata al viso. 
Mi ero voltato appena. Con l'altra mano, tremante, avevo raccolto la chioma, chiudendola nel pugno.

Un impeto di rabbia aveva pervaso il mio corpo, scorrendomi nelle vene, solleticandomi i nervi, facendomi contrarre i muscoli, che erano scattati.

Una lacrima si mischiò al sangue sul mio viso ed io strinsi i denti.
Un taglio secco, veloce, perfetto, come solo io avrei potuto. Le ciocche s'erano infrante sul giaciglio senza alcun rumore.

Chiusi gli occhi. Sospirai piano. Con il dorso della mano mi asciugai le guance, il naso, la bocca. Abbandonai il coltello.

Un battito di cuore. Dalle mie labbra socchiuse sfuggì un lamento.

Singhiozzai, non so per quanto tempo.

No, non avevo alcuna intenzione di smettere. Quella volta avevo deciso che non mi sarei fermato, avrei pianto fino a morirne. Fino a che i tremiti non mi avrebbero fermato il cuore.

Prima o poi, i lividi sarebbero scomparsi, le cicatrici si sarebbero schiarite, i brividi non mi avrebbero più percorso la pelle, gli incubi mi avrebbero lasciato in pace, mi ero giurato.

Una promessa che si era infranta in quel preciso istante. Io ero solo un ragazzo spaventato, un corpo stanco, pelle martoriata da segni visibili e non, profondi fino all'osso.

Un male indescrivibile si riversò nel mio petto. In esso riconobbi la consapevolezza.

Mi portai le ginocchia fredde al petto.

Io.

Ero.

Solo.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo I ***


Per molto tempo fui convinto che il nostro primo incontro risalisse a quella notte d'agosto. Non potevo sapere che in realtà già conoscevi il mio nome.

Quella sera osservavo le costellazioni con i gomiti puntati sul parapetto freddo che separava l'immensa balconata da uno dei giardini della reggia. Il naso all'insù, verso la luna che tingeva d'argento la pietra e di blu le ombre.

A quel tempo ero ancora convinto che le stelle, al cui interno erano incastonati i desideri luminosi degli dei, mi avrebbero protetto per sempre. Non mi chiedevo come fosse possibile, anche se se stavano lì, immobili, lontane, irraggiungibili.

Una sottile malinconia si era impadronita dei miei pensieri distanti, che si perdevano nelle note di una canzone lontana, intonata dai bardi che animavano la festa che si stava svolgendo appena qualche stanza più in là.

Un venticello fresco mi accarezzava il viso, riempiva i miei polmoni dell'aria dell'estate. Di tanto in tanto un brivido mi risaliva lungo la schiena lasciata scoperta dal taglio particolare della camicia che mi avevano fatto indossare. Era leggera, di un bianco perlaceo. Le maniche erano morbide, mi piaceva sentire la seta scivolare sulla mia pelle.

Mi passai una mano sulla guancia: era calda. Il mio viso si era arrossito all'improvviso.

L'alcol aveva iniziato a circolare nel mio sangue, le mie palpebre si erano fatte più pesanti e la mia lucidità stava lentamente svanendo.

Mi venne quasi da ridere. Non so perché, tutto ad un tratto, mi fosse venuto in mente di afferrare un calice colmo di vino, approfittandomi della confusione. Noia, curiosità, non lo so. Forse mi aveva affascinato l'effetto che quella bevanda aveva sugli invitati, le risa che faceva sbocciare sui loro volti.

Senza troppi sforzi, ero riuscito ad agguantare un bicchiere mezzo pieno. Spalle al muro, avevo costeggiato le pareti della enorme stanza da ballo, sparendo di tanto in tanto dietro le tende di velluto scuro, confondendomi con gli arazzi. A volte, il movimento delle lunghe gonne colorate delle ragazze, che piroettavano in mezzo alla sala mi distraeva, come lo scintillare dei loro gioielli, dei loro sorrisi, illuminati dai candelabri che pendevano dal soffitto come gocce di pioggia. I miei occhi, pieni di meraviglia.

Mi ero allontanato dal rumore, avventurandomi per le stanze lì intorno, sempre più silenziose. Avevo vagato un po' nei corridoi bui del castello, perdendomi più volte nell'oscurità. Avevo provato ad aprire qualche porta chiusa a chiave e poi, ero tornato suoi miei passi, guidato un po' dal suono della musica, un po' dalla luce bianca che trapelava dalle finestre.

Una sensazione di inquietudine mi aveva attanagliato lo stomaco improvvisamente. Mi ero voltato, più e più volte, mentre tornavo indietro. Da quando avevo messo piede nella sala da ballo, era come se qualcuno mi stesse osservando. Uno sguardo che però non avevo ancora incontrato. Mi erano venuti i brividi, più e più volte, ogni qualvolta che le ombre si facevano più fitte o che i suoni si facevano più attutiti. Avevo accelerato il passo, dopo che l'adrenalina aveva iniziato a pizzicarmi i nervi.

Avevo tirato un sospiro di sollievo quando mi ero ritrovato su una balconata di marmo, inondata dalla luce della luna. Mi ero guardato intorno un'ultima volta, prima di accasciarmi su una panchina di pietra poco distante.

Bevvi un sorso di vino. Lasciai che il liquido amaro si disperdesse nella mia bocca. Una smorfia appena accennata distorse il mio viso: arricciai il naso. Non mi piaceva.

Sospirai e poi, svuotai il calice, bevendone l'intero contenuto. Scrollai le spalle e mi alzai in piedi. I miei pensieri si persero nel cielo.

Era stato organizzato un ballo, quella sera.
Uno come tanti: fiumi di alcolici, chiacchiere frivole dei nobili e discorsi impegnati dei cavalieri, belle ragazze in vestito da sera. Risate, musica.

Solo dopo qualche anno avrei imparato a farmi piacere quel tipo di eventi. Mi sarei abituato alla frenesia delle danze, all'allegria degli invitati, alle risa sguaiate dei nobili alticci.

Ma, in quel momento, su quella terrazza, non riuscivo a smettere di ripercorrere con il pensiero la catena di eventi che mi avevano trascinato in quel luogo sconosciuto, fino a quell'istante sospeso, ormai confuso insieme agli altri, in un groviglio che non sembrava nemmeno avere un inizio.

Nemmeno in quel momento però, ero convinto di essere solo.
Poco dopo, ne ebbi la certezza. Non so quanto tempo passò prima che decidesti di uscire dal tuo nascondiglio.

Un tintinnio, un fruscio, un passo, poi un altro. Mi voltai, sussultando.

Vidi la tua figura avvolta in un mantello scuro emergere dalle ombre. Dall'oscurità emergeva lo scintillio dell'argento dell'armatura, delle fibbie degli stivali, il luccichio delle pietre azzurre che ti pendevano dai lobi.

Il mio sguardo scivolò su di te, lentamente. Indugiai sulle tue iridi, colpite dalla luce, così chiare da sembrare trasparenti. Da sembrare ghiaccio, fredde com'erano. Mi pietrificarono.

Ed in un attimo, ti riconobbi.

Ogni dettaglio urlava il tuo nome. Non so come fosse possibile. Il taglio allungato dei tuoi occhi, la tua camminata impeccabile, ogni ciocca dei tuoi capelli, di una sfumatura di rosso mai vista prima, color sangue. Il tacchettare dei tuoi pesanti stivali sul marmo. La spada dall'impugnatura vermiglia che tenevi al tuo fianco. Il tuo sguardo, che non riuscii mai a leggere davvero.

Eppure, il primo che mi rivolgesti, per quanto indecifrabile e distaccato, tradiva uno stupore che, seppur impercettibile, involontariamente mi avevi trasmesso.

Il suono del tuo avanzare quasi si confondeva con il vento.

Conoscevo il tuo nome, i miei genitori mi avevano parlato di te. Tutti lo avevano fatto. Principe Augustus, figlio del re di Ignis.

Non fu solo la tua improvvisa apparizione che mi fece gelare il sangue nelle vene. Fu quella familiarità che avevo avvertito nei tuoi tratti, nel sorriso accennato che mi avevi appena rivolto.

Velocemente, mi cimentai in un inchino, com'era consuetudine tra persone di un certo rango. "Principe", ti salutai.

Le fossette che ti segnavano appena le guance si fecero più evidenti.

Tendesti verso di me la tua mano, un istante prima poggiata sull'elsa della tua arma. Io la strinsi, forse con troppo poco vigore. Abbassai lo sguardo, quasi imbarazzato dello stato in cui mi avevi trovato. Così da vicino forse riuscivi addirittura a sentire l'odore dell'alcol.

"Sei Sett, vero?". Io annuii. Ancora non mi ero pienamente abituato a quel nome.

Sentivo la testa leggera, la tua voce sembrava lontana. "Rea ti stava cercando, voleva presentarci".

Rea era mia madre adottiva, nonché tua zia acquisita. Lei aveva deciso che, quella sera, mi avrebbe presentato al mondo come suo figlio. Al Re, alla famiglia, alla società, a te. In pratica, scappando lì, avevo rinunciato al mio debutto prima ancora che la serata iniziasse davvero.

Iniziai a sentirmi in colpa e, mentalmente, cercai di riafferrare i brandelli della mia sobrietà. Mi chiesi se tu fossi venuto lì solo per farmi la predica, se ti avesse mandato lei. Nonostante quel mezzo sorriso, incutevi un certo timore.

Rimasi qualche attimo in silenzio, indeciso su cosa rispondere. Riuscivo solo a pensare a quanto sentissi caldo.

"Avevo bisogno di un po' d'aria". Mentii. "Ho perso la concezione del tempo".

Tu inclinasti la testa, assumesti un'espressione incuriosita. Soffocasti una piccola risata.

"Tranquillo, la serata è arrivata a quel punto in cui nessuno fa più caso all'etichetta e alle convenzioni. Probabilmente Rea se ne sarà già dimenticata". Il tuo viso si distese appena.

Lanciasti una veloce occhiata alla luna, così vicina che quasi avrei potuto toccarla allungando un braccio. "Possiamo rimanere ancora un po' qui, se ti va".

Mi accorsi che mi piaceva la tua voce, da come pronunciasti quelle ultime parole. Sembrava provenissero direttamente dal tuo petto. "Lì dentro fa troppo caldo". Aggiungesti.

"Grazie". Mi sentii sollevato. Dopotutto si stava così bene lì fuori. Il silenzio, la penombra, le stelle.

Ti accomodasti. La tua armatura tintinnò appena. Io mi sedetti al tuo fianco. Il paesaggio davanti a noi si stagliava sconfinato. Potevo scorgere il vulcano sopito in lontananza, circondato dalle rocce laviche cosparse di un sottile strato di fili d'erba.

"Ti stavi annoiando lì dentro, vero?".

"Un po'". Ammisi, ancora un teso. Più che annoiato, forse ero solo spaventato. Da tutto, da tutti. Anche un po' da te.

Alzasti le spalle. "E' normale, anche io alla tua età mi annoiavo, non capivo perché i miei genitori non mi lasciassero in pace nella mia stanza. Me ne stavo tutto il tempo lì impettito a parlare con vecchi scemi che discutevano di cose incomprensibili.
Senza dimenticare le anziane signore che insistevano per farmi ballare con le loro figlie".

Mi strappasti una risata.

Un raggio di luna illuminava il tuo viso. Notai un piccolo puntino nero sotto il tuo occhio sinistro.

"Aspetta qualche altro anno, ti assicuro che ti divertirai. Conoscerai un sacco di gente che come te non vede l'ora di farsi una bella bevuta". Arrossii fino alle orecchie. Quindi te ne eri accorto. Affondai il viso tra le mani. "Si nota così tanto?".

"Tranquillo, sei quello messo meglio questa sera". 
Aggrottasti le sopracciglia. "A proposito, le tue sorelle dove sono finite?". Io alzai le spalle, ancora tremante per l'imbarazzo. "Non lo so. Loro vogliono ancora giocare, non ho la voglia di assecondarle, quindi sono andate con gli altri bambini".

Nonostante ci dividessero solo tre anni, non andavo molto d'accordo con mia sorella Calista, la più grande. Lo stesso potevo dire della più piccola, Arti.

"Immagino che tu non abbia conosciuto nemmeno Argo, vero?". Argo era tuo fratello minore, ed avevamo più o meno la stessa età. Tuttavia di lui mi ero completamente dimenticato. Come avevo potuto?

"Dannazione". Mi lasciai sfuggire un'imprecazione. 
Non ero riuscito a combinarne una giusta. Più il tempo passava, più entravo in confusione.

Mi rassicurasti, ancora una volta. "Tranquillo, datti tempo. Dopo tutto quello che hai passato è normale trascurare tutte queste frivolezze...".

Da lì in poi, non ricordo quasi più nulla di quella sera. Parlammo molto. Ore intere probabilmente. Ad una parola seguiva un'altra, con naturalezza. Dolcemente, mi ero abbandonato allo scorrere dei nostri discorsi. Un sorriso era sbocciato sul mio volto.

Ancora ricordo un brivido improvviso percorrermi il collo. Con le dita avevi sfiorato la mia pelle, quasi impercettibilmente. Avevi lasciato scorrere sul palmo della mano la treccia in cui erano raccolti i miei capelli e l'avevi fatta ricadere piano sul mio petto, carezzandola appena.

Avevi poi cercato i miei occhi.
Non c'era più niente, che il suono della tua voce ed il tuo profumo, vicino com'eri.

"Mi piace come ti sta". Ti eri sporto appena verso di me. Un dolore nel petto, per un istante.

Uno dei tanti ricordi, impressi per sempre nella mia memoria. Tanti, come le stelle nel cielo di quella notte.

Sotto quel chiaro di luna, mi persi, per poi non ritrovarmi più.

Dall'autore;
Salve a tutt*, io sono Cain.
È sempre un'emozione debuttare con un'opera nuova e sono molto felice di conoscervi!

Questo è il primo capitolo di questa storia originale, uno yaoi/bl fantasy, che ha come protagonisti Sett e Augustus. I nostri cari piccioncini qui sopra.

Sono qui per salutarvi e ricordarvi che, ahimè, non sarà una storiella d'amore rose&fiori (come spero abbiate letto in descrizione). Quindi, se volete dare una chance a questa storia preparatevi (i fazzoletti), perché tratterà di temi molto delicati che non verranno affrontati con le pinze, ecco.

In questi giorni, oltre a lavorare alla seconda parte, mi occuperò anche di aggiungere qualche capitolo per raccontarvi un po' dei personaggi e del loro mondo.

Vi chiedo, cortesemente, nel caso vi sia piaciuto ciò che ho scritto di commentare (anche se non vi è piaciuto, accetto critiche), in modo tale che io possa regolarmi per le prossime parti.

Grazie mille per essere arrivati fin qui, alla prossima ❤️

 

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Capitolo 4
*** Capitolo II ***


Quella notte, ti raccontai la mia storia come se fosse un'antica leggenda, come se in realtà, non l'avessi mai vissuta.

Narrai i fatti con distacco, quasi dubbioso riguardo la verità delle parole che sceglievo con attenzione. Non so né come né quando decisi di parlarti del mio passato. Forse fu la stanchezza, la malinconia, forse fu il calore che emanava la tua mano così vicina alla mia.

Ero nato in un villaggio all'estremo nord della terra di Caeli, perso tra le montagne che segnavano il confine del territorio dell'Impero. Ricordo la secca e gelida aria del mattino, la neve ricoprire le vette la maggior parte dell'anno, il cielo limpido. Eppure, non rammento il volto dei miei genitori, le loro voci, la loro stessa esistenza. Forse avevo una sorella. A volte il suo viso mi appariva allo specchio, confondendosi con il mio. Non ci avevo mai creduto fino in fondo.

Alla mia nuova nascita, fui illuminato da un raggio di sole. Il mio corpo era schiacciato dalle macerie, sotterrato dalla polvere, dai resti della mia vecchia dimora. Udii delle urla attutite, tra le palpebre appena dischiuse vidi la sagoma di una mano tendersi verso di me.

Lo scintillio delle armature, il trottare di cavalli. Il sole che sorgeva. Un uomo ed una donna mi avevano preso per mano e mi avevano portato via da tutta quella morte: la mia nuova famiglia.

Era questo per me il mio passato: una manciata di ore. Nulla di più, nulla di meno. Ripetevo questo a chiunque me lo chiedesse. Nessuno, nemmeno io, si era riuscito a spiegare un vuoto durato più di dodici anni.

In molti, tra guaritori e studiosi, si erano recati nel maniero dove io, Felix, Rea e le mie sorelle risiedevamo. Alcuni mi visitavano e poi mugugnavano diagnosi. Altri mi ponevano delle domande, ed appuntavano sui loro taccuini spessi le mie risposte: brevi, confuse, sempre le stesse.

Un giorno, fu un generale dell'Esercito a farmi visita. A quel tempo, la maggior parte delle mie ferite era guarita, io mi sentivo indubbiamente meglio, nonostante fossi messo comunque male. Avevo un paio di costole rotte, a volte facevo fatica a parlare, a formulare dei pensieri chiari. Balbettavo, ogni tanto. Un grosso taglio mi aveva squarciato la pelle della schiena. Anche a lui toccarono le stesse spiegazioni.

Dopo il periodo del riposo, ci fu quello dei piccoli "esperimenti". Mi chiedevano di eseguire dei compiti, da quelli più impegnati a quelli più piacevoli. Ogni giorno scoprivo una nuova area della villa: la biblioteca, le cucine, le stalle, il giardino. Ed ogni giorno scoprivo di avere qualche talento nascosto.

Sapevo leggere, scrivere, disegnare molto bene. Conoscevo nozioni di giardinaggio, di cucina. Al contrario, non ero bravo con i conti e non conoscevo quasi nulla riguardo la storia del continente o la sua geografia.
Non parlavo molto perché mi stancavo piuttosto in fretta, ma la mia padronanza della lingua era quella che ci si aspettava normalmente per un ragazzo della mia età.
Anche il modo con cui mi relazionavo con i miei famigliari e i servitori era gentile, educato, convenzionale, nonostante non conoscessi l'etichetta di corte.

Era come se tutte le nozioni che avevo imparato nel corso della mia vita fossero rimaste perfettamente integre e bastasse prendere in mano uno strumento, o trovarmi in una situazione particolare per farle tornare a galla.

Queste piccole scoperte contribuirono alla formulazione di molte teorie riguardo il mio passato, che nemmeno i vestiti squarciati che avevo addosso il giorno dell'attacco e la casa distrutta dove mi avevano trovato erano riusciti a fornire. Alcuni dicevano fossi il figlio del capo del villaggio, altri pensavano provenissi da una famiglia di contadini.

Ammetto che, il bisogno della ricostruzione, non era particolarmente sentito, né da me, né dai miei genitori adottivi. Tuttavia ero l'unico superstite e i capi dell'Esercito erano alla ricerca di chiarimenti riguardo l'accaduto, che avrei dovuto fornire loro, prima o poi. All'epoca non sapevo nemmeno il perché di certe richieste. Chi avevo intorno non si era curato di spiegarmelo.

Riguardo il mio stato d'animo, fu difficile interpretare ciò che davvero provavo e ci volle molto prima che riuscissi a maturare la consapevolezza della mia situazione.

La mia reazione rispetto a quel nuovo mondo fu come quella di un cucciolo di cane appena nato che si rapporta con il padrone. Apre gli occhi, si trova davanti questo individuo in un luogo sconosciuto. Non ne ha paura, è forse un po'confuso. Gli viene offerto del cibo, dell'affetto. E gli basta quello, per dargli fiducia, perché affettivamente, non ha bisogno d'altro.
Si abitua subito all'idea di esistere, vive nel presente, proprio come me. E andava bene così.

Le gioie di quei mesi derivavano dalle piccole cose, dai miei trionfi di ogni giorno. Dalla compagnia e dalla disponibilità di chi mi stava intorno. Dalla meraviglia che mi infondevano le nuove scoperte. Dall'interesse che mi suscitava tutto ciò che di nuovo mi veniva insegnato.

Credo che la spensieratezza di quei tempi fosse conseguenza diretta della mia ingenuità. 
Era come se il mio carattere fosse privo di certe sfumature che, inevitabilmente, si acquistano con le esperienze di una vita.
E non ricordando, ero tornato ad uno stato di innocenza, certo, non totale, ma il mio comportamento era unicamente dettato da dati di fatto che davo per scontati, non da veri e propri avvenimenti.

Qualche mese dopo, tornammo sul luogo dell'incidente. Il terreno era stato ripulito dei corpi. Le macerie erano state portate chissà dove. Rimanevano gli scheletri delle case, il sentiero polveroso che serpeggiava tra di esse. 
Tutto era coperto di bianco, come al solito. Il silenzio era totale.
Quella vista non mi fece alcun effetto.

Poi Felix, mio padre, mi prese per mano e mi condusse in uno spiazzo poco distante.
Un parallelepipedo di marmo, alto quasi tre metri, si stagliava in mezzo alla neve, appena illuminato da un pallido raggio di sole. 
Sotto i nostri piedi, erano seppelliti i corpi di quelli che dovevano essere i miei genitori. Avrei dovuto salutarli, un'ultima volta. Sentivo di doverlo fare.
"Mi dispiace". Rivolsi loro un pensiero. A tutti loro, chiunque fossero.

Ovviamente, non avevo nemmeno un nome. Sett, mi chiamarono. Come il dio del cielo notturno.

Mentre ti raccontavo tutto questo, tenevi lo sguardo basso. I capelli ti cadevano appena sul viso, oscurandoti gli occhi. 
Rimanesti in silenzio per tutto il tempo. Ascoltasti pazientemente ciò che avevo da dire, immobile.

Quando finii, solo allora, alzasti la testa, inclinandola appena verso di me. Le tue iridi blu intrappolavano la luce della luna, riflettendola.
Rimasi qualche attimo in silenzio, a guardarti.

Quella era la prima volta che mi ero deciso a parlarne con qualcuno di mia spontanea volontà. 
Se tu fossi stata una persona qualunque non avrei nemmeno potuto. Mi avevano imposto di non divulgare la maggior parte di quelle informazioni. Ma eri il figlio del Re, forse ne sapevi addirittura più di me.

Solo in quel momento mi accorsi di avere un disperato bisogno di dar voce ai miei pensieri. 
Come una catarsi, ti avevo svelato dei dettagli che non avevo nemmeno mai avuto la lucidità di processare e raccontare.

Forse non era l'occasione e tu non eri la persona giusta per discutere di argomenti così grigi. Dopotutto, eravamo ad una festa, anzi: la tua festa.
Un po' mi pentii di aver dato fiato alla bocca.

"Il massacro di Ateneide". Sussurrasti. Forse tremasti appena. 
Quasi un anno prima, l'esercito nemico dell'Impero aveva attaccato il mio villaggio, Ateneide appunto, senza un apparente motivo, compiendo una carneficina. Da quel giorno, la tensione tra i due popoli era diventata quasi insostenibile.
Si parlava dell'ennesima guerra, l'ultima era stata intrapresa ormai dieci anni prima.

Io annuii.
Sembravi più scosso di quanto mi sarei aspettato.

"Scusa, non so perché ho iniziato a parlarne".

Scuotesti la testa. "Tranquillo, hai fatto bene a sfogarti, devi sentirti molto solo".
Sospirasti. "E poi, prima o poi te l'avrei chiesto io stesso. Mi erano arrivate delle voci, tutti conoscono quel fatto".

Mi guardasti negli occhi, poi le labbra. 
"Sai, non ti immaginavo per niente così".
Io scostai lo sguardo.
"Così come?".
Accennasti un piccolo ghigno.
"Così". Alzasti le spalle.

Quella risposta impertinente suscitò ancora di più la mia curiosità nei tuoi confronti. Anche io non ti avevo immaginato in quel modo. Dicevano di te che eri imperturbabile, serio e un po' altezzoso.

Le mie pupille si soffermarono sulla spada che tenevi al tuo fianco. Già solo l'elsa era bellissima, chissà quando scintillante sarebbe stata la lama.
Anche tu eri un soldato, proprio come i miei genitori.

"Anche te partirai per il fronte, il mese prossimo?" 
Chiesi, distrattamente, deciso a strapparti qualche informazione.

"Si, mi hanno nominato cavaliere alla fine di questa primavera".

"E quando tornerai?"
Tu aggrottasti le sopracciglia e rivolgesti lo sguardo lontano, oltre l'orizzonte.
Ci pensasti qualche secondo. 
"Non lo so". Sussurrasti. "Non so nemmeno se tornerò".
Rimasi in silenzio. Quella risposta mi rattristii.

"Credo sia ora". Ti alzasti in piedi e poi mi porgesti la mano.
"Vogliamo andare? Magari riesco a farti spuntare un sorriso con un un buon calice di vino, dato che ti piace tanto".

Io ti sorrisi genuinamente, accolsi il tuo aiuto e mi tirai su.
"Niente più alcol per me stasera, grazie".

Mentre rientravamo, poggiasti la mano calda sulla mia schiena. La lasciasti scivolare, percorrendo la lunga cicatrice con il pollice. Ti fermasti poco prima della fine della mia spina dorsale.
Un brivido mi percorse il collo.

Ci lasciammo alle spalle la terrazza, la luna, le stelle, e abbracciammo il fragore del ballo che non era ancora giunto al termine.

Per un istante, credetti che quel tocco mi sarebbe mancato. Ma poi, non ci pensai più.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo III ***


I miei partirono dopo dieci giorni. Gli anziani e i veterani di guerra erano stati chiamati prima di tutti gli altri per coordinare e organizzare le operazioni. Insieme a loro era stato mobilitato un numero enorme di diplomatici che, speravano alcuni, sarebbero stati in grado di preventivare lo scoppio della battaglia grazie alle loro trattative con i generali nemici.

Di quei giorni mi ricordo il silenzio. Era come se i suoni rimanessero sospesi nell'aria. Perfino il vento, mentre carezzava i fili d'erba che costeggiavano il sentiero polveroso, non faceva alcun rumore.

Durante l'ultima settimana, il cielo aveva assunto un colore grigiastro, così chiaro da fare male agli occhi. Era sotto quella coltre spessa che la nostra carrozza avanzava, quasi schiacciata dal peso delle nuvole.

Osservavo la campagna attraverso il vetro opaco, i campi coltivati che si allargavano in lontananza, dalle sfumature gialle e arancio. Scorgevo i volti dei contadini piegati sul loro lavoro, le loro chiome fulve, alcune scolorite dal tempo.

Stavamo attraversando i territori del Regno di Ignis, diretti verso il Castello Rosso.

Mi ero lasciato cullare dal dondolio della carrozza e mi ero abbandonato così tanto al tepore dell'interno che avevo iniziato a sentire le palpebre pesanti. Distolsi lo sguardo dal paesaggio campestre e tornai alla realtà.

Arti aveva dormito per quasi tutto il tragitto. Aveva la testa poggiata sulla spalla della sorella, le treccine rosse le ricadevano sul viso tranquillo, cosparso di lentiggini. Sembrava stesse facendo un bel sogno.

Calista non aveva alzato gli occhi dal libro che teneva in grembo nemmeno un secondo. Ancora non mi capacitavo di come riuscisse a stare tutto quel tempo con la testa china, a riempirsi la testa di quelle nozioni incomprensibili. Un giorno, qualche tempo prima, glielo avevo chiesto.

Eravamo insieme a studiare nella grande biblioteca della villa, oltre le immense vetrate tra le librerie che ricoprivano le alte pareti, infuriava un temporale particolarmente violento. Erano ore che cercavo di decifrare gli articolati periodi stampati nero su bianco sul pesante e polveroso tomo di fronte a me.

Lei se ne stava seduta lì davanti, una piuma bianca nella mano, le dita sottili e olivastre sporche d'inchiostro. Di tanto in tanto scriveva qualche appunto su un quadernino e poi continuava a percorrere le pagine con lo sguardo.

Faceva dondolare le gambe sotto il tavolo, si sistemava i capelli, spostando alcune ciocche ribelli e color castagna dietro le orecchie a punta, ogni tanto si mordeva lievemente la pelle delle nocchie. Aveva le guance paffute, ancora da bambina. Gli occhi gialli risplendevano sotto le lunghe ciglia.
"Calista?"

"Mh? Che c'è?"
"Ti piace davvero, leggere?". Le chiesi ad un certo punto. Nonostante sembrasse perfettamente in simbiosi con quell'ambiente, la sua espressione era un misto tra sofferenza e fastidio. Lei alzò le spalle e rilassò le sopracciglia aggrottate, ma non mi degnò di un sguardo.

"In realtà non molto. Mi piace solo scoprire le frasi degne di essere sottolineate". Mi aveva risposto, con una semplicità disarmante. "Ma in questo tipo di libri non trovo nulla di minimamente interessante, purtroppo".

Scossi la testa. Non sarei mai riuscito a capirla fino in fondo. Avrei voluto domandarle il perché, di tutto quell'impegno, di tutte quelle ore, di tutti quegli sforzi. Ma lei era già tornata nel suo mondo ed io dovevo iniziare a concentrarmi sui miei compiti.

Fu proprio in quel momento che qualcuno bussò alla porta. Felix e Rea si fecero strada verso di noi, seguiti da Arti che si trascinava dietro una spada di legno. Si sedettero al nostro tavolo.
"Scusate per il disturbo, ragazzi, ma dobbiamo parlarvi di una cosa, ci è appena arrivata una comunicazione urgente dal Governo Centrale".

Passarono l'ora successiva a spiegarci cosa sarebbe successo da quel momento in poi. 
"Cercheremo di tornare il prima possibile". Aveva concluso il discorso Felix, guardandomi negli occhi. Le ragazze non si mostrarono né sorprese né turbate. Credo fosse perché ormai erano abituate alle continue missioni che allontanavano i genitori da casa, oppure perché, in fondo, nemmeno loro comprendevano cosa realmente stesse succedendo al mondo. Ero il primo a non saperlo.

Tra i tre, io fui quello che rimase più scosso dalle loro parole. Dopotutto, negli ultimi mesi ero stato colui che aveva ricevuto più attenzioni da loro e non avevo mai sperimentato una vera e propria separazione, per ciò che ricordavo, almeno.

Avremmo soggiornato, a tempo indeterminato, nel posto più sicuro che loro conoscessero: la vostra reggia. Era stato tutto organizzato: avremmo avuto una badante, la stessa che si occupava di tua madre, la Regina che, mi avevano detto, fosse malata. 
Così tanto che non si era nemmeno fatta vedere alla tua festa.
Alcuni servitori, i più anziani, coloro che non avrebbero potuto prestare servizio, erano rimasti lì ad occuparsi delle faccende. Inoltre, con noi c'era un accompagnatore.

Io lo avevo conosciuto la mattina stessa. Anche lui era un soldato, a giudicare dall'uniforme che indossava. La divisa indossata innumerevoli volte dai miei. Non lo avevo mai visto prima, né alla villa, né al ballo di tempo fa. Non me ne avevano nemmeno mai parlato, in realtà.

Eppure, doveva essere qualcuno particolarmente vicino alla famiglia perché, all'alba, quando le mie sorelle l'avevano visto in lontananza, in fondo al lungo viale di casa, gli erano corse incontro, con il sorriso sulle labbra. Lui se ne stava con le spalle appoggiate all'enorme cancello di ferro, un sigaro tra le dita, le braccia incrociate, guardava lontano. Appena aveva udito le risate delle bambine, si era voltato verso di loro, ed aveva aperto le braccia.

"Ragazze mie, mi siete mancate!" Aveva sollevato Arti in aria, facendole fare una piroetta. "Pronte per partire? Dai, entrate nella carrozza". Aveva accarezzato la testa di Calista e loro, ubbidienti, avevano fatto come ordinato.

L'uomo si era poi avvicinato a me, sorridendo. 
"Ciao, Sett, felice di conoscerti. Puoi chiamarmi Levi". Mi aveva stretto la mano. "Vi farò compagnia per tutta la vostra permanenza a corte. Per qualsiasi problema, fai riferimento a me".

Gli avevo accennato un sorriso. 
Mi ispirava fiducia, eppure, qualcosa di lui non mi andava giù. Non so perché, ma non mi era molto simpatico.
Poi mi aveva squadrato più attentamente. "Ti vedo più in forma di come mi avevano descritto i tuoi, ne sono contento."

Lo avevo osservato meglio solo nell'ultima ora di viaggio, quando aveva assunto lo stesso sguardo distratto e nostalgico di quella mattina. Doveva avere intorno ai trent'anni. 
Aveva i capelli corvini, lunghi fino oltre gli zigomi. Ogni tanto se li portava indietro con un gesto della mano, mostrando la mandibola appuntita, ma puntualmente gli ricadevano sulla fronte diafana.
Quel gesto era accompagnato dal tintinnio della miriade di bracciali argentati ai suoi polsi.
I suoi occhi erano grandi e neri, appena velati da quella che sembrava malinconia.

E mentre lo guardavo, lui girò il volto nella mia direzione.
"Hai fame?". Mi chiese. Io scostai lo sguardo, un po' imbarazzato dal fatto che mi avesse scoperto a fissarlo. "I domestici mi hanno lasciato del cibo per voi. Vediamo..."
Si mise a frugare dentro una borsa di pelle sul sedile al suo fianco.
"No, non ho fame, grazie". 
"Non fare storie, ti farà bene mettere su qualche chilo".

Sospirai e mi lasciai porgere un fagotto che emanava un buon profumo. 
Levi non aveva tutti torti, nonostante mi fossi ripreso fisicamente, ero di una magrezza che non mi apparteneva. Avrei dovuto iniziare a preoccuparmi di come non farmi girare la testa ogni volta che mi alzavo dal letto.

E mentre mordicchiavo quello che doveva essere del pane ripieno di qualcosa, mi accorsi che eravamo ormai vicini alla meta. Il castello sorgeva in un luogo strategico: un'enorme isola artificiale all'interno di un bacino d'acqua, che non era altro che il cratere di un vulcano spento. Oltre il fossato si sviluppava la città, poi i campi e le case dei contadini, che avevamo ormai superato.

Ancora una volta, il mio corpo vibrò appena quando sfiorai il pensiero di vederti di nuovo. Dopo quella sera, avevo ripensato al nostro incontro quasi ogni notte. Ed ogni volta ricordavo i nostri volti più vicini, il tuo profumo più intenso ed ogni volta mi dimenticavo una parola in più di ciò che ci eravamo raccontati. Tuttavia, non me ne importava più di tanto.

Avevi detto saresti partito dopo un mese. Quanti giorni ancora saresti rimasto al castello? Forse poco meno di venti.
Non si sapeva ancora esattamente quando i più giovani sarebbero stati chiamati alle armi. Se così fosse stato, voleva dire anche che la battaglia era già scoppiata. E quello non era un buon segno.

Eppure, quei pensieri sembravano nulla rispetto all'euforia che provavo all'idea di trascorrere qualche giorno in tua compagnia. All'idea di parlare ancora, in solitudine. All'idea di stare ancora un po' vicini.
All'idea di noi.

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