Anche fragile

di Mahlerlucia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nero ***
Capitolo 2: *** Blu ***
Capitolo 3: *** Verde ***
Capitolo 4: *** Rosso ***
Capitolo 5: *** Giallo ***



Capitolo 1
*** Nero ***



Anime/Manga: Haikyuu!!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Rating: giallo
Avvertimenti: Missing moment, Spoiler!, Tematiche delicate
Personaggi: Bokuto Koutarou, Akaashi Keiji
Pairing: #BokuAka
Tipo di coppia: Shonen-ai

 
 
 
 Nero
 
 
 
Novembre


La telefonata di Bokuto era durata più del solito quella sera. Il ritiro organizzato ad Ōsaka lo aveva obbligato a stare lontano da casa per diverse settimane, in un momento per nulla opportuno per quel che concerneva la sua relazione con Keiji. Non che i due avessero discusso o che si fosse messo di mezzo qualche terzo – o quarto – incomodo, sia chiaro. La questione era ben più delicata, tanto che l’asso dei Black Jackals aveva riconosciuto fin da subito quanto fosse necessario che rimanesse accanto al suo compagno il più possibile.
Per quanto lo stesso giovane editore avesse tentato più volte di dissuaderlo dalle sue continue premure, Kōtarō non ne aveva mai voluto saperne di farsi da parte, permettendogli di tornare alla vita di tutti i giorni come se nulla fosse accaduto. Perché non era così! Non poteva essere così neanche per idea! E questo lo sapevano entrambi.
Un simile episodio non sarebbe dovuto accadere, specie quando si è ancora agli esordi di quella macchina costantemente inceppata che corrisponde al mondo del lavoro.

Nonostante l’infinità di luci artificiali che rivestivano l’immensa area della capitale nipponica, si poteva ancora intravedere qualche piccolo fonte luminosa all’interno del cielo scuro e limpido, infinitamente distante da quel caos fatto di scarso tempo a disposizione e pensieri per nulla produttivi.
Dato che faceva troppo freddo per arrivare a pensare di poter aprire la portafinestra del salotto, Akaashi iniziò a disegnare le rette immaginarie utili a ricongiungere quelle piccole stelle usando direttamente il proprio dito a contatto con la gelida superficie del vetro perfettamente lucidato. Quei piccoli astri gli riportarono alla mente vecchi ricordi legati ad un’adolescenza che lo aveva visto cambiare radicalmente, consentendogli di evolversi in quel giovane che pensava di aver finalmente trovato un obiettivo reale per poter continuare a lottare in una vita che non gli aveva mai concesso un gran numero di soddisfazioni, prima di allora.
Erano passati oltre otto anni dal giorno in cui aveva pigiato sul maniglione della porta antipanico della palestra con l’intento di partecipare al suo primo allenamento con i ragazzi della Fukurōdani; forse erano ancora troppo pochi per arrivare a provarne una nostalgia quanto meno credibile; chissà se, al contrario, rappresentavano un lasso di tempo talmente ampio da non avergli potuto evitare un collasso interiore prevedibile, ma ugualmente ignorato.
C’era però da dire che Kōtarō aveva tentato in tutti i modi di impedirgli di non badare a sé come avrebbe dovuto, ove gli era stato possibile intervenire con la sua presenza e le sue uscite rincuoranti.

Come una stella che attraversa i miei pensieri... da sempre.
Ripensò alla considerazione che inizialmente aveva del suo compagno, a quella forza mai vista che si elevò di fronte ai suoi occhi non appena mise piede in quel luogo di divertimento e passione. Peccato che per incanalare questi due preziosi aggettivi all’interno dei suoi infiniti e dettagliati elenchi tecnico-tattici era dovuto entrare in gioco colui che poi arrivò a “salvarlo” tante di quelle volte da sé stesso da averne praticamente perso il conto.
Poggiò la fronte e l’intero palmo della mano contro il vetro, sospirando di un’inquietudine che ancora non riusciva ad esprimere a parole, come la sua psicoterapeuta lo stava esortando a fare da almeno un mese a quella parte, sempre rispettando i suoi tempi e la sua estrema sensibilità. Quest’ultima si era sempre dimostrata essere un’arma a doppio taglio sin da quando era bambino, sin da quando era costretto ad attraversare lo stesso corridoio del piano superiore da cui suo padre scappava sempre con una certa frenesia, atteso dai suoi superiori a chissà quale irrevocabile meeting d’affari. Giusto il tempo di dire ‘Io vado, ci vediamo stasera’, prima di sparire dentro quella station wagon sulla quale avevano sempre viaggiato non più di tre persone, tra cui lui.

Il telefono abbandonato sul kotatsu emise un paio di bip ravvicinati, segno dell’arrivo di un messaggio o di una mail. Dopo le numerose raccomandazioni che si era già dovuto sorbire da parte di chi sapeva volergli sinceramente bene, Keiji non aveva più né la forza e né la volontà di conversare con nessun altro che avesse in mente di partire dal presupposto di chiedergli come stesse. Non era di certo una domanda alla quale poteva rispondere a cuor leggero; e mentire non rientrava di certo nei suoi piani, oltre che nella sua indole ancor troppo ingenua.
Si trattava di un vocale registrato – guarda caso – da Bokuto. Pochi secondi che forse sarebbe stato meglio evitare, almeno nel marasma emotivo di quel frangente solitario e malinconico.

“Keiji, ricordati che devi prendere le gocce solo se ti senti male, se cominci a pensare a tante cose tutte insieme. L’ha detto la dottoressa, non è vero? Ecco... se esageri ti fanno male e visto che non sono lì non ho la possibilità di aiutarti e sarebbe un disastro! Non andare a letto tardi e non accendere il computer. Ho parlato con Udai che mi ha assicurato che non ti disturberà per nulla che c’entri con il lavoro. Gliel’ho proibito tassativamente (si dice così?), anche se lui mi ha detto che non lo avrebbe fatto per principio. E poi volevo dirti... SI VENGO! Scusa, Tsumu-Tsumu mi sta chiamando per andare a vedere un dvd su cui è stata salvata una partita importante dei nostri prossimi avversari, ma so già che non riuscirò a seguire niente. Cioè... ci proverò. Sì, STO PARLANDO CON AKAASHI! Sì, TE LO SALUTO! Ti saluta Hinata, anche se ti aveva già salutato prima... ma fa niente, ti risaluta. ‘Kaashi... comunque volevo dirti che devi riguardarti, che devi pensare a te e che... beh, che sei speciale. Il più speciale di tutti. Buonanotte!”

Un sorriso più che sincero aveva appena fatto capolino sul viso del destinatario, nonostante l’affiorare spontaneo di quel flebile impeto di gelosia dovuto alla constatazione di non poter essere seduto accanto a lui mentre s’impegnava a monitarare l’attenzione sui pregi e i difetti di quelli che sarebbero stati i suoi imminenti rivali da rettangolo di gioco. Ma doveva pur ammettere che immaginarlo accanto ad Hinata gli aveva donato un certo sollievo, quasi si trattasse di un’anima pura capace di vegliare su quel mentore da cui prendeva spunti e consigli, quasi si trattasse di oro colato e gratuito. Concezione a cui aveva ceduto lui stesso, a suo tempo.
La sua risposta fu semplice, lesta e devota, al pari di una piacevole forma di cortesia. Non prese nemmeno lontanamente in considerazione la possibilità di usare a sua volta un messaggio vocale. Detestava quel tipo di comunicazione, non faceva per lui. Nella sua mente ben più pragmatica aveva sempre avuto maggior senso comporre direttamente il numero di telefono dell’interessato per parlarci in maniera sicuramente più chiara e diretta.

“Grazie Kōtarō. Buonanotte a tutti voi. Buonanotte soprattutto a te.”
 
 
***
 
 
“Papà, mi aiuti a fare questo problema di geometria?”
 
“Non ora Keiji, sto leggendo le ultime notizie finanziarie. Chiedi a tua madre, visto che è del mestiere.”
 

Come è arrivato sin qui questo vecchio libro di matematica?
Keiji aveva deciso di mettere ordine all’interno di quei cassetti della scrivania dentro ai quali non frugava da una vita, se non per riporre velocemente qualche documento che sapeva non gli sarebbe più servito in tempi brevi. Stava cercando un vecchio libro di Nakajima che gli era stato consigliato su una gruppo Facebook dedicato alla letteratura nipponica, ma non riusciva a rintracciarlo in nessun angolo di quell’eccentrico attico che Bokuto aveva deciso di acquistare per poterlo condividere fin da subito con lui. Non fu di certo facile convincere il più giovane a fronte di quelle che sarebbero state le inevitabili conseguenze di una dichiarata convivenza. E difatti si rilevò essere una scelta che lo aveva costretto a rinunciare ad una parte di sé, probabilmente quel frangente meno limpido e – soprattutto – libero di riconoscerci riflesso in uno specchio. La parte più oscura.
Iniziò a sfogliare quelle pagine con fare decisamente poco interessato a comprendere nozioni che aveva già memorizzato anni prima. Il volume della sfera continuava a rimanere un’incognita, a meno che non si trattasse di quella da schiacciare o ricevere lungo un campo di pallavolo, ma questo non lo aveva mai detto a nessuno. Si era limitato a memorizzare formula diretta e relative formule inverse portando comunque a casa i suoi voti sempre superiori ai novanta centesimi.
Ma per quanto potesse impegnarsi, tutti i suoi sforzi mentali non erano mai rientrati tra i principali interessi di quel genitore che viveva quasi esclusivamente per il suo dannato lavoro. Occasionalmente cercava di distrarre la mente dagli indici delle società di cui controllava le azioni con dei passatempi adatti a uomini della sua età e della sua classe sociale; ma questi non avevano mai, o quasi, contemplato un coinvolgimento diretto della moglie e di quel figlioletto dai grandi occhi verdi, probabilmente troppo onesti per meritare le attenzioni di cui necessitavano.
Ricacciò il volume nello stesso cassetto da cui era staro recuperato, nella remota possibilità che un giorno gli sarebbe potuto nuovamente essere utile per continuare a svolgere ripetizioni con le matricole di qualche facoltà scientifica non ancora propriamente convinte della loro scelta. Difatti, prima di trovare occupazione presso la casa editrice aveva cercato di mantenere i propri studi come meglio aveva potuto, in piena autonomia.

Balzò allo sguardo anche il famoso quadernino, quello che non si era ancora deciso a rendere una sorta di diario personale, come la terapeuta gli aveva caldamente consigliato. Perlomeno aveva fatto lo sforzo di acquistarlo on-line, seguendo scrupolosamente le indicazioni della dottoressa per quanto concerneva i colori e l’organizzazione interna. Ma non vi aveva ancora riportato una sola parola che provenisse volutamente da quel groviglio di pensieri che con gli anni non avevano fatto altro che appesantirsi sino a divenire insostenibili.
Sulla prima pagina bianca aveva segnato la data del dieci novembre, ovvero l’ultima volta che era stato in seduta. Poi più nulla, al pari della manifestazione delle sue emozioni. Eppure sapeva bene che palesare il proprio stato d’animo lo avrebbe aiutato a sormontate quello stato di tremenda apatia di cui si era più volte parlato in quell’accogliente studio professionale di Shibuya.
Keiji ricordava la fotografia che ritraeva la donna assieme a una ragazza, una figlia che diceva di non vedere da tempo, senza specificarne le cause se non mediante un sommesso sospiro. Da quel giorno comprese che anche i più impeccabili professionisti nascondono segreti invalicabili all’interno delle loro anime.
Mister Akaashi non era riuscito a portare a compimento neanche questa dovuta missione, ma questo semplicemente perché la sua anima non aveva più niente da dire da molto – troppo! – tempo.

Afferrò una matita sul piano dello scrittoio e d’impulso disegnò una piccola nuvola a racchiudere quella data rimasta in sospeso. Poco più in basso scarabocchiò due piccoli gufi paffutelli e poggiati l’uno all’altro. Non aveva scritto nulla di rilevante ma almeno avrebbe potuto mostrare qualcosa di personale a quella donna che stava cercando uno spiraglio di luce dietro ad un muro d’incertezze alzatosi in maniera esponenziale con lo scorrere degli avvenimenti, specie in quegli ultimi anni di cambiamenti drastici e repentini. Non gli era ancora completamente chiaro se lo facesse semplicemente per dovere, per denaro o se provasse un qualche interesse per la sua vita non ancora sbocciata, nonostante tutto.
La Psicologia era una disciplina che in qualche modo aveva da sempre suscitato il suo vivo interesse, tanto da averlo indotto a considerare un’eventuale iscrizioni alla stessa facoltà universitaria in tempi decisamente non sospetti. Ipotesi poi scartata per un amore talmente grande da essere sempre stato presente nel corso della sua giovane esistenza: la scrittura amatoriale.

Desidero scrivere, ma non riesco a dire nulla sulla mia persona. Come potrò mai realizzare il mio sogno? Ma a qualcuno importa davvero? Sì, sono sicuro che Bokuto-san apprezzerebbe almeno un po’, anche se a stento legge i quotidiani sportivi.
Ma come posso spiegargli che vorrei scrivere proprio a proposito della cosa più bella che sia mai capitata nella mia vita, ovvero di quello che siamo stati e che continuiamo ad essere? Sarebbe d’accordo? O finirei solamente per rovinare tutto, a partire proprio dalla sua strepitosa carriera sportiva? D’altronde... sono nato tra le tradizioni del Paese del Sol Levante e a dimostrazione di ciò... mio padre non mi rivolge la parola da anni. Cosa dovrei mai aspettarmi da tutti quegli occhi pronti a giudicare ancor prima di terminare la lettura? Quanti “Mister Akaashi” esistono in questo mondo parallelo che mi circonda ma che non percepisco?!
Basta, Keiji! Come al solito stai pensando a troppe cose in un unico calderone senza alcuna logica dimostrabile.
Basta!
Mmm… Ma perché Udai-san non chiama più?
Ah, dimenticavo. È stato braccato, lavorativamente parlando.
Lo chiamerò io, domani.

 
***


Fare colazione in solitaria era un’abitudine che Keiji in passato aveva perduto a seguito dell’inizio della felice convivenza con Kōtarō, ma che era stato costretto a ritrovare di nuovo per lui. Difatti era sempre stato convinto che in amore non ci potesse essere prova di “resistenza” più grande dell’astinenza. E non ne aveva mai fatto un discorso prettamente sessuale, ma bensì più totalizzante. La forza da mostrare in quella lussuosa solitudine stava anche nel sopportare le assenze delle risate, del frastuono, dell’ordine involontariamente sfregiato e – per forza di cose – da ripristinare al più presto; il vuoto risiedeva in quelle superfici che brillavano ancor più che nelle pubblicità dei detergenti alla lavanda, in quella cucina che non veniva toccata da diversi giorni, in quel cesto della biancheria che a stento conteneva un paio di magliette che non avevano alcuna fretta di raggiungere la lavatrice.
A discapito di quel frangente estremamente delicato, il giovane editore riusciva ugualmente a tenere sotto controllo ogni singolo dettaglio di quell’appartamento che lo conteneva al pari di un guscio termico, emarginandolo da quelle brutture mondane di cui Tokyo era tronfia, senza esserne nemmeno completamente consapevole.
Il notiziario parlava dell’ennesima petroliera squarciata nel bel mezzo del Golfo del Messico, dei danni incommensurabili che quella macchia nera dal fetore umano avrebbe causato all’intero ecosistema del posto... e non solo. Il discorso virò ancora una volta su un confronto con i disastri nucleari degli ultimi tempi; un biologo di fama internazionale buttò ancora una volta nella mischia la questione legata alla caccia alle balene.
Keiji non era mai stato particolarmente attivo sul fronte delle lotte ambientaliste, ma ogniqualvolta sentiva parlare di caccia gratuita agli animali, lo stomaco gli si contorceva al punto da obbligarlo a trovare rapidamente un palliativo capace di portare la sua mente altrove, a partire dal tasto rosso in cima al telecomando.
Non sono fatto per questo mondo, eppure continuate a mostrarmi tutto quello che cancellerei all’istante.

Decise di dare una chance mattiniera al proprio smartphone, sperando di non trovarci nulla che avrebbe potuto urtare il suo già precario equilibrio emotivo. Un paio di messaggi di sua madre, seguito di altrettante chiamate perse.
Sì, dopo l’ultimo vocale di Bokuto aveva deciso di ammutolire la suoneria, per poi dimenticarsi di riattivarla.

“Keiji, tesoro. Va tutto bene? Sai che quando non rispondi mi preoccupo... da qualcuno devi pur aver preso questo tuo lato ansioso, giusto?! Ecco, se posso rimediare al danno fatto, ti chiederei almeno di richiamarmi dopo la seduta dalla terapeuta. Giusto per sapere come è andata. Lo sai che ti basterebbe chiedermelo e verrei subito da te. Lo sai che sono dalla tua parte anche se non mi credi fino in fondo. Tesoro richiamami per cortesia. Un bacio grande.”

La prima cosa a cui pensò – giusto un attimo prima di essere travolto da un moto di tristezza tale da indurlo ad iniziare a lottare contro lacrime opprimenti già di prima mattina – fu che sua madre credeva che lui “sapesse” troppe cose, senza che nessuno gliele avesse mai inquadrate a dovere. La sua perspicacia e il suo senso del dovere lo avevano da sempre reso infrangibile agli occhi di quei genitori che non avevano mai sollevato il viso per guardarlo direttamente negli occhi. Eppure, aveva lo stesso sguardo di suo padre e gli stessi occhi di quella donna che ora chiedeva perdono, con tutte le remore e la disperazione che aveva in corpo.
Dover accettare un figlio innamorato di un suo coetaneo era stato un processo lungo e travagliato, conclusosi in due maniere diametralmente opposte. Dover accettare che quello stesso – e unico – figlio continuasse a perdersi dentro le sue stesse paure era nettamente intollerabile.
Ma l’affetto che partiva da quel cordone ombelicale reciso oltre vent’anni prima e i tremendi sensi di colpa che andavano man mano moltiplicandosi avevano fatto tornare l’ancor giovane Ayame sui suoi passi, permettendole di ritrovare vivo interesse per quel figlio che in realtà amava più di quanto non avesse mai potuto amato sé stessa.

Alla seconda riflessione si stava già maledicendo per quella capacità di autocontrollo che negli ultimi tempi era andata palesemente a farsi benedire. Non gradiva – o meglio, non tollerava – che sua madre si addossasse la responsabilità di aver dato in pasto al mondo una creatura tanto fragile e spaesata, così fuori controllo da averla indotta all’allontanamento momentaneo. Quel malessere generalizzato che lei aveva racchiuso sotto la banale definizione di “ansia” era stato davvero ereditato geneticamente o era stato acquisito nel corso dello sviluppo, crescendo in un ambiente in cui si riconosceva il ruolo della persona solamente quando questa si prostrava portando con sé dei risultati materiali importanti e tangibili? Rincorrere dei traguardi che avrebbero potuto rendere orgogliosi dei genitori storicamente “assenti” lo aveva reso davvero felice e fiero di sé? Lo aveva aiutato realmente a diventare ciò che desiderava essere? Iscriversi alla facoltà di Medicina avrebbe mai smosso un impeto di orgoglio in più all’interno del gelo del “clan Akaashi”?
Quesiti che lo avevano lentamente portato a quel collasso sul quale tutti si interrogavano, a quel burnout emotivo che non lo aveva più restituito a suoi cari integro come un tempo, sempre se lo era mai stato.
E di questo se ne erano accorti soprattutto Kōtarō e gli amici più stretti. I singhiozzi di Tenma rimbalzavano ancora tra i suoi ricordi come macigni scaraventati a terra da una scossa di magnitudo inestimabile.


 
“È colpa mia Akaashi-san! È colpa di questo stupido lavoro che non ci lascia più vivere!”

 
L’effetto dello Xanax lo aveva indotto ad uno stato di dormiveglia tale da impedirgli di aprire gli occhi e muovere la bocca per rispondere a quell’affermazione in cui non credeva minimamente. Non che non si fidasse delle parole del suo amico sensei, ma non riusciva a tollerare il fatto che si sentisse in colpa per qualcosa che covava dentro da epoche ancestrali, da molto prima che avesse avuto la fortuna di incontrarlo e di approfondire la sua conoscenza.
E come se fosse stato inserito in un inevitabile circolo vizioso fatto di domande private delle loro risposte e stima reciproca mai messa nera su bianco, arrivò a sentirsi l’artefice indiscusso di una sofferenza che, come uno tsunami inarrestabile, avrebbe inesorabilmente colpito tutti coloro che gli sarebbero capitato a tiro.

In ultimo si fermò a lungo a riflettere sulla volontà di Ayame di passare del tempo con lui, con ogni probabilità anche per non dover trascorrere ulteriore tempo in solitudine all’interno di quell’enorme appartamento di cui ricordava ogni suono e odore. Non c’era di certo da stupirsi di fronte alle continue assenze di suo padre.
Keiji non aveva nemmeno un fermo immagine, racchiuso in memoria, che potesse riguardare momenti di dolcezza vissuti dai i suoi genitori. Solo fugaci e forzate condivisioni di spazi domestici e qualche raccomandazione su eventuali faccende da sbragare. Automi di una società che pretendeva solo l’eccellenza.

Decise di risponderle, di rassicurarla; gli balenò per la testa l’idea di tornare da lei quello stesso pomeriggio, ma avrebbe necessitato di ulteriore tempo per accettare l’idea di varcare nuovamente quella soglia dopo tutti quei mesi di privazioni affettive. L’avrebbe sicuramente chiamata, questo glielo doveva. Saperla sola, devastata dagli eventi e consapevole di una realtà matrimoniale così scontata lo abbatteva ancor più del tormento che lo affliggeva per i doveri che aveva lasciato in sospeso in ufficio.
Ho lasciato troppe cose da terminare negli archivi... davvero troppe! Entro la fine di questa settimana tornerò in ufficio, non m’importa del parere della dottoressa. Dopotutto, ho bisogno anch’io di lavorare. Non posso di certo dipendere da Bokuto per il resto della mia vita. 
Non posso pretendere che le persone che amo possano volermi bene in eterno.

Tutto è il contrario di tutto, soprattutto a seguito di quella notifica pop-up che indicava il risveglio della personificazione dell’unica speranza che gli era rimasta.

“Hey, hey, hey! Buongiorno Keiji! Ti auguro una buonissima giornata!”

“Anch’io, Kō.”
 
 
 
 
Tienimi su quando sto per cadere
Tu siediti qui, parlami ancora se non ho parole
Io non te lo chiedo mai
Ma portami al mare, a ballare
Non ti fidare
Sai quando ti dico che va tutto bene così
E perdonami, sono forte, sì
Ma poi sono anche fragile…










 

Angolo dell’autrice


Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno voglia di leggere e recensire questa mia mini-long! :)

Capitolo 1: Nero.
E finalmente ho terminato questo primo capitolo carico di angst psicologico che spero che qualcuno riesca ad apprezzare all’interno di una fan-fiction (io lo adoro, ma ho tutta una serie di ragioni personali per farlo).
Dite che ho spremuto un po’ troppo il mio piccolo Keiji-kun?! Eh, lo so... un po’ lo penso anch’io. Ma questa mini-long sarà incentrata proprio sulla sua “nuova” vita nel post timeskip (avvertimento “Spoiler!” inserito).
L’Headcanon della famiglia poco presente e piuttosto restia nel voler accettare un figlio dichiaratamente innamorato del suo Bokuto-san non si decide a mollarmi neanche a pagarlo e... va bene così, perché per quanto mi dispiaccia far soffrire il mio favorite character, mi piace molto approfondire il tutto in questo senso.
Da quello che si può intuire da questo primo step, Akaashi è stato vittima di un crollo emotivo di cui parlerò meglio nei prossimi capitoli, quando lo ritroveremo a tu per tu con la già citata psicoterapeuta... e non solo.
Al momento l’idea è quella di restare sui 3, massimo 4 capitoli, considerando che il livello d’ispirazione – anche per altri fandom – è molto alto in questo periodo. Scrivendo a braccio, spero di riuscire ad aggiornare settimanalmente.
P.S.: “Mister Akaashi” è chiaramente il padre di Keiji. Ho deciso di non dargli un nome e di farvelo conoscere solamente attraverso i pensieri di Keiji e di Ayame, nome che ho deciso di mantenere ancora una volta per la mamma.
Stay tuned! ;)

Il titolo generale della mini-long riprende quello della nota canzone di Elisa ‘Anche fragile’ (della quale riporto la prima parte della prima strofa al termine del capitolo).
Il testo è scritto in terza persona e al tempo passato.

Grazie a tutti coloro che passeranno di qua! **

Al prossimo capitolo,

Mahlerlucia

 
 
 

 

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Capitolo 2
*** Blu ***


 
Anime/Manga: Haikyuu!!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Rating: giallo
Avvertimenti: Missing moment, Spoiler!, Tematiche delicate
Personaggi: Bokuto Koutarou, Akaashi Keiji
Pairing: #BokuAka
Tipo di coppia: Shonen-ai

 
 
 
 Blu
 
 
 
Qualche settimana prima

 
Lo studio della dottoressa Masaki era situato al primo piano di una ridente palazzina del centro di Shibuya. Un’ottima collocazione considerando la vicinanza alla stazione e l’ampio giardino che impediva al traffico d’interferire più del dovuto nel corso delle sedute.
Keiji ricordava alla perfezione quella sorta di perdita di contatto con la realtà che lo investì la prima volta che varcò la porta a spinta che separava le apparenze della quotidianità dall’adrenalina che avrebbe concesso alle sue emozioni di trovare una via di fuga da ciascuno dei suoi dilemmi esistenziali. L’abitudine allo sport e alle corse contro il tempo non avrebbero dovuto consentire alle sue gambe di tremare a quel modo mentre risaliva i pochi gradini che ancora lo dividevano dal luogo in cui sperava di poter dar vita a un svolta definitiva.
La giovane segretaria aveva richiamato la sua attenzione per confermargli nominativo e orario dell’appuntamento prefissato. Parlò in maniera piuttosto meccanica e ligia, ma riuscì a ponderare il tutto grazie ad un luminoso sorriso con il quale voleva implicitamente incoraggiare le persone che si trovava davanti rispetto a ciò che li attendeva di lì a breve.
 
“Siamo a sua completa disposizione per qualsiasi esigenza.”
 
Ma quali sono davvero le mie esigenze?
Un uomo con un opuscolo alla mano uscì dalla stanza opposta del corridoio. Si rivolse alla giovane dipendente con un sorriso forzato e ammiccante, forse oltre quello che il suo ruolo imponeva in quello specifico contesto. Akaashi non ci mise poi molto a comprendere che altri non era che il neuropsichiatra che lavorava a stretto contatto con colei che sarebbe diventata la sua nuova “ancora di salvezza”, salvo imprevisti a carattere strettamente introspettivo.
Nel momento in cui si accorse della sua presenza, lo psichiatra restò sbigottito. Sembrò quasi che qualcuno lo avesse messo a nudo in una situazione non di certo considerabile come consona al ruolo. Tentò di liquidare rapidamente la questione con un cortese cenno del capo, per poi decidere di dirigersi verso il punto esatto da cui era arrivato, senza nemmeno prendersi la briga di congedarsi educatamente dalla ragazza che lo osservava con fare incredulo.
È tanto ingenua da non comprendere? Per gli dèi... quell’uomo è tale e quale a... ah! Lasciamo perdere. Non voglio proprio pensare a lui in questo momento.
 
“Akaashi... Keiji?”
 
Masaki Umeko, psicoterapeuta sistemico-relazionale, fece il suo trionfale ingresso alle sue spalle, cogliendolo talmente di sorpresa da indurlo al sobbalzo. Non ricordava di essere stato chiamato con tanta ufficialità dai tempi in cui si era ritrovato in completa tensione all’interno di un’altra sala d’aspetto, poco prima di poter svolgere un colloquio lavorativo. 
Keiji si voltò d’impeto, cercando di sostenere lo sguardo severo di quella donna, ma non senza un’evidente fatica. Congiunse le mani all’altezza del ventre e s’inchinò appena, in segno di riconoscenza anticipata. D’altronde, sapeva bene che non sarebbe stato facile per nessuno dover sopportare le paturnie e gli adombramenti di un ragazzo di poco più che vent’anni che, in apparenza, non mostrava nulla di particolarmente diverso dai suoi coetanei.
 
“Buon pomeriggio, dottoressa Masaki. Sono lieto di fare la sua conoscenza.”
 
La terapeuta sorrise dolcemente a quel giovane inviatogli dal medico di base, nonché amico di vecchia data del suo ex marito. Allungò una mano verso quel fisico che accennava a una condizione di lieve sottopeso, con ogni probabilità dovuto al troppo stress di cui gli aveva lungamente parlato il suo collega nel corso di una recente videocall. Le occhiaie evidenti e l’agitazione perpetuata a partire dalla sua improvvisa reazione al suo arrivo furono altri segnali tangibili di un periodo che di certo non rientrava tra i migliori da dover annoverare all’interno della sua ancor giovanissima vita.
Akaashi esitò giusto un paio di secondi, prima di decidersi a ricambiare quel gesto di cortesia messo in atto dalla persona che da lì in avanti gli avrebbe dedicato tempo, conoscenze e attenzione. Del resto, sapeva bene che, seppur in maniera informale, aveva iniziato a tracciare il suo quadro anamnestico ancor prima di aver pronunciato il suo nome. Ogni dettaglio era oro colato per poter comprendere cosa si potesse mai celare dietro le difficoltà e i disagi avvertiti dai pazienti, compreso tutto ciò che poteva essere appreso mediante il linguaggio corporeo, l’espressività e gli inevitabili silenzio di rito.
Il palmo era caldo, accogliente... una forma di contatto umano che non era stato più capace di avvertire da quando Kōtarō era partito per Ōsaka. La stretta fu decisa, ma per nulla invasiva.
Quella donna apparve ancor meno prolissa di quanto non lo fosse già lui, seppur i suoi grandi occhi castani furono in grado di comunicare empatia sin dal primo sguardo. Keiji non sapeva nulla di lei, se non alcune informazioni facilmente reperibili dal web e riguardanti principalmente la formazione accademica e la carriera professionale conseguita negli corso degli anni.
 
La poltrona su cui fu invitato a sedersi non era particolarmente spaziosa, ma lui riuscì  ad occuparne ugualmente meno dalla sua metà. Più che seduto, parve essersi appena appoggiato, tenendo le ginocchia strette e protese in avanti, pronto a scattare in piedi per fuggire via da un momento all’altro. Le mani giunte a loro volta sulle gambe e lo sguardo perennemente rivolto verso punti indefiniti della parete retrostante, non facevano altro che avvalorare ancor di più la prima acerba impressione che la dottoressa Masaki aveva avuto: Keiji avvertiva un disperato bisogno di dar voce a quelle inquietudini che stavano portando la sua insicurezza a livelli che rasentavano la patologia ansiogena. L’attacco di panico di cui i suoi cari erano stati testimoni doveva essere stato solamente l’apice estremo di una lunga serie di disturbi legati all’ansia che lo avevano colpito negli ultimi anni; forse già a partire dalla prima adolescenza.
 
“Signor Akaashi...”
 
Keiji sbarrò gli occhi in una maniera tale da porre un freno al primo quesito della specialista. Nonostante i quasi trent’anni d’esperienza nel campo e i numerosi – e disparati – casi che aveva preso in carico, non aveva mai trovato un sistema universale per potersi approcciare a dovere ai pazienti in fase di assessment, nonostante avesse sempre cercato di soppesare il tutto in base all’età e ai bisogni della persona. La professione imponeva di dare del lei a tutti i maggiorenni, compresi i più giovani. Ma spesso erano proprio questi ultimi a chiedere di essere chiamati tranquillamente per nome, al pari di figli che avevano deciso di lasciare la propria famiglia fuori da quel microcosmo.
La pronuncia era stata impeccabile, per cui non avrebbe potuto appellarsi nemmeno alla mancanza di una vocale come aveva fatto anni prima con un ben più ingenuo Bokuto. Ma non avrebbe mai potuto reggere intere sedute venendo interpellato con quell’appellativo algido e facilmente riconducibile a una delle sue pene più grandi, se non la più atroce in assoluto.
Ripensò istintivamente a tutte le volte in cui era solo in casa, intento a studiare o a rivedere gli schemi di gioco per il giorno seguente, in vista dei successivi avversari da affrontare; capitava che il telefono suonasse senza che ci fosse possibilità di ignorarlo. Nemmeno il tempo di pigiare il tasto verde del cordless che dall’altra parte voci esigenti e frettolose cominciavano a chiedere del “Signor Akaashi”; era costretto a segnare meticolosamente messaggi che avrebbe dovuto riportare al diretto interessato, salvo poi scoprire – sistematicamente – che tutte le questioni erano già state risolte. Suo padre non aveva mai voluto parlare di lavoro in sua presenza, ma senza prendersi mai la briga di dargli uno straccio di motivazione.
 
Preferì non dire nulla, per non urtare la sensibilità di una professionista che stava semplicemente seguendo una prassi o un qualche articolo del proprio codice deontologico. Sì, a tempo perso si sarebbe documentato anche a tal proposito.
 
“... si metta pure a suo agio. Possiamo partire liberamente da quello che preferisce.”
 
Al cospetto di cotanta libertà d’espressione Keiji soleva chiudersi ancor di più in sé stesso, evitando di addentrarsi in territori per lui sconosciuti e, soprattutto, infausti. Ciò che gli era sempre servito per andare avanti dando un senso logico a tutto ciò che lo circondava era l’assoluta necessità di confini oltre i quali difficilmente osava addentrarsi. Ma era perfettamente conscio del fatto che era stato proprio l’eccessivo rispetto per quelle barriere ad avergli causato quel frangente di vuoto assoluto che lo aveva poi obbligato a chiedere aiuto.
 
“Ha avuto difficoltà a raggiungere questo luogo?”
 
La domanda lo sorprese nella sua apparente innocenza, seppur non fosse stata buttata nella mischia senza un evidente motivo di fondo. Con ogni probabilità, dalla sua risposta la terapista avrebbe raccolto un numero sufficiente di dati da poter stilare un provvisorio quadro della situazione, arrivando persino a catalogarlo all’interno di uno di quei codici numerici che rappresentavano i principali disturbi psichici presenti nei manuali clinici
Le mie parole avranno un senso? Il pensiero seguirà un filo logico? E le pause? Il tono utilizzato? Ogni dettaglio verrà squadrato a dovere!
Perché diamine sono venuto sin qui?
 
Dischiuse le labbra nel tentativo di rispondere, ma si limitò a muovere il capo da destra verso sinistra, per poi ripetere il movimento nel senso opposto. La perdita del senso dell’orientamento non rientrava tra i possibili sintomi recidivi dovuti al suo recente exploit emotivo, così come la perdita di concentrazione... per quanto fosse stato costretto al riposo forzato da diverse settimane.
 
“Ho preferito muovermi con i mezzi. Di tanto in tanto le mie mani tremano ancora e... non sarei stato in grado di controllare il volante e tutto il resto.”
 
La terapeuta inclinò leggermente il capo mostrando un sorriso pregno d’insolita tenerezza. Nell’ultimo periodo un buon sessanta percento dei suoi pazienti era costituito da donne di mezza età in crisi coniugale o implicitamente pentite di aver sempre messo la carriera davanti al desiderio di maternità. Tematiche che la toccavano, che inevitabilmente le ricordavano il suo ruolo di donna, madre ed ex moglie. Argomenti che spesso le lasciavano sufficiente spazio per raccontare tutto ciò che avrebbe escogitato lei stessa, se solo avesse avuto quel pizzico di coraggio in più; sì, quello stesso coraggio che in quel momento poteva scorgere nitidamente nelle incantevoli iridi verdi di quel ragazzo piegato da mancanze affettive che, con ogni probabilità, avevano avuto origine molti anni prima all’interno del nucleo familiare d’origine.
Il nido dentro il quale si è costretti a passare dallo stadio larvale a quello di splendida e delicata farfalla non sempre si mostra all’altezza della tempra e del disincanto di chi la popola per una semplice questione di sangue.
 
“Cosa intendi quando dici ‘tutto il resto’? Semplicemente cambio e freno a mano?”
 
“In realtà includerei anche frizione, acceleratore e... freno vero e proprio.”
 
Umeko colse il peso di quella piccola titubanza che si era frapposta tra le due opposte metafore automobilistiche. In un certo qual modo, Akaashi voleva mettere le mani avanti per evitare di toccare fin dalla prima seduta quei punti più dolenti che avrebbero meritato il loro tempo e la loro adeguata e cospicua rielaborazione. D’altra parte, non allontanò dai suoi pensieri terapeutici quel sottile messaggio che il ragazzo le aveva messo sul piatto con un discreto anticipo. Era talmente evidente ciò che la specialista vi aveva appreso, da indurlo a sorvolare circa ulteriori dettagli relativi al breve e insignificante tragitto che aveva percorso per poter giungere a lei.
La mancanza di ulteriori quesiti in tal senso non lo stupì più del dovuto.
Chissà se anche una terapeuta sistemico-relazionale si appella al magico potere del “trasfert” quando conquista da principio la grazia di un nuovo paziente... Mmm, sapevo di dovermi documentare meglio!
 
La mente di Akaashi divagava tra una considerazione silente e l’altra, in attesa che la sua interlocutrice potesse dargli ulteriori input per portare avanti quel reciproco scambio di solitudini che stentava a decollare, principalmente a causa delle sue infrangibili remore.
 
“Allora Keiji, dimmi. Preferisci che ti chiami per nome, non è così?”
 
L’ex setter della Fukurōdani si limitò ad annuire, mostrando una nuova luce all’interno di quegl’occhi che finalmente cominciarono a mostrare quel filtro insindacabile che stava ad indicare quanto fosse arrivato a sentirsi compreso e accolto. Sensazione più unica che rara negli ultimi tempi, specie quando Kōtarō era costretto a lunghe trasferte sportive.
Sollevò il busto in una posizione più corretta e rilassata, arrivando persino a considerare lo schienale della sua poltrona imbottita. Era curioso di sapere se dare del tu a un paziente avrebbe comportato dei problemi, ma decise di non azzardare quella sua ingenuità sino al raggiungimento di un maggior livello di assonanza reciproca.
Inutile negare che le premesse erano state ottime.
 
“Cosa fai di bello nella vita?”
 
Come se non si fosse già adeguatamente informata.
Pensò a come ponderare la risposta senza cadere fin da subito nella trappola del burnout da dover sviscerare a tutti i costi. Già, perché prima di cadere nel precipizio più buio vi era stata una rapida salita che gli aveva addirittura concesso il conseguimento di piccoli traguardi da non sottovalutare.
I primi tre volumi dell’opera su carta di Udai avevano avuto un discreto successo di pubblico, tanto da indurre il loro caporedattore a proseguire a tutto spiano con la pubblicazione di un sequel che doveva essere “assolutamente all’altezza dei primi capitoli”, per citare le sue testuali parole. E fu proprio da quel momento che le scadenze di consegna divennero sempre più irrevocabili e stringenti, portando in pochi mesi entrambe le parti in causa allo sfinimento. Fortunatamente Tenma non era arrivato sino a suoi medesimi estremi. La forza di resistenza sembrava essere stata rodata a dovere nel corso di quei pochi anni di esperienza in più che gli competevano.
 
“So-sono un editore. Edito manga per un amico. Lavoriamo allo stesso progetto da qualche mese.”
 
“A che genere di manga vi state dedicando?”
 
L’utilizzo del verbo alla seconda persona plurale aveva lasciato sottendere a un sagace Keiji che la dottoressa aveva percepito quella nota melensa nel tono della sua voce nell’attimo in cui si riferì al suo collega con il termine “amico”, come se avesse voluto far intendere che i muri delle gerarchie di ruolo erano già stati surclassati da tempo nell’ambiente presso cui lavorava, seppur fosse ancora largamente considerato come uno degli ultimi arrivati.  
 
Horror. Udai-san ama il genere, per quanto stia già pensando ad un futuro dedicato agli Spokon.”
 
“Quale dei due generi prediligi?”
 
Spokon, senza ombra di dubbio.”
 
La terapeuta marcò velocemente qualcosa sul suo taccuino, per poi riporlo sul bracciolo della sua poltrona, senza minimamente curarsi di richiuderlo. Forse la scelta non era stata completamente dettata dal caso.
Tornò a cercare l’attenzione nello sguardo di quel giovanissimo editore che le era parso molto più vigile e loquace rispetto a quanto avesse inizialmente ipotizzato, specie dopo il resoconto del suo medico di fiducia. Non era così semplice riprendersi da un attacco di panico, ma fare buon viso a cattivo gioco all’interno dello spazio vitale di una strizzacervelli non era di certo impresa da poco, specie nel pieno di una ripesa che si prospettava tutt’altro che rapida; come d’altronde era giusto che fosse.
 
“Pratichi sport?”
 
“Al momento no. Fino a qualche mese fa riuscivo ad andare di tanto in tanto in palestra ma... beh, ecco... quando frequentavo il liceo giocavo a pallavolo.”
 
Il piccolo bloc-notes fu preso ancora una volta in considerazione al fine di spuntare distrattamente un paio di voci. Il viso della donna assunse un’espressione maggiormente concentrata e coinvolta verso tutto ciò che quel ragazzo stava riportando alla luce direttamente dal suo animo ferito. L’agonismo, dunque, aveva avuto le sue remote basi anche in ambito sociale ed educativo, il ché rendeva il fardello da trattenere dentro al cuore ancor più insolente.
 
“E dimmi...  ti piaceva giocare a pallavolo?”
 
Domanda più complessa non poteva essergli rivolta. Se gli piaceva giocare a pallavolo? Lui adora la pallavolo dal momento esatto in cui Bokuto gli aveva palesato apertamente la sua visione di quel meraviglioso sport che sino ad allora aveva potuto considerare solamente dal punto di vista tattico; o, tutt’al più, al pari di un diversivo per poter passare qualche ora in più lontano dal costante clima teso che si respirava all’interno della sua famiglia.
Ma come avrebbe mai potuto spiegarle che per lui la pallavolo esisteva solo se poteva condividere tutte le emozioni che ne derivavano assieme a Bokuto? In che modo avrebbe potuto raccontargli di quell’ultimo anno vissuto da solitario protagonista assoluto senza rischiare di cadere nello sconforto più totale?
Sarebbe risultato praticamente impossibile.
 
“Ho sempre amato la pallavolo.”
 
Non ebbe la forza di alzare lo sguardo per incrociare gli occhi attenti di colei che, senza ombra di dubbio, vi aveva già scorto un alone di generalizzazione dietro al quale avrebbe voluto al più presto tagliare il discorso.
Ma fu subito chiaro che non era propriamente la pallavolo l’oggetto del suo amore profondo. Beninteso, sotto quella dichiarazione di facciata vi era un involucro che aveva impiegato anni per potersi aprire, per poter dispiegare le proprie ragioni in un contesto socio-culturale che sicuramente restava ancora saldamente ancorato a usanze centenarie e a desideri patriarcali che non avrebbero previsto altro che la designazione di futuri eredi a cui lasciare un cognome ritenuto più o meno prestigioso.
 Keiji trattenne un lembo dei suoi pantaloni scuri, cercando di non dare a vedere quell’attimo di nervosismo con il quale cercava di defilare le proprio “menzogne”. Certo, definirle in questa maniera poteva sembrare alquanto esagerato; ma sapeva bene di non poter uscire da quella stanza come se nulla fosse accaduto se non prima di chiarire per filo e per segno quello che si celava dietro l’amore provato per uno sport diverso da tutti gli altri.
 
La dottoressa Masaki avviò la sua personale indagine emotiva cercando di sondare il terreno nella maniera più efficacie e soave possibile. Un passo più lungo della gamba in ambito conoscitivo poteva comportare in men che non si dica la perdita di quel legame empatico che poteva già essersi instaurato con il paziente.
E questo sembrava essere proprio il caso.
 
“Vogliamo iniziare parlando proprio di questo?”
 
 
***
 
 
Novembre
 
 
“Sono sicura che sai alla perfezione cosa sto per domandarti...”

Il giovane editore si accomodò sulla sua scomoda poltrona per l’ennesima seduta, seppur doveva ammettere che riusciva a muoversi in quell’ambiente clinico con maggior disinvoltura. Sistemò il suo piccolo zaino nero sulle ginocchia e lo aprì. Consegnò il quadernino direttamente nelle mani della terapeuta, lasciandola libera di constatare che qualche insignificante scarabocchio era comunque stato realizzato.
La sensazione di averla fatta franca non gli stava dando tregua dalla sera precedente, facendolo sentire al pari di uno studente che per la prima volta nel corso della sua intera carriera scolastica osava presentarsi al cospetto dell’insegnante più esigente senza aver nemmeno aperto il libro. La situazione era stata ulteriormente aggravata da una consapevolezza che avrebbe potuto far drizzare i capelli persino ad un’anima distratta come quella di Ayame.

Umeko mise da parte il suo taccuino per dedicarsi all’analisi di ciò che pensava di poter finalmente leggere su quelle pagine dall’aria ancora piuttosto adolescenziale. L’agenda lavorativa che spesso condivideva con Udai era decisamente più professionale, ma le motivazioni non avrebbero retto la questione.
Aggrottò appena la fronte nel momento stesso in cui i suoi occhi caddero sui quei due piccoli gufi uniti al punto tale da dare l’immediata impressione di non poter assolutamente fare a meno l’uno dell’altro. Sorrise appena, sfogliando le ancor intonse pagine successive. Non si stupì affatto quando arrivò a constatare che non era stato aggiunto altro, se non un ghirigoro dall’aspetto nebuloso a circondare la data della precedente seduta.
Akaashi Keiji stava chiedendo a modo suo – e insistentemente! – di essere accudito e sostenuto, contenuto e accolto, come probabilmente non lo era mai stato prima d’incontrare il suo attuale compagno. Attuale e unico.

“Questo disegno rappresenta il tuo amore per la pallavolo?”

Il ragazzo alzò il capo e sorrise. Annuì con fare deciso prima di sollevare il busto sino ad arrivare allo schienale.
Doveva pur mettersi a suo agio se l’intenzione era davvero quella di aprire ancora un pezzettino del suo cuore in favore di quella donna di cui aveva imparato piano piano a fidarsi.
O meglio, a favore totalmente suo. 
 
 
 
 
… Non serve a niente di particolare
Solo tornare a pensare che tutto è bello e speciale
Non si dice mai, ma voglio impegnarmi
Salvare un pezzo di cuore
Io non vivo senza sogni e tu sai che è così
E perdonami se sono forte, sì
E se poi sono anche fragile...










 

Angolo dell’autrice


Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno voglia di leggere e recensire questa mia mini-long! :)

Capitolo 2: Blu.
Questo capitolo è diviso in due parti distinte dai soliti asterischi.
Nella prima parte abbiamo un lungo flashback che ci riporta al primo incontro in seduta che Akaashi fece con la dott.ssa Masaki Umeko, psicologa e psicoterapeuta (che sono due cose diverse!). Mi sono soffermata molto sui dettagli e sulle sensazioni dei due protagonisti, cercando di mettere sul piatto entrambi i punti di vista per avere un quadro più completo della situazione.
Nella seconda parte torniamo a seguire la sequenza temporale che avevamo lasciato in sospeso al termine del precedente capitolo, ritrovandoci ancora una volta nello studio professionale della dott.ssa Masaki, con un pizzico di “fiducia” in più.
Ho volutamente deciso di usare due font diversi (ma non troppo) per differenziare le due parti.
Chiedo venia per l’utilizzo un po’ troppo “tecnico” di alcuni termini a carattere psicologico, ma essendo del mestiere forse mi sono fatta prendere un po’ la mano. E onestamente... non me ne pento! ;)

Ne approfitto per ricordavi che il 5 dicembre sarà il compleanno di Keiji-kun! **
Potrei tornare con una flashina o una breve one-shot a parte per l’occasione (tempo permettendo)!

Il titolo generale della mini-long riprende quello della nota canzone di Elisa ‘Anche fragile’ (della quale riporto la seconda parte della prima strofa al termine del capitolo).
Il testo è scritto in terza persona e al tempo passato.

Grazie a tutti coloro che passeranno di qua!

Al prossimo capitolo,

Mahlerlucia



 
 
 

 
 

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Capitolo 3
*** Verde ***



Anime/Manga: Haikyuu!!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Rating: giallo
Avvertimenti: Missing moment, Spoiler!, Tematiche delicate
Personaggi: Bokuto Koutarou, Akaashi Keiji
Pairing: #BokuAka
Tipo di coppia: Shonen-ai

 
 
 
 Verde
 
 
 
Novembre

 
Il telefono aveva squillato a vuoto almeno per una decina di volte prima che Keiji si decidesse a dargli tregua. Gli ingombranti vissuti emotivi tornati a galla nel corso della seduta con la dottoressa Masaki gli avevano fatto accantonare provvisoriamente quelle che erano le più elementari questioni logistiche legate alla vita di sua madre, come ad esempio, l’orario in cui si sarebbe finalmente liberata dalle proprie incombenze lavorative. Supportare gli insegnanti da un punto di vista formativo non era mai stato compito semplice nemmeno per una donna precisa e puntuale com’era sempre stata e spesso i meeting e le nuove iniziative educative che insorgevano o che – nella maggior parte dei casi – lei stessa proponeva, la costringevano a tornare a casa non prima dell’orario di cena.
Il giovane editore non aveva il benché minimo dubbio sul fatto che sarebbe stato richiamato quanto prima, visto il forte interesse che la sua genitrice aveva mostrato per l’esito dellìincontro odierno con la psicoterapeuta. Decise d’ingannare l’attesa preparandosi un bagno caldo, per poi trovarsi a soffiar via la schiuma creatasi come non gli capitava più di fare da quando aveva circa nove o dieci anni. Cercò di non pensare a nulla che potesse ingarbugliare i suoi pensieri più di quanto non lo fossero già abitualmente, ma gli attori che calcavano – o che aveva calcato in passato – il palcoscenico della sua vita non si decidevano a dargli respiro nemmeno in quel frangente.
Devo chiamare Kōtarō... il prima possibile. E domani penserò anche a Udai-san, considerando tutto il tempo che gli sto facendo perdere a causa delle mie paturnie.

Ayame non gli lasciò il tempo di asciugarsi adeguatamente quei capelli divenuti oramai troppo lunghi per non pensare a una prossima visita al suo parrucchiere di fiducia. Keiji sistemò rapidamente l’asciugamano che teneva tra le mani a mo’ di turbante e si affrettò a recuperare il suo smartphone lasciato appositamente nei pressi della presa elettrica posta affianco al divano affinché si ricaricasse. Per scrupolo diede un’occhiata al nome comparso sul display, ma non poteva sbagliarsi. Un sommesso sospiro lo aiutò infine a trovare le forze necessarie per sostenere quella nuova raffica di domande che sarebbe stata avviata non appena si fosse preso la briga di far scorrere il dito sull’icona a forma di cornetta verde.

“Ciao mamma.”

“Keiji, tesoro. Scusami se non sono riuscita a risponderti poco fa, ma il consiglio d’istituto è durato un po’ più del previsto a causa dell’arrivo del nuovo dirigente scolastico. Avrei dovuto avvertirti almeno con un messaggio, ma tra una faccenda da sbrigare e l’altra, mi sono davvero dimenticata. Perdonami!”

Akaashi sapeva che dietro a ciascuna di quelle scuse che proferiva sua madre negli ultimi tempi vi era il sincero desiderio di essere assolta da tutti gli errori commessi nel passato, specie quelli dovuti ad una condivisione fittizia di idee con un marito che non le aveva mai lasciato spazi aperti e utili alla sua stessa espressione di pensiero. Era finita per diventare doppiamente vittima di sé stessa, trascinando con sé quell’unico figlio che gli dèi le avevano concesso e che le chiedeva solamente di essere compreso. Chiedere supporto vero e proprio gli era da sempre sembrato fin troppo, dato che non si trattava di uno degli alunni o dei docenti che seguiva abitualmente per professione.

“Non ti preoccupare. Spero che questo nuovo dirigente accolga con un po’ più di entusiasmo i tuoi progetti.”

Ayame non riuscì a proferire parola per un breve lasso di tempo che all’altro capo del telefono apparve quasi infinito. Com’era possibile che dopo tutta l’indifferenza che aveva riversato nei suoi confronti, Keiji avesse ancora voglia di supportare le sue sciocchezze lavorative? Con quale forza di volontà riusciva a esplicitare quell’amore profondo che aveva sempre provato per lei, nonostante tutto, nonostante il suo pessimo esempio di madre?
Una lacrima silenziosa le rotolò dispettosamente lungo la guancia arrossata, per quanto avesse cercato altrettanto di soppiatto di non farsene sopraffare. Fortunatamente non erano in video-call per cui poteva ancora concedersi il lusso di maledirsi senza evitare ci corrucciare la fronte mentre digrignava i denti.

“Grazie tesoro, lo spero tanto anch’io. Ad ogni modo... co-come è andata con la dottoressa Masaki?”

Sapeva di essersi tradita, di aver lasciato trapelare quella voce rotta da un singhiozzo capace di sorprendere quel ragazzo che a sua volta non sapeva ancora come muoversi all’interno di quell’intricato sistema di relazioni in cui era capitato da quando era venuto al mondo. In fin dei conti, Akaashi stava cercando di rimediare proprio con la persona con cui aveva instaurato il suo primo attaccamento vitale, con colei che aveva provveduto alla sua sopravvivenza e sussistenza per diversi anni, fino al momento in cui non decise tacitamente che fosse giunto per lui il momento di cominciare a camminare per il mondo con la forza delle sue sole gambe.
L’essere così simili l’una all’altro non aveva fatto altro che innalzare quella barriera d’incomunicabilità che si era creata tra loro nel corso della sua prima adolescenza, sino ad arrivare all’inesorabile scoperta del suo amore sconfinato per una persona del suo stesso sesso.

“Abbastanza bene. È stata una seduta piuttosto produttiva.”

Keiji sapeva di non aver mai perso il vezzo di esprimersi in termini di utilità e profitto personale anche nei momenti in cui si ritrovava a toccare parametri puramente emotivi, come in quel caso. Tentò di esplicitare con maggior logica e rigore quell’affermazione che poteva far intendere tutto e niente. Per quanto cercasse di mantenere la dovuta lucidità in un frangente di palese rottura interiore, le lacrime di sua madre stavano inesorabilmente iniziando a straziargli l’anima. Non che nel suo stato di profonda vulnerabilità ci volesse poi molto, ben inteso.

“Sai... ha detto una cosa che mi ha colpito molto.”


Posso chiederti di cosa si tratta o c’è di mezzo il famoso segreto professionale?”

L’editore sorrise, pensando a quante cose avessero in comune sua madre e Bokuto, le due persone per lui più importanti al mondo. Non faticava a immaginare l’ace intento a porgergli la stessa domanda con toni simili, con il rischio di doversi poi fermare a spiegargli per filo e per segno cosa fosse “il segreto professionale” per chi esercita un lavoro in ambito medico o giuridico.
Senza contare quanto fosse palese che in quel contesto quel termine fosse stato utilizzato con l’accezione di mero scudo protettivo dall’invadenza di un’ansia che avrebbe potuto impedirle di chiedergli se provasse ancora un minimo di fiducia nei suoi riguardi.

“Non ci dovrebbe mai essere alcun segreto professionale tra una madre e suo figlio, non credi?”

“Hai ragione, Keiji.”

Avrebbe voluto fargli sapere quanto si sentiva piccola e impotente di fronte all’immensità dei sentimenti che trapelavano dalle sue parole. Avrebbe voluto lasciar intendere a quell’unico figlio che continuava ad amare più di quanto non avesse mai fatto con sé stessa che non avrebbe mai potuto reggere il confronto con la maturità che stava mostrando nei suoi riguardi, andando oltre a tutte le ferite e gli strascichi di un passato talmente recente da fare ancora terribilmente male.
Lo lasciò libero di formulare le sue informazioni personali, di decidere cosa rivelare e cosa mantenere celato nelle infinite segrete del suo giovane cuore, di quale filtro usufruire per non lasciarsi sfuggire quei particolari che sarebbero stati per sempre unicamente suoi. Perché Ayame sapeva bene che il suo bambino – divenuto ormai uomo – ne aveva sempre avuti a bizzeffe, allo scopo di rifugiarvisi in caso di estremo soffocamento emotivo.

“La dottoressa mi ha chiesto di pensare a un’attività che mi rendeva felice da piccolo. Ho pensato al disegno, ma le ho specificato che non sono mai stato particolarmente portato.”

Ayame ricordava perfettamente in quale cantuccio di quell’enorme appartamento – nel quale viveva praticamente in solitudine – avesse conservato tutte le piccole opere d’arte che Keiji aveva realizzato, specie nel periodo compreso tra la scuola dell’infanzia e i primi anni della scuola primaria. Erano tentativi di un certo livello per quanto potessero essere usciti dalla mano di un bambino tanto piccolo e inesperto. Di tanto in tanto si concedeva il lusso di mostrarne qualcuno agli alunni con disabilità di cui si occupava a scuola, senza mai specificare più del dovuto quanto quelle linee e quei colori impressi su carta rappresentassero ben più di quello che chiunque altro avrebbe potuto vederci.
Il suo bambino aveva un discreto talento, specie per quanto riguardava la rappresentazione di animali e personaggi di fantasia. E non era di certo un mistero per lei immaginarlo ancora attivo con una matita alla mano ogniqualvolta riceveva le bozze del suo collega mangaka.

“Non puoi saperlo, visto che non hai mai approfondito la cosa. Ma potrei anche sbagliarmi su questo,visto che attualmente ti stai occupando di seguire una persona che si occupa di storie illustrate.”

“Sì, Udai-san. Lui sì che è un vero portento in tal senso.”

“E tu... tu cosa vorresti realizzare oltre a questo?”

Keiji strabuzzò gli occhi, sinceramente colpito da quella domanda che se solo fosse arrivata con qualche anno di anticipo sarebbe stata in grado di alleggerire determinate dinamiche familiari che, al contrario, finirono per dirigersi verso sentieri avversi per tutte le parti in causa; compreso il perennemente assente “Mister-Akaashi”.
Prese fiato per non crollare di fronte alla reazione approssimativa di una madre che con ogni probabilità puntava a qualcosa di più concreto per suo figlio, soprattutto dal punto di vista lavorativo. La costanza e l’impegno mostrati da sempre nello studio e nei propri interessi personali non le avevano mai mentito a tal proposito.

“Vorrei scrivere un libro.”

“Solo uno?”

Eh no, calma! Prima decidi di prendere il posto della psicoterapeuta con le tue domande a trabocchetto e adesso arrivi persino a controbattere a un mio remoto desiderio usando le stesse parole di Kōtarō?! Si può sapere che ti è successo, mamma?

“Partiamo da una base. In futuro... beh, mai dire mai!”

“Mi piace questo tuo spirito legato al concetto di futuro. Il percorso terapeutico sta sorbendo i suoi effetti positivi e non sai quanto mi renda felice ed orgogliosa tutto ciò.”

Orgogliosa.
Un aggettivo che non era mai stato usato nei suoi riguardi nemmeno a seguito delle numerose volte in cui si ritrovava a tornare da scuola con voti più che buoni, per non dire praticamente eccellenti. Gli insegnanti avevano da sempre manifestato sostegno per il talento e l’intelligenza di un ragazzino che però, spesso e non troppo volentieri, si mostrava esageratamente taciturno e chiuso in un mondo interiore fatto di fantasia e passioni prive di alcuna condivisione. Per quanto alludessero a qualche consiglio per aiutarlo ad uscire da quel piccolo guscio immaginario dentro il quale tendeva a isolarsi, non erano mai riusciti a smuovere reali intenzioni di supporto per quel piccolino che, in fin dei conti, non aveva mai creato problemi a nessuno, se non a sé stesso.

“Se mi dai il tempo di fare un paio di commissioni vengo a cena a casa tua. Mi hai detto che il ritiro della squadra di Bokuto durerà ancora qualche giorno. Tuo padre, come al solito, è all’estero per lavoro...”

Si tacque volontariamente.
Citare indirettamente l’uomo che aveva causato loro così tanto dolore aveva inevitabilmente riaperto uno squarcio che tendeva ad aumentare le proprie dimensioni a mano a mano che passavano i mesi e gli anni.
Citare Bokuto, di contro, aveva riscaldato il cuore di entrambi, nonostante la nostalgia impedisse a Keiji di pensare alla stella dei Black Jackals in maniera del tutto serena. Difatti, c’erano delle questioni da dover regolare anche con il compagno, seppur non erano da considerarsi particolarmente gravose, specie se paragonate con tutto ciò che aveva lasciato in sospeso con l’intero “clan Akaashi”.
Oltretutto, realizzare che sua madre fosse attenta ai rari momenti in cui citava il suo compagno durante le loro conversazioni aveva senza alcun dubbio riacceso le speranze di poter rendere quel rapporto madre-figlio ancor più saldo di quanto già non lo stessero spontaneamente rendendo.
Aveva ben chiaro che sua madre era finalmente stata in grado di andare ben oltre la fase di “accettazione” per quanto concerneva Kōtarō e la relazione che quest’ultimo aveva intrapreso anni prima con suo figlio. Per quanto il contesto in cui vivevano fosse ancora piuttosto restio a fronte di relazioni di questo tipo, Ayame aveva deciso di agire seguendo solamente il suo istinto materno, arrivando persino a rinfacciare più volte a suo marito quanto fosse stato ingiusto ad allontanarsi a quel modo, trascinandola in quel baratro senza fine.

Keiji non fremeva all’idea di passare la serata assieme a sua madre, per quanto quest’amara sensazione lo facesse sentire piuttosto in debito dinnanzi alla sua semplice richiesta di compagnia e confronto. Ne aveva parlato con la terapeuta, la quale lo aveva confortato cercando di fargli comprendere che le sue reazioni nei riguardi della sua famiglia non erano “anomale” come lui stesso le aveva più volte definite in fase di seduta, tutt’altro. A seguito di quelli che erano stati i suoi trascorsi fatti di pregiudizi e solitudine malcelata, stava solo cercando di difendere le sue scelte a fronte del timore della perdita di quello che era riuscito a costruire sino a quel momento con le sue sole forze, a partire dal suo lavoro, sino ad arrivare alla sua relazione con Bokuto.
Non avrebbe mai avuto la faccia tosta di rifiutare la sua offerta, per quanto avesse tutte le ragioni per poterlo fare. Una volta spazzata via la polvere di superficie, serviva pulire a fondo le ultime macchie d’incomprensione che s’insinuavano tra i loro sentimenti, tra quella miriade di remore che ancora non permettevano loro di potersi abbracciare come una qualunque madre avrebbe tranquillamente fatto con il proprio figlio, qualunque percorso avesse mai deciso d’intraprendere nella sua ancor acerba e sprovveduta esistenza.
E senza dover per forza incorrere in questi flussi cognitivi che spesso lo portavano solamente a dolenti capogiri e lacrime che segnalavano quanto si sentisse nuovamente vittima di sé stesso, gli sarebbe stato sufficiente ricordare quanto fosse speciale la cucina di Ayame, ancor di più quando si dedicava alla preparazione meticolosa dei suoi “onigiri-tutti-i-gusti”, come aveva imparato a ribattezzarli quando Keiji non aveva più di tre o quattro anni e aveva già preso il piacevole vizio di gustarseli a tutte le ore del giorno.
 
 
“Se posso permettermi di darti un consiglio,  cogli sempre il lato positivo rispetto a tutto ciò che hanno da offrirti le persone che ti circondano, anche il dettaglio che di primo acchito può apparirti  come il più insignificante tra tutti.”

“Dovrei dare per scontato che ogni persona con cui ho avuto o con cui avrò a che fare possa mostrarmi il suo lato più gradevole... a prescindere?”

“Certo. Questo accade soprattutto con coloro che più di altri hanno segnato la nostra vita. Pensaci... se non fossero così importanti per noi non impiegheremmo gran parte del nostro tempo a rimuginare sulle loro parole e sui loro agiti, anche a discapito della nostra stessa volontà.”

“Immagino che la mia famiglia rientri appieno in questo discorso.”

“Keiji, i genitori sono il primo punto di riferimento per ognuno di noi. Sono in cima alla nostra personalissima lista anche quando siamo fermamente convinti del contrario. Anzi, è proprio così: quanto più ci impunteremo su questa posizione, tanto più finiremo per dimostrare l’esatto contrario. Si cerca solo un modo per rifuggire da ciò che fa più male ai nostri cuori, pur sapendo inconsciamente che quel male è direttamente proporzionale al bene che rivolgiamo proprio a quelle stesse persone. Forse il discorso è un po’ complesso ma-”

“No, non si preoccupi. È chiarissimo. Non poteva spiegarlo meglio e la ringrazio.”
 
 
Le parole di Umeko gli tornarono alla mente come un boomerang richiamato dalla situazione di partenza in cui era finito senza averlo mai programmato, come suo solito. D’altronde non aveva programmato nemmeno il suo amore fuori controllo per quello stravagante ragazzo dai capelli sale e pepe. Nonostante questo, non aveva potuto fare a meno di accoglierlo e coltivarlo, fino a scoprire che quel sentimento era felicemente ricambiato, e persino da tempi per nulla sospetti.

“Keiji, tesoro. Sei ancora in linea?”

“Eh!? Sì mamma, scusami. Va benissimo, ci vediamo dopo.”

Riattaccò così repentinamente da non poterle consentire una dovuta replica, o perlomeno un saluto ben più cospicuo. Del resto, non erano così necessari come Ayame avrebbe potuto ipotizzare, visto e considerato quanto fosse lieta del fatto che il suo Keiji le avesse concesso la possibilità di passare la serata assieme. Evento più unico che raro, dato le vicissitudini più o meno amare in cui erano rispettivamente incappati negli ultimi tempi.

Tornò a dedicarsi nuovamente ai propri capelli rimasti umidi, soffermandosi sulla sua immagine riflessa allo specchio come non capitava da tempo. Sorvolando su quelle fastidiose occhiaie che non si decidevano a riconsegnargli il candore dei suoi vent’anni, aveva realizzato la particolarità di un dettaglio che fino ad allora gli era parso talmente utopico da non prenderlo più in considerazione. Sprovvisto di occhiali, strizzò le palpebre per mettere a fuoco la parte inferiore del suo viso, in modo tale da essere sicuro di non essersi semplicemente lasciato bleffare da un eccesso di positività imprevisto.
No, non aveva più alcun dubbio al riguardo: stava sorridendo e persino in maniera del tutto sincera. Non un sorriso appariscente capace di mettere in mostra i suoi denti bianchi al pari della reclame di un dentifricio di ultima generazione; non un ghigno forzato che avrebbe avuto l’unico scopo di celare un pensiero “impuro” o l’ironica rassegnazione di fronte alla scoperta di una nuova briciola di quell’ignota realtà che lo circondava; bensì un flebile accenno di sollievo mostrato dal sollevamento di entrambi gli angoli della bocca, da un leggero arrossamento del viso e da una nuova luce negli occhi: il bagliore vivo della speranza.

 
***


Ayame arrivò con oltre un quarto d’ora d’anticipo, senza che nessuno si stupisse più del dovuto. Salutò affettuosamente Keiji come non capitava da quando ancora poteva concedersi il privilegio di aspettarlo al cancello della scuola elementare, osservandolo col cuore ricolmo di gioia mentre le correva incontro distinguendosi dal marasma di bambini festosi per l’ennesima giornata di fatiche giunta finalmente al suo termine.
Si addentrò nella modesta cucina dall’aspetto immacolato, segnale del suo sempre più scarso utilizzo. Sistemò tutto quello che era riuscita a recuperare al konbini situato nei pressi della scuola presso cui lavorava e aprì le porte al suo desiderio di cucinare finalmente per ben due persone.
Akaashi tentò di avvicinarsi in un paio di occasioni allo scopo di darle una mano, ma Ayame gli intimò di restare in salotto a rilassarsi: avrebbe provveduto lei stessa a ogni minuzia necessaria.
Ramen, miso e onigiri di ogni specie fecero la loro rapida traversata dal piano della cucina alla tavola, catturando rapidamente l’attenzione di Keiji che non per nulla avvertiva un discreto languore.

“Ma non ti dovevi disturbare in questo modo. Hai praticamente preparato la cena per l’intero vicinato!”

“Oh, ma sentilo! Quello che con ogni probabilità non consumerà un pasto decente da quando qualcuno è partito. Guarda che lo so bene cosa significa e non credo che sia sbagliato cogliere l’occasione per riempirci la pancia un po’ più del dovuto, non credi? Sei dimagrito a vista d’occhio, tesoro... e non ne avevi di certo bisogno.”

“Anche tu, mamma.”

“Anche io... cosa?”

“Ecco... forse non è carino che io faccia un’osservazione del genere, ma... hai perso parecchio peso.”

La donna non arrestò il suo andirivieni dalla cucina alla sala da pranzo, per quanto le parole appena venute a galla per bocca di quel suo unico figlio l’avessero toccata nel profondo. Non era di certo la prima persona che le faceva presente di aver notato un cambiamento tanto delicato da dover essere spiegato a parole, ma le colleghe non avevano di certo la stessa rilevanza affettiva di un suo stesso pezzo di cuore. Anche per questa ragione aveva preso la saggia decisione di dedicare la serata alla cura e all’attenzione di ciò che aveva lasciato da parte per troppo tempo, compresa sé stessa.

“Troppo lavoro fa male a tutti, Keiji.”

“Hai ragione. Siamo simili anche in questo.”

Sì, hai ragione mamma.
Ci somigliamo parecchio anche quando utilizziamo espedienti banali come lo stress lavorativo per celare quello che realmente ci rende così vulnerabili; quella parte delle nostre anime che abbiamo lasciato in mani sbagliate per troppo tempo, finendo sempre per crederci per davvero.
 
 

 
… Vieni qui
Ma portati gli occhi e il cuore
Io ti porto un gelato che non puoi mangiare
E piangiamo insieme che non piangi mai, mai
E non nasconderti con le battute, non mi allontanare
Invece dimmi cosa ti andrebbe di fare
E ridiamo insieme che ridiamo sempre, sempre, sempre
Ma non basta mai, mai...










 

Angolo dell’autrice


Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno voglia di leggere e recensire questa mia mini-long! :)

Capitolo 3: Verde.
Questo capitolo è dedicato alla riconciliazione tra il nostro Keiji e Ayame (è il nome che uso sempre per indicare la signora Akaashi). Nessuno dei due se la passa particolarmente bene, anche se alcuni nodi devono ancora venire al pettine, specie se c’è di mezzo il famoso terzo elemento mancante della famiglia (“Mister Akaashi”). Ho ripreso un estratto della conversazione tra Keiji e la terapeuta avvenuta nella stessa seduta di cui vi ho raccontato nel finale del precedente capitolo utilizzando un font diverso, a mo’ di flashback (come avevo fatto anche nel precedente capitolo, per l’appunto).
Nei prossimi capitoli torneremo su terreni un po’ più vicini all’universo di Haikyuu, dato che torneranno a trovarci Udai e – ovviamente – il nostro mitico e immancabile Bokuto-san! E la dottoressa Masaki, a modo suo, continuerà a vegliare sul nostro giovane editore preferito! Stay tuned! :)

Il titolo generale della mini-long riprende quello della nota canzone di Elisa ‘Anche fragile’ (della quale riporto il ritornello al termine del capitolo).
Il testo è scritto in terza persona e al tempo passato.

Grazie a tutti coloro che passeranno di qua!

Al prossimo capitolo,

Mahlerlucia

 



 

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Capitolo 4
*** Rosso ***



Anime/Manga: Haikyuu!!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Rating: giallo
Avvertimenti: Missing moment, Spoiler!, Tematiche delicate
Personaggi: Bokuto Koutarou, Akaashi Keiji
Pairing: #BokuAka
Tipo di coppia: Shonen-ai

 
 
 
 Rosso
 
 
 
Dicembre

 
Keiji era sveglio dalle sette meno un quarto del mattino. Nonostante il congedo da lavoro sarebbe perdurato ancora una settimana, aveva deciso di farsi ugualmente inviare le ultime bozze da Udai per cercare di rimettersi in carreggiata quanto prima. Il senso di colpa dovuto al prolungamento delle consegne finali non lo aveva lasciato tranquillo nemmeno per un istante nel corso di quel burrascoso lasso di tempo fatto di riposo forzato.
Di certo non aveva pianificato di piazzarsi davanti allo schermo del suo portatile ancor prima delle otto, ma la telefonata di Kōtarō funzionò ancor meglio di qualsiasi sveglia avesse mai adoperato in vita sua. Sapere di essere il suo primo pensiero del mattino e immaginarlo preso dal suo solitario allenamento svolto regolarmente alle prime luci dell’alba, lo aveva aiutato ad alzarsi dal tepore del suo adorato piumone per dare fin da subito un senso alla sua giornata.
Per quanto ci avesse riflettuto, non aveva ancora trovato la forza di rivelare al proprio compagno di aver ripreso i contatti con il suo sensei; ma era necessario proseguire il lavoro bruscamente interrotto. Del  resto, l’asso dei Black Jackals non sapeva che i lettori commentavano freneticamente ogni anticipazione del nuovo capitolo in uscita, aumentando l’abituale livello di pressione di quel giovane mangaka in cerca del proprio spazio personale nel mondo dell’editoria a disegni. Ciascuno di quei ragazzi non faceva altro che cercare tra quelle pagine le verità che si portavano dentro senza essere mai riusciti ad esprimerla come avrebbero realmente voluto.
Alcuni dialoghi erano rimasti in sospeso, in attesa di un suo eventuale suggerimento. Aveva perso il conto circa il numero di volte in cui aveva ribadito a Tenma che non poteva permettersi d’intrufolarsi tra le idee che perseguiva allo scopo di dar vita e credibilità alle sue storie; una parola messa in bocca a un personaggio da un pensiero “diversificato” non poteva di certo avere la stessa valenza di un aspetto apportato dal suo stesso mentore. Nulla escludeva il fatto che un consiglio potesse portare addirittura alla considerazione di rilevanti dettagli lasciati sino a quel momento in stand-by, ma Akaashi non si sarebbe mai permesso di fare capolino in un mondo che poteva sembrargli più limpido solamente dopo essere stato portato a compimento, almeno in bozza. Non faceva di certo mistero della netta distinzione che frapponeva tra gli interventi che potevano accorrere durante la fase di stesura delle tavole e tutto ciò che invece poteva trapelare da un commento finale che potesse racchiudere l’opinione – mai il giudizio! – relativa a ciascuno degli aspetti più importanti della narrazione. Una conclusione quantomeno tentata gli avrebbe consentito di trovare con maggior lucidità una direzione verso cui poter ragionare per giungere a un commento finale; un aiuto richiesto in fase di “costruzione” rischiava di far crollare intere pareti già arditamente sollevate. Un solo mattone dal colore o dalle dimensioni differenti avrebbe potuto trarre in inganno chi si fidava e, in un certo qual modo, ammirava la creatività proveniente da un talento fondamentalmente ancora in via di sviluppo.
Un discorso lungo e contorto che Udai sembrava aver colto nella sua essenza, ma che spesso tendeva ad accantonare per tentare di sbrogliare la multitudine di idee che non potevano trovar pace se non cozzando continuamente tra loro. Di lacrime di disperazione dovute alla mancanza implicita di coerenza creativa – che non corrisponde esattamente alla carenza d’ispirazione vera e propria o al ben più noto “blocco dello scrittore”, ben inteso – l’editore ne aveva viste parecchie, ma non si era mai scomposto più del necessario. Accogliere la necessità di comprensione di un ragazzo confuso e riservato quanto lui lo aveva portato a guardarsi più volte dentro, soprattutto in quei sempre più frequenti momenti in cui si ritrovava a pensare ai propri limiti personali. Come tutti gli essere viventi, ovviamente ne presentava diversi; ma se una piccola carenza poteva valere quanto la fiamma di una candela, nella mente dell’ancor acerbo Keiji poteva tramutarsi in una vera e propria bomba a orologeria, pronta a sfuggire al suo controllo da un momento all’altro. Chissà, forse il breakdown personale da cui stava cercando di venir fuori con il prezioso aiuto della dottoressa Masaki era dovuto proprio all’improvviso scoppio di questo ordigno che aveva poi mandato in tilt quell’equilibrio già piuttosto precario in assenza di fondamenta.

Era buffo come la persona che lo aveva portato a fare questo genere di riflessioni non fosse stato Bokuto. Con ogni probabilità, quest’ultimo doveva aver intuito qualcosa a tal proposito, seppur non riuscisse – giustamente! – a dissociare il tutto dal mero ambito lavorativo che li accumunava.
Keiji diede nuovamente adito alle parole pronunciate dalla psicoterapeuta in merito a ciò poteva ricevere di buono da ciascuna delle persone che lo circondavano; Tenma Udai rientrava tra queste ancora più di quanto avesse potuto ipotizzare in una prima fase della loro conoscenza.
 
 
***
 

Intorno all’ora di pranzo ricevette una telefonata da parte di Konoha, nonostante avessero avuto modo di sentirsi giusto un paio di giorni prima. La frequenza delle sue chiamate era esponenzialmente aumentata al pari di quelle provenienti da Kuroo, il ché portava ad un'unica direzione di pensiero dai capelli color sale e pepe.
Ripensando a ciò che era trapelato dalla loro vivace conversazione, Keiji non poté far altro che sentirsi eternamente grato agli dèi per avergli fatto incontrare persone tanto importanti che si preoccupavano sul serio per lui. Sì, perché per quanto fosse perfettamente a conoscenza della spinta motivazionale che ci fosse stata dietro, non era un mistero per lui realizzare dai diretti interessati che dedicargli del tempo non era affatto un peso per loro, al contrario.

 

“Konoha-san, non prenderla male ma... qualcuno che conosciamo piuttosto bene ‘per caso’ ti ha caldamente consigliato di metterti in contatto con me per verificare che io stia più o meno bene?”

“Che significa che stai più o meno bene? Prima mi hai assicurato che al momento non ci sono particolari problemi...”

“Parlavo in termini di range, non di valutazione globale. Ad ogni modo, stai palesemente deviando la mia domanda.”

“Tu sei troppo astuto per questo mondo, Akaashi-kun. Una volta che imparerai a gestire al meglio i tuoi grovigli interiori diventerai talmente forte da costringere Batman a chiederti ripetizioni.”

“Non esageriamo. Posso sapere cosa ti avrebbe detto di tanto persuasivo per convincerti a fare questo?”

“Beh, tanto per cominciare siamo stati compagni di scuola e di squadra per due anni, no?! Non è che ha dovuto insistere più del dovuto. Conosco abbastanza bene la situazione e ho voluto contribuire a modo mio. Certo, l’idea è partita da lui e ha agito allo stesso modo pure con quel gatto del malaugurio di Kuroo. Mmm, ok… forse ho parlato troppo. Spero non inizino a fischiare le orecchie a nessuno.”

“No, non ti preoccupare. Non avevo dubbi nemmeno sul nostro ex ‘dirimpettaio’. Siete stati entrambi molto gentili a dedicare il vostro tempo a me e ai miei ‘grovigli interiori’, come tu stesso li hai definiti.”

“Non sono uno strizzacervelli e non ci capisco molto di queste questioni intricate.”

“È il pensiero che conta. Lo apprezzo molto Konoha-san. Davvero.”

“Oh! Chiamami Akinori una buona volta.”

“Va bene.”

“Ora devo andare. A breve comincerà un pallosissimo Master on-line. Fai il bravo, Keiji.”

“Sempre, Kon- ehm… Akinori-san.”
 
 
L’editore non faticò ad immaginare il suo ex compagno di squadra ai gloriosi tempi della Fukurōdani intento a schiaffeggiava bonariamente la fronte come a indicare che per lui non c’erano speranze in termini di cortesia. Akaashi era esattamente quello che lo avrebbe interpellato sempre con tutte le onorificenze del caso, che gli piacesse o meno. Eppure, com’era potuta venir fuori tanta educazione da una famiglia così dispersiva quanto lacerata? Come aveva potuto un ragazzo tanto giovane costruirsi sin dall’infanzia le basi su cui fondare le proprie idee e i propri valori? Perché non aveva mai chiesto un aiuto concreto a nessuno prima di allora?
 
 
***
 

Quello stesso pomeriggio Keiji decise di fare una breve passeggiata per le vie del centro, prima di dedicarsi alla spesa settimanale nel solito konbini di fiducia. Lo aveva sempre preferito a qualunque grande catena di supermercati presente all’interno dei più fastosi centri commerciali dei quartieri limitrofi. Qualche volta si concedeva uno strappo alla regola per accontentare Kōtarō, ma ogni volta che accadeva doveva spesso impegnarsi per recuperarlo all’interno dei negozi più bizzarri o dopo essere stato prontamente accerchiato da un gruppo di ammiratori che chiedevano insistentemente selfie e autografi. Era capitato anche di avere a che fare con tifoserie opposte, ma fortunatamente la riconoscenza dei meriti sportivi aveva sempre prevalso sulle “ostilità” dovute ai colori di bandiera.
Per non parlare delle promoter che lo bloccavano ogni dieci metri, delle code per poter accedere a particolari reparti rinomati, della fila alla cassa, delle casse automatiche che ripetevano la parola “yen” fino alla perdita della pazienza... No, quello sprazzo di vita moderna e claustrofobica non faceva sicuramente per lui, nemmeno a livello economico. Non che se la passasse male, ben inteso; ma tra le poche nozioni che ‘Mister Akaashi’ era riuscito a trasmettergli quando ancora frequentava le scuole elementari, vi era stata l’attenzione al risparmio. “Un imprenditore di successo deve sempre partire da un uso discreto del proprio denaro.”
Già. E anche del proprio tempo in famiglia.

Comprò il necessario per sé sino al rientro di Bokuto, predisponendo con largo anticipo il prossimo tour di commissioni utili a riempire al meglio la dispensa e il frigorifero. Non avrebbe mai consentito al compagno di rimproverargli mancanza di accortezza nei suoi riguardi. E in effetti non era mai successo da quando si erano conosciuti.
Una volta tornato nei pressi della sua abitazione, fu attratto dal brusio proveniente da un cespuglio posto pochi passi addietro. Si voltò per capire se si trattasse di qualche gatto attirato dall’odore della carne e del pesce che aveva appena acquistato, ma non percepì più nulla. Pensò che di qualunque animale si fosse trattato – si rifiutò da principio di considerare un’eventuale aggressione –, non vi era più alcun rischio che potesse essere interessato a lui e ai suoi recenti acquisti.
I pensieri presero rapidamente pieghe differenti nel momento in cui Keiji udì uno starnuto piuttosto fragoroso provenire proprio dallo stesso punto da cui aveva sentito il brusio di poc’anzi. L’ipotesi precedentemente scartata a priori cominciò a farsi largo tra le sue emozioni e le sue incertezze più recondite. Si rivoltò lentamente verso l’ingresso, sperando che si potesse trattare semplicemente dei figli dei vicini che si erano ritrovati per giocare assieme, come un tempo.
Il cespuglio tornò a muoversi, questa volta con maggior fragore e intensità.
Quanto può resistere un bambino nascosto lì dentro con questo freddo?

Keiji sospirò, pensando che probabilmente ci fosse bisogno di dare una mano. Lasciò temporaneamente le tre buste della spesa sul pianerottolo e si avvicinò nuovamente al punto incriminato. Qualcosa che poteva rassomigliare vagamente a un ragazzino in età da scuole medie comparve senza preavviso a una manciata di metri da lui, facendolo sobbalzare due passi indietro. Per un istante pensò a Hinata, ma dati i suoi impegni e il colore dei capelli decisamente più scuro, scartò all’istante quell’ipotesi. Una lunga chioma color pece fece capolino sotto un buffo berretto rosso con un pon pon bianco sporco. Unico dettaglio di colore di un outfit caratterizzato da colori che andavano dal grigio dei jeans al total black degli scarponcini e della giaccia imbottita.

“Udai-san!”

“... Tenma! In persona.”.

Era già la seconda volta nell’arco della stessa giornata che si sentiva rimproverare il fatto di utilizzare troppo spesso le onorificenze per chiamare dei suoi quasi coetanei. Decise di non dare troppo seguito alla questione limitandosi ad annuire per poi trincerarsi dietro al sincero desiderio di comprendere cosa lo avesse spinto a venir fin sotto casa sua arrivando persino a sorprenderlo in quel modo strampalato.

“Si può sapere perché ti è venuta la folkloristica idea di saltare fuori da un cespuglio in quel modo?”

Folkloristica? Mi piace come parola! La userò in uno dei miei prossimi balloon!”

“A proposito... stamattina ho lavorato sulle ultime tavole che mi hai mandato.


Udai si avvicinò a lui con fare circospetto. Nascose le mani dietro la schiena e iniziò a osservare il proprio editore al pari di una nuova rarissima specie animale appena classificata. Finì poi per sollevarsi rimanendo in posizione eretta, portando le mani ai fianchi e mettendo in mostra un sorriso fiero assieme a uno sguardo carico di aspettativa.

“Mi manca un pezzo! Si tratta di una parte fondamentale senza la quale... beh, non posso andare avanti.”

Finse un’espressione esageratamente contrita, seguita da un lungo sospiro sommesso e dall’inclinazione dall’alto verso il basso del capo. Dava l’impressione di voler imitare quegli anziani intenti a raccontare ai nipoti quanto fosse stata diversa e complessa la vita ai loro tempi mentre se ne stavano seduti sulle panchine dei principali parchi pubblici edochiani.
Akaashi lo studiò con fare perplesso, cercando di comprendere quanto prima cosa stesse cercando di chiedergli in maniera piuttosto palese, seppur ancora indiretta.

“Potresti spiegarti meglio?”

Tenma si sforzò di tossire nel vano tentativo di darsi un tono di fronte al suo fidato ed esigente collaboratore. Socchiuse gli occhi per poi riaprirli puntando direttamente sul suo volto ancora incerto. In un certo senso gli ricordava lo stesso Bokuto ai tempi in cui tentava di spronare Tsukishima a non considerare la pallavolo al pari di un ‘club’ e nulla più. Il ché non sapeva ancora se classificarlo come un bene o una scocciatura.

“Tu ti ricordi ancora che il protagonista della mia nuova serie è un ‘asso del volley’, non è vero?”

“E come potrei dimenticarmelo visto che l’idea ti ha folgorato proprio il giorno in cui siamo andati ad assistere assieme al match Black Jackals contro Schweiden Adlers?”

“Esattamente. Il punto è che per quanto riguarda l’asso in sé non ho particolari problemi. Ho bisogno di capire come si muove un... beh, un alzatore.”

Keiji rimase senza parole per quella richiesta che lo riportò indietro negli anni riavvolgendo automaticamente quel nastro emotivo che continuava a scorrere in avanti. Prima che la nostalgia – o qualcosa di molto simile – potesse sorprenderlo contro la sua imminente volontà, pensò a una strategia con cui poter porre rimedio a ciò che di lì a poco il suo sensei avrebbe cercato di chiedergli. O per lo meno, questo era ciò che temeva in cuor suo.

“Giusto. Beh, se vieni dentro ti posso mostrare alcune rivisti di Bokuto sulle quali ci sono diverse immagini di Miya Atsumu o Kageyama. Sicuramente ci saranno anche gli alzatori delle altre squadre di prima divisione e-”

“Ma sono statiche. Ho bisogno di qualcosa di più... dinamico.”

L’editore si preoccupò di raccogliere le buste abbandonate sull’uscio di casa pochi minuti prima. Era talmente sovrappensiero che realizzò solo in un secondo momento di non poter aprire in autonomia la porta con le braccia impegnate a quel modo. Senza voltarsi cercò d’intuire se Udai fosse ancora in attesa di un responso a quell’assurda richiesta. Si accorse che non gli aveva minimamente tolto gli occhi di dosso, portandolo a sentirsi alquanto imbarazzato e sotto torchio.

“Udai- ehm... Tenma. Potresti gentilmente prendere le chiavi di casa dalla tasca sinistra della mia giacca e aprire la porta? Io farei un po’ di fatica...”

Avvertì i suoi passi avvicinarsi lentamente, sino a quando non si ritrovò la sua minuta figura a pochi centimetri dalla spalla. La differenza d’altezza era sempre stata considerata eccessiva da entrambe le parti, per quando non si fossero mai soffermati a discutere di dettagli insignificanti e irrevocabili di quel genere.
I grandi occhi scuri del maggiore non smisero di tormentare i pensieri del più giovane, nemmeno mentre si dedicava a mettere in pratica il favore che gli aveva appena chiesto, seppur con una certa velocità flemmatica.

“I surgelati si stanno scongelando.”

“Vedrai che sopravvivrai anche a questa terribile incombenza, mio adorato editore.”

Udai-san, stai facendo riferimento ai surgelati o al mio ex ruolo di setter?
Una volta varcata la soglia di casa, fu lo stesso mangaka a preoccuparsi di accendere la luce e di aprire le finestre, mentre l’editore sistemava i viveri tra frigorifero e dispensa. Qualcosa doveva essere preservato anche all’interno del mobile del salotto, onde evitare che Kōtarō al suo rientro finisse per divorarsi qualsiasi cosa gli potesse capitare a tiro.
Tenma si avvicinò ad una confezione di onigiri rimasta sul piano della cucina e cominciò a preoccuparsi di toglierne l’involucro protettivo. Non appena Keiji se ne rese conto, strabuzzò gli occhi per la sorpresa e la contrarietà provata dinnanzi a un affronto tanto peccaminoso nei suoi riguardi.

“Mi stai provocando, Udai-san?”

Pronunciò quel nome con le consuete rimostranze del caso, con l’unico obiettivo di riuscire a provocarlo a sua volta. Allungò una mano per recuperare l’agognato bottino culinario; nello specifico, il suo piatto preferito. E questo il suo collega lo sapeva bene.

“Posa per me.”

Cosa?!
L’espressione letteralmente terrorizzata dell’ex alzatore costrinse Tenma a ridimensionare la sua richiesta, invitandolo implicitamente a cercare di scendere in quei particolari che avrebbero potuto aiutarlo a riscoprire un passato che aveva deciso di accantonare allo scopo di non tornare a soffrire. O almeno questo è ciò che era arrivato a fargli intendere poco tempo prima che la sua stessa ansia generalizzata lo travolgesse in toto, costringendolo – finalmente – a un riposo forzato e dovuto.

“Non ti sto chiedendo di spogliarti, non devo realizzare dei busti in marmo. Ho semplicemente bisogno di vedere un’alzata dal vivo. E no, non mi chiedere di guardare foto di Kageyama o di Miya perché non lo farò.”

“Ma perché?”

“Perché so che anche tu ne hai dannatamente bisogno. Scusami tanto, ma la tua psicologa non ti spinge in qualche modo a rivalutare il tuo passato?”

Keiji si tolse la giacca e l’appoggiò sullo schienale della stessa sedia sulla quale decise di stanziarsi nel tentativo di riprendere in mano le redini della situazione, calmarsi e capire più minuziosamente cosa stesse cercando di proporgli il suo piccolo mangaka dall’enorme fantasia. L’idea che si stesse paragonando a una professionista per quel che concerne la salute mentale non lo aveva minimamente sfiorato, ragion per cui non riusciva ancora a focalizzarsi su quelle che erano le reali intenzioni celate dietro quell’assurda richiesta.
Sollevò il capo cercando lo sguardo dell’altro. Ancora una volta rimase ammaliato dalla sua accesa determinazione che lo portò a evitare di porsi in contrasto con lui. Poggiò il mento sul palmo della mano e accavallò le gambe in maniera elegante, come era solito fare tutte le volte in cui preferiva evitare di apparire eccessivamente teso al cospetto altrui; specie quando si trattava di persone che lo conoscevano sufficientemente bene da poter identificare al meglio la realtà del suo stato d’animo perennemente in subbuglio.

“Che cosa dovrei fare? Infilarmi la vecchia divisa della Fukurōdani e mettermi a palleggiare in giardino?”

“E se te lo chiedesse Bokuto?”

Se Udai avesse potuto avvicinarsi al suo petto avrebbe potuto facilmente constatare quanto il battito del suo cuore fosse accelerato nel giro di poche frazioni di secondo. Le parole formulate sottoforma di domanda dalla risposta piuttosto scontata erano riuscite inesorabilmente ad abbattere qualsiasi barriera difensiva stesse cercando di tenere in piedi contro l’inconsueta vivacità del suo sensei. Tornò a sedere con la stessa aria di chi era in procinto di affrontare l’esame orale più importante del semestre accademico, tenendo gli occhi puntati su quel pavimento che non si era mai dimenticato di lustrare nemmeno durante i giorni di convalescenza.

“Questa è molto più di una semplice provocazione, Tenma!”

“Lo so, forse ho toccato un tasto un po’ troppo personale, ma sono sicuro che sia quello giusto per convincerti ad aiutarmi come vorrei.”

“Hai parlato direttamente con lui, non è vero?”

Udai prese un’altra sedia posta contro al tavolo della sala da pranzo e la usò per sedersi esattamente di fronte al suo editore di fiducia. Una risorsa della sua vita che era molto più di un semplice collega di lavoro e al quale aveva imparato a voler bene quasi come a un fratello da dover difendere a ogni costo.
Quando aveva saputo del suo esaurimento nervoso si era sentito talmente responsabile dell’accaduto da non aver avuto il coraggio di andare a trovarlo in clinica per diversi giorni. E anche nel momento in cui trovò la forza per recarsi al suo capezzale, non fu affatto semplice.

“In realtà mi ha chiamato proprio lui.”

“E cosa ti ha detto?”

Keiji cominciò a supporre che gli avesse intimato di lasciarlo riposare fino al termine della terapia o qualcosa del genere. Ma doveva esserci sicuramente dell’altro se Tenma era arrivato a chiedergli di tornare indietro nel tempo con il pretesto di aver bisogno della figura di un (ex) setter a portata di mano.

“Abbiamo parlato un sacco. Diciamo che lui è partito subito in quarta col dire che non dovrei disturbarti per questioni lavorative e cose di questo genere. Da lì ho colto la palla al balzo per chiedergli come stessi, dato che ti conosciamo bene e sappiamo quanto facilmente tu tenda a dire che ‘è tutto a posto’ giusto per non farci stare in pensiero. Mi ha parlato dello scopo della terapia, mi ha raccontato qualcosa sulla tua famiglia e di quanto sia convinto che il lavoro c’entri fino a un certo punto con quello che ti è cpaitato. Poi si è stranamente scusato... Sai, mi ha colpito molto quando ha detto che doveva pur trovare qualcuno con cui prendersela, visto che tuo padre è praticamente irraggiungibile. Sì, ok... ho detto troppe cose tutte insieme, ma questo è stato il vero succo della nostra lunga telefonata. Non ti arrabbiare, per favore.”

“Bokuto-san...”

Akaashi chiamò il proprio compagno con un filo di voce praticamente impercettibile. Il suo sguardo era perso nel vuoto, in un punto indefinito posto alle spalle del suo interlocutore.
Udai si sentì nuovamente responsabile della proprie parole, offuscato dal timore di non essere stato affatto delicato per quel che poteva riguardare determinate questioni private e familiari.

“Hey Akaashi-san! Che ne dici di posare per me assieme a Bokuto? Dovrebbe rientrare per il tuo compleanno o sbaglio?”

Il mio compleanno?
Keiji aveva realmente scordato che di lì a un paio di giorni avrebbe compiuto gli anni. E ben ventitré.

“Sì. Ha insistito parecchio con il suo allenatore per poter essere qui. Spero che non faccia stupidaggini.”

“Per amore si fanno sempre stupidaggini.”

“Sì, ma Bokuto è particolarmente specializzato in questo.”

“Allora vorrà dire che è particolarmente innamorato.”

Keiji puntò gli occhi nei suoi e lo squadrò come se gli avesse appena rivelato la cosa più insolita del mondo. Nonostante fossero passati anni e Kōtarō si fosse palesemente – e goffamente – dichiarato più volte e in modalità differenti, ancora faticava ad accettare che i suoi sentimenti fossero corrisposti da una persona tanto speciale. Tutte le volte che qualcuno o qualcosa osava ricordarglielo, scoppiava a piangere come un bambino dinnanzi ai complimenti della propria maestra prediletta.
Le sue guance divennero rosse quanto il berretto dall’aria natalizia che Udai teneva tra le mani. Quest’ultimo sorrise, mentre si sforzò un’ultima volta di comprendere quali fossero in definitiva le sue intenzioni.

“Dunque, cosa ne pensi della mia proposta? L’ultima che ho fatto, intendo.”

“Se Kōtarō sarà d’accordo, accetterò.”

“Lo sapevo... lo sapevo! Sei un grande, Akaashi-san!”

“A proposito, io sono Keiji.”

“Lo terrò bene a mente!”
 
 
 
 
… Io un confine non lo so vedere
Sai che non mi piace dare un limite, un nome alle cose
Lo trovi pericoloso e non sai come prendermi, mi dici
Ma non so se ti credo
Senza tutta questa fretta mi ameresti davvero?
Mi cercheresti davvero?
Quella forte, sì, però anche quella fragile…










 

Angolo dell’autrice


Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno voglia di leggere e recensire questa mia mini-long! :)

Capitolo 4: Rosso.
Capitolo in cui i toni sembrano finalmente risollevarsi, a partire dal significato positivo che si può attribuire al colore rosso in sé. Mi sono divertita a far interagire Akaashi con i suoi migliori amici, a cominciare dal buon Konoha che tutto sa e nulla pretende (sono stata a lungo indecisa rispetto al fatto di usare lui o Kuroo, ma siccome quest’ultimo è stato spesso presente nelle mie #BokuAka, ho optato per l’ex numero 7 della Fukurōdani).
Come vi avevo preannunciato nelle NdA del precedente capitolo, presto arriverà Bokuto (nel prossimo capitolo, che secondo i miei piani dovrebbe concludere il tutto). Ma se proprio vogliamo dirla tutta, lui è perennemente presente nella vita del suo Keiji mediante il preziosissimo aiuto degli amici in comune, compreso il nostro “Signor Piccolo Gigante” (cit. Hinata XD). Il nostro Tenma sembra aver parzialmente accantonato i propri sensi di colpa nei confronti dell’editore a seguito della lunga telefonata intercorsa con l’asso dei BJ. C’è da dire che l’idea di far tornare Akaashi “setter per un giorno” non è stata di Kōtarō, ma siamo anche abbastanza certi del fatto che il nostro eroe non disapproverà. Del resto “your tosses are the best” non è mica stato detto tanto per dire! Stay tuned! :)

Il titolo generale della mini-long riprende quello della nota canzone di Elisa ‘Anche fragile’ (della quale riporto la seconda strofa al termine del capitolo).
Il testo è scritto in terza persona e al tempo passato.

Grazie a tutti coloro che passeranno di qua!

Al prossimo capitolo,


Mahlerlucia
 
 
 


 

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Capitolo 5
*** Giallo ***



Anime/Manga: Haikyuu!!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Rating: giallo
Avvertimenti: Missing moment, Spoiler!, Tematiche delicate
Personaggi: Bokuto Koutarou, Akaashi Keiji
Pairing: #BokuAka
Tipo di coppia: Shonen-ai

 
 
 
 Giallo
 
 
 
 4 Dicembre

 
L’orologio da muro richiamava di tanto in tanto la sua concentrazione, come a volergli indicare l’imminente venuta di qualcosa che avrebbe completamente scombussolato quelli che erano gli iniziali piani della sua serata. Non che avesse in mente di concedersi chissà quale attività di svago o, più semplicemente, dedita alla tranquillità mentale; tutt’altro. Gli ultimi disegni di Udai erano arrivati al suo indirizzo di posta elettronica poche ore prima e solo a seguito del suo esplicito consenso. Tenma non aveva alcuna intenzione di tediarlo con le sue tavole e con quel carico d’ansia che tendeva a moltiplicarsi in prossimità di ogni singola scadenza. Ma Keiji era sempre stato dell’idea che la dura vita di un mangaka andasse sempre condivisa con chi si era sempre reso partecipe a pieno ritmo del suo lavoro, così come di ogni singolo cambiamento d’umore rilevato in corso d’opera, lieve o rilevante che fosse.
Alcuni frame erano appositamente stati lasciati in bianco, come lo stesso Udai aveva specificato nella seconda mail che gli aveva fatto avere quello stesso pomeriggio. Quelli sarebbero stati gli spazi dedicati alle azioni più salienti messe in atto dall’alzatore co-protagonista del suo spokon interamente dedicato al mondo della pallavolo.
Per poter dar loro una definizione occorreva attendere il ritorno dell’unica persona che sarebbe stata in grado di riattivare gli antichi e indimenticabili ricordi del giovane editore: Bokuto Kōtarō.

Certo che è difficile poter dare un giudizio alla trama con dei frangenti narrativi lasciati in sospeso in questo modo... 
Akaashi non ebbe il tempo necessario per formulare in maniera più esaustiva i propri pensieri a riguardo dell’opera incompleta inviatagli dal suo collega. Il suono martellante del campanello catturò la sua attenzione facendolo sobbalzare per la sorpresa. L’insistenza e la ritmicità con cui veniva premuto il bottone fece allontanare qualunque dubbio circa la vera identità di colui che lo stava attendendo dietro l’uscio di casa. Fece girare ben quattro volte la chiave nella toppa prima di sganciare anche il catenaccio che teneva bloccata la parte superiore della porta. D’altronde, per l’editore la prudenza non era mai troppa, specie quando si ritrovava nella spiacevole situazione di dover trascorrere diverso tempo in completa solitudine tra le mura domestiche.
Non appena si preparò ad accogliere il nuovo arrivato, si ritrovò repentinamente con il naso a un paio di centimetri da un bellissimo mazzo di rose rosse. Non aveva idea di quante fossero, ma di sicuro erano state confezionate con una cura tale da lasciarlo senza parole; al di là della maniera non di certo non particolarmente delicata con cui erano pervenute all’interno del suo campo visivo e olfattivo.

“Oh! Ma che succede?”

“Per-per te!”

Dietro a quel tributo naturale accarezzato dalle migliori arte botaniche, un timido e impacciato Kōtarō fece capolino tenendo la schiena eccessivamente inclinata, a mo’ d’inchino. Di primo acchito Akaashi fu colto dal dubbio che dovesse scusarsi per qualche incombenza che sarebbe stata vergognosamente rivelata di lì a poco, ma un attimo dopo una minuscola bustina di carta con il suo nome impresso gli fece completamente cambiare idea.
Afferrò quello splendido bouquet di rose sgargianti nel punto esatto in cui era stato legato da un sontuoso nastro rosso, sfiorando inevitabilmente le dita stringenti del suo compagno. Nonostante la leggerezza e la brevità di quel contatto, i cuori di entrambi non riuscirono a reagire in altro modo se non battendo all’impazzata all’interno dei loro petti, consapevoli di aver atteso quel momento per troppo tempo.

“Kōtarō... sono... sono... beh, grazie.”

“Sone belle vere? Sono stato nel miglio vivaio di Ōsaka proprio per avere le migliori rose rosse della prefettura e... beh, spero che non si siano rovinate durante il viaggio e... ancora di più spero che ti piacciano davvero.”

Keiji tornò ad annusare quei petali perfetti con maggiore minuzia, riconoscendo all’istante il profumo che poteva riscontrarsi solamente tra le piante e i fiori ben curati. Adocchiò ancora il bigliettino imbustato, ma questa volta lo raccolse e ne lesse il retro con maggiore attenzione: ‘Per il mio Keiji: tantissimi auguri!’.

Fu solo allora che il diretto interessato si accorse di essere giunto a pochissime ore dal suo ennesimo compleanno. E non a caso, il suo sesto senso lo indusse immediatamente a chiedersi quante fossero davvero le rose presenti nel mazzo. Come volevasi dimostrare, ognuna di esse era dedicata a un singolo anno della sua giovane esistenza, positivo o discutibile che fosse stato.
Socchiuse gli occhi e sospirò, lasciandosi nuovamente inebriare dal profumo di quel pensiero carico di premure ed emozioni. Cercò di trattenere una lacrima dispettosa che non voleva minimamente saperne di lasciargli passare la serata in tranquillità, in compagnia di quel compagno di cui aveva sentito la mancanza al pari dell’aria che respirava.

“Sono bellissime, Kō. Grazie.”

Una folata di vento gelido ricordò loro che si trovavano ancora sul pianerottolo di casa, nel pieno di una serata che non prometteva nient’altro che una nuova nevicata. O almeno questo era ciò che avevano detto le previsioni del tempo quella mattina.
Keiji si strinse nelle spalle e di riflesso circondò l’involucro che attorniava il suo regalo, concedendo un ultimo sguardo al simbolo di una amore sincero tramutato in semplici – ma meravigliosi! – fiori.  
Si voltò allo scopo di rientrare, assicurandosi che Bokuto lo seguisse seduta stante. Era pur vero che indossava il suo piumino sportivo con tanto si sciarpa e guanti coordinati, ma mai avrebbe consentito che si ammalasse proprio nei due giorni di permesso che si era concesso giusto per venire a festeggiare il suo compleanno. Non se lo sarebbe mai perdonato.

“Oh, che bel calduccio qui.”

Keiji posò le rose sulla penisola della cucina, mettendosi in cerca di un vaso adatto a contenerle. Ma prima di occuparsi del suo dono, lo aiutò a rimuovere i residui di neve dai capelli e dalla giacca, invitandolo a sistemarla affianco al termosifone acceso. Fu solo nel momento in cui cercò di allontanarsi che l’asso dei Black Jackals lo afferrò per un polso e lo attirò a sé, in maniera né particolarmente dolce ma nemmeno brusca; semplicemente ‘alla Bokuto’.
Sfiorò con un dito le sue labbra incerte, provocandogli un brivido di piacere che lo fece genere flebilmente un attimo prima di lasciarsi andare a un caldo e avvolgente abbraccio che lo colse impreparato. Kōtarō lo sentì tremare contro il suo petto, mentre s’impegnava a tenerlo stretto a sé quanto più gli era possibile. Non disse nulla, soggiogato dall’idea che semmai Akaashi avesse avuto desiderio di parlargli di qualcosa d’importante lo avrebbe fatto con i suoi dovuti tempi e senza alcuna pressione.

“A proposito... vuoi che ti prepari un bagno caldo? Così ti scalderai per davvero.”

Hey! L’idea non è malvagia, sai?!”

“Allora vado a predisporre il tutto. Tu intanto rilassati, intesi?”

Bokuto vide l’editore allontanarsi fino a dileguarsi nel corridoio semibuio. Il vezzo di muoversi per casa cercando di consumare meno corrente elettrica possibile continuava ad essere duro a morire, nonostante gli avesse più volte ricordato che non ci sarebbero mai stati problemi per lui per quanto riguarda scocciature come bollette e spese domestiche di vario genere.
Per ingannare l’attesa decise di dare un occhiata generale alla casa, dato che negli ultimi tempi erano più i giorni in cui era costretto a dormire fuori che tra quelle accoglienti mura. Tutto risultava in ordine, perfettamente pulito e sistemato al proprio posto. Il piano in acciaio della cucina emanava un luccichio tale da indurre fin da subito Kōtarō a pensare che Keiji non avesse mai preparato nulla di particolare per sé in quei giorni di solitudine forzata. E dulcis in fundo... il portatile era immancabilmente acceso sul tavolo della salotto, con tanto di tavole recentemente disegnate da Udai in bella vista.
Non riuscì a resistere all’impulso di osservare quei lavori da vicino allo scopo di comprendere come quei due interagissero quotidianamente, seppur sapesse bene che le loro argomentazioni vertevano quasi totalmente intorno al loro ambito di guadagno; o almeno era quello che lui si augurava. Notò quanto le tavole fossero incomplete e si chiese se fosse compito di Keiji provvedere a colmare i vuoti dovuti alle carenze di idee del giovane mangaka.

“Vuoi che ti prepari direttamente il pigiama?”

Akaashi tornò in cucina senza pensare che avrebbe ritrovato il compagno intento a curiosare tra le sue questioni lavorative. Si maledisse per essersi dimenticato di far sparire computer, appunti e bozze di ogni genere, sicuro del fatto che Kōtarō non avrebbe mai approvato un ritorno tanto tempestivo tra le fila di quella tediosa casa editrice.
Lo vide sollevare appena lo sguardo dallo schermo, per poi osservarlo in silenzio. Raramente aveva avuto a che fare con un’espressione tanto seria e ferma da parte sua. Ciò che stava cercando di comunicargli era ineluttabile e non lasciava alcuna possibilità di trovare un qualsiasi appiglio affinché potesse almeno tentare di giustificarsi.

“Non guardarmi così... te ne avrei parlato.”

“Keiji, tu non devi pensare al lavoro, nemmeno per errore. Sei a riposo ora, ok? E finché la dottoressa non ci dirà che stai bene tu non metterai piede in quel dannato ufficio, chiaro?”

L’ex alzatore puntò lo sguardo al pavimento – fin troppo lustro – per non dover ancora una volta affrontare le sue enormi iridi gialle cariche di accortezza e preoccupazione per quella palese dimostrazione d’irresponsabilità e mancanza di amor proprio. Per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare nemmeno un vocabolo che potesse in qualche modo tranquillizzare chi aveva fatto tanta strada per stare appositamente con lui nel giorno del suo compleanno. Bokuto non meritava di essere preso in giro per mero egoismo e impossibilità di star fermo per più di qualche giorno e questo Akaashi se lo tatuò tra i suoi pensieri come un novello senso di colpa che si sarebbe ben presto accodato a tutti quelli contro cui stava cercando di combattere da tempo.
Pensò che non fosse davvero il caso di parlargli della richiesta che gli aveva fatto Tenma per ultimare quel capitolo che aveva lasciato ben in vista sul desktop del suo pc.

“Non ti metterai a disegnare al posto di quello scansafatiche di Udai, vero?! È un lavoro che spetta a lui e-”

“Non mi ha mai chiesto di disegnare al posto suo, tranquillo.”

L’asso dei Black Jackals si alzò di colpo e batté le mani sul tavolo, come a voler mettere in chiaro che non si sarebbe fatto abbindolare dal suo timore di preoccuparlo eccessivamente: doveva fidarsi di lui come aveva sempre fatto, specie in un periodo delicato della sua vita come quello che stava affrontando. Già era difficile dover accettare la lontananza dovuta alle continue trasferte della sua squadra; saperlo ancora preso dalle sue scadenze e dai suoi “blocchi dello scrittore” lo disturbava quasi più di una sconfitta in una qualunque partita di League 1.
Per un attimo ad Akaashi ricordò i bonari rimbrotti  che  Kuroo rivolgeva a Kozume tutte le volte in cui quest’ultimo si perdeva nei suoi adorati universi virtuali; probabilmente stava solo tentando di imitarlo.

“Ad ogni modo... il bagno è pronto. Quando vuoi-”

“Scusami.”

Keiji cercò ancora una volta la luce dei suoi occhi, per vederla attorniata da uno sguardo dispiaciuto per le maniere un po’ troppo perentorie che aveva appena mostrato nei suoi riguardi. Si avvicinò lentamente a lui e gli prese le mani occupate dagli asciugamani che stava portando nella cesta del bucato per metterli poi in lavatrice.

“È che non voglio che ti succeda niente quando io non ci sono. Cioè, voglio dire... neanche quando ci sono ovviamente. Però... eravamo d’accordo che avremo seguito le indicazioni della psicologa.”

“Kōtarō, lo so che sei preoccupato per me, ma non è necessario. Non voglio che tu ti distragga dai tuoi doveri per me ed è anche per questo che sto facendo il possibile per tornare a stare bene. La dottoressa Masaki mi ha detto che ci vorrà tempo e pazienza, ma non ho nessuna intenzione di arrendermi.”

“Bravo, ‘Kaashi! Sono fiero di te! Queste sono le parole più belle che potevo sentirti pronunciare!”

L’abbraccio che ne seguì riuscì a riportare entrambi alla calma iniziale, sigillando ancora una volta quello che era il loro chiaro patto d’amore reciproco. Le labbra di Bokuto cercarono quelle del compagno, sino a portarle voracemente a sé.
Keiji nemmeno se ne rese conto, ma d’improvviso si trovò a ridosso della schiena dell’altro, caricato sulla sua spalla al pari di un sacco di mangime per animale da portare alle stalle. Il suo sincero apprezzamento per la massa muscolare che il compagno aveva acquisito negli anni con il duro allenamento non era di certo un mistero, ma mai avrebbe potuto immaginare che potesse sollevarlo da terra con così poco sforzo.  

“Mettimi giù, per favore! Come preparo la cena altrimenti?”

“Ecco, lo vedi?! Se ti lascio da solo dieci minuti ti metti a sistemare il ‘mondo’. No! Tu ti devi riposare!”

“Ma non ho sonno.”

“Le vasche da bagno non sono state pensate per dormirci dentro... Keiji-kun.”

“Cosa?!”
 
 
***
 
 
L’acqua calda e profumata fungeva sulla sua pelle come un balsamo levigante capace di fargli dimenticare per qualche tempo tutti i dispiaceri che lo avevano afflitto nelle ultime settimane. Sapere poi di essere circondato dall’intero corpo dell’unica persona di cui si fosse mai perdutamente innamorato in vita sua gli donava un senso di pace misto a gioia di cui aveva sentito visceralmente la mancanza, senza mai riuscire a realizzarlo a pieno regime come in quel frangente. Il mondo se ne stava fuori da quella porta dimenticata aperta, oltre quel grande appartamento in cui non vi era nessun altro rispetto a loro due.
Keiji chiuse gli occhi, poggiando delicatamente la nuca sull’ampio petto del compagno. Quest’ultimo lo accolse tra le sue braccia rilasciandogli un soave e prolungato bacio sulla guancia, portandolo a chinare appena il collo per facilitargli quel compito tanto apprezzato quanto bramato.

“Lo sai che mi sembri ancora più bello da quando ti ho lasciato solo?”

L’editore si lasciò sorprendere dall’ingenua spontaneità con cui quelle parole cariche d’affetto uscirono dalle labbra di Bokuto, sino ad arrivare alle sue orecchie come un soffio di vento a malapena sussurrato. Non era un atteggiamento tipico della star dei Black Jackals, ma da quando Keiji aveva avuto il suo ultimo e drammatico attacco di panico qualcosa era inevitabilmente cambiato in lui. Il vecchio Kōtarō maldestro e facilmente influenzabile dalle proprie emozioni aveva fatto posto a un uomo maturo e perennemente in apprensione per il bene più prezioso che gli fosse mai stato concesso dagli dèi; quel timido fiore dagli occhi indescrivibili che sapeva alzargli la palla come nessun altro aveva più saputo fare da allora.

“Si vede che stai un po’ meglio, lo devo ammettere.”

“Kō, tu non mi hai mai lasciato solo in questi giorni. È soprattutto grazie a te che ho deciso di non lasciarmi andare.”

Il corpo del maggiore s’irrigidì d’impeto, a dimostrazione di quanto quelle ultime parole pronunciate da Keiji avessero fatto effetto tra i suoi pensieri. Non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo apertamente, ma a modo suo si era sempre sentito – almeno in parte – responsabile di quanto stesse succedendo al suo ex alzatore. Lo stress generato dal lavoro era stato solo l’ultimo dei pretesti che lo avevano portato al collasso emotivo, l’apice di una montagna di responsabilità e amarezze che si stavano accumulando sin da quando era solo un bambino.
Akaashi si voltò appena, poggiando la tempia sulla sua mandibola contratta, come a volerlo rassicurare. Non voleva di certo intendere di essere stato sfiorato dall’idea di farla finita. Non avrebbe mai potuto fare una cosa tanto meschina all’unica luce capace d’irradiare le sue cupe e monotone giornate.

“Ma ci sono state anche altre persone che hanno dimostrato di volerti bene. Ayame-san, la dottoressa e... pure Udai. Ok, ammettiamolo.”

“E le tre ‘kappa’ dove le mettiamo? Mi riferisco a Konoha-san, Kuroo-san e Kuzome-san.”

“Kenma ti ha chiamato per davvero?”

“Ben due videochiamate tramite un programma che nemmeno conoscevo e che mi ha invitato a scaricare. Sono rimasto sbalordito esattamente quanto lo sei tu ora.”

“Questo succede perché ti vuole bene. Tutti ti vogliono bene. È impossibile non volerti bene, Keiji-kun!”

L’editore non aveva la benché minima idea di come poter controbattere a quelle affermazioni cariche di stima e affetto. Non era di certo un mistero per lui venire a sapere che i suoi amici di sempre tenessero particolarmente a lui e alla sua salute, indipendentemente dal fatto che fossero stati condizionati da Bokuto o meno. Il sunto della sua difficoltà stava nel non riuscire ancora pienamente ad accettare che delle persone così piene di vita e di interessi occupassero il loro tempo per stare dietro alle sue paturnie. Averli fatti spaventare a quel modo non era di certo un’intenzione preventivata in nessuno dei piani da lui messi a punto prima del suo ricovero, ma ad ogni modo era successo. E questo lo infastidiva parecchio.
Le lacrime cominciarono a rigargli il volto confondendosi con le minuscole goccioline d’acqua che trasudavano dalle sue ciocche color pece. Ma Kōtarō non si lasciò ingannare da quel miscuglio di liquidi trasparenti: ognuno di essi aveva la propria missione e non c’era nulla di male a pensare che in quel frangente l’altro volesse solamente dare sfogo a tutta la sofferta riconoscenza che racchiudeva nel cuore.
Portò un braccio sul bordo della vasca, senza minimamente preoccuparsi del fatto che parte dell’acqua ancora calda fosse fuoriuscita inondando quel pavimento costantemente tenuto a lucido dal proprietario. Con la mano opposta cominciò ad accarezzare delicatamente il dorso di quella del compagno. Addolcì quella presa portandolo nuovamente a districare la propria tensione, fino a quando non si decise a lasciarsi teneramente cullare da quel contatto soave che gli ricordò ancora una volta che non era solo contro tutto ciò che lo rendeva infelice; e non lo era mia stato.

“Non devi piangere, ‘Kaashi. Domani diventerai un anno più grande e più forte...”

Più forte?! Io?!

“... un altro anno assieme a me che non sono di certo facile da sopportare ma... Hey! È di Keiji-kun che sto parlando!”

Gli angoli della bocca del più giovane virarono lentamente verso l’altro, lasciando intravedere uno spiraglio di ripresa emotiva e persino il flebile suono di una risata abbozzata. Ruotò il polso della mano quel tanto che sarebbe bastato affinché Bokuto potesse incastrare le dita alle sue, senza che queste rifiutassero di stringerle a loro volta.
Pensò all’ora tarda che si era fatta, alla cena ancora da preparare, ai loro stomaci che reclamavano il loro pasto e al copriletto nuovo da inaugurare. Tra tutti questi pensieri ‘pratici’, gli balenò nuovamente per la mente la bizzarra proposta di Tenma, tanto da decidersi finalmente a condividerla con chi aveva ancora una volta concesso al suo buonumore di far parte di quell’inaspettata vigilia di compleanno.

“Che idea strana. Ma una foto di Tsumu-Tsumu non gli bastava?”

Fingerò di non aver udito il suono della parola ‘Tsumu-Tsumu’ mentre mi stai abbracciando dentro la nostra vasca da bagno. Ma solo per il bene dell’umanità.

“È ciò che gli ho proposto io stesso in un primo momento, usando anche Kageyama come alternativa. Ma Udai-san sostiene di aver bisogno di un’immagine ‘reale’.”

“Che pretese quel funghetto!”

L’espressione esageratamente imbronciata dell’ace fece sorridere ancora una volta l’editore, convincendolo a voltarsi del tutto per poter vedere in viso quel tedio mal espresso, perdendosi dentro la luce infinita di quelle intense iridi giallo oro davanti alle quali si era incantato oramai da diversi anni, senza essere più riuscito ad uscirne. Posò entrambe le mani sulle sue guance arrossate dal calore e dall’imbarazzo per stuzzicarle per bene.
Kōtarō rimase ammaliato dalla bellezza del corpo del compagno mostrato a quel modo, nudo e indifeso, ricoperto solo di quelle goccioline calde che gli ricadevano da ogni dove. Sentire la sua presenza sulle sue gambe lo portò inevitabilmente ad eccitarsi, desiderando di possederlo senza troppe cerimonie. Ma si limitò a vendicarsi tastando le sue natiche umide allo stesso modo in cui sentiva sprimacciare la pelle del suo viso.
Per fortuna che mi sono ricordato di fare la barba!

“Sarebbe un vero peccato, sai. Giusto ieri avevo trovato la vecchia divisa del Fukurōdani... certo, mi va un pochino stretta, ma è ancora indossabile.”

Bastarono quelle poche e semplici parole per mandare i pensieri di Bokuto nella confusione più totale. Akaashi in quel momento si trovava senza nulla addosso tra le sue braccia mentre lui avvertiva già un principio di erezione pulsargli tra le cosce, ma... l’idea di poterlo rivedere con la divisa che indossava quando avevano condiviso letteralmente il ‘mondo’ assieme lo stava ulteriormente mandando in brodo di giuggiole. Per non parlare dell’effetto che quella taglia inferiore avrebbe suscitato su quel corpo perfetto, oltre che tra i suoi pensieri più intimi e indicibili. 

“Sul serio? Quindi tu vorresti...”

“... io vorrei. Ma solo assieme te e con il tuo permesso.”

“Oh! Per chi mi hai preso? Per uno di quei mariti che non fanno uscire le mogli di casa? Certo che acconsento!”

Kōtarō sentenziò quelle frasi senza riflettere  il tempo necessario, rendendosi conto solamente in un secondo momento che aveva appena riportato alla mente di Keiji il ricordo di suo padre.

“Scusami.”

“E di cosa?”

Non importa. Davvero.

“Mi scuso accettando la proposta che mi hai fatto e che ti ha fatto quel nanerottolo di un mangaka.”

“Si chiama Udai Tenma. E tu sei stato molto maturo a metterti in contatto anche con lui mentre eri in ritiro con la squadra. Ho apprezzato molto.”

“L’ho fatto solo per te, non pensare cose strane.”

Lo so, Kō. E ti ringrazio per questo.
Keiji rispose a quella constatazione bofonchiata con un sorriso, prima di posare le labbra sulle sue e tornare a vederlo pimpante e sorridente come soleva piacere a lui.
 
 
***
 
 
5 Dicembre
 

Non era stato facile convincere Bokuto ad andare a prendere Udai direttamente a casa sua, dato che il giovane sensei quella stessa mattina gli aveva comunicato di non poter arrivare sino alla loro abitazione a causa del motore della sua utilitaria che aveva deciso ancora una volta di dare forfait. E come se non bastasse, la Toei – azienda che gestisce parte dei trasporti pubblici della capitale nipponica – aveva deciso di proclamare uno sciopero di sedici ore proprio nel corso di quella sfortunata giornata.
Dopo una serie di tentativi confluiti in un paio di ricatti erotici – che correvano il grave rischio di non funzionare, data la meritata notte di passione che avevano appena avuto la fortuna di condividere – era riuscito a fargli cambiare idea dandogli persino la possibilità di utilizzare la sua auto, visto e considerato che non veniva messa in moto da quel terribile giorno. La stessa dottoressa Masaki si era fortemente raccomandata di non tornare a mettere in pratica azioni che avrebbero potuto ledere la propria e l’altrui incolumità fino al termine della terapia. L’ansia generalizzata e le crisi di panico non erano di certo questioni da dover prendere sotto gamba e questo il giovane editore lo aveva imparato a sue spese, suo malgrado.

Nell’attesa dell’arrivo del suo ospite, decise di scansare i suoi consueti pensieri intrusivi dandosi da fare con le faccende domestiche. Raccolse i vestiti che lui e Kōtarō avevano sparso lungo il pavimento della stanza e li portò direttamente nel cestello della lavatrice, stando bene attento a separare prima i capi più scuri da quelli più delicati.
Fu nel momento in cui si trovò intento a decidere quale tipo di lavaggio avviare che udì la suoneria del suo telefono.
Non ditemi che si è perso, per favore! Ho impostato io stesso il navigatore del suo iPhone!

Un numero sconosciuto. Non anonimo o privato, semplicemente un insieme di cifre che corrispondevano a qualcuno che ancora non era rientrato nella sua rubrica telefonica.

“Pronto?”

“Buongiorno, Keiji. Spero tu stia passando un buon compleanno. Auguri!”

Questa voce... papà!
Non poteva credere alle sue orecchie! Se solo avesse trovato la forza necessaria avrebbe urlato quel fortuito pensiero all’interno di quel telefono che gli stava consentendo di tenersi in comunicazione con l’uomo che aveva permesso la sua esistenza e che, allo stesso modo, se n’era praticamente dimenticato a mano a mano che gli anni passavano.

“Ieri mi ha chiamato tua madre e abbiamo avuto modo di parlare a lungo. Mi ha anche girato il tuo nuovo numero... Ascolta, ma sei ancora in linea?”

Ho questo numero da oltre un anno, papà.

“Sì... sì. Sono qui. So-sono contento di sentirti. Come stai?


Pronunciare quelle scarne parole lo fece quasi rimanere senza fiato e con le lacrime agli occhi che spingevano per invadere ancora una volta la sua lucidità.
Cosa avrebbero potuto pensare di lui Kōtarō e Udai-san fossero arrivati in quel preciso momento?

“L’azienda non mi lascia un attimo di respiro, come al solito. Cerco di rientrare almeno per le Feste. Tua madre si è raccomandata anche più degli altri anni e glielo devo. Tu, invece? Che piani hai per Natale?”

Domande di superficie che non sarebbero potute andare oltre. Non in questo tipo di contesto perlomeno. Per poter parlare delle questioni più delicate lasciate in sospeso o, peggio ancora, mai realmente affrontate, ci sarebbe stato tempo. Quella telefonata era già di per sé un miracolo nel cuore dell’ancor incredulo Keiji.

“Sì dice che il Natale bisognerebbe trascorrerlo in famiglia... perciò...”

“Quindi ci vedremo? Bene, così avremo modo di parlare anche noi due.”

Parlare. Io e te…

“Ah... certo.”

“Va bene. Ora devo proprio andare. Ti rinnovo i miei auguri e mi raccomando... riguardati. Ciao, Keiji.”

Papà...
Sei preoccupato per me...

Quello fu davvero il compleanno più bello che Keiji potesse desiderare.




 
… Vieni qui
Ma portati anche gli occhi e il cuore
Io so disobbedire questo lo sai bene
E piangiamo insieme che non piangi mai, mai...


… E non nasconderti con le battute, non mi sconcentrare
Stiamo a vedere dove possiamo arrivare
E ridiamo insieme che ridiamo sempre, sempre, sempre
Ma non basta mai, mai, mai, mai... 










 

Angolo dell’autrice


Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno voglia di leggere e recensire questa mia mini-long! :)

Capitolo 5: Giallo.
Ed eccoci all’ultimo capitolo di questa mini-long che è riuscita a darmi davvero tantissimo dal punto di vista emotivo. Al di là del mio amore viscerale per Bokuto e Akaashi, poterli trattare in questa maniera “approfondita” mi ha davvero donato delle nuove “prospettive di scrittura” che prima nemmeno immaginavo.
Tornando alla storia, ecco finalmente il tanto atteso ritorno di Bokuto, seppur si tratti di una toccata e fuga dal ritiro dei Black Jackals dovuta alla sua esigenza di essere con Keiji per il suo compleanno (eh, lo so... sono abbastanza in fissa con il compleanno del setter nelle mi fan fiction, abbiate pazienza! XD). I ritorni della “stella” non sono mai banali e difatti il bagno preparato per lui diventa un “bagno d’amore condiviso”! Mi sono divertita un sacco anche nel far notare queste piccole punte di reciproca gelosia presenti tra i due, ennesimo indice del fatto che non possono assolutamente fare a meno l’uno dell’altro. **
Ma chi “compare” sul finale?! Il nostro Mister Akaashi in splendida forma. Addirittura vorrebbe passare le Feste di Natale con moglie e figlio... pensa un po’ che lavata di capo gli avrà fatto la nostra mitica Ayame!
Grazie per aver seguito le vicende strampalate di questi due gufetti innamorati! <3

Il titolo generale della mini-long riprende quello della nota canzone di Elisa ‘Anche fragile’ (della quale riporto il ritornello finale al termine del capitolo).
Il testo è scritto in terza persona e al tempo passato.

Grazie a tutti coloro che passeranno di qua!

A presto,

Mahlerlucia
 
 

 

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