Racconti di Pratile

di Tenar80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 – la festa ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 – la gita ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 – Dopo la lezione ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 – la festa ***


Benvenuti o bentornati nell'universo steampunk de "L'assedio degli angeli"!
Questa fic fa parte di una serie composta da quattro racconti. Ognuno di loro è indipendente e autoconclusivo, ma, almeno nella mia testa, l'insieme dovrebbe essere più della somma delle parti. 

Non avete letto Racconto di Fiorile? Male! Correte a farlo! 
Se non avete tempo e/o voglia in realtà non fa niente. Ecco qualche info per orientarvi. Siamo in un mondo steampunk simil vittoriano e più precisamente nella sua capitale del suo più vasto Impero. L'umanità vive sotto la costante minaccia di attacchi da parte degli angeli, creature proveniente da una dimensione adiacente. A combattere gli angeli c'è un corpo militare scelto, le Ali Nere, il cui equipaggiamento, realizzato a partire dai corpi degli angeli uccisi, permette di scontrarsi con i nemici nella loro dimensione. In realtà nessun essere umano sa molto degli angeli, chi siano, cosa vogliano e perché cerchino di distruggere il mondo umano. Alcuni esseri umani nascono con residui di ali o di corna, costoro sono definiti "impuri" e condannati a una vita da schiavi.

Avete già letto Racconto di Fiorile? Bentornati!
Dal primo racconto sono passati più di dieci anni. Scopriremo qui come se la sia cavata Victoria e come questi dieci anni l'abbiano trasformata. Ogni racconto ha un punto di vista differente, che ci porterà a scoprire qualcosa di più di questo universo, ma Victoria sarà presente o almeno nominata in tutti e quattro.

Un grazie di cuore a tutti coloro che vorranno leggere o commentare



– Era questo il libro che stavi cercando?

    – Sì, potrebbe essere – rispose Ten, prendendo il volume che il collega gli stava porgendo.

    «Iconografia degli angeli nelle pievi del distretto della capitale».

    Era un volume raro, un’edizione di una cinquantina d’anni prima, con una copertina in pelle scura e, di sicuro, un apparato grafico di tutto rispetto. Certamente…

    – Ten, non sono riuscito a imbucarti in una festa esclusiva perché tu te ne stia a leggere in un angolo per tutta la sera! – protestò Carl.

    – Ma no, certo… – cercò di salvarsi il giovane professore, sistemandosi gli occhiali in un istintivo gesto di protezione.

    Ovviamente era proprio quello che avrebbe voluto fare. C’erano buone possibilità che i suoi sforzi degli ultimi due anni si concretizzassero in quel libro. Ma non poteva. Doveri sociali. Ovunque andasse, erano inevitabili. Senza un minimo di sorrisi e inchini, pur con tutto ciò che sapeva, non sarebbe mai entrato, lui, uno straniero sconosciuto, nell’università imperiale. Anzi, ancora di più che a Ji’Quin, dove aveva vissuto in precedenza, nell’impero era il complicato balletto delle relazioni sociali, più che il talento, a determinare l’avanzata di una persona. E Ten, lì come a casa propria, si sentiva, su quella musica, un pessimo ballerino.

    – Vieni, ti presento al padrone di casa – disse Carl, prendendolo per un braccio.

    Sospirando, Ten si lasciò trascinare nel salone illuminato a giorno dalle lampade a gas, nel pieno della folla.

    Se non altro, pensò, una festa in mezzo all’aristocrazia imperiale era un’esplosione di colore. 

 

    Dov’era cresciuto Ten il colore non esisteva, almeno non con quella infinita varietà di toni e sfumature. Il suo era un mondo senza sole, di toni scuri e improvvisi lampi di luce abbagliante. A volte, durante le feste, venivano create sinfonie di esplosioni luminose. Per quanto bellissime, non erano paragonabili all’avvolgente luce dorata che dalle lampade si rifletteva sui bicchieri di cristallo, alla policromia degli affreschi alle pareti, per non parlare dei toni dei velluti degli abiti delle persone che popolavano la sala. L’uomo che Carl gli stava indicando, ad esempio, aveva enormi favoriti candidi e indossava una giacca color vino scuro su una delicata camicia avorio. Ogni cosa nel suo abbigliamento, dai gemelli d’oro, alla catenella dell’orologio che spuntava da una giacca era un simbolo preciso in un linguaggio che Ten trovava tanto affascinante quanto alieno.

    – Conte Anderson, vi presento il professor Tenshi Kuroha, di Ji’Quin, esperto in storia degli angeli – stava dicendo intanto Carl.

    L’uomo dai favoriti candidi, una delle persone più ricche della capitale, in grado di finanziare le sue ricerche per i prossimi dieci anni, se lo avesse voluto, lo studiò attraverso il monocolo dalla montatura d’oro.

    – L’unica cosa che ci serve sapere sugli angeli è come ucciderli – grugnì.

    Non sembrava molto incline a finanziare la ricerca, pensò Ten.

    – Non si può combattere ciò che non si conosce – replicò il giovane professore, usando il proprio miglior tono conciliante.

    – Mah. Finché avremo Soilber alle Ali Nere, non abbiamo molto da temere.

    Ten abbassò il capo, perché non aveva senso criticare l’eroe dell’impero. Le Ali Nere erano il corpo militare preposto alla difesa dagli attacchi degli angeli e il colonnello Soilbeir ne era il comandante sul campo. Si mostrava raramente in pubblico, ma quando lo faceva, con la sua bellezza algida ed enigmatica, incarnava alla perfezione l’ideale dell’eroe. Senza contare il fatto che aveva un indubbio talento nell’uccidere gli angeli.

    – In realtà perfino le Ali Nere dovrebbero ascoltare le teorie del professor Kuroha – intercesse Carl. – Alcune spiegano…

    – Beh, se proprio ritenete, dopo che avrà suonato potrete parlarne con Delia Morozov – brontolò il conte, il cui interesse si era già esaurito.

    – Quella Delia Morozov? – chiese Carl.

    – Certo, chi altri potrei invitare a suonare a casa mia? E adesso, vogliate scusarmi.

    – Scusa… Chi è Delia Morozov? – chiese Ten, appena il conte fu uscito dal loro raggio d’azione.

    Carl, che dimostrava sui trentacinque anni, sei o sette più di lui, lo guardò come se avesse fatto una domanda inopportuna e sicuramente era così. Poi sospirò.

    – Continuo a dimenticarmi che sei di Ji’Quin. Delia Morozov è la moglie del generale Morozov, il comandante in capo delle Ali Nere. A parte questo, è stata una delle pianiste preferite dell’Imperatrice Madre e una senatrice, prima che vietassero alle donne la carriera politica.

    Ten aggrottò la fronte.

    La netta divisione tra i sessi che vigeva nell’Impero lo stupiva ancora di più del fatto che gli impuri potessero essere solo schiavi. Il fatto che con metà della popolazione umana si dovesse avere una condotta differente rispetto a quella che si doveva tenere con l’altra non cessava mai di destabilizzarlo. Le donne non potevano insegnare all’università, occuparsi di politica o combattere. Non ci si poteva intrattenere da soli con una donna di buona famiglia non sposata e anche con quelle sposate vi erano argomenti che non andavano assolutamente trattati. Era passato del tempo da quando aveva chiesto stupito dove fossero le donne in università, ma continuava a fare errori di cui Carl non si capacitava. Dopo tutto l’amico non poteva sapere davvero quanto lui fosse straniero…

    – Una persona famosa, quindi – riassunse.

    – Un grande talento e un pessimo carattere – precisò Carl. – Non c’è da stupirsi che l’unico che la sappia tenere a bada sia il capo degli uccisori d’angeli… In ogni caso vale di sicuro la pena di ascoltarla. Si è ritirata dalle scene quando io ero ancora un bambino e non ho mai avuto l’occasione. Vieni.

 

    Si trovarono un posticino tranquillo nella sala della musica, più piccola e adiacente al gran salone della festa. Le sedie erano già state predisposte a semicerchio intorno a un grande pianoforte a coda davanti al quale erano posizionati due sgabelli.

    – Una sonata a quattro mani, quindi – gli sussurrò Carl. – Mi chiedo chi la accompagnerà.

    La curiosità fu presto risolta.

    La signora ormai sui sessanta, magra e dritta come un palo, con l’espressione di chi trova tutto ciò che ha intorno di pessimo gusto ma è troppo educata per dirlo, non poteva che essere Delia Morozov. A sedersi accanto a lei fu una ragazza persino più alta e più magra della grande pianista. Ten si scoprì a guardarla, affascinato come non era mai stato da nulla, come il serpente ammaliato dal suono del flauto che aveva visto una volta in una fiera. La giovane aveva capelli di un biondo chiarissimo che portava intrecciati in una complicata acconciatura decorati da boccioli di rose blu, dello stesso colore dell’abito tempestato di brillanti. Eppure non c’era nulla di lezioso nel viso dall’incarnato eburneo che non degnò neppure di uno sguardo la sala, per concentrarsi immediatamente sullo spartito posizionato sul leggio. Ten rimase per tutta l’esecuzione a fissarne le mani eleganti che si muovevano su e giù per la tastiera. Era uno sciocchezza. Quante mani aveva visto, ormai? Aveva imparato a considerarle normali, pratiche in un mondo dotato di gravità e non di telecinesi. Eppure, ecco, le dita affusolate che schiacciavano tasti quasi dello stesso colore, che danzavano nel creare la musica, gli spiegavano d’un colpo le poesie che i suoi antenati avevano dedicato a quel mondo, in cui la bellezza appariva all’improvviso, abbagliante come un lampo in grado di incenerire il cuore.

    La giovane suonò soltanto un brano, per poi sedersi un poco discosta dalla propria maestra, mentre questa portava a termine l’esecuzione. Non era fatta per l’immobilità, pensò Ten. Una brava ragazza dell’impero sarebbe stata ferma, con lo sguardo basso rivolto alle mani tenute unite sul proprio grembo, in docile attesa. Non c’era nulla di docile in quella posa, che sembrava piuttosto quella di un rapace pronto a lanciarsi in picchiata all’apparire di una preda. Persino i suoi occhi avevano l’azzurro delle iridi del falchi pellegrini. Il giovane studioso scosse il capo. Era tutto nella sua testa. La giovane pianista era ferma e rispettosa esattamente come ci si attendeva da lei, messa in bella mostra dalla maestra, senza dubbio, perché i buoni partiti presenti le potessero chiedere di ballare. Delia Morozov le stava di certo facendo un favore. A vent’anni le ragazze dell’impero erano già quasi tutte sposate, ma lei sembrava più prossima ai venticinque. Ten si chiese come dovesse sentirsi una ragazza in quel sistema quasi di compravendita. Qualche mese prima aveva visitato con Carl una fiera in cui si vendevano impuri. Aveva scoperto che la maggior parte di loro veniva selezionata per le particolari caratteristiche estetiche, proprio come si fa con i cavalli o con i cani e aveva visto in gabbia bambini dalle deliziose corna ritorte che spuntavano tra i capelli, ragazzetti le cui gambe terminavano con degli zoccoletti. Quando si era trovato davanti a una bambina di forse sei anni dalle piccole, perfette ali ricoperte da piume nere, tenuta al guinzaglio come si fa con un animale di pregio, si era sentito male. Aveva accampato una scusa qualsiasi per fuggire via, ripararsi in un vicolo appartato e lasciare che il suo corpo esprimesse con conati di vomito un rifiuto che sarebbe stato pericoloso esplicitare in altro modo. Eppure, vendendo gli sguardi che inevitabilmente dagli uomini presenti nella sala venivano lasciato verso la ragazza, si chiese se fosse poi tanto differente la situazione di coloro che non erano schiavi.

 

    Quando il concerto finì e iniziarono le danze, Ten si trovò inevitabilmente solo. A livello intellettuale lo affascinavano i riti di corteggiamento dell’impero, con i balli e i convenevoli stereotipati, le conversazioni già prestabilite, la necessità, per gli uomini, di stabilire non tanto o non solo la gradevolezza di una possibile partner, ma anche il suo patrimonio e la sua spendibilità sociale. A livello personale la cosa non gli interessava e gli dava una vaga sensazione di disgusto, togliendogli tutto il piacere che, in circostanze diverse, avrebbe potuto provare per il ballo. Per Carl, ovviamente, quella era un’opportunità da non perdere e si era buttato nella mischia alla ricerca di una ragazza nubile di medio livello a cui risultare simpatico. Era il terzo figlio maschio di un industriale e, se voleva sperare di mantenere il tenore di vita a cui era abituato, doveva sposare in fretta una ragazza dalla ricca dote.

 

    La sala aveva un balcone, che, nella sera ancora fredda di primavera, era rimasto vuoto. Ten ci si sistemò con soddisfazione. Non soffriva il freddo e, per i suoi occhi, la luce che filtrava dal salone era più che sufficiente per leggere. Come aveva sperato, quel libro, che poi era l’unico motivo per cui si trovava alla festa, conteneva le informazioni che stava cercando. Doveva appuntarsi i nomi delle chiese da visitare e muoversi in fretta. Non era sicuro di essere l’unico impegnato in quella ricerca e non poteva permettersi di arrivare secondo.

    Immerso com’era nei propri pensieri, quasi non si accorse che qualcun altro era uscito sulla terrazza. Alzando gli occhi nel momento in cui girava pagina, Ten si rese conto che, appoggiata alla balaustra, c’era la giovane che aveva suonato con Delia Morozov. Ne intravedeva il viso, girato di tre quarti, inconsapevole della sua presenza. Non stava davvero guardando la città che si stendeva ai piedi  avvolta dai suoi perenni fumi, in cui le luci dei lampioni a gas e quelle delle case si riverberavano quasi spettrali, ma qualcosa di più distante, altrettanto vasto e spaventoso. In mano aveva un bicchiere che non era una coppa da champagne, quanto piuttosto  un panciuto bicchiere da cognac e, come se non ci stesse pensando davvero, ne bevve un lungo sorso. Lo appoggiò alla balaustra, si chinò e armeggiò un istante sull’orlo della gonna per estrarre finalmente una scarpa.

    – Maledetti aggeggi di tortura – mormorò, prima di gettare la calzatura all’indietro, senza guardare.

    Ten si ritrasse, per evitare di venire colpito da una scarpa che, tra punta in metallo e tacco, era una discreta arma da guerra. Afferrò l’oggetto al volo e pensava di essere stato silenziosissimo, ma la giovane si girò di scatto e Ten si trovò, imbarazzato, con un libro e una scarpa in mano, di fronte al bel viso sorpreso di lei.

    – Mi rincresce moltissimo, non era davvero mia intenzione…

    – Sono sicuro che non intendevate uccidermi con la vostra scarpa – sorrise Ten, considerando la calzatura. – E concordo che ci si possa voler infilare un piede dentro solo per espiare qualche grave peccato.

    La sua reazione riuscì a riportare una parvenza di sorriso nel viso pallido della giovane.

    – Non ho parole per scusarmi… Ero arrabbiata, ma non dovevate farne le spese voi, signor…

    – Ten… Professor Tenshi Kuroha, storico dell’università imperiale – si presentò lui, porgendole la scarpa.

    Dopo anni passati a studiare i rituali di corteggiamento dell’impero com’era possibile che si trovasse a interagire con la prima donna che lo avesse davvero colpito per interposta calzatura?

    – Chi avreste voluto uccidere con questo tacco, se non sono indiscreto? – chiese.

    Lei sorrise, riprendendosi la scarpa. 

    – Il figlio minore del conte, credo. Ha pensato che il modo migliore di corteggiare la tenuta di campagna del generale Morozov, che secondo lui dovrei ereditare, fosse calpestarmi i piedi per tre giri consecutivi di valzer.

    Era del tutto diversa dalle deliziose, impersonali bamboline con cui Ten si era trovato a interagire nelle rare occasioni sociali. Quasi provò pietà per il giovane rampollo.

    – Si dovrebbe avere più cura delle tenute di campagna che si desidera corteggiare – concordò.

    – E voi, cosa vi impedisce di unirvi alla caccia alla dote che sta avendo luogo là dentro?

    – Vivo nell’impero solo da due anni. Non sono abilitato come cacciatore e inoltre potrei non pestare piedi, ma non conosco abbastanza bene le danze dell’impero da evitare una brutta figura.

    – Credetemi, non potete essere peggio di certi elefanti ballerini che caracollano per la sala.

    Ten rise. Era la prima volta, da che alloggiava nella capitale, che rideva insieme a una donna. Le uniche con cui era lecito scherzare erano le cameriere e le inservienti, che però rispondevano alle battute con sorrisi forzati, obbligati dalla consapevolezza che quello era l’atteggiamento migliore. Una volta era stato invitato da Carl a un pic-nic con le sue due sorelle minori. Due ragazze deliziose che avevano parlato di stoffe, balze e ricami per tutto il tempo, interrompendosi solo per qualche commento malevolo su notabili della città che lui non conosceva o per lanciarsi in accurate descrizioni di quello che era il loro uomo ideale, il colonnello Soilbeir. La compagnia migliore, in quell’occasione, si era rivelato il piccolo cane ricciuto delle sorelle che, se non altro, non parlava. A sentire Carl, tuttavia, quel tipo di atteggiamento vacuo era proprio quello che ci si aspettava da una ragazza e a Ten era rimasto il dubbio che le fanciulle fingessero quella superficialità solo per non dispiacere al fratello. Le donne erano talmente addestrate a comportarsi come si richiedeva loro da diventare, quasi, esseri inconoscibili nella loro essenza.

    – Non conosco il vostro nome – disse Ten.

    – Victoria e, dal momento che questa sera Delia è di umore contraddittorio, sono presentata come Moroziva.

    Ten la guardò senza capire, fino a che la giovane colse la sua perplessità.

    – Si aggiunge ivo o iva a un cognome per presentare un figlioccio, un parente povero che si intende proteggere o anche un figlio illegittimo – spiegò Victoria. – A Delia piace far pensare che si accompagni alla figlia illegittima di suo marito.

    – Ma non lo siete.

    – No, non che io sappia.

    – Non credo di aver mai conosciuto una donna come voi, qui nell’impero, o come la vostra maestra.

    Victoria rise.

    – No, non credo.

    Poi lanciò una breve occhiata al salone.

    – Oh, no. Il figlio del conte mi ha individuato! Presto, venite a ballare con me, non può importunarmi se ho già un cavaliere!

    – Potrei pestarvi i piedi, non ho mai ballato un valzer!

    Perché l’idea lo riempiva di panico?

    – Beh, siete più leggero di lui, non sarà un dramma! 

    Poi nel viso di Victoria si dipinse un’espressione maliziosa.

    – Ma se danzerete bene potrete chiedermi un premio in cambio – aggiunse.

    E Ten, chiedendosi come esattamente fosse possibile, si trovò a condurre la giovane dall’abito blu nel salone. 

 

    Ten non aveva mai ballato un valzer e, come sempre, non aveva un’idea precisa su come andassero usate le mani, ma la musica era una delle poche cose che non lo destabilizzavano. La musica non è altro che una vibrazione che si propaga nell’aria. Aria e movimento erano le prime cose di cui aveva fatto esperienza al momento della sua nascita. Non era necessario conoscerle, bastava assecondarle. Condurre con sé Victoria, beh, quello era un altro discorso. C’erano delle difficoltà tecniche. Victoria era più alta di tutte le donne presenti nella sala e anche di parecchi uomini. Ten era nella media e la giovane lo sovrastava di mezzo palmo. La danza che veniva suonata in quel momento, invece, dava per scontato che la dama fosse più esile, potesse essere presa e fatta roteare, si abbandonasse sul braccio del cavaliere e poi venisse fatta rialzare. Victoria era, senza dubbio, una ballerina nata, si muoveva con ottimo senso del tempo, senza dare segni di affaticamento, ma era forte e tonica, tutt’altro che facile da trattare come delicata bambolina senza venirne sbilanciati. Il rischio non era tanto pestarle i piedi, quanto caderle addosso, con esiti disastrosi sul piano estetico quanto su quello sociale. Poi, c’erano gli effetti imprevisti. Trovarsi così vicino a quel corpo etereo, aspirarne il profumo floreale, sentirsi addosso quegli occhi allo stesso tempo così limpidi e così indecifrabili… Non era pronto per quello. Lo avevano avvisato, ma non era pronto. In quel mondo gli individui cambiavano. C’era un momento preciso, gli avevano confidato, in cui si avvertiva il mutamento, involontario, ma irreparabile. E Ten lo sapeva che per lui era quello. L’umanità aveva cessato per sempre di essere un mero oggetto di studio.

    – Vi devo una ricompensa, professor Kuroha – disse Victoria, quando il ballo fu terminato.

    Aveva gli occhi che brillavano come acqua di sorgente accarezzata dal sole e un delizioso colore rosato si era diffuso sulle sue guance.

    – Venite con me – disse Ten, d’istinto.

    Poi si rese conto che la sua frase poteva essere variamente fraintesa. Lui stesso non sapeva esattamente come intenderla.

    – Il prossimo decadì devo andare a visitare una chiesa a qualche ora dalla capitale per una ricerca – provò, cercando di mettere ordine nei suoi stessi pensieri. – La primavera sta iniziando, può essere una gita gradevole. Sarei onorato se mi accompagnaste… Insieme a chiunque vogliate portare con voi, beninteso.

    Anche se provava un terrore del tutto immotivato nei confronti di Delia Morozov.

    Per un istante Victoria lo fissò in silenzio e Ten ebbe tutto il tempo di chiedersi cosa avesse sbagliato.

    – Non posso darvi una risposta, non sono padrona del mio tempo – rispose infine Victoria. – Potrei poter venire, mi farebbe piacere, ma potrei anche non potere.

    Ten si strinse nelle spalle.

    La conosceva da due ore, non sapeva nulla di lei e lui più di tutti era consapevole della necessità della vaghezza, in alcune circostanze.

    – Noleggerò un calesse e me lo farò portare sul retro della facoltà di storia per lo scoccare della terza ora. Ne ne aveste la possibilità e il piacere, fatevi trovare lì.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 – la gita ***


Nei giorni successivi, Ten si sforzò in ogni modo di non pensare a Victoria. Non avrebbe dovuto essere difficili. C’erano le lezioni in università e quelle al dopolavoro operaio. C’era la lettera che il rettore doveva preparargli per presentarsi a chiunque custodisse la chiesa di San Nicolao in Fonte e poterne esaminare gli affreschi. C’era la lettura del libro, per assicurarsi che San Nicolao in Fonte fosse a tutti gli effetti la sua meta. Nulla di tutto ciò lo distoglieva davvero dal pensiero di quegli occhi azzurri che sembravano allegri e tristi nello stesso momento o delle sottili labbra rosate nel viso alabastrino. Ci fu anche un attacco angelico, ma neppure quello gli diede abbastanza di cui preoccuparsi. Come spesso accadeva negli ultimi tempi, doveva essere stato causato da un gruppetto di giovani troppo esuberanti che le Ali Nere erano riusciti a fronteggiare senza danni o perdite. Da che il colonnello Soilbeir aveva sconfitto in battaglia un Alto Angelo, un generale angelico, come li chiamavano lì, anche i gruppi più estremisti avevano cessato di provocarlo. La loro, ovviamente, era solo un’attesa. I corpi degli uomini, al contrario di quelli degli angeli, non erano fatti per saltare da una dimensione all’altra. Soilbeir combatteva con le ali di un alto angelo ormai da quasi dieci anni. Presto il suo declino sarebbe iniziato e qualcuno attendeva solo quel momento per approfittarne. A meno che Ten non fosse riuscito prima nel suo intento. Quello, però, non era un problema immediato.

    Il mattino del decadì successivo alla festa, quindi, si scoprì ansioso, all’alba, ad attendere il calesse a noleggio con il necessario per prendere appunti e vivande per un pic nic per quattro persone. Era sicuro che Victoria non si sarebbe fatta viva. Perché avrebbe dovuto? La sua era stata una proposta dettata dal bicchiere di champagne che Carl gli aveva fatto bere, il suo corpo reagiva curiosamente male all’alcool, e che di certo era stata presa come tale. Nell’improbabile caso, tuttavia, in cui Victoria si fosse fatta viva non poteva farsi cogliere impreparato. Aveva comprato le prime fragole del sud, insalata con uova di quaglia, panini candidi appena sformati, formaggi e prosciutto dall’ovest, limonata, una bottiglia di vino leggero, adatto alle donne, di ottima qualità e un pacchetto di cioccolatini che sperava con tutto se stesso il sole di Pratile non sciogliesse. Nel complesso aveva investito in quell’ipotetico pranzo campestre quasi un quarto del suo stipendio. Appena il calesse gli fu consegnato ne controllò la pulizia e il buono stato dei cavalli. Sistemò le provvigioni e rimase in attesa che il grande orologio dell’università suonasse l’ora terza. Era inutile. Lei non sarebbe venuta. E se invece fosse arrivata? Mescolarsi, capire, persino simpatizzare con gli esseri umani era un conto. Sentirsene morbosamente attratto era un altro. Che cosa aveva da offrire, lui, a una ragazza dell’impero? Nel migliore dei casi un addio a mezza voce, condito con false spiegazioni che avrebbe lasciato la giovane sola e senza onore. A Ji’Quin, forse, in un’analoga situazione, avrebbe giocato solo con i sentimenti della ragazza, ma nell’impero trascinarla in una relazione senza domani significava rovinarla. Relazione che mai si sarebbe concretizzata, certo, dato che Victoria non sarebbe arrivata e lui non l’avrebbe mai più rivista.

    L’orologio suonò il primo rintocco della terza ora, il suono che otto giorni su dieci segnava l’inizio delle lezioni, e in contemporanea Victoria fece la propria apparizione dalla svolta in fondo alla via. Indossava un abito semplice, una lunga gonna nera, un corpetto stretto che evidenziava i piccoli seni e una camicia bianca a collo alto. 

    – Siete incantevole – disse Ten, con totale sincerità.

    Lei parve godersi il complimento e fece una giravolta su se stessa, come se avesse dieci anni di meno, facendo ondeggiare i lunghi capelli chiarissimi, acconciati in morbidi boccoli.

    – Possiamo passare a un tono più informale? – lo implorò. – Non posso pensare di passare una giornata di vacanza annegata dai convenevoli.

    – Molto bene – annuì Ten, a cui in realtà le formalità davano sicurezza. – Quando arrivano gli altri?

    – Quali altri?

    Il professore si guardò intorno, perplesso.

    – Beh, non posso certo portarmi in giro per tutta la giornata una ragazza nubile…

    – Ti assicuro, nessuno ti sfiderà a duello per questo – replicò Victoria, divertita.

    – …

    – Perdonami, non volevo metterti in imbarazzo – aggiunse la giovane, più seria. – L’unico candidato era… Una sorta di parente, un ragazzino di neppure quindici anni che, credimi, non vuoi conoscere. Quindi l’alternativa per me era perdermi la gita. Ma dal momento che non ho parenti che verranno a chiederti conto del mio onore e che non credo tu voglia approfittare di me, ho pensato, perché no? È uno straniero, non conosce davvero le follie dell’impero, forse potremo essere solo due persone che si godono una bella giornata.

    Ten annuì.

    – È proprio perché sono uno straniero che non voglio correre il rischio di sbagliare qualcosa.

    Victoria lo guardò con occhi imploranti.

    – Sul calesse ci sono provviste per un esercito, non vorrai dover gettare via tutto quel ben di Dio? È il mio onore, al limite, quello a rischio.

    Solo in quel momento, mentre lei si sporgeva all’interno del calesse reggendosi con entrambe le mani, Ten si accorse che aveva la destra bendata.

    – Cosa vi… Ti è accaduto.

    Lei la mosse con fare noncurante. 

    – Un’ustione, niente di che… Anzi, no, sono ferita. Non puoi negarmi il potere curativo della campagna!

    

    Pensando ancora che fosse una pessima idea, di certo i parenti della giovane non sarebbero stati contenti, Ten si trovò a condurre il calesse verso la campagna con Victoria a fianco.

    Forse, però, non c’era davvero nulla di cui preoccuparsi. A Ji’Quin una situazione del genere avrebbe generato al più qualche battuta maliziosa. Nell’impero… Beh, Victoria non sembrava il tipo da inventarsi di punto in bianco di essere stata costretta e aggredita. Sembrava… Una bambina entusiasta. Appena il calesse si fu lasciato indietro gli ultimi edifici della capitale e i fumi delle sue industrie, Ten vide con la coda dell’occhio il viso della sua accompagnatrice illuminarsi. I suoi occhi azzurri si spalancavano di fronte alle colline verdi di quel Pratile mite, come se non avesse visto nulla di più emozionante di una fattoria o di qualche pecora al pascolo che si era avvicinata alla strada.

    – Erano anni che non uscivo dalla capitale – confidò.

    Ten la guardò di sottecchi. Prima dichiarava che nessun parente le avrebbe fatto una colpa per quella fuga in solitaria con un uomo e poi dava a intendere… Che vivesse segregata?

    – Come mai? – si arrischiò a chiedere.

    – Te l’ho detto, sono padrona di molte cose, ma non del mio tempo – rispose lei, seria, continuando a guardare il paesaggio. – Ho una sorta di… Occupazione. Non sarai di quelli contrari al fatto che le donne lavorino, spero.

    Ten scosse il capo.

    – Al contrario. A Ji’Quin la mia assistente in università era una donna. Ho una gran nostalgia di Yuuko e del modo in cui sistemava i miei appunti. Ora tiene lei la mia cattedra… Tu sei pianista, suppongo.

    – No. Di tanto in tanto Delia ha la bontà di suonare con me, ma, anche se ne avessi il talento, non mi esercito abbastanza per farne una professione… Tu invece studi gli angeli?

    Aveva evitato di specificare di cosa si occupava. Era stata presentata come una parente povera dei Morozov. Probabilmente si vergognava a rivelare che faceva l’istitutrice, la cameriera, o, considerata l’ustione alla mano, la cuoca. Ten cercò di immaginarla, con i suoi movimenti aggraziati e l’innata eleganza, in una cucina e gli parve quasi un delitto.

    – Sì, anche se qui la gente non sembra molto interessata agli angeli, se non per come combatterli – rispose.

    – Loro cercando di distruggerci. Il nostro interesse mi sembra giustificato.

    – Non sono tutti nemici.

    – Perché? – chiese Victoria.

    Sembrava genuinamente interessata. Forse lo faceva solo per educazione. Avrebbe dovuto chiederle quali abiti preferisse, o chissà cos’altro fosse considerato appropriato discutere con una donna…

    – Beh, se tutti gli angeli attaccassero il mondo umano lo avrebbero già distrutto – rispose.

    – Lo so. Le Ali Nere in servizio attivo sono venticinque. Venticinque persone che si recano in un mondo che non è il loro, con attaccate parti di corpi che non sono i loro e che tuttavia riescono ad arginare gli attacchi degli angeli. È difficile che più di dieci angeli attacchino insieme e… Ho letto dei resoconti secondo cui alcuni angeli si sono limitati ad osservare o addirittura hanno prestato aiuto alle Ali Nere.

    – A Ji’Quin raccontano che furono gli angeli e i demoni a costruire questo mondo. Gli uni sono creature di tenebra e aria, gli altri di fuoco e di luce. Qui esistono la tenebra e la luce, entrambi possono modificare il proprio corpo per poterlo visitare e potersi incontrare. Hanno fatto questo mondo bellissimo, popolato di creature meravigliose.

    Victoria lo guardava con la fronte aggrottata.

    – Ho letto alcune di queste storie di Ji’Quin. Che cosa sarebbero gli uomini? Graziosi animaletti introdotti come uccelli in una voliera decorativa? E perché mai gli angeli ce l’avrebbero con noi?

    Ten sorrise. Pensò che neppure i migliori dei poeti angelici del passato, che avevano dato forma alle loro canzoni per creare il Mondo di Mezzo, sarebbero riusciti mai a dare vita volontariamente a qualcosa di bello come Victoria.

    – Gli esseri umani sono qualcosa di sfuggito al controllo – disse. – Angeli e demoni volevano incontrarsi e conoscersi. Sono cose pericolose gli incontri: se ne viene sempre cambiati. Alcuni di loro finirono per amarsi e da quegli amori nacquero gli uomini, creature perfettamente adattate a questo mondo, ma incapaci di sopravvivere, senza adeguate attrezzature, nelle dimensioni dei loro progenitori. A questa progenie non prevista fu lasciato il mondo. Alcuni degli angeli, tuttavia, ritengono disgustosa l’idea stessa che gli angeli si siano uniti con i demoni. Il frutto di quest’unione dovrebbe sparire o essere sottomesso e questo mondo ridotto a una colonia dei domini angelici.

    – Quindi mio nonno era un angelo? – domandò Victoria, con un certo scetticismo nella voce.

    – Forse un bis, bis, bisnonno. Perché no?

    Victoria scosse il capo.

    – Come le sapete queste cose? Gli angeli ci bersagliano con i loro lampi di energia direttamente dalla loro dimensione. Non vengono quaggiù a tenere conferenze.

    – Chi dice che non vengano, con corpi simili a quelli umani? Chi dice che non l’abbiano fatto? Il  mio lavoro consiste proprio nell’andare in cerca di queste informazioni.

    – È questo che stiamo andando a cercare in una chiesa di campagna? La testimonianza di un angelo in incognito?

    – No. Andiamo a cercare il cuore di un generale angelico. Guarda, siamo arrivati!

    Davanti a loro si profilava un paesino di campagna, tutto raccolto ai piedi di una collina boscosa, sulla cui cima si intravedevano i ruderi di un castello. Un poco discosta dal paese, sulle rive di un torrente, c’era un’antica chiesa dall’alto campanile di pietra.

    – San Nicolao in Fonte – la indicò Ten.

    – Che cos’ha di speciale? – domandò Victoria.

    – Tutte le Ali Nere combattono con ali d’angelo uccisi collegate ai loro corpi, ma solo il colonnello Soilbeir utilizza ali di generale angelico.

    – Sì…

    – Com’è morto quel generale?

    – È stato ucciso con una lancia che gli ha trafitto il cuore, secoli fa – rispose Victoria, rabbrividendo.

    – Sì, e questa uccisione è rappresentata in centinaia se non migliaia di statue e dipinti. Io sono a caccia di un altro generale angelico. Vieni.

 

    Li attendeva un anziano canonico, pallido e sottile come le candele che rischiaravano la navata, come se fosse fatto anch’egli di cera. Victoria si presentò con naturalezza come la cugina di Ten, come se non vi fosse nulla di strano per una ragazza così alta e chiara dichiararsi parenti di un uomo di cui tutto, dal nome ai capelli neri, passando dagli occhi leggermente a mandorla denunciava un’origine jiquinita. La semplicità con cui mentiva impensieriva un poco Ten, ma lui stesso lo faceva, ogni volta che gli chiedevano del suo passato. Questo come lo poneva nei confronti di una ragazza che aveva la stessa propensione alla dissimulazione? La sua era necessità, Victoria sembrava piuttosto divertirsi. Questo escludeva che fosse necessità?

    – La chiesa di San Nicolao in Fonte è estremamente antica – spiegò il prelato. – La prima costruzione è antecedente a quella del castello e risale almeno a cinque secoli fa, agli albori dell’impero. Per questo il primo ciclo pittorico, scoperto sotto un intonaco posteriore circa una settantina di anni fa, è di estremo valore storico. Era tempo che qualcuno lo degnasse si attenzione.

    Un peccato, sembrava dire lo sguardo, che tale attenzione tardiva si fosse presentata nelle vesti di un giovane straniero dall’aspetto goffo accompagnato da una donna. Non c’erano più i luminari di una vola.

    – Faremo il possibile per valorizzarle – replicò Ten, conciliante.

    Al suo fianco Victoria si era fatta attenta e rispettosa. L’esuberanza fanciullesca di cui aveva dato sfoggio durante il viaggio aveva lasciato il posto al ritratto di una giovane donna posata, quasi devota. Quante donne si nascondevano dietro quel bel viso? Possibile che fossero tutte, comunque, Victoria? Ten la osservò allontanarsi discretamente dal suo fianco per andare ad accendere un cero sotto la statua di San Nicolao, che aveva l’aspetto di un vecchio e saggio pastore. Era famoso per la pazienza, protettore delle occupazioni gravose, ma necessarie a cui ci si rivolgeva per ricevere aiuto nel caso di un lavoro difficile, che si dubitava di riuscire a portare a termine. 

    Appena giunto davanti agli affreschi, tuttavia, Ten ritrovò Victoria al proprio fianco.

    – Ecco, guardate – disse il prete, indicando i disegni semi cancellati, realizzati alla maniera stilizzata che era in uso al tempo. – Un generale angelico, riconoscibile per le ali enormi, minaccia un villaggio. Dalle case escono gli uomini, armati di lunghe lance, lo circondano e hanno la meglio su di lui. Dev’essere stata un’epica battaglia…

    – Non penso che un villaggio possa in alcun modo avere la meglio su un generale angelico, sopratutto usando semplici lance – mormorò Victoria, interessata.

    – Mia cara, anche san Astulf ha ucciso un generale angelico con una lancia – replicò il religioso, con la condiscendenza che si usa con i bambini, e le donne.

    – La lancia di san Astulf viene conservata ancor oggi, è fatta di un materiale ignoto – disse Victoria. – E lo ha colpito al cuore.

    – Non sembra neppure che il generale angelico sia una minaccia per il villaggio – intervenne Ten. – E una volta attaccato non fa nulla per difendersi. Perché?

    La loro guida si strinse nelle spalle.

    – A queste domande, temo, solo l’autore del dipinto e forse l’angelo potrebbero rispondere – disse. – La gente del villaggio ha avuto la meglio, vedete? Ne smembra il corpo e poi lo getta nelle fiamme.

    Era solo una scena dipinta secoli prima da gente che pensava di aver agito per il meglio, eppure Ten percepì il disagio con la fisicità propria di quel mondo, come se qualcosa di umido e freddo gli camminasse lungo la schiena, quasi paura. E la paura era un parassita pronto a infilarsi nel suo corpo e a contaminarlo. Era quel genere di pensieri che portava a pensare che tutto sommato era meglio distruggere gli esseri umani prima di essere squartati e gettati nelle fiamme.

    Il commento di Victoria fu più cinico:

    – Ali e sangue sprecati.

    – Ma le fiamme non lo consumarono del tutto – continuò il prete. – Quando le fiamme si spensero, gli abitanti trovarono il cuore incorrotto del generale angelico. Consultarono saggi e altri prelati e decisero di immergere il cuore in uno speciale vetro fuso per farne una reliquia.

    – Che si trova? – chiese Ten, voltandosi verso l’uomo.

    Sperò di non essere risultato troppo ansioso o rapace.

    Il prete, tuttavia, si limitò ad alzare le braccia.

    – Chi lo sa? Sono passati molti secoli. Qui ne abbiamo una riproduzione. Aspettate, ve la mostro.

    – Cosa sarebbe accaduto a quel cuore se non fosse stato immerso nel vetro fuso? – chiese Victoria a Ten, mentre il prete si era allontanato in quella che era probabilmente una sagrestia.

    – Che cosa accadrebbe se il vetro fosse rimosso? – domandò lui di rimando.

    – Ecco, guardate – tornò il prete, svolgendo un oggetto dal velluto che lo proteggeva.

    Non era nulla di notevole. Era una scultura di metallo che rappresentava un cuore, un poco più grande di quello umano, contenuto in un’ampolla di vetro.

    – Una leggenda vuole che un tempo ci fosse una confraternita dedita alla protezione della reliquia originale – continuò l’uomo. – Chissà poi perché tanta segretezza…

    Ten si concesse un mezzo sorriso. Chissà perché…

    Se tutti i preti erano svagati come quello, pensò, antica segretezza o meno, doveva essere possibile trovare la reliquia, ora che aveva prove della sua esistenza. Come lui, però, altri potevano farlo…

    Per il momento, tuttavia, non c’era molto altro da fare nella piccola chiesa e, dopo i ringraziamenti di rito, Ten e Victoria si diressero verso l’uscita. La giovane si era fatta pensierosa, come se qualcosa all’improvviso la turbasse.

    – Avrei dovuto proporti una gita più allegra, invece si portarti a vedere disegni scoloriti di antichi fatti di sangue – si scusò Ten.

    – No, non è questo – scosse il capo lei. – Solo pensavo alle tue spiegazioni. Se hai ragione, tutto questo nostro mondo non è che un costrutto artificiale e noi siamo figli di angeli e demoni. Chi pregiamo allora, quando eleviamo le nostre suppliche a Dio? Che senso ha tutto ciò a cui abbiamo sempre creduto?

    Era qualcosa a cui Ten non aveva pensato. Non si era mai posto il problema che la verità sull’origine del mondo potesse andare in conflitto con la teologia umana, almeno con quella dell’impero. Lo era?

    – I figli nascono dai genitori e comunque non li considerano dei – provò, improvvisando. – Credo si possa riconoscere i propri antenati senza disconoscere la volontà di un Dio che stia più in alto di uomini e angeli.

    – Chi pregano gli angeli?

    Ten si strinse nelle spalle. Una risposta sincera avrebbe comportato esporre informazioni che un docente umano, per quanto erudito, non avrebbe potuto avere.

    – Chi lo sa? Ma chiunque abbia creato gli angeli non può considerare gli uomini figli di minor valore… Ma io non sono molto religioso…

    – Io non sono una grande praticante – sorrise Victoria. – Ma sono cresciuta in un istituto di religiose. A loro modo erano donne libere, che mi hanno insegnato che valgo per me stessa, non per i parenti uomini che ho o che potrò avere e mi hanno dato opportunità che altre, nelle mie condizioni, non hanno avuto. Molte di loro avevano una fede sincera, fa tristezza pensare che possa essere tutta illusione. E, in ogni caso, ci sono momenti in cui si ha bisogno di invocare, o maledire, qualcuno.

    – Mi hanno chiesto di tenere dei corsi in una società operaia dove l’ateismo determinista va per la maggiore. Devo ammettere che «porco principio di adattamento delle creature alle condizioni ambientali» non dà molta soddisfazione.

    Questo fece ridere Victoria e permise a Ten di indirizzarla verso la sommità della collina per il pranzo.

    Usciti dalla chiesa, all’ombra delle piante, fu molto più facile trovare argomenti più allegri di cui parlare. Victoria non era forse una pianista di professione, ma amava la musica e ascoltò con manifesto piacere i racconti di Ten sulle canzoni tradizioni di Ji’Quin e accennò, con la sua aggraziata voce da mezzosoprano alcune arie popolari che il giovane non aveva mai sentito. Ten si trovò a pensare che avrebbe apprezzato la musica degli angeli, prodotta dal vibrare delle piume sulle loro ali e per un istante fantasticò di fargliela ascoltare…

    – Cioccolatini di Martin’s! – esclamò Victoria, scoprendone la scatola e interrompendo le sue fantasticherie. – Avrai speso una fortuna! E sono tutti diversi… Adesso come faccio a scegliere?

    Ecco, sembrava di nuovo una bambina entusiasta nel giorno del proprio compleanno.

    – Se ne prendo uno impedisco a te di provarlo! – si imbronciò.

    – Non pensavo neppure che si potessero fare così tanti tipi di cioccolatino – considerò Ten. – Non ho resistito alla tentazione di prenderli tutti. Ma basterà tagliarli.

    Più facile a farsi che a dirsi. Il primo si spappolò, rivelando un ripieno di composta di lamponi. Dal secondo uscì il liquore. Il terzo, più consistente, si frantumò in una miriade di pezzettini. Il quarto Victoria lo prese tra due dita e, con un gesto deciso lo spezzò con i denti, per mangiarne una parte e porgerne una metà a Ten. Lui rimase un istante immobile, di fronte a quella soluzione impertinente, ma non trovò di meglio da fare che mangiare la sua parte, mentre Victoria si leccava le dita sporche di cioccolato con un gesto di colpo conturbante. La giovane si interruppe con la punta dell’indice ancora appoggiata alle labbra. I loro occhi si incrociavano e Ten sentì le proprie guance avvampare, sciocca reazione fisiologica umana che, per altro, in teoria mal avrebbe dovuto adattarsi al suo corpo dall’aspetto jiquinita. 

    – Anche tu hai le dita sporche di cioccolato – disse Victoria, a bassa voce.

    Dando tutto il tempo a Ten per comprendere la situazione, dire qualcosa o tirarsi indietro, gli prese la mano e, con dolcezza, si portò alle labbra l’indice, succhiandolo appena.

    Il giovane rimane completamente paralizzato, del tutto incapace di elaborare le sensazioni dei ricettori impazziti del proprio corpo. Le mani. Quelle strane appendici di quel corpo alieno che all’inizio  gli avevano fatto impressione. E di cui ora voleva solo scoprire tutte le potenzialità.

    Senza che ne fosse del tutto consapevole, i loro corpi si erano fatti più vicini. Come per effetto della gravità, la forza che governava quel mondo, in modo altrettanto ineluttabile e perfetto, furono le loro labbra, adesso, ad incontrarsi. 

    Un pettirosso, da qualche parte, levò il suo canto.

    Una foglia si mosse appena. 

    Lo scorrere del tempo si era interrotto. C’erano solo il canto dell’uccello, il frusciare della foglia, le labbra morbide di Victoria sulle sue. Null’altro aveva importanza.

    Le labbra di lei non offrivano alcuna resistenza, si schiudevano docili al suo tocco. Quella bocca voleva essere invasa. La consapevolezza di questo provocò una scarica di adrenalina in grado di ridare a Ten una parvenza di lucidità. Afferrò con dolcezza le mani di Victoria, scostandosi.

    – È il caso di rientrare, prima di fare cose di cui entrambi potremmo pentirci – mormorò.

    Aveva il respiro affannato e nel pronunciare quelle parole gli parve quasi di commettere un delitto.

    – Potremmo pentircene? – domandò Victoria, inclinando appena la testa di lato, in un’espressione del tutto indecifrabile.

    – Tu potresti pentirtene. Io, di sicuro, potrei pentirmene se questo dovesse crearti problemi. C’è sicuramente qualcuno a cui appartieni e a cui dovrai rendere conto.

    Lei non lo guardò. 

    Si erano sistemati sotto un albero, sull’erba. C’erano delle violette accanto a Victoria e lei prese a tormentarne una con la mano bendata.

    – Hai ragione, potremmo pentircene. Non appartengo a qualcuno, ma a qualcosa e oggi, quasi, me ne sono dimenticata. Perdonami.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 – Dopo la lezione ***


Nei giorni seguenti, Ten si scoprì a pensare molti più spesso a Victoria piuttosto che al cuore di Alto Angelo prigioniero nel vetro e conservato chissà dove come reliquia sacra. In entrambi i casi l'ubicazione rimaneva misteriosa e risultavano pertanto irraggiungibili. Ten non aveva idea di dove vivesse Victoria, né quale fosse la sua misteriosa occupazione. Peggio di tutto, rimaneva la sensazione di aver buttato via per eccessivo scrupolo un momento unico, che mai si sarebbe ripetuto. Cosa sarebbe accaduto davvero all’ombra di quelle piante, dove nessun occhio umano li avrebbe potuti scorgere, se lui non si fosse tirato indietro? Si era presentata un’opportunità così terribile? La verità era che, oltre tutte le considerazioni morali, aveva avuto paura. Paura di un corpo che reagiva in modo diverso, di sensazioni impreviste, di qualcosa che rischiava di cambiarlo nel profondo. Quel mondo era pericoloso. Ora lo capiva. Comprendeva molto meglio coloro che lo odiavano e volevano distruggerlo, piuttosto che essere consapevoli in ogni istante dell’esistenza di un luogo in cui persino gli angeli erano tanto vulnerabili.

 

    Il rientro da San Nicolao era stato malinconico. Avevano cercato di fare conversazione leggera. C’erano riusciti, a tratti. C’erano state delle risa. Ma ciò che si era infranto non poteva più tornare integro. C’era stata la sensazione, a tratti, mentre il profilo della città si avvicinava, con le sue ciminiere e, in cima alla collina, il palazzo imperiale, di riportare un prigioniero evaso. Quando Victoria pensava che Ten non la stesse guardando la sua espressione aveva una nota di desolazione che di nuovo aveva portato il giovane a domandarsi se non vivesse reclusa.

    – Dove ti accompagno? – aveva chiesto.

    Lei aveva dato l’indirizzo di villa Morozov, in uno dei sobborghi più eleganti. Ten non poteva pensare che la donna austera che l’aveva invitata a suonare al suo fianco in una festa esclusiva ora la chiudesse in cantina o qualcosa del genere.

    – Va tutto bene? – aveva chiesto.

    – Sì, davvero. È stata una bellissima giornata.

    Gli aveva posato un bacio leggero sulla guancia, come si fa per ringraziare un parente anziano per un bel regalo. Una volta scesa dal calesse, si era voltata a salutarlo con la mano levata. Sorrideva, ma aveva sempre qualcosa di triste nello sguardo. O, forse, era Ten che lo immaginava.

 

    Aveva avuto tempo, dopo, per pensare se fosse il caso di contattarla. Poteva scriverle a casa Morozov, o mandarle dei fiori. Dei cioccolatini forse era meglio di no, tutto considerato. Per fare cosa? Ricordare un bacio che non avrebbero dovuto scambiarsi? Una relazione che non poteva nascere? Non potevano negare l’evidenza. Non era stata innocente la gita, né disinteressata l’amicizia. La cosa migliore per entrambi era dimenticare e andare avanti. Victoria non avrebbe certo faticato a far innamorare di sé un partito migliore. Provò a immaginarla accanto a una culla, intenta a ricamare, a sorridere a un ipotetico marito che tornava a casa, a figurarsela felice. Gli venne in mente soltanto lo sguardo assetato con cui guardava il cielo terso, come volesse abbeverarsi di un paesaggio che le era negato. E poi le sue labbra morbide intorno al suo indice. La mani, davvero, non avrebbero mai dovuto esistere.

    Concentrarsi sulle lezioni da tenere e le ricerche da effettuare era complicato. Aveva voluto conoscere gli uomini, mescolarsi a loro, arrivare a capirne i pensieri. L’obiettivo era stato raggiunto, fin troppo. Lui conosceva la verità, sapeva dove portava quella strada. Ogni volta che incrociava lo sguardo con quello di uno schiavo impuro si domandava se fosse a sua volta figlio di due impuri, selezionato magari per l’estetica o la resistenza, come un cavallo o un cane, o il figlio di un uomo sparito senza una spiegazione.

    Il lavoro teneva a bada i pensieri, come sempre. Così Ten si trovò, senza volerlo davvero, a tenere lezioni in cui sfuggiva lo sguardo degli studenti, limitandosi a leggere i propri appunti.

    Era esattamente quello che stava facendo dodici giorni dopo quel decadì, quando si accorse, all’inizio in modo vago, poi più chiaro del disagio che serpeggiava tra gli studenti presenti in aula. Cauto, alzò lo sguardo per indagare e, sulle prime non vide nulla. La sua materia «Storia dei rapporti con gli angeli» era inserita in numerosi piani di studi, anche se per tutti quanti era secondaria. Quindi Ten era abituato ad avere davanti decine di aspiranti letterati, storici e artisti piuttosto annoiati, ben diversi dai pochi, malmessi, ma ricettivi e provocatori studenti del dopolavoro operaio. Adesso, però, i giovani seduti sui banchi disposti a semicerchio sembravano attenti, solo non a lui. Cercando con scarso successo di non darlo a vedere continuavano a occhieggiare una figura seduta in ultima fila con un cappello calato sul capo. Il problema era che sia il cappello che il cappotto erano parte di un’uniforme militare che sembrava in tutto e per tutto quella di un ufficiale. Peggio, il nero e oro erano appannaggio di un unico corpo militare, le Ali Nere, gli uccisori d’angeli.

    Ten sentì il suo cuore accelerare, mentre, non voluta, si palesava alla sua mente l’immagine della lancia forgiata dai demoni, in grado di uccidere anche un Alto Angelo e che, stando alle sue informazioni, era costudita dalle Ali Nere. Possibile che lo avessero individuato e identificato come un nemico? Proprio lui tra tutti gli angeli che, in forma umana, si aggiravano per l’impero? Chi poteva averlo riconosciuto e tradito? Non un altro angelo. Un demone? Il fratello/sorella?

    Si costrinse a respirare.

    L’uomo si limitava a starsene seduto in fondo, con il cappello calato sul capo. Lui era un esperto d’angeli, aveva parlato con Victoria, che viveva o frequentava casa Morozov. E il generale Morozov era il comandante in capo delle Ali Nere. Magari qualcosa di ciò che aveva detto era stato riferito al generale, che aveva mandato qualcuno ad assistere alla sua lezione. Nei suoi piani, un contatto con le Ali Nere, quando si fosse sentito sicuro, era auspicabile. Quando si fosse sentito sicuro… 

    Si obbligò a riprendere il filo del discorso. Nessuno dei suoi studenti osò fare domande. In generale, nell’impero i militari facevano paura. Le Ali Nere erano considerati eroi, lo erano a tutti gli effetti, ogni anno alcuni di loro morivano per limitare i danni che gli angeli estremisti cercavano di fare al mondo umano. Ma i militari erano anche coloro che sedavano le rivolte, si facevano pochi scrupoli a sparare sulla folla, sia che protestassero operai per salari più dignitosi, o per i diritti degli impuri o fossero donne arrabbiate per i diritti di cui nell’ultimo decennio erano state private. Se poi qualcuno osava una parola di troppo contro il governo, veniva gentilmente accompagnato verso una carrozza o un’auto a vapore da un militare in uniforme e di lui non si sapeva più nulla. Aveva fatto qualcosa che potesse spingere a un simile trattamento? Non gli pareva e di certo le Ali Nere erano troppo preziose per impiegarle in un banale arresto.

    Arrivare alla fine della lezione fu un sollievo.

    Gli studenti si affrettarono a uscire, vociando appena. L’ufficiale non si mosse. Ten, come sempre, impiegò un certo tempo a recuperare i propri libri e gli appunti su veline che aveva proiettato sulla parete grazie alla lanterna magica. L’ufficiale continuava a non muoversi. Dall’ombra del cappello, i suoi occhi da rapace non perdevano neppure uno dei suoi movimenti. Un’ulteriore ipotesi si palesò alla mente di Ten. Victoria, pupilla di Morozov, era la promessa di un ufficiale delle Ali Nere e lui stava per essere sfidato a duello. Prospettiva interessante su un piano intellettuale, devastante su quello personale.

    Non gli restò che tentare di guadagnare l’uscita. 

    L’ufficiale si alzò in piedi, sempre con il cappello a ombreggiargli il viso, rivelando di avere lunghi capelli chiari che portava sciolti ma infilati all’interno del cappotto. I capelli lunghi erano un vezzo delle Ali Nere, anche se avevano lo scopo pratico di nascondere l’impianto alla base della nuca che permetteva al dispositivo con le ali d’angelo di connettersi al loro corpo. La tonalità era la stessa di quella di Victoria. Un fratello, quindi?

    Il militare lo attendeva accanto all’uscita, non c’era modo di evitarlo. Ormai la sala era vuota, ad eccezione di loro due. 

    Finalmente, alzò il viso, permettendo a Ten di vederlo. A contrasto con il nero dell’uniforme, il volto era ancora più pallido. Le labbra rosate, non valorizzate dal trucco, erano più sottili di quanto gli fossero parse e l’espressione era più dura e affilata. Ma gli occhi azzurri di Victoria lo guardavano con calma attenzione, studiandone la reazione.

    – Professore Kuroha, dobbiamo parlare – disse, con voce appena più roca di quanto ricordasse. – Ti devo una spiegazione.

    – Sì – fu tutto quello che Ten riuscì ad articolare.

 

    Con quel senso di irrealtà che è tipico dei sogni, Ten si trovò a seguire Victoria per le vie del quartiere universitario.

    Victoria?

    Era la persona con cui aveva condiviso la gita a San Nicolao in Fonte. Sulla mano, ormai priva di bende, era evidente il segno di un’ustione che andava guarendo. Il modo in cui si muoveva, in cui guardava con decisione davanti a sé erano tipicamente maschili. Il cappotto dell’uniforme cadeva elegante sul corpo snello e il viso… Così, senza trucco, aveva una bellezza androgina a cui non si poteva attribuire un genere con precisione. Possibile che il colonnello Soilbeir, poiché ora che ne riconosceva il grado e i lunghi capelli per cui era famoso non poteva sbagliarsi sulla sua identità, si divertisse a travestirsi da donna con la complicità della moglie del proprio generale? No, non era possibile, certo… E allora?

    Victoria, o il colonnello, entrò con decisione in un pub, ritrovo esclusivamente maschile. Dallo sguardo che si scambiò con l’oste era evidentemente un cliente abituale.

    – Ho bisogno di riservatezza, Ben – disse infatti all’uomo dietro al bancone. – Posso prendere la saletta?

    – Fate come se foste a casa vostra, colonnello. Cosa vi porto?

    – Una birra scura. Ten?

    – Per me una chiara – boccheggiò il professore.

    Ten fu guidato con la sicurezza di chi conosce bene il posto in una saletta laterale che conteneva solo un tavolo, addossato su un lato a un divanetto. Ten scelse il divano e il suo interlocutore si sistemò, rigido e marziale, sulla sedia davanti a lui. Immediatamente, sopraggiunse Ben con i due boccali di birra.

    – Ecco – li servì.

    – Grazie – replicò il colonnello, estraendo il portamonete per pagare.

    – Non c’è bisogno, con tutto quello che rischiate per la nostra sicurezza.

    – Basta con questa storia. Io ho il mio lavoro, tu il tuo, entrambi ci sudiamo i nostri guadagni – replicò il militare, continuando una conversazione precedente e mettendo il dovuto nelle mani dell’oste.

    Un istante dopo erano soli.

    Ten vide l’espressione indecifrabile della persona che aveva davanti frantumarsi all’istante, lasciando trasparire d’un colpo Victoria. Una Victoria imbarazzata e incerta, che si stringeva le mani l’una con l’altra sul tavolo.

    – Ecco, questa sono io – si limitò a dire, afferrando il proprio boccale.

    – Questa…?

    – Victoria Soilbeir, colonnello delle Ali Nere – disse. – Io… Non ti ho mentito su nulla. Solo che… Come vedi è un po’ complicato.

    – Non capisco – disse Ten, sincero.

    Alle donne era vietata la carriera militare. Il colonnello Soilbeir si concedeva pochissime uscite pubbliche, quasi solo la parata della Festa delle Forze Armate, il dieci di Nevoso, ma si sapeva che ricopriva il proprio ruolo da quasi dieci anni e Victoria non poteva aveva più di venticinque anni. Guardò la propria birra, accigliato. 

    – Sai come si diventa un membro delle Ali Nere? – chiese Victoria, con un tono dolce.

    Lo guardava con la testa leggermente inclinata, come aveva fatto durante la gita. Come se lo volesse studiare da un’angolatura differente.

    – Ci sono dei test fisici a cui vengono sottoposti i bambini – rispose Ten, come se fosse una sorta di esame. – I migliori arrivano al quartier generale. Solo pochissimi, però, riescono a tollerare l’impianto e la connessione con le ali degli angeli.

    – Pochissimi, sì… Ora immagina una bambina di dieci anni cresciuta in un istituto religioso per orfani. Non un posto tutto preghiere e silenzio, al contrario, piuttosto grida di bambini lasciati giocare liberi nei prati. Lei era la più scatenata e indisciplinata di tutta la banda. Per niente portata per il ricamo e le altre attività femminili, ma in grado di avere la meglio anche su cinque bambini insieme… Io non so perché fu fatta partecipare alle prove, anche se allora non erano vietate espressamente alle femmine. A volte mi chiedo se quelle donne non avessero scelto di votarsi a Dio perché quello era un modo per essere libere, senza un uomo che dicesse loro ogni giorno cosa fare… La bambina, quindi, risultò la migliore del distretto e fu mandata al quartier generale delle Ali Nere… Lì, senza sapere che era una femmina, fu sottoposta alla prima prova: farle bere del sangue d’angelo per vedere se il suo corpo era compatibile. Il bambino prima di me cadde in preda alle convulsioni e gli si scatenò una febbre celebrale. Io trovai il sangue salato e sgradevole, ma nulla di più.

    – E quindi decisero di non rinunciare a un candidato idoneo – mormorò Ten, che iniziava a capire.

    Victoria annuì. Prima di proseguire bevve un lungo sorso di birra.

    – Sono pochissimi coloro che riescono a sopportare le Grandi Ali, le uniche ali di generale angelico in nostro possesso. È bene che ci siano sempre almeno due persone addestrate a farlo pronte all’azione. Tra i cadetti solo io riuscii a sopportare la connessione. Pochi giorni dopo, da un parlamento all’oscuro di questo fatto, fu emanata la legge che vieta alle donne la carriera militare. Che cosa era giusto fare a quel punto?

    Ten scosse il capo…

    – Questo accadeva… Dieci anni fa, più o meno?

    – Sì. Neppure un anno dopo sono andata per la prima volta in battaglia con le Grandi Ali.

    – Com’è possibile che nessuno sappia niente? Che la notizia non si uscita?

    Victoria si passò una mano tra i capelli.

    – Le Ali Nere sono un gruppo ristretto che si basa sulla fiducia. Là fuori, di fronte ad angeli che ci uccidono con lo sguardo, ognuno di noi affida la vita agli altri. Non puoi neanche pensare di tradire chi tiene la tua vita in mano.

    Poi scosse il capo.

    – Non è così semplice, in realtà – aggiunse. – Questo è vero per quei soldati che si sono addestrati con me o che erano già nel corpo mentre mi addestravo. Per i più giovani… La mia identità è diventato una sorta di segreto iniziatico che viene loro rivelato dopo la prima connessione riuscita. E non penso che mi considerino davvero una persona. Sono una sorta di mostro leggendario. Un esemplare unico che risponde a regole proprie. Se anche qualcuno ha raccontato in giro che sono una donna, non è stato creduto.

    – Devi essere molto sola – disse Ten.

    Lui la conosceva la solitudine. Nascondere la propria essenza, lasciando che la maschera entrasse ogni giorno più in profondità, fino a mescolarsi e a sostituirsi con la propria identità. Victoria però scosse il capo.

    – Non per i motivi più ovvi – disse, senza guardarlo. – Dei dieci ragazzi giunti con me dopo quella prima selezione rimaniamo in tre. E io inizio a non sopportare più di seppellire degli amici. Arriva un momento in cui le morti sono semplicemente troppe e non importa neppure più che siano uomini o angeli. È una guerra che non possiamo vincere. Siamo piloni di difesa costantemente erosi… Diventa troppo. Per molto tempo non ho avuto alternativa. Ma adesso il mio secondo è in grado di sostituirmi in battaglia e c’è un ragazzino in addestramento che è già riuscito a sopportare la connessione con le Grandi Ali… Per la prima volta ho l’opportunità di fuggire, almeno per un poco, solo che non so come fare.

    Ecco di nuovo quell’espressione malinconica, quella spasmodica ricerca di un cielo in cui volare. Ten pensò alla sicurezza che aveva dimostrato quella mattina, muovendosi per la città e all’improvvisa timidezza della ragazza che aveva portato con sé in calesse.

    – Ti muovi sempre vestita da uomo? – chiese.

    – Quasi sempre – nel pronunciare quelle parole Victoria arrossì un poco, come se fosse un indicibile segreto. – Io dò ordini ed esigo l’obbedienza. Come faccio a chiedere il permesso, anche solo con lo sguardo, per fare tutto? Tollerare di non entrare nei locali che frequentano i miei compagni d’arme? Essere esclusa dalle loro feste? Io non sono una ragazza che si traveste da uomo. Io sono un ufficiale delle Ali Nere, addestrata fin da quando avevo undici anni. Non mi travesto da colonnello. Io sono un colonnello. Non so neppure come pensi una donna della mia età.

    Sì, considerò Ten. Era Victoria, la Victoria della festa, la maschera. Ripensò alla donna che inveiva contro i tacchi e non si rendeva conto di apparire strana con un bicchiere di cognac in mano che, invece, sarebbe stato offerto con premura a un ufficiale.

    – Ora che ho più libertà, Delia insiste perché prenda almeno in considerazione ciò che il mondo ha da offrire a una donna – continuò Victoria. – Non pensavo ci fosse nulla di interessante per me, forse sbagliavo.

    Aveva pronunciato le ultime parole guardando il boccale, con una sorta di indecisione nella voce.

    Ten si tirò giù gli occhiali per pulirne le lenti. Un gesto automatico di autodifesa. Rendeva il mondo circostante sfocato, irreale e gli dava la sensazione di non essere davvero lì.

    – Non importa chi tu sia, cosa tu faccia. Quello che è accaduto quel giorno è stato comunque un errore – mormorò all’immagine sfocata di Victoria. – Io voglio… Ti vorrei vedere sorridere, ancora e ancora. Ma sono uno straniero e un giorno dovrò tornare a casa. Non posseggo niente qui, non ho nulla da offrire a una ragazza dell’impero.

    Rifiutare Victoria era un delitto. Il suo corpo, quello strano corpo che non era né una maschera né una menzogna, solo la versione autentica di se stesso il quel mondo, anelava in ogni sua cellula di sfiorarla di nuovo, di esserne sfiorato. Di scoprire cosa sarebbe accaduto se l’avesse lasciata fare, quando si era portata la sua mano alle labbra. Ci si perdeva, in quel mondo, risucchiati da sensazioni sconosciute fuori dal proprio controllo. Per la prima volta, Ten pensò che forse ne valeva la pena.

    – Lo so – replicò lei, neutra. – E io non posso essere altri che il colonnello Soilbeir, almeno fino a che Jude non terminerà l’addestramento. Ci vorrà almeno un anno.

    Si guardò la ferita in via di guarigione sulla mano.

    – Sei mesi fa non mi sarei fatta colpire – disse. – Il mio corpo è ancora agile e svelto, ma non come quando avevo diciott’anni. Tra un anno potrei essere morta. Direi che qualsiasi progetto a lungo termine è fuori luogo.

    Ten sentì qualcosa a livello del petto. Stringersi il cuore. Era quella l’espressione usata dagli uomini. Il dolore interno che lo colse al pensiero che Victoria poteva morire, uccisa da un angelo. Lei non sapeva nulla delle fazioni degli angeli, delle prove a cui venivano sottoposti i giovani per essere ammesse in alcuni circoli. Lei sapeva solo che gli occhi degli angeli potevano colpire il suo mondo, portandovi distruzione. Si connetteva a delle ali smembrate di un Alto Angelo di cui non sapeva nulla, mescolando il proprio sangue al suo, entrava in un mondo che le era alieno e ogni volta rischiava la vita. Il colonnello Soilbeir era famoso anche dall’altra parte. Combatteva, si diceva, come un angelo. Sembrava conoscesse per istinto le loro tattiche. Col proprio imperfetto corpo umano aveva sconfitto a duello un Alto Angelo. Era qualcuno che tutti temevano. E ora era lì, con le mani che tremavano appena, gli occhi azzurri che non osavano guardare i suoi. E ogni volta che entrava nel suo mondo per combattere poteva morire. Era più di un pensiero, adesso. Era una consapevolezza. Ten pensò che forse sarebbe svenuto.

    – Tutto bene? – gli chiese Victoria, incerta.

    – Non posso sopportare l’idea che tu muoia – boccheggiò lui.

    – Anch’io preferirei evitare, tutto sommato – Victoria provò un mezzo sorriso.

    – Non credo di riuscire a vederti allontanare da questo locale e a dimenticarti.

    La prospettiva della sua morte lo inchiodava alla sincerità.

    – Io penso che tu sia la prima persona che mi veda nella mia interezza – mormorò lei, piano, come se cercasse le parole. – Non una sorta di divina donna guerriera o uno strano essere ibrido, che puoi desiderare come donna e trattare come un uomo, o una giovane strana che non si comporta nel modo giusto. Forse è perché sei straniero, ma ai tuoi occhi mi sembra di essere solo Victoria, qualsiasi cosa io sia.

    – Quindi, che opzioni ci restano?

    Victoria si strinse nelle spalle, poi si passò la lingua sulle labbra, come se esitasse.

    – Mi sembra ovvio che non possiamo legarci l’uno all’altra come normalmente farebbero un uomo e una donna della nostra età e della nostra condizione sociale… Come farebbero a Ji’Quin due due persone che volessero frequentarsi senza impegnarsi, senza prevaricarsi a vicenda?

    Ten prese un respiro per contemplare l’ipotesi che Victoria le prospettava. Era una follia.

    – Suppongo che a questo punto dovrei invitarti a vedere un libro nel mio appartamento.

    In qualche modo le sue labbra avevano agito per lui.

    Gli occhi di Victoria cambiarono quasi tonalità, di nuovo brillanti come luce riflessa da un torrente.

    – Sarebbe perfetto – sussurrò.

    No, non lo era. In tutto il mondo, Victoria era l’unica che potesse ucciderlo. Era costretto a mentirle. Nel migliore dei casi, sarebbe sparito dalla sua vita senza spiegazioni

    Forse era proprio perché non era perfetto, perché ogni felicità era già destina a finire e lui aveva il privilegio di saperlo, che quel momento era così prezioso.




Eccoci qui, alla fine di questo secondo racconto.
Vorrei ringraziare di cuore chi è arrivato fin qui, chi ha messo tra i seguito, i ricordati o addirittura i preferiti, chi ha semplicemente letto, dando un senso al mio scrivere. Un grazie speciale a Siyla che mi ha seguito fin qui.
Spero davvero che non vogliate abbandonarmi in questo viaggio. Il prossimo racconto lascerà da parte le atmosfere più romantiche per introdurre un nuovo personaggio, decisamente più ringhioso, e portarci per la prima volta nella dimensione angelica.
A presto, duenque, spero.

 

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