𝕋he 𝔸partment

di Alyeska707
(/viewuser.php?uid=892337)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

 

 
 









The         Apartment






  




 







PROLOGO

 
Piccola. Stretta. Letteralmente a pezzi. Duncan aveva affittato una topaia, non una casa. Però era la sua topaia, ed era a pezzi esattamente come lui: un bordello, il disordine, una grezza anti-eleganza… ma non è affascinante, la distruzione? Agli occhi del punk, eccome: la distruzione era il suo riflesso specchiato, quindi non doveva essere poi così male, dato che nessuna aveva mai considerato Duncan come un ragazzo da buttare via… lo dicevano, sì, spesso, sempre, ma poi si attaccavano ogni volta alle sue labbra, pregandolo di spostarsi in un luogo più appartato, e lui non era certo tipo da farsi supplicare! Perché Duncan era un guaio, e i guai sono più che attraenti agli occhi delle ragazze annoiate che incontrava.

Urtò col piede il primo scatolone sistemato provvisoriamente in corridoio; no, non proprio “provvisoriamente”, Duncan non aveva davvero intenzione di mettere a posto le cose. Sarebbe stato comodo anche così, bastava solo ricordarsi quale scatolone contenesse cosa. E poi, lui non aveva un granché. Il prodotto che si era portato dietro in maggior quantità era la tinta per capelli, per il timore di non trovare l’esatta tonalità nella cittadina nuova. Perché Duncan era disposto a rischiare su un sacco di cose, ci provava davvero gusto, ma non sui suoi capelli, non sulla sua cresta verde: quella era di vitale serietà, guai a giocare con lei.

Dopo un paio di tentativi, riuscì a trovare la caffettiera moka. Era stanco. Non aveva dormito per niente, la notte precedente. Sogghignò al ricordo; non che tornando indietro avrebbe cambiato le cose… la ragazza che gli aveva dato in affitto l’appartamento, una certa Courtney – disperata aspirante avvocatessa decisa ad affittare la sfatta dimora gentilmente ereditata dall’amabile nonnina, pur di mettere da parte i soldi necessari per pagarsi l’anno di studio all’estero – l’aveva tenuto ben occupato, nella villetta in cui viveva con la cugina (… Heather, si chiamava?). Aveva detto a Duncan di passare da lì per prendere le chiavi dell’appartamento, perché a causa di un seminario imperdibile non sarebbe proprio riuscita a muoversi. Ma il seminario, alla fine, l’aveva perso comunque. Duncan aveva incominciato con le sue solite battutine, lei si era sforzata di ignorarle, inizialmente, ma non poteva negare di sentirsi attirata da quel ragazzo dallo stile tanto discutibile. Duncan era rimasto lì tutta la sera, e anche la notte. Le ultime immagini nitide che riusciva a farsi tornare in mente lo ritraevano mentre chiedeva qualcosa da bere, sì, Courtney gli aveva portato una bottiglia di gin. Lei non aveva bevuto, si era messa a raccontare aneddoti sparsi e soprattutto noiosi, tra cui quella cosa dell’anno all’estero, chissà per dove, tra l’altro. Ricordava di aver bevuto diversi bicchieri e infine sì, ricordava anche le sue labbra. E la comodità del suo materasso. E di essersi svegliato più stanco di prima, con quella Courtney ancora addormentata di fianco.

E ora eccolo in quel vecchio cucinino, a riempire la moka di caffè rovesciando la polvere un po’ dappertutto. Dopo aver ben chiuso la parte superiore, posizionò la caffettiera su un fornello, girò la levetta di accensione, ma niente. Spense il gas e riprovò. Niente. Ma che doveva fare, prepararlo sulla fiamma dell’accendino, quel benedetto caffè? Come se non bastasse, una melodia proveniente dall’esterno, e che suonava come un lamento unico alle orecchie del punk, non faceva che alimentare il suo nervosismo. Dopo un altro paio di tentativi vani col fornello, uscì sul balcone della cucina.

«Ehi! Ehi, tu!» Una ragazza se ne stava sul balcone di fianco al suo. Sembrava davvero immersa nella sua lettura, e si lasciava cullare da quel tristissimo sottofondo tenuto a un volume troppo alto. Ci volle qualche secondo perché si ridestasse dal suo universo, accorgendosi dei richiami di Duncan.
«Posso aiutarti?»
«Sì! Potresti abbassare quella cosa? Non è il mio genere.»
La ragazza abbassò il volume senza insistere. «Scusa, pensavo che l’appartamento fosse ancora vuoto. I condomini sono pochi in questo palazzo, è talmente vecchio… e la maggior parte di loro porta apparecchi per l’udito, quindi non mi preoccupo di disturbare. Avranno l’età dell’edificio!»

Già, la canzone non era proprio il suo genere, ma quella ragazza pallida… beh, lei decisamente di più! I capelli tinti di blu, intrigo, e le gambe lunghe, appoggiate alla ringhiera del balcone, niente da dire, bellissime gambe, intrigo raddoppiato, ed era vestita soltanto da una camicia troppo larga, lunga, tutta stropicciata… No, quella ragazza non gli dispiaceva per niente. E poi, stava leggendo un libro; c’è ancora qualcuno che legge romanzi? Lo attraevano le ragazze che facevano le acculturate con lui, non che le ascoltasse, ma era così bello interromperle nel mezzo di uno dei discorsi filosofici che amano fare… un momento sono intente a discutere sulla genialità con cui Emily Bronte riesca a trattare il tema dell’amore tormentato in Wuthering Heights e il momento dopo, puff: l’amore non si dice più, ma si fa.

«Quindi posso fare tutto il casino che voglio senza scocciature? È il mio passatempo preferito.»
La ragazza socchiuse gli occhi, in un’espressione di divertita sfida. «Non finchè ci sono io ad appena una parete di distanza.»
Duncan si sfilò una sigaretta dalla tasca e iniziò a fumarla, totalmente dimentico del gas difettoso e del suo povero, abbandonato caffè.
«Cosa stavi leggendo?» le chiese, per fare conversazione. Lei sollevò il romanzo mostrandogli la copertina.
«Frankenstein. La storia del mostro bisognoso d’amore.»
«Ho visto un film. Non mi sembrava così romantico.» La ragazza ridacchiò.
«Non lo vendono in questi termini, infatti. Ma dipende tutto dalla profondità con cui vuoi interpretare la trama.» Duncan si limitò ad annuire. Era già confuso. Poi vide il sorriso di lei allargarsi.
«Che c’è?»
«I tuoi piercing brillano. Per il sole.»
Duncan sbuffò divertito. «Brillano perché sono sulla mia bellissima faccia.»
La ragazza scoppiò a ridere. «Sei modesto.»
«Sono Duncan.»
«E io sono Gwen. Piacere, Duncan.» Era già sedotta. Duncan lo capiva solo dal suo sorriso. Era già pronto alla prossima mossa quando, dietro Gwen, uscì sul suo balcone un altro ragazzo.
«Pensavo stessi parlando da sola» le disse, chinandosi per baciarla sulla guancia. «Attenta a non prendere freddo.»
«Ma ormai è primavera inoltrata, Trent, le temperature sono salite. Si sta una favola!» E chissà per quale motivo si sta così bene, pensò Duncan.
«E poi stavo facendo conversazione col nostro nuovo vicino.» Quel Trent alzò gli occhi. Non sembrò molto allietato dalla vista del punk.
«Lui è Duncan.»
Trent abbozzò un rapido, fintissimo sorriso. Duncan non si sforzò nemmeno per quello. Non era tipo da carinerie di circostanza. Lui non era gentile.

Dopo qualche altra richiesta di Trent, Gwen cedette, rassicurandolo che sì, sarebbe tornata dentro, subito dopo aver terminato di leggere la pagina che segnava col dito.
Quando Trent tornò dentro, socchiudendo la porta dietro di sé, Duncan la provocò: «Il tuo tipo ti tiene sotto rigida sorveglianza.»
Gwen alzò le spalle. «È uno che ci tiene.» Vedendo naufragare il suo tentativo di approccio, Duncan si ricordò del secondo motivo per cui era uscito su quel balcone: il fornello.
«No, non è che non funziona» gli spiegò Gwen. «C’è un piccolo interruttore sotto al rubinetto. Per accendere il gas, bisogna prima accendere quello, se no non funziona.»
Quindi era così facile?
Finì di fumare la sigaretta mentre Gwen terminava le ultime righe, prima di sistemare il segnalibro e alzarsi dallo sgabello. Da alzata, la camicia faceva un tutt’altro effetto, ancor migliore. E sì, Gwen si accorse che Duncan la stava squadrando. Interpretava quel Duncan come un tipo divertente e imprevedibile, e sì, anche un po’ esibizionista. Lo salutò con: «Ricordati del pulsante del gas, sarebbe spiacevole trovare un vicino morto e un’aria irrespirabile, tornando a casa una sera.»
Duncan sogghignò. «Il mondo non riuscirà a liberarsi di me così facilmente, bellezza.»
Gwen sorrise, un po’ imbarazzata da quel confidenziale appellativo, e tornò in casa. Ma Duncan non era pentito di averla definita così, bellezza, perché aveva detto la verità: Gwen era bella, e lui non era tipo da precludersi del fascino, né il tipo che lo schiva per timidezza. E gliel’avrebbe rivolto di nuovo, quel bellezza, di sicuro, perché anche dopo un naufragio, una barca si può sempre costruire. E chissà che non vada in porto.





Bonjooouuuur miei cari lettori (sperando che ancora ce ne siano... ci siete? Datemi un segnale!!)
Io... non so perchè mi trovi di nuovo qui. Devo avere installata una sorta di calamita che ogni tanto mi riporta a viaggiare su questo sito, mi risveglia l'ispirazione per certi personaggi e... il danno è fatto. La verità è che damn, alcuni personaggi di TD sono caratterizzati meglio della maggior parte dei personaggi di cui ho potuto leggere nel corso della vita! E le loro personalità sono così contrapposte e interessanti... un microcosmo di opportunità di scrittura! XD (quanto mi mancava digitare questa faccina!)
Quindi........ nient'altro da aggiungere: se vi piace (la storia e la COPERTINA, di cui vado COSI' fiera), fatemi sapere che sono più che felice di leggere qualche riscontro e "conoscere" autori nuovi. Se non vi piace.... fatemi sapere comunque, sperimento qui appunto per migliorare il mio stile. Se vi sono mancata........ scrivetemi. Se non vi sono mancata................... scopritemi ora! (sì, ero ispirata coi puntini di sospensione. Pensavo di non ricordare più come si scrive un "angolo dell'autrice" decentemente XD )
Ciaociao, statemi bene 

backagain, Alyeska

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1


Duncan aveva gustato quel caffè, alla fine, con amarezza, nonostante la correzione col brandy e la punta di zucchero. Non era sapore di fumo quello che gli era rimasto tra i denti, quanto di… sconfitta? Sì, perché che gusto c’era ad abitare affianco ad una ragazza tanto interessante, se conviveva col fidanzato? Amaro. Anche trascurabile, tuttavia: bastava una telefonata a Lindsay, la cameriera biondina che gli aveva lasciato il numero la settimana prima, per ricevere compagnia. Non aveva davvero voglia della sua risatina civettuola, però.
In quel momento, una chiamata: Courtney. La silenziò senza rispondere. In realtà non aveva voglia di nessuna ragazza in quel momento, concluse. Il suo solo desiderio era di rilassarsi, anche se per farlo non poteva contare sull’amico Geoff. Gli venne da ridere al pensiero di lui, seduto tutto composto all’ennesimo colloquio, intento ad elencare le sue strabilianti capacità: «Mi piace… mh… surfare, e ho… un tatuaggio sul sedere, lo vuole vedere?» Duncan scoppiò a ridere, riusciva perfettamente a visualizzare la scena! Si era concluso così l’ultimo colloquio di cui gli aveva parlato l’amico. Duncan l’aveva deriso così tanto, che Geoff aveva deciso che non sarebbe più entrato nel dettaglio delle sue discussioni lavorative con lui. Per qualche astrusa ragione, era deciso ad entrare nel campo del giornalismo anche se lui, di notizie o scrittura, non s’interessava per niente. Quell’astrusa ragione, in realtà, si chiamava Bridgette. Come avrebbe potuto, Geoff, vivere insieme a lei dignitosamente, continuando a pulire tavole da surf? Era quello che ripeteva ogni giorno, tra un sospiro e l’altro, abbassandosi il cappello da cowboy sugli occhi per la vergogna. Chissà se l’ha levato almeno per il colloquio, pensò Duncan.

Ricominciò a cercare negli scatoloni: ecco dov’erano finiti i suoi vinili! Ne scelse uno: Never Mind the Bollocks, Here's the Sex Pistols. Sorrise, anzi no: sogghignò. Sì, perchè sapeva che quello che avrebbe rilassato lui, avrebbe spaccato il timpano a chiunque altro: bordello, disordine, grezza anti-eleganza… affascinante.
Il sorrisetto di Duncan, però, si spense rapidamente, appena realizzò che sì, si era portato dietro tutti i suoi vinili preferiti, ma che no, il giradischi non l’aveva. Lasciò cadere la testa all’indietro, liberando un’imprecazione, perché i suoi soldi erano contati per la sopravvivenza; doveva trovarsi un lavoretto o combinarne una delle sue, vendere qualcosina spacciandola come di immenso valore, commettere qualche furto di poca importanza… ma non poteva permettersi nemmeno di sognarlo, il giradischi. Ci penso su per un po’, rigirandosi la custodia del disco tra le mani. E per la seconda volta quel giorno, chiese l’aiuto di Gwen.

Bussò alla sua porta appoggiandosi allo stipite, imbronciato. Non gli piaceva chiedere aiuto. A lui piaceva sentirsi indipendente, col controllo ben saldo tra le mani… e invece si ritrovò lì, con le converse slacciate e la canottiera alla rovescia e senza l'onnipresente collare borchiato (abbandonato in bagno, da quando l’aveva tolto per fare una doccia) davanti a Gwen che, con un sorriso soddisfatto, gli domandava: «Ti serve altro? Sono già diventata un tuo punto di riferimento, vedo. Che onore.»
Duncan sollevò gli occhi al cielo.
«Un giradischi» mugugnò, in un modo che risultò alquanto incomprensibile.
«Cosa?»
«Hai un giradischi? Perché io no, però ho dei vinili.»
«Questa sì che è una storia triste» commentò Gwen. «Dev’essere proprio la tua giornata fortunata, Duncan.» Si allontanò senza dare ulteriori spiegazioni e tornò dopo qualche minuto con una valigetta beige tra le mani. Sembrava pesante, a giudicare da come la teneva Gwen, ma non si rivelò affatto così, secondo la percezione del punk. L’aprì con una mano: un bellissimo giradischi portatile. Era già pronto a sfilare una lista di scuse per tenerselo a vita.
«Si dà il caso che Trent lavori in un negozio di strumenti musicali. Di quelli ne abbiamo un paio. Puoi tenerlo quanto vuoi.»
Questa sì che era una fantastica coincidenza.
«In un negozio di articoli musicali, hai detto?»
Gwen annuì. «Sì, suona la chitarra ed è riuscito a compensare questa sua passione col lavoro. È molto soddisfatto.»
Duncan ne approfittò subito: «E stanno cercando qualcun altro, per lavorare lì?» 
«I-Io… non ne ho idea» ammise Gwen. «Posso chiederlo a Trent.» Lo chiamò subito dopo, invitandolo ad avvicinarsi.

A Trent Duncan non piaceva, così a prima impressione. Gli suggeriva soltanto, giustamente, quel tipico ragazzo che fa di tutto per apparire spesso, e se ne frega del resto. Sperava anche che Gwen non ci legasse troppo. No, non gli piaceva, si confermò mentalmente anche in quel momento, vedendolo sulla porta. Però Trent era prima di tutto una buona persona. Se quel Duncan, che non gli piaceva, cercava un lavoro, evidentemente ne aveva bisogno. Tutti hanno bisogno di un guadagno. Se poteva aiutarlo, decise, l’avrebbe fatto.
«Avremmo bisogno di una mano, in effetti. Se non hai altri impegni puoi venire con me in negozio. Inizio il turno tra mezz’ora, è appena dietro l’angolo. Posso presentarti al capo.»
Duncan acconsentì, senza scomporsi. Trent lo avvisò che avrebbe bussato alla sua porta al momento di andare. Duncan acconsentì di nuovo, e ognuno tornò nel rispettivo appartamento, chiudendosi la porta alle spalle.


*****
 
«E suoni qualche strumento, Duncan?»
«Suono qualsiasi cosa che faccia confusione, amico.»
A Trent venne da ridere. Forse il suo giudizio iniziale era stato troppo severo, Duncan sembrava un tipo amichevole, alla fine.
«Avrei dovuto intuirlo sentendo le urla di Johnny Rotten poco fa. Pareti sottili. Ti piacciono i Sex Pistols?»
«Già, mi piacciono. Tu invece suoni un’acustica scommetto, se la camicia scozzese e gli stivaletti da donna non mentono.» Inarcò le sopracciglia, provocatorio. Sorvolò sull’indizio che gli aveva dato Gwen poco prima. Si divertiva a stuzzicare la gente, soprattutto quella che non lo convinceva affatto. L’immagine del bravo ragazzo era passata di moda da un bel po’ di tempo, andiamo, che noia!

No, cambiò di nuovo idea Trent: non così tanto amichevole.

«Sì amico, un’acustica. Qualche sera mi esibisco anche, sai, nei localetti che cercano di accalappiarsi i clienti.»
«E tu gli fai accalappiare i clienti?» chiese retorico, con evidente stupore. «Non devi essere così male, allora.»
Così male? Lui non era affatto male, era bravo! Sì, Trent era convinto di avere del talento. Anche Gwen glielo diceva, ogni volta che suonava per lei. Gli chiedeva sempre il bis di ogni brano, e lui era più che felice di accontentarla. In realtà gli bastava averla nei paraggi, per sentirsi felice… la sua Gwen: un angelo a cui piace giocare col fuoco. Era proprio questa ambiguità della sua personalità a intrigarlo tanto. Sì, perché Gwen si poneva come una sfacciata menefreghista, come una dark che vede il mondo in bianco e nero, ma i colori che vedeva, in realtà, erano più vividi e saturi di quelli che percepisce la vista di un uomo comune. Lei era nutrita da una speranza esorbitante, anche se si ostinava a nasconderla, la vedeva come una debolezza… «Credere troppo a qualcosa» gli aveva confidato una sera «non fa altro che creare aspettative e illusioni. E se fallissi, Trent? Come potrei sopportare il fallimento, dopo aver costruito tutti questi progetti?» I piani di Gwen erano ambiziosi, questo era vero, ma il suo talento, era convinto il chitarrista, era ancora più radicato del proprio: ogni volta che Trent la vedeva con un pennello in mano, rimaneva incantato. No, non è del tutto vero: in realtà rimaneva incantato ogni volta che guardava Gwen e basta, ma mentre dipingeva… era una vera musa, un’ispirazione, e il modo in cui stendeva il colore, in cui l’amalgamava, confondeva, ricreava… incredibile. I suoi soggetti erano originali, la tecnica tutta sua. Sarebbe riuscita a farsi esporre, Trent ne era certo. E l’avrebbe sostenuta, sempre.
«Ehi, sei andato in trance, amico?» lo riprese Duncan dopo un paio di minuti. Se c’era una cosa che l’annoiava più dello stereotipo di serena bontà in persona, era non sentirsi ascoltato. Era troppo interessante, lui, per venire snobbato.
«Scusa» ammise Trent. «Mi ero perso nei miei pensieri.»
«E me ne sono accorto…»
 «Comunque siamo arrivati» lo informò Trent, sforzandosi per mantenere vivo il sorriso amichevole che, in realtà, in cuor suo non sentiva proprio. Gli indicò la vetrina, occupata da una serie di chitarre elettriche appese dall’alto, prima di entrare.
«Trent» un omone alto e grosso – e losco, secondo il personale parere di Duncan – si avvicinò a loro. «C’è una chitarra da accordare, ci pensi tu?»
«Sì, Chef. Mi metto subito al lavoro.»
Chef? Chef era il suo nome? Davvero? Duncan si morse il labbro per non scoppiare a ridere, perché no, quello non era il momento, quello era un colloquio, circa, e lui non era scemo come Geoff.
«Prima però volevo presentarti Duncan. Sperava di poter dare una mano.»
Non speravo di poter dare una mano, riformulò mentalmente il punk, pensavo soltanto che mi servono dei soldi.
«Duncan, eh» disse Chef, osservandolo per un po’. «Hai un… curriculum?» Domanda a vuoto, lo sapeva già mentre la stava formulando: il punk era a mani vuote, e infatti rispose scuotendo la testa. Lui non ci credeva davvero, nell’importanza di un pezzo di carta. Andiamo, lui era in grado di fare di tutto!
«Un… documento?»
«Le assicuro che mi chiamo Duncan Nelson, signore. E la mia fedina penale è immacolata. Serve altro?» No, non era davvero immacolata, quella fedina, ma era meglio far credere a quello Chef il contrario.
«Mh» disse l’altro. «Sì, Duncan. Puoi andare. La tua immagine rispecchia questo posto. Puoi iniziare… lucidando gli strumenti? In base all’operato di oggi, penserò se assumerti o meno.»
Duncan sollevò la mano all’altezza della fronte, per il tipico saluto militare: «Non la deluderò, signore!» Troppo sarcasmo? Probabile. Chef gli rifilò un’occhiataccia.
«E piantala di chiamarmi signore, ragazzino. Chiamami Chef. E ora trova uno straccio e mettiti a lucidare. Trent, apriamo! I clienti arriveranno presto.»




Buonasera, cari lettori!
Eccoci di nuovo qui, ormai entrati nell'atmosfera della storia, col primo vero capitolo (primo di una sfilza, ho così tante idee!)
Sì, non sono riuscita a trattenermi: ho inserito vinili e Sex Pistols. Andiamo, non è la band perfetta per uno come Duncan?
E sì, sì lo so: Chef in queste vesti è un po'... come dire... sconvolgente. Ma se questo Chef vi ha sconvolti ehi, aspettate di vedere chi comparirà (e come) nel prossimo capitolo! (io già lo so eheh )
Come al solito, fatemi sapere le vostre impressioni, positive o meno che siano! Quale personaggio vi ispira di più, per il momento? 
E se avete qualche aspettativa per il continuo... ehi, rivelatemela! Che chissà, potrebbe illuminarmi in modo sconvolgente e portarmi a ribaltare tutto ;)
Grazie per la lettura, a presto!

Alyeska

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2


Duncan passò le ore nel negozio di musica sforzandosi di fare il meno possibile. In realtà gli strumenti non li aveva davvero lucidati, si era limitato ad agitarci sopra lo straccio, giusto un po', quando notava Chef avvicinarsi. Poi aveva sistemato alcune chitarre e anche aiutato Trent a portare in negozio degli articoli appena arrivati. Contava di fare meno, si ritrovò a pensare dopo l’annuncio di Chef: «Tu, si tu. Vai bene. Sei dentro. Adesso potete andare, tutti e due. A domani. Puntuali!», ma non poteva lamentarsi. A quanto diceva Trent, la presenza di Chef non era sempre garantita, e quando mancava e non c’erano clienti iniziava lo sballo. Il ragazzo alla cassa, il rosso, aveva confermato le sue parole: «Un vero sballo.» Sì, perché non c’era nessuno ad impedire loro di prendere uno strumento e mettersi a strimpellarlo un po’, con la scusa di controllare l’accordatura della chitarra, del piano verticale, il tono del microfono…
«Allora le sai infrangere anche tu, le regole» aveva commentato Duncan, rivolgendosi a Trent. Lui aveva risposto con un’alzata di spalle. «Solo quando infrangerle non comporta dei rischi.» Duncan aveva alzato gli occhi al cielo: che noia.

Non tornò all’appartamento con Trent. Si era già incamminato con lui, quando si era ricordato di avere il frigo totalmente vuoto. Aveva della birra, sì, ma lui aveva talmente fame! Deviò sperando di trovare un supermercato, o qualcosa del genere, che gli sarebbe andato bene di tutto. Alla fine raggiunse un fastfood e optò per prendersi un hamburger da mangiare per strada e, perché no, un’altra birra, che è sempre meglio averne una bella scorta. Era davvero buono, quell’hamburger, così buono che chissenefrega dell’orario della cena; non erano neanche le sette, e allora? Duncan era affamato, non aveva nemmeno pranzato per fuggire da casa di quella Courtney senza far insospettire la cugina, non fosse mai che vedesse uscire dalla camera della ragazza perfetta e promettente un criminale tatuato e poco rassicurante, la credibilità della ragazza avrebbe fatto un tale tonfo!

Aveva quasi finito il suo panino, quando, maneggiando con una sola mano, infilò la chiave dell’appartamento nella serratura per entrare in casa. E proprio in quel momento, l’ultimo boccone di hamburger gli cadde di mano per il sobbalzo di sorpresa, perché non era solo.
«E tu come sei entrata?»
«Ovviamente tengo sempre una copia delle chiavi di questo posto, sciocchino.» Courtney era seduta sul divano di quel buco di stanza che, per consuetudine, si sarebbe definito salotto. Agitò il mazzetto di chiavi facendole tintinnare tra loro, per poi chiuderle nel palmo. «Ti ho chiamato, prima.»
«Ero a… lavorare.» Non ne era convinto a pieno nemmeno lui, di quella risposta. Quindi aveva un lavoro, adesso? Era stato facile. Oh, doveva assolutamente andarlo a dire a Geoff!
Courtney si alzò. «Volevo farmi perdonare per prima, non volevo cacciarti, ma sai no… mi capisci…» Aveva preso a giocare con le borchie del collare di Duncan, guardando il punk negli occhi con fare malizioso.
«In effetti non è stato il mio miglior risveglio.»
«Puoi sempre compensare…»
«Andando a dormire in questo momento?» la sfotté.
«Non esattamente…» Courtney sorrise, tra il furbo e l’imbarazzato; non era da lei comportarsi in modo così esplicito, ma quel punk l’attirava, non poteva farci niente! Il gelo che promanava dagli occhi chiari sapeva di sfida continua, e Courtney viveva di sfide!
Duncan era stanco, davvero stanco, e aveva sonno, davvero, davvero sonno. Però… al diavolo. Cedette alle avances di Courtney senza nemmeno rendersene conto, e in neanche un minuto erano già svestiti.
 
La mattina dopo, si svegliò che non era ormai più mattina. Era ora di pranzo, e di Courtney non c'erano più tracce. Duncan dormiva così profondamente che non se n’era nemmeno accorto, quando la ragazza era andata via. Aprì gli occhi ritrovandosi accecato dalla luce. Subito li ricoprì col cuscino. Poi fece una doccia. Uscì sul pianerottolo, dopo, avvolto soltanto da un asciugamano allacciato in vita, per sistemare le converse rosse fuori dalla porta. C’era già abbastanza tanfo di chiuso, in quella topaia.

«Eh-ehm…» Era Gwen, anche lei lì sul pianerottolo, con le spalle contro alla porta, a fumare una sigaretta.
«Oh, ciao» le fece il punk, perfettamente a suo agio.
«Ti chiederei com’è andata ieri al negozio con Trent, ma direi bene, a giudicare dai rumori che ho sentito dei tuoi festeggiamenti.»
Duncan sogghignò. «Volevi essere invitata anche tu?»
La ragazza scosse la testa. «Sei proprio uno scemo.»
Una coppia di anziani fece capolino dalla rampa di scale. Subito il signore, alla vista di Duncan in quelle condizioni, coprì la vista alla moglie.
«Signori McLean, buona giornata!» li salutò amichevolmente Gwen.
«Anche a te cara» rispose la donna. «Ma perché te ne stai qui fuori? E buttale, quelle sigarette. Tu sei molto meglio di così!»
Gwen sorrise. «Lo so, Blaineley, me lo ripeto di continuo anch’io, di smettere, ma è più forte di me…» Sospirò.
«Eh queste generazioni… divorati dallo stress, eh? Che fragili, che siete. Fossi ancora giovane, ci penserei io a farvi faticare davvero!» intervenne l’uomo. Poi si voltò verso Duncan. «E tu che stai facendo, vuoi far colpo su mia moglie, per caso?»
Duncan rimase interdetto. Non capiva se stesse parlando sul serio, oppure no.
«Beh, tua moglie è una bellissima donna Chris, sei un uomo molto fortunato, ma penso che Duncan non sia all’altezza di rubarti il ruolo.» Duncan le rivolse un’occhiataccia. Chris ridacchiò.
«Sì, sì lo so. Mia moglie è splendida. Ha preso dal marito. Buona giornata, Gwen. E tu, tu vestiti, per l’amor del cielo!»
Gwen scoppiò in una risata incontenibile, appena i coniugi scomparirono dalla loro vista.

«E così non sarei all’altezza, eh?»
«Intendevi sul serio fare colpo su una settantenne, Duncan? Continui a sorprendermi!»
«Certo che non lo intendevo, ma se avessi voluto, ci sarei benissimo riuscito!»
«Non voglio scommetterci soltanto perché voglio risparmiarti lo squallore di dimostrarmi il contrario.»
Duncan si appoggiò al muro. «Potresti scusarti per aver intaccato così bruscamente il mio orgoglio offrendomi il pranzo... Si dà il caso che sia giusto a corto di cibo.»
Gwen alzò gli occhi al cielo. «Soltanto se ti metti qualcosa addosso, scroccone che non sei altro.»
«E io che pensavo di piacerti ancora di più, così!» Tornò nell’appartamento senza neanche chiudere la porta.
«Simpatico!» gli gridò Gwen dal pianerottolo, spegnendo la sigaretta nel portacenere di vetro.

Trent non era in casa. Era andato a pranzo da un amico, un membro della sua band. Volevano allargare il loro pubblico, trovare locali più importanti in cui esibirsi, spiegò Gwen a Duncan. Che poi, il frigorifero di Gwen non era poi tanto più ricco di quello del vicino: aveva giusto dell’insalata, speck e un… un coso, una sorta di cubo gommoso… un… «Non hai mai mangiato del tofu?»
«To-che?»
«Oh, te lo faccio provare subito. Ha un sapore particolare, ma ti piacerà! Sai, sono brava in cucina, quando mi sento ispirata. Alla fine è sempre un’arte, un’arte del cibo.»
«E ora ti senti ispirata?»
Gwen annuì.
«In questo caso, felice di averti ispirata, bellezza.» Gwen gli gettò addosso un mestolo di legno.
«Ehi!»
«Non sei stato certo tu a ispirarmi!»
«E di chi sarebbe il merito, allora? Sentiamo.»
Gwen aprì le braccia. «Del… tempo! Presumo, spesso l’ispirazione è imprevedibile!»
Duncan si guardò intorno: un paio di tele erano disposte per terra per far asciugare i colori, la prova che Gwen, di ispirazione, si nutriva sul serio.
Il punk si alzò per guardare i disegni più da vicino. «Li hai fatti tu, questi?»
«Sì.»
«Bella e brava… complimenti, il tuo chitarrista sarà fiero di te.»
«Non ti stancherai mai di lanciare frecciatine, non è vero?»
«Non so proprio a cosa tu ti stia riferendo!» esclamò Duncan con una finta innocenza.
«Trent non ti va a genio, sbaglio?»
«Te l’ha detto lui?»
«No. Lui ha la nobile abitudine di guardare sempre il positivo delle persone. Io invece le persone le interpreto, e sono realista.»
«Attenta osservatrice, allora: bella, brava e anche acuta… Mi spieghi cosa ci fa una ragazza tanto interessante con un bravo, noioso ragazzo come Trent?»
«Trent non è noioso. Neanche lo conosci, tu.»
«Sicuramente è più noioso di me» commentò Duncan.
«Sicuramente è molto meno rompipalle.»
«Anche questo contribuisce alla mia attrattiva, bellezza.»
«Quindi è questa la tua tecnica?» Gwen ridacchiò. «Provocare tutte le ragazze che incontri fino ad esaurirle, e portarle a letto? Wow, una tecnica tutta particolare, anche se ieri dev’essersi rivelata efficace.»
Duncan rise. «Ma adesso sei tu a provocarmi.»
«Mi diverte.»
«Allora vedi che non sei tanto diversa da me, infondo.»
Gwen sollevò gli occhi dalla pentola del tofu incontrando quelli di Duncan: fissi, sicuri, ad assecondare un ghigno che si andava delineando sempre più marcatamente… un’espressione che la colpì. Non ne sapeva il motivo. L’aveva trovata artistica, perfetta per lui: era quello lo sguardo che scopriva la sua personalità, era quello che un pittore avrebbe dovuto immortalare per una rappresentazione adeguata. Si bruciò il dito urtandolo col bordo della pentola. Bastò il suo grido di dolore perché l’espressione di Duncan mutasse.
«Ti sei fatta male?» Ecco, adesso i suoi occhi non erano davvero preoccupati, però erano turbati; Gwen aveva perso la perfezione di quell’espressione spontanea prima di fissarsela in testa. Non sarebbe mai riuscita a raffigurarne una simile. Cavolo.
Era così persa nella sua ondata di ispirazione che, al posto di affrettarsi a mettere il dito sotto all’acqua fredda per affievolire il bruciore, era rimasta ferma a guardare il polpastrello diventato tutto rosso. Così ci penso Duncan: si avvicinò al lavandino, bagnò un bordo della propria maglia e fece girare una Gwen ancora incantata, avvolgendole il dito dolorante nel lembo umido. Gwen si ridestò soltanto al contatto freddo. Gli occhi di Duncan, ancora più freddi, la guardavano da vicino, più vicino di ogni loro precedente conversazione. Non sapeva neanche cosa dirgli.
«Prego» disse quindi Duncan. Gwen corrugò la fronte. Era in procinto di farfugliare un: «Eh?», quando lo sfrigolio proveniente dalla padella sul fuoco ricatturò la sua attenzione, trasformando quel «Eh?» in un: «Merda!»

L’imprecazione non aveva salvato il povero tofu, alla fine. Giaceva tutto bruciacchiato, col sughetto rinsecchito tutto attaccato alla padella. Demoralizzante, pensando alle alte aspettative nutrite da Gwen per quel piatto fino a un attimo prima.
«Ti accontenti?» domandò a Duncan.
«Se mi assicuri che è commestibile…»
«è un po’ bruciacchiato, ma è pur sempre tofu.»
«Appunto. È l'ultima parte che mi spaventa.»
Gwen gli riempì il piatto. A Duncan, quel tofu, non convinse proprio per niente e la repulsione trasparì perfettamente dal suo viso, ma finì tutto ugualmente, per salvaguardare l’orgoglio della ragazza, se non altro.
Parlarono, durante quel pranzo, come se si conoscessero da una vita: dal film, rigorosamente horror, preferito, alla band musicale – e chi immaginava che anche Gwen ascoltasse i Pistols! Si erano messi perfino a canticchiare qualche loro canzone, per poi esclamare all’unisono: «In realtà ODIO cantare!» Avevano scherzato, tanto, tutto il tempo praticamente, e le ore erano volate. Gwen non riusciva a credere che il suo vicino di casa fosse, finalmente, una persona sensata: l’ultimo che aveva preso in affitto l’appartamento di fianco era un nerd che assomigliava incredibilmente a un bastoncino da denti, coi capelli arancioni color carota e un muso lungo ricoperto da lentiggini. Non usciva mai e stava tutto il giorno a giocare al computer. Le poche volte in cui Gwen l’aveva incontrato, aveva risposto alla sua domanda di circostanza: «Ciao Harold, come te la passi?» sempre nello stesso modo: «Bene. Stavo facendo un gameplay.» Ogni volta Gwen annuiva e si voltava. Non sapeva neanche di cosa stesse parlando. Con Duncan, invece, capiva eccome quelli che erano i suoi interessi, li condivideva pure!
«Sai che ti dico?» gli disse Gwen dopo la discussione sull’ennesimo film. «Che tra oggi e domani vado a noleggiarlo, e domani sera ce lo guardiamo!»
«Io e te, romanticamente soli?» scherzò Duncan.
«Io te e Trent!»
Il punk increspò le labbra. «Non è che mi piacciano, certe cose a tre.»
Gwen rispose con l’ennesimo colpo scherzoso. «La vuoi smettere? Tu sarai l’addetto pop-corn!»
«Frena dolcezza, non so neanche se sarò disponibile.»
«Perché non dovresti esserlo?»
Duncan ammiccò. «Perché sono imprevedibile, io.»
«In questo caso» ribattè lei, avvicinandosi al viso del punk e ammiccando a sua volta, «saprai di sicuro fare un’eccezione.»

Poi Trent era tornato a casa e trovandoli lì insieme, intenti a scherzare, era solo riuscito a pensare a come cavolo fosse possibile che avessero legato così velocemente.


*****


«È rimasto qui… per pranzo?»
«Sì, Trent. Ero da sola, tu non c’eri…»
Trent si grattò il capo: era il caso di dirlo, o sarebbe suonato come inopportuno, insulso sintomo di gelosia verso un semi-estraneo? Ma era proprio questo il punto: Gwen sola con quello, una volta oggi, poi chissà, forse domani e… e poi? All’infinito? Certo, quell’appartamento era di proprietà della sua ragazza, ma ci abitava anche lui.
«Avrei preferito essere avvisato, si insomma, dei tuoi piani…» Che imbarazzo: chissà come l’avrebbe interpretato Gwen!
«In realtà non c’era nessun piano.» Gwen iniziò a dondolarsi indietro sulla sedia. «Semplicemente si è imbucato all’ultimo e-» Trent le sfilò la sigaretta dalle labbra.
«Imbucato? E dai, non fumare. Lo sai che ti fa male, Gwen. E poi l’odore si impregna.»
Gwen fece ruotare gli occhi e si alzò in piedi. Apprezzava le attenzioni del suo fidanzato, davvero: Trent nutriva un interesse incredibilmente sincero nei suoi confronti, dalla salute ai turbamenti emotivi… tutto, nei minimi dettagli. Spesso Gwen si ritrovava a interrogarsi sul motivo di così tanta disponibilità, che era ancora più di così tanta; erano fidanzati da più di un anno, certo, e curarsi dell’altro in una relazione seria come la loro è fondamentale, ma a volte Gwen aveva come il presentimento di un timore da parte di Trent, un timore come di perderla, nutrito da paranoie inutili. Così un: «Sicura di stare bene?» finiva col tingersi di un: «È tutto a posto tra di noi, no?», e un: «Stai attenta» diventava un: «Ci penso io a proteggerti». Non voleva essere autorevole, Trent; non ci riusciva neanche: la sua voce risultava sempre troppo pacata per dominare la scena. La verità era che Gwen era così perfetta agli occhi di Trent da farlo sentire inadatto. Non che lui fosse un brutto ragazzo: alto, snello, occhi chiari e un gran talento. Aveva anche la sua piccola cerchia di ammiratrici innamorate che andavano a sentirlo ad ogni esibizione. Ma Gwen, ai suoi occhi, era più che bella, era sovrumana: perfetta, così preziosa che non sentiva di meritarla. Gwen… la stessa Gwen che si mise a sbuffare, protestando: «Non ho dieci anni, Trent! E dammi quella paglia! Vado a fumare in balcone.»
«Così puoi continuare la conversazione con Mr. Cresta verde da lì?!» Trent non si era nemmeno accorto di averla pensata, quella domanda retorica. Finché non l’aveva pronunciata, e sentita, e con lui anche Gwen, che si era girata di scatto.
«Mi spieghi che problemi hai oggi?» sputò.
Trent non sapeva nemmeno come tornare sui suoi passi, ormai… Un semplice: «Scusa, non prendertela, è colpa mia» non avrebbe fatto altro che adirarla di più: lo sapeva, Gwen amava aver ragione, ma detestava chi gliela dava vinta a prescindere.
«Sì» mormorò Trent, in un filo di voce. «Non è che mi convinca tanto, lui. Ti guardava come se…»
«Come se cosa, Trent? Sentiamo.»
«Come se fossi sua.»
«Sei serio?» Si sentì quasi smossa dall’ironia. «Stavamo solo scherzando, Trent! Tutto bene? Si è trasferito da quanto, due giorni? E già vai a pensare queste cose?» Si accese la sigaretta sulla soglia della porta-finestra. «Fantastico, non voglio immaginare come sarai tra un mese!» Quindi uscì. Trent rimase dentro invece, sentendosi in colpa per la sua osservazione, anche se in cuor suo ci sperava, che quella a sentirsi in colpa fosse anche un po’ la sua Gwen. Perché insomma, lui notava certe cose perché lo indispettivano, lo facevano stare male! Di sicuro non si divertiva, a fare congetture amorose tra la sua ragazza e il nuovo vicino di casa!
«E per la cronaca» disse Gwen, coprendo la luce che filtrava dall’esterno: «L’ho invitato qui domani sera, per vedere un horror, tutti e tre. Per passare una bella serata.»
Ah, quindi ora serve il punk per passare una bella serata? Trent acconsentì e basta. Lamentarsi sarebbe stato inutile e spiacevole, anche se lamentarsi è quello che avrebbe tanto voluto.
 
A una parete di distanza, Duncan se ne stava sdraiato sul letto a guardare il soffitto. Mancava ancora un po’ all’inizio del turno. Se ne stava sdraiato e non pensava a niente: bello. E non sentiva niente: ancora meglio. Cos’erano le emozioni, nel cuore di Duncan? Impulsi, adrenalina e desiderio: ecco gli stati d’animo che riconosceva. Di altri no, non ne esistevano: paura? Esclusa. Malinconia? No, indifferenza. Ci trovava gusto a sentirsi tanto intangibile, si sentiva forte. Un Duncan emotivo proprio no, non riusciva proprio a concepirlo… un’eresia! Scherziamo? Duncan era un duro, sfacciato e insensibile: eccome se lo era!
Tastò il comodino con la mano finché non raggiunse l’impugnatura del suo coltellino, fedele compagno di vita e avventure (ruotate attorno al riformatorio e una sfilza di bar, perlopiù). Intagliò un piccolo teschio nella testiera lignea del letto – che tanto, cosa avrebbe potuto dirgli Courtney? Duncan sbuffò divertito al pensiero: l’avrebbe baciato sulle labbra e gli avrebbe detto che non si fa, ma che era un bel disegno tuttavia, e alla fine l’avrebbe baciato di nuovo, e ancora – . Ecco, gli bastò incidere il suo disegno per sentirsi rappresentato da quella stanza. Gli bastava davvero poco, per sentirsi a posto. Allo stesso tempo, era insaziabile.
 
La sera, dopo il turno negozio (questa volta incustodito da parte di Chef, e complice di un’interessante, apprezzata distanza da parte di Trent), una chiamata: Geoff era stato assunto; era anche ora…

 


Salut mes chers! Finalmente si comincia a entrare nel vivo della trama...: Trent ingelosito (un déja-vu!), Duncan così... Duncan, Courtney e il suo controllo su tutto-tutti, Gwen e la sua ispirazione... e i coniugi McLean! Non vedevo l'ora di inserirli xD insomma, Chris vecchietto sadico non l'avevo ancora visto, e allora ho pensato: creiamolo! E mi piace, mi piace molto; spero piaccia anche a voi!
Inizialmente questo capitolo era separato (all'altezza degli asterischi) in due capitoli minori, il 2 e il 3, ma considerando che non erano poi lunghi, soprattutto l'ultimo, e dato che conservano una stretta relazione, ho pensato di unirli (in realtà la scelta è stata soprattutto dettata dalla voglia di pubblicare il prima possibile il prossimo capitolo, in origine il 4, che ora si è magicamente trasformato in 3: preparatevi, preparatevi davvero, perchè non ne vado fiera, ma DI PIU')
Intanto mi raccomando, fatemi sapere le vostre impressioni, che leggo e rispondo estremamente volentieri!
e restate sintonizzati, sempre qui, su The Apartment, per scoprire l'esilerante proseguimento dei nostri personaggi ;)

a presto,
Alyeska

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


brevissima inutilissima premessa: mi sono divertita un SACCO a scrivere questo capitolo, spero piacerà altrettanto anche a voi ^^ nel dubbio, preparatevi! 
 
CAPITOLO 3 


«We, amico!» Geoff batté il cinque a Duncan oltrepassando la soglia.
«Ciao Duncan!»
«Ciao, Brid. Chissà perché non ti aspettavo, era talmente ovvio che Geoff ti avrebbe portata dietro!»
«Beh, ma perché questa è una vittoria per entrambi, amico!» Geoff circondò le spalle della sua ragazza e per un attimo Duncan venne colpito dal dubbio che ci fosse dell’altro.
«Per entrambi? Non l’avrai messa incinta, Geoff…?»
«Ma Duncan!» esclamò Bridgette. «No che non sono incinta, che c’entra?»
Duncan si rivolse a Geoff, che lo stava guardando in cagnesco: «Che c’è, amico? Eri talmente solenne…»
Impiegò meno di un secondo, il surfista, a tornare solare. «Perché sono stato assunto, amico! Ho un lavoro! Finalmente io e Bri potremo andare a convivere in una bella casa! Hai già dato un’occhiata, piccola? Io voglio un giardino, con la piscina!»
«Vola più basso, amico. Devi ancora cominciarlo, il lavoro.»
«Infatti…» mormorò Bridgette. «Ma vedrai che tutto questo si realizzerà, amore. Non domani, ma un giorno sì.» Si alzò in punta di piedi per baciare il fidanzato e Duncan si voltò per evitare un conato di vomito. Quei due erano talmente sentimentali, insieme…

Si sistemarono nel buco di sala e iniziarono a parlare del più e del meno. Comunque il lavoro per cui Geoff era stato assunto, era quello di addetto-fotocopie presso una redazione giornalistica. Ne avrebbe dovuta fare di strada, per guadagnarsi quella piscina. Eppure lui sembrava entusiasta già così, per quel poco che gli sarebbe spettato. Chissà perché se ne stupiva ancora, Duncan. Infondo lo conosceva piuttosto bene, il suo amico: Geoff era capace di urlare di gioia per un paio di infradito fluo, per una giornata di sole, per una buona colazione. Gridava di gioia, letteralmente: «WUH-UH!» e non si era risparmiato nemmeno in questa occasione: «WUH-UH!»
«E stasera? Cosa fai stasera, amico? Noi abbiamo dei piani per niente male, se ti va di aggiungerti.»
«Mmm» Duncan aggrottò le sopracciglia in un’espressione contrariata. «Una serata da palo coi due piccioncini? Anche no, ragazzi.»
«Meglio fare il palo con noi e magari rimorchiare qualcuna, che restare in questo buco da solo tutta la sera, no?» insistette Geoff. Lui ci teneva al suo amico Duncan, sì, anche nonostante il suo fare scostante, nonostante il suo chiudersi in sé stesso sotto la sua tipica espressione da “non saprai mai quello che sto pensando davvero, amico”. Geoff era così semplice invece, a suo confronto; era così caldo, così «Amico!», così «Ho un tatuaggio sul sedere, lo vuoi vedere?». Duncan era così «Togliti di torno», invece. Ma andava bene, era fatto così: Geoff l’accettava.
«No» rispose Duncan. «Perché non sono solo, stasera.»
«Ah no?» Geoff gli diede un paio di colpi di gomito. «Ah no, canaglia? Eh? E cosa combini, eh?»
In quel momento suonò il campanello. Che fosse Gwen, in anticipo? No, non era Gwen. Era una ragazza, ma non Gwen: era Courtney, che si fiondò ad abbracciare Duncan non appena le ebbe aperto la porta. «Ho passato il mio esame! L’ho passato!» ripeteva, a voce troppo alta e troppo, troppo maledettamente vicina alle orecchie del punk.
«Be…ne?»
Duncan era rimasto immobile con le braccia sospese in aria, indeciso tra il toccare Courtney per restituirle l’abbraccio, e il prenderla per i fianchi per allontanarla gentilmente. Non si vide obbligato alla scelta, però: Courtney si stacco rapida da lui non appena si accorse delle figure di Bridgette e Geoff, Geoff che se la stava ridendo di brutto, perché che canaglia, il suo amico!
«Ciao!» si presentò subito Courtney. «Sono Courtney, una… voglio dire, la, amica di Duncan.» E iniziò a stringere loro le mani. Geoff rivolse a Duncan un’espressione ambigua: ma che voleva dire, quello che Courtney aveva appena detto? Duncan gli accennò un no con la testa, un no che Geoff, però, vide senza cogliere a pieno, perché disse:
«Quindi è con lei che hai pianificato la serata, eh Duncan?»
In quel momento Duncan, una di quelle infradito fluo che all’amico piacevano tanto, gliel’avrebbe volentieri lanciata in faccia.
«Hai dei piani per me, Duncan?» Inizialmente confusa, si illuminò in una decina di secondi, voltandosi verso il punk. «Dei piani per festeggiare il mio risultato d’esame? Che bel pensiero, Duncan!»
Ma Duncan non sapeva neanche che dovesse fare un esame, quel giorno… e poi, esame di cosa? Magari avrebbe dovuto saperlo, ma di sicuro non lo ricordava, né gli interessava ricordarlo. Ormai, però, come poteva rispondere? Era spalle al muro, e per colpa del suo stesso amico.
«Niente di che, Courtney. Solo un horror nell’appartamento di fianco.»
«Di fianco?» fece Courtney, confusa.
«Sì, ci vivono due ragazzi, mi hanno invitato, cioè Gwen mi ha invitato, e così…»
«E così tu hai pensato di invitare anche me! Grazie, Duncan! Sei il migliore!»
Sì, lo era. Ma non in quel momento: quella non era proprio la sua prestazione migliore.

 
*****

Erano tutti stravaccati in sala nell’appartamento di Gwen e Trent. La presenza di Courtney, alla fine, si stava rivelando di poco conto; Gwen non si era indispettita per essersi ritrovata un'estranea in casa, Trent invece era sembrato addirittura sollevato del fatto che Duncan non fosse solo. Questa volta, però, ci aveva pensato il punk a presentare la ragazza: «È Courtney, la proprietaria della casa che ho in affitto» Courtney aveva aggiunto un saluto e basta, questione chiusa.
L’unico inconveniente della presenza di Courtney, a dirla tutta, l’aveva riscontrato il braccio di Duncan che, nonostante i muscoli, vacillava sotto la stretta della ragazza, che puntualmente gli infilzava le unghie lunghe nella carne, ad ogni momento vagamente pauroso del film. Se lo ricordava più traumatizzanti, Duncan, certe scene. Invece quella sera, stretto tra una Courtney terrorizzata e il bracciolo del divano, quell'horror gli era sembrato un semplice film di nicchia. Aveva stemperato la delusione, alimentata dalle aspettative del ricordo, con la birra che Gwen e Trent avevano messo a disposizione, con le patatine e i pop-corn. Duncan e Gwen erano gli unici che stavano mangiando, lui a un’estremità e lei a quella opposta del divano. Courtney e Trent, troppo paralizzati dalla paura e dallo schifo degli sbudellamenti del film, si limitavano a passare le ciotole di snack da una parte, poi dall’altra, poi di nuovo nella prima direzione, di nuovo nella seconda. Gwen di tanto in tanto se ne usciva con: «Sì! Me lo sentivo!» e Duncan aggiungeva: «Ah sì, me la ricordavo questa.»

Dopo un’ora e mezza di sangue e sventramenti, il film terminò. Gwen riaccese la luce, prima spenta per creare la giusta atmosfera da horror, e le venne da ridere alla vista di Courtney, schiacciata contro Duncan per la paura, e Trent, immobile e cadaverico.
«Siete diventati più pallidi di me, voi due» aveva commentato indicandoli.
Era tardi, ma non davvero tardi. Così Gwen, vedendo la ciotola di pop-corn svuotata, penso di aggiungerne altri, per passare altro tempo insieme a conversare del film, prima che gli ospiti se ne andassero.
Quindi Gwen afferrò la ciotola e disse: «Vado a preparare altri pop-corn.» In quel momento Duncan si ricordò che quello dei pop-corn, in origine, avrebbe dovuto essere il suo compito.
«Cavolo, mi sono completamente scordato che dovevo portarli io, aspetta che ti aiuto.»
Si alzò a fatica, staccando Courtney, e seguì Gwen nella cucina. Iniziarono a commentare il film, mentre i pop-corn scoppiavano nel microonde. Gwen si era seduta sul ripiano, aspettando che fossero pronti.  
«E che killer! Mi sarei buttata tra le braccia di quell’assassino!»
«Guarda che Trent ti sente.»
Gwen sorrise. «No, starà parlando con Courtney di quanto terrorizzati fossero entrambi!» I due ridacchiarono e Gwen si sporse per raggiungere altre due lattine di birra nel frigo. Ne offrì una a Duncan.
«Io ero più preso dalla ragazza, comunque.»
«Quella castana?»
«No, l’altra. La solitaria coi capelli tinti.» Gwen si immobilizzò per una manciata di secondi, prima di visualizzare l’attrice nella mente. «Per un attimo ho pensato ti stessi riferendo a me. Che stupida.»
«Perché sei solitaria?»
«Eccome se lo sono.» Un sorso.
«In effetti un po’ ci assomigli, a quella ragazza.»
«Ah sì? Allora ti piaccio!» Gwen stava scherzando, scompigliandosi i capelli con la mano per riprodurre il gesto della tipica ragazza che ama mettersi in mostra, stereotipo che, a lei, non apparteneva proprio.
«Non ti ho mai nascosto di notare le tue qualità, bellezza.» Duncan si avvicinò al suo viso. Gwen, per scherzare, gli rovesciò uno spruzzo di birra addosso: l’inizio di una guerra che finirono entrambi fradici, tra urli divertiti e risate. Al sentirle, anche Trent e Courtney erano accorsi. Erano rimasti… confusi, ma che stavano facendo? Avevano due espressioni contrariate, non riuscivano proprio a capirlo, il divertimento che invece si agitava nell’animo della dark e di Duncan. Loro non riuscivano a smettere di ridere!
Quando erano riusciti a calmarsi, Duncan aveva detto: «Sarà meglio che vada a cambiarmi», e Courtney aveva colto l’occasione per liquidarsi, perché: «Domattina mi devo svegliare presto. Periodo di esami, studio duro!»
«Buona fortuna!» l’aveva salutata Gwen, e la serata era finita così.


*****

Duncan tornò nel suo appartamento. Dopo aver constatato che la serratura della porta d’ingresso era rimasta come bloccata dopo essere entrato, si tolse la maglia, fradicia di birra, e si stese sul divano. No, non è proprio corretto: prese un’altra bottiglietta di birra e si stese sul divano; ora sì. Prima di accendere quel vecchio cassone di tv, sintonizzato sulla metà dei canali, riusciva a sentire il suono alto di voci proveniente dall’appartamento di Gwen: le intonazioni erano distinguibili, ma non le parole. Come aveva detto Trent: pareti sottili, e la sala di Duncan, che era più una “stanza all’ingresso” che salotto vero e proprio, era proprio contro alla cucina dei due fidanzatini, stanza dove dovevano trovarsi in quel momento, a giudicare dal rumore. Duncan non ci fece molto caso; si domandò che cavolo gli fosse preso così di colpo, quello sì, perché era curioso (soprattutto delle dinamiche che non lo riguardavano), ma per il resto… Lui l’aveva sempre sostenuto, che le relazioni serie, quelle che ti vincolano ventiquattr’ore al giorno per un periodo di tempo troppo lungo per risultare vivibile, sono come un camice di forza che non fa che stringersi e stringersi, sempre di più, fino a bloccare il respiro. Ovvio che si finisse per implodere, qualche volta. Duncan sarebbe imploso di continuo! Gli tornò in mente il modo in cui Courtney si era presentata al suo amico Geoff: «Sono Courtney, una… voglio dire, la, amica di Duncan.» Che cavolo significava quella correzione di articolo? Un trattamento esclusivo, forse? Eppure Duncan non le aveva mai lasciato intendere che si stessero frequentando in esclusiva, o roba del genere… Secondo la prospettiva del punk, erano solo finiti a letto insieme un paio di volte, capita, e non raramente; mica implicava un legame affettivo, questo. Nessun tipo di esclusività. Ma Geoff lo aveva intuito e di sicuro era stata questa la ragione per cui, stringendo la mano di Courtney, aveva alzato lo sguardo oltre di lei, cercando l’espressione sul volto di Duncan, che confermava i suoi pensieri: ha totalmente frainteso, questa!
Gliel’avrebbe dovuto spiegare, Duncan. Che palle, i discorsi seri. Non c’era fretta, però: chissenefrega di quello che pensava la ragazza, alla fine. Poteva costruirsi i film mentali che preferiva, la coscienza di Duncan era a posto. Se fosse diventata più invasiva allora sì, le avrebbe fatto notare che scollarsi non sarebbe stata una brutta idea. Sforzandosi di parlarle con dolcezza, però: il punk avrebbe fatto meglio a tenere a mente che quella che aveva affittato, era la casa che apparteneva a lei. Non poteva permettersi di venire sfrattato, non così presto! Sbuffò solo al pensiero, segnandosi a mente una nuova lezione di vita: evitare di sedurre le donne che potrebbero potenzialmente rovinarti, rovinarti per davvero.
In quel momento notò che Gwen era appena entrata e se ne stava in piedi, ancora bagnata della birra della lotta di prima, all’ingresso.
«Hai lasciato la porta socchiusa» mormorò.
Duncan si mise a sedere. «La serratura è rotta. Ma che hai fatto alla mano?*»
Gwen sollevò il braccio, come dimentica del dolore che, invece, le arrivava forte e chiaro. Sentiva tutta la mano pulsare, era rossissima e alcune nocche erano sbucciate, sanguinanti. «Ho dato un… pugno.»
«A Trent?» Questo sì che sarebbe suonato esilarante, alle orecchie di Duncan.
«No, al muro… un paio, di pugni.»
Gwen articolava tutte le sue affermazioni tenendo costante un tono di voce basso, quasi volesse nascondersi, farsi piccola. Come se si sentisse in colpa per l’impulso accolto con impeto. Sembrava una bambina che viene beccata a rubare delle caramelle, aveva pensato Duncan guardandola. E lui ne aveva visti, di bambini così: ovviamente non lui, però. Lui non si era mai fatto beccare. I suoi amichetti sì, però. Che imbranati.
Gwen socchiuse la porta alle sue spalle, come l’aveva trovata, e avanzò verso Duncan, adesso meno innocente, più nervosa.
«Il fatto è che sono così incazzata con Trent!» Si interruppe per un profondo respiro. «Ha fatto una scenata colossale dopo che ve siete andati. E sai perché? Per la birra rovesciata in cucina! Per della birra rovesciata che avrei pulito in due minuti prima ancora che lui potesse chiedermi per favore di farlo!  E invece no, cazzo. Non ho pulito un bel niente. Certe scenate mi fanno venire voglia di… di strapparmi i capelli, ecco!»
«Ti consiglio di distrarti un po’ allora, dolcezza. Non vogliamo che i tuoi bei capelli facciano questa brutta fine.» Le allungò la bottiglia di birra che aveva aperto poco prima per sé.
«Non hai niente di più forte?» chiese Gwen dopo averne preso un sorso.
A Duncan venne spontaneo sogghignare. «Vuoi proprio finire male stasera, eh?» Si alzò per andare a prendere la bottiglia di gin, appoggiata sul ripiano della tv.
«Voglio soltanto smetterla di pensare» rispose Gwen, sospirando. «Voglio rilassarmi e sentirmi come nuova. Sai come si fa?»
Duncan le allungò la bottiglia di alcol in risposta. «Direi che questo non è un cattivo inizio.» Poi notò le condizioni della ragazza: ancora fradicia.
«Non vuoi metterti qualcosa di asciutto?»
Gwen lo guardò di sottecchi, staccandosi dal collo della bottiglia. «Ma come siamo gentili. Sai che non pensavo?»
«Non costringermi a ritirare la mia disponibilità. Che non è gentilezza, comunque. E ricordati che potrei cacciarti da qui in qualsiasi momento, dato che è casa mia.»
«No!» l’interruppe Gwen, tutta divertita: «è casa di Courtney!»
«Sì, hai ragione tu. Comunque se vai fino alla fine del corridoio, là trovi la mia camera. Dovrebbero esserci delle maglie sparse in giro.»
Gwen gli rivolse un’occhiata sospettosa. «Siamo sicuri che non mi pentirò di esserci entrata, dopo?»
«Se vuoi posso accompagnarti. Possiamo restare lì dentro quanto vuoi, se è questo che mi stai chiedendo.»
«Certo che non ti stavo chiedendo questo, stupido! È che sai, non vorrei trovare, che so… manette, o altre robe strambe che userai per i tuoi giochetti!»
Duncan era scoppiato a ridere. Ma era già brilla, Gwen?
«Un paio di manette non è una cosa stramba. E comunque no, non c’è niente di tutto questo, tranquilla.»
Gwen non accennò a muoversi comunque. Lo guardava come paralizzata con le sopracciglia aggrottate. Ecco di nuovo la bambina in lei: adesso stava cercando di convincere i grandi che non era assolutamente stata lei, quella a rubare le caramelle.
«Ok, streghetta. Vado a prenderti qualcosa io, va meglio?»
Gwen annuì soddisfatta, e gli gridò dietro: «Prendi anche qualcosa per te, ne avresti bisogno, mi sembra!» Poi si rincollò alla bottiglia di gin. Le faceva letteralmente schifo. Però funzionava: tra i brividi di ribrezzo per l’amaro della bevanda, sentiva i nervi alleviarsi, anzi no: i nervi non li sentiva più. Era come un’onda, un’onda che ondeggia, che ondondoondola come un’onda e… cade. Si abbandonò a peso morto sul divano di Duncan e chiuse gli occhi, percependo quelle stelline che si stavano aggiungendo nella sua testa sempre più numerose, cancellandole tutti i problemi.
Duncan tornò da lei e le buttò una maglia in faccia.
«Ne avrei bisogno, dicevi?»
Gwen si scoprì il volto dalla maglia di lui per riuscire a guardarlo negli occhi. «Sì! Sei praticamente nudo!»
«Guarda che sarebbe solo una grande fortuna per te, se lo fossi.» Duncan si abbassò alla sua altezza e, dopo averle preso la mano ferita, iniziò a fasciarla con una benda. Aveva imparato per esperienza che era sempre bene averne, di bende: le lezioni le imparava, lui, a forza di ferite.
«Guarda» lo riprese Gwen, con sarcasmo, «che solo perché hai un bel fisico e una bella faccia, non significa che muoia dalla voglia di andare a letto con te.»
Duncan riprese a ridere. Cavolo se gli teneva testa, quella smilza, pallida bellezza! Sembrava già andata, oltretutto. Si alzò impiegando un secondo per sentirsi in equilibrio sui piedi. Poi si guardò intorno: quella salettina era tagliata in modo diverso, rispetto alla sua. La cucina era per metà, a vista, l’altra no: si infilò in quel vano per sfilarsi la maglietta bagnata e indossare quella di Duncan, tutta nera, con un teschio disegnato sul petto.
«Come mi sta?» Si sistemò le mani sui fianchi per farsi vedere dal punk come una modella.
«Da favola. Anche se la tua era più scollata…»
«La smetti di scherzare?» Lo raggiunse di nuovo sul divano, ridacchiando.
«Facciamo un gioco!» esclamò poi.
«E a che gioco vuoi giocare, Gwen?»
Ci pensò su. «Non lo so… di solito non gioco mai.»
Duncan prese un sorso di gin e sistemò la bottiglia tra loro.
«Obbligo o verità, allora» disse. «Chi non risponde o si tira indietro, beve.»
«Perderai tu di sicuro» rise Gwen. Aveva uno strano modo, Gwen, di non risultare mai sgradevole agli occhi di Duncan. Qualsiasi tipo di osservazione che, detta da qualcun altro, gli sarebbe suonata dannatamente insopportabile, uscita dalle sue labbra suonava come un gioco, un gioco che non vuole essere preso alla lettera, un gioco a cui Duncan avrebbe giocato per tutta la notte.
Iniziarono:
Gwen: «Perché ti sei trasferito?»
«Perché mi sentivo incatenato, dove stavo prima. A me piace sentirmi libero.»
«Piace anche a me.»
«Bene. Obbligo o verità, Gwen?»
«Verità.»
Duncan era tentato di chiederle di Trent, di esprimerne un giudizio, di rispondere quanto fosse convinta di amarlo. Ma tenne a freno la lingua: non era il caso. Gwen era in collera con Trent, e l’atmosfera era bella così, composta soltanto da loro due. Così le disse: «Ti dispiace così tanto che io sia senza maglietta?»
Gwen sorrise. Che vanesio. Voleva soltanto sentirsi dire quanto fosse ben scolpito.
«Non mi infastidisce» gli rispose quindi. Quanto fece ridere Duncan, quella risposta! Era intelligente, Gwen. Parlare con lei era divertente. Sapeva il fatto suo.
«Obbligo o verità, Duncan?»
«Obbligo.»
Le labbra di Gwen si distesero in un ghigno divertito.
«Vai a metterti una maglietta.»
«Ti prometto che lo farò al prossimo giro, se ancora lo vorrai.»
Gwen gli avvicinò la bottiglia di gin. «Intanto bevi, però.» Nessun problema, per Duncan. Era decisamente più sobrio di quanto non fosse lei.
«Ora è il tuo turno: obbligo o verità?»
«Obbligo!»
Duncan si protese in avanti.
«Baciami, se vuoi vincere.» Si aspettava un no secco, a dire la verità. Si aspettava un: «Sono fidanzata, cazzo! Lo vuoi capire? E lo sei anche tu!» Sì, perché avrebbe scommesso che non fosse chiara nemmeno a lei, la relazione tra lui e Courtney, relazione che non c’era, appunto.
Ma questo non successe. Sì, perché Gwen non ribatté proprio. Raccolse la sfida ricambiando il sorriso divertito del punk e si protese a sua volta verso di lui: contatto di labbra. Però non si ritrasse subito dopo averlo sfiorato: rimase per un attimo lì, accarezzando le labbra di lui con le sue. Per un attimo, perché subito dopo Duncan le avvicinò la testa alla sua, invitandola, portando una mano dietro al suo capo, ad approfondire il contatto. La spinse in avanti, contro di lui. Anche Gwen avvicinò le mani alla faccia di Duncan, lungo la sua mascella, le orecchie, il collo. E Duncan buttò a terra la bottiglia che se ne stava appoggiata tra di loro, noncurante del fatto che il poco alcol che era rimasto si sarebbe rovesciato sulle piastrelle. Si avvicinarono ancora di più, si incollarono, l’una contro l’altro per ogni centimetro di corpo, e Duncan spinse Gwen giù, a sdraiarsi sul divano sotto di sé, senza interrompere quel bacio che, da innocente sfida tra amici, era diventato più sporco, passione, lingue che non riescono a smettere di giocare tra loro e insistono. Gwen giocava con la cresta di Duncan, le gambe a cingergli il bacino. Che effetto gli stava facendo, quella ragazza. L’avrebbe ucciso.
Si staccò dalle sue labbra, Duncan, per lasciarle una scia di baci sul collo, sempre più giù, verso il bordo della maglietta, un bordo elastico, un bordo che Duncan strattonò un po’ per poter scendere ancora un po’ più giù, fino a che Gwen non l’aveva detto: «Trent.»
Cazzo. Aveva rovinato il momento. Lui le stava riservando un trattamento tanto speciale, e tutto quello che Gwen sapeva rispondere, era nominare il suo ragazzo, nell’appartamento di fianco a dov’erano loro. Erano stati silenziosi, comunque. Non poteva aver sentito nulla. Magari era pure andato a dormire, in questo caso sogni d’oro, Trent! Perché c’è chi si rifugia nei sogni per vedere delle belle scene, diceva spesso Duncan, e chi i sogni li fa succedere nella realtà: era questo il suo caso. Quasi, almeno: finchè la ragazza sotto di lui non aveva chiamato il nome di Trent. Cazzo. Duncan si bloccò e, al posto di procedere sfilandole quella maglietta fin troppo larga, appoggiò la testa al suo petto. Sentiva il cuore batterle veloce.
Puoi raccontarmi quello che vuoi, ma che effetto ti faccio, Gwen.
Rimasero così per un po’ abbracciati e in silenzio. Gwen avrebbe voluto che il ragazzo continuasse, facesse qualcosa, qualsiasi cosa, si sentiva così bene, così elettrizzata, così ubriaca, così noncapisconiente, così… chiuse gli occhi: così stanca.
Duncan non sapeva che fare, anche se sapeva quello che avrebbe voluto: andare fino in fondo. Sì, però la ragazza era totalmente ubriaca, sarebbe stato davvero incredibile se avesse accettato quelle sue carezze anche da sobria. Era anche fidanzata con un altro, che non avrebbe apprezzato. Ma no, a Duncan non importava davvero di Trent. Di Gwen, però, di più, ed era certo che quando si sarebbe svegliata senza vestiti e accanto a lui, la mattina dopo, l’avrebbe maledetto fino alla fine dei suoi giorni e avrebbe smesso di rivolgergli la parola. No, piccola Gwen. Duncan non ha intenzione di ferirti.
Se avesse sollevato la testa per rivolgerle un’espressione interrogativa, d’altra parte, temeva la sua reazione: magari si era totalmente dimenticata, complice l’alcol, che il ragazzo al quale era avvinghiata non fosse il suo Trent, magari aveva mormorato il suo nome proprio perché il suo cervello stava ricostruendo la scena come se fosse insieme a lui. Duncan riuscì solo a pensare: che fregatura, e rimase così, con la testa appoggiata al suo petto, fin quando non sentì il battito di Gwen normalizzarsi e si accorse che si era addormentata. La coprì con una coperta e si spostò nella sua camera da letto.



*: citazione dello stesso Duncan, TDWT, ep.13 

Buon pomeriggio a tuttiii
Credo di non aver mai aggiornato una storia con questa velocità, WOW (per me, spero anche per voi XD)
L'ho scritto già prima, ma lo ripeto di nuovo giusto per sottolineare il mio essere terribilmente ripetitiva: ho ADORATO questo capitolo! Sapete quando vedete proprio i personaggi durante il flusso di ispirazione, e vi limitate a descrivere quello che loro stanno dicendo alla vostra testa? Wow, così sembra psicopatico... COMUNQUE AVETE CAPITO ^^
Se vi è piaciuto (ma anche no) mi raccomando recensite (per favore!), che leggere le vostre impressioni è l'unico modo efficace che ho per lavorare sul mio stile (ed è anche un enorme incentivo ad impegnarmi per continuare a scrivere bene e rapidamente XD ... cosa che in realtà nel prossimo periodo sarà dura a causa sessione: ma se il Purgatorio non mi renderà soggiogata, mi sforzerò di sintonizzarmi :) 
A presto!

Alyeska

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***



CAPITOLO 4

«Duncan…? DUNCAN!»
Una cuscinata in testa. Poi: «Eh? Ma che…
»
Un’altra cuscinata: «Che diamine, Gwen! Stavo dormendo!»
«Perché mi sono svegliata sul tuo divano con la tua maglietta addosso?» La voce di Gwen era perentoria, rigida, incazzata. Duncan era ancora mezzo addormentato. Dopo essersi coperto la testa col cuscino che Gwen gli aveva lanciato, rispose: «Perché cosa vorresti che avessimo fatto, Gwen?» Il cuscino non soffocò abbastanza le sue parole: la dark le comprese e colpì Duncan di nuovo.
«Okay, okay!» Il punk si alzò a sedere, passandosi una mano nella cresta tinta in un vano tentativo di restituirle una forma. Dopo essersi strofinato gli occhi, cercò la risposta più appropriata nello sguardo di Gwen, che si sforzava di non tradire, non riuscendoci poi così bene agli occhi di un dissimulatore professionista come Duncan, la preoccupazione.
«Niente, Gwen. Non è successo assolutamente niente» e poi, per renderlo ancora più realistico: «Cosa sarebbe dovuto succedere?» Razza di casanova, come se non potesse nemmeno immaginarlo! Era già troppo tardi, per Duncan, per coprirsi sotto alla maschera dell’innocenza: si era già fatto notare da Gwen per la sua propensione verso l’estremo opposto, della malizia.
Si sedette, Gwen, sull’angolo del materasso, non dopo essersi accertata di trovarsi a distanza debita dal punk.
«Ho bisogno di saperlo, Duncan…»
«Sapere cosa?»
Gwen si alzò di scatto, sbuffando. «Che sei un coglione!»
«Aspetta…» Duncan la fermò per il polso, tendendosi in avanti per raggiungerla, senza sbilanciarsi: sapeva perfettamente la sua versione dei fatti, elaborata nel preciso momento.
«Sei venuta da me ubriaca per aver litigato col tuo chitarrista.»
«Sono arrivata qui ubriaca, ma questa mattina mi sono svegliata con una bottiglia di gin vuota di fianco? Che coincidenza strabiliante!»
Duncan dovette contenersi per non scoppiare a ridere, perché cavolo, a quella bottiglia non aveva proprio pensato. Tornando con la mente alla sera precedente, al momento in cui aveva rovesciato la bottiglia di alcol a terra abbandonando le ultime gocce di gin al loro triste destino, non potè fare a meno di soffermarsi sul ricordo delle labbra di lei sulle sue, del loro contatto, del loro sapore, dell’ardente temperatura della stanza, e per un secondo sentì il desiderò di dirlo anche a lei, perché la scena gli risultava così tanto poetica… ma riuscì a tagliare l’intenzione prima che raggiungesse la sua lingua.
«Perché eri ubriaca, ma non abbastanza ubriaca per non sentirti più incazzata con Trent» si divincolò. «Quindi hai bevuto anche quel gin, ma non era molto. E per la maglietta, ti sei soltanto cambiata perché la tua era fradicia. Le birre a casa tua? Ti sei scordata pure quelle?»
«I momenti da sobria li ricordo bene, Duncan.»
«Bene. Allora ho finito il mio racconto. Dopo esserti cambiata ti sei messa sul divano, ti sei addormentata e io sono venuto di qua. Contenta?»
Gwen annuì, prima di coprirsi la faccia con le mani. «Scusa per le… congetture, ma vedi… Trent ha passato tutto il pomeriggio, ieri, spiegandomi della sua gelosia e stamattina mi sono svegliata qui e…»
«Gelosia verso di me?» Il suo risveglio si addolcì improvvisamente: il chitarrista preoccupato a causa sua? Di già? Questa sì che era una bella notizia! Il suo ego esultò a festa, lasciando allargare un ghigno sulle labbra di Duncan.
«Sì, lo so, è assurdo.»
Non così tanto assurdo, Gwen.
«Comunque sono contenta che non sia successo nulla. È un vero sollievo. L’alcol può portare a qualsiasi cosa.»
Già, Gwen; a qualsiasi cosa.
«Mai quanto ne sono contento io.» Duncan tornò a stendersi sul materasso, tenendo gli occhi aperti per osservare la reazione di Gwen, che per un secondo apparve stizzita da quell’affermazione: «Ah sì?»
Duncan annuì; no, non lo pensava davvero, si divertiva soltanto a provocarla. Perché era palese, anche se non l’avrebbe mai ammesso, che Gwen aveva colto quella risposta come una provocazione: “Non sono abbastanza per te, Duncan?” avrebbe pensato, oppure: “Prima i nomignoli ed era questo? O sei bipolare o ti piacciono gli ossimori, Duncan” oppure l’opzione che preferiva: avrebbe accolto la sfida e risposto ad alta voce “Sei solo un bugiardo, Duncan.” Ma non si verificò nessuna opzione, o meglio, non del tutto: sì, perché Gwen la pensò, l’ultima immagine balenata nella mente di Duncan, ma non la disse. Invece ribattè: «Per via di Courtney?»
Era bastato sentire il suo nome per indispettirlo. Per la seconda volta in meno di ventiquattr’ore, anzi dieci, un nome si rivelò sufficiente a rovinare il perfetto copione inciso nella testa di Duncan.
«E che me ne dovrebbe fregare di Courtney?»
«Non è la tua ragazza?»
«È così che te l’ho presentata?»
Gwen ci pensò un attimo. «Beh no, però…»
«Niente però, è solo una boccetta di colla compressa che in questi giorni non riesco a staccarmi di dosso.»
«Eppure sembrava così carina ieri sera, a stringerti durante il film come se non ci fosse un domani…»
Il sorrisetto tornò sul volto di Duncan. «Stavi guardando noi al posto di vedere il film, darkettona?»
Gwen ruotò gli occhi. «Stavo guardando il film e ad intervalli cercavo la ciotola dei pop-corn, che avevi sempre in mano tu, punkettone
Duncan scoppiò a ridere. «È un nome orribile!»
«Sì, lo è. E vuole suonare da dolce invito a non chiamarmi più in quel modo.»
«Pensavo che fosse il bellezza a innervosirti, ma se lo preferisci, per me è soltanto un piacere, bellezza.»
«Non mi piace nemmeno quello, non illuderti. Però almeno è ascoltabile.»
«Oh, eccome se lo è! Soprattutto a un metro dal chitarrista, vedi come si ascolta bene, poi.»
Gwen lo fulminò con lo sguardo.
«Ora dovrò anche preoccuparmi di spiegargli dove ho passato la notte… Che casino.»
«Perché dovresti mentirgli?»
«Non farmi domande ovvie, Duncan!»
«Va bene, va bene. Sarà il nostro segreto, allora.» Ammiccò.
«Non è che mi esalti, avere dei segreti con te» lo punzecchiò Gwen. Come se Duncan avesse potuto crederle! Chi non avrebbe voluto averne, di segreti con lui? Peccato solo che una parte di quel segreto, nella mente di Gwen, fosse del tutto sfumata via.
Dopo essere uscita dalla sua stanza, Gwen disse: «Ti lascio la maglia sul divano! E vestiti, una buona volta!» Duncan sogghignò: ma chi dormiva con una maglietta addosso?
In quel momento Trent stava per spingere la porta socchiusa dell’appartamento di Duncan, per chiedergli se avesse notizie sulla sua Gwen. La voce di lei lo bloccò: si ritrasse, ma che? Cosa significava? Avrebbe dovuto spalancare quella porta ed esclamare che diamine stava facendo lì, che cavolo di maglia avesse addosso e cosa avesse fatto con quel criminale tutta la notte. Avrebbe dovuto gridare, incazzarsi, colpire Duncan in pieno viso col pugno più forte di cui fosse capace… e invece non trovò il coraggio per fare niente di tutto ciò. Liberò la maniglia dalla sua presa, indietreggiò. Si sentì tremare, il cuore in gola, ma che diavolo ci faceva lì Gwen? Si prese la testa tra le mani: non poteva essere vero. Poi di nuovo, la voce della sua amata provenire da quell’inferno, appena ad una parete dal loro paradiso comune: «Vado a parlare con Trent! Ciao Duncan!»
Parlare con lui? E parlare di cosa? Trent raccolse le ultime energie che gli erano rimaste per fiondarsi sugli scalini e correre giù per la rampa, prima che Gwen uscisse dall’appartamento di Duncan, non accorgendosi nemmeno dei suoi passi che continuavano a rincorrere i gradini, rischiando di inciampare ad ognuno, nonostante si trovasse già al riparo dalla vista di Gwen.



 
*****


«E così mi vuoi dire che la cara Gwendolyn se la fa con un altro? Non mi dire.»
«Non sei divertente, Heather.»
«Non volevo esserlo, Trent.» Heather prese un sorso del suo «caffè macchiato con latte vegetale spolverato di cacao, e senza schiuma, o ve lo rimando indietro», trovandolo ancora caldo ma non bollente, sorprendentemente della temperatura giusta e dagli aromi bilanciati, della perfezione con cui condiva ogni cosa di cui era solita circondarsi. L’imperfezione non era degna di lei.
«Il punto è» riprese la ragazza, dopo aver riposato la tazzina sul tavolo, «che non mi sento per niente sorpresa. Per quanto non ti piaccia sentirlo dire, io ho sempre avuto il presentimento che fosse una sgualdrina. Si atteggia tanto da artista miseramente incompresa, quando in realtà si comporta in modo discutibile apposta. È lei che non vuole farsi comprendere. Da questo punto di vista, ha decisamente la stoffa della pittrice controcorrente che aspira di diventare.»
Trent gli rifilò un’occhiataccia, che tuttavia cedette presto sotto al peso della desolazione che non faceva che sommergere i suoi pensieri a ondate prepotenti.
«Non fare quella faccia, Trent. Non puoi dire che non te l’aspettavi. Infondo, prima di mettersi con te Gwen era l’amichetta di Alejandro, no?» sputò Heather, come se il ricordo di un aneddoto, o la semplice visualizzazione della faccia derisoria dello spagnolo, la disgustasse.
«Amichetta… fai sempre l’esagerata, tu. Alejandro le aveva semplicemente proposto una collaborazione artistica con la band dopo aver visto i suoi disegni, lo sai bene.»
«Blablabla» argomentò Heather. «Non è esattamente il modo in cui la racconta Alejandro.»
«Non è mai il modo in cui racconta Alejandro» osservò Trent, sospirando. Il loro bassista aveva sempre avuto il vizio di pompare ogni storia che lo riguardasse, era troppo sicuro di sé per non sottolineare in ogni discorso la sua spiccata propensione a conquistare cuori e appiccare incendi.
«E poi» riprese Trent, «sai quante ne racconta su voi due, di storie? Se non ti conoscessi, gli crederei pure. Entra talmente nel dettaglio…»
«Ah s-sì?» Heather vacillò: per un attimo ebbe il timore che quell’ultimo sorso di caffè le sarebbe finito di traverso, tradendola.
Trent la guardò inarcando le sopracciglia. «Vuoi sentirne qualcuna?»
«NO!» Heather l’aveva gridato, sì. Diamine. Lo ripetè, questa volta riuscendo a fingere la nonchalance che si era prefigurata: «No, non voglio sentirle, Trent. Posso solo immaginare a che livelli possano arrivare le fantasie di quel malato latin-lover.»
«Quel malato latin-lover fa parte della nostra band, vedi di non trattarlo troppo male, o dovremo trovarci un bassista nuovo.»
L’idea accarezzò i pensieri di Heather: sarebbe stato così facile liberarsi di Alejandro? La prospettiva l’allettava, liberarsi di lui le avrebbe di certo risolto innumerevoli problemi: finalmente sarebbe riuscita a cantare nuovamente senza le distrazioni delle sue occhiatine e dei suoi commenti, senza la distrazione dei suoi fianchi che si muovono accompagnando il ritmo del basso, delle sue dita così veloci a pizzicare le corde… No! Non voleva proprio pensarci ad Alejandro, l’unica cosa su cui desiderava riflettere era come riuscire a strozzare quel maledetto bocca-larga col cavo del suo stesso microfono.
«Cavolo» mormorò Trent, riportando Heather al presente. «Guarda quanti fiori…» Dal tavolino esterno del bar sotto casa di Heather, chiamata all’ultimo dal chitarrista per estrema necessità di parlare con qualcuno, i colori vivaci delle aiuole risaltavano sotto al sole. Così tanti colori, si ritrovò a pensare Trent, che però non riescono a rallegrarmi. «La loro bellezza è così insensibile…»
«Oh, adesso smettila per favore! Solo perché Gwen è tanto propensa a incarnare il perfetto, immorale prototipo di vita bohémienne, non significa che tu debba reagire mostrandoti così debole!»
«E come dovrei reagire, scusa? La mia ragazza passa la notte col nuovo vicino di casa, e io dovrei sentirmi indifferente? Come hai fatto a ghiacciare il tuo cuore così bene? Insegnami, dovrei congelare anche il mio.»
«Dovresti soltanto svegliarti!» Heather gli schioccò le dita a un palmo dal viso. «Anche tu sei un artista, Trent! Comportati da tale!»
«Essere artisti implica essere sensibili… Non so più quanto sia conveniente.»
«Essere artisti vuol dire essere imprevedibili e fuori dalle righe, invece! Ribellati alle tue logiche!»
«… Alle mie… logiche?» Trent non capiva, né a cosa alludesse la sua cantante, né a come fosse possibile liberarsi da un modo di pensare semplicemente decidendolo. Lui amava Gwen e avrebbe continuato, anche quando sarebbe rientrato a casa e lei lo avrebbe lasciato e sfrattato, rivelandogli del neonato amore scoppiato con quel Duncan. L’avrebbe amata ancora per tanto, tantissimo tempo, forse per sempre, perché lei era così unica, così singolare nella sua particolarità… così… così “non esistono altri esseri umani simili”! Come avrebbe fatto? Quante volte si sarebbe ripetuto di smettere di amarla? Quante non ci sarebbe riuscito?
Heather in risposta si sporse in avanti sul tavolino. Scandì di nuovo, questa volta più lentamente: «Ribellati, Trent.»
Trent continuava a non afferrare il senso.
Più vicina, ancor più lentamente, Heather: «Ri-bel-la-ti.»
Le sue labbra danzavano.
Ancora più vicino.
Heather sfiorò le labbra di Trent con le proprie, per poi sussurrare all’amico: «Sei un artista, devi ripeterti questo», parole che provocarono in Trent un brivido improvviso e indomabile. Perché Heather aveva ragione: gli artisti sono incontrollabili, imprevedibili! Che aspettava a tirare fuori la sua stravaganza, il nucleo originale della sua creatività? Baciò Heather di nuovo, più intensamente, a lungo, tenendo con le mani il viso di lei contro al suo. Heather lo assecondò soltanto: a lei non importava niente, i suoi sentimenti non esistevano, non… le venne in mente Alejandro: per un secondo si sentì trasportata da quel bacio in maniera indicibile, poi ragionò sulla sua immaginazione, si impegnò per eliminarla, spegnerla, ma il barlume era sempre lì, però no, lei restava comunque insensibile. Se baciare Trent l’avrebbe finalmente portato a ragionare, a lasciare Gwen prima che lei potesse farlo con lui e prendere sul serio, finalmente, l’essenza della sua arte – che appunto, secondo Heather, doveva essere indomabile e impulsiva, contro l’apollineo che Trent aveva sempre predicato nella pulizia dei suoi ritmi –, allora l’avrebbe baciato di buongrado. Si sarebbe perfino spinta ad andare a letto con lui, per il bene della loro musica; si trattava semplicemente di calcolo e strategia per Heather, sempre.
Ma poi il bacio finì, Heather si riappoggiò compostamente sulla sua sedia: era quella di sempre. E anche Trent era quello di sempre: un debole sempre e comunque innamorato di Gwen, ma questa volta non si limitava a sentirsi fragile: era diventato un insulso traditore. Heather aveva mascherato un peccato di sollievo, ma adesso che la natura del suo gesto si dispiegava a lui per ciò che era stata effettivamente, sentì il senso di colpa cadergli addosso come un’incudine sulla testa.
Trent avrebbe davvero voluto trovare sé stesso, nonostante l’imminente futuro in cui prevedeva l’abbandono di Gwen. Ma Trent si sentiva sé stesso soltanto con lei.
Heather avvicinò una mano al viso. «Cavolo!» esclamò. «Mi si è rotta un’unghia! Devo salire in casa per limarla!»
E Trent, osservandola mentre si alzava, si sentì ancora più solo.


 
****Angolo dell’Autrice****
Buonasera a tutti! È con immenso piacere che, finalmente, ho modo di presentarvi Heather, signore e signori  lettrici e lettori ! una Heather in una veste vagamente alla Lord Henry Wotton, e un Trent… Dorian Gray? Ho appena trovato uno spunto per il suo cognome :’)

Ricapitolando : Duncan e Gwen, ma Gwen e Trent, ma, circa, Duncan e Courtney; e poi Bridgette e Geoff, e ora… Al e Heather? Heather e Trent? Altro che doppia-coppia-in-scatola!!! *Sierra are you hearing me?*

Il povero Trent è tormentato… mi sento in pena per lui, in questo capitolo… la sua pena continuerà? Oppure deciderò di darci un (o nove) taglio, facendolo finalmente, un po’, gioire? E CHI LO SA?! E come si comporterà con Heather, dal prossimo capitolo? La sua trasformazione in Dorian si attuerà, o Trent precipiterà miseramente ancor prima di convertirsi al mondo del peccato? E Gwen, quando finalmente riuscirà a parlare col suo fidanzato? Riusciranno a chiarirsi? Scopritelo qui! Su A tutto! Reality! Il Toouuur  The Apartment – insulsa fanfiction improvvisata da un’autrice che non aveva altro di meglio da fare.

A voi che mi lascerete una recensione: grazie del regalo di Natale posticipato 
❥ ❥ , e buon anno a tutti!

Alyeska

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5
 
Dopo il caffè con Heather, Trent non tornò a casa. Invece girò senza metà per la città, lo sguardo perso, le mani fredde per l’ansia.
Se lui non avesse più incontrato Gwen, lei non avrebbe mai potuto lasciarlo… Ma come avrebbe potuto non incontrare più Gwen? Affrontare la realtà non sarebbe stato meglio, però! Agh. La testa di Trent era affollata da domande tormentate a cui non sapeva dare risposte. Sperava che passeggiare lo avrebbe calmato, distratto; di solito funziona così, no? Alzi lo sguardo al sole e pensi “Oh, che bello! E che male agli occhi!”, ti concentri sulla strada e il clacson di qualche macchina ti porta mormorare “Ma che…?”, poi noti un cagnolino per strada e “Che cucciolo! Come si chiama?”, ma no: Trent non si accorse di nulla durante quella camminata, da quanto era sommerso dai suoi pensieri, completamente in ostaggio del tormento, del suo peggior incubo.

Dopo qualche ora, comprendendo che non avrebbe potuto andarsene in giro così per tutto il giorno, si recò al negozio di musica. Non era ancora il momento del suo turno; poco male, avrebbe iniziato a lavorare in anticipo: voleva soltanto distrarsi, soltanto riuscirci, soltanto… Anche Duncan era già lì. Quando notò il chitarrista, gli rivolse un disinteressato: «Oh, ciao amico.»
Trent non rispose, ma istintivamente i suoi pugni si saldarono. Rivolse la parola al punk solo per chiedere: «Chef? Scott?»
Duncan rispose con un’alzata di spalle. «Li vedi? Io no.»
La sua arroganza riuscì, se possibile, ad irritare Trent ancor più di prima. La sola vista del punk lo faceva andare fuori di testa: si credeva tanto migliore di lui? Più furbo? Più virile forse, per i buchi dei piercing a riempirgli la faccia, come a formare un percorso alla "unisci i puntini"? E invece non era niente, tranne che il peggio! Il peggio che il chitarrista potesse immaginare... Trent non riusciva a schivare il pensiero di lui e Gwen, a perché Gwen…
«Tutto bene, amico? Lo sai che sembri un serial killer oggi? Svegliato dalla parte sbagliata del letto?» Duncan sogghignò e, sapendosi provocatorio, aggiunse: «Oppure ore piccole con la tua bella?»
Trent non ci vide più. Diede un calcio alla chitarra che Duncan stava accordando – per strimpellarla un po’, divertirsi… ovviamente non per assolvere al suo impiego – e spinse anche lui, facendolo vacillare.
«Pensi che sia un coglione, per caso?!» gli gridò contro. Solitamente era così pacato Trent, equilibrato in ogni cosa, gentile… ma no: quel Duncan gli faceva perdere le staffe, caricava in lui un desiderio immane di spaccargli la faccia, perché era esattamente questo il trattamento che avrebbe meritato.
Duncan si voltò un attimo per notare che fine avesse fatto lo strumento colpito dall’altro: tragica. «Io penso che tu sia pazzo, amico.»
«Noi non siamo amici!» sbottò Trent. Si prese la testa tra le mani. «Sei arrivato da qualche giorno e guarda che cosa hai fatto!»
Il punk si sentì confuso. «Che cosa ho fatto io?» Inarcò le sopracciglia. «Guarda che quella chitarra l’hai uccisa tu.»
Trent non lo stava più neanche ascoltando: le immagini che visualizzava nella sua testa avevano aquistato volume, non poteva più ignorarle... continuavano a bussare, a schernirlo, a farlo sentire così miserabile... Ma no, non era questo il momento per dimostrarsi deboli. Così, riunendo tutto il proprio risentimento, Trent riuscì ad imporsi di mettere da parte il dolore e lasciare che il peso della rabbia lo schiacciasse. Gridò: «Almeno ti sei divertito con lei, eh? Ti ha soddisfatto scopartela?»
«Senti, io non so cosa ti abbia raccontato Courtney ieri sera, ma ti assicuro di non aver mai fatto nulla contro la sua volontà, se è questo il tuo problema, anzi…» Gli venne da ridere. «è sempre così contenta dei nostri incontri che…»
«Sto parlando di Gwen!»
Duncan riuscì solo a mormorare un: «Oh» Era talmente ovvio che si stesse riferendo a lei… Che avrebbe dovuto importargli di Courtney? Ma perché Duncan non c’era arrivato subito, allora, a quel soggetto? Forse perché dava per scontato che Trent non potesse sapere nulla… Infondo l’unica coinvolta nella storia era Gwen, e non aveva intenzione di dire al suo ragazzo la reale dinamica dei fatti, quindi…
«Che ti ha detto Gwen?» gli chiese Duncan. Contro il tono agitato di Trent, il punk non si scompose.
«Cosa mi ha detto Gwen? Niente! Che cosa dovrebbe dirmi? I dettagli della vostra nottata?! Vi ho sentiti parlare, stamattina!»
Oh. Adesso sì che era tutto chiaro: la serratura rotta. Duncan aveva chiamato il ferramenta proprio dopo l’uscita di Gwen dal suo appartamento, quella mattina. Adesso la porta si chiudeva bene… ma prima…
«E che avresti sentito? Tra noi non è successo nulla.»
«NULLA?» Trent lo gridò a voce ancora più alta. «Tu hai rovinato la nostra relazione facendoti la mia ragazza, e ora definisci la faccenda come nulla, no? Ma sì! Tanto non te ne frega niente di lei, no? Era solo sesso perché ti sentivi annoiato, no?!» Trent colpì Duncan con un pugno in volto. Il punk non se l’aspettava: sbatté la testa contro il mobile dov’erano impilati i vinili facendo cadere tutti i dischi.
«Sei schizzato?! Non ho fatto niente con Gwen, ho detto!» Bloccò il braccio di Trent prima che potesse colpirlo di nuovo e gli spaccò un vinile in testa. «Lo vuoi capire?!»
Per tutta risposta Trent raggiunse la chitarra calciata poco prima; l’afferrò per il manico e colpì Duncan sul fianco, facendolo piegare in due dal dolore. Era certo che quel bastardo con la cresta verde si stesse prendendo gioco di lui! Avrebbe continuato a dirgli “Io non ho sfiorato Gwen nemmeno con un dito!” e, una volta convintolo, sarebbe tornato a casa, avrebbe chiamato la ragazza, e avrebbero ricominciato ad amoreggiare ad appena una parete di distanza da lui! Davanti all’immagine di loro, il ragazzo si sentì ancora più fuori di sé.
Presto gli strumenti iniziarono a volare, insieme alle botte dei due; il naso di Trent cominciò a sanguinare a seguito di un pugno particolarmente forte di Duncan, analogamente si tinse di rosso anche il labbro del punk, tagliato per l’impatto con un anello di Trent.

«CHE DIAVOLO STATE FACENDO QUI?!»

I due si girarono all’unisono: Gwen era davanti alla porta con gli occhi spalancati, a guardarli con le labbra socchiuse, senza parole. Il negozio era un disastro: una chitarra sbattuta per terra con tutte le corde rotte, i pezzi di vinili sul pavimento, casse e vari amplificatori acustici distrutti… 
«È quello che dovrei chiedere io!» sbottò Trent. Mollò la presa sulla maglia di Duncan e incrociò le braccia, alternando occhiate agli altri due.
Gli occhi di Gwen si chiusero a fessure, rivolti verso Duncan: «Quali balle gli hai raccontato?»
«Io?!» Per quanto gli facesse narcisisticamente piacere sentire tante attenzioni addosso, non poteva evitare di pensare al motivo per cui tutti cercassero di spingere la colpa su di lui. «È il tuo fidanzatino ad essersi fatto qualche film di troppo! È convinto che tu l’abbia tradito con me!»
L’espressione di Gwen si corrugò subito in preoccupazione. Si avvicinò precipitosamente a Trent e gli prese il viso tra le mani per costringerlo a guardarla.
«Trent, non è affatto vero! Io amo te, perché non lo vuoi capire?! Non è successo niente con lui!»
Le sue parole non contribuirono a rilassare il fidanzato. «Ti ho sentita stamattina, è inutile che inventi scuse… » Gwen deglutì a vuoto, colpevole. «”Ti lascio la maglietta sul divano?”» Trent proseguì imitando la voce più acuta della ragazza. «Ma pensi che io sia nato ieri, Gwen?»
«Non è come pensi! È tutta la mattina che ti cerco per parlarti di questo!»
«Di questo? Ah sì?» li interruppe Duncan, ricordando come la ragazza non avesse intenzione di raccontare la puntale verità al fidanzato. Questo gli procurò le occhiatacce di entrambi. Prevedibile.
«Io ero solo tanto arrabbiata e ubriaca! Sono andata da lui perché non mi è venuto in mente nessun altro posto dove andare, non perché volessi vederlo, o per tradirti! Non è successo niente, mi ha solo prestato una maglietta perché io ero fradicia per lo scherzo di ieri sera! Te lo giuro, Trent!»
Il vostro scherzo, l’avrebbe volentieri apostrofata Trent, ma deglutì la frase.
Poco lontano da loro, intanto, Duncan si era imbalsamato sulle parole di Gwen: “Sono andata da lui perché non mi è venuto in mente nessun altro posto dove andare, non perché volessi vederlo”… Che stronzata. Se solo le avesse ricordato come si era comportata durante la notte, come avesse risposto al suo bacio con foga… Andiamo, era soltanto per via di Duncan che adesso potevano entrambi negare di aver avuto un rapporto; certo Gwen era ubriaca, certo probabilmente pensava di condividere quel momento intimo con Trent, data la mente annebbiata e la luce appena soffusa della stanza, ma mica era parsa dispiaciuta dei gesti del punk, anzi!
«Devi credermi, Trent!»
Il chitarrista sospirò. «Gwen… tu lo sai che ti amo, sei la persona che amo di più al mondo, ma come faccio a…» Gwen premette le labbra contro le sue in un disperato tentativo di convincerlo della sua versione dei fatti. Era sincera, Gwen. Lei teneva a Trent incredibilmente, nonostante a volte la facesse innervosire, nonostante i loro caratteri diversi… Trent era così gentile e premuroso, il ragazzo più buono che lei avesse mai conosciuto: lo amava per questo. Lo amava per come riuscisse sempre a tranquillizzarla, per il modo in cui sapeva bilanciare la personalità introversa di lei, per l’intensità con la quale credeva nelle sue capacità… Gwen voleva Trent, ne era sicura: era il suo equilibrio. E dato che anche Trent amava Gwen, dopo un primo momento di esitazione, non riuscì a trattenersi dal ricambiare quel bacio. In quel momento si sentì punto dalla sua colpa: il bacio con Heather. Improvvisamente capì nel torto e soffocò la vergogna per la scenata di gelosia incollandosi alle labbra della ragazza.
Duncan si voltò pensando “Che schifo” e scrisse un messaggio a Courtney per chiederle se quella sera avrebbe gradito compagnia; domanda retorica, più che altro. La risposta già la sapeva.
Poi arrivò Chef e, notando il casino del suo negozio, licenziò istantaneamente entrambi, portando Duncan alla conquista di un nuovo record personale: l’impegno lavorativo durato meno nel corso della sua vita.
 

Tornati nel loro appartamento, Trent e Gwen fecero l’amore. Al ragazzo era tanto mancata, quella loro complicità… allo stesso tempo però, ogni volta che chiudeva gli occhi e sentiva il contatto con le labbra di Gwen, quelle si trasfiguravano nella bocca di Heather: lo riportavano al bacio inaspettato della mattina, alle sue parole “Ri-bel-la-ti, Trent”, e non capiva perché ci stesse ancora pensando, lì sul letto con la ragazza che amava.
Dall’altra parte, Gwen cercava nella loro intimità quella determinazione sfrontata che lampeggiava, coperta da un'ombra, nella sua mente; una determinazione che lei sentiva di avere conosciuto, ma che a Trent non era mai appartenuta: i suoi movimenti erano dolci, la accarezzava con cura, i baci leggeri, delicati… Eppure Gwen sentiva una mancanza di gesti e sensazioni che era sicura di aver provato, ma in che modo, se non erano nelle fibre di Trent? Solo quando il suo ragazzo alzò il volto per guardarla negli occhi sussurrando: «Lo sai che ti amo tantissimo?» Gwen realizzò quali occhi corrispondessero all’ideale di passione incisa nella sua testa: occhi non verdi, ma azzurri. Quelli di Duncan. E tutti i ricordi della notte precedente - la lingua di lui nella sua bocca e sul suo collo, le mani curiose e avide, possessive, il modo in cui la stava lentamente portando ad impazzire - le vennero sbattuti davanti da un Karma che, evidentemente, si divertiva a comportarsi sadicamente con lei. Così si ritrovò a vacillare rispondendo, mentre accarezzava il volto sudato di Trent: «Sì… A-Anch’io…»

Duncan trascorse il pomeriggio non facendo assolutamente nulla. Quando tornò nel suo appartamento, dopo aver camminato un po’ per il quartiere a) per smaltire la rabbia per il chitarrista fallito e b) per non essere costretto a raggiungere casa insieme ai piccioncini, si buttò sul letto. Fumò una, due, tre sigarette. Giocherellò col suo coltello tascabile, incidendo questa volta il retro del comodino. L’inziale progetto dell’ennesimo teschio si vide mutato dopo appena qualche linea: si delineò un volto femminile dai tratti fini, delle belle labbra, occhi grandi e quella sua espressione fissa da non mi capirai mai fino in fondo. Gwen avrebbe detto “L’ispirazione è improvvisa”, e allora bene, l’avrebbe detto anche Duncan: quel disegno non era stato tracciato perché il punk stesse pensando a lei, né perché la trovasse poi così tanto particolare, così tanto “Non mi avrai mai, Duncan” e “Non sono andata da lui perché volessi vederlo”… Il suo volto era emerso soltanto perché un’improvvisa ispirazione, forza divina incontrollabile, aveva deciso che così sarebbe dovuto essere. E chi era il punk per opporsi all’onnipotenza?
Nessuno e chiunque.
 
 


Angolo dell’autrice inutile per, come sempre:
1. Farvi l’interrogatorio, fidati lettori e stimati critici: vi è piaciuto? Che vi aspettate adesso? Per chi tifate?
2. Ricordarvi che per me leggere le vostre impressioni è sempre un immenso piacere ♥ (mi impegno per fare al meglio il mio “mestiere”, ma si sa che l’autrice è di parte)
3. Sottolineare che tristemente la sessione è ancora in pieno svolgimento e quindi, se non dovessi trovare altre notti insonni (in realtà non così improbabile) come quella in cui ho scritto questo capitolo [il mio angolino finale lo scrivo sempre all’ultimo lol, lo so che ora è pieno giorno], dovrete aspettare un pochino per leggere la continuazione :) … però sono anche una persona estremamente volubile, quindi scrivetemi recensioni commoventi e potrei aggiornare persino domani lanciando i libri da studiare giù dalla finestra (sì, sto scherzando……. circa)
Comunque amici, tanto per sdrammatizzare i conflitti improvvisati della storiella uscita dalla mia sadica mente, ho una nuova intrigante teoria (che non riguarda niente di quanto ho scritto): e se i produttori avessero voluto, nel personaggio di Trent in TDA, creare una sorta di parodia attualizzata del nostro vecchio amico Dante (sì, è proprio lui il tipo che mi tiene incollata intere giornate alla scrivania)? Ovviamente sto ipotizzando una grandissima balla, però pensate: è fissato con una donna: Gwen is the new Beatrice ; è fissato con un numero: NOVE … e la ragazza in questione è sempre incazzata con lui ^^” cioè, che spessore non darebbe allo show? Ah e non dimentichiamo che entrambi non fanno che collezionare figure di m…aiunagioia ! A volte mi sorprendo da sola per i miei improvvisi scatti di inutile intelligenza sprecata, lol.
nella speranza che il capitolo vi sia piaciuto,
ciaociao! A presto!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***




CAPITOLO 6 

Voci, passi, tic: la serratura. Passi. Ma che ore erano? Heather rivolse uno sguardo alla sveglia: neanche le 7 di mattina. Maledisse Courtney: la considerava così stupida, forse? Sbuffò. Con quell’irritazione pompata nelle vene, Heather non sarebbe sicuramente riuscita a riprendere il sonno; tentò comunque: si voltò, la testa sul cuscino morbido, chiuse gli occhi: niente. Si sentiva soltanto sempre più sveglia. Al diavolo. Si alzò e raggiunse la cucina per iniziare la giornata con la colazione. Grazie a Courtney, che aveva rovinato il suo preziosissimo rituale di otto ore di sonno, sarebbe parsa uno straccio. Quanto non sopportava quella ragazza, ma perché vivevano insieme?! Sospirò conoscendo bene sia la risposta, sia il fatto che non esistessero alternative: per scappare dai rispettivi genitori, così rigidi… I loro padri erano fratelli, appartenenti a una buona e fin troppo pudica famiglia: per entrambi le figlie erano come un tesoro che, come tale, deve formarsi in uno splendore di cure e attenzioni, dando il massimo in tutto: nell’apprendimento scolastico, negli sport e nelle varie discipline, senza alcun tipo di distrazione. Quando Heather aveva detto ai suoi, secca come al suo solito, che la laurea in medicina per prendere in mano lo studio di famiglia proprio non le interessava, che voleva soltanto cantare, suo padre le aveva dato l’ultimatum: se vuoi fare di testa tua, allora esci da questa casa. Heather aveva seguito alla lettera le sue indicazioni. La cugina Courtney, principessa per vizi e aspirazioni, non aveva fatto attendere il suo: «Anch’io voglio andarmene di casa!» Non che Heather volesse sorbirsela, le cene di Natale insieme erano più che sufficienti, però i soldi come li avrebbe trovati da sola, per una casa decente? Heather non era mai stata il tipo da accontentarsi con poco, infondo. Erano stati i genitori di Courtney ad anticipare la caparra; veniva sempre accontentata, lei. Ogni volta che Heather glielo faceva notare, Courtney ribatteva a denti stretti: «Perché io lo merito! Io studio, Io sarò un avvocato di grande fama!» Heather ruotava abitualmente gli occhi: «Come no.»
Nonostante le loro divergenze caratteriali però, la convivenza procedeva bene: i genitori di Courtney si occupavano della sua parte di affitto, Heather invece, oltre ai piccoli compensi per le occasionali esibizioni canore, era stata contattata da un’agenzia di modelle; la sua bellezza asiatica, ereditata dal ramo materno, non la faceva certo passare inosservata, e posare per l’agenzia le forniva un compenso mensile soddisfacente per le sue necessità. Non poteva che dirsi abbastanza soddisfatta del suo presente; non del tutto, certo: la perfezione è un lavoro continuo, ma con la costanza, Heather ne era sicura, sarebbe riuscita a sfondare col suo gruppo. La sua voce sarebbe diventata la sua arma, il suo lavoro: tutta la sua vita.

Courtney, già in cucina all’arrivo di Heather, sobbalzò notandola. «Già sveglia?»
Heather annuì rivolgendole un’occhiataccia. «E chissà di chi è la colpa… Anche se le nostre stanze non sono attaccate, ho sempre delle orecchie, sai?»
Courtney abbassò il viso sui suoi cereali al miele, in un tentativo di mentire con più disinvoltura: «Devo andare in università, per questo mi sono svegliata presto…»
Heather sbuffò divertita, scegliendo una bustina di thè.
«Ma davvero pensi che sia tanto ingenua? Ti sentivo parlare, so che porti un ragazzo in casa, e non è la prima volta!»
«Non è vero!» avvampò Courtney.
«Sì che è ve-ve-ve-ro!» canticchiò Heather. «Lo sai che ho ragione. Così anche la principessina viziata ha un cuore… Adesso resta solo da scoprire il motivo di questa segretezza… Hai paura di me, per caso?»
«No!»
«Del mio giudizio?»
«No!»
«…Che te lo rubi?»
«Ah! Certo che no, Heather!»
«Quindi avresti soltanto paura di infastidirmi? Scusa tanto se non me la bevo! Non sei proprio un tipo premuroso, tu.»
Courtney si sforzò di terminare i cereali riempiendo i cucchiai: un gesto poco raffinato, ma doveva assolutamente evadere da quella conversazione! Bevve il latte rimasto nella tazza in un unico sorso e si alzò velocemente dalla sedia, mentre la cugina prendeva posto al tavolo col suo tè fumante. Prima di uscire dalla stanza replicò: «Nemmeno tu se è per questo, Heather. Infondo qualcosa in comune dovevamo pur averlo.»
Heather allontanò la tazza dalle labbra per risponderle a tono: «Guarda che io sono cento volte migliore di te!»
«Certo! Ne sono tutti convinti!» gridò Courtney dalla sua stanza. Si preparò in fretta, coi vestiti già scelti dalla sera prima; un velo di trucco, del profumo leggero e: «Io vado in università!»
«Ma fai quel che vuoi…» mugugnò Heather davanti al suono sordo del portone sbattuto.
Finalmente sola: Heather apprezzava la solitudine, che le regalava quei pochi momenti di totale serenità in cui non poteva scontrarsi con nessun’altra anima vivente. Essere sola rasentava un vero ritiro spirituale per lei.
Terminò il suo tè caldo e iniziò a fare dell’esercizio fisico: un beneficio sia per le prestazioni vocali del suo diaframma, sia per il lavoro di modella. Si stava completamente immergendo nella sua routine mattutina, quand’ecco di nuovo del rumore: il citofono. Raggiunse nervosamente la porta d’ingresso, le parole già sulle labbra: «Che cavolo vuoi ancora Court-?» No, non era Courtney la persona davanti a lei: era un imbarazzato, vagamente allegro, Trent; a casa sua, alle 7.30 di mattina.
«E tu che cavolo ci fai qui?»
«Avevo… bisogno di vederti. Per parlarti.» Heather lo fece entrare.


****
La mano di Gwen che impugnava il pennello sembrava danzare nell’aria, collocando il colore con distensione, quasi la riuscita del dipinto non dipendesse affatto dalla concentrazione riposta. Con delicatezza sporcava il colore, lo sovrapponeva, mischiava; poi un po’ d’acqua: ecco, ora si stendeva più fluidamente. Ostentava estrema naturalezza in ogni singolo gesto. Infondo dipingere era l’attività che più l’appagava, il passatempo più catartico che conoscesse: le ore si annullavano sotto alle armonie create nel colore.
Le piaceva il modo in cui si stava delineando quel disegno: il primo piano della pancia di una chitarra, con una mano a coprire le corde, come a giocarci, tirandole leggermente… Sì, Gwen sentiva che, una volta terminata, quella tela si sarebbe rivelata piacevole alla vista; la pittura era (stranamente per lei) vivace e satura, dominata dai toni accesi del verde, un verde così brillante… Il nuovo pensiero suggerito dalla sfumatura portò Gwen a stringere il pennello più saldamente: no, stupida; quello non era il verde di una cresta, non doveva neanche pensarci! Era il verde leggiadro di un paio di bellissimi occhi, infatti quel dipinto, aveva deciso cominciandolo, l’avrebbe dedicato a Dun- Trent, tela dedicata a Trent! Era Trent che suonava la chitarra, quella era la chitarra di Trent! A Gwen venne da sospirare: ma perché quelle immagini che la immortalavano con Duncan, risvegliatesi nella sua memoria il giorno precedente, non volevano uscirle dalla testa? In un impeto di irritazione verso i suoi pensieri, verso di lui, fece troppa pressione sulla punta del pennello ed eccola: un’unghia deformata e da aggiustare. Al diavolo. Gwen afferrò il pacchetto di sigarette e uscì sul pianerottolo. Andò a sedersi sull’ultimo scalino del piano e bruciò l’estremità della cartina sottile. I condomini si sarebbero lamentati per il tanfo di fumo, scendendo le scale? Non le importava. Gwen doveva sfogarsi. Quelle scene, dalla sua testa, dovevano scomparire. Come ennesima manifestazione dell’ironia del Karma vegliante su di lei, dopo appena qualche tiro, il suo sguardo incontrò il punk, ghignante e soddisfatto, di ritorno dalla nottata trascorsa da Courtney che, come da rituale, l’aveva sbattuto fuori casa appena dopo il risveglio perché, riferendosi alla cugina: «Lei non può scoprire che sei qui!»

Quella mattina Duncan non aveva opposto resistenza ai gesti di lei, che cercavano di scostarlo come spingendolo giù dal letto. Si era limitato a dirle: «Davvero pensi che non ti abbia sentita, questa notte?» guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Courtney. «Sì. Ha il sonno pesante e dorme dall’altra parte della casa. E adesso, fuori!» Il punk iniziava a pensare che la fantomatica cugina non fosse altro che un fantasma, una presenza fittizia volta soltanto a premere contro il suo indugio. Ma perché non avrebbe dovuto volerlo accanto un po’ di più, Courtney? Nonostante i suoi atteggiamenti, alternati tra troppo dolci e troppo scontrosi, traboccanti ora di fastidioso ma eccitante puntiglio, ora di noia, gli era chiaro che la ragazza fosse come stregata da lui. Non riusciva a resistergli, come quella notte: Courtney aveva risposto al messaggio di Duncan scrivendo: “Devo studiare”, ma dopo la replica del punk: “Potrei insegnarti tante cose anch’io” non si era fatta pregare, indicandogli l’orario al quale sarebbe dovuto arrivare, scrupolosamente “Puntuale!” Ovviamente Duncan era arrivato in ritardo e, con altrettanta ovvietà, il broncio di Courtney, imposto più che sentito, non era durato a lungo, schiacciato sotto l’ardore che quel ragazzaccio pieno di piercing e strafottenza accendeva dentro di lei. Non sapeva resistergli. Perché Duncan era Courtney: decisione, caparbietà, tenacia; però era anche il suo esatto opposto: menefreghismo, ostentata malizia, il coraggio di evadere da ogni regola o vincolo… un ardimento che alla ragazza mancava, nonostante, nelle profondità dell’anima, sentisse spesso bruciare quel desiderio di fare qualcosa di sbagliato. Era anche questo il motivo, pensava, per il quale si stesse legando così tanto a Duncan; i loro incontri la facevano sentire meno pulita, meno mascherata di quell’etica permissiva e generosa che, sotto sotto, non si sposava affatto con la prepotenza del suo carattere. Duncan la faceva sentire più sé stessa, nonostante tra loro non parlassero poi molto, anzi: gli impulsi li divoravano ogni volta. La sola differenza, però, era che Courtney li viveva intensamente, sotto forma di sentimenti; per Duncan, invece, era tutto soltanto un gioco, un passatempo che non gli dispiaceva per niente, finché Courtney teneva la bocca chiusa; quando iniziava a raccontargli della sua vita desiderava scappare. Che importava, a lui, di quello che faceva? Delle sue preoccupazioni? Che cavolo di senso ha parlare ad altri dei propri problemi?
 
Alla vista dell’espressione accigliata di Gwen, Duncan la salutò come più gli piaceva fare: «Buongiorno, bellezza.»
Gwen lo guardò inclinando la testa, quasi a sforzarsi di capirlo più in fondo, prima di domandargli: «Tu pensi che sia una stupida, Duncan?»
Lui non si scompose. «In realtà sono ben altri gli aggettivi che mi vengono in mente a tuo riguardo. Potrei elencarteli, se vuoi.»
La dark ignorò il suo punto, scalfendolo; sarebbe stato carino approfondire la lista, chissà quante sfumature di rosso si sarebbero susseguite sul viso di lei!
«E allora perché non mi hai detto la verità, ieri?» La voce di Gwen si fece più decisa. L’atteggiamento di Duncan la faceva innervosire e, soprattutto, non lo capiva. Con quale fine nasconderle la verità dei fatti? Per il gusto di sapere qualcosa in più di lei? Per poterlo sbandierare nel momento meno adatto, per divertimento? «Mi sono ricordata tutto quello che è successo tra di noi, sai?!»
Duncan, già rivolto alla sua porta per infilare la chiave nella serratura, si voltò di nuovo a guardare Gwen, ancora seduta sul gradino con la sigaretta in mano.
«Vuoi urlarlo un po’ di più? Così magari sente anche il tuo fidanzatino pazzo e ci chiede di replicare il gioco tutti insieme…»
Lo sguardo di Gwen si fece tagliente, gli occhi ridotti a fessure. Schiacciò la sigaretta sul gradino e si alzò di scatto.
«Trent non è in casa e tu devi smetterla di scherzare!» Gli puntò un dito al petto e, ora con fare più supplichevole ma non per questo spoglio di rabbia, ripetè: «Perché non me l’hai detto?!»
«…Perché non volevi sentirtelo dire?» rispose retorico lui.
«E allora?!»
Duncan intuì che non sarebbe riuscito a svignarsela nel suo appartamento tanto velocemente, così fece scivolare le chiavi in tasca. «Senti, ma non è stato meglio per te, così? L’ho fatto per farti un favore, per non metterti in una posizione scomoda!» Sì e no, in realtà: Duncan sapeva che, in cuor suo, la scelta della segretezza era stata compiuta principalmente per sé, per godersi la ragazza ancora un po’ senza il rischio che scappasse da lui; pericolo che sembrava ora concretizzarsi, per suo fastidio. «Con che faccia avresti baciato lo stronzo effemminato ieri sapendo la verità, eh?!» Lo schiaffo di Gwen partì in automatico, gesto che, improvvisamente, l’avvolse in una tranquillità nuova, seppur precaria.
«Non chiamarlo in quel modo.»
Duncan rispose con lo stesso tono calmo di lei: «Chiamo chi voglio nel modo che voglio. E comunque, dovresti ringraziarmi.»
«Beh, grazie per avermi mentito, Duncan! Sai come mi sono tornate in mente le scene dell’altra notte?!» Si bloccò maledicendosi di aver imboccato la strada sbagliata.
Notando il suo sguardo imbarazzato, Duncan si fece incredibilmente interessato. «Raccontami, così mi intrighi…»
Gwen cercò di schiavare la palla avvelenata: «Mentre ero con Trent!»
«Uhhh» Duncan sollevò le mani in gesto di finto stupore. «E in che maniera, più precisamente? Non puoi aver pensato a me sentendo i suoi complimenti nauseanti, lo prenderei come un insulto! Eravate senza vestiti, almeno?»
Gwen si sentì avvampare. La bocca di Duncan, invece, venne raggiunta da un riso fin troppo appagato.
«Non mi dire… quindi hai pensato a me mentre -»
«No!» lo tagliò Gwen. «No e ora devo tornare in casa! A… A mai, possibilmente, Duncan!» Si sbattè la porta alle spalle, lasciando il punk piacevolmente soddisfatto del risvolto del discorso e già dimentico dello schiaffo ricevuto. Sfilò che chiavi dalla tasca ridacchiando, l’espressione piena di vergogna di Gwen incisa in testa; dal piano superiore, intanto, la voce di Chris McLean risuonava: «Che è questo tanfo di fumo?!»

****
«È buffo… da quanto ci conosciamo, Heather? Ormai da una vita, eh? Eppure non sono mai entrato in casa tua…»
«Buffo? Non lo definirei buffo… Ci siamo sempre incontrati fuori con gli altri della band, perché qui non c’è niente di speciale.»
Trent avrebbe voluto tirarsi uno schiaffo davanti al pensiero improvviso: Ci sei tu. No, non uno schiaffo: nove schiaffi, e nove testate al muro, violente, e non sarebbe ancora stato abbastanza dolore; neanche nove volte quel dolore lo sarebbe stato.
«E poi qui c’è sempre quella rompi di mia cugina… Sei fortunato, è uscita giusto poco fa per andare in università.» Alzò gli occhi al cielo. «è talmente monotona, quella ragazza…»
«È per questo che non ce l’hai mai fatta conoscere?» Trent seguì Heather nel salotto e prese posto sul divano, al suo fianco.
Ma a Heather non piaceva girare intorno alle questioni. Trent era un ragazzo gentile, non è che stesse fingendo di interessarsi a questi argomenti-fesserie riguardanti lei, ma era chiaro che non fossero quelli il motivo della sua visita; c’era qualcosa, appariva cristallino, che il ragazzo voleva schivare. Così Heather glielo chiese secca: «Che cosa vuoi, Trent?»
Lui si fece più rosso. «Io… Io niente di che, in realtà… Volevo solo parlarti, sai no, ho ripensato a quello che hai detto ieri mattina, così…»
«Oh…» Heather sorrise davanti alla prova di quanto raggirabili e volubili fossero i ragazzi; non si tradivano proprio mai. «Quindi è per quel bacio.»
Trent abbassò lo sguardo sentendosi ora paonazzo, come vittima di un attacco improvviso di febbre letale. Non l’avrebbe mai ammesso.
«Chi tace acconsente…» sospirò Heather. Poi rise. «E vuoi ancora venire a dirmi che ami Gwen incondizionatamente? Sei così divertente, Trent!»
«Ma è… la verità…» si ritrovò a farfugliare Trent, con la voce meno convinta parola dopo parola. Trent sapeva di non provare niente per Heather: indiscutibilmente era una ragazza affascinante, tanto bella quanto cinica, quanto ostile, irraggiungibile… forse. Trent non amava Heather (lui amava Gwen!), tuttavia il bacio della sua cantante l’aveva punto come un ago iniettato di veleno, sostanza ipnotica e pericolosa al sapore di un ventaglio di emozioni decisamente più ampio rispetto a quello conosciuto e apprezzato in precedenza dal chitarrista. Infondo è risaputo: l’arte nasce dal sentire, e sentire poco non fa bene al contrasto tra i ritmi che compongono un album; l’uniformità dei brani è un sigillo d’artista, sì, ma annoia. Trent non voleva annoiare nessuno.
«E allora spiegami perché sei qui, Trent.»
Il ragazzo restò in silenzio per diversi secondi.
«Forse…» tentò «Forse hai risvegliato una parte di me che non pensavo di avere…»
Heather appoggiò la testa al braccio. «Non mi dire.»
«È così!» ribadì lui, come se quella potesse suonare come giustificazione alla strana attrazione che ora lo legava all’amica. «Durante quel… bacio… io non mi sono sentito schiavo delle mie emozioni. Per qualche secondo tutta la tensione per la situazione si è come volatizzata!»
«Oh, a proposito: alla fine ti ha lasciato, Gwen?»
Trent scosse il capo. «Avevo frainteso. Non è successo niente tra lei e quel punk. Il problema è che prima di scoprirlo io e lui ci siamo presi a botte combinando un bel casino nel negozio di Chef… ci ha cacciati entrambi.»
Heather scoppiò a ridere. «Non ci posso credere! Il mio innocuo chitarrista che le suona a un punk? Questa è tutta da raccontare!»
Trent la guardò serio. «Non è così divertente… almeno posso contare sulla riassunzione da Chef, lui mi conosce, sa che quello che è successo è stato soltanto per colpa di Duncan…»
«Duncan, eh?» ripeté Heather. «Quindi è questo il nome della famigerata minaccia… ma sentiamo, era davvero soltanto sua, la colpa?»
«È stata colpa sua provocarmi! Almeno adesso sa che non gli conviene mettersi contro di me.»
Heather si sentiva davvero divertita: sul serio. Come faceva l’uomo, Trent! Ma che gli era successo in una giornata? La mattina precedente era tutto piagnucolante e adesso… adesso si atteggiava da lottatore di wrestling che esce vincitore da un ring!
«Comunque stavo dicendo, riguardo al… bacio… Io, insomma, ho capito che non voglio più sentirmi schiavo di un bel niente. Hai ragione, l’artista deve saper comandare le sue emozioni e deve saperle vivere tutte, deve essere aperto… Io non sto dicendo di non amare Gwen, io la amo, ma non sopporto di soffrire per lei… Il dolore dovrebbe stimolare la creatività, ma con Gwen è talmente forte da distruggermi completamente, altro che comporre musica… è soltanto negativo…»
«Quindi sei venuto qui per… convertirti?» dedusse Heather.
«Sono venuto qui perché non reggevo la vista di Gwen, non riuscendo a comprendere le cose tra noi due» concluse, indicando prima sé e poi Heather con l’indice.
«Non c’è un bel niente da comprendere» puntualizzò Heather.
«Già, appunto. Però io voglio questo niente, Heather. Ne ho bisogno... Mi farà sentire uno stronzo con Gwen, ma è un senso di colpa che col tempo si alleggerisce, no? Diventa normale? È l’unico modo che ho per proteggermi… per proteggere la nostra musica…» Alzò lo sguardo su di lei e, sempre restando sui toni allusivi, le chiese: «Tu ci staresti?»
Lei rispose: «Io sto sempre dalla parte della nostra musica, Trent. Non mi interessa altro.»
Beh grazie, si ritrovò inevitabilmente a pensare Trent. Quindi di me non ti interessa nemmeno un po’?
«Allora dici che è una cosa giusta da fare…?» azzardò, timoroso.
Heather era irremovibile: «È facile, Trent. È una scelta sola: la tua morale o la nostra musica, la sofferenza o la parte più accesa di te? Pensaci, prenditi questa giornata… Divertiti con Gwen, che ne so… Riflettici su. Se la tentazione sarà troppa, mi troverai qui. Ricordati però che stai imboccando un vicolo cieco. Cieco per la tua logica moralista, ovviamente. Ma un’autostrada per la tua arte. La scelta è tua, Trent.»

****
Trent passò per il negozio di Chef prima di tornare a casa da Gwen. Il campanello sopra alla porta che avvisava dell’arrivo di un cliente tintinnò al suo ingresso facendo voltare Chef, preso a sistemare gli ultimi dischi sui ripiani rovesciati dai due litiganti il giorno prima. Guardò torvo il suo ex-assistente, prima di chiedere: «E tu che vuoi ancora?»
«Scusarmi per il casino di ieri» mormorò.
«Delle tue scuse non me ne faccio un bel niente, ragazzo. Sai quanti danni avete causato? Eh?»
Trent si sbilanciò nel tentativo di salvarsi. «Lo so Chef, mi dispiace davvero, ma la colpa non è stata mia! Mi conosci, pensi davvero che possa essere così violento? È stata tutta colpa di Duncan!»
Chef incrociò le braccia sul petto, studiando ora Trent con più attenzione. Aveva ragione: il ragazzino si era sempre mostrato disponibile, fin troppo cordiale e pacato… in più, non si era mai lamentato del salario non molto alto – dettaglio da non sottovalutare, per Chef! – … una mano, in fondo, gli serviva; trascorrere ogni singolo attimo di ogni singola giornata nel negozio di musica di cui era proprietario lo avrebbe mandato al tappeto! Quando si sarebbe riposato, Chef? Quando avrebbe trovato il tempo per prender parte al suo corso di cucina? Quando sarebbe andato in palestra per sfogare il cattivo temperamento contro un sacco da boxe? Si limitò a dire: «Però sei stato tu ad aver portato qui quello lì.»
«È stato un grande errore» rispose Trent. «Ancora non lo conoscevo.»
Chef inarcò le sopracciglia. «Non è passata neanche una settimana da quel giorno…»
«Lo so. Però sono successe molte cose.» Chef rispose con un semplice cenno del capo.
«Ti prego, Chef. Puoi fidarti di me, lo sai! Dammi un’altra possibilità, non ti deluderò!»
Chef lo squadrò per un’ultima volta. Al diavolo. Aveva bisogno di quel ragazzino sottopagato.
«Allora vedi di metterti all’opera a partire da adesso» gli disse. «Il magazzino non si sistemerà da solo, ragazzo!» Trent corse verso il retro del negozio con un sorriso a trentadue denti istantaneamente ritrovato.

****
Duncan. Duncan. Duncan. Ti ammazzo, Duncan. Il nervosismo trapelava dai pensieri di Gwen con trasparenza. Dopo una giornata incerta e nuvolosa, il cielo aveva deciso di rasserenarsi soltanto sull’ora del tramonto. Gwen si era sistemata sul solito balcone e, con una piccola tela sistemata sulle ginocchia, si apprestava a delineare i colori intensi di quel cielo solo in parte coperto dai tetti delle case di fronte. Le sfumature mutavano, scurendosi, fin troppo velocemente. Con altrettanto drammatica velocità si consumava la sigaretta che Gwen teneva tra le labbra, aspirando tra una pennellata e l’altra. Analogamente drammatici erano i granelli di cenere, che cadevano dall’estremità della paglia finendo per sporcare il disegno, drammatici come quei cavolo di pensieri, come il fastidio per quel cavolo di Duncan, dannato Duncan! Dannato - «Gwen! Ci sei?»
«Trent?»
La ragazza gettò la sigaretta e posò la tela sul pavimento del balcone, per alzarsi e rientrare in casa dal suo fidanzato.
«Pensavo non saresti tornato più!» esclamò con ironia, abbracciandolo; quanto calore, per Trent. Ma da quando la sua ragazza era diventata tanto espansiva? Non che fosse anaffettiva, ma saltargli al collo soltanto per essere arrivato a casa, beh… wow, non era abituato!
Trent iniziò ad accarezzarle i capelli. «Ma come siamo dolci, oggi…»
«D-Dolci?» La sua affermazione portò Gwen a scostarsi all'istante; era stata artificiosa?
«Ehi» la rassicurò prontamente Trent, «non voleva essere una critica, torna qui.» La strinse di nuovo a sé. Il cuore di Gwen batteva troppo velocemente, lei lo sentiva chiaramente. Perché batti così? Fermati! Ma no: e non era per un improvviso impeto di sorpresa o sentimento, magari lo fosse stato... Il suo cuore correva per la paura, perché nella testa aveva ancora Duncan, perchè lei era stata complice di Duncan, e adesso come avrebbe potuto nasconderlo a Trent? Duncan non si decideva a uscire dai suoi pensieri, come se quella notte, durante la quale il peccato più grave non si era concretizzato, esigesse una rivincita, implodendo perché: “Non posso essere lasciata in sospeso così!” Abbracciata a Trent, Gwen non riusciva a fare altro che pensare al ricordo di Duncan, che l’aveva stretta a sé in modo così diverso… e quando Trent la baciò, Gwen non riuscì a fare altro che porre a confronto il contatto con quello vissuto con Duncan, inciso nella sua memoria come così ardente e desideroso… No, non poteva essere: sicuramente le percezioni di quella notte erano state deformate, amplificate dall’alcol; di sicuro non coincidevano con la realtà, però… Come poteva smettere di rifletterci su, non potendo avere certezze a riguardo?
«Sai Gwen? Oggi sono stato fuori tutto il giorno perché Chef ha deciso di revocare il licenziamento.»
Gwen aveva già sulla punta della lingua la prossima domanda: “Anche quello di Duncan?” Ma riuscì prontamente a serrare la mascella per impedire alle parole di uscire. Sarebbero suonate tremendamente inadatte, alle orecchie di Trent.
«È per questo che sono arrivato tardi» proseguì il ragazzo, «Ho lavorato tutto il giorno per cercare di rimediare al disastro di ieri… Ma dovrò fare ben più di uno straordinario per pareggiare i conti con Chef… Figurati che ho dovuto pranzare in appena dieci minuti, prendendo un panino al camioncino dietro l’angolo!»
Gwen ridacchiò. «Che pasto triste…»
«Già… Ma stasera dobbiamo riscattarlo…» Trent sorrise. «Preparati Gwen, andiamo a cena fuori, in un bel posto! Festeggiamo!»
Cavolo. Gwen era felice della riassunzione del suo fidanzato, davvero; era anche felice di passare del tempo da sola con lui, e in un bel ristorante, per giunta… Non le dispiaceva per niente l'ottica di sedersi a un tavolo senza doversi preoccupare di cosa mettere in pentola, di quale fornello è acceso, di cosa sta bruciando perché la puzza non mente… Tuttavia, continuava a sentirsi spalle al muro. Nella sua testa, sempre lo stesso soggetto: Duncan… Ti ammazzo, Duncan. Dopo un bacio veloce, corse in camera a prepararsi, la testa che protestava di esplodere.

Trent si sentiva rilassato, invece. Aver rivisto Heather quella mattina lo aveva riempito di una nuova calma. Chissà come riuscisse a produrre in lui un effetto tanto benefico… Wow, era davvero incredibile… Adesso era lì, con Gwen, la ragazza che amava, e anche se il pensiero del bastardo punk gli attraversava la mente, in ricordo dei recenti avvenimenti che lo riguardavano, non riusciva a sentirsi nervoso. Era soltanto sereno, con una piccola, piccola punta di amarezza: il senso di colpa. Trent era buono, lui non voleva tradire Gwen… Ma quello era tradire? Trent si ripeteva di no: era soltanto legittima difesa.
In realtà il progetto di uscire con la fidanzata quella sera non era stato frutto dell’improvvisazione; Trent l’aveva originato uscendo dalla casa della sua cantante la mattina. Ecco cosa aveva deciso: quella serata avrebbe scandito la sua decisione, ancora in bilico tra moralità e quello che percepiva come il suo bene. L’affinità che avrebbe vissuto con Gwen al ristorante, parlando del più e del meno, avrebbe suggerito a Trent il da farsi; un ottimo piano, pensava Trent. Ma in cosa sperava, realmente?

Il posto che aveva individuato il ragazzo per la cena era poco distante dal loro appartamento: un ristorantino piccolo ma elegante, accogliente. Mangiarono bene; Trent ordinò anche una bottiglia di vino per festeggiare la riassunzione da Chef.
Gwen: «Guarda che non ti conviene approfittarne dandoti già alla pazza gioia, potrebbe ancora cambiare idea e lasciarti senza un soldo per strada…»
Trent colse la sua ironia: «In questo caso ci verresti anche tu, in strada con me?»
Gwen: «Non è la proposta più allettante che abbia sentito, devo dire… Ma invece con la tua musica? Non ti esibisci più? È da un po’ che non me ne parli.»
No, pensò Trent; in realtà era da un po’ che lei non stava ad ascoltarlo mentre ne parlava. Deglutì il colpo.
«In quest’ultimo periodo ci hanno contattato meno locali, in effetti… Ma le offerte torneranno di sicuro, deve trattarsi solo di un periodo un po’ no.»
Gwen annuì, prendendo una forchettata della sua porzione di anatra all’arancia.
«Forse dovreste… cambiare un po’ il vostro stile?»
«Cosa intendi?» Trent si rizzò sulla sedia: per lui, che viveva ogni appunto fatto sulla sua musica come un affronto personale, anche quella minima incertezza mostrata da Gwen sul suo stile si configurò come una freccia.
La ragazza sollevò le spalle. «Non lo so… Però le tue canzoni sono tutte abbastanza simili, no? Magari sperimentando un po’ la tua band avrebbe più successo… è un’ipotesi.»
«Secondo te dovrei… sperimentare?» ripeté dubbioso.
Gwen annuì. «Potrebbe essere vantaggioso!»
Trent si sentì ferito: quindi la sua fidanzata non credeva davvero nella sua musica? Cavolo, ma com’era possibile? Si sentì deluso e sì, pensò anche che Gwen non lo capisse perché non ne fosse in grado, che solo Heather avrebbe potuto riuscirci. La cena proseguì con un’affettata disinvoltura, artificiosa soprattutto da parte di Trent, che non riusciva a smettere di rimpastare le parole della sua ragazza: “Forse dovreste cambiare un po’ il vostro stile?” Cavolo, no!
Gwen era più naturale, parlava con Trent come sempre, o almeno, quasi come sempre: il sottofondo di irritazione al sapore di Duncan la mordeva di continuo; cercava di schivarlo, ma puntualmente tornava a darle fastidio. Eccola di nuovo: la scena di loro due su quel divano; ma che diamine era successo, esattamente?!

Non tornarono a casa tardi. Raggiunto l’edificio, Trent simulò di aver ricevuto un messaggio.
«Cavolo…» disse. «Scott mi ha appena scritto… ricordato, cioè… che questa sera dobbiamo provare con la band!»
«Adesso?» chiese Gwen. «Non è un po’ tardi? Fino a quando avete a disposizione la stanza insonorizzata?»
«Mezzanotte, c’è tempo… Anche se dopo… era nel messaggio di Scott, mi ha invitato a stare da lui, anche con Al. Sai, per raccontarcela un po’ su… Scott lo vedo regolarmente in negozio, ma Alejandro è come un fantasma, appare soltanto alle prove…»
«Tranquillo» disse Gwen, «non c’è problema. È giusto che tu voglia passare del tempo coi tuoi amici. Allora… non ti aspetto per la notte, giusto?»
Trent annuì. Quindi… era fatta?

Salì con Gwen per prendere la chitarra; infondo doveva davvero fingere che quelle prove esistessero! Poi salutò Gwen con un bacio a stampo. Tornato in strada, chiamò Heather.
«Mh?»
«Ho… deciso, Heather.»
«Che cosa?»
«Sei in casa? Posso venire da te?»
Heather, dietro la voce controllata che suonava al telefono, stava sogghignando, pensando che i ragazzi fossero tutti come creta, modellabile con estrema facilità.
«Mia cugina resta da un’amica dell’università per la notte. Sono sola.»
«Sto arrivando.»
«Aspetta, Trent.» pronunciò Heather un attimo prima che l’altro potesse spegnere la chiamata.
«S-Sì?»
«Cosa ti ha convinto?»
Trent sbuffò. «Ha detto che la mia musica è sempre uguale!»
«Come se quella capisse qualcosa di musica!»
Trent sorrise. Sapeva che lei lo avrebbe compreso.

****
In tv non c’era niente. I pennelli erano tutti ancora da lavare. I pensieri ancora martellanti in testa. Maledizione. Dopo un paio di minuti sprecati facendo zapping tra i vari canali, Gwen si alzò e uscì di casa. Non si era ancora cambiata, dall’uscita con Trent: non che il vestito che aveva indosso fosse esageratamente elegante, solo un po’… provocante, forse? Al ristorante aveva tenuto una giacca leggera sulle spalle; in casa, però, faceva più caldo. Uscì sul pianerottolo con le spalle scoperte e quella scollatura in vista che, già lo sapeva, l’avrebbe fatta a sentire a disagio.

«Sei venuta per colpirmi di nuovo? O questa volta pensi di uccidermi?» Lo sguardo gli cadde subito sul suo decolleté. «Decisamente uccidermi, direi…»
Gwen spinse la porta di più per entrare. Duncan non oppose resistenza. La sua curiosità assecondava i gesti di lei.
«Io… ho fatto un ragionamento.» Posizionò le mani sulle tempie, Gwen, come a testimoniare un’immane profondità di sforzo e attendibilità.
«Ho pensato…» Avrebbe voluto sentirsi tanto sicura di sé, tanto coraggiosa, da esprimere i suoi pensieri di getto, in un’unica frase breve e concisa… ma Gwen non era così, non sempre, nonostante la maschera di sfacciato sarcasmo. Si sentì avvampare; cos’è che doveva dire? In che ordine si mettono le parole, in una frase? «Ho pensato che… sì, insomma… quello che abbiamo fatto…»
La sua difficoltà incontrò un semplice: «Mh?» da parte del punk, di incoraggiamento a proseguire. Dove diamine voleva andare a parare?
«Voglio dire… quello che è quasi successo… cavolo, non riesco a smettere di pensarci!»
«Non mi dire!»
«Non sto scherzando, Duncan! È una cosa seria!» Gwen si lasciò cadere sul divano, quel divano, e rabbrividì al pensiero che fosse stato loro silenzioso complice. Stronzo divano che l’aveva permesso. Stronzo Duncan, che era lì. Stronza lei stessa, che l’aveva voluto.
Mettendosi anche lui a sedere, Duncan mugugnò: «Mh… non mi piacciono le cose serie.»
Gwen non calcolò il suo commento: «Il punto è che se quella sera, rimasta così in sospeso e… annebbiata, agh! Ma quanto avevo bevuto?! Sì, insomma… io devo averla distorta, per forza, ed è per questo che non mi lascia in pace… quindi…» Si interruppe per sospirare. «Ho bisogno di risentirla da capo.» Guardò Duncan, che continuava a non capire.
«Per chiudere la situazione…» specificò Gwen. «Per provare che non è stato niente di che, che è stata la mia testa a distorcere ogni sensazione per l’alcol. Che non ha senso pensarci.»
«Mi stai chiedendo di…»
«Sì, Duncan.»
Il punk era convinto si trattasse di un tranello. Un “vediamo se sei davvero così stronzo, Duncan”. Si sentiva tanto confuso da non riuscire a reagire; incredibile per lui, non cogliere al volo un’occasione del genere! Nemmeno quando Gwen glielo domandò di nuovo, e «Per favore…» Eh? Allora la ragazza si avvicinò di più a lui. La sua espressione non tradiva il timore per quello che, ormai aveva deciso, sarebbe stato giusto fare. No, giusto non era proprio la definizione adatta: giusto per lei, forse? Soddisfacente? Allietante? Ma che importanza aveva adesso dargli un nome? Sarebbe andata fino in fondo, indipendentemente. Si protese verso il punk e sfiorò quelle labbra, così fredde in confronto a quelle di Trent. Avvertì un fremito. Si sentì cadere e poi afferrare, sollevare e sbattere contro al muro, e ritrovò quelle mani, quella lingua, quelle sensazioni più forti create dai gesti più audaci, il profumo più pungente, così pericoloso, così… così Duncan. L’unico alcol a disinibire, questa volta, erano gli stessi impulsi irrazionali che, assecondando la loro natura, scalpitavano euforici di non poter essere controllati: non potevano arrestarsi, ogni loro desiderio sarebbe stato esaudito.
Per un momento Duncan ritirò in dentro le labbra e, staccatosi dalla ragazza con estremo disappunto di lei, disse: «Se provi a ripetere il nome di quello sfigato ti farò del male.»
«L-L’ho fatto?» Gwen sentì l’imbarazzo crescere a dismisura. Anche se la memoria non le concedeva di rintracciare quel passaggio, il nome di riferimento l’aveva ben intuito: Trent… Trent che in quel momento stava suonando cercando di costruirsi un futuro, pensandola, forse… e lei lì, con Duncan… Eccolo: il senso di colpa, lo stesso che la sera del peccato originale l’aveva portata a pronunciare il nome del fidanzato nel tentativo, complice il blackout della ragione a causa dell’ebbrezza, di farlo apparire al posto del punk come per magia, per poter continuare quegli scambi di effusioni sotto l’illusione della loro assoluta correttezza. Per un attimo Gwen pensò di bloccare tutto, di alzarsi e tornare nel suo appartamento… ma un attimo è breve a trascorrere, e appena Duncan si ricalò su di lei ogni dubbio, ogni rimorso, evaporarono sotto al calore di quei baci sbagliati ma giusti, che l’avrebbero dannata, li avrebbero dannati - ma no, Duncan era già promesso ad Ade da un pezzo -, dopo aver mostrato loro il paradiso.
 




꧁꧂꧁꧂꧁꧂


Benritrovati a tutti! Il parallelismo tra le varie coppie di personaggi (Heather-Courtney, Trent-Heather, parentesi Courtney-Duncan, Duncan-Gwen, Trent-Gwen, Trenther (?) e Gwuncan again… wow suona molto più casino ad elencare il tutto così) mi ha tenuta un pochino (MOLTO) più impegnata rispetto ai capitoli passati (e ha riempito parecchie più pagine!), spero che il risultato possa intrigare e non incasinare la testa xD la trama in stile "Altainfedeltà" si sta infittendo sempre di più, sono colpevole, ma vi assicuro che questa storia non vuole assolutamente rivelarsi trash come il programma tv ;) molti piani interessanti sono in cantiere per i prossimi capitoli!

*e se ve lo state chiedendo sì, il disegno è opera mia, spero apprezziate ^^ l’ho realizzato soprattutto per ringraziare tutti voi che state seguendo con interesse e partecipazione la storia, recensendola e preferendola ♥ Ogni volta che torno su EFP ho il timore di venire abbandonata nell’oblio in compagnia soltanto di lettori fantasma 0_0 , sono contentissima di notare che non sia così! Quindi grazie soprattutto a voi, lettori attivi! Dubito che in vostra assenza sarebbero esistiti questi capitoli, probabilmente senza riscontri mi sarei bloccata al 2 xD mi demoralizzo facilmente U.U

! : [avendo riscoperto questo bellissimo programma per il disegno digitale, già che ci sono e dato che quando ho tempo mi diverto anche così, faccio un appello ai miei colleghi autori! Se qualcuno gradisse una sorta di “copertina” della sua storia, in uno stile di disegno analogo a questo, mi scriva pure, lo realizzo volentieri coi vostri personaggi ^^ ]

A presto (spero!)

Alyeska
(sì, ho ricaricato il capitolo: smanettando ho erroneamente cancellato la pubblicazione di ieri :/ )

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***



CAPITOLO 7
 
«Non posso crederci che anche tu sia fissata con le sveglie!» Duncan si lanciò sotto al cuscino.
Gwen soffocò a denti stretti: «Anche?», prima di mettersi a sedere ed esclamare: «Io non posso crederci che tu non ci abbia pensato!»
«Mh? E perché mai avrei dovuto?»
«Perché devo tornare a casa mia prima che Trent torni!»
«Mh.»
«Duncan!»
«Mh?» Sfilò la testa dal cuscino quel tanto da riuscire a guardarla. Gwen indicava un punto, come dietro di lui, con imbarazzo, tenendo la coperta stretta al petto.
«Dovresti passarmi il…»
«Oh.» Duncan si sollevò sui gomiti, scoprendo di aver dormito sul reggiseno di lei. Glielo lanciò e Gwen, girata dall’altra parte, si vestì velocemente, troppo velocemente sotto la percezione del punk. Davanti all’evidenza che le cortesie della dark nei suoi confronti avevano raggiunto il loro tramonto, sommerse di nuovo la testa nel cuscino. Andava bene così, Gwen poteva anche andarsene. Dopo il trattamento della notte appena trascorsa, Duncan non sentiva certo il bisogno di doversi lamentare. Che tornasse pure da Trent, quindi; che pretendesse di averlo a cuore… tanto il punk se n’era ormai convinto, che la scontrosa vicina ardesse di un solo desiderio: quello per lui.
«Cavolo ma oggi è venerdì!» Gwen l’esclamò all’improvviso, sbattendosi la mano in fronte. «Cavolo!»
«Ma che bel modo che hai per iniziare la giornata…» la sfotté Duncan.
«Mi ero dimenticata che oggi devo lavorare! Avrei dovuto starmene di là a riposare, al posto di venire da te!»
«Come se ora te ne pentissi…» Gwen non l’ascoltava nemmeno.
«Dannazione… inizierò il turno in ritardo, di sicuro… ancora!»
«Ma che lavoro?» Duncan si mise a sedere. «E da quando lavoreresti, tu?»
«Da un bel po’ di tempo, in realtà…» Sotto lo sguardo sospeso del punk, Gwen si ritrovò costretta a spiegare ulteriormente: «… Potrei aver finto di stare male i giorni scorsi ed essere riuscita a strappare un permesso per restare a casa… fino ad oggi.»
Duncan sogghignò. «Potresti, eh?»
Gwen tirò un sospiro. «È talmente noioso, lì dentro! Senza qualche pausa ogni tanto, mi manderebbe in esasperazione!» Si avvicinò a Duncan chiedendogli di tirarle su la lampo del vestito che correva lungo la schiena. Con estremo piacere, il punk accettò di toccare di nuovo il suo corpo per aiutarla.
«E quale sarebbe questa noia mortale?»
«Sedersi al banco della vecchia biblioteca, quella vicina al municipio… e stare lì ore a non fare assolutamente nulla, rispondere a quelle cinque persone al giorno che prendono un libro in prestito… Almeno posso consolarmi leggendo, o facendo qualche schizzo a matita… Ma comunque… una palla.»
Duncan si separò a malincuore da quella zip dopo averla tirata su fino alle scapole pallide della ragazza.
«Allora vedi di sopravvivere» le disse ammiccando. «Dopo una notte del genere, non puoi certo abbandonarmi su due piedi.»
Gwen infilò gli anfibi con fretta, senza nemmeno allacciarli.
«E invece è proprio quello che succederà!» ribatté uscendo dalla camera di Duncan, senza nemmeno guardarlo.
Gli occhi di lui si strabuzzarono. «EH?!»
«Ciao, Duncan!»
«Ma che stai dicendo? Gwen! Che cazzo, Gwen!» Troppo tardi: la porta era già stata sbattuta, sotto l’amaro, oltre che, per Duncan, fintissimo, commento di Gwen. Non sarebbe tornata da lui? Se, come no.

***

«Heather! Sono io! Sono tornata!» Courtney alla porta.
Heather, sospirando dal letto: «…Ci mancava soltanto lei.»
«Mi faccio una doccia e poi vado a studiare in biblioteca!»
«Ma fai quello che vuoi!» le gridò in risposta.
Al suo fianco, Trent ridacchiò. Si puntellò sui gomiti per distinguere meglio l’espressione stizzita della ragazza. «Come sei acida…»
Ripensando alla voce appena udita, non poté fare a meno di riflettere sulla sua famigliarità: un timbro squillante e vagamente insistente, deciso ma non sgarbato, reso più basso dalla porta chiusa… sì, Trent aveva proprio l’impressione di averla già sentita da qualche parte, una voce del genere... Ma doveva trattarsi solo di un’impressione, in fondo si era appena svegliato e no, non si sentiva per niente ragionevole: era nella stanza di Heather! Con lei! Sdraiato nel suo letto! Come avrebbe potuto sentirsi assennato? Trent intendeva i dati esterni soltanto confusamente, ponendo in primo piano i suoi pensieri riguardo alla situazione in cui ormai si era cacciato: sabbie mobili, Trent lo sapeva. Difficilmente ne sarebbe uscito. La sua volontà gliel’avrebbe impedito fino all’ultimo, al diavolo senno e morale.
«È difficile non essere acidi con lei!»
«Per te è difficile non essere acidi con chiunque» scherzò lui.
«Perché sono tutti psicotici!»
Per un momento il sorriso di Trent si smorzò. «Pensi che io sia psicotico?»
Heather inarcò le sopracciglia in segno di ovvietà. «Soltanto gli psicotici sono capaci di creare buona musica.»

***

In biblioteca, Gwen continuava ad annoiarsi, sempre di più, ad ogni nuovo rintocco dell’orologio appeso dietro la sua postazione. Non c’era molta gente a quell’ora; fortunatamente il turno mattutino era sempre più tranquillo del suo complementare. Gwen tirò fuori il romanzo del periodo, Frankenstein, decisa ad ingannare il tempo con la lettura. Ormai aveva superato i due terzi della storia. Nonostante la lentezza della trama, Gwen non poteva negare di trovare la delicatezza delle descrizioni e l’introspezione della Creatura adorabili, commoventi. E Gwen non si considerava affatto una dalla lacrima facile! Era una tosta, lei; una ragazza che guarda film horror e non ha paura di rispondere a tono, che sa quello che vuole e fa di tutto per conquistarlo. Eppure…

«Mi scusi tanto bellezza… anche se mi piacerebbe continuare a guardare le sue belle mani, avrei bisogno che le usasse per chiudere quel libro e venirmi in aiuto!»
Gwen alzò la testa di scatto riconoscendo la sua voce. «DUNCAN?! Che ci fai qui?!»
Il punk scrollò le spalle e si mise a sedere sul tavolo dietro al quale era sistemata Gwen.
«Sai com’è, stamattina ho scoperto che una ragazza per niente male lavora in questo posto e che, oltretutto, si annoia molto… sono venuto a salvarla.» Le strizzò l’occhio, accentuando il suo nervosismo. A denti stretti, replicò: «Pensavo che fossi tu quello col bisogno di aiuto…»
«Sì, anche.» Duncan si voltò meglio verso di lei, avvicinandosi al suo viso. «Che cavolo voleva significare il tuo commentino di stamattina?»
«Non so a cosa tu ti stia riferendo.» Gwen sbloccò lo schermo del computer di fronte a lei fingendosi improvvisamente occupata. Scrollava su e giù la lista dei prestiti rinnovati pretendendo di essere intenta a cercare qualcosa, ma non c’era proprio un bel niente da controllare.
«“Certo che ho intenzione di abbandonarti su due piedi!”» cominciò Duncan, in un falsetto incredibilmente acuto, «“Ciao ciao Duncan!” Che cavolo significa, eh?»
«Quello che ho detto.»
Duncan sbuffò. Si divertiva a prenderlo in giro, forse?
«Quindi sei tornata da me, tradendo il tuo fidanzatino, per approfittare una sola volta della mia disponibilità? Chi ci crede!»
«Non ho tradito Trent…» mormorò lei, cercando di convincere non solo Duncan, ma soprattutto sé stessa.
«Dio, Gwen! Eppure non eri incosciente, ieri notte!»
«Possiamo non parlare di ieri notte, per favore? Sto lavorando, e tra noi due non c’è niente, non ci sarà mai niente.»
Duncan ruotò gli occhi; come se ignorare il loro trascorso avesse potuto eliminarlo! «Ovvio.» Si sporse di più sulla scrivania di Gwen, che non accennava a dargli peso.
«Intendi pulirmi il tavolo strusciandotici sopra? Non ho bisogno di spettacolini, Duncan.» Lui non la considerò. Invece si sporse ulteriormente, per riuscire a vedere chiaramente un pezzo di carta pieno di schizzi in penna. Lo afferrò sotto le proteste di Gwen, senza permetterle di riprenderselo.
«Questo sono io?» disse, indicando la sagoma di un manichino maschile in posa.
«Ti sembri tu? Non ti sei mai guardato allo specchio?»
Duncan ridacchiò. «Fin troppo, piccola. Anche gli specchi mi amano.»
Gwen si bloccò dal ribattere. Duncan doveva soltanto decidersi a starsene zitto, ogni sua parola non avrebbe fatto altro che stimolarlo a punzecchiarla.
«Comunque sono davvero belli, i tuoi disegni.»
La dark lo guardò storto. «Non c’è bisogno che ti complimenti, non tornerò comunque a letto con te.»
Duncan ridacchiò. «Non l’ho detto per quel fine, lo penso davvero.»
«Allora grazie.»
«Allora prego. Ma che ci ricavi con la tua arte? Con le tele che ho visto nel tuo appartamento, per esempio. Le vendi?»
Gwen sospirò con mestizia. «Mi piacerebbe…»
«Ma…?»
«Ma finché un artista è vivo, è automaticamente una nullità.»
«Non se ti distacchi dalla massa» evidenziò il punk.
«Già lo faccio, ma non è comunque semplice. Gli artisti emergenti non hanno nessuna strada spianata. L’unica cosa in cui possiamo sperare è di essere notati in qualche mostra collettiva rigorosamente a pagamento, o di conoscere per puro caso gente incredibilmente inserita nel settore e incredibilmente interessata ai nostri stili… ma è una combinazione davvero improbabile. Le gallerie serie, anche le più piccole, prendono in considerazione soltanto nomi conosciuti. È una prospettiva triste, ma alla fine è così che stanno le cose: siamo solo un branco di illusi.»
«È così che stanno le cose in teoria» obiettò Duncan. «Ti lasci abbattere così facilmente?»
«Che vuoi dire?»
«Ma lo sai quanta illegalità giri nei sotterranei del mondo dell’arte?»
«Non sono un’esperta di illegalità, mi dispiace.»
«Beh, io sì. E si dà il caso che conosca diverse persone inserite nel campo.»
Gwen lo guardò con sospetto. «Non farò cose contro la legge, Duncan. Non voglio avere casini.»
«Quanta rigidezza!» esclamò l’altro. «Guarda che avere vagamente a che fare con attività un po’ illecite non ti rende una criminale.»
Gwen squadrò il ragazzo velocemente. «Immagino che tu la sappia lunga, su come guadagnarsi lo status.»
«Che devo dirti? La mia reputazione da delinquente mi precede.»          
La dark si lasciò andare a una risatina. A volte non lo sopportava, ma sotto sotto le stava davvero simpatico, quello strambo nuovo vicino. Era una persona alla mano, tremendamente carismatica e costantemente con la battuta pronta; sebbene la metà dei suoi commentini suonassero stonati alle orecchie di Gwen, soprattutto per via delle accese allusioni sessuali lasciate volutamente poco velate, non andavano mai a discapito della sicurezza del punk, anzi: parevano ricaricare le sue pile sempre di più, accrescendo il suo ego in una maniera pericolosa, ma al tempo stesso interessante e divertente. Duncan era bravo a scherzare e, nonostante la scorza da duro, in quel momento era lì da Gwen con la teoricamente nobile intenzione di farla evadere dalla morsa stringente della noia, e per giunta le stava pure suggerendo una strategia (per quanto storta) per innalzare le sue possibilità nel mondo dell’arte! Gwen non riusciva a spegnere il sorriso… Duncan era un bravo ragazzo, infondo… un bravo ragazzo che non sopporta di esserlo e che, di conseguenza, si ostina a fare il cattivo. Un paradosso.
«Senti, io conosco delle persone che si occupano di queste cose un po’… nascoste, diciamo. Hanno un locale, a prima vista sembra un semplice bar, ma c’è una porta nascosta dietro al banco degli alcolici che conduce a una sorta di speakeasy segreto. Lì combinano un po’ di tutto e so per certo che qualche volta hanno anche venduto delle opere d’arte. Non è un’attività così malsana, semplicemente vendono di più ed evadono il fisco. Se non hai da fare, posso portarti da loro quando finisci il turno. Giusto per presentarteli e farti spiegare tutti gli inutili dettagli che io non ho mai ascoltato, senza impegni. Che dici?»
«Dico…» Gwen si sporse oltre Duncan, individuando una figura familiare che aveva appena fatto ingresso nella biblioteca. «… che non so se avrai del tempo per me, dato che la tua non-ragazza è proprio lì dietro.»
«Eh?» Il punk non fece in tempo a girarsi che Courtney gli era già al collo.
«Dunky! Ma che ci fai in biblioteca? È l’ultimo posto nel quale mi sarei aspettata di trovarti! Oh, e ciao Gwen! Non mi ero mai accorta che lavorassi qui, e dire che vengo spesso!»
«Di solito sono ai piani superiori, quelli dimenticati… oggi mi hanno spostata qui per sostituire un collega. E me ne sto pentendo, data la quantità di gente che passa di qui…» Inviò un’occhiata a Duncan, alludendo alla sua apparizione improvvisa. Lui rispose con un sorrisino; tanto non ci avrebbe mai creduto, che Gwen fosse dispiaciuta della visita.
Courtney spostò di nuovo l’attenzione su Duncan. Lo strattonò un pochino, spingendolo a scendere giù dal tavolo e a seguirla al piano sotterraneo, dove la ragazza si recava sempre a studiare per via del silenzio ottimale. Dopo avere insistito con un paio di: «Ma che vengo a fare? Io non devo mica studiare!» il ragazzo lasciò il colpo, confermando a Courtney che sì, l’avrebbe seguita, ma di concederle qualche secondo. Courtney lo baciò sulla guancia, lasciandolo impassibile, e si incamminò verso le scale girandosi di tanto in tanto, esibendo espressioni da cerbiatta innamorata e provocante in direzione del suo non-ragazzo. Appena sparì dalla sua vista, Duncan si abbassò di nuovo sulla scrivania di Gwen. Afferrò una penna e cominciò a scrivere sul margine superiore del foglio schizzato dalla dark.
«E tu continui a dire che non state insieme… Non ne sono più convinta, sai? A che gioco stai giocando?»
«A nessun gioco Gwen, semplicemente non mi piace dover dare spiegazioni. Lasciare credere alle ragazze quello che preferiscono è molto più facile.»
Gwen ruotò gli occhi. «Sei davvero uno stronzo insensibile.»
Duncan sogghignò. «Ne ho sentite di peggio.» Quindi le restituì il foglio. «Mandami un messaggio quando stacchi, ho segnato lì il numero.» Corse via prima di sentire la risposta di Gwen, sperando che Courtney avesse in serbo per lui qualche piano un po’ più intrigante dell’intenso e noioso studio.
Gwen rimase a fissare il numero per un po’. Avrebbe dovuto salvarlo? Poteva davvero fare affidamento su Duncan, una delle persone più inaffidabili che aveva avuto modo di conoscere in tutta la sua vita? Oh, al diavolo.

Passò il resto del turno a pensare a quella proposta. C’erano dei pro? Certo, secondo il punk si sarebbe rivelata un’occasione. Contro? Nemmeno questi mancavano: che cavolo poteva aspettarsi di trovare in un covo abusivo? Però Duncan diceva che… ma davvero si stava fidando delle parole di Duncan?! Gwen archiviò la riflessione sfilando il telefono dalla tasca. Memorizzò il numero annotato dal punk in rubrica e gli scrisse:

tra 15 minuti all’ingresso
 
Quando sentì il cellulare vibrargli in tasca per il nuovo messaggio ricevuto, Duncan era in piedi contro a una parete scarabocchiata, nella cabina di un wc, con Courtney inginocchiata di fronte. Il contesto gli suggerì subito di ignorare bellamente il telefono, perché insomma, sicuramente un messaggio non si sarebbe rivelato più importante del trattamento che stava ricevendo dalla ragazza. Ma poi si ricordò dell’accordo con Gwen. Dovette far appello alle ultime briciole di senno, Duncan, per estrarre il telefono dalla tasca e assimilare le parole del messaggio senza distrarsi gemendo. Sapeva che Gwen avrebbe accettato. Certo, avrebbe dovuto attenderlo un pochino, a quell’ingresso; sarebbe stato un vero peccato interrompere tanto piacere in modo brusco.

Duncan raggiunse Gwen all’entrata dell’edificio, correndo verso di lei dalla rampa delle scale.
«Studiato bene?» lo prese in giro lei quando ebbe raggiunto la porta.
Duncan annuì stando al gioco. «Geometria e arredamento: ho approfondito le mie conoscenze del bagno. Davvero accogliente, abbastanza spazioso per due, perfetto.»
«Sul serio?» la voce della gotica intendeva schernirlo, ma non raggiunse nessun risultato. «Fai schifo.»
Duncan sogghignò e, con tono suadente, disse: «Guarda che l’avrei fatto volentieri anche con te, se non avessi deciso di trattarmi male da stamattina.»
«Duncan, senti… tappati quella fogna prima di farmi cambiare idea, ok?»
Il punk in risposta si sbatté una mano in fronte mimando il tipico saluto militare: «Sissignora!», gesto che gli fece guadagnare un ulteriore: «Scemo.» Quindi guidò Gwen alla sua moto, per partire in direzione del tanto misterioso locale.
Il viaggio trascorse in fretta; inutile dire che per il punk alla guida i limiti di velocità segnalati apparivano come divertenti scarabocchi da ignorare. Gwen rimase aggrappata a lui per tutto il tempo, dettaglio per niente negativo per Duncan, e realizzò soltanto all’arrivo quanto tutti i suoi muscoli fossero precedentemente bloccati dalla tensione.
«Bel viaggetto eh?» le disse il punk scendendo. Gwen lo fulminò con lo sguardo, quindi rispose, a denti stretti e con evidente ironia: «Incredibile.»
Duncan le fece cenno di seguirla sul marciapiede. Entrarono in un locale che, dall’esterno, si sarebbe definito asettico e spento: la porta a vetro opaca, l’insegna soprastante dai colori spenti e i margini sbiaditi. L’interno, invece, ritraeva un bar pulito e curato, ancora vuoto; che l’orario di apertura alla clientela non fosse ancora giunto? Soltanto due figure si stagliavano davanti al bancone. Un ragazzo magrolino si voltò verso di loro. Sembrava incredibilmente divertito da chissà cosa.
«Ehi amico!» questo era l’altro: un ragazzone da più di centocinquanta chili.
«La tua ennesima ragazza, Piercing?» adesso era lo smilzo a parlare; smilzo a cui, evidentemente, piaceva sfruttare un’ironia fuori luogo.
Duncan sogghignò. «Lei continua a negarlo.»
«Perché non è la verità!»
«Certo, certo…» Il ragazzo smilzo girò lo sgabello per poter guardare i due arrivati in faccia. «Allora criminale, a cosa dobbiamo la visita?»
«È per lo speakeasy, Noah.»
Noah perse subito il senno. «Quante volte ti ho detto di non parlare dello speakeasy alle tue dannate ragazzine?! Vuoi capirlo che deve restare un segreto?!»
«Ehm… e a chi altro ne avrei parlato, scusa?»
«Al tuo amico col cappello e alla sua ragazza!»
«E tu conteresti Geoff come una delle mie dannate ragazzine? Amico, hai bisogno di un bel ripasso dell’anatomia femminile.»
«NON SCHERZARE, PIERCING!» Se la faccia di Noah fosse stata ritratta istantaneamente in un fumetto, sarebbe stato disegnato perfino del fumo ad uscirgli dalle orecchie, oltre alle fiamme negli occhi. Sapeva cosa aspettarsi da Duncan: qualsiasi cosa, eppure il punk riusciva comunque a sbilanciarlo ogni volta. «Se si scopre dello speakeasy poi non potremo più usarlo! Capisci il rischio?!»
«Gwen non è un rischio. Pensavo soltanto che potesse esporre qualcosa qui da voi, lei dipinge.»
«EHI! Guarda che anche se qui facciamo le cose sottobanco siamo comunque seri! Non prendiamo quadretti senza valore solo perché Mr. Piercing viene a proporci l’ultima ragazza che si è passato!» Poi si voltò appena verso Gwen, ancora a bocca aperta per la sua esclamazione. «Perché, perdona la sincerità, è davvero palese che tu sia finita nel suo letto.»
Gwen strinse i pugni. «Non sono venuta qui per discutere di questo!»
«E io non sono qui per accontentare i capricci di un’insulsa artista-wannabe!»
Più il dibattito si accendeva, più Owen sentiva il disagio pesargli e no, non era certo un peso sullo stomaco: la sua digestione funzionava eccome – aveva già di nuovo fame! –. Quello che percepiva assomigliava più a un macigno sulle spalle, sulla testa: «Ehm… è proprio necessario litigare tanto? Dai Noah, facciamole fare una prova, vediamo cosa sa fare… no?»
«No!»
«Noah…» Questa volta era stato Duncan a intervenire.
«Non provare a minacciarmi Piercing, perché non cambierò idea! E non fumare in questo locale!»
Duncan gli diede retta, ma soltanto per il gusto di notare la faccia dell’altro mentre si sfilava la sigaretta dalle labbra per, ops: spegnerla sulla carta da parati.
Owen iniziò a urlare: «AL FUOCO! AL FUOOOCO! AHHHH!»
«L’unica cosa che andrà a fuoco qui dentro sono io!» esclamò Noah.
«Non più di me!» Questa era Gwen.
«Pf, al diavolo.» Duncan. «Senti sfigato, non mi interessa quello che pensi. Se l’ho portata qui è perché ne vale la pena, quindi guarda i suoi lavori e falla esporre almeno una volta, guarda come va. Il guadagno è solo tuo.»
«”Ne vale la pena”» riprese Noah mimando il paio di virgolette, «solo perché non aspetti altro che la tipa qui presente passi il resto della vita a ringraziarti di questa tua grande proposta in favori sessuali! Non ti conoscessi, Duncan!»
Owen, dietro Noah, cominciò a ridacchiare. «Sei proprio una canaglia, amico… Però sei anche intelligente… Una canaglia geniale!»
Noah: «E zitto, Owen!» L’altro fece gesto di cucirsi la bocca e sorrise imbarazzato. Noah sospirò, stanco della situazione. In effetti non gli avrebbe cambiato nulla la presenza o assenza di Gwen: chiedeva soltanto un piccolo spazio per sé, per sperimentare l’impatto delle sue opere con un pubblico di professionisti… Noah non le avrebbe dovuto proprio niente. Tuttavia ciò che realmente lo infastidiva era l’atteggiamento menefreghista del punk. Si presentava quando gli pareva, senza avvertire e dopo mille casini mai riparati, e chiedeva pure gentilezze! Ma insomma, dove viveva? Noah avrebbe tanto voluto gridargli che il mondo non era ai suoi piedi! Tuttavia alla fine cedette.
«Prima voglio vedere quello che sai fare.»
Gwen lanciò uno sguardo a Duncan. Non era affatto convinta di volersi prestare a un essere tanto arrogante. Duncan però le fece cenno di accettare. Sembrava rassicurante, annuendo in quel mondo, quasi sorridendo, quasi con dolcezza… quasi.
«Va bene.»
«Torneremo nei prossimi giorni» concluse Duncan staccandosi dalla parete.
«Prego! Come foste a casa vostra!» esclamò sarcastico Noah.
Camminando verso la porta del bar accanto a Duncan, Gwen si sentì investita da un improvviso momento eureka: si voltò verso i proprietari del locale per chiedere loro: «Avete mai assunto delle band per suonare dal vivo in questo posto? Il mio ragazzo suona molto bene… potrebbe attirare dei clienti.»
Duncan, sforzandosi di restare nel suo conveniente silenzio, dovette mordersi il labbro per impedire agli insulti rivolti al chitarrista di trapelare dalla sua bocca.
Noah ricominciò con le polemiche: «Musica dal vivo? In questo posto? Ma ce li hai gli occhi? Stai scherzando?», poi però si intromise Owen: «Ohh sìì! Musica dal vivo! Io amo la musica dal vivo! Sì Noah! Dille di sì Noah, dai dille di sì! Musica!»
«Ma… Ma Owen… Questo non è proprio il posto da…»
«Wuh-uh! Musica dal vivo! Uh!»
Noah sospirò sconfitto. «E va bene… come ti chiami? Greta, Gwen, tipa di Duncan… o di questo che suona…»
«Gwen» lo corresse. «Solo Gwen.»
«Va bene, Solo-Gwen. Daremo una possibilità al tuo altro-ragazzo, ma da questa parte del locale e per una sola volta! E soltanto perché il ragazzone qui dietro conta un’età cerebrale di tre anni e mezzo!»
«Tre anni… e mezzo?» Owen ridacchiò. «Non mi ricordo neanche cos’ho mangiato stamattina a colazione, chissà cosa mangiavo a tre anni e mezzo? Li avrò festeggiati, tre anni e mezzo? È quel mezzo che non mi convince, sai Noah? Oh, ricordo! Stamattina ho mangiato i pancakes! …ma avrò fatto solo una colazione stamattina? Mh…»
 
***

Gwen si sentiva confusa, frastornata dalla nuova (forse) occasione dischiusa grazie a Duncan. Era turbata e, per lo più, non poteva farlo trasparire a causa del vincolo di segretezza del locale.
Esilarante ciliegina sulla torta: l’unica persona con cui avrebbe potuto confidarsi era lo stesso punk che, si ripeteva, avrebbe fatto meglio ad evitare il più possibile. Duncan non era una rassicurazione, le parole di Noah l’avevano confermato: “l’ennesima ragazza?” “non ti conoscessi, Duncan!” , perchè Noah lo conosceva; Gwen non ancora, non a fondo almeno, ma era certa di averlo ben inquadrato: pericolo, il tipico ragazzo che pensa solo a divertirsi nel presente, che ama fare lo spaccone. Stava dando un pezzo della sua arte proprio in mano a lui. Sarebbe stato un bene? Una parte di lei diceva di sì, che preoccuparsi per ogni sottigliezza è da idioti… eppure non riusciva a smettere di dubitare. La sera, rientrando a casa dal negozio di Chef, anche Trent aveva notato il suo palese turbamento. Punto nel suo peccato, per un attimo si era sentito trafitto al cuore al pensiero che la sua bugia fosse già stata scoperta. Ma poi Gwen lo aveva salutato con un pallido sorriso e i muscoli del ragazzo erano tornati a rilassarsi.
Gwen avrebbe voluto parlargli, ma non poteva: sia per le minacce di Noah sullo speakeasy, sia per la morsa - immediatamente affiorata all’apparire del fidanzato - della sua coscienza, che non faceva che ricordarle le cose che aveva fatto con Duncan la notte precedente. Pensava che fare sesso con lui avrebbe definitivamente chiuso il capitolo che lo riguardava, che così avrebbe voltato pagina del tutto, trovato la soluzione perfetta… stupida illusa; la sua mente, elaborando quel piano, aveva escluso la minaccia maggiore: il senso di colpa. Perché, a prescindere dalla positività del suo fine, Gwen era colpevole. Gwen aveva tradito Trent e per giunta col vicino che lui odiava, lo stesso che aveva scatenato la sua gelosia, gelosia a cui Gwen aveva dato un senso.
Per fronteggiare la negatività di tali emozioni, Gwen si limitò a dire al ragazzo: «Sai, Trent? Ho trovato un posto in cui potresti suonare.»
«Davvero? Che forte!» Da parte sua, Trent non aspettava altro che questo: un qualsiasi discorso per distrarsi dai momenti trascorsi con Heather. E parlare con la fidanzata riusciva a distoglierlo, sì, ma non abbastanza. Così disse: «Sei fantastica, Gwen», prima di afferrarla per i fianchi per baciarla e portarla in braccio fino al letto.
«È il tuo modo per ringraziarmi?»
Trent ridacchiò sfilandosi la maglietta. «Sì, diciamo di sì.»
Così i due cercarono di soffocare i rispettivi peccati, sotto l’ardore della passione che, fortunatamente, non richiedeva parole.
 
 
Il pomeriggio seguente:
«Allora? Hai pensato a me, mentre stavi a letto con lo sfigato?»
Gwen abbassò subito lo sguardo per l’imbarazzo e Duncan, non potendo proprio risparmiarsi dal farla impazzire, si sporse quel tanto per sussurrare al suo orecchio: «Sai, pareti sottili… e sembravi parecchio contenta.»
Gwen gli pestò il piede per ripicca portando il punk ad imprecare.
«No che non ti stavo pensando, idiota! Il nostro ultimo incontro ha avuto esattamente l’effetto sperato!»
«Ovvero? Farti urlare? Perché me lo ricordo bene, questo.»
Gwen si sentiva così sporca, colpevole e imbarazzata da non riuscire nemmeno a colpirlo per reagire. Istintivamente distolse lo sguardo da quello, troppo divertito e sicuro di sé, di Duncan.
«No» rispose poi. «Ovvero, permettermi di realizzare quanto non avesse senso pensare a te!»
«Oh» fece Duncan, fintamente offeso. «Quindi ora non mi vuoi più?» Vederla in difficoltà era un gioco divertentissimo per il punk, soprattutto con quella punta piccante che, nella sua testa, esclamava “lo so che vorresti rifarlo, Gwen!” e “Non puoi fingere di non volermi!” … Ma Gwen non lo voleva. Duncan le era servito come terapia, un’ottima terapia, ma ormai conclusa e che, assolutamente, non poteva ripetersi. Gwen già lo vedeva, il baratro dentro il quale sarebbe caduta continuando a vedere il punk in quel modo. Si sforzò di non immaginarlo a petto nudo; anche se non provava nessun tipo di sentimento per Duncan (a lei piaceva soltanto Trent, e molto!), non poteva negare che fosse sexy. Il suo atteggiamento provocante la distruggeva, ma non avrebbe ceduto.
«Esatto, Duncan. Comunque ti ringrazio.» Gli sorrise; infondo una piccola rivincita la esigeva. «È soltanto merito tuo se ho ritrovato la perfetta armonia con Trent.» Lo baciò sulla guancia sottolineando la provocazione delle sue parole e poi si voltò richiudendosi la porta di casa alle spalle, lasciando Duncan visibilmente infastidito, lì fuori sul pianerottolo, immobile e con le mani chiuse in pugni. Come riacquistò la sua sicurezza, diede un colpo alla porta della vicina: «Tanto lo so che menti, Gwen!»
«Io non mento mai!» urlò lei dall’altra parte.
«Sì invece, e non ti riesce per niente bene! Tanto lo so che stavi pensando a me!»
Gwen riaprì la porta e si appoggiò allo stipite con aria arrendevole. «Come faccio a dimostrarti il contrario?»
Semplice, pensò Duncan: non puoi. Ma seppe ben rigirare il suo pensiero a favore del momento: «Con un bacio, per esempio.» Gwen ruotò gli occhi e fece per avvicinarsi al volto del punk, proteso verso di lei. Non appena fu abbastanza vicino e con gli occhi chiusi, Gwen arretrò quel tanto per sbattergli la porta in faccia, facendolo cadere all’indietro.
«E questo era per dire “smettila di insistere”!» gli gridò dall’interno dell’appartamento, girando la chiave nella serratura della porta.
«Sei soltanto una stronza, Gwen!» Gli venne da ridere: una stronza maledettamente brava a tenergli testa… era stronza quasi quanto lui… quasi. Sorrise pensando che sarebbero stati proprio una bella coppia… coppia? Duncan scosse la testa e si rialzò in piedi. Entrò in casa dopo aver dato un calcio alla porta di Gwen.
Da quando in qua lui credeva alle coppie?
 


^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^
Ciao a tutti! Ecco qui sfornato il nuovo capitolo, sono contenta della circa-regolarità di queste pubblicazioni ^^ spero di continuare così! In linea di massima comunque, punterei ad aggiornare la storia rimanendo sempre in un arco di 10-15 giorni (ovviamente questo è il proposito xD ma almeno avete un’idea su quando aspettarvi i capitoli!)
Contenti per l'entrata in scena di Owen e Noah?? Non ve l'aspettavate ehh? Neanche io, prima di questo capitolo xD in vesti così losche, oltretutto... ci sarà da divertirsi! Adoro quei due!
Giusto per fare chiarezza, approfitto anche per specificare la natura degli speakeasy: in pratica sono locali, tipici degli anni 20, in cui si vendono illegalmente bevande alcoliche; ovviamente non è questo il caso, dato che il proibizionismo è trascorso da un pezzo, ma come atmosfera/ illegalità della cosa, ho comunque deciso di soprannominare così questo "spazio segreto" del locale di Owen e Noah.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Io mi sono divertita a scriverlo ^^ (soprattutto, ammetto, i momenti di Noah!.. ma anche i momenti Gwuncan! Agh, è dura scegliere!) E voi quale scena avete preferito? o quale tratto di dialogo? Insomma sono interessata a ogni sfaccettatura del vostro personale giudizio! Se siete arrivati a leggere fino a questo punto, mi raccomando, datemi un feedback! Ci tengo molto!
Ps. Ogni informazione riguardante il sistema dell'arte contemporaneo non è inventata, i mercati illeciti esistono eccome e, menomale per questa storia, ho avuto modo di affrontare il tema nello studio. Quindi solo informazioni di spessore per voi, cari lettori!
Pps. Lo so, quel "Dunky" è vomitevole, ho avvertito la nausea anch'io scrivendolo, ma tristemente l'alter-ego buono e accettabile di Courtney lo prevede
Ppps. Ho inserito una battuta di Duncan che riprende moolto una sua affermazione in TD; riuscite a rintracciarla?? ;)

Alla prossima!

Alyeska

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***



CAPITOLO 8
 
Gwen era tornata da sola al locale di Owen e Noah tre giorni dopo la prima visita con Duncan. Aveva mostrato ai due le foto scattate ai suoi ultimi lavori e Noah non si era risparmiato dal commentare: «Delle fotografie? Pensi davvero che delle fotografie siano sufficienti per giudicarti?» Ma poi aveva accettato, perché se dare corda alla gotica si sarebbe rivelato il modo più rapido per liberarsi di lei, l’avrebbe fatto più che volentieri. E chissà che il Signor Io-sono-un-punk non si sarebbe sentito vagamente grato verso di lui accettando di tornare ai suoi vecchi lavoretti; Noah ci sperava. Duncan andava alla grande in quello che faceva, prima di sparire senza un vero motivo e non farsi più sentire, fino al giorno in cui si era portato dietro la dark.
Gwen era anche riuscita a pattuire con Owen, decisamente più incline a discutere cordialmente con lei, la data in cui avrebbe potuto esibirsi Trent: «Il prossimo venerdì, per forza! I venerdì sera sono sempre affollati! Ci sarà un sacco di gente a sentirlo!» Poi aveva congiunto le mani per esclamare sognante: «Musica dal vivo… che cosa fighissima!», ed era tanto perso tra i film mentali delle sue aspettative, da non sentire nemmeno l’ennesimo lamento di Noah: «Un sacco di gente a sentirlo? Un sacco di gente a pentirsi di essere venuta, ecco cosa succederà!»

Quel venerdì era arrivato in uno schiocco di dita, come se i giorni precedenti della settimana fossero tesi unicamente a quella sera. Quando Trent non era a “fare gli straordinari al negozio di Chef”, a suonare con la band o a lavorare davvero da Chef, non faceva che strimpellare la chitarra. Agli occhi di Gwen, il ragazzo sembrava essersi riacceso. Appariva completamente travolto dalla sua creatività, era sempre di buon umore e sapeva soltanto di speranza. Non che prima Trent fosse caratterizzato da un pessimismo di fondo, però era spesso, troppo spesso, attorniato da un alone di preoccupazione tanto denso da minare la sua sicurezza e far emergere le sue fragilità. Sebbene Gwen fosse consapevole del fatto che vivere significa essere deboli, non sopportava di vedere quei tratti manifestarsi nel suo ragazzo così apertamente. Negli ultimi giorni, però, Trent sembrava così rilassato! A Gwen piaceva pensare che quel piacevole mutamento fosse dovuto a lei, alla sua grande trovata di proporre Trent al locale; magari era la leggera spinta che gli serviva, quella consapevolezza che ci fosse qualcuno a credere in lui. Gwen ci credeva, e molto.
Da parte sua, Trent non poteva che bearsi dell’influsso positivo che Heather stava portando alla sua pace mentale. Gli incontri con lei avevano il potere di ricaricarlo completamente e non si trattava di un effetto semplicemente fisico, no: era soprattutto mentale. Trent non si sentiva più minacciato da niente, da nessuno; Duncan? E chi era, Duncan? Nemmeno ci pensava. Certo, questo non significava che l’avrebbe salutato con il sorriso trovandolo davanti alla porta. Fortunatamente, però, non gli era più capitato di incrociarlo; evidentemente avevano orari diversi. A Gwen invece era capitato di vedere Duncan, ma solo per un saluto o un paio di parole, il tempo di finire una sigaretta sul balcone o sul pianerottolo. Duncan non si era più presentato in biblioteca, non le aveva più domandato con malizia di fare un salto nel suo appartamento e non l’aveva più provocata rispolverando frammenti della notte trascorsa insieme; che non si sentisse bene? Gwen se lo chiese diverse volte, ma no: il punk stava benone; lo comprendeva puntualmente sul fare della sera, quando veri e propri versi, più che voci, cominciavano a risuonare dal suo appartamento: la compagnia di una ragazza – di Courtney, si ritrovava a ipotizzare Gwen –, che evidentemente lo appagava più di quanto non avesse fatto lei. Come la faceva sentire questo pensiero? Insensibile: nonostante la curiosità verso le vicende del punk, Gwen non si sentiva affatto schernita. Forse ciò che provava era addirittura sollievo, sì perché se Duncan si stava dimostrando incline ad archiviare la loro vicissitudine, che motivo aveva di riviverla lei, di sentirne il pungente fastidio in compagnia di Trent? Quella notte non era mai accaduta, Duncan era solo un nuovo vicino con uno spiccato senso dell’umorismo e Trent era il suo Trent, che amava e dal quale era amata: una grande interpretazione.
A Gwen era capitato spesso di incrociare il punk, tuttavia non le era mai capitato di ringraziarlo per l’idea dello speakeasy; sentiva come un freno in gola ad impedirle di mostrarsi grata. Allo stesso modo, non gli aveva mai riferito dell’accordo con Owen riguardo all’esibizione di Trent. Non fino a quello stesso venerdì.

Duncan le aprì la porta salutandola quasi amichevolmente: «Ma che piacere, la bellezza della porta accanto è venuta a farci visita?»
Dietro di lui, sul divanetto del soggiorno, Geoff amoreggiava con Bridgette. Alla vista del loro garbuglio di braccia e lingue, Gwen si sentì un po’ in imbarazzo e sì, anche disgustata. Duncan li presentò ugualmente, in un tentativo di richiamarli all’ordine. Riuscì nell’intento solo per qualche secondo, giusto per scandire: «Oh ciao! Io sono Geoff!» «E io sono Bridgette!»
Nemmeno il tempo della sua risposta: «Io sono Gwen, piac-» che la coppietta si era avvinghiata di nuovo, tornando a far parte del loro piccolo ed esclusivo universo.
«-ere mio… immagino» finì con la stessa espressione con la quale era entrata: scettica, disgustata, confusa. «Sono venuti qui soltanto per limonare in un posto diverso?»
Duncan scrollò le spalle. «In teoria doveva venire soltanto Geoff. In pratica Geoff vive incollato a Brid da quando l’ha conosciuta. Ciliegina sulla torta, a quanto pare oggi è il loro anniversario di fidanzamento. E se ne sono ricordati dopo essere arrivati qui. A volte la vita è davvero nauseante.»
Gwen fissò gli occhi su Duncan per cercare di ignorare i due poco lontani. «Mi dispiace.»
«Non quanto dispiace a me. Insomma, guardali: sembrano due lumache bavose in simbiosi! E stanno contaminando il mio divano!»
Gwen ruotò gli occhi inevitabilmente. «Perché prima era tanto puro, no?»
Un sorrisetto nacque sulle labbra del punk. Si portò una mano sul fianco e si appoggiò al muro. «Nostalgia?»
«Stai scherzando, vero?»
Duncan rise. Disse: «Forse», ma no, la risposta sincera sarebbe stata senza dubbio un chiaro e tondo, anzi sferico: no. «Allora, vuoi bere qualcosa? Parlare di qualcosa? Fare qualcosa? Perché sei qui?»
Gwen sperava di avere più tempo per formulare quanto aveva da dire: riteneva giusto informare Duncan dei nuovi piani dato che, anche se indirettamente per Trent, il merito era suo. Tuttavia l’astio tra i due si dipinse nella mente di Gwen in quell’esatto istante, insieme al pensiero che, probabilmente, Duncan non avrebbe gradito la notizia. Lo disse d’un fiato: «Trent suonerà stasera.»
Duncan alzò un sopracciglio. «Perché dovrebbe fregarmene?»
«Al locale di Noah e Owen» specificò allora, accorgendosi di essere stata troppo vaga. Lo sguardo di Duncan mutò leggermente, come diventando più rigido. «Ci tenevo a dirtelo perché, insomma… il merito è tuo, alla fine.»
Lui sbuffò. «Wow, non desideravo altro che fare un favore allo sfigato.»
«Duncan…»
«Che vuoi?»
Gwen abbassò gli occhi. Fare la gentile e permissiva con lui era l’ultima cosa che voleva. Doveva risultare davvero patetica. Accartocciando le labbra in segno di fastidio per le parole che avrebbe detto, mormorò: «Speravo potessi fare un salto, potrei offrirti da bere per sdebitarmi.»
Duncan le rise in faccia, concretizzando i suoi presagi: sì, doveva esser risultata incredibilmente patetica.
«Sai quanti altri modi avresti per sdebitarti con me, bellezza? E l’unica cosa che ti viene in mente è invitarmi a sentire il tuo fidanzatino mentre canta le stupide canzoncine che vanno di moda quest’anno? Non farmi ridere, Gwen.»
«Non potreste sforzarvi di accantonare questa insulsa antipatia reciproca?!»
Duncan incrociò le braccia sul petto. «Ha cominciato lui.»
«Certo, e tu ti sarai sempre dimostrato così carino invece! Dio, è talmente difficile essere gentile con te!» Si voltò per afferrare la maniglia della porta e uscire, ma Duncan la bloccò per un polso suggerendole di rimanere.
«Non fare la bambina, Gwen… Dai, resta un po’. Divertiamoci.»
La dark lo guardò con disprezzo. «Chiama la tua Courtney se vuoi divertirti, non contare su di me!»
Duncan avrebbe dovuto sentirsi irritato, deluso dal suo distacco, e invece si sentì soltanto appagato.
«Tagliente… quasi come… la gelosia?»
«Certo, come no! Oggi ti senti simpatico, vedo.»
Duncan ridacchiò. «La mia simpatia aveva predetto la tua visita, si vede. Allora, a parte la stronzata di prima: c’è qualcos’altro che posso fare per te?»
Gwen incrociò le braccia. «La stronzata di prima.»
Duncan sbuffò. «Sentiresti così tanto la mia mancanza?»
Gwen: «Ti ho già spiegato come vedo le cose.»
Il punk ruotò gli occhi. «Questo è un tormento, non un favore…»
«… Due drink?» azzardò Gwen. Non sapeva nemmeno lei con chiarezza perché desiderasse tanto la presenza di Duncan, perché era chiaro: il tutto non girava semplicemente intorno a uno stupido debito della coscienza. Che si sentisse vagamente minacciata dallo sguardo iperpolemico di Noah? Sì ma… no, l’atteggiamento tutto rigido di quel tipo smilzo era irritante ma, sotto sotto, anche ilare; di certo non intimidatorio… e allora per quale motivo continuava a richiedere la presenza del punk? Forse sperava che, in veste di amico, avrebbe potuto tenerle compagnia mentre Trent intratteneva la clientela o forse, dalla profondità della sua claustrofobia, temeva che il locale si sarebbe riempito di gente ammassata e sconosciuta tramutandosi nel tipico ambiente che detestava… Erano tutti motivi egoistici, Gwen lo sapeva. Allo stesso tempo, però, voleva davvero dimostrare al punk la sua riconoscenza.
Duncan sorrise. «Due a mia scelta.»
Gwen gli strinse la mano. «Andata.»
«E a che orario, questo patibolo?»
«Inizierà alle nove.»
«Mh» farfugliò Duncan. «Va bene, si può fare. Ci becchiamo lì.»
Gwen annuì sorridendo, prima di tornarsene nel suo appartamento. I due erano tanto immersi nella loro discussione, che non si erano neppure accorti che, a pochi metri da loro, Geoff e Bridgette avevano smesso di sbaciucchiarsi per assaporare tutta la tensione di quell’esilarante spettacolino. Come Gwen richiuse la porta alle spalle, Bridgette sospirò con dolcezza: «Lei è così perfetta per te!» e Geoff, subito dopo: «Ce l’hai in pugno, amico!» ; poi ricominciarono a sbaciucchiarsi e Duncan, per evitare un conato alla loro vista, si spostò in bagno per una doccia.
Quello che Gwen non sapeva era che lui, in quel locale, i drink non aveva mai dovuto pagarli.
 

***
 
La sera, Gwen arrivò al locale insieme a Trent, che come al solito aveva premuto per arrivare con sufficiente (inutile) anticipo.
Ordinarono qualcosa da bere per ingannare il tempo. Noah, già infastidito, non diede peso a nessuno dei due. Intanto Owen, sforzandosi di non pronunciare ad alta voce i suoi pensieri, non faceva che chiedersi che idea di relazione avesse in mente la gotica per frequentare contemporaneamente il chitarrista e il suo amico Duncan. Più tardi lo chiese a Noah e la risposta che ricevette fu: «No, lei non sta con Duncan, ma è stata con Duncan. Capito?» Owen annuì ma no, non aveva capito un bel niente. 
Pochi secondi dopo fecero ingresso Scott, Heather e Alejandro. Il sorriso della dark si spense in un millisecondo.
«Guarda guarda, la nostra pittrice del cuore…» Heather la squadrò scettica. Preoccuparsi di non risultare spiacevole non rientrava nel podio dei suoi propositi, filtrare i suoi personali giudizi nemmeno; Heather amava pensarsi totalmente trasparente e, al tempo stesso, un’abile simulatrice.
«Anche per me è un grande piacere incontrarti, Heather.» Gwen rivolse un’occhiataccia a Trent, sguardo che lui raccolse senza davvero afferrare; ce l’aveva con lui adesso? E per quale motivo? Era stata proprio Gwen a trovargli la serata! E sì, era vero: ma la proposta della ragazza valeva per il fidanzato, che avrebbe fatto una grande figura anche da solista, non per il suo insopportabile gruppo: Heather e Gwen non si potevano vedere; Scott era così rozzo invece, e puzzava costantemente, come se vivesse in una fattoria, e poi c’era Alejandro, che ci provava con tutte, come se fosse in vita soltanto per andare a caccia di prede ed esibirle in giro. Aveva tentato di sedurre anche Gwen. Lei, però, non si era mai potuta definire una vera conquista: Alejandro l’aveva notata una volta in un bar, persa a disegnare un angolo del locale. Era rimasto intrigato dal suo talento, aveva subito intuito che doveva trovarsi di fronte a una ragazza ben particolare. Si era seduto al suo tavolo e, tra i vari complimenti che avevano lasciato Gwen decisamente turbata, l’aveva invitata all’esibizione programmata del suo gruppo; avrebbero suonato in un bar lì vicino, la dark non avrebbe proprio potuto trovare giustificazioni per assentarsi! Alejandro le aveva proposto di ritrarli mentre suonavano e si era mostrato perfino incline a darle un compenso nel caso di un bel risultato. Gwen era rimasta acciecata dall’occasione offerta dallo spagnolo; aveva accettato, certo, e la personalità accogliente di Alejandro era quasi riuscita a fregarla. Ma poi, dopo l’esibizione, non aveva esitato a portare Gwen sul retro del locale con la scusa di una sigaretta veloce, con l’unico fine di trovarsi completamente solo con lei. L’aveva bloccata contro alla porta e aveva iniziato a far scorrere le sue viscide mani lungo il suo corpo, mentre i complimenti si rincorrevano tra le sue labbra passando progressivamente dal disegno alla sua persona, al suo viso, la sua pelle diafana, il suo corpo sottile… L’aveva anche baciata. La forza di Gwen, schiacciata da quella decisamente maggiore di lui, non le aveva permesso di scostarlo immediatamente. Ricordava quella scena come uno dei momenti più squallidi della sua vita. Ma poi aveva conosciuto Trent: era andata a sbattere contro di lui mentre correva via da Alejandro, dopo averlo allontanato con un calcio ben assestato. Il suo sorriso l’aveva subito mandata in tilt. Avevano parlato per un po’: Gwen gli aveva raccontato di come «Uno stronzo di nome Alejandro» l’avesse indotta a presentarsi lì per un fine totalmente fittizio; aveva sorvolato su quel bacio, concentrandosi invece sulla scusa del ritratto. Trent si era dimostrato incredibilmente interessato alla sua arte, aveva pure proposto di pagarglielo lui, quel disegno che raffigurava i quattro intenti a suonare. Gwen però non gliel’aveva permesso, perché in realtà era lei a sentirsi in debito con Trent per via della sua gentilezza disinteressata. Il disegno, alla fine, gliel’aveva regalato. Quella sera, ascoltando Gwen, il chitarrista l’aveva sempre assecondata sull’amico, dando pareri severi ma bilanciati: «Tende ad essere un po’ precipitoso, ma non è una merda come vuole far credere. È solo un amante di merda. Però è un bravo amico.» Trent l’aveva calmata, l’aveva addolcita, aveva fatto sì che Alejandro si scusasse con lei pagandole un drink nel dopo-serata. Grazie a Trent aveva passato del tempo piacevole con loro. Da parte di Heather, però, soltanto freddezza; da quella di Scott, soltanto tanfo di sudore.
Adesso l’ostilità della gotica nei confronti di Alejandro si era raffreddata, ma niente era stato dimenticato: il suo sorrisetto idiota col tempo non aveva smesso di disgustarla e di certo Heather non era diventata sua amica.

Trent si aggiunse subito ai compagni di band per aiutarli nella sistemazione degli strumenti. Soltanto poco prima dell’inizio della performance, notando gli altri allontanarsi, Gwen si avvicinò nuovamente al fidanzato. Si sforzò di deglutire il nervosismo provocato dalla presenza degli amici di lui e gli disse soltanto: «Rimarranno tutti a bocca aperta. Sarai perfetto.»
Trent le sorrise. Si sentì sciolto sotto quell’incoraggiamento. Gwen era il centro del suo mondo, era il suo sole… un sole importantissimo, incredibile, fondamentale, ma anche un sole che sapeva rivelarsi scostante, un sole che spesso si nascondeva dietro alle nubi di un cielo grigio; in quelle giornate storte, Trent si faceva consolare dalla luce artificiale di una stanza chiusa: dov’era finita Heather? Trent si guardò in giro: Scott stava sorseggiando un drink, gli altri due compagni, però, sembravano spariti. Trent sentì la mascella serrarsi e uno strano fastidio concretizzarsi alla bocca dello stomaco. Diede un bacio veloce a Gwen e subito dopo corse fuori scusandosi: «Devo controllare una cosa in macchina!», ma Heather e Alejandro non erano neppure sul marciapiede lì fuori. Trent si sentì d’impulso ancora più nervoso. Poi distinse nel buio le sue supposizioni: sui sedili anteriori dell’automobile sportiva dello spagnolo, Heather e Alejandro si stavano baciando con tanto ardore da non sentire gli occhi di Trent addosso, Trent che rientrò nel bar sentendosi un vero stupido, davanti all’evidenza che tutte le storie raccontate dal suo bassista erano vere eccome; era Heather ad essere una bugiarda, e Trent pendeva dalle sue menzogne. Rassicurò Gwen: tutto a posto in macchina, poi si avvicinò a Scott e gli disse di fare uno squillo ai due compagni assenti.
Scott: «E non puoi farlo tu?»
Trent: «Ho il telefono spento.» Balla. D’altro canto, aveva imparato a raccontarle dalla migliore.
Alejandro ed Heather rientrarono dopo pochi minuti riprendendo il loro consueto teatrino d’odio reciproco e, dopo aver ricordato per un’ultima volta la scaletta dei brani, presero tutti i loro posti per iniziare a suonare.

***
Duncan parcheggiò la sua Harley Davidson di fronte all’entrata del bar. Dall’esterno riconosceva chiaramente il suono della musica: così drammaticamente country e piatto e pulito e femminile e Dio, che noia! Scendendo dalla moto, si chiese per la trilionesima volta come facesse Gwen a trovare attraente quel chitarrista fallito; forse non lo trovava davvero attraente, forse stava con lui semplicemente per abitudine, per convivere con qualcuno, per non sentirsi sola… Forse la loro storia era nata analogamente al rapporto che aveva lui con Courtney: forse il chitarrista (così come la perfettina nei confronti del punk) aveva frainteso la disponibilità di Gwen e lei si era ritrovata nella prigione di una relazione seria con lui… In questo caso, Duncan la compativa. No, in realtà non la compativa solo in questo caso; la compativa in ogni caso: come diamine faceva a stare con quello? A preferirlo a lui? Doveva essere davvero malata, o cieca! Andiamo, tra lui e il chitarrista effemminato c’era un vero abisso! Raggiunse l’entrata del locale con questa conclusione in testa: Gwen non era certamente innamorata di Trent. Ma poi, proprio sulla soglia, l’aveva intravista: era nell’ala laterale del bar, seduta da sola a uno dei tavolini più vicini ai musicisti. Duncan riusciva a vederla soltanto di profilo, ma la sua espressione era fin troppo chiara: un sorriso imbambolato, stupido, talmente stupido, e rapito, incollato su una sola, precisa e stupida figura, che strimpellava in modo esasperato e, per Duncan, patetico e stupido, le stupide corde di una stupida chitarra. Gwen guardava Trent come Owen avrebbe guardato una montagna di muffin. No, quella non era per niente somigliante all’espressione sollevata dal punk davanti a qualche bella ragazza; quelli di Gwen non erano occhi da “ti spoglierei in questo esatto istante”, erano occhi… diversi. Sforzandosi di leggervi dentro, probabilmente Duncan avrebbe ipotizzato che celassero ammirazione, sollievo, forse addirittura… amore? Duncan non sapeva cosa fosse l’amore. Non avendone esperienza, si rifiutava di trovarvi una definizione. Tuttavia l’espressione dipinta sul volto di Gwen sembrava sospirare una sola parola: amore, in ogni singolo segmento inclinato del suo vago sorriso.

Trent stava suonando. Gwen amava Trent. Che cavolo ci faceva lui lì, allora? Senza nemmeno entrare per ordinare un drink, Duncan si voltò deciso a tornare alla sua moto. Quello non era il suo posto, non per quella sera. L’atmosfera che aveva appena colto non gli piaceva per niente. Era rivoltante. Quella musica era rivoltante. Tutto il locale col virus di quella band era rivoltante. Gwen con quel sorriso era rivoltante. E anche intensamente fastidiosa. No, Duncan non sarebbe mai entrato lì dentro. Si stava già sistemando in sella alla moto quando Owen, precipitatosi fuori alla vista dell’amico, gli gridò: «Ehi, Dunc! Te ne vai di già? Ma sei appena arrivato, ti ho visto!»
«Le atmosfere piatte non fanno per me» Duncan voleva soltanto liquidarlo in fretta. Tuttavia Owen, nella sua estrema semplicità, il motivo dietro al suo comportamento l’aveva intuito:
«È per la ragazza, vero?»
«Non so a quale ragazza tu ti stia riferendo.»
«Massì dai, sì che ce l’hai in mente… Quella con cui sei venuto l’altro giorno, la fidanzata del chitarrista che suona in modo assurdo …» Duncan strinse le mani attorno al manubrio e Owen comprese di non averla presentata nel modo più adatto.
«Forse è meglio dire… la sventola coi capelli blu? Va… meglio?»
Duncan sospirò. Il ragazzone era un vero imbecille.
«Perché dovrebbe fregarmi di Gwen?»
«Ecco come si chiamava! Gwen! Le sta proprio bene come nome, non credi Dunc?»
Ci pensò su. In effetti sì, Gwen era un nome con personalità: breve ma deciso, sapeva il fatto suo, proprio come lei. Inavvertitamente sorrise, ma si riprese in fretta. «Sì, ma è solo una delle tante, niente di speciale.»
«Perché le hai parlato di noi se non è niente di speciale?»
«Perché…» Duncan si fermò vedendosi in un vicolo cieco. «… Perché pensavo le avrebbe fatto piacere...»
«E quando si ragiona così di solito non è perché si tiene a una persona?»
Owen parlava con ingenuità. Probabilmente non sapeva nemmeno lui dove volesse andare a parare e si limitava a sfornare le prime parole che gli venivano in mente sperando avessero senso in una frase. Eppure era appena riuscito a bloccare Duncan. Il punk non poteva rispondere, non poteva negare: fine del gioco. Quindi teneva a Gwen, forse? No, lui non poteva avere a cuore nessuno. Quel cuore era congelato. Non avrebbe mai sentito calore.
«No» rispose quindi a Owen, evitando di incrociare il suo sguardo. «Le cose stanno esattamente come ha detto Noah l’altro giorno, ricordi? Mi interessa solo il suo corpo. Se farle un piacere è il prezzo per averlo, l’accontento più che volentieri.»
La bocca di Owen si aprì in una grande O in segno di realizzazione. Duncan era proprio un grande calcolatore per queste cose, eh? Lui non ci avrebbe mai pensato! Tuttavia non si poteva certo considerare un grande conoscitore dell’altro sesso: Owen non aveva mai avuto una ragazza e l’unico amore che conosceva era quello per il cibo. Una volta aveva chiesto a Noah come dovesse essere l’amore vero, quello per un altro essere umano e non per una tavola riccamente apparecchiata. Inizialmente l’amico aveva storto il naso e risposto “Una fregatura?”, ma poi Owen aveva insistito e alla fine l’altro aveva optato per “Non lo so… come… la gioia che provi tu quando mangi una torta al cioccolato ma amplificata, forse?” Da quel momento Owen aveva maturato un nuovo desiderio: una fidanzata. Così disse a Duncan: «Un giorno devi insegnarmi a rimorchiare, Dunc! Lo sai fare troppo bene, hai proprio capito tutto…»
Il punk gli sorrise. Owen era come un fratellino fesso e curioso.
«Quando vuoi, ragazzone. Ma ora me la filo.» Duncan lo salutò con la mano e accese il motore. Voleva solo scordarsi al più presto delle sue parole e, ancora più rapidamente, dell’immagine di Gwen in contemplazione di quello stupido chitarrista. Era insopportabile.

***
Heather cantava come se non esistesse niente se non la sua voce, che esigeva di risuonare, di sentirsi gridata, di esprimere ciò le parole dei testi da sole non dicevano.

*There’s nothing less than true romance
Or am I just making a mess?!

Era l’ultima canzone composta da Trent: dolce, ma al tempo stesso più tagliente del solito. L’aveva scritta dopo il grande risveglio: il merito era soltanto di Heather, quindi; le piaceva pensare che tutto dipendesse da lei, nel suo gruppo. Si voltò appena verso Alejandro: pizzicava le corde del suo basso e nel frattempo si divertiva a guardarla di sottecchi. Heather odiava la perfezione di quel ragazzo, odiava l’effetto che le faceva. Si avvicinò a Trent per cantare il verso:  … I’m ready to die holding your hand!
Alejandro non si lasciaò sbilanciare da Heather, però: voleva farlo ingelosire? Con Trent? Per favore! L’autostima di Alejandro gli impediva di interpretare qualsiasi altro uomo come minaccia. Heather, in fondo, era soltanto sua, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Se Heather fosse stata meno-Heather, era convinto, avrebbe gridato di amarlo ogni giorno ad ogni ora; l’avrebbe supplicato di amarla, l’avrebbe pregato di farla sua. Ma la vera Heather era troppo orgogliosa per aprirsi tanto. Preferiva atteggiarsi da stronza, quindi. Preferiva mostrarsi insensibile, come se davvero lo fosse… Infondo Heather ribolliva di rabbia verso Gwen dalla sera in cui si erano conosciute per un semplice motivo: l’aveva vista appartarsi con Alejandro. Col suo Alejandro. Gwen, quindi, non poteva essere altro che una sgualdrina. Non poteva meritare niente. Sotto questo punto di vista, Trent sembrava cieco.
Così quando Heather raggiunse il ritornello: You’ll be my bloody valentine , Alejandro optò, al posto di ripetere la sua frase, di cambiarla in: I’ll be your bloody valentine babe , e Heather dovette sforzarsi per non ringhiargli contro.

***
Gwen si girava ogni due minuti verso la porta d’ingresso, ogni volta invano: la cresta verde di Duncan non era mai apparsa, nemmeno dopo la fine dell’esibizione musicale.
«Stai aspettando qualcuno, Gwen?» Trent l’abbracciò con dolcezza da dietro e lei non poté che negare; ammettere che a) stesse cercando Duncan e che b) fosse stato proprio suo il merito di portarla in quel posto, avrebbe fatto perdere il senno al fidanzato. Sarebbe stato meglio coprire la verità, quindi; nasconderla. Forse era quello che anche Duncan aveva pensato, forse proprio per questo aveva deciso di non presentarsi al locale… Ma era davvero così altruista, Duncan? No, il punk pensava soltanto a sé stesso. Ma allora perché non era lì? Gwen non riusciva a trovare una risposta.
Quindi si intromise Heather: «Starà aspettando il suo ragazzo, no? Oh, scusa! Ma sei tu il suo ragazzo! Mi sono confusa!»
Trent avrebbe voluto detestarla per quell’uscita, ma non ci riuscì. Con la testa appoggiata sulla spalla di Gwen, si limitò a sorridere davanti all’ostilità della sua cantante; che fosse un po’ gelosa, forse? Gwen la odiava eccome invece, ma non per quella affermazione. Non le rispose nemmeno. Dopo aver parlato un po’ con Trent, tra un drink e qualche bacio, Gwen si allontanò con la scusa di andare a ringraziare i proprietari del locale. Raggiunto il bancone bar però, trovatasi davanti a un Noah stanco e annoiato, al posto di un "Grazie" articolò in fretta: «Duncan non è ancora arrivato?»
«Perché ti interessa, tipa-del-chitarrista?»
«Mi aveva detto che sarebbe passato…»
«E ti sembra una risposta alla mia domanda?»
Owen prese posto sullo sgabello di fianco a Gwen; sugli sgabelli in verità: il suo lato B non sarebbe di certo stato comodo su soltanto uno di quei dischetti rigidi; il suo lato B esigeva un certo confort.
«Parli di Dunc, vero? Era qui fuori prima, io l’ho visto! Però è rimasto così poco, non è nemmeno entrato… Io sono uscito per chiedergli il motivo, ma non mi ha risposto!»
Noah ruotò gli occhi. «Ecco un altro che non sa rispondere alle domande… Avete sempre più tratti in comune, quante qualità condivise…»
«Sei proprio sicuro Owen? Perché avrebbe dovuto venire fin qui per non entrare nemmeno a salutare?»
Owen aprì le braccia mostrando i palmi. «Boh?»
Noah sbuffò, riempiendo l’ennesimo bicchiere. «Non è ovvio? Il tuo tipo stava suonando, tu ami il tuo tipo e il tuo tipo ama te: per che cavolo di ragione Mr. Piercing avrebbe dovuto trovare sollievo in questa situazione? È un tipo storto, ma non è così masochista da provare piacere nel vedere le sue donne tra le braccia di altri, nel caso non l’avessi intuito.»
Gwen: «Quante volte devo ripeterti che siamo soltanto amici?»
Noah: «Come no, e io e Owen siamo fratelli, non lo sapevi?»
Owen: «COSA?!»
Noah si sbatté una mano in viso, poi tornò a parlare con Gwen: «Forse non l’hai ancora capito, o magari non lo vuoi capire, ma il fatto è: Duncan non ha amiche, non come le intendi tu, quindi non considerarci degli idioti, ok?»
Sospirò, Gwen: nessuno sarebbe mai stato disposto a crederle, giusto? Se ne domandava il motivo: era davvero tanto assurdo immaginare l’esistenza di un sano rapporto di amicizia tra una ragazza fidanzata e un originale punk un po’ donnaiolo? Le supposizioni di Noah non la turbavano: lei sapeva di non provare sentimenti amorosi per Duncan. Certo, l’esser andata a letto con lui non andava sicuramente a favorire la sua posizione, ma era stato solo un momento di debolezza, un errore. Forse era proprio quel particolare a rendere Noah tanto restio; evidentemente aveva una visione molto ristretta dell’amore.
Così Gwen gli chiese: «Ma tu ti sei mai sentito innamorato, Noah?» Lui abbassò il volto in imbarazzo.
«Ma che domanda eh? Stavamo parlando di te e Mr. Piercing, non provare a deviare il discorso!»
Gwen alzò gli occhi al soffitto. «Il punto è che fai tanto l’esperto in fatto di relazioni e sentimenti… Sono soltanto curiosa.»
«E ti terrai questa tua curiosità!»
Owen ridacchiò e, sporgendosi verso Gwen, sussurrò al suo orecchio: «In realtà è andato dietro a una pupa per un sacco, ma lei non si è mai ricordata nemmeno il suo nome!»
«Owen!»
«Bene bene…» Gwen si sentiva decisamente più divertita, ora. «E proprio tu vorresti classificare il mio rapporto con Duncan? Mi fai davvero ridere, Noah!»
«Duncan, eh?» Heather si appoggiò al banco di fianco a Gwen. «Il nuovo vicino? Mi è giunta voce che sia un gran figo, sei d’accordo anche tu, Gwen?»
Gli occhi della dark si strinsero a fessure. Avrebbe voluto risponderle col suo stesso tono provocatorio, dirle “Perché non fai un salto da lui per risponderti da sola? Sono certa che gradirebbe la tua compagnia” oppure “I miei gusti non ti riguardano”, ma si sentì mordere la lingua al pensiero del punk e riuscì soltanto a esclamare: «No!»
Heather: «Certo…»
Owen: «Ma scusa ma allora perché sei - AHIA!» Gwen lo colpì con un calcio prima che potesse finire la frase. Solo sotto al dolore Owen comprese di trovarsi sulla strada sbagliata. Tentò di correggersi dicendo: «Volevo dire… io sono convinto che Dunc sia un gran figo!» Sorrise in un tentativo di dimostrarsi credibile. Gwen lo guardò alzando un sopracciglio. Gli risultava tanto difficile tenere la bocca semplicemente sigillata?
Il sorriso di Heather si allargò. «Sei cosa, Gwen? Innamorata di lui?»
«Non essere ridicola, Heather.»
«Senti ma… se ami un altro, perché ti ostini a tenere Trent nella tua gabbia? Non mi pare molto corretto… Sei così egoista?»
Gwen sentì una risata acerba pizzicarle la gola. «Tu vuoi parlarmi di correttezza? Per favore!»
Heather alzò le spalle. «Era una semplice considerazione. Vedi, a differenza tua, io ho molto a cuore Trent.» Si liquidò così, senza ulteriori spiegazioni. Noah si riavvicinò subito per chiedere: «Sicura che non abbia una tresca col tuo ragazzo, quella?»
Gwen sogghignò. «Ti prego! Vuoi soltanto distrarmi dal discorso di prima! Parlami di questa ragazza!»
«Mai!»

***
Duncan raggiunse velocemente la casa di Courtney. Dopo aver fermato la moto vicino al cancello, rimase per un po’ in sella con gli occhi rivolti verso le stelle: non aveva voglia di vedere la ragazza, però aveva bisogno di distrarsi. Il sesso era sempre una distrazione e Courtney non aveva mai opposto resistenza a farsi scopare da lui. Era proprio un tipo strano, Courtney: all’apparenza così rigida e precisa, ordinata, puntigliosa… al tempo stesso, però, così disperatamente bisognosa di non sentirsi pulita, così accesa, così fuori di sé. Era un binomio che intrigava decisamente il punk; gli piaceva l’ottica di portare una perfettina sexy sulla cattiva strada, lo faceva sentire potente, virile, importante. Avrebbe potuto plasmare quella ragazza in ogni sua fantasia e lei non si sarebbe mai opposta: l’avrebbe soltanto desiderato, sempre di più; perché una volta che ti avvicini al male, allo sbagliato, allo sporco, poi non sei più capace di tornare indietro. L’influenza di Duncan su Courtney suonava come una grande nostalgia. L’arroganza di lui la faceva sognare. Sprizzava sicurezza da tutti i pori. I suoi piercing non facevano che ribadire “nessuno è come me ed è per questo che sono migliore di loro”. Anche a Courtney piaceva sentirsi migliore, ma solo sull’estremità positiva della scala. Duncan invece aveva un debole per il versante opposto.
Alla fine scese dalla moto. Stare lì a pensare al da farsi era ancora più noioso dell’ascoltare le insulse chiacchiere di Courtney. Andò a citofonarle e lei aprì immediatamente: l’imprevedibilità di Duncan la faceva imbestialire, impazzire… allo stesso tempo, però, la faceva davvero impazzire.
«Quando ti deciderai ad avvisare prima di precipitarti qui?»
Duncan sogghignò. «Mai.»
Courtney si lanciò su quel sorrisetto beffardo per spegnerlo con un bacio. Non le piaceva la versione che assumeva ogni volta che appariva il punk: si sentiva totalmente incontrollabile e Courtney amava sentire il controllo di ogni cosa stretto nelle mani. Però quelle emozioni così intense si accendevano ogni volta come un immenso falò. Soltanto Duncan era capace di soddisfare quell’ardore. Rimasero qualche minuto a baciarsi sulla porta. A Duncan, però, il gioco di lingue non bastava: lo sfigato chitarrista continuava a dargli fastidio. Allora tentò di sfilare la maglietta attillata di Courtney, ma lei gli colpì subito le mani staccandosi.
«Andiamo Court, lo so che lo vuoi…»
A Courtney piaceva Duncan, molto. Le piacevano le emozioni che sprigionava in lei: nervosismo, sollievo, desiderio… Però detestava sentirsi un oggetto: comprendendo subito il fine della visita di Duncan, già intento a spogliarla ancora sulla porta d’ingresso, prima ancora di un saluto, si sentì ferita. E come esprimeva il dolore, Courtney? Nel modo in cui esprimeva qualsiasi tipo di emozione: esibendo un’incredibilmente seccante irritazione.
«Perché devi sempre essere tanto rozzo?! Smettila!»
Duncan alzò gli occhi, annoiato dalla reazione. «La principessa tira fuori le palle?»
«Non chiamarmi in quel modo!»
«Beh mi perdoni, principessa, ma questa sera è talmente altezzosa che -»
«Io altezzosa? Sei tu ad essere un depravato!»
Duncan rise. Quel confronto si sarebbe rivelato più che divertente. Scontrarsi con le ragazze non gli dispiaceva affatto, in realtà; era una bella sfida e ovviamente, alla fine, sarebbe stato lui ad averla vinta.
«Depra- che?»
«Un porco! Arrivi così, senza preavviso, e non mi chiedi nemmeno come sto! Sono una persona, lo sai? Ed è stata una giornata snervante, Duncan! Ma perché ti ho aperto la porta?! Sei solo un delinquente, sembri appena uscito dalla galera!»
«Non puoi avere la certezza di essere in errore, tesoro.»
«Smettila di usare nomignoli! Non ti sopporto! Sei esattamente come vuoi sembrare!»
«…Attraente?»
Courtney sbattè un piede a terra, frustrata. «NO!» Però…
Duncan si avvicinò a lei, notando come le sue barriere stessero iniziando a vacillare. «…Eccome invece.»
«N-No…» Courtney non voleva perdere il confronto, ma non poteva che riconoscerlo: era lui ad avere in pugno la situazione e per quanto lei si atteggiasse da tosta, pendeva dalle sue labbra, labbra incredibilmente ipnotiche e che, Dio, desiderava ogni secondo di più. Quando il punk le scostò i capelli dal volto per baciarle l’orecchio sentì un brivido e riuscì soltanto a mormorare: «Non fermarti.»

Così il solito copione si ripeté invariato anche quella notte e Duncan, stretto a Courtney tra le sue lenzuola, riuscì a liberarsi da tutti i fastidi che si erano accumulati durante la serata.

***
Dopo aver esaurito gli ultimi barlumi di adrenalina, esplosa come dinamite durante il concerto, Trent tornò a casa con Gwen. Sì, due bicchieri li aveva bevuti, aveva anche accettato di fare qualche tiro dallo spinello di Scott, ma si sentiva lucido per la guida, anzi: più di quanto avrebbe voluto. Lo spettacolino che aveva intravisto di Heather e Alejandro gli picchiettava nella testa dandogli fastidio. Non era gelosia: Trent amava soltanto Gwen e le condizioni degli appuntamenti con Heather erano segnati dalla trasparenza: no sentimenti. Ad irritarlo era soprattutto l'evidenza che quelli che considerava amici lo ritenessero un idiota; o meglio, di come Heather lo ritenesse un idiota, dato che Alejandro non aveva mai fatto giri di parole sulla questione. Questo lo faceva innervosire.

«Tutto a posto, Trent?»
Ammorbidì il sorriso senza deconcentrarsi dalla strada, per rispondere: «Certo Gwen, perché?»
«Sei silenzioso…» ridacchiò. «Insomma, non dovresti sprizzare euforia da tutti i pori, dopo tutti quegli applausi?»
Anche Trent rise. «Pensavo desiderassi un po' di calma, dopo tutto il fracasso che c’era nel locale… Ma posso mostrarti come si sente una rockstar dopo un concerto mettendomi a urlare di gioia, se vuoi.»
«Mi conosci troppo bene…» Gwen appoggiò la fronte sul finestrino. «Sento ancora il chiasso rimbombarmi nelle orecchie…» Chiuse gli occhi: la macchina che sobbalzava leggermente sulla strada, la tranquillità della notte, il filo d’aria che filtrava dalla fessura aperta del finestrino; così rilassante…
«Però mi sono divertita.»
«Menomale... Sai, mi è dispiaciuto lasciarti sola a quel tavolo durante l’esibizione. Dopo qualche pezzo ho sentito l’impulso di levare la chitarra e venire a sedermi con te, o di trascinarti con noi, anche.»
«Non ci sarei mai venuta!» esclamò Gwen ridendo. «Sarebbe stato imbarazzante!»
«Sì, ho pensato che non avresti voluto… è per questo che mi sono limitato a lanciarti qualche occhiolino.»
«Dieci» soffiò Gwen.
«Cosa?»
«Dieci occhiolini. Dopo aver annunciato il titolo di ogni canzone.»
«Wow! Eri proprio attenta, eh?»
Gwen richiuse gli occhi. «Soltanto a te. Degli altri non mi fregava un granché.»
Trent accarezzò il ginocchio di Gwen con una mano. “Ti amo” avrebbe voluto dirle, “Sei tutto”; lo pensava davvero, ma le corde vocali si rifiutarono di vibrare.
 
Entrati nell’appartamento, Trent fece notare alla ragazza che aveva tenuto la sua catenina portafortuna per tutta la performance. Gwen si sentì commossa: era talmente dolce…
Si addormentarono abbracciati prima ancora di cambiarsi per la notte.

 
Anche Heather dormì abbracciata a qualcuno, e quel qualcuno aveva il più fastidiosamente intenso ma irresistibile profumo che Heather avesse mai sentito, perfettamente abbinato alla sua persona: Alejandro. Trascorsero la notte in un motel fuori città: la febbricitante scarica di energia che li aveva animati durante l’esibizione non voleva abbandonarli, avevano voglia di avventura, di abbandonare in città il controllo esercitato su loro stessi. Dopo i tre calici di Martini al locale di Owen e Noah e qualche sorso del Rhum che lo spagnolo si portava sempre appresso, arrivati in quella camera di motel, biascicando tra le labbra dell’altro, Heather si lasciò sfuggire le parole in cui credeva meno dell’intero vocabolario: «Ti amo.» Alejandro fece finta di non sentirla: niente che già non sapesse, niente che la ragazza, consciamente, avrebbe mai ammesso.
Ma quando Heather si svegliò sul fare dell’alba a causa delle tapparelle avvolgibili orientate appena verso la luce, realizzò di ricordare davvero poco della serata: la memoria riusciva a farle rivivere solo i momenti passati cantando, poi qualche frammento del tragitto in macchina con Alejandro; dopo, soltanto immagini: lui che la guida in stanza con le chiavi in mano, lui senza maglietta, lei che cade sul materasso. Notando Alejandro ancora addormentato al suo fianco, sentì un’ondata di ribrezzo investirla: e no, non verso di lui, ma verso sé stessa. Perché si era lasciata trascinare di nuovo? Era così debole, quindi? Dannazione… Tuttavia, alla vista del ragazzo così beato nel sonno, inevitabilmente sorrise. Accoccolò di nuovo la testa sul suo petto, pensando che il loro antagonismo non dovesse per forza ricominciare subito, e presto si riaddormentò.
 

Sul fare della stessa alba che aveva rubato e presto restituito il sonno ad Heather, Gwen si alzò dal letto. Si spostò nella zona giorno senza far rumore e preparò una tazza di tè. Non voleva svegliare Trent, ma non riusciva nemmeno a riprendere sonno. Stare a letto da sveglia non faceva che ricordarle le mille cose che avrebbe dovuto fare durante la giornata: troppe per perdere tempo tra le braccia del ragazzo dormiente.
Sorseggiando la sua bevanda fumante, cominciò a leggere quegli appunti che, a distanza di mesi dalla loro scrittura, erano diventati incredibilmente simili a geroglifici. Tuttavia Gwen lo sapeva: il titolo di studio in storia dell’arte, senza una buona dose di impegno, non le sarebbe di certo venuto incontro.

Anche Trent si svegliò presto. Mentre faceva colazione in silenzio accanto a Gwen, per non deconcentrarla dallo studio, fu lei a uscirsene con: «Guarda questo quadro, non sembra Heather? Una megera che si allunga su tutto e lo divora! È proprio lei!» Trent rise, ma nella testa imprecava. Il volto della cantante schiacciato contro ad Alejandro si risvegliò nella sua memoria frantumando la sua pace mattutina. Si vestì in fretta e si liquidò accusando i turni speciali da Chef.
«Vuole davvero fartela pagare, questa riassunzione!»
«E come dargli torto? A dopo, piccola.»
Trent si richiuse la porta alle spalle e tirò un sospiro di sollievo, un sospiro da “anche questa menzogna è andata”, perché no: Trent non doveva andare così presto in negozio; doveva andare da Heather per chiarire la situazione. Quante altre bugie gli aveva raccontato? Perché non si fidava di lui? Cosa c’era tra lei e Alejandro? Le domande gridavano nella testa di Trent senza promettere di affievolirsi.

***
Il campanello.
Duncan: «Ma che ore sono? Che palle!»
Courtney si alzò dopo essersi stropicciata gli occhi. Indossò una vestaglia per raggiungere la porta.
Davanti all’inaspettato visitatore, per un attimo rimase sorpresa, senza parole; la stessa fu la reazione di Trent alla vista di lei, ma amplificata.
«Ciao! Mi ricordo di te! Cosa ci fai qui?»
«In realtà…» Trent iniziò a farfugliare in imbarazzo: cosa gli conveniva dire? Ma perché lei era lì? «… sto cercando Heather, non ho sbagliato indirizzo, no?»
Courtney scosse la testa in segno negativo. «Io sono sua cugina, vivo qui con lei.»
«Oh, bene.» Merda. «Lei è anche la cantante della mia band, avrei delle cose da dirle… sulla nostra musica.»
«Ora non è in casa, mi dispiace. Non ho idea di dove sia, ma le farò sapere che sei passato! Sempre che non la veda prima tu!»
Trent si sforzò di ridacchiare per coprire l'amaro, perchè ci avrebbe scommesso: era ancora con Alejandro.
«Già… Beh grazie comunque, Courtney.»
«Figurati, e buona giornata!»
Tornò in camera dove un punk ormai amaramente sveglio premeva la testa sul cuscino nel tentativo di riprendere sonno.
«Quanto è piccolo il mondo, non smetterò mai di stupirmi… Riesci a indovinare chi era alla porta?» Si mise a sedere su un angolo del letto.
Duncan soffocò contro al cuscino: «Perché dovrei indovinarlo?» 
«Era Trent! Il tuo vicino Trent, quello del film horror!»
Duncan si sentì di colpo sveglio ma no, doveva essere ancora perso nel sonno; quello doveva per forza essere solo un fastidioso incubo.
«Che cavolo ci faceva qui?»
«Stava cercando mia cugina Heather, a quanto pare fanno parte della stessa band! Riesci a crederci?»
Duncan avrebbe preferito sbattere la testa da qualche parte, al posto di scoprire quella notizia. Sentì l’impulso di dare un pugno a qualcosa, o meglio qualcuno: Trent, per puro esempio. Dovette sforzarsi per non lasciar trasparire il nervosismo.
«E perché diamine dovrebbe cercare la sua compagna di band a quest’ora?»
Courtney sollevò le sopracciglia. «Non me l’ha detto… Ma a te cosa interessa, scusa? Non sono affari tuoi, non puoi intrometterti!»

Ah no?
Se Courtney gli diceva che non poteva, l’avrebbe sicuramente fatto.
 
 





Ciaoo a tutti! Che bello poter dire, anche questa volta: È UN PIACERE ESSERE PUNTUALE NELL’AGGIORNAMENTO! (anzi, in anticipo ^^) – puntualità alla quale non sono per niente abituata tra l’altro, o almeno, sicuramente non nella everyday life xD
Arrivando al capitolo: e anche oggi la nostra storiella sale su un nuovo gradino di intrigo! Ahiahiahi, incauto Trent! Per il resto possiamo notare i classici damn di contesto: Trent infastidito da Heather, Duncan infastidito da Gwen, ma Duncan è con Courtney, ma Trent è con Gwen, ed Heather... con Al! E così anche il nostro Burromuerto è entrato in scena, era anche ora ^^
Quali saranno le prossime mosse dei nostri cari tipelli? Restate sintonizzati per scoprirloo! *mood McLean off*

Come da solito copia-incolla: spero che il capitolo vi abbia intrattenuto, intrigato e fatto sorridere! Io, devo dire, mi sento molto soddisfatta!
In generale sono davvero contenta di come stia procedendo la storia: solitamente per me è molto facile abbandonare progetti, soprattutto per le montagne russe su cui si diverte la mia ispirazione: a volte sale ai picchi con idee che trovo molto ad effetto, in altri punti solitamente va in letargo: la costruzione di trame mi consuma xD In questa long però (STRANO ma vero) sento l'ispirazione accompagnarmi in ogni capitolo, se non credere! Anche per lo stile mi sento sempre più soddisfatta! Spero non sia solo una soggettiva impressione in quanto autrice ^^”” per giudicare questo, dovrete aiutarmi voi!
E qual è stata la scenetta che avete preferito?? Io ho adorato scrivere il dialogo tra Owen e Duncan! Rileggendolo mi ha suscitato un senso di tenerezza *.*

Se siete arrivati fino a qui e avete potuto apprezzare quanto la mia testa storta ha partorito per questo capitolo, fatemelo sapere! Il mio sforzo per sfornare (pardon per la cacofonia) intrighi e scrivere decentemente necessita di piccole ricompense xD se no l’ispirazione diventa più altezzosa di Courtney U.U 
(ovviamente scrivetemi anche se qualcosa vi lascia turbati! Insomma, datemi un segno di vita se il tutto non vi ha lasciati indifferenti xD Sono sempre a caccia di indizi per migliorarmi! – essenzialmente pubblico qui proprio per questo, lol)

Dulcis in fundo: ultimamente ho notato un incremento più rapido di visualizzazioni, quindi grazie a tutti voi che vi state appassionando alla storia! Questo mi rende molto felice!

*la canzone cantata da Heather in realtà non l’ha scritta Trent (lol) e men che meno io: si tratta di Bloody Valentine di Machine Gun Kelly, i suoi versi mi sono venuti in mente a caso proprio mentre delineavo la scena e allora “hei! Ma ci sta troppo bene!” e quindi via così

(la descrizione del quadro di cui parla Gwen invece, della megera-Heather, l’ho improvvisato io. Se proprio volete immaginarlo, vi proporrei un ibrido tra i colori di Vampiro di Munch e lo stile tagliente di Schiele… molto random, insomma)

Grazie per l'attenzione,
Ciaociao!
 
Alyeska707

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9
 
«Quindi alla fine sei venuto.» Si appoggiò alla porta.
«Mh... no?»
Gwen continuò a guardarlo con aria sorniona, stemperata soltanto dai tiri di fumo. Di fronte al suo sguardo tanto sicuro e vagamente divertito, Duncan aggiunse: «Se hai ricordi di ieri sera in mia compagnia, mi dispiace bellezza, ma dev’essere stata soltanto una grande sbronza.» Sogghignò. «E desiderio di me.»
«Owen ti ha visto.»
Duncan sbuffò senza darci peso. «Una sbronza collettiva, quindi? Vi siete proprio sballati. La musica era così inascoltabile da farvi fiondare nell’alcol per scordarla presto? Ne sono felice.»
Gwen alzò gli occhi al cielo, rassegnata a non averla vinta.
«Come vuoi» gli concesse. Aspirò un ultimo tiro di sigaretta prima di spegnere il mozzicone nel posacenere portatile. «Comunque… da dove stai tornando? Trovato un nuovo lavoro?»
«Mh no» borbottò lui. «Anche se dovrei. Ho soltanto passato la notte da Courtney.»
Gwen si portò teatralmente una mano al petto, come recitando uno stato di immensa angoscia: «Quindi avresti scaricato la mia proposta per trascorrere del tempo con la tua non-fidanzata? Così mi ferisci, Duncan.»
Il punk aprì la sua porta dopo aver girato la chiave per l’ultima volta e le fece cenno di precederlo dentro. «Se non hai da fare, posso sempre consolarti adesso in camera.» Questo gli fece meritare la punizione di un colpetto alla caviglia.
«Idiota. E per la cronaca, avresti potuto avvisare sui tuoi cambi di programma. Ti ho aspettato per tutta la sera!»
«Oh, come sei dolce» commentò lui in tono piatto, per il gusto di schernirla.
«E Noah mi ha comunicato la data della prossima esposizione d’arte nello speakeasy.»
«Finalmente una notizia interessante…» Duncan incrociò le braccia e appoggiò una spalla alla parete che divideva il suo ingresso da quello della vicina. «Spara.»
«Giovedì prossimo. Ha selezionato lui alcune tele che gli ho fatto vedere in foto... Ma che competenze ha lui nel campo, scusa?»
Duncan dimostrò la sua estraneità alla risposta incurvando le labbra. «Noah ha competenze in ogni campo. Non lo so il come, ma va bene così. E' affidabile, però.»
Gwen abbassò lo sguardo. «Mi ha anche raccomandato di non rivelare la faccenda a nessuno… neanche a Trent.»
«Scontato, no?»
«Sì, però… tenerlo all’oscuro mi infastidisce.»
Duncan ridacchiò. «Come se fosse la prima volta che lo fai!»
«Lo è!» Oh no, Gwen; la sua coscienza la punse subito dopo l’esclamazione impulsiva. Ci volle un millisecondo affinché si risvegliasse, prendendo forma dallo sguardo divertito e irritante del punk. Perché sì: Gwen era stata una vera illusa a pensare che avrebbe deciso di archiviare il loro trascorso. No, Duncan non aveva proprio intenzione di smettere di rivendicare la scomodità nella quale si erano cacciati, nella quale l’aveva cacciata, si era cacciata: perché in effetti la responsabilità era stata soltanto sua, di Gwen. Se lei non fosse andata a cercarlo, niente sarebbe accaduto: avrebbe potuto continuare a scansare le sue battutine fingendosi immune al suo carisma e totalmente disinteressata al suo tocco. Ma non lo era. Così quando Duncan fece scivolare una mano lungo il suo braccio, a sottolineare l’espressività di un rauco e appena mormorato: «E il nostro segreto?», Gwen si sentì rabbrividire e subito lo scostò.
«Comunque, se la tua preoccupazione è di non avere abbastanza fan tra gli snob intellettuali che frequentano lo speakeasy, tranquilla, verrò io a fare il tifo per te.»
«Certo! Proprio come sei venuto ieri sera!»
Duncan rise. «Ma ieri sera c’era il tuo fidanzato, non mi sarei divertito e le canzoni che suonavano erano talmente insopportabili…»
Lo sguardo turbato di Gwen venne attraversato da una scintilla, perché se Duncan aveva idea di quali canzoni fossero state proposte, doveva necessariamente averle sentite. Owen non si era inventato un bel niente, quindi. Duncan era passato. Duncan aveva tenuto fede alla sua promessa, circa. Poteva fidarsi di lui. Così gli allungò un braccio.
«Quindi prometti che verrai?»
Lui strinse la sua mano fredda e sottile senza nemmeno pensarci su.
«Te l’ho detto. Sarò la tua groupie.»
Gwen rise. «Addirittura?»
Il sorrisetto di Duncan si sbilanciò. «Certo, ha i suoi vantaggi. Sai, spesso le groupie venivano ricambiate dalle rockstar con favori speciali per il loro sostegno.»
«Peccato che io non sia generosa come una rockstar.»
Duncan soffiò tra i denti: «Dicono tutte così.»
Prima che Gwen potesse replicare, i passi provenienti dalle scale superiori catturarono l’attenzione di entrambi. A comparire dalla rampa fu Chris McLean che, dopo avere individuato i due, esclamò indicandoli: «È proprio voi che cerco!» Li raggiunse col suo andamento un po’ zoppicante e si infilò tra loro, per rivolgere a Gwen un supplichevole: «Tu saprai di certo come funziona il romanticismo, vero ragazzina?!» La sua intonazione vagamente perentoria intimorì inizialmente la gotica. Intanto Duncan, alle spalle dell’anziano, se la rideva chiedendosi che cavolo stesse farneticando.
«S-Sì? Circa, almeno… Penso…»
«Bene!» L’entusiasmo di Chris tagliò l’aria come le sue braccia, che si precipitarono a stringere le spalle di Gwen in una mal riuscita manifestazione di riconoscenza. «Perché mi serve il tuo aiuto!»
Chris spiegò la situazione: quel giorno era il compleanno della moglie Blaineley; «Che età?» chiese Duncan, ma «Che razza di domande! La bellezza non si data!» Duncan si accese una sigaretta per intrattenersi quel minimo in più da rendere la situazione sopportabile; tanto amore l’avrebbe portato allo svenimento. E Gwen lo stava pure ascoltando, il vecchio! Sembrava addirittura interessata! Ma non era quella indifferente, lei? La ragazza gotica e impassibile? Duncan si chiedeva cosa la frenasse dall’invitare McLean a tornarsene nel suo appartamento e asfissiare qualcun altro. Che fosse davvero dolce, lei? Mah. Duncan non sapeva quale versione di Gwen avrebbe preferito: di certo trovava eccitante l’immagine della finta-distaccata ustionata dal fuoco della passione; inoltre le ragazze dolci, agli occhi del punk, apparivano talmente appiccicose e ingenue… così innocenti da non comprendere mai le sue vere intenzioni. Una vera seccatura. Ma Gwen non era una seccatura e, anche in momenti come quello con Chris, che cercava di articolare le sue intenzioni di sorprendere la festeggiata ingarbugliandosi di continuo tra le parole perché: «Ma non sono certo uno romantico, io! Com’è che si fa?», riusciva ad apparire genuina e disponibile, sì, ma non sprovveduta. Era un mix glaciale ma tiepido, Gwen: caffè bollente rovesciato a filo su un cubetto di ghiaccio che si scioglie e allunga l’amaro, un gusto che però rimane sempre piacevole, più originale. Un gusto che l’aggiunta di zucchero non farebbe che corrompere, rovinare.
«Adesso Blaineley è al suo corso di… come si chiama quella cosa inutile? Ah ecco, yoga! Ma insomma, ho poco tempo! Mi serve qualche consiglio subito! Voi siete giovani e stupidi, queste cose dell’amore le saprete fin troppo bene, no?!»
Fu a questo punto che Duncan esplose in una fragorosa risata: «Consigli? Romantici? Da me? Oh no» Scosse energicamente la testa. «Mi spiace, non sono la persona adatta.»
Gwen ridacchiò con fare derisorio. «Ma c’è qualcosa a cui sei adatto, tu?» Posizionò una mano sul fianco ostentando sicurezza, come se il coltello dalla parte del manico lo tenesse lei! E invece no, era ben saldo nella stretta di Duncan: «Oh, lo sai eccome a cosa sono adatto, Gwen.» Lei distolse fulminea lo sguardo sentendosi andare a fuoco, e non solo per l’irritazione creata dalla voce provocatoria del suo vicino.
Cercando di allontanare da sé le parole di Duncan, rincorse frettolosamente e con troppo entusiasmo per suonare sincero: «Non preoccuparti, Chris! Ti aiuterò io! Entra pure!» Si scostò per far passare l’anziano. Poi inarcò le sopracciglia osservando Duncan.
«Che c’è?»
Gwen gli fece cenno di seguire McLean nel suo appartamento.
«Ehi, ho già detto di non essere utile per queste cose!»
«Ed è per questo che avrai sicuramente bisogno di una lezione su come far funzionare i tuoi sentimenti! Scommetto che scoprendoli diventeresti più simpatico!»
Duncan sbuffò. «Io sono già simpatico!»
Gwen allargò un sorrisino subdolo. «E scommetto che Courtney gradirebbe qualche gesto dolce, ogni tanto!»
Il volto di Duncan si fece più torvo. «Courtney non è… Oh, al diavolo.» Precedette Gwen nel suo appartamento lasciando la frase a metà, che tanto spiegarle il suo punto di vista, per l’ennesima volta, si sarebbe rivelato inutile.

***

Heather accese il telefono soltanto dopo esser tornata a casa; più precisamente, dopo esser stata riaccompagnata dalla Mercedes di Alejandro e, per non tralasciare alcun dettaglio, dopo aver ascoltato Courtney dirle: «Il tuo compagno di band Trent è venuto qui stamattina, aveva qualcosa da dirti, dovresti chiamarlo.» Heather pensava davvero che Trent avesse qualcosa di urgente da farle sapere: qualcosa a proposito dell’esibizione della sera precedente, magari... Erano piaciuti? Li rivolevano?
Ma Trent non sapeva niente di tutto ciò: l’unica cosa che gli premeva comunicarle non riguardava nessuno all’infuori di loro due.
«Finalmente, eh?» Heather lo sentì ridacchiare attraverso il cellulare e sentì il senso di fastidio dispiegarsi. Perché conosceva Trent e conosceva la sua risata imbarazzata da “Si capisce che sto sdrammatizzando, no?” e “Devo dirti questo, ma tu non devi prendertela”. Heather se la stava già prendendo, però.
«Ieri sera sei proprio sparita di colpo… ti hanno rapita per caso?»
«No, Trent. Ovviamente no.» Impassibile come suo solito, non fece giri di parole prima di chiedere: «Cosa vuoi sapere, Trent?»
Il ragazzo temporeggiò un po’; farfugliava parole sconnesse mentre lucidava l’ennesima chitarra e intanto si domandava come avrebbe potuto porre la questione nel modo più intelligente e meno invasivo. Ma Heather bloccò presto il suo farneticare: «Trent.»
Seguì qualche istante di silenzio. Trent respirò a fondo, prima di ammettere: «Lo so che te ne sei andata con Alejandro.»
Heather sentì il sangue gelarle nelle vene.
«E vi ho visti prima di suonare, nella sua macchina... e c’è solo una cosa che non capisco: perché l’hai sempre negato?»
«P-Perché…» Nessuna risposta coerente le raggiunse le labbra. Perché? Perché non era vero, ecco perché. Eppure, allo stesso tempo, lo era eccome: lei era andata in un sudicio motel con Alejandro quella notte, e la loro storia durava da ben più tempo… ma come ammetterlo? Heather lo sapeva bene: quel ragazzo era il suo più grande punto debole. Chiarirlo non avrebbe fatto altro che spogliarla della sua sicurezza, allontanarla da sé stessa… non poteva permetterlo. Così si limitò a dire: «Perché non c’è niente.»
«Ma vi ho visti coi miei occhi, Heather!»
«E allora?!» lo gridò, non riuscendo a contenere l’agitazione; esigeva di essere sfogata, in qualche modo.
«Mi spieghi qual è il punto, Trent? Anche noi ci baciamo, anche noi andiamo a letto, e allora? Non significa niente!»
«N-Niente?» Confusione, nervosismo, il cuore d’un tratto più debole, ferito, ma perché? «Niente di niente? Io pensavo fossimo amici, Heather! E in tutto questo tempo non mi hai mai parlato nemmeno una volta del tuo legame con Alejandro! Tu non hai solo sviato Heather, tu hai sempre detto che tutte quelle storie che racconta lui non erano vere! E io ti ho sempre creduta! Anche quando Alejandro parlava di te con Scott, io ti ho sempre difesa! Mi sento… tradito, ecco! Come dovrei sentirmi, secondo te?! Mi sono sempre fidato di te e mi hai raccontato solo menzogne!»
«Tradito, mi sono sempre fidato… Ma che vuoi, Trent? Proprio tu vuoi parlarmi di lealtà?» Dovette sforzarsi, Heather, per non lasciar scappare un soffio di risa. Era così patetico. «Senti: mi hai chiesto di aiutarti e lo sto facendo, ma non c’è niente tra noi due che non sia dell’amicizia e una band. I miei rapporti con Alejandro al di fuori del gruppo non devono importarti. Inoltre, io racconto quello che voglio come lo voglio e se non ne parlo, evidentemente, ho i miei motivi. Tu non sei nessuno per dirmi come dovrei comportarmi. Quindi fammi il piacere, evita queste scenate inutili!» Chiuse la chiamata prima di concedere a Trent il tempo di replicare. Era incazzata con lui, sì. Le aveva sbandierato contro il suo tallone d’Achille: i sentimenti. Per di più, l’aveva fatto con aria di rimprovero. Iniziò a massaggiarsi la fronte con le dita per calmarsi, per lasciare andare l’irritazione, ma questa non ne voleva proprio sapere di affievolirsi.

Soltanto sollevando gli occhi dopo una manciata di minuti, Heather si accorse di non essere sola in cucina. Courtney stava sgranocchiando un biscotto al cioccolato. Nonostante fosse impegnata a sfogliare i social con apparente trasporto, aveva ascoltato ogni parola del discorso della cugina. Heather non le diede peso; infondo, a quale contro? Da mesi Courtney insisteva sull’amore provato da Heather per lo spagnolo, che spesso era capitato in casa loro. E a proposito di Trent, a chi importava se avesse scoperto dei loro trascorsi? Tanto Courtney, con tutta probabilità, non l’avrebbe incontrato mai più. Heather si alzò per andare a farsi una doccia. Soltanto dopo esser rimasta sola in cucina Courtney posò il telefono sul ripiano, lasciandosi assorbire totalmente dai dubbi riguardanti il perché quel ragazzo così dolce che aveva avuto modo di conoscere tramite Duncan avesse deciso di tradire la sua fidanzata, Gwen, per Heather. Sospirò allibita dal genere umano e dalle labbra le sfuggì un: «Ma perché le persone sono così poco intelligenti?!» Quindi masticò l’ultimo pezzetto di biscotto, raccolse il telefono e tornò in camera.

Dall’altra parte Trent, ancora col telefono in mano a guardare lo schermo nero, continuava a sentirsi perso. La voce di lei, che solitamente riusciva così bene a distenderlo, questa volta aveva solo impresso negatività sui suoi presentimenti, presentimenti che ora si potevano dire concreti. Trent era cosciente che la ragione stesse dalla parte della ragazza, tuttavia non riusciva a gestire la questione con leggerezza. Se con Gwen si sentiva sempre investito dall’ombra di timore di perderla ed Heather non era affatto sua… allora su cosa poteva contare, lui?

***

Chris si guardava intorno con sguardo attento, quasi che una trappola, tesa appositamente per lui, minacciasse di apparire improvvisamente per assalirlo. Però non era preoccupato: era soltanto concentrato, incredibilmente, e i suoi occhi studiavano con accuratezza, nonostante la distanza, le scie di acrilico pitturate da Gwen sulle tele disposte a perimetrare il soggiorno. Intanto la ragazza illustrava quello che sarebbe stato il piano d’azione di Chris come fosse stata una missione di estrema importanza, sotto lo sguardo attonito di Duncan che continuava a chiedersi: ma perché? Gli tornò in mente la scena vissuta al suo risveglio: Trent che bussa alla porta di Courtney cercando la cugina per dirle qualcosa di tanto importante da non poter essere anticipato. Guardò Gwen; no, era troppo rilassata per trattenere della gelosia nel cuore. Inoltre Trent si era ripetutamente dimostrato cotto marcio unicamente per la fidanzata, questo Duncan lo ricordava fin troppo bene: un ricordo a forma di pugno ben saldo. Sentì i nervi a fior di pelle soltanto di fronte alla memoria. Ma allora che ci faceva lì tanto presto, Trent? Forse doveva semplicemente restituire qualcosa alla sua amichetta di sfigata-band, ma perché non aveva consegnato niente a Courtney allora? Che fosse lì proprio per lei, in realtà? E magari Courtney l’aveva protetto per… Oh, no no no: troppe congetture assurde. Infondo non c’erano dubbi sull’evidenza che il cuore di Courtney scalpitasse solo per lui, Duncan. Magari Trent si stesse vedendo con lei! In questo modo gli avrebbe perfino fatto un favore, aiutandolo ad allontanare la ragazza. Perché insomma, non che gli tornasse scomoda, ma un po’ di distanza non sarebbe di certo guastata. Duncan odiava sentirsi vincolato a qualcuno e Courtney, quando si metteva a parlare, lo faceva sentire proprio così: come se volesse tenerlo al guinzaglio. Illusa.

Gwen si accese una sigaretta, ripetendo per l’ennesima volta a Chris il motivo per il quale sarebbe stato fondamentale l’acquisto di un bel mazzo di fiori. Duncan notò l’eleganza con cui giocherellò con l’accendono prima di avvicinarlo alla cartina, notò le sue labbra tendersi in avanti, tenendo fermo il filtro. E non riuscì a risparmiarsi dal commentare: «Guarda che così farai arrabbiare la tua nauseante metà, bellezza. Non puoi certo prenderti un cancro e lasciarlo solo con un vicino come me.»
Gwen scosse la testa. «Trent ha finalmente capito che dirmi cosa devo o no fare è totalmente inutile. Ha smesso di insistere. Prima lo faceva ogni giorno… Beh, tanto meglio così.»
«Il primo passo verso la morte dell’amore è la morte dell’interesse verso la salute dell’altro» commentò incurante Chris McLean.
Gwen gli rivolse un’occhiataccia cupa. «Ti ringrazio per la perla poetica, Chris.»
Chris, con fare flemmatico: «Non c’è di che, Gwen. Sapete, in questo periodo non ho nulla da fare, nessuno da criticare… riempio il tempo leggendo romanzi drammatici. Ho scoperto che è un genere che mi piace molto. Beh, non che sia sorprendente…» Sorrise tra sé. «…Anche nella vita ho sempre avuto un debole per il dramma!» Scoppiò a ridere improvvisamente, dal nulla, per una manciata di secondi. Rise al punto che due lacrime gli si formarono ai lati degli occhi. Dovette raccoglierle con l’indice. «Oh, sì… dramma totale*! Che divertimento, ragazzi! Comunque. Dov’è che eravamo arrivati? Ah sì, i fiori.»
«Dovrai andare a prenderli freschi» ripeté per l’ennesima volta Gwen «E farglieli trovare a casa quando torna, in un bel vaso sistemato su un tavolo, magari… o con qualche petalo in giro…» Arrossì appena al ricordo: Trent le aveva fatto trovare l’appartamento disseminato di petali di rosa rossa il precedente San Valentino. Gwen non si sarebbe mai stancata di affermare la sua avversione verso i più sdolcinati sentimentalismi, perfino essere lì a parlare d’amore con Chris McLean la metteva abbastanza a disagio – ma era solo un debole anziano! Come avrebbe potuto rifiutare di andargli incontro? –, però quella sorpresa di Trent le aveva sciolto il cuore. Non era nemmeno riuscita a fingere di trovare quell’atmosfera esagerata; si era sentita semplicemente commossa e innamorata, così tanto…
«Bella addormentata? Ci sei?» Duncan le stava sventolando la mano a una spanna dagli occhi. Intanto diversa cenere si era accumulata all’estremità della sigaretta che Gwen teneva tra l’indice e il medio. Sorrise.
«Mi ero solo incantata.»
«Sì, ok» la liquidò Chris McLean, «ma quindi io cosa dovrei fare esattamente? Comprare anche un vaso?»
«Se non ne hai uno sì, così puoi sistemarlo su un tavolo in bella vista.»
«E devo anche spolverarlo quel tavolo!» Chris McLean scosse ripetutamente la testa. «Blaineley mi ha raccomandato di pulire la casa prima di uscire! Ma secondo me voleva solo punirmi perché pensava mi fossi dimenticato del suo compleanno! E invece cavolo, sì che me lo sono ricordato! Però come faccio a pulire? Sono troppo stanco e vecchio per pulire! Come si trovano le donne delle pulizie?!»
Gwen ridacchiò. «Buffo, Duncan stava giusto cercando un lavoretto, no Duncan?»
Lui le rivolse un’occhiata torva. «Scordatelo, non farò mai la donna delle pulizie!»
Gwen: «E i soldi per vivere dove li troverai?»
Duncan accartocciò le labbra. Detestava essere in torto. Fare lo schizzinoso non l’avrebbe portato lontano. Certo, avrebbe sempre potuto rivolgersi a Noah per… ma no, lui aveva chiuso. Perché Duncan amava il pericolo, ma anche la sua incolumità.
«È piccola, la casa?» domandò allora a Chris.
L’anziano scosse le spalle con fare ovvio. «È esattamente come questa, in che altro modo dovrebbe essere, secondo te?»
Duncan diede un’occhiata in giro. Quanto sarebbe stato difficile pulire un due locali? Poi i vecchi non ci vedono, pensava; avrebbe potuto ostentare un finto impegno e nessuno se ne sarebbe mai accorto. L’unico a rimetterci, in effetti, sarebbe stato il suo orgoglio, orgoglio che, nonostante il sorrisetto beffardo di Gwen, decise di calpestare. Alzò gli occhi al soffitto, le braccia incrociate con rassegnazione, e: «Ok, andata.»
Gwen ripeté un’altra volta il piano passo per passo, davanti ai cenni di assenso di Chris McLean, meccanici per lo più - in realtà a tratti nemmeno ascoltava - dopodiché lui tornò nel suo appartamento, seguito dalla neoassunta donna delle pulizie alias Duncan Nelson.

Aprì la porta dopo aver provato a inserire ogni chiave nella serratura, perché: «Dannazione, ma sono tutte uguali… Perché non le fanno diverse?», nonostante, agli occhi di Duncan, diverse lo fossero eccome, ognuna col suo manico rivestito di plastica colorata.
Quando Chris aprì finalmente la porta, però, lo sguardo del punk si riaccese in un secondo.
«Ma che…»
Chris si voltò verso di lui. «Che dici?»
«Questi quadri sono…»
Il sorriso di Chris McLean si piegò in segno di appagamento. «Straordinari? Incredibili? Rinomati?»
Ma Duncan disse solo: «Tantissimi…»
Non c’era una parete che non fosse tappezzata di cornici; ce n’erano di tutte le forme e di ogni materiale: da quelle più semplici, nere o metalliche, ad altre più antiche, lignee o dorate, intagliate in sottili nastri argentei o pitturate in modo uniforme. A Duncan non interessava l’arte; non riusciva a capire che gusto ci fosse nel circondarsi di opere per il semplice fine di appenderle a un muro. Agli occhi di Duncan, l’arte era soltanto bella e inutile, un mix alquanto drammatico: perché certo, un quadro si può danneggiare, si può buttare per terra oppure tagliare con una lama – e ciò che Duncan riteneva utile era proprio questo: distruggere, sfogarsi –, ma non senza un vicino senso di colpa, perché ogni opera è un lavoro, ogni opera è bellezza e, soprattutto, è stata pagata. Tuttavia, nonostante la sua percezione, non poté fare a meno di sentirsi rapito dall’appartamento di Chris McLean. Anche l’anziano se ne accorse e subito modificò la sua espressione facciale, tramutandola in aspramente seccata nel giro di un insignificante secondo. «Hai finito di fare il guardone? Io non pago i guardoni!»
«Ma perché sono così tanti? È una… com’è che si chiama? Collezione?»
«Non pago neanche gli impiccioni! Mettiti a pulire, prima che torni mia moglie! Ho detto che dev’essere tutto perfetto! Io intanto vado a comprare i fiori, come ha consigliato Gwen…» Si fermò sulla soglia e portò una mano alla tempia, in preda a un nuovo dubbio. Con la voce improvvisamente più agitata, domandò a Duncan: «Ma che tipo di fiori?!»
Il punk si limitò a sollevare le spalle e, afferrando la situazione nel modo a lui più conveniente, commentò: «Il mio compito è soltanto quello di pulire, non di dare inutili consigli.»
Chris sospirò. «Sì, giusto… Infondo cosa si potrà mai esigere da un tipo che ha più piercing sulla faccia che neuroni nel cervello?» Si sbatté una mano sulla fronte per esibire la delusione sentita nei confronti del punk, ma lui non si curò minimamente della scena. Quindi Chris concluse: «Andrò a chiederlo a Gwen.»
«Buon viaggio…» lo salutò ironico Duncan. Mollò a terra la scopa non appena Chris McLean ebbe richiuso la porta alle sue spalle. Poi si stravaccò sul divano per qualche minuto: quei quadri erano maledettamente inquietanti e maledettamente tantissimi. Una serie di ritratti teneva gli occhi inchiodati a lui facendolo sentire osservato; centinaia di occhi dipinti su volti realistici e dolci, colpiti dalla luce naturale che filtrava dalle finestre. Sembrano reali. Quando le voci di Chris e Gwen terminarono di spargere le loro eco al piano superiore, Duncan aprì la porta e scese la rampa di scale. Nel giro di cinque minuti, Gwen dovette per la seconda volta precipitarsi alla porta.
«E tu che vuoi?»
«Devi salire!» Duncan afferrò il polso della ragazza per persuaderla a seguirlo, ma Gwen si liberò subito con uno strattone.
«Ehi, non sono io a dover pulire! Non ho intenzione di farlo al tuo posto!»
«Ma che hai capito, non è per quello! Giuro! Vieni!»
Gwen inarcò le sopracciglia. «Oggi stai promettendo un po’ troppo, Duncan… non starai rischiando?»
«Oh, Dio!» sbuffò. «Due minuti! Muoviti, prima che il vecchio ritorni!»
«Non c’è pericolo…» Gwen sorrise. «Non aveva idea di dove fosse il fioraio, l’ho mandato a un paio di isolati da qui. Non tornerà molto presto, a considerare dalla sua andatura, poi…»
«Muoviti comunque!» Duncan prese Gwen per la mano e iniziò a correre su per la rampa di scale portandosela dietro. Le loro dita erano intrecciate. Gwen non riusciva a staccare gli occhi da quel loro contatto, nemmeno durante la corsa sui gradini, che minacciavano continuamente di farla inciampare. Avvertiva il tepore del palmo di Duncan avvolgere la sua mano pallida e riscaldarla un poco, quel tanto che fa la differenza. Gwen si sentì strana. Lei non aveva amici così, come Duncan. I suoi amici erano freddi, un po’ come lei. Non erano vitali come lui, non la prendevano per mano in quel modo. Nemmeno Trent lo faceva: Trent l’accarezzava, la stringeva in dolci abbracci, ma quel contatto con la mano di Duncan… quello le apparì di colpo più spontaneo e sincero di qualsiasi altro gesto. Ne rimase rapita, totalmente, finché il punk, con la stessa facilità con la quale l’aveva stretta, non mollò la presa per aprire la porta. E Gwen si sentì un po’ meno piena.
«Guarda che roba!»
Gwen lo precedette in casa. L’ammaliamento che provò di fronte alle pareti di Chris McLean soppiantò totalmente il senso di vuoto provocato dalla perdita del contatto con Duncan. Si sentiva, Gwen, come collegata tramite un cavo ad ogni singolo quadro, fonte di elettricità. Un milione di scariche si propagò nel suo corpo in un continuo brivido d’incanto. Così tanto lavoro, così tanto valore, tutto compresso in un piccolo bilocare, abitato da una coppia di anziani egocentrici sì, ma riservati.
Riuscì soltanto a dire: «È… assurdo»
Essendo tutte coperte di vetri e cornici, Duncan indietreggiò fino alla porta per appoggiare la schiena. Con la soddisfazione dipinta nello sguardo, disse: «Visto, che sono una persona affidabile?»
Gwen si voltò leggermente verso di lui. «Per il momento.» Allontanò una sedia dal tavolo per mettersi a sedere, continuando a scrutare le pareti.
«Dici che quello fosse lui da giovane? Assomiglia» osservò.
Duncan si avvicinò al quadro indicato dalla ragazza. «Ma perché cavolo avrebbe dovuto posare in quel modo?»
«Una scelta artistica?»
«Una scelta da schifo» precisò Duncan. «Ma quanti soldi deve avere McLean per permettersi tutta questa roba?»
«Tanti, direi… E nonostante questo vive in questo palazzo! Non è esilarante?»
«È solo privo di senso.» Duncan si stravaccò sul divano, del tutto incurante di quello che avrebbe dovuto essere il suo incarico.
«Gli hai chiesto perché li ha? Magari è del mestiere…»
Alzando gli occhi, Duncan ripeté in tono annoiato le parole di Chris McLean: «”Io non pago gli impiccioni”… quindi no, non ne ho idea, bellezza.»
«E piantala!» esclamò lei riferendosi, per l'ennesima volta, allo scomodo soprannome affibbiatole. Senza smettere di ridacchiare, gli avvicinò la scopa tenendola per il manico. «E datti da fare! Sei qui per questo, no?»
Duncan liberò un sospiro. «Che ne dici di darci da fare, invece?»
Gwen inarcò le sopracciglia. Risposta ovvia, ovvio che no. Così, riluttante, Duncan si alzò e cominciò a pulire quel pavimento in parquet sentendosi un perfetto idiota, soprattutto per via dello sguardo di Gwen che, divertita, lo osservava da quella che fino a poco prima era stata la sua posizione.
«È comodo questo divano!» osservò, piacevolmente stupita, accarezzandone la pelle.
«Se devi rimanere lì, almeno sforzati di essere di supporto!» ribatté Duncan, ma Gwen era così divertita da quella situazione: le dava l’impressione di essere finalmente un gradino più in alto rispetto a lui. Ogni volta che l’aveva pensato in precedenza, la considerazione si era sempre rivelata illusoria. Non in questo caso, però: adesso Duncan era all’angolo, a pulire l’appartamento di Chris McLean per una misera mancia, e lei era ben comoda sul divano dell’anziano a guardarlo con appagamento. Ora chi è a vincere, eh Duncan?

Ma Chris McLean tornò troppo presto: «Ho trovato un baracchino proprio dietro l’angolo! Che grande fortuna, se avessi ascoltato te non sarei tornato più! Ma aspetta. Tu perché sei in casa mia? E tu che cavolo hai fatto in questo lasso di tempo?! Qui vedo solo polvere, polvere! Muovetevi, entrambi!
» Si abbandonò a un sospiro esasperato. «Ora… ora vado a ritirare la torta che ho ordinato, e quando torno dovrà essere tutto in ordine, tutto! Quindi lavorate!»
Gwen esclamò: 
«Cosa? Anch'io?! Ma che c'entro?!», ma Chirs McLean nemmeno le rispose e uscì nuovamente sbattendosi la porta alle spalle.
Duncan commentò: «Ma i vecchi non dovrebbero essere mezzi ciechi?»
Gwen ridacchiò sottovoce. «Evidentemente non è il suo caso.»
Così anche la gotica si vide costretta a impugnare uno straccio e presto la consapevolezza che ogni suo vantaggio verso il punk non sarebbe mai stato connotato da altro che dalla temporaneità la colpì come uno schiaffo.
Tuttavia, con l’accompagnamento delle battute di Duncan e i suoi scherzi improvvisi, anche il lavoro non si rivelò affatto male, alla fine.
 


Eeeeeeccoci di nuovo qui! E questa volta con un capitolo particolarmente estetico (si nota che l’estetica è una disciplina che personalmente AMO? Ahaha) grazie alla particolare e misteriosa veste di Chris McLean, che finalmente emerge con la sua contorta personalità, irritata da chiunque, vagamente sadica, MA con un nascosto angolino di dolcezza, dedicato solo alla cara moglie Blaineley Mildred ^^ chissà cos’avrà da rivelarci?!
Ammetto che per l’arredamento decisamente caratteristico delle pareti di Chris sono stata ispirata dal film “La migliore offerta”, che oltretutto consiglio a tutti di vedere :) (soprattutto se, come me, amate i film drammatici, riflessivi, profondi, e legati all'arte)
So che il capitolo non contiene avvenimenti trascendentali, ma quella di tenerlo abbastanza lineare è stata una scelta stilistica che ho fatto proprio nel tentativo di bilanciare la trama, dato che nei capitoli precedenti c’è sempre quel “gradino” di dramma aggiuntivo... e chissà nei prossimi! Quindi mare calmo per questa volta xD … tranne che per alcuni piiiccoli dettagli che avrete sicuramente notato, eheh…
Per il resto vediamo un’altra sfumatura del legame Duncan-Gwen e anche di quello Trent-Heather! Qual è il personaggio che vi sta affascinando di più per il momento? E quale filone di trama, tra i vari inciuci/drammi/amori/debolezze (altro che altainfedeltà xD qui diventa beautiful)? Fatemelo sapere, insieme alle vostre impressioni sul capitolo! Come sottolineo ogni volta, leggo sempre le recensioni come segno di fondamentale supporto, e apprezzo infinitamente tanto il tempo che mi dedicate! Inoltre non mi stancherò mai di ringraziare i lettori attivi: è solo grazie a voi che la mia motivazione di continuare la storia non si è ancora arresa :) Spero di continuare regolarmente le pubblicazioni nonostante gli impegni che promettono un drastico crescendo ^^"

A presto!
Alyeska707


*ovviamente con dramma totale volevo alludere alla traduzione letterale di Total Drama xD i riferimenti non saranno mai abbastanza!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3950194