Hideaway

di AnnabethJackson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vita ***
Capitolo 2: *** Metropolitana ***
Capitolo 3: *** Falli-ng ***
Capitolo 4: *** Silenzio ***
Capitolo 5: *** Ciao ***
Capitolo 6: *** Déjà vu ***



Capitolo 1
*** Vita ***




1.VITA

 


6 ANNI PRIMA


 

La vita è un’enorme tela: rovescia su di essa tutti i colori che puoi. – Il candidato si lasci ispirare e presenti un lavoro che rappresenti la vita.
Facile.
Quel compito era troppo facile.
Nulla a confronto con i temi preposti nei mesi precedenti che lo avevano messo a dura prova.
Se avesse fermato una qualsiasi persona per strada e gli avesse chiesto cosa volesse dire “vita”, chiunque gli avrebbe potuto fare un elenco praticamente infinito.
Persone, animali, piante, fiori… e solo per citare alcune grandi categorie senza entrare nei dettagli.
Cacciando il naso fuori dalla finestra si potevano trovare centinaia, se non migliaia forme di vita.
Chi voleva prendere in giro, gli bastava alzare gli occhi da quel pezzo di carta e puntarli sulla figura stravaccata davanti al suo letto per trovarne un degno esemplare. Anche se al momento quell’esemplare stava in uno stato catatonico, a giudicare dallo sguardo perso nel vuoto da più di cinque minuti.
«Sei ancora vivo o devo farmi carico di una nefasta notizia da portare ai nostri genitori?»
L’unica risposta che ricevette fu uno spostamento quasi impercettibile del sopracciglio destro e un mezzo suono strozzato che, con un po’ di immaginazione, poteva passare per un assenso.
Eloquente come solo suo fratello poteva essere.
«Che c’è, ti ha mangiato la lingua il gatto? Oppure te l’ha rubata la tua ultima fiamma?» infierì Tae con un sorrisino per prenderlo in giro.
Yoongi non era mai stato una persona loquace, ma Taehyung lo era abbastanza per compensare entrambi e non perdeva occasione di stuzzicarlo. Sebbene avesse usato quella battuta un numero di volte da rasentare il ridicolo, non si stancava mai di lanciargli frecciatine: se non fosse stato così sicuro di quanto lontani gli interessi del fratello fossero dalla sua insinuazione, la cosa non lo avrebbe mai divertito così tanto.
Si divertiva con poco.
«Cambia registro, sei noioso,» rispose Yoongi, sempre con lo sguardo fisso nel vuoto.
«Io sono simpaticissimo, lo sai tu e lo sanno anche mamma e papà. Per questo sono il loro preferito» aggiunse poi Tae, esibendosi in un sorriso sornione.
Yoongi si degnò finalmente di lanciargli uno sguardo annoiato di sottecchi.
«Che c’è su quel biglietto?» domandò dopo qualche attimo, ignorando l’ultima affermazione, mentre estraeva il cellulare dalla tasca dei suoi calzoni e cominciava a digitare con tutta calma sullo schermo.
Tae riportò gli occhi sul foglietto, buttandolo poi sul suo comodino sgombro.
«È il progetto finale del corso di fotografia, e dovresti saperlo visto che la mamma ha iscritto anche te,» rispose. «Ma il fatto che tu ne sia all’oscuro non è poi questa gran sorpresa. Rinfrescami la memoria: quale è stata l’ultima scusa che le hai rifilato per balzare la lezione?»
Quella domanda era assolutamente superflua in quanto Tae conosceva perfettamente la risposta essendo stato presente a tutte le scenette minuziosamente studiate e interpretate dal fratello per disertare.
La madre non era una cattiva persona, né una stolta, ma aveva i suoi difetti – numerosi, avrebbero aggiunto a bassa voce i suoi figli. Uno fra tutti era la sua assoluta, per non dire cieca, pretesa che i suoi figli dovessero eccellere in ogni diletto.
Ciò le dava la sacrosanta possibilità di vantarsi con le sue amiche all’esclusivo circolo del ricamo ogni sabato. E, non per ultimo, andava ad aggiungersi alla lunga serie di requisiti che due giovanotti di buona famiglia doveva possedere.
La signora Kim, infatti, era figlia di un vecchio esponente politico e, come tale, era stata cresciuta in un ambiente di tutto rispetto. Circondata da signorotti, rispettive mogli e pargoli, non aveva potuto che fagocitare certe usanze e renderle parte integrante della sua persona.
Aveva inoltre sposato uno dei sopracitati pargoli, il signor Kim per l’appunto, figlio di un altrettanto importante magnante dell’industria tessile. Malgrado ai loro tempi ci fosse ancora l’uso dei matrimoni combinati – o, per meglio dire, incontri caldamente consigliati dalle rispettive famiglie – la loro storia era nata da un sentimento molto simile all’amore che, negli anni, era sbocciato e s’era consolidato alla nascita dei due gemelli.
Gemelli che, non una sola volta, si erano domandati come il carattere battagliero della madre avesse potuto trovare una corrispondenza con quello più bonario del padre. Una risposta a quella domanda ancora non l’avevano trovata.
L’educazione dei figli era stata la mansione principale della signora Kim – se si escludeva il circolo del ricamo di cui era “presidentessa” – anche dopo che i due pargoletti erano stati spediti in una delle migliori scuole internazionali della capitale.
Oltre alle usuali materie tenute da professori pagati fior di quattrini, negli anni la signora Kim si era assicurata che i suoi figlioletti apprendessero quelle arti da lei considerate essenziali per il rango a cui apparteneva la famiglia.
All’inizio sia Taehyung che Yoongi si erano prodigati in capricci e pianti disperati, ma ben presto avevano imparato che la signora madre non veniva minimamente mossa da sentimenti simili alla pietà quanto si impuntava ostinatamente su qualcosa. Per cui avevano imparato a soddisfarla e allo stesso tempo a studiare modi alternativi per evitare una lezione qui e una là.
Con il passare degli anni, però, i due fratelli avevano imparato presto che una madre felice equivaleva a una vita più facile, e si erano rassegnati entrambi all’impegno, seppur minimo.
Era stato così che Yoongi aveva appreso l’arte del pianoforte e dell’ippica, e Tae quella del violino e della scherma.
Non proprio le tipiche attività che frequentavano la maggior parte dei loro coetanei, insomma.
L’ultima trovata della signora Kim, però, aveva lasciato molto perplessi i due fratelli, che, ormai sulla soglia della maggiore età, si consideravano da tempo in salvo da certe malsane idee.
Era nato così quel corso di fotografia, accolto con diffidenza iniziale da entrambi e finale solo di Yoongi, i cui interessi non potevano che essere più distanti.
Tra la decima e la tredicesima lezione, Taehyoung invece aveva cominciato ad apprezzare sul serio quell’attività così diversa da quelle su cui si era orientata sua madre fino a quel momento.
L’idea, alla signora Kim, era nata durante uno degli incontri del ricamo.
Tale signora Min, moglie di un rispettabile primario di chirurgia e membro del circolo, aveva mostrato alle amiche il suo ultimo quadro in formato gigante che aveva appeso nella camera padronale, scatto a detta della signora «sensazionale» rubato da suo figlio.
C’era voluto poco perché il tarlo cominciasse a mettere radici nella testa della signora Kim, facendosi di giorno in giorno più saldo.
In men che non si dica Tae e Yoongi si erano trovati davanti a una macchina fotografica di ultima generazione e a una giovane donna, che al suo attivo poteva vantare un certo premio Eugene Smith, qualunque cosa volesse dire.
Le prime lezioni si erano trascinate tra basi di fotografia, informazioni tecniche e infiniti altri dettagli che Yoongi, quando non trovava scuse plausibili per disertare, ascoltava con scarsissimo interesse e che Tae invece assimilava senza troppi sforzi senza neanche rendersene conto.
Non avrebbe saputo dire esattamente quando, ma a un certo punto si era trovato in mano quella macchina fotografica troppo spesso per poter continuare a negare di non provare un sincero interesse.
E così aveva partecipato alle lezioni rimanenti con rinnovata curiosità, scoprendo di esservi discretamente portato, a detta della sua insegnante.
Yoongi, dal canto suo, aveva ribadito più volte l’impossibilità di comprendere il nuovo diletto del fratello, salvo poi rallegrarsi al pensiero che almeno così la madre sarebbe stata abbastanza soddisfatta da accogliere con maggior magnanimità le sue sceneggiate da attore melodrammatico.
«Cosa bisogna fotografare questa volta? Fiorellini? Cagnolini? Fontane?» domandò Yoongi con un sorrisetto di scherno.
«Peggio,» borbottò Tae lasciandosi cadere a peso morto sul cuscino e incrociando le braccia dietro la testa. «La vita.»
Sì, quel corso lo aggradava, ma ciò non gli impediva di ritenere la maggior parte dei compiti assegnati stupidi e banali.
Anche dalla sua posizione riusciva a vedere le spalle del fratello scosse da risatine discretamente controllate, più per vecchie abitudini di etichetta – altra fissazione di loro madre – che per rispetto dei suoi riguardi.
«Questa è davvero troppo facile. Potrei farcela anche io.»
«Ne sei sicuro? Ho notato alcune difficoltà nel montare un banale cavalletto l’ultima volta che ci hai degnato della tua presenza» lo prese in giro Tae con un sorriso sornione.
«Partendo dal presupposto che nulla può mettere in difficoltà il sottoscritto, persino io posso presentare un lavoro sublime questa volta. Ringrazio il cielo che questa perdita di tempo sia quasi conclusa. Cominciavo ad essere a corto di scuse da rifilare a mamma.» Yoongi si alzò dalla poltrona che occupava e si diresse con tutta calma verso la porta, per tornarsene nella sua camera dopo aver alzato una mano in segno di saluto.
Rimasto solo, Taehyung pensò che suo fratello avesse ragione. Eppure erano giorni che si trastullava su cosa volesse dire vita per l’insegnante, ma soprattutto per se stesso. Una parte di lui era convinta che quel compito non fosse banale come appariva.
Non era mai stato tipo da porsi problemi filosofici sull’esistenza e sui massimi sistemi. Cercava di ricavare il massimo da ciò che gli si presentava d’innanzi, forse con metodi non proprio ortodossi a volte, ma nel suo piccolo era soddisfatto.
Che senso aveva farsi domande a cui comunque nessuno poteva dare una risposta concreta?
A scuola aveva sempre odiato la filosofia, complice il fatto che la professoressa fosse una vecchia rincitrullita di età paragonabile a quella di Aristotele stesso e che le sue lezioni fossero decisamente più efficaci di un sonnifero.
Frustrato da quel senso di non so che, quella specie di prurito inedito che agitava le sue membra, si diede una spinta per alzarsi dal letto. Afferrò la macchina fotografica dalla scrivania, indossò le scarpe e poi uscì.
Aveva bisogno di camminare.

 

[...]

 
Non erano molte le occasioni che aveva per usare i mezzi pubblici.
Complice il fatto che era stato abituato ad altre comodità – leggasi auto di ultima generazione – e che per qualsiasi necessità aveva sempre potuto contare sui tassisti – malgrado il traffico di Seoul fosse imbarazzante come quello di qualsiasi altra città metropolitana, la curiosità di Teo era sempre stata stuzzicata dallo scenario caotico e allo stesso tempo ordinato della metro.
Non lo avrebbe mai confessato a sua madre, ma provava un intimo divertimento nel salire su quel mezzo e nel contemplare il via vai che si creava a qualsiasi ora della giornata in quel mondo sotterraneo.
Non che fosse solito vagare alla pari di un mendicante, ma erano capitate volte in cui era sceso dalla metro a random per la pura curiosità di vedere quali fossero le differenze tra una fermata e l’altra. Perché ognuna era come un mondo a sé.
La seconda cosa che lo aveva sempre affascinato era la strana danza con cui migliaia di corpi estranei si mischiavano ogni istante di ogni giorno, creando figure e assembramenti in cui ognuno ricopriva un ruolo importante e insostituibile.
Per quanto l’estraneità fosse il tema cardine, le persone reagivano inconsapevolmente a ciò che le circondava, subendone le conseguenze. Corpi che si avvicinavano, si respingevano, sguardi sfuggevoli, suoni e odori che si mischiavano creando un’atmosfera ai suoi occhi suggestiva.
Tutto quel caos, per assurdo, aveva il potere di schiarirgli la mente.
E quello era ciò di cui aveva bisogno di quel momento, trovare un disegno nella massa ingarbugliata di pensieri e sensazioni che lo governavano da molto più tempo di quanto ne fosse consapevole.
Il progetto di fotografia era solo la punta dell’iceberg.
Erano mesi che non si sentiva più padrone di sé stesso, ma nemmeno lui avrebbe saputo indicare con precisione un momento o una causa scatenante di quel turbamento.
Quando ci pensava, nella sua mente veniva evocata l’immagine nitida di una persona con lo sguardo duro e il mento alzato, fiero.
Yong-ho.
Erano settimane che non lo vedeva. Erano mesi che non si parlavano.
La loro storia era durata troppo per essere nata solo come un passatempo all’insegna dell’appagamento reciproco. C’erano volute numerose domande e allusioni poco velate da parte dei loro compagni perché decidessero svogliatamente di dare un nome a quella frequentazione.
Non c’era stato momento in cui la consapevolezza che quella storia sarebbe finita non fosse stata ben presente in entrambi.
L’unica incognita era stata il quando o il come la fine sarebbe arrivata.
Erano stati la prima volta uno per l’altro, quasi come uno scambio di favore. Parole dolci, tra loro, venivano dette molto poco, sia perché Yong-ho non era tipo da smancerie, sia perché una base su cui far crescere un sentimento era sempre mancata.
L’unica cosa di cui avessero realmente parlato, e su cui si era trovati subito d’accordo, era stata l’assenza di aspettativa, seppur, per propria natura, Tae si considerasse una persona monogama.
Eppure, quando alla fine e per una strana coincidenza, si era trovato davanti a quel letto con le lenzuola malamente spiegazzate alla base e due corpi intrecciati in una posizione che avrebbe fatto crepare all’istante la sua insegnante di Galateo e Buone Maniere, Taehyung aveva dovuto ammettere di essersi ingenuamente sbagliato su una cosa – e non era qualcosa che capitasse spesso.
Tae era sì una persona di natura monogama, ma allo stesso modo voleva avere anche l’esclusiva sul compagno.
Le prove di quella gelosia – anche se non avrebbe ammesso ad anima viva di provare tale sentimento, le aveva sempre avute sotto il naso: persino da bambino odiava condividere giochi e giocattoli, perché sarebbe dovuto cambiare crescendo, considerando inoltre che la posta in gioco si faceva decisamente più seria?
Diamine, se avesse avuto una volontà e una consapevolezza di sé stesso al tempo, probabilmente sarebbe stato geloso di condividere il grembo materno persino con il suo stesso gemello.
Così era finita.
Una fine banale e volgare, pensandoci a posteriori.
Non che avesse fatto scenate o ingaggiato un’inutile quanto prevedibile rissa da osteria. A parte non essere da lui, abbassarsi a tanto avrebbe significato dare soddisfazione a Yong-ho, perché, guardandolo in viso, Tae aveva compreso che quella era stata una vendetta. Per cosa, non gli era ancora chiaro.
Dicevano molto delle donne: subdole come serpenti, cattive come megere. Ma in realtà quegli aggettivi potevano adattarsi a qualsiasi speciazione umana, come aveva potuto constatare personalmente.
Il disprezzo, dopo il fatto, era stato reciproco, ma non tale da giustificare in Taehyung quel turbamento che persisteva in lui da mesi ormai: la loro rottura risaliva ormai a più di un anno prima.
Per quanto si convincesse che Yong-ho non avesse mai significato niente per lui, sapeva che in minima parte quella vicenda lo aveva segnato, ma non aveva mai dato dimostrazione o prova del contrario. Sapeva comunque di non dover niente a nessuno, semmai erano le altre persone a dover qualcosa a lui.
«Mi scusi, giovanotto.»
Quel turbinio di pensieri fu interrotto, ridestandolo all’improvviso.
Sbattendo le palpebre un paio di volte e guardandosi attorno, si rese conto di essere ancora sulla metro.
Un leggero tocco sul braccio destro attirò la sua attenzione.
Seduto accanto a lui c’era un uomo di almeno ottant’anni, a giudicare dal volto segnato largamente dalle rughe e dai radi capelli bianchi che spuntavano da sotto un tradizionale kat – non che fosse molto comune trovare qualcuno con un cappello simile in città.
Il signore stava cercando di attirare la sua attenzione, guardandolo con aspettativa, ed era chiaro che gli avesse posto una domanda.
«Mi scusi, potrebbe ripetere?»
«Sarebbe così gentile da lasciarmi passare, giovanotto? Devo scendere alla prossima fermata,» disse l’uomo alzando un capo del bastone appoggiato accanto a sé e riservandogli un sorriso gentile.
Taehyung si alzò subito in piedi per esaudire quella richiesta mentre l’anziano signore si dava una spinta con il bastone per riuscire ad alzarsi.
Un movimento brusco del vagone diede uno strattone generale a tutte le persone che lo abitavano e chi era in piedi e non già ancorato a qualche sostegno, si affrettò ad aggrapparsi al primo punto fermo nei paraggi.
Ciò non accadde però all’uomo davanti a Tae che, con riflessi chiaramente rallentati dall’età, venne sbilanciato inesorabilmente contro di lui.
Probabilmente grazie ai numerosi allenamenti di scherma che gli avevano permesso di sviluppare reazioni repentine a movimenti improvvisi e inaspettati, il ragazzo riuscì a sostenere quel corpo che di fragile e leggero aveva solo l’apparenza, e allo stesso tempo a non rovinare lui stesso a terra.
«Oh, mi dispiace molto! Si sente bene, giovanotto?»
L’unica cosa che sentiva, al momento, era di essere un po’ seccato.
Nel blando tentativo di reggersi a qualcosa, il signore si era aggrappato alla tracolla della macchina fotografica che penzolava dal suo collo, strattonandolo e facendola picchiare contro il sedile. Il problema non era il leggero dolore alla base della nuca, ma la possibilità, seppur remota, che la sua macchina fotografica avesse subito dei danni.
«Non si preoccupi,» rispose però, stirando rigidamente le labbra in un qualcosa molto lontano da un sorriso rassicurante.
L’unica cosa che voleva fare al momento era liberarsi di quell’uomo, per cui mosse qualche passo in direzione del centro della carrozza per allontanarsi, quando venne nuovamente bloccato.
«Ah, scende anche lei?» domandò il vecchio, interpretando il suo movimento come l’intenzione di raggiungere le porte d’uscita. «Le dispiacerebbe aiutarmi ancora, giovanotto?»
Qualcuno su là lo stava punendo, altro che seccatura. Era in genere una persona gentile ed educata, ma quelle – rare – volte in cui era di cattivo umore bastava un nonnulla per indisporlo.
Teo non sapeva nemmeno a che fermata fossero arrivati. Non ebbe il tempo di sincerarsene perché proprio in quell’istante il treno fermò la sua corsa e la voce metallica dell’altoparlante venne coperta dal brusio delle persone attorno a lui.
Maledisse sé stesso per quell’idea malsana che aveva avuto uscendo di casa.
Trattenendo sulla lingua una risposta poco cordiale, porse un avambraccio al vecchio e lo guidò verso l’uscita.
Se fosse caduto un’altra volta, Tae non avrebbe potuto assicurare di non abbandonato definitivamente.
Ma nulla di tutto ciò accadde e il ragazzo si ritrovò sulla banchina affollata della metro, la figura del vecchio che si allontanava lentamente dopo averlo ringraziato un paio di volte ed essersi inchinato molte di più.
Guardandosi attorno, apprese di trovarsi alla fermata di Seoul Station. Quello trovava senso in tutto quel via vai di cui era circondato.
In realtà non aveva una meta precisa: quando era sceso in metropolitana, alla fermata più vicina a casa sua, si era diretto verso la linea che portava in centro, seppur non intenzionalmente.
Metà del divertimento di quelle gite vaganti in metropolitana stava proprio nello scegliere una direzione a caso e scendere solo quando ne aveva voglia, incurante di dove fosse arrivato o quanto si fosse allontanato da casa.
Ma, seppur l’assenza di vere e proprie regole, a Seoul Station non era mai arrivato e in quel momento si chiese se fosse un caso o se l’avesse sempre evitata inconsapevolmente.
Seoul Station era costantemente assiepata di viaggiatori e pendolari, turisti e studenti diretti chissà dove.
Taehyung non amava troppo le folle, e quella probabilmente era la ragione per cui non aveva mai messo piedi lì prima.
Eppure, guardandosi attorno, il turbamento dentro di lui si quietò un poco. Forse era proprio quello che stava cercando in maniera errante: un assembramento disorganizzato di caos che facesse concorrenza a quello che c’era nella sua testa.
Se Yong-ho non poteva essere etichettato come il suo reale problema, di certo le scelte che doveva compiere di lì a qualche mese lo erano ed erano tutte strettamente legate a ciò che i suoi genitori si aspettavano da lui.
Non c’era stato momento della sua vita in cui Tae non fosse stato consapevole di avere un futuro già imbastito. Agli occhi di suo padre – e quindi anche di sua madre, non erano contemplate deviazioni.
Certo, vivevano in un secolo in cui il tramandare di padre in figlio mestiere, eredità e titolo era passato di moda già da qualche tempo, ma in quella piccola e ristretta cerchia di società esclusiva di cui facevano orgogliosamente parte vigevano ancora tradizioni non scritte a cui nessuno osava o si sognava trasgredire.
Il signor Kim poteva anche avere un animo buono – se messo a confronto della moglie – ma era pur sempre a capo di un’importante azienda tessile e, come tale, si aspettava di tramandare il tesoro di famiglia ai figli.
Esistevano tradizioni e regole non scritte impossibili da ignorare.
La famiglia Kim poteva vantare una lunga sfilza di importanti imprenditori e l’azienda tessile del nonno era solo l’ultimo dei tanti. I capitali e le azioni in loro possesso, tramandati e arricchiti di generazione in generazione, si erano mantenuti tali malgrado le varie crisi – sociali, economiche e politiche, che la società si era trovata a contrastare nel corso di secoli.
Il mestiere si era sempre succeduto di padre in figlio, rigorosamente primogenito maschio.
Era stata una vera sorpresa, quanto un mero problema, quel freddo giorno di dicembre, poco prima del terminare del vecchio anno, in cui erano venuti al mondo i due gemellini nella città natale di famiglia Daegu, dove la famiglia andava per festeggiare le feste.
Infatti, per un errore del loro non più fidato ginecologo, i signori Kim si erano trovati tra le mani due tutine, una azzurra e una rosa, e due maschietti nati a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro.
Un lasso di tempo insignificante per molti, ma non per i due gemelli.
Per Taehyung quei minuti erano l’origine di molti problemi, per Yoongi la giustificazione del nome con cui suo fratello lo prendeva per i preziosi fondelli quando era in vena di irritarlo – “fratellino”.
Indicare chi fosse il primogenito era come esprimere una preferenza su due neonati all’apparenza quasi identici. Troppo piccoli per decidere chi avesse migliori qualità da mettere al servizio della famiglia.
Come se quella sorpresa non fosse bastata, il pensiero che il bambino prescelto dovesse anche farsi carico di enormi responsabilità e conseguenti problemi si era aggiunto alle preoccupazioni del signor Kim nei suoi primi giorni da neo papà.
Così, alla fine, aveva fatto appello solo su una realtà inconfutabile: la scelta aveva trovato base in una mera tempistica, i sopracitati minuti che avevano separato la venuta al mondo dei due gemelli.
Ovviamente entrambi i pargoletti avevano ricevuto una eguale educazione – escludendo le strampalate, quando condivisibili idee della signora Kim.
Niente scuola materna, ma una tata-barra-educatrice-barra-governante – a cui Tae e Yoongi avevano fatto vedere di cotte e di crude – finché avevano raggiunto la minima età per essere ammessi all’esclusiva scuola internazionale della capitale.
L’anno seguente, però, Tae e Yoongi avrebbero terminato le superiori.
I piani del padre per Taehyung prevedevano una brillante laurea in una delle migliori università del Paese, in cui lui potesse apprendere le basi del mestiere di famiglia.
L’ipotesi che Teo avesse voluto fare altro della propria vita non aveva mai sfiorato la mente dei coniugi Kim, un po’ perché lo davano per scontato, un po’ perché Taehyung stesso non aveva mai realmente pensato a un’alternativa.
A Tae, in realtà, quella vita non dispiaceva poi molto. Abituato a certi agi, educato a pensare in certo modo, influenzato nell’avere determinate opinioni e pensieri, i taciti piani di cui era soggetto non lo disturbavano molto. Non c’era mai stato lo spazio per pensare di cambiare qualcosa, di diventare qualcuno di estraneo al suo mondo.
A turbarlo, nel presente, era solo una stupidissima e genuina curiosità che fin da piccolo aveva cercato di celare alla sua famiglia, certo che quest’ultima l’avrebbe catalogata solo come il rimasuglio di un capriccio infantile e un’idiozia adolescenziale.
Perché non esistevano scelte o dubbi.
C’erano solo fatti e obiettivi da raggiungere.
Questo era quello che gli avevano sempre insegnato.
Tancredi, quel bastardo fortunato, poteva vantare appena un’oncia dei suoi problemi in veste di secondogenito.
Certo, era auspicabile che seguisse il medesimo cammino, ma se avesse deciso, per esempio, di diventare uno scritto di opere moderne – ipotesi molto remota dalla realtà visto il suo odio profondo per lo studio in generale – nessuno avrebbe osato disdegnarlo.
Tanto c’era sempre Tae, no?
Il ragazzo scosse il capo quasi inconsapevolmente, dandosi dello stupido.
Doveva smettere di rimuginare e cercare – o meglio ancora riuscire – di soddisfare ciò che tutti si aspettavano da lui.
 
Si riscosse, prendendo coscienza del fatto che fosse rimasto in piedi fino a quel momento, immobile come uno scemo, nella stessa posizione per più tempo di quanto fosse socialmente normale. Talmente a lungo che la corsa seguente stava arrivando sferragliando proprio in quel momento alle sue spalle.
Dopo aver rallentato con uno stridio di freni fastidioso, le porte scorrevoli si aprirono, riversando sulla banchina l’ennesima ondata immane di persone.
Per evitare di essere travolto, si accostò alla panca di plastica posta ai piedi della parete alla sua sinistra. Il movimento riportò la sua attenzione sulla macchina fotografica pendente dal collo, che era rimbalzata un paio di volte sul suo petto, coperto da una larga maglietta beige.
Doveva seriamente concentrarsi sul compito del corso di fotografia, portarlo a termine e consegnarlo il prima possibile.
Attorno a lui, nel mentre, il turbinio di massa stava via via scemando, per cui si disse di aspettare qualche altro minuto prima di muoversi. Ma, mentre guardava quel via vai, pensò che potesse rappresentare appieno il tema assegnatogli.
Forse suo fratello avrebbe presentato un’idea più originale – visto che con il minimo sforzo riusciva anche nei compiti più difficili. Probabilmente non sarebbe stato il lavoro migliore presentato fino a quel momento. Sicuramente, però, avrebbe posto fine al pensiero su cui si trastullava da fin troppo tempo per i suoi standard.
Occupò l’attesa azionando e regolando la macchina fotografica come aveva appreso nei mesi precedenti. Fece qualche scatto di prova per verificare che luce e ombre giocassero una partita uniforme e, proprio mentre ispezionava con occhio critico l’ultima foto di prova, sentì l’inconfondibile rumore dell’ennesima metropolitana in avvicinamento.
Attese finché la fiumana di gente non si riversò all’esterno, poi portò il mirino davanti all’occhio destro e scattò.
Taehyung apparteneva alla filosofia del singolo: per lui era meglio uno scatto studiato, atteso e riuscito in un colpo solo piuttosto che un numero infinito di tentativi di cui la maggior parte dovevano poi essere scartati.
Inoltre, essendo una persona sicura di sé stessa, il dubbio che la foto non fosse venuta come voleva non lo sfiorò nemmeno per un istante.
Spinto però dalla curiosità, decise di dare un’occhiata allo scatto anche per scongiurare un secondo giro in quel mondo sotterraneo: il suo occhio non era stato abbastanza rapido da cogliere l’anteprima dell’immagine sullo schermo digitale della macchina fotografica.
Ai suoi occhi apparve un lavoro discreto: un numero ingente di persone popolava la foto, perlopiù raccolte in piccoli sottogruppi. Persone anonime, di razza, sesso ed età tra le più varie, si dirigevano verso le proprie destinazioni senza badare troppo al loro intorno. C’era chi guardava lo schermo del proprio cellulare, chi un punto fisso davanti a sé e chi il volto di un’altra persona, probabilmente conosciuta.
Ciò che attirava immediatamente lo sguardo dello spettatore, però, era il centro dell’immagine dove si era creato un vuoto fittizio, durato probabilmente il tempo di un battito di ciglia nella realtà, troppo veloce per essere colto da occhio umano, ma non dalla macchina fotografica.
E proprio lì, a segnare il baricentro della spartitura, stava lui.
Indossava una maglietta a maniche corte con un motivo maculato, bianco, nero e marrone, la cui estremità era stata infilata all’interno di un paio di jeans chiari. A sostenere quest’ultimi una cintura nera con piccole borchie e una catenina.
Malgrado la taglia più abbondante, le forme sotto il tessuto non erano completamente celate: la curva delle scapole, segnata anche da due lunghi ciondoli argentei, scompariva nello scollo per ricomparire poi in braccia delicatamente delineate, ma per questo non meno definite. Il resto però era lasciato all’immaginazione.
Sulle spalle portava un vecchio zaino logoro vintage, color caramello, chiaramente carico di oggetti, i cui stringhini penzolavano liberamente all’aria.
Quei dettagli, però, Tae li avrebbe notati e imparati a memoria solo nei mesi successivi.
Ciò che attirò la sua immediata attenzione fu il viso.
E gli occhi.
Anche se non occupava il primo piano, i dettagli di quel volto si riflettevano limpidi nelle iridi chiare di Taehyung.
Voltato verso la persona al suo fianco sinistro, la cui immagine era celata da un altro viaggiatore, il viso si delineava in una forma prevalentemente tondeggiante grazie agli zigomi alti, a mezzaluna e sollevati. La linea poi scendeva verso una bocca piena e incredibilmente rosea, in netto contrasto all’insieme delicato, ma allo stesso tempo perfetta. Le labbra erano stirate in un ampio sorriso, coinvolgente, calorosamente destinato chiaramente al suo interlocutore. Erano uno di quei sorrisi che chiunque avrebbe voluto esserne il destinatario, un regalo di cui essere grati e da custodire gelosamente.
Il naso, dritto e piccolo, donava un carattere armonioso all’insieme.
Erano però gli occhi a parlare.
Taehyung non avrebbe saputo esprimere a parole i suoi pensieri in quel momento, né in futuro avrebbe saputo dire con esattezza il motivo per cui rimase a fissare quella foto, quel viso e quegli occhi, per secoli.
Non era tanto il colore, impossibile da distinguere in quella luce soffusa della metropolitana, non era nemmeno il taglio, chiaramente a mandorla, né le palpebre rimarcate da un leggero trucco scuro, destinato a richiamare l’attenzione.
Era tutto l’insieme.
Si sentiva attirato come un serpente a sonagli al suono di un flauto, come un toro alla vista di un drappo rosso, come un assetato al miraggio d’acqua.
Erano soprattutto le sensazioni che istantaneamente scaldarono il suo corpo, in quel momento e tutte le volte che avrebbe cercato il suo volto nell’immagine nel futuro. Un volto che, per molti altri forse sarebbe caduto nel completo anonimato tra tanti, come tra la folla stessa della foto.
Taehyung aveva trovato cosa volesse dire per lui vita.
Non era niente di concreto, non era niente a cui riuscisse dare un senso compiuto, una descrizione o anche solo un pensiero coerente.
La vita erano gli occhi di quel ragazzo, era il modo in cui guardava la persona accanto a sé, erano le parole misteriose che stavano uscendo dalla sua bocca in quell’istante – e che Tae non poteva udire. Erano le vibrazioni che il suo corpo emanava, era l’assoluta spensieratezza e luminosità con cui appariva anche da lontano.
Era semplicemente lui.
Stupidamente alzò lo sguardo per cercarlo tra la folla.
Ovviamente non lo trovò.
La banchina era quasi vuota.
Lui se n’era andato, portandosi via qualunque cosa Tae avesse trovato.

 





Note del testo:

1 – “La vita è un’enorme tela: rovescia su di essa tutti i colori che puoi”: questa è una libera citazione, ovviamente non appartenente a me, ma a Danny Kaye.
2 – Il premio Eugene Smith è premio di fotogiornalismo assegnato annualmente dalla W. Eugene Smith Memorial Fund (grazie wikipedia).
3 – Il kat è un cappello tradizionale coreano fatti di capelli di crine di cavallo.
4 – Yong-ho è un personaggio originale di mia invenzione.
3 – Passando ai personaggi veri e propri devo fare alcune premesse: metto le mani avanti dicendo che potrei sfociare nell’OOC involontario. Nel caso, perdonatemi.
4 – Tae e Yoongi non sono fratelli. Lo so. Non sono nati lo stesso anno. Lo so. Non hanno nemmeno lo stesso cognome. Lo so. Necessità di trama. Potrebbe (sicuramente capiterà) anche in futuro per altri personaggi.
5 – Ultima premessa, più generale e che sicuramente si applicherà anche ai capitoli successivi: ho rappresentato la società coreana un po’ a modo mio, ne sono consapevole. Cercherò di attenermi il più possibile alla realtà dei fatti, ma nel caso doveste trovare errori vari imperdonabili non esitate a farmelo presente!

 

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Capitolo 2
*** Metropolitana ***




2.METROPOLITANA

 


6 ANNI DOPO


 

Jimin chiuse il libro con un gesto secco, lo sguardo puntato sull’orologio da parete con la facciona di Hello Kitty che segnava le quattro e mezza.
C’era un motivo per cui odiava quell’oggetto e nulla centrava con il brand.
Per quella che doveva essere la decima volta solo quel mese, si ripromise di buttarlo. Non ricordava nemmeno se fosse stato un vecchio regalo ricevuto per scherzo, e poi finito a essere davvero utile, o se, in una delle tante fasi che avevano caratterizzato la sua infanzia e adolescenza, un oggetto ardentemente desiderato.
Una parte di lui tendeva a puntare sulla seconda ipotesi visto che, nemmeno la settimana prima, aveva riesumato un discutibile crop-top della stessa tonalità di rosa, con la stessa facciona del gatto bianco – che era chiaramente sotto effetto di allucinogeni – dall’angolo più remoto del cassettone della biancheria, tra delle mutande fluo e dei vecchi calzini bucati.
Che ci facesse lì quella canotta, sarebbe rimasto per sempre un mistero, anche se qualche sospetto lo aveva.
Concentrato sul capire come funzionasse quel rebus del ciclo di Krebs – dubitava che agli esseri umani fosse dato saperlo – non si era accorto di essere in ritardo sulla sua tabella di marcia ben collaudata.
Lasciando tutta la sua amata cancelleria sparsa sul tavolo, si alzò dalla sedia per recuperare il paio di jeans chiari che aveva lasciato asciugare sul davanzale della finestra.
Nel farlo però qualcosa cadde dalle sue ginocchia e un movimento fulmineo catturò il suo sguardo verso il basso, dove un gatto gli stava soffiando contro, la mezza coda mozzata ritta verso il soffitto.
«Scusami Erri, giuro che non l’ho fatto apposta» si scusò, perfettamente consapevole di star spendendo parole vane.
L’animale non poteva di certo capirlo. Eppure quello lo guardò per un istante sospettoso prima di rivolgergli senza tante cerimonie il sedere e andare a rintanarsi nel suo posto preferito in assoluto dopo le gambe di Jimin: lo stesso davanzale sopra cui stava asciugando il suo paio di jeans preferito.
Sospirò, consapevole che ormai il danno era fatto.
Infatti, sottraendo con gentilezza l’indumento da sotto le zampe dell’animale e grattandogli affettuosamente lo spazio tra le orecchie – gesto che Erri ignorò ostinatamente – il ragazzo guardò sconsolato la mole di peli neri attaccati per effetto elettrostatico sul tessuto.
Li indossò con rassegnazione e, solo nel sentire la chiappa destra più fredda del resto del corpo, si accorse che quelli erano ancora in parte bagnati.
Non poteva incolpare nessun altro se non sé stesso.
L’arte della stesura dei panni l’aveva sempre annoiato a morte, così come quella del ferro da stiro e del bucato, giusto per completare la triade. Per quelle mansioni c’era sempre stata sua madre.
Il tempo per pensare di cambiarsi non c’era, come era sicuro che non ci fossero nemmeno altri pantaloni puliti nell’armadio. Aveva già detto che odiava fare il bucato?
Lanciò un’occhiata all’ambiente e l’ennesimo sospiro gli uscì dalle labbra.
La sua stanza era sì più caotica del caos stesso – e no, il buon proposito che si fissava ogni primo gennaio di diventare ordinato non era mai arrivato a durare oltre il Seollal – ma era sicuro che quel dannato cellulare si nascondesse di proposito alla sua vista proprio quando più gli serviva.
Buttò a repentaglio i fogli con i suoi appunti, sicuro che fosse sotto quella tonnellata di carta colorata, ma dopo aver sprecato un buon minuto per nulla, si arrese.
Tra il cellulare perduto e un sempre più concreto ritardo, decise che il minore dei mali era il primo.
Per cui recuperò il suo immancabile zainetto vintage dall’angolo vicino al letto e uscì dalla stanza come una furia, percorrendo il piccolo corridoio angusto diretto alla porta.
Passò accanto alla cucina, posta sulla destra e solo quando ebbe superato lo stipite, la scena colta con la coda dell’occhio raggiunse il suo cervello.
Si bloccò.
Tornò indietro.
«Nonna, che stai facendo?»
Si considerava tutto sommato un ragazzo vissuto, parlando con modestia oggettiva. Aveva un background non insignificante, talmente tante storie da raccontare a ipotetici nipotini, o a chiunque fosse disposto in un lontano futuro ad ascoltarlo, da avere l’imbarazzo della scelta. Per cui era sinceramente convinto che poche cose a quel mondo potevano ancora lasciarlo a bocca aperta.
Trovare sua nonna a testa in giù con le sottili gambe coperte da lunghi pantacollant color viola acceso puntate verso il soffitto in perfetto equilibrio, beh, rientrava tra quelle.
«Nonna?»
«Hai bisogno di qualcosa, koibito? Sono nel mezzo della mia ora di meditazione, te l’ho detto ieri.»
Il volto di sua nonna, girato di centottanta gradi, non era rosso come sarebbe successo a un qualsiasi altro essere umano a testa in giù per un lungo tempo. L’espressione assolutamente rilassata e concentrata non subì mutazioni, né diede segno di volergli concedere un colloquio tornando in posizione eretta.
«Devo essermi perso questa informazione,» mormorò il ragazzo tra sé e sé, grattandosi la guancia.
Nonna Mae sotto quell’aspetto assomigliava a lui: scandiva la propria vita con il susseguirsi di periodi – ma sarebbe stato meglio chiamarle fisse – di durata indeterminabile con precisione.
L’ultimo, di questi periodi, durato la bellezza di quattro lunghi mesi, aveva visto la loro modesta casetta di città diventare l’equivalente di una foresta amazzonica in piena regola.
Nonna Mae aveva letto da qualche parte che circondarsi di quel genere di piante giovasse in qualche modo al benessere della pelle, una specie di rimedio naturale antirughe e antiage alternativo.
Purtroppo per lei, e per fortuna del nipote che non aveva potuto frequentare il salotto a causa del sovraffollamento fitologico, invece di trarne un giovamento aveva solo portato alla scoperta di essere completamente negata per la botanica.
Jimin ancora si chiedeva come quelle piante avessero potuto sopravvivere per quattro mesi prima di tirare le cuoia.
Finito il periodo foresta amazzonica – come lo aveva soprannominato il ragazzo – vi erano state un paio di settimane di stallo, in cui nonna Mae non aveva fatto altro che girare per casa senza meta.
Ora sembrava che un nuovo periodo – a giudicare dall’abbigliamento, dal tappetino floreale e dalla candela sul tavolo che emanava un terribile odore di rosa – fosse giunto, alla fine.
Jimin aveva accettato da tempo la singolarità di sua nonna.
Stava per chiedere delucidazioni, perfettamente consapevole di starsi per inoltrare in un terreno pericoloso, quando il suo sguardo cadde sul display del forno, di fronte ai suoi occhi, che gli fornì l’entità esatta di un ritardo che stava peggiorando sempre più.
Le spiegazioni avrebbero dovuto attendere.
«Nonna, io scappo a lavoro. Ti ho lasciato del maiale bollito da scaldare per cena nel frigorifero.»
Senza attendere oltre fece per tornare sui suoi passi verso l’uscita, ma venne bloccato per l’ennesima volta.
«Koibito, penso tu abbia dimenticato il cellulare sul tavolo,» lo richiamò nonna Mae con voce perfettamente udibile. Alla frase seguì poi un suono di gola che somigliava terribilmente a un ohm.
Il nipote spostò a intermittenza lo sguardo dalla figura stoica di nonna Mae al proprio cellulare, sul tavolo della sala, impossibile da notare dalla cucina.
«Come facevi a sapere…?»
Non finì la domanda, consapevole che fosse tutto inutile.
Nonna Mae ne sapeva una più del diavolo.
Recuperò il cellulare e finalmente uscì di casa, con la testa già proiettata sulla corsa che avrebbe dovuto fare per arrivare nel minore tempo possibile alla fermata della metropolitana.
«Ah, e Jimin-ya? Io non mangio carne animale, dovresti saperlo.»
Il nipote si bloccò sulla porta, giusto il tempo di scuotere la testa sconsolato. Era abbastanza certo che solo la sera prima il menù di sua nonna avesse previsto del Bibimbap.

 

[...]

 
Il rumore sferragliante della metropolitana avrebbe potuto dare fastidio ai suoi timpani se non lo avesse associato alla colonna sonora di tanti momenti importanti, sia felici che tristi, della sua vita.
Quello stridio aveva accompagnato ogni suo viaggio da casa a scuola, e ritorno, ogni tragitto verso i vari Gu di Seoul, ogni punto di ritrovo con amici, ogni momento in cui sulla banchina aveva ripassato a mente le sue coreografie.
Ricordava ancora con estrema precisione tutte le domeniche in cui i suoi genitori lo svegliavano di buon’ora, la mamma preparava un cestino ricco del prelibato cibo preparato con amore, e poi lo trascinavano in giro per Seoul, divertendosi a fargli scoprire ogni angolo di ogni Dong, ogni segreto che quella città aveva da offrire a chiunque fosse stato abbastanza curioso da di scoprirle.
Seoul era stata lo sfondo della storia d’amore dei suoi genitori, come erano soliti raccontargli. Dipingevano la città come una costante, quasi un terzo incomodo – sempre che esistesse un’annotazione positiva di tale parola.
E per quanto Jimin, i primi tempi, si lamentasse di voler restare a dormire almeno la domenica, pian piano era stato rapito da quell’atmosfera che, attraverso i racconti dei suoi genitori, gli facevano vivere quasi una sorta di favola, un racconto della buonanotte che aveva potuto toccare con mano centinaia di volte, molto meglio delle favole popolari.
La metropolitana era sempre stata una costante nel collegare tutte quelle ambientazioni suggestive.
Per Jimin, però, aveva anche un altro significato: era il posto dove negli anni aveva fatto gli incontri più bizzarri, dove aveva appreso consigli e ascoltato avventure attraverso le parole di completi sconosciuti; dove aveva colto ciò che più di bello c’era a quel mondo, dove aveva preso piccoli pezzetti di vita da ciascuno di quegli sconosciuti per costruire un puzzle unico e bizzarro che potesse essere usato come linea guida per affrontare i problemi della vita.
A Jimin era sempre piaciuto ascoltare le persone, assorbire e imparare da esse.
Il tradizionale proverbio “Chiedi la strada anche se la sai”, per quanto banale, era la sua filosofia di vita. Era seriamente convinto che anche l’individuo più sporco, brutto, cattivo e arcigno vivente a quel mondo avesse a suo modo qualcosa da offrire al prossimo.
Il suo sguardo andò a posarsi su una figura dalla schiena ricurva che avanzava arrancando verso di lui.
L’uomo di età indefinita, ma inevitabilmente condizionata dalla lunga barba bianca incolta e dalle righe d’espressione che gli solcavano il volto tutt’altro che lindo, procedeva sostenendosi a un vecchio bastone, gli occhi scuri e piccoli per metà celati da palpebre pesanti e un bicchiere di carta nella mano libera.
Protendeva l’arto in modo poco convinto in direzione degli altri passeggeri, senza dire una parola. Non era molto comune trovare vagabondi sulla metropolitana, ma in orari diversi da quelli di punta, soprattutto in periferia, poteva capitare.
Vedendo l’ennesima persona voltare la faccia in direzione opposta, il cuore di Jimin si strinse in una morsa.
Era più forte di lui: davanti alla diffidenza, aveva sempre reagito con sfrenata confidenza, forse anche con chi in fin dei conti non lo meritava.
Eppure, quando l’uomo gli giunse vicino, si limitò a lasciar cadere i pochi won che aveva con sé nel bicchiere, accompagnando il gesto con un sorriso gentile. Il signore lo ringraziò abbassando il capo, ma subito dopo proseguì per la sua strada e Jimin si ritrovò a fissare il vuoto.
Solo qualche anno prima non si sarebbe mai comportato in quel modo, non avrebbe sprecato quell’occasione per chiacchierare.
Ma quel blocco che si sentiva dentro era più forte dell’istinto, e ormai aveva un ascendente determinante su tutta la sua vita.
Per distrarsi da quei pensieri, che già occupavano buona parte delle sue giornate senza mai lasciarlo davvero, sollevò l’aletta di pelle scura del suo zaino e tirò gli stringhini per allargarne l’apertura.
Dal fondo recuperò il libro che stava leggendo ormai da settimane, uno dei tanti acquisti fatti tra le bancarelle del mercatino dell’usato che frequentava abitualmente vicino a casa la domenica mattina.
La copertina, di un neutro color beige su cui spiccava il titolo, aveva i bordi leggermente più scuri e le pagine, di carta spessa e ondulata come se in passato avessero visto la pioggia e poi i raggi del sole, risultava molto ruvida al tatto.
Jimin aveva amato dal primo istante quella consistenza sotto i polpastrelli, così come il profumo indescrivibile che poteva percepire tuffando il naso tra le pagine.
Lo aveva comprato incuriosito anche dalla breve sinossi stampata in prima pagina, ma per qualche motivo ora la lettura gli appariva pesante e lenta. Non per questo era determinato a giungere alla fine della storia.
Odiava lasciare le cose incompiute.
Dando uno sguardo all’esterno del vagone, apprese di essere ancora distante dalla sua meta, per cui si immerse nella lettura senza l’apprensione di avere poco tempo a disposizione. I suoi sensi, solitamente recettivi, divennero ora più attenuati mentre cercava di concentrarsi e immedesimarsi nel protagonista, un contadino ottocentesco.
Non passò però molto tempo prima di dover tornare alla realtà, richiamato da un suono attenuato a lui molto famigliare proveniente dal suo zaino. Il trillo di un campanello da bici era sinonimo di un messaggio in arrivo sul suo cellulare.
Jimin non si stupì nel leggere il nome comparso sul display.
Kookie: “Sei occupato?
Non ebbe nemmeno il tempo di elaborare quella domanda che il telefono prese a squillare tra le sue mani. Le note della melodia de “Il lago dei cigni” in versione chitarra elettrica saturarono l’ambiente, attirando non pochi sguardi curiosi – e anche un po’ infastiditi su di sé.
Si affrettò a rispondere, un po’ per rispetto per la quiete, ma soprattutto perché sapeva che quella chiamata non si sarebbe interrotta nemmeno se l’avesse ignorata per sempre.
«Mi spieghi per quale motivo mi chiedi se sono occupato, se un momento dopo chiami senza neanche aspettare la risposta?» domandò ironico Jimin che si trovava a rivivere quella scena per la centesima volta.
Dall’altro capo, Jungkook scoppiò in una risata divertita.
«Dalle mie parti io questa la chiamo buona educazione» gli rispose, e Jimin se lo immaginò con un’espressione di scherno stampata sul viso.
«Non so che strane regole civili vi insegnino dalle tue parti, ma per noi gente comune la buona educazione prevede di aspettare almeno un certo lasso di tempo tra la domanda e la risposta.»
«Beh, la gente comune è davvero strana» decretò Jungkook senza mezzi termini.
Jimin alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, ma un vago sorriso gli solcava le labbra. Per quanto a volte fossero privi di senso ed irritanti, erano proprio i modi non comuni di Jungkook a renderlo speciale, tra le altre cose.
«Ti ricordo che le tue parti sono anche le mie parti. Per cui anche tu sei strano.»
«Punti di vista, immagino» minimizzò Jungkook. «Comunque, stiamo deviando dal discorso.»
«Quale discorso? Non mi pare che ne avessimo iniziato uno.»
«Ci vieni o no?» domandò Jungkook, ignorando completamente il suo ultimo intervento e dando per scontato – come era sua abitudine – che Jimin sapesse perfettamente di cosa stesse parlando.
Jungkook era fatto così: non gli era possibile contemplare l’idea che le persone non fossero sempre sulla sua stessa lunghezza d’onda, non certo per presunzione o supposizione.
«Mi sembra stupido chiederlo, ma come sempre non mi lasci altra scelta: venire dove, esattamente?»
«Alla mostra d’arte ovviamente! Ricordi che l’altro giorno ti ho parlato di quel mio vecchio compagno di studi, di cui ad essere onesti scordo sempre il nome, che pare aver allestito un’esposizione di non so che genere d’arte, in non so quale famosa galleria?»
«C’è almeno qualcosa che sai o ricordi?» domandò ironicamente Jimin, il quale cominciava a chiedersi se il problema fosse lui, che dimenticava tutto ciò che le altre persone parevano dirgli, o se fossero gli altri a dar per scontato che lui fosse sempre sul pezzo, anche quando la sua mente viaggiava per altri lidi.
Non che il mondo delle persone a cui voleva bene non lo interessassero, tutt’altro! Ma sia nonna Mae che Jungkook erano persone esuberanti – per usare un eufemismo – che ne pensavano una e ne facevano mille. Una volta anche Jimin era così, ma negli ultimi tempi pareva arrancare parecchio nello stare dietro a tutto.
«Ah. Ah. Spiritoso. Come insegna la buona educazione dalle mie parti, farò finta di non aver sentito» rispose Jungkook con finto tono offeso. «Si tratta di un ricchissimo, viziatissimo e probabilmente senza speranza figlio di papà che probabilmente si è stancato di spendere montagne di soldi che non ha guadagnato e che si è improvvisato nuovo geniale artista emergente. Se ricordo male non ha nemmeno finito l’università. A quanto ho capito, il padre gli ha organizzato una presentazione in piena regola a cui parteciperanno tutti. Anche lui
L’ultima parola venne pronunciata con una reverenza tale da essere percepibile anche dall’altra parte del telefono.
«Anche a costo di risultare ripetitivo,» disse Jimin dopo una piccola pausa. «Chi sarebbe lui
«SUGA ovviamente!» rispose Jungkook con voce vagamente offesa. «A quanto pare l’altro giorno non hai proprio sentito nulla di quello che ti ho detto, per cui ora farò lo sforzo di ripetermi. SUGA è uno scrittore emergente. Ha scritto quello che reputo la miglior raccolta di poesia degli ultimi anni. Te le ho anche fatte leggere qualche mese fa!»
Jimin alzò gli occhi al cielo inconsapevolmente. Sapeva benissimo della passione di Jungkook per la poesia moderna. Anche se il termine passione era riduttivo. Sarebbe stato meglio dire ossessione: mandare a memoria versi sconosciuti ai più era la cosa che preferiva fare in assoluto se si escludeva il girare video – passione di cui aveva fatto anche la sua professione.
«Ho saputo da fonti certe che SUGA è amico di questo tizio e che sarà presente alla mostra! Devo riuscire assolutamente a incontrarlo e a ottenere un autografo!»
«Beh, sono contento per te, sul serio. Ma io in tutto ciò che centro?» domandò Jimin perplesso, grattandosi la guancia.
«Chiaramente mi dovrai accompagnare! Vedrai, ci divertiremo insieme.»
Quella che doveva essere una notizia lieta, in realtà suonava più come una minaccia alle orecchie di Jimin.
«Ma in genere a questo tipo di mostre non invitano solo gente… importante?» chiese, più come tentativo di deviare il tema del discorso che non per vero interessamento. Quel mondo di lusso, ricchezza e ostentazione non le era mai interessato. Per di più che temeva di sentirsi completamente fuori luogo.
«Oh, non preoccuparti. Penso a tutto io. Noi andremo a quella mostra,» rispose Jungkook in tono fermo e per nulla scoraggiato. Quando si impuntava su qualcosa non c’era verso di fargli cambiare idea.
Jungkook era una delle poche persone con cui Jimin aveva sempre potuto mostrarsi per quello che era, nel bene e soprattutto nel male. Era stato uno dei pochi punti fermi della sua vita, soprattutto ultimi cinque anni in cui, di punti fermi, ne aveva avuto ben pochi.
Si conoscevano praticamente da una vita, seppure avessero un paio di anni di differenza, e agli occhi di chiunque il loro legame non passava affatto inosservato. Per quanto diversi caratterialmente, avevano un affiatamento, una spensieratezza e una familiarità l’uno con l’altro che solo anime affini potevano possedere.
Nessuno dei due ricordava il loro primo incontro. Essendo la finestra della stanza di Jungkook esattamente frontale a quella di Jimin, probabilmente si erano osservati per qualche tempo da lontano prima di finire a giocare a sasso, carta e forbice da dietro la rispettiva finestra.
Malgrado ormai fossero entrambi adulti, capitavano volte in cui, prima di dormire, di mettevano a fare quei tre gesti con le mani.
«Dobbiamo proprio?»
Dall’altra parte del telefono le giunse uno sbuffo appena trattenuto.
«Jiminnie non fare il solito guastafeste» gli rispose con voce lamentosa l’amico.
«Ma-»
«E prima che tu riprenda a protestare» aggiunse Jungkook con rinnovato vigore. «Tu verrai con me perché sono settimane che ti rifiuti di uscire adducendo a insostituibili turni di lavoro.»
Jimin alzò gli occhi al cielo per quella che gli sembrava essere l’ennesima volta. Non era da lui lamentarsi così tanto. Ma tante cose in quel periodo non erano da lui.
«Io non mi rifiuto affatto di uscire» chiarì esasperato. «Mi pare di averti già spiegato che la mia collega ha preso un permesso per farsi operare al ginocchio e che devo coprire anche i suoi turni dato che la clinica è a corto di personale!»
«Si, si. Dettagli.»
«Jungk-»
«Niente scuse» lo bloccò prima che potesse protestare. «Venerdì prossimo. Ore venti. E mettiti qualcosa di adatto, per favore.»
«Ehi, aspetta un secondo, vener-»
Stava per ricordargli la serata a tema kimchi che sua nonna organizzava ogni venerdì – scusa che suonava fiacca anche a lui – quando al suo orecchio giunse il segnale inconfondibile che poneva termine a quella chiamata.
Fissò il cellulare.
In altre circostanze avrebbe provato a imporsi, richiamando Jungkook e dicendogli chiaramente che non sarebbe andato, che non aveva voglia, ma sapeva che sarebbe stato tutto inutile.
Jungkook era un maledetto panzer quando ci si metteva – cioè sempre – ma soprattutto quando riceveva un rifiuto. Anzi, di fronte a un muro, la sua ostinazione aumentava esponenzialmente finché non otteneva tutto ciò che voleva, e anche più.
Non si faceva scalfire da niente e nessuno, soprattutto davanti ai frequenti rifiuti che Jimin gli rifilava.
Jimin era arrivato ad invidiare quel lato del suo carattere perché anche lui era così una volta.
C’erano momenti in cui quei giorni della sua vita vissuti pienamente gli mancavano tanto da fare male. Altri momenti non poteva far altro che lasciarsi trasportare alla deriva da una marea invisibile. Quella forza che dava vigore a Jungkook, e che era allo stesso tempo così familiare e così estranea, gli mancava molto.
Si sentiva impotente davanti a sé stesso e a ciò che capitava attorno a lui.
Era più semplice starsene in silenzio e accontentare il suo amico, sperando così di lasciarlo soddisfatta per un po’. Una mostra d’arte a quanto poteva equivalere? Due o tre serate di cinema, karaoke e giochi da tavolo?
Distratto dai suoi pensieri, spostò lo sguardo al di fuori del finestrino e per puro caso si rese conto che quella era la sua fermata.
«Merda.»
Lo slancio che si diede per alzarsi dal sedile e superare quelle poche persone che gli ostruivano la strada, lo fece quasi inciampare nei suoi passi.
Si scusò distrattamente con il povero malcapitato a cui era sicuro di aver pestato un piede e uscì dal vagone, chiedendosi se fosse destinato a correre come un disperato per tutto il resto della giornata. Sembrava che il ritardo fosse diventato una costante, per quanto solitamente Jimin si considerasse una persona puntuale – puntuale se messo a paragone con nonna Mae che aveva dichiarato guerra agli orologi già prima della sua nascita.
Perlomeno i dieci chilometri che si sforzava di correre ogni sabato mattina parevano finalmente servire a qualcosa, oltre che a fargli rimpiangere ogni singola volta di aver abbandonato il suo amato letto.
Davanti a sé però, trovò il solito ingorgo di persone in uscita, stipato davanti alle scale e ben allineato, per cui dovette rallentare. Constatò da una breve occhiata al suo telefono che, con l’ausilio di qualche Dio caritatevole, forse sarebbe riuscito ad arrivare in tempo per il suo turno.
Stava frugando nelle tasche dei jeans per recuperare la tessera dell’abbonamento da strisciare in uscita, quando qualcosa toccò la sua spalla.
Beh, non qualcosa, ma qualcuno.
Per la precisione un ragazzo, a meno di mezzo metro da lui, che ora lo stava fissando.
La prima cosa che registrò di lui furono due labbra abbastanza carnose leggermente dischiuse, poste su un volto glabro e squadrato, e sormontate da un naso dritto di tutto rispetto, che nell’insieme dava un carattere armonioso.
Arrivò poi a scrutare quegli occhi scuri alla luce soffusa della metropolitana che lo stavano fissando con insistenza, quasi volessero trapassarlo ai raggi X. Il fatto che Jimin stesse ricambiando lo sguardo non sortì reazione apparente.
Prima ancora di chiedersi chi diavolo fosse, cosa diavolo volesse da lui e perché diavolaccio lo stesse squadrando come se fosse un marziano, Jimin provò un moto di delusione insensato quando tornò con gli occhi su quelle labbra.
Chiariamoci, il problema non erano lo spessore o la forma, abbastanza armoniose in realtà, ma il fatto che fossero a riposo su un’espressione completamente imperscrutabile.
La bocca era la prima cosa che Jimin registrava di una persona. Era più forte di lui.
C’era gente i cui occhi andavano a fissarsi sul naso, su evidenti imperfezioni – se queste erano presenti – o su altrettanti occhi. Per non parlare di quelli che guardavano il sedere o una generosa scollatura, nel caso di donne. Piccoli riflessi quasi inconsapevoli dettati dal puro istinto e basati su ciò che più di una persona poteva attrarre.
Beh, per Jimin quel riflesso si rispecchiava nelle labbra, e meglio ancora in un sorriso: era seriamente convinto di poter capire cosa stesse provando o pensando l’interlocutore, o un qualsiasi altro estraneo, guardando solo quella parte del viso.
Inoltre, era segretamente ossessionato da una dentatura perfetta, caratteristica molto più rara da trovare in una persona di quanto si potesse pensare – i dentisti, quei maledetti, non solo si divertivano a sottoporre i clienti e tremende torture, ma per di più avevano anche il coraggio di farsi pagare a suon di verdoni.
La sua delusione nasceva dal fatto che davanti a lui ci fosse una specie di statua che non dava segno di volersi muore o parlare.
Jimin si chiese seriamente se quel ragazzo fosse un maniaco, o semplicemente uno completamente fuori di testa.
Quel silenzio cominciava ad essere ridicolmente lungo.
Aprì la bocca, indeciso se chiedergli se avesse bisogno di aiuto – dalla corporatura piuttosto alta e dai capelli scuri sbarazzini, avrebbe potuto essere uno proveniente dalla campagna e persosi nei meandri della metropolitana per quanto ne sapeva.
Era indeciso se abbozzare un tentennante accento di provincia, quando quella sottospecie di statua di sale si mosse.
Beh, in realtà a muoversi fu solo il suo braccio destro, proteso in avanti, mentre tutto il resto del corpo rimase nella stessa posizione, palpebre comprese.
Jimin era sempre più turbato, ma abbassò lo sguardo e vide che lui gli stava porgendo un libro.
Il suo libro.
Libro che aveva stupidamente dimenticato sulla metro.
Lo prese titubante, mentre tornava a guardarlo, ora più rilassato.
«Ehm, grazie» mormorò, anche se il suono della sua voce si perse tra i rumori della metropolitana.
Quando incrociò nuovamente i suoi occhi, però, rimase spiazzato.
Ora quel ragazzo lo stava guardando in modo diverso. Da fuori, con tutta probabilità, un estraneo non avrebbe potuto apprezzarne la differenza, ma Jimin lo percepì all’istante dentro di sé.
Sembrava che lui lo conoscesse: era quel genere di sguardo che solo due persone familiari – molto familiari – potevano scambiarsi.
Quegli occhi stavano leggendo capitoli e paragrafi di sé stesso che nessuno aveva il diritto di estrapolargli, non senza il suo permesso.
Per descriverlo con le parole più banali e romanzate che esistevano al mondo, sembrava leggergli fin dentro l’anima, il suo vero essere, e Jimin era completamente inerme davanti a quell’intrusione.
Si trovò senza armi con cui difendersi, incapace di ricambiargli il favore, perché quel ragazzo era imperscrutabile. Era una solida fortezza fornita di sole due feritoie, in corrispondenza degli occhi, dietro cui poteva vederlo senza temere un’invasione.
Nessuno l’aveva mai guardato in quel modo.
Nessuno avrebbe dovuto avere quel potere.
Nessuno poteva arrivare a conoscerlo così bene.
Eppure, lui era .
Rimase così scoperto e vulnerabile che a stento si accorse del momento in cui quel ragazzo gli voltò le spalle con tutta la calma del mondo, allontanandosi verso le scale, nella direzione opposta all’uscita.
Jimin restò a fissare quella figura altera e austera, suo malgrado impossibilitato a distogliere gli occhi, ora che poteva.
Che diavolo era appena successo?
Chi diavolo era quel ragazzo?
Strinse le dita sulla copertina ruvida del libro.
Al mondo c’erano più persone pazze di quante credesse.

 





Note del testo:

1 – Seollal (o Sŏllal) è il termine che indica il Capodanno coreano, che cade per tradizione il primo giorno del calendario lunare.
2 – Koibito significa “tesoro”, “amore” in giapponese. In questo caso sarebbe un appellativo amorevole per chiamare il nipote. Il motivo per cui ho utilizzato questa lingua è da attribuirsi esclusivamente alle origini giapponesi della nonna di Jimin (personaggio chiaramente partorito dalla sottoscritta).
3 – Il suffisso -ya viene usato nella lingua coreana per rivolgersi a persone con cui l’interlocutore ha un rapporto “intimo”, come quello appunto tra nonna e nipote.
4 – Il Bibimbap è un piatto tipico coreano a base di riso con verdure a carne bovina.
5 – Gu e Dong sono i termini con i quali si dividono le città. I Gu equivalgono ai “quartieri” occidentali, il quale a sua volta è diviso in Dong.
6 – “Chiedi la strada anche se la sai” che sarebbe la traduzione di 아는 길도 물어 가라 è un proverbio coreano molto usato per suggerire a un giovane di chiedere consiglio agli anziani più esperti per evitare errori. In questo caso l’ho adattata riferendomi anche a persone meno anziane.
7 – Per la suoneria del cellulare di Jimin ho preso ispirazione da questo video: qui
8 – Penso tutti sappiano cosa sia il kimchi, ma se così non fosse si tratta del piatto tipico della cucina coreana a base di verdure fermentate con spezie e frutti di mare salati. Ne esistono di diverse varietà a seconda della verdura protagonista del piatto.

 

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Capitolo 3
*** Falli-ng ***




3.FALLI-NG

 

«Stai scherzando, vero?»
Jimin abbassò lo sguardo sul proprio petto e poi rialzò gli occhi, perplesso.
«Che problema c’è?» domandò con un sopracciglio sollevato e tono candidamente innocente.
Jungkook lo fissò per un lungo tempo senza dire nulla, sbattendo le palpebre un paio di volte e con la bocca semi aperta in una sorta di smorfia a metà strada tra lo stupore e lo scandalizzato.
«Io alla mostra non ti ci porto conciato in questo modo» asserì il ragazzo dopo qualche istante.
Nel silenzio che seguì, Jimin si impegnò con tutto sé stesso per mantenere imperturbata la propria espressione. Dentro, però, aveva solo voglia di esultare e stringersi la mano per complimentarsi.
Aveva passato tutta la settimana a stilare quel piano dai risultati assai incerti: lunedì aveva trovato il coraggio necessario per aprire il cassetto del suo armadio e mettersi a scavare il fondo, il cui contenuto lo aveva lasciato perplesso, a tratti scandalizzato.
Martedì aveva preso in prestito da nonna Mae dei vecchi gioielli di tutto rispetto, che facevano la loro porca figura, mentre mercoledì si era occupato dei dettagli rimanenti.
Quella stessa mattina, poi, aveva chiesto alla sua collega, finalmente rientrata dal permesso per l’operazione, di aiutarlo con il trucco, tra la fine del proprio turno e il suo. Uscendo dalla clinica, sembrava essere inciampato per sbaglio nel carnevale brasiliano.
Non gli importava che mezza Seoul lo avesse visto conciato a quel modo nel ritorno in metropolitana: in giro c’era gente ben più strana.
E poi, guardandosi allo specchio appeso nell’anta interna del suo armadio, in quel momento si sentì fiero di sé stesso.
Aveva fatto davvero un lavoro magistrale.
I capelli biondi, colorati per l’occasione di un singolare blu notte, erano stati portati dietro la nuca con una dose molto generosa di brillantina, in modo da lasciare la fronte completamente libera. Sulle palpebre, poi, aveva applicato una dose generosa di ombretto per richiamare il colore dei capelli, mentre la bocca spiccava su tutto, dipinta di un tetro rosso amaranto. Ma le vere protagoniste erano le sopracciglia, completamente coperte da uno spesso strato di cerone chiaro, in modo che sembrasse non averle proprio.
Per i vestiti, invece, aveva semplicemente preso tutto ciò che stava sul fondo del cassettone, ovvero il famigerato crop-top con il faccione di Hello Kitty, dei pantaloni a vita alta di un arancio smorto – avevano sicuramente visto tempi migliori – e chiusi da un cinturone di pelle allacciato in vita. Completava il look un paio di scarpe nere, molto semplici. Per quelle, purtroppo, non aveva potuto farci molto.
Nel complesso poteva passare per una via di mezzo tra Marylin Manson e una ragazzina in piena fase ormonale nei primi anni duemila.
C’era voluto più impegno e lavoro di quanto avesse immaginato all’inizio, ma, vedendo la faccia di Jungkook, poteva asserire senza ombra di dubbio che gli sforzi erano stati ripagati in pieno.
«Ok. Per me non c’è nessun problema,» disse Jimin facendo spallucce e sforzandosi di apparire imperturbabile. «Beh… allora divertiti, ok? E non preoccuparti per me, penso che passerò una bella serata con nonna Mae e il suo Baechu-kimchi
Jimin fece per avviarsi verso la porta della sua camera, sicuro che Jungkook lo avrebbe seguito per andarsene da casa sua, ma venne quasi subito trattenuto per un braccio.
«Un attimo, un attimo. Non così in fretta. Pensi davvero di fregarmi così facilmente?»
Jungkook aveva un sopracciglio alzato, una mano al fianco e un’espressione ironica in volto.
Nel suo completo nero a due pezzi, abbinato a un dolcevita a collo alto, era il ritratto dell’eleganza stessa e faceva una certa figura. Era impossibile non notarlo, sia per l’altezza di tutto rispetto, che per la presenza che emanava. Si trovava assolutamente a suo agio e non aveva problemi a mostrarlo.
«Fregarti? Cosa intendi?»
Jimin sperava di aver pronunciato quelle parole con innocenza e tono neutro, ma aveva come la sensazione di essere stato colto con le mani nel sacco, proprio come un bambino con la bocca sporca di marmellata davanti alla madre.
Si grattò distrattamente il sopracciglio destro.
La risposta di Jungkook fu semplicemente l’incrociare le braccia al petto e guardare torvo il suo bellissimo crop-top.
«Beh? Al telefono avevi detto di mettere qualcosa di adatto, no? Per quanto mi riguarda questo è assolutamente adatto,» disse Jimin cercando di rimanere serio. Le bugie non erano mai state il suo forte, ma era convinto che con un po’ d’impegno si poteva fare tutto. «Se però tu pensi che non mi faranno entrare, beh, non posso farci nulla. Però non sentirti limitato per colpa mia! Tu vai pure, non vorrei farti perdere l’occasione di incontrare quel famoso scrittore.»
«Bel tentativo» rispose Jungkook, tornando a fissarlo negli occhi. «Davvero, apprezzo lo sforzo. Però ora cambiati. Siamo in ritardo.»
Quello che seguì fu una tesa gara di sguardi: il primo a distogliere gli occhi o abbassarli sarebbe stato decretato perdente.
Jimin sapeva molto bene di poterlo fronteggiare senza problemi. Lo aveva fatto molte altre volte prima. Ma una piccola parte di lui era anche consapevole di star facendo il difficile per nulla, alla fine.
Razionalmente parlando, non aveva veri motivi per dare buca al suo migliore amico. Senza contare che, vista da fuori e in circostanze diverse, quella ridicola messinscena lo avrebbe fatto piegare in due dalle risate.
In cuor suo sapeva che era una battaglia persa sin da quando Jungkook lo aveva chiamato, nemmeno una settimana prima. Per cui non passò molto tempo prima che si arrendesse a distogliere lo sguardo da quello dell’amico.
Sospirò.
«Ok, va bene. Hai vinto tu. Dammi qualche minuto» disse, recuperando i primi indumenti scuri che sbucavano dalla pila informe poggiata su una sedia – aveva già detto quanto odiasse occuparsi del bucato?
«Però sappi che nonna Mae rimarrà molto delusa dalla nostra assenza» aggiunse, anche se in realtà nonna Mae, approfittando della sua assenza, aveva invitato un paio di sue amiche del quartiere per la cena a base di kimchi. Non c’era bisogno, però, che Jungkook, il quale aveva ignorato completamente la sua ultima affermazione, ne fosse messo a parte.
Jimin stava per uscire dalla stanza per andare a cambiarsi, ma venne fermato un’ultima volta dall’amico, che lo richiamò.
«Jiminssi? Fermati un secondo dove sei. Devo scattarti una foto» disse Jungkook con il cellulare già in mano. «Questo look deve essere tramandato ai posteri.»
A Jimin non rimase altro che sospirare e maledire sé stesso e le proprie malsane idee.
 

[...]

 
Sia la testa di Jimin che quella di Jungkook ruotarono di novanta gradi verso sinistra, contemporaneamente e, dopo qualche secondo, compirono lo stesso movimento anche verso destra.
«Tu riesci a capirci qualcosa?» domandò Jimin spezzando il silenzio. In lui stava cominciando a sorgere un brutto presentimento, ma non voleva essere il solo a vedere certe cose quando, nella realtà, magari erano tutto l’opposto.
Con la coda dell’occhio registrò il fatto che Jungkook si stesse grattando la mascella, meditambolo.
«Uhm… potrei sbagliarmi, ma quelli non sono…?»
«Si, esatto! Sono peni,» disse all’improvviso una voce squillante alla loro destra, facendoli sussultare visibilmente.
«Allora, che ne pensate? Vi piace? Se volete la mia opinione, penso sia l’opera che meglio mi sia riuscita. Certo, ho lavorato sodo anche per tutto il resto, ma questa qui ha un posto speciale nel mio cuore. Penso che la gente concordi, perché un sacco di persone mi hanno chiesto informazioni a riguardo. Pare stia riscuotendo un grande successo questa sera!»
Un ragazzo li stava guardando con un grande sorriso bianco splendente e due altrettanto grandi occhi scuri, per nulla celati dietro a degli occhiali dalle lenti arancioni. Le mani erano appoggiate a pugno sui fianchi e le gambe leggermente divaricate, quasi in una posa da superman – un superman asiatico un po’ più basso e anche parecchio meno pompato, a dirla tutta.
«Oh, ciao…!» disse con un po’ di ritardo Jungkook.
La pausa che seguì il saluto rese chiaro a tutti i presenti che volesse aggiungere anche un nome. Nome che, palesemente, non ricordava.
Jimin soffocò una risatina stringendo le labbra, ringraziando il fatto di non poter vedere quella che immaginava essere un’espressione spaesata sul volto di Jungkook. Difficilmente sarebbe riuscito a trattenersi.
Ricordava vagamente che, durante la loro conversazione, Jungkook avesse detto di non ricordare affatto il nome del suo vecchio amico d’università ed era chiaro pure a lui che il suddetto fosse proprio il ragazzo di fronte a loro.
Il fatto divertente, però, era che, ovunque si guardasse, ci fossero cartelloni giallo splendente che ricordavano senza possibilità di sbagliare il nome, il luogo e la data della mostra. E sì, anche il nome dell’artista, in arte J-Hope.
A Jimin la cosa non era sfuggita affatto – insomma, bisognava proprio essere ciechi per non notare quei cartelloni – ma il suo amico non sembrava dello stesso avviso.
«Benvenuti, benvenuti! Mi ha fatto davvero piacere ricevere la tua chiamata Kookie» disse con entusiasmo il ragazzo e senza fare una piega, poggiando una mano sulla spalla di Jungkook. «Come stai? Come va? I tuoi genitori stanno bene? Come va il lavoro?»
Jungkook sorrise un po’ titubante di fronte a quell’attacco di domande.
«Ehm, tutto bene. Credo. Sì. Grazie. Ehm…»
Jimin, vedendolo in piena difficoltà, provò un moto di pietà mista a tenerezza che lo spinse a intervenire per salvarlo.
«Molto piacere! Io sono Park Jimin, un amico di Kookie,» disse, calcando sull’ultimo appellativo con un pizzico di ironia. Jungkook gli lanciò una breve occhiata: fossero stati soli, gli avrebbe fatto anche la linguaccia, Jimin ne era sicuro.
«Spero che la mia presenza non sia un problema,» aggiunse poi, tornando a guardare l’altro ragazzo che sembrava non aver colto quel breve scambio tra i due.
«Nessun problema, nessun problema!» rispose facendo un gesto svolazzante con la mano libera. L’altra era ancora appoggiata sulla spalla di Jungkook. «Il piacere è tutto mio. Sono Jung Hoseok e vi ringrazio di essere venuti.»
Alle parole fece seguire un inchino profondo a cui gli altri due ragazzi risposero di rimando.
«Cosa stavi dicendo del quadro?» domandò Jungkook, cercando forse di cambiare discorso per far dimenticare ai presenti la sua piccola figura barbina, o forse perché aveva paura di essere chiamato con altri appellativi imbarazzanti.
A quella domanda lo sguardo di Hoseok, se possibile, si illuminò ancora di più.
«Ho preso libera ispirazione da un libro di letteratura inglese che stavo leggendo per un corso ai tempi dell’università, ricordi Kookie? Una sera ero particolarmente ispirato e mi sono detto: “Hobi, perché non provi a mettere su tela le tue emozioni?”. Così è nato “Falli-ng”» disse velocemente con crescente entusiasmo.
Nel silenzio attonito che seguì l’ultima frase, i due ragazzi spostarono contemporaneamente lo sguardo sulla targhetta posta sotto il quadro dove, effettivamente, compariva la scritta “Falli-ng” in caratteri dell’alfabeto latino, seguita poi da una breve descrizione dell’opera in hangeul.
Jimin era assolutamente senza parole, un po’ perché non riusciva a capire cosa avessero in comune il titolo con l’opera stessa – anche se aveva come la sensazione che ci fosse di mezzo un gioco di parole. Purtroppo, non era mai stato molto bravo con l’inglese – e un po’ perché non aveva idea di come interpretare la spiegazione di Hoseok. Aveva paura di pensare a cose non molto consone all’ambiente in cui stava.
Dopotutto, a conti fatti quella era una mostra seria e, visto il genere di persone presenti in quel momento – esponenti dell’alta borghesia, sicuramente – dubitava che temi rozzi come la sfera sessuale fossero l’argomento di conversazione principale della serata.
Quello, oppure la gente faceva semplicemente finta di non vedere l’ovvio pur di mantenere un certo decoro.
E poi Hoseok gli era molto simpatico.
Aveva un sorriso che non poteva che coinvolgere e abbracciare tutto quello che gli stava attorno. Sorrideva alla vita e la vita gli rispondeva di rimando.
«Oh, mi stanno chiamando» disse Hoseok guardando un punto alle spalle di Jimin. «Beh, sono davvero felice di averti rivisto Kookie! Facciamo in modo di sentirci presto, ok? Grazie mille anche a te, Jimin, spero che avremo altre occasioni di parlare in futuro. Vi prego, rimanete pure quanto volete. Nell’altra stanza c’è un piccolo rinfresco.»
Non attese nemmeno una risposta. Il momento dopo Hoseok era sparito con la stessa velocità con cui era comparso pochi minuti prima.
Seguirono parecchi istanti di silenzio, durante i quali gli occhi di Jimin tornarono sul quadro appeso alla parete, su cui approssimativamente un centinaio di piccoli falli erano sospesi su uno sfondo azzurro chiaro, come tanti piccoli gabbiani in volo in una limpida giornata di sole.
«Beh, è stato molto… istruttivo,» disse a bassa voce Jungkook guardandolo con una faccia inespressiva.
L’istante dopo sia lui che Jimin scoppiarono a ridere rumorosamente.
Erano settimane, se non mesi interi, che Jimin non rideva in quel modo e con così tanto trasporto. In quel momento provava una tranquillità e spensieratezza che aveva agognato per tanto tempo. Aveva quasi dimenticato cosa volesse dire ridere fino alle lacrime.
Lacrime di pura felicità.
Fu solo quando una signora vestita interamente di rosso alle loro spalle si schiarì la voce che i due ragazzi cercarono di darsi un certo contegno, anche se all’occhiataccia della donna, risposero voltandole le spalle e proseguendo verso l’opera successiva.
«Sbaglio o Hoseok ha detto che nell’altra stanza c’è del cibo?» domandò ad un tratto Jungkook massaggiandosi il maglione all’altezza dello stomaco e lanciando un’occhiata speranzosa verso il grande varco squadrato poco distante da loro.
Jimin lo guardò scuotendo il capo.
Jungkook e il cibo erano i protagonisti di un lungo romanzo d’amore moderno che ancora non aveva visto la propria fine. Fine che probabilmente non sarebbe mai arrivata. Mancavano solo le nozze per ufficializzare quell’unione.
«Ehi, non fare quella faccia. Lo sai che ho bisogno di nutrire il mio corpo!» protestò il suo migliore amico con faccia quasi offesa. «Davvero, non capisco come tu invece possa stare così tante ore senza mangiare a volte…»
A quelle parole, Jimin rimase completamente spaesato e senza parole. Sentì un brivido di freddo scorrere lungo la sua spina dorsale e propagarsi fino ad avvolgere tutto il resto del corpo.
Non poteva vedersi da fuori, ma immaginava che anche la sua espressione rispecchiasse quella sensazione di gelo.
Era come se, inconsapevolmente, Jungkook avesse toccato un tasto scoperto molto ben nascosto, ma allo stesso tempo estremamente letale. Perché, in qualche modo, aveva dato spazio a una questione che Jimin sperava che nessuno notasse mai. Uno dei pochi segreti che possedeva, una delle poche cose che era ben attento a non far mai scoprire agli altri.
Solo a lui sembrava che quel silenzio, seguito alle parole di Jungkook, si propagasse in tutta la stanza, facendo un eco tale da richiamare l’attenzione di tutti i presenti? Era come se un enorme cartello lampeggiante si fosse acceso sopra la sua testa.
O almeno, così si sentiva.
Nella realtà, e forse appena qualche istante dopo, il suo amico lo aveva preso per mano senza nemmeno attendere una vera risposta alla domanda per trascinarlo con sé verso la propria meta, ovvero il famigerato tavolo degli stuzzichini.
«Pancia mia fatti capanna!» esclamò Jungkook con un sorriso ampio e gli occhi luminosi, guardando estasiato il banchetto prelibato. Era quasi come vedere un bambino di fronte all’albero, la mattina di Natale.
Quella scenetta si ripeteva circa ogni volta che mangiava, per cui Jimin non ne fu poi molto impressionato. Ma la voce squillante dell’amico attirò non pochi altri sguardi curiosi e anche indignati: quella era pur sempre una mostra d’arte con gente di un certo contegno e usanze nobili.
Jungkook chiaramente non si accorse di nulla, o comunque, se anche avesse sentito sulla sua persona delle occhiate insistenti, fece bellamente finta di nulla, fregandosene.
Quella era una battaglia all’ultimo boccone tra lui e il suo piatto, già ricolmo di cibo.
«Sei incredibile…» si limitò a dire Jimin con un sorriso appena accennato.
«Grazie mille, faccio del mio meglio per esserlo, e devo dire che ottengo dei buoni risultati,» rispose Jungkook senza mai smettere di masticare.
«Devi assolutamente provare questi noodles, sono la fine del mondo!» aggiunse poi, allungando la mano con cui teneva le bacchette in direzione di Jimin.
Quest’ultimo si ritrasse impercettibilmente con il busto all’indietro, senza quasi accorgersene.
«Eddai, fidati di me, non te ne pentir-»
Non finì mai la frase.
L’istante dopo, infatti, gli spaghetti di grano scuri attorcigliati alle bacchette di legno sfuggirono alla presa del ragazzo, finendo per cadere fortunatamente sul suo piattino.
Il motivo di quel piccolo incidente poteva trovare spiegazione nella direzione su cui gli occhi di Jungkook si erano fissati, le palpebre spalancate e la bocca a disegnare una piccola “o”.
Jimin si voltò, guardandosi curioso alle spalle, pensando di trovare qualcosa di estremamente interessante e sorprendente, come, magari, un secondo quadro raffigurante falli di dubbia natura e significato.
Ciò che vide, però, furono solo altre persone del tutto anonime disposte casualmente per la stanza, raccolte a coppie, in piccoli gruppetti, o anche in singolo.
«O. Mio. Dio. È. Lui!» scandì Jungkook alle sue spalle con voce appena sussurrata.
Jimin aggrottò le sopracciglia, confuso.
«Jiminssi, è proprio lui!» ripeté il suo amico, questa volta più forte e con una forte emozione nella voce.
«Lui ch-»
«Vieni, devo assolutamente conoscerlo!» esclamò Jungkook, prendendolo per mano per quella che doveva essere la centesima volta solo quella sera.
Jimin era davvero stanco di farsi trascinare in giro, quasi come un cagnolino al guinzaglio, ma aveva il timore di non avere molte altre alternative. Era, in realtà, una vita intera che correva dietro a Jungkook e alle sue strampalate idee – a dirla tutta, molte di quelle vedevano anche la sua stessa firma – e ormai ci aveva fatto il callo.
Salvo poi andare a sbattere contro la schiena di Jungkook e picchiarci il naso quando questo decise di fermarsi all’improvviso, dopo appena qualche passo.
«Che succede?» domandò, massaggiandosi il setto nasale un po’ dolorante e guardando di sottecchi il suo dorso, ancora immobile.
«Non posso andare a disturbarlo!» proruppe all’improvviso portandosi una mano tra i capelli perfettamente tirati all’indietro. «Jiminssi, e se odiasse essere importunato? E se mi mandasse a quel paese?»
«Guarda, per quello posso pensarci io senza troppi problemi…» rispose ironicamente Jimin, il quale cominciava davvero a essere stanco di non capire cosa stesse accadendo.
Per capire quanto la situazione fosse strana, Jungkook non replicò nemmeno a quella provocazione, rimanendo nella sua posizione statuaria a fissare qualcosa che, probabilmente, poteva vedere solo lui.
Erano per caso arrivati gli alieni per portarselo via? Jimin lo avrebbe consegnato loro senza tanti problemi.
«Potresti cortesemente riavvolgere il nastro e partire dal principio? Magari potrei anche aiutarti…»
Jungkook si decide a guardarlo. Dipinta in volto aveva ancora quell’espressione sorpresa, ma, dai grandi occhi spalancati che brillavano, Jimin avrebbe potuto affermare che fosse molto più che emozionato.
«SUGA! È proprio lì, guarda!»
La mano con il dito puntato davanti a sé tremava quasi impercettibilmente.
La fitta nebbia che avvolgeva la testa di Jimin, finalmente, cominciò a rischiararsi e a unire i puntini, formando un’immagine fin troppo chiara e molto banale. Rimproverò sé stesso per aver dimenticato ancora una volta il vero motivo per cui erano a quella mostra d’arte. Prima il quadro dei falli, poi l’incontro con Hoseok, il resto della mostra e il tavolo del rinfresco lo avevano distratto più di quanto fosse disposto ad ammettere. Non era da lui.
Tra tutte quelle persone anonime, il dito di Jungkook stava puntando un ragazzo dal lato opposto della stanza, girato praticamente di spalle rispetto a loro. Doveva essere alto all’incirca come Jimin, anche se in quel momento portava ai piedi un paio di scarpe grandi con la suola alta.
I capelli, tagliati perfettamente per essere alla pari, erano molto scuri, ma quello stile era in contrasto con l’abbigliamento del tutto underground rispetto all’ambiente.
Indossava infatti un giaccone di almeno due taglie in più e dei pantaloni rossi con il più grande numero di tasche che Jimin avesse mai visto. La curiosità ebbe la meglio in lui, anche se da quella posizione riusciva solo a vederne la schiena.
Jimin guardò di sottecchi Jungkook, il quale era sempre fermo nella sua posizione pietrificata tendente all’adorante.
Sospirò.
Quella dualità nell’amico non smetteva mai di sorprenderlo: era capace di andare in battaglia contro un drago e allo stesso tempo si faceva mille paranoie nelle situazioni che meno lo richiedevano.
Jimin ricordava che appena la settimana prima Jungkook si era rifiutato di suonare al suo campanello la domenica mattina per paura di “disturbare” quando, quella stessa notte ad un orario raccapricciante, non si era fatto problemi a chiamarlo al cellulare per raccontargli lo strano sogno che aveva fatto.
Per inciso, nel sogno dei giganti a forma di mochi volevano mangiarlo.
«Forza, cuor di leone,» disse afferrandogli una mano. «Vengo io con te.»
E per la prima volta quella sera, fu lui a trascinarsi dietro Jungkook.
 

[...]

 
«Ehi, Taetae, hai visto per caso tuo fratello?»
Taehyung cercò di ignorare il più possibile la voce che aveva posto quella domanda, ma era impossibile in quanto sapeva che Hobi non lo avrebbe lasciato in pace finché non gli avesse risposto.
Voleva bene a Hoseok quasi come a un fratello. Lo conosceva praticamente da una vita dato che sua madre e la propria erano solite portarsi dietro i rispettivi pargoletti – Yoongi incluso – al famoso circolo del ricamo, lasciandoli liberi di giocare e interagire nella sala dedicata allo svago.
Così era stato quando ancora erano in fasce – sebbene Hoseok fosse un anno più grande di loro – e così era rimasto finché non avevano finalmente avuto il permesso di rimanere ciascuno a casa propria durante quegli incontri.
Essendo però le rispettive famiglie molto amiche, non erano poche le occasioni in cui vedersi, come ad esempio quella sera. Senza contare il fatto che Hoseok passava più tempo in casa Kim, alternandosi dalla camera di Yoongi a quella di Tae, che nella propria.
Ad esclusione dell’ultimo periodo.
Era infatti qualche settimana che Hoseok non si faceva vedere affatto.
Taehyung aveva provato a indagare, buttando qua e là qualche domanda al fratello – gemello con cui Hobi aveva un rapporto molto particolare e del tutto inspiegabile a Tae – ma Yoongi era riuscito egregiamente nell’impresa di rimanere impassibile e anche di sembrare piuttosto confuso riguardo alle domande che gli erano state poste.
Tae però non era stupido.
Non sapeva cosa stesse succedendo tra Yoongi ed Hobi, ma qualcosa in quella situazione puzzava, puzzava terribilmente. Non erano però fatti suoi, e da bravo fratello quale era – che poi non gli si dicesse il contrario! – la sua fede era riposta nel fratello, sempre e comunque.
Un po’ come una legge non scritta tra coloro che avevano in comune buona parte del dna e la condivisione di uno spazio ristretto come l’utero di una donna e la spartizione dei nutrienti che erano arrivati loro per quasi nove mesi.
«No, mi spiace,» rispose perciò con un’espressione imperturbabile. «Sai com’è fatto. Cerca sempre di evitare la folla. Non mi stupirei se fosse uscito a fare una passeggiata.»
Cosa non del tutto falsa, in realtà.
Non sarebbe stata la prima volta in cui Yoongi avesse preso, nel bel mezzo di un evento a cui era stato invitato, per andarsene appena qualche minuto dopo il suo arrivo. Tutti coloro che lo conoscevano bene, erano consapevoli di quanto odiasse stare in mezzo alla gente, se non costretto.
Hoseok lo guardò riflessivo, piegando il capo verso destra e portandosi una mano al mento. In quel momento sembrava la persona più concentrata del mondo, come impiegata a risolvere uno dei tanti problemi che affliggevano la specie umana.
Ma Hobi era fatto così: qualsiasi cosa facesse, lo faceva con intensità massima. E da fuori lo si notava subito.
«Uhm… sì, forse hai ragione,» disse dopo qualche secondo meditativo. «Dici che sia il caso di andarlo a cercare? Fa molto freddo questa sera, non vorrei si ammalasse… magari ha scordato il suo cappotto alla reception!»
All’arrivo degli ospiti, infatti, questi erano stati accolti da due gentleman che si erano premurati di occuparsi del loro soprabito.
Taehyung, in quell’esatto momento, aveva colto con la coda dell’occhio una schiena molto familiare proprio alla sinistra di Hobi. Vista la reciproca conoscenza, era sicuro che anche quest’ultimo avrebbe potuto accorgersene e riconoscerlo, se solo avesse guardato di sfuggita in quella direzione.
Per cui prese la scusa che Hoseok gli aveva servito su un piatto d’argento e annuì.
«Mi pare una buona idea, Hobi.»
Il ragazzo si illuminò in viso con un sorriso e alzò un pollice in segno d’assenso. Dopo di che si diresse a lunghi passi in direzione dell’uscita, posta per fortuna dalla parte opposta a dove lo sguardo di Taehyung si posò l’attimo successivo.
Sì, quello era proprio Yoongi e sì, come aveva immaginato, stava cercando di nascondersi proprio nel lato più remoto della stanza.
Suo fratello era rivolto verso una parete bianca, all’apparenza spoglia.
Senza fare molto caso al resto e senza pensarci troppo, Tae scosse la testa tra sé e sé e si avviò per raggiungerlo prima che quello potesse sfuggirgli un’altra volta, come aveva l’istante appena dopo il loro arrivo.
«Mi devi un favore,» gli disse come prima cosa arrivandogli alle spalle.
Yoongi si voltò lentamente, per nulla preso alla sprovvista, con un sopracciglio alzato e un’espressione vagamente perplessa.
«Io non ti devo proprio niente. Semmai sei tu quello sempre in debito con me.»
Purtroppo, quella era una verità inconfutabile.
Quasi sempre.
«Non questa volta,» rispose Tae con un piccolo ghigno, in un modo palesemente allusivo di chi sapeva di avere il coltello dalla parte del manico. «Hobi ti sta cercando.»
Quella che seguì fu un’espressione vagamente allarmata di Yoongi, cosa che servì solo ad alimentare i suoi sospetti.
«… E io l’ho convinto che fossi uscito fuori per fare una passeggiata. Non è stato difficile visto che è risaputo quanto tu sia asociale,» aggiunse dopo una breve pausa ad effetto, durante la quale si godette la scenetta.
Suo fratello prima lo guardò storto, e infine tornò alla sua espressione imperscrutabile. Se non altro, faceva in fretta a riprendere possesso delle proprie emozioni. Almeno, in apparenza.
Taehyung rimane in silenzio, in attesa che il fratello dicesse qualcosa. Si aspettava come minimo un ringraziamento, se non una striminzita giustificazione.
Ma era ovvio fosse destinato ad attendere all’infinito perché Yoongi non dava segno di voler soddisfare la sua palese curiosità.
Perciò, alla fine Tae si arrese suo malgrado. Quella non era una battaglia degna di essere combattuta.
«Che succede tra di voi? Avete litigato?» domandò senza i tanti giri di parole che aveva usato fino a quel momento per interrogarlo.
Sì, non erano davvero affari suoi, ma era tremendamente curioso, soprattutto perché era molto difficile che Hobi si arrabbiasse con chicchessia, figurarsi con Yoongi, il suo migliore amico. Fosse dipeso solo da quest’ultimo, la faccenda sarebbe stata leggermente più verosimile.
Tae sospettava che suo fratello avrebbe trovato ancora una volta il modo di eludere le sue domande e una piccola parte di lui era sinceramente curioso di sapere che scusa avrebbe tirato fuori.
«Tu sei SUGA, vero?»
Purtroppo per Tae, e per grandissima fortuna del fratello – che probabilmente, oltre ad essere incredibilmente bravo a rigirare le persone a proprio piacimento, aveva anche un grandissimo fondoschiena – le sue domande erano destinate ancora una volta a rimanere senza risposta.
Dalla parte opposta rispetto a Tae, infatti, qualcuno aveva richiamato l’attenzione di Yoongi.
Un ragazzo alto, con indosso un completo elegante, se possibile, ancora più scuro dello strano abbinamento indossato dal suo gemello, stava fissando con intensità il volto di Yoongi.
Gli occhi, scuri e spalancati come due enormi fanali, brillavano, così come l’intera espressione del ragazzo.
Taehyung vide suo fratello assumere l’espressione guardinga tipica di quando veniva colto alla sprovvista dalle persone e voleva prendere tempo prima di stabilire se fosse il caso di scappare a gambe levate con classe, o se non vi fosse pericolo imminente.
«Uhm… e se lo fossi?»
Taehyung era stato troppo educato nel trattenere le proprie reazioni istintive prima di esternarle al mondo esterno per poter essere spontaneo, ma potendo sarebbe scoppiato a ridere.
A ridere di Yoongi, chiaramente.
«Sono un tuo grandissimo ammiratore!» esclamò invece il ragazzo senza scoraggiarsi minimamente, come se Yoongi avesse in realtà confermato la sua identità, più che porre il dubbio. Sul suo volto comparve un grandissimo sorriso, prima di chinare la schiena in segno di saluto.
«… ammiratore?»
Più quella strana conversazione andava avanti, più la faccia di Yoongi si faceva sempre più perplessa e allo stesso tempo allarmata.
«Sì, ammiratore! Ho seguito tutti i dibattiti al circolo dell’università. La rubrica settimanale che curavi sul giornale scolastico mi ha dato numerosi spunti di riflessione,» disse velocemente e con entusiasmo crescente. «Non vedo davvero l’ora che venga pubblicata la tua raccolta di poesie!»
Stabilire a priori chi dei due gemelli fosse il più sorpreso, sarebbe stato molto difficile.
Da una parte c’era Yoongi, il quale si trovava per la prima volta nella sua vita a incontrare un “fan” di quello che voleva utopicamente far diventare il suo lavoro. Era solo agli inizi di un lungo percorso che non era nemmeno sicuro di voler intraprendere e non gli erano mai capitate situazioni simili.
Dall’altra parte c’era Taehyung, il quale non immaginava che al mondo ci fosse qualcuno che leggesse sul serio quello che scriveva suo fratello – lui stesso ci aveva provato senza grande successo, più per spirito fraterno, che altro. Qualcuno addirittura a conoscenza della raccolta di poesie ancora inedita, poteva considerarsi più che un miracolo.
Stupido sinceramente da quel fatto, Taehyung tornò a guardare il ragazzo, che ancora non si era presentato, indeciso se complimentarsi per tanta dedizione o esprimere ammirazione per non essersi addormentato nel leggere uno degli infiniti e logorroici articoli di Yoongi – cosa che a lui invece era successa, più volte – quando il suo sguardo venne attratto da un movimento lì accanto.
Ciò su cui i suoi occhi si posarono, lo lasciarono completamente senza parole.
Una persona.
Una persona che lui conosceva bene.
Un volto che aveva infestato i suoi pensieri per lungo tempo.
Un paio di occhi che aveva sognato tutte le notti nell’ultima settimana – e molte altre nei sei anni precedenti.
Qualcuno che lo aveva riconosciuto.
«… Ehi, ma sei tu!»


 





Note del testo:

1 – Il Baechu-kimchi è una specialità di kimchi a base di cavolo napa piccante, preparato utilizzando le foglie intere della pianta ripiene di strisce sottili di ravanello, prezzemolo, pinoli, pere, castagne, peperoncino rosso sminuzzato, Umbilicaria esculenta, aglio e zenzero.
2 – Con il titolo “Falli-ng” volevo rifarmi chiaramente al termine “Falli” che in italiano può stare a significare proprio “peni”, ma anche rimarmi al verbo inglese “Falling” cioè cadere. Ora, so che il gioco di parole ha senso solo se una persona conosce l’italiano, ma ho pensato di prendermi questa licenza “poetica” (chiamatela pure poesia moderna ahaha) supponendo che pure Hobi si sia informato sui vari significati delle due parole.
3 – L’hangeul è il nome con cui, in Corea del Sud, si indica l’alfabeto utilizzato per scrivere la lingua coreana sin dal XV secolo, in sostituzione all’hanja cinese.
Vi prego di perdonare se nella sua breve apparizione, Hobi vi sia sembrato OOC (o comunque parecchio fuori dai suoi canoni). Prometto, oltre a farlo comparire molto di più, di trattarlo meglio la prossima volta.
4 – “Pancia mia fatti capanna!” chiaramente è un modo di dire italiano. Purtroppo, non ho trovato alcun modo di dire che avesse un significato uguale o simile nella lingua coreana, per cui mi sono rassegnata ad utilizzarlo in quel modo.
5 – Il mochi è un dolce tradizionale giapponese costituito da riso glutinoso, tritato e pestato ad ottenere una pasta bianca, morbida e appiccicosa, poi riempita con qualche crema/marmellata/altri ingredienti dolci.
6 – “E se lo fossi?” è una citazione non troppo velata al “And if I am?” che Jungkook pare aver detto a una fan che lo aveva riconosciuto qualche anno fa.

 

 UN COMMENTO ARZIGOGOLATO PER LO SCRITTORE E' UN DONO GRATO  
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Capitolo 4
*** Silenzio ***




4.SILENZIO

 

Il silenzio può avere molti significati.
In base a come nasce, alle circostanze, a ciò che lo precede e lo succede, ha questa strana capacità di contenere un insieme di emozioni che lo rendono unico. Non esiste una situazione uguale all’altra, così come non esiste un silenzio uguale all’altro.
Taehyung amava il silenzio.
Aveva sempre pensato che fosse un perfetto compagno di vita, in grado di lasciargli lo spazio che necessitava e, allo stesso tempo, di saperlo cullare al bisogno. Lui e il silenzio avevano una lunga storia alle spalle, fatta di reciproco rispetto e conoscenza.
Una delle cose che più gli piaceva fare era star seduto sulla panca nella sua stanza, posta sotto alla grande finestra, e osservare l’esterno, scattare fotografie e leggere per ore libri più o meno profondi. In quelle occasioni, il solo compagno era stato il silenzio e lui gliene era grato.
Pensando a quei momenti, a volte provava una sorta di malinconia opprimente, un po’ perché non aveva più il tempo da dedicare alle sue passioni, un po’ perché sembravano ricordi di una persona appartenente al passato. Una persona che conosceva bene, ma che non vedeva da tempo.
C’era una frase, letta molti anni prima chissà dove e rimasta nella sua testa, che recitava qualcosa del tipo “Meglio un silenzio sensato che parole senza senso”. Era un concetto in cui Taehyung credeva molto.
E fu proprio ciò che fece lì in piedi, nel fissare l’ultima persona sulla faccia della terra che poteva immaginare di incontrare quella sera. Rimane in perfetto silenzio, ancora una volta, proprio come aveva fatto la settimana precedente.
A differenza della scena in metropolitana, in cui dalle sue labbra non era uscito alcun suono perché era rimasto completamente spiazzato e tremendamente incredulo di averlo trovato, quella sera aveva scelto consapevolmente il silenzio.
L’alternativa sarebbe stata un’imprecazione tale da far venire i brividi a sua madre e buttare giù i santi dal cielo.
Perché, se incontrarlo in metropolitana dopo anni era stato un miracolo, trovarlo a quella mostra a distanza di pochi giorni era uno scherzo del destino. Per forza.
Non sapeva quanto tempo fosse rimasto pietrificato in quella posizione, gli occhi puntati in quelli di lui e la bocca probabilmente mezza aperta. A un certo punto prese solo coscienza del fatto che il suo amato silenzio gli si stava rivoltando contro dato che non si sentiva affatto a suo agio.
Anzi, l’unica cosa che provava in quel momento era imbarazzo perché, ripensando alla storia del silenzio, capì che fosse tutta una grande cazzata.
A volte, anche un’imprecazione era meglio di un silenzio imbarazzato e disagiato. Tutto era meglio che fare la figura del pesce lesso per la seconda volta consecutiva.
Ad aumentare quella brutta sensazione si aggiunge il movimento che colse con la coda dell’occhio: al suo fianco, infatti, Yoongi lo stava guardando con insistenza, perplesso e allo stesso tempo palesemente incuriosito da quella situazione. E Tae sapeva che non si sarebbe fatto molti problemi ad esporre apertamente le domande che gli frullavano in testa.
Vista la figura barbina che stava facendo, voleva evitare di aggiungere maggior disagio. Le domande di Yoongi non erano mai quel che si dice delicate.
Prima che il fratello potesse aprire bocca, però, quella voce che non aveva mai udito prima – ma che non una volta sola si era chiesto come fosse – si ripeté.
«Certo, certo, tu sei quello della metropolitana!» lo disse con una convinzione tale che avrebbe potuto persuadere anche il più reticente dei dubbiosi.
Come facesse ad avere quella consapevolezza, solo lui e Tae potevano saperlo: i loro occhi si erano incrociati in quella metropolitana buia per un minuto – o forse appena qualche secondo – eppure si era creato qualcosa di difficile da eliminare dalle loro anime.
Per qualche motivo, nell’apprendere che non fosse il solo ad averlo percepito, Taehyung si sentì sollevato.
Forse, dopotutto, negli ultimi sei anni non era diventato pazzo – cosa che aveva dubitato più di una volta.
Inconsapevolmente si trovò ad annuire con il capo, un movimento appena accennato ma visibile a tutti. Dalle sue labbra, però, ancora nessun suono. Era come se la voce gli si fosse bloccata in un punto imprecisato della gola, formando un groppo difficile da sciogliere.
Se possibile, il suo imbarazzo crebbe. Con un vago senso di orrore, si rese conto che anche le sue guance stavano assumendo una tonalità rossastra.
Era lui, o in quella stanza cominciava sul serio a fare molto caldo?
L’istante dopo, l’imbarazzo era il suo ultimo problema. Infatti, quello che fino a un momento prima era un sorriso sorpreso e due occhi luminosi che lo guardavano, al suo accenno scomparvero pian piano.
Su quel volto che conosceva molto bene – e che allo stesso tempo non poteva che definire estraneo – sorse un’espressione prima neutra e poi perplessa. Sembrava quasi di vedere il tramontare del sole in una calda giornata estiva sul tetto di un palazzo, con la sola differenza che Tae non sentiva alcun calore.
Aveva cercato quel sorriso per così tanto tempo che ora, sapere di essere la causa della scomparsa, si sentiva completamente impotente. Distolse lo sguardo proprio quando un’altra voce si fece largo in quel silenzio che stava odiando.
«Quiiiiiiindi… mi faresti un autografo?»
L’amico, quello che Tae aveva soprannominato nella sua testa il “pazzo fan di un pazzo”, era tornato a prestare tutta la sua attenzione a Yoongi, un sorriso entusiasta stampato in faccia e un foglio nella mano allungata.
Da quella posizione non riusciva a capire cosa ci fosse scritto – non che gli importasse davvero, la sua testa era da tutt’altra parte al momento – ma, dal grande logo stampato in un angolo, quello non poteva essere altro che uno dei vecchi articoli di suo fratello per il giornale scolastico.
Yoongi tentennò qualche istante nel prendere la penna che il ragazzo gli stava porgendo con l’altra mano: per avere a portata tutto l’occorrente, era chiaro che fosse stato tutto premeditato. Come facesse quel ragazzo a sapere che suo fratello sarebbe stato presente alla mostra, Taehyung preferiva rimanerne all’oscuro.
Un pensiero simile dovette passare anche nel cervello di Yoongi perché, dopo qualche istante di perplessità, scosse impercettibilmente il capo ed esaudì il desiderio, disegnando uno sgorbietto informe in un angolo vuoto del foglio.
Per tutto il tempo, Taehyung fu perfettamente consapevole dell’enorme faro che gli era stato puntato addosso. E per altrettanto tempo riuscì, seppur con una certa difficoltà, a resistere. Ma arrivò troppo presto al limite.
Socchiuse le palpebre per un istante, raccogliendo un coraggio che alla fine non gli servì a nulla in quanto fu costretto a tornare a fissare quegli occhi.
Lui era lì. Ovviamente.
Fino a quel momento, a causa della luce della metropolitana e della scarsa vicinanza, il colore dei suoi occhi era sempre stato un mistero che lo aveva perseguitato a lungo. Ora, in quella stanza completamente illuminata, le iridi che Tae si trovò a fissare erano più scure di quanto si fosse aspettato. Non che fosse una cosa così strana da riscontrare nella popolazione coreana, eppure, per qualche strano motivo, una parte di lui era sempre stata convinta del contrario.
Era come se il resto del mondo fosse scomparso. Di nuovo.
Esistevano solo loro due, il loro sguardo incatenato, e il panico che pian piano si stava facendo largo in Taehyung.
Era sempre stata una persona pacata e reazionare, o almeno quella era l’opinione che aveva di sé stesso, ma da qualche parte, negli anni, doveva aver perso la retta via. O, più semplicemente, non si era mai trovato in una situazione del genere.
Che cosa diavolo gli prendeva?
Per la seconda volta consecutiva, fece l’unica cosa per poter ristabilire un controllo che aveva perso: prese Yoongi per un braccio e lo trascinò via, senza aggiungere una singola parola di commiato.
Gli sarebbe piaciuto definirlo un gesto maturo e perfettamente consono alla situazione, ma non c’erano scuse che tenessero: era scappato come un cretino. Punto.
Non aveva preventivato nulla di tutto ciò, così come non era stata sua intenzione finire esattamente tra le braccia di Hoseok. Letteralmente.
Nella foga di scappare, infatti, era andato nella direzione opposta alla parete della stanza, senza accorgersi che Hobi stesse venendo proprio da loro. Il risultato fu uno scontro che aveva del comico e uno Yoongi che, spiaccicato tra le braccia dell’amico, gli lanciò un’occhiataccia mortale.
«Eccovi qua, finalmente!» esclamò felice Hoseok, facendo rimbalzare lo sguardo fra i due gemelli.
«Stavo cercando proprio te, ma vedo che Taetae ti ha trovato per primo.»
Da Yoongi giunse solo un’espressione impassibile e l’ennesima occhiataccia, destinata sempre alla stessa persona, ovvero suo fratello. Quella sera sembrava non saper far altro.
Taehyung riacquistò allontanandosi un necessario spazio vitale da quell’intreccio di braccia e corpi, ma Yoongi non ebbe la stessa possibilità: al suo tentativo di sottrarsi dalla presenza di Hoseok, gli finì in qualche modo ancora più vicino.
In realtà, il caso non centrava nulla, quanto più lo stesso Hoseok che, in modo fermo, lo aveva afferrato per le spalle per non dargli l’occasione di sfuggire una seconda volta. Questo, però, non precluse a Yoongi la possibilità di puntare ostinatamente lo sguardo al pavimento.
Il messaggio arrivò forte e chiaro a chiunque. Si stava rifiutando di parlare.
Hoseok lo guardò per qualche istante in silenzio, sulla faccia una delle sue rarissime espressioni serie e concentrate. Alla fine, sospirò, lasciandolo libero e scuotendo il capo, confuso da quel tacito rifiuto di comunicare.
Assistendo a quella scena, Tae sentì come di essere catapultato in un déjà-vu molto recente.
Tutto sommato, lui e suo fratello si assomigliavano molto più di quanto poteva sembrare. Passare una vita intera insieme, anche non vivendo in simbiosi, li aveva portati a condividere molti tratti del carattere, gestione dei problemi compresa a quanto pareva.
Problemi che, per quanto venissero ignorati con l’arma del silenzio, non scomparivano come per magia. Semmai diventavano sempre più urgenti.
E Taehyung lo sapeva bene. O meglio, lo sentiva molto bene.
Lì, proprio sulla sua schiena, avrebbe potuto giurare sulla sua stessa vita che al momento fossero puntati un paio di occhi. Un paio di occhi che, potendo, lo avrebbero trafitto da parte a parte per lasciarlo lì steso sul pavimento.
Non aveva bisogno di voltarsi per confermarlo.
L’unica cosa di cui avesse bisogno al momento era una sonora lavata di capo da parte del suo cervello o, in alternativa, un bello schiaffo sonoro.
Era un deficiente.
 
 

[…]

 
 
«Quale è il quadro che ti è piaciuto di più?»
«Mah, non saprei… sono ancora in dubbio su quel “Falli-ng”, anche se “TaeTae” potrebbe fargli concorrenza.»
Un silenzio.
E poi una sonora risata. Una risata di pancia, sentita fin dentro le viscere, da far venire i crampi allo stomaco.
Jimin e Jungkook erano piegati in due, appoggiati l’uno alla schiena dell’altro per sorreggersi a vicenda. Dovettero fermarsi sul marciapiede perché erano bastati pochi passi per farli inciampare e finire quasi a terra.
Jimin sentiva davvero quel dolore, ormai quasi sconosciuto, alla pancia, segno che fosse passato troppo tempo dall’ultima volta in cui la sua mente era stata ricolma solo di serotonina pura.
Ma, a distanza di quasi un’ora intera, ripensare a quel quadro li divertiva molto più di quanto non avessero potuto esprimere sul momento a causa del pubblico. Nell’angolo più buio e remoto delle quattro stanze che componevano la mostra, avevano infatti trovato un valido contendente al “Falli-ng”, cosa che avevano creduto impossibile.
Un quadro, di piccole dimensioni se paragonato al primo capolavoro, era stato appeso proprio in prossimità di un angolo in ombra, rischiarato solo da una piccola lampada a muro che illuminava la tela dal basso.
Su questa, forse grazie alle strane luci, o semplicemente per uno strano effetto ottico, erano state incollate con delle graffette le gigantografie di due seni enormi, in modo che uno fosse molto più in alto dell’altro. Un capezzolo a puntare a destra, l’altro verso il basso, nel complesso potevano quasi passare per due interruttori della luce piantati su cuscini ripieni di piume.
Sotto l’opera, a differenza delle precedenti, al posto di una didascalia esplicativa, era stato lasciato solo un messaggio scritto a mano e accompagnato dal titolo.
TaeTae – ricorda di puntare sempre in alto, amico.”
Sul momento non avevano saputo reagire adeguatamente, ma ora che si trovavano all’esterno nessuno poteva impedire loro di esternare tutta l’ilarità che quella mostra aveva suscitato in loro.
Quando finalmente riuscirono a riprendere il controllo delle loro piene facoltà, Jimin pensò che, tutto sommato, quella serata si era rivelata migliore del previsto sotto tanti punti di vista.
E allora perché dentro di sé sentiva un leggero, ma pur presente, senso di oppressione? Era lì, proprio sul suo stomaco, comparso chissà quando e mai più svanito.
Era stata proprio una bella serata, tranquilla e più spensierata di qualsiasi altra ne avesse vissuta da molto tempo.
Se si escludeva quel ragazzo
Ben coperto dal suo piumino grigio, vecchio ma ancora caldo, Jimin sentì un piccolo brivido percorrergli le braccia e propagarsi lungo tutto il corpo. Richiamato da uno stridere di freni, i suoi occhi finirono a fissare l’altro lato della strada poco illuminata.
Sotto uno dei pochi lampioni presenti, infatti, un’automobile scura e tirata a lucido sostava sul margine della careggiata. Dal lato del conducente scese un uomo in divisa che allungò la mano in direzione di una persona di spalle, in avvicinamento.
Da quella distanza e con il buio era impossibile ricondurla ad una identità, anche considerando il lungo cappotto scuro che indossava e che copriva tutta la figura. Quando però, dal lato del conducente, si avvicinò un’altra persona illuminata dalla luce del lampione, Jimin trattenne inconsapevolmente il fiato.
Lo aveva visto una sola volta e per una manciata di minuti, ma quello era chiaramente il famoso SUGA. Non poteva averne la certezza, ma aveva come la sensazione che l’altra persona fosse lui. Prima aveva captato una certa intesa tra quei due, quasi di familiarità.
I suoi sospetti si rivelarono fondati quando, per appena l’istante di un battito di ciglia, lui voltò il capo.
Jimin, che ci si era trovato faccia a faccia solo due volte in tutta la sua vita, ne riconobbe il profilo. O, per meglio dire, lo riconobbe e basta.
Non avrebbe saputo spiegarlo a parole nemmeno a sé stesso.
Stette a guardare in silenzio i due ragazzi salire in macchina e andarsene via qualche istante dopo, chiedendosi per la prima volta dopo più di due ore cosa fosse successo e chi fosse quel ragazzo.
Era tutto così… senza senso.
«Ti rendi conto che ho l’autografo di SUGA?» esclamò Jungkook spezzando il silenzio, mentre anche i suoi occhi seguivano lo scomparire della macchina in lontananza. «Non lo immaginavo per nulla così… calmo.»
Jimin rispose con uno sguardo interrogativo e il suo amico si strinse nelle spalle.
«I suoi articoli sono focosi. Le sue parole taglienti. Basterebbe leggere un suo solo lavoro per capirlo,» rispose. Sulle sue labbra poi si disegnò un sorrisino canzonatorio. «Anche se prima tu dovresti capire ben altro
L’allusione, per quanto vaga, era chiara ad entrambi i ragazzi. Non c’era possibilità di fraintendimento.
Tuttavia, Jimin non esitò un solo istante a mostrarsi impassibile e insieme confuso. Non aveva alcuna voglia di discuterne in quel momento perché lui stesso non sapeva darsi una risposta sensata. Subite l’interrogatorio di Jungkook – anche se non avrebbe avuto molto materiale su cui indagare – era l’ultima cosa che voleva.
Non quando dentro di sé continuava a sentire quella strana pressione in un punto imprecisato dell’addome.
Per sua fortuna, Jungkook sembrò cogliere l’antifonia, o perlomeno che non stesse tirando una buona aria, e lasciò cadere l’argomento quasi immediatamente.
Ecco perché era il suo migliore amico.
«Che dici, ci fermiamo da Seokjin nel tornare? Ho proprio voglia di un suo Bossam,» disse Jungkook, massaggiandosi la pancia all’altezza dello stomaco. «Quel rinfresco non mi ha saziato a sufficienza…»
L’ultima cosa che Jimin aveva voglia di fare in quel momento era mangiare, ma non poteva sottrarsi a quella proposta.
Il ristorante – anche se sarebbe stato più corretto definirlo chiosco – si trovava a pochi isolati di distanza dalle loro residenze ed era aperto ventiquattro ore al giorno, giorni festivi inclusi. Era sempre un luogo di passaggio obbligatorio per la gioventù intenzionata a far serata, come punto di partenza o a conclusione di questa. All’occasione era anche una buona tavola dove mangiare in famiglia quando si voleva uscire a festeggiare, o un buon posto dove portare la fiamma di turno per colpirla direttamente al palato.
Per Jimin e Jungkook era anche molto altro.
Sorgendo esattamente di fronte al parco dove erano soliti giocare da bambini, avevano frequentato quel chiosco per tutta l’infanzia e adolescenza. Negli anni avevano stretto un ottimo rapporto con i proprietari, i signori Jung, una coppia sposata di una certa età che avevano dedicato tutta la loro vita a quell’attività.
Era stato perciò un dramma quando avevano deciso di ritirarsi, appena tre anni prima, per passare il tempo che rimaneva loro in campagna, per godersi quella vita spensierata e tranquilla che avevano sempre sognato e raccontato ai due amici.
Jimin e Jungkook avevano pensato che quel capitolo della loro vita fosse finito, ma sorprendentemente l’attività era stata rilevata da un giovane ragazzo, poco più grande di loro.
Inizialmente vi era stata una certa diffidenza perché temevano che la qualità del cibo non sarebbe stata la stessa. Senza contare il peso dell’assenza di quel calore familiare che associavano inevitabilmente al luogo, ricco di ricordi e belle memorie.
Era stata perciò una sorpresa quando avevano trovato il coraggio di rimettere piede nel ristorante.
Ad accoglierli era comparsa una figura alta e cordiale, che rispondeva al nome di Kim Seokjin.
Il luogo era sì ora tutto diverso, e le sensazioni che i due amici provavano erano state inevitabilmente toccate, ma avevano dovuto ammettere molto presto che quel ragazzo ci sapeva fare in cucina – anche se, accontentare i gusti di Jungkook, non era mai stato difficile.
Per quanto riguardava il senso di familiarità, era invece tutt’altra storia: in Seokjin, Jimin aveva trovato un buon amico, Jungkook invece… l’anima gemella. E il fatto che la sua anima gemella fosse un cuoco, beh, Jimin ci aveva sempre trovato qualcosa di poetico e insieme esilarante.
Quel posto, oltre a essere un ricordo importante della loro infanzia e amicizia, era diventato una vera e propria base dove rifugiarsi.
Per cui non fu molto stupido alla proposta di Jungkook.
Fece un cenno di assenso con il capo e il suo amico gli sorrise felice in risposta. Jimin sapeva che, se avesse invece risposto di voler tornare subito a casa, Jungkook non avrebbe esitato un solo istante ad accompagnarlo, anche se quello voleva dire non vedere il suo ragazzo.
Stavano per dirigersi verso la fermata della metropolitana quando, nel passare davanti all’entrata della mostra, dalla porta uscì una famiglia di tre persone. I genitori tenevano per mano la figlioletta, la quale saltellava entusiasta, canticchiando nel mentre una canzoncina.
Jimin si fermò.
La pressione allo sterno si fece all’improvviso più intensa, tale da mozzargli il fiato in gola. Allo stesso tempo un vago senso di nausea lo colpì e con tutto sé stesso cerco di controllarsi.
Era l’unica cosa che poteva fare al momento perché la sua mente era stata invasa completamente da un ricordo ingombrante.
Un ricordo ben sepolto nella sua mente perché faceva male. Molto male.
Una notte limpida e calda. Un suono di dolci risate nelle orecchie. Un calore sulla spalla. Sua madre che gli diceva qualcosa. Suo padre che annuiva concorde.
Era stata l’ultima domenica felice che avevano passato insieme, proprio a una mostra d’arte contemporanea.
E lui lo aveva dimenticato. Volontariamente.
Ma il suo corpo no, il suo corpo aveva comunicato con quel cassetto ben sigillato nella memoria e gli aveva inviato segnali tutta sera. Era quella la sensazione che si era fatta via via più intensa con il passare delle ore e, probabilmente, era la stessa ragione per cui aveva fatto tutto quell’inutile casino del travestimento a inizio serata.
«Ehi, tutto bene?»
Registrò vagamente la voce preoccupata di Jungkook da qualche parte al suo fianco.
Non poteva permettersi di crollare in quel momento. Non poteva crollare e basta. Doveva riprendere il controllo, almeno finché non avesse messo piede al sicuro, nella sua casa.
Impiegò tutte le forze che gli erano rimaste per sbattere le palpebre e rischiarare la vista. Mise a fuoco il volto dubbioso di Jungkook che lo stava fissando e registrò vagamente che la famigliola era scomparsa. Attorno a loro c’erano solo il silenzio della sera e la luce soffusa dei lampioni a rischiarare la strada.
Annuì senza però dire nulla. Temeva che, aprendo bocca, non sarebbe riuscito a trattenere la nausea che ancora gli stringeva lo stomaco.
«Jimin?»
Voleva scappare. Andarsene molto lontano, nemmeno lui sapeva dove. Probabilmente non esisteva posto a quel mondo dove potesse trovare pace in quel momento.
Prese Jungkook per la manica del cappotto e lo trascinò con sé verso la metro.
Velocemente.
 
 

[…]

 
 
Era un idiota.
Un gigantesco, enorme idiota patentato.
Quei segni scuri sotto gli occhi erano la punizione giusta per la sua idiozia. Anzi, avesse potuto infliggersi un castigo più severo, lo avrebbe fatto molto volentieri, perché le occhiaie si potevano nascondere sapientemente con del correttore – cosa che faceva molte più volte di quante fosse disposto ad ammetterlo – ma all’idiozia non c’era rimedio.
Guardò la propria immagine nel riflesso dello specchio che gli restituì uno sguardo cupo e torvo, perfettamente in linea con il suo umore.
Taehyung aveva passato la notte insonne. O meglio, si era rigirato tra le lenzuola un numero di volte tale da averne perso il conto.
Prima era stato il cuscino troppo duro, poi le lenzuola troppo ruvide, poi il suo corpo aveva cominciato ad emanare un calore insopportabile, e infine si era dovuto alzare per recuperare un maglione dall’armadio, in preda ai brividi. Insomma, un vecchio rimbambito poteva lamentare meno problemi di temperatura di lui.
Non c’era una cosa che gli fosse andata bene.
Eppure, in quel letto ci aveva dormito tutte le notti per i venti anni precedenti. Non era uno stupido, sapeva che il problema non erano né le lenzuola di tessuto d’ottima qualità, né il suo stupido sistema termoregolatore.
Erano i pensieri nella sua testa. Quelli era stati più insopportabili di tutto il resto.
Parlare di pensieri, però, non era del tutto corretto: parlando con schiettezza a sé stesso, avrebbe dovuto ammettere che le immagini evocate dal suo cervello lo avevano fatto impazzire. E non una pazzia buona. Almeno a quella avrebbe saputo trovare qualche rimedio.
Taehyung, in realtà, aveva sempre amato la notte.
A differenza di suo fratello fin da bambino, molte ore dopo che i suoi genitori lo pensavano nelle braccia di Morfeo, gli era capitato di svegliarsi nel pieno della notte – per degli incubi, o semplicemente per nessuna ragione – e rimanere a guardare il cielo fuori.
Di svegliare i suoi genitori non gli era mai passato di mente – un po’ perché sapeva che lo avrebbero rispedito a letto – mentre suo fratello… beh, era già un miracolo che si svegliasse per l’ora della colazione.
Dio aveva donato il sonno a suo fratello, ma di lui probabilmente si era scordato.
Taehyung ci aveva fatto ben presto l’abitudine, cominciando addirittura ad apprezzare la possibilità che aveva di passare del tempo di solitudine vera. Una solitudine con accezione positiva, cosa che solo un gemello poteva capire.
Lui e Yoongi avevano sì due stanze separate, e di certo non passavano tutto il loro tempo in simbiosi, ma c’erano volte in cui Tae aveva la sensazione che ci fosse una connessione indissolubile tra loro a cui non poteva sfuggire. E, come un gemello siamese, inconsapevolmente ambiva a una dipendenza da quello.
Per cui quelle notti le passava semplicemente con sé stesso, a volte a leggere adagiato sulla panca posta sotto alla finestra, a volte a suonare il violino in silenzio – imitando i movimenti e immaginando nella sua testa le note – e altre solo a guardare il cielo fuori.
Quando poi sentiva finalmente la stanchezza insorgere, tornava tra le sue lenzuola, poggiava la testa sul cuscino, e cedeva al sonno il proprio controllo nello stesso modo in cui ne era sfuggito.
Quella notte non ci aveva nemmeno provato. Già prima di coricarsi aveva avuto la sensazione che non sarebbe riuscito a riposare.
Perché, ancora una volta, era un vero idiota patentato.
Come era possibile, non per una, ma per ben due volte fare la figura del pazzo? O almeno, così si sarebbe definito lui se si fosse visto dall’esterno. Perché si era comportato proprio così, come un pazzo, non c’erano scuse che tenessero.
Erano passati sei anni… sei anni in cui lo aveva cercato ovunque. E in ben due occasioni non era riuscito nemmeno a scoprirne il nome o qualsiasi altra informazione utile.
Quando, salendo in macchina per tornare a casa dopo la mostra, si era reso conto che i due ragazzi non si erano presentati perché aveva trascinato via Yoongi quasi di peso per una stupida crisi interiore, si era dovuto trattenere per non imprecare contro sé stesso ad alta voce.
L’unica cosa che sapeva rispetto a una settimana prima, era che abitavano nella stessa città.
Informazione completamente inutile visto che la suddetta città non era nientemeno che Seoul, una capitale che contava quasi dieci milioni di abitanti. In pratica, era ancora al punto di partenza.
Certo, era più di quanto avesse scoperto in molti anni di ricerca vuota e vana, ma non poteva nemmeno dirsi ben informato.
Scosse la testa, fissando ancora il proprio riflesso allo specchio. Abbassò poi lo sguardo sulle sue mani che stringevano in modo spasmodico il ripiano di marmo scuro del lavello. Stava davvero impazzendo per nulla.
Perché la verità era che tutta quella storia non aveva alcun senso.
Non conosceva quel ragazzo, né non ci aveva mai parlato. Quella sorta di ossessione non aveva ragione di esistere. Per cosa poi? Uno semplice sguardo in una foto scattata per caso?
Taehyung non sapeva darsi una risposta. Ci aveva provato per sei lunghissimi anni ed era arrivato quasi a rinunciarci. Ma poi lui era ricomparso.
Abbassò la manopola del lavello per interrompere il getto d’acqua, aperto per rinfrescarsi il viso chissà quanto tempo prima, e ritornò nella sua camera. Si diresse verso la scrivania, posta in un angolo poco illuminato della stanza, e aprì deciso l’ultimo cassetto dall’alto con un giro di chiave.
L’unica cosa davvero preziosa che teneva là dentro era quella stupidissima foto, il resto erano solo cartacce bianche e vecchi appunti di scuola, poste al solo scopo di eludere la curiosità di un ipotetico curioso – leggasi madre ficcanaso.
Non impiegò molto per trovarla in quell’ammasso di roba. Malgrado fossero passati molti mesi dall’ultima volta in cui l’aveva estratta, ricordava benissimo dove l’avesse messa.
Posò gli occhi sulla carta baritata in silenzio.
Lui era lì, stampato. Ovviamente.
Dire che conoscesse a memoria ogni tratto somatico, ogni singolo dettaglio, era riduttivo. Eppure, come aveva sospettato, non era la stessa persona che aveva visto la sera prima. O meglio, certo che era lui – altrimenti il suo cervello non avrebbe scatenato tutto quel casino interiore – ma allo stesso tempo non lo era.
Non sapeva spiegarlo nemmeno a sé stesso. Lo sentiva e basta.
Il cambiamento non era percepibile alla vista, nemmeno alla più attenta – e la sua era molto più che attenta. No, era qualcos’altro. Quel qualcosa che lo aveva colpito sei anni prima.
Nella persona che aveva incontrato manca la luce. Mancava tutta la vita che in lui Taehyung aveva riconosciuto e catturato nella foto.
Che cosa era successo in quegli anni?
Toc, toc.
Il leggero bussare alla porta lo riportò bruscamente sul pianeta Terra, lontano da tutte quelle domande che affollavano la sua testa e che lo stavano facendo impazzire. Prima di girare il capo dall’altra parte della stanza, si affrettò a riporre la fotografia nel cassetto e a chiudere quest’ultimo con la chiave.
«Avanti.»
Si stupì nel vedere comparire sull’uscio la testa di suo padre, con un leggero sorriso sulle labbra.
«Buongiorno, figliolo» disse mentre entrava e si chiude la porta alle spalle silenziosamente. «Non sapevo se fossi sveglio, ma avevo bisogno di parlarti prima di uscire.»
Tae non fu sorpreso di trovarlo vestito di tutto punto anche il sabato mattina. Non ricordava quale fosse stata l’ultima volta – sempre che ci fosse una volta – in cui lo avesse visto indossare qualcosa di diverso dal completo elegante.
«Non preoccuparti, mi sono svegliato presto.»
Cosa vera se si consideravano quei dieci minuti totali che sospettava di aver dormito. Non ne era sicuro.
Suo padre, se anche avesse trovato strano vederlo alzato ad un orario così strano, non lo diede a vedere. Anzi, ignorò completamente l’ultima affermazione, cosa che non stupì più di molto Taehyung. Normale amministrazione in quella casa.
«Bene, bene. Volevo solo controllare che fossi pronto per lunedì e che sapessi cosa fare,» disse con espressione seria e molto formale. Più che in camera sua, Tae aveva come la sensazione di trovarsi in un ufficio.
In realtà, stava attendendo quella visita già da giorni. Suo padre voleva essere sicuro che non uscisse di testa e che tutto andasse liscio come l’olio. Perché Tae, che ormai aveva finito gli studi da un anno e che aveva supervisionato quel lavoro fino a poche settimane prima, stava per essere messo a capo di un’importante settore nell’azienda di famiglia.
A Taehyung quell’idea non faceva impazzire. Anzi, lo orripilava tremendamente, ma non poteva ammetterlo ad anima viva. L’occasione di ribellarsi e prendere in mano la propria vita se l’era l’asciata sfuggire molti anni prima. Ora esisteva solo il dovere.
Con suo padre, e in generale con la sua famiglia, non si era mai lasciato sfuggire nulla. Nemmeno Yoongi ne era a conoscenza, e di solito i due gemelli tendevano a condividere tutto – o quasi. Ma quella visita del padre gli suggerì che qualcosa avesse percepito.
Doveva impegnarsi di più.
«Certo» rispose, accompagnando l’assenso con un gesto del capo. «Non vedo l’ora.»
Avrebbe solo voluto urlare.
«Oh, ottimo, ottimo.» Suo padre annuì, la fronte ora più distesa e un sorriso sollevato in viso. Che fosse sollevato per la rassicurazione o nel sapere suo figlio tranquillo, non era dato saperlo.
Negli ultimi anni Taehyung aveva scoperto con non poca paura di odiare profondamente quel lavoro e in generale il mondo della gestione d’azienda. I timori che lo avevano turbato sei anni prima, erano diventati realtà solo quando ormai non aveva avuto più scelta.
Il vero problema, però, stava nell’immensa terra di mezzo in cui si trovava nell’immaginare sé stesso in un ipotetico futuro ideale. Amava suonare il violino e sfogarsi con scherma. Più di tutto, si sentiva padrone di sé quando guardava il mondo dietro l’obiettivo della sua macchina fotografica. Ma era troppo tardi per diventare un violinista, un fiorettista o un fotografo. Senza contare le difficoltà che avrebbe incontrato con la sua famiglia.
No, aveva delle responsabilità, e ormai era grande abbastanza per pensare prima al dovere che al proprio piacere.
E allora perché aveva richiamato il padre prima che potesse uscire dalla sua camera?
«Papà?»
L’uomo si bloccò con il palmo sulla maniglia e lo guardò in attesa che aggiungesse qualcosa.
Taehyung rimase in silenzio qualche attimo di troppo, dentro di sé una battaglia senza vincitore in corso tra la voglia di esternare i suoi veri pensieri e l’immensa consapevolezza che non avrebbe mai ottenuto nulla, e che anzi avrebbe scatenato un putiferio.
Ogni parola aveva delle conseguenze.
Ogni silenzio anche.
Strinse la mano destra in un pungo, fino a scavare nella pelle del palmo con le proprie unghie.
«Buona giornata a lavoro.»
Lasciò andare la presa della mano e, con essa, l’ennesima occasione di fare qualcosa di vero nella sua vita.


 





Note del testo:

1 – “Meglio un silenzio sensato che parole senza senso” non appartiene alla sottoscritta, ma a una certa Emanuela Breda. Stavo cercando una frase che potesse esprimere un certo concetto, ma quando ho trovato questa ho pensato subito fosse perfetta.
2 – Allora. ALLORA. “TaeTae”. So benissimo che il gioco di parola ha senso solo nella nostra lingua e pronunciandolo come “TeTe”. Diciamo che non mi sono venute in mente altre idee idiote per denominare quel quadro. Dopo “Falli-ng”, però, non potevo non mettere anche quest’opera per concludere il capitolo “quadri idioti e senza senso, nemmeno utili a fini di trama”. Sì, ok, faceva ridere solo l’idiota sottoscritta, perdonatemi.
3 – “TaeTae – punta sempre in alto, amico”… penso non ci siano bisogno di molte spiegazioni. Tutto sommato, penso sia un buon augurio da fare a un amico, no?
4 – Il Bossam è una varietà di kimchi a base di carne di maiale piccante tagliata a strisce e bollita nelle spezie, accompagnata da insalata, aglio, kimchi e altri condimenti. Per mangiarlo solitamente lo si arrotola, e infatti il nome sta a significare proprio “arrotolato”.
5 – La carta baritata o politenata (o più semplicemente carta fotografica) è uno speciale tipo di carta con un supporto di polietilene estruso utilizzata per le fotografie. Il supporto è quello che, quando colpito dalla radiazione solare, è in grado di reagire per dare l’immagine.
6 – Non ho la minima idea di che cosa si faccia dopo l’università in Corea, se si venga introdotti subito nel lavoro o se ci sia un periodo di apprendistato come qui in Italia. Trattandosi di un’azienda di famiglia, ho immaginato che la faccenda possa essere gestita a discrezione del capo.
7 – “Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche.” è una citazione di Jean-Paul Sartre. Ho voluto concludere questo capitolo nello stesso modo in cui era iniziato. Nel silenzio.


 

 UN COMMENTO ARZIGOGOLATO PER LO SCRITTORE E' UN DONO GRATO  
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Capitolo 5
*** Ciao ***




5.CIAO

 

Taehyung cominciava davvero a odiare sé stesso. O meglio, a odiare il suo corpo, e in particolare quello stupido orologio biologico che sembrava essere intrinseco nel suo cervello.
Fin da bambino aveva avuto quella sorta di benedizione-maledizione che lo portava a svegliarsi con una regolarità quasi imbarazzante. Bastava veramente poco perché il suo corpo si abituasse a certi orari. Il che poteva essere comodo durante i giorni feriali – soprattutto per persone simili a suo fratello, che avrebbero preferito passare il resto dei loro giorni nel letto.
Per lui, invece, era un vero e proprio fardello, soprattutto quando si trovava il sabato mattina a fissare il soffitto della sua camera mentre fuori nemmeno il sole era sorto.
Vero, era ormai quasi dicembre e le giornate si stavano accorciando a vista d’occhio, ma per esserci ancora le tenebre doveva essere davvero molto presto. Almeno, molto presto per essere la prima giornata in cui non doveva alzarsi per infilarsi una scomoda cravatta e andare in ufficio.
Quella appena passata era stata la settimana più stancante e avvilente della sua vita.
Ed era tutto dire.
L’unica cosa che aveva concluso era che la sua vita, da quel momento in poi, sarebbe stata di una monotonia mortale. Se avesse dovuto associare un colore agli ultimi giorni, non avrebbe esitato a nominare il grigio. Un grigio scuro, tetro, noioso e assolutamente anonimo.
Perché era esattamente così che ci si sentiva ad entrare in quell’ufficio la mattina presto, stare seduti dietro a una scrivania di vetro, compilare scartofie, rispondere a telefonate di gente assolutamente noiosa – ma che si credeva d’importanza vitale per l’umanità – e tornare poi a casa nello stesso modo e a un orario tale da non aver la possibilità di vedere nemmeno uno spiraglio di luce prima del sorgere della luna.
Un grande e noiosissimo strazio.
E non poteva nemmeno prendersela con qualcuno per sfogare la frustrazione che sentiva accumularsi dentro di sé: l’unico cretino da incolpare era sé stesso e medesimo. Per l’ennesima volta, avrebbe aggiunto.
Aveva mai combinato qualcosa di buono nella sua vita?
La risposta a quella domanda lo spaventava, per cui per la maggior parte del tempo cercava di non pensarci. Si limitava a trascinarsi in giro, fare quello che le persone si aspettavano da lui, e a vedere nello specchio sé stesso diventare una brutta copia di ciò che era.
Ma, più di tutte, erano le responsabilità che gli avevano caricato sulle spalle ad annichilirlo. Perché, se c’era una cosa che aveva imparato negli ultimi ventiquattro anni di vita, era che voleva tranquillità. Una tranquillità che quel lavoro non avrebbe mai potuto dargli.
Avrebbe fatto a meno di tutti i soldi del mondo e il prestigio sociale pur di acquistare quel minimo di serenità che agognava disperatamente.
Sdraiato sul letto, le gambe allargate sulle lenzuola sfatte e un braccio piegato sotto la testa, spostò lo sguardo fuori dalla finestra dove, finalmente, il sole stava cominciando a sorgere. O almeno, una parvenza di luce tingeva di un azzurro più chiaro l’esterno, di cui Tae riusciva a scorgere solo un albero spoglio e palazzi in lontananza.
Gli era sempre piaciuta quella vista, un po’ forse perché era uno dei pochi angoli dell’intera Seoul in cui si sentiva tranquillo, in cui riconosceva una familiarità che sapeva di casa. Un po’ perché aveva passato tanto di quel tempo in quel posto da averci costruito la sua vita intera praticamente.
Sospirò prima di scalciare via le coperte e sedersi sul materasso, le gambe scivolate a toccare terra. Si alzò e guardò il cielo, rimanendo qualche istante immobile.
Vedere l’alba sorgere lo riempiva come null’altro al mondo. Era come caricare le batterie in vista di una nuova giornata.
Il suo sguardo venne poi attirato dalla scrivania, posta poco lontano, su cui spiccava la sua macchina fotografica. Lo stava chiamando, la sentiva, la percepiva fino nell’anima. Era quella la sua cura, qualcosa che avrebbe potuto davvero risanarlo dal grigiume che aveva accumulato in pochi giorni.
Che altro aveva da fare, dopotutto? Il cielo era sgombro di nuvole, quindi si apprestava ad essere una bella giornata invernale.
Erano settimane che non scattava. Erano settimane che non percepiva quella sensazione sotto le dita, la consapevolezza di aver catturato un istante unico nell’universo che non sarebbe più tornato. Erano settimane che non si sentiva sé stesso.
Impiegò poco ad indossare i primi vestiti comodi che trovò nell’armadio, una semplice tuta calda e scura, con uno grosso maglione spesso a collo alto. Non fece nemmeno una sosta in bagno: a chi poteva interessare che i suoi capelli fossero un disastro e che le occhiaie gli arrivavano quasi sotto ai piedi?
L’unica cosa che importava, al momento, era tornare a essere Taehyung, almeno per l’istante di una fotografia.
Si chiuse la porta della camera alle spalle e uscì.
 

[…]

 
Stava per uscire sul pianerottolo, quando un leggero ticchettio sul legno del pavimento lucido attirarono la sua attenzione. Passò un istante prima che una grossa massa pelosa si gettasse tra le sue gambe, avvolgendolo immediatamente di un calore familiare e piacevole.
Abbassò lo sguardo sulla figura di Sup che gli stava sfregando il muso sulle cosce, la lingua a penzoloni e l’entusiasmo che solo un cane poteva avere a quell’ora del mattino, e sorrise automaticamente. Provava un bene dell’anima per quell’animale.
Impiegò poco per recuperare il guinzaglio dall’aggancio posto vicino all’entrata e ad assicurarlo al collare. Forse, un po’ di compagnia poteva solo che fargli bene.
Mentre si apprestava ad uscire di casa, stringendosi nelle spalle nel tentativo di reprimere un brivido causato dal freddo, tornò a guardare il cielo. Era ancora troppo presto per scattare. La luce che cambiava così velocemente d’intensità in prossimità dell’alba poteva essere emozionante da documentare, ma risultava un piccolo problema quando voleva concentrarsi su altri soggetti.
Non che avesse idee precise quella mattina.
Sup si era fermato al suo fianco, guardandolo dal basso con il capo piegato, quasi a domandargli che cosa stesse aspettando.
Tae accennò un sorriso e con un leggero scatto scese i gradini del pianerottolo e si immise nella strada ancora deserta. Non aveva una meta precisa, per cui si limitò a seguire le proprie gambe – o meglio, a seguire il volere di Sup, il quale gli trotterellava davanti, il naso raso terra e la coda scodinzolante.
Sorrise, ricordando il momento in cui Sup era entrato a far parte della sua famiglia, quasi dieci anni prima ormai. Era un cane di grandi dimensioni, ma all’epoca non era che un batuffolo di pelo chiaro tremolante e dallo sguardo completamente perso.
Era stato proprio Taehyung a trovarlo in una delle tante notti insonni che aveva vissuto. All’epoca aveva appena iniziato le superiori e, più che per casualità, la notte rimaneva sveglio a studiare. Non perché amasse chissà quanto lo stare sui libri, ma anche allora era oppresso da aspettative molto più grandi di lui, che tuttavia voleva adempiere e soddisfare.
Quella notte in particolare, per un motivo che non ricordava più, si era messo a guardar fuori dalla finestra il temporale che infuriava all’esterno. Era stato quando un fulmine aveva tagliato in due il cielo, illuminando per un breve – ma sufficiente – istante il paesaggio, che Taehyung lo aveva visto. Lì, dall’altra parte della strada, poco fuori dalla proprietà della sua famiglia, c’era una piccola figura chiara raggomitolata e indistinguibile.
Aveva tentennato un solo istante prima di fiondarsi all’esterno, incurante della pioggia torrenziale, e confermare il timore che era sorto in lui: quella piccola figura era un cagnolino dal pelo inevitabilmente sporco e il corpo tremante.
Taehyung lo aveva portato immediatamente al sicuro e al caldo, dentro casa. Se ne era preso cura per tutto il resto della notte, pulendolo, nutrendolo e lasciandolo riposare tra le proprie braccia, chiedendosi chi avesse potuto abbandonare una creatura del genere per strada – anche se, purtroppo, erano situazioni che in quella città capitavano molto spesso, soprattutto in determinati quartieri.
L’affetto per quell’esserino era stato immediato.
La mattina seguente, però, al risveglio del resto della famiglia erano arrivati i guai: come aveva temuto Tae, sua madre non voleva saperne di adottare un cane e, con sua somma sorpresa, anche Yoongi si era opposto. La ragione era da ricercarsi nel brutto episodio che quest’ultimo aveva avuto da bambino con un cane randagio, conclusosi con una grossa benda su una mano e un’intrinseca paura di qualsiasi bestiolina da tratti somatici affini.
Tae però si era impuntato come mai nella vita, facendosi furbo e, insieme, opera di convincimento: la madre era stata stranamente l’anello più debole. Era bastato ricordarle che un cane da guardia faceva sempre comodo e che tutte le sue amiche ne avevano almeno uno.
Con Yoongi, invece, c’era voluto quasi un mese. Un mese durante il quale Taehyung non aveva perso occasione di portarsi appresso quel batuffolo di pelo morbido, dai grandi occhi scuri e un carattere molto affettuoso, ogni qualvolta suo fratello si spostasse.
Solo dopo centinaia di leccate bavose in faccia e teatrini demenziali organizzati da Tae, che avevano visto protagonista il cagnolino entusiasta, Yoongi aveva ceduto. Era diventata addirittura la persona preferita di Sup e l’affetto era reciproco, sebbene suo fratello avesse sempre cercato di nasconderlo. Non per altro, Sup dormiva quasi tutte le notti ai piedi del letto di Yoongi.
Perso nei ricordi, Taehyung non si accorse di essere arrivato nei pressi di Seoul Forest.
Rimase stupito perché casa sua distava quasi un’ora a piedi dalla posizione attuale. Non si era accorto di aver camminato tanto a lungo. Alzando lo sguardo al cielo constatò che sì, era passato tanto tempo da quando era uscito di casa perché ora la luce aveva invaso tutto l’ambiente, interno ed esterno, sovrastando la maggior parte delle tenebre. Inoltre, attorno a sé, la strada si era riempita di persone e macchine, dirette chissà dove.
Sup non aveva smesso un istante di tirare il guinzaglio, puntando all’entrata del parco. Tutto quel verde era un richiamo irresistibile per lui.
Taehyung lo accontentò, addentrandosi in quel piccolo angolo di mondo ai suoi occhi magico e a sé stante rispetto al resto della città. Non era la prima volta che ci andava, anzi, ma in ogni sua visita era in grado di ricreare quella magia quasi infantile che lo galvanizzava completamente.
Era il posto perfetto per scattare.
Slegò il guinzaglio dal collare di Sup, permettendogli di scorrazzare in giro liberamente, sicuro che non si sarebbe allontanato troppo, né che si sarebbe messo a importunare le altre persone. Su una cosa sua madre era stata irremovibile all’epoca, ovvero l’addestramento al rispetto da parte del componente peloso della famiglia.
Si mise a trafficare con la macchina fotografica, in modo tale da fissare le giuste impostazioni per l’effetto che voleva ottenere: vedendo quella mattinata luminosa svilupparsi davanti ai suoi occhi, voleva provare a catturarne l’atmosfera.
Scattò un po’ di immagini, ai laghetti, agli alberi, al cielo, a un insieme di tutte quelle cose, e alle persone che camminavano e correvano qua e là. Nulla di tutto quello che comparve sullo schermo digitale dell’apparecchio lo soddisfò. Per un motivo o per l’altro, c’era sempre qualcosa, un dettaglio o un colore che rendevano le foto assolutamente scialbe e sbagliate.
Sentiva dentro di sé montare della frustrazione, pensando anche al fatto che era voluto uscire a fotografare proprio per scaricarsi, e invece si trovava solo ad accumulare ancora più stress.
Camminò ancora un po’ in giro, fermandosi nella zona dei laghi, e alzò la macchina fotografia, ponendola di fronte all’occhio sinistro.
Fu in quel momento che, dall’altra parte della lente, lo vide.
Lo scatto che fece con la testa per guardare con i propri occhi la realtà, quasi gli stirò i muscoli del collo. Sicuramente, il suo cuore aveva fatto un balzo non indifferente da qualche parte lì, nel petto.
Osò sbattere le palpebre solo per assicurarsi che sì, ci vedeva ancora bene e che sì, quello era proprio lui.
Correva forte, le gambe che spingevano alla massima potenza e lo sguardo fisso davanti a sé. Taehyung non avrebbe nemmeno dovuto riconoscerlo, nello stato in cui riversava al momento, eppure ormai aveva rinunciato a chiedersi come facesse a sapere che fosse sempre lui. Lo sapeva e basta.
Era coperto da capo a piedi da vestiti scuri, pantaloni aderenti e una grossa felpa larga. I capelli chiari erano invece celati per la maggior parte da un cappello di lana rosso, con un piccolo buffo pon-pon che rimbalzava al ritmo della cadenza dei suoi passi.
Tae non esitò un istante di più, anche se avrebbe avuto numerosi motivi per non farlo. Con la macchina fotografica in una mano e il guinzaglio nell’altra, gli si affiancò, cominciando a correre.
Per quanto lo riguardava, quello era uno dei gesti più impulsivi che avesse mai fatto: Taehyung odiava correre, i vestiti che indossava erano tutto fuorché adatti e la sua preziosa macchina fotografica rischiava la morte per sua stessa mano. Senza contare che il suo carattere lo aveva sempre precluso dal compiere simili gesti avventati.
Eppure, eccolo lì.
Si rese davvero conto di quanto quel ragazzo fosse immerso nella corsa quando non diede segno di essersi accorto della sua presenza. Impiegò parecchi secondi, un tempo abbastanza lungo perché Tae cominciasse ad ansimare e a chiedersi se fosse il caso di compiere un ulteriore gesto impulsivo.
La figura alla sua destra si bloccò all’improvviso.
Taehyung fece altrettanto, appena in tempo per vederlo inciampare nei propri passi e quasi capitolare a terra. Ma Tae aveva dei buoni riflessi: allungò il braccio velocemente per prendere quello del ragazzo e lo salvò da caduta certa.
Il vero problema sorse l’istante successivo. Quello in cui si ritrovarono faccia a faccia, a una vicinanza tale da poter vedere tutte le goccioline di sudore che imperlavano il suo viso. Una in particolare attirò lo sguardo di Tae: appesa sul limitare della guancia per effetto della tensione superficiale, stava scivolando con velocità estenuante verso l’angolo di quella bocca, incredibilmente rossa e delicatamente aperta a formare una piccola “o” di sorpresa.
Taehyung sentiva il petto del ragazzo dilatarsi e comprimersi velocemente contro la sua scatola toracica. La ragione era sicuramente da attribuirsi alla corsa forsennata, ma a che scusa poteva attingere Taehyung per giustificare la propria mancanza di fiato?
Non osò alzare gli occhi per incrociare il suo sguardo.
Quanto stava durando quel momento?
Tae si accorse di quello che stava facendo un tempo troppo lungo da potersi considerare socialmente accettabile. Con un moto di sorpresa verso sé stesso, lasciò andare il braccio del ragazzo, allontanandosi di due passi e ristabilendo lo spazio vitale che necessitava per tornare a respirare normalmente.
Avrebbe dovuto provare imbarazzo? L’unica cosa che sentiva al momento era una grandissima confusione, mista a un’inaspettata felicità intrinseca.
Quando trovò il coraggio per guardarlo in faccia, ad attenderlo c’era uno sguardo sorpreso e vagamente spaesato.
«Ciao.»
Tae non riusciva a credere che quella parola fosse uscita proprio dalla sua bocca. Non riusciva nemmeno a credere che fosse la prima parola in assoluto che gli avesse detto. Era stato così… facile.
«Ciao.»
Taehyung era perfettamente consapevole della confusione che stava crescendo sempre più in quello sguardo che lo fissava, così come era perfettamente consapevole che gli episodi del passato avrebbero richiesto una sorta di spiegazione da parte sua. Ma, di giustificazioni non ne aveva nemmeno per sé stesso come già aveva concluso la settimana precedente, se non ammettere che fosse stato un cretino.
Quella era la sua occasione per rimediare. E quale modo migliore di rimediare se non nascondere la testa sotto il terreno e far finta di nulla?
In una vita passata doveva essere stato un coniglio.
«Ti sei fatto male?» gli domandò sinceramente preoccupato, ricordandosi che fosse quasi caduto a terra per colpa sua. Non gli diede tempo di rispondere. «Vieni a sederti su quella panchina, prendi fiato. Sembri molto affaticato.»
Poco lontano da loro, sul perimetro della pista pedonale, vi erano una serie di sedute di legno scuro, poste l’una a poca distanza dall’altra in modo che puntassero verso la riva del fiume Han. Infatti, anche se il litorale era occupato da grandi strade trafficate, da quella posizione era possibile godersi una vista mozzafiato della città e dei suoi palazzi attraverso gli alberi spogli.
Quello sì che era un buon posto per scattare fotografie anche se, al momento, le fotografie erano il suo ultimo pensiero.
Non attese una risposta, consapevole che la sua proposta fosse probabilmente fuori luogo e facilmente declinabile. Non poteva permettersi di lasciarsi sfuggire l’ennesima occasione.
Senza pensarci, lo prese delicatamente per la manica della felpa larga, e lo trascinò con sé, lasciandolo solo quando entrambi si furono accomodati sulla panca umida e fredda.
Il silenzio tornò a ricoprire il ruolo di terzo incomodo tra loro. Quella volta però era un silenzio diverso, molto meno pesante e molto più avvolgente, forse anche grazie all’atmosfera frizzantina di quella mattinata.
Sup scelse proprio quel momento per tornare da Taehyung, saltellando in giro tutto contento e annusando l’erba qua e là. Nel vedere il nuovo arrivato accanto al suo padrone, si avvicinò di gran carriera, con la chiara intenzione di fargli le feste e scoprire il suo odore.
Tae era in procinto di fermarlo, non sapendo se a lui avrebbe potuto creare dei problemi, ma a sorpresa vide il suo volto accendersi letteralmente mentre assecondava i movimenti festaioli di Sup. Gli accarezzò il pelo fulvo, mentre il cane posava le zampe anteriori sulle sue gambe e gli lasciava una lunga striscia di bava umida sul volto – giù bagnato in precedenza dal sudore.
Le orecchie di Taehyung si bearono del suono melodioso proveniente dalle sue labbra, da cui era appena sfuggita una risata sincera e cristallina. Quel suono gli arrivò dritto nello stomacò, mozzandogli momentaneamente il fiato.
Respirò profondamente.
«Scusa.»
La parola uscì piano dalla sua bocca, una via di mezzo tra un sussurro e un bisbiglio. Ma si propagò con una potenza non proporzionale, tale per cui venne udita dal diretto interessato, sebbene questo fosse ancora distratto nell’accarezzare Sup.
«Mi dispiace,» aggiunse ancora Taehyung, non sapendo nemmeno lui dove volesse andare a parare. Per che cosa si stava scusando esattamente?
Guardò attentamente il suo volto, mentre questo si girava lentamente nella sua direzione, piegandosi leggermente verso destra in un’espressione sorprendentemente neutra. Se Taehyung sperava di ricevere dei segnali su come proseguire, doveva ricredersi.
Perlomeno non lo aveva ancora mandato a quel paese. Era già una piccola vittoria.
Doveva proseguire nell’opera di perdono e rischiare di aggiungere qualcosa che lo avrebbe fatto ricadere in una fossa? Nemmeno lui sapeva cosa gli fosse preso all’epoca, per cui cosa avrebbe potuto dirgli?
Quella volta era sicuro che non si sarebbe pentito della scelta di ripiegare sul silenzio.
«Vieni spesso qui a correre?»
Poteva comportarsi da stupido a volte, ma persino lui sapeva che il miglior modo per evitare domande indesiderate era porne altrettante. Il trucco stava nel tempismo.
Passarono qualche istanti di silenzio, durante in quali il ragazzo tornò a grattare lo spazio dietro le orecchie di Sup, sedutogli davanti con la lingua a penzoloni. Taehyung era sicuro che avesse udito la sua domanda, ma non poteva vantare la medesima certezza in una sperata risposta.
«Sì, quasi tutti i sabati mattina e alcune volte anche in settimana.»
Non lo stava ancora guardando, per cui Tae si concesse la possibilità di sorridere brevemente con le labbra, accorgendosi solo in quell’istante di aver trattenuto il fiato.
«Deve piacerti molto correre per alzarti così presto alla mattina e con queste temperature,» sottolineò Taehyung. Non poteva permettere che la conversazione soffocasse come un fuoco privato dell’ossigeno.
Lo vide stringersi nelle spalle e fare un cenno con il capo, senza mai distogliere lo sguardo dall’animale.
Taehyung non riusciva a comprendere cosa gli passasse per la testa. Sentiva l’occasione scivolargli via dalle mani come una fune, senza possibilità di appigliarcisi.
Si morse le labbra, indeciso se arrendersi o se uscirsene con l’ennesima frase di rito, per esempio su quanto bella fosse quella giornata e che bel sole fosse appena sorto. Roba da vecchietti in fila al supermercato, insomma.
Abbassò lo sguardo sulle proprie mani che stavano giocherellando nervosamente con la macchina fotografica.
«Sei un fotografo?»
Tae alzò gli occhi sorpreso. Il suo sguardo era puntato sulla macchina fotografica, ma quasi subito si sollevò per incontrare quello di Taehyung. In quelle iridi vi era una sincera curiosità.
Tae aveva desiderato quell’interesse reciproco, ma ora si trovava ad essere bloccato, perché era una domanda che, sorprendentemente, lo colpiva più di quanto gli piacesse ammettere. Non c’era margine di argomentazione da parte sua, un sì o un no erano più che sufficienti. E la risposta vera era solo una. Ma non era quella che avrebbe voluto.
«No,» disse. Alzò la macchina fotografica e ci passò una mano sopra, quasi come una carezza. «È una sorta di passatempo per i momenti di noia. Non sono nemmeno molto bravo.»
Non sapeva nemmeno lui cosa avesse voluto dire con quella frase perché, se c’era una cosa in cui non aveva mai avuto problemi, era l’essere obiettivo verso sé stesso e le proprie capacità. Sapeva di essere bravo, sapeva di avere delle capacità in quell’arte nello stesso modo in cui sapeva di avere una strana connessione con quel ragazzo.
Era istinto, e l’istinto non aveva bisogno di giustificazioni.
Eppure, lì in quel momento, sentiva di non essere all’altezza, sentiva che non sarebbe mai stato abbastanza per poter essere chiamato tale. Fotografo.
Percepiva lo sguardo del ragazzo su di sé, ma non aveva più voglia di incrociarne gli occhi. Temeva di mostrarsi vulnerabile.
Taehyung sentì accanto a sé un rumore e si girò appena in tempo per vederlo lanciare un’occhiata all’orologio che teneva al polso e alzarsi di scatto.
«Scusa, devo proprio scappare,» disse toccandosi nervosamente il cappello ben calato sulla testa. «Sai, il lavoro…»
Lasciò la frase in sospeso mentre si osservavano. Taehyung, ancora seduto, annuì con il capo.
«Beh, allora… ciao» continuò l’altro. Però non si mosse subito, oscillò sui propri piedi spostando lo sguardo un paio di volte da Tae a Sup. Sembrava volesse aggiungere qualcosa, ma alla fine si voltò, allontanandosi in direzione della pista.
E, all’improvviso, Tae scattò.
«Ehi, aspetta!»
Taehyung corse per la seconda volta – di troppo – quella giornata, che tra l’altro era appena iniziata. Si fermò solo quando si ritrovarono a pochi metri di distanza.
«Come ti chiami?»
Il ragazzo, che aveva girato solo il capo per guardarlo rimanendo di spalle, sorrise lievemente.
«Jimin. E tu?»
«Taehyung.»
Jimin annuì, mentre con le labbra pronunciava silenziosamente quello che pareva essere il nome di Tae, quasi a volerne assaporare il peso sulla bocca. Poi fece nuovamente un cenno col capo e riprese a correre, allontanandosi con sorprendente velocità.
 

[…]

 
Chiuse la porta di casa dietro di sé con un leggero tonfo e vi si appoggiò contro con tutto il corpo. Serrò gli occhi e reclinò il capo, in modo che il suo volto puntasse verso il soffitto. Infine, rilasciò il fiato, lentamente, riaprendo con estrema lentezza le palpebre dopo qualche istante.
Cosa cazzo era appena successo?
Jimin sentì qualcosa all’altezza dei polpacci. Abbassando il capo trovò Erri intento a fargli le fusa – o meglio, a richiedere disperatamente attenzioni. Jimin sapeva benissimo quale fosse il suo bisogno, dopotutto quel gatto faceva solo due cose nella sua idilliaca vita d’animale domestico: mangiare e dormire. E se, al momento, non era nascosto da qualche parte in camera sua a sonnecchiare e a premeditare un nuovo modo per riempirgli di peli i vestiti, significava solo che era venuto in cerca di cibo.
Si piegò sulle gambe in modo da potergli grattare il capo. Erri sembrò apprezzare solo per i primi tre secondi, dopo i quali si mise a fissarlo. Se avesse potuto parlare, gli avrebbe detto di muovere le sue chiappe umane verso la cucina per accontentare la sua richiesta – Jimin ne era certo.
Guardò la propria mano, immersa in quel pelo morbido e per il suo cervello fu automatico tornare indietro nel tempo di appena un’ora, quando aveva davanti a sé un bellissimo cane e accanto a sé uno stranissimo ragazzo.
Un ragazzo che ora aveva un nome.
Taehyung.
Un mistero. Il suo mistero.
Perché quel giorno gli era sembrato una persona completamente diversa da quella che si era trovato a fronteggiare nei loro due trascorsi. Era rimasto talmente destabilizzato da aver a malapena spiccicato parola. Non avrebbe saputo dire se a lasciarlo senza voce fosse stato l’incontro stesso, il fatto che avesse provato a intavolare una conversazione, le scuse… oppure quell’istante – quello in cui i loro corpi si erano trovati improvvisamente vicini.
Certo, lo aveva salvato da caduta certa, evitando che finisse faccia a terra – come già si era immaginato al rallentatore mentre inciampava. Lo aveva preso appena in tempo per il braccio, ma quello che era seguito non faceva parte del pacchetto “salva Jimin da una figura di merda certa”.
Era successo qualcosa. Qualcosa che forse poteva trovare spiegazione negli occhi di Taehyung che si erano abbassati sulle sue labbra. Jimin lo aveva visto e non aveva potuto far altro che imitarne il gesto.
Poi – grazie al cielo – era potuto tornare a respirare dell’aria non condivisa.
Quella che era seguita era stata la conversazione più strana e incomprensibile della sua vita. Aveva provato a inquadrare quel ragazzo, così diverso e allo stesso tempo così familiare all’immagine che gli aveva associato nella sua testa.
Non poteva negare che dopo la mostra d’arte gli avesse affibbiato l’etichetta di persona snob, alla pari di molta gente presente come pubblico quella sera. Con quella statura alta che si ritrovava, gli abiti chiaramente firmati e il profilo marmoreo, si inseriva perfettamente nell’ambiente. Per cui era stato facile trovare una spiegazione più o meno sensata al suo comportamento – o, per meglio dire, al suo non comportamento.
Ma quella mattina…
«Koibito? Sei tu?»
La voce di sua nonna proveniva dalla cucina. Jimin si diresse in quella direzione, sapendo che Erri lo avrebbe seguito. Ciò che si trovò davanti agli occhi, una volta varcata la soglia della stanza, avrebbe dovuto stupito, ma ormai si era finalmente abituato alle stranezze di sua nonna, abbastanza da limitarsi ad alzare un sopracciglio.
«Cosa stai facendo?» domandò dopo un istante di silenzio.
Nonna Mae era seduta a terra, su un tappetino di gommapiuma dalle tonalità verdastre, e aveva assunto una posizione che qualcuno avrebbe ritenuto impensabile per una persona della sua età. Le gambe erano piegate in modo tale che le ginocchia puntassero all’esterno e uno piede fosse posato sopra la coscia opposta. Con la schiena dritta, le mani erano sollevate all’altezza del petto, congiunte davanti a sé in una sorta di preghiera, mentre il volto era una maschera di concentrazione pacifica.
Al naso di Jimin arrivò una zaffata di profumo di portata tale da scatenargli una leggera e passeggera nausea. Solo allora si accorse che, sparse per tutta la cucina, vi erano quelle che a occhio e croce erano un centinaio di candele di svariate dimensioni e colori – e, a considerare dall’odore, anche di diverse fragranze.
«Meditazione mattutina, koibito,» rispose in un sussurro nonna Mae. Indicò con un gesto elegante della mano la piccola e vecchia televisione posta sul ripiano della cucina, sul cui schermo c’era un uomo di stazza imponente nella sua medesima posizione.
Jimin si passò una mano sotto il naso, in uno scarso e vano tentativo di mascherarsi dall’odoraccio.
«Come è andata la corsa?»
«Bene, grazie,» rispose lui. Doveva ancora decidere se anche l’incontro fosse classificabile come una cosa buona, ma nel mentre non c’era motivo di approfondire.
«Hai fame? Ti ho preparato del riso e del pesce alla griglia, bisogna solo riscaldarli,» continuò sua nonna con lo stesso tono di voce basso, appena udibile.
Gli occhi di Jimin corsero sul piatto bianco posto sopra al tavolo, coperto da un altro piatto del medesimo servizio. Si svegliava sempre presto per andare a correre e non mangiava mai nulla, se non un bicchiere d’acqua per rimediare al sudore che avrebbe prodotto. Il motivo era attribuibile a un sicuro malore, in quanto era consapevole di cosa il suo stomaco potesse o meno sopportare spingendo il corpo alla velocità a cui lo sottoponeva molto spesso.
Dopo, solitamente mangiucchiava qualche avanzo della sera prima o, comunque, qualsiasi cosa trovasse di commestibile, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per mancanza di voglia. E poi c’erano quelle altre volte, quelle in cui il cibo era il suo ultimo pensiero. Quelle volte semplicemente evitava la cucina e si chiudeva in stanza a studiare o andava al lavoro.
E quella mattina era una di quelle.
«Grazie nonna, mangerò dopo» rispose mentre si dirigeva verso la dispensa. Prese un bicchiere di croccantini e li versò nella ciotola del cibo di Erri, che era già lì ad aspettarlo con un’espressione di palese attesa. Se solo Erri avessero potuto parlare…
«Ora vado a fare la doccia e poi corro a lavoro, tornerò tardi.»
«Va bene, koibito,» rispose sua donna con un sorriso in viso, ma gli occhi ancora chiusi. «Ricordati però di divertirti! Alla tua età passavo più ore fuori casa con tuo nonno che a dormire,» aggiunse con una risatina rivolta più a sé stessa che altro.
Jimin fece finta di non aver udito quell’ultima parte mentre usciva dalla cucina scuotendo la testa. L’ultima cosa che voleva fare era occupare la testa di certi pensieri riguardanti i suoi nonni da giovani. Il suo cervello era già saturo di ben altro…
Si spogliò di quei vestiti impregni di sudore, gettandoli nel cesto della biancheria sporca – dove sarebbe rimasti finché non fosse stato costretto a pensarci per mancanza di abiti puliti – e aprì il getto d’acqua. Guardò la propria immagine allo specchio finché il bagno non cominciò a riempirsi di un vapore latteo.
Che miseria.
Con un sospiro si decise ad entrare nella doccia e a togliersi di dosso lo sporco e anche quelle brutte sensazioni nate durante la notte e accresciutesi nelle ore di veglia. Il sogno che aveva fatto…
Scosse la testa, spargendo attorno a sé le gocce d’acqua raccoltesi tra i suoi capelli.
Basta.
Uscì dalla doccia cautamente e, mentre passava l’asciugamano sul suo corpo e sfregava la pelle del braccio destro, sentì uno strano calore, lieve, nascere in un punto preciso, esattamente dove lui lo aveva toccato.
Rialzò lo sguardo sul proprio riflesso e incrociò gli occhi confusi e vagamente preoccupati che lo stavano fissando allo specchio.
Che cosa cazzo era successo?


 





Note del testo:

1 – Il nome del cane della famiglia Kim, Sup, significa bosco in coreano. Non ho scelto il nome per un motivo preciso, ne ho solo apprezzato il suono e ho pensato potesse essere una buona soluzione per un cane di grandi dimensioni e peloso. So benissimo che il vero cane di Taehyung ha un nome diverso – e anche una fisionomia opposta – ma la mia intenzione non è quella di utilizzare tutti i fatti reali.
2 – Mi sono informata un po’, e a quanto pare a Seoul, malgrado sia una città più che modernizzata e all’avanguardia, vi sono ancora numerosi cani randagi che scorrazzano liberi.
3 – Seoul Forest è il terzo parco più grande della città di Seoul, situano nel gu Seongdong. Vi invito a cercarlo in internet per bearvi della bellezza di questo piccolo angolo di mondo nel mezzo di una grande metropoli.
4 – Il fiume Han attraversa tutta la città di Seoul. Non ho la minima idea se ci siano davvero delle panchine nel punto in cui ho immaginato l’incontro, probabilmente no. Voi fate finta che ci siano lol.
5 – Premetto che sono tutt’altro che esperta di meditazione e yoga. La posizione assunta da nonna Mae in cucina dovrebbe essere quella del fiore di Loto, ma con le braccia piegate al petto. Nel caso, correggetemi pure ahaha
6 – In Corea non è strano mangiare a colazione le stesse cose che si mangiano negli altri pasti, tendenzialmente riso, carne, pesce, zuppe e contorni di verdura. Nonna Mae è una pur sempre una persona tradizionale – anche nella sua eccentricità ahaha – e a certe abitudini ci tiene.
7 – Questa più che una nota del testo, era per dire che è normale se al momento non capire assolutamente nulla di quanto sia accaduto verso la fine del capitolo. Chiarirò più avanti, promesso. Spero solo che il tutto risulti coerente ai vostri occhi ^^


 

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Capitolo 6
*** Déjà vu ***




6.Déjà vu

 

Jimin stava studiando sdraiato sul suo letto, le gambe per aria e il libro sopra la testa, sorretto dalle braccia distese. Era in quella posizione ormai da decine di minuti e cominciava ad aver male ai bicipiti, ma le occasioni di studiare – e soprattutto di trovare la giusta concentrazione – erano talmente poche che non avrebbe mai osato interrompere il fantastico lavoro che stava facendo il suo cervello.
Non che fosse chissà quanto portato per lo studio. In realtà, quando ancora andava a scuola, odiava essere costretto a rimanere su dei libri perché qualcuno glielo imponeva. Tuttavia, da quando non aveva più quella possibilità, il suo approccio verso lo studio era cambiato.
Era riuscito finalmente a comprendere il valore del sapere e, soprattutto, della libera opportunità di imparare che, molti, davano ormai per scontata. Avendo potuto interfacciarsi con entrambi gli schieramenti, riusciva a comprendere la frustrazione provata dagli studenti – grandi o piccoli che fossero – ma si era reso davvero conto di cosa volesse dire essere libero di apprendere senza altri doveri a cui pensare solo quando ormai era troppo tardi.
Nessuno lo aveva costretto. Nessuno lo aveva precluso dall’occasione di frequentare l’università.
Nessuno a parte la vita stessa e gli scherzi del destino.
Perché crescere voleva dire anche quello: rendersi conto che i bisogni primari, come mangiare, pagare le bollette, potersi curare, acquisivano la priorità su qualsiasi altra cosa, persino l’istruzione.
Girò l’ultima pagina che il suo cervello aveva memorizzato e sospirò.
E poi il mondo divenne all’improvviso scuro e sentì un forte dolore al naso.
«Ahi!»
Si sarebbe anche lasciato sfuggire un’imprecazione in piena regola se non fosse stato per l’ulteriore attacco che subì: qualcosa di duro e morbido allo stesso tempo colpì nuovamente la sua testa e Jimin non poté far altro che lamentarsi un’altra volta.
«Ma che diav-»
«Su, forza, alza il culo da quel letto e cambiati.»
La voce che giunse alle sue orecchie prima ancora che riuscisse a riacquistare la vista era senza dubbio quella di Jungkook. Il suo caro, dolce, delicatissimo – e presto morto – amico Jungkook.
Con il braccio rimasto incastrato sotto il libro, si liberò di tutto quel peso e subito i suoi occhi andarono a posarsi sulla figura dinnanzi al suo letto, poco oltre la soglia della camera. Jungkook lo stava fissando con uno sguardo d’attesa, le braccia incrociate e l’espressione seria.
Il cervello di Jimin registrò brevemente il suo abbigliamento – che già poteva essere indice delle non buone intenzioni – ovvero una camicia maculata su sfondo rosso mattone, la cui ultima asola era rimasta lasciata libera dal rispettivo bottone, e dei pantaloni neri attillati. Da qualche parte doveva esserci anche una giacca perché con il freddo che faceva in quei giorni nessuno sano di mente – nemmeno Jungkook, che pazzo lo era assai – sarebbe andato in giro vestito solo con un misero tessuto di cotone a coprirlo.
«Che intenzioni hai?» domandò, continuando a massaggiarsi il dorso del naso. Gli faceva davvero molto male, tanto che temeva gli si fosse arrossato e vi fosse rimasto il segno dell’angolo della copertina del tomo di anatomia.
«Tu. Io. Una festa. Ora,» rispose a monosillabi Jungkook, indicando con l’indice della mano destra qualcosa sul letto di Jimin.
Abbassando lo sguardo, quel qualcosa si rivelarono essere un ammasso di vestiti a lui sospettosamente familiari. Riconobbe una camicia azzurra che non indossava da anni, e un paio di jeans scuri il cui passato aveva molti tratti in comune con l’altro capo d’abbigliamento. C’era un motivo per cui erano rimasti volontariamente dimenticati nel suo armadio.
«Una festa? Ancora? Non ci sei andato anche ieri sera?» continuò a domandare, più per prendere tempo che per vero interesse.
Poco ma sicuro, quella sera non sarebbe uscito. Il motivo ufficiale era che doveva studiare – anche se ormai poteva dire addio alla sua concentrazione – quello ufficioso…
«Io comunque non vado da nessuna parte. Ho da fare,» rispose. «Non hai un fidanzato che può accompagnarti? Dovrebbe essere uno dei suoi compiti!»
Non sapeva nemmeno lui cosa stesse dicendo. Probabilmente le prime cose che passavano per il suo cervello, completamente insensate. Ma il panico di uscire di casa per qualcosa di non programmato, andare in un posto sicuramente affollato di gente che si divertiva, urlava, parlava, beveva, ballava, viveva… non poteva.
E poi doveva studiare.
«Seokjin deve lavorare e lo sai anche tu,» rispose Jungkook alzando le spalle, poi gli puntò addosso lo stesso indice che aveva usato per indicare i vestiti.
Il gesto doveva essere minaccioso, ma ai suoi occhi, erano rare le volte in cui Jungkook riusciva a incutergli timore. Un po’ perché lo conosceva da una vita – e quindi tutte le sfaccettature del carattere gli erano famigliari come se fossero state le proprie – un po’ perché con quel visino tondo e gli occhi grandi, l’unica cosa che sicuramente riusciva a incutere nelle persone era tenerezza.
«Smettila di lamentarti e vestiti, altrimenti…»
Ora, Jungkook poteva pure passare per la persona più innocente e meno pericolosa dell’intero pianeta, ma era molto bravo con le minacce, in particolare con quelle indirizzate a Jimin. Aveva una insospettabile abilità nel pensare a punizioni e rivendicazioni.
E Jimin lo sapeva molto bene.
Assottigliò lo sguardo, ancora mezzo sdraiato sul proprio letto. Ormai era una questione di chi avrebbe distolto prima gli occhi dall’altro.
«Non oseresti mai,» mormorò Jimin mentre, senza accorgersene, tirava a sé le proprie gambe con estrema lentezza, quasi a volersi rannicchiare su sé stesso per proteggersi.
«Lo sai che lo farei…» e accompagnò quelle ultime parole con un passo lento in avanti, piccolo ma ben visibile.
Calò un silenzio carico di attesa, in cui la gara di sguardi toccò alte vette di patos e la distanza si ridusse in modo che tra i due vi fosse solo un metro d’aria libera, e mentre Jungkook avanzava, Jimin si ritirava sempre più finché le sue cosce non furono attaccate al petto.
Poi il primo scattò e Jimin fece appena in tempo a raggomitolarsi in posizione fetale che Jungkook gli era già addosso. Prese a fargli il solletico fin dove le sue mani avevano libero accesso, scatenando nel suo corpo piccoli sussulti e provocando dalla sua bocca involontarie risatine e suppliche. Poche persone sapevano di quel suo punto debole – anche se, dopotutto, non frequentava molta gente.
Il supplizio finì non molto in fretta quando Jungkook, ritenendo di averlo punito abbastanza da modellare il suo volere al proprio, si sedette sul bordo del letto, culminando la sua opera di convincimento con una sonora e sorda pacca sul fondoschiena di Jimin.
Girato di spalle, in posizione fetale e con il respiro affannoso, la vittima sussultò e lanciò l’ennesimo lamento, questa volta infondendoci anche del finto oltraggio nella cadenza di voce. Quello di picchiettarsi a vicenda il sedere era un loro gesto abituale che non aveva nessun intento malizioso se non quello di mostrare affetto reciproco.
Strano modo, concordavano anche loro.
Jimin sentì una mano posarsi con delicatezza sulla sua spalla esposta e stringerla brevemente.
Era solo un piccolo gesto, ma conteneva un enorme significato, e lui lo sapeva bene.
Jungkook era lì, e ci sarebbe sempre stato.
Solo un groppo alla gola lo costrinse a bloccare i ricordi che stavano sorgendo nella sua mente e a focalizzarsi solo sul presente. Perché quella era la stessa posizione e lo stesso gesto che si erano ripetuti più volte da quella sera di sei anni prima.
«Su, forza, alzati e cambiati» disse dopo un po’ il suo amico spostandosi dal materasso e recuperando i vestiti, finiti da qualche parte in fondo alle coperte insieme al libro, per lanciarglieli addosso.
Jimin attese un istante per essere sicuro di avere le proprie emozioni sotto controllo, chiuse bene in una scatola ermetica da qualche parte nella sua testa, e poi rivestì i panni dell’amico seccato da quella trovata improvvisa.
Fingere. La sua vita era diventata una finzione.
Sbuffò sonoramente – con più enfasi di quanta fosse necessaria – e si alzò dal letto, lanciando poi un’occhiata a Jungkook, sedutosi ora sulla sua scrivania con Erri tra le braccia. Entrambi rimasero impassibili a quelle vibrazioni negative, persi nel loro mondo fatto di grattini e sonore fusa.
«Prima o poi mi dimetterò da questo incarico di chaperon, per di più non retribuito, che non ho mai accettato di ricoprire e allora rimpiangerai di non avermi trattato meglio,» borbottò Jimin a voce abbastanza alta da farsi udire dal diretto interessato il quale lo ignorò bellamente e, anzi, alzò Erri tra le braccia in modo che fosse all’altezza del suo volto e disse con una vocina:
«Il tuo padrone è molto simpatico, vero Erri? Gli piace molto lamentarsi. Sotto sotto però mi vuole tano tanto tanto bene e farebbe di tutto per rendermi felice.»
E, purtroppo per Jimin, aveva fottutamente ragione.
 

[…]

 
«Che ha?»
«Nulla, lascialo perdere. Gli piace interpretare il ruolo dell’offeso. Gli passerà.»
«Io non sto interpretando nessun ruolo se non quello della persona tradita dal proprio migliore amico! Perdonami se ho pensato di potermi fidare di te.»
Dallo specchietto laterale destro della macchina, Jimin riuscì a vedere il diretto interessato alzare gli occhi al cielo ironicamente e poi sorridere con soddisfazione. Jungkook si stava divertendo a sue spese, e ancora non erano arrivati alla festa.
La serata poteva solo che peggiorare.
Tutto era iniziato quando i due erano usciti di casa – in seguito alle raccomandazioni di nonna Mae di divertirsi e di fare tutto quello che avrebbe fatto anche lei – bardati nei rispettivi cappotti e Jimin si era diretto verso la fermata più vicina della metropolitana.
Jungkook, ancora fermo sull’uscio di casa, gli aveva chiesto dove stesse andando e Jimin si era fermato, completamente spaesato, domandandosi se avesse capito bene o meno.
Non aveva però potuto chiedere delucidazioni perché una macchina nera familiare, che aveva visto tempi decisamente migliori, si era fermata davanti a loro sul limitare della careggiata, e dal finestrino del conducente Jimin aveva intravisto la figura di Seokjin.
Gli era bastato un battito di ciglia per collegare i punti e fare due più due.
E per lanciare l’ennesima occhiata assassina a Jungkook, il quale aveva semplicemente fatto finta di nulla. Anzi, lo aveva preso per un braccio, costringendolo in pratica ad entrare in macchina dopo aver aperto la portiera posteriore. Era poi salito a fianco del fidanzato e, per scrupolo, aveva persino bloccato la chiusura delle portiere.
Talmente basito, Jimin non aveva proferito parola. Non aveva nemmeno ricambiato il saluto gentile di Seokjin: semplicemente si era appoggiato al finestrino in modo scomposto e aveva incrociato le braccia al petto, in una chiarissima posa di rifiuto verso il resto del mondo – anzi, verso Jungkook e basta.
«Che gli hai fatto?» domandò Seokjin, lanciando una breve occhiata incuriosita al fidanzato.
Prima che il diretto interessato potesse parlare, Jimin intervenne per esporre la propria versione – che sicuramente era quella giusta.
«Mi ha costretto a venire a questa festa dicendo che tu non ci saresti stato. Mi ha mentito spudoratamente.» Calcò volontariamente e con una certa enfasi su qualche parola, in modo che tutti cogliessero i punti cruciali del discorso. Non che ce ne fosse davvero bisogno.
Dallo specchietto retrovisore, Jimin vide quello che pensava essere il suo unico alleato prima fare una faccia seria e poi scoppiare a ridere, coprendosi la bocca con una mano, anche se l’effetto finale non cambiò: era ufficiale, nessuno poteva capire quanto si sentisse profondamente offeso…
Va bene, in realtà non era così tanto vilipeso, ma riteneva suo pieno diritto quello di lamentarsi per un simile colpo basso. Perché, se avesse saputo prima della presenza di Seokjin, sicuramente si sarebbe rifiutato di uscire di casa.
E Jungkook lo sapeva molto bene.
Quest’ultimo, dopo aver lanciato un sorriso d’intesa con il fidanzato, si girò sul sedile per guardare Jimin.
«E dai, vedrai che ti divertirai!» disse con sicurezza. «Hai fatto storie anche per la mostra d’arte, ma mi pare di ricordare che ti sia fatto grosse risate quella sera.»
Sì, aveva riso molto, molto più di quanto gli fosse capitato negli ultimi tempi. Ma nella sua mente era impressa bene come fosse poi finita quella serata…
Delle urla. Le lenzuola madide di sudore. Il fiato corto. Il buio.
Scosse la testa. Sarebbe bastato poco, un piccolo passo per essere risucchiato nuovamente in quel buco nero senza fine, e non poteva permetterselo, non ora.
«Di chi hai detto che è la festa?» domandò nel tentativo di occupare la mente da altro e distrarsi.
«Non l’ho detto,» rispose Jungkook alzando le spalle. E non aggiunse altro.
Jimin allora spostò un’altra volta lo sguardo sullo specchietto retrovisore, sperando di trovare finalmente un appoggio. Ma, come avrebbe dovuto immaginare, Seokjin si strinse nelle spalle con fare impotente, sebbene stesse sorridendo divertito.
«Non guardare me, ne so molto meno di te.»
Jimin vide Jungkook appoggiare la mano sinistra su quella destra di Seokjin, posata sul cambio manuale, e stringerla, quasi come se fosse il sigillo d’accordo tra il patteggiante e il diavolo. Chi di loro fosse chi, era un mistero.
Quei due erano fatti della stessa pasta. Maledetto era stato il giorno in cui si erano incontrati.
Jimin scosse il capo e tornò a guardare fuori dal finestrino, ma non abbastanza in fretta da non vedere il bacio che Seokjin mandò per aria al fidanzato.
E probabilmente avrebbe dovuto sorbirsi molto altro diabete in quello spazio ristretto che era l’abitacolo – cosa che capitava ed era capitata fin troppo spesso in passato – se poco dopo il navigatore impostato sul cellulare del conducente non avesse segnalato loro di essere giunti a destinazione.
Jimin si sporse in avanti tra i due sedili, sporgendosi in modo che il suo volto fosse alla stessa altezza di quello dei suoi amici. Tutti e tre guardarono fuori dal paraurti in silenzio.
Ciò che si parò davanti a loro avrebbe avuto bisogno di tante parole per essere descritto. Parole che, al momento, sfuggivano alla loro bocca. Perché quell’enorme casa – anche se definirla casa era decisamente riduttivo – assomigliava molto al genere di struttura che solitamente figurava nelle pubblicità di gente felice e soprattutto ricca. Ricca sfondata, per amor della precisione.
Tutt’attorno, il perimetro era delineato da un’alta siepe verde rigoglioso dietro cui, probabilmente, sorgeva anche un cancello dagli spuntoni taglienti. Da qualche parte dovevano anche esserci un numero inqualificabile di telecamere e, con altrettanta probabilità, anche cani da guardia ben addestrati.
Eppure, pensò Jimin, erano molto lontani dal quartiere di Gangnam.
«Siamo nel posto giusto?»
Fu Jimin a porre la domanda, ma quelle parole potevano essere state pronunciate da uno qualunque di loro tre perché condividevano il medesimo attonimento.
Seokjin prese in mano il proprio cellulare e toccò un paio di volte sullo schermo. Alla fine, senza dire nulla, annuì.
Il primo a riscuotersi fu Jungkook, che tutto sommato sembrava essere il meno sorpreso. Dopo essersi sistemato il cappotto e la sciarpa, uscì dalla macchina, esortandoli a fare lo stesso.
All’entrata di quel piccolo paradiso non trovarono nessuno ad attenderli, ma anzi, i cancelli erano stati lasciati appositamente aperti in modo che, chiunque, potesse varcarli senza problemi. Jimin pensò che tutto ciò fosse molto strano: se quella fosse stato casa sua, sicuramente si sarebbe assicurato di piazzare come minimo due gentleman all’entrata, meglio ancora se due energumeni.
«Questa è la casa che mi meriterei,» mormorò Seokjin alla sua destra con profonda venerazione.
I tre si erano fermati sul breve vialetto sterrato che conduceva alla porta d’entrata, a pochi metri dalla fonte principale della luce accecante che illuminava tutto l’ambiente esterno.
Quella casa era fatta principalmente di vetro, vetro che andava a costituire le grandi finestre disposte lungo tutto il perimetro. Queste però erano state studiate in modo che, da fuori, fosse praticamente impossibile vedere cosa stesse succedendo all’interno. Probabilmente si trattava di qualche materiale super tecnologico utilizzato anche per i vetri oscurati delle macchine.
Dove diavolo li aveva portati Jungkook? Era per caso la dimora di qualche spacciatore arricchitosi negli anni sfruttando persone meno abbienti e fortunate? Jungkook era entrato nel giro della droga e lui non se ne era nemmeno accorto?
Jimin si rendeva conto che le idee che affollavano la sua testa fossero del tutto insensate e prive di fondamento, ma a mano a mano che si addentravano, la sua confusione aumentava.
Avevano finalmente trovato il coraggio di arrivare fino all’uscio, quando la porta si aprì, prima ancora che avessero avuto l’occasione di suonare il campanello – o qualsiasi dispositivo tecnologico si pigiasse per annunciarsi in quella casa.
«Kookieee!»
La voce entusiasta arrivò prima ancora della figura. Ma quando vide Hoseok avanzare verso di loro, tutta la sua confusione scomparve.
Vennero letteralmente travolti da un vortice colorato: Jimin non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo che si ritrovò bloccato tra due braccia sottili, ma forti, stretto a tal punto che quasi gli mancava il respiro. E con la stessa velocità con cui si era trovato travolto, si ritrovò libero di metabolizzare la situazione.
In quel momento, infatti, l’entusiasmo di Hoseok aveva preso di mira Seokjin il quale, se possibile, si ritrovò ancora più spiazzato di Jimin. A quanto ne sapeva, i due neanche si conoscevano.
«Sono felice che ce l’abbiate fatta! Avevo pensato di affiggere qualche cartello di indicazione nel quartiere, ma per qualche motivo l’amministrazione comunale me lo ha impedito,» disse Hoseok con faccia perplessa. Il suo volto però tornò subito ad illuminarsi, puntando lo sguardo su Seokjin il quale lo stava guardando attonito. «Tu devi essere il ragazzo di Kookie! È un vero piacere conoscerti, davvero. Mi stai già simpatico!»
Jimin osservò prima Jungkook e poi l’altro amico: il primo era palesemente imbarazzato, tant’è che le guance si erano tinte di un leggero rossore, mentre il secondo aveva il corpo rigido e un’espressione confusa.
Jimin sorrise vagamente divertito. Adorava sempre di più quell’Hoseok.
Tutt’a un tratto si sentì un rumore inconfondibile provenire da una stanza a destra del largo corridoio d’entrata. Se le orecchie non gli mentivano, quello doveva essere il suono di un vaso rottosi in mille pezzi. Simultaneamente vide Hoseok sbiancare e voltarsi allarmato in quella direzione.
«Oh, merda. Ti prego Dio, fa che non sia il vaso di nonna. I miei mi ammazzano!» esclamò rivolto più a sé stesso che a qualcuno dei presenti. L’ultima parola venne inghiottita dalle urla che seguirono il rumore, mentre lui si allontanava quasi correndo.
I tre rimasero di nuovo soli.
Beh, non proprio soli: se prima il rumore della musica era stato attutito dalle mura – sicuramente insonorizzate – ora sembrava riempire tutto l’interno, ma non era assordate come poteva esserlo in una discoteca. Era più una melodia new age che sarebbe stata perfetta per la reunion di vecchi esponenti dell’era hippie nella California degli anni ottanta.
Jungkook si mosse un po’ impacciato sui suoi piedi prima di lanciare un’occhiata ai suoi chaperon.
«Non guardarci così,» borbottò Jimin, socchiudendo le palpebre. Conosceva molto bene quell’espressione sul viso dell’amico. «Sei tu che sei voluto venire qui. A proposito, ora potremmo sapere cosa ci facciamo qua?»
Era chiaro che loro non centrassero nulla con quell’ambiente. La mostra d’arte poteva ancora passare in quanto intrattenimento d’uso comune, ma una festa a casa di un multimilionario – per di più assai eccentrico – era tutt’altra storia.
Jimin fissò lo sguardo in quello di Jungkook. Non passò molto che questo si arrendesse, sbuffando e alzando gli occhi al cielo.
«Ok, va bene. L’altro giorno ho chiamato casualmente Hoseok per sincerarmi che stesse bene,» iniziò gesticolando con le mani. «Sempre casualmente mi ha informato e invitato alla sua festa. Questa festa. E io ho accettato perché ho pensato che, probabilmente, ci sarebbe stato anche SUGA. Visto che, insomma, a quanto pare, mi è parso di capire che sono amici…»
Jimin non amava il caso. Anzi, lo odiava. Di solito gli portava solo mali che non aveva chiesto. Per cui gli fu naturale sospettare che nel piano di Jungkook molto fosse intenzionale e nulla invece lasciato alla fortuna.
«Jungkook…»
«Sì, ok, va bene! Ho chiesto espressamente se ci sarebbe stato il suo amico e Hoseok mi ha risposto di sì. Che dovevo fare, rifiutare l’invito? Sai quanto può essere insistente quel ragazzo?» domandò allargando le braccia e con gli occhi spalancati. Per chi non lo conosceva bene, in quel momento poteva passare per il ritratto dell’innocenza.
Jimin scosse la testa sconsolato, anche se dentro di sé il suo stomaco aveva appena fatto un piccolo balzo inspiegabile. O meglio, non assimilabile al collegamento fatto dalle sue sinapsi che stava cercando di ignorare. Ma era troppo tardi e il pensiero aveva già messo radici.
Se Hoseok era amico di SUGA ed era presente a quella festa, allora c’era un’altra probabilità di incontrare anche…
«Sbaglio o quelli sono…?»
A parlare era stato Seokjin che stava fissando con la fronte aggrottata la parete della prima stanza a destra, proprio dove era sparito il padrone di casa poco prima. Sul muro era stata attaccata una gigantografia di quello che, senza ombra di dubbio, era l’ormai famoso “Falli-ng”.
Guardandosi attorno, Jimin si accorse che quasi tutte le superfici visibili dalla quella posizione presentavano il medesimo cartonato in diverse scale di grandezza. Alcuni erano semplicemente la fotocopia del quadro, altri invece riportavano anche una scritta nera a una grandezza tale che persino un cieco avrebbe potuto distinguerne i caratteri.
«Sì,» rispose immediatamente Jungkook con un sorrisino divertito. Scambiò uno sguardo con Jimin, prima di voltarsi verso il fidanzato per approfondire la spiegazione: «Pare che Hoseok sia riuscito a vendere il suo primo quadro. Quel quadro. Ha organizzato questa festa proprio per festeggiare,» disse indicando con un dito il primo cartellone a portata di mano.
Seokjin continuò a fissare l’opera d’arte prima confuso e poi pensieroso. A quanto pareva, quella sera era destinato a passare da uno stato di confusione all’altro.
«Forza, andiamo a prendere da bere,» disse alla fine il ragazzo arrendendosi, prendendo per mano Jungkook e per un braccio Jimin.
Quello che si trovarono davanti appena varcata la soglia della sala li costrinse a fermarsi per l’ennesima volta in piena contemplazione.
La sala – o l’atrio? In case come quella, le varie stanze assumevano funzioni e appellativi quasi fantascientifici – era un enorme openspace delimitato da ampie finestre, le stesse che si vedevano dall’esterno. Il colore predominante era il bianco, ma in una tonalità tale da non far troppo male agli occhi, forse anche grazie alle calde luci gialle provenienti dai tre enormi lampadari di cristallo che pendevano dal soffitto.
L’insieme era un miscuglio di stili moderni e classici, grazie anche all’arredamento essenziale dei grandi divani e dei pochi mobili dispersi per lo più vicino alle pareti interne.
Quella stanza probabilmente aveva la sola funzione di accogliere gli ospiti e permettere loro di rilassarsi godendosi della visuale esterna, che di giorno doveva essere suggestiva. Quella sera, invece, era stata trasformata nel cuore pulsante della festa, grazie alle casse di musica posizionate in punti strategici della stanza e alle sedute di pelle che permettevano alla gente di socializzare.
«Sì, questa dovrebbe essere proprio la mia casa,» mormorò Seokjin con una nota di venerazione nella voce.
Gli altri due annuirono senza distogliere lo sguardo.
«Se questa è la premessa, mi aspetto come minimo che venga servito il miglior soju della Corea,» disse ancora Seokjin, prima di addentrarsi nella sala, puntando direttamente verso la porta posta dalla parte opposta, da cui svariate persone uscivano tenendo in mano bicchieri e bottiglie di vetro.
I tre ragazzi trovarono in fretta la fonte delle bevande, posta su un tavolo ben bandito in quella che doveva essere la seconda sala di benvenuto degli ospiti. Mentre i suoi due amici si servivano da bere, non poté evitare di domandarsi quanto grande fosse quella casa.
«Jimin vuo-»
Il resto della frase venne perso nel silenzio che seguì le parole di Jungkook, e Jimin, guardando il suo sguardo puntato, venne assalito da un improvviso deja-vù. Questa volta però sospettava la fonte di quello stupore e, voltandosi di spalle – non senza che il suo stomaco di contorcesse nell’ennesima morsa – confermò i suoi sospetti.
La scena era molto simile a quella risvegliata dalla sua memoria, ma vi era una piccola differenza. Anzi, una differenza enorme a misura d’uomo.
Nella prima sala, vicino alla vetrata che conduceva al giardino esterno, posta proprio a fianco del grande camino acceso, c’era lui.
Taehyung.
Jimin lo riconobbe nell’istante stesso in cui i suoi occhi si posarono su di lui, malgrado quello fosse voltato parzialmente.
Il ragazzo era il terzo membro di un triangolo formato da altre due persone – una delle quali doveva essere SUGA. E proprio mentre li guardava, al loro fianco comparve anche Hoseok, per creare un quadrato quasi perfetto.
Con la coda dell’occhio, Jimin vide Jungkook alzare il braccio destro e scuoterlo freneticamente per attirare l’attenzione dell’ultimo arrivato, il cui sguardo, per fortuna dell’amico, era rivolto proprio nella loro direzione. Hoseok rispose al saluto e con la stessa mano indicò loro di avvicinarsi.
Per Jimin fu inevitabile seguire l’amico – e il fidanzato al seguito – come fu anche inevitabile incrociare lo sguardo di Taehyung quando questo si voltò incuriosito, ma non sorpreso. Più casuale, ma ugualmente inevitabile, fu ritrovarsi al suo fianco.
«Oh, bene, vedo che vi siete serviti da bere! Spero che abbiate assaggiato il soju, l’ho fatto arrivare direttamente dal miglior produttore del paese,» disse Hoseok con un largo sorriso. Poi si guardò attorno, accorgendosi solo in quell’istante dell’insieme di persone per lo più estranee le une alle altre che erano andate a comporre un grande cerchio. «Oh, giusto. Permettete che vi presenti i miei amici! Questi sono Yoongi, Taetae, e Namnam,» e mentre parlava, indicava con un dito i rispettivi proprietari di quei nomi.
Taetae.
Jimin si lasciò scappare un piccolo sorriso sentendo quell’appellativo, cosa che non sfuggì al diretto interessato che alzò un sopracciglio.
«Ehi, ma io ti conosco!» esclamò SUGA, al secolo Yoongi, puntando un dito verso Jungkook che, dal canto suo, all’improvviso esitò. Si morse il labbro inferiore e chinò un poco il capo, quasi fosse in imbarazzo.
«Ah, sì?» domandò interessato Hoseok, passando con lo sguardo tra i suoi due amici. Il tono della sua voce indicava una vivida curiosità, così come suggerivano gli occhi spalancati e il capo inclinato.
«Sì, ci siamo incontrati alla tua mostra. Jungkook è un… fan di SUGA.» A rispondere non furono i diretti interessati, bensì Taehyung che, per qualche motivo, sembrava sinceramente divertito da quel fatto. Ma, a quanto pareva, era l’unico a pensarla a quel modo.
Jimin vide il proprietario di casa rilassare impercettibilmente le spalle e aprirsi in quell’espressione che ormai aveva imparato a riconoscere essere associata alla felicità. L’umore quotidiano di quel ragazzo doveva trovare fonte direttamente dal sole perché quando il suo volto si illuminava – e per quello che aveva visto lui, si illuminava spesso – sembrava proprio risplendere di luce propria.
«Oh… OH!» esclamò. Poi allungò un braccio per circondare le spalle di SUGA e tirarselo vicino. «Sono felice che ci sia qualcuno che legge i suoi fantastici lavori! Sai, Kookie, dovresti leggere l’ultima poesia che ha scritto. Ho pianto per un sacco di tempo.»
Jungkook sembrò destarsi dall’improvviso stato imbarazzato in cui era caduto. Spostò la sua attenzione su Hoseok, pendendo letteralmente dalle sue labbra.
Colui che invece sembrava voler scavare una fossa direttamente nel parquet di legno sotto i suoi piedi era Yoongi, il quale abbassò lo sguardo a terra e si strinse il più possibile nelle spalle, quasi a volersi raggomitolare.
Per un istante calò un silenzio che tutti avvertirono in modo differente, ma passò molto in fretta quando Seokjin pose ad Hoseok delle domande di carattere architettonico sulla casa, di cui era rimasto colpito.
La conversazione a quel punto spiccò il volo e Jimin scoprì che Taehyung e Yoongi erano gemelli – e questo spiegava quella familiarità che aveva avvertito tra i due e anche perché, dopo la mostra, fossero andati via insieme – mentre Namjoon era loro cugino. Parlarono di svariate cose, per lo più di cosa facesse ognuno nella vita, di temi d’attualità e molto della raccolta di poesie di SUGA – mentre quest’ultimo fece di tutto per distogliere l’attenzione da sé stesso. Per qualche motivo Hoseok sembrava voler tornare ripetutamente su quel punto e più in generale su molti aspetti che riguardavano il ragazzo.
Per tutto il tempo Jimin cercò di prestare attenzione alla conversazione, rimanendo comunque in secondo piano a meno che non gli si rivolgesse direttamente una domanda, un po’ perché non era molto a suo agio con gli sconosciuti – mentre in passato sarebbe stato l’anima di quel cerchio – e un po’ perché si sentiva osservato.
Anzi, no, non si sentiva.
Sapeva di essere costantemente osservato, un po’ come aveva fatto lui la sera della mostra, ma a ruoli invertiti. L’unica differenza fu che, a un certo punto, Jimin riuscì a trovare il coraggio per ricambiare lo sguardo, spinto dalla curiosità e dalla tentazione di scoprire quale versione di Taehyung era presente lì quella sera.
Quando i loro occhi si incrociarono la seconda volta, Jimin confermò i suoi sospetti.
L’altro lo stava guardando con un’espressione imperscrutabile all’apparenza, mentre aveva girato il suo corpo in modo da poterlo osservare indisturbato senza che qualcuno si accorgesse dell’intento.
Quella volta, però, la distanza tra di loro era molto più ridotta, quasi alla pari della settimana prima al parco. Jimin riusciva a vedere le sue iridi scure, anche grazie alla luce che illuminava ogni angolo della sala.
A un certo punto, Taehyung sollevò gli angoli delle labbra e mosse il capo, quasi a volergli domandare a cosa stesse pensando. Per Jimin fu inevitabile rispondere al sorriso con uno a sua volta.
Quel ragazzo rimaneva un fottuto mistero ai suoi occhi, ma quella sera pareva dopotutto avvicinarsi molto alla versione con cui aveva conversato al parco. Anche se non gli aveva ancora parlato. Taehyung non gli rivolse mai la parola direttamente, nemmeno quando era intervenuto nella conversazione per domandare a Jungkook come si conoscessero.
Le chiacchiere continuarono finché Hoseok non fu costretto nuovamente ad intervenire in seguito all’ennesimo rumore di vetreria frantumata da qualche parte nella casa. Jimin non sapeva che genere di persone fossero state invitate a quella festa, ma qualcuno tra i presenti doveva avere seri problemi con gli oggetti fragili d’arredamento.
La lista di invitati avrebbe dovuto essere rivista.
Dopo che Hoseok se ne fu andato, Yoongi attirò l’attenzione di Taehyung tirandolo per una manica, in quanto sia lui che Jimin erano ancora persi nel loro mondo, con solo una parte della loro cognizione proiettata a quello che succedeva attorno a loro.
Jimin non comprese gli sguardi e le poche parole che i due gemelli si scambiarono, ma subito dopo Yoongi guardò i presenti con le labbra arricciate e borbottò un saluto, girandosi per andarsene.
Taehyung fece un cenno con la mano, senza però più guardare Jimin, e poi seguì il fratello e il cugino fuori dalla sala.
Jimin rimase lì in piedi a guardarlo allontanarsi per l’ennesima volta, pensando che quella sera sembrava essere solo uno strano remake degli ultimi eventi della sua vita.
Sperava solo che altri episodi meno recenti non fossero inclusi nel copione.
 

[…]

 
Il corridoio era buio, ma riusciva a vedere un’infinità di porte ordinate su entrambe le pareti a distanza regolare. Sembrava quasi di essere su un ripiano di un hotel di lusso, con la sola differenza che da lontano giungeva il rumore della musica e che non aveva idea di dove andare.
Mosse qualche passo incerto, avanzando di qualche metro, poi appoggiò la mano sulla maniglia della seconda porta alla sua destra e l’abbassò.
Scelta sbagliata.
Sbagliatissima.
«Prima o poi dovremo parlarne, non potrai scappare per sempre.»
«Io non sto scappando.»
«Ah, no? Quindi se io ora mi avvicinassi e pronunciassi la parola ba-»
Silenzio.


 





Note del testo:

1 – Il gu Gangnam è uno dei distretti della città di Seoul. È una zona conosciuta per la grande ricchezza concentrata e l’alto livello di benessere dei suoi abitanti (molto simile a Beverly Hills). È diventata molto famosa a livello mondiale nel 2012 quando venne pubblicata la canzone Gangnam style di Spy.
2 – Il soju è un distillato tipico della Corea, ottenuto dal riso, orzo o frumento, o ancora dalla tapioca o patata, con una gradazione alcolica variabile dal 14% al 45%.


 

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