Cause it’s right - 2

di Imperfectworld01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Contro di me ***
Capitolo 3: *** 2. A testa alta ***
Capitolo 4: *** 3. Ti incolpi ancora ***
Capitolo 5: *** 4. Disposta a tutto ***
Capitolo 6: *** 5. Farci del male ***
Capitolo 7: *** 6. Ecco la vera Megan ***
Capitolo 8: *** 7. New Orleans (2) ***
Capitolo 9: *** 8. Ulteriori sospetti ***
Capitolo 10: *** 9. Rischi ***
Capitolo 11: *** 10. Ragionevole dubbio ***
Capitolo 12: *** 11. Pensavo che sarei morto ***
Capitolo 13: *** 12. Cancelliamo tutto ***
Capitolo 14: *** 13. Perdere il controllo ***
Capitolo 15: *** 14. Ce la stavo facendo ***
Capitolo 16: *** 15. Adesso basta ***
Capitolo 17: *** 16. Cos'è che ti preoccupa tanto? ***
Capitolo 18: *** 17. Non ha mai voluto ***
Capitolo 19: *** 18. Non dire niente ***
Capitolo 20: *** 19. Tu mi hai indotto a farlo ***
Capitolo 21: *** 20. Ci ho provato ***
Capitolo 22: *** 21. Troppo tardi per rimediare ***
Capitolo 23: *** 22. Non doveva accadere ***
Capitolo 24: *** 23. Contro la legge ***
Capitolo 25: *** 24. L'abbiamo uccisa insieme ***
Capitolo 26: *** 25. Perché è giusto (2) ***
Capitolo 27: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 

Spalancai le labbra non appena ebbi dato un'occhiata a ciò che era a una distanza di appena due metri da me. Improvvisamente sentii brividi spandersi ovunque su ogni centimetro del mio corpo. Sentivo rivoli di sudore scivolarmi lungo la fronte, il cuore martellante nel petto e le gambe sul punto di cedere, infatti cercai di aggrapparmi a qualcosa per evitare di cadere, e trovai sostegno solo nel braccio del mio ragazzo.

Solo dopo mi resi conto che al momento non volevo alcun contatto con lui, così mi distanziai.

Deglutii. «Com'è successo?» chiesi, mantenendo una voce fredda e cauta, nonostante i fiumi di lacrime che cominciarono a rigarmi il viso.

Mi voltai verso di lui. Herman aveva il viso pallido e gli occhi sbarrati. «Non sarebbe dovuto accadere... È... è stato uno sbaglio.»

Sollevai un sopracciglio. Era tutta lì la sua spiegazione? Herman era il tipo di persona che non la smetteva mai di parlare, ma in quell'occasione persino lui era a corto di parole.

Lo fissai di sottecchi. «Uno sbaglio? L'hai uccisa, cazzo, Herman, è morta!» esclamai, passandomi in seguito le mani fra i capelli.

La mia migliore amica era stesa a terra, vicino ai cassonetti dell'immondizia della casa di Dylan Walker, inerme, priva di vita.

«Io non... non volevo, lo giuro. È stato un errore...»

Era ciò che mi ripeteva da oltre un quarto d'ora, da quando mi aveva chiamato al cellulare per dirmi di venire sul retro. Non riusciva a dire altro. Non riusciva a spiegarmi come era arrivato a tanto, cosa l'aveva spinto a tale gesto.

E io ero troppo scossa per poter trovare le forze per insistere e per convincerlo a parlare, come avrei fatto normalmente.

Deglutii di nuovo, incapace di fare altro, incapace di parlare, incapace di reagire.

«Andiamo a casa» dissi a un tratto, ricevendo un'occhiata stralunata come risposta. «Andiamo a casa» ripetei. «Rimanere qui è rischioso, se ce ne andiamo adesso, insieme, allora...»

Mi fermai non appena sentii un cellulare squillare. Non si trattava del mio, in modalità silenziosa, né tantomeno di quello di Herman, del quale conoscevo la suoneria. Così, con il cuore che mi esplodeva nel petto, lanciai un'occhiata ai miei piedi per avere la conferma che cercavo: si trattava del cellulare di Emily.

Subito mi allarmai, specialmente perché mi accorsi di alcuni passi che si facevano sempre più frequenti e vicini a noi. Afferrai la mano di Herman e lo trascinai via di corsa, andammo a nasconderci dietro un cespuglio.

Lasciai immediatamente la mano di Herm, non appena mi accorsi che era bagnata. Nonostante il buio della notte, non mi ci volle molto a capire che non era soltanto bagnata, ma anche sporca, e non impiegai tanto tempo a realizzare cosa fosse quel liquido scuro che aveva imbrattato anche il palmo della mia mano: sangue.

Trattenni il respiro, prima involontariamente e in seguito di proposito, per non farmi scoprire: Megan era appena giunta davanti al cadavere di Emily.

Ebbe più o meno la mia stessa reazione, anzi, la sua fu molto più spropositata e non si limitò solo allo shock. Megan era fatta così: si lasciava sempre travolgere dal turbine delle emozioni e non riusciva a controllarle.

Ma in fondo la invidiavo. Io a volte avevo quasi paura di non provarle affatto, delle emozioni.

Si accasciò a terra, i grandi occhi verdi sbarrati e le lacrime che sgorgavano. Iniziò a percuoterla, nella speranza di avere una sua reazione: «Emily! Emily, svegliati!» urlò in preda alla disperazione.

Si avvicinò al suo petto per verificare se respirasse, in seguito tentò di rianimarla tramite delle compressioni toraciche. Diedi un'occhiata a Herman, il quale tuttavia teneva lo sguardo fisso a terra, così tornai a seguire i movimenti di Megan.

«Respira! Respira, Emily, ti prego respira!» esclamò, e a quel punto mi tappai una mano con la bocca per impedire che trapelasse qualsiasi suono. Non servirà a nulla, avrei voluto gridare, lei non c'è più.

Per un secondo sperai che le mie lacrime mi soffocassero, desiderai che il dolore mi schiacciasse così forte da farmi avere un collasso o, più semplicemente, bramai di provare qualcosa al di fuori di quella sensazione di vuoto.

Sentii il tocco di Herman sul braccio e mi voltai nella sua direzione, prima di seguire il suo sguardo, puntato su Megan. Giunta ormai al limite, sembrò voler provare a fare un ultimo tentativo, estraendo il coltello dal collo di Emily.

La situazione, se possibile, sembrò peggiorare ancora di più dopo quel suo gesto, dal momento che causò una forte fuoriuscita di sangue. Tanto è già morta, mi dissi poi, non può esserci cosa peggiore della morte.

O forse c'era. Ed era il silenzio. Il silenzio delle emozioni. Il vuoto interiore.

Passarono diversi minuti in cui non successe nulla. Megan continuava a piangere, Herman non emetteva alcun suono, io... io mi sentivo solo un corpo senza anima. Come Emily. Io però ero viva e non avrei dovuto sentirmi così vacua.

Poi, a un certo punto, sentii il cellulare cominciare a vibrarmi nella tasca. Avevo già una mezza idea di chi potesse essere, ne ebbi la conferma non appena allungai il collo e vidi Megan con il cellulare posto vicino all'orecchio.

A quel punto, a passi molto lenti e distinti, ignorando le proteste non verbali di Herman, cercai di allontanarmi il più possibile da lì per poter rispondere senza che Megan si accorgesse del fatto che fossi lì e avessi assistito al tutto.

Feci un respiro profondo e poi risposi. «Pronto, Meg? Ma dove sei finita?» chiesi, cercando di assumere un tono tranquillo.

Non rispose subito. Sentivo i suoi singhiozzi dall'altra parte del telefono. «Trace, è... è s-successa una cosa, non... non riesco a...»

«Meg, cerca di stare calma, fai dei respiri.»

«Non ce la faccio a restare calma!» esclamò.

E aveva ragione, ma dovevo fingere di non saperne nulla. Ciò che non capivo è come ci riuscissi io, a sembrare così calma.

«Dimmi dove sei e arrivo subito. Sei nel bagno?» chiesi.

«N-no, vieni fuori... vieni dietro casa di D-Dylan.»

«Arrivo subito.» Misi giù e poi cercai di rendermi adatta a farmi vedere da Megan. Strofinai la mano sporca di sangue sui jeans neri che indossavo nel tentativo di pulirla, dopodiché mi passai una mano sotto gli occhi per togliere i residui di mascara che erano colati per via delle lacrime.

Feci il giro contrario della casa di Dylan così da poter giungere da Megan seguendo la strada che aveva percorso e io anche, poco prima di lei.

Giunsi quindi alle sue spalle. Era ancora accasciata a terra, immobile.

«Meg, sono... oh mio Dio! Che è successo?» esclamai fingendomi in preda al terrore. «Meg, cosa è successo? Che cosa hai fatto a Emily?»

Erano state le stesse frasi che avevo ripetuto a Herman non appena l'avevo ritrovato nella stessa identica posizione in cui versava Megan.

Dopodiché sentii alcune voci in lontananza, e mi allarmai, nel vedere che molte persone stavano iniziando a lasciare la festa. Se fossero passate lì vicino avrebbero visto tutto.

«Meg, dobbiamo andarcene prima che qualcuno ci veda, altrimenti la polizia sarà qui in men che non si dica.»

Ma la mia amica sembrava disconnessa dal mondo, non udiva una sola parola che usciva dalla mia bocca. «Cosa fai ancora qui? Dobbiamo andarcene! Nessuno deve sapere che siamo state qui!» ritentai, invano.

«La polizia sarà qui a momenti, dobbiamo andarcene, Megan!»

A quel punto qualcosa scattò in lei. Si alzò in piedi, un po' barcollante. Approfittai di quel suo istante di debolezza per chinarmi a terra e afferrare il coltello insanguinato e nasconderlo sotto il mio maglione. Non seppi spiegarmi perché lo feci, fu l'istinto a guidarmi, e il mio istinto non aveva mai sbagliato prima d'ora. Su quel coltello c'erano le impronte di Herman e di Megan. Quindi quel coltello doveva sparire.

Subito dopo afferrai la mano di Megan e la trascinai verso la mia auto. La feci sedere e le allacciai la cintura, dal momento che era troppo traumatizzata per poter svolgere qualsiasi compito, anche fra i più ordinari. Poi feci il giro del veicolo, buttai rapidamente il coltello dentro il bagagliaio e in seguito mi misi al volante.

Non avevo idea di quello che stavo facendo, di dove mi stessi dirigendo e perché. Era l'adrenalina ad agire per me e il mio istinto mi diceva soltanto una cosa: "Proteggi Megan".

Stranamente, non fu Herman il mio primo pensiero. Avrei potuto andarmene con lui e lasciare lì Megan, invece non ci avevo pensato due volte a rispondere alla sua chiamata, a caricarla in macchina e a portarla via.

Lei non c'entrava niente. Non c'entrava assolutamente niente ed era stata messa in mezzo a una situazione che non la riguardava, e di cui, da quel momento in poi, avrebbe dovuto subire ingiustamente le conseguenze.

Era sotto shock, le mani e la camicetta sporche del sangue di Emily, piangeva e non la smetteva di farneticare, diceva che dovevamo andare alla polizia e raccontare ciò che avevamo visto.

Ma non potevo permettere che lo facesse. Nessuno le avrebbe creduto. Quella notte lei e Emily avevano avuto una terribile discussione, e quella stessa notte Emily era stata uccisa. A cosa avrebbero immediatamente pensato tutti?

«È morta!» esclamai, una volta giunta al punto in cui non ne potevo più delle constatazioni di Megan. «È... è morta. Non possiamo più farci nulla. Possiamo solo cercare di salvarci il culo. Anzi, dobbiamo riuscirci. Perché altrimenti andremo in galera e anche le nostre vite finiranno, saremo letteralmente fottute. Tu non potrai andare ad Harvard, né io in un qualsiasi college di merda che la mia famiglia potrà permettersi di pagare. Il nostro futuro, i nostri piani, non andranno mai a compimento. Passeremo i prossimi quindici o più anni della nostra vita all'interno di una cella, mangiando cibo scadente, dormendo male, correndo il rischio di essere malmenate o, peggio, stuprate da altri detenuti o da qualche agente di polizia. Herman mi lascerà, e pian piano tutti lo faranno. È un paesino piccolo, perciò tutti lo sapranno e presto, conoscenti, amici, persino i nostri genitori non vorranno più sapere niente di noi. Rimarremo sole e, quando avremo scontato la nostra pena, avremo la fedina penale sporca e nessuno vorrà mai assumerci, per nessun tipo di lavoro. Verremo viste da tutti come delle assassine. 
Tutto questo accadrà, se non mi darai ascolto.»

Le mie parole parvero convincerla, oltre che tranquillizzarla. Avevo sempre avuto questo effetto sulle persone. Tutti mi vedevano sempre come quella razionale, riflessiva, che agiva sempre nel migliore dei modi, perciò si fidavano sempre delle mie parole e dei miei consigli.

Posteggiai la mia auto davanti a una discoteca, il Golden Rose.

Se volevo proteggere Megan, oltre che me stessa, avevamo bisogno di un alibi, di farci vedere da altre persone al di fuori di quelle della festa, a testimoniare che non ci trovavamo più lì al momento della morte di Emily.

Una volta convinta Megan della mia idea, le feci togliere la camicetta sporca di sangue e gliela feci lasciare in auto. Dopodiché ci avviammo all'entrata del locale.

Tirai fuori il cellulare e notai numerosi messaggi da parte di Herman, in cui mi chiedeva dove fossi finita e cosa avessi intenzione di fare.

La verità era che non lo sapevo. Non avevo ancora deciso cosa fare in merito a Herman, ma di certo non avrei lasciato che andasse in carcere. Non potevo permetterlo. Lo amavo.

Ed era stato un incidente.

Gli scrissi un messaggio e subito dopo averlo inviato lo eliminai così come quelli precedenti che mi aveva scritto, prima di entrare dentro al locale insieme a Megan: "Sbarazzati del cadavere. Non mi interessa come, l'importante è che sia subito. Cancella questo e gli altri messaggi che mi hai mandato subito dopo averlo ricevuto".

***

Ebbene sì! La storia di Megan si era conclusa con un colpo di scena, ribaltando completamente la situazione. Inizialmente ero intenzionata a lasciarla con un finale aperto, ma in seguito ho deciso di scrivere un sequel, così da poter approfondire alcuni punti e, forse, definire le questioni lasciate in sospeso.

Qui, nel caso non si fosse capito, è narrato tutto dal punto di vista di Tracey, che si ritrova involontariamente in una situazione che non le appartiene e che la divide su due fronti: aiutare Megan o aiutare Herman. Per il momento sembra intenzionata a riuscire in entrambe le cose, ma si accorgerà ben presto che non è possibile e che dovrà scegliere da che parte stare.

Fatemi sapere che ne pensate per ora!

PS: Gli altri capitoli saranno narrati ancora dal punto di vista di Megan, e riprenderanno la storia da dove è stata interrotta.

Spalancai le labbra non appena ebbi dato un'occhiata a ciò che era a una distanza di appena due metri da me. Improvvisamente sentii brividi spandersi ovunque su ogni centimetro del mio corpo. Sentivo rivoli di sudore scivolarmi lungo la fronte, il cuore martellante nel petto e le gambe sul punto di cedere, infatti cercai di aggrapparmi a qualcosa per evitare di cadere, e trovai sostegno solo nel braccio del mio ragazzo.

Solo dopo mi resi conto che al momento non volevo alcun contatto con lui, così mi distanziai.

Deglutii. «Com'è successo?» chiesi, mantenendo una voce fredda e cauta, nonostante i fiumi di lacrime che cominciarono a rigarmi il viso.

Mi voltai verso di lui. Herman aveva il viso pallido e gli occhi sbarrati. «Non sarebbe dovuto accadere... È... è stato uno sbaglio.»

Sollevai un sopracciglio. Era tutta lì la sua spiegazione? Herman era il tipo di persona che non la smetteva mai di parlare, ma in quell'occasione persino lui era a corto di parole.

Lo fissai di sottecchi. «Uno sbaglio? L'hai uccisa, cazzo, Herman, è morta!» esclamai, passandomi in seguito le mani fra i capelli.

La mia migliore amica era stesa a terra, vicino ai cassonetti dell'immondizia della casa di Dylan Walker, inerme, priva di vita.

«Io non... non volevo, lo giuro. È stato un errore...»

Era ciò che mi ripeteva da oltre un quarto d'ora, da quando mi aveva chiamato al cellulare per dirmi di venire sul retro. Non riusciva a dire altro. Non riusciva a spiegarmi come era arrivato a tanto, cosa l'aveva spinto a tale gesto.

E io ero troppo scossa per poter trovare le forze per insistere e per convincerlo a parlare, come avrei fatto normalmente.

Deglutii di nuovo, incapace di fare altro, incapace di parlare, incapace di reagire.

«Andiamo a casa» dissi a un tratto, ricevendo un'occhiata stralunata come risposta. «Andiamo a casa» ripetei. «Rimanere qui è rischioso, se ce ne andiamo adesso, insieme, allora...»

Mi fermai non appena sentii un cellulare squillare. Non si trattava del mio, in modalità silenziosa, né tantomeno di quello di Herman, del quale conoscevo la suoneria. Così, con il cuore che mi esplodeva nel petto, lanciai un'occhiata ai miei piedi per avere la conferma che cercavo: si trattava del cellulare di Emily.

Subito mi allarmai, specialmente perché mi accorsi di alcuni passi che si facevano sempre più frequenti e vicini a noi. Afferrai la mano di Herman e lo trascinai via di corsa, andammo a nasconderci dietro un cespuglio.

Lasciai immediatamente la mano di Herm, non appena mi accorsi che era bagnata. Nonostante il buio della notte, non mi ci volle molto a capire che non era soltanto bagnata, ma anche sporca, e non impiegai tanto tempo a realizzare cosa fosse quel liquido scuro che aveva imbrattato anche il palmo della mia mano: sangue.

Trattenni il respiro, prima involontariamente e in seguito di proposito, per non farmi scoprire: Megan era appena giunta davanti al cadavere di Emily.

Ebbe più o meno la mia stessa reazione, anzi, la sua fu molto più spropositata e non si limitò solo allo shock. Megan era fatta così: si lasciava sempre travolgere dal turbine delle emozioni e non riusciva a controllarle.

Ma in fondo la invidiavo. Io a volte avevo quasi paura di non provarle affatto, delle emozioni.

Si accasciò a terra, i grandi occhi verdi sbarrati e le lacrime che sgorgavano. Iniziò a percuoterla, nella speranza di avere una sua reazione: «Emily! Emily, svegliati!» urlò in preda alla disperazione.

Si avvicinò al suo petto per verificare se respirasse, in seguito tentò di rianimarla tramite delle compressioni toraciche. Diedi un'occhiata a Herman, il quale tuttavia teneva lo sguardo fisso a terra, così tornai a seguire i movimenti di Megan.

«Respira! Respira, Emily, ti prego respira!» esclamò, e a quel punto mi tappai una mano con la bocca per impedire che trapelasse qualsiasi suono. Non servirà a nulla, avrei voluto gridare, lei non c'è più.

Per un secondo sperai che le mie lacrime mi soffocassero, desiderai che il dolore mi schiacciasse così forte da farmi avere un collasso o, più semplicemente, bramai di provare qualcosa al di fuori di quella sensazione di vuoto.

Sentii il tocco di Herman sul braccio e mi voltai nella sua direzione, prima di seguire il suo sguardo, puntato su Megan. Giunta ormai al limite, sembrò voler provare a fare un ultimo tentativo, estraendo il coltello dal collo di Emily.

La situazione, se possibile, sembrò peggiorare ancora di più dopo quel suo gesto, dal momento che causò una forte fuoriuscita di sangue. Tanto è già morta, mi dissi poi, non può esserci cosa peggiore della morte.

O forse c'era. Ed era il silenzio. Il silenzio delle emozioni. Il vuoto interiore.

Passarono diversi minuti in cui non successe nulla. Megan continuava a piangere, Herman non emetteva alcun suono, io... io mi sentivo solo un corpo senza anima. Come Emily. Io però ero viva e non avrei dovuto sentirmi così vacua.

Poi, a un certo punto, sentii il cellulare cominciare a vibrarmi nella tasca. Avevo già una mezza idea di chi potesse essere, ne ebbi la conferma non appena allungai il collo e vidi Megan con il cellulare posto vicino all'orecchio.

A quel punto, a passi molto lenti e distinti, ignorando le proteste non verbali di Herman, cercai di allontanarmi il più possibile da lì per poter rispondere senza che Megan si accorgesse del fatto che fossi lì e avessi assistito al tutto.

Feci un respiro profondo e poi risposi. «Pronto, Meg? Ma dove sei finita?» chiesi, cercando di assumere un tono tranquillo.

Non rispose subito. Sentivo i suoi singhiozzi dall'altra parte del telefono. «Trace, è... è s-successa una cosa, non... non riesco a...»

«Meg, cerca di stare calma, fai dei respiri.»

«Non ce la faccio a restare calma!» esclamò.

E aveva ragione, ma dovevo fingere di non saperne nulla. Ciò che non capivo è come ci riuscissi io, a sembrare così calma.

«Dimmi dove sei e arrivo subito. Sei nel bagno?» chiesi.

«N-no, vieni fuori... vieni dietro casa di D-Dylan.»

«Arrivo subito.» Misi giù e poi cercai di rendermi adatta a farmi vedere da Megan. Strofinai la mano sporca di sangue sui jeans neri che indossavo nel tentativo di pulirla, dopodiché mi passai una mano sotto gli occhi per togliere i residui di mascara che erano colati per via delle lacrime.

Feci il giro contrario della casa di Dylan così da poter giungere da Megan seguendo la strada che aveva percorso e io anche, poco prima di lei.

Giunsi quindi alle sue spalle. Era ancora accasciata a terra, immobile.

«Meg, sono... oh mio Dio! Che è successo?» esclamai fingendomi in preda al terrore. «Meg, cosa è successo? Che cosa hai fatto a Emily?»

Erano state le stesse frasi che avevo ripetuto a Herman non appena l'avevo ritrovato nella stessa identica posizione in cui versava Megan.

Dopodiché sentii alcune voci in lontananza, e mi allarmai, nel vedere che molte persone stavano iniziando a lasciare la festa. Se fossero passate lì vicino avrebbero visto tutto.

«Meg, dobbiamo andarcene prima che qualcuno ci veda, altrimenti la polizia sarà qui in men che non si dica.»

Ma la mia amica sembrava disconnessa dal mondo, non udiva una sola parola che usciva dalla mia bocca. «Cosa fai ancora qui? Dobbiamo andarcene! Nessuno deve sapere che siamo state qui!» ritentai, invano.

«La polizia sarà qui a momenti, dobbiamo andarcene, Megan!»

A quel punto qualcosa scattò in lei. Si alzò in piedi, un po' barcollante. Approfittai di quel suo istante di debolezza per chinarmi a terra e afferrare il coltello insanguinato e nasconderlo sotto il mio maglione. Non seppi spiegarmi perché lo feci, fu l'istinto a guidarmi, e il mio istinto non aveva mai sbagliato prima d'ora. Su quel coltello c'erano le impronte di Herman e di Megan. Quindi quel coltello doveva sparire.

Subito dopo afferrai la mano di Megan e la trascinai verso la mia auto. La feci sedere e le allacciai la cintura, dal momento che era troppo traumatizzata per poter svolgere qualsiasi compito, anche fra i più ordinari. Poi feci il giro del veicolo, buttai rapidamente il coltello dentro il bagagliaio e in seguito mi misi al volante.

Non avevo idea di quello che stavo facendo, di dove mi stessi dirigendo e perché. Era l'adrenalina ad agire per me e il mio istinto mi diceva soltanto una cosa: "Proteggi Megan".

Stranamente, non fu Herman il mio primo pensiero. Avrei potuto andarmene con lui e lasciare lì Megan, invece non ci avevo pensato due volte a rispondere alla sua chiamata, a caricarla in macchina e a portarla via.

Lei non c'entrava niente. Non c'entrava assolutamente niente ed era stata messa in mezzo a una situazione che non la riguardava, e di cui, da quel momento in poi, avrebbe dovuto subire ingiustamente le conseguenze.

Era sotto shock, le mani e la camicetta sporche del sangue di Emily, piangeva e non la smetteva di farneticare, diceva che dovevamo andare alla polizia e raccontare ciò che avevamo visto.

Ma non potevo permettere che lo facesse. Nessuno le avrebbe creduto. Quella notte lei e Emily avevano avuto una terribile discussione, e quella stessa notte Emily era stata uccisa. A cosa avrebbero immediatamente pensato tutti?

«È morta!» esclamai, una volta giunta al punto in cui non ne potevo più delle constatazioni di Megan. «È... è morta. Non possiamo più farci nulla. Possiamo solo cercare di salvarci il culo. Anzi, dobbiamo riuscirci. Perché altrimenti andremo in galera e anche le nostre vite finiranno, saremo letteralmente fottute. Tu non potrai andare ad Harvard, né io in un qualsiasi college di merda che la mia famiglia potrà permettersi di pagare. Il nostro futuro, i nostri piani, non andranno mai a compimento. Passeremo i prossimi quindici o più anni della nostra vita all'interno di una cella, mangiando cibo scadente, dormendo male, correndo il rischio di essere malmenate o, peggio, stuprate da altri detenuti o da qualche agente di polizia. Herman mi lascerà, e pian piano tutti lo faranno. È un paesino piccolo, perciò tutti lo sapranno e presto, conoscenti, amici, persino i nostri genitori non vorranno più sapere niente di noi. Rimarremo sole e, quando avremo scontato la nostra pena, avremo la fedina penale sporca e nessuno vorrà mai assumerci, per nessun tipo di lavoro. Verremo viste da tutti come delle assassine. 
Tutto questo accadrà, se non mi darai ascolto.»

Le mie parole parvero convincerla, oltre che tranquillizzarla. Avevo sempre avuto questo effetto sulle persone. Tutti mi vedevano sempre come quella razionale, riflessiva, che agiva sempre nel migliore dei modi, perciò si fidavano sempre delle mie parole e dei miei consigli.

Posteggiai la mia auto davanti a una discoteca, il Golden Rose.

Se volevo proteggere Megan, oltre che me stessa, avevamo bisogno di un alibi, di farci vedere da altre persone al di fuori di quelle della festa, a testimoniare che non ci trovavamo più lì al momento della morte di Emily.

Una volta convinta Megan della mia idea, le feci togliere la camicetta sporca di sangue e gliela feci lasciare in auto. Dopodiché ci avviammo all'entrata del locale.

Tirai fuori il cellulare e notai numerosi messaggi da parte di Herman, in cui mi chiedeva dove fossi finita e cosa avessi intenzione di fare.

La verità era che non lo sapevo. Non avevo ancora deciso cosa fare in merito a Herman, ma di certo non avrei lasciato che andasse in carcere. Non potevo permetterlo. Lo amavo.

Ed era stato un incidente.

Gli scrissi un messaggio e subito dopo averlo inviato lo eliminai così come quelli precedenti che mi aveva scritto, prima di entrare dentro al locale insieme a Megan: "Sbarazzati del cadavere. Non mi interessa come, l'importante è che sia subito. Cancella questo e gli altri messaggi che mi hai mandato subito dopo averlo ricevuto".

***

Ebbene sì! La storia di Megan si era conclusa con un colpo di scena, ribaltando completamente la situazione. Inizialmente ero intenzionata a lasciarla con un finale aperto, ma in seguito ho deciso di scrivere un sequel, così da poter approfondire alcuni punti e, forse, definire le questioni lasciate in sospeso.

Qui, nel caso non si fosse capito, è narrato tutto dal punto di vista di Tracey, che si ritrova involontariamente in una situazione che non le appartiene e che la divide su due fronti: aiutare Megan o aiutare Herman. Per il momento sembra intenzionata a riuscire in entrambe le cose, ma si accorgerà ben presto che non è possibile e che dovrà scegliere da che parte stare.

Fatemi sapere che ne pensate per ora!

PS: Gli altri capitoli saranno narrati ancora dal punto di vista di Megan, e riprenderanno la storia da dove è stata interrotta.

 

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Capitolo 2
*** 1. Contro di me ***


1. Contro di me

Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede. 
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.

Era ciò che era successo a me, io ne ero la prova. La mia migliore amica, Emily Walsh, era stata assassinata per Dio sa quale motivo, da uno dei miei amici più stretti, Herman Waldorf, coperto da quella che consideravo l'altra mia migliore amica, Tracey Gomez, ma fino all'ultimo io non ero stata in grado di capirlo e la mia impazienza di scovare il colpevole e porre una fine a tutto quell'incubo era stata tale dall'avermi portato a spedire in carcere un innocente, vale a dire il mio ex ragazzo, Dylan Walker, che avevo erroneamente reputato l'artefice di tutto.

Era trascorso poco più di un mese dalla conclusione della mia udienza preliminare. Dopo di essa, la polizia distrettuale aveva dovuto riprendere le indagini aprendo una nuova pista, che, grazie ai sospetti che si erano insinuati grazie al lavoro del mio avvocato, vedeva come nuovo indiziato Dylan. A differenza della mia, l'udienza di Dylan non si era conclusa bene: le prove a suo carico erano sembrate sufficienti per arrestarlo, nell'attesa di arrivare al processo.

Avrei dovuto esserne contenta, era ciò che bramavo da quando ci eravamo parlati l'ultima volta, quando mi aveva praticamente aggredita, invece non facevo che trascorrere le mie giornate sentendomi soffocare sempre di più dal senso di colpa. Perché, nonostante la sua natura violenta, gli scatti d'ira, la sua passata relazione con Emily, non era stato lui a ucciderla.

Sembrava impossibile da credere, considerando che ogni pezzo combaciava (il suo DNA sotto le unghia di Emily, la discussione avuta prima che lei scomparisse), eppure al momento era una delle poche certezze che avevo.

Se non l'unica.

Perché non sapevo cos'avesse spinto Herman a uccidere Emily come fosse un animale da caccia, non sapevo perché Tracey avesse deciso di appoggiarlo, non sapevo perché entrambi mi avessero ripetutamente fatto del male, ma sapevo che Dylan era innocente.

E sapevo anche che mi ero comportata da vera stronza con lui. Un'altra volta.

«Prego, appoggi pure la borsa qui.» La voce di una guardia carceraria mi distolse dai miei pensieri, invitandomi ad appoggiare la mia borsa in una cesta che sarebbe poi stata esaminata all'interno di una macchina a raggi x, come quella dei controlli di sicurezza degli aeroporti. Dopodiché passai sotto il metal detector dopo aver ricevuto il segnale apposito dalla guardia e, dopo che la guardia in servizio davanti al computer sul quale venivano proiettati i contenuti della mia borsa si accertò che fosse tutto nella norma, ripresi la borsa e me la misi a tracolla. «Prego, mi segua» disse la guardia in piedi, scortandomi nella stanza addetta alle visite.

Con il cuore in gola, le mani sudate e la pelle d'oca, mi addentrai nella stanza, che emanava esattamente la stessa desolatezza e tristezza che si avvertono nelle scene dei film. Iniziai a cercare Dylan con lo sguardo.

Sembrava così surreale.

Cosa ci faceva Megan Sinclair nel Juvenile Justice Intervention Center di New Orleans, il centro di detenzione minorile dove era stato rinchiuso Dylan? Cosa ci faceva Dylan stesso lì dentro? Avrebbe dovuto essere a scuola, a studiare e allenarsi per la prossima partita di football, a vivere con spensieratezza i suoi sedici anni.

Ma per colpa mia non gli era stato più possibile già da due settimane.

«Mi raccomando: mani bene in vista» mi ripeté un'ultima volta la guardia. Subito fui invasa da una sensazione di inquietudine nell'attraversare la sala. Era spoglia, pareti grigie e insignificanti, una dozzina di tavoli sparsi qua e là tristemente, quattro guardie poste ognuna a un angolo della stanza, e poi lacrime su lacrime: dei detenuti, dei genitori, o dei fratelli e sorelle in visita.

Tentai il più possibile di non farci caso e mi avviai in direzione di Dylan. Era voltato di spalle e si guardava intorno smarrito, quasi come non capisse cosa ci facesse lì. Deglutii e poi mi piazzai davanti a lui, prendendo posto nella sedia di fronte alla sua. Mi lasciai quasi sprofondare, dal momento che quel luogo mi metteva così in suggestione da farmi mancare tutte le forze. Tuttavia, neanche l'essermi seduta mi fu d'aiuto nel momento in cui incrociai lo sguardo di Dylan. Mi si formò subito un groppo in gola nel vederlo dopo più di un mese.

Aveva i capelli notevolmente più lunghi, tanto che i riccioli corvini che erano soliti ricadergli sulla fronte, ora gli incorniciavano tutto il viso. Era anche dimagrito, tanto. Forse troppo. Il volto appariva scavato e pallido. Solo gli occhi sembravano quasi gli stessi di prima. Quasi, perché la radiosità che li contraddistingueva, specialmente quando mi guardava, si era spenta. Mi riconobbi in lui in quel momento: entrambi avevamo gli occhi lucidi, ma lo sguardo era vacuo.

«C-ciao» dissi, ma mi uscì solo un sibilo, mentre lui distolse lo sguardo, posandolo sul tavolino al quale eravamo seduti.

Rimase impassibile, in un primo momento. In seguito lo vidi allargare le narici e serrare i pugni. «Vattene via, Megan» disse con severità, eppure non mi passò inosservato il tremolio delle sue labbra nel momento in cui pronunciò il mio nome.

Ignorai ciò che mi disse e cominciai a parlare a manetta: «Perché all'udienza ti sei dichiarato colpevole? Non avresti dovuto ascoltare il tuo avvocato quando ti ha detto che avresti ottenuto uno sconto della pena, com'è che ti sei praticamente già dato per spacciato? Be', non lo sei! Avresti potuto lottare, anzi, avresti dovuto perché... perché sei innocente. Lo so che non sei stato tu, ora lo so, io ho sbagliato, ma... prima io...»

Mi interruppe prontamente, scaldandosi non poco: «Tu cosa, Megan? Tu hai usato una mia difficoltà personale, ti sei servita di un mio problema grave e l'hai usato contro di me, per distruggermi. È questo il tipo di persona che vuoi essere? Una che sfrutta le debolezze degli altri per ottenere ciò che vuole? Mi fai schifo, Megan. E pensare... e pensare che sei stata la prima e unica ragazza che io abbia mai amato... Ora hai mandato tutto a puttane e hai rovinato la mia vita».

Rimasi in silenzio, senza sapere cosa dire. Aveva ragione. Su ogni punto.

Quindi riprese la parola. «Non te n'è mai importato un bel niente di me, ammettilo.»

«Non è vero, e tu lo sai» ribattei.

Roteò gli occhi e mi rivolse un sorriso di scherno, gelandomi il sangue nelle vene. «Ah no? Guardami, Megan! Guarda cosa mi hai fatto!» esclamò, facendo cenno alla tuta arancione che indossava. Poi ricevette un'occhiataccia dalla guardia posta contro l'angolo della parete a pochi metri da noi, così si ritrovò costretto a moderare il tono della voce. «L'amore non funziona così, Megan. Amarsi significa collaborare, aiutarsi a vicenda, nonostante tutto. Sapevi benissimo che ho un problema, e invece che starmi vicino, darmi il sostegno e il supporto che mi serviva per affrontarlo, come io ho sempre fatto con te, mi hai voltato le spalle. Anzi, peggio. L'hai usato contro di me. E io non potrò mai perdonarti per questo.»

«Dylan, io...»

«Qui abbiamo finito, riportatemi in cella» mi interruppe, facendo cenno alla guardia di avvicinarsi. «Ah, e dica a chiunque sia l'addetto alle visite, che non ho intenzione di vedere Megan Sinclair mai più.»

«D'accordo, ora alzati» ordinò la guardia, afferrando Dylan per un braccio e tirandolo su. Non mi passò affatto inosservata la piccola smorfia che emise a quel contatto. Come non mi passò inosservata la sua andatura lenta e a tratti zoppicante, mentre lo vedevo allontanarsi per ritornare in cella scortato dalla guardia.

Troverò un modo, mi dissi, troverò un modo, Dylan.

•••

New Orleans, e in generale tutta la Louisiana, diventava molto piovosa durante i mesi invernali. Eravamo quasi a metà dicembre, e quella era un'altra giornata uggiosa che, se non altro, si sposava bene con il mio stato d'animo. Ma la pioggia torrenziale non era comunque in grado di distrarmi e di farmi scordare della visita fatta a Dylan.

Il vero uragano ce l'avevo dentro di me, e stava pian piano distruggendo e spazzando via tutto ciò che c'era della vecchia Megan Sinclair, lasciandomi sempre più in frantumi. Prima dell'incontro con Dylan, ero orgogliosa della persona che stavo diventando. Ero più forte, sicura di me, meno manipolabile. Ma solo perché mi ero trasformata in ciò che mi aveva sempre ostacolata: ero diventata io la manipolatrice, che sfruttava le situazioni e le persone per raggiungere i propri scopi.

Come avevo fatto con lui mandandolo in carcere per impedire che ci finissi io.

Certo, ero convinta che fosse stato lui a uccidere Emily, ma crederlo e farlo credere a tutti gli altri mi era anche servito come scappatoia per evitare di essere condannata come era poi successo a lui.

Mi riscossi non appena sentii il cellulare vibrarmi nella tasca dei jeans. Lo tirai fuori e lessi il messaggio: "Al City Park fra mezz'ora va bene?".

Risposi al messaggio e successivamente tirai le chiavi della macchina fuori dalla borsa. Mi diressi verso il parcheggio e salii in auto, avviandomi verso la destinazione stabilita.

Impiegai meno di una decina di minuti ad arrivare, ma approfittai del largo anticipo per fare un giro del parco, nel quale non ero mai stata. Fin da subito constatai che mi piaceva molto, per via della vastità del verde che lo caratterizzava e lo distingueva dal centro della città, pieno di costruzioni. A causa della pioggia non era molto pieno, anzi era quasi del tutto vuoto, se non per qualche coppia che girovagava stando abbracciata sotto l'ombrello. 

Praticamente ogni dieci o venti passi si poteva trovare una statua, una scultura o una fontana. Erano davvero tante e di ogni tipo: vi era un cavallo formato da tanti tronchi di albero intrecciati e incastrati fra loro, la scultura di una catena umana in verticale, che si estendeva verso l'alto per almeno una quindicina di metri, una sagoma umana formata da tante lettere dell'alfabeto unite fra di loro, la statua di una donna che suonava un flauto traverso, un'altra che tendeva l'arco e la freccia, e tante altre.

Dopodiché individuai il piccolo ponte dove mi aveva detto di incontrarci. Il ponte ad arco, di pietra, attraversava il lago Pontchartrain, che avevo già visto qualche mese prima al Bayou St. John.

Mi appoggiai al bordo del ponte, godendomi la vista di qualche piccolo anatroccolo che seguiva la madre dentro l'acqua.

A un certo punto sentii la pioggia smettere di picchiettarmi sul cappuccio del giubbotto e di conseguenza sollevai lo sguardo, credendo avesse finalmente smesso di piovere. Invece era solo un ombrello che adesso aleggiava sopra la mia testa. A sorreggerlo, a meno di un metro da me, si trovava David.

Sussultai nel vederlo, ma la mia reazione non aveva niente a che fare con lo spavento.

Trascorremmo qualche istante in silenzio, a guardarci, o meglio, ammirarci a vicenda. Sembravano passati secoli. Entrambi avevamo cambiato acconciatura. Io avevo deciso di lasciarmi crescere i capelli e mi ero fatta la frangia, lui invece li aveva accorciati, specie ai lati.

Fu lui il primo a parlare. «Non hai mai risposto ai miei messaggi, per più di un mese. Perché oggi sì?» chiese.

Mi era mancato da impazzire il suono della sua voce, anche se con quel tono arrogante e inquisitore. Ma in fondo era il suo tono il più delle volte.

Scrollai le spalle. «È più importante sapere questo o è più importante parlare?»

Roteò gli occhi indispettito. «Quindi è questo? Vuoi parlare?» Emise uno dei suoi soliti ghigni sprezzanti.

«Non è quello che vuoi tu?»

«Infatti. E dopo l'udienza ho cercato il modo di farlo, senza pressarti troppo, ma limitandomi a scriverti un messaggio al giorno, per trentasei giorni, senza mai ricevere risposta. Tu invece sei rimasta coerente con la tua decisione, fino ad adesso. Quindi perché?»

Non ne potevo più di tutte quelle domande. Forse perché la risposta non la sapevo nemmeno io. 

Ero convinta delle parole che gli avevo rivolto l'ultima volta che ci eravamo parlati all'udienza. «L'udienza è conclusa. Io non avrò più bisogno dell'aiuto di tuo padre. E noi non ci vedremo più» gli avevo detto.

Sì, gliel'avevo detto perché ero ferita e impaurita dall'idea di ricevere un altro rifiuto, ma col passare del tempo mi ero anche resa conto che, in un periodo in cui non facevo che commettere sbagli, quella era stata l'unica scelta giusta che avevo fatto. Lui aveva ventidue anni e io sedici. Inoltre avevo già troppi problemi, non avevo bisogno di sommarne un altro. E poi ero rotta. Stare da sola era ciò che più mi sarebbe servito per guarire.

Fino a quel momento ero stata fermamente convinta di quella mia decisione, infatti ero riuscita ad avere la forza di non rispondere mai a nessuno dei suoi messaggi e resistere alla tentazione di recarmi a casa dell'avvocato Finnston insieme ai miei nella speranza di incontrarlo. Avevo resistito per più di un mese, ma mi era bastato guardarlo negli occhi per un singolo istante affinché le mie convinzioni cominciassero a vacillare.

Dal momento che non lo degnai di una risposta, David prese ancora una volta la parola. «Pensavo che quando mi avevi detto quella cosa, non la pensassi davvero, che volessi solo farmela pesare per ciò che ti avevo detto la settimana prima. Poi però hai continuato a non reagire, nonostante io mi fossi rimangiato tutto. Ed è lì che ho capito il reale motivo per cui non mi rispondessi. E sono certo che l'abbia capito anche tu: io non ti piaccio davvero. Ti ho salvato la vita, e questo ha fatto sì che tu abbia iniziato a vedermi sotto un'altra luce. Ma stavi soltanto confondendo la gratitudine che provi verso di me con qualcos'altro. E questo è anche merito dello stato in cui ti trovavi per via del trauma che hai subìto: ti ha resa vulnerabile, confusa e anche facilmente condizionabile.»

Scossi la testa, pronta a fargli cambiare idea. «Non è così» fu l'unica cosa che riuscii a dire. Avevo come un blocco. Avevo le parole pronte sulla punta della lingua, ma non riuscivo a farle uscire. O forse non volevo farle uscire. Avevo paura di farlo. Paura di un altro rifiuto.

Eppure, non appena incrociai nuovamente il suo sguardo, mi sentii come l'acqua che viene risucchiata dentro il buco del lavello quando si toglie il tappo, e ripresi a parlare apertamente: «È vero, ero vulnerabile, confusa e facilmente condizionabile, ma adesso non lo sono più. E anche quando lo ero, non ho mai confuso i sentimenti che provo per te. Se così fosse, a quest'ora sarebbero già svaniti».

E, sebbene prima di quell'incontro credevo che i miei sentimenti per David si fossero pian piano dissolsi col passare dei giorni, in quel momento capii che non se n'erano mai andati, ma erano soltanto stati tappati. Da me.

David emise uno dei soliti ghigni divertiti, che si spense poco dopo. Mi sfiorò la guancia con la punta delle dita, procurandomi brividi ovunque. Il suo sguardo era triste, deluso, amareggiato. Se prima erano tutte scuse per respingermi quelle che si inventava, in quel momento capii che pensava davvero quanto mi aveva detto. E la cosa sembrava ferirlo.

Prima che ritraesse la mano, appoggiai la mia sulla sua, mentre l'altra la posai a mia volta sulla sua guancia.

«So quello che provo» affermai decisa.

«Come sapevi quello che provavi con Dylan?» chiese, con tono quasi infastidito, ritraendosi.

«È grazie a te se ho imparato cosa significhi davvero provare qualcosa di autentico per qualcuno. È vero, su Dylan mi ero sbagliata, ma ora non farò più quell'errore.» Feci una piccola pausa e un profondo respiro, per prepararmi ad aprirgli il mio cuore ancora una volta. Smise persino di importarmi l'idea di un altro rifiuto, che fino ad allora mi aveva frenata. «Tu una volta hai detto che è un insieme di piccole cose e io so quali sono quelle che mi piacciono di te. Mi piace che sei determinato, ambizioso e che non ti fermi mai davanti a nulla, che difendi a spada tratta ciò in cui credi. Mi piace sentirti parlare delle cose che ti appassionano, resterei ad ascoltarti interessata anche se dovessi ripetermi a memoria la nostra Costituzione o il codice di diritto tributario oppure quello di diritto amministrativo, perché ti brillano gli occhi quando parli dei tuoi studi. Mi piace non conoscere quasi niente di te perché sei riservato, perché poi è ancora più bello quando decidi di aprirti con me. Mi piace anche quel tuo fastidiosissimo ghigno, che ogni volta spunta sul tuo viso per un motivo diverso: a volte perché sei divertito, altre perché sei in imbarazzo, altre perché sei nervoso, altre perché sei compiaciuto, allegro o che ne so. Mi piaci perché sei maturo, intelligente e arguto più di chiunque altro io conosca, mi piaci perché, sebbene io sia un libro aperto, sei tu l'unico che riesca davvero a leggermi. Ma c'è una cosa che detesto di te, ed è il fatto che tu sia così tanto razionale da non permettere mai ai tuoi veri sentimenti di venire fuori, e...»

«Maggie, io non ce la faccio più» mi interruppe David, chiudendo l'ombrello che teneva in mano per proteggerci dalla pioggia e gettandolo a terra, prima di fiondarsi con impeto sulle mie labbra.

Dopo qualche secondo in cui feci fatica a realizzare ciò che stesse davvero accadendo, gli avvolsi le mani intorno alla nuca, mentre lui mi attirò a sé afferrandomi per i fianchi. Fuori faceva freddo, specie perché eravamo entrambi bagnati fradici a causa della pioggia, eppure dentro mi sentivo avvampare. Spostai lentamente le mani dalla sua nuca alle sue spalle, mentre lui ne portò una sulla mia guancia, carezzandola con leggerezza con il pollice. Le nostre lingue si rincorsero a lungo alternando un ritmo lento e sensuale ad uno più deciso e impetuoso, finché, a malincuore, non fummo costretti a separarci per riprendere fiato. Mantenne la mano sulla mia guancia, dandomi poi un piccolo buffetto e sorridendo.

«Non ce la facevo più» ripeté, avvicinandosi quel poco che bastava per far toccare le nostre fronti.

«Tu non ce la facevi più?»

«Be', tu non hai mai nascosto nulla. Io ho dovuto tenermelo dentro per tutto questo tempo» rispose, prima di prendermi una mano e lasciando un piccolo bacio sul dorso.

Sorrisi, ma sorrisi davvero. Come accadeva ormai sempre più raramente dalla morte di Emily.

Ancora non riuscivo a credere a ciò che era appena successo.

Poi mi tornò in mente il vero motivo per cui avevo acconsentito a vederlo, così mi distanziai un po' per potergli parlare guardandolo bene negli occhi.

«Io avrei un favore da chiederti» ammisi, e il mio sguardo sembrò preoccuparlo notevolmente: «Che è successo?» chiese.

Scossi la testa. «No, niente. Non a me, almeno. Ma ho bisogno che tu mi faccia un piacere.» Non appena fui sicura di avere la sua completa attenzione, sganciai la bomba: «Devi convincere tuo padre a prendere Dylan come suo cliente».

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Capitolo 3
*** 2. A testa alta ***


2. A testa alta

Dentro di me sapevo che David non avrebbe preso bene la mia richiesta, ma non ero stata in grado di valutare quanto male avrebbe reagito, di conseguenza rimasi esterrefatta dalla sua aggressività. A maggior ragione perché si era sbagliato su ogni punto, ed era questo ad avermi dat0 maggiormente fastidio. Sembrava che ormai chiunque non riuscisse a fare di meglio che sottolineare i miei errori e i miei atteggiamenti sbagliati.

E, dal momento che non riuscivo proprio a smetterla di fare stronzate, la cosa accadeva sempre più frequentemente.

Ma quella non era affatto una stronzata. Stavo cercando di fare la cosa giusta, finalmente.

Feci queste riflessioni mentre guidavo verso casa dopo l'incontro con David. Le sue parole mi rimbombavano nella mente e il più delle volte si sovrapponevano fra loro, rintontendomi e causandomi una forte emicrania.

«Avevi detto di essere sicura che fosse stato lui! Mio padre ha mandato in prigione un innocente perché ha deciso di fidarsi di te! È andato contro la deontologia forense ed è stato richiamato più volte durante il processo, rischiando di essere sospeso, solo per riuscire ad andare fino in fondo e portare al limite Dylan e ottenere ciò che tu volevi.»

«Suvvia Megan, è normale che tu non l'abbia visto in buone condizioni, non è in un resort a cinque stelle, non se la sta passando bene e tu lo sapevi che sarebbe stato così. Era ciò che volevi, no?»

«Perché Herman avrebbe dovuto fare una cosa del genere, sentiamo? Solo perché adesso non siete più amici? Non puoi trasformare ogni persona che ti fa un torto nell'assassino di Emily e cercare di sbatterlo in carcere, solo per fargliela pagare per il male che ti ha causato.»

«Quindi è questo il vero motivo per cui hai voluto vedermi. E le parole che mi hai detto erano solo parole buttate all'aria, vuote come te.»

«Forse è meglio dimenticare tutto. Magari ci si rivede fra altri trentasei giorni. Chi incolperai la prossima volta, Olivia?»

Solo su una cosa aveva fatto centro, ed era l'unica che mi aveva davvero ferita, come solo lui era in grado di fare. Per le altre cose mi ero soltanto arrabbiata ma comunque avevo incassato il colpo con facilità, perché in cuor mio sapevo che non erano assolutamente vere, però quando mi aveva detto di essere vuota, non ero riuscita a trovare nessuna argomentazione per ribattere e per difendermi.

Era la verità e io lo sapevo. Ero vuota.

L'assordante e fastidioso rumore di un clacson mi riscosse. Guardai attraverso lo specchio retrovisore e vidi un signore impaziente che imprecava gesticolando animatamente, e così mi accorsi che era scattato il verde al semaforo e che io ero la prima della lunga fila di veicoli che si era andata a creare. Stavo quindi per ripartire, ma mi arrestai nel momento in cui l'auto dietro la mia si spostò sulla destra per effettuare una manovra di sorpasso. «Svegliati, ma non lo vedi che è verde? Cretina!» urlò il conducente. Cretina io? Io ero solo distratta, mentre lui aveva appena sorpassato a destra volontariamente. La fretta a volte faceva davvero male alle persone.

Spero che prima o poi si prenda una multa, dissi fra me e me.

Per arrivare a casa avrei dovuto svoltare a sinistra al prossimo incrocio, invece andai dritto e imboccai un'altra strada. Non me la sentivo di tornare a casa e affrontare i miei in quelle condizioni: vestiti e capelli ancora leggermente umidi, il trucco sugli occhi colato e una faccia da funerale.

Da qualche settimana avevo ripreso a truccarmi. In alcune situazioni mi aiutava a nascondere meglio le emozioni, o almeno ne avevo l'illusione. Di certo nascondeva le occhiaie quando la notte precedente la passavo in bianco. La dottoressa Blackburn non aveva ritenuto necessaria la prescrizione di altre compresse per il sonno dopo che avevo terminato la prima confezione, era convinta che non ne avessi più bisogno. E in effetti era così, la maggior parte delle volte. Ma c'era almeno una volta a settimana in cui ero invasa da pensieri, incubi e ansie che si protraevano per tutta la notte. Era anche convinta che non ci fosse più la necessità che ci vedessimo settimanalmente. Infatti non prenotavo una seduta con lei da circa tre settimane.

Dopo aver parcheggiato l'auto, scesi e feci un rapido scatto per giungere sotto il tettuccio della veranda e proteggermi dalla pioggia. Suonai al campanello e attesi pazientemente finché la porta non si aprì e vidi comparire, come sempre, un paio di occhi verdi dall'aspetto radioso, abbinati a una chioma color mogano raccolta in una coda di cavallo. Ora i suoi occhi rivelavano un'espressione stupita. Decisi di chiarire i suoi dubbi senza che dovesse sforzarsi di chiedere qualsiasi cosa: «Mi perdoni dottoressa Blackburn, so che è tardi, e che è anche sabato, ma avevo davvero bisogno di... be', lei ha detto che in caso di emergenza sarei sempre potuta venire da lei, e quindi... ho bisogno del suo aiuto».

Annuì comprensiva, prima di spostarsi a lato della porta affinché potessi entrare: «Certamente, vieni pure dentro, Megan». Strisciai i piedi sul tappetino posto all'entrata prima di avviarmi dentro casa sua.

Mi fece accomodare sulla solita poltrona nera e poi andò in un'altra stanza per procurarsi una coperta da avvolgermi attorno al corpo. Non mi ero neanche accorta di tremare.

«Scusi per l'ora, è praticamente ora di cena...»

«Non preoccuparti, Megan. Come hai detto prima, puoi sempre venire da me» rispose, prima di sedersi sull'altra poltrona posta di fronte alla mia. «Allora, di che cosa vorresti parlarmi, Megan?»

A sentire quelle parole, rimasi interdetta per un paio di secondi. In realtà non c'era niente che potessi dirle. Non potevo dirle del mio senso di colpa per aver mandato Dylan in carcere, né di come facevo a sapere che fosse innocente, né potevo parlare di David, dato che avevo ancora sedici anni e per questo (oltre che per altri numerosi motivi) non saremmo potuti stare insieme.

Ma non volevo neanche che quella visita si trasformasse in una perdita di tempo, sia per me che per lei. Così improvvisai. In realtà, iniziai improvvisando, ma in seguito mi resi conto di non star fingendo un bel niente. «In questo periodo mi sento... diversa. Anzi, in realtà io penso di essere rimasta più o meno la stessa, ma sono tutti a vedermi diversa. In senso negativo.»

«Ti riferisci a qualcuno in particolare con quel "tutti", Megan?» domandò la dottoressa Blackburn.

«Non lo so, tutti. Tutti quelli con cui ho a che fare. I miei genitori, i miei compagni di scuola.»

«Tu pensi che abbiano ragione sul tuo cambiamento, Megan? Prima hai detto di ritenere di essere rimasta la stessa.»

«Lo sono. Sono sempre Megan Sinclair. Ma senza etichette. Non sono più Megan Sinclair la brava ragazza, Megan Sinclair la ragazza della porta accanto, e altre fesserie simili. Prima erano le etichette a costringermi a mantenere un certo comportamento, non ero io a decidere come comportarmi. Per me contava di più far credere a tutti che quelle etichette che mi affibbiavano corrispondessero alla realtà, piuttosto che chiedermi se effettivamente lo fossero. Ma adesso sono soltanto io a decidere chi sono. È adesso che sono davvero me stessa. Ma a nessuno va bene come sono.»

«E a te va bene?»

Mi presi qualche istante per riflettere davvero su quella domanda. L'unica cosa a cui riuscivo a pensare era ciò che avevo fatto a Dylan.

«È questo il tipo di persona che vuoi essere? Una che sfrutta le debolezze degli altri per ottenere ciò che vuole?» mi aveva detto qualche ora prima. Me lo ricordavo bene.

Ma forse non avrei dovuto basarmi solo sugli sbagli commessi. Chiunque, volendo, poteva fare del male, così come poteva fare del bene. Non per questo doveva essere giudicato solo su uno dei due aspetti, dovevano essere messi a confronto insieme.

E non c'era solo del male in me. C'era, non sarei stata umana se non avessi avuto anche un lato cattivo, ma c'era anche tanto bene. Dovevo solo stare attenta a scegliere quale usare.

«Sinceramente? Sì» risposi alla dottoressa Blackburn.

Mi rivolse un sorriso sincero. «Lo credo bene. Stai diventando una donna forte, Megan. Guarda che passi da gigante sei riuscita a fare in così poco tempo! Eri una ragazza impaurita, insicura e ferita...»

«E anche debole» aggiunsi, ma la dottoressa scosse la testa a quella mia affermazione: «No, non ho mai avuto motivo di pensare che tu fossi debole. Come ogni persona, avevi dei limiti. Ma hai superato uno dei più grandi: hai raggiunto l'amore per te stessa. C'è chi ci prova per tutta la vita senza mai riuscirci. Sono seriamente fiera di te, Megan».

Mi si formò un sorriso spontaneo in volto. Avevo fatto la scelta giusta ad andare a parlare con lei. Quella era stata una giornata intensa, in senso negativo, pesante e anche infinita, ma le parole della dottoressa Blackburn erano riuscite a risollevarmi lo spirito e a farmene dimenticare per un po'.

•••

"Ti aspetto sotto le tribune del campo da football."

Non appena dopo aver letto il messaggio, mi avviai energica in direzione del campo da football.

Mi avvicinai alle tribune, come mi era stato scritto, e vidi George che mi attendeva. Indossava un grosso felpone blu, come suo solito, e si guardava intorno costantemente, come se temesse che arrivasse qualcuno da un momento all'altro.

«Allora, ce l'hai?» chiesi impaziente, prima di tirare su con il naso. A causa di tutta la pioggia che mi ero presa sabato, ero stupita per il fatto che mi fossi presa soltanto un raffreddore e non qualcosa di peggio.

«Ce l'ho qui in tasca» rispose indicando la grande e larga tasca della sua felpa. «Ma prima voglio i soldi.»

Roteai gli occhi e tirai fuori il borsellino che tenevo nel taschino dello zaino. «Venticinque, giusto?» domandai.

«Trentacinque dollari» rispose e strabuzzai gli occhi: «Cosa? Ieri quando ti ho scritto avevi detto venticinque» rimbeccai.

«Ho detto che il prezzo parte da venticinque e che può variare a mia discrezione.» Si esibì in un sorriso beffardo. Che bastardo. Sapeva benissimo quanto mi servisse e aveva deciso di farmela sudare.

«E perché proprio trentacinque?» domandai.

Scrollò le spalle. «Be', non ci conosciamo, giusto? Perché farti un prezzo di favore?»

«Hai ragione, ma io ne ho solo venticinque...»

«Allora l'affare salta» disse, indietreggiando di qualche passo.

«Ti prego, George. Ne ho bisogno» lo implorai, mentre lui scoppiò in una risata fragorosa.

«Addirittura mi preghi, Megan Sinclair? Sentiamo, ma perché ti serve così tanto?» chiese avvicinandosi al mio viso con fare indagatore. I suoi occhi color nocciola erano piccoli e sottili, senza un briciolo di empatia.

Durante il fine settimana mi ero presa del tempo per pensare alla situazione di Dylan. David non avrebbe parlato con suo padre, era troppo orgoglioso, ma forse a quello avrei potuto rimediare io andando direttamente a casa dell'avvocato di Finnston. Prima però avevo bisogno di rivedere Dylan, cosa che mi sarebbe stata impossibile dal momento che aveva chiesto alla guardia di vietarmi l'accesso alle visite.

«Sei più interessante di quello che pensavo, sai? Prima di te le persone dicevano due cose, una opposta all'altra: c'era chi diceva che sei una brava ragazza, un po' figa di legno; e poi c'era chi ti dava della troia con le tette enormi» disse, spostando lo sguardo sul mio seno dopo aver pronunciato l'ultima frase. 
Lo fissai disgustata e poi tirai su la cerniera del bomber nero, così da privarlo della visione. Sorrise e poi riprese a parlare: «Io personalmente non ho mai saputo a quale delle due versioni sul tuo conto credere. Ma ora forse si formerà una terza versione, Megan Sinclair che gira con un documento falso. Il tuo ex ragazzo è uno sporco assassino criminale che passerà i prossimi quindici o vent'anni della sua vita in carcere, ma di te che mi dici? Non è che siete fatti della stessa pasta?» domandò, passandosi la lingua sul labbro inferiore.

A scuola si diceva che George Radley fosse uno squilibrato da cui era meglio stare alla larga, solo non immaginavo così tanto.

Comunque, contrariamente alle sue aspettative, non mi scomposi e non persi la calma. «Avevi detto che non avresti fatto domande. Ora dammi quel documento, a meno che tu non voglia che riferisca alla preside Fitzpatrick che vendi documenti falsi in giro per la scuola. Se dovesse poi denunciarti alla polizia distrettuale, potresti passare fino a un anno in carcere, oltre che pagare una caterva di soldi.»

La stessa cosa valeva anche per me se mi avessero scoperto. Ma per Dylan ero disposta a correre quel rischio.

George rimase in silenzio, senza trovare nulla per ribattere.

«Se non ti fidi, puoi andare a consultare la legge della Louisiana che ne parla. L'ho cercata l'altro giorno, se vuoi te la mostro» dissi, tirando fuori il cellulare.

Scosse la testa. Poi sbuffò e roteò gli occhi. «D'accordo, Megan Sinclair, hai vinto.» Tirò fuori dalla tasca della felpa il documento d'identità falsa e, prima di consegnarmelo, mi strappò in modo brusco le banconote dalle mani. «O forse, dovrei dire Heather Wilson?» domandò, facendo riferimento al nome falso che aveva scelto per il documento. Poi si voltò e si allontanò.

Diedi un'attenta occhiata al documento per controllare che fosse il più identico possibile a quelli veri. Per quanto mi costasse ammetterlo, aveva fatto un buon lavoro. Restava solo da scoprire se sarei riuscita a convincere le guardie del Juvenile Justice Intervention Center.

•••

Quando uscii da scuola, realizzai che il mio piano ben congegnato sarebbe tristemente sfumato se non fossi riuscita ad arrivare in tempo per l'orario delle visite. Mi serviva la macchina di mia madre, ma non sarebbe tornata a casa prima delle 17:30. L'ultimo turno per le visite era dalle 18 alle 19 di sera. Non ce l'avrei mai fatta. Mi serviva subito una macchina.

La soluzione al mio problema sembrò materializzarsi davanti a me non appena vidi passare una figura minuta da un caschetto biondo ondulato. «Lucy!» esclamai per attirare la sua attenzione.

Al mio richiamo, si fermò e si voltò di scatto nella mia direzione. Avanzai di qualche passo fino a raggiungerla. «Ehi, tutto bene?» le chiesi.

Lei annuì ed emise un sorriso. «Tutto bene, grazie. Tu come stai, Megan?»

Ignorai la sua domanda. «Tempo fa avevi detto di avere in mente di organizzare una visita al carcere con i ragazzi della tua parrocchia, giusto?»

«Mi fa piacere che tu te lo ricordi! Sì, la verità è che riteniamo che le persone che si trovano lì dentro non siano lì per loro scelta. Cioè, sì, hanno fatto cose orribili, ma solo perché non hanno saputo cogliere la presenza di Dio nella loro vita. Quando ci si sente dimenticati e messi da parte dal Signore, allora si compiono gesti terribili. Se riuscissimo a portare un po' di Dio nella loro vita, forse riuscirebbero a pentirsi dei peccati commessi e a iniziare un cammino, magari anche iniziare una nuova vita una volta che saranno usciti di prigione. Dio dà sempre una seconda possibilità, e io penso che tutti la meritino.»

Avevo sempre invidiato Lucy per la sua profonda fede. Non era affatto semplice credere così tanto in qualcosa, nonostante tutto, nonostante il mondo di merda in cui vivevamo, nonostante le cose orribili che sentivamo ogni giorno, nonostante nella vita non ci fosse mai nulla di certo e di eterno.

Io al momento credevo solo in me stessa. Ma non così ciecamente come lei credeva in Dio. Il più delle volte credevo in me stessa solo perché ero l'unica cosa che mi era rimasta.

«Be', oggi devo andare al Juvenile Justice Intervention Center di New Orleans e mi chiedevo se ti andasse di accompagnarmi. Così magari puoi sentire le guardie per sapere se sarebbe possibile realizzare il tuo progetto.»

«Penso che sarebbe grandioso! Certo che mi va di accompagnarti.»

«Ottimo, andiamo con la tua macchina?» domandai, avviandomi verso il parcheggio.

«Ma... intendi adesso?»

«Sì, adesso. Ci vuole un'ora e mezza per arrivare, e l'orario per le visite chiude alle 18:00» spiegai.

Lucy parve farsi prendere dal panico. «Ma... ma adesso non sono pronta! Non ho preparato un programma, né...»

«Non importa, vedrai che ti verranno spontanee le cose da dire» la interruppi. «Sarà Dio a ispirare le tue parole» aggiunsi, sentendomi per un attimo un'idiota. Avevo seriamente detto una cosa del genere?

Lucy sembrò comunque apprezzare, difatti accettò esibendo un sorriso radioso.

•••

Per tutto il viaggio rimasi costantemente agitata. E se non avesse funzionato? E se mi avessero scoperto? Dylan avrebbe potuto informare le guardie del mio imbroglio. E il problema non era tanto l'aver buttato via venticinque dollari, ma il fatto che avere un documento falso costituiva un reato. Ne avrei subìto le conseguenze. E poi chi avrebbe mai creduto che avessi ventitré anni se me ne andavo in giro con quella faccia da bambina e quella frangetta da scolaretta? E se qualche guardia mi avesse riconosciuta?

A quel punto tirai su i capelli e li legai in uno chignon. Chiesi a Lucy se avesse delle forcine con sé per tirarmi su la frangia, ma mi rispose che aveva solo un cerchietto nero con i pois bianchi nel cruscotto. Allora sciolsi i capelli e mi misi il cerchietto. Poi tirai fuori dallo zaino la borsa dei trucchi che, fortunatamente, quella mattina mi ero portata dietro perché ero in ritardo e non avevo fatto in tempo a truccarmi. Ripassai il mascara e la linea di eyeliner e poi ultimai il tutto stendendo una rossetto liquido di color rosso.

«Non mi hai ancora detto perché devi andarci tu, in carcere» disse Lucy, guardandomi stranita per via di quegli insensati preparativi. Aprii la bocca per rispondere, ma lei mi precedette: «È per Dylan, vero? C'è lui in quel centro di detenzione per minori?».

Rimasi interdetta per qualche istante e infine annuii.

Mi aspettavo che avrebbe fatto altre domande, del tipo perché avrei voluto incontrare il mio ex ragazzo accusato dell'omicidio della mia migliore amica, ma invece rimase in silenzio.

In quel momento realizzai che la qualità migliore di Lucy, fra le tante che aveva, era sicuramente l'empatia. Sapeva immedesimarsi nei panni degli altri, e capiva sempre quando era meglio evitare di addentrarsi in certi discorsi, quando una persona era in vena di parlare o quando, invece, aveva bisogno soltanto di silenzio.

«Ah, devo avvisarti di una cosa prima che andiamo verso i controlli» dissi. «Da questo momento in poi io sono Heather Wilson.»

Lucy mi fissò stralunata, ma acconsentì senza chiedere ulteriori spiegazioni.

Con il cuore in gola, mi avviai allora verso la guardia. Era la stessa di sabato. Avevo il terrore che mi riconoscesse. Le gambe iniziarono a tremarmi come la prima volta che ero entrata lì dentro. Se avessi continuato in quel modo non sarebbe andata a finire bene. Avrei dovuto mostrarmi fiera e sicura di me, camminare a testa alta.

Sentii il braccio di Lucy insinuarsi attorno al mio, prendendomi a braccetto. Mi rivolse un sorriso complice e io la guardai con riconoscenza. Con Lucy al mio fianco mi sentivo già più tranquilla.

Esibimmo i nostri documenti, e nel momento in cui la guardia si focalizzò sul mio, cominciai a trattenere il respiro.

Continuai a trattenerlo anche dopo. Dopo che mi aveva riconsegnato il documento, dopo che ero passata sotto al metal detector, dopo che anche Lucy mi aveva raggiunta. Ripresi a respirare solo nel momento in cui quest'ultima si rivolse a me per dirmi: «Ci vediamo dopo, Heather». Dopo quelle parole, lei si allontanò insieme a una guardia che l'avrebbe portata dai responsabili per discutere del suo progetto, mentre io fui scortata verso la sala delle visite.

«Dunque, lei è qui per...»

«Dylan Walker» risposi. A quella risposta, l'uomo al mio fianco guardò accigliato.

«Allora non temo che le sarà possibile vederlo.»

A quelle parole, sentii il cuore morirmi in gola.

Allora mi aveva riconosciuta. Ero fottuta.

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Capitolo 4
*** 3. Ti incolpi ancora ***


3. Ti incolpi ancora

«Un altro visitatore?» domandai confusa.

Pensavo che mi avessero scoperta, invece il problema era che non avrei potuto incontrare Dylan perché stava già ricevendo una visita da qualcun altro. Forse era persino peggio. Tutta quella ansia per niente. E poi, quante probabilità c'erano che ci fosse qualcun altro a visitare Dylan nel giorno e nell'ora in cui avevo deciso di andarci io?

«Sì. È arrivato da circa mezz'ora, magari fra poco se ne andrà» rispose la guardia, mentre nel frattempo ci avviavamo davanti alla porta della sala delle visite.

«Mi scusi, potrei sapere chi è?» chiesi. Volevo sapere chi fosse colui che mi aveva impedito di vedere Dylan.

«È la prima volta che viene. Ha detto di essere il suo nuovo avvocato.»

Persi un battito. Poteva trattarsi di...? No, di certo no. David era troppo orgoglioso, non sarebbe mai andato a parlare col padre dopo la nostra discussione. Ma allora chi era?

Decisi di fare un tentativo. «Per caso il signor Finnston?» chiesi. La guardia ci pensò su qualche istante. «Sì, mi sembrava che suonasse più o meno in quel modo il suo cognome.»

Nell'udire quella risposta, mi animai. «Allora è con me! Dovevamo venire insieme ma poi io ho avuto un contrattempo...» Non sembravo per nulla convincente, ma poi mi venne in mente una bugia geniale: «La prego, devo vedere il prigioniero e devo vederlo adesso. Conosco il signor Finnston, sono al terzo anno di giurisprudenza al Delgado Community College di New Orleans e sono tirocinante presso il suo studio. Lavoriamo insieme al caso Walker, per questo dovevamo essere qui insieme oggi. Se non sarò presente, il signor Finnston mi darà dell'incapace e non scriverà delle buone referenze per me. È l'ultimo anno e per me è importantissimo, altrimenti non diventerò mai un buon avvocato! Guardi, ho anche il suo numero.»

Tirai fuori il cellulare dalla tasca, pronta a mostrargli il contatto del signor Finnston sulla rubrica, ma non ce ne fu bisogno. «D'accordo, d'accordo, si calmi, signorina. Normalmente non lo faccio, ma oggi le consentirò di entrare insieme all'altro ospite.»

Non credevo alle mie orecchie. Sorrisi e ringraziai almeno tre volte la guardia, mentre questi si apprestava ad aprire la porta e a farmi entrare.

Tuttavia, non raggiunsi Dylan poiché mi fermai prima, nell'accorgermi che era sì il signor Finnston ad avergli fatto visita in carcere, ma non quello che pensavo io. Era David.

Era girato di spalle ma lo riconobbi subito, con le sue scarpe e la sua camicia blu.

Mi avvicinai quel poco che bastava per riuscire a sentire cosa si stessero dicendo. Peccato che entrambi avessero una voce piuttosto bassa.

«Posso farti una domanda?» chiese Dylan. David annuì. Ma io riuscii a sentire la domanda solo in parte. «... e te, c'è qualcosa?»

David esitò per meno di un istante e poi rispose in maniera affermativa: «Sì». Anche lui sembrava raffreddato, a giudicare dal differente timbro di voce.

Dylan sembrò prendere male quella risposta, come testimoniato dalle sue nocche strette a pugno che divennero bianche.

Poi mormorò qualcos'altro. «Quel qualcosa c'era anche... insieme noi due?»

Che cosa gli stava chiedendo? Non riuscivo a decifrare quelle piccole parti di discorso che sentivo. Riuscii però ad ascoltare per intero la risposta di David: «No, Megan non ti ha mai mancato di rispetto in quel senso».

Stavano parlando di me? Perché? E a quale senso si riferiva?

Le mie domande non trovarono risposta, e me ne dimenticai poco dopo, quando i miei occhi incrociarono quelli di Dylan. «Come hai fatto a entrare qui?» domandò sbarrando gli occhi azzurri. A quelle sue parole, David si voltò e mi guardò dapprima sorpreso, in seguito con uno sguardo di rimprovero.

Dylan si alzò in piedi, ma poi si lasciò cadere di nuovo dalla sedia, emettendo una smorfia di dolore e portandosi una mano sull'addome. Preoccupata, avanzai a falcate verso di lui, ma la strada mi fu sbarrata da David che mi si piazzò davanti e mi appoggiò le mani sulle spalle per tenermi ferma.

«Megan, va' via» bisbigliò.

«Perché? Lasciami andare da lui!» esclamai, ma lui mi intimò di abbassare la voce. Mi avvolse un braccio attorno alle spalle e mi obbligò a dirigerci fuori dalla stanza.

Prima che la porta si chiudesse alle mie spalle, mi voltai un'ultima volta verso Dylan e vidi che stava per essere scortato in cella da una guardia. Si reggeva a malapena in piedi.

David continuò a stringermi a lui sebbene continuassi a divincolarmi e a protestare. Mi lasciò non appena fummo fuori dall'edificio. A quel punto diedi libero sfogo alla mia rabbia. «Che ti è preso? Dovevi lasciarmi andare da lui, dovevo vederlo e parlarci!» esclamai. «E poi che cosa ci fai tu qui? Nuovo avvocato? Cosa significa?»

«Tu come lo sai che ho detto di essere il suo nuovo avvocato?» domandò, ignorando il resto delle cose che gli avevo detto. «Carino il cerchietto, comunque, è nuovo?» aggiunse con un ghigno divertito e strafottente.

«Me l'ha detto la guardia, ora rispondi!»

«L'ho fatto per te, Megan! Davvero non lo capisci? È quello che mi avevi chiesto di fare. Ho già parlato con mio padre, ma prima di farli incontrare, volevo vederlo io personalmente.»

«Perché?» chiesi. Dylan non sopportava David, l'aveva sempre visto di malocchio da quando si erano incontrati per la prima volta, e questo probabilmente David lo sapeva.

«Perché volevo cercare di capire chi fosse davvero la persona con cui sei stata. L'hai dipinto come un mostro, ma io invece ho visto solo un sedicenne terrorizzato a morte.»

«Certo, perché sono io a essermi inventata tutto, giusto? Il segno che mi aveva lasciato sul polso l'hai visto anche tu. Ma se vuoi continua a pensare che io sia la pazza che quando è in cerca di vendetta fa di tutto per mandare persone innocenti in prigione.»

David alzò gli occhi al cielo. «Non sono io a pensarlo. Tu lo pensi.»

«Tu l'altro giorno hai detto...» Non feci in tempo a finire la frase perché fui interrotta: «Sì, l'ho detto. Ma non lo pensavo, perché non ha un cazzo di senso. Tu invece ti incolpi ancora per quello che gli hai fatto».

Abbassai lo sguardo e rimasi in silenzio. Era vero.

«Comunque avevi ragione» disse poi David e io tornai a guardarlo. «Quegli stronzi lo massacrano di botte.»

Nel sentire quelle parole, sentii subito una fitta allo stomaco. Pensavo che fosse impensabile, che fosse solo una mia paranoia. Come faceva David ad averne la certezza?

«Lui dice di essere caduto scivolando mentre faceva la doccia» continuò David. «Ma non può essere solo questo. È debole. L'ultima volta che l'ho visto poco più di un mese fa non era così magro e non è solo perché ha perso massa muscolare per mancanza di allenamento. Zoppica quando cammina. Fa fatica a respirare, forse ha qualche trauma alla gabbia toracica. Fa smorfie ogni volta che muove l'addome. E il modo in cui fissa le guardie non appena si avvicinano a lui e lo toccano, mi suggerisce che non siano gli altri detenuti a picchiarlo.»

Nel sentire quelle osservazioni, mi si formarono le lacrime agli occhi. Dylan stava passando tutto ciò ingiustamente. A causa mia. Ecco perché dovevo tirarlo fuori di lì a tutti i costi.

La vista mi si fece annebbiata e aspettavo solo di liberare le lacrime, nella speranza di potermi sentire meglio, anche se in cuor mio sapevo che non sarebbe servito a nulla. Di certo non avrebbe aiutato Dylan.

David afferrò il mio viso fra le mie mani. «Maggie, ehi, stai tranquilla. Ti prometto che ce la faremo. Devi solo fidarti di me e di mio padre. Ci è già riuscito una volta, non è così?»

Invece che aiutarmi, quelle parole non fecero che dare il via al fiume di lacrime che cominciò a sgorgare dai miei occhi. Succedeva ogni volta che ripensavo al processo. Così di solito tentavo di pensarci il meno possibile.

Capendo che le parole in quella situazione non sarebbero servite, David allora mi cinse in un abbraccio, così che potessi sfogarmi liberamente. La mia testa trovò il solito incastro sotto il suo mento. David attese pazientemente che mi calmassi, continuando a darmi delle carezze sulla schiena e sui capelli.

A un certo punto sciolsi l'abbraccio, ma David mi tenne ugualmente vicina a lui avvolgendo saldamente le mani sui miei fianchi.

Sebbene sapessi che quello non fosse il momento più indicato, a quella vicinanza non riuscivo a fare a meno di desiderare di unire ancora le mie labbra alle sue. Mi chiesi se anche per lui fosse lo stesso.

Ma l'iniziativa non sarebbe di certo partita da me.

E poi mi vennero in mente le ultime parole che si erano detti Dylan e David lì dentro. «Di che stavi parlando con Dylan quando sono arrivata? Cosa intendevi con "Megan non ti ha mai mancato di rispetto in quel senso"?» domandai.

David schiuse le labbra, mostrando un velato stupore. Prese le distanze da me, mollando la presa sui miei fianchi e allontanandosi. «Non era niente di importante» rispose evasivo, evitando di guardarmi.

«Non mi interessa. Se viene fatto il mio nome, voglio sapere per quale motivo» insistetti.

David sbuffò. «Voleva soltanto sapere se l'avessi mai tradito quando stavate ancora insieme. Con me.»

Perché mai a Dylan sarebbe dovuto venire tale dubbio? Quando stavo con Dylan ancora non provavo qualcosa per David. È successo dopo. O se non altro ancora non lo sapevo. E Dylan l'aveva sempre visto in atteggiamenti ambigui con Olivia, non con me.

«Ma tranquilla, gli ho detto che non c'è niente fra noi» aggiunse, scrollando le spalle.

Quelle parole mi perforarono il petto. Non c'era niente? Il David di due giorni prima la pensava diversamente. C'era anche troppo, almeno da parte mia. Ma anche da parte sua, dato che era stato lui a baciarmi.

«Anche se si mostra ostile nei tuoi confronti, è ancora innamorato di te.»

«E allora? Perché me lo stai dicendo?» chiesi disorientata.

«Perché tu sei l'unica che può dargli una speranza. Uno scopo per lottare e per uscire di lì. Non ha nessun altro qui fuori. Suo padre non è venuto a trovarlo una sola volta, è troppo impegnato per il lavoro. Sua madre è venuta l'ultima volta dieci giorni fa, ma ogni volta si emoziona troppo e "non ce la fa a vedere il figlio in quello stato". Quando sei venuta a trovarlo sabato, era la terza volta che riceveva delle visite. Tu, Megan, sei venuta qui per lui, dopo quello che ti aveva fatto e dopo quello che tu avevi fatto a lui. Mentre nessuno dei suoi amici o compagni di squadra si è fatto vivo. Sia fuori che dentro, la sua vita è una schifezza, così dice. Non gli interessa se vincerà o perderà il processo, gli va bene continuare con l'avvocato che l'ha fatto sbattere lì dentro. Perciò, se davvero vuoi aiutarlo, ti chiedo solo di dargli una piccola speranza.»

Non riuscivo a capire fin dove volesse arrivare con quel discorso. Se voleva farmi sentire in maniera fatale, ci stava di certo riuscendo.

«E come dovrei farlo? Dovrei forse mentirgli e dirgli che voglio tornare con lui? Non è quello che voglio, né quello che lui si merita.»

«No, però convincilo che se hai deciso di venire a trovarlo, non è solo perché ti senti in colpa, ma perché credi nella sua innocenza e perché ti importa di lui. Se serve, fagli anche credere che potresti volerci riprovare.»

Già una volta avevamo avuto un discorso simile. L'altra volta gli avevo dato ascolto, accettando di diventare la ragazza di Dylan così da poterlo avere dalla mia parte al processo (cosa che poi era stata comunque inutile).
Stavolta la cosa non sarebbe andata a vantaggio mio, l'avrei fatto per Dylan, ma era comunque sbagliato.

«Significherebbe illuderlo» ribattei. «Come pensi che si sentirà quando capirà che fra me e lui le cose non torneranno come prima perché io non provo niente per lui?»

«Preferisci farlo soffrire per amore una volta fuori dal carcere, oppure farlo massacrare di botte ogni giorno là dentro in quel postaccio? Almeno quando sarà fuori potrà rifarsi una vita, mentre continuando a stare in quel postaccio non fa che metterla a rischio.»

Avvertii i brividi nel sentire quelle parole. Eppure, per quanto cruda, quella era la verità. Dylan era in pericolo lì dentro.

«Quindi,» David riprese il discorso «se lui ha il dubbio che fra noi due ci sia qualcosa, convincilo del contrario».

Roteai gli occhi e incrociai le braccia al petto. «Non sarà tanto difficile, dato che è la verità. Non c'è niente, oppure mi sbaglio?»

Esitò un paio di secondi prima di replicare. «Megan, perché complicarti la vita così? Hai sedici anni, puoi avere un sacco di ragazzi. Perché me?»

«Credi forse che a me faccia piacere complicarmi la vita così? Te lo dico io: no. Lo detesto. Non oso immaginare come possa sentirti tu, a dover sempre tenere tutto sepolto e a non farne mai parola con nessuno, nemmeno con la sottoscritta, che si dà il caso che sia la diretta interessata!» esclamai, sentendo le mie guance ribollire per la rabbia.

Abbassò lo sguardo e non disse nulla per ribattere. Forse ero finalmente riuscita a fargli capire quanto fosse sbagliato il suo atteggiamento. Forse sarebbe cambiato.

Avvicinò il suo viso al mio e posò lo sguardo sulle mie labbra, in seguito sui miei occhi. «Sei davvero sicura di volerne parlare?» chiese, e non riuscii a capire il senso della sua domanda. Certo che ne ero sicura. Nemmeno il tempo di aprire bocca per rispondergli, che aggiunse: «Chiedimi di parlarne dopo che sarà risolta tutta la questione di Dylan».

«Che diavolo c'entra adesso qu...»

«Fra due giorni io e mio padre verremo a prenderti a scuola e ti accompagneremo qui» mi interruppe. «Così potrai parlare con Dylan e convincerlo ad accettare mio padre come suo nuovo avvocato.»

Ovviamente aveva di nuovo sviato il discorso.

«E se non dovesse ascoltarmi?»

«Lo farà» disse David con convinzione.

Annuii, rassegnandomi. Tanto alla fine l'ultima parola ce l'aveva sempre lui.

Poi distolsi lo sguardo e vidi Lucy uscire dal JJIC. Si guardò intorno disorientata, e poi infine mi individuò e corse nella mia direzione con un gran sorriso stampato in volto. «Megan! Grazie davvero per avermi chiesto di accompagnarti qui, senza di te non avrei trovato un posto dove poter dare vita al mio progetto. Il direttore era entusiasta per la mia idea e ha accettato ben volentieri. I ragazzi della parrocchia ne saranno contentissimi!» esclamò.

Il suo buon umore e la sua radiosità erano quasi in grado di contagiare anche il mio stato d'animo. Per un attimo mi dimenticai dei miei problemi. David invece la fissava stranito.

«Oh, scusate, ho forse interrotto la vostra conversazione? Mi dispiace, davvero, non volevo disturbare. Ti aspetto in macchina, va bene?» chiese Lucy, muovendo qualche passo in direzione del parcheggio, ma io la fermai: «No, no, non preoccuparti, Lucy. Abbiamo finito, no?» dissi poi rivolta a David, usando un tono di voce certamente più duro rispetto a quello che avevo utilizzato con la ragazza minuta alla mia destra.

«Sì, non c'è altro. Ci vediamo mercoledì.» Nel momento stesso in cui mi diede le spalle per dirigersi verso la sua auto, mi ricordai che c'era un dettaglio a cui non avevo fatto menzione. Così lo seguii e lo fermai appoggiandogli una mano sulla spalla. Si voltò e, non appena incrociai il suo sguardo, esitai un attimo, indecisa se dirgli la verità oppure se evitare di farlo arrabbiare ancora e sorbirmi un'altra delle sue insopportabili ramanzine.

Ma alla fine decisi di parlare, doveva saperlo. «Ho dimenticato di dirti una cosa...» iniziai, un po' incerta, poiché temevo troppo la sua reazione. «Dylan aveva detto alla guardia di inserire il mio nome fra la lista delle persone dalle quali non voleva ricevere visite, quindi io... ecco, ho acquistato un documento falso da un ragazzo a scuola e assunto l'identità falsa di Heather Wilson.»

Mi sentii immensamente libera e sollevata dopo averglielo detto, ma mi sentii totalmente idiota non appena mi arrivarono le sue urla dritte nell'orecchio: «Tu hai fatto cosa?».

 

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Capitolo 5
*** 4. Disposta a tutto ***


4. Disposta a tutto

Durante tutto il viaggio di ritorno rimasi piuttosto taciturna, così come durante quello d'andata, del resto. Soltanto che prima il mio silenzio era dovuto alla preoccupazione di non riuscire a vedere Dylan per il timore di essere scoperta dalle guardie; ora il mio pessimo umore era dovuto in piccola parte alla situazione sempre più indefinita fra me e David e, in parte maggiore, per tutta la questione di Dylan.

Non riuscivo a sopportare l'idea che trascorresse un solo giorno di più lì dentro, ingiustamente, malmenato e chissà cos'altro. Tutto per causa mia.

Se solo avessi capito prima che era stato Herman...

Avrebbe dovuto esserci lui al posto di Dylan. Desideravo che ci fosse lui, con tutto il cuore. Doveva marcirci dentro quelle mura. Se solo avessi potuto fare qualcosa affinché potesse soffrire giusto la metà di quanto avevo sofferto io e di quanto stava soffrendo Dylan, non ci avrei pensato due volte a infliggergli tale pena.

David mi aveva sempre insegnato che dovevo far fare alla giustizia il suo corso, ma era stata quella stessa giustizia a lasciare a piede libero Herman e a sbattere in carcere Dylan, sottoposto ogni giorno ad atroci sofferenze che nemmeno potevo immaginarmi. E, qualora fossi riuscita a far sì che Dylan venisse scagionato e a far sì che fosse condannato il vero colpevole, la sua pena sarebbe mai stata sufficientemente giusta? A me non avrebbe ridato Emily. A Dylan non avrebbe ridato la buona reputazione di cui godeva prima di essere arrestato. A cosa serviva quindi la giustizia?

«Sai, ti ammiro molto, Megan» disse Lucy, e subito mi voltai nella sua direzione, sorpresa. Non riuscivo proprio a vedere cosa ci fosse da ammirare in me. «Sei stata coraggiosa, a essere venuta a trovare Dylan.»

Rimasi in silenzio. Non c'era nulla di coraggioso in ciò che avevo fatto. Dylan non era un assassino e non era pericoloso come tutti credevano.

«Lo sei stata anche tu, quando non mi hai voltato le spalle come avevano fatto tutti quando credevano avessi ucciso Emily» dissi poi.

«Però io sapevo che non eri stata tu, mentre...»

Lasciò la frase in sospeso, come se, inspiegabilmente, si vergognasse ad ammettere che reputava Dylan colpevole. Era normale pensarlo, dal momento che era stato il verdetto di una giuria a dichiararlo tale.

«Tu provi ancora qualcosa per lui?» chiese poi, lasciandomi sorpresa e senza che riuscissi a trovare una vera risposta.

Per Dylan avevo da sempre provato solo attrazione fisica, e ora che questa era svanita, nutrivo solo un forte senso di colpa nei suoi confronti. Ma al momento non ero in grado di capire se ci fosse anche dell'altro. Forse un po' di affetto, nonostante tutto.

«Non potrà mai essermi completamente indifferente. Ha fatto parte della mia vita, seppur per poco tempo, e insieme abbiamo condiviso dei momenti, sia belli che brutti» risposi.

Allora ripensai al discorso che mi aveva fatto David.

Non facevo che ripetermi ormai da un mese che sarei stata disposta a tutto pur di rimediare al mio errore. Sarebbe stato così tanto sbagliato illuderlo affinché accettasse di cambiare avvocato, uno che avrebbe davvero fatto di tutto pur di tirarlo fuori da lì? Sarebbe stato così tanto sbagliato stargli vicino in un periodo in cui non aveva nessuno? Sarebbe stato così tanto sbagliato aiutarlo a superare una situazione difficile in cui si era ritrovato per colpa mia?

«Ecco perché dico che sei coraggiosa. Per te sarebbe molto più semplice se lo odiassi e basta, ma tu hai il coraggio di guardare in faccia la verità e di non negare come stanno realmente le cose.»

A quelle parole, mi voltai verso Lucy e sorrisi, rincuorata. Per un attimo riuscii a non sentirmi una persona di merda.

Sembrava che Lucy avesse sempre delle buone parole da spendere per chiunque, ma i suoi non erano complimenti fasulli buttati all'aria, non erano mai fuori luogo, erano detti sempre nel momenti giusto.

Il modo in cui mi sentii consolata per via delle sue parole, mi fece ricordare di tutte quelle volte in cui Tracey era riuscita a calmarmi e a farmi uscire dai miei momenti di crisi. Anche lei sapeva sempre cosa dire per far sentire meglio le persone, così come sapeva sempre come agire in ogni momento.

Era inutile negarlo, mi mancava Tracey. Se mai mi sarei aspettata di perdere Emily, ancor con meno probabilità mi sarei immaginata di perdere anche Tracey appena un mese dopo.

Lei era la mia roccia, il mio sostegno, la mia migliore amica, l'unica che mi era rimasta. E non avevo più neanche lei.

Perché? Perché aveva deciso di appoggiare Herman e aiutarlo a infangare tutto? Cosa gli aveva raccontato lui affinché decidesse di stare dalla parte di quel sporco assassino? Forse era coinvolta anche lei. O forse era ignara di tutto, lui l'aveva manipolata distorcendo la verità e lei non aveva idea del reale mostro che aveva accanto.

Eppure non potevo credere che la mente eccezionale di Tracey potesse essere stata manipolata con così tanta facilità. Era lei quella arguta. Era lei quella furba. Era lei quella razionale. Avevo sempre creduto che il detto "l'amore rende ciechi" valesse per tutti tranne che per lei, ma a quanto pare nessuno era davvero immune.

Quando si sarebbe resa conto che proprio quell'amore l'avrebbe distrutta e le avrebbe rovinato la vita? Se davvero era stata complice di Herman, prima o poi sarebbe affondata insieme a lui. E io, nonostante tutto il bene che le volessi, non avrei fatto nulla per evitarlo.

Lei aveva scelto Herman e io avrei scelto Dylan.

•••

Quella sera andai a dormire presto, saltando la cena. Mi sentivo una fitta terribile allo stomaco e avevo la sensazione che, se avessi ingerito qualcosa, avrei finito col rigettarlo poco dopo.

Mi sembrava quasi di essere tornata indietro di qualche mese, ai giorni subito dopo la morte di Emily. Le sensazioni che provavo erano le stesse: frustrazione e impotenza per la consapevolezza di non poter fare niente per cambiare la situazione, angoscia, terrore e, a volte, mancanza di appetito e insonnia. L'unico cambiamento era che piangevo molto meno e che ero diventata più abile a nasconderlo. Per il resto ero ancora la povera e miserabile Megan.

Quella notte mi abbandonai alla completa disperazione, provando addirittura a pregare. Non ero sicura di averlo fatto nella maniera corretta. Mi rivolsi a qualcuno che non ero sicura che esistesse, e lo pregai che, se davvero l'Inferno era reale, allora facesse il possibile affinché Herman ci finisse. Se finora, sulla Terra, non stava avendo ciò che meritava, pregai affinché lo ricevesse una volta nell'aldilà, sempre che ci fosse. In un modo o nell'altro doveva pagare.

Poi pregai anche per Emily. Pregai che stesse bene e che, ovunque fosse, avesse trovato la cosiddetta pace di cui si parla tanto.

«... perché tu te la meriti, Emily, più di chiunque altro» bisbigliai.

Poco dopo feci un balzo enorme sul letto, nel sentire una mano posarsi sulla mia spalla. Fu solo un attimo, ma lo percepii: era un tocco reale. Umano. Ma non c'era nessuno nella mia stanza oltre a me.

Allora avvertii un brivido lungo la schiena e scoppiai improvvisamente in lacrime, senza riuscire più a fermarmi.

•••

Il mattino seguente, quando mi svegliai, cercai di ripercorrere gli ultimi istanti della sera precedente, tentando di ricordare il momento in cui avevo smesso di piangere e mi ero addormentata, con scarsi risultati. Sapevo di aver trascorso un bel po' di ore a piangere, eppure sembrava fosse passato solo poco tempo da quando avevo avvertito quel tocco.

Il tocco di Emily.

Ero sicura che fosse stata lei. Forse voleva darmi un segnale. Forse voleva farmi sapere che lei era ancora con me. Qualsiasi cosa fosse, per la prima volta dopo mesi riuscii a sentirmi meno sola. Se non altro, mi illusi di non esserlo.

Una volta arrivata a scuola, mi resi conto di essere un po' più in ritardo rispetto al solito, così mi avviai rapida verso il mio armadietto per prendere i miei libri, dato che le lezioni erano quasi sul punto di cominciare.

Normalmente non ci facevo molto caso, ma quella mattina, che non era come le altre, persi qualche istante a osservare la foto che avevo appiccicato con lo scotch all'anta interna del mio armadietto: una foto in cui eravamo insieme io, Emily e Tracey. Passai una mano sul volto di Emily e sorrisi. Poi serrai le labbra e staccai la foto dall'armadietto. Cominciai a stracciarla fino a ridurla in piccoli pezzi.

Ormai quel trio non esisteva più.

«È uno spreco buttare via tutta quella carta, non ti pare? Greta Thunberg potrebbe dissentire.»

Nel sentire quelle parole provenire dalle mie spalle, sussultai per lo spavento e tutti i frantumi della foto mi caddero sul pavimento.

Mi chinai a terra per raccoglierle, e così fece anche il mio interlocutore. «Mmh, è un peccato, dava l'idea di essere una bella foto» commentò, raccogliendo uno dei pezzi in cui si vedevano gli occhi ridenti di Emily, ricevendo una mia occhiata fulminante come risposta: «Fatti gli affari tuoi, George».

«Che antipatia, Heather» rispose il riccio, radunando gli altri pezzetti di carta che erano a terra e porgendomeli.

«Sh, non chiamarmi così!» esclamai, strappandogli gli stralci della foto dalle mani e rialzandomi in piedi, dirigendomi poi verso il cestino per buttarli.

«Perché? Non mi risulta che ci sia uno sbirro nei paraggi» ribatté, seguendomi.

Mi voltai di scatto e me lo trovai a pochi centimetri. «Che cosa vuoi da me?» domandai scocciata, prima di distanziarmi da lui e incrociare le braccia al petto.

«Oh, non montarti la testa, in realtà tu mi servi solo come strumento.» Sgranai gli occhi e aprii la bocca per ribattere, ma non ne ebbi il tempo: «È Biancaneve che mi interessa».

«Chi?» domandai visibilmente confusa.

«La verginella graziosa» rispose, facendomi cenno di guardare alle mie spalle. Mi voltai e vidi Lucy, mentre era intenta ad appendere dei volantini in giro per la scuola, per una delle tante iniziative sociali che promuoveva. Poi tornai a guardare George, il quale si passò la lingua sul labbro superiore. «Ha qualcosa che mi attrae. Secondo me sotto quella maschera di Maria Teresa di Calcutta, in realtà si nasconde una vera porca» aggiunse, e io inorridii per le sue parole. «Pensavo che, conoscendo entrambi, potresti cercare di farci avvicinare» concluse il discorso.

«Perché hai bisogno del mio aiuto?» chiesi.

Non avevo alcuna intenzione di essere messa in mezzo.

«Be', il fatto è che, non so perché, ma ogni volta che provo ad avvicinarmi a lei, lei fugge quasi terrorizzata.»

«Forse perché tutta la scuola pensa che lo scorso semestre tu abbia ucciso i topi del laboratorio di scienze annegandoli nel detersivo.»

Alzò gli occhi al cielo. «Che importanza ha quello che pensa tutta la scuola? Un mese fa pensavano tutti che tu avessi ucciso Emily.» Fece una pausa, lasciandosi scappare una risatina. «Strano come poi in carcere ci sia finito il tuo ex ragazzo, proprio dopo che vi eravate lasciati. Una vera casualità, eh?» aggiunse e il tono con cui lo disse mi fece venire i brividi.

Sembrava quasi come se sapesse più di quanto dava a vedere. O forse era soltanto uno squilibrato, dal quale avrei fatto meglio ad allontanarmi al più presto.

«Comunque, tornando a parlare di quel delizioso bocconcino dai boccoli d'oro, cos'hai in mente per farci conoscere? Avevo pensato di entrare a far parte della sua parrocchia, ma ho paura che il prete, vedendomi, proverebbe a esorcizzarmi.»

Alzai gli occhi al cielo, anche se dovetti trattenere a fatica una risata per via della sua ultima uscita, e soprattutto per il fatto che la sua espressione era completamente seria e non accennava a nessuna battuta.

Poi realizzai che solo una persona parlava così tanto quanto George, e quella persona era Herman. Di conseguenza, l'unica cosa che desideravo era di stargli alla larga.

George stava per aprire la bocca per dire altro, ma mi salvò il suono della campanella. Mai fui più grata nel sentire quel fastidioso stridio.

•••

Fortunatamente, George non mi tese nessun altro agguato e mi lasciò in pace per il resto della giornata. Eppure non mi passarono inosservate le occhiate che mi lanciò ogni qualvolta mi vedeva in compagnia della povera Lucy. Sebbene, infatti, trascorsi gran parte di quella giornata con lei, non menzionai mai l'interesse di George nei suoi confronti.

Anche perché era Lucy a parlare la maggior parte del tempo. Ma non mi dispiaceva stare a sentire dei suoi progetti e dei suoi sogni. Lucy era davvero un tesoro di ragazza, con tanti obiettivi e tanto da dare al mondo, quasi quasi lo faceva sembrare meno oscuro.

«Questo sabato andremo al JJIC, vuoi venire con noi? Abbiamo in mente così tante attività grandiose da far fare ai ragazzi! Prima ho appeso dei volantini in giro per i corridoi, così magari riusciremo a coinvolgere più persone» disse una volta fuori da scuola.

«Ci andrò domani sicuramente, per sabato ti faccio sapere, d'accordo?»

«Sì, certo, va benissimo. Ci vediamo domani. Buona giornata, Megan!» esclamò con uno dei suoi soliti sorrisi contagiosi, prima di avviarsi in direzione del parcheggio.

Io feci per incamminarmi verso casa mia, ma mi fermai un attimo, per guardare Tracey e Herman a pochi metri da me. Si tenevano per mano, sorridevano e si scambiavano dei baci.

Come se fosse stato tutto normale.

Come ci erano riusciti? Ad andare avanti così facilmente, senza nessun effetto collaterale. Io combattevo ogni giorno con i miei demoni e ogni volta avevo paura di non farcela, ma loro invece erano... gli stessi di sempre.

Mi riscossi solo quando mi resi conto dello sguardo di Tracey puntato sul mio. Mi guardava come mi aveva guardata quella volta durante l'udienza. Quando avevo saputo la verità sul suo conto. Non era un semplice sguardo dispiaciuto, ma più uno del tipo "scusami, ma non avevo scelta".

Forse dopo tutta quella storia non avevo ancora capito nulla ed ero sempre la solita ingenua, ma quello sguardo che mi rivolse mi rimase impresso e mi fece pensare che forse era davvero così che stavano le cose. Forse davvero non aveva avuto scelta.

Forse invece che continuare ad accumulare dubbi su dubbi, avrei soltanto dovuto avere il coraggio di andare a parlarle una volta per tutte.

•••

Quando mi risvegliai il mattino dopo, pensai di aver fatto un brutto sogno. Poi diedi un'occhiata alla mia scrivania, sulla quale era appoggiata la mia borsa, da cui fuoriusciva qualcosa di affilato e lucente. Mi alzai in piedi per tirare su le tapparelle e, essendo ormai tarda mattinata, la luce del sole penetrò in modo irruente nella stanza e andò subito a illuminare l'oggetto appuntito che sporgeva dalla borsa. A quel punto sobbalzai sul posto, nel momento stesso in cui mi ritornarono alla mente le immagini della sera prima.

Allora realizzai che non era affatto un incubo.

Mi precipitai di corsa in bagno e mi chinai sul water, alzai la tavoletta e mi legai i capelli in una coda, prima di incominciare a vomitare senza sosta. Probabilmente rigettai anche parte della mia anima, o forse l'avevo già persa la sera prima facendo ciò che avevo fatto.

Emily era morta. Era davvero... davvero morta.

Una volta che ebbi finito di svuotarmi, mi alzai in piedi. Barcollavo, così mi voltai e mi appoggiai con entrambe le mani al lavandino per sorreggermi. Poi mi lavai i denti con insistenza per togliere il cattivo sapore che avevo in bocca.

Dopodiché, sollevai lo sguardo e rimasi parecchio a fissare il mio riflesso nello specchio.

Non vedevo niente di diverso. Tralasciando le occhiaie e gli occhi arrossati per via delle lacrime, guardandomi non si intravedeva niente di diverso in me. Mi bastava solo convincere tutti gli altri. Non sarebbe stato così difficile, ero sempre stata brava a nascondere le mie emozioni e a mantenere un'espressione imperscrutabile.

Il problema era Megan. Ormai era immischiata anche lei in quella faccenda e non avevo idea di come sarebbe riuscita a cavarsela. Bastava guardarla in viso per capire tutto di lei, era sempre stato così.

Tornai in camera e, con la mano ancora tremolante, afferrai il coltello da chef insanguinato. Dovetti trattenere altri conati di vomito mentre lo portavo in bagno e iniziavo a sciacquarlo con l'acqua del rubinetto e il sapone, così da ripulirlo dal sangue e dalle impronte di Megan e Herman, oltre che, ormai, delle mie. Poi pensai che non sarebbe stato sufficiente e quindi presi anche dell'ammoniaca appoggiata sulla lavatrice e la cosparsi ovunque sull'arma. Diedi un ultimo risciacquo e poi andai in cucina e lo misi in lavastoviglie insieme alle altre posate, piatti e bicchieri.

Mia madre cucinava sì e uno due volte a settimana, non si sarebbe nemmeno accorta di un coltello in più fra le sue stoviglie.

Successivamente, afferrai il cellulare e vidi una notifica. Era una notizia dell'ultima ora: Emily Walsh la sera prima non era tornata a casa dai suoi genitori ed era stata dichiarata come scomparsa.

Deglutii e sentii le lacrime accumularsi nei miei occhi, ma non permisi che si liberassero. Non era il momento di piangere ancora, era il momento di agire.

Dal momento che non era stato ritrovato il suo corpo e non si sapeva ancora cosa le fosse realmente successo, avrei potuto iniziare con la mia messinscena: composi il numero di Emily e le lasciai almeno tre messaggi in segreteria, oltre che una dozzina di messaggi, fingendomi preoccupata per lei e non capendo perché non mi rispondesse.

In quel modo avrei potuto aiutare anche Megan, bastava che si attenesse alla mia versione: avevamo lasciato la festa dopo che Megan aveva discusso con Emily, senza aver più saputo nulla di lei.

Man mano che la storiella che stavo costruendo iniziava a prendere una forma più definita, cominciai a sentirmi più sicura e più al sicuro. Forse non sarebbe andato tutto storto. Forse la polizia non avrebbe scoperto la verità. Forse la mia vita non sarebbe andata in frantumi.

Del resto, non era ciò che mi meritavo. Io non avevo fatto niente, non ero colpevole di nulla, giusto?

L'unico vero colpevole era... Ed ecco che il mondo mi crollò addosso un'altra volta, dopo quei due minuti in cui mi ero illusa che sarei riuscita a risolvere tutto.

Cosa sarebbe successo a Herman? Lui, ancor più di Megan, era incapace di nascondere la verità. Non sapeva mentire e, anzi, più si sforzava di tenere la bocca chiusa, più si lasciava sfuggire qualcosa.

Pochi istanti dopo realizzai che, arrivati a quel punto, non avrei potuto salvare tutti. Potevo salvare me stessa, e l'avrei fatto, ma non potevo salvare sia Megan sia Herman. Avrei dovuto scegliere.

Megan o Herman?

 

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Capitolo 6
*** 5. Farci del male ***


5. Farci del male

Mercoledì arrivò prima che potessi rendermene conto, e con esso l'ora del mio incontro con Dylan.

Non appena uscii da scuola, quel giorno, salutai Lucy e poi mi avviai in direzione dell'auto di David, con l'ansia che cresceva sempre di più dentro di me. Salii sul sedile posteriore e salutai entrambi i Finnston.

«Ciao, Megan» rispose l'avvocato Finnston, mentre David si limitò a rivolgermi un piccolo ghigno che intravidi attraverso lo specchietto retrovisore frontale.

Il viaggio fu piuttosto lungo, specie perché non parlammo molto, ma la cosa non mi pesò. Ebbi modo di prepararmi mentalmente un discorso che avrei fatto a Dylan, nella speranza che quella volta mi desse ascolto.

Una volta arrivati, scesi frettolosamente dall'auto, pronta a dirigermi verso l'entrata del JJIC, seguita da David e suo padre. Prima che ci avvicinassimo ai controlli di sicurezza, fui chiamata dall'avvocato Finnston. «Megan, quale documento hai qui con te?» chiese con tono pacato, ma in realtà la sua altro non era che un'ammonizione.

Sapeva tutto.

Guardai David con gli occhi ridotti a due fessure. Perché diamine doveva sempre raccontare tutto a suo padre?

David scrollò le spalle, come a dire: «Che ti aspettavi?».

E in fondo aveva ragione. Non potevo continuare a circolare con un documento falso. Era pericoloso. Specialmente se in un carcere di detenzione minorile.

«Dylan non vuole vedermi» spiegai, sperando che servisse a giustificare le mie azioni.

«Ci ho già pensato io a questo. Ho un amico di vecchia data che lavora qui dentro, ti farà passare senza fare domande» rispose l'avvocato Finnston.

Annuii, sentendomi un po' sollevata. Poi feci per andare verso la guardia indicata dall'avvocato Finnston e fargli esaminare il mio documento d'identità vero, ma la strada mi venne sbarrata da David. «Aspetta un secondo» disse, tenendo il palmo della mano rivolto verso l'alto. «L'altro documento deve sparire.»

Alzai gli occhi al cielo e gli consegnai il documento falso. Venticinque dollari per averlo usato un'unica volta.

«Grandioso. Ora puoi andare» disse, infilando il documento nella tasca dei jeans e indietreggiando di qualche passo.

«Posso? E che mi dici di te e tuo padre?» domandai, notando inoltre che l'avvocato Finnston si era dileguato ed era uscito dall'edificio.

«Oh, no. Sei tu che hai creato questa situazione, quindi sei te che ti occuperai di risolverla. È con te che deve parlare Dylan, sei tu che devi convincerlo» rispose, lasciandomi sbigottita. «Devi fargli firmare questi fogli, a proposito» aggiunse, tirando una cartelletta e una penna fuori da una valigetta che teneva in mano.

«E se non dovessi riuscirci, tu e tuo padre sarete venuti qui per nulla?»

«No, non direi per nulla. È sempre bello dare una lezione a qualcuno che non ha ancora capito che non deve giocare con la legge» rispose, avvicinandosi leggermente al mio viso e abbassando la voce, esibendosi in uno di quei fastidiosi ghigni.

«Disse colui che ha adescato una sedicenne per ottenere informazioni sulle indagini del procuratore distrettuale» ribattei, con lo stesso tono velenoso utilizzato da lui.

«Ma come vedi non l'ho mandata in prigione.»

Boccheggiai per qualche istante. Erano stati lui e suo padre ad accettare consapevolmente di spostare tutti i sospetti su Dylan. Avrebbero potuto rifiutare. E invece ora sembrava che l'unica responsabile fossi io.

Indignata, gli strappai la cartelletta e la penna dalle mani e gli diedi le spalle, dirigendomi dalla guardia per i controlli di sicurezza. 
Ormai avevo memorizzato la prassi, perciò non ero neanche così agitata per via di quelle procedure, a maggior ragione perché la rabbia e il nervoso che provavo in quel momento per via dell'atteggiamento di David, furono in grado di sovrastare qualsiasi altra emozione.

Eppure, non appena varcai la sala delle visite e riconobbi Dylan voltato di spalle, subito mi addolcii.

Prima di andare a sedermi di fronte a lui, passai in rassegna i volti delle quattro guardie poste agli angoli della stanza, rivolgendo loro uno sguardo truce. Almeno uno di quei quattro mostri lì dentro massacrava Dylan di botte, probabilmente sotto gli occhi di altri colleghi o con il loro aiuto, e nessuno agiva. Esseri indegni.

«Ehi, Dyl» dissi sommessamente, sedendomi di fronte a lui e spostandomi in avanti con la sedia il più possibile.

Sollevò lo sguardo, sorpreso. Probabilmente pensava mi fossi arresa, non sapeva che sarei stata al suo fianco fino alla fine.

Distolse lo sguardo, girando la testa di lato.

«Lo so che ce l'hai con me, hai tutte le ragioni del mondo per esserlo, visto che è colpa mia se ti trovi qui, a farti maltrattare da questi bastardi...»

«N-nessuno mi maltratta» si affrettò a precisare, ma non mi sfuggì il terrore nei suoi occhi nel pronunciare quelle parole.

«Sì, invece. E non è giusto. Dovrebbe esserci Herman al posto tuo.»

Spalancò gli occhi, confuso. «Herman? Quella radiolina iperattiva che...»

«Sì, proprio lui. Non ti interessa sapere come faccio a saperlo» lo interruppi, ma lui scosse la testa e non mi diede ascolto: «Come fai ad accusarlo di questo? È tuo amico, Megan, ed era amico anche di Emily!».

«E tu eri il mio ragazzo! Come lo sei stato anche di Emily.»

Deglutì, mentre i suoi occhi si riempirono di lacrime. L'ultima volta che l'avevo visto così vulnerabile era stato quel giorno in cui avevamo definitivamente messo un punto alla nostra storia.

«Non riuscivo a spiegarmi perché anche tu sembrassi così distrutto per la sua morte...» aggiunsi, lasciando poi la frase in sospeso.

«Anche se per poco, è stata comunque importante per me» disse lui. «Non le avrei mai potuto fare del male.»

«Gliene hai fatto invece, così come l'ho fatto io. E come poi ce ne siamo fatti a vicenda. Nessuno di noi due è privo di colpe, ma non per questo meriti di stare qui!» esclamai, allungando le mani sul tavolo per afferrare le sue. Dylan inizialmente fece per ritrarsi, ma fu allora che la mia presa si fece più salda. Non seppi spiegarmi perché lo feci.

A quel punto Dylan abbassò lo sguardo. «Mi dispiace di aver pensato di poterti trattare come se fossi di mia proprietà. Mi dispiace per essere stato così ossessivo e possessivo. Mi dispiace per averti spaventata quando ho detto che ti amavo. Mi dispiace per tutto il male che ti ho causato. La verità è che se le cose sono finite fra di noi, in maggior parte è colpa del mio modo di essere, del mio atteggia...»

Lo interruppi prontamente, per evitare di starlo a sentire mentre si demoliva ancora di più: «Una volta qualcuno mi ha detto che il mondo non è mai bianco o nero, giusto o sbagliato».

Sollevò lo sguardo, mentre una piccola lacrima gli solcava il viso, causando la stessa reazione in me.

«Te l'ho detto io, giusto?»

Io annuii, prima di continuare: «E qualcun altro invece mi ha detto che il male è dentro ciascuno di noi, così come c'è il bene. Quindi non siamo noi a essere cattive o buone persone, sono le nostre scelte a essere sbagliate o giuste. E io non potrei che essere più che d'accordo».

Emise un sorriso quasi impercettibile.

«Anch'io ho contribuito con una grande dose di scelte sbagliate, anche peggiori delle tue, altrimenti non ti troveresti qui.»

Scosse la testa: «In realtà in parte capisco perché tu l'abbia fatto. Eri spaventata da me, io stesso ho paura a ripensare alle cose orribili che ho detto e che ho fatto quel giorno. Non ci voleva molto a fare due più due e pensare che avrei potuto fare lo stesso anche con Emily.»

Un'altra lacrima cadde sul mio viso. «Ma tu non hai mai dubitato di me, fin dal primo istante hai creduto in me. Quindi, ti prego, permettimi di restituirti la fiducia che mi hai dato. E lascia che ti tiri fuori da questo posto.»

A quel punto prese le distanze da me, interrompendo il nostro contatto. «È per questo che lo fai, allora? Per poter smettere di sentirti in colpa?»

«Che importanza ha perché lo faccio? L'importante è tirarti fuori da qui al più presto, perché qui non sei al sicuro!» bisbigliai con tono concitato.

«E fuori pensi che cambierà qualcosa? Pensi che le persone cambieranno idea su di me o che invece continueranno a reputarmi uno sporco assassino? Ormai il mio futuro è comunque segnato. Che esca o che rimanga qui, la mia vita continuerà a essere una merda. A nessuno importa di me, nemmeno ai miei genitori. Preferisco morire ucciso qui dentro piuttosto che...»

«Come puoi dire una cosa del genere?» lo sovrastai con la mia voce, inorridita per il poco rispetto che avesse per se stesso e per la sua vita.

In realtà una parte di me lo capiva. Una parte di me aveva ragionato come lui un paio di mesi prima. Una parte di me aveva cercato di farla finita.

E forse era proprio quella la chiave. Ci ero passata anch'io, quindi sapevo ciò che provava.

Aveva ragione David: aveva bisogno di speranza. Su di me aveva fatto leva il desiderio di trovare l'assassino di Emily così da poterle rendere la giustizia che si meritava. Che cos'avrebbe funzionato con Dylan? Sebbene fosse affezionato a Emily, non sarebbe bastato basare tutto solo su quello.

Dentro di me sapevo già la risposta, ma mi rifiutavo di cedere a quella soluzione. Doveva esserci un'altra via d'uscita, giusto?

Invece non c'è, mi risposi da sola, non posso fare altrimenti.

«Se davvero ti importa così poco della tua vita, ma ti importa di me come hai detto in più occasioni, allora fammi questo ultimo favore» dissi, sentendomi immensamente in colpa per ciò che stavo facendo. Forse ero un'egoista a non tenere in considerazione la sua decisione, ma non potevo nemmeno lasciarlo morire. «Promettimi che d'ora in poi collaborerai con l'avvocato Finnston e che farai il possibile per uscire da qui. Hai detto che a nessuno importa di te: tua madre non viene qui, tuo padre ancor meno, nessuno dei tuoi amici si è fatto vivo, ci sono solo io. Non è molto, ma se davvero mi hai amata come hai detto, forse qualcosa per te deve contare.»

Dylan rimase in silenzio per molti secondi, che io trascorsi col fiato sospeso. Le lacrime che si erano depositate sulle mie guance si seccarono, mentre la mia fronte cominciava a essere madida di sudore. Nel frattempo pregai con tutto il cuore che desse ascolto alle mie parole.

«Lo so che stai con quell'universitario.»

Con quelle poche parole dette con decisione e freddezza, mi si gelò il sangue nelle vene.

Aggrottai le sopracciglia e scossi la testa, negando il tutto: «Non è vero, Dyl, non stiamo insieme».

«Però c'è qualcosa, lo so. Me l'ha detto lui.»

Rimasi a bocca aperta. David aveva detto di aver negato tutto, e invece era a me che aveva mentito. Perché? Dicendo la verità a Dylan, come pensava che avrei potuto convincerlo ad accettare il mio aiuto?

Scossi nuovamente la testa. «Non so cosa ti abbia detto, ma da parte mia non c'è niente. Sono troppo incasinata al momento per poter pensare a una relazione, figuriamoci iniziarne una così complicata con uno che ha sei anni in più di me» dissi con durezza.

Come se l'età fosse stata il problema maggiore al momento. Il problema era che era scaltro, bugiardo e calcolatore.

«Non è una motivazione. Eri incasinata anche quando stavi con me.»

«Infatti, e guarda dove ci ha portati» ribattei.

Calò nuovamente il silenzio. Iniziai a guardarmi attorno e a notare che alcune persone stavano già iniziando ad alzarsi e ad avviarsi verso l'uscita. L'orario delle visite stava per terminare. Così, senza aggiungere nient'altro, gli avvicinai il foglio e la penna che mi aveva dato David, invitandolo a porci una firma sopra.

Lui rimase immobile a fissare il foglio per qualche istante, prima di afferrare il foglio e firmarlo. 
Gli occhi mi si illuminarono all'improvviso e sorrisi, prima di alzarmi in piedi, fare il giro del tavolo e gettare le mie braccia attorno al collo di Dylan.

Indugiando solo per qualche istante, Dylan ricambiò poi l'abbraccio e io chiusi gli occhi per assaporare quel breve momento. «Non dimenticare mai che tu sei Dylan Valentine Walker. Non importa cosa succeda, non permettere a nessuno di cambiare chi sei» gli sussurrai all'orecchio, prima di essere avvicinata da una guardia che mi intimò di sciogliere l'abbraccio e allontanarmi dal detenuto.

Poi afferrò Dylan per un braccio, pronto a rispedirlo in cella. Ancora una volta, non mi sfuggirono le sue smorfie di dolore e la sua andatura zoppicante.

Quei bastardi non l'avrebbero mai più toccato nemmeno con un dito.

Mi avviai frettolosa verso l'uscita e poi risalii in macchina silenziosamente, passando poi davanti il foglio che Dylan aveva firmato. «Da questo momento Dylan è ufficialmente un suo cliente» dissi rivolta al signor Finnston.

«Ottimo. Ora dobbiamo muoverci a tirarlo fuori da qui» disse, come se avesse già congegnato un piano per risolvere quella problematica. O almeno speravo che fosse così.

•••

David guidò fino a Morgan City. Invece che passare prima da casa mia, si fermò davanti al vialetto della villa dei Finnston. All'occhiata interrogativa di suo padre, rispose con: «Domani mattina ho un altro esame, devo ritornare a New Orleans e passando per casa di Megan ci metto di meno».

A quel punto il signor Finnston annuì senza fare ulteriori domande, si slacciò la cintura di sicurezza e, dopo aver salutato me e il figlio, scese dall'auto e si diresse a casa sua.

Prima di ripartire, David mi guardò attraverso lo specchietto. «Spostati davanti, altrimenti potrebbero scambiarmi per un tassista abusivo» disse, ma aveva tutto il sentore di essere una scusa. In fondo erano meno di cinque minuti di strada. Comunque sia, diedi ascolto alle sue parole e scesi dall'auto solo per risalire nel posto del passeggero davanti.

A quel punto fece retromarcia e iniziò ad avviarsi verso casa mia.

«Che esame hai domani?» domandai, giusto per smorzare il silenzio ed evitare di sentirmi sola con i miei pensieri.

«Diritto commerciale» rispose.

«Non avresti dovuto perdere il pomeriggio accompagnandomi a New Orleans il giorno prima di un esame.»

«Credi che mi riduca a studiare il pomeriggio prima di un esame?» chiese, facendo intendere che avesse già studiato. «Farò tutto stasera» aggiunse, smentendo la sua precedente affermazione.

Mi voltai verso di lui e, non appena incrociai il suo sguardo, capii che, nonostante il tono serissimo, stava solamente scherzando, così risi.

Poi tornai subito seria, ricordandomi che ero arrabbiata con lui sia per come si era rivolto a me, sia per quanto avevo scoperto tramite Dylan. Così ritenni che fosse il caso di farglielo presente, non appena posteggiò l'auto davanti a casa mia. «Perché hai detto a Dylan che fra me e te c'è qualcosa?» chiesi, slacciandomi la cintura.

Non ebbi neanche bisogno di voltarmi verso di lui per immaginare la sua espressione. Sicuramente era sbiancato in volto e aveva deglutito, cercando però di mantenere un'espressione il più neutrale possibile. Quando mi girai nella sua direzione per rivolgergli un'occhiata inquisitoria, confermai le mie supposizioni.

«Che c'è? Davvero credevi che non sarebbe saltato fuori?» domandai, non ricevendo nessuna risposta. «Allora?» lo incalzai.

«È un interrogatorio?» disse soltanto.

Riflettei ancora un po' e poi finalmente giunsi da sola a una risposta: «Tu sei geloso di Dylan! È per questo che gliel'hai detto. Cosa speravi di fare dicendoglielo, marcare il territorio?».

Scoppiò a ridere fragorosamente, come se la mia fosse stata una mera assurdità. Ma non lo era. Più passavano i secondi e più mi convincevo di aver fatto centro. «Ed ecco anche perché sei voluto andare da lui. Per metterlo alla prova, vedere che tipo fosse, studiarlo. Oppure sto sbagliando tutto e mi sto inventando ancora una volta qualcosa che esiste solo nella mia testa. È così, David?»

Alzò gli occhi al cielo. Poi parlò: «Ci dev'essere un motivo se sei cosi determinata a tirarlo fuori da lì».

«Sì, perché è innocente e ci è finito per colpa mia!» esclamai.

«Nient'altro? Quindi non provi più nulla per lui?»

«Non ho mai provato nulla per lui in quel senso, David.»

«D'accordo, ma potresti? Potresti iniziare a innamorarti di lui?»

Roteai gli occhi.

Non finché lo sono di te, avrei voluto urlargli, cosicché gli entrasse in testa una volta per tutte.

«Quante volte ancora devo mettermi in ridicolo confessandoti i miei sentimenti, affinché tu finalmente lo capisca?» sbottai.

Poi presi un respiro profondo e mi calmai. Non era geloso, aveva paura. E io sapevo anche il motivo della sua insicurezza. Glielo leggevo negli occhi. Aveva amato una sola ragazza nella sua vita per ben sette anni, e dopo di lei non aveva niente provato nulla di simile per nessun'altra. Non doveva essere facile per lui rimettersi in gioco e lasciarsi andare con un'altra persona.

«Sai cosa provi adesso, ma non quello che proverai quando finirà il processo. Le cose possono cambiare, e...»

Mi rifiutai di lasciargli finire la frase, mi sporsi in avanti e, afferrandogli il viso fra le mani, fiondai le mie labbra sulle sue. Non rispose al bacio, ma nemmeno cercò di ritrarsi. Quando mi separai dalle sue labbra, rimasi comunque vicina al suo viso, tenendo una mano sulla sua nuca e facendo sì che le nostre fronti si toccassero.

«Megan... ti avevo chiesto di aspettare e...»

«Lo so, ne parleremo dopo che si sarà risolta tutta la questione di Dylan» lo interruppi. «Ma ti prego, almeno per oggi, non dirmi di no.»

Mi resi conto di quanto sembrassi disperata solo dopo aver pronunciato quelle parole. Dovevo smetterla di rincorrere qualcuno che continuava a respingermi, eppure era più forte di me. E, in fondo, non capivo cosa ci fosse di così sbagliato nel farlo: come mi aveva detto mia madre un po' di tempo prima, la vita era unica e imprevedibile, perciò era importante non lasciarmi indietro nessun rimpianto e fare tutto ciò che mi sentivo di fare.

Ma, conoscendo David, lui non sarebbe di certo stato della stessa idea. Così cercai di prepararmi mentalmente all'ennesimo rifiuto, nella speranza che poi mi facesse meno male.

«Se oggi ci lasciamo andare, non faremo altro che farci del male a vicenda» disse, confermando i miei pensieri. Abbassai quindi lo sguardo, dal momento che stava per venirmi il magone. David però mi afferrò il mento fra le dita e mi costrinse a guardarlo. «Ma è più doloroso non poter far questo» aggiunse, prima di unire le sue labbra alle mie. Durò pochi secondi, perché subito dopo si slacciò la cintura e scese dall'auto, invitandomi a fare lo stesso.

David fece il giro del veicolo e avvolse le braccia attorno alla mia vita, baciandomi di nuovo. A differenza del nostro primo bacio, era meno famelico e più dolce, ma non per questo con meno passione. Solo una cosa era rimasta immutata: non potevo farne a meno e avvertivo il bisogno di averne sempre di più.

Pensavo che per lui fosse lo stesso, finché non interruppe il bacio sul momento più bello e spostò lo sguardo altrove. «Che c'è?» chiesi.

«Potrebbe vederci chiunque in qualsiasi momento» rispose, guardandosi intorno.

«E allora?»

«E allora sei minorenne e io no.»

«Lo sarò per altri due anni, ci dovremo nascondere per non farci vedere fino ad allora?»

«E chi ti dice che fra due anni ci sarà ancora qualcosa?»

Nel sentire quelle parole, avvertii subito una fitta al cuore. Perché continuavo a sorprendermi e a reagire così ogni volta? Arrivata a quel punto, avrei già dovuto farci l'abitudine. Non si trattava di una novità.

Senza dire nulla, gli diedi le spalle e mi diressi verso casa.

«Dove vai adesso? Megan!» tentò di richiamarmi. A giudicare dal suo tono confuso, sembrava non si fosse reso conto di avermi ferita ancora. «Megan! Non intendevo quello che...»

«In bocca al lupo per l'esame!» lo interruppi, prima di sbattergli la porta di casa in faccia, lasciandola alle mie spalle.

 

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Capitolo 7
*** 6. Ecco la vera Megan ***


6. Ecco la vera Megan

Per il resto della settimana non desiderai altro che la sua fine.

Mancavano solo pochi giorni di scuola prima dell'inizio delle vacanze di Natale, quindi ero praticamente inondata di test ogni giorno, ma non era quello il vero problema: dopo tre anni ormai ero abituata allo stress che si accumulava normalmente in quel periodo dell'anno. E, soltanto ultimamente, mi ero resa conto che non aveva niente a che vedere con lo stress che mi portavo dietro da più di due mesi.

Sabato e domenica erano gli unici giorni della settimana in cui potevo starmene più tranquilla, senza dover vedere Herman e  Tracey, né George che mi stava sempre più addosso, né David.

Quando finalmente sabato arrivò, tuttavia, mi resi conto che non avevo alcuna voglia di chiudermi in casa ancora una volta con i miei genitori: sentivo un bisogno sfrenato di uscire, di svagarmi, di distrarmi, ma non avevo nessuno con cui farlo. L'unica cosa che avrebbe movimentato la mia giornata, sarebbe stato partecipare alla messa delle 18:00 presso la parrocchia di Lucy.

Poi mi ricordai che quest'ultima mi aveva chiesto di andare con lei e il suo gruppo di fedeli a trovare i ragazzi del JJIC. Non mi andava di angosciarmi ancora con tutta la storia di Dylan, avendo già fatto il pieno durante la settimana, ma poi all'ultimo ci ripensai. Mi avrebbe fatto piacere vederlo.

Così andai sulla rubrica del cellulare e cercai il contatto di Lucy. Lo selezionai e la chiamai. Attesi qualche istante e poi rispose: «Ciao, Megan!».

Sorrisi in automatico nel sentirla, come sempre, così di buon umore. «Ehi, Lucy. Tutto bene? A che ora andrete tu e i ragazzi a New Orleans?» chiesi.

«Ah, quindi vuoi venire? Che bello, mi fa davvero piacere! Andiamo per le 15:30. Hai bisogno di un passaggio? Noi abbiamo affittato un pullmino per l'occasione, devo ancora chiedere ma penso ci sia posto anche per te. Il ritrovo è davanti la parrocchia alle due meno dieci.»

«Ok, va benissimo, grazie. Ci vediamo dopo, allora.»

«A dopo!» esclamò.

Misi giù e poi guardai che ore fossero. Le 12:15. Perfetto. Avevo tutto il tempo di pranzare e poi prepararmi. E anche di fare un'altra cosa che mi proponevo di fare da tutta la settimana.

•••

«Sono 6,75$.»

Annuii e tirai fuori i soldi dal portafoglio, prima di tenderli al fioraio, il quale mi consegnò a sua volta il mazzo di fiori che avevo acquistato. Ringraziai e poi uscii dal negozio di fiori.

Neanche dieci minuti dopo mi trovavo già al cimitero, davanti alla lapide della mia migliore amica. Mi chinai in ginocchio e appoggiai sul rettangolo di marmo davanti a me il mazzo di fiori che le avevo comprato. Nontiscordardimé, così si chiamavano quei piccoli petali che davano sul blu o violetto, e non potevano avere nome più azzeccato.

Oltre ai fiori che le avevo portato io, ce n'erano anche altri, probabilmente dei suoi genitori o di altri parenti. Alcuni erano ormai appassiti, altri erano invece freschi.

Passai una mano sull'iscrizione del suo nome. Gli occhi mi si riempirono di lacrime nel leggere la sua epigrafe:

"Ci hai lasciato troppo presto, ma avrai la tua giustizia".

Era la prima volta da quando era stata sepolta che venivo a trovare Emily. Non avevo mai trovato il momento adatto e, anche quando c'era, non ne avevo mai il coraggio. Avevo paura di rimanere sola con lei. L'ultima volta che eravamo rimaste sole, lei non sapeva nemmeno che io fossi lì. L'ultima volta che l'avevo vista, il suo corpo era pieno di sangue e privo di vita. L'ultima volta che l'avevo toccata, avevo contribuito a deturpare il suo corpo, facendola dissanguare ancor di più.

Pensare che l'ultima persona ad averla vista e ad averla toccata quando era ancora viva, era stato Herman, mi mandava in bestia. Così come mi distruggeva dentro sapere che era morta covando odio nei miei confronti per quello che avevo fatto con Dylan. Che diritto avevo di andare a trovarla, dopo ciò che le avevo fatto?

Però poi era venuta lei a trovare me.

Non avevo ancora dimenticato quel tocco che avevo avvertito qualche notte prima. Forse era stato frutto della mia immaginazione, era stata soltanto una suggestione, o forse i defunti trovavano comunque il modo di avere qualche contatto con i vivi che per loro erano stati più importanti.
In ogni caso, che fosse realtà o fantasia, mi era servito per trovare il coraggio di mettere da parte il mio egoismo e andare al cimitero.

Sì, perché era anche egoismo il mio. Evitando di andare al cimitero, facendo finta che Emily non fosse lì, avrei potuto ridurre al minimo le emozioni negative, nell'illusione di potermi sentire come se ormai fosse tutto passato e stessi bene. Non volevo più soffrire.

Ma in realtà soffrire per la morte di Emily era uno dei modi per espiare alle mie colpe. Renderle giustizia era un altro. «Te lo prometto, Emily, farò di tutto...» sussurrai, mentre lasciavo libero arbitrio alle mie lacrime.

«Spero che di solito tu non senta una risposta dall'altra parte.»

Sobbalzai e mi spaventai così tanto che cascai con il sedere a terra. Un'accesa e prolungata risata alle mie spalle contribuì a farmi saltare i nervi. «Ma dico, George, sei impazzito? Che diavolo ci fai qui, adesso mi pedini anche? E poi come ti salta in mente di tendermi un agguato del genere? Mi hai spaventata a morte!» urlai, montando su tutte le furie, prima di alzarmi in piedi e pulirmi i jeans.

In risposta, il riccio acuì la risata, portandosi una mano sull'addome. «Scommetto che... che non ti sei neanche resa... resa conto della battuta che... hai fatto. Spaventata... spaventata a morte! Sei esilarante, Megan Sinclair!»

Se lui era sempre più divertito, io ero sempre più colma d'ira, come testimoniato dalle mie guance che stavano andando a fuoco.

Rimasi in silenzio, aspettando che smettesse di ridere. Quando finalmente accadde, mi concentrai meglio su alcuni particolari del suo viso. Aveva due enormi cerchi neri attorno agli occhi e questi ultimi erano terribilmente arrossati. «Sei fatto?» domandai, avvicinandomi al suo viso per scrutarlo meglio.

Scrollò le spalle. «O magari ho pianto per una mia grave perdita, proprio come te» disse, prima di passarmi il pollice sulla guancia e ripulirmi dal trucco colato.

Gli afferrai il polso e glielo riportai lungo i fianchi. «Che cosa fai qui?» chiesi.

«Dai, davvero sei così egocentrica da pensare che ti abbia davvero seguita? Dimmi, perché le persone vanno al cimitero, secondo te?» fece, con tono stizzito.

Aprii la bocca per rispondere, ma poi lo vidi indicare un paio di lapidi qualche metro più in là da quella di Emily. Lo seguii e lessi due nomi: "Jessica & Rupert Swan". Rivolsi uno sguardo interrogativo a George, il quale dopo qualche istante di silenzio mi rispose: «I miei genitori».

Stavo già per indignarmi per il fatto che scherzasse su una cosa del genere, ma non dissi nulla. Chi scherzerebbe davvero su quel genere di cose? Forse davvero nessuno. Nemmeno uno strambo come lui. «Il tuo cognome è Radley» puntualizzai.

«Quello dei miei genitori adottivi. Il cognome del mio vero padre è Swan. Otto anni fa i miei genitori sono stati investiti da un automobilista che guidava sotto effetto di sostanze stupefacenti» confessò. «Quindi, nonostante quello che tu pensi di me, no, io non mi faccio, di nulla» aggiunse, rivolgendomi uno sguardo così truce da gelarmi il sangue nelle vene.

Mi venne la pelle d'oca. Ero stata così stupida. Come sempre ero saltata a conclusioni affrettate e avevo lasciato che le mie emozioni prendessero il totale controllo di me e delle mie parole, ferendo un'altra persona.

«Ora non provare a scusarti e a dire che ti dispiace solo perché ti sei accorta di aver fatto una gaffe. Le scuse sono inutili, io non mi scuso mai per quello che penso.»

Quelle parole mi ricordarono una conversazione avuta una volta con David. Scacciai subito quei pensieri e mi concentrai su George, il quale ora mi rivolgeva uno sguardo che non mi piaceva per nulla. «Però una cosa la puoi fare, ed è dirmi a che cosa ti stavi riferendo prima mentre parlavi con la tomba della tua migliore amica. In che senso farai di tutto?» chiese, facendo qualche passo e ritornando davanti alla lapide di Emily, seguito da me.

Mi aveva colta così alla sprovvista che non seppi trovare nessuna scusa plausibile. Così tentai di cambiare discorso. «Lo sai dove sto per andare? Al centro di detenzione minorile di New Orleans, insieme a Lucy.»

Sgranò gli occhi e poi sorrise. «Ottimo, allora vedi che hai trovato un modo per farci avvicinare! Andiamo allora. Ah, aspetta, però, devo prima lasciare da qualche parte i miei tre documenti falsi e il coltellino svizzero. Cazzo, se me l'avessi detto prima, mi sarei depilato sul...»

«George!» lo interruppi, lanciandogli un'occhiata disgustata. «Lucy sarà lì con i ragazzi della sua parrocchia. Ecco, sai che facciamo adesso? Istituiamo delle regole. Regola numero uno: non toccarla. Regola numero due: parlale solo facendo riferimento a contenuti religiosi e alla tua devozione a Dio, vale a dire ciò ti ha spinto a essere lì oggi ad aiutarla. Regola numero tre: non parlare in alcun modo di sesso, con nessuno.»

«Dai, quanto sei impostata! Se devo piacerle, devo essere me stesso, o sbaglio?»

«Regola numero quattro: non parlare di nessuna delle tue attività illegali. Regola numero cinque: non fare amicizia con i detenuti» proseguii.

«Hai finito o c'è altro?» domandò seccato.

Aprii bocca per rispondere, ma mi fermai nel momento in cui vidi George chinarsi a terra per leggere meglio l'epigrafe sulla tomba di Emily. Pochi secondi dopo, si rialzò di scatto e incrociò le braccia al petto. «Che grande puttanata!» esclamò.

«Scusami?» chiesi mostrandomi contrariata.

«Chi ha bisogno della giustizia? È grazie al sistema giudiziario americano se l'assassino dei miei genitori si è fatto sei mesi in carcere e poi è uscito, mentre i miei sono rinchiusi in una bara tre metri sotto terra. Se me lo ritrovassi davanti in questo momento, non esiterei un secondo ad ammazzarlo a mani nude. Questa è l'unica giustizia che si meritano i miei genitori» disse a denti stretti e pugni serrati.

Sentivo che quello fosse il momento in cui avrei dovuto intervenire per contrastare ciò che aveva detto George, eppure non seppi spiegarmi perché dalla mia voce non uscì un singolo suono.

Anche se avrei dovuto. Era questo che si meritava Emily? Che vendicassi la sua morte, uccidendo io stessa il suo assassino?

Avvertii un brivido lungo la schiena solo al fare simili ragionamenti. Era da folli, e io non lo ero. Né ero un'assassina. Non ero come Herman.

"Sono Megan Sinclair e sono una brava ragazza" mi parve quasi di sentire.

"Chi dice che il male si sconfigge con il bene, allora non ha capito niente di come funziona realmente il mondo. A volte bisogna tirare fuori gli artigli" mi aveva però detto una volta qualcuno.

"A volte c'è bisogno che le brave persone compiano delle brutte azioni, così che le persone cattive possano ricevere la punizione che meritano" avevo pensato io stessa, una volta.

Ma non spettava a me punirli. «Ora dobbiamo andare» dissi con tono grave, per mettere a tacere le voci dentro la mia testa, dando le spalle a George e andando a dirigermi verso l'uscita del cimitero.

•••

L'espressione scura e terrorizzata dipinta sul viso di Lucy non appena mi vide arrivare accompagnata da George Radley mi fece sentire ancora una volta una persona orribile: era evidente che lei non avesse alcuna intenzione di avere a che fare con lui, e io l'avevo portato da lei solo perché avevo bisogno di sviare il discorso.

Intimai a George di chiudere il becco e di seguirmi mentre mi avvicinavo a Lucy. Simulai un sorriso: «Ehi, Lucy! Mentre ero per strada per arrivare qui, ho incontrato George, il quale è da un po' di tempo che sta cercando un'attività di assistenza sociale a cui dedicarsi, così ho pensato di proporgli di venire insieme a noi. Spero che non sia un problema. Ci tiene davvero molto, e...»

«Io penso che vivere abbia senso solo se si è disposti ad aiutare gli altri. Come ci ha insegnato quel... quel profeta... diamine, com'è che si chiamava?» sussurrò al mio orecchio. «Gesù! Come ci ha insegnato Gesù!» esclamai. «Non è grandioso?» chiesi poi rivolta a Lucy.

La piccola biondina ci fissava con gli occhioni castani spalancati, incerta sul reale motivo della presenza di George lì. Tuttavia, era stata cresciuta a non diffidare delle persone e di essere sempre pronta ad accogliere l'ingresso di nuovi membri nella sua comunità. Così, si esibì in un sorriso che per la prima volta non percepii come autentico, e diede il benvenuto a George, stringendogli la mano e poi presentandolo al resto della comunità.

George a un certo punto si voltò verso di me e mi fece un occhiolino, ricevendo un'occhiataccia da parte mia.

Durante il viaggio in pullman, mi misi vicino a Lucy, la quale parlò quasi ininterrottamente, illustrandomi ciò che avremmo fatto quel pomeriggio. George si sedette sul sedile dietro al mio, sporgendosi in avanti di tanto in tanto per intervenire con qualche commento dei suoi. Lucy rise due o tre volte alle sue battute, ma non seppi capire se lo fece per educazione o perché davvero stesse iniziando a trovarlo simpatico.

Una volta arrivati davanti al carcere di detenzione minorile di New Orleans, iniziai come sempre a provare una sensazione di angoscia non indifferente. Ma allo stesso tempo ero sollevata, nel sapere che per due ore e mezza Dylan sarebbe stato insieme a me, invece che con quelle guardie che lo sottoponevano a chissà quali angherie ogni giorno.

Una volta dentro, Lucy e il reverendo della sua parrocchia andarono avanti per parlare con i responsabili, e neanche dieci minuti dopo ci trovavamo già in una stanza con una sessantina di altri ragazzi, vestiti di arancione. Cercai subito con lo sguardo Dylan, e mi si sciolse il cuore non appena lo vidi. Era appoggiato con la schiena al muro, seduto in un angolino, volenteroso di isolarsi da tutti.

Rimasi a lungo a fissarlo, desiderando solo di correre da lui e abbracciarlo, ma non mi era concesso. Il JJIC aveva aderito all'iniziativa proposta da Lucy, ma aveva giustamente stabilito delle regole, e una fra queste era limitare il contatto fra i visitatori e i carcerati solo ai momenti di preghiera.

«Quello non è mica il tuo ex ragazzo?» bisbigliò George al mio orecchio, distogliendomi dai miei pensieri. Sussultai ancora una volta, e mi voltai nella sua direzione. «Sì, e allora?» risposi, scrollando le spalle.

George sogghignò. «È proprio vero che il mondo va al contrario: io, che ho una delle peggiori reputazioni a scuola, sono infatuato della classica cristiana devota e vergine, mentre te, definita da tutti la brava ragazza del quartiere, provi ancora qualcosa per il tuo ex, che hai lasciato perché è un pazzo che ha ucciso la tua migliore amica. Che puttanata la vita.»

Lo ammonii subito con lo sguardo: «Ehi, regola numero nove: niente parolacce».

Roteò gli occhi. «Sai, saresti più utile se la lingua invece che per parlare la usassi per...»

Non terminò la frase perché gli tirai una sberla sul braccio. «Non permetterti mai più!» dissi, mentre lui mi fissò stralunato: «Ma a cosa pensavi? Dicevo che saresti più utile se invece che usare la lingua per parlare la usassi per intonare le canzoni di chiesa. Che pervertita che sei».

«Megan?»

Il richiamo da parte di Lucy mi impedì di rispondere a George per le rime, ma in fondo era meglio così. Diedi le spalle a quest'ultimo e mi avvicinai a Lucy, la quale mi disse di radunare cinque ragazzi e di metterci in cerchio in una parte della stanza, per procedere con la prima fase: presentarmi e dire per quale motivo mi trovassi lì.

Feci cenno di aver capito e poi andai a zonzo per la stanza per scegliere i ragazzi. Una volta raggiunta la quota di quattro, mi diressi verso l'angolo della stanza dove si era confinato Dylan e, senza neanche chiedergli se volesse far parte del mio gruppo come avevo fatto con gli altri, mi sedetti al suo fianco, seguita a ruota dagli altri ragazzi.

Dylan si voltò nella mia direzione, rivelando un'espressione seccata, ma non ci diedi peso. Fissai uno a uno i ragazzi attorno a me. Erano tutti così giovani, almeno tre dovevano avere tra i quattordici e i quindici anni. Mi chiesi cosa potessero mai aver fatto per trovarsi lì.

Poi mi ricordai che eravamo in America e bastava anche solo una cosa: assolutamente niente. Pregiudizi razziali, l'impossibilità di pagarsi una valida difesa, la pessima amministrazione della giustizia, erano quelli i più comuni motivi per cui le persone finivano in carcere negli Stati Uniti.

"Negli Stati Uniti, una persona su venticinque fra quelle condannate, è innocente" avevo detto una volta a David. Io avevo rischiato di essere fra quelle, e Dylan lo era diventato per davvero.

Certo, non era detto che tutti fra quei ragazzi seduti davanti a me fossero innocenti come lo era Dylan, ma la visione di così tanti ragazzini della mia età o quasi, in prigione, unita alla mia scarsa fiducia nella giustizia americana, mi rendeva più facile pensare che fra di loro ci fossero persone più simili a me e David piuttosto che più simili a Herman.

«Mi chiamo Megan Sinclair. Fra poco meno di un mese avrò diciassette anni, e...»

E non sapevo cos'altro aggiungere. 
Perché ero lì? ("Mi andava solo di vedere Dylan oggi.") Per far sapere loro che credevo nel perdono? ("È l'ultima cosa che mi interessa concedere." Per far avvicinare quelle persone a Dio? ("Questa poi, chi ci crederebbe? Non gli sono vicina neanch'io.")

I loro occhi attenti, indirizzati verso di me e in attesa di una risposta, non facevano che farmi agitare ulteriormente. Dovevo pensare a qualcosa in fretta. Girai la testa di lato, per vedere Dylan, il quale la teneva abbassata.

Aprii la bocca nella speranza che nel frattempo mi venisse in mente qualcosa, ma fu proprio allora che la voce squillante di Lucy si elevò per fare un annuncio a tutti i presenti nella stanza: «Dunque, ora ognuno di noi, dirà agli altri qualcosa per cui è pentito, qualsiasi cosa, d'accordo?».

Avrei avuto l'imbarazzo della scelta. Così decisi di far partire prima i ragazzi davanti a me. Il primo fu un quindicenne di nome Noah. Ero abbastanza curiosa, non sapevo se avrebbe parlato del motivo per cui si trovasse lì o di qualcos'altro. «Mi pento di non essere andato a trovare mia nonna quando era in ospedale. Non pensavo che una polmonite potesse essere così grave da ucciderla, quindi non l'ho mai visitata, e poi...»

Lasciò la frase in sospeso. Un ragazzo di fianco a lui ghignò, quasi volesse farsi beffe di lui. «E tu, invece?» lo interpellai.

«Io sono John. E non mi pento di nulla. Si vive una volta sola» disse con tono convinto.

«E intendi farlo qui?» chiesi.

Scrollò le spalle. «Ma va, sarò rilasciato fra una settimana. I soliti dieci giorni. Qualcuno, invece...» Fece un cenno a Dylan, il quale per fortuna non se ne rese conto, dato che non stava minimamente prestando attenzione. O, almeno, così pensavo. Ma non appena John finì il suo discorso, lo vidi serrare i pugni e nasconderli poi dietro la schiena. Si stava soltanto trattenendo.

E pensare che solo un mese prima non ci avrebbe pensato due volte ad aggredirlo.

Un altro ragazzo fece per aprire bocca e parlare, ma Dylan lo precedette, sollevando la testa e trucidando con lo sguardo John: «Io invece mi pento di moltissime cose, ma in particolare di una: mi pento di non aver ucciso Emily Walsh».

A quelle parole, sentii i brividi propagarsi per tutto il mio corpo e mi distanziai di qualche centimetro da lui.

«M-ma che cosa stai...»

Si voltò nella mia direzione e mi interruppe, alzando la voce: «Mi pento di non averla uccisa con le mie stesse mani, così avrei un motivo per cui scontare questa pena. Mi pento di non essere l'assassino che tutti mi reputano, il pazzo che tutti temono, lo squilibrato che merita di marcire qui dentro, mi pento di non aver fatto in modo di avere la coscienza sporca come tutte le altre persone che si trovano rinchiuse qui con me».

Rimasi in silenzio, con il labbro inferiore tremolante, le lacrime che minacciavano di uscire ma che cercavo di trattenere con tutte le mie forze.

Dylan invece era rosso in volto, come succedeva ogni volta che dava sfogo alla sua rabbia.

A un certo punto mi guardai intorno e notai che non si muoveva una sola anima. Dovevano aver sentito ogni parola del discorso di Dylan, questo mi suggerivano le espressioni di disappunto sui volti di Lucy e gli altri della sua congrega. Non era di certo quello il loro obiettivo finale. E nemmeno il mio.

Poi, se possibile, le cose precipitarono ulteriormente: «Be', secondo me ha senso quello che dice» intervenne George annuendo un paio di volte. Roteai gli occhi, mentre Lucy lo squadrò e Dylan lo schernì. «Anch'io mi pento di non aver ucciso una persona» aggiunse.

«Perdonami?» dissero all'unisono Lucy e il reverendo, sgranando gli occhi.

A quel punto mi alzai in piedi e mi avviai a grandi passi verso George, invitandolo ad alzarsi a sua volta. Dovevo allontanarlo da lì. «George, non hai idea di quello che stai dicendo, ora ascoltami e...»

Emise un ghigno sprezzante e non mi diede il tempo di finire la frase: «È inutile che mi guardi come se fossi pazzo! Te l'ho già detto prima, se avessi qui davanti l'assassino dei miei genitori, non ci penserei due volte a vendicarli. E non provare a rifilarmi quella puttanata del perdono. Ma se ci credi davvero, allora vai dal "presunto" assassino della tua migliore amica e digli che lo perdoni per avertela portata via!» esclamò, facendo un cenno a Dylan.

Deglutii. Rimasi immobile e abbassai lo sguardo, incapace di ribattere né di sostenere il suo sguardo, così come quello di Lucy e quello di Dylan.

«Appunto. La pensi esattamente come me. Sei desiderosa di vendetta almeno quanto me, altro che propensa al perdono e puttanate simili. Ecco la vera Megan Sinclair, gente!» urlò in modo plateale. «Ah, per la cronaca, l'unico vero motivo per cui sono venuto qui, è per quel concentrato di eroticità e sensualità che risiede in quel metro e cinquantasette di altezza. Amen.»

Lasciandoci soli nella nostra interdizione, George uscì di scena compiaciuto per la sua performance.

Creare scompiglio certamente lo divertiva molto.

Ma non potevo comunque negare di essere d'accordo con lui su quasi ognuna delle sue parole. Feci allora per avviarmi verso l'uscita, ma non appena abbassai la maniglia della porta per aprirla, fui fermata dalla voce di Lucy che mi richiamò: «Megan, dove vai? Quello che ha detto non è quello che pensi realmente, giusto?».

Riuscii a cogliere tutta la crescente ansia nella sua voce. Mi stava dando un'ultima possibilità per screditarmi ai suoi occhi, e non voleva essere delusa.

Ma non potei fare a meno che distruggere le sue speranze.

Da vigliacca quale ero, non ebbi neanche il coraggio di voltarmi a guardarla un'ultima volta. «Mi dispiace, Lucy» dissi soltanto, prima di sparire dietro la porta che chiusi alle mie spalle.

 

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Capitolo 8
*** 7. New Orleans (2) ***


 

7. New Orleans (2)


Mi guardai intorno a lungo, finché non individuai una chioma riccia e folta che spuntava da una panchina a una quindicina di metri dall'uscita del JJIC. Avanzai a falcate fino a raggiungere la figura che se ne stava lì, immobile, ignara della sfuriata che avrebbe dovuto subire di lì a breve.

Mi posizionai davanti a lui, con le braccia incrociate. «Spero che tu sia soddisfatto.»

Sollevò lo sguardo e mi fissò accigliato. «Stai per caso cercando di scaricare le tue colpe su di me?» chiese.

«Le mie colpe? Ma che diamine...»

«Sei tu che non sei stata sincera con quel bocconcino là dentro. Sei tu che l'hai tradita, che fino a questo momento le hai fatto credere di essere della sua stessa idea. Le ho solo aperto gli occhi, perciò ringraziami per averti dato l'occasione di essere sincera con te stessa e con gli altri, per una volta» disse, alzandosi in piedi e sovrastandomi per via della sua altezza, rendendo più difficile il mio intento di apparire almeno un minimo temibile.

Spalancai la bocca indignata nel sentire quelle parole. Chi si credeva di essere, il mio psicologo? Ne avevo già una.

«Smettila di dirmi quello che penso. O quello che tu credi che io pensi.»

«Ok, quindi mi sono sbagliato? Avevi la possibilità di dimostrare a tutti il contrario, poco fa, ma il fatto che tu sia qua fuori mi suggerisce che tu non abbia smentito un bel niente!» ribatté.

Alzai gli occhi al cielo. E poi nient'altro. Ancora una volta, non trovai il modo di contestare le sue parole. Forse aveva ragione.

E forse, ancora una volta, erano gli altri a conoscermi meglio di quanto mi conoscessi io.

«Perché non puoi semplicemente accettarlo? Vuoi morta una persona e, se ne avessi l'occasione, la faresti fuori te stessa, e allora?»

Oppure mi conoscevo fin troppo bene, ma non volevo accettare la parte più vera e profonda di me, quella in cui risiedevano tutti i miei desideri, anche quelli più oscuri.

«La mia morale mi dice che è sbagliato, ecco perché non voglio ammetterlo» confessai.

George mi rivolse uno sguardo di compassione, prima di avvicinarsi al mio viso per sussurrarmi una cosa all'orecchio: «Ti svelo un segreto per vivere felice e in pace con te stessa: mandala a fanculo la tua morale. D'ora in poi non rendere conto a nessuno di quello che fai, nemmeno a te stessa».

Le sue parole furono certamente d'effetto. Annuii, sebbene non fossi sicura che sarei stata in grado di dargli davvero ascolto.

«E ora andiamocene da questo posto prima che mi salga la depressione. Al massimo ci tornerò fra qualche mese, quando mi arresteranno per qualcosa che ho fatto, ma finché sono libero, voglio starci il più lontano possibile!» esclamò.

«Come hai intenzione di tornare? Non passano mezzi di trasporto pubblici, quindi l'unico modo per arrivare a Morgan City da qui, è con la macchina. E noi abbiamo appena perso l'occasione di sfruttare il passaggio da parte di Lucy.» Come avrei fatto a tornare? Avrei potuto telefonare ai miei, ma non ero pronta a sorbirmi l'interminabile serie di domande sul perché non fossi tornata con il pullman che avevo preso all'andata, sul cosa ci facessi in quel posto, sul perché fossi in compagnia di un ragazzo mai visto né nominato e dall'aspetto di certo non raccomandabile, almeno per quanto riguarda i loro standard.

«Ho forse detto di voler tornare a Morgan City? Siamo nell'unica città interessante della Louisiana, non è forse il caso di godersela?»

Riflettei per qualche istante. In fondo non mi andava di tornare a casa. L'idea di restare con George non mi entusiasmava chissà quanto, ma d'altro canto non avevo nessun'altra persona con cui stare.

«Sai che hai proprio ragione?» dissi allora, sorridendo.

«Bene, sei pronta a divertirti per davvero, Megan Sinclair?» domandò con fare malizioso. «D'ora in poi sarò l'Henry Wotton al tuo Dorian Gray. Ci stai?»

•••

Erano appena le 16:30 quando io e George avevamo lasciato il carcere di detenzione minorile, così non seppi spiegarmi come era stato possibile che in un batter d'occhio si fosse fatto buio inoltrato e si fossero fatte ormai le otto di sera.

Non avevo mai camminato tanto come quel giorno. Avevamo impiegato quasi un'ora per tornare verso il centro della città. In realtà non ci avremmo messo così tanto, se solo George non mi avesse imposto di tenere il cellulare spento e non mi avesse proibito di usare il navigatore per orientarmi. Facemmo finta tutto il tempo di essere dei turisti tedeschi e passammo gran parte del tempo a insultare le persone a cui chiedevamo indicazioni, fingendo che si trattasse di un ringraziamento, nel caso in cui facessero domande. 
Una volta dopo aver capito dove ci trovassimo, avevo iniziato a guidare io George in giro per la città. Avevamo camminato lungo il Quartiere Francese e io gli avevo raccontato la storia di quel sobborgo popolare, come aveva fatto una persona con me tempo prima, mentre lui non aveva fatto altro che guardarsi intorno meravigliato, così come io stessa avevo fatto.

A un certo punto, guardando le strade che iniziavano a svuotarsi e il cielo che si scuriva sempre di più, accendemmo entrambi il nostro cellulare, che era rimasto spento per tutto il pomeriggio, così da poterci rendere conto di quanto si fosse fatto tardi. Sgranai gli occhi, prima di portarmi una mano alla bocca, in preda alla disperazione: «I miei mi ammazzano stavolta!» esclamai.

Avevo quattro chiamate perse da parte di mia madre, due da mio padre, e una quindicina di messaggi da entrambi. Composi allora il numero di mia madre, mentre tentavo di inventarmi una scusa plausibile e di prepararmi al tempo stesso alla terribile sfuriata.

«Megan Ellen Sinclair, mi auguro che tu abbia una spiegazione valida e, anche se dovessi averla, non servirà a salvarti dalla punizione che meriti e che inizierà non appena tornerai a casa!» urlò, così forte che sicuramente sentì anche George, che era al mio fianco, ma anche qualsiasi altra persona in quella via.

«Mamma, ho il cellulare scarico, per questo l'avevo spento, mi dispiace di aver fatto preoccupare te e papà, il fatto è che...» Non terminai la frase, dal momento che George mi strappò il cellulare dalle mani, cosa che non prometteva nulla di buono: «Salve, sono l'agente Avery. No, nulla di grave, anzi, sua figlia è un modello per questa città. Ha trovato un portafoglio a terra quest'oggi e ci ha contattati immediatamente per aiutarci a trovare il proprietario. Dovrebbe essere fiera della figlia che ha cresciuto. Mi dispiace se si è preoccupata per via della sua prolungata assenza, ma come sa queste procedure sono talvolta molto lunghe. Certamente, provvederemo noi stessi a riaccompagnarla a casa non appena avremo finito, la sicurezza dei nostri cittadini ci sta profondamente a cuore. Le auguro una buona serata, signora Sinclair».

Con molta nonchalance e tranquillità, George mi restituì il cellulare: «Prima di mettere giù, vuole dirti ancora un paio di cose» mi avvertì.

«Scusa, mamma, davvero non mi ero resa conto di quanto tempo fosse passato da quando sono uscita di casa, comunque...»

«Torna a casa appena riesci e non ne parleremo più, d'accordo?» mi interruppe, ma io non potei che contraddirla: «Veramente... ecco, stasera ho sentito alcuni compagni di scuola, e pensavamo di andare... di andare a ballare. Ho già detto di sì e ormai hanno detto al locale il numero esatto, ti prego, lasciami andare. Non ti chiedo mai niente e in più non esco da settimane. Per favore, mamma» la implorai.

Seguirono degli istanti di silenzio glaciale. Il fatto che non mi avesse detto subito di no, tuttavia, era positivo, voleva dire che ci stava riflettendo.

«Alcuni compagni di scuola, e chi sarebbero? E poi dov'è questo posto? E hai bisogno per il ritorno? A che ora pensate di tornare?» chiese poi.

«Dai, mamma, sono... i soliti. Comunque per il ritorno ci arrangeremo, non preoccuparti. Prometto che mi farò sentire ogni ora.»

«Ma torni a casa almeno per mangiare?»

«No, non penso. Mi arrangerò con qualcosa in giro. Dai, ora devo andare, l'agente Avery mi sta chiamando» dissi, per poterla liquidare.

«Megan, mi raccomando: fai attenzione.»

«Sì, sì. Grazie, grazie, grazie!» esclamai, prima di mettere giù e poi esultare per essere riuscita a convincerla.

«A ballare? Vuoi rimanere con me fino a domani mattina, Megan Sinclair?» domandò George con uno sguardo malizioso e anche un po' sorpreso.

Scossi la testa. «No, solo per ancora un paio d'ore, ma se davvero dovremo farcela a piedi da qui fino a Morgan City, arriveremo davvero tardi, e farle credere di aver trascorso la serata in discoteca giustificherà l'orario improponibile in cui tornerò a casa.»

George schioccò la lingua sul palato e poi sbuffò. «Che senso ha avuto inventare una balla del genere, se poi non faremo niente di entusiasmante stasera? Voglio restare davvero in piedi fino a domani mattina, quindi ti conviene trovarci qualcosa da fare.» Aprii la bocca per ribattere, ma George mi precedette: «Ma hai mai fatto qualcosa che andasse contro le regole? Chi se ne importa se, per una volta, disobbedisci ai tuoi genitori!».

Se solo avesse saputo quante volte, specie nell'ultimo periodo, avevo mentito e disobbedito ai miei genitori. Se solo avesse saputo quanto di frequente accadeva che facessi qualcosa contro le regole, per cose ben più gravi di quelle che poteva anche solo immaginarsi.

Titubai ancora per qualche istante, prima di decidermi a parlare. «Conosco un posto in cui possiamo andare stasera» dissi. «Ma non so se ci faranno entrare vestiti in questo modo» aggiunsi, dando un'occhiata ai suoi jeans strappati e al mio triste maglione beige.

George sogghignò e tirò fuori il portafoglio dalla tasca dei jeans. «Peccato, allora, che la famiglia Radley sia una delle più facoltose di Morgan City» disse estraendo una carta di credito.

«Se non hai problemi di soldi, allora perché... be', insomma, credevo che le tue attività in nero fossero fatte per guadagnare, ma se non ne hai bisogno, perché lo fai?»

Scrollò le spalle. «Perché non voglio dipendere da loro. Voglio farmi i miei soldi. C'è chi crea opere di artigianato, o chi, come me, è totalmente incapace di fare qualsiasi cosa la cui vendita non sia illegale» rispose. «Ma ogni tanto fa sempre comodo avere questa bambina. Andiamo al centro commerciale, forza, ti compro quello che vuoi. E veloce, fra poco chiuderanno i negozi.»

•••

«Grazie, George» ripetei per l'ennesima volta, nella speranza che iniziasse a suonare meno strano, ma non c'era niente da fare. Però gli ero grata per davvero. Mi aveva comprato un vestito stupendo: un tubino rosso con collo halter, lungo fino a poco sopra le ginocchia. Lui invece si era preso una camicia bordeaux e dei pantaloni eleganti neri.

Per sdebitarmi, almeno in parte, gli avevo pagato la cena in uno dei fast food del centro commerciale.

Subito dopo aver concluso i nostri acquisti, eravamo andati in uno dei bagni del Canal Place, il centro commerciale di New Orleans, per cambiarci e prepararci alla serata. Avevamo messo i nostri vecchi vestiti dentro dei sacchetti, che avremmo poi lasciato nel guardaroba del locale.

L'unica discoteca che conoscevo a New Orleans era anche l'unica della città in cui ero stata: il Masquerade.

Ero consapevole del fatto che avrei corso il rischio di incontrare David andando lì e, sebbene la parte più razionale di me mi ripetesse che avrei dovuto fare il possibile per evitare di incontrarlo, la parte più vera di me non vedeva l'ora di correre quel rischio.

Alla fine, in un modo o nell'altro, ruotava sempre tutto intorno a lui. Lo sapevo. E non aveva senso fingere che non fosse così.

«Prego, mia signora» disse George, facendomi entrare per prima nel locale. Sebbene fossero appena le 23:30, era già abbastanza pieno, ma niente a che vedere con la confusione che si sarebbe certamente creata di lì a breve.

Comunque, dal momento che non c'era ancora abbastanza gente a scatenarsi sulla pista da ballo, George si fiondò subito in direzione del bar, e io lo seguii. Allungò il suo documento d'identità falso sul bancone, chiedendo alla barista un Long Island. Quest'ultima gli rivolse uno sguardo scettico e lo studiò a lungo, ma non avendo modo di provare che l'età scritta sul documento fosse in netto contrasto con l'età dimostrata, si vide costretta ad accettare i verdoni e a preparargli il cocktail richiesto.

«E per te, dolcezza?» chiese poi rivolta a me.

«Oh, no, io non bevo» risposi, scuotendo la testa.

George mi avvolse un braccio attorno alle spalle e rivolse un sorriso alla barista: «Sta scherzando, fa sempre questo gioco! Per lei un Invisibile al maracuja, offro io» disse allungando altre banconote alla barista, nonostante le mie proteste. «Sh, vedrai che cambierai idea dopo averlo assaggiato» mi sussurrò all'orecchio. «In caso contrario, lo passerai a me.»

Mi rassegnai e accettai il drink che mi offrì. Tanto sicuramente glielo avrei passato dopo pochi sorsi.

Mentre George si gustava a pieno il suo Long Island, lasciandosi andare di tanto in tanto a qualche passo di danza, io non facevo che controllare ossessivamente l'ingresso del locale, nella speranza di vedere arrivare David. Ci vanno sempre, pensai, ci saranno per forza anche stasera.

Poi mi ricordai che per loro era tempo di esami e che forse in quel periodo avevano deciso di ridurre le serata in discoteca. Iniziai a sentire una fitta al petto, solo al pensiero di non riuscire a vederlo.

No, non mi sarei rovinata la serata pensando a lui. Aspettavo da settimane di uscire e svagarmi, dovevo godermela. Fissai a lungo il contenuto giallognolo del bicchiere che tenevo in mano, e infine lo avvicinai alla bocca e feci un grande sorso. Nel mandarlo giù, sentii la gola andarmi in fiamme e la testa cominciare a girarmi. Voltandomi verso George, lo vidi esultare. Lui aveva già finito il suo drink e non attendeva altro che mi decidessi a iniziare il mio. «Che c'è qui dentro?» chiesi.

«Non ti piace?» Allungò la mano, con l'intento di strapparmi il bicchiere dalla mano, ma lo fermai: «Non ho detto questo. Ho solo chiesto che cosa c'è dentro».

Si grattò la testa, prima di rispondere: «Ecco, allora, qualcosa come vodka, gin, tequila, rum bianco... Ma lo sciroppo al maracuja copre tutto deliziosamente, no?».

Deliziosamente? Mi stava andando a fuoco tutto il corpo dopo un unico sorso.

«Se non ce la fai a finirlo, sarò ben contento di darti una mano.»

Non volevo nemmeno provarci a finirlo. E in fondo l'aveva pagato con i suoi soldi. «Hai già bevuto un drink in tre minuti, non vorrei che ti sentissi male, quindi bevilo piano» dissi, passandogli in mano il mio bicchiere. George mi diede un buffetto sulla guancia: «Non c'è bisogno che ti preoccupi per me, Megan Sinclair». Poi con un solo sorso arrivò a far fuori metà bicchiere, lasciandomi strabiliata. Poi mi prese per mano e mi trascinò verso la pista da ballo, la quale, rispetto a quando eravamo arrivati, era ormai gremita di persone.

George aveva un modo tutto suo di ballare. In pratica agitava le braccia e le gambe in maniera totalmente casuale, ma riusciva comunque ad andare a tempo, così quasi nessuno ci faceva caso, tranne la sottoscritta. Mi stavo facendo un sacco di risate.

«Invece che prendermi in giro, perché non muovi un po' quel bel culo?» disse a un certo punto e poi fece un sorso dal mio drink. Gli mostrai il terzo dito, prima di prendere una delle due cannucce e fare altri piccoli sorsi, che esattamente come prima mi diedero una sensazione di capogiro e di bruciore alla gola. Però, allo stesso tempo, non aveva un sapore tanto male. Così feci un altro grande sorso.

«Ehi, ehi, vacci piano adesso!» esclamò George, sollevando il bicchiere in alto, affinché non potessi arrivarci.

Sbuffai e mi alzai in punti di piedi. «Dai, ridammelo, Georgie!» Per qualche assurdo motivo, stavo per perdere l'equilibrio, così mi aggrappai a lui appoggiando le mani sulle sue spalle.

«Georgie?» domandò, riabbassando il bicchiere e avvicinandosi al mio viso per osservarmi meglio. «Oh mio Dio, ti prego non dirmi che sei già ubriaca. Hai fatto massimo cinque sorsi!»

«Che? Ti pare? Non mi sono mai ubriacata in tutta la mia vita» risposi, biascicando leggermente.

«C'è una prima volta per tutto, tesoro mio.»

Non era di certo fra i miei piani. E poi avevo bevuto così poco, era realmente possibile una cosa del genere?

«Come faccio a sapere se sono ubriaca?» domandai preoccupata, ricevendo soltanto una risata interminabile come risposta da parte sua. «Smettila di prendermi in giro» protestai, prima di strappargli il drink di mano e berne un altro sorso.

Poi lanciai uno sguardo a qualche metro di distanza e dovetti sorreggermi ancora una volta a George per non cadere, ma in quel caso l'alcol in circolo nel mio corpo non c'entrava. O magari solo in minima parte.

Il vero motivo era David Finnston. Bello e altezzoso come sempre, ma in compagnia di una ragazza che non riconobbi essere una delle sue solite amiche. Non significa nulla, in fondo anche io sono qui con George, e comunque può fare quello che vuole, continuava a ripetermi la mia parte razionale. Ma la parte più vera di me non riusciva a farsene una ragione. Non riusciva a far passare il fastidio sempre più crescente, provato nel vedere un'altra ragazza così vicina al suo viso.
E quel pizzico che iniziavo ad avvertire agli occhi, non prometteva assolutamente niente di buono.

«Lo detesto» dissi, ma mi uscì solo un bisbiglio, per via del magone.

«Che hai detto?» domandò George che, a causa del volume alto della musica, non riusciva a sentire nessuna parola che uscisse dalla mia bocca se non strettamente urlata.

«Vorrei solo essere Heather Wilson! Se lo fossi, avremmo la stessa età e potremmo stare insieme. Come se a lui importasse, di certo non se ne sta con le mani in mano ad aspettarmi... lo detesto! Lo detesto da morire, ma solo perché in realtà mi piace così tanto. Ecco, ora vado a dirglielo!» esclamai, mentre George mi fissava stralunato, non avendo capito assolutamente nulla del senso delle mie parole. Probabilmente nemmeno io sarei stata in grado di ripetere ciò che avevo appena detto.

Mossi qualche passo in direzione di David. Stavo quasi per raggiungerlo, ma George mi si piazzò davanti: «Perché ho l'impressione che tu stia per fare una follia?».

Scossi la testa, prima di scoppiare a ridere: «Dai, non è vero! Voglio solo salutare David, e dirgli che sono cotta di lui, anche se in realtà già lo sa!» George si voltò e diede un'occhiata a David, poi tornò a guardarmi. «Vero che è bello?» domandai, mordendomi il labbro inferiore.

«Lui è così così, ma quella che ha di fianco invece... Ehm, cioè, niente in confronto a te» si corresse, dopo aver visto la mia espressione di desolazione. «Comunque, se vuoi attirare la sua attenzione, c'è una tattica infallibile per riuscirci» aggiunse, attirando la mia curiosità. Mi avvolse un braccio attorno alle spalle e mi riportò vicino al bancone, appoggiandovi poi sopra il mio drink, che era ormai praticamente finito.

Non so che idea mi balenò in testa, ma in quel momento ritenni opportuno sollevarmi da terra e sedermi sul bancone. Iniziai a far ciondolare le gambe avanti e indietro e a esultare sollevando le braccia in alto. George sorrise: «Wow, non reggi davvero niente, eh? Purtroppo però non puoi stare qui». Poi mi afferrò per la vita e mi fece scendere, nonostante io continuassi a dimenarmi.

Mi avvicinò a lui fino a far aderire il mio bacino al suo. Tirai fuori la lingua per fargli una linguaccia, ma fu proprio in quel momento che George si fiondò sulle mie labbra. Non appena venni a contatto con la sua lingua calda, che inseguiva la mia con movimenti circolari, riacquistai un minimo di lucidità e lo allontanai da me. «George, fermati, che stai facen...» Non riuscii a terminare la frase, perché il riccio si riappropriò ancora una volta della mia bocca, nonostante non avesse ricevuto nessun segnale di apprezzamento da parte mia, anzi. «Se vuoi che mi fermi, tirami uno schiaffo» disse a un certo punto, prima di baciarmi ancora una volta. Non compresi perché mi disse quelle parole, ma dal momento che volevo che si fermasse, feci come ordinato, tirandogli un sonoro schiaffo sulla guancia: «Dai, lasciami stare, George!» esclamai.

Allora si fermò immediatamente. Emise un ghigno e poi bisbigliò, facendo cenno di guardare di fianco a me: «Ringraziami più tardi».

Mi voltai e vidi David che era giunto al mio lato. «Megan, va tutto bene? Ti sta dando fastidio?» chiese con un'espressione preoccupata in volto.

«Chiedi a lei se va bene? Guarda la mia guancia, Cristo santo!» rispose George, prima di ricevere uno sguardo gelido da parte di David: «Faresti meglio ad andartene e a lasciarla in pace» ordinò.

A quelle parole, George non si ribellò e si allontanò, lasciando me e David da soli. «Chi è quello, Megan?» chiese David.

«Chi è quella?» chiesi io, facendo cenno alla mora che aveva abbandonato per venire da me, e che fissava entrambi insistentemente.

David esitò qualche istante prima di rispondere, fissandomi di sottecchi e con le braccia conserte. «L'hai fatto apposta? Era tutta una scenata fatta apposta perché venissi qui da te?»

Avrei voluto negare, ma inspiegabilmente dalla mia bocca uscì solo una conferma. «Sì, è stata un'idea di George, e... e ha funzionato. Quindi ti importa di me?» domandai, afferrando i lembi della sua camicia e tirandoli leggermente per avvicinarlo a me. Mi si formò un sorriso in volto e sospirai di sollievo. «Credevo che mi avessi già sostituita con quella lì, e invece anche tu non riesci a smettere di pensarmi, vedi che...»

Mi fermai, non appena David mi riportò le braccia lungo i fianchi e si distanziò da me. «Ma davvero sei così tanto bambina?» sputò con una cattiveria che non gli avevo mai sentito usare e che non pensavo avrebbe deciso di indirizzare verso di me.

Stava per allontanarsi e tornare dalla sua accompagnatrice, ma io lo precedetti, urtandolo con la spalla. Raggiunsi George, continuando a tenere lo sguardo basso, sforzandomi di trattenere tutto dentro di me. Ma era impossibile. Ero un libro aperto, specialmente in quel momento in cui i miei freni inibitori erano andati a farsi fottere.

«Megan, che succede? Non aveva mica funzionato?» domandò George.

Sollevai lo sguardo e mi mostrai piena di lacrime. «Voglio un altro drink» dissi solamente.

«Sei sicura? Non penso che dovresti bere anco...»

«Ho detto che voglio bere» ripetei, passandogli l'ultima banconota da dieci dollari che mi rimaneva.

George esitò qualche istante, ma poi annuì e prese i soldi. «Aspettami in bagno, te lo porto subito» disse, prima di dirigersi verso il bar.

 

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Capitolo 9
*** 8. Ulteriori sospetti ***


 

8. Ulteriori sospetti

Aprii leggermente gli occhi, prima di richiuderli con decisione a causa del fastidio che la luce del sole mi procurava. Ritentai una seconda volta, aprendo prima l'occhio sinistro e poi il destro poco dopo. Sbattei le ciglia innumerevoli volte prima di riuscire a tenere gli occhi aperti.

Per via dell'intensità della luce che filtrava dalla mia finestra, dedussi che fosse all'incirca mezzogiorno e che il sole fosse ben alto in cielo.

Diedi uno sguardo alla stanza in cui mi trovavo. Era la mia camera. Ovvio, dove altro avrei dovuto trovarmi se non a casa mia?

Fui immediatamente presa da un dolore lancinante alla testa.

A cosa era dovuto? Forse era solo perché avevo dormito tanto, ma non potevo affermarlo con certezza. In effetti, non mi ricordavo che ore fossero quando ero andata a dormire. Né mi ricordavo come ero ritornata a casa. Ma certo, George! Ma davvero ce l'eravamo fatta a piedi da New Orleans fino a Morgan City? Non mi ricordavo. Né mi ricordavo quando eravamo andati via dal locale. Perché diavolo non riuscivo a ricordarmi nulla? E perché al posto di uno dei miei pigiami indossavo una maglia grigia oversize e dei pantaloni della tuta del medesimo colore? Avevo un vuoto enorme. Non mi era mai successa una cosa del genere.

Sobbalzai, nel sentire il suono di una notifica del mio cellulare. Non era un semplice suono. Era il suono personalizzato che avevo impostato per le notifiche dei messaggi di David. Così allungai frettolosamente il braccio per afferrare il cellulare appoggiato sul comodino e vedere di che cosa si trattasse. Nel farlo, mi resi conto che aveva una grande crepa lungo tutto il display, che fino alla sera prima (la parte che mi ricordavo) non c'era.

"Ti sei ripresa?" lessi, senza avere la benché minima idea di cosa volesse intendere con quelle parole.

Scorrendo la chat, vidi che la notte scorsa ci eravamo scambiati altri messaggi.

"Sei riuscita a chiudere?" aveva scritto.

"Sì. Mi disoiace per tyutto, mi sono vcomporrtsata da vamnbina" avevo risposto io, e lo interpretai come un: "Mi dispiace per tutto, mi sono comportata da bambina".

Fu allora che iniziai a ricordare, e la mia mente mi riportò indietro a qualche ora prima, quando avevo lasciato che George mi baciasse e poi gli avevo tirato uno schiaffo per far credere a David che mi stesse importunando, così da poterlo allontanare dalla ragazza con cui era in compagnia.

«Ma davvero sei così tanto bambina?»

Dopo quelle parole di David, mi ero allontanata ed ero andata in bagno per poter dare libero sfogo alle mie lacrime, non prima di aver chiesto a George di portarmi un altro drink.

Fino a lì ricordavo tutto nei minimi dettagli, sebbene fossi stata davvero ubriaca. Ricordavo anche di aver scolato in pochi attimi il drink che George mi aveva preso. Ricordavo che mi aveva ascoltata mentre mi sfogavo, annegando nelle lacrime della mia disperazione. Ricordavo anche cose che avrei preferito non fare.

•••

«E poi... sono così... così stufa! Di tutto. Di tutti. Perché ogni cosa che faccio deve essere criticata da qualcuno? Se te fai qualcosa di brutto, magari immorale o illegale, a nessuno importa, perché tanto sei tu. Ma visto che io sono io, tutti si aspettano che io sia... non lo so, davvero non lo so come vorrebbero che fossi! So solo che non sono come mi vogliono e non voglio esserlo» avevo detto, prima di concentrarmi, per quanto possibile, sullo sguardo confuso di George, e scoppiare a ridere. «Ma che cazzate sto dicendo?» dissi fra me e me, prima di appoggiare la testa sulla spalla del riccio alla mia sinistra.

«Non chiederlo a me» rispose, ridendo insieme a me. «Dopo quattro drink superalcolici, penso di non essere più tanto cosciente nemmeno io. Nemmeno so di che cosa stai parlando né perché tu lo stia facendo, perché in realtà non me ne frega un cazzo!» aggiunse, poggiando poi una mano sul mio ginocchio.

Senza starci a riflettere su molto, con la mia mano presi poi la sua e me la portai più in alto, sulla coscia.

George cercò di ritrarsi, ma a quel punto avvolsi l'altra mano dietro la sua nuca per avvicinarlo a me, prima di baciarlo.

Dopo qualche attimo di esitazione, alla fine ricambiò il bacio e lo approfondì, introducendo la sua lingua nella mia bocca. Il suo alito era a dir poco sgradevole per via di tutto ciò che si era bevuto, ma riuscivo a tollerarlo solo perché il mio era marcio almeno quanto il suo. Mi fece sedere a cavalcioni sulle sue gambe, portando entrambe le sue mani sul mio sedere e stringendole attorno alle mie natiche. Così facendo mi si alzò in alto il vestito, motivo per cui George lo riabbassò prontamente e spostò poi le mani sulla mia vita.

Senza sapermi spiegare cosa mi stesse passando per la mente in quel momento, abbassai la mia mano sulla zip dei suoi pantaloni e la tirai giù. «Fermati, sei completamente andata» disse George a quel punto, afferrando entrambe le mie mani per impedirmi di andare oltre.

Dopodiché mi fece alzare in piedi, alzandosi poi a sua volta appena in tempo per impedirmi di cadere. Non riuscivo a reggermi in piedi senza barcollare. Nel tentativo di recuperare l'equilibrio, pestai il mio cellulare che avevo lasciato a terra e, come se non bastasse, scivolai sul pavimento e caddi rovinosamente. Afferrai il cellulare e lo vidi in condizioni meno pietose di quelle che avrei immaginato: solo qualche crepa lungo lo schermo, ma non era del tutto compromesso. La cosa mi parve degna di una risata, ma George invece era serissimo. «Cazzo, no, non dovevo lasciarti bere così tanto. Vieni, forza, bevi dell'acqua dal lavandino» ordinò, afferrandomi per il braccio affinché mi alzassi in piedi e avvicinandomi a uno dei lavandini del bagno. Aprì il rubinetto e poi mi fece chinare la testa, tenendomi i capelli all'indietro per impedire che me li bagnassi. «Non mi va l'acqua adesso» protestai, sollevando la testa in alto e andando a sbattere la fronte contro il rubinetto. Anche quel piccolo incidente mi procurò una risata, oltre che a un lieve dolore.

«Merda» imprecò George sottovoce. «Porca merda.»

•••

Andai in cucina per prendermi un bicchiere d'acqua. Avevo la gola secchissima. Mia madre era intenta a controllare l'andamento della cottura delle bistecche che stava cucinando. Non appena afferrai un bicchiere d'acqua dalla credenza, si accorse della mia presenza e si voltò nella mia direzione, con le braccia incrociate al petto: «Ben svegliata. Sappi che sei in punizione. E poi che razza di pigiama hai addosso?».

Cercai di mantenere uno sguardo impassibile, per non far trapelare il senso di colpa. Non ricordavo come si era conclusa la serata, di conseguenza non sapevo se alla fine i miei fossero stati coinvolti oppure no.

«Perché sarei in punizione?» chiesi atona.

«Perché?» domandò mia mamma inarcando le sopracciglia. «E me lo chiedi anche? Sei sparita per un giorno intero! Ti ho sentita quando sei tornata a casa, alle sei. Alle sei! Dico, hai forse perso il senno?»

Probabilmente sì.

«Mi dispiace, mamma, ma lo sai che New Orleans è lontana, e...»

«Non voglio sentire scuse» mi interruppe. «Non uscirai di casa per un mese.»

Be', non era poi così grave. Tanto non uscivo mai comunque. Non avevo amici, né amiche.

•••

Sentivo delle voci attorno a me, ma allo stesso tempo era come se non ci fossero, perché non ci prestavo quasi nessuna attenzione. Non sapevo bene dove mi trovassi. Vedevo la strada davanti a me, ma in maniera più che indefinita. Girava tutto, ed era difficile distinguere la destra dalla sinistra.

Ci misi un po' a realizzare che avevo due spalle a sorreggermi e a facilitarmi un'azione così elementare come la camminata.

«Quanto ha bevuto?» chiese qualcuno alla mia destra.

«Te l'ho già detto, non ha bevuto tanto» rispose qualcun altro alla mia sinistra.

«Megan è astemia, bastano poche gocce per farle perdere il controllo. Cosa ha bevuto?» ripeté l'altro, a denti stretti.

«Solo pochi sorsi di Quattro bianchi al maracuja e poi, visto che voleva qualcos'altro, le ho preso un Sex on the beach. Gliene ho preso uno leggero proprio per evitare che stesse male.»

«Bravissimo: così l'hai fatta scendere di gradazione!»

Solo una persona usava un tono così pungente e sarcastico: David.

«David?» lo chiamai, voltandomi verso la direzione da cui sentivo provenire la sua voce, ma non udii risposta. Realizzai dopo poco che non c'era più nessuno alla mia destra e che era rimasto solo George a reggermi.

«Poi vorrei anche capire in che modo sareste voluti tornare. Ubriachi fradici entrambi e senza macchina» lo sentii poi in lontananza.

«A piedi, e non c'è bisogno del tuo aiuto!» esclamai, liberandomi dalla presa di George e correndo da David, il quale mi afferrò prontamente per i fianchi per non farmi cadere. Dio, anche se lo vedevo mezzo sfuocato, era comunque bellissimo. E il suo tocco mi faceva avvertire ugualmente mille brividi. O forse era solo il freddo, che avvertivo nonostante avessi il giubbotto (ma chi è che era andato a ritirarlo in guardaroba?).

«Grandioso, buona fortuna allora: Morgan City dista cento trentotto chilometri da New Orleans. Ci impieghereste più di un giorno intero» spiegò con la solita saccenza. «Forza, aiutala a salire in macchina e sali anche tu» ordinò poi a George, il quale aprì la portiera dell'auto di David e mi aiutò a salire. Mi allacciò la cintura così che potessi stare ferma e poi fece il giro del veicolo per salire nel posto di fianco a me.

«Non immaginavamo che ci volesse così tanto, in macchina di solito ci vuole...» George fu interrotto da David e dal suo tono professorale e puntiglioso: «Certo, perché siete due ragazzini disinformati e stupidi».

«Non c'era bisogno che ti mettessi in mezzo, sai? Io e George stavamo benissimo, finalmente mi stavo divertendo!» esclamai, ridacchiando.

«Le rispondi tu? Glielo spieghi tu perché sono intervenuto?» chiese David a George, con una nota di nervosismo nella voce.

Ma perché era così arrabbiato? Nessuno lo stava obbligando.

George evitò di rispondere.

Poi vidi che David mi stava fissando attraverso lo specchio retrovisore. Non sembrava davvero arrabbiato. Più che altro, sembrava preoccupato. Ma non era possibile. Lui non si preoccupava mai.

«Megan, stai tremando. Copriti le gambe con la mia giacca, è lì a destra» disse poi.

«Non darmi ordini» ribattei, prima di allungarmi per afferrare la sua giacca, impregnata del suo delizioso profumo. Infatti, invece che usarla per ripararmi le gambe dal freddo, la strinsi a me e chiusi gli occhi.

«Perché siamo in autostrada? Dove stiamo andando?» sentii George chiedere.

«La riporto a casa» rispose l'altro.

«Ma sei matto? I suoi la faranno fuori se la vedranno ridotta così. Piuttosto portala a casa da qualche sua amica, ci sarà qualcuno che possiamo chiamare e che sarà disposto a farle questo favore, no?»

«Nessuno... non ho amici, né amiche» risposi con una risata, anche se in effetti non c'era davvero nulla da ridere.

«Quindi,» riprese David il discorso «non ho altra scelta se non portarla dai suoi» concluse. «Però prima dobbiamo farla riprendere.»

•••

Andai in bagno a guardarmi bene allo specchio e rendermi conto di quanto fossi ridotta uno straccio. Avevo i capelli annodati e arruffati, la mia frangia sembrava più una cresta di un cantante punk, poi avevo qualche residuo di mascara sulle guance e il rossetto sbavato ai lati della bocca.

Dando un'occhiata più attenta scorsi dei piccoli segni rossi sul collo. Doveva essere stato George. 

Dio, quanto ero stata stupida. Imprudente. Immatura. Forse David non aveva tutti i torti su di me.

Dal momento che provavo ribrezzo nel vedere le condizioni del mio viso e che ero sicura di non emanare un buon odore, decisi di darmi una rinfrescata facendomi una doccia. Così iniziai a far scorrere l'acqua e, mentre aspettavo che si riscaldasse, mi tolsi i vestiti e poi li piegai e li appoggiai sul mobile del bagno.

Poi ebbi un altro flash riguardante la sera prima.

•••

«Ehi, ci sono già stata qui!» esclamai, correndo dentro la stanza, che riconobbi solo grazie alla luce che proveniva dal corridoio. Andai poi a sedermi sul letto, dal momento che stavo quasi per inciampare e cadere a terra a causa del buio pesto, come era successo poco prima mentre salivo le scale, e prima ancora quando mi ero catapultata giù dalla macchina di David.

«Megan, abbassa la voce» bisbigliò quest'ultimo, giungendo davanti a me e indicandomi il letto dall'altra parte della stanza. C'era il suo compagno di stanza che dormiva, così mi sentii immediatamente in colpa. «Oddio, scusa, non volevo. Mi dispiace, David, creo sempre un sacco di problemi e tu non fai altro che aiutarmi, anche se non me lo merito, lo so, non voglio essere un peso per te, ma...»

«Sh» mi interruppe, e mi resi conto che avevo ancora usato un tono di voce alto.

«Ehm, scusate, dov'è il cesso? Devo ancora espellere i quattro drink che mi sono bevuto» intervenne George, prima di seguire la direzione indicata da David.

Così rimanemmo solo io e lui nella stanza, a eccezione di Trevor che però russava sonoramente e non era a conoscenza della nostra presenza.

Mi alzai in piedi, sorreggendomi alle spalle di David. Pian piano la mia vista si stava abituando al buio, riuscivo quindi a distinguere quasi nettamente i suoi occhi marroni che mi fissavano. «Prima io e George ci siamo baciati» dissi, senza saperne il motivo.

«Lo so, ero presente» rispose rimanendo calmo, ma irrigidendo un poco la postura.

«No, non in quel momento, dopo è successo un'altra volta. Ho iniziato io, non so perché l'ho fatto... tanto quando avevo gli occhi chiusi vedevo solo te» confessai, sentendo un groppo formarmisi in gola. «Mentre... mentre tu non hai di questi problemi» aggiunsi, ricordandomi che il motivo per cui avevo bevuto così tanto era solo per riuscire a ignorare il fatto che fosse uscito con un'altra ragazza.

«Che ne sai che non ce li ho? È vero, ero con Hilary stasera, ma che ne sai di quello che ho provato non appena ti ho vista? Perché hai per forza bisogno che ti dica le cose?»

«Magari perché non fai che respingermi. Se mi schifi così tanto, basterebbe che me lo dicessi, smetterei di tormentarmi così!» esclamai, prima che mi invitasse ad abbassare nuovamente la voce.

«Lo sai qual è il motivo, l'unica cosa che mi frena.»

Roteai gli occhi e poi sbuffai. «Certo, solo perché c'è... perché c'è una complicazione. E io che pensavo fossi uno che ama le sfide e che non ti piacessero le cose semplici... Invece al primo ostacolo molli la presa e punti un'altra, una con cui non avresti problemi. Caspita, che tenace! Pensa che grande avvocato diventerai!»

Non avere filtri faceva sì che gli dicessi ogni singola cosa che mi frullava nella testa in quel momento. Mi sentii libera dopo essermi sfogata, ma subito dopo, nell'incrociare il suo sguardo, subentrò il senso di colpa. «Scusa, non volevo dirlo, volevo tenerlo per me, ma... ma in questo momento non sono in grado di decidere cosa dire.»

Scosse la testa. «Quante volte te l'ho detto? Non devi scusarti per qualcosa che pensi, anche perché...»

«Perché non ti interessa quello che penso» lo interruppi, completando la frase al posto suo.

«Magari fosse così...»

«Ma piantala! Non te ne importa niente, se ti importasse abbastanza, allora...»

«E ci risiamo» mi interruppe lui, questa volta con tono scocciato. «Se solo fossi in grado di capire le cose basandoti sui fatti e non sulle parole, non avresti tutti questi dubbi. Il fatto che sia qui con te adesso e che abbia lasciato Hilary da sola senza quasi nessuna spiegazione mi sembra la dica molto lunga su quanto mi importa.»

Incrociai le braccia al petto e scrollai le spalle, non sapendo trovare nessuna risposta. Maggiormente per il fatto che del suo discorso nella mia testa erano entrate un terzo delle parole.

Mi aveva appena dato della stupida?

Venendo a contatto con il mio vestito mi resi conto che era... bagnato, e appiccicoso. «Che roba è? Dov'è il mio cellulare? Mi serve luce!» esclamai, prima di ricordarmi di non dover urlare e portarmi la mano sulla bocca per coprirla. David tirò il mio cellulare fuori dalla tasca dei suoi jeans e me lo passò. Non essendo in grado di inserire il PIN, glielo ripassai: «È la data del compleanno di Emily, venti maggio. Ah, vedi, sono lucida? Me lo ricordo!» dissi, poco prima di indietreggiare e risedermi sul letto. David sbloccò il cellulare e mi puntò contro la torcia. Allora arricciò il naso in un'espressione disgustata: «Ti sei rovesciata il drink sul vestito» spiegò, prima di emettere un piccolo ghigno.

A quel punto George tornò dal bagno. «Bene, mi sono svuotato» annunciò, ritenendo che la cosa potesse interessarci.

David spense la torcia del cellulare e lo appoggiò sul letto, prima di dirigersi verso il suo armadio e tirare fuori una maglia e dei pantaloni. «Tieni, vai in bagno a cambiarti.»

Afferrai gli indumenti e poi mi alzai e andai in bagno. Tolsi le scarpe, rischiando di inciampare sui miei stessi piedi e battere la testa a terra. Appoggiai momentaneamente i vestiti sul bordo del lavandino e poi mi accinsi a cercare di togliere l'abito che indossavo, incontrando fin da subito delle difficoltà. Non aveva nessuna cerniera e, sebbene fosse attillato, non lo era abbastanza da non riuscire a essere sfilato. Ma a causa delle condizioni in cui ero, non ci misi molto a spazientirmi e ad andare nel panico. «Non si toglie!» esclamai, quasi piagnucolando.

Seguirono degli istanti di silenzio.

Poi sentii la voce di George farsi vicina alla porta del bagno: «Insomma, andrei io, ma diciamo che non sono proprio il suo amico gay, perciò non aspettarti che dopo averla vista mezza nuda, me ne starei con le mani in mano, certo, secondo me è troppo formosa, ma comunque...»

«Spostati» fu interrotto da David, il quale usò un tono di voce durissimo.

Poco dopo la porta si aprì e il mio giovane avvocato entrò in bagno. Sospirò una o due volte, prima di afferrare i lembi del mio vestito e sollevarlo verso l'alto, fino a farlo passare oltre la mia testa. David mi diede un'occhiata rapidissima e poi distolse lo sguardo.

Gli facevo davvero così schifo? Era perché non avevo l'intimo abbinato? Non sapevo niente di certe cose. Era il primo ragazzo a vedermi in intimo. Più volte avevo fantasticato su quel momento, e avevo sempre pensato che mi sarei sentita almeno un minimo a disagio, invece ero piuttosto tranquilla, come se fosse il momento giusto, sebbene in realtà non fosse né il luogo né la situazione adatta.

Prendendo coraggio, afferrai il suo volto fra le mie mani per costringerlo a guardarmi. Si sforzò il più possibile di mantenere lo sguardo fisso sui miei occhi. Resistette per circa un minuto, infine il suo sguardo si abbassò. Chiuse allora gli occhi e scosse la testa. «Dio, Megan, mi vuoi uccidere?» disse con voce rauca, prima di deglutire.

«Tu lo fai sempre con me. Mi uccidi ogni volta che mi respingi, come stai facendo anche in questo momento. L'unico modo che ho per essere degnata da te è bere fino a star male e rendermi ridicola passando per una bambina, eppure non è sufficiente neanche questo.»

Realizzai che stavo piangendo solo quando David passò i pollici sulle mie guance per togliermi le lacrime che si erano depositate. Si avvicinò al mio viso e alle mie labbra pericolosamente, sfiorandole appena ma mai in modo decisivo. Le tenevamo entrambi socchiuse, mentre i nostri respiri si fondevano in uno solo.

Stavo per afferrargli una mano e far sì che la posasse sul mio corpo, ma in quel momento sentimmo la voce di George da fuori la stanza: «M-Megan, ti sta chiamando tua madre!».

David colse la palla al balzo e si distanziò immediatamente da me. Per evitare che perdessimo altro tempo, mi aiutò a infilare i suoi vestiti che mi aveva lasciato e poi uscimmo dal bagno.

George mi passò il mio cellulare. «Le ho inviato un messaggio dicendo che non puoi parlare perché c'è troppo casino, ma che fra poco esci dalla discoteca per tornare a casa.»

«Grazie, George» risposi.

«Che ore sono?» domandò David, in preda all'ansia.

«Le tre.»

A quel punto allora, cercando di fare meno rumore possibile, raccattammo le nostre cose e uscimmo dallo studentato.

•••

Quindi ecco di chi erano i vestiti che indossavo. Ed ecco anche come ero tornata a casa.
Eppure sentivo che c'era dell'altro, ma ci avrei pensato più tardi.

Mio padre mi aveva chiamata per andare a tavola. Così, una volta uscita dalla doccia, velocemente mi rivestii con della biancheria pulita e un mio pigiama, e poi mi diressi in cucina.

Fin da subito mi resi però conto che la fame era poca. Anzi, mi veniva quasi da vomitare a ogni boccone che ingerivo, ma cercai di sforzarmi per non destare ulteriori sospetti nei miei genitori. In fondo loro sapevano solo che ero arrivata tardi, non sapevano di tutto il resto che era successo quella notte, né quel giorno in generale.

Tentai di ripercorrere tutta la giornata di sabato, ma mi venne fin da subito un gran mal di testa per l'ammontare delle cose che erano successe, a partire dai fiori che avevo portato sulla tomba di Emily, alla confessione di George sui suoi genitori, alla visita a Dylan in carcere, fino ad arrivare poi a tutto il resto.

Feci un ultimo boccone e poi mi alzai da tavola silenziosamente e tornai in camera mia. Avevo ancora un gran sonno, così, con i capelli ancora inumiditi, mi stesi a letto e chiusi gli occhi. Prima di addormentarmi, ripensai all'ultima fase della serata.

•••

«Megan...» Fu un richiamo così flebile che pensai di essermelo immaginato e che facesse parte del mio sogno.

«Maggie.»

Quella volta fu un richiamo più deciso. Solo una persona mi chiamava così. Aprii lentamente gli occhi e pian piano davanti a me si materializzò il viso di David. Aveva aperto la mia portiera e si era chinato leggermente per poter arrivare alla mia altezza. Mi guardai intorno confusa. Non mi ero neanche resa conto di essermi addormentata. Quando ero salita in macchina ero ancora a New Orleans, mentre adesso mi trovavo davanti a casa mia. E George non c'era.

«Che ore sono?» chiesi con voce ancora impastata per via del sonno, strofinandomi gli occhi con le mani.

«Le cinque meno un quarto» rispose David. «Ce la fai ad alzarti e a entrare in casa senza far rumore e svegliare i tuoi?» domandò poi dolcemente.

Slacciai la cintura di sicurezza. La testa mi girava ancora un poco, ma per il resto mi sembrava di stare bene. «Sì, ce la faccio. Ma non voglio.» Afferrai il suo braccio e lo tirai verso di me, mentre nel frattempo scalai più a destra affinché potesse salire anche lui sull'auto. Inizialmente tentò di opporre resistenza, ma infine si lasciò andare e si sedette al mio fianco. «Megan, i tuoi si arrabbieranno se adesso non...»

«Solo fino all'alba» lo interruppi. «E poi andrò a dormire e tu potrai tornare a casa.» Stavo per aggiungere qualcosa come "ti prego" o "per favore", ma in realtà avevo capito che con lui chiedere non funzionava. Dovevo assumere direttamente io il comando, togliendogli la possibilità di rifiutare. E infatti funzionò. Non protestò né disse o fece altro, neanche quando mi sdraiai su un fianco appoggiando la testa sulle sue gambe. Iniziò a passarmi la mano fra i capelli e a farmi dei massaggi.

Avrei potuto osare di più, ma sapevo che in quel caso si sarebbe ritratto. Mi aveva detto di aspettare finché la questione di Dylan non si fosse risolta, senza che ancora ne comprendessi il motivo, ma comunque sapevo che fino ad allora non si sarebbe lasciato andare completamente. 

Però di quanto tempo si trattava? Io volevo lui e soltanto lui, e lo volevo il prima possibile.

A un certo punto, quando sentivo che stavo per riaddormentarmi, sollevai il busto. Non volevo perdermi uno solo dei preziosissimi minuti che avevo a disposizione con lui.

Mi sedetti a cavalcioni avvolgendo le gambe attorno ai suoi fianchi, ma solo per poterlo guardare bene in faccia: «Non farò niente, puoi stare tranquillo» mi affrettai a specificare.

«È difficile anche se non fai niente» rispose con un piccolo ghigno imbarazzato. Poi rimanemmo entrambi in silenzio a studiare l'una il viso dell'altro attentamente, senza volerci perdere nessun dettaglio.

A un tratto poi parlò, come se avesse letto nei miei pensieri di qualche minuto prima: «La settimana che viene mio padre presenterà un'istanza per Dylan, per richiedere che venga rilasciato dal centro di New Orleans e venga rispedito a casa e sottoposto come minimo ai domiciliari. Il giudice glielo concederà di certo, viste le condizioni in cui si trova. Settimana prossima, a quest'ora, Dylan sarà finalmente a casa sua».

Mi sentii in parte sollevata da quelle sue parole, ma era anche vero che quella non era la fine dei suoi problemi. Restava ancora il processo e poi la sua riabilitazione in società. E comunque ancora mi odiava.

«Perché me l'hai detto proprio in questo momento?» domandai, per evitare di pensare a Dylan.

Come risposta, David mi sollevò il mento con le dita e si avvicinò ulteriormente a me. «Perché questa è l'ultima volta che ci ritroveremo in questa situazione senza poter fare niente di più di quello che stiamo facendo ora. Poi non avrò più scuse. Sarò pronto per te se tu lo sarai per me.»

Avrei potuto interferire e dire che era lui a creare problemi anche quando non ce n'erano, e che inoltre io ero già pronta da tempo, ma non mi andava di rovinare il momento. Così, semplicemente, avvolsi le braccia attorno al suo collo e lo abbracciai, mentre lui strinse le sue attorno alla mia vita. Lentamente abbassò la testa per poter raggiungere il mio collo e appoggiarvici sopra le labbra. Rimasi immobile durante tutto il tempo che si prese per andare a esplorare ogni centimetro della mia pelle, partendo da sotto l'orecchio fino ad arrivare a sotto la clavicola. Al tempo stesso le sue mani andarono a insinuarsi sotto la maglia che indossavo, percorrendo delicatamente con le dita la mia pelle, causandomi mille brividi lungo la schiena, sebbene il suo tocco apparisse in realtà rovente. Le sue mani si soffermarono poi sul laccetto del mio reggiseno. Lo sollevò, ma si bloccò prima di slacciarlo. Riportò le mani fuori e staccò le labbra dal mio collo.

Avrei davvero voluto che non si fosse fermato.

Quando ero con lui, non sentivo mai di fare qualcosa di sbagliato. Non era stato così con Dylan, con il quale il più delle volte mi ero sentita frenata. Con David non avevo nessun blocco.

«Mi sa che ti ho lasciato il segno...» disse dispiaciuto, passandomi un dito sul collo.

«Non fa niente» risposi, scrollando le spalle e afferrando il suo viso fra le mie mani. Gli lasciai una serie di piccoli baci, prima sulla fronte, poi sulla guancia sinistra, quella destra, sulla punta del naso, persino sul mento. Restavano solo le labbra, ma riuscii, seppur con molta fatica, a trattenermi.

Lo abbracciai ancora e rimanemmo così finché non arrivò il momento di salutarci. Mi scusai ancora per come mi ero comportata e lo ringraziai per avermi aiutata, prima di augurargli la buonanotte come lui fece con me.

Poi entrai in casa. Poco dopo ricevetti un suo messaggio in cui mi chiedeva se fossi riuscita a chiudere la porta di casa, dato che già per aprirla avevo avuto delle difficoltà. Incontrai delle difficoltà anche nel digitare la risposta, sia perché era buio e vedevo male la tastiera del cellulare, sia perché mi tremavano ancora le mani dall'emozione. Infine mi stesi sul letto e chiusi gli occhi.

•••

Mi risvegliai nel tardo pomeriggio. Il mal di testa era leggermente diminuito, ma la stanchezza c'era ancora. Almeno ero riuscita a ricollegare tutti i pezzi.

I segni che avevo sul collo non erano di George, erano di David... Dio, quanto avrei voluto che non si fosse mai fermato.

Comunque, anche se ero stata un'idiota, fortunatamente le cose non erano andate così male come avrebbero potuto. Non avevo vomitato, tanto per cominciare. E le cose fra me e David si erano risolte, per modo di dire.

Non appena trovai la forza di prendere in mano il cellulare, pensai di scrivere qualcosa a George, in fondo era anche a lui che dovevo le mie scuse. Non appena aprii la sua chat, mi accorsi che mi aveva mandato un messaggio vocale qualche ora prima, così mi precipitai ad ascoltarlo: «Buondì, Megan Sinclair! Sei uno spasso, davvero. Vederti ubriaca è stato divertente e terrificante al tempo stesso. Ah, e chi l'avrebbe detto che alla fine avrei scoperto ciò che nascondevi? Ma non preoccuparti, i tuoi segreti sono al sicuro con me, tanto lo sai che non ho amici con cui parlare, esattamente come te. Certo, almeno io non ho ex amici che sono degli assassini. Devo ricordarmi di evitare quel pazzo psicopatico di Waldorf d'ora in poi, grazie per avermelo detto, a proposito. Mi chiedevo, che cos'hai in serbo per il prossimo fine settimana? Ah, e non portare ancora quel brontolone del tuo pseudo fidanzato, ci ha tolto tutto il divertimento. Alla prossima!».

 

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Capitolo 10
*** 9. Rischi ***


 

9. Rischi

"Io non ho detto a George di Herman. Non l'ho fatto. Non posso averlo fatto. Non sono così stupida."

Non sarebbe l'unica cosa stupida e avventata di quella sera.

"Ero ubriaca. E lo era anche lui. Posso far leva su questo. Devo far leva su questo. George non deve essere messo in mezzo a questa storia."

George non avrebbe cambiato idea, non era il tipo di persona manipolabile. Sembrava ingenuo, ma in realtà era sveglio e consapevole.

"Almeno vai a parlarci per verificare quanto sa e per metterlo realmente in guardia."

Non appena arrivai a scuola lunedì mattina, dunque, mi misi ancora una volta alla ricerca di quella folta chioma di ricci castani, riscontrando fin da subito delle difficoltà nel trovarlo.

Sbuffai.

Avevo cercato ormai in ogni angolo, e a breve avrei dovuto dirigermi in classe, così tirai fuori il cellulare per scrivergli un messaggio in cui gli chiesi se fosse a scuola. Subito dopo aver premuto "invia", sentii il suono di una notifica alle mie spalle, così mi voltai. Era appoggiato al suo armadietto, la testa china sul cellulare. Si guardò intorno fino a che non mi individuò e mosse dei passi nella mia direzione. Non appena incrociai il suo sguardo, lo spostai sul pavimento. Mi vergognavo ancora troppo per ciò che era successo l'altra sera per riuscire guardarlo in faccia. E la cosa sembrava divertirlo: abbassò un poco le ginocchia fino ad arrivare alla mia altezza, così da potermi guardare dritto negli occhi: «Suvvia, Megan Sinclair, di cosa ti vergogni?» domandò con un sorriso beffardo.

Inarcai le sopracciglia. «Seriamente? Di tutto. Sono mortificata per sabato, non ero in me, e...»

Mi interruppe prima che potessi finire: «Mmh, no, secondo me eri più in te sabato di quanto non lo sia adesso. Ma se la cosa ti imbarazza tanto, evitiamo semplicemente di parlarne e andiamo avanti come sempre».

«No, io voglio parlarne invece» scossi la testa. «Non avrei dovuto baciarti, tanto per cominciare, non prenderla male, ma...»

«Non importa, Megan» scrollò le spalle. «Ci siamo fatti trasportare dal momento. Lo so che non sei interessata a me, come io non lo sono a te. La verità è che hai le tette troppo grosse» disse e lo fulminai con lo sguardo. «Dai, non farne un dramma, in fondo non è successo nulla di...»

«Lasciami finire, George!» esclamai, iniziando a innervosirmi. Poi, considerando ciò di cui gli dovevo parlare, abbassai la voce. «Non mi ricordo quello che ti ho detto in merito a... a Herman, ma erano solo... solo delle parole senza senso buttate all'aria, probabilmente hai solo frainteso ciò che stavo dicendo.» Mi impegnai il più possibile per mantenere un'espressione il più neutrale possibile. Non doveva vedersi quanto ero preoccupata. «E niente, semplicemente questo. Volevo solo scusarmi e chiarire queste cose, ora vado in classe. Ci vedia...»

Proprio mentre stavo per andarmene, mi afferrò il braccio e mi bloccò, mettendomi letteralmente con le spalle al muro. «Non così in fretta, bellezza. È vero, eri piuttosto sconvolta, all'inizio nemmeno ti stavo dando ascolto perché sembrava stessi soltanto delirando, ma poi mi sono reso conto che più andavi avanti a parlare e più ogni pezzo sembrava trovare il suo incastro. Insomma, ecco spiegato perché non esci più con Tracey e quell'altro squilibrato. Ed ecco anche spiegato perché ci tenessi così tanto a far visita al tuo ex, nonostante inizialmente fossi stata tu ad accusarlo di essere un assassino.»

Deglutii, mentre tentavo di sforzarmi a trovare le parole per rispondergli e smentire tutto. Ma era impossibile riuscirci. Così stetti zitta. Mi liberai dalla sua presa e iniziai a incamminarmi verso la mia classe, ma George mi sbarrò nuovamente la strada. «Aspetta, io voglio aiutarti. A fargliela pagare» disse.

«Non puoi. Non hai idea dei rischi che corri, e non voglio nemmeno che tu provi a scoprirlo, d'accordo?»

«Lo vorresti il mio aiuto, se ti dicessi che potrei riuscire a scoprire cosa potrebbe averlo indotto a fare una cosa del genere a Emily?» chiese e io lo fissai confusa. «Hai detto che non conosci il suo movente. Forse posso scoprirlo» rispose, facendo poi un cenno alle mie spalle. Mi voltai e l'unica persona di mia conoscenza fra le diverse che c'erano lì nei paraggi, era Olivia Goldberg. Così tornai a fissare George con un'espressione disorientata. «Che cosa c'entra Olivia?»

«Ho una teoria, ma non posso dirti nulla finché non me ne sarò accertato.»

Alzai gli occhi al cielo. «Pensi che sia un gioco? Guarda che questo non è il passatempo del momento. Ascoltami, e...» Non terminai la frase, dal momento che George si era ormai allontanato ed era scomparso in qualche aula.

Merda. Perché George non poteva farsi gli affari suoi? Perché doveva per forza mettersi in mezzo? E perché diamine non me ne ero stata a casa sabato?

•••

Le lezioni sembravano non trascorrere mai. Mancavano quattro giorni all'ultimo giorno prima delle vacanze di Natale ed eravamo tutti così impazienti che l'attenzione e la concentrazione scarseggiavano. Non c'era nulla che desiderassi più di starmene a casa per un po', dimenticare tutto, trascorrere del tempo con David.

A proposito di quest'ultimo, gli avevo chiesto di vederci quel pomeriggio affinché potessi ridargli la maglia e i pantaloni che mi aveva prestato l'altra sera. Ecco quindi un altro motivo per il quale non vedevo l'ora che finisse quella giornata di scuola.

Al suono dell'ultima campanella, mi precipitai fuori dall'edificio come di consueto, ma prima che potessi svoltare sul marciapiede a destra, sentii qualcuno chiamarmi. Mi pietrificai sul posto non appena riconobbi la voce di Lucy. Deglutii e infine trovai il coraggio di voltarmi. «Ciao, Lucy» la salutai, simulando un sorriso, sebbene dentro di me stessi morendo dall'imbarazzo per ciò che era successo due giorni prima.

«Ciao» ripeté, con tono fermo e serio. Era la prima volta che la vedevo così. «Volevo dirti che... be', in questi due giorni ho riflettuto a lungo. Su di te, i tuoi comportamenti, le tue parole... e anche quelle di George. Tu non credi nel perdono, nella redenzione né tantomeno nella remissione dei peccati. Scoprirlo mi ha lasciata sconvolta, non me l'aspettavo proprio, dal momento che pensavo che fossimo sulla stessa lunghezza d'onda... venirlo a sapere mi ha fatto sentire tradita, forse anche un po' presa in giro, ma più che questo, ecco, ho passato due giorni a chiedermi che corrispondenza ci fosse fra il tuo pensiero a riguardo e le tue azioni. E non ce n'è alcuna» sollevò lo sguardo e lo puntò sul mio, rivelando di avere gli occhi lucidi. «Tu vuoi bene a Dylan, non cercheresti mai di... di f-fargli del male, eppure n-non ha senso, perché non combacia con quello che... insomma, quello che voglio dire, è che so, anzi, lo sappiamo entrambe, che non è stato Dylan a uccidere Emily, ecco perché non ce l'hai a morte con lui. E tu sai anche chi è il vero assassino.»

Quelle parole mi procurarono una serie di brividi lungo tutto il corpo. Non poteva star accadendo davvero. Prima George, ora Lucy... Proprio quando pensavo che si stesse risolvendo ogni cosa, ecco che avevo creato altri mille casini, coinvolgendo persone che non c'entravano nulla.

Non sapendo cosa dire, risi. Semplicemente risi. Era una risata nervosa, incontrollata, che si stava facendo sempre più estesa, così come le lacrime si stavano addensando nei miei occhi. «Lucy, non hai idea di quello che stai dicendo» dissi, prima di riprendere a ridere.

A quel punto, la biondina si avvicinò spaventosamente al mio viso, rivolgendomi uno sguardo gelido: «Forse posso sembrare una stupida, "la piccola e ingenua Lucy", ma capisco molte più cose di quelle che do a vedere, esattamente come te: tu sai chi l'ha uccisa» affermò. «Se è così, perché non ne parli con la polizia distrettuale? Non puoi semplicemente stare zitta, più aspetti e più Dylan rimarrà lì ingiustamente.»

«Basta, Lucy... ti prego, basta» la implorai, con voce spezzata e litri di lacrime che mi si posavano sulle guance contro il mio volere, venendo tuttavia ignorata: «Ma tu questo lo sai bene, quindi se stai esitando dev'esserci un motivo. Ti assicuro che farò di tutto per scoprirlo, e poi farò ciò che nessuno in questa città ha il buon senso di fare: andare dalla polizia a raccontare la verità. Così Emily potrà realmente riposare in pace» dichiarò. «Buona giornata» aggiunse, prima di andarsene e lasciarmi sola.

Rimasi immobile ancora per qualche istante e poi, con le gambe ancora tremolanti, iniziai a dirigermi verso casa. Avevo il respiro sempre più affannato e avevo solo voglia di dimenticare tutto, ma in fondo sapevo che ignorare la cosa come se non esistesse, non sarebbe servito: non era un incubo dal quale bastava svegliarsi, dal momento che io ero già sveglia e l'incubo non accennava a terminare.

Quando arrivai nel vialetto di casa mia, riconobbi l'auto di David. A quanto pare Lucy mi aveva trattenuta più tempo di quello che pensassi, visto che era già arrivato. Mi asciugai le lacrime e tirai su con il naso, prima di avvicinarmi alla sua macchina e bussare al suo finestrino. Si voltò allora verso di me e mi rivolse un minuscolo sorriso. A quel punto indietreggiai per permettergli di aprire la portiera e scendere dall'auto. «Ciao» disse e io risposi con un cenno della testa. «Comunque non c'era fretta di ridarmi le mie cose» aggiunse.

«Ah no? Allora perché ti sei precipitato qui non appena ti ho scritto?» chiesi, inarcando le sopracciglia.

«L'ho capito cosa vuoi sentirti dire, sai? Ma non te lo dirò» rispose, avvicinandosi al mio viso e sorridendo.

«È come se l'avessi appena ammesso.» Appoggiai le mani sulle sue spalle per mantenere l'equilibrio mentre mi alzavo in punta di piedi per dargli un veloce bacio sulla guancia. Inspirai il suo profumo e poi ritornai con i talloni a terra. In un secondo, la sua espressione mutò radicalmente, incupendosi: «Hai pianto» affermò.

Boccheggiai per qualche secondo, prima di dargli le spalle e dirigermi verso la porta di casa: «Vieni, ti rido le tue cose» dissi, tentando di cambiare discorso.

Inserii la chiave nella serratura e aprii la porta, invitandolo poi a entrare. Non appena richiusi la chiave alle mie spalle e tornai a guardarlo, lo vidi con le braccia conserte e le sopracciglia corrucciate.

Roteai gli occhi. «Non è nulla di importante, ok?»

Poi gli diedi nuovamente le spalle e mi feci seguire dentro la mia stanza, dove poggiati sulla sedia c'erano i suoi vestiti, che il giorno prima avevo lavato per poterglieli restituire.

Mi chinai per prenderli, ma a quel punto mi afferrò il polso e mi fece voltare. Tentai il più possibile di evitare il suo sguardo indagatore, ma la cosa divenne impossibile nel momento in cui mi sollevò il mento afferrandolo fra il mento e il pollice. «Maggie, parlami» disse con tono affabile.

Rimasi in silenzio a lungo, ma infine dovetti rassegnarmi. O quasi. «È che mi sento ancora una merda per la storia di Dylan. Lo so che tu e tuo padre farete il possibile per risolvere la situazione, e ve ne sono immensamente grata, ma è anche vero che, non appena sarà libero, si renderà conto che l'ho preso in giro un'altra volta e che non provo niente per lui. Ed è così fragile e instabile al momento che non so come potrebbe reagire. Io ho avuto il tuo aiuto, quello dei miei genitori, della mia psicologa, ma lui non ha nessuno. Lo so, non dovrei pensarci, ma è impossibile: vivo con l'angoscia tutto il tempo.»

«Megan, non puoi farci niente. Un cuore spezzato non è per sempre, fidati di me: anch'io non ci credevo, ma con il tempo passa» rispose, dandomi una carezza sulla guancia.

«Ma perché dev'essere lui a soffrire così tanto e non i veri responsabili?»

«Tu non pensare a loro, prima o poi i colpevoli avranno quello che si meritano» mi assicurò.

«E quando? Sono stufa di vederli ogni giorno a scuola, liberi, felici, spensierati. Sono stufa di aspettare, voglio che paghino e lo voglio il prima possibile. Uno di questi giorni voglio andare a parlare con Tracey, così...»

David sgranò gli occhi e mi interruppe: «Hai perso il senno? Devi stare alla larga da lei e da Herman».

«No, David, non posso continuare a starmene con le mani in mano! Pur non facendo niente non faccio che peggiorare le cose, non lo capisci?» sbottai. «E poi ho un vantaggio su di loro: loro pensano che non gli parli più per via della storia dei volantini, ma non immaginano che sappia la verità su quella notte.»

«Perché non lo sai, infatti» ribatté. «Anche questa è una tua congettura, come lo era quella su Dylan.»

Aggrottai le sopracciglia, prima di distanziarmi da lui. «Quindi tu ancora non mi credi?» domandai. Riteneva ancora che avessi iniziato a pensare quelle cose su Herman solo perché era fra coloro che mi aveva ferita?

«Ti avevo detto che avevi ragione su Dylan e su come lo trattavano lì dentro, non che avessi ragione a pensare che fosse Herman il vero assassino.»

Alzai gli occhi al cielo e poi andai a sedermi sul bordo del letto, dall'altra parte della stanza. «Io so che è così, David, non lo penso e basta.»

Mosse qualche passo nella mia direzione: «D'accordo, e come lo sai? Qual è il movente? Dove sono le prove?» domandò, assumendo nuovamente quel tono arrogante e saccente che detestavo.

«Per questo mi serve parlare con Tracey! È lei che l'ha coperto, è lei che ha insabbiato tutto, senza lasciare tracce, come aveva cercato di fare con me quando ancora voleva aiutarmi. Devo fingere di volermi riavvicinare a lei, così da poter scoprire una volta per tutte la verità!» esclamai. «Magari anche la sua è tutta una recita e l'unico motivo per cui sta ancora con Herman è che lui la tiene in pugno per via del fatto che è coinvolta anche lei in questa storia e che, se lui andrà a picco, porterà anche lei giù con sé. Magari la sta vivendo cento volte peggio di me e si sta tenendo ogni cosa dentro. Magari è in pericolo...»

«O magari hanno entrambi la stessa dose di colpa. Magari l'hanno fatto insieme, non ti è venuta in mente anche quest'ipotesi? Si spiegherebbe perché non fosse sconvolta quanto te quando ti ha vista chinata sul corpo di Emily. Si spiegherebbe perché abbia avuto così tanta premura di procurare a entrambe un alibi. Si spiegherebbe perché abbia cercato in ogni modo di indirizzare ogni singolo sospetto su di te, con ogni mezzo e in ogni modo. Lei non ha scelto te, Megan, neanche per un solo secondo, ha scelto fin da subito il suo fidanzato e, probabilmente, anche se stessa. Sempre che sia tutto vero.»

Quelle parole mi trafissero come lame. David era l'unica persona che aveva sempre il coraggio di sbattermi in faccia la realtà, senza filtri, benché fosse cruda il più delle volte. E lo adoravo per questo. Per la sua fermezza, il suo sangue freddo, la sua razionalità.

Ma in quell'occasione la mia testardaggine prevalse. «Se c'è anche una sola possibilità che Tracey non c'entri nulla e che magari non sappia nulla delle vere cause che hanno portato Herman a farlo, io devo saperlo. Lei non ha qualcuno come te che provi a farla ragionare, a farla rinsavire, ha soltanto quel figlio di puttana che non fa altro che metterle la pulce nell'orecchio in continuazione» conclusi, rialzandomi in piedi e andando poi a prendere i suoi indumenti e a infilarli in un sacchetto.

«Megan, è rischioso...»

«Tieni» lo interruppi, rendendogli i suoi vestiti.

Rinunciò a dire qualsiasi altra cosa, ma dentro di me sapevo che il suo silenzio non stava assolutamente a significare che aveva rinunciato a ostacolare le mie intenzioni.

Tornammo davanti alla porta d'ingresso. Prima che la aprissi affinché potesse uscire, mi ricordai che mi ero dimenticata di chiedergli una cosa importante: «Quando ci sarà l'istanza per Dylan?».

David sembrò sorpreso da quella mia richiesta, tanto che per una delle prime volte lo colsi impreparato. «Ehm, non so, non mi ricordo bene» rispose evasivo.

«Come, non ci andrai?» domandai scettica. Non vedeva mai l'ora di partecipare ai processi del padre, specie a quelli ai quali contribuiva egli stesso.

«Be', devo ancora decidere, in effetti. Sai, devo ancora preparare gli ultimi esami.»

«D'accordo, mi farai sapere in questi giorni allora?»

Annuì soltanto. Poi mi diede un piccolo bacio sulla fronte e uscì.

Chiusi la porta di casa a chiave e andai in soggiorno. Mi sdraiai sul divano e pian piano chiusi gli occhi. Quei brevi venti minuti insieme a David mi avevano quasi fatto dimenticare di quella terribile giornata. Anche se dovevo ammettere che mi aveva lasciata un poco attonita il modo in cui aveva reagito quando gli avevo chiesto del processo. E non perché non mi avesse dato una risposta concreta, ma perché avevo la sensazione che non volesse darmi una risposta. Ciononostante, cercai di non soffermarmi troppo su quelle riflessioni per evitare di sommare altre preoccupazioni a quelle che già avevo.

•••

Un bel drink era proprio quello che ci voleva quella sera. O, forse, quattro bei drink. O erano cinque? Poco importava. Era una festa, era ciò che facevano tutti. C'era a chi bastavano poche gocce per perdere il controllo di se stessi e chi, come me, con il tempo aveva imparato a reggere bene l'alcol e aveva bisogno di berne in più quantità per riuscire a divertirsi.

In quel momento, stavo adorando la foga con cui Emily Walsh continuava a riempirsi il bicchiere e a svuotarlo in tempi da record. «Vacci piano, Emily» dissi, ma in realtà non era quello che intendevo veramente: fremevo dalla voglia di vederla completamente andata.

In risposta, la mora mi squadrò e, con il bicchiere ancora mezzo pieno, uscì dalla cucina.

«Perché succede sempre così?» dissi fra me e me.

«Perché sei un disperato» mi giunse una risposta che non pensavo avrei ottenuto, dal momento che ero rimasto solo nella stanza. Non avevo bevuto così tanto da diventare schizofrenico e avere le allucinazioni. Ma poi, la schizofrenia si poteva sviluppare dal consumo di alcolici?

Poi decisi di sollevare lo sguardo e la individuai sulla soglia della porta. Animandomi in volto, appoggiai prontamente il bicchiere che tenevo in mano sul bancone della cucina e avanzai di qualche passo per raggiungerla. Chiusi la porta della cucina affinché rimanessimo soli. «Buonasera, bellezza» sussurrai al suo orecchio, avvolgendole un braccio attorno alla vita per avvicinarla a me fino a far scontrare i nostri bacini.

«George, lasciami...» disse con poca convinzione, appoggiando una mano sul mio petto per distanziarsi da me. Aggrottai le sopracciglia. Poi emisi un ghigno. Sapevo come era fatta: le piaceva giocare, farsi desiderare come una vera principessina.

Era così bella. La scuola era iniziata da poco meno di un mese, quindi aveva ancora la pelle dorata dal sole estivo, cosa che metteva in risalto i suoi grandi occhi azzurri. I capelli nerissimi, solitamente tenuti su con una coda di cavallo, quella sera erano sciolti e le ricadevano armoniosamente lungo il corpo, lunghi fino alla vita. Indossava dei pantaloncini corti di jeans neri e un body giallo fluo incrociato sulla schiena, ed era evidente che non portasse il reggiseno, praticamente come ogni volta che eravamo insieme. I suoi piccoli seni erano ciò che mi piaceva più di lei, oltre al suo carattere di merda.

Mi avvicinai al suo viso per baciarla, ma si ritrasse. «Dai, Liv, è inutile che fai tanto la dura, quando l'ultima volta eri te a non volerti staccare da me. Quindi direi di anticipare i tempi e spostarci al piano di sopra, così possiamo...»

«Ci andrò, in effetti, ma non con te» mi interruppe.

«Come?» domandai, lasciando la presa sui suoi fianchi.

«Dai, quanto pensavi che sarebbe durata?»

A dire il vero, stavo per proporle di fare sul serio. Era ormai da otto mesi che io e Olivia ci vedevamo in segreto. Era stato bello all'inizio, anche eccitante, ma durante tutta l'estate ci avevo pensato ed ero giunto alla conclusione che non aveva senso continuare in quella maniera. Non avevamo nessun vincolo, non ci era impedito di frequentare altre persone, eppure non era mai accaduto che lo facessimo. In tutti quei mesi non c'era mai stata nessun'altra. Non perché non potessi vedere altre ragazze, ma perché mi ero reso conto che non volevo nessuna al di fuori di lei.

Fino a quel momento ero stato convinto che per lei fosse lo stesso. «Dai, è inutile che mi guardi con quella faccia! Che c'è, ci sei rimasto male?» chiese con tono strafottente. «La verità è che mi annoio, George, facevamo sempre le solite cose, dopo un po' stanca.»

«Possiamo renderlo interessante. Magari... iniziando a uscire insieme seriamente» risposi, trovando il coraggio di farle la mia proposta.

A quel punto Olivia gettò all'indietro la testa, scoppiando a ridere fragorosamente. «Tu... tu davvero credi che se volessi iniziare... qualcosa di.... qualcosa di serio, mi rivolgerei a... a te? A te!» esclamò, fra una risata e l'altra. Poi tornò seria e mi rivolse uno sguardo che mi gelò il sangue nelle vene: «Ricorda che sei sempre lo strambo della scuola che tutti evitano. Finché si tratta di scopare senza farci scoprire da nessuno, va bene, mi sei servito per fare un po' di esperienza, ma non pensare che andrei mai da te per qualsiasi altra cosa».

Le sue parole mi turbarono. Forse un po' più di quello. Riconobbi le sensazioni che provavo ogni qualvolta ripensavo ai miei genitori. Non ero capace di interpretare con chiarezza quello che sentivo. Ma faceva male.

Mentre cercavo di capire quello che stava succedendo dentro di me, Olivia si era già voltata e aveva già varcato la soglia della porta, ma la fermai afferrandola per un polso. Richiusi la porta. «Chi è?» domandai. Se mi stava scaricando per qualcun altro, volevo almeno sapere chi fosse.

«Fatti gli affari tuoi, George» rispose fredda.

«Dimmelo, oppure io dirò a tutti di noi» tentai di convincerla tramite un ricatto. Con lei funzionava così: accordi, compromessi, ricatti.

«Provaci, tanto non ti crederà nessuno. E comunque non servirà a farmi cambiare idea su di te, quindi ti conviene metterti l'anima in pace e lasciarmi andare.»

Alzai gli occhi al cielo. Ero frustrato, perché sapevo che aveva ragione. E non ero pronto. Perché ogni volta che mi affezionavo a qualcuno, mi lasciava all'improvviso? Senza darmi un preavviso, senza che potessi prepararmi prima...

«Perché non puoi soltanto dirmelo? Insomma, per una volta, almeno adesso rendimi le cose facili.»

Olivia si sollevò sulle punte dei piedi per poter arrivare circa alla mia altezza, e mi rivolse uno sguardo di compassione. «Sai, un po' mi dispiace per questa tua desolazione, non pensavo l'avresti presa così male. Comunque sia, non posso dirtelo. Già tre giorni fa qualcuno ci ha sorpreso negli spogliatoi della scuola e, be', è rischioso: è uno già impegnato.»

Quindi mi aveva rimpiazzato con un ragazzo fidanzato? Uno che non avrebbe fatto altro che metterla in secondo piano? Uno che non avrebbe mai lasciato la sua ragazza? Mi chiesi come potesse andarle bene. Olivia amava stare al centro del mondo degli altri, non sopportava di essere solo un piccolo angolo nella mente di qualcuno. Per questo era durata così tanto la nostra frequentazione: anche se non stavamo insieme, il più delle volte la mettevo al primo posto, fra le mie priorità.

Decisi che ne avevo avuto abbastanza di lei per quella sera. Ma, dal momento che sapevo che già dal mattino dopo ne avrei sentito la mancanza, afferrai il suo viso fra le mie mani e, senza darle il tempo di fermarmi, la baciai un'ultima volta. Non si ritrasse, anzi, ricambiò anche il mio bacio, ma sentivo che era diverso rispetto alle altre volte. Forse perché era l'ultimo, forse perché stavo troppo male per godermelo a fondo, forse perché una parte di me stava iniziando a rendersi conto che ciò che provavo per lei era sbagliato. Così fui io il primo a staccarmi per primo, interrompendo bruscamente il bacio.

Mi pizzicavano gli occhi. Di solito mi succedeva solo quando andavo al cimitero. Per loro però aveva senso soffrire. «Sai, in effetti hai fatto bene a non farmi nessun nome, ma ti avverto che se dovessi scoprirlo, ti assicuro che farò in modo di farlo sapere a tutti, così che sia te che lui possiate fare la figura degli stronzi!» esclamai, prima di darle le spalle e allontanarmi.

 

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Capitolo 11
*** 10. Ragionevole dubbio ***


 

10. Ragionevole dubbio

Pochi minuti dopo aver varcato la soglia della porta della scuola, sentii qualcuno avvolgermi un braccio attorno alle spalle. Non avevo bisogno di sollevare lo sguardo per sapere che si trattasse di George. Del resto, era l'unica persona con cui parlavo ultimamente a scuola. «Ciao, George» dissi allora.

Non ricevetti una risposta. Mentre camminavamo, a un certo punto mi resi conto che stava modificando la mia traiettoria. Mi trascinò dentro un'aula vuota e richiuse poi la porta alle sue spalle. L'espressione preoccupata sul suo volto fece agitare anche me: «Che c'è che non va?» chiesi.

Si passò una mano sui ricci corvini e sospirò, prima di rispondere. «Olivia e Herman se la facevano. Lo so perché me l'ha detto lei. La sera della festa a casa di Dylan sono stati insieme, e penso che Emily li abbia scoperti.»

Rimasi esterrefatta dalle sue parole, ma mi sembrava difficile credere che potessero essere vere.

«È inutile che mi guardi così, è la verità. Io e Olivia ci siamo frequentati per un po', finché quella sera non mi ha detto di volerla chiudere perché aveva trovato qualcun altro, non mi ha detto chi fosse perché era già fidanzato. Ora, visto che la maggior parte delle persone a quella festa era single e in cerca di una scopata, non è difficile risalire alle persone fidanzate, fra le quali rientra anche Herman!» esclamò tutto d'un fiato.

«Aspetta, torna un attimo indietro, tu e Olivia siete stati insieme?» chiesi, non riuscendo a nascondere il disgusto.

«Sì, ma non è stato nulla di importante. Sono stato anche con altre nello stesso periodo in cui ci stavamo vedendo, non era nulla di serio. Ti pare che potrei mai legarmi a una come lei?»

«No, infatti è per questo che te l'ho chiesto, e...»

«Comunque,» mi interruppe prima che potessi finire il discorso «concentriamoci sulle cose importanti: Olivia mi ha detto che erano stati sorpresi già qualche giorno prima e che dovevano stare attenti, per questo non mi ha detto il nome del diretto interessato. Ma qualcuno lo sapeva. E se fosse stata proprio Emily? Magari quella sera li aveva sorpresi di nuovo e, essendo amica di Tracey, avrà  minacciato Herman di raccontarle tutto. A quel punto lui avrà perso il senno e... fatto quello che ha fatto».

Rimasi in silenzio il tempo necessario per elaborare le sue parole. Il tempo necessario per rendermi conto che, anche se fosse stato vero, non sarebbe stato sufficiente. «Non basta» sospirai.

George aggrottò le sopracciglia. «Perché? Quando eri te sotto processo è bastato far credere a tutti che il tuo ex fosse un pazzo violento.»

«È bastato perché ero nella fase preliminare del processo, bastavano delle prove indiziarie. Dylan per essere scagionato ha bisogno di prove tangibili a suo favore.»

«Olivia ne avrà di certo. Basterà portarla dalla nostra parte affinché testimoni, e sarà fatta» ribatté George convinto.

«Olivia? Dalla nostra parte? Dalla mia parte? E, qualora ci riuscissimo, far dire a Olivia che Emily sapeva di loro, sempre che sia vero, non basterà comunque a convincere la giuria che Dylan non sia responsabile della morte di Emily e che lo sia Herman, anche perché...» Mi fermai all'improvviso, non appena mi resi conto che sembravo quasi David per via del modo in cui parlavo. Stavo assumendo gli stessi identici atteggiamenti che più detestavo di lui. «Dopo sento David, e gli chiederò se quello che hai detto potrà essere utile» dissi a quel punto.

«Bene. Io vado da Olivia per costringerla a parlare» rispose, aprendo la porta e facendo per uscire, ma lo bloccai afferrandolo per il polso: «No, fermati, non devi coinvolgerla finché non avrò una risposta da David. Fino ad allora, Olivia deve rimanerne fuori» lo interruppi.

«D'accordo, allora renderò la notizia della sua tresca di dominio pubblico. Voglio che paghi, e che tutti a scuola sappiano che razza di persona è.»

Lo fissai allarmata: «Sei impazzito? Vuoi capirlo che non è un gioco e che non puoi fare mosse avventate solo per una ripicca personale? Non hai idea di come potrebbe reagire Herman nei tuoi confronti, o magari nei suoi, nel caso dovesse ritenerla colpevole per avertelo detto!» esclamai.

Alzò gli occhi al cielo. «Non me ne frega niente di come potrebbe reagire! Credi che non saprei difendermi? E poi, se mai dovesse uccidermi, almeno sapresti che sarò morto per causa sua e riusciresti a farlo rinchiudere» disse, facendo una risata poco dopo.

«Non è divertente» lo rimbeccai. «Devi smetterla di scherzare su queste cose, ok?»

«Su, Megan, rilassati» sbuffò, posandomi una mano sulla spalla.

«No, George, non riesco a rilassarmi! Per favore, cerca di prendere almeno questa cosa sul serio, invece che giocare a fare l'eroe. Se ti accadesse qualcosa, mi sentirei responsabile, dal momento che sono stata io a dirti di Herman. E il senso di colpa che provo per la morte di Emily è già abbastanza forte da impedirmi di andare avanti con la mia vita. Lo fanno tutti, a parte me. A volte penso quasi che...» mi fermai giusto in tempo.

Ogni tanto la mia testa faceva dei giri strani e pensava a cose dannose, a cui mi ripromettevo di non dare più ascolto, ma poi, puntualmente, quei pensieri ritornavano.

"A volte penso quasi che, il motivo per cui non riesco a tornare a essere felice, è perché forse il mio tempo era già finito il giorno del funerale di Emily e il fatto che David mi abbia salvata quel giorno sia stato uno sbaglio."

In fondo non aveva neanche senso restare in vita se ciò che stavo facendo non mi stava portando a rendere giustizia a Emily.

"Magari non è semplicemente il mio compito. Magari non servo più a niente."

Mi spaventava fare quei pensieri. Ma non riuscivo a controllarli. Per fortuna non ero ancora arrivata al punto in cui erano loro a controllare me.

D'un tratto rinsavii, ricordandomi che non ero sola con la mia mente, ma che c'era anche George di fronte a me, in ascolto. Mi guardava con un'espressione serissima. Mi diede l'impressione di aver capito ciò che stavo per dire. Ne ebbi la conferma non appena parlò: «La sera in cui sono morti i miei genitori avrei dovuto trovarmi con loro. Erano andati fuori a cena, inizialmente volevano portarmi con loro, ma visto che ero troppo stanco, mi lasciarono a casa. Avrei potuto essere con loro in quell'auto, ma non c'ero. Sarei potuto morire quella sera, ma non sono morto. Loro non ci sono più ma io sono vivo, e non mi autocommisero per questo: ne sono felice. Lo sarei di più se ci fossero loro con me? Ovvio. Ma non è così che è andata, e non è così che doveva andare».

Aprii la bocca per ribattere, per negare ciò che aveva compreso, ma poi la richiusi. Avrei fatto molta meno fatica a convincere gli altri che si sbagliavano sulle mie intenzioni, invece che a convincere me stessa che erano le mie intenzioni a essere sbagliate, ma non avevo più le forze nemmeno per la prima cosa.

«Grazie, George» dissi con voce rotta, e la cosa iniziò a suonarmi meno strana rispetto alle altre volte.

Il riccio scrollò soltanto le spalle e poi fece nuovamente per uscire dall'aula, ma io lo fermai ancora e lo abbracciai. In un primo momento non reagì, probabilmente a causa dello stupore per via di quel mio gesto inusuale, ma poi ricambiò l'abbraccio e mi diede delle piccole pacche sulla schiena. «Chi l'avrebbe mai detto che saremmo arrivati fino a questo punto, eh, Megan Sinclair?» domandò una volta che sciolsi l'abbraccio.

«Il mio nome è Heather Wilson, infatti» risposi con un ghigno, prima di avviarmi fuori dall'aula.

•••

«Pronto, Megan?» La voce di David mi suonò strana, sembrava mezzo addormentato.

«Ehi, disturbo? Devo dirti una cosa, ma se non è il momento...»

«No, no, tranquilla» mi interruppe. «Mi sono appena svegliato. Dimmi pure» aggiunse, prima di sbadigliare.

«Ah, sì? È così che prepari gli ultimi esami della sessione, dormendo fino a tardi?» lo punzecchiai.

«Sono stato in piedi fino alle cinque e mezza per finire dei lavori urgenti che mi aveva affidato mio padre» rispose solamente.

«Non dovresti strafare» gli consigliai, anche se sapevo che non mi avrebbe dato ascolto, dato che l'unica cosa che bramava da anni era l'approvazione del padre, ed era così che pensava di ottenerla.

«Di cosa dovevi parlarmi?» domandò, cambiando discorso.

A quel punto tentai di prepararmi psicologicamente a lui che avrebbe perso la pazienza e mi avrebbe zittita con la solita boriosità e, quando ritenni di essere pronta, parlai: «George sa di Herman. Gliel'ho detto per sbaglio sabato sera, quando ero ubriaca. Ho cercato in ogni modo di convincerlo che avesse capito male, ma non ne ha voluto sapere, e ora si è messo in testa che vuole aiutarmi. Mi ha confessato che è stato con Olivia per un po' di mesi, e che hanno chiuso la sera stessa della festa di Dylan, perché lei ha rivelato di aver trovato un altro ragazzo, un ragazzo fidanzato. George pensa che quel ragazzo possa essere Herman e pensa che Emily possa averli sorpresi insieme proprio quella sera e che, per farla tacere, lui l'abbia poi...» Non riuscii a continuare la frase, ma in fondo non serviva specificare ancora una volta cos'era successo a Emily.

David rimase in silenzio per un bel po' di tempo, tanto che iniziai a pensare che si fosse addormentato mentre mi sentiva parlare, finché infine non aprì bocca. «Megan, non so se ti è chiaro che non stiamo giocando a Cluedo. Le congetture non servono a niente, servono delle prove!» esclamò.

«Lo so, ma per essere condannato, la giuria deve votare la sua colpevolezza all'unanimità, oltre ogni ragionevole dubbio. Non credi che questo potrebbe far insinuare un ragionevole dubbio nella mente di almeno uno dei giurati?»

«E pensi che questo sarà sufficiente, rispetto a tutto quello che ha la polizia su Dylan?»

«Be'... Non sappiamo quanto sappia Olivia di preciso. Se la convincessimo a testimoniare, allora magari...»

Non mi lasciò nemmeno il tempo per finire la frase: «Vuoi davvero coinvolgere Olivia Goldberg? Lei ti detesta, Megan, non accetterebbe mai, specie perché non cercherebbe mai di intralciare le indagini di suo padre!».

«George ha qualcosa su di lei, qualcosa che la potrebbe convincere a schierarsi dalla nostra parte. Può funzionare» insistetti. «Almeno pensaci» aggiunsi.

Sentii uno sbuffo dall'altra parte del telefono. «Senti, di' al tuo amico di farsi da parte. E tu vedi di fare lo stesso. Non metteremo in mezzo Olivia Goldberg, è chiaro?»

Non mi diede neanche l'occasione di replicare, dal momento che riattaccò subito dopo le sue ultime parole.

A quel punto mi lasciai cadere sul letto, sconsolata e frustrata. Perché non era in grado di ascoltare? Per lui ogni cosa era sempre un grande "no". Mi faceva infuriare, specie perché il più delle volte finiva per rettificare quanto affermato poco prima, come quando mi aveva ricoperta di rimproveri e neanche una settimana dopo aveva accettato di aiutare Dylan, nonostante quello che mi aveva detto all'inizio. Ed era probabile che sarebbe successo anche in quell'occasione.

Fu allora che realizzai che per tutto quel tempo mi ero sbagliata sul suo conto. L'avevo sempre reputato una persona riflessiva e razionale, e invece ecco che non avevo capito un bel niente. Era impulsivo, proprio come me. Il più delle volte faceva o diceva cose di cui poi si pentiva e che in seguito ritrattava, solo perché si era accorto di essersi lasciato sopraffare dalle emozioni e dall'istinto. Forse eravamo più simili di quello che pensassi.

Eppure era proprio con me che giocava a fare quello razionale, senza lasciarsi andare mai fino in fondo. Mi dava sui nervi.

•••

Poco dopo cena, proprio mentre stavo per cambiarmi per mettermi il pigiama, la porta della mia camera fu spalancata ed entrò mia madre. «Domani devo portare l'auto a fare la revisione, quindi lavorerò da casa. Vuoi che venga a prenderti a scuola?» chiese.

Annuii semplicemente, nella speranza che la sua incursione terminasse a breve. Al contrario, mia madre avanzò di qualche passo, fino a giungere al mio fianco.

Mi infilai i pantaloni del pigiama e, quando stavo per mettere la maglia, vidi mia madre corrucciare la fronte: «Hai un viso cadaverico».

«Grazie, mamma, come sei gentile» risposi sarcastica.

«Stai dormendo abbastanza in questi giorni? Hai delle occhiaie enormi. Megan, se c'è qualcosa che non va, sai che puoi sempre parlarmene, giusto?»

Alzai gli occhi al cielo. «Dai, mamma, lo sai che sono stressata per i compiti in classe di quest'ultima settimana.»

«Lo vedo. Non stai mangiando quasi nulla in questi giorni. Stai diventando troppo magra. Guarda, il reggiseno ti sta grande» mi fece notare, indicando il mio riflesso nello specchio.

In effetti in quegli ultimi giorni non avevo avuto molto appetito, ma con tutto quello che stava accadendo mi sembrava normale.

Comunque sia, invece che innervosirmi per quelle morbose attenzioni, ne fui in parte lieta. Pensare che mesi prima mi avrebbe fatto i complimenti... Le cose stavano davvero cambiando fra di noi.

«Te l'ho detto, è per la scuola» ripetei, prima di infilarmi la maglia e sedermi sul bordo del letto.

«No, lo so che non è solo questo» scosse la testa, sedendosi poi di fianco a me. «È per Dylan» aggiunse, e a quelle parole mi pietrificai, ma rimasi comunque in silenzio. «So che hai chiesto a Frederick di prenderlo come cliente, ma Megan... so che per te è stato importante, ma forse è arrivato il momento di aprire gli occhi. Non è mai semplice accettare che le persone che amiamo a volte sono le prime a ferirci perché non sono quelle che crediamo, ma...»

A quel punto la interruppi: «Mamma, no, la verità è che non dovrebbe trovarsi lì. È innocente» affermai, come se poi sarebbe servito a qualcosa dirlo a lei.

«Lo so, è quello che vorresti. Lo ami ancora, lo capisco, è stato il tuo primo ragazzo, ma non per questo non è vero che non abbia fatto quelle cose orribili. Quando si è innamorati è difficile vedere la realtà per quella che è. Però, tesoro, io non posso vederti così. Non posso vederti stare male per un assassino che sta soltanto avendo quello che si merita. Guarda, riesce a ferirti anche mentre è rinchiuso lì dentro. Devi andare avanti, Megan.»

Non sapevo se mi venisse più da ridere oppure da piangere per via delle sue parole. Non aveva azzeccato una sola cosa, se non forse l'ultima frase che aveva pronunciato. Nonostante ciò, non riuscivo ugualmente ad arrabbiarmi con lei come avrei fatto un tempo, perché sapevo che diceva tutte quelle cose perché teneva a me e non voleva vedermi star male. Non poteva immaginare tutto quello che c'era dietro, ma almeno, a differenza di un tempo, provava a fare dei tentativi, provava a capirmi. Così le lasciai credere di avere ragione. «Lo so, mamma, è ciò che cercherò di fare, te lo prometto» dissi, avvicinandomi a lei per abbracciarla e tagliare corto, facendole capire che era il momento che uscisse dalla mia stanza e mi lasciasse sola.

«Ti voglio bene, bambina mia.»

«Ti voglio bene anch'io, mamma» risposi.

•••

Non era stato facile convincere mia madre a farmi uscire di casa. Dopo sabato, sia lei sia mio padre erano stati tassativi sulla mia punizione. Ma dopo averla pregata per venti minuti buoni affinché mi lasciasse andare in biblioteca a studiare, dato che in casa non riuscivo a trovare la concentrazione adatta, alla fine aveva ceduto e mi aveva dato il permesso di uscire con la sua macchina.

Ciò che non sapeva era che non stavo andando in biblioteca, bensì a New Orleans, al carcere di Dylan. Non ero ancora andata a trovarlo dopo quello che era successo quel maledetto sabato. Volevo vederlo un'ultima volta prima del processo, sul quale, tra l'altro, non avevo più saputo nulla da David. Era possibile che si fosse davvero dimenticato di dirmi la data o c'era qualcosa sotto?

Forse sto solo diventando paranoica, pensai, in fondo in questi giorni David è carico di lavoro fra l'università e suo padre, può darsi quindi che gli sia sfuggito.

Anche se era comunque strano, considerato che si vantava di avere una memoria prodigiosa.

Una volta dopo aver superato i soliti controlli e aver fatto richiesta per vedere Dylan, tuttavia, ricevetti una risposta inaspettata. «Sono spiacente, signorina, ma oggi non sono consentite visite al signor Walker.»

Aggrottai le sopracciglia. «Come sarebbe, scusi? Perché non posso vederlo?» chiesi.

Scrollò le spalle. «Io eseguo solo gli ordini. Mi sono state date queste istruzioni, ma non ne conosco i motivi» spiegò.

Roteai gli occhi. «D'accordo, allora potrei parlare con un suo superiore che sia più informato?»

«Farebbe meglio a tornare a casa, sta perdendo il suo tempo» rispose secco.

Stavo per perdere la pazienza. Se fossi stata con l'avvocato Finnston o con David, forse sarei riuscita ad aggirare quelle istruzioni e mi avrebbero concesso di vedere Dylan. «Bene. Fino a quanto durerà questo divieto?» domandai. Finché non mi avesse dato una risposta concreta, sarei tornata lì ogni giorno a richiedere di vederlo.

«Le ripeto che non ne so nulla. Ora perché non va...»

«Almeno sa quando sarà in tribunale? So che ha un'udienza questa settimana» lo interruppi.

Rifletté per qualche secondo, prima di sbuffare spazientito e iniziare ad allontanarsi. «Aspetti un attimo qui» disse prima di sparire dentro una stanza. Attesi con il cuore in gola per un paio di minuti, prima di rivedere la guardia uscire con un portablocco in mano che fungeva da agenda organizzata in tabelle settimanali. «Allora... detenuto 4223501: 20 dicembre 2018, ore 10:00, palazzo di giustizia di St.Mary» lesse.

Mi fece piuttosto senso sentire Dylan chiamato attraverso un numero invece che con il suo nome. Era assurdo come i detenuti venissero depersonalizzati in quella maniera. Tentai di non farci caso e di fare invece mente locale per capire quando si sarebbe tenuta l'udienza di Dylan. «Un attimo, è domani?» chiesi sorpresa. «Grazie» aggiunsi, prima di avviarmi verso l'uscita.

Se solo non mi fossi presentata lì quel giorno, non avrei mai scoperto quando si sarebbe tenuta l'udienza e avrei rischiato di perdermela. Era impossibile che David non se lo ricordasse. In fondo l'avevo sentito al telefono il giorno prima, avrebbe dovuto venirgli in mente.

Iniziai quindi a sospettare che ci fosse qualcosa sotto, il che mi provocò una sensazione di inquietudine e, addirittura, le palpitazioni. Dicevano che il sesto senso non sbagliava mai, ma a cosa avrebbe mai potuto essere dovuta quella mia agitazione? Sperai con tutto il cuore di essere io inutilmente paranoica e che David non mi stesse nascondendo nulla, perché la cosa avrebbe significato solo che c'erano delle brutte notizie. E potevano quelle brutte notizie avere a che fare con il fatto che non mi avessero concesso di vedere Dylan?

Stavo per prendere il cellulare e scrivere a David per costringerlo a dirmi che cosa stesse succedendo, ma ci ripensai: se David non mi aveva detto la data dell'udienza, era perché non voleva che mi presentassi lì, quindi, per far sì che non riuscisse a impedirmelo, decisi di fare il suo gioco, continuando a fingere di non sapere nulla in merito.

Forse non gli era ancora chiaro che avevo più motivi di lui per essere lì il giorno seguente e che, quando ero determinata, nessuno, nemmeno lui, sarebbe stato in grado di farmi cambiare idea.

Mi trattava come un'ingenua, ma il vero ingenuo era stato lui a credere che dopo le sue parole avessi rinunciato ad andare a parlare con Tracey.

 

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Capitolo 12
*** 11. Pensavo che sarei morto ***


 

11. Pensavo che sarei morto

«Cosa dirai ai tuoi quando scopriranno che hai saltato la scuola?» chiese George, parcheggiando la sua auto davanti al palazzo di giustizia di St. Mary. Non mi era mancato affatto quell'edificio spoglio e anonimo.

«Tanto sono già in punizione, che vogliono fare, murarmi viva dentro la mia stanza?» risposi ironica, prima di aprire la portiera e scendere dall'auto.

«Adoro quando liberi il tuo animo da ribelle. Mi raccomando, però, tieniti lontana dall'alcol.» Fissai George di sottecchi, decidendo poi di ignorarlo e dirigermi verso l'ingresso principale.

«Vuoi che entri con te?» chiese.

Riflettei qualche istante, dubbiosa sulla risposta. Da una parte volevo che George venisse coinvolto il meno possibile, dall'altra mi avrebbe fatto piacere avere il suo supporto. Infine però decisi di entrare da sola. «No, ma grazie comunque. E grazie per il passaggio» replicai.

«Figurati. Se hai bisogno anche al ritorno, chiamami quando hai finito. Tanto devo incontrare un po' di clienti qui in zona.»

Alzai gli occhi al cielo. «Sai, forse non è il caso di dirlo davanti a un palazzo di giustizia, gremito di avvocati, procuratori distrettuali e giudici» gli feci notare, abbassando un po' la voce.

«Smettila di volermi così bene, Megan Sinclair» disse con un ghigno, e io roteai nuovamente gli occhi. «Ah, poi non mi hai più detto cosa vi siete dette te e Tracey l'altro giorno» aggiunse.

«Cavolo, si è già fatto tardissimo!» sviai il discorso, guardando l'ora sul cellulare.

Pensavo che George avrebbe comunque insistito, conoscendolo, invece si limitò a dirmi: «Dai, ci sentiamo dopo» e si allontanò.

Tentai di farmi coraggio e poi entrai dentro l'edificio. Subito mi sembrò di essere ritornata indietro di poco più di un mese, a quando ero io sotto processo. Riavvertii le stesse sensazioni di ansia, paranoia e terrore, amplificate dal battito crescente del mio cuore.

Mi avvicinai al bancone per le informazioni e chiesi in quale aula si sarebbe tenuta l'udienza di Dylan. Dopo aver ricevuto le indicazioni richieste, mi avviai a falcate verso l'aula in questione. Quando aprii la porta, con la mano che tremava come ogni altra volta in cui mi ero trovata in quel luogo, mi accorsi che l'udienza era già iniziata.

In quel momento l'avvocato Finnston era in piedi e stava parlando, ma nessuna delle sue parole giunse alle mie orecchie, occupata (e preoccupata) com'ero a guardare Dylan rinchiuso dentro una gabbia. Non indossava la solita tuta arancione, aveva una maglia e dei jeans semplicissimi. Eppure ne stava lì seduto, triste, sconsolato, e anche...

Mi cadde immediatamente il cellulare dalle mani, finendo a terra in meno di un secondo, ma non mi chinai a raccoglierlo. Infatti, nonostante avessi ormai ogni occhio puntato su di me per via del rumore da me causato, non riuscivo a muovermi perché ero pietrificata.

Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal viso di Dylan. Era pieno di... pieno di...

A un certo punto mi fu coperta la vista su Dylan, non appena David si posizionò davanti a me. Raccolse il mio cellulare da terra e, senza nemmeno darmi il tempo di protestare, mi afferrò per un braccio e mi portò fuori dalla stanza. Mi trascinò lungo il corridoio per una manciata di metri, finché non riuscii a liberarmi dalla sua presa con un violento strattone: «Che diavolo significa? Dimmi che non c'entri niente con questo!» esclamai, strappandogli poi il mio cellulare dalle mani.

«Megan...» iniziò a parlare, ma io lo fermai: «È per questo che non volevi dirmi in che giorno ci sarebbe stata l'udienza, eh? Per non farmi vedere in che condizioni è ridotto Dylan. Ed ecco anche perché mi avevano proibito di fargli visita ieri... Finora non l'avevano mai conciato in quel modo, dimmi che è successo, perché ho motivo di credere che tu lo sappia benissimo, David!».

Persino a quella decina di metri di distanza a cui mi trovavo quando ero entrata dentro l'aula, non mi erano passati inosservati i lividi blu e viola sul viso di Dylan, il labbro rotto, il taglio sulla fronte.

David rimase pacato, cosa che mi fece innervosire ancora di più. «Per essere sicuri che gli concedessero di uscire da lì, era necessario mostrare alla giuria dei segni evidenti di violenza derivanti da un abuso di potere. Era l'unico modo, Megan, e lui era...»

«L'unico modo? L'unico modo!» inveii, prima che decine di lacrime cominciassero a sgorgare dai miei occhi contro il mio volere. «L'hai messo in pericolo con questa tua idea del cazzo, te ne rendi conto? Gli è andata bene che sia ridotto così, non oso immaginare cos'altro sarebbe potuto accadergli se...» Mi fermai, non avendo le forze di dire ad alta voce cosa sarebbe potuto capitare a Dylan nel peggiore dei casi.

David alzò gli occhi al cielo, il che mi irritò ulteriormente. Non avrebbe dovuto essere lui quello infastidito. «Lui era d'accordo. Avrebbe potuto rifiutare, invece ha accettato di provocare le guardie affinché reagissero in questo modo, perché anche lui è consapevole che senza correre rischi non arriverebbe da nessuna parte» rispose semplicemente, scrollando le spalle.

Inorridii per via della superficialità con cui mi parlava. Chi avevo avuto di fianco per tutto quel tempo?

Abbassai lo sguardo, presi un respiro profondo e poi mi asciugai le lacrime. «Lo sai, David, per diventare avvocato, uno degli esami più importanti da sostenere è certamente quello di etica. Tu come pensi di passarlo?» chiesi, tornando a guardarlo. Mi avvicinai al suo viso per studiare la sua espressione, per vedere se avrebbe avuto il coraggio di sostenere il mio sguardo in quel momento. Poi ripresi a parlare. «Prima ti fingi un'altra persona per riuscire a estorcere a Olivia delle informazioni. Poi convinci un sedicenne, in uno stato mentale debole e facilmente condizionabile, a farsi malmenare affinché gli sia concesso di uscire di prigione. È questo il tipo di avvocato che vuoi diventare, oppure hai intenzione di smetterla di giocare con le vite delle persone?»

Inarcò un sopracciglio. «Giocare con le vite delle persone? Io cerco di aiutarle, le persone. Forse se la smettessi di vedere il mondo in bianco e nero, in questo momento mi ringrazieresti.»

«Ringraziarti? Fai davvero sul serio?»

«Sì, Megan. Se proprio vuoi saperlo, a me non frega un cazzo se il tuo ex è in prigione per errore, per me questa storia era già chiusa da un mese, quando mio padre aveva assolto il suo compito impedendoti di andare in prigione. Ciò che ho fatto finora, l'ho fatto soltanto per...»

«Per me?» lo interruppi prontamente, con una risata di scherno. «Non provare a giocare questa carta con me, ciò che hai fatto è ben diverso da quello che ti avevo chiesto. Io ti avevo chiesto di convincere tuo padre a prendere Dylan come cliente. Niente di più. Ma tu hai così tanta voglia di sentirti acclamato dal mondo intero che cerchi di compiere imprese da supereroe, senza renderti conto che sono solo delle inutili bravate!»

«Vuoi darmi te delle lezioni di vita? Sei solo una bambina!» esclamò.

E c'eravamo di nuovo.

Per dimostrargli il contrario, presi un respiro profondo per riacquistare la pacatezza e, senza aggiungere altro, gli diedi le spalle e mi diressi nuovamente dentro l'aula dell'udienza.
Andai a sedermi su una delle panche libere. Sentivo ancora le guance andarmi a fuoco per via della collera, ma pian piano riuscii a riprendere il controllo di me stessa e a concentrare ogni mia attenzione sul processo. Mi sforzai di non sollevare lo sguardo quando David rientrò in aula e si sedette qualche panca avanti alla mia. Di fianco a lui c'era una donna che, a giudicare dalla pelle chiara, gli occhi arrossati e il colore scuro di capelli, ipotizzai essere la madre di Dylan.

«... dunque, il primo documento, che contiene i dati personali relativi al mio cliente raccolti al momento della sua reclusione, forniscono, fra le altre, informazioni circa il suo peso: settantotto chili. Questo secondo documento, emesso due giorni fa, quando il mio cliente è stato visitato in infermeria in seguito all'aggressione subita, presenta invece una variazione di peso che, permettetemi di dirlo, è terrificante: sessantuno chili. Diciassette chili in ventotto giorni. Non è anche questa un'evidente prova del malessere provato dal mio cliente? Solo in questi ultimi due giorni non è riuscito a mangiare nulla senza che fosse appositamente frullato! Le contusioni che presenta gli rendono dolorosa perfino la masticazione. Vi chiederete cosa possa aver fatto per meritare un trattamento simile, ebbene, perché non lasciamo che sia egli stesso a illuminarci? Chiamo il mio cliente alla sbarra.»

A quel punto Dylan fu fatto uscire dalla gabbia e fu scortato fino al banco dei testimoni da una guardia. Come sempre, l'andatura era zoppicante e, nel momento in cui si sedette, emise la solita smorfia di dolore.

L'avvocato Finnston lasciò trascorrere qualche istante, durante i quali sistemò alcuni fogli sul tavolo, prima di riprendere la parola: «Signor Walker, se la sente di raccontare l'episodio accaduto due giorni fa?» domandò a Dylan.

A quel punto cercai il più possibile di evitare di ascoltare il racconto di Dylan. Vederlo lì, con la voce rotta, gli occhi lucidi e tutte quelle ferite sul volto, era già di per sé troppo doloroso. Non ce la facevo a sentire tutto ciò che aveva subìto, specie perché, man mano che si addentrava nei dettagli, la sua voce appariva sempre più rotta e il suo respiro più affannato. A tratti tremava.

A un certo punto smise di parlare, quindi tornai a guardarlo e vidi una lacrima solcare la sua guancia. Chiusi gli occhi, per evitare di scoppiare in lacrime a mia volta. Per quel giorno avevo già dato abbastanza.

«Va bene, basta così» disse a un certo punto l'avvocato Finnston. «La ringrazio per il suo coraggio, signor Walker. Un'ultima cosa: se non le dispiace, vorrei chiederle di sollevarsi la maglia per scoprirsi l'addome.»

A quel punto il giudice intervenne: «Avvocato, ci terrei a ricordarle che non siamo in uno stabilimento balneare» lo ammonì, ma l'avvocato Finnston insistette. «Signor giudice, non mi permetterei mai di fare una richiesta simile se non la ritenessi strettamente necessaria.»

Sebbene fosse ancora piuttosto scettico, il giudice acconsentì. Dylan attese un cenno da parte dell'avvocato, prima di alzarsi in piedi e sollevare verso l'alto la maglia che indossava, fino alle spalle. A quel punto sentii un sussulto provenire dalla figura femminile seduta di fianco a David. Si era portata le mani sul viso, per coprirsi bocca e occhi. David le sussurrò qualcosa, e la vidi annuire, prima di alzarsi insieme a lui e uscire dalla stanza. Il tutto accadde così velocemente che non ebbi il tempo di guardarla bene in faccia e capire se fosse realmente la madre di Dylan, anche se a giudicare dalla sua reazione, non sembrava poter essere altrimenti.

Non potevo immaginare cosa si provasse a vedere il proprio figlio maltrattato in quella maniera. Io stessa rimasi così impressionata al punto da avvertire più di un conato. Distolsi lo sguardo per non rischiare di rigettare seduta stante. Tanto ciò che avevo visto era ormai ben impresso nella mia mente.

Avevo visto Dylan senza maglia, e mi risultava impossibile credere che fosse davvero la stessa persona di qualche tempo prima. Le costole erano visibili senza che dovesse sforzarsi di tenere la pancia in dentro. Ogni volta che inspirava avevo quasi paura che si sarebbe spezzato in due. Aveva due enormi macchie viole su entrambi i costati, oltre che un taglio a dir poco profondo sul fondo dell'addome.

Poi l'avvocato Finnston fece cenno a Dylan di abbassare la maglia e di ritornare a sedersi. «Stando a quanto riportato qui, non tutte queste ferite sono recenti» riprese a parlare. «Alcune risalgono a qualche settimana fa, come quel taglio, che non è stato accuratamente medicato fino a due giorni fa. Il mio cliente ha corso il rischio di una grave infezione nel frattempo. Ma non ritengo sia compito mio testimoniare, perciò vorrei chiamare al banco dei testimoni il dottor Jonathan Lahey.»

Dylan venne allora ricondotto dalla guardia dentro la gabbia, e al posto suo si alzò un uomo sulla sessantina, con una targhetta sulla camicia che riportava, oltre al suo nome, il logo del JJIC.

«Dottor Lahey, è sua la firma su questo documento?» domandò, passandogli il resoconto sulle condizioni cliniche di Dylan.

Il dottore esitò qualche istante, poi si schiarì la gola e rispose: «Sì, è esatto».

«Quindi era lei che era di turno due giorni fa, quando il mio cliente è stato condotto d'urgenza in infermeria?»

Il medico annuì.

«Risponda con un sì o con un no» lo ammonì l'avvocato Finnston.

«Sì» disse il dottor Lahey.

«Ed era sempre lei di turno, il 4 dicembre 2018 alle ore 13:45, quando il mio cliente entrò nel suo ufficio perché lamentava dei dolori su tutto il corpo?»

Il dottore rifletté qualche secondo, prima di dare conferma. «Sì, ero io.»

«E cosa disse al mio cliente in quell'occasione?»

«Io... ehm... gli dissi che, ecco...»

L'avvocato Finnston lo interruppe: «Ok, non è un problema se non ricorda. Ho solo un'ultima domanda: svolse il suo lavoro visitando il mio cliente?»

Il dottore trascorse di nuovo diversi secondi in silenzio. «Signor Lahey, le ricordo che è sotto giuramento» lo incalzò l'avvocato Finnston.

«Avevo iniziato col fargli qualche domanda per capire di cosa potesse trattarsi, e lui mi rispose che era stato aggredito qualche sera dopo il suo arrivo. Gli dissi che i carcerati erano soliti prendersela con i nuovi arrivati, e che avrebbe dovuto parlarne con le guardie affinché intervenissero. A quel punto lui confessò che...»

Si bloccò.

L'avvocato Finnston diede un veloce sguardo nella direzione del pubblico, poiché proprio in quel momento erano rientrati David e la madre di Dylan. Non mi sfuggì il ghigno che si era formato quasi spontaneamente sul suo volto. Poteva significare solo una cosa: ormai era fatta.

«Sì?» incalzò nuovamente il dottore.

«Confessò che erano state delle guardie» disse, prima di asciugarsi la fronte con la mano.

«E lei a quel punto che cosa fece?» domandò l'avvocato a denti stretti.

«Io gli dissi che... che non poteva essere vera una cosa del genere.»

«Le ho chiesto che cosa fece, non cosa disse» lo rimbeccò l'avvocato, con tono durissimo.

Il dottore si passò nuovamente una mano sulla fronte e anche sotto gli occhi. Grondava ovunque di sudore. «Gli diedi un analgesico e gli intimai di tornare in cella» dichiarò, lasciandomi a bocca aperta. «Mi dispiace, non potevo immaginare che...»

«Basta così. Non ho altre domande» lo interruppe l'avvocato, rispedendolo a posto.

Si prese poi qualche minuto di riflessione, prima di riprendere la parola, rivolgendosi al giudice. «Vorrei concludere, se rimane ancora del tempo, con una lettura di una parte della nostra Dichiarazione D'Indipendenza, un documento ormai datato, ma che rappresenta ancora oggi la nostra legge fondamentale.» Attese l'assenso del giudice e, quando l'ottenne, cominciò a leggere. «"Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità." 
«Parole stupende, ben studiate, inserite al posto giusto. A volte, superficialmente, si pensa che i valori fondamentali su cui è stato fondato il nostro Paese siano stati la libertà e l'uguaglianza. Ebbene, da una lettura più approfondita, si desume invece che essi da soli non sono sufficienti. Essi fanno parte di una branca ancora più ampia: i diritti umani. Il diritto alla vita, il diritto a un'esistenza dignitosa. E come si fa a far sì che a tutti gli uomini vengano riconosciuti questi diritti? C'è bisogno di un ente superiore, con un'autorità che nessuno possa contrastare se non la legge stessa: lo Stato. Quest'ultimo ha degli ampi poteri, i quali gli sono conferiti dal popolo e che per tale motivo devono essere esercitati dagli organi da cui è costituito con il solo scopo di curare gli interessi della collettività, gli interessi degli uomini, al fine da garantir loro la sicurezza e il conseguimento della pubblica felicità. Qualsiasi altro esercizio del potere che non sia volto a perseguire fini di interesse generale, è da punire, perché viola i diritti inalienabili dell'uomo. 
«Io ritengo che, a prescindere dal capo di accusa, chiunque debba essere trattato da essere umano. Dal momento che questo aspetto è stato dimenticato nella fattispecie del mio cliente, che le prove a suo carico fino a questo momento riscontrate paiono insufficienti e ancora fondamentalmente indiziarie, nonché in assenza di precedenti che facciano di lui un pregiudicato, esigo che, nell'attesa del suo giudizio finale, venga rilasciato, in modo tale che nessuno possa mai più esercitare un abuso di potere su di lui, nonché in maniera tale per cui non gli sia mai più negato il diritto ad avere un giusto soccorso. Richiedo inoltre che la cauzione, fissata attualmente, secondo la sezione 192 capo B del codice penale della Louisiana, per un importo di venticinquemila dollari, venga ridotta della metà, per un importo di dodicimilacinquecento dollari, ovvero di almeno un terzo.»

L'avvocato Finnston si risedette e calò allora un lungo silenzio.

Era arrivato il momento della risposta del giudice, che per fortuna non tardò molto ad arrivare. Eppure, mentre me ne stavo in attesa con il fiato sospeso, sembrava che i minuti si stessero triplicando.

«L'istanza è accolta» disse tutto a un tratto. «Con effetto immediato, ordino che l'imputato Dylan Valentine Walker venga rilasciato dal Juvenile Justice Intervention Center di New Orleans. In attesa che il processo a suo carico prosegua, riduco la cauzione a due terzi dell'importo originario e rinvio l'udienza all'11 di gennaio dell'anno 2019» aggiunse, prima di battere il martelletto per segnare la conclusione di quell'udienza.

Non riuscivo a crederci. Era davvero finita. Dylan sarebbe uscito da quel posto ignobile. Mi alzai in piedi con le gambe che ancora tremavano per via dell'emozione.

Prima di catapultarmi da Dylan, c'era ancora un'ultima cosa che dovevo fare. Iniziai ad avvicinarmi all'avvocato Finnston, che in quel momento era occupato a parlare con sua madre, la quale non la smetteva di ringraziarlo. «Le devo la vita, perché lei l'ha salvata a mio figlio. Senza di lei, chissà cosa sarebbe potuto accadergli... non oso nemmeno pensarci!» esclamò, fra le lacrime.

«Ho fatto soltanto il mio dovere. Non si preoccupi per la cauzione, provvederò io stesso a pagarne la metà.»

«No, non posso accettare un simile gesto! Ha già fatto fin troppo. Non si preoccupi, sentirò mio marito e ce la caveremo.»

Il signor Finnston scosse la testa. «È una cosa a cui tengo» insistette. «Inoltre, ora che ho avuto la conferma del trattamento che riservano ai detenuti in quel carcere, non ho alcuna intenzione di fermarmi: intenterò una class action, affinché le cose cambino. Quel medico è chiaramente corrotto, e come lui potrebbero essercene molti. Qualcuno deve intervenire.»

«Al mondo dovrebbero esserci milioni di persone come lei. Grazie, sinceramente, grazie!»

Dopo quelle parole, la signora Walker si voltò e fece per allontanarsi, ma si bloccò non appena incrociò il mio sguardo. Dylan non aveva mai avuto l'occasione di presentarmi a sua madre, ma da come mi guardò, mi fu subito chiaro che mi aveva riconosciuta. Probabilmente aveva seguito la mia vicenda sui giornali. E forse mi reputava responsabile dell'inferno che stava passando suo figlio, dal momento che le accuse a suo carico erano iniziate dopo che erano cadute quelle su di me.

Dopo essermi ripresa dal suo sguardo inceneritore, avanzai qualche passo verso l'avvocato Finnston. «Complimenti. Ha svolto un ottimo lavoro, come sempre» dissi.

«Non ho ancora fatto niente, Megan, il processo è ancora lungo, e...»

«Spero che si faccia schifo» lo interruppi, ricevendo un'occhiata stralunata da parte sua. «È inutile che mi guarda in quel modo, vuole davvero farmi credere che non sapeva niente del piano di suo figlio? Come diavolo ha potuto acconsentire a qualcosa di così ignobile? Capisco lui, è ancora giovane, ha poca esperienza, ma lei è un uomo adulto, dannazione!» esclamai, montando su tutte le furie.

L'avvocato Finnston incrociò le braccia al petto. «Proprio perché sono un uomo adulto, Megan, forse mi merito un po' di rispetto in più, che dici?»

Inarcai le sopracciglia. «Rispetto? Ce l'ha avuto per Dylan quando lei e suo figlio l'avete manipolato affinché decidesse di farsi conciare in quel modo? Illuminante il discorso sui diritti umani, davvero. Lei per primo ha trattato il suo cliente come una bestia invece che come una persona!»

«Non sono io a trattarlo da bestia, io gli sto dando la possibilità di uscire da un incubo e riprendere in mano la sua vita. E lui, come sua madre e chiunque altro a parte te, mi è riconoscente per questo.»

Che sfrontatezza. Non mi stupiva affatto che David la pensasse allo stesso modo: era pur sempre stato cresciuto da lui, e ne era diventato la copia.

Comunque ciò che dovevo dirgli l'avevo detto, non aveva senso andare avanti a insistere. Non avrebbe cambiato idea, come non l'avrei fatto io. 
Una cosa però era certa: non avrei mai mostrato riconoscenza verso una persona che lucrava sulle disgrazie delle altre persone.

«Le auguro una buona giornata» dissi per congedarmi.

«Buona giornata, Megan» ripeté.

Gli voltai le spalle e iniziai a dirigermi verso Dylan con un sorriso a trentadue denti. «Dyl, hai un attimo?» chiesi, per richiamare la sua attenzione.

Annuì e si distanziò da sua madre. Ci sedemmo su una delle panche. Avrei voluto gettargli le braccia al collo e abbracciarlo, ma mi trattenni, ipotizzando che gli avrei causato più dolore di quello che già stava provando. «Sono così contenta» gli dissi, sciogliendomi subito dopo nei suoi occhi azzurri. La sofferenza che emanavano era disumana, troppa per un sedicenne.

Rimase qualche istante in silenzio, prima di cercare la mia mano con la sua. Considerando la situazione, non me la sentii di ritrarla. Lasciai che la afferrasse e la stringesse.

Dal momento che non aveva ancora detto nulla e io non sopportavo più quel silenzio, cominciai io a parlare. «Non avresti dovuto accettare, non avresti dovuto lasciare che...» Mi bloccai, poiché stavo per scoppiare di nuovo a piangere.

«Tu mi hai detto di fare il possibile per uscire da lì» disse semplicemente.

«Intendevo che dovevi collaborare con l'avvocato Finnston, non intendevo che dovevi spingerti così in là. Avrebbero potuto ucciderti.»

«Prima che venissi tu a trovarmi la prima volta, avrei voluto che lo facessero. Non me ne importava niente di continuare a vivere, se si trattava di vivere in quel modo» spiegò con voce rotta, appoggiandomi una mano sulla guancia e facendomi una carezza. «Ho mentito quel giorno, quando ho detto che sei stata la prima ragazza che abbia mai amato. Perché la verità è che ti amo ancora, Megan. L'unico motivo per cui ho lottato sei tu, mi importava di uscire di prigione solo per te.»

Deglutii per evitare di piangere. Non volevo farlo davanti a lui. Non nel momento in cui stavo per spezzargli il cuore ancora una volta.

Si avvicinò al mio viso. Stavo per distanziarmi, ma proprio in quel momento parlò di nuovo: «Lo so che non è lo stesso per te. Non lo è mai stato. Ma non importa. L'amore si prova a prescindere da quelli che sono i sentimenti dell'altra persona nei nostri confronti, ed è questa la cosa bella. Sai, paradossalmente, quello che provo per te mi è servito più adesso che quando stavamo insieme. Prima volevo sforzarmi di diventare una persona migliore e volevo farlo per te. E guarda dove siamo finiti. Soltanto adesso, in questi ventotto giorni, specie negli ultimi grazie a te, ho capito che per riuscirci davvero, devo cercare di farlo per me stesso. 
E devi stare tranquilla, non sentirti in colpa: non ho deciso di accettare il tuo aiuto perché pensavo che una volta uscito saremmo tornati insieme, non ci ho creduto per un solo istante, l'ho fatto perché non sono stato in grado di dire no alla richiesta della persona che amo, la persona che, nonostante tutto, ha dimostrato di tenere a me più di chiunque altro nella mia vita, anche più dei miei genitori».

Non fui più in grado di controllarmi. Abbassai la testa e le lacrime caddero a fiotti, e lo odiavo, perché non ero io quella che stava soffrendo davvero, ma non potevo farci niente.

A un certo punto sentii le labbra di Dylan posarsi sulla mia fronte. Fu un tocco dolce, delicato, tanto che non mi importò minimamente del fatto che le sue labbra fossero un poco ruvide e screpolate. «Grazie» bisbigliò, prima di alzarsi in piedi e lasciarmi da sola nell'aula.

Se n'erano andati tutti. Ero rimasta solo io.

Attesi qualche minuto e, una volta che mi fui ripresa, mandai un messaggio a George, chiedendogli se fosse un problema venire a recuperarmi.

"No problem. Un quarto d'ora e sono lì" rispose neanche mezzo minuto dopo.

Allora mi alzai in piedi e iniziai a uscire dal palazzo di giustizia di St. Mary. Avevo bisogno di prendere un po' d'aria.

Subito dopo aver varcato la soglia di quell'orrendo edificio, mi accorsi di Dylan e David che stavano parlando seduti su uno dei gradoni, nascosti da una delle colonne dell'ingresso del palazzo di giustizia.

La parte più razionale di me mi ripeteva che per quel giorno ne avevo avuto abbastanza di entrambi e che avrei fatto bene ad allontanarmi da loro. Ma quando mai ero stata razionale nella mia vita?

Mossi qualche passo verso di loro, il giusto che serviva per riuscire ad ascoltare. Era David che parlava.

«Kylie per me era tutto. La amavo così tanto che mi ripetevo, già prima della fine del liceo, che entro massimo cinque anni l'avrei sposata. Lo dicevo a tutti. Una volta iniziato il college, mi promisi che avrei aspettato di laurearmi per chiederglielo, ma poi un giorno - il quarto anno era iniziato da poco meno di un mese - passai per una gioielleria. Vidi un anello in vetrina e non riuscii a fare a meno di immaginarlo al suo dito. Nove mesi passeranno in fretta, mi dissi, poi glielo potrai chiedere. Ma poi fu più forte di me. 
«Quella sera uscimmo a cena, non feci che metterle fretta affinché finisse di mangiare. Non stavo più nella pelle. Avevo chiesto a Trevor, il mio compagno di stanza, di lasciarci soli quella notte. E poi, neanche tre ore dopo averlo pregato di alzare il culo e uscire con gli altri, lo richiamai pregandolo di tornare subito nello studentato.»

David fece una pausa. A quella distanza non potevo affermarlo con certezza, ma sembrava avesse gli occhi lucidi. Stava parlando della sua ex ragazza, il suo primo e unico amore. Ma perché lo stava raccontando a Dylan?

«Le sembrava affrettato. Avevamo appena ventun anni, eravamo solo dei ragazzi... E soprattutto non se la sentiva di diventare la moglie di uno come me: uno che aveva iniziato il college giusto per non perdere i propri amici, senza esserne realmente interessato, uno che non aveva nessuno scopo nella vita, un fallito che non avrebbe mai combinato nulla. Anche mio padre non faceva che ripetermelo. Kylie invece era sempre stata determinata e ambiziosa. Fin da quando l'avevo conosciuta, mi ripeteva solo una cosa: sarebbe diventata un chirurgo di fama mondiale. Ma con uno scapestrato, inutile, demotivato come me affianco, non avrebbe di certo raggiunto il suo obiettivo. Puntare in alto con uno che stava così in basso non l'avrebbe aiutata.
«Mi disse che, senza avermene parlato prima, aveva già fatto domanda per la scuola medica della Columbia e che, se l'avessero presa, dopo la laurea sarebbe partita, cosa che accadde. Ma la nostra storia finì quella sera stessa. Non ebbi mai il coraggio di buttare l'anello. Per mesi continuai a sperare che lei tornasse indietro da me. Non riuscivo a farmene una ragione. Pensavo che sarei morto, anzi, sentivo già di esserlo. Ero come un corpo senz'anima. Non me ne fregava più un cazzo di niente e di nessuno, men che meno di me stesso. Non sentivo nulla se non il dolore per la sua mancanza. E poi ecco che, inaspettatamente, iniziò a fare sempre un po' meno male. E significava solo una cosa: mi stava passando. Non volevo che succedesse, ma pian piano l'amore che provavo per lei stava svanendo contro il mio volere. Già da anni affermavo di sentirmi pronto a giurare davanti a Dio che l'avrei amata finché sarei stato in vita, e invece... e invece stava finendo tutto così in fretta. Non volevo crederci, avrei preferito continuare a soffrire per sempre invece che iniziare a ritrovare la mia serenità, ma così come l'amore, anche il disinnamoramento è una cosa che sfugge al controllo umano. 
Quei nostri sette anni insieme stavano per essere spazzati via e non avevo idea di dove sarebbe finito tutto l'amore che prima era dentro di me.
Ci misi un po', ma poi per fortuna capii che fine aveva fatto: non se n'era mai andato da dentro di me, si era trasformato in amore verso me stesso, quello che nel corso di sette anni avevo perso per donarlo alla persona sbagliata.»

Fu straziante ascoltare quel racconto. Non avrei mai immaginato che David avesse sofferto così tanto dopo la fine della sua grande storia. Sebbene fossi ancora infuriata con lui, non potei fare a meno di provare compassione nei suoi confronti.

«Wow, io... ehm, mi dispiace per quello che è... be', ecco, lo sai» disse Dylan, prima di grattarsi la testa con fare imbarazzato.

David abbozzò allora un sorriso: «Non ti ho raccontato l'Odissea per essere compatito, l'ho fatto per darti un consiglio su come affrontare questa situazione: indirizzalo verso te stesso. L'unica persona che resterà per sempre nella tua vita sei tu, quindi perché non cercare di renderla una convivenza un po' più facile, amandoti di più?».

«Non so se ci riuscirò, però grazie» rispose Dylan, prima di alzarsi in piedi. A quel punto feci per voltarmi il più in fretta possibile per andarmene senza che mi vedessero, ma non fui abbastanza veloce: «Megan?» dissero all'unisono.

Mi sembrava un incubo. Feci finta di non aver sentito e iniziai a scendere i gradoni per dirigermi verso la strada, ma nel momento in cui scesi l'ultimo, qualcuno mi afferrò per il polso e dovetti fermarmi. «Maggie, aspetta.»

«Non chiamarmi così, anzi, non chiamarmi proprio» replicai acida.

«D'accordo, lo capisco, ce l'hai ancora per prima, ma...»

«No, David, è evidente che tu non capisca» lo interruppi. «È per questo che mi avevi chiesto di aspettare fino a oggi prima di parlare, non è così? Già allora avevi intenzione di portare avanti questa tua idea, e sapevi benissimo che avrei reagito in questo modo. Ecco perché mi hai chiesto di aspettare, perché non sapevi se dopo quello che è successo oggi, avrei ancora voluto iniziare qualcosa con te.»

David rimase zitto, confermando le mie supposizioni. Ma a me non bastava: volevo che me lo confermasse lui. «Non è così, David?» ripetei.

«Vuoi davvero buttare tutto solo per questo? Mi spieghi cosa c'entra con quello che c'è fra noi?» chiese.

«Fra di noi non c'è niente!» esclamai. «E non ci sarà mai niente. Non cercarmi più» aggiunsi, sentendo una fitta al cuore mentre pronunciavo quelle parole.

«Perché?» domandò, e quella era una delle rare volte in cui i suoi occhi erano espressivi, cosa che mi rendeva impossibile sostenere il suo sguardo.

«Perché è giusto così» farfugliai, tenendo lo sguardo basso. David afferrò il mio viso fra le sue mani, avvicinandolo al suo. «Non ho sentito bene» sussurrò.

«Smettila, hai sentito benissimo...» dissi, prima di deglutire per mandare giù il rospo che avevo in gola.

Tentò di avvicinarsi ancora di più al mio viso per baciarmi ma, facendo ripiego su tutte le mie forze, riuscii a ritrarmi.

«Va bene, come vuoi. Spero che sia la tua decisione definitiva, perché lo è per me.» Senza darmi il tempo di replicare, si allontanò da me e se ne andò.

 

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Capitolo 13
*** 12. Cancelliamo tutto ***


 

12. Cancelliamo tutto

«Grazie per aver accettato di parlare» dissi, aprendo la porta di casa a Tracey e lasciandola entrare.

«La verità è che quando mi hai scritto, ecco... non me l'aspettavo proprio.»

Si guardò intorno, quasi a voler controllare che, in quei mesi che eravamo state distanti, in cui era cambiato tutto, fosse rimasto tutto uguale almeno lì dentro. Mi feci seguire fino in salotto e le feci cenno di accomodarsi sul divano. 
Riflettei qualche secondo in silenzio, alla ricerca delle parole giuste, prima di capire che l'unica cosa che avrebbe funzionato sarebbe stata quella di parlare a cuore aperto. «Che cosa stiamo facendo, Trace?» chiesi, senza attendere una risposta: «Questa storia avrebbe dovuto unirci in un momento difficile in cui eravamo rimaste solo in due, non allontanarci ancora di più».

«Megan, io...» Non le lasciai finire la frase: «Quella notte è successa una cosa che non ci saremmo mai aspettate, da quel momento in poi non abbiamo smesso per un solo minuto di avere paura e ogni persona reagisce in modo diverso alla paura. Ma so che non avresti mai voluto ferirmi».

Smisi di parlare nel momento in cui mi accorsi dei singhiozzi che provenivano dalla mia sinistra.

Avevo visto piangere Tracey davvero pochissime volte, e ogni volta mi si spezzava il cuore. Anche in quella situazione, nonostante tutto ciò che mi aveva fatto, non potei evitare che sentirmi male nel vederla in quel modo. Era sempre stata lei la mia roccia, e vederla franare in quel modo... non era bello.

«Basta, ti prego, basta» disse fra un singhiozzo e l'altro. «Megan, io non... dopo quello che ho fatto, non merito questo. Devi smetterla di essere buona con le persone che ti feriscono» aggiunse, prima di riprendere a piangere a dirotto.

«So che non volevi farlo, Trace, ti conosco» affermai con decisione, prima di alzarmi in piedi e andare a prendere una scatola di fazzoletti da porgerle.

«E se invece avessi voluto?» domandò, prima di prendere la confezione che le stavo porgendo.

Aggrottai la fronte. «Che cosa intendi?» chiesi, cercando di nascondere la speranza che nutrivo che avrebbe finalmente confessato tutto.

«L'essere umano, seppur dopo migliaia e migliaia di anni, ha conservato in sé un istinto primordiale di sopravvivenza» rispose. «Tu non hai mai pensato almeno una volta, durante i momenti più bui, di voler salvare solo te stessa?»

«È per... è per questo che l'hai fatto?» domandai, prima di sentirmi mancare l'aria. «No, Tracey, non ho mai pensato di farlo!» esclamai, impedendo tuttavia la fuoriuscita delle lacrime che si erano addensate nei miei occhi fino a quel momento. «Ti ho sempre protetta, fino all'ultimo. Il mio avvocato sapeva ogni cosa, sapeva che anche tu eri coinvolta. Avrebbe potuto usare ciò che sapeva contro di te, ma gliel'ho sempre impedito, sempre!»

«E te ne sarò per sempre grata. Anche perché in caso contrario, non avrei potuto permettermi di pagare l'avvocato più in gamba della città, lo sai... Io non ne sarei uscita come te, sarei finita come Dylan, pur essendo innocente. Comunque non voglio cercare scuse né farti pena, voglio solo dirti perché ho fatto quello che ho fatto, perché ti meriti delle spiegazioni, ma non mi aspetto che tu lo capisca.» Fece una breve pausa. «So di aver sbagliato, e so di non meritare il tuo perdono, Meg. Mi pentirò per sempre di non aver creduto che restare unite sarebbe stata l'unica cosa che avrebbe salvato entrambe. La paura, il dolore e il trauma subìto mi hanno trasformata in una versione di me che ho odiato profondamente. Ho sempre ritenuto di saper distinguere con facilità il bene dal male, saper scegliere la cosa giusta, ma invece mi sbagliavo.»

Dopo aver finito di parlare, si asciugò le lacrime prendendo un fazzoletto dalla scatola che le avevo passato e successivamente ne prese un altro per soffiarsi il naso.

Rimanemmo in silenzio per diversi minuti.

Non volevo credere che fosse finita lì. Tracey mi aveva detto davvero la verità oppure mi aveva mentito un'altra volta? Le sue lacrime erano reali, il dispiacere anche... Ma se le sue motivazioni fossero state diverse da quelle che mi aveva dato?

I casi erano due: o era un'abilissima bugiarda, oppure non sapeva nulla di Herman. Sempre che poi la mia teoria fosse fondata... Avrebbe potuto avere ragione David. In fondo mi ero già sbagliata una volta.

Per mettere a tacere una volta per tutte le voci dentro la mia testa e scoprire la verità riguardo quanto era successo quella notte, c'era solo una cosa che potevo fare, ed era continuare a parlare con Tracey.

Mi strofinai gli occhi con le mani e mi voltai verso di lei. «Trace, ormai è finita. Dylan è in prigione, noi siamo libere. Lasciamoci tutto alle spalle e ricominciamo da capo. Cancelliamo tutto e ritorniamo a essere quelle di un tempo» proposi, sperando con tutto il cuore che cedesse.

«Dici sul serio?» domandò, fissandomi con i suoi grandi occhi castani spalancati.

Annuii e la abbracciai forte.

•••

Forse non avrei dovuto sottovalutare l'ira dei miei genitori. Non era mai successo che mi mettessero in punizione per così tanto tempo e che infrangessi tale castigo, quindi non potevo sapere che avrebbero reagito così male.

«Ti avevamo avvertito, Megan! Perché devi fare così? Che ti succede?» domandò mio padre, subito dopo avermi ritirato il cellulare.

Rimasi in silenzio, senza sapere cosa dirgli. La verità era l'ultima cosa che avrei raccontato a loro, e non avevo preparato nessuna scusa, perché non pensavo che la scuola li avrebbe subito chiamati per avvertirli che avevo bigiato.

«Va bene, se con noi non parli, allora forse dovresti riprendere le sedute con la dottoressa Blackburn» intervenne mia madre. «Lo diciamo per te. Siamo preoccupati, non sappiamo cosa ti stia succedendo e abbiamo paura che tu... che tu perda di nuovo il controllo.»

Roteai gli occhi. «Non succederà, ve lo posso assicurare. Ma se sapere che tornerò dalla dottoressa Blackburn vi fa sentire più tranquilli, allora lo farò» dissi, giusto per essere sicura che si chiudesse quel discorso e mi lasciassero andare in camera mia.

Mi avvicinai persino a loro per abbracciarli: «Vi voglio bene».

In fondo tornare dalla dottoressa Blackburn non sarebbe stato male. A maggior ragione perché avrei potuto usarla come scusa per uscire di casa a loro insaputa.

•••

Finalmente anche quell'ultima giornata di scuola era giunta al termine. Sperai vivamente che, l'unica cosa per cui avrei dovuto preoccuparmi durante quelle due settimane di vacanze, sarebbe stato decidere come godermele al meglio.

Avevo parlato con Tracey, Dylan era uscito di prigione e il processo era stato rinviato a gennaio, forse avrei davvero avuto due settimane di tregua.

«Ottimo, allora domani sera possiamo festeggiare. Potrei riuscire a imboscarmi a una festa di universitari, devi esserci per forza!» esclamò George una volta usciti da scuola.

«George, lo sai che dopo settimana scorsa i miei non mi lasciano più uscire» risposi, facendo sfumare i suoi sogni in men che non si dica.

«Che palle» sbuffò alzando gli occhi al cielo.

Poi la nostra attenzione - specialmente la mia - venne attirata dalla persona che meno ci saremmo aspettati di vedere davanti alla nostra scuola.

Ci volle meno di un secondo affinché montassi su tutte le furie. Ignorando il consiglio di George di fare finta di nulla, mi precipitai nella sua direzione. «Che cosa ci fai qui? Mi sembrava di essere stata sufficientemente chiara ieri, David, non voglio più vederti!» esclamai.

Mi fissò con le sopracciglia inarcate e poi mi rivolse uno dei suoi fastidiosissimi ghigni: «Rilassati, sei ben lontana dall'essere il centro del mio mondo» rispose rivolgendomi uno sguardo gelido.

Aprii la bocca per ribattere, ma proprio in quel momento qualcuno avvolse le braccia attorno alle spalle di entrambi. «Allora, che si dice, ragazzi?» domandò George, che si era messo in mezzo a noi due.

David si staccò prontamente dal trio che si era formato: «Dovreste andarvene subito».

Seguendo il suo sguardo, notai che era posato su qualcosa alle mie spalle. Mi voltai, e l'unica persona che avrebbe potuto attirare la sua attenzione in quel momento era Olivia Goldberg, appostata a una dozzina di metri da noi, intenta ad accendersi una sigaretta.

Non avrei dovuto essere sorpresa, dal momento che avevo già tenuto in conto che David avrebbe cambiato idea, eppure dopo ciò che era successo fra di noi il giorno prima, non pensavo mi avrebbe più dato ascolto.

Olivia si accorse di David e allora iniziò a muovere dei passi verso di noi. Mi scansò con un colpo di spalla e poi puntò il dito contro David: «Hai un bel coraggio a farti vedere qui, David Finnston. O forse dovrei dire Dominic Foster?».

George mi rivolse uno sguardo confuso, a cui risposi con una semplice scrollata di spalle.

David mantenne la calma. «Olivia, io...» La ragazza dai capelli neri non gli diede il tempo di terminare la frase, poiché tirò a David un sonoro schiaffo sulla guancia. «E ringrazia che non l'abbia fatto con l'altra mano» disse, prima di tirar fuori una boccata di fumo.

Per un secondo, nel vedere l'espressione soddisfatta e compiaciuta sul volto di Olivia, provai quasi invidia nei suoi confronti: avrei voluto farlo io.

«Ti conviene sparire dalla mia vista, se non vuoi che ti denunci a mio padre per ciò che hai fatto e ti faccia sbattere in carcere» aggiunse poi, illudendosi di suonare minacciosa agli occhi di David. La verità è che lui non aveva fatto una piega.

George si avvicinò al mio orecchio e sussurrò: «Cos'è che ha fatto?». Dal momento che non ottenne una risposta da parte mia e George era uno senza peli sulla lingua, non si fece molti problemi a esporre le sue teorie ad alta voce: «Be', che è successo di così tanto grave? Avete scopato?» domandò, ricevendo un'occhiataccia da tutti e tre i presenti. Io e David ci scambiammo una rapidissima occhiata, ma distogliemmo immediatamente lo sguardo.

«Vedo che rimani sempre un disperato» commentò Olivia guardando George con spregio.

«Olivia, mi dispiace per quello che ho fatto. Non avrei dovuto fingermi un'altra persona per indurti a parlarmi delle indagini di tuo padre» disse David. Parlò con un tono così macchinoso che parvero davvero come le scuse meno sentite della storia, come se se le fosse imparate a memoria per essere sicuro di riuscire a ripeterle davanti a lei. La verità era che non gli dispiaceva affatto, non gliene fregava niente di Olivia, né di nessun altro all'infuori di se stesso.

«Avresti dovuto pensarci prima» rispose l'altra, incrociando le braccia al petto.

«Perché non lo fai allora? Perché non lo dici a tuo padre?» domandò David.

Il tono con cui lo disse suonò molto come una provocazione, ma a dirla tutta, non mi sembrava proprio che David fosse nella posizione di provocare Olivia, visto che era lei ad avere il coltello dalla parte dell'amico.

Se l'avesse fatto, David avrebbe davvero passato dei brutti guai. Assumere l'identità di un'altra persona era un reato grave. Ecco quindi perché mi aveva detto di non voler coinvolgere Olivia, perché temeva il peggio per se stesso. Ma allora perché aveva deciso di farlo ugualmente?

«Chi mi crederebbe? Non ho nessuna prova. Non ci siamo neanche mai scambiati il numero di telefono.»

David allora emise un ghigno soddisfatto. «Esattamente. Bene, ho bisogno del tuo aiuto» disse senza troppi giri di parole, ricevendo ovviamente un rifiuto da parte di Olivia: «Scordatelo, terrò la bocca chiusa, ma tu devi starmi alla larga!» esclamò.

A quel punto George si intromise, senza che nessuno gliel'avesse espressamente chiesto: «Non farci caso, vuole solo che tu insista e le faccia credere che la sua esistenza è la tua unica ragione di vita. Solo a quel punto cederà». Ancora una volta, io, David e Olivia squadrammo George per via delle sue parole, ma lui non ci fece caso, convinto com'era di ciò che aveva appena affermato.

Poi Olivia roteò gli occhi. «D'accordo, mi avete stancato, tutti voi. Ora sparite dalla mia vista e lasciatemi andare» disse con il solito tono acido e fece per allontanarsi, ma a quel punto George la afferrò per il braccio per trattenerla. «Grandioso, mi era mancato dover ricorrere ai ricatti per convincerti. Ebbene, l'hai voluto tu: so che tu e Herman Waldorf avete scopato la sera in cui è morta Emily, così come lo sapeva lei.»

Olivia si pietrificò. Deglutì e poi si voltò verso George, rivolgendogli uno sguardo truce: «Tu non sai assolutamente niente, è chiaro?».

«Credevi che non l'avrei scoperto, eh? Mi sottovaluti, Liv» disse George con fare strafottente, portandosi una mano sul cuore, prima di rubarle la sigaretta dalle mani e fare un tiro. «È per lui che mi hai lasciato, non è così?» chiese poi tornando serio, lasciando uscire fuori il fumo dalle narici.

«Lasciato? Non siamo mai stati insieme, e se stai facendo tutta questa messinscena solo perché speri che possa tornare da te, ti consiglio di tornare alla realtà, perché non accadrà mai!» esclamò Olivia, riprendendosi poi la sigaretta.

Allora non è stronza solo con me, pensai.

Mi voltai istintivamente verso David, il quale aveva un'espressione scocciata e impaziente. I drammi adolescenziali non sembravano appassionarlo.

«Bene, che sollievo. Per una volta siamo...»

«È vero quello che dice?» intervenne David, parlando sopra George.

Olivia esitò per qualche secondo, prima di scuotere la testa con poca convinzione.

«Tuo padre lo sa?» chiese David, ignorando la sua risposta e dando per scontato che avesse risposto in maniera affermativa.

«Perché mai avrei dovuto dirglielo?»

David sollevò le sopracciglia, incredulo. «Vuoi davvero che te lo spieghi? Va bene, allora, mettiamola così: Emily Walsh scopre che il ragazzo della sua migliore amica ha una storia con un'altra ragazza, e quella stessa sera Emily Walsh viene uccisa. E tu glielo tieni nascosto. È un po' sospetto, non ti pare?»

Avvertii un brivido lungo la schiena per via della schiettezza delle sue parole, e probabilmente accadde lo stesso a Olivia, il cui viso era diventato ancora più pallido del solito.

«Q-quindi?» domandò quest'ultima, fallendo nel suo tentativo di apparire insolente.

«Quindi voglio che testimoni a favore di Dylan Walker, perché è evidente che non sia lui il vero colpevole.»

Olivia aggrottò la fronte. «Ma di che diavolo parli? Io non sono stata, e nemmeno Herman!È stato quello psicopatico del ragazzo di Megan.»

Figuriamoci se si sarebbe lasciata scappare l'occasione di offendermi, persino in un momento delicato come quello.

«Che è successo dopo che Emily vi aveva scoperti? Tu e Herman siete stati insieme tutta la notte?» chiese David.

Olivia non disse una sola parola, ma i suoi occhi parlarono per lei. Pian piano si stavano riempiendo di terrore. Praticamente il filtro della sigaretta si stava consumando tutto da solo. A quanto pare l'ipotesi che fosse stato Herman il responsabile di tutto non le sembrava più solo una malata fantasia.

Dopo diversi istanti trascorsi in silenzio, Olivia riprese la parola: «Non ci vediamo più da qualche settimana. Non sembrerebbe strano se, proprio ora che abbiamo chiuso, iniziassi ad accusarlo di aver ucciso Emily? La giuria penserebbe che le mie parole siano ispirate solo dalla mia voglia di avere vendetta» disse.

«Presterai giuramento: nulla di ciò che dirai non sarà vero» le ricordò David.

«Potrei testimoniare anch'io e dimostrare che la mia versione e la sua combaciano, sulla base di ciò che mi aveva detto quella sera» si intromise George.

«Tu?» lo schernì Olivia. «Pensi di essere una persona attendibile? Non appena leggerà il tuo nome fra la lista dei testimoni, mio padre si informerà e troverà il modo di distruggerti in aula, oltre che sbatterti dentro per via delle tue attività illegali.»

«Come potrebbe mai...»

«Ha ragione» lo interruppe David, ignorando le proteste di George. «Devi starne fuori.»

Il riccio alzò gli occhi al cielo, ma stette zitto.

«Comunque mio padre non mi lascerà mai testimoniare a favore della difesa. Anzi, non me lo lascerebbe fare neanche se fossi dalla sua parte, considerando... considerando l'ultima volta.»

Me lo ricordavo benissimo. Era stato uno dei momenti più belli di sempre, vedere Olivia essere messa a tacere dall'avvocato Finnston.

«Fregatene di tuo padre, non può impedirtelo» insistette David.

«E se non volessi comunque farlo?»

Io e David ci voltammo verso George. Era quello che la conosceva meglio, l'unico che l'avrebbe convinta, in un modo o nell'altro. Il riccio colse subito il segnale. «Vuoi forse che il procuratore Harry Goldberg scopra delle tue attività illegali, mia cara Jacqueline Finch?»

Olivia irrigidì immediatamente la postura. «Non oseresti dirglielo» disse a denti stretti, nella speranza di incutergli un po' di timore.

«Perché no? Magari finiremmo in carcere insieme, sarebbe bellissimo.»

Olivia roteò gli occhi. «Bene. Lo farò» si rassegnò, rivolgendoci un sorriso finto. «Ora sparite.»

Fu poi lei, dopo quelle parole, a buttare la sigaretta a terra, visto che ormai era finita, e a darci le spalle per andarsene.

Calò il silenzio per qualche secondo, finché non fu David a interromperlo bruscamente: «Togliti quel sorrisetto dalla faccia, devi starne fuori» disse rivolto a George, prima di voltarsi e andarsene a sua volta.

Che simpatia.

«Non mi ha neanche salutata...» borbottai fra me e me, dimenticandomi della presenza di George.

«Ma io dico, se vi piacete, perché dovete rendere tutto così difficile?» chiese quest'ultimo.

«Perché soltanto piacersi non basta» risposi.

«Ah, no? Io penso che sia l'unica cosa. Tutto il resto è solo un mucchio di stronzate.»

«Non sono stronzate, George, sono delle valide motivazioni, te l'ho già detto» ribattei.

«Quanto valide?» Aprii la bocca per rispondere, ma successivamente la richiusi. «Già, come immaginavo» sentenziò George.

«Cosa avrei dovuto fare? Lasciargliela passare liscia e correre subito da lui come se nulla fosse?»

«Ah, non chiedere a me, non sono nessuno per dirti quello che devi fare» scrollò le spalle, facendomi innervosire.

La verità era che mi aveva già detto cosa fare, e ora lo stava rinnegando, affinché mi convincessi che fossi stata io a pensarlo.

Era assurdo, eppure sembrava che George e David avessero molte più cose in comune di quello che mi sarei mai immaginata. Avevano dei modi di fare simili. E proprio perché ormai li conoscevo entrambi, sapevo come evitare di farmi ingannare dai loro trucchetti per condizionare la mente.

«Hai ragione, non lo sei. E comunque sono convinta della decisione che ho preso» affermai.

«D'accordo, Megan» disse con tono non propriamente deciso. «Dai, ci vediamo in giro» aggiunse, dandomi un buffetto sulla guancia e allontanandosi.

«Ciao, George.»

 

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Capitolo 14
*** 13. Perdere il controllo ***


13. Perdere il controllo


«Va bene così. Non ci sono regole per queste cose, è tutta una questione di... di istinto, e sentimenti. Lo so che ti ho detto che non voglio affrettare le cose, ma... ma forse è meglio viverci tutto giorno per giorno, senza rifletterci troppo.»

Del resto, perché dovevano sempre esserci delle regole? Non era meglio vivere con spensieratezza?

«Perché hai cambiato idea, tutto a un tratto?» domandò, incuriosito.

Sospirai. «Perché la vita è soltanto una, ed è preziosa quanto imprevedibile. Non si può mai sapere cosa può succedere da un momento all'altro, ma se la vivi lasciandoti guidare dai sentimenti, non potrai mai pentirti di aver fatto oppure non aver fatto qualcosa.»

Dyl rimase in silenzio, con un piccolo sorriso dipinto in volto. Mi fissò per una manciata di secondi, prima di abbracciarmi e attirarmi sempre più a sé, fino a farmi sdraiare su di lui. Nascose il viso nell'incavo del mio collo, lasciandoci dei baci di tanto in tanto e soffiandoci sopra subito dopo. «Amore mio.» A quelle parole, mi strinsi più forte a lui.

Passarono alcuni minuti durante i quali restammo abbracciati in quel modo, senza muoverci di un millimetro, finché a un certo punto Dylan non sollevò il busto e ritornammo a stare seduti. Mi rivolse uno strano sorriso che non seppi interpretare, ma nel momento in cui aprii la bocca per chiedergli cosa fosse a divertirlo tanto, si fiondò sulle mie labbra.

Non mi aveva mai baciata in quel modo. Non ero nemmeno in grado di descrivere come.

Dopo esserci separati per riprendere fiato, riprendemmo a baciarci e questa volta Dylan si protese con decisione in avanti, finché non mi ritrovai a dovermi sdraiare supina sul letto, con lui sopra di me. Gli avvolsi una mano attorno alla nuca, mentre lui appoggiò le sue sul materasso, all'altezza delle mie spalle.
Andò avanti così per un po', finché a un certo punto Dylan non portò una mano sul bottone dei miei jeans. Mi irrigidii e lui se ne accorse, poiché interruppe il bacio e mi parlò: «Vuoi che ci fermiamo qui? Basta che tu me lo dica e mi fermo» disse con tono pacato.

Esitai qualche istante prima di dargli una risposta. La verità era che non sapevo nemmeno io cosa volevo. O meglio, lo sapevo, ma forse era troppo presto per fare quel passo. Poi ripensai a quello che gli avevo detto poco prima. Non c'erano dei tempi giusti per quelle cose. Dylan era il mio ragazzo, cosa c'era di male a spingersi un po' oltre se era una cosa che volevamo entrambi?

«No, va bene» risposi allora, prima di stampargli un veloce bacio sulle labbra.

«Sicura?» insistette un'altra volta.

«Sì.»

Dylan sorrise e poi slacciò il bottone dei miei jeans e poco dopo tirò giù la zip. Il cuore iniziò a battermi sempre più veloce man mano che i secondi passavano. Lentamente mi sfilò i pantaloni di dosso e li lasciò cadere a terra. Poi, dopo avermi guardato per assicurarsi che fossi d'accordo, abbassò le mie mutandine. Ringraziai il Cielo per il fatto che in doccia avessi passato la lametta ovunque prima di andare a casa sua.

Chiusi allora gli occhi. Ero troppo in imbarazzo per poter guardare.

Mi divaricò leggermente le gambe e poi mi penetrò con un dito. Sentii un po' di fastidio all'inizio, ma mi ripetei più volte che era del tutto normale. In fondo era la prima volta che succedeva.

L'agitazione iniziò a sfumare man mano che Dylan andava avanti a muovere il dito. Mi rilassai completamente quando tornò a baciarmi. La cosa non mi stava dispiacendo per nulla, anzi, stava diventando piacevole. Molto.

A un tratto Dylan si separò dalle mie labbra, quindi lo fissai imbronciata. «Tra poco non farai più quella faccia» disse con tono malizioso.

Non capii il senso di quelle parole finché non lo vidi avvicinarsi sempre di più con la bocca all'apertura delle mie gambe.

Non appena la lingua calda di Dylan venne a contatto con la mia intimità, richiusi gli occhi. Wow, Dylan non era solo un ottimo baciatore... sapeva farci di tutto con quella lingua.

Mi lasciai scappare qualche gemito, mentre dentro di me desideravo che non si fermasse mai.

Ma prima o poi, mio malgrado, dovette farlo. 
A quel punto capii che era arrivato il mio turno, così invertimmo le posizioni. Dopo essermi rinfilata le mutandine, mi sdraiai a cavalcioni su di lui. Dopo esserci scambiati altri baci, sollevai i lembi della sua t-shirt verso l'alto e gliela sfilai. Mi presi qualche momento per ammirare il fisico scolpito del mio ragazzo, prima di far scorrere le mie mani verso il basso, fino ad arrivare ai suoi jeans.

Ero un po' titubante, e lui se ne accorse. «Meg, non devi farlo per forza. Io non l'ho fatto per ricevere qualcosa in cambio. Se non vuoi...»

«Voglio» lo interruppi. «È solo che... tu sei stato così bravo, mentre io... io non so neanche da dove partire.» Mi sentivo così stupida.

«Meg, nessuno sa cosa fare la prima volta. Non devi sentirti a disagio per questo» tentò di rassicurarmi.

Mi chiesi chi fosse stata la ragazza con cui aveva fatto le sue prime esperienze. La invidiavo. Avrei voluto essere io. Sarebbe stato bellissimo, condividere le nostre prime volte insieme. E poi non mi sarei sentita così in difetto in quel momento.

Poi decisi di smetterla di torturarmi con quei pensieri stupidi. Deglutii e, dopo aver preso un respiro profondo, tirai giù i pantaloni a Dylan e poi, con la mano che ancora tremava, anche i boxer.

Non potei fare a meno di spalancare gli occhi. «Oh mio Dio...» mi lasciai scappare.

Seguì una risatina da parte di Dylan. «Oh, stai zitto» lo ammonii.

Poi, facendo un altro grande respiro, afferrai il suo membro, senza sapere nemmeno cosa farci.

«Megan... non... non così forte la presa» disse Dylan con voce strozzata.

«Oddio, scusa, scusa non volevo!» esclamai, sentendo le guance andare a fuoco per l'imbarazzo. 

«Tranquilla.»

Era facile per lui dirlo.

Alleggerii un poco la presa e poi iniziai a muovere la mano su e giù, sperando di star facendo la cosa giusta. Dylan non diceva nulla, così proseguii.
In poco tempo il suo respiro prese a farsi più affannato, così mi preoccupai. «Sto sbagliando tutto, non è così?» chiesi sconsolata.

«No, Meg... tutto il contrario.»

«Non è che lo dici solo per non farmi rimanere male?»

«Megan... zitta, ok? Ti guido io se c'è qualcosa che non va, d'accordo? Stai andando benissimo.»

Mi tranquillizzai un po' e continuai ciò che stavo facendo in silenzio, come mi aveva chiesto di fare Dylan.

A un certo punto risollevò il busto e si mise seduto: «D'accordo, per oggi va bene così» disse dolcemente, facendomi una carezza sulla guancia.

«Aspetta, ma non sei ancora...»

«Non importa» mi interruppe. «Va bene così.»

Abbassai lo sguardo, tornando nella mia desolazione. Non gli era affatto piaciuto. Mi veniva quasi da piangere, ma tanto non versavo una lacrima ormai da tanto tempo.

Dyl mi sollevò il mento fra le dita per costringermi a guardarlo: «Megan, non preoccuparti. La prossima volta andrà meglio, fidati di me, così come quella dopo ancora. E poi, quando sarai pronta, ti assicuro che sarà tutto perfetto».

Solo l'idea di riprovarci mi provocava una sensazione di angoscia non indifferente. Era stato orribile. Cioè, non la prima parte, quella era stata grandiosa. Mentre il resto...

Comunque apprezzai molto le sue parole. «Sei il fidanzato più dolce del mondo, lo sai?» chiesi, prima di abbracciarlo così stretto fino a stritolarlo e riempirlo di baci.

•••

Mi fece un strano effetto rientrare in camera di Dylan dopo tutto quel tempo. Soprattutto perché l'ultima volta che ci ero stata, era quando avevamo... be', quando ci eravamo  spinti un po' oltre. Solo a ripensarci, mi sembrò di provare lo stesso imbarazzo che avevo sentito quella volta.

A giudicare dal fatto che fosse così taciturno, sembrava che lui stesse ripensando alla stessa cosa.

Per evitare di soffermarmi troppo su quei ricordi, feci in modo di interrompere subito il silenzio che si era creato: «Scusa se mi sono precipitata qui senza avvisarti. È che non ne potevo più di stare in casa e morivo dalla voglia di vedere come stessi».

La scuola era finita già da una settimana. Me l'ero goduta all'inizio. Niente Lucy. Niente Olivia. Niente Herman. 
Avevo invitato un paio di volte Tracey a casa da me, nella speranza che riacquistassimo l'armonia di un tempo, ma era difficile: io ero sempre sull'attenti, perché sapevo di non potermi fidare ciecamente, e lei manteneva un atteggiamento distaccato. Comunque non avevo ancora scoperto nulla di più.
George era partito con i suoi genitori in montagna e sarebbe tornato per l'inizio della scuola.
Ero andata un paio di mattine a trovare Emily al cimitero.

Ma dopo poco tempo quella tranquillità aveva iniziato a stancarmi. Avevo lasciato passare un po' di giorni per permettere a Dylan di riabituarsi alla sua nuova routine, ma poi non avevo più resistito: avevo bisogno di vederlo.

Si mostrò piuttosto sorpreso quando mi vide sulla soglia di casa sua, ma anche contento. Le ferite sul suo volto erano andate via quasi del tutto, e sembrava aver recuperato un po' di peso, ma era ancora ridotto male. Però almeno non gli sarebbe più successo niente.

«Sto... sto bene» disse, ma era ovvio che non fosse così.

«I tuoi sono stati un po' con te in sti giorni?» domandai. Erano sempre stati assenti, sperai che almeno dopo un mese che il loro figlio era stato in carcere, avessero trovato un po' di tempo da dedicargli per recuperare.

Scrollò le spalle. «Mia mamma l'ho vista due volte, il che è tanto in una sola settimana. Mio papà torna ogni sera sempre più tardi. Penso lo faccia apposta: tornare a orari indecenti, solo per non beccarmi sveglio.»

«Ma che dici?» domandai, afferrandogli istintivamente una mano. Lui si ritrasse rapidamente. Solo allora feci caso a quattro cicatrici a forma di mezzaluna sul palmo della sua mano. Le altre volte non l'avevo notato. Sembravano i segni lasciati dalle unghie quando si chiudevano le mani a pugno, solo che quelli normalmente sparivano dopo pochi minuti. Se era riuscito a imprimere in maniera permanente il segno delle sue unghie nella pelle, doveva aver usato tutta la forza che aveva in corpo.

«La gestivo così la rabbia lì dentro» spiegò, notando la mia perplessità. «Persino un irascibile come me ha avuto modo di capire che non potevo permettermi di perdere il controllo in quel posto» disse, con un sorriso amaro.

«Perché dici questo di tuo padre?» chiesi poi, per ritornare al discorso di prima.

«Non potrebbe essere diversamente. Ha dovuto sborsare più di ottomila dollari per pagarmi la cauzione. Il tutto perché è stato obbligato da mia madre. Fosse stato per lui penso che mi avrebbe lasciato lì ancora per un po'. Pensa alla terribile pubblicità che ho fatto a lui e alla sua azienda. La notizia purtroppo è giunta fino a New Orleans, e...»

«È venuto a trovarti qualcuno? Sai, della scuola» lo interruppi, perché non ne potevo più di sentirlo mentre si demoliva in quel modo.

Mi si sarebbe spezzato il cuore se avesse risposto di no. Eppure persi ugualmente un battito quando mi rispose di sì: «In realtà sì. Indovina? Lucinda Bailey!» esclamò, e io sbiancai in volto.

«L-Lucy è venuta a trovarti? E come mai?» chiesi, non riuscendo a nascondere l'agitazione.

«A me lo chiedi? Non l'ho ancora capito. Mi ha detto che voleva chiedermi scusa per non essersi comportata da buona cristiana.»

Inarcai un sopracciglio. «Cioè?»

«Ha detto che è mortificata per aver pensato che fossi stato io ad aver ucciso Emily, prima di conoscere il verdetto della giuria. Una buona cristiana non avrebbe mai diffidato della bontà d'animo che c'è in ogni persona, e che comunque spetta solo a Dio giudicare, poi ha... davvero vuoi che continui?» domandò, sedendosi sul letto.

Scossi la testa ed emisi un flebile sorriso. «No, può bastare, direi.» Poi mi sedetti sulla sedia girevole e la ruotai verso il letto per mettermi di fronte a Dylan.

«Scherzi? È ora che arriva il bello: ha detto che dopo avermi fatto visita con i ragazzi della sua parrocchia ed essersi resa conto di quanto quel luogo incida negativamente sull'interiorità delle persone, ha pregato continuamente per me affinché io riesca a recuperare la mia spensieratezza, e ha aggiunto che è ancora più determinata a mandare avanti il suo progetto.»

Mi veniva quasi da ridere, eppure non avrei dovuto, dal momento che fino a non molto tempo prima ero stata disposta ad appoggiare lei e i suoi progetti umanitaristici. Solo perché avevo bisogno di lei.

No, non era davvero così, la verità era che stare con Lucy mi piaceva, in qualche modo mi ispirava a voler dare il meglio di me e ad agire per fare il bene degli altri. 
Ma pur impegnandomi, era inutile pensare che sarei mai potuta diventare come lei: ero ancora la persona che, pur di mettersi in salvo, aveva abbandonato la propria migliore amica invece che chiamare i soccorsi. Se avessi chiamato subito il 911 e avessi raccontato la verità, magari si sarebbe risolto tutto in poco tempo. Oltre alle mie impronte sul coltello, avrebbero trovato quelle di Herman. Certo, avrei rischiato grosso comunque, dato che sembrava che fra tutti io fossi quella con il movente più valido, ma trovando le impronte di Herman avrebbero indagato anche su di lui, e magari Olivia avrebbe parlato. Dylan non avrebbe passato tutto quello.
Sarebbe stato tutto diverso. Sarebbe stato sicuramente meglio.

«Megan, mi stai ascoltando?»

Nel momento in cui sentii Dylan chiamarmi per nome, mi riscossi. Era successo di nuovo. Mi ero ancora persa fra i miei pensieri. Quei pensieri. Quelli che non facevano che starmi male. Quelli che riguardavano cose che ormai non avevo il potere di cambiare perché appartenevano al passato.

«Sì, scusami, ero in soprappensiero. Mi stavi dicendo che i tuoi hanno parlato con la preside Fitzpatrick, giusto?»

«Sì, per il mio trasferimento.»

Aggrottai la fronte. «Trasferimento?» chiesi disorientata.

«Sì. A partire dal 7 gennaio sarò ufficialmente uno studente della Centerville High School» rispose, ma quelle parole non riuscirono ugualmente nel loro intento di diminuire la mia confusione. «Con la moto dovrei metterci poco meno di venti minuti, quindi è comunque comodo.»

«C-come... insomma, perché?» domandai. «Pensavo saresti tornato a scuola da noi.»

«Scherzi?» inarcò un sopracciglio. «Ritornare nella stessa scuola dove andavo prima che mi arrestassero con l'accusa di aver ucciso Emily? Sarebbe come entrare in una gabbia piena di leoni.»

«È sempre stato così, il liceo fa schifo e si è sempre giudicati e presi di mira per qualsiasi cosa. E poi con me hanno smesso adesso, lo faranno anche con te una volta che saranno cadute le accuse» tentai di convincerlo.

Dyl scosse la testa. «Sempre se cadranno le accuse» precisò. «E comunque tu a differenza mia non hai trascorso un mese in carcere, non è la stessa cosa.»

Avrei voluto ribattere, ma in fondo aveva ragione. Se già di per sé era difficile resistere a tutti i commenti maligni pur non avendo fatto niente, basandosi magari solo su delle voci fasulle, figuriamoci come sarebbe stato sopportare gli sguardi, le risatine sommesse, le frecciatine e le battute dei compagni di scuola in una situazione come quella in cui si trovava Dylan.

«Non è giusto» borbottai, abbassando lo sguardo. Sentivo gli occhi cominciare a pizzicarmi. «L'unica cosa che volevo era che finisse tutto al più presto e che si tornasse alla normalità. Sai, durante ogni lezione guardo sempre il tuo banco vuoto e immagino che tu sia lì, ogni volta che scappa una risata generale, mi giro verso di te e fingo che tu abbia appena fatto lo stesso. Lo facevamo sempre, guardarci quando ridevamo. E poi giovedì scorso ecco che finalmente il giudice ha acconsentito a rilasciarti... attendevo soltanto la fine delle vacanze per poter rientrare a scuola e vederti ancora lì.»

Calò un breve silenzio. Dylan non rispose subito. Sollevai lo sguardo per fissarlo e vidi il labbro inferiore tremolante.

Poi mi rispose. «È meglio così. In fondo non c'è molto che mi leghi a quella scuola. Tutti i cosiddetti amici che avevo mi hanno voltato le spalle, i professori ce l'avevano con me, specie il professor Kravitz...»

«Ci sarei sempre io» lo interruppi.

«Sì, ma questo non riguarda te, Megan!» disse con tono duro, scaldandosi e alzandosi dal letto. «Riguarda soltanto me e nessun altro. Dopo averti messa mille volte al primo posto, finalmente ho preso una decisione pensando solamente a me stesso. Per una volta te non c'entri un accidente, e meno male, perché ogni volta che sei coinvolta in qualcosa, anche se nessuno ti ha chiesto niente, non fai altro che...» Si fermò prima di concludere la frase, nel momento in cui incrociò il mio sguardo.

Uno degli effetti collaterali dell'essere incapace di nascondere le proprie emozioni, era che si capiva subito se qualcosa mi turbava.

Immaginai che in quel momento dovessi avere un'aria profondamente afflitta, se addirittura ero riuscita a far passare a Dylan uno dei suoi scatti d'ira.

Si inginocchiò davanti a me e tentò di usare un tono più pacato: «Scusa, non volevo dire che...»

«No, hai ragione, invece» lo interruppi. «Ogni volta che c'entro in qualche questione ferisco le persone, rovino loro la vita, è questo che volevi dire?»

Era vero. Se non avessi influenzato le indagini del procuratore indirizzando i sospetti su Dylan, non sarebbe andato in prigione ingiustamente. Era stata colpa mia. Era sempre quello il punto del discorso.

«Mi dispiace. Mi sono espresso male. Volevo solo farti capire che, se finora sei stata il motivo di ogni mia azione, d'ora in poi cercherò di fare solo ciò che voglio davvero, senza essere condizionato da nessuno. D'ora in poi sarò io la mia persona più importante.»

Fui felice di sentire quelle parole, infatti gli sorrisi flebilmente. Ma al tempo stesso mi faceva male sapere che non l'avrei più visto a scuola. Avevo fatto tutto quella fatica affinché tornasse tutto come prima... E come prima quando, esattamente? Prima che finisse in carcere? O prima che morisse Emily? Entrambe le cose ormai erano successe e non potevano essere cancellate.

«Sai, è stato David a dirmelo» aggiunse, attirando la mia attenzione.

Poi mi ricordai del discorso che gli aveva fatto una settimana prima fuori dal palazzo di giustizia.

«È stato gentile con me.»

Lo fissai incredula. «Gentile? È merito della sua fantastica idea se ti hanno ridotto in quel modo, vorrei ricordarti.»

«L'avrebbero fatto comunque, prima o poi. C'era chi era ridotto anche peggio di me, credimi. Ed è grazie alla sua idea se adesso sono qui davanti a te» mi disse, fermamente convinto delle sue parole.

Alzai gli occhi al cielo. Ma come poteva credere davvero a quello che diceva?

«Quindi gli sei grato?»

«A lui e all'avvocato Finnston. Senza di loro...» Lasciò la frase in sospeso. «Perché ce l'hai così tanto con lui?» chiese poi.

«Perché è un manipolatore e uno spregiudicato! E vuole far passare quello che fa come la normali prassi del lavoro di un avvocato! Ma gli avvocati fanno altro: aiutano le persone, non fanno sì che finiscano in pericolo di vita.»

«Be', ha aiutato me. E vorrei ricordarti che ero già in pericolo di vita, ma adesso non lo sono più. Forse non ha escogitato la maniera più sicura, ma a volte un semplice bluff non è sufficiente, bisogna osare e saper rischiare. E io lo ammiro: a lui non importa rischiare per raggiungere il proprio scopo.
Lui sapeva benissimo che ti saresti arrabbiata. Ma ha corso ugualmente il rischio di perderti, pur di riuscire a tirarmi fuori di lì, perché sapeva che era quello che desideravi di più in quel momento. Aveva già tenuto in conto che avresti potuto voler troncare ogni rapporto con lui dopo averlo scoperto, infatti ha cercato di fare in modo che non lo scoprissi, ma è comunque andato fino in fondo perché ha anteposto la tua felicità alla sua.»

Rimasi in silenzio, più per evitare di andare avanti con quel discorso che per altro. La verità era che non c'era niente e nessuno che sarebbe riuscito a farmi mandare giù quella storia. «Apprezzo il tentativo, ma non posso perdonarlo» dissi, sperando di dichiarare così chiuso l'argomento.

«No, Megan, puoi» mi contraddisse. «Puoi, perché io sono riuscito a perdonarti per qualcosa a cui nessuno sarebbe mai passato sopra. La prima volta che sei venuta a trovarmi al JJIC avevo detto che non ti avrei mai perdonato, ricordi? Poi però l'ho fatto. Quindi puoi farlo anche tu. O preferisci perderlo?»

Roteai gli occhi, rimanendo tuttavia in silenzio. Poi guardai l'orario sul display del cellulare. Si erano già fatte quasi le tre e io dovevo andare. Così mi alzai in piedi e lo stesso fece Dylan. «Credi che qualche volta potrò venire a  trovarti?» gli domandai.

«Non lo so, Megan...» rispose, stupendomi. «Mi ha fatto piacere vederti oggi, lo sai. Ma io ho bisogno di tempo. Per riabituarmi a questa routine, alla nuova scuola, e per lasciarmi tutto alle spalle... te compresa» disse.

Annuii, per mostrarmi comprensiva, anche se non era quello che avrei voluto. Ma in fondo, come mi aveva appena ricordato, non riguardava sempre me.

«Ti prego, non venire alla mia udienza» aggiunse, lasciandomi ancora più sorpresa.

Stavo per ribattere e chiedergli come minimo il motivo di quella sua scelta, ma alla fine ci rinunciai e annuii soltanto, per dimostrargli che non ero una completa egoista e sapevo quando era il momento di smetterla di imporre le mie idee agli altri e iniziare a essere più condiscendente.

•••

«Che piacere mi fa vederti, Megan!» esclamò la dottoressa Blackburn nel momento in cui mi vide entrare nel suo studio.

Mi sarebbe piaciuto rispondere la stessa cosa, ma in realtà ero lì solo perché me l'avevano imposto i miei genitori. Comunque le rivolsi un sorriso e poi andai a sedermi sulla solita poltrona di ecopelle nera.

«Allora, come stai, Megan?» domandò con un piccolo sorriso, invitandomi a cominciare la seduta.

Rimase pazientemente in silenzio ad ascoltarmi mentre parlavo, o meglio, mi sfogavo. Più che parlare di me, in realtà, mi accorsi che stavo parlando principalmente di Dylan. Dissi che era iniziato tutto quando, dopo essermi accorta della sua natura violenta, la rabbia e il rancore nei suoi confronti mi avevano convinta che fosse stato lui a uccidere Emily e che questo mi avesse spinta a fare di tutto affinché finisse in prigione e che, quando questo era successo e la rabbia ormai svanita, mi ero resa conto dell'errore che avevo fatto e che per quel motivo avevo iniziato a sentirmi terribilmente in colpa, specie dopo aver saputo tutto quello che gli facevano in quel carcere. Le dissi che da quel momento avevo cercato quindi di rimediare e avevo cercato di stargli vicino nella speranza che mi perdonasse. Infine le confessai che, sebbene Dylan fosse ormai fuori pericolo, il mio malessere non era svanito, cosa di cui si erano accorti anche i miei genitori, che mi avevano spinta a ritornare dalla psicologa per altre sedute.

Feci un respiro profondo e poi mi tolsi l'elastico dal polso e mi legai i capelli in una coda di cavallo. Ritirare fuori tutte quelle cose una dopo l'altra, di getto, mi aveva scombussolata e anche accaldata. Nell'attesa della risposta della dottoressa Blackburn, cercai allora di normalizzare il più possibile il mio respiro.

«D'accordo, ho inquadrato la situazione» disse dopo aver finito di prendere i suoi appunti. «Ho una domanda per te, Megan: hai mai sentito parlare di effetto trigger?» chiese a un certo punto.

Quel termine non mi diceva granché. Mi sforzai di pensare, ma non giunsi a nessuna risposta concreta: «Non so, forse ho letto qualcosa, ma non sono sicura».

«Vediamo se questo ti dice qualcosa: i trigger non sono altro che degli eventi scatenanti, in grado di far riemergere un ricordo che provoca sofferenza, che può essere sia qualcosa di lieve sia qualcosa di più serio, come un trauma vissuto, un incidente, o un lutto, a cui il corpo reagisce come se stesse ancora vivendo quella situazione di pericolo...»

«Un momento, so cosa sta per dirmi, ma non è assolutamente come pensa» la interruppi prontamente. «Lo so, ho sofferto per Emily e per il trauma di perderla, ma ormai l'ho superato.»

«Non è Emily a cui mi riferisco, infatti. Io penso che sia Dylan ad avere un effetto trigger su di te. È lui l'evento scatenante: lui ti ricorda quello che hai passato. Questa fase della sua vita che ha appena attraversato, si presenta per molti aspetti analoga a quella che hai affrontato tu, Megan. Disillusione, demotivazione, mancanza di fiducia in se stessi, convinzione di meritarsi il male che si sta subendo, inappetenza, apatia e anedonia emotiva... istinti suicidi. Chi pensi che stia descrivendo con questi termini? Dylan oppure te, Megan?»

Rimasi un attimo in silenzio. Non aveva idea di quello che stava dicendo. Non ero io quella, forse lo ero stata ma adesso non era più così. Me l'aveva detto persino lei che avevo fatto dei grandi progressi e che era fiera di me. «Dylan» affermai quindi decisa.

«Mi rattrista dirtelo, Megan, ma Dylan non è il solo a presentare questi sintomi. Sono convinta che tu ne fossi uscita, ma sono anche sicura che il fatto che lui li presenti, abbia innescato in te il loro ritorno. Il senso di colpa che provi per quello che è successo a lui ti ha ricordato del senso di colpa provato dopo la morte di Emily e tutto ciò che è derivato da allora. È come se fossi ritornata indietro di qualche mese e stessi rivivendo quel trauma da capo.»

Continuavo a scuotere la testa, incapace di manifestare il mio dissenso a parole, sebbene fosse evidente che non poteva avere ragione. L'unico motivo per cui stavo male era perché mi sentivo male per quello che aveva passato Dylan a causa mia. Era normale, ero fatta così, ero emotiva e empatica. Ma niente di più.

«Stai dormendo bene in questi giorni, Megan?» chiese allora la dottoressa Blackburn.

Mi costava ammetterlo, ma in effetti stavo facendo fatica a prendere sonno in quelle settimane. Così scossi la testa, per rispondere alla sua domanda.

«Sembra che anche l'appetito stia iniziando a mancare, non ti vedevo il volto così scavato da tanto.»

Roteai gli occhi. Anche mia mamma me l'aveva fatto notare in più occasioni, ma che ci potevo fare se non avevo fame? Succedeva a tutti di avere dei periodi così.

«E hai detto anche che il rapporto con i tuoi genitori si sta incrinando di nuovo, come mai?»

Non risposi. Ero un'adolescente, era del tutto normale. Se non avessi manifestato dei segni di ribellione a sedici anni, quando avrei dovuto farlo?

Poi la dottoressa si protese in avanti per avvicinarsi a me. Mi rivolse uno sguardo preoccupato. «Megan, ho bisogno che tu ora risponda sinceramente alla domanda che sto per porti, d'accordo? Soltanto a questa domanda, poi potrai andare.»

Annuii. Il cuore iniziò a battermi sempre più velocemente, quasi come se sapesse ancor prima di me che cosa mi avrebbe chiesto la dottoressa.

«Hai mai ripensato a quell'episodio? Quando hai cercato di toglierti la vita... Megan, hai mai pensato di voler ritornare indietro e desiderato che non ci fosse stato nessuno a salvarti in quell'occasione?»

A quel punto distolsi lo sguardo dalla dottoressa Blackburn e lo posai sul pavimento.
Sentii gli occhi diventarmi lucidi, tuttavia impedii che le lacrime lasciassero i miei occhi.

«Questo non significa niente» dissi tentando di apparire ferma e convinta, nonostante il tremolio nella voce.

«No, Megan, significa tutto, invece» ribatté visibilmente dispiaciuta. «Questa disgrazia che è successa a Dylan, purtroppo, ha influenzato anche te e ha interrotto il bellissimo percorso che stavi facendo alla scoperta di te stessa. Io credo ancora che tu possa diventare una donna forte, consapevole e determinata, ma voglio che tu sappia che non puoi saltare subito al traguardo senza affrontare gli ostacoli.»

Odiavo il fatto che chiunque pensasse sempre di sapere meglio di me quello che provavo, che mi fosse detto cosa fare e cosa dire, che mi venisse rimproverato di non comportarmi come avevo sempre fatto. Non potevo semplicemente fare quello che volevo senza che nessuno mi giudicasse?

«Perché non capisce che non c'è niente di diverso in me? Sono sempre io. Al cento per cento. Magari sono semplicemente fatta così!» esclamai.

«Così come? Tu non sai come sei fatta, Megan. Per la prima parte della tua vita sei stata come gli altri ti volevano. E adesso, chissà... Lo so che non è difficile capirlo, accettarlo e riaffrontare tutto da capo, ma purtroppo una ricaduta è del tutto normale, specie se sei così giovane. Però tu promettimi che proverai a riprendere il controllo di te stessa.»

E se non l'avessi fatto? Se per una volta mi fossi davvero lasciata guidare in tutto e per tutto dalle mie emozioni e sensazioni, senza alcun limite? Solo in quel modo sarei stata davvero me stessa. Chi avrebbe potuto obiettare se mi fossi comportata seguendo il mio cuore e nient'altro al di fuori di quello?

Mi vennero improvvisamente in mente le parole che mi aveva rivolto una volta George: «Ti svelo un segreto per vivere felice e in pace con te stessa: mandala a fanculo la tua morale. D'ora in poi non rendere conto a nessuno di quello che fai, nemmeno a te stessa».

«Lo prometto» mentii, così che potesse dichiarare conclusa quella seduta.

Quella promessa sarebbe stata la mia ultima bugia.

 

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Capitolo 15
*** 14. Ce la stavo facendo ***


14. Ce la stavo facendo

Le conclusioni che aveva tratto la dottoressa Blackburn mi erano sembrate esagerate. 
Poteva avere ragione sul fatto che la situazione che aveva attraversato e il modo in cui aveva reagito per affrontarla potesse essere considerato simile al modo in cui l'avevo fatto io, io stessa più volte mi ero ritrovata nei suoi stati d'animo perché ci ero passata prima di lui, ma Dylan non aveva un effetto trigger su di me.

Ero io ad aver causato il male nella vita di Dylan, non il contrario. Era sempre così. Ero sempre io il problema. Non importava quanto fossero buone le mie intenzioni, alla fine finivo sempre col causare ad altri delle conseguenze negative.

Comunque la seduta dalla dottoressa Blackburn non era stata del tutto inutile. Era grazie a lei se avevo capito che da quel momento in poi avrei dovuto essere me stessa fino in fondo, in tutto e per tutto, al cento per cento.

Il problema era uno: ma com'ero io realmente? 
Un tempo avrei saputo dare una risposta molto dettagliata.

"Mi chiamo Megan Sinclair. Ho sedici anni. Vivo a Morgan City, in Louisiana. Frequento il terzo anno alla Morgan City High School. Ho molti amici. Non ho un ragazzo. Ho un buon rapporto con i miei genitori. Sono brava a scuola. Dopo il diploma voglio andare ad Harvard. Tutti quelli che mi conoscono mi definiscono nello stesso identico modo: una brava ragazza."

Che ne era stato di quella ragazza? Che cosa volevo davvero? Chi sarei diventata nel giro di cinque anni?

Non lo sapevo. Sapevo solo che non me ne fregava più niente di quello che sarebbe stato il mio futuro. Mi importava solo il presente. E al momento avevo problemi più grandi a cui pensare.

Quella sera i miei erano usciti fuori a cena con alcuni colleghi di mio padre, così la casa era tutta per me. Sarebbe stato grandioso, se solo avessi avuto qualche amico da invitare per farmi compagnia. Invece ero costretta a starmene sola con la persona che ultimamente meno sopportavo e meno capivo fra tutte: me stessa.

Nonostante avessi detto a mia madre di non preoccuparsi se non aveva fatto in tempo a prepararmi la cena e che, visto che erano già in ritardo, mi sarei arrangiata da sola, alla fine mangiai solo un pezzo di pane e metà mela. Il mio stomaco era perennemente ed eccessivamente in subbuglio per poter essere riempito con del cibo.

Decisi allora di prepararmi un bagno caldo. Mentre facevo scorrere l'acqua per riempire la vasca, andai in camera mia a prendere la cassa e la appoggiai sul bordo del lavandino. La connessi con il Bluetooth al cellulare e misi la musica a tutto volume.

Prima di togliermi i vestiti ed entrare in vasca, mi avviai in salotto e aprii la credenza. Mi inginocchiai per passare in rassegna le diverse bottiglie. Avendo una vasta scelta e non sapendo quale fosse la migliore per me, ne estrassi diverse e le appoggiai a terra.

Rum. Jägermeister. Gin.

Dopodiché andai in cucina e presi un calice da vino per rendere il tutto più sofisticato.

Per scoprire davvero me stessa, dovevo liberarmi da tutti i freni inibitori, no?

Partii con il rum e ne versai una quantità minima nel bicchiere, prima di buttarlo giù con un unico sorso. Sentii la gola andarmi letteralmente a fuoco, ma comunque ciò non mi fermò dal passare subito dopo al liquore successivo. Ripetei la stessa procedura e così anche per il gin. 
Gli occhi mi divennero lucidi per via di quanto erano forti quegli alcolici, ma la cosa non mi disturbò più di tanto.

Fra i tre ebbe la meglio lo Jägermeister, che aveva un sapore leggermente più dolce. Così, dopo aver sistemato al loro posto gli altri due, presi la bottiglia, il calice e mi diressi in bagno. Mi tolsi i vestiti e poi mi immersi nella vasca da bagno, appoggiando la bottiglia a terra dopo aver riempito il calice fino a metà.

Lo riempii altre volte nel corso del mio bagno, e solo quando uscii dalla vasca mi resi conto che avevo fatto fuori poco più di metà bottiglia.

Sul momento, tuttavia, la cosa mi fece solo un gran ridere, dato che quando me ne accorsi avevo già detto addio alle mie ordinarie facoltà mentali. Mi avvolsi l'accappatoio attorno al corpo e, successivamente, presi la cassa e corsi in camera mia. La appoggiai sul comodino e poi con un balzo salii sul letto e iniziai a roteare su me stessa mentre cantavo a squarciagola i brani preferiti della mia playlist.

Quando la testa iniziò a girarmi, allora finalmente scesi dal letto. Iniziai ad avvertire una gran sensazione di calore, così mi tolsi l'accappatoio di dosso e andai a riporlo in bagno. Volevo mettermi a ballare, ma solo quando urtai con il piede la bottiglia di Jägermeister, mi accorsi di aver lasciato le tracce del mio crimine sul pavimento. Per fortuna non avevo rotto nulla e non mi ero tagliata con i vetri. Mi affrettai a prendere la bottiglia e a riporla al suo posto e a mettere il calice in lavastoviglie dopo averlo sciacquato.

Quel breve momento di lucidità fu poi rimpiazzato da un altro scatto di euforia. Mi sentivo piena di energie, come se nulla potesse fermarmi. Ma quell'effetto di inarrestabile spensieratezza durò al massimo un'ora.

Non sapevo se essere fiera di quello che stavo facendo, né se fosse il modo giusto di comportarsi, ma a dirla tutta non me ne importava nulla. Era l'unico modo che avevo per liberare la mia mente ultimamente sempre sovraffollata e sovraccarica. E poi quella notte, dopo molto, fu la prima in cui non appena toccai il cuscino e chiusi gli occhi, crollai in un sonno profondo.

•••

Episodi simili a quello di quella sera si ripeterono altre due o tre volte. Ogni volta che i miei uscivano e avevo di conseguenza il via libera, ne approfittavo per chiedere ausilio all'alcol per conciliarmi il sonno, anche se si trattava delle quattro del pomeriggio. 
Tuttavia, persino io mi rendevo conto che non avrei potuto continuare ancora per molto in quel modo, perché non volevo nuocere alla mia salute. Non ero mai stata una grande fan degli alcolici, specie dopo quella terribile serata al Masquerade.

L'unica cosa che volevo era riuscire smettere di pensare per un po', se non altro di notte, e riuscire a dormire, ma mi era impossibile.

Erano passati tre mesi dalla morte di Emily e il suo assassino non era ancora dietro le sbarre. Non riuscivo a darmi pace. Era il mio pensiero fisso, ricorrente e incessante durante tutto il giorno. Volevo illudermi che stessi facendo dei passi avanti, ma in realtà nessun vero progresso era stato fatto. Il sospetto principale era ancora Dylan, e di Herman nessuno si era mai preoccupato fin dall'inizio.

Sapevo che non era compito mio, che dovevo lasciar fare alla giustizia il suo corso, che ero solo una ragazzina che non doveva immischiarsi, ma non potevo starmene con le mani in mano ancora per molto. Stare lì a guardare in silenzio, senza poter fare niente, mi stava lentamente distruggendo. Dovevo fare qualcosa, ma che cosa?

Le mie sole parole non erano sufficienti, ma forse quelle di Tracey... Dovevo trovare il modo di farla parlare.

E visto che le ore a disposizione durante il giorno per pensarci non erano mai sufficienti, il mio cervello aveva deciso di privarmi del sonno durante le ore notturne, così che potessi avere più ore per rifletterci. Ma non ottenni ugualmente nessun risultato soddisfacente.

La domenica prima del rientro a scuola, nel pomeriggio venne George a casa mia. I miei erano andati a fare la spesa, così non avevo molto tempo, ma cercai di farmelo bastare.

«Com'è andata in montagna?» gli chiesi, invitandolo ad accomodarsi al mio fianco sul divano.

«Benissimo!» esclamò entusiasta, sedendosi vicino a me e appoggiando il braccio sulla parte alta del divano. «Le piste erano stupende, anche se ho quasi rischiato di morire una volta perché mi ero distratto e stavo per finire contro un masso enorme.»

«Ah, sì? Beato te, ci farei la firma anche adesso» dissi, ricevendo un'occhiata sconcertata da parte di George. «Dai, non guardarmi così, guarda che scherzo!» aggiunsi allora con una risata.

George ricambiò emettendo un piccolo sorriso, sebbene non fosse molto convinto. «Sì, certo. Tu come stai?» chiese serio.

Mi ero ripromessa che non avrei più mentito, così evitai di inventarmi bugie a cui non avrebbe creduto nemmeno un bambino di due anni e andai dritta al sodo: «Sì, io... ecco, a proposito di questo, devo chiederti un favore» dissi, tirando fuori dalla cover del cellulare venticinque dollari e porgendoglieli. George aggrottò le sopracciglia confuso, così chiarii i suoi dubbi. «Mi serve un nuovo documento falso. Il primo che mi avevi dato se l'è preso l'avvocato Finnston dopo averlo scoperto» spiegai.

«Qualsiasi cosa sia, te la posso procurare io, non c'è bisogno che mi paghi. Il che ti rende molto fortunata, Megan Sinclair, perché come sai normalmente applico prezzi da monopolio.»

«In questo caso, allora... saresti in grado di falsificare una ricetta medica per me?»

Sperai che George acconsentisse senza fare troppe domande, in fondo glielo stavo chiedendo come cliente, non come sua amica, e lui quando si trattava di affari era solito intascarsi i soldi e non fare domande.

Ma a quanto pare non era quello il mio caso. «A cosa ti serve una ricetta medica falsificata?» domandò scettico.

Roteai gli occhi. «Per comprare una cosa che non mi darebbero senza prescrizione e per giunta visto che sono minorenne.»

«Cosa devi comprare, Megan?»

Sbuffai. Perché doveva farmela sudare in quel modo?

«Dei farmaci per il sonno» risposi.

Sgranò gli occhi e scosse la testa: «No, scordatelo».

«Perché no? Ti prego, ne ho bisogno: non riesco più a dormire. Solo che la mia psicologa è più fuori di me e pensa cose assurde tipo che io non sia più stabile mentalmente per via di quello che è successo a Dylan, perché secondo lei mi ricorda del trauma che ho subìto dopo la morte di Emily, il che come vedi non ha assolutamente senso, perché sono due cose diverse e perché sto benissimo!» esclamai tutto d'un fiato, prendendo un lungo respiro subito dopo.

«Se stessi benissimo non avresti difficoltà a dormire, tu che dici?» cercò di farmi ragionare, ma in realtà era lui a non capire.

«Ho difficoltà a dormire perché la mia migliore amica è morta davanti ai miei occhi!»

Lui più che chiunque altro avrebbe dovuto capire cosa si provava a perdere una persona amata. Mi veniva quasi da piangere, ma non accadde. Rannicchiai le ginocchia al petto e avvolsi le braccia attorno alle gambe. Se non aveva intenzione di aiutarmi, non valeva la pena continuare a insistere.

George si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla. Cercò il mio sguardo e non appena lo incontrò, mi parlò con tranquillità: «Megan, è successo tre mesi fa, non due giorni fa. E lo so, lo so che non passa mai veramente, ma so anche che... che prima o poi ricominci a vivere. Tu dici di averlo superato, ma in realtà a me sembra che la tua testa sia ancora ferma lì. Ogni momento. Ogni secondo della tua giornata. Forse la tua psicologa non ha tutti i torti».

Scossi più volte la testa. «No. No, io... io stavo ricominciando da capo. Ce la stavo facendo, te lo giuro. Ma poi è successa la cosa di Dylan e...» Mi interruppi, nel momento in cui realizzai che stavo quasi per ammettere ciò che fino a quel momento mi ero ostinata a negare.

Non dissi più nient'altro e mi abbassai fino a toccarmi le ginocchia con la fronte.

Trascorsero alcuni istanti in cui nessuno fra i due disse nulla.

«Ok, ehm... mi stai rendendo questa cosa davvero difficile, lo sai, Megan Sinclair? Io non... non ho idea di come si consolino le persone. Non me ne è mai fregato niente degli altri. Pensavo di non avere un briciolo di empatia prima di conoscerti.» Sollevai lo sguardo e vidi un George realmente a disagio, che non sapeva quali tasti toccare né come muoversi. Emise un sorriso imbarazzato nel momento in cui incrociò il mio sguardo. «E in realtà non so neanche se è empatia quella che provo, il più delle volte mi sento sollevato nel vedere che c'è qualcuno, ossia tu, con una vita più di merda della mia. Anzi, tu mi fai proprio pena.»

A quel punto aggrottai le sopracciglia confusa e anche contrariata. Non riuscivo a capire dove volesse arrivare con quel discorso. Tuttavia rimasi in silenzio per attendere che finisse.

«Sì, cioè, voglio dire, sei sola, costretta ad avere l'emarginato numero uno della scuola come unico amico, i tuoi ex migliori amici sono degli assassini, la tua migliore amica è morta, il tuo ex ragazzo ha quasi rischiato di morire a sua volta per colpa tua che l'hai fatto sbattere in carcere, sei cotta di uno stronzo narcisista ma che in realtà è più insicuro di una dodicenne alle prese con il primo ciclo, e come se non bastasse i tuoi genitori ti stanno anche addosso e non puoi uscire di casa perché sei come in quarantena. Però, ecco, guarda il lato positivo: fra due giorni è il tuo compleanno e...»

«Grazie, George. Ora mi sento meglio» lo interruppi sarcastica. «E mi fa piacere che le mie disgrazie siano per te una fonte di sollievo. Facciamo cambio?»

«Lo vedi? Non sono capace. È stato così pessimo come primo tentativo?» chiese sconsolato, passandosi una mano fra i capelli, come se quello in serie difficoltà in quel momento fosse stato lui.

«No, sei stato giusto un po' insensibile. Ma del resto, non posso pretendere molto, no? Sono costretta ad avere l'emarginato numero uno della scuola come unico amico» citai le sue testuali parole, emettendo un piccolo ghigno. «Un amico egoista che non vuole aiutare la sua unica amica...» aggiunsi, sperando di far leva sulla compassione.

George roteò gli occhi. Picchiettò le dita sul bordo del divano per qualche istante, prima di sbuffare: «Va bene. Ti procurerò quello di cui hai bisogno, ma solo se mi prometti che non ne abuserai» disse.

Subito mi illuminai in volto. «Grazie, George, grazie!» esclamai, abbracciandolo. Poi feci per porgergli le banconote, ma lui scosse la testa: «Non ci provare proprio a pagarmi per una cosa del genere. Solo perché ho acconsentito, non significa che io sia d'accordo» ci tenne a chiarire.

«Lo so. Ti prometto che terrò tutto sotto controllo, l'ho già fatto una volta.»

•••

L'indomani mattina la voglia di andare a scuola era più bassa che mai. Tornare alla solita routine di sempre significava anche tornare ai soliti problemi di sempre e io non ero pronta.

La prima persona che andai a cercare una volta dopo aver messo piede dentro l'edificio scolastico, quindi, fu George. «Buongiorno» dissi giungendo al suo fianco davanti al suo armadietto.

«Buongiorno» ripeté, mostrandosi piuttosto assonnato. «Mi accompagni a prendere un caffè?» chiese e io annuii.

Mentre camminavamo uno di fianco all'altro verso il bar della scuola, mi mise in mano una sorta di tubetto di plastica. «Veloce, infilalo nello zaino» ordinò sottovoce.

A quel punto guardai la mia mano e vidi un pacco di compresse. «Bastava darmi la ricetta, non c'era bisogno che andassi direttamente a prenderle» dissi.

«Non preoccuparti, tanto dovevo lo stesso passare in farmacia per prendere lo sciroppo per la tosse a mia madre» scrollò le spalle. «Per adesso sono soltanto dieci, quegli stronzi si approfittano dei problemi delle persone e ne mettono poche apposta per vendere più confezioni.»

«Non preoccuparti, per il momento bastano» lo rassicurai, prima di infilare la confezione dentro lo zaino.

«Una a sera, Megan, a stomaco pieno e prima di andare a dormire» disse scandendo ogni parola per assicurarsi che prestassi attenzione.

Annuii. «Grazie, George, davvero» aggiunsi poi.

Attesi che George terminò il suo caffè e poi mi dileguai usando la scusa che dovevo andare in bagno. Invece andai diretta verso la persona alla quale pensavo che non avrei mai chiesto qualcosa per nessun motivo al mondo: Olivia Goldberg.

Non appena mi vide avvicinarsi a lei, emise una smorfia e sbuffò: «Che diavolo vuoi?» domandò scocciata.

«Devi dire la verità, Olivia, e devi farlo adesso» affermai decisa.

Scoppiò a ridere fragorosamente. «Sì, certo. Te lo scordi. Ti sembrerà strano, ma alcune persone ci tengono alla propria reputazione.»

«Quindi è così? Nonostante tutto, ancora vuoi difendere un presunto assassino?» chiesi, parlando a voce più bassa.

«Evita di farla così tragica. E comunque sto cercando di proteggere me stessa. Non voglio che tutti inizino a vedermi come una puttana.»

«Già, non è per niente piacevole, ma te come puoi saperlo? Eri sempre in prima fila quando si trattava di affibbiare a me lo stesso appellativo» le ricordai.

Inarcò le sopracciglia. «Quindi in realtà vuoi soltanto vendicarti, è questo? Sei più subdola di quello che pensassi.»

«Sarò sincera, non mi dispiacerebbe avere una rivincita su di te, ma non userei mai una cosa del genere per ottenerla. E poi adesso ho cose più importanti a cui pensare, cose per cui, purtroppo, mi serve il tuo aiuto. Ho in mente un modo per far uscire la verità senza che venga fuori il tuo nome. Quindi, ci stai o no?»

 

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Capitolo 16
*** 15. Adesso basta ***


15. Adesso basta

«Sei sicura che funzionerà?» chiese Olivia mentre iniziavamo a dirigerci in classe.

«Sì» affermai con decisione, prima di andare a sedermi al primo banco. Avevamo ancora diverse cose da dirci, ma per non dare nell'occhio, dal momento che tutti a scuola sapevano non ci sopportavamo, ci sedemmo distanti e iniziammo a mandarci dei messaggi.

"Non mi è ancora arrivata nessuna notizia da pubblicare. Non funzionerà" mi scrisse.

Roteai gli occhi. Le avevo fatto creare un account su Instagram con il nome "MCHS_officialspotted", in maniera tale che chiunque della scuola avesse avuto dei gossip o degli scoop da riferire, avrebbe potuto scrivere alla pagina creata da Olivia, che avrebbe pubblicato gli screenshot in anonimato come post per diffonderli su larga scala; stessa cosa per chi aveva bisogno di aiuto per trovare il nome di un ragazzo o una ragazza visti a scuola.

Tuttavia, avendo creato il profilo da meno di un quarto d'ora, erano ancora pochi i seguaci della pagina e, fra quelli, nessuno aveva avuto ancora il coraggio di esporsi. Avevo l'impressione che nessuno l'avrebbe fatto finché non avesse visto il primo post. Così decisi di essere io la prima.

Andai sul profilo della scuola creato da Olivia e aprii la chat. Riflettei qualche secondo su cosa scrivere e poi digitai velocemente sulla tastiera, dal momento che proprio in quel momento stava entrando il professor Kravitz.

"Ho sentito dire che Megan Sinclair e Dylan Walker si sono riavvicinati dopo la loro rottura. Pare che sia stata l'unica ad andarlo a trovare quando era ancora in prigione! Ma lui non aveva mica ucciso la sua migliore amica Emily?" rilessi velocemente e in seguito inviai.

Mi voltai a quel punto verso Olivia, la quale era intenta a leggere e, dopo aver terminato, mi guardò con un'espressione confusa.

"Pubblicalo" le scrissi. "Una volta dopo aver visto il primo, si daranno tutti alla carica."

•••

E così fu. Il pettegolezzo che inviai io fu solo il primo di molti di quella giornata. Dopo aver aperto le danze, sembrava che molti in quella scuola avessero qualcosa da dire. Probabilmente molte delle cose che venivano scritte non erano nemmeno vere, di certo non quelle che scrissero sul mio conto, ma non importava. L'importante era che la voce si diffondesse il più possibile e che iniziassero tutti a seguire quella pagina. In particolare, mi interessava che iniziasse a seguirla Tracey.

Quel giorno le chiesi di pranzare insieme, noi due da sole, dal momento che normalmente stava sempre e solo con Herman. «Ma vi staccate mai un secondo?» le chiesi con tono scherzoso, appoggiando il mio vassoio sul tavolo e sedendomi. «Se andrete avanti così, nessuno vi toglierà il titolo di re e reginetta del ballo l'anno prossimo. L'unica coppia che sta ancora insieme dal primo anno. Fra massimo due anni mi aspetto il matrimonio, e io voglio essere la tua testimone.»

Solo per poter intervenire al momento giusto alle parole: «Se qualcuno ha qualcosa da dire parli ora o taccia per sempre» e rivelare ogni singolo e infimo dettaglio.

«Be', sì, insomma... lo sai com'è quando si è innamorati» rispose, sedendosi a sua volta.

Lo sapevo, sì. Ma ciò che avrei voluto sapere era come le fosse possibile continuare a essere innamorata di un vile assassino.

«Sì, sembra che il tempo non sia mai sufficiente e che non si riesca fare a meno di quella persona. Però, ecco, mi erano mancati i nostri pranzi insieme» dissi.

Poi sbuffai, guardando il cellulare per l'ennesima volta nell'arco di quei dieci minuti. «L'hai vista la pagina che hanno creato?» domandai. «È da tutto il giorno che non la piantano di scrivere stronzate sul mio conto. E io pensavo che l'epoca di "Megan Sinclair è un'assassina" fosse già finita da un pezzo!» esclamai.

Tracey scosse la testa: «No, non l'ho vista, di che parli?».

Tentai di evitare di mostrare un'espressione compiaciuta, ma fu molto difficile, perché non vedevo l'ora che arrivasse quel momento. «Una pagina spotted, in cui ognuno diffonde dei pettegolezzi su persone della scuola. La cattiveria gratuita delle persone non ha mai fine. Hai idea di quanti rapporti potrebbero rovinare? Patricia e Allison adesso non si parlano più perché a quanto pare si sparlavano entrambe alle spalle. Comunque tieni, guarda tu stessa» dissi, passandole il mio cellulare.

Iniziò a leggere i diversi screenshot pubblicati partendo dal più recente e scorrendo poi verso il basso. Si pietrificò quando ne lesse uno in particolare.

«Tutto bene, Trace? Che hai letto? Hai una faccia» dissi, simulando preoccupazione.

In realtà non avevo davvero bisogno di sapere cosa avesse letto: avrei potuto ripeterglielo io stessa a memoria, l'avevo scritto io.

"Ti prego, mantieni l'anonimato, è qualcosa di grosso ciò che sto per dire: riguarda la notte in cui è morta Emily Walsh. È chiaro che fossimo tutti un po' alticci quella sera, ma qualcuno forse lo era più di altri... giuro di aver visto Herman Waldorf dirigersi al piano di sopra con una ragazza che non era Tracey Gomez."

Tracey deglutì più volte, continuando a tenere lo sguardo fisso sul mio cellulare. A quel punto mi alzai in piedi e feci il giro del tavolo per giungere al suo fianco. «Ehi, Trace...» dissi, spostandole i capelli dietro l'orecchio per scoprirle il viso. Non stava piangendo, ma il labbro inferiore le stava tremando incessantemente, così come le mani.

Poi appoggiò il cellulare sul tavolo e tornò a guardarmi con un mezzo sorriso: «Hai ragione. È cattiveria pura e gratuita. Ma che importa, insomma? È questo lo scopo del gossip: creare scalpore e far parlare. Che dicano quello che vogliono» disse scrollando le spalle.

Il senso di compiacimento che avevo provato fino a quel momento stava pian piano scemando. Non le si era insinuato neanche il minimo dubbio?

Ripresi il mio cellulare e lessi ciò che aveva appena letto lei, fingendomi sconvolta e indignata. «No, è assurdo! Devi scrivere subito alla pagina e chiedere che rimuova questa notizia. Insomma, come si permette? Anzi, sai che facciamo? Andiamo dalla preside Fitzpatrick e chiediamole di prendere i dovuti provvedimenti, partendo innanzitutto dalla chiusura di questo account.»

Volevo istigarla. Spingerla al limite. Ma non sembrò attecchire.

Scosse la testa e alzò le spalle. «Non importa, Meg, non facciamone un dramma. Tanto sappiamo che non è vero, come le notizie che giravano mesi fa su di te e a cui, a quanto pare, la gente crede ancora.»

Davvero si fidava ciecamente di Herman? Insomma, ipoteticamente parlando, quale persona avrebbe avuto interesse (a parte me) a diffondere una notizia del genere?

«Be', però su Patricia e Ally avevano ragione... Con questo non voglio dire che sia vero, ma magari potresti scrivere alla pagina e chiedere maggiori chiarimenti, magari chiedendo chi è la fonte. Io lo farei, per togliermi anche il più piccolo dubbio.»

«Onestamente mi sembra solo una gran bambinata. E comunque Herman non mi farebbe mai e poi mai una cosa del genere. Lo so che è così, non ho bisogno di fare la detective» affermò con convinzione.

Le diedi una carezza confortante sulla spalla. «Sì, certo.»

Sì, certo.

•••

Con quelle ultime parole si chiuse quel discorso. Quindi era così: avevo fallito miseramente.

Insomma, ero convinta che ogni ragazza esistente al mondo, una volta dopo averle messo la pulce nell'orecchio, non se ne sarebbe stata lì buona, non necessariamente per mancanza di fiducia, era più che altro una reazione spontanea.

Ogni ragazza al di fuori di Tracey. D'accordo, Tracey aveva molto autocontrollo e sapeva nascondere i suoi sentimenti più di molti altri, ma c'erano alcune cose che sfuggivano al controllo umano. Inizialmente, infatti, aveva mostrato qualcosa: era rimasta immobile, incapace di reagire. Solamente dopo si era ripresa ed era tornata in sé.

Ma la sua sicurezza a cosa era dovuta? Al fatto che si fidava di lui al cento per cento perché era ignara di tutto? Oppure era dovuta al fatto che lui le avesse raccontato per filo e per segno cos'era successo quella notte con Emily ma che avesse tralasciato la parte riguardante Olivia, fornendole un altro movente che l'aveva portato a uccidere Emily e che ad avviso di Tracey pareva più valido che qualsiasi altra congettura?

Persino io, prima che collegassi tutti i pezzi, ero convinta che fosse stato Dylan a uccidere Emily, e qualsiasi altra ipotesi mi risultava impossibile e assurda da credere, perché mi basavo su una verità che non era quella assoluta ma soltanto parziale.

Al termine delle lezioni scrissi a Olivia per chiederle di incontrarci un attimo in bagno per parlare. Mi assicurai che non ci fosse nessuno nei bagni ad ascoltare, e poi finalmente parlai: «Avevi ragione, non ha funzionato. Non se l'è bevuta neanche per un secondo» ammisi sconsolata.

Olivia corrucciò la fronte. «Ma di che stai parlando? Ha funzionato e anche alla grande!» esclamò, prima di passarmi il suo cellulare e chiarire la mia confusione.

Nonostante ciò che aveva detto a me, infatti, Tracey alla fine aveva scritto al profilo spotted creato da Olivia.

"Che cos'è questa storia?" aveva scritto.

"Scusa cara, io pubblico solo quello che mi mandano. Non so niente di più."

"Allora chi è stato a scrivertelo?"

"Non posso rivelare le fonti. Sarebbe scorretto."

"Ho bisogno di saperlo. Voglio scrivere a quella persona e farle delle domande, visto che sembra conoscere i cazzi miei meglio di me" aveva insistito Tracey, e mi sembrava tutto più che lecito.

Allora anche lei aveva un lato umano, ed era l'amore che provava per Herman a farlo uscire. Avrei voluto capirlo prima.

"Se vuoi posso fare da intermediario, se scopro qualcosa di più te lo farò sapere" aveva risposto Olivia.

Dopodiché nella chat c'era un salto di circa un paio d'ore, quindi all'incirca una mezz'ora prima della fine delle lezioni, in cui Olivia aveva riscritto a Tracey. "Ho qualcosa di più concreto... Sei davvero sicura di volerlo vedere?" aveva domandato.

"" aveva semplicemente detto Tracey.

Poi seguì una serie di almeno una dozzina di screenshot di chat. Ne aprii e lessi alcuni. Erano delle conversazioni fra Olivia e Herman che lasciavano ben poco all'immaginazione, a maggior ragione perché erano complete di foto e video intimi da parte di entrambi.

Tracey aveva risposto con un secco: "Grazie".

Restituii il cellulare a Olivia e, per la prima volta, la vidi con occhi diversi.

«Perché l'hai fatto?» chiesi. Pensavo avrebbe lasciato la questione in sospeso, senza dire più nulla a Tracey per poter mantenere il segreto che era rimasto sepolto per tutto quel tempo. Dopotutto era stata chiara: non avrebbe voluto per nessun motivo al mondo che si scoprisse.

«Andava fatto, prima o poi» rispose, scrollando le spalle. «E comunque non si vede che sono io, inoltre ho scelto delle parti in cui non fa il mio nome, quindi sono tutelata.»

«Be'... sei stata coraggiosa.» Specialmente perché dopo aver esposto Herman, era certo che lui avrebbe esposto lei per ripicca, ed era ciò che Olivia fino a quel momento aveva cercato di evitare.

«Coraggiosa? Io?» domandò scettica, pensando forse che la stessi prendendo in giro. «Sempre costretta a fare le cose di nascosto, di soppiatto, per non farmi scoprire perché "nessuno deve saperlo". Che cosa c'è di coraggioso nell'accettare di farsi trattare come un oggetto da ogni ragazzo? Chiunque mi si avvicina lo fa sempre perché vuole usarmi per arrivare i suoi scopi, che siano sessuali o non. Come se mostrarsi forte e fredda significasse necessariamente che nulla mi scalfisce...»

Olivia si bloccò all'improvviso, come se si fosse appena ricordata che era me che aveva davanti e non qualcun altro. Sebbene non fosse mai corso buon sangue fra di noi, non potei fare a meno di provare un po' di compassione nei suoi confronti. Nonostante il suo tono pacato e distaccato, i suoi occhi apparvero più eloquenti di quello che avrebbe voluto, e vi lessi la stessa sofferenza che, anch'io, sebbene per motivi diversi, provavo.

In fondo a nessuno piaceva sentirsi continuamente ingannati e usati, e a lei era capitato più di una volta: con Herman, con David, probabilmente anche con George era andata così.

«Adesso basta, mi sono stufata di nascondermi. Che ci provi Herman a venire a dirmi qualcosa, sarò ben felice di mostrare a tutti le foto del suo cazzo minuscolo» disse, riprendendosi da quel breve attimo in cui si era mostrata vulnerabile.

«Olivia, non credo che sia una buona idea. Herman è...»

A quel punto mi interruppe, senza lasciarmi il tempo di finire. «Non me ne frega niente di chi è Herman né di cosa è capace. Mi interessa sapere chi sono io, Megan. Sono la figlia del procuratore distrettuale, Herman non ha alcun potere su di me e, se è una persona sveglia, sa che non gli conviene torcermi un solo capello» disse, prima di darsi un colpo sui capelli: «Ora sparisci dalla mia vista, per oggi mi hai già portato via abbastanza tempo».

Ero quasi sul punto di ringraziarla, ma dopo che aveva assunto nuovamente quel suo tono insopportabile, mi passò la voglia. Infatti, senza aggiungere altro, le diedi le spalle e uscii dal bagno.

Neanche dieci secondi dopo, ci ripensai e corsi indietro, sperando che Olivia fosse ancora lì. La beccai proprio nel momento in cui stava per aprire la porta del bagno, di conseguenza ricevetti la porta in testa. Emisi una smorfia di dolore e mi massaggiai la testa, prima di afferrare Olivia per un braccio e riportarla dentro al bagno. Non le diedi neanche il tempo di parlare: «C'è un'altra cosa che dovresti fare per me!» esclamai.

•••

«Tanti auguri, piccola fighetta di legno!» esclamò George non appena mi vide arrivare a scuola martedì mattina, accogliendomi a braccia aperte. Lo fulminai con lo sguardo, ma poi lo abbracciai: «Grazie, George. O almeno credo».

«Hai dormito meglio stanotte?» domandò poi sciogliendo l'abbraccio e io annuii. «Sì, grazie alle pastiglie che mi hai dato è andata un po' meglio.»

«Quante ne hai prese?»

«Soltanto una, come mi avevi detto. Rilassati, non voglio cercare di andare in overdose» sbraitai. Assurdo. Mi trattava come se avessi dei precedenti da tossicodipendente.
La sua espressione non sembrava affatto convinta. «George, ho tutto sotto controllo» tentai di rassicurarlo.

«Sai, questa è proprio la classica frase che dicono le persone che sono sul punto di toccare il fondo.»

«Da quando giudichi quello che fanno le altre persone? Te ne sei sempre fregato di quello che facevano gli altri, giusto o sbagliato che fosse» gli ricordai.

«Era facile fregarsene degli altri, quando non avevo nessun amico. Poi, purtroppo o per fortuna, sei arrivata tu, Megan Sinclair.»

Sorrisi. In quel momento suonò la campanella e feci per allontanarmi e dirigermi in classe, ma George mi richiamò. «Dopo scuola fai un salto veloce a casa mia? Ho un piccolo pensierino per te.»

«George, sei fuori? Non dovevi prendermi nulla, ancora sono in debito per te per quel sabato a New Orleans.»

«Tranquilla, stavolta non ho dovuto spendere un centesimo» rispose, e il tono di voce misterioso con cui lo disse mi inquietò un poco.

Non ero pronta a scoprire cosa teneva in serbo per me.

•••

Tracey era assente. Un po' mi dispiaceva per averglielo fatto sapere in quel modo, ma andava fatto.

Senza neanche aspettarmi un messaggio d'auguri, le scrissi per chiederle come stesse. Non avevo più saputo nulla dal giorno prima a pranzo.

Dopo le lezioni, seguii George fino alla sua macchina e andammo a casa sua. Era una villa enorme, con tanto di giardino. Non aveva mentito dicendo che i Radley erano una famiglia facoltosa. Eppure a vederlo non sembrava. Avrebbe potuto permettersi un'auto di lusso invece girava con un normalissimo modello di seconda mano, avrebbe potuto sfoggiare abiti di marca e invece il più delle volte indossava dei semplici felponi e dei pantaloni della tuta. A quanto pare credeva davvero nel fatto di volersi emancipare dalla famiglia, senza dipendere da loro economicamente. Forse era solo perché, in fondo, si sentiva ancora un peso per quelli che non erano i suoi genitori biologici.

Una volta inserita la chiave nella serratura e aver aperto la porta di casa, entrammo dentro. Lasciammo gli zaini a terra appoggiati alla parete. Da una delle numerose porte sbucò un bambino, fra i nove e i dieci anni, che prese la rincorsa e saltò in braccio a George. «Georgie!» esclamò con un sorriso.

«Ehi, Ryan. Non ti presenti?» chiese poi il riccio facendo cenno a me.

«Io sono Ryan» disse il bambino tendendomi la manina affinché la stringessi. «Lei è più bella di quella mora» bisbigliò poi all'orecchio di George.

Immaginai che si stesse riferendo a Olivia.

«Perché non viene più a casa nostra?» aggiunse.

George per la prima volta si mostrò visibilmente in imbarazzo, senza trovare le parole da dire.

«Piacere di conoscerti, Ryan, io mi chiamo Megan» dissi allora con un sorriso.

Poi si aprì un'altra porta e vidi uscire quella che dedussi essere la signora Radley. Ryan allora si lanciò letteralmente a terra per correre da lei.

«George, sei tornato? Devi...» si bloccò non appena mi vide a fianco del figlio. «Oh, tu sei...»

«Megan, un'amica di George» risposi, chiarendo i suoi dubbi.

«Megan? Megan Sinclair?» chiese stupita. Il fatto che mi avesse riconosciuta bastò a farmi temere. Forse era preoccupata per quelle che erano le amicizie scelte dal figlio. Quale genitore avrebbe mai desiderato che il proprio figlio fosse amico di una ragazza che fino a poco tempo prima era stata accusata di omicidio?

Certo, se solo avesse saputo che in realtà George era più criminale di quanto lo fossi io...

«Assomigli tantissimo a tuo padre! Eravamo compagni di classe al liceo» disse poi e io sospirai di sollievo. Sorrisi e poi le strinsi la mano: «Allora glielo saluterò con piacere, signora Radley».

«Grazie, lo apprezzerei molto.»

Dopodiché io e George salimmo le scale e ci dirigemmo verso la sua stanza. Lasciò la porta socchiusa. «Scusa, è che probabilmente teme che scoperemo o cose simili, quindi la lascio aperta» disse per giustificare quella sua accortezza.

«Perché dovrebbe pensarlo?» domandai confusa.

«Perché non ha mai visto nessuna ragazza entrare qui prima di te. Né nessun altro in realtà» rispose, prima di stendersi sul letto e allungarsi poi verso il comodino e iniziare a rovistare fra i cassetti.

«Ryan però conosceva Olivia» gli feci notare.

«Sì, ogni tanto veniva a casa mia quando c'era lui, tanto stava sempre di sotto a guardare la televisione a tutto volume, non si accorgeva di quello che succedeva qui dentro» spiegò, lasciandomi inorridita per il fatto che avesse davvero fatto sesso con Olivia con un bambino di dieci anni al piano di sotto. Be', in realtà mi inorridiva già abbastanza il fatto che fosse stato con Olivia.

Mentre George continuava a rovistare alla ricerca di chissà che cosa, mi concentrai su due cornici che erano appoggiate sulla sua scrivania. Una era una foto di George da piccolo, al Lake End Park, in cui veniva tenuto per mano da un uomo e una donna e, a giudicare dalla somiglianza, doveva trattarsi dei suoi genitori biologici; l'altra foto invece mostrava George che teneva in braccio un piccolo Ryan, e di fianco a loro i signori Radley.

In entrambe le foto era felice. In entrambe le foto si sentiva parte della famiglia da cui era circondato.

«Quindi Ryan era già nato quando... be', quando ti hanno preso con loro» dissi.

«Sì. Avrebbero tanto voluto avere anche un secondo figlio, ma a causa di alcune complicanze durante il parto di Ryan, non gli era stato possibile... La mia disgrazia è stata per loro la più grande fortuna. E da una parte anche la mia. Non pensavo che sarei mai riuscito a riabituarmi a chiamare "mamma e papà" altre persone al di fuori di loro» disse con un sorriso così puro e sincero che mi fece sciogliere il cuore. «Chiudi gli occhi e solleva i palmi verso l'alto» aggiunse poi, nascondendosi qualcosa dietro la schiena.

Roteai gli occhi ma poi feci come disse.

Mi mise in mano qualcosa e a quel punto esclamò: «Apri gli occhi!».

Riaprii gli occhi e feci una smorfia, nel vedere un pacco di preservativi posato sulle mie mani.

«Serviranno più a te che a me. Io ormai ce li ho chiusi lì dentro da un po' di tempo, ma tranquilla, non sono scaduti» aggiunse.

«Stai scherzando? Che dovrei farci con questi?» chiesi.

«Se è una strategia indiretta per chiedermi di fare sesso con te, ti ripeto che non sei il mio tipo, Megan.»

«George, non è diverte...»

«Ma invece sei il tipo di qualcun altro» mi interruppe serio, prima di sedersi sul bordo del letto.

Alzai gli occhi al cielo. «Ah, sì? E di chi? Di David, forse?» sbottai, visibilmente spazientita, prima di lanciare la scatola di preservativi sul letto.

«Io non ho fatto nessun nome» scrollò le spalle. «Dico solo che, forse, è arrivato il modo di liberarsi della "Grande V", che dici?»

Sbuffai, andando a sedermi di fianco a lui. «Non vedo il motivo di tutta questa fretta, in fondo compio diciassette anni, non quaranta. Quando arriverà la persona giusta, allora lo farò.»

«E lui non lo è?»

Scossi la testa. «Non lo so» ammisi. «Mesi fa pensavo che fosse Dylan... No, in realtà no, non l'ho mai creduto fino in fondo. E infatti non è successo, sebbene le occasioni per farlo fossero state molte.»

«Megan, ma chi se ne frega di trovare la persona giusta! Tanto non riesci mai a compiere neanche una decisione che sia giusta. Certo, non significa che debba essere una persona qualunque, ma se c'è del sentimento vero, che male c'è a farlo?»

«Tu con chi l'hai fatto per la prima volta? Ti prego, non dirmi Olivia!» esclamai, raccapricciando al solo pensiero.

«Stiamo parlando di te, non di me» sviò il discorso, e improvvisamente sembrò sentirsi a disagio.

Sbuffai nuovamente. Certo che provavo ancora qualcosa per David. Certo che avrei voluto condividere quel passo importante della mia vita con lui. Certo era anche, però, che avevo paura di sbagliarmi ancora, anche se in effetti George aveva ragione e non ne facevo mai una giusta in ogni caso. «Quindi, secondo te, dovrei andare da David, dirgli che sono disposta a passare sopra a quello che ha fatto con Dylan, e poi dirgli che, dopo un'accurata selezione, lui è risultato come il più adatto a cogliere il fiore della mia innocenza?»

George emise un ghigno. «Be', secondo me potrebbe andare. Tanto a lui piacciono quelle dirette, no?»

«Ma io non voglio che sia così! Insomma... a parte che neanche una manna dal Cielo basterebbe per far sì che David sia disposto a starmi anche solo ad ascoltare, e in più... non lo so, vorrei che non accadesse tutto subito. Voglio dire, una volta fatto, che cos'altro rimane dopo?»

Avevo sempre pensato che prima di arrivare a un momento così fondamentale con qualcuno dovesse trascorrere un po' di tempo. Tracey ci aveva messo quasi due anni. Non c'era una quantità di tempo definito e oggettivo per tutti, ovvio, ma io e David non stavamo neanche insieme.

George scoppiò genuinamente a ridere dopo le mie parole, e non ne capii il motivo finché non fu lui a spiegarmelo: «Aspetta, ma tu davvero credi che fare sesso la prima volta con qualcuno sia una sorta di passo o destinazione finale? Ogni tanto mi meraviglio di quanto tu sia ingenua. Sarà anche chiamata la terza base, ma per come la penso io, è come se fosse la prima. Megan, non è quella la fine, è soltanto l'inizio. È quello il momento in cui davvero inizi a legarti a quella persona, in cui iniziate a sentirvi l'uno parte dell'altra. È da quel primo incontro che imparate a conoscervi per davvero».

Le parole di George furono certamente d'impatto, tanto che attivarono qualcosa in me e mi consentirono di vedere le cose in modo diverso. «Hai ragione» dichiarai. Poi scattai in piedi. «Ora devo andare, ci vediamo domani e... grazie, questi li prendo io!» esclamai, prima di afferrare il suo "regalo" e catapultarmi fuori dalla sua stanza e successivamente di casa.

 

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Capitolo 17
*** 16. Cos'è che ti preoccupa tanto? ***


16. Cos'è che ti preoccupa tanto?

Per tutto il resto della giornata riflettei sulle parole di George. Ormai mi aveva messo la pulce nell'orecchio e non riuscivo a pensare ad altro che a quello.

Tracey non mi aveva risposto al messaggio che le avevo inviato, ma immersa com'ero nei miei pensieri, non me ne preoccupai più di tanto.

Per schiarirmi ulteriormente le idee, dopo cena decisi di farmi una doccia. 
Prendendo in prestito della schiuma da barba di mio padre, passai la lametta in ogni punto del corpo, più e più volte, fino a ottenere una pelle perfettamente liscia. Probabilmente impiegai circa un'ora, ma una volta finito mi sentii soddisfatta. E pronta.

Anche se nemmeno sapevo per cosa. Probabilmente all'ennesimo rifiuto da parte di David, all'ennesima crepa sul mio ormai debole e deformato cuore, alle ennesime lacrime versate. Anche se a dire il vero non piangevo da diverso tempo.

L'ultima volta era stata quando mi ero confrontata con Dylan dentro l'aula di tribunale. Nel ricordarlo, emisi un sorriso amaro. Quel palazzo di giustizia era stato il primo luogo in cui avevo ripreso a piangere di nuovo dopo oltre un mese in cui ero rimasta a secco, dopo la mia vittoria all'udienza preliminare. Ed era stato anche l'ultimo luogo in cui ero riuscita a piangere.

Una volta dopo essermi asciugata i capelli, mi misi a letto e presi una delle pastiglie che George mi aveva dato per dormire.

•••

L'indomani mattina, mi svegliai raggiante, piena di energie, sicura di me stessa.

Andai in cucina e salutai mia madre con un bacio sulla guancia. «Che cosa devi chiedermi, Meg?» domandò sospettosa.

E in effetti non aveva tutti i torti.

«Ho bisogno della macchina» dissi semplicemente, senza neanche sforzarmi di creare inutili sotterfugi. Non avevo più intenzione di mentire, anche se questo significava rischiare di ricevere un no come risposta.

Mia madre ci rifletté qualche secondo. «Lo sai, Megan, stai diventando grande. Il tuo corpo sta cambiando, il tuo viso sta pian piano perdendo i tratti da bambina. Ma io voglio che questa crescita non avvenga solo dal punto di vista fisico. Ho bisogno che tu mi dimostri che stai maturando. E l'unico modo che ho per far sì che tu possa dimostrarmelo, è ridarti fiducia e sperare che tu non la deluda di nuovo. Basta punizioni o continui rimproveri: ti lascio libera. Dimostrami che stai diventando un'adulta.»

Mi fece piacere sentire quelle parole, il nostro rapporto nell'arco di pochi mesi stava davvero cambiando per il meglio. Ma ancor di più mi fece piacere sapere che avrei avuto via libera quel pomeriggio.

«Ah, e se sabato vuoi festeggiare il tuo compleanno come si deve, io e tuo padre andremo fuori a cena, così se vuoi invitare qualche amico...»

Cinsi mia madre in un abbraccio, promettendole che non se ne sarebbe pentita, e poi corsi a prepararmi per andare a scuola.

•••

Dopo le lezioni mi avviai con grande energia verso casa, solo per poter prendere la macchina di mia madre, che quel giorno era rimasta a lavorare da casa, e mettermi subito in moto, direzione New Orleans.

Il cuore mi batteva all'impazzata e lo stomaco non faceva che contorcersi a causa dei sentimenti contrastanti che provavo in quel momento: ansia, gioia, paura, speranza, timore, eccitazione.

Parcheggiai l'auto nell'area dedicata all'interno del Delgado Community College. Poi presi la mia borsa e, dopo aver chiuso la macchina, mi misi letteralmente a correre. Quella volta non c'era Serena ad aiutarmi, così dovetti ricorrere solo alla mia memoria per potermi ricordare il numero della sua stanza. Chiusi gli occhi e poi cercai di visualizzare nella mia mente la targhetta con il numero a tre cifre: 153.

Ripresi allora a correre. Non sapevo neanche perché. Non avevo tutta quella fretta, a dire il vero. Anzi, non appena giunsi davanti alla porta, ebbi quasi la tentazione di fare dietrofront e tornare a Morgan City. Insomma, cosa gli avrei detto? E se mi avesse sbattuto la porta in faccia? Tra l'altro era stato chiaro: quella era la sua decisione definitiva. Che cosa credevo, che solo perché io avevo cambiato idea lui avrebbe fatto lo stesso?

Alla fine bussai energicamente alla porta. Sentivo l'ansia morirmi in gola, ma comunque ormai ero lì e dovevo affrontarlo.

Io non sono una codarda e non sono debole, continuai a ripetermi.

Non appena mi aprì la porta della sua stanza, mi rivolse uno sguardo stralunato, come se fossi l'ultima persona al mondo che si aspettava di vedere. Sperai con tutto il cuore che fosse da solo, che non ci fosse il suo compagno di stanza né nessun altro.

Spalancò quindi gli occhi nel vedermi: «Megan, che cosa fai qu...» Non gli lasciai il tempo di finire la frase. Senza sapere cos'altro fare, mi fiondai immediatamente sulle sue labbra con tutta la passione che avevo in corpo, tanto che dovette indietreggiare di qualche passo. Entrai dentro la stanza e chiusi la porta alle mie spalle.
Avrei avuto le forze per far durare il bacio ancora a lungo, ma fu David a interromperlo, pur rimanendo vicino al mio viso. «Vuoi dirmi qualcosa?» domandò con un mezzo sorriso.

Non sembrava arrabbiato, né scocciato. Sembrava felice quanto me di vedermi.

Scossi la testa. «Parlare è riduttivo. È meglio se lo senti tu stesso» risposi, afferrandogli una mano e portandomela sul cuore, che batteva all'impazzata. Deglutì, sforzandosi di mantenere lo sguardo sul mio invece che spostarlo sulle nostre mani. Poi però parlai ugualmente: «Ho compiuto diciassette anni ieri. Sarei un'illusa a dire che sento che sia cambiato qualcosa in me adesso che ho un anno in più di vita, perché in realtà non è cambiato niente: forse sono ancora la solita bambina, che non sa niente di come funziona il mondo, che non sa nulla dell'amore... ma so che è da mesi che sento questa cosa nel petto ogni volta che ti vedo, a volte anche solo quando ti penso». Non mi ero preparata nessun discorso, come sempre avevo lasciato che l'istinto mi guidasse, eppure le parole mi erano uscite senza la minima difficoltà. Mi bastava guardarlo. Era come se, guardando fisso nei suoi occhi, i battiti del mio cuore potessero essere tradotti in parole e a me bastasse solo leggerle.

«Megan, cosa vuoi che siano diciassette anni? Non sarà la prima né l'ultima volta che ti sentirai così, perché hai tutta la vita davanti, e...»

A lui era successo una volta sola in ventidue anni e mezzo.

«No, David, non è così!» lo interruppi. «La vita è imprevedibile e va vissuta giorno per giorno, al meglio delle proprie possibilità. Non so se domani sarà ancora tutto uguale, ma so che oggi sento di...» Mi bloccai non appena mi resi conto di un rumore strano che proveniva, presumibilmente, dal bagno: «Che cos'è?» chiesi allora.

«L'acqua che scorre. Stavo per andare in doccia prima che tu bussassi» rispose.

Stavo per scusarmi per essermi presentata senza preavviso e per aver interrotto ciò che stava facendo, ma all'ultimo cambiai idea su cosa dirgli: «E se ce la facessimo insieme?».

David mi guardò con le sopracciglia inarcate, e subito dopo scoppiò a ridere. «Tu non l'hai detto davvero!» esclamò.

«Qual è il problema? Cos'è che ti preoccupa tanto?» sussurrai al suo orecchio con tono strafottente.

Roteò gli occhi. «Io non mi preoccupo mai.»

Ignorai totalmente la sua risposta, tanto sapevo che con lui era sempre meglio agire piuttosto che chiedere. Poi appoggiai la mia borsa a terra vicino al suo letto e mi diressi in bagno. David mi seguì dentro la stanza e, non appena chiuse la porta alle sue spalle, iniziai a sentire un po' di agitazione crescere dentro di me. Ma ero anche impaziente di mettermi sotto l'acqua.

Solo che al momento l'ansia da prestazione prevaleva sull'eccitazione. Cosa diavolo mi era venuto in mente? La prima e unica volta che avevo provato a spingermi un po' oltre con un ragazzo, avevo fatto una terribile figuraccia. David aveva anni di esperienza alle spalle, mentre io ero solo un'incapace.

Sentii David sfilarsi la cintura e dedussi che aveva già iniziato a spogliarsi. Non mi restava che fare lo stesso.
Continuando a dargli le spalle, mi slacciai il bomber e, dopo averlo piegato alla bell'è meglio, lo appoggiai a lato del lavandino. Poi fu il turno della t-shirt. Dopodiché mi tolsi le scarpe e i calzini e li misi in un angolino. Sfilai i jeans e li appoggiai sul lavandino insieme al resto. Restava solo la biancheria intima.

Prima che potessi iniziare a fare qualsiasi altra cosa, David mi scostò i capelli all'indietro e avvertii il suo respiro sul mio collo, il che mi causò la pelle d'oca ovunque. Con il suo solito tocco delicato, fece scorrere le sue mani dai miei fianchi sempre più verso l'alto. Senza troppa fatica, slacciò il laccetto del reggiseno e lentamente mi aiutò a toglierlo e lo appoggiò sugli altri indumenti. 
Presi un respiro profondo e mi voltai verso di lui, incrociando le braccia al petto per coprirmi.

David mi rivolse un piccolo sorriso e poi afferrò le mie mani e fece sì che stringessi le braccia attorno alla sua nuca. Si avvicinò finché i nostri corpi non furono adiacenti. Poi mi fece una piccola carezza sulla guancia. «Sei ancora sicura di voler entrare lì dentro?» domandò facendo cenno alla doccia, con un tono gentile ma che io interpretai come di sfottò. Infatti, senza neanche rispondergli, mi sfilai le mutandine e poi gli diedi le spalle ed entrai in doccia.

Avendola lasciata scorrere per così tanto tempo, l'acqua era ormai bollente, così dovetti regolarla fino a farla diventare tiepida. Poi diminuii anche l'intensità del getto. Non appena David mi raggiunse, fu ben presto chiaro a entrambi che non era stata un'ottima idea, dal momento che una doccia di un dormitorio del college non era di dimensioni molto elevate.

Tuttavia, senza dire nulla, David si avvicinò a me e mi baciò, appoggiando questa volta le mani sulle mie natiche e sollevandomi da terra, affinché avvolgessi le gambe attorno alla sua vita e guadagnassimo un po' di spazio. Lentamente si separò dalle mie labbra e appoggiò le sue sul mio collo.

Chiusi gli occhi, per godermi al meglio delle mie possibilità quel momento. Ancora non mi capacitavo di ciò che stava realmente accadendo. 
Era passato esattamente un mese e un giorno dal nostro primo bacio, e adesso ero già arrivata al punto in cui non ne tenevo più il conto. Solo in quel minuto quanti erano stati? Tre? Quattro? L'importante per me era solo che non arrivasse mai l'ultimo.

A un tratto le sue labbra si spostarono sul mio seno. A volte era così delicato a muoversi che mi faceva quasi il solletico, tanto che non sempre riuscivo a trattenermi dall'emettere delle risatine, il che causava del riso anche in lui.

A un certo punto si interruppe e mi fece tornare con i piedi a terra. Mi spostò i capelli dietro le spalle e appoggiò una mano sul mio viso. Ci fissammo a lungo stando in silenzio, mentre l'acqua continuava a scorrere sui nostri corpi nudi.

Non riuscivo davvero a staccargli gli occhi di dosso, era come se i miei fossero incatenati ai suoi.

In quel momento pensai, forse per la prima volta, di amarlo.

Ma doveva essere l'adrenalina e il desiderio che provavo in quel momento a farmi credere una cosa del genere, così tentai di cacciare in svelta quel pensiero e vivermi quel momento senza pensare a nient'altro che al ragazzo che avevo davanti.

Dopo averci riflettuto ancora per qualche secondo, mi passai la lingua sul labbro superiore e in seguito mi inginocchiai. Una parte di lui sembrava gradire particolarmente la mia vista, il che mi fece sorridere. 
Ero consapevole del fatto che stavo per fare una terribile figura per via della mia inesistente esperienza, ma in un modo o nell'altro avrei pur dovuto cominciare. Sollevai un attimo lo sguardo in alto per guardare David, il quale aveva un piccolo ghigno che cercava in tutti i modi di nascondere. «Cazzo, sto già contando gli anni di galera...» disse, più che altro fra sé e sé.

E poi lo feci. Iniziai a toccare la sua intimità con la punta della lingua e, quando mi sentii più sicura, mi spinsi più in profondità. Non avevo assolutamente idea di quello che stessi facendo né di come lo stessi facendo, ma i gemiti emessi da David e il suo respiro sempre più affannato mi invogliarono a continuare.

Magari non ero del tutto imbranata.

Continuai con quei movimenti lenti e duraturi con la lingua per un altro po', finché non lo sentii irrigidirsi particolarmente. «Megan...» tentò David di avvisarmi e cercai di serrare la bocca quanto prima, ma ormai era troppo tardi.

Invece che deglutire, tuttavia, mi chinai con la bocca a terra e sputai ciò che avevo ingerito, prima di sciacquarmi la bocca con l'acqua che scorreva.

Sperai che David non l'avesse presa male. Se non altro ero riuscita a trattenermi dall'urlare: «Che schifo».

Quando mi rialzai in piedi e tornai a guardarlo, aveva un tenero sorriso stampato in volto. «Questa cosa non so se potrai farla in altri luoghi al di fuori della doccia» scherzò, e il leggero imbarazzo che si era creato sfumò.

Mi afferrò per la vita e mi diede diversi piccoli baci, prima di darmene uno più serio. 
Lentamente una delle sue mani lasciò il mio corpo e si avviò sempre di più verso il basso, finché non raggiunse la mia intimità. Ebbi un leggero sussulto nel momento in cui mi penetrò con un dito. «Tutto bene?» domandò David a pochi centimetri dalla mia bocca.

«Più che bene» risposi. Poi richiusi gli occhi e tornai a baciarlo, mentre nel frattempo il mio corpo si lasciava andare a una pura sensazione di piacere. Più i secondi passavano, più mi sentivo rilassata, serena, a mio agio. Il mio respiro cominciò a farsi più pesante e più frequente man mano che David intensificava i movimenti. Strinsi una mano attorno alla sua nuca per portarlo più vicino a me.

•••

Una volta dopo esserci lavati, io e David uscimmo dalla doccia. Si avvolse l'accappatoio attorno al corpo e ne passò uno anche a me.

«Spero non sia quello di Trev» dissi, evitando di afferrarlo subito.

«È il mio, non ti ricordi? L'avevi già usato» rispose, e in effetti era lo stesso che avevo usato qualche mese prima, quando ero corsa da lui bagnata fradicia per via del temporale.

Annuii e mi misi il suo accappatoio. Poi mi avvolse un braccio attorno alle spalle e trascorremmo una manciata di secondi a fissare il nostro riflesso sullo specchio del bagno. 
Ringraziai il Cielo di non essermi truccata quel giorno, altrimenti avrei avuto tutto il viso ricoperto dal mascara colato. Peccato che, in quel momento, di fianco a lui, con i capelli bagnati e il viso struccato, sembravo proprio una bambina.

A un certo punto David abbassò una mano e mi strizzò una chiappa e io gli tirai allora una gomitata sul costato. «Questo non dovevi farlo!» esclamò con un sorriso, prima di prendermi in braccio e correre fuori dal bagno, nonostante i miei falliti tentativi di divincolarmi. Mi adagiò sul suo letto e si sdraiò poi sopra di me. Si avvicinò come per baciarmi, ma poi all'ultimo si ritrasse e iniziò a farmi il solletico sulla pancia. Scoppiai a ridere fragorosamente, mentre nel frattempo cercavo di allontanare le sue mani da me, invano.

Dopo poco decise per fortuna di darci un taglio, e si sdraiò incastrando la testa nell'incavo del mio collo, lasciandoci dei baci di tanto in tanto. Iniziai a passare una mano fra i suoi capelli, arricciandomi le punte intorno al dito.

Vidi di fianco a me il suo cellulare appoggiato sul comodino. Lo presi un attimo in mano per vedere che ore fossero. Erano quasi già le cinque e un quarto. 
Massimo un'ora e sarei dovuta tornare a casa. Così sollevai il busto e mi misi seduta. «C'è qualcosa che non va?» domandò David.

Senza rispondere, mi tolsi l'accappatoio di dosso e poi invertii le nostre posizioni, sdraiandomi a cavalcioni su di lui e baciandolo con impeto.
Poi slacciai anche il cinturino che si era legato in vita per chiudere l'accappatoio e feci per toglierglielo, ma lui afferrò le mie mani e mi bloccò: «Che vuoi fare, Maggie?» chiese confuso.

Scrollai le spalle e continuai a fissarlo in silenzio, nella speranza che capisse da solo. E infatti fu così. «A-Aspetta, tu vuoi... vuoi andare fino in fondo?» chiese, prima di grattarsi dietro la nuca.

Annuii e mi avvicinai al suo viso per baciarlo, ma lui si scostò: «Ma adesso?».

«Be', e quando se no?»

«Non lo so, insomma... io mi ero sempre immaginato che prima avremmo avuto un confronto a riguardo, che ne avremmo parlato.»

«Ne stiamo parlando ora» dissi, cominciando a spazientirmi. Non volevo altri che lui e lo volevo in quell'esatto momento. «E, in effetti, c'è una cosa che non ti ho ancora detto...» aggiunsi, mordendomi il labbro inferiore per l'imbarazzo. Annuì come a invogliarmi a parlare. Così presi un respiro profondo e gli svelai l'arcano mistero: «Io non... io non l'ho mai fatto».

Sollevò le sopracciglia in segno di stupore. Poi emise una sorta di ghigno incontrollato, come poco prima in doccia. «Aspetta, quindi... tu e Dylan non...»

Scossi la testa. «No» lo interruppi, e quella scoperta sembrò essere di suo gradimento, tanto che sospirò di sollievo e si lasciò andare a un genuino sorriso. Poi però sembrò riacquisire autocontrollo e tornò a guardarmi serio. «Maggie... È la tua prima volta, vuoi davvero che sia così, con me, ora?»

«Detta così sembra quasi che sia tu a non volerlo» incrociai le braccia al petto e subito mi incupii in viso. Se davvero provava lo stesso che provavo io, non se lo sarebbe fatto ripetere due volte. Non volevo essere per lui una scocciatura, pronta a donarmi senza che lui avesse chiesto nulla.

Fece un piccolo sorriso, prima di darmi una dolce carezza sul viso. «L'unica cosa che non voglio è che tu ti senta obbligata. Se per caso non ti senti ancora pronta, se hai bisogno di più tempo... sappi che non dev'essere per forza oggi. E sappi che io non andrò da nessuna parte, non ne ho alcuna intenzione.» Si avvicinò a me fino a far sfiorare i nostri nasi.

«David, l'unico motivo per cui sono venuta qui oggi è perché mi sono stancata di aspettare, di rimandare. Voglio sentirmi parte di te e voglio che sia oggi.»

Dopo qualche istante di titubanza, annuì e mi stampò un bacio sulla bocca. Proprio nel momento in cui stavo per approfondirlo, lui si separò bruscamente dalle mie labbra e poi si passò una mano sulla fronte e scosse la testa. «Merda, i preservativi!» esclamò, alzandosi in piedi e dirigendosi verso il letto del suo compagno di stanza. «Spero che Trevor li abbia, altrimenti...» Si chinò quindi a terra e aprì il cassetto del suo comodino. «Figuriamoci, quel coniglio ne fa fuori anche dieci al giorno» sbottò richiudendo il cassetto e voltandosi poi verso di me.

La sua espressione scoraggiata e frustrata assunse un alone di stupore e confusione nel momento in cui mi vide con un pacco di profilattici in mano. Ne tirai fuori uno e mi morsi il labbro inferiore.

David allora mosse dei passi nella mia direzione, ancora piuttosto disorientato: «E tu questi dove li avresti presi?» chiese.

«Me li ha dati George» risposi. David aggrottò le sopracciglia: «Cosa dovrebbe significare? No, fa niente, va bene così, non voglio saperlo».

Sorridemmo entrambi e poi David si tolse del tutto l'accappatoio e lo lasciò cadere a terra, dopodiché si stese sopra di me e prese a baciarmi. Tornò anche a usare le mani, stavolta non con un solo dito, bensì due. Fece un po' male all'inizio, ma dopo poco me ne dimenticai. Si dedicò a quei movimenti per diversi minuti mentre dentro di me io pregavo che quel momento non finisse mai.

Ma a un certo punto finì. Così riaprii gli occhi e lo vidi intento a infilarsi il preservativo.

Stava per succedere davvero? Sentii l'ansia crescere dentro di me, ma continuai a ripetermi che era del tutto normale. Perché lo era, no?

«Megan, sei davvero sicura? Sicura al mille per mille?» mi chiese.

Nel frattempo notai che i suoi capelli erano ormai quasi asciutti. Non avendo messo il gel come suo solito, erano ricci e bellissimi. Mi chiesi perché non li tenesse sempre in quel modo.

«Lo sono. Lo giuro, sono pronta» dissi. David allora annuì, prima di baciarmi intensamente. Intrecciò le dita delle sue mani alle mie e mi portò le braccia fin sopra la testa.
All'improvviso, poi, entrò dentro di me e sentii un dolore mai sperimentato prima.

«È... è finito?» chiesi speranzosa.

«No, Megan... sono appena all'inizio. Ti fa tanto male? Vuoi che mi fermi e ci riproviamo un'altra volta?»

Esitai per qualche secondo, prima di rispondere: «No, no, va bene. Tranquillo. Però fai in fretta».

«Se faccio in fretta ti faccio il triplo del male» mi fece notare.

Sbuffai. Volevo solo che smettesse di fare così male. «Riproviamo» dissi.

A ripensarci, forse avrei preferito che fosse stato qualcun altro il primo, così non avrei sfigurato davanti a David e la nostra prima volta insieme sarebbe stata magica.

Ovvio, avevo tenuto in conto che perdere la mia verginità non sarebbe stato come in una scena da film, ma non pensavo nemmeno che ci sarebbe voluto così tanto. Cosa c'era che non andava in me? Lo desideravo più di ogni altra cosa. Avevo paura, certo, ma comunque mi stavo sforzando di essere il più rilassata possibile. Quando ne avevo parlato con Tracey, lei aveva detto che non le aveva fatto così male. Certo, era soggettivo, ma perché proprio io dovevo appartenere a quella categoria che soffriva terribilmente la prima volta?

Mentre io ero così immersa nei miei pensieri, David fece un secondo tentativo e questa volta mi fece ancora più male, dal momento che parve spingersi più in profondità. Strinsi con più decisione le mani di David, nel tentativo di farmi forza.

Provai poi per la terza volta un dolore acutissimo, ma questa volta avvertii qualcosa di diverso, così come mi confermò anche David: «Adesso puoi anche smetterla di fare questa faccia da anima in pena» mi rassicurò dolcemente.

Era fatta? Non potevo ancora crederci.

David continuò con le sue spinte, lente ma energiche il giusto, preoccupandosi di chiedermi ogni dieci secondi se fosse tutto a posto. Sentivo ancora un po' di dolore, ma pian piano si stava attenuando. Non sapevo bene dire cosa provavo: il piacere sprigionato dal mio corpo era ancora troppo poco per poter essere definito tale.

Però guardavo David e stavo bene.

 

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Capitolo 18
*** 17. Non ha mai voluto ***


17. Non ha mai voluto

Non avevo idea che quella prima esperienza sarebbe potuta durare così tanto a lungo, ma del resto David a differenza mia non era un novellino. 
Più volte mi aveva chiesto se volevo che si fermasse se faceva troppo male, che per lui non sarebbe stato un problema, ma io insistetti e resistetti fino alla fine. Probabilmente ero masochista.
Dopo una quantità indefinita di tempo, cominciò a rallentare progressivamente il ritmo e capii che era arrivato al culmine.

Mentre lui sembrava estasiato, al settimo cielo, io non potevo fare a meno di pensare che avrei voluto che quel momento fosse arrivato molto prima. Durante tutto il tempo mi ero sentita così... strana. E ora provavo solo sollievo per la sua fine.

«Stai bene?» chiese e io annuii.

Mi baciò rapidamente, prima che io sollevassi il busto e mi accorgessi di aver macchiato l'accappatoio di David di sangue. Non era grandissima, ma mi sentii comunque mortificata. «Oddio, mi dispiace, io non volevo...»

«Tranquilla, Megan, è una macchia minuscola, neanche si vede. Vuoi andare in bagno a sciacquarti?» chiese e io annuii. Mi alzai in piedi di corsa, portandomi dietro anche l'accappatoio e appoggiandolo sul lavandino. Ci feci scorrere un po' di acqua sopra e sfregai per ripulirlo, almeno in parte. Fortunatamente il tessuto era di microfibra e quindi era più probabile che la macchia sarebbe andata via dopo un lavaggio adeguato in lavatrice.

Poi ritornai in doccia e usai il doccino per pulirmi. Una volta finito, mi guardai nuovamente allo specchio.

Che diavolo avevo fatto? Perché l'avevo fatto? Che fretta c'era? Forse... forse avevo sbagliato. Forse non avrei dovuto. No... Non era davvero successo, giusto? Io ero ancora vergine.

Non riuscivo davvero a fare a meno di sentirmi a disagio, di sentirmi in colpa, di provare la sensazione di aver commesso un terribile errore. Non sapevo neanche perché mi sentissi così. Pensavo davvero di volerlo...

Scossi la testa nella speranza di liberarmi da quei pensieri, almeno per un momento. Poi raccattai i miei indumenti e mi rivestii in fretta. Successivamente legai i capelli in una coda, sebbene fossero ancora un po' umidi. Non sopportavo la vista di tutti quei capelli in disordine, mal riposti.

Mi misi anche le scarpe. Poi ritornai da David, che nel frattempo si era infilato un paio di boxer. Fu sorpreso nel vedermi già rivestita. «Wow, che velocità» commentò, alzandosi in piedi e giungendo davanti a me.

«È che si è fatto tardi, quindi... devo andare» risposi, evitando di guardarlo negli occhi.

«Va bene, vuoi che...» Si interruppe nel momento in cui la porta della sua stanza si aprì ed entrò un ragazzo che dedussi essere Trevor.

Diede un'occhiata prima a me e alla mia faccia sconvolta, poi a David che aveva solo un paio di mutande addosso, poi al letto completamente sfatto, poi al pacco di preservativi appoggiato sul comodino, e infine guardò nuovamente David: «D'accordo, ora vorrei sapere, quale razza di aspirante avvocato infrange così tante volte la legge?» fece, ponendo la domanda che anch'io mi ero posta più e più volte.

Come fece Trevor a capire subito che si trattasse di me, sebbene in realtà non ci fossimo mai incrociati prima di quel momento, rimaneva ancora un mistero. Ne avrei approfittato nei giorni successivi per chiederlo a David.

«Uno così bravo da non farsi scoprire neanche una volta» rispose David con uno dei suoi soliti ghigni.

«Dave, quello è il mio accappatoio?» domandò poi Trevor guardando a terra.

«Comunque, a dire il vero, ora che ho diciassette anni, secondo la legge della Louisiana è del tutto legale» intervenni.

Non seppi spiegarmi perché lo dissi. Pensavo che avrebbe smorzato la tensione, invece peggiorò soltanto la situazione. Che intervento stupido.

Trevor scoppiò a ridere, invece David aggrottò la fronte: «Tu la devi smettere di fare queste ricerche su Internet. Se ti interessa così tanto diventare un'esperta su queste cose, posso prestarti uno dei miei manuali di legge e il prossimo esame lo dai te al posto mio» disse con uno dei suoi ghigni strafottente.

«Sa il fatto suo la ragazza» commentò Trevor.

David gli mimò di chiudere la bocca. Dopodiché mi passò la borsa e si avvicinò al mio viso per baciarmi, ma io non ce la feci e mi ritrassi. «Ciao» dissi semplicemente, prima di uscire da lì.

Non sapevo perché avessi reagito in quel modo e sperai che David non ci fosse rimasto male, ma era stato più forte di me. Non sapevo cosa mi succedesse. Mi sentivo così a disagio. Non per via di David. Più che altro mi sentivo a disagio con me stessa. Forse era stato tutto troppo avventato. Forse avrei dovuto aspettare di più e non fare tutto subito.

Ma ormai non potevo tornare indietro, e onestamente non sapevo neanche se avrei voluto.

Il problema più grande era che non potevo neanche parlarne con qualcuno. Voglio dire, con chi avrei potuto farlo? Con mia mamma non se ne parlava proprio; George non avrebbe capito, in fondo per i maschi non era la stessa cosa perdere la verginità; con Tracey nemmeno, sia perché non era il momento giusto, sia perché non volevo che sapesse che avevo ancora contatti con il figlio del mio avvocato e che, anzi, tramavo con lui alle sue spalle per incastrare Herman.

Così, una volta in macchina, presi il cellulare e avvisai i miei che stavo tornando a casa. Dopodiché inserii la chiave per accendere il motore e me ne andai dal Delgado Community College.

•••

Arrivai per l'ora di cena. Stranamente i miei non mi fecero domande né storie. Se non altro avrei avuto un peso in meno.

Dopo aver finito di mangiare, andai in bagno. Sentii un bruciore non indifferente nel momento in cui mi sedetti sulla tazza del water per liberarmi dai miei bisogni biologici. Inoltre, notai che avevo perso altro sangue. Così dovetti farmi un'altra doccia per sciacquarmi, dopodiché decisi di usare un salvaslip quella notte, per non rischiare di macchiare il letto.
Poi presi finalmente il cellulare in mano dopo tutte quelle ore e diedi un'occhiata ai messaggi che avevo ricevuto. In particolare, mi interessava vedere se avevo messaggi di Tracey. Sfortunatamente, ancora il nulla più totale. Così decisi di scriverle ancora. In fondo un'amica avrebbe fatto così, e io volevo farle credere che fossimo ancora amiche come prima.

"Trace? Ti prego, almeno rispondimi, mi fai preoccupare se no."

Attesi con il cellulare in mano per almeno mezz'ora che mi rispondesse, ma non ricevetti il risultato auspicato.

Nel frattempo vidi che mi era anche arrivato un messaggio da parte di David all'incirca un'ora prima, in cui mi chiedeva se fossi arrivata a casa. "Sì, tranquillo" risposi, e nient'altro.

Non sapevo perché, ma dopo quello che era successo non riuscivo a non provare una sensazione incessante di disagio.

Forse non avrei dovuto lasciarmi condizionare da George e dalle sue parole, avrei dovuto attenermi all'idea che avevo sempre avuto. E con ciò non volevo scaricare la colpa del mio malessere su George, lui aveva avuto tutte le buone intenzioni del mondo, anzi, era stato merito suo se alla fine mi ero decisa a riconciliarmi con David.

Era solo colpa mia: non avrei dovuto permettere che le sue parole mi influenzassero.

Eppure pensavo che fosse stata una mia decisione. A diciassette anni avrei dovuto saper distinguere ciò che volevo da ciò che non volevo, no?

Ed era così, io sapevo ciò che volevo: David. Lo desideravo da mesi. Già prima di parlarne con George avevo fantasticato più di una volta sul perdere la mia verginità con lui e ogni volta non facevo che sperare che quell'idea non sarebbe rimasta solo una fantasia e che si sarebbe realizzata prima o poi.

Allora perché mi sentivo così?

•••

Tracey era assente anche quel giorno. Meditai sulla possibilità di andare a casa sua dopo scuola.

Valutai anche l'ipotesi di andare a chiedere a Herman, con nonchalance, se sapeva qualcosa. Ma come avrei potuto agire con nonchalance davanti a lui, dopo tutto quello che era successo e dopo quello che avevo scoperto? Se anche solo sentire la sua voce in classe o per i corridoi mi faceva rabbrividire, se anche solo vederlo passare mi faceva provare un irrefrenabile istinto di aggredirlo.

Così tentai con tutte le mie forze di trattenermi e andai invece a salutare George.

«Ciao» ricambiò il saluto, senza degnarmi di un'occhiata, impegnato com'era a fissare insistentemente lo schermo del suo cellulare.

«Che succede?» domandai.

«È da due giorni che ho inviato lo scoop fra me e Olivia alla pagina della scuola, ma ancora non l'hanno pubblicato» rispose, e io non potei evitare di emettere un piccolo sorriso.

Se solo avesse saputo che la proprietaria della pagina era proprio Olivia, avrebbe capito perché il suo piccolo segreto non era ancora uscito allo scoperto.

«Magari non l'ha visto, sono certa che riceverà tanti messaggi ogni giorno» ipotizzai, divertendomi a prendermi gioco di lui. «Comunque perché ti importa così tanto che si sappia? Insomma, da quello che ho capito l'avete tenuto nascosto per mesi ed eravate di comune accordo.»

Sbuffò. «Ma sì, infatti non mi importa, è che mi andava solo di divertirmi un po', ecco tutto» spiegò, ma non mi bevvi affatto le sue parole.

Comunque non mi andava di tenergli nascoste le cose, così sputai il rospo: «È Olivia che ha creato MCHS_officialspotted. Ecco perché, per pararsi il culo, non ha pubblicato quel gossip su voi due».

George strabuzzò gli occhi. «Sei seria? E tu come fai saperlo?»

«Perché le ho chiesto io di farlo. Hai visto il post che ha pubblicato su Herman? L'ho scritto io, affinché Tracey lo vedesse e reagisse, e infatti così è stato. Ha scritto alla pagina chiedendo maggiori informazioni, e Olivia le ha inoltrato le chat fra lei e Herman, senza però farle sapere che era lei la ragazza in questione.»

George, se possibile, risultava ancora più confuso. Si grattò il capo per cercare di fare chiarezza e unire tutti i pezzi. «Tu sei fuori di testa, Megan Sinclair, fattelo dire! Che piano da psicopatica!» esclamò infine, e io sorrisi.

«Comunque è questione di tempo prima che si sappia di Herman e Olivia, e direi che una relazione segreta alla volta è sufficiente. Non vorrai mica che le si rovini completamente la reputazione.» Mi sorpresi di me stessa nel dire quelle parole. Io, che per anni non avevo atteso altro che quel momento.

«Devo essere sincero? Sì, lo vorrei. Perché improvvisamente hai iniziato a compatirla? Dai, solo perché ti ha fatto un favore?» chiese George assumendo un tono indispettito.

Scossi la testa, non capendo il motivo di tutto quell'interessamento. «Rilassati, non diventeremo di certe amiche, non ci penso proprio. Però non mi sembra giusto alimentare ancora di più le voci su di lei e renderle la vita un inferno, perché io stessa ci sono passata e l'emarginazione e l'isolamento non sono affatto...»

«A me lo dici?» mi interruppe. «Ne so molto più di te e Olivia messe insieme, sai? È una vita che ci ho a che fare. È ora che la ripaghi con la stessa medicina e non mi interessa affatto delle conseguenze!» esclamò.

Non mi piaceva affatto la piega che stava prendendo quella conversazione. A quanto pare non sempre la sincerità paga, mi dissi. Non avevo mai visto George così alterato. Le vene sul collo gli si erano ingrossate e pulsavano.

«Ma perché? Non è mica colpa sua.»

«Non mi importa» scrollò le spalle. «Non si vergogna a far sapere a tutti che se la faceva con quello schifoso assassino traditore, ma si vergogna ad ammettere che c'è stato qualcosa fra me e lei? Insomma, perché?» chiese più che altro a se stesso che a me.

E a quel punto capii che erano tutte bugie quelle che mi aveva raccontato sulla sua storia con Olivia. Non è vero che non aveva mai sentito nulla per lei. La prova era proprio lì. Fino a quel momento non avevo avuto gli occhi sufficientemente aperti, ma era lì ed era sempre stato lì, il dolore. Nei suoi occhi, nel suo tono di voce, nei suoi gesti e nelle sue parole.

Olivia l'aveva ferito nel momento in cui aveva chiuso con lui a causa di Herman, e quella ferita per George era ancora aperta.

«Mi dispiace, George» dissi solamente. Avrei potuto e voluto aggiungere molto altro, ma non sapevo neanche da dove partire. E soprattutto non me ne lasciò il tempo.

«A me no» disse con tono duro e freddo, prima di allontanarsi.

Decisi di seguirlo, per via del modo ambiguo in cui si era chiusa la conversazione. Avevo il sentore che fosse ancora intenzionato ad andare avanti per la sua strada, e la cosa mi preoccupava a dir poco. Non avevo idea di come fermarlo, né sapevo se avrei fatto in tempo.

Così tirai fuori il cellulare dalla tasca e in fretta e furia iniziai a scrivere un messaggio a Olivia: "Guarda che George vuole dire a tutti di voi. Mi dispiace".

Mi rispose dopo pochi secondi. "Perché ti dispiace? Che hai fatto?".

Solitamente mi sarei irritata per quel tono accusatorio, ma in effetti un po' mi sentivo responsabile.

Poi, anche se non sarebbe servito a nulla, mi sentii di scriverle anche un'ultima cosa. Doveva saperlo prima che lui rovinasse ogni cosa. Doveva sapere che l'unico motivo per cui in quel momento era intenzionato più che mai a farla soffrire era solo uno strano e forse malato modo di renderla partecipe del dolore che lui stesso provava.

"Guarda che lui, a differenza di tutti gli altri, non ha mai voluto usarti. Ci tiene veramente" le scrissi.

Poi accelerai il passo per raggiungere George, il quale si trovava al momento di fronte a Olivia e le stava parlando animosamente. Quest'ultima sembrava non gli stesse dando ascolto, impegnata com'era a fissare il display del suo cellulare. Era praticamente immobile. George si schiarì allora la voce, nella speranza di attirare non solo la sua attenzione, ma quella di tutti i presenti in corridoio. «Scusate, ma per certe cose, credo che una stupida pagina su Instagram non crei il giusto livello di hype» iniziò a parlare, ricevendo diverse occhiatacce.

Aprì nuovamente la bocca, ma in quel momento qualcosa sembrò scattare in Olivia. Mise via il telefono e si alzò in punta di piedi e appoggiò una mano sulla nuca di George, o meglio, in realtà sembrava quasi sul punto di staccargli lo scalpo. Esitò qualche istante e poi, dopo aver preso un respiro profondo, ammorbidì la presa sui ricci di George e poi unì le sue labbra alle sue.

Io, insieme a molti altri, spalancai letteralmente la bocca al punto da farmi scrocchiare la mascella. Non sapevo se in quel momento in me era più grande la sorpresa oppure il disgusto. Probabilmente il disgusto.

Eppure il sorriso spontaneo che emise George non appena si separarono fu impagabile.

«Già» esordì Olivia a voce alta. «Fra dodici giorni è un anno che stiamo insieme.»

Cioè probabilmente un anno dalla prima volta, fra le tante, in cui avevano fatto sesso. Comunque era carino che se lo ricordasse.

«Abbiamo avuto una piccola crisi circa a fine settembre, ma adesso l'abbiamo superata» continuò, mentre le persone erano ancora troppo confuse per poter elaborare. «Così come spero di superare la vista delle vostre orride facce da sfigati. E chiunque pensi che George Radley sia uno sfigato, ci terrei a ricordargli che automaticamente sta insultando anche me, insinuando che io vada a letto con degli sfigati.»

Dopo quelle parole, qualcuno bisbigliò qualcosa, altri le diedero le spalle e tornarono a farsi i fatti loro, mentre in molti erano ancora impegnati nel tentativo di realizzare. Me compresa.

Mi sarebbe piaciuto andare da loro a chiedere maggiori informazioni su ciò che era successo, ma sembrava che loro in prima persona avessero molte cose di cui parlare, così mi tirai indietro e decisi di aspettare il momento più adatto.

Mi diressi in classe, continuando a riflettere sul fatto che, una parte di me, assistendo a quel bacio, non aveva potuto fare a meno di pensare a quanto desiderassi un bacio di David in quel momento.

Avrei voluto davvero tanto che fosse stato lì con me, ma al tempo stesso avevo paura di rivederlo dopo ciò che era successo il giorno precedente.

•••

Che scocciatura. Non riuscivo a spiegarmi per quale assurdo motivo era convinta che avessi così tanto tempo a disposizione. E in effetti ce l'avevo, ma di certo ciò che mi mancava era la volontà di trascorrerlo in sua compagnia. Avevo fatto la cosa giusta quel giorno, rivelando a quella poverina di Tracey Gomez la verità sul suo ragazzo, mi sembrava più che sufficiente.

Megan Sinclair però non era della stessa opinione. Ancora non capivo cosa si fosse messa in testa tutto a un tratto. Speravo solo che non si fosse illusa che solo perché quella mattina l'avevo aiutata, allora saremmo diventate amiche.

Come poteva George starle attorno tutto il giorno? La Megan Sinclair che avevo conosciuto fino a quel momento era una lagna noiosissima, lei e George non c'entravano assolutamente niente insieme... Bah, probabilmente fra sfigati ci si capiva.

Ecco cos'era: una sfigata, lamentosa, melodrammatica, finta perbenista, così annoiata dalla sua inutile vita che si era convinta di essere diventata una detective.

«Precisamente cosa pensi di ottenere da questa cosa?» le chiesi scocciata, una volta giunte davanti all'edificio.

«Be', non lo so, ma se dovesse andare bene, magari potresti anche non dover testimoniare all'udienza di giovedì» rispose.

Emisi una risata di scherno. «Pensi che basterà a far cadere le accuse su Dylan e a interrompere il processo? Quanto sei illusa!» esclamai. «Ormai il processo è in una fase troppo avanzata, non...»

«Sì, lo penso, visto che si tratta di tuo padre» mi interruppe, prima di aprire la porta ed entrare dentro il dipartimento di polizia distrettuale di Morgan City e lasciando che la porta mi si chiudesse davanti.

Che modi scortesi. Mi chiesi come fosse possibile che riscuotesse così tanto successo fra i ragazzi a scuola con quel carattere piatto e noioso. Probabilmente se non fosse stato per il suo fisico nessuno l'avrebbe calcolata.

Sicuro a George non piaceva con quelle tette esagerate. A lui piacevano più quelle come me. E comunque neanche vent'anni e le sarebbero cadute, oppure le sarebbe venuta la gobba a furia di reggere quel grosso peso.

Una volta dentro, fui io a prendere il controllo della situazione, sapevo orientarmi alla perfezione dentro quegli uffici, li conoscevo da quando avevo imparato a camminare. Mi feci seguire dalla biondina svampita lungo tutto il tragitto effettuato per raggiungere l'ufficio del procuratore distrettuale Goldberg, ovvero mio padre.

Nessuno dei dipendenti mi fermò, dal momento che mi conoscevano e sapevano che ero solita andare a trovare mio padre a lavoro ogni tanto. Be', fino a poco tempo prima ci andavo principalmente nella speranza di vedere David. Era stato quando ero stata condotta nell'ufficio del vero Dominic Foster che avevo scoperto che mi aveva mentito su chi fosse realmente.

«Tu resta fuori» ordinai alla Sinclair, la quale annuì e indietreggiò di qualche passo.

Dopodiché bussai alla porta e in seguito abbassai la maniglia per entrare. Mio padre era intento a esaminare alcune carte, nemmeno si accorse della mia presenza fino a che non mi schiarii la gola. A quel punto sollevò lo sguardo e mi sorrise spontaneamente.

Mio padre mi adorava. Ovviamente.

«Ehi, Liv, che fai qui? Che bella sorpresa» disse con tono caloroso.

«Questa mattina sei uscito presto di casa, non avevo voglia di aspettare fino a ora di cena per vederti» spiegai con tono lusinghiero. E in effetti era vero. Io e mio padre trascorrevamo sempre meno tempo insieme da quando era successa la cosa di Emily. In una città come Morgan City il livello di criminalità non era mai stato molto alto, il suo omicidio per mio padre era stato il primo caso, dopo diversi mesi, ad avere così tanta rilevanza. Non era abituato a seguire un ritmo così incalzante. Anche per questo ci teneva molto a dare il meglio di sé per risolvere la questione nel minor tempo possibile e poter tornare a sostenere dei normali orari da ufficio.

«Mi fa piacere, tesoro, ma ora come vedi ho un grosso carico di lavoro, e...»

Presi un respiro profondo per infondermi coraggio, e poi lo interruppi: «È proprio a proposito di questo. Forse io posso alleggerirti il lavoro».

Mio padre, come prevedibile, corrugò la fronte e assunse un'espressione disorientata. Data la serietà della mia, iniziò poi a preoccuparsi. «Olivia, a che cosa ti stai riferendo?» chiese assumendo un tono severo.

«Papà, io... io non ti ho detto una cosa sulla sera in cui è morta Emily Walsh.»

 

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Capitolo 19
*** 18. Non dire niente ***


18. Non dire niente

Era il primo giorno di scuola del primo anno quando lo vidi per la prima volta. Eravamo tutti emozionati, chiaramente: iniziare il liceo era un passo importante. Ma lui, fra tutti, spiccava nella folla. Aveva un'energia immane, un sorriso smagliante e, all'apparenza, un sacco di cose da dire, visto che non accennava a smettere di parlare neanche per un secondo. C'era qualcosa in lui che mi attraeva.

Così, non essendo mai stata una persona timida, feci in modo di farmi notare da lui. Gli passai vicino e gli chiesi se sapesse dove si trovava l'aula di scienze. Mi rispose che la stava cercando anche lui e che avremmo potuto incamminarci insieme. In quei primi dieci minuti di conversazione, appresi un sacco di cose su di lui: che si era trasferito da poco e non conosceva molte persone, che sua madre era di origine polacca, che era molto legato a suo nonno, il quale faceva il cacciatore di mestiere, che da grande avrebbe voluto diventare o un pompiere o un addestratore di delfini - non c'era una via di mezzo.

Aveva un carisma innato, persino io, che non ero affatto da meno, dovevo riconoscerglielo. Poi era simpatico, divertente, ma sapeva anche essere serio quando era il caso. 
Ci frequentammo per un po' finché non iniziai ad accorgermi che stavo subentrando nella zona di non ritorno: stava iniziando a vedermi troppo come un'amica, e avevo l'impressione che non ne sarei uscita. Così, per non macchiare il mio orgoglio con un rifiuto, decisi di iniziare a distaccarmi gradualmente.

Peccato che fu in quel momento in cui i rapporti fra me e lui si irrigidirono che si intromisero Tracey Gomez, Megan Sinclair e Emily Walsh. La prima, per chissà quale ragione, lo colpì al punto che lui decise di provarci e divenne il suo ragazzo; la seconda e la terza divennero fra le sue più grandi amiche, prendendo il mio posto.

Praticamente andò a formarsi un detestabile quartetto inseparabile, mentre io rimasi esclusa dalla sua vita. Continuai per tanto tempo a ripetermi che in fondo lo conoscevo da poco meno di un mese e che non era così importante, che ero all'inizio della scuola e ne avrei conosciuti tanti di ragazzi, anche meglio di lui, e infatti fu così. Tuttavia una parte di me mantenne sempre un certo riguardo verso di lui.

L'anno scorso poi, a settembre, riprendemmo i contatti. Lo vidi al supermercato da solo e andai a salutarlo. Iniziammo a parlare e, senza malizia, dal momento che erano ormai trascorsi due anni da quella mia breve infatuazione, gli confessai che ai tempi avevo una cotta per lui.

«Perché non me l'hai mai detto?» mi chiese.

«Pensavo non avrebbe portato da nessuna parte» risposi scrollando le spalle.

«E perché me l'hai detto proprio ora?»

«Che differenza fa? È successo tempo fa e ora le cose sono cambiate.» Se io ero tranquilla e a mio agio a parlargliene, al contrario lui sembrava essere molto agitato e nervoso. «Tutto bene?» aggiunsi, notando che era stranamente molto silenzioso.

«S-sì, è solo che... be', ecco... non so, non me lo immaginavo proprio che una come te potesse guardare in quel modo uno come...»

«Una come me, come?» lo interruppi, assumendo un tono di voce suadente.

«Dai, lo sai» rispose, passandosi la lingua fra le labbra.

Quella conversazione stava assumendo una piega inaspettata.

«Come va con Tracey?» mi venne spontaneo chiedere. «Ormai sono quasi due anni, no?»

«Va benissimo, grazie. Se non fosse che...» si fermò, come se si fosse pentito di quello che stava per dire. Accadeva spesso, visto che era uno che parlava sempre a vanvera. Perciò non avrei dovuto farci molto caso, eppure quella volta decisi di non accontentarmi e di indagare più a fondo.

«Se non fosse che? Che c'è, non ti ha ancora aperto le gambe?» domandai, scoppiando a ridere subito dopo.

Anche lui fece lo stesso, ma la sua risata si spense poco dopo. «Non capisco cosa non vada in me» ammise, lasciandomi a bocca aperta.

«Aspetta, quindi è davvero così?» chiesi stralunata. Come diavolo era possibile? A scuola non si scollavano neanche per un minuto, non avevo mai visto una complicità e un'intimità come la loro, pensavo ci dessero dentro anche più volte al giorno. Io e George lo facevamo, eppure a scuola nemmeno ci rivolgevamo la parola.

«Lei continua a dire di essere pronta, ma non appena arriva il momento, alla fine si tira indietro.»

«Quindi non avete mai fatto niente di niente?»

«Qualcosa sì, ma in rarissime occasioni.»

Mi venne spontaneo emettere un piccolo ghigno. «È un peccato che due anni fa non avessi il coraggio di dirti quello che provavo... se ce l'avessi avuto, forse adesso la situazione per te sarebbe diversa» dissi. «Ci si vede a scuola» aggiunsi, prima di allontanarmi senza nemmeno attendere una risposta da parte sua.

Dentro di me sentivo che quella chiacchierata non sarebbe stata fine a se stessa. Infatti, tempo un paio di giorni, e mi ritrovai sul cellulare un messaggio da parte sua. Era un semplice "ciao". Ma poi la cosa proseguì e si tramutò più in uno scambio di messaggi, foto e video pieni di contenuti erotici, finché non si arrivò realmente al dunque.

Come prima esperienza non fu per me del tutto emozionante, dal momento che le dimensioni non erano un granché e neanche dieci minuti ed era già finito, preliminari inclusi.

Non che con George fosse andata meglio, dal momento che eravamo entrambi inesperti, ma aveva comunque avuto un qualcosa di poetico, il fatto che io fossi stata la sua prima e lui il mio.

Comunque la situazione migliorò notevolmente già dalle volte successive. La sua ragazza non sapeva cosa si stava perdendo: era un talento naturale. Forse urlava un po' troppo, ma non era un problema finché eravamo nelle nostre abitazioni.

Il problema si presentò quel maledetto martedì venticinque settembre. Aveva insistito per farlo a scuola negli spogliatoi durante educazione fisica. Io non ero del tutto convinta, dal momento che temevo che qualcuno potesse vederci o sentirci, ma lui rispose che saremmo stati attenti e che non ci avremmo messo tanto, così mi lasciai tirare in mezzo nella situazione: primo grande errore.

Fra tutte le persone, infatti, fu proprio Emily Walsh, la migliore amica di Tracey, a tornare prima della fine dell'ora negli spogliatoi perché doveva andare in bagno. Ed ecco che, come prevedibile, ci vide.

Non riuscii a spiegarmi come lui la convinse a non spifferare tutto alla sua ragazza e a ottenere del tempo per dirglielo egli stesso.

Tre giorni dopo commisi il secondo grande errore: rifare la stessa cosa alla festa a casa di Dylan. Non sapevo come fosse possibile che lui riuscisse sempre a convincermi. Quando ero con lui ero così spensierata che non pensavo mai alle conseguenze e mi lasciavo coinvolgere nelle follie più grandi, come fare sesso con lui a una festa in casa d'altri, in cui era presente anche la sua ragazza. Siamo adolescenti, mi ripetevo, se non facciamo queste cazzate ora, quando ha senso che le facciamo? E poi era lui che si stava comportando da stronzo.

E comunque anche Dylan quella sera sembrava molto indaffarato con una tizia, non se ne sarebbe neanche accorto. Così, al momento adatto, lasciò la sua ragazza e iniziò a dirigersi al piano di sopra. Io avrei aspettato un paio di minuti e l'avrei raggiunto, così da non destare troppi sospetti. Tuttavia, fui trattenuta un pochino di più, a causa di una discussione accesa fra Megan Sinclair ed Emily Walsh.

«Cos'altro c'è da spiegare, se non che ti sei trasformata in una puttana?» esclamò la mora, e non potei che darle ragione, pur non conoscendo il motivo del suo accanimento. L'avevo sempre sospettato. Le cosiddette "brave ragazze" in realtà erano le peggiori. Vedevo gente con i cellulari in mano, desiderosi di riprendere la scena. L'avrei voluto fare anch'io, ma preferivo godermela a pieno dal vivo.

La biondina si asciugò le lacrime di coccodrillo. «Hai ragione, ho sbagliato, però ti prego perdonami. Io non...»

«Basta, Megan! Non voglio sentire nient'altro che provenga dalla tua boccaccia. Tu... tu come hai potuto?»

Non avevo mai visto Emily così infuriata, chissà che aveva combinato quell'altra.

«Io... io non volevo, te lo giuro! Dylan per me non conta un accidente, non me ne frega niente di lui e non mi piace, lo sai. È stato lui a baciarmi, io...»

Ah, i miei complimenti. Che amica di merda, persino io non avrei fatto nulla con i ragazzi delle mie amiche.

«Ah, e come vedo tu l'hai rifiutato!» la interruppe Emily. «Risparmiamelo, Megan. L'hai fatto apposta, per dimostrarmi ancora una volta che tutti i ragazzi preferiscono te. Perché tu sei Megan Sinclair, certo. Devono essere sempre tutti tuoi.»

Come se poi avesse davvero qualcosa di speciale quella biondina. A mio avviso, Emily non era da meno, perché morivano tutti dietro a quell'altra? Tralasciando l'aspetto fisico, caratterialmente era un po' smorta. Un lamento unico. Una lagna insopportabile. E aveva anche un'aria da disperata senza dignità.

«Che cosa stai dicendo? E comunque non è colpa mia se gli piaccio io e non tu. Ma non è importante, perché la nostra amicizia vale più di ogni altra cosa e per me...»

Solite stronzate che si dicono per rimediare a situazioni irrecuperabili, pensai. Mi ero già stancata di starle a sentire. Così, mentre erano tutti impegnati a godersi quel teatrino, salii in fretta le scale.

Stavo per dirigermi verso l'unica stanza aperta, pensando fosse quella designata, prima di accorgermi che dentro c'era Dylan Walker, il quale pareva piuttosto sconsolato. «Be', come mai quella faccia da funerale? Di sotto ci sono due ragazze che si struggono per te, sai in quanti ti invidierebbero?» mi intromisi.

Un po' barcollante, Dylan si alzò in piedi e fece qualche passo nella mia direzione. «Megan non vorrà più saperne niente di me» disse. «Come faccio ora? Sono pazzo di lei!» esclamò, appoggiandosi poi con la schiena al muro.

Alzai gli occhi al cielo. «No, senti, non so per chi mi hai presa, ma non me ne frega un cazzo dei tuoi problemi, né della Sinclair. Ora perché non scendi e non le fermi prima che inizino a tirarsi addosso qualcosa?»

Senza dire nient'altro, si diresse verso le scale. «Spero di cadere e morire» bisbigliò prima di iniziare a scenderle.

A quel punto si aprì un'altra porta e lo vidi. Corsi subito dentro la stanza e la chiusi, prima di saltargli letteralmente in braccio, avvolgendo le mie gambe attorno alla sua vita.

«Ho sentito che parlavi con Dylan, che è successo?» chiese.

«Nulla di che» scrollai le spalle, prima di fiondarmi sulle sue labbra. Al tempo stesso gli sfilai la maglia di dosso e lui a quel punto indietreggiò fino a giungere al letto. Mi ci adagiò sopra con delicatezza e poi si stese sopra di me.

Mentre lui si slacciava la cintura dei pantaloni, io avevo già sfilato i miei e avevo già aperto il laccetto del body. Ci abbassammo le mutande nello stesso identico momento. 
Gli intimai di fare in fretta, dal momento che sentivo delle voci provenire da fuori.

«Per te non è contato niente quello che c'è stato?»

Sembrava la voce di Emily, ma era difficile capirlo con certezza per via di quel tono singhiozzante.

«Più di quello che pensi. Tu sei stata importante per me, davvero, sei stata la prima ragazza con cui l'ho fatto, e non credere che per noi ragazzi non conti niente una cosa del genere. Ciò che c'è stato fra noi non si potrà cancellare, mai. Una parte di me... sì, insomma, resterà sempre legata a te.»

In quel momento, sentendo quelle parole, il mondo attorno a me si arrestò per qualche secondo. Iniziai a sentire tutto ovattato. Ripensai a George.

Ripensai a ciò che ci eravamo detti in cucina poco prima, quando avevo deciso di troncare ciò che c'era fra di noi.

La nostra frequentazione, se così poteva definirsi, era iniziata quasi per caso, nemmeno mi ricordavo come. Ma poi era continuata per così tanto tempo che da completi estranei eravamo diventati intimi confidenti. Io conoscevo tutto di lui e lui di me, non solo del presente ma anche del passato. Nessuno a scuola a parte me sapeva che il suo vero cognome era Swan e non Radley, e che era stato adottato dopo che i suoi genitori erano morti in un incidente d'auto. Avevo conosciuto anche il suo fratellino adottivo. Conoscendolo meglio, mi ero resa conto di come le voci sul suo conto fossero fasulle e anche maligne, era tutt'altro che strambo. O meglio, forse un po' lo era, ma era ciò che lo rendeva unico.

E poi nessun ragazzo a parte lui aveva mai mostrato così tanto interesse in me. Gli altri si fermavano all'apparenza, non vedevano nient'altro in me se non un bel corpo. Per questo, sebbene nel corso di quei mesi avessi avuto diverse occasioni per avere esperienze anche con altre persone all'infuori di lui, non era mai successo. Mi fermavo sempre prima perché, anche se di fatto era solo sesso ciò che c'era fra me e lui, io ci vedevo qualcosa di più e non volevo rovinarlo.

E lo odiavo, il fatto di non riuscire a staccarmi da lui. Non volevo innamorarmi. Non volevo una relazione. Volevo che tutto continuasse come era all'inizio, ma era da un po' di tempo che stavo iniziando a vederlo in modo diverso. Se fosse successo, allora sarebbe stata davvero la mia rovina, perché lui non avrebbe mai ricambiato e ci avrei rimesso soltanto io. I ragazzi riuscivano senza fatiche, a differenza delle ragazze, a separare il sesso dai sentimenti, a loro bastava solo la prima cosa, e riuscire a ottenerla senza doversi impegnare in una relazione era per loro come toccare il cielo con un dito.

Quindi avevo dovuto per forza staccarmi prima che accadesse il peggio, così come avevo fatto due anni prima. Per me era meglio così: mollare la presa per non rischiare. Era l'unico modo per evitare di soffrire. E, per riuscire a tenere la mia mente occupata, mi ero lasciata andare con un altro, uno di cui non mi sarei potuta innamorare: innanzitutto era già fidanzato e, anche se contorto come ragionamento, sembrava che la sua relazione con Tracey fosse migliorata da quando aveva iniziato a vedersi con me; comunque ci sentivamo solo per quello, ci vedevamo solo per scopare, non parlavamo mai di noi, delle nostre vite, delle nostre giornate, il tutto si limitava solo a degli incontri occasionali, non stavamo costruendo nulla di più profondo, e a me andava bene così.

Non appena iniziò con le sue spinte energiche, ritornai in me e iniziai a liberare la mente. Per fortuna anche quell'inutile piagnisteo in corridoio sembrava essere finito, così potevamo finalmente starcene in pace. 
Decisi di invertire le nostre posizioni e mi misi a cavalcioni su di lui, prendendo il controllo della situazione.

Mi lasciai scappare alcuni piccoli gemiti, mentre invece tappai la sua bocca con la mano, dal momento che sapeva controllarsi molto meno di me.

A un certo punto, il mio cuore perse un battito, nel momento in cui sentii la porta aprirsi.

«Dio, che schifo! Siete tutti uguali voi uomini!»

Stavolta non avevo dubbi: riconobbi subito la voce di Emily, così mi nascosi immediatamente sotto le lenzuola per coprirmi, mentre lui sobbalzò.

Si rivestì più in fretta che poté e si diresse verso la porta.

«Che vuoi fare?» domandai preoccupata.

«La devo fermare prima che dica tutto a Trace. Cristo, perché non si fa mai i cazzi suoi? Giuro che la faccio fuori!» esclamò, stringendo i pugni.

«Calmati, vedrai che...» Non ebbi neanche il tempo di finire la frase, dal momento che uscì prontamente dalla porta dopo aver finito di rivestirsi e la sbatté con violenza per chiuderla.

«Emily, aspetta!» lo sentii esclamare.

Era cieco dalla rabbia, faceva quasi paura, se solo non sapessi come in realtà fosse un rammollito.

Mi avvolsi la coperta attorno al corpo e mi alzai in piedi. Aprii uno spiraglio della porta e vidi Herman e Emily discutere sulle scale. Lui la teneva stretta per un polso.

«Non dire una parola di più, sei solo un verme! Ora vado a dire tutto a Tracey!»

«No, tu non dirai niente e guai a te se verrà a saperlo.» Non l'avevo mai sentito usare quel tono così minaccioso. Mi sembrava quasi surreale credere che gli riuscisse così bene.

«Lasciami andare» protestò Emily.

«No, finché non mi giurerai che terrai la bocca chiusa.»

Emily titubò per qualche istante, prima di affermare: «Lo giuro. Ora lasciami».

Herman mollò allora la presa, ed Emily corse prontamente di sotto. Herman aveva il respiro ancora affannato. Si girò un attimo verso di me, poi mi diede le spalle e scese a sua volta le scale.

Io rimasi lì, immobile.

Ecco il mio terzo, enorme, irreparabile errore: non intervenire, non seguire Herman di sotto e non dire niente a nessuno di ciò che avevo visto e sentito quella sera.

 

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Capitolo 20
*** 19. Tu mi hai indotto a farlo ***


19. Tu mi hai indotto a farlo

Chi l'avrebbe mai detto? Se fino a poco tempo prima qualcuno mi avesse detto che fra George e Olivia c'era qualcosa, non ci avrei mai e poi mai creduto. In parte stentavo ancora a crederci. Avevano due caratteri così diversi, eppure sembravano completarsi alla perfezione.

Nonostante il disagio iniziale provato nel vederli insieme, durante il resto della giornata passarono via via sempre più inosservati, quasi come se fosse una coppia esistente da mesi (il che era in parte vero), a cui tutti si erano ormai abituati da tempo.

Vederli così felici e sereni rincuorava anche me e, sapere di aver contribuito alla loro riconciliazione, mi fece dimenticare per qualche ora tutte le cose orribili che avevo commesso in quei mesi.

Mi chiesi quale altra buona azione avrei potuto compiere, per fare ammenda. Fare del bene dava vantaggi non solo a chi riceveva, ma anche a chi lo procurava, e io ne avevo bisogno più che mai.

Una volta finite le lezioni, tuttavia, mi piovve addosso un'altra volta tutto ciò che avevo fatto e tornai a sentirmi male con me stessa: avevo abbandonato Emily, mentito alla polizia, ai miei genitori, alla mia psicologa, a chiunque volesse aiutarmi; avevo incastrato un innocente facendolo finire in prigione al posto mio - il mio ex ragazzo, per giunta; avevo usato Lucy solo per raggiungere i miei scopi e l'avevo presa in giro; avevo comprato un documento falso e mentito sulla mia identità; mi ero ubriacata fino a perdere il controllo proprio come una ragazzina che non conosce i suoi limiti, pur essendo sempre stata contraria all'assunzione di alcol; avevo ricattato Olivia per ottenere ciò che volevo, esponendola a degli enormi rischi; avevo bruciato le tappe troppo in fretta con David, rovinando un momento che, specialmente per me, avrebbe dovuto essere indimenticabile (e infatti me lo scorderò difficilmente, ma non per i motivi che pensavo); avevo perso di nuovo me stessa, dopo essermi convinta di essermi finalmente trovata; soprattutto, non avevo ancora raggiunto il mio obiettivo e ogni giorno, ogni ora, ogni minuto che passava senza che io agissi, era altro tempo perso a non fare la cosa giusta, ossia avere vendetta per la morte della mia migliore amica.

Motivo per cui, una volta uscita da scuola la tappa successiva non fu casa mia, bensì casa di Tracey. Le avevo lasciato già fin troppo tempo per redimersi, ora che le avevo sbattuto la realtà in faccia sul suo ragazzo, di cos'altro aveva bisogno per decidere di schierarsi dalla parte giusta?

Bussai rumorosamente al suo portone, motivo per cui, nel giro di pochissimi secondi venne ad aprirmi. Aveva uno sguardo terrorizzato, oltre che il viso pallido e delle occhiaie mostruose. Per me fu un po' come guardarmi allo specchio.

Essendo sua amica avrebbe dovuto dispiacermi per lei, nel vedere che stava soffrendo, eppure non riuscivo a provare compassione nei suoi confronti. Cioè, sì, una piccola parte di me provava empatia, del resto non ero un automa e provavo ancora delle emozioni, ma prevaleva la parte di me che provava quasi soddisfazione nel vederla ridotta così. Mica era giusto che fossi solo io l'unica a soffrire.

Ce lo meritavamo. Avevamo compiuto delle scelte sbagliate e ne stavamo pagando le dovute conseguenze.

«Non mi rispondi ai messaggi da giorni, mi stavo iniziando a preoccupare» dissi con tono affabile e pacato, per giustificare la mia presenza davanti a casa sua senza preavviso.

«Non ho visto i messaggi» rispose evasiva.

«Ma se li hai visualizzati tutti» le feci notare.

«Non stavo molto bene...» disse soltanto, prima di spostarsi a lato della porta per permettermi di entrare. Mi guidò in salotto, facendo cenno di accomodarmi, prima che lei stessa sprofondasse su di una poltrona, avvolta da un comodo, caldo e soffice plaid.

Io però rimasi in piedi a pochi passi da lei e incrociai le braccia al petto. «Io so che è stato Herman a uccidere Emily» vuotai subito il sacco, senza pensare a inutili giri di parole. Il mio intento era quello di apparire sicura e minacciosa mentre pronunciavo quelle parole, ma all'ultimo il coraggio sembrò abbandonarmi, così come la voce, tanto che mi uscì solo un sibilo.

Tracey mi fissò con le sopracciglia aggrottate, inespressiva come sempre. Se ebbe un leggero tremito nel sentire quelle accuse, di certo io non lo notai. Rimase impassibile, in silenzio, prima che la sua espressione tramutasse radicalmente e iniziasse a ridere a gran voce: «Ma che dici, Meg? È stato Dylan, lo sanno tutti a scuola!».

Mi stava ridendo in faccia mentre mi mentiva spudoratamente? Voleva farmi passare per stupida, ma non sapeva che i ruoli si erano invertiti e che la stupida ingenua era diventata lei.

«Così come sanno anche che Herman ti ha fatto le corna?»

Era un colpo basso, ma arrivata a quel punto non mi importava più. Ero cieca dalla rabbia, sentivo che sarei esplosa a breve.

«Vaffanculo, Megan» sputò Tracey, chiaramente ferita. «Io non... mi spieghi che ti prende?»

«Che mi prende? Che cosa prende a te! Il tuo ragazzo ha ucciso la nostra migliore amica e tu lo sapevi! E dopo aver scoperto ciò che ti ha fatto, continui comunque a difenderlo!» esclamai, perdendo il controllo. «Mi hai manipolata, fin dall'inizio, per impedire che lo scoprissi. Quando sembrava che mi aiutassi, in realtà aiutavi lui. Con quei volantini hai alimentato i sospetti che tutti a scuola avevano su di me, rendendomi la vita un inferno, facendo che venissi presa di mira, rovinandomi la reputazione, solo per far sì che nessuno distogliesse l'attenzione da me, per far sì che tutti continuassero a vedermi come la sospettata più plausibile. Al video per la commemorazione di Emily durante la partita, hai sferrato l'ultimo grande colpo, mandando in onda il video della litigata fra me ed Emily... e per cosa, eh? Per distruggermi ancora di più? Come se ce ne fosse bisogno. I miei mi mandano da una psicologa perché non sanno più cosa fare con me, ma non è in grado di aiutarmi davvero perché non posso essere sincera neanche con lei dato che tu, quella sera, mi hai impedito di fare la cosa giusta: per coprire quell'ignobile assassino del tuo fidanzato hai dovuto mettere in mezzo anche me, che volevo fin da subito andare dalla polizia e raccontare la verità. Invece poi ho dovuto mentire allo sceriffo perché tu mi hai indotto a farlo. Non riesco neanche più a dormire, prendo degli schifosi psicofarmaci all'insaputa dei miei per poterci riuscire. Ho rischiato di andare in prigione pur essendo innocente, e tu avresti permesso che accadesse, l'importante è che non ci vada lui, giusto? Spero solo che tu un giorno ti renda conto di tutto ciò che ho passato a causa tua e che passi il resto della tua vita a desiderare di poter ritornare indietro e cambiare le cose, soffrendo a causa della consapevolezza che ciò non sarà possibile. Io ci sto già facendo i conti da qualche mese, prima o poi arriverà anche il tuo momento.»

Non avevo mai fatto una sfuriata del genere. Non ero mai stata così estrema, così diretta, così cruda. Ma non mi ero neanche mai sentita così tanto libera come in quel momento, dopo aver detto tutto ciò che pensavo, dopo essermi finalmente sfogata dopo mesi in cui mi tenevo tutto dentro.

Vedevo le lacrime sgorgare dagli occhi scuri di Tracey e pensavo solo a quanto non mi importasse di vederla piangere, non mi faceva alcun effetto. Anzi, provavo quasi rabbia.

Perché piangeva? Che motivo aveva di farlo? Nessuno l'aveva obbligata a fare quello che aveva fatto. Aveva agito con libero arbitrio. Quindi perché piangeva come se fosse dispiaciuta?

«Che ti ha detto? Lui che cosa ti ha detto, Trace?» chiesi, ammorbidendo il tono. «Che cosa ti ha detto affinché tu decidessi di appoggiarlo? Ti ha detto che è stata Emily la prima ad aggredirlo e che lui si è solo difeso? Che non gli ha lasciato altra scelta? Che è successo per errore?»

Il labbro di Tracey non la smetteva di tremare, ma comunque rimase zitta, privandomi di qualsiasi risposta.

A quel punto capii che era arrivato il momento di levare le tende. Ci avevo provato in tutti i modi: prima a fingermi ancora sua amica, poi togliendo la maschera e attaccandola con le parole, ma nulla era servito.

«D'accordo, hai riconfermato la tua scelta» dissi, iniziando ad avviarmi verso l'uscita. Ma era più forte di me: non riuscivo ancora ad arrendermi, a lasciar perdere. Così mi fermai a metà strada e mi voltai verso di lei. Al solo incrocio col mio sguardo trasalì. «Ah, dimenticavo. Ho una brutta notizia per te: ciò che tu mi hai insegnato io ho imparato a farlo anche meglio. Sai perché tutti pensano che sia stato Dylan a uccidere Emily e perché è stato in prigione? Sono stata io. È stato facile. È bastato chiedere al mio avvocato di spostare i sospetti su di lui, e guarda che risultati ha ottenuto, seppur era innocente. Ora il mio avvocato è l'avvocato di Dylan, e domani ci sarà un'altra udienza... Pensa che cosa sarebbe in grado di fare stavolta, considerando che tu e Herman siete realmente colpevoli.»

Mi accorsi all'ultimo di aver avuto un lapsus. Non era mia intenzione includere anche lei fra le persone colpevoli, ma mi era uscito senza che potessi controllarlo. Forse in fondo era quello che pensavo. Ed era anche ciò che la legge diceva in merito: era stata sua complice e aveva testimoniato il falso, il che la rendeva colpevole.

«Non hai alcuna prova.»

Furono le uniche parole che uscirono dalla sua bocca, e mi stupirono. Era tutto ciò che aveva da dire? Dopo tutta la merda che le avevo sparato addosso, se la cavava solo con quattro misere parole?

Le rivolsi un piccolo ghigno. «Ne sei sicura?» chiesi con tono supponente. Avrei potuto rendergliela più semplice, svelandole che Emily sapeva della storia fra Herman e Olivia, ma forse era meglio lasciarla ancora un po' penare nel tentativo di far quadrare ogni cosa. Quella mia frase poteva significare qualsiasi cosa, ed ero certa che sarebbe stata in grado di far impazzire una mente analitica come quella di Tracey, abituata ad avere tutto sotto controllo.

Tentennò appena, ma comunque non rispose. Allora camminai verso la porta di casa e uscii sbattendola, non prima però di aver lanciato l'ultima delle mie frasi taglienti: «Bene. Allora è certo adesso: sono due le mie migliori amiche morte».

•••

Mi diressi a casa frettolosamente, nervosa e accaldata com'ero. Avevo soltanto bisogno di una doccia calda per schiarirmi un po' i pensieri, anche se a dire il vero mi andava solo di distrarmi.

La mia realtà, la mia vita, era diventato uno schifo, un incubo dal quale desideravo svegliarmi ormai da troppo tempo. Non ne potevo più, avevo voglia di tornare a vivere una vita comune, noiosa, monotona, ma normale.

Il mio piano di rigenerarmi con quella doccia andò in frantumi nel momento in cui mi procurai un taglio sulla gamba con la lametta. Iniziò a uscire così tanto sangue a fiotti che mi preoccupai un poco. Non importava quanta acqua ci passassi sopra, il sangue sembrava non volersi esaurire.

Nel guardare le mie mani piene di sangue, entrai quasi in una fase di trance, la mia mente mi riportò indietro di qualche mese, facendo riaffiorare ancora una volta ricordi e dettagli che mi tormentavano da fin troppo tempo.

Le mie mani erano sporche di sangue, sangue che non era mio. La voce nella mia testa mi ripeteva che avrei dovuto alzarmi e correre via, tornare a casa, ma il mio corpo non riusciva a reagire, a dargli ascolto, eseguire i comandi. Sarebbe errato dire che in quel momento fossi congelata, poiché di fatto mi stavo muovendo, o meglio, stavo tremando incessantemente.
Per circa un minuto e mezzo, dimenticai persino di respirare, finché non udii una voce alle mie spalle. Allora ripresi a respirare, a fare respiri lunghi e profondi, come quando si ritorna in superficie dopo aver tenuto il fiato sott'acqua per tanto tempo.

«Cosa fai ancora qui? Dobbiamo andarcene! Nessuno deve sapere che siamo state qui!»

Avrei dovuto darle ascolto, ma non potevo. Non riuscivo a muovermi da lì, a smettere di tremare, a bloccare le lacrime. E poi c'era sangue. Sangue ovunque. Sangue che non era mio.

«La polizia sarà qui a momenti, dobbiamo andarcene, Megan!»

A quel punto rinsavii. Mi accorsi di essere ancora sotto la doccia e che, inoltre, non perdevo più sangue dal taglio sulla gamba, anche le mie mani erano ormai pulite. Così spensi l'acqua e aprii lo sportello della doccia. Afferrai l'accappatoio e me lo avvolsi attorno al corpo.

Ero stata sotto la doccia così tanto tempo che il vetro dello specchio del bagno era completamente appannato. Ci passai una mano sopra per poter fissare il mio riflesso. Con le goccioline che mi grondavano dai capelli e mi cadevano sul viso sembrava quasi stessi piangendo. Magari ci fossi riuscita...

Non mi ero mai fermata molto a pensare sulle parole di Tracey in quell'occasione, e forse avrei dovuto.

"La polizia sarà qui a momenti". E lei che ne sapeva? L'aveva chiamata lei? Perché non era così che era andata. 
Il corpo di Emily era stato spostato di lì, era stato ritrovato vicino alla riva del lago del Lake End Park, ed era successo dopo che io e Tracey ce ne eravamo andate.
Non potei fare a meno di chiedermi se in quel momento Tracey sapesse già tutto e avesse fatto il possibile per allontanarmi da lì per far sì che Herman spostasse il corpo. Io dovevo essere stato un intoppo quella sera, una complicazione, non avrei dovuto trovarmi lì in quel momento, non avrei dovuto trovare il corpo di Emily.

Ma perché non era stato spostato subito? Forse lei e Herman avevano sentito il suo cellulare squillare e avevano dovuto allontanarsi, dopodiché si erano divisi: Herman rimase ad aspettare di avere il via libera, e Tracey si occupò di me, portandomi a tutti i costi via di lì, impedendomi di chiamare la polizia e facendomi credere di star facendo tutto per me, ma in realtà stava soltanto dando tempo a Herman di spostare il corpo.

Doveva essere andata così per forza. Tracey aveva collaborato con lui fin dal primo momento. Non era possibile che si fosse mosso da solo, non era sveglio quanto Tracey. E lei, giudiziosa e corretta com'era sempre stata, non avrebbe mai evitato di chiamare la polizia, se non ci fossero state le impronte del suo ragazzo su quel dannato coltello. Fosse stata qualsiasi altra persona a uccidere Emily, nel veder ridotta la sua migliore amica in quello stato, avrebbe avvisato la polizia senza pensarci due volte, e sarebbe stata desiderosa di conoscere subito il colpevole, proprio come me.

Invece lei aveva scelto di diventare colpevole a sua volta. Io mi ci ero ritrovata quasi per caso, Herman l'aveva uccisa, ma Tracey aveva scelto, apparentemente senza un motivo che fosse valido.

•••

«Lo sai che è ormai da due anni che stiamo insieme?» chiesi.

«Due? Di già?»

Non eravamo mai state due persone troppo legate a quelle cose, non avevamo mai festeggiato nessun "meseversario", non eravamo tipi da riempirsi di regali a ogni occasione, eppure rendermi conto che stavamo insieme già da due anni mi sembrava qualcosa degno di nota.

Ciononostante era già passata una settimana e nessuno dei due ci aveva pensato fino a quel momento.

Annuii, con un sorriso, prima di prendergli una mano e portarmela sulla coscia. «Il 24 settembre 2016 sei venuto a scuola con una maglia con su scritto "Tracey Gomez, vuoi essere la mia ragazza?", stampato sia davanti che dietro. Io ero morta dall'imbarazzo, Megan la trovava una cosa carina, mentre Emily ti trovava ridicolo, ha riso così tanto che...» Mi bloccai immediatamente e deglutii.

Fissai un punto indistinto nella mia stanza, cercando di resistere il più possibile, ma poi il dolore ebbe la meglio e si manifestò fuoriuscendo dai miei dotti lacrimali.

Presi a piangere a dirotto, senza riuscire a fermarmi. Sarà stata la quarta volta in due anni che Herman mi vedeva piangere, non accadeva mai, eppure da quel venerdì sera non facevo altro.

Normalmente quando piangevo, Herman cercava sempre di fare il possibile per consolarmi, provava a distrarmi, a farmi ridere, oppure semplicemente mi lasciava sfogare mentre mi abbracciava, insomma le provava tutte. Invece era immobile e silenzioso. Perché se piangevo era per ciò che lui aveva fatto.

«Oggi ho mentito alla polizia. Io. Non pensavo sarei mai arrivata a tanto in tutta la mia vita. Non pensavo nemmeno che mi sarei mai trovata davanti a uno sceriffo a dover deporre.» Avevo aspettato giorni, ora mi meritavo una spiegazione. «Perché l'hai fatto?» chiesi in un sussurro, a causa della voce rotta.

Lo sguardo di Herman, forse per la prima volta, mi apparve imperscrutabile. Non avevo idea di cosa gli passasse per la mente, e non ero abituata a questa situazione.

«È stato un incidente» disse dopo qualche secondo di esitazione. Era la stessa cosa che aveva detto anche venerdì sera. Però volevo saperne di più. «Come fai a uccidere una persona per incidente?» domandai. Un coltello non scivola accidentalmente nella gola di una persona, pensai.

«Io n-non... non volevo che accadesse. Te lo giuro. Ero appena sceso in cucina per prendere qualcosa da bere, quando la vidi. Lei era come impazzita, te lo assicuro, la guardavo negli occhi e... e non la riconoscevo. Penso che... penso che fosse ubriaca, continuava a farneticare cose senza senso, ed era così furiosa. Parlava di Megan, non ho neanche capito bene, in realtà, ma sembrava ce l'avesse a morte con lei. A un certo punto aprì un cassetto e afferrò un coltello enorme, tipo quelli usati per affettare la carne e iniziò ad agitarlo ovunque mentre parlava, dicendo che era stufa. Tentai di calmarla, avvicinandomi a lei per toglierle quel coltello pericoloso dalle mani, ma era inavvicinabile. A un certo punto scoppiò in un pianto isterico e provai ancora ad avvicinarmi, ma lei mi urlò contro. Le proposi di andare a prendere un po' d'aria fuori e lei accettò, ma non si volle comunque staccare da quel coltello per nessun motivo.
«Andammo dietro casa di Dylan, dal momento che in veranda c'era troppa gente. La aiutai a sorreggersi, considerando che era già tanto se riusciva a camminare: continuava a barcollare. A un certo punto inciampò su un ramo e sbatté la testa contro il bidone della spazzatura, prima di accasciarsi a terra e lasciar cadere il coltello dalle sue mani. Mi affrettai a chinarmi per prenderlo e toglierlo dalla sua vista il prima possibile, ma lei ci mise subito la mano sopra, impedendomelo. A quel punto si alzò in piedi e iniziò a inveire contro di me, minacciandomi con il coltello. Inciampò poi di nuovo, stavolta sui lacci delle mie scarpe, e io la afferrai da dietro per non farla cadere. La tenevo ferma per la vita, così che non potesse divincolarsi e fuggire alla mia presa. Provai allora a riprendere il coltello, ma se lo teneva stretto al petto e non ne voleva sapere di mollarlo. 
«Andammo avanti così per qualche minuto: lei che non se ne stava ferma e io che non volevo arrendermi, temendo che nelle condizioni in cui era, prima o poi si sarebbe fatta male con quell'arnese. Nel momento in cui usai un po' più di forza e riuscii a toglierle il coltello dalle mani, lei fece un balzo in alto per riprenderselo e, mentre lo fece, accidentalmente il coltello finì per procurarle un taglio alla gola. Nel momento in cui me ne resi conto, mollai subito la presa dal coltello, che era rimasto ancorato al suo collo. Emily strillava dal dolore e io ero così traumatizzato da ciò che avevo appena fatto che non riuscivo neanche a muovermi, a maggior ragione perché lo sai che mi terrorizza la vista del sangue, e lei ne stava perdendo troppo. Continuavo a scusarmi, a dirle che mi dispiaceva e che non era stata mia intenzione. Mi tremavano le mani, le chiesi se voleva che provassi a estrarle il coltello, ma lei mi zittì e mi ordinò di allontanarmi. Le chiesi se voleva che andassi a chiamare qualcuno, e lei non rispose, era come se non sentisse nessun suono che usciva della mia bocca. La vidi provare a tirare fuori il cellulare, ma anche le sue mani, così come le mie, vacillavano, così le scivolò e le cadde a terra. 
«Non sembrava un'incisione così profonda, era lei che era troppo nervosa e alterata per rendersi conto che non era così grave come immaginava. A un certo punto, tuttavia, la vidi calmare il respiro. Sembrava si stesse tranquillizzando. Se non fosse che... che a u-un certo p-punto... cadde a terra, come un peso morto. Mi accasciai subito a terra, tentando di risvegliarla: sembrava svenuta. Continuavo a percuoterla, senza ottenere risposta. Ero nel panico più totale, non sapevo che altro fare, così ti chiamai. E il resto lo sai.»

Herman aveva pianto per tutto il tempo che aveva parlato, le mani gli tremavano incessantemente e il respiro si faceva man mano sempre più affannato. Così, non appena finì di raccontare, mi avvicinai a lui per abbracciarlo. Incastrò il viso nell'incavo del mio collo, e tirò su col naso diverse volte.

Non sapevo ancora se credergli, tuttavia.

Anche se era vero che Emily quando era arrabbiata diventava spesso intrattabile, specie se nel contempo era anche ubriaca marcia. 
Una volta si era attaccata a una bottiglia di rum per tutta la sera, e non c'era stato verso di togliergliela dalle mani, sebbene nel frattempo fosse caduta un paio di volte e avesse il vetro frantumato dalla parte del collo, cosa che la rendeva un aggeggio pericoloso, soprattutto perché non faceva che agitarla ogni volta che apriva bocca.

E comunque Herman che motivo avrebbe avuto di mentirmi? Stavamo insieme da due anni ed entrambi sapevamo cose l'uno dell'altra che nessun altro sapeva. E sapevo che non era un assassino, gli dispiaceva persino ammazzare le zanzare d'estate, piuttosto lasciava che lo pungessero.

Non era mica uno psicopatico, era solo un idiota goffo e disattento. Non aveva motivo di uccidere Emily, di uccidere la mia migliore amica e una delle sue più care amiche.

«Ma se il taglio non era così profondo, allora significa che... significa che quando Megan...» Lasciai la frase in sospeso e Herman annuì: «Penso di sì. Non lo so. Mica ne so qualcosa di queste situazioni. Però è probabile che, estraendo il coltello, magari lo abbia prima involontariamente spinto più in profondità, questo avrebbe causato una maggiore fuoriuscita di più sangue, e quindi forse è lì che... che è successo».

Alla sola idea e al solo ricordo di quella sera mi veniva quasi da vomitare. Per tutti quei giorni avevo pensato che fosse stato il mio ragazzo a uccidere Emily, ma se invece fosse stata Megan?

Era quasi come se l'avessero fatto insieme, tutti e due. Entrambi però non avevano colpe, e non meritavano di andare in carcere per qualcosa che era sfuggito al loro controllo.

Mentre elaboravo i miei pensieri, Herm mi prese entrambe le mani. «Trace, io ti amo, lo sai questo? Più di qualunque cosa. Più di chiunque altro. Non farei mai niente per ferirti. Mai. E vederti stare così male, mi uccide dentro, perché so che potrei esserne il responsabile. Ed è proprio perché ti amo che devo fare una cosa che tu fai sempre: la cosa giusta. Quindi domani andrò dallo sceriffo e racconterò tutto, mi assumerò tutta la colpa senza metterti in mezzo, e se deciderà di sbattermi in carcere, vuol dire che è quello che mi merito. Spero che tu mi aspetterai, dovessero passare dieci, quindici oppure vent'anni, perché io sono certo che l'amore che provo per te sopravvivrà a tutto, al tempo, alle circostanze.»

Le prigioni negli Stati Uniti erano ancora peggio della morte.

Scossi prontamente la testa: «Ma che diavolo dici? Tu non andrai in prigione, ok? Non ci andrai. Né ora né mai. Ti amo e non lo permetterò».

«Quindi mi credi?»

«Certo che ti credo!» esclamai, prima di gettarmi a capofitto sulle sue labbra. «Ti amo. Ti amo da impazzire» dissi, prima di baciarlo ancora. A quel punto non dicemmo più una sola parola, rimasero solo i nostri baci, le nostre carezze, i nostri respiri a farci da contorno.

Mai come in quel momento mi ero sentita così vicina a lui, in ben due anni di relazione. Sentivo che insieme avremmo potuto fare qualsiasi cosa, avremmo superato quella e altre situazioni difficili. L'importante era che restassimo uniti. 
E forse quella sera era arrivato il momento di sentirci uniti per davvero, per la prima volta.

«Sei sicura?» domandò Herman mentre io iniziavo a togliermi i vestiti.

La mia prima volta sarebbe stata con la prima persona che avessi mai amato. Anzi, sarebbe stato così per entrambi, cosa c'era di più romantico e perfetto?

 

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Capitolo 21
*** 20. Ci ho provato ***


20. Ci ho provato

Il confronto con Tracey mi aveva destabilizzato a tal punto che a malapena toccai cibo quella sera. Mi inventai che avevo sgranocchiato metà pacco di biscotti poco prima di cena, e che quindi non avevo fame.

«Megan, io dico, non lo sai che pasticciare fuori dai pasti non va bene? Soprattutto quando è quasi ora di cenare» si lamentò mia madre, mentre io stavo mettendo i piatti e le stoviglie appena usati in lavastoviglie.

«Be', che posso dirti, deve arrivarmi il ciclo e non riesco a controllare la fame» mi inventai, mentre mio padre strabuzzò gli occhi nel sentire la parola "ciclo". Cinque anni da quando non ero più una bambina, e ancora non si era abituato. «Ora posso andare in camera mia?» domandai, spazientita.

Mia madre annuì e io non attesi un attimo di più. Mi sciacquai le mani e poi chiusi l'acqua del rubinetto per dirigermi di fretta in camera mia. Ne avevo abbastanza di quella giornata. Volevo soltanto andare a dormire e dimenticarmi delle precedenti ventuno ore.

Così mi avviai in bagno per lavarmi i denti, portandomi il cellulare dietro. Lo appoggiai accanto al lavandino e gli diedi delle occhiate furtive di tanto in tanto, per vedere se mi fossero arrivate delle notifiche da parte di David. 
Dopo i due messaggi che ci eravamo scambiati il giorno prima, non ci eravamo più sentiti.

Avevo voglia di vederlo, di stringerlo, di baciarlo, il che un po' mi meravigliava, considerando che il giorno precedente me l'ero data a gambe levate. Più che aspettare un suo messaggio, probabilmente avrei dovuto farmi viva io, visto che non mi ero comportata benissimo nei suoi confronti, ma in quel momento non ne avevo proprio le forze.

Così tornai in camera mia e chiusi la porta. Misi il cellulare in carica vicino al comodino e poi aprii il cassetto di quest'ultimo e tirai fuori le pasticche che mi aveva dato George. Aprii il barattolo per prenderne una, ma proprio in quell'istante mia madre entrò in camera senza preavviso. Mi prese un colpo, tanto che mi scivolò il barattolo delle mani e cadde a terra.

«Hai deciso che cosa fare sabato?» chiese mia madre, ignara di tutto.

Per non insospettirla, evitai di guardare in basso per vedere se il barattolo si era svuotato, quindi lo spostai con il piede fino a nasconderlo sotto al letto, poi mi lanciai sul materasso come se nulla fosse.

Scossi la testa per rispondere alla sua domanda.

«Dai, Megan, davvero hai intenzione di non fare niente per festeggiare il tuo compleanno? Se non lo fai a quest'età, allora quando?»

Roteai gli occhi. Non mi andava di stare a discutere con lei anche su quell'aspetto. Come avrei fatto a farle capire che non mi andava di festeggiare il mio primo compleanno senza la mia migliore amica? Anzi, senza tutte e due le mie migliori amiche. Sì, c'era pur sempre George, ma non sarebbe stata la stessa cosa. E comunque non ci trovavo nulla di speciale nei diciassette anni.

«Va be', lasciamo perdere, è inutile insistere. Però allora se non hai piani, io e tuo padre pensavamo che potremmo andare dalla nonna. Sarebbe carino se ogni tanto ti degnassi di farti vedere, che dici?»

«I nonni li ho visti a Natale due settimane fa» le ricordai.

«Non mi riferivo ai tuoi nonni paterni, mi riferivo a nonna Rose.»

Strabuzzai gli occhi. «Fino in Mississippi, sei fuori? Ogni volta è più il tempo che passiamo in macchina che quello in sua compagnia!» esclamai, ricordando ancora bene la mia ultima visita a mia nonna materna. Eravamo state con lei poco più di due ore e fra andata e ritorno avevamo passato in totale dieci ore in macchina in una sola giornata, in pratica tre ore in meno rispetto a quella volta che eravamo andati a Miami per le vacanze estive.

«Ma figurati! E poi al limite possiamo rimanere lì a dormire e ripartire il mattino dopo.»

«Be', poi ti faccio sapere» tagliai corto. «Ora sono stanca.»

«Quanto sei difficile, Megan. Basterebbe un sì o un no» sbottò mia madre, incrociando le braccia al petto.

Pensavo fosse chiaro che il mio "ti faccio sapere" fosse la cosa più vicina a un no.

Comunque non risposi e lei fece per lasciare la stanza, ma poi richiamai la sua attenzione: «Mamma, posso chiederti una cosa?».

«Sì, Meg, dimmi» rispose, e io la invitai a venire a sedersi sul mio letto.

Esitai qualche istante, poi sospirai e infine parlai: «Com'è stata la tua prima volta?».

La mia domanda sembrò spiazzarla, tanto che rimase a bocca aperta. «Che... che domanda è, Megan?» chiese. Colse poi dal mio sguardo serio che non ero in vena di scherzi e che avevo davvero bisogno di fare quella conversazione. «È già successo?» domandò guardandomi in modo severo.

Scossi la testa. «No, macché. Io e Dylan siamo stati insieme neanche un mese» dissi, sperando non captasse la bugia che le avevo appena raccontato. Cioè, quella su Dylan in realtà era la verità, e lei era convinta che non ci fosse stato nessun altro dopo di lui.

Allora rilassò il viso e sospirò, sollevata. Poi corrucciò la fronte. «Allora come mai vuoi saperlo proprio adesso?»

«Non lo so... Non abbiamo mai affrontato questo discorso, e ora mi va di farlo. Potrebbe essermi utile per il futuro e, non sapendo esattamente di quanto tempo si parla, meglio approfittarne e parlarne adesso, prima che sia troppo tardi.»

Mi sentii terribilmente in colpa nel dire quelle parole, nel rendermi conto che dovuto farlo, avrei dovuto parlarne prima con lei. Se le avessi parlato prima... non so, forse non sarebbe cambiato nulla e l'avrei fatto lo stesso, ma se non altro ci avrei pensato un pochino di più. In alcuni casi era meglio parlarne e confrontarsi con chi aveva più esperienza alle spalle.

«Non devi avere fretta, è l'unica cosa che mi sento di dirti» disse. «Fregatene se le tue coetanee l'hanno già fatto e tu ti senti sotto pressione essendo l'ultima del gruppo, perché altrimenti ti sentirai obbligata a fare qualcosa per cui non sei realmente pronta e non sarà come speravi.»

«E che succede se mi sembra di essere pronta ma poi alla fine rimango delusa?»

«Delusa? Be', probabile che sarà così, tesoro» rispose sorridendo. «Non è di certo come quello che leggi nei libri o vedi nei film.»

«Questo lo so. Ma intendo delusa nel senso che... non so neanche spiegarlo» mugugnai.

«Hai paura dei sensi di colpa? Pensi di aver trovato la persona giusta, di essere pronta, ma poi alla fine le cose si rivelano diverse da come ti aspettavi e quindi inizi a sentirti in colpa perché pensi che, se non è andata come speravi, è perché non avresti dovuto farlo in principio?»

Sembrava mi avesse letto nella mente e, trattandosi di mia madre, la cosa mi stupì ancora più del dovuto, visto che era una delle poche persone a non riuscire a capirmi sebbene fossi un libro aperto.

Annuii soltanto.

«Be', Meg, questo purtroppo non puoi saperlo davvero finché non succede. Però dopo ti puoi interrogare e chiederti cos'è andato davvero storto e che ti ha fatto sentire così: se il problema era l'altra persona, se c'era troppo imbarazzo, se ha fatto troppo male perché eri nervosa, se ti sei sentita forzata.»

Provai a riflettere sulle sue parole. Io sapevo per certo che David fosse la persona giusta, non era stato lui il problema, né mi ero sentita forzata. L'imbarazzo era venuto più che altro dopo. Aveva fatto male, sì, ed ero parecchio nervosa, ma accadeva alla stragrande maggioranza delle persone.

Forse il fatto era che fra di noi era accaduto troppo in fretta. Eravamo passati da dei baci fugaci scambiati in un paio occasioni, a fare subito altro, cosa che avremmo potuto riservare per un altro momento, considerando che avevamo ancora delle questioni irrisolte di cui parlare.

«E come si fa a superare la cosa?» chiesi.

Mia madre mi rivolse un flebile sorriso. «Affrontandola, come tutti i problemi. Magari parlandone anche con l'altra persona, di certo un confronto aiuta. E comunque, lascia che te lo dica: è inutile farsi tante paranoie e crearsi preconcetti sulla prima volta, basando tutto sulla sua riuscita, perché poi magari è proprio quello a rovinare tutto e a far sì che non vada bene. Ti ricordi quando ti frequentavi con quel ragazzino, quando andavi alle medie? Eri agitatissima, e questo ha influenzato il risultato. Sei rimasta così traumatizzata dopo quel primo bacio mal riuscito, che non avete più avuto il coraggio di riprovarci. E invece avreste dovuto. È così che funziona: se il primo tentativo va male, non si abbandonano tutti i buoni propositi, si deve provare e riprovare finché non si raggiunge il risultato sperato.»

Mia madre mi aveva appena consigliato di fare sesso con David come se non ci fosse stato un domani? Se solo avesse saputo...

«Grazie, mamma» sussurrai, avvicinandomi poi per stringerla in un abbraccio. Apparve sorpresa inizialmente, ma poi ricambiò l'abbraccio.

Poi sbadigliò e si alzò dal letto, dirigendosi verso la porta. «Ah, Meg. Mi raccomando, anche se ti vergogni, anche se temi che io possa giudicarti, quando arriverà il tuo momento...»

«Sì, sì. Quando lo farò, allora te ne parlerò» la interruppi, per chiudere quella conversazione imbarazzante.

In realtà l'unica cosa imbarazzante di quella conversazione ero io. Altro che figlia modello... ero sempre peggio. Non poco tempo prima mi ero ripromessa che sarei stata sempre sincera e che non mi sarei più nascosta dietro a delle futili menzogne e, fra tutte le persone, mi ero ritrovata a mentire proprio a mia madre.

A dirla tutta, penso che non avrei avuto tanti problemi a dirglielo, se solo non si fosse trattato di David. Non sapevo come avrebbe potuto prenderla, scoprendo che il figlio maggiorenne dell'amico che conosceva dai tempi del college aveva deflorato sua figlia diciassettenne.

Comunque, non appena mia madre uscì dalla mia stanza e chiuse la porta, il mio problema più grande divenne un altro. Mi sporsi per guardare sotto il mio letto e recuperare la scatoletta arancione che conteneva le pasticche.

Sbuffai, sconsolata, prima di lanciarla contro la parete: erano cadute tutte a terra, ma di certo non ero così disperata da raccoglierle e rimetterle dentro. E ora come faccio?, mi chiesi.

•••

Passai la notte in bianco.

Mi era sembrato troppo bello passare quattro notti in tranquillità, e infatti ecco che era già finito tutto. Avrei dovuto chiedere a George di procurarmi altre pasticche, ma quella volta non avrei accettato di non pagarlo. Mi sarebbero bastate per più di una settimana se non fosse stato per la mia sbadataggine, quindi era giusto che le pagassi con i miei soldi.

Così, come prima cosa quando mi alzai l'indomani, mentre preparavo lo zaino di scuola, presi anche delle banconote dalla mia cassetta dei risparmi e le infilai nel portafoglio.

Una volta arrivata a scuola mi diressi rapida verso il mio armadietto per prendere i libri della prima ora e, una volta fatto, tirai fuori il cellulare dalla tasca dei jeans per scrivere a George e chiedergli per che ora sarebbe arrivato all'incirca.

Non appena dopo aver inviato il messaggio, sollevai lo sguardo e mi trovai davanti una figura bassa e minuta, con i capelli biondi e ondulati e gli occhi grandi e castani: Lucy.

La fissai sorpresa e lei interpretò alla perfezione il mio sguardo, fornendomi la spiegazione per cui si trovava lì: «Ci ho riflettuto, come mi avevi detto tu di fare, e ti credo».

Sorrisi in automatico. «Davvero?»

Lucy ricambiò il sorriso. «Sì. Trovo tutto ancora molto assurdo e poco plausibile, ma c'è qualcosa della nostra conversazione che ha prevalso e che, anche volendo, mi impedirebbe di diffidare di te.»

La fissai confusa, non avendo la benché minima idea di che cosa parlasse. Mi rivolse un altro sorriso e chiarì i miei dubbi: «Tutte le volte che abbiamo parlato, da quando è successa la cosa di Emily fino a ieri, c'era qualcosa nel tuo sguardo, nel modo in cui parlavi, che... non so come spiegarlo, ma percepivo che c'era sempre qualcosa che non dicevi, che nascondevi. Sembravi sempre sull'attenti, ecco, timorosa che dal tuo sguardo potesse trapelare più del dovuto. Ma ieri ti guardavo e penso di non aver mai visto niente di più cristallino. Sentivo che non c'era più quello scudo. Quindi mi dispiace di aver dubitato di te e della tua integrità morale... E volevo anche farti sapere che capisco perché non hai fatto niente, eri con le mani legate.»

«Mi fa piacere sentirtelo dire» risposi, con il cuore colmo di gioia.

Lucy mi appoggiò una mano sulla spalla come a darmi conforto. «Ti prometto che terrò la bocca chiusa fino a che non si risolverà tutto, non ho intenzione di intralciarti più.»

Io invece mi sentivo in colpa per aver coinvolto un'ulteriore persona che non c'entrava nulla in quella storia. Ma dovevo farlo se volevo risolvere le cose con lei.

Calò un attimo di silenzio fra noi due, prima che fossi io a interromperlo: «Per quanto riguarda ciò che è successo al JJIC... Quello che ha detto George su di me è... be', io penso sia la verità. Quando lui mi ha detto di andare da Dylan e dirgli che l'avrei perdonato per avermi portato via Emily, sono stata zitta, perché so che non è stato lui a ucciderla. Ma non è solo questo. Se si trattasse di fare lo stesso discorso parlando di Herman, io... io non lo perdonerei. Mai e poi mai potrei farlo, io vorrei che... vorrei che soffrisse terribilmente, ecco tutto» confessai.

Lucy mi fissava, seria e scura in volto, senza dire niente. Così ripresi la parola.

«Mi dispiace di averti mentito, di averti presa in giro. Questa però ti assicuro sono davvero io. Non sarò una brava persona, di certo non come lo sei tu. Ti ammiro molto per come sei, ma so che non potrei mai arrivare al tuo livello. Ci ho provato per molto tempo a essere diversa, a essere migliore, ma il risultato è sempre stato deludente, quindi forse è per questo che ora come ora mi ritrovo senza più amici, senza un reale scopo nella vita, senza alcuna fiducia in me stessa... Ma va bene così. Forse un giorno imparerò da tutto questo.»

«Io non riesco nemmeno a immaginare cosa tu abbia passato in questi mesi e stia passando tutt'ora. Comunque posso dirti che mi è sempre stato insegnato a rispettare le opinioni altrui, anche se differivano dalla mia. Ma, se posso dire la mia, c'è una cosa che hai detto che non riesco proprio a farmi andare giù: non è vero che sei senza amici» disse, prima di avvicinarsi a me e allargare le braccia.

Aggrottai le sopracciglia, prima di inarcarle per lo stupore, infine accolsi il suo invito e la abbracciai, lasciando che quel contatto alleviasse almeno in parte lo stress e la pressione che avevo accumulato in quel periodo.

•••

Mi chiesi quale altra buona azione avrei potuto compiere, per fare ammenda. Fare del bene dava vantaggi non solo a chi riceveva, ma anche a chi lo procurava, e io ne avevo bisogno più che mai.

E in effetti una cosa c'era. Una questione lasciata in sospeso per troppo tempo che doveva essere sistemata.

Prima ancora che io stessa me ne rendessi conto, i miei piedi erano già diretti verso una persona dalla quale recentemente mi ero allontanata e con la quale volevo ricucire i rapporti.

«Lucy, possiamo parlare?» chiesi alla biondina, che in quel momento era circondata da alcune sue amiche in divisa da cheerleader.

«Ho gli allenamenti tra poco...» cercò di svignarsela, ma poi sembrò ripensarci. Non avevo fatto che evitarla da quando avevamo avuto quell'ultima conversazione, evidentemente se avevo deciso di avvicinarmi a lei era per qualcosa di importante, e lei sembrava averlo intuito: «Va bene. Voi ragazze iniziate, vi raggiungo fra poco» disse rivolta alle sue compagne, che quindi si allontanarono e si diressero verso la palestra, lasciandoci sole.

«Sei pronta a sentire la verità, tutta la verità su quella notte?» le chiesi. «Non è mia intenzione metterti in mezzo, ma sono disposta a raccontarti quello che so, così che tu possa capire perché sto agendo in questo modo.»

Lucy rifletté qualche istante, mentre la tensione dentro di me iniziò ad aumentare ogni secondo che passava. Poi puntò di nuovo lo sguardo su di me e annuì decisa: «Sì. Voglio saperlo».

A quel punto deglutii, prima di confessare tutto. «Non so se tu abbia letto sulla pagina spotted della scuola la notizia riguardante Herman... Be', è tutto vero: aveva una relazione con un'altra ragazza al di là di Tracey, e Emily l'aveva scoperto.» Lucy assunse un'espressione interrogativa, ma comunque attese in silenzio che finissi il discorso. «La sera della festa a casa di Dylan lei li sorprese insieme, così minacciò di raccontare tutto a Tracey, e... e l'unico modo che Herman trovò per impedirglielo fu quello di... quello di...» Deglutii ancora, sentendo i miei occhi farsi lucidi e la vista sempre più annebbiata. Tuttavia riuscii a mantenere il controllo e a non piangere, nonostante il groppo che mi si era formato in gola.

A quel punto Lucy inarcò un sopracciglio. «Herman? Herman Waldorf? Impossibile!» esclamò, mettendosi quasi a ridere per quella che reputava un'assurdità.

Ecco proprio ciò che temevo. Che la pura verità suonasse, al contrario, come una grande menzogna.

Aprii bocca per riprendere la parola, ma lei mi precedette: «E sentiamo, se sai che è stato lui , allora perché non sei corsa dalla polizia? L'hai protetto solo perché è tuo amico?» domandò stizzita.

«Perché le mie sole parole non basterebbero, anzi, potrei persino essere accusata di calunnia o diffamazione, in mancanza di prove» spiegai. «E comunque ho smesso di reputarlo mio amico non appena ho scoperto la verità» aggiunsi.

«Ma allora come fai a sapere che è stato lui? Non ha senso quello che dici.»

Mi presi qualche secondo per riflettere su come spiegarglielo. Non volevo mettere in mezzo Olivia senza il suo consenso, ma non potevo neanche dirle unicamente della conversazione avuta con Herman, perché quella da sola non bastava. Eppure sembrava non avessi scelta.

«Lo sai che il nonno di Herman fa il cacciatore, e che i due hanno sempre avuto un ottimo rapporto, tanto che fin da quando è bambino lo porta saltuariamente alle sue battute di caccia? Ogni volta che mi raccontava di queste sue "avventure" o "missioni" come le definisce lui, non ci facevo quasi mai caso, ma una cosa è chiara: Herman sa come uccidere. Gli animali, sì, ma fa poca differenza. Una volta mi ha raccontato di come recidere la giugulare in modo da dissanguare gli animali in modo indolore. La giugulare. Non mi ci è voluto molto a fare due più due. E considerando come abbia cercato di sabotarmi, è chiaro che anche Tracey sia coinvolta in questa storia e che abbia mentito su ciò che sa realmente.»

Lucy appariva sempre più confusa.

Non dissi più nient'altro, sperando che ciò che le avevo raccontato bastasse per farmi perdonare.

A un certo punto la vidi irrigidirsi e sollevare il mento. «Se non hai altro da aggiungere, allora è il caso che vada» disse fredda, facendo per allontanarsi e andare verso la palestra.

A quanto pare non era bastato, ma io non volevo arrendermi. «Aspetta, Lucy! Mi credi o no?» chiesi. «Ti giuro che l'unico motivo per cui non ho raccontato la verità alla polizia è perché so che nessuno mi crederebbe, non ho alcuna prova, ho cercato finora di trovare il modo di far uscire Tracey allo scoperto, dal momento che è stata sua complice e l'ha aiutato per tutto il tempo a coprire le sue tracce, ma non ci sono riuscita. Basterebbe che lei parlasse, e finirebbe tutto. Ecco perché fra poco andrò a casa sua e metterò le cose in chiaro. Promettiti che ci penserai, che rifletterai a fondo sulle mie parole.»

Lucy mi fissava come se fossi folle, come se stessi dicendo idiozie. Poi, senza neanche degnarmi di una risposta, mi diede le spalle e si allontanò.

•••

Appena un paio di minuti dopo aver chiarito con Lucy, intravidi in lontananza una chioma riccia. Mossi allora dei passi verso di lui per andare a salutarlo.

«Guten Morgen, schönes Mädchen!» rispose George con un gran sorriso stampato in faccia.

Era felice, e si vedeva. Mi chiesi se lo sarei mai stata anch'io, se sarei tornata a esserlo, se me lo meritassi.

«A Olivia va bene che tu mi chiami "bella ragazza"? Sai, considerando che mi detesta» gli ricordai.

Scrollò le spalle. «Ma sì, capirai. Ah, comunque, visto che tanto è probabile che resteranno sul tuo comodino per i prossimi sette anni, non è che potresti restituirmi i preservativi che ti ho regalato?» chiese. «Lo so, lo so, non si richiedono indietro i regali, solo che... Sai, io e Olivia dobbiamo ancora... parlare di molte cose, e quelli ci servirebbero più che a te.»

Aspettai qualche secondo prima di rispondere, per poter trovare il modo giusto di dirglielo. «Li ho usati, in realtà. Be', soltanto uno, ma comunque... ecco, se tutto va bene, non ci arriveranno a stare per sette anni lì sopra» dissi, attirando la sua completa attenzione: «Che stronza! Hai finalmente scopato e non me l'hai detto!» esclamò, e io gli intimai di abbassare la voce, sentendo nel frattempo le guance andarmi a fuoco.

«Potresti evitare di usare quella parola? Non è stato proprio così... cioè, sì, la cosa in sé è quella, ma...»

«Allora, quand'è successo? E com'è stato "fare l'amore", come nelle favole?» mi interruppe, canzonandomi.

«Due giorni fa. E no, non è stato per niente... non lo so, non lo so nemmeno io com'è stato» ammisi sconsolata.

George si morse il labbro inferiore. «Ahia, male male» commentò e non potei dargli torto.

«Comunque lunedì te li riporto, tranquillo» dissi a quel punto. Poi iniziai ad aprire la cerniera dello zaino per tirare fuori il borsellino. «Ah, e avrei una cosa da chiederti. Praticamente ieri sera stavo per prendere la solita pastiglia per dormire, quando mia madre è entrata in camera mia di colpo, così per lo spavento mi sono cadute a terra e non se ne è salvata neanche una. Ti prego, dimmi che riesci a procurarmele entro massimo domani, già stanotte è stato un incubo, non ho dor...»

Smisi di parlare nel momento in cui notai l'espressione di George. Aveva gli occhi ridotti a due fessure, il naso arricciato e le labbra tese. «Che c'è?» domandai allora.

«Megan, mi avevi promesso che non ne avresti abusato, che avresti tenuto tutto sotto controllo. E invece dopo neanche una settimana guarda a che punto siamo arrivati!» esclamò, e lessi senza sforzi la rabbia nei suoi occhi.

Rabbia irragionevole, però. «Ti ho detto com'è andata. Non ne ho abusato, te lo giuro.»

«Come faccio a crederti? Sai di non essere propriamente affidabile e...»

«Ti ringrazio, ci mancavi solo tu con queste stronzate!» esclamai. «Non bastavano la mia psicologa e i miei genitori, ora ci si mette pure l'unico amico che ho a darmi della squilibrata e, cos'altro, anche farmacodipendente?»

Mi ferì rendermi conto dell'opinione che, dopo tutto ciò che avevamo passato insieme, aveva di me. Ma mi ferì ancora di più ciò che mi disse subito dopo. «Pensi che siano stronzate? Mi preoccupo per te, quando dovresti essere te a farlo. Sai qual è il tuo più grande nemico al momento? Te stessa, Megan. Più precisamente, ciò che c'è nella tua testa» disse, toccandomi la fronte con un dito. «E sai come faccio a saperlo con certezza? Perché quei farmaci che ti ho dato erano solo dei cazzo di placebo! Non sono dei veri medicinali, non sono niente. Eppure ti è bastato credere nel loro potenziale per riuscire a dormire in questi giorni, quindi ecco la prova che la tua insonnia è causata in primis da te stessa!»

Ebbi quasi l'istinto di tirargli uno schiaffo, ma dato che eravamo a scuola e non volevo dare spettacolo, alla fine riportai la mia mano lungo i fianchi. «Come ti sei permesso, George? Non avevi il diritto di prenderti gioco di me. Mi fidavo di te. Dimmi, chi ti credi di essere? Uno psicologo? Un psicoterapeuta? Sei solo un bastardo, ecco cosa sei.»

Sembrava che le mie parole non l'avessero scalfito minimamente. Rimaneva comunque convinto e soddisfatto di ciò che aveva fatto. «Megan, tu hai dei problemi. E devi fare in modo di risolverli prima che sia troppo tardi. Ti è andata bene che quelli che hai ingerito ieri non erano dei veri medicinali, altrimenti non oso immaginare cosa...»

Non gli lasciai l'occasione di terminare la frase. «Ascoltami: io non ho cercato di andare in overdose» scandii bene quelle parole, nella speranza che gli entrassero bene in testa. «Ma comunque credi quello che vuoi. Solo ti pensavo diverso... Dovrò farci l'abitudine a perdere ogni persona a cui voglio bene.» Quando pronunciai l'ultima frase mi uscì solo un bisbiglio, ma nonostante ciò ero sicura che George avesse sentito bene.

Eppure decise ugualmente di non seguirmi quando gli voltai le spalle e mi allontanai.

 

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Capitolo 22
*** 21. Troppo tardi per rimediare ***


21. Troppo tardi per rimediare

Quella notte non avevo chiuso occhio neanche per un attimo, come succedeva d'altronde durante ogni notte che precedeva una mia udienza.

Fin dal momento in cui mi alzai in piedi per prepararmi per andare in tribunale, avvertii una sensazione strana, un presentimento. Sentivo come se quella sarebbe stata l'udienza definitiva. Come se fosse finalmente arrivato il momento del verdetto della giuria. In realtà, lo speravo, che fosse la fine: che venissi dichiarato innocente o colpevole, non mi importava più molto, mi bastava solo smettere di vivere in quella situazione di incertezza.

Ed ero fiducioso, mi conveniva esserlo, perché solo l'idea di ritornare in carcere mi faceva mancare il respiro, proprio come mi mancava in quel momento. Così mi affrettai ad andare in cucina, con l'aria intorno a me che si faceva sempre più rarefatta, e versai l'acqua in un bicchiere, prima di buttare giù gli ansiolitici che mi aveva prescritto il medico.

Lessi l'orario scritto sul microonde e vidi che erano appena le cinque e mezza del mattino, ecco perché mio padre era ancora a casa. Stava sorseggiando una tazzina di caffè, già vestito per andare in ufficio, non curandosi della mia presenza come di consueto.

Così tossii leggermente per attirare la sua attenzione. Si voltò verso di me e mi rivolse un'occhiata truce. «Oggi devi andare ancora in quel posto?» domandò e io annuii.

"Quel posto."

«Lo sai che tua madre non può portarti? Non le hanno accordato un altro giorno di permesso.»

Lo diceva come se ci provasse gusto a dirmi cose che mi avrebbero ferito. Era colpa mia se mia madre non era riuscita a ottenere un permesso per rimanere a Morgan City, visto che nell'ultimo periodo li aveva chiesti sempre più di frequente solo per venirmi a trovare al JJIC oppure accompagnarmi in tribunale.

«Sì, lo so, mi arrangerò da solo» risposi soltanto. Ovviamente era fuori discussione che per una volta non si recasse a New Orleans e mi accompagnasse lui. Avevano bisogno di lui, era il pezzo forte lì dentro. A chi importava se nel frattempo anche suo figlio aveva bisogno di lui.

Poi diede un'occhiata alla confezione di pastiglie che tenevo in mano. «Dovresti smetterla con quelle robacce, se poi ti tengono sveglio tutta la notte.»

«Le uniche volte che mi ero dimenticato di prenderle, stavo quasi per morire perché non riuscivo a fermare gli attacchi di panico» spiegai.

Mio padre sbuffò e roteò gli occhi, irritato. «Ti ho dato il nome di mio padre proprio perché speravo che, crescendo, saresti diventato un uomo forte come tuo nonno Valentine, non un ragazzino problematico e lagnoso.»

"Problematico e lagnoso."

A quelle parole non ci vidi più dalla rabbia e sferrai un colpo sulla parete. In un primo momento il dolore non lo percepii nemmeno, nero dalla rabbia com'ero. Mio padre si alzò in piedi minaccioso e in due secondi era già davanti a me. Da circa un anno ero arrivato a sovrastarlo di dieci centimetri, eppure era sufficiente il suo sguardo a farmi sentire piccolo come un dodicenne.

«Vuoi dirmi qualcosa? A quasi diciassette anni dovresti ormai essere in grado di esprimerti con le parole, invece che dover ricorrere a questi metodi barbari da cavernicolo» disse con tono gelido, facendo cenno al muro che avevo appena colpito.

Abbassai lo sguardo e rimasi in silenzio.

«Pff, neanche hai coraggio di guardarmi in faccia?» sputò con disprezzo, prima di dare un'occhiata al suo orologio e in seguito uscire dalla cucina.

Neanche trenta secondi dopo, sentii la porta di casa chiudersi con violenza e ritornai a respirare. Mi accasciai sulla sedia, prosciugato da ogni energia, prima di potermi finalmente accorgere del dolore lancinante che provavo alle nocche. Urlai dal dolore, prima di alzarmi in piedi e farci scorrere l'acqua del rubinetto sopra, per sciacquare via il sangue. Poi aprii il freezer per poter tirare fuori del ghiaccio e mettercelo sopra.

Non ne potevo più di vivere in quel modo. Non era possibile che per quel poco che vedevo i miei genitori, ogni volta dovesse finire così, con mio padre che mi provocava appositamente, sminuendomi e denigrandomi, e mia madre che si preoccupava per massimo dieci minuti e poi si rinchiudeva in camera sua perché era stanca per il viaggio e doveva riposare.

E pensare che mancava ancora più di un anno alla fine della scuola... in più con la mia recente reputazione e la mia media penosa, nessun college mi avrebbe mai preso. Avrei dovuto quindi trovarmi un lavoro e, solo dopo aver accumulato abbastanza soldi, avrei finalmente potuto andarmene di casa.

Mi domandai anche se ci sarei mai riuscito, a lasciare quel posto di merda in cui vivevo. O meglio, non era tanto quello, ma era chi lasciavo. Megan. Era stata l'unica ragazza in grado di farmi scoprire di avere un cuore e la prima a spezzarmelo orribilmente, eppure non riuscivo a togliermela dalla testa.

Non riuscivo a capacitarmene, perché non ci riuscivo? Era come diceva mio padre, ero solo un debole?

Ovviamente cambiare ambiente, andare in un'altra scuola, conoscere altre persone e concentrare tutte le mie forze sul mio nuovo inizio aveva aiutato, ma giusto in minima parte. Anche se non la vedevo più da qualche settimana, più del cinquanta per cento dei miei pensieri era riservato a lei. Il che non era negativo: prima era almeno il settantacinque, quindi stavo comunque migliorando.

Se solo fossi riuscito a mettere in pratica i consigli di David, magari avrei fatto più in fretta. Ma come potevo imparare ad amarmi se mi veniva ricordato quotidianamente quanto fossi una nullità e una delusione?

Me ne stetti a fissare il vuoto a riflettere per circa due ore, poi vidi che erano quasi le otto e mi alzai in piedi, misi via il ghiaccio (sebbene la mano mi facesse ancora molto male e stesse iniziando ad assumere un colore che non prometteva affatto bene) e tornai in camera mia per prepararmi.

Indossai un completo, camicia, pantaloni eleganti e giacca. Le ultime volte che ero stato visto dai giurati avevo o quell'orribile tuta arancione oppure delle semplici tute, simili a stracci, ma era il caso che almeno in quell'occasione mi presentassi al meglio, se volevo dar loro una buona impressione. Dopo aver asciugato i capelli, mi passai anche del gel per renderli più ordinati.

Sembravo quasi David Finnston, e la cosa non mi piaceva per niente, tuttavia era ormai troppo tardi per rimediare. Presi le chiavi del motorino e uscii di casa, pronto a dirigermi verso il palazzo di giustizia di St.Mary.

Non appena posizionai le mani sul manubrio della moto, mi resi immediatamente conto che non avrei potuto guidare con la mano in quelle condizioni. Faceva troppo male. Sperai non fosse rotta, altrimenti sapevo già che sarebbe arrivato un altro rimprovero da mio padre, seguito anche da un cazzotto magari.

Con la mano sinistra tirai fuori il cellulare dalla tasca e scrissi al mio avvocato, chiedendogli se avrebbe potuto darmi un passaggio. Si rivelò gentile e disponibile come sempre, mi disse di aspettare una decina di minuti e che sarebbe arrivato da me a prendermi.

Tuttavia non fu il mio avvocato che vidi fermarsi con l'auto davanti al vialetto di casa mia. A giudicare dalla sua espressione, sembrava a disagio almeno quanto me. Comunque non feci domande ed entrai nella sua auto. Trascorsero una decina di secondi di silenzio, prima che fosse lui a parlare, una volta che mise in moto. «Mio padre doveva finire di preparare alcune cose, quindi ha chiesto a me di passarti a prendere.»

Annuii, senza dire niente. Poi tirai giù il finestrino. Sebbene gennaio non fosse propriamente uno dei mesi più caldi, in quel momento mi sentivo a dir poco accaldato.

«Che hai fatto alla mano?» domandò David, e io la nascosi prontamente infilandola nella tasca dei pantaloni. «Nulla di importante» risposi e basta.

Sembrava non fosse intenzionato a indagare più a fondo, infatti non disse più niente per una decina di minuti. Tutto quel silenzio però non faceva altro che farmi pensare, e i miei pensieri in quel periodo erano tutt'altro che positivi. Così pregai ancora una volta che quella sarebbe stata l'ultima udienza e che a partire dal giorno successivo non se ne sarebbe più parlato.

«Io di solito guido, oppure vado a correre» disse David, facendo che gli rivolgessi uno sguardo confuso. Continuava a fissare la strada davanti a sé, senza voltarsi nella mia direzione: «Quando sento che sto per perdere il controllo. Mi aiuta a scaricare i nervi e la tensione» aggiunse.

Annuii, senza dire niente. Diedi un'occhiata prima al dorso della mia mano che stava diventando di un viola acceso, e poi la girai per fissarne il palmo, ricoperto di piccole cicatrici della forma delle mie unghie.

Avevo imparato a prendermela con me stesso quando ero arrabbiato, per evitare di prendermela con gli altri, ma comunque non si era rivelato del tutto efficace. Non mi liberavo mai del tutto, era solo un modo per reprimere la rabbia, per ributtarla dentro, invece avevo bisogno di trovare il modo per esternarla.

«Quale delle due funziona di più? La guida o la corsa?» chiesi.

«Considerando la condizione in cui versa la tua mano, magari è il caso di iniziare con la corsa» rispose. «Vuoi che dopo ti accompagni al pronto soccorso per farla controllare?» domandò poi.

«Ma tu non ci vai mai all'università?» mi venne spontaneo chiedere.

«Senti chi parla, hai saltato un mese di scuola.» A quelle parole mi voltai di scatto verso di lui con gli occhi sgranati. Normalmente avrei contraccambiato quella cattiveria con qualcos'altro che l'avrebbe fatto arrabbiare, ma non appena vidi che non aveva un'espressione dura, ma piuttosto un ghigno incontrollato sul suo volto, che celava una risata che voleva a tutti i costi nascondere, capii che non l'aveva detto per offendermi, piuttosto per smorzare la tensione, così mi misi a ridere. Vedendo che non me l'ero presa, si lasciò andare e rise a sua volta. «Non posso credere di star ridendo per una cosa del genere» dissi, fra una risata e l'altra, prima di tornare improvvisamente serio. «Se ci ripenso, sembra così lontano... Quasi come se non fosse mai successo, come se non fossi mai stato lì.»

Peccato che ci fossero delle terribili cicatrici sul mio corpo a ricordarmi che era stato tutto vero, specie una enorme sull'addome. Avrei voluto trovare il modo di cancellarle, ma non era possibile. Erano indelebili, come se fossero parte stessa della mia pelle.

Come se mi stesse leggendo nel pensiero, David mi procurò un'idea niente male su come fare: «Perché non le copri con dei tatuaggi? Le cicatrici, intendo. Se guardarle ti ricorda quei momenti, allora coprile».

«È da mesi che stresso i miei per farmi fare un tatuaggio, ma non c'è stato verso di farli ragionare. Secondo loro mi causerebbe problemi in futuro, durante la ricerca di un lavoro. Non oso immaginare la faccia di mio padre se solo mi...» Mi interruppi prima di terminare la frase, iniziando a rifletterci seriamente. Tanto mio padre si era già fatto un'idea negativa su di me che non sarebbe cambiata neanche in altre dieci vite, quindi perché non contribuire ad alimentarla?

David colse dal mio sguardo che avevo apprezzato anche più del dovuto il suo consiglio. «Ecco, forse non dovrei dirtelo visto che non sono la parola più indicata a proporti cose che violano la legge, ma conosco un tatuatore dove non controllano i documenti, alcuni miei amici si erano fatti dei tatuaggi all'insaputa dei genitori già a quattordici anni.»

Dopodiché accostò l'auto. Eravamo già arrivati. Feci un respiro profondo e tentai di trattenerlo il più possibile, poi aprii la portiera dell'auto e scesi. Lo stesso fece David. «È stato otto anni fa, quindi non so se le cose funzionino ancora così, comunque se vuoi ti do l'indirizzo. Ah, se finisci nei casini coi tuoi, io non ti ho detto niente, giusto?»

«Giusto» risposi senza neanche starci a pensare. Non c'era nemmeno bisogno che mi avvisasse di non dire nulla, non l'avrei mai fatto.

La mia stima nei suoi confronti cresceva ogni giorno che passava, spesso contro il mio volere. Anche se la prima impressione che mi ero fatto su di lui si era poi rivelata giusta, in fondo era una brava persona. Del resto mica era colpa sua se aveva iniziato a provare qualcosa per Megan, era successo e basta. Sapevo bene come certe cose sfuggissero al controllo umano.

Entrammo dentro l'edificio. Andai a sedermi, nell'attesa che ci chiamassero dentro l'aula. Eravamo arrivati abbastanza presto, tanto che trascorsero oltre venti minuti prima che vedessimo l'avvocato Finnston varcare la soglia del palazzo di giustizia e dirigersi verso di noi. «Che cos'hai fatto alla mano?» fu la prima cosa che disse non appena mi vide, prima ancora di salutarmi.

La nascosi dentro la tasca come avevo fatto anche con suo figlio. «Niente» risposi a denti stretti.

«Almeno ci hai messo del ghiaccio sopra?»

«Quanti testimoni mancano da sentire?» chiesi, ignorando la sua domanda.

«Meno di quelli che immagini» rispose in tutta tranquillità. «Manca poco.» Sembrava fiducioso. Pensare che mesi prima era stato lui a far sì che finissi in carcere... Ma aveva anche reso possibile che ne uscissi, quindi forse avrei dovuto avere fiducia anch'io.

«E io potrò deporre?»

Si scambiò un'occhiata complice con il figlio, prima di scuotere la testa. «Meglio di no, quella canaglia sa fare leva sulle emozioni, ti porterebbe al limite fino a farti esplodere, e noi non vogliamo che accada» disse, e non potei fare a meno di dire la mia a quel proposito: «Le assicuro che lei ci riesce meglio, l'ho provato sulla mia pelle» commentai, con un piccolo sorriso.

L'avvocato Finnston non si sbilanciò troppo, sogghignò soltanto, ma ero certo che era sul punto di ridere.

Il mio sorriso si spense non appena vidi arrivare Olivia Goldberg. Si guardava intorno intimorita e nervosa, finché non posò gli occhi su di noi. Allora fece un bel respiro e ci raggiunse. «Buongiorno, signor Finnston, Dylan, signor Dominic Foster» disse, rivolgendo l'ultimo appellativo a David, il quale schiuse le labbra in segno di stupore e si grattò poi il capo, mentre io e suo padre, al contrario, eravamo molto confusi.

«Dominic che?» chiese l'avvocato, fissando il figlio di sottecchi.

«Nulla, è un gioco fra me e lei» rispose prontamente David. «Ehm, buongiorno anche a lei... ehm... Heather Wilson» ricambiò il saluto di Olivia, che però sembrò non cogliere quel nomignolo.

«Tuo padre che ha detto?» domandò l'avvocato.

«Non sa ancora che sono qui. Ha fatto il possibile per impedirmi di venire a testimoniare, ma non ci è riuscito. Ho portato le foto che mi aveva chiesto, ci sono anche le chat» disse, consegnando all'avvocato una cartelletta di plastica.

«Sei sicura di volerle davvero usare? Comunque essendo che sei minorenne, non saranno visionate davanti a tutti, te lo assicuro. Probabilmente io, tuo padre e il giudice ci riuniremo in privato per giudicare la validità della loro ammissione come prove.»

Non avevo idea di cosa stessero parlando, sembrava parlassero in codice. Che diavolo c'entrava Olivia in quella circostanza? E di che foto parlavano?

«Ah, quindi David non le vedrà?» fece Olivia, con finto tono dispiaciuto.

Non avevo mai visto David Finnston così terrorizzato, ma non potevo biasimarlo: lo sguardo dell'avvocato divenne così infuocato che provai paura persino io. I due si allontanarono in immediato e si rinchiusero in uno stanzino, presumibilmente per discutere su quanto detto da Olivia.

Era sempre stata la solita stronza, pronta a mettere zizzania.

Feci quindi per allontanarmi, prima che potesse prendersela pure con me, ma le sue parole mi fecero fermare. «Mi dispiace» disse, e suonò fin troppo sincera per essere vera.

Mi voltai verso di lei e la fissai con le sopracciglia aggrottate. «Ti dispiace? Per cosa?»

«Un po' di cose, a dire il vero.» A quelle parole, incrociai le braccia al petto, pronto ad ascoltare. «Be', mi dispiace di averti dato dell'assassino. Fino all'altro ieri, all'incirca. No anzi, fino a qualche settimana fa. Mi dispiace anche che tu ti sia innamorato di quella gatta morta, considerando come ti ha poi sostituito in tempo record con quel...»

«Non è una gatta morta» precisai interrompendola.

«Be', Emily era molto meglio, a mio modesto parere. Non capisco perché tu te la sia lasciata scappare. Che riposi in pace.»

Sentii una fitta al cuore nel sentire il nome di Emily. Non l'avevo mai detto a nessuno, ma mi mancava giorno e notte.

Pensare che era morta avendocela con me per quello che era successo fra me e Megan... Lei era la sua migliore amica, ma non era l'unica ad aver voluto bene a Emily. A volte sembrava quasi come se fosse solo lei l'unica a soffrire per la sua morte.

«C'è altro?» chiesi spazientito.

Olivia si arrotolò una ciocca di capelli attorno al dito, prima di riprendere a parlare. «Ah, sì, altre due cose. Mi dispiace che ti abbiano massacrato di botte là dentro. E devo chiederti scusa anche per aver scopato sul letto dei tuoi genitori.»

Corrucciai la fronte. «Cosa? Quando l'avresti fatto?»

«La sera della tua festa. Con... Con Herman» confessò poi, lasciandomi letteralmente a bocca aperta.

Inorridii nel sentire quelle parole, poi mi venne quasi da ridere a pensare alla faccia che avrebbe fatto mio padre qualora avesse mai scoperto cos'era successo sul suo letto. Infine riflettei meglio sul senso delle sue parole. «Un attimo, Herman? Ma lui sta con... E poi è Megan la gatta morta, eh?»

«Come ti permetti? Che razza di maschilista, mica è colpa mia se ha tradito la sua ragazza con me! E pensare che sono anche venuta qui per testimoniare a tuo favore» esclamò. «Comunque Emily quella sera ci ha visti insieme, quindi poi...»

La interruppi di nuovo: «E chi mi dice che sia stata tu e non quell'idiota di Herman a uccidere Emily?».

Non mi fidavo per niente di lei. Era una persona subdola e falsa.

«La tua ex si fida, non ti basta?»

Quindi c'era lei dietro a tutto. Avrei dovuto immaginarlo, Megan non era capace di starsene con le mani in mano, doveva sempre trovare il modo di impicciarsi in qualcosa. Se non altro aveva rispettato la promessa di non farsi viva quel giorno. Ma com'era possibile che si fidasse di lei ma non di Herman? Già tempo prima mi aveva detto di essere certa che fosse stato lui, e a quanto pare la sua idea non era cambiata.

Aprii bocca per dire qualcosa, ma a quel punto ci chiamarono dentro.

Andai a sedermi come al solito affianco al mio avvocato, alla sua destra. Non appena il procuratore Goldberg vide sua figlia, strabuzzò gli occhi, tuttavia non disse nulla. Di certo non poteva permettersi di perdere la compostezza e fare una scenata. Sistemò alcune carte sul suo tavolo e poi si alzò in piedi come tutti, non appena il giudice entrò in aula.

Ero curioso di sapere cosa sarebbe successo.

Il giudice fece una sorta di sommario dell'udienza precedente, prima di dare la parola all'avvocato Finnston, che chiamò a testimoniare un uomo mai visto, sulla quarantina. Questi si alzò in piedi e poi andò a sedersi al banco dei testimoni. «Buongiorno, signor Scott. Potrebbe illustrarci il lavoro che fa?» domandò.

Questi annuì, prima di rispondere. «Sì. Da ormai quindici anni svolgo la libera professione di cacciatore, autorizzato dallo Stato della Louisiana» rispose, scatenando subito un gran tumulto in tutta l'aula.

Il procuratore Goldberg non vide l'ora di intervenire. «Vostro Onore, temo che la difesa non abbia ben chiaro il concetto di rilevanza di...»

«La rilevanza c'è, illustre signor procuratore» lo interruppe l'avvocato Finnston con tono acido. «Ho solo bisogno di un po' più di tempo per arrivarci. Vostro Onore?» attese la concessione da parte del giudice, che gli intimò di proseguire. «Dunque, dicevo, signor Scott, fare il suo lavoro non è certamente facile, a lungo andare si potrebbero avere magari dei ripensamenti, e...»

«Obiezione, l'avvocato sta testimoniando» si intromise ancora il procuratore Goldberg.

L'avvocato Finnston chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Non sapevo spiegarmi dove trovasse tutta quella pazienza. Fossi stato io nella sua situazione mi sarei già scagliato contro il procuratore. «Riformulo: come supera lo stress derivante dall'uccisione quotidiana di tutti quegli animali? Come riesce ad abituarsi a vederli soffrire?» domandò, e ancora era estraneo a tutti il senso del suo discorso. Dove voleva andare a parare?

«Con il passare degli anni si sperimentano e introducono nuove tecniche, volte non solo a facilitare e perfezionare il lavoro, ma anche a renderlo meno doloroso per gli animali. Esistono infatti delle tecniche di stordimento e dissanguamento molto rapide ed efficaci, che immobilizzano l'animale senza che questi se ne accorga» rispose il cacciatore Scott, ma ancora mi era ignoto il suo punto.

Eppure a giudicare dall'espressione dell'uomo in piedi alla mia sinistra, sembrava soddisfatto dalle risposte che stava ricevendo. «Potrebbe illustrarci qualcuna di queste tecniche? Sono sicuro che dopo che arriverà la risposta del teste, sarà chiara a tutti la rilevanza della sua testimonianza.»

«Dipende. Per gli animali di grossa taglia, può essere utilizzata la pistola a proiettile captivo, idonea a stordire l'animale ma non a ucciderlo; per i suini è preferibile invece l'elettronarcosi alla testa oppure a tutto il corpo; oppure ancora si può immobilizzare l'animale in questione con un taglio netto e profondo alla giugulare, dopo aver avvicinato il mento al torace.»

In molti, anche fra i giurati, si scambiarono delle occhiate disorientate. Che il mio avvocato fosse impazzito? Non riuscivo proprio a capire.

«E tutte queste tecniche ovviamente sono conosciute solo da professionisti? Nessun dilettante sarebbe in grado di replicarle, è corretto?»

«Esatto» rispose il signor Scott.

«Grazie, non ho altre domande» fece l'avvocato, lasciando il tempo al procuratore di fare il suo controinterrogatorio. A giudicare dalla sua espressione, sembrava voler dire qualcosa, ma non sapeva nemmeno da dove cominciare. Infatti rinunciò a porgli delle domande, motivo per cui fu rispedito al suo posto.

Quindi il mio avvocato prese una serie di fogli da un fascicolo appoggiato sul tavolo e riprese la parola. «Vostro Onore, a questo punto, a fronte delle maggiori informazioni in nostro possesso, mi piacerebbe riesaminare ancora una volta il referto del medico legale che si è occupato dell'autopsia della vittima. Sono certo che servirà ad avere più chiarezza.»

Il giudice sembrava averne abbastanza di quel teatrino, tuttavia, per qualche strana ragione, decise di acconsentire. Probabilmente dopo anni che lavorava con l'avvocato Finnston, sapeva ormai bene quanto ogni cosa non fosse mai lasciata al caso e come tutto, anche le cose più assurde, alla fine si rivelasse utile ai casi presi in considerazione.

L'avvocato lesse allora i rapporti dell'autopsia, dei quali non capii assolutamente niente, per via del linguaggio troppo specifico utilizzato.

Ma poi, quando finii la lettura riprese il suo discorso, finalmente capii.

«La somiglianza fra la tecnica illustrata dal signor Scott e la ferita causata alla vittima direi che è evidente. Specie perché c'è scritto anche che la recisione è stata effettuata da una mano lesta, capace, di certo non un dilettante. Il mio cliente non risulta in possesso di una licenza per cacciare concesso dallo Stato della Louisiana, né ha mai avuto modo di sperimentare un'esperienza di tale tipo, pertanto...»

«Avvocato, tenga le sue considerazione per l'arringa finale» lo sovrastò il giudice con la sua voce.

«Mi perdoni, Vostro Onore, mi era sembrato di capire che ci fossimo già arrivati» rispose l'avvocato con il solito tono tagliente, lanciando un'occhiataccia al procuratore.

«Non ha altri testimoni da chiamare alla sbarra?» domandò il giudice.

«Sì, in realtà ce ne sarebbe ancora una, ma non richiederà molto tempo.» L'avvocato Finnston si voltò verso Olivia, alla ricerca del suo consenso per chiamarla a testimoniare. Lei stava già per alzarsi in piedi, ma si bloccò non appena il procuratore Goldberg scattò in piedi: «Vostro Onore, voglio ritirare le accuse!» esclamò, sollevando ulteriori tumulti all'interno dell'aula. Eppure il procuratore sembrava convinto, fermo sulla sua decisione. «A... A fronte delle prove raccolte fino ad ora dalla polizia e dalla procura distrettuale e a fronte delle nuove informazioni apportate dalla difesa, ritengo che... che le prove a carico dell'imputato siano insufficienti per proseguire con il processo a suo carico.»

Nonostante la moltitudine di facce confuse, scioccate o semplicemente contrariate, nessuno era più sconvolto di me in quel momento, se non forse l'avvocato Finnston. Per la prima volta scorsi un barlume di emozioni nel suo viso. Era sorpreso, confuso, anche un po' agitato. Di certo non se l'aspettava, come tutti i presenti, del resto. Mi volsi velocemente a guardare Olivia, la quale si era riseduta.

Qualcosa mi suggerì che era per lei che stava interrompendo tutto, di certo non per me. Qualsiasi cosa ci fosse in quelle immagini che Olivia aveva consegnato all'avvocato al suo arrivo, suo padre non voleva che uscissero.

«Procuratore Goldberg, è sicuro di quanto afferma? Vuol far decadere le accuse?» domandò il giudice.

«Secondo quanto stabilito dalla legge della Louisiana, è consentito al procuratore distrettuale in carica di interrompere il processo in corso e far decadere le accuse, qualora...»

Fortunatamente il giudice interruppe il procuratore prima che iniziasse a ripetere a memoria ogni riga presenta sul codice penale della Louisiana: «Forse sarebbe idoneo che le due parti interessate mi seguissero e che ne discutessimo nel mio ufficio, per giungere a una degna conclusione».

Accadde proprio così. Tutti i presenti furono invitati a uscire dall'aula di tribunale, mentre il mio avvocato, il procuratore e il giudice si riunirono per discorrere in privato.

Mi voltai istintivamente verso David, per cercare una rassicurazione da parte sua, desideravo che i suoi occhi mi comunicassero qualcosa come: "È tutto finito", ma era talmente sconvolto che pareva non essere in grado di trovare nessuna parola di conforto.

 

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Capitolo 23
*** 22. Non doveva accadere ***


22. Non doveva accadere

Non mi ero mai sentita così furiosa, ferita, persa, tradita, sola, come in quegli ultimi giorni.

L'unica persona che in quell'ultimo mese mi era sempre stata vicina, l'unica persona che aveva provato a essermi amica, era stata anche l'ennesima a essersi presa gioco di me. Come aveva potuto? Mi fidavo di lui, mi fidavo a tal punto da avergli confessato tutto, dei miei problemi e di ciò che mi aveva detto la dottoressa Blackburn, mi ero mostrata vulnerabile e lui aveva usato la mia debolezza per... per cosa, esattamente? Se non avessi davvero avuto bisogno di quei farmaci, non glieli avrei chiesti. Ingannarmi in quel modo era stato un colpo basso, specie perché l'aveva fatto passare solo per un "aiuto". Un aiuto che non gli avevo chiesto, perché non ero affatto fuori controllo come pensava lui, e non avevo cercato di andare in overdose.

Per il resto della giornata cercai quindi il più possibile di evitarlo, sebbene già dall'ora di lezione successiva George sembrasse intenzionato a far finta di niente e a metterci una pietra sopra.

Alla fine delle lezioni il mio unico pensiero era quello di avviarmi il prima possibile verso casa. Tuttavia fui trattenuta da qualcosa. O qualcuno.

Non appena misi piede fuori dall'edificio, infatti, mi accorsi di una grande folla radunatasi in cerchio, intenta a scambiarsi commenti sottovoce. Tendendo un po' il collo in avanti e aguzzando la vista riuscii a capirne subito il motivo. Mi mancò per un attimo il respiro, poi mi riscossi e corsi rapidamente verso l'oggetto di tutte quelle attenzioni.

«Dyl!» esclamai con tono sorpreso.

Aveva indosso un completo e i capelli gellati, il che era strano, visto che era solito indossare delle larghe e comode tute insieme alla felpa della scuola.

Poi mi ricordai che era il giorno del suo processo. Davvero avevo avuto la testa così piena di pensieri da essermene dimenticata? Avrei dovuto scrivergli subito per conoscere l'esito, invece che aspettare che si presentasse direttamente lui a scuola.

Mi prese per un braccio e mi invitò a spostarci lontani da occhi indiscreti. «Sono praticamente una celebrità qui, eh?» fece con un mezzo sorriso.

Lo osservai meglio. Sembrava tranquillo. Tranne per la mano destra che era fasciata. «Che hai fatto alla mano?» domandai preoccupata.

«Niente di che, sono andato prima a farla visitare e non è rotta, per fortuna» rispose. «Sai perché sono qui?» chiese poi, con un tono che non seppi interpretare. Suonava una domanda accusatoria, eppure non sembrava arrabbiato.

«Sei venuto a parlarmi del processo?» andai a intuito e lui annuì, prima di sorridere: «Grazie».

Aggrottai le sopracciglia. Grazie? Non sembrava sarcastico, eppure mi pareva insolito che mi ringraziasse per la situazione in cui l'avevo messo.

Fece un respiro profondo, e infine smise di essere così enigmatico e mi fornì una spiegazione più valida. «Il procuratore distrettuale ha fatto decadere le accuse e sono stato prosciolto. Inoltre, negoziando con l'avvocato Finnston, ha anche accettato di ripulirmi totalmente la fedina, quindi non sono più un pregiudicato.»

Gli gettai le braccia al collo senza pensarci due volte. «Oh mio Dio, sono così contenta! Non riesco a crederci» esclamai. «Ma che c'entro io in tutto ciò?» chiesi poi confusa, dopo aver sciolto l'abbraccio.

Inarcò un sopracciglio. «Secondo te non so che sei stata tu a metterci il tuo zampino? Per quale altro motivo Olivia Goldberg avrebbe mai accettato di testimoniare a mio favore invece che cogliere l'occasione di buttarmi merda addosso per farmi tornare in carcere? Non appena l'ho vista entrare all'interno del palazzo di giustizia ho capito che c'era qualcosa di strano, e che era merito tuo.»

«Quindi alla fine ha testimoniato?» domandai, sentendomi in colpa. Ero convinta che dopo aver ascoltato le dichiarazioni di Olivia, il procuratore non l'avrebbe fatta arrivare a tanto e che avrebbe fatto in modo di interrompere il processo prima che arrivasse quel momento.

Dylan scosse il capo. «No, suo padre non gliel'ha permesso. Per questo ha deciso di far decadere le accuse, per impedire che si andasse fino in fondo. Non voleva coinvolgerla ulteriormente, né voleva che le foto intime di sua figlia sedicenne venissero mostrate in giro. In più, era evidente che avrebbe perso il processo, per insufficienza di prove a mio carico rispetto alle nuove informazioni che sono state portate alla luce.»

E avevo ragione. Le mie convinzioni non si erano rivelate errate.

«Che informazioni?»

«Pare che quella ferita inferta a Emily non possa essere stata opera di un semplice dilettante, ma di qualcuno che ha un'esperienza nel campo, e non c'è alcuna prova che io ce l'abbia, perciò...»

«Ma Herman sì» lo interruppi.

«Be', ormai l'avvocato Finnston non può più farci niente, ha svolto il suo lavoro. Sta tutto nelle mani del procuratore Goldberg, speriamo che stavolta scelga la pista corretta.»

Il pensiero che potesse sbagliarsi una terza volta mi terrorizzava. Ormai avrebbe dovuto essere praticamente finito tutto. Eppure il fatto che l'avesse scampata fino a quel momento, mi faceva temere che Herman non sarebbe mai stato giudicato colpevole. Infatti, sebbene ormai il procuratore Goldberg sapesse della reazione spropositata che aveva avuto Herman dopo essere stato sorpreso da Emily insieme a Olivia, restava da dimostrare che era stato effettivamente lui ad assassinarla. 
E non c'erano prove né sembrava ci fossero modi per ottenerli, grazie all'eccellente lavoro svolto da Tracey.

Calò il silenzio fra me e Dylan. I suoi occhi sprizzavano una gioia che non gli vedevo ormai da tempo. Aveva avuto il suo lieto fine dopotutto. Chissà se sarebbe arrivato anche per me prima o poi.

«Come va nella nuova scuola?» domandai.

Scrollò le spalle. «Non lo so, sono andato solo quattro giorni. Per ora bene. Nessuno sa chi sono davvero né perché ho cambiato scuola a metà del terzo anno. Chi lo sa, magari potrei anche farmi degli amici.»

«Magari? Dylan, sei la persona che si relaziona con più facilità fra tutte quelle che conosco!» esclamai. «Avevi così tanti amici quando andavi qui...»

«Già, avevo» rimarcò il verbo al passato e mi sentii immediatamente in colpa per la mia sconsideratezza. «Non me ne faccio niente di cinquanta amici, se non ce n'è neanche uno degno di essere chiamato tale.»

"Hai sempre me" avrei tanto voluto dirgli, ma temevo che non fosse esattamente ciò che gli andava di sentire in quel momento.

«Ce la farai in men che non si dica, fidati di me.»

Peccato che nemmeno io mi fidassi di me stessa.

«Chi mai lo vorrebbe un amico con un disturbo da stress post-traumatico?» chiese. «Senza offesa, ecco» aggiunse, mettendosi a ridere.

Mi sarei messa a ridere anch'io, se solo non fosse stato così maledettamente vero. 
A volte ritenevo che nessuno volesse davvero avere a che fare con persone problematiche, perché ognuno aveva già i propri problemi a cui pensare. Così mi spiegavo il motivo della mia solitudine. Alla fine pian piano mi lasciavano tutti. Dylan mi aveva già detto di voler prendere le distanze, George aveva fatto in modo che mi allontanassi io da lui, prima o poi anche Lucy si sarebbe stancata, in poco tempo l'avrebbe fatto anche David... o forse era già successo.

«Guarda che era una battuta la mia, Meg» disse Dylan, toccandomi la spalla con la mano come a darmi conforto. «Scherzare su queste cose mi permette di sfuggire alla disperazione, che poi porta all'agitazione, agli attacchi di panico e, nel peggiore dei casi, alla morte.»

Era così tranquillo a parlarne che mi chiesi perché io invece la stessi prendendo così male. Lui si stava riprendendo, a differenza mia. Mentre lui risaliva io sprofondavo sempre di più nel baratro. Ed era sbagliato, sapevo che dipendeva tutto dal mio atteggiamento, ma sfuggiva al mio controllo.

«S-sì, lo so» simulai un sorriso. «È che ho molte cose per la testa, specialmente oggi. Comunque mi fa immensamente felice sapere che, nonostante tutto, per te sia finito tutto per il meglio. Promettimi che non sparirai e che ci terremo in contatto almeno ogni tanto» quasi lo implorai. Sapevo che gli stavo chiedendo molto, quindi non mi aspettavo che accettasse quella mia richiesta, però dovevo almeno tentare.

Si morse il labbro inferiore, titubante. «Ho bisogno di più tempo, lo capisci? Ma non escludo che... che un giorno io e te potremo essere amici.» Poi si chinò per darmi un bacio sulla fronte e, senza nemmeno attendere una risposta, si allontanò.

•••

Mi precipitai a casa. Avevo lo stomaco in subbuglio. Da una parte avevo il morale sotto i piedi, dall'altra ero davvero felice di essere riuscita a fare un'altra opera di bene. Mi convinsi di aver rimediato al male che avevo causato a Dylan. Certo, ne stava ancora subendo le conseguenze, ma se non altro non ce l'aveva più con me.

Forse pian piano stavo davvero sistemando tutto. Rimanevano solo due cose in sospeso: David e Herman.

Ma per quel giorno ero troppo sfinita per poterci pensare, avevo bisogno di dormire un po'. Al mio risveglio magari avrei mandato un messaggio a David e gli avrei chiesto di vederci.

Così, dopo aver lasciato lo zaino di scuola a terra di fianco alla porta della mia stanza, iniziai a togliermi le scarpe, i pantaloni e il maglione che indossavo. Poi slacciai anche il reggiseno per poter rimanere più comoda, come facevo sempre ogni volta che tornavo a casa. Infine mi infilai il pigiama. Stavo per stendermi sotto le coperte, quando sentii il citofono suonare.

Una parte di me avrebbe voluto fare finta di niente. In fondo non aspettavo visite, né i miei mi avevano messa al corrente che in quei giorni dovesse passare il corriere a consegnare qualche pacco, quindi forse mi conveniva ignorare la cosa. Eppure, dopo il primo richiamo, ne seguirono altri due sempre più insistenti, così, a malincuore, mi alzai dal letto e mi diressi verso la porta di casa per vedere di chi si trattasse e per sfogargli contro la mia rabbia.

I miei propositi svanirono nel nulla non appena mi trovai davanti David Finnston. Rimasi letteralmente a bocca aperta, eppure ne avrei avute di cose da dire, peccato che lui mi precedette: «Perdonami».

Stavo per chiedergli a che cosa si riferisse, ma ancora una volta non me ne lasciò il tempo poiché entrò in casa mia e cominciò a farneticare. «Perdonami. Avrei dovuto... avrei dovuto insistere, non avrei dovuto assecondarti, n-non... non doveva accadere. Abbiamo sbagliato, cioè, io ho sbagliato. Mi sono lasciato trasportare e... e ho dato più importanza ai miei impulsi di quel momento piuttosto che a... a ciò che contava davvero, a ciò che conta davvero, anzi.»

Lo fissai stralunata per tutto il tempo che parlò, cercando di capire dove volesse andare a parare. Mi sedetti sul divano e lo invitai a fare lo stesso, ma lui rimase in piedi. «David, di che parli?» chiesi.

«Ti sei pentita?» domandò lui. «Per l'altro giorno, ti sei pentita?»

Se in quei giorni avevo avuto diversi dubbi a riguardo, non appena mi pose quella domanda, le mie perplessità si dissolsero nel nulla: «No, certo che no». Mi venne spontaneo dare quella risposta, non avevo neanche avuto bisogno di pensarci.

Raramente avevo visto David così preoccupato. Giurai di aver visto le sue mani tremare, prima che le infilasse nelle tasche dei pantaloni. Lo presi sottobraccio e lo invitai a sedersi sul divano affianco a me. «Come puoi pensare che mi potessi essere pentita?» domandai.

Inarcò un sopracciglio. «Secondo te?»

Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Era evidente che il mio comportamento non fosse passato inosservato. Subito dopo quel momento non avevo fatto che evitarlo, nemmeno avevo lasciato che mi baciasse prima di andarmene, avevo risposto in maniera fredda e distaccata al suo messaggio. «Mi dispiace, lo so, non mi sono comportata bene.»

David scosse la testa: «Che dici? Io non mi sono comportato bene. Era la tua prima volta e io me ne sono approfittato così...» disse con tono sconsolato, passandosi una mano fra i capelli.

Come poteva pensare una cosa simile?

«Approfittato? Sono stata io a volerlo, David, ero consapevole e sicura di quello che stavo facendo.»

Cioè, consapevole forse no, visto che ci avevo impiegato parecchio a metabolizzare la cosa, e ancora avevo dubbi sulla veridicità di quanto accaduto. Comunque mi sembrò opportuno evitare di aggiungere quei dettagli.

«Ricordi che sono venuta nella tua stanza del college con una borsa piena di preservativi?» aggiunsi per tentare di procurargli una risata e alleviare la tensione che provava in quel momento.

Emise un sorriso amaro. «A proposito, li hai dimenticati lì quando te ne sei andata, te li ho riportati» disse, tirando fuori dalla giacca il pacco di profilattici che mi aveva regalato George e posandoli sul tavolino davanti al divano. «Comunque... be', perché hai reagito così? Mi sono sentito una merda, Maggie, quando ti ho vista andare via così. Sono stato giorni a cercare di capire che cosa avessi fatto o detto di male, ecco perché oggi sono venuto a scusarmi.»

«David Finnston che si scusa? Pensavo che considerassi inutili le scuse» tentai di canzonarlo, ma a giudicare dalla sua espressione non sembrava in vena di scherzi, così tornai seria: «Non devi scusarti di niente. Lo so che ho reagito male, ma... capiscimi, stavo solo cercando di fare chiarezza su ciò che era appena successo. È accaduto così in fretta, fino all'ultimo secondo non avevo idea che sarei stata in grado di arrivare fino in fondo. Poi, però, non appena mi hai aperto la porta e ti ho visto davanti a me, non ho più avuto dubbi» confessai, prendendogli una mano e posandomela sul ginocchio.

Lui intrecciò le sue dita alle mie. Poi corrucciò la fronte. «Sei venuta da me fino a New Orleans appositamente per quello?» chiese con uno dei suoi piccoli ghigni.

Detta in quel modo non mi faceva propriamente giustizia, ma comunque capii cosa intendesse. «Lo so, avremmo dovuto parlare del nostro conto in sospeso. Però avevo paura di affrontare la cosa e ho pensato che fosse più semplice metterci una pietra sopra. È stata una cosa stupida e immatura, me ne rendo conto» ammisi.

«È un errore che abbiamo commesso entrambi. Avrei dovuto insistere affinché ci fermassimo e parlassimo. Solo che... che quando sono con te riesco solo a comportarmi come un ragazzino: stupido e immaturo.»

Il fatto che lo ammise davanti a me mi stupì. Mi fece capire che teneva a me più di quanto immaginassi, se riusciva a mettersi a nudo in quel modo nonostante la sua indole orgogliosa e riservata.

«Forse adesso è il caso di avere quella conversazione, che dici?» disse e io annuii, attendendo tuttavia che fosse lui a cominciare. «Quello che ho fatto a Dylan è stato... eccessivo, lo so. Ma cercavo solo di aiutarlo, credimi. Non avrei saputo perdonarmelo se gli fosse successo qualcosa di troppo grave, ma era un rischio che dovevo correre se volevo riuscire a... ciò che mi avevi chiesto di fare non era semplice, ma ti avevo promesso che l'avrei tirato fuori di prigione e non volevo rivelarmi un fallimento anche ai tuoi occhi.»

Alzai gli occhi al cielo. «Se smettessi di ritenerti tale, forse non cercheresti di strafare e non ti verrebbero in mente questi piani assurdi!» esclamai, togliendo la mano dalla sua presa e incrociando le braccia al petto.

«Lo so» disse in un sibilo, mentre i suoi occhi divennero improvvisamente cristallini. Si stava davvero aprendo del tutto con me, stava togliendo ogni filtro, così decisi di non ostacolare più il suo discorso fino alla fine. «Scoprire che Dylan veniva malmenato lì dentro fu ovviamente un duro colpo, considerando che io e mio padre eravamo i responsabili che l'avevano fatto rinchiudere lì dentro, anche per questo mio padre si è offerto di pagare metà dell'importo della cauzione, ma si rivelò anche la via d'uscita più facile e veloce. Probabilmente non ci avremmo messo così poco a ottenere il suo rilascio in altre situazioni. Non importa quanto grandi fossero le accuse, davanti a una prova lampante di maltrattamento e abuso di potere su un ragazzino minorenne, le autorità non potevano chiudere un occhio, specie considerando l'insofferenza e la sfiducia sempre più crescenti delle persone nei confronti delle forze dell'ordine. Che figura avrebbero fatto se avessero lasciato impunito un fatto del genere? È stata un'idea malsana e corrotta, ma proprio per questo ha funzionato così bene. E comunque, è stato lui a dare l'input.»

Spalancai la bocca. Non era possibile. Conoscevo David, sapevo che un'idea del genere poteva venire solo dalla sua mente geniale ma spregiudicata.

«Te lo giuro, Megan. Te gliel'hai mai chiesto? Sai com'è fatto Dylan, è pieno di rabbia dentro. Ne covava così tanta che mi confessò di desiderare con tutto il cuore di rovinare la vita a quelle persone che se la prendevano con lui, a partire dalle guardie fino ad arrivare a quel medico corrotto. Voleva trovare il modo di far sapere a tutti cosa capitava lì dentro, a costo di spogliarsi davanti a tutti in tribunale. E allora l'ho preso alla lettera non appena mi è balenata quell'idea in testa, e Dylan ha accettato senza batter ciglio. Tra l'altro, perché tu lo sappia, mio padre non sapeva niente finché non ha visto Dylan ridotto in quel modo la mattina del processo. Dai, con quale ingenuità hai davvero creduto che mio padre potesse essere d'accordo? Non hai idea del cazziatone che mi ha fatto non appena siamo tornati a casa! Non mi sgridava così da quando avevo la tua età, diamine.»

A quel punto smise di parlare, ciò significava che era arrivato il mio turno. Sbuffai, mentre cercavo le parole più adatte. Non era facile, specie perché avevo paura di ferirlo. «Lo sai quello che penso, David, a me non piace questo tuo modo di fare. Ed è normale, non può piacermi tutto di te, ma ciò che vorrei farti capire è che... che è nocivo, per gli altri ma anche per te. Ero seria quando ti ho parlato dell'esame dell'ultimo anno, quello di etica. Se un intero esame universitario si basa su questo, vuol dire che non è una cosa da mettere in secondo piano. Un avvocato, uno vero, non può permettersi di fare questi giochetti continuamente, né può far prevalere le questioni personali su quelle professionali. Tu mi hai appena ammesso che hai architettato tutto solo per dimostrare qualcosa a me, capisci che...»

«Ho detto che era la via più facile e veloce per ottenere quello che mi avevi chiesto» mi interruppe, distogliendo lo sguardo. Era prevedibile che avrebbe reagito così, avevo appena toccato il suo tasto dolente. Così non volli andare avanti a demolirlo.

«Sì, anche. Ma la tua mente è qualcosa di così straordinario che ci saresti riuscito anche senza far soffrire nessuno. Se solo te ne rendessi conto anche tu... Puoi essere uno stratega anche senza tutti questi brogli e manipolazioni, lo sai?» chiesi, senza però aspettarmi una risposta. «E basta cercare di dimostrare il tuo valore, perché chi ti conosce lo sa. E anche chi non ti conosce. Certe cose saltano subito all'occhio. Chiunque ti incontra rimane affascinato e... e ti ammira, probabilmente qualcuno ti invidia, e in fondo lo sai anche tu, dell'effetto che hai sugli altri. E non è solo per l'immagine che ti crei, per il tuo finto ego smisurato che non vedi l'ora di esibire, è per tutto il resto. E solo perché tuo padre, oppure... oppure Kylie non sono stati in grado di vederlo fino ad adesso, non devi pensare che...»

Mi fermai non appena David riposizionò lo sguardo sul mio dopo averlo tenuto rivolto verso il basso fino a quel momento. «Non stai parlando di due persone qualsiasi. Sono le due persone che... la persona che amo e quella che ho amato di più in tutta la mia vita. Ecco perché è così importante per me. Non mi è mai interessato di dimostrare niente a nessuno, se non a... se non a loro. E ora ho paura che, a lungo andare, la lista si allunghi e anche tu inizi a pensarla come loro.» Rimasi a bocca aperta, spiazzata, non tanto per le sue parole, ma più per quella lacrima che vidi scendere dal suo occhio e bagnargli la guancia.

Non avevo mai visto David piangere e davanti a quella scena mi si spezzò il cuore. A volte sembravo dimenticarmi che anche lui era umano e provava dei sentimenti. 
Non me la sentii di fare altro se non avvicinarlo a me e stringerlo in un forte abbraccio. Incastrò la testa nell'incavo del mio collo e si lasciò cullare come se fosse un bambino. Con una mano gli accarezzavo i capelli, mentre con l'altra la schiena, e nel frattempo lasciavo che lui desse libero sfogo alle sue lacrime.

Dopo qualche minuto, sembrò riprendersi, infatti sciolse l'abbraccio, rimanendo tuttavia vicino al mio viso. Lo fissai per qualche istante e poi lo baciai dolcemente. Aveva le labbra umide per il pianto, e probabilmente mi aveva lasciato del muco sulla maglia, ma non mi interessava.

Mi bastava essere lì per lui, essere la persona con cui aveva scelto di aprirsi, a cui aveva scelto di mostrarsi a trecentosessanta gradi, con le sue insicurezze e vulnerabilità.

Capii che si era definitivamente ripreso nel momento in cui mi rivolse uno dei suoi ghigni e mi disse: «Ora, proprio tu vuoi parlarmi di etica dopo tutto quel magheggio che hai fatto con Olivia per far annullare il processo?».

Se l'aveva capito Dylan, non mi stupì di certo che ci fosse arrivato anche David. Sorrisi soddisfatta, prima di passargli i pollici sulle guance per asciugargli del tutto le lacrime. «Io posso farlo, non sto studiando per diventare avvocato» mi giustificai, scrollando le spalle.

«Come hai fatto a convincerla a raccontare tutto a suo padre? L'hai ricattata?»

«No!» scossi la testa. «Gliel'ho chiesto e basta.» Mi guardò con la fronte corrucciata. «È la verità» insistetti, incrociando le braccia al petto.

«Bah, sarà...» scrollò lo spalle. «Meglio così, comunque. Anche se dovevi starne fuori.»

«Già, ma anche tu» ribattei.

«Io faccio quello che voglio» disse scandendo bene ogni parola, con quella sua solita e insopportabile superbia.

A quel punto feci per tirargli una sberla sul braccio, ma lui mi afferrò la mano e mi attirò a lui. Indietreggiò fino a sdraiarsi a pancia in su sul divano, con me sopra di lui. Feci per rialzarmi, ma non ci riuscii perché David mi bloccò stringendomi le mani attorno alla vita. «Dai, lasciami!» cercai di dimenarmi, ma lui me lo impedì baciandomi.

Cercai di resistere e non ricambiare il suo bacio il più a lungo possibile, ma alla fine cedetti e lo baciai a mia volta.

Le sue mani passarono dalla mia vita ai miei fianchi e poi risalirono fino a posarsi sulla parte alta della mia schiena.

«Non hai il reggiseno...» disse con voce rauca e tono malizioso, prima di baciarmi ancora.

«Vedi, ti facilito pure il lavoro.»

«Ma per me non è difficile.»

Ed era vero. L'altro giorno l'aveva fatto in maniera così meccanica che era palese che fosse un esperto nel campo.

«Però sei un po' lento» bisbigliai a un centimetro dalle sue labbra.

Sorrise. «Sei tu che sei impaziente.» Aprii bocca per ribattere, ma non me ne diede il tempo: «Non puoi negare di esserlo».

Riconobbi che aveva ragione, infatti rimasi zitta.

David sollevò leggermente il busto, appoggiandosi con la schiena ad uno dei braccioli del divano, così io mi misi a cavalcioni su di lui. Passò qualche istante a osservarmi. «Carino il pigiama, comunque» commentò con sarcasmo, facendo scivolare le dita dal mio ginocchio alla coscia.

Fortunatamente non era un pigiama chissà quanto imbarazzante. Era a tinta unita, rosa, con una scritta sulla maglia che diceva "Amo dormire".

«Scusa se quando sono in casa non tengo giacca e cravatta e scarpe» risposi con il suo stesso tono. «Chi diavolo tiene le scarpe in casa propria?»

Aggrottò la fronte. «Neanch'io lo faccio.»

«Scherzi? Ogni volta che sono venuta a casa tua...»

«Quando sono da mio padre sì» mi interruppe. «Potrebbero sempre arrivare i suoi clienti da un momento all'altro, devo essere presentabile» spiegò. «Quando sono nel dormitorio invece non ce n'è bisogno.»

«Ora mi è tutto più chiaro. Pensavo che tu e tuo padre foste dei fissati con un palo in quel posto.»

«Ah, lui probabilmente ce l'ha» rispose. «Pensi che me ne fregherebbe qualcosa di farmi vedere in pigiama e pantofole dai suoi clienti? È per lui se lo faccio. Col tempo è diventata una mia abitudine, ma prima non lo facevo e, non appena mi vedeva uscire dalla mia camera conciato male, erano guai» ridacchiò. «Il più delle volte però lo facevo apposta per farlo arrabbiare.»

Risi anch'io. «Ma certo, David Finnston, l'eroe ribelle» citai le sue parole di qualche tempo prima.

«Proprio così.» Dopo avermi portato i capelli dietro la schiena, prese il mio viso fra le sue mani e mi baciò intensamente ancora una volta.

Se qualcuno mesi fa mi avesse detto che fra noi due le cose sarebbero andate in questo modo, non ci avrei mai e poi mai creduto.

Accade tutto con una naturalezza tale che sembra quasi un sogno, pensai. Eppure nessuno dei sogni fatti fino a quel momento in cui lui era presente potevano competere con ciò che stavo vivendo.

A un certo punto, afferrai i lembi della mia maglia e me la tolsi, lanciandola alle mie spalle.

Essendo impreparato, David non poté che spalancare gli occhi e rimanere ipnotizzato per qualche secondo.

Poi distolse lo sguardo. «Megan...» iniziò.

«Che c'è?» domandai da finta tonta, prima di prendergli il mento fra l'indice e il pollice per far sì che si sforzasse di guardarmi negli occhi.

«È che devo andare via fra poco. Mio padre mi fa il culo se non finisco di preparargli un documento per domani e sono ancora in alto mare.»

«Allora perché sei venuto qui se avevi da fare? Non volevo mica rubarti del tempo...»

«Secondo te? Non ce la facevo più a non vederti e avevo bisogno di parlarti.»

Mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso, ma mi ricomposi subito e alzai gli occhi al cielo. Non era il caso di cedere alle sue moine. «Mi devo davvero rivestire?» domandai scocciata.

Il suo era innato autocontrollo oppure, nonostante quello che mi diceva ormai da tempo, non lo attraevo veramente?

«Credimi, è più difficile per me che per te.»

Sbuffai e poi mi alzai dal divano. Ripresi la maglia del pigiama che nel frattempo era scivolata a terra e me la rimisi. Poi iniziai ad avviarmi frettolosa verso la porta.

«Te la stai prendendo davvero?» chiese sorpreso, venendomi dietro.

Non risposi e girai la chiave nella porta per aprirla.

«Dai, Maggie, non comportarti da...»

«Da bambina? Non è che solo perché mi arrabbio significa che sono una bambina, sai?» lo interruppi.

Più che arrabbiata in realtà ci ero rimasta male. Non tanto per la cosa in sé, ma per il fatto che eravamo rimasti insieme per così poco tempo. Ogni volta era così: il tempo era sempre contato.

«Domani ci sono. Promesso. Non ho niente da fare, dalla mattina alla sera.»

Mi illuminai in volto. Era perfetto, considerando anche che i miei sarebbero andati a trovare i miei nonni e sarebbero tornati con ogni probabilità a notte fonda, se non addirittura il giorno dopo. «Va bene» dissi allora. «A domani.»

Si avvicinò per baciarmi ma io mi scostai.

«Dai, smettila di fare l'incazzata.»

Non risposi e, posizionandomi davanti a lui, sollevai le braccia fin sopra le spalle. 
Lui capì le mie intenzioni in pochi secondi, infatti, appoggiò le mani sul mio sedere e mi sollevò in braccio, mentre io intrecciai le gambe attorno alla sua vita e strinsi le braccia attorno al suo collo.

«Contenta, bambina?» chiese, stavolta con un tono più dolce, difatti non mi arrabbiai.

Annuii e gli stampai tanti piccoli baci sulle labbra, prima di dargliene uno serio. Poi mi fece scendere e, dopo avermi fissata a lungo, uscì da casa mia.

 

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Capitolo 24
*** 23. Contro la legge ***


23. Contro la legge

«Meg, per qualsiasi cosa scrivici o chiamaci, e se non rispondiamo hai sempre il numero della nonna» si raccomandò mia madre l'indomani.

Mio padre era già entrato in auto, convinto che il momento della loro partenza fosse arrivato, invece la stava attendendo da oltre dieci minuti.

«Sì, mamma, lo so, tranquilla.»

«Guai a te se non mangi, ti ho lasciato l'arrosto con le patate in frigo.»

«Sì, me l'hai già detto.»

Che pesantezza.

«Se non vuoi l'arrosto anche per cena, ci sono anche gli avanzi di ieri.»

«D'accordo, poi mi arrangerò.»

«A proposito, sei più andata dalla dottoressa Blackburn? Ora che sono finite le vacanze, ha riaperto lo studio.»

«Be', è sabato, mica lavora oggi. La chiamerò in settimana. Ora vai, papà ti sta aspettando.»

«Comunque sei proprio stupida a non essere voluta venire se tanto non hai nulla da fare. Non dovresti dare per scontati i tuoi nonni, non saranno lì per sempre, sai? Nonna Rose poi è molto anziana e...»

«Dio, che angoscia!» la interruppi. «Sono le nove di mattina, mi sono svegliata da neanche un quarto d'ora e tu non fai che parlarmi, lasciami respirare!» esclamai, perdendo la pazienza.

Mia madre sembrava intenzionata a proseguire la conversazione ribattendo, ma alla fine sembrò rinunciarci. «Fatti sentire, mi raccomando.» Mi diede un bacio sulla fronte e uscì di casa.

Finalmente.

Tornai nella mia camera e mi sdraiai a letto. Avevo intenzione di farmi almeno un'altra ora di sonno, se non due. Così tirai le tende, abbassai le tapparelle e provai a riaddormentarmi.

Però fui subito assalita dai soliti pensieri che anche la notte scorsa mi avevano impedito di prendere sonno, ai quali si aggiunsero anche le parole di mia madre: «Non dovresti dare per scontati i tuoi nonni, non saranno lì per sempre, sai?».

Mi sentii profondamente in colpa. Io più di chiunque altro avrei dovuto imparare quanto tutto nella vita fosse effimero, anzi, quanto la vita stessa lo fosse. Forse sarei davvero dovuta andare da mia nonna invece che sprecare un'altra occasione di vederla.

Sobbalzai nel momento in cui sentii il suono di una notifica sul mio cellulare. Mi ero dimenticata di metterlo in modalità silenziosa. Allungai una mano per prenderlo dal comodino e vedere di cosa si trattasse. Lessi il mittente e poi riappoggiai il cellulare sul comodino.

Si trattava di George, e io non avevo alcuna voglia di sentirlo.

Era anche colpa sua se non riuscivo più a dormire, dato che non avevo più le pasticche...

No, ma che stavo dicendo? Il problema non era George, il problema ero io. Io. Soltanto io. Come sempre.

E se sia George sia la dottoressa Blackburn avessero avuto ragione su di me? Se stavo avendo una ricaduta? Non si poteva propriamente dire che ultimamente stessi bene, sia a livello emotivo che fisico... Ed era davvero ricominciato tutto da quando ero andata a visitare Dylan in prigione per la prima volta. Quanto a prima di quel momento, senso di colpa a parte, stavo bene.

Se poi ripensavo a quell'ultimo mese, gli unici momenti di serenità e spensieratezza li avevo vissuti in compagnia di George e, in sua assenza, quando stavo con David, oppure quando mi illudevo di star bene bevendo fino a ubriacarmi, dimenticandomi per qualche ora chi fossi e cosa avevo fatto.

Ma non potevo continuare a vivere così. Non si trattava neanche di vivere, semmai di farmi vivere dalla vita, accettando passivamente i miei fallimenti ed errori, non facendo nulla per risolvere i miei problemi.

All'improvviso mi tornò in mente una frase che avevo letto a casa dell'avvocato Finnston la prima volta che mi ero recata lì.

"Sapere cosa è giusto e non farlo, è la peggiore vigliaccheria."

Allora capii. Sapevo come cambiare tutto.

•••

«Allora, dove vuole andare, mademoiselle?» mi chiese David quando venne a prendermi a casa.

«Ah, decido io?»

«Ti lascio questo onore. Chi l'ha detto che debba essere sempre l'uomo a occuparsi di queste cose?»

«Certo, oppure non hai nessuna idea su dove portarmi.» Incrociai le braccia al petto e inarcai le sopracciglia.

«Vedo che non hai capito niente di come sono fatto.»

Roteai gli occhi. Razza di presuntuoso. «Comunque voglio andare al cimitero» dissi, prendendo la giacca dall'appendiabiti e avviandomi verso la sua auto.

«Aspetta, sei seria?» chiese ridacchiando, prendendomi per mano.

«Non scherzerei mai su luoghi come questo. Devo fare una cosa, e voglio che ci sia tu con me» risposi.

Nonostante il suo scetticismo, smise di ridere e tornò serio. «Come desideri, allora» disse, salendo in auto e io feci lo stesso. «Ma questa allora è la prima e ultima volta che scegli tu dove andare.»

Mi allacciai la cintura. «Non ci staremo tanto. È che... ho davvero bisogno di andarci. E so che non è la prospettiva migliore per un primo appuntamento, ma...»

«È il secondo» mi corresse, interrompendomi. Lo guardai, per cercare di capire se fosse serio e se soprattutto intendessimo la stessa cosa come il nostro primo appuntamento. Mi sorrise timidamente, e allora capii che si stava riferendo proprio a quello.

Era stata una delle serate al tempo stesso più belle e più brutte della mia vita: più belle perché aveva rinunciato a uscire con i suoi amici per passare tutta la serata con me sebbene non fosse mai successo nulla fra noi, mi aveva mostrato New Orleans, eravamo andati fuori a cena e poi avevamo fatto un giro al lago; una delle più brutte perché quando ero andata da lui a New Orleans, ero stata appena aggredita da Dylan e mi ero convinta fosse l'assassino di Emily, e anche perché dopo quella splendida uscita, David mi aveva tirato un'altra delle sue batoste, confessandomi che non gli interessavo, anche se non era vero.

Una volta arrivati al cimitero, mi infilai la giacca e poi presi David sottobraccio. Lo guidai io e, lungo tutto il tragitto per raggiungere la tomba di Emily, restammo in silenzio.

Gli occhi mi si fecero lucidi, tuttavia trattenni le lacrime.

«Una volta, qualche settimana fa, ero in camera mia e ho sentito... stavo pensando a Emily, e ho sentito... ho sentito qualcuno toccarmi la spalla. Ero sola nella stanza e... e non lo so, mi è sembrato proprio che fosse lei: Emily. Ti è mai capitato?» chiesi con un filo di voce.

David schiuse le labbra. Rimase in silenzio qualche istante, poi rispose. «Avevo solo pochi mesi quando mia madre... be', lo sai. Quindi non ho dei veri e propri ricordi di lei, solo qualche fotografia. Però mi ricordo che una volta, quando ero bambino, di notte la sognai. Aveva indosso un vestito rosa di cotone, lungo fino alle caviglie, me lo ricordo bene. Parlandone con i miei nonni, mi dissero che era uno dei suoi vestiti preferiti di quando era ragazza, e infatti era ancora nell'armadio della cameretta di mia madre di quando viveva ancora con loro, seppellito in qualche scatolone. Era tale e quale a come l'avevo visto la prima volta, nel mio sogno.»

Sgranai gli occhi e sentii dei brividi percorrermi la schiena. «Quindi non sono pazza?» chiesi, più che altro parlando fra me e me. «Pensi che... non lo so, che esista qualche collegamento fra la vita e la... la m-morte? Che chi ci lascia non ci lascia mai davvero?»

Mi sentivo quasi stupida a dire quelle cose, ma vedere che David mi prendeva seriamente invece che additarmi come folle, sebbene fosse una delle persone meno sognatrici e più razionali che conoscessi, mi rassicurò.

David mi strinse in un abbraccio e mi lasciò un bacio sul capo. «Non ne ho idea, Megan... Magari sono solo suggestioni che crea la nostra mente, magari in realtà avevo già visto quel vestito da qualche parte, in qualche foto... Comunque sia non possiamo saperlo con certezza.»

«Lo so. È solo che pensavo che... che forse se Emily era venuta a trovarmi, magari dal posto in cui è ora ha deciso di perdonarmi per ciò che le ho fatto» dissi, con voce rotta.

«Maggie...» Sciolse l'abbraccio e mi prese il viso fra le mani. Sembrava stesse per aggiungere altro, ma alla fine rimase in silenzio. Poi cambiò idea un'altra volta e parlò: «Hai mai pensato che forse dovresti essere te per prima a perdonarti?».

«Se si fosse trattato solo di Dylan forse l'avrei fatto da un pezzo. Il problema è stato ciò che ho fatto dopo che avevamo litigato alla festa... io ho contribuito a coprire la verità sul suo omicidio.»

«E ora stai rimediando. Verrà tutto a galla, Megan, fidati di me» disse, dandomi una carezza su una guancia.

Rimasi zitta, eppure sapevo che le sue parole avrebbero avuto solo un effetto temporaneo e che a breve sarebbero ripresi i miei pensieri ossessivi e demolitori. Per il momento però volevo godermi al meglio delle mie possibilità la giornata con David.

Camminammo per qualche minuto e mi mostrò la tomba di sua madre. Era una donna bellissima, aveva gli stessi occhi di David, ma erano più allegri e più espressivi, se non altro in quella foto, in cui stava ancora "bene". Chissà quanto era stato doloroso per suo marito vedere il suo sguardo spegnersi sempre di più giorno dopo giorno per via della sua malattia, in un periodo delle loro vite in cui avrebbero dovuto essere al settimo cielo per via del figlio appena nato.

Lessi l'iscrizione sulla tomba.

"La tua scelta di essere felice non ti cancellerà mai dai nostri cuori."

Mi domandai chi fosse stato a scegliere quella frase. Non mi sembrava di certo nello stile dell'avvocato Finnston, ma in fondo non lo conoscevo abbastanza da poterlo affermare con certezza. Diciamo però che quella filosofia non combaciava con la versione di David, visto che riteneva che il padre lo incolpasse della morte della moglie.

«Chi l'ha scelta questa frase?» domandai.

«Non lo so, penso mia nonna. Mio padre lasciò che si occupasse lei di tutto, lui non ne voleva sapere. Tanto comunque lui non viene mai qui, al massimo manda qualcun altro a cambiare i fiori» rispose David. «Pff, "scelta di essere felice"... che puttanata!» esclamò, serrando i pugni e digrignando i denti. «Come si può giustificare ciò che ha fatto definendola come scelta di essere felice?»

Non mi lasciai scappare quel tremolio nelle sue labbra e la voce rotta. Per non trasformare quella giornata in un qualcosa di deprimente all'insegna dei ricordi delle persone che avevamo perso, afferrai David sottobraccio e gli dissi che se per lui andava bene potevamo andare. Annuì senza aggiungere altro.

Tornammo a casa mia. Si era fatta ormai quasi ora di pranzo. Come prima cosa, non appena entrammo in casa, gli feci togliere quelle maledette scarpe. Dopodiché ci avviammo in cucina.

L'arrosto con le patate di mia madre riscosse successo, anche se riscaldato a microonde. «È da mesi che mangio nella mensa del college e, credimi, è quasi peggio del cibo servito nella nostra scuola» disse David, prima di pulirsi il viso con il tovagliolo.

«E quando sei a casa, chi cucina?»

«Di certo non mio padre. Compra solo cose precotte o surgelate, o al massimo ordina dal ristorante» rispose.

«Ma non fa bene mangiare sempre così» osservai. «Eppure eri cicciottello da bambino» aggiunsi, dandogli un buffetto sulla guancia.

«Sì, perché stavo praticamente sempre a casa dei miei nonni, e...» David si fermò e corrucciò la fronte. «E tu come fai a saperlo?» domandò.

«Ho visto delle foto nei vecchi album di famiglia.»

All'insaputa di mia madre, avevo prelevato dall'album tutte le foto di David e le avevo messe nel cassetto del comodino, per poterle riguardare ogni volta che ne avevo voglia.

«Cos'è, gli album di famiglia sono come il vecchio Instagram?» chiese e io risi: «Suppongo di sì».

Poi meditai qualche secondo su una cosa e presi di nuovo la parola: «Quindi tu, persona nata nel secolo scorso, conosci Instagram?» chiesi.

Ridusse gli occhi a due fessure. «Certo che lo conosco. Ma scommetto che tu non conosci MSN.»

«Sarebbe?» domandai confusa. Non ne avevo mai sentito parlare. Il primo social network che avevo utilizzato era stato Facebook.

«Ecco, appunto.» Poi tirò fuori il cellulare e aprì Instagram. Andò sulla barra di ricerca. «Com'è che ti chiami?»

«Megan trattino basso Sinclair, tutto attaccato» risposi.

Poco dopo mi arrivò la notifica che David aveva iniziato a seguirmi.

Feci per ricambiare la cosa, ma dovetti aspettare che mi accettasse la richiesta, dal momento che aveva messo il profilo privato. Fino a qualche mese prima non ce l'aveva, infatti io e Tracey avevamo sbirciato sul suo profilo un pomeriggio e, dopo quel giorno, l'avevo fatto anche molte altre volte per conto mio, finché non l'aveva messo privato.

Se non altro ora non sarebbe più stato un problema.

Quando accettò la mia richiesta di seguirlo, andai rapidamente a dare un'occhiata al suo profilo, tuttavia rimasi delusa, nel vedere che aveva cancellato ogni post. «Che tristezza questo profilo così spoglio» commentai.

«Ma sì, non lo uso quasi mai. Avevo solo foto vecchie di cent'anni, di quando ancora andavo alle superiori.»

Mi finsi sorpresa, ma in realtà lo sapevo già. L'ultima foto che aveva pubblicato risaliva al 2014, era con Kylie.

Dopo aver sparecchiato e aver messo tutto in lavastoviglie, io e David ci spostammo in camera mia.

Chiusi la porta alle mie spalle, anche se di fatto non ce n'era bisogno, considerando che eravamo soli. Lui perse qualche istante a osservare la mia stanza, mentre io mi persi a guardare lui.

Chiaramente se ne accorse subito e non si lasciò scappare l'occasione di farmi una delle sue battute. «Che c'è, ti sei incantata a guardare quest'opera d'arte?» fece, indicandosi il viso.

Roteai gli occhi e poi mi alzai in punta di piedi. Appoggiai le mani sulle sue spalle e lo baciai.

In men che non si dica trasferimmo il nostro peso sul mio letto, il quale per fortuna non era piccolo come quello del dormitorio e poteva accoglierci comodamente entrambi.

Dopo pochi minuti la temperatura della stanza sembrò subire un aumento, o così percepii io, tanto che i vestiti che indossavo mi sembrarono di troppo. Così mi tolsi il maglione e feci per fare lo stesso con il suo, senza incontrare nessuna opposizione da parte di David. Non ci volle molto affinché finissimo senza vestiti.

Era strano pensare a ciò che sarebbe accaduto di lì a breve nella mia stanza, la stessa stanza in cui giocavo da bambina, che mi aveva vista crescere fino a quel momento. Neanche Dylan ci era mai stato, David era il primo. Se non altro l'avrei riempita di nuovi ricordi.

«Sei sicura?» sussurrò David al mio orecchio e io annuii. «Non è che poi mi eviterai per altri due giorni?» scherzò e io risi: «No, non ci penso proprio».

«Guarda che è probabile che... sì, insomma, che ti faccia ancora un po' male.»

«Non importa» affermai decisa, prima di baciarlo.

«D'accordo. Dove ce li hai?» chiese.

«Dentro al cassetto del comodino» risposi e lui allungò una mano per prendere i preservativi.

•••

Non aveva fatto così male, solo un po' all'inizio, inoltre avevo anche meno ansia, quindi andò sicuramente meglio della prima volta.

In più non avevo fretta di tornare a casa, dato che ci ero già, così potei godermi ciò che venne dopo. Dopo una ventina di minuti passati a farci le coccole e a sussurrarci stupidate all'orecchio, David si addormentò con la testa appoggiata sul mio petto mentre io ero intenta ad accarezzargli la testa. Provai a dormire anch'io, ma avevo troppe cose per la testa, e in più non mi dispiaceva fissarlo da così vicino senza che potesse accorgersene e farmi delle battutine.

Era così angelico quando dormiva, sembrava quasi un bambino. I capelli, ricci e spettinati, gli incorniciavano perfettamente il viso.

«La vuoi... ere di... sarmi?» mugugnò a un certo punto, ma non ci feci molto caso, convinta che stesse soltanto parlando nel sonno.

Finché non aprì prima un occhio e poi l'altro. «Allora?» chiese e io sobbalzai, spaventandomi.

Sollevò la testa dal mio petto e poi tornò a guardarmi. «La vuoi smettere di fissarmi?» ripeté, e finalmente capii cos'avesse detto poco prima borbottando.

«Pensavo che dormissi...»

«E per questo ti senti legittimata a fissarmi ossessivamente?»

«Oh, capirai!» esclamai irritata. «Ti sei svegliato da dieci secondi e già riesci a essere così insopportabile?»

«Sh, non urlare» disse, portandomi un indice sulle labbra.

Alzai gli occhi al cielo. Poi mi alzai in piedi e corsi in bagno. 
Dopo aver tirato lo sciacquone, mi fissai velocemente allo specchio e inorridii: avevo il trucco colato, gli occhi vividi, le guance rosse e i capelli arruffati. Mi diedi velocemente qualche colpo di spazzola e poi mi struccai il viso.

Dopodiché tornai da David, che nel frattempo si era rinfilato i boxer. A mia volta mi rimisi la biancheria intima e, in più, presi una t-shirt oversize che avevo fregato a mio padre e che usavo per stare in casa e la indossai.

Poi pensai a ciò che mi ero imposta di fare quella mattina e quello mi parve il momento adatto per farlo.

Mi sedetti sul bordo del letto e feci cenno a David di venire al mio fianco, cosa che fece senza fare domande. «Devo parlarti di una cosa» cominciai, prima di sbuffare, scocciata. Le parole non erano state scelte a caso. Non volevo parlargliene, non volevo parlarne con nessuno, ma dovevo

«Lo so» rispose lui, sorprendendomi. Lo fissai confusa: «Cosa sai?».

Sorrise debolmente, prima di portarmi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Fino a ora ho aspettato solo che trovassi il momento giusto per parlarmene. Ho fatto finta di niente, ma non significa che non mi fossi accorto di nulla.» Fece una piccola pausa, prima di riprendere a parlare. «Diciamo che era anche impossibile non accorgersene. Tanto per cominciare, hai perso molto peso in questo periodo, Megan. Anche prima a pranzo hai finito a fatica due fette di arrosto. Da astemia, poi, ecco che in una sola sera hai deciso di stravolgere tutto e bere all'improvviso più quantità di alcol di quanto il tuo corpo fosse abituato a reggere. Forse volevi sentirti alla pari di ogni adolescente per una sera, dimenticarti temporaneamente dei tuoi problemi, oppure riuscire a ignorare il fatto che mi avessi visto in compagnia di un'altra, come mi avevi confessato. Ma una parte di te sapeva benissimo che saresti stata male... Ed era ciò a cui miravi, non è così? Volevi procurarti del male da sola, perché pensi di meritartelo.
Infine, non riesci a dormire. Mai. A meno che non ti aiutino questi, giusto?» chiese, aprendo il cassetto del mio comodino e tirando fuori il barattolo vuoto che conteneva i farmaci che mi aveva dato George. «E anche se ti sforzi di comportarti come fosse tutto normale, basta guardarti per cogliere la tristezza nei tuoi occhi, la desolazione, il senso di colpa che ti opprime... proprio come qualche mese fa. E proprio come accade a Dylan.»

Quell'ultima frase mi lasciò di stucco. Non mi sorprendeva il fatto che avesse colto che c'era qualcosa che non andava in me, in fondo non ero mai stata brava a nasconderlo, ma mi stupiva che avesse captato subito il reale nucleo del problema. «La mia psicologa lo chiama effetto trigger. Non credevo fosse vero, o meglio, non volevo ammetterlo a me stessa, finché oggi non ho finalmente aperto gli occhi e mi sono resa conto che... che ciò che sto vivendo adesso io l'ho già vissuto» spiegai.

«L'hai già vissuto e l'avevi anche superato, finché non hai rivisto Dylan. È lui che ha innescato tutto di nuovo.»

«Come hai fatto a capirlo subito, che si trattava di lui?» domandai.

Scrollò le spalle. «Non lo so, una serie di cose... avevo come un presentimento, ma non solo questo. Durante le poche volte in cui ho visto Dylan in queste settimane, mi sembrava di cogliere gli stessi identici comportamenti e atteggiamenti che vedevo in te, eppure era comprensibile per lui averli considerando ciò che stava passando, mentre nel tuo caso... Tu... ecco, non saprei nemmeno come spiegartelo. Tu non te ne rendi conto, vero?»

Scossi la testa, rimanendo in silenzio.

David fece una piccola pausa, alla ricerca delle parole giuste. «La tua è quasi come un'ossessione, tu non ti dai pace finché non ottieni ciò a cui ambisci, come se fosse la tua unica ragione di esistere. E quindi stai male, sia mentalmente che fisicamente, nel vedere che non stai riuscendo a raggiungere il tuo obiettivo. Ti demolisci e ti senti responsabile per qualcosa che è più grande di te... Ti avevo già vista così, quando eri intenzionata a scoprire chi avesse ucciso Emily e ottenere giustizia per lei. Solo che poi hai perso di vista quest'ultimo obiettivo, che si è tramutato nel trovare un modo per salvare Dylan. Ed ecco che, osservando i tuoi comportamenti, paragonandoli con quelli di qualche mese fa, ho collegato i puntini.»

Rimasi ancora in silenzio, distogliendo tuttavia lo sguardo e posandolo sul pavimento. 
David non disse nulla, si limitò a sollevarmi dal letto e a mettermi in braccio a lui, avvolgendomi poi un braccio attorno alle spalle.

Strinsi la sua mano appoggiata sulla mia spalla e la strinsi e appoggiai la testa al suo petto, prima di chiudere gli occhi. «Non so cosa fare... Non so davvero cosa fare...» ammisi in preda allo sconforto più totale.

«Basta solo non isolarsi e accettare l'aiuto che ti viene offerto» rispose, prendendomi il mento fra le dita affinché lo guardassi. A quel punto riaprii gli occhi, solo per accorgermi di avere la vista annebbiata. Ci impiegai più del dovuto a rendermi conto che stavo piangendo.

Non succedeva da così tanto tempo che non mi ricordavo nemmeno come fosse. A una singola, timida lacrima, seguì poi un vero e proprio fiume in piena che non riuscii ad arrestare nonostante mi sembrasse di poter morire da un momento all'altro. Era passato così tanto dall'ultima volta che avevo pianto che non mi ricordavo quanto ci si sentisse bene mentre lo si faceva. Avevo il respiro così affannato da temere di soffocare, eppure più andavo avanti e più mi sentivo sollevata, più leggera, più libera.

Motivo per cui David, invece che cercare di calmarmi o rassicurarmi, mi incoraggiò a continuare a piangere, a far uscire tutto.

«Voglio stare bene, David. Voglio... voglio che finisca... che finisca tutto» dissi, fra un singhiozzo e l'altro.

Mi posò una mano sulla guancia. «Sei tu ad avere il controllo di te stessa. Della tua mente. Dei tuoi pensieri. Del tuo benessere. Questi non servono a niente» disse, riprendendo in mano il contenitore di farmaci e gettandoli a terra.

Tirai su con il naso. David allungò il braccio e prese un pacco di fazzoletti appoggiato sul mio comodino. Ne tirò fuori uno e me lo passò, affinché mi soffiassi il naso e pulissi il muco colato dalle narici.

Trascorsi i successivi secondi a fissare il ragazzo davanti a me. Il ragazzo senza maglia davanti a me.

Come diavolo ero riuscita a parlargli fino a quel momento senza perdere la concentrazione o il filo del discorso?

A quel punto mi venne in mente una cosa. Mi alzai in piedi per prendere il cellulare che avevo appoggiato sulla scrivania e vedere se avevo ricevuto dei messaggi dai miei genitori. Più precisamente, avevo bisogno di sapere una cosa. Dal momento che non mi avevano scritto nulla, decisi di porre direttamente io la domanda. "A che ora tornate?" scrissi nel gruppo che avevo con tutti e due.

«Che succede?» domandò David, giungendo alle mie spalle e abbracciandomi da dietro.

«Rimani a dormire qui?» chiesi. «Ti prego» aggiunsi, voltandomi e assumendo l'espressione che facevo sempre da bambina per convincere mio padre a comprarmi dei nuovi giocattoli.

«I tuoi non tornano mica stasera?»

«È questo il punto. Magari si trattengono fino a domani mattina... aspetto solo che mi rispondano. Se decidessero di rimanere in Missisippi stanotte, resteresti qui?» insistetti e lui annuì, prima di baciarmi.

Pochi minuti dopo, lo schermo del mio cellulare si illuminò e accorsi subito a vedere di che si trattasse. Mia madre aveva risposto: "Siamo partiti da poco. Torneremo per mezzanotte circa".

Sbuffai, sconsolata. «Come non detto, lascia perdere» dissi, mostrando il messaggio a David.

«Non importa, ci rifaremo un'altra volta» tentò di consolarmi. «È quasi ora di cena. Ordiniamo una pizza?» propose poi e io acconsentii.

Allora tirò fuori il cellulare, pronto a chiamare la pizzeria e a ordinare le nostre pizze. «Per te prosciutto e funghi, vero?»

Sorrisi. Ne avevamo parlato mesi prima, e ancora se lo ricordava.

Essendo sabato sera, la pizzeria era già piena di ordinazioni, tanto che ci dissero che ci sarebbero voluti circa tre quarti d'ora. Nell'attesa, allora, ci stendemmo a letto. Mi misi su un fianco, con le braccia di David strette attorno alla mia vita, e chiusi gli occhi.

Senza nemmeno rendermene conto, in men che non si dica calai in un sonno profondo.

•••

Mi svegliai di soprassalto. Le tapparelle erano abbassate e le luci della mia stanza erano spente. Iniziai a tastare il letto con le mani alla ricerca di David, finché non mi abituai al buio con la vista e realizzai che non c'era.

Così mi alzai dal letto e uscii dalla mia stanza. In bagno non era. Tornai allora in soggiorno, e sospirai di sollievo nel vederlo seduto sul divano.

Mentre io indossavo ancora soltanto una t-shirt, lui invece si era rivestito.

«Eccola qui, la bell'addormentata nel bosco» scherzò, vedendomi comparire davanti a lui come uno zombie.

«Perché te ne sei andato?» domandai offesa.

«Se proprio vuoi saperlo, continuavi a tirarmi calci e manate in continuazione, hai il sonno molto agitato, sai?» scherzò, ma io non lo trovai divertente. «Volevo lasciarti dormire in pace» aggiunse poi con tono più serio.

«Stavo dormendo in pace.» Con lui. Grazie a lui.

«Non riuscivo a dormire, avendo già sonnecchiato prima. A differenza tua, però, non mi andava di stare a fissarti mentre dormivi, così sono venuto qui.»

Roteai gli occhi al cielo, ignorando la sua battuta. «Quanto ho dormito?» chiesi.

«Quasi tre ore» rispose e io strabuzzai gli occhi. «E la pizza? Sarà freddissima!» esclamai, iniziando a dirigermi in cucina, ma David mi fermò: «Ho chiamato e ho annullato l'ordinazione, dato che non sapevo quando ti saresti svegliata» spiegò.

«Avresti potuto svegliarmi...»

«Non mi sembrava il caso. Da quanto tempo non dormivi due ore e mezza filate?»

Non risposi. In effetti aveva ragione. Quelle ore di sonno indisturbato mi servivano. Poi sentii il mio stomaco iniziare a brontolare. Erano quasi le 21 e io né io né David avevamo mangiato nulla da ora di pranzo. «Che facciamo, richiamiamo?» chiesi.

«Probabilmente se andiamo direttamente lì fanno prima che a portarcelo a casa.»

Titubai qualche istante, spostando il peso da un piede all'altro. «Ma David, Morgan City è una città minuscola, se poi qualcuno dovesse vederci?»

«Anche se fosse? Ci è proibito cenare insieme?»

«No, ma... Farci vedere insieme è...»

«Hai diciassette anni adesso, no? Non mi sembra vada contro la legge» mi interruppe.

Sorrisi e mi lanciai direttamente addosso a lui sul divano per baciarlo intensamente.

«Ok, forse questo evita di farlo a prescindere» scherzò e io risi.

«Vado a prepararmi, allora» dissi poi, tornando in camera mia.

•••

La cena era andata bene. Non eravamo stati molto al ristorante poiché era gremito di gente e c'era addirittura la necessità di fare dei turni, così dopo circa un'ora eravamo già fuori dall'edificio. Invece che prendere la macchina, avevamo deciso di andare a piedi in pizzeria, così da poter trascorrere più tempo insieme. Fra il tragitto di andata e quello di ritorno, era probabile che qualcuno di nostra conoscenza ci avesse notati, ma non ci preoccupammo più di tanto di nasconderci o agire in incognito. Fummo semplicemente noi stessi.

Una volta arrivati davanti a casa mia, era giunto anche il momento di salutarci. Era da almeno dodici ore ininterrotte che stavamo insieme e, sebbene fosse successo davvero di tutto, mi sembrava fossero volate, tanto che ero incredula all'idea che fosse trascorso davvero così tanto tempo. «Maggie, i tuoi arriveranno fra poco...» disse David, per far sì che mi decidessi a entrare in casa. Ma io non ce la facevo proprio a staccarmi da lui, dalle sue labbra.

«Allora vai, no? Mica ti tengo al guinzaglio» risposi, allontanandomi dal suo viso.

Eppure David non si mosse di un millimetro, continuando a guardarmi fisso negli occhi.

Così mi avvicinai nuovamente e ci baciammo ancora una volta. A un tratto si separò dalle mie labbra e appoggiò le sue sulla mia fronte. «Buonanotte» sussurrò.

«Tanto non dormirò.»

«Oggi l'hai fatto» mi fece notare.

«Perché c'eri tu con me» ribattei.

«Me ne hanno dette molte nella mia vita, ma è la prima volta che mi dicono che ho un effetto soporifero» disse e io sogghignai, prima di tornare seria: «Lo sai cosa intendo».

«Ah, ho capito a cosa punti. Vuoi che ti dia la mia felpa, così da poterci dormire.»

«La tattica di buttare tutto sull'ironia e sullo scherzo non funziona, lo sai che...»

«Ah, quindi non la vuoi?» mi interruppe e io non potei che dissentire: «Be', se proprio ci tieni a darmela, non mi farebbe schifo».

Emise uno dei suoi soliti ghigni e poi si tolse la felpa, avvolgendomela attorno alle spalle. Poi mi prese il viso fra le mani. «Ehi, tu provaci, ok? Tu sei forte, Megan. Devi solo smettere di dare ascolto a quella voce nella tua testa.»

Come se fosse stato semplice. A ventidue anni e mezzo lui ancora non aveva imparato a mettere a tacere la voce nella sua, di testa. Anche lui aveva delle questioni irrisolte con se stesso.

Be', chiunque in realtà le aveva... Solo io non ero in grado di conviverci e mi lasciavo sopraffare.

Annuii soltanto, prima di tirare fuori dalla borsa le chiavi di casa e infilarle nella serratura per aprire la porta. Una volta fatto, entrai, rimanendo tuttavia sulla soglia. «Grazie, David» dissi.

Si strinse nelle spalle. «Mi scrivi domani mattina? Mi raccomando.»

«Sì, va bene. Buonanotte.»

«Buonanotte, ti amo» disse. Si avvicinò per baciarmi, poi si rese conto di ciò che aveva appena detto e si limitò a un fugace bacio sulle labbra prima di darmi le spalle al più presto. Poi si voltò di nuovo verso di me, intenzionato probabilmente a spiegarsi, ma io non gliene lasciai il tempo perché gli chiusi la porta in faccia.

Un lapsus. Sicuramente un lapsus.

 

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Capitolo 25
*** 24. L'abbiamo uccisa insieme ***


24. L'abbiamo uccisa insieme

Quella notte non ebbi la stessa fortuna di quel pomeriggio, difatti restai sveglia quasi tutto il tempo. In parte perché avevo già dormito quasi tre ore e quindi la sera faticai a prendere sonno, in parte per le farfalle nello stomaco. La mia mente era occupata solo da David. Chiudevo gli occhi e lo vedevo, li riaprivo e continuavo a sognare a occhi aperti, immaginando che fosse lì a stringermi fra le sue braccia.

Quando si fece mattina, sembrai ricordarmi improvvisamente delle parole che aveva detto prima che ci separassimo, e anche della promessa che gli avevo fatto prima che le dicesse.

Non potevo scrivergli. Con quale coraggio gli avrei scritto dopo ciò che mi aveva detto?

E soprattutto, perché l'aveva detto? Era ovvio che non lo intendesse davvero, altrimenti non si sarebbe sentito così in imbarazzo subito dopo.

Eppure, una piccola parte di me, sperava che in realtà fosse stato il suo cuore a parlare. Del resto, non era ciò che provaco anch'io?

Già qualche giorno fa mi si era insinuata in testa quest'idea, e fra ieri e l'altro ieri il nostro rapporto sembra essere cresciuto e maturato molto, constatai, non mi sono mai confidata a tal punto con nessuno, specialmente in questo periodo così difficile della mia vita.

Forse avrei dovuto avere le forze di parlarne con lui e con le altre persone che cercavano di aiutarmi molto tempo prima, invece che spingermi al limite.

Alla fine mi feci coraggio e, dopo aver pensato a cosa dire, gli scrissi. "Mi spiace dirtelo, ma neanche la tua felpa è servita a qualcosa. Comunque grazie ancora di tutto, David."

Dopo averlo riletto un paio di volte e aver meditato se aggiungere altro o lasciarlo così, alla fine inviai il messaggio. In base alla sua risposta, avrei potuto dirgli altro.

Poi mi diressi in cucina per fare colazione. Non che avessi molto appetito, ma volevo provare a sforzarmi.

Nonostante fosse arrivata a casa molto tardi quella notte, mia madre era già in piedi e si stava preparando il caffè.

«Buongiorno, tesoro» mi salutò, lasciandomi un bacio sulla fronte.

Non la vedevo dalla mattina precedente, dato che, quando lei e mio padre erano tornati a casa stanotte, io mi ero già messa sotto le coperte e non erano entrati in camera per salutarmi pensando che stessi dormendo.

«Come sta la nonna?» chiesi, e lei iniziò a parlarmi della loro giornata. Sottolineò a dovere più volte come la nonna fosse stata dispiaciuta di non avermi vista, infatti giurai a mia madre che la prossima volta sarei venuta con loro a prescindere da qualsiasi evenienza. 
Pensai inoltre che avrei potuto chiamarla nel pomeriggio, dato che, oltre a non vederla, non la sentivo mai.

A un certo punto, mi arrivò un messaggio sul cellulare e, non appena lo lessi, le parole di mia madre divennero solo uno sgradevole sottofondo a cui smisi di prestare attenzione.

Era un messaggio da parte di Olivia, che diceva: "Abbiamo un problema". In allegato, poi, mi aveva inviato uno screenshot di un messaggio.

•••

«Devi pubblicarlo.»

«Ancora che insisti? Ti ho detto che non lo farò!»

«Perché no? Così avrà quello che si merita! Io sono stata additata come un'assassina per mesi, e anche Dylan, ora tocca a lui, non credi?»

Olivia roteò gli occhi. «Se lo pubblico, non appena Herman lo leggerà andrà dalla preside, la quale contatterà la polizia, che farà delle indagini e risalirà a me come colei che ha creato questa pagina, e lì sarò davvero nei guai. Lo comprendi o hai bisogno di un disegno, biondina?»

Aveva ragione. Non potevamo farlo. Ma allora dovevo assolutamente andare a parlare con Tracey.

Così, senza aggiungere altro, feci per voltarmi e andare a cercarla, ma mi fermai a metà strada nel momento in cui mi giunse la voce di Olivia all'orecchio. «Ah, e per inciso, sappi che George mi ha detto tutto. Cos'è, non puoi proprio farne a meno? Vuoi sempre tutto ciò che è degli altri?»

La fissai stralunata. «A che ti riferisci?»

«Non è chiaro? Prima ti piaceva Dylan solo perché piaceva a Emily, poi non appena David si è avvicinato a me, hai voluto metterti in mezzo, e infine ti sei gettata fra le braccia di George. Non so quale complesso di inferiorità ti affligga affinché ti comporti così, ma è chiaro che dovresti farti aiutare da qualcuno di bravo.»

L'impulso di tirarle uno schiaffo era così forte che sentii le mie dita cominciare a formicolare, tuttavia mi trattenni, chiudendo le mani a pugno. Dopo essermi calmata, riaprii il palmo della mano destra, un dito alla volta, man mano che andavo avanti a parlare: «Punto primo: le persone non sono oggetti, ci terrei a ricordartelo. Punto secondo: non permetterti mai più di parlare di Emily o di Dylan. Punto terzo: l'unico motivo per cui David si era avvicinato a te, era per aiutare suo padre, ecco perché ti ha ingannata e poi non si è fatto più vedere. Punto quarto: quando io e George ci siamo baciati, voi due neanche vi parlavate più e, tra l'altro, è anche grazie a me se adesso state insieme. Punto quinto: pensa agli affari tuoi e non intrometterti nei miei!» esclamai.

Non le diedi neanche il tempo di replicare e le voltai le spalle. Avevo cose più importanti a cui pensare, certamente più serie dei commenti acidi e misogini, oltre che privi di fondamenta, di Olivia.

Il giorno precedente, Tracey aveva scritto alla pagina spotted della scuola su Instagram. Aveva utilizzato un profilo falso invece che il suo reale profilo, ma capii subito che era lei: @goldenrose_0928.

Sembrava aver scelto quel nickname appositamente per me, come se avesse voluto lasciarmi un messaggio, farmi sapere che era ufficialmente dalla mia parte. Il Golden Rose era il locale in cui eravamo andate per crearci un alibi dopo essercene andate dalla festa, e i numeri corrispondevano a una data, ventotto settembre, ossia la sera in cui Emily era morta.

"H. W. è un assassino" aveva scritto, senza aggiungere nient'altro.

In una città con poco più di diecimila abitanti, i ragazzi che frequentavano la mia scuola si aggiravano fra i settecento e gli ottocento, e quanti fra questi erano maschi e avevano le iniziali che coincidevano con quelle di Herman?

Era ovvio che si riferisse a lui e, se Olivia avesse pubblicato la notizia, era sicuro che tutti avrebbero associato quella notizia a lui.

Arrivai dunque davanti all'armadietto di Tracey, dove quest'ultima era intenta a sistemare dei libri. «Golden Rose, eh?» chiesi.

Sobbalzò dallo spavento e poi si voltò confusa verso di me. «Cosa?»

Allora tirai fuori il cellulare e le mostrai lo screenshot che mi aveva mandato Olivia il mattino precedente.

Schiuse le labbra e poi deglutì. «Allora ci sei tu dietro?» domandò, e io non risposi. Non volevo smentire, ma nemmeno mettere in mezzo Olivia. «Perché l'hai scritto? Che cosa speravi di ottenere?»

Rimase un attimo in silenzio. Poi emise un piccolo sorriso. «Speravo che capissi che ero stata io. Sei l'unica a cui non sarebbe sfuggito quell'username.»

Evitai di ricambiare il suo sorriso e rimasi fredda e distaccata. «Perché l'hai scritto? Perché volevi diffondere questa voce?»

«Perché non è solo una voce. È la verità. E la verità deve uscire allo scoperto.»

Mi sembrava quasi un sogno. Anzi, mi sarei convinta di star sognando solo se non sapessi che non sognavo ormai da settimane. Stava accadendo davvero. Tracey stava finalmente voltando le spalle a Herman e stava passando dalla parte giusta.

Gli occhi di Tracey erano ormai colmi di lacrime. Se mesi prima, vederla in quel modo, mi avrebbe fatto terribilmente male, ora non mi faceva più molto effetto. Non mi dispiaceva, ma non mi faceva nemmeno piacere. Forse perché dopo tutto quello che era successo, non sarei mai più riuscita a vedere Tracey come un tempo.

Pensai a ciò che le avevo detto qualche giorno prima: «Bene, ora lo so. Sono due le mie migliori amiche morte».

Forse ero stata troppo dura, ma mi sentivo realmente così nei suoi confronti: dopo ciò che era successo e ciò che aveva fatto, non era più la mia Tracey, l'amicizia che ci legava era ormai svanita nel nulla.

Però non potevo fare a meno di volerle un gran bene.

«Scusami, Megan, scusami davvero. Ero totalmente accecata e... e tu non ti meritavi questo, come non se lo meritava Dylan e, soprattutto, come non se lo meritava Emily. Ti prego, dimmi cosa posso fare per rimediare, qualsiasi cosa, e lo farò. Non mi importa più ormai.»

Annuii. «D'accordo. È arrivata l'ora di vendicare la nostra migliore amica, e lo faremo insieme» dissi, tendendole una mano che lei strinse prontamente.

Scrissi rapidamente a Olivia di cancellare l'account spotted che aveva creato su Instagram. Non serviva più ormai, e dovevamo far sparire ogni traccia.

Io e Tracey ci prendemmo i minuti restanti prima dell'inizio delle lezioni per elaborare un piano che ci permettesse di incastrare Herman e farla finalmente finita con quella storia. A un certo punto la campanella suonò e così fummo costrette ad abbandonare le nostre congetture e a dirigerci in classe.

Avevamo avanzato delle ipotesi, ma alla fine non eravamo venute a capo con niente di concreto.

Pensavo sarebbe stato più semplice. In fondo Tracey aveva una mente eccezionale e reattiva e, ora che i sentimenti per Herman non offuscavano più il suo pensiero e le sue decisioni, era tornata la solita persona lucida e razionale di sempre.

Infatti la sua ultima idea non era male: aveva proposto di mettere Herman alle strette fino a farlo confessare, così da poter poi andare alla polizia distrettuale e fornire la registrazione come prova.

Io stessa tempo prima avevo pensato di andare a parlare con il nonno di Herman e registrarlo mentre illustrava le tecniche di caccia che aveva insegnato al nipote.

Purtroppo, però, secondo i Revised Statutes della Louisiana, al titolo 15, sezione 1303, viene enunciato che non è consentito registrare, ottenere, utilizzare o condividere conversazioni di cui non si è oggetto in prima persona senza il consenso di almeno una delle parti coinvolte.

Ciò significava che ciò che avremmo avuto intenzione di fare costituiva un reato punibile con una multa fino a diecimila dollari nonché una pena detentiva, e in più non sarebbe servito a nulla: la registrazione non avrebbe potuto essere usata in tribunale poiché costituiva una confessione ottenuta illegalmente.

«Come fai a sapere tutte queste cose?» chiese Tracey dopo che finii di spiegarle perché non potevamo mettere in pratica l'idea che aveva avuto.

Affinché fosse stato legale, sarebbe servito il consenso di almeno una delle due persone oggetto della conversazione, ossia Herman e Emily. Il primo non avrebbe mai acconsentito e la seconda era la vittima.

«L'ho letto su Internet» risposi solamente, senza scendere nei dettagli.

Lo sapevo perché quando mi ero presentata a casa sua sperando che fosse intenzionata a raccontarmi la verità, avevo pensato anch'io a registrarla. Prima di farlo, però, mi ero informata per sapere se quella confessione avrebbe potuto essere usata contro di lei o Herman.

«Allora non c'è proprio niente da fare?» chiese Tracey sconsolata, il che mi provocò un leggero fastidio: era da mesi che cercavo un modo, lei ci stava provando da cinque minuti e sembrava già sul punto di rinunciare.

«Scusatemi.» Sentimmo una voce alle nostre spalle e ci voltammo, solo per vedere una piccola ragazza bionda che ci fissava con gli occhi pieni di timore ma anche di eccitazione. «Non avrei dovuto, ma non ho potuto fare a meno di ascoltare la vostra conversazione.»

«Qualsiasi cosa tu abbia sentito, sappi che hai capito male» intervenne subito Tracey, partendo sulla difensiva.

«Trace, Lucy sa la verità» le spiegai. «Tutta la verità.»

«Come? Se lo sapevi, perché non hai mai detto nulla?» chiese Tracey a Lucy con tono sospettoso, la quale si sistemò il cerchietto in testa, probabilmente per il nervosismo. In effetti Tracey metteva piuttosto in soggezione con quello sguardo inquisitorio.

«Ho parlato con Megan, e ho deciso di non intromettermi, affinché lei faccia la cosa giusta. E so come puoi fare, ho un'idea perfetta, e non costituisce nessun reato, al contrario.»

Le parole di Lucy attirarono immediatamente l'attenzione sia mia che di Tracey. «D'accordo, qualsiasi cosa sia, va bene. Tanto non abbiamo altre idee e non ha senso perdere altro tempo a riflettere, ne è già stato sprecato troppo» dissi, desiderosa di chiudere quel capitolo una volta per tutti.

«Forse prima dovresti sentire cos'ho da dire, Megan» disse Lucy con tono grave. «È un'ottima idea, sì, ma è anche rischiosa, per più di un motivo. Se non ve la giocate bene, la sorte che dovrebbe spettare a lui, rischia di diventare la vostra. Inoltre...»

«Che cosa intendi?» la interruppe Tracey.

«Lucy, vai direttamente al punto, ti prego» la esortai, cominciando a perdere la pazienza.

La ragazza minuta davanti a noi abbassò lo sguardo per qualche istante, poi sospirò e lo puntò nuovamente su di noi. «Dovete essere sicure al cento per cento e, soprattutto, dovete essere disposte a fare ammenda per i vostri peccati. Oltre a lui, anche voi due non siete totalmente innocenti, non è così? Ma potete cambiare tutto, se siete disposte a riconoscere la vostra dose di colpa.»

Le parole di Lucy erano così ambigue e criptate che non mi era ben chiaro dove volesse arrivare. Suonava quasi come un'omelia della messa domenicale. Ma sentivo che invece dietro c'era qualcosa di più che concreto.

«D'accordo, ci sto, qualsiasi cosa sia» dissi allora.

Poi sia io che Lucy indirizzammo la nostra attenzione su Tracey, la quale aveva distolto lo sguardo, presumibilmente per riflettere. «Tu ti fidi di lei?» mi chiese poi la ragazza castana.

«Sì, mi fido» risposi. Più di quanto mi fidassi di Tracey ormai, ma evitai di dirglielo.

«Va bene. Ci sto anch'io allora.»

•••

«Credo che Dorian Gray ha ancora bisogno di Lord Wotton.»

George sollevò il viso e mi fissò a lungo, privo di qualsiasi espressività.

Appoggiai il mio vassoio sul tavolo e mi sedetti affianco a lui. «Avevi ragione. Be', non sul tentativo di overdose, perché ti assicuro, ti giuro che mi sono davvero cadute le pillole a terra. Ma comunque è vero che non ero in me, che tutt'ora non sono in me, perché ho bisogno di tanto aiuto. E probabilmente è anche vero che, a lungo andare, forse avrei davvero potuto abusare di quelle pasticche. Del resto non sarebbe la prima volta che mi balena in testa un'idea simile, succede di continuo da un mese a questa parte, così come era successo quando Emily era appena morta. 
Solo che non ero ancora pronta a capirlo, quindi quando mi hai sbattuto la realtà in faccia, ho reagito male e ti ho allontanato come allontano ogni persona che cerca di aiutarmi.»

Il ragazzo riccio continuò a fissarmi finché non arrivò il suo turno di parlare. A quel punto abbassò lo sguardo sul suo piatto. «Ho esagerato anch'io a parlarti in quel modo. Non sono abituato a... a tenere alle persone, quindi, quando ho pensato al fatto che avrei potuto perdere la mia unica amica, non sapevo come comportarmi e ho lasciato prevalere la mia paura su tutto. Invece che provare a parlarti in maniera civile e tranquilla per farti ragionare, ma ancor di più per cercare di comprendere cosa tu stia passando in questo periodo, ti ho aggredita verbalmente perché sono abituato a dire sempre tutto quello che penso, noncurante dei sentimenti degli altri, dato che di solito non mi importa di ferire persone a cui non tengo... Solo che a te ci tengo.»

«E basta? Non dici niente sul resto?» chiesi.

Pensavo che in primis si sarebbe scusato per avermi ingannata.

George a quel punto tornò a guardarmi. «Mi pento solo di aver acconsentito ad aiutarti a dormire, ma non della modalità che ho scelto per farlo.»

«Quindi non ti importa di avermi mentito, di aver tradito la mia fiducia?»

«No. Perché almeno sei ancora viva. Ma scordati che ti procuri qualsiasi tipo di farmaco d'ora in poi, persino se si tratta di una comune supposta che si infila su per il...»

«D'accordo, d'accordo, puoi anche non scendere nei dettagli» lo interruppi, e lui emise un piccolo sorriso. «Comunque grazie, per aver captato il mio campanello d'allarme e aver cercato di intervenire, a modo tuo, per proteggermi.»

Poi vidi che Olivia si stava avvicinando al nostro tavolo, per andare a pranzare con George come stavano facendo in quegli ultimi giorni, così mi alzai per allontanarmi e andare in un altro tavolo, ma George mi fermò tirandomi per un braccio. «Ehi, finché ci sarò io non farà nessun commento cattivo su di te, tranquilla. Le ho parlato» tentò di rassicurarmi.

«Già, so bene di cosa le hai parlato, come se già non mi odiasse abbastanza.» Dopo lo scontro di quella mattina, la voglia di passare altri minuti in compagnia di Olivia era ancora più bassa del normale.

Poi però pensai che avevo bisogno del suo aiuto per un'ultima cosa, così mi risedetti a tavola.

•••

Dopo essere uscita da scuola, mi diressi verso casa di Tracey.

Ogni passo che facevo, più mi avvicinavo, più sentivo l'emozione crescere dentro di me. Il cuore mi batteva all'impazzata.

Ormai mancava così poco.

Suonai alla porta e dopo pochi secondi Tracey venne ad aprirmi. Anche lei sembrava agitata, come testimoniato dal fatto che continuava a deglutire e a torturarsi le mani.

«Sei pronta?» le chiesi.

«È la cosa giusta» rispose soltanto, prima di dirigersi in cucina. Mentre camminava, mi parve di sentirla mentre ripeteva sottovoce le parole che aveva appena detto.

È la cosa giusta. È la cosa giusta. È la cosa giusta.

Non appena la raggiunsi in cucina, sentimmo suonare alla porta come avevo fatto io poco prima.

Persi un battito.

Io e Tracey ci scambiammo uno sguardo, entrambe terrorizzate, prima che lei si allontanasse per andare ad aprire alla porta. Io rimasi dov'ero, specie perché ero incapace di muovermi.

Se fossi stata in piedi invece che seduta, probabilmente sarei caduta a terra, magari anche svenuta.

«Hai voglia di un tè?» sentii chiedere Tracey dall'altra stanza.

Ovviamente non stava parlando con me, e quella domanda era solo un pretesto per recarsi nel luogo designato.

«E me lo chiedi anche?»

Persi un altro battito.

Non sentivo la sua voce davvero da un sacco di tempo.

Quasi mi veniva il magone. La sua voce, la sua schifosissima voce, era l'ultimo suono che aveva sentito Emily prima di morire.

Pian piano le loro voci si fecero sempre più vicine a me, finché non comparvero sulla soglia della porta della cucina.

Io e Herman ci scambiammo uno sguardo fugace, ma nonostante la brevità di quel contatto visivo, era come se ci fossimo detti tutto senza aver bisogno di parlare.

Infatti, Herman si voltò verso Tracey con gli occhi sgranati e, dalla persona più logorroica del mondo, sembrava improvvisamente a corto di parole.

«Tutti e tre insieme, da quanto tempo» iniziai a dire, per rompere il ghiaccio. «Una volta però eravamo in quattro» aggiunsi.

A quelle parole Tracey trasalì, Herman invece rimase immobile e puntò il suo sguardo sul mio. Il suo vero sguardo.

Eccolo lì. Era quella la sua vera natura. Aveva la cattiveria, il sadismo dipinto negli occhi.

«È ora di porre una fine a tutto ciò» dissi. Mi alzai dalla sedia, rischiando per un secondo di perdere l'equilibrio.

Il mio corpo era debole, non riusciva più a contenere il misto di emozioni che mi portavo dentro. Ero furente. Triste. Indignata. Tradita. E anche tanto, tanto stanca.

Io e Tracey ci scambiammo un'occhiata complice e infine ci avviammo verso il bancone della cucina dove era appoggiato un portacoltelli e ne estraemmo uno.

Anzi, estraemmo proprio quel coltello. Quello che era stato lì fino a quel momento.

Lo toccammo a mani nude, imprimendo le nostre impronte sul manico.

Herman indietreggiò di qualche passo. «Che... che cosa avete intenzione di fare?» chiese visibilmente spaventato.

«Oh, tranquillo, non ciò che hai fatto tu con Emily!» esclamai, lasciando il coltello nelle mani di Tracey e avvicinandomi minacciosamente a lui.

E lì cambio totalmente atteggiamento, iniziando a mostrarsi più spavaldo. «Hai perso il senno, Meg?» mi schernì con una risatina. «Cos'altro poi, ho anche rapinato una banca e avviato un giro illegale di prostituzione minorile? Ma dai!» esclamò, continuando a ridere e contribuendo a infervorarmi.

«D'accordo, continua a negare, resta il fatto che tutti noi siamo coinvolti in qualche modo con la morte di Emily e ciò che è stato dopo. E ora dobbiamo rimediare. Devi lasciare anche tu le tue impronte su questo coltello, l'arma del delitto, che poi consegneremo alla polizia distrettuale» spiegai. «Da lì, starà a loro fare le loro indagini e trarre le loro conclusioni, e individuare il vero colpevole.»

Era quella l'idea che aveva avuto Lucy.

Riesumare l'arnese che aveva ucciso Emily e fare in modo di lasciarvi sopra le impronte delle tre persone che l'avevano tradita: io ero scappata invece che aiutarla, lasciandomi manipolare da Tracey, che aveva coperto l'omicidio di Herman, diventando sua complice.

Era la cosa giusta da fare. Solo in quel modo mi sarei ripulita la coscienza, facendo ciò che non avevo fatto quando ne avevo la possibilità, o meglio, il dovere.

Inoltre, essendo già stata assolta, non potevo essere indagata e processata nuovamente per l'omicidio di Emily. Quindi ero salva. Il mio era più che altro un gesto simbolico, di redenzione, come avrebbe detto Lucy. E qualora la polizia avesse deciso comunque di interrogarmi a fronte dell'emersione di nuove prove, avrei raccontato tutta la verità, come avrei dovuto fare in principio.

«Fallo, dunque. Se non sei stato tu a ucciderla, non ti importerà se le tue impronte compaiono sul coltello, così come d'altronde non importa a me e Tracey. La polizia non troverà prove per incriminarti e tornerai semplicemente alla vita di prima.»

«Trace, amore mio, tu sei davvero d'accordo con questa squilibrata?» chiese rivolgendosi alla sua ragazza, avanzando di qualche passo per giungere di fronte a lei. «Ti amo, ti amo tantissimo» aggiunse, prendendole il viso fra le mani per fissarle negli occhi.

Tracey piangeva a dirotto e io pregai dentro di me che non stesse cedendo. Due parole dolci e uno sguardo erano sufficienti a farle cambiare idea su qualcosa su cui aveva riflettuto così a lungo?

Tracey appoggiò il coltello sul tavolo alle sue spalle. «Herm, ormai non ha più senso mentire... abbiamo finalmente la possibilità di toglierci questo peso.»

«Quale peso?» chiese l'altro, scegliendo di continuare a negare l'evidenza.

Approfittando del loro breve momento di distrazione, mi avvicinai con passo felpato e afferrai il coltello.

«Lo sai. È tutto vero quello che dice Megan. Tu l'hai uccisa. Hai ucciso Emily» disse Tracey, e io schiusi le labbra, stupita.

Fino a quel momento Tracey non l'aveva mai ammesso ad alta voce, non davanti a me se non altro. Il che lo rendeva reale. Non era più solo nella mia testa.

«Sei una stronza» sputò Herman con spregio, cambiando radicalmente espressioni. Tracey trasalì di nuovo a quelle parole. «Mi hai tradito, e per cosa? Per questa puttana?» esclamò, trucidandomi con lo sguardo, e io ricambiai senza troppo sforzi. «Oppure l'hai fatto per Emily, anche lei era una puttana. Una puttana che ora è morta.»

«Non ti permettere più!» intervenni, non riuscendo più a trattenermi.

Herman scansò Tracey, dal momento che gli copriva la visuale su di me, e così ci trovammo finalmente faccia a faccia.

«Altrimenti che cosa mi succede?» mi sfidò.

Stava cercando di farmi perdere la pazienza, e ci stava riuscendo. «Pensi che non abbia prove, mh?» feci. «Invece so tutto, ogni cosa! So che le voci che girano a scuola sono vere, so che hai tradito Tracey con Olivia Goldberg e so che Emily l'aveva scoperto, così quando vi ha visti insieme alla festa di Dylan ha minacciato di dire tutto a Tracey e tu, per impedirglielo, l'hai uccisa come se fosse un animale da caccia, solo perché sei uno schifoso psicopatico!» esclamai tutto d'un fiato. «E sai qual è la cosa più divertente? Che sei stato proprio tu a svelarmi come hai fatto, quel giorno a scuola che ci siamo parlati per l'ultima volta. Le hai reciso la giugulare nel modo in cui ti ha insegnato tuo nonno, così da poterla immobilizzare, e poi hai semplicemente aspettato che si dissanguasse.»

Avevo il respiro in affanno, la fronte madida di sudore, l'adrenalina a mille e il cuore martellante nel petto.

Nonostante la sorpresa iniziale nel venire a sapere che ero a conoscenza di tutti quei dettagli su quella notte, Herman non si scompose più di tanto.

Tracey invece era a dir poco sconvolta. Qualsiasi cosa le avesse raccontato Herman, non sembrava combaciare affatto con la mia versione. 
Sembrava voler dire qualcosa, chiedere spiegazioni, ma non ne trovò le forze e alla fine non disse nulla.

Herman emise invece un sorriso che, unito a quello sguardo folle, metteva a dir poco inquietudine. «C'è però un dettaglio che ti sfugge, mia cara Megan. Ed è il contributo che tu hai dato a tutto ciò. Quando hai trovato Emily stesa a terra, il coltello era ancora conficcato nella sua gola, non è così? Sei stata tu ad averlo estratto, innescando la fuoriuscita di tutto quel sangue dal suo corpo. Quindi si potrebbe dire che è stato un lavoro di gruppo. È così, mi dispiace: sei colpevole almeno quanto me. L'abbiamo uccisa insieme.»

Senza che potessi rendermi conto di ciò che stavo facendo, lo afferrai per il colletto della maglia e lo buttai a terra, puntandogli il coltello alla gola.

«Megan! Che cosa stai facendo?» esclamò Tracey preoccupata, ma era come se non fossi in grado di sentirla al momento.

Non sapevo cosa mi stesse prendendo, non stavo connettendo, sapevo solo che ne avevo abbastanza di lui. Era tutta colpa sua, tutto ciò che avevo passato in quei mesi era solo colpa sua.

«Megan, ti prego, fermati!»

«Dai, fallo» mi disse lui, al contrario di Tracey. «Fallo e sarai come me. Be', per la sola differenza che questo per te sarebbe il secondo omicidio.»

Premetti il coltello contro la sua gola, ma non a sufficienza affinché affondasse nella carne.

L'avrei fatto. L'avrei fatto per Emily. Finalmente avevo l'occasione per vendicarla. Non aspettavo altro da mesi, da quando lui me l'aveva portata via.

Mi mancava solo quell'ultimo briciolo di intraprendenza, quel coraggio necessario per spingere con più forza il coltello contro la sua pelle e recidere.

«Cosa stai aspettando? Fallo» continuò, mentre Tracey cercava di farmi ragionare, ma la sua voce mi appariva ovattata. «È stato bello, vero? Come ti sei sentita? Dimmi. Io mi sono sentito davvero potente.»

«Giuro che ti uccido» dissi a denti stretti.

«Oh, lo so che lo farai, ne sei capace, a differenza mia. Sai, qualcosa dentro di me mi disse, a un certo punto, che stavo facendo qualcosa che sfuggiva al mio controllo, così mi sono fermato. Fortuna che sei arrivata te a ultimare il lavoro. E adesso fallo un'altra volta, che ti costa?»

Fallo.

Sei colpevole almeno quanto me.

Fallo.

Sei stata tu.

Fallo.

Sarai come me.

Fallo.

Ne sei capace.

Fallo.

L'abbiamo uccisa insieme.

Pian piano la mia presa sul coltello cominciò ad allentarsi, finché non lo allontanai dal viso di Herman e non lo lasciai a cadere a terra. Mi alzai dal suo corpo e mi lasciai cadere come un peso morto su una delle sedie.

Che cosa diamine avevo fatto? Che cosa diamine stavo per fare?

Io non ero come lui.

«Io non sono come te» farfugliai.

Non ero un'assassina.

«Non sono un'assassina.»

Emily non doveva essere vendicata. «Deve avere giustizia.»

Per la prima volta, dopo tanto tempo, la voce che sentivo nella mia testa era solo una, ed era coerente con tutto il resto: con il mio cuore e con la mia mente. 
Non c'era più una lotta continua dentro di me, ma solo uno scorrimento lineare di pensieri.

Dopo essermi estraniata per quelli che ritenni essere massimo uno o due minuti, tornai a guardare la scena davanti a me.

Tracey si era gettata a terra, fra le braccia di Herman. Lo baciò intensamente e lo abbracciò. «Ti amo. Ti amo con tutta me stessa e ti amerò per sempre. Troveremo una soluzione insieme, te lo prometto. Non ci accadrà nulla» disse e, se solo ne avessi avuto le forze, mi sarei intromessa per dissentire.

«Insieme. Per sempre» rispose Herman.

Poi, però, guardando al di là delle loro figure, notai che mancava qualcosa. C'era un elemento che al momento sfuggiva al mio raggio visivo.

Il coltello.

Era sparito.

Così, facendomi forza, mi alzai in piedi per avvicinarmi a Tracey e Herman, per cercare di capire che fine avesse fatto.

Doveva averlo preso Herman. Tracey era in pericolo.

«Tracey, sta' attenta!» esclamai per avvisarla.

Ma era troppo tardi.

Herman si voltò verso di me per rivolgermi un ultimo ghigno sprezzante, prima che si immobilizzasse all'improvviso. I suoi denti si colorarono di rosso. Il sangue iniziò poi a colare a fiotti. Herman sgranò gli occhi e tornò a fissare Tracey.

«M-mi... mi dispiace, mi dispiace» disse quest'ultima. Si alzò in piedi e si allontanò da Herman, il quale aveva il coltello conficcato nell'addome. «Mi dispiace» ripeté, continuando a tremare. «M-mi dispiace t-tanto.»

Herman avvicinò la sua mano al manico del coltello e lo strinse, mentre altro sangue continuava a colare dalla ferita oltre che dalla sua bocca.

Avevo i brividi. Ero incapace di parlare, di muovermi, di fare qualsiasi cosa. Avrei voluto urlare, come minimo, ma non riuscivo, così come Tracey non era in grado di dire niente che non fosse: «Mi dispiace».

«T-ti... t-ti... ego» biascicò Herman. «Ti pre... prego» disse, rivolto a Tracey.

A quel punto, contro il mio volere, mi scese una lacrima.

Sì, stavo piangendo. Stavo piangendo per Herman, nonostante tutto.

Mi strofinai gli occhi poiché avevo la vista annebbiata a causa del pianto, e fu allora che vidi Tracey chinata ancora una volta sul corpo di Herman. Sapevo cosa stava per fare. «No, Tracey, non farlo!» esclamai, gettandomi addosso a lei per provare a fermarla.

Ancora una volta, era troppo tardi.

Aveva estratto il coltello dalla ferita, e fu allora che Herman si lasciò cadere all'indietro, perdendo i sensi.

«Ho ultimato il lavoro» disse Tracey, voltandosi verso di me.

 

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Capitolo 26
*** 25. Perché è giusto (2) ***


25. Perché è giusto (2)

Era passata almeno mezz'ora, nessuna delle due si era mossa, né aveva proferito parola.

Così come Herman, ovviamente.

In tutto quel tempo non si era mosso. Non avevo modo di dire se fosse solo svenuto per via di tutto quel sangue che aveva perso oppure se fosse... se fosse...

«Perché l'hai fatto?» chiesi, trovando finalmente il coraggio di affrontare Tracey.

«Perché lo amo» rispose lei.

Era chiaro che fosse sotto shock, come me d'altronde, ecco perché farneticava cose senza senso.

Così mi avvicinai a lei e le afferrai il viso fra le mie mani. «Guardami. Che cazzo vuol dire, Trace?»

I suoi occhi erano così vacui. Così persi. «Li ho letti i giornali, Meg. So cosa hanno fatto a Dylan. E, visto che lo amo, non vorrei mai che le stesse cose capitassero a Herman. Non potrei mai fargli trascorrere la sua vita in prigione.»

«E io non posso permettere che la trascorra tu» risposi, alzandomi in piedi.

«Non puoi. Ormai il danno è fatto.»

Scossi la testa, rifiutandomi di darle ragione. «No. No. Mi hai sentita? No. Non lo permetterò, Trace, sistemerò tutto. Adesso chiamerò David, va bene? Lui saprà come aiutarci, come aiutare te. Non ti succederà niente, fidati di me e di lui. Tu rimani qui, va bene?» dissi con tono pacato e affabile.

Lei non rispose, ma io mi allontanai comunque e andai in un'altra stanza per poter fare la telefonata in tranquillità.

Un paio di minuti dopo ritornai in cucina. Tracey era ancora nella medesima posizione in cui l'avevo lasciata.

«Mi ha ingannata, per tutto questo tempo mi ha ingannata» disse a un tratto. «Mi aveva detto che... che era stata Emily, che era ubriaca e che aveva afferrato un coltello, che aveva cercato di colpirlo e che lui, nel tentativo di fermarla, l'aveva ferita per sbaglio... Io gli ho creduto. E poi ho pensato che, se avessi protetto lui, avrei protetto automaticamente anche te, così la verità non sarebbe mai venuta a galla.»

«Dopo hai cambiato idea, però. Hai contribuito solo a sabotarmi, altro che proteggermi» le ricordai.

Deglutì. «Mi ha fatto credere che fossi stata tu. Proprio come poco fa ha cercato di farlo credere a te. E mi sono fidata, perché era più facile credere alle sue parole piuttosto che rendermi conto che la persona che amo è un assassino. Ha ucciso la mia migliore amica, mi ha tradita, mi ha mentito ed è riuscito ad allontanarmi da te. Ogni volta che avevo l'intenzione di correre da te a raccontarti la verità, affinché trovassimo una soluzione insieme, lui mi metteva la pulce nell'orecchio, mi entrava nella mente, ricordandomi che anche se fossi andata dalla polizia non l'avrei fatta franca, che ormai ci eravamo dentro tutti e due, insieme. Mi ha fatto perdere me stessa e... e mi ha trasformata in... in un'assassina, proprio come lui.»

«Stavo per diventarlo anch'io. Lo volevo, lo volevo davvero, da un sacco di tempo...»

Mi scese un'altra lacrima.

Per tutto quel tempo ero stata convinta di star facendo la cosa giusta e poi, arrivata finalmente alla resa dei conti, ecco che stavo per commettere l'errore più grande della mia vita.

Era stato grazie a David se mi ero ripresa in tempo. Grazie alle parole che mi aveva rivolto qualche tempo prima. «Fallo per Emily. Non puoi rimediare alla sua morte, ma puoi darle la giustizia che merita, dimostrando la tua innocenza e dando la possibilità a chi è di competenza di scovare il vero colpevole, l'unico che dovrebbe pagare per tutta questa storia.»

E mai prima di adesso ero stata in grado di comprendere quanto avesse ragione. Non era un compito che spettava a me. Spettava allo sceriffo e al procuratore distrettuale.

La vendetta non sarebbe servita a niente. La giustizia privata non era giustizia.

Dal momento che non ce la facevo più a stare in piedi, mi lasciai cadere a terra, appoggiandomi con la schiena al mobile della cucina, in attesa.

All'incirca un quarto d'ora dopo da quando avevo fatto la chiamata, ecco che sentimmo suonare alla porta. Mi alzai di scatto, intimando a Tracey di rimanere lì e non muoversi: «Non preoccuparti, penso a tutto io».

«Non so come ringraziarti, Megan» disse simulando un sorriso.

«Non farlo.» Ed ero seria. Aveva ben poco per cui essere grata.

Uscii dalla cucina tentando di nascondere l'eccitazione sempre più crescente dentro di me. Mi diressi verso la porta d'ingresso e, dopo aver girato la chiave nella serratura, la aprii. 
Sospirai di sollievo. «Grazie per essere qui» dissi, prima di farmi seguire in cucina, dove si trovavano Herman e Tracey.

Quest'ultima sollevò lo sguardo e sbiancò, nel vedere davanti a lei le figure dello sceriffo Kowalski e il procuratore Goldberg.

Tracey era inginocchiata a terra davanti al corpo privo di sensi di Herman, il manico del coltello ancora saldo nel pugno della sua mano. Stava tremando incessantemente. Le lacrime sul suo viso si erano ormai asciugate e depositate sulle guance. Il suo sguardo, fino a quel momento vacuo, ora era colmo di terrore e continuava a passare alternativamente dai due uomini delle forze dell'ordine a me. A giudicare da come mi fissava, sembrava lei quella con un pugnale trafitto nella pelle.

Fu come se si fosse fermato il tempo. Era come se stessi continuando a rivedere la medesima scena in loop, come se fossi all'interno di un disco rotto. Andò avanti così per non saprei dire quanto tempo.

Lo sceriffo Kowalski a un certo punto si schiarì la gola. «Tracey Gomez?» chiese.

Tracey schiuse le labbra, come a voler rispondere, ma non emise alcun suono.

«Dovrebbe seguirmi alla stazione di polizia, avrei delle domande da farle» continuò lo sceriffo. Poi puntò lo sguardo su di me. «Sarebbe così gentile da chiamare un'ambulanza?» chiese e io annuii, prendendo il cellulare per comporre il numero del pronto soccorso. Prima di premere sulla cornetta verde, tuttavia, mi arrestai. «Potreste lasciarci un minuto, per piacere?» domandai. 

Mi sembrava doveroso almeno dare una spiegazione a Tracey.

Lo sceriffo sembrava restio, ma alla fine acconsentì e andò in salotto insieme al procuratore per chiamare i rinforzi, lasciando me e Tracey da sole.

«Non hai chiamato David» disse, con tono ferito.

«No, non l'ho fatto» risposi. «Fin da quando Lucy ci ha illustrato il suo piano, sentivo come... avevo il presentimento che qualcosa sarebbe andato storto. Così ho chiesto a Olivia il numero di suo padre. Quando mi sono allontanata l'ho chiamato e l'ho messo al corrente di quanto era successo, pregandolo di arrivare qui il prima possibile insieme allo sceriffo ma di non dare nell'occhio, evitando di usare la sirena della polizia, così da non farti sapere che erano loro che stavano arrivando» spiegai.

Tracey sgranò gli occhi e corrugò la fronte. «Megan, cosa... perché l'hai fatto?»

L'unico modo che trovai per risponderle fu attraverso le sue stesse parole di qualche mese prima. «Perché è giusto così! Chi dice che il male si sconfigge con il bene, allora non ha capito niente di come funziona realmente il mondo. A volte bisogna tirare fuori gli artigli. Mi dispiace Tracey, davvero, ma andava fatto e lo rifarei.» Tracey era a dir poco sconvolta, anche se non ne comprendevo appieno le ragioni: «D'altronde, l'ho imparato da te» dissi.

«Ho sbagliato, ma pensavo che tu fossi pronta a perdonarmi.»

«Perdonarti? No, non potrei mai perdonarti. E non importa quanto fossi innamorata, quanto la tua mente fosse offuscata e quanto fossi spaventata. Anch'io per molto tempo ho avuto paura della verità, ma questo non mi ha impedito di scegliere Emily. Tu hai scelto Herman, fino all'ultimo l'hai protetto. Nonostante avessi scelto di redimerti, così facendo l'hai comunque protetto da una sorte peggiore, la sorte che gli spettava. E hai rovinato tutto... Non meritava di morire, meritava di finire in prigione!» esclamai.

Poi decisi di concludere il discorso con un'altra delle sue citazioni che mi era rimasta ben impressa in mente e che era più che adeguata a quella situazione: «Per quanto mi riguarda, ho la coscienza pulita. In fondo una brutta azione, se fatta per le persone a cui teniamo, non è poi così brutta, no?»

E la persona a cui tenevo in quel caso non era lei. Era Emily. Fin dall'inizio, fin da quella sera di settembre, si era sempre trattato di Emily.

Tracey abbassò lo sguardo, evitando di rispondere. Io riaprii la porta della cucina, consentendo allo sceriffo di entrare. Iniziò ad avvicinarsi a Tracey, la quale indietreggiò di qualche metro. «Tracey Gomez, lei ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirà potrà essere e sarà usata contro di lei in tribunale. Ha diritto a un avvocato durante l'interrogatorio. Se non può permettersi un avvocato, gliene sarà assegnato uno d'ufficio.»

Il procuratore Goldberg si avvicinò invece a me, studiandomi a lungo. Vedendolo finalmente da vicino, mi accorsi della terribile somiglianza con Olivia. Avevano lo stesso sguardo agghiacciante e inquisitorio. Mi fissò con gli occhi ridotti a due fessure e infine parlò. «Perché ogni volta che un adolescente viene ucciso, si tratta sempre di qualcuno di tua profonda conoscenza e tu, in qualche modo, c'entri sempre qualcosa?»

«Mi sembra che sia sua figlia a c'entrare con la morte di Emily più di quanto c'entri io» risposi acida, facendo cenno a Herman. «Comunque sarò ben più che felice di poter contribuire a chiarire qualsiasi dubbio in merito a quanto è successo questo pomeriggio. Ah, e grazie a me, magari finalmente potrà chiudere il caso Walsh.» Senza nemmeno attendere una sua risposta, mi diressi fuori da casa di Tracey per prendere un po' d'aria.

Sospirai e poi ripensai a tutto ciò che era appena successo. Non sapevo come sentirmi in merito a quella situazione.

Sentivo solo che... che mi veniva da vomitare.

Mi accasciai a terra e mi liberai sul prato di casa di Tracey.

Dopo aver visto in diretta Tracey che accoltellava Herman, era prevedibile che avrei avuto bisogno di prenotare numerose altre sedute dalla dottoressa Blackburn.

«Eliminato un trauma, ecco che se ne aggiunge un altro» dissi fra me e me.

Mi passai un braccio sulla bocca per ripulirmi le labbra e poi mi rialzai in piedi, ancora un po' intontita.

Vidi delle luci rosse e blu davanti a me, ma non riuscivo a metterle bene a fuoco e di conseguenza a capire di che cosa si trattasse.

Tutto intorno a me divenne sempre più confusionario. 
Era quasi come se fossi in grado di percepire il movimento della rotazione terrestre, come quando da piccola facevo dei continui giri su me stessa solo per poter percepire, una volta ferma, la terra che ruotava sotto i miei piedi.

Mi parve di vedere delle sagome davanti a me, tuttavia non ero in grado di distinguerle nettamente né di sentire i suoni che stavano emettendo.

Infine, mi sentii immensamente pesante. Era come se ci fosse un peso caricato sulle mie spalle che non ero in grado di reggere. 
Sentii solo l'impatto con il cemento quando caddi a terra, poi non mi accorsi più di nulla.

Solo il vuoto.

Il nulla.

•••

«Megan... Megan... Maggie...»

Sbarrai gli occhi e sollevai il busto. Mi guardai attorno confusa, non avendo idea di dove mi trovassi. Era una stanza bianca e vuota, così come il letto sul quale ero sdraiata. Mi girai verso la direzione dalla quale avevo sentito provenire quel richiamo, e vidi David in piedi alla mia destra.

«Dove... dove mi trovo?» chiesi, sebbene stessi già facendo delle ipotesi per conto mio.

«Ehi, torna giù, sdraiata. Siamo al Teche Regional Medical Center» rispose. «Non ti ricordi come sei finita qui?» domandò e io scossi la testa. «Ieri pomeriggio sei svenuta davanti a casa di Tracey, per fortuna l'ambulanza era già sul posto e ti ha portato immediatamente qui.»

«Ieri pomeriggio?» domandai stupita.

Stando a quanto era scritto sull'orologio appoggiato sul tavolino alla sinistra del letto, erano le 17:36.

Ero stata incosciente per quasi un giorno intero?

David sembrò leggermi nel pensiero, infatti disse: «Ti hanno fatto degli esami e non hanno rivelato nulla di anomalo. Sembra che tu sia svenuta a causa di un forte shock emotivo e che, inoltre, avevi davvero tanto bisogno di dormire, perciò in accordo con i tuoi genitori hanno deciso di tenerti qui anche la notte e di sedarti».

Aprii la bocca per chiedere di Tracey e di Herman, ma fui interrotta da David. «Parliamo dopo, ora che ti sei finalmente svegliata, i tuoi vorranno sicuramente parlarti.» Avrei voluto protestare, mi importava solo di rimanere con lui, ma alla fine rimasi zitta e acconsentii. Uscì dalla stanza e una dozzina di secondi dopo entrarono mio padre e mia madre.

«Oh, Megan!» esclamò mia madre, gettandomi le braccia al collo. «Sono così felice di vedere che stai bene!»

Mio padre mi appoggiò una mano sul ginocchio. «Eravamo molto preoccupati. Appena ci hanno chiamato dicendo che ti avevano ricoverata...» Lasciò la frase in sospeso.

Poi mia madre lanciò un'occhiata alla porta della mia stanza d'ospedale, prima di distogliere lo sguardo e tornare a guardarmi. «Prima che il sedativo facesse effetto e ti addormentassi, non facevi che nominare David» disse e io sentii le guance andarmi a fuoco. «Quindi abbiamo pensato di chiamarlo. Si è precipitato subito qui ed è rimasto tutta la notte.»

Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Da quelle parole dedussi che mia madre aveva capito tutto. Sapeva di ciò che c'era fra me e David.

«Tiene molto a te» disse solamente, sorprendendomi. Pensavo si sarebbe sbilanciata come suo solito, sottolineando innanzitutto la grande differenza d'età fra noi due, invece si limitò solo a quelle parole.

Mio padre mi lasciò un bacio sulla fronte e poi uscì dalla stanza insieme a mia madre.

Chiusi gli occhi, solo per riaprirli non appena sentii nuovamente la presenza di David al mio fianco. Si sedette sul bordo del letto e mi strinse la mano.

«Herman è...»

«È vivo» mi interruppe e io sgranai gli occhi.

«C-come sarebbe a dire?» chiesi, sollevando nuovamente il busto.

«Sh, torna giù» disse, facendomi rimettere sdraiata. «Non agitarti.»

«Se è vivo... se è vivo allora vuol dire che...»

«Al momento è ricoverato anche lui in ospedale - tranquilla, non in questo. Comunque, consultando i referti dell'autopsia di Emily con il coltello usato da Tracey, il procuratore ha appurato che i due corpi del reato combaciano. Sono state rinvenute sia le tue impronte, sia quelle di Tracey, sia quelle di Herman. Mettendo poi a confronto la ferita inferta da Tracey a Herman con quella trovata sul corpo di Emily, il dottore incaricato della sua autopsia, il dottor Kane, ha stabilito che non poteva trattarsi di Tracey. Il modo in cui ha reciso i tessuti addominali di Herman era troppo impreciso e casuale per poter essere considerato opera di una persona esperta. Tu sei già stata assolta per l'omicidio di Emily, pertanto l'unica persona che rimaneva come possibile indiziato era Herman. Il procuratore Goldberg stava comunque già indagando su di lui da un paio di giorni, e aveva scoperto che suo nonno possiede una licenza da cacciatore.»

«Ciò significa che è tutto finito?» domandai, con gli occhi che riempivano a riempirsi di lacrime.

David increspò le labbra e io me ne accorsi prontamente. C'era dell'altro.

«Che c'è?» assunsi un tono preoccupato e staccai la mia mano dalla sua.

«È che... che non ti piacerà ciò che sto per dirti.» Sentii il cuore morirmi in gola. «Herman ha confessato, per questo ha ottenuto uno sconto di pena.»

Ero già pronta a montare su tutte le furie. «Uno sconto? Di quanto?» chiesi adirata.

«Un terzo della pena.»

Sembrava non volesse scendere nei dettagli e dirmi esattamente quanto tempo avrebbe trascorso Herman in prigione. «Qual è il capo di accusa? Manslaughter volontario?»

Avevo già escluso l'omicidio di secondo grado, dal momento che prevedeva la condanna all'ergastolo senza beneficio di libertà condizionale, di libertà vigilata né di sospensione della pena.

David esitò un attimo, poi annuì.

Nel caso di manslaughter volontario, la pena andava fino a un massimo di quarant'anni di reclusione, ma dubitavo avessero optato per una condanna al massimo della pena, specie perché Herman era un minore ed era il primo crimine di cui si macchiava.

E, considerando che David sapeva che non avrei reagito bene, provai a fare le mie ipotesi. «Gli hanno dato solo dieci anni, non è così?»

«Dodici» rispose e io strinsi fra i miei pugni le lenzuola del letto d'ospedale.

«La giurisdizione americana fa schifo» dissi.

«Lo so. Ma almeno ce l'hai fatta, Megan, è tutto finito.» Mi scostò i capelli dietro le orecchie e mi diede una carezza sulla guancia.

«E invece Tracey?»

«Per favoreggiamento le spetterebbero fino a un massimo di cinque anni di reclusione; per spergiuro non meno di un anno e non più di venti di reclusione; per tentato omicidio di secondo grado fino a un massimo di quindici. Senza contare ovviamente le multe, ma essendo a conoscenza della situazione economica della sua famiglia e considerando che Tracey ha confessato, il procuratore Goldberg ha deciso di assegnarle solo nove anni, senza pagamento di alcuna multa.»

Oh, Tracey...

Avrebbe avuto un futuro luminoso davanti a lei, se solo avesse fatto le scelte giuste. Invece ormai era tutto sfumato. Una piccola parte di me si sentiva in colpa, ma in fondo le avevo dato anche molte occasioni per redimersi.

Comunque finalmente era tutto finito e, in un modo o nell'altro, i responsabili avevano avuto ciò che si meritavano. Avrei dovuto essere felice. Invece mi sentivo così vuota.

Avevo perso tutte le persone che in quegli anni mi erano state amiche. Emily era morta, Herman sarebbe andato in prigione e Tracey pure.

Poi però pensai che quelle perdite erano state compensate da nuove conquiste: avevo pur sempre George, avevo Lucy, avevo David. E più avanti, forse, anche Dylan sarebbe tornato a far parte della mia vita.

Era come se tutto stesse trovando un nuovo equilibrio.

Poi ripensai alla questione in sospeso che avevamo lasciato io e David ben tre giorni prima. «Perché sei qui, David? Non mi hai nemmeno più risposto» dissi, riferendomi al messaggio che gli avevo inviato domenica mattina e che lui aveva visualizzato senza degnarmi di alcuna risposta.

Sbuffò e poi distolse lo sguardo, come fosse alla ricerca delle parole giuste. Avevo un brutto presentimento. Come se stesse per iniziare uno di quei discorsi in cui finiva per spezzarmi il cuore.

«Megan, io... non lo so, mi è uscito così e, credimi, non vorrei rimangiarmelo, ma ecco...»

«Non mi ami» lo interruppi e lui tornò immediatamente a guardarmi: «Perché lo dici con quel tono?».

«Quale tono?»

«Come se me ne facessi una colpa. Non è forse normale che sia così? Insomma, obiettivamente da quanto ci conosciamo? E, a parte che in qualche rara occasione, abbiamo condiviso davvero pochi momenti importanti insieme.»

Per me ogni momento passato in sua compagnia era stato importante. Ma era anche vero che, tralasciando quegli ultimi giorni, il resto del nostro rapporto era stato come un insieme di momenti in cui ci avvicinavamo e momenti in cui ci allontanavamo, per sua ma anche per mia scelta, momenti (molti) in cui ero io a rincorrerlo mentre lui continuava a sfuggire e momenti (pochi) in cui era lui a inseguirmi.

«Io ho... ho bisogno di tempo per capirlo.»

«E io cosa dovrei fare, aspettare e aspettare che tu ti renda conto se mi ami o no?» sbottai. Era semplice: o sì o no. Non volevo al mio fianco qualcuno che non sapeva che cosa provava, né volevo sentirmi dire "ti amo" da qualcuno che non sapeva se lo sentiva realmente. Non ne avevo bisogno e non me lo meritavo.

Non me lo meritavo, specie perché anche se lui aveva dubbi, io non ne avevo. Anche se lui al momento non provava lo stesso, io lo amavo.

L'amore si prova a prescindere da quelli che sono i sentimenti dell'altra persona nei nostri confronti, ed è questa la cosa bella, mi aveva detto una volta Dylan. Non potevo dargli torto, se non forse sull'ultima parte: era sì la cosa bella dell'amore, ma era anche ciò che metteva paura e a volte lo rendeva ingiusto.

«Non ti ho mai chiesto di aspettarmi e mai lo farò, lo sai» disse, prima di fare un respiro profondo e riprendere a parlare: «Sei stata la prima persona dopo Kylie per cui ho iniziato a provare qualcosa di serio. Pensavo che lei fosse l'amore della mia vita, lo capisci? E da oltre un anno lei non c'è più, se n'è andata. Pensavo che non avrei mai amato nessuna al di là di lei, e poi inaspettatamente sei arrivata tu. Ciò che ho provato per sette anni per lei è totalmente scemato, e per me è una cosa difficile da elaborare».

Era la prima volta che mi parlava di Kylie in maniera così concreta. Non si era mai aperto troppo sull'argomento in mia presenza.

«Non voglio sbagliarmi di nuovo. Non voglio, o meglio, non so se sarò in grado di darti ciò che hai bisogno per vivere la storia d'amore che ti meriti. Perché ho dato tutto me stesso a Kylie e lei mi ha spezzato il cuore. Si è presa un pezzo di me, un grosso pezzo di me. E quando è successo io sono cambiato. Non sono più la stessa persona di prima, e non so se sarò capace di amare come prima.»

«Non mi interessa chi eri prima, a me interessa chi sei adesso.»

«Lo dici solo perché non hai idea di come fossi» ribatté e io alzai gli occhi al soffitto.

Sembrava quasi che cercasse delle inutili scuse. Se prima il problema era la differenza d'età, poi il processo di Dylan, ora era il fatto che aveva paura di lasciarsi andare, eppure negli ultimi giorni l'aveva fatto benissimo.

E, in più, c'era un'altra cosa che mi tormentava da un po' e di cui forse era il caso di parlargli.

«Lo sai, David, quando ti ho parlato dell'effetto trigger che Dylan ha innescato in me... ecco, una parte di me ha iniziato a pensare che forse l'unico motivo per cui... l'unico motivo per cui hai iniziato a interessarti a me è perché anch'io ho innescato un effetto trigger in te.» Sgranò gli occhi, come se avessi appena detto una cosa fuori dal mondo. Così proseguii a spiegarmi meglio. «Il giorno del funerale di Emily mi hai fermata mentre ero in procinto di farmi tirare sotto da un'auto, ricordi? Quindi ho pensato che una parte di te possa aver associato quest'episodio a ciò che è successo a tua madre. Lei era malata e... e anch'io lo sono, ancora adesso.»

«Quindi pensi che mi sia messo in testa a tutti i costi di volerti salvare, solo perché mi ricordi mia madre, per la quale non ho invece potuto fare niente?» chiese e io annuii.

Doveva aver captato qualcosa di simile fra me e sua madre, qualcosa in me e nella mia situazione che gliela ricordava.

David sorrise e mi afferrò entrambe le mani. «Forse in parte è così. Forse il motivo per cui ho iniziato a vederti in maniera diversa inizialmente, a preoccuparmi così tanto per te, a trattarti distintamente da tutti gli altri clienti di mio padre, è dovuto a questo. Ma poi la cosa si è evoluta ed è nato un sentimento. Non credere mai che non sia così, ok? Mai. E sì, forse mi hai fatto perdere un po' la testa, ma tu per me non sei un trigger, Megan, sei la mia ragazza.»

Mi asciugai le guance bagnate e poi mi gettai letteralmente in braccio a David, avvolgendo le gambe attorno al suo busto. Ci guardammo a lungo negli occhi, prima di protenderci l'uno verso l'altra e baciarci.

A un certo punto si separò dalle mie labbra, pur rimanendo vicino al mio viso. «Lo sai, quando ci siamo rivisti a dicembre, dopo quei trentasei giorni...»

«Ancora tieni il conto?» sbraitai, interrompendolo. Quanto me l'aveva fatto pesare per quei maledetti giorni in cui avevo provato, seppur invano, ad andare avanti e dimenticarlo, per poi averlo ricontattato quando avevo bisogno che mi aiutasse con Dylan.

«Fammi parlare. Quando ci siamo rivisti, tu mi hai elencato una serie di motivi per cui ti piaccio. Io non ho mai ricambiato. E penso che adesso sia il momento giusto per rimediare» disse, attirando la mia attenzione e curiosità. «Prima di tutto mi piaci perché sei coraggiosa. Tu hai quel coraggio... quel coraggio tipico dei bambini - no, non guardarmi così, non ti sto offendendo, lasciami finire. È quel coraggio che porta a compiere azioni sconsiderate, senza avere alcun timore per le conseguenze, solo perché si sente di dover esprimere ad alta voce ciò che si prova. Quel coraggio che io, come molte altre persone, ho perso crescendo. I bambini non sanno mentire, gli viene insegnato fin da piccoli che dire la verità è loro dovere, che è giusto farlo sempre. Man mano che si diventa adulti, però, si perde il coraggio di essere sinceri, di parlare a cuore aperto, perché la paura di fallire è più grande di tutto il resto. Tu però mi hai ricordato che il vero fallimento sta nel non avere il coraggio di ammettere a voce alta i propri sentimenti e nel cercare continuamente scuse per negare l'evidenza.»

«E poi?» chiesi. Non bastava solo quello per fare meglio di me, specie dopo la gaffe che aveva fatto giorni prima.

«E poi mi piace la tua intraprendenza e la tua determinazione. Sebbene io avessi fatto il possibile per non lanciarti alcun segnale, tu avevi già capito tutto comunque e, pur non avendone l'assoluta certezza, hai deciso di fare il primo passo. E il secondo. E il terzo. E anche il quarto, e così via. So di non averti reso le cose semplici, ma tu non ti sei mai arresa, e alla fine sei riuscita a far lasciar andare un testardo e ostinato come me.»

«E poi?»

«E poi mi piace la tua insopportabile indole a immischiarti in cose che non ti riguardano pensando di saperne più di me, perché adoro ancora di più vedere quel broncio che metti ogni volta che ti dimostro di avere ragione io.»

«Non proprio ogni volta.»

«E infine mi piace anche il tuo impegno costante nel contraddirmi in tutto e per tutto.»

Sorrisi e tornai a baciarlo. Poi mi tornò in mente una cosa che mi aveva detto mia madre. «Mia madre ha detto che sei rimasto qui tutta la notte. Quindi mi hai fissata mentre dormivo» gli feci notare. «Pensavo lo trovassi inquietante.»

«Ho atteso che ti svegliassi, è diverso» rispose e gli tirai una sberla sul braccio: «Oh, ma piantala!» esclamai, prima che ridessimo entrambi.

«A proposito di questo... Non avendo il mio numero, tua madre ha chiamato mio padre, dicendo che non facevi che chiedere di me, così che lui mi riferisse cosa era successo e ti raggiungessi qui» disse David, mordendosi il labbro inferiore.

«Anche tuo padre ha capito tutto?» chiesi e lui sospirò, annuendo. «A dire il vero aveva il dubbio già da molto. Perciò mi ha ufficialmente estromesso da qualsiasi futuro caso di cui si occuperà, dal momento che il mio comportamento non si potrebbe definire totalmente... qual è la parola giusta? Ah, sì, etico.»

«Mi dispiace, David» dissi. Sapevo quanto ci tenesse ad aiutare il padre nel suo lavoro.

Scrollò le spalle. «Non importa. Tanto già dal prossimo semestre, a settembre, andrò a fare il tirocinio» spiegò. «E sai, stavo cominciando a valutare i luoghi dove inviare il curriculum già da qualche tempo, e inizialmente pensavo a quanto mi sarebbe piaciuto andare in un grande studio legale, pieno di uffici, ma poi ho pensato che forse dovrei svolgere il mio tirocinio in una clinica legale.»

«Tu? In una clinica legale? Saresti sprecato. Sei così in gamba che scommetto che dopo che ti sarai laureato, gli uffici più grandi si faranno la guerra per riuscire ad assumerti!» esclamai.

«Lo so, ma ho capito che è questo quello che voglio nel mio futuro. Voglio aprire una mia clinica legale un giorno. Si accettano molti casi pro bono, a patrocinio gratuito, per aiutare quelle persone che non possono permettersi di pagare un buon avvocato. Non ho mai voluto diventare un avvocato per fare soldi, non mi è mai interessato. Io voglio aiutare le persone. Specie quelle che rischiano grosso magari pur essendo innocenti, solo perché non hanno i fondi necessari per assicurarsi una buona difesa. Chissà come ci si sente a ridare speranza a chi già in partenza sembrava non averne... Penso che possa essere una delle sensazioni più belle del mondo.»

«È molto nobile, David» constatai. Ero orgogliosa di quella sua decisione in merito al futuro.

Mi prese la mano e intrecciò le sue dita alle mie.

«E pensi che, un giorno, quando riuscirai ad aprire la tua clinica, potresti aver bisogno del mio aiuto?» domandai e lui mi fissò con le sopracciglia aggrottate, prima di distenderle. «Un attimo, vorresti dire che...»

Ci pensavo già da un po'. La mia scarsa fiducia nei confronti dell'amministrazione della giustizia statunitense aveva sempre innescato in me qualcosa, come una sorta di desiderio di raggiungimento del bene comune. Non volevo stare a guardare, volevo cambiare le cose, per me ma soprattutto per gli altri. E forse c'era un modo per farlo, affrontando in maniera diretta il sistema americano.

Non lasciai quindi a David il tempo di finire la frase. Sorrisi annuendo: «Voglio diventare un avvocato».

 

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Capitolo 27
*** Epilogo ***


Epilogo

Quell'uragano di emozioni e misteri di Megan Sinclair se n'era andata da casa mia da appena quarto d'ora, quando il telefono di casa prese a squillare. Non c'era mai pace in quella casa.

Dal momento che mio padre era in tribunale per un'udienza, decisi di farmi carico della telefonata io stesso. «Studio penalista Finnston, come posso aiutarla?»

Mi sentii uno stupido stagista il cui unico compito è quello di rispondere alle telefonate, e pregai che non sarebbe stata quella la mia fine al secondo anno di università, quando avrei dovuto fare il tirocinio. Mi conveniva superare con il massimo dei voti gli esami di quell'anno, così da attirare l'attenzione dei migliori studi legali della città.

«Salve, chiamo dal reparto di medicina legale del Teche Regional Medical Center di Morgan City, sono arrivati i risultati dell'autopsia» disse la voce rauca dall'altra parte del telefono, che non seppi capire se appartenesse a un uomo oppure a una donna. Tossì in modo così rumoroso che mi parve quasi di avere quella persona proprio affianco.

Mi fece particolare senso ricevere quell'informazione. Da quando avevo iniziato ad aiutare mio padre con i suoi casi giudiziari, vi erano stati pochi casi di omicidi, del resto Morgan City non aveva un alto tasso di criminalità, e sentire in prima persona una notizia del genere mi scosse un poco, considerando poi che si trattava del corpo di una sedicenne.

«C'è bisogno di prendere un appuntamento per essere ricevuti dal medico forense per prendere i fascicoli, oppure...»

Fui interrotto dalla voce profonda e poco aggraziata del mio interlocutore: «Macché, avvocato, nessun appuntamento! Se vuole può venire anche adesso».

Avvocato.

Suonava bene, no? Tempo tre anni e lo sarei diventato per davvero, alla faccia di mio padre. E di Kylie. Non sarei stato un fallito per sempre. Sarei diventato l'avvocato più in gamba di tutta la Louisiana, capace di far tremare anche i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti d'America.

«Grazie. Mi dia mezz'ora di tempo e sarò lì» dissi, prima di mettere giù. A mio padre non dispiacerà se andrò io al posto suo, pensai. Anzi, almeno avrebbe avuto un peso in meno. 
Così, senza ulteriori indugi, presi il cellulare, le chiavi di casa e quelle dell'auto e, dopo aver chiuso la porta di casa, mi avviai verso il Teche Regional Medical Center.

Dopo aver trovato parcheggio, mi avviai dentro l'edificio a grandi falcate. Ero impaziente di avere delle risposte. Andai davanti ad un bancone per chiedere delle indicazioni: «Buongiorno, mi avete chiamato poco fa, in merito all'autopsia di Emily Walsh. Sono l'avvocato dell'indiziata principale, Megan Sinclair, sono venuto qui per prendere i fascicoli del medico legale».

Una delle due signore presenti si grattò il capo e poi annuì: «Ah, sì sì, certo, ha parlato con me al telefono. Prego, mi segua».

Annuii a mia volta e poi la seguii lungo un interminabile corridoio, mentre l'ansia cominciava a crescere dentro di me. Iniziai seriamente a temere per le risposte che mi sarebbero state fornite dal medico forense incaricato dell'autopsia. 
Mi tornò in mente la conversazione avuta con Megan poco più di un'ora prima.

«Non l'ho uccisa io. Dopo la nostra litigata, avevo tentato di chiamarla per scusarmi, così come ho dichiarato alla polizia. Lei non rispose, ma in compenso riuscii a seguire la suoneria del suo cellulare che squillava, fino a trovarla, poco distante dalla casa di Dylan.»

«Il linguaggio è piuttosto tecnico, ha bisogno di prendersi qualche appunto mentre le riassumo il tutto?» domandò il dottor Kane, distogliendomi dai miei pensieri e passandomi il fascicolo della sua analisi forense, oltre a dei fogli bianchi e una penna.

Mi aveva forse preso per un ritardato? Credeva che solo perché ero giovane allora non sarei stato in grado di comprendere un linguaggio medico più complesso?

Diedi una veloce occhiata alla prima pagina e storsi immediatamente il naso, dal momento che non era solo la calligrafia del medico ad essere incomprensibile, ma anche il contenuto che era scritto. «Sì, ehm, grazie, un sommario non mi dispiacerebbe, in effetti. Abbiamo molti casi allo studio ultimamente, ma questo ha la precedenza, pertanto più in fretta facciamo e meglio è» mi inventai, per non dover stare a spiegargli che non avevo idea di come avrei decifrato ciò che era scritto in quei fogli. «Mi basterebbe solo che mi delineasse in breve la situazione, non voglio rubarle molto tempo» aggiunsi.

«Il decesso è avvenuto quattro giorni fa, venerdì 28 settembre, fra le 23:10 e le 23:25 circa» iniziò a dire.

Corrugai in maniera quasi impercettibile la fronte. Quel venerdì, l'ultima telefonata di Megan al cellulare di Emily risaliva alle 23:09.

«... diverse lesioni in vari punti del capo, ma nessuno che le abbia causato un qualche trauma cranico. Sotto le unghia delle mani, invece, ho ritrovato delle tracce di DNA non corrispondenti al suo. Sembrerebbe essersi aggrappata a qualcuno con così tanta forza da imprimere le sue unghie nella pelle, non saprei se per difendersi da un'aggressione o se per aggredire a sua volta» continuò a spiegare il medico.

«Non si sa a chi corrispondano?» chiesi, sentendo l'ansia morirmi in gola.

«Purtroppo sono ancora in attesa dei campioni di DNA prelevati dai ragazzi interrogati ieri dallo sceriffo» rispose.

Poi tornai con la mente alla conversazione con Megan. «Era distesa a terra, in una pozza di sangue, con un coltello conficcato sul collo. Cercai di rianimarla effettuando un massaggio cardiaco, ma si rivelò tutto inutile, dal momento che era già morta.»

«Mi sta seguendo?» richiamò la mia attenzione il dottor Kane.

«Sì, mi scusi» dissi, prima di asciugarmi un rivolo di sudore dalla fronte.

«Dicevo, è stata la recisione sul collo a causare i maggiori problemi. Penso di non aver mai visto un taglio così preciso, sembrava calcolato nei minimi dettagli.»

Aggrottai allora le sopracciglia. «In che senso? Intende dire che è stata una ferita intenzionale, pensata da una mente lucida e non alterata?»

Il dottore sogghignò. «Altroché se era intenzionale! La persona che ha procurato questa ferita alla vittima non sembra essere affatto una novellina nel campo, sapeva perfettamente quello che stava facendo. Del resto, una persona inesperta avrebbe attaccato altri punti piuttosto che il collo: che ne so, l'addome, o il torace, nella speranza magari di perforare il cuore. Il fatto che sia stato inferto un unico taglio, invece che molteplici, la dice lunga su chiunque abbia commesso tale orrore.»

Sospirai di sollievo. Allora non era stata lei. Megan non aveva l'aria di un'esperta assassina. Certo, non avrei dovuto basarmi solo sull'apparenza, ma del resto era pur sempre della sua migliore amica che si trattava.

Eppure quell'enorme senso di colpa che le avevo letto in faccia la prima volta che l'avevo vista... a cosa era dovuto?

Soprattutto, se Megan aveva trovato il corpo di Emily ancora vicino a casa di Dylan, quale fra gli adolescenti dentro quella casa era un esperto assassino?

«È strano» proseguì. «Il modo netto in cui è stata recisa la giugulare mi ricorda quasi di una tecnica che avevo letto essere usata per cacciare e dissanguare gli animali in maniera indolore, insolito che sia stato usato per un essere umano...»

«Quindi questo è quanto? È stata questa la causa del decesso?» chiesi forse in maniera troppo incalzante e frettolosa, tanto che il medico mi lanciò un'occhiataccia per via della mia impazienza.

Una parte di me aveva bisogno di sapere che quella sedicenne che tre giorni prima si era presentata a casa mia in pigiama, con i capelli arruffati e una felpa con le stelline, era innocente, e non una sociopatica assassina.

«Be', sì, una volta rimosso il coltello, come dicevo prima, il corpo ha iniziato naturalmente a dissanguarsi e...»

«U-Una volta rimosso il coltello?» lo interruppi, nel mentre la mia gola iniziava a farsi sempre più secca e la mia mente a ripercorrere la conversazione avvenuta con la Sinclair.

«E poi... be', non so cosa mi prese, ma pensai che, forse, rimuovendo il coltello dalla ferita, lei sarebbe...»

«Non dirmi che l'hai fatto davvero.» Mi passai la mano sulla fronte, scuotendo la testa. «Rimuovere l'arma da taglio da una ferita così profonda può causare una forte emorragia, quindi se ci fosse stata anche solo una possibilità secondo la quale Emily era ancora viva, tu...»

«Sì, certamente. Per via dell'indebolimento, è quasi andata in arresto cardiaco, ma non ci sono dubbi: la causa del decesso è dissanguamento. Dopo aver estratto il coltello dalla ferita, il sangue ha cominciato a uscire a fiotti, portandola al prosciugamento in pochi minuti. Insomma, in meno di dieci minuti era già morta» ultimò la spiegazione, lasciandomi senza parole.

Sbattei le palpebre più volte, finché non trovai il coraggio di alzarmi dalla sedia, stringere la mano al dottor Kane per ringraziarlo e uscire dal suo ufficio.

«Ha trascritto tutto?» chiese e io annuii, non essendo in grado di rispondere a parole. I fogli che mi aveva dato erano bianchi, la mia mente invece aveva tutto ben impresso.

«Non l'ho fatto apposta... Non lo sapevo.» Le lacrime cominciavano già ad addensarsi nei suoi occhi, ma la cosa non mi impedì di finire di spiegarle il concetto: «Già, a proposito di questo, hai mai sentito parlare di manslaughter involontario?» chiesi e lei scosse la testa. «Omicidio colposo? È un tipo di omicidio che si verifica a causa di negligenza, imperizia e imprudenza. Per esempio, quando un automobilista ubriaco investe qualcuno, oppure, nel tuo caso, quando una persona, disinformata e inesperta nel campo medico, aggrava la situazione già critica di qualcun altro, causandone la morte».

Non c'era altra spiegazione. Doveva essere andata così per forza.

Non sapevo perché mi sentissi così tanto turbato, di solito non mi lasciavo impietosire dai clienti di mio padre, che fossero ladri, assassini, stupratori, seppur innocenti in apparenza.

Non era solo pietà quella che avevo nei suoi confronti. C'era dell'altro. 
Forse un po' mi ricordava me stesso, quello che ero un tempo, quello che ero fino a circa un anno prima, quando ancora Kylie non mi aveva spezzato il cuore.

Prima di diventare una persona imperturbabile e all'apparenza privo di emozioni, infatti, ero molto simile a Megan. Ero istintivo, agivo senza riflettere, lasciandomi guidare solo dalle emozioni.

Dopo Kylie ero diventato un altro, avevo creato uno scudo emotivo. Se prima, guardandomi, era possibile capire tutto di me, ogni mio stato d'animo, ora sembrava non ne avessi. Apparivo freddo, distaccato, e anche profondamente razionale. Gli amici che mi conoscevano da tempo stentavano ancora a credere che fossi la stessa persona e spesso mi chiedevano se avessi un fratello gemello.

Insomma, praticamente stavo diventando sempre di più la copia di mio padre, nonostante per anni mi ero ripromesso che non sarei mai e poi mai stato come lui. A volte mi chiedevo se anche lui un tempo fosse stato come me e se fosse cambiato radicalmente dopo la morte di mia madre, come a me era successo dopo la rottura con Kylie. Altre volte mi chiedevo se sarei mai tornato a essere quello di prima, oppure se il mio era un danno irreversibile.

Già. Era così che mi sentivo. Danneggiato. Un difetto di fabbrica. O, come mio padre mi ripeteva da ormai parecchi anni, un buono a nulla, un fallito.

Non potevo biasimarlo, comunque. Come si poteva avere una buona considerazione della persona che aveva portato al suicidio la donna che amava?

•••

«Pronto, Dave?»

«Papà, sono appena stato a ritirare il fascicolo dell'autopsia.»

«D'accordo, poi quando torno me ne parli, tra poco mi richiameranno in aula per il verdetto.» Stava già per mettere giù, ma lo trattenni, poiché non ce la facevo più a tenermi dentro ciò che ero venuto a sapere: «No, aspetta. Siamo ancora sicuri di voler rappresentare quella ragazza, Megan?» chiesi.

«Innanzitutto, io devo essere sicuro, non tu. Comunque non vedo quale sia il problema, pensa che ieri mi ha pure detto che crede che diventerai un ottimo avvocato un giorno, cos'ha che non va?»

«È stata lei a uccidere Emily Walsh. È stato omicidio colposo. Qualcuno l'ha ferita con un coltello, lei ha trovato il corpo e, nel tentativo di rianimarla, ha estratto il coltello, il che non ha fatto che aggravare la situazione. Emily è morta a causa sua» spiegai, prima di ripensare all'ultima cosa che mi aveva detto mio padre: «Davvero pensa questo di me?» aggiunsi. Ogni tanto mi faceva bene gonfiare un po' il mio ego.

«David, mi spieghi che differenza fa se è stata lei o no?»

Normalmente avrei risposto: nessuna differenza. Era quello il lavoro che avrei iniziato a svolgere nel giro di tre anni, avrei difeso ogni tipologia di persona da ogni tipo di accusa, sia quelle innocenti sia quelle colpevoli.

Ma in quel caso... in quel caso non lo sapevo.

Dal momento che da me non udì risposta, mio padre rispose da solo alla sua domanda: «Regola numero uno: se il cliente sia innocente o colpevole, a me non interessa. Chiunque ha diritto ad un'equa difesa».

Era ciò che avevo ripetuto io stesso a Megan poche ore prima, ma adesso non ne ero più così convinto. Mi ero fin da subito persuaso che fosse innocente, quindi scoprire che in realtà non lo era... non era facile da mandar giù.

«Quindi hai intenzione di mandare in prigione un innocente al posto della vera responsabile?» domandai.

Sapevo qual era la prassi seguita da mio padre durante i processi: screditare i testimoni, mortificarli se necessario, vanificare le prove fornite dall'accusa, far sì che non vengano considerate dalla giuria come sufficientemente valide, e infine introdurre un nuovo sospettato.

Ma se sapeva già in partenza chi era la vera colpevole, perché farlo? Rischiava seriamente di mandarla in prigione per il massimo degli anni, qualora avesse perso la causa.

«Insomma, già sai che quelli della polizia distrettuale hanno scelto lei come maggior indiziata, è la strada più semplice, quindi probabilmente si arriverà ad un processo e faranno il possibile per condannarla. Non è meglio cercare di patteggiare o trovare un accordo col procuratore per ottenere uno sconto di pena?» chiesi.

Onestamente ero così combattuto che non sapevo neanche cosa sarebbe stato meglio: che pagasse per i suoi errori e scontasse il massimo della pena o poco meno, oppure che venisse assolta?

L'omicidio colposo era pur sempre omicidio. Era morta una persona, un padre e una madre si erano ritrovati senza una figlia, qualcuno avrebbe dovuto pagare, no? Era questa la giustizia. 
Eppure una parte di me desiderava che le cose per lei andassero diversamente, ma era una cosa che non potevo permettermi di pensare, e mi rendevo conto da solo che era sbagliato. Solo perché era lei, secoli e secoli di leggi e verdetti avrebbero dovuto essere annullati?

«Non ho mai patteggiato in tutta la mia carriera e non inizierò da adesso solo perché sei tu a dirmelo, specie con i Sinclair! Sono miei amici da decenni, secondo te lascerei mai andare la loro figlia in prigione? 
Oggi la mia cliente sarà assolta con ogni probabilità e, indovina, era colpevole al cento per cento e io lo sapevo già prima di decidere di rappresentarla. Se penso che sia giusto? Non lo so, ma non fa parte del mio mestiere giudicarlo. Io mi occupo solo di convincere la giuria delle mie parole, poi sta a loro.»

Sbuffai, sperando, invano, che mio padre non se ne accorgesse. Invece ecco che arrivò uno dei suoi soliti pipponi: «Se vuoi davvero fare questo lavoro, devi imparare ad accettarlo, anche se non è facile. Lascia stare la tua umanità, le emozioni non devono mai subentrare in questi casi. Non devi lasciarti coinvolgere, devi rimanere sempre nel tuo ambito professionale» disse.

Temevo che fosse già troppo tardi. Ero già troppo coinvolto e già più volte ero uscito al di fuori dell'ambito professionale con Megan, senza che me ne sapessi spiegare il motivo.

«Dobbiamo dirle la verità sui risultati dell'autopsia?» chiesi poi a mio padre.

«Scegli tu. Che cosa ti sembra più opportuno?»

«Penso che lei non vorrebbe saperlo, anzi, che non ha bisogno di saperlo. Hai visto come sta, sembra già sull'orlo del baratro. È troppo fragile, se scoprisse la verità non ho idea di come reagirebbe» risposi.

E mi era bastato vederla due volte per capirlo. Speravo davvero che non avesse intenzione di fare qualche scelta stupida, come aveva fatto mia madre...
Non avevo potuto fare niente per salvare lei, ma forse avrei potuto fare qualcosa per Megan. Non potevo lasciarla abbandonata a se stessa, sola con i suoi pensieri, dovevo fare in modo di starle dietro, di supervisionarla.

«Quindi le vuoi mentire?» domandò mio padre.

«Sì, ma a fin di bene, in fondo...»

«David, non devi provare pena per i tuoi clienti» mi interruppe, serio. «Anzi, non devi provare niente in generale. Nessuna emozione. Non puoi permetterti nemmeno di non sopportarli. Soltanto pura e semplice indifferenza.»

«È così, infatti.»

Forse sarebbe stato meglio se mi avesse fatto quel discorso un po' prima, così ora non mi sarei ritrovato a mentirgli spudoratamente.

«Me lo auguro, altrimenti sei fuori dal caso e resterai fuori da qualsiasi altro caso che mi riguarda finché non ti laureerai a pieni voti.» E sapevo che l'avrebbe fatto davvero, quindi mi conveniva stare attento.

«Ho mai fatto qualcosa che andasse al di fuori della professionalità?» sbottai seccato, per via di quelle accuse insensate che mi stava porgendo.

«E spero tu non abbia voglia di incominciare proprio adesso. Ha soltanto sedici anni. Ora devo rientrare, ne riparliamo dopo a casa.»

Aggrottai la fronte. Non capivo davvero dove volesse andare a parare con quel discorso. 
Mi stavo interessando a Megan, ma non per i motivi che pensava lui. Sedici anni... diamine, era ancora una bambina!

In effetti non era neanche cambiata molto da quando giocavamo insieme da bambini, chissà se lei se lo ricordava. Era ancora la piccola Maggie, con quegli occhi grandi e vispi, il nasino all'insù, i capelli si erano un po' scuriti ma neanche tanto, erano ancora biondi.

Solo per una cosa era diversa da prima. Ma lei e nessun altro, oltre a me e mio padre, l'avrebbe mai saputo: Megan Sinclair era un'assassina.

 

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