Tutto (non) secondo i piani

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una discutibile scelta di parole ***
Capitolo 2: *** Un opinabile approccio agli imprevisti ***
Capitolo 3: *** Un'impeccabile capacità d'improvvisazione ***



Capitolo 1
*** Una discutibile scelta di parole ***


Contesto: post-S1
Genere: introspettivo, sentimentale, commedia
Personaggi: Din Djarin, Cara Dune, il Bambino
Avvertimenti: 3 capitoli, what if?


©shima_spoon

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1. Una discutibile scelta di parole



 

Il giorno è arrivato

In realtà, “il giorno” è arrivato da almeno tre settimane, ma Din continua a rimandare ciò che dovrebbe far accadere. O meglio, ciò che avrebbe dovuto far accadere circa un anno fa. Non è esatto dire che abbia rimandato, all’epoca; semplicemente, non si è nemmeno concesso di prendere in considerazione quella possibilità. Non era un pensiero realistico, allora.

Adesso, però, pensa che potrebbe esserlo. Ha passato più di una notte insonne a rigirarsi quella risoluzione in testa, all’infinito. E dire che non ha mai avuto alcun problema a dormire: crolla sempre come un sasso, ovunque si stenda – o anche in piedi – comunque pronto a destarsi al minimo cenno d’allarme. Le notti insonni non sono mai state un problema, e ciò è decisamente una benedizione, per un cacciatore di taglie. Nelle ultime settimane, ne ha collezionato un numero spropositato. Rimane ad occhi aperti nel buio per ore, tenuto sveglio dallo sferragliare dei suoi stessi pensieri, ad ascoltare il respiro lieve del Bambino interrotto di tanto in tanto da un lamento assonnato.

È sveglio anche adesso, steso sulla schiena con un braccio ripiegato sulla fronte. Una posizione difensiva che assume in automatico, a sopperire la mancanza dell’elmo – come se qualcosa o qualcuno potesse attaccarlo là dentro, nelle solide paratie della Crest, con Cara di guardia fuori.

È sempre così buio, nella sua cuccetta, che si concede di togliersi l’elmo anche se in effetti c’è un altro essere vivente in quella stessa stanza. Non che sia rilevante, considerando che è di fatto suo figlio. A lui sarebbe permesso vederlo. Ma quello è un discorso spinoso sul quale non ama soffermarsi. Non vorrebbe altro che lasciarsi vedere dal Bambino, ma teme che poi lo ricorderebbe per tutta la vita come il cacciatore di taglie che gli ha permesso di affezionarsi solo per poi troncare ogni legame con lui. Non ama nemmeno pensare a quel particolare momento futuro, nonostante sappia che la sua missione lo condurrà lì, inevitabilmente – e al momento è già abbastanza indaffarato con ciò che deve accadere oggi. Non ha davvero bisogno di altre variabili.

Quindi, per ora, si limita a seguire in modo oltremodo zelante le regole. Il Bambino non sembra comunque avere una visione notturna sviluppata, e non è mai sceso dalla sua amaca nel cuore della notte, come se in qualche modo percepisse che non sia la cosa giusta da fare – non ancora, almeno. È indisciplinato e testardo in molte cose, ma sembra capire e rispettare quel suo unico dettame.

È quasi ironico come sia lui stesso quello ad avere qualche difficoltà in proposito, sin dalla battaglia di Nevarro, quando ha sfiorato la morte con la punta delle dita quasi accogliendola. Una parte di lui è convinta che la scusa dell’essere “vivente” sia, in effetti, una scusa. Ha infranto il Credo. Non del tutto, magari, ma non l’ha nemmeno rispettato appieno. L’ha... incrinato, in qualche modo. Non ne va fiero: lo fa sentire sporco, indegno, un reietto del suo stesso popolo.

Proprio perché la sua devozione è già in dubbio, ha l’obbligo morale di fare nel modo giusto almeno questa cosa. Sta già camminando sul filo del rasoio, ed è un rasoio in beskar estremamente affilato.

Dopo un altro paio d’ore di elucubrazioni, e dopo essersi vestito e bardato alla meglio nello spazio ristretto di quel cubicolo, esce infine dalla cuccetta col Bambino abbarbicato in braccio, ritrovandosi nella luce piena del mattino inoltrato. La rampa della stiva è abbassata e una leggera brezza primaverile si insinua fin laggiù, dopo aver increspato le distese d’alta steppa giallognola che abbracciano l’orizzonte.

Cara occupa uno dei due sgabelli disponibili, intenta a prendersi cura del suo blaster con un assortimento di strumenti di manutenzione a invadere il tavolinetto accanto a lei.

«’Giorno, Mando,» lo saluta, concentrata sul suo compito. «È tardi, stavo per controllare che fossi vivo... ma considerata l’ultima caccia, ho pensato che avessi solo bisogno di riposare,» aggiunge, alzando gli occhi verso di lui e abbozzando un sorriso. «Dormito bene?»

«Meglio del solito,» replica lui, incapace di mentire. È quasi vero, in fondo. «E grazie. Ne avevo davvero bisogno.»

Lei gli rivolge un’occhiata penetrante, ma non indaga oltre e riprende ad occuparsi del blaster, scrutandolo con sguardo critico. Din trae un sospiro silenzioso, cercando di ricomporsi. Prima di tutto, ha bisogno di una tazza di caf. E di una fetta di torta di uj, se il suo stomaco riesce a non rigettarla. Poi, magari, di una rinfrescata. Stila quella brevissima lista di incarichi mattutini come fosse quella ben più importante dei rifornimenti per la Crest, ripetendosi che ha tutto il tempo del mondo, per fare le cose come si deve.

Sarà comunque una giornata tranquilla: l’ultima taglia, per quanto impervia, ha pagato bene, e si sono concessi un po’ di meritato “riposo ricreativo” su Lothal, al sicuro tra le sue steppe sconfinate. Delle voci riportano l’esistenza di alcune rovine Jedi nascoste da qualche parte là attorno, così ne hanno approfittato per unire l’utile al dilettevole. Hanno passato un paio di giorni a raccogliere provviste cacciando nella prateria, per poi mettersi in cerca delle rovine, in quelle che sono sembrate più escursioni di piacere che vere e proprie ricognizioni – soprattutto col Bambino esultante al seguito.

Ma non hanno scadenze, né alcuna pressione esterna, per una volta – solo un urgente bisogno di rilassarsi. Gli è sembrato naturale cogliere al volo quello stato di profonda tranquillità per mettere ordine tra i suoi pensieri e dare loro una direzione. E adesso non può tornare sui propri passi.

Deposita il Bambino ai piedi di Cara e confida nel fatto che saprà tenerlo d’occhio mentre gironzola attorno al banco da lavoro improvvisato, sapendo quanto ami qualunque oggetto sia abbastanza piccolo da essere messo in bocca col rischio di strozzarsi. Si dirige poi nel cucinino improvvisato della Crest, niente più che un fornelletto a tibanna e qualche pentola ammaccata. Mette a scaldare un po’ di caf, gettandosi un’occhiata alle spalle: Cara ha spostato lo sgabello in modo da dargli la schiena e prende poi in braccio il Bambino, districandosi tra gli attrezzi così che neanche lui possa guardarlo direttamente mentre fa colazione.

Le rivolge un’occhiata grata, anche se lei non può vederlo. Si tira poi su l’elmo fino a metà volto, ingollando in un paio di sorsi la bevanda tiepida, e infine, dopo un’occhiata ai resti del dolce, rinuncia a mangiare cibi solidi per timore di non riuscire a trattenerli. Ha la nausea, come se si stesse per imbarcare in una caccia dalla quale non è certo di tornare vivo. Anzi, in quel caso sarebbe di certo più tranquillo. Ha sempre affrontato stoicamente ogni suo incarico – non ricorda l’ultima volta che ha avuto la nausea. Forse il giorno prima di indossare il beskar, da ragazzo. Gli si stringe ancor più lo stomaco a quella coincidenza.

Fa scivolare l’elmo al suo posto e fa per poggiare la tazza con abbastanza forza da essere udibile anche a Cara, per segnalarle che adesso può voltarsi. Una routine giornaliera ormai consolidata. Esita.

Forse... la sua mano libera è ancora posata sull’elmo. Forse... no, no. Preme il palmo sulla calotta, in modo da indossarlo completamente, e poi batte fermamente la tazza sul ripiano metallico.

Non può mandare tutto all’aria così. Sta pianificando tutto da un tempo infinito, e si è approcciato alla questione come avrebbe fatto con una taglia particolarmente pericolosa e imprevedibile. Ha preso in considerazione ogni singola variabile e tutti i possibili esiti. Ha scartato un paio – una dozzina – di modi differenti per affrontare la questione. Non ne ha ancora trovato uno pienamente funzionale, perciò ha deciso semplicemente di inventarne uno sul momento, a seconda della situazione.

È sensato lasciare una piccola parte d’improvvisazione in ogni piano – o almeno, continua a ripeterselo – visto che niente va mai secondo i piani. Ma un fatto è scolpito nel beskar: non prenderà quella decisione da solo. Non vuole ridursi a quello; non è così che vuole impostare il discorso.

Moderata improvvisazione, quindi. Ciò che farebbe durante una caccia, sull’onda del momento, deve farlo adesso, con criterio. E, in qualche modo incomprensibile, potrebbe andare a finire peggio di qualunque taglia o caccia fallita. I crediti persi possono essere compensati col lavoro successivo, le ferite alla fine guariscono, e la morte... beh, non c’è molto spazio per pensare oltre quella, in fin dei conti.

Ma ciò che sta per fare potrebbe rimescolare le carte della propria esistenza e dargli o una mano molto svantaggiosa o un sabacc puro. C’è un motivo, se non gioca spesso d’azzardo... eppure adesso è qui, pronto a farlo. Non ha molta fiducia nei suoi pronostici.

Così, cerca di leggere il momento.

I tintinnii e cigolii degli attrezzi di manutenzione riempiono la stiva, mentre Cara è intenta a pulire e aggiustare il blaster dopo la loro ultima, movimentata caccia. È caduto da un’altezza considerevole e adesso la canna è leggermente deviata verso il basso. Cara ci sa fare, con le armi, e il blaster sembra essere in condizioni molto migliori, a dispetto della limitata gamma di attrezzi a disposizione.

Il Bambino allunga le mani verso di essi ogni volta che ne ha l’occasione, ma lei si limita a tenere il tutto fuori dalla sua portata, anche se è evidente come, di tanto in tanto, si trovi a dover contrastare una forza invisibile che la strattona. Din sorride silenziosamente a quella scena. Gli dà un senso di casa, come su Nevarro – ma più calda, abitata da una famiglia. E all’improvviso, si ritrova ancor più risoluto nella sua decisione, anche se l’ansia lo sta divorando vivo.

Si avvicina a loro e si siede sullo sgabello libero di fronte. Poggia rigidamente un braccio sul tavolino mentre lei comincia a rimettere gli attrezzi nella loro cassetta. Gli lancia un’occhiata interrogativa, e Din sa che il suo comportamento è anomalo. È silenzioso, certo, ma non così silenzioso, almeno non con loro attorno.

Il Bambino perde interesse nei traffici di Cara e trotterella verso di lui, allargando le braccia in una richiesta inequivocabile, che Din accoglie sollevandolo. Gli arruffa un orecchio e se lo accomoda sulle gambe, dando inizio al gioco preferito del piccolo, ovvero cercare di mangiargli la manica e qualunque altro lembo di tessuto scoperto. Succede ogni volta che non indossa l’armatura completa – oggi ha rinunciato ai parabracci, suo malgrado. Sospira e districa il tessuto dalla sua presa tenace; Cara sorride divertita nel guardarli mentre si alza per rimettere il blaster nella rastrelliera e la cassetta al proprio posto.

Lancia poi un’occhiata alla torta di uj residua. «Non la mangi?» chiede con noncuranza, ma palesemente speranzosa.

Din trattiene a malapena un risolino e le fa cenno col capo di servirsi – cosa che lei non si fa ripetere. Non può fare a meno di sorridere tra sé. Il tipico cibo Mandaloriano non è affatto raffinato e potrebbe essere cucinato da un bantha cieco e paralitico – è quello il punto, in effetti. Finché è dolorosamente piccante o stucchevolmente dolce, semplice da preparare anche in situazioni estreme, e riesce a tenere in piedi un guerriero per un altra battaglia, viene considerato commestibile.

Non sa spiegarsi il perché, ma è intimamente contento che Cara lo apprezzi così tanto – così come il Bambino... ma non c’è molto da stupirsi, considerando il suo appetito. Nella sua completa futilità, gli sembra solo un altro piccolo ingranaggio che va a inserirsi nella semplice, efficiente macchina della sua vita, adesso resa un po’ più complessa dalle ultime aggiunte impreviste – mai ricercate, ma forse necessarie. Cara e il Bambino vi si incastrano alla perfezione, così come l’elmo sulla sua testa.

Sente una raffica di emozioni espandersi in gola, con un picco quando Cara si siede di nuovo di fronte a lui; stringe di riflesso la presa sul Bambino, suscitando un trillo allegro da parte sua. Gli stringe un dito, raggomitolandosi contro il suo guanto.

«Posso chiederti una cosa?» si trova a chiederle, poco brillantemente.

Sa già di aver aperto la partita nel modo sbagliato, perché Cara gli rifila uno dei suoi sorrisetti dispettosi.

«Solo se non mi pentirò della risposta,» replica scaltra, rigirando le sue parole come le piace fare, solo per confonderlo.

Din si umetta le labbra, al sicuro dietro al beskar, e si sente comunque allo scoperto. Ha sferrato un pugno alla cieca e ha abbassato la guardia, esponendosi al contrattacco. Stupido. Stupido e imprudente. Sta già rovinando tutto.

«Oh, cavolo, a quanto pare me ne pentirò.» Cara sorride al suo silenzio, con gli occhi resi sottili dalla curva ilare delle guance. «Su, spara. Sempre se è adatto ai bambini.»

Din si lascia scappare un sospiro nervoso che potrebbe passare per uno sbuffo divertito, e tentenna. Il suo elaborato piano è già a brandelli, e non è nemmeno colpa di Cara. Cara si comporta come sempre, ignara del tumulto che ha in testa lui, e che gli fa vedere ogni deviazione dal percorso prospettato come un dirupo invalicabile.

Magari, semplicemente, non è il momento giusto. Magari sta affrettando le cose. Magari non vuole davvero farlo– bugiardo, lo rimprovera una parte di lui, schioccando con sufficienza la lingua.

«In realtà, non è urgente,» replica con tutta la nonchalance che gli riesce, e si concentra poi sul Bambino, che sta vivacemente cercando di attirare la sua attenzione.

Lo solleva e lo adagia nella nicchia tra corazza ed elmo, sapendo quanto gli piaccia accoccolarsi lì, il più vicino possibile a lui armatura permettendo. Sa anche che può sentire il suo turbamento – non capisce con chiarezza come, ma ci riesce. E a quanto pare lo sa anche Cara, perché sta fissando intentamente il piccolo come se fosse una spia lampeggiante sul quadrante di comando. Il Bambino ha messo su un’espressione sobria e quasi inquisitrice. Cara riporta lo sguardo su di lui, e Din non smetterà mai di sorprendersi per come riesca sempre a trovare e incontrare con precisione i suoi occhi, anche oltre il beskar.

«Sai che sto scherzando e che puoi dirmi tutto, vero?»

Din annuisce, cercando di mostrarsi distaccato, e continua a rivolgersi verso il Bambino. Conclude che il nuovo piano sicuro sia ritirata. Ma la sua bocca ha altri piani, decisamente meno convenzionali, e parla prima che lui possa pensare. Improvvisa al posto suo, e lo fa nel peggiore dei modi:

«Voglio che tu mi tolga l’elmo.»

E, con quelle esatte parole, ogni sua speranza di fare le cose “nel modo giusto” va irrimediabilmente in frantumi.


 

 




 



Note:
-La torta di uj è davvero un cibo mandaloriano nell'universo espanso; io ho solo elucubrato sulla sua "logica culinaria" :')

Note dell’Autrice:

Cosa? Cos’era quello?
Niente! Niente di niente, solo la mia voglia di fluff condito con un pizzico d’angst, e quella di scrivere trattati e saggi su questi due idioti spaziali che saranno la mia fine. E di scrivere uno scenario in cui Din venga confrontato col "fattore-elmo" in modo più pacato della mia long in corso :')
Tutte, o almeno alcune delle big revelations sono rimandate al prossimo capitolo, non mi uccidete, e saranno comunque tre capitoli tondi tondi ♥
Fatemi sapere che ne pensate se vi va: commenti, pomodori e insulti sono tutti bene accetti :D

-Light-

P.S. Per l'amor della Forza, andate a dare un'occhiata all'artista che ha la copyright sulla fanart del banner: troverete pane per i vostri denti!

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Capitolo 2
*** Un opinabile approccio agli imprevisti ***


Contesto: post-S1
Genere: introspettivo, sentimentale, commedia
Personaggi: Din Djarin, Cara Dune, il Bambino
Avvertimenti: 3 capitoli, what if?


©shima_spoon

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2. Un opinabile approccio agli imprevisti



 

Le sue parole aleggiano nella stiva come un’eco, rifrangendosi all’infinito nello spazio ristretto. 

Cara lo fissa con l’espressione di chi ha appena ricevuto un pugno in pieno volto, mentre lui
 si sente come ibernato, col piccolo ancora in braccio e un crampo che va ad avvolgere il suo stomaco.

Che 
osik1 ha appena detto? Ha sbagliato anche a formulare il tutto; non doveva suonare come un ordinedank farrik.

Non osa sollevare lo sguardo, mentre mattoni di silenzio si impilano tra lui e Cara, andando a costruire un solido muro. Proprio in quellattimo, il Bambino emette un trillo allegro e pianta con precisione le piccole mani sullorlo del suo elmo, causando un tintinnio acuto che quasi lo fa trasalire. Per Malachor2, come ha fatto a–

«Scusa, tu cosa?»

La voce di Cara simpenna in una nota acuta. Din sente il proprio volto diventare incandescente quanto le piane laviche di Nevarro. Non muove la testa, solo gli occhi, e quando inquadra il volto di Cara si ritrova a contemplare un miscuglio dincredulità, confusione e... sconforto? Cosa dovrebbe significare quella stilla di mestizia che intravede?

Lei lo riscuote inarcando eloquente un sopracciglio, a sollecitare una risposta diretta, e quel semplice gesto gli fa precipitare lo stomaco nel pozzo dansia che ha tentato di aggirare finora. Non si sentiva così pietrificato da quando ha visto la morte in faccia sotto forma di mudhorn – è come se qualcosa gli avesse azzannato il cervello in una morsa gelida, e tutto ciò che riesce a formulare, in un ultimo sprazzo di lucidità, è che gli serve un piano di riserva, adesso.

Ascolta gli impulsi meccanici del proprio corpo e si alza in piedi con lentezza, rigidamente, con ogni giuntura che emette una protesta sdegnata. Ignora locchiata sgomenta di Cara e si avvicina allo scomparto del piccolo, adagiando questultimo nella sua amaca. Chiude il portello, chiedendogli silenziosamente scusa, e lui gli rivolge uno sguardo così accusatorio da farlo sentire disumano. Immette un respiro profondo nei polmoni prima di riprendere il suo posto, sentendosi congelato in una lastra di carbonite, con una mobilità di poco superiore a quelle delle taglie che vi ha piazzato nel corso degli anni, e unespressione forse non molto diversa.

Cara sembra essere nelle sue stesse condizioni, visto che non ha ancora mosso un muscolo. Non sembra intenzionata a proferir parola e si limita a tenergli lo sguardo appuntato addosso, con quellaccozzaglia demozioni a turbarle i lineamenti in scarabocchi incerti. Sembra quasi che il fantasma di un sorriso incredulo, venato di nervosismo, stia cercando di disegnarle una fossetta allangolo delle labbra, ma al contempo i suoi occhi rimangono terribilmente seri, come schegge donice che trapassano senza difficoltà il beskar.

«Ho detto che puoi togliermi lelmo,» cerca di riformulare con più fermezza, ma anche più garbo.

Sta per proseguire, ma la sua bocca si sigilla e cessa di funzionare del tutto quando capta il fulmineo scontento che le attraversa il volto, tendendo le sue labbra in una linea dura e sottile.

«Okay,» esala poi, incrociando braccia e gambe. È sulla difensiva, adesso? Non dovrebbe essere lui, a reagire così? Inizia a perdere il filo della situazione. «Okay, non stai... non stai scherzando, vero?»

Din, a questo punto, non trattiene un lieve sbuffo irritato. Serra la mascella. «Non sto scherzando.» Scandisce ogni parola con affilata chiarezza, per poi sforzarsi di ammorbidire il proprio tono. «E ho solo detto che puoi. Non sei obbligata a–»

«Neanche tu sei obbligato,» lo interrompe, così bruscamente che quasi percepisce il contraccolpo sul beskar.

Avverte la delusione invadere il proprio corpo come una cascata ghiacciata, spazzando via ogni altra sensazione. Prende a tormentare la punta dei suoi guanti, tirandola e pizzicandola in un riflesso nervoso, che lo coglie solo quando si trova disarmato in una situazione di pericolo. Sa che dovrebbe chiudere il becco prima di peggiorare le cose: non è abituato a parlare, non è il suo forte, a meno che non ci sia da contrattare. È per questo che riduce le sue frasi al loro nucleo indispensabile, sfrondando il resto a colpi di vibrolama. Funziona sia coi clienti che con le taglie, ma probabilmente non è il corso dazione preferibile quando si discute con qualcuno – come si ritrova a confermare con la sua successiva, grandiosa scelta di parole:

«In realtà sì.» Quasi si tronca la lingua coi denti – razza di shabla di’kut!3

Unininterrotta sequela di improperi in svariate lingue invade la sua mente di solito abbastanza educata. Non è quello che voleva dire. Il suo cervello sta attivamente cercando di mandare tutto in Malachor? Sente un cappio di silenzio stringergli in gola le parole che vorrebbe pronunciare, temendo di peggiorare esponenzialmente il tutto. È così furente con se stesso che ha la tentazione di spegnere il vocoder e liberare un grido frustrato nellisolamento del proprio casco, inudibile a orecchie esterne.

Cara continua a fissarlo come se si fosse trasformato in un gundark, la bocca leggermente schiusa a formare una mezzaluna rovesciata e sempre più stupefatta. Poi si ricompone, in un battito delle ciglia nere. Serra le labbra e si alza di scatto, con un profondo cipiglio a inciderle la fronte. Gli lancia un cenno rigido e indecifrabile col mento, e sembra tenere sotto pressione un oceano di emozioni pronto a eruttare da un momento allaltro come un barile di spotchka frizzante scosso troppo a lungo. Non le lascia erompere, e mette invece su un sorriso artefatto – completamente fuori posto sul suo volto, di solito attraversato dai suoi sorrisi calorosi, con una punta dironia a inclinarli.

«Senti, farò finta che tutto ciò non sia mai accaduto.»

Din potrebbe giurare che la sua corazza si sia appena frantumata con una nota acuta e stridula. Forse non proprio la sua corazza – piuttosto ciò che è racchiuso al di sotto, ma non è mai stato un tipo da frasi poetiche. Il suo cuore, però, non se la sta passando bene a giudicare dal ritmo sincopato che gli invade il petto di rimbombi sordi. 

Cosa? pensa, quasi rabbiosamente, coi pensieri che si agitano frenetici come una colonia di Jawa nel panico.

«Cosa?» si ritrova a dire ad alta voce, senza volerlo – come la maggior parte di ciò che ha detto oggi – ma gli esce fuori in un sussurro quasi strozzato. «Che vorrebbe–»

«Lo metto in chiaro per il futuro,» lo tronca di nuovo lei, perentoria a dispetto della nota tremolante che si è insinuata nella sua voce e che lo investe di un senso di colpa difficilmente collocabile. «So già chi sei. Sei Din Djarin, sei un Mandaloriano, sei il guerriero più abile e la persona più fidata che io conosca, e sei il mio partner. Non ho bisogno vederti in faccia. Non ne ho mai avuto, né ho mai voluto. Pensavo lo sapessi.» Quellultima frase fa oscillare la sua voce in modo fin troppo instabile.

E Din, dietro una fitta allo sterno che risulta inspiegabilmente piacevole, sente la realizzazione fare capolino nella sua testa, abbagliante come il sole di mezzogiorno allesterno. Prende atto di aver decisamente scelto la strategia sbagliata, se ne ha davvero scelta una. In realtà, ha solo imboccato alla cieca il primo passaggio che gli si è presentato davanti, senza davvero assicurarsi di dove proseguisse, né cercarne un altro. 

È così risoluto nelle sue decisioni, a volte, che si dimentica di guardarsi attorno, se non quando è quasi troppo tardi. Come col mudhorn, quando ha stoicamente accettato la morte anche se avrebbe potuto trovare una via di fuga. Come col Bambino, quando lha quasi ceduto nelle mani sbagliate, troppo convinto che quella fosse lunica strada. Sta ancora venendo a patti con la nozione che la Via sia percorribile in entrambi i sensi, anche quando non si vuole deviare da essa. In questo caso, lha imboccata a rotta di collo e si costringe a fermarsi, a fare un passo indietro.

«Certo, che lo so,» si decide a rispondere, ed è una verità così assoluta che la sua voce risulta cristallina anche attraverso il vocoder. «Ma questo per me non cambia nulla.» 

Il suo palmo va istintivamente a premersi sul petto, sullesagono oblungo che lo decora. Quelle poche parole bastano a dipingere un altro tipo di stupore sul volto di Cara. Meno cupo, più arioso. 

«Cara, non voglio togliermi lelmo perché mi sento costretto a farlo. Tu non centri nulla con– c’entri, ma non in questo senso. Non potresti mai forzarmi a farlo, nemmeno se volessi. E so che non lo faresti mai.»

Lei sembra presa alla sprovvista, e ancora diffidente verso ciò che ha appena sentito, come se fosse ciò che voleva sentire, ma non ciò in cui è disposta a credere allistante. I suoi occhi guizzano sul suo visore come se, per la prima volta, stessero davvero cercando di vedervi oltre. Si scosta la frangia dal volto e fa poi a sfiorare la sua treccia, in quel gesto che tradisce nervosismo.

«Mi hai detto che segui il Credo da quando eri bambino,» gli fa notare poi, con lentezza, quasi stesse rimettendo insieme dei frammenti sconclusionati. «Perché rivelare il tuo volto proprio ora, con me, se io non centro nulla? Sinceramente,» aggiunge, con gli occhi che trafiggono di nuovo i suoi.

«Sai che non mento,» replica secco lui, risentito da quellultima insinuazione. Poi sospira, più profondamente di quanto forse ha mai fatto in vita sua. «Possiamo ricominciare e fare davvero finta che tutto ciò non sia mai accaduto? Non volevo comunque dirtelo così,» le chiede infine, osservando con attenzione lespressione di Cara, che rimane guardinga, ma sempre meno tesa man mano che lui continua a parlare.

Adesso sembra quasi sollevata. Solo ora Din percepisce la pura, vivida ansia che stava emanando, fraintesa da lui per sdegno e rifiuto. Aveva... paura, per un qualcosa che Din non avrebbe nemmeno immaginato potesse rientrare tra le sue preoccupazioni – ovvero il suo Credo, o più banalmente lui stesso. Si sentirebbe toccato dalla sua premura, se non prevalesse il senso di colpa per averle fatto dubitare di se stessa e delle sue azioni.

Lei si mordicchia il labbro per poi poggiarsi al muro, le braccia incrociate sulla corazza come una seconda difesa. Annuisce. «Ti ascolto.»

Din esala un sospiro grato, rilassando le spalle. Si prende un momento per rispondere, con le dita che si contraggono, che sfregano il cuoio consunto dei guanti stuzzicandone le cuciture. È così semplice sentire quei perché che gli ondeggiano informi in testa, eppure così complesso spiegarli ad altri e dare loro contorni definiti. 

Non ha mai dovuto spiegarsi con nessuno, in realtà. Tutti vogliono solo dare una sbirciata sotto al beskar, attribuire un volto al cacciatore e alla fama che lo ammanta. A loro non importa del perché lo indossa. Oppure lo vedono come un confine, una limitazione. Un qualcosa che gli è stato imposto, come un bullone di costrizione su un droide. Qualcosa da cui liberarlo. Non lo vedono mai come una scelta, e sono ciechi a tutte le vere scelte che gli offre. Come quella che sta compiendo ora.

Da quanto ha potuto constatare, Cara non l’ha mai vista a quel modo: in realtà, è come se non ci fosse mai nemmeno stato un elmo a schermargli il volto. Non ha mai messo in discussione il suo Credo, né ha mai indagato, anche se di tanto in tanto ha percepito una sua sottile curiosità al riguardo. Di certo non ha mai tentato di convincerlo ad abbandonarlo. Ma pretendere che ne capisca tutte le più sottili sfumature sarebbe arrogante.

Sapeva che chiederglielo senza preamboli avrebbe causato reazioni imprevedibili, perché sapeva che avrebbe potuto darle lidea che stesse infrangendo il Credo a causa sua. È esattamente questo, il motivo per cui ha pianificato il tutto, e per cui la sua testa si è tramutata in  un guazzabuglio di pensieri inestricabili nelle ultime settimane, troppo grandi per venir arginati dallelmo. Avrebbe dovuto spiegarle fin troppe cose, prima di chiederglielo.

Emette l’ennesimo sospiro udibile. Nulla va mai secondo i piani, come sempre. Ma adesso ha l’
opportunità di provare a non scivolare di nuovo sulle sue stesse parole, e riesce infine a raccoglierla.

«Il dettame del Credo non riguarda latto di vedere il nostro volto. Non è una questione didentità. Anche se ovviamente preferiamo non rivelare il nostro aspetto,» comincia, fissando Cara e cercando di essere il più stringato e pragmatico possibile. «È il gesto che conta. Ovvero non disonorarci permettendo a qualcuno di batterci e toglierci a forza lelmo. E non toglierlo con leggerezza, mancando di rispetto a ciò che rappresenta – il Credo, la Via, il nostro popolo.» Fa una pausa, con le dita che si rilassano un poco e lo sguardo ancorato in quello di Cara, che lo ricambia assorta. «Non sto agendo con leggerezza. Non sono stato sconfitto. E sto scegliendo di farlo di mia volontà. In linea coi precetti del Credo, se mi permetterai di spiegarteli.»

Cara sembra trattenere il fiato ancora per qualche istante – il suo volto è teso, le guance tirate, una mano e posata sul collo, con le dita a sfiorare la base della treccia. Annuisce una volta e sembra sgonfiarsi, con le spalle che si fanno molli assieme al fiato che rilascia lentamente mentre si siede di nuovo davanti a lui.

«Okay... ho capito,» inspira di nuovo a fondo, chiudendo brevemente gli occhi. Scuote la testa. «Scusa. Scusa. Sono... andata nel panico. Ho davvero pensato di averti in qualche modo costretto. Facendoti pensare che dovessi rivelarti solo perché viaggiamo e viviamo insieme. Mi sono ricordata che non sono la persona più accomodante della Galassia, che ho i miei spigoli. E di averti quindi indotto a farlo.»

«In un certo senso, sì,» replica lui, suscitando unocchiata allarmata da parte sua, e si affretta a proseguire: «Non è un male. Anzi. E non lo farei, se non ne fossi assolutamente convinto a prescindere.»

«Perché proprio adesso, allora?» chiede Cara, con le sopracciglia che si arricciano, a sottolineare la sua perplessità per quel nodo della questione ancora insoluto.

Din prende fiato, e coraggio. Sono arrivati a toccare il motore stesso delle sue azioni, quello che ha continuato a scoppiettare e arrancare dietro i suoi pensieri indecisi, eppure risoluti, sputando cumuli di fumo nero ogni volta che incappava in contraddizioni e incongruenze tra il Credo e ciò che voleva fare, portandolo infine a questo crocevia.

«Ci sto pensando da un po,» risponde, con la voce in bilico sulla soglia di un mormorio.

Lei aspetta che prosegua, ma sta di nuovo perdendo il controllo di ciò che dice e dei propri pensieri. Sarebbe tutto molto più semplice, se potesse semplicemente mostrarle ciò che intende. O se potesse esprimerlo tramite una delle innumerevoli espressioni in Mandoa che racchiudono in loro il mondo e il suo funzionamento, senza alcuna ulteriore spiegazione ad accompagnarle. Si limitano a suggellare patti, promesse e intenzioni e hanno vita propria. Plasmano la realtà e i legami con così poche parole da sembrare quasi assurde. Ma non è unopzione contemplabile, adesso, anche se gli solleticano la punta della lingua.

«Da quanto?» lo riscuote lei, in tono gentile, quasi incoraggiante.

A questo punto quasi vorrebbe eludere la domanda, ma non cè modo di mentire per omissione come fa di solito. «Da Nevarro. Quando sono quasi–» si interrompe, avvertendo un dolore fantasma alla nuca, e la carezza dolorosa del fuoco sul volto scoperto e tumefatto.

Lei si adombra di colpo. Ha capito. Din sente ancora il suo peso addosso mentre gli fa scudo dal calore ustionante e dalle fiamme che divampavano nella Cantina. Vede ancora con nitidezza lo sguardo colmo dorrore nel notare il suo sangue che le sporcava la mano.

«È molto tempo.»

«Sì,» conferma semplicemente, con quei ricordi inespressi che aleggiano tra loro. Sa di non aver davvero risposto alla sua domanda. Al perché. Si sta ancora chiedendo come farlo. «Ci penso da allora. E tutto questo... non sta andando come mi ero immaginato,» si ritrova a confessare, in un eccesso di sincerità.

Un lampo di colpevolezza balena sul volto di Cara.

«Quando mai un piano è andato come doveva andare?» sorride poi, inducendo anche le sue labbra a incurvarsi in sincrono, non viste – almeno per ora. «Stavolta sono stata limprevisto nel tuo, a quanto pare.»

«Lo sei spesso,» replica di getto lui, intendendolo nel migliore dei modi possibili. Sa che riesce a percepire il suo sorriso.

«Come su Sorgan?» ribatte pronta lei, un po tronfia. «Quando ti ho imprevedibilmente messo al tappeto?»

«Anchio ti ho messa al tappeto,» la corregge lui, con lorgoglio che nemmeno prova a prendersi sul serio, dando una sfumatura tuttaltro che credibile alla sua voce.

«Opinabile,» lo punzecchia lei, con quel suo sorriso pieno che le assottiglia gli occhi. «Ma forse stavolta dovrei lasciare che tutto proceda secondo i tuoi piani,» aggiunge poi, a metà tra il serio e il faceto.

«Forse sì,» conviene lui, incespicando quasi in quel discorso che lo porta sempre più vicino a ciò che più gli preme dire. Quel perché che ha ancora incastrato in gola.

Cara sembra percepire la sua indecisione e si limita a spostare di poco lo sgabello verso di lui, posando un braccio sul tavolo a sorreggere il mento mentre lo guarda, oltre il beskar e l’elmo. 

«Ti sto ancora ascoltando.»



 





 



Note:
*osik: un classico e sempiterno "merda" ♥
**Malachor è un pianeta considerato maledetto dai Mandaloriani, che durante le Guerre Mandaloriane furono qui massacrati nella disfatta finale. È l’equivalente di "inferno".
***
shabla di’kut: un raffinato "maledetto idiota" ♥

Note dell’Autrice:

Vi ho smollato un mammozzone dialogato, scusate. Ma c’era bisogno di questo confronto-scontro, prima di arrivare al succo della questione... e arriverà, non temete :D

Il discorso sull’elmo è farina del mio sacco e l’ho elaborato sull’onda di un attento rewatch della prima stagione, e dell’esatta formulazione dell’Armaiola (almeno in inglese): "hai mai tolto l’elmo/ti è mai stato tolto da altri?" Nessun accenno al volto di per sé, neanche (mi pare) in altre occasioni successive, anche se in generale è comprensibile voler tenere segreto il proprio aspetto, vista la linea di lavoro dei Mandaloriani. Sembra quindi essere un dogma legato all’atto di toglierselo; sensato, considerata la sacralità dell’armatura e il fatto che la Tribù sia equiparabile a una setta. Ritengo che il mio sia un discorso col suo filo logico, per quanto privo di riscontro nel canone della serie, ma sono ovviamente aperta  a disquisizioni in merito, quindi fatevi avanti u.u

Spero che il tutto risulti chiaro e non campato per aria – e l’altro pezzo di spiegazione, meno tecnico e più fluffoso, è ovviamente in arrivo ♥ Ammetto che non sia un pezzo semplice, questo, e ho preferito prendermi tutto il tempo necessario per svilupparne ogni snodo, soprattutto essendomi votata al PoV Din-non-so-gestire-le-emozioni.

Stay tuned!

-Light-

P.S. Ricordo che la storia è già presente sia su AO3 in inglese (in forma completa)-> qui  sia su Wattpad in italiano (in vantaggio di un capitolo)-> qui.

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Capitolo 3
*** Un'impeccabile capacità d'improvvisazione ***


Contesto: post-S1
Genere: introspettivo, sentimentale, commedia
Personaggi: Din Djarin, Cara Dune, il Bambino
Avvertimenti: 3 capitoli, what if?


©shima_spoon

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3. Un’impeccabile capacità d’improvvisazione



 



Din fa per parlare, per poi serrare di nuovo le labbra, soppesando ciò che sta per dire. Ma, a questo punto, non c’è molto altro da poter sbagliare. È quella, la parte peggiore: qualunque sarà la reazione di Cara, non potrà fare altro che accettarla.

«Non c’è molto da dire,» esordisce, ed è solo una mezza bugia. Prende un respiro. «La famiglia è la parte più importante nella vita di un Mandaloriano.»

Fa una pausa, e si accorge dall’espressione di Cara che non era affatto ciò che si aspettava di sentire. Sta davvero ascoltando, con una ruga di concentrazione a inciderle la fronte. Quindi prosegue, più risoluto che mai, ripetendo concetti saldati nel suo beskar da quando era bambino.

«La nostra esistenza ruota attorno alla famiglia. È per questo che combattiamo. La proteggiamo, la cresciamo e ne siamo cresciuti come fosse la nostra, anche quando non lo è. Non importa essere imparentati, o sposati, non importa nemmeno avere una casa. I legami non sono dettati dal sangue o dalle convenzioni. Li scegliamo e li coltiviamo.»

Scocca un’occhiata allo scomparto del Bambino, per poi tornare a rivolgersi a lei, incontrando i suoi occhi prima di pronunciare quelle parole pesanti, eppure incredibilmente lievi che si sono dibattute tra le sue costole per mesi.

«Tu fai parte della mia famiglia. In... più modi di quanti riesca a spiegare.»

Non sa da quale recesso della sua mente sia scaturita quell’ultima affermazione, ma è troppo tardi per rimangiarsela, e non è nemmeno sicuro di volerlo fare. Viene comunque distolto da ciò che sta vedendo. Deve accertarsene, prima di concludere di non aver avuto un abbaglio, perché non riesce a credere che gli occhi di Cara si siano fatti lucidi. Eppure, lo sono, in modo così tenue da essere a malapena percettibile a occhio nudo. La vede  cambiare postura, raddrizzandosi un poco, e tirare un respiro rapido con un piccolo sorriso che le distende le labbra. Batte le ciglia, e quel riflesso umido scompare nelle iridi castane, così scure da sembrare nere.

«Possiamo toglierci l’elmo di fronte alla nostra famiglia,» continua Din, a voce più bassa, quasi che parlare più forte possa spezzare il momento. «E vorrei farlo di fronte a te. Se me lo permetterai.» Se anche per te è così, non dice, ma è certo che quella parte sia ben intuibile.

Lei scuote la testa, e non è un no: solo Cara Dune, soldato d’assalto veterano, guerriera impavida e compagna fidata, che cerca di combattere le emozioni, un qualcosa che non si impara certo a fare sul campo di battaglia. Lo sa fin troppo bene. Vede la sua espressione scurirsi di colpo, ma in modo così sottile che potrebbe essere stata solo un’ombra passeggera, ma lo mette comunque in allarme.


«Qualcosa non va?» riesce a dire, attorno al nodo che gli si è stretto in gola. Forse era davvero un no.

Lei scrolla le spalle e il suo sguardo si fa insolitamente sfuggente, con le ciglia nere che vanno a schermare gli occhi. «Mi stavo solo chiedendo cos’ho fatto per meritarmelo. È inaspettato, in senso positivo... ma non riesco a capirne del tutto i motivi,» sorride quasi a mo’ di scusa.

Grande Mandalore, non è ovvio? Din riderebbe, se sul volto di Cara non si celasse più di qualche semplice ombra di dubbio. Dietro alla corazza e alla fiera postura soldatesca, intravede le diafane crepe di di chi è abituato ad essere necessario, ma non indispensabile. Vorrebbe spiegarle quel perché, ma gli si annoda sulla lingua in concetti contorti che finiscono comunque per raggrupparsi in un’unica parola – e poco importa che sia a lei incomprensibile: è comunque un punto di partenza:

«Uno dei motivi è che hai mandokar,» risponde, pronunciando con cura quella parola che, prevedibilmente, getta una patina di perplessità sul volto di Cara, anche se sembra scorgerne la radice. «Lo spirito di una Mandaloriana, anche se non lo sei.»

Lei annuisce cautamente, assorbendo quel concetto. «Perché... sono una guerriera?» chiede poi, con un tentennamento appena percettibile, come se non fosse del tutto certa di poter indagare in quell’ambito.

Din scuote appena la testa. «Perché sei tenace e leale. Ami la vita, ma sei disposta a combattere e sacrificarla per le persone a cui tieni. E questo è parte della Via, anche senza indossare un elmo.

Quasi traballa su quell’ultima parte, con l’impressione di procedere sul bordo di uno dei crateri di Nevarro, con un lago di magma sotto ai suoi piedi. Cara, in risposta, si limita a sorridere appena, con qualche ombra che si dissipa dai suoi occhi, ancora neri, ma non opachi. Forse è addirittura lusingata da quella che, almeno a parer suo, è una descrizione molto accurata di lei, del motivo per cui si è fidato istintivamente dal primo momento in cui l’ha vista. O quasi.

«E poi, mi hai messo al tappeto,» aggiunge quindi, suscitando un brillio divertito sul suo volto. «È un motivo valido,» cerca di scherzare goffamente, la gola contratta che si rifiuta di elencare ogni singola ragione che l’ha portato fin qui.

Già. È qui. Nel momento in cui sta per togliersi l’elmo.

«Allora lo ammetti,» lo stuzzica lei, con un sorrisetto a stemperare quel velo traslucido sugli occhi. «E mi basta questo,» conclude poi, scegliendo di risparmiargli l’imbarazzo e la fatica di usare molte più parole di quante ne abbia mai pronunciate in vita sua.

Dopo quello scambio, un silenzio solido, dai contorni ben definiti, si incastra tra loro. O almeno, ci sarebbe silenzio, se il suo cuore la smettesse di battergli nelle orecchie, facendogli scoppiare una dozzina di capillari alla volta. Si sente la punta delle dita tremante di una paura assoluta. Una paura irrazionale, ostile, non quella che si accoglie di buon grado nei momenti di vero pericolo. Lo strangola con la morsa di un rathtar, più feroce che mai, e gli sballotta il cuore a destra e a manca, facendogli mancare battiti e mandandolo a pulsare in gola. Esala un lungo respiro, sentendo una vampata bollente che gli assale la faccia nel realizzare cosa è ormai a un passo dall’accadere. 

E lo sta facendo volontariamente. Non può più tirarsi indietro. Cara potrebbe anche perdonarglielo – ma lui no, non ci riuscirebbe mai, la sentirebbe come un’onta indelebile, oltre che un insulto a lei.

Il punto è che il suo volto, in questo momento, non è decisamente uno spettacolo. Non per le giuste ragioni, almeno. Sa che i suoi lineamenti sono sconvolti dalla tensione, dai crampi e da tic nervosi che non sapeva nemmeno di avere fino a qualche istante fa – e ha probabilmente un paio d’occhi sbarrati da far concorrenza a un droide protocollare. I suoi capelli sono un disastro come sempre e, dank farrik, sta pure sudando freddo. È una valanga di percezioni che gli si rovescia addosso, nonostante non si sia mai soffermato sul proprio aspetto prima d’ora, se non per mantenerlo dignitoso. Si sente punzecchiare da un interrogativo molesto; ovvero come appare davvero ad occhi esterni, e non è il tipo di interrogativo che si è aspettato di avere in quel frangente. Ma non mostra il suo volto a nessuno per più anni di quanti riesca a contare, e i complimenti di sua madre quando era bambino non sono esattamente un giudizio obiettivo, né affidabile.

Non è un Gungan, almeno. Dovrebbe bastare. Spera.

«Quindi...» lo riscuote discretamente Cara, e si rende conto di aver taciuto per fin troppo tempo.

«Sì,» risponde di getto, e gli sembra un  che si innalza sopra di loro a far da vessillo alla sua decisione.

Si alza in piedi, facendole un cenno, poi si inginocchia sul pavimento, sedendosi sui talloni con le mani posate sulle cosce, nella tipica postura Mandaloriana. Cara lo imita e prende posto di fronte a lui, con le ginocchia che sfiorano le sue.

Non serve altro. Ha tirato fin troppo per le lunghe, forse, ma oggi ha avuto conferma che gli usi Mandaloriani, terribilmente diretti e privi di fronzoli, non sempre funzionano con chi non vi è abituato. Lui stesso ricorda ancora chiaramente il proprio shock quando sua madre l’ha adottato di punto in bianco, pronunciando le parole di rito durante una passeggiata qualunque e con la stessa imperturbabilità con cui avrebbe commentato il tempo. E lui non avrebbe potuto essere più felice, nemmeno se avesse organizzato una festa di dimensioni spropositate per annunciarlo ad ogni singolo essere della Galassia. Era stata la spontaneità, a rendere quel momento così prezioso; il modo in cui era un pensiero così normale, scontato, da dover solo essere pronunciato ad alta voce.

Avrebbe voluto fare lo stesso con Cara. Con parole migliori di toglimi l’elmo... ma non può dire che sia andato tutto storto, in fin dei conti. E non c’è alcuno sfarzo o ricercatezza, in ciò che stanno facendo: sono semplicemente a casa loro, l’uno di fronte all’altro, in attesa di guardarsi negli occhi.

Raccoglie tutto il suo coraggio e inclina il capo verso di lei in un invito. Cara prende tra le mani l’elmo, con lenta fermezza, nel punto in cui sarebbero le sue guance. Sente la pressione sul volto, o crede di sentirla sulla sua seconda pelle. Lei si arresta, e sa che può avvertire la sua tensione: gli sta dando tempo. Il suo respiro si appiana, anche se il cuore continua a battere come un tamburo da guerra.

«Anche questo fa parte del rituale?» gli chiede poi, pacata, quasi percepisse quel ritmo forsennato vibrare attraverso il metallo.

«Cosa?»

«Il fatto che debba togliertelo io.»

La sua bocca diventa più arida del Mare delle Dune. Si trova a combattere contro la sua stessa lingua, cercando di mantenere salda la voce. «No. Volevo solo che fossi tu a farlo,» dice infine, senza alzare la testa, gli occhi puntati sulle proprie dita.

Intravede il modo in cui un lampo di sorriso le attraversa le labbra, mascherando la sorpresa, ma è ovvio che quella confessione l’abbia spiazzata. In realtà, non ha preso in considerazione alcuna altra possibilità. Qualunque altra opzione sarebbe stata forzata, ingiusta nei propri confronti o nei suoi. Toglierselo da solo non avrebbe avuto senso. Non sarebbe stata una decisione presa insieme, come famiglia – sarebbe stata la sua decisione di farsi vedere da lei. Non ha idea di come convertire quei pensieri in parole, e spera solo che riesca  a percepire anche quelli.

«Anche se non ho mai voluto.»

«Proprio per questo.» Inclina un poco la testa verso l’alto, e i palmi di Cara sfregano contro il beskar. Le riassesta mentre prende un respiro, e quel gesto gli arriva come una carezza.

«Volevo solo conferma che fossi sicuro,» dice infine, quasi ritrosamente, e Din avverte una tenue spinta dell’elmo verso l’alto, che strattona anche il suo cuore.

Le afferra con gentilezza i polsi, bloccando quel movimento. «Dobbiamo essere concordi. Non devi farlo per me. E puoi dirmi se sto oltrepassando qualche...» cerca la parola giusta, senza trovarla, arrendendosi alla sua incapacità nel parlare, «... confine

Lei gli offre un sorriso scaltro, e in qualche modo anche orgoglioso. «Certo che sì... ma non è un mio confine.» Poi si fa seria, quasi grave, con le pupille che trapassano il visore e si piantano nelle sue. «Mi riconosco in tutto ciò che hai detto. Sul fatto che una famiglia non è tenuta insieme dai legami di sangue, e che ci fidiamo l’uno dell’altra. Sul fatto che, sì, darei la vita per te e per il piccolo. E per quanto riguarda la casa che non è solo un concetto fisico... sai che posso capirlo.»

Din aumenta la stretta in risposta, venendo sfiorato dall’onda d’urto del suo dolore per un pianeta perduto.

«Non credevo fosse possibile trovarne un’altra, ormai... ma mi hai fatta ricredere. Tu e quel  tuo womprat verde,» concluda, lasciando che una nota allegra scivoli tra le sue parole sobrie, illuminandole gli occhi.

E la vede, adesso. La sua essenza, il modo in cui la sua gioia viene sfiorata da ricordi cupi e continua a scorrere dolceamara in un sentimento che lenisce il dolore, avvolgendo entrambi. C’è un’unica parola per descriverlo: aay’han – festeggiare e commemorare al contempo. La gioia di essere vivi, anche se altri non lo sono più – e ricordarli proprio in quei momenti, rendendoli parte della vita che va avanti. È un concetto così intrecciato e inciso nella sua anima mandaloriana che non avrebbe mai pensato di trovarlo rispecchiato in un’altra persona. Per la prima volta in tutti quei mesi, ogni dubbio evapora, lasciandolo con la cristallina consapevolezza di star facendo la cosa giusta.

«L’hai trovata.»

Con quelle parole, le lascia andare i polsi. Raccoglie le mani in grembo e lascia che le sue gli stringano l’elmo, fidandosi ciecamente. Non dice altro, fa solo un minuscolo cenno del capo. Vai.

E poi, accade.

Gli si accartoccia l’aria nei polmoni nel sentire l’elmo che scivola piano verso l’alto, sfregandogli contro le guance e scompigliandogli i capelli. È paralizzato. Un soffio di vento tiepido arriva fin lì, sfiorandogli il volto, e solo allora realizza di aver chiuso gli occhi. Li riapre con cautela, socchiudendoli.

Cara lo sta fissando, ovviamente, l’elmo ancora stretto tra le mani. E non dimostra il minimo accenno di sorpresa né rifiuto. Riconosce solo una tenue, quasi timida curiosità che spinge i suoi occhi a incrociare i propri non appena li apre. Scopre che è molto più difficile sostenere lo sguardo di qualcuno senza uno strato di metallo a fare da scudo.

Deglutisce e prende un respiro profondo, chiudendo di nuovo brevemente gli occhi, per poi ricambiare il suo sguardo e guardarla davvero. Più a fondo, senza alcuna barriera. Sono passati solo alcuni secondi, ma se li sente gravare addosso come fossero un’ora intera. Quasi vorrebbe abbandonare il proprio corpo per un po’, lasciando che quei momenti scorrano via senza di lui. E vuole però viverli appieno, crogiolandosi nello sguardo di Cara che vede per la prima volta il suo viso. Prima nell’insieme, poi soffermandosi su ogni dettaglio – lo vede dal modo in cui i suoi occhi si muovono impercettibilmente.

Cerca di rilassarsi e sa che sta miseramente fallendo, sa che i suoi capelli sono sconvolti, sa che ha un livido ancora in via di guarigione sullo zigomo, sa che farsi la barba non sarebbe stata una cattiva idea, e sa che ha lo sguardo di un animale schivo e ritroso perché è sempre stato così, fuori dal beskar. I suoi occhi si rifiutano di ancorarsi a quelli di Cara per più di una frazione di secondo, e continua a sentire una forza invisibile che cerca di convincere le sue mani a coprirsi il volto. Serra le dita sui pantaloni e non lo fa, sentendosi in attesa di un verdetto. Non sa chi debba parlare per primo, ma fortunatamente Cara lo salva da quel dilemma con la consueta prontezza:

«Vorrei dire ’piacere di conoscerti’, ma mi sembra di averti già conosciuto, anche prima di vederti,» dichiara, in quel suo modo gioco che cerca di scacciar via la tensione, ma il suo tono è sincero, con radici più profonde del semplice scherzo a fin di bene.

Ha ancora le mani posate sul suo elmo, lo sta quasi cullando. Vederlo separato da lui, nella stretta di qualcun altro, lo disorienta, ma non in un modo spiacevole. Cara sta ancora sorridendo, gli occhi sottili, le labbra che seguono una curva diversa, più morbida, che non crede di aver mai visto. Irradia pura contentezza e, non appena realizza che è fatta, che il mondo non è crollato, la Galassia non è implosa, e che lui sta ancora respirando, lascia che anche le sue labbra si tendano in un sorriso incerto.

«Era quello che ti aspettavi?» non si trattiene dal chiedere e, non appena parla, gli occhi di Cara sfarfallano sul suo volto in un’improvviso sprazzo di confusione, per poi soffermarsi sulla sua bocca.

Giusto. La sua vera voce. Per lei è un’altra novità. Spera che non suoni troppo roca, visto che si sente come se non bevesse da un anno. Cerca di deglutire discretamente, in attesa di una risposta.

«Sei... terribilmente simile a come ti avevo immaginato,» afferma lei, con una traccia di sconcerto ben palpabile, mentre sceglie con cura ogni parola. «Pensavo fossi più pallido, però. Pallido come un Muun, in effetti.»

Gli scappa una risatina a labbra chiuse, che gli sobbalza bassa nel petto senza trapelare. «Non ti do torto,» commenta, con un’occhiata al suo casco impenetrabile.

E all’improvviso, prova una curiosità palpabile, un impulso difficilmente controllabile che relega la paura in un angolo molto remoto della sua mente, visto che la reazione di Cara è anch’essa di pura, genuina curiosità. Neanche una pagliuzza di avversione o diffidenza si fa strada nei suoi occhi. E lui è ancora tutto intero, a quanto pare, il che non fa che alimentare la sua intraprendenza.

«C’è altro?»

Lei inarca un sopracciglio, e Din quasi riesce a leggerle nel pensiero ancor prima che parli. «Ti stai divertendo, o sbaglio?»

«Forse.» Si acciglia, chiedendosi se sia scortese indagare su ciò che pensa di lui, e se sia il caso di divertirsi in un momento del genere. Da quando incrinare le regole è divertente? «Di’ quello che vuoi, non mi offendo.»

«L’hai voluto tu,» lo avverte lei, pericolosamente compiaciuta. «Pensavo avessi il naso dritto,» butta lì poi, senza nemmeno tentare di mitigare quell’osservazione, e gli rivolge un mezzo sorrisetto che è sia di scuse che di innocente ilarità. «A quanto pare mi sbagliavo.»

Lui trattiene un sospiro, poi lo rilascia in una risata leggera. «Me lo sono rotto cinque volte. Forse sei. Ho smesso di tenere il conto,» alza le spalle, percependo la sottile cicatrice sul ponte del naso che si tende leggermente quando lo muove.

E Cara, a quanto pare, ha trovato il suo nuovo gioco preferito, perché prende a scrutare il suo volto con ancora più attenzione. Din dovrebbe sentirsi a disagio, ma si sorprende a sostenere il suo sguardo con più facilità, e un’espressione che rasenta la sfida si fa largo tra i suoi lineamenti.

«Poi... non saprei. Avevo supposto che avessi i capelli neri. Chiamalo intuito. E di questa lunghezza, più o meno... forse un po’ meno ribelli,» lo prende in giro bonaria.

Din sbuffa senza rancore, portando una mano a riassestare un paio di ciocche, un gesto che non è affatto abituato a compiere, come qualunque altro coinvolga il proprio volto.

«Quindi... presupponendo dei capelli scuri, gli occhi scuri erano un’ipotesi sensata. Non mi aspettavo i baffi, sinceramente, ma sapevo che dovevi avere un po’ di barba.»

Din inclina di lato la testa con fare interrogativo, aggrottando le sopracciglia. «Come mai?»

«Ti ricordo che dividiamo un’astronave con un solo bagno,» lo rimbecca lei, con fare ovvio. «Di solito sei rapido, la mattina, ma ogni due o tre giorni ci impieghi più tempo, e non credo per incipriarti il naso,» lo punzecchia, e lui alza teatralmente gli occhi al cielo, visto che può vederlo – un gesto che non fa da secoli e che quasi sente fuori posto sul proprio volto. «Quindi non ti radi ogni giorno, ma non ha nemmeno la barba.»

Din non può fare a meno di inarcare le sopracciglia, sinceramente colpito. «Mi dà fastidio sotto l’elmo,» risponde senza pensare, distratto da altri pensieri. «Non... non credevo che fossi così attenta a me.»

Potrebbe giurare di scorgere un chiaro, seppur fuggevole alone rosato tingerle gli zigomi, e i suoi occhi si fanno evasivi. «È ovvio concentrarsi su altri dettagli, quando non puoi affidarti a un volto.»

Din abbassa lo sguardo, ma sta sorridendo, seppur un po’ colpevolmente. È conscio di essere difficile da leggere, e può solo immaginare quanto possa essere frustrante stare dall’altro lato di un’impassibile lastra di beskar. Anche se Cara se l’è sempre cavata molto bene, a decifrarlo.

Un’altra pausa si distende pigramente tra loro con la stessa naturalezza di un respiro, mentre continuano a studiarsi e guardarsi come se stessero cercando di capire come funzioni, quel nuovo gesto. Quel che è certo, è che sembra funzionare bene. Non vacilla minimamente, quando, pochi istanti dopo, decide di pronunciare le parole di rito: 

«Ni kar’tayl gai sa’aliit.» Fa una piccola pausa e inclina il capo in avanti, senza mai interrompere il contatto visivo con Cara. "Adesso è ufficiale."

Cara batte le palpebre e storce appena le labbra in una piega perplessa. «Basta questo?»

Din rilascia uno sbuffo divertito. «Siamo gente pratica. Avrei potuto dirlo prima, e sarebbe comunque stato valido, col tuo consenso. Se pronunci anche tu le parole di rito, siamo ufficialmente uniti, secondo le leggi Mandaloriane.»

Le inclina all’indietro la testa, quasi a prendere distanza, e lo fissa di sottecchi con una traccia di sospetto. «Aspetta, uniti? Mi... sono persa qualcosa?»

Din percepisce il proprio volto diventare molle, gli occhi sbarrati da una fitta di panico. Boccheggia un paio di volte a mezz’aria, ammutolito dal fraintendimento, poi si arpiona la voce fuori dalla gola: «Uniti come famiglia. C’è... c’è un altro voto per... per altri legami,» spiega a raffica, senza nemmeno osare esplicitare quegli altri legami – e sta davvero balbettando, dank farrik?

Lei sembra comprensibilmente sollevata. «Bene. Non mi sembra il caso di affrettare le cose,» dice poi con una scrollata di spalle, come se fosse la cosa più naturale e ovvia del mondo.

Un momento, cosa? Din inarca le sopracciglia in un moto di sconcerto, ma fa appena in tempo a processare ciò che ha appena sentito che Cara riprende il discorso con la massima disinvoltura. Per Malachor, inizia a pensare che sia davvero Mandaloriana.

«Quindi? Cosa significa di preciso?» gli chiede infatti, con serenità disarmante. «Vorrei sapere cosa sto per dire.»

Din ci mette qualche secondo a schiodare il cervello dall’affermazione precedente, ed è costretto a riavviarlo a calci prima che si inceppi, spegnendosi del tutto e lasciandolo a piedi lì, a giostrarsi tra parole e sentimenti a cui non riesce nemmeno a dare un nome. 

È consapevole della variegata gamma di espressioni che gli ha attraversato il volto in quel nanosecondo, come un ologramma preimpostato per rappresentare l’intero spettro delle emozioni umane... e non può fare molto per arginarle: non è mai stato abituato a doverlo fare. 

Quindi cerca semplicemente di ignorare la rivolta del proprio apparato emotivo e di concentrarsi sulla domanda corrente – la cui risposta, in verità, non è affatto d’aiuto.

«All’incirca "ti conosco come famiglia",» spiega, evasivamente. Letteralmente vorrebbe dire ti porto nel cuore come famiglia, ma non gli sembra una buona idea, quella di specificare i dettagli.

Cara annuisce, soddisfatta della risposta. «Ni kar’tayl gai sa’aliit,» ripete quindi, con lenta solennità, e con un buffo accento che porta un sorriso sul suo volto, ma trattiene la propria ilarità per non rovinare il momento.

Posa invece gli occhi nei suoi, con un senso di completezza che gli riempie il petto goccia a goccia, e lei ricambia lo sguardo con la medesima, silenziosa intensità.

È vicina, ma non accenna a volersi avvicinare di più, e tiene ancora compostamente le mani sull’elmo. Le è grato, per questo. Una parte di lui, che si è fatta sempre più veemente col trascorrere dei minuti, vorrebbe disperatamente sentire il suo tocco sulla pelle; un’altra, sempre più flebile, lo convince che finirebbe per prendere fuoco se osasse anche solo sfiorarlo. Eppure, si trova ad agognare quell’istante.

China un poco il capo e il suo sguardo si sofferma involontariamente sulle sue dita, raccolte sotto il bordo dell’elmo; lo distoglie immediatamente, mandando giù un groppo in gola. Lei lo nota comunque – ovviamente – e, prima che possa dire qualcosa, porta una mano sopra la sua, ancora avvolta dal guanto. La sente a malapena, attraverso lo spesso strato di cuoio, ma ruota il polso e la avvolge nel palmo, gli occhi fissi su quell’intreccio di dita. Solleva appena lo sguardo senza muovere la testa, come fa molte volte sapendo che l’elmo maschererà quel movimento, e si trova a incrociare il suo. In attesa.

Le stringe titubante la mano, sentendosi abbracciare dal calore dei suoi occhi anche attraverso l’armatura, due pozze di tranquillità che placano la sua irrequietezza, e gli ricordano perché abbia scelto di arrivare fin qui, oggi. Solleva con lentezza le loro mani, guidando la sua verso il proprio volto. Lei lo asseconda, seguendo il movimento senza tentare di anticiparlo o accelerarlo. Finché non gli sfiora la guancia con la punta delle dita.

Quasi sobbalza. È come se tutti i suoi recettori si risvegliassero nel medesimo istante, sfrigolando in un’ondata di sensazioni amplificate. È così bello da sopraffarlo, da fargli quasi male: un fuoco che divampa e lo avvolge esattamente come ha predetto – eppure, non vuole spegnerlo. Chiude gli occhi, inebriato da quel tocco, da una sensazione che ha quasi dimenticato per sempre. Cara porta la mano libera a racchiudergli l’altra guancia, e lui si lascia accogliere e sostenere, percependo il suo sorriso anche senza vederlo. Lo ricambia, premendo contro i suoi palmi.

«Va bene?» gli chiede, sottovoce, con solo una sfumatura di dubbio a screziarle la voce.

Lui prende un respiro. Ha rinunciato a tutto ciò fino ad ora. E quel pensiero fuggevole quasi frantuma il Credo, prima di ricordare che sta compiendo una scelta. L’ha già compiuta tempo fa, quando ha deciso che la vita di un bambino valeva infinitamente di più della sua parola e del suo onore. Ha continuato a scegliere ancora e ancora, da quel momento, e non se n’è ancora mai pentito. Non se ne sta pentendo. Rilascia il respiro.

«Sì,» mormora contro la sua pelle; ed è un  che risponde a quella domanda, ma che suggella dal profondo del suo cuore anche tutto ciò che è appena accaduto.

Sente i suoi pollici che gli accarezzano gli zigomi, seguendone il profilo a fior di pelle, e alza gli occhi nei suoi. Gli dicono tutto ciò che ha bisogno di sapere.

Questa è ancora la Via. E dovunque li porterà, la percorreranno insieme.





 

– FINE –



 



Note dell’Autrice:

"Come aggirare gli stringenti dettami di un Credo millenario ripulendosi la coscienza, un manuale di Din Dork Djarin". *sigh* Di’kutla Din, non funziona esattamente così, ma ce lo facciamo andare bene, spero... anche se ve l’ho fatta sudare, ammettetelo :’) *sente il fiato dei rathtar sul collo*

Sì, questa minilong è in tutto per tutto un concentrato di self-indulgence/studi alternativi dei personaggi in cui mantengo di tanto in tanto una parvenza di IC :’) Ma la prossima shot riequilibrerà Lato Chiaro e Lato Oscuro, vedrete ♥ Perché no, non mi sono dimenticata di Grogu, ma quella parte ha bisogno di un "approccio differente" :P

Ret’urcye mhi, vode!

-Light-

P.S. [SPOILER per Cap.15] Ogni riferimento all’ultimo episodio è puramente casuale. No, davvero: è casuale, tutto ciò è stato partorito prima e non mi capacito del tempismo :’)

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