Le scelte della vita

di Nike90Wyatt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


1

Tibet, 2015

L’elicottero atterrò alle prime luci dell’alba.

Un folto gruppo di persone, bardate fino alla testa, si riunì intorno alla zona di atterraggio, un piccolo spiazzale libero dalla neve. Non appena le pale rallentarono i giri, un uomo con indosso una tuta da lavoro blu aprì il portellone.

Gabriel Agreste fu il primo a scendere. Indossò uno zuccotto di lana per proteggersi dal vento gelido proveniente da Est. Il campo era stato già allestito secondo le sue direttive. Si voltò e porse la mano a Nathalie Sancoeur così da aiutarla a scendere dall’elicottero.

Una guida sherpa del posto li accolse con un inchino. «Molto lieto, signor Agreste.» Era un uomo minuto, vestito con un cappotto di lana beige, il volto solcato da profonde rughe d’espressione. Gli occhi color caramello si soffermarono sulla donna che affiancava Gabriel. «Duōme chūsè de nǚpū .»

Nathalie chinò il capo ed abbozzò un sorriso.

«Cos’ha detto?» Gabriel sollevò un sopracciglio.

«Lasciamo perdere.» Il sorriso scomparve dal volto della donna, lasciando spazio ad una gelida espressione. «Andiamo.»

Entrarono nel tendone. La differenza di temperatura con l’esterno costrinse Gabriel a liberarsi del cappotto, della sciarpa e dello zuccotto. Sul tavolo posto al centro vi era una mappa topologica della zona, bollettini meteorologici e foto del tempio.

Gabriel si tenne in disparte, mentre Nathalie si occupava di prendere tutte le informazioni necessarie alla spedizione. Sebbene non avesse afferrato le parole della guida, era chiaro che quel piccolo omuncolo avesse una particolare attenzione per la sua assistente. Fortuna che lei fosse una donna dedita al lavoro e devota alla causa.

«Non sono previste tempeste in giornata.» Nathalie porse a Gabriel una foto. «L’obiettivo si trova oltre il villaggio, ai piedi della montagna.»

«Lo raggiungeremo a piedi?»

Nathalie annuì. «L’unica strada che attraversa il villaggio è troppo stretta per i nostri fuoristrada. E non sappiamo se vicino alla nostra meta c’è abbastanza spazio per atterrare con l’elicottero.»

«Non è un problema.» Gabriel restituì la foto. «Partiamo ora.» Fece segno a due uomini in uniforme militare, con in spalla fucili semiautomatici. Indossò cappotto, sciarpa, cappello e guanti ed infilò lo zaino con l’equipaggiamento necessario all’escursione. Uscì dal tendone, seguito da Nathalie, dalla guida sherpa e dai due militari.

Viste dall’elicottero, gli edifici rozzi in legno del villaggio sembravano molto più grandi di quanto fossero in realtà. Nessuno di essi superava i due piani, alcuni erano privi porte sostituite da semplici drappi. Gli abitanti del posto gettavano rapide occhiate al gruppo, per poi tornare alle loro mansioni. Da quando il tempio era stato ripristinato, le spedizioni in quella zona, soprattutto delle troupe televisive, erano aumentate in modo esponenziale. Tuttavia, nessuno aveva avuto la possibilità di entrare nel tempio: i Guardiani non erano disposti a condividere i loro segreti.

Gabriel era sicuro che sarebbe stato più fortunato. A differenza di altri, il suo era uno scopo nobile, uno sprone che gli donava la forza e la capacità di scavalcare qualsiasi ostacolo, Guardiani compresi. Ben presto, i segreti dei Miraculous sarebbero stati suoi e li avrebbe usati contro i due paladini di Parigi.

Il gruppo superò un paio di allevamenti di capre e yak e si avventurò su una strada sterrata. La pendenza era notevole. La guida offrì il braccio a Nathalie, ma lei rifiutò con un cenno della mano.

«Non era necessario che venissi anche tu.» Gabriel la affiancò e le diede sostegno passandole un braccio intorno alla vita. «Questa battaglia ti ha già causato grossi problemi.»

Stavolta Nathalie accettò l’aiuto. «Ne abbiamo già parlato.» Scosse la testa. «Anch’io desidero che Emilie torni nelle nostre vite. Ho promesso che ti avrei aiutato fino in fondo in questa lotta, e così farò.»

«Grazie» sussurrò Gabriel. Non voleva che Nathalie corresse rischi in una guerra che lui riteneva esclusivamente sua, ma averla al suo fianco gli dava conforto e tranquillità. Più volte lei si era rivelata essenziale e lo aveva salvato da situazioni di serio pericolo, rischiando lei stessa gravi conseguenze.

La strada curvava verso sinistra, costeggiando un profondo burrone, recintato da un sottile guardrail in legno. Al termine vi era un’immensa parete di ghiaccio.

La guida raggiunse per primo una piccola apertura, una grotta che si estendeva all’interno di quell’immensa massa dal colore azzurro. «Tempio!» urlò mostrando una fila di denti anneriti. «Qui, tempio. Uno va, altri restano.»

Nathalie si irrigidì. «Come sarebbe “uno va”?»

«No possibile andare insieme.» La guida ammiccò. «Ghiaccio rompe se andiamo insieme. Passaggio solo per uno.»

Gabriel mosse un passo in avanti. «Andrò io. Torna all’accampamento e aspettami lì.» Accarezzò il volto di Nathalie col dorso della mano. «Tornerò presto.»

I due militari lo scortarono fino all’ingresso della grotta. I raggi solari che penetravano all’interno creavano riflessi bluastri sulle pareti di ghiaccio. Scorgerne il fondo era impossibile, così Gabriel posizionò una torcia con lampadina allo xeno sul taschino del cappotto in petto, sul lato destro. Chinò il capo ed entrò.

Le pareti erano lisce, come se fossero state scolpite. Dal terreno, invece, sorgevano lunghe lance di ghiaccio, rendendo il cammino accidentato.

Gabriel si inoltrò nella grotta, sempre con le spalle incurvate in avanti, accarezzando di tanto in tanto la parete alla sua sinistra. Un modo per tenere vivido l’orientamento. Accese la torcia: il fascio luminoso azzurrognolo rivelò una scala scolpita nel ghiaccio dove il terreno innevato terminava. Quella fu la conferma del primo pensiero di Gabriel: qualcuno aveva creato quel passaggio, forse proprio uno dei Guardiani, per usarlo quando era necessario reclutare un nuovo apprendista nei villaggi limitrofi.

Gabriel dovette inginocchiarsi per proseguire. Salì la scalinata di ghiaccio carponi, ad ogni respiro il fiato condensava in una nuvoletta bianca. Durante la scalata, perse la cognizione del tempo, gli sembrava di gattonare da ore e ancora non era in grado di scorgere l’uscita in alto.

Il passaggio si restrinse in una leggera curva a destra. Gabriel si fermò a riprendere fiato. Inspirò a fondo, ma riuscì a malapena a riempire i polmoni. L’aria era troppo rarefatta.

Si concentrò sul suo obiettivo, sul perché aveva iniziato quel conflitto. Sua moglie Emilie doveva tornare in vita, doveva tornare a portare luce sull’oscurità che aveva invaso il suo cuore, rendendolo avido e raggrinzito. Anche Adrien ne avrebbe giovato: non erano pochi i momenti in cui Gabriel percepiva le emozioni negative provate dal figlio. Solitudine, tristezza, delusione. Tutto sarebbe svanito una volta risvegliata Emilie dal lungo sonno in cui era caduta.

Gabriel sollevò lo sguardo, poggiò le mani sui grezzi scalini di ghiaccio e riprese la scalata. Non riuscì a decifrare con certezza il momento in cui la luce della torcia iniziò ad essere inutile. Da una fessura non più grande di una gattaiola penetravano flebili lame solari. Gabriel scivolò attraverso l’uscita e si stese sul soffice manto innevato.

Il tempio dei Guardiani dei Miraculous sorgeva su un picco separato dal resto dei monti che lo circondavano. Dal centro, spiccava la torre più alta, divisa su tre piani distinti da tetti spioventi dorati simili a pagode. La struttura era costruita in legno e mattoni. Un monumento all’architettura orientale. L’unico punto di accesso era un ponte in legno, abbastanza largo da consentire il transito di un tir, sotto cui scorreva impetuoso un fiume, la cui sorgente sgorgava dal monte alle spalle del tempio.

Gabriel si alzò in piedi, sorridente. Si spolverò il cappotto e i pantaloni.

Il suo obiettivo era lì, i segreti dei Guardiani, la conoscenza sul reale potere dei Miraculous. E, ironia della sorte, per tutto questo doveva ringraziare la sua nemesi, Ladybug, quando con il Lucky Charm aveva ripristinato la struttura e salvato dall’eterno oblio i Guardiani.

Affondò gli stivali nella neve e procedette sul ponte. Il silenzio era spezzato dalle sporadiche folate di vento, per fortuna di lieve intensità, e dall’acqua del fiume.

Anni prima, Emilie aveva trovato il Grimorio, il Miraculous del Pavone e il Miraculous della Farfalla a fondovalle, dove il fiume confluiva in un affluente, prima di procedere verso l’Oceano Pacifico. Malediva ancora quel giorno e l’irresponsabile curiosità di sua moglie, ossessionata dall’affascinante storia di quei gioielli magici. Era stato l’inizio della fine.

Si fermò davanti al portone in legno. Su entrambi i lati era inciso un disegno, lo stesso disegnato sulla Miracle Box che tre mesi prima aveva sottratto all’ormai ex Guardiano dei Miraculous di Parigi. Il ricordo di quell’amara sconfitta, gli provocò un verso di stizza. Miracle Queen era l’akumizzato più potente che avesse mai creato, ma, anche in quell’occasione, Ladybug e Chat Noir l’avevano scampata. Le traduzioni delle scritte nel grimorio rappresentavano un mero premio di consolazione. Della sorte toccata a quell’insulso omino orientale gli interessava meno di zero. Bussò sul portone a mano aperta.

Non ci fu risposta.

Infilò la mano nel cappotto; da un taschino interno, estrasse una scatolina metallica di forma rettangolare e la aprì. La spilla a quattro punte contenuta in essa si illuminò producendo una sfera violacea che disegnò un arco nell’aria. La sfera implose e comparve il Kwami della Farfalla. Gabriel indossò la spilla all’altezza del collo.

«Mio padrone.» Nooroo si inchinò con rispetto.

Gabriel lo ignorò. Bussò di nuovo, stavolta con più veemenza.

Ancora nessuna risposta.

«Se non vogliono aprirmi loro», Gabriel si tolse guanti e zuccotto e gettò a terra lo zaino, «entrerò da solo.» Allargò le braccia. «Nooroo, che le ali della notte si innalzino!»

Il freddo non fu più un problema. «Mi prenderò ciò che voglio.»

Arretrò di un passo e scalciò con violenza il portone. L’impatto provocò un’eco che si espanse per tutta la gola. Si aprì una piccola fessura. Papillon spinse con entrambe le mani il pesante portone ed entrò.

L’unica fonte di luce nella sala proveniva dall’ingresso, le candele poste accanto alle pareti erano spente. L’aria era secca e calda. Una statua raffigurante un dragone cinese accoglieva gli ospiti nel tempio: era di marmo, posta lì per incutere timore agli invasori e conforto agli alleati. Un simbolo del potere dei Guardiani.

«Guardiani dei Miraculous!» Papillon piantò sul pavimento in legno il suo bastone. «Il mio nome è Papillon, sono il portatore del Miraculous della Farfalla.» La voce tonante rimbombò per le sale del tempio. «Sono qui per conoscere i segreti delle Miracle Box; so che ne esistono altre oltre a quella che conteneva il mio Miraculous. Datemi ciò che voglio e vi prometto che non vi farò del male.»

I colpi del bastone sul pavimento cadenzavano il passare dei secondi. Quel silenzio lo infastidiva. «Noto che non siete particolarmente socievoli con il mondo esterno. Posso dire che condivido questa scelta. Ma in questo momento, non giova a vostro favore.»

Il portone si richiuse alle sue spalle, le candele si accesero all’unisono proiettando una luce ambrata sulle mura della sala.

Papillon ghignò. «Finalmente.» Si voltò.

Accanto all’ingresso erano comparse due figure. Il riverbero della luce rese impossibile scorgere altri dettagli al di là delle sagome. Una delle due doveva essere una donna a giudicare dal profilo minuto ed aggraziato. L’altra aveva una stazza imponente, sulla testa un elmo da cui spuntavano due corna taurine. Erano due portatori di Miraculous.

«Portatore del Miraculous della Farfalla», la donna fece un passo avanti, «qui non sei il benvenuto. La tua aura è ammantata di oscurità. Restituisci la spilla e vattene o sarai punito per i tuoi crimini.»

Papillon gettò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. «È forse una minaccia?»

«Vattene!» La donna lo indicò. «Questo è l’ultimo avvertimento.»

«Molto bene.» Papillon passò il palmo sulla cupola in vetro all’estremità del bastone. Lo afferrò e sguainò lo stiletto.

«Così hai scelto.» La donna sollevò le mani all’altezza delle spalle e produsse due lingue di fuoco viola. Si manifestarono due piccole bilance che levitavano intorno a lei.

Papillon si incurvò in avanti pronto a sferrare un attacco. I muscoli si irrigidirono di colpo, un senso di soffocamento gli occluse la gola. Riusciva solo a roteare gli occhi. I piatti delle due bilance erano incendiate.

Il colosso si mosse in avanti, con passi pesanti e minacciosi. Impugnava un’ascia bipenne tenuta poggiata sulla spalla. Il torace imponente era coperto da un drappo con appuntata una spilla. Afferrò la gola di Papillon, le iridi rosse come sangue. «Non tornare mai più qui.» Se avesse potuto muoversi, Papillon avrebbe provato brividi di terrore sentendo quella voce cavernosa. Il colosso strinse la presa.

La donna lo fermò. «Non osare ucciderlo!»

Il colosso girò la testa e grugnì. Roteò il corpo e scagliò Papillon contro il portone che si spalancò. Il corpo inerme impattò su un montante del ponte, si rovesciò e finì nel torrente impetuoso.

Le orecchie gli fischiavano, l’acqua gli riempì la gola e i polmoni. La forza della corrente lo trascinò contro una roccia. Provò ad evitare l’impatto spingendo con le gambe, ma la spalla colpì lo stesso la roccia, provocandogli un dolore acuto. La trasformazione terminò e Gabriel capì di essere spacciato. Perse di vista Nooroo. Una curva stretta lo catapultò sott’acqua. Senza più forze si lasciò trasportare dalla corrente. Il buio calò sul suo mondo.



Angolo Autore:

Salve a tutti, ragazzi.

Dopo mesi e mesi, finalmente riesco a pubblicare la storia su cui ho lavorato a lungo e che solo di recente sono riuscito a perfezionare. Spero che sarà di vostro gradimento. Cercherò di intervenire il meno possibile con questi piccoli commenti alla fine, lasciando che sia la storia a parlare, e tenterò, per quanto possibile, di mantenere una costante pubblicazione settimanale (la storia è già conclusa quindi non c’è il rischio che venga brutalmente interrotta). Ringraziandovi del tempo che impiegate nel leggere ciò che scrivo, vi do appuntamento per la prossima settimana con il secondo capitolo.

A presto.

Nike90Wyatt

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2

Nathalie Sancoeur passeggiava intorno al tavolo montato all’interno della tenda, le mani dietro la schiena l’una stretta nell’altra. L’orologio del computer segnava le 10:00. Erano già passate quattro ore. Che diavolo stava facendo Gabriel?

Lo staff di supporto nella spedizione era lo specchio della sua inquietudine: la osservavano silenti e voltavano il capo nel momento in cui lei incrociava il loro sguardo. Gli unici a restare impassibili erano i due militari, già pagati per il lavoro, e la guida sherpa, il cui unico interesse era passare da una mano all’altra il suo bastone da passeggio e masticare tabacco. Insopportabile.

Nathalie si avvicinò al tecnico che gestiva le telecomunicazioni. «Ancora niente?»

Il tecnico scosse la testa.

Nello zaino, Gabriel aveva un segnalatore gps, in modo che la sua posizione fosse tenuta sempre sotto controllo. Quando era tornata al campo, il tecnico aveva riferito a Nathalie di aver perso il segnale per poi averlo riagganciato subito dopo. Doveva essere stato il tempo impiegato da Gabriel per attraversare quell’anfratto. Dopo poco, il segnale era scomparso di nuovo per non fare più ritorno.

Nathalie si tolse gli occhiali appannati e li pulì con un panno cavato dalla tasca dei pantaloni. «Continua a provare.» Li inforcò di nuovo sul naso. «Devi riuscire a riagganciare il segnale.» Si era resa conto di aver usato un tono severo, come se il ritardo di Gabriel e la totale assenza di informazioni sul suo conto fossero colpa del tecnico.

«Morte certa oltre grotta» disse la guida sherpa. «Destino segnato.»

Nathalie lo fulminò con lo sguardo. Già trovava irritante quel sorriso smielato che le rivolgeva dal momento in cui si erano presentati, a tratti anche rivoltante. Un’altra parola fuori posto sulla sorte di Gabriel, e gli avrebbe staccato a suon di sberle i pochi denti che gli rimanevano in bocca.

La guida sherpa si strinse nelle spalle, ma non fiatò. Forse aveva capito l’antifona.

L’aria nella tenda iniziava a farsi pesante, così Nathalie prese dal gancio dell’appendiabiti il suo cappotto e lo indossò. «Chiamatemi immediatamente in caso di novità.» Uscì fuori lasciandosi alle spalle i mormorii dello staff. Li aveva scelti personalmente un mese prima a Parigi, fidandosi del loro curriculum esemplare e della palese voglia di avventura. Gabriel aveva insistito affinché non fossero persone impressionabili, che fossero discreti e competenti.

Nathalie infilò il cappuccio. Intorno all’accampamento era scesa la nebbia, per fortuna non fitta a tal punto da non vedere nulla. Il sole nel cielo era un pallido disco giallo. L’aria d’alta quota le avrebbe schiarito le idee, magari le avrebbe dato il coraggio di prendere in mano le redini e organizzare una spedizione di soccorso. E se fosse stato necessario, avrebbe anche affrontato i Guardiani dei Miraculous pur di riportare Gabriel a Parigi sano e salvo.

Una strana figura, grande quanto una falena, svolazzò nella nebbiolina. Aveva quattro ali e, man mano che si avvicinava a Nathalie, si intravedeva la pelle color viola. La donna strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine: era Nooroo. Aveva il volto stremato e volava a scatti, incerto. I suoi occhi brillarono di luce quando la vide.

Nathalie chiuse la mani a coppa e gli offrì un appoggio. «Nooroo, cos’è successo? Dov’è Gabriel?»

«Signora Nathalie...» Tossì e si interruppe per riprendere fiato. Dalla voce tremolante, era evidente che qualcosa era andato storto. «Il padrone è… Lui è...»

Nathalie chiuse le mani e corse verso la tenda adibita alla cucina. Nooroo era stremato, aveva bisogno di ricaricare le energie. Lo lasciò su un tavolino, si tolse il cappuccio, aprì il mini-frigo e prese una mela. La appoggiò sul tavolino e la tagliò in sei spicchi. Ne consegnò uno a Nooroo.

«Grazie signora Nathalie.» Il piccolo Kwami addentò lo spicchio. Gabriel lo aveva abituato a dover avere sempre timore dei suoi padroni, un atteggiamento che Nathalie non condivideva ma che doveva assecondare. «Mi dispiace» disse Nooroo con sguardo vacuo.

«Raccontami tutto.» Nathalie gli porse un altro spicchio e gli accarezzò il capo. «È necessario che non trascuri nessun dettaglio o non sarò in grado di aiutare Gabriel.»

«Il padrone ha bussato alla porta del tempio, ma nessuno gli ha aperto. Così si è trasformato in Papillon per entrare con la forza.» Buttò giù un boccone, si ripulì un rivolo di bava accanto alla bocca. «Dentro era buio, ma all’improvviso si sono accese tutte le candele e due portatori di Miraculous sono comparsi minacciando il padrone. Lui li ha affrontati, ma erano troppo forti...» La voce era singhiozzante.

«Dopo cos’è successo?»

«Uno dei due ha afferrato il padrone per la gola e lo ha scaraventato giù per il torrente. Lì la trasformazione è terminata e l’ho perso di vista. Non sono stato più in grado di seguirlo.»

Nathalie aprì il cappotto e mostrò il taschino della camicetta nera che indossava sotto al pesante maglione in lana. «Entra qui e riposati. Ora ci penso io.»

Nooroo annuì e fece come gli aveva detto.

Nathalie rientrò ad ampie falcate nel tendone principale dell’accampamento. Un moto di rabbia e di adrenalina le bruciava in petto. «Ascoltatemi tutti!» Gli occhi dei presenti puntarono su di lei. «Sono quattro ore che non riceviamo notizie da Monsieur Agreste. Ritengo che sia opportuno organizzare una spedizione di recupero.»

I membri dello staff si scambiarono occhiate perplesse, ma annuirono all’unisono. I due militari borbottarono lievi proteste nella loro lingua, ben consci che il loro giudizio non sarebbe stato preso in considerazione. Erano pagati per altro. La guida sherpa, invece, mantenne un decoroso silenzio. Sì, aveva capito chi comandava lì.

«Fai venire un elicottero con un dottore» disse Nathalie al responsabile delle comunicazioni. «Voglio il migliore, non bado a spese.»

 

Un elicottero militare atterrò nello spiazzale limitrofo all’accampamento nel giro di mezz’ora. Il soffice manto nevoso venne spazzato via dal movimento delle eliche.

Nell’abitacolo erano sedute due persone: un uomo con pochi capelli brizzolati, mascella squadrata e occhi simili a due fessure e un ragazzo sulla trentina, occhi dal taglio orientale e capelli scuri.

Nathalie si portò dietro i due militari e la guida: sebbene non gradisse la sua compagnia, conosceva bene il posto e poteva essere d’aiuto. «Lei si sieda davanti» gli disse. «Dia indicazioni al pilota affinché segua il corso del fiume. La pagherò il doppio del suo onorario se riusciamo a trovare Monsieur Agreste.»

L’uomo fece ancora una volta sfoggio della sua orribile dentatura incompleta.

Nathalie salì nell’abitacolo posteriore, si presentò all’uomo, il medico chiamato in caso di necessità, e al ragazzo, un infermiere ed interprete.

L’elicottero si sollevò da terra con un sussulto. Lo stomaco di Nathalie si rovesciò e lei ringraziò di aver consumato una colazione leggera quella mattina.

Il velivolo zigzagò tra le montagne andine, planando nei punti in cui il letto del fiume sfociava in piccoli affluenti per poi riunirsi in un unico corso. In alcuni punti fu necessario accendere i potenti fari in quanto l’ombra proiettata dalle montagne faceva calare nel buio più totale gli anfratti.

La guida sherpa aveva abbandonato il suo atteggiamento poco collaborativo ed aveva preso sul serio la situazione, indicando con estrema precisione al pilota i punti in cui sondare il fiume. Nathalie si teneva in constante contatto con il campo base, qualora i tecnici riuscissero a riagganciare il segnale gps di Gabriel.

L’elicottero passò sotto un ponte naturale di ghiaccio e virò in basso: una vallata si aprì sotto gli occhi dei passeggeri. La guida sherpa sventolò la mano verso il basso. Il pilota annuì. L’elicottero sobbalzò e Nathalie ricacciò indietro un conato; non avrebbe mai più dimenticato quella giornata.

«Tā zài nà !» urlò la guida. “Eccolo!”

Nathalie si appiattì contro il vetro. In mezzo a quella sconfinata massa bianca attraversata da una falce azzurra d’acqua, c’era una sagoma nera, stesa prona sulla neve. «Atterriamo!» urlò al pilota, per sovrastare il rumore delle pale.

Quando il velivolo toccò terra, uno dei due militari spalancò il portellone scorrevole. Nathalie, il medico e l’infermiere balzarono nella neve e raggiunsero il corpo di Gabriel. Non aveva più gli occhiali, il cappotto e il pantalone erano lacerati in diversi punti, scoprendo lembi di pelle a tratti graffiata. Aveva perso anche uno degli stivali. La chioma biondo platino era macchiata da una piccola chiazza color porpora. Nathalie si sentì mancare, il cuore le batteva come un martello pneumatico.

Il dottore, assistito dall’infermiere, scoprì il petto di Gabriel e vi appose dei cavi collegati ad un monitor cardiaco. Il segnale era piatto. «Chú chàn qì» “Defibrillatore.”

Il ragazzo gli consegnò le due piastre, il medico le strisciò l’una contro l’altra e le spinse sul petto di Gabriel. Il corpo sussultò sotto la scarica, ma il segnale restò piatto. Il medico fece segno di alzare la carica.

La guida sherpa fasciò con cura la ferita alla testa, i due militari prepararono una barella e due spesse coperte di lana beige.

Il medico spinse di nuovo le piastre, Nathalie deglutì.

Il corpo di Gabriel sussultò. Il monitor emise un bip.

Nathalie si sentì svuotata, sul punto di svenire, ma si impose di restare dritta sul posto. Non era il momento di rilassarsi.

«Dobbiamo portarlo via di qui.» Il medico infilò l’ago di una flebo nel braccio sinistro di Gabriel. «È ancora a rischio ipotermia ed occorre fargli una tac per il colpo preso alla testa.»

I due militari, l’infermiere e la guida sherpa si adoperarono per caricare il corpo di Gabriel sulla barella, coprirlo con le coperte e legarlo con i due nastri a strappo.

Il medico passò un braccio intorno alla vita di Nathalie e la accompagnò nell’abitacolo. Estrasse dalla sua borsa una siringa e una boccetta. «Le servirà. È un calmante.»

Nathalie annuì, porse il braccio sinistro e il dottore le iniettò il siero.

Gli altri caricarono nell’abitacolo dell’elicottero la barella con Gabriel, l’infermiere tendeva il tubo della flebo.

Gli occhi di Nathalie si fecero pesanti, i muscoli indolenziti. Si accasciò sul sedile e si addormentò.

 

Si svegliò cullata dal movimento oscillatorio dell’elicottero. Con un sussulto, il velivolo atterrò sul tetto di un ospedale. Un manipolo di infermieri in camice assistette i due militari nel poggiare la barella su un lettino con le ruote.

Nathalie sollevò il busto, la testa le girava e davanti agli occhi aveva delle macchie nere e grige. Non sentiva più lo stomaco ballare e questo le fu di sollievo. Sarebbero passati anni prima di rimettere piede su un elicottero. Sbatté gli occhi e le immagini divennero più nitide. Il medico e l’infermiere non c’erano più accanto a lei. Perlomeno Gabriel era in buone mani e anche questo contribuì a ridarle un pizzico di sollievo.

La guida sherpa si accostò allo sportello. Aveva riguadagnato quel sorriso ripugnante e adesso anche i suoi occhi brillavano di avidità. Con quello che lo pagavano, poteva comprarsi un intero villaggio. «Andato tutto bene.» Solo ora si accorse che aveva anche una leggera zeppola in bocca quando parlava.

“Per te, forse. Per noi nulla è certo” avrebbe voluto dire, ma lo tenne per se. «La ringrazio per l’aiuto.» Riuscì a piegare le labbra in un mezzo sorriso. In fondo, senza il suo aiuto, le difficoltà sarebbero triplicate. «Dove siamo?»

«Chengdu. Ospedale buono più vicino.»

“Siamo in Cina.” Nathalie sospirò. «Chiamerò lo staff. Non appena saremo riuniti le darò l’assegno con la cifra pattuita più l’extra che le ho promesso.»

La guida si inchinò ed entrò nell’edificio.

Nathalie si liberò del cappotto e sbirciò nel taschino della camicetta. Nooroo dormiva. Lei prese un lungo respiro e si stiracchiò. L’aria era molto più pesante ed umida in città. Prese dalla tasca il cellulare e chiamò il campo base.

«L’abbiamo trovato.» Dal ricevitore si sollevò un coro di fischi ed applausi. «Non è ancora fuori pericolo, ma sta ricevendo tutte le cure possibili.» Fece una pausa. «Sgomberate il campo. La spedizione termina qui.»

 

Nathalie si isolò dal resto del gruppo. I ragazzi della spedizione l’avevano raggiunta a Chengdu affittando un piccolo magazzino per depositare l’attrezzatura. Erano tutti preoccupati per le sorti di Gabriel Agreste: nonostante fosse fuori pericolo di morte, il colpo alla testa preoccupava i medici che lo assistevano.

«Signora Nathalie.» Nooroo era l’unico che Nathalie volesse affianco in quel momento.

«Cosa devo fare, Nooroo?»

«Credo che abbia il diritto di sapere.»

Nathalie scosse il capo. “Ha ragione.” L’adrenalina del giorno precedente si era esaurita e adesso la spossatezza aveva preso il sopravvento, scaraventandola a terra nel corpo e nello spirito. La mano tremolante afferrò il cellulare, lo schermo fermo su un contatto della rubrica. “Ha il diritto di sapere” ripeté nella testa. Scambiò un cenno di intesa con Nooroo e premette l’icona della chiamata.

Occorsero due squilli prima che qualcuno le rispondesse.

«Sono io» disse Nathalie, e sperò che il suo tono di voce non la tradisse. «Devo parlare con Adrien.»

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


3

Parigi, 2015

 

Seduta a quello che aveva definito il suo “banchetto da lavoro”, Marinette Dupain-Cheng tagliò con le forbici una toppa di stoffa rosa e la posizionò sotto l’ago della macchina da cucire. La unì con un’altra toppa e attivò la macchina, unendo le due parti. Alla fine avrebbe ottenuto una copertura uniforme da inserire nella scatola in metallo con serratura che aveva acquistato durante la vacanza a Montecarlo. Quando l’aveva vista in quel negozietto, le era scattata subito la scintilla in testa: sarebbe stato il nascondiglio ideale per la Miracle Box.

Girò la manopola della macchina da cucire ed aumentò la velocità. Premendo con le dita, spostò la toppa in avanti, l’ago passò sul bordo della stoffa. Marinette spense la macchina e osservò l’operato. Annuì convinta.

Tre colpi bussati alla botola la fecero trasalire.

«Marinette, posso entrare?» Era la voce di sua madre Sabine.

Marinette gettò uno sguardo al baule; era lì che aveva nascosto la Miracle Box in attesa di trovare un nascondiglio migliore. «Vieni pure.»

La botola si spalancò verso l’interno, Sabine salì gli ultimi gradini della scala. «Il postino ha appena consegnato una lettera per te.» Sventolò una busta bianca nella mano.

«Mettila pure lì.» Marinette indicò la scrivania, si voltò e riprese il suo lavoro.

Sabine si avvicinò a lei e le poggiò le mani sulle spalle. «Che fai?»

«Stuzzico la mia creatività e unisco l’utile al dilettevole.» Indicò col mento la scatola metallica. «Vorrei rivestire l’interno con della stoffa in modo che quello che metto dentro non rischi di rompersi. E poi, quella roba metallica mi mette tristezza. Meglio dare un po’ di colore e vivacità.»

«Giusto.» Sabine si chinò e le scoccò un bacio sulla guancia. Passò le dita sulla pila di stoffa messa ai piedi del banchetto. «Mettici anche un po’ di bianco e di rosso.»

Marinette fece un mugugno di approvazione. «Buona idea. Grazie mamma.»

Sabine fece per andarsene, poi si bloccò. «E quello?»

Marinette si voltò. Sua madre stava indicando il grammofono di Fu, posizionato in bella vista sulla mensola sopra la scrivania. «È un regalo di un mio amico.» Si intristì ripensando alla sorte toccata al maestro Fu. Tutto a causa di un madornale errore: mischiare le vicende personali con i doveri di Ladybug le era costato caro. «Da qualche mese è dovuto partire» chiarì con mestizia. «Prima di andarsene mi ha lasciato l’oggetto che a lui era più caro.» Non aveva dovuto mentire su tutto, al limite omettere alcuni particolari. In un primo momento aveva pensato che il grammofono potesse fungere da nascondiglio per la Miracle Box, proprio come faceva Fu. Ma Marinette aveva subito scartato l’idea. Troppo in vista e troppo sospetto.

«Che pensiero gentile.» La voce di Sabine la riportò alla realtà. «Però penso che starà meglio nel soggiorno, come parte del mobilio. Mi sembra sprecato lì.»

“Perché no?”, pensò Marinette. «Sono d’accordo.»

«Allora è deciso.» Sabine si alzò sulle punte per prendere il grammofono dalla mensola. Emise uno sbuffo. «Però, pesa parecchio.»

Marinette si sporse sulla sedia. «Ti aiuto a portarlo giù.»

«No, no. Ce la faccio. I sacchi di farina pesano il doppio. Continua pure il tuo lavoro.» Scese le scale, facendo attenzione a dove mettere i piedi ad ogni gradino.

Marinette si alzò, spingendo la sedia all’indietro con le gambe, e richiuse la botola. Prese le stoffe dei colori consigliati dalla madre, si risedette e riprese il lavoro. Quando fu soddisfatta dell’operato, inserì il telo cucito all’interno della scatola metallica, lo appiattì sulle pareti all’interno, precedentemente cosparse di colla, e tagliò via l’eccesso sui bordi.

Sbadigliò. «Per oggi può bastare.»

Tikki svolazzò sul banchetto e ammirò l’opera di Marinette. «Gran bel lavoro.»

Marinette infilò la mano nella maglietta e prese la collanina che indossava. «Con questa sempre con me», agitò tra le dita una piccola chiave argentea, «mi sento molto più sicura.» La infilò nel laccio della collanina insieme al Kwagatama, quello che Tikki le aveva regalato in occasione del suo quattordicesimo compleanno.

Si stiracchiò e andò a sedersi alla scrivania. Accese il computer e collegò tramite usb la fotocamera. Non aveva ancora scaricato tutte le foto e i video che aveva fatto in vacanza.

«Bellerofonte» disse Tikki.

Marinette inarcò un sopracciglio. «Come dici?»

Tikki indicò la busta che Sabine aveva posizionato sulla scrivania. Al centro era scritto l’indirizzo e il destinatario, in alto a destra c’era un disegno raffigurante un uomo di bell’aspetto con elmo e lancia in sella ad un cavallo alato. «Bellerofonte, l’eroe che sconfisse il mostro mitologico Chimera.»

Marinette ebbe un tuffo al cuore. «Non può essere.»

Tikki aggrottò la fronte, le antennine sulla sua testa vibrarono. «In che senso?»

«Quello...» Marinette indicò la busta. «Quello è lo stemma dell’Accademia di Moda di Milano. Una delle più prestigiose scuole per giovani talenti.» Ricordò il giorno della sfilata di un anno prima: Adrien Agreste aveva attraversato la passerella indossando un completo nero e il cappello che lei aveva disegnato per un concorso scolastico. Tutti erano rimasti estasiati dalla sua creazione, persino Audrey Bourgeois, famosa per essere un’esteta della moda incontentabile, volubile e altezzosa. Al termine della sfilata, sospesa per qualche ora a causa di un attacco akuma, un rappresentante dell’Accademia le aveva rivolto numerosi complimenti per l’accessorio da lei disegnato e confezionato, affermando che il suo operato sarebbe stato analizzato da esperti del settore.

«Beh, aprila» la incoraggiò Tikki.

Marinette deglutì. Non riusciva a spiegarsi il motivo per cui aveva tanta paura di leggere il contenuto di quella lettera.

Tikki socchiuse gli occhi. «D’accordo, lo farò io.»

«No!» Marinette scattò in avanti ed afferrò la busta. La tenne tra le mani, tendendone i bordi.

«Così la strapperai.» Tikki incrociò le zampette in petto. «Su, Marinette, non farti pregare. Non sei curiosa di quello che ti hanno scritto?»

Marinette si convinse: strappò uno dei bordi della busta ed estrasse la lettera. Ne lesse il contenuto una, due, tre volte. Non poteva crederci. Si gettò sullo schienale della sedia, le ruote traballarono sotto di lei. Prese a fissare un punto imprecisato sulla parete.

«Cosa c’è scritto?» chiese Tikki con tono preoccupato.

«Non è possibile.» Marinette scosse la testa. «Devono aver sbagliato persona. Ci dev’essere un’altra Marinette Dupain-Cheng a Parigi e lei doveva essere la destinataria di questa lettera.»

Tikki roteò gli occhi al cielo. «Di tutte le storie che ti sei inventata da quando ti conosco, questa le supera tutte.»

Marinette rilesse la lettera.

«Posso sapere cosa c’è scritto?» insistette Tikki, stavolta con voce più dura.

«Mi offrono una borsa di studio.»

«Ma è fantastico!»

«…A Milano.»

«Oh...» L’entusiasmo di Tikki si smorzò di colpo.

«A Settembre inizierà un corso, della durata di tre anni, nel quale introdurranno giovani promettenti provenienti da tutta Europa al mondo della moda.» Marinette giunse le mani in petto, accartocciando un lembo della lettera. «La borsa studio coprirà il costo di un eventuale trasferimento e l’iscrizione alla scuola convenzionata.»

«Direi che è un’occasione irripetibile.»

Marinette cercò di analizzare le espressioni di Tikki. Andare a Milano avrebbe significato abbandonare i suoi amici, la scuola e soprattutto il ruolo di Ladybug e Guardiana dei Miraculous. Già una volta aveva detto no ad una proposta simile, quando Audrey Bourgeois le aveva offerto di seguirla a New York ed introdurla nel mondo della moda che contava. «Non posso accettare. Dovrei–»

«So cosa stai pensando» la interruppe Tikki. «Stavolta è diverso da un anno fa. Non sarai costretta a rinunciare ai tuoi compiti di Ladybug e di Guardiana.» Svolazzò nel baule, attraversando magicamente la parete. Riapparve accompagnata da Kalkk e con un paio di occhialini neri tra le zampette.

«Il Miraculous del Cavallo?»

«Tikki, potevi evitare di svegliarmi durante il mio pisolino quotidiano.» Kalkk sbadigliò.

Il Kwami rosso lo ignorò. «Sarà più faticoso e non dico che sarà facile, perché non lo sarà. Ma è fattibile. In vacanza hai pensato che fosse la soluzione migliore.»

Marinette era titubante. «Si trattava solo di un paio di settimane. Qui si parla di tre anni.»

Tikki riconsegnò gli occhialini a Kalkk, il quale borbottò qualcosa e ritornò nella Miracle Box. «La scelta spetta a te Marinette. Sappi che ti aiuterò in qualunque modo possibile.»

Marinette sorrise. Le parole non sarebbero bastate ad esprimere la gratitudine che provava nei confronti di Tikki, sempre pronta a sostenerla ed aiutarla. In effetti, il suo discorso aveva valide motivazioni: Milano condivideva lo stesso fuso orario di Parigi, il Miraculous del Cavallo azzerava ogni difficoltà dovute alla distanza e l’arrivo di un akumizzato veniva segnalato con precisione svizzera dai servizi di Nadja Chamack. Ma come avrebbe fatto con i genitori e con gli amici? «Devo parlarne con mamma e papà.»

 

Mentre scendeva le scale, aveva ancora un leggero tremolio alle gambe: si sentiva combattuta tra l’emozione di una così grande occasione per il futuro ed il peso di una decisione che avrebbe stravolto la sua vita adolescenziale.

 

Trovò Sabine seduta a gambe incrociate sul divano, in sottofondo una leggera musica da meditazione echeggiava dallo stereo. Il grammofono faceva una bella figura sul piano più alto della mensola dove trovavano posto soprammobili pregiati della famiglia Cheng, la bomboniera del matrimonio, libri di antiche leggende cinesi e libri di ricette scritti da famosi pasticcieri di diverse etnie.

Marinette si schiarì la voce per annunciare la sua presenza.

Sabine non mutò la sua espressione rilassata, né aprì gli occhi. «Dimmi tesoro.»

«Ho bisogno di dirvi una cosa importante» disse Marinette con voce tremula.

«È successo qualcosa di grave?» Sabine spense con il telecomando lo stereo. Indicò la lettera. «Riguarda quella?»

«Nulla di grave. È una cosa… Bella, sì bella.» Marinette indicò con la testa la porta. «Chiamo papà. Vorrei che ci fosse anche lui.»

Quando anche Tom raggiunse il soggiorno e si sedette sul divano accanto alla moglie, Marinette spiegò: «È dell’Accademia di Moda di Milano.» Fece una pausa. «Mi hanno offerto di frequentare lì un corso triennale in Design della Moda, in modo da poter accrescere le mie competenze nel campo con studi e pratica. Alla fine verrà assegnata una borsa di studio per gli studenti più meritevoli. Il corso è destinato a ragazzi della mia età, quindi sarà inserito insieme alle normali lezioni scolastiche.»

«È fantastico!» esclamò Tom.

Sabine, invece, mantenne un entusiasmo moderato. «L’hanno mandata di loro spontanea volontà?»

«Dopo la sfilata in cui Adrien indossò il cappello che avevo confezionato, un rappresentante dell’Accademia mi disse che era entusiasta della mia creazione. Deve essere stato quello a spingerli a contattarmi.»

«Però tu non sai se accettare.» Sabine aveva già intuito cosa impediva a Marinette di essere entusiasta. «Tre anni in un’altra città, lontana dai tuoi amici, lontana anche da noi...»

«La andremo a trovare in ogni occasione possibile» intervenne Tom. «E per gli amici, al giorno d’oggi ci sono migliaia di tecnologie che ti consentono di tenerti in contatto a tutte le ore.»

Marinette sbuffò e si lasciò andare sul divano, seduta in mezzo ai suoi genitori. «Non so che fare. Dovrò stravolgere del tutto la mia vita.»

Sabine le passò un braccio intorno alla vita, Tom le cinse entrambe in un abbraccio. «La decisione spetta a te, Marinette» disse la madre. «Fare la stilista è sempre stato il tuo sogno e questa è un’occasione fantastica. Ma se decidessi di restare qui, noi ti sosterremmo comunque. Sempre.» Le scoccò un bacio sulla fronte.

Marinette si lasciò cullare dall’abbraccio affettuoso dei suoi genitori. Si aspettava una reazione più cauta da parte loro, più conservativa. Invece, la stavano incoraggiando ad accettare la proposta, perché il suo sogno potesse avverarsi. E suo padre aveva ragione: gli amici, seppur lontani, sarebbero stati sempre al suo fianco. E non sarebbero di certo mancate le occasioni per rivederli, magari durante le feste. Anche Tikki l’aveva incoraggiata, e lei era stata la prima ad opporsi quando la proposta era arrivata da Audrey Bourgeois.

«Mi avete convinto.» Marinette si alzò levando in aria i pugni. «Accetterò la proposta.» A quelle parole seguì un gesto d’esultanza di Tom e un timido applauso da parte di Sabine.

«Quando inizia il corso?» chiese la madre.

«A settembre.»

«Ottimo. Abbiamo il tempo per organizzarci.» Tom andò a prendere il telefono. «Mia madre si è stabilita a Milano dopo il suo ultimo viaggio. Sarà entusiasta di ospitarti.»

Il cuore di Marinette volava per l’entusiasmo. Le preoccupazioni che la attanagliavano si erano volatilizzate. «Vado a dirlo ad Alya.» E corse su per le scale.

 

Quando rientrò nella cameretta, Tikki la accolse raggiante in volto. «Era da tempo che volevo tornare in Italia.»

Marinette prese lo smartphone e scorse i contatti della rubrica alla ricerca del numero di Alya. «Hai avuto una portatrice italiana?»

Tikki annuì. «Era una ragazza siciliana di nome Laura. Sai che sposò un principe? Ebbero due gemelli.»

«A volte invidio le tue avventure passate.» Marinette premette sull’immagine di Alya ed avviò chiamata. Attese pochi istanti prima che la sua amica rispondesse. «Alya? Ho una grande notizia da darti.»

«Anch’io, Marinette.»

Quel tono cupo la fece preoccupare. Non l’aveva mai sentito provenire da Alya, una delle poche persone che conosceva che non si faceva mai abbattere dagli avvenimenti ma, anzi, li affrontava a testa alta. Che sapesse già del trasferimento? Impossibile, l’aveva appena deciso. «Cos’è successo?»

Alya sospirò. «Si tratta di Adrien.»

Marinette si irrigidì. «Gli è accaduto qualcosa di grave?» chiese con voce incerta.

«Suo padre era in trasferta in Cina e ha avuto un incidente. Non conosco i dettagli, ma la cosa è piuttosto seria. Adrien era già in volo quando ha chiamato Nino.»

Marinette si coprì la bocca con la mano. «Oh Dio.»

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


4


 

La terra tremava sotto i suoi piedi.

I palazzi collassavano su sé stessi sprofondando nel terreno, lunghi squarci profondi si aprivano per le strade. Le auto svanivano in quella spaventosa massa oscura.

Tutta Parigi stava sparendo, inghiottita nell’oblio. E lui non poteva far nulla.

In fondo alla strada, solo villa Agreste era intatta, quasi fosse protetta da una bolla invisibile. Sul tetto, Ladybug stava lì, ferma, senza che un’emozione le passasse sul volto.

«Ladybug!» Lui la chiamò felice, avvertendo di nuovo la speranza bruciargli dentro. Ma lei non gli rispose, non lo degnò nemmeno di uno sguardo. «Ladybug!» ripeté, urlando più forte.

Nessuna risposta.

Iniziò a correre su quello che rimaneva della strada. Una scossa lo fece sobbalzare, costringendolo a fermarsi per evitare di cadere. Riprese a correre, sempre più forte, sempre più veloce. Sollevò una mano per farsi notare da lei. Più correva, più villa Agreste si allontanava. Tentò di chiamarla ancora, e ancora, invano.

Alle spalle di Ladybug comparve una figura tetra, ammantata di oscurità.

“Attenta, voltati!” avrebbe voluto dire, ma dalla bocca gli uscì solo un flebile sussurro.

La figura oscura prese forma e si rivelò essere Papillon. Un mantello nero avvolgeva il suo corpo, sotto la maschera grigia sfoggiava un ghigno malefico. Quegli occhi rossi, maligni, si posarono su di lui. Dal mantello sbucò un fioretto, la lama luccicò al sole.

Lui urlò, ma fu tutto inutile.

Papillon affondò il fioretto nel fianco di Ladybug e la spinse giù. Lei non emise alcun suono, era come se fosse una bambola inanimata. Il corpo scomparve in una nube color porpora.

«Aiutami, Plagg» mormorò lui, piangendo. «Ti prego.»

Papillon si chinò sulle ginocchia e infilò una mano che trapassò il soffitto della villa. Quando la estrasse, stringeva per la gola Gabriel Agreste.

Nel giardino si ammassò un manipolo di persone: Nathalie, Nino, Marinette, Alya, Chloè, il Gorilla… I suoi amici. Guardavano in alto, mentre quel folle oscillava il braccio come se Gabriel fosse un trofeo di caccia. Scoppiò a ridere e gettò giù anche lui.

«No!»

Ci fu un’altra scossa, seguita da un boato. La villa, i suoi amici, Papillon, Gabriel furono tutti inghiottiti nell’oscurità.

La terra smise di tremare e di Parigi restavano solo cumuli di macerie, strade dissestate e nessun anima viva.

“Sei rimasto solo” sussurrò una vocina nella sua testa. Lui si coprì le tempie con le mani. “Solo, solo” ripeté la vocina. “Sarai sempre solo.”

 

In volo sull’Asia, 2015

«No!»

Adrien Agreste si svegliò di soprassalto. Aveva il fiato corto, la fronte madida di sudore, il cuore gli batteva all’impazzata in gola.

Il Gorilla si precipitò al suo fianco, con occhi strabuzzanti, terrorizzato da quell’urlo.

«È stato solo un brutto sogno.» Adrien si passò una mano sulla fronte e tranquillizzò la guardia del corpo, il quale, seppur ancora scosso, si andò a risedere sul lato opposto del corridoio. «Solo un brutto sogno» sussurrò Adrien. «Solo un brutto sogno.»

Sprofondò sul sedile e guardò il panorama fuori all’oblò. Stavano sorvolando le terre orientali: il paesaggio alternava deserti, tundre, catene montuose, pianure verdeggianti e città industrializzate. L’orologio segnava le 18:00, secondo il fuso orario di Parigi. Erano in volo da quattro ore, dunque ne mancavano almeno altre quattro prima di giungere a destinazione.

Nathalie aveva organizzato quel volo a tempo di record, noleggiando un jet di una compagnia privata; doveva essere costato fior di quattrini, ma per Adrien questo era un pensiero effimero. L’unica cosa che contava era suo padre e le sue condizioni di salute. Nathalie era stata avara di informazioni, limitandosi ad accennare ad un incidente in montagna. «Le condizioni sono stabili» aveva detto a telefono. «Lo tengono sotto osservazione. È fuori pericolo, comunque.»

Nonostante gli avesse consigliato di restare tranquillo a Parigi e gli avesse assicurato che lo avrebbe chiamato ogni due ore, Adrien non aveva voluto sentire ragioni ed aveva preteso di volare a Chengdu e stare vicino a suo padre. Aveva agito d’impulso e si era aspettato anche una dura reazione; invece, Nathalie aveva accettato subito con tono accondiscendente. Anche lei doveva essere parecchio scossa da quanto accaduto.

Adrien versò l’acqua in un bicchiere e lasciò che gli rinfrescasse la gola che ancora gli bruciava. «Mi porteresti il cambio che ho preparato?» disse al Gorilla. La camicia bianca stava diventando parte della sua pelle; Gabriel avrebbe commentato con un «Inaccettabile» accompagnato dal suo cipiglio più severo. Un Agreste doveva essere sempre impeccabile nell’aspetto quanto nel portamento.

Il gorilla scomparve dietro un telo che separava due ambienti nel jet. Tornò reggendo una t-shirt bianca, griffata Agreste, e dei jeans azzurri. Li porse ad Adrien e tornò a sedersi in fondo.

Adrien fu lesto nel cambiarsi e trovò sollievo nei suoi abiti puliti e più leggeri.

Ripensando al sogno, sperò che Ladybug non avesse bisogno di lui nel tempo in cui sarebbe stato via. Partire di punto in bianco, senza lasciarle nemmeno un messaggio era imperdonabile, ma era successo tutto talmente in fretta che a stento aveva preparato una borsa dove mettere qualche ricambio. Non sapeva nemmeno quanti giorni sarebbe rimasto in Cina.

Nel resto del viaggio, si toccò di continuo l’anulare destro nel punto in cui la pelle era più chiara. Gli sembrava strano non trovare l’anello, il suo Miraculous. Quando il jet era decollato, Plagg aveva scoperto di odiare di volare, rischiando anche di farsi scoprire dal Gorilla e dallo stewart di bordo a causa degli incessanti lamenti, che Adrien aveva coperto con finti accessi di tosse. Curioso per un Kwami, abituato a svolazzare in lungo e in largo – specialmente Plagg che andava in giro a scorrazzare alla ricerca di cibo, come se patisse la fame. Adrien quindi si era tolto l’anello e l’aveva riposto nella borsa a tracolla che era solito portare con sé.

Non avendo nessuno con cui parlare – il gorilla si era appena addormentato e comunque non si mostrava propenso a chiacchierare – prese il suo iPod ed avviò la playlist “Viaggi lunghi”. Cullato dalla melodia di Mad World, si addormentò di nuovo.

 

Ai piedi della scaletta per scendere l’aereo, li attendeva una Mercedes Classe A nera. Un cinese alto e magro, con indosso una camicia bianca a mezze maniche era poggiato a braccia conserte accanto al cofano. Quando vide Adrien e il Gorilla scattò in avanti ed aprì la portiera posteriore.

Adrien si sentiva soffocare: l’aria era ancora più pesante rispetto a Parigi, l’umidità penetrava fin dentro le ossa. Come aveva fatto suo padre a rischiare di morire assiderato? E, soprattutto, cosa ci faceva Gabriel Agreste lì? Domande alle quali sperò che Nathalie potesse dare risposta.

Il Gorilla, toltosi la giacca con un gesto d’impeto furioso e rimasto in maniche di camicia, lasciò che Adrien entrasse per primo nell’automobile. L’aria condizionata all’interno dell’abitacolo fu un dolce sollievo.

Attraversarono il centro abitato di Chengdu: grattacieli e condomini si alternavano con giardini pubblici e quartieri commerciali. A tratti sembrava una città futuristica. Adrien la conosceva poiché, poco fuori dalla città si estendeva il Chengdu Panda Base, la riserva naturale nonché centro di ricerche sul panda gigante. In un’altra circostanza sarebbe stato entusiasta di visitare quella città. Ma adesso la priorità era suo padre.

La Mercedes attraversò l’ingresso per i visitatori dell’ospedale.

Nathalie sostava davanti alle scale che portavano all’interno della struttura. Aveva un aspetto lontano anni luce dal solito. Gli occhi blu erano spenti, arrossati e gonfi. I capelli neri come il carbone le accarezzavano le spalle ma erano arruffati, tanto da coprire la ciocca rosa sulla frangia. La camicetta nera era sgualcita. Ai piedi indossava stivali da trekking. Di sicuro non dormiva da ore.

Adrien balzò fuori dall’auto e corse fra le sue braccia. «Come sta? Voglio sapere tutto.»

Nathalie gli accarezzò la chioma bionda. «Poche ore fa ha ripreso conoscenza per qualche minuto, ha blaterato un paio di parole e si è riaddormentato.»

«È un buon segno, vero?» La voce di Adrien era carica di speranza.

Nathalie annuì e lui sentì alleggerirsi il cuore.

Scortati dal gorilla, raggiunsero il piano della camera dove riposava Gabriel.

Nathalie presentò il dottore che aveva condotto l’operazione di soccorso, un cinese dall’aspetto altero e professionale. «Adrien, lui è il dottor Jing Hu.» Si rivolse poi al dottore in lingua cinese.

Adrien capì che lo stava presentando – le lezioni di cinese che il padre insisteva a fargli frequentare finalmente servirono a qualcosa – e dunque gli diede la mano. «Cos’è successo?»

«Tuo padre ha avuto un incidente durante un’escursione in montagna. Ha battuto la testa su una roccia ed abbiamo impiegato del tempo prima di ritrovarlo; tempo durante il quale ha rischiato l’assideramento. Purtroppo la botta in testa gli ha provocato un’amnesia parziale.»

Adrien spalancò gli occhi. «Permanente?»

«È presto per dirlo.» Nathalie tirò su col naso e si strinse nelle spalle. «È importante andare cauti con i suoi ricordi. Un input eccessivo di informazioni gli causerebbe uno shock.»

«Quanto ricorda?»

«Sa di chiamarsi Gabriel Agreste, di vivere a Parigi e di gestire un’azienda di moda.» Nathalie gli accarezzò una guancia. «Di te si ricorda.»

«E questo mi basta, il resto è secondario.» Adrien provò a formulare una domanda in cinese a Jing Hu: «È possibile vederlo?»

«Solo per qualche minuto» aggiunse Nathalie.

Il dottore mandò un severo sguardo ammonitore verso Adrien. A dispetto delle aspettative annuì ed alzò tre dita verso il ragazzo.

Tre minuti.

Adrien afferrò la maniglia. Esitò. «Cosa gli dico?»

Nathalie gli strinse una mano sulla spalla. «Lascia che sia il tuo cuore a parlare.»

Adrien aprì la porta ed entrò. La camera era pregna di un forte odore di alcool disinfettante. Gabriel riposava nel letto che occupava gran parte dell’ambiente. Il tubicino della flebo spariva sotto alla coperta bianca dal lato destro, il braccio sinistro era tenuto fermo al busto tramite un laccio intorno al collo. Il silenzio era rotto dal bip del monitor cardiaco e dal leggero rantolio del respiro di Gabriel.

«Papà?» sussurrò Adrien per svegliarlo.

Gabriel mugugnò e sollevò le palpebre. La testa era fasciata, lasciando libero solo un piccolo ciuffo di capelli biondo platino. Girò la testa. Aveva il volto pallido, in contrasto con le labbra viola scuro. «Adrien.» Strizzò gli occhi. Non indossando gli occhiali aveva bisogno di qualche secondo per mettere a fuoco la figura.

«Sono io, papà.» Adrien si avvicinò al letto, le gambe gli tremavano. «Come ti senti?»

«Stanco» sussurrò Gabriel. Provò ad allargare un braccio ma la fasciatura glielo impedì. «Mi piacerebbe abbracciarti, figliolo, ma non posso.»

Adrien gli coprì una mano con la sua. «Presto potrai farlo. Presto uscirai da qui. Il peggio è passato.»

«Mi hanno detto che ho avuto un incidente.» Scosse la testa. «Io non lo ricordo. Se ci provo, sento la testa esplodermi.»

«Hai preso una brutta botta, ma ti riprenderai. Hai la testa dura.»

Gabriel ridacchiò e Adrien ebbe un tuffo al cuore. Da quanto non lo vedeva ridere in quel modo?

«Noi Agreste siamo famosi per la nostra testa dura.» Gabriel guardò oltre la spalla di Adrien in direzione della porta. «Dov’è Emilie?»

Adrien si irrigidì. Non ricordava della morte della mamma. «Lei è...» Cosa gli avrebbe dovuto dire? La verità sarebbe stata devastante nelle sue condizioni. Si costrinse a mentire. «Lei è rimasta a Parigi.»

«Come mai?»

Adrien mandò giù un groppo in gola. «Non ricordi? Ha preso un brutto raffreddore e il dottore le ha proibito di fare un viaggio tanto lungo.» Volse altrove lo sguardo per evitare di incrociare quello del padre. E se Nathalie gli avesse già parlato e gli avesse dato una versione del tutto diversa? «Tu volevi rimandare il viaggio, ma lei ha insistito perché tu partissi.» Increspò le labbra in un sorriso tirato.

Gabriel si incupì. «Accidenti. Non ricordo proprio. Beh… Se è così avrei dovuto seguire il mio istinto e rimandare il viaggio. Almeno mi sarei evitato tutto questo.» Rise di nuovo, stavolta con una punta di amarezza.

Adrien tirò un sospiro di sollievo. Il padre aveva riacquistato un leggero vigore nello sguardo. «Appena starai meglio», disse alzando il tono della voce, «torneremo a Parigi e ci butteremo questa storia alle spalle.»

«Vorrei fare un altro viaggio in realtà.»

«Tu, io, Nathalie e il Gorilla?»

«Ed Emilie, ovviamente.»

Adrien trattenne il respiro. «Sì, anche lei.»

Tre colpi alla porta lo tolsero da quell’imbarazzante situazione. Era il dottore, seguito da Nathalie. Il tempo a loro disposizione era finito.

«Ora devo andare» Adrien batté due volte la mano su quella Gabriel. «Tornerò presto.»

 

Usciti dalla stanza, Adrien prese da parte Nathalie. «Crede che la mamma sia ancora viva.»

«Questo può essere un problema. Tu cosa gli hai detto?»

«Ho mentito.» Adrien fece un gesto di stizza. «Ho raccontato che lei è rimasta a Parigi perché raffreddata e non ha potuto prendere l’aereo insieme a lui.»

«Prima o poi dovrà sapere la verità. Non possiamo tenergliela nascosta per sempre.»

«Lo so!»

Il Gorilla andò subito sull’attenti sentendo quell’urlo.

Adrien gli fece segno che andava tutto bene. «Cosa posso fare ora?»

«Tu ora vai in albergo e lasci che ci pensi io. Io...» Nathalie barcollò all’indietro, tenendosi le tempie. «Io...»

Adrien l’afferrò per tempo prima che potesse cadere a terra. «Nathalie!»

Ma lei era svenuta.

 

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


5


 

Si era trattato di un collasso dovuto allo stress e alla stanchezza. Un paio di infermieri avevano soccorso Nathalie e l’avevano fatta stendere su un lettino in una stanza.

Adrien le era stato accanto tutto il tempo, preoccupato da quell’improvviso malessere. Gli era balenato nella testa il momento in cui aveva accusato il medesimo malore mesi prima al Louvre; in quell’occasione, il padre aveva minimizzato la cosa ma Adrien era tutt’altro che tranquillo. Anche la madre, prima di venire a mancare, aveva accusato gli stessi sintomi e lui temeva che la storia potesse ripetersi con Nathalie.

La flebo di sali minerali sortì l’effetto sperato dal dottor Hu e Nathalie si ristabilì nel giro di un’ora. Adrien insistette perché restasse a riposare lì per la notte, ma Nathalie non volle sentir ragioni. Firmato il modulo per le dimissioni dall’ospedale, si infilarono nell’automobile che aveva accompagnato Adrien e il Gorilla dall’aeroporto. Durante il tragitto, Nathalie si addormentò sotto lo sguardo vigile di Adrien, il quale fu sollevato che fosse riuscita a riposarsi.

L’hotel si trovava nel quartiere più lussuoso di Chengdu. Anche in quell’occasione Nathalie non aveva lesinato sulle spese, optando per avere il meglio nel tempo che avrebbero trascorso in Cina. Il personale dell’hotel offrì la totale disponibilità per qualsiasi richiesta, così Adrien ne approfittò per richiedere un pasto in camera che comprendesse un’abbondante porzione di formaggio di prima qualità. Stanca com’era, Nathalie non fece nemmeno caso alla richiesta bizzarra di Adrien, né fece cenni alla dieta rigida che il ragazzo doveva seguire affinché mantenesse una linea perfetta per il suo ruolo da modello.

La stanza di Adrien era dotata di tutti i comfort possibili. Comunicava con quella in cui avrebbe alloggiato Nathalie ed era sullo stesso piano di quella del Gorilla. Adrien sperò di restare lì il meno possibile, non tanto per il posto in sé quanto perché avrebbe significato che il padre si fosse rimesso del tutto.

Quando Nathalie lo lasciò solo per stendersi sul letto e recuperare le ore di sonno perse, era già sera. La città, se possibile, era più illuminata di notte che di giorno.

Adrien si accomodò su una poltrona color bordeaux, in mano aveva la scatolina con il Miraculous. La aprì.

Da un bagliore verde si manifestò Plagg, che salutò il suo amico con un lungo e rumoroso sbadiglio. «Hai qualcosa da darmi da mangiare? Sto morendo di fame.»

Adrien si portò un indice sulle labbra. «Parla piano. Nathalie sta dormendo nell’altra camera.»

«Sì, ma io ho fame.»

Adrien indicò il tavolino con la cena che aveva ordinato. C’era un piatto con una ruota composta da fettine di formaggio.

Plagg arricciò il muso. «Roquefort. Non è delizioso quanto il mio Camembert, ma andrà bene lo stesso.»

«Fattelo bastare per...»

Plagg l’aveva già divorato tutto in un solo boccone. «Niente male come spuntino.» Si massaggiò lo stomaco mentre si leccava i lunghi baffi neri con espressione soddisfatta.

«Sai che non ne ordinerò altro, almeno fino a domattina vero?» Adrien incrociò le braccia al petto, inarcando un sopracciglio. «Sei il solito ingordo.»

«Come sta tuo padre?» chiese Plagg, ignorando il rimprovero velato.

«Stabile.» Adrien ripensò a quanto aveva detto sulla madre, alla menzogna che era stato costretto a dire per evitare uno shock al padre. «Ha perso la memoria.»

Per la prima volta da quando si erano conosciuti, Plagg spalancò gli occhi con sincera sorpresa. «Di te si ricorda?»

Adrien annuì e gli raccontò nei minimi dettagli il breve dialogo che aveva avuto con Gabriel. Mentre parlava, gli occhi si velarono di lacrime, ma si costrinse a non piangere. Se anche Nathalie era crollata sotto forte sollecitazione emotiva, toccava a lui reggere il peso degli eventi. Si leccò il labbro superiore e disse: «Spero tanto che non torni ad essere un’ombra quando saprà della mamma. Il dolore della perdita è stato devastante la prima volta.» Si alzò dalla poltrona e camminò fino alla finestra a parete da cui si dominava l’intero quartiere turistico di Chengdu. «Chissà come starà» mormorò con la testa poggiata al vetro.

«Hai detto che stava bene quando l’hai salutato. Bene per quello che ha passato.»

«Io mi riferivo a Ladybug.» Adrien sollevò lo sguardo verso il cielo coperto da nubi purpuree. «Se dovesse avere bisogno di aiuto-»

«Chiamerà qualche alleato e risolveranno in fretta la situazione.» Lo sbuffo di Plagg risuonò per la stanza. «Ti fai troppi problemi, Adrien. Una pausa di tanto in tanto fa anche bene. E Papillon non si fa vedere da tre mesi a questa parte. Le possibilità che attacchi proprio ora che non ci sei sono molto basse.»

Ciò non fu di conforto ad Adrien. Prendeva molto sul serio il compito di proteggere Parigi dagli attacchi delle akuma, ma le sue parole celavano ciò che realmente sentiva. Gli mancava Ladybug. Lei di sicuro avrebbe trovato le parole adatte per sostenerlo in quel momento difficile, gli avrebbe offerto la sua spalla come aveva sempre fatto. Anche la sola presenza avrebbe fatto la differenza per lui.

«Hai ragione» disse infine. Se gli avesse detto la verità, Plagg di sicuro gli avrebbe ricordato i suoi doveri, i continui rifiuti di Ladybug e l’impossibilità di conoscere la sua vera identità. Tutto ciò di cui poteva fare benissimo a meno.

 

____________________________________________________________________________________

 

Parigi, 2015

La sveglia suonò alle 7 del mattino. Marinette era già sveglia da un’ora, intenta a preparare con cura le valigie. Da tempo non avvertiva un’energia simile, l’entusiasmo di immergersi in una nuova avventura, in una nuova esperienza. Aveva contato i giorni che mancavano alla partenza e si era preparata due lunghe liste: una per le cose che doveva fare, l’altra per ciò che doveva portare.

Man mano che infilava gli oggetti nella valigia, spuntava la voce dalla lista. «Tablet… Messo. Diari… Messi. Quaderni da disegno…» Li trovò sulla scrivania e li gettò nella valigia aperta. «Messi.»

«Non dimenticare questo.» Tikki le lanciò un dizionario francese-italiano. «Credo lo userai spesso.»

Marinette lo afferrò al volo. «Grazie.» Spuntò dalla lista il dizionario. La ripercorse due volte in entrambi i sensi ed annuì soddisfatta. Chiuse la valigia ed appose un lucchetto dorato sulla cerniera. «Meglio essere prudenti. Lo zaino, invece», lo indicò, «Lo porterò sempre con me.» Come aveva fatto quando era partita per Montecarlo insieme ai genitori per le vacanze estive, aveva riposto lì la Miracle Box, stavolta ben chiusa nella scatola metallica. Nemmeno per un secondo lo avrebbe lasciato incustodito. «Ora è il momento di prepararmi.»

Dopo essersi lavata, pettinata e vestita – con un jeans e una t-shirt azzurra – spostò in un unico angolo le due valigie e lo zaino.

Si udirono due tocchi alla botola. Sabine fece capolino. «Quanto ti manca Marinette?»

«Sono pronta.» Marinette infilò le due fibbie dello zaino.

Tom si occupò di portare giù le due valigie della figlia ed il trolley di Sabine. Lei avrebbe soggiornato per il week-end a Milano, mentre lui sarebbe rimasto a Parigi a gestire la boulangerie.

Caricarono i bagagli nel taxi che li attendeva in strada.

«Chiamatemi appena arrivate.» Tom si strofinò un occhio, la voce tradiva la sua emozione. «Scusatemi, dev’essere un granello di polvere.»

«Ti chiamerò a tutte le ore, papà.» Marinette gli gettò le braccia al collo. Tom la chiuse in un abbraccio, rischiando a tratti di soffocarla. «Grazie» gli sussurrò all’orecchio.

«Baderò io alla mia Marinetta.» Nonna Gina diede una sonora pacca sulla spalla del figlio.

I coniugi Dupain-Cheng si salutarono con un bacio a fior di labbra.

Le tre donne salirono nel taxi e partirono per la Gare de Lyon.

 

Il cuore di Marinette accelerava ad ogni passo sul pavimento bianco della stazione. Il sogno di diventare una stilista di successo conosciuta in tutto il mondo iniziava lì, in quel momento.

Salirono sulle scale mobili che conduceva ai binari, la voce negli altoparlanti annunciò la partenza del treno per Milano, il rapidissimo StarTrain, entro quindici minuti.

Marinette trattenne il respiro quando giunse sulla banchina. Tutti i suoi amici erano lì per lei, per salutarla ed augurarle il meglio per il futuro.

«Va pure, Marinette.» Sabine si offrì di portare le due valigie e lo zaino. «Noi ti precediamo sul treno.»

Marinette prese a correre e li abbracciò uno ad uno. Lacrime di gioia le caddero sulle guance, quando ognuno di loro sfoggiò la maglietta con una lettera disegnata sopra con la vernice spray: formavano la frase We love Marinette.

Alya Cesaire si staccò a fatica dall’abbraccio con la sua migliore amica.

«Grazie, ragazzi.» La voce di Marinette era rotta dalla commozione. «Siete meravigliosi.»

Dal gruppo si alzò un applauso, seguito da un coro di sostegno.

«Salutatemi Adrien.» Non poté evitare la punta di delusione notando l’assenza del ragazzo. «Spero che suo padre si rimetta in fretta. Oh, e salutatemi anche Katami.» Immaginò che sua madre le avesse impedito di andare alla stazione per salutarla.

«Devo salutarti anche Lila?» Alya sollevò le sopracciglia e si sistemò gli occhiali sul naso.

Marinette fece una smorfia. «Spero di non rivederla mai più.»

Alya scosse la testa. «Non puoi avercela a vita con lei solo perché le piace Adrien. O starai col pensiero fisso che ora avrà campo libero?»

«Mi ha quasi fatta espellere.»

«Sai bene che lei soffre-»

«Basta, Alya» disse Marinette risoluta. «Non è mio desiderio parlare di quella vipera il giorno in cui sto per partire.»

Alya fece un passo indietro con le mani tese in avanti.

«Cancellerò la sua immagine dalla testa. Prima o poi le sue bugie, tiri mancini e manipolazioni le si ritorceranno contro.»

«Del tipo Non farla contro vento.» Kim sollevò indice e mento con fierezza. Si girò verso i compagni che lo osservavano con espressioni perplesse. «Che c’è? Lo dice spesso mio padre dei suoi colleghi.»

«Complimenti per l’eleganza, Kim.» Alix mise le mani sui fianchi.

«Dovrai fare solo pensieri felici.»

Marinette si voltò.

Luka Couffaine le passò un bracciò sulla spalla e la attirò a sé. «Stai per scalare la montagna che ti condurrà al tuo grande sogno. Non serve pensare alle persone che vogliono il tuo male.» La sua voce emanava grande serenità.

Le guance di Marinette si colorarono di un rosa acceso. «Grazie, Luka. So che posso contare sempre su di te.» Si alzò sulle punte e gli scoccò un bacio sulla guancia.

Il capotreno fischiò dal fondo della banchina. Il treno stava per partire.

Marinette salì i due scalini e si voltò un’ultima volta verso i suoi amici. La porta scorrevole si chiuse. Tutti i ragazzi gridarono un saluto e Marinette ricambiò agitando la mano. Anche stavolta non riuscì a trattenere le lacrime.

Quando scomparvero dalla visuale, si avviò ai posti. Si sedette accanto alla madre.

«Bel ragazzo.» Nonna Gina sedeva di fronte a loro. «È il tuo fidanzato, Marinetta?»

Marinette ebbe un sussulto ed avvampò. «Co… Come? Chi?»

«Quel bel giovane con capelli ed occhi azzurri ed il look da rockettaro. Come si chiama?»

«Luka» intervenne Sabine.

Marinette si sventolò il volto con una mano. L’aria condizionata era accesa, perché sentiva così caldo? «È… È solo un amico.» Si schiarì la voce. «Un grande amico.»

«Il ragazzo che fa battere forte il cuore di Marinette è un altro» disse Sabine.

«Mamma!»

«Oh, e chi è?» Nonna Gina si sporse in avanti e si levò gli occhiali da sole. «Lo conosco?»

«Credo proprio di sì» rispose Sabine. «Adrien Agreste.»

«Quello che fa la pubblicità a quel profumo per giovani?» Nonna Gina si passò una mano tra i capelli color perla con soddisfazione. «Mi pare ti abbia regalato un braccialetto al tuo compleanno, vero Marinetta?»

Marinette incassò la testa nelle spalle.

«Hai ottimi gusti in fatto di ragazzi. Approvo in pieno» concluse Nonna Gina.

Marinette si chiese se fosse possibile che il sedile la fagocitasse in quel momento o che lei fosse sbalzata all’istante fuori dal finestrino.

Il treno lasciò la stazione e prese velocità. Sembrava volasse sui binari.

«Non mi sembra di averlo visto tra i tuoi amici» insistette Gina.

Sabine sospirò. «Purtroppo il padre ha avuto un brutto incidente ed è dovuto volare in Cina. È lì da due settimane ormai.»

Il volto di Gina si incupì. «Mi dispiace. Dev’essere stato un colpo per lui. So che non ha la madre.» Passò qualche minuto di silenzio. «Immagino gli avrai rivelato i tuoi sentimenti.»

Marinette si arrese. La nonna sapeva essere peggio di un mastino quando voleva. «No, non l’ho mai fatto. Non ho mai trovato il coraggio.» Scrollò le spalle con amarezza. «In fondo credo sia meglio così. Avrei ricevuto senz’altro un rifiuto.»

«Perché dici così, Marinetta?»

«Ama un’altra.» Suonava anche peggio che nella sua mente. «Me l’ha rivelato lui stesso e ho visto anche che si baciavano.» Ripensò a quando li vide, Katami e Adrien, seduti sulla riva della Senna mentre si scambiavano un bacio da veri innamorati.

Gina fece un versaccio. «Chi non ti vuole non ti merita.» Sventolò una mano nell’aria come se volesse allontanare qualcuno. «Per citare una canzone che adoro: “Troverai un altro più bello che problemi non ha.”» Marinette ridacchiò. «E comunque io preferivo il ragazzo con i capelli blu.»

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


6

Parigi, 2015

Era stato difficile, molto difficile, raccontare a Gabriel la verità su sua moglie. Per quanto lo avessero temuto ed evitato, prima o poi sarebbe dovuto arrivare quel momento. Nathalie Sancoeur aveva raccontato tutto, evitando accenni a gioielli magici, libri segreti o templi nascosti tra le montagne del Tibet. Emilie Graham de Vanilly aveva contratto una malattia alle vie respiratorie che l’aveva strappata dalla vita. Dopo la sua morte, era stata cremata e le sue ceneri conservate in un’urna tenuta al sicuro nella villa, in un luogo di cui solo Gabriel ne conosceva l’esatta collocazione. Tutto ciò, per nascondere ad Adrien la verità, in quanto l’urna di cui aveva parlato al figlio non esisteva.

Ciò che più temeva Nathalie era la reazione che avrebbe avuto Gabriel: quando Emilie era caduta in un sonno catatonico a causa di un uso improprio dei Miraculous, aveva dato di matto. In un momento di lucida follia, aveva fatto allestire una capsula criogenica che conservasse intatto il corpo inerme di Emilie e l’aveva sistemata nella cripta sotto villa Agreste. Cripta che, in seguito, aveva sigillato cosicché nessuno, eccetto lui, potesse visitarla. Poi, aveva iniziato una lunga ed estenuante ricerca sui Miraculous, sui loro poteri e su come attingere ad essi: in nome della vendetta per quanto successo a sua moglie, si era trasformato in Papillon e aveva dato il via ad una battaglia per conquistare il potere che avrebbe risvegliato Emilie.

A dispetto delle aspettative, però, la reazione che ebbe Gabriel fu del tutto naturale, per un marito che avesse avuto un lutto simile: pianse, pianse per giorni e per notti, aggrappandosi all’affetto del suo unico figlio, Adrien, e ripescando nella memoria tutti i momenti felici che aveva trascorso insieme a Emilie. Non sapendo quali erano state le reali cause della scomparsa prematura della moglie, non aveva bramato vendetta o cercato modi sovrannaturali per riportarla in vita.

Così, Nathalie decise di tenere per sé la verità, quella che avrebbe riportato Gabriel e suo figlio in un abisso oscuro, privo di affetto e di amore.

Nell’ora di riposo, Nathalie entrò nello studio dello stilista, dopo essersi accertata che le telecamere di sicurezza fossero spente. Spostò di lato il quadro a mosaico ritraente Emilie Graham de Vanilly ed aprì la cassaforte che esso celava. Non era autorizzata a conoscerne la combinazione, ma Gabriel l’aveva spesso aperta davanti a lei e la combinazione le era rimasta impressa nella memoria. Raccolse una scatolina metallica, il Grimorio dei Miraculous – compresi gli appunti che aveva scaricato dal cellulare di Wang Fu – e richiuse la cassaforte. A passo svelto, si ritirò nella sua camera. Dal cassetto accanto al letto prese un’altra scatolina metallica e le aprì entrambe. Il Miraculous della Farfalla e il Miraculous del Pavone si illuminarono insieme, come se fossero sincronizzati, e i loro Kwami si manifestarono in un fascio di luce viola e blu.

«Evviva!» Duusuu svolazzò disegnando un otto nell’aria. Gabriel aveva più volte sottolineato quanto trovasse irritante quell’eccessiva euforia. «Finalmente la spilla è stata riparata. Si parte per nuove avventure!» Le istruzioni del Grimorio, tradotte da Fu, avevano consentito a Gabriel di riparare il Miraculous danneggiato quando Emilie lo aveva usato incautamente.

«Signora Nathalie.» Nooroo, più pacato, fece un inchino. Nei suoi occhi si leggeva preoccupazione. «Come sta il padrone?»

«Meglio.» Nathalie sollevò il mento, le mani incrociate dietro la schiena. «Devo parlare ad entrambi.» I Kwami annuirono all’unisono. «L’incidente – se così lo possiamo chiamare – ha provocato una leggera amnesia. Gabriel non ricorda nulla dei Miraculous, del tempio, di Ladybug e Chat Noir.» Spinse gli occhiali sul ponte del naso. «E non è mia intenzione colmare tali vuoti.»

I Kwami si scambiarono un’occhiata, un misto di perplessità e stupore. Nessuno dei due osò proferire parola. D’altronde Nathalie non si sarebbe fatta convincere del contrario: Gabriel stava soffrendo, ed Adrien con lui, ma ben presto avrebbe metabolizzato il lutto e sarebbe andato avanti, privo della convinzione di poter riportare in vita Emilie. Nathalie lo aveva sempre sostenuto nella sua battaglia per conquistare il Potere Assoluto, ma ciò che più le interessava era poterlo vedere felice e spensierato mentre si prendeva cura di suo figlio come un vero padre e non come l’ombra che era stato in questi due anni. No, avrebbe tenuto il segreto finché avrebbe potuto. «Pertanto» proseguì con tono rigido. «Sarò io a custodire i Miraculous e a tenerli al sicuro affinché nessuno possa farne un uso improprio.»

Nooroo annuì abbassando lo sguardo.

Il volto di Duusuu si incupì, le piume di pavone sulla coda seguirono il movimento verso il basso delle sue labbra. «Questo significa che...»

Nathalie si schiarì la voce. «Significa che questo è un addio.»

Duusuu scoppiò a piangere, Nooroo provò a consolarla accarezzandole il capo.

«Siete stati dei validi alleati.» Nathalie cercò di mostrarsi distaccata, ma la parola “validi” era sembrata più un rantolo. I due Kwami stavano rendendo difficile quell’addio. «Vi ringrazio per il vostro aiuto.» Sollevò le due spille e i Kwami si congedarono con un inchino scomparendo in due bagliori viola e blu.

Nathalie conservò le spille nelle due scatoline e le ripose nel cassetto nella speranza di non doverle più riprendere.

 

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“Se questo è un sogno, non svegliatemi.” Fu questo il pensiero di Adrien quando scese nel salone per fare colazione prima di recarsi a scuola per il primo giorno del nuovo anno. Gabriel Agreste sedeva a capotavola, in mano un quotidiano che sfogliava mentre sorseggiava del caffè. Al capotavola opposto era preparato il posto per Adrien. Sarebbe stato tutto nella norma se non fosse per la tavola con sopra una tovaglia di lino bianco su cui facevano bella mostra croissant, cesti di frutta, caraffe con diverse bevande, uova, bacon, frittelle e dispensatori di sciroppo d’acero.

Adrien sbatté più volte le palpebre. Mai prima d’ora aveva visto un buffet così ricco, men che meno a casa sua. Il profumo di dolci e caffè gli stuzzicò l’appetito.

Gabriel sollevò lo sguardo e notò la sua presenza. «Ho pensato che per un giorno puoi fare uno strappo alla regola per quanto riguarda la tua dieta.» Indicò con la mano il posto all’altro capo del tavolo. «Hai bisogno di energie il tuo primo giorno di scuola.»

Adrien colse tristezza nel tono di voce del padre, ma anche una serenità che non avvertiva da tempo. Si accomodò. Si aspettava da un momento all’altro che lo rimproverasse per i vestiti che aveva scelto. Una maglietta di Jagged Stone e dei pantaloncini bermuda a mezzo ginocchio non coincidevano con la perfezione che un Agreste doveva ostentare sempre e comunque, in qualsiasi luogo.

Ma Gabriel non disse nulla a riguardo. «Serviti pure di quello che vuoi. Forse ho un po’ esagerato, ma devo riabituarmi ai ritmi quotidiani.» Fece un sorriso sommesso. Non aveva ancora metabolizzato del tutto la notizia della scomparsa della moglie. Per quello ci sarebbe voluto tempo e Adrien era disposto ad offrirglielo tutto. Lo sentiva più vicino che mai.

Abituato a pasti leggeri, Adrien preferì non ingozzarsi: mangiò un croissant, bevve un cappuccino e consumò una mela verde. Era comunque molto più di quanto mangiasse nell’arco di un’intera giornata, se si escludevano le scorpacciate di gelato che si faceva nei panni di Chat Noir quando visitava il chiosco di André.

«Ho chiesto al Gorilla di accompagnarti a scuola.» Gabriel chiuse il giornale e si alzò spingendo indietro la sedia. «Ma, se preferisci andare a piedi da solo...»

Adrien spalancò gli occhi. Quella proposta andava ben oltre la sua immaginazione. «Davvero?»

«Certamente. Un po’ di moto non può farti che bene. L’importante è che mi assicuri di non fare tardi; non vorrei ti perdessi qualche minuto di lezione o ti facessi notare negativamente da qualche professore.»

Adrien scattò dalla sedia e andò ad abbracciarlo. «Grazie, papà.»

Seppur stupito, Gabriel ricambiò l’abbraccio. Gettò uno sguardo all’orologio. «Ora però sbrigati.»

 

“Chissà che faccia farà Nino quando mi vedrà arrivare a piedi anziché in auto, con la scorta”, pensò Adrien attraversando il portone d’ingresso della scuola. Il cortile pullulava di ragazzi che si salutavano come se non si vedessero da anni; molti sfoggiavano la loro abbronzatura dorata, altri raccontavano le loro vacanze estive. Adrien provò una punta d’invidia nei loro confronti, visto che la sua estate era stata tutt’altro che tranquilla o divertente. I suoi amici erano partiti tutti. Persino Katami era andata in Giappone a trovare dei parenti. Poi, alla fine dell’estate, era arrivata una doccia gelata, un terremoto che lo aveva scosso nel profondo dal quale solo da poco si stava riprendendo.

Accanto alle scale, trovò Nino ed Alya, incollati l’uno nelle braccia dell’altra. Li salutò con un cenno della mano. Nino aveva il volto corrucciato e non indossava nemmeno il suo inseparabile berretto rosso. Gli occhi bronzei di Alya erano tristi, velati da una patina di lacrime.

«Amico!» Nino si protese verso di lui, con un sorriso appena accennato. «Come sta tuo padre?»

«Molto meglio, grazie.» Adrien si sforzò di sorridere, ma era chiaro che qualcosa non andava. «Cos’è successo, Alya?»

Lei scosse la testa e si allontanò, scomparendo dietro la porta dello spogliatoio femminile.

Adrien rivolse uno sguardo interrogativo a Nino. «Che cos’ha?»

Nino parve sorpreso dalla sua domanda. Allargò le braccia. «Mi sembra chiaro, no?» Poi, si schiaffeggiò la fronte. «Accidenti, che stupido. Tu non puoi saperlo.»

Una risata sguaiata risuonò per l’intero cortile. Era Chloè Burgeois che in quel momento fece il suo ingresso trionfale nell’istituto. Ad ogni passo corrispondeva uno schiaffo alla sua chioma bionda ondulata. Sfoggiava un paio di occhiali scuri che le coprivano metà volto e oscillava la mano destra in modo da far vedere a tutti la sua borsetta all’ultima moda, con il marchio A.B. Sabrina Raincomprix arrancava dietro, con la schiena ricurva in avanti, reggendo due cartelle, una per spalla.

«Salve Adrien caro.» Chloè sollevò gli occhiali ed ammiccò i suoi occhi azzurri, ricoperti da almeno due strati di mascara. «Finalmente, da oggi in poi, potrai dormire sonni tranquilli e non avere più una pedante scocciatura.» Atteggiò le labbra come a voler scoccare un bacio e risalì rapida le scale, ancheggiando come una modella in passerella e lasciandosi dietro una scia di profumo di rose.

Adrien rimase con la bocca spalancata, fin quando Nino non lo scosse per una spalla. «Ma di che accidenti stava parlando?»

«È quello che stavo cercando di dirti: la felicità di Chloè è inversamente proporzionale a quella di Alya in questo caso.»

«Di che si tratta?»

Adrien sentì due colpetti sulla spalla. Si voltò.

«Buongiorno Adrien.» La professoressa Bustier, una donna dai modi sempre gentili e cortesi con capelli rosso fuoco, gli rivolse uno sguardo carico d’affetto. «Provo grande gioia nel vederti oggi a scuola. Segno che tuo padre si è ristabilito.»

«Buongiorno professoressa.» Adrien annuì. «Sì, ora sta molto meglio, anche se deve riposare gran parte della giornata. Sa, lo shock è stato molto forte.»

«Capisco. Portagli i miei saluti e i miei auguri di buona guarigione.» Detto questo, si avviò in aula.

«Se veniamo interrotti ancora giuro che urlo.» Nino era sul punto di esplodere di rabbia. Le dita premevano forte sul ponte del naso, mentre prendeva lunghi respiri per calmarsi. Sbuffò, emettendo un lieve rumore con le labbra e riprese: «Si tratta di Marinette. Si è trasferita in Italia.»

Adrien trasalì. «Cosa?»

«Lei è… È partita lo scorso Venerdì.» Nino ebbe un attimo di esitazione, come se volesse trattenere le sue emozioni. «Ha ricevuto una proposta da un’importante Accademia di Moda a Milano e ha deciso di accettare.»

Adrien non seppe cosa dire. Lasciò andare le braccia penzoloni lungo i fianchi, la bocca semiaperta e lo sguardo perso nel vuoto. «Non ho… Non ho potuto nemmeno salutarla. Ma perché l’ha fatto?»

Nino si strinse nelle spalle. «Era il suo sogno diventare stilista. Se ben ricordo ne aveva parlato anche a te. Ci ha detto di salutarti, che le dispiaceva che non fossi presente lì.»

«È ovvio!» sbottò Adrien. L’incredulità adesso stava lasciando spazio alla rabbia. «Lei c’è sempre stata, per tutti noi. E io, invece, in un momento importante per lei, non ci sono stato.» Tentò di ricomporsi, avendo attirato su di sé gli sguardi di tutto il cortile. «Ecco spiegata la reazione di Alya.»

Nino fece un verso di stizza. «Chloè, invece, gongolerà per almeno una settimana.»

 

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Il rollio del Liberty lo aiutava a concentrarsi meglio nella meditazione. Luka Couffaine le stava provando tutte pur di togliersi quel magone dallo stomaco. Non era passata nemmeno una settimana, e già gli mancava Marinette. Gli mancava la sua risata, la sua simpatia, il modo in cui combinava disastri cui rimediava immediatamente, la sua creatività, i suoi occhi azzurri. “Sta coronando il suo sogno, dovresti essere felice per lei”, si ripeteva di continuo. Certo, una parte di lui non poteva non essere entusiasta per l’occasione che le avevano proposto e lui era stato uno di quelli che più l’avevano sostenuta quando lei l’aveva raccontato a tutti.

Sbuffò, abbandonò la posizione zen e raccolse la chitarra. La musica lo avrebbe aiutato, la musica avrebbe spazzato via quella sensazione di vuoto.

Aiutandosi solo con le dita, senza l’utilizzo del plettro, pizzicò le corde, componendo una melodia dal ritmo vivace.

«Issate la bandiera!» La voce di Anarka, sua madre, sovrastò la musica. «Hai una visita, Luka.»

Luka lasciò la chitarra sul letto e raggiunse il salone principale della barca. «Adrien?»

«Grazie signora Anarka.» Adrien chinò il capo.

«Spiegate le vele, ragazzi. Vi porto qualcosa di fresco da bere.» Detto ciò, Anarka scomparve dietro una tenda, dirigendosi verso la cucina.

«Non mi aspettavo una tua visita» disse Luka, battendo con la mano su una sedia. «Tuo padre?» Si accomodò a gambe incrociate sul divano.

«Sta meglio, grazie. Ma non è di lui che desidero parlarti.»

«Ti ascolto.»

«Si tratta di Marinette.» Il tono di Adrien si fece greve, gli occhi si colmarono di tristezza. «Ho saputo solo oggi che è partita e mi dispiace non averla potuta salutare.»

«Sapeva del momento che stavi vivendo. Non angustiarti», Luka gli diede un’amichevole pacca sulla spalla, «sono certo che lei non ce l’ha con te.»

«È che trovo alquanto strana questa sua decisione.»

«Perché? Dovresti sapere bene quanto lei ami la moda, e questa era un’occasione unica.»

«Non per farmi gli affari vostri» Adrien si sporse in avanti «ma come farete a mantenere una relazione a distanza?»

«Relazione?» Luka aggrottò la fronte. «Di cosa parli, Adrien?»

«Voi due non state insieme?»

Luka non poté trattenere una risatina. «No, non stiamo insieme.» Vedendo l’espressione stupita di Adrien, aggiunse: «Noi proviamo tanto affetto l’uno nei confronti dell’altra, ma siamo solo buoni amici. Per quanto la cosa non mi dispiacerebbe affatto, non è mio desiderio irrompere con prepotenza nel cuore di Marinette, un posto già occupato da un’altra persona.»

«Marinette non è innamorata di te?»

“Alya non esagerava quando diceva che sei più cieco di un cieco” avrebbe voluto dire Luka. Si trattenne e rispose con un laconico: «No. Posso chiederti come mai sei così interessato?»

Adrien esitò. «Non saprei. Credo sia perché credo di conoscere così poco Marinette da trovare assurdo chiamarla “amica”. Eppure, ci tengo tanto alla sua amicizia. Non so perché, ma il mio primo pensiero è stato che sia fuggita per una delusione d’amore.»

Luka scosse la testa. «Posso dirti che in parte potresti avere ragione. La persona che lei ama non la ricambia.»

«Tu sai chi è?»

«Io penso che potresti arrivarci anche da solo.» Ma gli occhi verdi di Adrien gli dicevano che vagava nel buio. «È un ragazzo che tutti noi conosciamo bene. Famoso.»

«E se fosse Chat Noir?»

Luka lo guardò perplesso e lasciò che il silenzio parlasse per lui. Non rispose.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


7

Parigi, Settembre 2018

Il servizio fotografico terminò dopo quattro ore di pose, scatti, rimproveri. Adrien non ne poteva più. L’abito che indossava, un completo bianco con cravattino e panciotto rossi, era ormai parte integrante della sua pelle. Gli occhi gli bruciavano a causa dei fari puntati sulla faccia. Mancava poco che esplodesse se qualche altra truccatrice si fosse avvicinata per asciugargli il sudore che gli scendeva copioso dalle tempie e dalla nuca.

“Meno male che hanno usato il gel per i capelli.” Si passò una mano sulla fronte. “Non avrei retto ai colpi di phon.”

La sfilata per la nuova collezione autunnale del marchio Agreste era stata un successo. Gabriel non aveva perso tempo e aveva dato disposizione per un servizio fotografico con protagonista il figlio in modo da pubblicizzare i capi. La dedizione maniacale al lavoro era uno degli aspetti più iconici dello stilista, da quando la sua presenza agli eventi mondani era costante. L’efficienza di Nathalie Sancoeur nell’organizzazione faceva il resto. Nel giro di una settimana, era sempre tutto pronto nei minimi dettagli.

«Ancora un ultimo scatto, raggio di sole.» Il fotografo Vincent puntò la macchina fotografica.

Adrien roteò gli occhi al cielo, sbuffando. «Mi prometti che è l’ultima?»

«Te lo giuro sulle sfogliatelle di mammà. Fammi un bel sorriso.»

Le labbra di Adrien si incurvarono verso l’alto. Gli parve di avere i muscoli paralizzati e dovette sforzarsi per riuscire ad apparire naturale.

Vincent, con l’occhio penetrato nell’obiettivo, schioccò la lingua sotto al palato. «Non ci siamo. Pensa a una bella pizza con salsicce e friarielli.»

“Questo funzionerebbe più con Plagg che con me.” Il risultato rimase il medesimo.

Lo sconforto si disegnò sul volto di Vincent. «No, no, ragazzo mio.» Si massaggiò con due dita il naso adunco. Schioccò le dita ed alzò il capo come se fosse stato colpito da un fulmine. «Ci sono!» Un bagliore gli illuminò gli occhi color ambra. «Pensa a una bella figliola. La più bella che tu conosca.»

Adrien sollevò un sopracciglio, quindi annuì. Chiuse gli occhi e si concentrò. Immaginò la sagoma di una ragazza: più si concentrava, più l’immagine diventava nitida. Occhi come l’oceano, capelli corvini legati in due codini da elastici rossi, tuta rossa a pois neri. Fu un pensiero agrodolce. Ormai erano tre anni che non la vedeva, ma la sua presenza era sempre vivida. Riaprì gli occhi e sorrise.

Il ticchettio della macchina fotografica di Vincent sembrava un metronomo. «Così, bello mio! Questo è il mio raggio di sole!» ripeteva il fotografo.

Quando il faro che gli illuminava il volto si spense, Adrien sbatté le palpebre, come risvegliato da un sogno.

«Pensavo di dover minacciare il signor Vincent perché ti lasciasse andare.» Katami Tsurugi passò accanto al fotografo, che stava mettendo da parte l’attrezzatura, ed ammiccò. «Tutto bene?»

Adrien allargò le braccia con espressione rassegnata. «Non vedevo l’ora che finisse.» Si avviò verso il tendone bianco allestito per il servizio fotografico. Intorno allo spiazzale di Place de la Fontaine-aux-Lions, gli addetti avevano disposto una fila di transenne per tenere lontani eventuali paparazzi, curiosi e fan schizzati. Adrien scomparve dietro un separé bianco. Un unico faretto illuminava l’ambiente, l’aria era a tratti irrespirabile.

«Come hai fatto a superare la sicurezza?» Adrien si sfilò il completo, non senza qualche difficoltà.

«Nathalie mi ha fatta passare. Speravo finissi prima così da poter andare insieme da André, prima di raggiungere la stazione.»

«Credevo tenessi alla linea da schermidrice.»

«Tanto ti batto lo stesso. Sempre.»

«Touchè.» Adrien prese la sua sacca e uscì dal tendone affiancato da Katami. «Credo sia meglio che vada a casa a farmi una doccia.» Fece un segno a Nathalie, la quale assentì col capo. «Ci vediamo alla stazione?»

«Ti lancio una sfida per domani.» C’era l’accenno di un sorriso sui lineamenti spigolosi di Katami. E lei sorrideva molto di rado. «Sempre che il signorino Agreste non abbia troppa paura di perdere.»

Adrien socchiuse gli occhi, con una smorfia di disappunto. «Ci sarò. E vincerò.»

«Lo vedremo.» Katami si alzò sulle punte e gli diede un bacio a fior di labbra. Si incamminò verso la berlina rossa che la attendeva a bordo della strada.

Adrien si massaggiò la nuca, imbarazzato da quel gesto inatteso. Non era da Katami fare manifestazioni d’affetto in pubblico. Ma forse era il momento di far evolvere la loro relazione.

Seguì Nathalie e si infilò nella Mercedes guidata dal Gorilla.

 

Giunti a villa Agreste, si ritirò nella sua camera. Aveva evitato di aprire discorsi imbarazzanti con Nathalie, né lei aveva fatto commenti riguardo ciò che aveva assistito. Meglio così.

Posò la sacca sulla sedia davanti alla scrivania, la aprì e prese un contenitore metallico dalla forma cilindrica. L’odore pungente di Camembert gli salì alle narici, nonostante fosse sigillato. Lo adagiò sulla scrivania. «Plagg?» Non ci fu risposta. Sbirciò nella borsa. «Plagg, ci sei?»

Di nuovo, nessuna risposta.

Rovistò nella borsa tirando fuori ogni oggetto. Data la quantità di oggetti che si era portato dietro, la rovesciò sulla scrivania, svuotandola del tutto. «Dove si è cacciato?» disse in tono tra lo stizzito ed il preoccupato. «Plagg! Dove sei?»

Resto in silenzio per un attimo. C’era un leggero ronzio, proveniente dal contenitore metallico. Adrien alzò le braccia al cielo, implorando. Aprì il contenitore. Il Kwami del Gatto Nero dormiva rannicchiato accanto ad una forma di Camembert mangiucchiata. Erano come pezzi complementari, uno nero, l’altro bianco.

Adrien prese tra le mani il pezzo di formaggio, chiudendo le narici con due dita per proteggersi dal tanfo, lo sventolò davanti al musetto di Plagg e lo allontanò di scatto.

Plagg, continuando a ronfare, si sollevò in volo, col naso sporto in avanti. Seguiva l’odore del suo amato formaggio. A tratti, la sua lingua inumidiva i baffetti.

«Se non ti svegli all’istante te lo butto nell’immondizia.»

«No!» Plagg scattò in avanti, gli occhi smeraldini spalancati per il terrore, ed abbracciò il pezzo di formaggio.

«Finalmente.» Adrien incrociò le braccia al petto. «Per un attimo, ho pensato di averti lasciato lì.» Si guardò la mano disgustato. «Ora la dovrò lavare almeno sei volte per far andare via la puzza.»

Plagg strofinò la guancia sulla superficie del formaggio, con un mugolio di piacere. Lo lanciò in aria e lo divorò in un solo boccone. «Questa è vita.» Ruttò con piacere.

Adrien scosse il capo. «Sei fortunato che non ho il tempo di mettermi a discutere con te.» Lanciò uno sguardo all’orologio. Aveva poco più di venti minuti per farsi una doccia, mangiare uno spuntino e fiondarsi alla Gare de Lyon.

«Ah già. Oggi ritorna la tua splendida amica» commentò Plagg con una nota di sarcasmo.

Adrien lo ignorò e si avviò in bagno. Non vedeva l’ora di togliersi di dosso cerone, gel e sudore.

 

Katami lo aspettava davanti all’ingresso della stazione ferroviaria. Non si era cambiata d’abito e Adrien si chiedeva come facesse a sopportare quella camicetta attillata a maniche lunghe con quel caldo. A pensarci bene, non l’aveva mai vista sudata nemmeno dopo ore e ore di allenamento. Molte qualità della nipponica restavano ancora un segreto per lui, nonostante fossero più di quattro anni che la conosceva.

L’interno della stazione era caldo, ma offriva un riparo dal cocente sole pomeridiano, e tanto bastava per dare sollievo. Passarono davanti a negozi di scarpe, vestiti, bar e fast food, che emanavano odori di brace e frittura. Adrien aveva consumato un misero tramezzino senza sapore e adesso aveva lo stomaco che brontolava. Da quando aveva affiancato agli allenamenti di scherma percorsi di cross-fit, aveva dovuto variare la sua dieta ordinaria, ma a volte gli capitava di saltare i pasti e trovarsi con una fame da lupi.

Accanto alla banchina, i suoi compagni di classe erano già schierati, pronti a dare il bentornato alla loro splendida amica. C’erano proprio tutti: Nino e Alya, Max e il suo inseparabile robottino Marcoff, Alix che sfoggiava il suo nuovo anello al naso, Kim insieme alla fidanzata Ondine, Nathaniel e Marc e i loro fumetti, gli inseparabili Mylene e Ivan, Juleka con la sua chioma viola e rosa, Rose con la sua aria sognante ed infine Luka con la sua inseparabile chitarra. Mancavano solo Chloè, Sabrina e Lila, ma questo era scontato.

“Peggio per loro”, pensò Adrien mentre si apprestava a salutare ognuno di loro. Quando Marinette era partita, tre anni prima, i ragazzi avevano preparato delle magliette per formare la frase We Love Marinette; stavolta, avevano cucito le medesime magliette su un largo striscione su cui Alix, Juleka e Rose avevano dato libero sfogo alle nozioni apprese al corso d’arte, creando un mosaico armonioso di colori e disegni.

Il treno apparve in lontananza, curvando stretto in direzione della banchina, un lungo serpente argentato a strisce rosse che fluttuava sui binari. Lo StarTrain era un gioiello, l’orgoglio di Parigi, inaugurato da André Bourgeois in persona.

I ragazzi si sparpagliarono davanti alle numerose porte scorrevoli, in modo da intercettare subito Marinette non appena fosse scesa dal treno.

Adrien, Alya, Nino e Katami erano accanto alla prima carrozza.

«Alya!» Un ragazzo con occhiali da sole scuri e folti capelli ricci e neri poggiò due voluminosi bagagli a terra e circondò la ragazza occhialuta con le sue braccia, scoccandole poi due sonori baci sulle guance. Aveva uno zaino rosa e bianco sulle spalle. «Finalmente ti incontro di persona.» L’ampio pettorale e le spalle larghe mettevano a dura prova la resistenza della camicia bianca. Sul volto c’era un accenno di barba.

Adrien si scambiò un’occhiata confusa con Nino e Katami. Gli altri ragazzi si raggrupparono in fretta.

«Dal vivo sei anche più alto di quanto immaginassi.» Alya sembrava conoscere piuttosto bene quel ragazzo. Gli arrivava al petto.

«Tu lo conosci?» Adrien si voltò verso Nino, il quale era paonazzo in volto.

Credette che da un momento all’altro si fiondasse su quel ragazzo e gli intimasse di tornare sul treno e stare lontano dalla sua fidanzata. Aveva la fronte corrugata, gli occhi ridotti a due fessure e le mani serrate a pugno. Si avvicinò ad Alya e le cinse la vita con un braccio.

Alya, senza scomporsi, lo presentò al ragazzo: «Lui è Nino, è-»

«Il suo fidanzato» disse Nino ad alta voce. «Nino Lahiffe» ribadì in tono tagliente.

Il ragazzo tese la mano amichevolmente. «Piacere Nino. Ho sentito spesso parlare di te.»

I ragazzi, eccetto Luka, sembravano tutti spaesati e perplessi. Nessuno aveva idea di chi fosse quel tipo. Le ragazze, invece, sembravano tutte affascinate dalla sua avvenenza. Dal canto suo, Adrien aveva la sensazione di conoscerlo già, di averlo già visto in passato.

Alya gli fece cenno di avvicinarsi a loro. «Alessio, credo che tu conosca già la nostra celebrità.»

Il ragazzo annuì con entusiasmo. «Adrien Agreste. È un onore per me conoscere un collega.»

Si tolse gli occhiali, scoprendo occhi scuri come la notte, e Adrien lo riconobbe: Alessio Tancredi, un modello italiano di ventitré anni che in passato aveva sfilato con abiti della collezione estiva Agreste. Non l’aveva mai incontrato di persona, ma il padre gli aveva spesso raccontato di quanto fosse orgoglioso di avere una superstar a rappresentare la sua casa di moda in Italia.

«Il piacere è tutto mio» disse Adrien, sorridendo. «Come mai qui a Parigi?»

Alessio aprì la bocca per rispondere, ma fu interrotto da una tonante ovazione proveniente dal folto gruppo di ragazzi.

Marinette Dupain-Cheng stava scendendo le scalette del treno, spalleggiata dai suoi genitori.

Adrien sentì le orecchie e il volto farsi roventi. Aveva rivisto poche volte Marinette in occasionali videochiamate di gruppo. La qualità dell’immagine e l’inquadratura a primo piano non gli avevano dato mai l’impressione che fosse diversa dall’immagine di lei che ricordava. Si rese conto che si sbagliava: della ragazzina timida, riservata e, a tratti, combattiva con la quale aveva litigato per una cicca restavano pochi dettagli. Si muoveva con eleganza, irradiando energia e padronanza di sé. Il volto era dominato dai suoi brillanti occhi azzurri e incorniciato da capelli corvini ondulati che le scendevano oltre le spalle. Le guance erano imporporate per l’emozione di ritrovare i suoi vecchi amici. Indossava un top con spalline che le lasciava scoperto il ventre e degli shorts di jeans. Adrien si chiese se il corso che aveva seguito era per diventare stilista o modella, perché lei la modella l’avrebbe potuta fare ad occhi chiusi.

Fu Alya, come prevedibile, ad avvinghiarla per prima, tenendola stretta per due minuti buoni, tant’è che Ivan, con il suo tono da orso, le disse: «Lasciala respirare.»

A turno, ognuno di loro l’abbracciò, mentre Luka suonava una melodia di bentornato, una composizione originale sua. Katami non era mai stata così raggiante in volto. Marinette aveva davvero il superpotere di portare luce e felicità ovunque andasse.

Quando arrivò il suo turno, Adrien sollevò il polso e fece tintinnare le pietruzze del suo braccialetto rosso, il braccialetto che Marinette gli aveva regalato per il torneo di videogiochi. «Lo porto sempre con me nelle occasioni che contano.»

Marinette prese il suo dalla pochette che aveva in spalla; Adrien glielo aveva regalato il giorno del suo quattordicesimo compleanno. «Io non mi sono mai separata dal mio.» Ammiccò e Adrien avvertì di nuovo un forte calore alle guance. Lei si rivolse al gruppo: «Grazie a tutti, di cuore. Non mi aspettavo che replicaste la sorpresa del giorno della mia partenza.»

«Bugiarda.» Alya agitò l’indice in segno di diniego. «Tu già sapevi tutto ma hai comunque finto di essere sorpresa. È impossibile coglierti impreparata.»

Marinette alzò le spalle e le fece una linguaccia. «Dovrete sforzarvi di più la prossima volta.»

«Ti sei portata il lavoro da Milano?» domandò Kim in modo dirompente.

Marinette inarcò un sopracciglio. Guardò Alessio e rise. «Oh no. Lui non è qui per lavoro.» Gli passò un braccio in vita, lui la strinse a sé e la baciò sul collo. «Lui è il mio ragazzo.»

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


8

Mentre uscivano dalla stazione, Tom Dupain e Sabine Cheng si organizzarono per caricare i bagagli su un taxi.

«Ti aspettiamo alla boulangerie» aveva detto Sabine a Marinette. Poi, aveva baciato sulla guancia Alessio, ringraziandolo per l’aiuto dato a portare le valigie. Tom, invece, gli aveva scoccato un’occhiata delle sue. Si trattava pur sempre della sua principessa.

Marinette si godette le espressioni sbigottite del gruppetto di maschi. Fatta eccezione di Luka, con cui lei si confidava spesso e volentieri, nessuno di loro era a conoscenza della sua relazione con Alessio Tancredi e la notizia li aveva presi tutti in contropiede, nessuno escluso. Il primo a metabolizzare la notizia e a farle i complimenti fu Nino, anche se lei era più che sicura che fosse sollevato dal fatto di non avere un rivale in amore, dopo averlo visto rigido come un palo quando la sua fidanzata aveva salutato Alessio abbracciandolo. Era piuttosto divertita dalle occhiate trionfanti che Alya rivolgeva ad Adrien, anche se lui non ci aveva nemmeno fatto caso.

Nonostante l’amarezza che si era portata dietro a Milano, pensando all’amore impossibile per il giovane Agreste, – che, seppur a fatica, era riuscita a mettere da parte – Marinette era felice di rincontrarlo e di constatare che nulla era cambiato di lui in questi tre anni. Il suo sguardo verde smeraldo manifestava ancora l’innocenza di un bambino; il portamento era elegante e fiero, degno del figlio di uno stilista di fama mondiale; il fisico era asciutto e slanciato, seppur mingherlino. L’unica differenza era nel taglio di capelli: non portava più una folta chioma bionda, ma un pratico taglio a spazzola rasato ai lati che gli conferiva un’aria più da adulto.

«Il gatto ti ha mangiato la lingua?» gli chiese Marinette.

Sul volto di Adrien si disegnò un’espressione confusa.

Fu Katami a rispondere per lui: «Ha affrontato un servizio fotografico estenuante.»

«Ah!» La voce tonante di Alessio soverchiò le altre. «Capisco cosa vuol dire. Se era in tua compagnia» disse rivolto a Katami «sarà stato di certo allietato.»

Un lieve rossore ricoprì i lineamenti della ragazza nipponica. Marinette non l’avrebbe mai creduto possibile, soprattutto se un complimento simile non fosse arrivato dalla bocca di Adrien. Notò che non era affatto cambiata nel tempo: portava sempre i capelli color liquirizia a caschetto e vestiva con una camicia e una gonna rossa.

«Immagino tu non abbia nemmeno avuto il tempo di pranzare» disse Alessio. «Dura la vita del modello.»

Adrien annuì senza proferire parola.

Imboccarono il lungo tunnel che conduceva alla fermata metropolitana. Da lì, avrebbero raggiunto Place des Vosges, di fronte alla boulangerie Dupain-Cheng. Marinette non vedeva l’ora di poter rientrare e respirare il profumo dei dolci e del pane sfornato dal padre. Nei periodi di festa, lui aveva provveduto a portare a Milano, o ovunque fosse la meta delle vacanze, una vasta varietà di prodotti, dai macarons ai bignè, dai cornetti alle torte, ma poterne sentire l’odore appena sfornati era un’altra cosa. Era profumo di casa.

Nel tragitto che percorsero, notò con piacere che Alessio non aveva fatto fatica ad integrarsi nel gruppo, e gli amici lo avevano fatto sentire subito uno di loro; fu molto felice di constatare che era stato colpito dalla maestria con la quale Luka suonava la chitarra, qualità che senza dubbio aveva affinato sempre più in questi tre anni.

 

Quando entrò nella boulangerie, seguita da Alessio, Tom era già all’opera per prepararle una torta di bentornato, con sopra la Tour Eiffel modellata con la pasta di zucchero.

«Alya ha proprio ragione» aveva commentato Tom, mettendo su il broncio. «Non si riesce mai a farti una sorpresa.»

Marinette e Alessio avevano riso all’unisono, poi lei lo aveva preso per mano e trascinato su per le scale, ansiosa di fargli vedere per la prima volta la sua cameretta. Era tutto come l’aveva lasciato lei il giorno della partenza: il manichino su cui lei provava gli abiti che cuciva, il banchetto da lavoro, il baule dove riponeva le sue creazioni, il divanetto con la copertura rosa, il cuscino a forma di gatto…

«Così, questo è il tuo tempio segreto.» Alessio fischiò, risalendo gli ultimi gradini. Si chiuse la botola alle spalle. «Posso dire che rispecchia in pieno te.»

«Cambierò qualcosa.» Marinette gli toccò la punta del naso con l’indice. «Questa cameretta ha ospitato la me fino a quattordici anni. Ora dovrà ospitare la me diciassettenne.» Indicò il baule. «Posa pure lo zaino lì. Mi raccomando fa piano.»

Alessio eseguì. «Mi dirai mai cosa c’è qui dentro di così prezioso? A volte sono un po’ geloso di questo zaino.»

«Ciò che è segreto», Marinette scosse la testa, «deve restare segreto.»

Alessio alzò le mani in segno di resa.

In quello zaino custodiva la scatola metallica dove aveva nascosto la Miracle Box. La portava sempre con sé quando andava in vacanza o per lunghi spostamenti lontani da casa. Adesso sarebbe stata messa nel baule, al sicuro. Non aveva mai permesso a nessuno di avvicinarsi, ma sapeva di potersi fidare ad occhi chiusi di Alessio. Si era offerto di portare lui lo zaino e non l’aveva lasciato nemmeno per un secondo, e guai a chi si fosse avvicinato con l’intenzione di sbirciare all’interno.

«Era lì che tenevi le sue foto?» Alessio indicò la bacheca, spoglia, sulla parete accanto al letto sul soppalco.

Marinette annuì. «Ora so già quali foto mettere.»

«Quelle del servizio fotografico che ha girato stamattina?»

Lei gli tirò uno schiaffo sulla spalla, ridendo. «Scemo.» Aprì lo zaino e tirò fuori una busta bianca. «Volevi sapere cosa custodissi di tanto importante qui dentro...» Gli occhi di lui brillarono quando si posarono sulla busta. Marinette ghignò. «No, non è questo. Rassegnati, non te lo dirò mai.» E scoppiò a ridere.

«Sei davvero terribile.» Alessio alzò le spalle. «E cosa c’è, invece, in quella busta?»

Marinette tirò fuori una pila di fotografie, ritraenti loro due nelle varie fasi della loro relazione. «Ce le ha fatte mia nonna con la sua vecchia macchina fotografica.» Indicò con la testa la bacheca. «Staranno bene lì, non credi?»

Si sedettero sul divanetto e le scorsero tutte, ricordando ogni singolo dettaglio dei loro appuntamenti, dei posti che avevano visitato insieme, dei vestiti orripilanti che Alessio era costretto a indossare sui quali Marinette si faceva grosse e grasse risate e di come, invece, le sue creazioni erano sempre perfette.

«Che ne pensi dei miei amici allora?» chiese Marinette.

«Tutti molto simpatici… E unici, ognuno nel suo genere.» Alessio intrecciò le dita con quelle di Marinette. «Mi ha colpito il modo in cui stavano Adrien e la ragazza giapponese.»

La fronte di Marinette si corrugò. «In che senso?»

«È solo una sensazione, ma mi sembrava che lui fosse a disagio con lei accanto. Avrà spiccicato al massimo due parole da quando l’abbiamo incontrato.»

«Questo l’ho notato anch’io, ma non credo fosse Katami il problema. La conosco e, per quanto sia introversa, è molto legata ad Adrien.»

Alessio le baciò una mano. «Li conosci sicuramente meglio di me. Mi sarò sbagliato.»

Quando si salutarono era già scesa la sera. Alessio aveva prenotato una camera al Gran Paris e vi avrebbe alloggiato per una settimana prima di ripartire per Milano per lavoro.

Rimasta sola nella sua stanza, Marinette poté sistemare la scatola metallica nel baule, nascosta da due capi di abbigliamento che aveva creato anni prima.

 

Un bagno rilassante lavò via la stanchezza del viaggio, nonché la spossatezza a causa della forte afa.

Tikki se ne stava accucciata sul letto a soppalco, gustando una fetta di torta che Tom aveva preparato.

Marinette prese dallo zaino un quaderno dalla copertina blu, su cui disegnava i bozzetti delle sue creazioni. Salì sul letto a soppalco e uscì sul terrazzino attraverso la botola. L’aria oppressiva del giorno aveva lasciato spazio ad una piacevole brezza. Non era necessario accendere il lumino posto sul comignolo alle spalle della sdraio: le luci dei lampioni in basso erano più che sufficienti.

Marinette si godette per qualche minuto il panorama dinnanzi a lei, come se lo vedesse per la prima volta. La cattedrale di Notre-Dame, nel buio, aveva un che di terrificante all’ombra proiettata dalle stelle e dalle luci della strada. In lontananza, la Ville Lumiere pareva un quadro d’autore. La Tour Eiffel sovrastante la città sembrava in perfetto allineamento con le stelle nel cielo terso.

Un puntino nero attirò la sua attenzione. Si muoveva agile, veloce, di tetto in tetto. Una figura snella, nera. Il primo istinto le suggerì che potesse essere un akumizzato. “Dopo tutto questo tempo, proprio oggi”, si ritrovò a pensare. Sporse il busto in avanti, le mani strette sui braccioli sul ferro della ringhiera, gli occhi ridotti a due fessure. La figura si fermava ogni due tetti, si voltava in ogni direzione, guardinga, e riprendeva la corsa tra i comignoli. Se la distanza tra due tetti era eccessiva per poterla colmare con un solo salto, faceva uso di un bastone dai riflessi argentei a mo’ di pale di elicottero o come un’asta su cui fare leva.

Marinette rilassò il volto, gli occhi le si riempirono di gioia. Non l’avrebbe mai ammesso a voce alta – altrimenti si sarebbe pavoneggiato per mesi e mesi – ma Chat Noir le era mancato, tanto. Le sue battute irriverenti, i suoi modi da spaccone, la sua determinazione, il coraggio e la dolcezza nel sostenerla in qualunque difficoltà.

L’ultima volta che si erano visti e parlati risaliva al Natale 2015, tre anni prima. Al telegiornale, Nadja Chamack aveva annunciato che la ruota panoramica di Place de la Concorde aveva avuto un guasto ed un’improvvisa frenata del meccanismo aveva fatto saltare metà dell’impalcatura che reggeva una cabina. Marinette, senza alcuna esitazione, era ricorsa al potere dei Miraculous per precipitarsi a Parigi e supportare le forza dell’ordine nei panni di Ladybug. Con qualche difficoltà, lei e Chat avevano salvato la vita ai poveri passeggeri che si trovavano nella cabina che oscillava nel vuoto.

Prima di andarsene, Ladybug aveva preso da parte Chat Noir per potergli parlare faccia a faccia.

«Che fine hai fatto?» le aveva chiesto lui.

«Chat…» Gli aveva preso la mano e gliel’aveva stretta con affetto. «Sai bene quale responsabilità mi ha affidato il maestro Fu, l’ultima volta che abbiano affrontato Papillon.»

«Sei la Guardiana della Miracle Box. Non avrebbe potuto scegliere persona migliore.»

«È proprio per questo che dovrò evitare di andare in giro come facevo prima.»

«Che intendi dire?»

Ladybug aveva esitato per un attimo. Non c’era modo di addolcire ciò che stava per dire. «Che in futuro interverrò solo se lo riterrò necessario. Non potrò più occuparmi di ordine pubblico, ma solo delle akuma.»

«Papillon è da un po’ che non si fa più vedere. Non che la cosa mi dispiaccia...»

«Dovremo restare comunque sull’attenti qualora ritornasse. Ma per il resto, dovrai occupartene tu o la polizia.»

Aveva letto dolore negli occhi di Chat, lo stesso peso che sentiva nello stomaco.

«Lo farò.» Aveva fatto un sorriso amaro e l’aveva salutata con un inchino.

In tutto quel tempo, nessun attacco akuma aveva scosso Parigi. Papillon sembrava essersi ritirato dopo la cocente sconfitta subita, quando il sacrificio di Wang Fu gli aveva chiuso la strada per mettere le mani sui Miraculous.

Colta da un’improvvisa euforia, Marinette si affacciò alla botola. «Tikki!» Il Kwami della Coccinella le svolazzò accanto. «Vorrei salutare un caro amico. Vediamo se mi ricordo ancora come si fa.» Si scambiarono un cenno d’intesa. «Tikki, trasformami!»

Pochi secondi dopo, Ladybug si librava tra i tetti di Parigi con il suo fido yo-yo ad aiutarla a percorrere decine di metri in poco tempo. Provò ebbrezza nel rivivere quella sensazione di libertà, il vento che sferzava sul volto, l’energia e il potere del Miraculous che ardevano dentro di lei.

Seguì Chat per diversi isolati. Era come giocare al gatto e al topo, solo che stavolta la parte della preda era il gatto nero e il predatore una coccinella.

Chat Noir si fermò su un tetto di un palazzo di Rue de Rivoli. Il bastone roteò nel palmo della sua mano, mentre osservava la strada.

Ladybug atterrò alle sue spalle.

Le orecchie da gatto si mossero di scatto, scostando delle ciocche color del grano. Chat si voltò, la fronte corrucciata, i denti felini digrignati e una mano artigliata pronta a colpire.

Ladybug ripose lo yo-yo nella cintola e lo salutò con un cenno della mano.

Gli occhi di Chat si spalancarono. «Ladybug?» La mano arcuata calò lungo il fianco.

Ladybug mosse un passo verso di lui. Lacrime di gioia le velarono lo sguardo.

Chat piantò i piedi a terra, la mano tornò alta, gli artigli puntarono il volto di lei. «Le prime parole che mi hai detto quando ci siamo incontrati la prima volta.»

«Cosa?»

«Dille!»

Dal tono che aveva usato e dal modo minaccioso in cui arcuava la mano sfoderando gli artigli, Ladybug capì che non stava affatto scherzando. «Ti ho detto che sono maldestra. Ti avevo fatto cadere lo yo-yo sulla testa.»

«Dove mi ha detto che hai conservato la rosa bianca che ti regalai a San Valentino?» Il tono di Chat era sempre tagliente.

Ladybug sollevò un sopracciglio. «Non mi hai mai regalato una rosa bianca, men che meno a San Valentino. L’unica rosa che tu mi abbia mai regalato è rossa.»

Chat ritirò la mano e rilassò i muscoli.

«L’interrogatorio è finito?» grugnì Ladybug, le mani poggiate sui fianchi.

«Scusa. Dopo aver quasi baciato un Sentimostro, voglio essere sicuro di chi ho accanto.»

«Non ti fidi del tuo istinto, Chaton?»

«La prudenza non è mai troppa.» Chat la tirò a sé in un abbraccio. «Bentornata Ladybug» le sussurrò all’orecchio.

«Avrei preferito un’accoglienza migliore.» Rise. «Grazie, Chat.»

Lui sciolse l’abbraccio e Ladybug notò che aveva gli occhi velati di lacrime. «Ehi, non starai mica piangendo.» Lo colpì con un buffetto.

«Un bruscolino nell’occhio.»

«Sempre la solita scusa. Non c’è nulla di poco virile nell’emozionarsi dopo aver rincontrato una vecchia amica.»

Chat si sedette sul bordo del cornicione ed invitò Ladybug a fare altrettanto. «Avrei tante cose da dirti, ma ora non me ne viene in mente nessuna. Se non che… Non sono mai stato tanto felice di rivederti.»

«Io posso dirti che ti trovo in gran forma, gattino.» Ladybug gli tastò un bicipite scolpito. «Hai fatto palestra?»

«Cross-fit. Sai, ho scoperto una cosa curiosa sulle nostre trasformazioni, ora che ci penso: possiamo acconciarci i capelli nel modo che preferiamo, ma da trasformati saranno sempre così.» Chat si passò una mano nella folta chioma bionda. «Tu che sei la Guardiana come la spieghi questa cosa?»

Ladybug si toccò i codini. «Penso sia legata al modo in cui eravamo la prima volta che ci siamo trasformati. Non ne so molto a riguardo. Non ho potuto leggere a fondo gli appunti del Grimorio.»

«Grimorio?»

«Il maestro Fu ne aveva uno quando fuggì dal tempio distrutto in Tibet. Lì sono raccolti tutti i segreti, tutti i poteri dei Miraculous. Tempo fa, vidi questo libro in mano ad uno studente del liceo François-Dupont; io non sapevo nulla, ma il mio Kwami, Tikki, lo riconobbe e mi disse che era di fondamentale importanza che lo portassi al maestro.

«Purtroppo, prima che potessi chiedere a quel ragazzo di prestarmelo irruppe quella vipera di Lila Rossi, con le sue fandonie su Volpina e tutto il resto… Alla fine, con l’aiuto di una compagna di classe di quel ragazzo, riuscii a portare il Grimorio al maestro e lui fotografò ogni pagina in modo da non dover tenere il libro e consegnarlo a colui che lo custodiva.

«Ora, però, quelle pagine che Fu ha tradotto sono scomparse. Temo che Papillon o Mayura se ne siano impossessati il giorno in cui lo rapirono. Non so perché, ma ho la sensazione che tutto questo tempo di quiete da parte di Papillon sia solo il preambolo ad un piano che sta preparando da anni per scatenarci contro i segreti racchiusi in quelle pagine.»

«Il ragazzo che possedeva quel libro...» La voce di Chat si era ridotta ad un sussurro. «Chi era?»

«Adrien Agreste.»

«Immagino che sia per questo che hai sospettato che suo padre, Gabriel, fosse Papillon.»

Ladybug annuì. «Il maestro mi disse che lui aveva perso il Grimorio insieme ai due Miraculous, quello della Farfalla e quello del Pavone. La probabilità che chi avesse il libro, possedesse anche i due Miraculous era molto alta.»

Chat le prese una mano. «Grazie.»

«Per cosa?»

«Per esserti fidata di me ed avermi raccontato questa storia.»

Ladybug gli sfiorò la punta del naso con l’indice. «Mi fiderò sempre di te, Chaton.»

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


9

Gabriel Agreste studiò le foto scattate il giorno precedente. Vincent e il suo staff avevano fatto un lavoro egregio nell’immortalare Adrien, in pose che valorizzassero sia la sua figura che il capo che indossava. Anche la scelta della location era stata azzeccata in pieno.

Eppure, Gabriel era convinto che mancasse qualcosa a quel completo perché fosse perfetto: un dettaglio, un tocco di freschezza che slanciasse meglio il ragazzo che l’avrebbe indossato. Scorse le foto più volte, ma la scintilla nella sua testa non si accese. Sconfortato, spense il computer e si avviò verso la sala da pranzo per la colazione.

Adrien, già seduto al tavolo, lo accolse con un sorriso. Gabriel si sedette accanto a lui. Da anni aveva deciso di sostituire quel lungo tavolo in vetro che occupava gran parte della stanza, ritenendolo freddo ed impersonale. Su suggerimento di Adrien, aveva fatto arredare la stanza con un tavolo per quattro persone, due divani ad angolo e un televisore da ottanta pollici affisso sul muro, così da poter seguire insieme ai suoi amici le partite del Paris Saint Germain.

«Stanco per ieri?» Gabriel versò del latte e del caffè nella tazza.

«Un po’. Che ne pensi del servizio?»

«Sono molto soddisfatto delle foto. Meno del vestito. Credo dovrò dargli una ritoccata e farlo esaminare meglio dal mio staff.»

Adrien mugugnò e tornò a osservare il braccialetto che aveva al polso. Lo portava spesso in occasioni importanti, come se fosse il suo portafortuna. Quella mattina, sembrava lo stesse studiando nei minimi dettagli.

Gabriel si schiarì la voce. «Probabilmente lo sapevo già e l’avrò dimenticato, ma vorrei sapere dov’è che hai preso quel braccialetto. È…», cercò le parole adatte, «...Originale.»

«È speciale» mormorò Adrien, le dita che accarezzavano la cordicina rossa. «Me lo regalò una mia amica tempo fa.»

«Un’amica speciale come quel braccialetto.» Gabriel non poté fare a meno di notare la sfumatura cremisi che colorò le guance di Adrien. «Ha un nome questa ragazza?»

«Marinette Dupain-Cheng.»

«Oh, la ragazza che giusto ieri avete accolto alla stazione.» Gabriel sorrise. «Ecco perché stamattina non stacchi gli occhi dal suo regalo.» Adesso anche le orecchie di Adrien erano color porpora. «Mi hai detto che ha seguito un corso per diventare stilista a Milano, giusto?»

Adrien annuì. «Ha passato l’esame con il massimo dei voti. E non immaginerai mai chi è il suo ragazzo.»

«Chi?»

«Alessio Tancredi.»

Gabriel ne fu piacevolmente sorpreso. Alessio Tancredi era uno dei più importanti acquisti che la casa Agreste avesse fatto a livello internazionale. Aveva iniziato la carriera da modello fin dall’età di sette anni; la sua fama era cresciuta tanto da diventare uno dei più ricercati da tutti gli stilisti. All’età di diciannove anni, si era allontanato per più di un anno dai riflettori, scegliendo di viaggiare per il mondo – o almeno così aveva dichiarato – e solo da poco era tornato in auge. Nel momento giusto per far schizzare in alto il marchio Agreste. Era noto anche per riscuotere notevole successo tra le fila femminili, cosa che non guastava in quel lavoro.

La scintilla che Gabriel cercava si accese in quell’istante. Adrien gli aveva servito la strada giusta su un piatto d’argento. «Credi che Marinette sia disponibile a darmi un consulto?»

Adrien per poco non si strozzò con uno spicchio di mela. «Come?»

«Marinette è appena uscita dalla migliore accademia di moda a livello europeo con il massimo dei voti. Sono sicuro che parecchie case le abbiano già messo gli occhi addosso pur di accaparrarsi le sue creazioni, d’altronde l’Accademia è famosa per fare sfoggio degli studenti talentuosi che sforna. Pensavo potessi sfruttare la sua amicizia, magari potrebbe diventare una disegnatrice ufficiale del marchio Agreste.»

«Sarebbe fantastico!» Alzandosi dalla sedia, Adrien rovesciò una tazza e il piatto da cui stava mangiando. «La chiamo subito.»

«Adrien.» Gabriel lo fermò sulla soglia della porta. «Dille che l’invito è esteso anche per il suo fidanzato. Voi due insieme asfalterete la concorrenza.»

 

Nathalie gli aveva raccontato che circa quattro anni prima, Marinette Dupain-Cheng aveva vinto un concorso scolastico il cui scopo era presentare un accessorio che andasse bene con un completo scuro. Il cappello che aveva presentato la ragazza aveva riscosso un tale successo da colpire anche Audrey Bourgeois. Ciò convinse Gabriel che la sua idea era perfetta. Se necessario, avrebbe anche cestinato i disegni su cui aveva lavorato negli ultimi mesi.

Pur di essere presente all’incontro, Adrien aveva annullato un pomeriggio di biliardo con il suo migliore amico, Nino Lahiffe.

Gabriel attese gli ospiti ai piedi delle scale, nel salone d’ingresso della Villa. Adrien era accanto a lui, con indosso il vestito con cui aveva posato per il servizio fotografico pochi giorni prima.

«Benvenuti» disse Gabriel, quando i due ragazzi entrarono dal portone.

«La ringrazio dell’invito, Monsieur Agreste.» Marinette si rivolse a lui con garbato rispetto, senza alcuna traccia di timore referenziale. Adrien l’aveva descritta come una ragazza timida e raramente sicura dei propri mezzi. La prima impressione lo smentì del tutto. Portava un vestito bianco con fantasie floreali, in vita una cintura di cuoio beige e, sotto al braccio, una borsa abbinata. Aveva il volto angelico, fine e definito, e un fisico slanciato ed armonioso.

«È un piacere rivederla, signor Agreste.» Alessio Tancredi gli strinse la mano. Indossava una maglia bianca, larga, forse di un paio di taglie più grande, con uno scollo a V tenuto insieme da lacci, e dei pantaloni neri tenuti su da un vistoso cinturone. Gli mancava solo un orecchino per sembrare un vero pirata. Nonostante tutto, non gli si negava il portamento e la classe che ostentava in ogni suo gesto. Salutò Adrien con una manata sulla schiena, come se fossero amici di lunga data.

Gabriel li condusse nel suo studio e li fece accomodare su delle poltrone bianco perla. «Volevo farti innanzitutto i miei complimenti per l’eccellente risultato che hai conseguito all’Accademia di Moda di Milano, Marinette.»

«Grazie, signore. Il suo apprezzamento vale quanto quel voto.» Marinette fece una pausa, passando lo sguardo da lui ad Adrien. «Sono addolorata per ciò che avete subito anni fa. Vorrei aver potuto fare di più, ma i tempi ristretti non me lo consentirono.»

«All’inizio è stato difficile non lo nego» disse Gabriel. «Ma Adrien e Nathalie mi sono stati vicini tutto il tempo, giorno e notte. Ho ancora dei buchi, ma non ci faccio caso. Guardo solo al futuro.»

«Approvo in pieno.» La voce di Alessio echeggiò per la stanza come un rombo di tuono. Aveva energia da vendere. «Devo dire che questo vestito ti sta benissimo, Adrien.»

«Non diresti lo stesso se mi avessi visto a fine servizio l’altro giorno. Era praticamente parte di me.» I tre ragazzi scoppiarono a ridere.

Gabriel fece un leggero sorriso. «Tu che ne pensi, Marinette?»

«Vediamo...» La ragazza si alzò in piedi e studiò i dettagli del completo. Quando ebbe finito, si rivolse allo stilista: «Secondo me, si può eliminare il panciotto. Darebbe un tocco più giovanile.»

Adrien, ad un cenno del padre, seguì il suggerimento e si liberò del panciotto rosso.

«Interessante.» Gabriel si portò una mano al mento.

«Vedrei bene anche una versione dark dello stesso modello» aggiunse Marinette.

Gabriel immaginò nella sua mente il vestito che indossava Adrien ma nero. E l’idea gli piacque molto. «Magari il bianco starebbe meglio su di te, Alessio.» Indicò la sua maglietta.

Marinette concordò. «Vero. E Adrien spiccherebbe di più con il completo nero.»

Gabriel notò un lieve rossore sulle gote del figlio e sogghignò. «Eccellente, Marinette. Non sbagliavo quando dicevo che saresti stata un’ottima consulente.»

Marinette accolse il complimento con un ampio sorriso. «In tutta onestà, Monsieur Agreste, ho sempre sognato poter collaborare con lei.»

«In tal caso», Gabriel tese una mano, «avrei piacere se tu mi mostrassi qualche tua creazione. Anche qualche bozzetto andrà bene.» Non gli sfuggì il cinque che si scambiarono di nascosto Alessio e Adrien. “Questa ragazza sa farsi volere bene da tutti.”

Marinette estrasse dalla sua borsa un quaderno dalla copertina azzurra e glielo porse. Gabriel fu colpito dalla precisione del tratto, dall’attenzione ai dettagli, dall’inventiva fuori dal comune. Ogni disegno aveva una caratteristica peculiare che lo rendeva unico. Si fermò su due pagine raffiguranti una donna vestita di rosso con accessori neri, i capelli legati in due codini da due fasci rossi, e un uomo vestito con uno smoking nero, farfallino e fiore all’occhiello verdi, completo di bastone e cilindro.

«Quelli sono ispirati ai nostri due eroi di Parigi» disse Marinette, indicando i disegni. «Ladybug e Chat Noir.»

Gabriel sentì la testa vorticare. La stanza intorno a lui si rovesciò, la gola si serrò e respirare divenne difficile. Gli occhiali gli caddero dal naso. Il busto si accasciò in avanti.

«Papà.» Adrien lo soccorse subito, passandogli un braccio sotto l’ascella. «Papà, che hai?»

Gabriel respirò a fondo, seppur con difficoltà, e la vista gli tornò normale.

La porta dello studio si spalancò con un tonfo e Nathalie entrò di scatto. «Mi ha chiamato il signor Tancredi. Gabriel… Gabriel stai bene?»

Il respiro di Gabriel tornò regolare. Annuì. «Ho solo avuto un forte capogiro. Ma ora sto meglio.» Le orecchie gli fischiavano ancora.

Adrien lo aiutò a rialzarsi. «Ti accompagno in camera.»

Gabriel gettò un altro sguardo ai disegni. La testa tornò a girargli, stavolta il moto era ancora più intenso. Cadde in avanti e perse i sensi.

 

Si trovava in un luogo buio, umido. Il soffitto doveva essere molto alto, tanto da non riuscire a scorgerlo. Era nebbia quella che vedeva, o solo i suoi occhi? L’ambiente tetro gli metteva i brividi.

Sul fondo, una flebile luce illuminava uno spazio verde: un giardino. Lui mosse dei passi strascicati, camminando su una grata di ferro. Con le mani, trovò ai lati delle ringhiere su cui poggiarsi. Le gambe gli dolevano e dovette sforzarsi per avanzare.

Nella luce apparve la sagoma di una donna dai lunghi capelli biondi con giacca e pantaloni bianchi. Lui la conosceva quella donna. Amava quella donna.

«Gabriel», lei allungò una mano in avanti, «Gabriel, vieni da me.»

Lui affrettò il passo, ma le gambe gli cedettero e dovette poggiare un ginocchio sulla grata.

«Gabriel» ripeté la donna «Gabriel, il mio quadro. Apri il mio quadro.»

Lui sporse le mani in avanti. Era troppo lontano da lei.

Due oscure figure piombarono dal cielo, come rapaci. Si frapposero tra lui e la donna. Una era una donna, o forse una ragazza, con un costume rosso a pois e i capelli legati in due codini. Il volto però era indecifrabile. L’altra era un uomo, con orecchie e coda da gatto. Soffiava proprio come un felino.

Lui scorse un ghigno maligno sui loro volti ammantati d’ombra. Si voltarono all’unisono verso la donna, che impallidì alla loro vista.

«Aiutami!» gridò lei. «Salvami!»

“Emilie!”, ma dalla bocca non gli uscì alcun suono. Era come se fosse serrata. “Emilie, no!”

Le due figure la presero sotto braccio e sfrecciarono via in un lampo oscuro. L’avevano presa, e lui non l’avrebbe più rivista.

Una mano si posò sulla sua spalla. Lui sussultò, gli occhi iniziarono a bruciargli come fiamme.

«Papà.» Era la voce di Adrien. «Perché hai lasciato che la portassero via?» Stava piangendo. Lui cercò di voltarsi, ma Adrien glielo impedì serrando la mano sulla spalla. «Perché non hai fatto nulla per salvarla? Ora lei non tornerà più.»

“Non tornerà più.”

 

Gabriel spalancò gli occhi.

Era sdraiato sul letto, nella sua camera. La persiana della finestra era chiusa a metà. La testa gli girava ancora, le orecchie non gli fischiavano più e sentiva la gola secca.

“Emilie”, volle urlare, ma gli uscì solo un sussurro.

«Papà» Adrien era seduto accanto al letto, la mano stretta nella sua. «Come ti senti?»

Gabriel sbatté le palpebre. «Acqua» mormorò.

Adrien sollevò la brocca poggiata sul comodino e verso l’acqua fino all’orlo del bicchiere.

Gabriel bevve con avidità. L’acqua fresca gli restituì vigore. «Ora bene.»

«Per fortuna Alessio ti ha afferrato in tempo prima che cadessi a terra. Ci ha dato una mano a portarti qui. Volevo che ti visitasse un dottore, ma Nathalie si è opposta.»

«Sto bene.» Sventolò una mano. «Vorrei restare solo se non ti spiace.»

Adrien fece un’espressione delusa. «Sono nella mia stanza se hai bisogno. E Nathalie è nel suo studio. Puoi chiamarla all’interfono.» Si alzò e lasciò la camera.

Rimasto solo, Gabriel ripensò a quel sogno. Era strano, ma ricordava ogni singolo dettaglio. Quella donna – “Era Emilie, ne sono certo.” – aveva parlato di un quadro. “Del suo quadro.” Che si riferisse a quello nello studio? E chi erano quelle due figure maligne? Erano molto simili a quelli nel disegno di Marinette.

L’avevano portata via da lui. Chiunque fossero, lui li odiava entrambi. Voleva vederli distrutti.

Con un moto di stizza si alzò dal letto. Fu sollevato dal constatare che il capogiro era passato e le gambe gli reggevano alla perfezione, al contrario del sogno. Lasciò la stanza e raggiunse lo studio. I corridoi della villa erano deserti, freddi, come se rispecchiassero il suo stato d’animo interno. Era inquieto.

Ritrovatosi dinnanzi al quadro a mosaico di Emilie, lo osservò da vicino. Una vocina si fece largo nella sua mente e gli suggerì di premere la superficie del dipinto, in punti precisi. Lui lo fece. Scattò un meccanismo: il pavimento intorno ai suoi piedi si aprì e lui iniziò a scendere verso il basso. Era un ascensore, un lungo condotto simile ad un tubo in plexigas che lo conduceva nei sotterranei della villa.

Il luogo in cui si ritrovò era identico a quello del sogno, con più luce e senza quella fastidiosa nebbiolina. C’era una passerella in ferro che conduceva ad un giardino, illuminato da una finestra circolare sul fondo della sala. Gabriel si incamminò, il cuore che gli martellava furioso nel petto. Al centro del giardino c’era una capsula e al suo interno… Emilie Agreste, la sua moglie defunta. O almeno così gli avevano fatto credere. Aveva le mani incrociate sul ventre, un sorriso dipinto sul volto sereno. Gli occhi chiusi.

Gabriel posò una mano sul vetro. «Emilie.» Alle spalle della capsula, numerose piante reggevano crisalidi. Farfalle bianche si posavano sulle foglie spiegando le loro candide ali. Accanto, vi era uno scaffale a tre piani: su ogni fila erano posate delle fialette, ognuna con del liquido di colore diverso.

Una serie di flashback gli scorse davanti agli occhi: immagini di battaglie, sotterfugi, poteri arcani, piccole creature magiche. E lui ricordò ogni cosa.

Lui era Papillon.

Lui bramava vendetta.

Lui voleva il Potere Assoluto per risvegliare Emilie e vivere felice con lei e Adrien.

I ricordi gli erano stati tenuti segreti. E sapeva benissimo da chi. Il sangue gli ribollì nelle vene. Furioso, risalì con l’ascensore e rientrò nello studio. Scostò il quadro di Emilie e aprì la cassaforte.

“Vuota.” Spalancò gli occhi iniettati di sangue. Dov’erano i Miraculous e il Grimorio? “Nathalie.”

Uscì in silenzio e si avviò verso la camera di Nathalie. Doveva per forza averli nascosti lì. Entrò e si fiondò al cassetto accanto al letto. E li trovò. Due scatoline metalliche poggiate sopra al libro, il Grimorio dei Miraculous. Restava da capire che fine avessero fatto le traduzioni che aveva rubato all’ormai ex Guardiano di Parigi, quell’omuncolo che aveva cercato invano di opporsi al potere di Papillon.

Quando rientrò nel suo studio, la rabbia gli scorreva ancora feroce nelle vene. Accese il computer e chiamò all’interfono Nathalie. «Raggiungimi nello studio.» Se lei avesse colto il tono imperioso, tanto meglio. Doveva capire fin da subito che tenergli nascosto tutto era stato un errore.

Udì tre timidi colpi alla porta. Nathalie entrò senza attendere risposta. Sbatteva più volte le palpebre e si massaggiava il braccio sinistro.

Gabriel posizionò una sedia davanti allo specchio. «Accomodati.» E non era un invito.

«Hai ricordato, vero?» Nathalie chinò il capo. «Quando Adrien mi ha raccontato dei due disegni e di come avevi reagito, ho capito che non ci avresti messo molto a ricordarti tutto. Il dottore aveva detto che serviva un forte shock emotivo perché riaffiorassero i ricordi perduti.»

«Siediti» ripeté lui, in tono imperioso.

Nathalie eseguì senza repliche.

«Cosa speravi di ottenere, tenendomi nascosto tutto?»

«La tua serenità.» Nathalie continuò a massaggiarsi il braccio. «La felicità tua e di Adrien.»

«Senza l’amore di Emilie?»

«Mi pare che tu abbia metabolizzato bene la sua morte e abbia vissuto in pace questi tre anni.»

«Lei. Non. È. Morta.» Ebbe l’impeto di sferrare un pugno sul muro. Si trattenne. «Dove sono le traduzioni del Grimorio?»

«Conservate nel mio tablet, protette da password.»

Gabriel aprì la scatolina metallica contenente la spilla della Farfalla e la appuntò sul colletto.

Nooroo si manifestò da un bagliore violaceo. «Mio padro-»

«Silenzio!» Gabriel allargò le braccia. «Nooroo, che le ali della notte si innalzino!» Il Miraculous lo trasformò in Papillon. Afferrò il mento di Nathalie e la costrinse a guardare il suo stesso volto riflesso nello specchio. «La vedi? Quella è l’espressione che tutti i cittadini di Parigi avranno dopo che avranno assaggiato la mia vendetta. Porterò di nuovo il terrore per le strade e i Miraculous di Ladybug e Chat Noir saranno miei!»

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


10


 

Marinette rimase a guardare mentre André, un omone con simpatici baffetti e basco rosso, serviva la cialda con il gelato ad Alya. Per la prima volta da quando si conoscevano, avevano scelto gli stessi gusti – cioccolato e nocciola.

Cercare e trovare il gelataio non era stato affatto semplice: André era noto per i suoi continui spostamenti per l’intera Parigi e le due ragazze avevano attraversato mezza città prima di trovarlo al Pont Neuf, accanto ad un albero. La temperatura non era più torrida come nei giorni passati e il cielo era nuvoloso, ma Marinette desiderava tanto potersi gustare un gelato insieme alla sua migliore amica. Erano più di tre anni che non accadeva e, l’ultima volta, non era stato piacevole per lei.

Mise da parte quel pensiero amaro e si concentrò sulle parole di Alya, intenta a raccontare un aneddoto accaduto durante gli ultimi giorni di scuola. «…E quindi Kim si prepara a lanciare il gavettone su Alix, sbaglia mira e prende in pieno Chloè.» Entrambe scoppiarono a ridere. «Avresti dovuto vederla: i capelli avevano l’aspetto di uno scopettone, il volto di mille colori. “Lo dirò a mio padre”, sbraitava imitando alla perfezione Draco Malfoy.»

«E dopo cos’è accaduto?»

«Nulla. Kim si è beccato solo un rimbrotto dal preside. Nessuna punizione.»

Marinette sospirò. «Quindi devo presumere che le minacce di Chloè non suscitino più tanto timore.»

«Mmh, questo non lo so.» Alya alzò le spalle. «Quando c’eri tu era diverso per lei. Tu eri la sua prima e, forse, unica vera rivale. Se credi che sia cambiata, povera te. Adesso da viziata capricciosa è passata a first lady.»

«Immagino.»

«Novità dal fronte Agreste?»

Marinette scosse la testa. «Adrien mi ha telefonato l’altro giorno, dicendomi che, al momento, il padre si sta rimettendo dal malore che ha avuto.»

«Adrien ti ha telefonato?» Alya sollevò entrambe le sopracciglia castane. «Questa sì che è una novità.»

«Almeno lui ha mantenuto un briciolo di buone maniere» disse Marinette stizzita. «Bel tipo, quel Gabriel Agreste. Prima mi invita nella sua villa per chiedermi consigli, poi si sente male», prese a contare con le dita, «Alessio gli salva la capoccia da una brutta fine, non ringrazia, e poi mi ignora del tutto.» Sbuffò e si cacciò in bocca il cucchiaino. «Dì un po’, Alya...» L’amica annuì con un’espressione perplessa. «Da quando Adrien si comporta come un emerito idiota?»

«Adrien… Che cosa?» Quello di Alya sembrò lo squittio di un topo.

«Mi hai sentita. Ci siamo rivisti due volte da quando sono tornata e avrà spiccicato massimo tre parole di senso compiuto.»

«Chi sei tu? Che fine ha fatto la Marinette Dupain-Cheng, perdutamente innamorata del bel biondo dalla scintillante armatura?»

Marinette arricciò la bocca. «Ad una certa si capisce che la bellezza non è tutto, Alya. Adrien era, e rimane, uno dei più bei ragazzi che io conosca. Forse il più bello. Ma, in tutto questo tempo che l’ho conosciuto, ha mostrato ben poche volte sostanza. Insomma, scodinzola al padre peggio di quanto faccia Leòn.»

«Adesso lo paragoni al tuo bel cagnolone?»

Gettarono i cucchiaini in plastica in un bidone e si sedettero sul bordo del cornicione che affacciava sulla Senna.

«Quanto mi manca.» Marinette sospirò. «Spero che la nonna venga al più presto a Parigi così da poterli riabbracciare.»

«Sì, sì.» Alya sventolò una mano. «Torniamo ad Adrien, per favore.»

«Che altro c’è da dire? Secondo me, dovrebbe mostrare un po’ più di carattere. Non è più un ragazzino. La scusa che non ha più la madre e che il padre è severo non sussiste più.»

«Accidenti. Mai avrei anche solo immaginato sentirti parlare così. Sono sorpresa. Povera Chloè se si mette sulla tua strada.»

«Aspetta che mi capiti a tiro Lila, piuttosto.» Marinette intrecciò le dita. Si udì uno scrocchio. «Al primo tentativo di darmi fastidio...» Non terminò la frase, lasciando che fosse l’implicito a parlare per lei.

Alya, infatti, la fissò con un misto di terrore e soddisfazione. «Ehi guarda chi c’è!» Indicò un punto al di là del fiume, sulla sponda opposta. Luka Couffaine era appena entrato da un orologiaio. La sua chioma azzurra legata in un codino era inconfondibile.

«Andiamo a salutarlo?» Marinette si alzò. Alya annuì e la imitò.

Attraversarono il ponte e si fermarono sul marciapiede davanti al negozio, in attesa che Luka uscisse. La porta si spalancò di colpo e ne uscì un uomo grassoccio, paonazzo in volto, con una zazzera brizzolata e due baffoni sotto al naso. Imprecava ed inveiva contro l’orologiaio ad alta voce.

«Che gli sarà successo?» domandò Marinette. Scrutò i dintorni con apprensione: la paura dell’arrivo di un’akuma la teneva sempre sull’attenti.

«Non ne ho idea, e...» Il cellulare di Alya squillò. Lei rispose. «Pronto mamma? Sì, sono con Marinette… Sì, certo… Adesso? Ma…» Sbuffò. «D’accordo, sono lì in dieci minuti.»

«Problemi?»

Alya chiuse la chiamata, un broncio disegnato sul suo viso. «Mia madre: ha ricevuto una chiamata urgente dal Gran Paris e ha bisogno di qualcuno, o per meglio dire qualcuna, che badi alle due pesti.»

«Va pure, non c’è problema.» Marinette la salutò con un abbraccio, contenta di aver potuto rivivere una mattinata in allegria con la sua migliore amica.

Luka uscì dal negozio. Indossava una maglietta senza maniche che gli metteva in risalto i muscoli delle braccia e delle spalle. «Marinette!»

«Acquisti per la tua bella?»

«In realtà, riparazioni» disse Luka, in tono esasperato. «È il terzo orologio che Vivica rompe negli ultimi mesi. Sembra lo faccia apposta.» Addolcì i tratti del viso. «Come stai?»

«Oh benissimo.» Si incamminarono, dirigendosi verso la sponda della Senna dov’era attraccato il Liberty, la nave di Anarka Couffaine. «Sono un po’ emozionata per il mio ritorno a scuola. Sarà tutto diverso.»

«Alessio è già partito?»

Marinette annuì. «Due giorni fa. Dovrà posare per un paio di servizi fotografici e, con tutta probabilità, girerà la pubblicità di un profumo…» La voce le si indurì. «Insieme ad una modella.»

«Non ti facevo così gelosa.»

Marinette grugnì e non rispose.

Un boato seguito dal fragore di vetri in frantumi rimbombò per la via. I due ragazzi si voltarono di scatto. Un gruppo di persone correva nella loro direzione, disperdendosi per le strade. Avevano tutti un’espressione terrorizzata. Alcuni urlavano, altri si ingegnarono alla ricerca di nascondigli.

Marinette indicò il punto da cui erano schizzate le schegge vetrate. «Quello non è...»

«L’orologiaio!» Luka le afferrò il polso e la trascinò con sé. «Dobbiamo cercare riparo.»

Marinette fece appena in tempo a vedere una sagoma imponente uscire dal negozio e gracchiare una risata. Represse l’impulso di staccarsi da Luka e cercare un luogo appartato per trasformarsi in Ladybug. Lo seguì per il dedalo di vie e vicoli. Man mano che si allontanavano, le urla divenivano più ovattate. La paura per le strade si ripercosse anche sul traffico: in pochi minuti le principali arterie parigine si intasarono.

Marinette continuò a seguire Luka senza obiettare. Le pizzicava la testa al pensiero di dover correre in aiuto di quelle persone ed affrontare l’akumizzato. “Proprio nel momento più sbagliato. Maledetto Papillon.”

Tikki fece capolino dalla pochette, invitandola con lo sguardo a cercare una scusa valida.

Si fermarono ansimanti ad un angolo. Marinette si appoggiò a un palo segnaletico, il cuore che galoppava in petto e il sudore che le scendeva dalle tempie. Scelse di legare i capelli in una coda per stare più comoda.

Luka osservava i dintorni con la fronte aggrottata, gli occhi guardinghi e attenti.

Non lontano da loro, risuonò un botto.

«È vicino.» La voce di Luka era spezzata dall’affanno.

Marinette strizzò gli occhi. Nel mezzo di un incrocio, c’era lo stesso individuo che aveva intravisto poco prima. Era rivestito da un’armatura bronzea, due piloni si muovevano in moto alternato sulla schiena. Aveva la pelle lilla, due enormi baffoni color latte ed un elmo a punta, su cui spiccavano le lancette di un orologio. Il collo massiccio era circondato da una catena da cui ciondolava un orologio a cipolla. Impugnava un forcone a due punte.

«Quel tipo l’ho già visto» disse Marinette.

Luka mugugnò in segno d’assenso. «L’ho incrociato dall’orologiaio. Ha urtato la mia spalla e non si è nemmeno sforzato di scusarsi.»

«Avevo intuito che fosse imbestialito.»

L’akumizzato sollevò il forcone. Le due punte emisero delle scintille, formando una sfera azzurrognola. Roteò il braccio e la sfera scattò in avanti colpendo il conducente di un automobile, il quale schizzò fuori dal veicolo e cadde a terra, la lingua di fuori, la carnagione colorata di blu, gli occhi strabuzzanti.

«Mio Dio!» Marinette era atterrita. «Che gli avrà fatto?»

«Non ne ho idea.» Luka si mise davanti a lei. «Qualunque cosa sia, è una sofferenza atroce.»

Marinette strinse i pugni. Non poteva più aspettare. Afferrò Luka per un braccio e lo trascinò lontano da lì. Aveva l’aria di essere molto scosso dall’immagine a cui aveva assistito, essendo una delle persone più sensibili ed empatiche che lei conosceva.

A due isolati di distanza, sarebbero giunti sul Pont Royal.

Marinette arrestò la corsa e si voltò verso Luka. «Rientra a casa» disse perentoria.

«E lasciarti sola durante un attacco akuma? Mai!»

«Ladybug e Chat Noir saranno già sul posto a combattere per proteggerci. Me la caverò. Ma sarei più tranquilla sapendoti al sicuro.»

Luka esitò. Marinette gli diede un abbraccio veloce e si allontanò di corsa, senza dargli possibilità di ribattere.

«Spero non mi segua.» Imboccò un vicolo al riparo da sguardi indiscreti. Udiva ancora in lontananza lo stridore delle frenate dei veicoli, le urla della gente e il suono metallico delle sfere di energia sparate dall’akumizzato. Aprì la pochette. Tikki le svolazzò accanto al viso.

«Non mi piace mentire in questo modo a Luka. Non lo merita.»

«È per la sua sicurezza» disse Tikki.

Marinette sbuffò. «Tikki, trasformami!»

 

Ladybug balzò sul tetto di un edificio. Con l’aiuto dello yo-yo si precipitò in strada.

L’akumizzato si voltò, le puntò contro il forcone e sparò due sfere d’energia.

Ladybug si accucciò schivando la prima. Roteò lo yo-yo davanti al volto a mo’ di scudo, la sfera si infranse sulla barriera schizzando scintille azzurre.

La corda dello yo-yo si tese, dando un forte strattone. Una scarica elettrica la attraversò e Ladybug dovette lasciare la presa. Lo yo-yo volteggiò da solo nell’aria, in senso orario poi in senso antiorario quindi di nuovo in senso orario. Piccole folgori lampeggiavano sul filo teso.

L’akumizzato attaccò con una carica, Ladybug si gettò di lato e scivolò al riparo di un furgone. Lo yo-yo ricadde a terra inanimato in un groviglio di fili.

La risata tonante dell’akumizzato echeggiò nell’aria. «Non puoi sconfiggere il tempo.» Rise di nuovo. «Arrenditi a Chronosium e consegnami il tuo Miraculous.»

“Chronosium…” Il braccio di Ladybug formicolava per la scossa. “Che razza di nome.” Scrutò sui tetti in lontananza. “Dove diavolo sei, Chat Noir?”

Il furgone barcollò, il motore ruggì e gli pneumatici produssero un sibilo. Altre scintille divamparono dalla carrozzeria e il veicolo fu sbalzato lontano. Ladybug esitò: lo yo-yo giaceva immobile sull’asfalto, Chronosium le puntava il forcone contro.

«È finita per te, Ladybug.» L’akumizzato sogghignò sotto i folti baffi.

Ladybug restò immobile, mani e ginocchio poggiate a terra. Chronosium sollevò il forcone e caricò la sfera di energia. Puntò e sparò.

“Ora!” Ladybug saltò in alto, schivando la sfera, allargò braccia e gambe e si proiettò su Chronosium con tutto il peso del corpo. L’imponente mole lo aiutò a restare piantato sulle gambe.

Ladybug si aggrappò al torace corazzato e gli scagliò una ginocchiata in pieno volto, appena sopra i baffoni. Un grugnito di rabbia rantolò dalla bocca dell’akumizzato.

Ladybug atterrò sull’asfalto con una capriola, afferrò lo yo-yo e lo lanciò aggrappandosi ad un comignolo. Con uno strattone volò via di lì.

Alle sue spalle Chronosium urlò: «Non puoi fuggire per sempre, codarda!»

Ladybug si rifugiò tra un cornicione ed una cabina dell’ascensore. Testò il corretto funzionamento dello yo-yo, constatando con sollievo che non aveva più problemi. Lo aprì e chiamò Chat Noir con la funzione telefono.

Squillò più volte, ma non ci fu risposta.

Lo richiuse con stizza. «Non posso affrontare quel mostro da sola. Sono anche fuori allenamento.» Prese la testa tra le mani e si concentrò. L’unica soluzione era ricorrere ad un alleato per tenere a bada Chronosium frattanto che Chat fosse arrivato sul campo.

Balzò sui tetti limitrofi e si diresse verso casa sua.

 

«Ritrasformami.» Marinette scivolò sul corrimano della scala che conduceva al letto a soppalco. Nonostante non avesse fatto uso del Lucky Charm, porse un biscotto a Tikki e si avvicinò al baule nell’angolo. Lo aprì, estrasse la scatola in metallo e girò la chiave del lucchetto.

Afferrò la Miracle Box; premette uno dei pois, che si illuminò di bianco. Vi infilò la mano e ne cavò una scatolina, della stessa forma e colori della Miracle Box.

«So che è un rischio, ma al momento non credo di avere molta scelta. Ho bisogno di qualcuno che sappia cosa fare e come farlo. Combatterò il tempo con chi il tempo può riavvolgerlo.»

 

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


11

Luka camminava a passo svelto e deciso verso il Liberty. Aveva avuto l’istinto di seguire Marinette ed accompagnarla fino a che non si fosse accertato della sua incolumità. Invece, lei si comportava come se fosse lui quello da proteggere.

Scese le scale che conducevano sulla riva della Senna, al molo dov’era ancorato il Liberty. All’ultimo gradino un fulmine rosso gli si palesò davanti.

«Ladybug?»

«Non ho molto tempo.» Ladybug gli porse una scatolina rossa di forma ovale. «Luka Couffaine, ti affido il Miraculous del Serpente, lo userai per un bene superiore.»

Luka annuì e aprì la scatolina.

Dal bracciale verde marino si manifestò Sass, un Kwami simile ad un cobra con due denti aguzzi sporgenti. «Salve di nuovo.» La sua voce era un sibilo.

«È un piacere rivederti, Sass.» Luka infilò il bracciale. «Trasformami!» Un lampo bianco e verde lo investì, un’arpa comparve nella sua mano destra.

«Ho bisogno del tuo potere, Viperion» disse Ladybug. «Abbiamo a che fare con un akumizzato che controlla in qualche modo gli attimi temporali di individui e oggetti. L’importante è non farsi colpire dalle sue sfere di energia.»

Viperion scostò la levetta sul bracciale all’indietro. «Second Chance!» Alzò il pollice. «Sono pronto.»

«Prima di andare», Ladybug lo fermò posandogli una mano sul petto, «è bene che tu sappia che non ho idea di dove sia Chat Noir. Ho provato a contattarlo ma non risponde. Non so se si unirà alla battaglia, ma meglio prepararci all’eventualità che possa non venire.»

«Sono sicuro che ha un’ottima ragione per non essere al tuo fianco.»

 

Viperion seguì Ladybug per i tetti di Parigi. L’eco delle urla delle vittime di Chronosium era straziante. Lampi e scariche elettriche brillavano per le vie. I poveri malcapitati erano privi di sensi o in preda a convulsioni frenetiche, come se fossero stati colpiti da un taser ad alto voltaggio.

Chronosium aveva un’andatura lenta, appesantita dalla spessa corazza, ma inesorabile.

«Credo che l’akuma si trovi nel forcone o nell’orologio appeso al collo.» Ladybug scosse la testa. «Dovremmo andare a tentativi.»

«Sfrutteremo il mio potere.»

«Nasconditi: è meglio che, per ora, non sappia che ci sei anche tu.»

«Fa attenzione.» Viperion circumnavigò la piazza e si appostò su una cabina della ruota panoramica di Place de la Concorde, evacuata dai tutori dell’ordine per l’emergenza akuma. Da lì aveva un’ottima visuale sullo spiazzale e poteva anche udire le voci dalla strada.

«Ehi baffone» urlò sprezzante Ladybug. «Sono tornata.»

Chronosium proruppe nella solita risata tonante. «Che c’è, il gatto non è voluto venire?» Esitò, lo sguardo divenne vacuo.

“Papillon gli sta suggerendo le mosse telepaticamente”, pensò Viperion.

Chronosium sollevò il capo e si guardò intorno. Serrò le mani sul forcone e lo fece roteare sulla testa: una pioggia di scintille cadde dalle punte e si dispersero sulla strada per decine di metri.

Ladybug lanciò lo yo-yo e si appollaiò su un lampione, l’unico punto di appoggio nei dintorni.

Chronosium scagliò una sfera di energia diretta alla ruota panoramica.

Dannazione.

Viperion balzò giù dalla cabina, che fu colpita dalla sfera. La ruota panoramica ebbe un sussulto, gli ingranaggi produssero un assordante scricchiolio, le cabine ballonzolarono avanti e indietro.

Una seconda sfera passò accanto al fianco di Viperion. Un cavo nero gli avvolse la vita e lo trascinò accanto a Ladybug, appeso a testa in giù, il naso che sfiorava l’asfalto elettrificato.

«Non hai speranze Ladybug.» Chronosium rise e tese una mano. «Consegnatemi i vostri Miraculous e vi risparmierò sofferenze atroci.»

Viperion si issò sul filo dello yo-yo. «Mi dispiace. Avrei dovuto trovare un punto migliore.» Le dita scivolarono sul braccialetto.

«Non ora.» Ladybug gli afferrò il polso. «Ho ancora una carta da giocare.» Lanciò in aria lo yo-yo. «Lucky Charm!»

Stese le braccia per afferrare l’oggetto materializzato. Una sfera di energia la colpì al torace e la sbalzò a terra.

«Ladybug!» Viperion imprecò per la sua distrazione. Toccò il braccialetto e spostò l’interruttore all’indietro. Una scarica elettrica lo investì. I muscoli si paralizzarono e dolori atroci simili a migliaia di spilli infilati nella pelle si propagarono per tutto il corpo. Un odore di agrumi toccò le sue narici, mentre un bagliore bianco lo accecò. Perse i sensi.

 

Adrien sollevò il jo e parò il colpo di Katami sferrato dall’alto. Spinse il bastone in avanti, ruotò il corpo facendo perno sul piede sinistro e sferrò un colpo laterale. Katami arretrò di due passi e schivò l’attacco. Entrambi tornarono in posizione di guardia.

Si trovavano nella palestra di Katami, dove si allenava sostenuta dai suoi coach. Il pavimento era in parquet, le pareti scorrevoli decorate in stile orientale.

Si stavano cimentando in un incontro di aikido, muniti di jo, il bastone da utilizzare per offesa o difesa, vestiti con una lunga vestaglia nera, piedi nudi e maschera protettiva sul volto. L’idea era partita da Katami, entusiasta di avere Adrien come sparring partner nel suo allenamento quotidiano. Nei primi minuti, il giovane Agreste aveva incontrato delle difficoltà: a differenza del fioretto, il jo andava impugnato con entrambe le mani e la coordinazione di entrambi gli arti superiori era fondamentale. Pian piano stava iniziando ad acquistare piena padronanza dell’arma che impugnava. Quell’allenamento era l’ideale per tenere pronti i riflessi ed affinare la sua destrezza in combattimento. Gli sarebbe tornato utile in un eventuale scontro nei panni di Chat Noir.

Adrien sfruttò un rapido gioco di gambe per creare una breccia nelle difese di Katami. Spostò il peso del corpo sulla sinistra ed affondò il jo puntando il fianco della ragazza. Katami, invece di parare il colpo, lasciò scivolare il jo di Adrien sul suo. Lui perse l’equilibrio piegando il busto in avanti. Katami gli colpì l’incavo del ginocchio, lo spostò con una spallata ed affondò il colpo sul torace scoperto. Adrien cadde a terra con un tonfo.

Katami si tolse la maschera e si fiondò accanto a lui. «Stai bene?»

Adrien si poggiò sui gomiti. «Gran bella mossa.» Si tolse anche lui la maschera. Non poteva negare di provare una punta di delusione essendo stato a un passo dalla vittoria.

«Eccellente incontro, Adrien.» Tomoe Tsurugi, una donna dai capelli neri legati stretti in una crocchia, con indosso un paio di occhiali scuri, era seduta su una sedia imbottita, al lato della palestra. «Mia figlia non sbagliava a dire che tu sei l’unico degno di lei.»

Katami chinò il capo arrossendo.

Adrien inarcò un sopracciglio. «Ma come...»

«Anche se non vedo, sento benissimo le battute che vi siete scambiati con i jo. Di solito gli incontri di Katami terminano in un minuto. Tu le hai tenuto testa per più di cinque minuti.»

«La ringrazio, Tomoe San.»

«Sarà meglio fare una pausa» disse Katami. «Riprenderemo più tardi.»

«Molto bene.» Tomoe si alzò, aprì il pannello laterale e lasciò la palestra.

Il tono freddo della donna provocò un brivido di disagio in Adrien. Conosceva poco Tomoe Tsurugi – l’aveva incontrata solo in poche occasioni e sempre in eventi pubblici – e, da come ne parlava Katami, era molto simile a Gabriel prima dell’incidente.

Scomparve dietro un separé con fantasie giapponesi dipinte in rosso. Si spogliò della vestaglia nera e provò una sensazione di libertà. Si asciugò il torace, su cui avvertiva un piccolo risentimento del colpo subito, e si infilò bermuda bianchi e una t-shirt azzurra. Gettò un’occhiata nella sua borsa: Plagg aveva le cuffiette nelle orecchie ed ascoltava musica dal cellulare, muovendo la testa a ritmo. “Perlomeno non sta dormendo o mangiando.” Vederlo in attività diverse da quello che era solito fare era sempre una sorpresa.

Scostò il separé e stiracchiò i muscoli. «Potrei avere un po’ d’acqua?»

Katami ricomparve con indosso un kimono bianco di seta, i capelli legati in un codino. «Seguimi.»

Lo condusse attraverso un salone arredato ad alternanza tra lo stile europeo e quello orientale. Sulle pareti spiccavano foto e riconoscimenti sportivi di intere generazioni. Prima di allenarsi, Katami aveva promesso che gli avrebbe fatto vedere la stanza dov’erano conservati tutti i trofei conquistati in decadi di competizioni. Lo stemma della famiglia Tsurugi, che Adrien aveva visto sull’anello di Katami, era disegnato su ogni porta.

Attraversarono una porta scorrevole che conduceva nel giardino interno della villa. Il profumo dei fiori di loto, coltivati ed accuditi in un piccolo orto vivacizzato da una miriade di colori, inebriò Adrien.

«Wow! Casa tua è magnifica.»

«Ti ringrazio, Adrien.»

Si accomodarono sulla panchina in pietra al centro del giardino. Un domestico giapponese portò un carrellino con due caraffe – una con acqua ed una con una bevanda dal colore paglierino – e quattro bicchieri.

Katami ringraziò il domestico, che si inchinò. «Preferisci acqua o tè freddo?» chiese ad Adrien.

«Vada pure per il tè freddo.»

Nonostante la giornata fosse calda, nella dimora Tsurugi si avvertiva un piacevole fresco, anche all’aria aperta.

Bevvero in silenzio il tè. Adrien guardava di sottecchi Katami, cercando di carpirne i pensieri. A volte riusciva nell’intento nonostante le difficoltà nel leggere quel volto impassibile, che raramente esternava emozioni.

Fu lei a rompere il silenzio. «Tuo padre si è ripreso dal malore?»

«È ancora un po’ scosso. Parla poco, mangia anche meno. Passa le giornate segregato nel suo studio a fare chissà cosa. Spero stia organizzando la collaborazione con Marinette.»

«Cosa c’entra Marinette?»

Adrien sollevò le sopracciglia. «Oh certo, a te non l’ho ancora detto. Papà ha deciso di proporle una collaborazione di moda, che include anche me e Alessio, il ragazzo che l’ha accompagnata al ritorno a Parigi-»

«Intendi il suo fidanzato» soggiunse Katami.

«Quello che è… Insomma, lei gli ha dato dei consigli sul vestito che ho indossato a quel servizio fotografico dell’altro giorno, quando sei venuta anche tu, e sono stati fenomenali. Da allora, però, papà non è più tornato sull’argomento e temo che questo possa aver offeso in qualche modo Marinette.»

Katami voltò la testa. «Sono certa che tuo padre farà la cosa giusta.» Il tono amichevole e cordiale era scomparso sotto la solita nube di impassibilità.

Adrien colse un velo di rabbia o risentimento. Qualcosa turbava l’animo di Katami, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse. «Tutto bene Katami?»

«A breve ricomincerà la scuola.»

Era quello il problema allora? La scuola, o magari gli amici. Era plausibile: lei gli aveva detto di non essere legata a nessuno. Le uniche eccezioni erano lui e Marinette.

Tuttavia, trovava strano quell’atteggiamento: un tratto distintivo della personalità di Katami era la sua schiettezza, non si nascondeva mai dietro a un dito ed affrontava sempre le situazioni con risolutezza. Dunque, perché gli sembrava che avesse eretto un muro tra loro due?

Tentò di sviare il discorso, con un approccio diverso. «Chissà se quest’anno, come il primo giorno che la incontrai, Marinette preparerà i macarons per tutti.» Katami gli scoccò uno sguardo affilato. «Se vuoi posso chiederle di tenerne qualcuno da parte per te. Sono deliziosi» proseguì imperterrito Adrien.

Katami si alzò. «Sarà meglio riprendere l’allenamento» disse in tono asciutto. Rientrò in casa, lasciandolo con mille dubbi e centinaia di domande.

Credeva di conoscere bene Katami. Quel suo lato introverso e poco propenso al dialogo era una novità.

«Adrien!» Katami riapparve sulla soglia, pallida in volto.

Alle sue spalle si palesò il gorilla, il quale gli fece cenno di seguirlo.

“E ora che diavolo succede?”

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


12

Luka aprì gli occhi. Aveva il cuore che gli galoppava nel petto e la fronte madida di sudore. Sbatté più volte le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco l’ambiente che lo circondava: era nella sua stanza, sul Liberty. Timidi raggi solari penetravano attraverso le veneziane.

Si sedette a metà letto. Un lieve aroma di agrumi gli toccò le narici. Sbuffò e si alzò. Aveva avuto un incubo, di quelli tremendamente reali. Per fortuna ricordava solo alcuni flash, immagini sfocate che andavano diradandosi nella mente. Era certo che al centro dell’incubo ci fosse Marinette, ma non fu in grado di ricostruire l’intera scena.

Dopo essersi preparato, aprì il cassetto della scrivania e prese l’orologio di Vivica da portare dall’orologiaio per farlo riparare. Uscì sul ponte: sua madre Anarka stava intonando un motto piratesco, Juleka ascoltava la musica col suo ipod. Le salutò e si avviò verso l’orologiaio.

Entrato nel negozio, un uomo corpulento con una smorfia di rabbia dipinta sul volto lo urtò con la spalla ed imprecò: l’odore acre di agrumi si fece più intenso e gli causò un capogiro. Una scossa gli fece ritrarre il polso. Osservò attraverso la vetrina l’uomo allontanarsi.

«Tutto bene ragazzo?» L’orologiaio, un ometto calvo con occhialoni marroni, fece capolino da dietro il bancone.

Luka si voltò ed annuì. Gli consegnò l’orologio e si raccomandò di trattarlo con cura. Vivica l’avrebbe impiccato alla maniera piratesca se gliel’avessero rotto.

Uscendo dal negozio, incrociò Marinette. L’odore di agrumi tornò ad infastidirgli il naso.

«Stai bene?» Marinette gli aveva appena raccontato che Alessio era tornato a Milano per un servizio fotografico ed una pubblicità di un profumo. «Mi sembri un po’ pallido.»

Luka aggrottò la fronte, lo sguardo vacuo e confuso. «Ho una strana sensazione di deja-vu.»

Marinette fece spallucce. «Capita spesso anche a me.»

Alle loro spalle, rimbombò un fragoroso boato e il rumore di vetri rotti. Proveniva dal negozio dell’orologiaio.

Luka afferrò Marinette per il polso e la incitò ad allontanarsi da lì. Attraversarono il dedalo di strade cittadine e assistettero alla scena straziante di un uomo colpito da un akumizzato corazzato dalla testa ai piedi. Luka era certo di aver già assistito a quella scena. Sul Pont Royal, Marinette suggerì di dividersi in modo che entrambi potessero raggiungere casa incolumi.

Per un istante, Luka ebbe l’istinto di seguire Marinette in modo da non lasciarla sola. Poi, decise di fidarsi del suo suggerimento ed avviarsi verso casa.

Sulle scale che conducevano al molo dov’era attraccato il Liberty, Ladybug atterrò davanti a lui. «Luka Couffaine, ti affido il Miraculous del Serpente, lo userai per un bene superiore.»

Luka restò per un attimo interdetto. Prese la scatolina ed indossò il braccialetto. Una scarica elettrica si propagò su per il braccio. Luka barcollò all’indietro, la vista annebbiata. L’odore di agrumi era soffocante.

«Luka!» Ladybug gli passò un braccio dietro la schiena. Lo aiutò a sedersi a terra poggiato con le spalle al muretto.

Luka piantò i palmi delle mani a terra e si affidò alle tecniche di rilassamento delle quali faceva spesso uso. Un paio di minuti furono sufficienti a fargli recuperare le facoltà. «Ora sto meglio. Ho avuto un forte capogiro.»

Ladybug gli accarezzò la schiena. «Se non te la senti, non è necessario che tu corra rischi.»

«No.» Luka si alzò. «Sto bene. Sass, trasformami!»

«Abbiamo a che fare con un akumizzato che controlla in qualche modo gli attimi temporali di individui e oggetti. L’importante è non farsi colpire dalle sue sfere di energia.»

Viperion scostò la levetta sul bracciale all’indietro. «Second Chance!» Di nuovo quella scossa. Strinse il pugno.

«Prima di andare», Ladybug lo fermò posandogli una mano sul petto, «è bene che tu sappia che non ho idea di dove sia Chat Noir. Ho provato a contattarlo ma non risponde. Non so se si unirà alla battaglia, ma meglio prepararci all’eventualità che possa non venire.»

“Tutto ciò è già successo. Ne sono certo.”

 

Il passo dell’akumizzato – di nome Chronosium – era lento e spietato. Viperion seguì Ladybug fino a giungere a Avenue Champ-Elysèes.

«Non sa che ho un alleato» disse lei. «Trova un punto da cui puoi osservare i suoi movimenti senza che lui ti scorga.»

Seguendo il suggerimento di Ladybug, Viperion balzò di tetto in tetto, diretto alla ruota panoramica di Place de la Concorde. Gli sembrava il luogo ideale, ma un brivido gli corse lungo la schiena e lo fece desistere.

Si acquattò, dunque, dietro un furgone bianco, parcheggiato all’incrocio con Rue Royale.

Chronosium agitò il forcone tra le mani e lo piantò a terra. Scintille azzurre invasero la pavimentazione stradale in un arco di decine e decine di metri. Viperion si aggrappò al maniglione del portello posteriore del furgone e sollevò le gambe in modo da non essere colpito dalle scariche. Erano molto simili a quelle che brillavano nel momento in cui aveva evocato il Second Chance. Sporse la testa al di là del furgone.

Ladybug era appollaiata su un lampione. Schivò a fatica una sfera di Chronosium, il quale accorciò le distanze con lei.

“Un attacco diretto non è la scelta migliore.” Viperion si issò sul tetto del furgone. “Forse c’è la possibilità di ritorcergli contro il suo stesso attacco.”

Ladybug era alle corde. C’era poco tempo per agire.

Viperion pizzicò le corde dell’arpa. Il suono attirò l’attenzione di Chronosium che si volse a guardarlo. Viperion gli lanciò contro l’arpa. Chronosium si parò d’istinto con il forcone, l’arpa impattò e cadde a terra. Viperion balzò in avanti e colpì il petto corazzato di Chronosium con un calcio. Gli scavalcò la testa, gli avvolse le gambe intorno al collo, serrò le mani sul forcone e si diede una spinta all’indietro, riuscendo a sradicarglielo.

Chronosium barcollò e cadde in avanti, lo zigomo sinistro impattò sull’asfalto. Il volto era l’unico punto non corazzato. Lanciò un urlo di dolore e ritrasse la mano. Le scintille si diradarono.

«Spezzalo!» Ladybug indicò il forcone.

Viperion sollevò il forcone sulla testa e lo proiettò sulla sua coscia sollevata con un colpo secco, spezzandolo in due. «L’akuma non è qui.» Fece un verso di stizza.

Chronosium si rialzò da terra con un ghigno. «Credevi davvero di potermi battere con tanta facilità?» Contrasse le braccia ed espose il petto. L’orologio a cipolla appeso sul petto ciondolò, si illuminò e sibilò. «Bum!» Un raggio di energia colpì Ladybug in pieno volto e la sbalzò via.

Viperion raccolse l’arpa e la lanciò. Chronosium la respinse con un movimento pigro, come se si stesse annoiando. Caricò un altro raggio. «Pensaci bene a schivare questo colpo» gli disse con espressione beffarda. «Alle tue spalle c’è quella bella ruota panoramica. Sarebbe un peccato se tu ti spostassi e io la centrassi.»

L’orologio si illuminò. Un bastone argenteo colpì Chronosium alle spalle, facendolo barcollare.

«Non è un po’ presto per la fiera medievale?»

Viperion sollevò la testa.

Chat Noir si trovava su un lampione, la mano serrata sul bastone, l’altra chiusa a pugno sul fianco. «È un piacere rivederti, serpentello.»

Viperion non ricambiò il sorriso. Era preoccupato per la sorte di Ladybug. «Coprimi!» Si voltò e prese a correre.

Chronosium gli urlò alle spalle. Si udì un clang seguito da altre imprecazioni dell’akumizzato.

Viperion corse zigzagando tra le automobili lasciate sulla strada. Trovò a terra due piccoli oggetti rossi: gli orecchini di Ladybug. Doveva averli persi nell’impatto con il raggio.

«Ladybug?»

Non ci fu risposta.

Al di là di una vettura verde pisello, c’era il corpo inerme di una ragazza. Lunghi capelli corvini, una t-shirt di Jagged Stone e leggins rosa. Viperion ebbe un tuffo al cuore. «Marinette.» La pelle era di un colorito spettrale, gli occhi chiusi, le labbra violacee.

Un fascio di luce bianca e nera gli passò accanto sfiorandogli la spalla. Si infranse contro una Renault rossa, le lamiere della carrozzeria si piegarono verso l’interno creando un incavo, i vetri si frantumarono. Chat Noir sprofondò tra lamiere. Si rimise in piedi, vacillò e le gambe gli cedettero. Cadde a faccia in avanti.

Alle spalle di Viperion, echeggiò una serie di botti. Era Chronosium che avanzava lento per la via, un ghigno vittorioso sotto gli enormi baffoni.

Viperion non aveva più opzioni. Con Ladybug e Chat Noir fuorigioco non avrebbe mai potuto fronteggiare un avversario tanto potente, men che meno purificare l’akuma.

Appoggiò la mano sul bracciale e ricorse al suo potere. Un bagliore bianco lo investì, il corpo fu attraversato da milioni di scintille elettriche. Poi tutto intorno si oscurò.

 

Luka si svegliò di soprassalto nel suo letto. Le mani gli tremavano per un misto di paura e rabbia, il cuore gli martellava in gola. Non era un incubo: stava rivivendo la stessa giornata ciclicamente. Aveva perso il conto delle volte in cui l’akumizzato aveva avuto la meglio. Ad ogni reset ricordava un dettaglio delle precedenti battaglie. Il potere di Chronosium a contatto con il Miraculous aveva mandato in tilt il Second Chance e, anziché resettare di pochi attimi, la giornata ricominciava.

Si sedette sul bordo del letto ed affondò le mani nei capelli. Ripercorse nella mente le fasi della giornata: il tizio che usciva furioso dall’orologiaio, l’incontro con Marinette, il negozio che esplodeva, Ladybug che gli consegnava il Miraculous, l’arrivo di Chat Noir, e la loro sconfitta. Tutte le strategie preventive erano state inutili. Anche evitare l’akumizzazione si era rivelato un fallimento.

Si alzò dal letto e ripeté i gesti per l’ennesima volta. Salì sul ponte, salutò la sorella e la madre e si incamminò verso l’orologiaio. Incrociò l’uomo massiccio fuori al negozio, l’odore di agrumi tornò a torturargli l’olfatto. Ci aveva messo un po’, ma poi aveva capito che quello era un segnale del suo Miraculous, una sorta di messaggio che solo lui poteva recepire: in passato, Sass gli aveva confidato che il suo cibo preferito erano gli spicchi di arancia.

Attese l’arrivo di Marinette. Incontrarla era fondamentale, o lei, nei panni di Ladybug, non gli avrebbe mai affidato il Miraculous. La vera impresa fu apparire naturale ai suoi occhi.

Quando Chronosium fece la sua comparsa, Luka lasciò andare Marinette senza remore, ben consapevole che lei cercava una scusa per allontanarsi e trasformarsi. Corse verso il molo del Liberty ed attese l’arrivo di Ladybug. «Tre, due, uno...»

Ladybug atterrò davanti a lui.

Luka l’accolse con un sorriso. «Ti stavo aspettando.»

Ladybug aggrottò la fronte. «Sapevi che sarei venuta a chiederti aiuto?»

«Devo raccontarti tante cose. So che faticherai a credermi – d’altronde anche altre volte non mi hai creduto subito – ma ti assicuro che ciò che ti dirò è tutto vero.»

«Ti ascolto.»

Le raccontò delle innumerevoli volte che avevano affrontato Chronosium, i piani falliti, il Lucky Charm – un pacchetto di petardi cinesi – del quale non si riusciva a trovare un utilizzo, lo strano effetto che aveva avuto la collisione tra il potere di Viperion e la sfera di energia.

«Tutto ciò va ben oltre quello che ho combattuto finora» commentò Ladybug. «E credimi se ti dico di averne viste di tutti i colori.»

«Immagino.» Luka si accigliò. «Finora non siamo mai riusciti a trovare una soluzione. Sembra imbattibile.»

«Dov’è l’akuma?»

«L’orologio a cipolla che porta al collo. Anche quello può essere usato come arma. Spara un raggio frontale.»

«Chat Noir ha provato a distruggerlo con il Cataclisma?»

«Non è mai riuscito ad avvicinarsi abbastanza. Nonostante la mole, è incredibilmente agile e sembra prevedere le nostre mosse.»

«Non è lui.» Ladybug scosse la testa. «È Papillon a suggerirgli le contromosse. Conosce fin troppo bene il nostro modo di agire.»

Luka fece un cenno d’assenso. «È probabile che abbia previsto anche la tua fuga strategica per cercare aiuto. Il nostro unico vantaggio, al momento, è essere già a conoscenza di tutto questo. Ma per ora…» Fece una pausa. «È stato tutto inutile.»

Ladybug poggiò la schiena sul muro in pietra, la testa china sul petto, braccia conserte e gli occhi chiusi.

Luka immaginò gli ingranaggi muoversi nella testa di lei, alla ricerca di una soluzione per evadere dalla gabbia temporale. Sorrise al pensiero di quanto le qualità di Marinette si riflettessero nell’atteggiamento di Ladybug. Chiunque le conoscesse entrambe, avrebbe impiegato poco tempo per fare due più due. Era evidente e lui non riusciva ad immaginare un’altra persona dietro quella maschera. Ma non poteva dire nulla: era stata Ladybug stessa ad impedirgli di parlare al successivo reset. Con riluttanza, Viperion aveva accettato.

Ladybug sollevò la testa e schioccò le dita. «Devo farti una domanda, Luka. Pensaci bene perché è fondamentale.» C’era un’improvvisa certezza nel suo tono. «Viperion ha preso parte attivamente ad ogni scontro con Chronosium?»

Luka ci rifletté un istante. «Sì. Ogni volta che l’hai fronteggiato, Chronosium ti ha messo con le spalle al muro. Sono intervenuto per aiutarti, il più delle volte invano.»

«Allora stavolta non dovrai farlo.»

Luka sussultò. «Dovrei lasciare che ti colpisca?»

«Resta nelle retrovie e attendi l’arrivo di Chat Noir. Impediscigli di intervenire. Quando sarà arrivato avvisami pizzicando le corde dell’arpa. Digli dell’orologio, di attivare il Cataclisma e di aspettare il segnale. Lui capirà.» Ladybug strinse una mano sulla spalla di Luka. «È vitale che tu resti in disparte per tutto il tempo. Fidati di me.»

«Mi fido.» Luka non sentì il bisogno di pensarci. Prese un lungo respiro, preparandosi alla scarica elettrica che lo avrebbe colpito una volta indossato il Miraculous del Serpente.

Ladybug glielo porse.

Luka infilò il bracciale, dal quale comparve Sass. La scarica elettrica e l’odore di agrumi non si fecero attendere.

«Cosa succede?» chiese Sass in un sibilo, mentre Luka gemette di dolore.

Ladybug restò rigida. «Ora passa.»

Luka chiuse a pugno le mani lungo i fianco. «Sono pronto. Mettiamo fine a questa storia. Sass, trasformami!»

 

Viperion fece come gli aveva ordinato Ladybug: si appostò su un albero del lungo viale ed attese l’arrivo di Chat Noir, sapendo che sarebbe giunto da Sud. Non appena avesse scorto la sua sagoma, lo avrebbe intercettato ed insieme avrebbero raggiunto Place de la Concorde. Per evitare che l’istinto prendesse il sopravvento e lo spingesse a gettarsi a capofitto nella battaglia, decise di estraniarsi da ciò che accadeva in strada, a pochi metri da lui.

La gamba aumentava il ritmo del movimento sussultorio man mano che passava il tempo. Finalmente, un puntino nero si palesò dalla cima dell’Arco di Trionfo.

Viperion lo intercettò a metà strada e gli fece cenno con una mano di nascondersi alla vista.

Chat non nascose la sua sorpresa. «Viperion? Anche tu ti unisci alla giostra?»

«Non ho tempo per spiegarti. Ho bisogno che tu faccia esattamente ciò che ti dico.»

«Ho capito. Hai già vissuto tutto questo. D’accordo serpentello, ti ascolto.»

«Seguimi.» Viperion si diresse verso Rue Royale. L’ansia lo stava divorando al pensiero delle condizioni di Ladybug. Lui e Chat Noir atterrarono sul Musèe Maxim’s. Con grande sollievo, Viperion constatò che Ladybug stava tenendo testa all’akumizzato, adottando una strategia difensiva. Pizzicò le corde dell’arpa. «Evoca il Cataclisma e aspetta il segnale di Ladybug» disse. «Punta all’orologio che porta appeso al collo.»

«Adoro questi piani misteriosi.» Chat Noir sollevò la mano destra in alto. «Cataclisma!»

Ladybug, destreggiandosi come l’acrobata di un circo, saltava di lampione in lampione. A metà salto, evocò il Lucky Charm. Il pacchetto di petardi cinesi cadde tra le sue mani. Schivò una sfera di energia e tirò la cordicella attaccata al primo petardo della fila. Ad un sibilo seguì una serie di scoppi, uno sciame di scintille esplose a mezz’aria.

Ladybug tirò indietro il corpo e alzò una gamba, assumendo la posizione da lanciatore di baseball. Lanciò il pacchetto contro il viso di Chronosium. Alcuni petardi esplosero ben prima dell’impatto, generando una nube di fumo che si ampliava ad ogni scoppio. Chronosium, d’istinto, alzò un braccio per proteggersi il volto.

«È il momento!» Chat Noir si gettò in strada con il corpo proteso a mo’ di proiettile. Piombò alle spalle di Chronosium, scivolò sotto le sue gambe ed appoggiò la mano destra sull’orologio che pendeva al collo. Al tocco, andò in frantumi.

Una farfalla nera si librò in volo. Ladybug la catturò, la purificò e la liberò. Raccolse da terra la striscetta, in parte bruciata, che teneva insieme i petardi e la lanciò in aria. «Miraculous Ladybug.»

Uno sciame di coccinelle magiche avvolse la città. Viperion si sentì rinascere: niente più scosse, niente più odore di agrumi. Solo profumo di vittoria, profumo di libertà.

L’akumizzato era tornato normale. Ladybug e Chat Noir lo consolarono e si scambiarono il consueto gesto di vittoria. Alzarono entrambi lo sguardo ed invitarono Viperion ad unirsi a loro. Lui, però, sorrise e li salutò, declinando l’invito.

Ne aveva avuto abbastanza per quel giorno. E lui, quel giorno, l’aveva vissuto più e più volte.

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


13

L’aria notturna portò con sé un inaspettato ma gradito calo delle temperature. Marinette era stata felice di poter stare al fianco del padre nella preparazione degli impasti per il giorno dopo, senza doversi preoccupare dell’eccessivo calore. Grazie a quel lavoro, si era scrollata di dosso le ansie e le tensioni di quella giornata. Il pensiero costante era rivolto a Luka: aveva affrontato un’avventura terribile, rivivendo per chissà quante volte lo stesso giorno.

Marinette stentava a credere a quanto coraggio avesse dimostrato il ragazzo nell’accettare questo peso enorme vestendo i panni di Viperion, pur di sconfiggere l’akumizzato. Era stato il primo dopo Miracle Queen, il primo dopo più di tre anni di quiescenza. Papillon si era risvegliato, più feroce ed aggressivo di prima. Occorrevano delle contromisure, perciò, dopo la battaglia, Ladybug aveva chiesto a Chat Noir di incontrarsi tra le guglie di Notre-Dame. Era doveroso accordarsi per evitare di ritrovarsi impreparati.

All’ora prestabilita, Marinette si trasformò in Ladybug e, con un unico salto dal terrazzino sopra la sua camera, atterrò accanto ad uno degli spettrali gargoyle che circondavano la cattedrale.

Chat Noir era già lì ad aspettarla. Non aveva la solita aria spensierata, con la battuta pronta. Lo sguardo era accigliato, la posa eretta.

«Chat?»

«Mi dispiace...»

Ladybug si avvicinò a lui. «Di cosa?»

«Sono arrivato tardi, oggi. Chissà quante volte Viperion ha dovuto ricorrere al suo potere perché io non ero lì a coprirti le spalle.»

«Chat, non devi...» Ladybug sospirò. «Anch’io ho una vita intensa quando non indosso la maschera. Ci sta che un impegno personale possa averti ostacolato.»

Chat Noir lanciò uno sguardo gelido verso la città. «Non accadrà più, te lo prometto. Anche se magari a volte ti sembrerò incosciente o sciocco, sappi che prendo molto sul serio il nostro ruolo.»

«Non serve che tu me lo dica. Lo so.»

Chat si voltò. «Di cosa volevi parlarmi? È raro che tu chieda un appuntamento e, quando accade, ci sono sempre novità importanti.» C’era l’ombra di un sorriso sotto la maschera nera. Gli occhi color smeraldo erano ancora carichi di furore.

«Papillon sta usando i potenziamenti dei Miraculous.» Ladybug ripensò a Fu, alle pagine del libro che aveva tradotto e che Papillon aveva rubato. «L’akumizzato di oggi, Chronosium, aveva il potenziamento del fulmine. L’ho notato non solo dal suo potere di generare scariche elettriche, ma anche quando ho catturato l’akuma: era elettrificata e le striature sulle ali avevano un colore blu.»

«In fondo, però, ce la siamo cavati in fretta.»

«Solo perché Viperion mi ha raccontato tutti i nostri fallimenti.» Il tono di Ladybug non ammetteva repliche. «Da quello che mi ha detto, è stato il nemico più duro da affrontare da quando siamo supereroi.»

«Come intendi agire?»

«Non lo so ancora. Volevo che tu lo sapessi, così non saremo impreparati la prossima volta.»

Chat Noir tornò a guardare la città. «Forse dovremmo fare più affidamento sui nostri alleati. L’unione fa la forza.»

Ladybug non la pensava allo stesso modo. «Meglio di no. Non voglio mettere a rischio altre persone. Oggi ho fatto affidamento su Viperion perché era un’emergenza, ma in futuro dobbiamo cercare di risolverla con le nostre forze. Basta svendere Miraculous. Hai visto cosa è accaduto con Chloè.»

Chat mise i pugni sui fianchi e sporse la testa in avanti. Aveva riguadagnato il suo solito sorriso sagace. «È Ladybug che parla o la Guardiana dei Miraculous?»

«Entrambe.»

 

Adrien ringraziò il cielo che, per una volta, Plagg avesse evitato battute sarcastiche o commenti irriverenti ed avesse preso con la giusta concentrazione la faccenda.

Papillon stava sperimentando nuovi poteri e lui aveva il dovere di non lasciare di nuovo Ladybug sola a fronteggiarlo.

«Potrei fare da vedetta nei momenti in cui sei occupato» propose Plagg. «Sono certo che ti sarà facile trovare una scusa per allontanarti.»

«Non è un granché come soluzione», Adrien alzò le spalle, «ma non me ne vengono altre migliori, al momento. Faremo così.»

Visse con apprensione i giorni che precedettero la scuola. Suo padre Gabriel appariva molto di rado e le poche volte che lo incrociava a pranzo o per i corridoi lo salutava con sufficienza, come se fosse un semplice conoscente. Nathalie sembrava più bianca di uno spettro: forse era malata, o forse aveva accumulato troppo stress e il corpo stava implorando una pausa. Ogni volta che Plagg sbucava all’improvviso, Adrien temeva che ci fosse un attacco in atto. Katami, da quel giorno di allenamento, non si era fatta più sentire né rispondeva quando Adrien la chiamava al telefono e ancora non era venuto a capo del suo atteggiamento o di quale fosse il suo problema. Erano bastati pochi attimi perché l’espressione della nipponica divenisse rigida ed algida. L’unico indizio che Adrien era riuscito ad estrapolare era che la questione riguardasse la scuola, nello specifico gli amici.

Stanco dello stress che si andava via via accumulando, chiamò Nino al telefono e lo invitò a casa così da passare una serata di divertimento lontano da ansie e preoccupazioni.

Spostò il tavolo da biliardo al centro della stanza, sistemò quattro bottiglie di Coca-Cola nel frigobar accanto alla dispensa privata di Plagg e preparò la playlist di canzoni al computer. Quando il citofono interno suonò, si precipitò a rispondere anticipando Nathalie.

Nino entrò baldanzoso nella stanza. «Amico», si batterono il cinque, «da quant’è che non mangia la signora Nathalie?»

Adrien alzò le spalle. «È da qualche giorno che sta così. Credo non stia bene, ma non vuole chiamare un dottore. Dice che è solo stress.»

«Servirebbe anche a lei una serata come questa. Magari un giorno la dovremmo invitare.»

Adrien provò a immaginare la scena: Nathalie che distrugge entrambi in una partita da biliardo, senza battere ciglio o esultare. Rabbrividì al pensiero. Prese le stecche, ne porse una a Nino, e avviò la playlist al computer. Le casse acustiche suonarono un pezzo degli Imagine Dragons.

«Alza il volume» protestò Nino. «Si sente a malapena la voce del cantante.»

«È già al massimo. E non farti venire strane idee.» Adrien mise i pugni sui fianchi. «Devo forse ricordarti quando Marcoff ha trafficato con l’impianto stereo e ci siamo presi una multa per disturbo della quiete pubblica?»

«Gran bella festa quella.» Lo sguardo di Nino si fece sognante. «Niente ragazze, solo maschi. Certo, a parte l’apparizione dal nulla di Marinette...»

«Stavolta preferisco non far infuriare mio padre. Da quando ha avuto quel malore, è diventato scostante e poco incline a parlare. O a farsi vedere in giro.»

«Passerà.» Nino armeggiò con il gessetto sulla punta della stecca. «Spacca tu.»

Adrien sistemò le palline colorate da un lato del tavolo, la bianca dall’altro. Si chinò in avanti, la stecca puntata, e tirò. Il grappolo di palline colorate si sparse sulla superficie verde. Gli spettava un altro tiro. Mirò e imbucò la pallina rossa, la numero quattro. «A me le piene.»

«Bel colpo» commentò Nino. «E Katami come sta?»

Adrien mancò di poco la buca in angolo con la numero sei. «Non ne ho idea. Sono giorni che non la vedo, che non mi risponde al telefono. A casa, mi fa dire che è impegnata. È sempre impegnata.» Piantò con foga la stecca a terra.

«Le donne sono un mistero, amico.»

«Hai qualche consiglio da darmi?»

Nino fece una risatina acuta. «Tu chiedi consigli a me?»

«Sei fidanzato da quattro anni.» Adrien allargò le braccia. «Avrai avuto qualche litigio con Alya.»

«Più di uno.»

«E allora? Cosa hai fatto per riappacificarti con lei?»

«Nulla.»

Adrien spalancò la bocca, ma non ne uscì alcun suono.

«Non fare quella faccia, amico. Sei inquietante.» Nino imbucò la quindici. Fece una piccola danza di vittoria. «Ora la otto la devi per forza mettere qui» e indicò la buca al centro, all’opposto di quella dove aveva infilato la quindici. «Tornando ad Alya… Le liti si sono sempre dissolte da sole. Non so che dirti, tra noi è sempre tutto naturale.»

Adrien scosse la testa. Aprì il frigobar, prese due bottiglie di Coca-Cola, le stappò e ne diede una a Nino. «A volte, mi sembra di conoscere più lei che me. Altre volte, invece, credo di non conoscerla affatto.» Bevve un sorso, la bevanda frizzante gli rinfrescò lo stomaco.

«Potresti chiedere ad una persona che la conosca abbastanza da poterti dare un consiglio. Magari, una persona che è tornata da poco a Parigi e che, finora, è l’unica che Katami consideri un’amica vera.»

«Parli di Marinette?»

Nino sollevò le sopracciglia dietro i suoi occhialoni da vista. «Non è certo passato inosservato il suo ritorno vero?»

Adrien tirò la bianca che di sponda si infilò nella buca in angolo. Fallo.

Nino emise una risata di scherno. «Anche tu l’hai notata, vero?»

Le orecchie di Adrien si fecero rosse. «Io?»

«Andiamo, amico. Abbiamo visto tutti lo sguardo da pesce lesso che avevi quando è scesa dal treno.» Nino ricevette un’occhiata torva. «Dai, non sei stato l’unico.»

Adrien cambiò discorso. «Mi hai convinto: chiederò aiuto a Marinette. Lei saprà consigliarmi.» In fondo, il suggerimento di Nino non era del tutto sbagliato. Marinette sapeva dare ottimi consigli, era amica di Katami e, inoltre, sarebbe stata un’ottima occasione per scambiare qualche parola con lei, non avendone avuto modo da quando era tornata.

«Ottima scelta. Nel frattempo», Nino imbucò la uno, «ho vinto.»

Adrien gli puntò contro il dito. «Questa era solo di riscaldamento. Voglio la rivincita.»

 

Marinette gli era sembrata più che entusiasta quando l’aveva invitata al Trocadero. Una volta, avrebbe farfugliato delle frasi sconnesse, che lui non era in grado di comprendere, e gli avrebbe chiuso il telefono in faccia senza fornirgli una risposta all’invito. Il soggiorno a Milano aveva grattato via da lei la timidezza, la costante incertezza ed aveva evidenziato le sue qualità, che uscivano fuori di rado se non per tenere testa a Chloè e Lila, o quando c’era un’ingiustizia nei confronti dei suoi amici.

Dovette ammettere che Nino aveva ragione: questa nuova versione di Marinette non lo lasciava indifferente, anzi. Una volta l’aveva definita la “Ladybug di tutti i giorni”; adesso, il paragone era molto più azzeccato di quanto non fosse allora. Nessun’altra gli aveva trasmesso quelle sensazioni e si sentì a disagio. Marinette era fidanzata, interessata ad un altro proprio come Ladybug. Non c’era motivo di metterci il pensiero.

Adrien la attendeva seduto sui gradini della piazza, di fronte alla fontana. Il colonnato alla sinistra offriva un ottimo riparo dal sole battente. Per fortuna, un leggero venticello rinfrescava l’aria.

Marinette si fece notare agitando una mano in alto. Portava sotto braccio una scatola con il marchio della boulangerie del padre. Incredibile quanto riuscisse a valorizzare anche una semplice t-shirt bianca con un fiore disegnato sul petto e dei jeans rosa. Aveva legato i capelli corvini in una coda di cavallo che le accarezzava le scapole. «Ho pensato che avresti gradito un paio di croissant al cioccolato.» Gli porse la scatola.

Gli occhi di Adrien scintillarono. «Non dovevi. Io non ho portato nulla.»

Marinette ghignò. «Potrei covare la speranza che tu ne offra uno a tuo padre. E potrebbero essere avvelenati.»

Adrien scoppiò a ridere. «Vuoi vendicarti di noi? Mi sembra giusto, siamo stati dei veri cafoni a non farti sapere nulla. Ti domando scusa a nome di entrambi.»

«Non importa. Spero che tuo padre stia meglio.»

«Fisicamente, credo di sì.»

«Credi?»

«Sono giorni che resta chiuso nel suo studio.» Adrien si strinse nelle spalle. «Temo che si sia spaventato parecchio per lo svenimento e che cerchi di scaricare tutto sul lavoro.»

Marinette lo invitò a sedersi sulle scale, all’ombra del colonnato. «Se la cosa lo fa star meglio… Comunque, non credo di condividere questa sua scelta.»

«Nemmeno io. Sembra essere tornato il padre assente di tre anni fa.»

«Dagli tempo. Sono certa che supererà il momento e sarà di nuovo affabile. L’ho visto molto cambiato, in meglio.»

«A parte questo...» Adrien esitò. «Vorrei parlarti di una questione personale.»

Marinette lo fissò. «Ti ascolto.»

«Si tratta di Katami. Sono giorni che non si fa sentire, che non risponde alle mie chiamate. Sono preoccupato.»

«Hai dimenticato un anniversario o una ricorrenza importante?» Marinette incrociò le braccia in petto. «Sai quanto è suscettibile Katami sulle tradizioni.»

«No, no. Il nostro anniversario è a Natale. Credo che la questione sia un’altra, ma non so dirti cosa la turba. E se non mi parla, diventa difficile capirlo.» Adrien le prese una mano. «Tu sei l’amica di cui più si fida. Anzi, a dirla tutta, sei la sua unica amica. Cosa dovrei fare?»

Marinette sorrise. «Katami non è in grado di portarti il broncio in eterno. So quanto tiene a te. Vedrai che sarà lei a fare il primo passo e ti spiegherà tutto.»

«Perdonami.» Adrien scosse il capo. «Ti sto sicuramente tediando con tutti i miei problemi.»

«È per questo che ci sono gli amici, no?» Marinette gli strinse la mano. «Si sistemerà tutto.»

«E tu? Come ti senti ora che sei tornata a casa?»

«Oh benissimo. Non ti nascondo che ci sono stati dei momenti in cui avrei voluto mollare tutto e tornare qui a Parigi. I ragazzi che ho conosciuto all’Accademia erano tutti simpatici ed accoglienti. Ma non erano voi. L’unica cosa che non mi è mancata sono le akuma e tutti i problemi che portano dietro.»

«Anche Papillon ha voluto darti il suo bentornata.» Adrien ridacchiò. «Un ritorno in grande stile.»

«Ne avrei fatto volentieri a meno. Stimo molto Ladybug e Chat Noir per quello che fanno, ma, visto che le loro apparizioni coincidono sempre con problemi, disastri e caos, meno li si vede in giro meglio è.»

«Dunque l’hai superata.»

Marinette lo guardò perplessa. «Cosa?»

Adrien decise che era il momento giusto per soddisfare la propria curiosità. «La tua cotta per Chat Noir.»

Marinette spalancò gli occhi, come se avesse visto la Tour crollare. «La mia cosa?»

«Andiamo, Marinette. So che al tempo eri innamorata di lui e che sei andata via per dimenticarlo.»

Passò qualche secondo di silenzio. Marinette gettò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. «Io innamorata di Chat Noir? Chi ti ha raccontato questa idiozia?»

«Ma… Non avevi una cotta per lui?»

«No, nel modo più assoluto.» Marinette si strofinò gli occhi per asciugarli dalle lacrime. Rise ancora. «Come ho già detto, provo tanta stima per lui e Ladybug, ma nient’altro. Come ti viene in mente che io possa essere innamorata di lui?»

Adrien si massaggiò la nuca. «Mi… Mi sarò sbagliato.»

Le labbra di Marinette si incurvarono verso l’alto. «Chat Noir è un gran supereroe, ma anche un gran spaccone.»

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


14

Marinette varcò il portone d’ingresso della François-Dupont, felice come mai era stata in un primo giorno di scuola. L’Accademia di moda di Milano aveva il suo fascino, era il suo sogno. La François-Dupont, invece, era parte di lei. Tutto era rimasto come lo ricordava: il cortile ampio dove si riunivano gli studenti, il tabellone fissato sul muro con un anello arrugginito che faceva da canestro per le partite di basket, le panchine dove lei si sedeva per disegnare qualche schizzo, l’odore pungente del detersivo a base alcolica. Anche il custode non era affatto cambiato: ciuffi brizzolati tra i capelli castani, secco quanto le ramazze che usava per spazzare, il volto spigoloso e arcigno, guardava con sguardo torvo gli studenti che passavano nei punti che aveva appena pulito.

Sulla bacheca accanto all’aula, era affisso il volantino per le iscrizioni al corso di scherma, cui partecipavano Adrien e Katami. Marinette non aveva ancora deciso se iscriversi o meno. Un’attività fisica che le avrebbe garantito dei crediti extra poteva essere una buona idea e Alessio stesso ne sarebbe stato contento, vista la sua propensione a farla tenere in forma.

Entrò in classe e il brusio che precedeva la lezione lasciò spazio ad un assordante silenzio. Tutti gli sguardi erano piantati su di lei. Alya si alzò in piedi e sollevò i pollici. Pian, piano la seguirono tutti con timidi cori di bentornato. Facevano eccezione le solite tre, ma questo Marinette se lo aspettava. C’era comunque un’aria strana, una tensione che si poteva tagliare a fettine.

Marinette si accomodò accanto ad Alya.

L’aria si fece più pesante quando entrò Adrien. Si alzò di nuovo un brusio, dei sussurri tra i banchi limitrofi.

«Buongiorno, ragazzi.» La professoressa Mendeleev fece il suo ingresso in aula. Il naso a punta rivolto all’insù disegnava un’espressione di austera severità. «Bentornata, signorina Dupain-Cheng. È un piacere rivederla nella mia classe.»

La tensione si attenuò. Marinette rispose con un sorriso alla professoressa.

L’abbigliamento della Mendeleev, mancante del solito camice bianco da laboratorio, lasciava intendere che la lezione sarebbe stata soft. Introdusse il programma scolastico, parlò degli obiettivi che voleva che gli studenti raggiungessero in vista dell’esame finale e mostrò gli argomenti sui quali avrebbero discusso nelle lezioni a seguire.

Marinette scrisse giusto un paio di righe sul blocco note del tablet. Le informazioni che riteneva importanti.

L’angolo in alto a destra dello schermo pulsò di rosso. Un messaggio. Marinette premette sull’icona e si aprì la chat con Alya. Si voltò verso la compagna di banco e mimò con la bocca un «Perché?»

Alya corrucciò le sopracciglia e indicò con veemenza la chat. Marinette, rassegnata, lesse il messaggio. «Cosa ci facevate tu e Adrien al Trocadero, ieri?»

Marinette afferrò la penna digitale e scrisse: «E tu come lo sai?»

«Vi ha visti Rose, commentando col suo solito “Sono così carini”.»

«Abbiamo chiacchierato un po’. Di suo padre, del mio corso, di Katami...»

«Sai che la cosa non è passata inosservata?» Alya batté la penna digitale sul banco e sbuffò. «Qui tutti sanno di ciò che provavi per Adrien tre anni fa. Chloè ha fatto l’isterica fino a poco prima che arrivassi. Guardala, sembra voglia ucciderti.»

Marinette seguì il suggerimento: Chloè aveva la testa girata a novanta gradi, incurante della lezione, gli occhi azzurri spalancati, piantati sulla testa di Marinette. Forse progettava di farle fare un giro sotto la ghigliottina, come nella Rivoluzione. O magari voleva stritolarle il collo.

Marinette scosse la testa e tornò a scrivere. «Ciò che facciamo io e Adrien non deve diventare oggetto di discussione pubblica. Siamo entrambi felicemente fidanzati. Perché non possiamo essere dei buoni amici che si scambiano consigli?»

«Perché tutti hanno notato come ti guardava il giorno che sei tornata.»

Marinette roteò gli occhi al cielo. «Dico sul serio: piantatela tutti. Non voglio essere la protagonista della vostra soap opera.»

Alya trattenne a stento una risatina. «Dillo a Chloè.»

«Credo non sia l’unica.»

Alya alzò gli occhi dallo schermo, si voltò verso Marinette ed inarcò un sopracciglio.

Marinette inclinò la testa, indicando il banco alle loro spalle. Alya gettò una veloce occhiata. Alzò le spalle e le mani.

«Credo che Lila abbia gli stessi progetti di Chloè» sussurrò Marinette, «e sicuramente più dolorosi.»

Alya serrò le labbra. Afferrò la penna digitale. «Lila non ha niente contro di te. Smettila di vederla come se fosse il diavolo. Lo sai che ha un problema grave nel gestire le emozioni.»

«Io non la vedo come il diavolo.» Marinette annuì ad una domanda retorica della professoressa. «Lui almeno è affascinante e non mente mai, al contrario di lei.»

«Quello accade solo nelle serie tv.»

«Comunque io non mi fido di Lila e mai lo farò. Non oso pensare a tutte le panzane che vi avrà raccontato in questi anni.» Marinette voltò la testa. Due occhi verdi, simili alla pelle di una vipera, la squadravano. Le labbra di Lila Rossi erano piegate in un sorriso sghembo. Il volto sibillino era peggio di quello assassino di Chloè. Marinette rabbrividì.

 

La campanella annunciò la fine delle lezioni. Come primo giorno di scuola, il carico di lavoro era molto esiguo, limitato a sole tre ore di lezione.

Marinette preferì lasciare l’aula per ultima, restare sola e mettere in ordine i pensieri. “Perché è così strano che io incontri Adrien?”

Tre anni prima, avrebbe dato tutto l’oro del mondo affinché lui la chiamasse e le desse un appuntamento, solo loro due. Poi magari, lei avrebbe iniziato a vagare con la testa, pronunciare frasi sconnesse e lo avrebbe lasciato con una tale confusione in testa da non sapere nemmeno come si chiamasse. Ora era diverso. Teneva tantissimo alla sua amicizia e non avrebbe permesso a nessuno di rovinarla.

«Signorina, dovrei chiudere le aule.»

Marinette balzò in piedi.

Il custode della scuola era sull’uscio dell’aula, l’espressione annoiata e gli occhi color carbone socchiusi.

«Mi scusi.» Marinette chiuse lo zainetto rosa e se lo mise in spalla. «Vado via subito.»

Una volta fuori dall’aula, rallentò il passo sospirando.

«Carina la scenetta di stamattina.»

Marinette sobbalzò di nuovo. Quella voce era come tanti spilli infilati nelle orecchie. Si voltò.

Lila era poggiata con le spalle al muro, le caviglie incrociate. I capelli ramati sembravano la chioma di una gorgone, tanti serpenti sibilanti pronti ad attaccare.

«Cosa vuoi?» ringhiò Marinette.

«Calmati.» Lila atteggiò le labbra in un sorriso mellifluo. «Volevo solo chiederti, da amica, se potevo esserti d’aiuto.»

«Io e te non siamo amiche.»

«Oh, così mi ferisci, Marinette. Ed io che ero disposta a prendermi carico di qualunque problema avesse Adrien.» L’espressione di Lila si trasformò e divenne minacciosa. «Perché è chiaro che abbia un problema se esce insieme a te.»

«Non credo siano affari che ti riguardano.»

«Ma davvero? Io credo che non saresti dovuta tornare a Parigi.»

«La cosa ti turba?» Marinette proruppe in una risatina di scherno. «Perché se fosse così, ne sarei felice.»

«Te l’ho già detto una volta, Marinette. Non ti conviene avermi come nemica. Ti ho già messa una volta in cattiva luce davanti a tutti. La prossima potrebbe essere più spiacevole.»

«Le tue parole non mi fanno più effetto. Se a te da fastidio che io sia amica di Adrien… Beh, è un problema tuo, non mio. Se fossi più sincera, anziché raccontare fandonie ogni minuto della tua vita, saresti apprezzata per quello che sei, non per come vuoi che ti vedano. Ma», Marinette si strinse nelle spalle, «capisco che se mostrassi la tua vera faccia, ti volterebbero tutti le spalle.»

Lila socchiuse gli occhi, le braccia oscillavano lungo i fianchi. Stava ribollendo di rabbia. «Dormi con un occhio aperto.» E sfilò via per le scale.

Marinette scosse la testa. «Quanto vorrei ricacciarti in bocca ogni singola parola che pronunci, Lila Rossi.»

«Ignorala.» Tikki fece capolino dalla pochette. «Non ne vale la pena.»

Marinette rilassò i muscoli e trasse un profondo respiro. «Hai ragione. Prima o poi, la sua cattiveria le si ritorcerà contro.»

 

I compiti assegnati erano pochi, così decise di togliersi subito l’impiccio dopo pranzo. Posò la penna digitale sulla scrivania, accanto al tablet, e stiracchiò i muscoli.

Nubi grige si addensavano nel cielo, minacciando pioggia. L’alta pressione dei giorni precedenti era scomparsa da un momento all’altro, facendo presagire temporali violenti.

Marinette arricciò il naso. Aprì l’armadio e prese l’ombrello nero e una giacchetta da indossare sopra la maglietta rosa. Scese per le scale e incrociò la madre, seduta sul divano del salotto. «Vado ad assistere alla prima lezione di scherma.»

Sabine rispose con un mugolio.

Il portone della scuola era spalancato, il cortile vuoto. Il maestro di scherma – Monsieur Armand D’Argencourt – doveva aver spostato il gruppo di allievi nella piccola palestra al chiuso.

Marinette attraversò il cortile ed imboccò il corridoio in fondo a sinistra. La porta della palestra era aperta. D’Argencourt era indulgente riguardo eventuali spettatori alle sue lezioni di scherma.

Gli allievi erano già divisi a coppie. Data la ristrettezza dello spazio, un gruppetto se ne stava in disparte seduto sulle panche, in attesa del loro turno.

D’Argencourt si trovava in piedi tra due panche, lisciandosi con due dita i lunghi baffi castani, di cui andava tanto fiero. Notò Marinette e la affiancò con un paio di falcate delle sue lunghe leve. «Mademoiselle Dupain-Cheng. È un piacere rivederla. È venuta per iscriversi al corso?»

«In verità, speravo di assistere alla lezione di oggi prima di prendere una decisione.»

«Nessun problema.» D’Argencourt le indicò una panchina su cui erano seduti due ragazzi in divisa da schermidori. «Spero di rivederla tra i miei allievi. Ha dell’ottimo potenziale.»

Marinette gli rivolse un sorriso di ringraziamento e si sedette. Venne toccata da una punta d’orgoglio, sebbene sapesse che l’intento di D’Argencourt era rinfoltire il gruppo di sparring partner per gli schermidori più talentuosi. Per lui, la scherma era un’arte riservata a pochi.

I versi emessi da alcuni schermidori, dotati di scarsa coordinazione, sovrastavano il rumore metallico dei fioretti che si incrociavano.

Nel gruppo dei più esperti, si distingueva una persona che indossava la divisa rossa anziché bianca ed impugnava un fioretto con l’elsa scarlatta. Katami, come di consueto, sfoggiava una destrezza fuori dal comune. Solo Adrien era in grado di tenerle testa e di riuscire a strapparle qualche stoccata.

Le lezioni, cui aveva preso parte anni prima, avevano insegnato a Marinette alcune sfumature della scherma che prima lei ignorava.

Katami avanzò con una serie di fendenti. Un affondo laterale costrinse l’avversario ad una difficile difesa. Lei sfilò sul fianco, inarcò il busto in avanti ed affondò la stoccata decisiva. Tornarono entrambi in posizione eretta. Si strinsero la mano e si tolsero la maschera. Come ipotizzato da Marinette, l’avversario di Katami era Adrien. Le sussurrò qualcosa, che, dal modo in cui lei arrossì, doveva essere un complimento.

“Strano vederla reagire in quel modo”, Marinette alzò un braccio per farsi notare.

D’Argencourt ordinò il cambio di studenti.

Adrien restituì il saluto a Marinette con gioia. Katami, invece, si incupì.

«Marinette» disse Adrien. «Sei qui per iscriverti al corso?» Ammiccò con discrezione.

Marinette colse il segnale. «Per oggi mi limito ad osservare. Non ho ancora deciso.»

«Spero che ti unirai a noi. Sarà più divertente, vero Katami?»

Gli occhi color nocciola di Katami erano ridotti a due fessure. «Certo» disse in tono neutro. «È un piacere rivederti, Marinette.» Abbozzò un inchino, il tipico saluto giapponese. «Se volete scusarmi, vado a cambiarmi.»

Marinette le corse dietro. «Katami, aspetta. Vorrei scambiare due parole con te. Non parliamo da tanto.»

Uscirono nel cortile. Una pioggia scrosciante ticchettava sul suolo e sui tetti. Rasentarono il muro riparandosi sotto al cornicione sporgente ed entrarono nello spogliatoio femminile sul lato opposto del cortile.

«Cosa devi dirmi?»

«Volevo chiederti un consiglio riguardo il corso.» Marinette la prese alla larga. «Per te dovrei rinnovare?»

«La scelta sta a te.» Una pausa. «È bene che tu lo faccia per la scherma e non per altri motivi.»

La risposta colse di sorpresa Marinette. «Prego?»

«Sai a cosa mi riferisco. Non sono né cieca né stupida.» Katami sospirò, come se si fosse accorta del suo tono aggressivo. «Apprezzo la tua amicizia, davvero. Forse sono troppo paranoica ed insicura.»

Marinette non avrebbe mai etichettato Katami con quegli aggettivi. «È una descrizione che non ti si addice. Sei l’esatto opposto. Ricordi cosa mi hai detto una volta?»

«Io non esito mai.»

«Esatto.»

Katami scosse la testa e si tolse la divisa. Aveva un fisico robusto e prestante a dispetto della sua altezza minuta. «Cercherò di seguire il mio stesso consiglio.» Sorrise. «Grazie.»

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Adrien attendeva impaziente seduto sotto le scale che conducevano alle aule. Durante la lezione Katami era dolce ed affabile. Un istante dopo si era di nuovo irrigidita, il volto corrucciato, lo sguardo inquieto. E tutto era coinciso con l’arrivo di Marinette. Se prima era solo un dubbio, ora era una certezza: era gelosa.

Si passò una mano sulla fronte e sbuffò. «L’attesa è snervante.»

«Non ti sei nemmeno portato l’ombrello.» Plagg svolazzò fuori dalla borsa a tracolla. «Ti si arrufferà il pelo.»

«Non sono un gatto.»

«Ti comporti come se lo fossi» disse Plagg in tono canzonatorio. «Prima Ladybug, poi Katami, ora Marinette…»

Gli salì il sangue alla testa. «Straparli. Marinette è un-»

«Amica? Allora perché la guardi come se volessi mangiartela?»

Il volto di Adrien si fece paonazzo. «Gli occhi sono fatti per vedere. E Marinette è oggettivamente bella.» Suonava ancora più stupido detto a voce alta.

«Che duro colpo sarà stato scoprire che lei non è mai stata innamorata di Chat Noir.» Plagg fece una risatina.

«Che senso ha questo discorso?»

Plagg agitò le zampette e si ritirò nella borsa. «Quando lo capirai, sarà troppo tardi, zuccone.»

Adrien si massaggiò le tempie. L’unica conseguenza del parlare con Plagg era farsi venire un gran mal di testa.

La porta dello spogliatoio si spalancò.

Marinette e Katami discorrevano in modo naturale. L’inquietudine sembrava scomparsa dal volto della nipponica. Marinette aveva davvero un tocco magico.

Adrien si avvicinò a loro. «Ehi!» Indicò l’ombrello nella mano di Marinette. «È quello che ti ho prestato il giorno che ci siamo conosciuti?» Lei annuì. «Non credevo lo avessi ancora tu.»

«Credo di essermi sempre dimenticata di restituirtelo. In queste cose ho una memoria pessima.»

Adrien scoppiò a ridere. «Tienilo pure. Come ricordo della nostra prima e, si spera, unica litigata.»

Il Gorilla si palesò all’ingresso. Reggeva un enorme ombrello grigio scuro.

Adrien fece un cenno con la testa a Katami. «Andiamo?»

Katami annuì in silenzio. Salutò Marinette con un rapido gesto della mano e precedette Adrien all’uscita.

«Cos’ha?»

Marinette gli poggiò una mano sulla spalla. «Ha solo perso qualche certezza e non ci è abituata. Stalle vicino, fai in modo che capisca che per te è importante sia lei che la vostra relazione.»

Adrien alzò gli occhi al cielo. «Spero di riuscirci. Sono un disastro nelle relazioni.» Si girò verso Marinette e l’abbracciò. Profumava di rosa e vaniglia, un odore familiare. «Grazie. Sei fantastica.»

«Salutami tuo padre.»

Riparato dall’ombrello del gorilla, Adrien scese le scale d’ingresso della scuola e salì in auto. Katami era già accomodata sul sedile posteriore.

L’auto partì.

«Cos’è questa storia del litigio con Marinette?»

Adrien rilassò le spalle sulla poltroncina. «È una lunga storia.»

«Sono curiosa di sentirla.» Dal tono di Katami, suonava come un’imposizione.

«È accaduto tutto per via di Chloè.»

Katami sbuffò dal naso. «Figuriamoci. Ero indecisa tra lei e quell’altra.»

«Non so per quale motivo, ma prova da sempre astio nei confronti di Marinette. Il primo giorno che andai a scuola, Chloè attaccò una gomma da masticare sulla panca dove si sarebbe seduta Marinette. Io tentai di rimuoverla prima che arrivasse, ma lei mi vide trafficare con la cicca e pensò che fossi stato io a metterla lì. Mi tenne il broncio per tutta la giornata.» Adrien ridacchiò. «A fine lezioni pioveva, un po’ come oggi. Marinette aspettava sotto al portico; non aveva l’ombrello così le prestai il mio e chiarii l’equivoco. Ricordo che fu la prima volta che fece sfoggio della sua goffaggine davanti a me, chiudendosi nell’ombrello. Non ridevo così da tempo.»

«E da allora ha tenuto il tuo ombrello» commentò Katami, per nulla divertita dalla storia. Anzi, il suo umore sembrò peggiorare.

«A quanto pare, è così.»

«Ti diverte l’idea?»

Adrien sollevò un sopracciglio. «In che senso?»

Katami guardò fuori dal finestrino.

«Se c’è un problema, possiamo provare a risolverlo, non credi?»

Lei si voltò a fissarlo. «D’accordo, risolviamolo: ammetti che sei innamorato di lei.»

Una falce di luce azzurra squarciò il cielo. Seguì un rombo assordante.

Adrien spalancò gli occhi. «Non credo di aver capito bene.»

«Oh, hai capito benissimo, invece.» Katami lo fissò come se lo volesse incenerire. «Sei innamorato di lei, credo da sempre. Era per lei che eri incerto su una nostra relazione. Infatti, non appena lei andata via, non hai più esitato a chiedermi di uscire insieme. Magari pensavi che non tornasse più. Invece, da quando è tornata, non fai altro che pensare a lei. Credi che non abbia notato il modo in cui la guardi?»

Il Gorilla scalò marcia e spinse l’acceleratore. Il motore della Mercedes ruggì.

«Forse hai inteso male…»

«Ho inteso benissimo, mio caro!» Katami gli puntò un dito in petto. «In un rapporto tra due persone ci deve essere sincerità e tu non sei affatto sincero con me.»

L’abitacolo dell’auto piombò nel silenzio per il resto del tragitto. La furia della grandine artigliava la carrozzeria e i finestrini.

Adrien si coprì il volto con le mani. «Io… Non so che dire.»

«La ami o no?»

«Non posso rispondere a ciò che non so.»

L’automobile si fermò davanti casa Tsurugi. Sul portone era disegnato lo stemma della famiglia. Katami aprì la portiera.

Adrien le afferrò il polso, ma lei lo liberò con uno strattone. «Fa’ chiarezza con i tuoi sentimenti, Adrien. Sono stufa di doverti aspettare.» Sbatté la portiera e corse in casa.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


15

La Mercedes nero metallizzato lo attendeva davanti al cancello d’ingresso della villa. La portiera posteriore era spalancata, Nathalie al volante, il motore acceso.

Gabriel Agreste scese le scale, tablet sotto braccio, giacca nera, occhiali da sole e cappello borsalino. Sperò che nessuno lo notasse a bordo dell’auto una volta che si sarebbe fermato davanti a Place des Vosges. Salì a bordo. Nathalie partì senza che lui dicesse nulla.

Il rolex d’argento al polso segnava le 13:40. Le lezioni mattutine erano terminate da dieci minuti, quindi Lila Rossi era già lì ad attenderlo. Meglio che aspettasse un altro po’. Non doveva certo pensare di essere lei ad avere in pugno la situazione.

«Gabriel.» Nathalie cercò i suoi occhi blu nello specchietto retrovisore. «Sei sicuro di volerti affidare a Lila?»

Gabriel incrociò le braccia in petto. «Mademoiselle Rossi ha un’innata capacità manipolatoria. Perfetta per il mio scopo.» Fece attenzione a marcare la parola “mio”.

«Io non credo che–»

«Ciò che credi tu non è affar mio, Nathalie. Hai perso il diritto di darmi consigli quando hai deciso di tradire la tua promessa.»

Nathalie serrò le mani sul volante. Non rispose.

Bene. Doveva comprendere la gravità delle sue scelte, il tradimento non era tollerato nella loro missione.

Gabriel accese il tablet ed aprì l’app per la lettura. Si fermò sulle pagine del Grimorio, complete di note con la traduzione del testo. L’immagine con il portatore del Miraculous della Farfalla campeggiava al centro. Accanto, vi erano le istruzioni per la fusione di due Miraculous, un metodo tanto potente quanto pericoloso. Ladybug ne aveva fatto uso, unendo il potere della Coccinella a quello del Dragone e anche Chat Noir era riuscito nell’impresa. Gabriel aveva mille dubbi: sarebbe riuscito a fondere il potere del Miraculous della Farfalla con quello del Pavone? Il risultato che ne sarebbe uscito fuori era molto allettante. Sfruttare in pieno le emozioni negative di un individuo, akumizzarlo, e dar vita anche ad un sentimostro. Le potenzialità erano infinite.

Scacciò le paure.

Riportare in vita Emilie era più importante di qualunque altra cosa. Sarebbe ricorso a qualsiasi metodo pur di riuscirci.

L’automobile passò davanti all’istituto François-Dupont. L’ingresso era sguarnito. Più avanti, apparvero i cancelli che circondavano la fontana di Place des Vosges.

«Eccola.» Nathalie si accostò sul ciglio della strada, nel punto in cui non vi era marciapiede a dividere la cancellata dalla carreggiata.

Gabriel abbassò il finestrino. Seduta sulla panchina, tra due alberi, Lila drizzò la schiena.

«Buongiorno, Monsieur Agreste. Aspettavo da tanto una sua risposta.»

«Dovresti saperlo, Mademoiselle Rossi. Sono un uomo che attende il momento giusto.» Il tono ruffiano di Lila Rossi lo infastidiva, così come la sua tendenza alle menzogne. Tuttavia, era utile. «Hai detto che dovevi parlarmi di Adrien. Ti ascolto.»

«Da quando è tornata da Milano, Adrien passa molto tempo con Marinette Dupain-Cheng. Se ben ricordo, la misi in guarda dall’influenza negativa che può avere quella smorfiosa su suo figlio. Anche il suo rendimento a scuola ne risente.»

Gabriel cercò un cenno di Nathalie, la quale scosse la testa. Lila stava mentendo. «Qual è l’atteggiamento di lei nei confronti di mio figlio?»

«È una sporca manipolatrice.»

“Da che pulpito.”

«Sta provando a metterlo contro di me» proseguì Lila. «Temo che presto possa arrivare a metterlo contro lei, Monsieur Agreste.»

Gabriel scosse la testa. Negli anni Lila Rossi era peggiorata, forse aveva perso il tocco nel raccontare fandonie, oppure lo prendeva per uno stupido, il che gli provocò un moto di stizza. «Parlare con mio figlio è inutile. Stravede per quella ragazza e, se è davvero come dici, è brava. L’ho potuto constatare io stesso. Questa situazione ci pone obiettivi comuni, Lila.»

«Temo di non comprendere» disse Lila con il solito tono melenso.

«Io desidero che Adrien si allontani da influenze negative, a qualsiasi costo. Tu vuoi che lei si allontani da lui. Direi che la conclusione è una sola. Gettare discredito su Marinette Dupain-Cheng.»

«Ci ho già provato una volta. E Adrien è stato categorico riguardo un altro attacco frontale.»

Gabriel si concesse una risatina. «Guardi ancora il mondo con gli occhi di una ragazzina che cerca l’approvazione degli altri. Se non ti ritenessi abile, non sarei qui oggi. Dunque, ti offro il modo perché stavolta anche Adrien non possa fare nulla.»

«Come?» Il tono di Lila tradiva il suo stato d’animo. Voleva davvero liberarsi di Marinette.

«Guarda sul tuo cellulare.» Gabriel premette un tasto sul tablet. Il cinguettio del cellulare di Lila gli confermò che aveva ricevuto il messaggio.

Lila fece un verso di disgusto. «Quello che Marinette spaccia per il suo fidanzato.» Le aveva mandato la copertina di un mensile italiano, sulla quale spiccava la foto di Alessio Tancredi, fresco di rinnovo contrattuale con un’azienda produttrice di profumi.

«Sarà il tuo asso nella manica.» Gabriel spinse gli occhiali scuri sul naso. «L’ho contattato stamane per riallacciare i rapporti che avevo con lui, in vista di una collaborazione. Tornerà presto a Parigi. Sarà l’occasione ideale per te.»

«Cosa devo fare?»

«Ciò che farai non mi interessa. Il come è affar tuo, a me interessa il fine. Spala fango su Marinette Dupain-Cheng, fai in modo che Adrien non la consideri più degna di amicizia e fiducia. Fa’ in modo che resti sola.»

Lila emise una risatina diabolica. «Non la deluderò, Monsieur Agreste.»

«Me lo auguro.» Gabriel chiuse il finestrino. Fece un cenno a Nathalie e l’automobile sfrecciò sull’asfalto.

«Soddisfatto?»

«Lila Rossi farà ciò che deve. Credo di averla spronata a dovere.» Gabriel si rilassò sul sedile. «Hai ancora dubbi su di lei?»

Nathalie schioccò la lingua sotto al palato. «Non la vorrei mai come amica.»

«Preferiresti una come Marinette Dupain-Cheng? La ragazza della porta accanto, quella che si prodiga sempre per aiutare tutti.» Gabriel arricciò le labbra.

«Perché tanto astio nei suoi confronti? Credevo ti importasse di quello che pensa Adrien.»

Gabriel scosse la testa. «Quando Emilie sarà di nuovo al mio fianco, Adrien sarà libero di frequentarla e sposarla se vuole. Adesso non è che una pedina sulla scacchiera. Forse il pezzo più importante. Adrien non sbaglia a tenere un’alta considerazione di lei. Io stesso riconosco che è speciale rispetto ad altre. Ha evitato l’akumizzazione più di una volta, quasi tutti i suoi compagni la adorano, la venerano addirittura per quello che fa. Non ho dimenticato quanto mio figlio si sia impegnato per confezionarle quel braccialetto e quanto mi abbia supplicato di mandarlo alla sua festa di compleanno. Ed è per questo che lei sarà il mio capolavoro.»

«Intendi akumizzarla?»

«Molto di più. Già una volta metterla in cattiva luce ha suscitato fortissime emozioni negative, ma non è andata come previsto.» Gabriel socchiuse gli occhi e Nathalie chinò il capo. «Stavolta, se Lila si impegna, sarà mille volte peggio. Scatenerà un uragano di negatività intorno a lei e sarà un gioco da ragazzi creare l’alfiere che mi servirà i Miraculous di Ladybug e Chat Noir su un piatto d’argento. Che sia lei, uno dei suoi genitori, Alessio Tancredi o un suo amico, importa poco. Ciò che conta è il risultato finale. Sarà la mia nona sinfonia!»

«E se fosse Adrien?»

Gabriel non si scompose. «Allora, così sia.»

Nathalie tirò su col naso e non parlò più.

_________________________________________________________

Il treno arrivò puntuale al binario 7 della Gare de Lyon.

Marinette attese in disparte, appoggiata ad una colonna pubblicitaria di fronte ad un distributore di bevande, lasciando scorrere la fiumara di gente.

Lui scese dalla carrozza in testa. Reggeva sulla spalla un giubbotto di pelle, nell’altra mano il trolley da viaggi brevi. Si tolse gli occhiali da sole, un fascio di luce gli illuminò gli occhi scuri. Sovrastava chiunque gli passasse accanto.

Marinette si sollevò sulle punte ed alzò una mano.

Alessio la notò subito. Prima che lei potesse dire una parola, le cinse i fianchi e la sollevò in modo che i due volti fossero alla stessa altezza. «Mi sei mancata, piccola.» La baciò e la riposò a terra.

«Anche tu» sussurrò Marinette. «Dalla foto direi che il servizio pubblicitario è andato più che bene.»

Alessio sbuffò. «Una giornata intera dietro ai capricci isterici del direttore della fotografia. “Troppo scuro, troppa barba, alza il mento, ti si vedono poco gli addominali”» imitò una voce querula. «Il colmo è stato quando si è chinato per raccogliere gli occhiali che gli erano caduti e gli si sono strappati i pantaloni di pelle. Ho faticato per non ridergli in faccia.»

Marinette scoppiò a ridere. «Ti prego, voglio esserci la prossima volta.»

«Per farti mettere gli occhi addosso da tutti i miei colleghi? Scordatelo.»

Sfilarono accanto ad una comitiva di cinesi, bardati con macchine fotografiche, videocamere, go pro e cappellini da turisti con disegnata la Tour Eiffel. Alcuni indossavano il modellino di occhiali che anni prima Marinette aveva confezionato per Jagged Stone: la montatura era costituita da due Tour in miniatura, ed era colorata di blu, bianco e rosso, come la bandiera francese.

«Carini quelli.» Alessio ne indicò un paio. «Credo di conoscere la persona che li ha ideati.»

«La persona che li ha ideati ha fame in questo momento. Quindi andrà a prendersi un bell’hamburger al Burger King.» Marinette lo prese per la mano e lo trascinò al fast food.

Entrarono nel locale, l’odore di fritto e di brace le fece brontolare lo stomaco.

«Il solito?» chiese Alessio, armeggiando con il portafoglio.

Marinette sfilò un paio di banconote dalla tasca dei jeans. «Vado io. Tu prendi posto.» Lo lasciò lì, non dandogli tempo di replicare. Sapeva che avrebbe protestato affinché fosse lui a fare tutto il lavoro e a servirla a tavola. Ma stavolta, era lei a giocare in casa.

Marinette si mise in fila. Alessio era rimasto a guardarla, finché non alzò le mani e fece come aveva detto. Prese un tavolo in fondo, dove c’era meno calca, lontano dal brusio.

Una ragazza si avvicinò al suo tavolo; aveva capelli biondo platino che le arrivavano fino ai fianchi. Il volto era coperto da enormi occhialoni, ma Marinette pensò che non dovesse essere molto più grande di lei. Aveva un abbigliamento maschile: camicia sciatta e jeans scuri su scarpe da tennis nere. Alessio parve sorpreso dal vederla, poi la sua espressione mutò, trasformandosi in rabbia. Agitò le mani come se volesse scacciarla, scosse la testa. Allargò le braccia e volse lo sguardo verso la vetrina che affacciava sulla stazione e sul corridoio di negozi. La ragazza lasciò qualcosa sul tavolo. Girò i tacchi e se andò.

«Signorina, vuole ordinare?»

Marinette sbatté le palpebre. Il signore che veniva dopo di lei indicò il ragazzo che prendeva le ordinazioni con espressione seccata. «Mi scusi. Mi sbrigo subito.»

Una volta pronto l’ordine, si affrettò a raggiungere il tavolo. Alessio teneva due dita premute sul ponte del naso, gli occhi chiusi. Prendeva lunghi respiri.

Marinette posò il vassoio e si sedette accanto a lui. «Tutto bene?»

Alessio aprì gli occhi e le sorrise. «Sì, sono solo un po’ stanco per il viaggio.» Aprì la confezione dell’hamburger e prese a mangiare in silenzio.

Marinette si protese verso di lui, lanciandogli uno sguardo indagatore. «Chi era quella ragazza?»

Alessio parve pensarci su. Stava cercando una scusa? Inspirò. «Nessuna di cui tu ti debba preoccupare.»

La bocca di Marinette si contrasse. «Ale… Chi è?»

«La mia ex.»

«La tua ex… La tua ex a Parigi?»

«Ci siamo lasciati in modo brusco. Problemi con il mio lavoro.» Alessio ostentò cortesia forzata. «Era diventata insopportabile.»

«E cosa voleva adesso?»

«Non l’ho capito neanch’io. Solo che… Mi ha dato fastidio rivederla.»

Marinette soppesò la spiegazione di Alessio. «Non mi hai mai parlato di lei.»

«Perché non avrei mai più voluto rivederla» disse lui in tono stizzito. «E non volevo nemmeno che tu lo sapessi.»

«Capisco. Beh, se prova a riavvicinarsi scoprirà quanto sono brava a dare calci nel sedere alla gente.» Detto ciò, addentò con voracità l’hamburger.

Alessio cambiò argomento. «Ci sono stati altri attacchi di quei pazzi, gli arkumizzati?»

«Akumizzati» lo corresse Marinette. «No, per fortuna. Ogni volta che ne appare uno si semina il caos per le strade. Il potere di Ladybug può riparare ogni cosa dopo la battaglia, ma lo shock, la paura… Quelle non si possono cancellare schioccando le dita o lanciando in aria un oggetto magico.»

«Precisamente, cos’è che vorrebbe questo tizio?»

Marinette si strinse nelle spalle, ostentando indifferenza. «I poteri di Ladybug e Chat Noir suppongo. Ne dovresti parlare con Alya, lei è un’enciclopedia dei Miraculous.»

«A te non interessano?»

«Non quanto ad altri.» “Quanto vorrei raccontarti tutto.”

 

Il giorno dopo, Marinette si recò nel pomeriggio al Gran Parìs dove alloggiava Alessio. Gabriel Agreste aveva preso appuntamento con loro in modo da discutere su una sfilata che avrebbe voluto organizzare in primavera. Marinette aveva già pronto un quaderno intero da mostrargli.

Attraversò la porta scorrevole dell’hotel e si avvicinò al bancone della concierge. «Alessio Tancredi. Gli dica che sono Marinette.»

La ragazza al bancone annuì e chiamò la stanza al telefono.

«Guarda un po’ chi si vede.»

Marinette ebbe un brivido di ribrezzo nel sentire quella voce. Serrò i pugni e si concentrò sulla superficie di marmo del bancone.

«Non si salutano gli amici?» La voce si fece più vicina, ad un soffio dalla sua nuca.

«Te l’ho già detto: noi non siamo amiche.» Marinette girò la testa sulla spalla. «Che ci fai qui? Cerchi altre persone a cui raccontare panzane?»

Lila fece una risata simile al nitrito di un cavallo. «Pianto dei semi.»

«Piante carnivore?»

«Rose rosse. Con tante spine.» Lila girò i tacchi e si avviò all’uscita, ancheggiando. «Ci vediamo a scuola.»

«Se non li sai portare i tacchi, non li portare, serpe maligna.»

«Signorina?»

Marinette si voltò verso la concierge. «Sì, mi scusi.»

«Monsieur Tancredi la attende. Camera quattro, zero, cinque. Le consiglio l’ascensore sulla destra.»

«La ringrazio.»

Marinette premette il pulsante di chiamata dell’ascensore. La mano le tremolava per il furore represso. Ogni volta che c’era in giro quell’arpia, l’aria diventava irrespirabile. Entrò nell’ascensore e trasse un respiro profondo. Meglio ignorarla.

 

La stanza era come se l’aspettava: in totale disordine. Degno di Alessio Tancredi. Il giubbotto di pelle era gettato sul piano destinato a reggere la valigia, la maglietta e i jeans del giorno precedente gettati sulla sedia, il trolley in piedi a fare la guardia alla porta del bagno. Lui, invece, era impeccabile con una camicia bianca e pantaloni scuri.

«Vuoi far colpo su Gabriel Agreste?» Marinette si appoggiò con una spalla al muro. «Devo essere gelosa?»

«Eh tu puoi solo sognartelo il fascino dello stilista oscuro. Gli manca solo un Alfred, e poi è la perfetta immagine di un Bruce Wayne tarocco.»

«Ha Nathalie.»

Alessio schioccò le dita. «Vero. La regina di ghiaccio. Il mio trolley», lo indicò col pollice, «ha più senso dell’humor.»

«Eppure, a prima impressione, avrei detto che fosse cambiato. Che fosse diventato… Umano. Gentile. Cordiale.»

«Poveraccio Adrien.» Alessio si sistemò un ricciolo ribelle sulla fronte. «Non mi stupisce che sia così… Così…», esitò. Forse voleva trovare un termine che non risultasse offensivo.

«Ingenuo?»

Alessio alzò le spalle. «Sì, ci sta.» Il suo cellulare lo avvisò di una notifica. Lui la lesse, scrisse una risposta e lo gettò sul letto. Sorrise. «Mia madre.» Tornò allo specchio. «Ieri non ho avuto modo di chiedertelo: come vanno le cose con Lila Rossi?»

Lo stomaco di Marinette si rivoltò. «L’ho incontrata proprio ora nella hall.»

«Davvero? Che ci faceva qui?»

«A parte rendermi l’esistenza impossibile? Non ne ho idea. Ogni sillaba che esce da quella sua bocca ripugnante sembra una minaccia nei miei confronti. A volte mi vien voglia, mi vien voglia...»

«Di spingerla sul serio dalle scale?»

Marinette serrò i pugni. «Sarebbe il minimo! Non sai quanto è dura cercare di non rispondere alle sue provocazioni. Per non parlare del fatto che tutti pendono dalle sue labbra. Nessuno si rende conto che racconta solo bugie, mai sentita una verità provenire da lei.»

«Possibile che ce l’abbia ancora con te perché pensa che sei innamorata di Adrien?»

«Non lo so.» Marinette scosse la testa. «Credo che adesso sia una sorta di questione personale per lei. È come se fosse una sfida per lei, un obiettivo di vita. Adrien è solo un pretesto. Io sono l’unica, insieme a lui, a non credere ad una parola che dice.»

«Però intanto», Alessio intrecciò le braccia, «fa i servizi fotografici insieme a lei. Spero che non costringano anche me a farli.»

«Assolutamente no!» Marinette batté la mano sul muro. «Mai quella vipera dovrà avvicinarsi a te. Ha già monopolizzato l’attenzione dei miei amici. Se prova anche solo a guardarti, la prenderò a calci fino a che non sanguina, le strapperò tutti i capelli da testa e la costringerò a mangiarseli.»

Alessio fece una risata sommessa. «Così mi spaventi.»

Marinette addolcì i tratti del viso e lo abbracciò. «Sai quanto tengo a te. Giù le mani dal mio modello o saranno guai.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


16

Adrien raggiunse il cortile della scuola con un fastidioso ronzio nella testa. Un gruppo di ragazzi, capeggiato da Kim, si stava sfidando al tiro libero al canestro.

A colazione, suo padre gli aveva riferito che nel pomeriggio ci sarebbe stato un servizio fotografico di pubblicizzazione di un evento che si sarebbe tenuto in Primavera. La notizia aveva riempito di gioia Adrien, visto che sarebbero stati proposti i primi modelli disegnati da Marinette e confezionati a tempo di record dall’affiliata società della casa Agreste. Alessio Tancredi ed una modella danese lo avrebbero affiancato durante il servizio. Negli occhi di Gabriel aveva letto una febbrile eccitazione, tenuta a malapena celata dietro la solita espressione fredda e calcolatrice.

Adrien salutò il gruppo di ragazzi e salì per le scale che conducevano all’aula. Una mano gli batté sulla spalla. Si voltò. L’istinto gli suggerì di fuggire di lì, di rifugiarsi in classe con una scusa e cercare aiuto in Nino. La parte razionale ebbe il sopravvento e si impose cordialità. «Ciao, Lila.»

«Buongiorno, Adrien» disse lei con voce civettuola. «Non vedo l’ora che arrivi il pomeriggio.»

«Ah mi dispiace.» Adrien ostentò falso rammarico. «Oggi sono impegnato.»

«Oh lo so. E non vedo l’ora di posare accanto a te.»

«Prego?»

«Tuo padre non te l’ha detto?» Lila si portò una mano alla bocca. «Ci sarò anch’io nel servizio fotografico. È stata una sua idea e ho accettato subito. Sai, io ho posato per le più importanti riviste di moda internazionali, conosco un sacco di gente influente, e potremmo anche scambiarci consigli su come far risaltare la nostra figura davanti all’obiettivo.» Ondeggiò i capelli legati in tante treccine.

«Certo, come no.»

«Qualcosa ti turba mio caro?»

Adrien riprese a camminare verso l’aula. Il ticchettio dei tacchi di Lila lo seguiva imperterrito. «Nulla. Sono solo sorpreso che mio padre non mi abbia detto che ci saresti stata anche tu.» Quello poteva essere un problema: Marinette e Lila non andavano per niente d’accordo e il set fotografico si sarebbe potuto trasformare in una gabbia da combattimento.

«Magari voleva farti una sorpresa.»

“Sai che sorpresa.” Ma questo evitò di dirlo ad alta voce. Si limitò a sfoggiare un sorriso forzato e si accomodò accanto a Nino. Lila gli sfilò accanto ammiccando e si andò a sedere in ultima fila.

Adrien attese l’arrivo di Marinette. Doveva avvisarla il prima possibile della presenza di Lila al servizio, così avrebbe potuto attutire dal principio eventuali screzi.

Marinette arrivò un paio di minuti dopo. Aveva un’espressione serafica dipinta in viso. Il pensiero di dover essere lui a cancellargliela gli provocò un groppo in gola.

Mancavano ancora sei minuti circa all’inizio della lezione. Adrien si alzò ed intercettò Marinette intenta a raggiungere il posto accanto ad Alya. «Devo dirti una cosa.» Indicò con la testa la porta.

Annuì. «D’accordo.»

Adrien sbuffò. Non c’era un modo facile per dirlo quindi andò subito al sodo. «Si tratta del servizio di oggi. Ho appena avuto la notizia che ci sarà anche Lila.»

Marinette non si scompose. «Lila Rossi? La nostra simpaticissima compagna di classe?»

«Mi dispiace. Mio padre deve averlo pensato all’ultimo secondo, perché io l’ho saputo da lei.»

«Non c’è problema, Adrien.» La sua calma olimpica lo sorprese. «In mezzo a tante persone, dubito tenterà qualche tiro mancino dei suoi. E poi, ci sarà Alessio accanto a me. E ci sarai anche tu. Con voi a proteggermi, non ho di che preoccuparmi. Dal canto mio, la ignorerò e basta.»

«Wow. È andata meglio di quanto sperassi.»

«Mi sono imposta di disinteressarmi di tutto ciò che dice, pensa o fa. È il modo migliore per non darle soddisfazione e non offrirle su un piatto d’argento l’occasione per mettermi di nuovo in cattiva luce. Dovresti farlo anche tu. In fondo, siamo gli unici della classe che conoscono il suo vero volto.»

Adrien era impressionato da tanta maturità. Marinette continuava a stupirlo giorno dopo giorno. «Farò così. Fremo dalla voglia di indossare nuovamente una tua creazione.»

 

Come al solito, Gabriel non prese parte al servizio fotografico. Ormai Adrien aveva perso ogni speranza di vederlo alle spalle di Monsieur Vincent a dare disposizioni affinché tutto fosse perfetto. Avrebbe revisionato il lavoro la sera stessa, prendendosi tutta la notte, e poi avrebbe annunciato in pompa magna il suo giudizio.

Il servizio si sarebbe tenuto a Montmartre, sulla cima più alta di Parigi, dove sorgeva la Basilica Sacrè-Coeur, che avrebbe fatto da sfondo alle fotografie. La cupola centrale sulla sommità sovrastava l’intero spiazzale. In cima alla scalinata si poteva dominare l’intera città.

Nathalie lo scortò al tendone dove lo attendevano il parrucchiere, la truccatrice e la costumista. All’interno, erano stati disposti quattro slot, uno per ogni modello, circoscritti da file di separé e tende. Tre abiti erano già pronti, appesi ai ganci, dentro custodie nere.

Adrien posò la borsa a tracolla, facendo attenzione a non sbatterla, altrimenti Plagg glielo avrebbe rinfacciato più tardi. L’ultima volta, si era vendicato gettandogli sul naso un calzino ripieno di Camembert stagionato mentre dormiva. Ancora si sentiva addosso quel tanfo.

Delle voci giunsero dallo spazio in fondo. Adrien riconobbe delle parole pronunciate in italiano. Forse Alessio e Marinette erano già arrivati. Si accostò per dare un’occhiata. Una donna dalla carnagione olivastra e i capelli stretti in una crocchia gli passò accanto, senza degnargli uno sguardo. Aveva in mano una piastra per capelli; dall’odore di ferro bruciato doveva averla usata da poco. Seduta davanti ad uno specchio c’era una ragazza, le gambe accavallate, smartphone in mano.

“La modella danese.” Adrien si annunciò con un colpo di tosse.

La ragazza gli piantò addosso due occhi color ghiaccio. Le luci si riflettevano sulla pelle candida del volto, delle spalle nude e delle gambe. Portava un top argenteo, una minigonna e stivaletti. «Tu devi essere Adrien Agreste» disse in perfetto francese, la voce metallica che non tradiva la benché minima emozione.

Adrien gonfiò il petto. «È un piacere conoscerti, Mademoiselle...»

«Risparmiati le parole da damerino. Dì solo sì o no.»

«S-Sì… Sono Adrien Agreste.»

«Elga Storm.» Tornò ad occuparsi dello smartphone, facendo intendere che non intendeva interloquire.

Adrien girò i tacchi ed uscì. Non era stato l’incontro che si aspettava, ma magari una persona dal carattere glaciale avrebbe messo Lila al suo posto. Non tutto il male veniva per nuocere, dopotutto.

All’esterno, l’odore del prato, il chiacchiericcio di ragazzi, coppiette e turisti stemperò la tensione. Marinette e Alessio salirono dalla scalinata e salutarono Adrien con ampi gesti. Adrien provò un leggero vuoto allo stomaco.

«Ci siamo tutti allora.»

Le mani di Adrien ebbero un leggero tremolio. Era arrivata anche Lila.

Alessio lo salutò battendogli il pugno, come se fosse una consuetudine per loro, nonostante si conoscessero poco. Tese una mano verso Lila, con un leggero ghigno sotto gli spessi occhiali da sole. «Piacere, Alessio Tancredi. Tu sei la modella danese di cui mi parlava Marinette?» Portava i bottoni in alto della camicia sbottonati per mettere in risalto il ciondolo con una croce greca.

Lila gli strinse la mano. «Lila Rossi. Sono la compagna di classe e di set di Adrien.» Alzò il mento per guardarlo in viso.

«Ah sì, ho sentito parlare di te. Sei quella che conosce il principe Ali, vero? Poi conosci l’ambasciatore del Congo, il direttore generale del WWF», Alessio tenne il conto con le dita della mano, «la Regina d’Inghilterra, il principe Alberto di Monaco… Ho dimenticato qualcuno?»

Marinette alle sue spalle tratteneva a stento le risate.

Il volto di Lila era paonazzo, ma si sforzò di sorridere. «Ne conosco tante altre.»

«È tutto pronto all’interno» disse Adrien. «Lo staff di Monsieur Vincent ha già predisposto tutto.»

Una serie di transenne stabiliva il perimetro intorno al tendone. Sull’altro lato, i tecnici stavano posizionando i riflettori e le attrezzature secondo le disposizioni del fotografo e dei suoi assistenti. C’erano anche alcuni addetti ai lavori che Adrien non aveva mai visto prima d’ora. Gabriel gli aveva accennato che avrebbero preso parte anche i collaboratori della modella danese.

Adrien fece strada, Lila si avvinghiò al suo braccio. Non si ritrasse, per evitare di risultare scortese agli occhi dei suoi colleghi.

Alessio prese Marinette sotto braccio e la condusse nel tendone. La sua espressione si trasformò quando si ritrovò di fronte Elga Storm.

«Mi avevano detto che ci sarebbe stato anche qualcuno competente» disse lei. Gli arrivava al petto nonostante i tacchi alti.

«Che ci fai qui?» ringhiò Alessio, togliendosi gli occhiali. Gli occhi neri sembravano emettere scintille. I muscoli tirati minacciavano di strappare la stoffa della camicia da un momento all’altro.

«Gabriel Agreste, saputo della mia presenza a Parigi, mi ha offerto quest’occasione per vestire le creazioni di una giovane promessa nel campo della moda. Credevo sapessi che saresti stato affiancato da una modella.»

«Da due modelle» precisò Lila. Elga non la degnò di uno sguardo.

«Sei tu la modella danese.» Alessio si passò una mano tra i capelli. «E va bene.»

Marinette si presentò. «Sono io la disegnatrice degli abiti.» Non pareva sorpresa della confidenza tra Alessio e Elga. «Marinette Dupain-Cheng.»

«Elga Storm.» Le rispose con tono gelido.

«Voi vi conoscete già?» Adrien indicò ad uno ad uno i tre.

Alessio annuì. «È la mia ex fidanzata.»

Ci fu un lampo negli occhi di ghiaccio di Elga, per un attimo sembrò sorpresa da quell’affermazione. Solo per un attimo. Si voltò facendo ondulare la lunga chioma bionda ondulata e scomparve dietro i separé.

«Buon pomeriggio, tesori miei.» La voce di Monsieur Vincent spezzò il silenzio imbarazzante. «Siete pronti a far danzare l’obiettivo della mia macchina fotografica?»

«Oh, Monsieur Vincent.» Lila intrecciò le dita. «Sono così onorata di lavorare di nuovo al fianco del miglior fotografo di Parigi.»

Vincent si massaggiò la nuca. «Grazie, grazie.»

«Che ruffiana» sussurrarono all’unisono Marinette e Adrien. Si scambiarono un’occhiata ed un sorriso complice.

Alessio, invece, era ancora livido in volto. «Vado a prepararmi.» Baciò Marinette sulla guancia ed entrò nel suo slot.

«E tu, amoruccio, non ti prepari?» chiese Vincent a Marinette.

«Oh, io non poso. Sono quella che ha disegnato i vestiti.»

Vincent schioccò la lingua sotto al palato. «Una bella fanciulla come te non può stare dietro all’obiettivo. Assolutamente no. Vieni qui.» La prese per mano, gliela sollevò oltre la testa e le fece fare un giro completo su sé stessa. «Hai tutto perfettamente al suo posto.» Richiamò la costumista ad ampi gesti. Marinette si guardava intorno confusa. «La voglio pronta per posare. Lei e Elga faranno stragi di ragazzi.»

Lila si schiarì la voce. «E io?»

«Sì, sì. Vai pure tu a prepararti.» Vincent sventolò una mano con pigrizia. Si rivolse ad Adrien. «Raggio di sole, tu posi per primo con Alessio.»

Adrien annuì e andò a vestirsi.

 

Lo shooting andò avanti senza intoppi. Adrien e Alessio vestirono completi simili, diversi solo per il colore: al modello biondo erano destinati quelli scuri, al modello bruno quelli chiari. Lila posò solo in un set, quello destinato ai vestiti casual – t-shirt e jeans. A Elga fu concesso maggiore spazio, posando con capi succinti, minigonne, top, dandole modo di sfoggiare anche numerosi accessori tra cui orecchini, occhiali da sole e fermacapelli. Marinette attirò l’attenzione di tutti quando uscì dal tendone con un lungo vestito rosso, monospalla, i capelli corvini legati in uno chignon alto con alcune ciocche ribelli che le incorniciavano il viso su cui era stato applicato un velo di trucco. Persino Elga Storm si lasciò andare ad un commento d’ammirazione quando la vide. Fu l’unico momento in cui Alessio tornò ad essere pimpante e scherzoso.

Adrien fece una pausa sedendosi su una sedia in legno alle spalle della troupe. I tecnici stavano sistemando le luci ed allestendo uno sfondo artificiale per l’ultima serie di foto in cui avrebbe dovuto posare da solo.

Marinette prendeva appunti sul quaderno, mentre osservava gli scatti di Monsieur Vincent.

Alessio e Elga discutevano accanto alla scalinata. Dagli ampi gesti e dall’espressione corrucciata di lui, Adrien capì che non doveva essere una conversazione amichevole. Nessuno aveva fatto commenti sul momento in cui si erano incontrati nel tendone, ma era chiaro che i due avevano un passato burrascoso alle spalle, la loro relazione doveva essere finita in malo modo. I toni si alzarono e la voce possente di Alessio attirò l’attenzione di tutti i presenti. Marinette chiuse di colpo il quaderno e fu la prima a precipitarsi accanto al ragazzo. Gli assistenti di Vincent e quelli che accompagnavano Elga formarono un semicerchio intorno ai due, alcuni muniti di fotocamere e videocamere.

Adrien si alzò dalla sedia, ma la truccatrice, una donna dalle mani tanto rugose quanto forti, lo esortò a sedersi di nuovo. «Devi prepararti per il prossimo servizio.» Armeggiò con la borsetta che si portava sempre dietro e tamponò con un batuffolo di ovatta il volto del ragazzo.

Ci fu un coro di urla. Stavolta, anche Monsieur Vincent si precipitò a vedere cos’era successo. Adrien rivolse un gesto di cortesia alla truccatrice e gli corse dietro, le dita scivolarono d’istinto sull’anello argenteo. Raggiunse il manipolo di persone, guardavano tutti verso il basso. Alcuni scendevano le scale di corsa. Marinette e Elga si trovavano due piani intermezzi più in basso, chine su un corpo disteso.

Adrien zigzagò tra gli addetti ai lavori e i curiosi che si erano avvicinati e le raggiunse. Spalancò gli occhi. Alessio era a terra privo di sensi, un rivolo di sangue fluiva dalla tempia sinistra. «Chiamate subito un’ambulanza» ordinò alla folla.

«Non dobbiamo muoverlo da così.» Elga posò una mano sulla spalla di Marinette, in lacrime. «Tranquilla, ha solo perso i sensi.»

Nathalie e il Gorilla affiancarono Adrien. «Cercate di allontanare i curiosi» disse loro. «E fate spegnere quelle dannate fotocamere. Lo shooting termina qui.»

«Beh, avete sentito il signorino Agreste?» Nathalie scoccò un’occhiata fulminante ai tecnici e fotografi. «Sgomberate il posto o i sanitari non potranno soccorrerlo.»

Adrien si inginocchiò accanto a Elga e Marinette. «Com’è successo?»

La danese scosse la testa. «Non lo so. È successo tutto in un attimo. Stavamo discutendo, Marinette gli diceva di calmarsi. Poi sono arrivati tutti gli altri a fare mille domande e a dirci di abbassare la voce. D’un tratto Alessio ha perso l’equilibrio ed è caduto per le scale.»

L’ambulanza arrivò nel giro di tre minuti. I sanitari, non senza qualche difficoltà, caricarono Alessio sulla barella e lo trasportarono all’interno del veicolo. Sia Marinette che Elga salirono sull’ambulanza.

Adrien rientrò nel tendone sfinito. Si assicurò che nessuno fosse nei paraggi ed aprì la borsa a tracolla.

Plagg inarcò un sopracciglio. «Già finito?»

Adrien gli fece il resoconto di quanto successo. Si passò una mano tra i capelli e sbuffò. «Che giornata...»

 

Marinette mancò a scuola per tre giorni consecutivi. Adrien, Alya e i loro compagni provarono più volte a contattarla, ma lei li liquidava subito affermando che aveva bisogno di serenità per stare vicino ad Alessio. Per fortuna non aveva riportato commozioni cerebrali o conseguenze gravi della caduta. Aveva ripreso i sensi il giorno successivo all’incidente e migliorava di giorno in giorno.

Marinette tornò a scuola il quarto giorno. Aveva uno sguardo spento, borse sotto agli occhi e il volto pallido. Adrien pensò che aveva dormito ben poco in quei giorni.

«Tra oggi e domani dovrebbero dimetterlo» disse ai compagni di classe all’intervallo. «Soffre ancora di sporadici mal di testa e ha due lividi sul braccio, ma tutto sommato sta bene.»

«E tu?» Alya le passò un braccio intorno al collo. «Sembri stremata.»

«Lo sono. Non sai che spavento che ho preso. Per fortuna, i miei genitori e Elga mi sono stati vicino tutto il tempo.» Si rivolse ad Adrien: «La prima impressione che abbiamo avuto su di lei era sbagliata: è veramente una ragazza straordinaria.»

«Mi fa piacere.»

«Confido che oggi verrai sul Liberty per le prove dei Kitty Section» disse Alya. «Sei la loro costumista, non puoi mancare.»

«Lasciala respirare.» Nino allargò le braccia, ricevendo un’occhiata torva dalla fidanzata. «Vorrà riposare.»

Marinette abbozzò un sorriso. «Ci proverò.»

 

Con grande sorpresa di Adrien, Katami accettò volentieri l’invito a prendere parte alle prove della band. Da un po’ si incontravano solo a scherma e le loro conversazioni erano limitate a consigli o rimproveri su posture, fioretti e simili. Non avevano mai più accennato a quanto detto quel giorno di pioggia, nell’auto di Adrien.

Percorsero il tragitto dalla scuola al Liberty in un silenzio imbarazzante. Adrien temeva di pronunciare qualsiasi sillaba, pur di non ferire l’orgoglio di Katami.

Giunti sulla banchina, Alya si catapultò su di lui come una furia. «Adrien cos’è questa storia?» Gli puntellò il petto con l’indice. «Vedi di smentire tutto o a quella la affogo con le mie mani.»

Adrien sollevò le mani a mo’ di protezione. «Calmati, Alya. Che succede?»

«Succede che Lila sta raccontando a tutti che Marinette ha spinto Alessio per le scale.»

«Lila sta facendo cosa?»

Ma Katami sfilò accanto a loro e raggiunse il ponte a grandi falcate. Adrien e Alya la seguirono.

La nipponica puntò dritto su Lila, seduta a gambe accavallate accanto al palchetto, con un cipiglio terrificante. «Rimangiati quello che hai detto.»

Lila fece la solita moina melliflua. «Cosa ho fatto di male?»

«Stai sputando il tuo veleno su una mia amica. E non te lo permetto.»

«Sto solo dicendo ciò che ho visto.»

Adrien cercò lo sguardo dei suoi compagni: a parte Luka e Alya, tutti sembravano credere alla versione di Lila. Non poteva crederci. «Sono sicuro che ti sia sbagliata.»

«Adrien tu eri lì» intervenne Luka. Era più unico che raro vederlo così infervorato. «Dicci cosa hai visto e chiudiamo la faccenda.»

Scosse la testa. «Io purtroppo non ho visto granché. Avevo la visuale ostruita. Ho sentito solo le urla.»

«È stata Marinette a spingerlo» insistette Lila. «L’ho vista benissimo: ha approfittato della confusione.»

Katami scattò in avanti e levò una mano. Adrien e Luka la afferrarono in tempo prima che rifilasse uno schiaffo a Lila. «Lasciatemi!»

«Solo se ti calmi. Non serve a nulla fare così.» Luka parve ritrovare la sua calma olimpica. «Passeresti dalla parte del torto.»

«Ma almeno le toglierei quel sorrisetto da quella brutta faccia.»

Alya era pietrificata. «Perché… Perché Marinette dovrebbe fare una cosa simile?»

Lila scrollò le spalle, ignorando la frustrazione di Katami. «Mi sembra evidente. Tu proprio lo dovresti sapere meglio di tutti.»

«Beh, illuminaci.» Luka allargò le braccia.

«Perché è innamorata di Adrien.»

Calò il gelo sulla barca.

Tutti si voltarono a guardare Adrien. «Questo è ridicolo» disse. «Stai sparando un mucchio di idiozie.»

Lila atteggiò le labbra in quel sorrisetto odioso. Mise la mano nella borsa e ne estrasse un registratore vocale. «L’altro giorno mi trovavo nella hall del Gran Parìs e registravo la mia voce mentre studiavo. Caso vuole che ci fossero anche Marinette e il suo pseudo fidanzato.» Premette play.

«Sei ancora innamorata di Adrien?» Era la voce di Alessio. Il suono era ovattato ma comprensibile.

«Assolutamente.» Era Marinette. «Mai quella vipera dovrà avvicinarsi. La prenderò a calci, le strapperò tutti i capelli. Sarebbe il minimo! Sai quanto tengo a… lui. Giù le mani dal mio modello o saranno guai.»

Lila spense il registratore e guardò tutti con piena soddisfazione. «D’altronde, tutti qui siamo a conoscenza di questo. Osereste negarlo?»

Nessuno replicò. Un silenzio d’assenso. Le braccia di Alya caddero lungo i fianchi, Luka si coprì il volto con le mani, Katami aveva i muscoli del collo tirati, una vena le pulsava sulla fronte.

«È tutto falso.» Una voce potente, dura.

Sulla passerella che univa la banchina alla barca, Marinette avanzava a passo spedito. La pochette appesa sulla spalla dondolava ad ogni movimento. L’espressione era serafica, in contrasto con quella che aveva a scuola.

Alle sue spalle, Alessio sfoggiava il solito look piratesco, con maglia larga e pantaloni scuri. I capelli erano arruffati, gli occhi gonfi ma attenti. Una fascia bianca gli avvolgeva la fronte.

«Ancora la segui?» chiese Lila con strafottenza. «Non ti basta tutto quello che ti ha fatto?»

Marinette rimase impassibile.

Alessio si pose davanti a Lila, ergendosi in tutta la sua colossale figura. Pareva un pugile pronto ad affrontare l’ultimo round di un incontro. «Ti sei messa a registrare una conversazione privata da dietro la porta della mia camera. Una vera mente criminale. Perché non racconti a tutti il modo in cui mi hai spinto giù per le scale di Montmartre?»

Lila scoppiò a ridere. «Io? Che fai, provi a rigirare la frittata per difendere la tua aguzzina, che tra l’altro ama un altro?»

«Sai Lila», Alessio fece eco alla sua risata, «tu vivi nella convinzione di poter prendere in giro o manipolare tutti. Stavolta, però, il tuo machiavellico piano ha una grossa falla.» Lila corrucciò la fronte, Adrien tese le orecchie. «Ricordi Elga Storm? Ha l’abitudine di portarsi ad ogni servizio o sfilata un tizio che riprenda qualsiasi cosa accada nel backstage.» Cavò dalla tasca lo smartphone. «Sfortunatamente per te, ha ripreso anche il momento in cui io e lei stavamo litigando e poi sono cascato giù. Vi prego di guardare tutti. È molto interessante.» Avviò il video.

Le immagini mostravano lui e Elga discutere in modo plateale, Marinette che si avvicinava loro per fare da paciere, un gruppo di tecnici e addetti che si raggruppavano intorno e Lila che girava intorno, prima di infilarsi tra due persone, allungare le braccia e spingere Alessio. Poi, si allontanava con tranquillità, fingendo disinteresse.

Alessio si rimise lo smartphone in tasca. «Non ti denuncio solo perché me l’ha chiesto Marinette» disse in tono affilato.

Adrien serrò i pugni, Alya e Katami parvero sul punto di scatenare una rissa, e Nino e Luka erano tutt’altro che intenzionati a fermarle. Persino la natura placida di Ivan e Mylene vacillò. Juleka si strappò con foga il braccialetto che Lila le aveva donato al suo precedente compleanno e lo gettò in acqua.

Tutti gli sguardi erano puntati su Lila, che era bianca come un lenzuolo. Nemmeno la sua parlantina, le sue strambe scuse l’avrebbero salvata.

Marinette prese parola. «L’odio porta solo altro odio.» Passò davanti ad Alessio e fronteggiò Lila. «Io dimenticherò questa storia, dimenticherò tutto quello che mi hai detto o fatto fino ad oggi. Vorrei che tra noi cali una tregua a tempo indeterminato. Non dico che diverremo amiche, questo credo sia impensabile, ma spero che dopo oggi sotterrerai l’ascia di guerra e lascerai perdere tutto questo astio nei miei confronti.»

Le labbra di Lila tremavano. I suoi occhi verdi divennero due fessure. Passò accanto a Marinette, urtandola con la spalla, e andò via.

Alessio fischiò. «Lo prendo per un no.»

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«Sono sfinita.» Marinette gettò la pochette sul letto e si stese sul divano. «Che giornata.»

Si erano scusati tutti con lei per aver pensato, anche se per poco, che lei potesse essere tanto meschina da dire o fare ciò di cui Lila la accusava.

Alessio si sedette sulla sedia accanto alla scrivania, una caviglia poggiata sull’altro ginocchio. «Quella Lila… La realtà andava ben oltre quello che mi avevi raccontato su di lei.»

«Crescendo è peggiorata. Non riesco a comprendere come Gabriel Agreste possa aver pensato di affiancarla ad Adrien. Non sa nemmeno mettersi in posa. Sa solo sbattere quelle ciglia, finte ne sono certa, e leccare i piedi a chiunque le passi accanto.»

«Diavoli» esclamò Alessio. «È arrivata a registrarci da dietro la porta. Questa è follia.»

«Alla fine, la presenza di Elga è stata una fortuna. Senza lei, e il suo assistente, non avremmo mai potuto smascherare quell’arpia.»

L’espressione di Alessio mutò. Un’ombra calò sul suo viso. «Marinette… C’è una cosa che devo dirti e riguarda te, me e Elga. E non si tratta di relazioni amorose.»

Marinette si alzò. «Ti ascolto.»

Sospirò. «Non è per nulla facile da dire. Io so che tu sei–»

Un’esplosione distrusse la parete alle spalle di Marinette. Due mani, simili a tenaglie la afferrarono da dietro. Il corpo si contorse trafitto da spasmi. Gli occhi si rovesciarono.

Poi, il buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


17

L’aria era satura di un odore nauseabondo, un misto di frutta rancida e tabacco. Lo stomaco di Marinette si contrasse, causandole un reflusso. Trattenne a stento un conato e respirò a fondo, seppur a fatica. Venature violacee e rosa squarciavano il cielo plumbeo.

Dove si trovava?

L’ultima cosa che ricordava era un’ombra, un’orrenda figura evanescente che l’afferrava e la risucchiava in un vortice oscuro.

Avanzò. Il sentiero era circondato da rocce smussate. I piedi affondavano nella ghiaia color carbone.

Un urlo acuto echeggiò in lontananza. Stridulo, come le corde di un violino stonato. La mano scivolò d’istinto sul fianco destro, ma la pochette non c’era.

Dannazione.

L’aveva lasciata nella sua camera, Tikki era lì dentro e non avrebbe potuto aiutarla. Non poteva trasformarsi, avrebbe dovuto cavarsela con le sue sole forze. Se solo avesse saputo dove accidenti si trovava.

Il sentiero si divise in una biforcazione: la strada a destra saliva verso l’alto, da dove proveniva l’urlo, l’altra scendeva a ridosso di una foresta di alberi dalla folta chioma scura. Cumuli di rovi si ammassavano ai piedi delle cortecce.

Un brivido gelido corse lungo la schiena di Marinette. Dove andare?

Un altro urlo. Stavolta alle sue spalle.

Marinette corse a nascondersi dietro un grappolo di rocce. Si appoggiò con la schiena, ma si ritrasse subito. La superficie era viscida e ripugnante. Si accorse di tremare.

Una folata di vento spazzò via una manciata di ghiaia. Un rantolo, un soffio inquietante. Marinette sollevò la schiena e fece capolino da dietro la roccia.

La creatura fluttuava a mezz’aria. Aveva la sagoma di una donna scheletrica, longilinea e scura come la notte. Ogni suo movimento corrispondeva ad un alito di vento glaciale e il profilo diveniva evanescente. Gli occhi avevano il colore della lava, due mezzelune che scrutavano i dintorni con aria guardinga, alla ricerca di qualcosa, o qualcuno.

Marinette si acquattò dietro le rocce, le ginocchia strette in petto, attenta a non provocare il minimo rumore. “Ti prego, va via.”

Piombò il silenzio.

Marinette si mosse con cautela, nella speranza che la creatura fosse andata a cercare altrove. Avanzò carponi intorno alla roccia e se la ritrovò davanti. Sgranò gli occhi.

La creatura spalancò le fauci, sfoderando zanne affilate. Allungò gli arti superiori, lunghe articolazioni che terminavano in artigli arcuati.

Marinette strinse la mano a pugno, raccogliendo un mucchio di ghiaia, e lo tirò addosso alla creatura. Si alzò di scatto e corse via. Il terreno pesante le rese difficile la fuga. Una ventata le pugnalò la schiena; si gettò in avanti d’istinto, la ghiaia le graffiò gomiti ed avambracci. La creatura le passò sopra e la mancò.

Marinette fece forza su un braccio per risollevare la testa, con l’altro si ripulì il volto dai granelli attaccati. La creatura disegnò una traiettoria ad arco nell’aria e puntò di nuovo contro di lei.

Stavolta non ce la fece a rialzarsi. Le gambe erano paralizzate, le braccia le bruciavano per le abrasioni.

Due braccia la afferrarono per la vita e la sollevarono. Per un attimo il mondo intorno a lei si rovesciò, il viola, il rosa e il nero si mescolarono in un’unica tinta. La gola si occluse, lo stomaco subì diversi spasmi. Serrò le palpebre. Chiunque l’avesse afferrata si gettò sul terreno ghiaioso.

Marinette aprì gli occhi ed incrociò due iridi verde smeraldo. «Adrien.»

«Stai bene?» La aiutò ad alzarsi.

«A parte i graffi e il bisogno impellente di vomitare, direi di sì.»

La creatura urlò.

Adrien la afferrò per un polso. «Dobbiamo andarcene da qui.» La trascinò giù per il sentiero che conduceva alla foresta. Un ammasso di rovi ne ostruiva l’ingresso. Erano enormi, viscosi, di un verde scuro, simili a tentacoli di un polipo.

«Maledizione.» Adrien li colpì, ne afferrò uno e lo tirò per aprirsi un varco. «Prova a passare.»

Marinette infilò un braccio, con la spalla spinse all’insù e il rovo si scostò quanto bastava per farle infilare anche una gamba.

La creatura caricò feroce, galoppando con tutti gli arti.

Adrien voltò le spalle a Marinette e si pose da scudo.

«Che cosa fai?»

«Vai! Non pensare a me.»

Marinette strattonò la gamba al di là dei rovi. Voleva impedirgli di fare quella follia.

Un bastone volò dal sentiero in alto ed impattò la testa della creatura, la quale urlò di dolore.

Katami.

«Voi due andate, io la terrò a bada e vi coprirò la fuga.» Raccolse il bastone da terra, lo impugnò a due mani all’estremità e si piantò a terra in posizione di guardia. «Non stare lì impalato, aiutala a passare e poi seguila!» Si lanciò all’attacco.

Adrien esitò. Con le braccia tremolanti, si girò ed aiutò Marinette a divincolarsi dai rovi. Lei passò dall’altra parte, quindi aiutò lui. Una volta passato, i rovi si ricompattarono, innalzando un muro. I rumori della battaglia tra la creatura e Katami scomparvero.

«Avremmo dovuto aiutarla» sussurrò Marinette, con gli occhi coperti da un velo di lacrime.

«Ha voluto darci una chance per andarcene da qui.» L’esitazione scomparve dal volto di Adrien. «Andiamo.»

Si addentrarono nella foresta. Attraverso la coltre di rami e foglie, una flebile luce li guidò verso una palude. Non c’erano altre vie, dovevano attraversarla. L’olezzo divenne più intenso.

Adrien andò per primo. Affondò un piede nell’acqua salmastra. Ebbe un brivido di ribrezzo. Avanzò con cautela fino al centro. L’acqua gli arrivava ai polpacci. Fece un gesto con la mano.

Marinette lo seguì, una mano premuta sul naso.

Proseguirono per un po’, mano nella mano. L’unico rumore era quello prodotto dai loro passi nell’acqua.

«Quella cosa, sarà un’akuma?»

Adrien si corrucciò. «Credo sia un sentimostro. E un akumizzato lo sta controllando.»

Marinette trasalì. «Tanto potente da mandarci in questo mondo distorto.»

«Non siamo gli unici. Prima di essere catturato da quel mostro, ho visto Parigi nel caos: palazzi semi distrutti, fuoco per le strade, auto rovesciate… Ma di persone ne ho viste poche. Temo che di quelle cose, ce ne siano due. Una lì fuori fa da portale, l’altra le divora qui.»

«È orribile. Mai avrei pensato si potesse arrivare a tanto.»

«Io ho visto la persona akumizzata. Stava appollaiata sulla Tour Eiffel, a godere della devastazione che stava causando.» Il volto di Adrien era livido di rabbia. «E penso di sapere anche chi sia.»

Anche Marinette lo sapeva. «Lila…»

Un arco di rami segnava la fine della foresta. Entrambi emisero un sospiro di sollievo.

Adrien controllò che non ci fossero pericoli. «Sembra tranquillo.»

«Mi farò un bagno di cinque ore a casa.» Marinette sbatté i piedi sul terreno duro. Affiancò Adrien. Dinnanzi a loro si apriva un piccolo spiazzale. Una stradina laterale scendeva sulla destra. Dritto si ergeva una grotta.

«Direi di riposarci lì dentro per ora» disse Adrien. «Poi penseremo ad un modo per uscire da qui.»

Marinette annuì. L’aria all’interno della grotta era umida, ma il tanfo era sparito. Si sedette con la schiena appoggiata alla parete. La superficie non era dura come si aspettava, ma morbida e soffice.

Adrien restò accanto all’entrata, vigile. Fece una smorfia e digrignò i denti.

«Adrien, tu sanguini.» Marinette balzò in piedi.

La manica della camicia sul braccio destro era lacerata, tre saette purpuree rigavano il suo bicipite. «Non è nulla.»

«Siediti qui e fammi dare un’occhiata» ordinò perentoria Marinette.

Adrien eseguì senza ribattere.

«Devo trovare un modo per tamponarla o dissanguerai.»

Adrien protese il busto in avanti. «Ho un’idea.» Si sbottonò la camicia e se la tolse. Si spogliò anche della canottiera bianca e la porse a Marinette. «Usa questa.»

Arrossì. «D-D’accordo.» Cercò di ignorare il modello a torso nudo di fronte a lei e si concentrò sulla medicazione. Avvolse la canottiera intorno al bicipite, un giro bastò, e la legò stretta. Si schiarì la voce. «Così dovrebbe… Dovrebbe andare.» Si voltò. Guance e collo erano roventi. Da quando le faceva di nuovo quell’effetto stare accanto a lui?

«Lo penso anch’io.» Adrien si infilò di nuovo la camicia. Sorrise. «Sei un’ottima infermiera, Marinette.» Spostò lo sguardo su un punto vuoto di fronte. «Spero che Ladybug risolva in fretta la situazione.»

«Sempre che non sia stata catturata.» Non voleva dargli false speranze: finché Marinette era intrappolata lì dentro, Ladybug non poteva intervenire. «E purtroppo le probabilità che sia così sono piuttosto alte.»

Adrien sospirò. «Io non sono innamorato di Katami. Non lo sono mai stato.» Marinette corrugò la fronte, chiedendosi perché le stesse dicendo quelle cose, ma non lo interruppe. «In questi anni, ho sperato che il mio affetto nei suoi confronti diventasse qualcosa di più, ma non è successo. In tutta onestà, è come se l’avessi ingannata per tutto il tempo anche se apprezzo la sua compagnia. E quando Ladybug è riapparsa, ho capito che non ho mai smesso di amarla.»

«L-Ladybug?»

Annuì. «L’ho amata dal primo giorno. So che è un amore impossibile, lei è una supereroina che protegge gli altri e sarebbe pericoloso intraprendere una relazione con un civile. Ora però, sento qualcosa di diverso, non è come prima. Non so nemmeno dirti esattamente cosa significhi.» Fece una risata amara. «Penserai che sia un pazzo.»

«Comprendo perfettamente, invece. Io ho amato alla follia un ragazzo. E no! Non è Chat Noir. Per me era la perfezione fatta persona, non riuscivo a trovarne dei difetti. Ed è per questo che inconsciamente lo ritenevo un amore impossibile e non sono mai stata in grado di dichiararmi. Avevo paura di un rifiuto, di non essere alla sua altezza. Quando ho saputo che nella sua testa c’era un’altra, mi è crollato il mondo addosso. Nonostante ciò, continuavo a nutrire una speranza, ho preso ciò che lui poteva offrirmi – la sua amicizia – e sarebbe stato così tutt’ora se non mi fossi allontanata da Parigi. Poi, ho capito che la mia era più un’ossessione che amore e non sarei andata da nessuna parte con quella mentalità. E dunque sono andata avanti per la mia strada.»

«Permettimi di dire che costui è un vero idiota se non ti ha mai notato. Tu sei fantastica, Marinette. Sei la Ladybug di tutti i giorni.»

«Al cuor non si comanda, Adrien. Tu più di tutti dovresti saperlo.» Marinette si alzò. «Credo che dovremmo andare. Stando fermi qui, non risolveremmo nulla.»

Uscirono dalla grotta ed imboccarono il sentiero che scendeva verso il basso. Si era alzata una leggera foschia, rendendo impossibile comprendere dove portasse. Procedettero con cautela, la pendenza era notevole ed era necessario evitare scivoloni.

Il sentiero terminò su una spiaggia. Il mare era un’immensa tavola nera, la sabbia sembrava cenere.

«Secondo te, si può bere?» chiese Adrien. «Ho una sete da pazzi.»

«Io non rischierei.» Marinette si avvicinò al bagnasciuga. L’acqua non produceva schiuma. Mise le mani sui fianchi. «E adesso?»

«Forse dovr–»

Un sussulto scosse la terra. Adrien afferrò il braccio di Marinette e la tirò a sé. Sulla riva si aprì uno squarcio verticale, come una lama nella stoffa. Due mani si infilarono dentro e lo dilatarono.

Adrien coprì Marinette con il suo corpo. «Chi sei tu?»

La figura al di là dello squarcio era colossale. Sul petto aveva un drappo tenuto sulla spalla da una spilla dorata. Un elmo con due corna arcuate copriva la testa e metà volto. In mano aveva un’ascia. La puntò contro di loro. «Seguitemi. Non abbiamo molto tempo.» Si scostò in modo da mostrare il luogo alle sue spalle: Place des Vosges. Parigi.

Marinette sfilò alle spalle di Adrien e si gettò subito nella fenditura, lui la seguì a ruota.

La città era in rovina. Palazzi in frantumi, fuoco e fumo, un manto di polvere cinerea sulle strade. Il cielo aveva assunto una tonalità rosata. Marinette, mano nella mano con Adrien, si accorse che lui tremava. Forse di rabbia, o di paura.

Lo squarcio si richiuse e un urlo echeggiò. Era di nuovo la creatura d’ombra, o la sua gemella. Impossibile distinguerle.

L’uomo con l’elmo taurino mulinò la colossale ascia ed impattò il petto della creatura, proiettandola lontano. «Mettetevi in salvo. Tornerà» disse con voce roca.

Adrien non si mosse. «Salverai anche gli altri?»

L’uomo non rispose.

«Chi sei?» chiese Marinette.

«Il mio nome è Tyr. Ora andatevene.» Agitò una mano affinché il suo ordine fosse recepito.

Marinette si rivolse ad Adrien: «Mi rifugerò a casa mia. O quello che ne è rimasto.» Una colonna di fumo si innalzava dal palazzo di casa sua. Parte del muro non c’era più.

Adrien sembrò indeciso. Poi, annuì. «Io corro alla Villa. Andrò per i vicoli.» Le diede un abbraccio. «Fa attenzione, ti prego.»

«Anche tu.» Marinette sciolse l’abbraccio e scattò in direzione della boulangerie.

La porta era stata divelta, le vetrine infrante. L’interno era anche peggio: il bancone era spaccato a metà, i dolci e i lievitati sparsi sul pavimento insieme ai detriti, un piccolo incendio divampava dal forno sul retro. «Mamma, papà?» Non si aspettava una risposta, rimase aggrappata ad una flebile speranza che si fossero nascosti. «Alessio?»

Silenzio totale.

“Tikki.” Scavalcò lo scaffale crollato sull’uscio della porta, salì le scale dell’appartamento, immergendosi in una nube di polvere, e giunse nel salotto. Le finestre erano rotte, il resto della stanza sembrava integro. La botola sopra, invece, era distrutta. Dalla cima delle scale pendevano schegge di legno. Prese dalla cucina dei canovacci, coi quali si coprì braccia e mani, e si incuneò attraverso la fessura aperta del pavimento della sua stanza. La parete accanto al letto era distrutta, il divanetto rovesciato, fogli, vestiti, penne, tablet, tutto sparso in giro.

«Tikki!» chiamò a gran voce. Ebbe un accesso di tosse. Un pensiero le trafisse la mente. La Miracle Box! Scostò i detriti che avevano sepolto il baule. Lo aprì, tossendo a causa della polvere che si sollevò. La scatola metallica era lì, intatta.

«Marinette!» Tikki svolazzò dalla casetta delle bambole posta sulla mensola dietro al letto. Almeno quella si era salvata. Posò le sue zampette sulla guancia della ragazza. «Ho avuto tanta paura quando sei scomparsa.»

Marinette strinse gli occhi, ricacciando indietro le lacrime. «Grazie al cielo, stai bene. C’è un akumizzato e un sentimostro in giro.»

«Lo so. Ti ho cercato a lungo per la città evitando di farmi scoprire da quella strana ombra. Ho incrociato Plagg.»

«Plagg?» Marinette trasalì. «Significa che anche Chat Noir è stato catturato.»

«Non l’ho mai visto così in pena. Gli ho detto di tornare nell’ultimo punto in cui l’ha visto, come ho fatto io.»

«Spero che Tyr salvi anche lui.»

«Chi?»

Marinette glissò. «Ora non abbiamo tempo. La mia speranza è che sia un nostro alleato.» Aprì con la chiave appesa al collo la scatola metallica e prese tra le mani la Miracle Box. «Questo potrebbe essere il nemico più forte che abbiamo mai affrontato. Il potere di Ladybug potrebbe non bastare.»

«Chiamerai alleati?»

«E chi potrei chiamare? Non c’è nessuno per la strada a parte quello che ha liberato me e Adrien. E lui non è la persona adatta da avere al mio fianco. Non ora.» Marinette cavò il ciondolo del Dragone dalla Box. «Meglio andare sull’usato garantito.»

Longg, il Kwami vermiglio simile ad un piccolo drago, completo di spuntoni sulla testa, le salutò con un inchino. «È un onore per me poterla assistere nuovamente, signorina Marinette» disse con voce impostata e fiera.

«Tikki, trasformami!» Il fascio rosso e bianco la avvolse. Indossò il ciondolo al collo. «Tikki, Longg, fusione!»

 

Dragonbug si diresse alla Tour Eiffel, dove Adrien le aveva detto di aver visto l’akumizzato. Il potere dei Miraculous smorzò il fastidio causato per le esalazioni di fumo, diffuse in tutta la città.

L’ascensore della Tour era stato divelto e scagliato sulla strada. Le corde si agitavano penzoloni, avvolte in colonne di fumo nero.

Un urlo echeggiò nell’aria. Proveniva dalla cima del monumento. Era diverso da quello emesso dalle due creature: più acuto, più stridente.

Una sagoma argentea scalò un lato della Tour, correndo in verticale. Giunta in cima, si avventò su un’altra sagoma, scura, alata, ed iniziarono a lottare.

Si scatenò un altro urlo roboante. Dal cielo cadde una pioggia di meteore infuocate che si abbatterono sulla Tour. La sagoma argentea schivò a fatica due palle di fuoco e precipitò giù.

Dragonbug sollevò la spada, il ciondolo al collo si illuminò. Evocò uno scudo d’acqua, abbastanza compatto da respingere le meteore. La sagoma argentea atterrò affianco a lei. L’armatura scintillante le lasciava scoperto solo l’addome, in vita aveva un cinturone con il simbolo di una bilancia. Capelli color platino cadevano da un elmo completo di celata che le arrivava fino al naso.

«Chi sei?» Dragonbug calò la spada e la appese in vita.

«Il mio nome è Vaegt.» Si portò la mano chiusa a pugno sul cuore. «Sono la custode del Miraculous della Bilancia.»

«Sei con lui, vero?»

Annuì. «Tyr. Il custode del Miraculous del Toro. Tu…» Una nota di sorpresa nel tono di voce. «Tu porti due Miraculous. Com’è possibile?»

Dragonbug fece spallucce. «Ho pensato che solo uno non bastasse.»

Vaegt giunse le mani al petto. Un’aura viola la circondò. «Lei è qui» sussurrò. «Bene.»

«Cos’hai fatto?»

«Telepatia. Ho avvertito Tyr che sei qui. Lui e il tuo partner stanno combattendo il sentimostro.»

Sapere che Chat Noir era arrivato sul campo di battaglia, la rassicurò. «Da quanto combatti con quella cosa?» Indicò con la testa l’akumizzato in cima alla Tour.

«Si chiama Dark Banshee. Ha il potere di manifestare attacchi infuocati tramite il suo urlo. Dovremmo collaborare se vogliamo sconfiggerla.» C’era freddezza unita a determinazione in quelle parole.

Dark Banshee agitò le ali piumate, spiccò il volo e planò come un proiettile nello spiazzale davanti a loro. La pelle era bianca come il latte, gli occhi iniettati di sangue avevano una colorazione viola. Gocce ematiche colavano dai canini aguzzi. Protese il collo in avanti, soffiando.

Dragonbug indicò il polso sinistro. «Quel bracciale! Io l’ho già visto.» Lo indossava quel giorno Lila. «Scommetto che è lì l’akuma.»

Dark Banshee emise uno strillo. Dragonbug e Vaegt si coprirono le orecchie per il frastuono. Un urlo giunse da lontano come se fosse una risposta.

«Sta venendo qui» disse Vaegt. Si girò a guardare Dragonbug. «Il sentimostro… L’ha richiamato.»

«È ora di alzare le nostre probabilità.» Afferrò lo yo-yo stretto in vita e lo lanciò in aria. «Lucky Charm!» Dal bagliore si manifestò un estintore rosso a pois neri. «Mai una volta che sia chiaro l’utilizzo.»

«Io posso bloccare per un po’ un avversario. Ma solo uno. Tyr può creare un terremoto con la sua ascia.»

A Dragonbug bastarono pochi secondi per architettare un piano. «Vai incontro a Chat Noir e al tuo amico. Dobbiamo riunirci perché il piano riesca.» Si mise l’estintore in spalla, sfoderò la spada e la agitò nell’aria. Una spirale di nebbia avvolse Dark Banshee. Nonostante le urla non riuscì a diradarla. Dragonbug si gettò nella spirale, puntando la canna dell’estintore.

La nebbia si diradò.

Dragonbug era distante un soffio dall’akumizzata. Tirò la leva dell’estintore: la schiuma bianca invase il cavo orale di Dark Banshee, la quale si dimenò, sputò e rantolò. Il sentimostro si abbatté su uno dei piedi di sostegno della Tour. Emise un grido strozzato.

Dragonbug balzò all’indietro con una capriola. «Sono arrivati.»

«Addirittura due alleati.» Chat Noir ammiccò. «Stavolta hai superato te stessa, insettina.»

«Non li ho chiamati io.» Scosse la testa. «Ci penseremo dopo. Credo che la Banshee non sarà in grado per un po’ di urlare. Vaegt tu bloccala. Tyr tieni a bada il sentimostro. Chat carica il Cataclisma: quando è il momento, punta al braccialetto.»

Tyr mulinò l’ascia bipenne, ringhiando. «Quel coso è mio.» Caricò come un toro il sentimostro ancora stordito. Lo colpì con una spallata, seguita da una falciata laterale. Scagliò l’ascia sul pavimento. La terra sussultò sotto i suoi piedi. Il sentimostro parve incapace di reagire.

Vaegt sollevò le braccia e due bilance dai piatti incendiati da un fuoco lilla si manifestarono in aria. Un’aura viola circondò Dark Banshee e la immobilizzò.

Dragonbug attinse al potere del fulmine e scagliò una saetta sul braccio destro della Banshee.

«Cataclisma!» Chat si avventò sul braccialetto e lo disintegrò.

Una farfalla viola con un folto piumaggio blu si librò in volo.

«Ha fuso i due Miraculous.» Dragonbug catturò la farfalla lanciando lo yo-yo. «Ahi! Scotta.» “Anche il potenziamento del fuoco. Stavolta ha fatto le cose in grande.” Purificò l’akuma e l’amok.

Tyr e Vaegt erano già andati via.

Chat Noir alzò le spalle. «Avranno avuto un impegno urgente.» Porse il pugno. «Ben fatto?»

Il primo pensiero di Dragonbug fu rivolto ad Alessio. Lanciando il Lucky Charm sarebbe tornato tutto come prima e chissà cosa avrebbe pensato non trovandola nella sua stanza. Sfiorò appena il pugno di Chat. «Scusa, devo andare.» E saltò via per i tetti di Parigi.

Giunta nei pressi della Boulangerie, lanciò l’estintore in aria. «Miraculous, Ladybug.»

Mentre lo sciame di coccinelle riportava l’ordine in città, ricostruendo ciò che era stato distrutto e riportando le vittime alle loro case, Dragonbug scivolò giù per la botola del terrazzino. «Fine fusione, ritrasformami.» La trasformazione terminò.

Tikki e Longg si nascosero nella casetta delle bambole.

Marinette si accasciò sul divanetto, tirando un lungo respiro. “Quando finirà questa giornata?”

La botola sul pavimento si spalancò e Alessio entrò nella stanza. «Marinette.»

Lei corse tra le sue braccia. «Grazie al cielo stai bene.»

«Sono andato a controllare che i tuoi stessero bene. Hanno un po’ le idee confuse ma non ricordano nulla di ciò che è successo.»

«E tu?»

Alessio non rispose. Si limitò a concederle un altro abbraccio. «L’importante è che sia tutto finito.»

«Mi dispiace se ti sei preoccupato per me.»

Sciolse l’abbraccio e la guardò. «Non sono mai stato preoccupato per te. So che te la saresti cavata alla grande, anche in quel mondo orribile.» Fece una pausa. «Prima che il sentimostro ti catturasse, dovevo dirti una cosa.»

Marinette annuì. «Ti ascolto.»

Alessio esitò.

«Puoi dirmi tutto» disse Marinette per infondergli coraggio.

«Io so che tu sei Ladybug.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


18

Marinette perse un battito. «Io… Io L-Ladybug?» Emise una risatina nervosa. «Perché mai dovresti pensare una cosa simile?»

Alessio non stava ridendo. «Lo so dal giorno che ci siamo conosciuti. Anzi, lo so anche da prima.»

Marinette arretrò fino a toccare il muro con la schiena, puntandogli l’indice contro. «Tu non puoi dire sul serio.»

«Mi odierai per questo, ma non posso più fingere di non sapere nulla. Non posso più fingere con te.»

Marinette sentì gli occhi pungere. «Non riesco a capire.»

Alessio si sedette sulla sedia. Sbuffò. «Sapevo che sarebbe stato difficile, ma non credevo fino a questo punto. Non so nemmeno da dove cominciare.» Trasse un respiro profondo. «Io sono stato mandato da te per sorvegliarti, Marinette.»

«Chi ti ha mandato?»

«I Guardiani del Tempio dei Miraculous. Quattro anni fa, ero a Berlino per una sfilata di moda. Mio padre e mia madre all’epoca mi seguivano in ogni trasferta. Furono avvicinati da un vecchio vestito in modo curioso; sembrava uno di quei santoni che si vedono nei film di arti marziali. Sul momento non ci feci caso, a quegli eventi prendono sempre parte persone da ogni parte del mondo e ogni tanto capita di incrociare qualche tizio sui generis. Quando tornammo in hotel, loro mi dissero che quel tipo voleva affidarmi un incarico di altissima responsabilità, che ero stato scelto. Io pensavo fosse uno scherzo, a mio padre sono sempre piaciuti scherzi simili, ma parlavano sul serio. Mia madre mi mostrò un ciondolo», Alessio prese tra le dita la croce che portava al collo, «lo porto ancora con me. Lo fece oscillare tre volte nella mia mano e quel vecchio apparve dal nulla, come se lo avessimo evocato. Mi disse che lui era un Guardiano di Miraculous, gioielli magici che donavano a chiunque li possedesse dei poteri straordinari. E aveva scelto me per essere un portatore.»

Marinette tirò su col naso. «Conoscevi Wang Fu?»

Alessio scosse la testa. «Mi è stato solo detto che lui fu la causa della distruzione del Tempio, decenni fa. E che grazie ad una supereroina di Parigi, che lui stesso aveva scelto, il Tempio era stato ricostruito e tutte le persone che vi abitavano riportate in vita. La supereroina si chiamava Ladybug. Tu.

«Io ero come ipnotizzato da quel vecchio: accettai senza esitare. Fui condotto in Tibet, addestrato al combattimento corpo a corpo, con e senza il potere del Miraculous, addestrato a sopravvivere al gelo, senza acqua o cibo, fino a che non ottenni il grado di Protettore del Tempio. Un onore che condividevo con un’altra persona.»

Marinette iniziò a comprendere. «Elga Storm.»

«Non siamo mai stati insieme. È come una sorella per me. Io e lei–»

«Siete Tyr e Vaegt. Toro e Bilancia.»

Alessio annuì. «Tre anni fa, il Tempio è stato attaccato. Un uomo, un portatore di Miraculous ha minacciato i Guardiani se non gli avessero rivelato i segreti dei Miraculous. Io e Elga siamo intervenuti per fermarlo, ma ho commesso un errore e l’ho scacciato prima di riuscire a strappargli il Miraculous che usava per fare del male e conseguire i suoi scopi egoistici anziché usarlo per proteggere il prossimo.»

«Chi era questo invasore?»

«Papillon.»

Marinette trasalì. «Voi avete affrontato Papillon?»

«Era uno scontro impari. Nonostante lui sia un adulto in grado di mantenere attiva la trasformazione anche dopo aver usato il suo potere, io e Elga eravamo addestrati e l’abbiamo risolta facilmente.

«In seguito a quell’attacco, il Maestro era preoccupato. Una delle Miracle Box non era custodita al tempio e i Miraculous che le appartengono erano usati nel modo sbagliato. Per riparare al mio errore, mi offrii volontario per una missione di recupero. Ma anche in questa missione ho fallito.»

«Perché ti sei rivelato per quello che sei?» chiese Marinette con acrimonia.

«No. Perché mi sono innamorato di te. Io dovevo solo assicurarmi che il tuo segreto fosse al sicuro e, al momento giusto, sottrarti Miraculous e Miracle Box per riportarli al Tempio.» Alessio deglutì, il suo sguardo si perse fuori alla finestra. «Tutto quello che ti ho detto su di noi, era vero. Non ti ho mai mentito.»

«Ma hai pensato bene di tenermi all’oscuro di tutto il resto.»

«Non ho scusanti, hai ragione. Mi sono reso conto troppo tardi che ogni passo che facevo verso di te, era un passo indietro dal mio ruolo di Protettore del Tempio. Non ho rimpianti, comunque. Lo rifarei.»

Le lacrime bagnarono le guance di Marinette. Ad un tratto, il mondo intorno a lei si era rovesciato e non si trattava più di un’akuma da sconfiggere. «Immagino che la comparsa di Elga non sia casuale.»

«No, infatti. In tre anni i Guardiani sono stati quiescenti perché non si sono più verificati disastri nel mondo, specialmente a Parigi, l’epicentro dell’oscurità.»

«Ma poi Papillon si è rifatto vivo con Chronosium.» Marinette si asciugò le lacrime con un fazzoletto. «Allora hanno mandato Elga per ricordarti ciò che dovevi fare.»

«Sai qual è la cosa più assurda?» Alessio fece un sorriso amaro. «Che lei mi capiva. Però diceva anche che la missione era più importante.»

«Dunque, cosa ti aspetti che faccia io ora? Che ti consegni gli orecchini e la Miracle Box? Che chiami anche Chat Noir affinché ti dia il suo anello? Cosa dovrei raccontargli? “Scusa Chat, ma i Guardiani pensano che noi non siamo in grado di proteggere Parigi da Papillon, quindi meglio consegnare i Miraculous e tornare alle nostre vite.”»

«No» disse Alessio, con una fermezza tale da spaventarla.

Marinette gli girò le spalle. Non ce la faceva a guardarlo negli occhi. «Sai quante volte sono stata sul punto di mollare?» Le lacrime tornarono a scorrere. «La prima volta che mi trasformai in Ladybug combinai un casino. Volevo cedere gli orecchini ad Alya, sicuramente era più adatta di me. Poi, pian piano mi sono abituata all’idea di essere una supereroina: dietro la maschera, non ero più la goffa ed imbranata Marinette, quella che bisogna chiamare un’ambulanza preventivamente perché chissà quale casino può compiere. Chat Noir mi ha sempre sostenuta, in tutto, e insieme siamo sempre riusciti a combattere Papillon, ad arrivare anche ad un passo dal togliergli il Miraculous. Finché Fu non ha dovuto sacrificare sé stesso a causa di un mio errore. Avevo mischiato la mia vita privata con quella di Ladybug. Lui ha perso per sempre i suoi ricordi e io mi sono ritrovata sul groppone il peso di dover proteggere non uno, ma tutti i Miraculous di quella stramaledetta Miracle Box.» Prese una pausa, trattenendo un singulto. «In questo momento, tu stai distruggendo una delle certezze che avevo acquisito in tutto questo tempo.»

«Non è così, Marinette. Io mi fido di te, il tuo Kwami si fida di te, altrimenti non sarebbe mai stato in grado di produrre un Kwagatama.»

Marinette scosse la testa. «Vattene Alessio. Ti prego, va via.»

Alessio annuì e si alzò tirando indietro la sedia. Si chinò per dare un ultimo bacio a Marinette sulle labbra e si diresse verso la botola. La guardò da sopra la spalla. «Il Maestro si è sempre sbagliato su una cosa.»

«Cosa?»

«Tu sei degna di essere la Guardiana dei Miraculous.» Alessio chinò il capo. «Seguirò Elga, tornerò al Tempio e restituirò il Miraculous.»

«Manderanno qualcun altro al tuo posto.»

«Probabile. Ma per allora, tu avrai già sconfitto Papillon. Ne sono certo. Addio, Marinette. Ti auguro ogni bene, te lo meriti.» E se ne andò.

 

Quella notte, faticò a prendere sonno. Si girò più volte nel letto, pianse, singhiozzò. Il pensiero di non essere mai abbastanza tornò a colpirla come una fucilata, dritta al cuore. I Guardiani del Tempio ritenevano che lei non fosse all’altezza di quel compito, che fosse solo una ragazzina che si divertiva a giocare a fare il supereroe. Aveva dovuto rinunciare a tanto pur di reggere il peso della responsabilità, ma non bastava. Non bastava mai.

Le parole di consolazione che Tikki le rivolse le sembrarono vuote.

Ne valeva la pena?

Per tre anni aveva vissuto in serenità, tranquilla e spensierata. Aveva conosciuto un ragazzo che la apprezzasse per quello che era, che l’aveva fatta maturare e diventare la persona che aveva sempre sognato di essere. Un carattere forte e deciso, mai più indecisa o impaurita prima di prendere una decisione. Aveva imparato ad accettare i fallimenti, prendendoli come sprone e come esperienza per fare sempre meglio. Ed era riuscita ad ottenere il massimo nello studio. Lei. Marinette. Non Ladybug.

In un impeto di rabbia, prese la scatola metallica che conteneva la Miracle Box e la scagliò contro il manichino accanto al divanetto. «Maledetto sia Papillon! E maledetti siano quei Guardiani!»

 

Per fortuna era Domenica. Almeno si sarebbe evitata una giornata a scuola, sotto gli occhi di tutti, a dover parlare su quanto aveva fatto Lila e sul fatto che si era fatta akumizzare ancora una volta. Magari ne avrebbe inventata un’altra per farla franca. Marinette non l’avrebbe sopportato.

Nemmeno disegnare le fu di conforto. I suoi genitori provarono a scuoterla, portandola giù nel negozio e facendola distrarre con la preparazione di dolci.

Per un po’ funzionò. La notizia che presto Nonna Gina e Leòn sarebbero venuti a farle visita le regalò il primo sorriso dopo tanti pianti.

Dopo pranzo, il cellulare squillò. Era Gabriel Agreste.

«Se non vuoi parlare con lui, non rispondere» disse Tikki.

«Magari è importante.» Marinette allargò le braccia. Rispose. «Monsieur Agreste?»

«Buon pomeriggio, Marinette. Ti chiamo per informarti che ho appena revisionato le fotografie del servizio a Montmartre e volevo confrontarmi con te su alcuni capi. Credo che occorra un ritocchino su alcuni.»

Il pensiero di dover rivedere Alessio e Elga le causò un vuoto allo stomaco. Scosse la testa. “Devi reagire, Marinette!” «Sono a sua disposizione.»

«Che ne pensi di venire qui alla villa tra mezz’ora? Ho già il materiale pronto.»

«Ci sarò.» Chiuse la chiamata.

«Sicura di voler andare dopo quello che è successo?» Tikki aveva un’espressione tirata. «Insomma dovrai analizzare foto in cui c’è–»

«Prima o poi dovrò farci comunque i conti.» Marinette si gettò sul divano. «Non avrei dovuto trattarlo in quel modo. Se non fosse stato per lui, sarei ancora in quel mondo oscuro che ha creato Lila.» Sospirò e cambiò argomento. «Gabriel Agreste mi è sembrato strano al telefono.»

«Strano come?»

«Come uno che ha appena subito un lutto. Uno che ha perso tutto il suo patrimonio.»

«Sarà lo stress. Non si è ancora del tutto ripreso dall’incidente di tre anni fa. Avrà avuto un’altra ricaduta.»

Un campanello d’allarme suonò nella testa di Marinette. «Tre anni fa… Tre anni fa… Tre anni fa» ripeté.

«Sì, è quando ha perso la memoria per l’incidente in montagna.» Tikki alzò le spalle.

«L’incidente per cui è stato portato a Chengdu.» La mente di Marinette iniziò a muovere gli ingranaggi. «Chengdu, in Cina.»

«Non ti seguo, Marinette.»

«Tre anni fa, Gabriel Agreste ha avuto un incidente in cui ha perso la memoria. Tre anni fa io sono partita per Milano, convinta di dover tornare di tanto in tanto a Parigi per combattere gli akumizzati che non si sono mai fatti vivi. Tre anni fa, Papillon ha attaccato il Tempio dei Guardiani in Tibet, che si trova molto vicino a Chengdu, ed è uscito sconfitto dal confronto con Tyr e Vaegt.»

Tikki agitò le antenne sulla testa. «Non penserai di nuovo che Gabriel Agreste e Papillon siano la stessa persona.»

«Papillon è tornato poco tempo dopo il mio ritorno a Parigi.» Marinette ignorò il commento di Tikki e proseguì il suo ragionamento. «È tornato appena una settimana dopo lo svenimento di Gabriel Agreste avvenuto sotto i miei occhi. Uno svenimento che ha avuto dopo aver visto i disegni dei vestiti ispirati a Ladybug e Chat Noir. Gabriel Agreste decide che Lila Rossi prenderà parte ad un servizio fotografico. Succede il finimondo e Lila viene akumizzata.» Scosse la testa. «Troppe coincidenze, Tikki.»

«Ti ricordo che tu stessa avevi escluso Gabriel Agreste dalla lista dei sospettati quando è stato akumizzato ed è diventato il Collezionista.»

«Lui possiede il Grimorio. Lo stesso Grimorio che il maestro Fu perse insieme ai Miraculous della Farfalla e del Pavone. Se ha trovato il libro, perché non può aver trovato anche i gioielli? Tra l’altro, Papillon ora sta facendo sfoggio di potenziamenti e fusioni. Tutte cose che ha appreso dalle traduzioni del Grimorio.» Tutto quadrava. «Non ti sembra strano che Gabriel Agreste venga akumizzato nello stesso momento in cui io inizi a sospettare di lui per la comparsa del libro sui Miraculous, un libro che appartiene a lui?»

Tikki spalancò gli occhi blu. «Pensi l’abbia fatto apposta per far cadere i sospetti?»

Marinette annuì. «Ne sono certa, ormai. Gabriel Agreste è Papillon.»

 

 

 

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


19

«Non credo sia saggio andare da sola.»

Marinette girò l’angolo. Villa Agreste era sul fondo del vialone. «So quello che faccio, Tikki.»

«Avresti potuto almeno contattare Chat Noir.»

Scosse la testa. «Ci vorrebbe troppo tempo. Sfrutteremo il fattore sorpresa. Vuoi mettere la soddisfazione quando sbatterò in faccia ai Guardiani e a quel sedicente Gran Maestro la Miracle Box completa? Si dovranno ricredere di tutto quello che hanno pensato su di me.»

Giunta al cancello bussò al citofono. «Fidati di me, Tikki. E tieniti pronta.» La telecamera di sorveglianza ruotò verso di lei. Il cancello si aprì.

All’ingresso la attendeva Nathalie. Solita postura da militare pronto ad obbedire a qualsiasi ordine, solito volto inespressivo, solite mani incrociate dietro la schiena, solita mise da lavoro. «Benvenuta, Mademoiselle Marinette. Il signor Agreste la attende nel suo studio.»

La condusse attraverso un lungo corridoio, illuminato da ampie vetrate a muro. I colori dominanti erano il bianco e nero. L’ambiente odorava di detersivo alla lavanda; e di assenza di sentimenti.

Nathalie bussò una volta alla porta. La aprì senza attendere risposta. Lasciò passare Marinette e la richiuse, lasciandoli soli.

Gabriel Agreste sedeva alla scrivania in legno d’ebano in fondo. Si alzò. «Benvenuta, Marinette.»

Alle spalle troneggiava un gigantesco quadro in mosaico ritraente Emilie Agreste. Occupava l’intera parete in altezza.

Agreste indicò con una mano le poltrone. «Accomodati, pure.» Sotto braccio aveva un raccoglitore di foto.

Marinette rimase in piedi. «Come fai a dormire la notte?»

Agreste arrestò il passo e la fissò. «Prego?»

«Con quale coraggio professi amore per tuo figlio e nel frattempo scateni il panico per Parigi?»

«Non… Non comprendo ciò che dici.»

Marinette indicò il quadro. «Lo fai per lei, vero? Vuoi riportarla in vita a qualunque costo. Non importa le vite che rovini sul tuo cammino.» Mosse un passo in avanti. «Hai rovinato la mia vita» ringhiò a denti stretti.

«Credo che tu stia prendendo un abbaglio, Marinette. Io non ho idea di cosa tu stia parlando. E non tollero questo atteggiamento da parte tua, in casa mia.»

«Nessun abbaglio… Papillon.»

Agreste sgranò gli occhi. Era paura quella? «Cosa…» Si sistemò il cravattino rosso, la mano tremolante.

Marinette annuì. «Lo tieni sempre addosso il Miraculous? L’altro dov’è? Lo porta Nathalie oppure l’hai messa da parte definitivamente e preferisci agire da solo? Dopotutto, lei ti ha tenuto all’oscuro per questi tre anni di tutto il male che avevi fatto.»

«Come sai queste cose?» L’occhio destro di Agreste iniziò a vibrare. «Ladybug!»

«Immagino che Adrien non sappia nulla di tutto ciò.»

«Lascia mio figlio fuori dalla faccenda!»

«Hai mai pensato a come potrebbe reagire tua moglie se sapesse quello che hai fatto per riportarla in vita? Tutto il dolore che hai causato?»

Agreste soffiò dal naso. «Piccoli sacrifici, per uno scopo nobile.»

«Uno scopo nobile?» Marinette emise un verso di disgusto. «Sei solo un folle. Ed è ora che tu vada fermato. Tikki, trasformami.»

La mano di Agreste scivolò nella tasca sinistra.

«Non azzardarti!» Ladybug roteò lo yo-yo. «Consegnami i Miraculous e il Grimorio e ti lascerò in pace. Potrai continuare la tua vita accanto a tuo figlio e alle persone che ti circondano. Sparirò anche dalla tua vista per sempre.»

«E se non lo faccio?» Agreste le rivolse uno sguardo di sfida.

«Allora finirai in galera.» Ladybug sollevò tre dita. «Conterò fino a tre.»

Agreste si guardò in torno. Era alle strette e forse cercava una via di fuga.

«Uno.»

«Pensa ad Adrien. Non è giusto che lui viva senza una madre.»

«È ingiusto che viva anche senza un padre. Due.»

La porta dello studio si aprì con un botto. Ladybug si voltò. Era Nathalie, gli occhi che le uscivano dalle orbite, la bocca spalancata, il volto pallido come un fantasma.

«Nooroo, che le ali della notte si innalzino!»

«No!» urlò Ladybug.

Papillon le fu addosso in un istante. La trascinò a terra e rotolarono sul pavimento. Ladybug piegò la gamba e gli affondò un piede nel ventre, allontanandolo da sé.

Le energie le vennero meno. Sul costume si aprirono squarci, un bip intermittente risuonò. Si toccò il lobo sinistro. Non aveva più l’orecchino.

Papillon se lo rigirò tra le mani, ghignando. «E uno.» Caricò un diretto in volto.

Ladybug incrociò le braccia ed intercettò il pugno di Papillon. Il colpo impattò sulla pelle nuda dell’avambraccio. Il dolore si propagò per l’arto ed esplose fin dentro la spalla. Urlò. Scagliò lo yo-yo, ma Papillon si mosse più in fretta, lo schivò e sferrò un gancio sotto la mascella.

Ladybug barcollò. La stanza si fece di mille colori, le orecchie fischiarono. Subì un altro colpo, duro, vigoroso, alla tempia. Cadde all’indietro e svenne.

 

__________________________________________________

 

Adrien aveva gradito la reazione di Katami all’ingiustizia che stava subendo Marinette. Non si aspettava di vederla così furente, pronta ad azzannare Lila per farle rimangiare ogni parola; era una parte di lei che ancora non conosceva. Però, significava molto per lui: Katami teneva tantissimo all’amicizia di Marinette.

Come spesso avevano fatto in passato, trascorsero la giornata insieme, evitando di tornare sull’argomento Lila o su ciò che era successo nel mondo oscuro creato dal sentimostro. Adrien sapeva che comunque ne avrebbero dovuto parlare, in modo da chiarire una volta per tutte i suoi sentimenti nei confronti di Katami: le voleva bene, provava grande affetto per lei, ma non l’amava. Non l’aveva mai amata e non poteva continuare ad illuderla che tra loro ci sarebbe potuto essere qualcosa in più della semplice amicizia. Si sentiva sporco dentro per aver trascorso più di tre anni accanto a lei sperando che nascesse qualcosa, solo per poter dimenticare la delusione dei continui rifiuti di Ladybug.

Si fermarono di fronte al portone di casa Tsurugi.

«Credo che meriti una risposta definitiva alla domanda che mi hai fatto tempo fa» disse Adrien. La borsa a tracolla gli diede uno strattone. Plagg doveva aver perso un pezzo di Camembert. «Non proverò a girarci intorno, so bene che preferisci che si vada dritti al punto. Tra noi non può esserci più di un’amicizia. Mi dispiace.»

Katami scosse la testa, sorridendo. «Dispiace anche a me. Ma sono contenta che finalmente tu abbia preso una posizione senza esitare. Sei stato sincero e lo apprezzo tanto.»

Un altro strattone dalla borsa. “Non è il momento per pensare al cibo, Plagg.” «Una posizione?» Fece una risata amara. «In questo momento sono più confuso che mai.»

«Te l’ho sempre detto, Adrien.» Katami gli prese una mano. «Non devi mai esitare per raggiungere un obiettivo. Anche se alla fine dovesse andar male, saprai di aver lottato strenuamente e ne sarai lo stesso soddisfatto.» Si alzò sulle punte e gli scoccò un bacio sulla guancia.

«Ti ammiro molto.»

«Una campionessa deve saper accettare una sconfitta. E sono fiera di aver perso contro una persona speciale, come quella che ti fa battere forte il cuore.» Suonò al citofono e il portone si spalancò. «Ci rivediamo domani a scherma. Così te le suonerò per bene.»

«Temo che tu abbia ragione. A domani, Katami.»

Adrien girò l’angolo e si appartò in un vicolo. La tracolla gli stava staccando la spalla dopo l’ultimo strattone. Aprì la borsa.

Plagg svolazzò in aria con aria furiosa. «Finalmente. Ce ne hai messo di tempo, zuccone!»

«Accidenti, Plagg. Stavo parlando con Katami. Non posso pensare al tuo Camembert mentre sto rinsaldando un’amicizia.»

«Ma quale Camembert, qui la situazione è grave!»

«Di che parli?»

«Ho avuto una sensazione. Una di quelle che non avvertivo da tempo. Proviene dal legame magico che ho con gli altri Kwami.»

Adrien gli rivolse la piena attenzione. «Cosa può esserci di peggio di quello che è successo ieri?»

Plagg indicò la tasca dei jeans. «Controlla il tuo cellulare. Forse c’è qualche akumizzato o sentimostro in giro.»

Adrien prese lo smartphone, lo sbloccò ed aprì l’app delle notizie in tempo reale. Plagg aveva ragione: Nadja Chamack stava trasmettendo un servizio speciale. «Da qualche minuto, è apparso in cima all’Arco di Trionfo un uomo» stava dicendo la giornalista. «Fonti certe sul posto ci hanno assicurato che si tratta di Papillon, il noto terrorista in possesso di un gioiello magico, il Miraculous, in grado di soggiogare una persona e donarle poteri oscuri.» L’inquadratura dall’alto zoomò sul monumento. Era davvero Papillon.

Nadja Chamack riprese la linea. «A quanto sembra, Papillon ha mandato un messaggio rivolto al celebre paladino di Parigi, Chat Noir.» Adrien serrò la mascella. «Vuole che il nostro amato eroe lo raggiunga al più presto lì o scatenerà la sua furia su Parigi. Ci appelliamo al buon senso di Chat Noir ed invochiamo il suo intervento e quello di Ladybug.»

Adrien ripose lo smartphone nella tasca.

«Aspetta, non essere avventato.» Plagg lo fermò con la zampetta. «E se fosse una trappola?»

«Non possiamo saperlo. So solo che le sue minacce non cadono mai a vuoto. Non possiamo perdere tempo, ne va dell’incolumità dei parigini.» Allungò il pugno in avanti. «Plagg, trasformami!»

 

Tutori dell’ordine, volanti della polizia, giornalisti, fotografi e due elicotteri circondavano l’Arco di Trionfo. Occhi e obiettivi erano puntati sulla sagoma di Papillon, immobile ed impassibile.

Chat Noir ritenne che fosse impossibile coglierlo di sorpresa alle spalle. C’era talmente tanta gente che il suo arrivo non sarebbe passato inosservato. “Perché stanno così vicini, sapendo che lui li potrebbe attaccare da un momento all’altro?” Scosse la testa. “Io la gente troppo curiosa non la capirò mai.”

Atterrò ai piedi del monumento, al di là del perimetro stabilito dalla polizia. Come previsto, dalla folla si levò un coro di fischi, applausi e urla di sostegno.

Utilizzando il suo bastone, saltò in cima.

Papillon si teneva in posa eretta. Sollevò una mano per fermare l’avanzata di Chat. «Non sono qui per lottare. Sono qui in veste di messaggero.»

Chat Noir assottigliò lo sguardo. «Non sei il vero Papillon. Sei un sentimostro.»

«Pensavo fosse Ladybug quella intelligente del duo. Evidentemente anche tu hai un po’ di sale in zucca e non sei solo un muscoloso spaccone.»

Quell’offesa non scalfì l’orgoglio di Chat Noir. «Su fai in fretta, così dopo ti mostro un po’ il mio potere.» Si appoggiò con entrambe le mani sul bastone.

Il sentimostro gli mostrò il tablet. Lo schermo si accese: l’immagine mostrava Papillon – con tutta probabilità il vero – in una stanza buia, illuminata solo da un faretto puntato sul suo volto. Aveva un aspetto diverso dal solito: sulla maschera grigia erano disegnati dei ghirigori blu; sui polsini della giacca viola c’erano delle piume variopinte; all’occhiello era fissata una spilla, la spilla del Pavone. Aveva fuso i poteri dei due Miraculous, proprio come aveva fatto il giorno precedente quando aveva akumizzato Lila.

«Chat Noir» esordì. «Il mio nome adesso è Papillombre.»

«Che nome idiota.» Chat ghignò.

«Tra qualche secondo non avrai più tanta voglia di scherzare. Li vedi questi?» Papillombre mostrò il palmo di una mano. Due orecchini neri, lucidi. «Se te lo stessi chiedendo, questi sono gli orecchini della tua amata compagna, Ladybug.»

“No, non può essere.”

«L’ho catturata e adesso è mia gradita ospite» proseguì Papillombre. «O mia prigioniera, se preferisci. La sostanza è la stessa.»

«Stai bluffando. Ladybug non si farebbe mai catturare da te.»

«Temo che la tua partner abbia perso lo smalto, si sia fatta più incauta in questi anni. E ciò l’ha portata a commettere una serie di errori.»

Chat scosse il capo. «Stai mentendo. È solo un trucco per aggirarmi.» Doveva essere così. Ladybug era troppo scaltra.

«Immaginavo che avresti detto così. D’altronde, la tua fiducia in Ladybug è ineluttabile, giusto?» Papillombre scoccò uno sguardo fuori inquadratura e batté con la mano sulla spalla. «Ti dimostrerò che non sto bluffando.» Un Kwami rosso si posò sulla sua spalla. Tikki.

«È un trucco.» Chat si sforzò di sorridere, ma stava iniziando a perdere certezze. Papillombre l’aveva orchestrata bene stavolta.

«Tikki, vorresti gentilmente dire al nostro gatto qualcosa che solo tu, la tua protettrice e lui potete sapere?»

«Qualche anno fa», la voce di Tikki era strozzata, gli occhi coperti da un velo di lacrime, «hai regalato una rosa rossa a Ladybug la sera in cui avete sconfitto Gelatone. Lei ti disse che c’era un altro ragazzo nel suo cuore, ma accettò ugualmente la rosa. Tu la baciasti sulla guancia.»

«Che cosa romantica» commentò Papillombre. «Quasi mi commuovo.»

Il respiro di Chat venne meno. Era vero. Ladybug era stata catturata. E lui non aveva fatto nulla per impedirlo. La voce gli uscì in un sussurro. «Cosa… Cosa devo fare?»

«Dovrai fare esattamente ciò che ti dice il mio sentimostro. Inutile che ti spieghi cosa accadrà alla tua bella se non farai quello che ti dico, vero?» Il collegamento si interruppe.

Chat Noir era sgomento. Se Tikki era lì, se gli orecchini erano nelle mani di Papillombre, l’identità di Ladybug era stata scoperta. Era tutto finito.

Il sentimostro gli porse una benda nera. «Mettitela sugli occhi.» Chat eseguì. «Sali sulle mie spalle e ti condurrò da lui.»

«Anche se mi ripugna.»

 

A giudicare dal tempo trascorso, il tragitto fu breve. Un portone si spalancò e Chat Noir si ritrovò all’interno di un edificio. Dall’eco dei passi doveva trattarsi di un posto grande, con un pavimento in marmo o in parquet. L’odore gli era familiare.

Il sentimostro lo fermò in un punto. «Non muoverti.»

Il pavimento sotto ai suoi piedi si mosse. Lo stomaco si sollevò verso l’alto. Erano in un ascensore. Uno spasmo gli suggerì che erano arrivati. Il sentimostro gli tolse la benda.

Il luogo era tetro, poco illuminato. Aveva l’aspetto di una chiesa, con l’erba al posto del pavimento. Nell’aria si respirava un profumo di gardenie. Chat Noir deglutì: per un attimo la sua memoria vagò nel passato, a quelli che erano i fiori preferiti di sua madre, Emilie.

In fondo a quella sorta di cripta, Papillombre lo attendeva in piedi, il faretto sempre puntato sul volto mascherato. Al suo fianco c’era un contenitore dalla superficie dorata. Somigliava ad una capsula che facevano vedere nei film sull’ibernazione. Alle spalle, vi era un campo di piantine con delle crisalidi appese alle foglie. Il covo delle akuma.

Il sentimostro gli diede una spinta. «Muoviti.»

Chat Noir avanzò senza fiatare. Tikki svolazzava accanto a Papillombre. Sulla sinistra, nell’ombra, una donna osservava il tutto in rigoroso silenzio. Era poggiata al muro, le braccia conserte.

«Dov’è lei?» Chat Noir fronteggiò Papillombre, le dita serrate sul bastone.

«Io ti consiglierei di non fare mosse avventate se tieni al suo bel faccino.» Papillombre guardò oltre la sua spalla. «Tu non servi più.» Agitò una mano e il sentimostro scomparve. Tornò a rivolgersi a Chat Noir: «Tu non conosci la sua vera identità, vero? È la regola che vi ha insegnato quell’insulso vecchietto che si faceva chiamare Guardiano.» Rise. «Se me lo concedi, devo dire che è molto, molto bella.»

Chat Noir si protese in avanti, ma Tikki lo fermò. «Non fare sciocchezze! È in gioco la vita di…» Dalla bocca uscirono delle bolle.

«Oh non puoi dire il nome della tua portatrice.» Papillombre annuì. «Interessante. Io seguirei il suo consiglio, micio. Sa essere molto saggia e collaborativa.»

Chat Noir chinò il capo e si arrese. «Immagino tu voglia il mio anello.»

Papillombre allungò la mano aperta. «Sono un uomo di parola. Consegnami il Miraculous e lascerò liberi sia te che la tua bella. Non farò più del male ad anima viva. Anzi, non mi trasformerò mai più in Papillon. Sparirò per sempre dalla circolazione. Lo giuro sul mio onore.»

«Un uomo come te non ha onore.» Chat Noir si sfilò l’anello e lo lanciò a Papillombre. Un’aura verde lo circondò. Plagg si manifestò al suo fianco.

La donna ebbe un sussulto.

Un’ombra di incertezza passò sul volto di Papillombre. Poi, la fulminò con lo sguardo, imponendole il silenzio. «Adrien Agreste. Che beffarda che è la vita, vero?» Si voltò ed accarezzò la capsula.

«Cosa sta succedendo?» chiese Plagg, passando lo sguardo da Adrien a Tikki, la quale scosse la testa.

«Ho fatto quello che mi hai chiesto» disse Adrien. «Ora mantieni le tue promesse e libera Ladybug.»

Papillombre si girò a guardarlo. «Non ancora, Adrien. È giusto che tu sappia perché sto facendo tutto questo. D’altronde è per te che lo faccio.» La fusione terminò. «Nooroo, ritrasformami.»

Adrien perse più battiti del cuore. No. Non poteva essere vero. Per tutto quel tempo, tutte quelle battaglie, tutto quell’odio. Papillon era Gabriel Agreste, suo padre. La donna sulla sinistra avanzò alla luce: Nathalie Sancoeur.

«Sono scioccato almeno quanto te, figliolo. Sapere che ci siamo combattuti senza esclusioni di colpi, mi strazia il cuore. Ma tutto questo l’ho fatto per te, per noi. Perché tornassimo ad essere una famiglia felice.» Gabriel premette un pulsante sotto la capsula. La superficie dorata si aprì e rimase solo un vetro a separare l’esterno dall’interno.

La donna che giaceva nella capsula era Emilie Graham de Vanilly. La madre che lui riteneva morta e cremata.

«È bellissima non è vero?» Gabriel accarezzò il vetro. «Oggi tornerà a riempire di luce le nostre vite.» Puntò gli orecchini sui lobi e spinse, digrignando i denti per il dolore. Gocce di sangue gli macchiarono le dita.

Adrien aveva la bocca aperta, ma non riusciva a proferire parola. Nathalie, Tikki e Plagg assistettero in silenzio.

Gabriel infilò l’anello. Pronunciò una formula in una lingua che Adrien non conosceva. L’anello e gli orecchini si illuminarono. Plagg e Tikki furono risucchiati dai Miraculous.

Gabriel si levò da terra e fluttuò in aria. Il corpo divenne dorato e lilla. La sua voce rimbombò per la stanza, scariche di elettricità schizzarono in ogni direzione. «Per te, Emilie.»

Schioccò le dita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


20

La luce era svanita.

Nathalie sollevò il busto, puntellando le mani sul pavimento. La testa volteggiava, gli arti formicolavano. Quanto tempo era passato?

Quando Gabriel aveva schioccato le dita, un bagliore l’aveva investita con una tale intensità da mozzarle il respiro. Per un momento, una grande serenità le aveva scaldato l’anima, finché non era caduta a terra ed aveva perso i sensi.

Strizzò gli occhi, la cripta riacquistò colore e nitidezza. Un singhiozzo intermittente echeggiava tra le mura. Nathalie si alzò, si spolverò il vestito e scosse la testa. Accanto alla capsula criogenica giacevano i due Kwami, Tikki e Plagg. Accanto a loro, sparsi a terra, le spille della Farfalla e del Pavone, gli orecchini della Coccinella e l’anello del Gatto Nero. Al di là della capsula, sporgevano un paio di mocassini beige, di pregevole fattura.

«Gabriel.» Nathalie aggirò la capsula. Gabriel era steso a terra, il torace si sollevava e si abbassava a ritmo del respiro. Era vivo.

«Nat… Nathalie.» Una voce sommessa, strozzata dal pianto.

Si voltò. Una donna reggeva tra le braccia il corpo esanime di Adrien. «Emilie.» Il volto era ben diverso da quello che era solita vedere all’interno della capsula. Le guance rosate erano solcate dalle lacrime, gli occhi colmi di venature.

«Che cosa gli è successo?»

Nathalie gli controllò il polso. Il battito era lento, la pelle aveva assunto una tinta lattifera. Il cuore le sobbalzò nel petto. «Non può essere...»

«Cosa non può essere?» urlò Emilie. «Cos’è successo a mio figlio?»

Un tremendo sospetto si fece largo nella mente di Nathalie. Adrien si trovava nelle stesse condizioni di… «Mettiamolo lì dentro.» Indicò la capsula. Se la sua ipotesi fosse stata giusta, non sarebbe sopravvissuto a lungo. Scosse Emilie per una spalla. «Muoviti. Possiamo ancora salvarlo.»

Lo sollevarono dalle due estremità e lo adagiarono nella capsula. Nathalie girò una manopola: il vetro si richiuse. Adrien sembrava dormire.

«Nathalie… Che è accaduto a mio figlio?» chiese Emilie a denti stretti.

«Temo che lui sia stato sacrificato dal potere dei Miraculous per far risvegliare te.»

Un rantolio alle loro spalle le fece sobbalzare. Gabriel si sollevò da terra, massaggiandosi il retro del collo. Agitò la testa e si inforcò gli occhiali. La gioia si dipinse sul suo volto quando incrociò lo sguardo di sua moglie. «Amore mio.» Le andò incontro a braccia larga.

Emilie sollevò una mano e gli tirò uno schiaffo in pieno viso.

Gabriel si massaggiò la guancia colorata di rosso cremisi. «Perché?» Lei indicò la capsula. «Adrien… No! Com’è potuto accadere? Avevo calcolato tutto nei minimi dettagli.» Annichilì.

Emilie minacciò un altro schiaffo. «Trova immediatamente una soluzione, Gabriel. Riporta nostro figlio tra noi, o giuro che me la paghi.»

«Io… Io… Non ho idea di come sia potuto succedere.» Gabriel si gettò sul vetro. «Figlio mio. Non è possibile.»

Nathalie si impose di rimanere lucida. I Miraculous nascondevano decine e decine di poteri segreti. Doveva esserci una soluzione. «So chi ci può aiutare.» Non attese risposta dai coniugi Agreste. Si precipitò all’ascensore e risalì fino a giungere nello studio di Gabriel.

Percorse i corridoi della villa, diretta alla sua camera. Estrasse la chiave di ferro dalla tasca e la girò nella toppa. Abbassò la maniglia.

La porta si aprì di scatto dall’interno, il bordo impattò sulla sua fronte con violenza. Nathalie barcollò tenendosi la testa con una mano. Due braccia le avvolsero il collo e la tirarono all’indietro. Si divincolò dalla stretta gettandosi in avanti.

Marinette si avventò su di lei e la spinse sul muro. L’impatto fu brutale. I muscoli della schiena bruciavano dal dolore.

«Ti prego ascoltami.»

Marinette la ignorò e caricò ancora, la spalla colpì lo sterno di Nathalie, facendole uscire tutto il fiato che aveva in corpo. La trascinò a terra.

Nathalie rotolò su un lato, liberò un braccio e lo cinse intorno alla gola di Marinette. «Ho bisogno del tuo aiuto, fermati ti prego.»

La ragazza grugnì di rabbia. Tirò su la manica della giacca di Nathalie, scoprendole il polso, e lo addentò. Una volta libera, tirò una gomitata nell’addome. Si alzò da terra, afferrò il vaso di decoro dal tavolino accanto al muro e lo sollevò sopra la testa.

Nathalie tese le mani in avanti. «Adrien è in pericolo!»

Marinette esitò. «Che cosa significa?»

La fronte le pulsava di dolore. «Ha bisogno di aiuto. Ha bisogno di te.»

«Che cos’ha? Parla!»

«Solo tu puoi capirlo.» Nathalie emise versi di dolore, rialzandosi da terra. «Ti porto da lui, ma ti prego, placa la tua ira.»

In tutta risposta Marinette scagliò sul muro il vaso, che si frantumò in mille pezzi. Fece un cenno secco con la testa. Il taglio poco sopra l’arcata sopraccigliare si era cicatrizzato.

Nathalie annuì. «Seguimi.» Fece strada verso lo studio di Gabriel. Camminando nei corridoi, si tastò il polso. I segni dei denti erano ben visibili.

«Non aspettarti scuse» ringhiò Marinette.

«Non me le aspettavo.»

Si posizionarono davanti al quadro di Emilie. Nathalie cercò i pulsanti accarezzandone la superficie. «Stammi vicino.» Premette e il meccanismo scattò. Il pavimento sotto i loro piedi si mosse verso il basso.

«Dove stiamo andando?» chiese Marinette. «Cos’è questo posto?»

«Il luogo dove riposava Emilie Graham de Vanilly. O, se preferisci, il covo di Papillon.»

«Perché lo stai aiutando?»

Nathalie si strofinò gli occhi. «Non ho mai voluto che arrivasse a tanto. Speravo che un giorno avrebbe capito che tutto questo era una follia.»

«Ne sei innamorata, vero?»

Nathalie non rispose, ma sapeva che Marinette aveva già compreso tutto.

L’ascensore si fermò nella cripta. Marinette sgranò gli occhi e corse subito accanto al suo Kwami. «Tikki! Tikki svegliati!» Le avvicinò un biscotto alle labbra.

Tikki arricciò il naso ed aprì la bocca. «Marinette… Perdonami, non ho potuto fare nulla per fermarlo.»

«Non importa, amica mia. Riprendi le forze, così ce ne andremo da qui.»

«Aiutalo.» Tikki sollevò una zampetta ed indicò il Kwami nero steso a pochi passi da lei.

«Plagg?» Marinette gli fu subito accanto e porse un biscotto anche a lui. «So che preferiresti altro, ma per ora dovrai accontentarti.»

Alzò la testa e si ritrovò faccia a faccia con Emilie. «Aiutalo, ti prego» supplicò la donna.

«Adrien…» Marinette si avvicinò alla capsula. Poggiò le mani sul vetro ed iniziò a piangere. «Eri tu… Sei sempre stato tu...» Batté i pugni sul vetro.

Gabriel si trovava in uno stato di trance: osservava la scena in silenzio, ma il suo sguardo suggeriva che la mente vagava altrove.

«È stato il potere dei Miraculous a ridurlo in questo stato.» Nathalie strinse una mano sulla spalla di Marinette. «Tu sei l’unica che può sapere se c’è un modo per riportarlo indietro.»

Emilie singhiozzò. «Prendete me al suo posto, non importa. Mio figlio deve vivere.»

Marinette si voltò come una furia e mollò un mal rovescio a Nathalie. Si allontanò.

«Marinette» gridarono all’unisono Tikki e Plagg.

Si fermò e scosse la testa. «Avevi ragione, Tikki. Sono stata una sciocca a pensare di poter affrontare Papillon. Non sarei dovuta venire da sola.» Nel palmo aveva gli orecchini, l’anello e le due spille. Doveva averli raccolti quando si era chinata accanto a Tikki. «Rinuncio a voi.» I Kwami scomparvero, risucchiati dai gioielli.

Nathalie le afferrò un braccio. «Non puoi andartene. Tu sei la Guardiana della Miracle Box, tu sei Ladybug. Devi aiutarci.»

«Devo aiutarvi?» Marinette si liberò con uno strattone. Li guardò tutti con disprezzo. «Perché mai? Questo scempio è opera vostra. Io ho cercato di impedire questa follia, ma ho fallito. Ho fallito in tutto. Wang Fu si sbagliava: io non ero adatta a sopportare il peso di questa responsabilità.» Girò i tacchi e se ne andò.

_________________________________________________

Il cellulare vibrò sul tavolino. Era Juleka.

Luka sorrise ed accettò la chiamata. «Ehi, sorellina. Come va lì?» La mattina presto, la classe di Juleka era partita per una gita di tre giorni ad Avignone. Gli studenti dell’ultimo anno avevano aderito con entusiasmo all’iniziativa, che per poco non saltava a causa dell’attacco akuma. Per fortuna, Ladybug e Chat Noir avevano risolto la situazione e ristabilito l’ordine. «Solo due ore e già senti la mia mancanza?»

«Siamo tutti molto preoccupati qui.»

Luka aggrottò la fronte. «Per quale motivo?»

«Né Marinette, né Adrien si sono presentati. Nessuno di loro aveva avvisato che non sarebbe venuto.»

«Avete provato a chiamarli?»

«Nino sta provando a chiamare villa Agreste da stamattina, ma nessuno risponde. Alya, invece, ha parlato con la madre di Marinette: ha detto che è indisposta, ma dev’esserci qualcosa sotto. Anche con la febbre altissima, Marinette ha sempre risposto alle nostre chiamate. Oggi, invece, il telefono squilla a vuoto. Pensavamo che tu...»

«Non dire altro. Farò un salto a casa di Marinette e passerò anche da Adrien, per assicurarmi che stiano bene.»

Dall’altro capo del telefono giunse una risatina. «Grazie, fratellone.»

Luka chiuse la chiamata, si infilò le scarpe e risalì sul ponte del Liberty. Prese la bicicletta e si avviò.

Cosa poteva essere successo? Non era da Marinette non avvisare i suoi amici, né, tanto meno, ignorare del tutto le loro chiamate. E Adrien? Spesso era capitato che saltasse riunioni con i compagni o attività extra scolastiche per i suoi impegni da modello, o per qualche capriccio del padre. Ma anche lui avvertiva subito Nino con un messaggio che sarebbe mancato all’appuntamento.

Davanti alla boulangerie Dupain-Cheng era parcheggiata una lussuosa Mercedes nera. Luka riconobbe alla guida il Gorilla, l’uomo che accompagnava spesso Adrien in qualità di guardia del corpo.

Che si fosse recato da Marinette perché non rispondeva nemmeno a lui?

Luka appoggiò accanto al muro la bicicletta, chiuse la catena intorno alla ruota anteriore e ad un’inferriata lì accanto, ed entrò nel locale. All’ingresso incrociò una donna in un elegante completo, giacca e pantaloni, bianco. I capelli biondi le ricadevano di lato su una spalla, arrivando fino al seno. Aveva un’aria familiare.

Luka le tenne la porta aperta.

«Grazie.» Gli occhi verdi erano gonfi, colmi di lacrime. Gli sfilò accanto, lasciandosi dietro una fragranza di gardenie.

«Luka!» Sabine Cheng lo salutò da dietro al bancone. Non aveva il solito volto solare, ma un’espressione cupa, malinconica.

«Buongiorno, Madame. Sono qui per vedere Marinette. So che non è potuta andare alla gita perché non sta bene e vorrei poter vedere come sta.»

«Oh, dalle urla che ho sentito non credo stia bene.» Sabine abbassò lo sguardo. «Non so se sia una buona idea, al momento. Ma, forse, vedere una faccia amica potrebbe aiutarla a star meglio.»

«Le urla?»

«Non sta a me raccontarti cosa sta succedendo. Ha pregato di mantenere il riserbo. Solo lei deciderà cosa dirti. Va pure, io non posso allontanarmi da qui. Mio marito è fuori per una consegna e qualcuno deve restare nel negozio.»

Luka la ringraziò con un cenno della testa e passò per la porta sul retro. Mentre saliva le scale cercò una spiegazione a ciò che gli aveva detto Madame Cheng: c’entrava forse quella donna all’ingresso? Perché aveva la sensazione di averla già vista?

Attraversò il salotto e bussò alla botola.

Non ci fu risposta.

Bussò di nuovo con più forza e si annunciò: «Marinette? Sono Luka. Sono venuto a vedere come stai.»

Nulla.

Si fece coraggio ed aprì la botola. Nella stanza aleggiava un profumo di gardenie, lo stesso profumo della donna bionda. Era stata lì.

Sulla scrivania erano sparsi fogli, c’era un libro dall’aspetto antico, un tablet, due orecchini, un anello, due spille dalla strana forma.

Marinette se ne stava rannicchiata in un angolo, la testa sprofondata tra le ginocchia strette al petto. Alzò la testa quanto bastava per guardare. «Luka, cosa fai qui?» Sul sopracciglio sinistro era attaccato un piccolo cerotto.

«Sono qui per te.» Si inginocchiò accanto a lei, le accarezzò la testa e le passò un braccio intorno alle spalle. «Non voglio vederti così. Perché piangi?»

Marinette scosse il capo. «Ti conviene andartene o anche tu soffrirai.»

«Non vado da nessuna parte, invece. Ti ho promesso che sarei stato sempre al tuo fianco in qualunque cosa e così ho intenzione di fare. Dimmi, si tratta di Alessio?»

Marinette emise uno sbuffo.

Perché non voleva parlare con nessuno? Che le aveva fatto quella donna per ridurla in questo stato?

Poi Luka capì. “Che si tratti di…” Era rischioso parlarne, senza contare che lei stessa aveva detto di non farne mai parola con nessuno. “Al diavolo la cautela!” «Si tratta dei Miraculous?»

Marinette lo guardò. Il suo sguardo confermò che il punto era stato centrato. «Cosa c’entrano i Miraculous? Perché mi fai questa domanda?» La voce diventò tremula, non per le lacrime, quanto per stizza. «Credo sia meglio che tu vada via.»

«Tu sei Ladybug.» Luka le sorrise, nella speranza che lei si aprisse, che si sfogasse e non si richiudesse a riccio.

Marinette allargò le braccia. «Perfetto! C’è qualcun altro che lo sa? Domani mettiamo pure i manifesti per tutta Parigi: “Marinette Dupain-Cheng, di giorno studente liceale con seri problemi nelle relazioni sociali e di notte supereroina fallita che ha perso tutto”. Che te ne pare?»

«Un attimo, rallenta. Chi altro lo sa?»

«Te l’ha detto Alessio?» Marinette lo fulminò con lo sguardo. «O sei uno stramaledetto Guardiano anche tu? Ti hanno mandato agli albori perché già all’epoca ritenevano che non fossi in grado?»

Luka l’abbracciò, nonostante lei cercasse di divincolarsi. «Non so di cosa tu stia parlando. Ma adesso devi calmarti Marinette: se c’è un problema possiamo affrontarlo insieme.»

Riprese a singhiozzare. «Non c’è più nessun problema, Luka. Solo io che ho fallito su tutti i fronti.» Tirò su col naso. «Papillon mi ha battuta, Adrien è in coma, Alessio se n’è andato e non tornerà mai più.»

«Perché non mi racconti tutto dall’inizio?»

Marinette gli raccontò dei Guardiani, di Alessio, portatore anche lui col nome di Tyr, della sua compagna Vaegt, di Gabriel Agreste, del suo piano, di Adrien caduto in coma al posto della madre Emilie. Riportò nei minimi dettagli il suo rapporto con Fu, il suo sacrificio quando passò a lei il ruolo di Guardiana della Miracle Box.

Luka ricordò della donna incrociata giù nella boulangerie. Non aveva collegato l’auto ferma con il Gorilla al volante, ma ora gli era chiaro. «Emilie Agreste è stata qui?»

Marinette annuì. «Mi ha portato il Grimorio», indicò il libro sulla scrivania, «e le traduzioni che ha fatto il maestro Fu. È convinta che io possa trovare un modo per risvegliare Adrien.» Tirò un pugno sul muro. «Ti rendi conto che è stato tutto inutile? Mi ha detto che ha un male ai polmoni e che le restano pochi mesi di vita. La malattia le era stata diagnosticata anni fa; la medicina tradizionale non la poteva aiutare, quindi si rivolse ai santoni, alle credenze mistiche. Finché in Tibet non si è imbattuta in quel libro e nei due Miraculous. Ne ha fatto un uso improprio ed è caduta in coma. Suo marito Gabriel, poi, ha dato il via a questa crociata per conquistare i Miraculous della Creazione e della Distruzione. Avrebbe avuto diritto ad un desiderio, uno solo.»

«I Miraculous gli hanno ridato indietro sua moglie» disse Luka «e gli hanno portato via suo figlio.»

«Adrien era Chat Noir. Ha combattuto suo padre, che a sua volta combatteva per lui. Quell’uomo non ha mai capito nulla di suo figlio e ha finito per portargli via entrambi i genitori, invece di restituire quello che aveva perso. E ora gli ha portato via anche la vita.» Marinette strizzò gli occhi. «Tu come hai saputo di me, di Ladybug?»

Luka si strinse nelle spalle. «Chronosium.»

Marinette abbozzò un leggero sorriso. «Il vortice temporale. In uno dei reset mi hai visto senza i poteri.»

«In cuor mio l’ho sempre saputo.» Le puntò un dito. «Ogni persona che hai incrociato ha sviluppato un senso di fiducia nei tuoi confronti. E adesso è il momento di ripagare questa fiducia, Marinette. Io so che tu puoi trovare un modo per risvegliare Adrien. La Marinette che conosco io lotta fino in fondo finché non ottiene quello che vuole.»

«La Marinette che conosci tu non esiste. È solo l’illusione di quella maschera rossa che mi dava la forza di combattere.»

Luka non voleva sentir ragioni. Perché doveva sminuirsi così? «È Marinette che ha creato Ladybug. Tutte le qualità che possiede Ladybug esistono perché è Marinette che ce l’ha dentro di sé. Al di là dei poteri, la vera eroina è Marinette, Ladybug è solo il suo riflesso.»

Passarono del tempo in silenzio. Marinette aveva bisogno di riordinare i pensieri, di metabolizzare a freddo quello che era successo. Ne aveva passate di tutti i colori nel giro di pochi giorni, a partire dalla caduta di Alessio fino ad arrivare al confronto con Papillon. Sempre pronta ad aiutare tutti quando c’era il bisogno, così sola quando era lei ad essere in difficoltà. Luka provò un moto di stizza. Lui non l’avrebbe lasciata sola.

Marinette si alzò, diretta alla scrivania. «Grazie, Luka. Sei il migliore.» Si infilò gli orecchini. Un esserino rosso, con antenne sulla testa, occhi blu, si manifestò da un bagliore rosso. «Scusami, Tikki. Mi sono lasciata trascinare dalle mie emozioni. Ho sbagliato.» Si voltò verso Luka. «Ti presento Tikki, il mio Kwami.»

«Piacere di conoscerti.» Luka si alzò a sua volta. «Immagino tu mi conosca già.»

Tikki annuì. «E io immagino che tu sia la persona che ha rimesso insieme i pezzi. Non è la prima volta che tu aiuti Marinette.»

«Felice di essere d’aiuto.»

«Io sono ancora qui se ve lo foste dimenticati.» Marinette accese il tablet. Scorse pagine e pagine, ricche di immagini iconografiche, gioielli magici, formule. «Emilie Agreste conosceva a memoria questo libro. Nonostante ciò, non è stata in grado di trovare una soluzione alla condizione di Adrien.»

«Se fosse necessario, io e Plagg siamo disposti a ripetere la magia» disse Tikki.

«È escluso.» Le labbra di Marinette si contorsero. «Basta sfidare la natura. Non possiamo sapere quali saranno le conseguenze.» Chiuse il tablet e lo mise da parte. Guardò Luka. «Forse, c’è una persona che ne sa più di noi.»

Prese il cellulare, scorse i contatti della rubrica e ne chiamò uno. Attese degli istanti, ma nessuno rispose. Provò ancora altre tre volte, senza risultati. «Nulla, Alessio non è raggiungibile.» Sbuffò. «Forse dovrei andare direttamente alla fonte.»

Luka le lesse nella mente. «Vuoi andare in Tibet al Tempio.»

«Credo sia l’unica soluzione.»

«Forse gli Agreste sono disposti a prestarti il loro jet privato. Si tratta sempre di Adrien. Solo che bisognerebbe convincere i tuoi a lasciarti partire. Ci vuole una scusa convincente.»

«Non è necessario.» Il volto di Marinette irradiava di nuovo luce. «Ho raccontato tutto ai miei, era giusto che sapessero. Non meritavano più bugie.» Si avvicinò al baule e lo aprì. Ne estrasse una scatola di metallo; la aprì con la piccola chiave che portava appesa al collo. «Comunque non chiederò nulla agli Agreste. Meno stanno in mezzo, meglio è.» Prese uno strano contenitore, di forma ovale, colore rosso a pois neri. «È la Miracle Box» spiegò anticipando la domanda di Luka. «C’è un Miraculous che consente di creare portali e viaggiare ovunque nel mondo.»

Luka era impressionato. «Non si finisce mai di imparare.» Si protese verso di lei. «Se vuoi ti accompagno.»

«Tikki, trasformami!» Un barlume rosso e bianco ricoprì il corpo di Marinette. La trasformazione in Ladybug era più affascinante di quanto avesse creduto. «Luka… Non ci sono parole per esprimere la mia gratitudine. Ma adesso devo cavarmela da sola. Vorrei che facessi solo una cosa per me.»

«Qualunque cosa.»

«Quando andrai via, dì tutto a mia madre. Non tralasciare alcun dettaglio. Dille che io tornerò quanto prima.»

Luka annuì. Avrebbe voluto accompagnarla, ma non insistette. «Lo farò.»

Ladybug premette uno dei pois della Miracle Box. Infilò la mano nella luce bianca che ne scaturì ed estrasse una scatolina. Dentro c’erano degli occhialini da sole. Ladybug se li mise sul naso.

Un piccolo cavallo si manifestò. «Salve egregi signori. Il mio nome è Kalkk, il Kwami del Cavallo.» Parlava con voce impostata.

«Tikki, Kalkk. Fusione.» Ladybug allargò le mani, poi le giunse. I capelli corvini legati in due codini divennero delle treccine rasta. Il rosso del costume si mischiò ad un marrone scuro. «Portale!» Con due dita disegnò nell’aria un cerchio, che si colorò di verde e si animò. «A presto, Luka.» Si gettò dentro.

«Buona fortuna, Marinette.»

 

 

 

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


21

Tibet, 2018

Il portale la condusse in uno stanzone con il pavimento in mattoni, il soffitto alto e pareti adornate con disegni dallo stile orientale. C’era odore di incenso. Le candele poste sulle mensole e sull’altare di fronte proiettavano una luce tenue.

Era al Tempio dei Guardiani.

Ladybug pose fine alla fusione, togliendosi gli occhialini.

«È stato un piacere offrirle i miei servigi, signorina.» Kalkk si congedò con un inchino solenne e scomparve nel Miraculous. Ladybug lo ripose all’interno della Miracle Box.

Dalle uniche due vie d’accesso alla stanza si palesarono due sagome: una minuta, dal passo aggraziato; l’altra colossale, con in mano una mastodontica ascia.

«Ladybug!» esclamò la figura minuta.

Provò una fitta al cuore. Di sicuro non pensava di doverli rivedere così presto. Quando aveva deciso di viaggiare verso il Tempio, non le era passato per la mente che si sarebbe ritrovata faccia a faccia con Tyr e Vaegt.

Si costrinse a restare fredda e concentrata. «Sono qui per vedere il Gran Maestro.»

Tyr si fece avanti. «Questo non è possibile.» L’aspetto minaccioso incuteva terrore negli avversari. Forse, in quel momento, lei stessa era un avversario.

Ma non le importava. «Meglio che senta ciò che ho da dirgli.»

«In onore della nostra alleanza» disse Vaegt «ti concederemo la possibilità di riferire a noi questo messaggio e di riportarglielo a tuo nome.»

Ladybug scosse il capo. «Non me ne andrò di qua fin quando non avrò parlato con lui.» In altre circostanze avrebbe aggiunto un «vi prego», ma quei due non meritavano gentilezze.

«Ragiona, Marinette.» Tyr la chiamò con il suo nome, provocandole un vuoto allo stomaco. «Noi abbiamo il compito di scacciare qualsiasi invasore. Tu sei apparsa dal nulla senza essere stata invitata qui, quindi come tale dovresti essere trattata. Prendi ciò che ti offriamo.»

Ladybug mostrò loro la Miracle Box che aveva tenuto sotto al braccio fino a quel momento. «Dunque non gli interessa più avere questa?»

«Perché ha quell’aspetto?» chiese Vaegt, avvicinandosi.

«Lo ha assunto nel momento in cui Wang Fu ha passato a me il compito di Guardiana.»

Tyr e Vaegt si scambiarono un’occhiata. Annuirono all’unisono e sciolsero la trasformazione. I Kwami scomparvero subito nei Miraculous, prima che Ladybug potesse studiarne l’aspetto. Elga Storm indossava una lunga veste dorata, in vita una cintura con la fibbia argentea a forma di bilancia, i capelli raccolti in due trecce.

Alessio portava un gilet di cuoio sul torace nudo, pantaloni beige e stivali. «Ti condurremo da lui.» Si rigirò nella mano la spilla a forma di testa di toro.

«Bene.» Ladybug si tastò il taglio sul sopracciglio. La trasformazione aveva coperto la ferita, ma il prurito era rimasto.

Elga fece strada attraverso una galleria buia col pavimento in pietra. L’unica fonte di luce erano le fessure sulle pareti, piccole finestre dalle quali la falce di luna sparava i suoi raggi. Le montagne innevate che circondavano il Tempio offrivano un paesaggio suggestivo.

Giunsero in un’anticamera. Un portone in legno massiccio era sorvegliato da due statue raffiguranti animali mitologici: uno sembrava una chimera, un animale con la testa di leone e la coda formata da serpenti; l’altro un incrocio tra un ciclope e un cavallo.

«Bizzarre» commentò Ladybug, accarezzando la superficie della statua chimera.

«Neanche noi sappiamo che cosa siano.» Elga si coprì la testa col cappuccio della veste. «Tra noi allievi si suppone che esistano dei Miraculous i cui Kwami abbiano quell’aspetto. Ma nessuno ha avuto mai conferme o smentite a riguardo.» Bussò tre volte al portone.

Dopo qualche istante, questo si spalancò. La stanza era simile a quella precedente, solo che al posto dell’altare sorgeva una sorta di trono. La figura seduta lì era in ombra.

Elga entrò per prima. Alessio fece un cenno a Ladybug permettendole di anticiparlo.

«Gran Maestro» Elga si genuflesse ai piedi del trono. «La portatrice del Miraculous della Creazione, nonché Guardiana della Miracle Box a cui appartiene, ha chiesto udienza presso di lei.»

La figura seduta al trono si alzò in piedi. L’uomo aveva il capo e metà busto chinato in avanti, la barba candida gli sfiorava il ventre. «Ladybug.» Fece un gesto come se volesse accoglierla tra le sue braccia. «Vieni avanti.» La luce proiettata dalle fiamme delle fiaccole intorno alla stanza si riflettevano sul suo cranio pelato.

Ladybug non si mosse.

Alessio le passò affiancò e si genuflesse accanto ad Elga. Girò la testa e sgranò gli occhi per invitare Ladybug a fare altrettanto, ma lei restò ancora ferma.

Il Gran Maestro fece spallucce. «Non importa, ragazzi. Su, su, rialzatevi.» Elga e Alessio obbedirono e si fecero da parte.

«Dunque è lei il Gran Maestro?» chiese Ladybug. «Me l’aspettavo diverso.»

Due intensi occhi color carbone indugiarono nei suoi azzurri. «Volevi che fossi come il tuo mentore e amico, Wang Fu? O pensavi fossi più giovane?» Ridacchiò. La voce era tranquilla, amichevole. «Spiacente di averti deluso in tal caso.»

«Sono qui per–»

Il Gran Maestro sollevò una mano per interromperla. «Il tuo cuore è in tumulto Ladybug. Hai una gran rabbia repressa dentro di te, un grande dolore.»

Alessio chinò il capo e distolse lo sguardo.

«Ho anche una gran voglia di tirare pugni» disse Ladybug. «Lei non ha idea di quello che ho passato.»

«Qualche cosa la so.» Il Gran Maestro si massaggiò la barba. «Altre cose posso immaginarle.» Si rivolse ad Alessio e Elga: «Vi prego, lasciateci soli.» I due ragazzi annuirono e uscirono dalla stanza, richiudendosi alle loro spalle il portone.

«Non è mancanza di fiducia in loro» disse il Gran Maestro una volta soli, «ma vorrei evitare momenti di imbarazzo con una persona a te cara e che tiene molto a te.»

«Non credo siano affari suoi.» Ladybug gli scoccò un’occhiata tagliente. «Lei ha mandato Alessio da me.» Gli puntò l’indice contro. «Lei gli ha detto di sorvegliarmi e di prendere la Miracle Box perché io non ne ero degna.»

Il Gran Maestro aggrottò la fronte. Le cespugliose sopracciglia parvero unirsi in un monociglio. «Non era quello il motivo. È vero, ritengo sia poco saggio che tu abbia custodito i Miraculous per così tanto tempo. Devo ammettere, però, che hai fatto un lavoro egregio, nonostante non abbia mai ricevuto un adeguato addestramento. Altri prima di te hanno fallito nel loro compito, hanno perso il senno, hanno abbandonato o, come Wang Fu, hanno compiuto atti che hanno portato a disgrazie. Disdicevole il suo comportamento: era un giovane promettente.»

«Anche io ho fallito.»

«Non essere troppo severa con te stessa, Ladybug. Sei andata ben oltre ogni mia aspettativa.»

«Wang Fu credeva in me. Fin dal primo giorno, quando mi affidò il Miraculous. Io… Io sapevo che non sarei stata in grado di sconfiggere Papillon.»

«Ma adesso sei qui.» Il Gran Maestro schioccò le dita. Tikki uscì dagli orecchini e la trasformazione terminò. «Marinette.»

Tikki fece una riverenza. «Gran Maestro...»

«Sono qui perché è l’ultima spiaggia per correggere i miei errori.» Marinette scosse la testa. «Papillon mi ha sconfitto, ha usato i Miraculous della Coccinella e del Gatto Nero per attingere al Potere Assoluto ed esprimere un desiderio. Perché voleva risvegliare sua moglie Emilie dal coma. Ma nel farlo...» La voce si ruppe per il pianto.

Il Gran Maestro annuì. «Qualcun altro ha preso il posto di questa donna.»

«Il loro figlio. Adrien…»

«E la donna com’era finita in coma?»

«Mi ha raccontato che aveva fuso i poteri del Miraculous della Farfalla e quello del Pavone, per guarire da una malattia terminale. La spilla del Pavone si danneggiò a seguito di ciò.»

Il Gran Maestro grugnì e scosse il capo. «La fusione dei Miraculous è un procedimento molto pericoloso, specialmente se fatto da persone dalla mente debole.» Diede le spalle a Marinette ed incrociò le mani dietro la schiena. «Non è finita in coma. Ha perso la sua anima. Mi chiedo come sia possibile che il suo corpo sia rimasto integro.»

Marinette trasalì. «Cosa significa che ha perso la sua anima? Significa che Adrien...»

Tikki intervenne. «Gabriel Agreste, o meglio Papillon ha fatto costruire un macchina per tenere in vita sua moglie. E adesso lì giace il corpo di Adrien.»

Il Gran Maestro fece una risatina sommessa. «Diavolerie dell’epoca moderna. Affascinante, comunque.» Guardò Marinette e si schiarì la voce. «Ogni cosa ha il suo prezzo, mia cara. In questo caso, il potere congiunto del Miraculous della Creazione e quello della Distruzione ha scambiato un’anima per un’anima. Quest’uomo, Gabriel Agreste, avrebbe dovuto considerare le conseguenze dei suoi gesti. I Miraculous non sono in grado di riportare in vita i morti. Confido che tu lo sappia.»

«C’è modo di risvegliare Adrien?»

«I poteri dei Miraculous nascondono tanti segreti...»

«Non faccia l’enigmatico con me.» Marinette era stufa di tutti quei giri di parole. «Mi risponda solo sì o no.»

Il Gran Maestro oscillò la testa. «Dipende da te.» L’occhio gli cadde sulla Miracle Box.

Marinette digrignò i denti. «Parli più chiaramente.»

«La Miracle Box è vincolata a te da una formula magica pronunciata da Wang Fu. Anche se tu la consegnassi a me, adesso, la magia che ti lega a lei resterebbe salda.»

«Ho capito» sussurrò Marinette. «Vuole che rinunci alla mia carica di Guardiana.»

«No Marinette!» gridò Tikki. «Se tu lo facessi, perderesti i tuoi ricordi per sempre. E… Non potremmo più vederci.»

«I miei ricordi in cambio della vita di Adrien. È questo il prezzo da pagare.»

Il Gran Maestro annuì. «La scelta spetta a te. Nel caso tu rifiutassi, non mi opporrò. Continuerai a svolgere il tuo compito.»

«Adrien non merita quella sorte. Accetto.»

 

Con l’aiuto di Elga ed Alessio, nei panni di Vaegt e Tyr, Marinette trasportò il corpo di Adrien al tempio, servendosi del Miraculous del Cavallo. L’unica persona che incrociò a villa Agreste fu Nathalie e, per certi versi, ne fu lieta. Nonostante il duro scontro che avevano avuto, la donna aveva dimostrato sincero affetto nei confronti di Adrien. I coniugi Agreste avevano preferito tenersi da parte, limitandosi ad accettare qualunque tentativo pur di risvegliare il loro figlio. Prima che attraversassero il portale, Nathalie le disse che si sarebbe consegnata alle autorità ed avrebbe denunciato Gabriel Agreste.

Alessio adagiò il corpo di Adrien al centro di un cerchio disegnato con il gessetto. Sulla circonferenza vi erano dei piccoli slot, ognuno dei quali contrassegnati con un simbolo.

Marinette riconobbe i simboli dei Miraculous contenuti nella Miracle Box di cui lei era Guardiana. Quelli della Coccinella e del Gatto Nero si trovavano accanto al centro del cerchio.

«Il rituale richiede l’unione spirituale dei Kwami.» Il Gran Maestro pose sul petto di Adrien gli orecchini e l’anello. «Insieme, richiameranno l’anima di questo giovane ragazzo e dovrebbe risvegliarsi.»

«Dovrebbe?» chiese Elga.

Il Gran Maestro si strinse nelle spalle. «Rituali come questo non danno mai garanzie di successo. Dobbiamo solo avere fede.»

Alessio si avvicinò a Marinette, stringendole le mani con affetto. «Sono sicuro che andrà tutto bene.»

«Non so come tu faccia ad avere così tanto ottimismo. Guarda le mie azioni dove ci hanno condotto. Stamattina ho dovuto dire ai miei genitori che domani io non mi ricorderò più di loro, di Parigi, dei miei amici, della mia vita. Sarò come un guscio vuoto.»

«Ti sbagli, Marinette. Tu non potrai mai diventare un guscio vuoto. Anche senza ricordi resterai sempre una persona magnifica. Chiunque abbia avuto la fortuna di starti accanto ha compreso quanto tu sia speciale. Anche i tuoi rivali. L’unica a non riuscire a vedere quanto vali, sei proprio tu.»

Marinette avvertì un groppo in gola. «Perdonami per come ti ho trattato.»

Alessio ammiccò «Me lo meritavo.» Indicò con la testa Adrien. «È fortunato ad averti al tuo fianco.»

Marinette si alzò sulle punte per scoccargli un bacio sulla guancia. «Grazie. Ora devo dire una cosa al Gran Maestro.»

Lo richiamò. L’anziano sorrise quando lei si avvicinò. «Siamo quasi pronti» le disse.

«Ho qualcosa da chiederle prima di iniziare. Visto che non ricorderò nulla delle nostre avventure e io non mi trasformerò più in Ladybug, vorrei salutarlo come si deve quando si risveglierà. E vorrei che anche il suo Kwami, Plagg, possa farlo.»

Il Gran Maestro fece un cenno di assenso. «Mi sembra giusto.» Le sue dita strinsero il Kwagatama che Marinette aveva appeso al collo. «Il tuo legame con Tikki doveva essere molto forte se ti ha regalato questo.»

«Molto più di quanto lei creda.» Marinette guardò con tristezza al suo Kwami, intenta a istruire Plagg sul da farsi. Le lacrime le pizzicarono gli occhi. «È stata più di una fedele alleata nella lotta a Papillon. Mi ha sostenuta sempre, mi ha consigliata, mi ha sopportata soprattutto… Dimenticare lei significa lasciare qui un pezzo del mio cuore.»

Il Gran Maestro tossì. «Spesso la vita nasconde tante sorprese.» Allargò le braccia e richiamò l’attenzione dei presenti. I Kwami si posizionarono ognuno nel proprio slot. «Iniziate.»

In coro, i Kwami iniziarono a cantare e a danzare. Marinette non capiva il significato delle loro parole, ma quella melodia le infuse tanta serenità, come se ogni briciolo di oscurità fosse scomparsa dal mondo. Il disegno del cerchio le parve muoversi a ritmo. Il canto crebbe di intensità, i Kwami si illuminarono a intermittenza.

Il bagliore si riversò sul corpo di Adrien, la luce rossa prodotta da Tikki e quella verde prodotta da Plagg si mischiarono in un’unica tinta. Marinette fu costretta a coprirsi gli occhi con un braccio, mentre il canto proseguì incessante ed assordante. Il pavimento tremò sotto i piedi, le mura del Tempio scricchiolarono.

Poi, il silenzio.

La stanza tornò ad essere illuminata dalle candele sparse sul pavimento. I Kwami, stremati per lo sforzo, rientrarono nei rispettivi Miraculous. Il Gran Maestro si chinò sul corpo di Adrien e gli posò il dorso della mano sulla fronte.

«Ha funzionato?» Alessio passò un braccio intorno alla spalla di Marinette.

«Il rituale ha avuto successo.» Il Gran Maestro indicò Adrien col capo. «Il resto dipenderà da lui.»

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


22

Un piacevole tepore gli accarezzò la pelle.

Adrien aprì gli occhi. La stanza era illuminata da una luce soffusa che proiettava ombre lunghe sui muri. La coperta sul ventre era soffice, calda. La bocca reclamava acqua. Girò la testa su un lato, sul tavolino accanto al letto c’era una brocca d’acqua. Sollevò il busto ed allungò un braccio, le ossa scricchiolavano ad ogni movimento. Bevve dalla brocca, l’acqua gli rinfrescò la gola arsa.

Dove si trovava?

Le pareti erano in legno, così come il pavimento, il soffitto alto sorretto da travi scure. Un allegro fuoco danzava e scoppiettava nel camino.

Adrien riordinò i pensieri. Il ricordo riaffiorò prepotente come un pugno allo stomaco. Papillon era suo padre. L’uomo che aveva causato dolore e sofferenza a Parigi era la persona a lui più vicina, la persona che affermava di amarlo e proteggerlo da qualsiasi minaccia. Lo faceva per sua moglie, Emilie, per riportarla in vita.

Adrien strizzò gli occhi, il cuore gli pesava ancora come un macigno nel ripensare all’immagine di sua madre, dormiente, in quella capsula. Nella mente, gli ripassò davanti la scena in cui suo padre pronunciava una formula, si sollevava da terra e una luce tanto accecante quanto sublime gli avvolgeva il corpo. Dopo lo schiocco, non ricordava più nulla, se non di essersi addormentato. Aveva sognato di galleggiare in vasti oceani e di librarsi in volo su sconfinate terre.

Quanto aveva dormito?

Di sicuro non si trovava a casa sua. Aveva bisogno di risposte. Ma a chi fare le dovute domande?

La porta si spalancò. Un ragazzino, di una decina d’anni, con indosso una veste marroncina si palesò.

«Ciao!» Adrien si sedette a metà letto, scostando la coperta. «Sai dirmi dove mi trovo?»

Il ragazzino sgranò gli occhi verdi e fuggì.

Adrien poggiò i gomiti sulle ginocchia, e la guancia sul palmo. La pelle era fredda, ispida per via del velo di barba.

«Adrien!» Dalla porta sfrecciò una piccola bolla nera, che si fermò ad un palmo dal viso del ragazzo: Plagg. «Finalmente ti sei risvegliato.» Si strofinò con l’intero corpicino sulla guancia di Adrien. Aveva la voce singhiozzante.

«Non starai mica piangendo.»

Plagg si allontanò e si strofinò gli occhi. «È… È colpa del freddo.»

Già, il freddo. «A proposito, dove ci troviamo?»

«Siamo al Tempio dei Guardiani dei Miraculous, in Tibet.»

Adrien spalancò la bocca. «In Tibet?»

Plagg annuì e gli spiegò cos’era accaduto dopo lo schiocco: il viaggio di Ladybug, il Gran Maestro, il rituale per risvegliarlo.

Adrien fece fatica ad assorbire così tante informazioni. Soprattutto per la portata di tali informazioni. Deglutì. «E dove sono adesso mio padre e… mia madre?» Avvertì un groppo in gola e dovette bere un altro goccio d’acqua. Mai avrebbe pensato di tornare a parlare di sua madre come se fosse viva.

«Suppongo siano alla villa, a Parigi.» Plagg fece spallucce. Dal modo in cui ne parlava, sembrava aver sviluppato una certa acredine nei loro confronti. «Ladybug non ha voluto che prendessero parte al rituale.»

«Non che abbia tutti i torti.» Adrien chinò il capo. «Non posso credere che mio padre sia arrivato a tanto. Non avevo mai capito quanto fosse grande il suo dolore per la perdita della mamma. Ora capisco anche il motivo della lunga pausa di Papillon in questi anni: aveva perso la memoria.»

«C’è un’altra faccenda di cui dobbiamo parlare, Adrien.» Plagg esitò, i suoi occhi smeraldini sfrecciarono lungo tutta la stanza eccetto il volto di Adrien. Infine parlò. «Questa sarà l’ultima volta che noi due ci vediamo.»

Adrien trasalì. «Cosa?»

Plagg tirò su col naso. «Ladybug ha scambiato il tuo risveglio con la Miracle Box. Verrà consegnata al Gran Maestro, oggi stesso, con tutti i Miraculous che le appartengono.»

Una pietra di ghiaccio schiacciò lo stomaco di Adrien. «Compreso l’anello…» Le lacrime invasero gli occhi e caddero lungo le guance. «Mi mancherai, Plagg.»

«Sei stato il miglior portatore che abbia mai avuto.» Anche Plagg iniziò a piangere. «Non mi dimenticherò mai dei momenti che abbiamo passato insieme.»

Adrien tese il pugno, che il Kwami colpì con il suo musetto. «Anch’io non ti dimenticherò, Plagg.»

«Addio, amico mio.» Detto questo uscì dalla stanza.

«Immaginavo che sarebbe stata dura.»

Adrien ebbe un tuffo al cuore. Alzò la testa. «Ladybug.»

«D’altronde lo sarà anche per me con Tikki» proseguì lei, entrando nella stanza. «Come ti senti?»

«Stento ancora a credere a tutto questo. Ma una parte di me è sollevata che sia finita questa storia di Papillon, delle akuma, delle amok…» Sospirò. «Mi mancherà essere Chat Noir.»

Ladybug si avvicinò. «Ti capisco.»

«Quale sarà la sorte che toccherà a mio padre?»

«Non spetta a me deciderlo, Adrien. Mi spiace che sia io a dovertelo dire ma è necessario che tu sappia che tua madre è ugualmente condannata. Ha una malattia degenerativa, incurabile.»

Adrien annuì con mestizia. «Almeno questo era vero in tutto quel guazzabuglio di bugie montato da mio padre.»

«Sapere che tutto ciò che ha fatto, il male che ha causato, il rischio che ha corso di perderti è stato tutto inutile, credo sia una punizione sufficiente per Gabriel.»

Adrien si asciugò le guance con il polso. «Per un attimo, avevo accarezzato l’idea di poter vivere di nuovo accanto a mia madre, dimenticare tutto.»

«Sfrutta il tempo che le rimane per starle accanto» suggerì Ladybug. «Fai in modo che anche tuo padre lo accetti.»

Passò del tempo prima che Ladybug parlasse di nuovo, stavolta con tono greve. «C’è un’altra cosa che devo dirti.»

«Altre brutte notizie? Come se non ce ne fossero state abbastanza.»

«In quanto Guardiana della Miracle Box, siamo collegate. Questo vincolo può essere spezzato solo se io trasferissi il compito ad un’altra persona.»

No. Non poteva essere vero. «Questo significa che dovrai fare come Fu… Perdere la memoria.»

Ladybug annuì.

«Non è giusto!» Adrien scattò in piedi. In pochi istanti, tutta la sua vita stava crollando pezzo dopo pezzo: suo padre, sua madre, Plagg e adesso anche Ladybug. Era troppo. «Perché sei tu a dover pagare per qualcosa di cui ha colpa solo mio padre?»

«Anch’io ho commesso degli errori. Ho sopravvalutato le mie capacità. Ma sono comunque felice che il mio sacrificio abbia salvato la tua vita.»

«A quale prezzo...» Adrien le diede le spalle. «Una volta, avevo la certezza di amarti con tutto me stesso. Diavoli, avrei fatto qualunque cosa pur di essere davanti a te, come adesso, senza la mia maschera, aprendoti il mio cuore. Ma ora non ne sono più sicuro. E questo non dipende da mio padre, dai Miraculous o da tutte queste disgrazie che ci sono piovute dal cielo.» Si girò a guardarla. «C’è un’altra persona nel mio cuore.»

Ladybug abbozzò un timido sorriso. «Ne sono felice.»

«Sai qual è la cosa più assurda? Ho detto a Marinette di essere ancora innamorato di te, e a te di essere innamorato di lei.»

«Marinette? La tua compagna di classe?»

Adrien annuì.

Ladybug si coprì la bocca con la mano. Poi, scoppiò a ridere. «Oh mio caro Chaton. Sei un disastro nelle relazioni sentimentali.»

Adrien ridacchiò. «Vorrei essere di più come Chat Noir nella vita di tutti i giorni.»

«Chat Noir è già parte di te. Se vuoi essere come lui, basta volerlo.» Gli sfiorò la punta del naso con l’indice. «Però ti consiglio di non esserlo troppo.» Rise di nuovo.

«Se ti chiedessi di rivelarti, lo faresti?» chiese Adrien. «Ora non c’è più alcuna minaccia. Stai anche per perdere la memoria. Sapendo chi sei, sarò certo che non ti perderò.»

Ladybug trasse un lungo respiro. «Tu ti sei innamorato dell’eroina che salvava Parigi ogni giorno, quella spavalda, sicura di sé. Ti sei convinto che non abbia difetti, mi hai innalzata su un piedistallo. Lo so, perché ci sono passata anch’io. Ma devi imparare a guardare al di là della perfezione che ti acceca. Io non sono priva di difetti, Adrien. Dietro la maschera, c’è una persona come tante altre, nulla di più, nulla di meno. E il fatto che tu ti sia innamorato di un’altra persona, significa che inconsciamente l’hai capito anche tu.»

«Lascia che io conosca la persona dietro la maschera.»

Ladybug scosse la testa ed arretrò. «Non è detto che ci perderemo. Il Gran Maestro mi ha detto che la vita spesso riserva delle sorprese ed io voglio crederci. Devo crederci. E nel momento in cui aprirai gli occhi, nel momento in cui mi vedrai senza maschera, non avrai più bisogno di una rivelazione, perché lo saprai già.» E se ne andò.

 

 

Parigi, 2019

Tre colpi alla porta.

Adrien la aprì ed accolse Luka nella sua stanza. Si salutarono con un abbraccio fraterno.

«Accomodati.» Adrien andò al frigobar e prese due bottiglie in vetro di Coca-Cola.

«Immagino sia superfluo domandarti come stai.» Luka stappò la bottiglia e si sedette sul bracciolo del divano.

«È stata dura dirle addio, ma almeno stavolta ho potuto farlo. Se n’è andata nel sonno; ha voluto che la seppellissimo al cimitero di Perè-Lachaise, accanto ai nonni.»

«E tuo padre?»

Adrien scosse il capo. «Credo non si rassegnerà mai alla perdita. Però, ha smesso di cercare invano di salvarla e ha vissuto, per quanto ha potuto, ogni giorno accanto a lei come se potesse essere l’ultimo. E così ho fatto anch’io. Dopo il funerale, gli agenti lo hanno riaccompagnato in carcere.» Gabriel era stato condannato a due anni di carcere con la condizionale; gli era stato concesso il permesso di assistere la moglie negli ultimi istanti di vita e al suo funerale. «Una volta scontata la pena, si ritirerà nella villa ad Avignone; resterà lì a vivere nella speranza che io possa perdonarlo per il male che ha fatto.»

«Lo farai?»

«È e resterà sempre mio padre. Non posso cancellare questi anni, né credo che lui lo pretenda, ma possiamo guardare avanti anziché indietro. Provare rancore non serve a nulla, anzi fa solo male. Se anche Ladybug è riuscita a metterci una pietra sopra, posso farlo anch’io.»

Luka si avvicinò a lui e gli strinse una mano sulla spalla. «Concordo in pieno.» Era l’unico dei suoi amici a sapere quanto successo. Aveva contattato Adrien il giorno dopo il suo ritorno a Parigi dal Tempio in Tibet. Scoprire che conosceva le identità di entrambi gli eroi era stato scioccante, ma alla fine Adrien ne era stato sollevato di poter parlare con qualcuno che gli fosse amico.

«E la casa di moda?» chiese Luka.

«La maggioranza delle azioni è passata a me al compimento dei diciott’anni, con un documento firmato e controfirmato anche dai soci. Quando la fedina penale di Nathalie sarà ripulita in seguito al patteggiamento, la nominerò amministratrice delegata. È parte della famiglia e spero che un giorno mio padre si leghi a lei con un affetto che trascenda la semplice amicizia.» Bevve un sorso di Coca-Cola.

«Un po’ quello che speriamo noi tutti per te.» Luka sogghignò. «Quand’è che ti dichiarerai a Marinette?»

Adrien rischiò di strozzarsi. La bevanda gli era andata di traverso. «C-Come?»

«Oh, andiamo. Lo sanno anche i muri che sei innamorato pazzo di lei. Ma hai paura a dichiararti.»

Adrien si morse il labbro. «N-Non dire sciocchezze. Lei è mia amica.»

Luka trattenne a stento una risata. «Certo che lo è. Ma tu vorresti che lei diventasse qualcosa di più. Nino e Alya mi hanno raccontato il modo in cui la divori con gli occhi a scuola, che parli solo di lei e della sfilata della prossima settimana. Per non parlare del modo in cui guardi in cagnesco qualunque essere di genere maschile le si avvicini che non sia già impegnato.»

Accidenti a Nino e Alya. E accidenti a lui. Perché doveva essere così imbranato con le relazioni sentimentali? Le stesse identiche parole gliel’aveva già dette Katami, qualche settimana prima. E non era cambiato nulla, non aveva fatto nulla.

«E va bene. Ma cosa dovrei fare?»

«La cosa più semplice e allo stesso tempo più difficile del mondo, Adrien.» Luka allargò le braccia. «Va’ da lei e dille che la ami.» Fece una pausa. «So di cosa hai paura: Ladybug.»

«Mi ha rifiutato più e più volte. Cosa mi dice che con Marinette non andrà esattamente allo stesso modo?»

«Non puoi saperlo. E se non ti butti, non lo saprai mai. Resterai per sempre col dubbio e un giorno rimpiangerai di non averlo fatto.»

Adrien rimase in silenzio.

 

Dagli scroscianti applausi dalla platea e dalle espressioni soddisfatte dei presenti, la sfilata era stata un successo. Audrey Bourgeois aveva rilasciato un’intervista in cui affermava di aver ritrovato lo spirito della competizione e l’estro creativo nell’ammirare gli abiti della nuova collezione.

Adrien posò per l’ultima foto, accanto ai modelli. Come sempre, indossava l’abito di punta della sfilata, un gessato blu scuro, con camicia bianca senza cravatta. A differenza di altri completi eleganti, l’aveva trovato molto comodo, calzante alla perfezione. Sprizzava felicità da tutti i pori. L’esordio di Marinette tra i professionisti era andato alla grande: una proposta che – i giornalisti avevano tenuto a sottolineare – era arrivata da Gabriel Agreste, come un passaggio di testimone.

Adrien allungò il collo e la cercò tra la folla. Lei era accanto all’uscita, circondata dai suoi familiari ed amici. Sua nonna Gina era venuta dall’Italia per assistere alla sfilata ed ora pareva non volerla mollare più. I capelli corvini le ricadevano sulle spalle leggiadri incorniciando un volto perfetto sfumato da un velo di trucco. L’abito pantalone che indossava era semplice ed elegante, rosso con un cinturone nero in vita. Adrien lo riconobbe: era l’abito disegnato sul quaderno dei bozzetti che Marinette aveva presentato a Gabriel mesi prima. Quello ispirato a Ladybug. Era perfetto su di lei. Era come se lei fosse proprio…

Adrien sgranò gli occhi, il cuore gli balzò in petto e fece più capriole. Gli sembrò incredibile, ma tutto avrebbe avuto una spiegazione, tutto quadrava. Marinette e Ladybug erano la stessa persona. Avevano gli stessi atteggiamenti, lo stesso spirito battagliero, gli stessi occhi, azzurri come l’oceano. Proprio come aveva detto Ladybug, non gli serviva la rivelazione perché la verità era sotto i suoi occhi e lui non se n’era mai reso conto, li aveva tenuti sempre serrati: si era innamorato della stessa ragazza per due volte.

Attraversò la sala a lunghe falcate, zigzagando tra colleghi, giornalisti e spettatori. L’entusiasmo gli aveva messo le ali ai piedi. «Marinette!»

Lei si voltò, si scusò con le persone accanto e si avvicinò a lui. «Tutto bene, Adrien? Mi sembri un tantino sconvolto.»

«Devo parlarti.» Le afferrò una mano. «Da solo.» La condusse nel retro del palco, nella zona dei camerini, in quel momento deserta. «Quello…» Prese un respiro. «Ciò che vorrei dirti...»

Marinette gli strinse le braccia. «Calmati. Prendi un respiro profondo.»

Come poteva dirgli di calmarsi se in quel momento si sentiva volare? «Volevo dirti grazie.»

«Grazie a te, Adrien. Se la sfilata è andata alla grande lo dobbiamo soprattutto alla tua destrezza sulla passerella.»

Adrien scosse la testa. «Io non mi riferivo alla sfilata.» Le prese le mani. «Grazie, per avermi salvato la vita. So che non ricordi nulla, ma l’hai fatto. E non solo una volta.»

Si aspettava una reazione di stupore, di confusione o di perplessità. Invece, Marinette lo sorprese scoppiando a ridere. «Sei mesi. Ce ne hai messo di tempo, Chaton

Adrien pensò di non avere più battito. «Come?»

«Chaton. Hai sempre detto che adoravi questo nomignolo. A differenza di quello che mi avevi affibbiato tu. Odiavo essere chiamata “Insettina”.»

«Ma come–»

«Come ho fatto a non perdere la memoria?» Marinette strinse le spalle. «Non ne ho idea. Non so perché ma è successo. Dopo aver pronunciato le parole per passare la Miracle Box al Gran Maestro, mi sono addormentata e mi sono risvegliata nella mia camera a Parigi. E ricordavo ogni cosa.»

Adrien la tirò a sé e l’abbracciò. «Avevi ragione, Marinette. Avevi ragione su tutto. Non avevo bisogno della rivelazione, perché io già sapevo che amavo tutto di te, che fossi con la maschera o senza.»

«Non sai quanto ho atteso questo momento, per tutti questi mesi. Sei veramente pessimo a dichiararti.»

Adrien sciolse l’abbraccio. «Io mi sono già dichiarato a te, in realtà. Ricordi la rosa?»

Marinette annuì. «La tengo ancora conservata, nel mio diario.»

Adrien si chinò in avanti, chiuse gli occhi. Le loro labbra si sfiorarono.

Marinette si ritrasse di colpo con un verso di dolore. Si toccò la collana in petto.

«Che cosa succede?» chiese Adrien.

«Il Kwagatama… Brucia.» Lo strappò dal collo e lo lanciò a terra. Il ciondolo si illuminò e un bagliore rosso li attrasse entrambi. Ci fu un flash, poi il buio.

__________________________________________________________________

In un batter d’occhio si ritrovarono in una stanza grande, illuminata da fiaccole affisse sulle pareti.

Marinette la riconobbe subito. «Siamo al tempio.»

Due figure familiari si palesarono dall’oscurità. Indossavano entrambi delle magliette e pantaloni beige insieme a stivali. Una tenuta da combattimento.

«Che ti dicevo?» La voce di Alessio rimbombò per la stanza. «Sapevo che avrebbero capito al volo.»

Elga ridacchiò. «Dalle loro facce, direi che non hanno capito un bel niente e sono qui solo per caso.»

«E voi due che ci fate qui?» Adrien indicò ora Alessio ora Elga. «Voi due siete...»

«Tyr e Vaegt» disse Marinette. «Sapevo che Plagg avrebbe omesso qualche dettaglio nel farti un riepilogo.» Si rivolse ai due Guardiani. «La vera domanda è: perché ci troviamo qui?»

«Per mio volere.» La sagoma del Gran Maestro comparve alle spalle di Elga. Sotto braccio reggeva una Miracle Box color antracite di forma ellittica. «Pensavi forse che non avessi perso la memoria per caso, Marinette? In poche ore mi hai dimostrato qualità che non vedevo da secoli, nonostante i miei prescelti siano stati addestrati. In questi mesi, vi abbiamo osservati. E sono giunto alla conclusione che voi possiate darci una mano in una delicata missione. Prima di parlarvene, però…» Fece un cenno ad Alessio, il quale porse loro due scatoline.

Marinette aveva i palmi delle mani sudati. Afferrò tremolante la sua scatolina e la aprì. I suoi orecchini! Li infilò subito.

Dal bagliore rosso si manifestò Tikki. «Marinette!» Raggiante le sfrecciò accanto e si fece dare un bacio sulla testa.

«Adrien! Hai portato del Camembert?» Plagg disegnò nell’aria delle mezzelune.

«Anch’io sono felice di rivederti.» Adrien incrociò le braccia al corpo, sorridendo.

«Sarete voi a scegliere» riprese il Gran Maestro, mostrando loro la Miracle Box aperta: c’erano dodici slot, tre dei quali vuoti. «Qui sono custoditi i Miraculous di cui sono portatori Alessio e Elga, rispettivamente Toro e Bilancia.»

Marinette schioccò le dita. «Sono i dodici segni zodiacali.» Li indicò uno ad uno, seguendo i loro simboli. «Sagittario, Capricorno, Aquario, Pesci, Ariete, Toro…» Si interruppe, la mano chiusa intorno al mento. «Perché manca quello dei Gemelli oltre a Toro e Bilancia?»

«È il motivo per cui voi siete qui» disse Elga. «Gli anelli dei Gemini sono scomparsi da prima che il Tempio fosse distrutto dal sentimostro di Wang Fu. Da tempo il Gran Maestro ha mandato adepti in giro per il mondo per cercarli, ma con scarsi risultati.»

«Ma voi avete abilità fuori dal comune» intervenne il Gran Maestro. «E anche un modus operandi molto originale.»

Adrien oscillò la testa. «Beh, è funzionale.»

Il Gran Maestro annuì. «Tale Kwami, tale portatore.»

Marinette ridacchiò, mentre Adrien e Plagg si scambiarono un’occhiata confusa.

«Marinette Dupain-Cheng, Adrien Agreste» disse il Gran Maestro con voce solenne. «Accettate la missione che vi sto dando di cercare e recuperare i Miraculous dei Gemini?»

«Sì, signore» risposero all’unisono.

«Allora, diamo inizio all’addestramento.» Fece un cenno con la testa a Elga ed Alessio, i quali si trasformarono.

Il Gran Maestro porse di nuovo la Miracle Box. «Per la missione userete due Miraculous nuovi. Quelli che avete vi faranno solo da supporto. Scegliete pure quelli che vi sono più congeniali.»

Marinette prese un fermacapelli. Aveva la forma del viso di un leone.

«Lio» commentò il Gran Maestro. «Il potere taumaturgico della luce.»

Adrien afferrò un ciondolo, nero antracite, simile ad un dente appuntito.

«Il Miraculous dello Scorpione. Velocità e precisione.»

Tyr puntò contro di loro la sua colossale ascia bipenne. «Non aspettatevi carezze da noi.»

Adrien sollevò il mento. «Sarei rimasto deluso del contrario.» Girò la testa. «Una nuova avventura, M’Lady.»

Marinette gli strinse la mano. «E la affronteremo insieme.»

Fine

 

 

Angolo Autore:

Salve gente!

Siamo giunti alla conclusione di questa storia, un finale che lascia spazio alla fantasia di voi che l’avete letta e mi lascia una piccola porticina aperta per il futuro. Ho cercato di inserire, per quanto mi era possibile, tutto quello che penso, che spero che avvenga, le mie opinioni e le mie teorie. Non entrerò nel discorso dei personaggi In Character o meno perché sono dell’idea che nessuno, a parte Thomas Astruc stesso, sia i grado di far muovere i personaggi esattamente come farebbero nella serie; per questo motivo, sono più portato a parlare di coerenza tra i personaggi da me descritti e quelli della serie originale. E in quest’ambito spero di aver fatto un buon lavoro perché era uno degli obiettivi che mi ero prefissato.

Parlando della storia nello specifico, ritengo che sia essenziale per Marinette ed Adrien affrontare un percorso di maturazione e di sviluppo che li avvicini senza dover cadere nella banalità e superficialità della “Rivelazione implica Relazione tra i due”. Se per Marinette ho scelto di allontanarla da quella che per lei è più un’ossessione che un amore vero e proprio, per Adrien ho preferito fargli capire quanto fosse importante per lui l’aver vicino una persona come Marinette e quanto, quindi, gli sia pesato starle lontano per 3 anni. In seguito, lui doveva semplicemente riconoscere in lei le qualità che lo avevano fatto innamorare di Ladybug: alla fine, conoscendo veramente entrambe, fare due più due doveva risultare semplice persino per una mente così ingenua come la sua.

Per esigenze di lunghezza, ho scelto di tenere più sullo sfondo personaggi importanti come Chloè, Alya o Nino, più in risalto in altre storie del fandom. Ho ritenuto altresì importante dare molto spazio a Lila: oltre ad affascinarmi come personaggio in sé (ne sappiamo ancora poco su di lei), sono convinto che sarà grazie alle sue macchinazioni che i due protagonisti si avvicineranno di più. In altre parole, sarà proprio lei a scavarsi la fossa sotto i piedi.

Parlando dei Miraculous e del loro background, è la parte in cui ho dato più sfogo alla mia fantasia (il Tempio, il Gran Maestro, Alessio ed Elga), probabilmente allontanandomi anche parecchio dall’idea che ha l’autore in merito. Però, il fatto che il desiderio finale abbia un prezzo e che questo sia alto lo ritengo altamente probabile: e per Gabriel il prezzo più alto da pagare è proprio Adrien.

Infine, ma non meno importante, desidero ringraziare tutti voi per aver seguito la storia capitolo per capitolo ed essere arrivati sin qui, per il sostegno che le avete dato e per i numerosi commenti ai quali sono stato felice di rispondere.

Spero di portarvi altre storie in futuro.

Vi auguro un Buon Natale e un felice anno nuovo.

A presto.

Nike90Wyatt

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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