Natali

di Soul of Paper
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lento ***
Capitolo 2: *** Veloce ***



Capitolo 1
*** Lento ***


Natali


Capitolo 1 - Lento


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Imma, il dottor Taccardi ha mandato i risultati dell’autopsia sulla donna trovata nella Gravina.”

 

“Alla buon’ora! Che tra poco li ricevevo mentre mi mangiavo le strazzat’. Lascia pure qua, Diana.”

 

La cancelliera annuì e mollò la cartellina che aveva in mano, tornandosene rapidamente nel suo ufficio.

 

La donna era stata rinvenuta qualche giorno prima, sul greto del fiume. Si presumeva che fosse morta affogata o per ipotermia, scivolando incautamente nelle acque durante una gita in famiglia. Il marito aveva dato l’allarme sulla sua scomparsa il sabato precedente.

 

Sta gente che manco con il ghiaccio che c’era ovunque riusciva a starsene a casa, invece di cacciarsi nei guai!

 

Fece scorrere rapidamente il dito sul rapporto ed una cosa la colpì immediatamente: nei polmoni non c’era acqua. La causa primaria di morte pareva essere un colpo alla base della nuca, causato da un oggetto irregolare, presumibilmente una pietra, che aveva causato incoscienza ed un’emorragia cerebrale, si presumeva che dopo fossero sopraggiunti assideramento e quindi il decesso, senza che riprendesse conoscenza.

 

Taccardi, come al suo solito, non aveva aggiunto altri commenti personali, ma Imma immaginava di trovarsi al posto della donna - Bruna si chiamava, una delle poche ancora con quel nome nelle generazioni nate dopo gli anni Sessanta - e di finire in un fiume come il Gravina, venire trascinata via, incosciente… com’era possibile che non avesse respirato acqua, vista la forza delle correnti?

 

Compose immediatamente il numero di Taccardi, per confermare la sua ipotesi.


“Dottoressa! Buon natale pure a lei!” rispose lui, sarcastico, dopo troppi squilli.

 

“Non grazie a lei, dottore, che con questa benedetta autopsia fino all’ultimo mi ha fatta penare! Ascolti, secondo lei è possibile che la donna, cadendo nel fiume ancora viva e picchiando la testa su una delle rocce a pelo d’acqua, possa poi aver percorso tutta quella distanza senza mai respirare o bere acqua?”

 

“Dottoressa… al mondo tutto è possibile o quasi, lo sa. Potrebbe aver galleggiato di schiena fino a morire di ipotermia e poi il corpo essere finito a riva. Tuttavia lo ritengo altamente improbabile, conoscendo la Gravina e le sue correnti, ma questo non è compito mio stabilirlo. Ad ognuno il suo mestiere, dottoressa, pure se non sarebbe nemmeno compito suo, a voler ben vedere.”

 

Chiuse la chiamata, senza stare a perdere tempo in cerimonie, tanto con Taccardi era inutile.

 

Con il marito c’era stata pure la figlia in quella gita fatale. Una ragazzina quindicenne ed un poco brufolosa che pareva sotto shock e che aveva confermato con un cenno del capo la versione del padre.

 

Guardò l’ora. Le tre di pomeriggio. Cercò il nome del marito della vittima e scoprì che lavorava in uno studio di revisione contabile - a quanto pare era un Senior, qualsiasi cosa volesse dire.

 

A quell’ora, con le chiusure e le conte di magazzino in corso in molte attività, era probabile che fosse ancora al lavoro. E la ragazzina a quindici anni quasi sicuramente era a casa da sola. Difficile fosse andata a scuola, improbabile che avesse ancora una babysitter.

 

Non c’era un minuto da perdere: convocarla in procura avrebbe messo in allerta il padre, sarebbero intervenuti stuoli di avvocati e la ragazzina sarebbe molto probabilmente stata terrorizzata e profondamente condizionata nel rispondere.

 

Si alzò di scatto dalla scrivania e con un “Diana, io esco!” afferrò borsa e cappotto e scese di corsa le scale verso la PG. Non poteva andarci da sola, serviva almeno un testimone.

 

Entrò in PG, senza bussare, ma la trovò deserta, tranne per un’unica testa che fece un sobbalzo, prima che il suo proprietario si tirasse subito in piedi.

 

“Dottoressa!” esclamò, sull’attenti come un soldatino, sembrando un poco spaventato.

 

“Comodo, appuntato, comodo,” sospirò, ma il ragazzo rimase comunque rigido come un palo.

 

Tanta formalità non era una cosa così usuale, nemmeno tra le nuove leve, che pure erano ancora un minimo più rispettose dei tromboni - tipo il brigadiere Capozza - con i quali le toccava avere a che fare quotidianamente. Ma l’appuntato… Calo... Calogiuri, le pareva si chiamasse, era lì da giusto un paio di mesi e si vedeva chiaramente che fosse al primo incarico, fresco fresco di accademia.

 

“Gli altri dove stanno, appuntato?” gli chiese poi, dicendosi che forse il ragazzo avrebbe fatto meglio a fare il corazziere, vista l’altezza e l’attitudine a stare fermo e muto.

 

“So- sono tutti usciti. Il brigadiere Capozza è con la dottoressa D’Antonio, mentre con il dottor Diodato ci stanno-”

 

“Va beh, appuntato, ho capito. E immagino che non torneranno a breve?”

 

“No, no, non credo torneranno per oggi.”

 

Eh beh, certo: erano già le tre del pomeriggio, da lì a due giorni sarebbero stati tutti in ferie, figuriamoci se quei lavativi sarebbero rientrati!

 

“Ho bisogno di fare un sopralluogo. Lei è disponibile?” gli domandò, guardandolo in modo tale da fargli capire che no non era una risposta accettabile.

 

Non sarebbe stato la sua prima scelta e nemmeno la seconda o la terza, ma alla fine doveva giusto accompagnarla in auto e fare la bella statuina - cosa che sembrava riuscirgli bene - e prendere nota, cosa che sperava sapesse fare, anche se non ci contava troppo.

 

“Io?” domandò, indicando se stesso e guardandosi in giro, con la bocca mezza spalancata in un’espressione da pesce lesso.

 

“Appuntato, mi pare che ci stia solo lei qui! Che pensa, che parlo coi fantasmi?! Non mi faccia perdere tempo con domande stupide!” lo redarguì, sentendo che stava per perdere del tutto la pazienza.

 

L’appuntato, per tutta risposta, divenne di un colore che manco il naso dell’orrida renna di Babbo Natale che sua suocera aveva messo in giardino, convinta che fosse molto chic.

 

“Scu- scusatemi, dottoressa, io non intendevo… non mi permetterei mai! Scusatemi!” balbettò lui, con un’aria talmente mortificata che, stranamente, l’irritazione si calmò un poco, sostituita da una lieve incredulità nel sentirsi dare del voi, che erano ormai anni che nessuno usava più.

 

Giusto lei con quella simpaticona di sua suocera, che le toccava, per tradizione.

 

“Va beh… senta… vada a preparare la macchina. Tra cinque minuti al massimo la voglio qua fuori!”

 

“Certamente, dottoressa, va- vado subito!” bofonchiò lui, spegnendo il computer e afferrando un giaccone blu un po’ slavato dall’attaccapanni.

 

“Veloce, appuntato, veloce!” sospirò, finché lo vide uscire di corsa dalla porta.

 

Stava uscendo pure lei, dopo aver richiuso la porta della PG, quando venne bloccata da un “dottoressa Tataranni!” che non prometteva niente di buono.

 

“Dottore…” sospirò, voltandosi verso il procuratore capo: più curvo del solito, con i capelli tinti in modo improbabile e quei lineamenti che lo facevano sembrare una di quelle caricature dei carri di carnevale.


“Dove starebbe andando, dottoressa? Uno dei suoi soliti… sopralluoghi?” le chiese con un tono dispregiativo che dovette contare fino a dieci prima di rispondere, se voleva tenersi il lavoro.


“Dottore, sono emersi nuovi elementi. Devo parlare con una giovane donna e penso che fuori dalla procura potrebbe aprirsi di più. Come lei sa, domani è l’ultimo giorno e poi col natale di mezzo… rischiamo che la pista si freddi.”

 

“Non so se la pista si fredderà, dottoressa, ma sicuramente è fredda la mia scrivania, che ancora attende i suoi ultimi rapporti. Lo sa che la parte burocratica è fondamentale, se non vogliamo rischiare che venga invalidato tutto il resto. Quindi mi aspetto tutti gli incartamenti sulla mia scrivania per domani.”

 

“Naturalmente, dottore,” le toccò assentire, perché non aveva alternative.

 

Il dottore rimase per un attimo in silenzio e lei ne approfittò per pronunciare un “con permesso!” e sgusciare fuori dal portoncino, prima che lui cambiasse idea.

 

Per fortuna l’auto di servizio era subito lì fuori e Calogiuri la aspettava in piedi lì accanto. Le aprì la porta posteriore, per farla salire, in un modo che le ricordò per un attimo il maggiordomo di una famosa pubblicità di cioccolatini.

 

E poi, finalmente, si mise al volante, si allacciò la cintura e partì, dopo aver inserito indirizzo sul navigatore, con una lentezza esasperante, la mano che gli tremava un poco.

 

L’inizio della guida la stupì: l’appuntato non guidava come un forsennato, come la maggior parte degli altri della PG, che le veniva sempre da vomitare pure il cenone del natale precedente.

 

Era prudente, cauto, fin troppo.

 

“Su, appuntato, su, veloce! Che qua prima arriviamo e meglio è!”

 

“S- sì, dottoressa!” le rispose, accelerando leggermente e guardando ogni tanto nello specchietto.

 

Lei invece, più di ogni tanto, doveva ribadirgli di aumentare un poco la velocità, rassegnandosi all’idea che sarebbe stato un lungo viaggio e un lungo pomeriggio.

 

Provò a spiegargli per sommi capi che cosa aveva scoperto, e a fargli le raccomandazioni su come comportarsi, sperando che non facesse casini con la ragazza.

 

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Suonò di nuovo il campanello. Era la terza volta, ma vedeva dalle luci che c’era qualcuno in casa e quindi non demorse.

 

Alla fine, la porta si aprì di una fessura e due occhi scuri, cerchiati di nero, la fissarono.

 

“Rebecca? Sono Imma Tataranni, il sostituto procuratore che si occupa del… caso di tua madre. Ti ricordi? Ci siamo viste qualche giorno fa. Ho bisogno di parlarti, ci fai entrare?”

 

Gli occhi si strinsero e la ragazza chiese, “ci chi?”

 

“A me e all’appuntato Calogiuri,” rispose, facendogli segno di avvicinarsi alla porta, sperando capisse.

 

Per fortuna, almeno su quello, non pareva essere troppo lento e si avvicinò alla porta - e pure a lei in effetti - salutando la ragazza con un, “ciao Rebecca, ci fai entrare?” che le suonò gentilissimo e stranamente non balbettante.

 

Gli occhi stavolta si spalancarono e, dopo poco, la porta fu sbloccata e si spalancò.

 

Entrarono e la ragazza domandò, un poco intimorita, “dove… dove volete andare?”

 

“Che ne dici di camera tua?” domandò Imma, sapendo per esperienza che per una ragazza di quell’età era il luogo più intimo e quindi sia quello in cui si sarebbe sentita più a suo agio, sia quello in cui avrebbero potuto cogliere più informazioni su di lei.

 

Rebecca sembrò sull’orlo di protestare, ma alla fine annuì e li accompagnò verso una delle porte in legno bianco della casa, la aprì ed Imma fu subito colpita dal contrasto tra quel candore e l’interno: i muri erano dipinti di un rosso molto scuro, la camera era tappezzata di poster di band, soprattutto metallari, a giudicare dai look e dalle facce da spavento che facevano. Persino le lenzuola erano nere. C’era un che di opprimente in quella stanza e si chiese come la ragazza potesse dormirci tranquilla.

 

Rebecca si accomodò sul letto, mentre lei si sedette sull’unica poltrona disponibile, anche se mezza sommersa di vestiti - neri pure quelli - e Calogiuri rimase in piedi, intento ad estrarre un taccuino in tinta con il resto dell’atmosfera ed una penna dalla tasca interna del giaccone.

 

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Era passata quasi mezz’ora ed Imma stava per gettare la spugna: aveva provato più volte a chiedere la ragazza cosa ricordasse esattamente del momento in cui la madre era scivolata nel fiume, ma lei continuava a rispondere a monosillabi e con dei “non mi ricordo!” che la lasciavano un poco dubbiosa, al di là del trauma subito.

 

“Stavate guadando il fiume? Come mai?” le domandò, ma la ragazza si limitò ad annuire e non disse niente, prima di lanciare uno sguardo all’appuntato, l’ennesimo.

 

Era una richiesta d’aiuto, indubbiamente, ma c’era anche qualcos’altro: il modo in cui se lo guardava le ricordava molto come Valentina fissava quella band di cretinetti inglesi dalle pettinature improbabili che, per disperazione della figlia, si era sciolta l’anno prima, lasciandola in una valle di lacrime.

 

“Senti, Rebecca, c’ho la bocca un poco secca. Che mi porteresti un bicchiere d’acqua?” le chiese, ma la ragazzina si guardò in giro, preoccupata, “tranquilla, noi stiamo fermi qui e non ci muoviamo, né tocchiamo niente.”


Rebecca esitò per un secondo, ma poi annuì e sparì dietro la porta, lasciata però aperta. Aveva solo pochi secondi.

 

Si sporse verso l’appuntato e gli sussurrò, “quando torna, le faccia lei le domande. Dobbiamo capire cosa è successo esattamente alla Gravina.”

 

L’appuntato spalancò gli occhi e disse un, “io?!” impanicato, ma poi si corresse subito con un “s- sì, dottoressa!”

 

Almeno su certe cose imparava in fretta, anche nel panico.

 

“Deve metterla a suo agio e poi farle più o meno le domande che le ho fatto io,” specificò, intuendo probabilmente che il ragazzo, fino a quel momento, si era al massimo occupato di fare l’autista e l’amanuense. Lui annuì proprio mentre la ragazza tornò con un bicchiere d’acqua, che le piazzò in mano con così tanta ostilità che Imma si chiese se fosse avvelenata.

 

“A- allora, Rebecca, davvero non ti ricordi proprio niente? Ma niente niente?” le chiese l’appuntato, balbettando un poco all’inizio, ma poi sembrando più tranquillo.

 

La ragazza scosse il capo ma aggiunse un, “niente niente, mi dispiace!” un poco timido che era già meglio dei monosillabi sentiti fino a quel momento.

 

Gli occhi azzurri dell’appuntato rotearono intorno alla stanza e poi li vide illuminarsi.


Fece un sorriso, di fronte al quale la ragazza sorrise di rimando, in modo quasi ebete, e le chiese, “ma ti piacciono gli Slipknot?”

 

Rebecca si sorprese ma lui indicò un poster alle sue spalle, con dei tizi con addosso delle maschere orrende, che manco Freddy Krueger.

 

“Piacciono pure a te?” chiese di rimando la ragazza, con un altro sorriso, ed Imma non seppe se sperare che la risposta fosse no - perché fidarsi lavorativamente di uno che idolatrava quei cosi sarebbe stato quantomeno azzardato - o che fosse sì, perché si immaginava l’appuntato, più timido delle damine dei romanzi inglesi dell’Ottocento, ad un concerto di quei cosi e quasi le veniva da ridere.

 

“Diciamo che li conosco: mia sorella li ascoltava sempre, quindi ho passato qualche anno con la loro musica a tutto volume quando i miei erano fuori casa.”

 

Visualizzò una versione femminile dell’appuntato, con gli occhi pesti, il viso ancora più pallido e le labbra nere o rosso sangue, vestita da metallara, e dovette scacciare a forza la visione per restare seria.

 

“Ma avevi un album preferito?” chiese invece la ragazza, rilassandosi visibilmente, anche con le spalle e il busto.

 

“Iowa era il mio preferito e pure quello di mia sorella.”

 

“Sì, è il migliore!” concordò Rebecca ed, improvvisamente, le sembrò di vederla come doveva essere normalmente, prima che succedesse quello che era successo, in quella stanza, con le amiche - che chissà se erano metallare pure loro - a discutere di musica e altro.

 

Continuarono a parlare dei cosi e di un’altra band metal tedesca dal nome impronunciabile e, dopo un po’, quando la ragazza sembrò a suo agio, seduta comodamente appoggiata al muro accanto al suo letto, Calogiuri la guardò in quello che le parve un chiederle conferma se tornare sull’argomento principale, e lei gli fece un cenno d’assenso.

 

Non era proprio stupido il ragazzo, almeno con le persone sembrava abbastanza intuitivo. Sicuramente, a differenza sua, era più capace di conquistarsi le persone.

 

“Senti, Rebecca, lo so che… che certe cose si vuole solo dimenticarle, ma… ma vorrei veramente sapere se ti viene in mente qualcosa, qualunque cosa dei momenti prima che… succedesse quello che è successo a tua mamma. Noi vogliamo solo che lei abbia giustizia e… e soprattutto assicurarci che tu sia al sicuro.”

 

Imma trattenne il respiro: l’appuntato ci era andato giù diretto e… e poteva essere il disastro definitivo.

 

Ma gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime e disse “è colpa mia, è tutta colpa mia!” mentre scoppiava in un pianto disperato.

 

L’appuntato le lanciò lo sguardo appanicato tipico degli uomini di fronte ad una donna piangente e decise di intervenire lei con un “in che senso è colpa tua?”

 

“Mamma… mamma e papà litigavano… litigavano spesso. Quel giorno stavano litigando per me, perché… mamma qualche giorno prima gli aveva detto che voleva separarsi e… io l’avevo sentito ma non avevo detto niente. Ma quel giorno papà ha voluto fare quella maledetta gita e… e gliel’ho chiesto, che senso aveva essere lì a fare finta di niente se si volevano separare. Lui l’ha… l’ha accusata di avermelo detto, di volermi fare il lavaggio del cervello e di metterglielo contro e… e lei ha detto di no, che dovevo averlo scoperto da sola. E poi hanno litigato e poi… e poi lui le ha detto che non mi avrebbe portata via e… e poi… e poi l’ha spinta ed è… è caduta e ha sbattuto la testa su una roccia. C’era rosso, rosso ovunque… io… pensavo di essere abituata al sangue ma… ma ho vomitato e poi… e poi lui mi ha detto che avrebbe messo tutto a posto, che dovevo solo confermare quello che diceva lui, che se no ci avrebbero divisi e io sarei finita in… in un istituto e poi… dopo un po’ ho sentito un rumore come… come un tonfo nell’acqua e….”

 

La ragazza si interruppe, continuando a singhiozzare, ma non era necessario andare avanti, aveva già capito tutto.

 

Presa da un impulso, si alzò e le si sedette accanto, stringendola in un abbraccio: in fondo, anche se faceva la dura, era ancora una bambina.

 

“Stai tranquilla, ci prenderemo noi cura di te,” la rassicurò, cercando di calmarla, per quanto fosse possibile in quelle circostanze, “hai un parente, magari della mamma, da cui stare?”

 

“Mia zia ma… vive a Bari.”

 

“E che problema c’è? Bari mica è in capo al mondo. Mo faccio una telefonata. Tu riesci a fare un borsone con le cose che ti servono? Giusto per qualche giorno?”

 

“Ma… ma che succederà a papà? Lo arresterete?”

 

“Non possiamo evitarlo, ma non è colpa tua, hai capito? Ha scelto lui di fare quello che ha fatto e… come ha detto l’appuntato, dobbiamo assicurarci che tu sia al sicuro e che non sia pericoloso pure per te stare qua con lui.”

 

La ragazza annuì, tra i singhiozzi, e lei le chiese, “io mo devo fare una telefonata, se vuoi l’appuntato qua ti dà una mano a fare il borsone, se no se sei più a tuo agio con me, aspettate cinque minuti e lo prepariamo insieme, va bene?”

 

La ragazza di nuovo mosse la testa in alto e in basso e gli occhi azzurri dell’appuntato incrociarono i suoi: erano un po’ troppo lucidi e preoccupati, ma poi fece anche lui un cenno d’assenso.


Doveva sentire il procuratore capo: bisognava andare ad arrestare il padre di Rebecca e subito!

 

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“Ma dove porterete Rebecca ora?”

 

“In un luogo sicuro, stia tranquillo. Calogiuri, mi chiama gli agenti che dovrebbero essere qua fuori?”

 

L’appuntato smise di scrivere su quel taccuino in cui si era pure annotato tutta la confessione dell’uomo che, per fortuna, messo alle strette, aveva ceduto praticamente subito: un interrogatorio rapido, anche se non di certo indolore. Il ragazzo si alzò dalla scrivania d’angolo ed aprì la porta, da cui fecero ingresso i due agenti di polizia penitenziaria che Diana aveva già provveduto ad allertare.

 

“Dite… dite a Rebecca che le voglio bene e che… che l’ho fatto per lei! Quella non poteva portarla via! Non poteva!” gridò l’uomo, come ultime parole, ed Imma pensò che no, a Rebecca ci mancava solo quel senso di colpa.

 

“Lei lo ha fatto per se stesso, solo per se stesso!” gli rispose, anche se non era certa che l’uomo, nel suo delirio, l’avesse sentita.

 

E poi la porta si richiuse e si trovò con due paia di occhi azzurri - Diana e l’appuntato - che la guardavano abbastanza sconvolti.

 

“Un altro che ammazza la moglie, a quanti siamo quest’anno?!” sospirò Diana, scuotendo il capo.

 

“Troppi, Diana, troppi!”

 

“Che se penso a Cleo, quella povera figlia! Chissà chi si troverà lei, che ci manca che trova uno così! Che poi sembrava tanto tranquillo, una persona così perbene!”

 

Ad Imma toccò ammettere che era vero: l’uomo non aveva precedenti, nessuno scatto d’ira o di violenza testimoniato da chi lo conosceva. Ma soprattutto la moglie, a differenza di altre donne vittime dei mariti, non aveva mai avuto ferite sospette, visite al pronto soccorso per cadute dalle scale o altro.

 

E aveva quasi fregato pure a lei, la prima volta che lo aveva visto: sembrava veramente sconvolto, né troppo freddo, né troppo esagerato nel dolore.

 

Ma l’idea di possesso era purtroppo radicata nel maschio, soprattutto quello italiano, più di quanto avrebbe potuto anche solo immaginare, e continuava a mietere vittime. Vittime di uomini che semplicemente non accettavano che moglie e figli, che vedevano come di loro proprietà, potessero decidere di allontanarsi.

 

Pensò inevitabilmente pure lei a Valentina, che cominciava ad interessarsi ai ragazzi, con quella smorfiosa dell’amica sua, e le venne un brivido, ripromettendosi di marcarla stretta finché avesse potuto.

 

“Imma?”

 

La voce di Diana la ridestò e le lanciò un’occhiataccia, come sempre faceva quando la chiamava per nome di fronte ai sottoposti.

 

“Cioè… dottoressa, che facciamo ora? Perché sono quasi le sei e…”

 

“Se vuoi andare vai, Diana, qua abbiamo finito. Calogiuri, può farmi avere la trascrizione dei due interrogatori entro domani a mezzogiorno?”

 

L’appuntato spalancò gli occhioni azzurri e le sembrò nuovamente agitatissimo ma poi annuì vigorosamente, “certo dottoressa: domattina saranno sulla sua scrivania!”

 

“Bene,” gli rispose e lui rimase lì impalato. Imma sospirò, “può andare, appuntato, può andare!”

 

Lui non perse tempo e sparì oltre la soglia.

 

“Imma, allora io vado!” la chiamò Diana, che pure lei manco un secondo aveva perso, e si era infilata il cappotto, il cappello e i guanti.

 

“A domani, Diana, puntuale!” si raccomandò, decidendo però poi di uscire pure lei dall’ufficio: doveva andare in bagno, dopo tutte quelle ore senza un attimo di tregua.

 

Ci entrò e ci trovò Maria Moliterni, che si lavava lentamente le mani, senza fretta. Le sue pause in bagno erano notoriamente infinite.

 

“Imma!” la salutò con uno di quei sorrisetti che le davano sui nervi.

 

“Maria,” rispose, secca, cercando di andare verso uno degli sgabbiotti.

 

“Ho saputo che eri in giro con l’appuntato nuovo. Dov’è che siete andati?”

 

“Ma niente, Maria, soltanto a fare un sopralluogo e poi un arresto. Mo abbiamo pure ottenuto una confessione e chiuso un caso, probabilmente nel tempo che tu stavi qua in bagno ad incipriarti il naso!”

 

“E dai, Imma! Non ammazzarsi di lavoro come fai tu non vuol dire non lavorare,” rispose la Moliterni, con uno sbuffo d’aria che le sollevò il ciuffo biondo, “anche se… su certe cose… mica scema!”

 

“Che vuoi dire?”

 

“Beh… che se bisogna lavorare duramente… è meglio farlo in buona compagnia! Il nuovo appuntato è proprio un bel ragazzo ed ogni tanto rifarsi gli occhi non fa male, anzi!”

 

“Sì, magari ti fossi rifatta solo quelli, Maria!” rispose, piccata, non potendo credere che la Moliterni potesse cadere così in basso, a commentare in quel modo uno che poteva essere suo figlio, “e comunque, Maria, ti ricordo che mi devi ancora procurare il fascicolo sul processo del ‘97, che ti avevo chiesto. O vuoi farmelo giungere incartato sotto l’albero di natale?”

 

Non attese la risposta dell’altra ed uscì dal bagno, rendendosi conto solo dopo che ancora ne aveva un’estrema urgenza e che le sarebbe toccato scendere a quello del bar della procura.

 

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Cercò di rileggere per la terza volta quella pagina ma si arrese. La vista le si stava appannando: erano ore che leggeva e scriveva per completare i rapporti per lo stimatissimo procuratore capo.

 

L’unica consolazione era sapere che quel trombone, di lì a qualche mese, sarebbe andato in pensione. Ma, lo sapeva per esperienza, non c’era mai limite al peggio, quindi non confidava molto sul sostituto o sostituta.

 

Guardò l’orologio: erano quasi le dieci di sera, aveva perso completamente il senso del tempo.

 

Prese il cellulare, stranita che Pietro non l’avesse chiamata, preoccupato - anche se ormai conosceva bene lei e i suoi orari - ma vide solo un messaggio con su scritto:

 

Noi ceniamo che Valentina ha fame. Vieni appena puoi. Un bacio.

 

Risaliva a più di un’ora prima. Sospirando, si stiracchiò le braccia ed il collo, si infilò il cappotto, ben richiuso - che a quell’ora il gelo non perdonava - afferrò la borsa e si avviò verso l’uscita della procura.

 

Si bloccò di colpo, arrivata quasi al portone, perché c’era una luce bluastra che veniva dall’ufficio della PG.

 

Come minimo qualche fenomeno che s’era dimenticato il computer acceso, che tanto l’elettricità la pagavano i contribuenti e non lui!

 

E pure la porta aperta avevano lasciato!

 

Si avvicinò e sì, c’era un monitor acceso, ma con una macchia scura di fronte. Gli occhi si aggiustarono alla penombra e riconobbe i capelli e i lineamenti del nuovo appuntato, che chissà perché stava ancora in ufficio, picchiettando con la sua solita, proverbiale lentezza, i tasti del computer.

 

Rimase per un attimo a fissarlo: i lineamenti fanciulleschi resi azzurri dalla luce dello schermo, le labbra serrate e gli occhi mezzi chiusi in un’espressione concentratissima.

 

Sentì un qualcosa al petto che non sapeva bene come definire, come una specie di tenerezza: era giovanissimo e con quell’espressione lo sembrava ancora di più.

 

Il nuovo appuntato è proprio un bel ragazzo ed ogni tanto rifarsi gli occhi non fa male, anzi!

 

La vocetta irritante di Maria le risuonò in testa. Per carità, nel suo genere l’appuntato per essere bello era bello - e meno male, visto l’effetto che aveva fatto a Rebecca! - ma un conto era una quindicenne, un conto era che gli sbavasse dietro una dell’età di Maria, a uno che a volte pareva un bambino col carattere che aveva.

 

Ma, del resto, la Moliterni aveva un’idea della moralità tutta sua.

 

“Che ci fa ancora qui?” gli domandò e il carabiniere fece un salto tale che per poco non si ribaltò con tutta la sedia: lo vide chiaramente reggersi alla scrivania.

 

E poi si tirò in piedi. Era lampante pure nella penombra e con la luce blu che era di nuovo rosso come un peperone crusco.


“Scu- scusatemi, non vi avevo sentita arrivare e….”

 

“Appuntato, è il primo che mi contesta di essere troppo silenziosa!” scherzò, ma lui, di nuovo, le parve agitatissimo.


“Scu- scusatemi, io… io non volevo… cioè non intendevo, non era un appunto e-”

 

Le venne da ridere, senza potersi trattenere, e le fece ancora più tenerezza, stranamente. 

 

Ma da dove era uscito? Da qualche romanzo in costume, forse.


Lui si zittì, parendole confuso.

 

“Allora, che ci fa ancora qui a quest’ora?” gli chiese nuovamente.

 

“Sto… sto finendo un lavoro ma… tra poco tornerò in caserma, dottoressa.”

 

Si avvicinò, per spiare lo schermo, e capì immediatamente dai nomi che era la trascrizione dell’interrogatorio al padre di Rebecca.

 

“Appuntato, se non ce la faceva coi tempi doveva soltanto dirmelo!” lo rimproverò, anche perché odiava sentirsi in colpa per qualcuno, “e non stare qua fino a quest’ora, che già mi danno della schiavista e-”

 

“N- no, dottoressa!” la interruppe lui a sorpresa, rimanendo poi un attimo con l’aria di chi attendeva un’esplosione, ma proseguì, grattandosi il collo e poi la nuca, “è tutta colpa mia che… sono ancora troppo lento a scrivere a computer e lo so. Ma sto cercando di migliorare. Non vi preoccupate, il rapporto lo avrete entro mezzogiorno, come promesso.”

 

“Ma è per quello che ti segni tutto a penna?” gli chiese, senza accorgersi di essere passata al tu, ma le venne spontaneo, perché le sembrava quasi un cucciolo di quelli delle pubblicità sull’abbandono, con quegli occhioni enormi e un po’ impauriti, mentre annuiva.

 

Certo che sull’incutere timore... manco la divisa sarebbe potuta bastare: proprio un bel lavoro si era scelto!

 

“L’unico giovane che conosco che scrive meglio a mano che al computer!”

 

“Lo so, ma è che… non ho mai avuto bisogno di scrivere molto, soprattutto non a computer e… devo imparare.”

 

“E che facevi prima di arruolarti?”

 

L’appuntato si grattò di nuovo la nuca, pronunciando, con un po’ di vergogna, “mah… niente di che… lavoretti manuali, prevalentemente.”

 

Sospirò, immaginando che fossero lavori abbastanza umili.

 

“Senti, se pure il rapporto me lo fai avere entro domani sera non importa. Al limite, eccezionalmente, puoi fare una copia delle pagine del taccuino e portartela in caserma, almeno non stai qua e vai a mangiarti qualche cosa.”

 

“Io… io… vi ringrazio,” rispose lui, stupito quanto lo era lei stessa da quella concessione, “ma… in caserma non ho un computer e quindi….”

 

Pure senza computer, alla sua età!

 

Sì, era uscito decisamente da un film d’epoca.

 

“Non fa niente: vai in caserma, mo, è un ordine!”

 

“Ma, dottoressa, io… io inizio le ferie dopodomani e parto, non posso lasciarlo non trascritto fino a dopo le vacanze.”

 

“Torni dalla famiglia?” gli domandò, chiedendosi poi perché lo avesse fatto, per una volta che qualcuno non l’ammorbava con la sua cronistoria familiare.

 

O forse proprio per quello era curiosa.


“Sì, sì.”

 

“Di dove sei? Campania, giusto?”

 

“Sì, sono di Grottaminarda, in provincia di Avellino.”

 

Non l’aveva mai sentita nominare.

 

“Senti, stacca mo, domani ti dividi i fogli che ti mancano con un collega, che tanto la tua scrittura mi pare abbastanza leggibile, ed il problema è risolto.”

 

Invece di esserne felice, l’appuntato sembrò aver appena preso uno schiaffo, “do- dottoressa, è una questione di principio: se io prendo un impegno lo mantengo!”.

 

Il tono, deciso, decisissimo, la lasciò nuovamente stupita, insieme a questo strano senso del dovere e dell’onore che sembrava avere e che vinceva pure sulla timidezza.

 

“Appuntato, le ho già detto che è un ordine. Oserebbe trasgredire ad un ordine?” gli chiese, tornando volutamente al lei e tutta la decisione di lui si dissolse, sostituita nuovamente dal panico.

 

“N- no, no, dottoressa, non oserei mai, ma-”

 

“E allora usciamo, appuntato, che vorrei andarmene a casa pure io, prima di domattina, magari!”

 

Con l’aria di un bimbo appena messo in castigo, finalmente spense il computer, chiuse a chiave il taccuino nel cassetto della scrivania, ed uscirono insieme dalla procura.

 

Gli fece un cenno di congedo col capo e stava per avviarsi a piedi, quando la voce di lui alle sue spalle la bloccò, “mi… mi permettete di darvi un passaggio? Si è fatto tardi e… non è sicuro che siate in giro a piedi da sola a quest’ora.”

 

Si voltò, e dire che fosse una proposta inaspettata sarebbe stato dire poco. Sia la proposta in sé, sia il fatto che non fosse già fuggito da lì a gambe levate, per quanto sembrava intimorito da lei. Lo squadrò con un sopracciglio alzato.

 

“Poi riporto l’auto di servizio qua e tanto ci metto cinque minuti ad arrivare in caserma a piedi, veramente.”

 

“Non è necessario, so cavarmela da sola, grazie.”

 

Stava per rimettersi in cammino quando lui chiese, con un tono mortificato, “ma è perché guido troppo lentamente? Mi… mi dispiace ma….”

 

“Appuntato, se avessi un euro per tutte le volte che mi ha chiesto scusa oggi, sarei ricca,” gli rispose, ma poi, forse per l’espressione di lui, che pareva volersi sotterrare, forse perché alla fine faceva un freddo cane, si ritrovò a dirgli, “va bene, mi accompagni pure a casa. Ma poi se ne va subito in caserma e non si azzardi a provare a tornare a lavorare, chiaro?”

 

“Va bene…” rispose lui, facendole un sorriso amplissimo, che manco gli avesse appena concesso due settimane in più di ferie, invece di un’altra incombenza di lavoro.

 

Si avviarono insieme verso l’auto di servizio, lui di nuovo aprì la portiera posteriore e lei salì, con un sospiro.

 

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“Mo deve girare a destra.”

 

Sospirò: stava cercando di dargli le indicazioni per casa sua, che l’appuntato non l’aveva mai accompagnata, ma lui, ogni volta che lei parlava, oltre ad irrigidirsi, guardava nello specchietto e quindi, essendo prudente, rallentava terribilmente.

 

Di quel passo a casa ci sarebbe arrivata in tempo per il cenone natalizio, forse.

 

“Fermi la macchina qua,” gli ordinò e lui si guardò intorno stupito, probabilmente avendo notato che ci fossero soltanto negozi intorno a loro, “fermi la macchina, ho detto!”

 

“S- sì, sì,” bonfonchiò, facendo però come richiesto.

 

Scese dall’auto, senza attendere che lui le aprisse la portiera, ma lo vide uscirne lo stesso, con sguardo da cane bastonato ed un, “mi… mi dispiace, lo so che… che sono troppo lento, ma-”

 

Lei, per tutta risposta, aprì la portiera anteriore e si sedette accanto a lui.

 

“Dai, Calogiuri, forza, sali, veloce!” lo redarguì e lui obbedì, con un sorriso, ma il viso che era di nuovo bordeaux.

 

Ma, nonostante sembrasse tremendamente in imbarazzo - e pure per lei era un poco strano sedersi accanto ad un sottoposto - il metodo funzionò: Calogiuri guardava dritto davanti a sé, senza voltarsi verso di lei ed andava ad una velocità assolutamente perfetta.

 

Ed era pure delicato sulle curve, senza farla finire schiacciata contro la portiera come la maggior parte dei suoi colleghi.

 

Stranamente, a poco a poco, pure mentre gli dava gli ordini e lui rimaneva muto come un pesce, eseguendoli, l’atmosfera si fece più rilassata. Non solo vedeva che lui non era più teso come un fuso, ma si trovò quasi a dispiacersi quando arrivarono davanti a casa, perché forse per la guida, forse per il silenzio totale, ma quei minuti in auto erano stati quasi meglio di un calmante per lei.

 

Fermò la macchina e lo vide schizzare fuori dall’abitacolo, in uno scatto inatteso, per aprirle la portiera, sempre con quei modi che sembrava quasi un paggio che attendeva che la sua signora scendesse dalla carrozza.

 

O forse un cavaliere.

 

Scuotendo il capo di fronte a quel paragone assurdo, lo salutò con un laconico, “buonanotte!” a cui lui rispose con un “buonanotte!” un poco timido, prima di risalire in auto e ripartire con la sua solita prudenza, ma almeno senza la lentezza da bradipo.

 

Con un sospiro, cercò le chiavi in borsa e stava per infilarle nella toppa del portoncino quando un “Imma!” la fece voltare.

 

Sorrise alla vista di Pietro, che stava appoggiando i sacchetti della raccolta differenziata vicino all’ingresso, ma, essendo in ombra, non lo aveva neanche notato.

 

“Finalmente: cominciavo a preoccuparmi! Dove sei stata fino a quest’ora?”

 

“Eh… e dove vuoi che sono stata? In procura! Il procuratore capo mi ha dato una pila di carte da finire entro domani, e dovevo portarmi avanti. Ancora non ho terminato, figurati!”

 

Pietro sorrise, ma poi le chiese, con uno sguardo e tono curiosi, “ma con chi è che sei tornata?”

 

“L’appuntato Calogiuri,” rispose, mentre girava la chiave nella toppa: col freddo che faceva preferiva entrare in casa e non stare lì a fare salotto.


“Ma è uno nuovo? Non credo di avertelo mai sentito nominare prima.”

 

“Sì… saranno un paio di mesi che lavora qua,” gli rispose, cominciando ad avviarsi per le scale.


“E com’è?” le domandò, e oltre alla curiosità c’era un qualcosa di strano nella voce.

 

Si chiese per un secondo se fosse geloso. Non lo era mai stato, a parte che di gente come Capozza c’era ben poco da ingelosirsi e comunque nessuno a parte lui si era mai interessato a lei in quel senso, quindi….

 

Ma forse, nella penombra, non aveva visto quanto fosse giovane l’appuntato, ed in effetti come altezza e fisico era leggermente meglio di Capozza.

 

“Lento,” gli rispose e Pietro immediatamente scoppiò a ridere, redarguendola con un “Imma!”

 

“E Pietro, che ti devo dire? Lento è lento. Ma almeno pare avere voglia di lavorare, fin troppa! Ha pure insistito perché non tornassi a casa da sola, dicendo che è pericoloso, manco Matera fosse il Bronx.”

 

“Non sarà il Bronx ma sto appuntato tutti i torti non li tiene. E sono felice che gli hai dato retta, visto che quando te lo dico io fai sempre storie e non ti vuoi mettere in testa la posizione che hai!”

 

“Mi ci mancava solo la predica, mo!” sospirò, ma poi si sentì abbracciare da dietro ed un bacio sulla guancia, che la fece esclamare, ridendo, “e dai, Pietro, che ci manca che cadiamo dalle scale!”

 

“Lo sai che mi preoccupo per te e per Valentina,” le sussurrò e c’era qualcosa, nel modo in cui lo disse, che le fece venire un nodo in gola.

 

Raggiunto il pianerottolo, si voltò e gli piantò un bel bacio.

 

“Allora, che cosa hai preparato di buono? Che sono affamata!”


“La pasta al forno che ti piace tanto. Se vuoi andare a cambiarti, io intanto te la scaldo,” le rispose, premuroso come sempre, ed Imma gli diede un altro bacio, prima di aprire la porta di casa, pensando a quanto fosse fortunata.

 

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“Pronto? Ma dov’eri finito?”

 

“Scusa, Maria Luì, ma sto in macchina, sto tornando in caserma, ho finito mo di lavorare.”

 

“Ma sono quasi le dieci! Ca’ stavi facendo?”

 

“Dovevo finire un rapporto e-”

 

“E non capisco che ci sei andato a fare lì, a fare lo schiavo! Quando è che torni?”

 

“Dopodomani,” rispose, anche se il tono scettico di Maria Luisa quando si trattava del suo lavoro un poco gli dispiaceva.

 

“Mi prendesti già il regalo?”

 

“Sì, sì.”

 

“Quello che ti chiesi io? Ca’ si no nun c’azzecchi mai!”

 

Sospirò, perché era l’unico regalo che aveva preso fino ad allora, ma sapeva com’era fatta Maria Luisa e non voleva rischiare di non trovarlo.

 

“Sì, sì, quello t’ho preso.”

 

“Bene! Vien’ ambress e fai il bravo!”

 

“E dai, Maria Luì, lo sai che ti amo!”

 

Ci fu un attimo di silenzio, tanto che pensò che fosse caduta la linea e poi sentì un “ci vediamo presto! Mo devo andare!” che gli lasciò un poco di amaro in bocca.

 

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Entrò di soppiatto, gli pareva di essere un ladro.

 

La dottoressa gli aveva ordinato di andarsene in caserma ma non aveva detto nulla su a che ora poteva tornarci in procura.


E così, alle sei di mattina, era fortunosamente riuscito a farsi aprire e mo stava di nuovo a lavorare a computer.

 

Già la dottoressa lo reputava lento, non voleva mancare alla parola data, doversi fare aiutare da un collega. Era la prima ad avergli dato la possibilità di fare qualcosa in più dell’autista o dello scribacchino. E, anche se il giorno prima, quando gli aveva chiesto di fare lui le domande, per poco non gli aveva preso un colpo, era già qualcosa e non voleva deluderla e fallire al primo incarico che gli aveva dato.

 

Pure se lo metteva in agitazione più di chiunque altro in procura, del resto aveva fama di essere severissima - e lo era - ma, allo stesso tempo, quando si era seduta accanto a lui in auto per dargli indicazioni, per qualche strano motivo, forse perché non poteva vedere gli occhi di lei nel retrovisore, che sembravano spiare ogni sua mossa, si era sentito stranamente tranquillo, a suo agio, anche se averla così vicino, in un modo così apparentemente informale, all’inizio lo aveva imbarazzato ancora di più.

 

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Salì le scale, con già un diavolo per capello: aveva visto la Moliterni e il procuratore capo parlottare vicino alla macchina del caffè.

 

Perché al procuratore capo se la signora Moliterni stava praticamente già in pausa natalizia - se mai aveva lavorato - non importava, mentre a lei toccava starsene sommersa dai faldoni fino all’ultimo.

 

Aprì la porta dell’ufficio, ci entrò e sbattè la porta dietro di sé.

 

“Ciao Imma! Sempre di buonumore, eh?!”

 

La voce sarcastica di Diana la accolse, mentre marciava verso la scrivania.

 

Si bloccò di colpo, perché c’era un faldone piazzato in mezzo alla scrivania, non impilato come gli altri.

 

Per un secondo si chiese se la Moliterni, miracolosamente, le avesse recuperato quello che le aveva chiesto prima di mettersi a fare il bar con il procuratore capo.

 

Roba quasi da ricominciare a credere a Babbo Natale.

 

Ma lo aprì e ci trovò un fascicolo, pure rilegato separatamente, scritto a computer, che non risaliva al ‘97, ma a poche ore prima.

 

La trascrizione degli interrogatori del giorno precedente.

 

La fece scorrere e c’erano parecchie pagine dopo il punto a cui era arrivato l’appuntato.

 

Chissà a che ora si era svegliato per finirla, o se aveva trasgredito all’ordine!

 

Però, stranamente, l’eventuale trasgressione non la irritò, anzi: il ragazzo c’aveva voglia di fare, una rarità in quella procura.

 

Sebbene avrebbe dovuto fare tutt’altro, si mise a rileggere la trascrizione e la trovò corretta, corrispondente a quanto ricordava, senza errori di battitura. Non come quel cretino di Capozza, che le infilava sempre uno strafalcione dietro l’altro.

 

Quasi in automatico, invece di proseguire con le carte che la attendevano, accese il computer ed accedette ad una di quelle banche dati sulle quali di solito lavoravano altri per lei.

 

Cercò per un poco, perché non ne sapeva il nome di battesimo, ma alla fine trovò lo stato di servizio dell’appuntato e la sua carta d’identità.


Calogiuri Ippazio.

 

Le venne da sorridere: ecco perché si era sempre e solo presentato col cognome.

 

Fece scorrere e trovò la data di nascita, avendo conferma di quanto fosse giovane - beato lui! - e scoprendo che aveva rischiato quasi di nascere a capodanno.

 

Seguirono l’indirizzo di residenza, che ancora stava nella sconosciuta Grottaminarda, ed un breve riassunto delle sue esperienze lavorative pregresse.

 

Ci vide citato operaio e meccanico, del resto aveva fatto scuole tecniche in proposito.

 

Una parte di lei si chiese perché stesse facendo quella ricerca, ma doveva essere prudente con il ragazzo, prima di affidargli nuovi incarichi. Sembrava tanto ingenuo, sì, ma sapeva per esperienza che a volte le acque chete erano le più pericolose.

 

E realizzò in quel momento che sì, salvo avesse scoperto particolari scheletri nell’armadio, se lo sarebbe portato con sé nel prossimo caso che le fosse capitato. Non fosse altro che perché sarebbe per una volta arrivata sulla scena del crimine senza lo stomaco sottosopra ed avrebbe avuto i rapporti per tempo, senza doverli sollecitare mille volte.

 

Anche se forse avrebbe dovuto dargliene un poco più di tempo, la prossima volta.

 

Con un sospiro, aprì il sito delle mappe e cercò l’indirizzo di Grottaminarda. Si trovò davanti ad un puntolino circondato dal niente, anzi, dalle campagne, a giudicare dalla foto dal satellite, non troppo distante da un paesino al cui confronto Matera era una megalopoli.

 

L’indirizzo era intestato ad un’azienda agricola.

 

Insomma, un ragazzo di campagna.

 

Fece un’ultima ricerca, sul sito della camera di commercio e trovò i pochi dati disponibili sulla società, essendo una società in nome collettivo, e quindi non tenuta a depositare i bilanci.

 

Il capitale era minimo, c’erano due soci entrambi col cognome Calogiuri. A giudicare dall’età, presumibilmente il padre e forse un fratello o uno zio particolarmente giovane.

 

O erano evasori o erano poveri.

 

Le venne in mente il giubbotto un po’ scolorito dell’appuntato e pure il modello di cellulare, vecchio, e decise per la seconda.

 

Ecco perché non aveva nemmeno un computer personale e non lo sapeva usare bene: probabilmente, se pure la famiglia ne aveva uno, se lo era sempre diviso con i fratelli.

 

Ed ecco perché aveva così tanta voglia di lavorare: a differenza dei suoi coetanei - e di quella impunita di sua figlia, che alla sua età rompeva per avere il computer nuovo, come se quello che già teneva non bastasse! - aveva fame, quella fame che aveva spinto pure lei a fare la carriera che aveva fatto, nonostante i limiti e tutti gli ostacoli che le avevano piazzato sulla strada e-

 

In quel momento, un “Imma!” per poco non le fece pigliare un accidenti e chiuse in fretta le pagine aperte sul computer, mentre Diana si avvicinava a lei.

 

Si chiese perché si sentisse così in colpa a farsi beccare a cercare informazioni su un sottoposto, anche se era certa che Diana non avesse fatto in tempo a cogliere nulla.

 

E mentre la sua cancelliera le diceva di avere finalmente ricevuto la versione in file del documento del ‘97, Imma decise che, sì, al prossimo sopralluogo ci avrebbe portato l’appuntato Calogiuri.

 

Magari non al prossimo inseguimento.

 

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Solo a guardare la vetrina le prese un colpo.

 

I prezzi di quel negozio erano da rapina, ma purtroppo era il preferito di Valentina, ovviamente incitata da quella snob della sua amica Bea e dai genitori di quest’ultima, che pareva che i soldi crescessero loro sugli alberi, per quanto li spendevano.

 

Si voltò per avviarsi verso l’ingresso del negozio, rassegnata, quando si scontrò con qualcuno, che stava camminando sul marciapiede.

 

“E stia attento, porca miseria!”

 

“Scu- scusatemi….”

 

Lo riconobbe dalla voce e dal balbettio, oltre che dal voi, prima ancora di vederlo: l’appuntato Calogiuri, nuovamente paonazzo, che la guardava con aria mortificatissima, manco avesse appena ucciso qualcuno.

 

“Calogiuri? E che ci fai qui? Non dovevi stare già a Grottaminarda?”

 

“Sì, ma… devo ancora prendere gli ultimi regali e quindi partirò nel primo pomeriggio, che se no a Grottaminarda rischio di trovare poco o niente, così vicino al natale.”

 

“Non dirmi che ti sei ridotto all’ultimo con gli acquisti perché dovevi lavorare fino a tardi? Che mi vuoi far sentire in colpa?”

 

“No, no!” esclamò lui, con quella decisione che saltava fuori raramente ma che, proprio per questo, la faceva sobbalzare ogni volta, “è soltanto colpa mia che… ci metto troppo tempo a fare le cose. Ma migliorerò!”

 

Le venne da sorridere: in un mondo in cui i ragazzi della sua età si sentivano dei luminari già al primo giorno di lavoro e non accettavano correzioni, l’appuntato era consapevole dei suoi limiti ma faceva di tutto per superarli.

 

“Che devi comprare?” gli domandò, quasi senza nemmeno rendersene conto.

 

“Un regalo per mia sorella-”

 

“Quella appassionata di musica metal?”

 

“Sì, sì,” le rispose, toccandosi il collo, “ma ormai si sta per sposare e ha gusti più tranquilli. E poi pure un regalo per mia madre, uno per mio padre e uno per mio fratello.”

 

“Insomma… più che dover finire coi regali, diciamo pure che non li hai nemmeno cominciati,” sospirò, anche se lo capiva, perché lei detestava le feste comandate e si riduceva sempre in corner, “ascolta, cosa vorresti prendere?”


“Mah… non lo so… qualcosa da vestire magari. E qualche cosa tipico di Matera, che mamma era curiosa sulla cucina.”

 

“C’hai da prendere nota?” gli domandò e lui, manco a dirlo, estrasse un altro di quei taccuini, blu stavolta, e non nero.

 

Gli diede due nomi e due indirizzi e lui sembrò stupito ma segnò tutto.

 

“Il primo è un negozio che vende vestiti e accessori di ogni genere, magari non elegantissimi, ma a un buon prezzo e fa saldi ai clienti abituali già prima di natale. Il secondo è il mio pizzicagnolo di fiducia. Dì ad entrambi che stai facendo commissioni per me, e se il negozio di abbigliamento prova a non farti lo sconto, mi avvisi che mi sentono. Va bene?”

 

L’appuntato parve ancora più sorpreso ed in un imbarazzo quasi da fumetto, ma bofonchiò un, “va- va bene, vi ringrazio tantissimo!” di risposta.

 

“E dai, Calogiuri, che aspetti?! Veloce! Su!” lo congedò, facendo segno di andare.

 

L’appuntato balbettò un altro “sì!” e con un “tanti auguri, dottoressa!” sparì nella folla di ritardatari che li circondavano.

 

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“Grazie figliolo!”

 

Il sorriso soddisfatto di suo padre di fronte al maglione nuovo che gli aveva preso lo rassicurò.

 

Sembravano tutti aver gradito quello che aveva comprato loro, e aveva pure speso, per fortuna, assai meno del previsto.

 

Gli venne spontaneo pensare per un attimo alla dottoressa e si chiese come mai lo avesse aiutato, nonostante il carattere che teneva.

 

Ma, in fondo, a modo suo a volte era gentile, anche se continuava a fargli un poco paura. Tipo con Rebecca, quando l’aveva abbracciata, era stata molto... materna e quasi dolce.

 

“A che stai pensando?”

 

Sobbalzò quasi dalla sorpresa: Maria Luisa.

 

“Ai regali… ti è piaciuto il tuo?” le rispose e lei, mostrando il braccialetto che tanto le piaceva e che gli era costato mezzo stipendio da solo, se non pure di più, annuì.

 

“Sì, ma… magari la prossima volta… dal braccialetto puoi scendere un poco più in giù,” gli rispose, muovendo avanti e indietro il dito anulare della mano sinistra, in quello che era un chiaro messaggio, “il tempo passa, Ippà!”

 

“Lo so, lo so, ma… vorrei avere più soldi da parte, lo sai, avere una posizione più stabile e-”


“E aspetta e spera! Con il lavoro che fai!” sospirò lei, incrociando le braccia al petto, come faceva quando era delusa da qualcosa.


“Ma almeno ho uno stipendio fisso, Maria Luì, cosa che non ho avuto mai. Non sei contenta?”

 

“Però tu stai sempre lontano e ci possiamo bberè ‘na vota ogni morte ‘e papa! E poi, diciamoci la verità, Ippà, ma tu chisto lo vedi come un lavoro che tiene ‘na prospettiva futura?””

 

Sentì come un colpo al cuore, una specie di delusione che gli saliva in gola. Non sapeva se sarebbe riuscito in quel lavoro, ma per lui era la prospettiva di una vita migliore e… e lei invece pensava che avrebbe fallito, come sempre.

 

Ma poi si sentì prendere per il viso ed il bacio di Maria Luisa cancellò quella brutta sensazione.

 

Almeno quasi del tutto.

 

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“Mà, ma questo è della collezione dell’anno scorso! Ormai nessuno lo mette più!”

 

Le bastò quella frase per farle andare di traverso il cenone.

 

Sì, il maglione che aveva regalato a Valentì stava già scontato ed era quindi probabilmente dell’anno prima. Ma era della marca che tanto le piaceva e non costava come uno stipendio.

 

“Se era buono l’anno scorso, è buono pure quest’anno! E quando ti guadagnerai i tuoi soldi, signorina, allora potrai permetterti di lavorare un mese per un maglione, se ci tieni tanto, ma-”

 

“Ma non era quello che ti avevo chiesto, mà! E non è un mese del tuo stipendio, ma manco dieci giorni!”

 

L’istinto di tirarle un ceffone, da sempre contenuto all’ultimo, era straripante, ma Pietro la bloccò abbracciandola da dietro.


“Valentì, un regalo è un regalo e bisogna ringraziare!” la redarguì, in uno dei rarissimi momenti di autorità paterna, prima di sussurrarle in un orecchio “e calmati dai! Che lo sai che mà non aspetta altro!”

 

Effettivamente sua suocera la guardava già dall’alto in basso, con il suo di pacchetto in mano, come la plebea che la riteneva.

 

Valentina lo scartò e ci trovò dei pantaloni costosissimi - l’altro regalo che aveva chiesto,- e pure il famoso maglione che aveva domandato a lei.

 

“Grazie nonna!! Sei la migliore!!” esclamò Valentina, baciandosela e abbracciandosela, mentre la suocera le lanciava un’occhiata trionfale.

 

“E menomale che ti dovevi raccomandare con tua madre sui regali troppo costosi,” sibilò a Pietro, che la mollò, con aria preoccupata.


“E dai, amò! I soldi sono di mia madre, mica posso impedirle di spenderli!”

 

“Sì, se è diseducativo, per sua nipote che è minorenne. E certe cose bisogna imparare a guadagnarsele!”

 

Pietro, per tutta risposta, le presentò un pacco, forse un tentativo in extremis di distrarla.


Lo aprì e ci trovò la borsa da lavoro leopardata che le piaceva tanto, ma che era troppo cara per il suo budget.

 

Un poco si sentì in colpa, rispetto al costo del maglione che gli aveva preso lei, come al solito, ma a lei i risvolti consumistici del natale erano sempre stati sul gozzo.

 

Gli diede un bacio per ringraziarlo e lui le sussurrò in un orecchio, “che ne dici se mo ce ne torniamo a casa? Valentì può passare la notte dai nonni, che tanto domani a pranzo di nuovo qua stiamo, e noi….”

 

“Che c’avresti in mente?” gli domandò, mordendosi il labbro.

“Tante cose, con la casa libera….”

 

Imma, ignorando l’occhiataccia di sua suocera e quella di Valentina, ringraziò molto fintamente per la cena e la bella serata e non perse tempo a congedarsi, trascinandolo con sé.

 

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“Non pensi che Valentina sia un po’ grande ormai?”

 

Pietro stava incartando religiosamente gli oggetti da mettere nella calza della befana, che avrebbe consegnato a Valentina di lì a due giorni. Mo era fuori con la cara Bea.

 

“Non si è mai troppo grandi per questo. Mi vuoi dare una mano?” le chiese con un sorriso ed Imma sospirò e si sedette accanto a lui, mettendosi ad impacchettare e incalzettare.

 

Stava incartando un pezzetto di carbone dolce - che Valentì si sarebbe meritata un ciocco di quello vero, si sarebbe! - quando il telefono di Pietro squillò insistentemente, in una serie di messaggi.

 

Lui prese il telefono ed iniziò a rispondere alacremente, dimenticandosi quasi delle decorazioni.

 

“Chi è che ti scrive in vacanza?” gli chiese, perché fidarsi era bene ma non fidarsi era meglio.

 

“Il mio collega Ridolfi. Sta organizzando un corso sull’utilizzo del computer, sai i software principali, finanziato dalla regione per i dipendenti pubblici, soprattutto quelli regionali.”

 

“Sì, e così poi ti lasciano senza lavoro?” scherzò lei, un poco sollevata.


“Ma figurati! Per quello altro che un corso ci vorrebbe, servirebbe un miracolo! Dovresti vedere come sono messi la maggior parte di quelli che mi chiedono assistenza: lentissimi, alcuni ancora un po’ non sono manco capaci di aprire un file. E vedessi che mail si scaricano, piene di virus, convinti che siano mail vere e-”

 

Ma Imma già non stava ascoltando più e non solo perché l’informatica la annoiava da morire ma perché, soprattutto, un’illuminazione le si era accesa come una lampadina in testa.

 

“Piè, ma il corso lo tiene solo Ridolfi o pure tu?”

 

“No, no, per carità, se lo becca Ridolfi, che io tengo già abbastanza lavori da fare!”

 

Eh, certo! - pensò lei, sarcasticamente, che Pietro di lavoro non si era mai ammazzato, anche se le dava una mano enorme con Valentina e quindi alla fine da fare ne aveva eccome.

 

“Ma possono partecipare tutti i dipendenti pubblici, hai detto?”

 

“Sì, sì. Forse saranno inclusi pure gli over sessantacinque e gli studenti, ma dipende dai posti liberi, sai, teniamo un numero limitato di computer. Ma perché ti interessa? Per caso vuoi iscriverti pure tu?”

 

“Non sfottere! E comunque no, ma certo servirebbe a parecchia gente in procura.”

 

Pietro rise ma poi le diede un bacio, a cui Imma si aggrappò più che volentieri.

 

“La calza di Valentì può aspettare ancora un poco?” gli sussurrò e lui rise di nuovo ed annuì.

 

Si tirò in piedi e lo trascinò verso la stanza da letto.

 

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Accese la luce: era il primo ad arrivare, come al solito.

 

Sbadigliando, avviò il computer, intenzionato a recuperare le mail arretrate durante le vacanze, pure se, per fortuna, ce n’erano poche.

 

Ma, tra tutte, una gli balzò agli occhi, spedita pochi giorni prima ed il mittente era la dottoressa.

 

Ci cliccò subito sopra, preoccupato di non aver fatto qualcosa correttamente, magari nei documenti che le aveva lasciato prima delle vacanze.

 

Se ti può interessare…

ps. Non è un ordine, ma solamente un consiglio per evitarti altre nottate in procura, che la corrente costa!

 

Aprì il link appena sotto e ci trovò una pagina per iscriversi ad un corso di computer gratuito.

 

Non sapeva bene cosa pensare o come prenderla, ma gli venne da sorridere, cliccò immediatamente sul modulo di iscrizione, per compilarlo, promettendosi che l’avrebbe poi ringraziata personalmente, non appena l’avesse rivista.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine del primo capitolo di questa sorpresa natalizia. Sarà una storia in due capitoli, nel prossimo vedremo come si evoluto il rapporto tra Imma e Calogiuri in un anno e quindi intorno al periodo di natale dell’anno che abbiamo “vissuto” con la prima stagione della fiction. Vi anticipo che vedremo un evento assai infausto per Calogiuri e pure per Imma, che ovviamente le festività le trascorrono in due luoghi geograficamente assai diversi.
Spero che vi possa piacere e tenervi compagnia in questo giorni così strani. Poiché domenica prossima ci sarà il nuovo capitolo di “Nessun Alibi”, l’ultimo capitolo di questa storia breve dovrebbe giungere o il 7 o il 10 di gennaio. Anzi, segnalatemi voi quando preferireste leggerla.

Grazie mille!

 

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Capitolo 2
*** Veloce ***


Natali


Capitolo 2 - Veloce


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Un colpo, sparato a bruciapelo. Gli ha preso il cuore, penso, vista l’altezza del proiettile, e poi è uscito, incastrandosi nel cuscino del divano. Calibro piccolo, forse 22 ma verificheremo. Penso sia morto quasi istantaneamente ma le saprò dire di più dopo l’autopsia.”

 

“Che avrò sulla mia scrivania domani, non è vero?” gli chiese, lanciando a Taccardi la migliore delle sue occhiatacce.

 

Un morto in una villetta fuori Matera. Bruno Mosca, 65 anni, ex dirigente di banca ormai in pensione. Viveva solo, divorziato da anni, mai avuti figli. L’aveva ritrovato Nur, la donna di servizio, quando era venuta come al solito al mattino a fare le pulizie. Mo piangeva sconvolta in un angolo della stanza, vicino ad una pila di oggetti sparsi per terra.

 

La casa era tutta uno sfacelo, forse una rapina finita male.

 

“Dottoressa, ma che pensa che c’ho soltanto lei come cliente, se così si può dire?”


“No, ma tra poco viene natale e-”

 

“E tanto il morto è morto e possiamo pure attendere di mangiare il panettone, dottoressa.”

 

“Taccardi, lo sa pure lei che in un delitto le prime quarantotto ore sono spesso fondamentali. Quindi no, il panettone lo mangeremo dopo che avremo risolto questo caso. Prima mi dà l’autopsia con tutti i referti, prima potrà mangiarsene una bella fetta.”

 

“Sì, alla sua salute!” sospirò Taccardi, levandosi da lì ed Imma fece le corna, che non si sapeva mai.

 

“Dottoressa!”

 

Si voltò verso la voce, chiedendosi se il suo proprietario fosse rimasto scandalizzato dal gesto scaramantico, ma Calogiuri le stava semplicemente indicando un punto vicino ad una credenza, attaccata alla parete, all’altezza del divano su cui lei stava ancora osservando il corpo prima che lo portassero via.

 

“Forse… forse ho trovato qualche cosa,” le disse, continuando a puntare una zona verso il pavimento, con quel tono che Imma sapeva significasse che aveva sicuramente trovato qualcosa di importante e molto.

 

Si avvicinò, ignorando la strana sensazione che le dava quando le era accanto fisicamente - alla fine era un bel ragazzo e lei gli occhi ce li aveva, funzionanti, e pure tutti gli altri sensi! - e si abbassò insieme a lui verso una specie di macchia rossa, molto irregolare, mezza appena davanti alla credenza, mezza appena sotto.


“A… a me pare un’orma di una scarpa di quelle col tacco, cioè, il davanti,” spiegò Calogiuri ed Imma, vedendo la forma quasi triangolare della parte in cui si intravedeva la piastrella, in mezzo alla zona dove il rosso era più denso, dovette dargli ragione.

 

“E… e poi… all’inizio pensavo che magari era dell’altro sangue, che essendo in ombra sembrava più scuro ma… a me pare proprio vino rosso. Magari mi sbaglio, eh, ma-” proseguì, sempre un poco incerto, finché lei gli fece segno con la mano di interrompersi.

 

“E no, c’hai ragione, Calogiuri, questo pare proprio vino rosso. Bravo!” si complimentò, non potendo evitare di sorridergli e pure lui le sorrise di rimando, anche se timidamente, ma proprio per questo in maniera più pericolosa per lei e per i suoi propositi di ignorare quelle sensazioni strane che l’appuntato le provocava, soprattutto da un paio di mesi, da quando si era avvicinato troppo per mostrarle una mappa.

 

“Ma qua in giro non ci sta né il vino né i bicchieri,” finì il ragionamento, indicandole gli oggetti sparsi per la stanza.

 

Stava proprio diventando bravo, Calogiuri, molto percettivo e sveglio, nonostante a volte fosse ancora un poco un bradipo.


“E bravo, Calogiuri!” annuì, sorridendogli di nuovo e chiedendosi dove fossero i pezzi mancanti.

 

Si tirò in piedi ed andò verso la donna che li aveva chiamati.


“Nur, ascolta, tu hai toccato qualcosa stamattina? Magari per pulire?”


“No… no… io quando ho visto… tutto fuori posto vi ho chiamati subito,” rispose la ragazza, pur con la voce ancora spezzata.

 

“Quindi niente vino? Due calici, magari?” le chiese di nuovo e la ragazza scosse il capo.

 

Imma, presa da uno dei suoi impulsi istintivi, si avviò a passo svelto verso la zona cucina e verso la lavastoviglie. Fece un cenno a Calogiuri, che sapeva essere alle sue spalle, e lui, che aveva i guanti, la aprì.

 

Come temeva: dal nugolo di vapore che si sprigionò e dalle spie luminose, era evidente che fosse stata accesa qualche ora prima, forse la sera prima. Nella parte superiore c’erano proprio due calici da vino.

 

“Nur, l’ha accesa lei la lavastoviglie?” le chiese a voce alta, per conferma, anche se conosceva già la risposta.

 

La ragazza si avvicinò, accompagnata da uno degli agenti del posto.

 

“No, no. Poi… poi signor Bruno non voleva che lavavo bicchieri del vino in lavastoviglie, che si rovinavano. E me la faceva accendere solo se era piena, per risparmiare.”

 

Non che Imma non capisse benissimo la vittima, perché pure lei era tale e quale, ma quindi qualcuno aveva lavato di proposito quei bicchieri.

 

Si rivolse verso uno degli agenti della scientifica, bardati da capo a piedi nella loro tuta, e gli disse, “bisogna repertare questi due calici. Secondo lei è possibile cavarci qualcosa?”

 

“La lavastoviglie lava ad una gradazione abbastanza alta… se c’erano solo tracce di saliva o impronte è molto improbabile. Ma possiamo provarci,” spiegò il ragazzo, apprestandosi a fare il lavoro che gli aveva chiesto.

 

Sentì un rumore alla sua destra e vide Calogiuri che apriva gli armadietti sotto al lavabo e poi quello che sembrava essere il cestino della spazzatura.

 

“Dottoressa, guardi!” esclamò, con tono soddisfatto, ed Imma vide, in cima alla pila di immondizia, il blister di alluminio di una pastiglia di detersivo per la lavastoviglie.

 

Sorrise di nuovo, sentendosi un po’ scema, ma Calogiuri la stupiva sempre di più, in positivo. Aveva fatto dei passi da gigante in quell’anno e continuava a farne. E lei ne era fin troppo orgogliosa.

 

“Bravo, Calogiuri!” esclamò, prima di rivolgersi al ragazzo della scientifica, “poi fate analizzare in via prioritaria questo incarto, il cestino e pure questi armadietti.”

 

“Naturalmente, dottoressa.”

 

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“Volete la birra, dottoressa?”

 

“Meglio di no, Calogiuri, che qua dobbiamo stare svegli,” gli rispose, mentre lui riponeva la bottiglia di vetro e le passava dal sacchetto una di acqua naturale.

 

Erano nell’auto di servizio a mangiarsi un panino, che voleva finire il sopralluogo prima di tornare in città.

 

“Dai, che se mangiamo veloce magari riusciamo a rientrare ad un’ora decente. Che tra poco è natale e non voglio che finisci come l’anno scorso a comprare tutto all’ultimo per colpa mia,” lo prese in giro e Calogiuri divenne leggermente rosa.

 

“No, dottoressa, cosa dite? Anzi, l’anno scorso siete stata gentilissima! La lezione però l’ho imparata e quest’anno ho già comprato tutti i regali, tranne uno,” le rispose e, dietro il sorriso, colse una specie di strana esitazione in quel tranne uno. Le dava l’impressione di volerle chiedere qualcosa ma di non osare farlo.

 

Lo guardò, con gli occhi spalancati, annuendo, come a dirgli di andare avanti.

 

“Quello… quello per Maria Luisa,” concluse finalmente, provocandole un moto di fastidio al solo sentirla nominare, quella cretina!

 

Che c’aveva un ragazzo meraviglioso e lo trattava come un imbecille, mentre l’unica imbecille era lei!

 

Mandò giù il nervoso verso la ragazza sconosciuta - ma detestata - con un altro morso di panino ed un sorso d’acqua.

 

“Come mai?” gli chiese poi, quando fu sicura di avere un tono più neutro, “non hai idee?”

 

“No, no… cioè… so che cosa vorrebbe Maria Luisa ma… non so se sia il caso, con tutto quello che è successo negli ultimi mesi, dottoressa,” spiegò, sembrando imbarazzato ma pure preoccupato.

 

“Ma non andava di nuovo tutto bene tra voi, mo?” gli chiese, con una lieve speranza che lui dicesse di no, che non andava tutto bene, che si era svegliato ed aveva capito di meritare di meglio.

 

“Sì, sì, va meglio, ma… ci vediamo poco, dottoressa e mi sento… un poco confuso,” ammise ed una parte di lei si chiese se fosse confuso in generale, o magari perché gli piacesse qualcun’altra.

 

Al pensiero, sentì il cuore batterle un poco più forte, anche se sapeva che era un pensiero assurdo: figuriamoci se un ragazzo del genere, un “bello giovane”, come avrebbe detto sua madre, oltretutto intelligente, poteva interessarsi a lei. Uno così manco quando aveva avuto vent’anni l’avrebbe mai notata.

 

“Come… come avete capito che vostro marito era l’uomo giusto per voi?”

 

Per poco non le cascò il panino di mano: Calogiuri aveva sparato quella domanda, a bruciapelo, quasi come il proiettile che aveva ucciso il Mosca.

 

Dire che ne fu sorpresa era poco, e pure in imbarazzo. Calogiuri non aveva mai osato chiederle niente di personale fino ad allora.

 

Ma, del resto, se lei gli domandava della fidanzata sua, pure lui poteva domandarle di Pietro, anche perché… era chiaro che la vedesse come qualcuno da cui prendere esempio, come una figura quasi materna.

 

Soffocò una parte di lei che ci aggiunse un purtroppo!.

 

La verità era che non aveva avuto molte alternative: Pietro era stato il primo e l’unico ad interessarsi a lei. Ma non voleva certo ammettere con Calogiuri quanto fosse stata sfigata in gioventù - non che mo lo fosse molto meno, anzi.

 

“Perché è l’unico che mi sopporta,” gli rispose quindi, in quella che era la cosa più vicina alla verità che potesse esprimere.

 

“Ma no, non è vero!” esclamò lui, sorprendendola nuovamente, soprattutto per l’enfasi, “pure io-”

 

Si bloccò improvvisamente, divenne rosso, parve quasi spaventato ed esclamò, agitando le mani, “cioè, non nel senso che vi sopporto e basta!”

 

Altro momento di pausa e poi, ancora più fucsia, si affrettò di nuovo a precisare, “cioè, non nel senso come il rapporto con vostro marito, ma-”

 

Rise, perché non poteva evitarlo: le faceva una tenerezza incredibile quando si incartava in quel modo. Anche se… il paragonarsi a Pietro invece le faceva piacere, eccome, pure se sapeva che non intendeva in quel senso.

 

“Tranquillo, Calogiù, tranquillo! E poi c’hai ragione: sei l’unico che mi sopporta in procura. Ma pure fuori dalla procura.”

 

“Sono sicuro che altre persone vi apprezzano, invece, e poi… e poi pure voi siete l’unica persona che ci crede in me.”

 

Un’altra fitta di tenerezza: o il mondo si era rinscimunito o non era davvero possibile.

 

“Ma come? E la tua famiglia? E Maria Luisa?” gli chiese, dispiaciuta per lui.

 

“Forse mia sorella è l’unica che ha un poco di fiducia in me. Maria Luisa… non ama molto il mio lavoro: dice che è pericoloso e che sto troppo lontano da lei.”

 

“Sulla lontananza, la posso pure capire, Calogiuri,” ammise, perché pure lei, al posto di Maria Luisa, avrebbe voluto averlo vicino il più possibile, “ma pure io sono stata un paio d’anni lontana dalla mia famiglia, agli inizi, prima di poter essere trasferita qua a Matera. E ci vedevamo solo nei fine settimana. Devi pensare al tuo futuro e ci dovrebbe pensare pure Maria Luisa, no?”

 

Calogiuri annuì, con sguardo un poco triste, sembrò esitare un attimo e poi aggiunse, “per il regalo… cioè… in realtà sono indeciso perché…”

 

Ma in quel momento gli squillò il cellulare, interrompendo le confidenze e rompendo quell’atmosfera.

 

“Va bene… va bene… riferisco,” lo sentì pronunciare e poi le rivolse un sorriso soddisfatto, “hanno trovato qualcosa sull’incarto della lavastoviglie e sul cestino. Delle impronte. Appartengono ad una ragazza bielorussa, Darja Masiuk. A quanto pare è arrivata in Italia un paio di anni fa, per questo le sono state prese le impronte. Aveva un visto turistico ma poi è sparita.”

 

“Dobbiamo provare a rintracciarla, Calogiuri. Devi metterti al lavoro subito. Io resto qua a vedere se scoprono ancora qualcosa, tu torna in procura che lavori meglio. Appena hai aggiornamenti me lo fai sapere subito, va bene?”

 

“Va bene.”

 

“Hai avuto un’ottima intuizione, bravo!” gli disse, prima di scendere dalla macchina e lui di nuovo le sorrise - ormai a parte agitarsi sembrava fare solo quello con lei - e si chiese se si immaginasse soltanto la traccia di dispiacere nello sguardo di lui nell’andare via.


Del resto ormai erano inseparabili, come le aveva fatto notare quella simpaticona della Moliterni, e pure a lei dispiaceva sempre dover lavorare con qualcuno che non fosse lui. Ma Calogiuri mo le era più utile in procura.

 

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“Sì, desidera?”

 

A saperlo! - pensò, perché non era sicuro di quello che stava per fare.

 

Per niente.

 

Ma dopo tanti anni… era la cosa giusta, o meglio, quella che tutti si aspettavano da lui. E magari… magari con quel gesto tutto sarebbe tornato a posto tra loro e sarebbero tornati quelli di una volta.

 

Anche se non era sicuro di voler tornare quello d’una volta.

 

“Signore, desidera?” ripetè la commessa, guardandolo come se avesse a che fare con un cretino.

 

E non era l’unica.

 

“Vo- volevo un anello. Un anello di fidanzamento,” si decise infine a pronunciare, anche se a fatica, ed il viso della commessa si trasformò in un sorriso.


“Qui abbiamo la scelta più vasta di Matera. Come lo vuole? Ha un’idea della forma? Dei carati?”

 

Per lui era tutto incomprensibile, peggio delle frasi latine che ogni tanto usava la dottoressa e che si faceva spiegare da lei. Solo una cosa sapeva.

 

“Non posso spendere più di mille euro,” rispose, perché era praticamente un suo stipendio e già aveva pochi risparmi da parte, non poteva bruciarseli tutti.

 

Il sorriso della ragazza diminuì considerevolmente. Forse si aspettava uno meno squattrinato di lui.

 

Ma estrasse comunque uno di quei rotoli contenente i gioielli e gliene mostrò di alcuni tipi, iniziando a descrivergli i tagli con dei termini che non capiva, anche perché i diamanti erano molto piccoli e quindi la differenza si notava ben poco. C’erano alcuni anche con più diamantini, in forme strane.

 

“Quale preferisce?”

 

“Non… non so….”

 

“Cosa potrebbe piacere alla sua ragazza? Che gioielli indossa di solito?”

 

“Non so… non me ne intendo…” rispose, anche perché pure Maria Luisa non è che navigasse nell’oro e di gioielli veri ne aveva pochi.

 

“E allora… provi ad immaginarsi uno di questi anelli al dito della sua fidanzata. Quale vede meglio? O quale potrebbe somigliarle?”

 

E che ne sapeva lui? La verità era che nessuno di quei gioielli secondo lui somigliava a Maria Luisa. E se provava ad immaginarsi nel consegnarle uno di quei gioielli… gli veniva soltanto una specie di sensazione di nausea. Forse l’ansia.

 

“Non lo so… lei cosa mi consiglia?”

 

“Mi descriva un poco la sua ragazza, il vostro rapporto…”


“Stiamo… stiamo insieme da tanti anni, da che eravamo ragazzini,” rispose, perché non trovava altre parole per descrivere il loro rapporto.

 

Che poteva dirle? Che litigavano spesso ultimamente? Che avevano appena fatto la pace dopo essersi lasciati? Che quell’anello ed il fare evolvere il loro rapporto erano forse l’ultima speranza per salvarlo?

 

“Capisco…” rispose la donna, con un sospiro, scuotendo il capo, prima di estrarre un anello e porgerglielo, “un solitario dalla forma molto semplice, classica. Mi sembra adatto a voi.”

 

Non sapeva se fosse un complimento o un insulto, c’era come una specie di tenerezza, che però… sembrava quasi compatimento.

 

Lo guardò - per lui un anello valeva l’altro - e cercò il prezzo. Era nel suo budget, si poteva fare.


“Va bene,” annuì, e la commessa gli chiese le misure della sua fidanzata, che si era segnato per non sbagliare e poi, dopo che ebbe pagato, gli impacchettò l’anello, glielo mise in un sacchettino e glielo porse.

 

“Allora tanti auguri!” gli disse, sempre con quel tono strano, e lui annuì.

 

Stava per uscire dal negozio quando, in una delle vetrinette blindate, intravide un gioiello enorme, un bracciale, a forma di leopardo, in oro giallo, con delle pietruzze nere che facevano le macchie e dei diamanti che ricoprivano il resto del corpo e gli venne da sorridere.

 

Gli ricordava tantissimo la dottoressa, le sarebbe stato pure bene, anche se non lo avrebbe potuto immaginare su nessun’altra.

 

“Quello temo sia di molto fuori dal suo budget,” sentì la voce della commessa, “ma da come sorride le auguro di poterlo regalare alla sua fidanzata un giorno. Magari quando sarà sua moglie.”

 

“Per curiosità, quanto costa?” le chiese, temendo il peggio, ma rimanendo comunque senza fiato quando la commessa rispose “cinquantamila. Ventiduemila senza diamanti.”

 

Più di una macchina, più di un acconto per una casa. Lui un gioiello del genere non se lo sarebbe potuto permettere neanche risparmiando una vita.

 

Magari il marito della dottoressa però sì. A parte che, per quel poco che la conosceva, lo avrebbe probabilmente ucciso se mai avesse speso tanto per una cosa del genere.

 

“Va bene… grazie…” la salutò, uscendo dal negozio prima di ricevere l’ennesimo sguardo compassionevole.

 

Fece in tempo a fare due passi e vide un’altra vetrina che attirò la sua attenzione. Una borsa stavolta, leopardata, e decisamente più abbordabile.

 

Si chiese se fosse il caso di fare un regalo alla dottoressa. Era stata così gentile con lui - soprattutto considerando il suo carattere - in quell’anno. Gli aveva insegnato moltissimo, gli aveva consentito di lavorare praticamente in tutti i suoi casi. E poi… e poi era stupido, ma sentiva come un legame con lei. Non era un’amicizia, perché la dottoressa gli era superiore, in tutti i sensi, non sarebbe mai stato al suo livello, ma… si capivano al volo, senza bisogno di parlare e lei lo ascoltava, pure se aveva ancora un poco paura a parlarle ma… lo ascoltava e non solo sul lavoro, ma pure sui suoi problemi, come non aveva mai fatto nessuno. Sapeva di poter contare su di lei e sperava che, nel suo piccolo, pure lei potesse contare su di lui.

 

Nessun regalo sarebbe stato sufficiente a sdebitarsi ma….

 

Scosse il capo: la dottoressa era rigidissima sui protocolli, avrebbe potuto vederlo come un tentativo di corruzione o comunque di volersela ingraziare e non l’avrebbe presa bene. Anche se lei gli offriva sempre il caffè e quella borsa se l’era praticamente già pagata da sola ma no, non era il caso.

 

Stringendo il sacchettino, che sembrava di piombo, pur contenendo un anello leggerissimo, si avviò verso la caserma.

 

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Selezionò solo il viso di Darja, con la precisione massima che riusciva, e fece partire la ricerca per immagini, senza sperarci molto.

 

E invece, dopo una lunga attesa, spuntò la foto di una ragazza, con i capelli rosso fuoco - visibilmente una parrucca - e pesantemente truccata ma che sì, sembrava proprio Darja.


Entrò sul sito, e si trovò davanti ad un sito di escort, con foto da lasciare ben poco all’immaginazione.


“E bravo, Calogiuri! La fidanzata tua lo sa che guardi certe cose?”

 

“Capozza!” sospirò, mentre l’uomo rideva ma si sporgeva per vedere meglio, “è per lavoro, soltanto per lavoro.”

 

“Un duro lavoro ma qualcuno deve pur farlo!” rise ancora il brigadiere, ma poi si interruppe di colpo, gli diede una pacca sulla spalla e corse verso il corridoio, nel quale stava passando la signora Diana, carica di faldoni, e le chiese se le servisse una mano.

 

Calogiuri salvò e stampò il profilo ed il numero di una certa Dee Light, che pareva proprio Darja, salì rapidamente le scale, superando brigadiere e cancelliera, che chiacchieravano mentre trasportavano i documenti, e bussò alla porta della dottoressa.


“Avanti!”

 

“Scusate, ma… forse ho trovato qualcosa!” disse, felice di poterle portare risultati e di quel sorriso che le fece capolino sul volto.

 

Gli piaceva così tanto vederla sorridere, forse perché non lo faceva mai con nessuno e quindi lo faceva sentire veramente bravo, come lo definiva sempre più spesso lei.

 

Le porse i fogli e la dottoressa annuì, continuando a sorridere, “e bravo, Calogiuri! Sembra proprio lei! Come l’hai trovata? Che questi siti mi sembrano più da Capozza, mi sembrano!”

 

Si sentì avvampare, anche se sapeva che lo diceva per prenderlo in giro - ed infatti la dottoressa rise - ma poi chiarì, “una ricerca per immagini, scontornando il viso e-”

 

“E diciamo che mi fido, Calogiuri, perché sai che di queste cose ci capisco poco. Tu invece quest’anno mi sei diventato proprio bravo con il computer!”

 

Se possibile, fu ancora più in imbarazzo, e gli venne da grattarsi il collo, mentre le sorrideva, soddisfatto.

 

“Dobbiamo prendere un appuntamento con Darja, o Dee, come si fa chiamare. Organizzati coi ragazzi, che dobbiamo intercettare dove si trova il cellulare di lei. Predisponete tutto e poi la chiamiamo, che domani è l’ultimo giorno prima delle vacanze.”

 

“Dottoressa, se… se non riuscissimo a trovarla in tempo, posso pure restare fino al 24 e poi tornare il 26 o il 27,” si offrì, senza nemmeno sapere bene il perché, ma l’idea non gli pesava affatto, anzi.

 

La dottoressa, per tutta risposta, sorrise, ma poi scosse il capo, “già non hai fatto le ferie estive, Calogiuri. Se ci riusciamo bene, se no ne riparliamo almeno almeno nell’anno nuovo. Intesi?”

 

“Però… magari nel frattempo la ragazza si allontana e-”

 

“E tu sei quasi peggio di me come stacanovismo, Calogiuri, ma ci stanno altri tuoi colleghi di turno in quei giorni. Al peggio mi faccio aiutare da loro, non ti preoccupare. E sbrigati, mo, veloce!”

 

Annuì e non perse tempo, congedandosi e correndo verso la PG.

 

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Il telefono squillava a vuoto.

 

Trattenne il fiato, perché era la loro primaria speranza per risolvere quel caso in fretta.

 

Dopo un tempo che le sembrò infinito, mentre si scambiava sguardi con due occhi azzurri che parevano sempre più delusi, finalmente si sentì una voce che pronunciò un “pronto?” molto impastato.

 

“Dee Light?” chiese Calogiuri.

 

“Sì… e tu chi sei?” rispose la ragazza, sempre in quel modo strano, le s che sibilavano tremendamente, tanto che Imma si chiese se fosse ubriaca o sotto effetto di sostanze.

 

“Sono… Mario,” le rispose, probabilmente usando il primo nome che gli era saltato in mente, “ti ho vista sul sito e... vorrei un appuntamento con te. Oggi, se possibile.”

 

Il modo in cui era quasi fucsia solo a pronunciare quelle parole la intenerì tantissimo, anche se… il pensiero di Calogiuri con una escort le piazzava pure uno strano peso sullo stomaco, che manco dopo essersi mangiata i peperoni cruschi pastellati e rifritti.

 

“Oggi… oggi non posso, non sto molto bene. Magari… tra qualche giorno?” gli chiese ed Imma andò in panico perché era troppo presto per chiudere la conversazione.

 

Fece cenno a Calogiuri di farla parlare.


“Poi devo partire per le vacanze e quindi… per quello volevo fare oggi. Sai, se… se mi trovo bene… io e dei miei amici abbiamo in programma una vacanza ai caraibi, su uno yacht, con altre ragazze che abbiamo già selezionato. Paghiamo bene, ovviamente, oltre a vitto e alloggio.”

 

Non sapeva se essere più orgogliosa di Calogiuri, per come era diventato bravo a lavorare sotto copertura, o più preoccupata di come stesse imparando a conoscere la parte meno bella del mondo, anche se rimaneva sempre molto innocente su alcune cose.

 

“Non… non sto bene e-” provò a ripetere la ragazza ma si udì chiaramente una voce maschile, anche se più distante, che diceva “accetta!”, mentre la ragazza ribatteva con un “ma così?...”

 

E poi saltò la comunicazione, maledizione!

 

Stava per fare segno a Calogiuri di richiamare, quando Capozza le disse, “ce l’abbiamo, dottoressa!”

 

Non c’era tempo da perdere.

 

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“Fate attenzione, mi raccomando!”

 

“Sì, dottoressa!” rispose Capozza che era il più alto in grado.

 

Giusto in quello.

 

Lanciò uno sguardo a Calogiuri, un mi raccomando! e lui annuì, prima che se ne andassero tutti, lasciandola sola nel furgone insieme ad un giovane agente della zona.

 

Stavano praticamente a Bari, per fortuna le autorità locali erano state comprensive e non avevano fatto storie, ma avevano mandato alcuni rinforzi.

 

Li vide entrare dal monitor, citofonando ad un altro ingresso del condominio, fingendo di essere il postino.


E poi salire le scale di corsa, fino all’appartamento chiaramente indicato dal fatto che fosse l’unico senza un cognome ma con un numero. Anche su quello erano stati fortunati, oltre che sul fatto che la gente mormorasse e la presenza di una escort nel palazzo fosse cosa abbastanza nota.

 

Col cuore in gola, notò come Calogiuri fosse stato incaricato di sfondare la porta, il compito più rischioso. Sapeva che era il suo lavoro, e lo faceva pure molto bene, ma era sempre in ansia quando era coinvolto in un’azione, come non lo era mai stata per nessun altro dei suoi sottoposti, chissà perché.

 

Lo vide calciare la porta, che alla fine cedette, e poi entrarono, con le pistole spianate, e quello che intravide dalla telecamera le fece prendere un respiro così forte che le girò la testa.

 

Una ragazza, presumibilmente Darja, che tremava sul letto, il viso più blu che rosa, un buco nero dove avrebbe dovuto essere un incisivo.

 

Mo capiva la voce strana e la bocca impastata.

 

“Che cos’è quel rumore?” sentì Calogiuri gridare e poi li vide precipitarsi verso una stanza lì accanto, trovarla chiusa, sfondare la porta, abbrancare e buttare per terra un uomo che stava cercando di uscire dalla finestra.

 

Salvandogli probabilmente la vita, visto che stavano al terzo piano.

 

“Lasciatemi!” urlò l’uomo, “non avete diritto, non ho fatto niente, voglio un avvocato!”

 

Continuava a contorcersi, mentre Calogiuri gli ispezionò i vestiti ed estrasse una pistola dalla tasca interna del giaccone.

 

E bravo Calogiuri!

 

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“Non so niente….”

 

Erano le uniche parole che la ragazza diceva, ormai da un’ora a quella parte, e non c’entravano né le ferite in volto - almeno non da un punto di vista fisiologico - né la conoscenza dell’italiano, visto che al telefono sembrava parlarlo molto bene.

 

L’avevano fatta vedere da Taccardi - nonostante le proteste di lui sul fatto di essere un medico per i morti, non per i vivi - che aveva sentenziato che la maggior parte delle ferite erano vecchie di qualche giorno, quelle sul viso soprattutto, mentre sul corpo aveva alcuni lividi più recenti, tra quelli vecchi.


Era stata brutalmente pestata e si chiese se fosse stato il suo protettore, dopo aver ucciso il Mosca. Anche se le impronte della ragazza nella lavastoviglie non le tornavano con quella ricostruzione dei fatti.

 

Ma lei non diceva niente. Forse era terrorizzata dal magnaccia, un barese doc, Giuseppe Amoruso, anni 52 e precedenti penali per sfruttamento della prostituzione, percosse e spaccio. Un bel tipino, insomma.

 

Sentì bussare alla porta e vide che era Calogiuri, che aveva lasciato andare a finire le ricerche, mentre verbalizzava, per una volta, con Diana.

 

“Dottoressa…” sussurrò, facendole segno di avvicinarsi.

 

“Che c’è, Calogiuri?” sussurrò di rimando, andando in corridoio e chiudendosi la porta alle spalle, in modo che la ragazza non sentisse.

 

“Sono arrivati i risultati sulla pistola. Non è compatibile con il proiettile che ha ucciso Mosca: è una calibro 25, più grande. Ed i segni balistici sono comunque molto diversi.”

 

Il cuore le finì nello stomaco. Sperava in una buona notizia, e invece….

 

“Però, dottoressa, ho fatto delle ricerche ed il Mosca deteneva legalmente proprio una pistola calibro 22, che però non è stata ritrovata nella sua residenza. Insomma….”

 

“Potrebbe essere stato ucciso con la sua stessa pistola,” sussurrò, l’orgoglio per l’intuito che stava sviluppando quel ragazzo tanto timido che le scoppiava nel petto, “va bene, Calogiuri, grazie. Se non hai altro da fare e vuoi assistere….”

 

Le regalò uno di quei sorrisi incredibilmente aperti che faceva solo lui, manco gli avesse appena fatto un regalo di natale. Ed entrò nella stanza.

 

Richiuse la porta alle sue spalle e si avvicinò alla ragazza.

 

“Darja,” le sussurrò, rimanendo in silenzio finché sollevò il viso per guardarla negli occhi, “ti sei difesa, non è vero? La pistola con cui hai ucciso Mosca era la sua. Ti ha picchiata lui?”

 

La ragazza scoppiò in lacrime ed annuì, mentre si copriva il viso, e si lamentava dal dolore. Probabilmente le lacrime le bruciavano e non soltanto in senso metaforico.

 

“Giuseppe… ogni tanto mi faceva fare un lavoro diverso. Dovevo… addormentare i clienti con una cosa che lui mi dava, una polvere, sciolta nel bicchiere. E poi lui entrava e svaligiavamo la casa. Lo facevamo con clienti anziani, soli, che si vergognavano a denunciare. Ma… quell’uomo ha visto quando la polvere nel vino rosso non si era ancora sciolta. E ha capito. Era… era arrabbiato, tanto arrabbiato e ha iniziato a picchiarmi, con i pugni e poi… ha tirato fuori la pistola e mi ha colpito anche con quella. Ho avuto paura, pensavo che… che mi uccideva e… e allora sono riuscita a dargli un calcio… nelle palle... e poi… gli ho preso la pistola e… e ho sparato, prima che lui sparava a me.”

 

E riprese a piangere. Visto com’era ridotta e l’estensione delle ferite vecchie, la legittima difesa era più che comprensibile, almeno dal suo punto di vista. Sperava lo sarebbe stata pure per un giudice. Poteva essere una ladra ma ad uccidere c’era stata praticamente costretta.

 

“Poi… ho avuto paura e… e ho chiamato Giuseppe che stava fuori in macchina. Mi ha detto che ero una stupida e… mi ha detto che dovevamo prendere le cose e buttare tutto in giro, in modo che non si capiva più niente. Ma c’erano bicchieri, si capiva che c’era qualcuno con lui, allora li ho messi in lavastoviglie e l’ho accesa. Non pensavo che… che vi accorgevate. E poi mi girava tutto… non stavo bene e allora siamo dovuti andare via, per fortuna non… non era niente di grave perché non posso andare in ospedale.”

 

Imma sospirò: la sua definizione di niente di grave differiva un po’, ma aveva capito tutto il ragionamento.

 

“Le ferite recenti, di oggi, te le ha fatte l’Amoruso?”

 

La giovane ammutolì.

 

“Non devi avere paura. In ogni caso finirà in galera e… sarete separati. Non ti potrà più trovare.”

 

“Io… lui voleva che io lavoravo, che mi truccavo e lavoravo lo stesso ma… ma come faccio a lavorare così?” le chiese, piangendo nuovamente, e ad Imma si strinse il cuore.


Brutti bastardi!

 

La schiavitù non c’è più, dicevano, ma non era vero. Bastava guardare oltre il proprio naso.

 

“Diana, accompagnala in una stanza tranquilla. Farò richiesta perché tu possa stare ai domiciliari in un’associazione che si occupa di donne maltrattate, in attesa del processo, perché comunque c’è l’imputazione per rapina, ma sull’omicidio cercherò di sostenere la legittima difesa, va bene?”

 

La ragazza annuì, continuando a lacrimare e a lamentarsi per il male e Diana la accompagnò, con la delicatezza della quale per fortuna era capace, quando non rompeva gli orecchi al prossimo.


“Calogiuri, mi vai a prendere l’Amoruso?” sibilò e le bastò uno sguardo per capire che anche lui avrebbe tratto molta soddisfazione dall’interrogare quel bastardo.

 

Almeno qualche vantaggio il loro mestiere lo aveva.

 

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“Avanti!”

 

Sorrise non appena incrociò gli occhi azzurri che sbucavano dalla porta, il cui proprietario aveva in braccio una pila di carte.

 

“I rapporti, dottoressa, sono tutti completati,” annunciò, appoggiandoli sulla scrivania.

 

“E bravo, Calogiuri! Questa volta non ti sei fatto una levataccia, spero?” gli domandò, facendogli l’occhiolino ed alzandosi in piedi per raggiungerlo, davanti alla scrivania, e dare un’occhiata al lavoro fatto.


“No, no, per fortuna no. Il corso mi è proprio servito, dottoressa, vi devo ringraziare.”

 

“Mica l’ho tenuto io il corso e hai fatto tutto tu, col tuo impegno, Calogiuri.”

 

“Ma non soltanto per quello!” le rispose, abbassando lo sguardo prima di ribadire, fissandola negli occhi, “volevo ringraziarvi per tutte le opportunità che mi avete dato in questo anno. Significa moltissimo per… per uno come me.”

 

Le venne l’istinto fortissimo di abbracciarlo, ma si artigliò i palmi e si limitò a ribadire, “te lo sei meritato, Calogiuri, di nuovo per tutto il tuo impegno. Continua così e farai strada!”

 

Lui si toccò il collo ed arrossì, in quel modo adorabile che, di nuovo, le faceva venire voglia di buttargli le sue di braccia al collo e stringerlo forte.

 

Ma tenne le mani ben piantate ai fianchi, nonostante il silenzio un poco imbarazzato nell’aria, finché lo sentì pronunciare, “allora buon natale, dottoressa!”

 

“Anche a te, Calogiuri, mi raccomando!” rispose, con un sorriso, e lui fece una faccia strana, che non capì.

 

Finché con un “allora io vado!” si congedò ed Imma provò una specie di rimescolamento, come se le stesse sfuggendo qualcosa di importante.

 

In tutti i sensi.

 

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Gli sudavano le mani, si sentiva il cuore a mille, la nausea e una specie di istinto di scappare via da lì.

 

Era il momento dello scambio dei doni ed era giunto il suo turno. Li aveva già dati a tutti ma… mancava Maria Luisa.

 

Una parte di lui non se la sentiva, avrebbe voluto tirarsi indietro, riportare l’anello in negozio e si sperava cavarci ancora qualcosa.

 

Ma entrambe le famiglie, riunite, lo guardavano, soprattutto sua madre e quella di Maria Luisa. Del resto, le aveva dovuto chiedere informazioni sulla dimensione del dito della figlia, per essere sicuro di non sbagliare, quindi sicuramente già se lo aspettavano.

 

Prese un respiro, estrasse il sacchettino dalla tasca della giacca buona e glielo porse.

 

Maria Luisa strinse gli occhi, poi lo aprì e, vedendo la scatolina, gli fece un sorriso come erano anni che non glielo vedeva ed uno sguardo quasi trionfante.

 

Ma poi aprì la scatolina ed il sorriso scomparve: pareva delusa.

 

“Che c’è? Non mi vuoi più sposare?” le chiese, non sapendo bene se sperare in un no o in un sì.

 

Maria Luisa sospirò, lo fulminò con un’occhiataccia e gli disse, “almeno me lo devi chiedere in ginocchio!”

 

E che doveva fare? Si mise in ginocchio, e le chiese, più formalmente, “mi vuoi sposare?”

 

Maria Luisa rimase immobile per un attimo, poi annuì con un solo “sì!”, si sentì afferrare il viso e trascinare in un rapido bacio, mentre intorno a loro le famiglie esultavano, sua madre al grido di “dobbiamo stappare lo spumante buono!”

 

Fu tutto molto strano, rapido, quasi surreale, ma accanto all’entusiasmo delle due future consuocere, alla placida indifferenza di suo padre e di suo fratello - che non lo sorprese affatto - notò invece che sua sorella pareva aver inghiottito un rospo e gli lanciava occhiatacce come a dire ma sei scemo?!

 

A giudicare da come si sentiva lo stomaco qualche rospo se lo era inghiottito pure lui.

 

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“Un maglione. Grazie!” le sorrise Pietro, mentre sua suocera alzava gli occhi al cielo.

 

Sì, gli regalava sempre quelli ma lui li usava tutti i giorni, era una cosa utile.

 

Poi porse il sacchetto a Valentina, pensando con rammarico a quanto le era toccato spendere, ma non voleva darla vinta a sua suocera pure quell’anno.

 

Valentina lo aprì, estraendone il costosissimo vestitino sul quale le aveva fatto una testa così da ottobre, anche se ultimamente l’aveva un po’ piantata.

 

Valentina spalancò gli occhi e poi esclamò, “ma sei matta?!”

 

Imma stava già per sorridere, felice di avere finalmente fatto contenta sua figlia, quando Valentina aggiunse, “ma non lo sai che hanno scoperto che questo brand ha una fabbrica in Cina piena di operai sottopagati, in condizioni estreme? Alcuni bambini. Io non posso metterlo!”

 

Dire che le cascò la mascella fu riduttivo. Pure nello shock notò che, mentre Valentina le ridava in mano il vestito, manco le avesse donato sterco ancora fumante, sua suocera nascose di fretta e furia il pacco che aveva in mano giusto un secondo prima, ne prese la busta e fece segno a suo marito, infilandoci di straforo dei soldi prima che Valentina potesse accorgersene, per poi porgergliela come se niente fosse.


Evidentemente pure la suocera aveva comprato i vestiti degli schiavisti e mo, come lei, li avrebbe dovuti rendere.

 

Sicuramente era più veloce di lei nella ripresa, comunque.

 

“Non ci fare caso… è l’età… pure io quando ero giovane volevo salvare il mondo,” le sussurrò Pietro ed Imma pensò e io no, secondo te?

 

Forse era una delle conseguenze, sicuramente positive nel medio lungo termine per il suo portafoglio, della fine dell’amicizia con Bea.

 

Si staccò dall’abbraccio di Pietro e si avviò per un attimo verso il balcone: sentiva il bisogno di una boccata d’aria fresca.

 

Non era solo per Valentina, proprio no, ma era da qualche ora che provava come un senso di ansia latente. Il pensiero continuava a tornare a Calogiuri e teneva sempre quella sensazione che le stesse sfuggendo qualcosa, qualcosa di importante.

 

Non era da lei farlo, ma decise di estrarre il telefono dalla tasca del cappotto ed inviargli un messaggio di auguri. In fondo tra colleghi era buona educazione, anche se a lei era sempre mancata.

 

Auguri di buon natale!

 

Un messaggio semplice, banale, di quelli che sembrava potessero essere stati inviati a catena e a cui lei godeva a rispondere con un anche a te e famiglia!

 

Dovette aspettare giusto pochi secondi prima di ricevere risposta.

 

Grazie mille, dottoressa! Anche a voi e alla vostra famiglia!

 

Per qualche motivo le faceva strano, che nominasse la sua famiglia, anche se era appunto normale negli auguri.

 

Come stai? Tutto bene?

 

Non riuscì a trattenersi dal mandarglielo, ma era come un istinto che le diceva che c’era qualcosa che non andava.

 

Diciamo di sì, ma non vi voglio scocciare con i miei problemi. Non vi preoccupate.

 

Eccallà! Lo sapeva! Ma non poteva fargli un interrogatorio per messaggio, né telefonargli, che sarebbe stato troppo strano.

 

Si doveva rassegnare a rimanere preoccupata finché non avesse potuto vederlo di persona e cercare di capire meglio cosa gli stesse succedendo.

 

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“E allora la dottoressa ha avuto l’intuizione che il padre della vittima stesse facendo pure lui una metafora e che il figlio lo avesse ucciso lui, perché considerato troppo malato per essere salvato.”

 

“Certo che ha un bell’intuito questa dottoressa!” rispose Rosaria, con un sorriso, “magari ne prendi un poco pure tu, anche se visti gli ultimi eventi ne dubito, fratellino!”

 

“Che vuoi dire, Rosà?” si inserì subito sua madre, con un’occhiataccia, “e comunque che ci vuole? Ma poi che malattia c’aveva il figlio?”

 

A Rosaria venne da ridere, suo padre e suo fratello come al solito era come non averli e Calogiuri sospirò: no, sua madre le metafore non le conosceva per niente.

 

“Niente, mà, niente!” sospirò, alzandosi insieme a Rosaria per ritirare i piatti ancora in tavola.

 

Pensò alla dottoressa, a cosa stesse facendo in quel momento. Gli mancava poter parlare con lei, ne avrebbe avuto tanto bisogno in quel momento. Anche perché lo capiva al volo. Come a natale, che le erano bastate poche righe di messaggio per capire che ci fosse qualcosa che non andava in lui, che non stesse bene.

 

Ma, del resto, alla dottoressa era impossibile farla, completamente impossibile.

 

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“E fai piano con quei piatti! Che si rompono!”


“Scusa, scusa!”

 

Dal tono di Pietro, che pareva pronto alla fuga o a camminare in punta di piedi per non causare altre reazioni, seppe di avere esagerato.

 

Ma lei stava lavando i piatti e lui li aveva buttati con troppa decisione accanto al lavabo.

 

Forse la verità era che era troppo nervosa e non riusciva a sfogarsi.

 

Le sarebbe servito un bel giro in macchina con Calogiuri, per rilassarla e schiarirle le idee. Ma lui stava a Grottaminarda e quindi le toccava rimanere un fascio di nervi. Le mancava il lavoro e le mancava pure lui: parlargli di lavoro, ascoltare i problemi di lui per qualche strano motivo la tranquillizzava sempre.

 

Ma doveva tenersi la noiosa routine domestica, sperando di non scoppiare prima dell’epifania.

 

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La sporta della spesa era fin troppo pesante: ma quanto mangiavano?

 

Decise di fare una scorciatoia in una stradina più stretta e un poco più ripida ma pure più corta, per fare meno passi possibili.

 

Era deserta, pur essendo giorno, forse anche per il freddo, e percepì una lieve inquietudine. Sentì un rumore di passi alle sue spalle, veloci, sempre più veloci, e si spaventò. Forse aveva ragione Pietro a farle le prediche sulla sicurezza, soprattutto dopo le minacce ricevute per il caso di Nova Siri.

 

Si sentì afferrare per un gomito, cacciò un urlo e stava per dare la sporta addosso all’aggressore, quando si accorse appena in tempo di due occhi azzurri molto familiari e di una voce che le chiese, “vi siete spaventata?”

 

“Calogiuri!” urlò, non sapendo se essere più incazzata o più felice di vederlo, “ma sei impazzito? Mi hai fatto prendere un colpo, mi hai fatto prendere!”

 

“Scusatemi ma è che… non volevo urlare il vostro nome per strada, non mi pareva il caso.”

 

Imma riprese fiato e si chiese perché non fosse il caso. Non che lei ci tenesse a fare sapere a tutti dove stava, ma non ci sarebbe stato niente di male.


“Ma che ci fai qua?” gli chiese poi, quando si fu calmata un poco, “non dovevi stare a Grottaminarda?”

 

“Sì, ma è che… dovevo fare assolutamente una cosa, dottoressa.”

 

“Se si tratta di lavoro giuro che stavolta ti faccio rapporto, Calogiuri!” gli intimò ma lui sorrise e scosse il capo, indicando un punto sopra le loro teste.

 

Si rese conto solo in quel momento che si erano fermati davanti ad una porta e che, proprio lì sopra c’era del vischio appeso.

 

“Dottoressa, è tradizione…” le disse ed Imma per un secondo non capì e poi pensò di avere capito male, perché sicuramente non poteva intendere….

 

“Permettete?” le domandò, con un sorriso, prendendole di nuovo il gomito, cosa che le fece correre un brivido lungo la schiena, mentre sentiva il calore delle sue dita pure col cappotto e il maglione di mezzo.


Non fece in tempo a protestare o a rispondergli che lui poteva permettersi qualunque cosa, quando sentì altre dita tra i capelli e si trovò travolta da un bacio che non era un bacio ma una specie di miracolo.

 

Mentre le ginocchia le si facevano molli e si afferrava alle spalle di Calogiuri - che erano ancora più solide di come immaginava - e poi con una mano ai capelli - incredibilmente morbidi -, sentì un qualcosa che non aveva mai provato prima, e sì che di baci in quegli anni ne aveva dati tanti.

 

Ma era come… come andare a fuoco, il cuore a mille, che le rimbombava in gola, un formicolio che dalle labbra le si estendeva per tutto il corpo. Aveva sempre deriso i libri romantici in cui il bacio tra i protagonisti viene descritto paragonandolo ai fuochi d’artificio, che lei al massimo aveva provato un piacevole tepore, ma… ma quello era pure meglio dei fuochi d’artificio: una serie di esplosioni che la scuotevano, facendole provare sensazioni che non aveva mai nemmeno immaginato potessero esistere.

 

E chi lo avrebbe mai detto che il timido appuntato baciava così bene? Con così tanta passione, quasi come se avesse voluto divorarla. Non che lei fosse da meno, anzi: sembrava non bastarle mai.

 

Del resto era da un po’ che… che lo desiderava, era inutile negarlo ormai, ma non avrebbe mai nemmeno osato sognare che pure lui-

 

Un rumore fastidioso, come lo squillo di un cellulare, la disturbò. Calogiuri fece per ritrarsi, ma lei lo tenne stretto - col cavolo che lo lasciava andare mo!” - finché, mentre gli sibilava un “non t’azzardare!” ed apriva gli occhi per sottolinearlo meglio, si trovò accecata da una luce rossa, che, dopo qualche secondo, realizzo essere la sveglia, che aveva impostato per alzarsi in tempo per preparare tutto per Capodanno.

 

Diede un colpo al maledetto pulsante, sentendo Pietro borbottare qualcosa alle sue spalle.

 

Le venne da sorridere, mentre si passava una mano sugli occhi: altro che lucetta rossa!

 

Si sentiva stupida, da un lato: giusto un miracolo, avrebbe potuto essere, che figuriamoci se uno come Calogiuri si sarebbe mai interessato ad una come lei!

 

Che poi, pure se avesse preso una botta in testa, gli fosse calata la vista, o ci si fosse intossicato col vischio, provocandogli strane idee nei suoi confronti, di sicuro non l’avrebbe mai baciata in quel modo: sarebbe probabilmente morto di vergogna prima.

 

Al di là della breve delusione, si sentì meravigliata per quello che aveva provato. Si chiese - pure se era un pensiero assurdo ed inutile - cosa avrebbe provato a baciarlo veramente l’appuntato, visto che farlo in un sogno le aveva già fatto sentire cose mai sentite in quasi vent’anni di matrimonio.

 

Guardò verso Pietro, che ancora dormiva della grossa, ma, stranamente, non si sentì in colpa. Alla fine i sogni non si potevano controllare, e nemmeno i desideri, lo sapeva bene. E tanto non sarebbe successo mai niente e… che c’era di male a sognare un poco, lei che non se lo era mai permesso?

 

Si alzò dal letto, piano piano, per non svegliarlo, e si preparò psicologicamente ad affrontare la giornata e svariate ore in cucina.

 

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“E che ne pensi delle bomboniere? A me piacerebbero tanto queste!”

 

“Hai ragione cara, sono proprio ‘na squisitezza! Vero, Ippà?”

 

Dovette trattenere un sospiro, mentre Maria Luisa, supportata da sua madre, gli porgeva una foto con su due cigni che, becco contro becco, formavano con i lunghi colli una specie di cuore.

 

Le trovava orrende, ma soprattutto sentiva come un senso di soffocamento al solo vederle. Sperava di trascorrerlo diversamente il capodanno, che passando in rassegna una serie di cataloghi di cose per il matrimonio.

 

“Fa- fate voi, mi fido!” esclamò, e si allontanò per prendere un altro bicchiere di spumante ed un poco d’aria.

 

Avrebbe voluto tanto sentirsi più entusiasta, o almeno felice, per il suo matrimonio. Ma forse la mania per le nozze era una cosa più tipica delle ragazze, che chissà perché c’avevano sto chiodo fisso, soprattutto Maria Luisa, manco cascasse il mondo.

 

Anche se, più che delle ragazze in generale, di quelle di paese, come Maria Luisa, che convivere ancora veniva visto malissimo da tutti e avere figli senza sposarsi… apriti cielo!

 

Avrete dei bambini tu e Maria Luisa?

 

La domanda della dottoressa, chissà perché, gli tornò in mente e sentì di nuovo quel senso di oppressione al petto.

 

La verità era che la prospettiva lo spaventava e molto. Qualche anno prima era stato molto più convinto all’idea, ma mo… sì, i bambini gli piacevano, per carità, ma….

 

Non sapeva se stare via, a Matera, lo avesse cambiato o se fosse stato il suo rapporto con Maria Luisa a cambiare. Forse si vedevano troppo poco.

 

Eppure anche sua sorella Rosaria e suo marito si vedevano pochissimo, ma Rosa pareva felice lo stesso. Mentre a lui e Maria Luisa stare lontani aveva fatto malissimo. Ma mo pure stare vicini… non è che facesse loro poi così bene.

 

Erano sempre sull’orlo di una discussione. Avrebbe tanto voluto che lei lo capisse di più, poter parlare con lei liberamente, senza dover sempre avere paura delle sue reazioni. Potersi fidare di lei e confidarsi con lei come… come faceva con la dottoressa. E sì che pure con lei c’aveva timore di sbagliare, per altri motivi, ma… ma quando lo ascoltava si sentiva sempre più rilassato. A volte gli dava dei consigli, a volte lo stava a sentire e basta, ma… era come se dirle le cose le rendesse più semplici, per qualche strana ragione.

 

Mentre con Maria Luisa… a volte si sentiva come a fare una trattativa per la liberazione di un ostaggio, con il timore che bastasse una parola sbagliata per scatenare l’irreparabile.

 

Ma la dottoressa era la dottoressa, e teneva un’intelligenza che nessuno di loro aveva o avrebbe mai avuto. E, pure se fosse finita con Maria Luisa, lui una ragazza con l’intelligenza della dottoressa non l’avrebbe mai trovata: mica avrebbe mai guardato un ciuccio come lui! Come minimo sarebbe già stata laureata e a fare qualche lavoro prestigioso, mentre lui era solamente un povero appuntato.

 

Anche se la dottoressa gli aveva detto di provare ad entrare al corso da maresciallo, che ce la poteva fare. E lui si era pure iscritto, in un momento di follia, e stava studiando ogni sera ma… ogni pagina era una sfida e gli prendeva un sacco di tempo. Non aveva una memoria buona ed il linguaggio era difficile per lui, che non aveva mai studiato. Doveva sempre fermarsi a cercare i termini sul dizionario giuridico e segnarseli.

 

Certo, pure l’idea di vincerlo il concorso e andare a Roma… e magari perdere il posto a Matera, mo che ci si trovava così bene, un poco lo spaventava. Ma voleva che la dottoressa fosse orgogliosa di lui, voleva migliorare la sua condizione economica. E chissà che Maria Luisa, se ci fosse riuscito, non si sarebbe ricreduta su di lui e sul suo lavoro.

 

D’istinto, prese il cellulare. Alla fine la dottoressa gli aveva fatto gli auguri di buon natale, cosa della quale si era molto stupito. Era buona educazione farglieli lui per primo stavolta.

 

Tanti auguri, dottoressa, e ancora grazie per tutta la fiducia che mi avete dato quest’anno! Cercherò di meritarmela sempre di più anche nell’anno che viene. Auguri!

 

Attese un poco ma non ricevette nulla. Del resto lei stava con la sua famiglia e chissà quanti messaggi di auguri le arrivavano. Sperava solamente che lo avrebbe visto prima o poi.

 

Stava per ritirare il cellulare, quando sentì una voce alle sue spalle che gli chiese, “a chi scrivi?”

 

Maria Luisa.

 

“Ai colleghi,” rispose, non volendo andare troppo nello specifico.

 

Proprio in quel momento, il telefono vibrò e gli annunciò che c’era un nuovo messaggio da Dottoressa.

 

Lo aprì immediatamente.

 

Auguri e grazie a te per tutto l’aiuto! Mi raccomando, Calogiuri: che sei bravo lo dovresti sapere ormai! Poi per il concorso da maresciallo hai deciso qualcosa?

 

Stava pensando a come risponderle, quando Maria Luisa gli prese il cellulare dalle mani, chiedendogli, con un tono che non prometteva niente di buono, “e chi sarebbe questa dottoressa? E, soprattutto, cos’è sta storia del concorso da maresciallo?”

 

“Come chi è? La dottoressa Tataranni, il mio capo, l’avrai vista qualche volta in televisione, no, quelle poche volte che mi hanno inquadrato?”

 

Sua madre voleva sempre sapere quando finiva in televisione e quindi lo diceva pure a Maria Luisa.

 

Che rise, rise, prima di aggiungere, in un modo che gli diede sui nervi, “ah, ma chi, quella che si veste peggio di un albero di natale, coi capelli rossi? E io chissà che mi credevo!”

 

Maria Luisa sembrò sollevata, ma lui altro che sollevato, provò un moto di fastidio fortissimo.

 

“La dottoressa è la migliore che c’è in procura. Da lei sto imparando tanto e non si merita di essere presa in giro!”

 

“Ma dai! Tanto mica ti può sentire!” continuò a ridere lei, “e poi sarà pure brava a fare il suo lavoro, ma è inguardabile!”

 

Nonostante il freddo, sentì come un calore al viso, mentre il fastidio diventava rabbia.

 

Non è vero! La dottoressa, a modo suo, è una bella donna e-

 

Si bloccò, prima di poter esprimere quel pensiero, per due motivi: sia per il pensiero stesso, che si domandò da dove gli fosse uscito, sia per il fatto che Maria Luisa riprese a parlare.

 

“Allora, cos’è sta storia del concorso?”

 

Sospirò, non poteva più svicolare.

 

“Mi sono iscritto ad un concorso per poter accedere ad un corso per diventare maresciallo.”

 

Maria Luisa rimase per un attimo di sasso.


“Cioè… fammi capire, prima devi passare un concorso e, se lo passi, hai ancora un altro corso da fare?”

 

“Sì, esatto.”

 

“Sì, aspetta e spera! E dove dovresti farlo questo corso?”

 

“A Roma.”

 

“E non pensi che, prima di iscriverti, avresti dovuto parlarne con me, che ci dobbiamo sposare? A parte che il concorso non lo passerai mai, ma metti che succede, chissà dove ti trasferiscono e poi come facciamo con il matrimonio?”

 

“Tanto per organizzare un matrimonio ci vorrà almeno un anno, no? Pure due? Ed il corso dura solo sei mesi, e poi-”

 

“E poi non se ne parla nemmeno! Il matrimonio lo voglio fare quest’estate, Ippà, che il tempo passa!”

 

Sentì di nuovo quella morsa, stringerlo fino a cavargli il fiato.

 

“E… e va beh… comunque il corso per allora sarà finito.”

 

“Sì, e poi ti spediscono in capo al mondo, magari al nord!”

 

“Io spero di rimanere a Matera, non ci ho ancora fatto tutti gli anni previsti.”

 

“E sai che fortuna! A vedersi come mo, ogni tanto, ma che matrimonio è?”

 

“Lo sai che non posso trasferirmi troppo vicino, per via del conflitto di interessi, soprattutto non adesso, che sono così giovane: non mi ci manderebbero mai.”

 

“Le mie radici ca’ stanno e nun me voglio i’!”

 

“Lo so, ma…”

 

“E poi chistu concorso è inutile! Si nun ‘o passi, e nun ‘o passi, ca te cunosco, ci stai male. Si te succed’ nu miracol e lo passi, è soltanto nu gran mal’ e’ capa!”

 

“Maria Luì, ma è pure per il nostro futuro: guadagnerei molto di più e-”

 

“E un lavoro già ce l’hai! Lavorare la campagna, gli ulivi, con mio padre, fare l’olio. Possiamo stare tutti insieme e guadagnare bene. Sicuro di più che a fare lo schiavo sottopagato della dottoressa.”

 

“Ma a me il mio lavoro piace sempre di più e sto migliorando tanto!” esclamò, la sola idea di finire a coltivare ulivi con i suoceri che lo faceva sentire schiacciato, senza uscita, peggio delle olive nel frantoio.

 

“Perché te lo dice la dottoressa? Che quella come minimo ti porta sempre appresso perché le fa comodo che le fai da schiavo, a lavorare pure la sera e le vacanze e quando pare a lei, ca’ nun te sa faje rispettare! Te prende in giro, te prende! Te dice bravo cumme si fa col ciuccio, int’a commedia e natale!”

 

“Non è vero!” gridò, furioso come non si era mai sentito, “la dottoressa crede in me o non mi avrebbe proposto di fare il concorso!”

 

“O’ sapevo ca’ è chella ca’ te mette tutte ste idee in capa!”

 

“La dottoressa io la devo solo ringraziare e non voglio che ne parli così! E io il concorso da maresciallo lo faccio, che ti piaccia o no!” gridò, rientrando in casa e sbattendo il calice sul tavolo.

 

Ignorò sua madre che si avvicino con un “u maronn’, ca succed’ mo?” e si chiuse nella sua stanza, girando la chiave nella toppa e mettendosi le cuffie, come quando era ragazzino.

 

Gli veniva da piangere, avrebbe voluto spaccare tutto, perché lui al suo lavoro non ci voleva rinunciare, perché non sopportava più Maria Luisa e perché non voleva che nessuno pensasse male della dottoressa, anche se lo facevano in tanti.

 

Ma non se lo meritava: era una persona straordinaria, una specie di super eroina e non capiva come pure gli altri non se ne accorgessero.

 

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Ricontrollò il telefono, per sicurezza, sentendosi pure un poco stupida, ma niente, Calogiuri non aveva più risposto.

 

E la cosa la preoccupava, perché non era da lui. Forse non si era iscritto al concorso e non osava dirglielo. Sarebbe stato un peccato.

 

Per carità, a lei da un lato avrebbe fatto pure comodo, che almeno se ne sarebbe rimasto a Matera con lei, invece che andarsene a Roma. Ma non sarebbe stato giusto: Calogiuri era molto intelligente, volenteroso, e si meritava di far carriera. Non doveva essere egoista, soltanto perché non si era mai trovata bene con nessuno come con lui.

 

“A che pensi?”

 

La voce di Pietro la fece sobbalzare, anche se era già mezza distesa sui cuscini, sperando di dormire dopo la mangiata di quella sera.

 

“Stavo… stavo finendo i messaggi d’auguri ai colleghi,” rispose, in quella che, in fondo, era la verità.

 

“Addirittura?! Che cos’è tutta questa socialità! Guarda che poi si montano la testa!” la prese in giro, facendola ridere e smollargli un buffetto sulla guancia.

 

Ma poi si sentì afferrare per i fianchi, e cercò di divincolarsi, mentre Pietro le faceva il solletico.

 

E poi un bacio sul collo, un altro sulla spalla, e poi ancora più giù.

 

Ma, stranamente, per la prima volta in tantissimo tempo, non ne aveva proprio voglia. Gli prese la testa tra le mani e lui la guardò, sorpreso.


“Scusa, Piè ma… sono sfinita. Ti va se rinviamo?” gli domandò e lui fece un’espressione un poco delusa ma poi annuì.

 

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“Ma te rendi conto? Ca’ è ‘a befana e chella povera ‘uagliona nun venne, che state ancora litigati!”

 

“Mà, le chiesi pure di sposarmi. Maria Luì dovrebbe essere felice, invece di continuare a fare storie per il mio lavoro.”

 

Notò come sua madre restò per un attimo stupita, forse non si aspettava che le rispondesse.

 

“Ma ca’ bbuo iniziare nu’ matrimonio che lei sta ‘cà e tu chi’o’ssape aro’ staje?”

 

“A parte che spero di stare a Matera, mà, mica in capo al mondo. E poi c’è gente che lo ha fatto ed è ancora sposata dopo vent’anni.”

 

“E chi?”

 

“La dottoressa, ad esempio!” ribattè, ma sua madre sbuffò.

 

“Sta dottoressa te mette strane idee in capa! Maria Luisa tiene ragione!”

 

Non avrebbe saputo dire cosa gli desse più fastidio: se il fatto che, di nuovo, criticassero la dottoressa, o se il sapere che sua madre e Maria Luisa lo facessero pure insieme, alle sue spalle.

 

“A differenza di Maria Luisa, la dottoressa vuole semplicemente che io stia meglio, pure economicamente.”

 

“O’ frantoio di Maria Luisa basta e avanza! Pure si mo ‘a signora t’ha miso in capa ca aia’ fa’ o’ signore!”

 

“E secondo te col frantoio riusciamo a sfamare me, Maria Luisa, i suoi genitori e pure i nostri figli se ne avremo un giorno? L’azienda è piccola, e già così tirano a campare, lo sai!”

 

“Ce la potete fare! Comm’ ce la fecero in tanti! E almeno staje vicino a’ famiglia toja e nun in miez’ a pericol’!”

 

“Ma io amo il mio lavoro, mà!”

 

“A chi ami di più? Al tuo lavoro o a Maria Luisa?” gli domandò, imperterrita.

 

E la risposta che gli balenò in mente non era di sicuro quella che sua madre si sarebbe aspettata o avrebbe voluto sentirsi dire. E si chiese se fosse normale, preferire il lavoro alla propria futura moglie.

 

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Ricambiò con un cenno del capo il saluto militare delle guardie, aprì il portone e respirò a pieni polmoni quell’aria che le era mancata tanto, pure se sapeva di chiuso, di caffé e di carte vecchie.

 

La sua amata procura!

 

Quell’anno aveva scalpitato per finire le ferie, ancora più del solito.

 

Si girò verso la porta della PG, che però era chiusa. Si chiese se Calogiuri fosse già arrivato. Probabilmente sì, era sempre puntuale. Ma non poteva andarlo a cercare subito, che già ci stava la Moliterni che si divertiva a mettere in giro un sacco di voci su loro due. Doveva tutelarlo.

 

E quindi, con un sospiro, salì le scale, sperando di non trovare nessuno scocciatore nel breve cammino verso il suo ufficio.

 

Lo vide subito, appena svoltato verso il corridoio, fermo in piedi ad aspettare di fronte alla sua porta e le venne da sorridere.

 

Si chiese se pure lui avesse sentito la sua mancanza, anche se di sicuro non la vedeva come lo vedeva lei.

 

E perché, tu come lo vedi, Imma? - gli chiese la voce della sua coscienza, con il tono della Moliterni.

 

Lo sai benissimo, visti i sogni che mi hai fatto fare! - la zittì, prima che la Moliterni interiore, ribadisse, ritorcendole contro i suoi stessi pensieri dell’anno prima - ma come, Imma? Ma potrebbe essere tuo figlio!

 

“Dottoressa?”

 

La voce di Calogiuri e lo sguardo preoccupato di lui la fecero avvedere del fatto che era rimasta lì imbambolata. Si riprese subito con un “che ci fai qui, Calogiuri?”

 

“Ma niente… volevo sapere se avevate ordini per me,” le rispose, le mani incrociate dietro la schiena, mentre ondeggiava un poco sui piedi, in quel modo che pareva uno scolaretto.

 

Si intenerì e le venne da sorridere, anche perché si chiese - ed un poco ci sperò - se fosse una scusa: era appena arrivata, che ordini avrebbe mai potuto dargli?

 

“Non ancora, Calogiuri. Ma entra, dai, non stare lì impalato!” lo invitò, facendogli strada e poi chiudendo la porta alle loro spalle.

 

Lui le sorrise e lei prese coraggio e gli chiese, “allora, alla fine cosa hai deciso per il concorso? Che non mi hai più risposto!”

 

Calogiuri divenne rosso e parve mortificato, mentre balbettò, “a- avete ragione, scusatemi, è che… che purtroppo c’ho avuto un po’ di discussioni a casa e mi sono dimenticato....”

 

Stava per domandargli su cosa fossero le discussioni, anche se non erano affari suoi, quando sentì bussare.

 

Sospirò, sapendo di non poter ignorare chiunque fosse a quell’ora al rientro dalle ferie, “avanti!”

 

Spuntò la testa di Capozza, distruggendo l’atmosfera e le sue speranze di avere un po’ di risposte da Calogiuri.

 

“Capozza… ha bisogno di qualcosa?”

 

“Sì, dottoressa. Hanno ritrovato un cadavere, al Vallone della Femmena. Uno scheletro, più che altro, che chissà da quando stava là. Dobbiamo organizzarci con i vigili del fuoco per il recupero, vista la posizione.”

 

“L’anno nuovo l’ha resa più efficiente, Capozza?” gli chiese, sarcastica, prima di annuire, “va bene. Calogiuri, vai con Capozza ed organizzate insieme tutto quanto. Voglio tutto pronto entro massimo un’ora.”

 

“Dottoressa, ma quello mica dipende da noi, ma dai vigili del fuoco!” ribatté il brigadiere, con un sospiro.

 

“Non mi pare che ci siano incendi al momento qua a Matera, Capozza. Dica ai vigili di muoversi e allertate pure il medico legale!”

 

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Testò un’ultima volta l’imbragatura, come gli avevano insegnato al corso, e poi cominciò a calarsi nella forra.

 

Non sapeva se sentirsi più sollevato o deluso di non aver potuto parlare meglio alla dottoressa dei suoi problemi con Maria Luisa e-

 

In quel momento la corda fece un sobbalzo, lo stomaco gli finì sotto sopra, mentre sentì come un respiro acuto e sollevò lo sguardo verso la dottoressa, che sembrava molto preoccupata.

 

Le fece segno che andava tutto bene e lei annuì, parendogli però più sollevata una volta che lui mise i piedi a terra.

 

Stava sganciandosi dai cavi, tenendo addosso l’imbragatura, quando la sentì gridare “voglio scendere pure io a vedere!”

 

Ne seguì una cantilena di “ma ne è sicura, dottoressa?” e “dottoressa, può essere pericoloso!”

 

Pure lui si sentiva con lo stomaco quasi peggio di quando il cavo si era inceppato ma incontrò gli occhi di lei, che lo guardavano come a dire, non provarci nemmeno a ribattere pure tu!

 

E quindi le sorrise e urlò, “vi mando su la corda, dottoressa!”

 

Mentre la imbragavano e poi la fissavano alle funi, provò una specie di ansia, che non fece che peggiorare quando la dottoressa mise i piedi nel vuoto - che come faceva a non perderle, quelle scarpe? - e poi iniziò la discesa.

 

Ma la sentì, decisa, rispondere a tono a Taccardi e Capozza, e la vide, convinta e fiera, pure col caschetto in testa ed aggrappata al cavo e pensò che Maria Luisa non ci capisse proprio niente, perché la dottoressa era davvero bellissima. Anche se oggettivamente si vestiva malissimo, come sostenevano quegli altri due - con quel cappotto poi, che pareva una coperta termica! - ma era bella anche per quello. Perché era particolare, unica, selvaggia ed aspra, come quelle rocce. A volte quasi non gli pareva umana.

 

Ma che vai a pensare? - si chiese, scuotendo il capo, prima di dirle, “fate attenzione ai rami, dottoressa!”

 

Ed in quel momento, squillò il telefono.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci qua, alla fine di questa breve storia prequel sui natali passati di Imma e Calogiuri. Spero che vi sia piaciuta e che possa essere risultata credibile rispetto alla psicologia dei personaggi per come li abbiamo visti nella prima stagione.

Come sempre, le vostre recensioni oltre a farmi un sacco piacere mi sono utilissime per capire se la storia vi è piaciuta o meno e se magari in futuro vi piacerebbe vedere altre brevi storie di questo tipo.

Colgo l’occasione per farvi di nuovo i miei migliori auguri di buon anno e per annunciarvi che il capitolo 52 di Nessun Alibi dovrebbe arrivare domenica 10 gennaio. Purtroppo sono stata più presa del previsto nelle feste e si sta rivelando parecchio ostico, con diversi salti temporali, e ci tengo a farlo bene.

Grazie ancora!

 

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