La discendente di Ithlinne

di GiakoXD
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** stop! ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Era stata davvero una brutta giornata. 

Brutta giornata già fin dal mattino. Sveglia presto, pioggia, lezioni in giro per mezza Padova, pioggia, professore che manda l’assistente che non fa altro che leggere le slide al suo posto – senza avvisare ovviamente – e non bisognava dimenticare la pioggia. Aveva pensato di rimediare alla giornataccia accettando l’invito dei suoi amici per bere qualcosa quella sera, invece tutto non aveva fatto che peggiorare.  

Dovevano essere in sei. Thomas, da solito tira-pacchi maledetto qual era, aveva tirato fuori una scusa ridicola all’ultimo, Marta aveva palestra: sembrava non facesse altro nella sua vita. 

 Scansò all’ultimo una pozzanghera particolarmente profonda mentre camminava a passo deciso. Svoltò a sinistra, e inclinò il suo ombrellino scalcagnato per evitare che una raffica di vento lo rivoltasse come un calzino.  

Quindi alla fine erano rimasti solo lei, Samu, Angela e il suo nuovo scopamico.  

Doveva rivedere la sua lista delle amicizie, decise. 

 
Si era subito dimenticata il nome del nuovo arrivato, un ragazzo anonimo non particolarmente brutto ma nemmeno troppo bello. Subito dopo le presentazioni non le aveva praticamente più rivolto la parola. Sembrava che tra lei e i due nuovi innamorati ci fosse uno di quegli specchi da interrogatorio; loro continuavano a ridacchiare tra loro, strusciarsi e scambiarsi bava come se fossero seduti in una camera, e non in un pub circondati da altra gente. E invece lei c’era, purtroppo, ed era seduta proprio di fronte a loro.  
 

Per distrarsi aveva cercato di far staccare Samuele dalla partita che trasmettevano in tv: se lei doveva sorbirsi i piccioncini non voleva certo essere la sola! Fortunatamente lui aveva capito al volo la situazione che si stava perdendo, ipnotizzato come era davanti allo schermo. Da vero soccorritore di amici in difficoltà le era venuto in aiuto e avevano chiacchierato del più e del meno, bevendo un bel po’ di birra; avevano addirittura preso per il culo la coppietta, dal momento che tanto non gli prestavano minimamente attenzione. Un paio di sbirciate alla partita Samu le aveva date ancora, ma erano giustificabili.   

 

Si tirò più in su il bavero del cappotto rabbrividendo e indirizzò l’ombrellino scassato controvento. Si toccò la cima della testa e fece una smorfia: i lunghi capelli biondi iniziavano a inumidirsi preannunciando la condizione pietosa con la quale li avrebbe trovati il giorno dopo. 

Le strade erano silenziose, e il rumore della pioggia ritmica sulla tela dell’ombrello, ipnotica, aiutava a pensare. 

 

Samuele aveva detto di dover tornare a casa, e la distrazione era finita. 

Erano rimasti in tre, due assatanati di sesso e una reggi-moccolo sempre più innervosita.  

All’ennesima mano sotto il tavolo che aveva visto sparire, collerica, si era alzata dalla sedia piuttosto violentemente, aveva aspettato che la testa smettesse di girare, aveva salutato bruscamente ed era andata a pagare il conto. Dopo aver trafficato un po’ per raddrizzare le stecche scomposte dell’ombrello, era uscita nella pioggia e lì era ancora, in cammino verso l’appartamento dove stava. Erano le undici di un normale mercoledì sera universitario, con l’unica particolarità di non essere stato per nulla divertente.  

“Se non altro adesso me ne andrò a dormire al calduccio e finirà questa giornata di merda” pensò la ragazza assaporando il tepore sotto le coperte.  

 

Non lo sapeva, ma si stava sbagliando in pieno. 

 La scorciatoia che prendeva di solito passava per un viottolo contorto dietro uno dei collegi del centro, uno di quelli con l’acciottolato sconquassato, quasi troppo stretto per il passaggio delle macchine, che inevitabilmente finivano con le ruote sul marciapiede attentando alla vita dei passanti. La ragazza lo imboccò automaticamente e solo quando si accorse di camminare nell’oscurità realizzò che l’aveva percorso un sacco di volte, ma poche volte da sola e praticamente mai di notte.  

I radi lampioni illuminavano scarsamente il vicolo, rendendo complicato avanzare senza storcersi una caviglia, soprattutto da poco sobri, e allungavano e distorcevano le ombre tutto intorno. Un balcone che si chiudeva sbattendo la fece sobbalzare, e da quel momento la sua fantasia fece il resto.  

Adesso sentiva scricchiolii ovunque. La pioggia picchiettava sui tetti e i davanzali e gocciolava cupa nelle grondaie, i suoni della città insonnolita giungevano solo a sprazzi, ovattati e distanti. Procedeva in mezzo al viottolo per evitare l’acqua che si riversava giù dalle grondaie e dai tetti soprastanti, camminando tanto più veloce quanto l’acciottolato sbeccato le permetteva, tenendo l’ombrellino schiacciato sulla testa per bagnarsi meno possibile. Le scarpe erano completamente fradicie, come pure i jeans fino a metà polpaccio. Rabbrividì. Stava considerando dove metterli per asciugare tutto per il giorno dopo quando sentì una voce biascicante che diceva: 

<< Ciao bella… >> 

Con l’ombrello che le oscurava la visuale non si era minimamente accorta dell’uomo appoggiato al muro riparato sotto un terrazzino e ormai ce l’aveva praticamente davanti. Le si gelò il sangue e si impose di rimanere calma. Continuò ad avanzare fissandolo di sottecchi. 

<< Hei bella, hai un po’ di posto sotto l’ombrello? >> l’uomo uscì dal riparo della tettoia con le mani nelle tasche del giubbotto e iniziò ad avvicinarsi. 

“Merda, merda, merda!!! E adesso?!”.  

Continuò a camminare a testa bassa cercando di ignorarlo e convincendosi di fingere di non capire l’italiano, fino a che non arrivò alla sua altezza. Stava considerando di girare su sé stessa, mollare l’ombrello e iniziare a correre quando lui le si parò davanti sogghignando, o almeno la sua mente immaginò che lo facesse, visto che la penombra abbozzava troppo poco la sua faccia per distinguerne i lineamenti.  

<< Signorina, non mi senti che ti sto parlando gentilmente? >> e allungando una mano le afferrò una manica del cappotto. La ragazza, adesso terrorizzata, cercò di divincolarsi e di liberare il braccio mentre l’ombrellino cadeva al suolo, ruotando sulle stecche sbilenche.  

Sudore vecchio e alcol, il cervello della ragazza registrò questi odori mentre si rifiutava di elaborare pensieri coerenti. Registrò anche un’altra cosa, all’unisono con il cervello dell’uomo che la stava molestando: un ringhio profondo, viscerale proveniente da un essere enorme che era appena emerso dall’ombra alle loro spalle.  

Si girarono insieme, la ragazza e il suo molestatore, verso quella figura semi umana ritta immobile, che in quel preciso momento smise di ringhiare.  

Sparirono anche tutti gli altri suoni. Sembrava che tutta la città si fosse fermata a guardare quell’essere in un silenzio irreale. Per quelli che parvero momenti interminabili non si sentì alcun suono, nemmeno la pioggia sulle grondaie metalliche. Non riuscivano nemmeno a sentire il loro respiro, affannoso per il terrore e la confusione sempre più crescenti.  

L’essere, ancora fermo nella penombra del vicolo, avanzò di un paio di passi, lentamente, strascicando i piedi, fino ad entrare nel cono di luce della lampada all’ingresso di un’abitazione. Inclinò leggermente la testa e attese che le sue vittime lo vedessero interamente, beandosi del terrore crescente delle sue prede. 

Il molestatore tentò di imprecare, ma tutto quello che gli riuscì di fare fu di muovere le labbra a vuoto. 

La creatura, che stava ritta su due gambe troppo corte, aveva un corpo alto più di due metri, umanoide ma sproporzionato: le braccia pendevano pesanti fino alle ginocchia tozze e terminavano in lunghi artigli neri che toccavano il terreno. Indossava un logoro impermeabile aperto e di un colore imprecisato, lungo quasi fino ai piedi.  

Sarebbe potuto sembrare umano, da lontano, ma il volto no, quello non sarebbe mai sembrato di una creatura vivente. 

Un ghigno gli attraversava la faccia quasi da un orecchio all’altro, livido, come una spaccatura su un terreno arido. All’interno si intravedevano denti neri e spezzati. 

Ma erano le cavità oculari a incutere il terrore più profondo, vuote orbite simili ad abissi neri che grondavano denso liquido giallastro.  

 Il mostro si concesse un momento per aspirare profondamente l’odore del terrore delle sue vittime, dopodiché si ritrasse su sé stesso pronto a scattare, continuando a fissarli con quelle sue orbite vuote.  

Aprendo la bocca in un grido muto, il molestatore perse ogni pudore e iniziò a fuggire, inciampando nei propri piedi più volte prima di prendere velocità. La ragazza non lo vide sparire dietro l’angolo, perché i suoi occhi attoniti non riuscivano a lasciare i due squarci che la creatura aveva al posto degli occhi. Quella la fissava di rimando quasi divertita attraverso le orbite vuote. Giocava con la vittima avanzando lentamente, strascicando un passo alla volta, fino a che diede le spalle alla luce della lampada e ripiombò nella semi-oscurità.  

Le lacrime iniziarono a scendere lungo le guance della ragazza, raccogliendosi sotto il mento. Paralizzata dal terrore, non riusciva a muoversi. Fissava sgomenta la fessura del mostro, quella a forma di ghigno, che ora iniziava ad allargarsi spaventosamente fino a che la faccia di quell’abominio non arrivò a metà del petto, somigliando ora ad una buia fornace dalle zanne sbeccate.  

La ragazza non riusciva a fare nulla, non riusciva a muoversi, non riusciva nemmeno distogliere lo sguardo. Non vide quindi la figura che arrivò con un potente balzo dal fondo del vicolo fino a quando la superò, gettandosi in avanti. Con un ampio fendente di qualcosa che teneva in pugno questa mozzò di netto uno dei lunghi arti artigliati della bestia, che volò tracciando un ampio arco in aria. Un denso liquido scuro schizzò lungo una parete, sull’acciottolato e sul cappotto della ragazza che indietreggiò spasmodicamente fino a sbattere contro il muro alle sue spalle 

 Era una scena surreale.  

La creatura abominevole e l’altra figura, che si rivelò essere un uomo con una lunga spada scintillante, tentavano di scannarsi a vicenda nel vicolo reso viscido dalla pioggia e dal sangue. La creatura attaccava con movimenti bestiali, allungando scompostamente l’unico lungo braccio che gli rimaneva, mentre l’altro li schivava con movimenti circolari di una velocità incredibile e rispondeva con ampi fendenti, finte e assalti frontali. Sembrava più un gatto selvatico che un uomo.  

Ma il culmine della follia era che tutto il combattimento avveniva senza il minimo rumore: né lo stridere della lama con le zanne, né i passi nelle pozzanghere, né il gocciolio del sangue della creatura, il che rendeva il tutto identico ad un film a cui era stato tolto l’audio.  

L’uomo lanciò a terra una fialetta di vetro che si fracassò al suolo ai piedi del mostro, e nell’aria curiosamente si iniziò ad avvertire uno strano e forte odore di profumo per uomo. Il mostro spalancò l’enorme bocca in un muto ululato e balzò indietro fino alla ragazza, tentando di raggiungerla con le enormi fauci; le avrebbe sicuramente ingoiato la testa con un unico morso se lo spadaccino non si fosse lanciato in avanti e non l’avesse impedito, scagliandola di lato e facendola cadere a terra. Mentre gli artigli del mostro affondavano nella coscia dell’uomo lasciata scoperta, con un unico movimento egli roteò su sé stesso e tracciò un deciso arco con la lama, che attraversò il collo della creatura come fosse burro.  

Con un conato, la ragazza osservò rapita l’enorme testa che rotolava a terra a pochi passi da lei e il corpo mostruoso che ondeggiava e infine si accasciava a terra senza vita, ma ancora scosso da violenti sussulti. Il sangue zampillava a fiotti da entrambe le parti. 

Nel silenzio, iniziò a udirsi solo il gorgoglio proveniente dal corpo della creatura, che si affievolì fino a sparire. 

<< Stai bene? >> Fu il primo suono che tornò a risuonare nel vicolo. Seppure improvvisa, la voce dell’uomo era calma e profonda, e sembrava amichevole. 

La ragazza riuscì finalmente a staccare gli occhi dalla pozza nerastra che si allargava sull’acciottolato e guardò in alto il suo salvatore. Il ragazzo, perché non doveva avere più di una trentina d’anni, scavalcò il corpo riverso a terra e le porse una mano per aiutarla a rialzarsi, per poi esaminarla subito dopo in cerca di ferite. 

<< No, sto bene…fisicamente… mentalmente...devo riprendermi…questo, questo non è mio…>> disse con voce incerta riferendosi al sangue denso che le impiastricciava il cappotto. Fece un passo verso il ragazzo che stava rinfoderando la spada, ma si allontanò di scatto con un gemito non appena lo ebbe guardato in viso. La stavano guardando un paio di occhi da felino, due lunghe fessure nere circondate da iridi di un giallo acceso.  

Sorpreso dal movimento improvviso, anche il ragazzo fece un passo indietro, portando il peso sulla gamba destra, che cedette di colpo. Imprecando, sembrò ricordarsi solo allora del lungo artiglio spezzato che gli perforava la coscia da parte a parte, residuo dell’ultimo assalto.  

<< Ascolta >> le disse guardandola negli occhi ancora spalancati per l’agitazione e indicando la ferita << se mi occupo un attimo di questa cosa tu prometti di non scappare? Non c’è più nessun pericolo, me compreso. >> senza aspettare risposta si appoggiò al muro stringendo i denti e iniziò a trafficare in un astuccio che tintinnava colmo di boccette.  

Il ragazzo, assorto nella ricerca, frugava con le mani guantate, a capo chino. Era pallido come la morte e la fioca luce del vicolo gli dava un aspetto ancora più malato. I lunghi capelli spettinati sembravano neri nel buio ed erano impiastricciati dalla pioggia e gli si attaccavano alla fronte. 

Sembrava non aver trovato quello che cercava, perché imprecò di nuovo e scivolò leggermente con la schiena ancora poggiata al muro. 

Tirando su con il naso la ragazza prese una decisione. Si avvicinò al ragazzo e gli ordinò di sedersi a terra poco più in là, sotto una tettoia al riparo dalla pioggia. Era talmente decisa e risoluta che l’altro obbedì senza fiatare, lievemente incuriosito dal cambio repentino di atteggiamento. Lei le si inginocchiò di fianco e iniziò ad esaminare la ferita. L’artiglio aveva perforato completamente la parte più esterna della coscia, perforando la fascia muscolare e uscendo dietro.  Non era molto spesso, quindi si poteva estrarre senza troppi danni; bisognava però procedere con calma perché era tanto acuminato quanto fragile. Se si spezzava all'interno della gamba, poi sarebbe stato molto più complicato togliere tutti i frammenti. Si tolse il cappotto e inspirò profondamente. 

<< Mettici questo sopra >> le disse lui tendendole una mano. La boccetta aveva un forte odore di disinfettante, insieme a qualcosa che sembrava salvia, ma non ci avrebbe giurato. Fece come gli aveva detto e il ragazzo si irrigidì per un momento, poi poggiò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi e prendendo fiato.  

La ragazza iniziò a tirare fuori lo spuntone lentamente e il più dritto possibile, i suoi movimenti erano tornati fermi e controllati. Il ragazzo stringeva i pugni fino a farsi sbiancare le nocche, ma a parte questo soffriva in silenzio.  

La paura e la stanchezza se ne erano andate completamente, adesso la mente della giovane era completamente concentrata su cosa andava fatto. Almeno per ora. Come a tirocinio, si diceva, niente di diverso. Doveva sistemargli la gamba meglio possibile perché, riteneva, non avrebbe potuto camminare molto in quello stato, e invece di strada doveva farne ancora parecchia, e trasportando un carico non indifferente: almeno una cinquantina di chili a peso morto, sempre che non l’avesse lasciata lì da sola in quel vicolo. Sperava di riuscire a rimanere concentrata fino alla fine, che l’adrenalina circolasse ancora per un po’. 

Con gli occhi socchiusi il ragazzo osservò la fasciatura che veniva applicata intorno alla gamba, e la spina sul marciapiede a fianco della sua spada. Si passò una mano sul viso e si rilassò; effettivamente aveva un tocco leggero. Era quasi un peccato doverla drogare, tanto più che era anche carina. Colto da un sospetto gettò un’occhiata alla tasca dei pantaloni dove teneva lo Stilnox, e confermando i suoi timori la trovò completamente lacerata. Nonostante la luce fioca gli bastò unocchiata perché trovasse i resti della boccetta che cercava, fracassati in un angolo del vicolo. Adesso non aveva più modo di farle dimenticare. 

 
<< Dovrei aver finito… ce la fai ad alzarti? Con calma, bene… ci vorrebbero
almeno un paio di punti penso, ma per quelli devi andare in ospedale… >> da semi-ubriaca, a vittima e infine a infermiera da battaglia in nemmeno un’ora, si disse gongolando. Aveva mantenuto la calma e aveva risolto tutto, ora che il pericolo era passato aveva solo bisogno di riposo. Si strofinò la faccia con una mano mentre lo guardava caricare poco alla volta il peso sulla gamba, guardingo.  

<< Ah, cos’era quella boccetta di anestetico? Sapeva da quelle… >>  

Lui fece un passo e le si avvicinò, allungò una mano guantata e le accarezzò la guancia. << Ti sei spalmata un po’ di sangue sulla faccia >> si giustificò mentre lei lo fissava con gli occhi spalancati, arrossendo violentemente. Questo fu troppo per lei. Le orecchie iniziarono a ronzare, grosse macchie nere le comparvero davanti agli occhi.  

Il ragazzo la vide vacillare sul posto e la fermò prima che cadesse, se la caricò in spalla con una smorfia e dopo aver riflettuto immobile per un attimo, iniziò a correre sotto la pioggia, con il suo fardello svenuto che sobbalzava. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Si risvegliò in un letto d’ospedale. Nonostante non avesse minimamente idea di dove fosse, su questo punto era completamente sicura. Sebbene quell’edificio sembrasse di almeno cento anni, era indubbiamente una casa di cura di qualche tipo, sicuramente privata. Si guardò intorno con calma. Una stanza spoglia: tre letti con testiere a ringhiera, lenzuola ruvide e rigide. Ai lati, pulsanti di emergenza ingialliti e prese a parete. Non c’era nessun altro nella stanza, ma se servivano altre prove del fatto che fosse un ospedale glielo confermò il camice azzurro spento da paziente che si accorse di indossare. 

La luce del mattino entrava pallida da due ampie finestre a lato della stanza e illuminava i granelli di polvere che volteggiavano pigri nei fasci di luce. Un orologio fisso sopra una delle due porte di ingresso ticchettava placido lo scorrere del tempo; appeso alla sua destra, un crocifisso di legno. Alcuni suoni ovattati giungevano lontani, troppo flebili per capirne la fonte, e dalla finestra si sentivano i richiami degli uccellini lontani. Benché non avesse minimamente idea di dove fosse, la ragazza si sentiva stranamente rilassata e in pace, e dopo aver controllato di non avere niente di anomalo, nessun dolore e nessun ago attaccato alla pelle, si ridistese sul lettino con un sospiro, le mani sulla pancia.  

Voleva assaporare quella tranquillità più che poteva. E poi le serviva un po’ di tempo per riesaminare i fatti del giorno prima, indubbiamente.  

Escluse a priori che i suoi ricordi fossero una semplice fantasia, in quel caso come prima cosa si sarebbe risvegliata nel suo letto.  

Passò in rassegna gli eventi: dalla cena a base di panino al tonno fino al vicolo, dove tornò vivida l’immagine della spaventosa creatura semi-umana che aveva attaccato lei e l’uomo che voleva molestarla. Sembrava come guardare la scena da dietro un vetro, come se fosse davanti ad uno squalo in un acquario. Il suo cervello aveva registrato un sacco di particolari che non aveva colto mentre ansimava paralizzata dal terrore, e ringraziò la sua memoria fotografica perché ricordava moltissimi dettagli. Le tornò in mente l’incapacità di emettere alcun suono che aveva provato e il grido muto in cui era scoppiato l’uomo accanto a lei prima di fuggire. Il silenzio era innaturale e sicuramente causato dall’essere con una qualche specie di magia, perché era svanito non appena quello si era accasciato a terra. Se credeva nell’esistenza di creature del genere, poteva credere benissimo alla magia. Il ricordo dei fiotti di sangue arterioso che zampillavano dal cadavere decapitato le tornò vivido in mente come un pugno e le strinse per un attimo lo stomaco; si passò la mano sul viso cercando di calmarsi. Una cosa del genere rivoltava lo stomaco anche al sicuro dietro un vetro di acquario, a quanto pareva.  

Un rumore metallico fuori dalla porta la fece sobbalzare e si tirò su appoggiandosi sui gomiti. Sembrava un carrello come quelli nel reparto dove faceva tirocinio. Veniva verso la sua stanza. Pensò che potesse essere il ragazzo che l’aveva salvata la sera prima e rimase molto delusa quando vide che era un’anziana signora vestita da infermiera ad aprire la porta. Vedendola sveglia la donna sorrise chiudendo la porta e si avvicinò spingendo il carrello. 

<< Buongiorno tesoro, come ti senti oggi? >> incarnava in pieno l’immagine di “dolce e vecchia infermiera” che ogni persona potesse concepire, un’idea di infermiera che in realtà si pensava non esistesse in natura. Tenuta bianca di ordinanza, corti capelli cotonati del medesimo colore, un placido e rugoso viso da pre-pensionamento con rossetto rosso scuro. Si avvicinò e le sentì la febbre con una mano dalle unghie verniciate di rosso, poi le passò un termometro. 

<< Molto bene, grazie >> biascicò la ragazza, poi si tolse il termometro dalla bocca << Mi può dire come sono finita in questo ospedale? Mi ha per caso portato un ragazzo? Volevo ringraziarlo… >>  

Un’ombra di inquietudine passò sul volto della donna, solo per un istante prima che recuperasse il sorriso. << Ragazzo? Ti ricordi di un ragazzo? Come… >> esitò. << No stella, devono… mi sembra che ti abbiano portato con l’ambulanza ieri notte. Mi sembra che ti avessero trovato svenuta ma… chiederò>>. L’anziana infermiera non perse minimamente l’espressione gentile, ma finì il controllo in modo sbrigativo, salutò e se ne andò spingendo di nuovo il carrello e socchiudendo la porta, facendo tornare la stanza in un silenzioso bozzolo di calma. Il suono del carrello metallico si affievolì fino a svanire. 

Prese in considerazione la versione dell’infermiera solo per un istante.  

Uno.  

Poi si guardò le mani e vide che teneva ancora tra le dita il termometro. Non era plausibile che avesse sognato tutto, ma poteva darsi che una volta svenuta quello strano ragazzo l’avesse lasciata per terra nel vicolo. Era il comportamento della donna e il suo tergiversare a insospettirla, per cui non riuscì a credere che non lo avesse visto, quello strano ragazzo con la spada e un buco nella gamba.  

Doveva avergli fatto proprio male, si rese conto la ragazza mentre guardava le crepe nel controsoffitto. L’adrenalina le aveva impedito di svenire la sera prima, ma non aveva fermato del tutto il tremore delle sue dita. Lui le aveva lasciato estrarre quella specie di punteruolo quasi senza fiatare, a parte un paio di imprecazioni tra i denti. Rivedeva vividamente l’artiglio che usciva tremolando dalla carne della coscia tornita (e protetta da una specie di armatura?), poi il suo sospiro e i suoi occhi penetranti, ma normalissimi: chissà come le era sembrato avessero l’iride felina fino a pochi momenti prima. 

Rivide poi il momento in cui lo aiutava ad alzarsi, e si accorse che indossava davvero una specie di armatura medievale scura – forse di cuoio? – ma il giorno prima travolta dalle emozioni non l’aveva notata. Un ragazzo che uccide i mostri con una spada e in armatura, nel 2015? Sospirò profondamente. L’ipotesi di averlo sognato acquistò di nuovo punti in graduatoria. 

 

Uno stormo di uccelli saettò di colpo davanti alle finestre con un coro di schiamazzi. Seguendo il nugolo di cinguettii la ragazza si alzò dal letto, si sistemò il camice da ospedale che si era arrotolato scompostamente in vita e si avvicinò alle alte finestre, decisa a farsi un’idea di dove era.  

“Sono nella villa di Bruce Wayne”. Questa era l’idea che le balenò non appena scostò le tende leggere e diede una prima occhiata all’esterno. Si trovava almeno al terzo piano di un imponente edificio di inizio Novecento, con pareti spesse e ampi cornicioni. Più in basso alla sua destra vedeva l’esterno di un’altra ala del palazzone, grigia, scurita dal tempo e bucata da parecchie finestre ampie quanto quella da cui guardava. Si trovava evidentemente in una stanza sul retro dell’edificio, poiché si affacciava su un ampio giardino privato circondato con un vecchio e muscoso muro patronale; al di là di questo si stagliava un alto canneto, tipico delle campagne venete. Il parco, progettato per offrire sollievo ai pazienti, ora aveva l’aspetto desolato dell’inverno, ed era coperto da una morbida trapunta di brina. Si riuscivano a distinguere dei piccoli sentieri di ghiaietto, che si allontanavano da un’imponente fontana di pietra per perdersi tra siepi, alberi ora rinsecchiti e aiuole vuote, fino a confondersi nell’ombra. Un’upupa, unica nota di colore, saltellava su una panchina. Si stava sporgendo per riuscire a vedere meglio il cortile sottostante, quando delle voci nel corridoio la fecero trasalire.  

Inciampando nei propri piedi si lanciò a letto, si tirò la coperta quasi fino al naso e finse di dormire, le palpebre socchiuse quel tanto che le consentiva di sbirciare.  

 

<< Ah…dorme ancora…>> era la voce del ragazzo della sera prima, profonda e tranquilla. Socchiuse di più le palpebre per vedere meglio, ma purtroppo erano quasi tutti fuori dal suo campo visivo. Si trattenne dal girare la testa. 

<< Così è questa? Non sembra male…e ti è svenuta tra le braccia?! Oooh, come nei film!>> una seconda persona le si era avvicinata un po’ troppo sfacciatamente e si mise a scrutarla senza ritegno.  << Non è che qui qualcuno ha perso di proposito la droga? Uno a caso eh…? >> la sua tuta grigia e una parte del viso, fino al naso, erano le uniche cose che ora riusciva a vedere. Era un ragazzo mulatto, probabilmente coetaneo dell’altro. Teneva le mani nella tascona della felpa. 

<< Piantala… e parla piano. Sei tu quello che potrebbe fare una cosa del genere.>> 

<> stavolta era una voce anziana, profonda e ponderata. Entrò nel ristretto campo visivo della ragazza camminando a passi lenti. Era un uomo sulla sessantina con corti capelli brizzolati e dei folti baffoni.  

<< C’era un altro che se l’è data a gambe. Faccia da delinquente, alito da ubriaco. No, non mi ha visto, ho aspettato che girasse l’angolo. Penserà di essere stato completamente ubriaco, non sarà un problema. Poi c’era lei sola davanti al babau, ho dovuto attaccare. >> 

<< Certo… a questo punto aspettiamo che si svegli, non ha senso rimanere qui. Meglio che non apra gli occhi vedendo le nostre brutte facce, no? >> 

<< Parla per la tua zietto. Scommetto che non vedrebbe l’ora di vedere la mia di faccia, no?>> era il ragazzo mulatto a parlare. Diede le spalle al letto e proseguì con tono lascivo. << datemi cinque minuti da solo con lei e poi sarà lei a saltarmi addosso, vedrete!>> 

<< Fabio, ma che…>> 

Fece un gesto con la mano rivolto verso gli altri due, la ragazza non poteva vederlo, poi si avvicinò pericolosamente al suo viso. << Shh… già che “dorme” sicuramente non se la prenderà se le do un bacio su quel bel viso arrossito di colpo. Sbaglio Katherina? Mmmh, no, troppo lungo… Sbaglio Kat?>> si allontanò da lei, mani in tasca e sguardo vittorioso. 

Rassegnata, la ragazza aprì gli occhi con il viso in fiamme. Si tirò su sui gomiti e osservò per un attimo i tre personaggi che le stavano di fronte, due ammutoliti, uno con un fastidioso sguardo borioso. Si rivolse a quest’ultimo. << Beh, forse fingevo di dormire per non dover aprire gli occhi e vedere la tua brutta faccia, no?>> 

<< Ahahaha, la signorina riesce a tenerti testa, Fabio! Ti senti meglio stamattina, sì? Bene, allora. In questo caso direi che io e il chiacchierone andiamo a chiedere ad un’infermiera di portarti qualcosa da mangiare. Quando vuoi raggiungerci, con calma, ci trovi di sopra. Ma Nat sa la strada. A dopo Katherina. Domando scusa, ma abbiamo dato un’occhiata ai tuoi documenti, servivano alle infermiere, sai. Katherina, tedesca?>> 

<< Mezza tedesca, mia madre è altoatesina…>> 

<< Ah ecco… beh a dopo allora… e tu levati quel muso e fila in cucina, su! >>  

Con le mani di nuovo nell’ampia tasca, Fabio seguì l’anziano verso la porta, ma all’ultimo girò su sé stesso e si rivolse all’altro ragazzo. << Sapevo che dovevo andarci io di pattuglia ieri notte! A me toccano solo le vecchie o gli ubriaconi!>> esclamò in uno sbuffo. 

All’eco della porta sbattuta con un po’ troppa irruenza seguì un lungo momento di silenzio.  

La ragazza si studiava le unghie evitando il suo sguardo e cercando di decidere cosa domandare per primo. Il ragazzo, stava in piedi al fianco del letto e guardava sovrappensiero un qualche punto imprecisato. Nel momento in cui lei aprì la bocca per parlare il ragazzo indietreggiò fino ad una sedia, la trascinò verso di lei e si sedette, in attesa.  

<< Immagino che sarà una cosa lunga… >>

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


L’orologio appeso alla parete ticchettava placido, incurante dei due ragazzi in silenzio imbarazzato nella stanza. 

<< Beh? Non hai veramente niente da chiedere?>> mormorò il ragazzo con un sopracciglio alzato. 

<< Scherzi?! …non so da dove iniziare! Ok, allora… intanto, come va la gamba?>> 

<< Bene, non era grave>> 

<< Ci hai messo dei punti?>> 

<

<< Ok, meglio così. Poi…quella cosa mostruosa di ieri notte, era reale? >> 

<< purtroppo si… >> 

<< e cos’era? >> 

<< era un Babau>> 

<< Babau? Come quelli delle storielle che ci raccontava la nonna da bambini? È uno scherzo?! >> 

<< purtroppo no… >> 

<< …se continuiamo con i monosillabi andremo avanti fino a stasera. Sei un narratore nato, davvero! >> 

Un sorriso sarcastico. <

<< No, no, per carità, meglio i monosillabi! Ah… non ti ho chiesto come ti chiami, scusa… io sono Katherina, chiamami anche Kat va’, visto che è stato decretato che Katherina è troppo lungo…>> 

<< Anatolij >> 

<< Genitori originali anche tu?>> 

<< più o meno, diciamo di sì… >> concluse la frase con sospiro rassegnato, quello di chi ha già raggiunto il numero massimo giornaliero di parole già prima di pranzo. Poi riprese: << …Va bene, allora, quello che ti ha attaccato ieri notte era un babau, sì, il folklore ha quasi sempre un fondo di verità. Attacca di notte, da solo, e si circonda di un’aura in cui vibrazioni sonore e onde non riescono a propagarsi, te ne sarai accorta immagino, ecco, così le sue vittime non possono chiedere aiuto. Né nessuno da fuori riesce a sentire le urla di dolore, tra l’altro. Non può vedere, avrai notato le orbite deliziosamente vuote; attacca con il fiuto. >> 

<< oh, per questo sapeva così tanto da profumo quando sei arrivato? >> 

Un sorriso impercettibile. << Si codesto mostro, strego, tu affrontare devi, una ampolla di greve odore su di esso spargi. Poscia che l’effluvio ha l’aere immondato, cum argento affronta lo babau acciecato.>>  

In risposta, ottenne un paio di sopracciglia esageratamente alzate. E sospirò per l’ennesima volta. << Abbiamo un libro, che contiene quasi tutte le tipologie di creature finora avvistate, con indicazioni su aspetto, abilità e tattiche per affrontarli…lo impariamo praticamente tutto a memoria. Avrai intuito che non è proprio un’edizione recente. Al babau ho tirato una fialetta di profumo, così non riusciva a concentrarsi su di me. Funziona con un sacco di predatori che cacciano con l’olfatto. E i campioncini sono gratis!>> concluse con un mezzo sorriso. 

La ragazza sorrise di rimando, poi stette in silenzio, mentre il sorriso pian piano scemava. 

<< …ma voi chi siete? >> sussurò. La ragazza si rese conto che questa forse era la domanda più importante di tutte. 

<< A questa non rispondo, lo chiedi dopo a Viktor. Lui la racconta molto bene >> 

<< Come a questa non rispondi?! Ma se è la più importante! Dei tizi che affrontano mostri con armatura e spada, di notte, nel 2015 e questa non me la vuoi spiegare?! …ah! Perché l’armatura medievale? Non ci sono protezioni migliori al giorno d’oggi?>> 

<< È fatta come quelle medievali, ma non lo è. L’esterno è foderato di cuoio, ma all’interno c’è uno spesso strato di Kevlar, quello che si usa per i giubbotti antiproiettile.>> 

<< Si lo so qual è, guardo parecchi polizieschi. Beh, ma perché allora ha la forma di un’armatura medievale?>>  

Furono interrotti da un bussare deciso alla porta. Entrò l’infermiera di prima spingendo un carrellino. Vedendo i due, vergognandosi per la bugia detta un’ora prima, abbassò lo sguardo e servì la colazione in fretta, diede un lieve cenno di saluto e uscì mesta dalla porta. 

Guardando il tè caldo e le fette biscottate che aveva nel vassoio, la ragazza si rese conto di morire di fame. << Insomma, devo farmi attaccare da un mostro orripilante e salvare da un guerriero misterioso per avere la colazione a letto… >> 

<< Non ne vale troppo la pena, direi, per una colazione da ospedale! >> La guardò con una punta di sarcasmo mentre il sole gli inondava metà del viso. La sua carnagione era davvero pallida, ma non malata come le era sembrata la sera prima. I suoi capelli, non più bagnati dalla pioggia, erano castano scuro tanto da sembrare neri, e cadevano in una frangetta corta, spettinata sul lato destro della fronte. Sotto le sopracciglia folte, l’occhio illuminato dalla luce brillava dorato, fisso nei suoi. Katherina tornò di colpo alla sera prima, quando con quello stesso sguardo, forse leggermente più preoccupato, le aveva preso il viso fra le mani per pulirlo dagli schizzi di sangue. Il ricordo delle dita guantate sulla sua pelle le serrò lo stomaco; le famose farfalle stavano andando sulle montagne russe. Avvampando, si concentrò sulle operazioni di farcitura delle fette biscottate come stesse operando a cuore aperto. 

Per poco non si strozzò con il cibo quando improvvisamente le tornò in mente una frase. << Volevate drogarmi?!>> urlò. Era una frase a metà tra un’indignazione e un’accusa; sicuramente non era una domanda. 

Il ragazzo, lievemente sorpreso dallo scatto, rimase un attimo interdetto, poi ricordò che Katherina aveva ascoltato tutta la conversazione avvenuta mentre fingeva di dormire e collegò. Fece un breve sospiro ed evitò per un attimo di guardarla. Sovrappensiero, si sistemò la frangia scura con la mano. 

<< È così che facciamo. Quando capita di salvare qualcuno da qualche mostro dobbiamo fargli dimenticare tutto, altrimenti poi saprebbe che esistiamo e che tipo di bestie ci sono là fuori. Quindi di solito droghiamo il soggetto e se sta bene lo scarichiamo all’ospedale più vicino. In questo modo di solito pensa di essere stato aggredito da qualche balordo o di essere stato completamente ubriaco e il problema finisce lì. Capisci che è una cosa che va fatta immediatamente dopo, già dopo mezz’ora dall’attacco si rischia che la persona ricordi qualcosa. Si, non serve che fai quella faccia, ma è il metodo meno problematico che ci è venuto in mente. Prova a pensare alle conseguenze se si sapesse cosa c’è là fuori: tu che faresti?>> 

<< e c’è qualche motivo per cui io sono stata graziata? >> 

Scivolò leggermente sulla sedia. << La dose per te ce l’avevo nella tasca bucata dall’artiglio quindi non ho potuto somministrartela. È stata una coincidenza incredibile… >> 

<< ah, per questo quindi, per una coincidenza, che io ora sono una vostra conseguenza… e che fate alle conseguenze? Le ammazzate e le scaricate davanti all’ospedale più vicino?!?>>, per la pressione, la fetta biscottata le si frantumò fra le dita, riempiendo di briciole il copriletto. 

<< Non serve agitarsi tanto, abbassa la voce. Non lo so cosa ne facciamo, a noi non era ancora mai successo, non lo so… ma non ti scaricheremo da nessuna parte, di questo stai sicura. >> 

Il ragazzo stizzito controllò l’ora sul cellulare, poi si alzò. Aveva da fare una cosa, poi avrebbe raggiunto lei e gli altri al piano di sopra. 

<< Non ti puoi sbagliare, quando hai finito esci e vai in fondo al corridoio, su per le scale e poi a destra. Saremo già tutti là. >> Era già mezzo fuori dalla porta quando lei lo richiamò. 

Gli indicò il camice sottile che aveva addosso con il resto della fetta biscottata. << Dove sono i miei vestiti?>> 

Anatolij esitò un secondo. << Ok, torno fra poco >> disse uscendo dalla porta. 

 

 

Katherina indugiava davanti ad una porta di legno scuro. Stava cercando il coraggio di bussare e contemporaneamente un qualche segno che fosse la stanza giusta.  

Uscita dalla stanza in cui si era svegliata, si era trovata in un normalissimo corridoio da ospedale, con i colori bianchi e verdi sbiaditi tipici e i corrimani di legno alle pareti, solo forse un po’ troppo datato anche per la media nazionale. In tutto il piano, aveva constatato, non c’era anima viva, nemmeno l’infermiera di prima; tutte le luci erano spente e la fioca luce invernale che entrava dalle finestre creava lunghe ombre. Tendendo l’orecchio la ragazza aveva sentito dei rumori e delle voci dal piano di sotto, quindi immaginò di essere stata messa in un piano in disuso.  

Aveva proseguito fino alle scale e si era guardata intorno prima di salire. Procedeva lentamente strascicando i piedi; qualcosa in lei aveva paura di arrivare fino in cima e di trovarsi faccia a faccia con tutti quegli strani uomini riuniti. Quanti sarebbero stati? Tre? Dieci? Cinquanta? E cosa le avrebbero fatto ora che sapeva? I gradini le erano sembrati troppo alti e ripidi.  

Finite le scale si era ritrovata in un’ambiente completamente diverso da quello al piano di sotto: sembrava ora più una vecchia scuola superiore che un ospedale. Il colore del legno consumato dominava lo sguardo; il pavimento era ricoperto da un vecchio parquet rovinato, così come un rivestimento ligneo percorreva le pareti fino ai corrimano. Anche qui regnava una soffice penombra silenziosa e i piccoli granelli di polvere danzavano pigri davanti alle finestre; le era tornato in mente di nuovo il paragone con la villa dei Wayne. Aveva preso il corridoio a destra fino a giungere all’unica porta da cui provenivano delle voci sommesse, ed era lì che era rimasta, impalata davanti alla porta.  

Si sistemò al meglio l’enorme felpa scura e controllò il suo aspetto: sembrava un rapper.  

 

Mentre stava finendo gli ultimi sorsi di tè rovente, il ragazzo era tornato nella sua stanza con brutte notizie: i suoi vestiti si stavano ancora asciugando, così le aveva portato qualcosa di provvisorio dal suo armadio. La ragazza doveva ammettere che la lunga felpa nera e i pantaloni coordinati erano parecchio comodi, ma purtroppo erano di almeno dieci centimetri troppo lunghi: dalle maniche spuntavano solo le estremità delle dita e gli orli dei pantaloni le finivano sotto le scarpe. Aveva cercato di rimborsare tutte le estremità, ma continuavano a srotolarsi. 

Ma stare ferma davanti ad una porta disquisendo di moda non avrebbe fatto sparire i problemi, così, si sistemò i capelli dietro le spalle e raccolto il coraggio bussò alla porta. 

 

Venne accolta in un grande studio spazioso. Il legno dominava anche quella stanza con ampie librerie alle pareti, parquet sul pavimento, e con un enorme tavolo circolare al centro di tutto. Di legno scuro anche quello. 

Le pesanti tende erano state tirate completamente, tuttavia il sole lattiginoso dell’inverno non riusciva a rendere luminosa la sala e aleggiava una debole penombra qui come nel resto dell’edificio; le luci erano spente. Seduto ad un capo del tavolo c’era l’anziano di prima, con un’espressione gentile e le mani giunte; le fece cenno di accomodarsi dove preferiva. Katherina si sedette lontano dall’altro ragazzo che aveva visto quella mattina, Fabio, che stava stravaccato sulla sua sedia guardando il cellulare. Così assorto, la ragazza poteva guardarlo bene, sembrava molto esile sotto gli ampi vestiti, la sua carnagione leggermente ambrata risaltava maggiormente il viso magro. Aveva i capelli castano scuro, rasati ai lati e medio-lunghi in cima, legati in un codino. 

“Se non fosse per il carattere sarebbe carino”, pensava guardandolo di sottecchi. 

Sentì un fruscio alle sue spalle e, girando la testa, vide alzarsi da una poltrona un colosso di ragazzo, di quasi due metri e dalla pelle nera scuro; non si era accorta minimamente della sua presenza e la sua mole imponente e inaspettata la impaurì non poco.  

Ignaro di tutto lui, sorridendole leggermente, le si sedette vicino. Aveva una carnagione del colore dei chicchi di caffè e i muscoli delle enormi braccia si tendevano sotto la maglietta; il suo volto era pacato e gentile, e le fece passare l’inquietudine causata dalla mole imponente.  

Dopo alcuni minuti di attesa, nei quali l’anziano fece le classiche domande di cortesia, arrivò anche Anatolij, che si sedette borbottando una scusa per il ritardo. Il vecchio si preparò a parlare e come un sol uomo i tre ragazzi si sedettero composti e in ascolto, i cellulari sparirono come pure le braccia dietro la testa.  

Katherina sentì l’aria farsi di colpo più tesa. 

<< Bene allora, siamo tutti qui. Purtroppo non siamo più tanti quanto una volta. Katherina, lui è Hamidi, e io sono Viktor, gli altri due li conosci. >> Strinse la mano all’anziano e al ragazzo, che la ricoprì con la sua sorridendo lievemente. Poi il vecchio continuò. << Anatolij ti avrà detto che di solito abbiamo un metodo per non far conoscere ai civili cosa facciamo e cosa si aggira nel mondo, e devo dire che sono state rare le volte in cui non ha funzionato. Personalmente ho visto solo un altro caso nella mia vita, ed ero ancora un giovane sconsiderato, per cui non ho prestato l’attenzione che la questione meritava. Ah, prima di tutto ti rassicuro dicendoti che in ogni caso non ti verrà fatto alcun male, ma è possibile che verrai sottoposta a ipnosi, in modo da farti dimenticare. >> 

<< Per il momento però mi devi giurare che non lo dirai a nessuno, che non lo confiderai nemmeno a tua madre, al tuo ragazzo e nemmeno al prete durante la confessione. Abbiamo i mezzi per essere certi della tua fedeltà alla parola data, anche più di uno. Se dovessi raccontarlo a qualcuno, in quel caso, anche se controvoglia, saremmo costretti ad uccidere te e coloro ai quali potresti averlo detto. Spero che ti sia ovvio, nonostante tu non mi conosca per niente, che non troverei il minimo piacere nel dare questo ordine, per cui dimmi che hai capito e giurami che manterrai il segreto.>> Il tono calmo e pacato con cui l’anziano aveva iniziato a parlare aveva aumentato di intensità, in un crescendo minaccioso e gelido. La sua espressione era diventata di ghiaccio. 

Katherina sentì lo sguardo dei quattro sconosciuti addosso, che lampeggiava ferocia. Si raddrizzò sulla sedia e guardò Viktor con lo sguardo più autorevole che poteva. Era parecchio spaventata. << Giuro che manterrò il vostro segreto… non che abbia tanta scelta in ogni caso. >> 

L’anziano sorrise mesto e l’atmosfera si rilassò istantaneamente. << No, in effetti non ne hai molte>>. La sua espressione era tornata gentile e comprensiva. La ragazza, che si accorse solo allora di essere seduta sulla punta della sedia, si rilassò e si appoggiò allo schienale. 

<< Adesso che ho giurato, mi dite chi siete e a che specie di setta segreta fate parte? Anatolij non me l’ha voluto dire prima. >> 

<< “Setta”? questa è proprio una brutta parola… >>  

<< Io non ho mai detto setta…>> 

<< Siamo ovviamente una ONLUS!>> lo interruppe Fabio sornione. 

Viktor li ignorò. << … quello che volete, non è importante chi siamo, ma cosa facciamo. Vedi cara, creature come quella di ieri notte sono nate insieme con il mondo. Quindi, insieme al mondo esistiamo noi, che le combattiamo, le conteniamo, ed evitiamo che facciano del male alla gente. Ci chiamano con molti nomi: Streghi, Wiedzmin, Monster Hunters, e in un sacco di altri modi singolari. Siamo sparsi un po’ per tutto il mondo in piccole congreghe e quando ci chiamano andiamo dove serve; il resto del tempo lo passiamo ad allenarci e a prepararci al meglio per il prossimo scontro. Uno strego difficilmente muore nel suo letto.>> 

<> A parlare era Hamidi, la sua profonda voce baritonale risuonava acida nella stanza mentre si passava una mano sul cranio rasato.  

<< Già, non sempre i mostri hanno le zanne o i tentacoli. Purtroppo. >> confermò Viktor.  

 

Il lungo silenzio che seguì fu interrotto dalla ragazza, che venne colta da una domanda. << Ma se nessuno sa di voi, allora chi vi chiama?>> 

<< Questa è un’osservazione intelligente.>> l’anziano strego annuì in segno di approvazione. <

<< Mmmh…la polizia? L’esercito? >> 

<< Gneeeeee! Quelli cambiano sempre! Devi pensare a qualcosa di più arcaico e più radicato. Niente?>> in risposta all’espressione confusa della ragazza, Fabio giunse le mani come in preghiera. 

<< Sul serio??? No, ma aspetta, e in Asia o in Africa come fate?>> 

<< Più di un’organizzazione ho detto. Il Vaticano qui, La Mecca là… siamo neutrali, non appoggiamo nessuno, facciamo solo il nostro lavoro.>> 

<< La rete di intelligence religiosa è formidabile! E poi sono anche dei maestri nell’insabbiamento nel caso trapeli qualcosa! Francisco ha i potenti mezzi! >> Fabio le fece l’occhiolino. 

 

Katherina era sbalordita. Sprofondò di più nella sedia, nell’ampia felpa e nei pensieri fissando un punto in mezzo al tavolo. << E come si entra nella vostra congrega? >> domandò continuando a guardare lontano.  

Percepì un pesante gelo calare tra i presenti, che la costrinse a distogliere lo sguardo e a portarlo verso l’anziano. 

Viktor prese tempo in un lungo respiro prima di parlare. Guardava il tavolo di fronte a sé. << Questa è la domanda più difficile a cui io possa rispondere. Entrare non è un privilegio, più una condanna. Ti ho detto che gli streghi non muoiono nei loro letti… gli aspiranti streghi, invece, possono morire anche molto prima.  Affrontando esseri mostruosi, con forza sovraumana, velenosi, invisibili, un uomo normale soccomberebbe facilmente anche con tutto l’allenamento possibile, per cui le congreghe secoli fa hanno messo a punto un…trattamento…per avvantaggiare i suoi soldati. Si chiama Prova delle Erbe, e purtroppo può avere effetti menomativi o mortali in chi la assume. E anche chi sopravvive, oltre a ottenere capacità sovrumane, non ne esce senza qualche mutazione indesiderata…anche se non è nemmeno lontanamente paragonabile ai tormenti di chi non ce la fa…siamo riusciti negli ultimi anni ad alzare il tasso di sopravvivenza a quattro su dieci...ai miei tempi era di tre…>> il viso di Viktor rimaneva impassibile, ma la mascella era contratta. 

<< Quindi… vuoi dire che se voi siete qui in quattro…>> 

<< …si…>> Anatolij non riusciva a guardarla negli occhi. 

<< ma…chi vorrebbe sottoporsi a qualcosa di così mortale e con così basse probabilità di rimanere vivo? Perché voi avete accettato di fare una cosa così pericolosa?>> La ragazza guardava gli altri seduti al tavolo; faticava ancora a credere alla mole di informazioni che stava acquisendo, alla storia delle congreghe sostenute dalla Chiesa, e ora questa specie di addestramento suicida. Sembrava una storia di qualche libro fantasy, non poteva essere qualcosa di reale. Non trovava possibile che qualcuno potesse consapevolmente sottoporsi ad un trattamento con il 60% di possibilità di morte, anche se poteva conferire chissà quali poteri sovrumani.  

I ragazzi tacevano guardando il tavolo. Anatolij strofinava via dal tavolo una macchia invisibile con un dito. Il più anziano si passò una mano sul collo, poi fissò intensamente Katherina. Un sorriso amaro gli si aprì sul volto segnato dalle rughe. 

<< Se tu fossi sola, sperduta, stremata dagli stenti o dai soprusi, se sapessi che la fame e la sete ti concederanno al massimo un altro paio di giorni prima di farti crollare al suolo senza vita.>> la voce dell’uomo era un mormorio sommesso. Sembrava quasi parlasse a sé stesso. <> Alzò la testa rimasta china per tutto il tempo e la guardò. Katherina era incapace di sostenere il suo sguardo. << La congrega ci ha trovato quando non avevamo più nulla e ci ha regalato altra vita… anche chi è morto durante la Prova ha avuto un altro po’ di tempo. Chi non l’ha vissuto non può capire la nostra scelta.>> 

<< Hai ragione. Posso provarci, ma non riesco a capire fino in fondo.>> Guardò i volti degli altri presenti e incontrò quelli di Fabio. 

<< Mi hanno trovato nelle Favelas di Rochinha, avevo sei anni. >> disse con un unico sospiro distendendosi sulla sedia. 

<< Baraccopoli di Kibera, in Kenya. Ne avevo otto.>> la voce profonda di Hamidi aveva una punta di amaro mentre si esaminava le unghie delle mani. 

<

Viktor fissava un punto lontano. <> La sua voce era un sussurro. 

 

Ritornarono tutti a quei giorni, ai tormenti e alla fame, Katherina lo vide chiaramente nei loro volti. Non aveva bisogno di averla provata, un po’ della loro sofferenza si impadronì di lei. Si strinse le braccia al petto e sprofondò nella sedia tentando di assimilare tutto quello che aveva sentito. Quei volti proveniente dai più lontani e oscuri angoli del mondo avevano conosciuto la stessa sofferenza, e avevano scelto l’addestramento e la speranza della sopravvivenza, piuttosto che la sicura morte. Avevano scelto la mutazione e il rischio di morire, e ora difendevano la gente da creature demoniache senza che nessuno sapesse nulla. Al cinema uscivano i film con i cacciatori di demoni o i fantasmi, mentre in realtà succedeva sul serio. “Continua a essere tutto completamente folle” rifletté. 

 

Tornando in sé, lasciò cadere il laccetto della felpa che stava mangiucchiando. Era un brutto vizio che aveva da piccola, e che aveva perso durante l’adolescenza, ma che le tornava nei momenti di stress. Sperò che Anatolij non se ne fosse accorto visto che era la sua felpa. Ma il suo sguardo era rivolto al tavolo. Di nuovo, si passava una mano fra i capelli sovrappensiero. 

<< Allora, adesso cosa devo fare?>> la sua voce fece tornare al presente tutti quanti, riportandoli nello studio in penombra dai luoghi più bui dove erano finiti. 

<< Niente, cara. Quando i tuoi vestiti saranno pronti potrai tornare a casa e continuare come nulla fosse. Io devo parlare con un paio di persone e quando avremo capito come agire ti chiameremo di nuovo. Ti ricordo della tua promessa. >> si alzò dalla sedia e si avvicinò alla porta, invitandola a raggiungerlo. << Buona giornata, Katherina.>>

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Era un pomeriggio uggioso e di un freddo pungente. L’umidità sembrava ricoprire ogni cosa come un lenzuolo bagnato. L’autobus proseguiva la sua corsa altalenante, accelerando e frenando aritmicamente in mezzo al traffico. L’aria al suo interno era quasi soffocante; il caldo esagerato del riscaldamento e l’umidità che evaporava dai vestiti e dalle borse impregnava l’aria e appannava completamente i finestrini. Katherina usò un dito per pulire un po’ il vetro e – consapevole della quantità abnorme di germi che aveva appena raccolto – lo ripulì su un fazzoletto di carta. L’autobus stava uscendo lentamente dal centro e si dirigeva verso la zona delle ville venete. Il paesaggio scorreva rapido lungo la fessura nel vetro appannato ed era difficile distinguerne i tratti.
Sperò di non perdere la fermata.
La pioggia ghiacciata faceva desistere la maggior parte delle persone a muoversi a piedi, e i pochi coraggiosi sfilavano veloci dal finestrino dell’autobus. Dietro di loro, i muri dei palazzi iniziavano a diradarsi e le case indietreggiavano dalle strade lasciando spazio a più ampi giardini. Kat controllò l’ora e tornò a scrutare nella fessura tra la condensa.
Erano passate quasi due settimane dall’attacco del mostro, e fino alla mattina precedente non aveva più avuto notizie dagli streghi. Lentamente aveva dimenticato quell’esperienza e l’aveva relegata in un angolo sfocato della sua mente, tornando alle normali abitudini di studentessa fuori sede e alla preparazione della sessione d’esami. Questo fino alla mattina precedente e alla chiamata persa che aveva trovato sul cellulare.
 
 
<< Pronto? Ciao sono Anatolij. Eri a lezione? >> sentendo quella voce profonda e familiare il suo cuore saltò un battito. Era uscita all’esterno, sulle scale metalliche di emergenza in modo da evitare il chiasso degli altri studenti in pausa.
<< Si, ma ora ho quindici minuti. Dimmi. >> una nuvoletta bianca le uscì dalle labbra. Rabbrividì leggermente.
<< martedì pomeriggio, domani pomeriggio… dovresti venire da noi qui ad Arkham perché Viktor dovrebbe parlarti. Ce la fai verso le 3-4?>>
<>
<< Beh, diciamo che “Casa di cura per igiene mentale San Giorgio” era leggermente lungo, gli abbiamo trovato un soprannome. >> Kat immaginò il sorriso appena abbozzato dall’altro capo del telefono. <>
<>
<>
<<…lascia perdere…>>
 
Di colpo era precipitata nuovamente in quel mondo pieno di mostri nascosti nei vicoli e nei boschi, e pieno di strani uomini che li cacciavano con spade e armature. Subito desiderò che arrivasse il domani, per poter tornare ad Arkham – evidentemente anche loro avevano visto un’analogia con la villa di Bruce Wayne – e per poter rivedere gli streghi. Sì, stava mentendo a sé stessa, voleva rivederne solo uno. Si rimproverò per l’agitazione che le faceva formicolare lo stomaco ogni volta che pensava ad Anatolij: non voleva sembrare una ragazzina delle medie, maledizione!
 
 
Una brusca frenata dell’autobus ad un incrocio la fece tornare alla realtà. Chiudendosi la sciarpa più stretta sul viso, sbuffò al formicolio del suo stomaco, e si avviò verso la porta, ciondolando al ritmo del veicolo.
 
<>
<> l’infermiera compose un numero interno sistemandosi gli occhiali sul naso aquilino.
Kat rimase in attesa in disparte, guardando dalle ampie finestre gli uccellini che svolazzavano tra gli alberi scheletrici.
<>
La ragazza riconobbe la voce e si girò. Fabio la osservava in tenuta da palestra con un sopracciglio alzato e l’espressione interrogativa. A dispetto di come le era sembrato era sì esile, ma allo stesso tempo si intravedevano i muscoli definiti, tra i vestiti da ginnastica. Aveva pantaloncini e maglietta completamente zuppi e logore scarpe da ginnastica. Katherina immaginò fosse sudore. Aprì la bocca come per fare una domanda, poi la spalancò. <> esclamò. <>. Si indicò i vestiti fradici e voltandosi le indicò con un ampio gesto teatrale un lungo corridoio sulla destra.
Kat fece un paio di passi guardando la sua espressione perennemente sardonica, ma si bloccò fissandolo. Lui si fermò a sua volta guardandola senza capire. <<…il tuo occhio…>>
La fissavano sorpresi un occhio scuro, banalissimo, e un occhio, il sinistro, con una lunga pupilla felina, stretta e acuminata, circondata da un’iride di un colore ambra intenso.
Le tornò in mente la notte dell’attacco, dove prima di perdere i sensi le era parso che anche Anatolij avesse gli occhi da gatto selvatico.
Appena capì di cosa parlava Fabio si rabbuiò leggermente. <> dicendolo, istintivamente aveva girato la testa per allontanarsi dalla sua vista. Continuò guardando verso il fondo del corridoio, a bassa voce. << Ti ricordi quando si parlava di mutazioni dovute al diventare uno strego? Beh questa è una delle mie>>. Si grattava nervosamente i capelli rasati.
<>
<< Tranquilla. >>
Iniziarono ad andare. Katherina lo seguiva a pochi passi di distanza. <>
<< È fatto per vedere bene di notte, con questi ci si vede bene anche al buio, anche se in bianco e nero. Gli occhi degli altri, e anche il mio destro, tornano normali quando non serve, invece questo rimane così. Di giorno si vede un po’ scolorito. Di qua, vieni.>>
Fabio imboccò una porta a spinta con passo spedito e Kat immaginò conclusa la conversazione. “Sicuramente allora anche Anatolij li aveva così quella notte, entrambi gli occhi” concluse la ragazza, e si ripromise di prestarci attenzione.
Attraversò anche lei la porta e si ritrovarono nel pieno della casa di cura. Vari pazienti procedevano lentamente lungo il corridoio e si fermavano al loro passaggio, altri, seduti sulle sedie, continuavano a fissare meraviglie e ricordi visibili solo ai loro occhi senza degnarli di uno sguardo. Voci sommesse provenienti dalle camere e altre più forti delle infermiere si alternavano a grida, imprecazioni e bestemmie improvvise. Scambiandoli per personale medico, alcuni pazienti chiamavano i due ragazzi a gran voce dalle loro camere, invocando richieste o urlando balbettii incomprensibili. Fabio, seguito a ruota dalla ragazza, entrò sicuro in una stanza sulla destra.
Ignorando totalmente i buoni propositi che Kat si era imposta in precedenza, lo stomaco della ragazza fece un paio di capriole non appena riconobbe Anatolij seduto in fondo alla stanza.
Il ragazzo contemplava una bambola di pezza che una ragazza, seduta sul letto accanto a lui, pettinava amorevolmente.  Sedeva immobile nel suo normale silenzio, i gomiti poggiati sulle ginocchia.
La paziente, altro non poteva essere dato il braccialetto bianco al suo polso, sembrava completamente assorta dal suo lento e maniacale lavoro di spazzola. Doveva avere almeno una trentina d’anni, anche se il suo viso era parzialmente coperto dai capelli scuri che le scendevano fino alle spalle. L’operazione la assorbiva del tutto e probabilmente per questo ignorò completamente i due nuovi arrivati.
Le bambole venivano date a molte pazienti di sesso femminile nelle case di cura e di riposo, che le trattavano quasi come figlie loro; Kat l’aveva visto anche quando sua nonna era stata ricoverata.
Nella stanza c’erano anche altri tre letti: uno vuoto e sfatto, in un altro un anziano borbottava nel sonno e nell’ultimo una donna di mezz’età guardava la piccola televisione appesa alla parete con la bocca semiaperta e l’espressione vuota.
Fabio ruppe il silenzio con un’improvvisa ondata di parole, seppure a bassa voce. << Ehi Nat, te la lascio qui mentre vado a farmi una doccia e cambiarmi, ti giuro, ero convinto che l’incontro fosse domani! Un quarto d’ora e vi raggiungo su, tranquillo. A dopo. >> senza aspettare la minima risposta girò sui tacchi e sparì fuori nel corridoio, facendo ripiombare la stanza nel silenzio, la televisione a basso volume emetteva un borbottio confuso.
La donna seduta al fianco di Anatolij finì con un lieve sorriso di pettinare la sua bambola, guardò il ragazzo e gli allungò la spazzola, che lui prese con un cenno. La guardava con uno sguardo triste ma carico di comprensione. Kat si domandava che tipo di legame avesse con quella ragazza: poteva essere la sorella? La cugina? Probabilmente no. E se fosse stata una vittima di un mostro che lui non era riuscito a salvare in tempo? L’ipotesi sarebbe stata perfetta per un qualche romanzo, forse non per la realtà, ma visto le cose surreali che vorticavano intorno a Anatolij, come poteva non essere plausibile?
Dato che il ragazzo non si decideva a fare qualcosa, la mente di Kat riempiva il vuoto con elucubrazioni.
Poi, finalmente, Anatolij sembrò come riscuotersi e alzò la testa nella sua direzione.
<> le disse piano.
<> si bloccò a metà frase sentendosi osservata.
Tre paia di occhi spalancati la stavano guardando.
Il tempo si gelò.
All’unisono, in un unico scatto sincronizzato e repentino, i tre pazienti nella stanza avevano ruotato la testa nella direzione di Kat, come delle marionette tirate dallo stesso burattinaio.
I due malati prima distesi sul letto, perfino quello che dormicchiava, si erano seduti sul letto come un sol uomo e con sguardi vitrei fissavano la ragazza che li guardava impietrita. Anche la paziente trentenne la fissava, stringendo convulsamente la sua bambola.
Al fianco di Katherina – lei non l’aveva visto alzarsi – era comparso lo strego, in posizione difensiva.
Con una voce che non apparteneva a nessun uomo e nessun luogo i tre pazienti, all’unisono, mormorarono:
<< Ti
– abbiamo –
trovata.>>
 
Anatolij, confuso, analizzava spaesato la situazione, ma i suoi riflessi, preparati dagli interminabili allenamenti, l’avevano fatto scattare in automatico, i muscoli pronti. Un braccio era teso davanti al corpo della ragazza come una barriera, l’altro era andato automaticamente dietro la schiena in cerca della spada. Trovando il vuoto, il suo viso aveva avuto un moto di stizza.
 
Kat era terrorizzata e incapace di respirare. I suoi occhi saettavano spalancati da un paziente all’altro. Con un gemito indietreggiò di colpo, inciampando in una sedia ai piedi di un letto vuoto.
La sedia stridette violentemente sul pavimento.
L’improvviso rumore ruppe il sortilegio come un ago con una bolla di sapone: così come era cominciato un tratto era tutto finito, e i pazienti tornarono silenziosamente a quello che stavano facendo e, soprattutto, ad ignorare Kat come se nulla fosse accaduto.
I due pazienti sui letti tornarono a distendersi lentamente, tirandosi su le coperte. La ragazza della bambola si mise a guardare fuori dalla finestra, ancora seduta sul materasso.
 
I cambiamenti erano stati così repentini e surreali che Anatolij rimase interdetto e per un momento esitò, immobile. Poi, con cautela e movimenti controllati, prese Katherina per le spalle e lentamente la accompagnò fuori dalla stanza, controllando al tempo stesso i movimenti dei pazienti in attesa di una qualche reazione.
La ragazza, con gli occhi sgranati e il respiro corto, lo guardò con ansia, cercando una qualche risposta alle mute domande che le si affollavano nella mente, ma si lasciò guidare senza opporre resistenza. Non osava emettere il minimo suono.
I due lasciarono la stanza nel più assoluto silenzio, anche se i pazienti ormai erano ritornati ai loro mondi fantastici e non gli prestavano più alcuna attenzione.
 
Kat recuperò un respiro regolare solo quando arrivarono ai piani superiori, quando tornarono ai sicuri corridoi di parquet del quarto piano. Anatolij l’aveva portata in una specie di salotto e si erano seduti su un lungo divano ad un lato della stanza.
<<...cosa cazzo è successo?>> mormorò con un sussurro sentendosi ora abbastanza al sicuro da parlare.
<> Anatolij guardava davanti a sé. <> il ragazzo appoggiò la testa sulle mani e rimase in silenzio. Ripassava a mente la scena, cercando di far quadrare i pezzi.
 
Dopo un paio di minuti sospirò e si gettò indietro sul divano, sprofondando. Poi studiò Kat, che guardava nel vuoto. Giocherellava nervosamente con il telecomando che aveva trovato tra le pieghe del divano e per un momento vide Anna, che pettinava la sua bambola con tanta cura. L’amarezza si impadronì di lui per un attimo, ma subito si costrinse a tornare in sé. Non ci sarebbe caduto di nuovo.
<> il suo mormorio riportò la ragazza alla realtà. Parlava tra sé, per far quadrare il ragionamento. <>
Lei lo guardò non trovando nulla da dire.
Il ragazzo vide il suo sguardo e gli fornì una spiegazione.
<>
<> non era un’accusa, il tono era rassegnato.
<>
<> piantò gli occhi verdi nei suoi, in attesa di una risposta.
<> ritornò a parlare a sé stesso << …Ha preso il controllo dei malati perché la loro mente è debole… in più il colpevole non deve essere nemmeno troppo potente visto che per rompere il legame è bastato un rumore improvviso... Non appena sarà finita la riunione inizieremo a fare un po’ di ricerche.>>
<>
<> le chiese dopo un momento.
<> Gli rivolse un sorriso ironico, poi si alzò        con un sospiro e si aggiustò i lunghi capelli con le forcine e un’espressione rassegnata.
 
Uscirono entrambi nel corridoio, procedendo fianco a fianco. Katherina, ancora scossa, non riusciva a sopportare il silenzio opprimente, dove sentiva rumori e scricchiolii inquietanti ovunque, e si voltò verso Anatolij cercando qualcosa da dire. << il tuo medaglione, come funziona esattamente? Cosa fa? >> lui si fermò e alzò con il pollice la catenina che aveva al collo, rivelando da sotto il maglione un lupo d’argento, con le fauci spalancate in atteggiamento feroce.
Mentre il ragazzo lo faceva ruotare con il dito, la luce gli faceva assumere una moltitudine di bagliori, e le ombre in movimento sembravano dargli una parvenza di vita. Sembrava dovesse serrare le fauci da un momento all’altro.
<< Ci sono varie comunità di streghi sparsi per il mondo, come ti ha detto Vik la volta scorsa. La nostra è quella del Lupo. Intuibile, no? >>
<< Abbastanza…quindi il lupo vibra quando c’è un pericolo? >>
<< Un pericolo no. Non vibrerà se ti sta per investire un’auto, solo quando c’è qualcosa di soprannaturale nei paraggi, tipo quello che è successo prima >>
<< non mi dispiacerebbe averne uno allora visto l’andazzo, ma immagino che siano riservati ai soli membri, giusto? >>
<< Quando li metteranno su ebay ti farò sapere >> le sue labbra si incurvarono nel suo ormai classico mezzo sorriso. << per il momento basta che stai vicino a me >>
“Sembra una proposta…” avrebbe voluto dire Kat arrossendo, invece chiese: <>
<< Non serve. Tieni>>
In un istante la ragazza si ritrovò a stringere in una mano il freddo medaglione a forma di lupo, ancora legato al collo del ragazzo e sospeso a pochi centimetri dal suo maglione scuro; Kat si accorse di essergli finita pericolosamente vicino mentre lui alzava una mano e la portava tra di loro con il palmo rivolto verso l’alto. Evitava di alzare lo sguardo verso il suo viso, soffermandosi esclusivamente sul medaglione.
La voce del ragazzo era un mormorio. <>
<>
“Per farti distrarre dagli orrori che hai dovuto vedere” voleva risponderle lui.
<< Può darsi>> disse invece.
La ragazza ora lo guardò in viso: <>
Anatolij rilassò le spalle e batté le palpebre; in un istante le sue pupille si erano ristrette fino ad assumere la forma felina.
Probabilmente Kat avrebbe dovuto guardare il palmo aperto del ragazzo, che si riempì di una luce tremolante e da cui iniziò a scaturire una brezza leggera. Avrebbe dovuto guardarsi intorno e vedere i suoi lunghi capelli, che iniziavano ad agitarsi. Invece, non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi selvatici, giallo intenso, così tranquilli e sicuri di sé e che la studiavano così intensamente. Nemmeno lui stava guardando il suo palmo aperto, dove si era formata una specie di sfera ribollente d’aria.
Un flash dell’infanzia apparve davanti agli occhi della ragazza, un disegno che aveva fatto e appeso in camera.
Poi il medaglione nella sua mano vibrò e tutto scomparve.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Una bambina con un bel vestitino blu correva a perdifiato nel fitto del bosco di abeti.
La luce pomeridiana del sole filtrava a stento attraverso la fitta vegetazione e la penombra era di un caldo color ambra. Il profumo di resina impregnava l’aria.
Un unico punto blu si muoveva nel mare di aghi di pino.
Le grandi radici che emergevano dal terreno la facevano inciampare, e gli aghi di pino le si infilavano nelle scarpette e le graffiavano le gambe. Correva al limite delle sue possibilità ma iniziava adesso ad essere stanca. Il petto le bruciava. Non sapeva in che direzione correre e le grosse lacrime che le sgorgavano dagli occhi le rendevano difficile vedere, in quel mare di tronchi tutti uguali. Voleva chiamare i suoi genitori, urlando fino a farsi scoppiare i polmoni, ma anche la sua piccola mente di sei anni sapeva che non doveva fare rumore, altrimenti l’uomo-bestia l’avrebbe trovata.
Quello che non sapeva era che la creatura riusciva a sentirla benissimo anche senza che lei urlasse. Stava solamente giocando un po’ con la sua preda, fingendo di rimanere indietro. Il suo udito bestiale sentiva ogni singolo passo.
Singhiozzando, ormai la sua corsa era diventata un incespicare confuso, la bambina accecata dalle lacrime si fermò appena in tempo davanti ad un dislivello nel terreno, che scivolava per una manciata di metri verso il basso.
Asciugandosi la faccia con la manica blu scuro, la bimba cercò di calmare il respiro affannoso per ascoltare i rumori che provenivano dietro di sé. Tirò su poco elegantemente con il naso. Non sapeva bene cosa fare. Aveva il terrore di tornare indietro verso l’uomo-mostro, ma aveva anche paura di cadere. Suo papà l’avrebbe sicuramente aiutata a scendere, scendendo prima di lei e porgendole la mano. Ma lui non era lì con lei.
All’improvviso un rumore di rami spezzati la fece decidere: in realtà era stata solo una pigna caduta giù dagli alti rami a fare rumore, ma la bimba, poverina, non poteva saperlo. Non poteva sapere neppure che la creatura si muoveva nel sottobosco senza fare il minimo rumore a dispetto della sua stazza.
Iniziò la discesa accucciandosi e tenendosi alle radici contorte che emergevano lungo il dislivello. Il vestitino rimaneva indietro, raspando terriccio e aguzzi aghi di abete.
 
Aveva voluto assolutamente indossare quegli abiti per il giro al lago con i genitori, facendo i capricci all’idea di mettere abiti più pratici; era andata con la mamma a comprarli solo due giorni prima, e aveva voluto sfoggiarli alla prima occasione. Per le scarpette poi, uguali a quelle di Alice nel Paese delle meraviglie, non aveva voluto sentire ragioni, aveva quasi pianto alla proposta dei genitori di metterne un paio da ginnastica. Le sue scarpette da principessa! Le tornava ancora in mente la voce di sua mamma mentre le diceva “e se le sporchi, Schatzi? Le hai appena comprate, Katherina!” Ma alla fine avevano ceduto alle lagnanze della figlia, in fondo era solo un giro sul lungo lago, cosa poteva succedere?
E invece, come Alice era finita in quel mondo bizzarro e popolato da mostri, tentando in tutti i modi di uscirne scendendo lungo quel ripido dislivello. Le piccole mani si riempivano di terriccio mentre si aggrappava alle radici, ma continuava a scendere e singhiozzare, un piedino alla volta.
Un brontolio, simile ad un tuono in lontananza ruppe il silenzio del sottobosco, e la bambina con terrore guardò verso l’alto dove l’uomo-bestia, la osservava divertito.
La sua voce sembrava una frana che rotolava giù da una montagna. << Torrrrrna qui...stupida bambina. Con le buone…>>
Fu a quel punto che le scarpette, le belle e traditrici scarpette dalla suola liscia, perdettero la presa, e la bimba con un urlo strozzato scivolò lungo quello che rimaneva del pendio perdendosi tra i cespugli sottostanti.
La piccola Alice precipitava nella tana del Bianconiglio.
 
In quel punto, alle pendici del dislivello, fitti cespugli erano riusciti a crescere nonostante la perenne penombra. La bimba vi si ritrovò immersa quasi completamente. Fortunatamente non aveva niente di rotto, però il vestito si era strappato in più punti ed era impiastricciato di terriccio e rametti, e aveva aghi di pino ovunque che le pungevano la pelle. La bambina però decise di ignorare le punture e di rimanere nascosta nel cespuglio, dove si rannicchiò con le ginocchia al petto. Non osava fiatare. Tendeva le orecchie così tanto da credere che si potessero rompere, ma non riusciva a sentire alcun rumore: il battito del suo cuore la assordava.
All’improvviso sentì un crescente scricchiolio di foglie e rami, e vide con orrore che l’uomo bestia era sceso dal pendio e stava guardando verso di lei. Dai suoi occhi sgorgarono nuove e copiose lacrime mentre si rendeva conto che non poteva più scappare. Voleva disperatamente che papà e mamma la trovassero.
<< Esci, bimbetta…so che…sei là…perrrrrcepisco…la tua paura…>>
<< Allora è per questo che non mi hai sentito arrivare, immagino.>> una voce maschile, però non era suo papà. La curiosità spinse la bambina a sporgersi fuori dal cespuglio per vedere l’uomo che, vestito come un cavaliere di Re Artù, stava senza paura davanti all’uomo bestia che si era girato di scatto verso di lui.
<< Sparrrrrisci…strego…la bambina è nostrrrrra…>> la bimba vide il mostro abbassarsi e grattare per terra con le unghie, come faceva Rex quando voleva attaccare. Però Rex lo faceva solo per giocare.
<< Lo sai che non è così che funziona >> lo sentì dire, con voce calma e per niente spaventata, come se fosse un vero cavaliere che combatteva mostri tutti i giorni. << chiudi gli occhi e non aprirli fino a che non te lo dico io!>> urlò poi, e la bambina capì che stava parlando con lei. Obbedì senza esitare e piantò il viso fra le ginocchia.
E iniziarono le grida.
 
 
Nel sottobosco era calato un silenzio profondo. Finalmente.
Le urla dell’uomo-bestia e del cavaliere avevano messo i brividi alla bambina per un tempo lunghissimo, e nemmeno tappandosi le orecchie era riuscita a farle sparire del tutto. Ruggiti di rabbia, urla di dolore sia umane che bestiali. Crepitii di rami spezzati e di corteccia che si staccava dai tronchi.
Ora invece si sentiva solo il vento che muoveva le fronde degli alberi, su in alto.
<< Bambina? No, non spaventarti, sono io. È tutto finito. Ti tiro fuori da lì ok? Solo… tieni gli occhi chiusi, ok? Ecco, prendi la mia mano >>
Il cavaliere la prese in braccio e la allontanò dalla zona del combattimento. Era meglio che non vedesse l’uomo che giaceva seminudo in una pozza di sangue a pochi passi da loro, e che alla morte aveva ripreso il suo aspetto normale.
La portò lontano, quella piccola bambina indifesa, sporca e piangente; le ultime parole del licantropo gli davano ancora da pensare, ma decise di occuparsene poi.
<< Eccoci qui, ora puoi riaprire gli occhi. Ce la fai a stare in piedi da sola? Come ti chiami bella bambina?>>
<< Katherina >>
<< Proprio un bel nome. Io mi chiamo Gabriel >>
<< Cos’hai fatto alla faccia? Ti ha fatto male l’uomo bestia? >> La bambina guardava incuriosita il cavaliere. Aveva occhi gialli da gatto e il viso pallido come un fantasma, solcato da lunghe striature bluastre. La guardava sorridendo. Lei non aveva paura: il viso di quell’uomo era gentile, solo un po’ triste. E poi l’aveva salvata.
<< No, stai tranquilla…fra poco mi passa. E tu piccola, stai bene? >>
<< Mi fa male il ginocchio. Però voglio andare dalla mamma! Tu lo sai dov’è il lago che io mi sono persa? >>
<< Si, adesso ti ci porto, è da quella parte. Ah che brutta sbucciatura che ti sei fatta, ascolta, salta su che io vado più veloce. Pronta? Andiamo!>>
 
Il cavaliere correva nel sottobosco trasportando la bambina in braccio come se quasi non avesse peso. Lei guardava alternativamente gli alberi filare veloci dietro di loro e il viso del suo salvatore, che ora non era più pallido come un fantasma ma era tornato di colore normale. Puntò il dito verso il suo braccio. << Hai sangue qui >>
<< Hai ragione, non me ne ero accorto. >> Rallentò la sua corsa fino a fermarsi e armeggiò con una mano in un sacchettino trasparente.  << Sai cosa facciamo? Prendiamo questa medicina che ci fa passare il male, io al braccio e tu al ginocchio, ok? >>
<< Sa di menta. >>
<< Eh sì, hai ragione! Adesso andiamo da tua mamma. Si parte!>>
Gli alberi tornarono a filare veloci, il vento rumoreggiava nel bosco come la risacca del mare. Cullata dalla corsa leggera del cavaliere e dal battito del suo cuore la bimba appoggiò il viso sulla sua spalla e si addormentò tranquilla.
 
 
<< Ehi… >>
<< …ehi >>
<< Come ti senti? >>
<< Male. Cosa mi è successo? … questa volta intendo…>>
<< Mi hai spinto via e hai iniziato ad urlare, correvi in giro senza una direzione… no non toccarti, hai sbattuto in pieno sullo stipite della porta. >> le prese la mano per impedirle di toccarsi la fronte, dove iniziava ora a formarsi un bozzo dolorante.
<< Hai battuto talmente forte che pensavo fossi svenuta, poi però hai iniziato a piangere. Ricordi qualcosa? >> Le stava ancora tenendo la mano. Anatolij la guardava, lì seduta per terra scomposta, piccola e sottile, più capelli che corpo. Aveva gli occhi rossi e gonfi che guardavano il pavimento, le sopracciglia aggrottate.
<< …tutto. Ora mi ricordo tutto…>> si asciugò il viso bagnato di lacrime e si perse nuovamente nel ricordo. Fino a che non sentì Anatolij cingerle la vita e prenderla in braccio senza il minimo preavviso. << Ma che fai?! >>
<< Ti porto dagli altri, ma prima a prendere un po’ di ghiaccio per la tua fronte, va’ >>
<< … >> la ragazza, ancora troppo stravolta per protestare, arrossì in silenzio, lasciandosi trasportare come da bambina da uno di quegli strani cavalieri.
 
Non dissero più niente fino alla cucina, dove il ragazzo la fece sedere in cima alla tavola. Aprì il freezer e frugò in cerca della sacca del ghiaccio azzurra da pronto soccorso. Ce ne erano parecchie. Kat non se ne stupì.
 
Il ragazzo apriva un cassetto per prendere un canovaccio quando Katherina iniziò a parlare. << Avevo un disegno appeso nella mia cameretta… >>
Anatolij la guardò senza dire niente. La lasciò parlare, senza metterle fretta. Lei fissava un punto imprecisato verso i suoi piedi ciondolanti, un punto tra la piccola cucina e la sua infanzia.
<< …avevo disegnato un uomo, con un’armatura nera e grigia in mezzo ad un bosco di giganteschi alberi. La cosa che i miei genitori non avevano mai capito è perché avessi scelto il pennarello giallo per colorare gli occhi dell’uomo, e io non avevo mai saputo spiegarlo. >> il suo sguardo incrociò quello del ragazzo, che la guardava con degli sbalorditi occhi color ambra intenso, quasi scintillavano nella penombra, poi si soffermò sul medaglione a forma di lupo. << Il suo era a forma di gatto >>, inspirò, poi gettò fuori l’aria lentamente.
<< A sei anni ero andata in gita al lago con i miei genitori, non chiedermi dove perché non me lo ricordo. Mi dissero che mi ero persa nel bosco, e che mi avevano trovata dopo un paio di ore di ricerche sporca e stordita… Mia mamma piangeva a dirotto. Non mi ricordavo niente di quello che era successo ma dissero che era colpa dello shock, quindi non diedero peso alla cosa…>>
<< Invece era stato uno strego a drogarti >> Anatolij si avvicinò alla ragazza, e le poggiò delicatamente il ghiaccio sulla fronte, avvolto nel canovaccio.
<< A salvarmi e poi a drogarmi, sì. Devo avercelo nel DNA, immagino >> si portò una mano alla fronte per sostenere il fagotto di ghiaccio e la sovrappose alla sua. Le sue dita erano lunghe e sottili, iniziavano a infreddolirsi. Pensava che a quel punto lui l’avrebbe tolta, invece continuava a guardarla con quegli intensi occhi ambrati e l’espressione indecifrabile da cui non riusciva a sottrarsi.
Anche se tutti i suoi guai erano iniziati con la sua comparsa, anche se ogni volta che lo vedeva incappava in qualche pericolo, il suo sguardo in qualche modo la faceva sentire al sicuro. Niente poteva accaderle, se lui la guardava così. Non aveva la forza per impedire al suo stomaco di formicolare.
Sarebbe rimasta così per ore, invece il ragazzo si riscosse e tolse la mano dal fagotto così bruscamente che Kat quasi lo fece cadere. La sua espressione era tornata seria e indifferente.
<< Ci proviamo di nuovo? Ad andare dagli altri, intendo>>
<< Ah sì, cavolo! Quanto è passato? …Una ora?!? >> Kat saltò giù dal tavolo non appena ebbe guardato l’orologio.
<< si, preparati ai commenti…>>
 
 
Il gruppo di streghi riuniti nella sala con il lungo tavolo di legno sghignazzarono all’entrata di Katherina e Anatolij. Anche Viktor non riuscì a nascondere del tutto il sorriso dietro ai folti baffoni, anche se faceva di tutto per mostrarsi impassibile.
Risero di meno non appena il ragazzo, dopo essersi seduto su una delle comode sedie imbottite di pelle, iniziò a raccontare di quanto era successo ai pazienti al piano di sotto, del controllo mentale e della spaventosa frase che avevano proferito guardando la ragazza.
E smisero del tutto non appena Kat, a capo chino, iniziò a raccontare della gita al lago che aveva fatto da piccola. Raccontò loro tutto dal momento in cui i ricordi erano iniziati, cioè dalla fuga da quello che non poteva essere altro che un lupo mannaro. Raccontò della caduta dal pendio, così ripido per una bambina di sei anni, e della voce della creatura che le diceva di arrendersi e tornare da lei con le buone. Raccontò anche dell’arrivo del suo cavaliere, lo strigo della Congrega del Gatto, Gabriel, che le aveva urlato di non guardare mentre uccideva il lupo mannaro con la sua spada e la sua armatura di cuoio nero, per preservarla dalla vista del sangue e da tutta la violenza dello scontro.
Quando finì il racconto non solo non rideva nessuno, ma nessuno, in quella stanza colma di libri di mostri e leggende, sapeva cosa dire. I presenti rimasero silenziosi, cercando di assorbire tutte le informazioni, le implicazioni e le conseguenze di tutto l’accaduto.
 
Con lentezza Viktor alzò la testa e prese la parola accarezzandosi i baffi, come se lo aiutasse a ragionare meglio. << Non hai nemmeno un ricordo di quanto è accaduto prima della fuga dal licantropo? >>
<< Mi ricordo solo che la strada per andare al lago era piena di gallerie, poi mi ricordo qualcosa del lago, abbiamo dato da mangiare alle papere, ma di cose che possono essere utili nulla, mi dispiace>>
<< Non è colpa tua se uno strego ti ha fatto dimenticare tutto >> le disse Hamidi in risposta all’espressione scoraggiata della ragazza.
<< Con il senno di poi, non avrei mai voluto ricordare quel mostro. Penso che poi non avrei dormito per mesi interi, o sarei ancora in terapia da qualcuno…ho rivalutato la vostra procedura di cancellazione dei ricordi…>>
Uno stormo di passeri volò davanti alle grandi finestre. Il sole iniziava a sparire dietro l’orizzonte.
 
<< In ogni caso dobbiamo capirci di più di tutta questa storia. Dopo quello che ci hai raccontato non possiamo escludere a priori che il Babau dell’altro giorno volesse attaccare proprio te per qualche motivo>>. Questa conclusione era venuta in mente anche alla ragazza, ma il suo cervello l’aveva relegata a forza in qualche angolo remoto: adesso che il vecchio strego l’aveva pronunciata ad alta voce era divenuta di colpo una possibilità reale. Katherina sbiancò e guardò l’anziano con un’espressione di muta esasperazione. Anatolij, seduto di fianco a lei, la osservava con le sopracciglia lievemente aggrottate.
<< Per prima cosa mi metterò in contatto con il signor Rossi e con un paio di vecchie conoscenze, e vediamo se riusciamo a parlare con questo Gabriel, sperando sia ancora in circolazione. Per domani mattina spero di avere qualche informazione utile. >> L’anziano strego spinse indietro la sedia e si alzò mugugnando per il mal di schiena.
 
<< …Katherina, tu sei qui in appartamento, no? Cioè, non abiti qui a Padova, sei una fuori-sede, no?>>
Quattro teste scattarono in direzione di Fabio, sorprese dalla domanda contorta e apparentemente fuori luogo.
<< Beh, se sta in appartamento con altri universitari potrà inventarsi una balla qualsiasi e dormire fuori, con i genitori era un altro paio di maniche! >> il silenzio e i sopraccigli alzati dei presenti lo fecero inalberare e raddrizzandosi sulla sedia sbottò << Per una volta sono serissimo, ne sono capace anche io, sapete?! Non la farete mica tornare a casa dopo tutto quello che è successo, no?! Fino a quando non ci avremo capito qualcosa in più, almeno…>>
<< In effetti sembra sensato, Fabio… anche se è detto da te >> Hamidi, ridacchiando, ignorò il dito medio che gli venne indirizzato e si rivolse alla ragazza, che guardava i presenti senza parole e con il viso in fiamme. << Sempre se la diretta interessata è d’accordo… però sarebbe per la tua sicurezza.>> l’espressione gentile di quel gigante la rassicurò leggermente. Non si sarebbe mai sentita al sicuro da un’altra parte fuori da quell’istituto, almeno fino a che non avesse scoperto cosa stava perseguitando proprio lei e perché.
Guardò i presenti, che aspettavano la sua risposta, uno dopo l’altro. << Io mi sentirei più al sicuro rimanendo qui per un po’, se siete tutti d’accordo. >>
Fuori dal suo campo visivo, Anatolij ebbe un moto di stizza.
Viktor invece annuì, e si accostò alla scrivania di legno scuro, dove estrasse qualcosa dal cassetto. Con un leggero sorriso si avvicinò alla ragazza, sotto lo sguardo di tutti. << Puoi rimanere qui quanto vuoi, bambina mia. E ti prometto che risolveremo questa faccenda prima possibile. >> dopodiché le mise tra le mani un medaglione a forma di lupo, che riluceva brillante anche nella tenue luce della stanza. <>

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


La testa di Katherina continuava a ciondolare, nonostante la scomoda posizione e la luce intensa.  
I turni di quel gioco da tavolo erano particolarmente lunghi, e l’attesa le aveva messo sonno. Lottava per rimanere sveglia, ma gli avvenimenti della giornata, oltre che un paio di turni poco avvincenti in cui aveva dovuto passare la mano, avevano avuto presto la meglio. L’ultima immagine nitida che vide fu quella di due ragazzi che si lanciavano addosso dei segnalini, mentre uno ridacchiava rischiando di sputacchiare birra.  
Poi si distese lentamente sul tavolo con la testa appoggiata sul braccio e chiuse gli occhi. 
I ragazzi, vedendo la scena, smisero di colpo di insultarsi e si guardarono per decidere cosa fare. Con un tacito accordo proseguirono a giocare, ma in silenzio: smettere di giocare e lasciar vincere Hamidi a tavolino era fuori discussione! 
 
 
Dopo la riunione del pomeriggio, Anatolij aveva accompagnato Kat a prendere un paio di cose nell’appartamento dove stava, visto che avrebbe dovuto rimanere da loro per un periodo da definirsi. Aveva tentato più volte di instaurare un dialogo, di parlare del più e del meno, ma la ragazza aveva avuto l’impressione che inspiegabilmente lui la reggesse a malapena quel pomeriggio. 
Il freddo buio invernale era calato già da un pezzo quando i due erano tornati nella casa di cura. Gli ampi finestroni illuminati del complesso creavano lunghe ombre sinistre lungo i vialetti di accesso. 
 
Kat percorreva il viale a passi veloci e a testa bassa. Non voleva vedere il mannaro nascosto dietro al cespuglio rinsecchito. Non voleva vedere il ramo scheletrico di ciliegio che voleva ghermirla e portarla via. Il freddo umido le ghiacciava le orecchie e la mano che reggeva la borsa. Camminava con passi ampi e veloci tanto da distanziare Anatolij che la seguiva in silenzio, perso in propri ragionamenti. 
Quando salirono nei piani più alti dell’edificio, nella dimora degli streghi, solo allora la ragazza iniziò a sentirsi di nuovo al sicuro.  
Venne condotta in una stanza in fondo al corridoio, una cameretta singola e spoglia. Un piccolo comò, un armadio e una minuscola scrivania addossata alla finestra. In centro alla stanza, appoggiato alla parete, un letto sopra il quale erano state appoggiate delle coperte e degli asciugamani piegati. L’unica nota di colore era rappresentata dalle tende di un tenue azzurro. 
A Katherina venne in mente la stanza del collegio delle suore dove stava la sua amica; se non altro, rispetto a lei non doveva andare a messa due volte la settimana.  
Stava appoggiando il borsone sul letto, per disfarlo, quando Anatolij appoggiò una mano sullo stipite della porta. << Ti lascio disfare le borse. Fra una mezz’oretta vieni giù perchè penso saranno arrivate le pizze. La cucina è…beh, la trovi>>. Aveva aperto la bocca per dire altro quando Katherina lo interruppe bruscamente. Mollò il borsone semiaperto sul letto e si girò. 
<< Vengo giù subito, fammi strada. Aiuto a preparare la tavola, se serve >> 
<< Non serve. Penso siano in grado di mettere una tovaglia e due forchette. Poi tocca a Fabio stasera>> 
<< Gli do una mano dai, mi state ospitando gratis! >>  
Aveva fatto il giro del letto e si era avvicinata alla porta, ma il ragazzo le bloccava la strada senza muoversi. << Kat?>> 
<< Dimmi >> 
<< Sei al sicuro qui, lo sai vero?>> 
<< … >> 
Anatolij guardò intensamente il volto preoccupato della ragazza. Anche senza affidarsi alla sua vista sviluppata vedeva il rossore nei suoi occhi verdi, la mascella contratta e le sopracciglia che non riuscivano a distendersi del tutto, nemmeno quando la bocca contratta tentava un falso sorriso. Sospirò frustrato, poi si staccò dallo stipite dove era appoggiato e andò a sedersi di slancio sul bordo del letto a fianco al borsone. La guardò di nuovo. << Ti aspetto. Ok?>> 
<< Sì. Grazie… e scusa >> 
Vide le sopracciglia della ragazza distendersi un po’ mentre ritornava alle operazioni di disfacimento della valigia. Lui distolse lo sguardo e si distese di traverso sul letto fissando il soffitto, le punte delle scarpe da ginnastica sul pavimento. Intuì che avrebbe dovuto starle vicino fino a che non avesse smesso di avere paura, poteva essere per un giorno o forse per più tempo.  
Poco importava che lui volesse l’esatto contrario. Lui voleva starle lontano il più possibile, invece. 
Storse la bocca e decise che d’ora in poi avrebbe delegato la faccenda agli altri il più possibile. 
 
Ignara dei suoi pensieri, Katherina svuotava il borsone dalla sua roba, e lo guardava di sottecchi. Da un lato, si vergognava per il suo comportamento. Era nella casa degli streghi, al sicuro. Le avevano promesso che avrebbero fatto luce su quello che le stava succedendo. E sapeva che lo avrebbero fatto.  
Era al sicuro e le avevano detto che sarebbe potuta rimanere quanto voleva.  
E invece non smetteva di spaventarsi per ogni minimo rumore improvviso, di sobbalzare senza motivo. Aveva paura di rimanere sola, di guardare la porta e di vedere uno dei pazienti che la fissava dall’uscio e le parlava con quella voce proveniente da un abisso, e che la assaliva per portarla via. O, peggio, aveva paura di vedere un altro babau, che la attaccava e le impediva di urlare e chiamare aiuto, rinchiusa in una boccia di vetro. Ora che l’ipotesi che l’attacco non fosse solo un caso aveva preso corpo, non riusciva a calmarsi. 
Mise il pacco di vestiti in una pila nel cassetto più alto e si girò di nuovo verso il letto per prendere quello che rimaneva. 
 
Dall’altro lato c’era lui. 
Il ragazzo guardava il soffitto, quindi lei si permise di guardarlo senza ritegno. La aspettava pazientemente ancora disteso di traverso sul letto, con le mani dietro la testa e le gambe a penzoloni.  
Aveva un fisico slanciato, non magro come quello di Fabio, anche se come con lui si intuiva il corpo allenato anche sotto i pesanti vestiti invernali. Ai lati del collo spuntava la catenina d’argento del medaglione con il lupo. Continuava a guardare il soffitto, inspirando lentamente. 
 
Il borsone ora era vuoto. Katherina lo poggiò ai piedi del letto. Senza una parola Anatolij girò la testa verso di lei. 
<< Fatto. Se mi dai un minuto mi cambio >> 
<< Ti aspetto fuori>> balzò su dal letto con un movimento repentino e uscì senza degnarla di uno sguardo. La ragazza guardò confusa la porta da dove era uscito per un momento, poi cercò dei vestiti. 
 
 
Avevano raggiunto Fabio in cucina, e insieme avevano aspettato Hamidi e Viktor che erano arrivati portando le pizze. Kat era rimasta sbalordita dalla quantità di cibo che i tre streghi erano riusciti a stipare nei loro stomaci. Viktor ammise che in gioventù anche lui aveva bisogno di così tante energie, ma che ora si tratteneva perché tendeva a mettere su pancetta.  
Avevano scherzato e parlato del più e del meno, finché il vecchio strego non si era congedato augurando a tutti una buona notte. << Anche tu bambina mia, dormi serena. Qui sei al sicuro >> aveva aggiunto salutando la ragazza. 
I restanti streghi, intuendo tutti lo stato d’animo di Katherina, proposero di continuare la serata bevendo birra e giocando ad un gioco da tavolo. In realtà l’idea iniziale era di guardare un film, ma data l’impossibilità del gruppo di mettersi d’accordo su un titolo, avevano optato per altro.  
Katherina scoprì in questo modo che Arkham non si riferiva al manicomio di Gotham City, ma ad un gioco da tavolo dai tratti lugubri e popolato da mostri. Il titolo venne scartato subito per ovvie ragioni e venne scelto qualcosa di più allegro. 
<< …comunque anche quello di Batman è appropriato, visto che è un manicomio…>> aveva sbottato la ragazza dopo la spiegazione. 
 
Man mano che la serata trascorreva, Katherina era rimasta stupita da quanto quel gruppetto di persone le sembrassero dei normalissimi ragazzi, che convivevano con un nonno gentile. Le battute, gli insulti, gli argomenti di conversazione erano quelli di tutti i ragazzi della sua età e poco si adattavano alla storia della Congrega del Lupo, alla Prova delle erbe, e all’immagine di Anatolij che squartava un mostro raccapricciante in mezzo ad un vicolo.  
Un paio di momenti ogni tanto le ricordavano i due volti delle persone che le stavano davanti. Per esempio, il movimento fulmineo del vecchio strego che aveva preso al volo una forchetta a pochi centimetri dal tavolo, prima, durante la cena; oppure Fabio che trovava la scatola del gioco da tavolo nel lato opposto della stanza, angolo completamente al buio, tra l’altro.  
Kat si era ripromessa di osservare tutto. 
Poi avevano iniziato a giocare e si era addormentata. 
 
 
Si svegliò di soprassalto. Al buio. Ansimava alla disperata ricerca di ossigeno.  
Le sembrava ancora di sentire il respiro ringhiante del lupo mannaro che la inseguiva e la bava viscida e calda sulle braccia. Fece un paio di respiri profondi per calmarsi. Poi controllò l’ora sul cellulare: erano circa le tre. 
Si accorse allora di trovarsi nella camera dove nel pomeriggio aveva portato le sue cose; consapevole di non esserci arrivata con le sue gambe capì che dovevano avercela portata di peso e arrossì lievemente. Nella sua mente apparve per un istante l’immagine di Anatolij che la portava a letto, poi si diede dell’imbecille e scrollò la testa nell’oscurità. 
Si rese conto poi che in quella stanza estranea e buia non sarebbe più riuscita a prendere sonno, così si alzò e a tentoni percorse il corridoio in cerca del salotto che aveva visto nel pomeriggio. Sperava in qualche programma noioso alla TV che potesse farle prendere sonno, magari una qualche replica di documentari. Gli abissi oceanici sarebbero stati il top! 
 
Ormai era almeno al terzo giro completo di quasi cinquanta canali TV e ancora non aveva visto nulla di decente. Già di solito si faceva fatica a trovare qualcosa di passabile, alle tre di notte però era quasi una battaglia persa.  
Sentì il rumore di una porta che si chiudeva, fuori in corridoio. Il cuore le balzò in gola. 
<< Toc toc…>> un sussurro e dalla porta spuntò lentamente la testa bruna di Fabio. Indossava un morbido pigiama di pile a righine e aveva i piedi scalzi. << Scusa, non volevo spaventarti, ho pensato che potevi avere freddo qui in sala. Di notte spengono il riscaldamento>>  
Si era affacciato molto delicatamente, però era inutile negare che la ragazza si era spaventata lo stesso. Tuttavia, ora che il ragazzo le porgeva una coperta dall’aria deliziosamente pesante, pensò proprio che era stato un gesto carino, visto che era tutta intirizzita. Lo ringraziò e ci si avvolse subito.  
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<< No, no. Mi sveglio spesso anche io durante la notte. Ho sentito la TV e ho immaginato che fossi tu. E ho pensato cavallerescamente di portarti una coperta >> lo vide fare l’occhiolino alla luce bluetta dello schermo. << Posso stare qui un po’ anche io? >> 
La ragazza annuì, raggomitolandosi per far stare anche lui. Fabio si stravaccò sul divano e da quel punto fu un fiume in piena di parole.  
Un po’ perché immaginava che la ragazza avesse ancora bisogno di distrarsi, ma principalmente perché gli piaceva parlare, Fabio non chiuse la bocca mezzo secondo. Commentava i programmi che si alternavano alla TV mentre la ragazza faceva zapping, faceva imitazioni del vecchio strego e rispondeva volentieri anche alle curiosità che la ragazza gli poneva. Dopo nemmeno venti minuti il ragazzo si era conquistato il telecomando e un pezzettino di coperta. 
 
Kat lo stava rivalutando. Lo aveva piazzato in fondo alla graduatoria delle sue conoscenze dopo il loro primo incontro traumatico, dove l’aveva fatta sprofondare dalla vergogna. Però ora le stava tenendo compagnia quando avrebbe potuto lasciarla là al freddo e al buio. In più era simpatico, anche se un po’ invadente. Ormai, così stravaccato, occupava quasi metà del divano, per quanto la ragazza cercasse di raggomitolarsi continuava a sfiorarlo con i piedi. Non era abituata a questa confidenza, anche se a quanto parere lui era di tutt’altro avviso. Lo osservava, alla luce cangiante della tivù: stava lì, spaparanzato sul divano con un’espressione di totale relax e spensieratezza e per quanto lo pensasse impossibile, lentamente ne trasmise un po’ anche a lei. Quando si mise a fare il verso in dialetto portoghese ad una telenovela spagnola sui primi del Novecento, Kat tentò invano di soffocare le risate. 
 
Il mormorio della TV a basso volume, e le chiacchere del ragazzo ben presto sortirono l’effetto sperato e Katherina iniziò a rispondere alle domande in ritardo, con gli occhi che si chiudevano come quelli delle bambole.  
Dopo un istante di silenzio Fabio si girò verso di lei. << Ti proteggiamo noi. Dal lupo mannaro e da tutti gli altri. Non devi aver paura degli incubi…non ti possono fare del male…>> Fabio si impappinò, ma la sua voce era gentile e i suoi occhi carichi di comprensione. Katherina annuì leggermente, poi abbandonò la testa sul poggiolo del divano. 
 
Fabio li ricordava, gli incubi. Quando era stato portato in quell’immensa casa, per un lungo periodo si era svegliato gridando, madido di sudore. Nelle narici ancora l’odore di escrementi, sporcizia e sangue e sulla pelle il dolore delle bastonate e il bruciore dei lacci. Urlava e si picchiava la testa per scacciare quelle immagini, fino a che non arrivava uno strego che abbracciava il suo corpicino ancora debole e gracile. Uno strego, un guerriero addestrato, forte e sicuro di sé che stringeva un bimbetto rachitico appena arrivato che gli riempiva di moccio i vestiti. E che gli accarezzava la testa con movimenti goffi delle mani callose e piene di cicatrici. 
Sì, decisamente odiava gli incubi. 
 
Spense la TV e si alzò lentamente, per non svegliarla.  
Il buio in cui piombò la stanza non era un problema, ci vedeva perfettamente. Gli bastava l’occhio sinistro, quello che non tornava mai all’aspetto normale. 
Rimase un momento a guardarla, poi le coprì i piedi che erano usciti dalla coperta e le mise un cuscino dietro la testa, lentamente, come avevano fatto a lui per tanto tempo molti anni addietro. Senza produrre alcun suono uscì dalla stanza.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Se qualcuno fosse passato per caso in Via delle Paludi, a quell’ora tarda, non avrebbe visto molto più che una stradina malamente asfaltata, stretta e contorta, che si perdeva tra campi, vigneti e poche e sporadiche case. Guardando meglio, forse avrebbe visto una giovane lepre che zampettando piluccava i ciuffi d’erba vicino al fosso sul lato destro della strada. Sceglieva indisturbata solo le ciocche più fresche e gonfie di rugiada.
Ma a quell’ora tarda era raro che qualcuno passasse per caso.
 
Marco stava tornando a casa a bordo della sua utilitaria, i fari abbaglianti accesi.
Densa nebbiolina si levava dall’erba e dal fosso e rimaneva sospesa a mezzo metro dal suolo, illuminandosi al passaggio della macchina.
Marco tornava nella casa che condivideva con la sua compagna dopo la partita settimanale di calcetto. Aveva trentadue anni e conviveva da un anno e mezzo, e una volta alla settimana, salvo imprevisti dell’ultimo minuto, si trovava con i vecchi amici del paese a giocare a calcetto e a bere una birra.
Questa volta avevano perso, le avevano prese e lui personalmente aveva un ginocchio gonfio. Era quindi abbacchiato.
E per radio non facevano niente di decente.
 
La strada che stava percorrendo era il modo più veloce per arrivare a casa dal campo dove si trovava con i suoi amici. Questo, salvo che non ci fossero altri veicoli, perché Via delle Paludi era talmente stretta da essere percorribile solo da un’auto e mezza alla volta. Uno stretto fosso la seguiva sulla destra e alberi e cespugli la incorniciavano da entrambi i lati, rendendo difficile la visuale dietro le numerose curve.
Marco si massaggiò il ginocchio sinistro storcendo la bocca e represse uno sbadiglio. Gli serviva della bella musica per rimanere sveglio o non sarebbe arrivato vivo alla fine della via.
Non sapeva che la radio non sarebbe bastata.
 
Se qualcuno fosse passato per caso in Via delle Paludi, all’una meno un quarto di notte, non avrebbe visto molto più che una stradina malamente asfaltata, stretta e contorta, che si perdeva tra campi, vigneti e poche e sporadiche case. Guardando meglio, forse avrebbe visto una giovane lepre che zampettando piluccava i ciuffi d’erba vicino al fosso sul lato destro della stradina. E avrebbe visto passare un’auto scura a velocità moderata. I fari che squarciavano l’oscurità.
Ma a quell’ora tarda era raro che qualcuno passasse per caso.
 
Marco provò per l’ennesima volta a cambiare canale radio, gettando occhiate distratte verso i nomi delle emittenti, che si alternavano rapidamente. Mentre pigiava sul tasto, una buca gli fece premere il bottone sbagliato, e la radio cominciò a produrre solo fastidiose interferenze. L’uomo sbuffando si concentrò sull’apparecchio per sistemare il danno.
Quando rialzò lo sguardo vide una bambina sul ciglio della strada e quella visione inaspettata gli gelò il sangue.
C’era una bambina con corti capelli neri e una camicia da notte bianca al lato della strada. I piedini scalzi nella nebbia.
L’uomo non fece in tempo a frenare. Fece invece l’errore di deglutire e di sbattere le palpebre per vedere meglio.
C’era una bambina con corti capelli neri e una lacera camicia da notte bianca in ginocchio, sul cofano della sua auto. Le manine dalle unghie spaccate sul vetro del parabrezza. La pelle grigiastra, gli occhi vitrei che avevano perso ogni colore, piantati nei suoi. E degli occhi più grandi dietro di lei, rossi come braci, che lo fissavano gonfi di malignità.
 
Se qualcuno fosse passato per caso in Via delle Paludi, a quell’ora tarda, avrebbe visto una auto scura con gli abbaglianti accesi perdere il controllo, uscire dalla stradina malamente asfaltata, stretta e contorta, e schiantarsi con un botto tremendo su un salice piangente. Avrebbe poi visto una giovane lepre spaventata a morte saettare con grandi balzi verso il fitto dei campi coltivati a soia.
Ma a quell’ora tarda era raro che qualcuno passasse per caso.
 
In una casa lì vicino, a causa del forte schianto, si accese una luce.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Si svegliò tardi, infastidita dal fascio di luce del sole che la colpiva sul viso. Questa volta era rimasta sul divano, nessuno l’aveva portata in camera. Però si accorse di avere un cuscino dietro la testa e la coperta rimboccata sui piedi. Sorrise. Fabio aveva acquistato un altro po’ di punti. 
Si stiracchiò pigramente e rimase per un po’ ad assaporare il tepore e la tranquillità. Ne aveva veramente bisogno. 
Fuori era spuntata una bella giornata invernale, di quelle in cui il sole splende e riscalda tutto quello su cui si posa, mentre all’ombra l’aria rimane fredda e pungente. 
Dopo essere rimasta per un po’ nel sano e rinvigorente ozio, la ragazza si alzò e si diresse in cucina. 
Non c’era nessuno. 
Con sua sorpresa sul tavolo trovò un post-it giallo-fosforescente per lei.  
 
“Per la pupa. Rovista pure nei cassetti e nel frigo e prenditi quello che vuoi. Le tazze sono sopra il lavello.  
Non prendere quella di Brontolo! ;)” 
 
Con un sorriso lievemente interrogativo la ragazza aprì una delle ante e trovò la tazza incriminata. Il nano vestito di marrone la guardava con la classica espressione imbronciata, ma portava con disinvoltura un paio di folti baffoni grigi non compresi nel copyright Disney. Sghignazzando, Kat optò per una tazza a fiori. Prese in più un pentolino in cui mise l’acqua a bollire, poi si dedicò alla ricerca di una bustina di thè. 
<< Se cerchi il thè, lo trovi nel ripiano più a destra. L’altro. Buongiorno mia cara, sei riuscita a dormire un po’?>> 
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L’anziano strigo si avvicinò alla credenza da dove prese un bicchiere. Girandosi, buttò un occhio al post-it rimasto sul tavolo. 
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Ora che beveva dal bicchiere, con i baffi che spuntavano da sopra l’orlo e un sopracciglio alzato, Kat non riuscì a non ridere. 
L’anziano strego appoggiò il bicchiere ormai vuoto nel lavello. << È come se fossero figli miei. Dispettosi come tutti i figli possono essere. Se dovesse uscire che siamo nascosti qui, il minimo che potrebbero fare sarebbe quello di farci trasferire, e non è detto che rimarremo uniti. Quindi…>> 
<< Viktor, non avevo intenzione di tradirvi prima, quando mi avevate “solo” salvato la vita. E ora mi ospitate qui per proteggermi. Non potrei mai ripagarvi tradendovi. Non lo farò. Ti prego di credermi. >> 
<< Ti credo. >> 
Lo strego la guardò per un momento, poi si riscosse e le augurò buona giornata. Si diresse verso la porta, ma si fermò sull’uscio. << Katherina, se non sai cosa fare, se vuoi, potresti raggiungere gli altri giù in palestra. Secondo me un po’ di movimento potrebbe farti bene allo spirito. O almeno, questa è un’abitudine da strego, sai…>> 
<< Speriamo che funzioni anche per me allora!>> 
 
 
Kat girò l’angolo orientale dell’imponente casa di cura e si trovò davanti una palestra apparentemente normale, come poteva esserlo una palestra di scuola media. Incrociò le braccia per proteggersi dal freddo. 
L’edificio, utilizzato un tempo per attività fisiche e riabilitative dei pazienti, era diventato ad uso esclusivo della Congrega da quando la Casa di cura per igiene mentale San Giorgio, grazie ad un fondo regionale di qualche tipo, aveva costruito una struttura più moderna e all’avanguardia sul lato ovest dell’istituto. 
L’esterno della palestrina non aveva nulla di strano, perfino l’intonaco scrostato rientrava perfettamente nella norma. Ma una volta aperta la porta d’ingresso, Katherina sospirò. 
Mentre si dirigeva in palestra, la ragazza si era immaginata un sacco di scenari possibili per quello che si sarebbe trovata davanti: congegni medievali, rastrelliere di armi impolverate oppure una moltitudine di bilancieri pesantissimi e complicate attrezzature da palestra. Le vennero in mente anche un tatami e una parete da scalata: più o meno in quest’ordine. Quello che invece si trovò davanti era semplicemente tutto quello che si era immaginata, in un mix anacronistico e stipato insieme. A parte la parete da scalata. 
La palestrina era ampia e in penombra. L’illuminazione non era stata accesa e il basso sole invernale entrava a fatica dalle alte finestre impolverate in cima alle gradinate dietro di lei. Katherina immaginò che diversamente da lei, agli streghi quella luce fosse più che sufficiente. 
A bordocampo c’era ogni tipo di macchinario possibile ammassato insieme, tutto era accostato vicino, vecchio e nuovo, funzionante e distrutto. Un numero considerevole di bilancieri e di pesi erano appesi alle rastrelliere alla sua destra, andavano da quello piccolo da mezzo chilo a quelli di dimensioni che faticava a comprendere. Subito accanto, dei vecchi attrezzi danneggiati, la ragazza poteva intuirlo dalle ragnatele appese e dall’asimmetria che li faceva pendere da una parte in modo scomposto. Poi a seguire c’erano rastrelliere con bastoni e armi di qualsiasi tipo, intravide perfino un paio di balestre, accanto a carrelli pieni di palloni da calcio, da tennis e palle mediche. E avrebbe continuato a guardare l’enorme accozzaglia di strumenti e attrezzature, se il suo sguardo non fosse stato catturato da quello felino e incuriosito dei tre ragazzi che la stavano fissando. 
<< Buongiorno… Viktor mi ha detto di fare un salto >>  
Gli streghi stavano tutti facendo riscaldamento correndo intorno al campo, e quando la videro le si avvicinarono ansimanti. 
Aveva indossato una semplice tuta nera, un paio di pantaloni attillati e una felpa con la zip, sotto aveva una maglietta a maniche corte. L’abbigliamento le metteva in risalto la figura magra. Non si poteva dire fosse ossuta, ma non aveva nemmeno un fisico atletico. Si legò i lunghi capelli biondi con un elastico che aveva al polso. 
 
<< Così Viktor ti ha mandata qui ad allenarti? >> 
<< Non è che mi devo allenare. Ha detto che un po’ di lavoro fisico avrebbe fatto bene al mio spirito. Ha aggiunto poi che questa era una “cosa da strego” ma che non avrebbe fatto male nemmeno a me.>> 
<< Ok, beh adesso stiamo facendo riscaldamento, se vuoi unirti a noi. Ci mancano ancora più o meno dieci minuti di corsa, ma tu fai quello che riesci! >> 
 
Che faceva solo quello che riusciva potevano starne tutti certi.  
Non tentò più di venti secondi di mantenere il loro ritmo, andavano troppo veloci. Correvano senza quasi toccare suolo e apparentemente senza il minimo sforzo. A raccontarlo a qualcuno, nel terzo millennio, con la scienza, l’uomo sulla luna e l’atteggiamento generale di chi ha visto tutto e fatto tutto, le avrebbero risposto tutti che esagerava, che non era possibile. 
Mentre Kat li guardava doppiarla senza ritegno, le veniva in mente un certo film di vampiri dove gli attori camminavano sopra dei tapis-roulant per simulare l’effetto della super velocità senza sforzo e senza rumore.  
A Fabio, avanzava anche di chiacchierare, stranamente. 
L’esercizio successivo alla corsa fu quello di salire le gradinate della palestra saltando a piedi uniti: Katherina aveva odiato quell’esercizio già ai tempi dei corsi di pallavolo e fece due rampe nel tempo in cui gli altri tre ne avevano fatte otto.  
Per tutti gli esercizi seguenti Kat si vedeva come Yamcha che tentava di stare dietro ai Sayan, con il solo risultato di ansimare come un mantice e di sentirsi stupida e lenta. Alla faccia del benessere dello spirito! Sapeva che erano loro quelli anormali, ma si sentiva lo stesso goffa e pesante. 
Stava ancora ansimando seduta sul primo gradone quando le si avvicinò Hamidi. 
<< Adesso volevamo fare un po’ di allenamento con la spada. Ti andrebbe di imparare qualcosa?>> Aveva l’espressione gentile di chi sta offrendo una fetta di torta, invece di una spada smussata. 
<< No, no, tranquillo. Non voglio portarti via tempo. >> 
<< A volte fa bene anche ripassare le basi. Ti insegno le parate classiche, se vuoi.>> 
<< Ah, beh…allora ok, grazie.>> si legò nuovamente i lunghi capelli e si alzò. 
 
 
Il gigante attaccava la ragazza sempre più velocemente. Dopo la spiegazione teorica, e i primi esercizi in cui le aveva mostrato come passare da una posizione all’altra, Hamidi aveva iniziato lentamente a simulare gli attacchi classici della scherma, mentre Katherina tentava di passare con il movimento giusto da una parata all’altra. Inizialmente aveva invertito più volte il senso della rotazione della spada, poi aveva capito il motivo di fondo dei movimenti e non aveva più sbagliato. L’enorme strego aumentava il ritmo gradualmente e lasciava volutamente degli spazi di cui la ragazza doveva approfittare per effettuare un affondo semplice. E le dava consigli. 
<< Tieni più indietro il piede, più defilata sei, più sei coperta. Brava. Ora parata di terza, bene… ok. Bene, brava. Più alta la sesta, altrimenti ti colpisco lo stesso, e con la lama più inclinata, così la mia ti scivola via. Si, meglio…brava!>> 
Hamidi aumentava il ritmo, meravigliato dalla capacità di concentrazione della ragazza. Iniziava ora a fare qualche attacco diverso dai classici, lasciava spazi meno evidenti e esasperava i movimenti sempre meno. Rimase piacevolmente sorpreso quando, dopo le incertezze iniziali, Kat capì l’antifona adeguando le sue parate. Era veloce, sia nell’apprendimento che nei movimenti, però mancava di resistenza, oltre che di forza, stava già ansimando. 
Vedendola stanca il ragazzo africano decise di smettere l’allenamento e provò un ultimo assalto. Fece un passo indietro. << E se ti attaccassi così?>> chiese, poi caricò con uno slancio esagerato il braccio e lo scaricò in avanti. La sua spada cozzò violentemente contro quella della ragazza. Kat sentì il suo braccio vibrare e lasciò volare via la sua arma con un gemito. 
<< Se un gigante carica un colpo del genere lo devi schivare, cercare di pararlo ti spezzerebbe solo le braccia. Fidati. Tieni conto che Hamidi ha fatto solo finta di metterci forza! >> le gridò Fabio dall’altro lato della linea di campo. 
Kat si massaggiava il polso dolorante << Ah è vero, cavolo. Ero talmente presa dalle parate che non ci ho pensato… >>. 
<< Scusa, ti ho fatto tanto male? Dovevo metterci meno forza, scusa… >> 
<< No, ora passa. Solo che non me lo aspettavo… Ma voi due piuttosto, non dovevate allenarvi? >> 
<< Sì, ma siamo rimasti incantati dalla tua bravura, diglielo Nat che è brava… impari in fretta! Hai visto anche tu, nonno? >> 
Viktor annuì col capo, in piedi vicino alla linea di bordocampo. Katherina non l’aveva visto entrare. Aveva un’espressione seria in volto. << Sei veramente molto brava, bambina mia. Ma sono venuto qui per un altro motivo. Ho ricevuto una telefonata dal signor Rossi. Un caso sospetto. Potrebbe essere un semplice incidente d’auto, però mi hanno detto che ci sono delle circostanze su cui varrebbe la pena dare un’occhiata>> 
<< Circostanze che non ti avrà esposto, immagino…>> 
<< Lo sapete com’è fatto… in ogni caso non è neanche ad un’ora da qui. Beh, a chi tocca? >> 
<<… ci vado io >>. 
Kat non guardò subito Anatolij. Si soffermò prima sugli altri due streghi, catturata dall’espressione corrucciata che gli avevano rivolto. Non aveva idea di quanto di solito gli streghi facessero a gara per non andare, ma poteva immaginarlo dalle loro facce sorprese. 
Poi guardò lui, che studiava le venature del parquet con aria infastidita. Non riuscì a non domandarsi se non si fosse offerto volontario per allontanarsi da Arkham, e quindi da lei. Era un pensiero stupido, ma le si incollò addosso come un vestito zuppo di pioggia. 
<< …va bene. Il sacerdote dell’ospedale ti aspetta per le quindici, quando vieni su ti do indirizzo e contatti come al solito. Beh rimarrei qui a ciondolare con voi scansafatiche, ma ho delle persone da contattare. Ci vediamo dopo! >> 
 
 
Katherina non aveva più avuto voglia di allenarsi con la spada e si era seduta sui gradoni. Continuava a crogiolarsi nel pensiero che Anatolij non la volesse tra i piedi per qualche motivo. Ripensava ai giorni precedenti e a come le fosse sembrato tutto l’esatto opposto. Forse si era solamente immaginata un suo possibile interesse, ma almeno, non sembrava che la sua vista gli desse così fastidio come in quel momento. Gli lanciava occhiate di sottecchi. Cosa poteva aver fatto poi! O piuttosto, quale delle migliaia di cose che le erano capitate erano minimamente colpa sua?! Tormentava il laccio della felpa, infastidita.  
Ogni tanto lo beccava a guardarla, erano brevi sbirciate. L’aria corrucciata e tesa con cui lo faceva però non sembrava fare altro che confermare la sua teoria. Era sempre più scocciata. 
Le sembrava che a volte lui la trattasse con freddezza, a volte però con interesse. Almeno che fosse coerente! 
 
Intanto i tre streghi avevano rimesso sulle rastrelliere le spade da esercitazione ed erano passati a lunghi bastoni di legno. Hamidi ne aveva uno di una lunghezza maggiore di quello di Nat, mentre Fabio ne aveva due. Formavano un triangolo al centro del campo. Kat, dopo la punta di orgoglio che aveva provato durante gli allenamenti con la spada, tornò a sprofondare nell’autocommiserazione non appena gli streghi iniziarono a combattere. 
Forse era più giusto parlare di danza. Una danza selvaggia e violenta. 
All’unisono, i tre ragazzi si erano lanciati uno contro l’altro. Ognuno riusciva a difendersi dagli altri due mentre attaccava un po’ uno e un po’ l’altro. I tre streghi schivavano piroettando, attaccavano, paravano e facevano affondi senza mai perdere il ritmo, i bastoni cozzavano unicamente gli uni sugli altri non trovando mai l’avversario; il più delle volte trovavano il vuoto. 
Si muovevano ad una velocità inumana, incredibile, frutto senza dubbio delle mutazioni che avevano subito.  
Sorprendentemente, anche Hamidi si muoveva veloce e sinuoso, nonostante la mole. Meno veloce degli altri due, questo era evidente anche agli occhi inesperti di Katherina, però compensava con la maggiore forza impressa nei colpi; il legno delle armi avversarie scricchiolava impattando contro le sue. 
Fabio, con un bastone per mano, mulinava le braccia senza sosta. Rispetto agli altri due limitava i movimenti delle gambe, facendo pochi passi intorno ad un punto centrale, per dare ritmo al corpo e un’ulteriore potenza ai colpi. I movimenti delle braccia, invece, erano straordinariamente veloci, i bastoni sibilavano come serpenti, ruotavano intorno al suo corpo per parare i colpi, per poi scagliarsi in avanti per colpire. Il suo stile di combattimento ricordava quello dei cavalieri Jedi, o meglio, sicuramente i cavalieri Jedi avevano preso spunto da quelle tecniche di combattimento, si rese conto Kat.  
Anatolij aveva uno stile ancora diverso, meno coreografico di quello del ragazzo brasiliano e meno esplosivo rispetto al gigante color ebano. Preferiva le mezze piroette e i finti attacchi per poi tornare subito in guardia. Il suo stile mirava a far scoprire l’avversario per poi colpirlo con velocità e precisione.  
Katherina non riusciva a capire quasi nulla di quanto vedeva e faticava a capire come proseguiva l’allenamento, se qualcuno era in vantaggio o meno rispetto agli altri due, o se il combattimento fosse al pieno delle loro forze o non si stessero poi impegnando così tanto; per lei era sicuramente una cosa strabiliante già così.  Perdendosi in quel turbine di movimenti fulminei e di finte, ben presto venne come ipnotizzata dal marasma e si ritrovò a fissare un punto all’interno del ciclone. Mangiucchiando il laccio della felpa sovrappensiero, non si accorse di avere il fiato corto e le mani che tremavano.  
 
Uno schiocco secco la fece trasalire. La parte superiore del bastone sinistro di Fabio volò verso il viso di Nat, che lo deviò verso il fondocampo all’ultimo secondo, e il brasiliano si ritrovò ad arretrare, mentre gli altri due tentavano di accerchiarlo per evitargli la fuga. 
<< Vedi perché ti ho detto che i suoi colpi vanno schivati e non parati?>> stava sicuramente parlando a Katherina anche se le dava le spalle. 
Fabio rise nervosamente mentre indietreggiava.  
Stava per prenderne un sacco. 
Sempre ridendo, colto da un’illuminazione, tentò il tutto per tutto. Finse di avere la fuga ostruita, cozzò con il tallone sul primo dei gradoni e si guardò indietro. Non aveva bisogno di vedere Hamidi lanciarsi in avanti verso di lui, il suo udito sovrumano lo percepì chiaramente. In più se lo aspettava. Mentre girava di nuovo la testa avanti a lui, il suo braccio stava già tracciando un arco in aria. Fabio usò un segno per creare un globo d’aria e lo indirizzò verso il suo proiettile; il moncherino del bastone che aveva lanciato colpì Hamidi in piena faccia.  
Ma il ragazzo mulatto non fece neanche in tempo a gongolare fra sé, perché un fendente improvviso, caricato con forza dal basso verso l’alto, colpì l’unica arma che gli era rimasta appena un paio di centimetri sopra la sua mano chiusa, facendola volare in aria. Sibilò a denti stretti per il contraccolpo. 
Il bastone sano aveva appena toccato il suolo quando Anatolij, con uno sgambetto, mandò a terra anche il suo possessore. 
 
I due ragazzi dalla carnagione scura si stavano rialzando lentamente, ansimando e tastandosi le ferite. 
<< Eccone un altro che se ne va…>> Anatolij raccolse il moncherino e lo esaminò. 
Katherina si accorse di aver trattenuto il respiro fino ad allora. Si sentiva agitata come se avesse partecipato anche lei allo scontro. Sentiva braccia e gambe rigide. 
Voleva guardarli negli occhi, sul serio lo voleva, ma il suo sguardo era calamitato verso i muscoli tesi, in rilievo sotto le leggere magliette sudate, appiccicate a quei corpi che si tendevano al ritmo del respiro affannoso dei proprietari. Avevano un corpo perfetto, tutti e tre, oltre a dei sensi e una velocità inumana. Erano delle macchine da guerra.  
“Macchine da guerra sexy…” Arrossendo violentemente tentò di tornare con i piedi per terra senza dare nell’occhio.  
Non se ne era resa conto fino a quel momento, ma si era protesa in avanti, quasi sul punto di cadere in preda a tremori febbrili.  
Non stava bene.  
Diede la colpa agli incubi, a Gabriel, al combattimento appena visto e al suo allenamento. E agli ormoni impazziti forse più di tutto. Si sentiva ora tachicardica ed era tesa come una molla.  
Dato che non le piaceva stare in balia degli eventi senza reagire – non per niente aveva scelto medicina come corso universitario – si alzò, saltò giù dai gradoni e raggiunse i tre streghi, raccogliendo nel frattempo il bastone che era volato via. Le gambe però le tremavano, tanto che riuscì a malapena a farle ubbidire ai comandi. 
<< Mamma mia, incredibile…>> sospirò. 
Alzò lo sguardo e inaspettatamente vide Nat, ansante, fissarla quasi con ferocia, le iridi feline che ancora aveva amplificavano la sensazione di astio. 
Si bloccò di colpo, lievemente spaventata e confusa, si interrogava sul motivo per cui si meritava un tale sguardo, che le stava facendo formicolare la nuca. <> lo vide riscuotersi, riprendere la sua solita espressione indifferente e darle le spalle mentre andava a raccogliere un altro dei bastoni senza dire una parola. 
La frustrazione per un atteggiamento che era sicura di non meritare per nessuna ragione aumentò fino quasi a sfociare in rabbia. Sospirò lentamente cercando di calmarsi, ma il cuore non smetteva di martellarle nel petto. Si sentiva come appena scesa dalle montagne russe, con l’adrenalina a mille e il corpo teso e vibrante. 
 
Anche Fabio non riusciva a recuperare la calma. Le aveva prese e anche in modo abbastanza plateale. Nonostante i trucchi da strego per recuperare e mantenere la calma in ogni occasione – per rimanere sempre lucidi in battaglia – lui era notoriamente una testa calda e gli bruciava di perdere. Soprattutto perché aveva perso solo perché uno dei suoi bastoni si era crepato. Se avesse avuto le sue due spade non sarebbe mai successo!  
Quando vide Katherina scendere dai gradoni gli venne in mente di prendersi una piccola rivincita. L’idea era di fare solo uno scherzo goliardico, prima avrebbe preso in ostaggio la ragazza, poi si sarebbe inventato qualcosa per gli altri due. Non aveva tempo per limare i dettagli perché la sua mano era già scattata verso l’ultimo bastone rimasto a terra.  
Si lanciò in avanti verso di lei, con un guizzo felino. L’intento era di aggirarla e di bloccarle le spalle con il bastone. Lo fece, ma quando cercò di afferrarle le spalle al posto della ragazza trovò uno spazio vuoto e rimase sconcertato. 
Lei non c’era più. 
Non poteva essersi spostata, i suoi occhi non avevano captato alcun movimento, e lui si vantava addirittura di essere lo strego con i migliori riflessi e la maggiore velocità. 
Alzò la testa, confuso. Non c’era la figura di Katherina davanti a lui. Incontrò invece le espressioni confuse dei suoi colleghi streghi; con gli occhi felini spalancati fissavano un punto appena dietro la sua spalla. 
I due ragazzi erano sconcertati, con la bocca semiaperta e un’espressione piuttosto ebete avevano seguito tutta la scena. Fabio, per motivi poco chiari, aveva cercato di placcare Kat e le si era lanciato addosso con un guizzo fulmineo. Ma invece di afferrarla aveva ghermito il vuoto, perché la ragazza non era più là. Era scomparsa in un istante. I medaglioni a forma di lupo avevano iniziato a vibrare all’impazzata. 
Nemmeno con la loro vista sviluppata erano riusciti a seguire i suoi movimenti. Semplicemente prima era lì e poi era sparita. E dopo nemmeno un battito di cuore era riapparsa dietro il ragazzo brasiliano. 
Fabio, ancora confuso, registrò una presenza dietro di sé, che lo circondò con un bastone di legno e lo attirò violentemente verso il suo corpo. Voltandosi vide il volto del suo assalitore e Katherina ricambiò il suo sguardo con un sopracciglio alzato. Le sue pupille erano scomparse, inglobate dalle iridi smeraldo. 
Anche gli altri due streghi lo videro.  
Noia. Sufficienza. E superiorità. Questo trasmetteva il volto della ragazza. Il suo sguardo indolente passava da uno all’altro dei presenti. Sembrava un gatto che si fosse stufato di giocare con il suo topolino e non sapesse più che farsene. 
Rimasero così, immobili. Fabio con il bastone di legno premuto contro le clavicole, Katherina con l’espressione annoiata. Anche gli altri due streghi erano troppo sconcertati per muoversi. 
I medaglioni continuavano a scuotersi come forsennati. 
 
All’improvviso il volto della ragazza si animò, come folgorato da un’idea geniale. La sua espressione mutò di colpo e la noia divenne divertimento, la sufficienza divenne insolenza. Un’aura di potere e furia sopita la circondavano come un mantello. 
Con un movimento rapidissimo della mano la ragazza ghermì la testa di Fabio per il codino e la strattonò indietro. Lo fissò intensamente per qualche istante, poi gli baciò la punta del naso con sguardo impudente. Successivamente, con un unico movimento fluido e semplicemente troppo rapido, lo scaraventò a terra dietro di sé, come avesse gettato via un giocattolo rotto. Lo sgambetto aveva qualcosa che ricordava le arti marziali. L’assenza delle pupille e quelle iridi smeraldo, grandi all’inverosimile rendevano il tutto ancora più inquietante. 
<< Katherina? Ma c…>> Hamidi fece l’errore di muovere un passo in avanti, allungando le mani verso di lei con il chiaro intento di raggiungerla per fermarla. 
Come se avesse una qualche minima possibilità. 
Come se potesse fermare la Signora del Tempo e dello Spazio. 
 
Si muoveva sinuosa come un predatore, aveva la grazia letale della pantera.  
Lo degnò appena di uno sguardo, poi con una piroetta gli si avvicinò, talmente rapida da non essere quasi percepita dagli occhi mutanti degli streghi. Si accostò all’imponente ragazzo africano e lo guardò per un istante con sufficienza, poi gli infilò il bastone di legno tra una gamba e l’altra e tirò, facendolo inciampare. Il gigante cercò invano di recuperare l’equilibrio prima di cadere riverso al suolo. 
Non aveva ancora toccato terra quando Anatolij vide che ora era verso di lui che la ragazza rivolgeva lo sguardo. “tu mi farai divertire più di loro?”. Questo le trasmetteva la sua espressione.  
I suoi occhi completamente verdi adesso erano fissi su di lui.   
Si preparò a prenderle come gli altri due. 
Ma la ragazza non avanzò verso di lui, qualcosa sembrò spegnersi. Abbassò lentamente la testa e si guardò le mani come sorpresa di averle attaccate alle braccia. Poi sussultò per un secondo, con il viso nascosto dai capelli. 
Quando alzò di colpo il viso, Anatolij vide che era carico di incredulità e panico.  Le pupille erano tornate normali. Ansimava come un mantice. 
<< Porca merda… io…mi dispiace…>> 
Kat fece un paio di passi incerti, poi si abbandonò seduta sul parquet. 
 
La sequenza degli eventi non era durata più di trenta secondi.
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


All’interno della palestra regnava il silenzio più assoluto, si poteva quasi sentire il rosicchiare di un tarlo nascosto sulle travi del soffitto. 
Fabio e Hamidi, ancora a terra, esaminavano la ragazza con cautela. Non usavano muoversi. Le botte appena ricevute bruciavano e li rendevano sospettosi.  
Anatolij, l’unico in piedi, l’unico graziato dalla furia che si era appena abbattuta su di loro, tentava di dare un senso all’accaduto riesaminando la scena mentalmente.  
La ragazza, ancora inginocchiata a terra, fissava un graffio nel parquet appena oltre le sue gambe. 
 
Il primo a rompere il silenzio fu il ragazzo brasiliano. Di nuovo. <
Katherina alzò lo sguardo su di lui e i tre streghi sussultarono. Ma ormai la tempesta era passata. Non c’era più traccia della potenza incontrollata che aveva animato la ragazza fino a pochi istanti prima.  
I medaglioni ora pendevano immobili al collo dei ragazzi, a silenziosa conferma. 
Gli streghi la videro afflosciarsi e sussultare in preda ai singhiozzi, e senza pensare le si fecero intorno; se prima era sembrava una pantera letale ora ricordava più un pulcino indifeso. Cercava anche lei di dare un senso all’accaduto. 
<< Io…io ero agitatissima…prima che iniziasse, intendo…avevo tachicardia e nervi tesissimi…e quando mi sei saltato addosso, Fabio…ero talmente nervosa che ho pensato solo che dovevo difendermi…>> la sua voce tremolava ed era quasi un sussurro. 
<< …e hai perso il controllo? Eri cosciente o non ricordi nulla?>> 
<< sono sempre rimasta cosciente solo… un Potere dentro di me voleva aiutarmi. Mi ha messo in disparte per difendermi, penso…>>  
<< un Potere? >> 
<< si…non ha capito che stavi scherzando, non l’ha capito subito>> 
Kat scuoteva la testa sconsolata. Faticava a raccogliere le idee e ad esporle chiaramente. Come si poteva descrivere qualcosa accaduto nella propria mente? Qualcosa di talmente strano e repentino che non aveva mai provato prima? 
Descrisse le sensazioni meglio che poteva. Qualcosa nella sua mente si era risvegliata per proteggerla, inizialmente. Qualcosa di esageratamente potente. Poi anche questa entità si era accorta dello sbaglio, nessuno era in pericolo di vita, e aveva iniziato ad irradiare una sensazione di divertimento. “visto che l’avevano svegliata adesso l’avrebbero fatta svagare un po’”. L’aveva come scostata ed aveva assunto il controllo, senza forzarla. Gentilmente. Su questa cosa Katherina era assolutamente certa, non era un’entità malvagia, non aveva l’intenzione di ferire gli streghi, solo di sfidarli. << Come se a forza di rimanere tanto sopita e relegata ora volesse divertirsi un po’, capite? Tipo qualcuno che è rimasto seduto in panchina per quasi tutta la partita a guardare, e ora tocca a lui e può sgranchirsi un po’>>. La sua voce era stridula. Alzò la testa verso di loro, stava ancora singhiozzando. <>. Era un’affermazione, anche se sembrava più una supplica. 
Hamidi le si sedette accanto e le toccò un braccio. << No, non lo era >> 
<< Se lo fosse stata ci avrebbe fatto a pezzi senza neanche scomporsi…>> Anatolij, sempre pragmatico, intercettò lo sguardo di fuoco dello strego africano e si affrettò ad aggiungere: << No, non sei pericolosa >>. 
<< E io ho imparato che la prossima volta ci penserò due volte prima di farti qualche dispetto!>> Fabio le porse una mano e la aiutò ad alzarsi. Sembrava che Katherina avesse le gambe di gelatina. 
<< Ah sì, Fabio, a questo proposito… che cavolo volevi fare prima di essere sbattuto come un tappeto?>> le domandò Hamidi. 
<<…niente…una cretinata…>>. Se avesse potuto arrossire, a quest’ora probabilmente avrebbe avuto il volto di una rara tinta violacea. Almeno un lato positivo nelle mutazioni c’era. 
<< direi che è ora di andare da Viktor, di nuovo…>> la ragazza si era leggermente ripresa e sospirò rassegnata. <
Gli altri tre non sapevano cosa risponderle. In effetti, se lo stavano chiedendo anche loro. Poi fecero strada. 
Mentre Kat li seguiva assorta, la sua mente tentava di mettere a fuoco un particolare. C’era un nome, il Potere lo aveva usato per presentarsi. Ma più cercava di concentrarsi più le sfuggiva.  
 
 
Viktor sedeva alla pesante scrivania di mogano, immerso in vecchi e polverosi documenti. Cercava contatti e informazioni sullo strego Gabriel e sulla Scuola del Gatto di Friburgo. Telefonando alla scuola, aveva appreso che Gabriel non era più da loro, era stato trasferito tempo fa, lo strego dall’altro capo della cornetta non sapeva dove, ma avrebbe chiesto.  
Allora Viktor aveva riesumato vecchi scatoloni, diari e rubriche telefoniche.  Aveva recuperato vecchi contatti e aveva fatto parecchie telefonate. Alcuni dei suoi vecchi colleghi non sapevano nulla, altri erano morti.  
Gli occhi lacrimavano, e quelle lacrime, che gli rendevano lucidi gli occhi dietro le spesse lenti degli occhiali, non erano dovute solo alla polvere. Anche i ricordi erano accumulati dentro quegli scatoloni, insieme ai numeri di telefono. 
Poi lo strego aveva riesumato dei vecchi articoli di giornale e aveva iniziato a leggerli con la testa poggiata sui gomiti. 
 
Sentì arrivare i ragazzi ancora prima che svoltassero l’angolo, benché la porta dello studio fosse chiusa. Finì il paragrafo mentre la porta si apriva e alzò gli occhi al di sopra degli occhiali. 
 
Il vecchio strego ebbe una strana sensazione di déjà-vu.  
La processione entrò in silenzio, con le facce spente. Chiudeva la fila Katherina, talmente ingobbita e con il viso talmente chino che sembrava potesse sprofondare nel vecchio parquet ad ogni passo. C’era indubbiamente qualcosa che non andava, lo lesse negli occhi dei suoi tre allievi. Però sembrava qualcosa di già accaduto e non ancora in corso. Viktor si tolse gli occhiali dal naso e si preparò al racconto.  
 
Un pettirosso si pettinava il folto piumaggio poggiato al davanzale, riscaldato dal sole.  
Viktor finì di ascoltare tutto il racconto dei quattro ragazzi senza interrompere nemmeno una volta, annotandosi mentalmente tutte le decine di domande che avrebbe voluto fare.  
Ma quando finirono di parlare, era talmente confuso da non sapere cosa dire. 
Una domanda di Fabio lo riscosse dalle elucubrazioni. <
<< Non avrebbe avuto quella velocità… un po’ di più si ma non più di voi >> l’anziano strego si passò una mano nei corti capelli grigi mentre rispondeva. Si rivolse alla ragazza. << Tu sei davvero convinta che non fosse qualcosa di malvagio? Che ti avrebbe ascoltata se avessi voluto smettere?>> 
<< Ne sono sicura, perché lo ha fatto… quando ha…ho buttato a terra Hamidi – scusa ancora, sai?>> 
<< Tranquilla…>> 
<< …ho pensato che forse poteva bastare, e si è ritirata. Un po’ a malincuore perché si stava divertendo…>> 
Kat evitò di dire tutta la verità. Evitò di raccontare che il Potere si era fermato perché lei non voleva che facesse del male a Anatolij. Evitò di dire che quel Potere dentro di sé l’aveva accontentata a malincuore perché percepiva i suoi sentimenti. 
Evitò di raccontarlo e si strinse nelle spalle minute. 
<< In effetti aveva una faccia davvero divertita mentre mi spalmava a terra senza il minimo sforzo, subito dopo avermi dato un bacio sul naso tra l’altro. Ah, mi hai baciato, pupa! >> Fabio le strizzò l’occhio, poi si girò di nuovo verso il vecchio. << Non potrebbe essere invece una avuria? >> 
<< Sarebbe un caso anomalo allora…>> 
<<…un Jinx?>> 
 
Kat ascoltava demoralizzata i quattro streghi discutere così tranquillamente ed empiricamente di possessioni e di spiriti, di mostri dal nome inquietante e di maledizioni, con tanta naturalezza che sembrava stessero scegliendo le ricette per il pranzo di Natale. Ascoltava in silenzio, mentre la sua consapevolezza del mondo cambiava: non solo i babau, non solo i fantasmi…c’erano libere per la terra talmente tante cose mostruose e sconosciute alle persone normali da poter far perdere il senno.  
Ascoltava e tormentava la catenina del medaglione da strego. 
<< forse potrebbe trattarsi di uno spirito guida, come per gli sciamani degli Indiani d’America, potrebbe essere, no? A parte il fatto che non siamo in America…>>  
<< …uno spirito falco o un lupo potrebbe spiegare la vel...>> 
<<È una donna, non è un animale >> Katherina interruppe Viktor, che la guardò in silenzio, invitandola a spiegarsi. << È una donna, e mi ha anche detto il suo nome… non l’ho raccontato prima perché sto ancora cercando di ricordare quale fosse…però è una donna >>. Aveva uno sguardo talmente sicuro che nessuno ebbe dubbi al riguardo.  
Continuarono a discutere ancora per un po’, mentre il sole raggiungeva il culmine della sua breve scalata invernale. Poi, vedendo che non giungevano a nessuna conclusione, decisero all’unanimità che uno stomaco pieno male non avrebbe fatto e chiusero la riunione alzandosi e dirigendosi verso la cucina. 
Avevano varcato la soglia quando Hamidi si girò indietro, verso Nat che si era fermato.  
<< Io devo andare dal caso sospetto, mangio qualcosa per strada. Ci vediamo stasera se tutto va bene.>> 
Gli altri annuirono e salutarono. Iniziarono i preparativi del pranzo mentre Anatolij scendeva le scale. Il ragazzo sentiva il cozzare delle pentole, poi si chiuse la porta alle spalle. 
 
 
La radio perse il segnale per la seconda volta mentre la monovolume sfrecciava lungo l’autostrada. Anatolij passò alla riproduzione della chiavetta USB con un gesto stizzito, e nell’abitacolo si diffuse una cacofonia di suoni e un’esplosione di subwoofer. Con una mezza imprecazione pigiò compulsivamente sul tasto “Avanti” fino a che non si lasciò alle spalle la playlist tamarra e francese di Hamidi, poi controllò la strada sul navigatore. La sua uscita era la prossima. 
 
Aveva fatto quasi un’ora e mezza di strada, e ne aveva almeno altrettanta al ritorno, salvo deviazioni. Solitamente tutti i ragazzi facevano il possibile per evitare le uscite per i casi sospetti, principalmente perché il più delle volte finivano in un nulla di fatto. Nel caso poi in cui fosse effettivamente un evento di loro competenza era anche peggio, perché poi bisognava risolverlo, solitamente finendo in qualche posto fangoso, di notte, al freddo; solo nel migliore dei casi uno di questi tre fattori poteva mancare, ma erano situazioni da contare sulle dita di una mano.  
Anatolij però aveva preferito il male minore quel giorno. Di rimanere ad Arkham, dopo quello che era successo negli ultimi due giorni, non se ne parlava proprio.  
Distrazione.  
Quella parola gli si era formata in mente quando si era offerto volontario per quell’uscita. 
Ma non aveva fatto i conti con la solitudine dell’abitacolo di quella macchina. Della monotonia dell’autostrada. Della pioggerellina sul parabrezza. E del suono ripetitivo dei tergicristalli. 
Il tergicristallo descriveva ampi semicerchi sul parabrezza, producendo un qualcosa di simile a “t-won, t-won”, ritmici. Facevano un suono ipnotico. 
I ricordi sembravano riversarsi davanti ai suoi occhi come un fiume in piena. 
“t-won, t-won” 
Anna fermava la sua bici di fianco alla panchina dove era seduto. Sorrideva. La sua sgangherata bicicletta azzurra frenava con un lungo stridio. 
“t-won, t-won” 
Si sedeva accanto a lui, raggruppando le gambe e arrossendo nel tentativo di strattonare la gonna per coprirsi meglio le gambe nude. Erano i primi caldi estivi. Gli alberi del parco erano rigogliosi e niente poteva essere migliore di così.  
“t-won, t-won” 
L’avevano portata alla casa di cura dopo un lungo ricovero in ospedale. La vide distesa sul lettino ridotta ad un mucchietto di ossa, le guance incavate e le braccia esili. Ma più di tutto era stata l’espressione vuota che gli aveva rivolto a farlo andare in pezzi. 
“t-won, t-won” 
Katherina singhiozzava convulsamente fra le sue braccia, inerme, mentre la portava a cercare del ghiaccio per il bernoccolo che le pulsava in fronte. Le era sembrata ancora più piccola in quel momento. 
“t-won, t-won”  
Anatolij trafficò furiosamente con i pulsanti della radio, ingiustamente bistrattati. 
“t-won, t-won” 
Ma quando ci si impone di non pensare a qualcosa, purtroppo quello è l’unico pensiero che costante e risoluto si insinuerà nella mente alla prima distrazione. 
 
Non credeva ai colpi di fulmine, di quelle cosa da film d’amore per cui il mondo smette di girare per lasciare a due persone un’intensa ed imperitura storia d’amore. Ci aveva quasi creduto una volta e aveva pagato. Avevano pagato entrambi per la sua sciocca ingenuità.   
Aveva permesso ad Anna di avvicinarsi al suo mondo solo di un passo, e ora lei passava le sue giornate più lucide a pettinare una bambola, senza riconoscerlo mai quando andava a trovarla. 
Non riconosceva nemmeno i genitori, che passavano a trovarla ignari di cosa l’avesse resa una menomata mentale. 
Quindi aveva deciso di finirla con l’amore e altre stupidaggini del genere, non ne aveva bisogno. 
Non era più stato con nessun’altra, terrorizzato dall’idea di potersi riavvicinare ad una persona indifesa, fragile, diversa da lui che poteva resistere a tutto. Dopotutto, lui era uno strego, non provava emozioni. 
 
Eppure non riusciva a togliersi Katherina dalla testa; tentava di convincersi che era solo colpa della lunga astinenza, del suo corpo che reclamava attenzioni, ma in realtà sapeva che stava mentendo a sé stesso. 
Ogni volta che la sua mente divagava in quella direzione, si imponeva di pensare ad altro e cercava di convincersi che starle lontano fosse la soluzione più facile.  
Il male minore. 
Aveva funzionato a fatica, dopo l’attacco del babau, dopo che lei aveva lasciato Arkham per tornarsene alla sua normale vita da universitaria. A volte si rendeva conto di pensare a lei ma sperava che con un po’ di tempo sarebbe passato da solo. Mica si trovava in un romanzo rosa, no?! 
Ma poi lei era tornata di nuovo, ed era rimasta! 
Come faceva ad evitarla se viveva in casa sua?! Se la trovava con i biondi capelli scarmigliati al mattino e la faccia ancora arrossata? Se la sua vista sviluppata si soffermava sui suoi occhi e su quel verde così intenso o se adesso quasi tutta la casa profumava del suo shampoo al miele? 
Come faceva ad evitarla se ad ogni distrazione si scopriva a pensare a lei?! 
In più, quella mattina si era anche presentata agli allenamenti – seguendo il consiglio di quel traditore di un vecchio strego – e gli era capitata davanti proprio in uno dei momenti di maggiore debolezza, quando gli istinti mutanti che gli avevano impiantato a forza venivano risvegliati dalla fatica e dallo sforzo fisico e prendevano il sopravvento. Avrebbe voluto lanciarsi verso di lei, afferrar…no, non ci doveva pensare nemmeno per un attimo a quello che avrebbe voluto farle!  
…ma ormai la sua mente, subdola e rapida, gli aveva già proposto frammenti di immagini difficili da evitare. Senza volerlo aveva accarezzato quei pensieri con desiderio… 
Piantò le dita sul rivestimento del volante, quasi lasciandoci i segni. 
Quindi era scappato, come un coniglio. E per questo, ora gli toccava questa gita nel nebbioso polesine. Come penitenza. 
 
 
La bella giornata che si era presentata al mattino aveva lasciato il posto ad un pomeriggio lattiginoso, il cielo si era coperto e cadeva una fastidiosa pioggerellina gelida. Fra un paio d’ore sarebbe salita la nebbia, Nat avrebbe potuto scommetterlo mentre metteva la freccia e usciva dall’autostrada. 
 
L’ospedale in cui doveva andare non era molto grande, Anatolij si fece aprire il cancello secondario e seguì i cartelli per le celle mortuarie, che si trovavano sul retro. Trovò ad attenderlo un vecchio prete in abito d’ordinanza seduto in sala d’attesa. L’illuminazione era scarsa e peggiorava l’aria di malattia e morte che già regnava in quei corridoi. 
Il prete batteva il piede agitato a terra e si torturava il polsino della camicia. 
<< Don Carlo Padovan? Sono Anatolij, mi manda Padre Rossi>>. La sua voce, seppur debole, risuonò per tutta la piccola sala gonfia di lutto. 
L’uomo alzò lo sguardo, sorpreso, poi si drizzò e strinse la mano al ragazzo, con un’espressione di sollievo. “Evidentemente si aspettava un mostro a tre teste, o forse un gigante albino” considerò Anatolij acido, ricambiando la stretta. Sicuramente era la prima volta che quel prete di quel piccolo comune aveva a che fare con Padre Rossi e i suoi inquietanti gregari. Lo strego faceva quel lavoro insieme al suo mentore da quando aveva sedici anni, da quando ne aveva diciannove lo svolgeva da solo. Ormai era esperto su come comportarsi, soprattutto con i parroci inesperti di provincia. 
<< Mi racconti quello che sa. >> 
<< Beh, si chiamava Marco Narduzzo, da un anno si era trasferito in paese con la compagna…non erano sposati. Non avevano nemmeno figli. Venivano a messa a Natale e Pasqua, li conoscevo solo di vista. Alle tre di ieri notte lei non l’ha sentito rientrare in casa, ha iniziato a chiamarlo al cellulare e dopo vari tentativi a vuoto ha chiamato i carabinieri. L’hanno trovato giù per un fosso con la macchina in una stradina fuori via, stretta…>> 
<< In mezzo ai campi? >> 
<< Si, tanti campi di soia, tanti vigneti e solo una manciata di case isolate. Niente lampioni. Non so bene dove l’hanno trovato ma lungo quella strada ci sono lunghi tratti senza case… altro io non so>>. Fece una pausa sistemandosi il colletto bianco, a disagio. 
<
<< Ha fatto esattamente quello che doveva, non si preoccupi >> gli disse Anatolij con un tono comprensivo e professionale frutto di anni di esperienza. “Però spero vivamente di non aver fatto due ore di strada per un colpo di sonno al volante” aggiunse poi nella sua mente. 
 
L’uomo gli fece strada fino ad un ufficio dove un infermiere stava compilando degli incartamenti. Dopo un breve colloquio e la consegna dei permessi, lo strego e il prete furono condotti alla camera mortuaria. L’aria era impregnata dell’odore di detergenti per pavimenti e di disinfettante, ma all’olfatto sviluppato dello strego non sfuggì il leggero lezzo di formaldeide e di sangue vecchio che li accompagnava.  
Ad aspettarli davanti alla sala delle autopsie c’era un uomo con un grosso giubbotto invernale, che si presentò come il medico legale che aveva contattato il prete. Il suo turno era finito, ma aveva pensato di tornare per parlare con chi avrebbe, forse, visitato meglio il corpo.  
Se pensò che quello sbarbatello di meno di trent’anni non potesse competere con i suoi venticinque anni di esperienza nella medicina legale, non lo diede a vedere. 
 
Raccontò allo strego dei risultati delle analisi, del livello spaventosamente alto di adrenalina, talmente alto che forse ci si poteva anche morire, con quel valore, e di come le braccia non potessero essere in quella posizione allo scoppio dell’airbag, perché, diavolo, o si fa in tempo a metterle davanti alla faccia o le mani rimangono chiuse sul volante: non ha senso che fossero entrambe lungo i fianchi, giusto? O almeno, questa era l’opinione del medico che di incidenti stradali, purtroppo, ne aveva visti parecchi. 
Anatolij ascoltava in silenzio e annuiva di tanto in tanto, mentre mentalmente metteva a fuoco il possibile colpevole. 
<< La ringrazio per essere tornato apposta per parlarmi, ora dovreste aspettarmi entrambi qui >> disse rivolgendosi ai due uomini, poi vedendo che indugiavano aggiunse: << sui documenti che vi ho consegnato c’è il permesso di rimanere da solo con la vittima, non ci vorranno più di cinque minuti>>. Questo sembrò convincerli e venne lasciato entrare nella camera mortuaria, dove il corpo era già stato preparato sul tavolo, coperto con il lenzuolo. 
 
Già sollevando lo spesso telo bianco Anatolij capì di non essere davanti ad un falso allarme. Il medaglione vibrava, anche se debolmente.  
Il cadavere non aveva la cucitura a Y delle autopsie, evidentemente si pensava ad un semplice incidente causato dall’alcool o dalla stanchezza. Tutto il corpo, dal busto in su, aveva ematomi bluastri causati dallo schianto e dall’airbag. 
Ma non era quello che lo strego cercava. Il ragazzo si concentrò sul volto dell’uomo, le sue pupille feline si restrinsero per cogliere anche il minimo particolare sotto la luce intensa delle lampade. Dopo aver preso dei guanti dal tavolo, esaminò anche gli occhi, sollevando le palpebre. Controllò anche sulla nuca girando lentamente la testa semi-irrigidita e scostando i capelli biondo chiaro con i polpastrelli. 
Anatolij si aspettava di trovare dei piccoli segni sul collo, nascosti sotto le tumefazioni o sul cuoio capelluto, ma stranamente non vedeva nulla di anomalo che poteva dargli qualche indizio. Sembrava un normalissimo incidente d’auto.  
Ma il medaglione vibrava e non mentiva, anche se i residui del soprannaturale se ne stavano andando. 
Fu l’apparente assenza di segni che gli fece formulare una teoria. Si tolse i guanti e uscì, chiudendosi la porta alle spalle. 
 
Due teste si alzarono nella sua direzione. 
<< Ha finito?>> 
<< Sì…dovreste ripetermi un attimo il nome della vittima, per favore>>  
Anatolij tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e digitò su Facebook “Marco Narduzzo”, sotto gli sguardi interrogativi del medico legale e del parroco.  
<< Se i suoi familiari non sono ancora venuti a vedere il corpo, vi chiederei di tingergli i capelli, se è possibile. Anche per non causare choc e domande inutili>>.  
Il medico legale sbiancò guardando la foto che la vittima aveva fatto e caricato online appena il giorno prima, e si affrettò ad annuire. Cercò di dire qualcosa, ma la voce gli usciva stridula: <>  
Anatolij gli rivolse un sorriso acido, tirato. Uno di quei sorrisi che, aveva imparato, chiudevano la conversazione e ricacciavano indietro le domande. I suoi occhi giallo scuro lampeggiavano, la voce era gelida. << Mi creda, è meglio per voi non sapere niente. Vi ringrazio per la collaborazione e farò in modo che non capiti ancora. Arrivederci>>. 
Lo strego stava chiudendosi la porta alle spalle quando sentì il medico crollare sulla sedia, imprecare e spiegare al parroco, che non aveva visto il corpo, che “qualunque cosa fosse stata, gli aveva sbiancato i capelli dalla paura”. 
 
 
Anatolij aspettava, ad occhi chiusi, inginocchiato in mezzo all’erba congelata. Come aveva previsto, si era alzata la nebbia e la temperatura era scesa parecchio rispetto alla giornata. Ma le pozioni funzionavano e lo strego era per il momento immune al freddo. Meditava e aspettava la sua preda, la spada d’argento al suo fianco. 
 
Era uscito dall’ospedale che era praticamente buio, le corte giornate di febbraio tardavano ad allungarsi. Si era fermato in un negozio di giocattoli e aveva comprato una bambola, che aveva prudentemente nascosto nel baule. Poi si era diretto al distretto dei Carabinieri che avevano rinvenuto il corpo ed esaminato l’auto della vittima, e aveva chiesto di essere portato sul luogo del presunto incidente. I permessi che aveva con sé vennero fotocopiati e controllati, ma non venne sollevata nemmeno un’obiezione. Anatolij non smetteva mai di meravigliarsi del potere che aveva Padre Rossi e tutta la Chiesa. 
 
Via delle Paludi era effettivamente un terreno di caccia perfetto per le creature sovrannaturali. Il tratto dove l’auto si era schiantata era lontano da abitazioni e capannoni, proprio come aveva detto il parroco, ed era circondato unicamente da campi ora brulli e congelati, e vigneti. La nebbia si alzava lattiginosa e inquietante dai fossi. 
Il brigadiere gli indicò l’albero dalla corteggia sbeccata contro cui era finita l’auto e insieme conclusero che non c’era traccia di frenata sulla carreggiata. Questo confermò allo strego il fatto che la vittima fosse già morta nel momento dello schianto, ma si tenne la considerazione per sé. 
Per non destare sospetti, Anatolij fece alcune foto del sito e si inginocchiò in alcuni punti come per controllare qualcosa. Poi ringraziò il carabiniere della disponibilità e salì in auto.  
Si fermò in un bar poco lontano per mangiare qualcosa, poi dopo un’oretta tornò sul luogo dell’attacco e infilò la monovolume dietro ad un canneto, nascondendola più possibile. Erano circa le dieci. 
Ricordava la pagina del bestiario a memoria, ma si fece mandare lo stesso una foto sul cellulare da Hamidi, per sicurezza. 
Il freddo era intenso e umido e il ragazzo rabbrividì più di una volta mentre si sfilava giaccone e felpa e indossava gambesone e armatura. Il tintinnio delle cinghie risuonava nel silenzio come uno scampanellio di campane. Il fatto che quella zona fosse l’unica in cui la temperatura scendeva sotto lo zero e dove la rugiada ghiacciava formando un manto bianco, confermava ancora una volta che era il posto giusto. L’erba ricoperta di brina crepitava sotto i piedi. 
Anatolij finì di allacciarsi gli anfibi, stringendoli più del dovuto, poi aprì il bagagliaio e iniziò a rovistare tra le ampolle e i vasetti, alitandosi sulle dita per riscaldarle. 
 
Dopo neanche dieci minuti era tutto pronto, le pozioni che aveva bevuto gli acuivano i sensi e lo rendevano eccitato e bramoso di combattere. Il suo viso ora bianco come quello di un cadavere era striato da grosse vene bluastre. Le sue pupille, dilatate all’inverosimile, gli mostravano ogni più piccolo particolare intorno a lui, come fosse stato in pieno giorno, anche meglio, perché le forme e i contorni di ciò che aveva intorno avevano acquistato contorni più netti e definiti. Udiva ogni minimo sussurro e crepitio della brina; l’acqua che scorreva lenta nel fosso a dieci metri da lui era perfettamente distinguibile e il suo respiro, ora rallentato al minimo quasi lo infastidiva 
Non sentiva più il freddo, e per questo, dopo aver tracciato col salnitro un cerchio intorno a lui, dispose a terra il tappetino dell’auto e ci si inginocchiò sopra. 
Si era dimenticato della bambola. 
Con due balzi dalla velocità inumana tornò all’auto a prenderla e si risedette al suo posto ancor prima che il bagagliaio si richiudesse con uno tonfo. 
 
Lo spettro si aggirava da quelle parti, ma non era detto che si facesse vivo subito, soprattutto perché era ancora sazio dalla notte precedente. Quindi c’era bisogno di un richiamo, qualcosa che attirasse la creatura, altrimenti lo strego rischiava di doversi appostare per giorni e giorni, prima di ottenere qualcosa. 
Anatolij doveva provare qualcosa di artigianale, dal momento che non aveva con sé le erbe e i reagenti “da manuale”. Fortunatamente, i componenti essenziali per richiamare entità malvagie erano pressappoco sempre gli stessi. 
 
Il sangue era indispensabile praticamente per ogni richiamo. Sfoderò lentamente la spada e passò la lama sul palmo della mano sinistra. Avvertì una sensazione di tepore mentre il fluido scuro usciva dalla carne e gocciolava sulla bambola, macchiandone i biondi capelli. 
L’odore del sangue, anche se il suo, gli arrivava direttamente al cervello ed eccitava i nervi tesi dello strego ebbro di pozioni. Si impose si calmarsi facendo profondi respiri. Funzionò.  
Passò quindi alla componente sonora. Ad occhi chiusi intonò una ninna nanna che conosceva da bambino. Anche se in serbo, il senso della cantilena era universale. Il suo mormorio riempì l’aria densa di umidità, dalla sua bocca si formavano piccole nuvolette bianche. 
Poi riaprì gli occhi, lentamente. Doveva simulare un infanticidio ora: sempre cantando, impose entrambe le mani sulla bambola e tracciò un segno: il pupazzo intriso di sangue prese fuoco davanti alle sue ginocchia. Anatolij non terminò la ninnananna fino a che del fantoccio non rimasero che le ceneri, poi chiuse gli occhi e iniziò a meditare. 
 
Così era rimasto per circa un’ora, immobile nell’erba ammantata di brina. La spada al suo fianco. 
 
Sentì un fruscio, o forse lo percepì soltanto. L’aria divenne se possibile ancora più gelida. La nuca gli formicolava come pure il medaglione del lupo. 
Anatolij aprì gli occhi e li fissò senza scomporsi in quelli vitrei di una bambina. 
Stava in piedi a pochi metri dallo strego, con i piedini sporchi e nudi immersi nella fitta nebbia che saliva dal terreno. Non si muoveva, si limitava a fissare il ragazzo con occhi morti, i capelli le ricadevano scomposti sulla camicetta da notte lacera. Ma lo strego sapeva che quelli non erano i veri occhi dello spettro e alzò lo sguardo dietro il corpo della bambina, fino a che individuò la vera figura della creatura, semi-trasparente nell’oscurità; ondeggiava lentamente ricambiando il suo sguardo con un ghigno crudele. 
Poi, come per un accordo silenzioso, strego e wraith si saltarono alla gola.
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Katherina ripensava a quanto accaduto quella mattina. L’entità che si era risvegliata dentro di lei non si era più fatta sentire durante l’arco della giornata, ma la ragazza non riusciva a smettere di pensarci, lì nel buio della camera che gli sembrava ancora estranea. Ora che gli streghi erano a letto, e non tentavano più di farla distrarre, ripassava le sensazioni, i suoni, le immagini di quanto accaduto nella palestra, certa che sarebbe giunta ad una conclusione. “Che cos’era? Chi era? Perché era dentro di lei e perché non era mai apparsa prima d’ora?”. C’erano un sacco di domande che si concatenavano una all’altra. Per quanto si sforzasse però, non era ancora arrivata a niente. Non le era tornato in mente nemmeno il nome di quell’entità.  
 
Dopo essersi rigirata più volte nel letto, tanto da aver ridotto le lenzuola ad uno straccio, si alzò e si diresse verso lo studio, con un libro di chirurgia generale sotto un braccio e una coperta di pile nell’altro. “Se mi fa venire sonno meglio, altrimenti mi prendo avanti per l’appello di aprile” pensava mentre accendeva le luci della grande sala, i piedi nudi sul parquet gelato.  
I lampadari sfarfallarono un momento, per poi illuminare le pesanti librerie ricolme e polverose, e nella luce giallastra Katherina si meravigliò di come la sua vita universitaria sembrasse distante anni luce da quel luogo e da quello che stava passando. 
Avanzava lentamente pensando a dove mettersi. Non voleva sedersi sulla grossa scrivania in fondo alla sala, era di Viktor, “sarebbe come sedersi in cattedra” pensava, però era l’unico posto con una lampada da scrivania e lei aveva bisogno di luce per leggere, non era mica uno strego! Con un’alzata di spalle si sedette quindi con le gambe raccolte sulla comoda poltrona girevole, si gettò addosso la coperta, accese la lampadina e aprì il libro.  
 
Dopo nemmeno mezz’ora, però, si rese conto di sfogliare le pagine senza leggere nulla: la sua mente continuava ad andare altrove. 
Strofinandosi gli occhi allora si abbandonò sul morbido schienale e il suo sguardo vagò fino ai grossi tomi sugli scaffali alla sua destra. La maggior parte aveva una copertina spessa e rigida, decorata con ghirigori dorati: Katherina non si sarebbe meravigliata se avessero avuto più di cento anni. Ogni libro aveva dimensioni diverse dagli altri, e anche i titoli sui dorsi erano scritti con caratteri diversi. 
Historia i fantastyka” la colpì per primo, perché il blu della copertina sembrava riflettere la luce della lampada; alla sua sinistra c’era il “Physiologus”, sicuramente in latino. Katherina ruotò la sedia con un colpetto del piede e poi proseguì nella lettura dei titoli.  
I nove mondi della mitologia nordica, raccolta a cura di Henric Von Hoffel”. 
Cronache del Clan Tuirseach”, con la copertina leggermente strappata. 
“Rerum italicarum Scriptores” veniva subito dopo “Lavanda, i benefici per il corpo e la mente”, che aveva una copertina più recente e tendente all’hippie. 
Più andava avanti con la lettura più Katherina si accorgeva della varietà di generi e di utilità dei libri stipati in quell’enorme libreria. C’erano pesanti tomi antichi, rilegati in pelle odorosa, a fianco di libricini inutili come un trattato sui cristalli naturali e un ricettario tedesco di cucina. “Un’esplosione di letteratura” si disse arricciando il naso sottile.  
La poesia metafisica inglese: da William Shakespeare a John Donne” seguiva un dizionario italiano – polacco del 1978. 
La ragazza dovette alzarsi per continuare con la lettura e i bizzarri accostamenti la facevano sorridere. Passeggiava lentamente seguendo la libreria, i lunghi capelli ondeggiavano scomposti sul morbido pigiama che indossava. 
Lo sguardo della ragazza venne catturato da un piccolo volumetto rilegato in rosso vivo, e prima ancora di rendersene conto lo stava estraendo dal suo posto e depositando sulla scrivania, sopra il libro di chirurgia generale.  
La fonte avvelenata” era stampato in un severo carattere sulla spessa copertina color rubino. Katherina lo aprì casualmente su una pagina e iniziò a leggere. Doveva avere almeno un centinaio d’anni, quell’edizione. Le pagine crepitavano leggermente mentre le girava. 
 
Nessuno oggi nasce mago. Sappiamo ancora troppo poco sulla genetica e sui meccanismi dell’ereditarietà, ma sfortunatamente, continuiamo a cercare di trasmettere le facoltà magiche in modo, per così dire, naturale. Gli antichi solamente ne erano in grado e purtroppo c’è chi ancora ha la presunzione di riuscirci oggi, benché quei metodi siano perduti ormai da secoli.” 
 
Kat si sedette e poggiò il mento su una mano per concentrarsi meglio. Il saggio divagava su testi e trattati forniti come prove della sua tesi, che la ragazza scorse velocemente. 
 
“E i risultati di questi pseudoesperimenti si scorgono fin troppo spesso nelle fogne delle città, dove s’incontrano troppe donne ritardate o in stato catatonico, profeti, indovine che sbavano e se la fanno sotto, cretini col cervello degenerato da un Potere ereditato e non controllato.” 
 
Per un attimo Katherina vide davanti a sé una specie di vecchio laboratorio, un caotico guazzabuglio di provette, contenitori in vetro e strumenti sporchi. Di riflesso, alzò lo sguardo per guardare meglio, ma più tentava di metterle a fuoco più esse si dissolvevano veloci. Sbattendo gli occhi continuò a leggere, come presa da un incomprensibile interesse. 
 
“La maggior parte di noi maghi perde la facoltà di procreare in conseguenza di mutazioni somatiche e disfunzioni dell’ipofisi. Alcuni – e più di frequente alcune – si adattano alla magia e conservano la funzionalità delle gonadi. Possono concepire e generare, e hanno la sfrontatezza di considerarlo una fortuna e una benedizione.” 
 
Ancora prove, ancora fonti. Kat le scorreva ora in agitazione, girando le pagine una dopo l’altra fino a che non giunse alla conclusione del capitolo. Aveva il respiro corto. 
 
“Ma ripeto: nessuno oggi nasce mago. E nessuno dovrebbe nascere tale! 
Pertanto chiedo che siano sterilizzate tutte le adepte. 
Senza eccezione. 
La magia ha un prezzo ed esige il suo pagamento” 
 
La conclusione era brusca e non ammetteva repliche. 
Katherina sfogliò le pagine ma l’autrice ormai aveva cambiato argomento, e ora si dedicava ad argomentare sui benefici dell’utilizzo dell’oppio nella cura dei pazienti. Chiuse il libro frustrata e rimase a guardare la copertina rubino che sembrava ammonirla sotto la luce della lampada. Si accorse solo ora di avere un po’ di affanno e cercò di calmarsi inspirando ed espirando lentamente. 
Chiuse gli occhi e provò a rievocare le immagini che prima, per un momento, le erano apparse. Invano. Come il nome dell’entità, più ci pensava più tutto sembrava sfuggirle di mente.  
Chiuse il libro con uno scatto, si sentiva frustrata e senza speranze. Dato che il sonno non accennava a venirle, decise di provare a distrarsi leggendo un po’ dell’ottava edizione delle “Canterbury Tales” che aveva scorto su uno scaffale.  
 
Stava leggendo Il Racconto del Marinaio quando sentì la porta delle scale sbattere. Il tonfo risuonò come uno sparo nel silenzio della notte.  
Trattenne il fiato, il cuore le rimbombava nelle orecchie.  
Risuonarono dei passi strascicati lungo il corridoio, sempre più vicini, poi dal buio emerse Anatolij, che girò appena la testa per guardarla e che perse l’equilibrio nel tentativo di appoggiarsi allo stipite della porta.  
Recuperò un equilibrio precario nel momento in cui Katherina arrivava di corsa per aiutarlo e le si abbandonò addosso con uno sbuffo esausto. Le cinghie tintinnavano nel silenzio del corridoio. 
 
Era bianco come un cadavere, con profonde occhiaie scure e un’espressione sfinita e sofferente. Le vene del viso formavano una contorta ragnatela di un innaturale colore bluastro. Katherina era rimasta per un attimo sconvolta nel guardarlo in viso.  Il braccio sinistro, che ricadeva floscio lungo il fianco, gocciolava un liquido denso sul pavimento; il guanto che indossava era zuppo di sangue così come il bendaggio improvvisato che aveva appena sotto la spalla.  
Così vicina alla sua testa ciondolante, vide anche come una specie di ricrescita chiara alla base dei corti capelli neri, ma prima che potesse metterla a fuoco la bocca di lui si aprì, violacea come una ferita vivida, e il ragazzo biascicò qualcosa che sembrava “infermeria” senza riuscire ad alzare la testa. Katherina annuì distogliendo lo sguardo, si issò meglio lo strego sulle spalle e iniziò a trascinarlo lungo il corridoio. 
 
Gli effetti benefici delle pozioni che aveva bevuto se n’erano andati da un pezzo e l’avevano lasciato completamente privo di forze, anche ora non riusciva a capire bene come era riuscito ad arrivare fino a metà corridoio con le sue sole gambe. La vista periferica era ridotta al minimo e nemmeno quella frontale era molto nitida, ampie zone di buio si muovevano ai lati del suo campo visivo. Aveva mancato lo stipite di almeno mezzo metro buono ed era stato un miracolo se aveva recuperato l’equilibrio e se aveva evitato di piantare la fronte sullo spigolo della porta. 
Ma peggiore della stanchezza e della sensazione di avere gli arti pesanti come piombo c’erano gli altri effetti dei decotti, che ancora non si erano minimamente affievoliti. Erano i sensi, acuiti all’estremo, e gli istinti di azione-reazione, causati dagli alti livelli di adrenalina, che ancora gli confondevano il cervello e lo rendevano ipersensibile agli stimoli esterni. 
Abbandonato addosso al corpo della ragazza, che stava facendo del suo meglio per trascinarlo in infermeria, tentava di racimolare le ultime forze per trattenersi. Di tutte le persone che potevano aiutarlo in quel momento proprio lei! Usciva per starle lontano e gli succedeva questo! 
I suoi sensi sovreccitati e acuiti sembravano indifferenti ad ogni tipo di controllo e gli iniettavano impulsi di desiderio direttamente nel cervello annebbiato. Malediceva internamente l’udito, che gli faceva sentire il caldo respiro lievemente affannato della ragazza. Malediceva il suo olfatto, perché sentiva il suo odore di bagnoschiuma al miele oltrepassare quello ferroso del sangue che gli macchiava i vestiti. Alcune ciocche dei suoi capelli, poi, gli solleticavano il viso. 
Mentre lo trascinava, il tepore delle sue braccia gli riscaldava il torace infreddolito. 
I polpastrelli dello strego sfrigolavano di bramosia, ma stringeva i pugni convulsamente. “Ma allora l’universo ce l’ha con me” voleva dire lo strego, invece emise un rantolo soffocato e serrò le palpebre. Sperò solo che Kat scambiasse i suoi sospiri per rappresentazione di dolore. Non aveva più la forza nemmeno di pensare coerentemente.  
 
Katherina, ignara di quale lotta interna infuriasse all’interno del suo fardello, fece del suo meglio per arrivare in infermeria. Il peso del ragazzo, insieme a quello dell’armatura che indossava, ricadevano quasi completamente su di lei. Quando lo aiutò a distendersi sul lettino la ragazza aveva le braccia che tremavano e il respiro corto.  
Con gli occhi semichiusi e la testa abbandonata sul lettino Anatolij le indicò dei cassetti da aprire, anche la sua pelle sembrava quasi bluastra sotto la forte luce al neon ed era imperlata di sudore freddo. Sembrava faticasse anche a respirare a fondo. Ansimava. 
 
<< Se prendi un’altra volta la rondine finirai per ammazzarti da solo. Si può sapere perché non ci hai chiamato?>> Viktor stava in piedi sulla soglia, con una mano sulla maniglia. Si avvicinò al lettino e gli mise una mano sulla fronte. Era gelata. Come immaginava. << Katherina, tu che hai il tocco più leggero, potresti darmi una mano a slacciare questo spallaccio? Così vediamo come si è ridotto questo incosciente>>. 
In silenzio, il vecchio strego e la ragazza iniziarono a levare l’armatura più delicatamente possibile. L’operazione non fu facile dato che il colpo l’aveva leggermente deformata: Anatolij mugolò più volte dal dolore mentre i suoi due infermieri tiravano lo spallaccio, ma fece del suo meglio per rimanere fermo. Quando lo misero seduto per sfilargli il gambesone poi, il ragazzo quasi crollò di lato e dovettero sostenerlo in due per evitare che cadesse dal lettino. 
Vedendo l’espressione atterrita della ragazza, Viktor la tranquillizzò spiegando che quell’estrema debolezza non era tutta causata dalla ferita, infatti lavandola entrambi videro che non era così profonda come era sembrata inizialmente. I tremori e la spossatezza erano conseguenza delle pozioni che aveva bevuto prima dello scontro e che ora stavano finendo i loro effetti, lasciandolo senza forze. Quelli intrugli, le spiegò mentre metteva cinque punti sul braccio del ragazzo, erano mortali per tutti coloro che non avessero ricevuto una preparazione da strego, ma non erano del tutto privi di effetti collaterali nemmeno per loro. <>.  
Kat annuì leggermente rassicurata, e lo lasciò lavorare. Il rumore della forbicina fendeva il silenzio. Sospirò a fondo lasciando vagare lo sguardo sotto la fredda luce delle lampade al neon. Guardò lo spallaccio infradiciato di sangue abbandonato sul pavimento e gli sembrò molto meno minaccioso ora. Aveva semplici decorazioni in rilievo, più scure rispetto al colore di base, come il resto dell’armatura, lucida dove il sangue non si era ancora asciugato. 
Viktor finì di applicare un grosso cerotto ed evidenziò l’opera dandogli un colpetto sul braccio. <<…là! Fatto. Ma a voi tre vi pagano per farmi sempre impensierire nel cuore della notte?>> Sembrava un padre preoccupato.  
Anatolij, con metà viso nascosto sotto il braccio sano, gli rispose con un sorriso tirato. 
Mentre Katherina porgeva la sua coperta al paziente, su indicazione dell’anziano strego, vide la porta aprirsi e vi si affacciò la faccia di Fabio gonfia di sonno. <> biascicò grattandosi la pancia. Se ne andò richiudendo la porta non appena udì la risposta negativa. 
Come un sol uomo, Viktor e Anatolij iniziarono a sghignazzare, il secondo a fatica, con ancora il braccio sugli occhi.  
<< Quando dorme poco sembra un ghoul, eh eh. Va bene, dai. Ti portiamo a letto da bravo bambino. Katherina, potresti…>> 
<< Ce la faccio da solo Vik, non sto per morire! >>  
Lo strego dai capelli grigi lo ignorò e indicò il quadretto degli interruttori. << …grazie cara, anche la porta, grazie >>. 
Lo aiutarono a mettersi in piedi mentre protestava, ma era troppo debole per opporre resistenza e dovette lasciarsi accompagnare alla sua camera quasi di peso, dal momento che le gambe ancora rifiutavano di rispondergli. 
Viktor lo teneva per il braccio sano, mentre Katherina li seguiva un paio di passi più indietro. L’anziano approfittò della curva del corridoio per sussurrare qualcosa all’orecchio del ragazzo, troppo piano per poter essere udito da orecchio comune. La ragazza sentì solo Anatolij che gli rispondeva piccato ma con un fil di voce di “farsi gli affaracci suoi”, seguito da un “vai a quel paese”: sembrava innervosito di colpo. 
 
Su indicazione degli streghi, Katherina premette il secondo interruttore e si accesero una lampada in un angolo della stanza e l’abat-jour sopra il comodino. Anatolij crollò di peso sul letto, che protestò con un sonoro cigolio. 
<< Ok, bene. Katherina, avrei un favore da chiederti adesso, visto che mi sembra che non riesci a dormire. Il giovane sconsiderato davanti a te ha bisogno di prendere due di queste fra almeno un’ora, ma ho il sospetto che si addormenterà fra mezzo secondo. Potrei contare su di te?>> 
<> Anatolij non era molto convincente dato che sembrava sul punto di svenire da un istante all’altro, seduto sul bordo del letto e con lo sguardo vacuo rivolto al suolo. L’anziano gli riservò solo una semplice alzata di sopracciglia, dopo si rivolse nuovamente alla ragazza, la quale non poté far altro che annuire, dato che le aveva già consegnato il barattolino di plastica. 
E mentre Viktor salutava e usciva dalla stanza la ragazza ebbe la curiosa sensazione di essere appena stata manipolata. 
 
I passi lungo il corridoio si affievolirono fino a sparire. 
Erano più o meno le due quando Katherina si chiuse la porta alle spalle e diede un’occhiata alla stanza di Anatolij. La sua camera. La grandezza era uguale a quella che le avevano riservato, ma la quantità maggiore di oggetti e di mobili la faceva sembrare più piccola. Anatolij era accasciato su un letto più grande, per cominciare, con un morbido piumino blu scuro. Verso le finestre c’era una scrivania con una sedia da ufficio molto più comoda della sua, anche se ingombra di vestiti. Sulle mensole libri, CD e cavi aggrovigliati; non si sarebbe aspettata niente di più da una camera di un uomo. Stava osservando un disegno a acquerello sulla parete centrale, l’unica nota di colore appesa al muro quando sentì armeggiare e si voltò. Il ragazzo stava tentando di togliersi i pezzi rimasti dell’armatura di cuoio, in particolare il secondo spallaccio.  
<< Ah, Viktor se n’è andato…ti aiuto io?>> 
<< ...“se n’è andato”, certo…>> gli rispose sarcastico guardando il pavimento, ma sollevò il braccio e le lasciò slacciare le cinghie. Dal momento che lo strego continuava ad ondeggiare pericolosamente, la ragazza lo sostenne per una spalla mentre lui si sfilava stivali e pantaloni, e gli gettava fugaci occhiate alle gambe tornite ora nude, mentre i vestiti venivano a mano a mano gettati sul pavimento.  
<< potresti passarmi il pigiama? Sono quelle due robe in fondo al letto. Grazie, ora posso arrangiarmi da solo >>. La sua voce era talmente flebile che fece fatica a sentirlo. 
Gli passò una tuta da ginnastica grigia stinta che evidentemente usava come pigiama, poi si alzò lievemente imbarazzata e si appoggiò al comò vicino alla porta ad un passo dal letto, mantenendosi però a distanza di aiuto. Cercava di guardare il buio fuori dalla finestra per dargli un minimo di privacy, ma in realtà, quando Anatolij si tolse la canottiera sudata, non poté fare a meno di guardarlo di sottecchi; era colpa sua, non si poteva avere un fisico così e pretendere che nessuno lo guardasse. Era asciutto e pallido, i muscoli guizzavano ad ogni movimento sotto la pelle chiara e l’abat-jour gli illuminava ogni curva del corpo. Ci si poteva tenere una lezione di anatomia, su quel corpo nudo. 
Le ore col prof. Del Col sarebbero state moooolto meno soporifere! 
Il ragazzo, se avesse alzato lo sguardo, avrebbe visto subito che lo stava guardando, e il modo in cui lo guardava, soprattutto, ma sembrava completamente concentrato nell’operazione di non svenire, perciò lei continuò con sfacciataggine. 
La sua attenzione venne catturata da una spessa cicatrice, che formava una linea orizzontale appena sopra il suo ombelico. Seguendola con gli occhi Katherina si rese conto che tutto il busto e i fianchi erano solcati da cicatrici di molteplici forme e dimensioni. Effettivamente, constatò, anche sul suo braccio ne sarebbe rimasta presto una abbastanza spessa. Le tornò in mente Viktor mentre diceva che “uno strego difficilmente muore nel suo letto”. Sospirò. 
 
Anatolij stava tentando di infilare il braccio sinistro nella manica del pigiama, era sfinito, ma non voleva chiedere aiuto. Riuscì nell’impresa solo dopo vari sforzi e poi crollò finalmente sul letto senza neanche sforzarsi di mettersi diritto. Si mise le mani sugli occhi e fece un profondo sospiro. 
Katherina si sedette sul pouf. << Ti sveglio io fra un’ora per le pillole, se vuoi dormire un po’>>. 
Un occhio felino comparve al di sotto delle mani, scrutandola nella semioscurità della stanza. <> mormorò con un filo di voce. 
<< Non ne vale troppo la pena, direi! >> Katherina sorrise, ricordando il momento in cui i loro ruoli erano invertiti. Poi aggiunse: << Forse sei più in età da badante che da baby-sitter>> 
Forse perché era sfinito, forse per scaricare la tensione, il ragazzo scoppiò in una risata convulsa che durò parecchi minuti, di quelle sciocche che fanno venire le lacrime agli occhi. Katherina rimase a guardarlo fino a che non smise del tutto asciugandosi la faccia, sorridendo a sua volta, poi allungò una mano fino a prendere un libro dalla scrivania. Era “Dracula” di Bram Stoker. Lo trovò adatto. Si sciolse la coda e si accomodò meglio sul pouf, con la nuca poggiata al muro. Nel silenzio della notte, guardò un momento verso il letto. Il ragazzo era nascosto dal copriletto, riusciva a vedere solo i capelli neri che spuntavano da sopra il cuscino, rischiarati dall’abat-jour rimasta accesa sul comodino.  
Con un sospiro la ragazza aprì il libro e iniziò a leggere. 
 
Si era appisolata. 
Si svegliò di colpo cercando a tastoni il cellulare e controllò l’ora; fortunatamente non erano passati che venti minuti dall’ultima volta che aveva controllato, altrimenti sarebbe stata una frana anche come badante, “altro che cardiologa…”. Ma era in ritardo solo di una decina di minuti rispetto alla scadenza, niente di grave, quindi si stiracchiò pigramente e si alzò. Rabbrividì leggermente mettendo i piedi nudi a terra, aveva tutte le estremità gelate. Si era addormentata sul pouf senza nemmeno una coperta e in una posizione scomodissima. Raccolse il barattolo con le pillole e si avvicinò al ragazzo che ancora dormiva. << …Nat?>> la sua voce era appena un sussurro. 
<< …sei un po’ in ritardo. Ti eri addormentata?>> dalla punta di sarcasmo nella voce sembrava che non avesse mai dormito.  
<< …già che eri sveglio allora potevi arrangiarti tu no?!>> sbottò lei piegandosi in cerca del suo viso, seminascosto da copriletto e oscurità. I capelli le ricaddero in avanti. 
Anatolij posò lo sguardo sul suo. <<…e perdermi l’occasione di essere servito e riverito? …nah…>>. Lentamente, si tirò leggermente su e si appoggiò alla testiera del letto. Stava meglio, tutti gli effetti negativi delle pozioni erano svaniti, tuttavia era ancora debolissimo. Lo spettro aveva assorbito gran parte della sua energia durante lo scontro, di quello si nutrivano.  
Anatolij guardava Kat armeggiare con il barattolo, i capelli come una cascata d’oro alla luce della lampada le scendevano sul viso, e l’unica cosa che voleva era scostarli e prenderle il viso. 
Non erano più solo i decotti.  
La ragazza gli porse le due pillole, allungando la mano. Era ancora un po’ indispettita dalla sua osservazione, aveva lo stretto nasino arricciato e gli occhi verdi socchiusi. Così, con il viso illuminato dalla luce, al ragazzo sembrava ancora più bella. 
Anatolij chiuse la sua mano su quella della ragazza. <> mormorò e prese le pastiglie con l’altra. 
La parte razionale del suo cervello cercava di dirgli qualcosa, ricordargli le promesse che si era fatto fino a poche ore prima, ma era troppo stanco per ascoltarla e la mandò al diavolo. Forse aveva ragione Viktor, quel nonnetto marpione. Forse davvero non aveva senso vivere incatenato al passato.  
Sotto lo sguardo sorpreso della ragazza, si tirò sul gomito sano e si spostò di lato con un fruscio di lenzuola facendole posto. Sempre tenendola per mano sollevò le coperte e si fermò a guardarla, in attesa con uno sguardo indecifrabile. <
Katherina, sorpresa, si lasciò trasportare e si distese sulla schiena a pochi centimetri da lui. Era arrossita fino alla punta dei capelli e non riusciva a dire nulla. Ma un dubbio le si formò sulla punta della lingua, mentre Anatolij le lasciava la mano per tirare le coperte su entrambi. << io pensavo…mi sembrava…che ti stessi antipatica per qualche motivo…>> 
Un sospiro. << non era quello…>> 
<< …cos’era allora? >> 
<< non adesso. Sono disfatto>>. In effetti la sua voce era sempre più fioca. <
<< si…però me la segno …buonanotte>> 
<<‘notte.>> 
 
Dopo nemmeno tre minuti, si erano addormentati entrambi.  
 
 
 
*NOTA: La fonte avvelenata e i suoi estratti sono tratti da: “Il sangue degli Elfi”, Andrzej Sapkowski (ad eccezione della frase “La magia ha un prezzo ed esige il suo pagamento” che ho aggiunto per necessità di trama.) 
 

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Capitolo 11
*** stop! ***


*** Salve... volevo solo avvertirvi che ho deciso di rivisitare un po' la storia da capo, quindi ho creato una storia che si chiama "La discendente di Ithlinne - Edited" dove sto risistemando un po' il tutto... sì, sono molto più indietro. sì, sono lentissima... però mi sono resa conto che la storia com'era scritta finora aveva dei problemi, il primo di tutti è che aveva iniziato a scriverla parecchi anni fa (anche se l'ho pubblicata più recentemente) e il peso della differenza di età iniziava a farsi veramente sentire. Ok, quindi per ora trovare 2 capitoli e mezzo della nuova versione e l'altra metà verrà aggiunta tra breve. per ora non ci saranno cambi enormi di trama, le modifiche arriveranno più avanti... spero però che si vedano delle migliorie nello stile... beh, se avete tempo e voglia...fatemi sapere!!! Ciauuuu *****

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