Quanta più notte che può

di Alkimia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Overture ***
Capitolo 2: *** Un uomo di nome Erik ***
Capitolo 3: *** Il Muto ***
Capitolo 4: *** Blaise Bertrand ***
Capitolo 5: *** Tormenti ***
Capitolo 6: *** "Il Fantasma dell'Opera è qui, nella mia mente" ***
Capitolo 7: *** Il punto di partenza ***
Capitolo 8: *** La nuova primadonna ***
Capitolo 9: *** Il segugio ela fanciulla ***
Capitolo 10: *** Dove la notte splende ***
Capitolo 11: *** La trappola ***
Capitolo 12: *** I livelli sotterranei ***
Capitolo 13: *** "Già nella notte densa" ***
Capitolo 14: *** Il Figlio del Diavolo e l'Angelo della Musica ***
Capitolo 15: *** La Morte Rossa ***
Capitolo 16: *** Chiaroscuro (parte prima) ***
Capitolo 17: *** Chiaroscuro (parte seconda) ***
Capitolo 18: *** Con un piede nell'inferno ***
Capitolo 19: *** Lo specchio rotto ***
Capitolo 20: *** La certezza di aversi (parte prima) ***
Capitolo 21: *** La certezza di aversi (parte seconda) ***
Capitolo 22: *** let my opera begin! ***
Capitolo 23: *** Nuvole basse ***
Capitolo 24: *** Il Don Juan ***
Capitolo 25: *** L'anticamera dell'inferno ***
Capitolo 26: *** Il richiamo del sangue ***
Capitolo 27: *** Complicazioni ***
Capitolo 28: *** La fuga ***
Capitolo 29: *** Nel fondo della speranza ***
Capitolo 30: *** Le distanze incolmabili ***
Capitolo 31: *** Gli occhi del nemico ***
Capitolo 32: *** Di fuoco e sangue - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Overture ***


Avviso: da oggi, 18 dicembre 2011, ho avviato un piccolo lavoro di "ristrutturazione" della storia. L'ho riletta e ho deciso di correggere gli errorini ed erroracci sparsi in giro (errori di battitura, sviste di punteggiatura and so on...), quindi riposterò i capitoli man mano che li correggo. Le correzioni sono esclusivamente di forma, trama e contenuti della storia non verranno modificati perché, con tutti i suoi difetti, questa fanfiction resta un lavoro al quale sono molto molto affezionata e a me piace così com'è. 


Quanta più notte che può


OVERTURE


Here by my side an Angel...

Era troppo tardi.
La ragazza osservò la rosa pendere di lato oltre l'orlo del piccolo vaso in cui era sistemata, il nastro di raso nero era un po' sgualcito, il fiore stava appassendo lasciando che il rosso intenso dei petali si trasformasse in un opaco color sangue. Si accovacciò sul letto, la stanza spoglia era silenziosa e fredda, il sole spento di quella mattina di inverno filtrava a fatica dalla piccola finestra circolare accanto al letto dove le coperte erano accantonate al centro del materasso, il guanciale schiacciato nell'angolo tra le testata e il muro. Christine non aveva chiuso occhio quella notte, e la mattina era arrivata impietosa a reclamare la sua presenza alle prove per il nuovo spettacolo che i direttori del teatro avevano deciso di allestire.
Le era stata assegnata la parte del paggio muto che seduceva un'esuberante contessa in un'opera buffa, lei non aveva protestato. Non era tanto arrogante da credere che il successo che aveva riscosso qualche sera prima bastasse a far di lei la nuova primadonna del più importante teatro di Parigi.
Lei non aveva protestato per il ruolo assegnatole, ma qualcun altro forse lo avrebbe fatto. Qualcuno che avrebbe messo a ferro e fuoco anche tutta Parigi pur di sentirla cantare...

Here by my side the Devil...

Era decisamente troppo tardi.
Un petalo si staccò dalla corolla della rosa per cadere lentamente sul tavolino di legno liso e tarlato. Il confine tra bene e male era dunque così labile e sfocato? La ragazza non aveva mai avuto occasione di perdersi in certe sofisticate considerazioni, era solo una ballerina di fila, giovane, ingenua, che aveva vissuto al riparo dal mondo tra le pareti rivestite di stucchi e velluti dell'Opera Populaire. Cosa poteva saperne una come lei degli abissi della natura umana e di quegli stani meccanismi che fanno accelerare il battito e il respiro? Come poteva, nell'infinita inesperienza della sua giovane età, trovare un nome per quel sortilegio che l'aveva stregata?

Here by my side it's Heaven...

Ciò che non si conosce, che non si può comprendere, dovrebbe intimorire, spiazzare. Ma la ragazza si stava rendendo conto che ormai era tardi anche per la paura. C'era davvero qualcuno che avrebbe fatto bruciare una città intera per lei. Un uomo che portava negli occhi un tale disperato furore sarebbe stato pronto a tutto. Ma era di sé stessa che sentiva di dover aver paura. Di quella strana e recondita esaltazione che provava all'idea di essere forse l'unica cosa cara a quell'uomo. L'unica, a parte la musica.
Per un attimo si vergognò di quel pensiero. Non era quello che le era stato insegnato, non era morale, e certe fantasticherie erano inammissibili da parte di una brava giovane educata a stare sempre al suo posto.
Era una ragazzina che non aveva avuto nemmeno il tempo di imparare a vivere, eppure anche nel suo animo il bene e il male erano così vicini da confondersi?

Here by my side, you are destruction...

«Qual'è il vostro nome?» aveva chiesto
«Erik».
Era bastato udire quel nome pronunciato in un sussurro per mettere fine alla favola che l'accompagnava fin da bambina, a tramutare il sogno in una realtà molto diversa da ciò che aveva immaginato. Il suo Angelo della Musica era solo un uomo.
Dopo quella notte passata nei sotterranei, la ragazza si era sentita confusa e stordita, come se non riuscisse a individuare il confine tra ciò che aveva sognato e ciò che aveva vissuto. Ricordava le pareti di pietra dei sotterranei illuminate da numerose fiaccole, le fiamme che sembravano lottare contro il buio, l'oscurità in cui si addentrava sempre di più ad ogni passo. Si sentiva indifesa ma non minacciata.
Ricordava la voce del suo Angelo aver assunto, come per magia, un corpo, un volto uno sguardo, oltre lo specchio del camerino. Il corpo di un uomo vestito con un elegante frac nero, un volto dai lineamenti decisi e regolari nascosto per metà da una maschera che si adattava perfettamente alla sua fisionomia e lo sguardo gelido e triste di due occhi che sembravano schegge di mare in tempesta.
Il suo Angelo era di carne e ossa, e dopo un primo istante di perplessità la ragazza non era riuscita a controllare quello strano calore che le avvolgeva l'anima. Lo stesso calore dell'abbraccio di quello sconosciuto.

Here by my side, a new color to paint the world...

E non le importava ciò che si celava sotto quella maschera, non aveva avuto nemmeno tempo di vedere cosa nascondeva quando gliela aveva strappata via in un gesto furtivo. La rabbia del suo Angelo era stata quasi devastante, come se un improvviso incendio fosse arrivato a distruggere ogni tenerezza e ogni magia.
E ora che tutto sembrava essere tornato alla normalità, che la voce di Erik non cantava per lei da qualche giorno, Christine si era ritrovata sola a fare i conti con sensazioni sconosciute.
Il suo Angelo della Musica era un uomo. Anche il Fantasma dell'Opera lo era. Ed erano lo stessa persona.
E per lei era inesorabilmente troppo tardi per scappare, persino dai suoi stessi sentimenti.

And you give in
and you give out
for it ain't so weird
how it makes you a weapon:
never turn your back on it.
Never turn your back on it again.

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I versi in corsivo sono tratti dalla canzone "Weapon" dei Matthew Good Band

Capitolo reinserito il 18\12\2011

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Capitolo 2
*** Un uomo di nome Erik ***


CAPITOLO PRIMO
Un uomo di nome Erik

Madame Eloise Giry sollevò la treccia nel solito chignon, era un'acconciatura che trovava estremamente pratica. Sbadigliò un paio di volte davanti allo specchio, mentre sistemava le forcine nella massa di folti capelli castani: aveva dormito poco e male quella notte.
Si gettò uno scialle di lana scura sulle spalle. Anche se suo marito era morto da diversi anni ormai, continuava a portare il lutto.
La donna sospirò osservando i sottili solchi agli angoli della bocca, di recente aveva notato che si erano fatti più marcati ed evidenti, e aveva notato anche che giorno dopo giorno si sentiva sempre più stanca, le sue energie si affievolivano ancora prima che venisse sera. Si era detta che era normale, che è inevitabile il tempo riscuota il proprio tributo, ma non era solo l'età a renderla stanca e spenta; erano anche una serie di preoccupazioni che non poteva condividere con nessuno, un fardello che aveva scelto di portare, consapevole del fatto che sarebbe sempre stata sola ad affrontare quella fatica.
Si stavano verificando una serie di sfortunate coincidenze e lei aveva la netta sensazione che avrebbero portato a qualcosa di tragico.
Il teatro era stato ceduto a due nuovi impresari che avevano preso alla leggera la vicenda del Fantasma dell'Opera, proprio nel momento in cui l'uomo che si nascondeva dietro a quella strana leggenda aveva deciso di rivendicare la propria autorità sul teatro, dando ordini precisi su come dovevano essere allestiti i nuovi spettacoli, su chi dovesse essere la nuova primadonna.
Madame Giry era certa che sarebbe successo, prima o poi. Era la sola a conoscere chi si celava dietro la figura del Fantasma, era la sola a sapere quanta rabbia e quanto dolore si celassero in fondo al suo animo. Così come sapeva che da diversi anni quell'uomo aveva cominciato a dare lezioni di canto alla giovane Christine, quella fanciulla che lei considerava come una figlia. Ora la ragazza aveva sviluppato un talento al di là di ogni aspettativa per merito di quell'uomo, e non c'era da stupirsi se lui avrebbe fatto di tutto perché la bravura di Christine potesse essere riconosciuta.
E Madame Giry sapeva che per il Fantasma dell'Opera “fare di tutto” non era semplicemente un modo di dire.
La donna si alzò dalla sedia e si diresse fuori dalla stanza. Era la direttrice del balletto dell'Opera, e in quei giorni era dedita, come tutti gli altri, all'allestimento del nuovo spettacolo che i direttori avevano deciso di mettere in scena. Le sue allieve avrebbero dovuto preparare un complicato balletto per la rappresentazione del “Il Muto”, ed era ora che cominciassero le prove.
Prima di uscire, Madame Giry trovò un foglio ripiegato sul pavimento davanti alla porta, qualcuno doveva averglielo infilato sotto l'uscio. Era il sistema che usava solitamente il Fantasma per recapitarle i suoi messaggi. Le aveva sempre risparmiato le missive chiuse da un lugubre sigillo di ceralacca a forma di teschio che inviava ai direttori poiché non aveva bisogno di spaventarla perché lei lo ascoltasse. Eloise, dopotutto provava per quell'uomo un affetto inspiegabile quanto sincero ed era certa che anche lui le volesse bene e le fosse grato per l'aiuto e la fedeltà che lei gli aveva sempre riservato.
La donna si chinò a raccogliere la lettera, all'interno del foglio era sistemata una banconota ed erano appuntate poche righe a matita:

Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire, e direi che i problemi di udito dei nostri nuovi impresari sono in uno stato piuttosto avanzato.
Non propinarti in avvertimenti e dimostrazioni di ansia, si rivelerebbe un comportamento troppo sospetto.
In quanto al fatto che i direttori ignorino le mie richieste, troverò un modo per convincerli che non è la condotta più opportuna da mantenere.

Dopo il breve messaggio erano segnate alcune cose che Eloise avrebbe dovuto comprare per lui, e in calce alla missiva c'era la solita formula con cui lui usava concludere le lettere che le inviava:

Saluti.
Erik

Erik, era questo il suo nome. Eloise non sapeva se era un nome inventato o se glielo aveva dato qualcuno, ma quando, anni prima, lo aveva portato via dal circo di zingari in cui era prigioniero lui le aveva detto che si era sempre sentito chiamare così, anche dai suoi carcerieri.

*

«Qual'è il vostro nome?»
«Erik...»

Le mani stringevano il parapetto di pietra che lo separava dal vuoto, come le mura dell'edificio lo separavano dal mondo divenendo a volte prigione a volte riparo, a seconda dell'umore.
Avrebbe dovuto essere a suo agio lì sul tetto dell'Opera Populaire: gli sguardi delle statue di bronzo erano complici e indulgenti, maledettamente vuoti e silenziosi. Occhi scolpiti che non sarebbero mai inorriditi davanti al suo volto.
L'alba di quel giorno di inverno gettava a malapena un velo di luce grigia su Parigi, su quella città che cresceva correndo rapidamente incontro al futuro, lasciandolo indietro. Non bastava spiare la vita da dietro le quinte di un teatro, non bastava leggere libri e giornali per sentirsi parte di quell'umanità di cui non riusciva a tenere il passo.
Il Figlio del Diavolo non era nato per quel mondo, ma allora perché il destino lo aveva scaraventato su quella terra, sotto lo sguardo di una madre che lo aveva abbandonato perché non riusciva a sopportare la sua vista?
Le mani allentarono la presa sulla balaustra, non c'erano poi tante ragioni di rimanere così attaccato a quella vita, e il cornicione del terrazzo era un ostacolo insignificante da arginare, non sarebbe stato un bordo di pietra a fermare il suo volo, e Dio non si sarebbe certo scomodato a inviare angeli e santi per sorreggerlo e frenare la sua caduta, sarebbe precipitato giù, verso lo scalone di marmo che portava all'ingresso del suo teatro e per una manciata di istanti avrebbe smesso di essere un angelo senza le ali. La morte non doveva essere una cosa poi tanto terribile, oltre quella soglia si annulla ogni differenza, per la morte si è tutti uguali, tutti figli da consolare, oltre quel limite c'è solo riposo e oblio.
Gli angoli della sua bocca si sollevarono in un sorriso di scherno, i suoi pensieri formularono la frase che già altre volte aveva attraversato la sua mente: «sono il Figlio del Diavolo, come può l'Inferno rifiutarmi asilo?».
Erik poggiò una mano sul profilo della statua accanto a sé e si diede uno slancio, con un movimento agile balzò sul parapetto e guardò verso il basso, ora non c'era più niente tra lui e il vuoto, solo il freddo e la sensazione quasi inebriante di vertigine. E non un solo pensiero bello che lo trattenesse.
Il mondo non era mai stato così vicino e a portata di mano, l'avrebbe raggiunto in pochi secondi dopo aver saltato.

L'unica speranza che aveva era stata distrutta in un attimo da ciò che a lei doveva essere sembrata collera... e invece era paura. Lei non avrebbe dovuto togliergli la maschera, non doveva conoscere la mostruosità del suo viso prima di imparare ad amarlo per quel po' di luce che aveva nel cuore, quella scintilla che gli dava il potere di tramutare il silenzio in sublime melodia. Aveva avuto paura di vederla scappare via, è per questo che aveva urlato, inveendo contro di lei come se prendersela con quella ragazza avrebbe cambiato in qualche modo le cose, come se maledicendo Christine avrebbe potuto evitare di maledire sé stesso per l'ennesima volta.
Povera Christine, non aveva avuto nemmeno la forza di farfugliare una giustificazione o di chiedere scusa, sembrava così fragile riversa sul pavimento di pietra con il viso rigato di lacrime di pena, un gioiello finito per sbaglio in una viscida palude.
Quando era riuscito a recuperare la calma le aveva detto in tono aspro che doveva riportarla indietro, che sicuramente la stavano cercando. Il tragitto che li aveva condotti fuori dai sotterranei era stato lungo e silenzioso. Lui camminava davanti, rapidamente, con la fretta di chi voleva sottrarsi al più presto da un impegno sgradito, e la ragazza tentava di tenere il passo, ma sembrava che non osasse nemmeno respirare. Solo alla fine, prima di farle attraversare lo specchio e riconsegnarla al suo mondo, come un ladro pentito di un furto troppo grave, lei aveva fatto appello a tutto il suo coraggio e prima che lui andasse via gli aveva parlato.
«Qual'è il vostro nome?» aveva chiesto concedendosi di alzare lo sguardo solo per un attimo.
«Erik...» aveva risposto lui asciutto, prima di voltarsi e sparire nel buio del corridoio di pietra.

Lo sguardo dell'uomo si spostava con scatti febbrili, prima verso il cielo grigio poi verso il pavimento della piazza sotto di sé. Non c'era nessuno, nessuno che potesse spaventarsi nel vedere una persona prossima a saltare dal parapetto del teatro, nessuno che avrebbe pianto la sparizione del Fantasma dell'Opera: i fantasmi scompaiono nel nulla lasciando solo storie macabre da raccontare e un senso sollevante di liberazione.
I muscoli delle gambe fasciate da calzoni di seta scura erano tesi, pronti a piegarsi per andare in avanti, il vento gli asciugava le labbra e gli inumidiva gli occhi. Il silenzio era sempre stato il suo peggior nemico, e ora invece gli sembrava sopportabile, quasi confortante. Il silenzio per lui era il contrario della musica, e la musica era l'arma con cui aveva sempre sconfitto i suoi dolori.
Come era arrivato a quel punto, al punto in cui la musica non era più sufficiente a dare un senso a quel buio che lui chiama vita?
Che cos'era quel dolore che nemmeno la musica riusciva a lenire?
Ah già... era cominciato tutto quando lei aveva smesso di essere solo uno strumento attraverso il quale far conoscere al mondo il suo genio.

«Resterai con me?»
«Sempre!»

Christine gli aveva fatto quella domanda solo pochi mesi prima, quando ancora non poteva immaginare che lui, il suo Angelo della Musica, fosse un uomo, e per giunta un uomo che di angelico aveva decisamente poco, a cominciare dal suo aspetto per finire  con la sua anima.
Christine era come lui, terribilmente spaventata dalla solitudine e dal silenzio.
E lui le aveva detto che sarebbe rimasto con lei sempre... e allora cosa ci faceva lì, pronto a uccidersi per raggiungere quell'Inferno a cui si sentiva destinato? Chi si sarebbe preso cura della carriera di mademoiselle Daae se non ci fosse stato lui? Non certo quei due smidollati che si facevano chiamare direttori e che strisciavano come vermi non appena una primadonna incapace alzava la voce, sicuramente non madame Giry, che per quanto potesse essere affezionata a Christine non aveva alcuna voce in capitolo e meno che mai quel damerino del Visconte che temeva di stuzzicare troppo le malelingue se avesse preso le parti di una ballerina. No, doveva essere lui, doveva mantenere la parola data: stare vicino a Christine, occuparsi di lei... a cosa sarebbe servito renderla una stella se poi gli altri continuavano a tentare di oscurare la sua luce?

Le prove per la rappresentazione de “Il Muto” erano cominciate già da qualche giorno e, contrariamente alle sue richieste, la parte della protagonista non era stata affidata a mademoiselle Daae.
Aveva mandato avvisi ai quei due stolti di cui a volte faceva persino fatica a ricordare il nome, missive scritte con i toni più cordiali che era in grado di utilizzare, ma loro si erano lasciati spaventare da una scenata isterica di Carlotta Giudicelli e avevano deciso di ignorare le sue istruzioni, malgrado lui avesse annunciato il verificarsi di un tremendo disastro.
Erik guardò un ultima volta la piazza vuota sotto di sé e sospirò. Era ora che il Fantasma dell'Opera tornasse a reclamare il diritto di gestire il suo teatro, visto che, contrariamente ai nuovi direttori, ne aveva la capacità. Era ora che l'Angelo della Musica tornasse a prendersi cura della sua protetta, era già da qualche giorno che non le faceva udire la sua voce.

... fino a che tutte le strade portano a te
non ci si può sbagliare...*

L'uomo tornò ad appoggiarsi alla statua accanto a sé, con passi cauti scese dal parapetto e tornò dentro, accompagnato solo dal fruscio del suo mantello.

*

I rumori della strada provenienti dalla finestra annunciarono a madame Ginette Dubois che era  mattina. Parigi stava per mettersi in moto, ed era ora che anche lei si preparasse a uscire. La donna pensò che non si sarebbe mai abituata alla vita di città, ma l'esistenza di una madre è ben poca cosa se vissuta lontano dal proprio figlio, specie se questo è l'unico affetto che le rimane.
Madame Dubois era originaria di un piccolo paese ai piedi dei Pirenei, dove aveva vissuto tutta la sua vita fino a pochi mesi prima. Aveva realizzato giovanissima il sogno di ogni ragazza di buona famiglia: sposare un uomo facoltoso che le fosse affezionato, il fortunato era stato Simon Dubois, notaio della cittadina in cui vivevano. Ricordava perfettamente il giorno del loro matrimonio, ogni volta che si soffermava a pensare a quell'evento la memoria le rimandava l'immagine di sé stessa, giovane, felice e proiettata verso un futuro quanto mai radioso, migliore di ogni più rosea aspettativa. Quando il destino però le aveva portato via il suo primogenito la donna aveva maturato la pessimistica consapevolezza che la vita, prima o poi, si fa pagare cara per ogni istante di felicità che concede. Dopo il doloroso evento erano passati diversi anni prima che lei e suo marito riuscissero ad avere un altro figlio, anni passati all'ombra della paura di non poter mai più essere madre, poi il medico le aveva annunciato che era in attesa di un bambino e quella nuova nascita aveva riportato speranza e gioia nel suo cuore.
Suo figlio si chiamava Alexandre, si era rivelato l'orgoglio dei suoi genitori sostenendo con risultati eccelsi la carriera accademica, giovanissimo aveva deciso di trasferirsi a Parigi per completare i suoi studi di lettere e conoscere meglio il panorama artistico che in quel periodo, proprio in quella città, stava dando vita a movimenti destinati a rivoluzionare l'arte e la letteratura del Vecchio Continente. L'unico problema era sorto quando, dopo alcuni anni trascorsi nella capitale, il ragazzo aveva annunciato di volersi trasferire stabilmente in città, dove aveva trovato lavoro come giornalista. Monsieur e madame Dubois avevano accettato a malincuore la scelta del loro unico figlio, dal momento che gli impegni lavorativi di Simon non permettevano alla coppia di genitori di raggiungerlo a Parigi, ma non avevano mai contrastato quel suo desiderio, consapevoli del fatto che una grande città potesse offrire molte più occasioni a un giovane di talento di quante potessero essercene in una cittadina di montagna. Tuttavia, quando suo marito era morto, facendo di madame Ginette una facoltosa vedova, lei non aveva sopportato l'idea di rimanere sola e aveva annunciato a suo figlio che lo avrebbe raggiunto a Parigi. Per Alexandre era stata una vera sorpresa, non avrebbe mai immaginato che sua madre si sarebbe convinta ad andare a vivere in città, ma era stato contento della sua scelta e si era adoperato a cercare una casa più grande che potesse andare bene per entrambi, così aveva preso in affitto un attico in rue Saint Bernard, nei pressi dell'Opera Populaire, pensando che il teatro avrebbe potuto essere una buona distrazione per la donna.  
Il tempo aveva già soffiato una patina d'argento sui folti capelli che una volta erano stati color ebano e aveva cominciato a segnare il viso con solchi sottili agli angoli degli occhi e della bocca rendendo più duri lineamenti che un tempo erano stati fini e gentili, a prima vista madame Ginette appariva più vecchia dei suoi cinquantaquattro anni e nonostante avesse sempre goduto di buona salute c'era qualcosa nel suo aspetto che dava l'impressione che fosse vittima di qualche strana patologia, di una sorta di malessere interiore che le piagava lo spirito e le intristiva lo sguardo.
Madame Ginette si vestì dopo una rapida toeletta e raggiunse la camera da pranzo dove la domestica aveva preparato la colazione. Suo figlio era già a tavola,
«Buongiorno, maman» la salutò appena la vide arrivare. «Ho una cosa per voi».
Alexandre aveva ventisette anni, somigliava molto a madame Ginette e il suo aspetto estremamente gradevole lasciava intendere che anche lei, tempo prima, doveva essere stata una bella donna. Il ragazzo era di alta statura, e la sua corporatura magra donava un'innata eleganza alla sua figura. Aveva lo stesso colorito chiaro di sua madre, ma al contrario di quanto accadeva a lei, quell'incarnato non sembrava il sintomo di qualche malattia, anzi si sposava alla perfezione con i suoi occhi chiari e con i capelli castani che portava tagliati corti fino alla nuca.
Il giovane indicò una busta da lettere posata accanto alla tazza di sua madre, la donna sbirciò il contenuto con curiosità.
«Sono due biglietti per la prossima rappresentazione che si terrà all'Opera Populaire» spiegò Alexandre. «Me li ha procurati Raoul».
«Il Visconte De Chagny?» chiese madame Ginette, suo figlio annuì.
«Ve lo presenterò quando andremo a teatro, è un mio carissimo amico»
«Sì, ne ho sentito parlare dicono che sia un vero gentiluomo e anche un bel ragazzo»
«Beh sì, uno dei migliori partiti di Parigi, peccato che la fanciulla a cui fa la corte non sembri interessata a lui»
«Chi è questa sciocca?» domandò sarcastica madame Ginette.
«Mademoiselle Daae, ricordate, la soprano che ha cantato nell'Annibale qualche settimana fa» rispose suo figlio versandosi del latte caldo da una caraffa di porcellana.
«Una ragazza molto graziosa»
«Già, lui l'ha invitata a cena dopo lo spettacolo ma pare che lei abbia rifiutato accampando una scusa del tutto implausibile»
«Evidentemente la ragazza non ha il cuore libero ma non vuole che si sappia» ipotizzò la donna. «Ma non capisco perché il Visconte debba darsi tanta pena per una cantante, può trovare certamente partiti migliori di lei».
Alexandre scrollò le spalle, non amava i pettegolezzi, specie quelli che riguardavano uno dei pochi amici davvero cari che aveva a Parigi.
«Il giovane Visconte pare sia uno degli scapoli d'oro della città, e pensare che questo titolo potrebbe spettare anche a te, se solo ti interessassi un po' di più a cercare una fidanzata!» disse madame Ginette fingendo noncuranza.
Suo figlio sapeva che la donna non perdeva occasione di rammentargli quanto la sua condizione di celibe la preoccupasse e le creasse disagio, non capiva perché Alexandre insistesse a perdere più tempo dietro le sue scartoffie, alla ricerca di storie da scrivere, piuttosto che nel tentativo di trovare una brava ragazza da sposare. Lui non sembrava far troppo caso alle speranze disattese di sua madre riguardo a un suo prossimo matrimonio, Alexandre aveva sogni e urgenze che riteneva più soddisfacenti del vedere madame Ginette commuoversi durante una cerimonia nuziale: era alla ricerca di una storia da raccontare, voleva pubblicare un romanzo e farne un capolavoro destinato a far conoscere il suo nome a numerose generazioni future. Si considerava un bravo scrittore, e di fatto lo era davvero, la sua brillante carriera di giornalista lo provava, ma a lui non bastava redigere articoli di una pagina su un quotidiano, insiemi di parole che venivano dimenticate il giorno dopo, sostituite dal resoconto dell'ultimo fatto di cronaca, lui voleva una storia avvincente da raccontare, e purtroppo il suo talento nel mettere insieme le parole sulla carta non corrispondeva a un altrettanto grande dose di fantasia.
«Oh, suvvia maman, vedrete che mi sposerò quando meno ve lo aspettate e allora vi lagnerete del fatto che non sarete più l'unica donna della mia vita!» esclamò Alexandre con aria ironica.

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* questa frase è presa dal testo del brano "Tutte le strade portano a te" di Ligabue

 Al solito, il nome di Madame Giry non compare da nessuna parte, per abitudine nelle mie fanfiction la chiamo sempre Eloise.

Capitolo reinserito il 18\12\2011

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Capitolo 3
*** Il Muto ***


CAPITOLO SECONDO
Il Muto

Erik la chiamava la Dimora sul Lago, quel posto gli dava la sensazione di sicurezza e di pace di una casa. Si trattava di una grotta situata su una sponda del lago sotterraneo, ad altezza del quinto sottopalco, dove nessuno entrava mai dal momento che quel livello era utilizzato semplicemente come ripostiglio di vecchie scenografie o abiti di scena appartenuti ad artisti che non lavoravano più nel teatro.
Alla grotta si accedeva tramite i passaggi segreti disseminati nei punti più improbabili del teatro, oppure da un'unica entrata esterna che affacciava in Rue Scribe.
Aveva arredato la sua casa con vecchi oggetti di scena e con mobili che aveva costruito lui stesso, le pareti di pietra erano coperte di specchi sapientemente disposti in modo da riflettere la luce delle candele che sostituiva quella del sole. Al centro dell'ampia insenatura c'era un rialzo nella roccia sul quale aveva sistemato il suo organo come su una specie di altare, circondato da candelabri di ottone e da drappi di seta damascata. Scendendo verso sinistra c'era un'insenatura coperta da tende di organza che nascondevano un letto ovale con la sponda a forma di testa di cigno intagliata nell'ebano, a destra invece si trovava un largo pianale di roccia liscia dove era sistemato uno scrittoio il cui piano era in parte occupato da una riproduzione in miniatura del palco dell'Opera Populaire curato in ogni dettaglio. Contro la parete erano addossati scaffali e mobili pieni di libri, fogli e altri oggetti ammucchiati in disordine sulle mensole.
Erik versò sulla pelle alcune gocce dal flacone di acqua di colonia e strofinò i polsi l'uno contro l'altro, poi finì di abbottonare la camicia e terminò di vestirsi. Aveva una cura maniacale per il suo abbigliamento e per il suo aspetto, anche se era raro che qualcuno lo vedesse. Ma quegli abiti eleganti, la meticolosità con cui si preparava ogni volta che abbandonava i sotterranei per raggiungere il teatro erano un modo per rendersi meno sgradevole a se stesso. 
Lanciò un'occhiata alla tastiera del suo organo, sul leggio c'era uno spartito scritto a mano, le note erano appuntate con una grafia rapida e imprecisa.
«Sarà il caso di trascriverlo» pensò annodandosi il foulard di seta nera attorno al collo, sistemandolo con cura nello scollo del gilet.
Controllò l'orologio da taschino e pensò che era ancora presto, ma non gli conveniva mettersi a suonare: quando suonava perdeva totalmente la cognizione del tempo, avrebbe rischiato di fare tardi e non poteva concederselo, non poteva mancare, doveva dimostrare a quei due stolti dei direttori che non potevano permettersi di ignorare i suoi ordini con tanto disinteresse. E poi voleva verificare che quel damerino del visconte De Chagny avesse compreso che doveva stare alla larga da Christine.

La mia Christine...

L'amava. Ammetterlo con se stesso era stata una sorpresa davvero inaspettata, non credeva sarebbe stato mai capace di provare qualcosa di simile per un'altra persona, non credeva nemmeno di riuscire a riconoscere l'amore se lo avesse mai provato, e invece era stato come per la musica.
Sentiva di avere uno scopo solo quando suonava, si sentiva completo solo quando le sue dita scorrevano sui tasti dell'organo o reggevano l'archetto del violino. Per chi possiede il talento dell'arte, l'ispirazione non è qualcosa da cercare o da attendere, è qualcosa che fa parte non solo della propria anima ma anche del proprio corpo, diventa una funzione automatica del proprio organismo, come il battito cardiaco, come il respiro. Qualcosa di continuo e inevitabile che a volte sembra più una maledizione che un dono, non ne puoi fare a meno e non puoi nemmeno liberartene. Quando chiama devi risponderle. Proprio come l'amore: non scegli di tu di viverlo, non scegli quale strada fargli prendere e soprattutto non puoi scegliere di evitarlo. Devi solo lasciare che ti porti dove meglio crede.
Per un uomo come Erik, abituato ad avere sempre tutto sotto controllo, quella situazione era qualcosa di davvero spaventoso.
Aspettò pazientemente che arrivasse l'ora di andare. La pazienza non era una sua dote naturale, era più che altro un'abitudine che aveva acquisito con il tempo e mal si conciliava con il suo carattere animoso, aggiungendo anche questa contraddizione alla sua personalità piena di complicate sfaccettature.
Quando l'orologio segnò le sette e mezza Erik si alzò dallo scrittoio e si gettò il mantello sulle spalle con un movimento fluido.

La prospettiva di una rivincita prossima aveva un sapore piacevole che copriva l'odore pungente di chiuso e umidità che si respirava nel corridoio sotterraneo illuminato a stento da poche fiaccole, le loro fiamme tremule si consumavano e si affievolivano come se quel fuoco fosse incapace di vincere la lotta contro il buio. Del resto, era il buio ad averla sempre fatta da padrone nella vita di quell'uomo che ora camminava con passo sicuro nella penombra, percorrendo una strada che le sue gambe conoscevano a memoria.
Era stato paziente, aveva cercato di mostrarsi gentile nelle missive spedite a Andrè e Firmin, i nuovi direttori, ma quei due sprovveduti che credevano di poter farla da padrone nel suo teatro evidentemente comprendevano meglio le maniere forti. Il Fantasma dell'Opera aveva ordinato che la Giudicelli non cantasse, che il palco numero 5 fosse tenuto libero per lui, che gli venisse pagato il suo salario e che la parte della protagonista de “Il Muto” fosse affidata a mademoiselle Daae. Nemmeno una di queste direttive era stata osservata e quella sera quei due smidollati avrebbero imparato che era meglio per loro essere più compiacenti in futuro.

*

La piazza su cui affacciava il più noto teatro di Parigi era gremita di signore imbellettate e gentiluomini in doppiopetto. Una foschia sottile riempiva le strade ovattando la visuale dei cocchieri e delle persone che erano uscite a passeggiare malgrado il freddo, le nuvole basse e grigie erano una chiara avvisaglia di pioggia, e con quell'aria umida e pungente avrebbe potuto grandinare, forse addirittura nevicare, malgrado si era solo a metà novembre.
Alexandre aiutò sua madre a scendere dalla carrozza poi la prese sottobraccio e la condusse verso l'ingresso del teatro.
Madame Dubois e suo figlio furono investiti da una ventata di aria calda non appena ebbero varcata la soglia dell'edificio, due maschere con una parrucca barocca e una livrea rossa si profusero in un profondo inchino e si offrirono di portare i loro cappotti nel guardaroba.
Il foyer, decorato con stucchi e marmi colorati, cominciò a riempirsi di gente che preferiva aspettare al chiuso della sala piuttosto che fuori al freddo e presto l'aria si riempì del chiacchiericcio degli spettatori che attendevano di poter prendere posto. 
Raoul De Chagny, vestito con un elegante frac blu, era accanto all'ingresso della platea e stava parlando con i direttori, Alexandre lo notò e gli si avvicinò per salutarlo. Il visconte si allontanò dai suoi interlocutori e raggiunse il suo amico.
«Benvenuto, Alexandre» gli disse stringendogli la mano con un sorriso cordiale.
«Grazie di avermi invitato alla rappresentazione» rispose il giornalista in tono altrettanto affabile. «Posso presentarti mia madre, madame Ginette Dubois?».
«Enchanté» mormorò il ragazzo omaggiando la donna con un galante baciamano.
Madame Ginette rispose al saluto con uno sguardo ammirato, Raoul de Chagny era davvero un bel giovane e lei lo trovava adorabile.
«E' un piacere conoscervi, visconte. Alexandre mi ha parlato molto di voi» disse.
«Ne sono lusingato, madame. Ora suggerisco di accomodarci ai nostri posti, vi ho tenuto libere due poltrone in platea» concluse Raoul.
All'interno il teatro appariva così sfarzoso che quasi non lo si riusciva a trovare accogliente, era come se fosse un posto incantato, lontano dal mondo reale. Era diviso in un'ampia platea e in due ordini di palchi laterali, in più c'era un loggione semicircolare sul livello più alto dove sedevano generalmente quelli che non disponevano dei mezzi per potersi permettere un biglietto in un posto più confortevole. L'ambiente era in perfetto stile barocco, le balconate erano sorrette da cariatidi dorate a forma di donna curvate in una posa languida e innaturale, la scena era circondata da una vistosa cornice di stucchi dorati.
Quando tutti ebbero preso posto, i macchinisti spensero le luci.
Era sempre un attimo magico ed elettrizzante quello: il vociare del pubblico si assopiva mano a mano che l'illuminazione diminuiva e il buio della sala finiva per corrispondere con un completo silenzio, una manciata di secondi di vuoto che precedevano lo scrosciare dell'applauso all'aprirsi del sipario.
Il pesante sipario di velluto rosso si aprì su una scena di una camera da letto, con un gesto deciso il Maestro Reyer diede l'attacco all'orchestra e gli spettatori furono introdotti nella vicenda da un piccolo coro di attori che impersonavano dei valletti con abiti settecenteschi e che cantavano di quanto vergognoso fosse il comportamento della loro padrona che tradiva il marito seducendo giovanotti proprio sotto il suo naso. Al centro del palco c'era un sontuoso letto a baldacchino sul quale era seduta Carlotta Giudicelli, la primadonna del teatro, con i suoi vaporosi capelli rossi nascosti da un'ingombrante parrucca, accanto a lei c'era Christine travestita da paggio.
La Giudicelli cominciò a cantare con la sua voce acuta, accompagnando il canto con una recitazione enfatica e poco naturale che strappò comunque qualche sorriso sincero al pubblico intenzionato a divertirsi.
La rappresentazione era cominciata solo da qualche minuto quando dal parapetto sopra al loggione arrivò una voce che coprì il canto sgraziato della donna.
«Non avevo dato istruzioni che il palco numero 5 dovesse restare vuoto?» tuonò la voce in tono aspro ma misurato.
Quelle parole risuonarono in un'eco sinistra per tutto il teatro, gli spettatori si guardarono attorno cercando di individuare chi avesse parlato, ma non riuscirono a vedere nessuno.
«Il Fantasma dell'Opera...» mormorò Meg, la giovane ballerina figlia di Madame Giry.
«Sì, è lui» le fece eco Christine cercando con lo sguardo il punto da cui era giunta quella voce che lei conosceva fin troppo bene.
«La tua parte è muta, piccolo rospo!» la rimproverò Carlotta.
«Un rospo, madame?» riprese la voce in tono sarcastico e meno aggressivo. «Forse siete voi un rospo».
Carlotta si lasciò sfuggire una smorfia risentita, lei non aveva mai creduto alla storia del Fantasma dell'Opera, aveva sempre pensato che gli incidenti che le accadevano sempre più spesso erano architettati dai suoi detrattori che non la volevano più come primadonna del teatro.
Dopo un primo momento di irritazione la Giudicelli pensò che fosse ora di tornare a occuparsi del suo pubblico, sparì un attimo dietro le quinte dove si fece spruzzare in gola il suo liquido balsamico, poi tornò sul palco.
«Scusate» disse inchinandosi e accennando un sorriso mellifluo verso la platea. «Maestro, riprendiamo daccapo, per favore».
Reyer, l'anziano direttore d'orchestra non si poteva definire certo un cuore impavido, lavorava in quel teatro da molto tempo e negli ultimi anni ne aveva viste troppe per non provare una certa agitazione ad ogni minimo intoppo.
«Signori, daccapo, per favore» squittì con la voce tremula, picchiettando la bacchetta sul margine del leggio.
L'orchestra riprese a suonare e la rappresentazione proseguì per qualche secondo fino a che...

CRAK!...

Dalla gola di Carlotta uscì un suono roco e graffiante proprio come il gracidio di un rospo. Sul volto della soprano si dipinse un'espressione di panico ma lei continuò a cantare cercando di ostentare un minimo di disinvoltura ma dopo qualche battuta la sua gola produsse ancora quel suono orribile.
Dal pubblico si levò un misto di risate divertite e mormorii di protesta, mentre sul palco la Giudicelli stava per dare il via ad una delle sue scenate isteriche,
«La mia voce!» urlò disperata portandosi le mani alla gola. «Ho perso la voce, oh mamma, la mia voce!».
I suoi assistenti si precipitarono sul palco per portarla via e cercare di farla calmare, mentre lei, con la voce che diventava sempre più flebile, continuava a mormorare che qualcuno aveva messo qualcosa nel suo liquido per la gola.
Andrè e Firmin si precipitarono sul palco mentre il maestro Reyer si sbracciava per far capire ai macchinisti che dovevano chiudere il sipario.
«Signori e signore, vi chiediamo scusa» esordì Firmin cercando di non mostrarsi troppo agitato. «Lo spettacolo riprenderà tra pochi minuti, e la parte della contessa sarà interpretata da mademoiselle Daae».
Ciò detto l'uomo si affacciò verso il palco, trovò Christine e la trascinò davanti alla platea, lasciò che il pubblico l'applaudisse per qualche secondo poi la spinse via borbottando di fare in fretta.
«Nel frattempo, saremo lieti di presentarvi il balletto del terzo atto» disse Andrè lanciando uno sguardo al maestro Reyer per assicurarsi che avesse capito.
Nel frattempo Raoul, che occupava proprio il palco numero cinque, osservava la scena con una punta di divertimento. Non era per niente dispiaciuto del piccolo intoppo che si era creato, era felice di poter sentir cantare nuovamente Christine. Era stata la sua voce angelica a farlo innamorare di lei, e in cuor suo il giovane continuava a sperare che la ragazza, prima o poi, accettasse la sua corte.

*

Johseph Bouquet era stato l'unico a capire da dove provenisse la voce, era sulle travi dove c'erano le  leve che muovevano il fondale di scena e da quella posizione aveva visto distintamente quell'uomo in nero uscire da una delle botole delle soffitta che conducevano nella piccola stanza dove c'era la meccanica per muovere e regolare il grande lampadario del teatro.
Il macchinista pensò che fosse ora di mettere fine a quella storia, voleva dimostrare che il famigerato Fantasma era solo un uomo che viveva nascosto a causa del suo aspetto mostruoso, lui lo aveva visto, aveva scoperto i passaggi per raggiungere i sotterranei. Non aspettava altro che si mostrasse per poterlo acciuffare e quella sera gli sembrò un'occasione da non lasciarsi sfuggire.
Bevve un generoso sorso dalla sua bottiglia di cognac scadente e si lanciò all'inseguimento del mostro.
Quando Bouquet raggiunse la soffitta dove c'erano i meccanismi che muovevano il lampadario la trovò vuota, fece per tornare verso il palco, ma sentì come se qualcuno lo stesse spiando nell'ombra, passi felpati nel buio che seguivano i suoi movimenti resi incerti dall'alcol. Si guardò intorno ma non vide nessuno, si disse che aveva bevuto troppo anche quella sera e si voltò per tornare tranquillamente al suo posto.

Il balletto era cominciato da una decina di minuti quando il corpo senza vita di Johseph Bouquet cadde sul palco, era appeso per il collo a un cappio.
Dal pubblico si levò un'esclamazione di orrore e tutti si alzarono per correre via, per non guardare quel tremendo spettacolo che aveva definitivamente rovinato la loro serata di divertimenti. Fu inutile per Firmin cercare di raccomandare la calma e chiedere agli spettatori di rimanere seduti ai loro posti, mentre le ballerine che poco prima occupavano il palco si affrettarono a correre dietro le quinte gridando spaventate.
Madame Giry era con Christine in uno dei camerini, stava aiutando la ragazza a indossare il costume da nobildonna per lo spettacolo. Quando sentirono le urla, entrambe si affrettarono a uscire per cercare di capire cosa fosse successo.
La donna cercò di tranquillizzare le ragazze del balletto che si erano strette attorno a lei, Christine guardò verso il palco e scorse la sagoma del cadavere di Bouquet ancora riverso in terra.
«Oh mio Dio...» mormorò facendo il segno della croce, in quello stesso momento fu raggiunta da Raoul che l'abbracciò, sospirando di sollievo per averla trovata.
«Stai bene?» le chiese, per tutta risposta la giovane lo prese per mano e lo trascinò via.
Il visconte si ritrovò a rincorrere Christine che saliva rapida le scale di legno che portavano verso il tetto.
«Perché mi stai portando via? Torniamo là, Christine, i direttori mi staranno cercando» disse Raoul affannato.
La ragazza si voltò indietro ma non sembrò avere alcuna intenzione di rispondergli, si limitò a guardare oltre la sua spalla come se volesse accertarsi che nessuno li stesse seguendo,
«No, tu non puoi restare... tu devi andare via...» disse poi con il fiato corto.
«Ma perché Christine? In nome di Dio!»
«Il Fantasma dell'Opera, se ci vedesse insieme, ah Raoul potrebbe accaderti qualche disgrazia e io non voglio...»
«Non c'è nessun fantasma, Christine»
«Sì, c'è, esiste... e si è dimostrato una belva questa sera, e potrebbe farlo ancora, potrebbe uccidere di nuovo, potrebbe uccidere te...».
La giovane parlava in fretta con aria concitata, sembrava sull'orlo di una crisi isterica
«Stai vaneggiando» commentò il visconte, eppure non poteva fare a meno di continuare a seguirla, l'avrebbe seguita ovunque lei avesse voluto, ovunque si sarebbe sentita al sicuro.
La corsa terminò davanti a una vecchia porta di ferro che Christine aprì con una spinta, i due giovani furono investiti da una ventata di aria gelida: la porta affacciava direttamente sul terrazzo del teatro.
Prima di uscire all'aperto Christine controllò ancora una volta che non ci fosse nessuno alle loro spalle, poi aspettò che Raoul la raggiungesse e chiuse la porta.
Il freddo trasformava in fumo i loro respiri affannati, la neve aveva cominciato a cadere a piccoli fiocchi, probabilmente già un po' di tempo, visto che il pavimento del terrazzo era completamente bianco.
«Io l'ho visto, Raoul, mi ha portato nel suo mondo di tenebre... ah, Raoul, i suoi occhi, così tristi! E la sua voce, è stata per quella voce che non ho avuto paura di lui, è un canto che mi ha stregato l'anima... io non sarei mai potuta fuggire...» dichiarò Christine.
«Era solo un sogno, non pensarci più...» rispose Raoul con dolcezza.
La ragazza si voltò verso il suo interlocutore, il cuore le batteva all'impazzata e non solo per la corsa frenetica. Aveva un disperato bisogno di raccontare a qualcuno ciò che le era capitato, ciò che stava provando e pensò che Raoul sarebbe stato un buon confidente visto il grande affetto che le riservava.
Il visconte arrivò alle sue spalle e le posò una mano sul braccio,
«Non temere, sono qui, le tue paure sono del tutto infondate e anche se non lo fossero, ah Christine, Christine!»

Christine...

La ragazza sentì uno strano suono fare da eco alle parole di Raoul, come se una voce nell'ombra avesse ripetuto il suo nome con lo stesso trasporto con cui lo aveva pronunciato il giovane.
Deglutì guardandosi attorno con aria circospetta, su quel terrazzo c'erano solo le statue di bronzo coperte da una patina di brina che luccicava in una specie di strano incantesimo. Era tutto così innaturale, come se quella calma e quel silenzio fossero solo un'illusione creata apposta per ingannarla.
Christine teneva ancora tra le mani il fiore che aveva trovato quando si era recata nel camerino per indossare il costume della protagonista: una rosa rossa dal lungo stelo adorno di un nastro di raso nero. Un altro omaggio del suo Angelo della Musica.
«Angelo?...» mormorò tra sé e sé corrugando le sopracciglia. Come poteva ancora definirlo in quel modo dopo quanto era successo?
Si voltò verso Raoul e lo osservò con aria malinconica. No, non poteva parlare con lui, non ne aveva il coraggio. Come poteva dirgli che aveva ammirato il genio di quell'uomo al punto da desiderare di stargli ancora accanto? Si vergognava di quei pensieri e di tutto quello che aveva immaginato riguardo a lui. E ora che il Fantasma si era rivelato un assassino senza pietà a maggior ragione trovava disdicevoli le fantasticherie che si era concessa in quei giorni.
«Resterò con te per tutto il tempo che vorrai Christine» sospirò Raoul strappandola alle sue riflessioni. «Dimmi che hai bisogno di me e non ti lascerò mai più».
La ragazza si rese conto che il visconte la teneva tra le braccia, i suoi occhi erano colmi di una tenerezza che avrebbe sciolto in lacrime persino il cuore più duro.
Raoul avvicinò lentamente il viso a quello di Christine, prendendole le mani, costringendola a lasciar cadere a terra la rosa. Le sfiorò le labbra con le proprie e avvertì il movimento delicato del mento della ragazza che si sollevava per ricambiare il bacio. Fu un istante di dolcezza infinita ma non durò che una manciata di secondi, perché all'improvviso lei si ritrasse con uno scatto,
«Raoul, non posso...» mormorò guardandolo con aria mortificata e sentendo le guance avvampare per l'imbarazzo.
Lui restò a guardarla con un'espressione quasi supplichevole, in attesa di una spiegazione, ma non ottenne altro che un silenzio talmente freddo che gli sembrò assordante.
«Capisco...» sussurrò con un sorriso triste, poi si congedò con un casto baciamano e sparì oltre la porta del terrazzo.
Christine restò qualche secondo a fissare con sguardo vacuo la città oltre il parapetto. Erano passati quasi dieci anni da quando aveva sentito per la prima volta la voce dell'Angelo della Musica, e ormai era diventata brava ad avvertirne la presenza anche quando lui taceva. In passato si era detta che non era vero, che lui non se ne stava da qualche parte a spiarla in silenzio, era una favola che si raccontava per sentirsi meno sola, ma in quel momento fu sicura che lui la stesse osservando celato nell'ombra. Si guardò attorno un'ultima volta, poi si rese conto di non riuscire più a sopportare quell'aria gelida e quella inspiegabile sensazione che le opprimeva il petto, quindi decise di tornare dentro.

*

«Non temere, sono qui, le tue paure sono del tutto infondate e anche se non lo fossero, ah Christine, Christine!» la voce di quel damerino sembrava decisa, sicura. La voce di uomo innamorato, pronto a tutto pur di avere accanto a sé la donna che amava, e in questo non erano poi così diversi.
Nascosto dietro una delle statue Erik osservava la scena in silenzio, anche se era talmente incollerito che avrebbe voluto urlare.
Christine aveva tentato di scappare, voleva parlare con il visconte e voleva farlo dove fosse sicura che lui non li potesse sentire. Povera piccola ingenua, come aveva potuto pensare che lui non la vedesse prendere per mano quello sciocco e correre verso il terrazzo? Come poteva sperare che lui non li raggiungesse? Conosceva quel teatro meglio di lei, non c'era posto abbastanza lontano o abbastanza sicuro in cui avrebbe potuto rifugiarsi finché rimaneva all'interno dell'Opera Populaire.
Erik lasciò che la neve gli cadesse silenziosamente sul mantello e tra i capelli, mentre stringeva i pugni fremendo di rabbia. Raoul De Chagny pensava di dover proteggere Christine, di doverla proteggere da lui! Lui che non avrebbe osato nemmeno sgualcirle una piega del vestito senza il suo consenso!
«Resterò con te per tutto il tempo che vorrai Christine, dimmi che hai bisogno di me e non ti lascerò mai più».
Quella era stata una dichiarazione in piena regola, probabilmente anche una bella dichiarazione. Erik si morse le labbra fino a farle sanguinare, avrebbe dovuto uscire allo scoperto e ucciderlo in quello stesso istante! Cercò di calmarsi, si impose di non muoversi, uccidere qualcuno sotto gli occhi di Christine non sarebbe stata una mossa cauta.
Si limitò a sporgersi un po' di più oltre la zampa del cavallo alato dietro al quale era nascosto.
A che cosa si era dovuto abbassare, a spiarla come un ladro!
Sentì il cuore esplodergli nel petto quando vide il visconte chinarsi a baciare le labbra di Christine, si ritrovò a osservare la scena a bocca aperta e fu costretto ad aggrapparsi alla statua per non cadere, pestò i piedi avvertendo lo scricchiolio sordo della neve sotto le suole, il respiro diventò affannoso, sembrava che i polmoni bruciassero ad ogni boccata d'aria che inspirava: lei stava rispondendo al bacio.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime di frustrazione. Era dunque questo il modo che aveva Christine di ripagarlo? Amando un altro?...
Erik temette che il suo cuore fosse sul punto di fermarsi quando vide la ragazza sottrarsi rapidamente all'abbraccio di Raoul e mormorargli un rifiuto con aria imbarazzata ma decisa. L'uomo poggiò la fronte contro il bronzo gelido e il freddo sembrò dargli sollievo come se fosse affetto da una febbre incurabile.
Il visconte non insistette e salutò Christine con un bacio sulla mano, poi se ne andò.
Il Fantasma dell'Opera si ricompose scrollando le spalle per liberarsi della neve che gli era caduta addosso. Osservò la sua protetta guardarsi attorno con aria smarrita, quanto avrebbe voluto farsi vedere da lei e parlarle, ma di sicuro in quel momento la fanciulla era troppo scossa, si sarebbe spaventata e non era il caso di rincararle la dose dopo l'infelice conclusione del loro ultimo incontro. Si limitò a guardarla mentre andava via, poi si staccò dalla statua e andò a raccogliere la rosa che Christine aveva lasciato cadere, soffiò via la neve dalla corolla scarlatta e la sfiorò con le dita avvolte dai guanti scuri. Si portò il fiore alla bocca e si accarezzò le labbra con i petali immaginando un bacio che prima o poi, si disse, sarebbe stato in grado di conquistare.


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La scena de "Il Muto" riveduta e corretta dalla sottoscritta, in fin dei conti è da qui che comincia il "what if...?".
Al prossimo aggiornamento.

Capitolo reinserito il 18\12\2011

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Capitolo 4
*** Blaise Bertrand ***


CAPITOLO TERZO
 Balise Bertrand

«Raoul, in nome del cielo! Dove eri finito?» esclamò Alexandre quando vide comparire il visconte dietro le quinte.
«Christine mi voleva parlare» rispose il giovane con un'alzata di spalle, i suoi vestiti erano umidi e il suo sguardo era triste. La sua aria affranta sembrava suggerire una sola parola: sconfitta.
«Ah, immagino che tu non abbia avuto successo con mademoiselle Daae, ma ci sono faccende più importanti che richiedono...»
«Mi ha detto di no, un no definitivo immagino»
«Mi dispiace tanto Raoul, ma questo non è il momento di parlarne»
«C'è un altro» commentò laconico il visconte senza prestare attenzione alle parole del suo amico. «C'è un altro uomo, ne sono sicuro».
Alexandre sospirò cercando di non perdere la pazienza. Era sinceramente dispiaciuto per la delusione amorosa di Raoul, ma in quel momento c'erano questioni più urgenti da sbrigare. La rappresentazione di quella sera era andata a monte, il pubblico avrebbe preteso di essere rimborsato e una morte misteriosa durante lo spettacolo non era certo una buona pubblicità per il teatro.
«I direttori ti vogliono parlare» insistette il giornalista. «E io non riuscivo a trovarti, mi sono spaventato»
«Spaventato per cosa? Non crederai anche tu alla storia del Fantasma dell'Opera? Ti facevo più arguto, amico mio»
«Non credo ai fantasmi, ma mi pare ovvio che ci sia qualcuno che compie strane manovre in questo teatro. È morto un uomo stasera, non si può negare che ci sia qualcosa che non va, pensa a quanta gente lavora in questo teatro, ognuno di loro potrebbe essere in pericolo».
Alexandre non attese la risposta del visconte, lo prese sottobraccio e lo trascinò nell'ufficio dei direttori.
«Dov'è tua madre?» domandò Raoul.
«Ho fatto chiamare una carrozza perché l'accompagnasse a casa» rispose l'altro uomo.
«E tu come mai sei ancora qui?»
«Ti stavo cercando, come ti ho detto»
«Ah, e il fatto che sei un giornalista non c'entra assolutamente nulla con la tua premura?».
Alexandre ridacchiò,
«Sì, ma siccome questo è il tuo teatro, potrei anche darti una mano a non far scoppiare un vespaio riguardo a quanto è avvenuto questa sera».
Raoul annuì, poi aprì la porta dell'ufficio ed entrò seguito dal suo amico.
Se non fosse stato la conseguenza di una tragedia, lo spettacolo che si presentò agli occhi dei due giovani uomini sarebbe risultato estremamente esilarante: i direttori erano veramente sconvolti. Tra i due, Richard Andrè era di certo quello più incline a farsi prendere dall'agitazione, se ne stava accasciato sulla sedia della scrivania con le braccia a penzoloni, il cravattino slacciato e parte della camicia che cadeva fuori dai pantaloni, il viso era sudato e pallido, con un'espressione sofferente da moribondo. Gilbert Firmin invece era quello dal carattere più duro e autoritario, tuttavia anche lui sembrava piuttosto provato, camminava avanti e indietro per la stanza sbuffando e tormentandosi con un dito i folti baffi nel tentativo di tenerli arricciati.
«Signori...» esordì Raoul cercando di attirare l'attenzione dei due impresari che sembravano non essersi accorti del suo arrivo.
«Ah, visconte!» gemette Andrè restando sprofondato nella sua sedia.
«I gendarmi sono già accorsi per un sopralluogo, ma sembrano anche loro del parere che sia stato un incidente» spiegò Firmin allentandosi il papillon. «Del resto è noto che quel macchinista aveva l'abitudine di bere, sotto i fumi dell'alcol può essere inciampato in una corda»
«Perdonate monsieur, ma solitamente si inciampa con i piedi, non con il collo» si intromise Alexandre.
«E voi chi sareste, di grazia?» borbottò il direttore del teatro.
«Alexandre Dubois, sono un giornalista»
«Proprio quello che ci serviva...» si lagnò Andrè facendosi aria con il fazzoletto.
«Monsieur Dubois è un mio caro amico, ci aiuterà a risolvere i fastidi che potremmo avere con la stampa dopo questo increscioso episodio» spiegò Raoul.
«Ah, allora benvenuto!» rispose Andrè senza pensare a ricomporsi
«Scusate, monsieur Dubois, ma voi state forse supponendo che il macchinista non sia morto per una disgrazia?» domandò l'altro direttore inarcando un sopracciglio.
Alexandre lo guardò con un sorriso di sfida,
«Nessuno lo crederà, considerando cosa è accaduto poco prima di quello che continuate a definire un incidente» disse. «E sono certo che non lo credete nemmeno voi»
«In effetti...» squittì Andrè, il suo socio gli lanciò un'occhiata di rimprovero.
«Vi riferite alla voce? La signora Giudicelli è convinta che sia stata una manovra dei suoi detrattori»
«Ah certo, e ditemi, tutti i detrattori della signora Giudicelli conoscono il teatro così bene da raggiungere il punto più alto attraverso la soffitta e allo stesso tempo sostituire il suo liquido balsamico, e il tutto senza farsi vedere?»
«Non sarete anche voi convinto che esista quel... fantasma?» borbottò Firmin esasperato.
«Ne siete convinto?» gli fece eco Andrè spiando il ragazzo con occhi sottili e aria preoccupata.
«Credo che ci sia qualcuno nel teatro, ma che sia un uomo, naturalmente» concluse il giornalista.
«Signori, è assurdo quello che state dicendo» protestò Raoul.
«E invece non lo è» ammise Firmin con un sospiro di resa. «Ed è per questo che voglio presentarvi una persona che spero potrà aiutarci a risolvere il problema».
Raoul e Alexandre si scambiarono una rapida occhiata mentre Andrè tentava di mettersi seduto in maniera composta ma sembrava ancora piuttosto malfermo sulle ginocchia.
«Entrate, prego» disse Firmin affacciandosi alla porta dell'ufficio. A quell'invito si fece avanti un uomo magro e di alta statura, con il viso affilato dai tratti marcati e dagli zigomi sporgenti, doveva avere circa quarant'anni ed era vestito con una certa eleganza, anche se i suoi movimenti dinoccolati e poco aggraziati tradivano origini non certo altolocate.
«Buona sera, signori» disse lo sconosciuto osservando gli altri uomini presenti nella stanza con i suoi penetranti occhi grigi,
«Lui è monsiuer Blaise Bertrand, un mio vecchio amico» spiegò il direttore. «In passato è stato capitano della gendarmeria, poi ha deciso di mettersi in proprio ed è diventato un investigatore privato»
«Dunque, siete tutti convinti che ci sia qualcosa o qualcuno su cui si debba indagare» concluse Raoul.
«Assolutamente sì, voglio scoprire chi è che si diverte a giocare al burattinaio nel mio teatro!» disse Firmin.
«Signor visconte,» esordì Bertrand con un sorriso che avrebbe voluto essere incoraggiante ma che apparve più come un ghigno, «dovete stare tranquillo, le mie indagini non interferiranno in alcun modo con la normale attività del teatro, la discrezione è sempre stata una delle mie migliori qualità»
«Ma se anche la polizia è propensa a credere che si sia trattato di un incidente...»
«Ed è meglio che continuino a crederlo: se la gente pensasse che c'è un assassino che si aggira per il teatro, l'Opera Populaire cadrebbe in disgrazia, nessuno verrebbe più a vedere i vostri spettacoli».
Firmin e Andrè annuirono a quel commento dimostrando ancora una volta che la loro principale preoccupazione era il profitto.
«Perdonatemi, ma se ci fosse un assassino in questo teatro, il fatto che la gente ne stia lontana può essere solo un bene, per la sicurezza di tutti» protestò Alexandre.
«Certo, capisco le vostre perplessità monsieur, ma il teatro da lavoro a molte persone, sarebbe una disgrazia se fosse costretto a chiudere» fece notare Bertrand di rimando.
Il giornalista lo guardò con diffidenza, come se fosse convinto che non era la sorte dei lavoratori del teatro che gli stava a cuore quanto la lauta ricompensa che certamente doveva avergli offerto Firmin se si fosse occupato di quello strano caso.
«Se assumere qualcuno che indaghi su questa storia del tutto assurda può farvi sentire più sicuri, signori» borbottò Raoul, «non sarò io a impedirvelo, ma temo, monsieur Bertrand, che lavorerete inutilmente, qui non c'è nessuno da scovare»
«Lo spero, visconte, per il bene di tutti» concluse l'investigatore con un altro dei suoi pessimi sorrisi. «Dunque, per stasera lasciate che la polizia faccia il suo lavoro e che divulghi la notizia che si è trattato di un incidente. Da domani terrete il teatro chiuso per lutto per qualche giorno e aspetterete che si calmino le acque, dopodiché comincerete a radunare nuovamente la compagnia per il prossimo spettacolo e tutto andrà avanti normalmente. Se il nostro fantasma dovesse farsi sentire non mancate di avvisarmi, nel frattempo io comincerò a fare qualche domanda a quelli che lavorano qui».
Raoul rispose con un'alzata di spalle alla lista di istruzioni di Bertrand, Andrè e Firmin annuirono, mentre Alexandre posò una mano sulla spalla del visconte,
«Posso parlarti un attimo?» gli mormorò. I due uomini si scusarono con i loro interlocutori e uscirono dall'ufficio.
«Raoul non penserai di lasciare fare a quell'uomo?» borbottò il giornalista non appena lui e il suo amico furono fuori. Il visconte scrollò le spalle,
«Cosa credi che importi, lasciali fare se serve a farli calmare. Monsieur Andrè mi sembra sempre sull'orlo di un infarto, Firmin ha l'aria di uno che potrebbe esplodere, forse li aiuterà sapere che c'è qualcuno che sta tentando di fare qualcosa»
«Quell'uomo, Bertrand, non mi piace!»
«Devo confessarti che a stargli vicino mette i brividi anche a me, ma non è importante»
«Ah, santo cielo! Allora permettimi di indagare con lui»
«Come?!» esclamò Raoul stupito.
«Voglio partecipare a questa indagine» rispose Alexandre con aria convinta. «Se, come suppongo, c'è davvero qualcuno dietro a tutto questo allora alla fine di questa impresa potrei avere la mia storia da scrivere, se invece non otterremo alcun risultato, beh potrò sempre parlare di come si è giunti a un buco nell'acqua»
«Tu sei pazzo, amico mio»
«Sono un artista, è normale»
«Dove la trovi tutta questa voglia di scherzare?» borbottò Raoul.
«È il mio lavoro, quello che ho sempre desiderato di fare, e inoltre terrei d'occhio il nostro nuovo amico, cosa ne dici?»
«Ve bene, in effetti mi fido più di te che di lui».
Raoul comunicò ai direttori che avrebbe accettato che Bertrand venisse assunto solo a patto che collaborasse con Alexandre, la proposta trovò qualche debole opposizione da parte dell'investigatore, ma alla fine si vide costretto ad accettare le condizioni del visconte.
Dopo quella breve discussione i cinque uomini si salutarono e tornarono a casa, ognuno con i propri pensieri.

*

Le luci del dormitorio del collegio erano tutte accese malgrado fosse sera inoltrata e il teatro era stato chiuso da un pezzo. Le giovani ballerine si muovevano irrequiete da una stanza all'altra cercando qualche compagna con cui dormire, dopo quello che era accaduto nessuna di loro voleva passare la notte da sola, nessuna aveva il coraggio di spegnere il lume sul proprio comodino. Madame Giry, che in un'altra occasione avrebbe rimproverato le sue allieve intimando loro di coricarsi e fare silenzio, si limitava ad osservarle muoversi frettolosamente lungo il corridoio, ascoltando impassibile i loro commenti sulla serata, sperando che la sua presenza e la sua apparente calma potessero servire in qualche modo a tranquillizzarle. La donna era certa che quelle fanciulle non corressero alcun pericolo, ma era sicura che alcune di loro il giorno dopo avrebbero abbandonato il collegio, sarebbero rimaste quelle che davano più ascolto alle loro ambizioni artistiche che alla paura e quelle che non avevano altro posto e altro futuro che il teatro, c'erano diverse orfane tra le allieve del collegio, ragazzine rimaste senza famiglia che Madame Giry aveva accolto a teatro, proprio come aveva fatto con Christine.
«Christine...» sospirò la donna fissando la fiamma della lampada ad olio che aveva davanti, si rese conto che la ragazza non era con le sue compagne, non l'aveva vista passare una sola volta nel corridoio alla ricerca di qualcuna che le tenesse compagnia per quella notte. Ma in fin dei conti Madame Giry non era preoccupata nemmeno per lei, quella giovane era l'ultima persona al mondo che doveva temere la furia che quella sera si era abbattuta sul teatro... almeno per il momento.
Madame era preoccupata per lui.
In tanti anni in quel teatro erano avvenuti gli incidenti più bizzarri, i disastri più inattesi, ma mai nessuno si era fatto seriamente del male. Lei aveva tentato di avvertire quello stolto di Joseph Buquet, aveva cercato di fargli intendere quanto fosse pericoloso dare la caccia al Fantasma solo per avere storie interessanti da raccontare, per farsi bello agli occhi delle ballerine, gli aveva detto di tacere, ma il macchinista non aveva voluto ascoltare. E lui doveva difendersi... lo aveva già fatto, davanti ai suoi occhi quando erano poco più che bambini, aveva ucciso il suo carceriere e lei lo aveva aiutato a scappare... perché era giusto, perché nel suo dolore e nel suo smarrimento lui aveva sempre conservato un tremendo attaccamento alla vita, un  istinto di sopravvivenza cieco e feroce quanto quello di una belva.
La donna si lasciò scappare un altro sospiro, più profondo del primo e decise di andare a bussare alla camera di Christine per portarle delle candele, forse nemmeno lei aveva voglia di rimanere al buio.
I colpi alla porta della stanza della giovane non ricevettero risposta, possibile che si fosse addormentata? Madame Giry aprì la porta con cautela, la stanza era buia, il letto era vuoto.
«Benedetta figliola...» mormorò la donna stringendo nervosamente le mani l'una nell'altra.

*

Le candele erano ridotte a piccoli grumi di cera sciolta, presto si sarebbero spente. Che sciocca era stata a non portarne di nuove, non era saggio rimanere al buio quella sera. E non era saggio nemmeno rimanere sola, allontanarsi dalla sua camera senza dire niente a nessuno, ma la ragazza non era in grado di pensare lucidamente a quale fosse la cosa migliore da fare, aveva bisogno del conforto che solo quel luogo riusciva a darle.
Si rannicchiò sul pavimento impolverato senza curarsi della veste da camera che si stava macchiando e fissò la fotografia di suo padre alla poca luce delle uniche candele ancora accese.
Possibile che l'Angelo della Musica mandatole da suo padre, quell'uomo che sapeva incantare il suo cuore con la magia della sua voce, fosse un assassino? Possibile che la sua rabbia verso il mondo arrivasse a tanto?
Christine seguì con la mano il margine della cornice che racchiudeva il ritratto di Gustave Daae, la fotografia si stava sbiadendo, ma l'immagine era ancora ben visibile, l'espressione serena e decisa  dell'uomo sembrava così viva. Se suo padre fosse stato lì con lei le avrebbe forse potuto spiegare perché l'angoscia che sentiva non riusciva a tramutarsi in orrore, come era accaduto alle sue compagne. Avrebbe dovuto aver paura, come tutti, e addirittura doveva temere il Fantasma più di ogni altro visto che aveva manifestato un palese interesse per lei, ma ancora un volta l'unica cosa che la spaventava era il non riuscire ad affrontare quella situazione nel modo in cui una persona assennata avrebbe dovuto giudicare.
Quando anche la penultima candela si spense lasciando un'ultima fiammella a rischiarare inutilmente la soffitta Christine decise di alzarsi e tornare nella sua camera.
Da quanto tempo era lì a pensare? A pensare a cosa poi?
La giovane si sollevò con movimenti resi goffi dalla gonna della veste da camera, puntando i palmi delle mani a terra... un improvviso fruscio la fece spaventare facendole perdere l'equilibrio: lui era lì, nascosto nel buio, chissà da quanto tempo la stava fissando.
«Fatevi vedere, se ne avete il coraggio!» esclamò la ragazza con un tono che avrebbe voluto essere sprezzante e autoritario, ma suo malgrado la voce le uscì tremula e incerta.
«Christine...» la voce del suo Angelo arrivò da un punto imprecisato della stanza mentre anche l'ultima candela si spegneva, come se lui stesso fosse fatto di oscurità.
La ragazza rimase impietrita, ritta in mezzo alla soffitta, avrebbe potuto voltarsi e correre via, anche in quel buio avrebbe dovuto sapere che la porta era solo a un metro alla sua destra, ma si sentì così disorientata da poter giurare che di punto in bianco la soffitta fosse diventata una prigione di ombra senza pareti.
Il rumore graffiante di un fiammifero che veniva sfregato contro il muro fu seguito da una fiammella che diede fuoco allo stoppino di una lampada ad olio agganciata alla parete, la soffitta fu nuovamente illuminata da una fioca luce giallastra.
Lui era lì, in piedi in mezzo alla stanza. Christine lo fissava con gli occhi sbarrati, incapace di dire o fare qualsiasi cosa.
Erik congiunse le mani e inclinò leggermente la testa in avanti, sembrava in attesa che la ragazza parlasse, reagisse, o forse era in attesa di trovare qualcosa da dirle che non la facesse gridare di paura. Avrebbe potuto sgridarla per non essere a letto, ma sarebbe stato semplicemente ridicolo. Avrebbe potuto scusarsi per il suo comportamento decisamente poco decoroso con il quale si era concluso il loro primo incontro, ma alla luce di quanto era avvenuto quella sera sarebbe suonato del tutto fuori luogo.
«Volevi vedermi?» le chiese semplicemente.
Lei si limitò a sbattere le palpebre con espressione confusa.
«Volevi vedermi, sì» sentenziò l'uomo con aria convinta. «Altrimenti non saresti venuta qui».
Christine fece appello a tutto il suo sangue freddo e riuscì ad atteggiare il viso in un'espressione dura,
«Vi credevo un Angelo!» esclamò quasi con disprezzo.
Erik allargò le braccia e scrollò le spalle in un gesto teatrale ed enfatico,
«Lo so, e perdonami se ho pensato che fosse ora che la smettessi di credere alla favole» disse con calma. «Ho cercato anche il modo migliore per metterti a parte di quale fosse la realtà delle cose, ma c'è stato... qualche imprevisto»
«Voi avete ucciso un uomo, stasera» sibilò Christine indignata stringendo i pugni.
«Vedi, bambina mia...» sospirò dolcemente Erik, alzando una mano verso il viso della giovane con l'intenzione di accarezzarle la guancia, ma lei si ritrasse con uno scatto, lui corrugò per un attimo le sopracciglia poi riprese a parlare.
«Fuori di qui c'è gente che si ammazza per i motivi più futili» disse con più durezza ma senza perdere la calma. «Gli uomini duellano per difendere il loro onore quando lo sentono minacciato, e tu ti sconvolgi perché io ho voluto difendere me stesso»
«Difendervi da cosa?!»
«Il caro Bouquet aveva scoperto troppo, e non solo! Aveva anche avuto la bella idea di andarlo a raccontare»
«E vi sembra un buon motivo per... per... per fare quello che avete fatto?»
«La mia vita per la sua. Mi rammarico che il fatto che io tenti di sopravvivere ti rechi così tanto disturbo» concluse Erik in tono leggermente sarcastico.
Christine si sentiva terribilmente confusa e smarrita davanti alla calma gelida di quell'uomo, ma in un attimo di lucidità fu in grado di comprendere che sarebbe stato molto meglio allontanarsi da lui il prima possibile,
«Dovrei essere a parlare con i gendarmi, non con voi, ora» esclamò voltandosi decisa a correre via, ma un braccio la strinse saldamente ad altezza del petto. Erik la tenne contro di sé, imprigionata in quella stretta, con le spalle minute poggiate contro il suo torace ampio,
«Ci hanno già pensato i miei amici direttori» mormorò l'uomo affondando il viso nei suoi capelli. Una fitta gelida e penetrante di paura strinse il cuore di Christine... paura per lui! Cosa avevano fatto i direttori? Cosa sarebbe successo ora?...
Erik annusò ancora per un attimo l'odore gradevole dei capelli della ragazza, sentì che la tensione del corpo di Christine contro il suo si stava allentando, come se si fosse calmata di colpo. Deglutì pensando che avrebbe dovuto accontentarsi di quella specie di abbraccio, non era il caso di spaventarla più di quanto non lo fosse già. Si augurò solo che lei potesse anche solo lontanamente comprendere i motivi del gesto tanto estremo che aveva compiuto quella sera, perché lui non aveva intenzione né di pentirsi né di chiedere perdono.
«Come sarebbe?» chiese la ragazza senza più preoccuparsi di lottare contro la stretta del Fantasma.
«Andrè e Firmin hanno ingaggiato un ex poliziotto, un tale Bertrand» spiegò Erik. «Sembra uno che fa sul serio, sai, penso che avrò un bel passatempo a cui dedicarmi».
Christine sobbalzò,
«Volete uccidere anche lui?» domandò sconcertata
«No, un altro morto susciterebbe troppo scalpore, personalmente mi divertirò a non farmi trovare, ma se il nostro nuovo ospite finisce per sbaglio nei sotterranei non mi riterrò responsabile di quello che potrebbe accadergli» rispose il Fantasma con freddezza e senza preoccuparsi di allentare la stretta attorno al petto di Christine.
«Cosa c'è nei sotterranei?» chiese ancora lei, incapace di trattenere un brivido.
«A parte ciò che hai visto, diciamo che il percorso per arrivare alla mia casa è sconsigliato a chi è poco pratico della zona»
«Avete messo delle trappole...»
«Devo pur preservare la mia casa dai topi, non ti sembra?» mormorò Erik ironico.
«Non scherzate!» esclamò la ragazza.
L'uomo sospirò, avrebbe tanto voluto guardarla in viso in quel momento, ma era troppo occupato a non farla correre via,
«Capirai prima o poi... ti ci abituerai» mormorò come se stesse pensando ad alta voce.
«Erik...»
«Sì?»
«Lasciatemi, mi state facendo male ora, non riesco a respirare».
L'uomo ritirò immediatamente il braccio, Christine inspirò profondamente e si voltò verso di lui,
«È ora che tu vada a letto, bambina mia» disse il Fantasma accennando un sorriso affettuoso. «In quanto a me ritieniti libera di raccontare ciò che vuoi a chi credi»
«Sapete che tanto non racconterò niente» rispose la ragazza abbassando gli occhi, incapace di sostenere lo sguardo del suo interlocutore.
«Ah, no?» chiese lui inarcando un sopracciglio. Certo che lo sapeva, ma voleva che lei si sbilanciasse nel dirgli il perché, confonderla era più divertente di quanto pensasse.
«No»
«Sembravi così decisa a correre dai gendarmi poco fa»
«Non è vero!... Voi siete...»
«Cosa?»
«Voi siete il mio maestro, credete che non abbia un minimo di gratitudine?» concluse Christine. «Ma non chiedetemi di comprendere le ragioni di ciò che avete fatto stasera».
Erik annuì con un cenno del capo, poi le prese la mano, se la portò alle labbra e vi impresse un leggero bacio,
«Ti chiedo di comprendere me, nient'altro» mormorò.


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Capitolo reinserito il 19\12\2011

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Capitolo 5
*** Tormenti ***



CAPITOLO QUARTO 
 Tormenti

Madame Giry aspettò che tutte le ragazze si fossero addormentate, mentre si dirigeva verso la sua camera vide anche Christine raggiungere Meg camminando con passo felpato lungo il corridoio. Pensò che ormai quella ragazza doveva aver intuito che ciò che stava succedendo la riguardava più da vicino di quanto sembrava, e lei aveva la sensazione che quello fosse solo l'inizio. Aveva saputo di quella specie di poliziotto che i direttori avevano assoldato per dare la caccia al Fantasma e quella faccenda non prometteva niente di buono, quell'uomo si sarebbe ritrovato a condividere la sorte di Bouquet se per caso fosse stato così in gamba da scoprire qualcosa. Per il suo bene, Eloise sperò che fosse uno sprovveduto: Erik non aveva mai ucciso nessuno in teatro prima di quella sera, e se mai avesse ripetuto quel gesto estremo sarebbe stato solo per proteggersi, quindi era meglio che quel Bertrand non fosse troppo abile da rappresentare un pericolo per lui.
Quando si chiuse la porta della camera alle spalle la donna avvertì quasi un senso di sollievo, si sciolse i capelli e le tempie smisero di pulsare, la tensione che le aveva attanagliato lo stomaco parve allentarsi e lei si godette per qualche secondo il silenzio e il buio che regnavano nella stanza.
Allungò una mano verso il comò per accendere la lampada, non voleva fare altro che indossare la veste da camera e coricarsi, l'indomani avrebbe atteso gli eventi e pregato, ora voleva solo riposare. Quella sensazione di tranquillità era però destinata a durare poco.
All'improvviso si sentì spingere brutalmente verso il muro e avvertì una stretta alla gola,
«Erik...» sussurrò in un rantolo.
Non riusciva a vederlo nel buio, scorgeva a malapena la sua figura ritta davanti a lei, e avvertiva la sua mano serrata intorno al collo.
«Che cos'è questa storia? Chi diamine è quell'uomo che è venuto a darmi la caccia nel mio stesso teatro?» sibilò la voce dell'uomo come se tutta la collera del mondo si fosse condensata nelle sue parole.
Eloise conosceva quel tono di voce, chiunque altro si fosse trovato al suo posto sarebbe morto dalla paura ancora prima che per la mancanza di aria. Erik non era mai stato violento con lei, e se quella sera aveva avuto quella reazione doveva essere davvero furioso. La donna si limitò a posare una mano sul suo polso per chiedergli di lasciarla andare, lui ritrasse la mano con uno scatto stizzito.
Madame Giry tossì violentemente e accese la lampada che era sul comò, attese qualche secondo che il respiro le tornasse regolare, poi fissò Erik con durezza,
«Non farlo mai più» borbottò severa.
Lui sostenne quello sguardo con un'espressione gelida come a lasciarle intendere che riteneva quella brutale incursione del tutto legittima,
«Vorrei sapere cosa passa nella testa vuota di quei due imbecilli per ingaggiare qualcuno per darmi la caccia come se fossi un animale da impagliare» disse indignato.
«Forse non sono così imbecilli come sembrano se hanno fatto quello che il vecchio direttore ha sempre evitato di fare: opporsi a te» rispose Eloise.
Erik accennò un sorriso sarcastico, tagliente come una lama,
«E tu, immagino, speri che ci riescano, sarebbe un buon affare liberarti di me»
«Ti permetto di essere arrabbiato ma non di dire idiozie!».
L'uomo rimase in silenzio per qualche secondo, in quella penombra i suoi occhi chiari avevano dei cupi riflessi color piombo.
«Ad ogni modo, non ho potuto farci niente, e sei stato tu a dirmi di non espormi troppo» aggiunse Madame Giry.
Erik dondolò il capo e la fissò in tralice,
«Dovrai stare attenta, ancora più di prima» disse.
«Lo stesso vale per te. Ma non farmi raccomandazioni come se fossi una sprovveduta, ho sempre usato la massima cautela, lo sai bene» rispose la donna  incrociando le braccia sul petto.
«A proposito, oltre al poliziotto c'è anche quell'altro, quel giornalista, Doubois... è un amico del nostro prezioso mecenate, potrei giurare che hanno la stessa espressione sveglia quanto quella di una statua di cera»
«Ah, per favore, lascia perdere il Visconte De Chagny, lui non c'entra niente con questa storia... i direttori lo hanno informato solo a cose fatte».
Erik si lasciò scappare un sospiro stanco, il sospiro di chi non aveva voglia di fare la guerra ma si vedeva costretto a cominciare una nuova battaglia,
«A volte mi sento proprio uno stupido, sai Eloise» disse tristemente. «Proprio non riesco a capire cosa c'è di così pretenzioso in quello che faccio... non pretendo un posto in un mondo che non mi vuole, voglio solo prendermi cura dell'unica cosa che ho, del mio teatro, perché non me la lasciano fare? Perché non mi lasciano in pace?».
Madame Giry deglutì nervosamente,
«Devi ammettere che i tuoi metodi sono piuttosto drastici e invasivi talvolta» commentò scuotendo il capo.
«Drastici?! Eloise, io non sono niente senza questo teatro, se difendere in tutti i modi possibili la mia unica ragione di vita significa essere drastici, allora sì, sono assolutamente drastico e ne vado fiero!».
La donna si sentì stringere il cuore a quelle parole, Erik non aveva tutti i torti, se non avesse avuto il teatro di cui occuparsi si sarebbe lasciato marcire nei sotterranei, invece grazie alla musica, all'arte, aveva un motivo per andare avanti giorno per giorno, anche nella sua triste condizione. Eppure il prezzo di tutto questo stava cominciando a diventare troppo alto dal momento che cominciavano ad esserci in gioco delle vite.
«Cosa pensi di fare adesso?» domandò Eloise.
«Quello che ho sempre fatto. In quanto ai nostri nuovi ospiti, prega per loro che non siano troppo svegli... tu sei quel tipo di persona a cui Dio da ascolto» rispose l'uomo.
«E Christine?» azzardò lei cercando lo sguardo del proprio interlocutore.
Un lampo lucido attraversò lo sguardo di Erik che si ritrovò ad abbassare gli occhi, incapace di trovare una risposta.
«Ah, quando le parole sfuggono a una lingua come la tua c'è da temere... dunque è peggio di quanto pensassi?» chiese Eloise con apprensione.
«Perché? Cosa pensavi?» borbottò Erik allargando le braccia.
La donna lo osservò in silenzio per qualche secondo,
«Dunque, è così, la ami» concluse.
«Non mi arrabbierò se mi dirai che non ne ho diritto, l'ho detto a me stesso così tante volte che sentirlo ripetere da te non mi farebbe alcun effetto»
«Non penso che tu non abbia il diritto di amare una donna, chiunque essa sia, ma converrai con me che Christine è un caso del tutto particolare, sei sicuro di amarla per ciò che è e non perché credi che sia l'unica che possa in qualche modo ricambiarti?»
«Qualunque sia il motivo, che differenza farebbe, Eloise?»
«La differenza che passa tra la gioia probabile e l'infelicità assicurata».
Erik sorrise con amarezza,
«Non so se Christine sia l'unica che possa amarmi, so che lei è l'unica che io potrei amare, ed è questa la differenza che conta» commentò laconico.
«Io non interferirò mai in quelli che possono essere i tuoi sentimenti o i suoi,» rispose Eloise, «ma io tengo molto a Christine, e sappi che farei qualunque cosa per proteggerla, anche...»
«Anche tradire me. Sì, lo so» concluse l'uomo.

*

Raoul si era svegliato molto presto, avrebbe potuto giurare di non aver dormito affatto. Si era ritirato a notte fonda e anche quando si era messo a letto non era riuscito a prendere sonno, i suoi pensieri erano rivolti a Christine, a quel bacio rimasto in sospeso, al suo rifiuto, deciso e definitivo. Lei non lo amava. Aveva intuito che c'era un altro uomo, e avrebbe tanto voluto saperne di più, voleva sapere se la sua intuizione era esatta, quale era la natura dei sentimenti di Christine per quest'altra persona, voleva saperlo per capire se poteva concedersi di sperare.
E voleva anche capire perché Christine sembrava così ossessionata dal Fantasma dell'Opera, da quell'assurda leggenda a cui tutti stavano dando troppo credito ultimamente.

Whose is this voice you hear with every brateh? 

Ma non era importante. E riguardo ai suoi sentimenti, che avesse potuto sperare o meno non faceva alcuna differenza, anche se non avesse avuto la minima possibilità il suo amore per quella ragazza non sarebbe scomparso da un giorno all'altro.
Il giovane si alzò dal letto e si avvolse nella sua giacca da stanza. Lanciò un'occhiata oltre i vetri della finestra, aveva albeggiato da poco e la neve caduta la sera prima aveva coperto di un soffice manto bianco il giardino della tenuta, anche se il visconte non trovava niente di particolarmente tenero e gradevole in quello spettacolo.
Restò per circa un'ora seduto su una poltrona ai piedi del letto rimuginando sugli avvenimenti della sera prima, continuò a pensare a Christine poi i suoi pensieri si concentrarono sull'incontro che era avvenuto nell'ufficio dei direttori, il ricordo di Blaise Bertrand e di quei suoi sorrisi tirati su quel volto ossuto gli provocò una sensazione sgradevole e si chiese se fosse stata una buona idea lasciare che i direttori lo assumessero per indagare all'interno del teatro. Indagare su cosa poi?
«Io finché non vedo questo fantasma, quest'uomo, questo essere... non ci credo» borbottò scuotendosi infreddolito. «Ah, maledizione!».
Agitò la mano a mezz'aria come per scacciare via quei pensieri molesti e spiacevoli, poi si alzò e decise di vestirsi. Quando ebbe finito di prepararsi scese in sala da pranzo dove si fece servire la colazione, il maggiordomo si era premurato di procurargli diversi quotidiani, tutti i giornali di quel giorno recavano in prima pagina la notizia della morte del macchinista nel teatro più famoso di Parigi, molti articoli riportavano la versione che emergeva dai rapporti della gendarmeria e parlavano di un tragico incidente, ma qualcuno lasciava spazio ad alcune supposizioni fantasiose e a strane insinuazioni.
Raoul allontanò la pila di giornali con aria infastidita e bevve un sorso dalla sua tazza di caffè, poi il maggiordomo gli si avvicinò e gli porse un biglietto posato su un vassoio.
«E' da parte di monsieur Dubois» disse.
Il visconte lesse il biglietto nel quale Alexandre gli proponeva di incontrarsi per pranzo in un bistrò della piazza del teatro, c'era scritto che era certo di procurarsi in mattinata notizie di cui avrebbe voluto discutere con lui.
Raoul sorrise divertito pensando che il suo amico doveva essere in fibrillazione per tutta quella faccenda. Conosceva le ambizioni di Alexandre e quella sua continua ricerca di una storia da raccontare, e sapeva quanto fosse grande il talento scrittorio di quel ragazzo che di certo avrebbe saputo trarre un magnifico racconto da quella vicenda assurda.
Il ragazzo passò la mattinata chiuso nel suo studio a leggere alcuni documenti che riguardavano l'amministrazione del teatro, era previsto l'allestimento di un altro spettacolo prima di Natale e con quello che era successo la sera prima l'Opera Populaire avrebbe avuto bisogno di una nuova pubblicità, senza contare che Carlotta Giudicelli si era data ammalata per le settimane successive lasciandoli senza una cantante per la prossima rappresentazione.
«Ah, se avessi saputo che l'arte era un campo così complicato non mi sarei mai dedicato a questa impresa! Dannato quel teatro e tutti gli artisti!» borbottò il visconte dopo aver trascorso diverse ore nel tentativo di trovare una soluzione a tutti i problemi che minacciavano di far diventare più intensa la sua emicrania.
Con un mal di testa insostenibile, Raoul scese in giardino e ordinò a un cocchiere di portarlo fino al teatro, avrebbe pranzato con Alexandre e poi sarebbe andato a discutere con i direttori di cosa fare  per il prossimo spettacolo.

Alexandre era seduto attorno a un tavolo rotondo sul fondo della sala del Petite Cafè, le pareti del bistrò erano tappezzate di velluto blu, i camerieri vestivano tutti con un'inappuntabile livrea bordeaux sopra ad una camicia beige.
Il giornalista lisciò con il palmo della mano una piega della tovaglia di lino damascato e si versò un po' d'acqua dalla caraffa.
«Buon giorno Alexandre» disse Raoul comparendo davanti a lui e lasciandosi cadere sulla sedia.
«Buon Dio, hai un pessimo aspetto»
«Ho passato una notte insonne...»
«Ah, sì, anche io, e se per questo, anche mia madre» asserì il giornalista
«Beh i motivi che hanno tenuto sveglio te posso ben immaginarli, ma tua madre, è stata forse male?»
«No, lei, come dire... è una persona molto emotiva, a dire la verità anche troppo emotiva»
«Cosa intendi dire?»
«Mia madre soffre di una lieve forma di depressione» mormorò Alexandre con un sospiro.
«Mi dispiace, non sapevo» disse Raoul.
«Avevo un fratello, è morto quando io non ero ancora nato e lei non ha mai superato questa perdita»
«Oh, credo che non ci sia dolore più grande che perdere un figlio...».
Una giovane cameriera si avvicinò al tavolo e posò davanti ai due uomini dei menù rilegati in tela, poi tornò dopo qualche minuto per prendere le ordinazioni.
Raoul seguì con lo sguardo la ragazza che si allontanava dopo aver annotato cosa desideravano per il pranzo,
«Un giorno mi spiegherai come fai» commentò il visconte lanciando un'occhiata sarcastica al suo amico.
«A fare cosa?»
«A farti guardare in quel modo dalle donne».
Alexandre si grattò la nuca con aria imbarazzata
«Sto cominciando a comprendere una cosa di quell'intricato mistero che sono le donne, meno interesse dai loro più si preoccupano di mettersi in mostra» rispose divertito
«Mi stai dicendo che non ti interessano le donne?»
«Non in questo momento, certo mia madre sarebbe la persona più felice del mondo se trovassi una brava giovane da sposare, ma...»
«Ma devi prima realizzare la tua impresa di scrivere il tuo romanzo»
«Sì, diciamo che ho la testa altrove per concentrarmi su matrimoni e cose simili»
«Beh, però è un peccato, tante ragazze ti trovano attraente...»
«A proposito, ieri sera non c'è stato tempo, ma mi stavi raccontando di Christine».
Raoul tossicchiò abbassando lo sguardo con aria afflitta
«Non c'è altro da dire, mi ha rifiutato e io sono certo che ci sia un altro» disse.
«Un altro? Chi può essere? Forse mademoiselle Daaè in questo momento preferisce dedicarsi alla sua carriera» rispose Alexandre.
«No, se così fosse mi avrebbe dato delle speranze, invece il suo era un no definitivo».
Un altro cameriere arrivò pochi minuti dopo a servire il pranzo, Raoul tormentò con la forchetta la sua ratatouille di verdure ma non ne assaggiò che pochi bocconi.
«Perché volevi vedermi?» domandò il visconte allontanando il piatto. «Nel tuo biglietto mi dicevi che avresti avuto delle notizie da darmi». 
Alexandre annuì,
«Ah le ho, e non so se possono definirsi buone notizie» borbottò.
«E io che pensavo che con le brutte notizie avessimo finito, al momento!».
Il giornalista estrasse una busta dalla tasca interna del cappotto che aveva poggiato allo schienale della sedia e la porse al suo interlocutore,
«Mi sono permesso di cercare qualche informazione sul nostro nuovo amico, monsieur Bertrand» disse.
Raoul aprì la busta e vide che dentro c'erano alcuni fogli dattiloscritti,
«Cosa c'è scritto?» chiese.
«Che non è esattamente l'uomo più raccomandabile della città» rispose il giornalista con un sospiro. «È stato capitano della gendarmeria, ma fu sospeso dal servizio perché si scoprì che per arrotondare lo stipendio faceva l'usuraio, quello che emerge dalle informazioni che ho raccolto su di lui è che non è una persona che va tanto per il sottile, quando lavorava nella polizia è stato protagonista di diversi atti scellerati, maltrattamento di indagati durante gli interrogatori e cose simili, è un assiduo frequentatore di case di malaffare e posso immaginare che questo non sia il suo unico vizio».
Il visconte fissò l'amico con aria attonita,
«Cioè, monsieur Bertrand è più simile a un avanzo di galera che a un poliziotto!» commentò con una smorfia.
«Io non avrei saputo dirlo meglio, amico mio»
«Ma è assurdo...» protestò Raoul.
«No, non lo è. Temo che i tuoi amici direttori lo abbiano assunto proprio perché è la pessima persona che è» rispose il giornalista.
«Devo smettere di frequentarti, Alexandre, sei troppo intelligente per me! Comunque, mi sento più tranquillo sapendo che gli starai alle costole... non mi piace l'idea che un simile individuo abbia a che fare con le ragazze del collegio e con la gente che lavora nel mio teatro».
Alexandre annuì, poi lanciò al suo amico uno sguardo preoccupato,
«Non voglio metterti ansia, Raoul, ma temo che Bertrand, se è un bravo segugio come credo che sia, si accanirà particolarmente su Christine».
Al visconte andò di traverso il sorso d'acqua che stava bevendo,
«Christine?»
«Beh, è chiaro il Fantasma dell'Opera, chiunque sia, ha un palese interesse per lei e per la sua carriera, Bertrand non tarderà a notarlo».
Raoul si passò una mano tra i capelli in un gesto nervoso,
«Dunque, mettiamo che questo Fantasma esista, credi che Christine ne sappia qualcosa?» chiese.
«Non lo so, posso pensare che se lei avesse saputo qualcosa, dopo ciò che è accaduto ieri sera, lo avrebbe detto alla polizia, a meno che...»
«A meno che?»
«A meno che non abbia dei motivi per mantenere il segreto» concluse il giornalista.
«Ah, per carità! Non voglio mai più sentire idiozie del genere sul fatto che Christine possa essere in qualche modo coinvolta in questa assurda faccenda! E cerca di tenere Bertrand il più possibile lontano da lei!» sbottò Raoul.
Alexandre scrollò le spalle,
«Stai calmo, sono certo che Chrisinte non c'entra niente... anche un sordo noterebbe che è più talentuosa della Giudicelli, l'interesse del Fantasma potrebbe essere dovuto unicamente a questo»
«Sempre ammesso che ci sia un fantasma» concluse Raoul con aria esasperata
«Sempre ammesso che ci sia un fantasma» convenne Alexandre in tono accomodante.

*

L'interno della chiesa non era meno freddo dei vicoli di Parigi, ma la ragazza avvertì comunque un senso di sollievo. Fece il segno della croce chinando il capo in direzione dell'altare e superò la prima colonna della navata centrale. L'aroma dell'incenso e dei fiori che ornavano le cappelle laterali si mischiava a l'odore della pietra antica, disegnando nella mente dei fedeli che entravano nella chiesa di Sant Patrice scene di un passato glorioso, dando quasi la sensazione che quelle pietre avessero assorbito tutti i sospiri che avevano accompagnato le preghiere recitate nel corso dei secoli da brava gente devota.
Christine inspirò per qualche secondo quell'odore e si sentì tranquillizzata, quella era la Casa del Signore e lì c'era sempre possibilità di ricevere asilo, non solo per chi aveva bisogno di nascondersi dal mondo, ma anche per chi aveva bisogno di proteggere la propria anima dai pericoli davanti ai quali poniamo noi stessi quando lasciamo venir meno la ragione.
La ragazza chiuse la tenda di velluto viola del confessionale e si inginocchiò congiungendo le mani, il prete aprì la piccola grata con uno scatto.
«Perdonatemi padre, perché ho peccato» mormorò Christine.
«Ti ascolto, figliola» rispose padre Serge con la sua voce bassa e carezzevole, riconoscendo la giovane oltre la grata.
«Sono confusa padre, sono spaventata...»
«Cosa ti turba?»
«Un uomo».
Christine si fermò cercando le parole più adatte per continuare, il sacerdote respirò profondamente,
«C'è un uomo che ti insidia, che ha tentato di fare qualcosa contro la tua volontà?».
La giovane non seppe cosa rispondere. L'uomo di cui parlava non le aveva fatto nulla di male ed era certa che le splendide parole che le aveva cantato non fossero semplicemente un subdolo tentativo di sedurla,
«C'è un uomo che ho conosciuto che... che mi confonde» concluse mordendosi il labbro.
Padre Serge le concesse un sorriso indulgente,
«Mia cara, ogni fanciulla, prima o poi incontra sulla sua strada un uomo che le fa provare ciò che stai provando tu»
«No, padre, quest'uomo è... io non sono certa che sia giusto pensare a lui»
«È forse sposato?»
«No. Padre, è così difficile... lui ha commesso sbagli molto gravi, anche se a volte penso che le sue ragioni non siano state del tutto sbagliate, ma non so se è giusto essere indulgente riguardo ai suoi errori, al punto da...»
«Al punto da concedergli il tuo affetto?» chiese il sacerdote.
«Al punto da accordargli la mia fiducia» lo corresse subito Christine, non voleva che padre Serge credesse che gli stesse parlando di amore, lei non amava quell'uomo, nessuno avrebbe potuto amarlo.
«Vedi, tutti noi commettiamo degli errori, gravi o meno che siano, ma non sta agli altri giudicare i nostri sbagli, sarà Nostro Signore a valutare il peso di ciò che abbiamo commesso» concluse il prete in tono pacato.
Christine sorrise amaramente,
«Ah padre, non posso aspettare il giudizio divino per capire come comportarmi!» esclamò, per pentirsi subito della sfacciataggine di quelle parole. «Oh, scusate, non volevo essere arrogante o bestemmiare»
«Non sto dicendo di aspettare il giudizio di Dio, la Sua giustizia si attua sempre al di là di questo mondo. Ti sto dicendo di valutare quell'uomo per come tu credi sia più giusto, badando a ciò che vedono i tuoi occhi, senza ergerti a giudice delle sue azioni. Figlia mia, il bene e il male sono concetti così sfuggevoli che se volessimo fermarci sempre a determinare cosa sia buono e cosa non lo sia, rischieremo il più delle volte di cadere in errore, e forse di fare del male noi stessi»
«E se sbagliassi valutazione?»
«È un rischio che corriamo in tutto ciò che facciamo, anche se facciamo un qualsiasi tipo di acquisto, non possiamo essere sicuri che il commerciante non ci inganni, ma se non ci fidassimo mai del nostro prossimo vivere diventerebbe un'impresa più ardua di quanto già non sia. Tu sei molto giovane, la fiducia dovrebbe essere una delle tue prerogative, sarai esposta a delle delusioni, certo, ma è così che una persona matura l'esperienza»
«Padre, io non so se ce la faccio a lasciarmi andare, ad avere questa fiducia di cui parlate... nel caso specifico di quell'uomo di cui vi parlavo, è così complicato» mormorò Christine affranta.
«Quante precauzioni» rispose il prete con una vena di sarcasmo mirata ad alleggerire i toni del discorso. «Forse nel tuo cuore quella persona occupa un posto così particolare che hai paura che lo stia usurpando senza diritto e senza merito».
La giovane ebbe un sussulto a quelle parole,
«Io devo molto a quell'uomo» ammise. «E la gratitudine che ho per lui lo rende assolutamente meritevole del posto che occupa nel mio cuore... ma non so se concedergli di avere altro spazio nei miei pensieri»
«Cercarsi, trovarsi, a volte persino rincorrersi, è del tutto naturale tra le persone, ed è un'avventura talmente complicata che è normale che tu, che sei così giovane, ne sia spaventata»
«Allora chiedo perdono a Dio fin da ora per i possibili errori che potrò commettere se deciderò di prendere questa strada, compresa l'eventualità che sia il percorso sbagliato» concluse Christine  stringendo più forte le dita tra loro.
«In nome di Nostro Signore, assolvi te stessa, non stai facendo nulla di male» disse padre Serge, e con quelle parole sollevò dall'animo di Christine parte del peso che la opprimeva.
La ragazza uscì dal confessionale e depose qualche moneta nella cassetta delle offerte, prima di lasciare la chiesa si voltò un'ultima volta verso l'altare e fissò la statua della Madonna sistemata in una nicchia sopra al tabernacolo. Pensò che Dio non l'aveva mai abbandonata, ma in quella “avventura complicata” avrebbe dovuto sbrigarsela da sola.
Tornò a teatro passeggiando lentamente per la città. I netturbini stavano ancora spalando via la neve dalle strade principali per permettere alle carrozze di muoversi senza intralcio. Le montagne di ghiaccio che venivano accantonate lungo il ciglio dei marciapiedi non erano più bianche e perfette, erano velate da aloni scuri di fango e sporcizia, deformate dalle impronte lasciate dai passanti. Christine pensò che doveva essere la stessa cosa che accadeva all'anima di una persona quando veniva toccata da qualcosa di esterno, e qualunque cosa fosse il sentimento che stava cominciando a provare per quell'uomo, lui le aveva lasciato sull'anima impronte e segni così profondi che sarebbe stato difficile lavare via, tracce che la stavano cambiando senza che lei riuscisse a impedirlo.
Quando tornò a teatro andò nella sua stanza e scrisse un messaggio su un foglio di carta, poi raggiunse Madame Giry che stava facendo lezione a delle giovani ballerine, la chiamò in disparte e le consegnò il biglietto,
«So che potete farglielo arrivare» mormorò, per poi allontanarsi imbarazzata prima che la donna potesse dire qualcosa.
Eloise fissò la sua adorata Christine correre via, non aveva bisogno di chiederle a chi si riferisse,  doveva aver compreso che lei era in contatto con quell'uomo dal momento che la sera della rappresentazione dell'Annibale era stata proprio lei a darle la rosa che Erik le aveva mandato.
«Erik è innamorato, Christine è confusa... e abbiamo una specie di cane da tartufo che da la caccia al Fantasma dell'Opera, un terremoto sarebbe una sciocchezza a confronto!» concluse la donna sospirando e infilandosi il biglietto in tasca.

*

Erik si sfilò la giacca e la posò sullo schienale della sedia, si tolse il gilet gettandolo sgraziatamente sul piano dello scrittorio e si slacciò il foulard lasciando che la camicia si aprisse sul petto, poi si sedette davanti alla scrivania stendendosi con le spalle contro lo schienale e stiracchiando le gambe, reclinò il capo all'indietro e tirò un profondo sospiro.
La Dimora sul Lago era meno fredda di quanto ci si aspettasse, essendoci continuamente decine e decine di candele accese l'aria si manteneva tiepida e le spesse pareti di pietra trattenevano il calore.
Erik si massaggiò il collo cercando di allentare la tensione e rilassarsi, era tutto il giorno che correva su e giù per il teatro, aveva controllato la situazione come un saggio sovrano che vuole tenere personalmente d'occhio il proprio regno, diffidando dei suoi stessi servitori. Aveva bisogno di ascoltare cosa diceva la gente, di sapere cosa stava succedendo dopo gli avvenimenti della sera passata e quando e come l'investigatore e il giornalista avrebbero cominciato a dargli la caccia.
Si sentiva stanco e sapeva che gli sarebbero servite molte energie per affrontare la tempesta che minacciava di abbattersi sul suo teatro. Si passò le mani tra i capelli e avvertì in lontananza il rumore di un goccia che cadeva sulla roccia, un rumore così piccolo, quasi impercettibile, che in quel grande spazio vuoto aveva un eco fastidioso, i battiti del suo stesso cuore sembravano rimbombare e increspare la superficie immobile del lago sotterraneo, ricordandogli che in quella casa non era né il Fantasma dell'Opera né l'Angelo della Musica, era un uomo, ed era un uomo solo. Ma quella sera c'era un particolare che addolciva il fiele velenoso dei suoi consueti pensieri tristi.
«Ci vuole un brindisi!» borbottò Erik chinandosi ad aprire il vano che era sotto lo scrittoio, prese una bottiglia di vetro scuro, un cucchiaio e una scatola di latta che conteneva delle zollette di zucchero. Il cucchiaio era piatto e appuntito con la superficie di acciaio cosparsa di piccoli fori rotondi, l'uomo appoggiò il cucchiaio sul bordo di un bicchiere da liquore poi vi posò una zolletta di zucchero e versò sopra un generoso sorso del liquido contenuto nella bottiglia. Osservò i luminosi riflessi smeraldini del liquore e avvicinò un fiammifero acceso alla zolletta, che essendosi impregnata di alcol prese immediatamente fuoco estendendo la tremula fiamma violacea fino alla superficie del liquido nel bicchiere. Minuscole lingue di fuoco si alzavano veloci dalla superficie del cucchiaio, quella bevanda doveva essere davvero un frammento di inferno rotolato ancora fumante sulla terra, che attirava gli uomini con il suo odore gradevole e con il suo colore magnetico.
Quando la zolletta fu quasi del tutto sciolta  dal calore Erik capovolse il cucchiaio facendo cadere i granelli di zucchero disfatto sul fondo del bicchiere, soffiò energicamente per spegnere la fiamma e girò il liquore con la punta del cucchiaio fino a quando il vetro non si fu raffreddato, lo avvicinò cautamente alle labbra e sorrise tra sé e sé,
«Alla mia musa!» mormorò bevendo un piccolo sorso che ingoiò con una smorfia: a dispetto del suo aroma fresco di menta e anice, l'assenzio bruciava la gola mentre lo si beveva e faceva salire una vampata di calore alle guance, ma una volta arrivato in fondo al bicchiere ti lasciava una sensazione  di rilassatezza e la voglia di berne dell'altro per perpetuare quel sentore di calma.
Erik ingoiò rapido altri piccoli sorsi, vuotando il bicchiere in pochi minuti, strofinando la lingua contro il palato come per mandare via il retrogusto amaro che lo zucchero non riusciva del tutto ad attutire. Poi sorrise di nuovo pensando che aveva altro con cui addolcirsi la bocca: il biglietto di Christine. Lo aveva posato sotto il fermacarte, in un angolo dello scrittoio, lo aveva letto già decine di volte ma pensò che una volta in più non gli avrebbe certo fatto male.
Sul foglio erano annotate poche righe scritte frettolosamente:

Erik,
So che dovete essere prudente e che, vista la situazione, non vi conviene esporvi troppo. Ma io vorrei chiedervi di incontrarci, non arrischiatevi a mandarmi una risposta. Vi aspetterò domani pomeriggio alle due nel camerino della primadonna, davanti allo specchio. Se non vi troverò capirò che non siete riuscito a venire, e se così fosse non datevene pensiero, sono certa che abbiate delle altre priorità a cui prestare attenzione.
Chirstine.

Erik sospirò. Era strano, lui era abituato a decidere personalmente come e quando avrebbe visto Christine, e malgrado la sua mancanza lo dilaniasse, avrebbe preferito non vederla prima che si fossero calmate le acque, ma dal momento che era stata lei a cercarlo avrebbe abbattuto un muro a mani nude pur di non mancare a quell'appuntamento.
Non era un biglietto particolarmente appassionato o affettuoso, anzi, tra le righe vi aveva anche letto una certa freddezza, ma Christine sembrava preoccupata per lui e per la prima volta gli aveva chiesto esplicitamente di vederlo, per la prima volta gli aveva detto di avere bisogno di lui, ed Erik si disse che avrebbe dovuto farle capire che non c'erano priorità che mettesse al di sopra di lei.

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Ringrazio Jack87 per il bellissimo commento, mi fa piacere che la mia scrittura si riveli utile. Ho letto anche la recensione che lasciasti per "Save me from my solitude", le controllo sempre le recensioni, anche per le storie vecchie. Beato te che hai visto il musical! Io sogno ancora di volare a Londra per vederlo, per adesso mi accontento del film. Nel mentre ti auguro buona permanenza in Australia (wow! deve essere bello *_* nostalgia a parte, magari).
 Ringrazio anche tutti quelli che hanno letto.
 Siccome la storia è già praticamente tutta scritta sul mio pc, penso che aggiornerò con cadenza regolare, un capitolo nuovo ogni lunedì. ^^

 Al prossimo aggiornamento.
I remain, gentelman, your obedient servant.
 
Capitolo reinserito il 19\12\2011

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Capitolo 6
*** "Il Fantasma dell'Opera è qui, nella mia mente" ***


CAPITOLO QUINTO
"Il Fantasma dell'Opera è qui, nella mia mente"


Christine entrò nel camerino e chiuse la porta lentamente, assicurandosi che nessuno l'avesse vista. La stanza era buia e vuota e la ragazza pensò che fosse meglio non accendere nessuna luce, respirò profondamente riempiendosi le narici del fastidioso odore di chiuso, dell'olezzo dei troppi fiori e del borotalco, si mosse lentamente verso lo specchio e posò una mano sulla superficie di vetro sulla quale era riflessa la sua immagine che appariva sbiadita nella penombra. Attese lunghi secondi nei quali era incerta se sperare che Erik non arrivasse all'appuntamento o se pregare perché la raggiungesse.
«Cosa sto facendo?» si disse la ragazza scuotendo il capo, mentre alcuni riccioli ribelli sfuggivano alla presa del fermaglio.
Con un sospiro, decise di voltarsi e tornare indietro, rinunciare una volta e per sempre a quella follia, ma nel volgere le spalle allo specchio vide un particolare al quale non aveva ancora fatto caso: sul margine del tappeto era posata una rosa con un fiocco di lucido raso nero legato sotto la corolla scarlatta.
Restò a guardare il fiore con aria sbigottita, significava certo che lui era già lì e quindi era tardi per tornare indietro, per decidere quale fosse il male minore, anzi era stato stupido da parte sua credere di potersi sottrarre a quell'incontro, quell'uomo si trovava accanto a lei, dove era sempre stato, non l'avrebbe lasciata andare. Era come se lui fosse la sorte che le era toccata, e poiché era il suo destino, Christine non poteva fare altro che andargli incontro e abbracciarlo.
Fissò la superficie lucida dello specchio e vide la sua sagoma apparire come un'eterea ombra scura dietro il vetro,
«Siete venuto, infine» disse, senza riuscire a impedire che la sua voce tremasse.
Un piccolo ghigno divertito increspò le labbra di Erik prima che lo specchio ruotasse verso l'interno del muro permettendogli di mostrarsi a Christine,
«Sarò anche un assassino, ma non sono un codardo, e inoltre non potrei rifiutarti nulla, dovresti saperlo» disse osservandola a braccia conserte. «Ma tu perché sei qui e ti ostini a rimanere? La porta è solo un metro più in là. Non hai paura?».
I suoi occhi erano così limpidi e il loro sguardo così pungente che sembrava potessero vedere tutto, anche l'intricata matassa di emozioni e sentimenti che albergava nel cuore della ragazza e che lei sperava, con quell'incontro, di cominciare a dipanare. Sì, aveva paura, di lui e di se stessa, da quando lo aveva incontrato non sembrava più la ragazza che era sempre stata.
Christine boccheggiò incapace di trovare qualcosa da dire,
«Mi avete chiesto di comprendervi, è per questo che sono qui» mormorò, cercando di imprimere al suo sguardo una durezza che non le apparteneva e che non sembrò nemmeno credibile
«Questo sguardo non ti si addice» replicò l'uomo con aria spavalda. «Volevi vedermi per trovare conferma all'idea che hai di me? Per sincerarti che sono un mostro, così non dovrai sentirti in colpa quando mi abbandonerai? Qual'è la parte di me che vuoi comprendere veramente?... forse, tentare di capire il tuo caro visconte sarebbe un'impresa meno ardua. Vi ho visti l'altra sera sul terrazzo».
La ragazza sussultò a quell'affermazione, cominciò a temere che la collera di Erik potesse davvero riversarsi su Raoul, se gli fosse capitato qualcosa di male a causa sua non se lo sarebbe mai perdonato.
«Se ci avete spiati, allora saprete anche che ho rifiutato la sua corte»
«Potresti averlo fatto per stuzzicare ulteriormente il suo interesse, dopotutto è ricco, bello, potrebbe offrirti una gloria maggiore di quella che avresti diventando una grande soprano. Come pensi che suoni: Christine Viscontessa De Chagny?»
«Non c'è motivo di continuare questa conversazione se credete che io sia solo una poco di buono che si preoccupa di accaparrarsi un buon partito» replicò Christine con voce spenta, avrebbe voluto sbattergli in faccia la sua indignazione e la sua rabbia, ma quelle parole l'avevano ferita e il rammarico aveva frenato la sua collera anche più della paura.
«Come posso fidarmi di voi, se non vi fidate né di me né di nessun altro?!» aggiunse.
L'uomo la scrutò per un attimo con occhi sottili, non faceva parte della sua natura chiedere scusa, ma non voleva che lei andasse via, ancora una volta aveva sbagliato, aveva riversato su di lei la rabbia che provava nei confronti del mondo e verso se stesso.
Erik si schiarì la voce e cercò le parole più adatte per rabbonirla,
«Non ce l'ho con te, come potrei?» mormorò mentre la voce si ingentiliva assumendo il tono soave e carezzevole con il quale lei era abituata a sentirlo parlare. «Conosci la solitudine, bambina mia, ma il destino è stato più generoso con te di quanto lo sia stato con me, un giorno tu potrai prendere la tua strada e mi spaventa, perché ho sempre avuto bisogno di avere uno scopo per mandare avanti la mia vita miserabile, e il mio scopo ora sei tu. Sentirti cantare o anche solo osservarti da lontano mi da la possibilità di accarezzare un sogno, quello che il mondo possa assomigliarti».
Lasciò che la ragazza interpretasse quelle parole come meglio credeva, ci sarebbe stato tempo per farle scoprire il vero senso di ciò che voleva dirle. Dal canto suo Christine lo osservò stupita e scosse il capo,
«Il mondo non deve somigliare a me...» disse con un candore quasi infantile.
«Oh, invece dovrebbe perché così com'è... così com'è, a te posso dirlo, mi fa paura».
La giovane si sentì stringere il cuore in una morsa: un uomo che sopravviveva grazie al timore che riusciva a incutere le stava confessando di temere il mondo, quale triste destino era toccato a Erik?
«Cosa posso fare per voi?» gli domandò semplicemente.
«Tanto per cominciare, non compatirmi» rispose fissandola negli occhi, fece un passo avanti e le prese una mano tra se le sue, per poi baciarla con delicatezza e trattenerla per qualche secondo tra le dita. «E soprattutto ricorda, che da questo momento, in nessun caso, dovrai avere paura di me».
Christine annuì vagamente con aria ammaliata, se avesse saputo da dove proveniva la magia con cui Erik riusciva sempre a incantarla forse avrebbe tentato di sottrarsi a quel sortilegio, ma era così piacevole scoprire di aver affidato una parte della sua anima a quell'uomo, anche se lui sembrava sospeso su un baratro a picco sull'inferno.
La prese delicatamente per il braccio trascinandola verso di sé, poi fece scattare nuovamente la molla del meccanismo che muoveva lo specchio e il passaggio si chiuse alle loro spalle senza nemmeno uno scricchiolio.  Prese la fiaccola che aveva poggiato in un anello di ferro fissato nel muro,
«Vieni, andiamo» disse richiamando Christine con un cenno della mano, la ragazza si mosse verso di lui e insieme si incamminarono verso i sotterranei.
Erik camminava davanti a passo svelto, alle sue spalle sentiva il fruscio della gonna di Christine che lo seguiva. Nessuno dei due parlava, lei per l'imbarazzo, lui per lo sciocco timore che quella situazione potesse rivelarsi solo un sogno. Come nel mito di Orfeo ed Euridice, temeva che se si fosse voltato a guardarla lei sarebbe sparita.
Raggiunsero in silenzio la Dimora sul Lago, Erik aiutò Christine a scendere dalla barca che li aveva portati fino alla riva della grotta. La giovane osservò quel luogo insolito come se lo vedesse per la prima volta, lui l'aveva già portata nella sua casa, ma quella notte lei era troppo scossa da tutto quello che era successo e troppo ammaliata dal suo canto per prestare attenzione a ciò che aveva attorno. Questa volta si concesse di lanciare una lenta occhiata alla grotta per osservarne i particolari, sulla sinistra notò lo scrittoio ingombro di incarti e oggetti, le pareti coperte da fogli con schizzi di scenografie e di costumi, gli scaffali pieni di libri. Tutto disposto in un pittoresco disordine che dava idea di una brulicante e continua energia vitale che si esprimeva al meglio nell'arte più raffinata.
Erik notò lo sguardo incuriosito della ragazza e sorrise, quasi grato che lei mostrasse interesse per il suo mondo.
Sollevare il capo e guardare quell'uomo negli occhi le parve uno sforzo madornale, ma Christine si costrinse a ricambiare lo sguardo di Erik, ogni volta che succedeva aveva la sensazione che ci fosse una realtà devastante celata nell'esistenza stessa del suo maestro, una marea che avrebbe potuto travolgere anche lei se non fosse stata attenta.
«Vorrei solo che mi permetteste di conoscervi» gli disse. «Forse è sciocco, ma io credevo che foste davvero un Angelo, o quanto meno non credevo che foste... questo».
Erik chinò il capo di lato e la ragazza sentì i suoi occhi che la scrutavano dalla testa ai piedi, come se quello sguardo tormentato avesse dita o persino artigli pronti a spogliarla di ogni certezza e di ogni ragione. Lui avvertì la soddisfazione increspargli le labbra in un accenno di sorriso, ma un attimo dopo tornò serio notando la ritrosia della ragazza ad esprimersi liberamente.
«Capisco, devi ancora prendere atto della delusione» commentò l'uomo in tono inespressivo.
«Non vi sto dicendo che sono delusa» rispose lei.
«Diciamoci la verità, se fossi stato una presenza eterea sarebbe stato più facile liberarti di me»
«Non ricominciate! State fraintendendo» .
Christine sospirò quasi sconcertata da quanto quell'uomo fosse suscettibile e di quanto il suo umore potesse mutare per una parola sbagliata, non le piaceva quell'atteggiamento di difesa che lui stava adottando. Gli rivolse un timido sorriso per cercare di stemperare la tensione,
«Sto solo cercando di dirvi che non mi dispiace sapere di poter contare su di voi, anche se non avrei mai immaginato di avere un amico così singolare» concluse.
Erik le lanciò una rapida occhiata per poi spostare lo sguardo oltre la sua spalla, si rimproverò di essere stato così aggressivo con lei ma era confuso, in parte dall'emozione di poterle finalmente parlare come un uomo, in parte dal fatto che non gli capitava praticamente mai di interagire con altre persone, a parte Eloise. Non voleva rischiare di sbagliare e sprecare quella preziosa occasione rendendosi insopportabile e l'inizio non era stato dei migliori,
«Bene!» asserì ricambiando il sorriso. «Sono contento che tu abbia capito che in me hai trovato un amico leale».
Christine si sentì un po' più a suo agio e cercò un argomento di conversazione per non cadere in un silenzio che sarebbe stato certamente imbarazzante,
«Non siete preoccupato per le sorti del teatro? La signora Giudicelli non tornerà a cantare per molto tempo» disse.
«Il fatto che Carlotta ci privi della sua voce da gallina condotta al macello mi sembra una benedizione, non una preoccupazione»
«Non siate così cattivo»
«Non sono cattivo, sono realista. Non puoi negare che quella donna abbia una voce orribile».
Christine arricciò il naso, non era abituata a sentire qualcuno parlare in modo così diretto,
«È una voce sicuramente particolare, molto potente» azzardò in tono diplomatico.
«Si dice stridula» la corresse Erik pronunciando lentamente l'ultima parola, come per essere sicuro che la ragazza la comprendesse.
«E va bene, avete ragione! Ma se è diventata la primadonna del più importante teatro di Parigi ci sarà un motivo, e ora sarà difficile senza di lei».
L'uomo roteò gli occhi con finta aria di sopportazione
«Preferisco non conoscere il modo in cui Carlotta abbia ottenuto quel posto nel mio teatro, ho il timore che sia ripugnante, non voglio nemmeno sapere quale influente personaggio si sia lasciato sedurre da quella specie di rospo in cambio del suo ruolo di primadonna» commentò Erik sarcastico. «Sul fatto che sarà difficile senza di lei, devo darti torto, mia cara, noi adesso abbiamo te».
Christine scosse il capo con aria turbata,
«Ah no, non pensateci neanche!» esclamò contrariata. «Io non sono ancora pronta, e nessuno può saperlo meglio di voi che siete il mio maestro. Ho ancora molto da imparare»
«È vero, allora sarà il caso di non perdere altro tempo prezioso visto che ti ritroverai su quel palcoscenico prima di quanto pensi» concluse Erik voltandosi e avviandosi verso il suo organo.
«Io non voglio, assolutamente non posso accettare che voi mi facciate diventare la nuova primadonna a suon di minacce» protestò la ragazza.
L'uomo parve ignorare quel commento, si sedette sullo sgabello davanti alla tastiera, facendo cadere dietro di sé la coda del suo frac in modo da non sgualcirla rischiando di sedervisi sopra,
«Vieni qui, Christine» disse.
«Avete sentito cosa ho detto?» borbottò lei.
Erik sospirò alzando gli occhi al cielo e imponendosi di non perdere la pazienza,
«Mia piccola musa, non ci sarà bisogno di minacciare proprio nessuno» commentò asciutto, «Carlotta  si è ritirata da qualche parte per farsi passare il mal di gola e smaltire la vergogna e l'umiliazione, quei due stupidi dei direttori sanno che sai cantare, ti sceglieranno come sostituta senza nemmeno pensarci due volte e senza bisogno che io li solleciti»
«Non dovreste parlare in modo così sprezzante delle altre persone» protestò timidamente Christine.
«Preferirei cantare invece di parlare, se vuoi essere così gentile da avvicinarti»
«Volete darmi una lezione di canto?»
«È quello che faccio da dieci anni a questa parte, perché ti stupisci tanto?».
La ragazza sbatté le palpebre, non credeva che Erik avrebbe approfittato del loro incontro per cantare, ma poi si rese conto che quella visita era solo l'inizio di un rapporto più stretto tra lei e quell'uomo. Salì la piccola scalinata di pietra che portava al rialzo dove era sistemato l'organo e rimase in piedi accanto al suo Maestro.
«Hai una voce angelica Christine, lo sai bene, e in quanto al canto io non ho più molto da insegnarti» esordì Erik sfogliando le partiture che erano poggiate sul leggio. «Devi solo tenerti in esercizio, ma c'è un'altra capacità che dobbiamo affinare: la recitazione»
«State dicendo che sono poco espressiva?» domandò la giovane corrugando appena le sopracciglia.
«No, lo sei abbastanza, ma non basta, così come non basta una bella voce se essa non trasmette niente. Potresti eseguire un'aria della Traviata cantando alla perfezione tutte le note, ma il pubblico non piangerà se la tua voce sarà solo un bel suono privo di sentimento, se non lascerai che le persone sentano tutta l'afflizione di Violetta».
Christine annuì, aveva capito perfettamente cosa voleva dire Erik,
«E voi potreste insegnarmi?» domandò.
«Stavolta quello che posso fare io è molto poco, posso indicarti quali emozioni devi trasmettere nell'eseguire un determinato brano, ma il modo di renderle reali lo devi trovare tu» rispose lui.
«Ma la recitazione è finzione...»
«Infatti, un'emozione espressa è reale solo se la si prova veramente, ed è questo ciò che devi imparare, riuscire a trovare dentro di te l'emozione giusta in modo da poterla mostrare al pubblico mentre canti, e il modo di farlo lo puoi scoprire solo tu».
Christine sorrise accorgendosi che avrebbe potuto ascoltare quell'uomo parlare per ore e ore, la sua voce era un vero e proprio miracolo anche quando non cantava, il suo tono cambiava con sfumature diverse a seconda di ciò che provava, riuscendo a trasmettere in maniera tangibile la più angosciante freddezza o la più mite gentilezza.
«Temo che sarà difficile» mormorò la ragazza.
«Un buon motivo per cominciare da subito» la incitò Erik mostrandole una partitura del duetto tra Radames e Aida, tratto dalla scena finale della monumentale opera di Giuseppe Verdi «Conosci questo duetto?»
«Certo»
«Bene, cosa succede in questa scena?»
«Radames scopre Aida morente, e lei è afflitta, la spiazza più l'idea di abbandonare il suo amore che la paura di morire».
Erik dondolò il capo,
«Solo chi prova una grande passione può pensare che abbandonare l'uomo che si ama sia una pena tanto grande da superare anche la paura della morte» concluse. «Voglio vedere tutta la tua appassionata disperazione»
«Credo che come inizio sia troppo difficile» protestò debolmente la ragazza.
L'uomo si voltò verso di lei e la fulminò con lo sguardo, non gli piaceva essere contraddetto,
«Cosa è difficile? Mostrare l'amore?»
«È un sentimento che non conosco...»
«È ora che cominci a immaginare come potrebbe essere».
Erik non aggiunse altro, si voltò verso il suo organo, chiuse gli occhi e cominciò a suonare. Christine aveva sentito quel brano eseguito dal pianista dell'orchestra del teatro, era un musicista molto valido, ma quella musica suonata da Erik era ancora più meravigliosa, aveva un suono più fluido, liscio e perfetto come un cielo sgombro da nuvole.

Morir! sì pura e bella!
Morir per me d'amore...

degli anni tuoi nel fiore

fuggir la vita!

T'avea il cielo per l'amor creata,

ed io t'uccido per averti amata!

No, non morrai!

Troppo t'amai!

Troppo sei bella!


Erik cominciò a cantare e Christine temette persino di respirare per paura di rompere quell'incanto, la voce dell'uomo le entrava dentro sgombrandole la mente da ogni pensiero, creando nella sua anima uno spazio di oblio nel quale non poteva esistere altro che quel canto e il più languido senso di abbandono.
Senza smettere di cantare, lui le rivolse uno sguardo per assicurarsi che stesse attenta, con un cenno del capo le indicò quando attaccare, e Christine cominciò a cantare.

Vedi?... di morte l'angelo
radiante a noi s'appressa...
ne adduce eterni gaudii
sovra i suoi vanni d'or.
Già veggo il ciel dischiudersi...
ivi ogni affanno cessa...
ivi comincia l'estasi
d'un immortale amor.

La voce della fanciulla risultò amplificata nello spazio ampio della grotta, ogni nota che emetteva risuonava cristallina e perfetta. Lei scrutava il volto di Erik, era la prima volta che poteva osservare il suo maestro mentre cantava per lei, e sperava di poter scorgere nella sua espressione qualche cenno di approvazione.

«Basta così per oggi» disse Erik dopo aver riprovato quello stesso duetto diverse volte. «Direi che non ci siamo».
Christine corrugò la fronte con aria risentita,
«Ho stonato?» domandò
«Niente affatto, sei stata perfetta nel canto, mi riferisco all'espressività, manca ancora molto per poter parlare di un buon livello» rispose Erik severo.
La ragazza sospirò
«Ma sono certo che con un po' di esercizio imparerai presto» le concesse lui per risollevarle il morale. «Hai talento e le tue doti verranno fuori». Poi si alzò dallo sgabello e si fermò a osservare la ragazza.
«Se lo dite voi, mi fido» rispose lei, calcando volutamente l'ultima parola.
«A proposito di fiducia, voglio mostrarti una cosa, bambina mia» aggiunse l'uomo prendendola per mano e conducendola dinnanzi a uno degli specchi che erano poggiati sulla parete accanto allo scrittorio, la superficie riflettente era celata da un drappo di velluto che Erik non rimosse, si limitò a infilare la mano sotto la stoffa cercando con le dita il tasto che faceva scattare il meccanismo di apertura. Lo specchio ruotò su se stesso, come succedeva a quello del camerino, e rivelò un altro cunicolo di pietra più stretto di quello che conduceva ai sotterranei.
«Questa è l'unica via che mette in comunicazione la mia casa con l'esterno del teatro,» spiegò,  «conduce a una piccola uscita che da su Rue Scribe, la strada che costeggia l'Opera, è l'unica via libera da tranelli e pericoli»
«Perché me la state mostrando?» domandò Christine.
«Perché voglio che tu sappia come arrivare da me se ce ne fosse bisogno».
L'uomo guardò la fanciulla negli occhi per un attimo poi prese una lampada ad olio che era poggiata su una mensola e si addentrò nello stretto cunicolo,
«È meglio che tu mi dia la mano, il percorso è scivoloso, ci sono gradini in cui si potrebbe inciampare se non si conosce la strada» le disse in tono neutro, avvolgendo delicatamente le dita di Christine con le proprie e avvertendo un sensazione di calore e tenerezza quando lei ricambiò la stretta.
Mentre camminavano nell'angusto corridoio Erik spiegò a Christine che quel cunicolo spuntava in una ristretta ala del teatro che era stata murata durante i lavori di restauro, per questo non c'era pericolo che qualcuno lo scoprisse, nel piccolo stanzino  a cui si giungeva c'era una finestra bassa che affacciava sulla strada.
«Sai è buffo,» disse Erik rallentando in prossimità di uno scalino scivoloso, «è la finestra da cui sono entrato in teatro la prima volta, tanti anni fa»
«Siete entrato da una finestra?» domandò la ragazza perplessa.
«Oh sì, un giorno ti racconterò la mia storia, ma non ora».
Uno squittio acuto fece eco nel corridoio, Erik puntò la lampada verso il pavimento illuminando un topo che camminava nella loro direzione, Christine lanciò un gridolino e si strinse attorno al braccio dell'uomo, mentre la bestiola scappava via spaventata dal rumore e dalla luce. Erik trasalì a quel contatto inaspettato e improvviso, ebbe bisogno di prendere un grosso respiro per calmarsi e resistere all'impulso di prendere la ragazza tra le braccia e baciarla.
«È andato via» le disse per farla staccare da lui. «Non capisco perché la gente abbia paura dei topi, sono talmente tanto più piccoli di noi!»
«Sono sporchi... e sono così brutti» protestò la ragazza.
«Ah già, la gente teme la bruttezza, come se ciò che è guasto fuori debba esserlo necessariamente  anche dentro» mormorò Erik con amarezza.
«No, perdonatemi, non intendevo dire...»
«Non importa, vieni, proseguiamo».
Dopo aver camminato a lungo raggiunsero una piccola stanza con le pareti decorate da vecchi affreschi quasi del tutto irriconoscibili perché sbiaditi o deturpati dall'umidità, sulla destra c'era la finestra di cui parlava Erik, non era difficile da scavalcare e si apriva a livello della strada, i vetri erano spessi e opachi, in modo che da fuori non si riuscisse a vedere dentro.
«Basta controllare che non arrivi nessuno e sgusciare fuori» spiegò l'uomo. « È il sistema che utilizzo io per entrare e uscire dal teatro, di notte generalmente».
Christine ebbe soggezione di chiedergli dove andasse e cosa facesse, forse come molti uomini liberi frequentava delle case di appuntamento o posti del genere, e se così era lei non voleva saperlo.
«Grazie per avermela mostrata» si limitò a dire.
Lui accennò un sorriso,
«Bene, spero che tu ne faccia uso» rispose.
«È un invito?»
«Sarai sempre un ospite gradita per me» concluse lui. «Ora è meglio che tu torni, non voglio che qualcuno si insospettisca se non ti trova».

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Capitolo reinserito il 20\12\2011

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Capitolo 7
*** Il punto di partenza ***



CAPITOLO SESTO
 Il punto di partenza

Christine camminava verso gli alloggi delle ballerine senza nemmeno guardare dove metteva i piedi. Nella sua mente si rincorrevano le immagini di quell'incontro che si era appena concluso, e i suoi pensieri raschiavano il fondo di ogni istante, di ogni sensazione alla ricerca di un motivo per sentirsi in colpa, per pentirsi di quello che era successo, per vergognarsi di ciò che aveva provato.
Cosa era successo? Cosa aveva provato? Era difficile tradurlo in parole. Quel senso di paura e smarrimento era tornato a impadronirsi di lei, mentre si domandava come poteva provare cose simili per quell'uomo che viveva un'esistenza tanto assurda? Come poteva averlo perdonato per il gesto scellerato che aveva compiuto solo pochi giorni prima? Le sembrava di aver smarrito la ragione, quegli occhi e quella voce gliela avevano strappata via, come un vestito smesso e logoro, come se il buon senso fosse solo un'inutile appendice del cuore che ne intralcia il battito. Perché in quel momento in cui si rendeva conto di non essere affatto razionale, Christine poteva sentire il suo cuore accelerare, libero di emozionarsi davanti alla vastità di un mondo nuovo tutto da esplorare.
Erik si era mostrato un uomo molto duro, inizialmente le era parso talmente aggressivo che lei aveva creduto che sarebbe stato inutile tentare di intavolare una conversazione civile con lui, poi però la situazione era migliorata e lui si era mostrato gentile, quasi affettuoso. Aveva un fascino così magnetico da apparire pericoloso, usava parole che avrebbero trascinato in cielo il cuore di ogni donna...
Christine sbuffò, imponendosi di abbandonare quelle fantasticherie, lei era solo una ragazzina e Erik era un uomo, le sue parole erano certo solo un modo di mostrarsi cortese, di lusingarla per farsi perdonare i suoi eccessi di collera.
La giovane si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio pensando che il fatto che lei subisse così pesantemente il fascino del suo maestro fosse dovuto unicamente al prestigio che gli riconosceva. Cercò di convincersene per tranquillizzarsi, per mostrare a se stessa che non era vero che aveva smarrito la ragione, che era ancora la brava fanciulla assennata che era sempre stata. Ma c'era qualcosa di così prepotentemente bello in lui, qualcosa che andava al di là della sua voce, dei suoi modi ammalianti, o del suo aspetto elegante e curato, qualcosa che avrebbe reso insignificante anche ciò che era celato da quella maschera: era il modo in cui lui la guardava, quell'espressione un po' infantile che lei gli aveva visto osservandolo senza che lui se ne accorgesse, quando la fissava intensamente con quell'aria da fanciullo sorpreso e la bocca leggermente dischiusa a metà tra un sorriso e un moto di stupore.
«Oddio, sto proprio impazzendo...» si disse Christine avvertendo una strana sensazione di leggerezza per poi scontrarsi un attimo dopo con la fredda realtà del pavimento di marmo.
Senza nemmeno sapere come la ragazza si ritrovò riversa a terra, vide una sagoma in piedi davanti a lei e le ci volle qualche secondo per riprendersi.
«Oh mademoiselle Daae, mi dispiace!» disse una voce mortificata.
Christine sentì una mano posarsi gentilmente sul sua braccio per aiutarla a rialzarsi
«No, è colpa mia, ero distratta» rispose in tono di scusa fissando la persona con cui si era scontrata: un giovane uomo dall'aria piuttosto attraente che la osservava come se temesse di trovarle addosso qualche terribile lesione.
«Non mi sono fatta niente» aggiunse lei con un sorriso gentile.
«Meno male» rispose lui ricambiando cordialmente il sorriso.
«Ma, ci conosciamo monsieur? Avete un'aria familiare»
«Ci saremo incontrati da qualche parte in teatro. Mi chiamo Alexandre Dubois, abbiamo un amico in comune, il visconte de Chagny».
Christine tentò di reprimere un moto di sorpresa, certamente doveva averlo già visto in teatro, ma era dunque lui il giornalista che indagava sulla vicenda del Fantasma dell'Opera. Sembrava un giovane così a modo con quell'aria pulita da ragazzino, anche se i suoi occhi tradivano un carattere estremamente intelligente.
«Ah siete un amico di Raoul, piacere di conoscervi» gli disse.
«Il piacere è mio, mademoiselle» concluse lui con un accenno di inchino. «Ora, mi rincresce, ma avrei un appuntamento, anche se confesso che preferirei tardare».
La ragazza sorrise imbarazzata a quella sottile galanteria e si scostò per far passare Alexandre,
«Buona giornata, monsieur» gli disse.
«Altrettanto» concluse lui allontanandosi.
Dopo alcuni passi Alexandre si voltò a spiare la sagoma della fanciulla che voltava l'angolo del corridoio,
«Ora capisco molte cose» pensò tra sé e sé.

Christine tornò nella sua stanza e si sedette sul letto, prese un libro dal cassetto del comodino e pensò di  distrarsi con la lettura.
In quei giorni non c'erano prove da fare e tutti si chiedevano, con un certa ansia, quando il teatro avrebbe ripreso le sue normali attività, quando i direttori avrebbero deciso di allestire il prossimo spettacolo. Sembravano tutti desiderosi di lasciarsi alle spalle quella terribile parentesi e ricominciare a lavorare, come per sincerarsi che gli avvenimenti di qualche sera prima fossero stati solo una sorta di brutto sogno, un incubo che si sarebbe dileguato non appena l'Opera Populaire fosse tornata a far brillare le proprie luci e ad accogliere il pubblico con i suoi velluti e il suo sfarzo.
La giovane si accorse di aver letto per dieci volte di seguito la prima riga della pagina, incapace di trovare la concentrazione adatta per immergersi nella lettura del suo romanzo.
«Christine!» la voce di Meg arrivò squillante da dietro la porta, accompagnata da una sonora bussata.
«Entra pure» rispose la giovane.
Meg Giry, l'unica figlia di Eloise, entrò e si andò a sedere sul letto accanto a lei. Le due ragazze erano coetanee, cresciute come sorelle fin da quando avevano sette anni. Christine aveva sempre invidiato alla sua amica l'incredibile agilità e la grazia angelica di cui Meg era dotata e che la rendevano una ballerina perfetta, come se fosse venuta al mondo esclusivamente per danzare. Era certo destinata a diventare una grande etoille un giorno, con quel suo volto delicato e quel suo corpo minuto e flessuoso che si adattava con una sorprendente naturalezza a ogni movimento, seguendo il ritmo della musica come se fosse una corda di violino che vibrava in accordo con la nota che produceva.
«Mi annoio terribilmente» borbottò Meg appoggiandosi con i gomiti al davanzale e gettando un'occhiata sulla piazza del teatro che si intravedeva dalla finestra rotonda accanto al letto.
«Anche io...» mentì Christine con aria assente.
«Eh, vorrei avere anche io qualche appuntamento segreto a cui recarmi» commentò la ballerina con un sorrisetto malizioso.
Christine sussultò guardandola sgomenta,
«C... come dici?» chiese con un filo di voce.
«Parlo di Josphine» rispose Meg indicando una piccola figura ammantata di velluto verde che si muoveva rapida verso il margine della piazza.
Josphine Villette, figlia di un noto sarto di Parigi, era la più giovane ballerina del collegio, uno scricciolo di quindici anni, dalla bellezza acerba e lo sguardo innocente.
«Ma dove va?» chiese Christine riconoscendo la sua compagna, sollevata dal fatto che il commento di Meg non fosse rivolto a lei.
La ragazza bionda ridacchiò
«Non lo sai?» disse. «Josephine si è fidanzata di nascosto con il garzone del liutaio che si occupa degli strumenti dell'orchestra, quel ragazzo biondo che viene spesso in teatro con il suo padrone. Lei approfitta di ogni momento libero per uscire e incontrarsi con lui».
L'altra fanciulla annuì fingendosi interessata, anche se non le era mai importato molto dei pettegolezzi che riguardavano le sue compagne. Quell'ambiente era pieno di chiacchiere malevole sulle relazioni delle ballerine più grandi con ricchi signori del pubblico o sui molesti corteggiamenti che a volte le ragazze del collegio subivano dai macchinisti, dagli orchestrali o da altri uomini che lavoravano nel teatro, e Christine era dell'idea che ognuno avesse diritto ai proprio segreti, anche a intrattenere rapporti sentimentali poco consoni alla morale, se questo derivava da una libera scelta. Per ciò che la riguardava, si era sempre detta che i sani principi con cui l'avevano educata l'avrebbero tenuta lontana da quel genere di situazioni incresciose che davano adito a fastidiose dicerie. Era convinta che una donna potesse amare un solo uomo, che questi sarebbe stato la persona alla quale si sarebbe dovuta legare e con il quale avrebbe dovuto dividere la propria esistenza, con serenità e rispetto reciproco. E pensava che fosse giusto che un amore sano e completo conducesse al matrimonio, requisito indispensabile per vivere pienamente l'unione con il proprio compagno.    

*

Raoul si portò una mano alla bocca per nascondere l'ennesimo sbadiglio che non era riuscito a trattenere. Sembrava davvero essere la persona meno interessata a tutta quella faccenda.
Balise Bertrand era seduto dietro la scrivania nell'ufficio dei direttori e leggeva con aria attenta le missive che il Fantasma dell'Opera aveva inviato ai due impresari. Alexandre sedeva di fronte a lui e lo scrutava con uno sguardo indagatore, mentre Andrè e Firmin erano poggiati con le spalle al muro e attendevano in silenzio e con il fiato sospeso il responso dell'investigatore, come se dalla lettura di quelle missive egli potesse trovare la soluzione a tutti i loro problemi.
Bertrand lasciò cadere i fogli sul piano della scrivania e li fece scivolare verso il giornalista,
«Date un'occhiata Alexandre e ditemi cosa ne pensate» gli disse.
Il ragazzo lesse attentamente le lettere e guardò l'uomo che gli stava davanti che lo scrutava come se fosse uno scolaro da valutare,
«È sicuramente una persona colta, qualcuno che è abituato a scrivere» concluse. «Non ci sono errori ortografici, la calligrafia è fluida»
«Aggiungerei che la carta è di ottima qualità, se ne deduce che è qualcuno che proviene da una condizione agiata».
Andrè sospirò con la sua consueta espressione da malato grave,
«E io che credevo che avessimo a che fare con uno zotico che voleva solo spillarci del denaro» borbottò.
«Oh no, signori, abbiamo a che fare con qualcuno che sa il fatto suo» disse Bertrand.
«Da come si muove sembra quasi che questo Fantasma viva nel teatro» aggiunse Alexandre.
«Vivere nel teatro? Suvvia, è una sciocchezza!» esclamò Raoul.
«Beh, se non ci vive è di sicuro qualcuno che lo conosce molto bene» osservò l'investigatore.
«Un macchinista, uno scenografo» suggerì Firmin.
«Potrebbe essere, ma un manovale non scrive lettere così accurate, alcuni sono persino analfabeti» osservò il giornalista.
I cinque uomini restarono in silenzio per qualche secondo, ognuno di loro perso nelle proprie riflessioni, cercando di trarre qualche conclusione sensata dai pochi indizi che avevano a disposizione.
«Ad ogni modo,» intervenne Raoul, strappando i suoi interlocutori ai loro pensieri, «da qualche parte questa indagine dovrà pur cominciare, signori, prima iniziate prima finiremo»
«Il più, visconte, è capire da dove cominciare, con cosa cominciare» questionò Firmin aggrottando le folte sopracciglia.
Tutti spostarono lo sguardo verso Bertrand come se gli stessero rivolgendo una domanda precisa. L'uomo non rispose, prese un portatabacco di metallo smaltato dalla tasca interna della giacca e ne estrasse un sigaro, tagliò la punta e lo accese con un fiammifero, sollevando piccoli sbuffi di fumo grigio che riempirono l'aria di un odore acre.
«Propongo di iniziare da Christine Daae» disse lapidario dopo le prime boccate.
Raoul ebbe un sussulto, poi guardò Alexandre che annuì nella sua direzione con un impercettibile cenno del capo.
«Perché mai pensate di partire da mademoiselle Daae?» domandò il visconte cercando di mostrarsi disinteressato, ma la sua voce tradì un'agitazione che non sfuggì a Bertrand il quale fece un altro paio di tirate dal suo sigaro e scrutò il giovane con aria perplessa.
«Mi sembra ovvio che il Fantasma abbia mostrato un palese interesse per mademoiselle Daae» disse. «Forse non lo avete notato, visconte?».
Raoul sorrise con una specie di smorfia, infastidito dal tono vagamente canzonatorio che aveva usato Bertrand.
«Cosa pensate di mademoiselle Daae, riguardo a questa storia?» chiese Alexandre, prima che fosse il suo amico a fare quella domanda finendo per esporsi ancora di più.
«Non voglio farmi nessun parere al riguardo se prima non avrò avuto il piacere di parlare con lei. Voi piuttosto, cosa ne dite Alexandre?».
Il giornalista scrollò le spalle sentendosi addosso lo sguardo ansioso del visconte,
«Credo che mademoiselle Daae sia una fanciulla troppo onesta per essere immischiata in questa  losca storia, tuttavia se il Fantasma ha manifestato così tanto interesse per lei e per la sua carriera è giusto indagare» concluse guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Raoul.
«Molto bene. Vedete Alexandre, la mia esperienza professionale mostra che spesso le apparenze ingannano» commentò Bertrand.
«Tuttavia,» aggiunse il ragazzo, «dobbiamo considerare la strana dedizione che il Fantasma ha mostrato verso il prestigio del teatro, non escludo che il suo interesse per Christine Daae sia una questione relativa alle sue capacità artistiche»
«E se la signora Giudicelli avesse ragione?» si intromise Firmin. «Se questo Fantasma fosse davvero uno dei suoi detrattori... se fosse l'amante di Christine Daae?».
A quell'affermazione Raoul sentì una vampata di collera accendergli le guance, strinse i pugni e aprì la bocca per rispondere per le rime a quella subdola insinuazione ma Alexandre lo trattenne con uno sguardo severo.
«Signori miei, non c'è bisogno di volare così in alto con la fantasia» disse il giornalista «Mademoiselle Daae non mi sembra il genere di ragazza da avere frequentazioni così pericolose»
«Come potete pensare che mademoiselle Daae sia in combutta con un assassino?!» esclamò Raoul. «Ammesso che esista un assassino in questo teatro».
Bertrand spense il sigaro in un posacenere di alabastro e tossicchiò,
«Se anche non si trattasse di un assassino si tratta pur sempre di un uomo che scrive lettere minatorie per ottenere che il teatro sia diretto come egli desidera»
«Il nostro teatro!» precisò Andrè incrociando le braccia sul petto con una smorfia infantile.
Raoul sbuffò esasperato.
«D'accordo, quello che il visconte sta forse cercando di dire è che non dovremmo partire prevenuti riguardo a mademoiselle Daae» si intromise Alexandre in tono conciliante. «La vostra esperienza da poliziotto dovrebbe avervi insegnato, Bertrand, che se ci si impunta su un solo elemento si corre il rischio di ignorarne altri che potrebbero essere più significativi»
«Non mi sto impuntando, miei cari signori, qui l'unico che sembra impuntato su mademoiselle Daae è il nostro visconte, se mi è consentito l'ardire» borbottò l'investigatore con una risatina ironica. Ogni volta che sorrideva le labbra diventavano sottili e si atteggiavano in un ghigno che appariva quasi malefico su quel suo volto ossuto.
Raoul si sforzò di sorridere per fingere che quell'affermazione non lo avesse toccato.
«Comunque sia noi abbiamo uno spettacolo da allestire, il teatro non può rimanere chiuso ancora a lungo, c'è il personale da stipendiare e non voglio rischiare di indebitarmi» questionò Firmin con aria seriosa.
«Cosa suggerite di fare se il Fantasma dovesse tornare a farsi sentire?» chiese Andrè guardando l'investigatore che si era alzato dalla sedia per indossare il cappotto.
«Suggerisco di assecondare tutte le sue richieste riguardo alla gestione del teatro, tranne quella di pagargli lo stipendio, lasciarlo senza fondi potrebbe essere un modo per metterlo con le spalle al muro e costringerlo ad esporsi» concluse Bertrand.
«Ottimo, ottimo!» esclamarono quasi in coro i due impresari.
«In quanto a mademoiselle Daae, quanto prima parleremo con lei» aggiunse l'ispettore. «Ma voglio parlare comunque con tutti quelli che lavorano in questo teatro»
«A proposito di Christine Daae, penso che ora che la signora Giudicelli è malata sarà lei la nostra primadonna per il prossimo spettacolo» disse Firmin immaginando già il teatro pieno visto che il pubblico aveva mostrato un alto tasso di gradimento per la giovane soprano.
«Beh, non è male» borbottò Bertrand infilando un paio di guanti di pelle marrone. «Il Fantasma potrebbe farsi vedere durante la sua esibizione».
Gli uomini si stavano salutando quando furono interrotti da una bussata alla porta. Una delle maschere del teatro si affacciò sull'uscio della porta,
«Perdonate l'intrusione» disse in tono reverenziale, «ma c'è qui una domestica di monsieur Dubois, ha detto di dire a monsieur che sua madre sta poco bene e che sarebbe meglio se lui tornasse a casa»
«Stavo giusto per andarmene» disse il ragazzo con espressione allarmata, affrettandosi ad uscire.
Bertrand rincorse il giornalista fino allo scalone di marmo del foyer e lo afferrò per un braccio, il ragazzo si voltò a guardarlo con espressione contrariata,
«Avrei fretta di tornare a casa; come avete avuto modo di sentire, mia madre ha bisogno di me» borbottò liberandosi dalla presa dell'uomo con uno strattone.
«Naturalmente» disse Bertrand in tono mellifluo. «Volevo solo che sapeste che non lascerò che voi mi intralciate»
«Non ho nessuna intenzione di farlo, sono desideroso di venire a capo di questa faccenda almeno quanto voi»
«Sì, ma non vi permetterò di interferire con le mie indagini solo perché una delle fonti più significative è la ragazza di cui è invaghito il vostro amico visconte».
Alexandre fissò il suo interlocutore con aria sprezzante poi gli diede le spalle e si avviò a rapidi passi verso l'uscita.  
Il giornalista salì rapidamente su una carrozza, indicò il suo indirizzo al cocchiere e gli chiese di sbrigarsi. Non era particolarmente preoccupato, sapeva cosa era successo: talvolta a sua madre capitava di avere degli incubi e svegliarsi in preda a un attacco di panico. Non erano crisi particolarmente frequenti, ma erano normali per il tipo di disturbo che affliggeva madame Ginette.
Il ragazzo fu grato al cielo che almeno sua madre fosse stata così coscienziosa da trasferirsi a Parigi piuttosto che rimanere da sola nella loro cittadina di origine.

*

«Maledetto idiota!» ringhiò Erik stringendo i pugni per poi mettersi a picchiettare nervosamente con le dita sul piano del tavolo.
Madame Giry lo osservò in silenzio per qualche minuto, lo aveva trovato nella sua stanza dopo cena e le era parso davvero furioso, lo aveva lasciato sfogare per un po', lasciando che se la prendesse con Raoul De Chagny come se quel giovane fosse la causa di tutti i suoi mali, raccontandole del colloquio che c'era stato nell'ufficio dei direttori e che lui era riuscito a spiare.
La donna si sedette sul bordo del letto e sospirò, sapeva che l'unico vero motivo per cui il Fantasma ce l'avesse con quel giovane era dovuto al fatto che lui avesse corteggiato Christine.
«Non dovresti prendertela con il visconte» azzardò guardandolo negli occhi. Erik le restituì un'occhiataccia e sbuffò.
«Se Bertrand sembra così deciso ad accanirsi su Christine non è stata certo colpa sua, non è stato certo il visconte a parlare continuamente di lei nelle missive ai direttori, sei stato tu, ed è a te che stanno dando la caccia» concluse Eloise in tono pacato ma fermo.
Erik corrugò la fronte con aria adirata e aprì la bocca come per parlare, ma un attimo dopo si rese conto di non aver nulla da controbattere: Eloise aveva ragione. Non avrebbe mai fatto niente a discapito di Christine, eppure era riuscito a metterla nei guai, ma di certo lui non poteva immaginare che i direttori avrebbero avuto l'ardire di mettergli qualcuno alle costole!
Madame Giry si concesse un piccolo ghigno di soddisfazione per poi tornare seria,
«Per quel che riguarda l'investigatore e il giornalista, posso conoscere i tuoi progetti in proposito?» chiese.
«Non ne ho, non ho nessun progetto, te l'ho già detto. Non mi resta che aspettare gli eventi» borbottò l'uomo.
«Oggi Christine si è assentata per quasi tutta la mattinata, e qualcosa mi dice che non era in chiesa a pregare»
«Era con me. Qualcosa in contrario?»
«No, ma nemmeno su di lei hai fatto progetti?»
«Ho sempre avuto un solo progetto riguardo a Christine: farla diventare una stella del canto»
«Mi riferivo a progetti di natura più personale» precisò madame Giry.
«Un giorno mi amerà Eloise, sento che sarà così» rispose Erik distogliendo lo sguardo e fissando il vuoto come se stesse inseguendo con la mente chissà quale idea.
«E se ti sbagliassi?» domandò la donna.
«Non mi sbaglio, non può essere altrimenti!» sentenziò lui in tono deciso.
«Erik, in nome di Dio, ascoltami»
«A Dio non interessa di me, l'ha dimostrato in più di un'occasione mi pare»
«Ascoltami» ripeté madame Giry con un sospiro. «Sai meglio di me quanto Christine sia adorabile, è una ragazza molto dolce e malgrado tutto ti sarai certamente già guadagnato il suo affetto... ma...»
«Ma cosa?» la incitò Erik con aria di sfida.
«Ma l'affetto e l'amore sono due cose differenti, non puoi dare per scontato che lei ti ami perché sei stato il suo maestro, non puoi pensare che lei ti appartenga di diritto perché è il mezzo che usi per far arrivare al pubblico la tua arte. Christine non è un violino!».
Erik fissò la sua interlocutrice con uno sguardo indefinibile ma così penetrante che sembrò trafiggerle l'anima,
«Lei mi appartiene Eloise, e se avessi torto su una cosa così indiscutibile significherebbe che sono pazzo, e allora si che ci sarebbe da avere paura» concluse in tono grave.

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Amy, è sempre un piacere leggere i tuoi commenti. Bhe in realtà Alexandre è il buono buonista e anche con una certa propensione al martirio (poi capirete perchè), ma si, i suoi segreti e i suoi scheletri nell'armadio ce li ha. In compenso Bertrand non è "brutto", cioè volevo dare l'idea di qualcuno che sembrasse sgradevole per il modo di porsi più che per l'aspetto (per inciso, Bertrand lo immagino somigliante a  Dofoe nel primo Spiderman)

 Miss Lovvet grazie per la recensione e per i complimenti... e per aver avuto la pazienza di leggere anche l'altra fanfiction. Si, il rifiuto di Christine a Raoul è stata una cosa divertentissima da scrivere *me mette su un ghigno sadico*

 Ci si legge lunedì.
I remain, gentlemen, your obedient servant

Capitolo reinserito il 20\12\2011

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Capitolo 8
*** La nuova primadonna ***


Chiedo scusa per il terribile ritardo nel postare ma sono stata fuori città er un pò a causa di un lutto in famiglia.
 Se non ci saranno altri intoppi, e spero proprio di no, prometto che tornerò a postare regolarmente ogni lunedì.
 Ma veniamo a noi...

 Grazie a chi ha letto e a chi ha recensito.
 @ theanglesee69: mi permetto di gongolare un pò per i tuoi commenti incoraggianti. Mi fa piacere che il mio Erik "funzioni", se amate il Fantasma dell'Opera sapete bene quanto me che è un personaggio impossibile XD e Christine bhe, il senso di questa storia è in parte proprio il descrivere come l'amore trasformi una ragazzina in una donna. Spero che anche il prosieguo sia di tuo gradimento.

 @Amy: comincio con il puntualizzare che i adoro i tuoi commenti "prolissi" e che Carlotta c'è! C'è sempre nelle mie storie e prima o poi spunta fuori in un modo o nell'altro, promesso. Anche a me piace Erik che suona l'organo, ma visto che nel film non gli hanno fatto suonare il violino e nel libro invece si ogni tanto butto il violino di mezzo per parconditio XD Contenta che ti piaccia "Berty" (lo chiamo cosìnell'intimità perchè, confesso il mio narcisismo, piace anche a me). Alex andrà parecchio... appesantito da un pò di zucchero qua e là ma mai pesante come una torta paradiso, al massimo come una pasta sfoglia (io lo avevo immaginato come Alex O'Loughlin, se hai visto il telefilm Moonlight.... ma ad ognuno la propria fantasia e la propria immaginazione, quindi se vuoi Cillian Murphy che Cillian Murphy sia!). Perdona la metafora pasticcera... sarà che è ora di cena.

 Well, buona lettura.
I remain, gentlemen, your obedient servant

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CAPITOLO SETTIMO

La nuova primadonna

Erano trascorsi due giorni di calma piatta, dopodiché i direttori dell'Opera avevano deciso di convocare il balletto e la compagnia teatrale per cominciare le prove del nuovo spettacolo che intendevano allestire.
Alle tre del pomeriggio tutti gli artisti del teatro erano sul palco pronti a ricevere le direttive di Andrè e Firmin. I due impresari si presentarono vestiti di tutto punto, accompagnati dal visconte De Chagny, da Alexandre Dubois e da monsieur Bertrand. Le ballerine, sistemate in fila accanto al fondale di scena, osservavano il giovane giornalista con aria interessata e civettuola, ma se lo sguardo di una di loro incrociava per sbaglio  quello di Bertrand, esse volgevano il viso altrove con aria infastidita.
«Dunque è quello l'investigatore che indagherà sul Fantasma dell'Opera» mormorò Meg a Christine.
La giovane si sporse leggermente per osservare l'uomo sconosciuto e notò che lui la stava guardando fissa da alcuni secondi. Con aria imbarazzata si nascose dietro la sua compagna, come per sottrarsi allo sguardo indagatore e freddo di Bertrand.
«Oh, c'è anche Raoul, chissà se ha ancora il cuore spezzato dal tuo rifiuto» aggiunse Meg in tono canzonatorio.
«Ah, ti prego, smettila» squittì Christine arrossendo.
«Fate silenzio voi due!» le rimproverò madame Giry mentre Firmin si schiariva la voce per prendere parola.
«Dunque, come sapete il nostro teatro è stato funestato da un terribile incidente» esordì il direttore sondando con lo sguardo tutti i presenti per accertarsi che fossero convinti delle sue parole. «Temo purtroppo che l'accaduto si sia rivelato una pessima pubblicità per l'Opera Populaire, è per questo che abbiamo deciso di allestire un nuovo spettacolo per ridare prestigio all'unico vero tempio della musica di Parigi!».
Questo discorso strappò un discreto applauso ai presenti e Andrè si fece avanti, affiancandosi al suo socio per prendere parola,
«La stagione teatrale deve continuare» disse, «dunque abbiamo deciso di allestire il prossimo spettacolo che avevamo in programma. Si tratta dell'Otello del maestro Giuseppe Verdi. Oggi stesso la nostra sartoria comincerà a lavorare ai costumi e domani cominceremo le prove con i cantanti e con l'orchestra. Lo spettacolo andrà in scena nella settimana tra Natale e Capodanno, prima del consueto ballo per i festeggiamenti dell'anno nuovo, pensavamo che due eventi così vicini potrebbero riportare in auge il prestigio del teatro».
Un leggero mormorio si levò dai presenti, tutti si chiedevano come avrebbero allestito un'opera lirica ora che la primadonna era assente, ma per tutti quelli che lavoravano all'Opera appariva evidente la necessità di mettere in scena un nuovo spettacolo.
«Per la parte di Otello ci affideremo al nostro signor Piangi» annunciò Firmin. Il corpulento tenore fece qualche passo avanti, inchinandosi goffamente nel ricevere un applauso di rito,
«Per quel che riguarda Desdemona, vista la assenza della signora Giudicelli alla quale auguriamo una pronta guarigione, avevamo pensato di affidare il ruolo della protagonista a mademoiselle Daae» aggiunse Andrè con un sorriso gioviale.
Christine ebbe un sussulto quando le sue compagne l'applaudirono con entusiasmo e Meg l'abbracciò. La ragazza sorrise timidamente in direzione dei due impresari, poi arrossì per l'imbarazzo e preferì restare dov'era, senza farsi avanti per ricevere congratulazioni e altri applausi.
Istintivamente si voltò a guardare dietro di lei, come se sentisse addosso lo sguardo fiero di due occhi che la spiavano celati da qualche parte dietro le quinte: di certo Erik era lì e aveva sentito tutto. Era accaduto esattamente ciò che lui aveva previsto, ma l'idea che tutti, compreso il suo maestro, ora si aspettassero grandi cose da lei, fece provare alla ragazza una spiacevole sensazione di disagio e ancora una volta Christine pensò di non essere all'altezza della situazione e che le aspettative che tutti sembravano aver riposto in lei avrebbero potuto essere disattese.
I direttori elencarono i nomi degli altri artisti che avrebbero preso parte alla rappresentazione, poi li pregarono di raggiungere la sartoria del teatro dove i costumisti li attendevano per mettersi a lavoro.
«Congratulazioni, Christine!» esclamò Raoul avvicinandosi alla giovane e posandole una mano sulla spalla.
La fanciulla lo scrutò perplessa, cercando nello sguardo del suo amico un segno di risentimento o di delusione, ma trovò che Raoul fosse assolutamente calmo, le si era rivolto con la consueta tenera cortesia e lei, in cuor suo, gli fu grata per aver mantenuto un atteggiamento amichevole nei suoi riguardi, anche dopo che il loro ultimo incontro si era concluso in maniera non proprio felice.
«Grazie...» rispose lei con un sorriso «Ma non cantiamo vittoria troppo presto, è un compito molto gravoso quello che mi è stato appena affidato e io non vorrei deludere né i miei impresari né il pubblico, e meno che mai il nostro mecenate»
«Non dire sciocchezze, sono certo che sarai meravigliosa»
«Sei troppo buono con me Raoul»

È che ti amo!...

«È che ti amo!» così avrebbe voluto risponderle, ma si trattenne. Si limitò a guardarsi intorno con aria circospetta e la scrutò seriamente.
«Christine, tu sai che ci sono due uomini che stanno indagando sulla vicenda del Fantasma dell'Opera» le disse in tono grave.
La giovane tentò di reprimere un fremito di agitazione,
«Sì, l'ho saputo»
«Ebbene, sono decisi a interrogarti, pensano che tu possa avere a che fare con questa storia»
«Ma cosa?...»
«Oh tranquilla, io lo so, lo so che non c'entri niente, anzi sono convintissimo che faranno un buco nell'acqua» concluse il visconte. «Ma volevo avvisarti di stare attenta a quel Bertrand, è un uomo che non mi piace».
Christine osservò il suo interlocutore con aria confusa, poi annuì vagamente,
«Sono certa che non troveranno nulla...» rispose sbrigativa. «Ora scusami, ma devo raggiungere la sartoria».
La ragazza si congedò, Raoul restò a fissarla mentre si allontanava.

La sartoria del teatro dell'Opera era un vasto laboratorio situato nel primo livello del sottopalco, illuminato da ampie finestre che si aprivano a livello della strada. Vi lavoravano decine e decine di donne, sotto la direzione di un ottimo stilista di origine italiana, il signor Piero Mosetti.
Gli attori passarono tutto il pomeriggio tra metri e pezzi di stoffa tenuti insieme da spilli e punti  di sutura grossolani, mentre le sarte prendevano loro le misure sotto l'occhio vigile del costumista che pensava già ai modelli da realizzare.
Mosetti sollevò il volto di Christine tra l'indice e il pollice e la osservò con attenzione,
«Cielo, mademoiselle Daae, non potrò utilizzare quel meraviglioso raso verde smeraldo per il vostro costume! È un colore che non vi si addice nemmeno un po'!» esclamò l'uomo come se fosse una tragedia impossibile da rimediare.
Christine lo guardò mortificata,
«Scusate, signor Mosetti, mi rincresce...» farfugliò come se fosse colpa sua il fatto che il suo colorito non si adattasse a quel tipo di stoffa.
«Dunque, dunque... forse se utilizzassimo una parrucca bionda per coprire questi capelli castani potrebbe andar bene»
«Ah, non dite blasfemie signor Mosetti!» intervenne l'anziana sarta che stava misurando il giro vita alla fanciulla. «I capelli di mademoiselle sono perfetti! Troveremo un altro colore di tessuto che le si addica!»
«Uh, madame, il troppo lavoro vi fa male, vi rende isterica» borbottò Mosetti in tono enfatico allontanandosi con aria offesa.
Christine lo osservò incredula,
«Non fate caso a lui, mademoiselle, ogni volta che ci sono i nuovi costumi da preparare sembra che debba venire la fine del mondo» commentò la sarta osservando un campionario di stoffe.
«Capisco» commentò la ragazza con un'alzata di spalle.
«Certo voi siete molto più gentile e accomodante della signora Giudicelli. In confronto a lei siete un angelo».
La donna rivolse a Christine un sorriso compiaciuto, ma lei si ritrovò a mordersi le labbra per un complimento che non sentiva di meritare.
Mademoiselle Daae attese che la sarta terminasse di prendere le misure e lasciò che Mosetti le esponesse una filippica sull'assoluta necessità di realizzare il suo costume con una seta color giallo oro che secondo lui si sposava perfettamente con il colore dei suoi capelli. Tutto quel trambusto le stava facendo venire il mal di testa, insieme all'euforia per aver ottenuto un ruolo importante e alla preoccupazione per le parole di Raoul.
Pensò che in quel momento avrebbe solo voluto starsene da sola, nella sua camera, al buio... ad ascoltare l'Angelo della Musica che cantava per lei.

*

«Avete visto, amico mio?» borbottò Bertrand giocherellando con il sigaro spento che aveva tra le dita. «Che conclusioni traete da quanto abbiamo sentito oggi?»
Alexandre corrugò leggermente la fronte e ghignò. Pensò che quell'uomo non gli sarebbe mai andato a genio ma apprezzava che gli rivolgesse quelle domande e ascoltasse le sue osservazioni, anche se lo faceva con un'aria di superiorità ai limiti della buona educazione.
Avevano passato il pomeriggio a parlare con i macchinisti. Bertrand aveva rivolto loro molte domande riguardo al Fantasma dell'Opera, lanciando occhiate oblique ad Alexandre che annotava di tanto in tanto alcune cose sul suo taccuino.
Il giornalista sfogliò le pagine dove aveva scritto le sue note e scosse il capo,
«Credo che, chiunque sia il nostro Fantasma, abbia avuto l'intelligenza di capire che si possono ottenere grandi cose incutendo paura» concluse. «Gli operai con cui abbiamo parlato oggi ci hanno raccontato gli episodi più strani, hanno esposto le teorie più assurde. Ma è evidente che sono spaventati».
Bertrand scrollò le spalle,
«Dovete partire dal presupposto che i macchinisti del teatro sono uomini di scarsa cultura, quindi inclini alla superstizione e a lasciarsi spaventare da ciò che non conoscono» commentò.
«E non dimentichiamo che uno di loro ci ha rimesso l'osso del collo, evidentemente per aver osato troppo»
«Sapevo che avremmo ottenuto molto poco parlando con i manovali del teatro, ma non voglio escludere nessuna pista, se vogliamo catturare quell'uomo dobbiamo conoscere ogni angolo più remoto del mondo in cui si muove. Ma le nostre conoscenze devono essere esatte».
Alexandre si massaggiò la nuca,
«Certo. Le leggende hanno sempre un fondo di verità e credo che riflettendo su quello che ci hanno detto i macchinisti potremmo trovare qualcosa di interessante» disse.
«Le leggende devono essere interpretate, amico mio» convenne l'investigatore.
«Siete scettico?»
«No, più che altro temo di farmi distrarre, attribuendo significati sbagliati a quanto abbiamo udito oggi. Ad esempio, quella storia di quell'uomo, Maxime...».
Il ragazzo sfogliò il taccuino e lesse l'appunto relativo al vecchio manovale menzionato dal suo interlocutore,
«Ah, quello che ha detto di aver scorto una volta il Fantasma di profilo e da lontano, ha detto che aveva la pelle completamente bianca come quella di un cadavere e che era alto certamente più di due metri»
«Pelle bianca...» mormorò Bertrand con aria pensierosa.
«Cerone da teatro» suggerì Alexandre. «Ammesso che l'osservazione di Maxime sia vera, la pelle bianca può essere dovuta a un trucco»
«Cerone, o una maschera»
«Una maschera, dite? Direi che abbiamo a che fare con un tipo singolare» concluse.
«No, semplicemente con qualcuno che non vuole farsi riconoscere».
I due uomini si scambiarono una rapida occhiata,
«Alexandre, state pensando anche voi quello che penso io?»
«È qualcuno che la gente del teatro dovrebbe conoscere bene. Ma chi? Chi avrebbe interesse a dirigere il teatro con queste manovre assurde?»
«Quindi voi scartate l'ipotesi che si tratti di qualcuno che conosciamo?» domandò Bertrand con aria scettica.
«Mi sembra assurdo» rispose il giornalista pinzandosi la radice del naso con le dita.
«Molto bene, molto bene. Continuate a ragionare per assurdo, non sia mai detto che giungiate alla soluzione migliore» l'investigatore batté la mano sulla spalla del giovane. «Proseguite con le vostre riflessioni, credo che domani ne avremo di più interessanti da affrontare»
«Cosa intendete fare domani?»
«Interrogare Christine Daae».
I due uomini si congedarono con un saluto formale, Alexandre rimase con le spalle poggiate contro il muro ad osservare Bertrand che si allontanava seguito dalla scia grigiastra del fumo del suo sigaro. Il ragazzo sospirò profondamente come se volesse soffiare via dal petto lo strano senso di preoccupazione che lo stava assalendo.
Bertand avrebbe dato del filo da torcere a mademoiselle Daae, ma se quella ragazza era davvero la protetta del Fantasma dell'Opera, chiunque egli fosse, magari non era una mossa saggia cominciare quella caccia accanendosi su di lei, rischiando di attirare su di loro la collera di chi la proteggeva nell'ombra.
Alexandre sentì uno strano rumore provenire dal fondo del corridoio, passi felpati accompagnati da un fruscio come se qualcuno avesse smosso la gonna di un abito o l'ala di un mantello, si voltò e restò ad osservare il buio in cui si perdeva il lungo corridoio sul quale affacciavano i depositi degli attrezzi di scena. Fuori intanto era calata la sera, nelle ultime settimane d'autunno le giornate diventavano particolarmente corte e grigie.
Il ragazzo quasi si aspettava di scorgere un profilo bianco spuntare dal nulla, rimase immobile con lo sguardo fisso verso il cono d'ombra proiettato dalle pareti. Per lunghi secondi smise persino di respirare mentre la fronte gli si imperlava di sudore freddo.
La voce venne dalle sue spalle,
«Monsieur!».
Alexandre si voltò con uno scatto e si ritrovò davanti madame Giry che lo osservava perplessa.
«Ah, siete voi» sospirò asciugandosi la fronte con un fazzoletto.
«Vi sentite bene?»
«Sì... sì. Per un attimo credevo di essermi perso»
«Capisco» disse la donna con un sorriso gentile. «Il teatro è grande, io stessa credo di non averlo mai visitato tutto»
«Già»
«Vi mostro l'uscita, se volete seguirmi».
Il ragazzo annuì e lasciò che la donna lo accompagnasse alla porta, la ringraziò e le augurò la buona sera, poi uscì dall'edificio trovando sollievo nell'aria pungente che gli sembrò molto più salutare e gradevole dell'odore di olio da lampada e polvere che aveva respirato nei depositi dei macchinisti.
Una volta uscito dall'Opera, persino le sue preoccupazioni sembrarono scemare e Alexandre rise di se stesso al pensiero che si era lasciato suggestionare dalle storie macabre dei manovali con cui aveva parlato.
Il pavimento della piazza del teatro era coperto dalla neve che il freddo aveva fatto ghiacciare rendendo i sampietrini della pavimentazione lucidi e scivolosi. Il giornalista si voltò verso la  sfarzosa facciata dell'Opera Populaire e per un attimo ebbe l'impressione che le statue che decoravano il parapetto del teatro lo stessero spiando con i loro sguardi vuoti.

*

Era la stessa posizione che assumeva sempre in quei giorni, in quelle lunghe settimane che aveva trascorso al capezzale di suo padre: rannicchiata contro la spalliera del letto con le braccia che avvolgevano le gambe magre.
Christine era seduta sul materasso, torceva con le dita i lembi della sua veste da camera.
Erano passati dieci anni da quella sera e lei ricordava con precisione ogni cosa, persino l'esatta disposizione delle gocce di cera sciolta che colavano dall'estremità della candela...
La stanza quasi del tutto buia, perché il dottore aveva detto che la luce disturba il riposo degli ammalati. Guastave Daae aveva il volto pallido, sua figlia gli tergeva delicatamente la fronte con un fazzoletto bagnato ma dopo pochi secondi il sudore tornava a inumidire la fronte dell'uomo, come per ricordare alla bambina ciò che aveva sentito dire dal medico che quella mattina era venuto a visitare suo padre: non c'era più nulla da fare. Anche il dottore si era arreso e lei si sentiva così sola e inutile davanti all'inevitabilità di quanto sarebbe accaduto, impotente davanti alla malattia, a quella febbre prepotente che aveva deciso di consumare la vita di un uomo ancora nel fiore degli anni. Eppure la bambina continuava ad asciugare il sudore e a rispondere «Andrà tutto bene» a ogni rantolo di dolore di Gustave. Madame Giry veniva a farle visita ogni giorno, si occupava della spesa e di tenere in ordine la casa. Una volta era venuta in compagnia di sua figlia, Meg, sperando che la presenza di un'altra bambina avrebbe aiutato Christine a distrarsi, ma era stato inutile. Eloise e Gustave si erano conosciuti quando il musicista aveva cominciato a lavorare all'Opera, il suo compito era quello di accordare gli strumenti dell'orchestra, si recava a teatro ogni pomeriggio prima delle prove, era merito suo se la musica che riempiva l'aria, innalzandosi fino a far tremare impercettibilmente i cristalli del lampadario, aveva quel suono così perfetto e armonioso.
Suo padre aveva detto a Christine che Eloise si sarebbe presa cura di lei quando lui non ci sarebbe stato più e le aveva rinnovato la promessa di mandarle l'Angelo della Musica, non appena sarebbe giunto in cielo.   
Quella sera l'uomo aveva cominciato a respirare con più fatica, ogni boccata d'aria era accompagnata da un fischio sordo, come se i suoi polmoni malati si tendessero disperatamente per godere degli ultimi spasmi di vita. Quando quel fischio si interruppe Christine chinò il capo poggiando la fronte sulle ginocchia e pianse, attendendo che arrivasse qualcuno a portarla via, perché se fosse dipeso da lei non avrebbe mai abbandonato suo padre.
Gustave Daae era morto quello stesso giorno di dieci anni prima e il pensiero che quella sera cadeva l'anniversario della prematura scomparsa di suo padre fece provare a Christine un senso di vergogna per i momenti di contentezza che aveva provato nel pomeriggio, quando le era stato detto che sarebbe stata la protagonista del nuovo spettacolo.
Come quella sera Christine si ritrovò a posare il capo sulle ginocchia e a piangere in silenzio. Scivolò lentamente di lato, vinta dalla stanchezza mentre le lacrime continuavano a rigarle le guance.
Era già in uno stato di dormiveglia quando sentì un canto avvolgerla come un abbraccio.

...del mio pensiero tu sei regina,
tu di mia vita sei lo splendor.
Il tuo bel cielo vorrei ridarti,
e dolci brezze del patrio suol;
un regal serto sul crin posarti,
ergerti un trono vicino al sol.*

Quella voce, carezzevole e profonda le fece tornare alla mente altri ricordi di suo padre, ricordi più allegri. Rammentò i giorni spensierati in Svezia, quando cantava con la sua voce sottile e incerta di bambina, accompagnata dalla musica di suo padre, rammentò l'arrivo in Francia e la promessa di una vita migliore, le favole che Gustave la raccontava, i suoi giochi di bambina sotto lo sguardo attento e premuroso dell'uomo che rappresentava tutto il suo mondo.
E alla fine lui aveva avuto ragione, l'Angelo della Musica era arrivato davvero. Anche se ogni volta che Christine pensava a quell'uomo in quella veste la sua coscienza le rammentava di essere prudente e di ricordarsi che di angelico lui aveva solo la voce.
«Erik...» sussurrò Christine sollevando il capo e guardandosi attorno.
L'uomo era comparso al centro della stanza, come un vero fantasma, uscendo dal buio come per incanto. La giovane si stropicciò il viso e osservò per un attimo l'imponente figura del suo maestro in piedi davanti al suo letto.
«Giacché l'altro giorno abbiamo eseguito il duetto dell'Aida,» esordì Erik scostando il mantello per avere i movimenti più liberi, «avevo pensato che fosse il caso di rimanere in tema per porre i miei omaggi alla nostra nuova primadonna».
Christine accese la lampada ad olio che teneva sul comodino e lo osservò ammutolita e quasi spaventata.
«Era un omaggio, non una minaccia» puntualizzò lui in tono pacato e leggermente canzonatorio. «Ma ti chiedo scusa per essermi introdotto nella tua stanza, sai, le pessime abitudini che un uomo sviluppa quando lo si crede un fantasma!».
La giovane continuò a guardarlo senza dire niente, ma fremette preoccupata quando Erik si chinò su di lei con uno scatto repentino e le prese il mento tra l'indice e il pollice costringendola a sollevare il viso e a guardarlo negli occhi.
Christine tremò, non perché temesse che il suo maestro le avrebbe potuto fare del male, ma non riusciva a sopportare il suo sguardo, quegli occhi fermi nei suoi che le sondavano l'anima stringendole il cuore in una morsa che ogni giorno diventava più stretta. Avrebbe voluto sottrarsi a quel contatto e mettersi al riparo da quello sguardo che lui la stava obbligando a sostenere, ma le dita di Erik le avvolgevano la mascella in una presa delicata ma decisa alla quale non riusciva a sfuggire, impietrita com'era dal timore che quelle schegge di giada riuscissero davvero a leggerle l'anima e a individuare la provenienza dello strano brivido che la stava scuotendo.
Lui la fissò corrugando la fronte con aria indagatrice, le sue occhiate erano così penetranti che quasi Christine si sentì come un criminale colto in fragranza di chissà quale reato.
«Hai pianto» constatò semplicemente l'uomo con una nota dispiaciuta nella voce, muovendo lentamente il pollice lungo la guancia della fanciulla, come se sperasse di avvertire la consistenza del sale delle sue lacrime.
Lei, per tutta risposta, chiuse gli occhi stringendo le palpebre,
«Sì... sì...» farfugliò con un lamento, come a chiedergli di porre fine a quella strana tortura.
«Posso sapere il perché?» domandò l'uomo lasciandola andare e indietreggiando di un passo.
«Oggi sono dieci anni che è morto mio padre» spiegò Christine deglutendo e tornando a guardare il suo interlocutore evitando di fissarlo negli occhi.
Erik annuì
«Ho un ricordo assai vago di lui» le disse. «Ma era un ottimo musicista, aveva l'orecchio assoluto, vero?».
Christine fece cenno di sì e si sedette con le gambe a penzoloni dal materasso.
«Immagino che tuo padre amasse molto la musica» aggiunse Erik.
«Sì, certo...»
«E allora in questo momento sarà molto fiero di te, ovunque si trovi».
La ragazza accennò un sorriso, poi la sua espressione si rabbuiò nuovamente,
«Giuratemi che non siete stato voi a convincere i direttori ad assegnarmi la parte della protagonista» mormorò.
«Te l'avevo detto che non ci sarebbe stato bisogno del mio intervento, i direttori saranno stupidi, ma non sono certo sordi» rispose Erik.
«Mio Dio, farò Desdemona»
«Sembri preoccupata»
«Sembro?! Lo sono!».
Erik sospirò alzando gli occhi al cielo,
«Perché mai?»
«Non mi sento all'altezza di questo ruolo e...» la giovane abbassò lo sguardo ed esitò prima di completare la frase, «e nemmeno delle vostre aspettative»
«Prometto che anche se tu dovessi stonare o commettere qualche errore non ti farò cadere il fondale di scena in testa» rispose l'uomo sarcastico.
«Vi prego, non scherzate!» esclamò Christine stringendo le lenzuola tra le dita.
Erik si portò l'indice al mento,
«Abbi fiducia nel tuo maestro, bambina mia» le disse. «Ti assicuro che arriverai alla sera dello spettacolo più che preparata. Proveremo insieme le arie che dovrai cantare dopo che avrai provato con gli altri in teatro, ti avverto che sarà faticoso ma se serve al nostro scopo, non dovrebbe essere un problema»
«Sapevo che avrei potuto contare sul vostro aiuto» rispose Christine rivolgendogli uno sguardo colmo di affetto a causa del quale il cuore di Erik saltò un battito.
«Molto bene» concluse lui senza far trasparire alcuna emozione. «Ora è meglio che riposi, da domani avrai tutti gli occhi puntati addosso, non voglio vedere il tuo viso stanco».
Il Fantasma si avviò verso la porta e spiò dalla serratura per assicurarsi che il corridoio fosse vuoto.
«Erik... grazie» mormorò Christine prima che lui sparisse oltre l'uscio lasciandosi inghiottire nuovamente dal buio.
Si voltò un'ultima volta verso di lei e per tutta risposta chinò leggermente il capo, poi si riconsegnò alla notte lasciando che la giovane rimanesse sola con i suoi pensieri e con l'incredulità di chi si sveglia da uno strano sogno.
Senza saperlo quelle due anime avevano formulato lo stesso pensiero, si erano scambiate tacitamente lo stesso saluto: Bonne nuit, mon Ange.

______________________________________________

* tratto dall'Aida *_*

 NOTA: l'Otello di Giuseppe Verdi è stato composto nel 1887, la storia è ambientata nel 1870. Chiedo scusa per l'incongruenza cronologica ma il duetto dell'Otello l'ho trovato perfetto per i miei "piccioncini" e più in là capirete perchè.

Capitolo reinserito il 20\12\2011

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Capitolo 9
*** Il segugio ela fanciulla ***


Lunedì, puntuale come il mal di denti, ecco a voi il nuovo capitolo...

 Grazie ai lettori-osservatori-scopritori-recensori. La sottoscritta e il Maestro si inchinano colmi di riconoscenza.
 Visto che Amy me lo aveva chiesto: i nomi dei due "pargoli" (li chiamo così perchè li ho creati io e mi sento molto "mamma" nei loro confronti XD)... Alexandre si chiama così perchè io ho una fissazione onestamente immotivata per il nome "Alessandra"  e tutte le sue varianti e diminutivi (anche al maschile) e solitamente l'utilizzo di tale nome nasconde un bel self-inside in dosi varibili... qui la dose è molto minima ma c'è. Berty si chiama come si chiama senza un motivo particoalre, cercavo un nome che suonasse antipatico e mi pare che Balise Bertrand abbia un suono odioso. (Aggiungo anche che non ho mai visto Cuore selvaggio, ma quand'è così rimedierò ^^)

 And now, vi lascio alla lettura del delirio.
 Per qualsiasi altra curiosità e chiarimento chiedete pure.

I remain, gentlemen, your obidient servant


*******

CAPITOLO OTTAVO
Il segugio e la fanciulla

Quella mattina Parigi era una foto in bianco e nero. La pioggia cadeva fitta, le nuvole basse e grigie rendevano l'aria opprimente mentre un vento freddo soffiava tra le strade disturbando il passeggio dei pochi che erano usciti di casa sfidando il pessimo tempo. Le ruote delle carrozze alzavano schizzi di acqua e fanghiglia lasciandosi dietro una scia di proteste da parte dei passanti.
La pioggia scrosciava dal colonnato e dalle ali degli angeli di bronzo che decoravano il teatro dell'Opera rendendo scivoloso il marmo dello scalone che conduceva all'ingresso.
Alexandre alzò il colletto della giacca di lana fino alle orecchie per proteggersi dall'aria gelida e si avviò a rapidi passi verso l'interno dell'Opera Populaire. Si fermò sulla soglia quando notò che c'erano alcune donne chine a lucidare il pavimento del foyer decorato con rombi di marmo rosa e verde che necessitavano di essere puliti alla perfezione per rendere giustizia alla sfarzosità della sala.
Una delle donne che stava lavando il pavimento lanciò lo straccio nel secchio e sollevò lo sguardo verso il giovane,
«Ah monsieur, magari avessero tutti la vostra premura!» esclamò con gratitudine.
Alexandre accennò un sorriso e attese che la donna finisse di asciugare, poi attraversò il foyer per dirigersi verso l'ufficio dei direttori.
Sua madre gli aveva insegnato ad avere rispetto per gli altri, gli aveva insegnato che la bontà è quasi un dovere da compiere se si vuole essere amati. Lui aveva imparato a delineare i confini della propria benevolenza verso gli altri con un pizzico di arguzia e aveva imparato a pretendere dalle persone lo stesso rispetto che concedeva loro.
Prima di raggiungere l'ufficio dei direttori il giovane si voltò a guardare la sala di ingresso del teatro, in quei giorni si era trovato a poter ammirare l'Opera Populaire non più da spettatore, insieme ad altre centinaia di persone, l'aveva vista vuota e silenziosa, in tutta la sua maestosità, l'aveva trovata un luogo quasi freddo, troppo sfarzoso e appariscente, eppure fascinoso, come una sorta di castello incantato. Per un attimo il ragazzo si ritrovò a sorridere pensando che se davvero il Fantasma viveva da qualche parte nascosto nel teatro era da ritenersi un individuo fortunato.

Che pensiero sciocco, Alexandre!

Il ragazzo scosse la testa rendendosi conto della stupidità di quella riflessione ed entrò nell'ufficio, lasciò cadere il cappotto sulla spalliera di una sedia e salutò i direttori, Bertrand e Raoul.
«Cosa sono quelle facce?» domandò quando si rese conto che tutti e quattro avevano un'espressione tesa.
«Il Fantasma... ha scritto un'altra lettera...» farfugliò Andrè indicando una busta chiusa con il consueto sigillo a forma di teschio.
Alexandre corrugò leggermente la fronte,
«Con il nuovo spettacolo che state allestendo avremmo dovuto aspettarcelo, sicuramente vuole dire la sua su come dovrà essere eseguito l'Otello» commentò mentre Bertrand gli porgeva la lettera.
La missiva era scritta con la consueta calligrafia elegante e allungata:

Miei cari signori,
Mi congratulo per le scelte operate riguardo l'allestimento del nuovo spettacolo. Tuttavia avrei qualche appunto da farvi.
Spero vorrete comunicare al signor Mosetti che è pura follia vestire di giallo Mademoiselle Daae, certe trovate pacchiane potevano andare bene per la signora Giudicelli, ma dal momento che non sarà lei la primadonna di questo spettacolo suggerisco di usare un blu scuro per il costume di Desdemona, il risultato sarà di certo più sobrio e sarà più adatto alla figura leggiadra di Mademoiselle Daae.
Inoltre esigo che il secondo violino dell'orchestra venga sostituito. Il nostro buon maestro Reyer è un validissimo arrangiatore, sono certo che ne converrà con me.
Se avrò altre richieste per lo spettacolo, non temete, non mancherò di comunicarvele.
Vogliate salutare in vece mia il Visconte De Chagny, Monsier Bertrand e Monsieur Dubois.
In quanto a voi...
A buon intenditor... i miei saluti!
F.O.
 
«Avete letto!» borbottò Firmin «Altre richieste, altre minacce! Quei saluti alla fine... sta minacciando anche voi»
«È un criminale! Un criminale!» piagnucolò Andrè cominciando a diventare pallido.
«A me sembra più un personaggio con un sottile e arguto senso dell'umorismo» disse Alexandre ridacchiando.
«Lo state forse ammirando?» domandò Firmin con aria risentita.
«Beh, la storia è piena di personaggi pessimi ma non per questo privi di qualità» commentò il giornalista scrollando le spalle.
«Come vi è stata recapitata questa lettera?» domandò Bertrand lanciando un'occhiata in tralice ad Alexandre.
«L'abbiamo trovata sulla scrivania stamane»
«Comunque, non mi pare che abbia chiesto la luna» si intromise Raoul. «Ha solo suggerito di cambiare il colore di un costume di scena e di sostituire un musicista dell'orchestra»
«No, voi non capite, visconte!» tuono Firmin esasperato. «Il punto non è quanto pretenziose siano le sue richieste, il punto è che costui, Dio lo maledica, si vuole avvalere del diritto di prendere decisioni che non gli competono!»
«Perdonatemi, signor visconte» aggiunse Bertrand. «Ma, con tutto il rispetto, il vostro non mi sembra l'atteggiamento più consono alla situazione. Devo ricordarvi che alcune sere fa è morto un macchinista, nel teatro che voi e la vostra famiglia finanziate!»
«Con tutto il rispetto, monsieur Bertrand, non mi pare un bell'atteggiamento nemmeno questa specie di caccia alle streghe» questionò Raoul in tono pacato.
«Ma, visconte! Visconte, non potete dire sul serio» disse Andrè ingoiando tutto di un fiato un bicchiere d'acqua.
«Vedete, visconte, in tutta onestà, questo vostro continuo sottovalutare la situazione offende il mio lavoro e quello del vostro amico»
«Monsieur, Dio mi guardi dal voler offendere chicchessia. Sto solo cercando di farvi capire che non possiamo rischiare una crisi di nervi per ogni minima cosa»
«Ma voi converrete che non si tratta di MINIME COSE!» concluse Firmin soffiando dalle narici come un toro pronto alla carica.
«Signori, signori, vi prego!» si intromise Alexandre, che fino a quel momento era rimasto in disparte ad osservare la discussione con aria divertita. «Non litighiamo. Il visconte stava solo esprimendo un parere, non voleva intralciare certo le nostre indagini, e comunque, non serve a niente agitarsi»
«Ma cosa dobbiamo fare?» domandò Andrè guardando Bertrand con aria smarrita. «Il costume, il violinista... dobbiamo fare quello che vuole il Fantasma?»
«Credo che non sia di alcuna rilevanza» rispose l'investigatore scrollando le spalle. «Non credo che il nostro amico ucciderà un uomo solo perché non gli piace il colore del costume di mademoiselle Daae!»
«Tuttavia, io credo sia saggio non farlo irritare per ora» disse Alexandre. «A voi non costa nulla cambiare il colore di un costume di scena e sostituire un violista, quindi tanto vale accontentarlo»
«Giusto!» esclamò Bertrand all'improvviso, come se fosse stato colto da chissà quale illuminazione.
«Cosa?» domandò Raoul perplesso.
«Ma certo: accontentarlo!» continuò l'investigatore come se stesse pensando ad alta voce. «Avete fatto benissimo ad affidare la parte della protagonista a mademoiselle Daae! Lui vuole che lei canti e noi la faremo cantare!»
«Non vi stiamo seguendo» ammise Alexandre.
«Non capite? Se Christine Daae canterà è probabile che lui venga a vederla, ed è questo il nostro obiettivo, fare in modo che si esponga» spiegò Bertrand con aria convinta.
«Temo che lo stiate sottovalutando. Ora, noi non sappiamo niente di quell'uomo, ma crederlo così stupido non è un buon punto di partenza» osservò il giornalista.
«Dio mio, Alexandre, ma voi da che parte state?»
«Dalla parte di chi vuole scoprire la verità»
«Va bene, allora lasciamo perdere questa questione, per il momento, e concentriamoci su qualcosa d'altro» borbottò Bertrand con fare spazientito «Vi avevo detto che oggi era mia intenzione fare la conoscenza di mademoiselle Daae, dunque accompagnatemi».
Alexandre e Bertrand si avviarono fuori dall'ufficio, sulla soglia il visconte afferrò la manica della giacca dell'amico e lo trattenne,
«Mi raccomando...» gli mormorò.
«Tranquillo, terrò al guinzaglio il nostro segugio» rispose il giornalista con un sorriso incoraggiante.

«Dunque, ditemi Alexandre,» disse Bertrand mentre si dirigevano verso gli alloggi delle ballerine, «dalla missiva del Fantasma è chiaro che lui sappia di noi e delle nostre indagini, come avrà fatto a saperlo?»
«È una domanda assai stupida, monsieur, tutto il teatro sa delle nostre indagini» rispose il giornalista.
«Uhm, forse ho sbagliato modo di porla. In che modo, esattamente, pensate che Fantasma sia venuto a saperlo?»
«La voce è girata, sarà arrivata anche a lui»
«D'accordo, se così fosse si suppone che qualcuno gli ha fatto arrivare la voce, e di conseguenza questo Fantasma non è isolato, ha dei contatti con altre persone all'interno del teatro»
«E voi pensate che mademoiselle Daae sia uno di questi contatti»
«Lo scopriremo presto» concluse Bertrand con uno di quei suoi orribili sorrisi.
«Ma, ammettiamo per un attimo che il Fantasma non abbia saputo da altri delle nostre indagini...» ipotizzò Alexandre lanciando al suo interlocutore uno sguardo eloquente e lasciando volutamente la frase in sospeso.
«Avete colto nel segno, amico mio! È per questo che mi piacete, io amo le persone argute!» esclamò l'investigatore con aria allegra per poi tornare quasi subito serio. «L'ipotesi è fantasiosa quanto inquietante, ma stando a quello che abbiamo visto e a quello che ci hanno raccontato i macchinisti, sembra che quest'uomo possa arrivare ovunque, tenere sotto controllo tutto il teatro, e di conseguenza anche conoscere ogni nostra mossa»
«Ipotesi inquietante e affascinante. Più ci penso e più ho il sospetto che abbiamo a che fare con qualcuno dotato di un'intelligenza e di una genialità non comune»
«Lo state facendo di nuovo, ragazzo mio»
«Facendo cosa?»
«Parlare come se lo ammiraste».
Alexandre scosse il capo e ridacchiò,
«E come potrei? Non lo conosco, potrei persino dubitare che esista!» concluse.
Bertrand gli lanciò uno sguardo indagatore,
«Già... non lo conoscete».

*

Christine aveva dormito poche ore quella notte, ma era stato un sonno profondo e senza sogni che le aveva regalato un piacevole senso di riposo. La malinconia che l'aveva assalita la sera prima non era del tutto sparita, le veniva spontaneo continuare a pensare a suo padre, a cosa avrebbe detto nel vederla calcare il palcoscenico del più importante teatro di Parigi, e cosa le avrebbe consigliato riguardo a... a Erik.
Era strano, le veniva naturale rivolgere la mente a quell'uomo così spesso, eppure ogni volta che i suoi pensieri ripetevano quel nome c'era un senso strano di esitazione, una risposta alla voce della sua coscienza che le ripeteva che era sbagliato.
Ma cosa avrebbe dovuto esserci di sbagliato? Quell'uomo non era un santo, ma era pur sempre il suo Maestro, la persona da cui lei aveva ricevuto lo splendido dono del canto. Cosa c'era di male a provare gratitudine per lui?

Solo gratitudine, piccola Lottie?

La voce della sua coscienza aveva un tono severo, di sfida. Il tono che usa chi vuole pronunciare insinuazioni velenose e taglienti.

Zitta, sta' zitta!

Christine fece cessare quella voce petulante tornando ad affondare la testa nel morbido guanciale e  sbuffando. Si stropicciò il viso con le mani e si scompigliò i capelli.
Qualcosa di sbagliato c'era, se ne era accorta la sera prima quando il tocco della dita di Erik sul suo viso le aveva provocato un brivido lungo la schiena e le aveva fatto desiderare che lui prolungasse quel contatto, che la abbracciasse e allo stesso tempo aveva temuto che lui se ne accorgesse, che i suoi occhi leggessero davvero dentro di lei.
Christine non diede tempo alla sua coscienza di ribadirle quanto fosse sconveniente indugiare in certi pensieri e provare quelle sensazioni, malgrado fossero reazioni che lei stessa non riusciva a controllare.
La ragazza si alzò dal letto e pensò con sollievo che l'impegno delle prove l'avrebbe distratta da quelle riflessioni e da quella battaglia che si era innescata tra le sue emozioni e il suo buon senso.
Christine fece una rapida toeletta e si vestì, uscì dalla stanza dirigendosi verso la scena ma arrivata dietro le quinte si imbatté in Alexandre Dubois.
«Buon giorno, mademoiselle» disse il ragazzo fermandosi davanti a lei.
«Buon giorno, monsieur». La giovane guardò oltre la sua spalla e si accorse che non era ancora arrivato nessuno per le prove.
«Ah, immagino che eravate convinta di dover cominciare le prove» mormorò Alexandre con un tono che tradiva un certo imbarazzo. «Ma vedete, i direttori le hanno spostate a oggi pomeriggio».
Christine guardò il giornalista senza capire,
«E siete venuto voi ad avvisarmi?» chiese.
«Veramente, sono venuto a chiedervi di seguirmi»
«Dove?»
«Nell'ufficio dei direttori»
«È accaduto qualcosa monsieur,ì? Mi sembrate preoccupato».
Il ragazzo sospirò,
«Come certo saprete, sto conducendo delle indagini sulla strana faccenda del Fantasma dell'Opera, insieme a monsieur Bertrand, un investigatore» spiegò in tono pacato. «Ebbene, noi gradiremmo parlare con voi».
Christine restò a guardare il suo interlocutore senza dire niente. Sapeva che doveva aspettarselo, ma in cuor suo fu grata a Dubois per la premura che le stava riservando. La ragazza annuì e lasciò che il giornalista l'accompagnasse verso l'ufficio. Si disse che avrebbe mantenuto la calma, che sarebbe stata forte... lo doveva a lui, a Erik.
Quando Alexandre chiuse la porta della stanza si concesse di chiedere l'aiuto di Dio, sapeva che parlare con mademoiselle Daae era assolutamente necessario, ma le avrebbe risparmiato volentieri un colloquio con Bertrand.
L'ispettore sedeva a gambe accavallate dietro la scrivania, l'aria dell'ufficio era densa dell'odore acre del suo sigaro, tanto che Christine dovette socchiudere gli occhi perché il fumo la stava facendo lacrimare. Bertrand aveva voluto che non fosse presente nessun altro a quel colloquio, aveva insistito perché nemmeno Alexandre vi partecipasse, sostenendo che lui non aveva certo le competenze per gestire un interrogatorio, il ragazzo aveva obiettato che essendo un giornalista era abituato a fare domane e ad ascoltare risposte, e aveva sostenuto fermamente che dal momento che erano in due a lavorare a quella indagine, Bertrand non aveva nessun diritto di escluderlo.   
L'impressione che Blaise Bertrand fece alla ragazza non fu positiva. Non si poteva definire un uomo dall'aspetto particolarmente sgradevole e nemmeno particolarmente attraente, era quel tipo di persona che sarebbe passata inosservata se la si fosse incontrata in mezzo alla strada, ma guardando l'accenno di sorriso che l'ispettore stava rivolgendo a mademoiselle Daae chiunque si sarebbe sentito a disagio. Era un'espressione melliflua e palesemente insincera, e per di più quando quell'uomo sorrideva gli occhi gli si trasformavano in due fessure rendendo anche il sorriso più benevolo una smorfia minacciosa.
«Mademoiselle Daae, enchanté» disse Bertrand per poi indicare alla giovane una sedia che era di fronte. «Sedete, Christine, prego sedete»
«Piacere mio, monsieur» rispose lei sistemandosi dove le era stato indicato.
Alxandre rimase in piedi, e si posizionò accanto alla ragazza, poggiando una mano sulla spalliera della sedia quasi a volerle dimostrare il suo appoggio. Più la guardava e più si convinceva di quello che gli aveva detto Raoul: un angelo come lei non avrebbe potuto avere niente a che fare con una vicenda tanto losca. Il ragazzo non sapeva individuare quale fosse la sensazione che gli suscitava la giovane soprano, ma era certo una sensazione positiva.
«Mi dispiace di avervi importunato, ma le circostanze non mi hanno permesso di fare altrimenti» esordì Bertrand. «Siete a conoscenza dei fatti che si sono verificati in questo teatro, di certo saprete del Fantasma dell'Opera».
Christine si limitò ad annuire,
«Sappiamo bene che è una leggenda, cresciuta all'ombra della fantasia dei macchinisti o di altre persone che lavorano in questo teatro» proseguì l'investigatore, «tuttavia, pensiamo che ci sia qualcuno dietro tutto questo».
La giovane deglutì e trattenne un moto di nervosismo, poi fissò Bertrand come a invitarlo a proseguire.
«I direttori hanno ricevuto lettere minatorie con ordini precisi riguardo la gestione del teatro, e ciò, unito a tutti gli altri fatti di cui sarete certamente a conoscenza, ci ha messo in allarme. Converrete con noi che quest'uomo, chiunque esso sia e qualunque sia il suo scopo, debba essere fermato».
L'investigatore pronunciò le ultime parole scandendo ogni sillaba in tono greve e per un attimo nella mente di Christine si proiettò l'immagine di un cane randagio, una bestiola dall'apparenza mite ma pronta ad azzannarti non appena tendi la mano verso di lei per accarezzarla.

Calma, resta tranquilla... Sii forte, piccola Lottie, fallo per lui...

«Ne convenite con me?» aggiunse Bertrand.
La ragazza fece appello a tutto il suo sangue freddo e a tutta la sua forza di volontà e si costrinse a guardare l'uomo negli occhi,
«Naturalmente» disse convinta.
L'investigatore sorrise mentre le mani di Alexandre si stringevano nervosamente attorno alla spalliera della sedia,
«Molto bene, sono certo che vorrete collaborare con noi quindi»
«Monsieur, non vedo come» rispose Christine.
Bertrand fece una pausa e si accese un altro sigaro,
«Siete a conoscenza del fatto che molte delle lettere inviate dal Fantasma parlano di voi?» domandò con voce tranquilla ma lanciando alla sua interlocutrice un'occhiata penetrante e inquisitrice.
Christine serrò la mascella per un attimo e cercò di sostenere lo sguardo di Bertrand mentre la tensione e le boccate di fumo che l'uomo espirava sembravano bruciare grandi porzioni di ossigeno facendole mancare l'aria.

Coraggio, lui ti sta insegnando a recitare, usa il tuo talento per qualcosa di utile, piccola Lottie!

«Non lo sapevo, monsieur» disse Christine fingendo con una portentosa maestria un'espressione innocente e persino leggermente spaventata.
«Nelle direttive per la gestione del teatro è contemplato anche il fatto che voi diventiate la nuova primadonna dell'Opera, e il Fantasma... concedetemi di chiamarlo così, per adesso... sembra tenerci davvero molto alla vostra carriera».
L'espressione della fanciulla si fece ancora più sbigottita,
«Non nascondo che la mia passione per il canto mi fa sperare che la mia carriera prosegua, monsieur, perdonate l'ambizione, ma so bene di essere troppo giovane e ancora troppo inesperta per ricoprire una simile posizione. Chiunque mi voglia come primadonna del teatro deve essere qualcuno che non conosce nulla dell'arte del canto!»
«Non siate modesta, Christine, voi avete un gran talento, ma non è questo il punto» borbottò Bertrand. «Vogliamo sapere se c'è qualcuno che sia tanto affezionato a voi al punto di allestire tali manovre per far proseguire la vostra carriera. Avete qualche amicizia particolare, qualche legame affettivo? Siate sincera, vi assicuro che tutto rimarrà tra noi, dopotutto io e monsieur Dobouis siamo gentiluomini e sappiamo come va il mondo».
Alexandre abbassò il capo per nascondere una smorfia quasi di disgusto davanti a un discorso tanto subdolo e offensivo,
«Monsieur! Non vi concedo simili insinuazioni!» esclamò Christine palesemente turbata.
«Forse monsieru Bertrand si è espresso male e sono certo che vorrà chiedervi scusa» si intromise il giornalista scoccando un'occhiata di rimprovero all'uomo. «Ma ciò che intendeva dire è se c'è qualcuno che pensate abbia potuto fare una cosa del genere, se sapreste indicarci qualcuno da poter collegare a tutti questi episodi, alle lettere, alle minacce... all'uccisione di Bouquet».
La giovane scrollò le spalle,
«Gli investigatori siete voi» disse scuotendo il capo.
«Pensateci bene, per favore» le chiese Alexandre.
Christine rimase in silenzio per lunghi secondi,
«Mi dispiace signori, ma non riesco proprio a pensare a nessuno che possa ritenersi collegato a questi fatti» concluse. «Del resto, io vivo in questo teatro da quando ero bambina e non ho mai conosciuto altri che le mie compagne del collegio e madame Giry che si è presa cura di me dopo la morte di mio padre»
«Nessuno? Ne siete certa? Non so, qualcun altro che lavora in teatro, un musicista dell'orchestra, magari...» la incalzò Bertrand.
«Vi ho detto di no!» esclamò lei con un moto di stizza. Stava cominciando a perdere la calma, non tanto per la situazione, ma per le squallide insinuazioni che le erano state rivolte e per l'insistenza con cui Bertrand continuava a cercare di sapere qualcosa da lei, guardandola come se fosse una criminale.
«Voi capite che la cosa è della massima importanza»
«Monsieur, e voi capite che se sapessi qualcosa ve lo direi... ma cosa mai vi fa pensare che io sappia?».
Bertrand la guardò con durezza,
«Beh, perdonatemi, ma il solo fatto che il vostro nome compaia così spesso nelle lettere inviate dal Fantasma ci sembra una curiosa coincidenza» disse tranquillo.
«E se anche costui fosse un mio ammiratore troppo pedante, che colpa ne avrei io?» mormorò Christine cercando di trattenere le lacrime mentre avvertiva lo stomaco contorcersi per il panico.
«Mademoiselle, la vostra unica colpa sarebbe conoscere questo ammiratore e non rivelarcene il nome» rispose l'uomo con un sorriso mellifluo.
La giovane strinse tra le dita un lembo della veste, ma malgrado si sentisse molto prossima al pianto riuscì a sostenere ancora per qualche secondo lo sguardo di Bertrand.

Per Erik, lo stai facendo per lui, dolce Lottie.

«Va bene, basta così» la voce di Alexandre arrivò come una benedizione a decretare la fine di quel supplizio.
«Potete andare mademoiselle» concesse l'investigatore. «Se dovessimo avere ancora bisogno di voi sapremo dove trovarvi».
Christine si alzò e si diresse verso l'uscita rivolgendo un rapido cenno di saluto ai due uomini. Alexandre l'accompagnò fuori e quando furono usciti dall'ufficio la prese delicatamente per il braccio e la fece voltare verso di lui.
«Mi dispiace, Christine» mormorò mortificato.
«Cosa ci fate al fianco di una persona come Bertrand, Alexandre?» domandò lei scuotendo il capo.
«Beh, diciamo che si tratta di esigenze artistiche... un giorno magari ve ne parlerò».
La giovane annuì vaga,
«Ora, per favore, lasciatemi andare» concluse.
«Vi faccio i miei migliori auguri per lo spettacolo, Christine» aggiunse lui prima di congedarsi.
Quando la ragazza si fu allontanata Alexandre tornò nell'ufficio deciso ad affrontare Bertrand, aprì la porta di scatto e lanciò all'investigatore uno sguardo indignato,
«Era necessario trattarla prima da sgualdrina e poi da criminale?!» esclamò furioso,.
L'uomo si poggiò pigramente allo schienale della sedia,
«Il fine giustifica i mezzi, mio caro» rispose tranquillo. «Sinceramente, non ho capito se quella ragazza sa qualcosa ed è brava a nasconderlo o se è davvero sincera, ma dopo anni in cui ho avuto a che fare con criminali e gentaglia della peggior specie ho imparato che se si vuole costringere qualcuno a confessare lo si deve mettere alle strette»
«Ma questo deve necessariamente valere anche per una ragazzina?!»
«Alexandre, nella migliore delle ipotesi quella ragazzina è anche lei una pedina inconsapevole del gioco del nostro Fantasma. Nella peggiore, è la complice di un assassino» concluse Bertrand spegnendo il sigaro nel posacenere.

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Noticina:
 "a buon intenditor... i miei saluti" è la frase di chiusura di una delle lettere del Fantasma dell'Opera nel romanzo di Leroux (in quel libro il nostro uomo aveva un sense of humor molto macabro, ma era adorbile a suo modo, anche se io non amo particolarmente quel libro... incredibile a dirsi ma è così)

 Ci leggiamo lunedì prossimo ^^


Capitolo reinserito il 21\12\2011

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Capitolo 10
*** Dove la notte splende ***


Orbene, miei diletti...
 La settimana inizia con un nuovo capitolo (oddio, spero vivamente che la vostra settimana sia iniziata con qualcosa di meglio dei miei deliri).
 Come al solito mi approprio di codesto angolo di pagina web per ringraziare gli avventurosi che hanno letto e gli ancora più avventurosi che hanno recensito.
 Amy, pienamente d'accordo con te sulla valenza metaforica di certi personaggi della letteratura (resta da vedere se è stata una valenza attribuita loro dalla critica con il senno di poi o se certi significati erano già insiti nelle intenzioni degli autori). D'accordo pure sulle figure dei direttori... belli di zia Elby loro! Come potevo dimenticarli, li avevo già tralasciati per questioni di trama nella precedente fanfiction, qui mi sono potuta sbizzarrire con i loro caratteracci venali e pusillanimi ma tanto esilaranti (erano così anche nel romanzo... Dio quanto mi ha fatto ridere il capitolo sulla faccenda della spilla da balia!). Il Master avevo pensato di proporvelo in pantofole e papalina, poi ho desistito... però lui che al chiuso della sua grotta si scola l'assenzio spero non sia passato inosservato (gli ho anche fatto dar fuoco alla zolletta di zucchero secondo la migliore tradizione hollywoodiana... visto che in realtà non si fa il flambè con l'assenzio). Ehi... la faccenda della marmellata della signora Butler vedo che ha girato un bel pò, credevo fosse appannaggio solo dei fanZ maniacali come la sottoscritta...  comunque, demenze a parte... avrei davvero voluto metterci molta più quotidianeità di Erik in questa storia ma alla fine mi sono fatta prendere da altre cose, spero comunque che gli scampoli di "Erik come non l'avete mai visto" siano di tuo gradimento. La Divina arriva eh... U_U lei prima o poi arriva sempre come la bollicina dietro al tallone quando si mettono le scarpe nuove.
 theanglesee69 potrei seriamente abituarmici ai tuoi complimenti, quindi stai in campana XD no, scherzo. Grazie di cuore ^^

 Siete ancora svegli? Siete crollati sulla tastiera? Devo mandate il Maestro a farvi "bhu!" alle spalle?...

 Buona lettura.
Your obidient servant

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CAPITOLO NONO

Dove la notte splende

Per lui la notte trascorreva troppo velocemente quando suonava. Le ore si susseguivano al ritmo della musica lasciando un velo di pesantezza sulle palpebre e pagine e pagine di note scritte sui pentagrammi, appunti veloci che sarebbero stati sistemati e corretti il giorno dopo, in attesa di un'altra notte in cui l'ispirazione si sarebbe concessa nuovamente a lui come un'amante esigente e arrendevole. Poiché la musica riusciva a compensare tutto ciò che mancava nella sua vita di esiliato, persino il calore umano che gli era stato negato da chi lo aveva abbandonato da bambino, persino la mancanza di piaceri e urgenze che non si era mai potuto concedere.
Stava scrivendo un'opera sulla storia di Don Juan, come aveva fatto Mozart cento anni prima. Ma a differenza del talentuoso compositore austriaco lui non voleva narrare la sconfitta del peccatore destinato alla dannazione, voleva raccontare di come la passione nella sua forma più sublime riuscisse a vincere su tutto, anche sulla morale. Voleva descrivere quanto il confine tra giusto e sbagliato fosse labile e quanto fosse insidioso il peccato quando assumeva le fattezze dell'amore. La sua opera si sarebbe intitolata Don Juan Trionfante. Voleva che il suo capolavoro si scagliasse con la forza distruttiva di un incendio contro i grandi signori che componevano il pubblico dell'Opera, voleva sconvolgerli con la sua musica e con le sue canzoni, riversando il suo furore sulle loro subdole vite dense di ipocrisia e perbenismo.
Ma l'idea del peccato, del male, per Erik, si confondeva come in uno strano gioco di specchi che gli restituiva l'immagine distorta del suo viso, quel viso che lui stesso evitava di guardare. La passione del Don Juan era come una metafora, per parlare della sua collera, del suo odio che legittimava, contro ogni morale, la paura e il male che egli stesso infliggeva quando le circostanze gli permettevano di vendicarsi di quel mondo che lo aveva rifiutato. In quel buio, in quell'angolo di inferno in cui si sentiva costretto, anche il Figlio del Diavolo si sarebbe guadagnato il suo trionfo.
Aveva pensato di scrivere un'opera tragica e solenne che parlasse di guerra, di morte, di forze incontrastabili contro cui l'uomo non può nulla, ma da quando Christine era diventata il fulcro dei suoi pensieri aveva cominciato ad accarezzare l'idea di scrivere qualcosa sulla passione, come se essa fosse l'unica forza a cui valesse la pena arrendersi. Lui non conosceva l'amore carnale eppure per i suoi componimenti si ispirava alle ballate da osteria, tramutando in versi poetici le canzoni volgari che gli capitava di ascoltare nelle sue fugaci passeggiate notturne per i bassifondi di Parigi.

Non sapeva che ore fossero quando smise di suonare, sapeva che aveva passato molto tempo seduto al suo organo fino a quando la musica, che gli aveva bruciato le vene come un'incredibile arsura, non si era riversata completamente sul suo quaderno, lasciandolo stanco e spossato a fare i conti con il sonno accumulato e con il silenzio che segnava i confini invisibili della sua prigione.
L'uomo si alzò dallo scranno intarsiato e si diresse verso lo scrittoio dove aveva poggiato il fagotto con la cena che gli aveva lasciato Eloise. Mangiò svogliatamente il pasto ormai freddo senza particolare gusto, sbocconcellando gli spicchi di un'arancia dolce, assorto nei suoi pensieri.
Lui suonava e componeva ogni volta che ne aveva l'urgenza, ma generalmente gli capitava di farlo di notte quando era certo che il teatro fosse vuoto e non c'era nessuno da dover controllare, quando si sentiva più tranquillo e immaginava oltre quelle pareti di pietra la città avvolta nel buio, proprio come lo era lui. Di notte poteva persino dimenticare di essere il Fantasma dell'Opera e immaginare di essere un uomo come tutti gli altri. Per la stessa ragione usciva raramente ma solo dopo la tarda sera, quando un'altra parte del mondo si riversava nelle strade, quella gente che i signori chiamavano “feccia”, gli umili che vivevano la vita attimo dopo attimo e ogni notte festeggiavano nelle osterie o nei bordelli l'essere riusciti ad arrivare alla fine di un'altra giornata senza crepare per gli stenti o senza essere catturati da qualche gendarme. Lì, in quelle strade nessuno faceva troppo caso a lui, a un uomo ammantato di nero che camminava con il volto coperto ignorando le chiacchiere degli ubriachi e le offerte delle prostitute, come se fosse uno spirito curioso giunto in incognito a visitare il mondo dei vivi, o più probabilmente lo credevano un ricco signore che vagava nei bassifondi per trovare soddisfazione ai suoi desideri più biechi e che nascondeva il suo volto per timore che qualcuno potesse riconoscerlo e screditarlo.
Gli abiti succinti delle donne di malaffare lasciavano intravedere seni prosperosi e invitanti, spesso dietro ai volti imbellettati e alle labbra coperte da rossetti troppo rossi si nascondevano ragazze giovanissime e talvolta anche assai graziose che la fame aveva costretto in quella misera condizione. Erik avrebbe potuto cedere e accettare di trascorrere la notte tra le braccia di una di loro, ma non l'aveva mai fatto. Non tanto per una questione di rettitudine morale e nemmeno per paura che la sventurata di turno arrivasse in qualche modo a vedere il suo volto, semplicemente perché trovava profondamente vuota un'esperienza di quel genere, malgrado certi istinti a volte si manifestavano con una tale prepotenza da portarlo molto vicino ad ascoltare loro piuttosto che la sua ragione. E per di più, da quando aveva scoperto cosa voleva dire amare una donna con tutta l'anima, la sola idea di pensare a lei tra le braccia di un'altra lo aveva disgustato rendendogli assolutamente inaccettabile quella prospettiva.   
Erik gettò alcune bucce di arancia e alcune erbe speziate nella brace della stufa per profumare l'ambiente, poi si spogliò e si mise a letto, rimandando ogni preoccupazione e ogni idea a quando si sarebbe svegliato.  

*

«...se dovessimo avere ancora bisogno di voi sapremo dove trovarvi»

Quelle parole le facevano eco nella testa suonando come una minaccia. La voce di Bertrand scorreva ancora nelle sue orecchie, sentiva ancora il suo sguardo posarsi su di lei per analizzarla, per portare alla luce tutte le macchie della sua anima. Lei aveva sempre pensato che il suo animo fosse puro, eppure poco prima aveva mentito con una grande maestria da attrice, come se fosse abituata a farlo, come se pensasse che la menzogna fosse un'arma legittima.
Lo aveva fatto per lui. Non aveva bisogno di ripeterselo, non aveva bisogno di giustificarsi per questo.
Lo aveva fatto per lui e lo avrebbe rifatto altre dieci, cento, mille volte!
Era sbagliato? Sì, probabilmente lo era. Ma troppo spesso in quelle ultime settimane si era detta che era tardi per tornare indietro. Era stato così dal momento in cui Erik le aveva teso la mano dietro lo specchio e lei si era lasciata portare via. Quella sera le era bastato fare un solo passo verso di lui, ma quel passo aveva segnato la sua sorte catapultandola quasi violentemente verso una notte dalla quale non sarebbe più riemersa, perché non ne aveva la forza, perché non ne aveva la volontà. Perché quel buio era così avvolgente e confortevole che la faceva sentire in pace, malgrado non fosse in grado di sapere quali insidie si potessero celare in quell'oscurità. La voce di Erik che cantava nella sua testa,  il pensiero di quelle braccia che avrebbe voluto che la stringessero, le sue dita sul suo viso... e i suoi occhi. Tutto ciò costituiva forse un piccolo grande tesoro per il quale valeva la pena pagare il prezzo che Dio, o forse la sorte, le avrebbe richiesto.

Sciocca, piccola, stupida, impudente!

No, non poteva essere così... una cosa così grande non poteva essere così facile, non poteva sembrarle naturale. Non poteva appartenerle! Non poteva appartenere a quella timida e mite fanciulla cresciuta in un collegio di ballerine.
Christine tornò nella sua stanza, chiuse la porta dietro di sé facendola sbattere e si poggiò con le spalle contro il battente di legno. Voleva chiudere fuori tutto, l'interrogatorio di Bertrand, l'impegno del nuovo spettacolo, Raoul, Erik! Voleva che tutto ritornasse come una volta, voleva guardarsi di nuovo dentro e trovarsi pulita. Voleva essere di nuovo come prima, quando era... quando era sola.
No... non era la solitudine che voleva.
Christine si prese la testa fra le mani e scivolò con la schiena piegando le ginocchia, fino a quando non si ritrovò accovacciata sul pavimento. I pensieri si impigliavano ai suoi meravigliosi riccioli castani. Riflessioni contorte e contraddittorie che si smentivano l'una con l'altra facendole smarrire la consapevolezza di ciò che era. Idee e fantasticherie che la colpivano come bastonate, martoriandole il capo con stilettate di dolore che minacciava di farle scoppiare la testa.
Con un gemito di disperazione, Christine si alzò da terra e indossò la sua mantella. Sarebbe andata  in chiesa, a confessarsi a chiedere perdono a Dio, sperando che il Signore volesse concedere il suo aiuto alla più sciocca delle Sue figlie, a quella bimba smarrita senza pace.
Uscì dal teatro a passi rapidi, mentre una pioggia fredda e insistente si abbatteva su Parigi, coprendo con il suo ritmico ticchettio i pensieri tormentati della ragazza.
Christine rimase in piedi in mezzo alla piazza del teatro, lasciando che la pioggia le cadesse addosso e le inzuppasse il mantello di lana, si voltò un attimo a guardare l'Opera e alcune gocce fredde le bagnarono la fronte e le guance, dandole un senso di sollievo come se fosse stata affetta dal calore appiccicoso di una febbre incurabile. La giovane sospirò e mentre i suoi pensieri tacevano comprese quale fosse il posto più adatto in cui recarsi.
Mentre tornava indietro per raggiungere Rue Scribe, Christine pregò e chiese a Dio di perdonarla se in quel momento Lo stava mettendo da parte per un'esigenza che di cui avvertiva maggiormente il bisogno.

Non fu facile percorrere quel cunicolo di pietra buio pesto senza l'ausilio di una lampada, dovette procedere tutto il tempo reggendosi contro il muro, camminando piano per non inciampare e sperando di non imbattersi in nessun ratto e in nessun insetto.
Fu un sollievo per lei quando, dopo un tempo interminabile, raggiunse l'ingresso che immetteva nella grotta sotterranea. Cercò a tastoni la molla che faceva scattare l'apertura della porta, a sinistra, in basso, dove le aveva mostrato Erik.
Quando finalmente riuscì ad accedere alla Dimora sul Lago ciò che vide non fu molto confortante. La grotta era in penombra, le candele erano quasi tutte spente e non c'era traccia del suo abitante. Intanto l'aria non odorava di chiuso o di umidità, aveva un aroma piacevole di agrumi e spezie.
Probabilmente Erik non era in casa, a quell'ora forse si trovava in superficie, a controllare cosa stesse accadendo nel suo teatro. La ragazza si chiese se fosse il caso di aspettare il suo ritorno, non voleva che lui si infastidisse nel trovarla lì, nel sapere che lei era rimasta in quella casa in sua assenza.

«... se dovessimo avere ancora bisogno di voi sapremo dove trovarvi»

No, lì non l'avrebbero trovata!
Christine si disse che era meglio rimanere dov'era e rischiare di urtare la suscettibilità di Erik piuttosto che imbattersi nuovamente in Bertrand e nei suoi orribili sorrisi di circostanza.
Procedendo con cautela nella penombra la giovane raggiunse lo scrittoio, avrebbe aspettato Erik seduta sulla sedia, non avrebbe toccato niente, non avrebbe invaso il suo mondo.
Sul piano della scrivania la ragazza vide che c'era un piatto sporco con dentro delle posate e un tovagliolo sul quale erano raccolte alcune bucce di arancia. Era come se qualcuno avesse da poco consumato la cena.
«Ma sono le dieci del mattino!» pensò Christine perplessa, poi sobbalzò nel sentire un fruscio leggero, appena percettibile, provenire da un angolo della grotta.
La giovane si alzò e sfruttando la poca illuminazione raggiunse il lato opposto della Dimora sul Lago, scese le scale di pietra a destra dell'organo e vide che l'insenatura in cui ricordava essere sistemato il letto a forma di cigno era coperta dalle tende di organza, le stesse che avevano protetto il suo sonno la prima volta che si era trovata in quel posto fantastico. Possibile che Erik stesse dormendo? A quell'ora? Non lo avrebbe mai creduto un uomo tanto pigro.
Christine scostò con cautela la tenda e frenò a stento un'esclamazione di sorpresa.
Erik era addormentato nel suo letto, sembrava immerso in un sonno profondo, anche se il cono d'ombra non rendeva visibile il suo viso affondato in una pila di morbidi guanciali. Nella luce fioca di una lampada ad olio posata su una mensola poco distante dal letto Christine riusciva a scorgere appena il profilo del suo corpo. L'uomo dormiva sul fianco sinistro, con un braccio steso lungo il materasso e con l'altro poggiato sui cuscini sopra la testa. Le coltri che coprivano il giaciglio del Fantasma erano spesse per proteggersi dal freddo pungente, ma lui doveva averle scostate via nel sonno perché giacevano ammassate in mezzo al materasso e arrotolate intorno alle sue gambe, lasciando scoperti il torace e l'addome fino all'ombelico.
Christine non aveva mai osservato un uomo svestito e la curiosità la spinse a indugiare con lo sguardo sulle forme di quel corpo magro ma robusto. I muscoli erano ben delineati da curve morbide e armoniose come quelle di una scultura, e la ragazza osservò  le linee della figura di Erik fino a percorrere con lo sguardo il torace ampio, per risalire lungo la linea elegante del collo che si curvava decisa nel profilo della mascella e del mento e poi spariva nel buio in cui era nascosto il volto, come se la perenne notte che regnava in quei sotterranei continuasse a fargli da maschera, continuasse a proteggerlo dal mondo, come diceva lui, o da se stesso, come pensava Christine.
L'uomo sospirò nel sonno e si voltò sulla schiena con un movimento languido che fece scivolare le coperte più in basso del bacino. La fanciulla chiuse gli occhi avvampando per l'imbarazzo, rendendosi conto che sarebbe stato assolutamente inaccettabile violare in quel modo l'intimità del suo maestro, quindi richiuse la tenda ed indietreggiò di alcuni passi.
Aspettò qualche secondo in cui approfittò per costringersi a scacciare dalla mente l'immagine dell'uomo addormentato, poi si decise a chiamarlo,
«Erik?... ci siete?» domandò ad alta voce per lasciargli credere che non lo avesse visto. Lo sentì  sbuffare da dietro la tenda, come se non si fosse reso conto che la voce che lo stava chiamando non era un sogno molesto,
«Erik...» insistette lei.
«Christine!». La voce del suo maestro arrivò leggermente ovattata dal sonno e increspata da una nota di stupore.
«Pe... perdonatemi... io avevo bisogno di vedervi...» farfugliò lei.
«Resta dove sei, arrivo» concluse l'uomo con il suo solito tono deciso e autoritario, che però non tradiva né rimprovero né tanto meno una particolare contentezza.
Christine si rannicchiò su un gradino e attese. Oltre le tende poteva sentire il rumore della stoffa e dei passi dei piedi nudi sulla pietra.
Dopo qualche minuto Erik scostò la tenda reggendo un lume ad olio, aveva indossato una camicia e un paio di calzoni di seta, e sopra portava una vestaglia di velluto scuro. Chinò il capo per guardare la ragazza che era rimasta seduta in fondo alla piccola scalinata aspettando che lei gli spiegasse il motivo di quella improvvisa incursione.
Christine arrossì sperando che il suo maestro non si fosse reso conto del fatto che fosse rimasta a osservarlo mentre dormiva, il solo ricordo di quel gesto tanto azzardato la turbava.
«Hai i vestiti bagnati» osservò Erik con voce inespressiva.
«Solo il mantello» rispose la giovane sfilandosi l'indumento umido, l'uomo se lo fece consegnare e lo poggiò accanto alla stufa poi si fermò in piedi davanti a lei.
«Perdonate se vi ho svegliato» mormorò Christine dispiaciuta. «Sono davvero mortificata, ma non pensavo che vi avrei trovato addormentato a quest'ora»
«Non importa»
«Ad essere sincera, vi immaginavo più mattiniero».
Erik le concesse un mezzo sorriso divertito,
«È complicato essere mattinieri o nottambuli quando si vive in un posto dove non si possono distinguere il giorno o la sera» disse. «Mi ero coricato stamattina».
Christine lo osservò sbattendo le palpebre e chiedendosi cosa lo avesse tenuto sveglio tutta la notte,
«Scusate, ma volevo parlare con voi» ammise semplicemente.
Erik annuì e la prese delicatamente per mano, facendola alzare e portandola a sedere davanti allo scrittoio,
«Dimmi pure, ti ascolto» mormorò lui cominciando ad accendere le candele le cui fiamme presero a riflettersi sulle superfici degli specchi illuminando a giorno la Dimora sul Lago.
«Oggi ho avuto il piacere, se così si può dire, di parlare con l'uomo che si sta occupando delle indagini su di voi» esordì Christine, spiando con una certa ansia il suo interlocutore.
Erik lasciò cadere in terra il fiammifero con cui stava finendo di accendere le candele e si voltò verso di lei, inarcò il sopracciglio con aria seria,
«Dunque? Continua» disse.
«Ho detto di non sapere niente, se è questo che vi preoccupa»
«E loro ti hanno creduta?»
«Vi dirò, sareste stato fiero della mia prova di attrice se mi aveste visto» nella voce della fanciulla c'era una nota di astio e risentimento che non sfuggì al suo maestro. Probabilmente la giovane si stava chiedendo se lui dubitasse della sua lealtà.
«Uhm, hai perso un'occasione, potevi raccontare loro la verità e liberarti di un grosso peso» rispose  sarcastico.
«Non prendetevi gioco di me!» protestò debolmente Christine. «Se solo sapeste cosa ho dovuto sopportare!» la ragazza si coprì il volto con le mani per nascondere le lacrime di indignazione che le stavano inumidendo gli occhi. Erik restò a guardarla senza avere il coraggio di avvicinarsi, non voleva farla piangere, non era sua intenzione ferirla. Si maledisse per quell'ennesima dimostrazione di indelicatezza.
«Quell'uomo orribile... ha insinuato che io stia reggendo il gioco a qualche amante per chissà quale  squallida ambizione!... io... io che non ho fatto nulla, se non volervi bene e affidarmi a voi...» disse  lei con voce lamentevole.
Erik le andò incontrò e le posò le mani sulle spalle,
«Tranquilla Christine, solo un uomo scellerato abituato alle cose più subdole può dubitare del tuo onore e della tua onestà» le disse, proferendo quelle parole con una dolcezza che nemmeno nel canto la sua voce aveva mai assunto.
La ragazza scattò in piedi e gli si gettò tra le braccia aggrappandosi con le dita ai lembi della sua camicia, nascondendo il viso nel suo petto.
L'uomo rimase in una ridicola posizione, con le braccia sospese a mezz'aria quasi come se avesse paura di toccarla. Sentiva il viso di Christine umido di pianto attaccarsi alla stoffa della sua camicia e percepì tutta la sua paura e il motivo della sua agitazione.
Christine si sentiva come se fosse assediata. Non era semplicemente l'interrogatorio di Bertrand ad averla turbata, quanto il fatto che temesse di essere presa di mira da quell'uomo. Le erano capitate troppe cose nell'ultimo periodo, l'entrata di Erik nella sua vita, l'amore di Raoul che non aveva potuto ricambiare, il ricordo di suo padre, l'essere stata scelta come protagonista del prossimo spettacolo, la consapevolezza di strani sentimenti mai provati che si stavano insinuando nel suo cuore senza che lei riuscisse a gestirli. Tutte cose avvenute una dietro l'altra, nella sua vita che fino a poche settimane prima era stata così meravigliosamente tranquilla nella sua monotonia. Era abituata a svegliarsi ogni giorno sapendo esattamente cosa sarebbe accaduto nell'attesa che arrivasse la sera, ma ora non sapeva più nulla.
«Erik... io ho paura... ho così tanta paura che vi accada qualcosa...» disse con voce rotta.
L'uomo si decise a sollevare un braccio e posarlo sulla sua schiena scossa dai singhiozzi,
«So badare a me stesso, bambina mia, pensa solo a stare serena...» le sussurrò azzardando una carezza tenera tra i capelli.
«No, ho paura che se quell'uomo continua a darmi il tormento io possa finire per rivelargli ciò che non deve sapere... non voglio che voi siate esposto al pericolo a causa mia».
Erik si irrigidì stringendo i pugni mentre alcune ciocche di capelli della fanciulla si impigliavano intorno alle dita, finì per farle male e solo allora lei sembrò rendersi conto del fatto che era tra le sue braccia, che con le lacrime aveva lasciato un alone di bagnato sul tessuto della camicia.
«Ah, perdonatemi!» esclamò sciogliendosi da quell'abbraccio e ritraendosi.
Gli occhi di Erik brillavano di una furia selvaggia, come se fossero gli occhi di una belva pronta ad attaccare,
«Lo ucciderò! Lo ucciderò prima che ti possa far versare anche solo un'altra lacrima» sibilò con una voce bassa e minacciosa che Christine non gli aveva mai sentito, che quasi non sembrava venire dalle sue labbra. Era come se ci fosse un demone che dal sottosuolo aveva soffiato nell'aria quelle parole terribili.
La ragazza indietreggiò di qualche passo, quello sguardo e quel tono le erano parsi davvero agghiaccianti e lui se ne stava ritto davanti allo scrittoio con gli occhi persi nel vuoto e la mente che elaborava chissà quale terribile piano di morte.
«No!» gridò la ragazza con tanto orrore e tanta forza che le fiamme delle candele sembrano tremare per la veemenza di quell'esclamazione.
Christine cadde in ginocchio ai piedi del suo maestro e gli prese una mano tra le sue. Combattendo contro la paura si costrinse ad alzare lo sguardo per fissarlo negli occhi,
«Erik, ve ne prego... vi supplico» disse mentre il respiro le inciampava nei singhiozzi rendendole difficile continuare a parlare. «Non fatelo, né per me, né per voi stesso, né per nessun altro! Giuratemi che non ucciderete quell'uomo, che non ucciderete mai più... farò ciò che volete, farò ogni cosa mi chiediate ma datemi la vostra parola che non vi macchierete mai più di un simile crimine... dimostrate che non siete il mostro che cercano... potreste riuscire a convincere anche voi stesso!» ciò detto la fanciulla avvicinò il volto alla mano dell'uomo e continuò a piangere.
Erik rimase senza fiato. L'angoscia cominciò a serpeggiargli nelle vene come un veleno, le dita di Christine stringevano ancora la sua mano e lei era lì in ginocchio a supplicarlo di placare quell'odio che per una vita intera aveva dato uno scopo ad ogni sua azione. Era lì ai suoi piedi, fragile come un sogno, un bellissimo fiore che piangeva lacrime come se fossero nettare, bella e disperata come una donna e pura e buona come una bambina. Un angelo a cui lui aveva malignamente desiderato di spezzare le ali per non permettergli di volare via... e in quel momento avrebbe solo voluto chinarsi su di lei a asciugarle quelle lacrime con le labbra, e poter accarezzare la sua pelle fino a morire tra le sue braccia perché quella visione gli portava via aria, gli prosciugava il sangue.
Un senso viscido di disgusto gli serrò la gola e spazzò via quelle immagini poetiche provocandogli un conato di vomito: che razza di creatura immonda doveva essere per far disperare in quel modo la sua piccola Christine, per spaventarla, per farle provare tutto quell'orrore! Atterrito e sconvolto Erik cadde a sedere sul pavimento accanto alla ragazza,
«Sì, Christine... te lo giuro! Te lo giuro!» esclamò mentre la sua voce disperata quanto la supplica della fanciulla riecheggiava nella grotta. In quel momento sarebbe morto se solo lei glielo avesse chiesto.
La abbracciò stringendola a sé con forza mentre lei sollevava la mano per accarezzargli dolcemente la testa.
«Se mai ho una speranza di salvezza quella sei tu, angelo mio» sussurrò Erik con voce quasi delirevole.
Quelle due anime restarono abbracciate, aggrappate l'una all'altra, tanto che quando l'uomo e la ragazza si alzarono da quel pavimento ebbero la sensazione che i loro spiriti si fossero mescolati in un intreccio così stretto da non riuscire più a capire quale spicchio di anima appartenesse a lei o a lui.

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Note:
 Non vorrei sembrarvi narcisista, ma devo confessarvi questo capitolo mi piace moltissimo. Forse è un pò pesante, "cupo" ed eccessivo... forse ho calcato troppo la mano, ma più di una volta mentre lo scrivevo mi è mancata l'aria. L'ho scritto in un momento molto bello per me (anche se a leggerlo non si direbbe) e spero di essere riuscita a trasmettere tutta l'intensità che stavo provando. 

  Lo so, lo so che è un pò insulsa la descrizione del Master dormiente alla "mamma-mia-quanto-sei-fiko"... ma non ho saputo risparmiarmela (e posso accampare la scusa che mi serve per introdurre l'attrazione anche fisica che Christine comincia a provare per lui) !!!

 Al prossimo lunedì


Capitolo reinserito il 23\12\2011

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Capitolo 11
*** La trappola ***


OCCIELO è lunedì.

 Settimana nuova capitolo nuovo... che va assolutamente preceduto dai ringraziamenti e dalle risposte dell'autrice spiantata alle sue argute lettrici. Ovviamente ringrazio chiunque sia passato di qui.
 @Amy: il capitolo non è stato ispirato da nessun ometto, quando ho detto che l'ho scritto in un momento bello non parlavo di "bellezze sentimentali", sono spoetata e a-romantica, come potrei? XD Detto ciò, la scena dell'assenzio è stata ispirata da una mia bevuta, non da quella di zio Johnny, ma la scena di From Hell a cui fai riferimento è un buon modo di spiegare quanto possa far fiko l'assenzio al falmbè sul grande schermo (specie se è fiko chi lo beve). Fermo restando che non credo che la chupa dance sia una soluzione e che non è quello che volevo intendere, e fermo restando che per me la diatriba sulla verginità di Erik lascia il tempo che trova, vero è che la mancanza di contatto fisico (e non parlo solo dei rapporti sessuali) è un'ulteriore spiegazione del suo senso di frustrazione, ma non è che sia il particolare più rilevante della vicenda... è che nella mia mente contorta Erik è troppo "snob" per andare con una prostituta e nel descrivere il personaggio come lo vedo io volevo sottolineare anche questo. Lieta di vedere che BB funzioni... la Divina nel mio universo fansmoso è come la nutella: che mondo sarebbe senza di lei, quindi vedrai che arriva (mi pare sia propro nel prossimo capitolo)! ^^
 @bloodred_rose: benritrovata ^^ grazie dei complimenti, confesso che il fatto che questa storia sembri meglio dell'altra mi fa gongolare non poco... insomma, è confortante pensare che magari un pò si sta migliorando quindi grazie, grazie grazie *_* E sono contenta che Bertrand intrighi... io voglio molto bene al mio viscidone puzzolente di tabacco XD Per i congiuntivi, hai fatto benissimo a farmelo notare, ora ricontrollo il capitolo e sistemo se ho fatto qualche svarione (il che è molto probabile, vi dirò, questa storia l'ho cominciata quasi un anno fa, i capitoli che state leggendo adesso li ho scritti in un tempo e uno spazio un pò diversi dal presente e li ho riletti e controllati all'epoca ma è probabile che qualcosa mi sia sfuggito).

 Detto ciò... Buona lettura.
I remain, gentlemen, your obidient servant

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CAPITOLO DECIMO
La trappola

La domestica sparecchiò con discrezione, cercando di non disturbare la conversazione tra madame Ginette e suo figlio, dal momento che la discussione sembrava stesse prendendo una piega piuttosto grave.
«Sono tua madre, Alexandre! Avrò il diritto di preoccuparmi per te e di ritenere tutto questo una follia!» esclamò la donna lasciando cadere il tovagliolo sul tavolo con un gesto stizzito.
Il ragazzo sospirò e si morse il labbro inferiore. Non voleva mancare di rispetto a sua madre e non voleva turbarla, ma non era facile per lui dividersi tra il giornale, le indagini in teatro e le preoccupazioni che lei involontariamente gli procurava.
«Una follia?! Io sto cercando di fare il mio lavoro, di realizzare l'impresa che ho sempre sognato! Quando smetterete di ritenere i miei progetti i capricci di un ragazzino non sarà mai troppo tardi!» esclamò Alexandre incrociando le braccia sul petto.
«Io sono la prima ad essere felice se il tuo lavoro ti procura soddisfazione, ma il tuo posto è nella redazione del giornale, non in quel teatro a dare la caccia a un omicida!»
«Credete dunque che ciò che mi soddisfa sia restarmene dietro a una scrivania a scrivere poche righe su fatti comuni? In quel teatro sta succedendo qualcosa, non so cosa ma è di certo qualcosa di interessante, qualcosa che vale la pena di raccontare, qualcosa...»
«Qualcosa di pericoloso!» interruppe madame Ginette. «Devo ricordarti che i direttori dell'Opera ricevono continue minacce, che è già morto un uomo, e noi eravamo lì quando è successo, come puoi aver dimenticato quella scena orribile?».
La donna si coprì il volto con le mani come per scacciare dalla mente la terribile immagine del cadavere del macchinista che cadeva senza vita sul palcoscenico.
«Non ho dimenticato la morte di quell'uomo» disse Alexandre gravemente.
«E allora perché hai accettato questo incarico? Per fare la sua stessa fine?» incalzò sua madre.
«Forse per rendergli giustizia! Ve l'ho già spiegato, c'è una storia che va raccontata, c'è una verità che va scoperta e voglio essere io a farlo»
«Cosa direbbe tuo padre di tanta incoscienza?!»
«Non nominate mio padre! Probabilmente a lui non sarebbe importato...»
«Non dire queste cose orribili! Tuo padre ti amava, lui era orgoglioso di te e lo sai»
«Certo, peccato che io non fossi orgoglioso di lui!» ribatté il ragazzo.
«Ti proibisco di parlare in questo modo» lo ammonì la donna con aria severa.
Alexandre sentì la collera salire assieme a una vampata di calore che gli arrossò le guance. Ebbe la sensazione che il cervello gli friggesse come se fosse stato un pezzo di carne gettato su una superficie arroventata. Non amava sentir parlare di suo padre, meno che mai quando sua madre lo tirava in ballo per muovergli dei rimproveri.
«Ebbene vogliamo parlare di che grande uomo sia stato Simone Dubois?» disse in tono di sfida. «Un marito infedele, un padre assente, un uomo del tutto disamorato. È colpa sua se voi...»
«Se io sono impazzita? È questo che vuoi dire?»
«Voi non siete pazza»
«Forse no, ma è così che definiscono la gente come me» rispose madame Ginette con voce spenta. «E sai bene che non è stata colpa di tuo padre... se mio figlio non fosse morto io...»
«Va bene, basta così» mormorò Alexandre. Il senso di colpa cominciava ad attanagliargli lo stomaco. «Mi dispiace di avervi turbata maman, e vi chiedo scusa, ma io non sono più un ragazzino oramai».
Madame Ginette sospirò con aria afflitta,
«Non c'è niente che io possa fare per farti rinunciare a questa impresa?» chiese con voce implorante.
Suo figlio scosse energicamente la testa,
«Ora, scusate maman, ma devo andare» disse alzandosi da tavola facendo strisciare rumorosamente la sedia sul pavimento di marmo.
«Alexandre, aspetta...». La donna si aggrappò alla manica della giacca del giovane e cercò il suo sguardo. «Mi dispiace se a volte ti do così tanta pena» mormorò con gli occhi umidi.
Lui le posò un bacio tra i capelli e accennò un sorrido colmo di tenerezza,
«Voi non siete una pena per me, voglio che lo teniate bene a mente».
Alexandre afferrò il cappotto e si legò una sciarpa di lana scura attorno al collo.
Il cielo sopra Parigi era cupo, denso di nuvole che da giorni ormai non lasciavano tregua alla città presa d'assedio da uno degli inverni più rigidi che si fossero mai visti.
Malgrado il freddo pungente, il giornalista decise di recarsi a piedi a teatro. Aveva un appuntamento con Bertrand dopo pranzo e l'Opera non distava molto da casa sua. Per di più, aveva bisogno di schiarirsi le idee e raffreddare la rabbia che lo accendeva ogni qualvolta sentiva parlare di suo padre.

Il teatro era vuoto e silenzioso, le candele erano spente e sembrava che le nuvole basse fossero penetrate all'interno dei muri dell'edificio rendendo l'aria scura e pesante, o magnificamente spettrale, avrebbe potuto dire il giovane. Era così che voleva descrivere l'Opera Populaire nei suoi scritti quando avrebbe cominciato la stesura del suo romanzo: un magnifico scrigno pieno di tesori e insidie.
Mentre raggiungeva l'ufficio dei direttori, Alexandre sentì uno scricchiolio in lontananza, si voltò e vide qualcosa. Qualcosa che la sua mente razionale etichettò in un primo momento come una suggestione: in fondo al corridoio che si perdeva in un cono d'ombra il ragazzo aveva visto distintamente un guizzo bianco sparire oltre l'angolo del muro e da quello stesso punto era partito un suono che si dissolveva nella penombra come se fossero le pareti stesse a produrlo, era come se il teatro respirasse, era come se fosse vivo. Alexandre si disse di non farci caso, che gli era già capitato di lasciarsi suggestionare in quel modo sciocco, eppure il suono non smetteva. Si trattava di un canto dolce e soave, una voce angelica che imitava il motivo di un'aria di Rossini.  
In un impeto di curiosità e incoscienza il giovane si lanciò verso il fondo del corridoio,
«Chi è là?!» domandò senza ottenere risposta.
Affrettò i suoi passi e si ritrovò a correre lungo il corridoio, scoprì che questo terminava davanti a una porta a due battenti tinteggiata quasi di fresco con una vernice color madreperla e le rifiniture dorate.
Alexandre esitò un attimo prima di girare il pomello a forma di fiore, ma la voce continuava a cantare e lui era certo che chiunque fosse si trovava dietro quella porta.
Spalancò il battente spingendosi oltre l'uscio con aria concitata ma si ritrovò a boccheggiare incredulo quando si accorse che era maggiore lo spavento che aveva provocato che non l'ansia che gli aveva gelato il sangue in quello strano inseguimento.
«Monsieur Dubois!» esclamò Christine con aria più turbata che interdetta.
«Mad... mademoiselle Daae, siete voi» farfugliò il giovane deglutendo.
«Ma cosa stavate facendo?»
«Assolutamente nulla. Abbiamo finito le prove e sto raggiungendo le mie compagne per il pranzo»
«Eravate voi a cantare poc'anzi?».
La giovane annuì. Alexandre si stropicciò la faccia e ridacchiò di se stesso.
«Ma che avete? Cosa vi succede?» domandò Christine corrugando la fronte.
«Nulla, nulla... avevo sentito una voce che cantava, volevo vedere chi fosse» rispose il giornalista cercando di ricomporsi.
«State ancora dando la caccia ai fantasmi?» borbottò lei con aria crucciata.
«Vi ho anche chiamato ma non mi avete risposto è per questo che vi ho seguito, non pensavo foste voi, non volevo spaventarvi»
«Bene, vi auguro buona giornata monsieur».
Ciò detto Christine fece per voltarsi e andarsene, ma Alexandre la trattenne,
«Aspettate» disse titubante. «Dal vostro tono freddo capisco che siete ancora interdetta per l'altro giorno, per l'interrogatorio. Volevo sapeste che mi dispiace»
«Voi e il vostro collega mi avete mosso delle accuse indicibili, cosa pretendete? Che vi accordi la mia stima?»
«È stato Bertrand a dire quelle cose, non io. Io non penso che bene di voi»
«E perché dovreste pensare bene di me? Non mi conoscete nemmeno» osservò la giovane.
«Siete molto cara al migliore amico che io abbia mai avuto, se lui vi stima e vi crede degna del suo affetto io non posso che fare altrettanto» disse Alexandre.
Christine parve rabbonirsi e gli concesse un mezzo sorriso,
«Quand'è così allora vi ringrazio. Forse sono stata frettolosa nel giudicarvi, del resto Raoul non vi riterrebbe suo amico se non foste assolutamente rispettabile»
«Vi prometto che farò tutto quanto è in mio potere perché non si verifichi mai più un episodio increscioso come quello che è capitato l'altro giorno».
La fanciulla sospirò. In quei giorni tutti sembravano sentirsi in dovere di farle promesse, promesse che andavano contro le loro possibilità o la loro natura e lei non capiva perché, da un po' di tempo a quella parte, ogni cosa sembrava girare attorno a lei, come se fosse il burattino inconsapevole di strane macchinazioni. Che volevano tutti quanti da lei? Raoul, Bertrand, quel giornalista, Erik...
Ah Erik glielo aveva detto con estrema chiarezza ciò che voleva da lei: voleva farla diventare una stella del canto, perché così facendo avrebbe avuto la soddisfazione di trarre una forma di successo dal proprio genio costretto a rimanere nascosto nell'ombra. O almeno questo era ciò che Christine preferiva raccontarsi per non guardare troppo infondo, dentro se stessa e oltre i gesti e le parole del suo maestro. Preferiva non farsi illusioni e pensare che anche per lui era solo un mezzo per raggiungere uno scopo, l'aiuto che le occorreva per imparare a sfruttare al massimo il proprio talento.
«A cosa state pensando Christine?» domandò Alexandre sottraendola alle proprie riflessioni.
«A nulla...»
«Ditemi, come procedono le prove per l'Otello?»
«Molto bene direi, spero di essere all'altezza della grande occasione che mi è stata data» sospirò la fanciulla.
«Lo sarete di certo» rispose prontamente il giornalista con un sorriso complice. «Ora perdonatemi, ma devo incontrarmi con monsieur Bertrand»
«Certo, non voglio farvi perdere altro tempo. Buon pomeriggio, monsieur»
«Altrettanto».

*

Sorrideva sempre in quelle occasioni, ma senza rendersene conto. Un sorriso maligno, tagliente, un'espressione degna del Figlio del Diavolo. Il sorriso soddisfatto e beffardo di chi pregusta la vittoria, di chi sta per avere conferma di essere il più forte, malgrado tutti gli sforzi che altri fanno per schiacciarlo.
Erik osservò soddisfatto il lavoro. Le corde tese, la molla della botola pronta a scattare, le poche candele sistemate ad arte.
Aveva promesso a Christine che non avrebbe ucciso più, e il trasporto con cui aveva pronunciato quel giuramento era stato tale da rendergli impossibile anche solo pensare di infrangerlo. Ma questo non voleva dire che non avrebbe trovato un sistema per occuparsi di quell'uomo, di quello stolto scribacchino che si credeva tanto arguto. Era giusto mostrare al giovane Alexandre Dubois la soglia dell'inferno, così che tornasse sui suoi passi, che si rendesse conto che la verità che cercava con tanta devozione e convinzione fosse troppo raccapricciante per essere scoperta e raccontata.
Mirava al giornalista perché si era reso conto che era inutile tentare di dissuadere Bertrand. Quell'uomo era un segugio che prendeva ogni caso come una questione personale e la sua torbida carriera era la dimostrazione che sarebbe stato disposto a tutto pur di arrivare in fondo a quella faccenda. Ma se il suo complice, se il giornalista che tanto gli era di aiuto con le sue brillanti intuizioni, si fosse tirato indietro lasciandolo solo sarebbe stato più facile contrastarlo.
Lui conosceva molti modi per dissuadere un uomo, modi che includevano sistemi più efficaci di una lettera dai toni minacciosi.
Era proprio curioso di sapere se la resistenza fisica di Dubois era pari alla sua testardaggine, se anche davanti al dolore avrebbe mostrato la stessa tenacia.
«Perfetto» sibilò Erik osservando il nodo scorsoio, poi si allontanò dalla botola e si appoggiò con le spalle contro il muro.
Ora non restava altro da fare che attendere.   

*

«Io sono convinta che esista! E sono certa che sia un uomo!» esclamò Meg guardando con aria convinta il giornalista e l'investigatore che stavano interrogando le ballerine.
Alexandre aveva avuto poche cose da annotare sul suo taccuino quel giorno. Le ragazze del collegio non avevano raccontato nulla di interessante, niente che fosse diverso da tutte le storie che avevano già sentito per bocca dei macchinisti, ma quando la giovane Giry aveva fatto quell'affermazione con tanta sicurezza gli occhi di Bertrand si erano illuminati.
«E cosa ve lo fa credere, mademoiselle?» l'investigatore incitò la ragazza a continuare nell'esporre la sua tesi, ma non notò che dal lato opposto della sala madame Giry aveva lanciato a sua figlia una severa occhiata di ammonimento per zittirla.
La fanciulla bionda deglutì nervosamente,
«I fantasmi non esistono» tagliò corto, in tono pratico.
L'investigatore annuì
«Certo, mademoiselle, questo è il motivo per cui i direttori hanno chiamato me, altrimenti avrebbero chiamato una fattucchiera»
«Mademoiselle Giry,» intervenne Alexandre, «mi sembrate molto convinta della vostra affermazione, potreste dirci qualcosa di più?».
Meg scrollò le spalle,
«Quell'essere, chiunque esso sia, ha terrorizzato il teatro per anni. Se c'è qualcuno che si aggira indisturbato nel posto in cui vivo voglio che venga trovato! Ha già ucciso un uomo, e Dio solo sa cos'altro è capace di fare, e se usasse violenza a una di noi?! Signori, voglio che quel mostro venga trovato, farei di tutto per aiutarvi ad avere la sua testa... ma...».La ballerina si interruppe abbassando lo sguardo.
«Ma cosa?»
«Ma sfortunatamente non so nulla...»
«Molto bene, mia cara, come ho già detto alle vostre compagne, se vi dovesse venire in mente qualcosa, anche un particolare che vi sembra sciocco, non esitate a parlarcene» concluse Bertrand.
Il giornalista e l'investigatore salutarono le ballerine e lasciarono madame Giry sola con le sue allieve.
«Ragazze, potete andare per oggi» disse l'istruttrice con un sospiro spazientito. «Tanto ormai è inutile continuare la lezione, i signori hanno abbondantemente minato la vostra concentrazione per questo pomeriggio».
«A domani, madame!» salutarono in coro le fanciulle con le loro voci cristalline.
Eloise rivolse loro un mezzo sorriso e le osservò uscire ordinatamente dalla sala, aggraziate come boccioli posati sui loro steli.
«Tu no, Meg» disse poi trattenendo sua figlia per il braccio e fissandola con freddezza.
Quando la sala si fu sfollata, Eloise si portò le mani ai fianchi e sospirò spazientita,
«Cosa diamine stavi facendo?!» esclamò incollerita
«Quello che dovresti fare tu, maman!» replicò la giovane. «Denunciare quel mostro!»
«Ti ho già detto di restare fuori da questa storia!»
«E l'ho fatto, ma credimi farei qualunque cosa per aiutare quei due a catturare il Fantasma, se lo prendessero sarebbe un bene, per tutti noi»
«Cosa ne sai, ragazzina? Ti ho già detto...»
«Mi hai solo detto di tenere la bocca chiusa riguardo al passaggio segreto che ho scoperto nel camerino della primadonna, ma non mi hai dato una sola ragione per convincermi che sia giusto tacere!»
«Meg, ci sono cose che non puoi capire, ma fidati di me, sto facendo la cosa giusta» borbottò Eloise.
«Dici così perché hai paura, anche tu hai paura di lui! Oh maman, dimmi ti ha fatto del male? Ti ha minacciata?!...».
Eloise scosse il capo,
«Meg, ah Meg, tesoro mio, nella mia vita non ho mai fatto nulla perché mi sentissi costretta» disse con un sospiro stanco.
«Ma allora perché una donna onesta dovrebbe aiutare un criminale?» incalzò sua figlia.
«Perché a volte le donne oneste riescono a guardare oltre le convenzioni che hanno dovuto imparare. Il mondo, mia piccola Meg, non è diviso in buoni e cattivi, santi e criminali, come cercano di farci credere. Ti prego, abbi fiducia in tua madre» concluse madame Giry prendendo le mani della ragazza tra le proprie.
«D'accordo, come vuoi tu maman...» concluse la ballerina accennando un sorriso titubante, poi lasciò sola la donna per tornare ai propri alloggi.

Eloise si diresse verso la sartoria per controllare a che punto fossero i lavori per i costumi delle ballerine. Sapeva che, in occasione di un nuovo spettacolo, Mosetti e le sue sarte tendevano a dedicare più tempo alla realizzazione dei costumi per gli attori principali piuttosto che occuparsi della tenuta delle ballerine e lei era costretta ogni volta a sollecitare il loro lavoro ricordandogli che i costumi del corpo di ballo facevano parte dello spettacolo tanto quanto le scenografie e le luci e che quindi non erano da considerarsi particolari trascurabili.
Fu mentre scendeva le scale che portavano al sottopalco che Erik le si parò davanti sbarrandole la strada.
«Che ci fai qui? Non è il caso di andarsene a zonzo per il teatro con l'investigatore e il giornalista in giro per l'edificio» protestò la donna.
«Non è con me che devi fare la madre, Eloise» mormorò Erik con un ghigno provocatorio. «E quindi anche tua figlia sa, o così sembrerebbe da quello che vi siete dette poco prima».
La donna si strinse un lembo del abito con un gesto nervoso,
«Lasciala fuori da questa storia, non osare toccare mia figlia, Erik, è l'unica cosa che non ti permetto di fare» sibilò guardandolo diritto negli occhi.
«Sono un mostro sotto molti aspetti Eloise, ma non torcerei un capello a una ragazzina, meno che mai a tua figlia. Invece di preoccuparti di me, preoccupati che la piccola Meg non vada a raccontare niente in giro»
«Non lo farà»
«Ma se stava per farlo solo pochi minuti fa!»
«L'ho convinta, credimi, puoi stare tranquillo. Meg non dirà una parola».
Erik dondolò il capo,
«Ho sentito che ha detto che taci perché hai paura. È davvero così, Eloise, tu mi temi?» domandò.
«Temo solo ciò che potrebbe accaderti se non ci fossi io» rispose prontamente la donna.
«Ah già... se non ci fossi tu... comunque sia, tutto questo è assurdo... ci sarà qualcosa che posso fare per porre fine a questa battuta di caccia»
«Potresti morire».
Erik corrugò la fronte e accennò un sorriso amaro,
«Non credere che non ci abbia pensato già altre volte in passato» concluse.
«Ah, non essere melodrammatico!» borbottò Eloise sollevando gli occhi al cielo.
«Ad ogni modo, mi intratterrei volentieri a parlare con te ancora per un po', le nostre conversazioni sono sempre così allegre! Ma si dia il caso che ho da fare»
«Posso osare domandarti cosa?».
Il Fantasma sorrise in quel suo modo inquietante che fece trasalire Eloise,
«Volevi sapere che progetti ho riguardo ai nostri nuovi ospiti, ebbene ho finito di attuarne uno poco fa» disse lui.
«Erik, ti prego... cosa vuoi fare?» chiese la donna spaventata.
«Tranquilla, qualcosa di meno irreversibile di un omicidio, te lo assicuro», ciò detto l'uomo sparì nel buio prima che Eloise avesse il tempo di aggiungere qualcosa.

*

Alexandre stava cercando di togliersi le macchie di inchiostro dalle dita strofinandole energicamente con un pezzo di sapone e sciacquandole in un catino di acqua calda che si era fatto portare da un inserviente. Doveva incontrarsi con Raoul, voleva chiedergli di accompagnarlo a cena fuori in uno dei bistrot vicino al teatro in cui a volte capitava loro di pranzare, ma non voleva presentarsi lì con le mani sporche.
A dire il vero, l'unica cosa che il ragazzo non voleva fare quella sera era tornare a casa. Si sentiva stanco, tra il lavoro, le indagini a teatro e sua madre. Dopo la discussione che avevano avuto a pranzo poi, sperava di restare fuori abbastanza da trovarla addormentata quando sarebbe rincasato.
«Forse mia madre ha ragione... forse devo lasciar perdere, pensare alla carriera nel giornale, trovare una brava giovane da sposare...» si disse notando che l'unghia del dito medio era ancora contornata da una sottile striscia nera.
«Io non sono come mio padre...» aggiunse ad alta voce.
Suo padre, Simone Dubois, in fondo lo aveva amato a suo modo. Lo aveva incoraggiato a studiare e non aveva mai badato a spese per la sua istruzione, nemmeno quando lui aveva espresso il desiderio di frequentare l'università di lettere a Parigi. Lo aveva spronato con ogni mezzo, ripetendogli costantemente che lui doveva impegnarsi e dimostrarsi degno di essere suo figlio, al punto che Alexandre era arrivato a pensare che Simone lo avrebbe amato meno se non si fosse rivelato il ragazzo brillante che era sempre stato. Era cresciuto nell'ansia di compiacere suo padre, di essere all'altezza delle sue aspettative, di riuscire a ricambiare gli sforzi che la sua famiglia faceva per lui, ma le cose erano cambiate quando aveva visto qualcosa che sarebbe rimasto impresso nella sua mente per tutti gli anni a venire.
Il rintocco del campanile di una chiesa vicina strappò il giovane ai suoi pensieri e gli ricordò che erano le otto, l'ora in cui aveva dato appuntamento a Raoul fuori dal teatro.
Osservò le mani e le giudicò abbastanza pulite. Ripose il taccuino degli appunti nella tasca interna del cappotto e si avviò verso l'uscita.
«Bonne nouit, monsieur Dubois» lo salutò cordialmente la giovane inserviente che rimaneva a pulire gli uffici quando tutti andavano via.
Lui chinò il capo con un sorriso galante rispondendo al saluto. Decise di passare per l'ingresso principale, e scese a rapidi passi lo scalone di marmo che portava verso il foyer, mentre ad ogni gradino cercava di lasciarsi alle spalle uno dei suoi tanti pensieri. Per quella sera voleva essere nient'altro che un giovane di buona famiglia che va a divertirsi con un amico, ma quel desiderio era destinato a infrangersi entro pochi secondi.
Prima degli ultimi gradini c'era un rialzo con al centro una rosa dei venti disegnata con marmi colorati e inserita in un cerchio nel quale erano incastonate lettere di ottone che componevano il nome del teatro e la data di edificazione. Quando il piede del ragazzo si posò al centro del disegno, Alexandre sentì come se il pavimento fosse scomparso sotto di lui, le punte della rosa dei venti si erano piegate verso il basso, come sportelli di uno scrigno segreto, facendolo scivolare verso il buio.

Keep your hand at level of your eyes...

«Tieni la mano ad altezza degli occhi». Era stata una delle raccomandazioni dei macchinisti, sembrava più un detto, un proverbio in uso tra gli addetti ai lavori del teatro, che non un vero e proprio ammonimento. Gli era stato spiegato che le trappole del Fantasma dell'Opera consistevano in strani meccanismi che facevano scattare un cappio, se si fosse tenuta la mano ad altezza degli occhi si sarebbe potuto allentare il nodo scorsoio e quello strumento di morte non sarebbe scivolato oltre la testa stringendo il collo.
Aveva ritenuto quella storia una leggenda, una delle tante dicerie nate all'ombra della superstizione e della paura, ma ora si era reso conto che era tutto vero. Tutto terribilmente vero.
Non riusciva a capire dove si trovasse, la caduta non era stata alta, non si era fatto male ma il cappio era lì, c'era davvero. Solo che non si era stretto intorno al collo, non doveva servire a strangolarlo perché era così largo che lui era entrato nel cerchio di corda con tutto il corpo e ora la fune gli stringeva il torace, lasciando fuori le braccia che aveva alzato durante la caduta nel tentativo di reggersi a un provvidenziale appiglio che non aveva trovato.
Se quella era una delle micidiali trappole del Fantasma dell'Opera, allora quel mostro geniale aveva fatto male i calcoli!
«Alexandre Dubois» scandì una voce tranquilla proveniente dal buio.
C'erano solo due candele in quella specie di sotterraneo, erano posate in terra, una era davanti al giornalista e una doveva trovarsi dietro di lui. Illuminavano a malapena l'ambiente rendendo impossibile capire quanto fosse grande, dove finiva il pavimento spoglio e dove cominciavano le pareti.
Un'ombra fece il suo ingresso nel pallido cerchio di luce delle candele. Alexandre non vide altro che un'imponente figura ammantata di cui riusciva a malapena a scorgere la sagoma delle spalle e della testa.
«Dunque sei tu, il Fantasma dell'Opera. Pensavo che i fantasmi portassero indosso un lenzuolo!» disse il giovane in tono canzonatorio e sprezzante.
«Io ho persino un nome, sapete Alexandre. Ma non ve lo dirò perché evidentemente non vi interessa, voi non state cercando un uomo, volete solo il vostro mostro da bruciare sul rogo» rispose l'ombra in tono pacato, con una voce così suadente che il giornalista provò un brivido indefinibile e provò quasi vergogna ad aver usato un tono derisorio per qualcuno che gli parlava in maniera così compita e che, a giudicare dalla voce, doveva avere più anni di lui.
«Sono le vostre azioni a qualificarvi, non ciò che penso io» rispose accordandogli il pronome di cortesia come l'altro aveva fatto con lui.
L'ombra non disse niente e rimase in silenzio per lunghi secondi.
Alexandre avvertì il nervosismo serpeggiare viscido in un brivido lungo la schiena, la sensazione spiazzante di chi si sente una preda. E come un sadico predatore il Fantasma aveva preso a camminare in circolo intorno a lui, con passi lenti facendo in modo che quell'orribile sensazione di pericolo si insinuasse fin nel profondo dell'anima del giovane.
«Avete ragione» concesse infine il Fantasma. «Ma dimenticate che sono i motivi che a loro volta qualificano le azioni degli uomini»
«Un omicidio è sempre un omicidio e una minaccia è sempre una minaccia. E comunque sia, di rado ho trovato situazioni in cui gesti tanto scellerati erano giustificati da nobili cause» rispose il giornalista.
«L'istinto di sopravvivenza non è una causa nobile forse, ma è una motivazione abbastanza legittima, a mio avviso. Ma non voglio convincervi che il mio punto di vista sia quello giusto»
«E allora, cosa volete da me?».
Il Fantasma si fermò alle spalle di Alexandre e si avvicinò tanto da sussurrargli all'orecchio,
«Voglio che abbandoniate questa impresa, per il vostro bene»
«Perché? Se non lo facessi cosa accadrebbe?»
«Dopo ve ne darò un assaggio, ma ditemi, perché vi state ostinando in questa caccia assurda? Voi non siete come Bertrand, non lo fate per denaro».
Alexandre sorrise nervosamente e tentò di allentare il cappio che gli stringeva il torace, ma il Fantasma gli bloccò le braccia in una presa salda,
«Non è buona educazione non rispondere a una domanda» gli disse in tono aspro.
«No, non lo faccio per denaro!» borbottò il giovane rendendosi conto che era inutile lottare. «Lo faccio perché sono un giornalista e cercare la verità è il mio mestiere»
«Ottima motivazione, ve lo concedo» rispose il Fantasma. «Ma sono costretto a chiedervi di andare a cercare la vostra verità altrove»
«Fareste meglio a uccidermi allora»
«No, non serve»
«Perché? Uccidete solo se è utile? Buono a sapersi, e io che vi credevo un folle!» lo provocò Alexandre.
«Tuttavia, sempre per il vostro bene, non credo sia saggio tentarmi»
«Lasciatemi andare»
«Più tardi»
«Allora ditemi chi siete»
«Un uomo che vuole adoperare il proprio talento, esattamente come voi».
Alexandre sospirò stizzito,
«Voglio sapere chi è il Fantasma dell'Opera!»
«Non muovetevi...».
Il giovane sentì che l'ombra si allontanava da lui,
«Non avete risposto alla mia domanda! Non avete detto che non è buona educazione?!» gridò in un impeto di rabbia impotente.
«Sì, ma io posso permettermi di non rispondere perché non sono io quello legato in un sotterraneo» concluse il Fantasma con una leggera risatina che fece andare il ragazzo su tutte le furie.
«Lasciatemi andare!»
«Lo farò, lo farò, ma più tardi. Siete testardo Alexandre, quindi immagino capirete che non posso arrendermi così facilmente dopo il primo tentativo. Dunque, ve lo chiedo un'ultima volta: volete abbandonare questa indagine?»
«Ora meno che mai!» ruggì il ragazzo.
«Come volete...» bisbigliò il Fantasma. Due parole pronunciate a bassa voce, soffiate nel buio con tono tranquillo, eppure proferite in un modo talmente minaccioso che Alexandre sentì il sangue gelarsi nelle vene.
Il Fantasma doveva aver girato un meccanismo simile a quello che si utilizza per sollevare grandi pesi, come quello che c'era nella soffitta del teatro e che i macchinisti usavano per regolare l'altezza del lampadario della sala. La corda a cui era legato il giovane si sollevò tendendosi verso l'alto e lui non capì a cosa servisse tenerlo legato a mezz'aria.
«Cosa state facendo?» borbottò più seccato che impaurito.
«Non avete mai letto i libri sulla Santa Inquisizione? Una delle manovre più bestiali che l'umo abbia mai concepito, si chiamavano streghe persone che sembravano diverse da chi stava al potere, e tanto bastava a torturarle e ucciderle. Ora, come allora, il mondo non sa accettare chi è diverso» commentò secco il Fantasma.
Alexandre non capì subito, ma appena i suoi piedi furono sollevati dal suolo, la corda che lo avvolgeva cominciò a stringergli il petto in modo tale che il giovane ebbe la sensazione che le ossa del torace implodessero verso l'interno con una forza pari al suo peso.
Bastò lasciarlo sospeso a una decina di centimetri per pochi secondi perché il dolore si facesse insopportabile, tanto che il giovane non riuscì a trattenere un urlo disperato. Sentiva il cuore battere all'impazzata come se volesse respingere la stretta micidiale che avvolgeva il petto.
«Maledetto... mostro!...» gridò Alexandre con il respiro che gli moriva in gola per il dolore e per la compressione della cassa toracica. Pensò che da un momento all'altro le costole si sarebbero spezzate come i cardini di una porta sotto la spinta di un ariete.
«Dite che rinunciate a questa follia e vi rimetto giù» disse il Fantasma.
«Mai! Voglio la tua testa su un patibolo!» ringhiò il giovane tentando di dibattersi, con il solo risultato di rendere più intensa la sensazione di oppressione.
«Se aveste desideri meno brutali sarebbe meglio, credetemi».
In quelle parole che sembravano semplicemente di derisione c'era una freddezza che avrebbe potuto rendere l'aria irrespirabile, ma Alexandre non avrebbe notato la differenza visto che ogni respiro diventava un tormento e accresceva il dolore lancinante che stava provando.

Erik ripeté più volte a se stesso che poteva bastare, che era meglio farlo scendere. Era inutile continuare a torturarlo, quel ragazzo non si sarebbe smosso dalla sua decisione e ciò che doveva servire a spaventarlo sembrava stesse servendo solo a renderlo più deciso a continuare il suo lavoro.

Lascialo andare, Figlio del Diavolo...

«Lascialo andare» sussurrò pacata la voce della sua coscienza che somigliava sorprendentemente a quella di Christine.
Già, Christine, cosa avrebbe detto quando si sarebbe saputo che il Fantasma dell'Opera aveva torturato il caro giornalista? Quel ragazzo così affabile, così bello. Tutti a teatro lo avevano preso in simpatia, lo consideravano un giovane brillante, rispettoso e degno di stima. Come sarebbe stato lui se Dio non gli avesse regalato un volto deforme. Provò una fitta di invidia per il ragazzo e prolungò quella terribile agonia per un'altra manciata di secondi, fino a quando Alexandre non smise di gridare perché aveva perso i sensi a causa del dolore e della difficoltà a respirare.
Erik sospirò e fece scendere il corpo del giovane verso il pavimento. Lo slegò e lo adagiò a terra con più cura di quanta pensava di avere,
«Siete coraggioso, maledizione!» borbottò «Siete anche un rivale interessante, il migliore che potessi augurarmi. Spero che in futuro non ci rivedremo mai più» disse spiando il volto esangue del giornalista che in ogni caso non avrebbe potuto sentirlo.

*

Raoul controllò l'orologio che teneva nel taschino, erano le otto e mezza e Alexandre ancora non si era fatto vivo. Non era da lui arrivare tardi, ma da quando aveva cominciato a interessarsi alla vicenda del teatro sembrava avere costantemente la testa altrove.
Il visconte sbuffò e pensò di andare dentro per cercare il suo amico. Era stato lui a chiedergli di vedersi e ora lo lasciava mezz'ora ad aspettare al freddo!
Il teatro, come Raoul aveva previsto, era vuoto. A quell'ora non c'era più nessuno. Le ballerine erano tornate in collegio e probabilmente a quell'ora avevano anche finito di cenare, i macchinisti e gli orchestrali andavano via subito le prove e i direttori non amavano trattenersi all'Opera più del necessario, soprattutto in quel periodo e anche gli inservienti non avevano motivo di rimanere a teatro quando tutti se ne erano andati. Rimaneva solo un custode che spesso finiva per addormentarsi seduto al tavolinetto nella sua guardiola.
Raoul si mosse nella penombra, non conosceva bene il teatro, ma con tutti i vai e vieni delle ultime settimane avrebbe potuto raggiungere l'ufficio dei direttori anche a occhi chiusi.
La porta dell'ufficio era socchiusa e ne usciva il fioco fascio di luce di una lampada accesa, il visconte pensò che era strano: Andrè e Firmin la chiudevano sempre a chiave, evidentemente Alexandre era ancora lì dentro.
«Spero vivamente che abbia avuto da fare con qualche bella ballerina, altrimenti lo lascio qui!» pensò il giovane aprendo lentamente la porta.
Quando Raoul sbirciò nell'ufficio pensò che avrebbe davvero preferito che il suo amico si fosse trattenuto con una ballerina perché ciò che vide lo lasciò di stucco: Alexandre era seduto a terra, con  le spalle poggiate contro il muro, le gambe stese, le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa reclinata in avanti.
«Oh mio Dio!» esclamò Raoul mentre una morsa di terrore gli attanagliava lo stomaco.
Il visconte si gettò sull'amico e gli sollevò il volto pregando tutti i santi di cui conosceva il nome che il ragazzo fosse vivo.
«Alexandre!» chiamò scuotendolo per le spalle.
Fu solo dopo diversi secondi, durante i quali gli occhi di Raoul avevano già cominciato a lacrimare, che il giornalista sollevò le palpebre e si piegò in avanti scosso da forti colpi di tosse intervallati da gemiti di dolore.
«Alexandre, amico mio! Oddio, sei vivo... sia ringraziato il cielo! Dimmi, cosa ti è successo?» lo incalzò Raoul.
Il giovane spinse via il visconte con un debole gesto della mano,
«Non respiro se... se mi stai così addosso...» si lamentò con un rantolo senza smettere di premersi una mano sul petto, ad ogni respiro sentiva ancora un bruciore indescrivibile spandersi tra le ossa e i muscoli del busto. Reclinò il capo all'indietro, i capelli erano sudati e spettinati, il viso era ancora arrossato. Con gesti nervosi si sfilò il cappotto e la giacca e si aprì la camicia, un lungo segno violaceo si era già formato nel punto in cui la corda lo aveva stretto.
«Oh, angeli del cielo!» esclamò Raoul impallidendo. «Chi è stato a farti questo?»
«Il Fantasma dell'Opera, quello che non esiste, hai presente?» rispose Alexandre con voce spenta.
«Come?... Cosa?... Che significa?!»
«Dopo Raoul, dopo. Ora ho bisogno che mi passi»
«Ce la fai ad alzarti? Chiamo una carrozza e ti riporto a casa!» disse il visconte aiutando l'amico a rimettersi in piedi e continuando a sorreggerlo con un braccio attorno alle spalle.
«No, Raoul, se mia madre mi vede così mi murerà vivo! Non posso tornare a casa»
«Molto bene, allora per stanotte verrai a stare da me, hai bisogno di essere visitato da un medico».

*

Monsieur Voudon era da anni il medico della famiglia De Chagny. Si era precipitato alla tenuta del visconte non appena questi lo aveva fatto chiamare e aveva promesso di mantenere l'assoluto riserbo riguardo alle strane condizioni in cui aveva trovato il paziente che De Chagny gli aveva sottoposto.
«Il dottore ha detto che non c'è niente di rotto» disse Raoul tornando al capezzale del suo amico appena Voudon se ne fu andato.
«Almeno questo...» borbottò Alexandre con un sospiro.
«Ho fatto avvisare tua madre che stasera ti tratterrai a dormire da me e... ho mandato a chiamare Bertrand, come mi hai chiesto»
«Grazie, amico mio»
«Ma non pensavo davvero che il nostro caro segugio fosse la prima persona che avresti voluto vedere dopo questa terribile avventura. Quello che mi hai raccontato, Alexandre, è terrificante!».
Il giornalista aveva narrato la sua terribile esperienza a Raoul mentre attendevano l'arrivo del medico e aveva ritenuto opportuno informare subito Bertrand. Ragionando insieme avrebbero potuto trovare nuovi elementi per l'indagine che il giovane ora era più che mai deciso a portare a termine.
Bertand arrivò trafelato un mezz'ora dopo, non diede nemmeno al maggiordomo il tempo di annunciarlo che piombò nella stanza in cui era sistemato Alexandre,
«Cosa è accaduto di così urgente?! Cosa vi è successo? Perché siete in un letto?» aveva esclamato in un fiato.
«Potreste salutare, sedervi, togliervi il cappotto e rimanere calmo» mormorò Raoul. «Sarebbe cosa assai gradita, anche perché di motivi per entusiasmarvi ne avrete a bizzeffe dopo che Alexandre vi avrà spiegato l'accaduto».

«Quello che è successo è incredibile!» concluse Bertrand battendosi una mano sulla coscia, non appena il giornalista ebbe informato anche lui su quanto era successo, raccontandogli ogni dettaglio e riportando parola per parola il dialogo avuto con il Fantasma.
«Sì, sì, lo trovo assolutamente esaltante» commentò Raoul bieco.
«Non entusiasmatevi monsieur, non ho visto o sentito nulla che possa esserci di aiuto» replicò Alexandre sistemandosi un cuscino dietro la schiena.
«Beh, con il riferimento ai libri sull'Inquisizione abbiamo confermato la nostra teoria sul fatto che è un uomo colto, e anche di grande ingegno se è stato capace di costruire un tranello simile» disse l'investigatore.
«Sembra che siate davvero contento di quanto è capitato stasera!» protestò Raoul.
«Naturalmente non lo sono, non sono affatto contento che il mio collaboratore sia stato torturato da un pazzo che usa le tecniche degli inquisitori».
Persino Alexandre era convinto che Bertrand fosse meno dispiaciuto di quanto voleva apparire.
«Ad ogni modo,» proseguì Raoul, «se quest'uomo è un pazzo sadico fino a questo segno, direi che avete un'ottima ragione per abbandonare le indagini»
«Stai scherzando?!» esclamò Alexandre.
«Allora siete più pazzi di lui! Cosa deve accadere perché tu rinunci a questa follia? Vuoi che qualcun altro si faccia male? Vuoi morire?!»
«Visconte, siate ragionevole» intervenne Bertand. «Ora che abbiamo conferma dell'esistenza di questo individuo e della sua spietata follia come potremo tirarci indietro?»
«Adesso sappiamo anche da dove cominciare a cercarlo» disse Alexandre mentre negli occhi passava un lampo di puro entusiasmo che fece impallidire il visconte. «Dobbiamo far aprire la botola del foyer, sfondare il pavimento se è necessario»
«I direttori ne avranno a male, immagino» protestò debolmente Raoul, ma nessuno parve fare caso a quella sua affermazione.
«Sì, sì, lo faremo!» rispose Bertand lanciando uno sguardo complice verso il giornalista. «Vedrete quando si saprà quello che vi ha fatto quel mostro tutti si metteranno sulle sue tracce!»
«No, non si deve venire a sapere»
«Come sarebbe?!» domandarono quasi in coro l'investigatore e il visconte.
«Non dovete farlo sapere o farete il suo gioco» spiegò Alexandre. «Non capite? Lui ha fatto questo per spaventarmi, tutto quello che fa lo fa per spaventare la gente, perché finché sarà temuto le persone non lo cercheranno e non gli si schiereranno contro».
Bertrand incrociò le braccia sul petto,
«Anche voi siete un dannato genio Alexandre, ve lo ha mai detto nessuno?!» disse con un sorriso divertito.
«Bene, dopo questa magnifica disquisizione avventurosa direi che il nostro genio ha bisogno di riposo, quindi, monsieur Bertrand, se volete scusarci, vi auguro buona notte» concluse Raoul.
L'investigatore annuì, salutò e lasciò che il visconte lo accompagnasse alla porta.

«Tu sei pazzo, lo sai vero?!» borbottò Raoul tornando nella camera di Alexandre.
«Eh?... Ma non avevi detto che avevo bisogno di riposo» protestò questi con una smorfia.
«L'unica cosa di cui tu hai bisogno è una sostituzione di cervello, amico mio, ti sembra davvero una buona idea proseguire in questa indagine?»
«Me lo hai già chiesto...»
«Io non mi capacito! Sei quasi morto stasera!»
«Bene, Raoul, allora metto la questione in un altro modo se può servirti a fartene una ragione. C'è un pazzo, assassino, sadico, ricattatore che infesta il teatro che tu finanzi e che per di più ha un palese interesse per la fanciulla che ami. Preferisci davvero che le indagini finiscano e lui la passi liscia?» concluse il giornalista fissando l'amico con aria di sfida.
«Non c'è nessun bisogno che mi ricordi la gravità della situazione, il mio migliore amico è quasi morto, mi rendo conto delle condizioni in cui è degenerata la cosa» borbottò Raoul abbassando lo sguardo e pensando a Christine non senza un tremito di angoscia.
«Molto bene, allora lasciami fare il mio lavoro e vedrai che tutto si sistemerà» aggiunse Alexandre con un sospiro.

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E adesso datemi della pazza sadica ma io adoro Erik fare il bastardo!
 L'idea di torturare un uomo appendendolo per il torace non so se fosse davvero un metodo della Santa Inquisizione... io l'ho letto da ragazzina in un libro di Salgari e mi parve una cosa così mostruosa da restarmi impressa. Ho trovato che fosse molto nello stile del nostro uomo, una cosa "pulita" ma efficace.

Capitolo reinserito il 23\12\2011

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Capitolo 12
*** I livelli sotterranei ***


L'autrice spiantata si scusa per il ritardo ma questa settimana ha combatutto una battaglia contro quel mostro chiamato burocrazia... avete presente l'Idra con cui ebbe a che fare Ercole, quella bestiaccia che se gli tagli una testa poi gliene ricrescono due? Ecco, è stata una cosa simile.
 Chiedo scusa se non rispondo alle vostre recensioni ma colgo comunque l'occasione di rigranziare chi ha commentato e chi ha letto.
 Ci si legge lunedì (stavolta garantito XD)

Your obidient servant

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CAPITOLO UNDICESIMO  

I livelli sotterranei

Alexandre e Bertrand erano seduti in una caffetteria, stavano bevendo silenziosamente un té caldo per cercare di scrollarsi di dosso il freddo pungente di quel grigio dicembre. Osservavano la strada dall'ampia vetrina alla sinistra del tavolo, alcuni operai stavano attaccando delle ghirlande di nastri rossi e dorati alle estremità dei lampioni: l'indomani sarebbe stato il giorno dell'Immacolata, mancava poco al Santo Natale e la gente cominciava a prepararsi per le feste.
Il maltempo, che aveva imperversato durante gli ultimi due mesi, sembrava aver concesso un po' di tregua ai parigini che in quei giorni avevano potuto vedere un sole pallido e incerto bussare alle loro finestre.
«Forse avremo un natale meno freddo di quanto si pensava» commentò Bertrand-
Alexandre annuì distrattamente, il suo collega non era tipo da perdersi in banali considerazioni sul tempo.
«È stato molto coraggioso da parte vostra tornare a teatro» aggiunse l'investigatore.
Il ragazzo scrollò le spalle,
«Uhm, ho fatto ciò che ritenevo più giusto» disse.
Nell'ultima settimana Alexandre era rimasto a casa nell'attesa che i dolori al torace cessassero del tutto e che il grosso livido che gli segnava il petto sparisse.
«Ci ho pensato in questi giorni sapete, a quello che vi è capitato, intendo» continuò Bertrand.
«Sì...».
Naturalmente. Anche lui ci aveva riflettuto, e quando il ricordo del dolore terribile che aveva provato  gli permetteva di concentrarsi su altri particolari della vicenda c'era una sola cosa che riusciva a pensare: non mi ha ucciso. In quella loro caccia alle streghe sembrava aver dimenticato qualcosa che era bene tenere a mente e cioè che avevano a che fare con un uomo. Quell'ombra nera che gli aveva parlato con quella voce minacciosa e bellissima era l'ombra di una persona. Una persona crudele, pericolosa senza dubbio, ma non un pazzo furioso. Un folle non è in grado di elaborare una simile trappola, di torturare un uomo con così tanto sangue freddo e poi lasciarlo libero.
Torturare un uomo senza versare nemmeno una goccia di sangue era in un certo senso qualcosa di geniale, per quanto mostruoso.
Il Fantasma avrebbe potuto ucciderlo e non lo aveva fatto. Perché? Forse perché non era un mostro, forse perché era vero che dietro alle sue azioni c'erano dei motivi più legittimi di quanto pensassero. Ma quali erano questi motivi?
«Non mi ha ucciso, Bertrand, sapete trovare una spiegazione a ciò?» domandò il ragazzo osservando il suo interlocutore diritto negli occhi.
«Forse perché un altro morto avrebbe destato troppo scandalo» suggerì l'investigatore. «Ed evidentemente il nostro Fantasma tiene molto alle sorti del teatro e non vuole che vada in malora lo spettacolo della settimana prossima. Senza contare che è lo spettacolo della sua protetta...»
«Pensate ancora che mademoiselle Daae sia implicata in questa faccenda?»
«L'ho osservata in questa settimana, sapete»
«E avete notato qualcosa di strano?»
«No... no, ma sono certo che quella ragazza nasconde qualcosa».
Alexandre sorrise, un sorriso tirato e nervoso,
«Lasciatela perdere, dovremmo concentrarci su altre cose» concluse con un gesto vago.
«Certo, la botola, tanto per cominciare» rispose prontamente Bertrand .
«Quale botola?»
«Quella in cui siete caduto, naturalmente! Ho ottenuto il permesso dei direttori di spostare le lastre di marmo della decorazione sul pavimento, ho chiamato degli operai, saranno a teatro tra mezz'ora»
«Bene»
«Voi siete sicuro di non ricordare altro? Nessun particolare?» insistette l'investigatore.
«Ah no! Ve l'ho detto, in quel sotterraneo era tutto buio. Sono svenuto e quando ho ripreso conoscenza ero nell'ufficio dei direttori con il visconte de Chagny che cercava di svegliarmi» rispose il ragazzo scrollando le spalle.
«Il visconte... già...» mormorò l'altro uomo con occhi sottili.
Alexandre ebbe un sussulto,
«Non starete pensando che Raoul abbia a che fare con questa storia?!» esclamò sgranando gli occhi.
«È solo una supposizione»
«Siete troppo sospettoso Balise, e la vostra diffidenza vi porta a fissarvi su elementi che non hanno alcun rilievo»
«Dite? Seguite per un attimo il mio ragionamento,» disse l'investigatore allungandosi sul tavolo per sporgersi verso il giovane, «il visconte nutre un manifesto interesse per mademoiselle Daae, e questo spiegherebbe perché il Fantasma pare tanto ansioso riguardo alla carriera di quella ragazza. Naturalmente De Chagny è vostro amico e questo potrebbe essere il motivo per cui il Fantasma non vi ha ucciso, e poi ci sono un bel po' di coincidenze, non trovate? Badate, non sto dicendo che il visconte sia il Fantasma, sto solo supponendo che egli sia suo complice»
«Raoul non avrebbe alcun motivo...» protestò Alexandre.
«Oh credetemi, amico mio, ho visto nobili tediati dalla loro vita fare le cose più bizzarre e insensate per vincere la noia, e questa non sarebbe nemmeno la bizzarria peggiore!»
«Siete un uomo di mondo, Blaise, ovviamente lo siete più di me per la lunga esperienza che avete accumulato, ma non siete in grado di carpire la natura delle persone, la loro indole. L'unico antidoto alla noia che Raoul conosce probabilmente è giocare a scacchi con qualche suo vecchio parente».
Bertrand sorrise, la pelle delle guance si tese sugli zigomi ossuti,
«Vi lascio alle vostre convinzioni Alexandre, voi lasciatemi alle mie supposizioni». mormorò in un tono di sfida che voleva sembrare accomodante. «E ora, sarà meglio andare e raggiungere i nostri operai».

Gli operai erano quattro uomini robusti e nerboruti che attendevano nel foyer sotto lo sguardo preoccupato dei due direttori,
«Signori, vi prego di ricordare che il pavimento deve tornare a posto per la fine del mese, per il ballo di capodanno dell'Opera» squittì Firmin cercando di darsi un'aria abbastanza convincente e autoritaria.
«Monsieur! Vi prego» sbottò uno degli operai dopo la quarta volta che aveva sentito ripetere quella raccomandazione. «Credete davvero che ci vogliano venti giorni per spostare una lastra di marmo?! Entro stasera il vostro lustrissimo pavimento sarà tale e quale a prima»
«Sì, sì... ma voi dovete fare attenzione... quelle lastre di marmo sono lì da decenni...» insistette l'impresario torcendosi nervosamente le mani.
«Non sapremo dove prendere i fondi per farle sostituire se si dovessero rompere!» borbottò Andrè incrociando le braccia sul petto.
«Tratteremo quelle dannatissime pietre come se fossero di cristallo!» concluse sgarbatamente un altro manovale.
I due direttori si allontanarono per niente rassicurati, ma non potevano immaginare che per quel pomeriggio i loro guai erano appena cominciati, proprio mentre stavano per tornare nel loro ufficio, decisi a non assistere alla scempio che quei bruti avrebbero fatto del loro pavimento furono bloccati da un grido acuto alle loro spalle.
«Dove sono?! Dove sono quei due meschini, traditori, farabutti, bugiardi sconsiderati?! Dove, dove?!» una voce stridula seguì il tonfo sordo della porta laterale che veniva aperta con malagrazia.
Una donna dai capelli rossi e da un vistoso abito viola con merletti blu, era entrata come una furia nel foyer, avanzando a passo deciso verso i due impresari. Alle sue spalle c'erano un uomo alto e magro e un'anziana donna che avevano tutta l'aria di essere i suoi assistenti e che cercavano faticosamente di tenere il passo. I due per poco non inciamparono nell'ampia gonna dell'abito della donna quando questa di fermò di colpo davanti ad Andrè e Firmin, portandosi le mani ai fianchi e fissandoli incollerita.
«E così avete dato il mio posto alla piccola ranocchia!» disse.
«Madame... bentornata...» squittì Andrè poggiandosi contro il suo socio nel timore che le gambe gli cedessero per lo spavento.
«Signora Giudicelli! Siamo così contenti di rivedervi, e in buona salute...» aggiunse Firmin con un sorriso accomodante così largo che i suoi folti baffi parvero arrivargli alle ciglia.
«In ottima salute, ottima!» tuonò la donna. «Per vostra sfortuna! Volevate sostituirmi, e con chi poi? Con quella sciacquetta che non sa nemmeno dove sta di casa l'intonazione!»
«Ma... ma... signora, voi dovete capire...» tentò di dire Firmin indietreggiando di un paio di passi.
«NO! Io non devo capire, io non devo proprio un bel niente, siete voi che DOVETE qualcosa, dovete immediatamente cancellare la rappresentazione! Io e solo io devo essere la primadonna di questa baracca che chiamate teatro! Quella piccola cornacchia con i boccoli mi ha già rubato la scena una volta!»
«Signora Carlotta! Che piacere» esclamò una voce gentile che sembrò per un attimo placare le ire della cantante.
I direttori si sporsero oltre la sua spalla per vedere chi li aveva salvati interrompendo le sfuriate della capricciosa soprano a cui loro non avevano ancora avuto tempo di abituarsi. Madame Giry avanzò con il suo portamento composto attraverso il foyer e si fermò davanti alla Giudicelli salutandola con un sorriso.
«Madame...» gracchiò la cantante in segno di saluto.
«Oh signora, passavo di qui e ho casualmente sentito che siete dispiaciuta per essere stata sostituita» disse Eloise con la sua consueta aria garbata. «Ma, vedete, voi siete stata indisposta per molto tempo e i direttori sono stati costretti a mandare avanti il teatro, se questo posto fosse fallito capite bene che al vostro ritorno non avreste più avuto un palco su cui esibirvi. E come certamente vi renderete conto, se i signori impresari cancelleranno lo spettacolo si ritroveranno costretti a rimborsare i biglietti venduti e non sarebbe una buona pubblicità per l'Opera Populaire»
«E questo cosa ha a che fare con me? Non voglio che quella incapace rubi il mio pubblico!» insistette Carlotta con una smorfia.
«Ma signora, se è così incapace come dite non avete nulla da temere. Lasciate che si esibisca, nel frattempo il teatro riacquisterà prestigio, così che quando tornerete da noi completamente ristabilita, troverete il vostro pubblico ad attendervi, o forse temete che una giovane esordiente possa oscurare una cantante del vostro calibro?».
Carlotta boccheggiò incapace di trovare una risposta. Continuare a protestare avrebbe significato ammettere che Madame Giry aveva ragione, che lei aveva paura di essere oscurata da quella ragazzina che continuava a definire un'incapace.
«E sia!» concluse lanciando un'occhiata torva ai due impresari «Ma se quando torno questo teatro non sarà ai miei piedi io vi rovino, mi avete sentita? Vi ro-vi-no!».
L'uomo e la donna che erano entrati con la cantante annuirono con aria altezzosa
«Benfatto madame!» mormorarono alla loro padrona mentre lei si allontanava facendo svolazzare i merletti del suo ricco abito.
«Madame Giry, mi avete salvato da un infarto...» sospirò Firmin poggiando un braccio su una colonna di marmo.
Eloise sorrise,
«Come sapete, il benessere di questo teatro è sempre in cima alle mie preoccupazioni» concluse la donna, congedandosi per poi allontanarsi in silenzio. Non si era certo scomodata a stroncare sul nascere l'ennesima crisi isterica di Carlotta Giudicelli per fare un piacere a quei due incapaci, ma sapeva che se la soprano avesse insistito i direttori avrebbero davvero cancellato lo spettacolo e dopo sarebbe stato davvero difficile salvarli dalla rabbia di Erik che era molto più violenta e pericolosa di quella di una primadonna viziata.

«Chi era quella pazza furiosa?» domandò Alexandre entrando nel teatro pochi minuti dopo insieme a Bertrand che si era diretto verso gli operai che lo stavano aspettando.
«Chi, di grazia?» sospirò Firmin ancora con il fiato corto, continuando a sventolarsi il viso con un fazzoletto.
«Quella donna vestita come una scatola di cioccolatini che scendeva le scale come se dovesse andare a scatenare l'apocalisse» spiegò il giornalista.
«È la signora Giudicelli» borbottò Andrè. «Ma non voglio sentire nominare quel nome... almeno fino al nuovo spettacolo da allestire».
Alexandre scrollò le spalle senza capire,
«Bene, signori, volete farci compagnia mentre sondiamo i misteri di questo affascinante teatro?» domandò cambiando argomento.
«Oh no, per oggi ne abbiamo avuto abbastanza!» disse Andrè.
«Il mio cuore non reggerebbe» gli fece eco il suo socio.
I due impresari andarono a chiudersi nel loro ufficio lasciando Alexandre a fissarli con aria perplessa, poi il giovane raggiunse Bertrand e attese che i manovali sollevassero il pavimento.  
Una volta sollevate le lastre di marmo che componevano la rosa dei venti sotto gli scaloni che portavano alla galleria, gli uomini notarono che in corrispondenza delle linee della decorazione c'era una specie di telaio di legno con dei piccoli cardini che permettevano alle lastre di aprirsi verso il basso: una vera e propria botola segreta.
«Ma che diamine è?» borbottò Bertrand perplesso quando guardò verso il basso e non vide altro che buio e vuoto.
Alexandre accese una lampada e la puntò verso l'interno, gli uomini videro che c'era un pavimento di pietra spoglia pochi metri più in basso.
«Deve essere stato durante la ristrutturazione...» mormorò uno degli operai come se stesse pensando ad alta voce.
«Come hai detto?» chiese Bertrand voltandosi verso di lui.
L'uomo scrollò le spalle,
«Il teatro è stato ristrutturato una trentina di anni fa» rispose. «Lo so perché mio padre ha partecipato a quei lavori, sapete cosa si dice di questo posto?»
«Cosa?» domandò Alexandre mentre una scintilla di interesse gli animava lo sguardo.
«In origine il teatro e il collegio dell'Opera furono fatti costruire da un re di Francia per ospitare la sua collezione di opere d'arte o qualcosa di simile, furono progettati diversi livelli sotterranei per tenere al sicuro i pezzi più pregiati della collezione... ma è solo una leggenda, badate. Poi durante la Rivoluzione i cunicoli sotterranei furono usati per trasportare i prigionieri della Repubblica. Quando l'edificio fu trasformato in un teatro i piani del sottosuolo sono stati adibiti a magazzini, sartorie e cose del genere» concluse l'operaio.
«Sì, beh sappiamo che questo teatro ha diversi livelli di sottopalco, nel primo c'è la sartoria... negli altri ci sono dei depositi, e allora?» chiese il giornalista.
«Beh, c'è chi crede che i cunicoli sotterranei originari si estendano ben oltre le mura dei livelli del sottopalco, ma siano stati lasciati vuoti perché andavano oltre il perimetro delineato dalle fondamenta dell'edificio e quindi non erano sicuri, si temeva che il soffitto potesse crollare»
«Interessante!» esclamò Bertrand, poi fece segno a un operaio. «Tu, scendi qua sotto, dimmi cosa c'è».
L'uomo si ritrasse con aria spaventata,
«Oh no monsieur, io lì non ci metto piede!» borbottò.
Alexandre guardò l'investigatore con aria di sfida,
«Vi credevo un uomo d'azione, Blaise» disse quasi stupendosi di quanto in realtà il suo socio fosse codardo e meschino.
«Non mi sembra il caso di fare dello spirito, devo forse ricordarvi cosa vi è accaduto là sotto?» protestò Bertrand con aria piccata.
«Questa è la nostra indagine, siamo noi che dobbiamo occuparcene, non questi uomini» tagliò corto il ragazzo cominciando cautamente a calarsi nella botola.
«Siete davvero pazzo, Alexandre!» sbottò l'investigatore scuotendo il capo e osservando la sagoma del giovane che veniva inghiottita dal buio.
«Potete scendere Blaise, non abbiate timore, qui sotto non c'è niente» disse il giornalista agitando la lampada verso gli uomini che erano solo pochi metri più in alto, nella sua voce si poteva scorgere una nota di profonda delusione.
Bertrand si calò nella botola dopo essersi munito anche lui di un lume ad olio.
«E questo che diavolo significa?!» mormorò perplesso guardandosi intorno.
I due uomini si erano ritrovati in una specie di stanzino vuoto e senza aperture, attorno a loro non c'erano altro che mura irregolari e spoglie che perimetravano uno spazio di pochi metri.

Bertrand si lasciò cadere su uno dei gradini di marmo e si accese un sigaro spiando con la coda dell'occhio gli operai che sistemavano nuovamente il pavimento. Non avevano trovato niente, solo un piccolo spazio vuoto senza altre aperture se non quella botola.
«Non capisco, non riesco a capire...» disse l'investigatore con una nota di esasperazione nella voce. «Per escogitare la trappola in cui siete caduto deve essere entrato da quella botola, ma come ha fatto senza farsi vedere? È impossibile che nessuno lo abbia visto calarsi giù dal pavimento, non può essere passato attraverso i muri!»
«E se invece fosse proprio così?» suggerì Alexandre facendo aria con la mano per allontanare il fumo del sigaro.
«Non dite idiozie!»
«No, ascoltatemi... e se tutte le leggende fossero vere, se esistessero davvero i cunicoli e i passaggi segreti?»
«Ma no, sappiamo già tutto quello che c'è da sapere riguardo a questa faccenda, e quell'operaio prima ci ha confermato che i cunicoli che si estendono oltre i magazzini del sottopalco sono stati murati perché ritenuti non sicuri».
Alexandre scosse il capo,
«E se qualcuno li avesse aperti di nuovo?» insistette.
«Ci sarebbe voluta una considerevole quantità di tempo per trovare tutti i passaggi murati, riaprirli e continuare a fare in modo che sembrassero chiusi...»
«E mettiamo che qualcuno abbia avuto tutto questo tempo e tutto questo ingegno, dopotutto il teatro è stato ristrutturato trent'anni fa».
Bertrand si stropicciò il viso,
«State suggerendo» borbottò, «che c'è qualcuno che da circa trent'anni vive nel sottosuolo del teatro? Qualcuno che si aggira indisturbato per l'intero edificio tramite una rete di passaggi segreti?!»
«Esattamente» concluse il giornalista.
«Amico mio, avete abbastanza fantasia per scrivere un romanzo di avventure, ma non per seguire questa indagine, spero vi rendiate conto che queste considerazioni sono improponibili»
«Ma se abbiamo già sondato ogni strada probabile e non abbiamo ottenuto alcun risultato allora non ci restano che le opzioni improbabili».
Bertrand spense il sigaro nel vaso di una pianta e rimase pensoso per una manciata di secondi,
«Molto bene, ammettiamo per un attimo, un attimo solo, che le vostre strambe congetture siano esatte, chi mai dovrebbe fare una cosa del genere e perché?» domandò.
«Questo non so dirvelo» ammise Alexandre.
«Qualcuno del teatro?...» suggerì l'investigatore.
«No, l'uomo che ho incontrato in quella botola non è nessuno che avevo incontrato prima d'ora qui all'Opera»
«E come fate a esserne così sicuro?».
Il giornalista sospirò
«Quella voce, Blaise, se l'avessi già ascoltata me ne sarei ricordato, credetemi... ah, quella voce...» concluse rimanendo a fissare il vuoto fino a quando il suo interlocutore non lo scosse.

*

Le sue mani sembravano muoversi da sole, con movimenti precisi come quelli di una macchina. Il suo sguardo era assente e lontano. Erik era seduto al suo organo mentre Christine cantava, ma il suo maestro non la stava ascoltando preso com'era dai suoi pensieri.
Quando era con lei non esisteva nient'altro, ma non quel pomeriggio.
Quel ragazzo, il giornalista, lo aveva colto alla sprovvista con il suo atteggiamento: non aveva raccontato a nessuno ciò che era successo, ormai una settimana prima. Il Fantasma dell'Opera non lo aveva spaventato o se lo aveva fatto lui era stato così scaltro da rendersi conto che era meglio che tutti gli altri non sapessero fin dove la sua crudeltà si era spinta, quanto terribile fosse la sua ira. Era meglio che quella paura non si diffondesse. Questa inattesa reazione di Alexandre Dubois aveva reso vani i suoi sforzi e aveva stravolto i suoi piani. Erik stava cominciando a rendersi conto di quanto la situazione gli stesse sfuggendo di mano. Non tutte le persone erano subdole e codarde, e laddove c'era un cuore coraggioso il Fantasma dell'Opera non poteva niente, non aveva altro potere che quello di un carnefice con la presunzione di decidere quali teste far cadere. Ma non avrebbe fatto cadere nessuna testa, era troppo rischioso in quel frangente e anche se avesse voluto aveva promesso a Christine che non lo avrebbe fatto, aveva giurato sulle sue lacrime, sul suo sangue, sul suo amore, che il Fantasma dell'Opera non avrebbe reclamato altre vite.
Il fatto che il giovane giornalista si fosse guardato così astutamente da far sapere del suo terribile incontro con il Fantasma aveva avuto anche dei vantaggi per Erik: si era risparmiato le proteste e la disapprovazione di Eloise e aveva evitato di spaventare Christine. Lui aveva pensato con una certa ansia a cosa avrebbe detto la ragazza di un gesto così estremo e crudele, era certo che il livello di sopportazione per le sue scelleratezze avesse un limite. Ma lei non aveva saputo, al pari di tutti gli altri e Erik, invece di sentirsi sollevato, aveva cominciato a provare un senso di vergogna per un modo di fare che, nella sua condizione, aveva sempre ritenuto legittimo prima di allora.

Stai forse cominciando a vedere la differenza tra un uomo e un mostro, Figlio del Diavolo?

La voce della sua coscienza si era fatta fastidiosa e petulante e aveva dannatamente ragione: non si era mai sentito così umano, così nudo ed esposto davanti al mondo, nel bene e nel male. Nel bene grazie a Christine, nel male a causa dei suoi nemici.

«Erik?...» Christine lo chiamò poggiandogli timidamente una mano sulla spalla.
L'uomo pigiò pesantemente le dita sulla tastiera, la nota che produsse l'organo fu una sorta di tonfo sordo che echeggiò nella grotta.
«Toccava a voi» aggiunse Christine con un sorriso imbarazzato.
Stavano provando il duetto d'amore tra Otello e Desdemona. Uno dei brani che Erik preferiva ascoltare, soprattutto dalla voce della sua musa.
«Mi ero distratto» ammise lui scuotendo il capo. «Ma sono certo che tu sia stata superba, come lo sarai venerdì sera».
La fanciulla arrossì lievemente
«Vi prego, non mi sento tranquilla se so che riponete così tanta fiducia nel mio modesto talento» rispose.
Erik si lasciò scappare un risolino divertito,
«Mia cara, il tuo talento è tutt'altro che modesto, e lo sai, non hai bisogno di sminuire le tue doti, meno che mai con me».
L'uomo si beò per lunghi secondi del sorriso che riuscì a strappare alla ragazza, le prese una mano tra le sue e le baciò le nocche con un gesto tenero,
«Ah Christine...» mormorò in un soffio lieve, come se fosse stata la sua stessa anima a tendersi attraverso l'aria verso il cuore della ragazza. La osservò dal basso, seduto sul suo sgabello. Il corpo esile e magro, la curva del seno appena accennata sotto la scollatura del semplice abito di raso chiaro, il collo candido e delicato, la bocca atteggiata in un sorriso innocente, così innocente da apparire come la più pericolosa delle tentazioni, un invito al peccato che non sa di esserlo.
Negli ultimi mesi la sua meravigliosa bambina aveva cominciato ad assomigliare sempre di più a una splendida donna e questo pensiero non gli lasciava tregua, toglieva sapore al cibo, toglieva ossigeno all'aria e sonno alle sue notti costringendolo a rigirarsi tra le lenzuola sudate. Erik non poteva immaginare che il desiderio fosse qualcosa di così prepotente, così difficile da sottomettere alla ragione. Prese un profondo respiro e tentò di resistere all'impulso di stringerla a sé, assaggiare quelle labbra e sentire il calore della sua palle contro la propria.
«Basta così per oggi» concluse alzandosi in piedi e voltandosi di spalle con un gesto brusco. «Sono piuttosto distratto a quanto pare, ti farei perdere solo tempo e tu sei stanca»
«Oh no, vi prego maestro, riproviamo ancora una volta» insistette Christine.
Erik si voltò di scatto e tornò a fissarla.
«Sempre se per voi non è di troppo disturbo» aggiunse la ragazza. «Capisco che abbiate molti pensieri... c'è qualcosa che vi turba?».
Erik scosse la testa come a dire di no. In realtà c'erano molte cose che lo turbavano a cominciare dal cruento incontro con il giornalista ma non era il caso di condividere quei pensieri con Christine. Un giorno forse gliene avrebbe parlato, ma non in quel momento, non ora che la loro intesa sembrava così perfetta e gli lasciava intravedere l'orizzonte di una serena felicità alla quale non avrebbe mai creduto di poter aspirare. E non era nemmeno il momento di confessare a quella fanciulla che il suo attaccamento a lei andava ben oltre le aspirazioni artistiche, Christine era ancora troppo lontana dal suo mondo e lui, per quanto cercasse di convincersi del contrario, non era ancora in grado di poterle garantire una vita normale. Non voleva costringere la sua dolce musa a restare segregata con lui in quei sotterranei, voleva che lei fosse il motivo per cercare di avere una vita normale, il coraggio per uscire allo scoperto e affrontare da uomo il mondo che lo aveva respinto.

Ogni cosa a suo tempo...

«Ogni cosa a suo tempo» si disse rivolgendo alla ragazza un sorriso gentile.
«Molto bene, cominciamo dall'inizio dell'aria»  concluse in tono incoraggiante.

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Capitolo reinserito il 23\12\2011

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Capitolo 13
*** "Già nella notte densa" ***


Lunedì... lunedì e tutto va bene. Anzi  a me non prorpio... ma spero che a voi vada meglio.
 Cominciamo con il rispondere alle recensioni (sempre graditissime e scatenatrici della mia più somma riconoscenza nei confronti di coloro che le vergano) e dalla regia c'è zio Blaise che mi chiede di chiarire la faccenda dei suoi sospetti assurdi prima che gli venga prescritto qualche potente antipsicotico. In realtà il fatto che Bertrand sospetti del Carciofon era giusto per far capire che sta cominciando a sentirsi disperato e non sa più che pesci pigliare... e da quello che succederà in questo capitolo spero di essere riuscita a dare una visione di quanta tensione ci sia in quel teatro.

 Ma andiamo con ordine e apriamo anche oggi la rubrica "gli sproloqui dell'autrice". Sproloqui serali tra l'altro... ancora peggio...
 @ Amy: lo so, Alex è troppo buono. Ha sbollito la rabbia tutta quella sera e adesso cerca di trovare il "lato positivo"... tipico dei "buoni" che vogliono credere che siano buoni anche gli altri a tutti i costi. In realtà l'ho sempre detto che lui è uno di quelli votati al martirio. Sono contenta che tu abbia apprezzato le descrizioni del teatro e della Diva (troppo breve la descrizione dell'abito, eh... lo avevo pensato che lo avresti notato). I marmocchi con i boccoli della mamma e gli occhi del papy? Bah non credo, c'erano già troppi bambini nella precedente fanfiction XD
 @ theangelsee69: *me si inchina fino a sfiorare le assi del palcoscenico con il mento* grazie, sono contenta che la storia continui a paicerti ^^
 @ bloodred_rose: benritrovata ^^ Si, lo scribacchino l'ammirazione per il Master ce l'ha... ce l'ha perchè Alexandre è attratto dalle cose "straordinarie" altrimenti non si sarebbe imbarcato in questa impresa. Madame Giry... la mia Eloise *_* cosa sarebbero le mie fanfiction senza di lei?  Il fatto che non si capisca dove stiamo andando diciamo che in un certo senso è quello che volevo... poi vedrete... XD non fatemi spoilerare che è indispensabile l'effetto sorpresa per questa fanfic.

 Detto ciò, vi auguro buona lettura ^^

Your obidient servant.

*******

CAPITOLO DODICESIMO

 “Già nella notte densa”

Madame Ginette si avvolse in un ricco scialle di pizzo, suo figlio le offrì il braccio e insieme si avviarono verso la carrozza che doveva condurli a teatro.
Sui muri di tutte le strade nei pressi dell'Opera Populaire campeggiavano grandi manifesti che pubblicizzavano la rappresentazione che avrebbe avuto luogo quella sera: l'Otello del Maestro Giuseppe Verdi, con mademoiselle Daae nel ruolo di Desdemona.
Alexandre aveva preso in considerazione l'eventualità di lasciare a casa sua madre ma non aveva trovato nessuna scusa per evitarle di andare a teatro. Lui era preoccupato dalle congetture di Bertrand che aveva disposto che il palco numero 5, di cui il Fantasma aveva spesso reclamato la proprietà, venisse lasciato libero. L'ispettore era certo che l'uomo a cui stavano dando la caccia si sarebbe fatto vivo quella sera, non avrebbe perso l'occasione di ammirare Christine Daae.
Se il Fantasma si fosse effettivamente fatto vivo, la serata avrebbe potuto prendere una piega imprevedibile e magari anche pericolosa per chiunque si fosse trovato a teatro. In realtà Alexandre era poco propenso a credere che il Fantasma si sarebbe fatto trovare con tanta facilità, probabilmente sapeva che loro lo avrebbero atteso, e in ogni caso lasciare a casa sua madre equivaleva ad ammettere la pericolosità di una situazione che aveva già dato molti motivi di ansia a madame Ginette.

Il teatro era gremito di gente, Andrè e Firmin guardavano dall'alto del loro palco i posti della platea riempirsi di spettatori e osservarono con aria soddisfatta che gli eventi tragici che avevano funestato il teatro il mese precedente sembravano essere stati praticamente dimenticati.
Raoul De Chagny era arrivato a teatro con largo anticipo ma il mazzo di fiori che aveva preso per Christine si stava rovinando dal momento che non era riuscito a consegnarglielo. Quando aveva bussato al camerino della primadonna tutto ciò che aveva ottenuto era stata una risposta frettolosa di Madame Giry che si era sporta oltre la soglia per salutarlo e dirgli che che Christine in quel momento non poteva ricevere nessuno perché le sarte la stavano vestendo.
Dopo una quantità di tempo incalcolabile, Madame Giry era uscita dal camerino seguita dalle sarte e il visconte aveva sospirato di sollievo al pensiero che avrebbe potuto finalmente salutare la sua adorata Christine. In realtà le sue aspettative erano state immediatamente deluse dalla direttrice del balletto che con i suoi soliti modi autorevoli ma gentili gli aveva suggerito di allontanarsi perché la ragazza aveva bisogno di non essere disturbata.
«Ma io le ho portato i fiori...» fu l'unica debole protesta che il visconte riuscì a proferire.
La donna osservò il mazzo di gigli e fiori dai colori chiari di cui non conosceva il nome,
«Molto bene» disse tranquilla. «Venite con me, visconte, vi procurerò un vaso prima che si rovinino».
Con un sospiro rassegnato Raoul si era allontanato sulla scia della gonna scura della direttrice del balletto, incapace di ribellarsi anche quando aveva scorso con la coda dell'occhio tre ballerine intrufolarsi furtivamente oltre la soglia del camerino che a lui non era stato concesso di varcare.

*

Christine era seduta sul divanetto di velluto, incapace di muoversi per paura di guastare il costume di scena o la splendida acconciatura che il parrucchiere aveva faticosamente realizzato tentando di domare i suoi folti riccioli castani.
Era tesa e non riusciva a pensare a altro che agli occhi del suo maestro. Dove sarebbe stato lui? Come avrebbe fatto ad assistere allo spettacolo senza farsi vedere? E cosa le avrebbe detto se avesse commesso qualche errore?...
La ragazza sobbalzò quando sentì la porta aprirsi di scatto e balzò in piedi,
«È già ora? Sono pronta!» esclamò prima di rendersi conto chi fosse entrato a farle visita.
«Oh cielo, hai parlato come una condannata a morte!» disse Meg in tono canzonatorio entrando seguita da due delle sue compagne.
«Hai anche la faccia di una condannata a morte» aggiunse un'altra ballerina osservando il volto della giovane soprano con una smorfia.
La più piccola delle tre abbracciò la ragazza e le prese le mani,
«Non devi essere spaventata, non devi! Sei così brava, e così bella» mormorò dolcemente.
«Grazie Josephine...» rispose Christine intenerita.
La piccola Josephine aveva l'aria di un fiore pronto a sbocciare, era una delle più giovani ballerine del collegio e da mesi era fidanzata in segreto con l'assistente del liutaio che si occupava degli strumenti degli orchestrali, tutti sapevano che ogni volta che poteva la ragazzina usciva furtivamente dal teatro per incontrarsi con il suo innamorato.
«Su, su, avanti, togliti quella faccia da funerale» borbottò Meg tirando leggermente un lembo della veste della sua amica,
«Oh ti prego, mi rovinerai il vestito!» protestò Christine.
«Ah, sentitela! Ha già i vezzi da primadonna» la canzonò la fanciulla bionda osservandola con i suoi occhi vispi e furbi, le altre due ballerine risero.
«Volevamo solo farti gli auguri per lo spettacolo» aggiunse Josephine.
«E sappi che noi saremo dietro le quinte ad applaudirti» concluse Meg con un sorriso di incoraggiamento.
«Ah amiche mie, siete così care» sospirò Christine commossa baciando ognuna di loro sulle guance,
«Ma ora sarà meglio andare, se mia madre ci trova qui saranno guai» disse infine la piccola Giry scuotendo la testa,
«Andate, un rimprovero di tua madre non è il modo giusto con cui inaugurare questa serata».
Christine sentì le dita di Meg stringersi attorno alle sue in un ultimo gesto di sostegno. Una stretta salda e sicura come il senso di famiglia che lei ed Eloise le avevano sempre trasmesso.
La ragazza osservò le tre amiche sgusciare via silenziosamente, quando la porta si richiuse dietro di loro lei si sentì di nuovo sola e sospirò di sconforto.
«Andrà tutto bene» mormorò una voce suadente e carezzevole.
Per un attimo la fanciulla si chiese se non fosse stata la sua immaginazione, ma il suo maestro la chiamò da dietro lo specchio e lei si ritrovò a fissare il suo riflesso con un accenno di sorriso. Non poteva vederlo, ma sapere che lui era lì la tranquillizzava e le ricordava che non era sola. Si disse che aveva avuto la migliore istruzione che una cantante potesse desiderare, sarebbe andato tutto bene.

Erik osservava la figura della giovane che appariva lievemente sfocata dall'altro lato del vetro, come un sogno pronto a dissolversi.
Il sarto aveva seguito le sue istruzioni realizzando il costume di scena in velluto blu, e lei non era più la giovane cantante dell'Opera, era una donna, era Desdemona che avrebbe fatto impazzire d'amore un uomo pronto a uccidere e a morire per paura che lei non gli appartenesse.
Erik avrebbe voluto inginocchiarsi davanti a quella visione e mettere il mondo ai suoi piedi, mentre Christine si avvicinava allo specchio e posava una mano sulla superficie riflettente.
«È così bello sentire la vostra voce» mormorò la fanciulla.
L'uomo appoggiò la mano in direzione di quella di lei, anche se sapeva che non poteva vederlo,
«Mai quanto io amo sentire la tua» le rispose in tono galante.
La ragazza fissò intensamente lo specchio, come se potesse far comparire dal nulla l'uomo che vi si nascondeva all'interno. Riusciva a immaginare la sua figura imponente coperta dal mantello e vestita di tutto punto come se dovesse farsi ammirare. Ricordò il calore della sua mano che stringeva la sua per portarsela alle labbra e baciarla e il pensiero le fece salire una violenta ondata di rossore lungo le guance.
«Erik, io...» disse con un sussurro talmente impercettibile che non credette nemmeno che lui fosse riuscito a sentirla.
«Cosa?»
«Ah, niente...»

Erik, io vorrei tanto potervi abbracciare...

«Vorrei che foste fiero di me» concluse la giovane abbassando il volto quando anche oltre il vetro riuscì a percepire lo sguardo penetrante del suo maestro. Immaginò che nella penombra del corridoio di pietra i suoi occhi fossero diventati di un cupo color piombo, ma avrebbe potuto giurare di averli scorti dietro lo specchio, di averli visti brillare come due minuscole scintille di elettricità.
«Lo sarò, in ogni caso».
Dopo aver pronunciato quelle parole il Fantasma dell'Opera sparì in un vuoto di silenzio, ma il cuore della ragazza accelerò i battiti come se avesse voluto schizzarle via dal petto e inseguire quell'ombra e la sua voce.

«Christine!» un'altra voce altrettanto familiare strappò la giovane ai suoi pensieri,
Christine vide la maniglia della porta scattare come se qualcuno stesse tentando di aprire la porta che lei non ricordava di aver chiuso a chiave. Si precipitò ad aprire e si ritrovò davanti Raoul con la mano ancora poggiata sul battente,
«Raoul! Che piacere vederti» mormorò la giovane, il visconte le rivolse un sorriso radioso e la salutò con un galante baciamano.
«Ma... non mi hai sentito bussare?» chiese lui.
Christine si strinse nelle spalle,
«Devi scusarmi, è che sono così agitata»
«Certo, certo, capisco. Ah, accidenti!». Il visconte si lasciò scappare un gesto stizzito.
«Cosa c'è, Raoul?»
«Ti avevo portato dei fiori... ma li ho fatti mettere in un vaso prima e ho dimenticato di prenderli prima di tornare qui ai camerini»
«Oh, non fa nulla Raoul» concluse la ragazza con un sorriso gentile.
Il giovane arrossì e si morse il labbro inferiore,
«Mi dispiace, avrei voluto che tu li avessi, anche se meriteresti molto di più di un mazzo di fiori» mormorò.
«Ti prego, Raoul, mi confondi!» esclamò Christine imbarazzata.
«Christine, tu per me...»
«Visconte De Cagny!» una voce severa interruppe il ragazzo che si voltò con aria mortificata. «Vi avevo chiesto di lasciare Christine da sola, ha bisogno di concentrarsi e di essere lasciata tranquilla»
«Vi chiedo scusa, madame Giry». 
La direttrice del balletto si portò le mani ai fianchi e sospirò spazientita,
«Cercate di essere comprensivo e rispettoso visconte, per cortesia, andate a prendere posto, non manca molto all'inizio dello spettacolo» concluse.
Il ragazzo non poté fare altro che annuire e lanciare a Christine un rapido cenno di saluto prima di allontanarsi.
«Sei pronta, chérie?» domandò Eloise quando il visconte se ne fu andato, la ragazza annuì continuando a guardare verso Raoul che spariva dietro l'angolo del corridoio.
«Il visconte è un caro ragazzo» ammise madame Giry scrutando con attenzione il viso della sua adorata bambina. «E ti vuole molto bene, farebbe di tutto per te»
«C'è già stato chi ha fatto tutto per me...» mormorò la fanciulla come se stesse pensando ad alta voce, ma un attimo dopo sollevò la testa con uno scatto fissando Eloise con un'espressione indecifrabile, quasi sperando che la donna non avesse compreso le sue parole.
Madame Giry socchiuse leggermente gli occhi.
«Cosa provi per lui?» chiese in un filo di voce, quasi come se avesse avuto paura di ciò che la ragazza avrebbe potuto rispondere.
«Raoul mi è molto caro, lui...» farfugliò Christine. «Bhe ci conosciamo da quando ero bambina...»
«Non mi riferivo al visconte, sai bene di chi parlo»
«Lui... vi prego, Eloise, non mi fate domande alle quali non so rispondere»
«Temo, tesoro mio, che tu debba cominciare a trovare una risposta» concluse la donna scuotendo il capo. 

*

L'Opera Populaire aveva due ordini di balconate e un ampio loggione. Il palco numero 5 era il primo a sinistra della scena, e doveva essere una sorta di posto d'onore, visto che era leggermente più largo e sporgente degli altri, come il palco numero 14 che si trovava dal lato opposto e che era da sempre riservato al direttore del teatro.
Bertrand guardò la maschera agghindata con la sua livrea color porpora e la parrucca incipriata,
«Non è arrivato nessuno?» domandò indicando la porta di ciliegio scuro con la targhetta in ottone.
«No, monsieur» rispose il giovane con aria compita.
«Non hai sentito nessun rumore? Non hai notato niente di strano?»
«No, monsieur. Non ho mai sentito niente».
Bertrand si lisciò il doppiopetto di velluto e sospirò,
«In che senso mai?» domandò
«Mi occupo di questo ordine di palchi da diversi anni, monsieur» spiegò la maschera con una punta di orgoglio nella voce. «Quando c'era il vecchio direttore questo palco veniva sempre lasciato libero, a disposizione di qualcuno che in realtà non lo ha mai occupato».
Bertrand sfilò il suo portasigari dalla tasca interna della giacca e si grattò il mento riflettendo su quanto aveva appena appreso.
Cosa voleva dire? Che il Fantasma pretendeva che il palco fosse destinato a lui per puro capriccio? Perché in realtà non presenziava agli spettacoli? E questa storia andava avanti da tre anni, come ogni altro episodio legato al fantomatico spirito che infestava il teatro.
L'ispettore si lasciò scappare un lamento sordo: ogni nuova cosa che scopriva invece che aiutarlo a venire a capo di quella strana faccenda sembrava mostrare ancora di più che tutta quella storia non aveva senso, che non c'era un capo da cui cominciare per sbrogliare la matassa. Un palco d'onore reclamato e mai occupato, botole cieche, un macchinista ucciso senza che si riuscisse a capire come, qualcuno che si muoveva nel teatro come se passasse attraverso i muri, strane leggende raccontate a fior di labbra tra i parati dei camerini, lettere chiuse da sigilli di ceralacca a forma di teschio... e l'unica cosa certa era che tutto ciò era cominciato tre anni prima. Forse Dubois aveva ragione, il visconte De Caghny non c'entrava nulla, tre anni prima quel ragazzo probabilmente era ancora rinchiuso in qualche prestigioso collegio a imparare il galateo.
«Vi sentite bene, monsieur?» domandò la maschera notando che il suo interlocutore si stava massaggiando le tempie con aria afflitta.
«Sì. Ascolta, ragazzo, voglio che tu stasera prenda nota di qualunque cosa, anche del minimo rumore che sentirai provenire da quella porta. Sono stato chiaro?» concluse Bertrand.
«Chiarissimo, monsieur» rispose il giovane accennando un inchino. «Ma ora devo chiedervi di andare a prendere posto, lo spettacolo sta per cominciare».

Bertrand raggiunse il palco accanto a quello dei direttori. Quel posto era stato riservato a lui e ad Alexandre, da lì avrebbero potuto anche tenere d'occhio il palco numero 5, mentre il visconte aveva preteso un posto nella prima fila della platea.
Dopo che Alexandre ebbe fatto le presentazioni tra sua madre e Bertrand, tutti presero posto un attimo prima che si spegnessero le luci.
«Dannazione» sibilò l'investigatore. «Con questo buio non si riesce a vedere cosa succede in quel dannato palco!»
«Monsier Bertrand!» esclamò madame Ginette in tono bonario di rimprovero mentre l'orchestra cominciava a suonare. «Fate silenzio!»
«Pare proprio che non abbiamo altra scelta che goderci lo spettacolo, amico mio» sussurrò Alexandre. «E se le cose stanno così, rilassatevi, daremo la caccia ai fantasmi più tardi».

*

Buio e musica: un sunto perfetto della sua vita.
Le note del grandioso compositore italiano coprivano il rumore di gocce di umidità che filtravano dai muri di pietra. Magari fuori pioveva a dirotto, ma Parigi, i suoi abitanti, il mondo stesso erano lontani da lì, in un'illusione spazzata via dalla musica che si spandeva come un incendio, arrivando fino a lui e strappandolo al freddo del silenzio.
La mano di Erik si agitavano a mezz'aria seguendo il ritmo come se fosse lui stesso a dirigere l'orchestra. I suoi movimenti sembravano precedere ogni nota che veniva emessa, con la sicurezza di chi conosce a memoria ogni vibrazione, ogni palpito, ogni pausa di quella sinfonia.
Il Fantasma dell'Opera non si era mai sentito così umano e vivo come in quel momento. Se ne stava  in piedi al centro di uno dei cunicoli sotterranei del primo sottopalco, in direzione della buca d'orchestra, godendosi lo spettacolo come era solito fare. Perché non gli importava guardare. Le scenografie monumentali, i ricchi costumi, le movenze delle ballerine e dei cantanti servivano a stupire il pubblico, a creare una cornice dove la musica dava spettacolo di sé come una vera opera d'arte esposta agli occhi del mondo che presto avrebbe perso interesse per tutti gli altri particolari.
Ebbe quasi la sensazione di poter distinguere il calpestio leggiadro di Christine che avanzava al centro della scena, di poter sentire il fruscio del raso del suo abito: Desdemona che si avvicina a Otello e gli posa una mano sulla spalla in un gesto di tenero conforto, e lui che rivela i suoi tormenti e le sue speranze alla donna che ama.

Già nella notte densa
s'estingue ogni clamor.
Già il mio cor fremebondo
s'ammansa in quest'amplesso e si risensa.
Tuoni la guerra e s'inabissi il mondo
se dopo l'ira immensa
vien quest'immenso amor!

Erik non sentì la voce di Ubaldo Piangi che cantava la prima strofa dell'aria di Verdi. Chiuse gli occhi e cantò egli stesso quelle parole che aveva cantato a Christine come se fosse lui e non il personaggio di Otello a esprimere i propri pensieri. Come se quei versi fossero esattamente le parole che lui non riusciva a trovare per dirle come starle vicino soffiasse via ogni dolore, come la speranza di quell'amore avesse ridato senso a una vita che prima di allora non gli era nemmeno sembrata tale.
L'uomo smise di cantare e attese che fosse la voce di lei a completare la magia.

Mio superbo guerrier! quanti tormenti,
quanti mesti sospiri e quanta speme
ci condusse ai soavi abbracciamenti!
Oh! com'è dolce il mormorare insieme:
te ne rammenti!
Quando narravi l'esule tua vita
e i fieri eventi e i lunghi tuoi dolor,
ed io t'udia coll'anima rapita
in quei spaventi e coll'estasi in cor.

La sua voce, la voce della sua musa. Perfetta, bellissima.
Non era stato il tocco dell'Angelo della Musica. Era stato qualcosa di più. Nemmeno la cantante più talentuosa avrebbe potuto eseguire quell'aria con tanto passionale trasporto. Ma Christine non stava recitando, stava cantando per lui e la forza con cui la sua anima stava dando forma a quelle note sembrò sorprendere Erik come un colpo alle spalle, tanto che l'uomo fu costretto a poggiarsi contro il muro per far fronte all'emozione che lo stava scuotendo.

Ingentilia di lagrime la storia
il tuo bel viso e il labbro di sospir;
scendean sulle mie tenebre la gloria,
il paradiso e gli astri a benedir.

Cantò ancora l'uomo con le mani tremanti di commozione, per poi sentirsi rispondere dalla voce di lei:

Ed io vedea fra le tue tempie oscure
splender del genio l'eterea beltà.

E per un attimo fu come se quelle due creature stessero semplicemente dialogando, aprendo i loro cuori con l'aiuto della musica, abbandonandosi a confessioni che non sarebbero mai state fatte, ma che i loro animi gli spingevano sulle labbra tramite le parole di quel duetto.
E fu di nuovo lui a cantare:

E tu m'amavi per le mie sventure
ed io t'amavo per la tua pietà.
Venga la morte! e mi colga nell'estasi
di quest'amplesso
il momento supremo!
Tale è il gaudio dell'anima che temo,
temo che più non mi sarà concesso
quest'attimo divino
nell'ignoto avvenir del mio destino.

E fu di nuovo lei a rispondere, con la voce impercettibilmente incrinata da un'emozione incontenibile:

Disperda il ciel gli affanni
e amor non muti col mutar degli anni.    

Erik sentì una lacrima, una sola goccia calda e salata scivolare sulla guancia sinistra e asciugarsi ancora prima di raggiungere l'angolo della bocca. Il respiro affannato dal canto e dall'emozione si trasformava in piccoli sbuffi inghiottiti dal buio.
«Christine...» sussurrò con le labbra tremule. «Ah Christine, il mio cuore prenderebbe fuoco per quanto ti amo!».

*

«Dio del cielo!» sussurrò Alexandre serrando le dita sul parapetto della balconata. L'intensità con cui mademoiselle Daaè aveva eseguito quell'aria lo aveva lasciato senza fiato, come tutti gli altri spettatori, impietriti nelle loro poltrone, quasi incapaci di respirare. Ci fu un lungo attimo di silenzio estasiato prima che il teatro esplodesse in un applauso talmente fragoroso che sembrò che la pareti fossero destinate a crollare sotto l'impetuosità di quell'acclamazione.

Quando calò il sipario alla fine del primo atto Bertrand posò una mano sulla spalla del giornalista,
«Venite con me, devo controllare una cosa», ciò detto uscì rapidamente dal palco. Alexandre si congedò da sua madre con uno sguardo perplesso e seguì l'investigatore che percorreva nervosamente il corridoio sul quale affacciavano le porte dei palchi.
«Eccolo lì, il posto del nostro amico...» sbuffò dirigendosi spedito verso la porta contrassegnata dal numero cinque. Allontanò con un gesto brusco la maschera che si era avvicinata con fare servizievole e aprì la porta del palco con una spinta.
All'interno c'erano due sedie con il piano foderato di velluto bordeaux. Tutto era esattamente come quando aveva perquisito il palco prima dello spettacolo, ad accezione di una busta da lettere chiusa da un sigillo di ceralacca a forma di teschio poggiata su una sedia.
Bertrand raccolse la missiva e l'aprì strappando la busta e gettandola a terra.
Le poche righe appuntate sul foglio erano scritte con la calligrafia regolare ed elegante che ormai l'investigatore conosceva bene:

Monsieur Bertrand,
Sono sinceramente mortificato per aver deluso ancora una volta la vostra speranza di incontrarmi. Non temete, sono certo che in futuro avremo occasione di scambiare qualche parola... appena i miei impegni me lo permetteranno.
Spero che lo spettacolo di stasera sia stato di vostro gradimento.
Vi porgo i miei omaggi.
F.O.

Alexandre era rimasto sulla soglia ad osservare i gesti nervosi del suo collega.
«Cosa c'è scritto?» domandò all'improvviso.
Per tutta risposta Bertrand lanciò un vero e proprio ruggito. Le dita si serrarono con forza attorno al foglio che poi prese a strappare con foga.
«Maledetto! Ti prendi gioco di me, mi minacci...» sibilò con la voce resa stridula dalla frustrazione. Quando ebbe finito di strappare il biglietto del Fantasma si voltò di scatto e prima che Alexandre potesse rendersene conto, si avventò sulla maschera. Afferrò il ragazzo per i lembi della livrea e lo spinse contro il muro con tanta foga che gli fece cadere la parrucca,
«Idiota!» ringhiò a un palmo dal suo naso. «Ti avevo detto di sorvegliare questo palco!»
«Monsieur... è quello che ho fatto... vi giuro...» farfugliò il giovane inserviente.
«Incapace, dannato bamboccio inutile! Qualcuno è entrato qui dentro ha lasciato un biglietto ed è uscito! Questo palco non ha altre vie d'accesso che questa porta!»
«No, ho visto nessuno, monsieur!... lo giuro sull'anima di mio padre».
Il ragazzo aveva le lacrime agli occhi e il volto deformato da una smorfia spaventata. Bertrand lo strattonò con violenza, stava per schiaffeggiarlo quando Alexandre gli afferrò il polso con una presa salda,
«Basta così, smettetela!» tuonò il giornalista mentre una piccola folla di signori che si erano alzati durante l'intervallo si era accalcata attorno a loro.
Alexandre afferrò Bertrand per le spalle, ma dovette impiegare più forza del previsto per spingerlo via e allontanarlo dalla maschera. Un uomo in preda alla rabbia più essere più forte e pericoloso di quanto si possa credere.
«State dando un pessimo spettacolo» disse il giornalista all'orecchio del suo collega, riuscendo a stento a trattenere l'investigatore un attimo prima che si avventasse di nuovo sul ragazzo che, recuperata la sua parrucca, si era allontanato rapidamente facendosi largo tra le persone accorse per vedere cosa stesse succedendo.
Ci vollero un paio di minuti perché Bertrand riacquistasse la calma,
«Va bene... va bene, Alexandre, lasciatemi andare» sbuffò con il volto arrossato e imperlato di sudore,
con cautela il giornalista allentò la presa assicurandosi che l'attacco d'ira fosse del tutto scemato.
«Si può sapere che diamine vi è preso?» domandò in tono aspro di rimprovero.
Bertrand indicò con uno sguardo torvo i frammenti della lettera sul pavimento,
«Dice che è dispiaciuto di non essersi fatto trovare» spiegò. «Che ci incontreremo di sicuro prima o poi... è una burla e una minaccia! Io non posso davvero credere che sia entrato qui dentro e nessuno lo abbia visto!»
«Blaise, la vostra posizione non vi autorizza ad assumere dei comportamenti così inqualificabili...»
«Vuole farmi impazzire, vuole che perda il senno» borbottò l'investigatore senza prestare attenzione ai rimproveri del giornalista.
«Mi avete sentito, Blaise?!» insistette il ragazzo «Commettete ancora un'altra scelleratezza e non potrete più contare sul mio aiuto!».
Bertrand guardò il suo interlocutore negli occhi, come se solo in quel momento si fosse reso conto che gli stesse parlando. Allargò un sorriso mellifluo, le labbra sembrarono incurvarsi verso l'alto come se gli angoli della bocca arrivassero fino agli zigomi sporgenti,
«No, non lo fareste mai Alexandre. Non potete abbandonare questo caso, vi prende troppo, è una sfida che è divenuta irrinunciabile, come lo è per me» disse con la voce che era tornata calma e pacata assumendo quasi un tono lugubre. «Lui ci ha catturati, ci ha presi tutti nella sua trappola e potremmo uscirne solo se lui soccombe».


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Come ho già detto, l'Otello di Giuseppe Verdi è stato scritto anni dopo l'ambientazione della storia... ma questo duetto d'amore era troppo azzeccato per non usarlo! *_*
 Si, diciamo che era la scusa per essere sdolcinata senza ritenermi responsabile delle dosi di insulina che ora vi starete iniettando... ho pensato che invece di usare le mie parole potevo usare quelle dell'opera di Verdi così mi lavavo la coscienza XD
 E lo so... lo so, ora vi state domandando la lettera come cappero ci è arrivata nel palco numero 5... ricordate, "He's a genius, monsieur" madame Giry docet


Capitolo 23\12\2011

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Capitolo 14
*** Il Figlio del Diavolo e l'Angelo della Musica ***


Con gli stuzzicadenti a tener su le palpebre perchè stanotte ho dormito si e no tre ore... ecco a voi il nuovo capitolo...
 Preceduto come al solito dai ringraziamenti ai lettori e ai recensori.

 @Amy: Hai ragione, sta fissa dell'uomo dagli occhi chiari è banale... ma che ci vogliamo fare? XD Però, comunque sia, i parigini sono tendenzialmente chiari quindi l'occhio azzurro (e la carnagione merluzzo e il biondo spiga di grano) ci sta... o no?...   No, Cuore Selvaggio non l'ho visto... ma cercherò di provvedere e visto che non è la prima volta che lo dico mi sa che è meglio che mi appico un bel post-it rosa mortadella sul coperchio del portatile. Ma davvero ti piace BB che fuma il sigaro? Me tapina! E io che odio l'odore del sigaro e tutti quelli che lo fumano... e ho reso BB tabagista proprio per renderlo ulteriormente odioso (ok, non ci credo nemmeno io... è il mio amato cattivo non potrei odiarlo nemmeno se volessi *_*).
 @ theangelsee69: grazie dei complimenti ^^
 @bloodred_rose: Nemmeno io ho mai visto l'Otello di Verdi, il Maestro mi perdoni ma non capisco molto di lirica, ho fatto un pò di ricerche per trovare un duetto lirico che si adattasse ai miei due pargoli e alla fine ho trovato codello. Ho pensato che le parole potevano andar bene e ho visionato la scena... QUESTA (per chi fosse curioso). Gli antipsicotici per BB? Se fossi sicura che all'epoca esistessero proporrei ad Alexandruccio mio bello di mischiarne un pò al tabacco del sigaro XD

 Detto ciò, ci tengo a precisare che il capitolo che segue l'ho scritto a maggio... ma magari ora fa più "atmosfera" ^^

 Buona lettura

Your obidient servant


*******

CAPITOLO TREDICESIMO  

Il Figlio del Diavolo e l'Angelo della Musica

Il Natale porta sempre con sé un'aria di magia, di sogni che luccicano nella brina del mattino, di speranze fragili come le sfere di vetro colorato che si usano per decorare i rami degli abeti. E in una notte l'umanità si regala l'illusione di una bontà che trionfa, nello stringersi attorno al fuoco, sotto lo sfavillio di comete di carta stagnola, nelle preghiere sussurrate durante la messa della mezzanotte.
In quei giorni che precedevano le festività natalizie, Parigi era lustra e vivace come una città da fiaba: la neve aveva smesso di cadere da qualche giorno, sgombrando le strade e lasciandole pulite. La città sembrava animata dal sottile respiro di voci che si scambiavano auguri, sorrisi allegri su volti arrossati dal freddo.

«Io non capisco!» borbottò Meg piegando alla rinfusa alcuni vestiti e gettandoli in fondo a un baule. «Che senso ha che tu rimanga qui da sola! Perché non vieni con noi come fai ogni anno?».
Christine sospirò, lei e la sua amica avevano affrontato questa conversazione già alcuni giorni prima: ogni anno, in occasione del Natale, Meg e sua madre lasciavano il teatro per andare a far visita a dei loro parenti che abitavano in una fattoria nella campagna fuori Parigi, e ne approfittavano per trascorrere lì i giorni di festa, per poi tornare all'Opera in tempo per il tradizionale ballo di fine anno. Naturalmente Christine era sempre andata con loro, ormai veniva considerata una persona di famiglia, ma quella volta aveva deciso di rimanere nel collegio.
«Christine, lo sai bene che qui a Natale non rimane nessuno, perché vuoi trascorrere le feste da sola?» insistette Meg portandosi le mani ai fianchi con un'aria contraddetta molto somigliante ai modi di fare di sua madre.
Christine sorrise divertita notando la somiglianza tra lei ed Eloise, poi guardò l'amica con un'espressione conciliante,
«Meg, mi sono sentita troppo al centro dell'attenzione nelle scorse settimane, ne abbiamo già parlato, ho davvero bisogno di un po' di tranquillità» le spiegò.
La ragazza bionda si avvicinò all'amica e la scrutò con aria interrogatoria,
«Tu sei strana, Christine» disse con un sospiro.
«Meg, ti ho già detto...»
«Oh no, non pensare di raccontarmi di nuovo la storia dello spettacolo, che ti ha turbata e ti ha stancata. C'è qualcosa di diverso in te, sei spesso assente e pensierosa e... Christine, sei diventata vanitosa, non ti ho mai visto curare con tanta attenzione il tuo abbigliamento, il tuo modo di pettinarti, come se ti preoccupassi di non essere abbastanza bella». Meg corrugò la fronte e restò a fissare l'altra ragazza in attesa di una risposta.
Christine era perplessa, non si era resa conto di quanto fosse cambiata negli ultimi tempi. Ma sapeva che la sua amica non avrebbe capito, che nessuno avrebbe potuto capire... gli angeli non si innamorano dei criminali, l'innocenza non può abbracciare la disperazione e curarne i mali, almeno questo è quello che avrebbe detto la gente.
«C'è qualcosa che non vuoi dirmi» continuò Meg con una punta di delusione nella voce. «C'è qualcosa che io non so. Non voglio che tu ti senta costretta a raccontarmi i tuoi segreti, ma a volte io sento che la Christine che conoscevo non c'è più, e se non posso riportarla indietro vorrei almeno capire chi è la persona che ha preso il suo posto»
«Oh Meg... io non so come dirtelo» sospirò la fanciulla bruna.

Non so come dirti che amo l'uomo che voi tutti odiate

«Dirmi cosa, sorella mia? Cosa è successo?» esclamò la piccola Giry.
«Hai ragione, sono accadute cose che mi hanno reso diversa, ma per me è già abbastanza difficile... non chiedermi di spiegare, io non sono pronta... perdonami» mormorò Christine con voce tremula.
«Ah, santi numi! Lo sapevo che finivamo con le lacrime» borbottò Meg abbracciando l'amica.
«Ma io ti voglio bene, questo non è cambiato, lo sai... tu e tua madre siete tutta la mia famiglia».
Christine ricambiò l'abbraccio posando la testa sulla spalla della ragazza bionda.
«Voglio solo essere sicura che tu stia bene, e trascorrere il Natale qui dentro da sola non mi pare una cosa molto benefica»
«Ah, ma io non sono sola, c'è...»
«Sì, lo so, c'è il tuo Angelo della Musica, come dimenticarlo?! Non sei un po' troppo cresciuta per le favole?» concluse Meg.
«Sì, forse hai ragione» rispose Christine con una risatina.

A volte vorrei davvero che fosse solo una favola, ma ormai è troppo tardi...

Poco dopo Eloise bussò alla camera di Meg per dirle che la carrozza che le avrebbe accompagnate dai loro parenti era arrivata. Meg terminò di prendere le sue cose e salutò Christine.
Le due ragazze sapevano che quel Natale trascorso lontano l'una dall'altra non sarebbe stato lo stesso. È ciò che accade quando si cresce.
Mentre osservava la sua amica allontanarsi lungo il corridoio Christine ebbe come la sensazione che un altro pezzo della sua infanzia fosse volato via, perso per sempre davanti a una prospettiva di futuro quanto mai incerta.

*

L'ultima nota scivolò dalle canne dorate dell'organo e si infranse come un'onda contro la cappa di silenzio che avvolgeva la Dimora sul Lago.
Erik sospirò stancamente osservando gli spartiti con occhi arrossati e sentì la schiena dolorante per il lungo tempo trascorso chino sulla tastiera. L'uomo si stiracchiò pigramente e si alzò dallo sgabello lanciando un'occhiata all'orologio che segnava le quattro del mattino.
La mattina della Vigilia.
Molte delle candele che illuminavano la grotta si erano consumate, altre stavano per spegnersi. Solo allora Erik si accorse di avere freddo, di avere indosso solamente la camicia e il panciotto sbottonato per metà.
Nel tardo pomeriggio era andato a prendere uno scatolo che Eloise era andata a ritirare per suo conto prima di partire per la campagna. La confezione di cartone era chiusa da un nastro di raso con sopra scritto il nome della più famosa sartoria di Parigi. Dentro c'era il suo abito per la festa, lo aveva disegnato personalmente e aveva inviato al sarto istruzioni precise su come realizzarlo. Doveva essere il costume degno del Figlio del Diavolo. Doveva stupire e spaventare. Aveva passato una vita intera ad osservare la gente e l'umanità a volte gli sembrava così prevedibile, un mucchio di esserini che si circondano dei loro simili per sentirsi al sicuro ma che erano pronti a sbranarsi a vicenda se necessario. Era proprio per la loro meschinità che Erik provava tanto divertimento a stupire gli altri e ora aveva in serbo per quel branco di stolti una sorpresa che, era certo, li avrebbe lasciati di stucco.
Quando era tornato nel suo rifugio aveva pensato di provare il vestito ma mentre si stava togliendo gli abiti che aveva indosso era stato sopraffatto dalla voglia di scrivere, da un'ondata prepotente di ispirazione, di voglia di musica. Si era seduto al suo organo dimentico di tutto il resto.
Come accadeva spesso, le ore si erano susseguite senza che lui se ne rendesse conto, senza che riuscisse a sentire il freddo, la fame o la stanchezza, perché la musica gli invadeva i sensi rendendolo incapace di percepire il mondo attorno a lui, facendogli perdere la consapevolezza del suo stesso corpo.
Aveva trascorso la notte insonne, a scrivere la sua musica. Le sue mani annotavano con la calligrafia precisa e ordinata le note sul pentagramma, tracciando la distanza tra il Figlio del Diavolo e l'Angelo della Musica.
Ora il suo Don Juan era terminato.
Erik sfiorò il margine del plico di fogli con l'indice appena macchiato di inchiostro, come per sincerarsi che la sua opera compiuta fosse lì, come un piccolo miracolo a cui si fa fatica a credere. Sistemò gli spartiti in una cartellina di cuoio, insieme ai disegni dei costumi e dei fondali di scena. La sua anima tradotta in musica, parole, immagini, colori. Il suo cuore, il suo stesso sangue stemperato e rimescolato nell'architettura di un capolavoro. Quell'opera avrebbe fatto trasalire tutto il pubblico e lui avrebbe goduto de loro sgomento come un dio capriccioso che osserva i comuni mortali alle prese con una tempesta. Ma più di ogni altra cosa, quell'opera era stata scritta per lei, per la sua musa. Per tradurre in musica il desiderio che non aveva avuto ancora il coraggio di esprimere in altro modo.
Chissà cosa avrebbe detto la sua Christine leggendo quelle arie.
Intanto quel piccolo angelo, la sua bambina era stata capace di stupirlo più di quanto lui avesse mai fatto. Era rimasta a teatro, rinunciando a trascorrere il Natale con la famiglia di madame Giry...

Sei un mostro egoista...

Dalla sera dell'Otello la sua coscienza non gli aveva dato tregua. Quando Christine gli aveva detto che non sarebbe andata via per le feste non era stato difficile capire che lo aveva fatto unicamente per lui. Erik non aveva detto nulla, ma il suo orgoglio aveva ruggito di soddisfazione: era così che lui voleva che andassero le cose, era quella la dimensione che aveva in mente quando pensava che Christine gli appartenesse. La voleva incapace di allontanarsi da lui, voleva che le mancasse l'aria al pensiero di non trovarselo accanto, voleva che quell'amore le annebbiasse la ragione, come era capitato a lui.

… And though you turn from me
to glance behind
the Phantom of the Opera is there
inside your mind...

Erik non aveva mai conosciuto quei sentimenti prima d'ora, e si era lasciato travolgere da quella passione senza rendersi conto che l'amore è qualcosa di più profondo di quella smania di possesso. Ma lui non conosceva altro modo di amare anche se la sua coscienza lo spingeva ogni volta a chiedersi se fosse giusto.
Erik si addormentò con l'immagine di Christine talmente vivida nei suoi pensieri che quasi riusciva a sentirne il profumo. Sarebbe andato a cercarla appena sveglio, aveva un dono da consegnarle.

*

La mattina della Vigilia, Christine lasciò il teatro per recarsi al convento delle suore di Santa Caterina. Le buone sorelle gestivano un orfanotrofio dove davano riparo a tutti i bambini rimasti soli. Ogni anno, in occasione del Santo Natale i cittadini di buon cuore si recavano in luoghi come quelli portando del cibo o qualcosa da dare in dono agli orfanelli, Christine non aveva abbastanza denaro per comprare qualcosa per i bambini, ma decise ugualmente di andare ad aiutare le suore a preparare il pranzo, il pasto più ricco che quelle povere anime avrebbero mai mangiato.
In effetti, nella cucina del convento c'era molto lavoro da sbrigare e la fanciulla trovò comunque modo di rendersi utile, pulendo grandi quantità di verdura.
Avere qualcosa da fare durante quasi tutto il giorno permise a Christine di trovare un po' di tregua dai suoi pensieri. Era passata una settimana dalla rappresentazione dell'Otello e in quei giorni lei e il suo Maestro si erano incontrati una sola volta. In quell'occasione la ragazza gli aveva detto che non intendeva allontanarsi dal teatro per il Natale e si era ritrovata ad arrossire davanti all'accenno di sorriso che Erik le aveva rivolto.

Sei solo una povera sciocca, Piccola Lottie...

La fanciulla aveva scoperto di amare quell'uomo quasi senza rendersene conto, quasi senza doverlo dire nemmeno a se stessa talmente la cosa le sembrava naturale, come se fosse l'unica strada che la sua vita avrebbe potuto percorrere. Ma era tutto così assurdo, come poteva pensare che lui la ricambiasse? Lei era solo una bambina, invece Erik era un uomo, una persona così geniale e brillante che lei al confronto si sentiva una stupida. Era il suo Angelo della Musica, il suo Maestro e ritrovarsi a immaginare le sue dita che l'accarezzavano con la stessa dedizione con cui sfiorava le corde del suo violino era un pensiero troppo ardito che lei cercava in tutti di modi di respingere. E in ogni caso la ragazza sapeva ancora così poco di quell'uomo.
Quando Christine tornò a teatro era troppo stanca per continuare a lasciarsi torturare dalle sue riflessioni e dai lamenti del suo cuore. Si cambiò i vestiti sporchi e attese semplicemente che Erik venisse a farle visita.
Non erano riusciti a incontrarsi in quei giorni a causa di Bertrand, l'investigatore l'aveva sorvegliata continuamente nell'ultima settimana. Quell'uomo odioso sembrava essersi accanito particolarmente nella sua ricerca, la storia dell'incidente con la maschera del palco numero cinque era diventato il pettegolezzo preferito dagli addetti ai lavori del teatro, sembrava che Bertrand avesse trovato un biglietto che lo aveva mandato su tutte le furie, ma nessuno era riuscito a sapere di chi fosse il messaggio e cosa dicesse. Ad ogni modo, dopo diversi tentativi, monsieur Dubois aveva convinto l'investigatore a rimanere a casa per Natale: trascorrere il Santo Natale nel teatro vuoto sarebbe stato troppo anche per loro.
Christine attese a lungo, rannicchiata sul suo letto, senza che il Fantasma dell'Opera si degnasse di fare la sua comparsa.  

Lo vedi, piccola sciocca, lui non ti ama.
Per lui sei solo uno strumento per far conoscere al mondo il suo genio...

La ragazza deglutì come se stesse cercando faticosamente di ingoiare il boccone amaro. All'improvviso ebbe la sensazione che quella stanza le si stringesse attorno e senza nemmeno indossare il suo mantello di lana corse via percorrendo rapidamente le scale che portavano sul tetto dell'Opera.
La grande piazza davanti al teatro era deserta, i caffé e i bistrot erano chiusi. Le persone erano tutte rintanate nelle loro case a prepararsi per la festa e Parigi, che in quei giorni le era sembrata tanto bella, ora le appariva come un enorme deserto di tetti velati di brina.
La ragazza si lasciò cadere seduta sul basamento di una statua e rimase a fissare il vuoto con il vento che le fischiava nelle orecchie, scompigliando i riccioli.

*

Erik restò per qualche secondo a osservare la figura della giovane seduta ai piedi del cavallo alato. Vide i suoi capelli muoversi nel vento come rami d'albero che si tendevano verso il sole. Avrebbe voluto farla sedere sulle sue ginocchia e pettinarglieli, giocare con le dita tra quelle ciocche morbide...
«Christine?» chiamò avvicinandosi cauto per non farla spaventare.
La ragazza si voltò lentamente, dandosi il tempo di cancellare dal viso il sorriso euforico che le era spuntato sulle labbra,
«Non credevo di vedervi» ammise semplicemente.
«Sai, sono stato impegnato. Ho terminato un'opera alla quale stavo lavorando da molti mesi» rispose l'uomo sistemandosi davanti a lei-
«Ah, capisco. Spero che un giorno mi farete ascoltare qualcosa»
«Farò molto di più, voglio che sia tu a interpretarla!»
Christine scrollò le spalle,
«Dopo Natale tornerà la signora Giudicelli» disse. «Sarà lei a interpretare il prossimo spettacolo»
«Non ci giurerei, mia cara» mormorò l'uomo con un sorriso beffardo.
«Erik! Vi prego, avete promesso...»
«Certo, certo. Stai tranquilla»
«Erik...»
«Sì?»
«Buon Natale» concluse Christine con un sorriso adorabile.
Lui si sentì stringere il cuore. Non c'erano mai stati auguri di Natale per il Fantasma dell'Opera.
«Ah già, che sbadato!» esclamò, cercando qualcosa all'interno del mantello. «Buon Natale anche a te, Christine».
Così dicendo le porse un piccolo pacco di cartone chiuso da un nastro colorato, la ragazza lo guardò con aria imbarazzata.
«Ma... non dovevate» farfugliò.
Erik scrutò il volto di Christine mentre apriva il suo regalo,
«Oh, io non so come ringraziarvi, è stupendo!» esclamò la ragazza facendosi scivolare tra le mani un foulard di seta rossa con delle rose ricamate in fili dorati
«Si intona al mio abito per la festa...» commentò l'uomo con un filo di voce.
«Quale festa?» domandò la giovane senza capire, Erik le rispose con un vago cenno della mano.
«Sono contento che ti sia piaciuto» aggiunse per poi sedersi accanto a lei.
Un alito di vento più forte soffiò contro di loro, Christine sentì un brivido di freddo,
«Ti verrà un malanno» commentò Erik. «Torniamo dentro»
«No, preferisco restare qui...».
Erik annuì e coprì le spalle della ragazza con il suo mantello, ma inaspettatamente lei si inclinò di lato posandogli la testa sulla spalla e lasciando che lui la stringesse un po' più forte in quel caldo abbraccio.
«Non mi avete mai detto chi siete» mormorò la giovane, incapace di guardarlo negli occhi per paura di non riuscire a evitare qualche gesto istintivo e sconsiderato.
Erik deglutì e si schiarì la voce con un leggero colpo di tosse. Non poteva non darle una risposta.
«Non è una bella storia da raccontare» borbottò.
«Non importa, voglio conoscerla ugualmente» protestò lei con voce incerta.
L'uomo cercò di mettere insieme i ricordi e le parole. In realtà quello che ricordava della sua vita prima che Eloise lo portasse con sé a teatro era un misto di buio, violenza e dolore, con poche immagini confuse di rari momenti di serenità.
«Sono stato cresciuto in una tribù di zingari» esordì.
«Ma non avete nulla che ricordi la fisionomia dei gitani e nemmeno il vostro nome...» disse Christine corrugando la fronte.
«Sì, il nome che porto me lo diede mia madre... prima di abbandonarmi, o almeno così mi dissero gli zingari».
La giovane strinse un lembo del mantello tra le mani,
«Ma è terribile, quale madre abbandonerebbe il suo bambino?!» esclamò inorridita.
«La mia, evidentemente. E se nemmeno lei ha avuto pietà di me e del mio volto, come avrei mai potuto sperare che ne avessero quegli zingari?»
«Vi fecero del male?».
Erik chiuse gli occhi e cercò la forza di proseguire la sua spiegazione,
«All'inizio, la famiglia che si prese cura di me mi trattò bene» continuò. «C'era una donna rimasta vedova senza figli, lei e il suo vecchio padre mi trattavano come un figlio, ma il resto della tribù non mi voleva, diceva che ero maledetto, che avrei portato il malocchio, mi chiamavano il Figlio del Diavolo. Ma il vecchio doveva essere qualcuno di importante nella tribù e lasciarono che mi tenesse con sé, sapeva anche leggere e scrivere, infatti mi insegnò».
Nella mente dell'uomo si fecero strada le immagini sfocate di un grande carro di legno, di un uomo anziano con i capelli color argento e folte ciglia cispose, e una donna, bassa e con i lineamenti marcati e i capelli scurissimi che portava sempre grandi scialli decorati con perline che luccicavano alla luce delle candele. Ricordò di se stesso, degli altri bambini che lo evitavano e che per divertirsi restava nascosto ad osservare il mondo attorno a lui, imparando avidamente tutto ciò che vedeva. E ricordò di uno zingaro che sapeva domare i cavalli e che gli piaceva osservare mentre insegnava ai suoi figli a usare il lazzo...
«Erik... vi prego, continuate». La voce di Christine lo riportò al presente, lui annuì.
«Una sera ci fu un incendio che distrusse molti carri, alcune persone persero la vita, tra cui anche la donna che si prendeva cura di me... gli zingari dissero che era stata colpa mia, che ero stato io ad attirare la sfortuna su di loro, ma ancora una volta il vecchio riuscì a convincerli a non mandarmi via, del resto avevo solo otto anni...»
«Otto anni...» ripeté la fanciulla sgranando gli occhi. Le si stringeva il cuore al solo pensiero di ciò che il suo Angelo aveva dovuto subire e se solo avesse immaginato il prosieguo di quel racconto lo avrebbe pregato di smettere.
«Già... comunque sia, dopo qualche mese anche il vecchio morì. Mi avrebbero cacciato via a calci se non fosse stato per un uomo che ebbe l'idea di usarmi come attrazione nel loro circo ambulante, il Figlio del Diavolo era una curiosità che attirava un bel po' di gente, sai?».
Erik pronunciò quelle parole con un tono quasi sarcastico, come a voler dimostrare che erano cose lontane, che non lo riguardavano.
«È stato lì che ho capito quanto quella gente che è lì fuori non è altro che un branco di ipocriti... le brave persone che vanno a messa, che insegnano l'educazione ai loro figli, che parlano di onore e di rispetto erano le stesse persone che ridevano quando io venivo preso a bastonate!» la voce dell'uomo era diventata bassa e sottile, il respiro dell'odio che si insinua sotto la pelle e avvelena il sangue.
«Dio misericordioso!» esclamò Christine coprendosi il volto con le mani, sconcertata da tanto orrore.
«Oh, no bambina, Dio non c'entra niente con la mia storia, meno che mai con me!» commentò Erik con aria sprezzante.
«Comunque... come siete scappato da lì?» domandò la giovane.
«Fu quando incontrai Eloise, fu lei a portarmi via e a nascondermi in questo teatro... è così che è nato il Fantasma dell'Opera»
«Ma voi siete un uomo Erik! Qualsiasi cosa quella gente vi abbia voluto far credere, qualsiasi cosa  loro vi abbiano voluto far diventare» disse Christine reprimendo le lacrime. «E non siete il Figlio del Diavolo... siete il mio Angelo della Musica».
Il Fantasma dell'Opera non poteva concedersi di credere a quelle parole. L'odio che provava verso il mondo era stata l'unica ragione che lo aveva aiutato ad andare avanti, ad accettare quella vita di buio e solitudine. Ma l'uomo che si celava dietro quella maschera avrebbe voluto abbracciare la ragazza e ringraziarla di quelle parole.
Alla fine fu il Fantasma e non l'uomo a prevalere, lui si alzò con uno scatto e fissò Christine con uno sguardo terribile, mentre la sera che stava cominciando a calare portava via un po' di azzurro ai suoi occhi.
«Non illudiamoci, Christine» sussurrò con voce roca. «Per loro io non sarò mai nient'altro che un mostro»
«Erik... voi non...» la giovane tentò debolmente di protestare.
«Torniamo dentro. Fa freddo ed è quasi buio» tagliò corto lui, avviandosi verso l'entrata.

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La faccenda dell'orfanotrofio e dei parigini che vanno lì a preparare il pranzo i natale agli orfanelli me la sono inventata di sana pianta, in realtà credo sia troppo moderna come idea (avete presente il cenone di Natale che organizzano i volontari per i senzatetto?) e forse è anche un pò forzata e poco realistica, ma la fanciulla che rimaneva a teatro a girarsi i pollici perchè il Maestro era lì che ronfava dopo la notte insonne mi sembrava un pò triste come idea.
 La storia dell'infanzia di Erik, anche lì, pura improvvisazione. Spero vi suoni palusibile.

Capitolo reinserito il 26\12\2011

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Capitolo 15
*** La Morte Rossa ***


Lunedì. Con l'augurio di una buona settimana nuova vi lascio anche il prosieguo del mio delirio da fanwriter, insieme ai ringraziamenti per le visite e i commenti.
 L'autrice spiantata chiede scusa se non ha tempo di rispondere ai due cari commenti ma sta per recarsi al cinema a vedere una pellicola con un tale attore scozzese sorprendentemente somigliante al Maestro XD e le è venuto in mente solo ora che oggi è lunedì e che doveva postare (sì, sto messa male).

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

La Morte Rossa

Scoppi di fuochi di artificio risuonavano nelle strade illuminando la città con i loro bagliori multicolori. Parigi salutava l'anno vecchio in una sera mite, dove la neve si era già sciolta e le stelle occhieggiavano come minuscole fessure aperte su un domani luminoso, su un nuovo anno ricco di speranze e sogni.
Erik abbottonò il panciotto di seta e scostò il drappo che copriva uno degli specchi, tanto per guardare un frammento della sua figura avvolta in quel ricco abito da festa. Gli anni per lui si erano rincorsi a ritmo della sua musica, nel buio, furtivi come ladri che ad ogni loro passaggio portano via qualcosa in più. Anche adesso che l'amore gli aveva dato occasione di guardare al futuro concedendo anche a lui sogni e speranze, il suo domani sembrava avvolto dello stesso colore del suo abito, il rosso vivo del sangue o delle fiamme dell'inferno.
L'uomo scacciò via quei pensieri lugubri e si avviò verso l'uscita della sua grotta avvolgendo attorno al braccio il lungo mantello,
«Che vedano, che sappiano» sibilò tra sé e sé. «Che annusino l'odore del sangue e dell'inferno...».

*

Il foyer dell'Opera Populaire era tutto uno sfavillio di candele e vestiti sontuosi. L'orchestra del Maestro Ryer, sistemata sul parapetto della galleria che portava verso i palchi laterali, suonava un bolero a cui gli ospiti rispondevano con entusiasmo lasciandosi andare al ballo come bambini spensierati su un prato, in una notte in cui tutto sembrava perfetto e bellissimo come avrebbe dovuto essere.
Tutto perfetto, talmente tanto da sembrare irreale, un sogno di cartapesta e coriandoli pronto a dissolversi da un momento all'altro.

Andrè e Firmin indossavano maschere barocche a forma di ariete e di gallo, le più bizzarre e vistose che ci fossero. Probabilmente perché ritenevano che la loro presenza dovesse essere notata, dopotutto, si erano detti, era merito loro se quell'anno, al tradizionale ballo a cui partecipava l'alta società parigina, erano presenti così tanti invitati di rilievo.
Madame Giry, tornata un paio di giorni prima dalla casa dei suoi parenti, indossava un abito scuro con un corpetto damascato e con le maniche ampie dal taglio orientale, mentre sua figlia aveva un costume bianco che metteva in risalto il suo corpicino esile e aggraziato.
E intorno festa, danze, risate, allegria... ma non per molto.

Le candele in cima alle scale si spensero di colpo tutte insieme privando la stanza di gran parte dell'illuminazione. Rimase una luce fioca, quasi lugubre che ingigantiva le ombre riflesse sui marmi rendendo l'atmosfera cupa e pesante, come se quel buio parziale fosse presagio di una terribile sventura. Istintivamente tutti smisero di ballare e la musica scemò, come se una mano invisibile fosse arrivata a strappare via l'allegria dall'animo della gente radunata per fare festa.
Gli sguardi dei presenti furono attirati da un'imponente figura spuntata all'improvviso davanti all'ingresso del corridoio che portava ai palchi laterali. In cima alle scale c'era un uomo vestito con un ricco costume di velluto rosso con i ricami dorati, aveva il viso coperto da una maschera a forma di teschio che lasciava scoperto il mento e le labbra, gli occhi visibili dagli appositi fori erano cerchiati da un trucco nero che ne faceva risaltare il colore chiaro rendendo quello sguardo glaciale, quasi spaventoso. Anche l'elsa della lunga spada che l'uomo portava in vita era a forma di teschio e scintillava lucida alla luce delle poche candele rimaste accese.
La strana figura passò in rassegna la sala con quel suo sguardo di demone e scese lentamente le scale, i suoi passi quasi echeggiavano nel foyer, dove era calato il più assoluto silenzio, e ad ogni gradino ognuno dei presenti avvertiva un tremito di agitazione, come se quell'uomo fosse davvero un emissario della morte giunto appositamente per loro.
«Perché tutto questo silenzio, cari signori?» tuonò lo sconosciuto allargando le braccia in un gesto enfatico. «Credevate che vi avessi abbandonato? Ebbene, eccomi, sono tornato da voi con un dono».
Ciò detto l'uomo sollevò una cartella di cuoio nero che teneva in una mano,
«Ho scritto un'opera per voi! Questo è lo spartito del mio Don Juan Triumphant» esclamò lanciando l'oggetto ai piedi dei direttori che lo fissavano attoniti.
L'uomo procedette con movimenti eleganti ed aggraziati, trascinando sul pavimento un lungo mantello di seta rossa che avvolse intorno al braccio con un gesto fluido e deciso.
Madame Giry deglutì nervosamente osservando la figura che si muoveva per la sala, non si sarebbe mai aspettata una simile mossa. Christine, dal lato opposto del foyer, era impietrita dallo stupore nel suo abito di organza rosa, Raoul che era accanto a lei e che fino a un attimo prima stava per chiederle di concedergli un ballo, le toccò la spalla in una rapida carezza e si allontanò furtivamente dalla sala.
C'era qualcosa di diabolicamente bello e affascinante in quell'uomo in rosso, e riconoscerlo aveva quasi un che di perverso vista l'aria minacciosa della sua figura.
«Solo qualche indicazione per la buona riuscita dello spettacolo» continuò lo sconosciuto estraendo la spada e puntandola contro la Giudicelli che era in fondo alle scale. «Carlotta dovrà imparare a recitare, con grazia, senza quel ridicolo ancheggiare a destra e a manca».
La donna si limitò a fissarlo spalancando la bocca, incapace di protestare. In un breve e inutile impeto di coraggio Piangi, che era accanto a lei, le si parò davanti, ma l'uomo vestito di rosso gli sfiorò l'addome pingue con la punta della spada,
«E tu per interpretare Don Juan dovrai perdere peso, caro Piangi, alla tua età può essere salutare» commentò sarcastico per poi voltarsi verso i direttori accennando un inchino con finto fare cerimonioso, Andrè e Firmin trasalirono quando la lama della spada luccicò sotto la punta del loro naso.
«In quanto a voi, miei cari impresari, è ora che comprendiate che il vostro compito è l'amministrazione, non l'arte!» tuonò lui fulminandoli con uno sguardo severo.
L'uomo si voltò poi verso Christine e camminò nella sua direzione,
«Mademoiselle Daae, quest'opera è stata scritta per voi, sono certo che ci delizierete con il vostro canto nella parte della protagonista, se continuerete ad aver fiducia nel vostro maestro» concluse serafico mentre lo sguardo gli si addolciva e si fissava negli occhi della giovane che arrossì e accennò un impercettibile sorriso, facendo un passo verso di lui con espressione rapita.
Bertrand e Alexandre, anche loro presenti al ricevimento, stavano osservando la scena poggiati a una colonna accanto alla porta di ingresso, lo sguardo del giovane si era mosso febbrilmente a cercare sua madre che era venuta con lui al ballo, poi quando gli era capitato di fissarsi nuovamente sull'uomo mascherato non era più stato capace di guardare altrove. Era dunque quello il Fantasma dell'Opera? Il mostro, l'assassino, l'essere deforme di cui parlavano i racconti dei macchinisti che giuravano di averlo incontrato? Era lui l'ombra ammantata di scuro che lo aveva torturato con tanta gelida meticolosità?
Alexandre sembrò dimenticarsi dell'orribile supplizio che quell'essere gli aveva inflitto solo poche settimane prima. Non poté fare a meno di provare per un attimo una strana ammirazione per quell'uomo, la sua dedizione all'arte e al teatro era così profonda che si era mostrato davanti a tutti solo per dare delle direttive su come organizzare uno spettacolo! E quella voce, era così sorprendente!
Il giornalista fu distratto da uno strano luccichio che vide apparire con la coda dell'occhio alla sua destra, si voltò e vide che Bertrand stava estraendo una pistola dalla tasca interna della giacca, lo guardò sgomento per un attimo, ma l'uomo non fece in tempo ad estrarre l'arma e a prendere la mira, perché il visconte De Chagny piombò di corsa nella sala brandendo una spada e dirigendosi verso il Fantasma che era ancora in piedi di fronte a mademoiselle Daae.
L'uomo mascherato vide arrivare il giovane e indietreggiò, lanciò contro il pavimento della polvere da sparo, la stessa che si usava per i trucchi di scena, e sparì in una botola avvolto da una densa nuvola di fumo.
La scena strappò ai presenti un grido di stupore, mentre Raoul si lanciò nella botola un attimo prima che essa si richiudesse con un tonfo sordo.
Madame Giry si allontanò di corsa dalla sala, mentre la gente si accalcava verso il punto in cui la botola aveva inghiottito il Fantasma e il visconte.
Christine ebbe bisogno di poggiarsi al muro, le mancava il respiro. L'emozione di aver rivisto il suo maestro in quella tenuta tanto strabiliante si mischiava al timore che aveva provato per lui e alla preoccupazione per Raoul che era sparito all'interno della botola.
 
«Voi siete pazzo, Bertrand!» ringhiò Alexandre guardando furioso l'uomo che a sua volta sembrava arrabbiatissimo per non essere riuscito a prendere il Fantasma.
«E voi siete un ingenuo Alexandre! Il momento era perfetto, era un bersaglio facile» replicò l'investigatore agitando i pugni.
«Un bersaglio facile?! Ma se era in mezzo a un mucchio di gente, avreste potuto sbagliare mira!»
«Non avrei sbagliato»
«E comunque, non si era mai detto che lo avremmo ucciso»
«Si era detto che lo avremmo preso, che differenza fa? Devo forse ricordarvi cosa vi ha fatto quell'assassino?».
Alexandre prese un profondo respiro e cercò di calmarsi,
«Non siamo dei carnefici, Bertrand» concluse guardando con astio il suo interlocutore. «Non sta a noi decidere la sorte di quell'uomo, limitatevi a scovarlo, poi sarà la giustizia a scegliere cosa fare. E ora, scusate, ma devo cercare mia madre».

*

Raoul cadde rovinosamente su un pavimento di pietra ruvida, recuperò la spada che era scivolata qualche metro più in là e serrò le dita attorno all'impugnatura. Il luogo dove si trovava era buio, ma all'improvviso vide un bagliore balenare di lato, si voltò con uno scatto continuando a brandire la spada e vide il profilo della maschera a forma di teschio disegnarsi nell'oscurità.
Dunque era tutto vero, c'era un uomo che si nascondeva dietro la leggenda del Fantasma dell'Opera, e non era un semplice detrattore della Giudicelli o un operaio dedito a scherzi macabri. Era qualcuno che nascosto nell'ombra tentava di manovrare tutti coloro che vivevano nel teatro, come un cinico burattinaio. E dunque era vera anche la sua ossessione per Christine, e che lei lo aveva incontrato e ne era rimasta spaventata.
«Quanto è vero Iddio, lo ucciderò se osa farle del male!» pensò il giovane continuando a girare a vuoto nella stanza buia, rincorrendo la sagoma del Fantasma che si muoveva rapidamente da un punto all'altro.
Un rivolo di sudore freddo scese lentamente lungo la tempia di Raoul che si lanciò con rabbia verso il punto in cui aveva visto comparire l'uomo l'ultima volta, ma si ritrovò a urtare violentemente contro qualcosa di rigido e freddo e solo allora comprese di essere rinchiuso in una camera dalle pareti ricoperte di specchi disposti in varie angolazioni.
I movimenti rapidi del Fantasma erano solo un'illusione ottica, in realtà era da qualche parte nel buio a prendersi gioco di Raoul che prese a guardarsi intorno nervosamente alla ricerca di un modo per uscire.
Uno specchio si aprì scivolando su dei cardini, come se fosse una porta. Madame Giry comparve in un angolo della strana stanza reggendo tra le mani una lampada ad olio, prese il ragazzo per la spalla e gli fece cenno di seguirlo, insieme si allontanarono e si avviarono lungo una ripida scalinata di pietra che li portò direttamente sul retro del teatro dove c'era l'ingresso che immetteva verso gli alloggi delle allieve del collegio.
«Ne ho avuto anche troppo per stasera» sospirò madame Giry sparendo oltre la porta.
Raoul le si lanciò dietro e la prese per il braccio,
«Come sarebbe? Voglio una spiegazione!» protestò energicamente.
La donna lo fissò scuotendo il capo e si dileguò dalla sua stretta.
«Madame Giry, aspettate!»
«Vi prego, monsieur, non chiedete...»
«Devo sapere, madame, devo sapere a quali pericoli stiamo andando incontro!»
«Di quali pericoli state parlando visconte?!» borbottò la donna raggiungendo la sua stanza.
«È già morto un uomo, e stasera quell'essere avrebbe potuto commettere qualche altra scelleratezza!» gridò Raoul rosso in viso.
Madame Giry si coprì il volto con le mani e sospirò tristemente, poi sollevò lo sguardo lucido per fissare il giovane negli occhi,
«Vi racconterò solo per convincervi che non c'è alcuno pericolo... non più» rispose con durezza.
Eloise e Raoul si chiusero nella camera da letto della donna, lei si sedette sulla sedia davanti alla specchiera e aumentò la fiamma della lampada. Una luce morbida e giallastra illuminò alcune vecchie foto incorniciate su una mensola, tra cui un ritratto di Eloise da giovane.
«Ero una ragazzina all'epoca, studiavo nel collegio dell'Opera per diventare una ballerina» esordì la donna indicando la vecchia fotografia. «Una sera andai con le mie compagne a una fiera ambulante, una specie di circo allestito in campagna da una carovana di zingari. Fu lì che lo incontrai»
«Lo incontraste? Lo avete condotto voi qui?» domandò Raoul perplesso.
«Ricordo che c'era un tendone in mezzo al piazzale dove era allestito il circo, c'era un'insegna scritta a grandi lettere nere, diceva: il Figlio del Diavolo. Un uomo si sporse dal tendone e ci invitò ad entrare... oh, non credevo avrei mai assistito a qualcosa di così raccapricciante! Al centro del tendone c'era una grossa gabbia, in un angolo c'era un ragazzino, era pelle e ossa, era coperto di lividi e segni di percosse, teneva il volto coperto da un sacco di tela».
Raoul arricciò il naso in una smorfia di disgusto, l'angoscia che si leggeva sul volto di madame Giry gli gelò il sangue nelle vene, quasi gli tolse il fiato,
«È orribile... ma vi prego, continuate...» la incitò timidamente.
«L'uomo indicò il ragazzino dicendo che ci avrebbe mostrato il Figlio del Diavolo» proseguì la donna. «Lo vidi afferrare il piccolo in malo modo, gli tolse il sacco dalla faccia e strattonandolo per i capelli lo costrinse ad alzare il viso verso il pubblico che si era radunato fuori dalla gabbia. Tutti risero e cominciarono a insultarlo... io avrei solo voluto fuggire!».
Una lacrima, che aveva tutta l'aria di essere molto salata, rigò il volto di Eloise come se avesse voluto tagliarle una guancia,
«Oh monsieur! Non so se era più spaventoso il volto di quella povera creatura o la disperazione che vi si leggeva... la parte desta della sua faccia era deturpata da una piaga simile a una profonda ustione, e il sudiciume di cui era ricoperto non rendeva certo il suo aspetto più gradevole. Dopo quel terribile spettacolo, che divertì tutti tranne me, il pubblico lanciò qualche moneta all'interno della gabbia e si allontanò, io sola rimasi all'ingresso del tendone a guardare il giovane... avrei voluto che mi vedesse, lanciargli uno sguardo di conforto... ma lui non si accorse di me, prese la corda con cui era legato e... e approfittò di un momento di distrazione del suo carceriere per strangolarlo»
«Mio Dio...» mormorò Raoul sconvolto.
La donna deglutì, poi riprese a raccontare,
«Ero sconvolta, ma credetemi, non provai pietà per quell'uomo orribile, a quel ragazzino andò tutta la mia solidarietà, lo presi per mano e lo condussi via, e così lo portai a teatro, dove decisi di nasconderlo per proteggerlo dalla crudeltà della gente, da allora questo posto è diventato il suo regno dei balocchi, il suo domini artistico. Scoprì che aveva un sorprendente talento, è un gran musicista, un architetto, uno scenografo... conosce la chimica, l'alchimia... è un genio!»
«A guardarlo si direbbe che il genio è diventato pazzia» concluse il visconte scuotendo il capo. «Quell'uomo...»
«No, voi non sapete niente, monsieur» questionò madame Giry con aria severa. «E comunque, ha un nome: Erik! Mi disse che gli zingari lo chiamavano così perché era il nome che gli era stato dato da coloro che glielo avevano affidato... ma sarebbe meglio dire abbandonato! Erik non è un mostro, e se ha commesso un gesto tanto terribile come l'omicidio di Bouquet è perché si è sentito minacciato. La vita è stata ingiusta con lui e gli insegnato che si deve essere pronti a tutti pur di difendersi».
Raoul dondolò il capo, non sapeva cosa pensare, era cresciuto nella convinzione che non ci sono giustificazioni sufficienti a crimini tanto efferati, e il Fantasma dell'Opera non solo aveva ucciso, ma aveva anche minacciato e ricattato, e soprattutto aveva messo in pericolo Christine. Il giovane si limitò ad uscire dalla stanza con aria stravolta, senza aggiungere altro.
La donna lo lasciò andare, forse era stato un azzardo rivelargli cose tanto importanti ma del resto non gli aveva raccontato nulla che fosse di qualche utilità alla cattura di Erik, e dopotutto quel giovane viziato sembrava non aver nemmeno compreso appieno il motivo per cui lei gli aveva narrato quella triste storia.
Né il visconte né madame Giry potevano sapere che qualcun altro aveva udito quella conversazione e che ciò avrebbe potuto avere conseguenze terribili!

Il giovane tornò verso il foyer, ma lungo il corridoio si imbatté in Christine.
«Raoul! Grazie a Dio!» esclamò la ragazza con aria sollevata. «Temevo ti fosse capitata qualche disgrazia...»
«Tranquilla Christine, sto bene» le rispose il ragazzo. «Ora ho bisogno di parlare con Alexandre, tu piuttosto, come stai? Sarai spaventata, ma non temere sono certo che presto prenderemo quel criminale!»
«Ma cosa stai dicendo?»
«Madame Giry mi ha raccontato la storia del Fantasma».
Christine sgranò gli occhi,
«Erik...» mormorò stringendo i pugni con aria preoccupata.
«Dunque è vero... tu, tu conosci quell'uomo!» esclamò Raoul rimanendo a bocca aperta, sentendo il cuore che gli scoppiava per l'agitazione. Troppe cose erano accadute quella sera, troppe rivelazioni, non poteva sopportare anche quella.
«Sì» rispose la giovane con aria decisa, per poi abbassare lo sguardo temendo che i suoi occhi rivelassero più di quanto intendeva lasciar intuire.
Il visconte boccheggiò poggiandosi con un fianco contro il muro
«Oh mio Dio... ma tu, tu... è lui dunque, è per lui che mi hai detto di no!» esclamò stravolto coprendosi il volto con le mani.
«Raoul... io...» farfugliò Christine senza sapere cosa dire, il ragazzo l'afferrò per le spalle e la scosse.
«Tu lo ami! Di' la verità, è così?!»
«Si!» urlò la giovane sottraendosi a quella stretta prepotente. «Sì! È così! E tu non sei nessuno per giudicare me o lui!»
«Christine, ma come puoi?»
«No, tu come puoi? Come puoi permetterti di giudicare una persona di cui non sai nulla. Madame Giry ti ha raccontato la sua storia forse perché sperava che tu capissi, e invece tutto quello che sai fare è correre dai tuoi amici a rivelargli ogni cosa! Ma certo! Per te è facile, hai avuto una vita agiata, una casa, una famiglia, persino un titolo con cui comprare il rispetto altrui! Tu sei come tutta l'altra gente che lo chiama mostro senza rendersi conto che i veri mostri siete voi che non sapete accettare le diversità!».
Il volto angelico di Christine era stato completamente sfigurato dalla collera e dall'agitazione, non sembrava più lei, la ragazza dolce e timida che lui conosceva fin da quando erano bambini. Le guance le si erano arrossate e gli occhi le scintillavano per le lacrime di rabbia e per uno strano furore, così violento che quasi sembrava impossibile che fosse contenuto in un corpo così esile e delicato.
Raoul indietreggiò di un passo quasi spaventato. Non era la collera di Christine ad averlo turbato, quanto il realizzare che se lei si era agiata in quel modo era perché forse lo amava davvero molto. Quest'idea fece provare al giovane un dolore insopportabile, come se la rabbia di Christine si fosse tramutata in un fiume incandescente che gli si stava riversando addosso, riducendo a brandelli la sua pelle e la sua anima.
I due ragazzi restarono a fissarsi per un tempo incalcolabile, poi lui trovò finalmente la forza di parlare, combattendo contro il suo orgoglio ferito,
«Hai ragione, non posso capire» ammise stancamente. «E forse non ho nemmeno intenzione di farlo. Ma poiché io ti amo, sì, hai capito bene, ti amo!... Non dirò nulla che possa nuocere a te o a chi ti sta a cuore, fingerò che madame Giry non abbia raccontato niente e lascerò che gli eventi seguano il loro corso. Ma bada, Christine, se quell'uomo dovesse fare del male a qualcun altro stai certa che non avrò nessuna premura per lui. Buona notte».
Ciò detto il visconte si allontanò lasciando la ragazza in lacrime in mezzo al corridoio.

Raoul raggiunse il foyer che nel frattempo si era sfollato. La gente era rimasta spaventata da quanto era accaduto e aveva abbandonato il teatro, lasciando il salone vuoto con il pavimento coperto di coriandoli.
Erano rimasti soltanto i due direttori, Bertrand e Alexandre, che appena lo videro sospirarono di sollievo.
«Grazie al cielo state bene, visconte!» squittì Andrè che sembrava ancora molto scosso.
«Visconte, raccontateci cosa avete visto!» esclamò Bertrand osservando Raoul come se sperasse di sapere qualcosa di veramente decisivo per porre fine a quella storia.
«Io devo trovare mia madre» borbottò Alexandre, dopo aver osservato il so amico e accertatosi che stesse bene. «Non l'ho più vista da prima che comparisse il Fantasma»
«Il nostro caro monsieur Dubois è rimasto piuttosto affascinato dal curioso ospite che abbiamo avuto stasera» commentò l'investigatore con un'occhiata severa.
Alexandre ignorò quel commento e fece per allontanarsi, ma fu avvicinato da un inserviente che gli disse che sua madre era andata via.
«Madame è tornata a casa poco fa, non vi ha voluto disturbare perché pensava che voi sareste stato impegnato con le vostre indagini» disse l'inserviente.
«Oddio! Se n'è andata senza avvisarmi prima... mi farà impazzire prima o poi!» borbottò il giornalista stizzito, allentandosi il foular e sbottonando il primo bottone della camicia.
«Visconte, non teneteci sulle spine» intervenne Firmin. «Diteci cosa avete visto»
«Nulla che possa esservi di aiuto» rispose Raoul.
Bertrand trattenne a stento un gesto di collera,
«Come sarebbe a dire?!» tuonò al limite dell'esasperazione.
«Il corridoio sotto la botola conduceva al primo sottopalco» concluse Raoul con un'alzata di spalle. «E di certo il Fantasma non vive nascosto lì, visto che lì si trova la sartoria. La botola l'avete già esplorata e sapete meglio di me che non è altri che una scatola di pietra. Altro non saprei dirvi»
«Oddio, non ce ne liberemo mai, mai e poi mai!» disse Andrè con voce lamentevole, lasciandosi cadere pesantemente su una sedia.
«Certo che ce ne liberemo, statene certi signori miei» concluse Bertrand con un ghigno.

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bloodred_rose ha indovinato che sarebbe spuntata la Morte Rossa (sono l'unica a non trovare quella mise particolarmente da tumulto ormonale? forse si... ma se il costume non mi sconfinfera più di tanto, devo dire che AMO la scena del film in questione, con Erik che boccheggia come un merluzzo guardando Christine e poi scatta e le strappa via l'anello)... chi indovina chi e perchè ha "origliato" la conversazione tra Madame Giry e il Carciosconte (neologismo inventato per un rigurgito di odio nei confronti del suddetto personaggio) vince una confezione di caramelle dal gusto a scelta. 
 Alla settimana prossima ^^

Capitolo reinserito il 27\12\2011

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Capitolo 16
*** Chiaroscuro (parte prima) ***


Buona settimana nuova, buon tutto... siamo leggermente in ritardo ma ieri sera proprio mentre stavo postando ho ricevuto una visita e ho dovuto desistere.
 Ringrazio i miei lettori e le mie due recensitrici (si dice così? @_@) ma vi comunico che non avete indovinato chi è il famigerato origliatore (quindi niente caramelle, se le mangia tutte il Maestro)... ma vi anticipo che non è importante il CHI quanto il PERCHE'.
 Detto ciò... prima di venire al capitolo, veniamo a noi...
 @ Amy: Bella l'immagine del Maestro in tenuta da Morte Rossa accomunato a un boero da scartare... non mi piacciono i boero ma ti assicuro che dopo questa associazione mentale non dormirò la notte. Eh si, quell'uomo ha un effetto deleterio sulla mia sanità mentale, nel caso non si fosse ancora capito. Sullo spezzare la lancia a favore del Carciosconte sono d'accordo con te, lo so che la vicenda del Fantasma dell'Opera andrebbe guardata secondo il punto di vista dell'epoca in cui è stata scritta... ma Erik è il mio amore letterario e non si comanda al cuore XD (angolino del ritorno all'adolescenza da fangirl: e poi... cioè... se uno mi ci piazza lì lo Scozzese vestito come un modello di Armani, con quegli occhi, quelle movenze e tutto il resto... bhe... suvvia, siamo fatti di carne! XD). Alex è Alex... meravigliosamente (o odiosamente, a seconda dei punti di vista) buono. Lo so... ciccino di zia Elby sua... E il caro BB mi rende sempre molto fiera di lui, contenta che vi piaccia ^^
 @ bloodred_rose: I vestiti di Carlotta sono TUTTI fantastici! Io voglio uno spin-off di POTO con Carlotta e la ricerca della sartoria perduta o qualcosa del genere... Io sono un'amante dei cattivi e quando ho messo su questa fanfiction sapevo che Alex sarebbe stato troppo buono per essere amato, soprattutto se messo a confronto con la sua controparte molto più "fika"... però vabbè, i personaggi sono tutti come dei figli per me *_* (ok, sto cadendo nello smielato). Spero che il capitolo che segue placherà la tua curiosità.

 Questo capitolo è di una lunghezza oscena quindi lo divido in due parti per comodità.

Your obidient servant

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CAPITOLO QUINDICESIMO - PARTE PRIMA

Chiaroscuro

«Erik!» la voce echeggiò nella caverna, un suono melodioso anche se incrinato da un accento di ira.
«Mia cara, cosa c'è che ti rende così nervosa stasera?» disse l'uomo voltandosi lentamente in direzione dell'entrata attraverso la quale Christine era comparsa. Si era tolta l'abito da festa e si era sciacquata la faccia, aveva sciolto i capelli e adesso sembrava di nuovo una bambina. Una bambina con troppo fuoco nel cuore per sembrare ancora innocente agli occhi di chi sapeva cogliere certe cose o semplicemente di chi aspettava un suo sguardo meno reverenziale e più profondo.
«E avete anche il coraggio di chiedermelo?!» esclamò.
«In effetti, sì». Erik trattenne a stento una risata, vederla così agitata, con le gote arrossate di furore lo divertiva.
«Siete pazzo! Siete stato un incosciente! Piombare lì nel teatro, in mezzo a tutti, quando c'è gente che vi da la caccia! E per cosa poi?  Sono veramente sconvolta dal vostro esibizionismo».
L'uomo alzò le spalle e sorrise beffardo,
«Avevo disegnato quel costume tempo fa e l'ho fatto confezionare da uno dei migliori sarti della città, sarebbe stato un vero peccato non indossarlo»
«Non siete divertente...».
Christine lo osservò con espressione crucciata, dopo qualche secondo di silenzio lui sospirò e sorrise
«Sì, devo convenire che non è il mio miglior talento» concluse.
«Smettetela! in nome di Dio!». la voce della fanciulla era diventata stridula cominciando a tremare in un principio di pianto. «Io... se vi fosse accaduto qualcosa... oh mio Dio... Erik possibile che non c'è niente che vi spinga a essere un po' più prudente, non avete nessun motivo per preservarvi in vita?».
Quando tutte le emozioni di quella sera si condensarono in due grosse lacrime che scivolarono oltre le ciglia della sua piccola musa, sia il Fantasma dell'Opera, sia l'uomo che si nascondeva dietro quella lugubre leggenda sentirono il cuore esplodere.
L'Angelo della Musica non voleva essere causa di dolore per la sua protetta. Si alzò con uno scatto dalla sedia dello scrittorio e le andò incontro,
«Ah, certo. Il motivo più valido è qui, davanti a me» disse Erik prendendola tra le braccia con un impeto tale che persino le lacrime diventarono immobili gemme di sale sulle sue guance.
Christine sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi,
«Non potrei mai sopportare di perdervi...» disse. «Non avete il diritto di mettere in pericolo voi stesso, non potete arrivare a stravolgermi la vita e poi correre il rischio di lasciarmi di nuovo da sola!».
Erik rimase a bocca aperta, la tenera passionalità con cui Christine aveva pronunciato quelle parole gli fece accelerare il battito all'inverosimile e spazzò via ogni riserva di razionalità. Gli era sempre difficile mantenere il controllo quando era con lei, quando lei gli era così vicina, ma soprattutto in quel momento non riuscì a fare a meno di sentire il sangue incendiarsi e reagire a quella sensazione inebriante e incontrollabile, prese il volto di Christine tra le mani e la baciò, senza soffermarsi a verificare che lei fosse d'accordo, senza preamboli, famelico e impetuoso, con le labbra che sfioravano quelle della giovane, con la lingua che giocava irriverente con quella di lei.
Christine era rimasta immobile, le mani posate sugli avambracci di Erik, il respiro incollato a quello dell'uomo, come se le loro vite fossero inesorabilmente legate. La ragazza lo attirò maggiormente a sé, sentendo il bacino di Erik aderire al suo addome, strinse tra le dita i lembi della sua camicia, poi gli legò le braccia attorno al collo, aggrappandosi a lui quasi con disperazione. Si staccarono solo quando ebbero bisogno di aria, respirando quel tanto che bastava a placare il bisogno di ossigeno per poi baciarsi ancora, stavolta con più tenerezza, con le mani che accarezzavano i capelli e le spalle, per poi cercarsi, intrecciarsi e tornare ad accarezzarsi, con movimenti febbrili.
Erik ricoprì di baci il volto di Christine, sentendo la pelle delicata della giovane diventare incandescente sotto le sue labbra che non avevano mai toccato la pelle di una donna, per poi scendere a baciarle il collo, mentre le mani le abbassavano la stoffa del vestito scoprendo le spalle e il petto quasi fino al seno.
Christine si sentì sciogliere sotto quei baci così arditi e si strinse un po' di più a lui sfiorando con l'anca l'eccitazione dell'uomo che rispose a quel tocco inatteso con un gemito soffocato, per poi prendere a sollevarle la stoffa della gonna senza smettere si baciarla.
in un attimo di lucidità Christine prese il volto di Erik tra le mani e lo guardò con aria smarrita,
«Erik... no...» ansimò mentre lui riprendeva ad armeggiare con i lacci del suo vestito.
«Erik, no, vi prego...» ripeté sciogliendosi dall'abbraccio dell'uomo e indietreggiando di un passo.
Lui la guardò per lunghi secondi cercando di riprendere fiato, la ragazza teneva lo sguardo basso, il volto era arrossato all'inverosimile per l'imbarazzo.
«Di cosa hai paura Christine?» le domandò pacato.
«Di me...» rispose lei senza alzare lo sguardo.
L'uomo si poggiò con una mano sul piano dello scrittoio e cercò di calmarsi,
«Immagino che non è quello che ti hanno insegnato» commentò in tono grave. «Ti avranno parlato di onore e di peccato»
«Possibile che voi non abbiate morale?» borbottò lei piccata.
«E chi stabilisce cosa è morale? Loro? Quella gente che si affanna ad apparire brava gente, che si lava la coscienza in un'acquasantiera ogni domenica e poi è incapace di accettare un uomo solo perché è diverso?! Se credi che siano loro i detentori della morale allora al mondo c'è davvero qualcosa di sbagliato»
«Non siate cinico... cercate di capire...»
«Non ti obbligherei mai a questo, a niente che tu non voglia Christine, ma mi si stringe il cuore al pensiero che tu abbia paura di te stessa solo perché provi ciò che è legittimo che un essere umano senta, ci sono cose ben peggiori del desiderio per trovare la dannazione, credimi».
Christine si voltò dandogli le spalle, incapace di sostenere il suo sguardo o semplicemente di rispondere alle sue parole. Restò a fissare il muro di pietra davanti a lei, incapace anche ad andarsene e lasciare quel discorso in sospeso.
Erik la guardò senza dire niente respirò lentamente, avvertiva un fastidioso dolore al bassoventre, ma lo preoccupava maggiormente la possibilità che Christine si potesse sentire ferita, non le aveva detto quelle cose per convincerla a fare qualcosa di cui lei non era convinta, aveva solo espresso un  parere. Se avesse voluto semplicemente prenderla per placare la smania che quell'amore gli aveva riversato nelle vene lo avrebbe già fatto, ma era una mostruosità che quella fanciulla non meritava, e non voleva che lei pensasse minimamente che il suo rifiuto di concedersi a lui in quel momento lo aveva fatto adirare o offendere. Erik aveva la certezza che Christine era sua, che gli apparteneva, e ciò gli bastava, ci sarebbe stato tempo per tutto il resto, in nome dell'amore che provava per lei avrebbe aspettato anche se si sentiva divorare dal desiderio.
Le si avvicinò e le posò delicatamente le mani sulle spalle,
«È tutto a posto» le mormorò con dolcezza.
Lei rispose con un singhiozzo e si asciugò le lacrime con il dorso della mano, Erik la fece voltare e le fece cenno di seguirla.
«Vieni, voglio mostrarti una cosa, bambina mia».
Lei sembrò tranquillizzata dalla calma dell'uomo e gli andò dietro.
Erik si chinò a raccogliere una cartella di cartone da un vano di un mobile e sfogliò tra i disegni che erano sistemati all'interno, estrasse un foglio di spessa carta ruvida da disegno e lo porse a Christine,
«L'ho fatto molto tempo fa, credo la prima volta che ti ho vista» le disse.
Lei osservò il foglio incuriosita e si ritrovò a sorridere. Al centro del pezzo di carta era disegnata con un carboncino una bambina di setto o otto anni inginocchiata a mani giunte davanti a un candelabro, con una cascata di riccioli che le ricadevano sulle spalle,
«Ma sono io da bambina...» mormorò intenerita. «Oh, è bellissimo»
«Tienilo, è un regalo» rispose Erik accennando un sorriso.
La giovane lo guardò commossa,
«Grazie».
Erik le baciò una mano e le accarezzò dolcemente i capelli.
«Mio Dio, ma è tardissimo!» esclamò Christine notando l'orario segnato da un orologio sistemato su una mensola oltre la spalla del suo maestro
«Resta con me stanotte!» esclamò Erik con aria supplichevole. «Ti prego, non lasciarmi solo... ti giuro che non accadrà niente che tu non voglia».
La ragazza inclinò la testa di lato e lo fissò pensierosa. Non sapeva fino a che punto fosse una buona idea, ma lo amava, lo avrebbe voluto accanto tutta la vita, non poteva rifiutargli anche quello...
«Siete sicuro che per voi non sia ancora più difficile?» domandò sentendosi avvampare.
«Non lo sarà» rispose Erik deciso.
«Resterò» concluse la giovane. «Ma solo se voi farete una cosa per me...»
«Chiedimi quello che vuoi»
«Voglio che vi togliate quella maschera, che non riteniate di doverla indossare quando siete con me».
A quella richiesta Erik trasalì, il suo sguardo diventò duro e spento, rimase per un attimo a bocca aperta pensando che lei, malgrado fosse tanto giovane riuscisse sempre a trovare il modo di spiazzarlo, nel bene e nel male.
Scosse il capo energicamente corrugando la fronte e distolse lo sguardo da quello della ragazza,
«No, Christine. Se solo avessi idea di quanto mi disgusta ciò che sono...» mormorò.
Lei gli prese una mano tra le sue,
«Quando ci incontrammo la prima volta e io ebbi l'impudenza di togliervi la maschera mi diceste che non avrei dovuto vedere il vostro volto prima di essermi affezionata a voi per ciò che eravate oltre le apparenze. Ebbene, dubitate del mio affetto?»
«No, e proprio perché non dubito del tuo affetto non voglio che sia avvelenato dal ribrezzo per il mio viso...».
Christine sospirò,
«Ammetto che ho avuto paura di voi, ammetto che ci sono stati momenti in cui ho dubitato, in cui ho provato rabbia... ma mai, neppure una volta, ho pensato che ciò che si cela sotto quella maschera avrebbe potuto essere rilevante. Fidatevi di me, come io mi sono fidata di voi» concluse.
Erik si sentì con le spalle al muro, per lei si trattava di fiducia e non poteva darle torto, e non poteva negarle quel gesto di resa ora che lei era lì, pronta ad amarlo, ma la paura di rischiare di perderla per quei lineamenti deformi, che non erano mai stati una colpa ma solo una croce da portare, lo lasciò impietrito, imbambolato davanti al suo sguardo senza riuscire a pensare lucidamente a cosa fare. Christine ormai era ferma nella sua posizione e decise che valeva la pena azzardarsi a ripetere quel gesto che la prima volta aveva scatenato l'ira di Erik, sollevò una mano e fece scorrere una carezza lenta sulla guancia sinistra dell'uomo, fino ad arrivare al bordo della maschera di cuoio. Negli occhi di Erik passò un lampo lucido di paura, come se fossero stati gli occhi di un bambino, o semplicemente gli occhi di un uomo indifeso davanti a ciò che sente più grande di lui.
Lo sguardo di Christine si posò sulla guancia destra di Erik non appena la maschera cadde in terra, lui fece per ritrarsi, ma le mani della ragazza nelle sue gli imposero di resistere all'impulso di coprirsi il viso. E in quel momento Christine dimostrò di essere più coraggiosa e decisa di quanto lo era stato lui. Lo osservò senza curiosità e senza stupore, non c'era la minima traccia di turbamento nel suo viso, solo un velo di malinconia, non tanto per ciò che stava guardando ma per il pensiero di come quel volto imperfetto si fosse rivelata una condanna per un uomo che al di là di quell'evidente imperfezione le appariva bellissimo e che la piaga che si estendeva dalla narice alla tempia non riusciva a renderle repellente, malgrado deformasse i suoi lineamenti eleganti.
Christine pensò che gli angeli dovevano averlo invidiato per la sua bellezza, al punto che Madre Natura, per placare la loro ira, lo aveva reso imperfetto senza infierire più di tanto su uno dei suoi figli migliori.
«Dunque, ti piace quello che vedi?» domandò Erik gelido.
La ragazza ricambiò lo sguardo freddo con un'espressione tranquilla,
«Non c'è nulla che mi dispiace in ciò che vedo, se è questo che volete dire. Siete troppo importante per me perché possa preoccuparmi del vostro viso» rispose.
L'uomo deglutì e cercò di evitare di sciogliersi in lacrime, non voleva impietosirla o commuoverla, si limitò ad annuire,
«Se mai posso sperare in una forma di salvezza, non puoi che essere tu» le mormorò con un tono così toccante che la ragazza gli si gettò tra le braccia e lo strinse a sé accarezzandogli la guancia piagata e baciandogli la fronte.
Erik si staccò da lei e le accarezzò il viso,
«Sono stanco, bambina mia, e credo sia stata una serata intensa anche per te. Meglio andare a dormire...» le disse.
«Sì, avete ragione» concordò Christine, dirigendosi con lui verso l'insenatura in cui era sistemato il barocco letto a forma di cigno, la ragazza si lasciò avvolgere dalla sensazione confortevole di quel materasso morbido e di quelle lenzuola che avevano impresso tra le loro pieghe l'odore di Erik. La consapevolezza di quell'amore la colpì come uno schiaffo al viso, facendola scivolare con la testa affondata sul guanciale, si sistemò su un fianco e sentì Erik stendersi accanto a lei, cingendole la vita con un braccio.
Christine si addormentò cullata dalle carezze di Erik che le passava teneramente le dita tra i capelli, giocando con i suoi riccioli.
Appena la giovane prese sonno l'uomo decise di alzarsi dal letto e allontanarsi da lei. Starle vicino, dormirle accanto, era più difficile di quanto pensasse e le emozioni di quella sera gli avevano fatto salire un groppo in gola che minacciava di soffocarlo se fosse rimasto steso a letto. Decise di lasciare la sua casa, di andare abbastanza lontano da riuscire a pensare agli ultimi avvenimenti a mente lucida, sperando che Christine non si svegliasse e non notasse la sua assenza.

*

Le fischiavano le orecchie, aveva in testa ancora lo scoppiettio dei fuochi di artificio che avevano fatto compagnia alle stelle, al punto che per ognuno di quei bagliori lei aveva pensato che valesse la pena di esprimere un desiderio.
Josephine fece una piroetta volteggiando nella penombra. Aveva detto ai suoi genitori che sarebbe voluta rimanere a teatro e festeggiare l'arrivo del nuovo anno con le sue compagne, in realtà era uscita di nascosto, come faceva spesso, per incontrarsi con il suo innamorato. Era stato difficile organizzare tutto senza che nessuno la scoprisse, ma ne era valsa la pena.
Lui le aveva chiesto di sposarla, le aveva detto che sarebbero scappati insieme se fosse stato necessario, se i genitori di lei non avrebbero acconsentito alla loro unione. Le aveva fatto tante promesse a fior di labbra, promesse che un cuore onesto e romantico non avrebbe lasciato al vento, le aveva messo in mano il suo cuore e aveva steso ai suoi piedi un futuro incerto ma pieno di tutto il devoto amore di cui un ragazzo avrebbe mai potuto essere capace.
Josephine sentì la felicità formicolargli nelle vene e nei muscoli, come se riempisse il suo corpo di minuscole bollicine d'aria che la rendevano leggera. Rise tra sé e sé e sciolse il nastro che le legava i capelli.
Osservò uno scorcio di cielo da un'alta finestra in cima al corridoio e ringraziò Dio di tanta gioia. Se gli angeli del Paradiso avessero potuto vederla, avrebbero pensato che fosse una stella caduta per sbaglio dal cielo di Parigi, tanto la sua anima brillava.
Un improvviso fruscio alle sue spalle fece sobbalzare la ragazza che si voltò di colpo a osservare la penombra nel timore di essere stata scoperta. La sua mente cercò di formulare una scusa plausibile per giustificare la sua presenza lì a quell'ora, ma nessuno venne verso di lei. Pensò di essersi impressionata ma vide un'ombra muoversi all'improvviso, come una massa di buio che prendeva forma davanti ai suoi occhi.
Non ci fu tempo né di pensare, né di dire qualsiasi cosa. L'ombra si avventò su di lei e la spinse contro il muro, tappandole la bocca con una mano fasciata da un guanto. La ragazza tentò di ribellarsi a quella stretta, tremò quando la mano libera del suo assalitore si insinuò sotto la sua gonna, ma non c'era niente da fare, il suo corpo era troppo esile per lottare contro la figura possente che la teneva inchiodata contro quel muro e le strappava rabbiosa la stoffa degli abiti e della biancheria.
E un attimo dopo non ci fu più tempo, né spazio, né aria, né buio, né luce, mentre artigli mostruosi le dilaniavano l'anima e le martoriavano il corpo.

*

Christine si voltò di schiena e allargò le braccia sulla superficie soffice del materasso. Era sola in quel letto, tutto intorno a lei non c'era nient'altro che buio.
Anche se Erik si era alzato e si era allontanato mentre lei dormiva, la ragazza poteva sentire comunque il suo calore attraverso le lenzuola e nell'oscurità di quella notte si sentì stranamente al sicuro, come avvolta da un morbido involucro impalpabile che la proteggeva. Si sentì lontanissima dalla bambina che cercava il sole augurandosi di non incontrare mai ombre sul suo cammino, si sentì diversa, si sentì una donna con la consapevolezza che non sempre la parte migliore delle cose è quella chiara e luminosa, che la felicità può nascondersi anche nella notte, ed era quella notte che lei voleva vivere, quel buio con la sua pace, quelle stelle che tracciavano una strada impervia ma ricca di cose da scoprire. Quella luna che ammiccava con il suo sorriso d'argento sospeso nel cielo, oltre le pareti del teatro, al di sopra degli uomini, della loro testarda e ostentata ricerca della razionalità...

Grasp it, sense it tremulous and tender . . .
Turn your face away
from the garish light of day,
turn your thoughts away
from cold, unfeeling light
and listen to the music of the night . . .

Erik aveva ragione. Aveva avuto ragione fin dall'inizio.

E che notte sia!...

Che notte sia, pensò la ragazza.

… Quanta più notte che può.

*

Il primo giorno dell'anno cominciò avvolto da una coltre di foschia e da nuvole che non portavano pioggia ma che toglievano sole e azzurro al cielo di Parigi.
Madame Giry aveva dormito poco e male quella notte, aveva preso sonno solo alcune ore dopo l'alba e si era addormentata pensando che non le importava, che avrebbe dormito tutto il giorno se ne avesse sentito il bisogno.
In giorni come quelli non succedeva mai niente, il teatro era vuoto e tutti quelli che di solito lo popolavano erano a casa a riprendersi dalla nottata di festeggiamenti.
Il polverone che si era alzato dopo la comparsa del Fantasma era destinato a travolgere tutto l'universo che ruotava attorno all'Opera Populaire, ma non era quello il momento di pensarci.
Tuttavia, le speranze di riposo che avevano attraversato la mente di Eloise prima che scivolasse in un sonno profondo furono spazzate via da una violenta bussata di porta,
«Mamma, mamma, apri! In nome del cielo!».
La voce di Meg era sconvolta, ansimante e tremula. Al suono della voce di sua figlia così turbata Eloise non ci mise più di un secondo a passare dal sonno al suo consueto stato vigile e, avvolgendosi rapidamente nella vestaglia, aprì la porta della sua camera.
Meg era in lacrime, tremava e sembrava che faticasse a parlare.
«Figlia mia! Cosa è successo?» domandò Madame Giry con il cuore che cominciava a martellarle violentemente nel petto.
«Oh, mamma... mamma! È terribile... oddio...». La ragazza si aggrappò alla vestaglia della donna e  le nascose la testa nel petto.
«Meg! Ora calmati» esclamò Eloise prendendo il volto di sua figlia tra le mani. «Fammi capire cosa è successo».
La ragazza scosse la testa, era come se non riuscisse a trovare le parole, si limitò a strattonare sua madre come per accompagnarla da qualche parte. Eloise si lasciò guidare senza opporre resistenza e si rese conto che sua figlia la stava conducendo verso il corridoio che immetteva nell'ingresso del collegio.
Fu lì che Eloise vide un crocchio di ragazzine accalcate attorno a qualcosa che giaceva inerme ai loro piedi. A guardarlo da lontano sembrava un cumulo di stracci, ma all'improvviso una ballerina si staccò dal gruppo e andò incontro alla direttrice del balletto lasciando uno spazio vuoto attraverso il  quale la donna poté vedere che quella a terra era una ragazza.
«Cosa è successo?» chiese con ansia.
«Madame Giry... non lo sappiamo» squittì la ballerina. «L'abbiamo trovata qui stamattina... fissa il vuoto e non parla, quando abbiamo provato ad aiutarla a rialzarsi ci ha gridato di non toccarla»
«Tornate nelle vostre camere, signorine! Subito!» intimò la direttrice del balletto. «Spostatevi, lasciatela respirare... Meg tu calmati e dammi una mano».
Mentre le ragazze sfollavano, pur continuando a guardarsi alle spalle per osservare quello che succedeva, Eloise si chinò su Josephine. La piccola e aggraziata ballerina dalla bellezza angelica ora era un ammasso di vesti lacere, capelli arruffati e lividi viola che le coprivano il corpo mezzo svestito.
Madame Giry si tolse la vestaglia e la coprì, poi si sistemò accanto a lei,
«Chérie, cosa ti è successo?» le chiese con dolcezza, quando avrebbe solo voluto urlare dall'orrore immaginando perfettamente cosa le fosse accaduto.
«Josephine, avanti parla» disse Meg imponendosi di stare calma e avvicinandosi lentamente per cingerle le spalle con un braccio.
«Non è stata colpa mia... non è stata colpa mia...» squittì la ragazzina con una voce che non sembrava più nemmeno la sua.
«Certo che no, mia cara, certo che no...» la rassicurò Madame Giry che in quel momento dovette far ricorso a tutta la sua forza d'animo per mantenere la calma. «Ma non vuoi dirci chi è stato?»
«È stato lui... lui...»
«Lui chi, tesoro?» insistette Meg.
«Il Fantasma dell'Opera» concluse Josephine lapidaria.
Meg lanciò verso sua madre uno sguardo duro e colmo di rancore, ma Eloise scosse energicamente la testa, poi aiutò la ragazza ad alzarsi e l'accompagnò nella sua stanza dove le preparò un bagno e le fece indossare vestiti puliti.
Josephine ormai reagiva passivamente a ogni cosa, si lasciò togliere le vesti lacere e immergere nella vasca. Meg schizzò fuori dalla stanza stravolta dall'angoscia quando vide i lividi che coprivano il corpo della compagna e che erano più marcati ad altezza delle cosce.  
Quando Josephine tornò presentabile e sembrò essersi calmata, Madame Giry le spiegò che ora avrebbero dovuto chiamare la polizia. Non avrebbe voluto farlo, se la ragazza avesse ripetuto ai poliziotti quello che aveva detto poco prima a lei e a Meg, che era stato il Fantasma dell'Opera, sarebbe cominciata una caccia all'uomo ancora più accanita di quella messa in opera da Bertrand. Ma non aveva alternative, il fatto che era accaduto quella notte doveva essere denunciato.
«Josephine, mia cara, tu sei sicura di quello che hai detto prima a me e a Meg, che sia stato il Fantasma dell'Opera?» si limitò a chiederle.
«Certo...» rispose lei mentre un lampo di orrore le attraversava lo sguardo.
«Ma come puoi dirlo se non lo hai mai visto?»
«Madame Giry... chi altri può essere stato?».
Già, chi altri? Si chiese Eloise.

Madame Giry mandò a chiamare i direttori. Se non fosse stato per un fatto tanto tragico avrebbe provato quasi piacere a rovinare il sonno a quei due buoni a nulla.
Poco dopo arrivarono due gendarmi per interrogare Josephine.
Madame Giry rimase con lei tutto il tempo e fu grata al cielo che il poliziotto che raccolse la versione dei fatti della ragazza fosse così delicato e discreto.
Quando i gendarmi lasciarono il teatro, Eloise accompagnò la povera ragazza nei suoi alloggi e le fece bere un bicchiere d'acqua in cui aveva sciolto qualche goccia di valium e attese che si addormentasse. Sarebbe stato un sogno profondo e senza sogni, Madame Giry si augurò che fosse anche senza incubi, anche se probabilmente, dopo quella terribile notte, gli incubi sarebbero diventati una costante nella vita di quella povera anima innocente.
Con un sospiro di pena Eloise lasciò la stanza e si avviò verso i suoi alloggi. Doveva pensare... doveva vedere Erik...
Era certa che non era stato lui, non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto con i propri occhi.
Stava per raggiungere la sua stanza quando sentì che qualcuno le bussava delicatamente sulla spalla. Si voltò per trovarsi davanti un volto di donna segnato da profonde occhiaie, souvenir di una notte insonne come la sua,
«Voi siete Madame Ginette Dubois, giusto?» chiese.
La donna annuì,
«Sì, madame. Scusate il disturbo ma dovevo parlarvi...» rispose.
«Madame, vi prego di credermi, non voglio sembrarvi scortese ma non è il momento, una delle mie ragazze ha avuto una brutta avventura... ah, figuriamoci, per come volano le notizie in questa città, ne sarete già al corrente tra poco... in ogni caso, perdonatemi, ma devo chiedervi di tornare un'altra volta».
Madame Ginette si aggrappò con decisione al braccio dell'altra donna,
«Vi supplico, è una questione troppo importante, non può essere rimandata...» disse con occhi talmente imploranti che Eloise non riuscì a mandarla via, la condusse nella sua stanza e chiuse la porta.
«Accomodatevi» la invitò cercando di racimolare un po' di cordialità e rivolgendole il miglior sorriso che riuscì a trovare. «Dite, vi ascolto»
«Sono qui per mio figlio...» esordì Madame Ginette rimanendo impalata in mezzo alla stanza.
«Ah, non so che dirvi, Alexandre non è qui»
«Non sto parlando di Alexandre, sto parlando di Erik!»
«Come dite?» domandò Eloise sussultando, di certo aveva capito male.
«Sono qui per Erik, lui è mio figlio».

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Ok, lo stupro non è argomento facile da trattare, specie in una storia di fantasia, mi sembra persino un pò "irrispettoso" usare una cosa simile per una cosa futile come di fatto è una fanfiction quindi ho deciso di non calcare troppo la mano.

 Per quel che riguarda la rivelazione finale... quando ho pensato alla trama di questa storia mi sono detta che il risvolto stile "beautiful" poteva suscitare due reazioni: la prima reazione era quella "accidenti che inghippo interessante" la seconda reazione era: "che schifo! mandiamo la neuro a casa di Elby". Ne sono consapevole...  qualunque sia la vostra reazione, se non mi vedete più in giro è perchè qualcuno la neuro l'ha chiamata davvero.
 Al prossimo capitolo.

Capitolo reinserito il 27\12\2011

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Capitolo 17
*** Chiaroscuro (parte seconda) ***


Con il capo cosparso di cenere per il mostruoso ritardo, posto oggi la seconda parte del capitolo.
Se nel mentre è sorto in voi il disio di linciarmi, ebbenne, prima di attentare alla mia incolumità telefonate al centro assistenza della telecom e riempite di parolacce l'operatore... poi il mio collo sarà a disposizione dei vostri punjab.
Bando alle ciance... ringrazio i lettori e i recensori. Si lo so che la scelta di far rispuntare fuori la famiglia di Erik è "controversa" e che i risvolti della cosa sono prevedibili... però è un'idea che mi è venuta mentre scrivevo e non ho saputo resistere (l'altra idea, confesso, era di far scoprire Alex omosessuale e farlo innamorare del Master ma mi sembrava un pò troppo "eccentrica" come cosa).

*l'autrice esce di scena strisciando e lascia il posto al capitolo*

Buona lettura


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CAPITOLO QUINDICESIMO - PARTE SECONDA

Chiaroscuro

Madame Giry temette di non reggere il colpo. Troppe sorprese e troppo orribili perché la sua anima sopportasse anche quello. Ma non doveva cedere, non in quel momento, meno che mai davanti a quella donna, alla donna che aveva odiato per tanti anni pur non conoscendone l'identità. L'aveva odiata senza nemmeno sapere se era viva, da qualche parte a piangere il figlio che aveva abbandonato. E adesso quella stessa donna era lì a rivendicare una maternità sulla quale non aveva alcun diritto.
Eloise rimase in piedi davanti alla sua interlocutrice, la testa alta, lo sguardo gelido e calmo. Occhi grigi, penetranti come lame.
«Ne siete sicura, madame?» domandò in tono pacato ma freddo. «Siete sicura di essere sua madre, di poterlo chiamare figlio?».
Madame Ginette deglutì ma non colse appieno il significato delle parole di Eloise,
«La sera del ballo, quando lui è piombato in sala durante i festeggiamenti mi sono allontanata per cercare Alexandre» spiegò. «Ma lo spavento mi ha fatto perdere l'orientamento, devo essere finita nel corridoio che mette in comunicazione il teatro con il collegio perché ad un certo punto mi sono ritrovata davanti a questa stanza e ho udito... ho udito la vostra conversazione con il visconte e allora ho capito che il bambino che avete tratto in salvo dagli zingari era... ah, Dio mio abbi misericordia di me!».
Così dicendo la donna si coprì il volto con le mani e si accasciò contro il muro.
Madame Giry la fissò per qualche secondo in silenzio. Non riusciva a provare pena per lei,
«Dunque, se avete udito ogni cosa, non c'è bisogno che vi spieghi ancora in che maniera avete condannato a vivere vostro figlio, tuttavia vorrei avere il potere di farvi vedere ciò che io vidi e farvi provare ciò che lui provò...»
«Non disprezzatemi, Madame Giry... siete madre anche voi»
«Una madre non abbandona il proprio figlio! Per nessuna ragione al mondo, meno che mai per lasciare una creatura che la natura ha voluto imperfetta in pasto a un mondo di gente che non sa vedere più in là del proprio naso e che non accetta chi Iddio ha reso diverso!».
C'era una tale furia composta nelle parole di Eloise, una tale freddezza austera e forte nel suo sguardo, nel suo atteggiamento. La calma tagliente e temibile di chi anche nel rancore mantiene la dignità della propria persona, la forza di un animo che può piegarsi senza mai spezzarsi, senza mai cedere alla vita e ai tiri mancini del destino.
Madame Ginette ne fu impressionata e intimorita, ma cercò di mettere insieme tutta l'energia che il suo dolore e la sua disperazione potevano concederle,
«Non fu per mia volontà che abbandonai Erik quando era ancora in fasce» disse con voce flebile mentre lo sguardo si perdeva nel vuoto lasciando che la sua mente rivivesse i ricordi che avevano segnato per sempre la sua condanna all'infelicità.
«Non fu per mia volontà, fui costretta... mio marito, oh era un uomo in gamba quanto ambizioso, sapete, quando un uomo crea la sua fortuna dal nulla, riesce a diventare qualcuno solo con le proprie forze... quando è così, quell'uomo diventa duro, aspro, stringe a sé tutto ciò che ha conquistato con forza e con ferocia per paura che gli venga portato via. Come poteva un uomo simile sopportare che il suo primogenito, il figlio al quale trasmettere tutto ciò che aveva appreso, sul quale riversare tutte le sue ambizioni, fosse nato sfigurato?».
Madame Giry rimase in silenzio, la sua espressione non si addolcì nemmeno quando lacrime amare cominciarono a rigare il volto della donna che era venuta a parlarle, ma dentro di lei ognuna di quelle lacrime era una goccia di sangue che colava incandescente dal suo cuore.
«A me non importava, quel bambino era mio figlio e io lo avrei amato, ma mio marito... se sapeste Madame, come può mutare un uomo, come può riuscire ad essere cattivo quando è scosso dalla rabbia. Mio marito cominciò a tormentarmi di giorno in giorno, non voleva vedere nostro figlio, cominciò ad accusarmi di essergli stata infedele, che quello non poteva essere figlio suo... disse che era colpa mia, che ero una moglie indegna. Minacciò di mandarmi via, di dare scandalo e rovinare la mia reputazione davanti a tutto il paese. E temetti che avrebbe potuto compiere qualche scelleratezza, ebbi paura per la vita di mio figlio... così lo affidai a una famiglia di zingari, dissi loro di continuare a chiamarlo con il nome che gli avevo dato. Sapevo che non avrebbe avuto vita facile, ma non immaginavo le cose orribili che vi ho sentito raccontare».
Madame Ginette concluse il suo racconto con un sospiro affranto e restò a fissare il pavimento, incapace di incontrare lo sguardo della sua interlocutrice,
«Non immaginavate, eh? Avete davvero una scarsa fantasia allora» concluse Madame Giry.
«Non capite? Ho avuto così paura che potesse accadere qualcosa di male a Erik se fosse rimasto con me e mio marito che ho dovuto lasciarlo... voi al mio posto cosa avreste fatto?! Non sapete quanto mi costa essere qui a raccontarvi queste cose»
«Io avrei lasciato quella casa insieme a mio figlio, ma mai, per niente al mondo, mi sarei separata da lui! Se allora aveste avuto solo una briciola della forza d'animo che vi ha spinto a venire qui, ah quanta infelicità che ci saremmo risparmiati tutti quanti»
«Ero giovane e mi comportai da sciocca e da codarda, ma credetemi, da allora non ho mai più conosciuto cosa volesse dire essere felici, neppure quando è nato Alexandre, per quanto io lo ami e lo abbia sempre amato».
Un silenzio pesante piombò nella stanza, Madame Giry camminò verso la finestra e poggiò la fronte contro i vetri freddi, come a tentare di calmarsi e a imporre al suo corpo di resistere ancora, il tempo necessario per riuscire a capire cosa volesse quella donna da lei,
«E dunque,» disse voltandosi nuovamente verso madame Ginette, «cosa credete di fare?»
«Stanotte sentivo la mia mente cigolare come un ingranaggio usurato dai troppi pensieri» rispose la donna. «Cercavo di mettere in ordine le idee, di ragionare, di prendere atto di ciò che avevo appreso: quell'uomo in rosso, la figura leggendaria che ha terrorizzato il teatro dell'Opera è il figlio che io avevo abbandonato. Credete che per il mio povero cuore sia stato facile?»
«E del cuore di Erik, cosa mi dite? Di quello che avete la sfacciataggine di chiamare vostro figlio, cosa crete possa importare a lui di voi? Se è diventato il mostro a cui tutti danno la caccia è stato a causa dell'amore che non ha ricevuto, ma che amore poteva mai aspettarsi se la sua stessa madre lo ha gettato via?! No, madame Dubois, non osate definirvi sua madre, non osate chiamarlo figlio»
«Ma io voglio vederlo!» esclamò Madame Ginette in tono più disperato che mai. «Anche a costo di rimetterci la vita, anche se tutto ciò che Erik farà sarà uccidermi con le sue stesse mani... ma io non posso credere che lui sia davvero il mostro che si pensa»
«E ditemi, madame, cosa avete pensato del Fantasma dell'Opera quando quel macchinista strangolato è stato lanciato sul palco senza vita? Non avete provato orrore e disgusto per il responsabile di un simile atto tanto violento?» domandò Eloise in tono di sfida. «Ah, Erik non vi ucciderebbe, ne sono certa, ma dimenticate che l'altro vostro figlio gli sta dando la caccia, dimenticate che in ogni caso non potrete mai più essere sua madre né lui sarebbe mai libero di esservi figlio, ammesso che la cosa gli possa interessare... vederlo e dirgli la verità porterebbe solo altre sciagure e altro dolore. Senza contare che in un simile sconvolgimento verrebbe coinvolto anche Alexandre, suo malgrado...».
Madame Giry guardò l'altra donna con occhi sottili, voleva proprio vedere se aveva il coraggio di contraddirla e insistere con l'idea assurda di vedere Erik.
«Credete davvero...» protestò debolmente Madame Ginette.
«Ah, sì credo! Ma se non vi fidate di me potete sempre cercare di raggiungere il nascondiglio del Fantasma, non sarò certo io a rispondere della vostra incolumità se vi accadesse qualcosa, solo che un'altra morte non farebbe che aggravare la situazione di Erik. Pensateci bene»
«Cosa devo fare?...» domandò la donna con voce lamentevole.
«Se volete davvero fare qualcosa per Erik, persuadete Alexandre a rinunciare alla sua indagine sul Fantasma»
«Vorrei che rinunciasse, lo volevo prima e lo vorrei adesso più che mai... ma temo che le proporzioni che ha assunto questa faccenda non dipendano da mio figlio, è monsieur Bertrand che ha in mano le fila del gioco».
Eloise chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie per cercare di allentare la morsa che aveva preso a stringerle la testa nel momento in cui aveva compreso la gravità della situazione che, alla luce di quanto aveva appreso quella mattina, si faceva più che mai complicata e pericolosa: Alexandre ed Erik erano nemici, ma erano anche fratelli!
Le due donne rimasero a fissarsi in silenzio. Eloise aveva detto tutto quanto aveva da dire e Madame Ginette non aveva più argomenti per far fronte a quella situazione.
Un'improvvisa bussata alla porta fece sobbalzare le due donne distrutte dalla tensione e dallo sgomento, Madame Giry dovette poggiarsi con entrambe le mani allo schienale della poltrona che aveva davanti.
«Sì, avanti...» mormorò con voce incerta.
Quando il battente della porta si aprì le due donne scorsero Alexandre, se ne stava ritto sulla soglia, scuro in viso e con l'aria sconvolta.
Eloise strinse le mani affondando le unghie nella tappezzeria della poltrona a cui era appoggiata.

Mio Dio, ha sentito tutto!

«Mio Dio, ha sentito tutto» pensarono contemporaneamente le due signore.
«Alexandre?...» mormorò Madame Giry.
Il ragazzo spostò lo sguardo tra lei e sua madre,
«Bon jour, perdonate l'intrusione ma sono stato chiamato dai direttori dopo i terribili fatti accaduti stanotte» disse con voce mesta. «Una cameriera mi ha detto che mia madre era qui».
Eloise trattenne a stento un sospiro di sollievo nel rendersi conto che lo sconvolgimento del giovane non era dovuto all'aver udito la conversazione tra lei e sua madre, piuttosto all'aver appreso della mostruosità che era accaduta durante la notte. 
Le due donne si lanciarono una rapida occhiata poi Madame Ginette cercò di apparire calma e rivolse a suo figlio un mezzo sorriso,
«Ero venuta qui perché ieri sera, durante il ballo, ho perso un orecchino, ero certa che se qualcuno lo avesse trovato lo avrebbe consegnato a Madame Giry».
Alexandre corrugò leggermente la fronte, non poté fare a meno di notare il tono strano che aveva sua madre ma la sua mente era troppo impegnata per concentrarsi su quel particolare che in fin dei conti gli sembrò irrilevante,
«Capisco, ma devo chiedervi di tornare a casa maman, io e monsieur Bertand abbiamo un gran da fare ed è meglio che non ci siano troppi estranei in giro per il teatro» concluse il giovane. Sua madre si limitò ad annuire e rivolse un cenno di saluto a madame Giry che le scoccò un'ultima occhiata penetrante,
«Arrivederci Madame Dubois» disse. «Sono spiacente di non avevi potuto aiutare a ritrovare ciò che avete perduto».
La donna colse l'allusione nella frase e rispose con un sorriso mesto, poi si allontanò dopo aver fatto una rapida carezza al braccio di suo figlio.
Alexandre rimase sulla porta a fissare Eloise,
«Vi chiedo scusa, madame, ma io e monsieur Bertrand vorremo poter vedere quella povera ragazza» le disse.
«E perché mai, monsieur? La polizia l'ha già interrogata».
Il ragazzo accennò un sorriso di scusa, non gli piaceva infastidire Madame Giry, in quelle settimane in cui aveva lavorato nel teatro aveva imparato ad apprezzarla, a provare rispetto per lei e per quelle sue maniere amabili che riuscivano a indurre all'obbedienza più della severità.
«Lo so madame, ma come voi ben sapete noi stiamo indagando sul Fantasma e la ragazza è stata aggredita di notte, qui nel teatro dove nessuno avrebbe potuto entrare a quell'ora, credo che i nostri sospetti vadano quanto meno verificati»
«Ah monsieur, non so quanto possano aiutare le parole di una ragazza sconvolta. Devo chiedervi di tornare in un altro momento, Josephine ha bisogno di riposo e di tranquillità»
«Avete ragione, vi prego di scusare la mia foga, ma apprendere di una cosa tanto grave mi ha reso nervoso» concluse il ragazzo.
«Capisco, non crediate che per me sia facile, sapete, quelle ragazze è come se fossero figlie mie...».
Eloise concesse al giornalista un accenno di sorriso, il primo sorriso sincero e disteso che era stata in grado di fare in quelle ore terribili. Le era sempre piaciuto quel ragazzo così affabile e intelligente e ora, più che mai provava tenerezza per lui che, senza saperlo, si era ritrovato coinvolto in qualcosa di troppo grande e complesso. In cuor suo pregò che ci fosse una strada perché le cose andassero nel migliore dei modi e si augurò che gli eventi andassero in quella direzione.
Alexandre si passò una mano tra i capelli, la donna provò una fitta di tenerezza stringerle lo stomaco nello scorgere nella figura di quel bel giovane dei tratti che lo facevano sorprendentemente assomigliare a Erik. Ora che sapeva non poteva fare a meno di notare la somiglianza anche piuttosto palese tra loro due.

Oh, Dio del Cielo! Aiutaci...

La voce del ragazzo strappò Madame Giry ai suoi pensieri,
«Abbiate pazienza,» le disse, «ma devo chiedervi se, a parte la povera Josephine, le altre ballerine stanno tutte bene. Non ce n'è nessuna che manca dal collegio, vero?».
Eloise si scosse e fece cenno di no, ma subito un pensiero le attraversò la mente:

Christine!

Sapeva che Christine era andata da Erik quella notte e non era rientrata nei suoi alloggi. Se Christine aveva passato la notte con Erik allora era la prova definitiva che non era stato lui ad aggredire Josephine, ma di certo la ragazza non avrebbe potuto raccontare a nessuno, meno che mai a Bertrand e Alexandre, di essere stata tutta la notte con il Fantasma dell'Opera nel suo rifugio sotterraneo.
Madame Giry sperò solo che quella benedetta figliola tornasse prima che Bertrand si facesse venire in mente di cercarla. Se non l'avesse trovata non ci sarebbe stato modo di giustificare la sua assenza.

Ah, Christine, figlia mia, non rovinare tutto, proprio adesso...

*

Lo specchio scivolò di lato senza nemmeno uno scricchiolio. Le loro mani, che si erano tenute strette durante il tragitto dai sotterranei al teatro, si staccarono con riluttanza e via via che la distanza tra loro aumentava una domanda si faceva sempre più assillante tra i loro pensieri:

E adesso?

Erik prese nuovamente una mano di Christine tra le proprie e se la portò alle labbra, vi impresse un bacio delicato ma trattenne il palmo candido della fanciulla contro le sua bocca per lunghi secondi. Non voleva lasciarla andare.
Si scosse come da un sogno e lasciò che lei ritraesse la mano, poi la guardò incapace di credere che  l'unico sogno che si era concesso si fosse quasi avverato: lei e il suo amore erano lì, a portata di mano come la felicità che aveva sempre e solo immaginato. Le sorrise, sereno e tranquillo,
«Buon anno nuovo, Christine» le mormorò.
La ragazza ricambiò il sorriso ma poi si ritrovò ad arrossire,
«Io devo... devo proprio andare, se qualcuno non mi trova...» farfugliò.
Com'era difficile pensare di tornare al suo posto, nella vita di sempre quando lei non era più la stessa, quando l'amore l'aveva trasformata così profondamente, abbattendo ogni cosa e costringendola a dover ricostruire un mondo più vicino non solo al suo cuore ma anche all'anima di un'altra persona.
Troppe domande e troppi pensieri le assediavano la mente, come se si impigliassero tra i suoi riccioli, ma adesso lei sapeva che avrebbe trovato le risposte.
«Buon anno anche a voi, Erik» sussurrò voltandosi e allontanandosi da lui, un attimo prima di cedere alla tentazione di tornare tra le sue braccia, alla sua bocca e ai suoi occhi. 
C'erano ombre sul loro cammino, ostacoli grandi e spaventosi, ma la fanciulla era troppo felice per pensarci. Troppo concentrata sulle certezze che aveva appena acquisito per temere che la realtà avrebbe presto sconvolto i suoi sogni.
La realtà le giunse alle orecchie poco dopo, con il suono fastidioso della voce di Bertrand. L'investigatore era comparso in mezzo al corridoio e la stava fissando con la sua solita aria da belva che fiuta la preda,
«Mademoiselle Daae, da dove venite?» le chiese accennando un mezzo inchino.
«Dalla cappella del teatro, mi sono svegliata molto presto e sono andata lì a pregare» rispose prontamente la giovane per fugare ogni dubbio.
«Ah, quindi non avete visto né sentito niente?»
«No. Cosa avrei dovuto vedere o sentire?».
Bertrand si grattò il mento e assunse un'espressione mortificata,
«Se non sapete niente, mi duole profondamente di dover essere io a darvi una simile notizia...» disse.
«Christine!» esclamò una voce alle spalle di Bertrand.
L'investigatore e la ragazza si voltarono e videro Alexandre che si avvicinava.
Il giornalista aveva pensato bene di intervenire per sottrarre la giovane dalle grinfie del suo collega prima che questi ricominciasse a torturarla con i suoi sospetti,
«Buon giorno, monsieur...» disse Christine lanciandogli un rapido sguardo in segno di ringraziamento.
«Stavo giusto spiegando a mademoiselle Daae dei tristi fatti avvenuti questa notte, pare che lei non sappia ancora niente» borbottò Bertrand. «Ma forse voi, amico mio, saprete trovare parole più adatte e delicate».
Alexandre deglutì,
«Dove eravate, Christine?» chiese.
«Come ho già detto a monsieur Bertrand, mi sono svegliata molto presto e sono andata in cappella a pregare... per mio padre, sapete. Ma voi, piuttosto, ditemi, cosa è accaduto di tanto grave da farvi essere qui la mattina del primo dell'anno»
«Vedete Christine, stanotte una vostra compagna, mademoiselle Josephine che pare fosse uscita di nascosto per incontrarsi con il suo innamorato... ha subito un'aggressione» spiegò il giornalista.
Christine rimase impietrita dallo sgomento e si coprì la bocca con le mani come a tentare di nascondere la sua espressione stupita,
«Mio Dio! Ma cosa dite? Cosa le è accaduto, come sta?» domandò incredula
«Bhe, vedete, lei ora sta riposando... ma il suo aggressore, che Dio lo maledica, le ha usato violenza e...» Alexandre pronunciò quelle parole a fatica e lasciò la frase in sospeso incapace di aggiungere altro. Era sinceramente dispiaciuto di dover dare una simile notizia a Christine la quale si lasciò scappare un singhiozzo strozzato.
«Mio Dio!» esclamò.
Il giornalista le posò una mano sulla spalla e cercò di rincuorarla,
«Non preoccupatevi, mademoiselle» intervenne Bertrand. «Quel cane la pagherà»
«Quindi sapete chi è stato?»
«Nella sua deposizione ai gendarmi la ragazza ha detto che si tratta del Fantasma dell'Opera» concluse il giornalista.
Christine scosse il capo, avrebbe voluto dire che era impossibile, che il suo Erik non avrebbe mai fatto una cosa simile, proprio quella notte le aveva usato il massimo rispetto e la più tenera premura malgrado la desiderasse così tanto. Come poteva essere stato lui?! Come poteva, se aveva passato tutta la notte con lei?

Tutta la notte?...

In quell'istante Christine si ricordò di essersi svegliata e di non averlo trovato accanto a lei. Si era riaddormentata prima che lui tornasse... dov'era stato? Cosa aveva fatto?
Una smorfia di orrore le si dipinse in viso e lei provò un forte capogiro che le fece perdere l'equilibrio, Alexandre la prese tra le braccia prima che cadesse,
«Christine, state bene?» le chiese.
«Monsieur... è una notizia orribile...».
I due uomini annuirono, poi quando furono sicuri che riusciva a reggersi in piedi la lasciarono andare.
«Vedete, Alexandre,» mormorò Bertrand osservando la figura esile di Christine che si allontanava, «se prima avevo solo dei sospetti ora sono assolutamente certo»
«Di cosa?» chiese il giornalista senza capire.
«Del fatto che quella ragazza sia molto più vicina al Fantasma di quanto voglia far credere, anzi, penso che ne sia addirittura innamorata».
Alexandre si ritrovò a fissare stupito, quasi sconvolto, l'espressione compiaciuta di Bertrand che guardava ancora nella direzione in cui Christine si era allontanata. Per un attimo il giovane ebbe la sensazione che ogni cosa fosse andata in pezzi. 

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Capitolo reinserito il 27\12\2011

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Capitolo 18
*** Con un piede nell'inferno ***


Sì, dopo un mese e mezzo. Sì, sono viva, relegata in casa da mezzo metro di neve (prego, notare che siamo al 10 marzo) ma viva... più o meno.
Non voglio tediarvi con i motivi che mi hanno tenuto lontana da questo angolo di web, diciamo che nelle prossime settimane la mia vita dovrebbe riprendere una certa regolarità e quindi spero che gli aggiornamenti delle mie fanfiction ne "traggano giovamento".
Ringrazio chi ha recensito e chi avrà avuto la pazienza di aspettare che l'autrice spiantata "resuscitasse".

Al prossimo aggiornamento


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CAPITOLO SEDICESIMO
Con un piede nell'inferno

Ad un tratto le pareti della stanza le diedero la sensazione di toglierle l'aria. Madame Giry si precipitò fuori dalla sua camera appena in tempo per vedere Christine correre verso i suoi alloggi e capì che quella terribile mattina non era ancora finita. Ma ora non aveva tempo di parlare con Christine o con chiunque altro, c'era una sola persona che aveva assoluta urgenza di vedere: doveva parlare con Erik.
«Madame Giry!» esclamò una voce trafelata che la fece sobbalzare
«Non ora visconte!» disse la donna voltandosi di colpo e guardando il ragazzo incapace di mantenere il suo consueto autocontrollo. Le ci volle una buona manciata di secondi per rendersi conto che la presenza di Raoul De Chagny lì, in quel momento, significava solo altri problemi. Evidentemente qualcuno lo aveva avvertito di quanto era accaduto e lei si accorse del tremendo errore che aveva fatto nel raccontargli quelle cose la sera prima.
«Non ora?! Madame di Giry!» esclamò il ragazzo trattenendo a stento l'indignazione. «Vi rendete conto di quello che è accaduto, volete ancora proteggere quel mostro?»
«Lo avete già condannato tutti quanti, quindi?» sospirò la donna.
Raoul sospirò cercando di ritrovare la calma,
«Madame, non voglio ferire il vostro affetto, ma dovete convenire con me che è difficile trovare altri sospettati».
Eloise si appoggiò contro il muro. Se solo tutte quelle persone avessero saputo! Se avessero saputo che Erik era profondamente innamorato di una ragazza, dell'amore più grande e tenero che un uomo potesse provare. Se solo avessero saputo che persino nei momenti di rabbia più profonda non avrebbe sfiorato una fanciulla innocente nemmeno con un dito. Se solo avessero avuto la volontà di cercare l'uomo dietro al mostro... ma era più facile prendersela con qualcuno di estraneo al loro mondo perbenista piuttosto che cercare il colpevole tra quelli che ritenevano loro pari. Per la gente i mostri sono sempre fuori, oltre l'uscio delle proprie case e mai all'interno, le persone non guardano mai i mostri che hanno intorno e quelli che hanno dentro!
«Dunque, monsieur, cosa volete fare?» domandò con un sospiro esasperato.
Il giovane scosse la testa,
«Madame, anche se questo scempio potesse non essere imputato a quell'uomo, resta il fatto che è un assassino e che va catturato»
«Non capite, visconte? Se non è stato lui ad aggredire la povera Josephine, e io sono più che sicura che non sia stato lui, vuol dire che non c'è un solo criminale a cui dare la caccia».
La donna pronunciò queste parole con una tale decisione, guardando Raoul così intensamente che per un attimo il ragazzo sembrò quasi convinto a rivedere le sue posizioni.
«Molto bene» concluse. «Allora adesso lasciate che il Fantasma dell'Opera venga catturato e poi vedremo se confesserà o meno l'aggressione a quella ballerina. Se non sarà colpevole vi giuro che rivolterò Parigi con le mie stesse mani per trovare il vero responsabile di una tale mostruosità»
«E voi pretendete che io e le mie ballerine rimaniamo qui in attesa con un simile furfante che aggredisce le ragazze nel buio, mentre voi giocate a fare il paladino della giustizia con i vostri amici? E se nel frattempo questo criminale dovesse colpire ancora?»
«Madame... non si può fare altrimenti, spero vi rendiate conto...»
«D'accordo, ma a questo punto sono costretta a chiedervi di non coinvolgermi in questa impresa. Le mie ragazze hanno bisogno di me, mai come in questo momento!».
Raoul dondolò il capo,
«Comprendo perfettamente e so che se vi siete resa complice di quell'uomo lo avete fatto solo per un eccesso di bontà» concluse.
«Non voglio la vostra comprensione, visconte» rispose Eloise in tono gelido. «Né ho bisogno della vostra assoluzione. Un giorno sarà Dio a giudicare il valore delle mie azioni, ma fino a quel giorno non permetterò a nessuno di sputare sentenze. Non vi sto chiedendo pietà, vi sto suggerendo di essere ragionevole. Ora scusate, ma devo prendermi cura di ciò che amo».
Eloise si allontanò lasciando Raoul ammutolito e incapace di aggiungere altro.
Dopo un primo attimo di smarrimento tuttavia, il giovane si riscosse e si decise a fare quello per cui si era recato all'Opera, ma prima voleva vedere Christine e accertarsi che lei stesse bene. Pensò che quello che era successo a Josephine sarebbe potuto accadere alla sua Piccola Lottie, del resto quella fanciulla stava giocando con il fuoco, ma ora probabilmente aveva capito con che razza di mostro aveva a che fare.
Il visconte bussò delicatamente alla porta della camera della ragazza e come unica risposta ottenne un singhiozzo soffocato. Il suo cuore si riempì di pena al pensiero che la persona che amava stava soffrendo per le azioni di qualcuno che non era meritevole nemmeno di guardarla negli occhi.
«Christine...» sussurrò Raoul in un soffio colmo di tenerezza, ciò che vide quando entrò nella stanza era un angelo con le ali spezzate, un Icaro riverso sul pavimento dopo lo schianto per un volo troppo alto e miseramente fallito.
Lei era china accanto al letto, con la testa poggiata sul materasso, le dita stringevano rabbiosamente le lenzuola e i riccioli scomposti non riuscivano a nascondere del tutto il viso e gli occhi ancora arrossati dal pianto.
Il ragazzo entrò con passò felpato e si chinò accanto a lei posandole una mano sulla spalla ma la giovane si ritrasse e sollevò su di lui uno sguardo cupo,
«Sei venuto a sentirti dire che avevi ragione?» mormorò in tono aspro.
«No, Christine, avrei preferito che i fatti mi dessero torto piuttosto che aspettare che giungessero fino a questo segno!»
«Perché, Raoul... perché è accaduto? Io avrei... oh Dio, è tutta colpa mia»
«Ma che stai dicendo, Christine?! Non pensarlo neppure»
«Se tu sapessi, Raoul... se sapessi... ora probabilmente non saresti nemmeno qui a tentare di consolarmi» concluse la giovane con tono esasperato.
«Tu non hai fatto altro che riversare il tuo affetto sulla persona sbagliata, nella tua infinita dolcezza, nella tua innocenza e nella tua buona fede» disse il visconte. «Ma non è colpa tua».
Christine trattenne a stento un altro scoppio di pianto. Lei non era innocente, lei aveva amato quell'uomo non con l'affetto di una ragazza ma con tutto il furore di una donna. Ma lui...
«Ah ti prego Raoul, lasciami sola... vattene, per favore» mormorò con voce rotta.
Il ragazzo emise un profondo sospiro
«Quel mostro pagherà anche per questo...» borbottò così a bassa voce che lei non riuscì a sentirlo poi si allontanò senza aggiungere altro. Si voltò un'ultima volta verso la ragazza prima di uscire chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
Vedere Christine così sconfortata e amareggiata gli aveva fatto sanguinare il cuore, ma allo stesso tempo una speranza calda e carezzevole cominciava ad avvolgergli i pensieri. Forse un giorno sarebbe tornata da lui.

Raoul raggiunse l'ufficio dei direttori, Alexandre e Bertrand erano già lì da un pezzo.
Andrè e Firmin erano seduti dietro alla scrivania, i volti assonnati e seri. Temevano qualche ripercussione da parte dei genitori della ragazza che, pare, stessero per arrivare. Li avevano fatti avvertire ma gli era stato detto solo che la ragazza aveva avuto un malore e aveva chiesto insistentemente di loro e adesso i due impresari stavano cercando il modo più appropriato per metterli a parte della realtà dell'accaduto, ammesso che esistesse un modo giusto per dare una simile notizia.
Il Visconte entrò nell'ufficio senza nemmeno bussare e batté le mani sul piano della scrivania,
«Ho trovato la soluzione che fa per noi!» annunciò con aria soddisfatta.
Bertrand sollevò le sopracciglia con aria scettica,
«Perdonate, monsieur, ma non è il vostro lavoro» borbottò.
«Permettetemi di farvi notare, Bertrand, che fino ad ora il vostro lavoro non ha portato a grandi risultati» rispose il ragazzo seccato. «Non voglio disprezzare il vostro operato o quello di Alexandre, ma permettete di darvi un suggerimento»
«Avanti, Raoul, cosa hai pensato?» domandò Alexandre in tono conciliante.
«Avete conservato il copione della sua opera, quella del Fantasma? Bene, la metteremo in scena sono certo che lui non si risparmierà di assistere allo spettacolo e noi lo prenderemo!»
«Cosa vi fa pensare che il Fantasma verrà ad assistere alla rappresentazione?» domandò Andrè lisciandosi i baffi.
«Il fatto che ci sarà Christine Daae ad interpretare la protagonista!» concluse il visconte.
I presenti si guardarono in viso l'un l'altro. Negli occhi di Bertrand comparve un lampo quasi feroce,
«Perdonate il mio scetticismo iniziale, visconte. Avete avuto un'ottima idea» asserì.
«Certo! E la polizia sarà ovunque, metteremo uomini armati in ogni dove. Questa volta non ci scapperà» concluse Firmin con la voce resa tremante dalla tensione.
«Un momento, signori!» esclamò Alexandre. «Un'impresa del genere è rischiosa quanto complicata, e poi... Raoul, usare mademoiselle Daae come esca mi pare una cosa del tutto fuori dalla grazia di Dio»
«Sono più che certo che il nostro piccolo usignolo vorrà fare la sua parte per aiutarci a catturare quel criminale» si intromise Bertrand allargando un sorriso beffardo sul suo volto ossuto. «È rimasta molto scossa per quello che è successo alla sua amica»
«Sono certo che Christine comprenderà che questa è l'unica soluzione, le parlerò io quando sarà il momento» concluse Raoul.
L'investigatore annuì con un cenno deciso, nel guardarlo Alexandre pensò che quell'espressione e quella faccenda non promettessero niente di buono, ma gli altri sembravano tutti d'accordo e lui non voleva protestare, non voleva rischiare di essere tagliato fuori in un momento tanto delicato.
«E sia» concluse il giornalista in tono rassegnato. «Ma è una cosa che deve essere studiata con la dovuta cura»
«Daremo ordine ai costumisti e agli scenografi di interrompere ogni lavoro e dedicarsi solo a questo spettacolo» concluse Andrè in tono solenne.
«Giusto! Prima cominciamo e prima questa storia sarà finita» gli fece eco Firmin.
«Non badate a spese, signori, mi occuperò io di finanziare lo spettacolo. Voglio che sia tutto perfetto. Ogni singola cosa» concluse Raoul pronunciando lentamente le ultime parole con un tono cupo che esprimeva la più profonda rabbia e voglia di rivalsa.
«Raoul, posso parlarti un momento?» chiese Alexandre quando uscirono dall'ufficio.
«Lo so già cosa stai per dirmi, ti ho visto titubante. Pensi davvero che non sia una buona idea?»
«Penso che sia una pessima idea! Un'idea rischiosa, per tutti, e quando dico tutti intendo anche Christine»
«Con i gendarmi armati ad ogni angolo,» tentò di spiegare il Visconte. «quel mostro sarà morto ancora prima di toccarla»
«E se qualcosa va storto? Ci hai pensato? Hai pensato a quanta gente ci sarà nel teatro, tutta gente che sarà messa in pericolo!»
«E tu non hai pensato quanto è pericoloso che quel cane sia ancora in libertà? Non ti rendi conto che abbiamo a che fare con un uomo che aggredisce le ragazzine indifese... con un uomo che ti ha torturato fino allo sfinimento! Con un uomo che avrebbe potuto uccidermi l'altra notte se non fosse arrivata Madame Giry!»
«Raoul, io... io non sono sicuro che sia stato lui ad abusare di quella ragazza!» esclamò Alexandre. «È vero, è molto probabile che sia il Fantasma il responsabile, ma questo non significa che sia stato necessariamente lui»
«Dio del cielo! Alexandre! E chi altri può essere stato allora? Non erano mai successi fatti simili prima d'ora» rispose il visconte.
«Non erano mai successi, infatti, e il Fantasma vive in questo teatro da molti anni e nessuna ballerina era mai stata aggredita prima d'ora. Se non fosse lui, se fosse qualcuno che... oddio!»
«Cosa?»
«Se fosse qualcuno che ha cominciato a girare nel teatro solo di recente? Qualcuno come...»
«Qualcuno come Bertrand?!».
Alexandre si coprì il viso con le mani, la testa gli stava scoppiando per la notte trascorsa insonne, per la troppa tensione accumulata e per la rabbia per quanto era successo,
«Ti prego! Bertrand non sarà uno stinco di santo ma è pur sempre un uomo normale, e gli uomini normali di solito non fanno queste cose! Sono i mostri come quel Fantasma, che Dio lo maledica, a compiere simili scelleratezze» concluse bruscamente Raoul.
Alexandre si lasciò sfuggire una risatina stizzita,
«Anche mio padre era un uomo normale, sai» borbottò mestamente. «Era ben visto da tutta la cittadina, una persona a modo, così dicevano. Ebbene, mio padre maltrattava mia madre e mi assillava in continuazione con le sue manie di grandezza! Vedi, amico mio, è dagli uomini normali che devi guardarti, sono le loro maschere che celano i mostri più spaventosi».
Raoul ammutolì e strinse le mani attorno al braccio dell'amico,
«D'accordo, ora però tu ascolta me» mormorò guardandosi intorno come per accertarsi che nessuno li stesse ascoltando. «Devo dirti qualcosa, qualcosa di molto importante, ma non voglio che altri lo sappiano»
«Hai la mia parola»
«Su una cosa Bertrand ha sempre avuto ragione, Christine è coinvolta in questa storia e molto. Lei ha conosciuto il Fantasma, se n'è innamorata... non chiedermi come sia stato possibile, non lo so, ma lei doveva tenere davvero molto a lui, solo che poco fa sono stata a trovarla, era sconvolta, mi è sembrata davvero arrabbiata, come vedi, anche lei che lo conosce e che provava dei sentimenti, pensa che ci sia quell'essere dietro a tutto questo! Ora che lo sai però ti prego di ricordare quanto mi è cara quella ragazza... so che non la coinvolgerai più di quanto sia necessario».
Alexandre sospirò,
«Bertrand aveva capito tutto, sai. La reazione di Christine alla notizia dell'aggressione per lui è stata la conferma dei suoi sospetti sul coinvolgimento personale ed emotivo della ragazza. Credo che se lei vorrà collaborare alla cattura esibendosi in quello spettacolo il nostro amico investigatore chiuderà tutti e due gli occhi su tutte le sue bugie e i suoi segreti».
Raoul accennò un sorriso stanco,
«Sono certo che Christine sia stata in buona fede, che ogni cosa che ha fatto l'ha fatta spinta solo da buoni sentimenti» concluse.
«Sì, concordo ed è per questo che voglio tutelare quella ragazza. Non oso pensare cosa ne sarà del suo futuro e della sua reputazione se dovesse venir fuori questa faccenda» asserì il giornalista con un sospiro.
Il visconte strinse un po' più forte le mani attorno al suo braccio,
«Hai ragione amico, la reputazione della mia futura moglie deve essere limpida come uno specchio d'acqua» mormorò.
«Ah Raoul, non sognare troppo, mi raccomando» concluse Alexandre prima di andarsene e tornare alle sue preoccupazioni e alle sue mille congetture, lasciando il suo amico ai suoi sogni e alle sue speranze.

*

Erik indossò una camicia pulita e si sedette al suo organo. Pigiò alcuni tasti a casaccio facendo risuonare note acute tra le pareti di pietra e sospirò. I ricordi della notte appena trascorsa si accavallavano tra i suoi pensieri, ricordi bellissimi e dolci come la musica di un violino.
Appoggiò il mento sul palmo della mano e restò a fissare il fianco della grotta davanti a lui. Il futuro che si disegnava nella sua mente era talmente luminoso e accecante che i suoi contorni si perdevano in un lampo di luce. Era un futuro tutto da costruire, partendo dalle piccole cose, dal coraggio di affrontare il mondo, dalla forza di reclamare un posto tra la gente che lo aveva rifiutato e poi temuto.
Se un angelo come Christine aveva imparato ad amarlo allora forse anche altra gente sarebbe riuscita a guardare oltre la deformità del suo viso.
Erik si stava beando della dolcezza dei suoi pensieri, pensieri sereni e confortevoli che spazzavano via le ombre e il dolore della sua vita solitaria, quando fu richiamato da uno strillo acuto che echeggiò lungo il corridoio. Una voce terrorizzata gridò il suo nome a pieni polmoni,
«Erik! Aiuto!».
L'uomo scattò in piedi riconoscendo in quel grido spaventato la voce di Eloise. Come diamine le era venuto in mente di venirlo a cercare? Lei non osava mai spingersi più in basso del primo livello del sottopalco, sapeva bene che lui non amava le visite improvvise e che il percorso per raggiungere la Dimora sul Lago era cosparso di trappole e trabocchetti. Perché aveva fatto una cosa tanto sconsiderata?
L'uomo corse fuori dalla grotta e corse nell'acqua che gli bagnava le gambe fin sopra la ginocchio. Eloise doveva essere caduta in una botola che dava in una fossa piena di acqua chiusa dall'alto da una grata collegata all'apertura da un meccanismo che la faceva scivolare verso il basso impedendo a chi cadeva nella trappola di uscire dall'acqua e facendolo rimanere sommerso fino all'annegamento.
Erik bloccò il meccanismo di chiusura della grata un attimo prima che arrivasse al livello dell'acqua spingendo Eloise verso il fondo. 
La donna si mantenne a galla con enorme fatica, i suoi gesti erano resi goffi e difficoltosi dall'ampio vestito e dai numerosi strati di sottovesti. Erik le tese un braccio e l'aiutò a raggiungere il gradino di pietra che faceva da sponda alla cavità piena d'acqua. L'uomo sollevò la sua vecchia amica e l'aiutò a stendersi sul pavimento, lei si aggrappò alle ampie maniche della sua camicia e tossì violentemente poggiando la testa bagnata sul suo petto.
Dopo un primo momento di riluttanza, Erik la strinse delicatamente e le batté piano la mano sulla spalla come per rincuorarla e aiutarla a riprendersi dallo spavento.
«Ma cosa ti è saltato in mente?» la rimproverò in tono pacato. «Lo sai che è pericoloso scendere quaggiù»
«Sì... lo so... ma avevo urgenza di vederti» rispose lei continuando a tossire e stringendosi un po' di più a lui per proteggersi dal freddo.
«Stai tremando, quell'acqua era gelida, vieni». Erik aiutò Eloise a sollevarsi da terra, la donna strizzò l'orlo della gonna scura poi fissò il suo interlocutore,
«Non c'è tempo, ti devo parlare!» disse con voce grave.
«Cosa è successo? Mi stai facendo preoccupare Eloise, ti sei intrufolata fin qui, non potevi proprio aspettare!»
«No, non potevo...»
«Dio, ma sembri esausta, sei così pallida!».
La donna si portò una mano al petto nel tentativo di tenere a bada l'agitazione. Ora che sapeva che quell'uomo aveva una famiglia fuori dalle pareti di quel teatro, lontano dalla sua prigione di solitudine era come se lo vedesse sotto una luce diversa. Si impose di pensare che quella non era la famiglia di Erik, quella era la famiglia della donna che lo aveva abbandonato e del ragazzo che gli stava dando la caccia,
«Non c'è tempo per spiegare...» disse in tono sbrigativo. «Stanotte è accaduta una disgrazia».
L'uomo ebbe un sussulto, pensò a Christine, ma poi si ricordò che era stata con lui tutta la notte, quindi qualsiasi cosa fosse successa non doveva riguardare il suo piccolo angelo, o almeno così voleva sperare.
«Di che stai parlando?» borbottò.
«Ricordi Josephine, quella giovane ballerina? L'altra sera era uscita di nascosto per festeggiare Capodanno con il suo innamorato, quando è tornata qualcuno l'ha aggredita» spiegò Eloise.
Erik sbatté le palpebre con aria turbata,
«Cosa le hanno fatto?»
«L'hanno maltrattata e... hanno abusato di lei».
Una smorfia accigliata si dipinse sul lato scoperto del viso dell'uomo. Persino per il Fantasma dell'Opera una simile cosa era troppo! Lui aveva minacciato, aveva ucciso e fatto del male quando gli era stato necessario per difendersi, ma non poteva tollerare che venisse torto un solo capello a una fanciulla indifesa.
«Chi è stato?» sibilò indignato.
Eloise esitò prima di rispondere,
«Credono che sia stato tu» mormorò senza riuscire a guardarlo negli occhi.
«Cosa?!» tuonò lui stringendo i pugni.
«È così...»
«E tu, tu cosa credi?»
«Non so chi è stato, ma se pensassi anche solo lontanamente che fossi stato tu credi che sarei qui? Che avrei rischiato la vita per venire ad avvisarti?».
Erik chiuse gli occhi e abbassò il capo, poi si lasciò cadere con le spalle contro il muro,
«Stanotte Christine è venuta da me» sussurrò con voce spenta. «Ho lasciato che mi togliesse la maschera, e lei ha lasciato che la baciassi... capisci Eloise? Non avevo mai baciato una donna prima d'ora. E poi, Dio mio, ho creduto davvero di aver ottenuto la mia fetta di felicità e questa volta l'ho ottenuta senza far male a nessuno, perché non mi lasciano al mio piccolo incanto? Perché non mi lasciano vivere il mio amore? Nelle ultime ore credevo di essermi avvicinato al Paradiso, ma ora scopro che sono ancora con un piede all'inferno...».
Madame Giry lo guardò commossa, fino a pochi minuti prima si era chiesta se aveva fatto bene a scegliere di non dire niente a Erik della confessione di Madame Ginette, ma ora era più che mai convinta che era meglio che lui rimanesse all'oscuro di tutto. Non credeva sarebbe stato in grado di reggere un altro colpo così forte. Ancora una volta la donna scelse di farsi carico di un grande segreto e decise che anche quello doveva essere un peso che doveva portare da sola. 
«Erik...» mormorò dolcemente posando una mano sulla sua guancia sinistra. Non sapeva cosa dirgli e non poteva fare niente per lui.
A volte aveva avuto timore di quell'uomo, ma poi aveva imparato ad amarlo e ora pregò semplicemente che gli arrivasse un po' del suo sostegno e del suo calore anche solo attraverso quella carezza fatta con quella mano gelida.
«Vieni, Eloise» concluse lui scuotendo il capo, «ti riporto ai tuoi alloggi, non voglio che si accorgano di te con tutti i vestiti bagnati»
«E ora che farai?» domandò la donna con ansia.
«Non so, intanto voglio vedere Christine».  

*

«Come stai?»

La voce era colma di apprensione, un'apprensione che sarebbe persino potuta suonare tenera.
Christine si era dovuta appoggiare alla testata del letto per impedire che le ginocchia le cedessero quando il Fantasma dell'Opera aveva fatto la sua comparsa nella stanza.
«Che ci fate qui?» esclamò la giovane.
«Volevo sapere come stavi, Eloise mi ha detto...» tentò di dire lui.
«Eloise vi ha detto, certo, immagino».
Fredda come il marmo e tagliente come la collera.
Erik guardava la sua dolce musa rigida come una statua di sale sotto il suo sguardo. Pensò che era stanca, provata e sconvolta dalla terribile notizia.
Le si avvicinò e tentò una carezza sulla guancia ma Christine si ritrasse con uno scatto e lo fissò con occhi così pieni di collera da non sembrare i suoi. E ad Erik tanto bastò per capire.
«Non stai pensando che sia stato io, vero?» disse, ma l'amarezza nella sua voce lasciava intendere palesemente che la sua non era una domanda.
La ragazza lo guardò impallidendo, la sua espressione rendeva superflua qualsiasi parola.
La durezza di quello sguardo colpì Erik come pugnalata: la sua Christine, come poteva pensare una cosa simile? Dopo tutto il tempo che avevano trascorso insieme, dopo quello che era accaduto la notte prima... non poteva essere vero, quel disprezzo sul volto che amava non poteva essere reale. Era un incubo, l'ennesimo incubo da cui si sarebbe svegliato, pensò stringendo i pugni.
«E così, anche tu mi hai condannato senza possibilità di difendermi, senza fare domande» sospirò tristemente.
«Rispondete a questa domanda allora: dove eravate stanotte? Io mi sono svegliata e voi non eravate nella grotta» rispose Christine.
«E tanto basta a fare di me l'aggressore di una ragazza sulla quale non avrei avuto nessun motivo di alzare un dito?!»
«Infatti. Non so perché vi siate scomodato ad arrivare tanto lontano, mi sentirei meno in colpa se fossi stata io la vittima di un tale scempio e non Josephine».
I loro occhi bruciavano di lacrime, lacrime amare di delusione, fiele che avvelenava l'anima e il cuore.
Dopo un attimo di silenzio che per l'uomo sembrò interminabile, Christine trovò il coraggio di parlare ancora,
«Mi avete tradito» sibilò. «Vi credevo il mio Angelo, ma non siete altro che...».
Gli occhi di Erik che si sforzavano di trattenere il pianto erano  freddi cristalli di rocca fissi sul suo viso.
«Cosa, Christine? Avanti, dillo...».
La ragazza scosse il capo e si morse il labbro. Non voleva pronunciare quella parola, non aveva il coraggio, era come se dirlo lo avrebbe reso reale più di quanto non lo era già.
«Forza, ragazzina, dillo pure, tanto hai già dimostrato di essere come tutti gli altri...» la sfidò l'uomo.
«Siete un mostro! Nient'altro che un mostro!» ruggì Christine.
Quella parola pronunciata dalle stesse labbra che lo avevano baciato si artigliò alla testa e al cuore di Erik dilaniandolo in maniera così dolorosa da lasciarlo senza fiato.
Con un balzo le fu addosso, la trattenne stringendola per le braccia e la spinse sul letto bloccandola sotto di sé con tutto il suo peso.
«Dunque saresti stata più contenta se le cose fossero andate così? Dunque pensi che potrei farti del male?!» sibilò minaccioso sulle sue labbra.
«Lasciatemi...» piagnucolò lei incapace di trattenere oltre le lacrime che presero a scenderle lungo le guance.
«Vedi? Posso prendere quello che voglio come e quando voglio, e sì, avrei potuto prendere lei e qualsiasi altra ballerina se solo ne avessi avuto voglia, ma non l'ho fatto, perché l'unica cosa che ho sempre voluto sei tu! E pensavo che tu meritassi qualcosa di più di questo...».
Christine era immobilizzata sulle coperte, paralizzata dalla paura, incapace anche solo di respirare,
«Ma io non sono così, Christine» concluse Erik alzandosi e allontanandosi da lei con uno scatto. «Sto rischiando la vita per essere qui con te, adesso. Ma evidentemente questo non basta a dimostrare la mia buona fede e a meritare la tua fiducia»
«Andate... andate via...» fu l'ultima cosa che la ragazza riuscì a dire prima di perdere i sensi.

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Capitolo reinserito il 27\12\2011

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Capitolo 19
*** Lo specchio rotto ***


Sono infinitamente lusingata dalle vostre recensioni *_*
 @  Rayne: grazie per aver letto il polpettone... ehmm, la fanfiction! ^^ Non preoccuparti, il mio "rapporto scrittorio" con il fantasmone è una cosa lunga e duratura XD

 @ Theangelsee: Lo so, lo so, il mio gusto per il dramma finisce sempre per farmi scrivere cose dolorose... ma mancano ancora un bel pò di capitoli alla conclusione e non si sa mai che le cose si aggiustino! Eheh...

 @ Amy: si, per me Erik è un tipo piuttosto rabbioso e la sua grinta gli viene tutta dalla rabbia (come quando nel film fa un bel barbecue per risolversi i problemi XD), ma è anche abbastanza lunatico, quindi gli ci vuole poco per passare dalla rabbia alla depressione. Chirstine è una ragazzina che sta tentando di diventare donna e lo sta facendo in una situazione al quanto complicata, quindi le si perdona tutto (o quasi). Raoul lo voglio così, zuccheroso e stomachevole... perchè si!!! Alex e BB meriterebbero un romanzo a sè per l'affetto che ho per loro, ma purtroppo questa è "solo" una fanfiction, intento, cercherò di farvi sapere il più possibile su di loro..
 Madame Giry nel mio immaginario è qualcosa di molto simile a Wonder Woman... ma anche lei avrà il suo crollo (e solo Dio sa quanta fatica mi è costato scrivere di questo crollo)

 @ Keyra: ma... ma... MA GRAZIE! E' stato bello leggere una recensione tanto entusiasta (non era esagerata, era BELLA *_*). E come ringraziamento per aver sopportato quel ricettacolo di pazzia che è il mio blog rispondo subito alle tue domande.
 Meg non mi sta antipatica, mi è abbastanza indifferente (del resto anche nel film non è che avesse molto spazio come personaggio), in questa storia lei è semplicemente un personaggio "funzionale" alle varie situazioni, perchè c'è già tanta carne al fuoco e non volevo risultare dispersiva calcando la mano con troppi personaggio.
 La faccenda della marmellata viene fuori da un'intervista in cui il mio amato attore scozzese ha dichiarato di non poter fare a meno della marmellata di frutti di bosco che fa sua madre, al punto che la signora gliela deve spedire dalla Scozia a New York (dove lui vive) e che lui se ne porta sempre dietro un barattolo, anche quando va a fare colazione fuori.

 Buona lettura a tutti.


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CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Lo specchio rotto

Erik scagliò con forza un grosso volume contro la superficie di uno degli specchi. Nel punto in cui il libro aveva urtato contro il vetro si disegnò una grande ragnatela di crepe che si estesero per tutta la lunghezza dello specchio, in pochi secondi i frammenti finirono sul pavimento cadendo come tante piccole scintille sotto i riflessi delle candele accese.
«Perché?!» gridò l'uomo gettandosi in ginocchio sulla pietra e battendosi le mani sulle cosce.
Aveva tolto la maschera lasciando scoperto il suo profilo destro, picchiò con il palmo della mano contro la tempia e fece scivolare le dita sui lineamenti distorti che si riflettevano su ognuno dei pezzi di specchio davanti a lui. Le unghie lasciarono una scia di graffi rossi dal sopracciglio all'angolo della bocca,
«Perché? Perché... perché?!» disse ancora, il pianto trasformava la sua voce di angelo in un rantolo confuso, i capelli scomposti si attaccavano il viso bagnato di lacrime.
Erano passati quattro giorni da quando aveva parlato con Christine per l'ultima volta e lui non riusciva ancora a farsene una ragione. Lei lo aveva accusato di un crimine che non aveva commesso, lo aveva abbandonato nuovamente alla sua solitudine.
Avrebbe voluto odiarla, avrebbe voluto avere il coraggio di farle sentire tutta la sua rabbia mentre la teneva inchiodata su quel letto ma l'amore che provava per lei era stato più forte persino della rabbia e della disperazione. E ora era lì, a un passo dalla pazzia e pensare a come fosse stato possibile giungere fino a quel punto, con la felicità che si era dissolta tra le sue dita come se fosse vento.
Si accasciò su se stesso posando un palmo a terra, con il mignolo sfiorò un pezzo di vetro che lo tagliò leggermente. Fissò per un attimo un filo rosso di sangue colorare il punto in cui si era ferito e prese il pezzo di specchio rotto tra l'indice e il pollice. Era un frammento triangolare con i bordi perfettamente lisci e affilati, Erik ne percorse cautamente il contorno con il polpastrello dell'indice e sorrise, di un sorriso grottesco e selvaggio, mentre portava il pezzo di vetro sull'orlo della manica della camicia. Un colpo rapido sarebbe bastato a recidere i polsi, il suo cuore avrebbe smesso di battere a poco a poco, ma tanto lui non se ne sarebbe accorto... dentro era già morto da quando aveva visto il disprezzo negli occhi di Christine. Il suo cuore, la sua anima, il suo respiro erano rimasti nel cerchio delle braccia di quella fanciulla, senza di lei non c'era possibilità di continuare a vivere.  
Erik premette il vetro contro il polso e lo fece strisciare sulla pelle per un paio di centimetri, un rivolo sottile di sangue macchiò il tessuto candido della camicia. Non faceva nemmeno così male, o forse era il suo corpo che non sentiva più niente, la sua mente credeva che non ci fosse dolore più grande di quello di perdere il suo unico amore.
Ma un attimo dopo Erik si scosse,
«No...» sussurrò alzandosi di colpo e tamponandosi il taglio con un fazzoletto. La ferita che si era inflitto era ancora troppo piccola per essere davvero pericolosa.
«No» ripeté guardando il profilo bianco della maschera poggiata sullo scrittoio. L'uomo era morto, ma il Fantasma dell'Opera era lì, vivo e colmo di rabbia, la stessa rabbia che già altre volte in passato lo aveva fatto pulsare.
Era giunto il momento che quegli stolti rammentassero chi era che comandava. Era ora che i suoi nemici fossero spazzati via.
Aveva giurato che non avrebbe più ucciso, ma la persona a cui aveva fatto qual giuramento lo aveva allontanato, gli aveva negato la sua fiducia e il suo affetto quindi non c'era più motivo di rispettare quella promessa.
Quando il taglio smise di sanguinare, Erik si sedette alla scrivania, prese carta e penna e cominciò a scrivere. Appena ebbe terminato la lettera la mise in una busta che chiuse con il suo consueto sigillo di ceralacca a forma di teschio.
Si ricompose, indossò un panciotto damascato e il suo frac nero e si avviò verso i piani superiori per recapitare la sua missiva.

*

Parigi era nuovamente coperta da un soffice strato di neve. I passi delle persone scricchiolavano calpestando i fiocchi caduti lungo le strade.
Erano passati quattro giorni dai terribili avvenimenti delle notte del primo dell'anno.
Josephine osservava la città dalla piccola finestra della sua stanza. Pensava che un giorno anche lei sarebbe tornata pulita come la piazza dopo la neve, per adesso aveva solo una gran voglia di nascondersi dal mondo. I suoi genitori erano venuti a prenderla per portarla via. Sua madre aveva avuto una crisi di nervi quando aveva saputo cosa era successo, Madame Giry aveva avuto un bel da fare per calmarla, suo padre, invece era ancora in corridoio a inveire contro i direttori che cercavano inutilmente di rabbonirlo. L'uomo stava gridando che avrebbe fatto chiudere quel collegio, che avrebbe ottenuto il loro licenziamento.
La ragazza ascoltava la conversazione ma era come se non sentisse niente.
L'investigatore, di cui ora le sfuggiva il nome, stava dicendo a suo padre che avevano già realizzato un piano per catturare il Fantasma, che sarebbe stata fatta giustizia. La ragazza non riuscì a sentire la risposta di suo padre perché qualcuno bussò alla porta della stanza.
Josephine sperò che fosse sua madre,
«È aperto» mormorò senza smettere di guardare fuori dalla finestra.
«Perdonate mademoiselle...» disse una voce maschile in tono dolce.
Lei sobbalzò e si voltò a guardare l'ospite con aria smarrita. Non era riuscita nemmeno a vedere il suo innamorato, la sola idea di trovarsi sola con un uomo la innervosiva, ma lui, quel giornalista, aveva sempre un'aria così gentile.
«Perdonate mademoiselle, so che state per lasciare il collegio, non vorrei importunarvi oltre, ma avrei bisogno di...» disse Alexandre.
«Vi prego, monsieur, che altro volete da me?» domandò la fanciulla scuotendo il capo con aria triste.
«Io sono profondamente rammaricato per quello che è successo»
«Il vostro rammarico e quello di tutti gli altri non serve a molto»
«Lo so, e non sapete quanto vorrei che ci fosse qualcosa che io possa fare, è per questo che sono qui, io voglio fare chiarezza, voglio rendervi giustizia Josephine» concluse il giornalista in tono pacato ma solenne.
La ragazza accennò un sorriso stanco,
«Avete l'aria di una brava persona, monsieur Dubois...» concluse.
«Cerco di esserlo» commentò lui. «Mademoiselle, devo chiedervi, ancora una volta, ora che siamo soli, c'è qualcosa, qualche particolare che ricordate e che può aiutarci a identificare il vostro assalitore?»
«Che cosa state facendo qui?!» si intromise una voce acuta e stizzita.
Una donna piuttosto in carne entrò nella stanza e spinse via Alexandre tirandolo per la manica della giacca.
«Madame... io...» farfugliò il ragazzo in tono di scusa.
«Ah voi siete quel giornalista!» ruggì la donna. «Cosa cercate qui? Una delle vostre storielle da scrivere? Andateve! Lasciate in pace mia figlia...»
«Scusate, io volevo solo parlare con Josephine»
«Ho detto fuori di qui! Subito!».
Alexandre sospirò, lanciò un ultimo sguardo verso la ragazza seduta alla finestra e fece per allontanarsi,
«Aspettate» mormorò lei voltandosi di scatto. «Aspettate, monsieur».
Il giornalista si fermò sull'uscio ,
«Tabacco» aggiunse la piccola ballerina chiudendo gli occhi mentre un brivido le saliva lungo la schiena. «Adore di tabacco... ovunque».
Il ragazzo trasalì ma tentò di non darlo a vedere e annuì con cenno vago. Avrebbe voluto dire qualcosa, trovare le parole per salutare quella fanciulla, quel bellissimo fiore reciso in modo così violento, avrebbe voluto augurarle ogni benedizione e la possibilità di riuscire a dimenticare, ma si rese conto che ogni parola sarebbe stata banale e inappropriata.
«Che Dio vi aiuti e vi benedica» mormorò impercettibilmente per poi lasciare la stanza.

Josephine camminava a testa bassa lungo il corridoio, preceduta da suo padre e seguita da sua madre e da un inserviente del teatro che le portava le valige. Le sue compagne la guardarono allontanarsi senza riuscire a trovare una sola parola per salutarla.
L'allegria che le giovani ballerine avevano portato in quel luogo sembrava essersi spenta per lasciare il posto alla paura e allo sconforto.
Meg e Christine erano in piedi accanto a Madame Giry, i loro occhi piangevano mentre guardavano la sagoma esile di Josephine sparire dietro la porta. Era come se anche la loro innocenza fosse stata fatta a pezzi. Nessuno parlava ma tutti avevano la sensazione che niente sarebbe stato più lo stesso.
Christine si asciugò una lacrima che era capitolata oltre le ciglia e si voltò per tornare nella sua stanza, ma una mano si posò delicatamente sulla sua spalla per trattenerla.
«Raoul...» mormorò la giovane.
Il visconte le rivolse un mezzo sorriso triste,
«Come stai?» le chiese.
Lei lo guardò senza rispondere. Non sapeva che parole usare, si sentiva svuotata, disarmata davanti a un rammarico che non riusciva a contrastare.
«Volevo parlarti, se hai un minuto» aggiunse Raoul, la giovane annuì e lui le porse il braccio. Si incamminarono l'uno accanto all'altra verso la mensa e si sedettero a un tavolo.
«Devo chiederti una cosa, una cosa molto importante» esordì il visconte.
«Dimmi»
«Christine, comprenderai bene che la situazione è degenerata, che siamo ben oltre la soglia della tollerabilità...»
«So bene cosa è successo, Raoul» rispose la fanciulla corrugando le sopracciglia. «Non c'è bisogno che tu me lo faccia notare».
Non voleva sentir parlare di quella situazione, il minimo accenno a tutta quella vicenda le faceva tornare in mente lui e il vuoto che aveva lasciato.
«Quell'uomo va fermato, Christine!» disse il ragazzo mettendo da parte ogni preambolo. «Noi abbiamo escogitato un sistema, ma abbiamo bisogno del tuo aiuto»
«Ah, ti prego!» borbottò lei stizzita.
«No, ascoltami. So di chiederti molto, ma è una cosa che solo tu puoi fare. Ti spiego di che si tratta, se non te la senti non ti costringerò, ma ti prego almeno di valutare la mia proposta, puoi almeno pensarci? Lo faresti per me?».
Raoul la guardò così intensamente che la ragazza si sentì costretta a mormorare un sì con voce incerta.
«Bene. Stiamo pensando di mettere in scena la sua opera»
«Il Don Juan...» mormorò Christine abbassando lo sguardo.
Erik gliene aveva parlato a lungo, con gli occhi che gli brillavano, diceva che ci stava lavorando da tanto tempo, da così tanto tempo che quando l'avrebbe conclusa probabilmente sarebbe morto.
«Sì, esatto» disse Raoul senza voler indagare su quanto lei già sapesse di quell'opera. La sola idea della sua Dolce Lottie in compagnia di quell'essere gli faceva ribollire il sangue.
«Dunque?»
«Dunque vorremmo che tu cantassi nella parte della protagonista. Se sarai tu a cantare lui verrà ad ascoltarti e noi potremmo catturarlo».
Christine trasalì. Raoul aveva pronunciato quelle parole con una tale naturalezza, come se fosse una cosa semplice, come se fosse ovvio. Ah, certo che era ovvio; quell'opera era stata scritta per lei! Per lei...
«Come puoi chiedermi una cosa simile?!» sbottò. «Hai idea di cosa significhi per me?»
«Ma Christine, io...»
«No Raoul! Stammi bene a sentire, sono stanca di essere la vostra marionetta... prima la sua e ora la tua e dei tuoi amici! Ti sei chiesto, nella tua superficialità da bambino viziato, cosa può voler dire per me assecondare una simile richiesta? Ti sei chiesto cosa io stia provando?».
Il visconte era sconvolto dalla furia con cui la fanciulla gli stava riversando contro tutto il suo dolore e la sua frustrazione. Il suo dolce viso era trasfigurato in una smorfia di rabbia e delusione,
«Dite tutti di amarmi, ma non vi importa nulla di me!» concluse lei alzandosi in piedi e correndo via dalla sala coprendosi il viso con le mani.
Nella sua corsa la ragazza urtò contro qualcuno che si stava avvicinando, sollevò il volto bagnato di pianto e si trovò faccia a faccia con Alexandre.
«Christine, cosa vi è successo?» chiese lui con apprensione,
«Non provate a fare l'amico Alexandre, voi e la vostra aria da bravo ragazzo! Siete uguale a loro, ecco cosa siete!» ciò detto la ragazza spinse via il giornalista e si allontanò senza smettere di correre.
Alexandre rimase impalato per qualche secondo, poi si scosse e si voltò verso Raoul, lo vide appoggiato al tavolo che si reggeva la testa tra le mani con aria afflitta.
«Siamo diventati tutti pazzi per seguire la ragione...» pensò il giornalista avvicinandosi all'amico. «Posso sapere cosa è successo?» chiese
«Non lo so, Alexandre! Io non capisco... ti giuro non capisco... le ho detto, è ti giuro su Dio che l'ho fatto con la massima delicatezza, della nostra idea ma lei si è arrabbiata. Non l'ho mai vista così, è stato terribile» piagnucolò il Visconte.
«Sì, lo so... ho notato» rispose il ragazzo.
«Cielo! Cosa devo fare Alexandre?».
Il giornalista scrollò le spalle e sospirò poggiandosi al tavolo,
«Pazientare, amico mio. Quella ragazza ha appena perso la fiducia nella persona che amava, è normale che sia arrabbiata e che abbia voglia di prendersela con il mondo intero» concluse.
«Se avessi tra le mani quel mostro!...»
«Raoul, c'è una cosa che devo dirti» borbottò Alexandre facendosi improvvisamente serio. «Ho parlato con Josephine stamattina, le ho chiesto se ricordava qualche altro particolare di quella notte, dell'aggressione... sai cosa mi ha detto? Che l'aggressore odorava fortemente di tabacco».
Il visconte fissò l'amico con aria perplessa
«Oh no, non cominciare, so perfettamente dove vuoi arrivare!» sbottò. «Ora mi dirai che sei più che mai convinto che è stato Bertrand. Lo so che quell'uomo non ti è mai piaciuto, non è mai piaciuto a nessuno suppongo, ma questo non è un buon motivo per accusarlo, e in quanto al tabacco, per quel che ne sappiamo anche il Fantasma potrebbe fumare... e anche ammesso che non sia stato Fantasma, cosa a cui fatico a credere, non vuol dire che sia stato necessariamente Bertrand... voglio dire, potrebbe essere stato chiunque, anche i direttori fumano il sigaro, vuoi forse mettere sotto accusa anche loro?»
«I direttori sono brave persone, venali forse, pusillanimi magari, ma non sono delle bestie e non avrebbero avuto nessun motivo di aggredire una ballerina»
«E perché, Bertrand ne avrebbe avuto qualcuno forse?»
«Certo!».
Raoul si massaggiò le tempie con aria stanca,
«Non ti seguo» ammise scuotendo la testa.
«Bertrand vuole stanare il Fantasma, ma fin ora non aveva trovato un modo efficace per farlo, ogni sua ricerca si è rivelata un fallimento completo e quindi ha cercato il modo di inasprire gli animi, di far arrivare tutti all'esasperazione. Un'aggressione con stupro ai danni di una ragazzina innocente di solito fa indignare tutti, come di fatto è successo, e lui sapeva che chiunque avrebbe dato la colpa al Fantasma» spiegò Alexandre.
«Come al solito i tuoi ragionamenti non fanno una piega, ma ti rendi conto di quanto sarebbe terrificante se questa fosse la verità?»
«Anche io spero di sbagliarmi, ma credimi, terrò d'occhio quell'uomo come non ho mai fatto prima d'ora e stai certo che prima o poi troverò un appiglio per scoprire la verità»
«Ne sono certo» mormorò Raoul, poi spalancò gli occhi come se avesse avuto un'idea brillante. «Anzi, un appiglio ci sarebbe, per quanto mi ripugni l'idea di dover affrontare una simile conversazione, immagino che Christine sappia se quel maledetto Fantasma fuma»
«Meravigliosa osservazione, Raoul!» esclamò Alexandre riuscendo persino ad accennare un sorriso.
«Sto imparando da un grande maestro! Ad ogni modo, per oggi non è il caso di importunarla oltre,  ma domani, quando si sarà calmata potrai provare a parlarle»
«Già. Comunque sia, non so se sperare di essermi sbagliato...» mormorò il giornalista con aria pensosa.     
Il visconte lo scrutò perplesso,
«Troveresti così piacevole scagionare il Fantasma da questa colpa? Davvero preferisci sapere che sia stato Bertrand e non lui?» domandò.
«Non lo so Raoul» rispose il suo amico. «Credimi, capisco perfettamente quello che prova la gente verso quell'uomo, è pur sempre un criminale ma io ho sempre avuto la sensazione che sia qualcosa di più... che sia, bah... non so nemmeno spiegartelo, ma quando mi ha catturato quella sera, per un attimo l'ho visto negli occhi e fidati se ti dico che quelli non erano gli occhi di uno che provava piacere a farmi del male. Raoul, è così strano ma è come se sentissi che tra me e quell'uomo c'è un legame che non riesco a spiegarmi, hai presente quando guardi uno sconosciuto e ci trovi qualcosa di familiare in lui pur sapendo di non averlo mai visto prima?»
«Amico mio! Credo sia il caso che tu abbandoni le indagini per qualche periodo! Questa storia ti sta dando alla testa. Un legame tra te e quel mostro! Figuriamoci!»
«Già, probabilmente è solo suggestione» concluse Alexandre. «E ti assicuro che sarei ben felice di allontanarmi da questo teatro per un po'. Ma non posso gettare la spugna proprio ora».
Raoul annuì,
«Vieni, intanto usciamo e andiamo a bere qualcosa di caldo... ho bisogno di aria, e anche tu!» concluse battendo la mano sulla spalla dell'amico.

*

Madame Giry si godette per un attimo il silenzio che era tornato a regnare nel teatro una volta giunta sera.
Dopo cena, la donna uscì dalla sua stanza con l'intenzione di andare in cappella a pregare. Avevano tutti bisogno dell'aiuto di Dio, soprattutto Erik, mai come in quel momento.
Aveva saputo quello che era successo tra lui e Christine, la ragazza le aveva raccontato della loro ultima e violenta conversazione. Eloise ne era rimasta piuttosto turbata, avrebbe voluto rimproverare Christine per essere stato così sbrigativa e superficiale per aver tirato somme così affrettate, ma discutere con lei in quel momento non sarebbe servito a nulla, come non sarebbe servito discutere con Erik. Lo aveva visto il giorno prima, non sembrava particolarmente scosso dalla terribile incomprensione tra lui e la ragazza, ma la donna lo conosceva abbastanza da sapere che, dietro quello sguardo cupo, il suo vecchio amico stava rimuginando qualcosa, probabilmente qualcosa di terribile. Lo aveva pregato di essere cauto, lui le aveva risposto di non preoccuparsi con il tono severo e autoritario che da un po' non usava più.
Qualcosa si era incrinato nell'equilibrio che Erik sembrava aver trovato, qualcosa si era rotto, mandato in frantumi come uno specchio contro il quale si lancia un oggetto pesante. Eloise pensò che avrebbe chiesto a Dio di non far precipitare la situazione, ma quando aprì la porta della sua stanza tutti i suoi timori presero forma in una lettera che era poggiata per terra davanti all'uscio della stanza: una lettera del Fantasma dell'Opera per i direttori.
Eloise non apriva mai le missive che Erik non indirizzava direttamente a lei, ma quella volta decise di fare un'eccezione, era troppo in ansia per sopportare un'ulteriore preoccupazione, così strappò decisa il sigillo a forma di teschio e lesse le righe annotate sul foglio:

Miei cari signori,
è giunto il momento di ristabilire l'ordine, di ritornare ognuno ai propri posti e ai proprio ruoli.
Con questa mia nuova invito voi a non preoccuparvi della direzione dell'Opera Populaire, dal momento che sarò io a provvedere all'organizzazione futura del teatro, come ho avuto modo di ricordarvi durante i festeggiamenti di capodanno.
Inoltre, invito monsieur Bertrand e monsieur Dubois a lasciare il mio teatro. Due menti argute come le loro sono sprecate in un luogo dove non c'è altra occupazione che l'arte della musica e possono capitare incidenti anche molto gravi a chi frequenta posti non adatti alle proprie mansioni.
Rimango, signori, il vostro umile servo.
F.O.

Quando ebbe terminato la lettura, Madame Giry tornò nella sua camera e nascose la lettera sul fondo del cassetto.
Quella missiva non doveva essere recapitata, non in un momento del genere!
Eloise rilesse mentalmente l'ultimo periodo e si accasciò sulla sedia con un gemito di angoscia
«Non puoi uccidere quel ragazzo, Erik» pensò coprendosi il viso con le mani. «Lui è tuo fratello... no, non te lo lascerò fare, non stavolta!».
Doveva trovare un modo per evitare che lo specchio andasse in frantumi, e doveva farlo prima che fosse stato troppo tardi.

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Capitolo reinserito il 27\12\2011

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Capitolo 20
*** La certezza di aversi (parte prima) ***


E' arrivata la primavera... più o meno, e insieme alle allergie di stagione arriva anche il mio aggiornamento pre-pasquale.
 Anche questo capitolo era di una lunghezza improponibile, indi lo divido in due parti.

 @theangelsee: grazie, come sempre dei complimenti esagerati *_* per quanto riguarda le canzoni di Love Never Dies, da brava fanatica quale sono mi sono fatta spediere il cd, ma anche senza voler essere malati come la sottoscritta, i brani si posso ascoltare su i-tunes e qualcosa c'è anche su you-tube.

 @Keyra: Preso paura eh con il Master che si taglia i polsi? mhuahaha... ok, torno seria. Non posso ammazzare il protagonista nel bel mezzo della storia, anche se ogni tanto ci sono tentata.
 La storia dovrebbe contare ancora una decina di capitoli (dico dovrebbe perchè gli ultimi capitoli sono ancora in cantiere), ma non preoccuparti, tanto le storie da qui non le cancella nessuno (a meno che l'amministrazione non decida di sopprimere il mio account per delirio ad oltranza).
 (PS: mi è arrivato un tuo messaggio privato al mio account msn, ma era vuoto)

 @ Amy: vorrei leggerlo anche io il romanzo da cui è tratto il sequel ma è fuori catalogo (già chiesto in libreria tempo fa XD), appena avrò tempo interpellerò i miei bibliotecari di fiducia. Non ho letto altri libri sul fantasmone, a parte il romanzo di Leroux, ma mi sarebbe piaciuto (maledetto il mio scarsissimo inglese!!!), e chissà quanti spunti avrebbero dato alla mia mente malata! Oh si, il figliuolo dev'essere un bel tipetto... ma l'idea del concepimento mi disturba non poco...
 Dissuaderò BB dall'iscriversi ai tabagisti anonimi, promesso.



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CAPITOLO DICIOTTESIMO - PARTE PRIMA

La certezza di aversi

Alexandre avvertiva la terribile e frustrante sensazione che le cose gli stessero scappando di mano.
Se ne stava seduto in mezzo al letto mentre l'inverno grattava alle finestre come un gatto che vuole entrare. Grandinava e Parigi era avvolta da una densa foschia proprio come i suoi pensieri.
Il ragazzo era certo che ci fosse qualcosa che gli era sfuggito, qualcosa che avrebbe dovuto sapere, capire, notare. Un tassello che avrebbe reso quel rompicapo meno complicato o forse più terrificante ma più chiaro.
Erano diverse sere che si addormentava ascoltando il pianto di sordo di sua madre proveniente dalla stanza accanto. Madame Ginette piangeva finché il sonno non la strappava ai suoi dolorosi pensieri, suo figlio sentiva i singhiozzi che lei tentava di attutire con il cuscino, ma quel pianto era troppo disperato per essere zittito.
Alexandre avrebbe voluto fare qualcosa per lei, non le erano mai venute crisi così forti e così prolungate. Quando era bambino aveva pensato che sua madre era sempre triste perché lui non era un figlio abbastanza buono da compensarla della perdita di quel fratello morto anni prima della sua nascita, credeva che quel bambino fosse stato in qualche modo più bravo o più bello, il figlio che lui non sarebbe riuscito ad essere. Ricordava che suo padre si incupiva ogni volta che lui tentava di tirare fuori l'argomento, di farsi raccontare qualcosa di quel fratello che non avrebbe mai conosciuto.
Quando era ragazzino lo aveva desiderato così tanto un fratello maggiore, una spalla forte che lo aiutasse.
Quella mattina, riflessioni strane e incongruenti si accavallavano nella testa del giornalista. Pensava al teatro, ai suoi terribili sospetti su Bertrand, alla sua famiglia, a sua madre, pensava al Fantasma dell'Opera chiedendosi se davvero catturarlo e sbatterlo in prigione era quello che voleva. Si era imbarcato in quell'impresa con la voglia di trovare una storia che valesse la pena raccontare, voleva scrivere un romanzo che parlasse della più misteriosa caccia all'uomo che avesse mai avuto luogo, una ricerca condotta tra le pareti di un teatro che si era rivelata più complessa e appassionante di qualsiasi altra indagine svolta in città. Aveva avuto a che fare con un nemico invisibile, un uomo che non si era mai mostrato se non una volta, nella penombra quando lo aveva catturato per torturarlo, e la notte di Capodanno per rivendicare la propria supremazia su un mondo che controllava e muoveva come in una solitaria partita di scacchi.
Era incredibile, pensava Alexandre, quanto il Fantasma riuscisse ad essere presente in ogni singolo granello di polvere di quel teatro, anche senza farsi mai vedere. Era come se quell'uomo e il teatro fossero una sola cosa, tanta era la facilità con cui l'Opera si piegava al suo volere dandogli il potere dell'invisibilità e dell'invulnerabilità. E cominciando ad amare quel teatro il ragazzo aveva imparato a rispettare quell'uomo a cercare di guardare oltre, a chiedersi quali fossero i motivi che lo avevano scelto a insediarsi lì e condurre un'esistenza tanto incredibile. Alcuni macchinisti dicevano che si nascondeva perché era un mostro, un essere deforme, gobbo e zoppo, con la pelle giallastra e incartapecorita come quella di un cadavere, con il volto privo di naso e con le orbite degli occhi come due buchi neri. Ma l'uomo che aveva visto piombare in sala durante il ballo era un personaggio affascinante, pieno di una luce che sarebbe esplosa come una stella se solo fosse stato libero di mostrarsi al mondo, qualsiasi cosa la sua maschera nascondesse.
Alexandre si passò le mani tra i capelli e si lasciò cadere all'indietro gettandosi con la testa sul cuscino,
«Raoul ha ragione, questa faccenda mi sta consumando!» esclamò fissando il soffitto.
Dopo alcuni minuti si alzò e si preparò per uscire, anche quella mattina sarebbe andato all'Opera, doveva parlare con Christine prima che arrivasse Bertrand, si augurò di trovarla di umore migliore e sperò che fosse disposta ad accordargli la sua fiducia e a confidarsi con lui.
Uscì dalla sua stanza e andò in sala da pranzo per fare colazione. Scrutò il volto di sua madre seduta attorno al tavolo. Madame Ginette aveva il viso stanco ma suo figlio non aveva la forza di affrontare nessun discorso grave, Alexandre si limitò a sospirare e pensò che appena la situazione in teatro gli avesse lasciato un po' tregua avrebbe aiutato sua madre, ma ora si sentiva incapace di reggere tutte e due le cose assieme.
«Come procedono le ricerche?» domandò la donna dissimulando l'apprensione per la risposta piegando il tovagliolo.
Alexandre scrollò le spalle, sua madre non si era mai mostrata tanto interessata a quella faccenda come negli ultimi giorni. Suo figlio aveva pensato che anche lei fosse stanca di vederlo così preso da una ricerca che non sembrava avere soluzione.
«Come al solito, tutto fermo» rispose.
«Credi... credi che sia stato davvero il Fantasma dell'Opera ad aggredire quella ballerina?» domandò Madame Ginette in tono titubante.
«In tutta onestà, no. Ma per ora non c'è modo di provare il contrario».
Madre e figlio terminarono la loro colazione in silenzio, poi il ragazzo salutò ed uscì.

Quando Alexandre raggiunse il teatro trovò Raoul ad attenderlo sotto l'arcata del portone principale. La grandine e la pioggia avevano disciolto la neve rendendo la piazza un campo di pozzanghere ghiacciate. La foschia invece continuava a stringere la città nel suo fumoso abbraccio impedendo al sole di gennaio di far luce nelle strade.
«Che ci fai qui?» chiese il giornalista.
«Noi dovevamo parlare con Christine...» rispose il Visconte.
«No, Raoul, io devo parlare con Christine. Tu stanne fuori, per favore»
«Ma come puoi chiedermi una cosa del genere? Sai bene quanto per me sia importante capire...»
«Ti prego, amico mio, rispetto i tuoi sentimenti ma in questo momento credo ci siano cose più importanti».
Raoul sospirò deluso,
«Come preferisci» concluse. «Però dopo mi racconterai ogni cosa»
«Non se lei mi chiederà di non farlo» borbottò Alexandre fissando l'amico come se fosse stato un bambino capriccioso. Raoul sapeva essere così infantile nella sua ingenuità che a volte lui non riusciva nemmeno ad arrabbiarsi.
Il visconte fissò il giornalista cercando il modo di protestare ma Alexandre lo sorpassò e si diresse verso gli alloggi delle ballerine.
«Se davvero vuoi aiutarmi,» esclamò senza voltarsi, «tieni lontano Bertrand quando arriverà!».
Alexandre raggiunse la stanza di Christine, bussò e aspettò di ottenere il permesso di entrare.
Mademoiselle Daae era in compagnia di Meg Giry. Il giornalista trovava che la fanciulla bionda avesse molto del temperamento di sua madre, anche se la giovinezza la rendeva particolarmente animosa, più di quanto non fosse madame Eloise.
«Mademoiselle Daae, avrei urgenza di parlare con voi, so che forse non siete dell'umore giusto, ma vi chiedo ugualmente di concedermi questo favore» disse Alxandre con il suo consueto tono affabile.
«Ah certo che parlerà con voi, monsieur Dubois!» esclamò Meg. «Dovrà pur parlare con qualcuno prima o poi!».
Nella voce della ragazza c'era un palese accento di rimprovero e di risentimento per non essere riuscita a capire cosa turbasse la sua amica in quei giorni, a parte le vicende che avevano sconvolto il teatro.
Christine scrollò le spalle e fece cenno ad Alexandre di accomodarsi su una sedia,
«Posso chiedervi di lasciarci soli per qualche minuto, mademoiselle Giry?» domandò lui.
Meg sospirò,
«Come preferite...» disse uscendo con il suo passo agile e aggraziato per poi chiudersi la porta alle spalle.
Rimasto solo con la giovane, Alexandre si picchiettò un indice sul ginocchio cercando le parole più appropriate per cominciare il discorso,
«Christine, vorrei che voi sapeste che sono qui in veste di amico» esordì. «Vi prego di credermi sulla parola se vi dico che tutto quello che mi direte non uscirà da questa stanza e che le domande che sto per porvi hanno il solo scopo di aiutare voi e chi vi sta a cuore»
«Vedete, Alexandre, io sono stata molto scortese con voi l'ultima volta ma sono successe troppe cose e io... oh, monsieur! Come posso essere io di aiuto a chi mi sta a cuore se in questo momento non sono nemmeno in grado di aiutare me stessa!» esclamò Christine.
Il giornalista deglutì e le posò una mano sulla sua. La mano del ragazzo era calda su quella di lei completamente gelida, per un attimo la ragazza provò la stessa sensazione di conforto che in passato le aveva fatto provare Erik standole accanto, ma si costrinse a scacciare quel pensiero dalla mente.
Le faceva troppo male pensare a lui, e più di ogni altra cosa, ciò che l'addolorava maggiormente era il dubbio che si era insinuato in lei nei giorni che erano seguiti al loro tragico e ultimo incontro: aveva fatto bene ad accusarlo? Era davvero sicura che fosse stato lui? La sua ragione le rispondeva che sì, non poteva essere stato nessun altro, troppe coincidenze, ma il suo cuore vacillava su quella certezza così terribile. Voleva un solo appiglio, una sola ragione per pensare che fosse il cuore ad avere ragione e non la sua testa, ma più ci pensava e più si faceva del male.
«Voi vi sottovalutate» mormorò il giovane con voce dolce.
Lei scosse il capo,
«Dunque, cosa volete domandarmi?» concluse sbrigativa.
«Io so come e quanto voi siate coinvolta nella vicenda del Fantasma»
«È stato Raoul a dirvelo?!»
«Sì, è stato Raoul, ma non siate in collera con lui. Me lo ha confidato in gran segreto e unicamente per il vostro bene. E ad ogni modo, permettetemi di dirvi che alcune cose erano piuttosto palesi»
«Se è di questo che volete domandarmi non vedo che motivo avete di essere qui visto che sapete già tutto. Denunciatemi se occorre, ma non tormentatemi con i vostri interrogatori!» disse Christine.
«No, mi avete frainteso, io non sono qui per accusarvi» rispose il giornalista. «Sono qui per aiutarvi. Io ho il sospetto che non sia stato quell'uomo ad aggredire Josephine, ma per scoprire se i miei sospetti sono fondati ho bisogno di parlare con chi lo conosce veramente».
La ragazza ebbe un sussulto, il suo cuore si concesse la speranza di averla vinta e lei strinse un lembo della veste tra le mani, ma in un attimo l'amarezza le riempì la bocca: conosceva davvero Erik? Lo aveva accusato, forse ingiustamente, di un'azione ignobile...
«Quell'uomo ha un nome, sapete» mormorò con voce spenta.
«Sì, immagino di sì. Me lo disse anche lui una volta, ma non mi rivelò quale era»
«Lo avete incontrato?».
Alexandre annuì ma pensò che non fosse il caso di raccontare della tortura,
«Mi tese una trappola, voleva parlarmi essendo sicuro che io non potessi nuocergli, tentò di convincermi ad abbandonare l'indagine» spiegò in tono vago.
«Si chiama Erik» dichiarò Christine deglutendo. «Quando fui portata qui dopo la morte di mio padre lui cominciò a farmi visita nel buio e cominciò a cantare per me. Pensavo fosse il mio Angelo della Musica, mi insegnò l'arte del canto e solo pochi mesi fa, dopo la sera in cui mi esibì nell'Annibale mi si rivelò, mi condusse alla sua dimora, cantò per me... fu da allora che...»
«La sua dimora?» chiese il ragazzo affascinato.
Lo sguardo di Christine divenne duro,
«Non chiedetemi come arrivarci, ci sono informazioni troppo pericolose perché possano essere rivelate» disse.
«D'accordo, lasciamo perdere certi dettagli per ora. Ma ditemi, tenete molto a Erik?».  Alexandre provò uno strano effetto nel chiamarlo per nome, come se il solo fatto di pronunciarlo rendesse il Fantasma più umano di quanto lo aveva mai creduto.
«Se tengo a lui? Alexandre, vi prego! So che ha commesso dei crimini... ma una volta mi ha raccontato la sua storia, è stato abbandonato da sua madre e cresciuto da una tribù di zingari che non hanno fatto altro che maltrattarlo, quando è venuto qui ha trovato il suo mondo, il suo rifugio e avrebbe fatto qualsiasi cosa per preservarlo» spiegò la giovane con la voce tremante che tradiva una forte emozione.
«Capisco... ma per quale motivo si nasconde?».
Christine si guardò attorno con aria circospetta, come se temesse che occhi indiscreti fossero in agguato, che le pareti potessero udire,
«Lui morirebbe se sapesse che ve l'ho detto» sussurrò. «Ma il suo viso, il lato destro del volto è come sfregiato da un'ustione. Sospetto che sia nato così perché è il motivo per cui sua madre lo abbandonò».
Alexandre sussultò e si morse il labbro inferiore. Adesso tutto cominciava a quadrare.
«Ad ogni modo,» concluse Christine, «da quando ho saputo di Josephine l'ho mandato via, quindi ormai non so quanto io possa esservi utile»
«Voi pensate che sia stato lui?»
«L'unica cosa che penso è che vorrei che non fosse così!»
«Molto bene» mormorò il giornalista. «Allora è giusto che sappiate una cosa. Prima di andare via, Josephine mi ha detto che il suo aggressore odorava in maniera molto forte di tabacco»
«Tabacco avete detto?... Erik non fuma, non l'ho mai visto fumare né ho mai trovato tracce o odore di tabacco in casa sua» disse la giovane sgranando gli occhi.
Alexandre rimase a bocca aperta. Aveva avuto la conferma che cercava. C'era bisogno di altre prove, di molti altri particolari per stabilire con certezza chi fosse l'aggressore della ballerina, ma di una cosa ormai era certo: non era stato il Fantasma dell'Opera.
«Vi ringrazio della vostra fiducia, Christine. Mi siete stata di grande aiuto» disse il giornalista alzandosi per uscire.
«Alexandre, non potete immaginare quanto lo siate stato voi per me!» esclamò lei.
Il ragazzo sorrise, prese una mano della fanciulla e se la portò alle labbra in un tenero baciamano.
«Sapete,» aggiunse prima di uscire, «avevo un fratello, purtroppo è morto piccolo, ma anche lui si chiamava Erik».

*

Madame Giry aveva l'orlo del vestito completamente zuppo, il freddo pungente le era penetrato fin dentro le ossa. Era andata in chiesa a confessarsi, era troppo tempo che non lo faceva e aveva bisogno di chiedere perdono a Dio.
«Perdonatemi Padre poiché ho peccato» aveva detto inginocchiandosi nel confessionale.
«Vi ascolto, figliola» aveva risposto il prete aprendo la grata.
«Ho peccato di troppo amore e di troppa premura mettendo in pericolo degli innocenti...».
Il prete che aveva ascoltato la confessione l'aveva assolta,
«La verità è sempre la strada migliore. Vedete, anche se genera tempeste, la quiete che ne segue è l'unica vera pace a cui una persona debba aspirare» così le aveva detto prima di lasciarla andare.
La donna tornò all'Opera pensando che il prete avesse ragione, ma c'erano modi e modi di far conoscere una verità e lei doveva trovare quello migliore.
Quando nel pomeriggio decise di bussare a quella porta, lo fece sperando che quella fosse davvero la soluzione più appropriata. Forse era rischioso, ma se tutto fosse andato come credeva allora avrebbe risolto più di un problema.
«Christine, posso entrare?» disse aprendo discretamente la porta.
«Eloise, venite pure» rispose la giovane.
«Cosa hai, bambina? Hai una faccia così crucciata. La faccia di chi ha pensato a lungo, probabilmente troppo»
«Ho pensato che sono una sciocca... non credete?» sussurrò la ragazza.
«Credo che tu sia una persona che ogni tanto commette i suoi errori, come tutti» rispose Madame Giry.
«Perché non mi avete aiutato a capire quanto ho sbagliato ad accusare Erik?!».
Eloise fu piacevolmente colpita da quelle parole e concesse alla ragazza un tenero sorriso materno,
«Perché ormai era tardi quindi tanto valeva che tu arrivassi a capirlo da sola. Ma niente è irreparabile mia cara» disse.
«Lui ora mi odia!»
«No, sono certa che non è così, ma è proprio di Erik che devo parlarti».
Christine annuì,
«Oggi è venuto a farmi visita monsieur Dubois, lui mi ha detto che Josephine ha raccontato che il suo aggressore odorava fortemente di tabacco... è stato lì che ho compreso ciò che il mio cuore ha sempre saputo» spiegò.
«Alexandre! Benedetto ragazzo! È di lui che devo parlarti» esclamò Madame Giry chiudendo gli occhi come a cercare dentro di sé la forza per cominciare quel discorso.
«Ma avevate detto che volevate parlarmi di Erik...»
«Sì, per l'appunto. È complicato...».
Christine guardò la donna senza capire, tuttavia si sedette accanto a lei e la pregò di continuare. Eloise estrasse dalla tasca l'ultima lettera di Erik che lei il giorno prima si era rifiutata di consegnare ai direttori. La fanciulla la lesse rapidamente, poi la rilesse con più attenzione e la lasciò cadere a terra con un gemito angosciato.
«Lui in questo momento è molto arrabbiato» spiegò Madame Giry.
«Mio Dio! Che cosa ho fatto!» esclamò Christine coprendosi il volto con le mani.
«Ascoltami, figlia mia, ascoltami, perché quello che sto per dirti è molto importante» asserì la donna scuotendo la sua interlocutrice. «Più grave ancora della collera di Erik è la persona contro cui lui l'ha indirizzata, e non parlo di quell'essere viscido di Bertrand, ma di Alexandre»
«Oh certo... certo, capisco, sarebbe una disgrazia se Erik facesse del male a una così brava persona»
«No, non è solo questo. Erik non deve fare del male a quel ragazzo, e non solo perché è una brava persona»
«Non vi seguo, Eloise».
Madame Giry sospirò,
«Erik e Alexandre sono fratelli» disse lentamente per assicurarsi che la fanciulla comprendesse a pieno il senso di quella frase.
«Ma cosa dite?» mormorò Christine dopo qualche secondo di silenzioso stupore. «È impossibile»
«A quanto pare non lo è. Ora ti spiegherò ogni cosa ma bada, bambina, bada che lui non venga a sapere... non adesso».
Christine ascoltò in silenzio la spiegazione di Madame Giry. La donna le raccontò della discussione con la madre di Alexandre e di come lei stessa avesse capito che Erik era in realtà il figlio che aveva abbandonato ancora in fasce.
«Ora comprendi il motivo per cui Erik deve essere fermato?» concluse Eloise guardano la ragazza negli occhi.
Dal canto suo Christine era sconvolta.

«Avevo un fratello... morto bambino... si chiamava Erik»

Le parole di Alexandre le ronzavano in testa ripetendosi in un'infinita eco nei suoi pensieri. Ecco perché quel ragazzo le era sempre sembrato così familiare, ecco perché tante cose di lui l'avevano intenerita, ecco perché aveva da sempre provato una sorta di affinità verso quel giornalista: senza saperlo aveva notato in lui una forte somiglianza con l'uomo che aveva imparato ad amare, una somiglianza talmente profonda che non poteva essere il frutto di una mera coincidenza.
«Ma quindi Alexandre non sa nulla, non sospetta minimamente che l'uomo sul quale sta indagando sia...» domandò con voce tremula incapace di completare la frase.
«No, povero ragazzo, e come potrebbe mai immaginare una cosa del genere?» rispose Eloise scuotendo il capo.
«Ma voi siete davvero convinta che sia giusto che Erik non sappia?... Mio Dio, se fosse davvero successo qualcosa a quel giornalista... ah, non voglio nemmeno pensarci!»
«Christine, ascoltami, questa rivelazione è stata talmente sconvolgente anche per me... io non so come lui potrebbe reagire, adesso meno che mai, adesso che è così scosso»
«Credete davvero che Erik possa fare del male ad Alexandre o peggio, a sua madre?»
«Non chiamarla in quel modo!» esclamò Madame Giry con un gesto stizzito. «Una donna che mette al mondo un figlio e poi lo abbandona non è degna di essere definita madre! Tuttavia, arrivati a questo punto, non è il male che Erik può fare che mi preoccupa, quanto quello che può subire. Ha un cuore molto forte per essere sopravvissuto così a lungo nella sua condizione, ma sono certa che anche la sua forza d'animo conosca dei limiti, e io non voglio vederlo crollare, non lo sopporterei».
Il pianto pizzicò gli occhi di Christine come uno spiritello dispettoso ma lei ricacciò dietro le lacrime e si alzò in piedi quasi meravigliandosi che le ginocchia la reggessero ancora.
«Ad ogni modo, Erik va fermato... tu sei la sola che può convincerlo a ragionare» disse Eloise.
«E voi credete che mi darà ascolto? Ora che l'ho deluso così profondamente...» rispose Christine con la voce incrinata dal rammarico.
«Si è disposti a perdonare molte cose quando si ama. Bambina mia, non c'è tempo da perdere».
La ragazza non aveva bisogno di sentire nient'altro. Con gesti rapidi si infilò il cappotto e uscì, diretta in Rue Scribe.   

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NOTICINA: il titolo del capitolo è un verso di una canzone di Fabrizio De Andrè che ritornerà poi nella seconda parte.

Ci si legge dopo Pasqua con la continuazione. Nel mentre vi faccio i miei migliori auguri di buone feste.

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Capitolo reinserito il 28\12\2011

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Capitolo 21
*** La certezza di aversi (parte seconda) ***


Sono le due di notte e io, colta da insonnia, desidero: un gelato al cioccolato con panna montata, un cucciolo di carlino, un massaggio alla schiena, una casa in riva al mare e un'eutanasia... non necessariamente in questo ordine.

 Dopo aver esteso le mie lamentazioni lamentose anche al web, comincio con il ringraziare i lettori e i recensori del delirio.
 @ Keyra93: Fosse per me Chirstine dovrebbe essere fustigata! Ma le esigenze di coerenza di trama mi impongono scelte più soft... però io l'avrei messa a strisciare sul paviemnto di pietra della Dimora sul Lago per tutta la notte!!! Comunque sia, per tutta l'altra accozzaglia di personaggi: abbiate fede! Detto ciò, la fanfiction era quasi finita quando ho cominciato a psotarla, poi ha subito una battuta d'arresto, in questi gironi mi sto occupando di buttare giù gli ultimi capitoli.
 @ Angelsee: *riverenza*. Grazie :-)
 @ Amy: io sono una grandissima fan di Faber e in quanto napoletana (napoletana in esilio, ma sempre napoletana) Don Raffaè la canto anche meglio di lui U_U (che poi sono stonata come un campanile intero, ma son dettagli...). Veniamo a noi... si, madame Ginette è figlia del suo tempo, per questo ho pensato che la piega da soap-opera della fanfiction non stonasse più di tanto, però non mi stupirei se nessuno le dedicasse mai un fan club XD. Alex è un pò il personaggio che fa le mie veci  (Alessandra\o e derivati sono sempre i nomi che scelgo per i miei alter-ego scrittori in effetti), e anche io, da quasi giornalista, avrei una gran voglia di far venire i nodi al pettine, quindi sono contenta che il personaggio funzioni così com'è, mai personaggio originale mi venne così naturale! (Per la storia sui vampiri lontana dall'universo "twilightiano"... ti dirò, ci sto lavorando, ma è un progetto in alto, altissimo mare... ma mai dire mai ^^)

 Detto ciò,  vi lascio al nuovo capitolo e vi auguro una buona domenica.


**************

CAPITOLO DICIOTTESIMO - PARTE SECONDA

La certezza di aversi

Erik disegnò lo schizzo di una figura indefinita con gesti rapidi e imprecisi. Linee nere di carboncino su un foglio di carta ruvida.
Cercava di tenersi impegnato, di non pensare. C'era sempre riuscito fino a quel momento, avrebbe potuto continuare a farlo ancora...
La Dimora sul Lago era in disordine come non lo era mai stata. Fogli accartocciati gettati a terra, vestiti lasciati sugli sgabelli, pagine di pentagramma buttate scompostamente sulla tastiera dell'organo, libri accatastati sugli scaffali. I frammenti dello specchio rotto ancora sul pavimento con accanto ancora le poche gocce di sangue che erano cadute dal taglio che il Fantasma si era inflitto, minuscole impronte vermiglie del passaggio della pazzia.
«Erik!».
Quando quella voce echeggiò nella grotta in tutto il suo tenero tormento, l'uomo sollevò il capo con uno scatto, non voleva credere che fosse lei, era solo un brutto scherzo che la sua fantasia gli aveva giocato, un sadico tranello della sua mente.
Ma quando vide con la coda dell'occhio la sagoma flessuosa di Christine comparire accanto a lui si costrinse a fare appello a tutto il suo sangue freddo e trovare la forza di rispondere, di farle vedere la sua rabbia.
«Cosa vuoi? Sei venuta a continuare a insultarmi? Una volta non ti è bastata?» disse con freddezza, senza nemmeno voltarsi a guardarla.
«Sono venuta a chiedervi perdono» rispose lei ancora con il fiato corto per l'essersi precipitata di corsa fin lì.
«Per aver creduto, ancora una volta, che io fossi un mostro?»
«Per non essere stata capace di essere diversa da tutti gli altri... vi prego, io ero sconvolta! Non ero lucida, non ero in grado di valutare la situazione...».
Erik lasciò cadere il foglio sul piano dello scrittoio
«Come se non mi conoscessi! Come se io non fossi l'uomo con cui hai passato tanto tempo negli ultimi mesi! Come se davvero potessi essere capace di uno scempio simile!» borbottò adirato.
«Erik, vi scongiuro, perdonatemi!».
L'uomo rimase in silenzio per qualche secondo, le narici dilatate per il respiro che la rabbia rendeva affannoso,
«Bene» disse voltandosi verso di lei con calma gelida. «Apprezzo che tu sia venuta a cercare il mio perdono, accetto le tue scuse... ora, gradirei rimanere da solo, stavo lavorando a una composizione»
«Non potete mandarmi via così!»
«E perché mai non potrei? Non abbiamo più niente da dirci Christine, ti ho insegnato tutto quanto avevi bisogno di sapere, ti ho dato tutto quello che potevo darti, ora non hai più bisogno di me, il mio lavoro si è concluso»
«Per voi ero solo un lavoro? Un modo per avere qualcosa da fare per non sentirvi solo?»
«Sei ancora qui?! Quale parte dell'espressione: lasciami solo ti è difficile comprendere?» mormorò lui sbuffando spazientito.
«Ho sbagliato, non me ne pentirò mai abbastanza... Dio solo sa quanto merito la vostra collera, ma non riesco a sopportare tutto questo gelo... io credevo che mi amaste!» esclamò Christine al colmo dell'esasperazione.
«Fantasioso!»
«Sì, è sciocco... ma io... io invece ti amo! Ti amo!».
Con un gesto nervoso Erik accartocciò il foglio che aveva davanti e fissò la ragazza con aria quasi inebetita e senza dir niente.
Christine faticava a trattenere le lacrime. Possibile che per un errore lui volesse davvero fargliela pagare così cara?
Prese un profondo respiro e si voltò dandogli le spalle,
«Molto bene» disse prima che la voce cominciasse a tremare in maniera pietosa. «Ora non abbiamo davvero più nulla da dirci».
Accecato da un misto di sentimenti contrastanti, Erik vide solo il lampo chiaro della gonna di Christine che frusciava nel suo allontanarsi di corsa verso l'uscita.
Era stato crudele con lei, tanto era la rabbia che lo stordiva, ma in quel momento si rese conto che in quei giorni non aveva fatto altro che desiderare che lei tornasse, che lei gli dicesse che gli credeva, che si era sbagliata... che lo amava.
«Aspetta!» le gridò balzando in piedi e raggiungendola per poi afferrarla per le spalle.
Non le diede il tempo di rispondere o di dire qualsiasi cosa, la strinse a sé e la baciò. Poteva sentire il viso bagnato di lacrime contro la sua guancia, si maledisse per averle procurato tanto dolore. Lei era quanto di migliore aveva al mondo, non poteva perderla per orgoglio.
Affondò le mani tra i suoi  capelli, premendo il viso contro i suoi meravigliosi riccioli e inspirandone il profumo.
«Perdonami... perdonami...» mormorò lei nascondendo il volto nel petto dell'uomo, aggrappandosi smaniosamente alla sua camicia, come se temesse di poter essere strappata via dalle sue braccia.
«Basta, Christine, basta lacrime, basta dolore... la mia vita ne ha viste a sufficienza, e ora che ci sei tu non voglio vedere nient'altro che sia meno bello dei tuoi sorrisi» disse Erik prendendole il viso tra le mani. «Ti amo, mio piccolo angelo, ti amo così tanto...»
«Tienimi con te, ti prego. Non farmi mai più andare via...» lo implorò la giovane allacciandogli le braccia dietro la nuca.

così fu quell'amore che dall'ansia di perdersi
ha trovato in un giorno la certezza di aversi

*

Erik aveva immaginato quel momento così a lungo, ma anche la più fervida fantasia non avrebbe reso giustizia alla sensazione nuova e meravigliosa del corpo della sua Christine stretta a lui, del suo arrendersi docile alle sue carezze e ai suoi baci, prima incerti e ora così pieni di urgenza e di voluttà.
La consapevolezza dell'amore è qualcosa di talmente grande che quasi non lo si avverte, così come gli occhi non riescono a catturare tutta l'ampiezza del cielo con un solo sguardo.
La consapevolezza di quell'amore poi li aveva travolti in unico istante, gettandoli in una corrente di sensazioni così forti da fargli perdere la cognizione di se stessi, del mondo, di ogni cosa.
Christine si sottrasse per un attimo a quella meraviglia dell'anima per guardarsi attorno. Vide lo specchio infranto, vide gli oggetti in disordine e sorrise tristemente avvertendo nel suo cuore quanto male avesse patito Erik in quella settimana senza di lei ma rendendosi conto di quanto era importante, di quanto lei fosse davvero l'unica cosa che contasse nella vita di quell'uomo.
«Mi dispiace così tanto per quello che è successo...» mormorò.
Lui sorrise, di un sorriso radioso che lei non gli aveva mai visto prima,
«Non importa, è passato. Adesso che sei qui non importa più» le rispose.
La fanciulla sapeva che doveva parlare ad Erik della lettera, delle minacce di morte contro Alexandre e contro Bertrand, doveva impedire a tutti i costi che lui facesse del male a quel ragazzo, ma in quel momento non riusciva a pensarci. Ogni volta che cercava di concentrarsi e mettere insieme le parole per intraprendere quel discorso i suoi pensieri si disperdevano in frammenti di vuoto mentre Erik la stringeva e tornava a cercare le sue labbra.
La ragazza tentò una carezza ardita e un po' goffa facendo scorrere le mani sotto il tessuto di batista della camicia dell'uomo. Sentì la sua pelle farsi d'oca in un brivido sotto le sue dita che scivolavano sul petto come a cercare di rubare il calore del suo corpo e conservarlo nei suoi palmi come un ricordo per i giorni più tristi e freddi che sarebbero potuti arrivare.
Erik le prese il mento tra l'indice e il pollice e le scostò una ciocca di capelli dal viso,
«No, Christine. No se non vuoi» le sussurrò.
Lei lo voleva, lo aveva sempre voluto, forse ancora prima di scoprire quanto lo amasse. Erano stati solo i dubbi e le paure a frenarla, ma ora quei dubbi non avevano più ragion d'essere.
Se solo non fosse stata così insicura su come comportarsi in quel momento, su cosa fare! Arrossì e distolse lo sguardo da quello dell'uomo sentendosi così inadatta e fuori posto. In passato le era capitato di trovarsi coinvolta nelle discussioni delle ballerine più grandi che raccontavano delle loro liaison con i ricchi signori del pubblico che si innamoravano vedendole in scena. Aveva sentito tante di quelle storie di amori rubati, brevi come stagioni imprecise che non lasciavano alcun segno. Ma ora si rendeva conto che la realtà era ben diversa, e nella realtà le sembrava di essere solo una ragazzina incapace di amare un uomo.
Erik si ritrasse appena e la guardò con tenerezza. Non conosceva l'amore delle donne e credette che i dubbi che Christine aveva su se stessa fossero in realtà un altro rifiuto.
«Aspetterò,» le disse tranquillo, «tutto il tempo che vorrai».
La ragazza arrossì ancora più violentemente e strinse una mano attorno al braccio dell'uomo come per trattenerlo,
«Non c'è nulla da aspettare...» mormorò al colmo dell'imbarazzo. «È solo che io...»
«Neanche io» ammise Erik indovinando il corso dei pensieri di Christine.
La ragazza riuscì finalmente a sollevare lo sguardo e a fissarlo senza riuscire a trattenere lo stupore.
«Vorrà dire che lo scopriremo insieme» mormorò l'uomo accarezzandole la guancia con il dorso della mano.
Christine si strinse di nuovo a lui, emozionata e con il cuore in gola. Erik la sollevò tra le braccia e la adagiò sul letto per poi stendersi accanto a lei.
Le accarezzò lentamente il fianco e le posò una mano sul grembo, la sentì tesa, agitata mentre gli stringeva le mani  attorno alle spalle tirando il tessuto della camicia. Le baciò la fronte, le palpebre socchiuse, la guancia per poi scendere fino al collo e la sentì sussultare quando le posò le labbra sulla gola.
Christine gli accarezzò i capelli e lo costrinse a sollevare il viso per togliergli la maschera che lasciò cadere sul pavimento.
«Non voglio che tu ti nasconda, non con me. Voglio poter guardare l'uomo che amo!» esclamò prima che lui potesse protestare in qualche modo.
Erik rimase fermo come se avesse bisogno di abituarsi all'idea che degli occhi potessero guardare il suo viso senza provare orrore. Christine gli posò un bacio sul sopracciglio destro, sulla pelle martoriata da quella piaga mostruosa e lui avvertì un brivido di piacere che gli fece quasi dimenticare di ciò che aveva nascosto alla vista del mondo per tanti anni.
Cominciò a sciogliere i nastri che tenevano chiuso il vestito di Christine sul davanti baciando famelico ogni angolo di pelle che scopriva mano mano che l'abito veniva sfilato via e sentì le dita della ragazza stringersi tra i suoi capelli in una tacita preghiera di non smettere con quella tortura tanto piacevole.
Lei aveva odore di sapone, dell'olio di gelsomino tra i capelli. Erik pensò che avrebbe potuto impazzire.
L'uomo gettò via la sua camicia e il vestito di Christine che rimase solo con la sottoveste candida. Un frammento di paradiso tra il raso delle lenzuola color porpora.
La ragazza sussultò quando Erik le accarezzò la gamba scostando la stoffa della sottana e le depose un bacio nell'incavo del ginocchio.
Lei gli avvolse il torace con le braccia e lo fece stendere sopra di sé inarcando leggermente la schiena  per aderire contro il suo corpo, mentre lui le scopriva il petto magro e le baciava i seni.
Christine si lasciò scappare un gemito e lui azzardò una carezza risalendo con la mano verso l'interno coscia.
«Erik...» sussurrò lei inarcandosi e facendo sfiorare il bacino contro quello dell'uomo che si scoprì incapace di resistere oltre.
«Ti voglio, Christine» le mormorò sulle labbra sfilandole gli ultimi indumenti rimasti.
Senza allontanarsi da lei si slacciò i calzoni e si stese tra le sue gambe, puntellandosi sugli avambracci e nascondendo il viso nell'incavo della sua spalla,
«Guardami» lo implorò Christine.
Avrebbe voluto dirle di fermarlo se qualcosa non andava ma sapeva che non ne sarebbe stato capace. Era come se lei fosse diventata una presenza eterea che aveva sommerso di luce ogni angolo del suo mondo buio senza lasciargli altra possibilità che perdersi in quella marea. L'impossibile, l'insperato che diventava reale tra le sue mani gli dava la sensazione che non ci fosse nient'altro, che non ci fosse stato nient'altro, nessuna cicatrice né sul suo corpo né sul suo cuore.
«Erik, guardami» mormorò di nuovo la fanciulla accarezzandogli il viso, lui sollevò lo sguardo allacciandolo a quello di Christine nello stesso momento in cui la prese con una rapida spinta dei fianchi.
La giovane sussultò e gli graffiò la spalla lasciandosi scappare un lamento rauco.
Erik rimase paralizzato nel vedere il volto di Christine contrarsi in una smorfia di dolore e si fermò sollevandosi sui palmi delle mani,
«Mi... mi dispiace...» mormorò in un tono così incerto e mortificato che lei ne fu quasi stupita.
La ragazza tentò di dimenticarsi del dolore che le aveva attanagliato il bassoventre e gli passò una mano tra i capelli per rassicurarlo,
«Va tutto bene... non fa niente» disse. «Non fermarti, ti prego»
«Io non voglio farti del male» rispose lui con aria smarrita.
«L'amore non può fare male».
Christine si spinse in avanti con il bacino aderendo ancora di più al corpo dell'uomo come a invitarlo a continuare. Voleva essere sua, solo sua, senza riserve e senza paure. Sapeva che per una donna la prima volta era sempre dolorosa, così le avevano detto, ma non le importava, il dolore sarebbe sparito lasciandole solo l'avvolgente sensazione di appartenere completamente all'uomo che amava.
Erik si mosse con più delicatezza spiando con ansia il volto di Christine che stavolta corrugò solo leggermente le sopracciglia e chiuse gli occhi per un attimo, per poi riaprirli e regalargli un meraviglioso sorriso colmo di dolcezza.
Ci volle qualche minuto prima che lei si rilassasse completamente, l'uomo la osservava sempre con molta attenzione, cercando di muoversi senza procurarle fastidio, ma poi fu la ragazza a assecondare i suoi movimenti con spinte decise dei fianchi come per incoraggiarlo, aumentando il ritmo di quel cercarsi che ora sembrava così naturale, così giusto. Qualcosa di così profondamente loro che non poteva essere in nessun altro modo, con nessun'altra persona, in nessun altro luogo.

*

Alexandre si sciacquò la faccia in un catino, l'acqua era gelida. Quando rialzò la testa vide una sagoma scura riflessa nello specchio alle sue spalle.
«Ah, siete arrivato, Bertrand» disse il ragazzo tamponandosi la faccia con un telo di lino.
L'investigatore si sfilò il pesante cappotto scuro e lo appese a un gancio fissato alla parete,
«Vi sentite bene, Alexandre?» chiese, sfilando dalla giacca il suo portasigari.
Il giornalista fissò la scatoletta argentata e le dita dell'uomo che ne estraevano un sigaro color ocra,
«Da dove vengono?» chiese con fare incuriosito. «Non sono un esperto ma so che i sigari cambiano qualità a seconda della provenienza»
«Naturalmente. Come qualsiasi prodotto della terra, il tabacco cambia qualità a seconda di dove viene coltivato. Questi sigari sono italiani, toscani per la precisione. C'è chi sostiene che quelli che provengono dall'America siano i migliori, ma io preferisco questi»
«Sì, capisco...» concluse Alexandre con vaghezza.
«Volete provare?» chiese l'investigatore porgendo al ragazzo il sigaro appena acceso.
L'odore forte di tabacco che gli arrivò alle narici fece provare ad Alexandre una sensazione di nausea, tentò di nascondere una smorfia di disgusto e scosse il capo,
«No, vi ringrazio» disse educatamente. «Piuttosto, ditemi, cosa avete in mente?»
«Pensavo di parlare con Christine Daae»
«A che pro?»
«Per convincerla a interpretare quella maledetta opera, credo sia la nostra unica speranza di riuscire a catturare il Fantasma».
Alexandre arricciò le labbra e sospirò,
«Sì, può darsi. Sarebbe davvero un peccato se tutti i nostri sforzi, anche quelli più estremi, non portassero a nessun risultato» mormorò.
Bertrand non colse o fece finta di non notare il tono vagamente insinuante che il ragazzo aveva usato,
«Esattamente. Dobbiamo solo confidare che il nostro giovane usignolo sia ancora profondamente adirata con il suo amante». L'investigatore pronunciò quelle parole con voce calma ma incrinata da una nota di disprezzo così palese che Alexandre ne fu infastidito. Quella giovane era libera di amare chi voleva, anzi, se il Fantasma dell'Opera, se... Erik si era guadagnato l'affetto incondizionato di un angelo come mademoiselle Daae allora doveva essere davvero assai meno mostruoso di quanto lo si credeva. E in ogni caso, Bertrand era l'ultima persona al mondo che poteva permettersi di giudicare.
«E, ammesso che la ragazza accettasse, cosa vi aspettate che accada una volta che la rappresentazione sarà messa in scena?» chiese Alexandre.
Bertrand scrollò le spalle e soffiò nell'aria un lungo sbuffo di fumo grigio,
«Come ha suggerito il visconte, con la polizia in ogni dove potremmo avere un considerevole vantaggio sul Fantasma e sulle sue abilità a sparire nel nulla, e se un gendarme sarà costretto a sparargli per impedirgli la fuga o per impedire che commetta qualche altra scelleratezza... beh, vi dispiacerebbe davvero così tanto se quel mostro tirasse le cuoia?» borbottò.
Alexandre non rispose ma il suo sguardo si incupì mentre fissava il suo interlocutore con occhi sottili,
«Sono sempre dalla parte della giustizia» concluse sbrigativo. «A questo proposito, credete davvero che sia stato il Fantasma ad aggredire Josephine?»
«Ma naturalmente. Credete che possa esserci qualche altro sospettato? Se è così ditemelo, è sempre illuminante discutere con voi delle vostre ipotesi»
«Vedete, sono un giornalista, e questo significa che ho un'assoluta devozione per la verità. Se c'è un altro responsabile dietro l'aggressione a quella ballerina state certo che lo troverò» concluse Alexandre uscendo dalla stanza dove l'aria gli sembrava essere diventata irrespirabile.

*

Christine si svegliò e si mosse piano godendosi la carezza delle lenzuola lisce sulla pelle nuda.
Si era addormentata rannicchiata contro il petto di Erik, con la testa sulla sua spalla.
Sospirò nel momento in cui la nebbia del sonno si dissolse dalla sua mente e le permise di ricordare le sensazioni che aveva provato solo poche ore prima: l'anima andare a fuoco, il corpo esplodere e l'amore stordirla come un tuono a ciel sereno. La pelle calda di Erik contro la sua, la tenerezza con cui quell'uomo l'aveva amata, la disperazione delle sue dita che si stringevano attorno ai suoi riccioli come a volersi convincere che lei fosse davvero lì, che fosse tutto vero. E il piacere che era sopraggiunto con la stessa furia di un temporale estivo, con la stessa perfezione del paradiso.
Ed era tutto come avrebbe sempre dovuto essere.
Christine sollevò il capo per scoprire che Erik era già sveglio, aveva gli occhi aperti e lo sguardo perso nel vuoto mentre fissava immobile l'aria davanti a sé.
La ragazza si tirò le coperte fin quasi al collo, non era riuscita a liberarsi del tutto dall'imbarazzo di ritrovarsi nuda sotto lo sguardo di un altro. Baciò delicatamente le labbra dell'uomo e strofinò teneramente il naso contro la sua guancia, lui accennò un sorriso e le accarezzò i capelli stringendola un po' più forte contro il suo petto.
«Non sei riuscito a dormire?» chiese Christine notando che gli occhi di Erik erano stanchi, lui scosse il capo in un cenno negativo.
La giovane lo guardò in silenzio per qualche secondo aspettando che lui dicesse qualcosa, ma Erik rimase in silenzio continuando a tenere lo sguardo fisso verso un punto impreciso.
«A cosa pensi? Sei così distante...» chiese lei in tono leggermente piccato.
«Pensavo al futuro» rispose lui con un sospiro profondo. «Avevo fatto una promessa a me stesso, che se non fossi stato più da solo avrei trovato il coraggio di uscire di qui e affrontare il mondo. Ma ora temo di essere impossibilitato, quelli che mi danno la caccia non me lo lasceranno fare...»
«Non essere così pessimista, forse, se continui a stare attento prima o poi Bertrand si stancherà di darti la caccia...»
«No, non lo farà. Ormai è diventata una questione personale, una sfida... e credimi, conosco lo sguardo determinato e feroce di quell'uomo, so cosa vuol dire perché è il mio stesso sguardo... io e  lui siamo uguali»
«Non dire sciocchezze... lui è crudele e lo è per il solo gusto di esserlo, tu invece...». Christine si interruppe cercando le parole più adatte per proseguire ma Erik non le diede il tempo di continuare, la baciò e la guardò negli occhi con aria quasi commossa,
«Perdonami» le mormorò sulle labbra. «Non dovrei rovinare un momento così bello con pensieri tanto tristi». Si alzò, infilò la vestaglia di seta nera e recuperò la maschera dal pavimento.
Christine arrossì nel tentare di alzarsi e afferrare la sottoveste senza scoprirsi troppo. Erik la guardò con la coda dell'occhio e sorrise intenerito, era così bella e così dolce nel suo essere intimidita e maldestra. L'uomo si chinò per raccogliere i vestiti della ragazza e glieli porse con un sorriso gentile poi si allontanò per lasciare che si rivestisse senza sentirsi imbarazzata, anche se avrebbe voluto passare la vita senza fare altro che guardarla.
Quando Christine ebbe terminato di ricomporsi, Erik la prese per mano e la fece sedere davanti a uno specchio, lei afferrò una spazzola e cominciò a sistemarsi i capelli ma lui le bloccò la mano afferrandola con delicatezza,
«Posso farlo io?» sussurrò titubante.
Lei rise e annuì lasciando che l'uomo le sciogliesse i nodi che si erano formati tra i suoi folti ricci castani. Erik tentò di non fare movimenti bruschi e di non tirare troppo i capelli spettinati per rimetterli in ordine.
La ragazza si rilassò sotto quel tocco delicato, quasi paterno ma di colpo un pensiero molesto le strappò la pace che il suo cuore aveva ritagliato in quegli attimi così perfetti: era andata lì con uno scopo, doveva assolutamente parlare con Erik di qualcosa di molto importante.
«Erik,» esordì deglutendo, «posso chiederti una cosa?»
«Certamente»
«La promessa che mi hai fatto mesi fa, quella di... sì, insomma, quella di non uccidere, è ancora valida, vero?».
L'uomo ristette poi continuò ad accarezzarle i capelli,
«Quando credevo che tu mi avessi per sempre allontanato dalla tua vita ero così accecato dalla rabbia che avrei fatto a pezzi quei due insolenti a mani nude, perdona la brutalità ma è così... ma ora tu sei qui e io non sono una persona così meschina da venir meno alla parola data, anche se ti confesso che non mi dispiacerebbe sbarazzarmi di quei due!» ammise.
«Erik! Io capisco il tuo risentimento ma per quanto quel Bertrand possa essere un uomo pessimo, c'è Alexandre con lui e quel ragazzo non merita il tuo disprezzo, è una così cara persona» protestò la giovane cercando di mantenere la voce ferma.
«Ah, cielo!» borbottò Erik. «Sembrate tutti innamorati di lui! Piace davvero così tanto anche a te?!»
«Per favore, non hai motivo di essere geloso di Alexandre ma se solo tu potessi guardarlo sotto una luce diversa, provare a non considerarlo un nemico... sai lui è...»
«È cosa?»
«Beh... lui è... seriamente convinto che non sia stato tu ad aggredire Josephine, è stato lui ad aiutarmi ad aprire gli occhi».
Erik si lasciò scappare una risatina stridula,
«E così è a quel giornalista che devo il fatto che tu sia qui!»
«Sì, in parte sì» ammise la ragazza voltandosi a guardare l'uomo con aria preoccupata.
Erik la rassicurò solleticandole il mento con l'indice e sorridendole con aria calma,
«Beh, so anche io che Dubois non è della stessa risma di Bertrand, ma mi stanno braccando come una lepre e io dovrò pur fare qualcosa» concluse.
«Raoul... lui mi ha chiesto di cantare nella rappresentazione del tuo Don Juan. Vogliono allestire il tuo spettacolo per tenderti una trappola» mormorò Christine incupendosi.
«Ah, e il visconte ha partorito una simile strategia tutto da solo? Quel damerino è una sorpresa sempre nuova!» esclamò Erik divertito.
La ragazza gli tirò un leggero buffetto sul braccio
«Smettila di prenderlo in giro... e comunque io mi sono rifiutata. Per quanto fossi adirata con te in quel momento, non me la sarei mai sentita di tradirti».
L'uomo rimase pensieroso per una manciata di secondi, poi distolse lo sguardo da Christine e accennò un ghigno mentre scrutava con occhi sottili il leggio vuoto sopra la suo organo,
«Erik! Erik, a cosa stai pensando? Mi metti paura quando fai così!» si lamentò la fanciulla tirandolo per la manica della vestaglia con fare ansioso.
Lui tornò a guardarla e sorrise senza perdere quell'espressione furba,
«Allora ecco cosa faremo» disse. «Lascia che loro pensino ancora che tu sei arrabbiata con me, lascia che allestiscano la loro trappola e assecondali...»
«Perché? Cosa vuoi fare? Ah ti prego Erik, non mettere in pericolo nessuno e soprattutto te stesso, io non voglio che ti accada qualcosa, non potrei sopportarlo!» rispose Christine con la voce resa alta e tremula dall'agitazione, si gettò tra le sue braccia e lo strinse.
«Non preoccuparti, mio piccolo angelo, fidati di me e fai come ti dico. Vedrai...» concluse l'uomo ricambiando l'abbraccio e posandole un bacio tra i capelli.   

e l'amore ha l'amore come solo argomento
e il tumulto del cielo ha sbagliato momento

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All we need is love papapapaaaaaa... e non aggiungo altro. La mia avversione all'accoppiata Erik\Chirstine ha reso particolarmente ostica la scrittura di questo capitolo... ma del resto, quando cominciai a scrivere questa fanfiction sapevo a cosa andavo incontro. 
I versi in corsivo sono tratti dallo stesso brano da cui ho preso la frase che fa da titolo al capitolo, come ho detto nel precedente aggiornamento, trattasi della canzone Dolcenera di Fabrizio De Andrè.


Capitolo reinserito il 27\12\2011

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Capitolo 22
*** let my opera begin! ***


 
 Giornata di aggiornamenti in ogni dove!
 Persino la pagina di presentazione dell'autore ho aggiornato!
 Come mai?... Diciamo che è un debole tentativo di reazione all'accidia che mi ha preso in questo periodo. Ma bando alle ciance!

 Giacchè se ne parlava, prima di procedere con il capitolo vi espongo brevemente la mia teoria sull'accoppiata Erik\Christine:
 In realtà io non ho niente contro la donzella (che poi ne parlo male, ma è per scherzare XD), semplicemente credo che la storia sia molto chiara su quali siano le sue inclinazioni sentimentali, lei NON ama Erik, quasi non lo considera nemmeno come "uomo" (nel senso materiale del termine), Christine è legata a lui solo dalla musica ed è solo questo che la affascina e questa è una cosa che si vede ancora più chiaramente nel romanzo che non nel musical. Lei ama Raoul ed è giusto che stia con Raoul, come è giusto che Chirstine e il Visconte si "oppongano" al Fantasma perchè lui ostacola il loro amore (che poi lo facciano in modo da risultare la coppia più odiosa dela storia della letteratura, questo è un altro paio di maniche). Infatti di solito non mi piacciono le fanfiction dove Christine cambia idea e torna da Erik, perchè penso che il personaggio,così come lo vedo io, non lo avrebbe mai fatto. 
 Comunque, questa è solo una mia personale interpretazione della faccenda, del resto storie come il Fantasma dell'Opera sono belle proprio perchè possono essere interpretate in modo diverso ;-)

 @Keyra93: Ribadisco, fosse dipeso da me Chrichri io l'avrei fatta fustigare, ma il mio odio sadico per il personaggio soccombe davanti alle esigenze di trama -.-''
 Per rispondere alla tua domanda sul perchè sto scrivendo una fanfiction su una coppia che non mi piace... si, sono strana, lo so! XD Ma nelle mie overdosi da visione ripetuta del film mi chiesi come sarebbe stato se Christine si fosse innamorata di Erik fin dall'inzio e pensai a questa versione alternativa della storia, poi per non ridurla a una semplice storia d'amore tra i due inventai Alex e Berty per complicare le cose... et voilà!

  @sidney bristow: Guarda... io metterei su una campagna di sensibilizzazzione per invitare la gente a scrivere di più sul Fantasmone, perchè la trovo una storia bellissima e talmente piena di sfaccettature e soggetta a così tante interpretazioni personali che offrirebbe un bel pò di spunti... ma ahimè, qui in Italia non è famosa come all'estero (considerando che nei nostri teatri non è mai arrivato il musical... e il musical come forma di intrattenimento si sta affermando solo di recente nel nostro paese...). Per quel che mi riguarda, faccio quel che posso, sono contenta che a qualcuno piaccia. grazie del commento ^^

 @Amy: Sono d'accordo con te, tra dire e fare c'è di mezzo il mare, tenendo conto anche del fatto che è facile "innamorarsi" di Erik se si pensa alla versione cinematografica di Mr. Butler, credo sia un pò meno facile se si pensa alla versione del film muto del 1925, molto più "Lerouxiana". Ma qui, in questa sezione del sito, è della versione filmica del 2004 che si sta parlando quindi lascio vagare la mia fantasia in quella direzione (sindrome di Peter Pan... non fateci caso). Per inciso, io il romanzo lo odio abbastanza, non come opera letteraria in sè, ma per la morale che suggerisce, l'idea che i buoni debbano vincere perchè sono buoni a prescindere dalla loro vigliaccheria, e che i cattivi meritino il dolore e la sconfitta a prescindere dalle loro motivazioni, da questo punto di vista preferisco il musical, perchè è vero che da troppo spazio alla "romance" ma almeno la storia sembra un pò più "obiettiva". Ma questo è un discorso lungo e complesso... e prima o poi lo scriverò un saggio letterario sul Fantasma dell'Opera (così per diletto da "fan"). PS: Il racconto sui vampiri è molto più che un pensiero, è una discreta quantità di pagine sul mio hard-disck, ma è un lavoretto un pò complesso, che encessita di tempo e spazio mentale, tutte cose che adesso non ho XD  PPS: anche io di solito faccio il tifo per i cattivi... e tendenzilamente sono abbastanza perfida... ma io sono un caso a parte hihihihi :-D

 Avevo detto bando alle ciance eh...
 Mi ritiro in un angolino e vi lascio al capitolo.
 Buona lettura



***********

 CAPITOLO DICIANNOVE

 “... let my opera begin!”

Christine era confusa. Camminava distrattamente lungo il corridoio in direzione della sua stanza.
Erik le aveva detto di assecondare il piano di Bertrand e degli altri, di aiutarli a mettere in scena il suo Don Juan perché aveva in mente qualcosa. Forse era qualcosa di veramente preoccupante o, più semplicemente, lui non era riuscito a resistere alla vanità, alla voglia di vedere la sua opera prendere vita sul palco.
La giovane preferì convincersi che era la seconda motivazione ad essere quella più esatta e pensò che fosse più bello concentrare la sua mente sui ricordi delle ultime ore trascorse piuttosto che su funeste preoccupazioni per i giorni a venire.
Erik l'amava. Non c'era nient'altro che contava in quel momento... nemmeno lo sguardo inquisitorio di Madame Giry che la stava aspettando a braccia conserte sull'uscio della porta della sua camera.
«Lo sai che ore sono?» domandò la donna. Solo allora Christine si accorse che la direttrice del corpo di ballo indossava la veste da camera ed era avvolta in uno spesso scialle di lana nera con ricami dorati.
La ragazza guardò verso le alte finestre del corridoio e vide un cielo blu che da poco aveva cominciato a schiarirsi, si morse il labbro rendendosi conto che stava arrossendo violentemente,
«Io... ehm... mi dispiace» farfugliò imbarazzata.
«Ah, Christine! Sai quanto ho dovuto faticare per tenere Bertrand alla larga dalla tua camera perché non si accorgesse della tua assenza?» borbottò Eloise tentando di non alzare troppo la voce. «Hai idea di quanto la situazione sia tesa in questi giorni e di quanto sia difficile destreggiarmi tra il teatro, quel maledette ispettore, Erik e la sua famiglia tornata a rompere le uova ne paniere?! Hai idea di... di... un momento!». La donna si interruppe sollevando le sopracciglia e corrugando l'ampia fronte. «Un momento! Ma se sono le quattro del mattino e se tu ti stai or ora ritirando... questo vuol dire che hai passato la notte...».
Christine strinse nervosamente un lembo del cappotto tra le mani sudate,
«Sì» sussurrò incapace di alzare lo sguardo mentre sentiva il volto andarle in fiamme per l'imbarazzo.
Madame Giry la fissò incredula per qualche secondo,
«Ma... ma tu...» farfugliò confusa per poi ammutolire.
Se non avesse creduto di poter morire per la vergogna, Christine avrebbe trovato quell'atteggiamento della sua tutrice assai comico, non l'aveva mai vista in difficoltà, non l'aveva mai trova priva della risposta giusta al momento giusto, ma a guardarla così perplessa e stupita avrebbe potuto dire che Eloise Giry era rimasta senza parole per la prima volta in vita sua.
Il fischio del vento fu l'unico rumore che si udì nel freddo corridoio semibuio, poi Eloise tossicchiò e cercò di riprendere il controllo della situazione,
«Forse non è esattamente affar mio, ma cosa è accaduto?» domandò.
Christine ebbe un sussulto, era ovvio che la donna intendesse dire: cosa è accaduto con Erik.
«Beh, io e Erik abbiamo avuto modo di chiarire» disse deglutendo nervosamente. «E lui mi ha assicurato che terrà fede alla promessa fatta di non far del male a nessuno... quindi non dovete preoccuparvi per Alexandre... e poi mi ha chiesto di accettare la parte nella messa in scena del suo Don Juan... e...»
«E?...» la incalzò la donna picchiettando nervosamente un piede sul pavimento. «Aspetta! Aspetta un attimo, che vuol dire che vuole che vuole che tu accetti la parte? Quale messa in scena?!»
«Ma sì... vedete... il suo Don Juan, l'opera che ha composto e che ha fatto avere ai direttori la sera di capodanno, vuole che sia rappresentata qui all'Opera e che io faccia la parte della protagonista. Ah ma non temete, sono certa che è solo per vanità, sapete quanto sia vanitoso rispetto alla sua arte!»
«Sì, ma tu non crederai che sia semplice vanità? Credi davvero che non abbia niente in mente, che non stia architettando una delle sue trovate?»
«Ah, vi prego! Non lo so... ma preferisco pensare che sia così... io vi prego, non confondetemi più di quanto già non lo sia»
«Confusa, e perché mai?» mormorò Eloise con un sorriso furbo.
«Oh, vi scongiuro, non guardatemi così!» squittì Christine scuotendo il capo e coprendosi il viso con le mani.
Eloise provò una stretta al cuore, la fitta di dolore piacevole che sente una madre nel rendersi conto che la sua bambina è diventata una donna. Ristette per un attimo ma poi scosse il capo e guardò Christine con un sorriso colmo di tenerezza,
«Tesoro mio,» le disse avvicinandosi a lei e posandole una mano sulla spalla, «non hai niente di cui vergognarti, se hai fatto ciò di cui eri convinta, spinta da sentimenti sinceri puoi sentirti in pace con te stessa. Lo so che non è quello che una madre dovrebbe dire, che dovrei farti un discorso sulla morale e sull'onore, ma in questo frangente preferisco pensarmi più come un'amica che come una madre, preferisco parlare alla donna che ho davanti adesso e non alla figlia che ho tenuto fra le braccia in passato».
Christine sollevò il capo sbigottita da quelle parole e dal tono soave e sincero con il quale erano state pronunciate,
«Oh Eloise!» esclamò commossa mentre gli occhi le diventavano lucidi. «Eloise, se sapeste quanto lo amo, se ci fosse modo di farlo vedere a voi, al mondo...».
La fanciulla si gettò tra le braccia di Madame Giry e si strinse a lei tremando per l'emozione.
«Ah ma io lo so, lo so quanto lo ami» sussurrò la donna accarezzandole i capelli. «E sono certa che è un amore così grande e puro che risplenderebbe agli occhi del mondo se solo il mondo avesse occhi avvezzi a notare la maestosità delle cose veramente grandi»
«Lo... lo credete davvero?» rispose la giovane.
«Oh sì! Mi dispiace solamente di non essere stata più solerte nell'affrontare certi discorsi con te prima d'ora!» esclamò Madame Giry con una punta di ironia.
Christine ridacchiò tra i singhiozzi flebili, poi si asciugò le lacrime con la manica del cappotto e si staccò dalla donna. Elosie le cinse le spalle con un braccio,
«E adesso, dammi l'illusione che tu sia ancora la mia bambina e lascia che ti metta a letto» concluse spingendo delicatamente Christine verso la sua stanza.

*

Erik finì di dare la cera al suo violino, gettò via il panno lercio con il quale aveva lucidato il legno e ripose lo strumento nella sua custodia.
Aveva suonato per Christine, le aveva fatto ascoltare una melodia che aveva fatto tornare la mente della ragazza a tanti anni prima. Lei non aveva dimenticato quella musica e nemmeno lui. Era stato grazie a quella melodia che l'Angelo della Musica aveva potuto trovare la sua bimba smarrita.
Era accaduto tutto la mattina di Pasqua, quasi dieci anni prima. Il teatro era deserto nei giorni di festa, le ballerine del collegio erano andate via per passare la ricorrenza pasquale con le loro famiglie. Solo lei era rimasta lì, lei che una famiglia non l'aveva più e non aveva altra casa che l'Opera Populaire.
Si era rintanata nella cappella del teatro, aveva acceso una candela davanti alla fotografia di suo padre e aveva pianto. Singhiozzi sommessi e leggeri come il respiro di un anima ferita.
Lui aveva sentito quel pianto fare eco in un cunicolo che passava proprio di fianco alla cappella, il corridoio nascosto che il Fantasma dell'Opera usava per raggiungere indisturbato le cucine del collegio. Aveva sentito quei singhiozzi e lo avevano commosso così tanto che avrebbe potuto giurare che persino le pareti del teatro stessero sanguinando. Aveva sentito il cuore stringersi in una morsa di tristezza ed era stato come scoprire di colpo di essere vivo, di avere un'anima capace di emozionarsi, di provare compassione come quella di qualsiasi altro uomo e non di un essere fatto di nulla e buio come spesso pensava di essere.
Aveva seguito quel suono tanto straziante quanto dolce ed era arrivato in corrispondenza della cappella. Lì nella parete del cunicolo che lo separava dalla stanza, c'era un piccolo foro dove probabilmente era stato fissato il gancio per sostenere qualche lampada e che ora non c'era più. Era da lì che l'aveva vista la prima volta, un esserino avvolto in uno scialle, con i riccioli ribelli che spuntavano dalla cuffia di cotone che serviva a tenerli raccolti.
«Papà,» aveva detto la bambina con voce lamentevole, «papà... perché l'Angelo della Musica non è  venuto da me? Sono forse stata cattiva? Avevi promesso che sarebbe venuto? Perché non è qui con me?...».
Erik aveva deglutito, emozionato dalla tristezza della bimba e allo stesso tempo colpito dal timbro della sua voce delicata e limpida.
«Forse perché non canti mai per lui» aveva detto per poi pentirsi quasi subito di essersi rivelato così stupidamente a quella bambina.
La piccola era sobbalzata e si era stretta nello scialle guardandosi attorno con aria smarrita,
«Chi c'è?...» aveva chiesto con voce spaventata. «Sei tu? Sei l'Angelo della Musica?».
Erik si era morso il labbro pensando che avrebbe fatto meglio a mangiarsi la lingua, a zittire e lasciar credere alla bambina di essersi solo suggestionata. Ma la tentazione era troppo forte... e se le avesse lasciato credere di essere davvero il suo Angelo della Musica? Se così facendo fosse riuscito a insegnarle, a fare in modo che lei manifestasse agli altri il suo genio?
Gli bastò rifletterci pochi secondi. Si disse che poteva valerne la pena, in ogni caso quella bambina non avrebbe potuto nuocergli in alcun modo e anche se fosse andata a raccontare di aver sentito una voce provenire dal nulla, chi mai le avrebbe creduto?
«Sì, sono il tu Angelo e voglio che canti per me» le aveva risposto.
La piccina si era schiarita la voce e si era asciugata le lacrime, poi aveva cominciato a intonare una nenia, una canzone che suonava suo padre sul suo violino. Erik aveva ascoltato attentamente ed era rimasto affascinato dalla sua voce. «Sì, con la giusta istruzione,» si disse compiaciuto, «con i giusti accorgimenti potrà diventare una stella del canto!».
Quando la bambina smise di cantare lui riprese
«Molto bene, hai una voce davvero bella, ma la prossima volta che ti chiederò di cantare non farlo restando seduta lì per terra» asserì. «Devi stare diritta e mantenere una certa posizione perché la voce esca perfetta senza toglierti il fiato».
Lei si guardò attorno sforzandosi di individuare il punto da cui proveniva la voce,
«Ma dove sei, Angelo?» chiese.
«Non c'è bisogno che tu mi veda per ora. Ma se vorrai, io ti insegnerò a cantare, ti insegnerò come diventare una grande artista, vuoi?»
«Sì... era quello che diceva sempre anche il mio papà»
«Molto bene, allora ascoltami con attenzione» disse la voce. «Ogni giorno verrai qui, un'ora prima di cena, e io ti insegnerò, ma bada, dovrai essere molto molto attenta»
«Lo sarò, promesso... ma tu canterai per me?» domandò la piccola.
Erik sorrise tra sé e sé,
«Tutte le volte che vorrai» concluse.

Era stato tanto tempo fa, eppure quell'attimo era rimasto impresso nitidamente nella memoria di entrambi. Era stato il primo istante di un sogno, di una fiaba che aveva illuminato le loro esistenze fino a quel giorno, fino a quando tutto non era esploso in quella meraviglia di cui solo l'amore riesce a rivestire le cose.
Erik non aveva dimenticato quella canzone e l'aveva suonata per lei tante volte, ogni volta che la sua bimba smarrita aveva avuto bisogno di ritrovare il sorriso e di sentirsi meno sola. E quel giorno, mentre l'alba sorgeva pigra su Parigi, l'aveva suonata ancora una volta, per ricordarle che non l'avrebbe mai lasciata e che sarebbe sempre stato fiero di averla al suo fianco. La sua Christine si era commossa e gli si era gettata tra le braccia per lasciare che lui l'amasse ancora, per fargli capire quanto profondamente gli apparteneva e quanto la sua vita fosse così irrimediabilmente intrecciata a quella di lui.  
Era tornato alla Dimora sul lago dopo averla riaccompagnata al teatro, prima di lasciarla le aveva raccomandato di fare tutto ciò che le aveva spiegato, esattamente come lui le aveva suggerito. Poi l'aveva baciata e aveva sentito il cuore stringersi quando l'aveva vista allontanarsi lungo il corridoio.  Infine, una volta tornato nel suo rifugio, aveva lasciato cadere il mantello sullo schienale di una sedia e si era buttato sul letto. Si era addormentato quasi di colpo, cullato dai sogni più dolci di cui le lenzuola del suo letto avevano ancora il sapore.

*

Alexandre osservava le facce dei direttori del teatro segnate da grosse occhiaie livide e dai segni evidenti della stanchezza. Il giornalista aveva la netta sensazione che l'aspetto di Andrè e Firmin non fosse dovuto alle notti brave trascorse in compagnia di qualche sedicente ballerina ma piuttosto alla preoccupazione per la sorte del loro teatro e dei loro investimenti in quella nuova attività che si stava rivelando nient'altro che una fonte di guai.  
«Forse è il caso che cominciamo a fare due conti...» squittì Andrè in tono rassegnato. «Se vendessimo il teatro adesso, magari la perdita non sarebbe così grave, i danni potrebbero ancora essere contenuti».
Firmin lanciò un'occhiata scettica all'atto di vendita dell'Opera Populaire che il suo socio aveva tirato fuori dal cassetto della scrivania e si lasciò scappare una risata stizzita,
«Sì, e chi pensi che lo comprerà mai un teatro infestato da un Fantasma che ammazza i macchinisti e aggredisce le ballerine?» borbottò bieco.
Alexandre si massaggiò la nuca e sospirò,
«Beh se si riuscisse a dimostrare che non è stato il Fantasma ad aggredire Josephine...» suggerì con vaghezza.
«Quale altra fantasia vi sta ronzando in mente, Dubois?!» si lamentò Andrè scuotendo la testa.
«È solo un'ipotesi, come dicevo ieri al mio collega» precisò il ragazzo facendo un cenno verso Bertrand. «Se si sapesse che il Fantasma dell'Opera è meno pericoloso di quanto si crede, la reputazione del teatro si salverebbe, non credete?»
«In ogni caso,» si intromise Raoul, «vendere il teatro adesso sarebbe un grosso spreco, non solo di capitali, ma anche di energie... tutto il lavoro fatto fin'ora per catturare il Fantasma sarebbe vano»
«Almeno non sarebbe più un nostro problema» blaterò Firmin lisciandosi i folti baffi brizzolati.
Alexandre sorrise quasi divertito dalla mancanza di fegato dei due impresari,
«Beh, forse se ragioniamo insieme, riusciremo a trovare una soluzione» asserì Bertrand. «Anche se la mia idea resta sempre quella di tentare di mettere in scena l'opera del Fantasma, con o senza mademoiselle Daae»
«E, di grazia, monsieur, nella vostra infinita arguzia, potreste dirci anche dove prendere i soldi per mettere in scena un simile spettacolo?» sbuffò Andrè.
«Io sarei disposto a finanziarlo» mormorò il visconte. «Ma senza Christine Daae temo sia inutile».
In quel preciso momento una leggera bussata di porta interruppe la conversazione tra i cinque uomini.
«Avanti...» disse Firmin massaggiandosi la tempia.
«Lupus in fabula» mormorò impercettibilmente Bertrand quando vide Christine comparire sulla soglia dell'ufficio.
«Buon giorno, signori» disse la giovane avanzando timidamente mentre gli occhi dei cinque uomini si posavano su di lei.  
«Mademoiselle, cosa possiamo fare per voi?» domandò Firmin contraddicendo quelle parole gentili con un tono piuttosto brusco.
l giovane si lasciò cadere sulla sedia e si stropicciò il viso con le mani con aria affranta,
«Perdonatemi, signori, ma io avevo assoluto bisogno di parlavi» esordì con un tono di voce vagamente addolorato. «Il visconte, che certo ha di me una stima più alta di quanto io meriti, mi aveva parlato di una vostra idea per catturare il Fantasma, un'idea che si sarebbe potuta attuare solo attraverso la mia complicità».
Andrè e Firmin deglutirono nervosamente, Alexandre e Raoul guardarono la ragazza con aria stupita e Bertrand socchiuse gli occhi nel tentativo di contenere un sorriso compiaciuto indovinando già cosa la giovane stesse per dire.
«Ebbene, io per paura mi sono rifiutata di assecondare quella che a me sembrava una follia e anche piuttosto pericolosa per la mia incolumità e forse non solo per la mia! Ma in questi giorni ci ho pensato molto e ho capito che non c'è altra soluzione e che anche io devo fare la mia parte per restituire a questo teatro la  serenità che gli è stata tolta e...» la sua voce si incrinò leggermente mentre cercava di riprendere fiato.
«Sì?...» la incitò Andrè sporgendosi verso di lei quasi stendendosi sul piano della scrivania.
«E... assicurare alla giustizia quel criminale che ha ferito troppo profondamente ciò che amo» concluse lei.
Un silenzio pesante piombò sulla stanza mentre gli uomini si guardarono in viso l'un l'altro, ognuno mosso da sentimenti diversi.
«State dunque dicendo che siete disposta ad esibirvi in un eventuale messa in scena dell'opera del Fantasma per tendergli una trappola e lasciare che venga catturato?» esclamò Bertrand.
Christine nascose i pugni stretti per la tensione tra le pieghe della gonna,
«È quello che ho appena detto» concluse accennando un sorriso incerto.
«Beh direi che è... una cosa... positiva, no?» farfugliò Andrè pregustando i vantaggi che una simile prospettiva sembrava offrire.
«Se lo dite voi!» borbottò Alexandre scrollando le spalle.
Christine gli rivolse uno sguardo interrogativo mentre Bertrand le piombava alle spalle,
«Monsieur Dubois ha delle piccole divergenze di opinione con noi altri» spiegò l'investigatore. «Ma voi avete dato prova di grande coraggio accettando di prestarvi a una simile impresa»
«Che noi faremo in modo che non si riveli dannosa per l'incolumità di nessuno, meno che mai per la tua» aggiunse Raoul in tono severo lasciando intendere che quelle parole fossero più un monito per i suoi interlocutori che non una rassicurazione per Christine.
«Sto solo cercando di fare quello che credo giusto» rispose lei.
«E noi siamo onorati di ricevere la vostra collaborazione» le disse Firmin mettendo su il suo sorriso migliore.
«Bene, signori, attendo le vostre istruzioni, ritenetemi a vostra totale disposizione» concluse la giovane alzandosi e apprestandosi a uscire.
Bertrand le posò una mano sulla spalla e strinse leggermente la presa mentre le si affiancava,
«Non temete, mademoiselle, vi terrò d'occhio» le sussurrò in un sibilo talmente agghiacciante che non fu difficile per lei indovinare che si trattava di una minaccia e non di una rassicurazione.
Alexandre osservò sbigottito mademoiselle Daae uscire dall'ufficio e si riscosse solo quando Raoul gli pestò un piede mentre gli passava davanti.
«Non dobbiamo perder tempo, dobbiamo cominciare subito ad allestire questo spettacolo» esclamò il visconte. «Io vado immediatamente alla gendarmeria a parlare con il capitano...»
«Fermi, fermi tutti, signori!» esclamò Bertrand. «Prima di cominciare ad allestire lo spettacolo e dare l'annuncio di una nuova rappresentazione qui all'Opera, è giusto che si calmi il vespaio che l'aggressione della ballerina ha suscitato, ora come ora, nessuno avrà una gran voglia di venire qui a teatro o di interessarsi agli spettacoli»
«Sarà un'ulteriore tragedia per le nostre finanze continuare a tenere l'Opera Populaire ferma per altre settimane...» esordì Andrè.
«... ma monsieur Bertrand non ha tutti i torti. Se questa cosa deve essere fatta, allora che la si faccia come si deve!» concluse Firmin seguendo i pensieri del suo socio. «Quando ci saremo liberati del Fantasma avremo tutto il tempo di risollevarci finanziariamente»
«Dunque ora, tornate a casa e dormite sonni tranquilli, l'ora della nostra rivalsa si avvicina». Detto ciò Bertrand si avvicinò ad Alexandre, e gli mormorò all'orecchio, «E così il nostro piccolo usignolo ha il cuore spezzato, buon per noi» commentò sarcastico.

Idiota! Lei non lo sta tradendo, lo sta aiutando!

«Idiota!» pensò il giornalista allontanandosi da lui e dirigendosi frettolosamente fuori da quell'ufficio.

Christine voltò l'angolo del corridoio e si poggiò con le spalle contro il muro, tirando un sospiro di sollievo. Era stata convincente, aveva fatto proprio come Erik aveva detto: era riuscita a far credere a quegli uomini, e soprattutto a Bertrand, che lei era adirata con il Fantasma e che aveva intenzione di vendicarsi. Aveva fatto credere di essere loro complice e si era riconquistata la loro fiducia. Ora non restava altro che aspettare.
La ragazza non aveva considerato che Erik aveva voluto che lei facesse tutto ciò anche per un altro motivo: se loro l'avessero creduta disposta ad aiutarli a incastrare il Fantasma e se le cose si fossero messe male per lui nessuno avrebbe potuto accusarla di essere in combutta con quello che tutti ritenevano un criminale.
Christine si era limitata a fare solo ciò che Erik le aveva chiesto, in nome della fiducia cieca che riponeva nell'uomo che amava, senza pensare alle conseguenze che si sarebbero potute verificare se qualcosa fosse andato storto.
Erik non le aveva detto cosa aveva davvero intenzione di fare una volta che la sua opera fosse stata messa in scena, ma soprattutto, né lui né la fanciulla potevano immaginare di star andando entrambi incontro alla tragedia, perché nei suoi calcoli, nemmeno un individuo scaltro come il Fantasma dell'Opera aveva considerato la furia cieca di chi si era posto uno scopo ed era pronto a tutto pur di raggiungerlo.

«Christine!» un'esclamazione improvvisa fece sobbalzare la ragazza che se ne stava ancora lì appoggiata al muro.
«Alexandre! Mi avete spaventata» disse lei con il fiato corto.
«Cosa avete in mente, Christine? Cosa state facendo?» borbottò il ragazzo.
«Sto semplicemente collaborando»
«Certo, ma non con noi! Dopo ciò che ci siamo detti, dopo aver capito che non è stato il vostro Erik ad aver aggredito Josephine siete certamente tornata da lui. Dunque è per lui che vi siete prestata a questa pazzia, non è così?»
«Alexandre... vi prego, non giudicatemi male» sospirò la giovane.
«Io non vi sto giudicando! Non capite? Io sto cercando di proteggervi... di proteggere tutti, a dire il vero, insomma... il maggior numero di persone possibili» replicò il giornalista.
Lei sorrise,
«Lo so, lo so, amico mio. E credetemi, io sto facendo altrettanto»
«Dite? Ma vi rendete conto di che pazzia è mettere in scena quella rappresentazione?» borbottò lui. «E vi rendete conto che... Erik, Dio, non mi abituerò mai a pronunciare questo nome! Vi rendete conto che lui non può certo essere protetto in un teatro colmo di gendarmi pronti a sparargli a vista e con Bertrand che gli caverebbe volentieri il cuore dal petto a mani nude?»
«E voi non vi rendete conto che finché rimaniamo in questo teatro, non sono né i gendarmi né tanto meno Bertrand ad avere il coltello dalla parte del manico»
«Santo Cielo! Christine, vi prego, ragionate... io sto solo cercando di dirvi che non voglio che nessuno si faccia male, meno che mai voi e chi vi sta a cuore... chiunque esso sia» concluse il giovane con un sorriso stanco.
La ragazza provò così tanta tenerezza per lui che dovette fare un grosso sforzo per resistere all'impulso di accarezzargli la guancia. Ah, se solo lui e Erik avessero potuto sapere la verità, probabilmente si sarebbero stimati a vicenda, sarebbero riusciti persino ad amarsi come fratelli!
«Oh, Alexandre, non sapete quanto le vostre parole mi facciano bene, ma devo chiedervi di fidarvi di me come io mi sono fidata di voi» gli disse.
Lui la fissò intensamente per qualche secondo,
«E di lui? Posso fidarmi di lui?» domandò.
«Voi pensate a tenere a bada Bertrand. A Erik ci penso io» concluse Christine rivolgendogli un ultimo sorriso prima di voltarsi e andare via.    


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Capitolo reinserito il 28\12\2011

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Capitolo 23
*** Nuvole basse ***


Ringrazio Dance per avermi segnalato che questo capitolo era mancante. Lo avevo postato all'epoca, ma non so come si era cancellato (forse un mio errore, forse un errore del server...). In ogni caso lo reinserisco oggi (20\12\2011) riveduto e corretto. 

CAPITOLO VENTESIMO
Nuvole basse

Erano trascorse due settimane di quella che sembrava essere calma piatta. La calma apparente di sabbie mobili pronte a risucchiare il suo mondo.
Erik aveva sentito le ore, i giorni scivolargli via dalle mani come acqua mentre disponeva tutto per la sua ribalta e spiava cautamente i preparativi per la messa in scena della sua opera che i direttori avevano cominciato ad allestire, seguendo con estrema precisione le sue indicazioni. I sarti stavano realizzando i costumi secondo i modelli che aveva fatto recapitare ad Andrè e Firmin, gli scenografi stavano costruendo le scenografie che lui aveva personalmente disegnato: un inferno di cartapesta, specchi e legno.
Lo spettacolo sarebbe stato pronto entro un mese ma i direttori non avevano ancora deciso quando proporlo al pubblico. L'ombra scura che i tragici avvenimenti di Capodanno avevano gettato sul teatro sembrava ancora avvolgere l'Opera Populaire quasi sbiadendo la luminosità dei suo stucchi, rovinando la seta dei suoi tendaggi e lo splendore dei suoi marmi.
Il Fantasma dell'Opera aveva deciso e organizzato ogni cosa nei minimi dettagli, ma non sapeva ancora cosa avrebbe fatto dopo. Non si era mai dato troppa ansia per il suo futuro, ma quella mattina, osservando Christine che riposava tranquilla, avvolta tra le lenzuola, si ritrovò a pensare che doveva cominciare a costruire tutte le certezze che non aveva mai avuto. Avrebbe voluto vederla sempre così, serena, placida e meravigliosamente sua...
La fanciulla si mosse senza svegliarsi, girandosi su un fianco e cercando nel sonno l'uomo che non era più steso accanto a lei.
Erik scrisse rapidamente un biglietto per i due impresari, ordinando perentoriamente che uno dei violinisti dell'orchestra venisse sostituito perché troppo vecchio.
Nel frattempo Christine si svegliò, rimase qualche minuto a letto crogiolandosi nelle sensazione piacevole del caldo sotto le coperte e del profumo delle erbe aromatiche lasciate a bruciare nel braciere sul pavimento di pietra, poi si alzò avvolgendosi in una vestaglia.
Erano bastati pochi giorni perché l'intesa tra lei e Erik divenisse perfetta, tanto da non provare più alcun imbarazzo, alcuna ritrosia, alcuna incertezza: la perfezione che hanno tutti gli amori appena nati, destinata a consolidarsi o a sfumare con il tempo. Ma per loro quell'amore sembrava essere l'unico destino possibile da vivere, anche se il loro orizzonte era denso di nuvole basse e di miraggi che avrebbero richiesto enormi sforzi per essere tramutati in realtà.
La ragazza raggiunse Erik chino sul suo scrittoio. Lui non l'aveva messa a parte dei suoi piani, non di ogni cosa almeno, perché se lei avesse saputo cosa davvero stava tramando non lo avrebbe assecondato in quella che certamente le sarebbe sembrata una pazzia troppo rischiosa.
L'uomo le cinse la vita esile con un braccio e la strinse a sé appoggiando il capo sul suo petto, la ragazza gli accarezzò i capelli e sospirò,
«Devo andare...» disse in tono triste. Lui non rispose, lo sapeva già.
Ci sono sogni contemplati con così tanto ardore, con così tanta insistenza da sembrare delle vere e proprie premonizioni. Ogni volta che lei lo lasciava per tornare ai piani superiori, Erik immaginava un futuro in cui avrebbero avuto una casa, una famiglia, una vita propria da costruire. E ci pensava così intensamente da credere che il sogno si sarebbe avverato già il mattino seguente. Ma ogni giorno rotolava pigro verso un domani sempre uguale, spingendo la felicità completa sempre un po' più lontano della sua portata.
«Domani andrà meglio...» pensò l'uomo, anche quella mattina.

*

La corda tirata troppo a lungo si era spezzata.

No, non adesso, maledizione!

Madame Giry prese un grande respiro e si impose di continuare a camminare. Si tastò il petto tracciando con la punta del dito la forma del crocifisso del rosario di perle che portava all'interno del corsetto: Dio non poteva abbandonarla proprio ora.
Si appoggiò al muro e continuò a mandare faticosamente un piede avanti all'altro.

Devo solo stendermi. Devo solo riposare.

Mancavano pochi metri per raggiungere la porta della sua stanza eppure il corridoio sembrò dilatarsi davanti ai suoi occhi mentre la vista le si appannava. Fece ancora qualche passo sempre più traballante su gambe sempre più malferme.
Un'improvvisa vampata di calore le salì dal petto al volto con una scia di rossore che si stendeva dalla scollatura del corsetto fin sopra alle gote che un attimo dopo sbiancarono di colpo.
Le ginocchia le cedettero come cardini troppo usurati e lei non sentì altro che il ronzio del suo respiro affannato nelle orecchie mentre cadeva sul pavimento. Poi fu solo il buio, lampi strani che fluttuavano dietro le sue palpebre serrate e poco dopo la voce lontana, lontanissima, di una ballerina che la chiamava in tono agitato. La sua mente rispose, i suoi pensieri dissero che andava tutto bene, ma le parole non presero forma sulle sue labbra smunte, il suo corpo non si mosse, rigido e inerme sul pavimento.

*

Christine cercava di scacciare la preoccupazione del futuro beandosi della gioia del presente, del profumo di Erik sulla sua pelle, del ricordo della notte appena trascorsa tra le sue braccia. Ogni mattina, molto presto, sgusciava via dalla Dimora sul Lago e tornava nei suoi alloggi. Nessuno se ne era mai accorto, persino Bertrand ormai aveva smesso di darle il tormento visto che con quell'ultima recita nell'ufficio dei direttori si era guadagnata l'approvazione di quell'uomo tanto detestabile che aveva smesso di sospettare di lei.
Alexandre invece le era parso inquieto e ansioso. In quelle due settimane le aveva chiesto più volte di fargli incontrare Erik ma lei si era sempre rifiutata. Temeva che lui avrebbe potuto considerarlo un tradimento, un azzardo troppo grande e troppo rischioso per la sua sicurezza, e allo stesso tempo temeva che vedendoli insieme non sarebbe più stata in grado di mantenere il segreto che ancora non poteva essere rivelato. Quel segreto al quale cercava di non pensare perché per il suo giovane cuore diventava più pesante e spinoso giorno dopo giorno.
La fanciulla raggiunse la sua stanza e sgattaiolò prudentemente dentro, fece una rapida toiletta e pensò che avrebbe potuto riposare ancora un paio d'ore.
Si era appena sistemata i capelli quando qualcuno bussò violentemente alla sua porta,
«Christine! Apri, Christine!» esclamò la voce sottile e agitata che la fanciulla riconobbe essere quella di Cloudine, una sua compagna del collegio. Le aprì la porta e la scrutò perplessa,
«Cosa c'è?» le chiese preoccupata notando che il viso lentigginoso della sua coetanea era arrossato per l'agitazione e gli occhi erano lucidi di pianto.
«Meg mi ha chiesto di chiamarti...» spiegò la ballerina concitata. «Madame Giry... ha avuto un malore, poco fa... non si è ancora ripresa».
Christine sussultò. La notizia fu come uno schiaffo in pieno viso per lei. Si precipitò fuori dalla stanza insieme alla sua compagna e corse agitata verso la stanza di Eloise.
Aprì la porta con una spinta sgraziata e vide la donna esanime stesa nel suo letto, con Meg seduta al suo capezzale che tentava disperatamente di trattenere le lacrime mentre era circondata dalle altre ballerine che cercavano di rincuorarla con frasi di circostanza mormorate a mezza voce.
La fanciulla bionda teneva il capo sollevato, le spalle ritte contro lo schienale della sedia, nella stessa posa dignitosa e sicura propria di sua madre. Anche in quel momento era chiaro quanto si somigliassero, quanto fossero entrambe forti e decise, pronte ad affrontare il mondo a testa alta anche nei momenti più difficili.
Eloise era sempre stata una specie di roccia a cui tutti si erano aggrappati nei nei loro momenti peggiori, e adesso vederla in quel letto fu per Christine un vero colpo al cuore. Una certezza che credeva essere dura come il diamante si era infranta come un cristallo che aveva rivelato tutta la sua fragilità e il mondo della giovane sembrò vacillare davanti a quella scoperta: nessuno è invincibile.
La fanciulla abbracciò Meg e le fece posare la testa sulla sua spalla. Anche se non erano consanguinee, le due giovani erano come sorelle, entrambe legate a quella donna dallo stesso immenso e incondizionato affetto filiale.
«Abbiamo già mandato a chiamare il dottore,» disse la ragazza bionda con la voce incerta per il pianto che minacciava di tracimare oltre i suoi begli occhi nocciola, «ma tu... dov'eri? È un bel po' che non riuscivano a trovarti»,
Christine si morse il labbro sentendosi colpevole ed egoista. Così presa dal suo mondo e dalle sue nuove esperienze sembrava essersi dimenticata degli altri. Si rimproverò di non essere stata abbastanza attenta da notare quanto la stanchezza e le preoccupazioni avevano provato l'anima forte di Eloise che infine era giunta al limite e aveva ceduto.
Il dottore giunse dopo una decina di minuti, fece annusare alla donna il contenuto di un fiala e lei sollevò debolmente le palpebre, riacquistando con lentezza coscienza del mondo attorno a sé, della sua stanza, del volto di Christine chino su di lei, della mano tremante di sua figlia stretta attorno alla sua.
«È stato un collasso» concluse il dottore. «Niente di cui preoccuparsi, ma deve stare a riposo per i prossimi giorni. Cercate di tenerla lontana da affanni e preoccupazioni, un altro colpo del genere potrebbe non essere così innocuo»
«Toccherà legarla al letto!» borbottò Meg pensando al carattere ostinato di sua madre, alla stessa testardaggine che faceva parte anche del suo modo di essere.
«Staremo molto attente» rispose Christine ringraziando il medico e accompagnandolo verso l'uscita.
Per quel giorno Eloise rimase a letto. Mangiò poco e non disse nulla, ma dietro ai suoi occhi stanchi si celavano un'infinità di pensieri che avrebbero continuato a strapazzarle il cuore finché tutti i problemi che circondavano lei e le persone che le stavano care non si sarebbero appianate.

*

Quella notte Christine non andò a far visita a Erik. Si incontrarono furtivamente nel pomeriggio, mentre lei tornava dalla sartoria dove era stata a farsi prendere le misure per il costume che avrebbe dovuto indossare per il Don Juan Trionfante. Lei gli aveva raccontato cosa era accaduto quella mattina ad Eloise e gli aveva detto che quella notte sarebbe rimasta a vegliare su di lei per permettere a Meg di riposare e di riprendersi dallo spavento.
Durante il pomeriggio Alexandre e Raoul erano stati a far visita a Madame Giry per informarsi della sua salute, poi erano tornati ad occuparsi ognuno dei loro affari.
Con il Fantasma dell'Opera che pareva essersi rabbonito e con Eloise allettata, il teatro sembrava essere una grossa carcassa di marmo e velluto priva di anima, anche se nessuno sembrava disposto ad ammetterlo.

La mattina seguente Christine lasciò la stanza di Eloise che aveva riposato tranquillamente tutta la notte e che aveva riacquistato colorito.
La fanciulla si recò nella sua camera e si vestì per uscire. Indossò un pesante mantello di seta scura e prese un mazzo di fiori che qualcuno aveva lasciato in un vaso, dopodiché scese nelle stalle.
In mezzo a tutto quel trambusto si erano tutti dimenticati che quello era il giorno del suo compleanno.
La giovane pagò un cocchiere con una manciata di monete mentre il sole non ancora del tutto sorto colorava il cielo di Parigi di riflessi rosati nascosti da una fitta foschia.
«Alla tomba di mio padre, per favore» disse la ragazza salendo sul calesse e stringendosi un po' più forte nel mantello per proteggersi dal freddo pungente.
La strada di campagna che portava al cimitero poco fuori il centro cittadino era piena di pozzanghere e sterpaglie ricoperte di brina. La foschia serpeggiava sulla ghiaia dando l'impressione che che ogni cosa fosse sospesa da terra, persino il calesse di legno lucido e nero sembrava fluttuare percorrendo sentieri immaginari nell'aria.
Il cocchiere si fermò davanti a un grande cancello di ferro arrugginito.
«Vi aspetto sotto a quegli alberi, mademoiselle» disse mentre la ragazza scendeva, poi si allontanò   con le ruote che cigolavano sulla ciottolato.
Christine percorse le vie delimitate da lapidi e monumenti funebri pensando che al mondo esistevano anime troppo luminose e colorate per riposare in un posto tanto tetro. Suo padre era una di queste.
Il mausoleo dove riposava Gustave Daae era una costruzione squadrata di mattoni con il tetto a spiovente, chiusa da una grata di ferro battuto e preceduta da una scalinata di pietra. Era privo di statue e ornamenti, solo una scritta con il cognome del musicista in lettere in bassorilievo campeggiava sulla facciata spoglia.    
Christine mise i fiori in un vaso che appoggiò davanti al cancello e si inginocchiò a terra a pregare.
Pregò così intensamente da non sentire il tempo trascorrere e il freddo quasi la stordì avvolgendola in un bozzolo che sembrava tenerla separata dal mondo.
Fu solo quando sentì il suono di un violino che la giovane si scosse. Non riuscì a individuare il punto da cui proveniva la musica, per un attimo pensò persino di essersi suggestionata. Chi poteva mai essere lì nascosto a suonare per lei?

Erik...

«Erik...» mormorò la giovane mentre sulle sue labbra affiorava un sorriso intenerito.
Il suo Angelo della Musica, il suo più caro amico e il suo unico amore era lì a suonare per lei la musica di suo padre: non avrebbe potuto ricevere regalo di compleanno più bello.
Non voleva nemmeno che lui si mostrasse, voleva che le lasciasse l'illusione che quella musica fosse una magia scesa dal cielo solo per lei.
La fanciulla chiuse gli occhi rapita da quella melodia, dalle sensazioni dolci che le suscitava, ma all'improvviso una voce tuonò tra la nebbia strappandola a quella magia,
«Christine!» qualcuno gridò il suo nome e la musica cessò di colpo.
La ragazza sobbalzò e si voltò per vedere Alexandre che avanzava rapido verso di lei. Quasi non fece in tempo a riconoscerlo che una figura ammantata di nero si calò giù dal tetto della cappella e le piombò davanti nascondendole la sagoma del giornalista che stava per raggiungerla.
Christine riconobbe il profilo di Erik in piedi, di spalle davanti a lei che sguainava una spada con un ruggito rabbioso.
«No...» mormorò la ragazza talmente colta di sorpresa da non riuscire a muoversi.
«Maledetto ficcanaso» sibilò Erik mentre il vento freddo gli gonfiava il mantello.
La giovane si sporse appena oltre la sua spalla per vedere che Alexandre si era fermato ai piedi della scalinata,
«Aspettate» disse guardando il Fantasma con aria ferma ma conciliante. «Voglio solo parlarvi. Non siete così crudele da combattere contro un uomo disarmato, vero Erik?».
Il Fantasma vacillò. Gli faceva sempre uno strano effetto sentir pronunciare il suo nome da qualcuno tanto era disabituato ad ascoltarlo. Sentirsi chiamare per nome da qualcuno gli dava l'illusione di essere parte del mondo come qualsiasi uomo normale, tuttavia si chiese come faceva quel ragazzo a sapere come si chiama e si voltò verso Christine guardandola stupito e leggermente contrariato.
«Erik, ti prego...» sussurrò lei.
«Cosa vuoi?» borbottò verso il ragazzo senza che la sua espressione minacciosa si addolcisse e senza abbassare la spada.
Alexandre si tenne cautamente a distanza, tuttavia lo guardò diritto negli occhi.
«Voglio sapere cosa state architettando» disse.
«Ero convinto che tu fossi coraggioso ragazzo, ma adesso devo dedurre che sei completamente pazzo» rispose l'altro.
«Forse, ma non sono l'unico» replicò il giornalista con una nota di velata ironia nella voce.
Erik restò a guardarlo incredulo. Era davvero coraggioso e sprezzante. Ed era stato onesto, in un certo senso: avrebbe potuto portarsi dietro Bertrand o dei gendarmi ma non lo aveva fatto. Era stato onesto o forse incauto perché, se non fosse stato per Christine, Erik lo avrebbe ucciso senza pensarci nemmeno un attimo. Quel ragazzo lo metteva a disagio, il disagio di un cuore che ha vissuto la sua intera esistenza nella paura e si ritrova davanti a uno spirito capace di non lasciarsi intimorire. Perché Alexandre aveva avuto paura, ma non aveva mai permesso che la paura lo allontanasse dai suoi scopi.
«Quali che siano le mie intenzioni, non ti riguardano» concluse il Fantasma abbassando la guardia mentre Christine tratteneva il respiro.
«Perché siete così convinto che al mondo non c'è nessuno che possa comprendervi?» insistette Alexandre.
«Proprio tu me lo chiedi? Tu che mi stai braccando come un cane in casa mia!» esclamò Erik.
«Io sto solo cercando la verità»
«La verità? Ah, per voi altri la verità è solo ciò che volete vedere. È facile gridare al mostro quando  qualcuno non vede le stesse cose che vede la gente»
«Voi non siete un mostro». Il ragazzo scandì la frase lentamente, contro il vento gelido e contro lo sguardo del suo interlocutore fermo nel suo.
«Se lo credi davvero, Alexandre, lasciami in pace. Lo dico per il tuo bene» concluse il Fantasma con la voce incrinata dallo stupore che cercava di non far trapelare.
I due rimasero a fissarsi per lunghi secondi, come a tentare di scandagliare l'uno i pensieri dell'altro per tentare di capire quale strana alchimia li faceva sentire così vicini nonostante fossero nemici, poi Christine avanzò timidamente accanto a Erik e gli posò la mano sul braccio.
«Forse dovresti ascoltarlo» gli mormorò. «Provare a fidarti di lui. Lui è...»
«Che cosa?»
«È una brava persona».
Erik sospirò e scese le scale rinfoderando la spada. Si fermò accanto al ragazzo e si voltò a guardarlo,
«L'unica verità è che voglio vivere la mia vita, Alexandre» dichiarò con voce ferma. «E sono disposto a tutto per riuscirci».
Ciò detto il Fantasma si allontanò a grandi passi, il suo mantello continuò a frusciare tra il nevischio e la nebbia mentre la sua imponente figura veniva avvolta dalla foschia per poi sparire come se la sua presenza fosse stata solo l'illusione di pochi minuti.  

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Capitolo 24
*** Il Don Juan ***


Ci ha provato un autista modenese a mettermi sotto, ma non sono morta...
 Qualcuno avrà pensato che fossi scappata ai Caraibi, qualcuno avrà creduto che finalmente mi avessero internata, e invece no. Sono semplicemente stata sommersa da studio, lavoro, rogne burocratiche e analisi mediche tutte insieme.
 Rimando le risposte alle recensioni al prossimo aggiornamento (che spero avvenga prima del 2012 perchè sarebbe un peccato non arrivare in tempo a postare i capitoli conclusivi del delirio), intanto ringrazio tutti i seguaci, segugi e seguitori di questa storia ^^

***************

CAPITOLO VENTUNESIMO
il Don Juan

Alla donna la scena parve piuttosto insolita eppure il suo cuore fu avvolto da un'ondata di tenerezza. Eloise guardava Erik e Christine al suo capezzale, la ragazza seduta sul bordo del letto e l'uomo in piedi accanto a lei, come una coppia di sposi andati a far visita a una vecchia amica. Due anime incapaci di stare lontane, incapaci di respingersi anche se dai loro volti era chiaro che era successo qualcosa.
«Vi prego, non ne posso più di vedere musi lunghi» borbottò Madame Giry massaggiandosi le tempie.
«E io non ne posso più di vedere certe facce in giro mentre sono per i miei affari» replicò Erik brusco lanciando un'occhiata severa verso Christine.
«Ma di cosa stai parlando?» domandò Eloise corrugando la fronte.
La fanciulla seduta sul letto sospirò
«Ero andata al cimitero a far visita alla tomba di mio padre, ieri» spiegò scrutando ansiosa il volto della donna. «Erik era con me, poi è arrivato Alexandre».
Madame Giry sussultò, lei e Christine si scambiarono una rapida occhiata mentre Erik sbuffava,
«Quel ragazzo ficcanaso ha delle vere e proprie manie di persecuzione!» esclamò con un gesto stizzito.
«Senti chi parla!» gli fece eco la donna rimediandosi un'occhiataccia.
«È così testardo, così ostinato!» proseguì lui. «Ma a quanto pare Christine si fida ciecamente, dico bene? Sa persino come mi chiamo!»
«Sarò pure libera di agire come meglio credo, di pensare con la mia testa e di accordare la mia fiducia a chi mi pare!» replicò la giovane.
Madame Giry ridacchiò tra sé e sé piacevolmente sorpresa di vedere la sua bambina così decisa e battagliera anche alle prese con Erik.
«Non quando riguarda anche me! Potevi almeno mettermi a parte di questa tua... concessione di fiducia!» borbottò lui.
«Non ti ho mai nascosto la mia stima per Alexandre, anzi ti ho sempre incoraggiato a provare considerarlo sotto una luce diversa. Ma se trovi che lui sia ostinato e testardo, tu non sei da meno!»
«Adesso trovi anche che mi assomigli?!»
«Trovo che talvolta dovresti sforzarti di guardare un po' più in là del tuo naso» concluse Christine.
«Non c'è niente di più genuino di due innamorati che bisticciano!» commentò Eloise sinceramente divertita, anche se l'ultimo commento di Erik sulla somiglianza con  Alexandre le aveva fatto saltare un battito.
Christine sospirò,
«Il dottore ha detto che non devi agitarti, e noi siamo qui a punzecchiarci come due ragazzini» mormorò dispiaciuta, poi allungò la mano a prendere quella di Erik in una tacita di richiesta di tregua, l'uomo ricambiò la sua stretta e la fissò per qualche secondo.
«Preferirei agitazioni come questa ogni giorno» rispose Eloise, «piuttosto che un altro tipo di pensieri. Erik...»
«Sì?».
Madame Giry si morse il labbro come se volesse trattenere le parole che davano voce a una riflessione che ormai contemplava da diverso tempo ma che aveva sempre avuto paura di esprimere. Avrebbe fatto male ad Erik ascoltare quelle parole, così come faceva male a lei pronunciarle,
«Io credo che tu te ne debba andare» concluse quasi a fatica, girando il volto in direzione del muro accanto al letto, incapace di sostenere lo sguardo dell'uomo.
«Come puoi dire una cosa del genere? Proprio tu!» esclamò lui mentre Christine lo implorava con lo sguardo di mantenere la calma «E cosa pensi che farei dopo? Oh, no Eloise, questo teatro è mio, non sono io ad essere di troppo qui dentro!».
La sola idea di lasciare quel posto che era stata tutta la sua vita fin da quando era bambino lo terrorizzava più di quanto fosse disposto ad ammettere. Non era solo un puntiglio, una questione di orgoglio, per lui vivere lì rappresentava l'essenza stessa dell'esistere, del respirare, dell'aprire gli occhi e andare in contro a un giorno nuovo senza sapere cosa sarebbe accaduto.
La donna tornò a guardarlo con aria seria, nei suoi occhi la durezza si mescolava alla pena che provava pensando a quella situazione,
«Dovresti pensare anche a Christine» gli disse. «Lei ha diritto a una vita tranquilla... a una vita vera. E anche tu hai diritto al tuo posto nel mondo».
Erik guardò la fanciulla che non osava parlare e che teneva lo sguardo basso con espressione confusa.
«Peccato che non ci sia altro posto al mondo in cui io possa essere me stesso...» sospirò.
«Potresti essere un genio, potresti stupire il mondo se...»
«Se il mondo mi volesse!»
«Ti prego, non cominciare! Puoi sempre dare al mondo un'altra chance» disse madame Giry. «Non sei più un bambino indifeso, smettila di essere così codardo!»
Erik sussultò e guardò la donna corrugando la fronte,
«È questo che pensi di me? Che io sia un codardo?» tuonò rabbioso.
Eloise scattò mettendosi a sedere nel letto,
«Penso che sia ora di smetterla di vivere rinchiuso come una talpa!» replicò furente.
Christine le posò le mani sulle spalle e la spinse delicatamente per farla tornare stesa,
«Ti prego, non devi agitarti» le disse in tono apprensivo, poi si voltò verso l'uomo. «E tu smettila! In nome di Dio!»
«Non sono io quello che ha cominciato a dire assurdità!» ribatté Erik.
La giovane sospirò esasperata,
«Molto bene, penso sia arrivata l'ora che noi togliamo il disturbo» concluse lasciando che Erik si allontanasse silenziosamente e trattenendosi pochi minuti, fino a quando Madame Giry non le sembrò essersi tranquillizzata.

Dopo cena Christine raggiunse la Dimora sul Lago. Trovò Erik intento a ricopiare alcuni spartiti, era così immerso nel suo lavoro che quasi non la sentì arrivare, fino a quando lei non lo raggiunse e lo chiamò con voce fioca.
Lui alzò la testa dal leggio e sospirò voltandosi lentamente verso la ragazza che rimase a qualche passo di distanza,
«Cosa c'è?» chiese lui. «Pensi anche tu che io sia un codardo?»
«Penso che quando Madame Giry dice qualcosa lo fa nell'interesse di chi le sta a cuore» rispose Christine stringendosi nelle spalle.
«Mi sono agitato molto prima... ma è perché credo che lei abbia ragione. Sono un codardo e sicuramente tu meriti qualcosa di meglio...»
«Erik, ti prego, non dirlo nemmeno...»
«No, lasciami finire. Ma non è solo per paura che non riesco a sopportare l'idea di lasciare questo teatro» ammise. «L'Opera è una parte di me... o forse io sono sono parte di questo posto». Era così che si era sentito in tutti quegli anni: un cuore pulsante, pieno di energia ma che non può vivere separato dal corpo in cui è racchiuso.
L'uomo si morse il labbro e tese le mani verso la ragazza,
«Ti prego, Christine, abbracciami» sospirò.
Lei gli si avvicinò e lo strinse forte contro di sé per fargli sentire tutto il suo calore, tutto il suo sostegno,
«Io ti amo» gli mormorò. «E voglio stare con te, qualsiasi scelta farai, in qualsiasi luogo vorrai vivere».
Erik la baciò con forza, affondando le dita tra i fluenti riccioli castani.
Le loro vite si appartenevano, in ogni singolo respiro, anche nel più assopito battito di cuore. E loro ne erano consapevoli, con una tale violenza che persino la certezza di amarsi alle volte riusciva a far male.

*

«Quando sarà pronto lo spettacolo?» domandò Alexandre facendo cadere una zolletta di zucchero nella sua tazza da tè.
«In meno di un mese. Ma i direttori non lo metteranno in scena prima di un mese e mezzo» spiegò Raoul sollevando il piattino di fine porcellana.
Il giornalista annuì con aria distratta, il suo sguardo si fissò nel vuoto mentre si lasciava sopraffare dalle sue riflessioni.
C'era qualcosa che bolliva in pentola, il Fantasma non voleva semplicemente che la sua opera venisse rappresentata, voleva di più... quella recita sarebbe stata l'occasione per fare qualcosa, ma cosa?
Sapeva che la risposta avrebbe potuto essere tanto evidente e scontata che la sua mente non sarebbe mai arrivata a prenderla in considerazione, così come avrebbe potuto essere una tale sorprendente macchinazione da non riuscire a prevederla nemmeno se ci avesse riflettuto per mesi.
Eppure l'altra mattina al cimitero aveva ottenuto una piccola vittoria su quell'uomo. Lo aveva visto esitare, aveva scorto la sorpresa nel suo sguardo quando gli aveva detto che non lo credeva un mostro. E il Fantasma gli aveva parlato non come si fa con un nemico, malgrado ci fosse tanta diffidenza nel suo sguardo.
Aveva detto che avrebbe persino potuto aiutarlo. Era sincero, lo avrebbe fatto ma non sapeva come. Non sapeva nemmeno di che genere d'aiuto lui avesse davvero bisogno. Un complice per scappare dal teatro? No, probabilmente la fuga non era contemplata nei suoi piani: il Fantasma dell'Opera sarebbe bruciato vivo insieme al suo teatro piuttosto che abbandonarlo, di questo Alexandre era più che sicuro.
O forse non c'era niente da fare, forse quell'uomo tanto geniale non aveva bisogno di alcun tipo di aiuto, e il giornalista si disse che questa mania di voler fare a tutti costi qualcosa per lui era solo una sua personale ossessione. Tutto di Erik lo ossessionava! La voce, i gesti, lo sguardo, il temperamento. Una sensazione inafferrabile eppure così forte tanto da essere quasi una certezza, il sentore che c'era qualcosa tra loro, un legame che si era instaurato chissà come, chissà perché... qualcosa che gli era parso talmente assurdo da essere inconfessabile, da credere di essere davvero impazzito a causa di quella vicenda.
«Alexandre?...» Raoul cercò di riportarlo alla realtà, lui si scosse e si stropicciò la faccia.
«Sì, sì, lo so cosa stai per dirmi... che devo mollare la presa, che questa storia mi farà ammalare...» blaterò il giornalista scrollando le spalle.  
Il visconte sospirò,
«Ho smesso anche solo di pensarle queste cose» brontolò. «Contro la tua ostinazione c'è ben poco da fare. Però ho cominciato a sentirmi meglio ripetendomi che dopo quella benedetta recita questo incubo sarà finito. E suppongo che starai meglio anche tu»
«Beh, dipende da come finirà».
Raoul sospirò,
«Alexandre, amico mio, ho sempre pensato che tu avessi un cuore d'oro ma, perdona la franchezza, a volte la bontà indirizzata verso le persone sbagliate diventa stupida» concluse.
«Non sono un santo, Raoul, ma la bontà, se c'è, è bontà punto e basta, non funziona come una lampada che puoi accendere e spegnere quando ti pare»
«Non ti sopporto quando hai queste uscite così intelligenti!»
«Ah, sono serio amico...»
«Lo so, ed è per questo che io sono preoccupato, mi capisci?».
Alexandre sbuffò
«Sono preoccupato anche io, se ti può consolare» ammise mandando giù un altro sorso di tè, che preso com'era dai suoi pensieri quasi non aveva sapore.
Non aveva raccontato a nessuno del suo incontro nel cimitero l'altra mattina, di come aveva seguito Christine dopo che lei si era rifiutata più volte di lasciarlo parlare con Erik, di come il breve dialogo con il Fantasma si fosse rivelato infruttuoso, almeno da un punto di vista propriamente pratico.
Si disse che sarebbe dovuto andare a parlare con Christine, a scusarsi se le aveva creato problemi con Erik e se si era intromesso in quello che sembrava essere un momento così delicato per lei.
Tuttavia, Alexandre decise di finire di bere il suo tè e di tornare a casa per stare un po' più vicino a sua madre che ultimamente sembrava sempre più ansiosa e triste ogni giorno che passava. Gli chiedeva in continuazione notizie su cosa stava accadendo in teatro, se il Fantasma dell'Opera era tornato a mostrarsi o se c'era qualche indizio decisivo. Alexandre si era detto che questo suo interesse per le indagini era solo un modo per tenersi occupata e per non pensare a ciò che la affliggeva, oppure per interessarsi a lui ed essere certa che, malgrado la situazione di precarietà e pericolo, continuasse a mantenere la testa sulle spalle. Eppure il ragazzo aveva avuto la sensazione che più lui le raccontava di cosa acceda in teatro più il malessere della donna aumentava. Alexandre aveva rinunciato a capire e aveva cominciato a contemplare l'idea di lasciare Parigi, una volta che quella storia si fosse conclusa. Forse anche a lui avrebbe fatto bene dimenticare, dopotutto.

*

Un altro paio di settimane trascorse quasi di soppiatto, come se il tempo si fosse nascosto, travolto dalle tante cose che c'erano da fare. Più si avvicinava la fine dei preparativi per la nuova rappresentazione e più le giornate trascorrevano veloci per tutti quelli che lavoravano nel teatro, sempre più presi dai loro impegni.
Solo per Alexandre e per Bertrand il tempo sembrava passare come in uno stillicidio di minuti che trascorrevano incredibilmente lenti. Entrambi avevano fretta che arrivasse la sera della rappresentazione, ognuno per motivi diversi.
Quel pomeriggio l'investigatore e il giornalista erano andati ad assistere alle prove e si erano goduti anche una esilarante sfuriata di Carlotta Giudicelli che protestava perché la sua parte era troppo marginale mentre i direttori cercavano di rabbonirla e di convincerla che quell'opera era solo una sciocchezzuola, una cosa da poco messa in scena perché serviva allo scopo, promettendole che non appena avessero sistemato la faccenda del Fantasma lei sarebbe potuta tornare ad essere l'unica primadonna indiscussa dell'Opera Populaire.
Nel frattempo, sul palco, i ballerini avevano cominciato a provare le coreografie che Madame Giry, completamente ristabilita, aveva pensato per lo spettacolo, mentre mademoiselle Daae faceva la sua timida comparsa, entrando lentamente da una delle quinte.
«Cominciamo dal duetto del primo atto, vi prego signori» aveva detto il maestro Reyer richiamando l'attenzione di Christine e del tenore che l'aveva raggiunta sul palco.
Alexandre fissò la scena pensando che era quanto meno grottesca e per quanto Ubaldo Piangi fosse vocalmente assai dotato, risultasse un pessimo Don Juan a causa del suo fisico corpulento e dei suoi gesti goffi ed enfatici. Poi Christine cominciò a cantare e le menti di tutti quelli che erano presenti furono come svuotate da ogni pensiero mentre la voce angelica della fanciulla riempiva l'aria dello sfarzoso teatro.
Bertrand teneva gli occhi aperti, sicuro che il Fantasma avrebbe potuto assistere anche alle prove e che se lui avesse prestato molta attenzione probabilmente lo avrebbe anche scorto nascosto dietro a qualche tenda, o sul fondo di qualche palco del loggione. Tuttavia, per quanto l'investigatore si sforzasse di osservare doviziosamente ogni angolo vuoto non notò alcuna traccia dell'uomo mascherato.
Quello che Bertrand non poteva sapere era che il Fantasma dell'Opera non aveva alcun bisogno di mettere piede nella platea del teatro o nei palchi per godersi lo spettacolo.
Quel pomeriggio Erik se ne stava nei suoi sotterranei, nel cunicolo che correva proprio al di sotto del palco e lì ascoltava la sua musica prendere forma, le sue canzoni risuonare fino al suo buio e illuminarlo dell'unica luce che i suoi occhi avrebbero davvero voluto vedere: lo splendore della voce di Christine che intonava quei versi scritti appositamente per lei, con la penna intinta nel sangue vivo del suo cuore pulsante per quell'amore che lo aveva accecato, che aveva dato fuoco a ogni suo pensiero spingendolo a voler dipingere in musica una passione tanto grande e devastante.
L'orchestra continuò a suonare quella musica che a tutti parve meravigliosa, che quasi fece passare in secondo piano la voce potente di Piangi che aveva cominciato a cantare la sua strofa.
Alexandre osservava la scena sempre più perplesso e rapito da quella melodia, ma più ascoltava Ubaldo Piangi cantare, più lo vedeva muoversi sul palco e più si accorgeva di quanto poco fosse adatto per quel ruolo. Si grattò il mento pensando che era davvero strano che il Fantasma, così pignolo riguardo al modo in cui la sua opera doveva essere rappresentata, lasciasse che la parte del protagonista venisse interpretata da qualcuno che, per troppi aspetti, era assolutamente inadatto a rendere bene il personaggio di Don Juan.
«Oh mio Dio...» sussurrò colto da un'improvvisa rivelazione.
Bertrand si voltò a guardarlo e lo scrutò con fare inquisitorio,
«Che avete?» gli domandò.
Il ragazzo lo fissò in silenzio per alcuni secondi, poi scosse il capo,
«Nulla» mentì.
Alexandre aveva capito, ma non sapeva se era una buona idea mettere a parte Bertrand della sua intuizione. Guardando Piangi così inadatto in quella parte, il giornalista aveva compreso quali fossero le reali intenzioni del Fantasma: lui non voleva semplicemente che la sua opera venisse rappresentata, voleva interpretarla personalmente!

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Capitolo reinserito il 28\12\2011

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Capitolo 25
*** L'anticamera dell'inferno ***


 
 SONO IN RITARDO su un sacco di cose e ho passato l'ultima settimana a maledire me stessa per la mia pigrizia e per il mio pessimo rapporto con il tempo! E malgrado ciò sto dedicando più ore di quanto mi possa permettere a nuove cose prossimamente-su-questi-schermi visto che oggi ho concluso anche l'altro lavoretto in corso che stavo pubblicando su questo sito. Onde non essere in ritardo anche nel postare l'aggiornamento della fanfiction, vi lascio il nuovo capitolo a una settimana di distanza dal precedente.
 Mi sarebbe piaciuto riuscire a postare la storia con una cadenza regolare perchè so che i capitoli letti  a troppa distanza l'uno dall'altro diventano dispersivi e si può perdere il filo e di conseguenza la voglia di seguire la fanfiction, ma pensavo che questo 2010 sarebbe stato un anno più facile del precedente e invece non è stato così, pazienza.Comunque, un GRAZIE DI CUORE  a tutti quelli che leggono, commentano, seguono, preferiscono... non lo dico per "formalità", ma è che questo fandom è abbastanza marginale ed è una soddisfazione sapere che quello che scrivo, su una storia e su dei personaggi che amo tanto, alla fine riesca a suscitare dell'interesse.

 @ Amy: No, non credere che abbia voluto svincolare la domanda che mi avevi rivolto nella scorsa recensione riguardo alla probabilità del Master con un uomo. Non rido, è una domanda interessante. Diciamo che in genere non amo lo slash nelle fanfiction, da fanwriter ossessionata dall' IC dei personaggi trovo "sbagliato" scrivere una fanfiction in cui si rende un personaggio omosessuale quando nella storia originale non lo è... ma visto che Erik non ha mai conosciuto veramente l'amore di una donna e, in generale, non ha una grossa esperienza di relazioni extrapersonali, nel suo caso non sarebbe poi una cosa tanto fuori dal Canon, cioè alla fine la storia originale lascia molto all'immaginazione riguardo a come sarebbe Erik a contatto con eventuali altre persone e non è escluso che possa scoprire di provare attrazioni che nemmeno lui avrebbe immaginato. Tra l'altro, hai ragione, amo troppo Erik e questo condiziona irrimediabilmente l'andazzo delle mie storie su di lui (ma la prendo come una "sfida con me stessa" per eventuali fanfiction future). Negli ultimi mesi ho smesso di scrivere fanfiction e mi sono dedicata a racconti originali e un pò di differenza di approccio l'ho notata (approccio mentale, tra me e me, si intende) però alla fin fine, se amo tanto un personaggio che non è mio, ti lascio immaginare come possa andare a finire con personaggi creati da me! Si, sono limiti che devo imparare a superare, perchè allo scrivere ci tengo molto e lo scrivere non è fatto solo di mettere assieme belle frasi (auspicabilmente) corrette ma è fatto anche di buone storie che siano interessanti e plausibili, ma questo è un discorso complesso ed estraneo al contesto quindi evito un papiro che potrebbe far crollare persone addormentate sulla testiera ancora prima di arrivare all'inizio del nuovo capitolo.
 Contenta che tu abbia apprezzato il "trittico della casa", Madame, Erik e Christine che batibeccano... pensavo fosse troppo "naif" come scena ma i momenti di normale vita quotidiana di questi personaggi sono quelli che amo di più immaginare. In quanto a mr. O'Loughlin... indiscutibile bonaggine a parte, avevo da poco cominciato a scrivere la fanfiction e avevo già in mente una caratterizzazione abbastanza precisa per il nostro giornalista quando mi capitò di vedere il telefilm Moonlight (che consiglio caldamente) di cui l'attore di cui sopra è il protagonista, non lo avevo mai visto prima ma dalle prime inquadrature rimasi letteralmente sconcertata da quanto assomigliasse fisicamente a come io immaginavo il nostro Alexandre, poi andando avanti a guardare le puntate scoprii che il personaggio era anche molto simile al mio per quanto riguarda il carattere, il modo di parlare, di muoversi... giuro che è stata una sorpresa! 
 Eh il modo in cui Erik verrà a sapere la verità sulla famiglia sarà un tantino rocambolesco (meglio sarebbe per la sua fragile psiche una roba tipo puntata di C'è posta per te ma visto che io guardo poca televisione certe dinamiche mi sfuggono XD). In realtà, guardando il film, Madame Giry mi sembra una povera vittima del Fantasma anche lei, divisa tra il timore per il "mostro" e l'affetto per l'uomo, quegli sguardi intimoriti, quasi servili, quando lo vede strisciare nell'ombra (una delle prime scene, dove si vede la mano di Erik che chiude a chiave il camerino di Christine e sullo sfondo Madame che guarda, zittisce, deglutisce e va via la dice lunga secondo me), il modo in cui racconta a Raoul la sua storia... uhmm... forse "Eloise" è molto più fragile di come la rendo io nelle fanfiction, ma nelle mie storie mi piaceva darle questo ruolo di "Grillo Parlante" della situazione, del resto immagino che se Erik è sopravvissuto in gioventù è stato perchè qualcuno ci ha messo un pò di raziocinio dove lui metteva solo istinto e passionalità. 
 Uuuuh i Modena City Ramblers *_* li conosco (in tutti i sensi visto che siamo compaesani) e li adoro.

 @ Sydney Bristow: tu... vai... a Londra! A vedere Love Never Dies!!! Ok, accantono per un attimo il misto di invidia, fangherlaggine, entusiasmo, stima e quant'altro e ti faccio i miei migliori auguri per il viaggio (suppongo sia improbabile che cia un posto per me in valigia... un posticino? piccino picciò? *_* no, eh... ). Sono sempre dell'idea che questo era un sequel che "non s'ha da fare" però da quello che ho visto la rappresentazione teatrale è veramente spettacolre, forse ancora di più di quanto lo è POTO. Ho ascoltato le canzoni fino alla nausea, le musiche sono epiche... i testi un pò meno, molto semplici e lineari a volte anche un pò banali, lontani dalla poeticità di quelli di POTO, ma vabbè, Sir Webber è sempre Sir Webber! Detto ciò, finisco lo sproloquio. Tornando al "motivo per cui siamo qui", contenta che la storia continui a piacerti, mancano ancora un pò di cose prima di arrivare alla fine quindi TUTTO PUO' SUCCEDERE XD

 @ Keyra93: Se non saranno i modenesi stressati dal vedermi in giro (c'è stato un fugace momento in cui ho preso in considerazione l'idea di traferirmici a Modena ma poi ho lasciato perdere) o le manie omicide del Maestro suppongo che sarà il caldo a farmi fuori -.-'' comunque sia... Ma magari rimanessero devastati quei due dal loro amore!!! No, faccio una fatica immane a vederli assieme... lo so, lo so, che per molti (molte?) era COSI' CHE DOVEVA ANDARE... ma io non ce la faccio. Però, ripeto, questa storia mi è venuta dal profondo e non ho potuto fare a meno di scriverla. Il titolo del capitolo... fermo restando che io e i titoli non andiamo d'accordo (già faccio fatica a trovare i titoli per le storie figuriamoci per i singoli capitoli!) ma questo capitolo l'ho chiamato il "Don Juan" perchè è il capitolo in cui tutti i nodi riguardo alla messa in scena dell'opera vengono al pettine. Eh BB... ha ancora tanto da fare, bello di zia Elby sua *_* L'incesto? No... quando avevo pensato la storia mi erano venuti in mente due possibili "colpi di scena", uno è quello che ho scelto, cioè che Alex e Erik sono fratelli... un altro è che Alex si innamorasse (non ricambiato) di Erik, infatti all'inizio un pò il dubbio poteva venire, nei primi capitoli c'è un dialogo in cui Raoul chiede all'amico giornalista qualcosa del tipo "come mai piaci tanto alle donne ma loro a te non sembrano interessare?", però in realtà no, alla fin fine Alex è solo uno che si lascia assorbire dalle cose a cui crede e lui ha effettivamente preso molto sul serio questa "caccia al fantasma" tanto da spendere per essa ogni energia e trascurare alle volte persino sua madre malata. Prima o poi scriverò una storia solo su Carlotta, la trama è questa: lei è una specie di antesignana di Crudelia Demon che mette su un allevamento di barboncini per poi squoiarli e farsi un vestito di pelliccia di barboncino impreziosito da pizzi e perline rosa U_U
 Eh, quando do a un personaggio il nome Alessandra\o o una qualsiasi delle sue varianti vuol dire sempre qualcosa... che brutta cosa le manie di persecuzione!
 Oh il Musico... il Musico!!! *_* Non che io miri a spargere la follia, ma è bello sapere che ho fatto interessare qualcuno a quell'omuncolo *__________* (ecco, ora si scoprono gli altarini: c'è qualcuno che fangherlo più di quanto fangherlo il Master... ma questa è un'altra storia!)


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CAPITOLO VENTIDUESIMO

L'anticamera dell'inferno

Quella sera Parigi aveva il suo solito aspetto, il solito scricchiolio delle ruote delle carrozze sul ciottolato riempiva le strade principali. I soliti gentiluomini affollavano i caffè e le solite donne di malaffare passeggiavano lentamente per i sobborghi adescando i passanti. La solita luna restava a guardare, ma il suo spicchio bianco che illuminava il cielo poteva sembrare un sorriso o un ghigno rivolto agli uomini che quella sera stavano giocando la loro partita.
Erano passati due mesi dalla tragica notte di capodanno, dai fatti che avevano portato lì quei quaranta uomini della gendarmeria, con le loro facce dure e le loro mantelle blu.
La gente attendeva in fila fuori al teatro mentre il visconte De Chagny osservava le forze dell'ordine mandate a porre fine una volta e per tutte a quell'incubo.
L'Opera Populaire era rimasta chiusa per troppo tempo. La culla dell'arte canora di Parigi aveva taciuto troppo a lungo e la pubblicità che aveva ricevuto questa nuova rappresentazione era stata piuttosto massiccia. Quella sera i direttori del teatro presentavano il Don Juan Trionfante, un'opera in due atti di quello che avevano detto essere un autore anonimo. Dopo le lunghe settimane di chiusura tanto era bastato ad attirare il pubblico ignaro del fatto che quella sarebbe potuta diventare una serata piuttosto movimentata.
La sera del trionfo del Fantasma o dei suoi nemici.
Andrè e Firmin guardarono la platea riempirsi piano piano e la gente cominciare ad occupare i palchi delle logge laterali. Tutto aveva una parvenza di normalità, quasi di benessere, se non fosse stato per i gendarmi appostati davanti all'ingresso, nei corridoi che portavano alle balconate e dietro le quinte.
«Una serata da tutto esaurito» commentò Firmin lisciandosi i baffi.
«Catturare il Fantasma e riempire il teatro in un sol colpo: meraviglioso!» gli fece eco il suo socio, sistemandosi il panciotto e sedendosi sulla sua poltrona.
«Dopo due mesi ci voleva una ventata di ossigeno e... di denaro».

Nel frattempo, nel suo camerino, Christine Daae si stava guardando allo specchio, sistemandosi meglio il corsetto sul seno e notando quando la gamba restasse scoperta dall'ampio spacco della gonna del suo costume.
«Mio Dio, sembra che indossi solo della biancheria!» esclamò arrossendo. In quegli ultimi minuti aveva preferito concentrare le sue preoccupazioni sul vestiario, altrimenti non sarebbe riuscita a cantare.
La fanciulla aveva paura. Paura di ciò che avrebbe potuto fare Erik, paura di ciò che sarebbe potuto succedere se qualcosa fosse andato storto.
«Forse non vuole fare niente» si disse cercando di calmarsi. «Forse vuole solo dimostrare che ha ancora voce in capitolo decidendo cosa e come deve essere messo in scena qui a teatro».
Ma la rosa scarlatta listata di nero era già posata sul piano della specchiera quando lei era entrata nel camerino per indossare gli abiti di scena: il Fantasma dell'Opera era uscito dal suo buio. Lui era lì.
Madame Giry entrò per sistemarle i capelli, pettinandoglieli all'indietro e raccogliendoli di lato con un grande fermaglio a forma di rosa rossa, il fiore preferito di Erik.

Alexandre e Bertrand non avevano voluto un posto tra il pubblico, volevano rimanere dietro le quinte, pronti per ogni evenienza.
Il giornalista non ne aveva fatto parola con nessuno, ma era certo che quella sera il Fantasma avrebbe fatto la sua comparsa direttamente sul palco. Erik voleva interpretare la sua opera, Alexandre ne era sicuro ma non aveva condiviso questo sospetto con il suo collega né con Raoul, si era detto che forse, solo forse, grazie all'effetto sorpresa quel pazzo sarebbe riuscito a non rischiare la pelle e soprattutto, cosa che gli premeva assai più della sopravvivenza del Fantasma, sarebbe riuscito a non rischiare la pelle di nessun innocente.  
Bertrand non sapeva cosa aspettarsi, ma era sicuro di sé, sicuro di aver previsto ogni possibile mossa, con dei tiratori pronti sopra le travi dei macchinisti, con gendarmi in ogni dove e con i suoi occhi pronti a captare anche la minima anomalia, il Fantasma non sarebbe scappato, anche a costo di strappargli il cuore dal petto con le sue stesse mani sopra a quel palco, davanti a tutto il teatro!
«Sembrate compiaciuto» mormorò Alexandre accostandosi all'uomo che stava spegnendo il suo ennesimo sigaro in un posacenere di marmo.
«Non dovrei esserlo, amico mio? Sto per concludere la più significativa indagine della mia carriera, domani voi e io saremo famosi, saremo quelli che hanno catturato il Fantasma dell'Opera, e voi potrete dedicarvi alla stesura del vostro romanzo» concluse l'investigatore.
«Credo che non scriverò nessun romanzo»
«Perché dite così?»
«Ci sono storie che non meritano di essere usate per secondi fini. Questa è una storia di cui spero di non dover sentire più parlare. Né di questa storia né di molti che ne sono stati coinvolti».
Il ragazzo lanciò una furtiva occhiata di disprezzo verso l'uomo, poi sospirò e si sporse a guardare Raoul, appoggiato al parapetto nel suo palco, il palco numero 5.
Il visconte sembrava calmo, era stato cortese e cerimonioso con chiunque gli avesse rivolto la parola, con le tante persone venute a complimentarsi con lui per aver risollevato le sorti di quel teatro dopo le numerose settimane in cui era rimasto chiuso. Era parso il solito giovane tranquillo e misurato, ma i suoi occhi si guardavano attorno in continuazione, dal suo sguardo era evidente che dentro di sé fremeva per l'agitazione.
Alexandre guardò l'amico e gli fece un cenno di saluto, Raoul rispose con un mezzo sorriso tirato e si mise a sedere.
Alcuni macchinisti si sistemarono ai lati del palco reggendo in mano grossi specchi puntati in direzione delle candele, avrebbero dovuto muoverli per far dondolare i riflessi della luce e dare l'impressione dell'illuminazione tremula di un grande fuoco acceso, rappresentato al centro del palco da un cerchio di fazzoletti rossi tenuti sospesi e mossi per creare l'effetto delle fiamme scoppiettanti.
Tutto su quel palco richiamava il fuoco, anche i colori usati per dipingere le impalcature della scenografia, enormi travi di legno che costituivano un imponente ponte montato in mezzo al palco con due scale a chiocciola da entrambi i lati. Tutto doveva sembrare avvolto dal fuoco, il fuoco della passione e il fuoco dell'inferno in cui l'amore avrebbe trascinato i protagonisti dell'opera.
Un uomo disse ad Alexandre e a Bertrand di farsi più indietro, altrimenti il pubblico il platea avrebbe potuto scorgerli. Nel frattempo Madame Giry accompagnò al lato del palco una fila di ballerine vestite con ampie gonne e corpetti ricamati con merletti scuri, costumi che ricordavano volutamente l'abbigliamento tradizionale di alcune zone della Spagna. Anche i costumi dei figuranti erano tutti di un rosso sgargiante intervallato da rifiniture nere.
Carlotta Giudicelli si sistemò il fermaglio a forma di fiore che le reggeva i boccoli fulvi. Il fermaglio non era previsto nel disegno del suo costume ma lei era convinta che fosse un vero tocco di classe, come ogni singola perlina o millimetro di pizzo del suo guardaroba!  Stava pensando che quella sarebbe stata l'ultima volta che si trovava a fare qualcosa di così umiliante, ma se serviva a catturare il Fantasma che l'aveva costantemente denigrata e maltrattata, allora avrebbe fatto uno sforzo. Anche se già solo l'idea di sventolare quel ridicolo ventaglio di merletto nero faceva aumentare in maniera esponenziale la sua emicrania. Era così... così tetro! Niente trucco, niente abiti vistosi che mettessero il risalto la sua figura! Quel maledetto del Fantasma aveva davvero un pessimo gusto!
«Per amor del cielo!» gracchiò la soprano inveendo contro la sua assistente. «Portate i miei cagnolini lontano da qui! Non vorrete mica che il Fantasma li rapisca e me li restituisca imbalsamati!».
Ubaldo Piangi aveva un trucco pesante attorno agli occhi, i capelli impomatati fermati da una bandana nera, indossava una camicia bianca, e dei pantaloni neri con una giubba dello stesso colore. Si accostò alla quinta dove sarebbe rimasto ad attendere il segnale per entrare in scena.

*

I gendarmi sistemati sulle travi al di sopra del palco erano tra i migliori tiratori che la polizia di Parigi potesse vantare, uomini addestrati a reagire e a mantenere la calma anche nelle situazioni più critiche. Eppure, quella volta, non avrebbero potuto sparare nemmeno se avessero voluto.
Una corda con all'estremità un nodo scorsoio era caduta dall'alto, intrappolando le canne dei loro fucili e strappandoglieli via dalle mani.
Quando quell'uomo ammantato di nero era piombato davanti a loro in tutta la sua imponente statura e con gli occhi azzurri che scintillavano di ferocia, la paura li aveva paralizzati. Il Fantasma non aveva lasciato loro il tempo di riuscire a gridare. Li aveva colpiti con il calcio dei loro stessi fucili, lasciandoli privi di sensi, riversi sulle travi.
Ora non gli restava che attendere. Si sentiva fremere dall'entusiasmo e dall'eccitazione mentre l'odore acre del fumo e della cera delle candele aveva per lui il profumo del trionfo e della rivalsa.
Sapeva che era pericoloso, sapeva che era da solo contro tutti, ma mai nessuno avrebbe avuto la meglio su di lui finché rimaneva tra le pareti del suo teatro. Nessuno di quegli sciocchi aveva il coraggio necessario ad affrontarlo. Anche Bertrand, anche il visconte si erano rivelati dei codardi, affidandosi a uomini armati pronti a colpirlo alle spalle, pur di eliminarlo senza affrontarlo.
«Vigliacchi ipocriti» sibilò Erik guardandoli dall'alto.
Persino in quel momento li aveva in pugno e loro non riuscivano a rendersi conto nemmeno del suo sguardo che li spiava.
Ma il cuore dell'uomo si fermò per un istante, la furia violenta del Fantasma si placò quando il suo sguardo incrociò la figura esile e aggraziata di Christine raggiungere le quinte, con la stoffa morbida del vestito che frusciava nella scia dei suoi passi, sotto i suoi piedini nudi.
Era bella come il Paradiso visto dal fondo dell'Inferno. Ed era sua, qualsiasi cosa quegli sciocchi codardi volessero pensare, qualsiasi ardimentosa congettura potessero architettare per portargliela via.
Poi il sipario si alzò e nei pensieri di Erik ogni cosa fu avvolta dalla musica.

*

Il pubblico, ignaro di tutto, guardò con interesse le figure raccolte in cerchio in mezzo al palco che ondeggiavano in uno strano girotondo simile alla danza delle streghe. Poi quei corpi stretti in circolo si separarono e cominciarono a cantare in coro levando dei calici all'aria.

«Here the sire may serve the dam, here the master takes his meat!
here the sacrifical lamb utters one dispairing bleat.

Poor young maiden!
for the thrill on your tongue of stolen sweets,
you will have to pay the bill tangled in the winding sheets!
serve the meal and serve the maid! serve the master so that,
when tables, plans and maids are laid Don Juan triumphs once again! »

Un brusio di sconcerto attraversò la platea. Le facce degli spettatori si deformarono in smorfie di imbarazzo o di disgusto per quei versi tanto arditi. Ma subito il coro si dileguò lasciando spazio alla giovane Meg Giry che entrò piroettando sul palco mentre dal fondo scena fecero la loro comparsa Piangi, nei panni di Don Juan, e un altro tenore che interpretava il suo servo Passarino.
La ballerina lanciò una rosa verso Don Juan che l'afferrò con un sorriso e si inchinò leggermente al pubblico che lo aveva applaudito, con una grazia quasi impensabile per un uomo tanto corpulento. Dopo di che cominciò a cantare con la sua voce potente:

«Passarino faithful friend, once again recite the plan»

La sua voce era chiara e limpida ma aveva un tono così inespressivo che tuttavia il pubblico non sembrò notare, preso dalla curiosità per la recita.
Fu la volta di Passarino:

«Your young guest believes I'm you
 I, the master, you the man»

il servo si voltò con un ghigno verso il suo padrone attendendo la risposta:

«When you met, you wore my cloak,
she could not have seen your face.
She believes she dines with me in her master's borrowed place!
Furtively, we'll scoff and quaff, stealing what in truth is mine.
When it's late and modesty starts to mellow with the wine.»

Passarino annuì con aria complice, sottolineando l'entusiasmo per la trappola con ampi gesti delle braccia, poi rispose come a completare il pensiero del suo padrone:

«You come home! I use your voice
slam the door like crack of doom!»

Don Juan si sfregò le mani rispondendo:

«I shall say: come hide with me! where oh where? of course my room»

il servo ridacchiò

«Poor thing hasn't got a chance»

e infine Don Juan concluse la strofa:

«Here's my hat, my cloak and sword. comquest is assured, if i do not forget myself and laugh».

Dopo aver cantato questi versi, Piangi fece una grossa risata teatrale e si allontanò con il suo compagno verso il fondo del palco.
Il tenore che interpretava Don Juan si infilò una maschera di cuoio nero e sparì dietro il fondale di scena mentre l'uomo che recitava la parte di Passarino si voltò a spiare Aminta, la giovane che il suo padrone voleva sedurre e che stava entrando in scena.
Christine avanzò verso il centro del palco, il pubblico trattenne il respiro per fare silenzio e godersi la magia della voce della bella fanciulla.

«...no thoughts within her head but thoughts of joy
no dreams within her heart, but dreams of love»

Così cantò la ragazza andando a inginocchiarsi verso la destra del palco e sistemando delle rose che teneva in un cesto di vimini.
Christine resse la parte meravigliosamente bene, nemmeno un'ombra passò sul viso quando si accorse di una strana anomalia in ciò che stava udendo. Qualcuno che non era Piangi era entrato in scena e stava cantando al posto del tenore.

Piangi era corso dietro le quinte con l'intenzione di bere un sorso d'acqua prima di tornare sul palco. Ma una figura in nero era piombata sopra di lui e lo aveva colpito alla nuca lasciandolo svenuto. Una volta sbarazzatosi di lui, Erik era entrato in scena indossando un costume identico a quello del tenore ma che sul suo fisico asciutto riusciva a rendere meglio l'idea del personaggio affascinante e misterioso che doveva essere Don Juan. I pantaloni di raso nero gli fasciavano le lunghe gambe muscolose, la camicia sotto la giubba scura e attillata era mezza aperta sul petto e nei fori della maschera scura i suoi occhi brillavano quasi come se quelle iridi di ghiaccio attirassero tutta la luce delle candele.

«Passarino, go away, for the trap is set and waits for its prey!»

Sibilò il Fantasma coprendosi il volto con il lembo della cappa. Gli attori non dissero nulla, ma sui loro volti si dipinse il più profondo sconcerto.
Il pubblico aveva notato la sostituzione, quell'uomo alto e fascinoso non era certo Ubaldo Piangi, ma il cantante sconosciuto aveva una bella voce e un bel portamento e tutti si dissero che era di certo più piacevole alla vista di quello che aveva sostituito. Evidentemente, si dissero, Piangi aveva avuto un malore e avevano mandato in scena il suo sostituto che era già pronto per ogni evenienza dall'inizio dello spettacolo.
Solo coloro che erano al corrente di ciò che si celava dietro la messa in scena dello spettacolo capirono chiaramente cosa stava succedendo.
Madame Giry strinse la mano di sua figlia, Meg stava fremendo per la rabbia e per la paura, mentre sua madre nell'altra mano stringeva la croce del rosario che di solito portava sotto il corsetto.
Raoul strinse con un fremito il fazzoletto che aveva tra le mani nell'osservare quell'uomo che si avvicinava a Christine con il passo cadenzato di un felino pronto a scattare.
Alexandre serrò le mascelle per la tensione mentre mormorava a se stesso «Lo sapevo... lo sapevo».
Bertrand rimase impassibile a spiare i movimenti dell'uomo ma sul suo volto era dipinta il più totale sconcerto.
«Allora è più pazzo di quanto mi aspettassi...» sussurrò sgranando gli occhi mentre Don Juan ricominciava il suo canto.

«You have come here
in pursuit of your deepest urge
in pursuit of that wish which till now has been silent. Silent.
I have brought you that our passions may fuse and merge
In your mind you've already succumbed to me,
dropped all defenses completely succumbed to me
now you are here with me
no second thoughts.
You've decided... decided.»

L'uomo mascherato si avvicinò alla fanciulla che come ipnotizzata dal suo canto era tornata in piedi e si era voltata lentamente verso di lui guardandolo rapita.
Non si riusciva a distinguere quanto quell'espressione di compito stupore e di ammirazione appartenesse a Christine o al personaggio che stava interpretando.
Il Fantasma si avvicinò alla giovane e continuò a cantare:    

«Past the point of no return
no backward glances:
the games wÈve played till now are at an end . . .
Past all thought of "if" or "when"
no use resisting:
abandon thought, and let the dream descend . . .»

Tutti sembravano rapiti da quella voce dal suo suono basso e suadente tanto che sembrava che Dio avesse donato a quell'uomo quel timbro appositamente per raccontare la passione di cui stava cantando.
La fanciulla fissò il suo compagno negli occhi, occhi lucidi dall'emozione. Nell'ascoltarlo cantare lei si dimenticò di ogni paura, del pericolo che stava correndo, di quanto fosse folle tutta quella situazione. Non importava, quello era il suo momento, il momento che Erik aveva atteso tutta la vita: poter salire sul palco e sbattere sotto gli occhi del mondo il suo talento, e lo stava facendo attraverso la musica che avevo composto per lei, attraverso le strofe che aveva scritto accecato da quell'amore. Non era solo il suo momento, era il loro momento!
Il Fantasma abbracciò la ragazza premendola contro il suo petto, la sua voce divenne roca e sensuale mentre intonava gli ultimi versi della strofa:

«What raging fire shall flood the soul?
What rich desire unlocks its door?
What sweet seduction lies before us . . .?
Past the point of no return,
the final threshold
what warm, unspoken secrets will we learn?
Beyond the point of no return . . .»

Raoul provò un moto di disgusto e di furore nel vedere il Fantasma così vicino a Christine e si sporse chiedendosi cosa diamine stessero facendo Alexandre e Bertrand, dove accidenti fossero i gendarmi, perché nessuno faceva niente.
«Non avete capito!» gracchiò Bertrand al capitano della gendarmeria che era impalato accanto a lui. «Quello è il nostro uomo, è il Fantasma... fate qualcosa!».
Il capitano osservava la scena con aria rapita, troppo preso dal canto ipnotico del Don Juan. L'investigatore lo scosse in malo modo,
«Sparategli!» tuonò. «Ora!».
L'ufficiale si stropicciò la faccia come se fosse stato strappato a uno strano sonno, tutti i suoi uomini sembravano nel suo stesso stato di rapimento.
«Insomma, vi sembra questo il momento di dilettarvi nell'ascoltare musica?!» borbottò esasperato Bertrand. «Esigo che gli spariate, immediatamente!»  
«No!» esclamò Alexandre. «No, è troppo vicino alla ragazza... le farete del male!».
Sul palco i ballerini vestiti di nero stavano danzando armoniosamente contro il fondale di scena, mentre il Fantasma si era appena staccato dalla giovane con una lenta carezza sul braccio, le aveva preso una mano tra le sue e l'aveva baciata sul finire della strofa.
In quel momento Christine prese fiato e cominciò la sua parte

«You have brought me
to that moment where words run dry,
to that moment where speech disappears into silence, silence . . .
I have come here, hardly knowing the reason why . . .
In my mind, I've already
imagined our bodies entwining
defenceless and silent
and now I am here with you:
no second thoughts,
I've decided, decided . . .»

«D'accordo» sospirò Bertrand, «adesso sono distanti, potete ucciderlo!»
«Christine è comunque sulla linea di tiro» insistette il giornalista con aria astiosa. Era certo che quell'essere viscido fosse responsabile dello stupro di una ballerina ma non pensava che fosse disposto a rischiare la vita di una ragazza per uccidere il Fantasma.
«Nessuno dei miei uomini si assumerebbe la responsabilità di rischiare di colpire mademoiselle Daae» concluse il capitano. «Aspettate che sia nella posizione più adatta».
Bertrand agitò i pugni in aria cercando di reprimere un moto d'ira,
«Perché lei non scappa? Perché lo sta assecondando e non ci lascia fare quello che dobbiamo?!» sibilò.
«Perché non tutti sono disposti a ogni genere di scelleratezza per raggiungere i propri scopi» replicò Alexandre voltandosi a guardarlo con aria furente.

Sul palco, il Fantasma e la fanciulla si erano avviati verso le scale che portavano sull'impalcatura, lui verso sinistra e lei dal lato opposto, ma continuando a rimanere l'uno di fronte all'altra, muovendosi all'unisono camminando come se persino i loro passi facessero parte dell'armonia della musica.
Raggiunsero la sommità dell'impalcatura mentre lei continuava la sua strofa:

«Past the point of no return
no going back now:
our passion-play has now, at last, begun . . .
Past all thought of right or wrong
one final question:
how long should we two wait, before we're one.?
When will the blood begin to race
the sleeping bud burst into bloom?
When will the flames, at last, consume us ?»

Non c'era stato un attimo in cui i loro sguardi si fossero allontanati. Avevano continuato a guardarsi negli occhi come se quelle non fossero le parole di un'opera, come se non stessero interpretando dei personaggi. Quella era la voce del loro cuore, la magia del donarsi incondizionatamente.
Il Fantasma avvolse il mantello attorno al braccio con un gesto fluido e lo lasciò cadere con noncuranza sul parapetto dell'impalcatura, poi le loro voci proseguirono all'unisono mentre i loro corpi si avvicinavano e tornavano ad avvinghiarsi in un abbraccio languido:

«Past the point of no return
the final threshold
the bridge is crossed,
so stand and watch it burn . . .
We've passed the point of no return . . .»

Raoul batté forte la mano sul velluto che ricopriva il margine della balconata, quasi vi affondò le unghie nel vedere le mani di quel mostro percorrere lentamente il profilo del corpo di Christine, completamente abbandonata a quelle carezze licenziose.
Quella non era la sua Christine, si disse il giovane, quell'uomo ne aveva fatto un mostro e lui doveva salvarla.
Il Fantasma fece voltare la ragazza verso di lui e le strinse le mani nelle sue, poi la sua voce divenne dolce e carezzevole, miele sull'anima che ricopriva tutto di un velo dorato. Lei ammutolì e lo fissò commossa mentre lui riprendeva da solo il canto.

«Say you'll share with me one love, one lifetime . . .
Lead me, save me from my solitude . . .»

L'orchestra si interruppe e la musica cessò. Il maestro Reyer guardò attonito i suoi orchestrali sfogliando rapidamente lo spartito che aveva davanti: quel brano non era incluso nella partitura dell'opera.
Bertrand strinse la mano attorno alla spalla del giornalista, scuotendo il capo con aria sconvolta,
«La Daae non è nostra complice... è dalla sua parte!» esclamò furioso.
Il ragazzo rammentò le parole che gli aveva detto Erik ormai diverse settimane prima nel loro strano incontro al cimitero: per voi altri la verità è solo ciò che volete vedere.
«Maledetta piccola serpe!» continuò l'investigatore osservando il suo compagno che non sembrava turbato più di tanto. «E voi... voi lo sapevate? Da che parte state Alexandre?»
«Smettetela di agitarvi, non pensate sempre e solo al vostro tornaconto, Balise! Pensate a ciò che è giusto...»
«Ciò che è giusto...» sibilò l'uomo con un ghigno, con uno scatto repentino estrasse una pistola e prese la mira, ancora prima che il giornalista avesse tempo di accorgersene.
Nel frattempo l'uomo mascherato continuava a cantare:

«...Say you want me with you, here beside you . . .
Anywhere you go let me go too
Christine,
that's all I ask of . . .»

La frase di Erik rimase in sospeso, interrotta dal suono di uno sparo e il fischio di un proiettile che passò a pochi centimetri dalla sua testa andandosi a conficcare nella trave che reggeva il fondale di scena.
Il pubblico lanciò un grido di stupore e cominciò ad alzarsi e allontanarsi nervosamente come se temesse che di punto in bianco pallottole vaganti potessero cominciare a volare nell'aria da ogni dove.
Se la pallottola fosse volata pochi centimetri più in basso avrebbe potuto colpire Christine in mezzo alle spalle oppure sfrecciare oltre il suo braccio e raggiungere Erik al petto.
Era stato solo per l'intervento provvidenziale di qualcuno che aveva scorto il luccichio metallico dell'arma che veniva estratta da una fontina nascosta sotto la giacca di Bertrand che il tiro era stato deviato: Meg Giry aveva agito di impulso lanciandosi contro l'investigatore e strattonandogli il braccio che nel momento in cui aveva fatto partire il colpo si era ritrovato inclinato verso l'altro. Troppo perché il proiettile colpisse la coppia sull'impalcatura.
Bertrand rimase a guardare incredulo il colpo che aveva mancato mentre per un attimo ebbe l'agghiacciante sensazione degli occhi del Fantasma fossero fissi su di lui in uno sguardo di odio e rabbia così feroce da gelargli il sangue.
«Stringiti a me» sussurrò Erik a Christine che tremava tra le sue braccia. La ragazza non comprese ma obbedì aggrappandosi al tessuto della sua giacca.
Con un gesto secco l'uomo estrasse un pugnale con il quale recise una corda che era legata al parapetto dell'impalcatura. Una botola si aprì immediatamente sotto di loro, in direzione del foro al centro del palco dove avevano sistemato il fuoco fatto di strisce di stoffa.
Il Fantasma e la ragazza sparirono nel nulla, inghiottiti dal suolo.

Bertrand allontanò con un violento spintone la ragazzina che era rimasta appesa al suo braccio. Meg cadde sul pavimento pensando che non le importava se quell'essere odioso ora era lì ad abbaiare come un cane contro di lei, che non le importava se aveva aiutato il Fantasma a fuggire quando fino a pochi minuti prima lo avrebbe voluto dietro alle sbarre. Lei conosceva Christine e aveva capito tutto quella sera mentre li vedeva cantare: la sua amica lo amava, e questa era l'unica cosa che aveva contato quando si era resa conto che Bertrand stava per fare fuoco contro di lui, rischiando anche di colpire la ragazza.
«Sei una maledetta stupida!» continuava a strillare Bertrand agitandosi nella stretta di Alexandre che tentava di trattenerlo per timore che si scagliasse contro la giovane.
«Siete un folle, un maledetto macellaio!» gridò il giornalista. «Come vi è venuto in mente di sparare? Potevate ucciderli!»
«Vi sarebbe dispiaciuto tanto, veder morire quel mostro e la sua sgualdrina?!» sibilò l'uomo.
«Non osate mai più toccare mia figlia!» esclamò Madame Giry accorrendo in soccorso di Meg e guardando l'investigatore con aria furente. Avrebbe voluto aggiungere di non osare mai più di provare a far del male a coloro che amava ma fu interrotta dall'arrivo del visconte che corse trafelato verso di lei.
«Dove l'ha portata?!» disse il giovane.
«Non sarò certo io a condurvi da lui» replicò la donna.
«Chiamate i macchinisti!» urlò Bertrand in tono imperioso. «Fate venire qui tutti i gendarmi!»
«Che altro avete intenzione di fare?» si intromise Alexandre.
L'investigatore ghignò e guardò il visconte,
«Voglio trovare quel pazzo e capire cosa ha fatto di tanto terribile a mademoiselle Daae per costringerla ad assecondare i suoi terribili piani» disse.
«Io vado con lui!» aggiunse Raoul.
Il capitano dei gendarmi si accostò a Bertrand
«Noi non abbiamo intenzione di seguirvi» dichiarò. «Non so cosa c'è lì sotto e io non metterò a repentaglio la vita dei miei uomini migliori per la vostra caccia all'uomo, i miei tiratori sulle travi sono stati colti di sorpresa e tramortiti. So che quell'essere deve essere consegnato alla giustizia, ma sembra che questa volta la giustizia non abbia i mezzi adatti a contrastarlo»
«Razza di vigliacchi!» gridò l'uomo mentre guardava i gendarmi allontanarsi. «E voi visconte? Avete certo più fegato di loro»
«Naturalmente, io vi seguirò monsieur, per Christine...»
«No, no, no!» urlò Alexandre in preda all'esasperazione. «Raoul! Non provare ad assecondarlo, non capisci che vuole solo convincerti ad aiutarlo?»
«Io andrò in quei sotterranei e stanerò quel mostro, non voglio convincere nessuno a fare niente, chi vuole può venire con me, chi non ha il coraggio che resti qui» concluse Bertrand ritrovando una parvenza di calma. «Adesso scenderemo in quella dannata botola dove lui è scomparso e lo ritroveremo!».
Il giornalista prese la testa fra le mani e tentò di reprimere un grido di frustrazione. Cosa speravano di fare una volta che lo avessero trovato? Christine non era stata rapita, Christine era andata con lui di sua spontanea volontà. Raoul avrebbe davvero ucciso quell'uomo per riprendersi la donna che amava? No, forse Raoul voleva solo accertarsi che lei stesse bene, ma Bertrand poteva ucciderlo davvero e magari poteva far del male anche a lei.
«D'accordo, verrò con voi, ma solo per impedirvi di fare sciocchezze» concluse.
Nell'udire quelle parole Madame Giry ebbe un sussulto,
«No, Alexandre, vi prego non andate!» esclamò.
Il ragazzo prese sottobraccio la donna e si allontanò mentre Bertrand cominciava a radunare i macchinisti per trovare il modo di farsi calare nella botola,
«Madame Giry, capirete che non posso lasciare che Bertrand trovi Erik...» sussurrò.
«Come fate a conoscere questo nome?»
«Me lo ha rivelato Christine... ma non c'è tempo adesso. Io devo andare con loro, non posso nemmeno permettere che Raoul si imbarchi in questa impresa da solo con quel bastardo».
La donna sospirò,
«Ma se trovate Erik, Bertrand potrebbe ucciderlo e se non lo fa sarà lui a uccidere voi e io non posso permetterlo, capite?» disse.
Eloise era indecisa sul da farsi, da un lato non poteva permettere che accadesse qualcosa di male al ragazzo e non voleva che il visconte si addentrasse in quei sotterranei pieni di trappole. In quanto a Bertrand, sperava vivamente che rimanesse strangolato dal laccio di Erik, ma far rischiare la vita a lui significava farla rischiare anche agli altri due. D'altra parte fare in modo che loro trovassero Erik senza incappare nei suoi tranelli significava mettere a repentaglio la vita di tutti.
La donna gemette sopraffatta dal peso di una responsabilità che stavolta non si sentiva in grado di sostenere, tuttavia doveva decidersi a fare qualcosa.
«Erik non ci ucciderà, io... mi fido di lui e so che non è un assassino, che per quanto può essere adirato sa distinguere chi vuole fargli davvero del male e non siamo stati né io né Raoul a sparargli alle spalle» concluse il giovane imbarazzato dal rendersi conto di quanto quel ragionamento poteva sembrare insensato.
«Il visconte non ha la vostra stessa fermezza e la vostra stessa lucidità mentale» osservò la donna.
«Raoul non è il tipo d'uomo che capace di compiere scelleratezze, è solo preoccupato per Christine e non si darà pace finché non l'avrà rivista e non avrà preso atto del fatto che lei ama Erik. Aiutateci, Madame Giry... so che quei sotterranei sono inespugnabili, potremmo morire prima ancora di raggiungere il rifugio di Erik se non ci date una mano»
«Siete un bravo ragazzo, Alexandre» concluse Eloise con un sorriso stanco. «Vi aiuterò, ma lo faccio unicamente per il vostro bene, per voi e per nessun altro. Ma promettetemi che farete tutto il possibile perché nessuno si faccia male e, qualsiasi cosa possiate vedere o sentire, tenete a mente ciò che mi avete detto a proposito di Erik».

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Note:
 C'è bisogno di dirlo? Le strofe in corsivo sono quelle di Point of no return direttamente dal musical di zio Andy.
 Naturalmente, vista l'evoluzione della storia Erik non può strangolare Piangi, quindi ho risparmiato il grassone che tra l'altro era l'unico innocente che c'è andato di mezzo, poverino... e non solo per Piangi ma in generale, sappiamo tutti che le cose non sono andate così, ma ancora una volta ho dovuto dare una versione riveduta e corretta di una scena del film.
 La Carlotta... lo so, l'accenno è troppo breve, assai lontano da ciò che mi avevate chiesto, però è SEMPRE LEI! XD
 Raoul non ce la può fare!!! Comunque, non sapete quando mi esalto quando guardo il film e inquadrano la faccia sconcertata e disgustata del visconte mentre vede Erik e Christine avvinghiati nel duetto del Don Juan *_* E qui mi sono divertita a farlo manipolare da BB "Voglio trovare quel pazzo e capire cosa ha fatto di tanto terribile a mademoiselle Daae per costringerla ad assecondare i suoi terribili piani"... "e voi visconte? Avete certo più fegato di loro" bhuahaha... IDIOTA! che lo è stato a sentire... *ok, fine della parentesi fangherlosa anti-Raoul*.
 Meg... dovrà pur servire a qualcosa quella ragazza! Ho sempre pensato che fosse una che avesse cervello, più di quanto ne abbia la sua riccioluta amica.


Capitolo reinserito il 29\12\2011

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Capitolo 26
*** Il richiamo del sangue ***


Buona settimana nuova!
 Cominciamo con i ringraziamenti al pubblico e la risposta alle recensioni, per ulteriori sproloqui si rimanda a fine capitolo.

 @ Sydney Bristow: peccato per il bagaglio, mi sarei volentieri allenata a fare la contorsionista per entrare in un trolley formato mignon! Scherzi a parte... si, beh, la storia di questo sequel fa un pò acqua da tutte le parti, ma se io perdo il sonno dientro alle fanfiction non è poi socì impensabile che uno scrittore abbia fatto un sequel del romanzo di Leroux e zio Andy ne abbia tratto un'opera, suppongo che zio Andy sia molto molto affezionato al fantasmone. Sarò molto felice di leggere la tua tesina se vorrai ^^ è un bell'argomento e trattarlo attroverso una storia nota come il Fantasma dell'Opera è sicuramente una cosa interessante (io all'epoca... mon Dieu! come mi sento vecchia -.-'' analizzai la prima metà dell'800 attraverso le poesie di Baudelaire *___*) ma cosa ha fatto al mondo la letteratura francese per farci essere tutti così? *_* Bene... sto delirando. Christine e Raoul, fosse dipesi da me li avrei soppressi nella prima riga del primo capitolo... ma così non ci sarebbe stata nessuna storia... è odioso dover ammettere che quei due hanno comunque una loro utilità.

 @Amy: lieta che ti sia piaciuto il capitolo e il cammeo della Divina *_* (non ci crederete ma sto lavorando su di lei... anche se più che Carlotta, un posto d'onore nell'universo fanfictionistico dovrebbe essere riservato all'acconciatura della sua assistente... quella con i capelli a forma di ciambella U_U). Tra l'altro volevo proprio il capitolo fosse concitato, volevo dare la stessa idea che da il finale di Point of no return nel musical, anche se qui succedono cose diverse.
 La lotta sui tetti stile The Crow sarebbe bella, ma Erik è una schiappa con la spada (vedere scena del cimitero)... no, BB si merita una sorte molto più "filosofica" anche se quello che ho in mente potrebbe non piacere a tutti.
 About i miei originali... il primo che ho scritto qualche anno fa (in procinto di essere pubblicato qui su EFP, quando lo avrò riletto e mi sarò convinta che non è una ciofeca come ricordavo) è ambientato ai giorni nostri ed è una storia "romantica". Adesso sto lavorando su una serie di racconti fantasy ma anche questi ambientati ai giorni nostri... quando sono proprio proprio proprio ispirata, aggiungo paragrafi a un racconto di vampiri ambientato tra la Roma del 1700, l'Inghilterra di fine '800 e la Venezia dei giorni nostri. Si, mi tengo allenata diciamo XD
 PS: la mia canzone preferita dei Modena è I cento passi, ma è più una questione "sentimentale" che non una questione musicale (era il primo brano della prima trasmissione radiofonica che ho condotto *_*). Giro di vite l'adoro per "l'arguzia" ^^

 @ Keyra: Si, fondiamo una setta in onore della Diva!!! Eh il colpo di pistola per interrompere Erik ci voleva... peccato, mi sarebbe piaciuto un bacio appassionato sotto lo sguardo stomacato di Raoul!
 Si, forse un capitolo tutto sentimento, musica e avvinghiamenti potevo scriverlo, ma non è tanto una questione di esigenze di trama, è che ho cercato di trasmettere un pò di tensione con tutto il lavoro dei "cattivi" attorno al palco. Forse l'idea era anche quella di dire "Erik e Christine vogliono solo vivere il loro amore in barba a tutto e tutti". Piccolo spoiler: Erik non avrà tempo di adirarsi con Eloise U_U
 Meg... Meg... visto il mio amore malato per la storia di POTO cerco sempre di tirare in ballo quanti più personaggi posso nelle mie fanfiction e di dar loro un ruolo abbastanza significativo (vedere cosa combina Carlotta nella precedente fanfiction che ho scritto XD), quindi qualcosa alla bionda donzella lo dovevo far fare e mi piaceva che si "riscattasse" per i suoi pregiudizi contro Erik salvando la situazione dalla furia di BB ^^



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CAPITOLO VENTITREESIMO

Il richiamo del sangue

La paura aveva dita nodose e sottili che gli stringevano il cuore che pulsava impazzito. Un velo di sudore gli imperlava la fronte e i muscoli delle gambe tremavano. Ma nonostante questo l'uomo continuava a correre.
Non stava scappando per nascondersi dai suoi nemici, quegli stessi nemici che presto sarebbe tornato indietro ad affrontare, non stava cercando riparo dai segugi che gli stavano dando la caccia. Stava cercando di mettere in salvo l'unica cosa cara che avesse mai avuto. Era per lei che aveva paura, era per lei che aveva tremato dopo lo sparo, quando aveva visto il proiettile conficcarsi in una trave sopra le loro teste e si era reso conto che quello sparo poteva colpire la ragazza che gli stava tra le braccia.
Erik aveva calcolato ogni cosa, ma non avrebbe mai potuto pensare che la determinazione di Bertrand arrivasse a tanto, a sparargli rischiando di colpire Christine. Avrebbe dovuto sentirsi in colpa per averla messa in pericolo, ma l'unica cosa a cui riusciva a pensare era a quando sarebbe tornato indietro e le sue dita si sarebbero strette attorno alla gola di quel lurido verme e di chiunque si fosse messo di mezzo. Aveva giurato di non uccidere più, aveva immaginato una vita diversa, aveva accarezzato l'idea di riuscire a reclamare il suo posto nel mondo, l'amore che gli era sempre stato negato... ma questo fino a qualche minuto prima, prima che gli sparassero addosso mentre era con lei. Sul male fatto a lui poteva sorvolare, tentando di reprimere l'orgoglio e la prepotenza che lo avevano sempre caratterizzato, ma che qualcuno rischiasse di fare del male al suo Angelo non poteva tollerarlo, il Fantasma dell'Opera non avrebbe mai lasciato impunito un simile oltraggio.
La ragazza gli teneva la mano mentre lui correva, tentava di stare al passo incespicando sul pavimento di pietra irregolare, senza il coraggio di fermarsi, di protestare, di chiedergli di rallentare. Lo seguiva, lasciava che lui la trascinasse nel buio dei sotterranei, nei cunicoli stretti e freddi, quasi pregando che Dio la rendesse cieca per non essere costretta a guardarlo in viso quando si sarebbero fermati, per non vedere gli occhi dell'uomo che amava colmi di rabbia e della follia che in passato lo aveva tenuto lontano dal suo cuore.
Erik e Christine raggiunsero la Dimora sul Lago dopo quella che sembrò essere un'eternità. Appena messo piede sulla sponda di pietra la giovane si accasciò sul pavimento, strinse le gambe tra le braccia e nascose la testa contro le ginocchia lasciandosi andare a un pianto colmo di angoscia.
Erik si tolse di dosso la giacca scura e si lasciò scappare un ruggito incollerito mentre con una mano buttava per aria una pila di volumi che erano sistemati su una mensola.
«Maledetto!» tuonò cercando di riprendere fiato.
Nel silenzio che seguì, l'uomo riuscì a sentire i singhiozzi sordi di Christine. Ognuna delle lacrime che la ragazza stava versando era un pezzo del suo cuore che si frantumava.
Si voltò a guardarla, la raggiunse e si chinò su di lei, le fece alzare il viso accarezzandole i ricci scomposti lasciati liberi dal fermaglio che era caduto durante la corsa,
«Perdonami...» le disse come se solo in quel momento avesse davvero realizzato il pericolo a cui l'aveva esposta.
La fanciulla strinse le mani attorno alla sua che le stava asciugando le lacrime con la punta del pollice e sospirò cercando di ritrovare la calma.
«La pagheranno, amore mio, tutti loro!» sibilò lui mentre un lampo di furia gli attraversava lo sguardo.
Christine scosse il capo intrecciando le dita a quelle dell'uomo,
«No... Erik... ti prego» mormorò con la voce ancora tremula.
Lo sguardo del Fantasma si fece freddo mentre tornava in piedi allontanandosi dalla stretta della fanciulla,
«Ci sono cose che vanno fatte. Eliminare un pericolo è una di queste cose» concluse rapidamente, per poi allontanarsi e cominciare ad armeggiare con delle cose che aveva conservato in un mobile.

*

Devo inventarmi qualcosa... devo pensare...

Alexandre camminava davanti a Bertrand e a Raoul. Tenevano il braccio alzato davanti agli occhi come aveva suggerito loro Madame Giry. Stavano andando ad affrontare il Fantasma dell'Opera nel suo regno e sarebbe stato già un miracolo riuscire a sopravvivere tanto a lungo da trovarlo.
La mente del ragazzo era satura di pensieri e paure, delle immagini delle ultime ore che vorticavano nella sua mente come scene di un sogno strano e indecifrabile, come se il suo cervello facesse fatica ad attribuire un senso a quello che era accaduto: il Fantasma che compare sul palco, la magia bellissima e spaventosa della sua voce, la passionalità degli abbracci di Christine, il loro canto all'unisono, lo sparo e poi la fuga...
Doveva assolutamente inventarsi qualcosa. Bertrand aveva ancora la pistola, ed era carica. Doveva elaborare una strategia e doveva farlo prima che arrivassero a destinazione: Bertrand era armato ma Erik era sicuramente inferocito ed era difficile decidere chi dei due fosse più pericoloso in quel momento.
«Che intenzioni avete?» domandò Raoul all'improvviso.
«Bella domanda!» sbuffò Alexandre.
«Non temete, amico mio, se mi sono preso la briga di venire fin qua giù è perché lo voglio vivo» asserì Bertrand con un ghigno.
«Non si direbbe...»
«Se prima ho sparato era solo per ferirlo, non per ucciderlo... se quella sciocca di una ballerina mi avesse lasciato fare forse a quest'ora...»
«Se Meg Giry vi avesse lasciato fare forse a quest'ora avreste una ragazza innocente sulla coscienza» mormorò il giornalista.
«Come siete melodrammatico»
«Smettetela» borbottò Raoul. «Discutere non ci servirà a niente, pensate piuttosto a qualcosa da fare... dobbiamo salvare Christine...».
Alexandre sospirò spazientito e si voltò verso l'amico
«Raoul, la sorte di Christine è l'ultima cosa al mondo di cui tu debba preoccuparti! Non hai capito: lui la ama!» sentenziò in tono irritato.
«E lei ama il mostro, a quanto pare» aggiunse Bertrand. «Ma meglio accertarcene di persona... per la salute di mademoiselle Daae, si intende»
«Preoccupatevi della vostra salute piuttosto» lo schernì il giornalista.
L'investigatore puntò la fiamma della torcia contro il pavimento, sulla pietra impolverata c'erano delle impronte di due persone che correvano l'una dietro l'altra.
«Ci siamo...» mormorò l'uomo con un ghigno compiaciuto.
«Spero che questa volta sappiate tenere a freno il grilletto» borbottò il giornalista voltandosi a guardarlo con un'occhiata dura e penetrante.
«Per un attimo avrei giurato che abbiate assunto la stessa espressione di quel mostro» disse Bertrand.
Erik non è un mostro... si disse il giovane continuando ad avanzare.
Dopo pochi minuti scorsero una luce provenire dal fondo del corridoio e sentirono distintamente lo sgocciolio dell'acqua e l'odore dell'umido e della muffa.
«Spegnete le torce, fate silenzio» ordinò Alexandre con un filo di voce.

*

Christine era riuscita a rimettersi in piedi, non aveva avuto il coraggio di dire nulla ma si era fermata alle spalle di Erik e lo aveva visto fare dei nodi scorsoi a delle corde. Per un attimo nella mente della giovane si fece strada l'immagine del cadavere di Jospeh Bouquet che crollava sul palco con il volto deformato dalla paura e la lingua di fuori.
«Erik, ti scongiuro, ascoltami!» riuscì finalmente a dire strattonando l'uomo per costringerlo a voltarsi verso di lei.
«So già cosa stai per dirmi, Christine, e la risposta è no. Tu non puoi sopportare che io li uccida, ma io non posso sopportare di saperti in pericolo.» rispose. «Se fosse stato solo un mio problema avrei potuto sorvolare, ma sapere che c'è gente che non esiterebbe a farti del male per colpire me io non posso permetterlo»
«Ma così dimostrerai di non essere migliore di loro... e poi è Bertrand l'unico responsabile»
«E di quel tuo amico, del giornalista che mi dici? Avrebbe potuto abbandonare questa impresa, dissociarsi da quel folle macellaio, ma no! È rimasto qui a sfidarmi in combutta con i miei nemici!»
«Ti prego tu non puoi... tu non devi fare del male ad Alexandre! Erik, lui è...».
la frase della ragazza fu interrotta dal rumore dell'acqua smossa contro le pareti, lo sciabordio leggero di passi che camminavano sotto la superficie del lago.
Christine ed Erik si voltarono verso l'ingresso del grande antro e videro tre figure emergere dal buio.
«Guarda, mia cara, abbiamo ospiti» sibilò il Fantasma con occhi sottili, poi si voltò verso i tre arrivati e allargò le braccia con finto fare cerimonioso. «Vi aspettavo, amici miei! Benvenuti».
Ciò detto, Erik abbassò una leva e la grata che chiudeva l'ingresso della Dimora sul lago calò pesantemente con un terribile cigolio metallico pochi centimetri dietro le spalle dei tre uomini, sollevando schizzi di acqua gelida.
«Sapevo che sareste venuti» continuò l'uomo, poi guardò Christine. «E tu che mi chiedevi di risparmiarli! Di usare questa premura a chi non disdegna di venirmi a braccare fin dentro casa mia!»
«Erik, ascoltate...» tentò di dire Alexandre.
Il Fantasma dell'Opera saltò oltre la riva piombando in acqua e dirigendosi verso gli intrusi,
«Sta' zitto ragazzo! Non saresti dovuto venire» gracchiò.
«Lascia andare Christine!» tuonò Raoul facendosi avanti con uno scatto deciso. Il giornalista si voltò verso di lui fissandolo attonito e pensando che gli slanci di eroismo del suo amico erano l'ultima cosa al mondo che servivano in quel frangente. Per tutta risposta Erik gli lanciò uno sguardo di sufficienza,
«Sei talmente un ragazzino viziato, visconte, che non riesci ad accettare una sconfitta. Christine non è qui contro la sua volontà» commentò pacato.
Raoul guardò in direzione della ragazza che lo fissava a sua volta con uno sguardo implorante come a chiedergli di non fare sciocchezze o a domandargli perdono per aver fatto credere anche lui che fosse loro complice mentre l'unica cosa che stava facendo era aiutare Erik a realizzare i suoi piani. A domandargli perdono perché amava l'uomo che Raoul detestava più di ogni altra cosa.
«E voi, Bertrand, non dite niente? Avete perso la lingua o siete buono solo a sparare alle spalle?» proseguì il Fantasma mentre l'acquamarina dei suoi occhi aveva assunto dei cupi riflessi color piombo e il suo sguardo sembrava una lama pronta a trafiggere i loro cuori. I tre uomini ebbero per un attimo la sensazione di essere completamente disarmati anche se una pistola era più veloce di un cappio.
Christine era ancora sulla riva a osservare la scena con le mani strette l'una nell'altra in un gesto quasi di preghiera, con l'angoscia di chi sa che in quel buio persino Dio non può ascoltare.
«Erik... e così pare che abbiate un nome» rispose l'investigatore con un'occhiata sprezzante. «Sarà un piacere scriverlo fuori alla vostra cella».
Il Fantasma si lasciò sfuggire un ghigno beffardo poi si avvicinò ad Alexandre,
«Avevi detto che volevi aiutarmi, ragazzo. Bene lasciami il tuo caro collega e io forse mi dimenticherò quanto tu e il tuo amico visconte siate stati fastidiosi negli ultimi mesi e vi lascerò tornare a casa con l'osso del collo intatto» gli propose.
Il giornalista sgranò gli occhi
«Sapete che non lo farò. Io non ho paura di voi» concluse in tono solenne.
«Lo so, lo so bene. Ma quello che mi stupisce è perché ti ostini a difendere questo verme schifoso quando sai meglio di me che è stato lui ad aggredire quella ballerina la notte di capodanno».
A quell'affermazione tutti gli occhi dei presenti si puntarono su Bertrand.
«Che... cosa?...» farfugliò Raoul sconvolto.
«Volevi giustizia, Alexandre? Lascialo a me» aggiunse Erik senza badare al visconte che per poco non perse l'equilibrio per lo sconcerto.
«Voi non siete un giudice, come non lo sono io» concluse il giornalista puntando gli occhi in quelli del Fantasma.
In quel momento Bertrand si lasciò scappare una risata rauca e crudele,
«I miei metodi sono sempre sembrati disdicevoli» commentò, «ma sono solo un uomo disposto a fare dei sacrifici per perseguire un obbiettivo»
«Il sacrificio non è stato il tuo, razza di vigliacco!» tuonò Erik con un'espressione furente. «È stato di quella ragazza, e stuprarla per far ricadere la colpa su di me non è un sacrificio è una bestialità che nemmeno uno come me, che vi ostinate a chiamare mostro, può tollerare!»
«Molto bene» concluse l'investigatore estraendo la pistola. «Non mi piace conversare con chi è troppo ostinato. Ora tu verrai con me»
«Avermi vivo è una soddisfazione che non sono disposto a darti. Dovrai spararmi»
«No...» sussurrò Christine muovendosi a fatica e calandosi in acqua spinta da una forza che la mandava avanti per inerzia.
Raoul la guardò con gli occhi colmi di pena,
«Bertrand, mettete via quell'arma» mormorò sconvolto. Per quanto poteva odiare il Fantasma non avrebbe mai sopportato l'idea che la sua Piccola Lottie vedesse l'uomo che amava venir ucciso davanti ai suoi occhi.
«Non vi permetterò di farlo!» esclamò Christine parandosi davanti alla canna della pistola quasi senza che gli altri la vedessero arrivare.
Ma fu solo una breve manciata di secondi perché Erik la spinse via con un gesto repentino, lanciandola tra le braccia di Raoul e togliendola dal tiro dell'arma.
«Portala via» sussurrò il Fantasma fissando il visconte negli occhi. Il ragazzo fu abbastanza rapido e avveduto da afferrare la giovane e stringerla per le spalle prima che si ribellasse e tornasse davanti a Erik.
«Bertrand, pensate a quello che fate!» esclamò Alexandre affiancandosi all'investigatore che in quella breve confusione non aveva abbassato la guardia, ancora indeciso se sparare e concludere lì la faccenda o tentare di prendersi la soddisfazione di catturare vivo quel famigerato criminale.
«Pensandoci,» ghignò infine, «a che serve averti vivo? Il giudice ti manderà al patibolo nel giro di una settimana!».
Bertrand spinse via Alexandre per impedirgli di intromettersi poi il click leggero dell'arma che veniva caricata sembrò quasi rimbombare tra le pareti di pietra, la mano dell'investigatore non esitò né tremò mentre premeva il grilletto. Erik non chiuse gli occhi né indietreggiò ma un istante dopo si pentì di non aver abbassato le palpebre e di essere stato costretto a guardare la scena.
Lo scricchiolio metallico del caricatore precedette lo sparo di una frazione di secondo ma tanto bastò a Christine per divincolarsi dalla stretta di Raoul e tornare a pararsi tra la canna della pistola e il petto di Erik.
«No!» gridarono all'unisono tre uomini, ad eccezione di Bertrand rimasto impietrito per lo shock di aver nuovamente fallito più che per il rimorso di aver sparato alla persona sbagliata.
Raoul si gettò sull'investigatore facendolo piegare in avanti e facendogli cadere la pistola nell'acqua, poi lo spinse via cominciando a dimenarsi nel tentativo di colpirlo. Quando finalmente riuscì ad assestargli un colpo in testa lo lasciò riverso sulla riva privo di sensi e tornò da Christine che era crollata tra le braccia di Erik.
Un rivolo di sangue scorreva dalla spalla della ragazza lasciando una scia vermiglia sulla superficie dell'acqua.
«Christine...» chiamò Erik sopraffatto dall'angoscia.
La ragazza aprì debolmente gli occhi,
«Sto bene...» mormorò con voce spenta mentre il volto impallidiva.
«Non è grave... non è grave...» ripeté Raoul sconvolto, tamponando la ferita con la manica della camicia.
Alexandre era riuscito rimettersi in piedi dopo il colpo di Bertrand che lo aveva fatto piombare in acqua, arrancando aveva raggiunto Raoul e Erik entrambi stretti intorno al corpo della ragazza senza forze per la ferita, il dolore e lo shock.
Fu a malincuore che il Fantasma lasciò scivolare Christine tra le braccia di Raoul per poi voltarsi con uno scatto furioso verso il giornalista,
«Sei stato tu!» gridò con la stessa ferocia di una belva. «Se non fosse stato per te quello scellerato non avrebbe mai raggiunto casa mia! Se non fosse stato per la tua maledetta ostinazione! Ti avevo detto di andartene, ti avevo avvisato, ma ora la pagherai per non avermi ascoltato!».
Così dicendo Erik afferrò il giovane per il bavaro della giacca e prima che lui avesse tempo di reagire lo spinse violentemente contro la grata. Alexandre non riuscì a trattenere una smorfia di dolore mentre la nuca urtava contro il ferro delle sbarre. L'uomo gli afferrò il tessuto sul davanti della camicia e lo spinse in alto con una mano facendogli sollevare i piedi da terra, poi gli strinse le dita dell'altra mano attorno al collo, sempre più forte fino a quando negli occhi del giovane non comparve la paura e il suo volto non divenne paonazzo.
«Erik... no, basta...» mormorò Christine con voce sfinita. «Erik... ti prego».
Alexandre non aveva avuto la forza di chiedere perdono pur sapendo che ciò che aveva detto il Fantasma era in parte vero, il dolore di aver fallito, di non essere riuscito a proteggere una ragazza innocente, stava diventando ancora più forte della paura della morte. La vista cominciò ad appannarsi mentre l'aria non passava più nella sua gola stretta nella morsa del Fantasma.
Christine si aggrappò alla camicia di Raoul e tentò di mettersi in piedi ma cadde rovinosamente contro il petto del visconte,
«Erik! No!...» gridò imperiosamente facendo appello a tutte le sue forze, mentre le lacrime le rigavano il viso. «È tuo fratello!».
La forza di quel grido scosse il Fantasma ancora di più del significato di quelle parole che in quel momento avevano così poco senso per la sua mente sconvolta da ciò che era accaduto, tuttavia allentò di colpo la presa lasciando che Alexandre crollasse esanime contro la grata. Il ragazzo si ritrovò a boccheggiare reggendosi alle sbarre per non cadere in acqua e tentò di riprendere fiato.
«Fr... fratello?!...» disse tossendo violentemente.
«Come... cosa hai detto? Stai delirando... è il dolore...» squittì Raoul sgranando gli occhi.
«Christine... dobbiamo portarti da un medico» commentò Erik rifiutandosi anche solo di valutare la possibilità che quelle parole fossero vere e concentrandosi unicamente sul bene della fanciulla.
«Hai sentito cosa ti ho detto?» sussurrò la giovane guardandolo con decisione mentre si sforzava di tenere gli occhi aperti.
«Non può essere...» replicò il Fantasma scuotendo il capo.
La ragazza guardò oltre la sua spalla e osservò Alexandre avvicinarsi a loro sulle gambe ancora tremanti e con il fiato corto, muovendosi a fatica con l'acqua che gli arrivava fino alla vita.
«Tu lo sapevi già... lo sentivi...» gli mormorò la ragazza con un sorriso stanco ma dolcissimo.
Il giornalista deglutì mentre nella sua mente fu come se fosse esplosa una luce strana che gli stava rivelando di colpo tutto ciò che in quelle ultime settimane gli era sembrato così oscuro. Ecco cos'era quello strano legame che sentiva con Erik, quell'affinità, quel senso di complicità che gli era apparso tanto irrazionale. Era il richiamo più antico, quello a cui nemmeno il peggiore degli uomini può essere sordo: il richiamo del sangue.
Alexandre appoggiò una mano sul braccio di Erik,
«Dobbiamo portarla via, ha bisogno di un medico, ha perso troppo sangue» gli disse semplicemente.
Il Fantasma scrutò il volto esangue di Christine che ormai aveva chiuso gli occhi lasciandosi andare a un strano sonno, profondo e immobile.
Erik la prese tra le braccia e la condusse a riva dove l'avvolse in una coperta, pensando che per lei avrebbe fatto tutto, anche lasciarsi aiutare da quelli che fino a poche ore prima considerava suoi nemici.
«Ho la mia carrozza fuori al teatro, possiamo portarla a casa mia» disse il visconte.
«Casa mia è più vicina» tagliò corto Alexandre. «E poi... ho bisogno di parlare con mia madre»
«Non crederai a quello che ha detto?» esclamò Erik incamminandosi nel cunicolo che spuntava in Rue Scribe mentre gli altri due lo seguivano. «Era sconvolta e avrebbe detto qualsiasi cosa pur di impedirmi di ucciderti... ti vuole così bene che penso che ti taglierei la gola solo per questo»
«Se credi che sia stato solo un diversivo allora perché ti sei fermato?» replicò il giornalista.
«Vi prego, smettetela!» gracchiò Raoul, voltandosi a guardare Bertrand che giaceva ancora privo di sensi sul pavimento di pietra, poi richiuse il passaggio segreto alle sue spalle e si incamminò insieme agli altri due lungo il cunicolo buio che portava verso l'esterno. Il visconte si sentiva assai prossimo a svenire, ma non voleva nemmeno immaginare come si sentivano gli altri che erano con lui!


_________________________________________________

NOTE:
 Cosa abbiamo imparato da questo capitolo?
 1) che non so scrivere scene d'azione (io lo sapevo già, ora che lo sapete anche voi mi ritiro nell'angolino per cinque minuti di vergogna).
 2) che non vedo soap-opera e tv in generale, ma ho comunque una bella dose di conformismo non ancora smaltito riguardo a certi elementi della trama. Vittorio Alfieri lo diceva che per essere veramente originali bisognerebbe non aver mai letto nulla.
 3) Io e Raoul non andremo mai d'accordo... non ci posso fare niente...

 Tutta la parte di "No! è tuo fratello" non è una citazione voluta, ma pensandoci dopo un pò di tempo che l'ho scritta mi ha ricordato la scena de La Maschera di Ferro (che poi anche lì... Francia, un tizio con la maschera, un Raoul e una Christine...). Altri cinque minuti di vergogna anche per questo.
 Naturalmente la reazione di Erik e Alex alla notizia non si esaurisce in questo capitolo, non è che io abbia voluto creare l'attesa di proposito, ma non ce li vedevo lì a intavolare una roba tipo puntata di Forum (con tanto di Raoul che faceva Rita Dalla Chiesa) con Chricrhi in find di vita...

 *Fine sproloquio*
 Al prossimo capitolo




Capitolo reinserito il 29\12\2011

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Capitolo 27
*** Complicazioni ***


Schifosamente in ritardo e orribilmente di fretta... talmente  di fretta che non ho nemmeno il tempo di cospargermi il capo di cenere  -_-''



CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Complicazioni

Il vuoto ingoiava ogni cosa, dai suoi pensieri, al cigolio delle ruote della carrozza, al vento freddo che entrava dai finestrini della vettura.
Erik teneva tra le braccia il corpo esanime di Christine, con le dita che circondavano il polso sottile della fanciulla per tenere sotto controllo il battito: le pulsazioni erano deboli ma regolari, lei non era in pericolo di vita, non ancora almeno, non se avessero medicato al più presto quella ferita che avevano tamponato alla meno peggio con un fazzoletto per evitare che la ragazza perdesse altro sangue. Eppure Erik non riusciva a guardarla, teneva lo sguardo fisso in un punto impreciso davanti a sé, oltre le spalle dei due giovani uomini seduti di fronte a lui e lasciava che il vuoto continuasse ad avvolgerlo per non sentire su di sé gli occhi di Alexandre che cercavano sul suo volto le tracce di una verità che il ragazzo aveva accettato ancora prima di scoprire, e che i suoi pensieri invece rifiutavano persino di immaginare.
Un fratello, una famiglia. Le risposte che aveva sempre cercato. Tutti i suoi desideri che prendevano corpo negli occhi limpidi di quel giovane che solo pochi minuti prima considerava un suo nemico,  quel giornalista ostinato e ficcanaso che aveva torturato fino allo sfinimento e che aveva quasi ucciso.
No, quella realtà era troppo grande e sconvolgente persino per il Fantasma dell'Opera!
«Smettila» sibilò Erik in tono irritato, come se stesse parlando al vento.
«Di fare cosa?» domandò Alexandre, mentre Raoul corrugava la fronte.
«Di pensare a ciò che stai pensando, ragazzo».
Il giornalista scosse debolmente il capo,
«Hai davvero così paura di scoprire che quello che ha detto Christine sia vero?» mormorò lanciando al Fantasma uno sguardo di sfida.
«Se tua madre fosse la stessa donna che mi ha messo al mondo, dovresti considerare che è anche la donna che mi ha abbandonato» replicò l'uomo.
«Se così fosse io non ho nessuna colpa» concluse secco il giovane.
«Christine può... essersi sbagliata» ipotizzò Raoul premendo la schiena contro il sedile, come temendo che  la tensione negli sguardi degli altri due potesse ucciderlo. Era davvero in una carrozza con Christine ferita e il Fantasma dell'Opera?... Forse si sarebbe svegliato da quell'incubo. Forse no...
In quel momento la carrozza si fermò davanti al palazzo dove abitava la famiglia Dubois. Alexandre sospirò pensando che ora avrebbe dovuto affrontare sua madre, che se ciò che aveva detto Christine nella grotta era vero, allora c'erano molte cose che madame Ginette avrebbe dovuto spiegarli: la donna che lo aveva allevato, che lo aveva amato, che si era presa cura di lui era davvero la stessa donna che aveva abbandonato suo fratello?
Il giovane ebbe l'impulso di strappare via la maschera di Erik, vedere cosa c'era di così terribile su quel volto, tanto da costringere sua madre ad abbandonarlo per poi rimpiangerlo tutta la vita. Ma si impose di mantenere la calma e di aspettare un momento più adatto, adesso lui teneva la sua Christine stretta al petto e quella fanciulla era l'unica cosa di cui dovevano preoccuparsi.
Anche Raoul faceva fatica a controllarsi, la vista della ragazza che amava esangue tra le braccia dell'uomo che aveva odiato più di ogni altra cosa lo turbava, ma anche lui si impose di mettere la salute di Christine prima di tutto il resto e resistette all'impulso di strapparla dal petto del Fantasma.
Erik osservò la strada deserta e il portone del palazzo, uno scorcio del mondo da cui si era nascosto, un mondo che mai come in quel momento suscitava i suoi pensieri peggiori. Tuttavia non indugiò in simili riflessioni, strinse un po' di più la ragazza tra le braccia e si incamminò all'interno dell'edificio preceduto da Alexandre che gli faceva strada lungo le scale.
Raoul ordinò al cocchiere di andare a chiamare il suo medico personale e di portarlo lì il più in fretta possibile, poi entrò anche lui nel palazzo lasciando sbattere il portone e avviandosi verso l'ultimo piano della palazzina dove vivevano  Alexandre e sua madre.

Il giornalista infilò una pesante chiave di ottone nella serratura di una porta di legno scuro che si aprì su un corridoio tappezzato con una fine carta da parati azzurra e arredato con mobili di mogano.
«Alexandre?» disse una voce femminile dal fondo.
Erik ebbe un sussulto quando oltrepassò l'uscio seguito da Raoul che richiuse la porta d'ingresso alle loro spalle.
Una donna in vestaglia, con lunghi capelli scuri striati da ciocche argentate e raccolti in una spessa treccia, fece capolino da una stanza e andò incontro al figlio.
Madame Ginette si fermò impietrita in mezzo al corridoio quando scorse l'imponente figura alle spalle del ragazzo. I suoi occhi si fissarono sgomenti sulla maschera di cuoio che nascondeva parzialmente il volto dell'insolito visitatore.
Alexandre aprì bocca come per parlare ma ammutolì di colpo mentre riusciva quasi a percepire il battito del cuore di Erik alle sue spalle fermarsi per un lungo istante. La reazione di sua madre valeva più di ogni altra prova.
Raoul scostò indelicatamente il suo amico e fece cenno a Erik di seguirlo,
«Perdonate l'intrusione e l'irruenza, madame Dubois, ma Christine ha bisogno di cure» disse semplicemente il visconte avviandosi verso la camera degli ospiti. Rendersi utile era l'unica alternativa allo stramazzare svenuto sul pavimento.
Erik passò accanto alla donna senza degnarla di uno sguardo mentre lei rimase a fissarlo fino a quando non sparì oltre la porta, poi si voltò a guardare Alexandre con aria smarrita stupendosi di leggere negli occhi di suo figlio una durezza che non aveva mai visto,
«So tutto» dichiarò il giovane con voce fredda. «O meglio ho saputo parte di quello che mi avete sempre nascosto, il resto esigo che me lo raccontiate ma non adesso».
Ciò detto Alexandre si avviò per raggiungere la stanza dove si erano diretti Erik e Raoul insieme a Christine, madame Ginette trattenne suo figlio afferrandogli la manica del soprabito,
«Aspetta...» gli mormorò con voce tremula e implorante. «Nemmeno io lo sapevo, l'ho scoperto quella notte, al ballo di capodanno e...»
«Non importa come e quando, penso che l'unica cosa rilevante è che mi abbiate fatto credere per anni che piangevate un figlio morto, quando in realtà lo avevate abbandonato!» replicò il ragazzo sottraendosi alla stretta di sua madre e allontanandosi per poi sparire oltre la porta della stanza.

Erik appoggiò la fronte contro il vetro della finestra e chiuse gli occhi ascoltando il ticchettio della pioggia che aveva cominciato a cadere su Parigi e pregando che il rumore dei tuoni in lontananza potesse sovrastare il brusio doloroso dei pensieri che lo avevano assalito da quando aveva oltrepassato la soglia di quella casa.
Raoul si sporse a spiare il volto della ragazza che avevano adagiato sul letto in attesa dell'arrivo del medico. Christine sollevò debolmente le palpebre e le strizzò più volte tentando di mettere a fuoco la stanza, ma la vista era appannata e la testa le doleva in maniera indicibile.
Il visconte la osservò con un moto di ansia mentre lei tentava di muovere le labbra per parlare,
«Erik...» fu l'unica parola che uscì dalle labbra smunte.
Con un sospiro Raoul si staccò dal letto e lasciò che Erik si sedesse al capezzale della giovane.
Christine sollevò lentamente una mano che l'uomo strinse tra le sue,
«Erik... stai bene?» chiese a fatica.
Il Fantasma sollevò un sopracciglio,
«Amore mio, non sono io ad avere un proiettile in una spalla, ma avrei preferito un colpo di cannone in pieno petto che un solo graffio sulla pelle» mormorò con tristezza.
La giovane sorrise,
«Non è niente... starò bene» gli disse in tono rassicurante.
In quel momento Alexandre entrò precipitosamente nella stanza e si appoggiò con le spalle contro la porta come a tentare di chiudere fuori di lì l'angoscia che aveva cominciato ad attanagliargli lo stomaco.
Christine si voltò a guardarlo e gli fece cenno di avvicinarsi. Il ragazzo andò verso il letto e si fermò  alla destra di Erik,
«È stata madame Giry a dirmelo» sussurrò.
«Non parlare Christine, non devi affaticarti» la interruppe il giornalista in tono apprensivo.
«Il dottore sta arrivando» aggiunse Raoul.
«Smettetela di preoccuparvi per me» replicò la ragazza. «Voglio che sappiate»
«Christine non...» tentò di dire Erik ma la giovane lo zittì con uno sguardo così deciso e penetrante che lui fece quasi fatica a credere che fosse proprio lei.
«È stata Madame Giry a dirmi tutto: madame Dubois l'aveva accidentalmente sentita mentre parlava di te con Raoul e aveva capito che tu eri il figlio che lei aveva abbandonato tanti anni prima. Io e Madame Giry avevamo avuto paura di dirtelo, in mezzo a tutta la confusione a tutti gli eventi che ci hanno sconvolto in questi mesi non volevamo aggiungere altre complicazioni ma non potevamo permettere che voi vi faceste del male, che due fratelli si causassero dolore a vicenda».
Erik e Alexandre si scambiarono un rapido sguardo indecifrabile, stavano per dire qualcosa ma Raoul richiamò la loro attenzione,
«Il dottore è arrivato, sta salendo in casa!» esclamò indicando la finestra dalla quale aveva appena visto il medico scendere dalla carrozza ed entrare nel palazzo. «Tu devi sparire Erik, non puoi farti trovare qui!»
«Andiamo!» aggiunse Alexandre afferrando l'uomo per un braccio e trascinandolo via. Lui e Christine si scambiarono una rapida occhiata colma di tenerezza prima che il ragazzo lo portasse fuori dalla stanza.
Il giornalista condusse Erik in una camera attigua e chiuse la porta a chiave. I due restarono ad ascoltare i passi di Raoul che andava verso la porta per accogliere il dottore, poi sentirono il medico chiudersi nella stanza con Christine e restarono in attesa.
«Mi avevano raccontato che eri morto» disse all'improvviso Alexandre fissando tristemente il cerchio di luce giallastra che una candela disegnava sulla superficie di un tavolino di ciliegio laccato.
«È la verità. Io non sono il figlio di tua madre, Alexandre, non sono tuo fratello» rispose Erik in tono piatto. «I figli sono tali solo quando vengono allevati dai propri genitori, i fratelli crescono insieme, io e te non siamo altro che estranei»
«Mia madre ha passato tutta la vita a piangerti, ha sempre sofferto di crisi di depressione. Anche io trovo orribile quello che ha fatto, ma sono certo che non è stata una scelta facile...»
«Nemmeno la mia vita lo è stata. Non chiedere di mostrare pietà verso chi non ne ha avuta per me»
«Anche io sono arrabbiato con lei in questo momento ma voglio concederle almeno la possibilità di spiegare, voglio capire prima di condannare» asserì il giovane in tono deciso.
Erik gli scoccò un'occhiata penetrante,
«Per te è facile, tu sei il figlio che hanno amato, la persona brillante... guardati» Erik indicò i loro riflessi sbiaditi contro l'anta di vetro di una cristalliera. «Guarda; in questi mesi non c'è stata una sola persona che non ti abbia stimato, una sola donna in tutto il teatro che non abbia sospirato per te!»
«Ma tu hai Christine» ribatté Alexandre.
Il Fantasma strinse gli occhi,
«Tu la ami...» asserì con un filo di voce.
«Non alla tua stessa maniera. La amo come si amano le cose belle che vanno protette, le voglio molto bene ma il mio affetto o l'amore di un altro uomo non potrebbe mai competere con ciò che tu provi per lei, e lei lo sa»
«È la mia vita, la sola cosa che abbia mai contato davvero nella mia esistenza miserabile e il non essere riuscito a proteggerla mi fa sentire un maledetto idiota, un buono a nulla!»
«Anche io avrei voluto proteggerla e anche Raoul, ma devi ammettere che la tua trovata di piombare sul placo durante la rappresentazione di stasera è stata piuttosto folle» disse il giornalista.
«Onestamente, non credevo che Bertrand sarebbe arrivato a tanto, comunque, hai ragione, sono stato un incosciente e non me ne pentirò mai abbastanza» borbottò Erik con un moto di stizza.
«Ormai non è più il caso di tormentarti, ora devi pensare a Christine»
«Non volevo costringerla a una vita da fuggiaschi insieme a me, ma temo che dovremmo lasciare Parigi...».
La pioggia si era fatta più fitta, ora martellava incessante contro le finestre, scrosciando copiosamente sui vetri.
«Puoi contare su di me» disse Alexandre in tono deciso, parlando al di sopra del rimbombo di un tuono in lontananza.
«Non sei obbligato ad aiutarmi, te l'ho già detto: non siamo fratelli» rispose l'uomo mettendosi a camminare nervosamente su e giù per la stanza.
«E invece lo siamo Erik, che tu lo voglia o no. Sono stati i nostri genitori ad abbandonarti, ma io non commetterò i loro stessi errori»
«Dio, Alexandre! Sei così altruista da darmi sui nervi!».
Il ragazzo si concesse una mezza risata,
«Ho sempre saputo che avevi il senso dell'umorismo!» disse sorridendo.
«E sei anche dannatamente ostinato, quasi quanto...» aggiunse l'uomo interrompendosi con l'aria di qualcuno colto in fallo.
«Quanto te» concluse suo fratello guardandolo negli occhi.
I due restarono in silenzio per lunghi minuti fin quando Raoul non li raggiunse,
«Che dice il dottore?!» esclamò di colpo Erik appena lo vide entrare nella stanza notando l'espressione affranta del ragazzo.
«È fuori pericolo, il proiettile è stato sparato da una distanza abbastanza ravvicinata e non ha fatto grandi danni, è riuscito a estrarlo senza fatica e l'ha medicata. È molto debole perché ha perso molto sangue ma si riprenderà presto» spiegò il visconte con voce spenta.
Il Fantasma non fece caso alla sua aria cupa e fece per avviarsi fuori dalla stanza ma Raoul lo trattenne spingendolo indietro con una mano all'altezza del petto.
«Che vuoi?» borbottò Erik piccato
«C'è un'altra cosa»
«Cioè?».
Raoul deglutì come se stesse ingoiando un boccone amaro e strinse i pugni con fare rabbioso,
«Il dottore ha detto che Christine è incinta» concluse in tono adirato.
«Oh mio Dio...» sussurrò Alexandre spalancando gli occhi.
Erik ebbe la sensazione che ogni cellula del suo corpo fosse divenuta di pietra, l'aria non riusciva ad arrivare ai polmoni e gli occhi confondevano la stanza e il volto del visconte davanti al suo facendo diventare ogni cosa un misto di macchie sfocate.
«Che cosa hai detto?» farfugliò incredulo.
«Mi hai sentito benissimo!» esclamò Raoul. «Come hai osato?!»
«Credi che lo sapessi? Credi che se l'avessi saputo l'avrei fatta salire su quel palco?!» tuonò il Fantasma furente.
«No, come hai osato approfittare di lei, della sua innocenza?» precisò il visconte con il volto che gli si arrossava per la collera.
«Credi forse che l'abbia costretta? Credi che l'abbia manipolata per farle fare qualcosa che non voleva? Non ti permetto di offendermi in questo modo, né di considerare lei uno sciocca ingenua che si lascia sedurre dal primo arrivato. Io la amo Raoul, e lei ama me, fattene una ragione!»
«E questo credi ti dia il diritto di disonorarla?!»
«Ah già, perché nel tuo mondo l'amore è un contratto, una specie di asta, una lotteria per scegliersi la fanciulla più ricca e più virtuosa!» esclamò Erik in tono canzonatorio. «E tutto quello che sapete fare è pensare all'onore e alle vostre anime che ritornano immacolate dopo aver recitato un rosario, non importa quanta gente lasciate a morire di fame fuori dalle vostre case, quanti disgraziati ignoriate e permettete che marciscano nella loro miseria! Non credere di essere in condizione di farmi la morale, ragazzino, non pensare di poter giudicare le mie azioni o quelle di Christine!»
«Perché tu al mio confronto saresti un grand'uomo?! Tutta Parigi vuole la tua testa mentre di là c'è una ragazza stesa in un letto con tuo figlio in grembo!»
«Basta!» tuonò Alexandre allontanando i due uomini con una violenta spinta.  
«Adesso non vorrai prendere le sue parti?!» esclamò Raoul con fare offeso.
«Come se ci fossero parti da prendere!» replicò il giornalista esasperato. «L'unica cosa che conta qui è che Christine adesso ha bisogno di tutto il nostro affetto, non del suo uomo e di un suo amico che litigano come cani rabbiosi!»
«Esattamente» tagliò corto Erik. «Io vado da lei!».
Il visconte lo seguì fuori dalla stanza ma Alexandre lo trattenne per l'orlo della manica,
«È la loro vita Raoul, temo che tu debba starne fuori» concluse in tono perentorio.
«Già... dopo questo credo mi ci vorrà qualcosa di forte» borbottò il ragazzo. «Per favore, offrimi da bere...».
Il giornalista fece cenno all'amico di mettersi seduto attorno al tavolino, poi aprì il vano inferiore della cristalliera e ne estrasse una bottiglia di cognac e due bicchieri a calice larghi e bassi.
I due giovani bevvero d'un fiato poi si fissarono con un lieve imbarazzo, con il disagio di chi sa che il proprio migliore amico sta vivendo qualcosa di troppo grande e complesso per riuscire a comprenderlo. Alexandre aveva appena scoperto che l'uomo a cui aveva dato la caccia nei mesi precedenti in realtà era suo fratello mentre Raoul si era reso conto che non avrebbe mai potuto avere la donna che amava e che lei aspettava il figlio di un altro.
«Come stai?» blaterò il visconte versandosi dell'altro liquore.
«Credi davvero che esistano parole per spiegarlo? Tu piuttosto come stai?» rispose il giornalista con un sospiro.
«Credo che l'unica parola che esista per spiegarlo sia: annientato»
«Io invece mi sento come se ogni cosa, tutto quello che ho sempre pensato, tutto quello che ho sempre vissuto, fosse stato fatto a pezzi e poi rincollato in un modo totalmente diverso da com'era prima. Mi sento smarrito...»
«Dio, vorrei tornare all'anno in cui ti ho conosciuto... tutto questo era così lontano e inimmaginabile»
«Le cose vanno sempre in una direzione, Raoul, è giusto che le vite delle persone si evolvano, cambino...» replicò Alexandre poggiando il bicchiere sul tavolino.
«D'accordo, ma direi che il destino si è sbizzarrito con noi nelle ultime ore!» esclamò il visconte scuotendo il capo.
«Anche questa situazione evolverà, vedrai, prima o poi le cose si rimetteranno a posto»
«Tu hai trovato un fratello... una persona del tutto discutibile, ma pur sempre un fratello, io invece ho perso un amore»
«Non lo hai perso: non lo hai mai avuto. Mi dispiace amico, sul serio, ma non è la tua ultima occasione di essere felice, un giorno te ne renderai conto».
Il visconte sospirò,
«Torna a ripetermelo quando sarò un vecchio solo e ingrigito!» borbottò.
Alexandre gli tirò una pacca affettuosa sulla spalla e sorrise, in quello stesso momento madame Ginette comparve sull'uscio della porta.

*

Erik si sedette sul bordo del materasso e accarezzò dolcemente il viso di Christine, sistemandole alcune ciocche di capelli che le si erano attaccate sulla fronte. Lei aprì piano gli occhi e bastarono una manciata di secondi perché il suo sguardo si facesse lucido di lacrime,
«Oddio... Erik...» mormorò cominciando a piangere.
L'uomo le sorrise rassicurante,
«Voglio sperare che siano lacrime di gioia» le disse fingendo una sicurezza e una tranquillità che non aveva.
«Non lo so...»
«Christine, sono stato un incosciente. Ho desiderato il tuo amore e la tua vicinanza più di ogni altra cosa, senza rendermi conto che non avevo nulla da offrirti, ma adesso... non so cosa farò, ma ti giuro che ogni mio singolo respiro non avrà altro scopo che quello di renderti felice»
«Io ti amo... questo basta».
Erik le appoggiò una mano sul grembo coperto da una spessa trapunta che la teneva al riparo dal freddo della notte ormai inoltrata,
«Sì, ma credo che lui abbia bisogno di qualcosa di più» concluse in tono calmo.
«Andiamo via, lasciamo Parigi, riprendiamoci la nostra vita dove il mondo non potrà farci del male!»
«Il mondo è pronto a far del male ovunque e a chiunque, ma se nel nostro destino c'è un po' di pace, la troveremo, te lo prometto...»
«Grazie...»
«Adesso riposa però»
«Sì, ma... Erik, puoi fare una cosa per me?» domandò la ragazza stringendo con ansia la mano dell'uomo.
«Certo» rispose lui mentre le rimboccava le coperte.
«Parla con madame Dubois. Lo so, lo so che è terribile quello che ha fatto, ma dalle almeno la possibilità di spiegarti, sarebbe un peccato perdere una famiglia appena dopo averla ritrovata» disse Christine.
Erik sospirò e alzò gli occhi al cielo,
«Sono le stesse cose che ha detto Alexandre» borbottò.
La fanciulla accennò un sorriso
«È un ragazzo così meraviglioso che non c'è da stupirsi che sia tuo fratello» sospirò per poi chiudere gli occhi e abbandonarsi a un profondo sonno ristoratore.

*

Madame Ginette camminò lentamente verso il centro della stanza e si fermò di fronte a suo figlio. L'angoscia e lo stupore le attanagliavano la gola e le annebbiavano i pensieri, ma si impose di essere lucida e di trovare le parole adatte.
«Mi dispiace, Alexandre, io non potevo immaginare» sussurrò.
Il ragazzo scosse il capo,
«Avreste dovuto dirmelo prima» disse.
«Avrei dovuto fare tante cose. Avrei dovuto essere più forte di tuo padre e non lasciare che mi costringesse ad abbandonare tuo fratello, ma la mia debolezza non è una giustificazione»
«Dunque è stato mio padre?»
«Sì. La levatrice disse che era una forma di infezione delle pelle, qualsiasi cosa fosse sai che tipo d'uomo era tuo padre, voleva che ogni cosa fosse perfetta, per questo lo ha rifiutato ed è per questo che si è accanito così tanto su di te, sul fare in modo che tu diventassi qualcuno».
Alexandre deglutì,
«Io ero il suo risarcimento per il figlio che non aveva voluto» disse con amarezza.
Raoul gli posò una mano sulla spalla in un gesto di conforto. Avrebbe voluto trovare qualcosa da dire, qualcosa da fare che potesse in qualche modo alleviare quella situazione, ma non poté fare altro che alzarsi e uscire per lasciare a madre e figlio la loro intimità.
«La vita con lui è stata terribile anche per me» proseguì madame Ginette ricordando i lunghi anni trascorsi con suo marito, con quell'uomo che le era sembrato così perfetto e che invece si era rivelato un despota. «Ma mai quanto il rimpianto per Erik. Sai come è stata misera la mia esistenza... ma non voglio la tua pietà o la sua. Ho dovuto mentirti per dare almeno a te la serenità che non ho potuto avere io, ora vorrei solo essere perdonata, ma non so quanto lo merito, non dopo aver visto cosa n'è stato di lui... il Fantasma dell'Opera... se non fossi stata tanto meschina la creatura che tutti hanno temuto così tanto non sarebbe esistita»
«Erik ha solo cercato di riprendersi la sua vita...»
«La vita che io gli ho tolto, intendi dire. Ma il vero orrore in tutta questa storia è che avete rischiato di farvi del male, di spargere il vostro stesso sangue, è un pensiero che non riesce a darmi pace. Sarò maledetta per sempre!». Così dicendo Madame Ginette si voltò e si nascose il volto tra le mani in un moto di vergogna e angoscia, Alexandre si alzò e le si avvicinò incerto se consolarla o lasciarla a consumarsi nel rimorso. Nemmeno lui sapeva cosa fare, cosa pensare, ma in quel momento la porta si aprì e Raoul entrò trafelato.
«Che altro c'è ancora?!» sospirò il giornalista in tono esasperato.
«I gendarmi! Con Bertrand! Stanno venendo qui!» esclamò il visconte.
«Erik!» esclamarono all'unisono Madame Ginette e suo figlio.
Alexandre si lanciò fuori dalla stanza e raggiunse il Fantasma che era rimasto in piedi a vegliare su Christine,
«Stanno venendo a prenderti» bisbigliò il ragazzo per non svegliare la fanciulla addormentata, poi trascinò Erik fuori dalla camera.
«Cosa diavolo?...» replicò lui seccato.
«Bertrand ha portato i gendarmi qui! Devi nasconderti»
«Bertrand! Perché non lo avete ucciso?! Ah, tu e il tuo buonismo!».
Alexandre sospirò stizzito,
«Non ho nessuna intenzione di discutere di etica e omicidi in questo momento!» replicò.
«Molto bene, allora dovrai farti venire qualche idea prima che il tuo compare salga le scale insieme ai suoi amici» borbottò Erik.
«Ma se sei tu quello abituato a sparire nel nulla!» si intromise Raoul che li aveva raggiunti.
«Questa casa non è il mio teatro»
«Ma per fortuna questa casa è all'ultimo piano» asserì il giornalista indicando la finestra.
Il Fantasma si sporse fuori e calcolò la distanza dal davanzale al suolo. Erano al quinto piano di un'enorme palazzina, una caduta da una simile altezza non gli avrebbe lasciato un solo osso intatto in tutto il corpo.
«Magnifico! Così se cado non vi farete venire i sensi di colpa» sibilò.
«Insomma, vuoi muoverti?! Se ti trovano qui non sarà solo la tua testa che il boia farà cadere!» esclamò Raoul.
«Non vorrei mai che la lama della ghigliottina rovinasse la tua chioma dorata, visconte» ghignò il Fantasma.
«Erik! Maledizione!... Sul tetto!» gracchiò Alexandre un attimo prima che una violenta bussata alla porta li facesse sobbalzare.
La pioggia aveva certamente reso le tegole scivolose e il giornalista si rese conto che far arrampicare Erik fuori dalla finestra era una follia, ma non avevano altra scelta.
L'uomo rivolse ai due giovani uno sguardo beffardo poi, prima che se ne rendessero conto, sparì con un balzo oltre il davanzale come se fosse stato risucchiato dal cielo buio della notte. 


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Si... ok... il risvolto "cicognoso" era scontato.
 Come omaggio per chi non ha già impungato i pomodori marci da lanciare all'autrice offro la COLONNA SONORA per il  capitolo (per la serie "si ride per non piangere").
 Al prossimo aggiornamento.



Capitolo reinserito il 29\12\2011

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Capitolo 28
*** La fuga ***


 
 Dopo sei ore di studio intensivo, trascorse a mandare a memoria tutta la terminologia tecnica del linguaggio cinematografico, l'autrice dichiara di non essere in possesso delle proprie facoltà mentali, indi rinvia le risposte alle recensioni al prossimo aggiornamento che, si spera, avverrà in tempi più rapidi di questo.
 Intanto si ringraziano tutti i seguitori


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CAPITOLO VENTICINQUESIMO
La fuga

«Aprite!» la voce che pronunciò quell'ordine era aspra e seguì tre pesanti colpi alla porta di ingresso della casa.
Madame Ginette lanciò un'occhiata nervosa verso suo figlio, Alexandre le fece cenno di andare ad aprire,
«Manteniamo tutti la calma» sussurrò assicurandosi che sia sua madre che Raoul udissero la sua raccomandazione.
La donna si strinse nella vestaglia e aprì il battente ricordando a se stessa che, se poteva fare  qualcosa per il figlio che aveva abbandonato, quello era il momento di farlo. 
«Monsieur Bertrand!» esclamò fingendo una smorfia di fastidio davanti all'espressione dura dell'investigatore.
«Perdonate il disturbo, madame Dubois» borbottò l'uomo con un tono tutt'altro che di scusa. «Na dovete lasciarci passare»
«Non abbiamo niente da nascondere» replicò lei con fermezza.
«Allora non avrete problemi a lasciare che i signori della gendarmeria perquisiscano casa vostra»
«Nessun problema» esclamò una voce tranquilla dal fondo del corridoio. Alexandre avanzò lentamente verso l'ingresso e Bertrand entrò con uno scatto, quasi buttando per aria madame Ginette che era ancora davanti alla porta.
«Dov'è lui?» ringhiò l'investigatore fissando il giovane con aria truce.
«Lui chi?»
«Erik!».
Alexandre sorrise tranquillo,
«Non ne ho idea» disse con un tono talmente soave che il volto dell'uomo arrossì per la collera. Nel frattempo Raoul raggiunse anche lui il corridoio e si avvicinò al capitano della gendarmeria,
«Che cosa sta succedendo?» chiese.
«Monsieur Bertrand ci ha detto di essere stato con voi nei sotterranei e che avete aiutato il Fantasma a scappare» rispose l'ufficiale.
«Uhm, e Monsieur Bertrand vi ha anche edotto riguardo al fatto che ha ferito mademoiselle Daae e che ha confessato di essere responsabile dello stupro della ballerina aggredita la notte di capodanno?» intervenne Alexandre.
«Non ho ferito Mademoiselle Daae, è lei che si è messa di mezzo mentre cercavo di fermare quel criminale del Fantasma! In quanto all'aver ammesso lo stupro, lo state affermando voi, ma non potete provarlo» replicò l'investigatore allargando uno dei suoi sorrisi melliflui.
«Ero presente anche io. La parola di uno stimato giornalista e di un visconte di Francia contro la vostra, Bertrand» aggiunse Raoul.
I gendarmi fissarono basiti l'uomo che strinse i pugni nel tentativo di trattenersi dall'assestare un colpo sul naso di quel ragazzino impudente.
«Uno stimato giornalista e un visconte che si stanno rendendo complici di un assassino!» esclamò. «Quale rilevanza possono mai avere le vostre parole?»
«Complici di un assassino?» domandò Madame Ginette fingendo di non capire.
Il capitano della gendarmeria sospirò
«Monsieru Bertrand sospetta che il visconte e vostro figlio abbiano condotto qui quell'uomo conosciuto come il Fantasma dell'Opera insieme a Mademoiselle Daae» spiegò.
«Mademoiselle Daae è qui, ferita da un colpo di pistola sparato dal nostro amico Bertrand» borbottò Alexandre. «L'abbiamo portata via dopo una breve colluttazione nel sottopalco del teatro, in cui il visconte si è visto costretto a colpirlo dal momento che non voleva abbassare l'arma. Del Fantasma dell'Opera non sappiamo che dirvi, di certo non è qui. Controllate pure se volete».
Il capitano annuì e fece cenno ai suoi uomini di ispezionare la casa. Bertrand seguì i gendarmi durante la perquisizione preoccupandosi di controllare personalmente ogni stanza, dentro ogni armadio e sotto ad ogni letto.
«Qui non c'è nessuno» concluse un gendarme scuotendo il capo.
«Non è possibile! Deve essere da qualche parte! Con loro!» tuonò Bertrand irritato.
«Ma come vedete, non c'è» concluse Alexandre scrollando le spalle.
«Impossibile! Non sarebbe mai scappato abbandonando la sua sgualdrina!»
«Monsieur, moderate i termini quando siete in casa mia!» tuonò madame Ginette con fare indignato. «Apostrofare in quel  modo quella povera anima che adesso è inferma in un letto a causa vostra!».
L'investigatore trattenne a stento un moto di stizza, poi sentì un spiffero soffiare contro la sua nuca e si voltò di scatto verso una finestra socchiusa,
«La finestra!» esclamò. «Lo avete fatto scappare da lì! Voglio che degli uomini salgano a controllare il tetto!».
Una morsa di agitazione strinse lo stomaco di Raoul, Alexandre e sua madre, tuttavia mantennero la calma mentre il capitano si affacciava al davanzale e guardava verso l'alto.
«Con tutto il rispetto, monsieur Bertrand, ma è improbabile che quell'uomo sia scappato da qui» asserì l'ufficiale. «Piove ancora molto forte e il tetto sarà certamente troppo scivoloso perché qualcuno possa arrampicarsi, se il Fantasma ci avesse provato sarebbe certamente caduto e siamo a un quinto piano! Che il diavolo mi porti se qualcuno ha avuto il fegato di arrampicarsi su un tetto in una notte come questa!».
Nell'udire quelle parole madame Ginette pregò tra sé e sé che non fosse capitato niente a Erik mentre sgattaiolava fuori e cercò di resistere all'impulso di affacciarsi a ogni finestra della casa per controllare se fosse riverso in strada.
«State dimenticando che quell'uomo è stato capace di sparire nel nulla davanti a un teatro intero!» replicò l'investigatore in tono spazientito. «È meglio se mandate i vostri uomini a controllare»
«Sarebbe un suicidio! Scivolerebbero di sotto! Nessuno può essere scappato da qui, se lo avesse fatto a quest'ora avremmo il suo cadavere schiantato sul ciottolato» protestò ancora l'ufficiale.
Bertrand sbuffò con rabbia, poi si voltò verso Alexandre e lo guardò con un'occhiata penetrante,
«Perché lo fate? Perché lo state aiutando? Come diavolo vi è venuta questa malsana idea di farvi complice di quel mostro?» domandò con un'espressione più delusa che adirata.
Il giornalista gli si avvicinò con passo lento pensando che, grazie a Dio, quando Christine aveva urlato a Erik che loro due erano fratelli, Bertrand fosse privo di conoscenza e che quindi non l'aveva udita,
«La caccia è finita» gli mormorò guardandolo negli occhi. «Fatevene una ragione»
«La caccia non è finita, ragazzo. Lo troverò. Vivo o morto» sibilò l'uomo.
«Per sicurezza i miei uomini pattuglieranno la zona» aggiunse il capitano. «Ma voi adesso dovete seguirci, monsieur»
«Come dite?»
«Dovete venire con me alla gendarmeria» precisò l'ufficiale. «Monsieur Dubois e il visconte De Caghy vi hanno mosso accuse piuttosto serie, dobbiamo quanto meno discuterne».
Bertrand non parve scomporsi,
«Accuse che non possono essere provate, vi ricordo» asserì tranquillo.
«Se la mettete così nemmeno le accuse che voi avete mosso a mio figlio e al visconte possono essere provate, anzi mi pare che le prove raccolte fin qui giochino a loro favore» borbottò madame Ginette. «Li avete accusati di nascondere un criminale che di fatto non è nascosto qui!»
«Vedete, madame, se ne aveste viste tante quante ne ho viste io sapreste che le apparenze ingannano» concluse freddamente l'investigatore prima di uscire seguito dai gendarmi.
Alexandre chiuse la porta alle loro spalle e rimase ad ascoltare i loro passi che scendevano le scale, poi li guardò dalla finestra uscire dal palazzo e allontanarsi lungo la strada.
Era evidente che Erik non fosse caduto, altrimenti se ne sarebbero accorti. Probabilmente era rimasto appostato sul tetto, sotto la pioggia fino a quando non aveva visto i poliziotti andare via.
«Perché non scende? Dove è finito?!» borbottò Alexandre notando che erano passati diversi minuti da quando i poliziotti si erano allontanati e l'uomo non accennava a rientrare, mentre fuori continuava a piovere e madame Ginette sembrava sempre più ansiosa.
«E se nel frattempo è sceso in strada e qualcuno lo ha visto?» esclamò la donna preoccupata.
«No, non è così stupido da farsi vedere! Dannazione è notte fonda e sta diluviando, non c'è nessuno in strada a parte i gendarmi» borbottò il giornalista.
«Non è così stupido da farsi trovare ma è abbastanza pazzo da aver fatto qualche follia» commentò bieco Raoul.
«E cioè?»
«Scommetto tutti i possedimenti della mia famiglia che è tornano al teatro» disse il visconte.
Alexandre sgranò gli occhi,
«E perché mai avrebbe fatto un simile idiozia?!» esclamò.
«Perché, nel caso tu non te ne fossi accorto, il nostro caro Fantasma è un pazzo!»
«Perché sta rischiando in quel modo?!... Oddio, ha visto Bertrand e vuole vendicarsi»
«Alexandre, vallo a cercare!» disse madame Ginette allarmata.
«Non posso, se i gendarmi mi vedono in giro capiranno che lo stiamo aiutando, o comunque potrebbero insospettirsi» replicò il ragazzo.
«Ma se uccide Bertrand non farà che complicare la situazione, ammesso che possa complicarsi più di quanto già non lo sia!» aggiunse Raoul.
Alexandre si lasciò cadere stancamente su una poltrona,
«Temo che non possiamo più fare altro» ammise con un sospiro. «Dobbiamo solo aspettare»
«E sperare che Christine non si svegli e non si accorga della sua assenza» concluse il visconte.

*

Il tetto era pericolosamente scivoloso con tutta quella pioggia che continuava a cadere. Arrampicarsi fin lassù era rischioso, ma non per lui. Non per il Fantasma dell'Opera, abituato a scale, cunicoli bui e umidi e funi. Quelle imprese spericolate erano state il divertimento della sua infanzia.
Salire, arrampicarsi fino in cima, sulle statue di bronzo del parapetto a un passo dal vuoto e a un palmo dal cielo... andare via dal fango e, chissà, magari anche dal dolore.
Erik era arrivato in cima alla palazzina ed era rimasto rannicchiato sotto la fitta pioggia che picchiettava pungente sulle spalle e sulla testa, nascosto dall'acqua scrosciante e dal buio della notte. Dall'alto aveva visto il piccolo drappello di gendarmi guidati da Bertrand entrare nel palazzo e uscirne molto tempo dopo. Aveva deciso di scendere, lo avrebbe trovato, lo avrebbe preso e finalmente avrebbe liberato il mondo da quell'essere.
Raggiunse con prudenza la strada e si nascose dietro l'angolo dell'edificio a spiare il capitano dei gendarmi dare disposizioni per pattugliare il quartiere e tutta la zona vicino al teatro.
Quando la pattuglia si fu allontanata, l'uomo cominciò a camminare cauto, rasente il muro, facendo molta attenzione a rimanere sempre nel buio del cono d'ombra proiettato dalle sagome degli edifici. In fondo alla strada vide uno scorcio della piazza e il profilo del maestoso palazzo che ospitava l'Opera Populaire, sospirò mentre si rendeva conto che i suoi vestiti erano zuppi di acqua e per la prima volta dopo tanto tempo provò paura, quella paura infantile e spiazzante del bambino che si perde nella folla e non riesce a ritrovare la mano di sua madre.
La pioggia continuava a cadere, scivolando sul suo viso in grossi goccioloni dal sapore di ruggine che gli colavano dal mento, come a ricordargli che ora sì che era soltanto un uomo!
Erik deglutì nervosamente e si terse la pioggia dal viso con un gesto stizzito, poi sentì una voce provenire da una viuzza laterale,
«Dovete fare molta attenzione» disse quella voce che ormai aveva imparato a riconoscere con lo stesso fastidio con cui il suo fine orecchio da musicista coglieva una nota stonata in una sinfonia. «Dovete cercare in ogni angolo, dovunque! E per l'amore del cielo! Non siate spaventati come galline, con ogni probabilità quell'uomo è disarmato».
Erik spiò silenziosamente Bertrand che impartiva ordini e raccomandazioni a un piccolo drappello di gendarmi che stringevano ansiosi le mani attorno alla canna del loro fucile. L'ordine era quello di sparargli a vista.
Con la coda dell'occhio l'uomo scorse una spessa corda legata alle estremità di una ringhiera, probabilmente serviva per stendere il bucato. Sciolse la fune e ne testò la resistenza poi le fece un nodo scorsoio da un lato e stringendo il cappio tra le mani avanzò nel buio nella direzione in cui si era diretto Bertrand.

Due occhi attenti notarono la sagoma scura sfrecciare rapida tra due palazzine come un'ombra che scompare non appena si sposta l'inclinazione della lampada. La figura, che reggeva una piccola sacca di cuoio e che camminava proteggendosi dalla pioggia con un pesante mantello di lana scura, si lanciò all'inseguimento dell'ombra e la raggiunse alle spalle.

Erik aveva appena trovato Bertrand. L'investigatore si era fermato sotto la tettoia di un'edicola a fumare un sigaro fissando davanti a sé con un'espressione di odio rabbioso, come se fosse convinto che la città stessa fosse complice del suo nemico, come se la notte, la pioggia, il buio fossero tutti alleati dell'uomo a cui stava dando la caccia.
Il Fantasma dell'Opera fece il giro dell'isolato raggiungendo la viuzza che sbucava alle spalle dell'edicola dove era fermo l'uomo. Il suo cuore non accelerò di un solo battito, il suo respiro si mantenne regolare mentre stava per scattare in avanti e lanciare il cappio in direzione del collo dell'investigatore, ma quasi inciampò sul ciottolato scivoloso quando una voce alle sue spalle chiamò il suo nome in un lieve sussurro.
Erik si voltò con uno scatto spaventato per ritrovarsi davanti Madame Giry avvolta in un mantello ormai zuppo. Con una velata aria di rimprovero mista ad apprensione, la donna gli strappò via la corda di mano e lo tirò per un lembo del mantello,
«Sei pazzo?» mormorò aspramente. «Vuoi ucciderlo in mezzo a una strada dove potrebbe passare chiunque e scoprirti! Vuoi davvero finire in prigione?!»
«Diavolo, Eloise! Quando smetterai di pensare che l'unico scopo della tua vita è salvarmi?» borbottò lui irritato.
La donna lo trascinò via e si allontanarono a grandi passi infilandosi in un labirinto di viuzze secondarie dove i gendarmi non erano ancora arrivati a controllare,
«Quando la tua vita non sarà più legata a quella di una persona che amo» replicò Eloise. «Ma credo che questo non accadrà mai, quindi... lei dov'è?»
«A casa dei Dubois»
«Ah...»
«Sì, so tutto. Il danno insieme alla beffa» commentò Erik cupo.
Madame Giry si morse il labbro e sospirò,
«Ho delle cose con me» gli disse mostrandogli la sacca che reggeva tra le mani. «Sono dei vestiti e del denaro, pensavo vi sarebbero serviti».
I due raggiunsero il palazzo dove abitava la famiglia Dubois, dovettero aspettare che la pattuglia si allontanasse per entrare.
«Cosa è accaduto nel frattempo nel teatro?» domandò Erik mentre lui ed Eloise salivano le scale tremando per il freddo sotto i vestiti bagnati.
«Il pubblico è scappato via, i direttori sono arrivati a un passo dall'infarto... c'è stata una gran confusione tra chi voleva venirti a cercare e chi ha pensato che non fosse il caso di rischiare» rispose la donna scrollando le spalle.
«Christine aspetta un figlio» aggiunse secco il Fantasma.
Madame Giry si bloccò per un istante stringendo le dita sul corrimano di ferro battuto ma non disse nulla,
«Andrà tutto bene» sussurrò poi.
«Certo...» blaterò Erik con poca convinzione.

«Oh, mio Dio ti ringrazio!» esclamò Madame Ginette quando vide Erik comparire sulla soglia, per poi sobbalzare stupita quando vide Madame Giry alle sue spalle.
«Dove diamine sei stato?!» borbottò Raoul guardando con aria di rimprovero i vestiti bagnati dell'uomo. «Hai idea dello spavento che avrebbe preso Christine se si fosse svegliata?!».
Erik lo fissò con un ghigno canzonatorio,
«Che c'è, visconte? Ti stai affezionando a me?» borbottò.
Il giovane sospirò di esasperazione poi si offrì di accompagnare Madame Giry da Christine mentre Alexandre si accostava a Erik,
«Dobbiamo andarcene» gli disse. «Ho un piano».
Il Fantasma roteò gli occhi con aria di sopportazione,
«Cos'è che ti fa sentire in dovere di farmi da balia?» domandò. «Il senso di colpa o qualche altro maledetto sentimentalismo di cui non riesco ad afferrare il senso?»
«Ah, ti prego non cominciare! Tu devi lasciare Parigi e non puoi farlo da solo»
«Nel caso non lo avessi notato, ho imparato a camminare diversi anni or sono»
«E, sentiamo un po', grand'uomo, dove hai intenzione di andare?»
«Non ci ho ancora pensato».
Alexandre sospirò,
«Allora se vogliamo optare per il piano migliore direi che dobbiamo scegliere il mio» concluse.
«Scusa, ma sono stato troppo occupato a scappare dal tuo amico investigatore e a preoccuparmi di Christine per formulare un piano che fosse all'altezza dei tuoi lampi di genio!» replicò Erik aspro.
«Dunque, abbiamo la carrozza di Raoul che ci porterà fino a casa mia, a Saint-Gaudens... è dove sei nato» spiegò il ragazzo.
Immagini di un'infanzia mai vissuta soffiarono tra i pensieri di Erik come brezza primaverile ma l'uomo di costrinse a ignorarle e a rimanere lucido.
«Dove sarebbe?» chiese asciutto.
«È una piccola cittadina dei Pirenei, a qualche chilometro da Tolosa, vicino al confine con la Spagna».
Erik sgranò gli occhi,
«È praticamente dall'altra parte del Paese!» esclamò.
«Sì, ma tu capirai che non c'è scelta» asserì deciso il giornalista. «Lì non ci verranno a cercare. È il posto dove sono cresciuto, dove è sempre vissuta la nostra famiglia e, con un po' di fortuna, la storia del Fantasma dell'Opera non sarà arrivata fin lì. Poi appena Christine sarà in condizioni di viaggiare ti raggiungerà e una volta tornati insieme deciderete cosa fare»
«Mi stai chiedendo di lasciarla qui?»
«Non te lo sto chiedendo... pensavo ci arrivassi da solo: tu devi andartene al più presto e lei non è in condizione di viaggiare, pensavo che la tua mente geniale risolvesse da sola certi sillogismi».
Erik arricciò le labbra,
«Da come la metti tu sembra che non ci siano altri modi» concluse.
Alexandre aprì la finestra e guardò fuori,
«Tra qualche ora sarà giorno e sarà difficile andarcene senza farci scoprire» gli disse. «Quindi è meglio se decidi in fretta. Io vado a fare i bagagli, nel caso il tuo poco buonsenso ti facesse ragionare, almeno sarò pronto per partire»
«Dovresti ascoltarlo» si intromise Madame Ginette, che in tutto quel tempo era rimasta sulla soglia del salotto a guardare i due uomini discutere.
«Sì, immagino che voi lo reputiate perfetto e infallibile in ogni cosa che fa» commentò Erik con freddezza scoprendosi incapace di voltarsi a guardarla in viso.
La donna entrò nella stanza e gli posò una mano sulla spalla, lui avrebbe voluto sottrarsi a quel tocco ma non ci riuscì. Avrebbe dovuto detestarla, aveva odiato e ucciso per molto meno, ma in quel momento si ricordò che era tutta la vita che aveva desiderato una semplice carezza materna.
Si stupì quando sentì qualcosa di soffice e profumato passargli tra i capelli e lambirgli dolcemente il collo e le spalle: Madame Ginette lo stava asciugando con un telo di ciniglia.
«Lasciatemi stare...» borbottò lui con voce malferma mentre lacrime strane e inaspettate gli pizzicavano le ciglia.
«No, è un errore che ho già fatto una volta e che non ho intenzione di ripetere» rispose lei con fermezza mentre anche la sua voce si incrinava nel tremore del pianto.
«Non me lo avete ancora chiesto...» sussurrò Erik .
«Cosa? Il perdono?» domandò la donna. «Adesso la tua salvezza e quella di Christine è l'unica cosa di cui mi importa e poi, non ho bisogno del tuo perdono, sono tua madre e ti amerò con o senza quello».

Madame Giry era inginocchiata al capezzale di Christine, stringeva tra le mani il suo rosario e pregava. Pregava Dio perché concedesse a quella fanciulla un po' di pace e un po' di quella felicità che meritava e perché Erik potesse avere un'altra possibilità, l'occasione di vivere lontano dalla rabbia, dall'odio, dalla paura che aveva fatto di lui un mostro.
In quel momento l'uomo entrò nella stanza e si avvicinò a Eloise,
«Parto...» le disse. «Alexandre mi accompagnerà fino a Saint-Gaudens, è molto lontano da Parigi, ma sarò al sicuro»
«È la cosa migliore» convenne lei.
«Già... ma potrei non poter tornare mai più a Parigi».
Madame Giry appoggiò la sua mano su quella dell'uomo e sorrise tristemente consapevole che quello era un addio, che l'amico, il fratello, il figlio, l'affetto che Erik era stato per lei stava per andarsene,
«Un giorno forse Parigi si dimenticherà del Fantasma dell'Opera, ma io non mi dimenticherò mai di te» gli disse.
«Dovresti, ti ho fatto solo male, ti ho messa in pericolo, ti ho...»
«Sssh, basta. Mi hai voluto bene... a modo tuo, magari, ma lo hai fatto»,
Erik sospirò. Tra lui ed Eloise non c'erano mai state occasioni per lasciarsi andare alla tenerezza, per scambiarsi affetto nel modo in cui sono soliti farlo i vecchi amici.
«Grazie di tutto, Eloise» concluse l'uomo stringendo la mano della sua interlocutrice.
Lei trattenne a stento le lacrime,
«Ti lascio salutare Christine» concluse sgusciando via dal suo sguardo prima che la tristezza la potesse sopraffare a aggiungere altro amaro a una situazione già abbastanza difficile e dolorosa.
Erik svegliò la ragazza scuotendola dolcemente, lei aprì gli occhi e lo guardò con espressione sollevata,
«Ho sentito tanto trambusto prima... so che sono venuti i gendarmi a cercarti, ho fatto finta di dormire...» mormorò.
Lui le prese la mano e la baciò con delicatezza
«Christine, io devo partire, devo lasciare Parigi» disse con voce affranta.
«Lo so...»
«Non voglio lasciarti».
La giovane sorrise teneramente e gli passò la mano tra i capelli in una carezza amorevole,
«So anche questo, ma non sarà per sempre» gli disse.
«Sì, quando starai bene potrai raggiungermi e...»
«E?...»
«E, vorresti sposarmi, Christine?» domandò lui stringendo un po' di più la mano attorno a quella della fanciulla. Lei sobbalzò come colta alla sprovvista,
«Ti amo così tanto che quasi il matrimonio mi sembra superfluo» disse emozionata. «Ma... sì, Erik, mille volte sì!».
Dopo lunghi minuti l'uomo si staccò da quel letto con aria riluttante,
«Non essere triste» gli disse lei. «È solo per poco, e poi mi lasci in buone mani»
«Sì, certo. Ma se le mani di un certo visconte dovessero allungarsi un po' troppo temo che il nostro amico si ritroverà monco!» scherzò Erik nel tentativo di stemperare la tensione e la malinconia.
Christine rise,
«Smettila! Lui è un gentiluomo» esclamò divertita. «Tu piuttosto, stai attento. Ah già, dimentico che anche tu sei in buone mani. Cerca di trattarlo bene, Alexandre non è abituato a sopportare il tuo caratteraccio come lo sono io»
«Beh, allora è arrivato il momento che si abitui!».
I due si guardarono ridacchiando sommessamente, poi Erik si chinò di nuovo ad abbracciarla e la baciò con trasporto,
«Ti amo, Christine. Ti amo» le mormorò guardandola intensamente negli occhi.
«Ti amo anch'io. Ricordatelo, ogni volta che ti sentirai solo, che ti sentirai triste» rispose la giovane.
«There will never be a day when I won't think of you» canticchiò Erik al suo orecchio prima di lasciare la stanza.

La carrozza aspettava i due fratelli sul retro dell'edificio. Raoul stava ancora dando istruzioni al cocchiere esasperandolo con una serie di raccomandazioni mentre Erik e Alexandre sistemavano i pochi bagagli nel baule.
«Veglia su Christine» mormorò Erik salutando madame Giry prima di salire in carrozza.
«Esigo che la prima cosa che tu faccia all'arrivo sia quella di mandarmi un telegramma e dirmi che siete arrivati tutti interi!» disse madame Ginette abbracciando Alexandre.
«Sì, certo, state tranquilla, maman, è solo un viaggio, non è la prima volta» rispose il giovane.
Raoul si avvicinò al suo amico e gli posò una mano sulla spalla,
«Un lungo viaggio in carrozza con il genio del male... non ti invidio neanche un po'!» scherzò.
«Tu dovresti cercare di tirarmi su di morale!» replicò il giornalista.
«Ci sono frangenti in cui un uomo non può essere tanto diplomatico» asserì il visconte scuotendo il capo.
«E ci sono uomini che farebbero meglio a perdere l'uso della parola» borbottò Erik lanciandogli un'occhiata accigliata.
«D'accordo, d'accordo, andiamo» tagliò corto Alexandre entrando nella vettura.
Erik si voltò per seguirlo ma madame Ginette lo trattenne per la manica della giacca,
«Pregherò per voi» gli sussurrò. «E per il tuo perdono»
«Pregate per Christine» concluse l'uomo sparendo dietro lo sportello della carrozza senza avere la fermezza di guardare in viso la donna nemmeno quella volta.

La carrozza riuscì a lasciare Parigi poco prima che albeggiasse.
Erik era immerso nei suoi pensieri ma sentiva su di sé lo sguardo curioso di Alexandre,
«La smetti di fissarmi! Mi stai irritando, ragazzo» borbottò sbuffando infastidito.
«Non è che ci sia molto altro da guardare qui dentro» replicò il giovane scrollando le spalle.
«D'accordo. Senti, è tutta la notte che sei in piedi a farmi da balia e architettare fughe da romanzo d'avventura, perché adesso non dormi, da bravo e mi lasci in pace?» concluse l'uomo.
Alexandre sospirò,
«Eh, sì. Sarà un viaggio molto molto lungo» si disse reclinando il capo sullo schienale e chiudendo gli occhi.


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Capitolo reinserito il 29\12\2011

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Capitolo 29
*** Nel fondo della speranza ***


Aggiornamento mordi e fuggi prima della partenza... che parto a fare? E' brutto tempo e pare lo sarà per tutta la settimana in cui starò via, suppongo sia la punizione divina per gli aggiornamenti a tempo di lumaca e per aver disertato le risposte alle vostre recensioni (si, anche stavolta.... sorry).

 Gli aggiornamenti di questa e dell'altra storia in corso sono sospesi fino a fine mese causa vacanze.
 Intanto, grazie a tutti e buon prosieguo d'estate ^^


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CAPITOLO VENTISEIMO
Nel fondo della speranza

Quegli occhi erano come i suoi. Gli occhi di Alexandre che guardavano gli alberi rincorrersi oltre i vetri della carrozza.
Il viaggio era lungo così come i loro silenzi, intervallati da poche parole che soffocavano le domande che avrebbero voluto scambiarsi. E tutto quel vuoto lasciava spazio a pensieri che si facevano sempre più dolorosi nella loro mente.
Erik pensava a Christine che aveva rischiato la vita per la sua follia e per il suo orgoglio. E pensava che stava scappando come aveva sempre fatto, quando fino a poco prima si era illuso che l'amore lo avesse reso un uomo migliore. Non la meritava!
E poi c'erano quegli occhi... no, non erano come i suoi. Erano occhi buoni che non avevano mai visto un uomo esalare l'ultimo respiro. Ma erano occhi che avevano domande, che cercavano nel suo sguardo l'affetto, la gratitudine, la consapevolezza... non meritava nemmeno lui, quel fratello che stava mettendo in pericolo se stesso per aiutarlo.
Gli occhi di Erik si arrossarono di lacrime amare, ma lui le ricacciò indietro e abbassò le palpebre, sognando di essere un ragazzo, cresciuto con la sua famiglia, che aveva aiutato suo fratello con i primi studi, che aveva dormito tra le lenzuola ricamate da sua madre... ma quel sogno si infrangeva come cristallo appena nella sua mente si faceva strada la realtà, l'immagine del suo stesso viso che affiorava nei suoi pensieri e gli ricordava che ormai non poteva avere indietro quello che il destino gli aveva tolto.
Erik strinse nervosamente le dita attorno all'imbottitura del sedile. Avrebbe voluto gridare di fermare la carrozza, di tornare indietro, che era tutto inutile. Sarebbe sempre stato braccato, perché i veri mostri erano quelli che gli straziavano l'anima, agitandosi nei suoi pensieri, prendendo forma nel sonno quando alla sera si fermavano da qualche parte a cercare di riposare.
«Erik cosa c'è?» domandò Alexandre guardandolo con apprensione.
L'uomo sollevò le palpebre e fissò il giovane. Ora sapeva perché lo aveva perseguitato tanto: quel ragazzo gli ricordava quanto fosse sporca la sua anima.
«Dovrei essere morto... vorrei esserlo» sussurrò cupo. Avrebbe voluto esserlo, anche in quel momento, quando nel suo cuore germogliavano le speranze fragili dell'essere marito e padre.
Alexandre deglutì, aveva trascorso gli ultimi giorni a bordo di una carrozza, dividendo uno spazio angusto con l'uomo che aveva appena scoperto essere suo fratello, l'assassino che aveva rincorso per mesi in quel teatro! Avrebbe voluto imparare a conoscerlo, avrebbe voluto che lui desiderasse di farsi conoscere almeno quanto lui desiderava aiutarlo, ma non era facile aspettarsi che Erik aprisse il suo cuore a lui... il figlio fortunato, quello che aveva avuto tutto, persino la grazia di un bell'aspetto.
«Se tu fossi morto Christine sarebbe infelice, molto infelice» concluse il giovane con aria grave.
«Lei sarebbe più felice con un uomo come te... persino con un uomo come il visconte» replicò Erik secco.
Se solo quel ragazzo avesse saputo quante volte aveva cercato la morte, quante volte era arrivato così vicino a far fermare il suo cuore. E ora aspettava un figlio dalla donna che amava ma nemmeno questo riusciva a portare via le ombre dal suo cuore.
«Ma lei ha scelto te» replicò energicamente Alexandre.
Il Fantasma non fece subito caso a quelle parole ma poi si accorse di quanto fossero eloquenti e il volto di Christine riaffiorò come la luce di un faro in mezzo alla tempesta di amarezza.
«Sei mai stato innamorato, ragazzo?» domandò al suo interlocutore
«No» ammise il giornalista
«L'amore fa fare cose folli... e forse il fatto che Christine abbia scelto me è ancora più folle delle pazzie che ho fatto io per averla».
Alexandre sorrise sarcastico,
«Vuoi darti a tutti i costi una scusa per essere infelice» commentò aspro. «Forse perché non hai davvero tutta questa voglia di tenerti strette le cose che ami».
Erik digrignò i denti e gli lanciò un'occhiata dura,
«Mi credi un debole? Se io fossi stato debole non sarei sopravvissuto... ma tu non puoi capire» concluse per poi additare la maschera che aveva sul viso. «Ci sono cose che bisogna provare sulla propria pelle».
Il giornalista ammutolì, di un tratto si ricordò che non sapeva cosa c'era sotto quella maschera, quale era la condanna che quell'uomo aveva portato sulle spalle in tutti quegli anni. Il motivo di tutto ciò che stava accadendo loro era una striscia di pelle nascosta da un'ala di cuoio bianco.
Erik scosse il capo e si voltò per tornare a guardare fuori dal finestrino, come a lasciare intendere che la discussione era conclusa, invece Alexandre si gettò in avanti e prima che l'uomo potesse accorgersene gli strappò via la maschera.

Il cocchiere sentì improvvisamente un tonfo sordo provenire dall'interno della vettura, ma non pensò nemmeno per un attimo di fermarsi. Aveva avuto l'ordine di proseguire e non fare domande e poi, l'uomo mascherato gli faceva abbastanza paura da impedire alla sua bocca di articolare parole che andassero oltre la frase “ci fermiamo a far riposare i cavalli”, quindi proseguì per la sua strada nonostante gli scossoni che sentiva arrivare dall'interno della carrozza.
Il tonfo che aveva sentito il cocchiere era quello di Alexandre che era stato scagliato violentemente contro la parete posteriore della carrozza. Un attimo dopo Erik gli fu addosso con la ferocia di una belva.
«Come hai osato?!» ringhiò a un palmo dal viso del giovane stringendolo per il colletto della camicia. «Cosa credi ti dia il diritto di farmi una cosa del genere? Non aspettavi altro da quando ci siamo messi in viaggio, vero? Volevi proprio vedere il mostro? Ebbene, ragazzo tu di mostri non ne sai nulla».
Dopo un attimo di intontimento Alexandre si scosse e reagì all'assalto tirando una ginocchiata ad altezza dello stomaco dell'uomo che capitolò indietro a sua volta finendo contro il sedile. Il giornalista si rimise seduto muovendosi maldestramente a causa del forte dolore provocato dalla botta che aveva preso,
“Ora capisco...» disse ansimando mentre una scintilla di ilarità gli accendeva lo sguardo. «Non è la tua faccia il problema, è il tuo pessimo carattere».
Erik era rimasto senza forze per il colpo subito e per la fitta che gli aveva avvolto la pancia, spinse debolmente via il ragazzo,
«Ridammela...» rantolò indicando la maschera.
Alexandre gli rivolse una smorfia sprezzante e minacciò di gettare l'oggetto che gli aveva preso via dal finestrino.
In un impeto di rabbia Erik si alzò e lo colpì di nuovo facendolo urtare con la testa sul taglio dello schienale del sedile ma un attimo dopo sobbalzò rendendosi conto di essere stato davvero troppo violento. Il ragazzo rimase per qualche secondo immobile, riverso sul sedile con gli occhi chiusi, Erik trattenne il respiro sperando di non aver commesso l'irreparabile, poi però Alexandre sollevò lentamente le palpebre. L'uomo lo guardò aprendo la bocca come per parlare ma si scoprì incapace di trovare qualsiasi cosa da dire: quel ragazzo stava tentando di aiutarlo e lui gli aveva fatto del male.
«Capisco...» mormorò Alexandre con voce spenta ma allargando un sorriso canzonatorio. «Non hai avuto occasione di picchiarmi quando ero piccolo e ora vuoi recuperare il tempo perso...».
Erik si lasciò cadere sul sedile reprimendo un sospiro di sollievo,
«Se ti funziona ancora quella linguaccia lunga che hai allora non ti ho fatto così male» concluse aspro.
«Mah, magari la prossima volta usa un sacco di fieno al posto mio» replicò il ragazzo raccogliendo la maschera che nel mentre era caduta in un angolo della vettura.
Erik la prese tra le mani e la guardò facendo scorrere il dito sul profilo dello zigomo modellato sulla superficie bianca,
«Ora forse puoi lontanamente immaginare cosa ho dovuto patire» aggiunse in tono inespressivo.
«Sì, forse... ma è passato del tempo» replicò Alexandre. «Capita che qualcuno venga al mondo diverso...»
«Diverso... ti ringrazio per la delicatezza» lo rimbeccò Erik con una risatina stizzita.
«Quello che sto cercando di dirti... Dio, non essere sempre così prepotente! Il fatto che tu sia il fratello maggiore non ti da il diritto di interrompermi mentre parlo! Dicevo, che quello che intendevo è che non devi per forza vivere da emarginato, che non ce n'è più bisogno. Tieniti pure quel pezzo di cuoio sulla faccia se ti fa sentire più sicuro ma non usare il tuo viso per giustificare la tua paura del mondo»
«Stai di nuovo giudicando senza capire, ragazzo. Io non ho paura del mondo»
«Davvero?» mormorò Alexandre in tono di sfida. «Allora sei rimasto rintanato nei sotterranei dell'Opera perché ti piaceva il clima?»
«Non avevo scelta» borbottò Erik.
«D'accordo non avevi scelta, ma ora ce l'hai. Quando Christine si sarà rimessa potrà raggiungerti a Saint-Gaudens , potreste vivere qui e crescere qui vostro figlio...»
«Sì... ti piacciono i lieto fine, eh ragazzo»
«Piantala di prendermi in giro!».
Erik appoggiò il gomito sul bracciolo e scrutò il suo interlocutore,
«Mi dispiace» disse all'improvviso.
«Per il colpo alla testa? Ah, non preoccuparti, è già quasi passato» rispose il giovane.
«Mi dispiace per ogni cosa» precisò Erik notando che fuori il sole cominciava a tramontare. «Ma ora sta' zitto e vedi di farti una dormita o sarò costretto a colpirti ancora»
«Bene, immagino sia il tuo modo per dirmi che sei sulla buona strada per affezionarti a me. Direi che per cominciare può andar bene» lo canzonò Alexandre.
«Ti ho detto: dormi» borbottò suo fratello sbuffando e chiudendo gli occhi.
Sì, si stava affezionando a lui. Ma le sue labbra avevano conosciuto solo parole di rabbia e minaccia per trovare le cose giuste da dire per confessare un affetto che era affiorato dentro di lui inatteso e quasi non voluto. Un giorno, forse, avrebbe imparato a non avere tanta paura di ciò che provava, a non sentirsi fuori luogo davanti allo sguardo dolce di quel ragazzo... ma in quel momento il suo cuore aveva bisogno di silenzio.
Alexandre socchiuse gli occhi e spiò il volto di Erik appoggiato contro la fiancata della vettura, aveva indossato di nuovo la maschera e le sue labbra si stavano arricciando nell'espressione imbronciata che assumeva quando dormiva.
Nell'ultima luce del tramonto il giornalista scorse il profilo di un campanile della chiesa di un paesino che conosceva. Forse entro un giorno sarebbero arrivati a Saint-Gaudens. E lui avrebbe scritto a sua madre e a Christine rassicurandole che erano al sicuro. Avrebbe scritto anche a Raoul dicendogli di portare lì Christine appena fosse stata in grado di mettersi in viaggio.
Dentro di sé il ragazzo volle concedersi la speranza che tutto sarebbe tornato a posto.

*

I giorni non avevano forma né suono visti da quel letto, se non quando sognava. Quando si addormentava poteva vedere i suoi desideri prendere forma, disegnare il profilo di un casa abitata da lei, da suo marito e dal loro bambino: un piccoletto pestifero con i ricci e gli occhi chiari. Ma poi arrivava il mattino e lei si svegliava con la tranquillità dei sogni che lasciava il posto alla nostalgia e a tutti i timori che essa portava con sé.
Ogni volta arrivava il domani e lui non c'era, e lui non era lì. Quell'assenza che rendeva il tempo incredibilmente lento riempiva il suo cuore di brutti presagi, di sensazioni funeste che non aveva il coraggio di confessare nemmeno a se stessa. Christine sentiva che qualcosa sarebbe andato male, ma si diceva che era solo la tristezza per la lontananza di Erik a farle vedere tutto nero. Non aveva mai vissuto lontano dal suo Angelo e ora si stava rendendo conto di quanto la presenza di Erik era necessaria per lei.
Anche quella mattina Raoul era venuto a farle visita e aveva provato a convincerla a seguirlo nella tenuta della sua famiglia, a trasferirsi lì finché non sarebbe stata in condizioni di affrontare il lungo viaggio verso Saint-Gaudens, ma ancora una volta lei aveva detto di no.
«Non capisco, a casa mia avresti maggiore assistenza» replicò il visconte dopo l'ennesimo rifiuto della sua proposta da parte della ragazza.
Christine sorrise ma lo guardò con decisione,
«Ti ringrazio Raoul ma preferisco stare qui» rispose.
Il giovane sospirò e cedette, si limitò a sedersi su una poltrona accanto al letto e a fissarla in silenzio,
«Ah, ti prego, togliti quello sguardo di commiserazione dalla faccia!» esclamò lei a un tratto.
«Scusa... è che... Dio, ti vedo così triste» si giustificò Raoul.
Lei scrollò le spalle
«Non sono triste, sono preoccupata» rispose. «Quanti giorni di viaggio ci vogliono da qui a  Saint-Gaudens? Perché non abbiamo ancora loro notizie? Può essergli successo qualcosa?»
«Christine, Christine... calmati tesoro, avanti. Non si può stabilire una durata per un viaggio così lungo, ma tu non devi preoccuparti, Alexandre sa il fatto suo e mi pare anche che Erik non se la cavi così male».
La giovane sospirò e il visconte dovette trattenersi dal mordersi la lingua. Il solo pronunciare il nome di quell'uomo lo innervosiva.
«Ho un brutto presentimento, Raoul» aggiunse Christine stropicciando nervosamente l'orlo del lenzuolo.
«Non temere, andrà tutto bene» la rassicurò lui. «E comunque, non devi preoccuparti. Se anche dovesse accadere qualcosa a Erik, io non ti lascerò da sola, né te né tuo figlio».
La ragazza sorrise tristemente,
«Sei molto caro Raoul, ma la mia felicità sta viaggiando su una carrozza diretta verso i Pirenei e se non potessi raggiungerla temo che il mio cuore non lo sopporterebbe».
Il visconte annuì e si avvicinò alla finestra. Guardò Parigi muoversi frenetica e il profilo della cupola del tetto del teatro disegnarsi in lontananza in fondo alla strada, oltre le case e i lampioni. Si sentì impotente e meschino davanti alla tristezza di Christine e pensò che non c'era altro da fare che aspettare che si rimettesse e riportarla dall'uomo che amava. Un uomo che non era lui.
Restò un'altra ora a parlare con lei, poi si congedò e tornò a casa sua nella speranza che la lettura dei documenti sulla gestione del patrimonio della sua famiglia lo aiutassero a distrarsi.

Madame Ginette entrò nella stanza reggendo un vassoio con il pranzo che appoggiò su un piccolo tavolino da letto di legno intarsiato. Aiutò Christine a mettersi seduta con la schiena appoggiata ai cuscini e le accarezzò il viso. Quella ragazza era diventata il motivo per cui ogni mattina si alzava dal letto, si dedicava alla casa e faceva ciò che facevano tutti gli altri. Il potersi occupare di lei, di rendersi utile alla fanciulla amata dal figlio che aveva creduto perso, la stava facendo guarire dal male dell'anima che l'aveva tormentata in tutti quegli anni. E Christine lo sapeva. Era per questo che aveva rifiutato l'ospitalità di Raoul ed era rimasta in quella casa. Forse quella donna non aveva meno bisogno di cure e attenzioni di quanto ne avesse lei.
«La cameriera oggi ha trovato delle verdure veramente fresche al mercato» disse madame Ginette. «Ho fatto preparare una zuppa squisita».
Christine sorrise e assaggiò un cucchiaio dal piatto fumante,
«Avete ragione, madame, è davvero buona» rispose.
«Vuoi che ti apra un po' la finestra, Christine? Ti farà bene prendere aria».
La ragazza annuì, la donna scostò le tende e aprì i vetri, una folata di aria gelida invase la camera. Fuori era ancora inverno.
«Lascerò aperto solo qualche minuto, non voglio che ti venga un malanno” aggiunse madame Ginette.
«Grazie, siete molto gentile con me» mormorò la giovane con sincera gratitudine.
«È il minimo che possa fare» rispose la donna abbassando lo sguardo sentendosi a disagio. Era stata vigliacca ed egoista abbandonando suo figlio e ora avrebbe fatto qualsiasi cosa per poter anche solo minimamente fare ammenda ai suoi errori passati.
Christine finì di mangiare in silenzio, poi la donna portò via il vassoio con le stoviglie sporche e dopo qualche minuto tornò nella stanza della ragazza, si mise seduta sul bordo del letto e la guardò,
«Parlami di lui» le chiese. Tre parole pronunciate con una tale malinconia che Christine sentì il cuore saltare un battito.
«Cosa volete che dica una donna dell'uomo che ama?» rispose arrossendo.
A quelle parole la donna sorrise quasi raggiante,
«Il fatto che tu lo ami già dice molte cose di lui... cose belle. Ma vorrei sentire di più» mormorò.
Christine annuì e cominciò a raccontarle la sua storia dal principio. La storia di una bambina che aveva visto avverarsi la favola della sua infanzia fino a quando quella favola si era trasformata in una realtà ancora più sorprendente di ogni fantasia.

*

L'uomo si guardò intorno con gli occhi sottili di chi cerca risposte, come se potesse leggere su quelle pareti di pietra strani linguaggi capaci di rivelargli ciò che voleva sapere.
Dunque era lì che aveva vissuto il Fantasma dell'Opera in tutti quegli anni, era lì che in quei mesi si era nascosto da lui facendo fallire i suoi tentativi di stanarlo e facendolo apparire un incapace agli occhi di pagava la sua parcella da investigatore!
Bertrand era tornato nei sotterranei e ora stava curiosando indisturbato tra le suppellettili e gli oggetti della Dimora sul Lago, lì ad altezza del quarto sottopalco immerso nella tetra luce di poche candele accese, in quella che gli sembrava essere più la tana di un animale che il rifugio di un uomo.
Si mosse cauto sul rialzo di roccia che il Fantasma dell'Opera aveva abbellito tanto da riuscire quasi a dare alla pietra nuda un tocco di calore umano. Scorse i suoi disegni lasciati in disordine sullo scrittoio, gli schizzi delle scenografie e dei costumi del Don Juan ammassati accanto al modellino in scala del teatro.
L'investigatore prese tra le mani le statuine che completavano la miniatura dell'Opera così sapientemente realizzata in ogni particolare, poi si voltò e scagliò i piccoli oggetti lontano facendoli finire in acqua. Continuò a muoversi per la grotta e vide i ritratti di Christine appesi alla parete, li staccò per guardarli meglio e rise tra sé e sé.
«E così il mio mostro è un sentimentale» disse ad alta voce con una profonda nota di scherno, poi accartocciò i ritratti e li gettò a terra.
Si avvicinò all'organo che era appoggiato sullo sperone roccioso più alto come su una sorta di altare, toccò i tasti a casaccio e lo strumento emise delle note sorde che vibrarono nell'aria umida. L'investigatore percorse con le dita le linee degli intarsi di madreperla e ottone che decoravano le fiancate dell'organo, poi afferrò un pesante candeliere e lo scagliò con forza contro la tastiera. Alcuni tasti si spezzarono e volarono via in una pioggia schegge lucide, poi l'uomo cominciò a colpire le fiancate di legno fino a quando non le distrusse completamente, infine scagliò il candeliere contro le canne di ottone che salivano verso il soffitto di pietra, l'oggetto ammaccò una delle canne e poi ricadde ruzzolando nell'acqua verde del lago.
Al Fantasma non piaceva perdere...

Ma c'è sempre una prima volta!...

“C'è  sempre una prima volta” sibilò Bertrand.

C'è sempre una prima volta, Erik!

Bertrand prese un altro candeliere e cominciò a scagliarlo con forza contro ogni oggetto che gli capitava a tiro. Distrusse le statue, le suppellettili, i bauli. Poi raccolse i libri, le carte e parte dei pezzi di legno in cui aveva ridotto gli arredi della Dimora sul Lago, portò tutto sul letto e lanciò una candela in mezzo alle lenzuola di raso. In meno di un minuto il letto e tutto quello che c'era sopra prese fuoco.
L'investigatore osservò il piccolo rogo per un po', poi si voltò e cadde in ginocchio sul pavimento di pietra sopraffatto dalla rabbia.
A guardarlo con quelle fiamme che ardevano alle sue spalle, disegnando nettamente il profilo della sua figura piegata a terra sarebbe sembrato il dipinto di un demonio realizzato da un pittore blasfemo.
«Ti troverò, Erik» promise l'uomo parlando al vuoto. «Ti troverò».


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Informazione di servizio: l'autrice ha adorato scrivere la scazzottata nella carrozza! XD


Capitolo reinserito il 29\12\2011

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Capitolo 30
*** Le distanze incolmabili ***


Ci eravamo lasciati con Christine inferma e incinta costretta a rimanere a Parigi sotto la supervisione di madame Ginette, Raoul e Madame Giry. Erik e Alexandre, olmai al corrente dell'inghippo da soap-opera che l'autrice sottoscritta ha inscenato, in fuga verso il paesino in cui sono nati e in cui la famiglia di Alexandre ha sempre vissuto prima della morte del padre. E "il buon" Bertrand acceccato dall'ira e dalla voglia di rivalsa...
 Poi è arrivato l'Orco cattivo, mi ha rapita e mi ha tenuta prigioniera nel suo castello a rammendargli i calzini e preparargli grigliate di carne di giovani vergini. Si, si è vero! E' stato l'Orco che mi ha portata via! Non è stata colpa mia!...
 No... ok, dovevo inventarmene una migliore. Mi scuso della lunga assenza e auguro buona lettura ai superstiti ^^

****

CAPITOLO VENTISETTESIMO
Le distanze incolmabili

«Dite che dovremo cominciare a prendere in considerazione l'idea di...» bisbigliò Raoul fingendo di guardare fuori dalla finestra.
«Forse dovremmo, non so se le è più nocivo starsene qui a crogiolarsi nella sua ansia o muoversi e raggiungere Erik» rispose madame Giry a voce ancora più bassa.
«Guardate che vi sento» si intromise Christine con un sospiro, spingendo via le coperte.
La ragazza era stanca. Stanca di avere attorno gente che si preoccupava per lei, aggiungendo altra ansia a quella che già provava. Stanca di starsene lì ad attendere notizie che non arrivavano. Erik e Alexandre non avevano scritto, o se lo avevano fatto, la loro missiva non era arrivata. Madame Ginette diceva che era colpa del brutto tempo che stava impazzando su tutta la Francia e che di sicuro aveva rallentato anche la rete postale, intanto lei era lì, lontana chilometri dall'uomo che amava, dal padre del figlio che portava in grembo, con un male che ancora incombeva sospeso come cielo tempestoso sopra le loro teste.
Eloise si lisciò il velluto scuro della gonna,
«Christine, mia cara, so che vorresti correre da lui» disse in tono accomodante. «So che vorresti che tutto si sistemasse, ma è alla tua salute che devi pensare prima di ogni altra cosa»
«Lo so, non fate altro che ripetermelo, ma io sto bene e sono perfettamente in grado di alzarmi e di viaggiare» protestò la ragazza con una fermezza che madame Giry non ricordava di averle mai visto in viso. Avrebbe voluto sorridere e dirle quanto era orgogliosa di vederla essere diventata donna, ma l'ansia di una madre è un metallo assai più duro di tutte le consapevolezze di una figlia.
«Devo andare, so che devo farlo» insistette Christine.
Raoul tamburellò con la punta dell'indice sul mento. Già doveva farlo, e il ragazzo aveva la netta sensazione che la sua Dolce Lottie sarebbe andata via anche in camicia da notte se avessero provato a trattenerla oltre. Forse frequentare quell'uomo era stato ancora più nocivo di quanto potesse pensare!
«Va bene, Christine, hai ragione» capitolò il visconte anche se lo sguardo duro che ricevette da madame Giry lo fece quasi spaventare.
«Mi porterai a Saint-Gaudens, Raoul?». Gli occhi di Christine erano scintille di speranza.
Il giovane visconte pensò che l'avrebbe portata anche in capo al mondo.
«Credete che sia saggio?» sbottò Eloise severa.
«Con tutto il rispetto, madame, ma credo che la saggezza, semmai io ne abbia avuta, mi ha abbandonato la sera in cui ho messo il nostro amico mascherato su una carrozza per permettergli di lasciare Parigi».

Non ci volle molto a organizzare il viaggio, non per qualcuno che disponeva di tasche così profonde come il Visconte De Chagny.
Raoul, Christine e madame Ginette partirono di buon mattino, quando gli occhi indiscreti della città di Parigi erano ancora chiusi, puntati verso il sogno.
La fanciulla aveva chiesto a madame Giry e a Meg di accompagnarla, ma Eloise aveva detto che era necessario che lei restasse in città a tenere sotto controllo la situazione e stroncare sul nascere altri eventuali problemi o pericoli. I buoni propositi di madame Giry si sarebbero comunque rivelati del tutto inutili, perché quando la carrozza che avrebbe accompagnato Christine e il suo piccolo seguito a Saint-Gaudens due ombre nere si mossero nella loro medesima direzione, e di queste due ombre soltanto una apparteneva al banco di nuvole gonfie di pioggia.

*

Il vento quasi tagliava le guance e gettava nelle narici un'aria tanto densa da bruciare nella gola e far lacrimare gli occhi. Perché Erik volle convincersi che fosse solo il vento freddo a velargli lo sguardo, quel vento che odorava di erba e di funghi e dell'acqua limpida dei ruscelli. Vento di montagna che sapeva di inverno anche nelle giornate più soleggiate.
Aveva immaginato spesso il luogo in cui era venuto al mondo, si era figurato spiazzi di terra brulla e vicoli contornati da case spoglie. Altre volte aveva immaginato grandi città immerse nel fumo delle prime industrie o villaggi fatiscenti sulla riva di laghi nebbiosi. No, un'idea così bucolica non gli aveva nemmeno sfiorato la mente, non quando era convinto che nulla di bello avrebbe mai potuto sfiorare nemmeno per sbaglio la sua esistenza.
Lui e suo fratello erano arrivati a Saint-Gaudens nel pomeriggio ma avevano atteso che facesse sera per entrare nella cittadina e raggiungere la casa dei Dubois.
Appena oltrepassata la soglia Alexandre aveva cercato i fiammiferi per accendere un lume ma Erik lo aveva fermato: non voleva guardare. Procedendo nella penombra aveva trovato un sofà, si era disteso e aveva finto di addormentarsi. In realtà non aveva chiuso occhio, era rimasto sveglio e vigile. Una parte di lui diceva che era perché non si sentiva sicuro fuori dal suo nascondiglio, ma in fondo sapeva che voleva solo prendersi altro tempo per pensare, riflettere su cosa fare quando il giorno lo avrebbe costretto a guardare in faccia quella vita che avrebbe potuto avere e che gli era stata strappata.
E il giorno arrivò, quasi in punta di piedi, strisciando quatto in sottili lame di luce che si allungavano furtive come sentinelle nemiche, facendo riaffiorare a poco a poco i colori della carta da parati, le tinte vivaci delle tappezzerie, le forme eleganti dei mobili e i quadri alle pareti.
Erik fu costretto ad aprire gli occhi su un salotto quadrato arredato in maniera un po' troppo vistosa, con quell'autocompiacimento con cui le famiglie benestanti talvolta tentano di ostentare la propria agiatezza. L'immaginazione, che per lui era sempre stata una luce fatua capace di illuminare per un attimo gli angoli bui della sua esistenza, quel mattino compì un lavoro impietoso gettando davanti ai suoi occhi scene tanto luminose da essere abbaglianti: un pranzo di Natale consumato in mezzo ad un allegro vociare proprio lì a quel tavolo, un bambino che ride trascinando un cavalluccio di legno proprio lì su quel divano, una madre che ricama sentendo il precettore elencare le doti di suo figlio e... un padre fiero di sé, di essere riuscito a sbarazzarsi della mela marcia nel suo cesto di leccornie.
«Prendila come una medicina dal sapore cattivo» disse una voce nella mente di Erik, una voce che somigliava sorprendentemente a quella di Christine. «Prendila come una medicina, all'inizio è tanto amara ma poi ti aiuterà a stare meglio».
Tanto amara... forse troppo, in un modo che non prospettava alcun tipo di benessere.
Eloise avrebbe scherzato sul suo pessimismo. Ma Eloise non era lì, come non era lì nemmeno Christine, tanto che il ricordo dolce dei suoi baci cominciava a bruciare.
Un rumore sordo giunse dalle scale accanto alla porta del salotto, Erik sobbalzò guardandosi attorno ma vide solo Alexandre che entrava zoppicando.
«C'è un'asse rialzata sull'ultimo gradino» sbuffò il giornalista. «Manco da troppo tempo per ricordarmelo»
«Grazie per avermelo fatto presente» commentò Erik in tono asciutto. «Anche io manco da troppo tempo per ricordarmelo».
Alexandre si passò una mano tra i capelli e nascose uno sbadiglio. Era spettinato, la camicia sgualcita cadeva in disordine fuori dai calzoni e i suoi occhi dicevano chiaro e tondo che anche per lui non la notte non era stata particolarmente rigenerante.
Il viaggio era stato lungo, ma a guardare l'ombra che incupiva lo sguardo del suo fratello maggiore pensò che il peggio doveva ancora venire. 
«Non metterti a fare il lagnoso!» esclamò, convinto che l'unico modo efficace di tenere testa al suo malinconico compagno fosse quello di prenderlo di petto. «Mi serve una mano».
L'uomo gli lanciò uno sguardo vagamente infastidito,
«Tua madre non ti ha insegnato a vestirti da solo?»
«Oh andiamo! Non sei curioso nemmeno un po'? Aiutami a cercare in casa, magari troveremo qualcosa su di te».
Erik rispose con uno strano singulto a metà tra un lamento e una risata di scherno, ma Alexandre lo tirò per un braccio e lo trascinò fuori al salotto portandolo al piano superiore dell'edificio.
La casa che Simon Dubois aveva acquistato per sé e la sua famiglia era una palazzina a due piani. Al pianterreno c'era il salotto dal quale era stato ricavato anche un piccolo studio, la cucina e un piccolo alloggio riservato alla domestica. Al piano superiore si trovavano invece le camere da letto e una grande stanza da bagno con una vasca di porcellana.
L'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera seguì il giornalista mentre si muoveva da una stanza all'altra, osservando i mobili come se si aspettasse che il legno delle ante cominciasse a parlare per rivelargli dove trovare ciò che stava cercando. Se Erik era incuriosito dal luogo in cui si trovava non lo diede a vedere, ma i suoi occhi stavano assorbendo ogni immagine trasformandola in pensieri gelidi come il nevischio che ricopriva le strade del paese.
Eppure l'odore di quel vento gli piaceva...

La stanza da letto patronale era ampia e quadrata, i mobili erano tutti in legno di ciliegio e decorati ognuno con i medesimi intagli, come se fossero stati costruiti tutti insieme.
Erik aveva notato che Alexandre aveva dormito in quella che doveva essere stata la sua camera, perché il letto della stanza patronale era ancora coperto dal telo che proteggeva il materasso dalla polvere e le imposte delle finestre erano ancora chiuse. Evidentemente il ragazzo conservava ancora  una certa soggezione verso i suoi genitori.
«Ma certo!» esclamò all'improvviso Alexandre indicando il grosso comò alla sinistra del letto.
Erik camminava svogliatamente dietro di lui e quasi non fece caso a suo fratello che si era diretto verso il mobile e aveva cominciato a tirare via un cassetto, facendolo scivolare fuori dal binario e posandolo sul pavimento.
Il cassetto, come probabilmente il resto dei mobili, era vuoto: la famiglia Dubois, o almeno quello che ne rimaneva, non contava di tornare tanto presto a Saint-Gaudens.
Alexandre sollevò il pannello coperto di velluto che faceva da fondo al cassetto e bussò sul piano di legno duro,
«Ha un doppio fondo, è qui che mio padre conservava i documenti più importanti. Sai lui era un notaio, aveva una cura per questo genere di cose» spiegò.
Erik si chinò ad osservare il cassetto e vide il foro di una piccola serratura nell'angolo del vano rettangolare,
«Immagino avesse anche cura di conservare la chiave in un posto difficile da trovare» commentò con un sospiro.
Alexandre sorrise divertito,
«Aprilo, avanti!» esortò.
L'uomo arricciò le labbra e finse di non capire
«Suvvia, il Signore delle Botole che difficoltà potrà mai avere nel forzare una serratura così piccola?» insistette il giornalista.
Erik scrollò le spalle. Se quel giovane sconsiderato voleva puntare alla sua vanità per convincerlo a fare qualcosa aveva sbagliato la leva da smuovere.
«Lo stai facendo per me, Alexandre? O è solo un modo di saziare la tua caparbia curiosità» sibilò l'uomo, ritrovando per un attimo lo sguardo e il tono di voce che erano appartenuti al Fantasma.
«Ho vissuto la mia vita in questa casa, all'oscuro di un segreto che ha rovinato la vita di mia madre oltre che la tua. Penso di avere il diritto di sapere, come ce l'hai tu» replicò il giovane.
«Il fatto che io abbia il diritto di sapere non implica che abbia voglia di farlo».
Il vento fece eco sbattendo conto i fianchi delle montagne, gli spifferi che penetrarono attraverso il legno delle imposte erano gelidi come la voce di Erik. Alexandre stava per replicare qualcosa, ma un'energica bussata di porta lo fece sobbalzare. Si alzò e si avvicinò alla finestra che affacciava davanti alla porta della casa, poi aprì le ante quel tanto che bastava a guardare fuori.
Erik si stupì del tuffo al cuore che aveva provato quando aveva sentito il bussare alla porta. Aveva paura che qualcuno fosse riuscito a trovarli, che da Parigi qualcuno li avesse seguiti. Dov'era finito tutto il suo sangue freddo?
«Oh, no...» sospirò Alexandre affrettandosi a chiudere gli scuri e allontanandosi dalla finestra.
«Chi è?» chiese Erik in un filo di voce.
Quando suo fratello si voltò a guardarlo aveva un'aria indecifrabile.
«Tu resta qui!» intimò il giornalista. «Non fare niente, per nessun motivo»
«Chi è?!» ripeté Erik allarmato, ma non ottenne risposta, Alexandre corse via verso le scale che portavano al pianterreno. Dal basso arrivò un'altra bussata più forte e insistente. Il Fantasma dell'Opera si chiese se non fosse il caso di tornare e sbrigare le faccende che l'uomo che ora aveva preso il suo posto non sembrava più in grado di gestire.

La porta di casa Dubois si aprì con uno scatto, cigolando sui cardini. La ragazza trovò quel cigolio piacevolmente melodioso.
«Alexandre! Che piacere rivederti!» esclamò appena vide il giovane comparire oltre il battente.
«Buona giornata, Corinne» borbottò il giornalista.
Corinne Moreau non doveva avere più di vent'anni. Setosi boccoli biondi sfuggivano alla cuffia di lana, i suoi occhi chiari scintillavano di entusiasmo.
Suo padre era un giudice molto influente ed era amico di vecchia data della famiglia Dubois. Quando Corinne era poco più di una bambina, Alexandre veniva a darle lezioni di letteratura e nel sentire il bel giovane decantare i sonetti di Shakespeare e i versi dei poeti latini, la ragazzina aveva deciso, fin dall'età di tredici anni, che avrebbe sposato quel ragazzo. Se lui fosse d'accordo o meno era un particolare su cui la fanciulla non aveva ritenuto necessario soffermarsi. Una volta raggiunta l'età da marito, la ragazza, bella e ricca, non aveva avuto difficoltà a trovare pretendenti, tuttavia i suoi genitori si erano mostrati felici quando aveva confidato loro di provare una certa tenerezza per il figlio del notaio, il padre di Corinne e Simone Dubois ne avevano discusso e avevano trovato che fosse una splendida idea far fidanzare i ragazzi. Poi però Simone era morto prima che le famiglie potessero ufficializzare la questione e Alexandre si era chiesto se non fosse un obbligo d'onore accettare quel fidanzamento tanto sperato da suo padre, malgrado il genitore non si fosse mai mostrato all'altezza dell'affetto di suo figlio. Tuttavia, l'idea di un fidanzamento con quella ragazzina capricciosa non aveva mai allettato troppo Alexandre, il quale aveva colto al volo l'occasione di trasferirsi a Parigi e porre fine alla questione.
Quello che il ragazzo non si aspettava era che Corinne lo stava ancora attendendo e nel ritrovarsela davanti quella mattina comprese quanto fosse profonda l'infatuazione della fanciulla. E la cosa non gli piaceva affatto.
«Ho saputo che eri tornato» cinguettò Corinne.
«Da chi?»
«Dalla mia cameriera, che lo ha saputo da sua figlia, che lo ha saputo da suo cognato che fa il custode notturno presso il cimitero e che ti ha visto arrivare a casa in tarda sera, insieme a un altro signore».
Alexandre alzò gli occhi al cielo, si era illuso che nessuno avesse notato Erik, ma nemmeno la notte può nascondere davvero qualcosa in un paesino come Saint-Gaudens.
«Sono davvero contenta di vederti!» aggiunse Corinne. Sì, glielo aveva già detto.
«Oh... certo... anch'io» mentì il ragazzo.
«Non vedo l'ora di sentirti raccontare di Parigi! Di sicuro lì non fa freddo come da noi, hai sentito che vento oggi? Non è proprio il caso di starsene all'aperto». Il giornalista finse di ignorare l'esclamazione della giovane e la velata richiesta che conteneva, non poteva certo farla entrare in casa.
«Infatti, non saresti dovuta uscire con questo tempo» disse Alexandre cercando di imprimere a quelle parole tutta la gentilezza che riuscì a racimolare, ma si accorse subito dell'espressione prossima al pianto che stava comparendo sul volto di bambola di Corinne quindi si affrettò ad aggiungere: «Il mio compagno di viaggio deve ripartire presto, si è fermato qui solo per una breve sosta ma è diretto altrove, appena se ne sarà andato potremo prendere un tè assieme e parlare senza orecchie e occhi indiscreti».
Lo sguardo della giovane si illuminò quando il suo cuore innamorato interpretò quelle parole come una manifestazione palese della voglia che aveva Alexandre di rimanere solo con lei. Presa dall'entusiasmo, Corinne prese una mano del giovane tra le sue e la strinse. Lui deglutì.
«Sono così contenta di rivederti!»
«Lo so, lo hai già detto...»
«Oh Alexandre, mi sei mancato» la fanciulla arrossì. «Io... tutto questo tempo non ho fatto altro che pensare a quando saresti tornato. Non ho fatto altro che chiedermi se al tuo ritorno mi avresti voluta ancora».
In quel momento la mente di Alexandre proiettò le immagini di un sogno in cui lui le gridava che non l'aveva mai voluta, che aveva per la testa cose talmente grandi che il suo cervello da gallina non avrebbe compreso nemmeno se gliele avesse spiegate con dei disegni... ma nella realtà il giovane non poté fare altro che abbozzare un sorriso e sospirare,
«Dammi il tempo di concludere i miei affari con il mio ospite, poi avrai tutte le risposte che desideri» mormorò.
Le risposte ovviamente sarebbero state negative, ma le parole di Alexandre avevano riempito il cuore della fanciulla di romantiche speranze e tanto bastò a convincerla a lasciare il ragazzo ad occuparsi delle sue faccende.
Alexandre si sentì terribilmente meschino, ma doveva affrontare già abbastanza problemi senza che si aggiungessero anche quelli dovuti all'ira di una donna rifiutata. 

Erik aveva osservato la scena nascosto dietro la finestra. Aveva scosso il capo e aveva ghignato di divertimento. Chissà quella ragazzina cosa avrebbe fatto quando, alla fine di tutto, avrebbe scoperto che Alexandre non aveva minimamente intenzione di sposarla?
Era talmente abituato a guardare da spettatore le vite degli altri che non gli era difficile comprendere le persone e ciò che provavano, ma non c'era bisogno di essere particolarmente abili per capire che l'infatuazione della giovane per Alexandre non era niente di più che un capriccio alimentato da fantasie infantili.
Cosa avrebbe fatto lui se Christine lo avesse rifiutato? Non poté fare a meno di chiederselo, ma non trovò risposta. Il Fantasma dell'Opera avrebbe scatenato l'inferno, avrebbe fatto crollare il mondo sotto il peso della sua rabbia. Ma il Fantasma dell'Opera non c'era più o, se c'era, era ben lontano da lì...
Irritato dalla voce stridula di Corinne che stava ripetendo per l'ennesima volta quanto era contenta di rivedere Alexandre, Erik si costrinse a concentrarsi su qualcosa d'altro per distrarsi e reprimere l'impulso di gettare addosso alla ragazzina un secchio di acqua gelida. Guardò la stanza nella penombra delle finestre chiuse e si ricordò del cassetto, lo raccolse da terra e lo posò sul letto. Si guardò attorno cercando qualcosa che fosse utile al suo scopo, trovò un cesto di attrezzi per il ricamo appoggiato su uno sgabello dietro a un paravento, prese uno di quei ferri sottili utili per i lavori a maglia e lo introdusse nel foro della serratura cercando la minuscola leva del meccanismo di apertura.
Come aveva previsto Alexandre, il Signore delle Botole non trovò difficoltà.
L'uomo sollevò il doppio fondo del cassetto e vide che all'interno conteneva diverse cartelle di cuoio piene di fogli, alcuni ingialliti, alcuni ancora bianchi.
Ciò che cercava stava tra i documenti più vecchi, lì dove la carta si era fatta fragile e l'inchiostro stava sbiadendo.
Per quanto sbiadite, però, le parole sul foglio che aveva trovato in fondo alla cartellina ebbero il potere di fargli sanguinare il cuore. La mente di Erik tentò di aggrapparsi ai bei ricordi del volto di Christine, al pensiero di un loro figlio in arrivo... ma non fu sufficiente.
Evidentemente non bastava un viaggio nel luogo in cui era nato per colmare le distanze tra lui e la vita che gli sarebbe spettata ma che non aveva vissuto. E adesso non voleva raccogliere gli spiccioli di quell'esistenza...
Adesso voleva solo odiare, abbandonarsi alla rabbia come solo il Fantasma dell'Opera sapeva fare.

Quando Alexandre si liberò della sua sospirosa ospite e tornò di sopra, trovò la stanza illuminata da una fioca lampada ad olio ed Erik in piedi davanti al letto con un foglio tra le mani. Mani che tremavano, vibravano come la corda dell'arco che si tende caricando il colpo.
Il ragazzo si avvicinò al fratello e senza dire nulla sbirciò il foglio. Era il certificato di morte di Erik Dubois, un bambino spirato all'età di quattro mesi.
Quattro mesi... tanto era stato il periodo di tempo in cui suo padre aveva tollerato la presenza di quello scherzo della natura in casa sua.   


_________________________________

Il siparietto Alexandre vs.Corinne non era previsto, mi è scappata la penna! Era giusto per stemperare un po' la tensione.
 Lo so, sparisco per un tempo insostenibile e poi me ne esco con un capitoletto di passaggio... ma questa davvero non è colpa mia, prendetevela con le esigenze di trama.
 A presto (promesso)



Capitolo reinserito il 30\12\2011

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Capitolo 31
*** Gli occhi del nemico ***


Ce la posso fare. E se non ce la faccio in questi giorni in cui ho una voglia matta di scrivere di POTO penso che non ce la farò mai più...
Grazie ai miei pazientissimi lettori *_*

@ tehangelsee: Contenta che il siparietto ti sia piaciuto, a me ha divertito moltissimo scriverlo. Prima o poi dovrò scrivere qualcosa di allegro su Erik, lo facciamo sempre soffrire nelle fanfiction...

@ Keira: il Maestro è molto contento del fatto che tu voglia uccidermi, ha detto che se vuoi una mano lui è a disposizione... Ah, no vedete, Maestro... alla fine mi vuole bene! Me fa pernacchia al musO.  Comunque, per rispondere alla tua domanda, si, il tempo delle vicende è lo stesso. Alex... io adoro vessare quel ragazzo, non si era capito? XD

@ pittolaFede: grazie di aver letto anche questa storia ^^ il tuo livello di masochis... ehm, interessamento, mi fa gongolare come un nano da giardino XD Ok, torno seria. Grazie per quello che mi hai scritto *_* tutti questi “brava” tutti assieme potrebbero anche farmi male =)



CAPITOLO VENTOTTESIMO
Gli occhi del nemico

Blaise Bertrand stava cominciando a trovare quel viaggio di una lentezza snervante.
Tutti parlavano del treno come una fantastica invenzione che avrebbe portato l'uomo più velocemente verso il futuro e invece quella rumorosa macchina a vapore era lenta, scomoda e affollata. Tremendamente affollata.
Accanto a lui era seduta una donna di mezza età con al seguito un gregge di figliole tutte intente a ricamare. Come diamine facessero a infilare il filo di cotone nella cruna dell'ago, in mezzo agli sballottamenti del vagone, era un mistero che Bertrand aveva anche trovato interessante, almeno per i primi cinque minuti, poi aveva cominciato a innervosirsi.
Come diamine facessero le donne a... a essere donne, era qualcosa che l'investigatore trovava misterioso e frustrante allo stesso tempo.
Come faceva una prostituta a lasciare la camera di un bordello a testa alta? Come faceva una cameriera a sopportare le vessazioni della padrona capricciosa? Come faceva una madre  a sopportare i dolori del parto e mettere al mondo un secondo, terzo quarto figlio?
Come aveva fatto quella ragazzina spaurita che era Christine Daae a rischiare la vita per quel mostro e a ingannarlo? Probabilmente quella stupida già portava in grembo il figlio bastardo di quell'essere...
Naturalmente Bertrand non era un'anima avvezza ai buoni sentimenti, altrimenti la sua mente avrebbe stroncato sul nascere quella fila di domande.
L'amore, che assurdità!  
Curioso che un cervello tanto abituato a lavorare di logica non avesse raggiunto un'ovvia conclusione: se si poteva provare odio, odio da accecare la vista e i pensieri, era giusto supporre che esistesse un sentimento altrettanto forte ma contrario. Se l'odio era tanto reale per chi lo provava doveva essere per forza reale anche il suo opposto.
Ma che motivo avrebbe mai avuto di pensare a certe eventualità? A lui l'odio andava benissimo, con o senza il corrispettivo contrario.
E l'odio di Bertrand in quel momento avrebbe potuto fare da carburante a quel treno, tanto era nero e incandescente.
Le sue azioni non avevano mai conosciuto altra ragione. Ed era così anche quella volta.
Nel momento stesso in cui i direttori dell'Opera Populaire gli avevano affidato le ricerche del leggendario Fantasma, quell'uomo...  quell'essere, era divenuto suo nemico. Ogni uomo da scovare, imprigionare, uccidere era suo nemico, e un nemico non merita altro che odio.
“... e gli amici dei nemici sono miei nemici” borbottò Bertrand a mezza voce,
“Come dite?” chiese perplessa la donna seduta accanto a lui
“Niente, pensavo a voce alta”
“Oh, accidenti! Mi è caduto l'ago, non lo troverò mai in questo vagone...”.
Bertrand celò a sento un ghigno.
Gli amici dei nemici erano suoi nemici. Avrebbe dovuto capirlo fin dal primo momento che quel giornalista pedante sarebbe divenuto una spina nel fianco, chiunque avesse un senso troppo elevato della giustizia era una spina nel fianco per lui, i suoi metodi non sembravano mai giusti, eppure erano efficaci, sensati, come l'odio. Se Alexandre Dubois non si fosse messo di mezzo a quest'ora il Fantasma dell'Opera, Erik o come diavolo si chiamava, avrebbe già avuto ciò che meritava. Per non parlare poi di quel bamboccio sospiroso del visconte, perso dietro a una fanciulla che aveva preferito un mostro fuorilegge a un ricco giovane blasonato.
Ah si! C'erano troppe cose che Bertrand faticava a capire.
L'investigatore li aveva spiati partire. Ormai non aveva più dubbi sulla loro destinazione, alcuni giorni primi era stato alla redazione del giornale dove lavorava Alexandre ed era riuscito a sapere dove aveva abitato la famiglia Dubois prima di trasferirsi a Parigi.
Il visconte e la ragazza erano partiti in carrozza, nel caso Christine fosse stata male durante il viaggio, avrebbero potuto fermarsi in una qualsiasi cittadina lungo il tragitto.
Viaggiando in treno Bertrand era certo di arrivare a Saint- Gaudens prima di loro, ma avrebbe atteso che la famigliola fosse di nuovo riunita prima di colpire.

La donna e le sue figlie stavano ancora cercando l'ago smarrito, come se fosse possibile ritrovare un ago sul pavimento di un vagone ferroviario!
Certa gente sa essere veramente ostinata e Bertrand provava sempre un certo disagio davanti all'ostinazione altrui.
“Oh monsieur, grazie al cielo!” esclamò la donna battendo rumorosamente le mani,
l'investigatore la guardò senza capire,
“Il mio ago, è finito sotto la vostra scarpa. Meno male, altrimenti sarebbe rotolato via”,
Bertrand guardò verso il basso, l'ago scintillava contro la sua suola.
“Si, madame, è davvero difficile che qualcosa sfugga quando incontra me” rispose.
La donna giurò di aver visto sul viso dello sconosciuto un sorriso crudele. Raccolse il suo ago e tornò al suo ricamo.
Quando l'uomo scese a un'altra stazione per prendere una coincidenza, la donna sentì come se si fosse liberata da un peso, poi si disse che era stata solo suggestione, che quell'uomo sembrava un signore così a modo, e non ci pensò più.

*

Gli occhi si riempivano di ogni cosa.
Erano occhi giovani che del mondo avevano visto così poco!
Christine passava gran parte del viaggio con il viso appiccicato al finestrino della carrozza. Aveva visto sfilare grandi campagne con giganteschi mulini a vento, cittadine brulicanti di persone, villaggi di contadini o pescatori. E alcune volte si era sentita anche un po' stupida a causa del suo stesso stupore. Per lei l'universo non era altro che un teatro, i cieli erano soffitti affrescati e le giornate erano scandite dalle fiamme dei candelabri e delle lampade ad olio.
D'un tratto si ricordò di quando aveva viaggiato insieme a suo padre. Dopo la morte di sua madre avevano lasciato la Svezia e avevano girato l'Europa per un po' prima di trasferirsi stabilmente a Parigi, poco prima che anche suo padre la lasciasse. Ma quei viaggi, le cose che aveva visto, le città che aveva visitato erano solo ricordi sfocati. Da molto tempo il mondo aveva smesso di esistere per Christine.
La fanciulla si chiese se anche Erik non avesse provato le stesse cose durante il viaggio. Anche per lui, per tanti anni, non c'era stato nient'altro all'infuori del teatro.
Il pensiero di Erik la fece sospirare.
Raoul sollevò gli occhi dal libro che stava tentando (o forse fingendo) di leggere e la guardò preoccupato.
“Sto bene” dichiarò la fanciulla prima che il visconte le chiedesse qualcosa
“Sei stanca? Vuoi fermarti? Hai bisogno di qualcosa?” chiese lui,
Christine sorrise di tenerezza,
“Ho detto che sto bene” rispose.
I due giovani restarono a fissarsi in un silenzio imbarazzato. In quei giorni Christine aveva ritrovato tutta la sua timidezza e quei modi di fare da bambina insicura e spaurita.
Dovette racimolare un bel po' di coraggio per chiedere:
“Raoul, perché lo fai?”,
il visconte sbatté le palpebre in un'espressione perplessa. La cosa buffa è che nemmeno lui conosceva la risposta a quella domanda.
“Lo avrebbe fatto chiunque”, la buttò lì con un'alzata di spalle, con talmente tanta noncuranza da non riuscire a convincere nemmeno se stesso.
“Non dire sciocchezze!” replicò Christine
“Intendevo dire che lo avrebbe fatto chiunque per una persona che ritiene importante”. Raoul sentì che stava arrossendo come un bambino.
Cosa doveva fare? Fingere che lei non fosse importante? Fingere che non avrebbe fatto ogni cosa per la sua felicità?
Ogni cosa, già. Persino portare una pistola nella tasca, all'insaputa della sua Dolce Lottie, naturalmente. Portare una pistola, lui! Lui, che l'odore della polvere da sparo gli faceva venire l'emicrania! Lui che l'ultima volta che aveva tenuto in mano un'arma da fuoco era stato anni prima, quando suo padre aveva preteso che il suo unico figlio maschio lo accompagnasse in una battuta di caccia...  e quando aveva avuto sotto tiro una magnifica lepre aveva mancato la mira di proposito, tanto gli faceva ribrezzo l'idea di uccidere!
“Scusa Raoul, ho fatto una domanda stupida” disse Christine
“Non importa- rispose lui sforzandosi di sorridere- io ne faccio spesso”.
Entrambi guardarono fuori dal finestrino chiedendosi quanto mancasse ancora per raggiungere Saint Gaudens. Quel viaggio cominciava a diventare estremamente difficile.

*

Ad Alexandre non piaceva l'inattività. Cominciava a sentire la nostalgia del gran trambusto che c'era lì al giornale, delle chiacchierate con sua madre, della compagnia di Raoul. In un angolo remoto della sua mente provava anche nostalgia di Bertrand. Non che rimpiangesse la compagnia di quel criminale, ma non poteva fare a meno di pensare che le settimane trascorse a indagare sul Fantasma dell'Opera fossero state le più emozionanti della sua vita.
Se avesse saputo che quella storia lo avrebbe portato a restare rintanato nella sua vecchia casa con il suo fratello redivivo... ah, al diavolo! Se lo avesse saputo, avrebbe fatto esattamente le stesse cose.
Era così che doveva essere.
Dopo il ritrovamento dei vecchi documenti di suo padre, del finto certificato di morte, Erik si era chiuso ancora di più nel suo mutismo.
L'inattività cominciava a pesare a entrambi.

Dopo alcuni giorni di silenzio, Erik aveva comunque trovato un passatempo. Si era dedicato a riparare il pianoforte che c'era nel salotto, un vecchissimo modello di pianoforte a muro.
La sistemazione del vecchio strumento era diventata fonte di curiosità anche per Alexandre, il quale si era reso conto di non aver mai sentito suo fratello suonare. Aveva avuto prova delle sue strabilianti capacità canore la sera della rappresentazione del Don Juan, ma non aveva mai sentito Erik al pianoforte, tanto che quando terminò di riparare lo strumento Alexandre cominciò a gironzolargli attorno in attesa di sentirlo suonare.
“Chi era il musicista di casa?” domandò il maggiore dei fratelli Dubois guardando la tastiera
“Nessuno. Penso che il pianoforte fosse già qui quando i...” Alexandre si bloccò. Non aveva il coraggio di pronunciare le parole i nostri genitori.
“Penso che fosse già qui quando la casa fu acquistata- concluse- Non fu buttato via in previsione di un figlio che avrebbe preso lezioni di musica, come molti bambini fanno di solito... ma io della musica non ho mai voluto saperne niente. Non sapevo nemmeno che fosse rotto”,
Erik annuì vagamente e posò le dita sui tasti suonando un LA. Il suono che uscì dal pianoforte era debole, come se anche la musica fosse sommersa dalla polvere degli ingranaggi interni.
Alexandre arricciò il naso,
“E' vecchio... molto” disse quasi in tono di scusa
“E' un pessimo strumento, suonerebbe male anche se fosse nuovo” borbottò Erik e si allontanò dal pianoforte senza aggiungere altro. Suo fratello vide un velo di tristezza così profonda nei suoi occhi che per un attimo ebbe paura.
“Christine sarà qui a giorni” gli ricordò. Quel nome aveva sempre la capacità di scalfire la coltre di gelo, alle volte Alexandre riusciva persino ad avere un dialogo accettabile con suo fratello se l'argomento di discussione era mademoiselle Daae.
“E quando sarà qui?” chiese Erik con un sospiro sconsolato
“Smettila di comportarti come se non ci fosse futuro!- replicò Alexandre- Quando sarà qui... la sposerai, tanto per cominciare!”,
uno strano sorriso infantile increspò le labbra dell'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera. Poi fu di nuovo silenzio.

Il giorno dopo Erik trovò Alexandre immerso nella lettura di alcune carte, il ragazzo stava leggendo  alcuni fogli scritti in una grafia ordinata. Suo fratello lo fissò per qualche secondo senza dire nulla, poi lo vide sorridere e borbottare qualcosa.
“Che hai da ridere?” gli chiese, lui sussultò, non lo aveva sentito arrivare
“Ridevo di me stesso- rispose il giovane- questi sono gli appunti che ho scritto mentre facevo le ricerche nel teatro”,
Erik allungò una mano per prendere i fogli, ma Alexandre glieli strappò via dalle dita,
“No, non leggerli, sono solo sciocchezze” esclamò
l'uomo si sporse in avanti per afferrare il fratello che però riuscì a spostarsi di lato evitando la sua presa,
“Vedo che il significato della parola NO continua a esserti estraneo” protestò
“Non sono abituato a sentirmi dare risposte negative. Adesso, sarebbe molto meglio per te se tu mi dessi quei fogli di tua spontanea volontà”,
Alexandre ghignò scuotendo energicamente il capo, Erik si voltò con uno scatto e si lanciò verso di lui che scappò correndo verso le scale.
“Che lentezza! Si vede che stai invecchiando, fratello” disse il giornalista
“Non mi serve rincorrerti. A meno che tu non intenda volare via dalla finestra, prima o poi dovrai fermarti”.
Alexandre si infilò in tutta fretta nella sua stanza, ma Erik lo raggiunse prima che avesse il tempo di chiudere la porta a chiave e gli strappò i fogli da mano, quindi cominciò a leggere ad alta voce:
Sono certo che negli anni a venire tanto si parlerà del Teatro dell'Opera Populaire di Parigi, della sua grandezza e del suo prestigio. Ma io voglio raccontare un'altra vicenda, una vicenda che necessita di essere documentata perché non divenga una leggenda, perché certi fatti restino fatti e non favole... Buon Dio, Alexandre, come sei epico!”
“Lo sapevo che lo avresti trovato ridicolo!- borbottò il ragazzo- Ero intenzionato a scrivere un libro sul Fantasma dell'Opera, su come lo avremmo stanato... volevo raccontare la verità”
Erik sospirò
“Beh, allora è meglio che le cose non siano andate come speravi quando hai cominciato a scrivere queste note. Per i più, la verità sarebbe stata abbastanza deludente...” disse lasciando cadere i fogli. Di colpo non era più tanto curioso di sapere cosa avesse scritto suo fratello durante quelle settimane, non voleva sapere come appariva attraverso gli occhi di un nemico.
Alexandre raccolse le pagine che aveva scritto in un tempo che ormai gli sembrava lontanissimo e si avvicinò alla scrivania. Sollevò il coperchio del lume e avvicinò i fogli alla fiamma. La carta prese fuoco, le parole si trasformarono in fumo.
Il giornalista lasciò cadere il fogli nel braciere e li guardò consumarsi.
“Quella del Fantasma dell'Opera è una bella storia- mormorò- e sono certo che un giorno verrà raccontata. Ma non sarò io a farlo”.

*

Per un insieme di fatti curiosi avvenuti durante il tragitto da Parigi a Saint-Gaudens, la carrozza del visconte De Chagny e il treno di monsieur Bertrand giunsero a destinazione quasi allo stesso momento.

L'investigatore scese dal vagone, andò alla locanda della stazione e pranzò senza riuscire ad assaporare il cibo, tanto era forte il sapore della rivalsa che gli inondava tutti i sensi.
Dopo pranzo restò seduto al tavolo bevendo una generosa dose di cognac. E attese.
Era completamente preso dalle sue riflessioni quando sentì dei risolini provenire dalle sue spalle. Si voltò e vide un gruppo di ragazze sedute a prendere il tè. Quando guardò nella loro direzione si accorse che le fanciulle lo stavano fissando.
“Posso fare qualcosa per voi?” chiese con poco garbo,
le giovani si scambiarono alcune parole sottovoce, poi una di loro si alzò e andò verso di lui,
“Perdonate, monsieur, mi chiamo Corinne- disse la ragazza sorridendo- io e le mie amiche non volevamo importunarvi, ma abbiamo visto quel giornale accanto al vostro cappotto. Venite da Parigi, vero?”,
Bertrand guardò il cappotto che aveva piegato sullo schienale della sedia vuota accanto a sé, dalla tasca interna sporgeva una copia sgualcita di un vecchio giornale che aveva acquistato alla stazione di Parigi prima di mettersi in viaggio,
“Si, avete indovinato mademoiselle” rispose sbrigativo
“Oh, io e le mie amiche ogni tanto veniamo qui a prendere il tè sperando di poter parlare con qualcuno in arrivo da Parigi”
“Ah, capisco. Scopo della vostra vita è importunare gli avventori, magnifica occupazione davvero”,
Corinne rise, coprendosi il visino da bambola con la manina candida. Credeva che quella dello sconosciuto visitatore fosse una battuta.
“Vedete, una persona a me molto cara, un vecchio amico di infanzia è andato a Parigi a lavorare per un giornale- disse la giovane- così mi chiedevo se per caso mi potreste far dare un'occhiata al vostro di giornale, sono assai curiosa”,
a quelle parole qualcosa si accese nella mente di Bertrand,
“Vi riferite forse ad Alexandre Dubois?” domandò, il tono di colpo si era fatto più cortese
“Proprio lui! Ma allora lo conoscete!”
“Abbiamo condiviso una bella avventura, se così si può dire”
“Siete venuto a trovarlo? È qui da un paio di settimane. Speravo di poterlo andare a trovare, ma ha degli ospiti importanti e mi ha detto che preferisce vedermi quando potremo stare da soli”, lo sguardo di Corinne si accese di una scintilla di ostentata malizia, quella di una bambina che vuole fingere di essere cresciuta.
Bertrand si lasciò scappare una risatina. Conosceva Alexandre Dubois abbastanza bene da sapere che mai e poi mai avrebbe provato interesse per quella ragazzina.
“Ospiti importanti, dite?” le chiese fingendosi stupito
“Oh si, ne sono arrivati altri anche oggi, verso ora di pranzo. Una carrozza con un blasone. Ospiti importanti, per l'appunto, avrà fatto molte conoscenze a Parigi! Ma voi... non siete qui per lui?”
“Non solo per lui, mia cara.- concluse l'investigatore- Andrò a trovare il nostro caro Alexandre quando sarà il momento adatto. Prendete pure il mio giornale se volete”.

*

Raoul pensò che trovava difficile immaginare che il suo amico Alexandre fosse nato e cresciuto in un posto del genere. Saint- Gaudens era un luogo grazioso, ma appariva così... così provinciale.
Mentre il ragazzo era intento a pensare, Christine saltò giù dalla carrozza.
“Mio Dio! Hai deciso di romperti una gamba?” la rimproverò Raoul, ma la ragazza non lo ascoltò e andò a bussare alla porta della casa.
Anche Raoul scese dalla carrozza, per un po' resse con una certa determinatezza gli sguardi dei curiosi che si fermavano a osservare lo stemma dipinto sullo sportello della vettura, poi si sentì cogliere dall'imbarazzo. Non gli capitava mai di destare tutto quell'interesse e all'improvviso provò una grande voglia di tornare a casa.
Alexandre aprì la porta e sorrise,
“Benvenuti” disse raggiante.
Christine gli prese una mano tra le sue,
“Sono così contenta di rivederti!” esclamò
“Anch'io. Specie dopo aver trascorso tutto questo da solo in compagnia di quella specie di orso” scherzò il giovane.
Raoul entrò in casa e si chiuse la porta alle spalle, lui e il suo amico videro Christine correre via, verso le scale.
“Sembra essersi ripresa del tutto- osservò Alexandre- e tu, mio amico dal cuor malato?”
“Sto ancora meditando su quale sia il modo migliore per farla finita” scherzò il visconte. La malinconia per quell'amore sperato e non ricambiato non gli era passata, ma in quel momento sembrava che intorno ci fosse quasi aria di festa.

*

Erano di nuovo insieme. Insieme.
Era tutto ciò a cui Erik riuscì a pensare mentre affondava il viso tra i capelli di Christine e ne aspirava il profumo.
Christine si sentiva stanca, a pezzi. La lunga strada l'aveva provata, la ferita non si era ancora rimarginata del tutto e lei era consapevole che era stata un terribile azzardo mettersi in viaggio.
“Oh, Erik...” mormorò
“Ritrovarti fa quasi più male che perderti” disse lui, con il cuore impazzito che martellava contro le costole.
Il vento soffiò via le nuvole dal loro orizzonte. Un orizzonte ancora lontanissimo eppure, finalmente, macchiato d'azzurro.
Una nuova tempesta si stava preparando, ma loro non potevano saperlo. Gli occhi del nemico scrutavano quello stesso orizzonte pronti a soffiarci contro altre nuvole. Gli occhi del nemico erano lì, vicini. Vicinissimi...

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Un luuungo paragrafo dedicato al cuoricino nero di Berty era dovuto.
I due fratelli che giocano ad acchiapparello non erano in programma, ma quanto mi piace farli azzuffare!
Per il resto... ehm ehm... lo so, il finale aperto è da pazza sadica, ma che ci volete fare? Ho a che fare con uno come Erik e si sa, chi pratica lo zoppo impara a zoppicare...

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Capitolo 32
*** Di fuoco e sangue - Epilogo ***


 
 Prova provante che non ho mai dimenticato questa storia... no, non è stata dimenticata, è stata "scavalcata", in questi giorni sono a casa e mi sono IMPOSTA di scrivere questo capitolo conclusivo.
 Era così che doveva andare... avevo in mente questo fin dall'inizio, anche se ho cercato di autoconvincermi che era meglio di no...
 Sono contenta di averci messo il punto di conclusione.
 Ringrazio tutti quelli che hanno seguito quest'altra improbabile avventura del Maestro&Co., questa storia riveduta e corretta dalla sottoscritta...

 Confesso che questo ultimo capitolo mi piace molto "esteticamente", per il modo in cui è scritto più che per quello che racconta, e quindi voglio dedicarlo a Keyra93, dalla quale ho ricevuto uno dei più bei complimenti che una scribacchina squinternata come la sottoscritta potesse ricevere.


****


CAPITOLO VENTINOVESIMO

Di fuoco e sangue

Fuoco.
Le fiamme dilagavano, rompevano i sigilli del buio. Portavano luce, ma non era così che doveva essere. Quella luce era rossa e aveva sapore di sangue.
Sangue e fuoco, artigli che distruggevano tutto, il suo mondo, la sua vita. Tutto avvolto in una danza di luce e di morte.
L'Opera Populaire diventava cenere...
Una voce dal cielo scivolava sulle spire di fumo e arrivava fino a lui.
“È così che deve essere... è proprio così che doveva finire, e lo sai... lo sai... lo sai...”
L'eco di quelle parole si dissolse nella sua voce che urlava NO.
Nei pensieri di Erik quello doveva essere lo stesso No che aveva urlato Lucifero mentre precipitava giù dal Paradiso...

Si svegliò di soprassalto, i pugni serrati attorno alle lenzuola. Lo sguardo vagò febbrile per tutta la stanza fino a posarsi sul viso di Christine addormentata accanto a lui. L'uomo sospirò, contento di non averla svegliata.
Lentamente, con gesti cauti, Erik si mise a sedere in mezzo al letto, poi si mise in piedi. Con passo felpato raggiunse il catino e si sciacquò il viso. La penombra che avvolgeva la stanza confondeva i contorni del suo viso imperfetto.
Sempre attento a non fare rumore, si diresse verso la finestra e scostò la tenda. Il paese era avvolto da un buio che per un attimo gli parve amico. Aveva sempre amato il buio, fin da bambino, non pensava che celasse strani mostri o strane insidie, anzi, il buio lo proteggeva, celava il mostro agli occhi del mondo perché il mondo non potesse fare male all'uomo che c'era dietro il volto del mostro.
Un lampo si accese nei suoi pensieri proiettando in quell'oscurità le immagini del suo incubo. Vide il fuoco, sentì l'odore del sangue. Un rivolo di sudore freddo gli colò lungo il collo.

Hai paura, Figlio del Diavolo?

Erik afferrò i suoi vestiti, si chiuse nella stanza da bagno e si rivestì preso alle spalle da una strana e prepotente voglia di fare qualcosa. Forse anche solo tornare a giocare con il buio, come faceva un tempo, prima che l'uomo avesse la meglio sul mostro.
Prima di uscire prese la sua maschera.
Il mondo, dopotutto, non era ancora pronto per i mostri.
Scese cauto le scale, quei gradini scricchiolanti non emisero un solo suono sotto i suoi piedi. Il Signore delle Botole non si sarebbe fatto tradire dal legno di una vecchia casa.
Arrivato sull'ultimo gradino, Erik sobbalzò per un rumore improvviso, un respiro forte proveniente dalla sua destra e quasi perse l'equilibrio. Si aggrappò prontamente al parapetto della scala e guardò contrariato nella direzione da cui proveniva il suono: Alexandre era sdraiato sul divano in una posa scomoda eppure dormiva profondamente, con ancora i vestiti addosso, le maniche della camicia risvoltate sui gomiti e il gilet sgualcito.
Erik si avviò verso la porta.
«E adesso dove hai intenzione di andare?» fece, come dal nulla, una voce impastata di sonno.
L'uomo non si voltò neppure, alzò gli occhi al cielo e scosse il capo,
«Non imparerai mai a farti i fatti tuoi, ragazzo? Torna a dormire» borbottò sistemandosi meglio il mantello sulle spalle. Senza attendere risposta, aprì la porta di casa e in un attimo fu avvolto dal buio e dal freddo della notte di montagna.

*

Aveva scelto una strada rischiosa e scomoda. Una strada senza gloria.
Agli occhi di Parigi sarebbe stato sempre e comunque quello che si era lasciato scappare il Fantasma dell'Opera sotto il naso, ma ormai non gli importava. La vendetta è vendetta, non ha bisogno del riscatto. La vendetta è per se stessi, non per gli occhi del mondo.
Bertrand aveva preso alloggio in una piccola pensione del paese. Letto scomodo e cibo scadente.
Aveva passato quattro giorni lì. Di notte usciva e metteva insieme i pezzi del suo piano, in silenzio, al buio. Proprio come un fantasma...
«Eh, amico mio,» aveva mormorato una sera mentre spiava il profilo di Erik disegnarsi in controluce dietro la tenda della camera, un attimo prima che nella casa si spegnessero i lumi, «ora capisco perché ti piaceva tanto questo gioco...».
Il primo giorno aveva atteso che fosse notte fonda, che tutti dormissero, poi aveva raggiunto la casa. Che gran fortuna che fosse l'ultima infondo alla strada. Che gran fortuna che fosse stata disabitata per tutti quei mesi e che la porta sul retro che portava alla cantina fosse marcita.
Quando Bertrand aveva trovato quella via d'accesso aveva cominciato a credere che tutto quello che stava facendo fosse non solo doveroso, ma giusto. Era sgattaiolato dentro e, come previsto, aveva trovato uno scantinato buio e vuoto dove affondavano i pilastri della casa e dove il soffitto era costituito dalle assi di legno del pavimento del pian terreno.
Perfetto.
Tutto il resto non era stato difficile. Aveva passato la vita ad avere a che fare con i delinquenti ed era facile per lui trovarli e trattare con loro. Una volta li arrestava, poi aveva imparato a usarli: avevano una loro grande utilità, fornivano informazioni e anche qualcosa di più, per chi era disposto a pagare.
Il secondo giorno Bertand era andato in un'osteria, aveva scovato a fiuto quella più malfamata. Erano bastate poche parole giuste, era bastato offrire un giro di birra e qualche sigaro e, infine, sborsare qualche franco, per avere le informazioni che gli servivano.
Il terzo giorno aveva trovato i contrabbandieri e aveva comprato quattro piccole botti di polvere da sparo (abbastanza piccole perché riuscisse a trasportarle da solo) e una cassa di bottiglie di cognac che aveva nascosto nel bosco retrostante la via dove si trovava la casa.
Il quarto giorno aveva atteso la notte fonda, era tornato in quella cantina, aveva sistemato le botti di esplosivo accanto ai pilastri e aveva infilato le bottiglie di cognac sotto le travi, a contatto con le assi del pavimento.
«Dio benedica i montanari e la loro abitudine di costruire le case in legno!» si era detto stappando una bottiglia di liquore e bevendone un lungo sorso per poi lasciarla cadere sul pavimento.
Protetto dal buio era uscito furtivo dalla cantina stendendo la miccia, doveva essere lunga, lui doveva essere già lontano quando la casa sarebbe crollata in mezzo al fuoco.
Si infilò un sigaro tra le labbra, accese il fiammifero sfregandolo sul tronco di un albero. Accese prima il sigaro, poi la miccia.
La scintilla di luce cominciò a serpeggiare nel buio. Vicina, sempre più vicina.

*

Erik sentiva una strana voglia di piangere. In mezzo a quel buio la felicità era lontana anche se le sue braccia gli sembravano ancora tiepide del calore del corpo di Christine addormentata contro il suo fianco.
In mezzo a quel silenzio udiva voci che si sommavano in un laconico mormorio che piano piano diventava come lo scorrere lugubre delle note di un requiem.
Si portò le mani alle orecchie in un gesto disperato, sperando che le voci zittissero. Era stato così felice quando, quattro giorni prima, Christine era tornata da lui, e adesso perché gli sembrava tutto così fuori posto? La sua vita era un sogno fragile pronto a dissolversi con le prime luci del mattino.

Hai paura, Figlio del Diavolo?
Sì!

Fosse stata solo la sua vita, non gli sarebbe importato. Fosse rimasto solo, com'era giusto, sarebbe stato tutto più facile.
Alzò gli occhi al cielo. Il suo sguardo incrociò il profilo del campanile della chiesa, sulla guglia dorata svettava una massiccia croce di ferro. Strinse le palpebre.
Con la schiena appoggiata al tronco di un albero, il Fantasma dell'Opera pregò per la prima volta in vita sua, rivolse a Dio suppliche e non parole di rabbia.
Fu quando riaprì gli occhi, lunghi minuti dopo, che vide quella minuscola lingua di fuoco brillare sul terreno, come una stella cadente che cerca la via per tornare in cielo.

*

Luce, tanta luce. E fuoco dall'odore del sangue.
Nascosto dietro a un cespuglio, abbastanza lontano dalla casa, l'uomo sognava il suo trionfo e il boato che lo avrebbe annunciato.
La scintilla era a pochi passi dalla porta della cantina quando l'ombra arrivò rapace a portare via dagli occhi di Balise Bertrand il suo momento di gloria.
L'ombra era come spuntata dal nulla, aveva spento la fiammella. Nel silenzio della notte Bertrand poteva sentire gli angeli ridere di lui.
L'ombra restò immobile, Bertrand l'avrebbe riconosciuta ovunque. Aveva persino un nome... cosa insolita per un Fantasma.
«Erik» mormorò l'investigatore, pronunciando quel nome come se stesse scagliando una maledizione.

Erik teneva ancora il piede premuto sul terreno, lì dove aveva spento la miccia. Guardava incredulo i pochi centimetri che separavano il cordoncino dalla porta della cantina. Sentì un alito di vento gelargli il sudore sulla nuca.
Se solo fosse arrivato una manciata di secondi più tardi...
«Erik!». La voce di Bertrand lo colse alle spalle, aveva il tono gioviale di un saluto quasi affettuoso, ma il clik della pistola che veniva caricata suonava come il respiro della Morte.
«Ho bestemmiato un attimo fa, quando ti ho visto comparire e spegnere la miccia...» disse l'investigatore. La canna della rivoltella aveva riflessi cupi nella blanda luce delle stelle, come il bianco della maschera del Fantasma.
«Bertrand!» ringhiò Erik voltandosi di scatto verso di lui.
«... ma ora sono quasi contento di vederti» proseguì l'investigatore. «Tu non sei uomo che merita di essere ucciso nel sonno, quelli come te vale la pena guardarli negli occhi mentre tirano le cuoia. Ma più di tutto, mi piace pensare che lo sai... lo sai che non mi fermerò, che dopo che ti avrò sparato accenderò di nuovo quella miccia».
Il vento si era fatto più freddo e spazzava impietoso il piccolo spiazzo dietro la casa.
«Pensandoci, è davvero un bene che tu sia qui, Erik. Ho una storia: la fanciulla e i suoi amici lasciano Parigi per scappare alla persecuzione del Fantasma, ma il Fantasma si mette sulle loro tracce e li trova. Io lo inseguo, ma non riesco a fermarlo se non dopo che egli ha già compiuto la sua vendetta facendo saltare in aria la casa dove si erano rifugiati Mademoiselle Daae e i suoi amici. Non contavo di uscirne come un eroe e nemmeno mi importava... ma già che siamo qui, uniamo l'utile al dilettevole, non ti pare?».
La rabbia stava trasformando il sangue di Erik in un fiume di lava. E così Bertrand l'avrebbe avuta vinta. E così lui sarebbe rimasto un mostro per l'eternità... e così Christine e Alexandre avrebbero pagato con la vita il loro amore nei suoi confronti...

Hai paura, Figlio del Diavolo?

Se la furia avesse potuto essere una musica avrebbe avuto quelle note, il suono dell'urlo che Erik lanciò scagliandosi contro Bertrand. Non c'era logica in quel gesto, non c'era ragione, non c'era più nemmeno voglia di vivere, non a quel prezzo, non con quella colpa sul cuore.
Lo sparo squarciò la notte risucchiandone tutto il buio e tutto il silenzio e restituendoglieli poi tutti interi in un colpo solo.
Non fu il Fantasma a cadere, fu Bertrand.
Erik rimase impietrito, proteso in avanti, con le gambe pronte a scattare. Impiegò qualche secondo a realizzare cosa era successo.
Blaise Bertrand rimase ritto in mezzo allo spiazzo di rena. Sarebbe parso immobile come una fotografia se non fosse stato per quel rivolo di sangue che gli scorreva lento da un angolo della bocca.
Dopo qualche secondo pesante come l'eternità, cadde a faccia in terra, sollevando uno sbuffo di polvere.
Alexandre era in piedi alle spalle di Bertrand, tremava come una foglia a ogni soffio di vento. Il suo volto era più bianco della maschera del Fantasma, le mani che reggevano la pistola con la quale aveva sparato lasciarono la presa come se il peso dell'arma si fosse fatto di colpo insostenibile.
Ci sono mani che non possono trattenere il peso della Morte. Le mani di Alexandre non erano fatte per quello...
Erik vide il ragazzo cadere in ginocchio, con gli occhi sbarrati, puntati sulla pozza di sangue che si allargava accanto al corpo di Bertrand, e le sue labbra mormorarono un “No” gonfio di dolore poi finalmente si scosse e corse verso suo fratello, si gettò in terra accanto a lui e gli cinse le spalle con un braccio.
«Io... io...». La voce di Alexandre moriva nelle loro orecchie ancora intontite dal suono dello sparo. «Io... sono stato... io...».
Il corpo del ragazzo era scosso da fremiti di puro orrore.
Erik lo abbracciò, come un fratello, come un padre, come un amico. Per un attimo i loro cuori batterono alla stessa maniera, come cuori che si stanno spaccando.
«Avrei dato ogni goccia del mio sangue perché non dovessi essere tu a fare questo, fratello» sussurrò Erik. Voleva trattenere tra le dita l'anima del ragazzo che sentiva andare via.
«... fratello» ripeté Alexandre. «Ora è tutto finito».


EPILOGO

«Eravamo andati via da Parigi. Bertrand ci credeva coinvolti in chissà che complotti criminali e ci ha inseguiti fino qui, voleva farci saltare in aria... a tanto arrivava la sua follia. Monsieur Dubois ha dovuto difendere la sua casa, se stesso e noi». Furono queste le parole che Raoul De Chagny riferì ai gendarmi per informarli di ciò che era accaduto. Se non fosse bastata la parola di un visconte di Francia a bollare Bertrand come un individuo pericoloso e a giustificare i terribili fatti avvenuti, bastarono comunque poche indagini. Si scoprì la pessima reputazione che si era guadagnato a Parigi, il fatto che fosse stato sollevato dal suoi incarico nelle autorità della capitale e la testimonianza di chi lo aveva visto parlare con qualche malvivente locale le sere precedenti. Senza contare che alla vista dei barili di polvere da sparo sistemati nella cantina di casa Dubois, l'ispettore locale aveva quasi avuto un mancamento: cose del genere non erano mai successe in quel placido paesino che era Saint Gaudens.
Erik era rimasto opportunamente nascosto, lontano dalla casa, fino a quando, in pochi giorni, la gendarmeria non aveva deciso che non c'era altro su cui indagare: era esattamente tutto come aveva detto il visconte, non c'era altra spiegazione.

*

Erik era in piedi sull'uscio della porta della camera da letto. Il volto di Alexandre era pallido tra le lenzuola. Il medico che lo aveva visitato aveva detto che si sarebbe ripreso e che lentamente sarebbe guarito anche il suo spirito.
In paese parlavano di lui come un eroe, sui volti di Christine e Raoul era dipinta la più viva riconoscenza. Solo Erik soffriva in silenzio per lui e rimaneva ogni notte seduto al suo capezzale, sperando che suo fratello si riavesse, aprisse gli occhi e cominciasse a inveire contro di lui.
Voleva sentirgli dire che era tutta colpa sua, che era un mostro capace solo di rovinare tutto ciò che toccava. Perché era questo che aveva fatto con lui.

Odiami, Alexandre, l'odio lava via un sacco di cose...

Una sera Alexandre aprì gli occhi di colpo, nella pallida luce del lume cercò lo sguardo di Erik e lui sentì il pavimento venire meno sotto i piedi.
«E adesso cosa farete tu e Christine?» domandò Alexandre con voce spenta. Erik si sentì del tutto preso alla sprovvista,
«Alexandre... io...».
Il  ragazzo accennò un sorriso,
«Non venirmi a dire che devo imparare a farmi i fatti miei. Rispondi alla mia domanda» mormorò.
Le labbra dell'uomo si schiusero in una smorfia di stupore,
«Io... intendo sposarla, appena tu ti sarai ripreso... se... poi non lo so, ti giuro, io non so più nulla» disse colui che una volta era stato il Fantasma dell'Opera, coprendosi il volto con le mani.
Alexandre si mise a sedere e posò una mano su quelle di suo fratello per lasciare che si scoprisse il viso. I due restarono a guardarsi in silenzio per qualche secondo, quasi stupiti di quanto i loro occhi fossero uguali. Poi Alexandre strinse un pugno e, racimolando tutta la forza che aveva, sferrò un sonoro colpo a Erik in pieno viso.
L'umo scivolò sul pavimento con il labbro rotto e guardò il ragazzo seduto sul materasso che arrancava per lo sforzo.
«Sii felice, razza di idiota!» lo ammonì Alexandre spalancando gli occhi chiari. «Non osare mai più piagnucolare o piangerti addosso! Non osare... perché se renderai vano tutto questo, io ti giuro, sarai la prima persona che imparerò ad odiare. E non osare mai più dirmi che sono un impiccione... e dirmi che non sono tuo fratello...».
Erik si sollevò tamponandosi l'angolo della bocca che già si stava illividendo. Afferrò saldamente la mano di Alexandre e la strinse in un muto giuramento pieno di promesse pesanti come il dolore e belle come la felicità.

Alcuni anni dopo, un altro giornalista francese avrebbe tentato l'impresa che Alexandre finì poi, per ovvi motivi, per abbandonare: scrivere la vicenda del Fantasma dell'Opera. Raccontò di un mostro, di un angelo caduto e del suo amore impossibile. Raccontò che i mostri sono destinati a perdere, che ci sono luoghi e cuori che la luce non riesce a sfiorare... ma questa è un'altra storia.



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At last...
 In questo ultimo capitolo ho voluto dare spazio non tanto all'aMMore, che tanto lì abbiamo capito come stanno le cose, quanto alla questione dei due fratelli (sta cosa di aver dato una famiglia al Maestro mi gasa un sacco, abbiate pazienza). DOVEVA per forza essere Alexandre a uccidere Berty e non nego che la cosa mi abbia fatto molto male. Ho sempre pensato che la storia del Fantasma parli di molte cose, una di queste è la rovina delle cose buone, come un sentimento come l'amore può diventare odio e follia, come il genio può traformarsi in pazzia, come l'innocenza può essere violata con la paura e il dolore... e la mia idea per questa fanfiction era appunto quella di mantenere questi temi, era quella che il mio amato Alex sacrificasse la sua anima in nome della salvezza di Erik e di tutti loro.
 Non so se la mia visione di tutto ciò risulta chiara...diciamo solo che sono fermamente convinta che una persona buona come lo è questo mio personaggio che tanto ho adorato, non riuscirebbe a passare sopra con tanta facilità al fatto di aver ucciso qualcuno anche se, per come si erano messe le cose, quella appariva come l'unica soluzione.
 In quanto al paragrafetto finale... ehm, è la mia dichiarazione non dico di odio, ma quanto meno di "disaccordo" con il romanzo il cui modo di porre la storia proprio non riesce a piacermi, malgrado senza quel certo giornalista francese che si prese la briga di raccontare in un'unica strabiliante vicenda tutto quello che c'era da dire sull'amore, sicuramente non saremmo qui.

 Detto ciò... chiedo ancora scusa per il terribile ritardo e rinnovo i miei ringraziamenti a chi ha seguito, letto, commentato.
 Il Maestro è sempre il mio musO e anche se ultimamente ho poco tempo da dedicargli sono profondamente convinta che non posso vivere senza scrivere di lui.
 Stay Tuned! 

... your obidient servant.
Elby

Capitolo reinserito il 30\12\2011

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