Quanta più notte che può di Alkimia (/viewuser.php?uid=47113)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Overture ***
Capitolo 2: *** Un uomo di nome Erik ***
Capitolo 3: *** Il Muto ***
Capitolo 4: *** Blaise Bertrand ***
Capitolo 5: *** Tormenti ***
Capitolo 6: *** "Il Fantasma dell'Opera è qui, nella mia mente" ***
Capitolo 7: *** Il punto di partenza ***
Capitolo 8: *** La nuova primadonna ***
Capitolo 9: *** Il segugio ela fanciulla ***
Capitolo 10: *** Dove la notte splende ***
Capitolo 11: *** La trappola ***
Capitolo 12: *** I livelli sotterranei ***
Capitolo 13: *** "Già nella notte densa" ***
Capitolo 14: *** Il Figlio del Diavolo e l'Angelo della Musica ***
Capitolo 15: *** La Morte Rossa ***
Capitolo 16: *** Chiaroscuro (parte prima) ***
Capitolo 17: *** Chiaroscuro (parte seconda) ***
Capitolo 18: *** Con un piede nell'inferno ***
Capitolo 19: *** Lo specchio rotto ***
Capitolo 20: *** La certezza di aversi (parte prima) ***
Capitolo 21: *** La certezza di aversi (parte seconda) ***
Capitolo 22: *** let my opera begin! ***
Capitolo 23: *** Nuvole basse ***
Capitolo 24: *** Il Don Juan ***
Capitolo 25: *** L'anticamera dell'inferno ***
Capitolo 26: *** Il richiamo del sangue ***
Capitolo 27: *** Complicazioni ***
Capitolo 28: *** La fuga ***
Capitolo 29: *** Nel fondo della speranza ***
Capitolo 30: *** Le distanze incolmabili ***
Capitolo 31: *** Gli occhi del nemico ***
Capitolo 32: *** Di fuoco e sangue - Epilogo ***
Capitolo 1 *** Overture ***
Avviso:
da oggi, 18 dicembre 2011, ho avviato un piccolo lavoro di
"ristrutturazione" della storia. L'ho riletta e ho deciso di correggere
gli errorini ed erroracci sparsi in giro (errori di battitura, sviste
di punteggiatura and so on...), quindi riposterò i capitoli
man mano che li correggo. Le correzioni sono esclusivamente di forma,
trama e contenuti della storia non verranno modificati
perché, con tutti i suoi difetti, questa fanfiction resta un
lavoro al quale sono molto molto affezionata e a me piace
così com'è.
Quanta più notte che può
OVERTURE
Here by my side an Angel...
Era troppo tardi.
La ragazza osservò la rosa pendere di lato oltre l'orlo del
piccolo vaso in cui era sistemata, il nastro di raso nero era un po'
sgualcito, il fiore stava appassendo lasciando che il rosso intenso dei
petali si trasformasse in un opaco color sangue. Si
accovacciò sul letto, la stanza spoglia era silenziosa e
fredda, il sole spento di quella mattina di inverno filtrava a fatica
dalla piccola finestra circolare accanto al letto dove le coperte erano
accantonate al centro del materasso, il guanciale schiacciato
nell'angolo tra le testata e il muro. Christine non aveva chiuso occhio
quella notte, e la mattina era arrivata impietosa a reclamare la sua
presenza alle prove per il nuovo spettacolo che i direttori del teatro
avevano deciso di allestire.
Le era stata assegnata la parte del paggio muto che seduceva
un'esuberante contessa in un'opera buffa, lei non aveva protestato. Non
era tanto arrogante da credere che il successo che aveva riscosso
qualche sera prima bastasse a far di lei la nuova primadonna del
più importante teatro di Parigi.
Lei non aveva protestato per il ruolo assegnatole, ma qualcun altro
forse lo avrebbe fatto. Qualcuno che avrebbe messo a ferro e fuoco
anche tutta Parigi pur di sentirla cantare...
Here by my side the
Devil...
Era decisamente troppo tardi.
Un petalo si staccò dalla corolla della rosa per cadere
lentamente sul tavolino di legno liso e tarlato. Il confine tra bene e
male era dunque così labile e sfocato? La ragazza non aveva
mai avuto occasione di perdersi in certe sofisticate considerazioni,
era solo una ballerina di fila, giovane, ingenua, che aveva vissuto al
riparo dal mondo tra le pareti rivestite di stucchi e velluti
dell'Opera Populaire. Cosa poteva saperne una come lei degli abissi
della natura umana e di quegli stani meccanismi che fanno accelerare il
battito e il respiro? Come poteva, nell'infinita inesperienza della sua
giovane età, trovare un nome per quel sortilegio che l'aveva
stregata?
Here by my side it's
Heaven...
Ciò che non si conosce, che non si può
comprendere, dovrebbe intimorire, spiazzare. Ma la ragazza si stava
rendendo conto che ormai era tardi anche per la paura. C'era davvero
qualcuno che avrebbe fatto bruciare una città intera per
lei. Un uomo che portava negli occhi un tale disperato furore sarebbe
stato pronto a tutto. Ma era di sé stessa che sentiva di
dover aver paura. Di quella strana e recondita esaltazione che provava
all'idea di essere forse l'unica cosa cara a quell'uomo. L'unica, a
parte la musica.
Per un attimo si vergognò di quel pensiero. Non era quello
che le era stato insegnato, non era morale, e certe fantasticherie
erano inammissibili da parte di una brava giovane educata a stare
sempre al suo posto.
Era una ragazzina che non aveva avuto nemmeno il tempo di imparare a
vivere, eppure anche nel suo animo il bene e il male erano
così vicini da confondersi?
Here by my side, you are
destruction...
«Qual'è il vostro nome?» aveva chiesto
«Erik».
Era bastato udire quel nome pronunciato in un sussurro per mettere fine
alla favola che l'accompagnava fin da bambina, a tramutare il sogno in
una realtà molto diversa da ciò che aveva
immaginato. Il suo Angelo della Musica era solo un uomo.
Dopo quella notte passata nei sotterranei, la ragazza si era sentita
confusa e stordita, come se non riuscisse a individuare il confine tra
ciò che aveva sognato e ciò che aveva vissuto.
Ricordava le pareti di pietra dei sotterranei illuminate da numerose
fiaccole, le fiamme che sembravano lottare contro il buio,
l'oscurità in cui si addentrava sempre di più ad
ogni passo. Si sentiva indifesa ma non minacciata.
Ricordava la voce del suo Angelo aver assunto, come per magia, un
corpo, un volto uno sguardo, oltre lo specchio del camerino. Il corpo
di un uomo vestito con un elegante frac nero, un volto dai lineamenti
decisi e regolari nascosto per metà da una maschera che si
adattava perfettamente alla sua fisionomia e lo sguardo gelido e triste
di due occhi che sembravano schegge di mare in tempesta.
Il suo Angelo era di carne e ossa, e dopo un primo istante di
perplessità la ragazza non era riuscita a controllare quello
strano calore che le avvolgeva l'anima. Lo stesso calore dell'abbraccio
di quello sconosciuto.
Here by my side, a new
color to paint the world...
E non le importava ciò che si celava sotto quella maschera,
non aveva avuto nemmeno tempo di vedere cosa nascondeva quando gliela
aveva strappata via in un gesto furtivo. La rabbia del suo Angelo era
stata quasi devastante, come se un improvviso incendio fosse arrivato a
distruggere ogni tenerezza e ogni magia.
E ora che tutto sembrava essere tornato alla normalità, che
la voce di Erik non cantava per lei da qualche giorno, Christine si era
ritrovata sola a fare i conti con sensazioni sconosciute.
Il suo Angelo della Musica era un uomo. Anche il Fantasma dell'Opera lo
era. Ed erano lo stessa persona.
E per lei era inesorabilmente troppo tardi per scappare, persino dai
suoi stessi sentimenti.
And you give in
and you give out
for it ain't so weird
how it makes you a
weapon:
never turn your back on
it.
Never turn your back on
it again.
_____________________________________________________________
I versi in corsivo sono tratti dalla canzone " Weapon"
dei Matthew Good Band
Capitolo reinserito il 18\12\2011
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Capitolo 2 *** Un uomo di nome Erik ***
CAPITOLO PRIMO
Un uomo di nome Erik
Madame Eloise Giry
sollevò la treccia nel solito chignon, era un'acconciatura
che trovava estremamente pratica. Sbadigliò un paio di volte
davanti allo specchio, mentre sistemava le forcine nella massa di folti
capelli castani: aveva dormito poco e male quella notte.
Si gettò uno scialle di lana scura sulle spalle. Anche se
suo marito era morto da diversi anni ormai, continuava a portare il
lutto.
La donna sospirò osservando i sottili solchi agli angoli
della bocca, di recente aveva notato che si erano fatti più
marcati ed evidenti, e aveva notato anche che giorno dopo giorno si
sentiva sempre più stanca, le sue energie si affievolivano
ancora prima che venisse sera. Si era detta che era normale, che
è inevitabile il tempo riscuota il proprio tributo, ma non
era solo l'età a renderla stanca e spenta; erano anche una
serie di preoccupazioni che non poteva condividere con nessuno, un
fardello che aveva scelto di portare, consapevole del fatto che sarebbe
sempre stata sola ad affrontare quella fatica.
Si stavano verificando una serie di sfortunate coincidenze e lei aveva
la netta sensazione che avrebbero portato a qualcosa di tragico.
Il teatro era stato ceduto a due nuovi impresari che avevano preso alla
leggera la vicenda del Fantasma dell'Opera, proprio nel momento in cui
l'uomo che si nascondeva dietro a quella strana leggenda aveva deciso
di rivendicare la propria autorità sul teatro, dando ordini
precisi su come dovevano essere allestiti i nuovi spettacoli, su chi
dovesse essere la nuova primadonna.
Madame Giry era certa che sarebbe successo, prima o poi. Era la sola a
conoscere chi si celava dietro la figura del Fantasma, era la sola a
sapere quanta rabbia e quanto dolore si celassero in fondo al suo
animo. Così come sapeva che da diversi anni quell'uomo aveva
cominciato a dare lezioni di canto alla giovane Christine, quella
fanciulla che lei considerava come una figlia. Ora la ragazza aveva
sviluppato un talento al di là di ogni aspettativa per
merito di quell'uomo, e non c'era da stupirsi se lui avrebbe fatto di
tutto perché la bravura di Christine potesse essere
riconosciuta.
E Madame Giry sapeva che per il Fantasma dell'Opera “fare di
tutto” non era semplicemente un modo di dire.
La donna si alzò dalla sedia e si diresse fuori dalla
stanza. Era la direttrice del balletto dell'Opera, e in quei giorni era
dedita, come tutti gli altri, all'allestimento del nuovo spettacolo che
i direttori avevano deciso di mettere in scena. Le sue allieve
avrebbero dovuto preparare un complicato balletto per la
rappresentazione del “Il Muto”, ed era ora che
cominciassero le prove.
Prima di uscire, Madame Giry trovò un foglio ripiegato sul
pavimento davanti alla porta, qualcuno doveva averglielo infilato sotto
l'uscio. Era il sistema che usava solitamente il Fantasma per
recapitarle i suoi messaggi. Le aveva sempre risparmiato le missive
chiuse da un lugubre sigillo di ceralacca a forma di teschio che
inviava ai direttori poiché non aveva bisogno di spaventarla
perché lei lo ascoltasse. Eloise, dopotutto provava per
quell'uomo un affetto inspiegabile quanto sincero ed era certa che
anche lui le volesse bene e le fosse grato per l'aiuto e la
fedeltà che lei gli aveva sempre riservato.
La donna si chinò a raccogliere la lettera, all'interno del
foglio era sistemata una banconota ed erano appuntate poche righe a
matita:
Non c'è
peggior sordo di chi non vuol sentire, e direi che i problemi di udito
dei nostri nuovi impresari sono in uno stato piuttosto avanzato.
Non propinarti in
avvertimenti e dimostrazioni di ansia, si rivelerebbe un comportamento
troppo sospetto.
In quanto al fatto che i
direttori ignorino le mie richieste, troverò un modo per
convincerli che non è la condotta più opportuna
da mantenere.
Dopo il breve messaggio erano segnate alcune cose che Eloise avrebbe
dovuto comprare per lui, e in calce alla missiva c'era la solita
formula con cui lui usava concludere le lettere che le inviava:
Saluti.
Erik
Erik, era questo il suo nome. Eloise non sapeva se era un nome
inventato o se glielo aveva dato qualcuno, ma quando, anni prima, lo
aveva portato via dal circo di zingari in cui era prigioniero lui le
aveva detto che si era sempre sentito chiamare così, anche
dai suoi carcerieri.
*
«Qual'è
il vostro nome?»
«Erik...»
Le mani stringevano il parapetto di pietra che lo separava dal vuoto,
come le mura dell'edificio lo separavano dal mondo divenendo a volte
prigione a volte riparo, a seconda dell'umore.
Avrebbe dovuto essere a suo agio lì sul tetto dell'Opera
Populaire: gli sguardi delle statue di bronzo erano complici e
indulgenti, maledettamente vuoti e silenziosi. Occhi scolpiti che non
sarebbero mai inorriditi davanti al suo volto.
L'alba di quel giorno di inverno gettava a malapena un velo di luce
grigia su Parigi, su quella città che cresceva correndo
rapidamente incontro al futuro, lasciandolo indietro. Non bastava
spiare la vita da dietro le quinte di un teatro, non bastava leggere
libri e giornali per sentirsi parte di quell'umanità di cui
non riusciva a tenere il passo.
Il Figlio del Diavolo non era nato per quel mondo, ma allora
perché il destino lo aveva scaraventato su quella terra,
sotto lo sguardo di una madre che lo aveva abbandonato
perché non riusciva a sopportare la sua vista?
Le mani allentarono la presa sulla balaustra, non c'erano poi tante
ragioni di rimanere così attaccato a quella vita, e il
cornicione del terrazzo era un ostacolo insignificante da arginare, non
sarebbe stato un bordo di pietra a fermare il suo volo, e Dio non si
sarebbe certo scomodato a inviare angeli e santi per sorreggerlo e
frenare la sua caduta, sarebbe precipitato giù, verso lo
scalone di marmo che portava all'ingresso del suo teatro e per una
manciata di istanti avrebbe smesso di essere un angelo senza le ali. La
morte non doveva essere una cosa poi tanto terribile, oltre quella
soglia si annulla ogni differenza, per la morte si è tutti
uguali, tutti figli da consolare, oltre quel limite c'è solo
riposo e oblio.
Gli angoli della sua bocca si sollevarono in un sorriso di scherno, i
suoi pensieri formularono la frase che già altre volte aveva
attraversato la sua mente: «sono il Figlio del Diavolo, come
può l'Inferno rifiutarmi asilo?».
Erik poggiò una mano sul profilo della statua accanto a
sé e si diede uno slancio, con un movimento agile
balzò sul parapetto e guardò verso il basso, ora
non c'era più niente tra lui e il vuoto, solo il freddo e la
sensazione quasi inebriante di vertigine. E non un solo pensiero bello
che lo trattenesse.
Il mondo non era mai stato così vicino e a portata di mano,
l'avrebbe raggiunto in pochi secondi dopo aver saltato.
L'unica speranza che aveva era stata distrutta in un attimo da
ciò che a lei doveva essere sembrata collera... e invece era
paura. Lei non avrebbe dovuto togliergli la maschera, non doveva
conoscere la mostruosità del suo viso prima di imparare ad
amarlo per quel po' di luce che aveva nel cuore, quella scintilla che
gli dava il potere di tramutare il silenzio in sublime melodia. Aveva
avuto paura di vederla scappare via, è per questo che aveva
urlato, inveendo contro di lei come se prendersela con quella ragazza
avrebbe cambiato in qualche modo le cose, come se maledicendo Christine
avrebbe potuto evitare di maledire sé stesso per l'ennesima
volta.
Povera Christine, non aveva avuto nemmeno la forza di farfugliare una
giustificazione o di chiedere scusa, sembrava così fragile
riversa sul pavimento di pietra con il viso rigato di lacrime di pena,
un gioiello finito per sbaglio in una viscida palude.
Quando era riuscito a recuperare la calma le aveva detto in tono aspro
che doveva riportarla indietro, che sicuramente la stavano cercando. Il
tragitto che li aveva condotti fuori dai sotterranei era stato lungo e
silenzioso. Lui camminava davanti, rapidamente, con la fretta di chi
voleva sottrarsi al più presto da un impegno sgradito, e la
ragazza tentava di tenere il passo, ma sembrava che non osasse nemmeno
respirare. Solo alla fine, prima di farle attraversare lo specchio e
riconsegnarla al suo mondo, come un ladro pentito di un furto troppo
grave, lei aveva fatto appello a tutto il suo coraggio e prima che lui
andasse via gli aveva parlato.
«Qual'è il vostro nome?» aveva chiesto
concedendosi di alzare lo sguardo solo per un attimo.
«Erik...» aveva risposto lui asciutto, prima di
voltarsi e sparire nel buio del corridoio di pietra.
Lo sguardo dell'uomo si spostava con scatti febbrili, prima verso il
cielo grigio poi verso il pavimento della piazza sotto di
sé. Non c'era nessuno, nessuno che potesse spaventarsi nel
vedere una persona prossima a saltare dal parapetto del teatro, nessuno
che avrebbe pianto la sparizione del Fantasma dell'Opera: i fantasmi
scompaiono nel nulla lasciando solo storie macabre da raccontare e un
senso sollevante di liberazione.
I muscoli delle gambe fasciate da calzoni di seta scura erano tesi,
pronti a piegarsi per andare in avanti, il vento gli asciugava le
labbra e gli inumidiva gli occhi. Il silenzio era sempre stato il suo
peggior nemico, e ora invece gli sembrava sopportabile, quasi
confortante. Il silenzio per lui era il contrario della musica, e la
musica era l'arma con cui aveva sempre sconfitto i suoi dolori.
Come era arrivato a quel punto, al punto in cui la musica non era
più sufficiente a dare un senso a quel buio che lui chiama
vita?
Che cos'era quel dolore che nemmeno la musica riusciva a lenire?
Ah già... era cominciato tutto quando lei aveva smesso di
essere solo uno strumento attraverso il quale far conoscere al mondo il
suo genio.
«Resterai con
me?»
«Sempre!»
Christine gli aveva fatto quella domanda solo pochi mesi prima, quando
ancora non poteva immaginare che lui, il suo Angelo della Musica, fosse
un uomo, e per giunta un uomo che di angelico aveva decisamente poco, a
cominciare dal suo aspetto per finire con la sua anima.
Christine era come lui, terribilmente spaventata dalla solitudine e dal
silenzio.
E lui le aveva detto che sarebbe rimasto con lei sempre... e allora
cosa ci faceva lì, pronto a uccidersi per raggiungere
quell'Inferno a cui si sentiva destinato? Chi si sarebbe preso cura
della carriera di mademoiselle Daae se non ci fosse stato lui? Non
certo quei due smidollati che si facevano chiamare direttori e che
strisciavano come vermi non appena una primadonna incapace alzava la
voce, sicuramente non madame Giry, che per quanto potesse essere
affezionata a Christine non aveva alcuna voce in capitolo e meno che
mai quel damerino del Visconte che temeva di stuzzicare troppo le
malelingue se avesse preso le parti di una ballerina. No, doveva essere
lui, doveva mantenere la parola data: stare vicino a Christine,
occuparsi di lei... a cosa sarebbe servito renderla una stella se poi
gli altri continuavano a tentare di oscurare la sua luce?
Le prove per la rappresentazione de “Il Muto” erano
cominciate già da qualche giorno e, contrariamente alle sue
richieste, la parte della protagonista non era stata affidata a
mademoiselle Daae.
Aveva mandato avvisi ai quei due stolti di cui a volte faceva persino
fatica a ricordare il nome, missive scritte con i toni più
cordiali che era in grado di utilizzare, ma loro si erano lasciati
spaventare da una scenata isterica di Carlotta Giudicelli e avevano
deciso di ignorare le sue istruzioni, malgrado lui avesse annunciato il
verificarsi di un tremendo disastro.
Erik guardò un ultima volta la piazza vuota sotto di
sé e sospirò. Era ora che il Fantasma dell'Opera
tornasse a reclamare il diritto di gestire il suo teatro, visto che,
contrariamente ai nuovi direttori, ne aveva la capacità. Era
ora che l'Angelo della Musica tornasse a prendersi cura della sua
protetta, era già da qualche giorno che non le faceva udire
la sua voce.
... fino a che tutte le
strade portano a te
non ci si può
sbagliare...*
L'uomo tornò ad appoggiarsi alla statua accanto a
sé, con passi cauti scese dal parapetto e tornò
dentro, accompagnato solo dal fruscio del suo mantello.
*
I rumori della strada provenienti dalla finestra annunciarono a madame
Ginette Dubois che era mattina. Parigi stava per mettersi in
moto, ed era ora che anche lei si preparasse a uscire. La donna
pensò che non si sarebbe mai abituata alla vita di
città, ma l'esistenza di una madre è ben poca
cosa se vissuta lontano dal proprio figlio, specie se questo
è l'unico affetto che le rimane.
Madame Dubois era originaria di un piccolo paese ai piedi dei Pirenei,
dove aveva vissuto tutta la sua vita fino a pochi mesi prima. Aveva
realizzato giovanissima il sogno di ogni ragazza di buona famiglia:
sposare un uomo facoltoso che le fosse affezionato, il fortunato era
stato Simon Dubois, notaio della cittadina in cui vivevano. Ricordava
perfettamente il giorno del loro matrimonio, ogni volta che si
soffermava a pensare a quell'evento la memoria le rimandava l'immagine
di sé stessa, giovane, felice e proiettata verso un futuro
quanto mai radioso, migliore di ogni più rosea aspettativa.
Quando il destino però le aveva portato via il suo
primogenito la donna aveva maturato la pessimistica consapevolezza che
la vita, prima o poi, si fa pagare cara per ogni istante di
felicità che concede. Dopo il doloroso evento erano passati
diversi anni prima che lei e suo marito riuscissero ad avere un altro
figlio, anni passati all'ombra della paura di non poter mai
più essere madre, poi il medico le aveva annunciato che era
in attesa di un bambino e quella nuova nascita aveva riportato speranza
e gioia nel suo cuore.
Suo figlio si chiamava Alexandre, si era rivelato l'orgoglio dei suoi
genitori sostenendo con risultati eccelsi la carriera accademica,
giovanissimo aveva deciso di trasferirsi a Parigi per completare i suoi
studi di lettere e conoscere meglio il panorama artistico che in quel
periodo, proprio in quella città, stava dando vita a
movimenti destinati a rivoluzionare l'arte e la letteratura del Vecchio
Continente. L'unico problema era sorto quando, dopo alcuni anni
trascorsi nella capitale, il ragazzo aveva annunciato di volersi
trasferire stabilmente in città, dove aveva trovato lavoro
come giornalista. Monsieur e madame Dubois avevano accettato a
malincuore la scelta del loro unico figlio, dal momento che gli impegni
lavorativi di Simon non permettevano alla coppia di genitori di
raggiungerlo a Parigi, ma non avevano mai contrastato quel suo
desiderio, consapevoli del fatto che una grande città
potesse offrire molte più occasioni a un giovane di talento
di quante potessero essercene in una cittadina di montagna. Tuttavia,
quando suo marito era morto, facendo di madame Ginette una facoltosa
vedova, lei non aveva sopportato l'idea di rimanere sola e aveva
annunciato a suo figlio che lo avrebbe raggiunto a Parigi. Per
Alexandre era stata una vera sorpresa, non avrebbe mai immaginato che
sua madre si sarebbe convinta ad andare a vivere in città,
ma era stato contento della sua scelta e si era adoperato a cercare una
casa più grande che potesse andare bene per entrambi,
così aveva preso in affitto un attico in rue Saint Bernard,
nei pressi dell'Opera Populaire, pensando che il teatro avrebbe potuto
essere una buona distrazione per la donna.
Il tempo aveva già soffiato una patina d'argento sui folti
capelli che una volta erano stati color ebano e aveva cominciato a
segnare il viso con solchi sottili agli angoli degli occhi e della
bocca rendendo più duri lineamenti che un tempo erano stati
fini e gentili, a prima vista madame Ginette appariva più
vecchia dei suoi cinquantaquattro anni e nonostante avesse sempre
goduto di buona salute c'era qualcosa nel suo aspetto che dava
l'impressione che fosse vittima di qualche strana patologia, di una
sorta di malessere interiore che le piagava lo spirito e le intristiva
lo sguardo.
Madame Ginette si vestì dopo una rapida toeletta e raggiunse
la camera da pranzo dove la domestica aveva preparato la colazione. Suo
figlio era già a tavola,
«Buongiorno, maman» la salutò appena la
vide arrivare. «Ho una cosa per voi».
Alexandre aveva ventisette anni, somigliava molto a madame Ginette e il
suo aspetto estremamente gradevole lasciava intendere che anche lei,
tempo prima, doveva essere stata una bella donna. Il ragazzo era di
alta statura, e la sua corporatura magra donava un'innata eleganza alla
sua figura. Aveva lo stesso colorito chiaro di sua madre, ma al
contrario di quanto accadeva a lei, quell'incarnato non sembrava il
sintomo di qualche malattia, anzi si sposava alla perfezione con i suoi
occhi chiari e con i capelli castani che portava tagliati corti fino
alla nuca.
Il giovane indicò una busta da lettere posata accanto alla
tazza di sua madre, la donna sbirciò il contenuto con
curiosità.
«Sono due biglietti per la prossima rappresentazione che si
terrà all'Opera Populaire» spiegò
Alexandre. «Me li ha procurati Raoul».
«Il Visconte De Chagny?» chiese madame Ginette, suo
figlio annuì.
«Ve lo presenterò quando andremo a teatro,
è un mio carissimo amico»
«Sì, ne ho sentito parlare dicono che sia un vero
gentiluomo e anche un bel ragazzo»
«Beh sì, uno dei migliori partiti di Parigi,
peccato che la fanciulla a cui fa la corte non sembri interessata a
lui»
«Chi è questa sciocca?»
domandò sarcastica madame Ginette.
«Mademoiselle Daae, ricordate, la soprano che ha cantato
nell'Annibale qualche settimana fa» rispose suo figlio
versandosi del latte caldo da una caraffa di porcellana.
«Una ragazza molto graziosa»
«Già, lui l'ha invitata a cena dopo lo spettacolo
ma pare che lei abbia rifiutato accampando una scusa del tutto
implausibile»
«Evidentemente la ragazza non ha il cuore libero ma non vuole
che si sappia» ipotizzò la donna. «Ma
non capisco perché il Visconte debba darsi tanta pena per
una cantante, può trovare certamente partiti migliori di
lei».
Alexandre scrollò le spalle, non amava i pettegolezzi,
specie quelli che riguardavano uno dei pochi amici davvero cari che
aveva a Parigi.
«Il giovane Visconte pare sia uno degli scapoli d'oro della
città, e pensare che questo titolo potrebbe spettare anche a
te, se solo ti interessassi un po' di più a cercare una
fidanzata!» disse madame Ginette fingendo noncuranza.
Suo figlio sapeva che la donna non perdeva occasione di rammentargli
quanto la sua condizione di celibe la preoccupasse e le creasse
disagio, non capiva perché Alexandre insistesse a perdere
più tempo dietro le sue scartoffie, alla ricerca di storie
da scrivere, piuttosto che nel tentativo di trovare una brava ragazza
da sposare. Lui non sembrava far troppo caso alle speranze disattese di
sua madre riguardo a un suo prossimo matrimonio, Alexandre aveva sogni
e urgenze che riteneva più soddisfacenti del vedere madame
Ginette commuoversi durante una cerimonia nuziale: era alla ricerca di
una storia da raccontare, voleva pubblicare un romanzo e farne un
capolavoro destinato a far conoscere il suo nome a numerose generazioni
future. Si considerava un bravo scrittore, e di fatto lo era davvero,
la sua brillante carriera di giornalista lo provava, ma a lui non
bastava redigere articoli di una pagina su un quotidiano, insiemi di
parole che venivano dimenticate il giorno dopo, sostituite dal
resoconto dell'ultimo fatto di cronaca, lui voleva una storia
avvincente da raccontare, e purtroppo il suo talento nel mettere
insieme le parole sulla carta non corrispondeva a un altrettanto grande
dose di fantasia.
«Oh, suvvia maman, vedrete che mi sposerò quando
meno ve lo aspettate e allora vi lagnerete del fatto che non sarete
più l'unica donna della mia vita!»
esclamò Alexandre con aria ironica.
__________________________________________________
* questa frase è presa dal testo del brano "Tutte le strade
portano a te" di Ligabue
Al solito, il nome di Madame Giry non compare da nessuna
parte, per abitudine nelle mie fanfiction la chiamo sempre Eloise.
Capitolo reinserito il 18\12\2011
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Capitolo 3 *** Il Muto ***
CAPITOLO SECONDO
Il Muto
Erik la chiamava la Dimora sul Lago, quel posto gli dava la sensazione
di sicurezza e di pace di una casa. Si trattava di una grotta situata
su una sponda del lago sotterraneo, ad altezza del quinto sottopalco,
dove nessuno entrava mai dal momento che quel livello era utilizzato
semplicemente come ripostiglio di vecchie scenografie o abiti di scena
appartenuti ad artisti che non lavoravano più nel teatro.
Alla grotta si accedeva tramite i passaggi segreti disseminati nei
punti più improbabili del teatro, oppure da un'unica entrata
esterna che affacciava in Rue Scribe.
Aveva arredato la sua casa con vecchi oggetti di scena e con mobili che
aveva costruito lui stesso, le pareti di pietra erano coperte di
specchi sapientemente disposti in modo da riflettere la luce delle
candele che sostituiva quella del sole. Al centro dell'ampia insenatura
c'era un rialzo nella roccia sul quale aveva sistemato il suo organo
come su una specie di altare, circondato da candelabri di ottone e da
drappi di seta damascata. Scendendo verso sinistra c'era un'insenatura
coperta da tende di organza che nascondevano un letto ovale con la
sponda a forma di testa di cigno intagliata nell'ebano, a destra invece
si trovava un largo pianale di roccia liscia dove era sistemato uno
scrittoio il cui piano era in parte occupato da una riproduzione in
miniatura del palco dell'Opera Populaire curato in ogni dettaglio.
Contro la parete erano addossati scaffali e mobili pieni di libri,
fogli e altri oggetti ammucchiati in disordine sulle mensole.
Erik versò sulla pelle alcune gocce dal flacone di acqua di
colonia e strofinò i polsi l'uno contro l'altro, poi
finì di abbottonare la camicia e terminò di
vestirsi. Aveva una cura maniacale per il suo abbigliamento e per il
suo aspetto, anche se era raro che qualcuno lo vedesse. Ma quegli abiti
eleganti, la meticolosità con cui si preparava ogni volta
che abbandonava i sotterranei per raggiungere il teatro erano un modo
per rendersi meno sgradevole a se stesso.
Lanciò un'occhiata alla tastiera del suo organo, sul leggio
c'era uno spartito scritto a mano, le note erano appuntate con una
grafia rapida e imprecisa.
«Sarà il caso di trascriverlo»
pensò annodandosi il foulard di seta nera attorno al collo,
sistemandolo con cura nello scollo del gilet.
Controllò l'orologio da taschino e pensò che era
ancora presto, ma non gli conveniva mettersi a suonare: quando suonava
perdeva totalmente la cognizione del tempo, avrebbe rischiato di fare
tardi e non poteva concederselo, non poteva mancare, doveva dimostrare
a quei due stolti dei direttori che non potevano permettersi di
ignorare i suoi ordini con tanto disinteresse. E poi voleva verificare
che quel damerino del visconte De Chagny avesse compreso che doveva
stare alla larga da Christine.
La mia Christine...
L'amava. Ammetterlo con se stesso era stata una sorpresa davvero
inaspettata, non credeva sarebbe stato mai capace di provare qualcosa
di simile per un'altra persona, non credeva nemmeno di riuscire a
riconoscere l'amore se lo avesse mai provato, e invece era stato come
per la musica.
Sentiva di avere uno scopo solo quando suonava, si sentiva completo
solo quando le sue dita scorrevano sui tasti dell'organo o reggevano
l'archetto del violino. Per chi possiede il talento dell'arte,
l'ispirazione non è qualcosa da cercare o da attendere,
è qualcosa che fa parte non solo della propria anima ma
anche del proprio corpo, diventa una funzione automatica del proprio
organismo, come il battito cardiaco, come il respiro. Qualcosa di
continuo e inevitabile che a volte sembra più una
maledizione che un dono, non ne puoi fare a meno e non puoi nemmeno
liberartene. Quando chiama devi risponderle. Proprio come l'amore: non
scegli di tu di viverlo, non scegli quale strada fargli prendere e
soprattutto non puoi scegliere di evitarlo. Devi solo lasciare che ti
porti dove meglio crede.
Per un uomo come Erik, abituato ad avere sempre tutto sotto controllo,
quella situazione era qualcosa di davvero spaventoso.
Aspettò pazientemente che arrivasse l'ora di andare. La
pazienza non era una sua dote naturale, era più che altro
un'abitudine che aveva acquisito con il tempo e mal si conciliava con
il suo carattere animoso, aggiungendo anche questa contraddizione alla
sua personalità piena di complicate sfaccettature.
Quando l'orologio segnò le sette e mezza Erik si
alzò dallo scrittoio e si gettò il mantello sulle
spalle con un movimento fluido.
La prospettiva di una rivincita prossima aveva un sapore piacevole che
copriva l'odore pungente di chiuso e umidità che si
respirava nel corridoio sotterraneo illuminato a stento da poche
fiaccole, le loro fiamme tremule si consumavano e si affievolivano come
se quel fuoco fosse incapace di vincere la lotta contro il buio. Del
resto, era il buio ad averla sempre fatta da padrone nella vita di
quell'uomo che ora camminava con passo sicuro nella penombra,
percorrendo una strada che le sue gambe conoscevano a memoria.
Era stato paziente, aveva cercato di mostrarsi gentile nelle missive
spedite a Andrè e Firmin, i nuovi direttori, ma quei due
sprovveduti che credevano di poter farla da padrone nel suo teatro
evidentemente comprendevano meglio le maniere forti. Il Fantasma
dell'Opera aveva ordinato che la Giudicelli non cantasse, che il palco
numero 5 fosse tenuto libero per lui, che gli venisse pagato il suo
salario e che la parte della protagonista de “Il
Muto” fosse affidata a mademoiselle Daae. Nemmeno una di
queste direttive era stata osservata e quella sera quei due smidollati
avrebbero imparato che era meglio per loro essere più
compiacenti in futuro.
*
La piazza su cui affacciava il più noto teatro di Parigi era
gremita di signore imbellettate e gentiluomini in doppiopetto. Una
foschia sottile riempiva le strade ovattando la visuale dei cocchieri e
delle persone che erano uscite a passeggiare malgrado il freddo, le
nuvole basse e grigie erano una chiara avvisaglia di pioggia, e con
quell'aria umida e pungente avrebbe potuto grandinare, forse
addirittura nevicare, malgrado si era solo a metà novembre.
Alexandre aiutò sua madre a scendere dalla carrozza poi la
prese sottobraccio e la condusse verso l'ingresso del teatro.
Madame Dubois e suo figlio furono investiti da una ventata di aria
calda non appena ebbero varcata la soglia dell'edificio, due maschere
con una parrucca barocca e una livrea rossa si profusero in un profondo
inchino e si offrirono di portare i loro cappotti nel guardaroba.
Il foyer, decorato con stucchi e marmi colorati, cominciò a
riempirsi di gente che preferiva aspettare al chiuso della sala
piuttosto che fuori al freddo e presto l'aria si riempì del
chiacchiericcio degli spettatori che attendevano di poter prendere
posto.
Raoul De Chagny, vestito con un elegante frac blu, era accanto
all'ingresso della platea e stava parlando con i direttori, Alexandre
lo notò e gli si avvicinò per salutarlo. Il
visconte si allontanò dai suoi interlocutori e raggiunse il
suo amico.
«Benvenuto, Alexandre» gli disse stringendogli la
mano con un sorriso cordiale.
«Grazie di avermi invitato alla rappresentazione»
rispose il giornalista in tono altrettanto affabile. «Posso
presentarti mia madre, madame Ginette Dubois?».
«Enchanté» mormorò il ragazzo
omaggiando la donna con un galante baciamano.
Madame Ginette rispose al saluto con uno sguardo ammirato, Raoul de
Chagny era davvero un bel giovane e lei lo trovava adorabile.
«E' un piacere conoscervi, visconte. Alexandre mi ha parlato
molto di voi» disse.
«Ne sono lusingato, madame. Ora suggerisco di accomodarci ai
nostri posti, vi ho tenuto libere due poltrone in platea»
concluse Raoul.
All'interno il teatro appariva così sfarzoso che quasi non
lo si riusciva a trovare accogliente, era come se fosse un posto
incantato, lontano dal mondo reale. Era diviso in un'ampia platea e in
due ordini di palchi laterali, in più c'era un loggione
semicircolare sul livello più alto dove sedevano
generalmente quelli che non disponevano dei mezzi per potersi
permettere un biglietto in un posto più confortevole.
L'ambiente era in perfetto stile barocco, le balconate erano sorrette
da cariatidi dorate a forma di donna curvate in una posa languida e
innaturale, la scena era circondata da una vistosa cornice di stucchi
dorati.
Quando tutti ebbero preso posto, i macchinisti spensero le luci.
Era sempre un attimo magico ed elettrizzante quello: il vociare del
pubblico si assopiva mano a mano che l'illuminazione diminuiva e il
buio della sala finiva per corrispondere con un completo silenzio, una
manciata di secondi di vuoto che precedevano lo scrosciare
dell'applauso all'aprirsi del sipario.
Il pesante sipario di velluto rosso si aprì su una scena di
una camera da letto, con un gesto deciso il Maestro Reyer diede
l'attacco all'orchestra e gli spettatori furono introdotti nella
vicenda da un piccolo coro di attori che impersonavano dei valletti con
abiti settecenteschi e che cantavano di quanto vergognoso fosse il
comportamento della loro padrona che tradiva il marito seducendo
giovanotti proprio sotto il suo naso. Al centro del palco c'era un
sontuoso letto a baldacchino sul quale era seduta Carlotta Giudicelli,
la primadonna del teatro, con i suoi vaporosi capelli rossi nascosti da
un'ingombrante parrucca, accanto a lei c'era Christine travestita da
paggio.
La Giudicelli cominciò a cantare con la sua voce acuta,
accompagnando il canto con una recitazione enfatica e poco naturale che
strappò comunque qualche sorriso sincero al pubblico
intenzionato a divertirsi.
La rappresentazione era cominciata solo da qualche minuto quando dal
parapetto sopra al loggione arrivò una voce che
coprì il canto sgraziato della donna.
«Non avevo dato istruzioni che il palco numero 5 dovesse
restare vuoto?» tuonò la voce in tono aspro ma
misurato.
Quelle parole risuonarono in un'eco sinistra per tutto il teatro, gli
spettatori si guardarono attorno cercando di individuare chi avesse
parlato, ma non riuscirono a vedere nessuno.
«Il Fantasma dell'Opera...» mormorò Meg,
la giovane ballerina figlia di Madame Giry.
«Sì, è lui» le fece eco
Christine cercando con lo sguardo il punto da cui era giunta quella
voce che lei conosceva fin troppo bene.
«La tua parte è muta, piccolo rospo!» la
rimproverò Carlotta.
«Un rospo, madame?» riprese la voce in tono
sarcastico e meno aggressivo. «Forse siete voi un
rospo».
Carlotta si lasciò sfuggire una smorfia risentita, lei non
aveva mai creduto alla storia del Fantasma dell'Opera, aveva sempre
pensato che gli incidenti che le accadevano sempre più
spesso erano architettati dai suoi detrattori che non la volevano
più come primadonna del teatro.
Dopo un primo momento di irritazione la Giudicelli pensò che
fosse ora di tornare a occuparsi del suo pubblico, sparì un
attimo dietro le quinte dove si fece spruzzare in gola il suo liquido
balsamico, poi tornò sul palco.
«Scusate» disse inchinandosi e accennando un
sorriso mellifluo verso la platea. «Maestro, riprendiamo
daccapo, per favore».
Reyer, l'anziano direttore d'orchestra non si poteva definire certo un
cuore impavido, lavorava in quel teatro da molto tempo e negli ultimi
anni ne aveva viste troppe per non provare una certa agitazione ad ogni
minimo intoppo.
«Signori, daccapo, per favore» squittì
con la voce tremula, picchiettando la bacchetta sul margine del leggio.
L'orchestra riprese a suonare e la rappresentazione proseguì
per qualche secondo fino a che...
CRAK!...
Dalla gola di Carlotta uscì un suono roco e graffiante
proprio come il gracidio di un rospo. Sul volto della soprano si
dipinse un'espressione di panico ma lei continuò a cantare
cercando di ostentare un minimo di disinvoltura ma dopo qualche battuta
la sua gola produsse ancora quel suono orribile.
Dal pubblico si levò un misto di risate divertite e mormorii
di protesta, mentre sul palco la Giudicelli stava per dare il via ad
una delle sue scenate isteriche,
«La mia voce!» urlò disperata portandosi
le mani alla gola. «Ho perso la voce, oh mamma, la mia
voce!».
I suoi assistenti si precipitarono sul palco per portarla via e cercare
di farla calmare, mentre lei, con la voce che diventava sempre
più flebile, continuava a mormorare che qualcuno aveva messo
qualcosa nel suo liquido per la gola.
Andrè e Firmin si precipitarono sul palco mentre il maestro
Reyer si sbracciava per far capire ai macchinisti che dovevano chiudere
il sipario.
«Signori e signore, vi chiediamo scusa»
esordì Firmin cercando di non mostrarsi troppo agitato.
«Lo spettacolo riprenderà tra pochi minuti, e la
parte della contessa sarà interpretata da mademoiselle
Daae».
Ciò detto l'uomo si affacciò verso il palco,
trovò Christine e la trascinò davanti alla
platea, lasciò che il pubblico l'applaudisse per qualche
secondo poi la spinse via borbottando di fare in fretta.
«Nel frattempo, saremo lieti di presentarvi il balletto del
terzo atto» disse Andrè lanciando uno sguardo al
maestro Reyer per assicurarsi che avesse capito.
Nel frattempo Raoul, che occupava proprio il palco numero cinque,
osservava la scena con una punta di divertimento. Non era per niente
dispiaciuto del piccolo intoppo che si era creato, era felice di poter
sentir cantare nuovamente Christine. Era stata la sua voce angelica a
farlo innamorare di lei, e in cuor suo il giovane continuava a sperare
che la ragazza, prima o poi, accettasse la sua corte.
*
Johseph Bouquet era stato l'unico a capire da dove provenisse la voce,
era sulle travi dove c'erano le leve che muovevano il fondale
di scena e da quella posizione aveva visto distintamente quell'uomo in
nero uscire da una delle botole delle soffitta che conducevano nella
piccola stanza dove c'era la meccanica per muovere e regolare il grande
lampadario del teatro.
Il macchinista pensò che fosse ora di mettere fine a quella
storia, voleva dimostrare che il famigerato Fantasma era solo un uomo
che viveva nascosto a causa del suo aspetto mostruoso, lui lo aveva
visto, aveva scoperto i passaggi per raggiungere i sotterranei. Non
aspettava altro che si mostrasse per poterlo acciuffare e quella sera
gli sembrò un'occasione da non lasciarsi sfuggire.
Bevve un generoso sorso dalla sua bottiglia di cognac scadente e si
lanciò all'inseguimento del mostro.
Quando Bouquet raggiunse la soffitta dove c'erano i meccanismi che
muovevano il lampadario la trovò vuota, fece per tornare
verso il palco, ma sentì come se qualcuno lo stesse spiando
nell'ombra, passi felpati nel buio che seguivano i suoi movimenti resi
incerti dall'alcol. Si guardò intorno ma non vide nessuno,
si disse che aveva bevuto troppo anche quella sera e si
voltò per tornare tranquillamente al suo posto.
Il balletto era cominciato da una decina di minuti quando il corpo
senza vita di Johseph Bouquet cadde sul palco, era appeso per il collo
a un cappio.
Dal pubblico si levò un'esclamazione di orrore e tutti si
alzarono per correre via, per non guardare quel tremendo spettacolo che
aveva definitivamente rovinato la loro serata di divertimenti. Fu
inutile per Firmin cercare di raccomandare la calma e chiedere agli
spettatori di rimanere seduti ai loro posti, mentre le ballerine che
poco prima occupavano il palco si affrettarono a correre dietro le
quinte gridando spaventate.
Madame Giry era con Christine in uno dei camerini, stava aiutando la
ragazza a indossare il costume da nobildonna per lo spettacolo. Quando
sentirono le urla, entrambe si affrettarono a uscire per cercare di
capire cosa fosse successo.
La donna cercò di tranquillizzare le ragazze del balletto
che si erano strette attorno a lei, Christine guardò verso
il palco e scorse la sagoma del cadavere di Bouquet ancora riverso in
terra.
«Oh mio Dio...» mormorò facendo il segno
della croce, in quello stesso momento fu raggiunta da Raoul che
l'abbracciò, sospirando di sollievo per averla trovata.
«Stai bene?» le chiese, per tutta risposta la
giovane lo prese per mano e lo trascinò via.
Il visconte si ritrovò a rincorrere Christine che saliva
rapida le scale di legno che portavano verso il tetto.
«Perché mi stai portando via? Torniamo
là, Christine, i direttori mi staranno cercando»
disse Raoul affannato.
La ragazza si voltò indietro ma non sembrò avere
alcuna intenzione di rispondergli, si limitò a guardare
oltre la sua spalla come se volesse accertarsi che nessuno li stesse
seguendo,
«No, tu non puoi restare... tu devi andare via...»
disse poi con il fiato corto.
«Ma perché Christine? In nome di Dio!»
«Il Fantasma dell'Opera, se ci vedesse insieme, ah Raoul
potrebbe accaderti qualche disgrazia e io non voglio...»
«Non c'è nessun fantasma, Christine»
«Sì, c'è, esiste... e si è
dimostrato una belva questa sera, e potrebbe farlo ancora, potrebbe
uccidere di nuovo, potrebbe uccidere te...».
La giovane parlava in fretta con aria concitata, sembrava sull'orlo di
una crisi isterica
«Stai vaneggiando» commentò il visconte,
eppure non poteva fare a meno di continuare a seguirla, l'avrebbe
seguita ovunque lei avesse voluto, ovunque si sarebbe sentita al sicuro.
La corsa terminò davanti a una vecchia porta di ferro che
Christine aprì con una spinta, i due giovani furono
investiti da una ventata di aria gelida: la porta affacciava
direttamente sul terrazzo del teatro.
Prima di uscire all'aperto Christine controllò ancora una
volta che non ci fosse nessuno alle loro spalle, poi aspettò
che Raoul la raggiungesse e chiuse la porta.
Il freddo trasformava in fumo i loro respiri affannati, la neve aveva
cominciato a cadere a piccoli fiocchi, probabilmente già un
po' di tempo, visto che il pavimento del terrazzo era completamente
bianco.
«Io l'ho visto, Raoul, mi ha portato nel suo mondo di
tenebre... ah, Raoul, i suoi occhi, così tristi! E la sua
voce, è stata per quella voce che non ho avuto paura di lui,
è un canto che mi ha stregato l'anima... io non sarei mai
potuta fuggire...» dichiarò Christine.
«Era solo un sogno, non pensarci più...»
rispose Raoul con dolcezza.
La ragazza si voltò verso il suo interlocutore, il cuore le
batteva all'impazzata e non solo per la corsa frenetica. Aveva un
disperato bisogno di raccontare a qualcuno ciò che le era
capitato, ciò che stava provando e pensò che
Raoul sarebbe stato un buon confidente visto il grande affetto che le
riservava.
Il visconte arrivò alle sue spalle e le posò una
mano sul braccio,
«Non temere, sono qui, le tue paure sono del tutto infondate
e anche se non lo fossero, ah Christine, Christine!»
Christine...
La ragazza sentì uno strano suono fare da eco alle parole di
Raoul, come se una voce nell'ombra avesse ripetuto il suo nome con lo
stesso trasporto con cui lo aveva pronunciato il giovane.
Deglutì guardandosi attorno con aria circospetta, su quel
terrazzo c'erano solo le statue di bronzo coperte da una patina di
brina che luccicava in una specie di strano incantesimo. Era tutto
così innaturale, come se quella calma e quel silenzio
fossero solo un'illusione creata apposta per ingannarla.
Christine teneva ancora tra le mani il fiore che aveva trovato quando
si era recata nel camerino per indossare il costume della protagonista:
una rosa rossa dal lungo stelo adorno di un nastro di raso nero. Un
altro omaggio del suo Angelo della Musica.
«Angelo?...» mormorò tra sé e
sé corrugando le sopracciglia. Come poteva ancora definirlo
in quel modo dopo quanto era successo?
Si voltò verso Raoul e lo osservò con aria
malinconica. No, non poteva parlare con lui, non ne aveva il coraggio.
Come poteva dirgli che aveva ammirato il genio di quell'uomo al punto
da desiderare di stargli ancora accanto? Si vergognava di quei pensieri
e di tutto quello che aveva immaginato riguardo a lui. E ora che il
Fantasma si era rivelato un assassino senza pietà a maggior
ragione trovava disdicevoli le fantasticherie che si era concessa in
quei giorni.
«Resterò con te per tutto il tempo che vorrai
Christine» sospirò Raoul strappandola alle sue
riflessioni. «Dimmi che hai bisogno di me e non ti
lascerò mai più».
La ragazza si rese conto che il visconte la teneva tra le braccia, i
suoi occhi erano colmi di una tenerezza che avrebbe sciolto in lacrime
persino il cuore più duro.
Raoul avvicinò lentamente il viso a quello di Christine,
prendendole le mani, costringendola a lasciar cadere a terra la rosa.
Le sfiorò le labbra con le proprie e avvertì il
movimento delicato del mento della ragazza che si sollevava per
ricambiare il bacio. Fu un istante di dolcezza infinita ma non
durò che una manciata di secondi, perché
all'improvviso lei si ritrasse con uno scatto,
«Raoul, non posso...» mormorò
guardandolo con aria mortificata e sentendo le guance avvampare per
l'imbarazzo.
Lui restò a guardarla con un'espressione quasi
supplichevole, in attesa di una spiegazione, ma non ottenne altro che
un silenzio talmente freddo che gli sembrò assordante.
«Capisco...» sussurrò con un sorriso
triste, poi si congedò con un casto baciamano e
sparì oltre la porta del terrazzo.
Christine restò qualche secondo a fissare con sguardo vacuo
la città oltre il parapetto. Erano passati quasi dieci anni
da quando aveva sentito per la prima volta la voce dell'Angelo della
Musica, e ormai era diventata brava ad avvertirne la presenza anche
quando lui taceva. In passato si era detta che non era vero, che lui
non se ne stava da qualche parte a spiarla in silenzio, era una favola
che si raccontava per sentirsi meno sola, ma in quel momento fu sicura
che lui la stesse osservando celato nell'ombra. Si guardò
attorno un'ultima volta, poi si rese conto di non riuscire
più a sopportare quell'aria gelida e quella inspiegabile
sensazione che le opprimeva il petto, quindi decise di tornare dentro.
*
«Non temere, sono qui, le tue paure sono del tutto infondate
e anche se non lo fossero, ah Christine, Christine!» la voce
di quel damerino sembrava decisa, sicura. La voce di uomo innamorato,
pronto a tutto pur di avere accanto a sé la donna che amava,
e in questo non erano poi così diversi.
Nascosto dietro una delle statue Erik osservava la scena in silenzio,
anche se era talmente incollerito che avrebbe voluto urlare.
Christine aveva tentato di scappare, voleva parlare con il visconte e
voleva farlo dove fosse sicura che lui non li potesse sentire. Povera
piccola ingenua, come aveva potuto pensare che lui non la vedesse
prendere per mano quello sciocco e correre verso il terrazzo? Come
poteva sperare che lui non li raggiungesse? Conosceva quel teatro
meglio di lei, non c'era posto abbastanza lontano o abbastanza sicuro
in cui avrebbe potuto rifugiarsi finché rimaneva all'interno
dell'Opera Populaire.
Erik lasciò che la neve gli cadesse silenziosamente sul
mantello e tra i capelli, mentre stringeva i pugni fremendo di rabbia.
Raoul De Chagny pensava di dover proteggere Christine, di doverla
proteggere da lui! Lui che non avrebbe osato nemmeno sgualcirle una
piega del vestito senza il suo consenso!
«Resterò con te per tutto il tempo che vorrai
Christine, dimmi che hai bisogno di me e non ti lascerò mai
più».
Quella era stata una dichiarazione in piena regola, probabilmente anche
una bella dichiarazione. Erik si morse le labbra fino a farle
sanguinare, avrebbe dovuto uscire allo scoperto e ucciderlo in quello
stesso istante! Cercò di calmarsi, si impose di non
muoversi, uccidere qualcuno sotto gli occhi di Christine non sarebbe
stata una mossa cauta.
Si limitò a sporgersi un po' di più oltre la
zampa del cavallo alato dietro al quale era nascosto.
A che cosa si era dovuto abbassare, a spiarla come un ladro!
Sentì il cuore esplodergli nel petto quando vide il visconte
chinarsi a baciare le labbra di Christine, si ritrovò a
osservare la scena a bocca aperta e fu costretto ad aggrapparsi alla
statua per non cadere, pestò i piedi avvertendo lo
scricchiolio sordo della neve sotto le suole, il respiro
diventò affannoso, sembrava che i polmoni bruciassero ad
ogni boccata d'aria che inspirava: lei stava rispondendo al bacio.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime di frustrazione. Era dunque
questo il modo che aveva Christine di ripagarlo? Amando un altro?...
Erik temette che il suo cuore fosse sul punto di fermarsi quando vide
la ragazza sottrarsi rapidamente all'abbraccio di Raoul e mormorargli
un rifiuto con aria imbarazzata ma decisa. L'uomo poggiò la
fronte contro il bronzo gelido e il freddo sembrò dargli
sollievo come se fosse affetto da una febbre incurabile.
Il visconte non insistette e salutò Christine con un bacio
sulla mano, poi se ne andò.
Il Fantasma dell'Opera si ricompose scrollando le spalle per liberarsi
della neve che gli era caduta addosso. Osservò la sua
protetta guardarsi attorno con aria smarrita, quanto avrebbe voluto
farsi vedere da lei e parlarle, ma di sicuro in quel momento la
fanciulla era troppo scossa, si sarebbe spaventata e non era il caso di
rincararle la dose dopo l'infelice conclusione del loro ultimo
incontro. Si limitò a guardarla mentre andava via, poi si
staccò dalla statua e andò a raccogliere la rosa
che Christine aveva lasciato cadere, soffiò via la neve
dalla corolla scarlatta e la sfiorò con le dita avvolte dai
guanti scuri. Si portò il fiore alla bocca e si
accarezzò le labbra con i petali immaginando un bacio che
prima o poi, si disse, sarebbe stato in grado di conquistare.
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La scena de "Il Muto" riveduta e corretta dalla sottoscritta, in fin
dei conti è da qui che comincia il "what if...?".
Al prossimo aggiornamento.
Capitolo reinserito il 18\12\2011
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Capitolo 4 *** Blaise Bertrand ***
CAPITOLO TERZO
Balise Bertrand
«Raoul, in nome del cielo! Dove eri finito?»
esclamò Alexandre quando vide comparire il visconte dietro
le quinte.
«Christine mi voleva parlare» rispose il giovane
con un'alzata di spalle, i suoi vestiti erano umidi e il suo sguardo
era triste. La sua aria affranta sembrava suggerire una sola parola:
sconfitta.
«Ah, immagino che tu non abbia avuto successo con
mademoiselle Daae, ma ci sono faccende più importanti che
richiedono...»
«Mi ha detto di no, un no definitivo immagino»
«Mi dispiace tanto Raoul, ma questo non è il
momento di parlarne»
«C'è un altro» commentò
laconico il visconte senza prestare attenzione alle parole del suo
amico. «C'è un altro uomo, ne sono
sicuro».
Alexandre sospirò cercando di non perdere la pazienza. Era
sinceramente dispiaciuto per la delusione amorosa di Raoul, ma in quel
momento c'erano questioni più urgenti da sbrigare. La
rappresentazione di quella sera era andata a monte, il pubblico avrebbe
preteso di essere rimborsato e una morte misteriosa durante lo
spettacolo non era certo una buona pubblicità per il teatro.
«I direttori ti vogliono parlare» insistette il
giornalista. «E io non riuscivo a trovarti, mi sono
spaventato»
«Spaventato per cosa? Non crederai anche tu alla storia del
Fantasma dell'Opera? Ti facevo più arguto, amico
mio»
«Non credo ai fantasmi, ma mi pare ovvio che ci sia qualcuno
che compie strane manovre in questo teatro. È morto un uomo
stasera, non si può negare che ci sia qualcosa che non va,
pensa a quanta gente lavora in questo teatro, ognuno di loro potrebbe
essere in pericolo».
Alexandre non attese la risposta del visconte, lo prese sottobraccio e
lo trascinò nell'ufficio dei direttori.
«Dov'è tua madre?» domandò
Raoul.
«Ho fatto chiamare una carrozza perché
l'accompagnasse a casa» rispose l'altro uomo.
«E tu come mai sei ancora qui?»
«Ti stavo cercando, come ti ho detto»
«Ah, e il fatto che sei un giornalista non c'entra
assolutamente nulla con la tua premura?».
Alexandre ridacchiò,
«Sì, ma siccome questo è il tuo teatro,
potrei anche darti una mano a non far scoppiare un vespaio riguardo a
quanto è avvenuto questa sera».
Raoul annuì, poi aprì la porta dell'ufficio ed
entrò seguito dal suo amico.
Se non fosse stato la conseguenza di una tragedia, lo spettacolo che si
presentò agli occhi dei due giovani uomini sarebbe risultato
estremamente esilarante: i direttori erano veramente sconvolti. Tra i
due, Richard Andrè era di certo quello più
incline a farsi prendere dall'agitazione, se ne stava accasciato sulla
sedia della scrivania con le braccia a penzoloni, il cravattino
slacciato e parte della camicia che cadeva fuori dai pantaloni, il viso
era sudato e pallido, con un'espressione sofferente da moribondo.
Gilbert Firmin invece era quello dal carattere più duro e
autoritario, tuttavia anche lui sembrava piuttosto provato, camminava
avanti e indietro per la stanza sbuffando e tormentandosi con un dito i
folti baffi nel tentativo di tenerli arricciati.
«Signori...» esordì Raoul cercando di
attirare l'attenzione dei due impresari che sembravano non essersi
accorti del suo arrivo.
«Ah, visconte!» gemette Andrè restando
sprofondato nella sua sedia.
«I gendarmi sono già accorsi per un sopralluogo,
ma sembrano anche loro del parere che sia stato un incidente»
spiegò Firmin allentandosi il papillon. «Del resto
è noto che quel macchinista aveva l'abitudine di bere, sotto
i fumi dell'alcol può essere inciampato in una
corda»
«Perdonate monsieur, ma solitamente si inciampa con i piedi,
non con il collo» si intromise Alexandre.
«E voi chi sareste, di grazia?» borbottò
il direttore del teatro.
«Alexandre Dubois, sono un giornalista»
«Proprio quello che ci serviva...» si
lagnò Andrè facendosi aria con il fazzoletto.
«Monsieur Dubois è un mio caro amico, ci
aiuterà a risolvere i fastidi che potremmo avere con la
stampa dopo questo increscioso episodio» spiegò
Raoul.
«Ah, allora benvenuto!» rispose Andrè
senza pensare a ricomporsi
«Scusate, monsieur Dubois, ma voi state forse supponendo che
il macchinista non sia morto per una disgrazia?»
domandò l'altro direttore inarcando un sopracciglio.
Alexandre lo guardò con un sorriso di sfida,
«Nessuno lo crederà, considerando cosa
è accaduto poco prima di quello che continuate a definire un
incidente» disse. «E sono certo che non lo credete
nemmeno voi»
«In effetti...» squittì
Andrè, il suo socio gli lanciò un'occhiata di
rimprovero.
«Vi riferite alla voce? La signora Giudicelli è
convinta che sia stata una manovra dei suoi detrattori»
«Ah certo, e ditemi, tutti i detrattori della signora
Giudicelli conoscono il teatro così bene da raggiungere il
punto più alto attraverso la soffitta e allo stesso tempo
sostituire il suo liquido balsamico, e il tutto senza farsi
vedere?»
«Non sarete anche voi convinto che esista quel...
fantasma?» borbottò Firmin esasperato.
«Ne siete convinto?» gli fece eco Andrè
spiando il ragazzo con occhi sottili e aria preoccupata.
«Credo che ci sia qualcuno nel teatro, ma che sia un uomo,
naturalmente» concluse il giornalista.
«Signori, è assurdo quello che state
dicendo» protestò Raoul.
«E invece non lo è» ammise Firmin con un
sospiro di resa. «Ed è per questo che voglio
presentarvi una persona che spero potrà aiutarci a risolvere
il problema».
Raoul e Alexandre si scambiarono una rapida occhiata mentre
Andrè tentava di mettersi seduto in maniera composta ma
sembrava ancora piuttosto malfermo sulle ginocchia.
«Entrate, prego» disse Firmin affacciandosi alla
porta dell'ufficio. A quell'invito si fece avanti un uomo magro e di
alta statura, con il viso affilato dai tratti marcati e dagli zigomi
sporgenti, doveva avere circa quarant'anni ed era vestito con una certa
eleganza, anche se i suoi movimenti dinoccolati e poco aggraziati
tradivano origini non certo altolocate.
«Buona sera, signori» disse lo sconosciuto
osservando gli altri uomini presenti nella stanza con i suoi penetranti
occhi grigi,
«Lui è monsiuer Blaise Bertrand, un mio vecchio
amico» spiegò il direttore. «In passato
è stato capitano della gendarmeria, poi ha deciso di
mettersi in proprio ed è diventato un investigatore
privato»
«Dunque, siete tutti convinti che ci sia qualcosa o qualcuno
su cui si debba indagare» concluse Raoul.
«Assolutamente sì, voglio scoprire chi
è che si diverte a giocare al burattinaio nel mio
teatro!» disse Firmin.
«Signor visconte,» esordì Bertrand con
un sorriso che avrebbe voluto essere incoraggiante ma che apparve
più come un ghigno, «dovete stare tranquillo, le
mie indagini non interferiranno in alcun modo con la normale
attività del teatro, la discrezione è sempre
stata una delle mie migliori qualità»
«Ma se anche la polizia è propensa a credere che
si sia trattato di un incidente...»
«Ed è meglio che continuino a crederlo: se la
gente pensasse che c'è un assassino che si aggira per il
teatro, l'Opera Populaire cadrebbe in disgrazia, nessuno verrebbe
più a vedere i vostri spettacoli».
Firmin e Andrè annuirono a quel commento dimostrando ancora
una volta che la loro principale preoccupazione era il profitto.
«Perdonatemi, ma se ci fosse un assassino in questo teatro,
il fatto che la gente ne stia lontana può essere solo un
bene, per la sicurezza di tutti» protestò
Alexandre.
«Certo, capisco le vostre perplessità monsieur, ma
il teatro da lavoro a molte persone, sarebbe una disgrazia se fosse
costretto a chiudere» fece notare Bertrand di rimando.
Il giornalista lo guardò con diffidenza, come se fosse
convinto che non era la sorte dei lavoratori del teatro che gli stava a
cuore quanto la lauta ricompensa che certamente doveva avergli offerto
Firmin se si fosse occupato di quello strano caso.
«Se assumere qualcuno che indaghi su questa storia del tutto
assurda può farvi sentire più sicuri,
signori» borbottò Raoul, «non
sarò io a impedirvelo, ma temo, monsieur Bertrand, che
lavorerete inutilmente, qui non c'è nessuno da
scovare»
«Lo spero, visconte, per il bene di tutti» concluse
l'investigatore con un altro dei suoi pessimi sorrisi.
«Dunque, per stasera lasciate che la polizia faccia il suo
lavoro e che divulghi la notizia che si è trattato di un
incidente. Da domani terrete il teatro chiuso per lutto per qualche
giorno e aspetterete che si calmino le acque, dopodiché
comincerete a radunare nuovamente la compagnia per il prossimo
spettacolo e tutto andrà avanti normalmente. Se il nostro
fantasma dovesse farsi sentire non mancate di avvisarmi, nel frattempo
io comincerò a fare qualche domanda a quelli che lavorano
qui».
Raoul rispose con un'alzata di spalle alla lista di istruzioni di
Bertrand, Andrè e Firmin annuirono, mentre Alexandre
posò una mano sulla spalla del visconte,
«Posso parlarti un attimo?» gli mormorò.
I due uomini si scusarono con i loro interlocutori e uscirono
dall'ufficio.
«Raoul non penserai di lasciare fare a quell'uomo?»
borbottò il giornalista non appena lui e il suo amico furono
fuori. Il visconte scrollò le spalle,
«Cosa credi che importi, lasciali fare se serve a farli
calmare. Monsieur Andrè mi sembra sempre sull'orlo di un
infarto, Firmin ha l'aria di uno che potrebbe esplodere, forse li
aiuterà sapere che c'è qualcuno che sta tentando
di fare qualcosa»
«Quell'uomo, Bertrand, non mi piace!»
«Devo confessarti che a stargli vicino mette i brividi anche
a me, ma non è importante»
«Ah, santo cielo! Allora permettimi di indagare con
lui»
«Come?!» esclamò Raoul stupito.
«Voglio partecipare a questa indagine» rispose
Alexandre con aria convinta. «Se, come suppongo,
c'è davvero qualcuno dietro a tutto questo allora alla fine
di questa impresa potrei avere la mia storia da scrivere, se invece non
otterremo alcun risultato, beh potrò sempre parlare di come
si è giunti a un buco nell'acqua»
«Tu sei pazzo, amico mio»
«Sono un artista, è normale»
«Dove la trovi tutta questa voglia di scherzare?»
borbottò Raoul.
«È il mio lavoro, quello che ho sempre desiderato
di fare, e inoltre terrei d'occhio il nostro nuovo amico, cosa ne
dici?»
«Ve bene, in effetti mi fido più di te che di
lui».
Raoul comunicò ai direttori che avrebbe accettato che
Bertrand venisse assunto solo a patto che collaborasse con Alexandre,
la proposta trovò qualche debole opposizione da parte
dell'investigatore, ma alla fine si vide costretto ad accettare le
condizioni del visconte.
Dopo quella breve discussione i cinque uomini si salutarono e tornarono
a casa, ognuno con i propri pensieri.
*
Le luci del dormitorio del collegio erano tutte accese malgrado fosse
sera inoltrata e il teatro era stato chiuso da un pezzo. Le giovani
ballerine si muovevano irrequiete da una stanza all'altra cercando
qualche compagna con cui dormire, dopo quello che era accaduto nessuna
di loro voleva passare la notte da sola, nessuna aveva il coraggio di
spegnere il lume sul proprio comodino. Madame Giry, che in un'altra
occasione avrebbe rimproverato le sue allieve intimando loro di
coricarsi e fare silenzio, si limitava ad osservarle muoversi
frettolosamente lungo il corridoio, ascoltando impassibile i loro
commenti sulla serata, sperando che la sua presenza e la sua apparente
calma potessero servire in qualche modo a tranquillizzarle. La donna
era certa che quelle fanciulle non corressero alcun pericolo, ma era
sicura che alcune di loro il giorno dopo avrebbero abbandonato il
collegio, sarebbero rimaste quelle che davano più ascolto
alle loro ambizioni artistiche che alla paura e quelle che non avevano
altro posto e altro futuro che il teatro, c'erano diverse orfane tra le
allieve del collegio, ragazzine rimaste senza famiglia che Madame Giry
aveva accolto a teatro, proprio come aveva fatto con Christine.
«Christine...» sospirò la donna fissando
la fiamma della lampada ad olio che aveva davanti, si rese conto che la
ragazza non era con le sue compagne, non l'aveva vista passare una sola
volta nel corridoio alla ricerca di qualcuna che le tenesse compagnia
per quella notte. Ma in fin dei conti Madame Giry non era preoccupata
nemmeno per lei, quella giovane era l'ultima persona al mondo che
doveva temere la furia che quella sera si era abbattuta sul teatro...
almeno per il momento.
Madame era preoccupata per lui.
In tanti anni in quel teatro erano avvenuti gli incidenti
più bizzarri, i disastri più inattesi, ma mai
nessuno si era fatto seriamente del male. Lei aveva tentato di
avvertire quello stolto di Joseph Buquet, aveva cercato di fargli
intendere quanto fosse pericoloso dare la caccia al Fantasma solo per
avere storie interessanti da raccontare, per farsi bello agli occhi
delle ballerine, gli aveva detto di tacere, ma il macchinista non aveva
voluto ascoltare. E lui doveva difendersi... lo aveva già
fatto, davanti ai suoi occhi quando erano poco più che
bambini, aveva ucciso il suo carceriere e lei lo aveva aiutato a
scappare... perché era giusto, perché nel suo
dolore e nel suo smarrimento lui aveva sempre conservato un tremendo
attaccamento alla vita, un istinto di sopravvivenza cieco e
feroce quanto quello di una belva.
La donna si lasciò scappare un altro sospiro, più
profondo del primo e decise di andare a bussare alla camera di
Christine per portarle delle candele, forse nemmeno lei aveva voglia di
rimanere al buio.
I colpi alla porta della stanza della giovane non ricevettero risposta,
possibile che si fosse addormentata? Madame Giry aprì la
porta con cautela, la stanza era buia, il letto era vuoto.
«Benedetta figliola...» mormorò la donna
stringendo nervosamente le mani l'una nell'altra.
*
Le candele erano ridotte a piccoli grumi di cera sciolta, presto si
sarebbero spente. Che sciocca era stata a non portarne di nuove, non
era saggio rimanere al buio quella sera. E non era saggio nemmeno
rimanere sola, allontanarsi dalla sua camera senza dire niente a
nessuno, ma la ragazza non era in grado di pensare lucidamente a quale
fosse la cosa migliore da fare, aveva bisogno del conforto che solo
quel luogo riusciva a darle.
Si rannicchiò sul pavimento impolverato senza curarsi della
veste da camera che si stava macchiando e fissò la
fotografia di suo padre alla poca luce delle uniche candele ancora
accese.
Possibile che l'Angelo della Musica mandatole da suo padre, quell'uomo
che sapeva incantare il suo cuore con la magia della sua voce, fosse un
assassino? Possibile che la sua rabbia verso il mondo arrivasse a
tanto?
Christine seguì con la mano il margine della cornice che
racchiudeva il ritratto di Gustave Daae, la fotografia si stava
sbiadendo, ma l'immagine era ancora ben visibile, l'espressione serena
e decisa dell'uomo sembrava così viva. Se suo
padre fosse stato lì con lei le avrebbe forse potuto
spiegare perché l'angoscia che sentiva non riusciva a
tramutarsi in orrore, come era accaduto alle sue compagne. Avrebbe
dovuto aver paura, come tutti, e addirittura doveva temere il Fantasma
più di ogni altro visto che aveva manifestato un palese
interesse per lei, ma ancora un volta l'unica cosa che la spaventava
era il non riuscire ad affrontare quella situazione nel modo in cui una
persona assennata avrebbe dovuto giudicare.
Quando anche la penultima candela si spense lasciando un'ultima
fiammella a rischiarare inutilmente la soffitta Christine decise di
alzarsi e tornare nella sua camera.
Da quanto tempo era lì a pensare? A pensare a cosa poi?
La giovane si sollevò con movimenti resi goffi dalla gonna
della veste da camera, puntando i palmi delle mani a terra... un
improvviso fruscio la fece spaventare facendole perdere l'equilibrio:
lui era lì, nascosto nel buio, chissà da quanto
tempo la stava fissando.
«Fatevi vedere, se ne avete il coraggio!»
esclamò la ragazza con un tono che avrebbe voluto essere
sprezzante e autoritario, ma suo malgrado la voce le uscì
tremula e incerta.
«Christine...» la voce del suo Angelo
arrivò da un punto imprecisato della stanza mentre anche
l'ultima candela si spegneva, come se lui stesso fosse fatto di
oscurità.
La ragazza rimase impietrita, ritta in mezzo alla soffitta, avrebbe
potuto voltarsi e correre via, anche in quel buio avrebbe dovuto sapere
che la porta era solo a un metro alla sua destra, ma si
sentì così disorientata da poter giurare che di
punto in bianco la soffitta fosse diventata una prigione di ombra senza
pareti.
Il rumore graffiante di un fiammifero che veniva sfregato contro il
muro fu seguito da una fiammella che diede fuoco allo stoppino di una
lampada ad olio agganciata alla parete, la soffitta fu nuovamente
illuminata da una fioca luce giallastra.
Lui era lì, in piedi in mezzo alla stanza. Christine lo
fissava con gli occhi sbarrati, incapace di dire o fare qualsiasi cosa.
Erik congiunse le mani e inclinò leggermente la testa in
avanti, sembrava in attesa che la ragazza parlasse, reagisse, o forse
era in attesa di trovare qualcosa da dirle che non la facesse gridare
di paura. Avrebbe potuto sgridarla per non essere a letto, ma sarebbe
stato semplicemente ridicolo. Avrebbe potuto scusarsi per il suo
comportamento decisamente poco decoroso con il quale si era concluso il
loro primo incontro, ma alla luce di quanto era avvenuto quella sera
sarebbe suonato del tutto fuori luogo.
«Volevi vedermi?» le chiese semplicemente.
Lei si limitò a sbattere le palpebre con espressione confusa.
«Volevi vedermi, sì»
sentenziò l'uomo con aria convinta. «Altrimenti
non saresti venuta qui».
Christine fece appello a tutto il suo sangue freddo e riuscì
ad atteggiare il viso in un'espressione dura,
«Vi credevo un Angelo!» esclamò quasi
con disprezzo.
Erik allargò le braccia e scrollò le spalle in un
gesto teatrale ed enfatico,
«Lo so, e perdonami se ho pensato che fosse ora che la
smettessi di credere alla favole» disse con calma.
«Ho cercato anche il modo migliore per metterti a parte di
quale fosse la realtà delle cose, ma c'è stato...
qualche imprevisto»
«Voi avete ucciso un uomo, stasera»
sibilò Christine indignata stringendo i pugni.
«Vedi, bambina mia...» sospirò
dolcemente Erik, alzando una mano verso il viso della giovane con
l'intenzione di accarezzarle la guancia, ma lei si ritrasse con uno
scatto, lui corrugò per un attimo le sopracciglia poi
riprese a parlare.
«Fuori di qui c'è gente che si ammazza per i
motivi più futili» disse con più
durezza ma senza perdere la calma. «Gli uomini duellano per
difendere il loro onore quando lo sentono minacciato, e tu ti sconvolgi
perché io ho voluto difendere me stesso»
«Difendervi da cosa?!»
«Il caro Bouquet aveva scoperto troppo, e non solo! Aveva
anche avuto la bella idea di andarlo a raccontare»
«E vi sembra un buon motivo per... per... per fare quello che
avete fatto?»
«La mia vita per la sua. Mi rammarico che il fatto che io
tenti di sopravvivere ti rechi così tanto
disturbo» concluse Erik in tono leggermente sarcastico.
Christine si sentiva terribilmente confusa e smarrita davanti alla
calma gelida di quell'uomo, ma in un attimo di lucidità fu
in grado di comprendere che sarebbe stato molto meglio allontanarsi da
lui il prima possibile,
«Dovrei essere a parlare con i gendarmi, non con voi,
ora» esclamò voltandosi decisa a correre via, ma
un braccio la strinse saldamente ad altezza del petto. Erik la tenne
contro di sé, imprigionata in quella stretta, con le spalle
minute poggiate contro il suo torace ampio,
«Ci hanno già pensato i miei amici
direttori» mormorò l'uomo affondando il viso nei
suoi capelli. Una fitta gelida e penetrante di paura strinse il cuore
di Christine... paura per lui! Cosa avevano fatto i direttori? Cosa
sarebbe successo ora?...
Erik annusò ancora per un attimo l'odore gradevole dei
capelli della ragazza, sentì che la tensione del corpo di
Christine contro il suo si stava allentando, come se si fosse calmata
di colpo. Deglutì pensando che avrebbe dovuto accontentarsi
di quella specie di abbraccio, non era il caso di spaventarla
più di quanto non lo fosse già. Si
augurò solo che lei potesse anche solo lontanamente
comprendere i motivi del gesto tanto estremo che aveva compiuto quella
sera, perché lui non aveva intenzione né di
pentirsi né di chiedere perdono.
«Come sarebbe?» chiese la ragazza senza
più preoccuparsi di lottare contro la stretta del Fantasma.
«Andrè e Firmin hanno ingaggiato un ex poliziotto,
un tale Bertrand» spiegò Erik. «Sembra
uno che fa sul serio, sai, penso che avrò un bel passatempo
a cui dedicarmi».
Christine sobbalzò,
«Volete uccidere anche lui?» domandò
sconcertata
«No, un altro morto susciterebbe troppo scalpore,
personalmente mi divertirò a non farmi trovare, ma se il
nostro nuovo ospite finisce per sbaglio nei sotterranei non mi
riterrò responsabile di quello che potrebbe
accadergli» rispose il Fantasma con freddezza e senza
preoccuparsi di allentare la stretta attorno al petto di Christine.
«Cosa c'è nei sotterranei?» chiese
ancora lei, incapace di trattenere un brivido.
«A parte ciò che hai visto, diciamo che il
percorso per arrivare alla mia casa è sconsigliato a chi
è poco
pratico della zona»
«Avete messo delle trappole...»
«Devo pur preservare la mia casa dai topi, non ti
sembra?» mormorò Erik ironico.
«Non scherzate!» esclamò la ragazza.
L'uomo sospirò, avrebbe tanto voluto guardarla in viso in
quel momento, ma era troppo occupato a non farla correre via,
«Capirai prima o poi... ti ci abituerai»
mormorò come se stesse pensando ad alta voce.
«Erik...»
«Sì?»
«Lasciatemi, mi state facendo male ora, non riesco a
respirare».
L'uomo ritirò immediatamente il braccio, Christine
inspirò profondamente e si voltò verso di lui,
«È ora che tu vada a letto, bambina mia»
disse il Fantasma accennando un sorriso affettuoso. «In
quanto a me ritieniti libera di raccontare ciò che vuoi a
chi credi»
«Sapete che tanto non racconterò niente»
rispose la ragazza abbassando gli occhi, incapace di sostenere lo
sguardo del suo interlocutore.
«Ah, no?» chiese lui inarcando un sopracciglio.
Certo che lo sapeva, ma voleva che lei si sbilanciasse nel dirgli il
perché, confonderla era più divertente di quanto
pensasse.
«No»
«Sembravi così decisa a correre dai gendarmi poco
fa»
«Non è vero!... Voi siete...»
«Cosa?»
«Voi siete il mio maestro, credete che non abbia un minimo di
gratitudine?» concluse Christine. «Ma non
chiedetemi di comprendere le ragioni di ciò che avete fatto
stasera».
Erik annuì con un cenno del capo, poi le prese la mano, se
la portò alle labbra e vi impresse un leggero bacio,
«Ti chiedo di comprendere me, nient'altro»
mormorò.
___________________________
Capitolo reinserito il 19\12\2011
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Capitolo 5 *** Tormenti ***
CAPITOLO QUARTO
Tormenti
Madame Giry aspettò che tutte le ragazze si fossero
addormentate, mentre si dirigeva verso la sua camera vide anche
Christine raggiungere Meg camminando con passo felpato lungo il
corridoio. Pensò che ormai quella ragazza doveva aver
intuito che ciò che stava succedendo la riguardava
più da vicino di quanto sembrava, e lei aveva la sensazione
che quello fosse solo l'inizio. Aveva saputo di quella specie di
poliziotto che i direttori avevano assoldato per dare la caccia al
Fantasma e quella faccenda non prometteva niente di buono, quell'uomo
si sarebbe ritrovato a condividere la sorte di Bouquet se per caso
fosse stato così in gamba da scoprire qualcosa. Per il suo
bene, Eloise sperò che fosse uno sprovveduto: Erik non aveva
mai ucciso nessuno in teatro prima di quella sera, e se mai avesse
ripetuto quel gesto estremo sarebbe stato solo per proteggersi, quindi
era meglio che quel Bertrand non fosse troppo abile da rappresentare un
pericolo per lui.
Quando si chiuse la porta della camera alle spalle la donna
avvertì quasi un senso di sollievo, si sciolse i capelli e
le tempie smisero di pulsare, la tensione che le aveva attanagliato lo
stomaco parve allentarsi e lei si godette per qualche secondo il
silenzio e il buio che regnavano nella stanza.
Allungò una mano verso il comò per accendere la
lampada, non voleva fare altro che indossare la veste da camera e
coricarsi, l'indomani avrebbe atteso gli eventi e pregato, ora voleva
solo riposare. Quella sensazione di tranquillità era
però destinata a durare poco.
All'improvviso si sentì spingere brutalmente verso il muro e
avvertì una stretta alla gola,
«Erik...» sussurrò in un rantolo.
Non riusciva a vederlo nel buio, scorgeva a malapena la sua figura
ritta davanti a lei, e avvertiva la sua mano serrata intorno al collo.
«Che cos'è questa storia? Chi diamine è
quell'uomo che è venuto a darmi la caccia nel mio stesso
teatro?» sibilò la voce dell'uomo come se tutta la
collera del mondo si fosse condensata nelle sue parole.
Eloise conosceva quel tono di voce, chiunque altro si fosse trovato al
suo posto sarebbe morto dalla paura ancora prima che per la mancanza di
aria. Erik non era mai stato violento con lei, e se quella sera aveva
avuto quella reazione doveva essere davvero furioso. La donna si
limitò a posare una mano sul suo polso per chiedergli di
lasciarla andare, lui ritrasse la mano con uno scatto stizzito.
Madame Giry tossì violentemente e accese la lampada che era
sul comò, attese qualche secondo che il respiro le tornasse
regolare, poi fissò Erik con durezza,
«Non farlo mai più» borbottò
severa.
Lui sostenne quello sguardo con un'espressione gelida come a lasciarle
intendere che riteneva quella brutale incursione del tutto legittima,
«Vorrei sapere cosa passa nella testa vuota di quei due
imbecilli per ingaggiare qualcuno per darmi la caccia come se fossi un
animale da impagliare» disse indignato.
«Forse non sono così imbecilli come sembrano se
hanno fatto quello che il vecchio direttore ha sempre evitato di fare:
opporsi a te» rispose Eloise.
Erik accennò un sorriso sarcastico, tagliente come una lama,
«E tu, immagino, speri che ci riescano, sarebbe un buon
affare liberarti di me»
«Ti permetto di essere arrabbiato ma non di dire
idiozie!».
L'uomo rimase in silenzio per qualche secondo, in quella penombra i
suoi occhi chiari avevano dei cupi riflessi color piombo.
«Ad ogni modo, non ho potuto farci niente, e sei stato tu a
dirmi di non espormi troppo» aggiunse Madame Giry.
Erik dondolò il capo e la fissò in tralice,
«Dovrai stare attenta, ancora più di
prima» disse.
«Lo stesso vale per te. Ma non farmi raccomandazioni come se
fossi una sprovveduta, ho sempre usato la massima cautela, lo sai
bene» rispose la donna incrociando le braccia sul
petto.
«A proposito, oltre al poliziotto c'è anche
quell'altro, quel giornalista, Doubois... è un amico del
nostro prezioso mecenate, potrei giurare che hanno la stessa
espressione sveglia quanto quella di una statua di cera»
«Ah, per favore, lascia perdere il Visconte De Chagny, lui
non c'entra niente con questa storia... i direttori lo hanno informato
solo a cose fatte».
Erik si lasciò scappare un sospiro stanco, il sospiro di chi
non aveva voglia di fare la guerra ma si vedeva costretto a cominciare
una nuova battaglia,
«A volte mi sento proprio uno stupido, sai Eloise»
disse tristemente. «Proprio non riesco a capire cosa
c'è di così pretenzioso in quello che faccio...
non pretendo un posto in un mondo che non mi vuole, voglio solo
prendermi cura dell'unica cosa che ho, del mio teatro,
perché non me la lasciano fare? Perché non mi
lasciano in pace?».
Madame Giry deglutì nervosamente,
«Devi ammettere che i tuoi metodi sono piuttosto drastici e
invasivi talvolta» commentò scuotendo il capo.
«Drastici?! Eloise, io non sono niente senza questo teatro,
se difendere in tutti i modi possibili la mia unica ragione di vita
significa essere drastici, allora sì, sono assolutamente
drastico e ne vado fiero!».
La donna si sentì stringere il cuore a quelle parole, Erik
non aveva tutti i torti, se non avesse avuto il teatro di cui occuparsi
si sarebbe lasciato marcire nei sotterranei, invece grazie alla musica,
all'arte, aveva un motivo per andare avanti giorno per giorno, anche
nella sua triste condizione. Eppure il prezzo di tutto questo stava
cominciando a diventare troppo alto dal momento che cominciavano ad
esserci in gioco delle vite.
«Cosa pensi di fare adesso?» domandò
Eloise.
«Quello che ho sempre fatto. In quanto ai nostri nuovi
ospiti, prega per loro che non siano troppo svegli... tu sei quel tipo
di persona a cui Dio da ascolto» rispose l'uomo.
«E Christine?» azzardò lei cercando lo
sguardo del proprio interlocutore.
Un lampo lucido attraversò lo sguardo di Erik che si
ritrovò ad abbassare gli occhi, incapace di trovare una
risposta.
«Ah, quando le parole sfuggono a una lingua come la tua
c'è da temere... dunque è peggio di quanto
pensassi?» chiese Eloise con apprensione.
«Perché? Cosa pensavi?»
borbottò Erik allargando le braccia.
La donna lo osservò in silenzio per qualche secondo,
«Dunque, è così, la ami»
concluse.
«Non mi arrabbierò se mi dirai che non ne ho
diritto, l'ho detto a me stesso così tante volte che
sentirlo ripetere da te non mi farebbe alcun effetto»
«Non penso che tu non abbia il diritto di amare una donna,
chiunque essa sia, ma converrai con me che Christine è un
caso del tutto particolare, sei sicuro di amarla per ciò che
è e non perché credi che sia l'unica che possa in
qualche modo ricambiarti?»
«Qualunque sia il motivo, che differenza farebbe,
Eloise?»
«La differenza che passa tra la gioia probabile e
l'infelicità assicurata».
Erik sorrise con amarezza,
«Non so se Christine sia l'unica che possa amarmi, so che lei
è l'unica che io potrei amare, ed è questa la
differenza che conta» commentò laconico.
«Io non interferirò mai in quelli che possono
essere i tuoi sentimenti o i suoi,» rispose Eloise,
«ma io tengo molto a Christine, e sappi che farei qualunque
cosa per proteggerla, anche...»
«Anche tradire me. Sì, lo so» concluse
l'uomo.
*
Raoul si era svegliato molto presto, avrebbe potuto giurare di non aver
dormito affatto. Si era ritirato a notte fonda e anche quando si era
messo a letto non era riuscito a prendere sonno, i suoi pensieri erano
rivolti a Christine, a quel bacio rimasto in sospeso, al suo rifiuto,
deciso e definitivo. Lei non lo amava. Aveva intuito che c'era un altro
uomo, e avrebbe tanto voluto saperne di più, voleva sapere
se la sua intuizione era esatta, quale era la natura dei sentimenti di
Christine per quest'altra persona, voleva saperlo per capire se poteva
concedersi di sperare.
E voleva anche capire perché Christine sembrava
così ossessionata dal Fantasma dell'Opera, da quell'assurda
leggenda a cui tutti stavano dando troppo credito ultimamente.
Whose is this voice you
hear with every brateh?
Ma non era importante. E riguardo ai suoi sentimenti, che avesse potuto
sperare o meno non faceva alcuna differenza, anche se non avesse avuto
la minima possibilità il suo amore per quella ragazza non
sarebbe scomparso da un giorno all'altro.
Il giovane si alzò dal letto e si avvolse nella sua giacca
da stanza. Lanciò un'occhiata oltre i vetri della finestra,
aveva albeggiato da poco e la neve caduta la sera prima aveva coperto
di un soffice manto bianco il giardino della tenuta, anche se il
visconte non trovava niente di particolarmente tenero e gradevole in
quello spettacolo.
Restò per circa un'ora seduto su una poltrona ai piedi del
letto rimuginando sugli avvenimenti della sera prima,
continuò a pensare a Christine poi i suoi pensieri si
concentrarono sull'incontro che era avvenuto nell'ufficio dei
direttori, il ricordo di Blaise Bertrand e di quei suoi sorrisi tirati
su quel volto ossuto gli provocò una sensazione sgradevole e
si chiese se fosse stata una buona idea lasciare che i direttori lo
assumessero per indagare all'interno del teatro. Indagare su cosa poi?
«Io finché non vedo questo fantasma, quest'uomo,
questo essere... non ci credo» borbottò
scuotendosi infreddolito. «Ah, maledizione!».
Agitò la mano a mezz'aria come per scacciare via quei
pensieri molesti e spiacevoli, poi si alzò e decise di
vestirsi. Quando ebbe finito di prepararsi scese in sala da pranzo dove
si fece servire la colazione, il maggiordomo si era premurato di
procurargli diversi quotidiani, tutti i giornali di quel giorno
recavano in prima pagina la notizia della morte del macchinista nel
teatro più famoso di Parigi, molti articoli riportavano la
versione che emergeva dai rapporti della gendarmeria e parlavano di un
tragico incidente, ma qualcuno lasciava spazio ad alcune supposizioni
fantasiose e a strane insinuazioni.
Raoul allontanò la pila di giornali con aria infastidita e
bevve un sorso dalla sua tazza di caffè, poi il maggiordomo
gli si avvicinò e gli porse un biglietto posato su un
vassoio.
«E' da parte di monsieur Dubois» disse.
Il visconte lesse il biglietto nel quale Alexandre gli proponeva di
incontrarsi per pranzo in un bistrò della piazza del teatro,
c'era scritto che era certo di procurarsi in mattinata notizie di cui
avrebbe voluto discutere con lui.
Raoul sorrise divertito pensando che il suo amico doveva essere in
fibrillazione per tutta quella faccenda. Conosceva le ambizioni di
Alexandre e quella sua continua ricerca di una storia da raccontare, e
sapeva quanto fosse grande il talento scrittorio di quel ragazzo che di
certo avrebbe saputo trarre un magnifico racconto da quella vicenda
assurda.
Il ragazzo passò la mattinata chiuso nel suo studio a
leggere alcuni documenti che riguardavano l'amministrazione del teatro,
era previsto l'allestimento di un altro spettacolo prima di Natale e
con quello che era successo la sera prima l'Opera Populaire avrebbe
avuto bisogno di una nuova pubblicità, senza contare che
Carlotta Giudicelli si era data ammalata per le settimane successive
lasciandoli senza una cantante per la prossima rappresentazione.
«Ah, se avessi saputo che l'arte era un campo così
complicato non mi sarei mai dedicato a questa impresa! Dannato quel
teatro e tutti gli artisti!» borbottò il visconte
dopo aver trascorso diverse ore nel tentativo di trovare una soluzione
a tutti i problemi che minacciavano di far diventare più
intensa la sua emicrania.
Con un mal di testa insostenibile, Raoul scese in giardino e
ordinò a un cocchiere di portarlo fino al teatro, avrebbe
pranzato con Alexandre e poi sarebbe andato a discutere con i direttori
di cosa fare per il prossimo spettacolo.
Alexandre era seduto attorno a un tavolo rotondo sul fondo della sala
del Petite Cafè, le pareti del bistrò erano
tappezzate di velluto blu, i camerieri vestivano tutti con
un'inappuntabile livrea bordeaux sopra ad una camicia beige.
Il giornalista lisciò con il palmo della mano una piega
della tovaglia di lino damascato e si versò un po' d'acqua
dalla caraffa.
«Buon giorno Alexandre» disse Raoul comparendo
davanti a lui e lasciandosi cadere sulla sedia.
«Buon Dio, hai un pessimo aspetto»
«Ho passato una notte insonne...»
«Ah, sì, anche io, e se per questo, anche mia
madre» asserì il giornalista
«Beh i motivi che hanno tenuto sveglio te posso ben
immaginarli, ma tua madre, è stata forse male?»
«No, lei, come dire... è una persona molto
emotiva, a dire la verità anche troppo emotiva»
«Cosa intendi dire?»
«Mia madre soffre di una lieve forma di
depressione» mormorò Alexandre con un sospiro.
«Mi dispiace, non sapevo» disse Raoul.
«Avevo un fratello, è morto quando io non ero
ancora nato e lei non ha mai superato questa perdita»
«Oh, credo che non ci sia dolore più grande che
perdere un figlio...».
Una giovane cameriera si avvicinò al tavolo e
posò davanti ai due uomini dei menù rilegati in
tela, poi tornò dopo qualche minuto per prendere le
ordinazioni.
Raoul seguì con lo sguardo la ragazza che si allontanava
dopo aver annotato cosa desideravano per il pranzo,
«Un giorno mi spiegherai come fai»
commentò il visconte lanciando un'occhiata sarcastica al suo
amico.
«A fare cosa?»
«A farti guardare in quel modo dalle donne».
Alexandre si grattò la nuca con aria imbarazzata
«Sto cominciando a comprendere una cosa di quell'intricato
mistero che sono le donne, meno interesse dai loro più si
preoccupano di mettersi in mostra» rispose divertito
«Mi stai dicendo che non ti interessano le donne?»
«Non in questo momento, certo mia madre sarebbe la persona
più felice del mondo se trovassi una brava giovane da
sposare, ma...»
«Ma devi prima realizzare la tua impresa di scrivere il tuo
romanzo»
«Sì, diciamo che ho la testa altrove per
concentrarmi su matrimoni e cose simili»
«Beh, però è un peccato, tante ragazze
ti trovano attraente...»
«A proposito, ieri sera non c'è stato tempo, ma mi
stavi raccontando di Christine».
Raoul tossicchiò abbassando lo sguardo con aria afflitta
«Non c'è altro da dire, mi ha rifiutato e io sono
certo che ci sia un altro» disse.
«Un altro? Chi può essere? Forse mademoiselle
Daaè in questo momento preferisce dedicarsi alla sua
carriera» rispose Alexandre.
«No, se così fosse mi avrebbe dato delle speranze,
invece il suo era un no definitivo».
Un altro cameriere arrivò pochi minuti dopo a servire il
pranzo, Raoul tormentò con la forchetta la sua ratatouille
di verdure ma non ne assaggiò che pochi bocconi.
«Perché volevi vedermi?»
domandò il visconte allontanando il piatto. «Nel
tuo biglietto mi dicevi che avresti avuto delle notizie da
darmi».
Alexandre annuì,
«Ah le ho, e non so se possono definirsi buone
notizie» borbottò.
«E io che pensavo che con le brutte notizie avessimo finito,
al momento!».
Il giornalista estrasse una busta dalla tasca interna del cappotto che
aveva poggiato allo schienale della sedia e la porse al suo
interlocutore,
«Mi sono permesso di cercare qualche informazione sul nostro
nuovo amico, monsieur Bertrand» disse.
Raoul aprì la busta e vide che dentro c'erano alcuni fogli
dattiloscritti,
«Cosa c'è scritto?» chiese.
«Che non è esattamente l'uomo più
raccomandabile della città» rispose il giornalista
con un sospiro. «È stato capitano della
gendarmeria, ma fu sospeso dal servizio perché si
scoprì che per arrotondare lo stipendio faceva l'usuraio,
quello che emerge dalle informazioni che ho raccolto su di lui
è che non è una persona che va tanto per il
sottile, quando lavorava nella polizia è stato protagonista
di diversi atti scellerati, maltrattamento di indagati durante gli
interrogatori e cose simili, è un assiduo frequentatore di
case di malaffare e posso immaginare che questo non sia il suo unico
vizio».
Il visconte fissò l'amico con aria attonita,
«Cioè, monsieur Bertrand è
più simile a un avanzo di galera che a un
poliziotto!» commentò con una smorfia.
«Io non avrei saputo dirlo meglio, amico mio»
«Ma è assurdo...» protestò
Raoul.
«No, non lo è. Temo che i tuoi amici direttori lo
abbiano assunto proprio perché è la pessima
persona che è» rispose il giornalista.
«Devo smettere di frequentarti, Alexandre, sei troppo
intelligente per me! Comunque, mi sento più tranquillo
sapendo che gli starai alle costole... non mi piace l'idea che un
simile individuo abbia a che fare con le ragazze del collegio e con la
gente che lavora nel mio teatro».
Alexandre annuì, poi lanciò al suo amico uno
sguardo preoccupato,
«Non voglio metterti ansia, Raoul, ma temo che Bertrand, se
è un bravo segugio come credo che sia, si
accanirà particolarmente su Christine».
Al visconte andò di traverso il sorso d'acqua che stava
bevendo,
«Christine?»
«Beh, è chiaro il Fantasma dell'Opera, chiunque
sia, ha un palese interesse per lei e per la sua carriera, Bertrand non
tarderà a notarlo».
Raoul si passò una mano tra i capelli in un gesto nervoso,
«Dunque, mettiamo che questo Fantasma esista, credi che
Christine ne sappia qualcosa?» chiese.
«Non lo so, posso pensare che se lei avesse saputo qualcosa,
dopo ciò che è accaduto ieri sera, lo avrebbe
detto alla polizia, a meno che...»
«A meno che?»
«A meno che non abbia dei motivi per mantenere il
segreto» concluse il giornalista.
«Ah, per carità! Non voglio mai più
sentire idiozie del genere sul fatto che Christine possa essere in
qualche modo coinvolta in questa assurda faccenda! E cerca di tenere
Bertrand il più possibile lontano da lei!»
sbottò Raoul.
Alexandre scrollò le spalle,
«Stai calmo, sono certo che Chrisinte non c'entra niente...
anche un sordo noterebbe che è più talentuosa
della Giudicelli, l'interesse del Fantasma potrebbe essere dovuto
unicamente a questo»
«Sempre ammesso che ci sia un fantasma» concluse
Raoul con aria esasperata
«Sempre ammesso che ci sia un fantasma» convenne
Alexandre in tono accomodante.
*
L'interno della chiesa non era meno freddo dei vicoli di Parigi, ma la
ragazza avvertì comunque un senso di sollievo. Fece il segno
della croce chinando il capo in direzione dell'altare e
superò la prima colonna della navata centrale. L'aroma
dell'incenso e dei fiori che ornavano le cappelle laterali si mischiava
a l'odore della pietra antica, disegnando nella mente dei fedeli che
entravano nella chiesa di Sant Patrice scene di un passato glorioso,
dando quasi la sensazione che quelle pietre avessero assorbito tutti i
sospiri che avevano accompagnato le preghiere recitate nel corso dei
secoli da brava gente devota.
Christine inspirò per qualche secondo quell'odore e si
sentì tranquillizzata, quella era la Casa del Signore e
lì c'era sempre possibilità di ricevere asilo,
non solo per chi aveva bisogno di nascondersi dal mondo, ma anche per
chi aveva bisogno di proteggere la propria anima dai pericoli davanti
ai quali poniamo noi stessi quando lasciamo venir meno la ragione.
La ragazza chiuse la tenda di velluto viola del confessionale e si
inginocchiò congiungendo le mani, il prete aprì
la piccola grata con uno scatto.
«Perdonatemi padre, perché ho peccato»
mormorò Christine.
«Ti ascolto, figliola» rispose padre Serge con la
sua voce bassa e carezzevole, riconoscendo la giovane oltre la grata.
«Sono confusa padre, sono spaventata...»
«Cosa ti turba?»
«Un uomo».
Christine si fermò cercando le parole più adatte
per continuare, il sacerdote respirò profondamente,
«C'è un uomo che ti insidia, che ha tentato di
fare qualcosa contro la tua volontà?».
La giovane non seppe cosa rispondere. L'uomo di cui parlava non le
aveva fatto nulla di male ed era certa che le splendide parole che le
aveva cantato non fossero semplicemente un subdolo tentativo di sedurla,
«C'è un uomo che ho conosciuto che... che mi
confonde» concluse mordendosi il labbro.
Padre Serge le concesse un sorriso indulgente,
«Mia cara, ogni fanciulla, prima o poi incontra sulla sua
strada un uomo che le fa provare ciò che stai provando
tu»
«No, padre, quest'uomo è... io non sono certa che
sia giusto pensare a lui»
«È forse sposato?»
«No. Padre, è così difficile... lui ha
commesso sbagli molto gravi, anche se a volte penso che le sue ragioni
non siano state del tutto sbagliate, ma non so se è giusto
essere indulgente riguardo ai suoi errori, al punto da...»
«Al punto da concedergli il tuo affetto?» chiese il
sacerdote.
«Al punto da accordargli la mia fiducia» lo
corresse subito Christine, non voleva che padre Serge credesse che gli
stesse parlando di amore, lei non amava quell'uomo, nessuno avrebbe
potuto amarlo.
«Vedi, tutti noi commettiamo degli errori, gravi o meno che
siano, ma non sta agli altri giudicare i nostri sbagli, sarà
Nostro Signore a valutare il peso di ciò che abbiamo
commesso» concluse il prete in tono pacato.
Christine sorrise amaramente,
«Ah padre, non posso aspettare il giudizio divino per capire
come comportarmi!» esclamò, per pentirsi subito
della sfacciataggine di quelle parole. «Oh, scusate, non
volevo essere arrogante o bestemmiare»
«Non sto dicendo di aspettare il giudizio di Dio, la Sua
giustizia si attua sempre al di là di questo mondo. Ti sto
dicendo di valutare quell'uomo per come tu credi sia più
giusto, badando a ciò che vedono i tuoi occhi, senza ergerti
a giudice delle sue azioni. Figlia mia, il bene e il male sono concetti
così sfuggevoli che se volessimo fermarci sempre a
determinare cosa sia buono e cosa non lo sia, rischieremo il
più delle volte di cadere in errore, e forse di fare del
male noi stessi»
«E se sbagliassi valutazione?»
«È un rischio che corriamo in tutto ciò
che facciamo, anche se facciamo un qualsiasi tipo di acquisto, non
possiamo essere sicuri che il commerciante non ci inganni, ma se non ci
fidassimo mai del nostro prossimo vivere diventerebbe un'impresa
più ardua di quanto già non sia. Tu sei molto
giovane, la fiducia dovrebbe essere una delle tue prerogative, sarai
esposta a delle delusioni, certo, ma è così che
una persona matura l'esperienza»
«Padre, io non so se ce la faccio a lasciarmi andare, ad
avere questa fiducia di cui parlate... nel caso specifico di quell'uomo
di cui vi parlavo, è così complicato»
mormorò Christine affranta.
«Quante precauzioni» rispose il prete con una vena
di sarcasmo mirata ad alleggerire i toni del discorso. «Forse
nel tuo cuore quella persona occupa un posto così
particolare che hai paura che lo stia usurpando senza diritto e senza
merito».
La giovane ebbe un sussulto a quelle parole,
«Io devo molto a quell'uomo» ammise. «E
la gratitudine che ho per lui lo rende assolutamente meritevole del
posto che occupa nel mio cuore... ma non so se concedergli di avere
altro spazio nei miei pensieri»
«Cercarsi, trovarsi, a volte persino rincorrersi,
è del tutto naturale tra le persone, ed è
un'avventura talmente complicata che è normale che tu, che
sei così giovane, ne sia spaventata»
«Allora chiedo perdono a Dio fin da ora per i possibili
errori che potrò commettere se deciderò di
prendere questa strada, compresa l'eventualità che sia il
percorso sbagliato» concluse Christine stringendo
più forte le dita tra loro.
«In nome di Nostro Signore, assolvi te stessa, non stai
facendo nulla di male» disse padre Serge, e con quelle parole
sollevò dall'animo di Christine parte del peso che la
opprimeva.
La ragazza uscì dal confessionale e depose qualche moneta
nella cassetta delle offerte, prima di lasciare la chiesa si
voltò un'ultima volta verso l'altare e fissò la
statua della Madonna sistemata in una nicchia sopra al tabernacolo.
Pensò che Dio non l'aveva mai abbandonata, ma in quella
“avventura complicata” avrebbe dovuto sbrigarsela
da sola.
Tornò a teatro passeggiando lentamente per la
città. I netturbini stavano ancora spalando via la neve
dalle strade principali per permettere alle carrozze di muoversi senza
intralcio. Le montagne di ghiaccio che venivano accantonate lungo il
ciglio dei marciapiedi non erano più bianche e perfette,
erano velate da aloni scuri di fango e sporcizia, deformate dalle
impronte lasciate dai passanti. Christine pensò che doveva
essere la stessa cosa che accadeva all'anima di una persona quando
veniva toccata da qualcosa di esterno, e qualunque cosa fosse il
sentimento che stava cominciando a provare per quell'uomo, lui le aveva
lasciato sull'anima impronte e segni così profondi che
sarebbe stato difficile lavare via, tracce che la stavano cambiando
senza che lei riuscisse a impedirlo.
Quando tornò a teatro andò nella sua stanza e
scrisse un messaggio su un foglio di carta, poi raggiunse Madame Giry
che stava facendo lezione a delle giovani ballerine, la
chiamò in disparte e le consegnò il biglietto,
«So che potete farglielo arrivare»
mormorò, per poi allontanarsi imbarazzata prima che la donna
potesse dire qualcosa.
Eloise fissò la sua adorata Christine correre via, non aveva
bisogno di chiederle a chi si riferisse, doveva aver compreso
che lei era in contatto con quell'uomo dal momento che la sera della
rappresentazione dell'Annibale era stata proprio lei a darle la rosa
che Erik le aveva mandato.
«Erik è innamorato, Christine è
confusa... e abbiamo una specie di cane da tartufo che da la caccia al
Fantasma dell'Opera, un terremoto sarebbe una sciocchezza a
confronto!» concluse la donna sospirando e infilandosi il
biglietto in tasca.
*
Erik si sfilò la giacca e la posò sullo schienale
della sedia, si tolse il gilet gettandolo sgraziatamente sul piano
dello scrittorio e si slacciò il foulard lasciando che la
camicia si aprisse sul petto, poi si sedette davanti alla scrivania
stendendosi con le spalle contro lo schienale e stiracchiando le gambe,
reclinò il capo all'indietro e tirò un profondo
sospiro.
La Dimora sul Lago era meno fredda di quanto ci si aspettasse,
essendoci continuamente decine e decine di candele accese l'aria si
manteneva tiepida e le spesse pareti di pietra trattenevano il calore.
Erik si massaggiò il collo cercando di allentare la tensione
e rilassarsi, era tutto il giorno che correva su e giù per
il teatro, aveva controllato la situazione come un saggio sovrano che
vuole tenere personalmente d'occhio il proprio regno, diffidando dei
suoi stessi servitori. Aveva bisogno di ascoltare cosa diceva la gente,
di sapere cosa stava succedendo dopo gli avvenimenti della sera passata
e quando e come l'investigatore e il giornalista avrebbero cominciato a
dargli la caccia.
Si sentiva stanco e sapeva che gli sarebbero servite molte energie per
affrontare la tempesta che minacciava di abbattersi sul suo teatro. Si
passò le mani tra i capelli e avvertì in
lontananza il rumore di un goccia che cadeva sulla roccia, un rumore
così piccolo, quasi impercettibile, che in quel grande
spazio vuoto aveva un eco fastidioso, i battiti del suo stesso cuore
sembravano rimbombare e increspare la superficie immobile del lago
sotterraneo, ricordandogli che in quella casa non era né il
Fantasma dell'Opera né l'Angelo della Musica, era un uomo,
ed era un uomo solo. Ma quella sera c'era un particolare che addolciva
il fiele velenoso dei suoi consueti pensieri tristi.
«Ci vuole un brindisi!» borbottò Erik
chinandosi ad aprire il vano che era sotto lo scrittoio, prese una
bottiglia di vetro scuro, un cucchiaio e una scatola di latta che
conteneva delle zollette di zucchero. Il cucchiaio era piatto e
appuntito con la superficie di acciaio cosparsa di piccoli fori
rotondi, l'uomo appoggiò il cucchiaio sul bordo di un
bicchiere da liquore poi vi posò una zolletta di zucchero e
versò sopra un generoso sorso del liquido contenuto nella
bottiglia. Osservò i luminosi riflessi smeraldini del
liquore e avvicinò un fiammifero acceso alla zolletta, che
essendosi impregnata di alcol prese immediatamente fuoco estendendo la
tremula fiamma violacea fino alla superficie del liquido nel bicchiere.
Minuscole lingue di fuoco si alzavano veloci dalla superficie del
cucchiaio, quella bevanda doveva essere davvero un frammento di inferno
rotolato ancora fumante sulla terra, che attirava gli uomini con il suo
odore gradevole e con il suo colore magnetico.
Quando la zolletta fu quasi del tutto sciolta dal calore Erik
capovolse il cucchiaio facendo cadere i granelli di zucchero disfatto
sul fondo del bicchiere, soffiò energicamente per spegnere
la fiamma e girò il liquore con la punta del cucchiaio fino
a quando il vetro non si fu raffreddato, lo avvicinò
cautamente alle labbra e sorrise tra sé e sé,
«Alla mia musa!» mormorò bevendo un
piccolo sorso che ingoiò con una smorfia: a dispetto del suo
aroma fresco di menta e anice, l'assenzio bruciava la gola mentre lo si
beveva e faceva salire una vampata di calore alle guance, ma una volta
arrivato in fondo al bicchiere ti lasciava una sensazione di
rilassatezza e la voglia di berne dell'altro per perpetuare quel
sentore di calma.
Erik ingoiò rapido altri piccoli sorsi, vuotando il
bicchiere in pochi minuti, strofinando la lingua contro il palato come
per mandare via il retrogusto amaro che lo zucchero non riusciva del
tutto ad attutire. Poi sorrise di nuovo pensando che aveva altro con
cui addolcirsi la bocca: il biglietto di Christine. Lo aveva posato
sotto il fermacarte, in un angolo dello scrittoio, lo aveva letto
già decine di volte ma pensò che una volta in
più non gli avrebbe certo fatto male.
Sul foglio erano annotate poche righe scritte frettolosamente:
Erik,
So che dovete essere
prudente e che, vista la situazione, non vi conviene esporvi troppo. Ma
io vorrei chiedervi di incontrarci, non arrischiatevi a mandarmi una
risposta. Vi aspetterò domani pomeriggio alle due nel
camerino della primadonna, davanti allo specchio. Se non vi
troverò capirò che non siete riuscito a venire, e
se così fosse non datevene pensiero, sono certa che abbiate
delle altre priorità a cui prestare attenzione.
Chirstine.
Erik sospirò. Era strano, lui era abituato a decidere
personalmente come e quando avrebbe visto Christine, e malgrado la sua
mancanza lo dilaniasse, avrebbe preferito non vederla prima che si
fossero calmate le acque, ma dal momento che era stata lei a cercarlo
avrebbe abbattuto un muro a mani nude pur di non mancare a
quell'appuntamento.
Non era un biglietto particolarmente appassionato o affettuoso, anzi,
tra le righe vi aveva anche letto una certa freddezza, ma Christine
sembrava preoccupata per lui e per la prima volta gli aveva chiesto
esplicitamente di vederlo, per la prima volta gli aveva detto di avere
bisogno di lui, ed Erik si disse che avrebbe dovuto farle capire che
non c'erano priorità che mettesse al di sopra di lei.
________________________________________________________
Ringrazio Jack87 per il bellissimo commento, mi fa piacere che la mia
scrittura si riveli utile. Ho letto anche la recensione che lasciasti
per "Save me from my solitude", le controllo sempre le recensioni,
anche per le storie vecchie. Beato te che hai visto il musical! Io
sogno ancora di volare a Londra per vederlo, per adesso mi accontento
del film. Nel mentre ti auguro buona permanenza in Australia (wow! deve
essere bello *_* nostalgia a parte, magari).
Ringrazio anche tutti quelli che hanno letto.
Siccome la storia è già praticamente
tutta scritta sul mio pc, penso che aggiornerò con cadenza
regolare, un capitolo nuovo ogni lunedì. ^^
Al prossimo aggiornamento.
I remain, gentelman,
your obedient servant.
Capitolo reinserito il 19\12\2011
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Capitolo 6 *** "Il Fantasma dell'Opera è qui, nella mia mente" ***
CAPITOLO QUINTO
"Il Fantasma dell'Opera è qui, nella mia mente"
Christine entrò nel camerino e chiuse la porta lentamente,
assicurandosi che nessuno l'avesse vista. La stanza era buia e vuota e
la ragazza pensò che fosse meglio non accendere nessuna
luce, respirò profondamente riempiendosi le narici del
fastidioso odore di chiuso, dell'olezzo dei troppi fiori e del
borotalco, si mosse lentamente verso lo specchio e posò una
mano sulla superficie di vetro sulla quale era riflessa la sua immagine
che appariva sbiadita nella penombra. Attese lunghi secondi nei quali
era incerta se sperare che Erik non arrivasse all'appuntamento o se
pregare perché la raggiungesse.
«Cosa sto facendo?» si disse la ragazza scuotendo
il capo, mentre alcuni riccioli ribelli sfuggivano alla presa del
fermaglio.
Con un sospiro, decise di voltarsi e tornare indietro, rinunciare una
volta e per sempre a quella follia, ma nel volgere le spalle allo
specchio vide un particolare al quale non aveva ancora fatto caso: sul
margine del tappeto era posata una rosa con un fiocco di lucido raso
nero legato sotto la corolla scarlatta.
Restò a guardare il fiore con aria sbigottita, significava
certo che lui era già lì e quindi era tardi per
tornare indietro, per decidere quale fosse il male minore, anzi era
stato stupido da parte sua credere di potersi sottrarre a
quell'incontro, quell'uomo si trovava accanto a lei, dove era sempre
stato, non l'avrebbe lasciata andare. Era come se lui fosse la sorte
che le era toccata, e poiché era il suo destino, Christine
non poteva fare altro che andargli incontro e abbracciarlo.
Fissò la superficie lucida dello specchio e vide la sua
sagoma apparire come un'eterea ombra scura dietro il vetro,
«Siete venuto, infine» disse, senza riuscire a
impedire che la sua voce tremasse.
Un piccolo ghigno divertito increspò le labbra di Erik prima
che lo specchio ruotasse verso l'interno del muro permettendogli di
mostrarsi a Christine,
«Sarò anche un assassino, ma non sono un codardo,
e inoltre non potrei rifiutarti nulla, dovresti saperlo»
disse osservandola a braccia conserte. «Ma tu
perché sei qui e ti ostini a rimanere? La porta è
solo un metro più in là. Non hai
paura?».
I suoi occhi erano così limpidi e il loro sguardo
così pungente che sembrava potessero vedere tutto, anche
l'intricata matassa di emozioni e sentimenti che albergava nel cuore
della ragazza e che lei sperava, con quell'incontro, di cominciare a
dipanare. Sì, aveva paura, di lui e di se stessa, da quando
lo aveva incontrato non sembrava più la ragazza che era
sempre stata.
Christine boccheggiò incapace di trovare qualcosa da dire,
«Mi avete chiesto di comprendervi, è per questo
che sono qui» mormorò, cercando di imprimere al
suo sguardo una durezza che non le apparteneva e che non
sembrò nemmeno credibile
«Questo sguardo non ti si addice»
replicò l'uomo con aria spavalda. «Volevi vedermi
per trovare conferma all'idea che hai di me? Per sincerarti che sono un
mostro, così non dovrai sentirti in colpa quando mi
abbandonerai? Qual'è la parte di me che vuoi comprendere
veramente?... forse, tentare di capire il tuo caro visconte sarebbe
un'impresa meno ardua. Vi ho visti l'altra sera sul terrazzo».
La ragazza sussultò a quell'affermazione,
cominciò a temere che la collera di Erik potesse davvero
riversarsi su Raoul, se gli fosse capitato qualcosa di male a causa sua
non se lo sarebbe mai perdonato.
«Se ci avete spiati, allora saprete anche che ho rifiutato la
sua corte»
«Potresti averlo fatto per stuzzicare ulteriormente il suo
interesse, dopotutto è ricco, bello, potrebbe offrirti una
gloria maggiore di quella che avresti diventando una grande soprano.
Come pensi che suoni: Christine Viscontessa De Chagny?»
«Non c'è motivo di continuare questa conversazione
se credete che io sia solo una poco di buono che si preoccupa di
accaparrarsi un buon partito» replicò Christine
con voce spenta, avrebbe voluto sbattergli in faccia la sua
indignazione e la sua rabbia, ma quelle parole l'avevano ferita e il
rammarico aveva frenato la sua collera anche più della paura.
«Come posso fidarmi di voi, se non vi fidate né di
me né di nessun altro?!» aggiunse.
L'uomo la scrutò per un attimo con occhi sottili, non faceva
parte della sua natura chiedere scusa, ma non voleva che lei andasse
via, ancora una volta aveva sbagliato, aveva riversato su di lei la
rabbia che provava nei confronti del mondo e verso se stesso.
Erik si schiarì la voce e cercò le parole
più adatte per rabbonirla,
«Non ce l'ho con te, come potrei?»
mormorò mentre la voce si ingentiliva assumendo il tono
soave e carezzevole con il quale lei era abituata a sentirlo parlare.
«Conosci la solitudine, bambina mia, ma il destino
è stato più generoso con te di quanto lo sia
stato con me, un giorno tu potrai prendere la tua strada e mi spaventa,
perché ho sempre avuto bisogno di avere uno scopo per
mandare avanti la mia vita miserabile, e il mio scopo ora sei tu.
Sentirti cantare o anche solo osservarti da lontano mi da la
possibilità di accarezzare un sogno, quello che il mondo
possa assomigliarti».
Lasciò che la ragazza interpretasse quelle parole come
meglio credeva, ci sarebbe stato tempo per farle scoprire il vero senso
di ciò che voleva dirle. Dal canto suo Christine lo
osservò stupita e scosse il capo,
«Il mondo non deve somigliare a me...» disse con un
candore quasi infantile.
«Oh, invece dovrebbe perché così
com'è... così com'è, a te posso dirlo,
mi fa paura».
La giovane si sentì stringere il cuore in una morsa: un uomo
che sopravviveva grazie al timore che riusciva a incutere le stava
confessando di temere il mondo, quale triste destino era toccato a Erik?
«Cosa posso fare per voi?» gli domandò
semplicemente.
«Tanto per cominciare, non compatirmi» rispose
fissandola negli occhi, fece un passo avanti e le prese una mano tra se
le sue, per poi baciarla con delicatezza e trattenerla per qualche
secondo tra le dita. «E soprattutto ricorda, che da questo
momento, in nessun caso, dovrai avere paura di me».
Christine annuì vagamente con aria ammaliata, se avesse
saputo da dove proveniva la magia con cui Erik riusciva sempre a
incantarla forse avrebbe tentato di sottrarsi a quel sortilegio, ma era
così piacevole scoprire di aver affidato una parte della sua
anima a quell'uomo, anche se lui sembrava sospeso su un baratro a picco
sull'inferno.
La prese delicatamente per il braccio trascinandola verso di
sé, poi fece scattare nuovamente la molla del meccanismo che
muoveva lo specchio e il passaggio si chiuse alle loro spalle senza
nemmeno uno scricchiolio. Prese la fiaccola che aveva
poggiato in un anello di ferro fissato nel muro,
«Vieni, andiamo» disse richiamando Christine con un
cenno della mano, la ragazza si mosse verso di lui e insieme si
incamminarono verso i sotterranei.
Erik camminava davanti a passo svelto, alle sue spalle sentiva il
fruscio della gonna di Christine che lo seguiva. Nessuno dei due
parlava, lei per l'imbarazzo, lui per lo sciocco timore che quella
situazione potesse rivelarsi solo un sogno. Come nel mito di Orfeo ed
Euridice, temeva che se si fosse voltato a guardarla lei sarebbe
sparita.
Raggiunsero in silenzio la Dimora sul Lago, Erik aiutò
Christine a scendere dalla barca che li aveva portati fino alla riva
della grotta. La giovane osservò quel luogo insolito come se
lo vedesse per la prima volta, lui l'aveva già portata nella
sua casa, ma quella notte lei era troppo scossa da tutto quello che era
successo e troppo ammaliata dal suo canto per prestare attenzione a
ciò che aveva attorno. Questa volta si concesse di lanciare
una lenta occhiata alla grotta per osservarne i particolari, sulla
sinistra notò lo scrittoio ingombro di incarti e oggetti, le
pareti coperte da fogli con schizzi di scenografie e di costumi, gli
scaffali pieni di libri. Tutto disposto in un pittoresco disordine che
dava idea di una brulicante e continua energia vitale che si esprimeva
al meglio nell'arte più raffinata.
Erik notò lo sguardo incuriosito della ragazza e sorrise,
quasi grato che lei mostrasse interesse per il suo mondo.
Sollevare il capo e guardare quell'uomo negli occhi le parve uno sforzo
madornale, ma Christine si costrinse a ricambiare lo sguardo di Erik,
ogni volta che succedeva aveva la sensazione che ci fosse una
realtà devastante celata nell'esistenza stessa del suo
maestro, una marea che avrebbe potuto travolgere anche lei se non fosse
stata attenta.
«Vorrei solo che mi permetteste di conoscervi» gli
disse. «Forse è sciocco, ma io credevo che foste
davvero un Angelo, o quanto meno non credevo che foste...
questo».
Erik chinò il capo di lato e la ragazza sentì i
suoi occhi che la scrutavano dalla testa ai piedi, come se quello
sguardo tormentato avesse dita o persino artigli pronti a spogliarla di
ogni certezza e di ogni ragione. Lui avvertì la
soddisfazione increspargli le labbra in un accenno di sorriso, ma un
attimo dopo tornò serio notando la ritrosia della ragazza ad
esprimersi liberamente.
«Capisco, devi ancora prendere atto della
delusione» commentò l'uomo in tono inespressivo.
«Non vi sto dicendo che sono delusa» rispose lei.
«Diciamoci la verità, se fossi stato una presenza
eterea sarebbe stato più facile liberarti di me»
«Non ricominciate! State fraintendendo» .
Christine sospirò quasi sconcertata da quanto quell'uomo
fosse suscettibile e di quanto il suo umore potesse mutare per una
parola sbagliata, non le piaceva quell'atteggiamento di difesa che lui
stava adottando. Gli rivolse un timido sorriso per cercare di
stemperare la tensione,
«Sto solo cercando di dirvi che non mi dispiace sapere di
poter contare su di voi, anche se non avrei mai immaginato di avere un
amico così singolare» concluse.
Erik le lanciò una rapida occhiata per poi spostare lo
sguardo oltre la sua spalla, si rimproverò di essere stato
così aggressivo con lei ma era confuso, in parte
dall'emozione di poterle finalmente parlare come un uomo, in parte dal
fatto che non gli capitava praticamente mai di interagire con altre
persone, a parte Eloise. Non voleva rischiare di sbagliare e sprecare
quella preziosa occasione rendendosi insopportabile e l'inizio non era
stato dei migliori,
«Bene!» asserì ricambiando il sorriso.
«Sono contento che tu abbia capito che in me hai trovato un
amico leale».
Christine si sentì un po' più a suo agio e
cercò un argomento di conversazione per non cadere in un
silenzio che sarebbe stato certamente imbarazzante,
«Non siete preoccupato per le sorti del teatro? La signora
Giudicelli non tornerà a cantare per molto tempo»
disse.
«Il fatto che Carlotta ci privi della sua voce da gallina
condotta al macello mi sembra una benedizione, non una
preoccupazione»
«Non siate così cattivo»
«Non sono cattivo, sono realista. Non puoi negare che quella
donna abbia una voce orribile».
Christine arricciò il naso, non era abituata a sentire
qualcuno parlare in modo così diretto,
«È una voce sicuramente particolare, molto
potente» azzardò in tono diplomatico.
«Si dice stridula» la corresse Erik pronunciando
lentamente l'ultima parola, come per essere sicuro che la ragazza la
comprendesse.
«E va bene, avete ragione! Ma se è diventata la
primadonna del più importante teatro di Parigi ci
sarà un motivo, e ora sarà difficile senza di
lei».
L'uomo roteò gli occhi con finta aria di sopportazione
«Preferisco non conoscere il modo in cui Carlotta abbia
ottenuto quel posto nel mio teatro, ho il timore che sia ripugnante,
non voglio nemmeno sapere quale influente personaggio si sia lasciato
sedurre da quella specie di rospo in cambio del suo ruolo di
primadonna» commentò Erik sarcastico.
«Sul fatto che sarà difficile senza di lei, devo
darti torto, mia cara, noi adesso abbiamo te».
Christine scosse il capo con aria turbata,
«Ah no, non pensateci neanche!» esclamò
contrariata. «Io non sono ancora pronta, e nessuno
può saperlo meglio di voi che siete il mio maestro. Ho
ancora molto da imparare»
«È vero, allora sarà il caso di non
perdere altro tempo prezioso visto che ti ritroverai su quel
palcoscenico prima di quanto pensi» concluse Erik voltandosi
e avviandosi verso il suo organo.
«Io non voglio, assolutamente non posso accettare che voi mi
facciate diventare la nuova primadonna a suon di minacce»
protestò la ragazza.
L'uomo parve ignorare quel commento, si sedette sullo sgabello davanti
alla tastiera, facendo cadere dietro di sé la coda del suo
frac in modo da non sgualcirla rischiando di sedervisi sopra,
«Vieni qui, Christine» disse.
«Avete sentito cosa ho detto?» borbottò
lei.
Erik sospirò alzando gli occhi al cielo e imponendosi di non
perdere la pazienza,
«Mia piccola musa, non ci sarà bisogno di
minacciare proprio nessuno» commentò asciutto,
«Carlotta si è ritirata da qualche parte
per farsi passare il mal di gola e smaltire la vergogna e
l'umiliazione, quei due stupidi dei direttori sanno che sai cantare, ti
sceglieranno come sostituta senza nemmeno pensarci due volte e senza
bisogno che io li solleciti»
«Non dovreste parlare in modo così sprezzante
delle altre persone» protestò timidamente
Christine.
«Preferirei cantare invece di parlare, se vuoi essere
così gentile da avvicinarti»
«Volete darmi una lezione di canto?»
«È quello che faccio da dieci anni a questa parte,
perché ti stupisci tanto?».
La ragazza sbatté le palpebre, non credeva che Erik avrebbe
approfittato del loro incontro per cantare, ma poi si rese conto che
quella visita era solo l'inizio di un rapporto più stretto
tra lei e quell'uomo. Salì la piccola scalinata di pietra
che portava al rialzo dove era sistemato l'organo e rimase in piedi
accanto al suo Maestro.
«Hai una voce angelica Christine, lo sai bene, e in quanto al
canto io non ho più molto da insegnarti»
esordì Erik sfogliando le partiture che erano poggiate sul
leggio. «Devi solo tenerti in esercizio, ma c'è
un'altra capacità che dobbiamo affinare: la
recitazione»
«State dicendo che sono poco espressiva?»
domandò la giovane corrugando appena le sopracciglia.
«No, lo sei abbastanza, ma non basta, così come
non basta una bella voce se essa non trasmette niente. Potresti
eseguire un'aria della Traviata cantando alla perfezione tutte le note,
ma il pubblico non piangerà se la tua voce sarà
solo un bel suono privo di sentimento, se non lascerai che le persone
sentano tutta l'afflizione di Violetta».
Christine annuì, aveva capito perfettamente cosa voleva dire
Erik,
«E voi potreste insegnarmi?» domandò.
«Stavolta quello che posso fare io è molto poco,
posso indicarti quali emozioni devi trasmettere nell'eseguire un
determinato brano, ma il modo di renderle reali lo devi trovare
tu» rispose lui.
«Ma la recitazione è finzione...»
«Infatti, un'emozione espressa è reale solo se la
si prova veramente, ed è questo ciò che devi
imparare, riuscire a trovare dentro di te l'emozione giusta in modo da
poterla mostrare al pubblico mentre canti, e il modo di farlo lo puoi
scoprire solo tu».
Christine sorrise accorgendosi che avrebbe potuto ascoltare quell'uomo
parlare per ore e ore, la sua voce era un vero e proprio miracolo anche
quando non cantava, il suo tono cambiava con sfumature diverse a
seconda di ciò che provava, riuscendo a trasmettere in
maniera tangibile la più angosciante freddezza o la
più mite gentilezza.
«Temo che sarà difficile»
mormorò la ragazza.
«Un buon motivo per cominciare da subito» la
incitò Erik mostrandole una partitura del duetto tra Radames
e Aida, tratto dalla scena finale della monumentale opera di Giuseppe
Verdi «Conosci questo duetto?»
«Certo»
«Bene, cosa succede in questa scena?»
«Radames scopre Aida morente, e lei è afflitta, la
spiazza più l'idea di abbandonare il suo amore che la paura
di morire».
Erik dondolò il capo,
«Solo chi prova una grande passione può pensare
che abbandonare l'uomo che si ama sia una pena tanto grande da superare
anche la paura della morte» concluse. «Voglio
vedere tutta la tua appassionata disperazione»
«Credo che come inizio sia troppo difficile»
protestò debolmente la ragazza.
L'uomo si voltò verso di lei e la fulminò con lo
sguardo, non gli piaceva essere contraddetto,
«Cosa è difficile? Mostrare l'amore?»
«È un sentimento che non conosco...»
«È ora che cominci a immaginare come potrebbe
essere».
Erik non aggiunse altro, si voltò verso il suo organo,
chiuse gli occhi e cominciò a suonare. Christine aveva
sentito quel brano eseguito dal pianista dell'orchestra del teatro, era
un musicista molto valido, ma quella musica suonata da Erik era ancora
più meravigliosa, aveva un suono più fluido,
liscio e perfetto come un cielo sgombro da nuvole.
Morir! sì
pura e bella!
Morir per me d'amore...
degli anni tuoi nel fiore
fuggir la vita!
T'avea il cielo per l'amor creata,
ed io t'uccido per averti amata!
No, non morrai!
Troppo t'amai!
Troppo sei bella!
Erik cominciò a cantare e Christine temette persino di
respirare per paura di rompere quell'incanto, la voce dell'uomo le
entrava dentro sgombrandole la mente da ogni pensiero, creando nella
sua anima uno spazio di oblio nel quale non poteva esistere altro che
quel canto e il più languido senso di abbandono.
Senza smettere di cantare, lui le rivolse uno sguardo per assicurarsi
che stesse attenta, con un cenno del capo le indicò quando
attaccare, e Christine cominciò a cantare.
Vedi?... di morte
l'angelo
radiante a noi
s'appressa...
ne adduce eterni gaudii
sovra i suoi vanni d'or.
Già veggo il
ciel dischiudersi...
ivi ogni affanno cessa...
ivi comincia l'estasi
d'un immortale amor.
La voce della fanciulla risultò amplificata nello spazio
ampio della grotta, ogni nota che emetteva risuonava cristallina e
perfetta. Lei scrutava il volto di Erik, era la prima volta che poteva
osservare il suo maestro mentre cantava per lei, e sperava di poter
scorgere nella sua espressione qualche cenno di approvazione.
«Basta così per oggi» disse Erik dopo
aver riprovato quello stesso duetto diverse volte. «Direi che
non ci siamo».
Christine corrugò la fronte con aria risentita,
«Ho stonato?» domandò
«Niente affatto, sei stata perfetta nel canto, mi riferisco
all'espressività, manca ancora molto per poter parlare di un
buon livello» rispose Erik severo.
La ragazza sospirò
«Ma sono certo che con un po' di esercizio imparerai
presto» le concesse lui per risollevarle il morale.
«Hai talento e le tue doti verranno fuori». Poi si
alzò dallo sgabello e si fermò a osservare la
ragazza.
«Se lo dite voi, mi fido» rispose lei, calcando
volutamente l'ultima parola.
«A proposito di fiducia, voglio mostrarti una cosa, bambina
mia» aggiunse l'uomo prendendola per mano e conducendola
dinnanzi a uno degli specchi che erano poggiati sulla parete accanto
allo scrittorio, la superficie riflettente era celata da un drappo di
velluto che Erik non rimosse, si limitò a infilare la mano
sotto la stoffa cercando con le dita il tasto che faceva scattare il
meccanismo di apertura. Lo specchio ruotò su se stesso, come
succedeva a quello del camerino, e rivelò un altro cunicolo
di pietra più stretto di quello che conduceva ai sotterranei.
«Questa è l'unica via che mette in comunicazione
la mia casa con l'esterno del teatro,»
spiegò, «conduce a una piccola uscita
che da su Rue Scribe, la strada che costeggia l'Opera, è
l'unica via libera da tranelli e pericoli»
«Perché me la state mostrando?»
domandò Christine.
«Perché voglio che tu sappia come arrivare da me
se ce ne fosse bisogno».
L'uomo guardò la fanciulla negli occhi per un attimo poi
prese una lampada ad olio che era poggiata su una mensola e si
addentrò nello stretto cunicolo,
«È meglio che tu mi dia la mano, il percorso
è scivoloso, ci sono gradini in cui si potrebbe inciampare
se non si conosce la strada» le disse in tono neutro,
avvolgendo delicatamente le dita di Christine con le proprie e
avvertendo un sensazione di calore e tenerezza quando lei
ricambiò la stretta.
Mentre camminavano nell'angusto corridoio Erik spiegò a
Christine che quel cunicolo spuntava in una ristretta ala del teatro
che era stata murata durante i lavori di restauro, per questo non c'era
pericolo che qualcuno lo scoprisse, nel piccolo stanzino a
cui si giungeva c'era una finestra bassa che affacciava sulla strada.
«Sai è buffo,» disse Erik rallentando in
prossimità di uno scalino scivoloso, «è
la finestra da cui sono entrato in teatro la prima volta, tanti anni
fa»
«Siete entrato da una finestra?» domandò
la ragazza perplessa.
«Oh sì, un giorno ti racconterò la mia
storia, ma non ora».
Uno squittio acuto fece eco nel corridoio, Erik puntò la
lampada verso il pavimento illuminando un topo che camminava nella loro
direzione, Christine lanciò un gridolino e si strinse
attorno al braccio dell'uomo, mentre la bestiola scappava via
spaventata dal rumore e dalla luce. Erik trasalì a quel
contatto inaspettato e improvviso, ebbe bisogno di prendere un grosso
respiro per calmarsi e resistere all'impulso di prendere la ragazza tra
le braccia e baciarla.
«È andato via» le disse per farla
staccare da lui. «Non capisco perché la gente
abbia paura dei topi, sono talmente tanto più piccoli di
noi!»
«Sono sporchi... e sono così brutti»
protestò la ragazza.
«Ah già, la gente teme la bruttezza, come se
ciò che è guasto fuori debba esserlo
necessariamente anche dentro» mormorò
Erik con amarezza.
«No, perdonatemi, non intendevo dire...»
«Non importa, vieni, proseguiamo».
Dopo aver camminato a lungo raggiunsero una piccola stanza con le
pareti decorate da vecchi affreschi quasi del tutto irriconoscibili
perché sbiaditi o deturpati dall'umidità, sulla
destra c'era la finestra di cui parlava Erik, non era difficile da
scavalcare e si apriva a livello della strada, i vetri erano spessi e
opachi, in modo che da fuori non si riuscisse a vedere dentro.
«Basta controllare che non arrivi nessuno e sgusciare
fuori» spiegò l'uomo. « È il
sistema che utilizzo io per entrare e uscire dal teatro, di notte
generalmente».
Christine ebbe soggezione di chiedergli dove andasse e cosa facesse,
forse come molti uomini liberi frequentava delle case di appuntamento o
posti del genere, e se così era lei non voleva saperlo.
«Grazie per avermela mostrata» si limitò
a dire.
Lui accennò un sorriso,
«Bene, spero che tu ne faccia uso» rispose.
«È un invito?»
«Sarai sempre un ospite gradita per me» concluse
lui. «Ora è meglio che tu torni, non voglio che
qualcuno si insospettisca se non ti trova».
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Capitolo reinserito il 20\12\2011
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Capitolo 7 *** Il punto di partenza ***
CAPITOLO SESTO
Il punto di
partenza
Christine camminava verso gli alloggi delle ballerine senza nemmeno
guardare dove metteva i piedi. Nella sua mente si rincorrevano le
immagini di quell'incontro che si era appena concluso, e i suoi
pensieri raschiavano il fondo di ogni istante, di ogni sensazione alla
ricerca di un motivo per sentirsi in colpa, per pentirsi di quello che
era successo, per vergognarsi di ciò che aveva provato.
Cosa era successo? Cosa aveva provato? Era difficile tradurlo in
parole. Quel senso di paura e smarrimento era tornato a impadronirsi di
lei, mentre si domandava come poteva provare cose simili per quell'uomo
che viveva un'esistenza tanto assurda? Come poteva averlo perdonato per
il gesto scellerato che aveva compiuto solo pochi giorni prima? Le
sembrava di aver smarrito la ragione, quegli occhi e quella voce gliela
avevano strappata via, come un vestito smesso e logoro, come se il buon
senso fosse solo un'inutile appendice del cuore che ne intralcia il
battito. Perché in quel momento in cui si rendeva conto di
non essere affatto razionale, Christine poteva sentire il suo cuore
accelerare, libero di emozionarsi davanti alla vastità di un
mondo nuovo tutto da esplorare.
Erik si era mostrato un uomo molto duro, inizialmente le era parso
talmente aggressivo che lei aveva creduto che sarebbe stato inutile
tentare di intavolare una conversazione civile con lui, poi
però la situazione era migliorata e lui si era mostrato
gentile, quasi affettuoso. Aveva un fascino così magnetico
da apparire pericoloso, usava parole che avrebbero trascinato in cielo
il cuore di ogni donna...
Christine sbuffò, imponendosi di abbandonare quelle
fantasticherie, lei era solo una ragazzina e Erik era un uomo, le sue
parole erano certo solo un modo di mostrarsi cortese, di lusingarla per
farsi perdonare i suoi eccessi di collera.
La giovane si sistemò una ciocca di capelli dietro
l'orecchio pensando che il fatto che lei subisse così
pesantemente il fascino del suo maestro fosse dovuto unicamente al
prestigio che gli riconosceva. Cercò di convincersene per
tranquillizzarsi, per mostrare a se stessa che non era vero che aveva
smarrito la ragione, che era ancora la brava fanciulla assennata che
era sempre stata. Ma c'era qualcosa di così prepotentemente
bello in lui, qualcosa che andava al di là della sua voce,
dei suoi modi ammalianti, o del suo aspetto elegante e curato, qualcosa
che avrebbe reso insignificante anche ciò che era celato da
quella maschera: era il modo in cui lui la guardava, quell'espressione
un po' infantile che lei gli aveva visto osservandolo senza che lui se
ne accorgesse, quando la fissava intensamente con quell'aria da
fanciullo sorpreso e la bocca leggermente dischiusa a metà
tra un sorriso e un moto di stupore.
«Oddio, sto proprio impazzendo...» si disse
Christine avvertendo una strana sensazione di leggerezza per poi
scontrarsi un attimo dopo con la fredda realtà del pavimento
di marmo.
Senza nemmeno sapere come la ragazza si ritrovò riversa a
terra, vide una sagoma in piedi davanti a lei e le ci volle qualche
secondo per riprendersi.
«Oh mademoiselle Daae, mi dispiace!» disse una voce
mortificata.
Christine sentì una mano posarsi gentilmente sul sua braccio
per aiutarla a rialzarsi
«No, è colpa mia, ero distratta» rispose
in tono di scusa fissando la persona con cui si era scontrata: un
giovane uomo dall'aria piuttosto attraente che la osservava come se
temesse di trovarle addosso qualche terribile lesione.
«Non mi sono fatta niente» aggiunse lei con un
sorriso gentile.
«Meno male» rispose lui ricambiando cordialmente il
sorriso.
«Ma, ci conosciamo monsieur? Avete un'aria
familiare»
«Ci saremo incontrati da qualche parte in teatro. Mi chiamo
Alexandre Dubois, abbiamo un amico in comune, il visconte de
Chagny».
Christine tentò di reprimere un moto di sorpresa, certamente
doveva averlo già visto in teatro, ma era dunque lui il
giornalista che indagava sulla vicenda del Fantasma dell'Opera.
Sembrava un giovane così a modo con quell'aria pulita da
ragazzino, anche se i suoi occhi tradivano un carattere estremamente
intelligente.
«Ah siete un amico di Raoul, piacere di conoscervi»
gli disse.
«Il piacere è mio, mademoiselle»
concluse lui con un accenno di inchino. «Ora, mi rincresce,
ma avrei un appuntamento, anche se confesso che preferirei
tardare».
La ragazza sorrise imbarazzata a quella sottile galanteria e si
scostò per far passare Alexandre,
«Buona giornata, monsieur» gli disse.
«Altrettanto» concluse lui allontanandosi.
Dopo alcuni passi Alexandre si voltò a spiare la sagoma
della fanciulla che voltava l'angolo del corridoio,
«Ora capisco molte cose» pensò tra
sé e sé.
Christine tornò nella sua stanza e si sedette sul letto,
prese un libro dal cassetto del comodino e pensò
di distrarsi con la lettura.
In quei giorni non c'erano prove da fare e tutti si chiedevano, con un
certa ansia, quando il teatro avrebbe ripreso le sue normali
attività, quando i direttori avrebbero deciso di allestire
il prossimo spettacolo. Sembravano tutti desiderosi di lasciarsi alle
spalle quella terribile parentesi e ricominciare a lavorare, come per
sincerarsi che gli avvenimenti di qualche sera prima fossero stati solo
una sorta di brutto sogno, un incubo che si sarebbe dileguato non
appena l'Opera Populaire fosse tornata a far brillare le proprie luci e
ad accogliere il pubblico con i suoi velluti e il suo sfarzo.
La giovane si accorse di aver letto per dieci volte di seguito la prima
riga della pagina, incapace di trovare la concentrazione adatta per
immergersi nella lettura del suo romanzo.
«Christine!» la voce di Meg arrivò
squillante da dietro la porta, accompagnata da una sonora bussata.
«Entra pure» rispose la giovane.
Meg Giry, l'unica figlia di Eloise, entrò e si
andò a sedere sul letto accanto a lei. Le due ragazze erano
coetanee, cresciute come sorelle fin da quando avevano sette anni.
Christine aveva sempre invidiato alla sua amica l'incredibile
agilità e la grazia angelica di cui Meg era dotata e che la
rendevano una ballerina perfetta, come se fosse venuta al mondo
esclusivamente per danzare. Era certo destinata a diventare una grande
etoille un giorno, con quel suo volto delicato e quel suo corpo minuto
e flessuoso che si adattava con una sorprendente naturalezza a ogni
movimento, seguendo il ritmo della musica come se fosse una corda di
violino che vibrava in accordo con la nota che produceva.
«Mi annoio terribilmente» borbottò Meg
appoggiandosi con i gomiti al davanzale e gettando un'occhiata sulla
piazza del teatro che si intravedeva dalla finestra rotonda accanto al
letto.
«Anche io...» mentì Christine con aria
assente.
«Eh, vorrei avere anche io qualche appuntamento segreto a cui
recarmi» commentò la ballerina con un sorrisetto
malizioso.
Christine sussultò guardandola sgomenta,
«C... come dici?» chiese con un filo di voce.
«Parlo di Josphine» rispose Meg indicando una
piccola figura ammantata di velluto verde che si muoveva rapida verso
il margine della piazza.
Josphine Villette, figlia di un noto sarto di Parigi, era la
più giovane ballerina del collegio, uno scricciolo di
quindici anni, dalla bellezza acerba e lo sguardo innocente.
«Ma dove va?» chiese Christine riconoscendo la sua
compagna, sollevata dal fatto che il commento di Meg non fosse rivolto
a lei.
La ragazza bionda ridacchiò
«Non lo sai?» disse. «Josephine si
è fidanzata di nascosto con il garzone del liutaio che si
occupa degli strumenti dell'orchestra, quel ragazzo biondo che viene
spesso in teatro con il suo padrone. Lei approfitta di ogni momento
libero per uscire e incontrarsi con lui».
L'altra fanciulla annuì fingendosi interessata, anche se non
le era mai importato molto dei pettegolezzi che riguardavano le sue
compagne. Quell'ambiente era pieno di chiacchiere malevole sulle
relazioni delle ballerine più grandi con ricchi signori del
pubblico o sui molesti corteggiamenti che a volte le ragazze del
collegio subivano dai macchinisti, dagli orchestrali o da altri uomini
che lavoravano nel teatro, e Christine era dell'idea che ognuno avesse
diritto ai proprio segreti, anche a intrattenere rapporti sentimentali
poco consoni alla morale, se questo derivava da una libera scelta. Per
ciò che la riguardava, si era sempre detta che i sani
principi con cui l'avevano educata l'avrebbero tenuta lontana da quel
genere di situazioni incresciose che davano adito a fastidiose dicerie.
Era convinta che una donna potesse amare un solo uomo, che questi
sarebbe stato la persona alla quale si sarebbe dovuta legare e con il
quale avrebbe dovuto dividere la propria esistenza, con
serenità e rispetto reciproco. E pensava che fosse giusto
che un amore sano e completo conducesse al matrimonio, requisito
indispensabile per vivere pienamente l'unione con il proprio
compagno.
*
Raoul si portò una mano alla bocca per nascondere l'ennesimo
sbadiglio che non era riuscito a trattenere. Sembrava davvero essere la
persona meno interessata a tutta quella faccenda.
Balise Bertrand era seduto dietro la scrivania nell'ufficio dei
direttori e leggeva con aria attenta le missive che il Fantasma
dell'Opera aveva inviato ai due impresari. Alexandre sedeva di fronte a
lui e lo scrutava con uno sguardo indagatore, mentre Andrè e
Firmin erano poggiati con le spalle al muro e attendevano in silenzio e
con il fiato sospeso il responso dell'investigatore, come se dalla
lettura di quelle missive egli potesse trovare la soluzione a tutti i
loro problemi.
Bertrand lasciò cadere i fogli sul piano della scrivania e
li fece scivolare verso il giornalista,
«Date un'occhiata Alexandre e ditemi cosa ne
pensate» gli disse.
Il ragazzo lesse attentamente le lettere e guardò l'uomo che
gli stava davanti che lo scrutava come se fosse uno scolaro da valutare,
«È sicuramente una persona colta, qualcuno che
è abituato a scrivere» concluse. «Non ci
sono errori ortografici, la calligrafia è fluida»
«Aggiungerei che la carta è di ottima
qualità, se ne deduce che è qualcuno che proviene
da una condizione agiata».
Andrè sospirò con la sua consueta espressione da
malato grave,
«E io che credevo che avessimo a che fare con uno zotico che
voleva solo spillarci del denaro» borbottò.
«Oh no, signori, abbiamo a che fare con qualcuno che sa il
fatto suo» disse Bertrand.
«Da come si muove sembra quasi che questo Fantasma viva nel
teatro» aggiunse Alexandre.
«Vivere nel teatro? Suvvia, è una
sciocchezza!» esclamò Raoul.
«Beh, se non ci vive è di sicuro qualcuno che lo
conosce molto bene» osservò l'investigatore.
«Un macchinista, uno scenografo» suggerì
Firmin.
«Potrebbe essere, ma un manovale non scrive lettere
così accurate, alcuni sono persino analfabeti»
osservò il giornalista.
I cinque uomini restarono in silenzio per qualche secondo, ognuno di
loro perso nelle proprie riflessioni, cercando di trarre qualche
conclusione sensata dai pochi indizi che avevano a disposizione.
«Ad ogni modo,» intervenne Raoul, strappando i suoi
interlocutori ai loro pensieri, «da qualche parte questa
indagine dovrà pur cominciare, signori, prima iniziate prima
finiremo»
«Il più, visconte, è capire da dove
cominciare, con cosa cominciare» questionò Firmin
aggrottando le folte sopracciglia.
Tutti spostarono lo sguardo verso Bertrand come se gli stessero
rivolgendo una domanda precisa. L'uomo non rispose, prese un
portatabacco di metallo smaltato dalla tasca interna della giacca e ne
estrasse un sigaro, tagliò la punta e lo accese con un
fiammifero, sollevando piccoli sbuffi di fumo grigio che riempirono
l'aria di un odore acre.
«Propongo di iniziare da Christine Daae» disse
lapidario dopo le prime boccate.
Raoul ebbe un sussulto, poi guardò Alexandre che
annuì nella sua direzione con un impercettibile cenno del
capo.
«Perché mai pensate di partire da mademoiselle
Daae?» domandò il visconte cercando di mostrarsi
disinteressato, ma la sua voce tradì un'agitazione che non
sfuggì a Bertrand il quale fece un altro paio di tirate dal
suo sigaro e scrutò il giovane con aria perplessa.
«Mi sembra ovvio che il Fantasma abbia mostrato un palese
interesse per mademoiselle Daae» disse. «Forse non
lo avete notato, visconte?».
Raoul sorrise con una specie di smorfia, infastidito dal tono vagamente
canzonatorio che aveva usato Bertrand.
«Cosa pensate di mademoiselle Daae, riguardo a questa
storia?» chiese Alexandre, prima che fosse il suo amico a
fare quella domanda finendo per esporsi ancora di più.
«Non voglio farmi nessun parere al riguardo se prima non
avrò avuto il piacere di parlare con lei. Voi piuttosto,
cosa ne dite Alexandre?».
Il giornalista scrollò le spalle sentendosi addosso lo
sguardo ansioso del visconte,
«Credo che mademoiselle Daae sia una fanciulla troppo onesta
per essere immischiata in questa losca storia, tuttavia se il
Fantasma ha manifestato così tanto interesse per lei e per
la sua carriera è giusto indagare» concluse
guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Raoul.
«Molto bene. Vedete Alexandre, la mia esperienza
professionale mostra che spesso le apparenze ingannano»
commentò Bertrand.
«Tuttavia,» aggiunse il ragazzo,
«dobbiamo considerare la strana dedizione che il Fantasma ha
mostrato verso il prestigio del teatro, non escludo che il suo
interesse per Christine Daae sia una questione relativa alle sue
capacità artistiche»
«E se la signora Giudicelli avesse ragione?» si
intromise Firmin. «Se questo Fantasma fosse davvero uno dei
suoi detrattori... se fosse l'amante di Christine Daae?».
A quell'affermazione Raoul sentì una vampata di collera
accendergli le guance, strinse i pugni e aprì la bocca per
rispondere per le rime a quella subdola insinuazione ma Alexandre lo
trattenne con uno sguardo severo.
«Signori miei, non c'è bisogno di volare
così in alto con la fantasia» disse il giornalista
«Mademoiselle Daae non mi sembra il genere di ragazza da
avere frequentazioni così pericolose»
«Come potete pensare che mademoiselle Daae sia in combutta
con un assassino?!» esclamò Raoul.
«Ammesso che esista un assassino in questo teatro».
Bertrand spense il sigaro in un posacenere di alabastro e
tossicchiò,
«Se anche non si trattasse di un assassino si tratta pur
sempre di un uomo che scrive lettere minatorie per ottenere che il
teatro sia diretto come egli desidera»
«Il nostro teatro!» precisò
Andrè incrociando le braccia sul petto con una smorfia
infantile.
Raoul sbuffò esasperato.
«D'accordo, quello che il visconte sta forse cercando di dire
è che non dovremmo partire prevenuti riguardo a mademoiselle
Daae» si intromise Alexandre in tono conciliante.
«La vostra esperienza da poliziotto dovrebbe avervi
insegnato, Bertrand, che se ci si impunta su un solo elemento si corre
il rischio di ignorarne altri che potrebbero essere più
significativi»
«Non mi sto impuntando, miei cari signori, qui l'unico che
sembra impuntato su mademoiselle Daae è il nostro visconte,
se mi è consentito l'ardire» borbottò
l'investigatore con una risatina ironica. Ogni volta che sorrideva le
labbra diventavano sottili e si atteggiavano in un ghigno che appariva
quasi malefico su quel suo volto ossuto.
Raoul si sforzò di sorridere per fingere che
quell'affermazione non lo avesse toccato.
«Comunque sia noi abbiamo uno spettacolo da allestire, il
teatro non può rimanere chiuso ancora a lungo,
c'è il personale da stipendiare e non voglio rischiare di
indebitarmi» questionò Firmin con aria seriosa.
«Cosa suggerite di fare se il Fantasma dovesse tornare a
farsi sentire?» chiese Andrè guardando
l'investigatore che si era alzato dalla sedia per indossare il cappotto.
«Suggerisco di assecondare tutte le sue richieste riguardo
alla gestione del teatro, tranne quella di pagargli lo stipendio,
lasciarlo senza fondi potrebbe essere un modo per metterlo con le
spalle al muro e costringerlo ad esporsi» concluse Bertrand.
«Ottimo, ottimo!» esclamarono quasi in coro i due
impresari.
«In quanto a mademoiselle Daae, quanto prima parleremo con
lei» aggiunse l'ispettore. «Ma voglio parlare
comunque con tutti quelli che lavorano in questo teatro»
«A proposito di Christine Daae, penso che ora che la signora
Giudicelli è malata sarà lei la nostra primadonna
per il prossimo spettacolo» disse Firmin immaginando
già il teatro pieno visto che il pubblico aveva mostrato un
alto tasso di gradimento per la giovane soprano.
«Beh, non è male» borbottò
Bertrand infilando un paio di guanti di pelle marrone. «Il
Fantasma potrebbe farsi vedere durante la sua esibizione».
Gli uomini si stavano salutando quando furono interrotti da una bussata
alla porta. Una delle maschere del teatro si affacciò
sull'uscio della porta,
«Perdonate l'intrusione» disse in tono
reverenziale, «ma c'è qui una domestica di
monsieur Dubois, ha detto di dire a monsieur che sua madre sta poco
bene e che sarebbe meglio se lui tornasse a casa»
«Stavo giusto per andarmene» disse il ragazzo con
espressione allarmata, affrettandosi ad uscire.
Bertrand rincorse il giornalista fino allo scalone di marmo del foyer e
lo afferrò per un braccio, il ragazzo si voltò a
guardarlo con espressione contrariata,
«Avrei fretta di tornare a casa; come avete avuto modo di
sentire, mia madre ha bisogno di me» borbottò
liberandosi dalla presa dell'uomo con uno strattone.
«Naturalmente» disse Bertrand in tono mellifluo.
«Volevo solo che sapeste che non lascerò che voi
mi intralciate»
«Non ho nessuna intenzione di farlo, sono desideroso di
venire a capo di questa faccenda almeno quanto voi»
«Sì, ma non vi permetterò di
interferire con le mie indagini solo perché una delle fonti
più significative è la ragazza di cui
è invaghito il vostro amico visconte».
Alexandre fissò il suo interlocutore con aria sprezzante poi
gli diede le spalle e si avviò a rapidi passi verso
l'uscita.
Il giornalista salì rapidamente su una carrozza,
indicò il suo indirizzo al cocchiere e gli chiese di
sbrigarsi. Non era particolarmente preoccupato, sapeva cosa era
successo: talvolta a sua madre capitava di avere degli incubi e
svegliarsi in preda a un attacco di panico. Non erano crisi
particolarmente frequenti, ma erano normali per il tipo di disturbo che
affliggeva madame Ginette.
Il ragazzo fu grato al cielo che almeno sua madre fosse stata
così coscienziosa da trasferirsi a Parigi piuttosto che
rimanere da sola nella loro cittadina di origine.
*
«Maledetto idiota!» ringhiò Erik
stringendo i pugni per poi mettersi a picchiettare nervosamente con le
dita sul piano del tavolo.
Madame Giry lo osservò in silenzio per qualche minuto, lo
aveva trovato nella sua stanza dopo cena e le era parso davvero
furioso, lo aveva lasciato sfogare per un po', lasciando che se la
prendesse con Raoul De Chagny come se quel giovane fosse la causa di
tutti i suoi mali, raccontandole del colloquio che c'era stato
nell'ufficio dei direttori e che lui era riuscito a spiare.
La donna si sedette sul bordo del letto e sospirò, sapeva
che l'unico vero motivo per cui il Fantasma ce l'avesse con quel
giovane era dovuto al fatto che lui avesse corteggiato Christine.
«Non dovresti prendertela con il visconte»
azzardò guardandolo negli occhi. Erik le restituì
un'occhiataccia e sbuffò.
«Se Bertrand sembra così deciso ad accanirsi su
Christine non è stata certo colpa sua, non è
stato certo il visconte a parlare continuamente di lei nelle missive ai
direttori, sei stato tu, ed è a te che stanno dando la
caccia» concluse Eloise in tono pacato ma fermo.
Erik corrugò la fronte con aria adirata e aprì la
bocca come per parlare, ma un attimo dopo si rese conto di non aver
nulla da controbattere: Eloise aveva ragione. Non avrebbe mai fatto
niente a discapito di Christine, eppure era riuscito a metterla nei
guai, ma di certo lui non poteva immaginare che i direttori avrebbero
avuto l'ardire di mettergli qualcuno alle costole!
Madame Giry si concesse un piccolo ghigno di soddisfazione per poi
tornare seria,
«Per quel che riguarda l'investigatore e il giornalista,
posso conoscere i tuoi progetti in proposito?» chiese.
«Non ne ho, non ho nessun progetto, te l'ho già
detto. Non mi resta che aspettare gli eventi»
borbottò l'uomo.
«Oggi Christine si è assentata per quasi tutta la
mattinata, e qualcosa mi dice che non era in chiesa a pregare»
«Era con me. Qualcosa in contrario?»
«No, ma nemmeno su di lei hai fatto progetti?»
«Ho sempre avuto un solo progetto riguardo a Christine: farla
diventare una stella del canto»
«Mi riferivo a progetti di natura più
personale» precisò madame Giry.
«Un giorno mi amerà Eloise, sento che
sarà così» rispose Erik distogliendo lo
sguardo e fissando il vuoto come se stesse inseguendo con la mente
chissà quale idea.
«E se ti sbagliassi?» domandò la donna.
«Non mi sbaglio, non può essere
altrimenti!» sentenziò lui in tono deciso.
«Erik, in nome di Dio, ascoltami»
«A Dio non interessa di me, l'ha dimostrato in più
di un'occasione mi pare»
«Ascoltami» ripeté madame Giry con un
sospiro. «Sai meglio di me quanto Christine sia adorabile,
è una ragazza molto dolce e malgrado tutto ti sarai
certamente già guadagnato il suo affetto... ma...»
«Ma cosa?» la incitò Erik con aria di
sfida.
«Ma l'affetto e l'amore sono due cose differenti, non puoi
dare per scontato che lei ti ami perché sei stato il suo
maestro, non puoi pensare che lei ti appartenga di diritto
perché è il mezzo che usi per far arrivare al
pubblico la tua arte. Christine
non è un violino!».
Erik fissò la sua interlocutrice con uno sguardo
indefinibile ma così penetrante che sembrò
trafiggerle l'anima,
«Lei mi appartiene Eloise, e se avessi torto su una cosa
così indiscutibile significherebbe che sono pazzo, e allora
si che ci sarebbe da avere paura» concluse in tono grave.
___________________________________________________________________________________
Amy, è sempre un piacere leggere i tuoi commenti. Bhe in
realtà Alexandre è il buono buonista e anche con
una certa propensione al martirio (poi capirete perchè), ma
si, i suoi segreti e i suoi scheletri nell'armadio ce li ha. In
compenso Bertrand non è "brutto", cioè volevo
dare l'idea di qualcuno che sembrasse sgradevole per il modo di porsi
più che per l'aspetto (per inciso, Bertrand lo immagino
somigliante a Dofoe nel primo Spiderman)
Miss Lovvet grazie per la recensione e per i complimenti... e
per aver avuto la pazienza di leggere anche l'altra fanfiction. Si, il
rifiuto di Christine a Raoul è stata una cosa
divertentissima da scrivere *me mette su un ghigno sadico*
Ci si legge lunedì.
I remain, gentlemen,
your obedient servant
Capitolo reinserito il 20\12\2011
|
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Capitolo 8 *** La nuova primadonna ***
Chiedo
scusa per il terribile ritardo nel postare ma sono stata fuori
città er un pò a causa di un lutto in famiglia.
Se non ci saranno altri intoppi, e spero proprio di no,
prometto che tornerò a postare regolarmente ogni
lunedì.
Ma veniamo a noi...
Grazie a chi ha letto e a chi ha recensito.
@ theanglesee69: mi permetto di gongolare un pò
per i tuoi commenti incoraggianti. Mi fa piacere che il mio Erik
"funzioni", se amate il Fantasma dell'Opera sapete bene quanto me che
è un personaggio impossibile XD e Christine bhe, il senso di
questa storia è in parte proprio il descrivere come l'amore
trasformi una ragazzina in una donna. Spero che anche il prosieguo sia
di tuo gradimento.
@Amy: comincio con il puntualizzare che i adoro i tuoi
commenti "prolissi" e che Carlotta c'è! C'è
sempre nelle mie storie e prima o poi spunta fuori in un modo o
nell'altro, promesso. Anche a me piace Erik che suona l'organo, ma
visto che nel film non gli hanno fatto suonare il violino e nel libro
invece si ogni tanto butto il violino di mezzo per parconditio XD
Contenta che ti piaccia "Berty" (lo chiamo
cosìnell'intimità perchè, confesso il
mio narcisismo, piace anche a me). Alex andrà parecchio...
appesantito da un pò di zucchero qua e là ma mai
pesante come una torta paradiso, al massimo come una pasta sfoglia (io
lo avevo immaginato come Alex O'Loughlin, se hai visto il telefilm
Moonlight.... ma ad ognuno la propria fantasia e la propria
immaginazione, quindi se vuoi Cillian Murphy che Cillian Murphy sia!).
Perdona la metafora pasticcera... sarà che è ora
di cena.
Well, buona lettura.
I remain, gentlemen,
your obedient servant
*******
CAPITOLO SETTIMO
La nuova primadonna
Erano trascorsi due giorni di calma piatta, dopodiché i
direttori dell'Opera avevano deciso di convocare il balletto e la
compagnia teatrale per cominciare le prove del nuovo spettacolo che
intendevano allestire.
Alle tre del pomeriggio tutti gli artisti del teatro erano sul palco
pronti a ricevere le direttive di Andrè e Firmin. I due
impresari si presentarono vestiti di tutto punto, accompagnati dal
visconte De Chagny, da Alexandre Dubois e da monsieur Bertrand. Le
ballerine, sistemate in fila accanto al fondale di scena, osservavano
il giovane giornalista con aria interessata e civettuola, ma se lo
sguardo di una di loro incrociava per sbaglio quello di
Bertrand, esse volgevano il viso altrove con aria infastidita.
«Dunque è quello l'investigatore che
indagherà sul Fantasma dell'Opera»
mormorò Meg a Christine.
La giovane si sporse leggermente per osservare l'uomo sconosciuto e
notò che lui la stava guardando fissa da alcuni secondi. Con
aria imbarazzata si nascose dietro la sua compagna, come per sottrarsi
allo sguardo indagatore e freddo di Bertrand.
«Oh, c'è anche Raoul, chissà se ha
ancora il cuore spezzato dal tuo rifiuto» aggiunse Meg in
tono canzonatorio.
«Ah, ti prego, smettila» squittì
Christine arrossendo.
«Fate silenzio voi due!» le rimproverò
madame Giry mentre Firmin si schiariva la voce per prendere parola.
«Dunque, come sapete il nostro teatro è stato
funestato da un terribile incidente» esordì il
direttore sondando con lo sguardo tutti i presenti per accertarsi che
fossero convinti delle sue parole. «Temo purtroppo che
l'accaduto si sia rivelato una pessima pubblicità per
l'Opera Populaire, è per questo che abbiamo deciso di
allestire un nuovo spettacolo per ridare prestigio all'unico vero
tempio della musica di Parigi!».
Questo discorso strappò un discreto applauso ai presenti e
Andrè si fece avanti, affiancandosi al suo socio per
prendere parola,
«La stagione teatrale deve continuare» disse,
«dunque abbiamo deciso di allestire il prossimo spettacolo
che avevamo in programma. Si tratta dell'Otello del maestro Giuseppe
Verdi. Oggi stesso la nostra sartoria comincerà a lavorare
ai costumi e domani cominceremo le prove con i cantanti e con
l'orchestra. Lo spettacolo andrà in scena nella settimana
tra Natale e Capodanno, prima del consueto ballo per i festeggiamenti
dell'anno nuovo, pensavamo che due eventi così vicini
potrebbero riportare in auge il prestigio del teatro».
Un leggero mormorio si levò dai presenti, tutti si
chiedevano come avrebbero allestito un'opera lirica ora che la
primadonna era assente, ma per tutti quelli che lavoravano all'Opera
appariva evidente la necessità di mettere in scena un nuovo
spettacolo.
«Per la parte di Otello ci affideremo al nostro signor
Piangi» annunciò Firmin. Il corpulento tenore fece
qualche passo avanti, inchinandosi goffamente nel ricevere un applauso
di rito,
«Per quel che riguarda Desdemona, vista la assenza della
signora Giudicelli alla quale auguriamo una pronta guarigione, avevamo
pensato di affidare il ruolo della protagonista a mademoiselle
Daae» aggiunse Andrè con un sorriso gioviale.
Christine ebbe un sussulto quando le sue compagne l'applaudirono con
entusiasmo e Meg l'abbracciò. La ragazza sorrise timidamente
in direzione dei due impresari, poi arrossì per l'imbarazzo
e preferì restare dov'era, senza farsi avanti per ricevere
congratulazioni e altri applausi.
Istintivamente si voltò a guardare dietro di lei, come se
sentisse addosso lo sguardo fiero di due occhi che la spiavano celati
da qualche parte dietro le quinte: di certo Erik era lì e
aveva sentito tutto. Era accaduto esattamente ciò che lui
aveva previsto, ma l'idea che tutti, compreso il suo maestro, ora si
aspettassero grandi cose da lei, fece provare alla ragazza una
spiacevole sensazione di disagio e ancora una volta Christine
pensò di non essere all'altezza della situazione e che le
aspettative che tutti sembravano aver riposto in lei avrebbero potuto
essere disattese.
I direttori elencarono i nomi degli altri artisti che avrebbero preso
parte alla rappresentazione, poi li pregarono di raggiungere la
sartoria del teatro dove i costumisti li attendevano per mettersi a
lavoro.
«Congratulazioni, Christine!» esclamò
Raoul avvicinandosi alla giovane e posandole una mano sulla spalla.
La fanciulla lo scrutò perplessa, cercando nello sguardo del
suo amico un segno di risentimento o di delusione, ma trovò
che Raoul fosse assolutamente calmo, le si era rivolto con la consueta
tenera cortesia e lei, in cuor suo, gli fu grata per aver mantenuto un
atteggiamento amichevole nei suoi riguardi, anche dopo che il loro
ultimo incontro si era concluso in maniera non proprio felice.
«Grazie...» rispose lei con un sorriso
«Ma non cantiamo vittoria troppo presto, è un
compito molto gravoso quello che mi è stato appena affidato
e io non vorrei deludere né i miei impresari né
il pubblico, e meno che mai il nostro mecenate»
«Non dire sciocchezze, sono certo che sarai
meravigliosa»
«Sei troppo buono con me Raoul»
È che ti
amo!...
«È che ti amo!» così avrebbe
voluto risponderle, ma si trattenne. Si limitò a guardarsi
intorno con aria circospetta e la scrutò seriamente.
«Christine, tu sai che ci sono due uomini che stanno
indagando sulla vicenda del Fantasma dell'Opera» le disse in
tono grave.
La giovane tentò di reprimere un fremito di agitazione,
«Sì, l'ho saputo»
«Ebbene, sono decisi a interrogarti, pensano che tu possa
avere a che fare con questa storia»
«Ma cosa?...»
«Oh tranquilla, io lo so, lo so che non c'entri niente, anzi
sono convintissimo che faranno un buco nell'acqua» concluse
il visconte. «Ma volevo avvisarti di stare attenta a quel
Bertrand, è un uomo che non mi piace».
Christine osservò il suo interlocutore con aria confusa, poi
annuì vagamente,
«Sono certa che non troveranno nulla...» rispose
sbrigativa. «Ora scusami, ma devo raggiungere la
sartoria».
La ragazza si congedò, Raoul restò a fissarla
mentre si allontanava.
La sartoria del teatro dell'Opera era un vasto laboratorio situato nel
primo livello del sottopalco, illuminato da ampie finestre che si
aprivano a livello della strada. Vi lavoravano decine e decine di
donne, sotto la direzione di un ottimo stilista di origine italiana, il
signor Piero Mosetti.
Gli attori passarono tutto il pomeriggio tra metri e pezzi di stoffa
tenuti insieme da spilli e punti di sutura grossolani, mentre
le sarte prendevano loro le misure sotto l'occhio vigile del costumista
che pensava già ai modelli da realizzare.
Mosetti sollevò il volto di Christine tra l'indice e il
pollice e la osservò con attenzione,
«Cielo, mademoiselle Daae, non potrò utilizzare
quel meraviglioso raso verde smeraldo per il vostro costume!
È un colore che non vi si addice nemmeno un po'!»
esclamò l'uomo come se fosse una tragedia impossibile da
rimediare.
Christine lo guardò mortificata,
«Scusate, signor Mosetti, mi rincresce...»
farfugliò come se fosse colpa sua il fatto che il suo
colorito non si adattasse a quel tipo di stoffa.
«Dunque, dunque... forse se utilizzassimo una parrucca bionda
per coprire questi capelli castani potrebbe andar bene»
«Ah, non dite blasfemie signor Mosetti!» intervenne
l'anziana sarta che stava misurando il giro vita alla fanciulla.
«I capelli di mademoiselle sono perfetti! Troveremo un altro
colore di tessuto che le si addica!»
«Uh, madame, il troppo lavoro vi fa male, vi rende
isterica» borbottò Mosetti in tono enfatico
allontanandosi con aria offesa.
Christine lo osservò incredula,
«Non fate caso a lui, mademoiselle, ogni volta che ci sono i
nuovi costumi da preparare sembra che debba venire la fine del
mondo» commentò la sarta osservando un campionario
di stoffe.
«Capisco» commentò la ragazza con
un'alzata di spalle.
«Certo voi siete molto più gentile e accomodante
della signora Giudicelli. In confronto a lei siete un angelo».
La donna rivolse a Christine un sorriso compiaciuto, ma lei si
ritrovò a mordersi le labbra per un complimento che non
sentiva di meritare.
Mademoiselle Daae attese che la sarta terminasse di prendere le misure
e lasciò che Mosetti le esponesse una filippica
sull'assoluta necessità di realizzare il suo costume con una
seta color giallo oro che secondo lui si sposava perfettamente con il
colore dei suoi capelli. Tutto quel trambusto le stava facendo venire
il mal di testa, insieme all'euforia per aver ottenuto un ruolo
importante e alla preoccupazione per le parole di Raoul.
Pensò che in quel momento avrebbe solo voluto starsene da
sola, nella sua camera, al buio... ad ascoltare l'Angelo della Musica
che cantava per lei.
*
«Avete visto, amico mio?» borbottò
Bertrand giocherellando con il sigaro spento che aveva tra le dita.
«Che conclusioni traete da quanto abbiamo sentito
oggi?»
Alexandre corrugò leggermente la fronte e ghignò.
Pensò che quell'uomo non gli sarebbe mai andato a genio ma
apprezzava che gli rivolgesse quelle domande e ascoltasse le sue
osservazioni, anche se lo faceva con un'aria di superiorità
ai limiti della buona educazione.
Avevano passato il pomeriggio a parlare con i macchinisti. Bertrand
aveva rivolto loro molte domande riguardo al Fantasma dell'Opera,
lanciando occhiate oblique ad Alexandre che annotava di tanto in tanto
alcune cose sul suo taccuino.
Il giornalista sfogliò le pagine dove aveva scritto le sue
note e scosse il capo,
«Credo che, chiunque sia il nostro Fantasma, abbia avuto
l'intelligenza di capire che si possono ottenere grandi cose incutendo
paura» concluse. «Gli operai con cui abbiamo
parlato oggi ci hanno raccontato gli episodi più strani,
hanno esposto le teorie più assurde. Ma è
evidente che sono spaventati».
Bertrand scrollò le spalle,
«Dovete partire dal presupposto che i macchinisti del teatro
sono uomini di scarsa cultura, quindi inclini alla superstizione e a
lasciarsi spaventare da ciò che non conoscono»
commentò.
«E non dimentichiamo che uno di loro ci ha rimesso l'osso del
collo, evidentemente per aver osato troppo»
«Sapevo che avremmo ottenuto molto poco parlando con i
manovali del teatro, ma non voglio escludere nessuna pista, se vogliamo
catturare quell'uomo dobbiamo conoscere ogni angolo più
remoto del mondo in cui si muove. Ma le nostre conoscenze devono essere
esatte».
Alexandre si massaggiò la nuca,
«Certo. Le leggende hanno sempre un fondo di
verità e credo che riflettendo su quello che ci hanno detto
i macchinisti potremmo trovare qualcosa di interessante»
disse.
«Le leggende devono essere interpretate, amico mio»
convenne l'investigatore.
«Siete scettico?»
«No, più che altro temo di farmi distrarre,
attribuendo significati sbagliati a quanto abbiamo udito oggi. Ad
esempio, quella storia di quell'uomo, Maxime...».
Il ragazzo sfogliò il taccuino e lesse l'appunto relativo al
vecchio manovale menzionato dal suo interlocutore,
«Ah, quello che ha detto di aver scorto una volta il Fantasma
di profilo e da lontano, ha detto che aveva la pelle completamente
bianca come quella di un cadavere e che era alto certamente
più di due metri»
«Pelle bianca...» mormorò Bertrand con
aria pensierosa.
«Cerone da teatro» suggerì Alexandre.
«Ammesso che l'osservazione di Maxime sia vera, la pelle
bianca può essere dovuta a un trucco»
«Cerone, o una maschera»
«Una maschera, dite? Direi che abbiamo a che fare con un tipo
singolare» concluse.
«No, semplicemente con qualcuno che non vuole farsi
riconoscere».
I due uomini si scambiarono una rapida occhiata,
«Alexandre, state pensando anche voi quello che penso
io?»
«È qualcuno che la gente del teatro dovrebbe
conoscere bene. Ma chi? Chi avrebbe interesse a dirigere il teatro con
queste manovre assurde?»
«Quindi voi scartate l'ipotesi che si tratti di qualcuno che
conosciamo?» domandò Bertrand con aria scettica.
«Mi sembra assurdo» rispose il giornalista
pinzandosi la radice del naso con le dita.
«Molto bene, molto bene. Continuate a ragionare per assurdo,
non sia mai detto che giungiate alla soluzione migliore»
l'investigatore batté la mano sulla spalla del giovane.
«Proseguite con le vostre riflessioni, credo che domani ne
avremo di più interessanti da affrontare»
«Cosa intendete fare domani?»
«Interrogare Christine Daae».
I due uomini si congedarono con un saluto formale, Alexandre rimase con
le spalle poggiate contro il muro ad osservare Bertrand che si
allontanava seguito dalla scia grigiastra del fumo del suo sigaro. Il
ragazzo sospirò profondamente come se volesse soffiare via
dal petto lo strano senso di preoccupazione che lo stava assalendo.
Bertand avrebbe dato del filo da torcere a mademoiselle Daae, ma se
quella ragazza era davvero la protetta del Fantasma dell'Opera,
chiunque egli fosse, magari non era una mossa saggia cominciare quella
caccia accanendosi su di lei, rischiando di attirare su di loro la
collera di chi la proteggeva nell'ombra.
Alexandre sentì uno strano rumore provenire dal fondo del
corridoio, passi felpati accompagnati da un fruscio come se qualcuno
avesse smosso la gonna di un abito o l'ala di un mantello, si
voltò e restò ad osservare il buio in cui si
perdeva il lungo corridoio sul quale affacciavano i depositi degli
attrezzi di scena. Fuori intanto era calata la sera, nelle ultime
settimane d'autunno le giornate diventavano particolarmente corte e
grigie.
Il ragazzo quasi si aspettava di scorgere un profilo bianco spuntare
dal nulla, rimase immobile con lo sguardo fisso verso il cono d'ombra
proiettato dalle pareti. Per lunghi secondi smise persino di respirare
mentre la fronte gli si imperlava di sudore freddo.
La voce venne dalle sue spalle,
«Monsieur!».
Alexandre si voltò con uno scatto e si ritrovò
davanti madame Giry che lo osservava perplessa.
«Ah, siete voi» sospirò asciugandosi la
fronte con un fazzoletto.
«Vi sentite bene?»
«Sì... sì. Per un attimo credevo di
essermi perso»
«Capisco» disse la donna con un sorriso gentile.
«Il teatro è grande, io stessa credo di non averlo
mai visitato tutto»
«Già»
«Vi mostro l'uscita, se volete seguirmi».
Il ragazzo annuì e lasciò che la donna lo
accompagnasse alla porta, la ringraziò e le
augurò la buona sera, poi uscì dall'edificio
trovando sollievo nell'aria pungente che gli sembrò molto
più salutare e gradevole dell'odore di olio da lampada e
polvere che aveva respirato nei depositi dei macchinisti.
Una volta uscito dall'Opera, persino le sue preoccupazioni sembrarono
scemare e Alexandre rise di se stesso al pensiero che si era lasciato
suggestionare dalle storie macabre dei manovali con cui aveva parlato.
Il pavimento della piazza del teatro era coperto dalla neve che il
freddo aveva fatto ghiacciare rendendo i sampietrini della
pavimentazione lucidi e scivolosi. Il giornalista si voltò
verso la sfarzosa facciata dell'Opera Populaire e per un
attimo ebbe l'impressione che le statue che decoravano il parapetto del
teatro lo stessero spiando con i loro sguardi vuoti.
*
Era la stessa posizione che assumeva sempre in quei giorni, in quelle
lunghe settimane che aveva trascorso al capezzale di suo padre:
rannicchiata contro la spalliera del letto con le braccia che
avvolgevano le gambe magre.
Christine era seduta sul materasso, torceva con le dita i lembi della
sua veste da camera.
Erano passati dieci anni da quella sera e lei ricordava con precisione
ogni cosa, persino l'esatta disposizione delle gocce di cera sciolta
che colavano dall'estremità della candela...
La stanza quasi del tutto buia, perché il dottore aveva
detto che la luce disturba il riposo degli ammalati. Guastave Daae
aveva il volto pallido, sua figlia gli tergeva delicatamente la fronte
con un fazzoletto bagnato ma dopo pochi secondi il sudore tornava a
inumidire la fronte dell'uomo, come per ricordare alla bambina
ciò che aveva sentito dire dal medico che quella mattina era
venuto a visitare suo padre: non c'era più nulla da fare.
Anche il dottore si era arreso e lei si sentiva così sola e
inutile davanti all'inevitabilità di quanto sarebbe
accaduto, impotente davanti alla malattia, a quella febbre prepotente
che aveva deciso di consumare la vita di un uomo ancora nel fiore degli
anni. Eppure la bambina continuava ad asciugare il sudore e a
rispondere «Andrà tutto bene» a ogni
rantolo di dolore di Gustave. Madame Giry veniva a farle visita ogni
giorno, si occupava della spesa e di tenere in ordine la casa. Una
volta era venuta in compagnia di sua figlia, Meg, sperando che la
presenza di un'altra bambina avrebbe aiutato Christine a distrarsi, ma
era stato inutile. Eloise e Gustave si erano conosciuti quando il
musicista aveva cominciato a lavorare all'Opera, il suo compito era
quello di accordare gli strumenti dell'orchestra, si recava a teatro
ogni pomeriggio prima delle prove, era merito suo se la musica che
riempiva l'aria, innalzandosi fino a far tremare impercettibilmente i
cristalli del lampadario, aveva quel suono così perfetto e
armonioso.
Suo padre aveva detto a Christine che Eloise si sarebbe presa cura di
lei quando lui non ci sarebbe stato più e le aveva rinnovato
la promessa di mandarle l'Angelo della Musica, non appena sarebbe
giunto in cielo.
Quella sera l'uomo aveva cominciato a respirare con più
fatica, ogni boccata d'aria era accompagnata da un fischio sordo, come
se i suoi polmoni malati si tendessero disperatamente per godere degli
ultimi spasmi di vita. Quando quel fischio si interruppe Christine
chinò il capo poggiando la fronte sulle ginocchia e pianse,
attendendo che arrivasse qualcuno a portarla via, perché se
fosse dipeso da lei non avrebbe mai abbandonato suo padre.
Gustave Daae era morto quello stesso giorno di dieci anni prima e il
pensiero che quella sera cadeva l'anniversario della prematura
scomparsa di suo padre fece provare a Christine un senso di vergogna
per i momenti di contentezza che aveva provato nel pomeriggio, quando
le era stato detto che sarebbe stata la protagonista del nuovo
spettacolo.
Come quella sera Christine si ritrovò a posare il capo sulle
ginocchia e a piangere in silenzio. Scivolò lentamente di
lato, vinta dalla stanchezza mentre le lacrime continuavano a rigarle
le guance.
Era già in uno stato di dormiveglia quando sentì
un canto avvolgerla come un abbraccio.
...del mio pensiero tu
sei regina,
tu di mia vita sei lo
splendor.
Il tuo bel cielo vorrei
ridarti,
e dolci brezze del
patrio suol;
un regal serto sul crin
posarti,
ergerti un trono vicino
al sol.*
Quella voce, carezzevole e profonda le fece tornare alla mente altri
ricordi di suo padre, ricordi più allegri.
Rammentò i giorni spensierati in Svezia, quando cantava con
la sua voce sottile e incerta di bambina, accompagnata dalla musica di
suo padre, rammentò l'arrivo in Francia e la promessa di una
vita migliore, le favole che Gustave la raccontava, i suoi giochi di
bambina sotto lo sguardo attento e premuroso dell'uomo che
rappresentava tutto il suo mondo.
E alla fine lui aveva avuto ragione, l'Angelo della Musica era arrivato
davvero. Anche se ogni volta che Christine pensava a quell'uomo in
quella veste la sua coscienza le rammentava di essere prudente e di
ricordarsi che di angelico lui aveva solo la voce.
«Erik...» sussurrò Christine sollevando
il capo e guardandosi attorno.
L'uomo era comparso al centro della stanza, come un vero fantasma,
uscendo dal buio come per incanto. La giovane si stropicciò
il viso e osservò per un attimo l'imponente figura del suo
maestro in piedi davanti al suo letto.
«Giacché l'altro giorno abbiamo eseguito il duetto
dell'Aida,» esordì Erik scostando il mantello per
avere i movimenti più liberi, «avevo pensato che
fosse il caso di rimanere in tema per porre i miei omaggi alla nostra
nuova primadonna».
Christine accese la lampada ad olio che teneva sul comodino e lo
osservò ammutolita e quasi spaventata.
«Era un omaggio, non una minaccia»
puntualizzò lui in tono pacato e leggermente canzonatorio.
«Ma ti chiedo scusa per essermi introdotto nella tua stanza,
sai, le pessime abitudini che un uomo sviluppa quando lo si crede un
fantasma!».
La giovane continuò a guardarlo senza dire niente, ma
fremette preoccupata quando Erik si chinò su di lei con uno
scatto repentino e le prese il mento tra l'indice e il pollice
costringendola a sollevare il viso e a guardarlo negli occhi.
Christine tremò, non perché temesse che il suo
maestro le avrebbe potuto fare del male, ma non riusciva a sopportare
il suo sguardo, quegli occhi fermi nei suoi che le sondavano l'anima
stringendole il cuore in una morsa che ogni giorno diventava
più stretta. Avrebbe voluto sottrarsi a quel contatto e
mettersi al riparo da quello sguardo che lui la stava obbligando a
sostenere, ma le dita di Erik le avvolgevano la mascella in una presa
delicata ma decisa alla quale non riusciva a sfuggire, impietrita
com'era dal timore che quelle schegge di giada riuscissero davvero a
leggerle l'anima e a individuare la provenienza dello strano brivido
che la stava scuotendo.
Lui la fissò corrugando la fronte con aria indagatrice, le
sue occhiate erano così penetranti che quasi Christine si
sentì come un criminale colto in fragranza di
chissà quale reato.
«Hai pianto» constatò semplicemente
l'uomo con una nota dispiaciuta nella voce, muovendo lentamente il
pollice lungo la guancia della fanciulla, come se sperasse di avvertire
la consistenza del sale delle sue lacrime.
Lei, per tutta risposta, chiuse gli occhi stringendo le palpebre,
«Sì... sì...»
farfugliò con un lamento, come a chiedergli di porre fine a
quella strana tortura.
«Posso sapere il perché?»
domandò l'uomo lasciandola andare e indietreggiando di un
passo.
«Oggi sono dieci anni che è morto mio
padre» spiegò Christine deglutendo e tornando a
guardare il suo interlocutore evitando di fissarlo negli occhi.
Erik annuì
«Ho un ricordo assai vago di lui» le disse.
«Ma era un ottimo musicista, aveva l'orecchio assoluto,
vero?».
Christine fece cenno di sì e si sedette con le gambe a
penzoloni dal materasso.
«Immagino che tuo padre amasse molto la musica»
aggiunse Erik.
«Sì, certo...»
«E allora in questo momento sarà molto fiero di
te, ovunque si trovi».
La ragazza accennò un sorriso, poi la sua espressione si
rabbuiò nuovamente,
«Giuratemi che non siete stato voi a convincere i direttori
ad assegnarmi la parte della protagonista» mormorò.
«Te l'avevo detto che non ci sarebbe stato bisogno del mio
intervento, i direttori saranno stupidi, ma non sono certo
sordi» rispose Erik.
«Mio Dio, farò Desdemona»
«Sembri preoccupata»
«Sembro?! Lo sono!».
Erik sospirò alzando gli occhi al cielo,
«Perché mai?»
«Non mi sento all'altezza di questo ruolo e...» la
giovane abbassò lo sguardo ed esitò prima di
completare la frase, «e nemmeno delle vostre
aspettative»
«Prometto che anche se tu dovessi stonare o commettere
qualche errore non ti farò cadere il fondale di scena in
testa» rispose l'uomo sarcastico.
«Vi prego, non scherzate!» esclamò
Christine stringendo le lenzuola tra le dita.
Erik si portò l'indice al mento,
«Abbi fiducia nel tuo maestro, bambina mia» le
disse. «Ti assicuro che arriverai alla sera dello spettacolo
più che preparata. Proveremo insieme le arie che dovrai
cantare dopo che avrai provato con gli altri in teatro, ti avverto che
sarà faticoso ma se serve al nostro scopo, non dovrebbe
essere un problema»
«Sapevo che avrei potuto contare sul vostro aiuto»
rispose Christine rivolgendogli uno sguardo colmo di affetto a causa
del quale il cuore di Erik saltò un battito.
«Molto bene» concluse lui senza far trasparire
alcuna emozione. «Ora è meglio che riposi, da
domani avrai tutti gli occhi puntati addosso, non voglio vedere il tuo
viso stanco».
Il Fantasma si avviò verso la porta e spiò dalla
serratura per assicurarsi che il corridoio fosse vuoto.
«Erik... grazie» mormorò Christine prima
che lui sparisse oltre l'uscio lasciandosi inghiottire nuovamente dal
buio.
Si voltò un'ultima volta verso di lei e per tutta risposta
chinò leggermente il capo, poi si riconsegnò alla
notte lasciando che la giovane rimanesse sola con i suoi pensieri e con
l'incredulità di chi si sveglia da uno strano sogno.
Senza saperlo quelle due anime avevano formulato lo stesso pensiero, si
erano scambiate tacitamente lo stesso saluto: Bonne nuit, mon Ange.
______________________________________________
* tratto dall'Aida *_*
NOTA: l'Otello di Giuseppe Verdi è stato composto
nel 1887, la storia è ambientata nel 1870. Chiedo scusa per
l'incongruenza cronologica ma il duetto dell'Otello l'ho trovato
perfetto per i miei "piccioncini" e più in là
capirete perchè.
Capitolo reinserito il 20\12\2011
|
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Capitolo 9 *** Il segugio ela fanciulla ***
Lunedì,
puntuale come il mal di denti, ecco a voi il nuovo capitolo...
Grazie ai lettori-osservatori-scopritori-recensori. La
sottoscritta e il Maestro si inchinano colmi di riconoscenza.
Visto che Amy me lo aveva chiesto: i nomi dei due "pargoli"
(li chiamo così perchè li ho creati io e mi sento
molto "mamma" nei loro confronti XD)... Alexandre si chiama
così perchè io ho una fissazione onestamente
immotivata per il nome "Alessandra" e tutte le sue varianti e
diminutivi (anche al maschile) e solitamente l'utilizzo di tale nome
nasconde un bel self-inside in dosi varibili... qui la dose
è molto minima ma c'è. Berty si chiama come si
chiama senza un motivo particoalre, cercavo un nome che suonasse
antipatico e mi pare che Balise Bertrand abbia un suono odioso.
(Aggiungo anche che non ho mai visto Cuore selvaggio, ma
quand'è così rimedierò ^^)
And now, vi lascio alla lettura del delirio.
Per qualsiasi altra curiosità e chiarimento
chiedete pure.
I remain, gentlemen,
your obidient servant
*******
CAPITOLO OTTAVO
Il segugio e la fanciulla
Quella mattina Parigi era una foto in bianco e nero. La pioggia cadeva
fitta, le nuvole basse e grigie rendevano l'aria opprimente mentre un
vento freddo soffiava tra le strade disturbando il passeggio dei pochi
che erano usciti di casa sfidando il pessimo tempo. Le ruote delle
carrozze alzavano schizzi di acqua e fanghiglia lasciandosi dietro una
scia di proteste da parte dei passanti.
La pioggia scrosciava dal colonnato e dalle ali degli angeli di bronzo
che decoravano il teatro dell'Opera rendendo scivoloso il marmo dello
scalone che conduceva all'ingresso.
Alexandre alzò il colletto della giacca di lana fino alle
orecchie per proteggersi dall'aria gelida e si avviò a
rapidi passi verso l'interno dell'Opera Populaire. Si fermò
sulla soglia quando notò che c'erano alcune donne chine a
lucidare il pavimento del foyer decorato con rombi di marmo rosa e
verde che necessitavano di essere puliti alla perfezione per rendere
giustizia alla sfarzosità della sala.
Una delle donne che stava lavando il pavimento lanciò lo
straccio nel secchio e sollevò lo sguardo verso il giovane,
«Ah monsieur, magari avessero tutti la vostra
premura!» esclamò con gratitudine.
Alexandre accennò un sorriso e attese che la donna finisse
di asciugare, poi attraversò il foyer per dirigersi verso
l'ufficio dei direttori.
Sua madre gli aveva insegnato ad avere rispetto per gli altri, gli
aveva insegnato che la bontà è quasi un dovere da
compiere se si vuole essere amati. Lui aveva imparato a delineare i
confini della propria benevolenza verso gli altri con un pizzico di
arguzia e aveva imparato a pretendere dalle persone lo stesso rispetto
che concedeva loro.
Prima di raggiungere l'ufficio dei direttori il giovane si
voltò a guardare la sala di ingresso del teatro, in quei
giorni si era trovato a poter ammirare l'Opera Populaire non
più da spettatore, insieme ad altre centinaia di persone,
l'aveva vista vuota e silenziosa, in tutta la sua
maestosità, l'aveva trovata un luogo quasi freddo, troppo
sfarzoso e appariscente, eppure fascinoso, come una sorta di castello
incantato. Per un attimo il ragazzo si ritrovò a sorridere
pensando che se davvero il Fantasma viveva da qualche parte nascosto
nel teatro era da ritenersi un individuo fortunato.
Che pensiero sciocco,
Alexandre!
Il ragazzo scosse la testa rendendosi conto della stupidità
di quella riflessione ed entrò nell'ufficio,
lasciò cadere il cappotto sulla spalliera di una sedia e
salutò i direttori, Bertrand e Raoul.
«Cosa sono quelle facce?» domandò quando
si rese conto che tutti e quattro avevano un'espressione tesa.
«Il Fantasma... ha scritto un'altra lettera...»
farfugliò Andrè indicando una busta chiusa con il
consueto sigillo a forma di teschio.
Alexandre corrugò leggermente la fronte,
«Con il nuovo spettacolo che state allestendo avremmo dovuto
aspettarcelo, sicuramente vuole dire la sua su come dovrà
essere eseguito l'Otello» commentò mentre Bertrand
gli porgeva la lettera.
La missiva era scritta con la consueta calligrafia elegante e allungata:
Miei cari signori,
Mi congratulo per le
scelte operate riguardo l'allestimento del nuovo spettacolo. Tuttavia
avrei qualche appunto da farvi.
Spero vorrete comunicare
al signor Mosetti che è pura follia vestire di giallo
Mademoiselle Daae, certe trovate pacchiane potevano andare bene per la
signora Giudicelli, ma dal momento che non sarà lei la
primadonna di questo spettacolo suggerisco di usare un blu scuro per il
costume di Desdemona, il risultato sarà di certo
più sobrio e sarà più adatto alla
figura leggiadra di Mademoiselle Daae.
Inoltre esigo che il
secondo violino dell'orchestra venga sostituito. Il nostro buon maestro
Reyer è un validissimo arrangiatore, sono certo che ne
converrà con me.
Se avrò altre
richieste per lo spettacolo, non temete, non mancherò di
comunicarvele.
Vogliate salutare in
vece mia il Visconte De Chagny, Monsier Bertrand e Monsieur Dubois.
In quanto a voi...
A buon intenditor... i
miei saluti!
F.O.
«Avete letto!» borbottò Firmin
«Altre richieste, altre minacce! Quei saluti alla fine... sta
minacciando anche voi»
«È un criminale! Un criminale!»
piagnucolò Andrè cominciando a diventare pallido.
«A me sembra più un personaggio con un sottile e
arguto senso dell'umorismo» disse Alexandre ridacchiando.
«Lo state forse ammirando?» domandò
Firmin con aria risentita.
«Beh, la storia è piena di personaggi pessimi ma
non per questo privi di qualità»
commentò il giornalista scrollando le spalle.
«Come vi è stata recapitata questa
lettera?» domandò Bertrand lanciando un'occhiata
in tralice ad Alexandre.
«L'abbiamo trovata sulla scrivania stamane»
«Comunque, non mi pare che abbia chiesto la luna»
si intromise Raoul. «Ha solo suggerito di cambiare il colore
di un costume di scena e di sostituire un musicista
dell'orchestra»
«No, voi non capite, visconte!» tuono Firmin
esasperato. «Il punto non è quanto pretenziose
siano le sue richieste, il punto è che costui, Dio lo
maledica, si vuole avvalere del diritto di prendere decisioni che non
gli competono!»
«Perdonatemi, signor visconte» aggiunse Bertrand.
«Ma, con tutto il rispetto, il vostro non mi sembra
l'atteggiamento più consono alla situazione. Devo ricordarvi
che alcune sere fa è morto un macchinista, nel teatro che
voi e la vostra famiglia finanziate!»
«Con tutto il rispetto, monsieur Bertrand, non mi pare un
bell'atteggiamento nemmeno questa specie di caccia alle
streghe» questionò Raoul in tono pacato.
«Ma, visconte! Visconte, non potete dire sul serio»
disse Andrè ingoiando tutto di un fiato un bicchiere d'acqua.
«Vedete, visconte, in tutta onestà, questo vostro
continuo sottovalutare la situazione offende il mio lavoro e quello del
vostro amico»
«Monsieur, Dio mi guardi dal voler offendere chicchessia. Sto
solo cercando di farvi capire che non possiamo rischiare una crisi di
nervi per ogni minima cosa»
«Ma voi converrete che non si tratta di MINIME
COSE!» concluse Firmin soffiando dalle narici come un toro
pronto alla carica.
«Signori, signori, vi prego!» si intromise
Alexandre, che fino a quel momento era rimasto in disparte ad osservare
la discussione con aria divertita. «Non litighiamo. Il
visconte stava solo esprimendo un parere, non voleva intralciare certo
le nostre indagini, e comunque, non serve a niente agitarsi»
«Ma cosa dobbiamo fare?» domandò
Andrè guardando Bertrand con aria smarrita. «Il
costume, il violinista... dobbiamo fare quello che vuole il
Fantasma?»
«Credo che non sia di alcuna rilevanza» rispose
l'investigatore scrollando le spalle. «Non credo che il
nostro amico ucciderà un uomo solo perché non gli
piace il colore del costume di mademoiselle Daae!»
«Tuttavia, io credo sia saggio non farlo irritare per
ora» disse Alexandre. «A voi non costa nulla
cambiare il colore di un costume di scena e sostituire un violista,
quindi tanto vale accontentarlo»
«Giusto!» esclamò Bertrand
all'improvviso, come se fosse stato colto da chissà quale
illuminazione.
«Cosa?» domandò Raoul perplesso.
«Ma certo: accontentarlo!» continuò
l'investigatore come se stesse pensando ad alta voce. «Avete
fatto benissimo ad affidare la parte della protagonista a mademoiselle
Daae! Lui vuole che lei canti e noi la faremo cantare!»
«Non vi stiamo seguendo» ammise Alexandre.
«Non capite? Se Christine Daae canterà
è probabile che lui venga a vederla, ed è questo
il nostro obiettivo, fare in modo che si esponga»
spiegò Bertrand con aria convinta.
«Temo che lo stiate sottovalutando. Ora, noi non sappiamo
niente di quell'uomo, ma crederlo così stupido non
è un buon punto di partenza» osservò il
giornalista.
«Dio mio, Alexandre, ma voi da che parte state?»
«Dalla parte di chi vuole scoprire la
verità»
«Va bene, allora lasciamo perdere questa questione, per il
momento, e concentriamoci su qualcosa d'altro»
borbottò Bertrand con fare spazientito «Vi avevo
detto che oggi era mia intenzione fare la conoscenza di mademoiselle
Daae, dunque accompagnatemi».
Alexandre e Bertrand si avviarono fuori dall'ufficio, sulla soglia il
visconte afferrò la manica della giacca dell'amico e lo
trattenne,
«Mi raccomando...» gli mormorò.
«Tranquillo, terrò al guinzaglio il nostro
segugio» rispose il giornalista con un sorriso incoraggiante.
«Dunque, ditemi Alexandre,» disse Bertrand mentre
si dirigevano verso gli alloggi delle ballerine, «dalla
missiva del Fantasma è chiaro che lui sappia di noi e delle
nostre indagini, come avrà fatto a saperlo?»
«È una domanda assai stupida, monsieur, tutto il
teatro sa delle nostre indagini» rispose il giornalista.
«Uhm, forse ho sbagliato modo di porla. In che modo,
esattamente, pensate che Fantasma sia venuto a saperlo?»
«La voce è girata, sarà arrivata anche
a lui»
«D'accordo, se così fosse si suppone che qualcuno
gli ha fatto arrivare la voce, e di conseguenza questo Fantasma non
è isolato, ha dei contatti con altre persone all'interno del
teatro»
«E voi pensate che mademoiselle Daae sia uno di questi
contatti»
«Lo scopriremo presto» concluse Bertrand con uno di
quei suoi orribili sorrisi.
«Ma, ammettiamo per un attimo che il Fantasma non abbia
saputo da altri delle nostre indagini...» ipotizzò
Alexandre lanciando al suo interlocutore uno sguardo eloquente e
lasciando volutamente la frase in sospeso.
«Avete colto nel segno, amico mio! È per questo
che mi piacete, io amo le persone argute!» esclamò
l'investigatore con aria allegra per poi tornare quasi subito serio.
«L'ipotesi è fantasiosa quanto inquietante, ma
stando a quello che abbiamo visto e a quello che ci hanno raccontato i
macchinisti, sembra che quest'uomo possa arrivare ovunque, tenere sotto
controllo tutto il teatro, e di conseguenza anche conoscere ogni nostra
mossa»
«Ipotesi inquietante e affascinante. Più ci penso
e più ho il sospetto che abbiamo a che fare con qualcuno
dotato di un'intelligenza e di una genialità non
comune»
«Lo state facendo di nuovo, ragazzo mio»
«Facendo cosa?»
«Parlare come se lo ammiraste».
Alexandre scosse il capo e ridacchiò,
«E come potrei? Non lo conosco, potrei persino dubitare che
esista!» concluse.
Bertrand gli lanciò uno sguardo indagatore,
«Già... non lo conoscete».
*
Christine aveva dormito poche ore quella notte, ma era stato un sonno
profondo e senza sogni che le aveva regalato un piacevole senso di
riposo. La malinconia che l'aveva assalita la sera prima non era del
tutto sparita, le veniva spontaneo continuare a pensare a suo padre, a
cosa avrebbe detto nel vederla calcare il palcoscenico del
più importante teatro di Parigi, e cosa le avrebbe
consigliato riguardo a... a Erik.
Era strano, le veniva naturale rivolgere la mente a quell'uomo
così spesso, eppure ogni volta che i suoi pensieri
ripetevano quel nome c'era un senso strano di esitazione, una risposta
alla voce della sua coscienza che le ripeteva che era sbagliato.
Ma cosa avrebbe dovuto esserci di sbagliato? Quell'uomo non era un
santo, ma era pur sempre il suo Maestro, la persona da cui lei aveva
ricevuto lo splendido dono del canto. Cosa c'era di male a provare
gratitudine per lui?
Solo gratitudine,
piccola Lottie?
La voce della sua coscienza aveva un tono severo, di sfida. Il tono che
usa chi vuole pronunciare insinuazioni velenose e taglienti.
Zitta, sta' zitta!
Christine fece cessare quella voce petulante tornando ad affondare la
testa nel morbido guanciale e sbuffando. Si
stropicciò il viso con le mani e si scompigliò i
capelli.
Qualcosa di sbagliato c'era, se ne era accorta la sera prima quando il
tocco della dita di Erik sul suo viso le aveva provocato un brivido
lungo la schiena e le aveva fatto desiderare che lui prolungasse quel
contatto, che la abbracciasse e allo stesso tempo aveva temuto che lui
se ne accorgesse, che i suoi occhi leggessero davvero dentro di lei.
Christine non diede tempo alla sua coscienza di ribadirle quanto fosse
sconveniente indugiare in certi pensieri e provare quelle sensazioni,
malgrado fossero reazioni che lei stessa non riusciva a controllare.
La ragazza si alzò dal letto e pensò con sollievo
che l'impegno delle prove l'avrebbe distratta da quelle riflessioni e
da quella battaglia che si era innescata tra le sue emozioni e il suo
buon senso.
Christine fece una rapida toeletta e si vestì,
uscì dalla stanza dirigendosi verso la scena ma arrivata
dietro le quinte si imbatté in Alexandre Dubois.
«Buon giorno, mademoiselle» disse il ragazzo
fermandosi davanti a lei.
«Buon giorno, monsieur». La giovane
guardò oltre la sua spalla e si accorse che non era ancora
arrivato nessuno per le prove.
«Ah, immagino che eravate convinta di dover cominciare le
prove» mormorò Alexandre con un tono che tradiva
un certo imbarazzo. «Ma vedete, i direttori le hanno spostate
a oggi pomeriggio».
Christine guardò il giornalista senza capire,
«E siete venuto voi ad avvisarmi?» chiese.
«Veramente, sono venuto a chiedervi di seguirmi»
«Dove?»
«Nell'ufficio dei direttori»
«È accaduto qualcosa monsieur,ì? Mi
sembrate preoccupato».
Il ragazzo sospirò,
«Come certo saprete, sto conducendo delle indagini sulla
strana faccenda del Fantasma dell'Opera, insieme a monsieur Bertrand,
un investigatore» spiegò in tono pacato.
«Ebbene, noi gradiremmo parlare con voi».
Christine restò a guardare il suo interlocutore senza dire
niente. Sapeva che doveva aspettarselo, ma in cuor suo fu grata a
Dubois per la premura che le stava riservando. La ragazza
annuì e lasciò che il giornalista l'accompagnasse
verso l'ufficio. Si disse che avrebbe mantenuto la calma, che sarebbe
stata forte... lo doveva a lui, a Erik.
Quando Alexandre chiuse la porta della stanza si concesse di chiedere
l'aiuto di Dio, sapeva che parlare con mademoiselle Daae era
assolutamente necessario, ma le avrebbe risparmiato volentieri un
colloquio con Bertrand.
L'ispettore sedeva a gambe accavallate dietro la scrivania, l'aria
dell'ufficio era densa dell'odore acre del suo sigaro, tanto che
Christine dovette socchiudere gli occhi perché il fumo la
stava facendo lacrimare. Bertrand aveva voluto che non fosse presente
nessun altro a quel colloquio, aveva insistito perché
nemmeno Alexandre vi partecipasse, sostenendo che lui non aveva certo
le competenze per gestire un interrogatorio, il ragazzo aveva obiettato
che essendo un giornalista era abituato a fare domane e ad ascoltare
risposte, e aveva sostenuto fermamente che dal momento che erano in due
a lavorare a quella indagine, Bertrand non aveva nessun diritto di
escluderlo.
L'impressione che Blaise Bertrand fece alla ragazza non fu positiva.
Non si poteva definire un uomo dall'aspetto particolarmente sgradevole
e nemmeno particolarmente attraente, era quel tipo di persona che
sarebbe passata inosservata se la si fosse incontrata in mezzo alla
strada, ma guardando l'accenno di sorriso che l'ispettore stava
rivolgendo a mademoiselle Daae chiunque si sarebbe sentito a disagio.
Era un'espressione melliflua e palesemente insincera, e per di
più quando quell'uomo sorrideva gli occhi gli si
trasformavano in due fessure rendendo anche il sorriso più
benevolo una smorfia minacciosa.
«Mademoiselle Daae, enchanté» disse
Bertrand per poi indicare alla giovane una sedia che era di fronte.
«Sedete, Christine, prego sedete»
«Piacere mio, monsieur» rispose lei sistemandosi
dove le era stato indicato.
Alxandre rimase in piedi, e si posizionò accanto alla
ragazza, poggiando una mano sulla spalliera della sedia quasi a volerle
dimostrare il suo appoggio. Più la guardava e più
si convinceva di quello che gli aveva detto Raoul: un angelo come lei
non avrebbe potuto avere niente a che fare con una vicenda tanto losca.
Il ragazzo non sapeva individuare quale fosse la sensazione che gli
suscitava la giovane soprano, ma era certo una sensazione positiva.
«Mi dispiace di avervi importunato, ma le circostanze non mi
hanno permesso di fare altrimenti» esordì
Bertrand. «Siete a conoscenza dei fatti che si sono
verificati in questo teatro, di certo saprete del Fantasma
dell'Opera».
Christine si limitò ad annuire,
«Sappiamo bene che è una leggenda, cresciuta
all'ombra della fantasia dei macchinisti o di altre persone che
lavorano in questo teatro» proseguì
l'investigatore, «tuttavia, pensiamo che ci sia qualcuno
dietro tutto questo».
La giovane deglutì e trattenne un moto di nervosismo, poi
fissò Bertrand come a invitarlo a proseguire.
«I direttori hanno ricevuto lettere minatorie con ordini
precisi riguardo la gestione del teatro, e ciò, unito a
tutti gli altri fatti di cui sarete certamente a conoscenza, ci ha
messo in allarme. Converrete con noi che quest'uomo, chiunque esso sia
e qualunque sia il suo scopo, debba essere fermato».
L'investigatore pronunciò le ultime parole scandendo ogni
sillaba in tono greve e per un attimo nella mente di Christine si
proiettò l'immagine di un cane randagio, una bestiola
dall'apparenza mite ma pronta ad azzannarti non appena tendi la mano
verso di lei per accarezzarla.
Calma, resta
tranquilla... Sii forte, piccola Lottie, fallo per lui...
«Ne convenite con me?» aggiunse Bertrand.
La ragazza fece appello a tutto il suo sangue freddo e a tutta la sua
forza di volontà e si costrinse a guardare l'uomo negli
occhi,
«Naturalmente» disse convinta.
L'investigatore sorrise mentre le mani di Alexandre si stringevano
nervosamente attorno alla spalliera della sedia,
«Molto bene, sono certo che vorrete collaborare con noi
quindi»
«Monsieur, non vedo come» rispose Christine.
Bertrand fece una pausa e si accese un altro sigaro,
«Siete a conoscenza del fatto che molte delle lettere inviate
dal Fantasma parlano di voi?» domandò con voce
tranquilla ma lanciando alla sua interlocutrice un'occhiata penetrante
e inquisitrice.
Christine serrò la mascella per un attimo e cercò
di sostenere lo sguardo di Bertrand mentre la tensione e le boccate di
fumo che l'uomo espirava sembravano bruciare grandi porzioni di
ossigeno facendole mancare l'aria.
Coraggio, lui ti sta
insegnando a recitare, usa il tuo talento per qualcosa di utile,
piccola Lottie!
«Non lo sapevo, monsieur» disse Christine fingendo
con una portentosa maestria un'espressione innocente e persino
leggermente spaventata.
«Nelle direttive per la gestione del teatro è
contemplato anche il fatto che voi diventiate la nuova primadonna
dell'Opera, e il Fantasma... concedetemi di chiamarlo così,
per adesso... sembra tenerci davvero molto alla vostra
carriera».
L'espressione della fanciulla si fece ancora più sbigottita,
«Non nascondo che la mia passione per il canto mi fa sperare
che la mia carriera prosegua, monsieur, perdonate l'ambizione, ma so
bene di essere troppo giovane e ancora troppo inesperta per ricoprire
una simile posizione. Chiunque mi voglia come primadonna del teatro
deve essere qualcuno che non conosce nulla dell'arte del
canto!»
«Non siate modesta, Christine, voi avete un gran talento, ma
non è questo il punto» borbottò
Bertrand. «Vogliamo sapere se c'è qualcuno che sia
tanto affezionato a voi al punto di allestire tali manovre per far
proseguire la vostra carriera. Avete qualche amicizia particolare,
qualche legame affettivo? Siate sincera, vi assicuro che tutto
rimarrà tra noi, dopotutto io e monsieur Dobouis siamo
gentiluomini e sappiamo come va il mondo».
Alexandre abbassò il capo per nascondere una smorfia quasi
di disgusto davanti a un discorso tanto subdolo e offensivo,
«Monsieur! Non vi concedo simili insinuazioni!»
esclamò Christine palesemente turbata.
«Forse monsieru Bertrand si è espresso male e sono
certo che vorrà chiedervi scusa» si intromise il
giornalista scoccando un'occhiata di rimprovero all'uomo. «Ma
ciò che intendeva dire è se c'è
qualcuno che pensate abbia potuto fare una cosa del genere, se sapreste
indicarci qualcuno da poter collegare a tutti questi episodi, alle
lettere, alle minacce... all'uccisione di Bouquet».
La giovane scrollò le spalle,
«Gli investigatori siete voi» disse scuotendo il
capo.
«Pensateci bene, per favore» le chiese Alexandre.
Christine rimase in silenzio per lunghi secondi,
«Mi dispiace signori, ma non riesco proprio a pensare a
nessuno che possa ritenersi collegato a questi fatti»
concluse. «Del resto, io vivo in questo teatro da quando ero
bambina e non ho mai conosciuto altri che le mie compagne del collegio
e madame Giry che si è presa cura di me dopo la morte di mio
padre»
«Nessuno? Ne siete certa? Non so, qualcun altro che lavora in
teatro, un musicista dell'orchestra, magari...» la
incalzò Bertrand.
«Vi ho detto di no!» esclamò lei con un
moto di stizza. Stava cominciando a perdere la calma, non tanto per la
situazione, ma per le squallide insinuazioni che le erano state rivolte
e per l'insistenza con cui Bertrand continuava a cercare di sapere
qualcosa da lei, guardandola come se fosse una criminale.
«Voi capite che la cosa è della massima
importanza»
«Monsieur, e voi capite che se sapessi qualcosa ve lo
direi... ma cosa mai vi fa pensare che io sappia?».
Bertrand la guardò con durezza,
«Beh, perdonatemi, ma il solo fatto che il vostro nome
compaia così spesso nelle lettere inviate dal Fantasma ci
sembra una curiosa coincidenza» disse tranquillo.
«E se anche costui fosse un mio ammiratore troppo pedante,
che colpa ne avrei io?» mormorò Christine cercando
di trattenere le lacrime mentre avvertiva lo stomaco contorcersi per il
panico.
«Mademoiselle, la vostra unica colpa sarebbe conoscere questo
ammiratore e non rivelarcene il nome» rispose l'uomo con un
sorriso mellifluo.
La giovane strinse tra le dita un lembo della veste, ma malgrado si
sentisse molto prossima al pianto riuscì a sostenere ancora
per qualche secondo lo sguardo di Bertrand.
Per Erik, lo stai
facendo per lui, dolce Lottie.
«Va bene, basta così» la voce di
Alexandre arrivò come una benedizione a decretare la fine di
quel supplizio.
«Potete andare mademoiselle» concesse
l'investigatore. «Se dovessimo avere ancora bisogno di voi
sapremo dove trovarvi».
Christine si alzò e si diresse verso l'uscita rivolgendo un
rapido cenno di saluto ai due uomini. Alexandre l'accompagnò
fuori e quando furono usciti dall'ufficio la prese delicatamente per il
braccio e la fece voltare verso di lui.
«Mi dispiace, Christine» mormorò
mortificato.
«Cosa ci fate al fianco di una persona come Bertrand,
Alexandre?» domandò lei scuotendo il capo.
«Beh, diciamo che si tratta di esigenze artistiche... un
giorno magari ve ne parlerò».
La giovane annuì vaga,
«Ora, per favore, lasciatemi andare» concluse.
«Vi faccio i miei migliori auguri per lo spettacolo,
Christine» aggiunse lui prima di congedarsi.
Quando la ragazza si fu allontanata Alexandre tornò
nell'ufficio deciso ad affrontare Bertrand, aprì la porta di
scatto e lanciò all'investigatore uno sguardo indignato,
«Era necessario trattarla prima da sgualdrina e poi da
criminale?!» esclamò furioso,.
L'uomo si poggiò pigramente allo schienale della sedia,
«Il fine giustifica i mezzi, mio caro» rispose
tranquillo. «Sinceramente, non ho capito se quella ragazza sa
qualcosa ed è brava a nasconderlo o se è davvero
sincera, ma dopo anni in cui ho avuto a che fare con criminali e
gentaglia della peggior specie ho imparato che se si vuole costringere
qualcuno a confessare lo si deve mettere alle strette»
«Ma questo deve necessariamente valere anche per una
ragazzina?!»
«Alexandre, nella migliore delle ipotesi quella ragazzina
è anche lei una pedina inconsapevole del gioco del nostro
Fantasma. Nella peggiore, è la complice di un
assassino» concluse Bertrand spegnendo il sigaro nel
posacenere.
____________________________________________________________________
Noticina:
"a buon intenditor... i miei saluti" è la frase di
chiusura di una delle lettere del Fantasma dell'Opera nel romanzo di
Leroux (in quel libro il nostro uomo aveva un sense of humor molto
macabro, ma era adorbile a suo modo, anche se io non amo
particolarmente quel libro... incredibile a dirsi ma è
così)
Ci leggiamo lunedì prossimo ^^
Capitolo reinserito il 21\12\2011
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Capitolo 10 *** Dove la notte splende ***
Orbene, miei diletti...
La settimana inizia con un nuovo capitolo (oddio, spero
vivamente che la vostra settimana sia iniziata con qualcosa di meglio
dei miei deliri).
Come al solito mi approprio di codesto angolo di pagina web
per ringraziare gli avventurosi che hanno letto e gli ancora
più avventurosi che hanno recensito.
Amy, pienamente d'accordo con te sulla valenza metaforica di
certi personaggi della letteratura (resta da vedere se è
stata una valenza attribuita loro dalla critica con il senno di poi o
se certi significati erano già insiti nelle intenzioni degli
autori). D'accordo pure sulle figure dei direttori... belli di zia Elby
loro! Come potevo dimenticarli, li avevo già tralasciati per
questioni di trama nella precedente fanfiction, qui mi sono potuta
sbizzarrire con i loro caratteracci venali e pusillanimi ma tanto
esilaranti (erano così anche nel romanzo... Dio quanto mi ha
fatto ridere il capitolo sulla faccenda della spilla da balia!). Il
Master avevo pensato di proporvelo in pantofole e papalina, poi ho
desistito... però lui che al chiuso della sua grotta si
scola l'assenzio spero non sia passato inosservato (gli ho anche fatto
dar fuoco alla zolletta di zucchero secondo la migliore tradizione
hollywoodiana... visto che in realtà non si fa il
flambè con l'assenzio). Ehi... la faccenda della marmellata
della signora Butler vedo che ha girato un bel pò, credevo
fosse appannaggio solo dei fanZ maniacali come la
sottoscritta... comunque, demenze a parte... avrei davvero
voluto metterci molta più quotidianeità di Erik
in questa storia ma alla fine mi sono fatta prendere da altre cose,
spero comunque che gli scampoli di "Erik come non l'avete mai visto"
siano di tuo gradimento. La Divina arriva eh... U_U lei prima o poi
arriva sempre come la bollicina dietro al tallone quando si mettono le
scarpe nuove.
theanglesee69 potrei seriamente abituarmici ai tuoi
complimenti, quindi stai in campana XD no, scherzo. Grazie di cuore ^^
Siete ancora svegli? Siete crollati sulla tastiera? Devo
mandate il Maestro a farvi "bhu!" alle spalle?...
Buona lettura.
Your obidient servant
*******
CAPITOLO NONO
Dove la notte splende
Per lui la notte trascorreva troppo velocemente quando suonava. Le ore
si susseguivano al ritmo della musica lasciando un velo di pesantezza
sulle palpebre e pagine e pagine di note scritte sui pentagrammi,
appunti veloci che sarebbero stati sistemati e corretti il giorno dopo,
in attesa di un'altra notte in cui l'ispirazione si sarebbe concessa
nuovamente a lui come un'amante esigente e arrendevole.
Poiché la musica riusciva a compensare tutto ciò
che mancava nella sua vita di esiliato, persino il calore umano che gli
era stato negato da chi lo aveva abbandonato da bambino, persino la
mancanza di piaceri e urgenze che non si era mai potuto concedere.
Stava scrivendo un'opera sulla storia di Don Juan, come aveva fatto
Mozart cento anni prima. Ma a differenza del talentuoso compositore
austriaco lui non voleva narrare la sconfitta del peccatore destinato
alla dannazione, voleva raccontare di come la passione nella sua forma
più sublime riuscisse a vincere su tutto, anche sulla
morale. Voleva descrivere quanto il confine tra giusto e sbagliato
fosse labile e quanto fosse insidioso il peccato quando assumeva le
fattezze dell'amore. La sua opera si sarebbe intitolata Don Juan
Trionfante. Voleva che il suo capolavoro si scagliasse con la forza
distruttiva di un incendio contro i grandi signori che componevano il
pubblico dell'Opera, voleva sconvolgerli con la sua musica e con le sue
canzoni, riversando il suo furore sulle loro subdole vite dense di
ipocrisia e perbenismo.
Ma l'idea del peccato, del male, per Erik, si confondeva come in uno
strano gioco di specchi che gli restituiva l'immagine distorta del suo
viso, quel viso che lui stesso evitava di guardare. La passione del Don
Juan era come una metafora, per parlare della sua collera, del suo odio
che legittimava, contro ogni morale, la paura e il male che egli stesso
infliggeva quando le circostanze gli permettevano di vendicarsi di quel
mondo che lo aveva rifiutato. In quel buio, in quell'angolo di inferno
in cui si sentiva costretto, anche il Figlio del Diavolo si sarebbe
guadagnato il suo trionfo.
Aveva pensato di scrivere un'opera tragica e solenne che parlasse di
guerra, di morte, di forze incontrastabili contro cui l'uomo non
può nulla, ma da quando Christine era diventata il fulcro
dei suoi pensieri aveva cominciato ad accarezzare l'idea di scrivere
qualcosa sulla passione, come se essa fosse l'unica forza a cui valesse
la pena arrendersi. Lui non conosceva l'amore carnale eppure per i suoi
componimenti si ispirava alle ballate da osteria, tramutando in versi
poetici le canzoni volgari che gli capitava di ascoltare nelle sue
fugaci passeggiate notturne per i bassifondi di Parigi.
Non sapeva che ore fossero quando smise di suonare, sapeva che aveva
passato molto tempo seduto al suo organo fino a quando la musica, che
gli aveva bruciato le vene come un'incredibile arsura, non si era
riversata completamente sul suo quaderno, lasciandolo stanco e spossato
a fare i conti con il sonno accumulato e con il silenzio che segnava i
confini invisibili della sua prigione.
L'uomo si alzò dallo scranno intarsiato e si diresse verso
lo scrittoio dove aveva poggiato il fagotto con la cena che gli aveva
lasciato Eloise. Mangiò svogliatamente il pasto ormai freddo
senza particolare gusto, sbocconcellando gli spicchi di un'arancia
dolce, assorto nei suoi pensieri.
Lui suonava e componeva ogni volta che ne aveva l'urgenza, ma
generalmente gli capitava di farlo di notte quando era certo che il
teatro fosse vuoto e non c'era nessuno da dover controllare, quando si
sentiva più tranquillo e immaginava oltre quelle pareti di
pietra la città avvolta nel buio, proprio come lo era lui.
Di notte poteva persino dimenticare di essere il Fantasma dell'Opera e
immaginare di essere un uomo come tutti gli altri. Per la stessa
ragione usciva raramente ma solo dopo la tarda sera, quando un'altra
parte del mondo si riversava nelle strade, quella gente che i signori
chiamavano “feccia”, gli umili che vivevano la vita
attimo dopo attimo e ogni notte festeggiavano nelle osterie o nei
bordelli l'essere riusciti ad arrivare alla fine di un'altra giornata
senza crepare per gli stenti o senza essere catturati da qualche
gendarme. Lì, in quelle strade nessuno faceva troppo caso a
lui, a un uomo ammantato di nero che camminava con il volto coperto
ignorando le chiacchiere degli ubriachi e le offerte delle prostitute,
come se fosse uno spirito curioso giunto in incognito a visitare il
mondo dei vivi, o più probabilmente lo credevano un ricco
signore che vagava nei bassifondi per trovare soddisfazione ai suoi
desideri più biechi e che nascondeva il suo volto per timore
che qualcuno potesse riconoscerlo e screditarlo.
Gli abiti succinti delle donne di malaffare lasciavano intravedere seni
prosperosi e invitanti, spesso dietro ai volti imbellettati e alle
labbra coperte da rossetti troppo rossi si nascondevano ragazze
giovanissime e talvolta anche assai graziose che la fame aveva
costretto in quella misera condizione. Erik avrebbe potuto cedere e
accettare di trascorrere la notte tra le braccia di una di loro, ma non
l'aveva mai fatto. Non tanto per una questione di rettitudine morale e
nemmeno per paura che la sventurata di turno arrivasse in qualche modo
a vedere il suo volto, semplicemente perché trovava
profondamente vuota un'esperienza di quel genere, malgrado certi
istinti a volte si manifestavano con una tale prepotenza da portarlo
molto vicino ad ascoltare loro piuttosto che la sua ragione. E per di
più, da quando aveva scoperto cosa voleva dire amare una
donna con tutta l'anima, la sola idea di pensare a lei tra le braccia
di un'altra lo aveva disgustato rendendogli assolutamente inaccettabile
quella prospettiva.
Erik gettò alcune bucce di arancia e alcune erbe speziate
nella brace della stufa per profumare l'ambiente, poi si
spogliò e si mise a letto, rimandando ogni preoccupazione e
ogni idea a quando si sarebbe svegliato.
*
«...se
dovessimo avere ancora bisogno di voi sapremo dove trovarvi»
Quelle parole le facevano eco nella testa suonando come una minaccia.
La voce di Bertrand scorreva ancora nelle sue orecchie, sentiva ancora
il suo sguardo posarsi su di lei per analizzarla, per portare alla luce
tutte le macchie della sua anima. Lei aveva sempre pensato che il suo
animo fosse puro, eppure poco prima aveva mentito con una grande
maestria da attrice, come se fosse abituata a farlo, come se pensasse
che la menzogna fosse un'arma legittima.
Lo aveva fatto per lui. Non aveva bisogno di ripeterselo, non aveva
bisogno di giustificarsi per questo.
Lo aveva fatto per lui e lo avrebbe rifatto altre dieci, cento, mille
volte!
Era sbagliato? Sì, probabilmente lo era. Ma troppo spesso in
quelle ultime settimane si era detta che era tardi per tornare
indietro. Era stato così dal momento in cui Erik le aveva
teso la mano dietro lo specchio e lei si era lasciata portare via.
Quella sera le era bastato fare un solo passo verso di lui, ma quel
passo aveva segnato la sua sorte catapultandola quasi violentemente
verso una notte dalla quale non sarebbe più riemersa,
perché non ne aveva la forza, perché non ne aveva
la volontà. Perché quel buio era così
avvolgente e confortevole che la faceva sentire in pace, malgrado non
fosse in grado di sapere quali insidie si potessero celare in
quell'oscurità. La voce di Erik che cantava nella sua
testa, il pensiero di quelle braccia che avrebbe voluto che
la stringessero, le sue dita sul suo viso... e i suoi occhi. Tutto
ciò costituiva forse un piccolo grande tesoro per il quale
valeva la pena pagare il prezzo che Dio, o forse la sorte, le avrebbe
richiesto.
Sciocca, piccola,
stupida, impudente!
No, non poteva essere così... una cosa così
grande non poteva essere così facile, non poteva sembrarle
naturale. Non poteva appartenerle! Non poteva appartenere a quella
timida e mite fanciulla cresciuta in un collegio di ballerine.
Christine tornò nella sua stanza, chiuse la porta dietro di
sé facendola sbattere e si poggiò con le spalle
contro il battente di legno. Voleva chiudere fuori tutto,
l'interrogatorio di Bertrand, l'impegno del nuovo spettacolo, Raoul,
Erik! Voleva che tutto ritornasse come una volta, voleva guardarsi di
nuovo dentro e trovarsi pulita. Voleva essere di nuovo come prima,
quando era... quando era sola.
No... non era la solitudine che voleva.
Christine si prese la testa fra le mani e scivolò con la
schiena piegando le ginocchia, fino a quando non si ritrovò
accovacciata sul pavimento. I pensieri si impigliavano ai suoi
meravigliosi riccioli castani. Riflessioni contorte e contraddittorie
che si smentivano l'una con l'altra facendole smarrire la
consapevolezza di ciò che era. Idee e fantasticherie che la
colpivano come bastonate, martoriandole il capo con stilettate di
dolore che minacciava di farle scoppiare la testa.
Con un gemito di disperazione, Christine si alzò da terra e
indossò la sua mantella. Sarebbe andata in chiesa,
a confessarsi a chiedere perdono a Dio, sperando che il Signore volesse
concedere il suo aiuto alla più sciocca delle Sue figlie, a
quella bimba smarrita senza pace.
Uscì dal teatro a passi rapidi, mentre una pioggia fredda e
insistente si abbatteva su Parigi, coprendo con il suo ritmico
ticchettio i pensieri tormentati della ragazza.
Christine rimase in piedi in mezzo alla piazza del teatro, lasciando
che la pioggia le cadesse addosso e le inzuppasse il mantello di lana,
si voltò un attimo a guardare l'Opera e alcune gocce fredde
le bagnarono la fronte e le guance, dandole un senso di sollievo come
se fosse stata affetta dal calore appiccicoso di una febbre incurabile.
La giovane sospirò e mentre i suoi pensieri tacevano
comprese quale fosse il posto più adatto in cui recarsi.
Mentre tornava indietro per raggiungere Rue Scribe, Christine
pregò e chiese a Dio di perdonarla se in quel momento Lo
stava mettendo da parte per un'esigenza che di cui avvertiva
maggiormente il bisogno.
Non fu facile percorrere quel cunicolo di pietra buio pesto senza
l'ausilio di una lampada, dovette procedere tutto il tempo reggendosi
contro il muro, camminando piano per non inciampare e sperando di non
imbattersi in nessun ratto e in nessun insetto.
Fu un sollievo per lei quando, dopo un tempo interminabile, raggiunse
l'ingresso che immetteva nella grotta sotterranea. Cercò a
tastoni la molla che faceva scattare l'apertura della porta, a
sinistra, in basso, dove le aveva mostrato Erik.
Quando finalmente riuscì ad accedere alla Dimora sul Lago
ciò che vide non fu molto confortante. La grotta era in
penombra, le candele erano quasi tutte spente e non c'era traccia del
suo abitante. Intanto l'aria non odorava di chiuso o di
umidità, aveva un aroma piacevole di agrumi e spezie.
Probabilmente Erik non era in casa, a quell'ora forse si trovava in
superficie, a controllare cosa stesse accadendo nel suo teatro. La
ragazza si chiese se fosse il caso di aspettare il suo ritorno, non
voleva che lui si infastidisse nel trovarla lì, nel sapere
che lei era rimasta in quella casa in sua assenza.
«... se
dovessimo avere ancora bisogno di voi sapremo dove trovarvi»
No, lì non l'avrebbero trovata!
Christine si disse che era meglio rimanere dov'era e rischiare di
urtare la suscettibilità di Erik piuttosto che imbattersi
nuovamente in Bertrand e nei suoi orribili sorrisi di circostanza.
Procedendo con cautela nella penombra la giovane raggiunse lo
scrittoio, avrebbe aspettato Erik seduta sulla sedia, non avrebbe
toccato niente, non avrebbe invaso il suo mondo.
Sul piano della scrivania la ragazza vide che c'era un piatto sporco
con dentro delle posate e un tovagliolo sul quale erano raccolte alcune
bucce di arancia. Era come se qualcuno avesse da poco consumato la cena.
«Ma sono le dieci del mattino!» pensò
Christine perplessa, poi sobbalzò nel sentire un fruscio
leggero, appena percettibile, provenire da un angolo della grotta.
La giovane si alzò e sfruttando la poca illuminazione
raggiunse il lato opposto della Dimora sul Lago, scese le scale di
pietra a destra dell'organo e vide che l'insenatura in cui ricordava
essere sistemato il letto a forma di cigno era coperta dalle tende di
organza, le stesse che avevano protetto il suo sonno la prima volta che
si era trovata in quel posto fantastico. Possibile che Erik stesse
dormendo? A quell'ora? Non lo avrebbe mai creduto un uomo tanto pigro.
Christine scostò con cautela la tenda e frenò a
stento un'esclamazione di sorpresa.
Erik era addormentato nel suo letto, sembrava immerso in un sonno
profondo, anche se il cono d'ombra non rendeva visibile il suo viso
affondato in una pila di morbidi guanciali. Nella luce fioca di una
lampada ad olio posata su una mensola poco distante dal letto Christine
riusciva a scorgere appena il profilo del suo corpo. L'uomo dormiva sul
fianco sinistro, con un braccio steso lungo il materasso e con l'altro
poggiato sui cuscini sopra la testa. Le coltri che coprivano il
giaciglio del Fantasma erano spesse per proteggersi dal freddo
pungente, ma lui doveva averle scostate via nel sonno perché
giacevano ammassate in mezzo al materasso e arrotolate intorno alle sue
gambe, lasciando scoperti il torace e l'addome fino all'ombelico.
Christine non aveva mai osservato un uomo svestito e la
curiosità la spinse a indugiare con lo sguardo sulle forme
di quel corpo magro ma robusto. I muscoli erano ben delineati da curve
morbide e armoniose come quelle di una scultura, e la ragazza
osservò le linee della figura di Erik fino a
percorrere con lo sguardo il torace ampio, per risalire lungo la linea
elegante del collo che si curvava decisa nel profilo della mascella e
del mento e poi spariva nel buio in cui era nascosto il volto, come se
la perenne notte che regnava in quei sotterranei continuasse a fargli
da maschera, continuasse a proteggerlo dal mondo, come diceva lui, o da
se stesso, come pensava Christine.
L'uomo sospirò nel sonno e si voltò sulla schiena
con un movimento languido che fece scivolare le coperte più
in basso del bacino. La fanciulla chiuse gli occhi avvampando per
l'imbarazzo, rendendosi conto che sarebbe stato assolutamente
inaccettabile violare in quel modo l'intimità del suo
maestro, quindi richiuse la tenda ed indietreggiò di alcuni
passi.
Aspettò qualche secondo in cui approfittò per
costringersi a scacciare dalla mente l'immagine dell'uomo addormentato,
poi si decise a chiamarlo,
«Erik?... ci siete?» domandò ad alta
voce per lasciargli credere che non lo avesse visto. Lo
sentì sbuffare da dietro la tenda, come se non si
fosse reso conto che la voce che lo stava chiamando non era un sogno
molesto,
«Erik...» insistette lei.
«Christine!». La voce del suo maestro
arrivò leggermente ovattata dal sonno e increspata da una
nota di stupore.
«Pe... perdonatemi... io avevo bisogno di
vedervi...» farfugliò lei.
«Resta dove sei, arrivo» concluse l'uomo con il suo
solito tono deciso e autoritario, che però non tradiva
né rimprovero né tanto meno una particolare
contentezza.
Christine si rannicchiò su un gradino e attese. Oltre le
tende poteva sentire il rumore della stoffa e dei passi dei piedi nudi
sulla pietra.
Dopo qualche minuto Erik scostò la tenda reggendo un lume ad
olio, aveva indossato una camicia e un paio di calzoni di seta, e sopra
portava una vestaglia di velluto scuro. Chinò il capo per
guardare la ragazza che era rimasta seduta in fondo alla piccola
scalinata aspettando che lei gli spiegasse il motivo di quella
improvvisa incursione.
Christine arrossì sperando che il suo maestro non si fosse
reso conto del fatto che fosse rimasta a osservarlo mentre dormiva, il
solo ricordo di quel gesto tanto azzardato la turbava.
«Hai i vestiti bagnati» osservò Erik con
voce inespressiva.
«Solo il mantello» rispose la giovane sfilandosi
l'indumento umido, l'uomo se lo fece consegnare e lo poggiò
accanto alla stufa poi si fermò in piedi davanti a lei.
«Perdonate se vi ho svegliato» mormorò
Christine dispiaciuta. «Sono davvero mortificata, ma non
pensavo che vi avrei trovato addormentato a quest'ora»
«Non importa»
«Ad essere sincera, vi immaginavo più
mattiniero».
Erik le concesse un mezzo sorriso divertito,
«È complicato essere mattinieri o nottambuli
quando si vive in un posto dove non si possono distinguere il giorno o
la sera» disse. «Mi ero coricato
stamattina».
Christine lo osservò sbattendo le palpebre e chiedendosi
cosa lo avesse tenuto sveglio tutta la notte,
«Scusate, ma volevo parlare con voi» ammise
semplicemente.
Erik annuì e la prese delicatamente per mano, facendola
alzare e portandola a sedere davanti allo scrittoio,
«Dimmi pure, ti ascolto» mormorò lui
cominciando ad accendere le candele le cui fiamme presero a riflettersi
sulle superfici degli specchi illuminando a giorno la Dimora sul Lago.
«Oggi ho avuto il piacere, se così si
può dire, di parlare con l'uomo che si sta occupando delle
indagini su di voi» esordì Christine, spiando con
una certa ansia il suo interlocutore.
Erik lasciò cadere in terra il fiammifero con cui stava
finendo di accendere le candele e si voltò verso di lei,
inarcò il sopracciglio con aria seria,
«Dunque? Continua» disse.
«Ho detto di non sapere niente, se è questo che vi
preoccupa»
«E loro ti hanno creduta?»
«Vi dirò, sareste stato fiero della mia prova di
attrice se mi aveste visto» nella voce della fanciulla c'era
una nota di astio e risentimento che non sfuggì al suo
maestro. Probabilmente la giovane si stava chiedendo se lui dubitasse
della sua lealtà.
«Uhm, hai perso un'occasione, potevi raccontare loro la
verità e liberarti di un grosso peso»
rispose sarcastico.
«Non prendetevi gioco di me!» protestò
debolmente Christine. «Se solo sapeste cosa ho dovuto
sopportare!» la ragazza si coprì il volto con le
mani per nascondere le lacrime di indignazione che le stavano
inumidendo gli occhi. Erik restò a guardarla senza avere il
coraggio di avvicinarsi, non voleva farla piangere, non era sua
intenzione ferirla. Si maledisse per quell'ennesima dimostrazione di
indelicatezza.
«Quell'uomo orribile... ha insinuato che io stia reggendo il
gioco a qualche amante per chissà quale squallida
ambizione!... io... io che non ho fatto nulla, se non volervi bene e
affidarmi a voi...» disse lei con voce lamentevole.
Erik le andò incontrò e le posò le
mani sulle spalle,
«Tranquilla Christine, solo un uomo scellerato abituato alle
cose più subdole può dubitare del tuo onore e
della tua onestà» le disse, proferendo quelle
parole con una dolcezza che nemmeno nel canto la sua voce aveva mai
assunto.
La ragazza scattò in piedi e gli si gettò tra le
braccia aggrappandosi con le dita ai lembi della sua camicia,
nascondendo il viso nel suo petto.
L'uomo rimase in una ridicola posizione, con le braccia sospese a
mezz'aria quasi come se avesse paura di toccarla. Sentiva il viso di
Christine umido di pianto attaccarsi alla stoffa della sua camicia e
percepì tutta la sua paura e il motivo della sua agitazione.
Christine si sentiva come se fosse assediata. Non era semplicemente
l'interrogatorio di Bertrand ad averla turbata, quanto il fatto che
temesse di essere presa di mira da quell'uomo. Le erano capitate troppe
cose nell'ultimo periodo, l'entrata di Erik nella sua vita, l'amore di
Raoul che non aveva potuto ricambiare, il ricordo di suo padre,
l'essere stata scelta come protagonista del prossimo spettacolo, la
consapevolezza di strani sentimenti mai provati che si stavano
insinuando nel suo cuore senza che lei riuscisse a gestirli. Tutte cose
avvenute una dietro l'altra, nella sua vita che fino a poche settimane
prima era stata così meravigliosamente tranquilla nella sua
monotonia. Era abituata a svegliarsi ogni giorno sapendo esattamente
cosa sarebbe accaduto nell'attesa che arrivasse la sera, ma ora non
sapeva più nulla.
«Erik... io ho paura... ho così tanta paura che vi
accada qualcosa...» disse con voce rotta.
L'uomo si decise a sollevare un braccio e posarlo sulla sua schiena
scossa dai singhiozzi,
«So badare a me stesso, bambina mia, pensa solo a stare
serena...» le sussurrò azzardando una carezza
tenera tra i capelli.
«No, ho paura che se quell'uomo continua a darmi il tormento
io possa finire per rivelargli ciò che non deve sapere...
non voglio che voi siate esposto al pericolo a causa mia».
Erik si irrigidì stringendo i pugni mentre alcune ciocche di
capelli della fanciulla si impigliavano intorno alle dita,
finì per farle male e solo allora lei sembrò
rendersi conto del fatto che era tra le sue braccia, che con le lacrime
aveva lasciato un alone di bagnato sul tessuto della camicia.
«Ah, perdonatemi!» esclamò sciogliendosi
da quell'abbraccio e ritraendosi.
Gli occhi di Erik brillavano di una furia selvaggia, come se fossero
gli occhi di una belva pronta ad attaccare,
«Lo ucciderò! Lo ucciderò prima che ti
possa far versare anche solo un'altra lacrima»
sibilò con una voce bassa e minacciosa che Christine non gli
aveva mai sentito, che quasi non sembrava venire dalle sue labbra. Era
come se ci fosse un demone che dal sottosuolo aveva soffiato nell'aria
quelle parole terribili.
La ragazza indietreggiò di qualche passo, quello sguardo e
quel tono le erano parsi davvero agghiaccianti e lui se ne stava ritto
davanti allo scrittoio con gli occhi persi nel vuoto e la mente che
elaborava chissà quale terribile piano di morte.
«No!» gridò la ragazza con tanto orrore
e tanta forza che le fiamme delle candele sembrano tremare per la
veemenza di quell'esclamazione.
Christine cadde in ginocchio ai piedi del suo maestro e gli prese una
mano tra le sue. Combattendo contro la paura si costrinse ad alzare lo
sguardo per fissarlo negli occhi,
«Erik, ve ne prego... vi supplico» disse mentre il
respiro le inciampava nei singhiozzi rendendole difficile continuare a
parlare. «Non fatelo, né per me, né per
voi stesso, né per nessun altro! Giuratemi che non
ucciderete quell'uomo, che non ucciderete mai più...
farò ciò che volete, farò ogni cosa mi
chiediate ma datemi la vostra parola che non vi macchierete mai
più di un simile crimine... dimostrate che non siete il
mostro che cercano... potreste riuscire a convincere anche voi
stesso!» ciò detto la fanciulla
avvicinò il volto alla mano dell'uomo e continuò
a piangere.
Erik rimase senza fiato. L'angoscia cominciò a serpeggiargli
nelle vene come un veleno, le dita di Christine stringevano ancora la
sua mano e lei era lì in ginocchio a supplicarlo di placare
quell'odio che per una vita intera aveva dato uno scopo ad ogni sua
azione. Era lì ai suoi piedi, fragile come un sogno, un
bellissimo fiore che piangeva lacrime come se fossero nettare, bella e
disperata come una donna e pura e buona come una bambina. Un angelo a
cui lui aveva malignamente desiderato di spezzare le ali per non
permettergli di volare via... e in quel momento avrebbe solo voluto
chinarsi su di lei a asciugarle quelle lacrime con le labbra, e poter
accarezzare la sua pelle fino a morire tra le sue braccia
perché quella visione gli portava via aria, gli prosciugava
il sangue.
Un senso viscido di disgusto gli serrò la gola e
spazzò via quelle immagini poetiche provocandogli un conato
di vomito: che razza di creatura immonda doveva essere per far
disperare in quel modo la sua piccola Christine, per spaventarla, per
farle provare tutto quell'orrore! Atterrito e sconvolto Erik cadde a
sedere sul pavimento accanto alla ragazza,
«Sì, Christine... te lo giuro! Te lo
giuro!» esclamò mentre la sua voce disperata
quanto la supplica della fanciulla riecheggiava nella grotta. In quel
momento sarebbe morto se solo lei glielo avesse chiesto.
La abbracciò stringendola a sé con forza mentre
lei sollevava la mano per accarezzargli dolcemente la testa.
«Se mai ho una speranza di salvezza quella sei tu, angelo
mio» sussurrò Erik con voce quasi delirevole.
Quelle due anime restarono abbracciate, aggrappate l'una all'altra,
tanto che quando l'uomo e la ragazza si alzarono da quel pavimento
ebbero la sensazione che i loro spiriti si fossero mescolati in un
intreccio così stretto da non riuscire più a
capire quale spicchio di anima appartenesse a lei o a lui.
_______________________________________________________________________
Note:
Non vorrei sembrarvi narcisista, ma devo confessarvi questo
capitolo mi piace moltissimo. Forse è un pò
pesante, "cupo" ed eccessivo... forse ho calcato troppo la mano, ma
più di una volta mentre lo scrivevo mi è mancata
l'aria. L'ho scritto in un momento molto bello per me (anche se a
leggerlo non si direbbe) e spero di essere riuscita a trasmettere tutta
l'intensità che stavo provando.
Lo so, lo so che è un pò insulsa la
descrizione del Master dormiente alla "mamma-mia-quanto-sei-fiko"... ma
non ho saputo risparmiarmela (e posso accampare la scusa che mi serve
per introdurre l'attrazione anche fisica che Christine comincia a
provare per lui) !!!
Al prossimo lunedì
Capitolo reinserito il 23\12\2011
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Capitolo 11 *** La trappola ***
OCCIELO è
lunedì.
Settimana nuova capitolo nuovo... che va assolutamente
preceduto dai ringraziamenti e dalle risposte dell'autrice spiantata
alle sue argute lettrici. Ovviamente ringrazio chiunque sia passato di
qui.
@Amy: il capitolo non è stato ispirato da nessun
ometto, quando ho detto che l'ho scritto in un momento bello non
parlavo di "bellezze sentimentali", sono spoetata e a-romantica, come
potrei? XD Detto ciò, la scena dell'assenzio è
stata ispirata da una mia bevuta, non da quella di zio Johnny, ma la
scena di From Hell a cui fai riferimento è un buon modo di
spiegare quanto possa far fiko l'assenzio al falmbè sul
grande schermo (specie se è fiko chi lo beve). Fermo
restando che non credo che la chupa dance sia una soluzione e che non
è quello che volevo intendere, e fermo restando che per me
la diatriba sulla verginità di Erik lascia il tempo che
trova, vero è che la mancanza di contatto fisico (e non
parlo solo dei rapporti sessuali) è un'ulteriore spiegazione
del suo senso di frustrazione, ma non è che sia il
particolare più rilevante della vicenda... è che
nella mia mente contorta Erik è troppo "snob" per andare con
una prostituta e nel descrivere il personaggio come lo vedo io volevo
sottolineare anche questo. Lieta di vedere che BB funzioni... la Divina
nel mio universo fansmoso è come la nutella: che mondo
sarebbe senza di lei, quindi vedrai che arriva (mi pare sia propro nel
prossimo capitolo)! ^^
@bloodred_rose: benritrovata ^^ grazie dei complimenti,
confesso che il fatto che questa storia sembri meglio dell'altra mi fa
gongolare non poco... insomma, è confortante pensare che
magari un pò si sta migliorando quindi grazie, grazie grazie
*_* E sono contenta che Bertrand intrighi... io voglio molto bene al
mio viscidone puzzolente di tabacco XD Per i congiuntivi, hai fatto
benissimo a farmelo notare, ora ricontrollo il capitolo e sistemo se ho
fatto qualche svarione (il che è molto probabile, vi
dirò, questa storia l'ho cominciata quasi un anno fa, i
capitoli che state leggendo adesso li ho scritti in un tempo e uno
spazio un pò diversi dal presente e li ho riletti e
controllati all'epoca ma è probabile che qualcosa mi sia
sfuggito).
Detto ciò... Buona lettura.
I remain, gentlemen,
your obidient servant
*******
CAPITOLO DECIMO
La trappola
La domestica sparecchiò con discrezione, cercando di non
disturbare la conversazione tra madame Ginette e suo figlio, dal
momento che la discussione sembrava stesse prendendo una piega
piuttosto grave.
«Sono tua madre, Alexandre! Avrò il diritto di
preoccuparmi per te e di ritenere tutto questo una follia!»
esclamò la donna lasciando cadere il tovagliolo sul tavolo
con un gesto stizzito.
Il ragazzo sospirò e si morse il labbro inferiore. Non
voleva mancare di rispetto a sua madre e non voleva turbarla, ma non
era facile per lui dividersi tra il giornale, le indagini in teatro e
le preoccupazioni che lei involontariamente gli procurava.
«Una follia?! Io sto cercando di fare il mio lavoro, di
realizzare l'impresa che ho sempre sognato! Quando smetterete di
ritenere i miei progetti i capricci di un ragazzino non sarà
mai troppo tardi!» esclamò Alexandre incrociando
le braccia sul petto.
«Io sono la prima ad essere felice se il tuo lavoro ti
procura soddisfazione, ma il tuo posto è nella redazione del
giornale, non in quel teatro a dare la caccia a un omicida!»
«Credete dunque che ciò che mi soddisfa sia
restarmene dietro a una scrivania a scrivere poche righe su fatti
comuni? In quel teatro sta succedendo qualcosa, non so cosa ma
è di certo qualcosa di interessante, qualcosa che vale la
pena di raccontare, qualcosa...»
«Qualcosa di pericoloso!» interruppe madame
Ginette. «Devo ricordarti che i direttori dell'Opera ricevono
continue minacce, che è già morto un uomo, e noi
eravamo lì quando è successo, come puoi aver
dimenticato quella scena orribile?».
La donna si coprì il volto con le mani come per scacciare
dalla mente la terribile immagine del cadavere del macchinista che
cadeva senza vita sul palcoscenico.
«Non ho dimenticato la morte di quell'uomo» disse
Alexandre gravemente.
«E allora perché hai accettato questo incarico?
Per fare la sua stessa fine?» incalzò sua madre.
«Forse per rendergli giustizia! Ve l'ho già
spiegato, c'è una storia che va raccontata, c'è
una verità che va scoperta e voglio essere io a
farlo»
«Cosa direbbe tuo padre di tanta incoscienza?!»
«Non nominate mio padre! Probabilmente a lui non sarebbe
importato...»
«Non dire queste cose orribili! Tuo padre ti amava, lui era
orgoglioso di te e lo sai»
«Certo, peccato che io non fossi orgoglioso di
lui!» ribatté il ragazzo.
«Ti proibisco di parlare in questo modo» lo
ammonì la donna con aria severa.
Alexandre sentì la collera salire assieme a una vampata di
calore che gli arrossò le guance. Ebbe la sensazione che il
cervello gli friggesse come se fosse stato un pezzo di carne gettato su
una superficie arroventata. Non amava sentir parlare di suo padre, meno
che mai quando sua madre lo tirava in ballo per muovergli dei
rimproveri.
«Ebbene vogliamo parlare di che grande uomo sia stato Simone
Dubois?» disse in tono di sfida. «Un marito
infedele, un padre assente, un uomo del tutto disamorato. È
colpa sua se voi...»
«Se io sono impazzita? È questo che vuoi
dire?»
«Voi non siete pazza»
«Forse no, ma è così che definiscono la
gente come me» rispose madame Ginette con voce spenta.
«E sai bene che non è stata colpa di tuo padre...
se mio figlio non fosse morto io...»
«Va bene, basta così» mormorò
Alexandre. Il senso di colpa cominciava ad attanagliargli lo stomaco.
«Mi dispiace di avervi turbata maman, e vi chiedo scusa, ma
io non sono più un ragazzino oramai».
Madame Ginette sospirò con aria afflitta,
«Non c'è niente che io possa fare per farti
rinunciare a questa impresa?» chiese con voce implorante.
Suo figlio scosse energicamente la testa,
«Ora, scusate maman, ma devo andare» disse
alzandosi da tavola facendo strisciare rumorosamente la sedia sul
pavimento di marmo.
«Alexandre, aspetta...». La donna si
aggrappò alla manica della giacca del giovane e
cercò il suo sguardo. «Mi dispiace se a volte ti
do così tanta pena» mormorò con gli
occhi umidi.
Lui le posò un bacio tra i capelli e accennò un
sorrido colmo di tenerezza,
«Voi non siete una pena per me, voglio che lo teniate bene a
mente».
Alexandre afferrò il cappotto e si legò una
sciarpa di lana scura attorno al collo.
Il cielo sopra Parigi era cupo, denso di nuvole che da giorni ormai non
lasciavano tregua alla città presa d'assedio da uno degli
inverni più rigidi che si fossero mai visti.
Malgrado il freddo pungente, il giornalista decise di recarsi a piedi a
teatro. Aveva un appuntamento con Bertrand dopo pranzo e l'Opera non
distava molto da casa sua. Per di più, aveva bisogno di
schiarirsi le idee e raffreddare la rabbia che lo accendeva ogni
qualvolta sentiva parlare di suo padre.
Il teatro era vuoto e silenzioso, le candele erano spente e sembrava
che le nuvole basse fossero penetrate all'interno dei muri
dell'edificio rendendo l'aria scura e pesante, o magnificamente
spettrale, avrebbe potuto dire il giovane. Era così che
voleva descrivere l'Opera Populaire nei suoi scritti quando avrebbe
cominciato la stesura del suo romanzo: un magnifico scrigno pieno di
tesori e insidie.
Mentre raggiungeva l'ufficio dei direttori, Alexandre sentì
uno scricchiolio in lontananza, si voltò e vide qualcosa.
Qualcosa che la sua mente razionale etichettò in un primo
momento come una suggestione: in fondo al corridoio che si perdeva in
un cono d'ombra il ragazzo aveva visto distintamente un guizzo bianco
sparire oltre l'angolo del muro e da quello stesso punto era partito un
suono che si dissolveva nella penombra come se fossero le pareti stesse
a produrlo, era come se il teatro respirasse, era come se fosse vivo.
Alexandre si disse di non farci caso, che gli era già
capitato di lasciarsi suggestionare in quel modo sciocco, eppure il
suono non smetteva. Si trattava di un canto dolce e soave, una voce
angelica che imitava il motivo di un'aria di Rossini.
In un impeto di curiosità e incoscienza il giovane si
lanciò verso il fondo del corridoio,
«Chi è là?!»
domandò senza ottenere risposta.
Affrettò i suoi passi e si ritrovò a correre
lungo il corridoio, scoprì che questo terminava davanti a
una porta a due battenti tinteggiata quasi di fresco con una vernice
color madreperla e le rifiniture dorate.
Alexandre esitò un attimo prima di girare il pomello a forma
di fiore, ma la voce continuava a cantare e lui era certo che chiunque
fosse si trovava dietro quella porta.
Spalancò il battente spingendosi oltre l'uscio con aria
concitata ma si ritrovò a boccheggiare incredulo quando si
accorse che era maggiore lo spavento che aveva provocato che non
l'ansia che gli aveva gelato il sangue in quello strano inseguimento.
«Monsieur Dubois!» esclamò Christine con
aria più turbata che interdetta.
«Mad... mademoiselle Daae, siete voi»
farfugliò il giovane deglutendo.
«Ma cosa stavate facendo?»
«Assolutamente nulla. Abbiamo finito le prove e sto
raggiungendo le mie compagne per il pranzo»
«Eravate voi a cantare poc'anzi?».
La giovane annuì. Alexandre si stropicciò la
faccia e ridacchiò di se stesso.
«Ma che avete? Cosa vi succede?» domandò
Christine corrugando la fronte.
«Nulla, nulla... avevo sentito una voce che cantava, volevo
vedere chi fosse» rispose il giornalista cercando di
ricomporsi.
«State ancora dando la caccia ai fantasmi?»
borbottò lei con aria crucciata.
«Vi ho anche chiamato ma non mi avete risposto è
per questo che vi ho seguito, non pensavo foste voi, non volevo
spaventarvi»
«Bene, vi auguro buona giornata monsieur».
Ciò detto Christine fece per voltarsi e andarsene, ma
Alexandre la trattenne,
«Aspettate» disse titubante. «Dal vostro
tono freddo capisco che siete ancora interdetta per l'altro giorno, per
l'interrogatorio. Volevo sapeste che mi dispiace»
«Voi e il vostro collega mi avete mosso delle accuse
indicibili, cosa pretendete? Che vi accordi la mia stima?»
«È stato Bertrand a dire quelle cose, non io. Io
non penso che bene di voi»
«E perché dovreste pensare bene di me? Non mi
conoscete nemmeno» osservò la giovane.
«Siete molto cara al migliore amico che io abbia mai avuto,
se lui vi stima e vi crede degna del suo affetto io non posso che fare
altrettanto» disse Alexandre.
Christine parve rabbonirsi e gli concesse un mezzo sorriso,
«Quand'è così allora vi ringrazio.
Forse sono stata frettolosa nel giudicarvi, del resto Raoul non vi
riterrebbe suo amico se non foste assolutamente rispettabile»
«Vi prometto che farò tutto quanto è in
mio potere perché non si verifichi mai più un
episodio increscioso come quello che è capitato l'altro
giorno».
La fanciulla sospirò. In quei giorni tutti sembravano
sentirsi in dovere di farle promesse, promesse che andavano contro le
loro possibilità o la loro natura e lei non capiva
perché, da un po' di tempo a quella parte, ogni cosa
sembrava girare attorno a lei, come se fosse il burattino inconsapevole
di strane macchinazioni. Che volevano tutti quanti da lei? Raoul,
Bertrand, quel giornalista, Erik...
Ah Erik glielo aveva detto con estrema chiarezza ciò che
voleva da lei: voleva farla diventare una stella del canto,
perché così facendo avrebbe avuto la
soddisfazione di trarre una forma di successo dal proprio genio
costretto a rimanere nascosto nell'ombra. O almeno questo era
ciò che Christine preferiva raccontarsi per non guardare
troppo infondo, dentro se stessa e oltre i gesti e le parole del suo
maestro. Preferiva non farsi illusioni e pensare che anche per lui era
solo un mezzo per raggiungere uno scopo, l'aiuto che le occorreva per
imparare a sfruttare al massimo il proprio talento.
«A cosa state pensando Christine?»
domandò Alexandre sottraendola alle proprie riflessioni.
«A nulla...»
«Ditemi, come procedono le prove per l'Otello?»
«Molto bene direi, spero di essere all'altezza della grande
occasione che mi è stata data» sospirò
la fanciulla.
«Lo sarete di certo» rispose prontamente il
giornalista con un sorriso complice. «Ora perdonatemi, ma
devo incontrarmi con monsieur Bertrand»
«Certo, non voglio farvi perdere altro tempo. Buon
pomeriggio, monsieur»
«Altrettanto».
*
Sorrideva sempre in quelle occasioni, ma senza rendersene conto. Un
sorriso maligno, tagliente, un'espressione degna del Figlio del
Diavolo. Il sorriso soddisfatto e beffardo di chi pregusta la vittoria,
di chi sta per avere conferma di essere il più forte,
malgrado tutti gli sforzi che altri fanno per schiacciarlo.
Erik osservò soddisfatto il lavoro. Le corde tese, la molla
della botola pronta a scattare, le poche candele sistemate ad arte.
Aveva promesso a Christine che non avrebbe ucciso più, e il
trasporto con cui aveva pronunciato quel giuramento era stato tale da
rendergli impossibile anche solo pensare di infrangerlo. Ma questo non
voleva dire che non avrebbe trovato un sistema per occuparsi di
quell'uomo, di quello stolto scribacchino che si credeva tanto arguto.
Era giusto mostrare al giovane Alexandre Dubois la soglia dell'inferno,
così che tornasse sui suoi passi, che si rendesse conto che
la verità che cercava con tanta devozione e convinzione
fosse troppo raccapricciante per essere scoperta e raccontata.
Mirava al giornalista perché si era reso conto che era
inutile tentare di dissuadere Bertrand. Quell'uomo era un segugio che
prendeva ogni caso come una questione personale e la sua torbida
carriera era la dimostrazione che sarebbe stato disposto a tutto pur di
arrivare in fondo a quella faccenda. Ma se il suo complice, se il
giornalista che tanto gli era di aiuto con le sue brillanti intuizioni,
si fosse tirato indietro lasciandolo solo sarebbe stato più
facile contrastarlo.
Lui conosceva molti modi per dissuadere un uomo, modi che includevano
sistemi più efficaci di una lettera dai toni minacciosi.
Era proprio curioso di sapere se la resistenza fisica di Dubois era
pari alla sua testardaggine, se anche davanti al dolore avrebbe
mostrato la stessa tenacia.
«Perfetto» sibilò Erik osservando il
nodo scorsoio, poi si allontanò dalla botola e si
appoggiò con le spalle contro il muro.
Ora non restava altro da fare che attendere.
*
«Io sono convinta che esista! E sono certa che sia un
uomo!» esclamò Meg guardando con aria convinta il
giornalista e l'investigatore che stavano interrogando le ballerine.
Alexandre aveva avuto poche cose da annotare sul suo taccuino quel
giorno. Le ragazze del collegio non avevano raccontato nulla di
interessante, niente che fosse diverso da tutte le storie che avevano
già sentito per bocca dei macchinisti, ma quando la giovane
Giry aveva fatto quell'affermazione con tanta sicurezza gli occhi di
Bertrand si erano illuminati.
«E cosa ve lo fa credere, mademoiselle?»
l'investigatore incitò la ragazza a continuare nell'esporre
la sua tesi, ma non notò che dal lato opposto della sala
madame Giry aveva lanciato a sua figlia una severa occhiata di
ammonimento per zittirla.
La fanciulla bionda deglutì nervosamente,
«I fantasmi non esistono» tagliò corto,
in tono pratico.
L'investigatore annuì
«Certo, mademoiselle, questo è il motivo per cui i
direttori hanno chiamato me, altrimenti avrebbero chiamato una
fattucchiera»
«Mademoiselle Giry,» intervenne Alexandre,
«mi sembrate molto convinta della vostra affermazione,
potreste dirci qualcosa di più?».
Meg scrollò le spalle,
«Quell'essere, chiunque esso sia, ha terrorizzato il teatro
per anni. Se c'è qualcuno che si aggira indisturbato nel
posto in cui vivo voglio che venga trovato! Ha già ucciso un
uomo, e Dio solo sa cos'altro è capace di fare, e se usasse
violenza a una di noi?! Signori, voglio che quel mostro venga trovato,
farei di tutto per aiutarvi ad avere la sua testa...
ma...».La ballerina si interruppe abbassando lo sguardo.
«Ma cosa?»
«Ma sfortunatamente non so nulla...»
«Molto bene, mia cara, come ho già detto alle
vostre compagne, se vi dovesse venire in mente qualcosa, anche un
particolare che vi sembra sciocco, non esitate a parlarcene»
concluse Bertrand.
Il giornalista e l'investigatore salutarono le ballerine e lasciarono
madame Giry sola con le sue allieve.
«Ragazze, potete andare per oggi» disse
l'istruttrice con un sospiro spazientito. «Tanto ormai
è inutile continuare la lezione, i signori hanno
abbondantemente minato la vostra concentrazione per questo
pomeriggio».
«A domani, madame!» salutarono in coro le fanciulle
con le loro voci cristalline.
Eloise rivolse loro un mezzo sorriso e le osservò uscire
ordinatamente dalla sala, aggraziate come boccioli posati sui loro
steli.
«Tu no, Meg» disse poi trattenendo sua figlia per
il braccio e fissandola con freddezza.
Quando la sala si fu sfollata, Eloise si portò le mani ai
fianchi e sospirò spazientita,
«Cosa diamine stavi facendo?!» esclamò
incollerita
«Quello che dovresti fare tu, maman!»
replicò la giovane. «Denunciare quel
mostro!»
«Ti ho già detto di restare fuori da questa
storia!»
«E l'ho fatto, ma credimi farei qualunque cosa per aiutare
quei due a catturare il Fantasma, se lo prendessero sarebbe un bene,
per tutti noi»
«Cosa ne sai, ragazzina? Ti ho già
detto...»
«Mi hai solo detto di tenere la bocca chiusa riguardo al
passaggio segreto che ho scoperto nel camerino della primadonna, ma non
mi hai dato una sola ragione per convincermi che sia giusto
tacere!»
«Meg, ci sono cose che non puoi capire, ma fidati di me, sto
facendo la cosa giusta» borbottò Eloise.
«Dici così perché hai paura, anche tu
hai paura di lui! Oh maman, dimmi ti ha fatto del male? Ti ha
minacciata?!...».
Eloise scosse il capo,
«Meg, ah Meg, tesoro mio, nella mia vita non ho mai fatto
nulla perché mi sentissi costretta» disse con un
sospiro stanco.
«Ma allora perché una donna onesta dovrebbe
aiutare un criminale?» incalzò sua figlia.
«Perché a volte le donne oneste riescono a
guardare oltre le convenzioni che hanno dovuto imparare. Il mondo, mia
piccola Meg, non è diviso in buoni e cattivi, santi e
criminali, come cercano di farci credere. Ti prego, abbi fiducia in tua
madre» concluse madame Giry prendendo le mani della ragazza
tra le proprie.
«D'accordo, come vuoi tu maman...» concluse la
ballerina accennando un sorriso titubante, poi lasciò sola
la donna per tornare ai propri alloggi.
Eloise si diresse verso la sartoria per controllare a che punto fossero
i lavori per i costumi delle ballerine. Sapeva che, in occasione di un
nuovo spettacolo, Mosetti e le sue sarte tendevano a dedicare
più tempo alla realizzazione dei costumi per gli attori
principali piuttosto che occuparsi della tenuta delle ballerine e lei
era costretta ogni volta a sollecitare il loro lavoro ricordandogli che
i costumi del corpo di ballo facevano parte dello spettacolo tanto
quanto le scenografie e le luci e che quindi non erano da considerarsi
particolari trascurabili.
Fu mentre scendeva le scale che portavano al sottopalco che Erik le si
parò davanti sbarrandole la strada.
«Che ci fai qui? Non è il caso di andarsene a
zonzo per il teatro con l'investigatore e il giornalista in giro per
l'edificio» protestò la donna.
«Non è con me che devi fare la madre,
Eloise» mormorò Erik con un ghigno provocatorio.
«E quindi anche tua figlia sa, o così sembrerebbe
da quello che vi siete dette poco prima».
La donna si strinse un lembo del abito con un gesto nervoso,
«Lasciala fuori da questa storia, non osare toccare mia
figlia, Erik, è l'unica cosa che non ti permetto di
fare» sibilò guardandolo diritto negli occhi.
«Sono un mostro sotto molti aspetti Eloise, ma non torcerei
un capello a una ragazzina, meno che mai a tua figlia. Invece di
preoccuparti di me, preoccupati che la piccola Meg non vada a
raccontare niente in giro»
«Non lo farà»
«Ma se stava per farlo solo pochi minuti fa!»
«L'ho convinta, credimi, puoi stare tranquillo. Meg non
dirà una parola».
Erik dondolò il capo,
«Ho sentito che ha detto che taci perché hai
paura. È davvero così, Eloise, tu mi
temi?» domandò.
«Temo solo ciò che potrebbe accaderti se non ci
fossi io» rispose prontamente la donna.
«Ah già... se non ci fossi tu... comunque sia,
tutto questo è assurdo... ci sarà qualcosa che
posso fare per porre fine a questa battuta di caccia»
«Potresti morire».
Erik corrugò la fronte e accennò un sorriso amaro,
«Non credere che non ci abbia pensato già altre
volte in passato» concluse.
«Ah, non essere melodrammatico!»
borbottò Eloise sollevando gli occhi al cielo.
«Ad ogni modo, mi intratterrei volentieri a parlare con te
ancora per un po', le nostre conversazioni sono sempre così
allegre! Ma si dia il caso che ho da fare»
«Posso osare domandarti cosa?».
Il Fantasma sorrise in quel suo modo inquietante che fece trasalire
Eloise,
«Volevi sapere che progetti ho riguardo ai nostri nuovi
ospiti, ebbene ho finito di attuarne uno poco fa» disse lui.
«Erik, ti prego... cosa vuoi fare?» chiese la donna
spaventata.
«Tranquilla, qualcosa di meno irreversibile di un omicidio,
te lo assicuro», ciò detto l'uomo sparì
nel buio prima che Eloise avesse il tempo di aggiungere qualcosa.
*
Alexandre stava cercando di togliersi le macchie di inchiostro dalle
dita strofinandole energicamente con un pezzo di sapone e sciacquandole
in un catino di acqua calda che si era fatto portare da un inserviente.
Doveva incontrarsi con Raoul, voleva chiedergli di accompagnarlo a cena
fuori in uno dei bistrot vicino al teatro in cui a volte capitava loro
di pranzare, ma non voleva presentarsi lì con le mani
sporche.
A dire il vero, l'unica cosa che il ragazzo non voleva fare quella sera
era tornare a casa. Si sentiva stanco, tra il lavoro, le indagini a
teatro e sua madre. Dopo la discussione che avevano avuto a pranzo poi,
sperava di restare fuori abbastanza da trovarla addormentata quando
sarebbe rincasato.
«Forse mia madre ha ragione... forse devo lasciar perdere,
pensare alla carriera nel giornale, trovare una brava giovane da
sposare...» si disse notando che l'unghia del dito medio era
ancora contornata da una sottile striscia nera.
«Io non sono come mio padre...» aggiunse ad alta
voce.
Suo padre, Simone Dubois, in fondo lo aveva amato a suo modo. Lo aveva
incoraggiato a studiare e non aveva mai badato a spese per la sua
istruzione, nemmeno quando lui aveva espresso il desiderio di
frequentare l'università di lettere a Parigi. Lo aveva
spronato con ogni mezzo, ripetendogli costantemente che lui doveva
impegnarsi e dimostrarsi degno di essere suo figlio, al punto che
Alexandre era arrivato a pensare che Simone lo avrebbe amato meno se
non si fosse rivelato il ragazzo brillante che era sempre stato. Era
cresciuto nell'ansia di compiacere suo padre, di essere all'altezza
delle sue aspettative, di riuscire a ricambiare gli sforzi che la sua
famiglia faceva per lui, ma le cose erano cambiate quando aveva visto
qualcosa che sarebbe rimasto impresso nella sua mente per tutti gli
anni a venire.
Il rintocco del campanile di una chiesa vicina strappò il
giovane ai suoi pensieri e gli ricordò che erano le otto,
l'ora in cui aveva dato appuntamento a Raoul fuori dal teatro.
Osservò le mani e le giudicò abbastanza pulite.
Ripose il taccuino degli appunti nella tasca interna del cappotto e si
avviò verso l'uscita.
«Bonne nouit, monsieur Dubois» lo salutò
cordialmente la giovane inserviente che rimaneva a pulire gli uffici
quando tutti andavano via.
Lui chinò il capo con un sorriso galante rispondendo al
saluto. Decise di passare per l'ingresso principale, e scese a rapidi
passi lo scalone di marmo che portava verso il foyer, mentre ad ogni
gradino cercava di lasciarsi alle spalle uno dei suoi tanti pensieri.
Per quella sera voleva essere nient'altro che un giovane di buona
famiglia che va a divertirsi con un amico, ma quel desiderio era
destinato a infrangersi entro pochi secondi.
Prima degli ultimi gradini c'era un rialzo con al centro una rosa dei
venti disegnata con marmi colorati e inserita in un cerchio nel quale
erano incastonate lettere di ottone che componevano il nome del teatro
e la data di edificazione. Quando il piede del ragazzo si
posò al centro del disegno, Alexandre sentì come
se il pavimento fosse scomparso sotto di lui, le punte della rosa dei
venti si erano piegate verso il basso, come sportelli di uno scrigno
segreto, facendolo scivolare verso il buio.
Keep your hand at level
of your eyes...
«Tieni la mano ad altezza degli occhi». Era stata
una delle raccomandazioni dei macchinisti, sembrava più un
detto, un proverbio in uso tra gli addetti ai lavori del teatro, che
non un vero e proprio ammonimento. Gli era stato spiegato che le
trappole del Fantasma dell'Opera consistevano in strani meccanismi che
facevano scattare un cappio, se si fosse tenuta la mano ad altezza
degli occhi si sarebbe potuto allentare il nodo scorsoio e quello
strumento di morte non sarebbe scivolato oltre la testa stringendo il
collo.
Aveva ritenuto quella storia una leggenda, una delle tante dicerie nate
all'ombra della superstizione e della paura, ma ora si era reso conto
che era tutto vero. Tutto terribilmente vero.
Non riusciva a capire dove si trovasse, la caduta non era stata alta,
non si era fatto male ma il cappio era lì, c'era davvero.
Solo che non si era stretto intorno al collo, non doveva servire a
strangolarlo perché era così largo che lui era
entrato nel cerchio di corda con tutto il corpo e ora la fune gli
stringeva il torace, lasciando fuori le braccia che aveva alzato
durante la caduta nel tentativo di reggersi a un provvidenziale
appiglio che non aveva trovato.
Se quella era una delle micidiali trappole del Fantasma dell'Opera,
allora quel mostro geniale aveva fatto male i calcoli!
«Alexandre Dubois» scandì una voce
tranquilla proveniente dal buio.
C'erano solo due candele in quella specie di sotterraneo, erano posate
in terra, una era davanti al giornalista e una doveva trovarsi dietro
di lui. Illuminavano a malapena l'ambiente rendendo impossibile capire
quanto fosse grande, dove finiva il pavimento spoglio e dove
cominciavano le pareti.
Un'ombra fece il suo ingresso nel pallido cerchio di luce delle
candele. Alexandre non vide altro che un'imponente figura ammantata di
cui riusciva a malapena a scorgere la sagoma delle spalle e della testa.
«Dunque sei tu, il Fantasma dell'Opera. Pensavo che i
fantasmi portassero indosso un lenzuolo!» disse il giovane in
tono canzonatorio e sprezzante.
«Io ho persino un nome, sapete Alexandre. Ma non ve lo
dirò perché evidentemente non vi interessa, voi
non state cercando un uomo, volete solo il vostro mostro da bruciare
sul rogo» rispose l'ombra in tono pacato, con una voce
così suadente che il giornalista provò un brivido
indefinibile e provò quasi vergogna ad aver usato un tono
derisorio per qualcuno che gli parlava in maniera così
compita e che, a giudicare dalla voce, doveva avere più anni
di lui.
«Sono le vostre azioni a qualificarvi, non ciò che
penso io» rispose accordandogli il pronome di cortesia come
l'altro aveva fatto con lui.
L'ombra non disse niente e rimase in silenzio per lunghi secondi.
Alexandre avvertì il nervosismo serpeggiare viscido in un
brivido lungo la schiena, la sensazione spiazzante di chi si sente una
preda. E come un sadico predatore il Fantasma aveva preso a camminare
in circolo intorno a lui, con passi lenti facendo in modo che
quell'orribile sensazione di pericolo si insinuasse fin nel profondo
dell'anima del giovane.
«Avete ragione» concesse infine il Fantasma.
«Ma dimenticate che sono i motivi che a loro volta
qualificano le azioni degli uomini»
«Un omicidio è sempre un omicidio e una minaccia
è sempre una minaccia. E comunque sia, di rado ho trovato
situazioni in cui gesti tanto scellerati erano giustificati da nobili
cause» rispose il giornalista.
«L'istinto di sopravvivenza non è una causa nobile
forse, ma è una motivazione abbastanza legittima, a mio
avviso. Ma non voglio convincervi che il mio punto di vista sia quello
giusto»
«E allora, cosa volete da me?».
Il Fantasma si fermò alle spalle di Alexandre e si
avvicinò tanto da sussurrargli all'orecchio,
«Voglio che abbandoniate questa impresa, per il vostro
bene»
«Perché? Se non lo facessi cosa
accadrebbe?»
«Dopo ve ne darò un assaggio, ma ditemi,
perché vi state ostinando in questa caccia assurda? Voi non
siete come Bertrand, non lo fate per denaro».
Alexandre sorrise nervosamente e tentò di allentare il
cappio che gli stringeva il torace, ma il Fantasma gli
bloccò le braccia in una presa salda,
«Non è buona educazione non rispondere a una
domanda» gli disse in tono aspro.
«No, non lo faccio per denaro!» borbottò
il giovane rendendosi conto che era inutile lottare. «Lo
faccio perché sono un giornalista e cercare la
verità è il mio mestiere»
«Ottima motivazione, ve lo concedo» rispose il
Fantasma. «Ma sono costretto a chiedervi di andare a cercare
la vostra verità altrove»
«Fareste meglio a uccidermi allora»
«No, non serve»
«Perché? Uccidete solo se è utile?
Buono a sapersi, e io che vi credevo un folle!» lo
provocò Alexandre.
«Tuttavia, sempre per il vostro bene, non credo sia saggio
tentarmi»
«Lasciatemi andare»
«Più tardi»
«Allora ditemi chi siete»
«Un uomo che vuole adoperare il proprio talento, esattamente
come voi».
Alexandre sospirò stizzito,
«Voglio sapere chi è il Fantasma
dell'Opera!»
«Non muovetevi...».
Il giovane sentì che l'ombra si allontanava da lui,
«Non avete risposto alla mia domanda! Non avete detto che non
è buona educazione?!» gridò in un
impeto di rabbia impotente.
«Sì, ma io posso permettermi di non rispondere
perché non sono io quello legato in un
sotterraneo» concluse il Fantasma con una leggera risatina
che fece andare il ragazzo su tutte le furie.
«Lasciatemi andare!»
«Lo farò, lo farò, ma più
tardi. Siete testardo Alexandre, quindi immagino capirete che non posso
arrendermi così facilmente dopo il primo tentativo. Dunque,
ve lo chiedo un'ultima volta: volete abbandonare questa
indagine?»
«Ora meno che mai!» ruggì il ragazzo.
«Come volete...» bisbigliò il Fantasma.
Due parole pronunciate a bassa voce, soffiate nel buio con tono
tranquillo, eppure proferite in un modo talmente minaccioso che
Alexandre sentì il sangue gelarsi nelle vene.
Il Fantasma doveva aver girato un meccanismo simile a quello che si
utilizza per sollevare grandi pesi, come quello che c'era nella
soffitta del teatro e che i macchinisti usavano per regolare l'altezza
del lampadario della sala. La corda a cui era legato il giovane si
sollevò tendendosi verso l'alto e lui non capì a
cosa servisse tenerlo legato a mezz'aria.
«Cosa state facendo?» borbottò
più seccato che impaurito.
«Non avete mai letto i libri sulla Santa Inquisizione? Una
delle manovre più bestiali che l'umo abbia mai concepito, si
chiamavano streghe persone che sembravano diverse da chi stava al
potere, e tanto bastava a torturarle e ucciderle. Ora, come allora, il
mondo non sa accettare chi è diverso»
commentò secco il Fantasma.
Alexandre non capì subito, ma appena i suoi piedi furono
sollevati dal suolo, la corda che lo avvolgeva cominciò a
stringergli il petto in modo tale che il giovane ebbe la sensazione che
le ossa del torace implodessero verso l'interno con una forza pari al
suo peso.
Bastò lasciarlo sospeso a una decina di centimetri per pochi
secondi perché il dolore si facesse insopportabile, tanto
che il giovane non riuscì a trattenere un urlo disperato.
Sentiva il cuore battere all'impazzata come se volesse respingere la
stretta micidiale che avvolgeva il petto.
«Maledetto... mostro!...» gridò
Alexandre con il respiro che gli moriva in gola per il dolore e per la
compressione della cassa toracica. Pensò che da un momento
all'altro le costole si sarebbero spezzate come i cardini di una porta
sotto la spinta di un ariete.
«Dite che rinunciate a questa follia e vi rimetto
giù» disse il Fantasma.
«Mai! Voglio la tua testa su un patibolo!»
ringhiò il giovane tentando di dibattersi, con il solo
risultato di rendere più intensa la sensazione di
oppressione.
«Se aveste desideri meno brutali sarebbe meglio,
credetemi».
In quelle parole che sembravano semplicemente di derisione c'era una
freddezza che avrebbe potuto rendere l'aria irrespirabile, ma Alexandre
non avrebbe notato la differenza visto che ogni respiro diventava un
tormento e accresceva il dolore lancinante che stava provando.
Erik ripeté più volte a se stesso che poteva
bastare, che era meglio farlo scendere. Era inutile continuare a
torturarlo, quel ragazzo non si sarebbe smosso dalla sua decisione e
ciò che doveva servire a spaventarlo sembrava stesse
servendo solo a renderlo più deciso a continuare il suo
lavoro.
Lascialo andare, Figlio
del Diavolo...
«Lascialo andare» sussurrò pacata la
voce della sua coscienza che somigliava sorprendentemente a quella di
Christine.
Già, Christine, cosa avrebbe detto quando si sarebbe saputo
che il Fantasma dell'Opera aveva torturato il caro giornalista? Quel
ragazzo così affabile, così bello. Tutti a teatro
lo avevano preso in simpatia, lo consideravano un giovane brillante,
rispettoso e degno di stima. Come sarebbe stato lui se Dio non gli
avesse regalato un volto deforme. Provò una fitta di invidia
per il ragazzo e prolungò quella terribile agonia per
un'altra manciata di secondi, fino a quando Alexandre non smise di
gridare perché aveva perso i sensi a causa del dolore e
della difficoltà a respirare.
Erik sospirò e fece scendere il corpo del giovane verso il
pavimento. Lo slegò e lo adagiò a terra con
più cura di quanta pensava di avere,
«Siete coraggioso, maledizione!»
borbottò «Siete anche un rivale interessante, il
migliore che potessi augurarmi. Spero che in futuro non ci rivedremo
mai più» disse spiando il volto esangue del
giornalista che in ogni caso non avrebbe potuto sentirlo.
*
Raoul controllò l'orologio che teneva nel taschino, erano le
otto e mezza e Alexandre ancora non si era fatto vivo. Non era da lui
arrivare tardi, ma da quando aveva cominciato a interessarsi alla
vicenda del teatro sembrava avere costantemente la testa altrove.
Il visconte sbuffò e pensò di andare dentro per
cercare il suo amico. Era stato lui a chiedergli di vedersi e ora lo
lasciava mezz'ora ad aspettare al freddo!
Il teatro, come Raoul aveva previsto, era vuoto. A quell'ora non c'era
più nessuno. Le ballerine erano tornate in collegio e
probabilmente a quell'ora avevano anche finito di cenare, i macchinisti
e gli orchestrali andavano via subito le prove e i direttori non
amavano trattenersi all'Opera più del necessario,
soprattutto in quel periodo e anche gli inservienti non avevano motivo
di rimanere a teatro quando tutti se ne erano andati. Rimaneva solo un
custode che spesso finiva per addormentarsi seduto al tavolinetto nella
sua guardiola.
Raoul si mosse nella penombra, non conosceva bene il teatro, ma con
tutti i vai e vieni delle ultime settimane avrebbe potuto raggiungere
l'ufficio dei direttori anche a occhi chiusi.
La porta dell'ufficio era socchiusa e ne usciva il fioco fascio di luce
di una lampada accesa, il visconte pensò che era strano:
Andrè e Firmin la chiudevano sempre a chiave, evidentemente
Alexandre era ancora lì dentro.
«Spero vivamente che abbia avuto da fare con qualche bella
ballerina, altrimenti lo lascio qui!» pensò il
giovane aprendo lentamente la porta.
Quando Raoul sbirciò nell'ufficio pensò che
avrebbe davvero preferito che il suo amico si fosse trattenuto con una
ballerina perché ciò che vide lo
lasciò di stucco: Alexandre era seduto a terra,
con le spalle poggiate contro il muro, le gambe stese, le
braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa reclinata in avanti.
«Oh mio Dio!» esclamò Raoul mentre una
morsa di terrore gli attanagliava lo stomaco.
Il visconte si gettò sull'amico e gli sollevò il
volto pregando tutti i santi di cui conosceva il nome che il ragazzo
fosse vivo.
«Alexandre!» chiamò scuotendolo per le
spalle.
Fu solo dopo diversi secondi, durante i quali gli occhi di Raoul
avevano già cominciato a lacrimare, che il giornalista
sollevò le palpebre e si piegò in avanti scosso
da forti colpi di tosse intervallati da gemiti di dolore.
«Alexandre, amico mio! Oddio, sei vivo... sia ringraziato il
cielo! Dimmi, cosa ti è successo?» lo
incalzò Raoul.
Il giovane spinse via il visconte con un debole gesto della mano,
«Non respiro se... se mi stai così
addosso...» si lamentò con un rantolo senza
smettere di premersi una mano sul petto, ad ogni respiro sentiva ancora
un bruciore indescrivibile spandersi tra le ossa e i muscoli del busto.
Reclinò il capo all'indietro, i capelli erano sudati e
spettinati, il viso era ancora arrossato. Con gesti nervosi si
sfilò il cappotto e la giacca e si aprì la
camicia, un lungo segno violaceo si era già formato nel
punto in cui la corda lo aveva stretto.
«Oh, angeli del cielo!» esclamò Raoul
impallidendo. «Chi è stato a farti
questo?»
«Il Fantasma dell'Opera, quello che non esiste, hai
presente?» rispose Alexandre con voce spenta.
«Come?... Cosa?... Che significa?!»
«Dopo Raoul, dopo. Ora ho bisogno che mi passi»
«Ce la fai ad alzarti? Chiamo una carrozza e ti riporto a
casa!» disse il visconte aiutando l'amico a rimettersi in
piedi e continuando a sorreggerlo con un braccio attorno alle spalle.
«No, Raoul, se mia madre mi vede così mi
murerà vivo! Non posso tornare a casa»
«Molto bene, allora per stanotte verrai a stare da me, hai
bisogno di essere visitato da un medico».
*
Monsieur Voudon era da anni il medico della famiglia De Chagny. Si era
precipitato alla tenuta del visconte non appena questi lo aveva fatto
chiamare e aveva promesso di mantenere l'assoluto riserbo riguardo alle
strane condizioni in cui aveva trovato il paziente che De Chagny gli
aveva sottoposto.
«Il dottore ha detto che non c'è niente di
rotto» disse Raoul tornando al capezzale del suo amico appena
Voudon se ne fu andato.
«Almeno questo...» borbottò Alexandre
con un sospiro.
«Ho fatto avvisare tua madre che stasera ti tratterrai a
dormire da me e... ho mandato a chiamare Bertrand, come mi hai
chiesto»
«Grazie, amico mio»
«Ma non pensavo davvero che il nostro caro segugio fosse la
prima persona che avresti voluto vedere dopo questa terribile
avventura. Quello che mi hai raccontato, Alexandre, è
terrificante!».
Il giornalista aveva narrato la sua terribile esperienza a Raoul mentre
attendevano l'arrivo del medico e aveva ritenuto opportuno informare
subito Bertrand. Ragionando insieme avrebbero potuto trovare nuovi
elementi per l'indagine che il giovane ora era più che mai
deciso a portare a termine.
Bertand arrivò trafelato un mezz'ora dopo, non diede nemmeno
al maggiordomo il tempo di annunciarlo che piombò nella
stanza in cui era sistemato Alexandre,
«Cosa è accaduto di così urgente?! Cosa
vi è successo? Perché siete in un
letto?» aveva esclamato in un fiato.
«Potreste salutare, sedervi, togliervi il cappotto e rimanere
calmo» mormorò Raoul. «Sarebbe cosa
assai gradita, anche perché di motivi per entusiasmarvi ne
avrete a bizzeffe dopo che Alexandre vi avrà spiegato
l'accaduto».
«Quello che è successo è
incredibile!» concluse Bertrand battendosi una mano sulla
coscia, non appena il giornalista ebbe informato anche lui su quanto
era successo, raccontandogli ogni dettaglio e riportando parola per
parola il dialogo avuto con il Fantasma.
«Sì, sì, lo trovo assolutamente
esaltante» commentò Raoul bieco.
«Non entusiasmatevi monsieur, non ho visto o sentito nulla
che possa esserci di aiuto» replicò Alexandre
sistemandosi un cuscino dietro la schiena.
«Beh, con il riferimento ai libri sull'Inquisizione abbiamo
confermato la nostra teoria sul fatto che è un uomo colto, e
anche di grande ingegno se è stato capace di costruire un
tranello simile» disse l'investigatore.
«Sembra che siate davvero contento di quanto è
capitato stasera!» protestò Raoul.
«Naturalmente non lo sono, non sono affatto contento che il
mio collaboratore sia stato torturato da un pazzo che usa le tecniche
degli inquisitori».
Persino Alexandre era convinto che Bertrand fosse meno dispiaciuto di
quanto voleva apparire.
«Ad ogni modo,» proseguì Raoul,
«se quest'uomo è un pazzo sadico fino a questo
segno, direi che avete un'ottima ragione per abbandonare le
indagini»
«Stai scherzando?!» esclamò Alexandre.
«Allora siete più pazzi di lui! Cosa deve accadere
perché tu rinunci a questa follia? Vuoi che qualcun altro si
faccia male? Vuoi morire?!»
«Visconte, siate ragionevole» intervenne Bertand.
«Ora che abbiamo conferma dell'esistenza di questo individuo
e della sua spietata follia come potremo tirarci indietro?»
«Adesso sappiamo anche da dove cominciare a
cercarlo» disse Alexandre mentre negli occhi passava un lampo
di puro entusiasmo che fece impallidire il visconte.
«Dobbiamo far aprire la botola del foyer, sfondare il
pavimento se è necessario»
«I direttori ne avranno a male, immagino»
protestò debolmente Raoul, ma nessuno parve fare caso a
quella sua affermazione.
«Sì, sì, lo faremo!» rispose
Bertand lanciando uno sguardo complice verso il giornalista.
«Vedrete quando si saprà quello che vi ha fatto
quel mostro tutti si metteranno sulle sue tracce!»
«No, non si deve venire a sapere»
«Come sarebbe?!» domandarono quasi in coro
l'investigatore e il visconte.
«Non dovete farlo sapere o farete il suo gioco»
spiegò Alexandre. «Non capite? Lui ha fatto questo
per spaventarmi, tutto quello che fa lo fa per spaventare la gente,
perché finché sarà temuto le persone
non lo cercheranno e non gli si schiereranno contro».
Bertrand incrociò le braccia sul petto,
«Anche voi siete un dannato genio Alexandre, ve lo ha mai
detto nessuno?!» disse con un sorriso divertito.
«Bene, dopo questa magnifica disquisizione avventurosa direi
che il nostro genio ha bisogno di riposo, quindi, monsieur Bertrand, se
volete scusarci, vi auguro buona notte» concluse Raoul.
L'investigatore annuì, salutò e lasciò
che il visconte lo accompagnasse alla porta.
«Tu sei pazzo, lo sai vero?!» borbottò
Raoul tornando nella camera di Alexandre.
«Eh?... Ma non avevi detto che avevo bisogno di
riposo» protestò questi con una smorfia.
«L'unica cosa di cui tu hai bisogno è una
sostituzione di cervello, amico mio, ti sembra davvero una buona idea
proseguire in questa indagine?»
«Me lo hai già chiesto...»
«Io non mi capacito! Sei quasi morto stasera!»
«Bene, Raoul, allora metto la questione in un altro modo se
può servirti a fartene una ragione. C'è un pazzo,
assassino, sadico, ricattatore che infesta il teatro che tu finanzi e
che per di più ha un palese interesse per la fanciulla che
ami. Preferisci davvero che le indagini finiscano e lui la passi
liscia?» concluse il giornalista fissando l'amico con aria di
sfida.
«Non c'è nessun bisogno che mi ricordi la
gravità della situazione, il mio migliore amico è
quasi morto, mi rendo conto delle condizioni in cui è
degenerata la cosa» borbottò Raoul abbassando lo
sguardo e pensando a Christine non senza un tremito di angoscia.
«Molto bene, allora lasciami fare il mio lavoro e vedrai che
tutto si sistemerà» aggiunse Alexandre con un
sospiro.
___________________________________
E adesso datemi della pazza sadica ma io adoro Erik fare il bastardo!
L'idea di torturare un uomo appendendolo per il torace non so
se fosse davvero un metodo della Santa Inquisizione... io l'ho letto da
ragazzina in un libro di Salgari e mi parve una cosa così
mostruosa da restarmi impressa. Ho trovato che fosse molto nello stile
del nostro uomo, una cosa "pulita" ma efficace.
Capitolo reinserito il 23\12\2011
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Capitolo 12 *** I livelli sotterranei ***
L'autrice spiantata si
scusa per il ritardo ma questa settimana ha combatutto una battaglia
contro quel mostro chiamato burocrazia... avete presente l'Idra con cui
ebbe a che fare Ercole, quella bestiaccia che se gli tagli una testa
poi gliene ricrescono due? Ecco, è stata una cosa simile.
Chiedo scusa se non rispondo alle vostre recensioni ma colgo
comunque l'occasione di rigranziare chi ha commentato e chi ha letto.
Ci si legge lunedì (stavolta garantito XD)
Your obidient servant
******
CAPITOLO UNDICESIMO
I livelli sotterranei
Alexandre e Bertrand erano seduti in una caffetteria, stavano bevendo
silenziosamente un té caldo per cercare di scrollarsi di
dosso il freddo pungente di quel grigio dicembre. Osservavano la strada
dall'ampia vetrina alla sinistra del tavolo, alcuni operai stavano
attaccando delle ghirlande di nastri rossi e dorati alle
estremità dei lampioni: l'indomani sarebbe stato il giorno
dell'Immacolata, mancava poco al Santo Natale e la gente cominciava a
prepararsi per le feste.
Il maltempo, che aveva imperversato durante gli ultimi due mesi,
sembrava aver concesso un po' di tregua ai parigini che in quei giorni
avevano potuto vedere un sole pallido e incerto bussare alle loro
finestre.
«Forse avremo un natale meno freddo di quanto si
pensava» commentò Bertrand-
Alexandre annuì distrattamente, il suo collega non era tipo
da perdersi in banali considerazioni sul tempo.
«È stato molto coraggioso da parte vostra tornare
a teatro» aggiunse l'investigatore.
Il ragazzo scrollò le spalle,
«Uhm, ho fatto ciò che ritenevo più
giusto» disse.
Nell'ultima settimana Alexandre era rimasto a casa nell'attesa che i
dolori al torace cessassero del tutto e che il grosso livido che gli
segnava il petto sparisse.
«Ci ho pensato in questi giorni sapete, a quello che vi
è capitato, intendo» continuò Bertrand.
«Sì...».
Naturalmente. Anche lui ci aveva riflettuto, e quando il ricordo del
dolore terribile che aveva provato gli permetteva di
concentrarsi su altri particolari della vicenda c'era una sola cosa che
riusciva a pensare: non mi ha ucciso. In quella loro caccia alle
streghe sembrava aver dimenticato qualcosa che era bene tenere a mente
e cioè che avevano a che fare con un uomo. Quell'ombra nera
che gli aveva parlato con quella voce minacciosa e bellissima era
l'ombra di una persona. Una persona crudele, pericolosa senza dubbio,
ma non un pazzo furioso. Un folle non è in grado di
elaborare una simile trappola, di torturare un uomo con così
tanto sangue freddo e poi lasciarlo libero.
Torturare un uomo senza versare nemmeno una goccia di sangue era in un
certo senso qualcosa di geniale, per quanto mostruoso.
Il Fantasma avrebbe potuto ucciderlo e non lo aveva fatto.
Perché? Forse perché non era un mostro, forse
perché era vero che dietro alle sue azioni c'erano dei
motivi più legittimi di quanto pensassero. Ma quali erano
questi motivi?
«Non mi ha ucciso, Bertrand, sapete trovare una spiegazione a
ciò?» domandò il ragazzo osservando il
suo interlocutore diritto negli occhi.
«Forse perché un altro morto avrebbe destato
troppo scandalo» suggerì l'investigatore.
«Ed evidentemente il nostro Fantasma tiene molto alle sorti
del teatro e non vuole che vada in malora lo spettacolo della settimana
prossima. Senza contare che è lo spettacolo della sua
protetta...»
«Pensate ancora che mademoiselle Daae sia implicata in questa
faccenda?»
«L'ho osservata in questa settimana, sapete»
«E avete notato qualcosa di strano?»
«No... no, ma sono certo che quella ragazza nasconde
qualcosa».
Alexandre sorrise, un sorriso tirato e nervoso,
«Lasciatela perdere, dovremmo concentrarci su altre
cose» concluse con un gesto vago.
«Certo, la botola, tanto per cominciare» rispose
prontamente Bertrand .
«Quale botola?»
«Quella in cui siete caduto, naturalmente! Ho ottenuto il
permesso dei direttori di spostare le lastre di marmo della decorazione
sul pavimento, ho chiamato degli operai, saranno a teatro tra
mezz'ora»
«Bene»
«Voi siete sicuro di non ricordare altro? Nessun
particolare?» insistette l'investigatore.
«Ah no! Ve l'ho detto, in quel sotterraneo era tutto buio.
Sono svenuto e quando ho ripreso conoscenza ero nell'ufficio dei
direttori con il visconte de Chagny che cercava di
svegliarmi» rispose il ragazzo scrollando le spalle.
«Il visconte... già...»
mormorò l'altro uomo con occhi sottili.
Alexandre ebbe un sussulto,
«Non starete pensando che Raoul abbia a che fare con questa
storia?!» esclamò sgranando gli occhi.
«È solo una supposizione»
«Siete troppo sospettoso Balise, e la vostra diffidenza vi
porta a fissarvi su elementi che non hanno alcun rilievo»
«Dite? Seguite per un attimo il mio ragionamento,»
disse l'investigatore allungandosi sul tavolo per sporgersi verso il
giovane, «il visconte nutre un manifesto interesse per
mademoiselle Daae, e questo spiegherebbe perché il Fantasma
pare tanto ansioso riguardo alla carriera di quella ragazza.
Naturalmente De Chagny è vostro amico e questo potrebbe
essere il motivo per cui il Fantasma non vi ha ucciso, e poi ci sono un
bel po' di coincidenze, non trovate? Badate, non sto dicendo che il
visconte sia il Fantasma, sto solo supponendo che egli sia suo
complice»
«Raoul non avrebbe alcun motivo...»
protestò Alexandre.
«Oh credetemi, amico mio, ho visto nobili tediati dalla loro
vita fare le cose più bizzarre e insensate per vincere la
noia, e questa non sarebbe nemmeno la bizzarria peggiore!»
«Siete un uomo di mondo, Blaise, ovviamente lo siete
più di me per la lunga esperienza che avete accumulato, ma
non siete in grado di carpire la natura delle persone, la loro indole.
L'unico antidoto alla noia che Raoul conosce probabilmente è
giocare a scacchi con qualche suo vecchio parente».
Bertrand sorrise, la pelle delle guance si tese sugli zigomi ossuti,
«Vi lascio alle vostre convinzioni Alexandre, voi lasciatemi
alle mie supposizioni». mormorò in un tono di
sfida che voleva sembrare accomodante. «E ora,
sarà meglio andare e raggiungere i nostri operai».
Gli operai erano quattro uomini robusti e nerboruti che attendevano nel
foyer sotto lo sguardo preoccupato dei due direttori,
«Signori, vi prego di ricordare che il pavimento deve tornare
a posto per la fine del mese, per il ballo di capodanno
dell'Opera» squittì Firmin cercando di darsi
un'aria abbastanza convincente e autoritaria.
«Monsieur! Vi prego» sbottò uno degli
operai dopo la quarta volta che aveva sentito ripetere quella
raccomandazione. «Credete davvero che ci vogliano venti
giorni per spostare una lastra di marmo?! Entro stasera il vostro
lustrissimo pavimento sarà tale e quale a prima»
«Sì, sì... ma voi dovete fare
attenzione... quelle lastre di marmo sono lì da
decenni...» insistette l'impresario torcendosi nervosamente
le mani.
«Non sapremo dove prendere i fondi per farle sostituire se si
dovessero rompere!» borbottò Andrè
incrociando le braccia sul petto.
«Tratteremo quelle dannatissime pietre come se fossero di
cristallo!» concluse sgarbatamente un altro manovale.
I due direttori si allontanarono per niente rassicurati, ma non
potevano immaginare che per quel pomeriggio i loro guai erano appena
cominciati, proprio mentre stavano per tornare nel loro ufficio, decisi
a non assistere alla scempio che quei bruti avrebbero fatto del loro
pavimento furono bloccati da un grido acuto alle loro spalle.
«Dove sono?! Dove sono quei due meschini, traditori,
farabutti, bugiardi sconsiderati?! Dove, dove?!» una voce
stridula seguì il tonfo sordo della porta laterale che
veniva aperta con malagrazia.
Una donna dai capelli rossi e da un vistoso abito viola con merletti
blu, era entrata come una furia nel foyer, avanzando a passo deciso
verso i due impresari. Alle sue spalle c'erano un uomo alto e magro e
un'anziana donna che avevano tutta l'aria di essere i suoi assistenti e
che cercavano faticosamente di tenere il passo. I due per poco non
inciamparono nell'ampia gonna dell'abito della donna quando questa di
fermò di colpo davanti ad Andrè e Firmin,
portandosi le mani ai fianchi e fissandoli incollerita.
«E così avete dato il mio posto alla piccola
ranocchia!» disse.
«Madame... bentornata...» squittì
Andrè poggiandosi contro il suo socio nel timore che le
gambe gli cedessero per lo spavento.
«Signora Giudicelli! Siamo così contenti di
rivedervi, e in buona salute...» aggiunse Firmin con un
sorriso accomodante così largo che i suoi folti baffi
parvero arrivargli alle ciglia.
«In ottima salute, ottima!» tuonò la
donna. «Per vostra sfortuna! Volevate sostituirmi, e con chi
poi? Con quella sciacquetta che non sa nemmeno dove sta di casa
l'intonazione!»
«Ma... ma... signora, voi dovete capire...»
tentò di dire Firmin indietreggiando di un paio di passi.
«NO! Io non devo capire, io non devo proprio un bel niente,
siete voi che DOVETE qualcosa, dovete immediatamente cancellare la
rappresentazione! Io e solo io devo essere la primadonna di questa
baracca che chiamate teatro! Quella piccola cornacchia con i boccoli mi
ha già rubato la scena una volta!»
«Signora Carlotta! Che piacere» esclamò
una voce gentile che sembrò per un attimo placare le ire
della cantante.
I direttori si sporsero oltre la sua spalla per vedere chi li aveva
salvati interrompendo le sfuriate della capricciosa soprano a cui loro
non avevano ancora avuto tempo di abituarsi. Madame Giry
avanzò con il suo portamento composto attraverso il foyer e
si fermò davanti alla Giudicelli salutandola con un sorriso.
«Madame...» gracchiò la cantante in
segno di saluto.
«Oh signora, passavo di qui e ho casualmente sentito che
siete dispiaciuta per essere stata sostituita» disse Eloise
con la sua consueta aria garbata. «Ma, vedete, voi siete
stata indisposta per molto tempo e i direttori sono stati costretti a
mandare avanti il teatro, se questo posto fosse fallito capite bene che
al vostro ritorno non avreste più avuto un palco su cui
esibirvi. E come certamente vi renderete conto, se i signori impresari
cancelleranno lo spettacolo si ritroveranno costretti a rimborsare i
biglietti venduti e non sarebbe una buona pubblicità per
l'Opera Populaire»
«E questo cosa ha a che fare con me? Non voglio che quella
incapace rubi il mio pubblico!» insistette Carlotta con una
smorfia.
«Ma signora, se è così incapace come
dite non avete nulla da temere. Lasciate che si esibisca, nel frattempo
il teatro riacquisterà prestigio, così che quando
tornerete da noi completamente ristabilita, troverete il vostro
pubblico ad attendervi, o forse temete che una giovane esordiente possa
oscurare una cantante del vostro calibro?».
Carlotta boccheggiò incapace di trovare una risposta.
Continuare a protestare avrebbe significato ammettere che Madame Giry
aveva ragione, che lei aveva paura di essere oscurata da quella
ragazzina che continuava a definire un'incapace.
«E sia!» concluse lanciando un'occhiata torva ai
due impresari «Ma se quando torno questo teatro non
sarà ai miei piedi io vi rovino, mi avete sentita? Vi
ro-vi-no!».
L'uomo e la donna che erano entrati con la cantante annuirono con aria
altezzosa
«Benfatto madame!» mormorarono alla loro padrona
mentre lei si allontanava facendo svolazzare i merletti del suo ricco
abito.
«Madame Giry, mi avete salvato da un infarto...»
sospirò Firmin poggiando un braccio su una colonna di marmo.
Eloise sorrise,
«Come sapete, il benessere di questo teatro è
sempre in cima alle mie preoccupazioni» concluse la donna,
congedandosi per poi allontanarsi in silenzio. Non si era certo
scomodata a stroncare sul nascere l'ennesima crisi isterica di Carlotta
Giudicelli per fare un piacere a quei due incapaci, ma sapeva che se la
soprano avesse insistito i direttori avrebbero davvero cancellato lo
spettacolo e dopo sarebbe stato davvero difficile salvarli dalla rabbia
di Erik che era molto più violenta e pericolosa di quella di
una primadonna viziata.
«Chi era quella pazza furiosa?» domandò
Alexandre entrando nel teatro pochi minuti dopo insieme a Bertrand che
si era diretto verso gli operai che lo stavano aspettando.
«Chi, di grazia?» sospirò Firmin ancora
con il fiato corto, continuando a sventolarsi il viso con un fazzoletto.
«Quella donna vestita come una scatola di cioccolatini che
scendeva le scale come se dovesse andare a scatenare
l'apocalisse» spiegò il giornalista.
«È la signora Giudicelli»
borbottò Andrè. «Ma non voglio sentire
nominare quel nome... almeno fino al nuovo spettacolo da
allestire».
Alexandre scrollò le spalle senza capire,
«Bene, signori, volete farci compagnia mentre sondiamo i
misteri di questo affascinante teatro?» domandò
cambiando argomento.
«Oh no, per oggi ne abbiamo avuto abbastanza!»
disse Andrè.
«Il mio cuore non reggerebbe» gli fece eco il suo
socio.
I due impresari andarono a chiudersi nel loro ufficio lasciando
Alexandre a fissarli con aria perplessa, poi il giovane raggiunse
Bertrand e attese che i manovali sollevassero il pavimento.
Una volta sollevate le lastre di marmo che componevano la rosa dei
venti sotto gli scaloni che portavano alla galleria, gli uomini
notarono che in corrispondenza delle linee della decorazione c'era una
specie di telaio di legno con dei piccoli cardini che permettevano alle
lastre di aprirsi verso il basso: una vera e propria botola segreta.
«Ma che diamine è?» borbottò
Bertrand perplesso quando guardò verso il basso e non vide
altro che buio e vuoto.
Alexandre accese una lampada e la puntò verso l'interno, gli
uomini videro che c'era un pavimento di pietra spoglia pochi metri
più in basso.
«Deve essere stato durante la ristrutturazione...»
mormorò uno degli operai come se stesse pensando ad alta
voce.
«Come hai detto?» chiese Bertrand voltandosi verso
di lui.
L'uomo scrollò le spalle,
«Il teatro è stato ristrutturato una trentina di
anni fa» rispose. «Lo so perché mio
padre ha partecipato a quei lavori, sapete cosa si dice di questo
posto?»
«Cosa?» domandò Alexandre mentre una
scintilla di interesse gli animava lo sguardo.
«In origine il teatro e il collegio dell'Opera furono fatti
costruire da un re di Francia per ospitare la sua collezione di opere
d'arte o qualcosa di simile, furono progettati diversi livelli
sotterranei per tenere al sicuro i pezzi più pregiati della
collezione... ma è solo una leggenda, badate. Poi durante la
Rivoluzione i cunicoli sotterranei furono usati per trasportare i
prigionieri della Repubblica. Quando l'edificio fu trasformato in un
teatro i piani del sottosuolo sono stati adibiti a magazzini, sartorie
e cose del genere» concluse l'operaio.
«Sì, beh sappiamo che questo teatro ha diversi
livelli di sottopalco, nel primo c'è la sartoria... negli
altri ci sono dei depositi, e allora?» chiese il giornalista.
«Beh, c'è chi crede che i cunicoli sotterranei
originari si estendano ben oltre le mura dei livelli del sottopalco, ma
siano stati lasciati vuoti perché andavano oltre il
perimetro delineato dalle fondamenta dell'edificio e quindi non erano
sicuri, si temeva che il soffitto potesse crollare»
«Interessante!» esclamò Bertrand, poi
fece segno a un operaio. «Tu, scendi qua sotto, dimmi cosa
c'è».
L'uomo si ritrasse con aria spaventata,
«Oh no monsieur, io lì non ci metto
piede!» borbottò.
Alexandre guardò l'investigatore con aria di sfida,
«Vi credevo un uomo d'azione, Blaise» disse quasi
stupendosi di quanto in realtà il suo socio fosse codardo e
meschino.
«Non mi sembra il caso di fare dello spirito, devo forse
ricordarvi cosa vi è accaduto là
sotto?» protestò Bertrand con aria piccata.
«Questa è la nostra indagine, siamo noi che
dobbiamo occuparcene, non questi uomini» tagliò
corto il ragazzo cominciando cautamente a calarsi nella botola.
«Siete davvero pazzo, Alexandre!» sbottò
l'investigatore scuotendo il capo e osservando la sagoma del giovane
che veniva inghiottita dal buio.
«Potete scendere Blaise, non abbiate timore, qui sotto non
c'è niente» disse il giornalista agitando la
lampada verso gli uomini che erano solo pochi metri più in
alto, nella sua voce si poteva scorgere una nota di profonda delusione.
Bertrand si calò nella botola dopo essersi munito anche lui
di un lume ad olio.
«E questo che diavolo significa?!»
mormorò perplesso guardandosi intorno.
I due uomini si erano ritrovati in una specie di stanzino vuoto e senza
aperture, attorno a loro non c'erano altro che mura irregolari e
spoglie che perimetravano uno spazio di pochi metri.
Bertrand si lasciò cadere su uno dei gradini di marmo e si
accese un sigaro spiando con la coda dell'occhio gli operai che
sistemavano nuovamente il pavimento. Non avevano trovato niente, solo
un piccolo spazio vuoto senza altre aperture se non quella botola.
«Non capisco, non riesco a capire...» disse
l'investigatore con una nota di esasperazione nella voce.
«Per escogitare la trappola in cui siete caduto deve essere
entrato da quella botola, ma come ha fatto senza farsi vedere?
È impossibile che nessuno lo abbia visto calarsi
giù dal pavimento, non può essere passato
attraverso i muri!»
«E se invece fosse proprio così?»
suggerì Alexandre facendo aria con la mano per allontanare
il fumo del sigaro.
«Non dite idiozie!»
«No, ascoltatemi... e se tutte le leggende fossero vere, se
esistessero davvero i cunicoli e i passaggi segreti?»
«Ma no, sappiamo già tutto quello che
c'è da sapere riguardo a questa faccenda, e quell'operaio
prima ci ha confermato che i cunicoli che si estendono oltre i
magazzini del sottopalco sono stati murati perché ritenuti
non sicuri».
Alexandre scosse il capo,
«E se qualcuno li avesse aperti di nuovo?»
insistette.
«Ci sarebbe voluta una considerevole quantità di
tempo per trovare tutti i passaggi murati, riaprirli e continuare a
fare in modo che sembrassero chiusi...»
«E mettiamo che qualcuno abbia avuto tutto questo tempo e
tutto questo ingegno, dopotutto il teatro è stato
ristrutturato trent'anni fa».
Bertrand si stropicciò il viso,
«State suggerendo» borbottò,
«che c'è qualcuno che da circa trent'anni vive nel
sottosuolo del teatro? Qualcuno che si aggira indisturbato per l'intero
edificio tramite una rete di passaggi segreti?!»
«Esattamente» concluse il giornalista.
«Amico mio, avete abbastanza fantasia per scrivere un romanzo
di avventure, ma non per seguire questa indagine, spero vi rendiate
conto che queste considerazioni sono improponibili»
«Ma se abbiamo già sondato ogni strada probabile e
non abbiamo ottenuto alcun risultato allora non ci restano che le
opzioni improbabili».
Bertrand spense il sigaro nel vaso di una pianta e rimase pensoso per
una manciata di secondi,
«Molto bene, ammettiamo per un attimo, un attimo solo, che le
vostre strambe congetture siano esatte, chi mai dovrebbe fare una cosa
del genere e perché?» domandò.
«Questo non so dirvelo» ammise Alexandre.
«Qualcuno del teatro?...» suggerì
l'investigatore.
«No, l'uomo che ho incontrato in quella botola non
è nessuno che avevo incontrato prima d'ora qui
all'Opera»
«E come fate a esserne così sicuro?».
Il giornalista sospirò
«Quella voce, Blaise, se l'avessi già ascoltata me
ne sarei ricordato, credetemi... ah, quella voce...» concluse
rimanendo a fissare il vuoto fino a quando il suo interlocutore non lo
scosse.
*
Le sue mani sembravano muoversi da sole, con movimenti precisi come
quelli di una macchina. Il suo sguardo era assente e lontano. Erik era
seduto al suo organo mentre Christine cantava, ma il suo maestro non la
stava ascoltando preso com'era dai suoi pensieri.
Quando era con lei non esisteva nient'altro, ma non quel pomeriggio.
Quel ragazzo, il giornalista, lo aveva colto alla sprovvista con il suo
atteggiamento: non aveva raccontato a nessuno ciò che era
successo, ormai una settimana prima. Il Fantasma dell'Opera non lo
aveva spaventato o se lo aveva fatto lui era stato così
scaltro da rendersi conto che era meglio che tutti gli altri non
sapessero fin dove la sua crudeltà si era spinta, quanto
terribile fosse la sua ira. Era meglio che quella paura non si
diffondesse. Questa inattesa reazione di Alexandre Dubois aveva reso
vani i suoi sforzi e aveva stravolto i suoi piani. Erik stava
cominciando a rendersi conto di quanto la situazione gli stesse
sfuggendo di mano. Non tutte le persone erano subdole e codarde, e
laddove c'era un cuore coraggioso il Fantasma dell'Opera non poteva
niente, non aveva altro potere che quello di un carnefice con la
presunzione di decidere quali teste far cadere. Ma non avrebbe fatto
cadere nessuna testa, era troppo rischioso in quel frangente e anche se
avesse voluto aveva promesso a Christine che non lo avrebbe fatto,
aveva giurato sulle sue lacrime, sul suo sangue, sul suo amore, che il
Fantasma dell'Opera non avrebbe reclamato altre vite.
Il fatto che il giovane giornalista si fosse guardato così
astutamente da far sapere del suo terribile incontro con il Fantasma
aveva avuto anche dei vantaggi per Erik: si era risparmiato le proteste
e la disapprovazione di Eloise e aveva evitato di spaventare Christine.
Lui aveva pensato con una certa ansia a cosa avrebbe detto la ragazza
di un gesto così estremo e crudele, era certo che il livello
di sopportazione per le sue scelleratezze avesse un limite. Ma lei non
aveva saputo, al pari di tutti gli altri e Erik, invece di sentirsi
sollevato, aveva cominciato a provare un senso di vergogna per un modo
di fare che, nella sua condizione, aveva sempre ritenuto legittimo
prima di allora.
Stai forse cominciando a
vedere la differenza tra un uomo e un mostro, Figlio del Diavolo?
La voce della sua coscienza si era fatta fastidiosa e petulante e aveva
dannatamente ragione: non si era mai sentito così umano,
così nudo ed esposto davanti al mondo, nel bene e nel male.
Nel bene grazie a Christine, nel male a causa dei suoi nemici.
«Erik?...» Christine lo chiamò
poggiandogli timidamente una mano sulla spalla.
L'uomo pigiò pesantemente le dita sulla tastiera, la nota
che produsse l'organo fu una sorta di tonfo sordo che
echeggiò nella grotta.
«Toccava a voi» aggiunse Christine con un sorriso
imbarazzato.
Stavano provando il duetto d'amore tra Otello e Desdemona. Uno dei
brani che Erik preferiva ascoltare, soprattutto dalla voce della sua
musa.
«Mi ero distratto» ammise lui scuotendo il capo.
«Ma sono certo che tu sia stata superba, come lo sarai
venerdì sera».
La fanciulla arrossì lievemente
«Vi prego, non mi sento tranquilla se so che riponete
così tanta fiducia nel mio modesto talento»
rispose.
Erik si lasciò scappare un risolino divertito,
«Mia cara, il tuo talento è tutt'altro che
modesto, e lo sai, non hai bisogno di sminuire le tue doti, meno che
mai con me».
L'uomo si beò per lunghi secondi del sorriso che
riuscì a strappare alla ragazza, le prese una mano tra le
sue e le baciò le nocche con un gesto tenero,
«Ah Christine...» mormorò in un soffio
lieve, come se fosse stata la sua stessa anima a tendersi attraverso
l'aria verso il cuore della ragazza. La osservò dal basso,
seduto sul suo sgabello. Il corpo esile e magro, la curva del seno
appena accennata sotto la scollatura del semplice abito di raso chiaro,
il collo candido e delicato, la bocca atteggiata in un sorriso
innocente, così innocente da apparire come la più
pericolosa delle tentazioni, un invito al peccato che non sa di
esserlo.
Negli ultimi mesi la sua meravigliosa bambina aveva cominciato ad
assomigliare sempre di più a una splendida donna e questo
pensiero non gli lasciava tregua, toglieva sapore al cibo, toglieva
ossigeno all'aria e sonno alle sue notti costringendolo a rigirarsi tra
le lenzuola sudate. Erik non poteva immaginare che il desiderio fosse
qualcosa di così prepotente, così difficile da
sottomettere alla ragione. Prese un profondo respiro e tentò
di resistere all'impulso di stringerla a sé, assaggiare
quelle labbra e sentire il calore della sua palle contro la propria.
«Basta così per oggi» concluse alzandosi
in piedi e voltandosi di spalle con un gesto brusco. «Sono
piuttosto distratto a quanto pare, ti farei perdere solo tempo e tu sei
stanca»
«Oh no, vi prego maestro, riproviamo ancora una
volta» insistette Christine.
Erik si voltò di scatto e tornò a fissarla.
«Sempre se per voi non è di troppo
disturbo» aggiunse la ragazza. «Capisco che abbiate
molti pensieri... c'è qualcosa che vi turba?».
Erik scosse la testa come a dire di no. In realtà c'erano
molte cose che lo turbavano a cominciare dal cruento incontro con il
giornalista ma non era il caso di condividere quei pensieri con
Christine. Un giorno forse gliene avrebbe parlato, ma non in quel
momento, non ora che la loro intesa sembrava così perfetta e
gli lasciava intravedere l'orizzonte di una serena felicità
alla quale non avrebbe mai creduto di poter aspirare. E non era nemmeno
il momento di confessare a quella fanciulla che il suo attaccamento a
lei andava ben oltre le aspirazioni artistiche, Christine era ancora
troppo lontana dal suo mondo e lui, per quanto cercasse di convincersi
del contrario, non era ancora in grado di poterle garantire una vita
normale. Non voleva costringere la sua dolce musa a restare segregata
con lui in quei sotterranei, voleva che lei fosse il motivo per cercare
di avere una vita normale, il coraggio per uscire allo scoperto e
affrontare da uomo il mondo che lo aveva respinto.
Ogni cosa a suo tempo...
«Ogni cosa a suo tempo» si disse rivolgendo alla
ragazza un sorriso gentile.
«Molto bene, cominciamo dall'inizio
dell'aria» concluse in tono incoraggiante.
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Capitolo reinserito il 23\12\2011
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Capitolo 13 *** "Già nella notte densa" ***
Lunedì...
lunedì e tutto va bene. Anzi a me non prorpio...
ma spero che a voi vada meglio.
Cominciamo con il rispondere alle recensioni (sempre
graditissime e scatenatrici della mia più somma riconoscenza
nei confronti di coloro che le vergano) e dalla regia c'è
zio Blaise che mi chiede di chiarire la faccenda dei suoi sospetti
assurdi prima che gli venga prescritto qualche potente antipsicotico.
In realtà il fatto che Bertrand sospetti del Carciofon era
giusto per far capire che sta cominciando a sentirsi disperato e non sa
più che pesci pigliare... e da quello che
succederà in questo capitolo spero di essere riuscita a dare
una visione di quanta tensione ci sia in quel teatro.
Ma andiamo con ordine e apriamo anche oggi la rubrica "gli
sproloqui dell'autrice". Sproloqui serali tra l'altro... ancora
peggio...
@ Amy: lo so, Alex è troppo buono. Ha sbollito la
rabbia tutta quella sera e adesso cerca di trovare il "lato
positivo"... tipico dei "buoni" che vogliono credere che siano buoni
anche gli altri a tutti i costi. In realtà l'ho sempre detto
che lui è uno di quelli votati al martirio. Sono contenta
che tu abbia apprezzato le descrizioni del teatro e della Diva (troppo
breve la descrizione dell'abito, eh... lo avevo pensato che lo avresti
notato). I marmocchi con i boccoli della mamma e gli occhi del papy?
Bah non credo, c'erano già troppi bambini nella precedente
fanfiction XD
@ theangelsee69: *me si inchina fino a sfiorare le assi del
palcoscenico con il mento* grazie, sono contenta che la storia continui
a paicerti ^^
@ bloodred_rose: benritrovata ^^ Si, lo scribacchino
l'ammirazione per il Master ce l'ha... ce l'ha perchè
Alexandre è attratto dalle cose "straordinarie" altrimenti
non si sarebbe imbarcato in questa impresa. Madame Giry... la mia
Eloise *_* cosa sarebbero le mie fanfiction senza di lei? Il
fatto che non si capisca dove stiamo andando diciamo che in un certo
senso è quello che volevo... poi vedrete... XD non fatemi
spoilerare che è indispensabile l'effetto sorpresa per
questa fanfic.
Detto ciò, vi auguro buona lettura ^^
Your obidient servant.
*******
CAPITOLO DODICESIMO
“Già
nella notte densa”
Madame Ginette si avvolse in un ricco scialle di pizzo, suo figlio le
offrì il braccio e insieme si avviarono verso la carrozza
che doveva condurli a teatro.
Sui muri di tutte le strade nei pressi dell'Opera Populaire
campeggiavano grandi manifesti che pubblicizzavano la rappresentazione
che avrebbe avuto luogo quella sera: l'Otello del Maestro Giuseppe
Verdi, con mademoiselle Daae nel ruolo di Desdemona.
Alexandre aveva preso in considerazione l'eventualità di
lasciare a casa sua madre ma non aveva trovato nessuna scusa per
evitarle di andare a teatro. Lui era preoccupato dalle congetture di
Bertrand che aveva disposto che il palco numero 5, di cui il Fantasma
aveva spesso reclamato la proprietà, venisse lasciato
libero. L'ispettore era certo che l'uomo a cui stavano dando la caccia
si sarebbe fatto vivo quella sera, non avrebbe perso l'occasione di
ammirare Christine Daae.
Se il Fantasma si fosse effettivamente fatto vivo, la serata avrebbe
potuto prendere una piega imprevedibile e magari anche pericolosa per
chiunque si fosse trovato a teatro. In realtà Alexandre era
poco propenso a credere che il Fantasma si sarebbe fatto trovare con
tanta facilità, probabilmente sapeva che loro lo avrebbero
atteso, e in ogni caso lasciare a casa sua madre equivaleva ad
ammettere la pericolosità di una situazione che aveva
già dato molti motivi di ansia a madame Ginette.
Il teatro era gremito di gente, Andrè e Firmin guardavano
dall'alto del loro palco i posti della platea riempirsi di spettatori e
osservarono con aria soddisfatta che gli eventi tragici che avevano
funestato il teatro il mese precedente sembravano essere stati
praticamente dimenticati.
Raoul De Chagny era arrivato a teatro con largo anticipo ma il mazzo di
fiori che aveva preso per Christine si stava rovinando dal momento che
non era riuscito a consegnarglielo. Quando aveva bussato al camerino
della primadonna tutto ciò che aveva ottenuto era stata una
risposta frettolosa di Madame Giry che si era sporta oltre la soglia
per salutarlo e dirgli che che Christine in quel momento non poteva
ricevere nessuno perché le sarte la stavano vestendo.
Dopo una quantità di tempo incalcolabile, Madame Giry era
uscita dal camerino seguita dalle sarte e il visconte aveva sospirato
di sollievo al pensiero che avrebbe potuto finalmente salutare la sua
adorata Christine. In realtà le sue aspettative erano state
immediatamente deluse dalla direttrice del balletto che con i suoi
soliti modi autorevoli ma gentili gli aveva suggerito di allontanarsi
perché la ragazza aveva bisogno di non essere disturbata.
«Ma io le ho portato i fiori...» fu l'unica debole
protesta che il visconte riuscì a proferire.
La donna osservò il mazzo di gigli e fiori dai colori chiari
di cui non conosceva il nome,
«Molto bene» disse tranquilla. «Venite
con me, visconte, vi procurerò un vaso prima che si
rovinino».
Con un sospiro rassegnato Raoul si era allontanato sulla scia della
gonna scura della direttrice del balletto, incapace di ribellarsi anche
quando aveva scorso con la coda dell'occhio tre ballerine intrufolarsi
furtivamente oltre la soglia del camerino che a lui non era stato
concesso di varcare.
*
Christine era seduta sul divanetto di velluto, incapace di muoversi per
paura di guastare il costume di scena o la splendida acconciatura che
il parrucchiere aveva faticosamente realizzato tentando di domare i
suoi folti riccioli castani.
Era tesa e non riusciva a pensare a altro che agli occhi del suo
maestro. Dove sarebbe stato lui? Come avrebbe fatto ad assistere allo
spettacolo senza farsi vedere? E cosa le avrebbe detto se avesse
commesso qualche errore?...
La ragazza sobbalzò quando sentì la porta aprirsi
di scatto e balzò in piedi,
«È già ora? Sono pronta!»
esclamò prima di rendersi conto chi fosse entrato a farle
visita.
«Oh cielo, hai parlato come una condannata a
morte!» disse Meg in tono canzonatorio entrando seguita da
due delle sue compagne.
«Hai anche la faccia di una condannata a morte»
aggiunse un'altra ballerina osservando il volto della giovane soprano
con una smorfia.
La più piccola delle tre abbracciò la ragazza e
le prese le mani,
«Non devi essere spaventata, non devi! Sei così
brava, e così bella» mormorò dolcemente.
«Grazie Josephine...» rispose Christine intenerita.
La piccola Josephine aveva l'aria di un fiore pronto a sbocciare, era
una delle più giovani ballerine del collegio e da mesi era
fidanzata in segreto con l'assistente del liutaio che si occupava degli
strumenti degli orchestrali, tutti sapevano che ogni volta che poteva
la ragazzina usciva furtivamente dal teatro per incontrarsi con il suo
innamorato.
«Su, su, avanti, togliti quella faccia da funerale»
borbottò Meg tirando leggermente un lembo della veste della
sua amica,
«Oh ti prego, mi rovinerai il vestito!»
protestò Christine.
«Ah, sentitela! Ha già i vezzi da
primadonna» la canzonò la fanciulla bionda
osservandola con i suoi occhi vispi e furbi, le altre due ballerine
risero.
«Volevamo solo farti gli auguri per lo spettacolo»
aggiunse Josephine.
«E sappi che noi saremo dietro le quinte ad
applaudirti» concluse Meg con un sorriso di incoraggiamento.
«Ah amiche mie, siete così care»
sospirò Christine commossa baciando ognuna di loro sulle
guance,
«Ma ora sarà meglio andare, se mia madre ci trova
qui saranno guai» disse infine la piccola Giry scuotendo la
testa,
«Andate, un rimprovero di tua madre non è il modo
giusto con cui inaugurare questa serata».
Christine sentì le dita di Meg stringersi attorno alle sue
in un ultimo gesto di sostegno. Una stretta salda e sicura come il
senso di famiglia che lei ed Eloise le avevano sempre trasmesso.
La ragazza osservò le tre amiche sgusciare via
silenziosamente, quando la porta si richiuse dietro di loro lei si
sentì di nuovo sola e sospirò di sconforto.
«Andrà tutto bene» mormorò
una voce suadente e carezzevole.
Per un attimo la fanciulla si chiese se non fosse stata la sua
immaginazione, ma il suo maestro la chiamò da dietro lo
specchio e lei si ritrovò a fissare il suo riflesso con un
accenno di sorriso. Non poteva vederlo, ma sapere che lui era
lì la tranquillizzava e le ricordava che non era sola. Si
disse che aveva avuto la migliore istruzione che una cantante potesse
desiderare, sarebbe andato tutto bene.
Erik osservava la figura della giovane che appariva lievemente sfocata
dall'altro lato del vetro, come un sogno pronto a dissolversi.
Il sarto aveva seguito le sue istruzioni realizzando il costume di
scena in velluto blu, e lei non era più la giovane cantante
dell'Opera, era una donna, era Desdemona che avrebbe fatto impazzire
d'amore un uomo pronto a uccidere e a morire per paura che lei non gli
appartenesse.
Erik avrebbe voluto inginocchiarsi davanti a quella visione e mettere
il mondo ai suoi piedi, mentre Christine si avvicinava allo specchio e
posava una mano sulla superficie riflettente.
«È così bello sentire la vostra
voce» mormorò la fanciulla.
L'uomo appoggiò la mano in direzione di quella di lei, anche
se sapeva che non poteva vederlo,
«Mai quanto io amo sentire la tua» le rispose in
tono galante.
La ragazza fissò intensamente lo specchio, come se potesse
far comparire dal nulla l'uomo che vi si nascondeva all'interno.
Riusciva a immaginare la sua figura imponente coperta dal mantello e
vestita di tutto punto come se dovesse farsi ammirare.
Ricordò il calore della sua mano che stringeva la sua per
portarsela alle labbra e baciarla e il pensiero le fece salire una
violenta ondata di rossore lungo le guance.
«Erik, io...» disse con un sussurro talmente
impercettibile che non credette nemmeno che lui fosse riuscito a
sentirla.
«Cosa?»
«Ah, niente...»
Erik, io vorrei tanto
potervi abbracciare...
«Vorrei che foste fiero di me» concluse la giovane
abbassando il volto quando anche oltre il vetro riuscì a
percepire lo sguardo penetrante del suo maestro. Immaginò
che nella penombra del corridoio di pietra i suoi occhi fossero
diventati di un cupo color piombo, ma avrebbe potuto giurare di averli
scorti dietro lo specchio, di averli visti brillare come due minuscole
scintille di elettricità.
«Lo sarò, in ogni caso».
Dopo aver pronunciato quelle parole il Fantasma dell'Opera
sparì in un vuoto di silenzio, ma il cuore della ragazza
accelerò i battiti come se avesse voluto schizzarle via dal
petto e inseguire quell'ombra e la sua voce.
«Christine!» un'altra voce altrettanto familiare
strappò la giovane ai suoi pensieri,
Christine vide la maniglia della porta scattare come se qualcuno stesse
tentando di aprire la porta che lei non ricordava di aver chiuso a
chiave. Si precipitò ad aprire e si ritrovò
davanti Raoul con la mano ancora poggiata sul battente,
«Raoul! Che piacere vederti» mormorò la
giovane, il visconte le rivolse un sorriso radioso e la
salutò con un galante baciamano.
«Ma... non mi hai sentito bussare?» chiese lui.
Christine si strinse nelle spalle,
«Devi scusarmi, è che sono così
agitata»
«Certo, certo, capisco. Ah, accidenti!». Il
visconte si lasciò scappare un gesto stizzito.
«Cosa c'è, Raoul?»
«Ti avevo portato dei fiori... ma li ho fatti mettere in un
vaso prima e ho dimenticato di prenderli prima di tornare qui ai
camerini»
«Oh, non fa nulla Raoul» concluse la ragazza con un
sorriso gentile.
Il giovane arrossì e si morse il labbro inferiore,
«Mi dispiace, avrei voluto che tu li avessi, anche se
meriteresti molto di più di un mazzo di fiori»
mormorò.
«Ti prego, Raoul, mi confondi!» esclamò
Christine imbarazzata.
«Christine, tu per me...»
«Visconte De Cagny!» una voce severa interruppe il
ragazzo che si voltò con aria mortificata. «Vi
avevo chiesto di lasciare Christine da sola, ha bisogno di concentrarsi
e di essere lasciata tranquilla»
«Vi chiedo scusa, madame Giry».
La direttrice del balletto si portò le mani ai fianchi e
sospirò spazientita,
«Cercate di essere comprensivo e rispettoso visconte, per
cortesia, andate a prendere posto, non manca molto all'inizio dello
spettacolo» concluse.
Il ragazzo non poté fare altro che annuire e lanciare a
Christine un rapido cenno di saluto prima di allontanarsi.
«Sei pronta, chérie?» domandò
Eloise quando il visconte se ne fu andato, la ragazza annuì
continuando a guardare verso Raoul che spariva dietro l'angolo del
corridoio.
«Il visconte è un caro ragazzo» ammise
madame Giry scrutando con attenzione il viso della sua adorata bambina.
«E ti vuole molto bene, farebbe di tutto per te»
«C'è già stato chi ha fatto tutto per
me...» mormorò la fanciulla come se stesse
pensando ad alta voce, ma un attimo dopo sollevò la testa
con uno scatto fissando Eloise con un'espressione indecifrabile, quasi
sperando che la donna non avesse compreso le sue parole.
Madame Giry socchiuse leggermente gli occhi.
«Cosa provi per lui?» chiese in un filo di voce,
quasi come se avesse avuto paura di ciò che la ragazza
avrebbe potuto rispondere.
«Raoul mi è molto caro, lui...»
farfugliò Christine. «Bhe ci conosciamo da quando
ero bambina...»
«Non mi riferivo al visconte, sai bene di chi parlo»
«Lui... vi prego, Eloise, non mi fate domande alle quali non
so rispondere»
«Temo, tesoro mio, che tu debba cominciare a trovare una
risposta» concluse la donna scuotendo il capo.
*
L'Opera Populaire aveva due ordini di balconate e un ampio loggione. Il
palco numero 5 era il primo a sinistra della scena, e doveva essere una
sorta di posto d'onore, visto che era leggermente più largo
e sporgente degli altri, come il palco numero 14 che si trovava dal
lato opposto e che era da sempre riservato al direttore del teatro.
Bertrand guardò la maschera agghindata con la sua livrea
color porpora e la parrucca incipriata,
«Non è arrivato nessuno?»
domandò indicando la porta di ciliegio scuro con la
targhetta in ottone.
«No, monsieur» rispose il giovane con aria compita.
«Non hai sentito nessun rumore? Non hai notato niente di
strano?»
«No, monsieur. Non ho mai sentito niente».
Bertrand si lisciò il doppiopetto di velluto e
sospirò,
«In che senso mai?» domandò
«Mi occupo di questo ordine di palchi da diversi anni,
monsieur» spiegò la maschera con una punta di
orgoglio nella voce. «Quando c'era il vecchio direttore
questo palco veniva sempre lasciato libero, a disposizione di qualcuno
che in realtà non lo ha mai occupato».
Bertrand sfilò il suo portasigari dalla tasca interna della
giacca e si grattò il mento riflettendo su quanto aveva
appena appreso.
Cosa voleva dire? Che il Fantasma pretendeva che il palco fosse
destinato a lui per puro capriccio? Perché in
realtà non presenziava agli spettacoli? E questa storia
andava avanti da tre anni, come ogni altro episodio legato al
fantomatico spirito che infestava il teatro.
L'ispettore si lasciò scappare un lamento sordo: ogni nuova
cosa che scopriva invece che aiutarlo a venire a capo di quella strana
faccenda sembrava mostrare ancora di più che tutta quella
storia non aveva senso, che non c'era un capo da cui cominciare per
sbrogliare la matassa. Un palco d'onore reclamato e mai occupato,
botole cieche, un macchinista ucciso senza che si riuscisse a capire
come, qualcuno che si muoveva nel teatro come se passasse attraverso i
muri, strane leggende raccontate a fior di labbra tra i parati dei
camerini, lettere chiuse da sigilli di ceralacca a forma di teschio...
e l'unica cosa certa era che tutto ciò era cominciato tre
anni prima. Forse Dubois aveva ragione, il visconte De Caghny non
c'entrava nulla, tre anni prima quel ragazzo probabilmente era ancora
rinchiuso in qualche prestigioso collegio a imparare il galateo.
«Vi sentite bene, monsieur?» domandò la
maschera notando che il suo interlocutore si stava massaggiando le
tempie con aria afflitta.
«Sì. Ascolta, ragazzo, voglio che tu stasera
prenda nota di qualunque cosa, anche del minimo rumore che sentirai
provenire da quella porta. Sono stato chiaro?» concluse
Bertrand.
«Chiarissimo, monsieur» rispose il giovane
accennando un inchino. «Ma ora devo chiedervi di andare a
prendere posto, lo spettacolo sta per cominciare».
Bertrand raggiunse il palco accanto a quello dei direttori. Quel posto
era stato riservato a lui e ad Alexandre, da lì avrebbero
potuto anche tenere d'occhio il palco numero 5, mentre il visconte
aveva preteso un posto nella prima fila della platea.
Dopo che Alexandre ebbe fatto le presentazioni tra sua madre e
Bertrand, tutti presero posto un attimo prima che si spegnessero le
luci.
«Dannazione» sibilò l'investigatore.
«Con questo buio non si riesce a vedere cosa succede in quel
dannato palco!»
«Monsier Bertrand!» esclamò madame
Ginette in tono bonario di rimprovero mentre l'orchestra cominciava a
suonare. «Fate silenzio!»
«Pare proprio che non abbiamo altra scelta che goderci lo
spettacolo, amico mio» sussurrò Alexandre.
«E se le cose stanno così, rilassatevi, daremo la
caccia ai fantasmi più tardi».
*
Buio e musica: un sunto perfetto della sua vita.
Le note del grandioso compositore italiano coprivano il rumore di gocce
di umidità che filtravano dai muri di pietra. Magari fuori
pioveva a dirotto, ma Parigi, i suoi abitanti, il mondo stesso erano
lontani da lì, in un'illusione spazzata via dalla musica che
si spandeva come un incendio, arrivando fino a lui e strappandolo al
freddo del silenzio.
La mano di Erik si agitavano a mezz'aria seguendo il ritmo come se
fosse lui stesso a dirigere l'orchestra. I suoi movimenti sembravano
precedere ogni nota che veniva emessa, con la sicurezza di chi conosce
a memoria ogni vibrazione, ogni palpito, ogni pausa di quella sinfonia.
Il Fantasma dell'Opera non si era mai sentito così umano e
vivo come in quel momento. Se ne stava in piedi al centro di
uno dei cunicoli sotterranei del primo sottopalco, in direzione della
buca d'orchestra, godendosi lo spettacolo come era solito fare.
Perché non gli importava guardare. Le scenografie
monumentali, i ricchi costumi, le movenze delle ballerine e dei
cantanti servivano a stupire il pubblico, a creare una cornice dove la
musica dava spettacolo di sé come una vera opera d'arte
esposta agli occhi del mondo che presto avrebbe perso interesse per
tutti gli altri particolari.
Ebbe quasi la sensazione di poter distinguere il calpestio leggiadro di
Christine che avanzava al centro della scena, di poter sentire il
fruscio del raso del suo abito: Desdemona che si avvicina a Otello e
gli posa una mano sulla spalla in un gesto di tenero conforto, e lui
che rivela i suoi tormenti e le sue speranze alla donna che ama.
Già nella
notte densa
s'estingue ogni clamor.
Già il mio
cor fremebondo
s'ammansa in
quest'amplesso e si risensa.
Tuoni la guerra e
s'inabissi il mondo
se dopo l'ira immensa
vien quest'immenso amor!
Erik non sentì la voce di Ubaldo Piangi che cantava la prima
strofa dell'aria di Verdi. Chiuse gli occhi e cantò egli
stesso quelle parole che aveva cantato a Christine come se fosse lui e
non il personaggio di Otello a esprimere i propri pensieri. Come se
quei versi fossero esattamente le parole che lui non riusciva a trovare
per dirle come starle vicino soffiasse via ogni dolore, come la
speranza di quell'amore avesse ridato senso a una vita che prima di
allora non gli era nemmeno sembrata tale.
L'uomo smise di cantare e attese che fosse la voce di lei a completare
la magia.
Mio superbo guerrier!
quanti tormenti,
quanti mesti sospiri e
quanta speme
ci condusse ai soavi
abbracciamenti!
Oh! com'è
dolce il mormorare insieme:
te ne rammenti!
Quando narravi l'esule
tua vita
e i fieri eventi e i
lunghi tuoi dolor,
ed io t'udia coll'anima
rapita
in quei spaventi e
coll'estasi in cor.
La sua voce, la voce della sua musa. Perfetta, bellissima.
Non era stato il tocco dell'Angelo della Musica. Era stato qualcosa di
più. Nemmeno la cantante più talentuosa avrebbe
potuto eseguire quell'aria con tanto passionale trasporto. Ma Christine
non stava recitando, stava cantando per lui e la forza con cui la sua
anima stava dando forma a quelle note sembrò sorprendere
Erik come un colpo alle spalle, tanto che l'uomo fu costretto a
poggiarsi contro il muro per far fronte all'emozione che lo stava
scuotendo.
Ingentilia di lagrime la
storia
il tuo bel viso e il
labbro di sospir;
scendean sulle mie
tenebre la gloria,
il paradiso e gli astri
a benedir.
Cantò ancora l'uomo con le mani tremanti di commozione, per
poi sentirsi rispondere dalla voce di lei:
Ed io vedea fra le tue
tempie oscure
splender del genio
l'eterea beltà.
E per un attimo fu come se quelle due creature stessero semplicemente
dialogando, aprendo i loro cuori con l'aiuto della musica,
abbandonandosi a confessioni che non sarebbero mai state fatte, ma che
i loro animi gli spingevano sulle labbra tramite le parole di quel
duetto.
E fu di nuovo lui a cantare:
E tu m'amavi per le mie
sventure
ed io t'amavo per la tua
pietà.
Venga la morte! e mi
colga nell'estasi
di quest'amplesso
il momento supremo!
Tale è il
gaudio dell'anima che temo,
temo che più
non mi sarà concesso
quest'attimo divino
nell'ignoto avvenir del
mio destino.
E fu di nuovo lei a rispondere, con la voce impercettibilmente
incrinata da un'emozione incontenibile:
Disperda il ciel gli
affanni
e amor non muti col
mutar degli anni.
Erik sentì una lacrima, una sola goccia calda e salata
scivolare sulla guancia sinistra e asciugarsi ancora prima di
raggiungere l'angolo della bocca. Il respiro affannato dal canto e
dall'emozione si trasformava in piccoli sbuffi inghiottiti dal buio.
«Christine...» sussurrò con le labbra
tremule. «Ah Christine, il mio cuore prenderebbe fuoco per
quanto ti amo!».
*
«Dio del cielo!» sussurrò Alexandre
serrando le dita sul parapetto della balconata. L'intensità
con cui mademoiselle Daaè aveva eseguito quell'aria lo aveva
lasciato senza fiato, come tutti gli altri spettatori, impietriti nelle
loro poltrone, quasi incapaci di respirare. Ci fu un lungo attimo di
silenzio estasiato prima che il teatro esplodesse in un applauso
talmente fragoroso che sembrò che la pareti fossero
destinate a crollare sotto l'impetuosità di
quell'acclamazione.
Quando calò il sipario alla fine del primo atto Bertrand
posò una mano sulla spalla del giornalista,
«Venite con me, devo controllare una cosa»,
ciò detto uscì rapidamente dal palco. Alexandre
si congedò da sua madre con uno sguardo perplesso e
seguì l'investigatore che percorreva nervosamente il
corridoio sul quale affacciavano le porte dei palchi.
«Eccolo lì, il posto del nostro
amico...» sbuffò dirigendosi spedito verso la
porta contrassegnata dal numero cinque. Allontanò con un
gesto brusco la maschera che si era avvicinata con fare servizievole e
aprì la porta del palco con una spinta.
All'interno c'erano due sedie con il piano foderato di velluto
bordeaux. Tutto era esattamente come quando aveva perquisito il palco
prima dello spettacolo, ad accezione di una busta da lettere chiusa da
un sigillo di ceralacca a forma di teschio poggiata su una sedia.
Bertrand raccolse la missiva e l'aprì strappando la busta e
gettandola a terra.
Le poche righe appuntate sul foglio erano scritte con la calligrafia
regolare ed elegante che ormai l'investigatore conosceva bene:
Monsieur Bertrand,
Sono sinceramente
mortificato per aver deluso ancora una volta la vostra speranza di
incontrarmi. Non temete, sono certo che in futuro avremo occasione di
scambiare qualche parola... appena i miei impegni me lo permetteranno.
Spero che lo spettacolo
di stasera sia stato di vostro gradimento.
Vi porgo i miei omaggi.
F.O.
Alexandre era rimasto sulla soglia ad osservare i gesti nervosi del suo
collega.
«Cosa c'è scritto?» domandò
all'improvviso.
Per tutta risposta Bertrand lanciò un vero e proprio
ruggito. Le dita si serrarono con forza attorno al foglio che poi prese
a strappare con foga.
«Maledetto! Ti prendi gioco di me, mi minacci...»
sibilò con la voce resa stridula dalla frustrazione. Quando
ebbe finito di strappare il biglietto del Fantasma si voltò
di scatto e prima che Alexandre potesse rendersene conto, si
avventò sulla maschera. Afferrò il ragazzo per i
lembi della livrea e lo spinse contro il muro con tanta foga che gli
fece cadere la parrucca,
«Idiota!» ringhiò a un palmo dal suo
naso. «Ti avevo detto di sorvegliare questo palco!»
«Monsieur... è quello che ho fatto... vi
giuro...» farfugliò il giovane inserviente.
«Incapace, dannato bamboccio inutile! Qualcuno è
entrato qui dentro ha lasciato un biglietto ed è uscito!
Questo palco non ha altre vie d'accesso che questa porta!»
«No, ho visto nessuno, monsieur!... lo giuro sull'anima di
mio padre».
Il ragazzo aveva le lacrime agli occhi e il volto deformato da una
smorfia spaventata. Bertrand lo strattonò con violenza,
stava per schiaffeggiarlo quando Alexandre gli afferrò il
polso con una presa salda,
«Basta così, smettetela!»
tuonò il giornalista mentre una piccola folla di signori che
si erano alzati durante l'intervallo si era accalcata attorno a loro.
Alexandre afferrò Bertrand per le spalle, ma dovette
impiegare più forza del previsto per spingerlo via e
allontanarlo dalla maschera. Un uomo in preda alla rabbia
più essere più forte e pericoloso di quanto si
possa credere.
«State dando un pessimo spettacolo» disse il
giornalista all'orecchio del suo collega, riuscendo a stento a
trattenere l'investigatore un attimo prima che si avventasse di nuovo
sul ragazzo che, recuperata la sua parrucca, si era allontanato
rapidamente facendosi largo tra le persone accorse per vedere cosa
stesse succedendo.
Ci vollero un paio di minuti perché Bertrand riacquistasse
la calma,
«Va bene... va bene, Alexandre, lasciatemi andare»
sbuffò con il volto arrossato e imperlato di sudore,
con cautela il giornalista allentò la presa assicurandosi
che l'attacco d'ira fosse del tutto scemato.
«Si può sapere che diamine vi è
preso?» domandò in tono aspro di rimprovero.
Bertrand indicò con uno sguardo torvo i frammenti della
lettera sul pavimento,
«Dice che è dispiaciuto di non essersi fatto
trovare» spiegò. «Che ci incontreremo di
sicuro prima o poi... è una burla e una minaccia! Io non
posso davvero credere che sia entrato qui dentro e nessuno lo abbia
visto!»
«Blaise, la vostra posizione non vi autorizza ad assumere dei
comportamenti così inqualificabili...»
«Vuole farmi impazzire, vuole che perda il senno»
borbottò l'investigatore senza prestare attenzione ai
rimproveri del giornalista.
«Mi avete sentito, Blaise?!» insistette il ragazzo
«Commettete ancora un'altra scelleratezza e non potrete
più contare sul mio aiuto!».
Bertrand guardò il suo interlocutore negli occhi, come se
solo in quel momento si fosse reso conto che gli stesse parlando.
Allargò un sorriso mellifluo, le labbra sembrarono
incurvarsi verso l'alto come se gli angoli della bocca arrivassero fino
agli zigomi sporgenti,
«No, non lo fareste mai Alexandre. Non potete abbandonare
questo caso, vi prende troppo, è una sfida che è
divenuta irrinunciabile, come lo è per me» disse
con la voce che era tornata calma e pacata assumendo quasi un tono
lugubre. «Lui ci ha catturati, ci ha presi tutti nella sua
trappola e potremmo uscirne solo se lui soccombe».
________________________________________________________
Come ho già detto, l'Otello di Giuseppe Verdi è
stato scritto anni dopo l'ambientazione della storia... ma questo
duetto d'amore era troppo azzeccato per non usarlo! *_*
Si, diciamo che era la scusa per essere sdolcinata senza
ritenermi responsabile delle dosi di insulina che ora vi starete
iniettando... ho pensato che invece di usare le mie parole potevo usare
quelle dell'opera di Verdi così mi lavavo la coscienza XD
E lo so... lo so, ora vi state domandando la lettera come
cappero ci è arrivata nel palco numero 5... ricordate, "He's
a genius, monsieur" madame Giry docet
Capitolo 23\12\2011
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Capitolo 14 *** Il Figlio del Diavolo e l'Angelo della Musica ***
Con gli stuzzicadenti a
tener su le palpebre perchè stanotte ho dormito si e no tre
ore... ecco a voi il nuovo capitolo...
Preceduto come al solito dai ringraziamenti ai lettori e ai
recensori.
@Amy: Hai ragione, sta fissa dell'uomo dagli occhi chiari
è banale... ma che ci vogliamo fare? XD Però,
comunque sia, i parigini sono tendenzialmente chiari quindi l'occhio
azzurro (e la carnagione merluzzo e il biondo spiga di grano) ci sta...
o no?... No, Cuore Selvaggio non l'ho visto... ma
cercherò di provvedere e visto che non è la prima
volta che lo dico mi sa che è meglio che mi appico un bel
post-it rosa mortadella sul coperchio del portatile. Ma davvero ti
piace BB che fuma il sigaro? Me tapina! E io che odio l'odore del
sigaro e tutti quelli che lo fumano... e ho reso BB tabagista proprio
per renderlo ulteriormente odioso (ok, non ci credo nemmeno io...
è il mio amato cattivo non potrei odiarlo nemmeno se volessi
*_*).
@ theangelsee69: grazie dei complimenti ^^
@bloodred_rose: Nemmeno io ho mai visto l'Otello di Verdi, il
Maestro mi perdoni ma non capisco molto di lirica, ho fatto un
pò di ricerche per trovare un duetto lirico che si adattasse
ai miei due pargoli e alla fine ho trovato codello. Ho pensato che le
parole potevano andar bene e ho visionato la scena... QUESTA (per chi
fosse curioso). Gli antipsicotici per BB? Se fossi sicura che all'epoca
esistessero proporrei ad Alexandruccio mio bello di mischiarne un
pò al tabacco del sigaro XD
Detto ciò, ci tengo a precisare che il capitolo
che segue l'ho scritto a maggio... ma magari ora fa più
"atmosfera" ^^
Buona lettura
Your obidient servant
*******
CAPITOLO TREDICESIMO
Il Figlio del Diavolo e
l'Angelo della Musica
Il Natale porta sempre con sé un'aria di magia, di sogni che
luccicano nella brina del mattino, di speranze fragili come le sfere di
vetro colorato che si usano per decorare i rami degli abeti. E in una
notte l'umanità si regala l'illusione di una
bontà che trionfa, nello stringersi attorno al fuoco, sotto
lo sfavillio di comete di carta stagnola, nelle preghiere sussurrate
durante la messa della mezzanotte.
In quei giorni che precedevano le festività natalizie,
Parigi era lustra e vivace come una città da fiaba: la neve
aveva smesso di cadere da qualche giorno, sgombrando le strade e
lasciandole pulite. La città sembrava animata dal sottile
respiro di voci che si scambiavano auguri, sorrisi allegri su volti
arrossati dal freddo.
«Io non capisco!» borbottò Meg piegando
alla rinfusa alcuni vestiti e gettandoli in fondo a un baule.
«Che senso ha che tu rimanga qui da sola! Perché
non vieni con noi come fai ogni anno?».
Christine sospirò, lei e la sua amica avevano affrontato
questa conversazione già alcuni giorni prima: ogni anno, in
occasione del Natale, Meg e sua madre lasciavano il teatro per andare a
far visita a dei loro parenti che abitavano in una fattoria nella
campagna fuori Parigi, e ne approfittavano per trascorrere
lì i giorni di festa, per poi tornare all'Opera in tempo per
il tradizionale ballo di fine anno. Naturalmente Christine era sempre
andata con loro, ormai veniva considerata una persona di famiglia, ma
quella volta aveva deciso di rimanere nel collegio.
«Christine, lo sai bene che qui a Natale non rimane nessuno,
perché vuoi trascorrere le feste da sola?»
insistette Meg portandosi le mani ai fianchi con un'aria contraddetta
molto somigliante ai modi di fare di sua madre.
Christine sorrise divertita notando la somiglianza tra lei ed Eloise,
poi guardò l'amica con un'espressione conciliante,
«Meg, mi sono sentita troppo al centro dell'attenzione nelle
scorse settimane, ne abbiamo già parlato, ho davvero bisogno
di un po' di tranquillità» le spiegò.
La ragazza bionda si avvicinò all'amica e la
scrutò con aria interrogatoria,
«Tu sei strana, Christine» disse con un sospiro.
«Meg, ti ho già detto...»
«Oh no, non pensare di raccontarmi di nuovo la storia dello
spettacolo, che ti ha turbata e ti ha stancata. C'è qualcosa
di diverso in te, sei spesso assente e pensierosa e... Christine, sei
diventata vanitosa, non ti ho mai visto curare con tanta attenzione il
tuo abbigliamento, il tuo modo di pettinarti, come se ti preoccupassi
di non essere abbastanza bella». Meg corrugò la
fronte e restò a fissare l'altra ragazza in attesa di una
risposta.
Christine era perplessa, non si era resa conto di quanto fosse cambiata
negli ultimi tempi. Ma sapeva che la sua amica non avrebbe capito, che
nessuno avrebbe potuto capire... gli angeli non si innamorano dei
criminali, l'innocenza non può abbracciare la disperazione e
curarne i mali, almeno questo è quello che avrebbe detto la
gente.
«C'è qualcosa che non vuoi dirmi»
continuò Meg con una punta di delusione nella voce.
«C'è qualcosa che io non so. Non voglio che tu ti
senta costretta a raccontarmi i tuoi segreti, ma a volte io sento che
la Christine che conoscevo non c'è più, e se non
posso riportarla indietro vorrei almeno capire chi è la
persona che ha preso il suo posto»
«Oh Meg... io non so come dirtelo»
sospirò la fanciulla bruna.
Non so come dirti che
amo l'uomo che voi tutti odiate
«Dirmi cosa, sorella mia? Cosa è
successo?» esclamò la piccola Giry.
«Hai ragione, sono accadute cose che mi hanno reso diversa,
ma per me è già abbastanza difficile... non
chiedermi di spiegare, io non sono pronta... perdonami»
mormorò Christine con voce tremula.
«Ah, santi numi! Lo sapevo che finivamo con le
lacrime» borbottò Meg abbracciando l'amica.
«Ma io ti voglio bene, questo non è cambiato, lo
sai... tu e tua madre siete tutta la mia famiglia».
Christine ricambiò l'abbraccio posando la testa sulla spalla
della ragazza bionda.
«Voglio solo essere sicura che tu stia bene, e trascorrere il
Natale qui dentro da sola non mi pare una cosa molto benefica»
«Ah, ma io non sono sola, c'è...»
«Sì, lo so, c'è il tuo Angelo della
Musica, come dimenticarlo?! Non sei un po' troppo cresciuta per le
favole?» concluse Meg.
«Sì, forse hai ragione» rispose
Christine con una risatina.
A volte vorrei davvero
che fosse solo una favola, ma ormai è troppo tardi...
Poco dopo Eloise bussò alla camera di Meg per dirle che la
carrozza che le avrebbe accompagnate dai loro parenti era arrivata. Meg
terminò di prendere le sue cose e salutò
Christine.
Le due ragazze sapevano che quel Natale trascorso lontano l'una
dall'altra non sarebbe stato lo stesso. È ciò che
accade quando si cresce.
Mentre osservava la sua amica allontanarsi lungo il corridoio Christine
ebbe come la sensazione che un altro pezzo della sua infanzia fosse
volato via, perso per sempre davanti a una prospettiva di futuro quanto
mai incerta.
*
L'ultima nota scivolò dalle canne dorate dell'organo e si
infranse come un'onda contro la cappa di silenzio che avvolgeva la
Dimora sul Lago.
Erik sospirò stancamente osservando gli spartiti con occhi
arrossati e sentì la schiena dolorante per il lungo tempo
trascorso chino sulla tastiera. L'uomo si stiracchiò
pigramente e si alzò dallo sgabello lanciando un'occhiata
all'orologio che segnava le quattro del mattino.
La mattina della Vigilia.
Molte delle candele che illuminavano la grotta si erano consumate,
altre stavano per spegnersi. Solo allora Erik si accorse di avere
freddo, di avere indosso solamente la camicia e il panciotto sbottonato
per metà.
Nel tardo pomeriggio era andato a prendere uno scatolo che Eloise era
andata a ritirare per suo conto prima di partire per la campagna. La
confezione di cartone era chiusa da un nastro di raso con sopra scritto
il nome della più famosa sartoria di Parigi. Dentro c'era il
suo abito per la festa, lo aveva disegnato personalmente e aveva
inviato al sarto istruzioni precise su come realizzarlo. Doveva essere
il costume degno del Figlio del Diavolo. Doveva stupire e spaventare.
Aveva passato una vita intera ad osservare la gente e
l'umanità a volte gli sembrava così prevedibile,
un mucchio di esserini che si circondano dei loro simili per sentirsi
al sicuro ma che erano pronti a sbranarsi a vicenda se necessario. Era
proprio per la loro meschinità che Erik provava tanto
divertimento a stupire gli altri e ora aveva in serbo per quel branco
di stolti una sorpresa che, era certo, li avrebbe lasciati di stucco.
Quando era tornato nel suo rifugio aveva pensato di provare il vestito
ma mentre si stava togliendo gli abiti che aveva indosso era stato
sopraffatto dalla voglia di scrivere, da un'ondata prepotente di
ispirazione, di voglia di musica. Si era seduto al suo organo dimentico
di tutto il resto.
Come accadeva spesso, le ore si erano susseguite senza che lui se ne
rendesse conto, senza che riuscisse a sentire il freddo, la fame o la
stanchezza, perché la musica gli invadeva i sensi rendendolo
incapace di percepire il mondo attorno a lui, facendogli perdere la
consapevolezza del suo stesso corpo.
Aveva trascorso la notte insonne, a scrivere la sua musica. Le sue mani
annotavano con la calligrafia precisa e ordinata le note sul
pentagramma, tracciando la distanza tra il Figlio del Diavolo e
l'Angelo della Musica.
Ora il suo Don Juan era terminato.
Erik sfiorò il margine del plico di fogli con l'indice
appena macchiato di inchiostro, come per sincerarsi che la sua opera
compiuta fosse lì, come un piccolo miracolo a cui si fa
fatica a credere. Sistemò gli spartiti in una cartellina di
cuoio, insieme ai disegni dei costumi e dei fondali di scena. La sua
anima tradotta in musica, parole, immagini, colori. Il suo cuore, il
suo stesso sangue stemperato e rimescolato nell'architettura di un
capolavoro. Quell'opera avrebbe fatto trasalire tutto il pubblico e lui
avrebbe goduto de loro sgomento come un dio capriccioso che osserva i
comuni mortali alle prese con una tempesta. Ma più di ogni
altra cosa, quell'opera era stata scritta per lei, per la sua musa. Per
tradurre in musica il desiderio che non aveva avuto ancora il coraggio
di esprimere in altro modo.
Chissà cosa avrebbe detto la sua Christine leggendo quelle
arie.
Intanto quel piccolo angelo, la sua bambina era stata capace di
stupirlo più di quanto lui avesse mai fatto. Era rimasta a
teatro, rinunciando a trascorrere il Natale con la famiglia di madame
Giry...
Sei un mostro egoista...
Dalla sera dell'Otello la sua coscienza non gli aveva dato tregua.
Quando Christine gli aveva detto che non sarebbe andata via per le
feste non era stato difficile capire che lo aveva fatto unicamente per
lui. Erik non aveva detto nulla, ma il suo orgoglio aveva ruggito di
soddisfazione: era così che lui voleva che andassero le
cose, era quella la dimensione che aveva in mente quando pensava che
Christine gli appartenesse. La voleva incapace di allontanarsi da lui,
voleva che le mancasse l'aria al pensiero di non trovarselo accanto,
voleva che quell'amore le annebbiasse la ragione, come era capitato a
lui.
… And though
you turn from me
to glance behind
the Phantom of the Opera
is there
inside your mind...
Erik non aveva mai conosciuto quei sentimenti prima d'ora, e si era
lasciato travolgere da quella passione senza rendersi conto che l'amore
è qualcosa di più profondo di quella smania di
possesso. Ma lui non conosceva altro modo di amare anche se la sua
coscienza lo spingeva ogni volta a chiedersi se fosse giusto.
Erik si addormentò con l'immagine di Christine talmente
vivida nei suoi pensieri che quasi riusciva a sentirne il profumo.
Sarebbe andato a cercarla appena sveglio, aveva un dono da consegnarle.
*
La mattina della Vigilia, Christine lasciò il teatro per
recarsi al convento delle suore di Santa Caterina. Le buone sorelle
gestivano un orfanotrofio dove davano riparo a tutti i bambini rimasti
soli. Ogni anno, in occasione del Santo Natale i cittadini di buon
cuore si recavano in luoghi come quelli portando del cibo o qualcosa da
dare in dono agli orfanelli, Christine non aveva abbastanza denaro per
comprare qualcosa per i bambini, ma decise ugualmente di andare ad
aiutare le suore a preparare il pranzo, il pasto più ricco
che quelle povere anime avrebbero mai mangiato.
In effetti, nella cucina del convento c'era molto lavoro da sbrigare e
la fanciulla trovò comunque modo di rendersi utile, pulendo
grandi quantità di verdura.
Avere qualcosa da fare durante quasi tutto il giorno permise a
Christine di trovare un po' di tregua dai suoi pensieri. Era passata
una settimana dalla rappresentazione dell'Otello e in quei giorni lei e
il suo Maestro si erano incontrati una sola volta. In quell'occasione
la ragazza gli aveva detto che non intendeva allontanarsi dal teatro
per il Natale e si era ritrovata ad arrossire davanti all'accenno di
sorriso che Erik le aveva rivolto.
Sei solo una povera
sciocca, Piccola Lottie...
La fanciulla aveva scoperto di amare quell'uomo quasi senza rendersene
conto, quasi senza doverlo dire nemmeno a se stessa talmente la cosa le
sembrava naturale, come se fosse l'unica strada che la sua vita avrebbe
potuto percorrere. Ma era tutto così assurdo, come poteva
pensare che lui la ricambiasse? Lei era solo una bambina, invece Erik
era un uomo, una persona così geniale e brillante che lei al
confronto si sentiva una stupida. Era il suo Angelo della Musica, il
suo Maestro e ritrovarsi a immaginare le sue dita che l'accarezzavano
con la stessa dedizione con cui sfiorava le corde del suo violino era
un pensiero troppo ardito che lei cercava in tutti di modi di
respingere. E in ogni caso la ragazza sapeva ancora così
poco di quell'uomo.
Quando Christine tornò a teatro era troppo stanca per
continuare a lasciarsi torturare dalle sue riflessioni e dai lamenti
del suo cuore. Si cambiò i vestiti sporchi e attese
semplicemente che Erik venisse a farle visita.
Non erano riusciti a incontrarsi in quei giorni a causa di Bertrand,
l'investigatore l'aveva sorvegliata continuamente nell'ultima
settimana. Quell'uomo odioso sembrava essersi accanito particolarmente
nella sua ricerca, la storia dell'incidente con la maschera del palco
numero cinque era diventato il pettegolezzo preferito dagli addetti ai
lavori del teatro, sembrava che Bertrand avesse trovato un biglietto
che lo aveva mandato su tutte le furie, ma nessuno era riuscito a
sapere di chi fosse il messaggio e cosa dicesse. Ad ogni modo, dopo
diversi tentativi, monsieur Dubois aveva convinto l'investigatore a
rimanere a casa per Natale: trascorrere il Santo Natale nel teatro
vuoto sarebbe stato troppo anche per loro.
Christine attese a lungo, rannicchiata sul suo letto, senza che il
Fantasma dell'Opera si degnasse di fare la sua comparsa.
Lo vedi, piccola
sciocca, lui non ti ama.
Per lui sei solo uno
strumento per far conoscere al mondo il suo genio...
La ragazza deglutì come se stesse cercando faticosamente di
ingoiare il boccone amaro. All'improvviso ebbe la sensazione che quella
stanza le si stringesse attorno e senza nemmeno indossare il suo
mantello di lana corse via percorrendo rapidamente le scale che
portavano sul tetto dell'Opera.
La grande piazza davanti al teatro era deserta, i caffé e i
bistrot erano chiusi. Le persone erano tutte rintanate nelle loro case
a prepararsi per la festa e Parigi, che in quei giorni le era sembrata
tanto bella, ora le appariva come un enorme deserto di tetti velati di
brina.
La ragazza si lasciò cadere seduta sul basamento di una
statua e rimase a fissare il vuoto con il vento che le fischiava nelle
orecchie, scompigliando i riccioli.
*
Erik restò per qualche secondo a osservare la figura della
giovane seduta ai piedi del cavallo alato. Vide i suoi capelli muoversi
nel vento come rami d'albero che si tendevano verso il sole. Avrebbe
voluto farla sedere sulle sue ginocchia e pettinarglieli, giocare con
le dita tra quelle ciocche morbide...
«Christine?» chiamò avvicinandosi cauto
per non farla spaventare.
La ragazza si voltò lentamente, dandosi il tempo di
cancellare dal viso il sorriso euforico che le era spuntato sulle
labbra,
«Non credevo di vedervi» ammise semplicemente.
«Sai, sono stato impegnato. Ho terminato un'opera alla quale
stavo lavorando da molti mesi» rispose l'uomo sistemandosi
davanti a lei-
«Ah, capisco. Spero che un giorno mi farete ascoltare
qualcosa»
«Farò molto di più, voglio che sia tu a
interpretarla!»
Christine scrollò le spalle,
«Dopo Natale tornerà la signora
Giudicelli» disse. «Sarà lei a
interpretare il prossimo spettacolo»
«Non ci giurerei, mia cara» mormorò
l'uomo con un sorriso beffardo.
«Erik! Vi prego, avete promesso...»
«Certo, certo. Stai tranquilla»
«Erik...»
«Sì?»
«Buon Natale» concluse Christine con un sorriso
adorabile.
Lui si sentì stringere il cuore. Non c'erano mai stati
auguri di Natale per il Fantasma dell'Opera.
«Ah già, che sbadato!»
esclamò, cercando qualcosa all'interno del mantello.
«Buon Natale anche a te, Christine».
Così dicendo le porse un piccolo pacco di cartone chiuso da
un nastro colorato, la ragazza lo guardò con aria
imbarazzata.
«Ma... non dovevate» farfugliò.
Erik scrutò il volto di Christine mentre apriva il suo
regalo,
«Oh, io non so come ringraziarvi, è
stupendo!» esclamò la ragazza facendosi scivolare
tra le mani un foulard di seta rossa con delle rose ricamate in fili
dorati
«Si intona al mio abito per la festa...»
commentò l'uomo con un filo di voce.
«Quale festa?» domandò la giovane senza
capire, Erik le rispose con un vago cenno della mano.
«Sono contento che ti sia piaciuto» aggiunse per
poi sedersi accanto a lei.
Un alito di vento più forte soffiò contro di
loro, Christine sentì un brivido di freddo,
«Ti verrà un malanno»
commentò Erik. «Torniamo dentro»
«No, preferisco restare qui...».
Erik annuì e coprì le spalle della ragazza con il
suo mantello, ma inaspettatamente lei si inclinò di lato
posandogli la testa sulla spalla e lasciando che lui la stringesse un
po' più forte in quel caldo abbraccio.
«Non mi avete mai detto chi siete»
mormorò la giovane, incapace di guardarlo negli occhi per
paura di non riuscire a evitare qualche gesto istintivo e sconsiderato.
Erik deglutì e si schiarì la voce con un leggero
colpo di tosse. Non poteva non darle una risposta.
«Non è una bella storia da raccontare»
borbottò.
«Non importa, voglio conoscerla ugualmente»
protestò lei con voce incerta.
L'uomo cercò di mettere insieme i ricordi e le parole. In
realtà quello che ricordava della sua vita prima che Eloise
lo portasse con sé a teatro era un misto di buio, violenza e
dolore, con poche immagini confuse di rari momenti di
serenità.
«Sono stato cresciuto in una tribù di
zingari» esordì.
«Ma non avete nulla che ricordi la fisionomia dei gitani e
nemmeno il vostro nome...» disse Christine corrugando la
fronte.
«Sì, il nome che porto me lo diede mia madre...
prima di abbandonarmi, o almeno così mi dissero gli
zingari».
La giovane strinse un lembo del mantello tra le mani,
«Ma è terribile, quale madre abbandonerebbe il suo
bambino?!» esclamò inorridita.
«La mia, evidentemente. E se nemmeno lei ha avuto
pietà di me e del mio volto, come avrei mai potuto sperare
che ne avessero quegli zingari?»
«Vi fecero del male?».
Erik chiuse gli occhi e cercò la forza di proseguire la sua
spiegazione,
«All'inizio, la famiglia che si prese cura di me mi
trattò bene» continuò. «C'era
una donna rimasta vedova senza figli, lei e il suo vecchio padre mi
trattavano come un figlio, ma il resto della tribù non mi
voleva, diceva che ero maledetto, che avrei portato il malocchio, mi
chiamavano il Figlio del Diavolo. Ma il vecchio doveva essere qualcuno
di importante nella tribù e lasciarono che mi tenesse con
sé, sapeva anche leggere e scrivere, infatti mi
insegnò».
Nella mente dell'uomo si fecero strada le immagini sfocate di un grande
carro di legno, di un uomo anziano con i capelli color argento e folte
ciglia cispose, e una donna, bassa e con i lineamenti marcati e i
capelli scurissimi che portava sempre grandi scialli decorati con
perline che luccicavano alla luce delle candele. Ricordò di
se stesso, degli altri bambini che lo evitavano e che per divertirsi
restava nascosto ad osservare il mondo attorno a lui, imparando
avidamente tutto ciò che vedeva. E ricordò di uno
zingaro che sapeva domare i cavalli e che gli piaceva osservare mentre
insegnava ai suoi figli a usare il lazzo...
«Erik... vi prego, continuate». La voce di
Christine lo riportò al presente, lui annuì.
«Una sera ci fu un incendio che distrusse molti carri, alcune
persone persero la vita, tra cui anche la donna che si prendeva cura di
me... gli zingari dissero che era stata colpa mia, che ero stato io ad
attirare la sfortuna su di loro, ma ancora una volta il vecchio
riuscì a convincerli a non mandarmi via, del resto avevo
solo otto anni...»
«Otto anni...» ripeté la fanciulla
sgranando gli occhi. Le si stringeva il cuore al solo pensiero di
ciò che il suo Angelo aveva dovuto subire e se solo avesse
immaginato il prosieguo di quel racconto lo avrebbe pregato di smettere.
«Già... comunque sia, dopo qualche mese anche il
vecchio morì. Mi avrebbero cacciato via a calci se non fosse
stato per un uomo che ebbe l'idea di usarmi come attrazione nel loro
circo ambulante, il Figlio del Diavolo era una curiosità che
attirava un bel po' di gente, sai?».
Erik pronunciò quelle parole con un tono quasi sarcastico,
come a voler dimostrare che erano cose lontane, che non lo riguardavano.
«È stato lì che ho capito quanto quella
gente che è lì fuori non è altro che
un branco di ipocriti... le brave persone che vanno a messa, che
insegnano l'educazione ai loro figli, che parlano di onore e di
rispetto erano le stesse persone che ridevano quando io venivo preso a
bastonate!» la voce dell'uomo era diventata bassa e sottile,
il respiro dell'odio che si insinua sotto la pelle e avvelena il sangue.
«Dio misericordioso!» esclamò Christine
coprendosi il volto con le mani, sconcertata da tanto orrore.
«Oh, no bambina, Dio non c'entra niente con la mia storia,
meno che mai con me!» commentò Erik con aria
sprezzante.
«Comunque... come siete scappato da lì?»
domandò la giovane.
«Fu quando incontrai Eloise, fu lei a portarmi via e a
nascondermi in questo teatro... è così che
è nato il Fantasma dell'Opera»
«Ma voi siete un uomo Erik! Qualsiasi cosa quella gente vi
abbia voluto far credere, qualsiasi cosa loro vi abbiano
voluto far diventare» disse Christine reprimendo le lacrime.
«E non siete il Figlio del Diavolo... siete il mio Angelo
della Musica».
Il Fantasma dell'Opera non poteva concedersi di credere a quelle
parole. L'odio che provava verso il mondo era stata l'unica ragione che
lo aveva aiutato ad andare avanti, ad accettare quella vita di buio e
solitudine. Ma l'uomo che si celava dietro quella maschera avrebbe
voluto abbracciare la ragazza e ringraziarla di quelle parole.
Alla fine fu il Fantasma e non l'uomo a prevalere, lui si
alzò con uno scatto e fissò Christine con uno
sguardo terribile, mentre la sera che stava cominciando a calare
portava via un po' di azzurro ai suoi occhi.
«Non illudiamoci, Christine» sussurrò
con voce roca. «Per loro io non sarò mai
nient'altro che un mostro»
«Erik... voi non...» la giovane tentò
debolmente di protestare.
«Torniamo dentro. Fa freddo ed è quasi
buio» tagliò corto lui, avviandosi verso
l'entrata.
_____________________________________________________________________________
La faccenda dell'orfanotrofio e dei parigini che vanno lì a
preparare il pranzo i natale agli orfanelli me la sono inventata di
sana pianta, in realtà credo sia troppo moderna come idea
(avete presente il cenone di Natale che organizzano i volontari per i
senzatetto?) e forse è anche un pò forzata e poco
realistica, ma la fanciulla che rimaneva a teatro a girarsi i pollici
perchè il Maestro era lì che ronfava dopo la
notte insonne mi sembrava un pò triste come idea.
La storia dell'infanzia di Erik, anche lì, pura
improvvisazione. Spero vi suoni palusibile.
Capitolo reinserito il 26\12\2011
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Capitolo 15 *** La Morte Rossa ***
Lunedì. Con
l'augurio di una buona settimana nuova vi lascio anche il prosieguo del
mio delirio da fanwriter, insieme ai ringraziamenti per le visite e i
commenti.
L'autrice spiantata chiede scusa se non ha tempo di
rispondere ai due cari commenti ma sta per recarsi al cinema a vedere
una pellicola con un tale attore scozzese sorprendentemente somigliante
al Maestro XD e le è venuto in mente solo ora che oggi
è lunedì e che doveva postare (sì, sto
messa male).
*******
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
La Morte Rossa
Scoppi di fuochi di artificio risuonavano nelle strade illuminando la
città con i loro bagliori multicolori. Parigi salutava
l'anno vecchio in una sera mite, dove la neve si era già
sciolta e le stelle occhieggiavano come minuscole fessure aperte su un
domani luminoso, su un nuovo anno ricco di speranze e sogni.
Erik abbottonò il panciotto di seta e scostò il
drappo che copriva uno degli specchi, tanto per guardare un frammento
della sua figura avvolta in quel ricco abito da festa. Gli anni per lui
si erano rincorsi a ritmo della sua musica, nel buio, furtivi come
ladri che ad ogni loro passaggio portano via qualcosa in
più. Anche adesso che l'amore gli aveva dato occasione di
guardare al futuro concedendo anche a lui sogni e speranze, il suo
domani sembrava avvolto dello stesso colore del suo abito, il rosso
vivo del sangue o delle fiamme dell'inferno.
L'uomo scacciò via quei pensieri lugubri e si
avviò verso l'uscita della sua grotta avvolgendo attorno al
braccio il lungo mantello,
«Che vedano, che sappiano» sibilò tra
sé e sé. «Che annusino l'odore del
sangue e dell'inferno...».
*
Il foyer dell'Opera Populaire era tutto uno sfavillio di candele e
vestiti sontuosi. L'orchestra del Maestro Ryer, sistemata sul parapetto
della galleria che portava verso i palchi laterali, suonava un bolero a
cui gli ospiti rispondevano con entusiasmo lasciandosi andare al ballo
come bambini spensierati su un prato, in una notte in cui tutto
sembrava perfetto e bellissimo come avrebbe dovuto essere.
Tutto perfetto, talmente tanto da sembrare irreale, un sogno di
cartapesta e coriandoli pronto a dissolversi da un momento all'altro.
Andrè e Firmin indossavano maschere barocche a forma di
ariete e di gallo, le più bizzarre e vistose che ci fossero.
Probabilmente perché ritenevano che la loro presenza dovesse
essere notata, dopotutto, si erano detti, era merito loro se
quell'anno, al tradizionale ballo a cui partecipava l'alta
società parigina, erano presenti così tanti
invitati di rilievo.
Madame Giry, tornata un paio di giorni prima dalla casa dei suoi
parenti, indossava un abito scuro con un corpetto damascato e con le
maniche ampie dal taglio orientale, mentre sua figlia aveva un costume
bianco che metteva in risalto il suo corpicino esile e aggraziato.
E intorno festa, danze, risate, allegria... ma non per molto.
Le candele in cima alle scale si spensero di colpo tutte insieme
privando la stanza di gran parte dell'illuminazione. Rimase una luce
fioca, quasi lugubre che ingigantiva le ombre riflesse sui marmi
rendendo l'atmosfera cupa e pesante, come se quel buio parziale fosse
presagio di una terribile sventura. Istintivamente tutti smisero di
ballare e la musica scemò, come se una mano invisibile fosse
arrivata a strappare via l'allegria dall'animo della gente radunata per
fare festa.
Gli sguardi dei presenti furono attirati da un'imponente figura
spuntata all'improvviso davanti all'ingresso del corridoio che portava
ai palchi laterali. In cima alle scale c'era un uomo vestito con un
ricco costume di velluto rosso con i ricami dorati, aveva il viso
coperto da una maschera a forma di teschio che lasciava scoperto il
mento e le labbra, gli occhi visibili dagli appositi fori erano
cerchiati da un trucco nero che ne faceva risaltare il colore chiaro
rendendo quello sguardo glaciale, quasi spaventoso. Anche l'elsa della
lunga spada che l'uomo portava in vita era a forma di teschio e
scintillava lucida alla luce delle poche candele rimaste accese.
La strana figura passò in rassegna la sala con quel suo
sguardo di demone e scese lentamente le scale, i suoi passi quasi
echeggiavano nel foyer, dove era calato il più assoluto
silenzio, e ad ogni gradino ognuno dei presenti avvertiva un tremito di
agitazione, come se quell'uomo fosse davvero un emissario della morte
giunto appositamente per loro.
«Perché tutto questo silenzio, cari
signori?» tuonò lo sconosciuto allargando le
braccia in un gesto enfatico. «Credevate che vi avessi
abbandonato? Ebbene, eccomi, sono tornato da voi con un dono».
Ciò detto l'uomo sollevò una cartella di cuoio
nero che teneva in una mano,
«Ho scritto un'opera per voi! Questo è lo spartito
del mio Don Juan Triumphant» esclamò lanciando
l'oggetto ai piedi dei direttori che lo fissavano attoniti.
L'uomo procedette con movimenti eleganti ed aggraziati, trascinando sul
pavimento un lungo mantello di seta rossa che avvolse intorno al
braccio con un gesto fluido e deciso.
Madame Giry deglutì nervosamente osservando la figura che si
muoveva per la sala, non si sarebbe mai aspettata una simile mossa.
Christine, dal lato opposto del foyer, era impietrita dallo stupore nel
suo abito di organza rosa, Raoul che era accanto a lei e che fino a un
attimo prima stava per chiederle di concedergli un ballo, le
toccò la spalla in una rapida carezza e si
allontanò furtivamente dalla sala.
C'era qualcosa di diabolicamente bello e affascinante in quell'uomo in
rosso, e riconoscerlo aveva quasi un che di perverso vista l'aria
minacciosa della sua figura.
«Solo qualche indicazione per la buona riuscita dello
spettacolo» continuò lo sconosciuto estraendo la
spada e puntandola contro la Giudicelli che era in fondo alle scale.
«Carlotta dovrà imparare a recitare, con grazia,
senza quel ridicolo ancheggiare a destra e a manca».
La donna si limitò a fissarlo spalancando la bocca, incapace
di protestare. In un breve e inutile impeto di coraggio Piangi, che era
accanto a lei, le si parò davanti, ma l'uomo vestito di
rosso gli sfiorò l'addome pingue con la punta della spada,
«E tu per interpretare Don Juan dovrai perdere peso, caro
Piangi, alla tua età può essere
salutare» commentò sarcastico per poi voltarsi
verso i direttori accennando un inchino con finto fare cerimonioso,
Andrè e Firmin trasalirono quando la lama della spada
luccicò sotto la punta del loro naso.
«In quanto a voi, miei cari impresari, è ora che
comprendiate che il vostro compito è l'amministrazione, non
l'arte!» tuonò lui fulminandoli con uno sguardo
severo.
L'uomo si voltò poi verso Christine e camminò
nella sua direzione,
«Mademoiselle Daae, quest'opera è stata scritta
per voi, sono certo che ci delizierete con il vostro canto nella parte
della protagonista, se continuerete ad aver fiducia nel vostro
maestro» concluse serafico mentre lo sguardo gli si addolciva
e si fissava negli occhi della giovane che arrossì e
accennò un impercettibile sorriso, facendo un passo verso di
lui con espressione rapita.
Bertrand e Alexandre, anche loro presenti al ricevimento, stavano
osservando la scena poggiati a una colonna accanto alla porta di
ingresso, lo sguardo del giovane si era mosso febbrilmente a cercare
sua madre che era venuta con lui al ballo, poi quando gli era capitato
di fissarsi nuovamente sull'uomo mascherato non era più
stato capace di guardare altrove. Era dunque quello il Fantasma
dell'Opera? Il mostro, l'assassino, l'essere deforme di cui parlavano i
racconti dei macchinisti che giuravano di averlo incontrato? Era lui
l'ombra ammantata di scuro che lo aveva torturato con tanta gelida
meticolosità?
Alexandre sembrò dimenticarsi dell'orribile supplizio che
quell'essere gli aveva inflitto solo poche settimane prima. Non
poté fare a meno di provare per un attimo una strana
ammirazione per quell'uomo, la sua dedizione all'arte e al teatro era
così profonda che si era mostrato davanti a tutti solo per
dare delle direttive su come organizzare uno spettacolo! E quella voce,
era così sorprendente!
Il giornalista fu distratto da uno strano luccichio che vide apparire
con la coda dell'occhio alla sua destra, si voltò e vide che
Bertrand stava estraendo una pistola dalla tasca interna della giacca,
lo guardò sgomento per un attimo, ma l'uomo non fece in
tempo ad estrarre l'arma e a prendere la mira, perché il
visconte De Chagny piombò di corsa nella sala brandendo una
spada e dirigendosi verso il Fantasma che era ancora in piedi di fronte
a mademoiselle Daae.
L'uomo mascherato vide arrivare il giovane e indietreggiò,
lanciò contro il pavimento della polvere da sparo, la stessa
che si usava per i trucchi di scena, e sparì in una botola
avvolto da una densa nuvola di fumo.
La scena strappò ai presenti un grido di stupore, mentre
Raoul si lanciò nella botola un attimo prima che essa si
richiudesse con un tonfo sordo.
Madame Giry si allontanò di corsa dalla sala, mentre la
gente si accalcava verso il punto in cui la botola aveva inghiottito il
Fantasma e il visconte.
Christine ebbe bisogno di poggiarsi al muro, le mancava il respiro.
L'emozione di aver rivisto il suo maestro in quella tenuta tanto
strabiliante si mischiava al timore che aveva provato per lui e alla
preoccupazione per Raoul che era sparito all'interno della botola.
«Voi siete pazzo, Bertrand!» ringhiò
Alexandre guardando furioso l'uomo che a sua volta sembrava
arrabbiatissimo per non essere riuscito a prendere il Fantasma.
«E voi siete un ingenuo Alexandre! Il momento era perfetto,
era un bersaglio facile» replicò l'investigatore
agitando i pugni.
«Un bersaglio facile?! Ma se era in mezzo a un mucchio di
gente, avreste potuto sbagliare mira!»
«Non avrei sbagliato»
«E comunque, non si era mai detto che lo avremmo
ucciso»
«Si era detto che lo avremmo preso, che differenza fa? Devo
forse ricordarvi cosa vi ha fatto quell'assassino?».
Alexandre prese un profondo respiro e cercò di calmarsi,
«Non siamo dei carnefici, Bertrand» concluse
guardando con astio il suo interlocutore. «Non sta a noi
decidere la sorte di quell'uomo, limitatevi a scovarlo, poi
sarà la giustizia a scegliere cosa fare. E ora, scusate, ma
devo cercare mia madre».
*
Raoul cadde rovinosamente su un pavimento di pietra ruvida,
recuperò la spada che era scivolata qualche metro
più in là e serrò le dita attorno
all'impugnatura. Il luogo dove si trovava era buio, ma all'improvviso
vide un bagliore balenare di lato, si voltò con uno scatto
continuando a brandire la spada e vide il profilo della maschera a
forma di teschio disegnarsi nell'oscurità.
Dunque era tutto vero, c'era un uomo che si nascondeva dietro la
leggenda del Fantasma dell'Opera, e non era un semplice detrattore
della Giudicelli o un operaio dedito a scherzi macabri. Era qualcuno
che nascosto nell'ombra tentava di manovrare tutti coloro che vivevano
nel teatro, come un cinico burattinaio. E dunque era vera anche la sua
ossessione per Christine, e che lei lo aveva incontrato e ne era
rimasta spaventata.
«Quanto è vero Iddio, lo ucciderò se
osa farle del male!» pensò il giovane continuando
a girare a vuoto nella stanza buia, rincorrendo la sagoma del Fantasma
che si muoveva rapidamente da un punto all'altro.
Un rivolo di sudore freddo scese lentamente lungo la tempia di Raoul
che si lanciò con rabbia verso il punto in cui aveva visto
comparire l'uomo l'ultima volta, ma si ritrovò a urtare
violentemente contro qualcosa di rigido e freddo e solo allora comprese
di essere rinchiuso in una camera dalle pareti ricoperte di specchi
disposti in varie angolazioni.
I movimenti rapidi del Fantasma erano solo un'illusione ottica, in
realtà era da qualche parte nel buio a prendersi gioco di
Raoul che prese a guardarsi intorno nervosamente alla ricerca di un
modo per uscire.
Uno specchio si aprì scivolando su dei cardini, come se
fosse una porta. Madame Giry comparve in un angolo della strana stanza
reggendo tra le mani una lampada ad olio, prese il ragazzo per la
spalla e gli fece cenno di seguirlo, insieme si allontanarono e si
avviarono lungo una ripida scalinata di pietra che li portò
direttamente sul retro del teatro dove c'era l'ingresso che immetteva
verso gli alloggi delle allieve del collegio.
«Ne ho avuto anche troppo per stasera»
sospirò madame Giry sparendo oltre la porta.
Raoul le si lanciò dietro e la prese per il braccio,
«Come sarebbe? Voglio una spiegazione!»
protestò energicamente.
La donna lo fissò scuotendo il capo e si dileguò
dalla sua stretta.
«Madame Giry, aspettate!»
«Vi prego, monsieur, non chiedete...»
«Devo sapere, madame, devo sapere a quali pericoli stiamo
andando incontro!»
«Di quali pericoli state parlando visconte?!»
borbottò la donna raggiungendo la sua stanza.
«È già morto un uomo, e stasera
quell'essere avrebbe potuto commettere qualche altra
scelleratezza!» gridò Raoul rosso in viso.
Madame Giry si coprì il volto con le mani e
sospirò tristemente, poi sollevò lo sguardo
lucido per fissare il giovane negli occhi,
«Vi racconterò solo per convincervi che non
c'è alcuno pericolo... non più» rispose
con durezza.
Eloise e Raoul si chiusero nella camera da letto della donna, lei si
sedette sulla sedia davanti alla specchiera e aumentò la
fiamma della lampada. Una luce morbida e giallastra illuminò
alcune vecchie foto incorniciate su una mensola, tra cui un ritratto di
Eloise da giovane.
«Ero una ragazzina all'epoca, studiavo nel collegio
dell'Opera per diventare una ballerina» esordì la
donna indicando la vecchia fotografia. «Una sera andai con le
mie compagne a una fiera ambulante, una specie di circo allestito in
campagna da una carovana di zingari. Fu lì che lo
incontrai»
«Lo incontraste? Lo avete condotto voi qui?»
domandò Raoul perplesso.
«Ricordo che c'era un tendone in mezzo al piazzale dove era
allestito il circo, c'era un'insegna scritta a grandi lettere nere,
diceva: il Figlio del Diavolo. Un uomo si sporse dal tendone e ci
invitò ad entrare... oh, non credevo avrei mai assistito a
qualcosa di così raccapricciante! Al centro del tendone
c'era una grossa gabbia, in un angolo c'era un ragazzino, era pelle e
ossa, era coperto di lividi e segni di percosse, teneva il volto
coperto da un sacco di tela».
Raoul arricciò il naso in una smorfia di disgusto,
l'angoscia che si leggeva sul volto di madame Giry gli gelò
il sangue nelle vene, quasi gli tolse il fiato,
«È orribile... ma vi prego,
continuate...» la incitò timidamente.
«L'uomo indicò il ragazzino dicendo che ci avrebbe
mostrato il Figlio del Diavolo» proseguì la donna.
«Lo vidi afferrare il piccolo in malo modo, gli tolse il
sacco dalla faccia e strattonandolo per i capelli lo costrinse ad
alzare il viso verso il pubblico che si era radunato fuori dalla
gabbia. Tutti risero e cominciarono a insultarlo... io avrei solo
voluto fuggire!».
Una lacrima, che aveva tutta l'aria di essere molto salata,
rigò il volto di Eloise come se avesse voluto tagliarle una
guancia,
«Oh monsieur! Non so se era più spaventoso il
volto di quella povera creatura o la disperazione che vi si leggeva...
la parte desta della sua faccia era deturpata da una piaga simile a una
profonda ustione, e il sudiciume di cui era ricoperto non rendeva certo
il suo aspetto più gradevole. Dopo quel terribile
spettacolo, che divertì tutti tranne me, il pubblico
lanciò qualche moneta all'interno della gabbia e si
allontanò, io sola rimasi all'ingresso del tendone a
guardare il giovane... avrei voluto che mi vedesse, lanciargli uno
sguardo di conforto... ma lui non si accorse di me, prese la corda con
cui era legato e... e approfittò di un momento di
distrazione del suo carceriere per strangolarlo»
«Mio Dio...» mormorò Raoul sconvolto.
La donna deglutì, poi riprese a raccontare,
«Ero sconvolta, ma credetemi, non provai pietà per
quell'uomo orribile, a quel ragazzino andò tutta la mia
solidarietà, lo presi per mano e lo condussi via, e
così lo portai a teatro, dove decisi di nasconderlo per
proteggerlo dalla crudeltà della gente, da allora questo
posto è diventato il suo regno dei balocchi, il suo domini
artistico. Scoprì che aveva un sorprendente talento,
è un gran musicista, un architetto, uno scenografo...
conosce la chimica, l'alchimia... è un genio!»
«A guardarlo si direbbe che il genio è diventato
pazzia» concluse il visconte scuotendo il capo.
«Quell'uomo...»
«No, voi non sapete niente, monsieur»
questionò madame Giry con aria severa. «E
comunque, ha un nome: Erik! Mi disse che gli zingari lo chiamavano
così perché era il nome che gli era stato dato da
coloro che glielo avevano affidato... ma sarebbe meglio dire
abbandonato! Erik non è un mostro, e se ha commesso un gesto
tanto terribile come l'omicidio di Bouquet è
perché si è sentito minacciato. La vita
è stata ingiusta con lui e gli insegnato che si deve essere
pronti a tutti pur di difendersi».
Raoul dondolò il capo, non sapeva cosa pensare, era
cresciuto nella convinzione che non ci sono giustificazioni sufficienti
a crimini tanto efferati, e il Fantasma dell'Opera non solo aveva
ucciso, ma aveva anche minacciato e ricattato, e soprattutto aveva
messo in pericolo Christine. Il giovane si limitò ad uscire
dalla stanza con aria stravolta, senza aggiungere altro.
La donna lo lasciò andare, forse era stato un azzardo
rivelargli cose tanto importanti ma del resto non gli aveva raccontato
nulla che fosse di qualche utilità alla cattura di Erik, e
dopotutto quel giovane viziato sembrava non aver nemmeno compreso
appieno il motivo per cui lei gli aveva narrato quella triste storia.
Né il visconte né madame Giry potevano sapere che
qualcun altro aveva udito quella conversazione e che ciò
avrebbe potuto avere conseguenze terribili!
Il giovane tornò verso il foyer, ma lungo il corridoio si
imbatté in Christine.
«Raoul! Grazie a Dio!» esclamò la
ragazza con aria sollevata. «Temevo ti fosse capitata qualche
disgrazia...»
«Tranquilla Christine, sto bene» le rispose il
ragazzo. «Ora ho bisogno di parlare con Alexandre, tu
piuttosto, come stai? Sarai spaventata, ma non temere sono certo che
presto prenderemo quel criminale!»
«Ma cosa stai dicendo?»
«Madame Giry mi ha raccontato la storia del
Fantasma».
Christine sgranò gli occhi,
«Erik...» mormorò stringendo i pugni con
aria preoccupata.
«Dunque è vero... tu, tu conosci
quell'uomo!» esclamò Raoul rimanendo a bocca
aperta, sentendo il cuore che gli scoppiava per l'agitazione. Troppe
cose erano accadute quella sera, troppe rivelazioni, non poteva
sopportare anche quella.
«Sì» rispose la giovane con aria decisa,
per poi abbassare lo sguardo temendo che i suoi occhi rivelassero
più di quanto intendeva lasciar intuire.
Il visconte boccheggiò poggiandosi con un fianco contro il
muro
«Oh mio Dio... ma tu, tu... è lui dunque,
è per lui che mi hai detto di no!»
esclamò stravolto coprendosi il volto con le mani.
«Raoul... io...» farfugliò Christine
senza sapere cosa dire, il ragazzo l'afferrò per le spalle e
la scosse.
«Tu lo ami! Di' la verità, è
così?!»
«Si!» urlò la giovane sottraendosi a
quella stretta prepotente. «Sì! È
così! E tu non sei nessuno per giudicare me o lui!»
«Christine, ma come puoi?»
«No, tu come puoi? Come puoi permetterti di giudicare una
persona di cui non sai nulla. Madame Giry ti ha raccontato la sua
storia forse perché sperava che tu capissi, e invece tutto
quello che sai fare è correre dai tuoi amici a rivelargli
ogni cosa! Ma certo! Per te è facile, hai avuto una vita
agiata, una casa, una famiglia, persino un titolo con cui comprare il
rispetto altrui! Tu sei come tutta l'altra gente che lo chiama mostro
senza rendersi conto che i veri mostri siete voi che non sapete
accettare le diversità!».
Il volto angelico di Christine era stato completamente sfigurato dalla
collera e dall'agitazione, non sembrava più lei, la ragazza
dolce e timida che lui conosceva fin da quando erano bambini. Le guance
le si erano arrossate e gli occhi le scintillavano per le lacrime di
rabbia e per uno strano furore, così violento che quasi
sembrava impossibile che fosse contenuto in un corpo così
esile e delicato.
Raoul indietreggiò di un passo quasi spaventato. Non era la
collera di Christine ad averlo turbato, quanto il realizzare che se lei
si era agiata in quel modo era perché forse lo amava davvero
molto. Quest'idea fece provare al giovane un dolore insopportabile,
come se la rabbia di Christine si fosse tramutata in un fiume
incandescente che gli si stava riversando addosso, riducendo a
brandelli la sua pelle e la sua anima.
I due ragazzi restarono a fissarsi per un tempo incalcolabile, poi lui
trovò finalmente la forza di parlare, combattendo contro il
suo orgoglio ferito,
«Hai ragione, non posso capire» ammise stancamente.
«E forse non ho nemmeno intenzione di farlo. Ma
poiché io ti amo, sì, hai capito bene, ti amo!...
Non dirò nulla che possa nuocere a te o a chi ti sta a
cuore, fingerò che madame Giry non abbia raccontato niente e
lascerò che gli eventi seguano il loro corso. Ma bada,
Christine, se quell'uomo dovesse fare del male a qualcun altro stai
certa che non avrò nessuna premura per lui. Buona
notte».
Ciò detto il visconte si allontanò lasciando la
ragazza in lacrime in mezzo al corridoio.
Raoul raggiunse il foyer che nel frattempo si era sfollato. La gente
era rimasta spaventata da quanto era accaduto e aveva abbandonato il
teatro, lasciando il salone vuoto con il pavimento coperto di
coriandoli.
Erano rimasti soltanto i due direttori, Bertrand e Alexandre, che
appena lo videro sospirarono di sollievo.
«Grazie al cielo state bene, visconte!»
squittì Andrè che sembrava ancora molto scosso.
«Visconte, raccontateci cosa avete visto!»
esclamò Bertrand osservando Raoul come se sperasse di sapere
qualcosa di veramente decisivo per porre fine a quella storia.
«Io devo trovare mia madre» borbottò
Alexandre, dopo aver osservato il so amico e accertatosi che stesse
bene. «Non l'ho più vista da prima che comparisse
il Fantasma»
«Il nostro caro monsieur Dubois è rimasto
piuttosto affascinato dal curioso ospite che abbiamo avuto
stasera» commentò l'investigatore con un'occhiata
severa.
Alexandre ignorò quel commento e fece per allontanarsi, ma
fu avvicinato da un inserviente che gli disse che sua madre era andata
via.
«Madame è tornata a casa poco fa, non vi ha voluto
disturbare perché pensava che voi sareste stato impegnato
con le vostre indagini» disse l'inserviente.
«Oddio! Se n'è andata senza avvisarmi prima... mi
farà impazzire prima o poi!» borbottò
il giornalista stizzito, allentandosi il foular e sbottonando il primo
bottone della camicia.
«Visconte, non teneteci sulle spine» intervenne
Firmin. «Diteci cosa avete visto»
«Nulla che possa esservi di aiuto» rispose Raoul.
Bertrand trattenne a stento un gesto di collera,
«Come sarebbe a dire?!» tuonò al limite
dell'esasperazione.
«Il corridoio sotto la botola conduceva al primo
sottopalco» concluse Raoul con un'alzata di spalle.
«E di certo il Fantasma non vive nascosto lì,
visto che lì si trova la sartoria. La botola l'avete
già esplorata e sapete meglio di me che non è
altri che una scatola di pietra. Altro non saprei dirvi»
«Oddio, non ce ne liberemo mai, mai e poi mai!»
disse Andrè con voce lamentevole, lasciandosi cadere
pesantemente su una sedia.
«Certo che ce ne liberemo, statene certi signori
miei» concluse Bertrand con un ghigno.
_______________________________________________________________________________
bloodred_rose ha indovinato che sarebbe spuntata la Morte Rossa (sono
l'unica a non trovare quella mise particolarmente da tumulto ormonale?
forse si... ma se il costume non mi sconfinfera più di
tanto, devo dire che AMO la scena del film in questione, con Erik che
boccheggia come un merluzzo guardando Christine e poi scatta e le
strappa via l'anello)... chi indovina chi e perchè ha
"origliato" la conversazione tra Madame Giry e il Carciosconte
(neologismo inventato per un rigurgito di odio nei confronti del
suddetto personaggio) vince una confezione di caramelle dal gusto a
scelta.
Alla settimana prossima ^^
Capitolo reinserito il 27\12\2011
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Capitolo 16 *** Chiaroscuro (parte prima) ***
Buona settimana nuova,
buon tutto... siamo leggermente in ritardo ma ieri sera proprio mentre
stavo postando ho ricevuto una visita e ho dovuto desistere.
Ringrazio i miei lettori e le mie due recensitrici (si dice
così? @_@) ma vi comunico che non avete indovinato chi
è il famigerato origliatore (quindi niente caramelle, se le
mangia tutte il Maestro)... ma vi anticipo che non è
importante il CHI quanto il PERCHE'.
Detto ciò... prima di venire al capitolo, veniamo
a noi...
@ Amy: Bella l'immagine del Maestro in tenuta da Morte Rossa
accomunato a un boero da scartare... non mi piacciono i boero ma ti
assicuro che dopo questa associazione mentale non dormirò la
notte. Eh si, quell'uomo ha un effetto deleterio sulla mia
sanità mentale, nel caso non si fosse ancora capito. Sullo
spezzare la lancia a favore del Carciosconte sono d'accordo con te, lo
so che la vicenda del Fantasma dell'Opera andrebbe guardata secondo il
punto di vista dell'epoca in cui è stata scritta... ma Erik
è il mio amore letterario e non si comanda al cuore XD
(angolino del ritorno all'adolescenza da fangirl: e poi...
cioè... se uno mi ci piazza lì lo Scozzese
vestito come un modello di Armani, con quegli occhi, quelle movenze e
tutto il resto... bhe... suvvia, siamo fatti di carne! XD). Alex
è Alex... meravigliosamente (o odiosamente, a seconda dei
punti di vista) buono. Lo so... ciccino di zia Elby sua... E il caro BB
mi rende sempre molto fiera di lui, contenta che vi piaccia ^^
@ bloodred_rose: I vestiti di Carlotta sono TUTTI fantastici!
Io voglio uno spin-off di POTO con Carlotta e la ricerca della sartoria
perduta o qualcosa del genere... Io sono un'amante dei cattivi e quando
ho messo su questa fanfiction sapevo che Alex sarebbe stato troppo
buono per essere amato, soprattutto se messo a confronto con la sua
controparte molto più "fika"... però
vabbè, i personaggi sono tutti come dei figli per me *_*
(ok, sto cadendo nello smielato). Spero che il capitolo che segue
placherà la tua curiosità.
Questo capitolo è di una lunghezza oscena quindi
lo divido in due parti per comodità.
Your
obidient servant
*******
CAPITOLO QUINDICESIMO - PARTE PRIMA
Chiaroscuro
«Erik!» la voce echeggiò nella caverna,
un suono melodioso anche se incrinato da un accento di ira.
«Mia cara, cosa c'è che ti rende così
nervosa stasera?» disse l'uomo voltandosi lentamente in
direzione dell'entrata attraverso la quale Christine era comparsa. Si
era tolta l'abito da festa e si era sciacquata la faccia, aveva sciolto
i capelli e adesso sembrava di nuovo una bambina. Una bambina con
troppo fuoco nel cuore per sembrare ancora innocente agli occhi di chi
sapeva cogliere certe cose o semplicemente di chi aspettava un suo
sguardo meno reverenziale e più profondo.
«E avete anche il coraggio di chiedermelo?!»
esclamò.
«In effetti, sì». Erik trattenne a
stento una risata, vederla così agitata, con le gote
arrossate di furore lo divertiva.
«Siete pazzo! Siete stato un incosciente! Piombare
lì nel teatro, in mezzo a tutti, quando c'è gente
che vi da la caccia! E per cosa poi? Sono veramente sconvolta
dal vostro esibizionismo».
L'uomo alzò le spalle e sorrise beffardo,
«Avevo disegnato quel costume tempo fa e l'ho fatto
confezionare da uno dei migliori sarti della città, sarebbe
stato un vero peccato non indossarlo»
«Non siete divertente...».
Christine lo osservò con espressione crucciata, dopo qualche
secondo di silenzio lui sospirò e sorrise
«Sì, devo convenire che non è il mio
miglior talento» concluse.
«Smettetela! in nome di Dio!». la voce della
fanciulla era diventata stridula cominciando a tremare in un principio
di pianto. «Io... se vi fosse accaduto qualcosa... oh mio
Dio... Erik possibile che non c'è niente che vi spinga a
essere un po' più prudente, non avete nessun motivo per
preservarvi in vita?».
Quando tutte le emozioni di quella sera si condensarono in due grosse
lacrime che scivolarono oltre le ciglia della sua piccola musa, sia il
Fantasma dell'Opera, sia l'uomo che si nascondeva dietro quella lugubre
leggenda sentirono il cuore esplodere.
L'Angelo della Musica non voleva essere causa di dolore per la sua
protetta. Si alzò con uno scatto dalla sedia dello
scrittorio e le andò incontro,
«Ah, certo. Il motivo più valido è qui,
davanti a me» disse Erik prendendola tra le braccia con un
impeto tale che persino le lacrime diventarono immobili gemme di sale
sulle sue guance.
Christine sollevò lo sguardo e lo fissò negli
occhi,
«Non potrei mai sopportare di perdervi...» disse.
«Non avete il diritto di mettere in pericolo voi stesso, non
potete arrivare a stravolgermi la vita e poi correre il rischio di
lasciarmi di nuovo da sola!».
Erik rimase a bocca aperta, la tenera passionalità con cui
Christine aveva pronunciato quelle parole gli fece accelerare il
battito all'inverosimile e spazzò via ogni riserva di
razionalità. Gli era sempre difficile mantenere il controllo
quando era con lei, quando lei gli era così vicina, ma
soprattutto in quel momento non riuscì a fare a meno di
sentire il sangue incendiarsi e reagire a quella sensazione inebriante
e incontrollabile, prese il volto di Christine tra le mani e la
baciò, senza soffermarsi a verificare che lei fosse
d'accordo, senza preamboli, famelico e impetuoso, con le labbra che
sfioravano quelle della giovane, con la lingua che giocava irriverente
con quella di lei.
Christine era rimasta immobile, le mani posate sugli avambracci di
Erik, il respiro incollato a quello dell'uomo, come se le loro vite
fossero inesorabilmente legate. La ragazza lo attirò
maggiormente a sé, sentendo il bacino di Erik aderire al suo
addome, strinse tra le dita i lembi della sua camicia, poi gli
legò le braccia attorno al collo, aggrappandosi a lui quasi
con disperazione. Si staccarono solo quando ebbero bisogno di aria,
respirando quel tanto che bastava a placare il bisogno di ossigeno per
poi baciarsi ancora, stavolta con più tenerezza, con le mani
che accarezzavano i capelli e le spalle, per poi cercarsi, intrecciarsi
e tornare ad accarezzarsi, con movimenti febbrili.
Erik ricoprì di baci il volto di Christine, sentendo la
pelle delicata della giovane diventare incandescente sotto le sue
labbra che non avevano mai toccato la pelle di una donna, per poi
scendere a baciarle il collo, mentre le mani le abbassavano la stoffa
del vestito scoprendo le spalle e il petto quasi fino al seno.
Christine si sentì sciogliere sotto quei baci
così arditi e si strinse un po' di più a lui
sfiorando con l'anca l'eccitazione dell'uomo che rispose a quel tocco
inatteso con un gemito soffocato, per poi prendere a sollevarle la
stoffa della gonna senza smettere si baciarla.
in un attimo di lucidità Christine prese il volto di Erik
tra le mani e lo guardò con aria smarrita,
«Erik... no...» ansimò mentre lui
riprendeva ad armeggiare con i lacci del suo vestito.
«Erik, no, vi prego...» ripeté
sciogliendosi dall'abbraccio dell'uomo e indietreggiando di un passo.
Lui la guardò per lunghi secondi cercando di riprendere
fiato, la ragazza teneva lo sguardo basso, il volto era arrossato
all'inverosimile per l'imbarazzo.
«Di cosa hai paura Christine?» le
domandò pacato.
«Di me...» rispose lei senza alzare lo sguardo.
L'uomo si poggiò con una mano sul piano dello scrittoio e
cercò di calmarsi,
«Immagino che non è quello che ti hanno
insegnato» commentò in tono grave. «Ti
avranno parlato di onore e di peccato»
«Possibile che voi non abbiate morale?»
borbottò lei piccata.
«E chi stabilisce cosa è morale? Loro? Quella
gente che si affanna ad apparire brava gente, che si lava la coscienza
in un'acquasantiera ogni domenica e poi è incapace di
accettare un uomo solo perché è diverso?! Se
credi che siano loro i detentori della morale allora al mondo
c'è davvero qualcosa di sbagliato»
«Non siate cinico... cercate di capire...»
«Non ti obbligherei mai a questo, a niente che tu non voglia
Christine, ma mi si stringe il cuore al pensiero che tu abbia paura di
te stessa solo perché provi ciò che è
legittimo che un essere umano senta, ci sono cose ben peggiori del
desiderio per trovare la dannazione, credimi».
Christine si voltò dandogli le spalle, incapace di sostenere
il suo sguardo o semplicemente di rispondere alle sue parole.
Restò a fissare il muro di pietra davanti a lei, incapace
anche ad andarsene e lasciare quel discorso in sospeso.
Erik la guardò senza dire niente respirò
lentamente, avvertiva un fastidioso dolore al bassoventre, ma lo
preoccupava maggiormente la possibilità che Christine si
potesse sentire ferita, non le aveva detto quelle cose per convincerla
a fare qualcosa di cui lei non era convinta, aveva solo espresso
un parere. Se avesse voluto semplicemente prenderla per
placare la smania che quell'amore gli aveva riversato nelle vene lo
avrebbe già fatto, ma era una mostruosità che
quella fanciulla non meritava, e non voleva che lei pensasse
minimamente che il suo rifiuto di concedersi a lui in quel momento lo
aveva fatto adirare o offendere. Erik aveva la certezza che Christine
era sua, che gli apparteneva, e ciò gli bastava, ci sarebbe
stato tempo per tutto il resto, in nome dell'amore che provava per lei
avrebbe aspettato anche se si sentiva divorare dal desiderio.
Le si avvicinò e le posò delicatamente le mani
sulle spalle,
«È tutto a posto» le mormorò
con dolcezza.
Lei rispose con un singhiozzo e si asciugò le lacrime con il
dorso della mano, Erik la fece voltare e le fece cenno di seguirla.
«Vieni, voglio mostrarti una cosa, bambina mia».
Lei sembrò tranquillizzata dalla calma dell'uomo e gli
andò dietro.
Erik si chinò a raccogliere una cartella di cartone da un
vano di un mobile e sfogliò tra i disegni che erano
sistemati all'interno, estrasse un foglio di spessa carta ruvida da
disegno e lo porse a Christine,
«L'ho fatto molto tempo fa, credo la prima volta che ti ho
vista» le disse.
Lei osservò il foglio incuriosita e si ritrovò a
sorridere. Al centro del pezzo di carta era disegnata con un carboncino
una bambina di setto o otto anni inginocchiata a mani giunte davanti a
un candelabro, con una cascata di riccioli che le ricadevano sulle
spalle,
«Ma sono io da bambina...» mormorò
intenerita. «Oh, è bellissimo»
«Tienilo, è un regalo» rispose Erik
accennando un sorriso.
La giovane lo guardò commossa,
«Grazie».
Erik le baciò una mano e le accarezzò dolcemente
i capelli.
«Mio Dio, ma è tardissimo!»
esclamò Christine notando l'orario segnato da un orologio
sistemato su una mensola oltre la spalla del suo maestro
«Resta con me stanotte!» esclamò Erik
con aria supplichevole. «Ti prego, non lasciarmi solo... ti
giuro che non accadrà niente che tu non voglia».
La ragazza inclinò la testa di lato e lo fissò
pensierosa. Non sapeva fino a che punto fosse una buona idea, ma lo
amava, lo avrebbe voluto accanto tutta la vita, non poteva rifiutargli
anche quello...
«Siete sicuro che per voi non sia ancora più
difficile?» domandò sentendosi avvampare.
«Non lo sarà» rispose Erik deciso.
«Resterò» concluse la giovane.
«Ma solo se voi farete una cosa per me...»
«Chiedimi quello che vuoi»
«Voglio che vi togliate quella maschera, che non riteniate di
doverla indossare quando siete con me».
A quella richiesta Erik trasalì, il suo sguardo
diventò duro e spento, rimase per un attimo a bocca aperta
pensando che lei, malgrado fosse tanto giovane riuscisse sempre a
trovare il modo di spiazzarlo, nel bene e nel male.
Scosse il capo energicamente corrugando la fronte e distolse lo sguardo
da quello della ragazza,
«No, Christine. Se solo avessi idea di quanto mi disgusta
ciò che sono...» mormorò.
Lei gli prese una mano tra le sue,
«Quando ci incontrammo la prima volta e io ebbi l'impudenza
di togliervi la maschera mi diceste che non avrei dovuto vedere il
vostro volto prima di essermi affezionata a voi per ciò che
eravate oltre le apparenze. Ebbene, dubitate del mio affetto?»
«No, e proprio perché non dubito del tuo affetto
non voglio che sia avvelenato dal ribrezzo per il mio
viso...».
Christine sospirò,
«Ammetto che ho avuto paura di voi, ammetto che ci sono stati
momenti in cui ho dubitato, in cui ho provato rabbia... ma mai, neppure
una volta, ho pensato che ciò che si cela sotto quella
maschera avrebbe potuto essere rilevante. Fidatevi di me, come io mi
sono fidata di voi» concluse.
Erik si sentì con le spalle al muro, per lei si trattava di
fiducia e non poteva darle torto, e non poteva negarle quel gesto di
resa ora che lei era lì, pronta ad amarlo, ma la paura di
rischiare di perderla per quei lineamenti deformi, che non erano mai
stati una colpa ma solo una croce da portare, lo lasciò
impietrito, imbambolato davanti al suo sguardo senza riuscire a pensare
lucidamente a cosa fare. Christine ormai era ferma nella sua posizione
e decise che valeva la pena azzardarsi a ripetere quel gesto che la
prima volta aveva scatenato l'ira di Erik, sollevò una mano
e fece scorrere una carezza lenta sulla guancia sinistra dell'uomo,
fino ad arrivare al bordo della maschera di cuoio. Negli occhi di Erik
passò un lampo lucido di paura, come se fossero stati gli
occhi di un bambino, o semplicemente gli occhi di un uomo indifeso
davanti a ciò che sente più grande di lui.
Lo sguardo di Christine si posò sulla guancia destra di Erik
non appena la maschera cadde in terra, lui fece per ritrarsi, ma le
mani della ragazza nelle sue gli imposero di resistere all'impulso di
coprirsi il viso. E in quel momento Christine dimostrò di
essere più coraggiosa e decisa di quanto lo era stato lui.
Lo osservò senza curiosità e senza stupore, non
c'era la minima traccia di turbamento nel suo viso, solo un velo di
malinconia, non tanto per ciò che stava guardando ma per il
pensiero di come quel volto imperfetto si fosse rivelata una condanna
per un uomo che al di là di quell'evidente imperfezione le
appariva bellissimo e che la piaga che si estendeva dalla narice alla
tempia non riusciva a renderle repellente, malgrado deformasse i suoi
lineamenti eleganti.
Christine pensò che gli angeli dovevano averlo invidiato per
la sua bellezza, al punto che Madre Natura, per placare la loro ira, lo
aveva reso imperfetto senza infierire più di tanto su uno
dei suoi figli migliori.
«Dunque, ti piace quello che vedi?»
domandò Erik gelido.
La ragazza ricambiò lo sguardo freddo con un'espressione
tranquilla,
«Non c'è nulla che mi dispiace in ciò
che vedo, se è questo che volete dire. Siete troppo
importante per me perché possa preoccuparmi del vostro
viso» rispose.
L'uomo deglutì e cercò di evitare di sciogliersi
in lacrime, non voleva impietosirla o commuoverla, si limitò
ad annuire,
«Se mai posso sperare in una forma di salvezza, non puoi che
essere tu» le mormorò con un tono così
toccante che la ragazza gli si gettò tra le braccia e lo
strinse a sé accarezzandogli la guancia piagata e
baciandogli la fronte.
Erik si staccò da lei e le accarezzò il viso,
«Sono stanco, bambina mia, e credo sia stata una serata
intensa anche per te. Meglio andare a dormire...» le disse.
«Sì, avete ragione» concordò
Christine, dirigendosi con lui verso l'insenatura in cui era sistemato
il barocco letto a forma di cigno, la ragazza si lasciò
avvolgere dalla sensazione confortevole di quel materasso morbido e di
quelle lenzuola che avevano impresso tra le loro pieghe l'odore di
Erik. La consapevolezza di quell'amore la colpì come uno
schiaffo al viso, facendola scivolare con la testa affondata sul
guanciale, si sistemò su un fianco e sentì Erik
stendersi accanto a lei, cingendole la vita con un braccio.
Christine si addormentò cullata dalle carezze di Erik che le
passava teneramente le dita tra i capelli, giocando con i suoi
riccioli.
Appena la giovane prese sonno l'uomo decise di alzarsi dal letto e
allontanarsi da lei. Starle vicino, dormirle accanto, era
più difficile di quanto pensasse e le emozioni di quella
sera gli avevano fatto salire un groppo in gola che minacciava di
soffocarlo se fosse rimasto steso a letto. Decise di lasciare la sua
casa, di andare abbastanza lontano da riuscire a pensare agli ultimi
avvenimenti a mente lucida, sperando che Christine non si svegliasse e
non notasse la sua assenza.
*
Le fischiavano le orecchie, aveva in testa ancora lo scoppiettio dei
fuochi di artificio che avevano fatto compagnia alle stelle, al punto
che per ognuno di quei bagliori lei aveva pensato che valesse la pena
di esprimere un desiderio.
Josephine fece una piroetta volteggiando nella penombra. Aveva detto ai
suoi genitori che sarebbe voluta rimanere a teatro e festeggiare
l'arrivo del nuovo anno con le sue compagne, in realtà era
uscita di nascosto, come faceva spesso, per incontrarsi con il suo
innamorato. Era stato difficile organizzare tutto senza che nessuno la
scoprisse, ma ne era valsa la pena.
Lui le aveva chiesto di sposarla, le aveva detto che sarebbero scappati
insieme se fosse stato necessario, se i genitori di lei non avrebbero
acconsentito alla loro unione. Le aveva fatto tante promesse a fior di
labbra, promesse che un cuore onesto e romantico non avrebbe lasciato
al vento, le aveva messo in mano il suo cuore e aveva steso ai suoi
piedi un futuro incerto ma pieno di tutto il devoto amore di cui un
ragazzo avrebbe mai potuto essere capace.
Josephine sentì la felicità formicolargli nelle
vene e nei muscoli, come se riempisse il suo corpo di minuscole
bollicine d'aria che la rendevano leggera. Rise tra sé e
sé e sciolse il nastro che le legava i capelli.
Osservò uno scorcio di cielo da un'alta finestra in cima al
corridoio e ringraziò Dio di tanta gioia. Se gli angeli del
Paradiso avessero potuto vederla, avrebbero pensato che fosse una
stella caduta per sbaglio dal cielo di Parigi, tanto la sua anima
brillava.
Un improvviso fruscio alle sue spalle fece sobbalzare la ragazza che si
voltò di colpo a osservare la penombra nel timore di essere
stata scoperta. La sua mente cercò di formulare una scusa
plausibile per giustificare la sua presenza lì a quell'ora,
ma nessuno venne verso di lei. Pensò di essersi
impressionata ma vide un'ombra muoversi all'improvviso, come una massa
di buio che prendeva forma davanti ai suoi occhi.
Non ci fu tempo né di pensare, né di dire
qualsiasi cosa. L'ombra si avventò su di lei e la spinse
contro il muro, tappandole la bocca con una mano fasciata da un guanto.
La ragazza tentò di ribellarsi a quella stretta,
tremò quando la mano libera del suo assalitore si
insinuò sotto la sua gonna, ma non c'era niente da fare, il
suo corpo era troppo esile per lottare contro la figura possente che la
teneva inchiodata contro quel muro e le strappava rabbiosa la stoffa
degli abiti e della biancheria.
E un attimo dopo non ci fu più tempo, né spazio,
né aria, né buio, né luce, mentre
artigli mostruosi le dilaniavano l'anima e le martoriavano il corpo.
*
Christine si voltò di schiena e allargò le
braccia sulla superficie soffice del materasso. Era sola in quel letto,
tutto intorno a lei non c'era nient'altro che buio.
Anche se Erik si era alzato e si era allontanato mentre lei dormiva, la
ragazza poteva sentire comunque il suo calore attraverso le lenzuola e
nell'oscurità di quella notte si sentì
stranamente al sicuro, come avvolta da un morbido involucro impalpabile
che la proteggeva. Si sentì lontanissima dalla bambina che
cercava il sole augurandosi di non incontrare mai ombre sul suo
cammino, si sentì diversa, si sentì una donna con
la consapevolezza che non sempre la parte migliore delle cose
è quella chiara e luminosa, che la felicità
può nascondersi anche nella notte, ed era quella notte che
lei voleva vivere, quel buio con la sua pace, quelle stelle che
tracciavano una strada impervia ma ricca di cose da scoprire. Quella
luna che ammiccava con il suo sorriso d'argento sospeso nel cielo,
oltre le pareti del teatro, al di sopra degli uomini, della loro
testarda e ostentata ricerca della razionalità...
Grasp it, sense it
tremulous and tender . . .
Turn your face away
from the garish light of
day,
turn your thoughts away
from cold, unfeeling
light
and listen to the music
of the night . . .
Erik aveva ragione. Aveva avuto ragione fin dall'inizio.
E che notte sia!...
Che notte sia, pensò la ragazza.
… Quanta
più notte che può.
*
Il primo giorno dell'anno cominciò avvolto da una coltre di
foschia e da nuvole che non portavano pioggia ma che toglievano sole e
azzurro al cielo di Parigi.
Madame Giry aveva dormito poco e male quella notte, aveva preso sonno
solo alcune ore dopo l'alba e si era addormentata pensando che non le
importava, che avrebbe dormito tutto il giorno se ne avesse sentito il
bisogno.
In giorni come quelli non succedeva mai niente, il teatro era vuoto e
tutti quelli che di solito lo popolavano erano a casa a riprendersi
dalla nottata di festeggiamenti.
Il polverone che si era alzato dopo la comparsa del Fantasma era
destinato a travolgere tutto l'universo che ruotava attorno all'Opera
Populaire, ma non era quello il momento di pensarci.
Tuttavia, le speranze di riposo che avevano attraversato la mente di
Eloise prima che scivolasse in un sonno profondo furono spazzate via da
una violenta bussata di porta,
«Mamma, mamma, apri! In nome del cielo!».
La voce di Meg era sconvolta, ansimante e tremula. Al suono della voce
di sua figlia così turbata Eloise non ci mise più
di un secondo a passare dal sonno al suo consueto stato vigile e,
avvolgendosi rapidamente nella vestaglia, aprì la porta
della sua camera.
Meg era in lacrime, tremava e sembrava che faticasse a parlare.
«Figlia mia! Cosa è successo?»
domandò Madame Giry con il cuore che cominciava a
martellarle violentemente nel petto.
«Oh, mamma... mamma! È terribile...
oddio...». La ragazza si aggrappò alla vestaglia
della donna e le nascose la testa nel petto.
«Meg! Ora calmati» esclamò Eloise
prendendo il volto di sua figlia tra le mani. «Fammi capire
cosa è successo».
La ragazza scosse la testa, era come se non riuscisse a trovare le
parole, si limitò a strattonare sua madre come per
accompagnarla da qualche parte. Eloise si lasciò guidare
senza opporre resistenza e si rese conto che sua figlia la stava
conducendo verso il corridoio che immetteva nell'ingresso del collegio.
Fu lì che Eloise vide un crocchio di ragazzine accalcate
attorno a qualcosa che giaceva inerme ai loro piedi. A guardarlo da
lontano sembrava un cumulo di stracci, ma all'improvviso una ballerina
si staccò dal gruppo e andò incontro alla
direttrice del balletto lasciando uno spazio vuoto attraverso
il quale la donna poté vedere che quella a terra
era una ragazza.
«Cosa è successo?» chiese con ansia.
«Madame Giry... non lo sappiamo» squittì
la ballerina. «L'abbiamo trovata qui stamattina... fissa il
vuoto e non parla, quando abbiamo provato ad aiutarla a rialzarsi ci ha
gridato di non toccarla»
«Tornate nelle vostre camere, signorine! Subito!»
intimò la direttrice del balletto. «Spostatevi,
lasciatela respirare... Meg tu calmati e dammi una mano».
Mentre le ragazze sfollavano, pur continuando a guardarsi alle spalle
per osservare quello che succedeva, Eloise si chinò su
Josephine. La piccola e aggraziata ballerina dalla bellezza angelica
ora era un ammasso di vesti lacere, capelli arruffati e lividi viola
che le coprivano il corpo mezzo svestito.
Madame Giry si tolse la vestaglia e la coprì, poi si
sistemò accanto a lei,
«Chérie, cosa ti è successo?»
le chiese con dolcezza, quando avrebbe solo voluto urlare dall'orrore
immaginando perfettamente cosa le fosse accaduto.
«Josephine, avanti parla» disse Meg imponendosi di
stare calma e avvicinandosi lentamente per cingerle le spalle con un
braccio.
«Non è stata colpa mia... non è stata
colpa mia...» squittì la ragazzina con una voce
che non sembrava più nemmeno la sua.
«Certo che no, mia cara, certo che no...» la
rassicurò Madame Giry che in quel momento dovette far
ricorso a tutta la sua forza d'animo per mantenere la calma.
«Ma non vuoi dirci chi è stato?»
«È stato lui... lui...»
«Lui chi, tesoro?» insistette Meg.
«Il Fantasma dell'Opera» concluse Josephine
lapidaria.
Meg lanciò verso sua madre uno sguardo duro e colmo di
rancore, ma Eloise scosse energicamente la testa, poi aiutò
la ragazza ad alzarsi e l'accompagnò nella sua stanza dove
le preparò un bagno e le fece indossare vestiti puliti.
Josephine ormai reagiva passivamente a ogni cosa, si lasciò
togliere le vesti lacere e immergere nella vasca. Meg
schizzò fuori dalla stanza stravolta dall'angoscia quando
vide i lividi che coprivano il corpo della compagna e che erano
più marcati ad altezza delle cosce.
Quando Josephine tornò presentabile e sembrò
essersi calmata, Madame Giry le spiegò che ora avrebbero
dovuto chiamare la polizia. Non avrebbe voluto farlo, se la ragazza
avesse ripetuto ai poliziotti quello che aveva detto poco prima a lei e
a Meg, che era stato il Fantasma dell'Opera, sarebbe cominciata una
caccia all'uomo ancora più accanita di quella messa in opera
da Bertrand. Ma non aveva alternative, il fatto che era accaduto quella
notte doveva essere denunciato.
«Josephine, mia cara, tu sei sicura di quello che hai detto
prima a me e a Meg, che sia stato il Fantasma dell'Opera?» si
limitò a chiederle.
«Certo...» rispose lei mentre un lampo di orrore le
attraversava lo sguardo.
«Ma come puoi dirlo se non lo hai mai visto?»
«Madame Giry... chi altri può essere
stato?».
Già, chi altri? Si chiese Eloise.
Madame Giry mandò a chiamare i direttori. Se non fosse stato
per un fatto tanto tragico avrebbe provato quasi piacere a rovinare il
sonno a quei due buoni a nulla.
Poco dopo arrivarono due gendarmi per interrogare Josephine.
Madame Giry rimase con lei tutto il tempo e fu grata al cielo che il
poliziotto che raccolse la versione dei fatti della ragazza fosse
così delicato e discreto.
Quando i gendarmi lasciarono il teatro, Eloise accompagnò la
povera ragazza nei suoi alloggi e le fece bere un bicchiere d'acqua in
cui aveva sciolto qualche goccia di valium e attese che si
addormentasse. Sarebbe stato un sogno profondo e senza sogni, Madame
Giry si augurò che fosse anche senza incubi, anche se
probabilmente, dopo quella terribile notte, gli incubi sarebbero
diventati una costante nella vita di quella povera anima innocente.
Con un sospiro di pena Eloise lasciò la stanza e si
avviò verso i suoi alloggi. Doveva pensare... doveva vedere
Erik...
Era certa che non era stato lui, non ci avrebbe creduto nemmeno se lo
avesse visto con i propri occhi.
Stava per raggiungere la sua stanza quando sentì che
qualcuno le bussava delicatamente sulla spalla. Si voltò per
trovarsi davanti un volto di donna segnato da profonde occhiaie,
souvenir di una notte insonne come la sua,
«Voi siete Madame Ginette Dubois, giusto?» chiese.
La donna annuì,
«Sì, madame. Scusate il disturbo ma dovevo
parlarvi...» rispose.
«Madame, vi prego di credermi, non voglio sembrarvi scortese
ma non è il momento, una delle mie ragazze ha avuto una
brutta avventura... ah, figuriamoci, per come volano le notizie in
questa città, ne sarete già al corrente tra
poco... in ogni caso, perdonatemi, ma devo chiedervi di tornare
un'altra volta».
Madame Ginette si aggrappò con decisione al braccio
dell'altra donna,
«Vi supplico, è una questione troppo importante,
non può essere rimandata...» disse con occhi
talmente imploranti che Eloise non riuscì a mandarla via, la
condusse nella sua stanza e chiuse la porta.
«Accomodatevi» la invitò cercando di
racimolare un po' di cordialità e rivolgendole il miglior
sorriso che riuscì a trovare. «Dite, vi
ascolto»
«Sono qui per mio figlio...» esordì
Madame Ginette rimanendo impalata in mezzo alla stanza.
«Ah, non so che dirvi, Alexandre non è
qui»
«Non sto parlando di Alexandre, sto parlando di
Erik!»
«Come dite?» domandò Eloise sussultando,
di certo aveva capito male.
«Sono qui per Erik, lui è mio figlio».
_______________________________________________________________
Ok, lo stupro non è argomento facile da trattare, specie in
una storia di fantasia, mi sembra persino un pò
"irrispettoso" usare una cosa simile per una cosa futile come di fatto
è una fanfiction quindi ho deciso di non calcare troppo la
mano.
Per quel che riguarda la rivelazione finale... quando ho
pensato alla trama di questa storia mi sono detta che il risvolto stile
"beautiful" poteva suscitare due reazioni: la prima reazione era quella
"accidenti che inghippo interessante" la seconda reazione era: "che
schifo! mandiamo la neuro a casa di Elby". Ne sono
consapevole... qualunque sia la vostra reazione, se non mi
vedete più in giro è perchè qualcuno
la neuro l'ha chiamata davvero.
Al prossimo capitolo.
Capitolo reinserito il 27\12\2011
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Capitolo 17 *** Chiaroscuro (parte seconda) ***
Con il capo cosparso di
cenere per il mostruoso ritardo, posto oggi la seconda parte del
capitolo.
Se nel mentre è sorto in voi il disio di linciarmi, ebbenne,
prima di attentare alla mia incolumità telefonate al centro
assistenza della telecom e riempite di parolacce l'operatore... poi il
mio collo sarà a disposizione dei vostri punjab.
Bando alle ciance... ringrazio i lettori e i recensori. Si lo so che la
scelta di far rispuntare fuori la famiglia di Erik è
"controversa" e che i risvolti della cosa sono prevedibili...
però è un'idea che mi è venuta mentre
scrivevo e non ho saputo resistere (l'altra idea, confesso, era di far
scoprire Alex omosessuale e farlo innamorare del Master ma mi sembrava
un pò troppo "eccentrica" come cosa).
*l'autrice esce di scena strisciando e lascia il posto al capitolo*
Buona lettura
*******
CAPITOLO QUINDICESIMO - PARTE SECONDA
Chiaroscuro
Madame Giry temette di non reggere il colpo. Troppe sorprese e troppo
orribili perché la sua anima sopportasse anche quello. Ma
non doveva cedere, non in quel momento, meno che mai davanti a quella
donna, alla donna che aveva odiato per tanti anni pur non conoscendone
l'identità. L'aveva odiata senza nemmeno sapere se era viva,
da qualche parte a piangere il figlio che aveva abbandonato. E adesso
quella stessa donna era lì a rivendicare una
maternità sulla quale non aveva alcun diritto.
Eloise rimase in piedi davanti alla sua interlocutrice, la testa alta,
lo sguardo gelido e calmo. Occhi grigi, penetranti come lame.
«Ne siete sicura, madame?» domandò in
tono pacato ma freddo. «Siete sicura di essere sua madre, di
poterlo chiamare figlio?».
Madame Ginette deglutì ma non colse appieno il significato
delle parole di Eloise,
«La sera del ballo, quando lui è piombato in sala
durante i festeggiamenti mi sono allontanata per cercare
Alexandre» spiegò. «Ma lo spavento mi ha
fatto perdere l'orientamento, devo essere finita nel corridoio che
mette in comunicazione il teatro con il collegio perché ad
un certo punto mi sono ritrovata davanti a questa stanza e ho udito...
ho udito la vostra conversazione con il visconte e allora ho capito che
il bambino che avete tratto in salvo dagli zingari era... ah, Dio mio
abbi misericordia di me!».
Così dicendo la donna si coprì il volto con le
mani e si accasciò contro il muro.
Madame Giry la fissò per qualche secondo in silenzio. Non
riusciva a provare pena per lei,
«Dunque, se avete udito ogni cosa, non c'è bisogno
che vi spieghi ancora in che maniera avete condannato a vivere vostro
figlio, tuttavia vorrei avere il potere di farvi vedere ciò
che io vidi e farvi provare ciò che lui
provò...»
«Non disprezzatemi, Madame Giry... siete madre anche
voi»
«Una madre non abbandona il proprio figlio! Per nessuna
ragione al mondo, meno che mai per lasciare una creatura che la natura
ha voluto imperfetta in pasto a un mondo di gente che non sa vedere
più in là del proprio naso e che non accetta chi
Iddio ha reso diverso!».
C'era una tale furia composta nelle parole di Eloise, una tale
freddezza austera e forte nel suo sguardo, nel suo atteggiamento. La
calma tagliente e temibile di chi anche nel rancore mantiene la
dignità della propria persona, la forza di un animo che
può piegarsi senza mai spezzarsi, senza mai cedere alla vita
e ai tiri mancini del destino.
Madame Ginette ne fu impressionata e intimorita, ma cercò di
mettere insieme tutta l'energia che il suo dolore e la sua disperazione
potevano concederle,
«Non fu per mia volontà che abbandonai Erik quando
era ancora in fasce» disse con voce flebile mentre lo sguardo
si perdeva nel vuoto lasciando che la sua mente rivivesse i ricordi che
avevano segnato per sempre la sua condanna all'infelicità.
«Non fu per mia volontà, fui costretta... mio
marito, oh era un uomo in gamba quanto ambizioso, sapete, quando un
uomo crea la sua fortuna dal nulla, riesce a diventare qualcuno solo
con le proprie forze... quando è così, quell'uomo
diventa duro, aspro, stringe a sé tutto ciò che
ha conquistato con forza e con ferocia per paura che gli venga portato
via. Come poteva un uomo simile sopportare che il suo primogenito, il
figlio al quale trasmettere tutto ciò che aveva appreso, sul
quale riversare tutte le sue ambizioni, fosse nato
sfigurato?».
Madame Giry rimase in silenzio, la sua espressione non si
addolcì nemmeno quando lacrime amare cominciarono a rigare
il volto della donna che era venuta a parlarle, ma dentro di lei ognuna
di quelle lacrime era una goccia di sangue che colava incandescente dal
suo cuore.
«A me non importava, quel bambino era mio figlio e io lo
avrei amato, ma mio marito... se sapeste Madame, come può
mutare un uomo, come può riuscire ad essere cattivo quando
è scosso dalla rabbia. Mio marito cominciò a
tormentarmi di giorno in giorno, non voleva vedere nostro figlio,
cominciò ad accusarmi di essergli stata infedele, che quello
non poteva essere figlio suo... disse che era colpa mia, che ero una
moglie indegna. Minacciò di mandarmi via, di dare scandalo e
rovinare la mia reputazione davanti a tutto il paese. E temetti che
avrebbe potuto compiere qualche scelleratezza, ebbi paura per la vita
di mio figlio... così lo affidai a una famiglia di zingari,
dissi loro di continuare a chiamarlo con il nome che gli avevo dato.
Sapevo che non avrebbe avuto vita facile, ma non immaginavo le cose
orribili che vi ho sentito raccontare».
Madame Ginette concluse il suo racconto con un sospiro affranto e
restò a fissare il pavimento, incapace di incontrare lo
sguardo della sua interlocutrice,
«Non immaginavate, eh? Avete davvero una scarsa fantasia
allora» concluse Madame Giry.
«Non capite? Ho avuto così paura che potesse
accadere qualcosa di male a Erik se fosse rimasto con me e mio marito
che ho dovuto lasciarlo... voi al mio posto cosa avreste fatto?! Non
sapete quanto mi costa essere qui a raccontarvi queste cose»
«Io avrei lasciato quella casa insieme a mio figlio, ma mai,
per niente al mondo, mi sarei separata da lui! Se allora aveste avuto
solo una briciola della forza d'animo che vi ha spinto a venire qui, ah
quanta infelicità che ci saremmo risparmiati tutti
quanti»
«Ero giovane e mi comportai da sciocca e da codarda, ma
credetemi, da allora non ho mai più conosciuto cosa volesse
dire essere felici, neppure quando è nato Alexandre, per
quanto io lo ami e lo abbia sempre amato».
Un silenzio pesante piombò nella stanza, Madame Giry
camminò verso la finestra e poggiò la fronte
contro i vetri freddi, come a tentare di calmarsi e a imporre al suo
corpo di resistere ancora, il tempo necessario per riuscire a capire
cosa volesse quella donna da lei,
«E dunque,» disse voltandosi nuovamente verso
madame Ginette, «cosa credete di fare?»
«Stanotte sentivo la mia mente cigolare come un ingranaggio
usurato dai troppi pensieri» rispose la donna.
«Cercavo di mettere in ordine le idee, di ragionare, di
prendere atto di ciò che avevo appreso: quell'uomo in rosso,
la figura leggendaria che ha terrorizzato il teatro dell'Opera
è il figlio che io avevo abbandonato. Credete che per il mio
povero cuore sia stato facile?»
«E del cuore di Erik, cosa mi dite? Di quello che avete la
sfacciataggine di chiamare vostro figlio, cosa crete possa importare a
lui di voi? Se è diventato il mostro a cui tutti danno la
caccia è stato a causa dell'amore che non ha ricevuto, ma
che amore poteva mai aspettarsi se la sua stessa madre lo ha gettato
via?! No, madame Dubois, non osate definirvi sua madre, non osate
chiamarlo figlio»
«Ma io voglio vederlo!» esclamò Madame
Ginette in tono più disperato che mai. «Anche a
costo di rimetterci la vita, anche se tutto ciò che Erik
farà sarà uccidermi con le sue stesse mani... ma
io non posso credere che lui sia davvero il mostro che si
pensa»
«E ditemi, madame, cosa avete pensato del Fantasma dell'Opera
quando quel macchinista strangolato è stato lanciato sul
palco senza vita? Non avete provato orrore e disgusto per il
responsabile di un simile atto tanto violento?»
domandò Eloise in tono di sfida. «Ah, Erik non vi
ucciderebbe, ne sono certa, ma dimenticate che l'altro vostro figlio
gli sta dando la caccia, dimenticate che in ogni caso non potrete mai
più essere sua madre né lui sarebbe mai libero di
esservi figlio, ammesso che la cosa gli possa interessare... vederlo e
dirgli la verità porterebbe solo altre sciagure e altro
dolore. Senza contare che in un simile sconvolgimento verrebbe
coinvolto anche Alexandre, suo malgrado...».
Madame Giry guardò l'altra donna con occhi sottili, voleva
proprio vedere se aveva il coraggio di contraddirla e insistere con
l'idea assurda di vedere Erik.
«Credete davvero...» protestò debolmente
Madame Ginette.
«Ah, sì credo! Ma se non vi fidate di me potete
sempre cercare di raggiungere il nascondiglio del Fantasma, non
sarò certo io a rispondere della vostra
incolumità se vi accadesse qualcosa, solo che un'altra morte
non farebbe che aggravare la situazione di Erik. Pensateci
bene»
«Cosa devo fare?...» domandò la donna
con voce lamentevole.
«Se volete davvero fare qualcosa per Erik, persuadete
Alexandre a rinunciare alla sua indagine sul Fantasma»
«Vorrei che rinunciasse, lo volevo prima e lo vorrei adesso
più che mai... ma temo che le proporzioni che ha assunto
questa faccenda non dipendano da mio figlio, è monsieur
Bertrand che ha in mano le fila del gioco».
Eloise chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie per cercare
di allentare la morsa che aveva preso a stringerle la testa nel momento
in cui aveva compreso la gravità della situazione che, alla
luce di quanto aveva appreso quella mattina, si faceva più
che mai complicata e pericolosa: Alexandre ed Erik erano nemici, ma
erano anche fratelli!
Le due donne rimasero a fissarsi in silenzio. Eloise aveva detto tutto
quanto aveva da dire e Madame Ginette non aveva più
argomenti per far fronte a quella situazione.
Un'improvvisa bussata alla porta fece sobbalzare le due donne distrutte
dalla tensione e dallo sgomento, Madame Giry dovette poggiarsi con
entrambe le mani allo schienale della poltrona che aveva davanti.
«Sì, avanti...» mormorò con
voce incerta.
Quando il battente della porta si aprì le due donne scorsero
Alexandre, se ne stava ritto sulla soglia, scuro in viso e con l'aria
sconvolta.
Eloise strinse le mani affondando le unghie nella tappezzeria della
poltrona a cui era appoggiata.
Mio Dio, ha sentito
tutto!
«Mio Dio, ha sentito tutto» pensarono
contemporaneamente le due signore.
«Alexandre?...» mormorò Madame Giry.
Il ragazzo spostò lo sguardo tra lei e sua madre,
«Bon jour, perdonate l'intrusione ma sono stato chiamato dai
direttori dopo i terribili fatti accaduti stanotte» disse con
voce mesta. «Una cameriera mi ha detto che mia madre era
qui».
Eloise trattenne a stento un sospiro di sollievo nel rendersi conto che
lo sconvolgimento del giovane non era dovuto all'aver udito la
conversazione tra lei e sua madre, piuttosto all'aver appreso della
mostruosità che era accaduta durante la notte.
Le due donne si lanciarono una rapida occhiata poi Madame Ginette
cercò di apparire calma e rivolse a suo figlio un mezzo
sorriso,
«Ero venuta qui perché ieri sera, durante il
ballo, ho perso un orecchino, ero certa che se qualcuno lo avesse
trovato lo avrebbe consegnato a Madame Giry».
Alexandre corrugò leggermente la fronte, non poté
fare a meno di notare il tono strano che aveva sua madre ma la sua
mente era troppo impegnata per concentrarsi su quel particolare che in
fin dei conti gli sembrò irrilevante,
«Capisco, ma devo chiedervi di tornare a casa maman, io e
monsieur Bertand abbiamo un gran da fare ed è meglio che non
ci siano troppi estranei in giro per il teatro» concluse il
giovane. Sua madre si limitò ad annuire e rivolse un cenno
di saluto a madame Giry che le scoccò un'ultima occhiata
penetrante,
«Arrivederci Madame Dubois» disse. «Sono
spiacente di non avevi potuto aiutare a ritrovare ciò che
avete perduto».
La donna colse l'allusione nella frase e rispose con un sorriso mesto,
poi si allontanò dopo aver fatto una rapida carezza al
braccio di suo figlio.
Alexandre rimase sulla porta a fissare Eloise,
«Vi chiedo scusa, madame, ma io e monsieur Bertrand vorremo
poter vedere quella povera ragazza» le disse.
«E perché mai, monsieur? La polizia l'ha
già interrogata».
Il ragazzo accennò un sorriso di scusa, non gli piaceva
infastidire Madame Giry, in quelle settimane in cui aveva lavorato nel
teatro aveva imparato ad apprezzarla, a provare rispetto per lei e per
quelle sue maniere amabili che riuscivano a indurre all'obbedienza
più della severità.
«Lo so madame, ma come voi ben sapete noi stiamo indagando
sul Fantasma e la ragazza è stata aggredita di notte, qui
nel teatro dove nessuno avrebbe potuto entrare a quell'ora, credo che i
nostri sospetti vadano quanto meno verificati»
«Ah monsieur, non so quanto possano aiutare le parole di una
ragazza sconvolta. Devo chiedervi di tornare in un altro momento,
Josephine ha bisogno di riposo e di tranquillità»
«Avete ragione, vi prego di scusare la mia foga, ma
apprendere di una cosa tanto grave mi ha reso nervoso»
concluse il ragazzo.
«Capisco, non crediate che per me sia facile, sapete, quelle
ragazze è come se fossero figlie mie...».
Eloise concesse al giornalista un accenno di sorriso, il primo sorriso
sincero e disteso che era stata in grado di fare in quelle ore
terribili. Le era sempre piaciuto quel ragazzo così affabile
e intelligente e ora, più che mai provava tenerezza per lui
che, senza saperlo, si era ritrovato coinvolto in qualcosa di troppo
grande e complesso. In cuor suo pregò che ci fosse una
strada perché le cose andassero nel migliore dei modi e si
augurò che gli eventi andassero in quella direzione.
Alexandre si passò una mano tra i capelli, la donna
provò una fitta di tenerezza stringerle lo stomaco nello
scorgere nella figura di quel bel giovane dei tratti che lo facevano
sorprendentemente assomigliare a Erik. Ora che sapeva non poteva fare a
meno di notare la somiglianza anche piuttosto palese tra loro due.
Oh, Dio del Cielo!
Aiutaci...
La voce del ragazzo strappò Madame Giry ai suoi pensieri,
«Abbiate pazienza,» le disse, «ma devo
chiedervi se, a parte la povera Josephine, le altre ballerine stanno
tutte bene. Non ce n'è nessuna che manca dal collegio,
vero?».
Eloise si scosse e fece cenno di no, ma subito un pensiero le
attraversò la mente:
Christine!
Sapeva che Christine era andata da Erik quella notte e non era
rientrata nei suoi alloggi. Se Christine aveva passato la notte con
Erik allora era la prova definitiva che non era stato lui ad aggredire
Josephine, ma di certo la ragazza non avrebbe potuto raccontare a
nessuno, meno che mai a Bertrand e Alexandre, di essere stata tutta la
notte con il Fantasma dell'Opera nel suo rifugio sotterraneo.
Madame Giry sperò solo che quella benedetta figliola
tornasse prima che Bertrand si facesse venire in mente di cercarla. Se
non l'avesse trovata non ci sarebbe stato modo di giustificare la sua
assenza.
Ah, Christine, figlia
mia, non rovinare tutto, proprio adesso...
*
Lo specchio scivolò di lato senza nemmeno uno scricchiolio.
Le loro mani, che si erano tenute strette durante il tragitto dai
sotterranei al teatro, si staccarono con riluttanza e via via che la
distanza tra loro aumentava una domanda si faceva sempre più
assillante tra i loro pensieri:
E adesso?
Erik prese nuovamente una mano di Christine tra le proprie e se la
portò alle labbra, vi impresse un bacio delicato ma
trattenne il palmo candido della fanciulla contro le sua bocca per
lunghi secondi. Non voleva lasciarla andare.
Si scosse come da un sogno e lasciò che lei ritraesse la
mano, poi la guardò incapace di credere che
l'unico sogno che si era concesso si fosse quasi avverato: lei e il suo
amore erano lì, a portata di mano come la
felicità che aveva sempre e solo immaginato. Le sorrise,
sereno e tranquillo,
«Buon anno nuovo, Christine» le mormorò.
La ragazza ricambiò il sorriso ma poi si ritrovò
ad arrossire,
«Io devo... devo proprio andare, se qualcuno non mi
trova...» farfugliò.
Com'era difficile pensare di tornare al suo posto, nella vita di sempre
quando lei non era più la stessa, quando l'amore l'aveva
trasformata così profondamente, abbattendo ogni cosa e
costringendola a dover ricostruire un mondo più vicino non
solo al suo cuore ma anche all'anima di un'altra persona.
Troppe domande e troppi pensieri le assediavano la mente, come se si
impigliassero tra i suoi riccioli, ma adesso lei sapeva che avrebbe
trovato le risposte.
«Buon anno anche a voi, Erik» sussurrò
voltandosi e allontanandosi da lui, un attimo prima di cedere alla
tentazione di tornare tra le sue braccia, alla sua bocca e ai suoi
occhi.
C'erano ombre sul loro cammino, ostacoli grandi e spaventosi, ma la
fanciulla era troppo felice per pensarci. Troppo concentrata sulle
certezze che aveva appena acquisito per temere che la realtà
avrebbe presto sconvolto i suoi sogni.
La realtà le giunse alle orecchie poco dopo, con il suono
fastidioso della voce di Bertrand. L'investigatore era comparso in
mezzo al corridoio e la stava fissando con la sua solita aria da belva
che fiuta la preda,
«Mademoiselle Daae, da dove venite?» le chiese
accennando un mezzo inchino.
«Dalla cappella del teatro, mi sono svegliata molto presto e
sono andata lì a pregare» rispose prontamente la
giovane per fugare ogni dubbio.
«Ah, quindi non avete visto né sentito
niente?»
«No. Cosa avrei dovuto vedere o sentire?».
Bertrand si grattò il mento e assunse un'espressione
mortificata,
«Se non sapete niente, mi duole profondamente di dover essere
io a darvi una simile notizia...» disse.
«Christine!» esclamò una voce alle
spalle di Bertrand.
L'investigatore e la ragazza si voltarono e videro Alexandre che si
avvicinava.
Il giornalista aveva pensato bene di intervenire per sottrarre la
giovane dalle grinfie del suo collega prima che questi ricominciasse a
torturarla con i suoi sospetti,
«Buon giorno, monsieur...» disse Christine
lanciandogli un rapido sguardo in segno di ringraziamento.
«Stavo giusto spiegando a mademoiselle Daae dei tristi fatti
avvenuti questa notte, pare che lei non sappia ancora niente»
borbottò Bertrand. «Ma forse voi, amico mio,
saprete trovare parole più adatte e delicate».
Alexandre deglutì,
«Dove eravate, Christine?» chiese.
«Come ho già detto a monsieur Bertrand, mi sono
svegliata molto presto e sono andata in cappella a pregare... per mio
padre, sapete. Ma voi, piuttosto, ditemi, cosa è accaduto di
tanto grave da farvi essere qui la mattina del primo
dell'anno»
«Vedete Christine, stanotte una vostra compagna, mademoiselle
Josephine che pare fosse uscita di nascosto per incontrarsi con il suo
innamorato... ha subito un'aggressione» spiegò il
giornalista.
Christine rimase impietrita dallo sgomento e si coprì la
bocca con le mani come a tentare di nascondere la sua espressione
stupita,
«Mio Dio! Ma cosa dite? Cosa le è accaduto, come
sta?» domandò incredula
«Bhe, vedete, lei ora sta riposando... ma il suo aggressore,
che Dio lo maledica, le ha usato violenza e...» Alexandre
pronunciò quelle parole a fatica e lasciò la
frase in sospeso incapace di aggiungere altro. Era sinceramente
dispiaciuto di dover dare una simile notizia a Christine la quale si
lasciò scappare un singhiozzo strozzato.
«Mio Dio!» esclamò.
Il giornalista le posò una mano sulla spalla e
cercò di rincuorarla,
«Non preoccupatevi, mademoiselle» intervenne
Bertrand. «Quel cane la pagherà»
«Quindi sapete chi è stato?»
«Nella sua deposizione ai gendarmi la ragazza ha detto che si
tratta del Fantasma dell'Opera» concluse il giornalista.
Christine scosse il capo, avrebbe voluto dire che era impossibile, che
il suo Erik non avrebbe mai fatto una cosa simile, proprio quella notte
le aveva usato il massimo rispetto e la più tenera premura
malgrado la desiderasse così tanto. Come poteva essere stato
lui?! Come poteva, se aveva passato tutta la notte con lei?
Tutta la notte?...
In quell'istante Christine si ricordò di essersi svegliata e
di non averlo trovato accanto a lei. Si era riaddormentata prima che
lui tornasse... dov'era stato? Cosa aveva fatto?
Una smorfia di orrore le si dipinse in viso e lei provò un
forte capogiro che le fece perdere l'equilibrio, Alexandre la prese tra
le braccia prima che cadesse,
«Christine, state bene?» le chiese.
«Monsieur... è una notizia orribile...».
I due uomini annuirono, poi quando furono sicuri che riusciva a
reggersi in piedi la lasciarono andare.
«Vedete, Alexandre,» mormorò Bertrand
osservando la figura esile di Christine che si allontanava,
«se prima avevo solo dei sospetti ora sono assolutamente
certo»
«Di cosa?» chiese il giornalista senza capire.
«Del fatto che quella ragazza sia molto più vicina
al Fantasma di quanto voglia far credere, anzi, penso che ne sia
addirittura innamorata».
Alexandre si ritrovò a fissare stupito, quasi sconvolto,
l'espressione compiaciuta di Bertrand che guardava ancora nella
direzione in cui Christine si era allontanata. Per un attimo il giovane
ebbe la sensazione che ogni cosa fosse andata in pezzi.
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Capitolo reinserito il 27\12\2011
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Capitolo 18 *** Con un piede nell'inferno ***
Sì, dopo un
mese e mezzo. Sì, sono viva, relegata in casa da mezzo metro
di neve (prego, notare che siamo al 10 marzo) ma viva... più
o meno.
Non voglio tediarvi con i motivi che mi hanno tenuto lontana da questo
angolo di web, diciamo che nelle prossime settimane la mia vita
dovrebbe riprendere una certa regolarità e quindi spero che
gli aggiornamenti delle mie fanfiction ne "traggano giovamento".
Ringrazio chi ha recensito e chi avrà avuto la pazienza di
aspettare che l'autrice spiantata "resuscitasse".
Al prossimo aggiornamento
*******
CAPITOLO SEDICESIMO
Con un piede nell'inferno
Ad un tratto le pareti della stanza le diedero la sensazione di
toglierle l'aria. Madame Giry si precipitò fuori dalla sua
camera appena in tempo per vedere Christine correre verso i suoi
alloggi e capì che quella terribile mattina non era ancora
finita. Ma ora non aveva tempo di parlare con Christine o con chiunque
altro, c'era una sola persona che aveva assoluta urgenza di vedere:
doveva parlare con Erik.
«Madame Giry!» esclamò una voce
trafelata che la fece sobbalzare
«Non ora visconte!» disse la donna voltandosi di
colpo e guardando il ragazzo incapace di mantenere il suo consueto
autocontrollo. Le ci volle una buona manciata di secondi per rendersi
conto che la presenza di Raoul De Chagny lì, in quel
momento, significava solo altri problemi. Evidentemente qualcuno lo
aveva avvertito di quanto era accaduto e lei si accorse del tremendo
errore che aveva fatto nel raccontargli quelle cose la sera prima.
« Non ora?!
Madame di Giry!» esclamò il ragazzo trattenendo a
stento l'indignazione. «Vi rendete conto di quello che
è accaduto, volete ancora proteggere quel mostro?»
«Lo avete già condannato tutti quanti,
quindi?» sospirò la donna.
Raoul sospirò cercando di ritrovare la calma,
«Madame, non voglio ferire il vostro affetto, ma dovete
convenire con me che è difficile trovare altri
sospettati».
Eloise si appoggiò contro il muro. Se solo tutte quelle
persone avessero saputo! Se avessero saputo che Erik era profondamente
innamorato di una ragazza, dell'amore più grande e tenero
che un uomo potesse provare. Se solo avessero saputo che persino nei
momenti di rabbia più profonda non avrebbe sfiorato una
fanciulla innocente nemmeno con un dito. Se solo avessero avuto la
volontà di cercare l'uomo dietro al mostro... ma era
più facile prendersela con qualcuno di estraneo al loro
mondo perbenista piuttosto che cercare il colpevole tra quelli che
ritenevano loro pari. Per la gente i mostri sono sempre fuori, oltre
l'uscio delle proprie case e mai all'interno, le persone non guardano
mai i mostri che hanno intorno e quelli che hanno dentro!
«Dunque, monsieur, cosa volete fare?»
domandò con un sospiro esasperato.
Il giovane scosse la testa,
«Madame, anche se questo scempio potesse non essere imputato
a quell'uomo, resta il fatto che è un assassino e che va
catturato»
«Non capite, visconte? Se non è stato lui ad
aggredire la povera Josephine, e io sono più che sicura che
non sia stato lui, vuol dire che non c'è un solo criminale a
cui dare la caccia».
La donna pronunciò queste parole con una tale decisione,
guardando Raoul così intensamente che per un attimo il
ragazzo sembrò quasi convinto a rivedere le sue posizioni.
«Molto bene» concluse. «Allora adesso
lasciate che il Fantasma dell'Opera venga catturato e poi vedremo se
confesserà o meno l'aggressione a quella ballerina. Se non
sarà colpevole vi giuro che rivolterò Parigi con
le mie stesse mani per trovare il vero responsabile di una tale
mostruosità»
«E voi pretendete che io e le mie ballerine rimaniamo qui in
attesa con un simile furfante che aggredisce le ragazze nel buio,
mentre voi giocate a fare il paladino della giustizia con i vostri
amici? E se nel frattempo questo criminale dovesse colpire
ancora?»
«Madame... non si può fare altrimenti, spero vi
rendiate conto...»
«D'accordo, ma a questo punto sono costretta a chiedervi di
non coinvolgermi in questa impresa. Le mie ragazze hanno bisogno di me,
mai come in questo momento!».
Raoul dondolò il capo,
«Comprendo perfettamente e so che se vi siete resa complice
di quell'uomo lo avete fatto solo per un eccesso di
bontà» concluse.
«Non voglio la vostra comprensione, visconte»
rispose Eloise in tono gelido. «Né ho bisogno
della vostra assoluzione. Un giorno sarà Dio a giudicare il
valore delle mie azioni, ma fino a quel giorno non
permetterò a nessuno di sputare sentenze. Non vi sto
chiedendo pietà, vi sto suggerendo di essere ragionevole.
Ora scusate, ma devo prendermi cura di ciò che
amo».
Eloise si allontanò lasciando Raoul ammutolito e incapace di
aggiungere altro.
Dopo un primo attimo di smarrimento tuttavia, il giovane si riscosse e
si decise a fare quello per cui si era recato all'Opera, ma prima
voleva vedere Christine e accertarsi che lei stesse bene.
Pensò che quello che era successo a Josephine sarebbe potuto
accadere alla sua Piccola Lottie, del resto quella fanciulla stava
giocando con il fuoco, ma ora probabilmente aveva capito con che razza
di mostro aveva a che fare.
Il visconte bussò delicatamente alla porta della camera
della ragazza e come unica risposta ottenne un singhiozzo soffocato. Il
suo cuore si riempì di pena al pensiero che la persona che
amava stava soffrendo per le azioni di qualcuno che non era meritevole
nemmeno di guardarla negli occhi.
«Christine...» sussurrò Raoul in un
soffio colmo di tenerezza, ciò che vide quando
entrò nella stanza era un angelo con le ali spezzate, un
Icaro riverso sul pavimento dopo lo schianto per un volo troppo alto e
miseramente fallito.
Lei era china accanto al letto, con la testa poggiata sul materasso, le
dita stringevano rabbiosamente le lenzuola e i riccioli scomposti non
riuscivano a nascondere del tutto il viso e gli occhi ancora arrossati
dal pianto.
Il ragazzo entrò con passò felpato e si
chinò accanto a lei posandole una mano sulla spalla ma la
giovane si ritrasse e sollevò su di lui uno sguardo cupo,
«Sei venuto a sentirti dire che avevi ragione?»
mormorò in tono aspro.
«No, Christine, avrei preferito che i fatti mi dessero torto
piuttosto che aspettare che giungessero fino a questo segno!»
«Perché, Raoul... perché è
accaduto? Io avrei... oh Dio, è tutta colpa mia»
«Ma che stai dicendo, Christine?! Non pensarlo
neppure»
«Se tu sapessi, Raoul... se sapessi... ora probabilmente non
saresti nemmeno qui a tentare di consolarmi» concluse la
giovane con tono esasperato.
«Tu non hai fatto altro che riversare il tuo affetto sulla
persona sbagliata, nella tua infinita dolcezza, nella tua innocenza e
nella tua buona fede» disse il visconte. «Ma non
è colpa tua».
Christine trattenne a stento un altro scoppio di pianto. Lei non era
innocente, lei aveva amato quell'uomo non con l'affetto di una ragazza
ma con tutto il furore di una donna. Ma lui...
«Ah ti prego Raoul, lasciami sola... vattene, per
favore» mormorò con voce rotta.
Il ragazzo emise un profondo sospiro
«Quel mostro pagherà anche per
questo...» borbottò così a bassa voce
che lei non riuscì a sentirlo poi si allontanò
senza aggiungere altro. Si voltò un'ultima volta verso la
ragazza prima di uscire chiudendosi silenziosamente la porta alle
spalle.
Vedere Christine così sconfortata e amareggiata gli aveva
fatto sanguinare il cuore, ma allo stesso tempo una speranza calda e
carezzevole cominciava ad avvolgergli i pensieri. Forse un giorno
sarebbe tornata da lui.
Raoul raggiunse l'ufficio dei direttori, Alexandre e Bertrand erano
già lì da un pezzo.
Andrè e Firmin erano seduti dietro alla scrivania, i volti
assonnati e seri. Temevano qualche ripercussione da parte dei genitori
della ragazza che, pare, stessero per arrivare. Li avevano fatti
avvertire ma gli era stato detto solo che la ragazza aveva avuto un
malore e aveva chiesto insistentemente di loro e adesso i due impresari
stavano cercando il modo più appropriato per metterli a
parte della realtà dell'accaduto, ammesso che esistesse un
modo giusto per dare una simile notizia.
Il Visconte entrò nell'ufficio senza nemmeno bussare e
batté le mani sul piano della scrivania,
«Ho trovato la soluzione che fa per noi!»
annunciò con aria soddisfatta.
Bertrand sollevò le sopracciglia con aria scettica,
«Perdonate, monsieur, ma non è il vostro
lavoro» borbottò.
«Permettetemi di farvi notare, Bertrand, che fino ad ora il
vostro lavoro non ha portato a grandi risultati» rispose il
ragazzo seccato. «Non voglio disprezzare il vostro operato o
quello di Alexandre, ma permettete di darvi un suggerimento»
«Avanti, Raoul, cosa hai pensato?»
domandò Alexandre in tono conciliante.
«Avete conservato il copione della sua opera, quella del
Fantasma? Bene, la metteremo in scena sono certo che lui non si
risparmierà di assistere allo spettacolo e noi lo
prenderemo!»
«Cosa vi fa pensare che il Fantasma verrà ad
assistere alla rappresentazione?» domandò
Andrè lisciandosi i baffi.
«Il fatto che ci sarà Christine Daae ad
interpretare la protagonista!» concluse il visconte.
I presenti si guardarono in viso l'un l'altro. Negli occhi di Bertrand
comparve un lampo quasi feroce,
«Perdonate il mio scetticismo iniziale, visconte. Avete avuto
un'ottima idea» asserì.
«Certo! E la polizia sarà ovunque, metteremo
uomini armati in ogni dove. Questa volta non ci
scapperà» concluse Firmin con la voce resa
tremante dalla tensione.
«Un momento, signori!» esclamò
Alexandre. «Un'impresa del genere è rischiosa
quanto complicata, e poi... Raoul, usare mademoiselle Daae come esca mi
pare una cosa del tutto fuori dalla grazia di Dio»
«Sono più che certo che il nostro piccolo usignolo
vorrà fare la sua parte per aiutarci a catturare quel
criminale» si intromise Bertrand allargando un sorriso
beffardo sul suo volto ossuto. «È rimasta molto
scossa per quello che è successo alla sua amica»
«Sono certo che Christine comprenderà che questa
è l'unica soluzione, le parlerò io quando
sarà il momento» concluse Raoul.
L'investigatore annuì con un cenno deciso, nel guardarlo
Alexandre pensò che quell'espressione e quella faccenda non
promettessero niente di buono, ma gli altri sembravano tutti d'accordo
e lui non voleva protestare, non voleva rischiare di essere tagliato
fuori in un momento tanto delicato.
«E sia» concluse il giornalista in tono rassegnato.
«Ma è una cosa che deve essere studiata con la
dovuta cura»
«Daremo ordine ai costumisti e agli scenografi di
interrompere ogni lavoro e dedicarsi solo a questo
spettacolo» concluse Andrè in tono solenne.
«Giusto! Prima cominciamo e prima questa storia
sarà finita» gli fece eco Firmin.
«Non badate a spese, signori, mi occuperò io di
finanziare lo spettacolo. Voglio che sia tutto perfetto. Ogni singola
cosa» concluse Raoul pronunciando lentamente le ultime parole
con un tono cupo che esprimeva la più profonda rabbia e
voglia di rivalsa.
«Raoul, posso parlarti un momento?» chiese
Alexandre quando uscirono dall'ufficio.
«Lo so già cosa stai per dirmi, ti ho visto
titubante. Pensi davvero che non sia una buona idea?»
«Penso che sia una pessima idea! Un'idea rischiosa, per
tutti, e quando dico tutti intendo anche Christine»
«Con i gendarmi armati ad ogni angolo,»
tentò di spiegare il Visconte. «quel mostro
sarà morto ancora prima di toccarla»
«E se qualcosa va storto? Ci hai pensato? Hai pensato a
quanta gente ci sarà nel teatro, tutta gente che
sarà messa in pericolo!»
«E tu non hai pensato quanto è pericoloso che quel
cane sia ancora in libertà? Non ti rendi conto che abbiamo a
che fare con un uomo che aggredisce le ragazzine indifese... con un
uomo che ti ha torturato fino allo sfinimento! Con un uomo che avrebbe
potuto uccidermi l'altra notte se non fosse arrivata Madame
Giry!»
«Raoul, io... io non sono sicuro che sia stato lui ad abusare
di quella ragazza!» esclamò Alexandre.
«È vero, è molto probabile che sia il
Fantasma il responsabile, ma questo non significa che sia stato
necessariamente lui»
«Dio del cielo! Alexandre! E chi altri può essere
stato allora? Non erano mai successi fatti simili prima
d'ora» rispose il visconte.
«Non erano mai successi, infatti, e il Fantasma vive in
questo teatro da molti anni e nessuna ballerina era mai stata aggredita
prima d'ora. Se non fosse lui, se fosse qualcuno che...
oddio!»
«Cosa?»
«Se fosse qualcuno che ha cominciato a girare nel teatro solo
di recente? Qualcuno come...»
«Qualcuno come Bertrand?!».
Alexandre si coprì il viso con le mani, la testa gli stava
scoppiando per la notte trascorsa insonne, per la troppa tensione
accumulata e per la rabbia per quanto era successo,
«Ti prego! Bertrand non sarà uno stinco di santo
ma è pur sempre un uomo normale, e gli uomini normali di
solito non fanno queste cose! Sono i mostri come quel Fantasma, che Dio
lo maledica, a compiere simili scelleratezze» concluse
bruscamente Raoul.
Alexandre si lasciò sfuggire una risatina stizzita,
«Anche mio padre era un uomo normale, sai»
borbottò mestamente. «Era ben visto da tutta la
cittadina, una persona a modo, così dicevano. Ebbene, mio
padre maltrattava mia madre e mi assillava in continuazione con le sue
manie di grandezza! Vedi, amico mio, è dagli uomini normali
che devi guardarti, sono le loro maschere che celano i mostri
più spaventosi».
Raoul ammutolì e strinse le mani attorno al braccio
dell'amico,
«D'accordo, ora però tu ascolta me»
mormorò guardandosi intorno come per accertarsi che nessuno
li stesse ascoltando. «Devo dirti qualcosa, qualcosa di molto
importante, ma non voglio che altri lo sappiano»
«Hai la mia parola»
«Su una cosa Bertrand ha sempre avuto ragione, Christine
è coinvolta in questa storia e molto. Lei ha conosciuto il
Fantasma, se n'è innamorata... non chiedermi come sia stato
possibile, non lo so, ma lei doveva tenere davvero molto a lui, solo
che poco fa sono stata a trovarla, era sconvolta, mi è
sembrata davvero arrabbiata, come vedi, anche lei che lo conosce e che
provava dei sentimenti, pensa che ci sia quell'essere dietro a tutto
questo! Ora che lo sai però ti prego di ricordare quanto mi
è cara quella ragazza... so che non la coinvolgerai
più di quanto sia necessario».
Alexandre sospirò,
«Bertrand aveva capito tutto, sai. La reazione di Christine
alla notizia dell'aggressione per lui è stata la conferma
dei suoi sospetti sul coinvolgimento personale ed emotivo della
ragazza. Credo che se lei vorrà collaborare alla cattura
esibendosi in quello spettacolo il nostro amico investigatore
chiuderà tutti e due gli occhi su tutte le sue bugie e i
suoi segreti».
Raoul accennò un sorriso stanco,
«Sono certo che Christine sia stata in buona fede, che ogni
cosa che ha fatto l'ha fatta spinta solo da buoni sentimenti»
concluse.
«Sì, concordo ed è per questo che
voglio tutelare quella ragazza. Non oso pensare cosa ne sarà
del suo futuro e della sua reputazione se dovesse venir fuori questa
faccenda» asserì il giornalista con un sospiro.
Il visconte strinse un po' più forte le mani attorno al suo
braccio,
«Hai ragione amico, la reputazione della mia futura moglie
deve essere limpida come uno specchio d'acqua»
mormorò.
«Ah Raoul, non sognare troppo, mi raccomando»
concluse Alexandre prima di andarsene e tornare alle sue preoccupazioni
e alle sue mille congetture, lasciando il suo amico ai suoi sogni e
alle sue speranze.
*
Erik indossò una camicia pulita e si sedette al suo organo.
Pigiò alcuni tasti a casaccio facendo risuonare note acute
tra le pareti di pietra e sospirò. I ricordi della notte
appena trascorsa si accavallavano tra i suoi pensieri, ricordi
bellissimi e dolci come la musica di un violino.
Appoggiò il mento sul palmo della mano e restò a
fissare il fianco della grotta davanti a lui. Il futuro che si
disegnava nella sua mente era talmente luminoso e accecante che i suoi
contorni si perdevano in un lampo di luce. Era un futuro tutto da
costruire, partendo dalle piccole cose, dal coraggio di affrontare il
mondo, dalla forza di reclamare un posto tra la gente che lo aveva
rifiutato e poi temuto.
Se un angelo come Christine aveva imparato ad amarlo allora forse anche
altra gente sarebbe riuscita a guardare oltre la deformità
del suo viso.
Erik si stava beando della dolcezza dei suoi pensieri, pensieri sereni
e confortevoli che spazzavano via le ombre e il dolore della sua vita
solitaria, quando fu richiamato da uno strillo acuto che
echeggiò lungo il corridoio. Una voce terrorizzata
gridò il suo nome a pieni polmoni,
«Erik! Aiuto!».
L'uomo scattò in piedi riconoscendo in quel grido spaventato
la voce di Eloise. Come diamine le era venuto in mente di venirlo a
cercare? Lei non osava mai spingersi più in basso del primo
livello del sottopalco, sapeva bene che lui non amava le visite
improvvise e che il percorso per raggiungere la Dimora sul Lago era
cosparso di trappole e trabocchetti. Perché aveva fatto una
cosa tanto sconsiderata?
L'uomo corse fuori dalla grotta e corse nell'acqua che gli bagnava le
gambe fin sopra la ginocchio. Eloise doveva essere caduta in una botola
che dava in una fossa piena di acqua chiusa dall'alto da una grata
collegata all'apertura da un meccanismo che la faceva scivolare verso
il basso impedendo a chi cadeva nella trappola di uscire dall'acqua e
facendolo rimanere sommerso fino all'annegamento.
Erik bloccò il meccanismo di chiusura della grata un attimo
prima che arrivasse al livello dell'acqua spingendo Eloise verso il
fondo.
La donna si mantenne a galla con enorme fatica, i suoi gesti erano resi
goffi e difficoltosi dall'ampio vestito e dai numerosi strati di
sottovesti. Erik le tese un braccio e l'aiutò a raggiungere
il gradino di pietra che faceva da sponda alla cavità piena
d'acqua. L'uomo sollevò la sua vecchia amica e
l'aiutò a stendersi sul pavimento, lei si
aggrappò alle ampie maniche della sua camicia e
tossì violentemente poggiando la testa bagnata sul suo
petto.
Dopo un primo momento di riluttanza, Erik la strinse delicatamente e le
batté piano la mano sulla spalla come per rincuorarla e
aiutarla a riprendersi dallo spavento.
«Ma cosa ti è saltato in mente?» la
rimproverò in tono pacato. «Lo sai che
è pericoloso scendere quaggiù»
«Sì... lo so... ma avevo urgenza di
vederti» rispose lei continuando a tossire e stringendosi un
po' di più a lui per proteggersi dal freddo.
«Stai tremando, quell'acqua era gelida, vieni».
Erik aiutò Eloise a sollevarsi da terra, la donna
strizzò l'orlo della gonna scura poi fissò il suo
interlocutore,
«Non c'è tempo, ti devo parlare!» disse
con voce grave.
«Cosa è successo? Mi stai facendo preoccupare
Eloise, ti sei intrufolata fin qui, non potevi proprio
aspettare!»
«No, non potevo...»
«Dio, ma sembri esausta, sei così
pallida!».
La donna si portò una mano al petto nel tentativo di tenere
a bada l'agitazione. Ora che sapeva che quell'uomo aveva una famiglia
fuori dalle pareti di quel teatro, lontano dalla sua prigione di
solitudine era come se lo vedesse sotto una luce diversa. Si impose di
pensare che quella non era la famiglia di Erik, quella era la famiglia
della donna che lo aveva abbandonato e del ragazzo che gli stava dando
la caccia,
«Non c'è tempo per spiegare...» disse in
tono sbrigativo. «Stanotte è accaduta una
disgrazia».
L'uomo ebbe un sussulto, pensò a Christine, ma poi si
ricordò che era stata con lui tutta la notte, quindi
qualsiasi cosa fosse successa non doveva riguardare il suo piccolo
angelo, o almeno così voleva sperare.
«Di che stai parlando?» borbottò.
«Ricordi Josephine, quella giovane ballerina? L'altra sera
era uscita di nascosto per festeggiare Capodanno con il suo innamorato,
quando è tornata qualcuno l'ha aggredita»
spiegò Eloise.
Erik sbatté le palpebre con aria turbata,
«Cosa le hanno fatto?»
«L'hanno maltrattata e... hanno abusato di lei».
Una smorfia accigliata si dipinse sul lato scoperto del viso dell'uomo.
Persino per il Fantasma dell'Opera una simile cosa era troppo! Lui
aveva minacciato, aveva ucciso e fatto del male quando gli era stato
necessario per difendersi, ma non poteva tollerare che venisse torto un
solo capello a una fanciulla indifesa.
«Chi è stato?» sibilò
indignato.
Eloise esitò prima di rispondere,
«Credono che sia stato tu» mormorò senza
riuscire a guardarlo negli occhi.
«Cosa?!» tuonò lui stringendo i pugni.
«È così...»
«E tu, tu cosa credi?»
«Non so chi è stato, ma se pensassi anche solo
lontanamente che fossi stato tu credi che sarei qui? Che avrei
rischiato la vita per venire ad avvisarti?».
Erik chiuse gli occhi e abbassò il capo, poi si
lasciò cadere con le spalle contro il muro,
«Stanotte Christine è venuta da me»
sussurrò con voce spenta. «Ho lasciato che mi
togliesse la maschera, e lei ha lasciato che la baciassi... capisci
Eloise? Non avevo mai baciato una donna prima d'ora. E poi, Dio mio, ho
creduto davvero di aver ottenuto la mia fetta di felicità e
questa volta l'ho ottenuta senza far male a nessuno, perché
non mi lasciano al mio piccolo incanto? Perché non mi
lasciano vivere il mio amore? Nelle ultime ore credevo di essermi
avvicinato al Paradiso, ma ora scopro che sono ancora con un piede
all'inferno...».
Madame Giry lo guardò commossa, fino a pochi minuti prima si
era chiesta se aveva fatto bene a scegliere di non dire niente a Erik
della confessione di Madame Ginette, ma ora era più che mai
convinta che era meglio che lui rimanesse all'oscuro di tutto. Non
credeva sarebbe stato in grado di reggere un altro colpo
così forte. Ancora una volta la donna scelse di farsi carico
di un grande segreto e decise che anche quello doveva essere un peso
che doveva portare da sola.
«Erik...» mormorò dolcemente posando una
mano sulla sua guancia sinistra. Non sapeva cosa dirgli e non poteva
fare niente per lui.
A volte aveva avuto timore di quell'uomo, ma poi aveva imparato ad
amarlo e ora pregò semplicemente che gli arrivasse un po'
del suo sostegno e del suo calore anche solo attraverso quella carezza
fatta con quella mano gelida.
«Vieni, Eloise» concluse lui scuotendo il capo,
«ti riporto ai tuoi alloggi, non voglio che si accorgano di
te con tutti i vestiti bagnati»
«E ora che farai?» domandò la donna con
ansia.
«Non so, intanto voglio vedere
Christine».
*
«Come
stai?»
La voce era colma di apprensione, un'apprensione che sarebbe persino
potuta suonare tenera.
Christine si era dovuta appoggiare alla testata del letto per impedire
che le ginocchia le cedessero quando il Fantasma dell'Opera aveva fatto
la sua comparsa nella stanza.
«Che ci fate qui?» esclamò la giovane.
«Volevo sapere come stavi, Eloise mi ha detto...»
tentò di dire lui.
«Eloise vi ha detto, certo, immagino».
Fredda come il marmo e tagliente come la collera.
Erik guardava la sua dolce musa rigida come una statua di sale sotto il
suo sguardo. Pensò che era stanca, provata e sconvolta dalla
terribile notizia.
Le si avvicinò e tentò una carezza sulla guancia
ma Christine si ritrasse con uno scatto e lo fissò con occhi
così pieni di collera da non sembrare i suoi. E ad Erik
tanto bastò per capire.
«Non stai pensando che sia stato io, vero?» disse,
ma l'amarezza nella sua voce lasciava intendere palesemente che la sua
non era una domanda.
La ragazza lo guardò impallidendo, la sua espressione
rendeva superflua qualsiasi parola.
La durezza di quello sguardo colpì Erik come pugnalata: la
sua Christine, come poteva pensare una cosa simile? Dopo tutto il tempo
che avevano trascorso insieme, dopo quello che era accaduto la notte
prima... non poteva essere vero, quel disprezzo sul volto che amava non
poteva essere reale. Era un incubo, l'ennesimo incubo da cui si sarebbe
svegliato, pensò stringendo i pugni.
«E così, anche tu mi hai condannato senza
possibilità di difendermi, senza fare domande»
sospirò tristemente.
«Rispondete a questa domanda allora: dove eravate stanotte?
Io mi sono svegliata e voi non eravate nella grotta» rispose
Christine.
«E tanto basta a fare di me l'aggressore di una ragazza sulla
quale non avrei avuto nessun motivo di alzare un dito?!»
«Infatti. Non so perché vi siate scomodato ad
arrivare tanto lontano, mi sentirei meno in colpa se fossi stata io la
vittima di un tale scempio e non Josephine».
I loro occhi bruciavano di lacrime, lacrime amare di delusione, fiele
che avvelenava l'anima e il cuore.
Dopo un attimo di silenzio che per l'uomo sembrò
interminabile, Christine trovò il coraggio di parlare ancora,
«Mi avete tradito» sibilò. «Vi
credevo il mio Angelo, ma non siete altro che...».
Gli occhi di Erik che si sforzavano di trattenere il pianto
erano freddi cristalli di rocca fissi sul suo viso.
«Cosa, Christine? Avanti, dillo...».
La ragazza scosse il capo e si morse il labbro. Non voleva pronunciare
quella parola, non aveva il coraggio, era come se dirlo lo avrebbe reso
reale più di quanto non lo era già.
«Forza, ragazzina, dillo pure, tanto hai già
dimostrato di essere come tutti gli altri...» la
sfidò l'uomo.
«Siete un mostro! Nient'altro che un mostro!»
ruggì Christine.
Quella parola pronunciata dalle stesse labbra che lo avevano baciato si
artigliò alla testa e al cuore di Erik dilaniandolo in
maniera così dolorosa da lasciarlo senza fiato.
Con un balzo le fu addosso, la trattenne stringendola per le braccia e
la spinse sul letto bloccandola sotto di sé con tutto il suo
peso.
«Dunque saresti stata più contenta se le cose
fossero andate così? Dunque pensi che potrei farti del
male?!» sibilò minaccioso sulle sue labbra.
«Lasciatemi...» piagnucolò lei incapace
di trattenere oltre le lacrime che presero a scenderle lungo le guance.
«Vedi? Posso prendere quello che voglio come e quando voglio,
e sì, avrei potuto prendere lei e qualsiasi altra ballerina
se solo ne avessi avuto voglia, ma non l'ho fatto, perché
l'unica cosa che ho sempre voluto sei tu! E pensavo che tu meritassi
qualcosa di più di questo...».
Christine era immobilizzata sulle coperte, paralizzata dalla paura,
incapace anche solo di respirare,
«Ma io non sono così, Christine»
concluse Erik alzandosi e allontanandosi da lei con uno scatto.
«Sto rischiando la vita per essere qui con te, adesso. Ma
evidentemente questo non basta a dimostrare la mia buona fede e a
meritare la tua fiducia»
«Andate... andate via...» fu l'ultima cosa che la
ragazza riuscì a dire prima di perdere i sensi.
_________________________________________
Capitolo reinserito il 27\12\2011
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Capitolo 19 *** Lo specchio rotto ***
Sono infinitamente
lusingata dalle vostre recensioni *_*
@ Rayne: grazie per aver letto il polpettone...
ehmm, la fanfiction! ^^ Non preoccuparti, il mio "rapporto scrittorio"
con il fantasmone è una cosa lunga e duratura XD
@ Theangelsee: Lo so, lo so, il mio gusto per il dramma
finisce sempre per farmi scrivere cose dolorose... ma mancano ancora un
bel pò di capitoli alla conclusione e non si sa mai che le
cose si aggiustino! Eheh...
@ Amy: si, per me Erik è un tipo piuttosto
rabbioso e la sua grinta gli viene tutta dalla rabbia (come quando nel
film fa un bel barbecue per risolversi i problemi XD), ma è
anche abbastanza lunatico, quindi gli ci vuole poco per passare dalla
rabbia alla depressione. Chirstine è una ragazzina che sta
tentando di diventare donna e lo sta facendo in una situazione al
quanto complicata, quindi le si perdona tutto (o quasi). Raoul lo
voglio così, zuccheroso e stomachevole... perchè
si!!! Alex e BB meriterebbero un romanzo a sè per l'affetto
che ho per loro, ma purtroppo questa è "solo" una
fanfiction, intento, cercherò di farvi sapere il
più possibile su di loro..
Madame Giry nel mio immaginario è qualcosa di
molto simile a Wonder Woman... ma anche lei avrà il suo
crollo (e solo Dio sa quanta fatica mi è costato scrivere di
questo crollo)
@ Keyra: ma... ma... MA GRAZIE! E' stato bello leggere una
recensione tanto entusiasta (non era esagerata, era BELLA *_*). E come
ringraziamento per aver sopportato quel ricettacolo di pazzia che
è il mio blog rispondo subito alle tue domande.
Meg non mi sta antipatica, mi è abbastanza
indifferente (del resto anche nel film non è che avesse
molto spazio come personaggio), in questa storia lei è
semplicemente un personaggio "funzionale" alle varie situazioni,
perchè c'è già tanta carne al fuoco e
non volevo risultare dispersiva calcando la mano con troppi
personaggio.
La faccenda della marmellata viene fuori da un'intervista in
cui il mio amato attore scozzese ha dichiarato di non poter fare a meno
della marmellata di frutti di bosco che fa sua madre, al punto che la
signora gliela deve spedire dalla Scozia a New York (dove lui vive) e
che lui se ne porta sempre dietro un barattolo, anche quando va a fare
colazione fuori.
Buona lettura a tutti.
******
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Lo specchio rotto
Erik scagliò con forza un grosso volume contro la superficie
di uno degli specchi. Nel punto in cui il libro aveva urtato contro il
vetro si disegnò una grande ragnatela di crepe che si
estesero per tutta la lunghezza dello specchio, in pochi secondi i
frammenti finirono sul pavimento cadendo come tante piccole scintille
sotto i riflessi delle candele accese.
«Perché?!» gridò l'uomo
gettandosi in ginocchio sulla pietra e battendosi le mani sulle cosce.
Aveva tolto la maschera lasciando scoperto il suo profilo destro,
picchiò con il palmo della mano contro la tempia e fece
scivolare le dita sui lineamenti distorti che si riflettevano su ognuno
dei pezzi di specchio davanti a lui. Le unghie lasciarono una scia di
graffi rossi dal sopracciglio all'angolo della bocca,
«Perché? Perché...
perché?!» disse ancora, il pianto trasformava la
sua voce di angelo in un rantolo confuso, i capelli scomposti si
attaccavano il viso bagnato di lacrime.
Erano passati quattro giorni da quando aveva parlato con Christine per
l'ultima volta e lui non riusciva ancora a farsene una ragione. Lei lo
aveva accusato di un crimine che non aveva commesso, lo aveva
abbandonato nuovamente alla sua solitudine.
Avrebbe voluto odiarla, avrebbe voluto avere il coraggio di farle
sentire tutta la sua rabbia mentre la teneva inchiodata su quel letto
ma l'amore che provava per lei era stato più forte persino
della rabbia e della disperazione. E ora era lì, a un passo
dalla pazzia e pensare a come fosse stato possibile giungere fino a
quel punto, con la felicità che si era dissolta tra le sue
dita come se fosse vento.
Si accasciò su se stesso posando un palmo a terra, con il
mignolo sfiorò un pezzo di vetro che lo tagliò
leggermente. Fissò per un attimo un filo rosso di sangue
colorare il punto in cui si era ferito e prese il pezzo di specchio
rotto tra l'indice e il pollice. Era un frammento triangolare con i
bordi perfettamente lisci e affilati, Erik ne percorse cautamente il
contorno con il polpastrello dell'indice e sorrise, di un sorriso
grottesco e selvaggio, mentre portava il pezzo di vetro sull'orlo della
manica della camicia. Un colpo rapido sarebbe bastato a recidere i
polsi, il suo cuore avrebbe smesso di battere a poco a poco, ma tanto
lui non se ne sarebbe accorto... dentro era già morto da
quando aveva visto il disprezzo negli occhi di Christine. Il suo cuore,
la sua anima, il suo respiro erano rimasti nel cerchio delle braccia di
quella fanciulla, senza di lei non c'era possibilità di
continuare a vivere.
Erik premette il vetro contro il polso e lo fece strisciare sulla pelle
per un paio di centimetri, un rivolo sottile di sangue
macchiò il tessuto candido della camicia. Non faceva nemmeno
così male, o forse era il suo corpo che non sentiva
più niente, la sua mente credeva che non ci fosse dolore
più grande di quello di perdere il suo unico amore.
Ma un attimo dopo Erik si scosse,
«No...» sussurrò alzandosi di colpo e
tamponandosi il taglio con un fazzoletto. La ferita che si era inflitto
era ancora troppo piccola per essere davvero pericolosa.
«No» ripeté guardando il profilo bianco
della maschera poggiata sullo scrittoio. L'uomo era morto, ma il
Fantasma dell'Opera era lì, vivo e colmo di rabbia, la
stessa rabbia che già altre volte in passato lo aveva fatto
pulsare.
Era giunto il momento che quegli stolti rammentassero chi era che
comandava. Era ora che i suoi nemici fossero spazzati via.
Aveva giurato che non avrebbe più ucciso, ma la persona a
cui aveva fatto qual giuramento lo aveva allontanato, gli aveva negato
la sua fiducia e il suo affetto quindi non c'era più motivo
di rispettare quella promessa.
Quando il taglio smise di sanguinare, Erik si sedette alla scrivania,
prese carta e penna e cominciò a scrivere. Appena ebbe
terminato la lettera la mise in una busta che chiuse con il suo
consueto sigillo di ceralacca a forma di teschio.
Si ricompose, indossò un panciotto damascato e il suo frac
nero e si avviò verso i piani superiori per recapitare la
sua missiva.
*
Parigi era nuovamente coperta da un soffice strato di neve. I passi
delle persone scricchiolavano calpestando i fiocchi caduti lungo le
strade.
Erano passati quattro giorni dai terribili avvenimenti delle notte del
primo dell'anno.
Josephine osservava la città dalla piccola finestra della
sua stanza. Pensava che un giorno anche lei sarebbe tornata pulita come
la piazza dopo la neve, per adesso aveva solo una gran voglia di
nascondersi dal mondo. I suoi genitori erano venuti a prenderla per
portarla via. Sua madre aveva avuto una crisi di nervi quando aveva
saputo cosa era successo, Madame Giry aveva avuto un bel da fare per
calmarla, suo padre, invece era ancora in corridoio a inveire contro i
direttori che cercavano inutilmente di rabbonirlo. L'uomo stava
gridando che avrebbe fatto chiudere quel collegio, che avrebbe ottenuto
il loro licenziamento.
La ragazza ascoltava la conversazione ma era come se non sentisse
niente.
L'investigatore, di cui ora le sfuggiva il nome, stava dicendo a suo
padre che avevano già realizzato un piano per catturare il
Fantasma, che sarebbe stata fatta giustizia. La ragazza non
riuscì a sentire la risposta di suo padre perché
qualcuno bussò alla porta della stanza.
Josephine sperò che fosse sua madre,
«È aperto» mormorò senza
smettere di guardare fuori dalla finestra.
«Perdonate mademoiselle...» disse una voce maschile
in tono dolce.
Lei sobbalzò e si voltò a guardare l'ospite con
aria smarrita. Non era riuscita nemmeno a vedere il suo innamorato, la
sola idea di trovarsi sola con un uomo la innervosiva, ma lui, quel
giornalista, aveva sempre un'aria così gentile.
«Perdonate mademoiselle, so che state per lasciare il
collegio, non vorrei importunarvi oltre, ma avrei bisogno
di...» disse Alexandre.
«Vi prego, monsieur, che altro volete da me?»
domandò la fanciulla scuotendo il capo con aria triste.
«Io sono profondamente rammaricato per quello che
è successo»
«Il vostro rammarico e quello di tutti gli altri non serve a
molto»
«Lo so, e non sapete quanto vorrei che ci fosse qualcosa che
io possa fare, è per questo che sono qui, io voglio fare
chiarezza, voglio rendervi giustizia Josephine» concluse il
giornalista in tono pacato ma solenne.
La ragazza accennò un sorriso stanco,
«Avete l'aria di una brava persona, monsieur
Dubois...» concluse.
«Cerco di esserlo» commentò lui.
«Mademoiselle, devo chiedervi, ancora una volta, ora che
siamo soli, c'è qualcosa, qualche particolare che ricordate
e che può aiutarci a identificare il vostro
assalitore?»
«Che cosa state facendo qui?!» si intromise una
voce acuta e stizzita.
Una donna piuttosto in carne entrò nella stanza e spinse via
Alexandre tirandolo per la manica della giacca.
«Madame... io...» farfugliò il ragazzo
in tono di scusa.
«Ah voi siete quel giornalista!» ruggì
la donna. «Cosa cercate qui? Una delle vostre storielle da
scrivere? Andateve! Lasciate in pace mia figlia...»
«Scusate, io volevo solo parlare con Josephine»
«Ho detto fuori di qui! Subito!».
Alexandre sospirò, lanciò un ultimo sguardo verso
la ragazza seduta alla finestra e fece per allontanarsi,
«Aspettate» mormorò lei voltandosi di
scatto. «Aspettate, monsieur».
Il giornalista si fermò sull'uscio ,
«Tabacco» aggiunse la piccola ballerina chiudendo
gli occhi mentre un brivido le saliva lungo la schiena.
«Adore di tabacco... ovunque».
Il ragazzo trasalì ma tentò di non darlo a vedere
e annuì con cenno vago. Avrebbe voluto dire qualcosa,
trovare le parole per salutare quella fanciulla, quel bellissimo fiore
reciso in modo così violento, avrebbe voluto augurarle ogni
benedizione e la possibilità di riuscire a dimenticare, ma
si rese conto che ogni parola sarebbe stata banale e inappropriata.
«Che Dio vi aiuti e vi benedica» mormorò
impercettibilmente per poi lasciare la stanza.
Josephine camminava a testa bassa lungo il corridoio, preceduta da suo
padre e seguita da sua madre e da un inserviente del teatro che le
portava le valige. Le sue compagne la guardarono allontanarsi senza
riuscire a trovare una sola parola per salutarla.
L'allegria che le giovani ballerine avevano portato in quel luogo
sembrava essersi spenta per lasciare il posto alla paura e allo
sconforto.
Meg e Christine erano in piedi accanto a Madame Giry, i loro occhi
piangevano mentre guardavano la sagoma esile di Josephine sparire
dietro la porta. Era come se anche la loro innocenza fosse stata fatta
a pezzi. Nessuno parlava ma tutti avevano la sensazione che niente
sarebbe stato più lo stesso.
Christine si asciugò una lacrima che era capitolata oltre le
ciglia e si voltò per tornare nella sua stanza, ma una mano
si posò delicatamente sulla sua spalla per trattenerla.
«Raoul...» mormorò la giovane.
Il visconte le rivolse un mezzo sorriso triste,
«Come stai?» le chiese.
Lei lo guardò senza rispondere. Non sapeva che parole usare,
si sentiva svuotata, disarmata davanti a un rammarico che non riusciva
a contrastare.
«Volevo parlarti, se hai un minuto» aggiunse Raoul,
la giovane annuì e lui le porse il braccio. Si incamminarono
l'uno accanto all'altra verso la mensa e si sedettero a un tavolo.
«Devo chiederti una cosa, una cosa molto
importante» esordì il visconte.
«Dimmi»
«Christine, comprenderai bene che la situazione è
degenerata, che siamo ben oltre la soglia della
tollerabilità...»
«So bene cosa è successo, Raoul» rispose
la fanciulla corrugando le sopracciglia. «Non c'è
bisogno che tu me lo faccia notare».
Non voleva sentir parlare di quella situazione, il minimo accenno a
tutta quella vicenda le faceva tornare in mente lui e il vuoto che
aveva lasciato.
«Quell'uomo va fermato, Christine!» disse il
ragazzo mettendo da parte ogni preambolo. «Noi abbiamo
escogitato un sistema, ma abbiamo bisogno del tuo aiuto»
«Ah, ti prego!» borbottò lei stizzita.
«No, ascoltami. So di chiederti molto, ma è una
cosa che solo tu puoi fare. Ti spiego di che si tratta, se non te la
senti non ti costringerò, ma ti prego almeno di valutare la
mia proposta, puoi almeno pensarci? Lo faresti per me?».
Raoul la guardò così intensamente che la ragazza
si sentì costretta a mormorare un sì con voce
incerta.
«Bene. Stiamo pensando di mettere in scena la sua
opera»
«Il Don Juan...» mormorò Christine
abbassando lo sguardo.
Erik gliene aveva parlato a lungo, con gli occhi che gli brillavano,
diceva che ci stava lavorando da tanto tempo, da così tanto
tempo che quando l'avrebbe conclusa probabilmente sarebbe morto.
«Sì, esatto» disse Raoul senza voler
indagare su quanto lei già sapesse di quell'opera. La sola
idea della sua Dolce Lottie in compagnia di quell'essere gli faceva
ribollire il sangue.
«Dunque?»
«Dunque vorremmo che tu cantassi nella parte della
protagonista. Se sarai tu a cantare lui verrà ad ascoltarti
e noi potremmo catturarlo».
Christine trasalì. Raoul aveva pronunciato quelle parole con
una tale naturalezza, come se fosse una cosa semplice, come se fosse
ovvio. Ah, certo che era ovvio; quell'opera era stata scritta per lei!
Per lei...
«Come puoi chiedermi una cosa simile?!»
sbottò. «Hai idea di cosa significhi per
me?»
«Ma Christine, io...»
«No Raoul! Stammi bene a sentire, sono stanca di essere la
vostra marionetta... prima la sua e ora la tua e dei tuoi amici! Ti sei
chiesto, nella tua superficialità da bambino viziato, cosa
può voler dire per me assecondare una simile richiesta? Ti
sei chiesto cosa io stia provando?».
Il visconte era sconvolto dalla furia con cui la fanciulla gli stava
riversando contro tutto il suo dolore e la sua frustrazione. Il suo
dolce viso era trasfigurato in una smorfia di rabbia e delusione,
«Dite tutti di amarmi, ma non vi importa nulla di
me!» concluse lei alzandosi in piedi e correndo via dalla
sala coprendosi il viso con le mani.
Nella sua corsa la ragazza urtò contro qualcuno che si stava
avvicinando, sollevò il volto bagnato di pianto e si
trovò faccia a faccia con Alexandre.
«Christine, cosa vi è successo?» chiese
lui con apprensione,
«Non provate a fare l'amico Alexandre, voi e la vostra aria
da bravo ragazzo! Siete uguale a loro, ecco cosa siete!»
ciò detto la ragazza spinse via il giornalista e si
allontanò senza smettere di correre.
Alexandre rimase impalato per qualche secondo, poi si scosse e si
voltò verso Raoul, lo vide appoggiato al tavolo che si
reggeva la testa tra le mani con aria afflitta.
«Siamo diventati tutti pazzi per seguire la
ragione...» pensò il giornalista avvicinandosi
all'amico. «Posso sapere cosa è
successo?» chiese
«Non lo so, Alexandre! Io non capisco... ti giuro non
capisco... le ho detto, è ti giuro su Dio che l'ho fatto con
la massima delicatezza, della nostra idea ma lei si è
arrabbiata. Non l'ho mai vista così, è stato
terribile» piagnucolò il Visconte.
«Sì, lo so... ho notato» rispose il
ragazzo.
«Cielo! Cosa devo fare Alexandre?».
Il giornalista scrollò le spalle e sospirò
poggiandosi al tavolo,
«Pazientare, amico mio. Quella ragazza ha appena perso la
fiducia nella persona che amava, è normale che sia
arrabbiata e che abbia voglia di prendersela con il mondo
intero» concluse.
«Se avessi tra le mani quel mostro!...»
«Raoul, c'è una cosa che devo dirti»
borbottò Alexandre facendosi improvvisamente serio.
«Ho parlato con Josephine stamattina, le ho chiesto se
ricordava qualche altro particolare di quella notte,
dell'aggressione... sai cosa mi ha detto? Che l'aggressore odorava
fortemente di tabacco».
Il visconte fissò l'amico con aria perplessa
«Oh no, non cominciare, so perfettamente dove vuoi
arrivare!» sbottò. «Ora mi dirai che sei
più che mai convinto che è stato Bertrand. Lo so
che quell'uomo non ti è mai piaciuto, non è mai
piaciuto a nessuno suppongo, ma questo non è un buon motivo
per accusarlo, e in quanto al tabacco, per quel che ne sappiamo anche
il Fantasma potrebbe fumare... e anche ammesso che non sia stato
Fantasma, cosa a cui fatico a credere, non vuol dire che sia stato
necessariamente Bertrand... voglio dire, potrebbe essere stato
chiunque, anche i direttori fumano il sigaro, vuoi forse mettere sotto
accusa anche loro?»
«I direttori sono brave persone, venali forse, pusillanimi
magari, ma non sono delle bestie e non avrebbero avuto nessun motivo di
aggredire una ballerina»
«E perché, Bertrand ne avrebbe avuto qualcuno
forse?»
«Certo!».
Raoul si massaggiò le tempie con aria stanca,
«Non ti seguo» ammise scuotendo la testa.
«Bertrand vuole stanare il Fantasma, ma fin ora non aveva
trovato un modo efficace per farlo, ogni sua ricerca si è
rivelata un fallimento completo e quindi ha cercato il modo di
inasprire gli animi, di far arrivare tutti all'esasperazione.
Un'aggressione con stupro ai danni di una ragazzina innocente di solito
fa indignare tutti, come di fatto è successo, e lui sapeva
che chiunque avrebbe dato la colpa al Fantasma»
spiegò Alexandre.
«Come al solito i tuoi ragionamenti non fanno una piega, ma
ti rendi conto di quanto sarebbe terrificante se questa fosse la
verità?»
«Anche io spero di sbagliarmi, ma credimi, terrò
d'occhio quell'uomo come non ho mai fatto prima d'ora e stai certo che
prima o poi troverò un appiglio per scoprire la
verità»
«Ne sono certo» mormorò Raoul, poi
spalancò gli occhi come se avesse avuto un'idea brillante.
«Anzi, un appiglio ci sarebbe, per quanto mi ripugni l'idea
di dover affrontare una simile conversazione, immagino che Christine
sappia se quel maledetto Fantasma fuma»
«Meravigliosa osservazione, Raoul!»
esclamò Alexandre riuscendo persino ad accennare un sorriso.
«Sto imparando da un grande maestro! Ad ogni modo, per oggi
non è il caso di importunarla oltre, ma domani,
quando si sarà calmata potrai provare a parlarle»
«Già. Comunque sia, non so se sperare di essermi
sbagliato...» mormorò il giornalista con aria
pensosa.
Il visconte lo scrutò perplesso,
«Troveresti così piacevole scagionare il Fantasma
da questa colpa? Davvero preferisci sapere che sia stato Bertrand e non
lui?» domandò.
«Non lo so Raoul» rispose il suo amico.
«Credimi, capisco perfettamente quello che prova la gente
verso quell'uomo, è pur sempre un criminale ma io ho sempre
avuto la sensazione che sia qualcosa di più... che sia,
bah... non so nemmeno spiegartelo, ma quando mi ha catturato quella
sera, per un attimo l'ho visto negli occhi e fidati se ti dico che
quelli non erano gli occhi di uno che provava piacere a farmi del male.
Raoul, è così strano ma è come se
sentissi che tra me e quell'uomo c'è un legame che non
riesco a spiegarmi, hai presente quando guardi uno sconosciuto e ci
trovi qualcosa di familiare in lui pur sapendo di non averlo mai visto
prima?»
«Amico mio! Credo sia il caso che tu abbandoni le indagini
per qualche periodo! Questa storia ti sta dando alla testa. Un legame
tra te e quel mostro! Figuriamoci!»
«Già, probabilmente è solo
suggestione» concluse Alexandre. «E ti assicuro che
sarei ben felice di allontanarmi da questo teatro per un po'. Ma non
posso gettare la spugna proprio ora».
Raoul annuì,
«Vieni, intanto usciamo e andiamo a bere qualcosa di caldo...
ho bisogno di aria, e anche tu!» concluse battendo la mano
sulla spalla dell'amico.
*
Madame Giry si godette per un attimo il silenzio che era tornato a
regnare nel teatro una volta giunta sera.
Dopo cena, la donna uscì dalla sua stanza con l'intenzione
di andare in cappella a pregare. Avevano tutti bisogno dell'aiuto di
Dio, soprattutto Erik, mai come in quel momento.
Aveva saputo quello che era successo tra lui e Christine, la ragazza le
aveva raccontato della loro ultima e violenta conversazione. Eloise ne
era rimasta piuttosto turbata, avrebbe voluto rimproverare Christine
per essere stato così sbrigativa e superficiale per aver
tirato somme così affrettate, ma discutere con lei in quel
momento non sarebbe servito a nulla, come non sarebbe servito discutere
con Erik. Lo aveva visto il giorno prima, non sembrava particolarmente
scosso dalla terribile incomprensione tra lui e la ragazza, ma la donna
lo conosceva abbastanza da sapere che, dietro quello sguardo cupo, il
suo vecchio amico stava rimuginando qualcosa, probabilmente qualcosa di
terribile. Lo aveva pregato di essere cauto, lui le aveva risposto di
non preoccuparsi con il tono severo e autoritario che da un po' non
usava più.
Qualcosa si era incrinato nell'equilibrio che Erik sembrava aver
trovato, qualcosa si era rotto, mandato in frantumi come uno specchio
contro il quale si lancia un oggetto pesante. Eloise pensò
che avrebbe chiesto a Dio di non far precipitare la situazione, ma
quando aprì la porta della sua stanza tutti i suoi timori
presero forma in una lettera che era poggiata per terra davanti
all'uscio della stanza: una lettera del Fantasma dell'Opera per i
direttori.
Eloise non apriva mai le missive che Erik non indirizzava direttamente
a lei, ma quella volta decise di fare un'eccezione, era troppo in ansia
per sopportare un'ulteriore preoccupazione, così
strappò decisa il sigillo a forma di teschio e lesse le
righe annotate sul foglio:
Miei cari signori,
è giunto il
momento di ristabilire l'ordine, di ritornare ognuno ai propri posti e
ai proprio ruoli.
Con questa mia nuova
invito voi a non preoccuparvi della direzione dell'Opera Populaire, dal
momento che sarò io a provvedere all'organizzazione futura
del teatro, come ho avuto modo di ricordarvi durante i festeggiamenti
di capodanno.
Inoltre, invito monsieur
Bertrand e monsieur Dubois a lasciare il mio teatro. Due menti argute
come le loro sono sprecate in un luogo dove non c'è altra
occupazione che l'arte della musica e possono capitare incidenti anche
molto gravi a chi frequenta posti non adatti alle proprie mansioni.
Rimango, signori, il
vostro umile servo.
F.O.
Quando ebbe terminato la lettura, Madame Giry tornò nella
sua camera e nascose la lettera sul fondo del cassetto.
Quella missiva non doveva essere recapitata, non in un momento del
genere!
Eloise rilesse mentalmente l'ultimo periodo e si accasciò
sulla sedia con un gemito di angoscia
«Non puoi uccidere quel ragazzo, Erik»
pensò coprendosi il viso con le mani. «Lui
è tuo fratello... no, non te lo lascerò fare, non
stavolta!».
Doveva trovare un modo per evitare che lo specchio andasse in frantumi,
e doveva farlo prima che fosse stato troppo tardi.
________________________________________________________
Capitolo reinserito il 27\12\2011
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Capitolo 20 *** La certezza di aversi (parte prima) ***
E' arrivata la
primavera... più o meno, e insieme alle allergie di stagione
arriva anche il mio aggiornamento pre-pasquale.
Anche questo capitolo era di una lunghezza improponibile,
indi lo divido in due parti.
@theangelsee: grazie, come sempre dei complimenti esagerati
*_* per quanto riguarda le canzoni di Love Never Dies, da brava
fanatica quale sono mi sono fatta spediere il cd, ma anche senza voler
essere malati come la sottoscritta, i brani si posso ascoltare su
i-tunes e qualcosa c'è anche su you-tube.
@Keyra: Preso paura eh con il Master che si taglia i polsi?
mhuahaha... ok, torno seria. Non posso ammazzare il protagonista nel
bel mezzo della storia, anche se ogni tanto ci sono tentata.
La storia dovrebbe contare ancora una decina di capitoli
(dico dovrebbe perchè gli ultimi capitoli sono ancora in
cantiere), ma non preoccuparti, tanto le storie da qui non le cancella
nessuno (a meno che l'amministrazione non decida di sopprimere il mio
account per delirio ad oltranza).
(PS: mi è arrivato un tuo messaggio privato al mio
account msn, ma era vuoto)
@ Amy: vorrei leggerlo anche io il romanzo da cui
è tratto il sequel ma è fuori catalogo
(già chiesto in libreria tempo fa XD), appena
avrò tempo interpellerò i miei bibliotecari di
fiducia. Non ho letto altri libri sul fantasmone, a parte il romanzo di
Leroux, ma mi sarebbe piaciuto (maledetto il mio scarsissimo
inglese!!!), e chissà quanti spunti avrebbero dato alla mia
mente malata! Oh si, il figliuolo dev'essere un bel tipetto... ma
l'idea del concepimento mi disturba non poco...
Dissuaderò BB dall'iscriversi ai tabagisti
anonimi, promesso.
**********
CAPITOLO DICIOTTESIMO - PARTE PRIMA
La certezza di aversi
Alexandre avvertiva la terribile e frustrante sensazione che le cose
gli stessero scappando di mano.
Se ne stava seduto in mezzo al letto mentre l'inverno grattava alle
finestre come un gatto che vuole entrare. Grandinava e Parigi era
avvolta da una densa foschia proprio come i suoi pensieri.
Il ragazzo era certo che ci fosse qualcosa che gli era sfuggito,
qualcosa che avrebbe dovuto sapere, capire, notare. Un tassello che
avrebbe reso quel rompicapo meno complicato o forse più
terrificante ma più chiaro.
Erano diverse sere che si addormentava ascoltando il pianto di sordo di
sua madre proveniente dalla stanza accanto. Madame Ginette piangeva
finché il sonno non la strappava ai suoi dolorosi pensieri,
suo figlio sentiva i singhiozzi che lei tentava di attutire con il
cuscino, ma quel pianto era troppo disperato per essere zittito.
Alexandre avrebbe voluto fare qualcosa per lei, non le erano mai venute
crisi così forti e così prolungate. Quando era
bambino aveva pensato che sua madre era sempre triste perché
lui non era un figlio abbastanza buono da compensarla della perdita di
quel fratello morto anni prima della sua nascita, credeva che quel
bambino fosse stato in qualche modo più bravo o
più bello, il figlio che lui non sarebbe riuscito ad essere.
Ricordava che suo padre si incupiva ogni volta che lui tentava di
tirare fuori l'argomento, di farsi raccontare qualcosa di quel fratello
che non avrebbe mai conosciuto.
Quando era ragazzino lo aveva desiderato così tanto un
fratello maggiore, una spalla forte che lo aiutasse.
Quella mattina, riflessioni strane e incongruenti si accavallavano
nella testa del giornalista. Pensava al teatro, ai suoi terribili
sospetti su Bertrand, alla sua famiglia, a sua madre, pensava al
Fantasma dell'Opera chiedendosi se davvero catturarlo e sbatterlo in
prigione era quello che voleva. Si era imbarcato in quell'impresa con
la voglia di trovare una storia che valesse la pena raccontare, voleva
scrivere un romanzo che parlasse della più misteriosa caccia
all'uomo che avesse mai avuto luogo, una ricerca condotta tra le pareti
di un teatro che si era rivelata più complessa e
appassionante di qualsiasi altra indagine svolta in città.
Aveva avuto a che fare con un nemico invisibile, un uomo che non si era
mai mostrato se non una volta, nella penombra quando lo aveva catturato
per torturarlo, e la notte di Capodanno per rivendicare la propria
supremazia su un mondo che controllava e muoveva come in una solitaria
partita di scacchi.
Era incredibile, pensava Alexandre, quanto il Fantasma riuscisse ad
essere presente in ogni singolo granello di polvere di quel teatro,
anche senza farsi mai vedere. Era come se quell'uomo e il teatro
fossero una sola cosa, tanta era la facilità con cui l'Opera
si piegava al suo volere dandogli il potere
dell'invisibilità e dell'invulnerabilità. E
cominciando ad amare quel teatro il ragazzo aveva imparato a rispettare
quell'uomo a cercare di guardare oltre, a chiedersi quali fossero i
motivi che lo avevano scelto a insediarsi lì e condurre
un'esistenza tanto incredibile. Alcuni macchinisti dicevano che si
nascondeva perché era un mostro, un essere deforme, gobbo e
zoppo, con la pelle giallastra e incartapecorita come quella di un
cadavere, con il volto privo di naso e con le orbite degli occhi come
due buchi neri. Ma l'uomo che aveva visto piombare in sala durante il
ballo era un personaggio affascinante, pieno di una luce che sarebbe
esplosa come una stella se solo fosse stato libero di mostrarsi al
mondo, qualsiasi cosa la sua maschera nascondesse.
Alexandre si passò le mani tra i capelli e si
lasciò cadere all'indietro gettandosi con la testa sul
cuscino,
«Raoul ha ragione, questa faccenda mi sta
consumando!» esclamò fissando il soffitto.
Dopo alcuni minuti si alzò e si preparò per
uscire, anche quella mattina sarebbe andato all'Opera, doveva parlare
con Christine prima che arrivasse Bertrand, si augurò di
trovarla di umore migliore e sperò che fosse disposta ad
accordargli la sua fiducia e a confidarsi con lui.
Uscì dalla sua stanza e andò in sala da pranzo
per fare colazione. Scrutò il volto di sua madre seduta
attorno al tavolo. Madame Ginette aveva il viso stanco ma suo figlio
non aveva la forza di affrontare nessun discorso grave, Alexandre si
limitò a sospirare e pensò che appena la
situazione in teatro gli avesse lasciato un po' tregua avrebbe aiutato
sua madre, ma ora si sentiva incapace di reggere tutte e due le cose
assieme.
«Come procedono le ricerche?» domandò la
donna dissimulando l'apprensione per la risposta piegando il tovagliolo.
Alexandre scrollò le spalle, sua madre non si era mai
mostrata tanto interessata a quella faccenda come negli ultimi giorni.
Suo figlio aveva pensato che anche lei fosse stanca di vederlo
così preso da una ricerca che non sembrava avere soluzione.
«Come al solito, tutto fermo» rispose.
«Credi... credi che sia stato davvero il Fantasma dell'Opera
ad aggredire quella ballerina?» domandò Madame
Ginette in tono titubante.
«In tutta onestà, no. Ma per ora non
c'è modo di provare il contrario».
Madre e figlio terminarono la loro colazione in silenzio, poi il
ragazzo salutò ed uscì.
Quando Alexandre raggiunse il teatro trovò Raoul ad
attenderlo sotto l'arcata del portone principale. La grandine e la
pioggia avevano disciolto la neve rendendo la piazza un campo di
pozzanghere ghiacciate. La foschia invece continuava a stringere la
città nel suo fumoso abbraccio impedendo al sole di gennaio
di far luce nelle strade.
«Che ci fai qui?» chiese il giornalista.
«Noi dovevamo parlare con Christine...» rispose il
Visconte.
«No, Raoul, io
devo parlare con Christine. Tu stanne fuori, per
favore»
«Ma come puoi chiedermi una cosa del genere? Sai bene quanto
per me sia importante capire...»
«Ti prego, amico mio, rispetto i tuoi sentimenti ma in questo
momento credo ci siano cose più importanti».
Raoul sospirò deluso,
«Come preferisci» concluse.
«Però dopo mi racconterai ogni cosa»
«Non se lei mi chiederà di non farlo»
borbottò Alexandre fissando l'amico come se fosse stato un
bambino capriccioso. Raoul sapeva essere così infantile
nella sua ingenuità che a volte lui non riusciva nemmeno ad
arrabbiarsi.
Il visconte fissò il giornalista cercando il modo di
protestare ma Alexandre lo sorpassò e si diresse verso gli
alloggi delle ballerine.
«Se davvero vuoi aiutarmi,» esclamò
senza voltarsi, «tieni lontano Bertrand quando
arriverà!».
Alexandre raggiunse la stanza di Christine, bussò e
aspettò di ottenere il permesso di entrare.
Mademoiselle Daae era in compagnia di Meg Giry. Il giornalista trovava
che la fanciulla bionda avesse molto del temperamento di sua madre,
anche se la giovinezza la rendeva particolarmente animosa,
più di quanto non fosse madame Eloise.
«Mademoiselle Daae, avrei urgenza di parlare con voi, so che
forse non siete dell'umore giusto, ma vi chiedo ugualmente di
concedermi questo favore» disse Alxandre con il suo consueto
tono affabile.
«Ah certo che parlerà con voi, monsieur
Dubois!» esclamò Meg. «Dovrà
pur parlare con qualcuno prima o poi!».
Nella voce della ragazza c'era un palese accento di rimprovero e di
risentimento per non essere riuscita a capire cosa turbasse la sua
amica in quei giorni, a parte le vicende che avevano sconvolto il
teatro.
Christine scrollò le spalle e fece cenno ad Alexandre di
accomodarsi su una sedia,
«Posso chiedervi di lasciarci soli per qualche minuto,
mademoiselle Giry?» domandò lui.
Meg sospirò,
«Come preferite...» disse uscendo con il suo passo
agile e aggraziato per poi chiudersi la porta alle spalle.
Rimasto solo con la giovane, Alexandre si picchiettò un
indice sul ginocchio cercando le parole più appropriate per
cominciare il discorso,
«Christine, vorrei che voi sapeste che sono qui in veste di
amico» esordì. «Vi prego di credermi
sulla parola se vi dico che tutto quello che mi direte non
uscirà da questa stanza e che le domande che sto per porvi
hanno il solo scopo di aiutare voi e chi vi sta a cuore»
«Vedete, Alexandre, io sono stata molto scortese con voi
l'ultima volta ma sono successe troppe cose e io... oh, monsieur! Come
posso essere io di aiuto a chi mi sta a cuore se in questo momento non
sono nemmeno in grado di aiutare me stessa!»
esclamò Christine.
Il giornalista deglutì e le posò una mano sulla
sua. La mano del ragazzo era calda su quella di lei completamente
gelida, per un attimo la ragazza provò la stessa sensazione
di conforto che in passato le aveva fatto provare Erik standole
accanto, ma si costrinse a scacciare quel pensiero dalla mente.
Le faceva troppo male pensare a lui, e più di ogni altra
cosa, ciò che l'addolorava maggiormente era il dubbio che si
era insinuato in lei nei giorni che erano seguiti al loro tragico e
ultimo incontro: aveva fatto bene ad accusarlo? Era davvero sicura che
fosse stato lui? La sua ragione le rispondeva che sì, non
poteva essere stato nessun altro, troppe coincidenze, ma il suo cuore
vacillava su quella certezza così terribile. Voleva un solo
appiglio, una sola ragione per pensare che fosse il cuore ad avere
ragione e non la sua testa, ma più ci pensava e
più si faceva del male.
«Voi vi sottovalutate» mormorò il
giovane con voce dolce.
Lei scosse il capo,
«Dunque, cosa volete domandarmi?» concluse
sbrigativa.
«Io so come e quanto voi siate coinvolta nella vicenda del
Fantasma»
«È stato Raoul a dirvelo?!»
«Sì, è stato Raoul, ma non siate in
collera con lui. Me lo ha confidato in gran segreto e unicamente per il
vostro bene. E ad ogni modo, permettetemi di dirvi che alcune cose
erano piuttosto palesi»
«Se è di questo che volete domandarmi non vedo che
motivo avete di essere qui visto che sapete già tutto.
Denunciatemi se occorre, ma non tormentatemi con i vostri
interrogatori!» disse Christine.
«No, mi avete frainteso, io non sono qui per
accusarvi» rispose il giornalista. «Sono qui per
aiutarvi. Io ho il sospetto che non sia stato quell'uomo ad aggredire
Josephine, ma per scoprire se i miei sospetti sono fondati ho bisogno
di parlare con chi lo conosce veramente».
La ragazza ebbe un sussulto, il suo cuore si concesse la speranza di
averla vinta e lei strinse un lembo della veste tra le mani, ma in un
attimo l'amarezza le riempì la bocca: conosceva davvero
Erik? Lo aveva accusato, forse ingiustamente, di un'azione ignobile...
«Quell'uomo ha un nome, sapete» mormorò
con voce spenta.
«Sì, immagino di sì. Me lo disse anche
lui una volta, ma non mi rivelò quale era»
«Lo avete incontrato?».
Alexandre annuì ma pensò che non fosse il caso di
raccontare della tortura,
«Mi tese una trappola, voleva parlarmi essendo sicuro che io
non potessi nuocergli, tentò di convincermi ad abbandonare
l'indagine» spiegò in tono vago.
«Si chiama Erik» dichiarò Christine
deglutendo. «Quando fui portata qui dopo la morte di mio
padre lui cominciò a farmi visita nel buio e
cominciò a cantare per me. Pensavo fosse il mio Angelo della
Musica, mi insegnò l'arte del canto e solo pochi mesi fa,
dopo la sera in cui mi esibì nell'Annibale mi si
rivelò, mi condusse alla sua dimora, cantò per
me... fu da allora che...»
«La sua dimora?» chiese il ragazzo affascinato.
Lo sguardo di Christine divenne duro,
«Non chiedetemi come arrivarci, ci sono informazioni troppo
pericolose perché possano essere rivelate» disse.
«D'accordo, lasciamo perdere certi dettagli per ora. Ma
ditemi, tenete molto a Erik?». Alexandre
provò uno strano effetto nel chiamarlo per nome, come se il
solo fatto di pronunciarlo rendesse il Fantasma più umano di
quanto lo aveva mai creduto.
«Se tengo a lui? Alexandre, vi prego! So che ha commesso dei
crimini... ma una volta mi ha raccontato la sua storia, è
stato abbandonato da sua madre e cresciuto da una tribù di
zingari che non hanno fatto altro che maltrattarlo, quando è
venuto qui ha trovato il suo mondo, il suo rifugio e avrebbe fatto
qualsiasi cosa per preservarlo» spiegò la giovane
con la voce tremante che tradiva una forte emozione.
«Capisco... ma per quale motivo si nasconde?».
Christine si guardò attorno con aria circospetta, come se
temesse che occhi indiscreti fossero in agguato, che le pareti
potessero udire,
«Lui morirebbe se sapesse che ve l'ho detto»
sussurrò. «Ma il suo viso, il lato destro del
volto è come sfregiato da un'ustione. Sospetto che sia nato
così perché è il motivo per cui sua
madre lo abbandonò».
Alexandre sussultò e si morse il labbro inferiore. Adesso
tutto cominciava a quadrare.
«Ad ogni modo,» concluse Christine, «da
quando ho saputo di Josephine l'ho mandato via, quindi ormai non so
quanto io possa esservi utile»
«Voi pensate che sia stato lui?»
«L'unica cosa che penso è che vorrei che non fosse
così!»
«Molto bene» mormorò il giornalista.
«Allora è giusto che sappiate una cosa. Prima di
andare via, Josephine mi ha detto che il suo aggressore odorava in
maniera molto forte di tabacco»
«Tabacco avete detto?... Erik non fuma, non l'ho mai visto
fumare né ho mai trovato tracce o odore di tabacco in casa
sua» disse la giovane sgranando gli occhi.
Alexandre rimase a bocca aperta. Aveva avuto la conferma che cercava.
C'era bisogno di altre prove, di molti altri particolari per stabilire
con certezza chi fosse l'aggressore della ballerina, ma di una cosa
ormai era certo: non era stato il Fantasma dell'Opera.
«Vi ringrazio della vostra fiducia, Christine. Mi siete stata
di grande aiuto» disse il giornalista alzandosi per uscire.
«Alexandre, non potete immaginare quanto lo siate stato voi
per me!» esclamò lei.
Il ragazzo sorrise, prese una mano della fanciulla e se la
portò alle labbra in un tenero baciamano.
«Sapete,» aggiunse prima di uscire,
«avevo un fratello, purtroppo è morto piccolo, ma
anche lui si chiamava Erik».
*
Madame Giry aveva l'orlo del vestito completamente zuppo, il freddo
pungente le era penetrato fin dentro le ossa. Era andata in chiesa a
confessarsi, era troppo tempo che non lo faceva e aveva bisogno di
chiedere perdono a Dio.
«Perdonatemi Padre poiché ho peccato»
aveva detto inginocchiandosi nel confessionale.
«Vi ascolto, figliola» aveva risposto il prete
aprendo la grata.
«Ho peccato di troppo amore e di troppa premura mettendo in
pericolo degli innocenti...».
Il prete che aveva ascoltato la confessione l'aveva assolta,
«La verità è sempre la strada migliore.
Vedete, anche se genera tempeste, la quiete che ne segue è
l'unica vera pace a cui una persona debba aspirare»
così le aveva detto prima di lasciarla andare.
La donna tornò all'Opera pensando che il prete avesse
ragione, ma c'erano modi e modi di far conoscere una verità
e lei doveva trovare quello migliore.
Quando nel pomeriggio decise di bussare a quella porta, lo fece
sperando che quella fosse davvero la soluzione più
appropriata. Forse era rischioso, ma se tutto fosse andato come credeva
allora avrebbe risolto più di un problema.
«Christine, posso entrare?» disse aprendo
discretamente la porta.
«Eloise, venite pure» rispose la giovane.
«Cosa hai, bambina? Hai una faccia così crucciata.
La faccia di chi ha pensato a lungo, probabilmente troppo»
«Ho pensato che sono una sciocca... non credete?»
sussurrò la ragazza.
«Credo che tu sia una persona che ogni tanto commette i suoi
errori, come tutti» rispose Madame Giry.
«Perché non mi avete aiutato a capire quanto ho
sbagliato ad accusare Erik?!».
Eloise fu piacevolmente colpita da quelle parole e concesse alla
ragazza un tenero sorriso materno,
«Perché ormai era tardi quindi tanto valeva che tu
arrivassi a capirlo da sola. Ma niente è irreparabile mia
cara» disse.
«Lui ora mi odia!»
«No, sono certa che non è così, ma
è proprio di Erik che devo parlarti».
Christine annuì,
«Oggi è venuto a farmi visita monsieur Dubois, lui
mi ha detto che Josephine ha raccontato che il suo aggressore odorava
fortemente di tabacco... è stato lì che ho
compreso ciò che il mio cuore ha sempre saputo»
spiegò.
«Alexandre! Benedetto ragazzo! È di lui che devo
parlarti» esclamò Madame Giry chiudendo gli occhi
come a cercare dentro di sé la forza per cominciare quel
discorso.
«Ma avevate detto che volevate parlarmi di Erik...»
«Sì, per l'appunto. È
complicato...».
Christine guardò la donna senza capire, tuttavia si sedette
accanto a lei e la pregò di continuare. Eloise estrasse
dalla tasca l'ultima lettera di Erik che lei il giorno prima si era
rifiutata di consegnare ai direttori. La fanciulla la lesse
rapidamente, poi la rilesse con più attenzione e la
lasciò cadere a terra con un gemito angosciato.
«Lui in questo momento è molto
arrabbiato» spiegò Madame Giry.
«Mio Dio! Che cosa ho fatto!» esclamò
Christine coprendosi il volto con le mani.
«Ascoltami, figlia mia, ascoltami, perché quello
che sto per dirti è molto importante»
asserì la donna scuotendo la sua interlocutrice.
«Più grave ancora della collera di Erik
è la persona contro cui lui l'ha indirizzata, e non parlo di
quell'essere viscido di Bertrand, ma di Alexandre»
«Oh certo... certo, capisco, sarebbe una disgrazia se Erik
facesse del male a una così brava persona»
«No, non è solo questo. Erik non deve fare del
male a quel ragazzo, e non solo perché è una
brava persona»
«Non vi seguo, Eloise».
Madame Giry sospirò,
«Erik e Alexandre sono fratelli» disse lentamente
per assicurarsi che la fanciulla comprendesse a pieno il senso di
quella frase.
«Ma cosa dite?» mormorò Christine dopo
qualche secondo di silenzioso stupore. «È
impossibile»
«A quanto pare non lo è. Ora ti
spiegherò ogni cosa ma bada, bambina, bada che lui non venga
a sapere... non adesso».
Christine ascoltò in silenzio la spiegazione di Madame Giry.
La donna le raccontò della discussione con la madre di
Alexandre e di come lei stessa avesse capito che Erik era in
realtà il figlio che aveva abbandonato ancora in fasce.
«Ora comprendi il motivo per cui Erik deve essere
fermato?» concluse Eloise guardano la ragazza negli occhi.
Dal canto suo Christine era sconvolta.
«Avevo un
fratello... morto bambino... si chiamava Erik»
Le parole di Alexandre le ronzavano in testa ripetendosi in un'infinita
eco nei suoi pensieri. Ecco perché quel ragazzo le era
sempre sembrato così familiare, ecco perché tante
cose di lui l'avevano intenerita, ecco perché aveva da
sempre provato una sorta di affinità verso quel giornalista:
senza saperlo aveva notato in lui una forte somiglianza con l'uomo che
aveva imparato ad amare, una somiglianza talmente profonda che non
poteva essere il frutto di una mera coincidenza.
«Ma quindi Alexandre non sa nulla, non sospetta minimamente
che l'uomo sul quale sta indagando sia...» domandò
con voce tremula incapace di completare la frase.
«No, povero ragazzo, e come potrebbe mai immaginare una cosa
del genere?» rispose Eloise scuotendo il capo.
«Ma voi siete davvero convinta che sia giusto che Erik non
sappia?... Mio Dio, se fosse davvero successo qualcosa a quel
giornalista... ah, non voglio nemmeno pensarci!»
«Christine, ascoltami, questa rivelazione è stata
talmente sconvolgente anche per me... io non so come lui potrebbe
reagire, adesso meno che mai, adesso che è così
scosso»
«Credete davvero che Erik possa fare del male ad Alexandre o
peggio, a sua madre?»
«Non chiamarla in quel modo!» esclamò
Madame Giry con un gesto stizzito. «Una donna che mette al
mondo un figlio e poi lo abbandona non è degna di essere
definita madre! Tuttavia, arrivati a questo punto, non è il
male che Erik può fare che mi preoccupa, quanto quello che
può subire. Ha un cuore molto forte per essere sopravvissuto
così a lungo nella sua condizione, ma sono certa che anche
la sua forza d'animo conosca dei limiti, e io non voglio vederlo
crollare, non lo sopporterei».
Il pianto pizzicò gli occhi di Christine come uno spiritello
dispettoso ma lei ricacciò dietro le lacrime e si
alzò in piedi quasi meravigliandosi che le ginocchia la
reggessero ancora.
«Ad ogni modo, Erik va fermato... tu sei la sola che
può convincerlo a ragionare» disse Eloise.
«E voi credete che mi darà ascolto? Ora che l'ho
deluso così profondamente...» rispose Christine
con la voce incrinata dal rammarico.
«Si è disposti a perdonare molte cose quando si
ama. Bambina mia, non c'è tempo da perdere».
La ragazza non aveva bisogno di sentire nient'altro. Con gesti rapidi
si infilò il cappotto e uscì, diretta in Rue
Scribe.
_______________________________________________
NOTICINA: il titolo del capitolo è un verso di una canzone
di Fabrizio De Andrè che ritornerà poi nella
seconda parte.
Ci si legge dopo Pasqua
con la continuazione. Nel mentre vi faccio i miei migliori auguri di
buone feste.
Capitolo reinserito il
28\12\2011
|
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Capitolo 21 *** La certezza di aversi (parte seconda) ***
Sono le due di notte e
io, colta da insonnia, desidero: un gelato al cioccolato con panna
montata, un cucciolo di carlino, un massaggio alla schiena, una casa in
riva al mare e un'eutanasia... non necessariamente in questo ordine.
Dopo aver esteso le mie lamentazioni lamentose anche al web,
comincio con il ringraziare i lettori e i recensori del delirio.
@ Keyra93: Fosse per me Chirstine dovrebbe essere fustigata!
Ma le esigenze di coerenza di trama mi impongono scelte più
soft... però io l'avrei messa a strisciare sul paviemnto di
pietra della Dimora sul Lago per tutta la notte!!! Comunque sia, per
tutta l'altra accozzaglia di personaggi: abbiate fede! Detto
ciò, la fanfiction era quasi finita quando ho cominciato a
psotarla, poi ha subito una battuta d'arresto, in questi gironi mi sto
occupando di buttare giù gli ultimi capitoli.
@ Angelsee: *riverenza*. Grazie :-)
@ Amy: io sono una grandissima fan di Faber e in quanto
napoletana (napoletana in esilio, ma sempre napoletana) Don
Raffaè la canto anche meglio di lui U_U (che poi sono
stonata come un campanile intero, ma son dettagli...). Veniamo a noi...
si, madame Ginette è figlia del suo tempo, per questo ho
pensato che la piega da soap-opera della fanfiction non stonasse
più di tanto, però non mi stupirei se nessuno le
dedicasse mai un fan club XD. Alex è un pò il
personaggio che fa le mie veci (Alessandra\o e derivati sono
sempre i nomi che scelgo per i miei alter-ego scrittori in effetti), e
anche io, da quasi giornalista, avrei una gran voglia di far venire i
nodi al pettine, quindi sono contenta che il personaggio funzioni
così com'è, mai personaggio originale mi venne
così naturale! (Per la storia sui vampiri lontana
dall'universo "twilightiano"... ti dirò, ci sto lavorando,
ma è un progetto in alto, altissimo mare... ma mai dire mai
^^)
Detto ciò, vi lascio al nuovo capitolo e
vi auguro una buona domenica.
**************
CAPITOLO DICIOTTESIMO - PARTE SECONDA
La certezza di aversi
Erik disegnò lo schizzo di una figura indefinita con gesti
rapidi e imprecisi. Linee nere di carboncino su un foglio di carta
ruvida.
Cercava di tenersi impegnato, di non pensare. C'era sempre riuscito
fino a quel momento, avrebbe potuto continuare a farlo ancora...
La Dimora sul Lago era in disordine come non lo era mai stata. Fogli
accartocciati gettati a terra, vestiti lasciati sugli sgabelli, pagine
di pentagramma buttate scompostamente sulla tastiera dell'organo, libri
accatastati sugli scaffali. I frammenti dello specchio rotto ancora sul
pavimento con accanto ancora le poche gocce di sangue che erano cadute
dal taglio che il Fantasma si era inflitto, minuscole impronte
vermiglie del passaggio della pazzia.
«Erik!».
Quando quella voce echeggiò nella grotta in tutto il suo
tenero tormento, l'uomo sollevò il capo con uno scatto, non
voleva credere che fosse lei, era solo un brutto scherzo che la sua
fantasia gli aveva giocato, un sadico tranello della sua mente.
Ma quando vide con la coda dell'occhio la sagoma flessuosa di Christine
comparire accanto a lui si costrinse a fare appello a tutto il suo
sangue freddo e trovare la forza di rispondere, di farle vedere la sua
rabbia.
«Cosa vuoi? Sei venuta a continuare a insultarmi? Una volta
non ti è bastata?» disse con freddezza, senza
nemmeno voltarsi a guardarla.
«Sono venuta a chiedervi perdono» rispose lei
ancora con il fiato corto per l'essersi precipitata di corsa fin
lì.
«Per aver creduto, ancora una volta, che io fossi un
mostro?»
«Per non essere stata capace di essere diversa da tutti gli
altri... vi prego, io ero sconvolta! Non ero lucida, non ero in grado
di valutare la situazione...».
Erik lasciò cadere il foglio sul piano dello scrittoio
«Come se non mi conoscessi! Come se io non fossi l'uomo con
cui hai passato tanto tempo negli ultimi mesi! Come se davvero potessi
essere capace di uno scempio simile!» borbottò
adirato.
«Erik, vi scongiuro, perdonatemi!».
L'uomo rimase in silenzio per qualche secondo, le narici dilatate per
il respiro che la rabbia rendeva affannoso,
«Bene» disse voltandosi verso di lei con calma
gelida. «Apprezzo che tu sia venuta a cercare il mio perdono,
accetto le tue scuse... ora, gradirei rimanere da solo, stavo lavorando
a una composizione»
«Non potete mandarmi via così!»
«E perché mai non potrei? Non abbiamo
più niente da dirci Christine, ti ho insegnato tutto quanto
avevi bisogno di sapere, ti ho dato tutto quello che potevo darti, ora
non hai più bisogno di me, il mio lavoro si è
concluso»
«Per voi ero solo un lavoro? Un modo per avere qualcosa da
fare per non sentirvi solo?»
«Sei ancora qui?! Quale parte dell'espressione: lasciami solo ti
è difficile comprendere?» mormorò lui
sbuffando spazientito.
«Ho sbagliato, non me ne pentirò mai abbastanza...
Dio solo sa quanto merito la vostra collera, ma non riesco a sopportare
tutto questo gelo... io credevo che mi amaste!»
esclamò Christine al colmo dell'esasperazione.
«Fantasioso!»
«Sì, è sciocco... ma io... io invece ti
amo! Ti amo!».
Con un gesto nervoso Erik accartocciò il foglio che aveva
davanti e fissò la ragazza con aria quasi inebetita e senza
dir niente.
Christine faticava a trattenere le lacrime. Possibile che per un errore
lui volesse davvero fargliela pagare così cara?
Prese un profondo respiro e si voltò dandogli le spalle,
«Molto bene» disse prima che la voce cominciasse a
tremare in maniera pietosa. «Ora non abbiamo davvero
più nulla da dirci».
Accecato da un misto di sentimenti contrastanti, Erik vide solo il
lampo chiaro della gonna di Christine che frusciava nel suo
allontanarsi di corsa verso l'uscita.
Era stato crudele con lei, tanto era la rabbia che lo stordiva, ma in
quel momento si rese conto che in quei giorni non aveva fatto altro che
desiderare che lei tornasse, che lei gli dicesse che gli credeva, che
si era sbagliata... che lo amava.
«Aspetta!» le gridò balzando in piedi e
raggiungendola per poi afferrarla per le spalle.
Non le diede il tempo di rispondere o di dire qualsiasi cosa, la
strinse a sé e la baciò. Poteva sentire il viso
bagnato di lacrime contro la sua guancia, si maledisse per averle
procurato tanto dolore. Lei era quanto di migliore aveva al mondo, non
poteva perderla per orgoglio.
Affondò le mani tra i suoi capelli, premendo il
viso contro i suoi meravigliosi riccioli e inspirandone il profumo.
«Perdonami... perdonami...» mormorò lei
nascondendo il volto nel petto dell'uomo, aggrappandosi smaniosamente
alla sua camicia, come se temesse di poter essere strappata via dalle
sue braccia.
«Basta, Christine, basta lacrime, basta dolore... la mia vita
ne ha viste a sufficienza, e ora che ci sei tu non voglio vedere
nient'altro che sia meno bello dei tuoi sorrisi» disse Erik
prendendole il viso tra le mani. «Ti amo, mio piccolo angelo,
ti amo così tanto...»
«Tienimi con te, ti prego. Non farmi mai più
andare via...» lo implorò la giovane
allacciandogli le braccia dietro la nuca.
così fu
quell'amore che dall'ansia di perdersi
ha trovato in un giorno
la certezza di aversi
*
Erik aveva immaginato quel momento così a lungo, ma anche la
più fervida fantasia non avrebbe reso giustizia alla
sensazione nuova e meravigliosa del corpo della sua Christine stretta a
lui, del suo arrendersi docile alle sue carezze e ai suoi baci, prima
incerti e ora così pieni di urgenza e di voluttà.
La consapevolezza dell'amore è qualcosa di talmente grande
che quasi non lo si avverte, così come gli occhi non
riescono a catturare tutta l'ampiezza del cielo con un solo sguardo.
La consapevolezza di quell'amore poi li aveva travolti in unico
istante, gettandoli in una corrente di sensazioni così forti
da fargli perdere la cognizione di se stessi, del mondo, di ogni cosa.
Christine si sottrasse per un attimo a quella meraviglia dell'anima per
guardarsi attorno. Vide lo specchio infranto, vide gli oggetti in
disordine e sorrise tristemente avvertendo nel suo cuore quanto male
avesse patito Erik in quella settimana senza di lei ma rendendosi conto
di quanto era importante, di quanto lei fosse davvero l'unica cosa che
contasse nella vita di quell'uomo.
«Mi dispiace così tanto per quello che
è successo...» mormorò.
Lui sorrise, di un sorriso radioso che lei non gli aveva mai visto
prima,
«Non importa, è passato. Adesso che sei qui non
importa più» le rispose.
La fanciulla sapeva che doveva parlare ad Erik della lettera, delle
minacce di morte contro Alexandre e contro Bertrand, doveva impedire a
tutti i costi che lui facesse del male a quel ragazzo, ma in quel
momento non riusciva a pensarci. Ogni volta che cercava di concentrarsi
e mettere insieme le parole per intraprendere quel discorso i suoi
pensieri si disperdevano in frammenti di vuoto mentre Erik la stringeva
e tornava a cercare le sue labbra.
La ragazza tentò una carezza ardita e un po' goffa facendo
scorrere le mani sotto il tessuto di batista della camicia dell'uomo.
Sentì la sua pelle farsi d'oca in un brivido sotto le sue
dita che scivolavano sul petto come a cercare di rubare il calore del
suo corpo e conservarlo nei suoi palmi come un ricordo per i giorni
più tristi e freddi che sarebbero potuti arrivare.
Erik le prese il mento tra l'indice e il pollice e le scostò
una ciocca di capelli dal viso,
«No, Christine. No se non vuoi» le
sussurrò.
Lei lo voleva, lo aveva sempre voluto, forse ancora prima di scoprire
quanto lo amasse. Erano stati solo i dubbi e le paure a frenarla, ma
ora quei dubbi non avevano più ragion d'essere.
Se solo non fosse stata così insicura su come comportarsi in
quel momento, su cosa fare! Arrossì e distolse lo sguardo da
quello dell'uomo sentendosi così inadatta e fuori posto. In
passato le era capitato di trovarsi coinvolta nelle discussioni delle
ballerine più grandi che raccontavano delle loro liaison con
i ricchi signori del pubblico che si innamoravano vedendole in scena.
Aveva sentito tante di quelle storie di amori rubati, brevi come
stagioni imprecise che non lasciavano alcun segno. Ma ora si rendeva
conto che la realtà era ben diversa, e nella
realtà le sembrava di essere solo una ragazzina incapace di
amare un uomo.
Erik si ritrasse appena e la guardò con tenerezza. Non
conosceva l'amore delle donne e credette che i dubbi che Christine
aveva su se stessa fossero in realtà un altro rifiuto.
«Aspetterò,» le disse tranquillo,
«tutto il tempo che vorrai».
La ragazza arrossì ancora più violentemente e
strinse una mano attorno al braccio dell'uomo come per trattenerlo,
«Non c'è nulla da aspettare...»
mormorò al colmo dell'imbarazzo. «È
solo che io...»
«Neanche io» ammise Erik indovinando il corso dei
pensieri di Christine.
La ragazza riuscì finalmente a sollevare lo sguardo e a
fissarlo senza riuscire a trattenere lo stupore.
«Vorrà dire che lo scopriremo insieme»
mormorò l'uomo accarezzandole la guancia con il dorso della
mano.
Christine si strinse di nuovo a lui, emozionata e con il cuore in gola.
Erik la sollevò tra le braccia e la adagiò sul
letto per poi stendersi accanto a lei.
Le accarezzò lentamente il fianco e le posò una
mano sul grembo, la sentì tesa, agitata mentre gli stringeva
le mani attorno alle spalle tirando il tessuto della camicia.
Le baciò la fronte, le palpebre socchiuse, la guancia per
poi scendere fino al collo e la sentì sussultare quando le
posò le labbra sulla gola.
Christine gli accarezzò i capelli e lo costrinse a sollevare
il viso per togliergli la maschera che lasciò cadere sul
pavimento.
«Non voglio che tu ti nasconda, non con me. Voglio poter
guardare l'uomo che amo!» esclamò prima che lui
potesse protestare in qualche modo.
Erik rimase fermo come se avesse bisogno di abituarsi all'idea che
degli occhi potessero guardare il suo viso senza provare orrore.
Christine gli posò un bacio sul sopracciglio destro, sulla
pelle martoriata da quella piaga mostruosa e lui avvertì un
brivido di piacere che gli fece quasi dimenticare di ciò che
aveva nascosto alla vista del mondo per tanti anni.
Cominciò a sciogliere i nastri che tenevano chiuso il
vestito di Christine sul davanti baciando famelico ogni angolo di pelle
che scopriva mano mano che l'abito veniva sfilato via e
sentì le dita della ragazza stringersi tra i suoi capelli in
una tacita preghiera di non smettere con quella tortura tanto
piacevole.
Lei aveva odore di sapone, dell'olio di gelsomino tra i capelli. Erik
pensò che avrebbe potuto impazzire.
L'uomo gettò via la sua camicia e il vestito di Christine
che rimase solo con la sottoveste candida. Un frammento di paradiso tra
il raso delle lenzuola color porpora.
La ragazza sussultò quando Erik le accarezzò la
gamba scostando la stoffa della sottana e le depose un bacio
nell'incavo del ginocchio.
Lei gli avvolse il torace con le braccia e lo fece stendere sopra di
sé inarcando leggermente la schiena per aderire
contro il suo corpo, mentre lui le scopriva il petto magro e le baciava
i seni.
Christine si lasciò scappare un gemito e lui
azzardò una carezza risalendo con la mano verso l'interno
coscia.
«Erik...» sussurrò lei inarcandosi e
facendo sfiorare il bacino contro quello dell'uomo che si
scoprì incapace di resistere oltre.
«Ti voglio, Christine» le mormorò sulle
labbra sfilandole gli ultimi indumenti rimasti.
Senza allontanarsi da lei si slacciò i calzoni e si stese
tra le sue gambe, puntellandosi sugli avambracci e nascondendo il viso
nell'incavo della sua spalla,
«Guardami» lo implorò Christine.
Avrebbe voluto dirle di fermarlo se qualcosa non andava ma sapeva che
non ne sarebbe stato capace. Era come se lei fosse diventata una
presenza eterea che aveva sommerso di luce ogni angolo del suo mondo
buio senza lasciargli altra possibilità che perdersi in
quella marea. L'impossibile, l'insperato che diventava reale tra le sue
mani gli dava la sensazione che non ci fosse nient'altro, che non ci
fosse stato nient'altro, nessuna cicatrice né sul suo corpo
né sul suo cuore.
«Erik, guardami» mormorò di nuovo la
fanciulla accarezzandogli il viso, lui sollevò lo sguardo
allacciandolo a quello di Christine nello stesso momento in cui la
prese con una rapida spinta dei fianchi.
La giovane sussultò e gli graffiò la spalla
lasciandosi scappare un lamento rauco.
Erik rimase paralizzato nel vedere il volto di Christine contrarsi in
una smorfia di dolore e si fermò sollevandosi sui palmi
delle mani,
«Mi... mi dispiace...» mormorò in un
tono così incerto e mortificato che lei ne fu quasi stupita.
La ragazza tentò di dimenticarsi del dolore che le aveva
attanagliato il bassoventre e gli passò una mano tra i
capelli per rassicurarlo,
«Va tutto bene... non fa niente» disse.
«Non fermarti, ti prego»
«Io non voglio farti del male» rispose lui con aria
smarrita.
«L'amore non può fare male».
Christine si spinse in avanti con il bacino aderendo ancora di
più al corpo dell'uomo come a invitarlo a continuare. Voleva
essere sua, solo sua, senza riserve e senza paure. Sapeva che per una
donna la prima volta era sempre dolorosa, così le avevano
detto, ma non le importava, il dolore sarebbe sparito lasciandole solo
l'avvolgente sensazione di appartenere completamente all'uomo che amava.
Erik si mosse con più delicatezza spiando con ansia il volto
di Christine che stavolta corrugò solo leggermente le
sopracciglia e chiuse gli occhi per un attimo, per poi riaprirli e
regalargli un meraviglioso sorriso colmo di dolcezza.
Ci volle qualche minuto prima che lei si rilassasse completamente,
l'uomo la osservava sempre con molta attenzione, cercando di muoversi
senza procurarle fastidio, ma poi fu la ragazza a assecondare i suoi
movimenti con spinte decise dei fianchi come per incoraggiarlo,
aumentando il ritmo di quel cercarsi che ora sembrava così
naturale, così giusto. Qualcosa di così
profondamente loro che non poteva essere in nessun altro modo, con
nessun'altra persona, in nessun altro luogo.
*
Alexandre si sciacquò la faccia in un catino, l'acqua era
gelida. Quando rialzò la testa vide una sagoma scura
riflessa nello specchio alle sue spalle.
«Ah, siete arrivato, Bertrand» disse il ragazzo
tamponandosi la faccia con un telo di lino.
L'investigatore si sfilò il pesante cappotto scuro e lo
appese a un gancio fissato alla parete,
«Vi sentite bene, Alexandre?» chiese, sfilando
dalla giacca il suo portasigari.
Il giornalista fissò la scatoletta argentata e le dita
dell'uomo che ne estraevano un sigaro color ocra,
«Da dove vengono?» chiese con fare incuriosito.
«Non sono un esperto ma so che i sigari cambiano
qualità a seconda della provenienza»
«Naturalmente. Come qualsiasi prodotto della terra, il
tabacco cambia qualità a seconda di dove viene coltivato.
Questi sigari sono italiani, toscani per la precisione. C'è
chi sostiene che quelli che provengono dall'America siano i migliori,
ma io preferisco questi»
«Sì, capisco...» concluse Alexandre con
vaghezza.
«Volete provare?» chiese l'investigatore porgendo
al ragazzo il sigaro appena acceso.
L'odore forte di tabacco che gli arrivò alle narici fece
provare ad Alexandre una sensazione di nausea, tentò di
nascondere una smorfia di disgusto e scosse il capo,
«No, vi ringrazio» disse educatamente.
«Piuttosto, ditemi, cosa avete in mente?»
«Pensavo di parlare con Christine Daae»
«A che pro?»
«Per convincerla a interpretare quella maledetta opera, credo
sia la nostra unica speranza di riuscire a catturare il
Fantasma».
Alexandre arricciò le labbra e sospirò,
«Sì, può darsi. Sarebbe davvero un
peccato se tutti i nostri sforzi, anche quelli più estremi,
non portassero a nessun risultato» mormorò.
Bertrand non colse o fece finta di non notare il tono vagamente
insinuante che il ragazzo aveva usato,
«Esattamente. Dobbiamo solo confidare che il nostro giovane
usignolo sia ancora profondamente adirata con il suo amante».
L'investigatore pronunciò quelle parole con voce calma ma
incrinata da una nota di disprezzo così palese che Alexandre
ne fu infastidito. Quella giovane era libera di amare chi voleva, anzi,
se il Fantasma dell'Opera, se... Erik si era guadagnato l'affetto
incondizionato di un angelo come mademoiselle Daae allora doveva essere
davvero assai meno mostruoso di quanto lo si credeva. E in ogni caso,
Bertrand era l'ultima persona al mondo che poteva permettersi di
giudicare.
«E, ammesso che la ragazza accettasse, cosa vi aspettate che
accada una volta che la rappresentazione sarà messa in
scena?» chiese Alexandre.
Bertrand scrollò le spalle e soffiò nell'aria un
lungo sbuffo di fumo grigio,
«Come ha suggerito il visconte, con la polizia in ogni dove
potremmo avere un considerevole vantaggio sul Fantasma e sulle sue
abilità a sparire nel nulla, e se un gendarme
sarà costretto a sparargli per impedirgli la fuga o per
impedire che commetta qualche altra scelleratezza... beh, vi
dispiacerebbe davvero così tanto se quel mostro tirasse le
cuoia?» borbottò.
Alexandre non rispose ma il suo sguardo si incupì mentre
fissava il suo interlocutore con occhi sottili,
«Sono sempre dalla parte della giustizia» concluse
sbrigativo. «A questo proposito, credete davvero che sia
stato il Fantasma ad aggredire Josephine?»
«Ma naturalmente. Credete che possa esserci qualche altro
sospettato? Se è così ditemelo, è
sempre illuminante discutere con voi delle vostre ipotesi»
«Vedete, sono un giornalista, e questo significa che ho
un'assoluta devozione per la verità. Se c'è un
altro responsabile dietro l'aggressione a quella ballerina state certo
che lo troverò» concluse Alexandre uscendo dalla
stanza dove l'aria gli sembrava essere diventata irrespirabile.
*
Christine si svegliò e si mosse piano godendosi la carezza
delle lenzuola lisce sulla pelle nuda.
Si era addormentata rannicchiata contro il petto di Erik, con la testa
sulla sua spalla.
Sospirò nel momento in cui la nebbia del sonno si dissolse
dalla sua mente e le permise di ricordare le sensazioni che aveva
provato solo poche ore prima: l'anima andare a fuoco, il corpo
esplodere e l'amore stordirla come un tuono a ciel sereno. La pelle
calda di Erik contro la sua, la tenerezza con cui quell'uomo l'aveva
amata, la disperazione delle sue dita che si stringevano attorno ai
suoi riccioli come a volersi convincere che lei fosse davvero
lì, che fosse tutto vero. E il piacere che era sopraggiunto
con la stessa furia di un temporale estivo, con la stessa perfezione
del paradiso.
Ed era tutto come avrebbe sempre dovuto essere.
Christine sollevò il capo per scoprire che Erik era
già sveglio, aveva gli occhi aperti e lo sguardo perso nel
vuoto mentre fissava immobile l'aria davanti a sé.
La ragazza si tirò le coperte fin quasi al collo, non era
riuscita a liberarsi del tutto dall'imbarazzo di ritrovarsi nuda sotto
lo sguardo di un altro. Baciò delicatamente le labbra
dell'uomo e strofinò teneramente il naso contro la sua
guancia, lui accennò un sorriso e le accarezzò i
capelli stringendola un po' più forte contro il suo petto.
«Non sei riuscito a dormire?» chiese Christine
notando che gli occhi di Erik erano stanchi, lui scosse il capo in un
cenno negativo.
La giovane lo guardò in silenzio per qualche secondo
aspettando che lui dicesse qualcosa, ma Erik rimase in silenzio
continuando a tenere lo sguardo fisso verso un punto impreciso.
«A cosa pensi? Sei così distante...»
chiese lei in tono leggermente piccato.
«Pensavo al futuro» rispose lui con un sospiro
profondo. «Avevo fatto una promessa a me stesso, che se non
fossi stato più da solo avrei trovato il coraggio di uscire
di qui e affrontare il mondo. Ma ora temo di essere impossibilitato,
quelli che mi danno la caccia non me lo lasceranno fare...»
«Non essere così pessimista, forse, se continui a
stare attento prima o poi Bertrand si stancherà di darti la
caccia...»
«No, non lo farà. Ormai è diventata una
questione personale, una sfida... e credimi, conosco lo sguardo
determinato e feroce di quell'uomo, so cosa vuol dire perché
è il mio stesso sguardo... io e lui siamo
uguali»
«Non dire sciocchezze... lui è crudele e lo
è per il solo gusto di esserlo, tu invece...».
Christine si interruppe cercando le parole più adatte per
proseguire ma Erik non le diede il tempo di continuare, la
baciò e la guardò negli occhi con aria quasi
commossa,
«Perdonami» le mormorò sulle labbra.
«Non dovrei rovinare un momento così bello con
pensieri tanto tristi». Si alzò, infilò
la vestaglia di seta nera e recuperò la maschera dal
pavimento.
Christine arrossì nel tentare di alzarsi e afferrare la
sottoveste senza scoprirsi troppo. Erik la guardò con la
coda dell'occhio e sorrise intenerito, era così bella e
così dolce nel suo essere intimidita e maldestra. L'uomo si
chinò per raccogliere i vestiti della ragazza e glieli porse
con un sorriso gentile poi si allontanò per lasciare che si
rivestisse senza sentirsi imbarazzata, anche se avrebbe voluto passare
la vita senza fare altro che guardarla.
Quando Christine ebbe terminato di ricomporsi, Erik la prese per mano e
la fece sedere davanti a uno specchio, lei afferrò una
spazzola e cominciò a sistemarsi i capelli ma lui le
bloccò la mano afferrandola con delicatezza,
«Posso farlo io?» sussurrò titubante.
Lei rise e annuì lasciando che l'uomo le sciogliesse i nodi
che si erano formati tra i suoi folti ricci castani. Erik
tentò di non fare movimenti bruschi e di non tirare troppo i
capelli spettinati per rimetterli in ordine.
La ragazza si rilassò sotto quel tocco delicato, quasi
paterno ma di colpo un pensiero molesto le strappò la pace
che il suo cuore aveva ritagliato in quegli attimi così
perfetti: era andata lì con uno scopo, doveva assolutamente
parlare con Erik di qualcosa di molto importante.
«Erik,» esordì deglutendo,
«posso chiederti una cosa?»
«Certamente»
«La promessa che mi hai fatto mesi fa, quella di...
sì, insomma, quella di non uccidere, è ancora
valida, vero?».
L'uomo ristette poi continuò ad accarezzarle i capelli,
«Quando credevo che tu mi avessi per sempre allontanato dalla
tua vita ero così accecato dalla rabbia che avrei fatto a
pezzi quei due insolenti a mani nude, perdona la brutalità
ma è così... ma ora tu sei qui e io non sono una
persona così meschina da venir meno alla parola data, anche
se ti confesso che non mi dispiacerebbe sbarazzarmi di quei
due!» ammise.
«Erik! Io capisco il tuo risentimento ma per quanto quel
Bertrand possa essere un uomo pessimo, c'è Alexandre con lui
e quel ragazzo non merita il tuo disprezzo, è una
così cara persona» protestò la giovane
cercando di mantenere la voce ferma.
«Ah, cielo!» borbottò Erik.
«Sembrate tutti innamorati di lui! Piace davvero
così tanto anche a te?!»
«Per favore, non hai motivo di essere geloso di Alexandre ma
se solo tu potessi guardarlo sotto una luce diversa, provare a non
considerarlo un nemico... sai lui è...»
«È cosa?»
«Beh... lui è... seriamente convinto che non sia
stato tu ad aggredire Josephine, è stato lui ad aiutarmi ad
aprire gli occhi».
Erik si lasciò scappare una risatina stridula,
«E così è a quel giornalista che devo
il fatto che tu sia qui!»
«Sì, in parte sì» ammise la
ragazza voltandosi a guardare l'uomo con aria preoccupata.
Erik la rassicurò solleticandole il mento con l'indice e
sorridendole con aria calma,
«Beh, so anche io che Dubois non è della stessa
risma di Bertrand, ma mi stanno braccando come una lepre e io
dovrò pur fare qualcosa» concluse.
«Raoul... lui mi ha chiesto di cantare nella rappresentazione
del tuo Don Juan. Vogliono allestire il tuo spettacolo per tenderti una
trappola» mormorò Christine incupendosi.
«Ah, e il visconte ha partorito una simile strategia tutto da
solo? Quel damerino è una sorpresa sempre nuova!»
esclamò Erik divertito.
La ragazza gli tirò un leggero buffetto sul braccio
«Smettila di prenderlo in giro... e comunque io mi sono
rifiutata. Per quanto fossi adirata con te in quel momento, non me la
sarei mai sentita di tradirti».
L'uomo rimase pensieroso per una manciata di secondi, poi distolse lo
sguardo da Christine e accennò un ghigno mentre scrutava con
occhi sottili il leggio vuoto sopra la suo organo,
«Erik! Erik, a cosa stai pensando? Mi metti paura quando fai
così!» si lamentò la fanciulla
tirandolo per la manica della vestaglia con fare ansioso.
Lui tornò a guardarla e sorrise senza perdere
quell'espressione furba,
«Allora ecco cosa faremo» disse. «Lascia
che loro pensino ancora che tu sei arrabbiata con me, lascia che
allestiscano la loro trappola e assecondali...»
«Perché? Cosa vuoi fare? Ah ti prego Erik, non
mettere in pericolo nessuno e soprattutto te stesso, io non voglio che
ti accada qualcosa, non potrei sopportarlo!» rispose
Christine con la voce resa alta e tremula dall'agitazione, si
gettò tra le sue braccia e lo strinse.
«Non preoccuparti, mio piccolo angelo, fidati di me e fai
come ti dico. Vedrai...» concluse l'uomo ricambiando
l'abbraccio e posandole un bacio tra i
capelli.
e l'amore ha l'amore
come solo argomento
e il tumulto del cielo
ha sbagliato momento
_____________________________________________________________________
All we
need is love papapapaaaaaa... e non aggiungo altro. La mia avversione
all'accoppiata Erik\Chirstine ha reso particolarmente ostica la
scrittura di questo capitolo... ma del resto, quando cominciai a
scrivere questa fanfiction sapevo a cosa andavo incontro.
I versi in corsivo sono tratti dallo stesso brano da cui ho preso la
frase che fa da titolo al capitolo, come ho detto nel precedente
aggiornamento, trattasi della canzone Dolcenera di Fabrizio De
Andrè.
Capitolo reinserito il 27\12\2011
|
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Capitolo 22 *** let my opera begin! ***
Giornata di aggiornamenti in ogni dove!
Persino la pagina di presentazione dell'autore ho aggiornato!
Come mai?... Diciamo che è un debole tentativo di
reazione all'accidia che mi ha preso in questo periodo. Ma bando alle
ciance!
Giacchè se ne parlava, prima di procedere con il
capitolo vi espongo brevemente la mia teoria sull'accoppiata
Erik\Christine:
In realtà io non ho niente contro la donzella (che
poi ne parlo male, ma è per scherzare XD), semplicemente
credo che la storia sia molto chiara su quali siano le sue inclinazioni
sentimentali, lei NON ama Erik, quasi non lo considera nemmeno come
"uomo" (nel senso materiale del termine), Christine è legata
a lui solo dalla musica ed è solo questo che la affascina e
questa è una cosa che si vede ancora più
chiaramente nel romanzo che non nel musical. Lei ama Raoul ed
è giusto che stia con Raoul, come è giusto che
Chirstine e il Visconte si "oppongano" al Fantasma perchè
lui ostacola il loro amore (che poi lo facciano in modo da risultare la
coppia più odiosa dela storia della letteratura, questo
è un altro paio di maniche). Infatti di solito non mi
piacciono le fanfiction dove Christine cambia idea e torna da Erik,
perchè penso che il personaggio,così come lo vedo
io, non lo avrebbe mai fatto.
Comunque, questa è solo una mia personale
interpretazione della faccenda, del resto storie come il Fantasma
dell'Opera sono belle proprio perchè possono essere
interpretate in modo diverso ;-)
@Keyra93: Ribadisco, fosse dipeso da me Chrichri io l'avrei
fatta fustigare, ma il mio odio sadico per il personaggio soccombe
davanti alle esigenze di trama -.-''
Per rispondere alla tua domanda sul perchè sto
scrivendo una fanfiction su una coppia che non mi piace... si, sono
strana, lo so! XD Ma nelle mie overdosi da visione ripetuta del film mi
chiesi come sarebbe stato se Christine si fosse innamorata di Erik fin
dall'inzio e pensai a questa versione alternativa della storia, poi per
non ridurla a una semplice storia d'amore tra i due inventai Alex e
Berty per complicare le cose... et voilà!
@sidney bristow: Guarda... io metterei su una campagna di
sensibilizzazzione per invitare la gente a scrivere di più
sul Fantasmone, perchè la trovo una storia bellissima e
talmente piena di sfaccettature e soggetta a così tante
interpretazioni personali che offrirebbe un bel pò di
spunti... ma ahimè, qui in Italia non è famosa
come all'estero (considerando che nei nostri teatri non è
mai arrivato il musical... e il musical come forma di intrattenimento
si sta affermando solo di recente nel nostro paese...). Per quel che mi
riguarda, faccio quel che posso, sono contenta che a qualcuno piaccia.
grazie del commento ^^
@Amy: Sono d'accordo con te, tra dire e fare c'è
di mezzo il mare, tenendo conto anche del fatto che è facile
"innamorarsi" di Erik se si pensa alla versione cinematografica di Mr.
Butler, credo sia un pò meno facile se si pensa alla
versione del film muto del 1925, molto più "Lerouxiana". Ma
qui, in questa sezione del sito, è della versione filmica
del 2004 che si sta parlando quindi lascio vagare la mia fantasia in
quella direzione (sindrome di Peter Pan... non fateci caso). Per
inciso, io il romanzo lo odio abbastanza, non come opera letteraria in
sè, ma per la morale che suggerisce, l'idea che i buoni
debbano vincere perchè sono buoni a prescindere dalla loro
vigliaccheria, e che i cattivi meritino il dolore e la sconfitta a
prescindere dalle loro motivazioni, da questo punto di vista preferisco
il musical, perchè è vero che da troppo spazio
alla "romance" ma almeno la storia sembra un pò
più "obiettiva". Ma questo è un discorso lungo e
complesso... e prima o poi lo scriverò un saggio letterario
sul Fantasma dell'Opera (così per diletto da "fan"). PS: Il
racconto sui vampiri è molto più che un pensiero,
è una discreta quantità di pagine sul mio
hard-disck, ma è un lavoretto un pò complesso,
che encessita di tempo e spazio mentale, tutte cose che adesso non ho
XD PPS: anche io di solito faccio il tifo per i cattivi... e
tendenzilamente sono abbastanza perfida... ma io sono un caso a parte
hihihihi :-D
Avevo detto bando alle ciance eh...
Mi ritiro in un angolino e vi lascio al capitolo.
Buona lettura
***********
CAPITOLO DICIANNOVE
“...
let my opera begin!”
Christine era confusa. Camminava distrattamente lungo il corridoio in
direzione della sua stanza.
Erik le aveva detto di assecondare il piano di Bertrand e degli altri,
di aiutarli a mettere in scena il suo Don Juan perché aveva
in mente qualcosa. Forse era qualcosa di veramente preoccupante o,
più semplicemente, lui non era riuscito a resistere alla
vanità, alla voglia di vedere la sua opera prendere vita sul
palco.
La giovane preferì convincersi che era la seconda
motivazione ad essere quella più esatta e pensò
che fosse più bello concentrare la sua mente sui ricordi
delle ultime ore trascorse piuttosto che su funeste preoccupazioni per
i giorni a venire.
Erik l'amava. Non c'era nient'altro che contava in quel momento...
nemmeno lo sguardo inquisitorio di Madame Giry che la stava aspettando
a braccia conserte sull'uscio della porta della sua camera.
«Lo sai che ore sono?» domandò la donna.
Solo allora Christine si accorse che la direttrice del corpo di ballo
indossava la veste da camera ed era avvolta in uno spesso scialle di
lana nera con ricami dorati.
La ragazza guardò verso le alte finestre del corridoio e
vide un cielo blu che da poco aveva cominciato a schiarirsi, si morse
il labbro rendendosi conto che stava arrossendo violentemente,
«Io... ehm... mi dispiace» farfugliò
imbarazzata.
«Ah, Christine! Sai quanto ho dovuto faticare per tenere
Bertrand alla larga dalla tua camera perché non si
accorgesse della tua assenza?» borbottò Eloise
tentando di non alzare troppo la voce. «Hai idea di quanto la
situazione sia tesa in questi giorni e di quanto sia difficile
destreggiarmi tra il teatro, quel maledette ispettore, Erik e la sua
famiglia tornata a rompere le uova ne paniere?! Hai idea di... di... un
momento!». La donna si interruppe sollevando le sopracciglia
e corrugando l'ampia fronte. «Un momento! Ma se sono le
quattro del mattino e se tu ti stai or ora ritirando... questo vuol
dire che hai passato la notte...».
Christine strinse nervosamente un lembo del cappotto tra le mani sudate,
«Sì» sussurrò incapace di
alzare lo sguardo mentre sentiva il volto andarle in fiamme per
l'imbarazzo.
Madame Giry la fissò incredula per qualche secondo,
«Ma... ma tu...» farfugliò confusa per
poi ammutolire.
Se non avesse creduto di poter morire per la vergogna, Christine
avrebbe trovato quell'atteggiamento della sua tutrice assai comico, non
l'aveva mai vista in difficoltà, non l'aveva mai trova priva
della risposta giusta al momento giusto, ma a guardarla così
perplessa e stupita avrebbe potuto dire che Eloise Giry era rimasta
senza parole per la prima volta in vita sua.
Il fischio del vento fu l'unico rumore che si udì nel freddo
corridoio semibuio, poi Eloise tossicchiò e cercò
di riprendere il controllo della situazione,
«Forse non è esattamente affar mio, ma cosa
è accaduto?» domandò.
Christine ebbe un sussulto, era ovvio che la donna intendesse dire:
cosa è accaduto con Erik.
«Beh, io e Erik abbiamo avuto modo di chiarire»
disse deglutendo nervosamente. «E lui mi ha assicurato che
terrà fede alla promessa fatta di non far del male a
nessuno... quindi non dovete preoccuparvi per Alexandre... e poi mi ha
chiesto di accettare la parte nella messa in scena del suo Don Juan...
e...»
«E?...» la incalzò la donna
picchiettando nervosamente un piede sul pavimento. «Aspetta!
Aspetta un attimo, che vuol dire che vuole che vuole che tu accetti la
parte? Quale messa in scena?!»
«Ma sì... vedete... il suo Don Juan, l'opera che
ha composto e che ha fatto avere ai direttori la sera di capodanno,
vuole che sia rappresentata qui all'Opera e che io faccia la parte
della protagonista. Ah ma non temete, sono certa che è solo
per vanità, sapete quanto sia vanitoso rispetto alla sua
arte!»
«Sì, ma tu non crederai che sia semplice
vanità? Credi davvero che non abbia niente in mente, che non
stia architettando una delle sue trovate?»
«Ah, vi prego! Non lo so... ma preferisco pensare che sia
così... io vi prego, non confondetemi più di
quanto già non lo sia»
«Confusa, e perché mai?»
mormorò Eloise con un sorriso furbo.
«Oh, vi scongiuro, non guardatemi così!»
squittì Christine scuotendo il capo e coprendosi il viso con
le mani.
Eloise provò una stretta al cuore, la fitta di dolore
piacevole che sente una madre nel rendersi conto che la sua bambina
è diventata una donna. Ristette per un attimo ma poi scosse
il capo e guardò Christine con un sorriso colmo di tenerezza,
«Tesoro mio,» le disse avvicinandosi a lei e
posandole una mano sulla spalla, «non hai niente di cui
vergognarti, se hai fatto ciò di cui eri convinta, spinta da
sentimenti sinceri puoi sentirti in pace con te stessa. Lo so che non
è quello che una madre dovrebbe dire, che dovrei farti un
discorso sulla morale e sull'onore, ma in questo frangente preferisco
pensarmi più come un'amica che come una madre, preferisco
parlare alla donna che ho davanti adesso e non alla figlia che ho
tenuto fra le braccia in passato».
Christine sollevò il capo sbigottita da quelle parole e dal
tono soave e sincero con il quale erano state pronunciate,
«Oh Eloise!» esclamò commossa mentre gli
occhi le diventavano lucidi. «Eloise, se sapeste quanto lo
amo, se ci fosse modo di farlo vedere a voi, al mondo...».
La fanciulla si gettò tra le braccia di Madame Giry e si
strinse a lei tremando per l'emozione.
«Ah ma io lo so, lo so quanto lo ami»
sussurrò la donna accarezzandole i capelli. «E
sono certa che è un amore così grande e puro che
risplenderebbe agli occhi del mondo se solo il mondo avesse occhi
avvezzi a notare la maestosità delle cose veramente
grandi»
«Lo... lo credete davvero?» rispose la giovane.
«Oh sì! Mi dispiace solamente di non essere stata
più solerte nell'affrontare certi discorsi con te prima
d'ora!» esclamò Madame Giry con una punta di
ironia.
Christine ridacchiò tra i singhiozzi flebili, poi si
asciugò le lacrime con la manica del cappotto e si
staccò dalla donna. Elosie le cinse le spalle con un braccio,
«E adesso, dammi l'illusione che tu sia ancora la mia bambina
e lascia che ti metta a letto» concluse spingendo
delicatamente Christine verso la sua stanza.
*
Erik finì di dare la cera al suo violino, gettò
via il panno lercio con il quale aveva lucidato il legno e ripose lo
strumento nella sua custodia.
Aveva suonato per Christine, le aveva fatto ascoltare una melodia che
aveva fatto tornare la mente della ragazza a tanti anni prima. Lei non
aveva dimenticato quella musica e nemmeno lui. Era stato grazie a
quella melodia che l'Angelo della Musica aveva potuto trovare la sua
bimba smarrita.
Era accaduto tutto la mattina di Pasqua, quasi dieci anni prima. Il
teatro era deserto nei giorni di festa, le ballerine del collegio erano
andate via per passare la ricorrenza pasquale con le loro famiglie.
Solo lei era rimasta lì, lei che una famiglia non l'aveva
più e non aveva altra casa che l'Opera Populaire.
Si era rintanata nella cappella del teatro, aveva acceso una candela
davanti alla fotografia di suo padre e aveva pianto. Singhiozzi
sommessi e leggeri come il respiro di un anima ferita.
Lui aveva sentito quel pianto fare eco in un cunicolo che passava
proprio di fianco alla cappella, il corridoio nascosto che il Fantasma
dell'Opera usava per raggiungere indisturbato le cucine del collegio.
Aveva sentito quei singhiozzi e lo avevano commosso così
tanto che avrebbe potuto giurare che persino le pareti del teatro
stessero sanguinando. Aveva sentito il cuore stringersi in una morsa di
tristezza ed era stato come scoprire di colpo di essere vivo, di avere
un'anima capace di emozionarsi, di provare compassione come quella di
qualsiasi altro uomo e non di un essere fatto di nulla e buio come
spesso pensava di essere.
Aveva seguito quel suono tanto straziante quanto dolce ed era arrivato
in corrispondenza della cappella. Lì nella parete del
cunicolo che lo separava dalla stanza, c'era un piccolo foro dove
probabilmente era stato fissato il gancio per sostenere qualche lampada
e che ora non c'era più. Era da lì che l'aveva
vista la prima volta, un esserino avvolto in uno scialle, con i
riccioli ribelli che spuntavano dalla cuffia di cotone che serviva a
tenerli raccolti.
«Papà,» aveva detto la bambina con voce
lamentevole, «papà... perché l'Angelo
della Musica non è venuto da me? Sono forse stata
cattiva? Avevi promesso che sarebbe venuto? Perché non
è qui con me?...».
Erik aveva deglutito, emozionato dalla tristezza della bimba e allo
stesso tempo colpito dal timbro della sua voce delicata e limpida.
«Forse perché non canti mai per lui»
aveva detto per poi pentirsi quasi subito di essersi rivelato
così stupidamente a quella bambina.
La piccola era sobbalzata e si era stretta nello scialle guardandosi
attorno con aria smarrita,
«Chi c'è?...» aveva chiesto con voce
spaventata. «Sei tu? Sei l'Angelo della Musica?».
Erik si era morso il labbro pensando che avrebbe fatto meglio a
mangiarsi la lingua, a zittire e lasciar credere alla bambina di
essersi solo suggestionata. Ma la tentazione era troppo forte... e se
le avesse lasciato credere di essere davvero il suo Angelo della
Musica? Se così facendo fosse riuscito a insegnarle, a fare
in modo che lei manifestasse agli altri il suo genio?
Gli bastò rifletterci pochi secondi. Si disse che poteva
valerne la pena, in ogni caso quella bambina non avrebbe potuto
nuocergli in alcun modo e anche se fosse andata a raccontare di aver
sentito una voce provenire dal nulla, chi mai le avrebbe creduto?
«Sì, sono il tu Angelo e voglio che canti per
me» le aveva risposto.
La piccina si era schiarita la voce e si era asciugata le lacrime, poi
aveva cominciato a intonare una nenia, una canzone che suonava suo
padre sul suo violino. Erik aveva ascoltato attentamente ed era rimasto
affascinato dalla sua voce. «Sì, con la giusta
istruzione,» si disse compiaciuto, «con i giusti
accorgimenti potrà diventare una stella del
canto!».
Quando la bambina smise di cantare lui riprese
«Molto bene, hai una voce davvero bella, ma la prossima volta
che ti chiederò di cantare non farlo restando seduta
lì per terra» asserì. «Devi
stare diritta e mantenere una certa posizione perché la voce
esca perfetta senza toglierti il fiato».
Lei si guardò attorno sforzandosi di individuare il punto da
cui proveniva la voce,
«Ma dove sei, Angelo?» chiese.
«Non c'è bisogno che tu mi veda per ora. Ma se
vorrai, io ti insegnerò a cantare, ti insegnerò
come diventare una grande artista, vuoi?»
«Sì... era quello che diceva sempre anche il mio
papà»
«Molto bene, allora ascoltami con attenzione» disse
la voce. «Ogni giorno verrai qui, un'ora prima di cena, e io
ti insegnerò, ma bada, dovrai essere molto molto
attenta»
«Lo sarò, promesso... ma tu canterai per
me?» domandò la piccola.
Erik sorrise tra sé e sé,
«Tutte le volte che vorrai» concluse.
Era stato tanto tempo fa, eppure quell'attimo era rimasto impresso
nitidamente nella memoria di entrambi. Era stato il primo istante di un
sogno, di una fiaba che aveva illuminato le loro esistenze fino a quel
giorno, fino a quando tutto non era esploso in quella meraviglia di cui
solo l'amore riesce a rivestire le cose.
Erik non aveva dimenticato quella canzone e l'aveva suonata per lei
tante volte, ogni volta che la sua bimba smarrita aveva avuto bisogno
di ritrovare il sorriso e di sentirsi meno sola. E quel giorno, mentre
l'alba sorgeva pigra su Parigi, l'aveva suonata ancora una volta, per
ricordarle che non l'avrebbe mai lasciata e che sarebbe sempre stato
fiero di averla al suo fianco. La sua Christine si era commossa e gli
si era gettata tra le braccia per lasciare che lui l'amasse ancora, per
fargli capire quanto profondamente gli apparteneva e quanto la sua vita
fosse così irrimediabilmente intrecciata a quella di lui.
Era tornato alla Dimora sul lago dopo averla riaccompagnata al teatro,
prima di lasciarla le aveva raccomandato di fare tutto ciò
che le aveva spiegato, esattamente come lui le aveva suggerito. Poi
l'aveva baciata e aveva sentito il cuore stringersi quando l'aveva
vista allontanarsi lungo il corridoio. Infine, una volta
tornato nel suo rifugio, aveva lasciato cadere il mantello sullo
schienale di una sedia e si era buttato sul letto. Si era addormentato
quasi di colpo, cullato dai sogni più dolci di cui le
lenzuola del suo letto avevano ancora il sapore.
*
Alexandre osservava le facce dei direttori del teatro segnate da grosse
occhiaie livide e dai segni evidenti della stanchezza. Il giornalista
aveva la netta sensazione che l'aspetto di Andrè e Firmin
non fosse dovuto alle notti brave trascorse in compagnia di qualche
sedicente ballerina ma piuttosto alla preoccupazione per la sorte del
loro teatro e dei loro investimenti in quella nuova attività
che si stava rivelando nient'altro che una fonte di guai.
«Forse è il caso che cominciamo a fare due
conti...» squittì Andrè in tono
rassegnato. «Se vendessimo il teatro adesso, magari la
perdita non sarebbe così grave, i danni potrebbero ancora
essere contenuti».
Firmin lanciò un'occhiata scettica all'atto di vendita
dell'Opera Populaire che il suo socio aveva tirato fuori dal cassetto
della scrivania e si lasciò scappare una risata stizzita,
«Sì, e chi pensi che lo comprerà mai un
teatro infestato da un Fantasma che ammazza i macchinisti e aggredisce
le ballerine?» borbottò bieco.
Alexandre si massaggiò la nuca e sospirò,
«Beh se si riuscisse a dimostrare che non è stato
il Fantasma ad aggredire Josephine...» suggerì con
vaghezza.
«Quale altra fantasia vi sta ronzando in mente,
Dubois?!» si lamentò Andrè scuotendo la
testa.
«È solo un'ipotesi, come dicevo ieri al mio
collega» precisò il ragazzo facendo un cenno verso
Bertrand. «Se si sapesse che il Fantasma dell'Opera
è meno pericoloso di quanto si crede, la reputazione del
teatro si salverebbe, non credete?»
«In ogni caso,» si intromise Raoul,
«vendere il teatro adesso sarebbe un grosso spreco, non solo
di capitali, ma anche di energie... tutto il lavoro fatto fin'ora per
catturare il Fantasma sarebbe vano»
«Almeno non sarebbe più un nostro
problema» blaterò Firmin lisciandosi i folti baffi
brizzolati.
Alexandre sorrise quasi divertito dalla mancanza di fegato dei due
impresari,
«Beh, forse se ragioniamo insieme, riusciremo a trovare una
soluzione» asserì Bertrand. «Anche se la
mia idea resta sempre quella di tentare di mettere in scena l'opera del
Fantasma, con o senza mademoiselle Daae»
«E, di grazia, monsieur, nella vostra infinita arguzia,
potreste dirci anche dove prendere i soldi per mettere in scena un
simile spettacolo?» sbuffò Andrè.
«Io sarei disposto a finanziarlo»
mormorò il visconte. «Ma senza Christine Daae temo
sia inutile».
In quel preciso momento una leggera bussata di porta interruppe la
conversazione tra i cinque uomini.
«Avanti...» disse Firmin massaggiandosi la tempia.
«Lupus in fabula» mormorò
impercettibilmente Bertrand quando vide Christine comparire sulla
soglia dell'ufficio.
«Buon giorno, signori» disse la giovane avanzando
timidamente mentre gli occhi dei cinque uomini si posavano su di lei.
«Mademoiselle, cosa possiamo fare per voi?»
domandò Firmin contraddicendo quelle parole gentili con un
tono piuttosto brusco.
l giovane si lasciò cadere sulla sedia e si
stropicciò il viso con le mani con aria affranta,
«Perdonatemi, signori, ma io avevo assoluto bisogno di
parlavi» esordì con un tono di voce vagamente
addolorato. «Il visconte, che certo ha di me una stima
più alta di quanto io meriti, mi aveva parlato di una vostra
idea per catturare il Fantasma, un'idea che si sarebbe potuta attuare
solo attraverso la mia complicità».
Andrè e Firmin deglutirono nervosamente, Alexandre e Raoul
guardarono la ragazza con aria stupita e Bertrand socchiuse gli occhi
nel tentativo di contenere un sorriso compiaciuto indovinando
già cosa la giovane stesse per dire.
«Ebbene, io per paura mi sono rifiutata di assecondare quella
che a me sembrava una follia e anche piuttosto pericolosa per la mia
incolumità e forse non solo per la mia! Ma in questi giorni
ci ho pensato molto e ho capito che non c'è altra soluzione
e che anche io devo fare la mia parte per restituire a questo teatro
la serenità che gli è stata tolta
e...» la sua voce si incrinò leggermente mentre
cercava di riprendere fiato.
«Sì?...» la incitò
Andrè sporgendosi verso di lei quasi stendendosi sul piano
della scrivania.
«E... assicurare alla giustizia quel criminale che ha ferito
troppo profondamente ciò che amo» concluse lei.
Un silenzio pesante piombò sulla stanza mentre gli uomini si
guardarono in viso l'un l'altro, ognuno mosso da sentimenti diversi.
«State dunque dicendo che siete disposta ad esibirvi in un
eventuale messa in scena dell'opera del Fantasma per tendergli una
trappola e lasciare che venga catturato?» esclamò
Bertrand.
Christine nascose i pugni stretti per la tensione tra le pieghe della
gonna,
«È quello che ho appena detto» concluse
accennando un sorriso incerto.
«Beh direi che è... una cosa... positiva,
no?» farfugliò Andrè pregustando i
vantaggi che una simile prospettiva sembrava offrire.
«Se lo dite voi!» borbottò Alexandre
scrollando le spalle.
Christine gli rivolse uno sguardo interrogativo mentre Bertrand le
piombava alle spalle,
«Monsieur Dubois ha delle piccole divergenze di opinione con
noi altri» spiegò l'investigatore. «Ma
voi avete dato prova di grande coraggio accettando di prestarvi a una
simile impresa»
«Che noi faremo in modo che non si riveli dannosa per
l'incolumità di nessuno, meno che mai per la tua»
aggiunse Raoul in tono severo lasciando intendere che quelle parole
fossero più un monito per i suoi interlocutori che non una
rassicurazione per Christine.
«Sto solo cercando di fare quello che credo giusto»
rispose lei.
«E noi siamo onorati di ricevere la vostra
collaborazione» le disse Firmin mettendo su il suo sorriso
migliore.
«Bene, signori, attendo le vostre istruzioni, ritenetemi a
vostra totale disposizione» concluse la giovane alzandosi e
apprestandosi a uscire.
Bertrand le posò una mano sulla spalla e strinse leggermente
la presa mentre le si affiancava,
«Non temete, mademoiselle, vi terrò
d'occhio» le sussurrò in un sibilo talmente
agghiacciante che non fu difficile per lei indovinare che si trattava
di una minaccia e non di una rassicurazione.
Alexandre osservò sbigottito mademoiselle Daae uscire
dall'ufficio e si riscosse solo quando Raoul gli pestò un
piede mentre gli passava davanti.
«Non dobbiamo perder tempo, dobbiamo cominciare subito ad
allestire questo spettacolo» esclamò il visconte.
«Io vado immediatamente alla gendarmeria a parlare con il
capitano...»
«Fermi, fermi tutti, signori!» esclamò
Bertrand. «Prima di cominciare ad allestire lo spettacolo e
dare l'annuncio di una nuova rappresentazione qui all'Opera,
è giusto che si calmi il vespaio che l'aggressione della
ballerina ha suscitato, ora come ora, nessuno avrà una gran
voglia di venire qui a teatro o di interessarsi agli
spettacoli»
«Sarà un'ulteriore tragedia per le nostre finanze
continuare a tenere l'Opera Populaire ferma per altre
settimane...» esordì Andrè.
«... ma monsieur Bertrand non ha tutti i torti. Se questa
cosa deve essere fatta, allora che la si faccia come si
deve!» concluse Firmin seguendo i pensieri del suo socio.
«Quando ci saremo liberati del Fantasma avremo tutto il tempo
di risollevarci finanziariamente»
«Dunque ora, tornate a casa e dormite sonni tranquilli, l'ora
della nostra rivalsa si avvicina». Detto ciò
Bertrand si avvicinò ad Alexandre, e gli mormorò
all'orecchio, «E così il nostro piccolo usignolo
ha il cuore spezzato, buon per noi» commentò
sarcastico.
Idiota! Lei non lo sta
tradendo, lo sta aiutando!
«Idiota!» pensò il giornalista
allontanandosi da lui e dirigendosi frettolosamente fuori da
quell'ufficio.
Christine voltò l'angolo del corridoio e si
poggiò con le spalle contro il muro, tirando un sospiro di
sollievo. Era stata convincente, aveva fatto proprio come Erik aveva
detto: era riuscita a far credere a quegli uomini, e soprattutto a
Bertrand, che lei era adirata con il Fantasma e che aveva intenzione di
vendicarsi. Aveva fatto credere di essere loro complice e si era
riconquistata la loro fiducia. Ora non restava altro che aspettare.
La ragazza non aveva considerato che Erik aveva voluto che lei facesse
tutto ciò anche per un altro motivo: se loro l'avessero
creduta disposta ad aiutarli a incastrare il Fantasma e se le cose si
fossero messe male per lui nessuno avrebbe potuto accusarla di essere
in combutta con quello che tutti ritenevano un criminale.
Christine si era limitata a fare solo ciò che Erik le aveva
chiesto, in nome della fiducia cieca che riponeva nell'uomo che amava,
senza pensare alle conseguenze che si sarebbero potute verificare se
qualcosa fosse andato storto.
Erik non le aveva detto cosa aveva davvero intenzione di fare una volta
che la sua opera fosse stata messa in scena, ma soprattutto,
né lui né la fanciulla potevano immaginare di
star andando entrambi incontro alla tragedia, perché nei
suoi calcoli, nemmeno un individuo scaltro come il Fantasma dell'Opera
aveva considerato la furia cieca di chi si era posto uno scopo ed era
pronto a tutto pur di raggiungerlo.
«Christine!» un'esclamazione improvvisa fece
sobbalzare la ragazza che se ne stava ancora lì appoggiata
al muro.
«Alexandre! Mi avete spaventata» disse lei con il
fiato corto.
«Cosa avete in mente, Christine? Cosa state
facendo?» borbottò il ragazzo.
«Sto semplicemente collaborando»
«Certo, ma non con noi! Dopo ciò che ci siamo
detti, dopo aver capito che non è stato il vostro Erik ad
aver aggredito Josephine siete certamente tornata da lui. Dunque
è per lui che vi siete prestata a questa pazzia, non
è così?»
«Alexandre... vi prego, non giudicatemi male»
sospirò la giovane.
«Io non vi sto giudicando! Non capite? Io sto cercando di
proteggervi... di proteggere tutti, a dire il vero, insomma... il
maggior numero di persone possibili» replicò il
giornalista.
Lei sorrise,
«Lo so, lo so, amico mio. E credetemi, io sto facendo
altrettanto»
«Dite? Ma vi rendete conto di che pazzia è mettere
in scena quella rappresentazione?» borbottò lui.
«E vi rendete conto che... Erik, Dio, non mi
abituerò mai a pronunciare questo nome! Vi rendete conto che
lui non può certo essere protetto in un teatro colmo di
gendarmi pronti a sparargli a vista e con Bertrand che gli caverebbe
volentieri il cuore dal petto a mani nude?»
«E voi non vi rendete conto che finché rimaniamo
in questo teatro, non sono né i gendarmi né tanto
meno Bertrand ad avere il coltello dalla parte del manico»
«Santo Cielo! Christine, vi prego, ragionate... io sto solo
cercando di dirvi che non voglio che nessuno si faccia male, meno che
mai voi e chi vi sta a cuore... chiunque esso sia» concluse
il giovane con un sorriso stanco.
La ragazza provò così tanta tenerezza per lui che
dovette fare un grosso sforzo per resistere all'impulso di
accarezzargli la guancia. Ah, se solo lui e Erik avessero potuto sapere
la verità, probabilmente si sarebbero stimati a vicenda,
sarebbero riusciti persino ad amarsi come fratelli!
«Oh, Alexandre, non sapete quanto le vostre parole mi
facciano bene, ma devo chiedervi di fidarvi di me come io mi sono
fidata di voi» gli disse.
Lui la fissò intensamente per qualche secondo,
«E di lui? Posso fidarmi di lui?»
domandò.
«Voi pensate a tenere a bada Bertrand. A Erik ci penso
io» concluse Christine rivolgendogli un ultimo sorriso prima
di voltarsi e andare via.
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Capitolo reinserito il 28\12\2011
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Capitolo 23 *** Nuvole basse ***
Ringrazio Dance
per avermi segnalato che questo capitolo era mancante. Lo avevo postato
all'epoca, ma non so come si era cancellato (forse un mio errore, forse
un errore del server...). In ogni caso lo reinserisco oggi (20\12\2011)
riveduto e corretto.
CAPITOLO VENTESIMO
Nuvole basse
Erano trascorse due
settimane di quella che sembrava essere calma piatta. La calma
apparente di sabbie mobili pronte a risucchiare il suo mondo.
Erik aveva sentito le ore, i giorni scivolargli via dalle mani come
acqua mentre disponeva tutto per la sua ribalta e spiava cautamente i
preparativi per la messa in scena della sua opera che i direttori
avevano cominciato ad allestire, seguendo con estrema precisione le sue
indicazioni. I sarti stavano realizzando i costumi secondo i modelli
che aveva fatto recapitare ad Andrè e Firmin, gli scenografi
stavano costruendo le scenografie che lui aveva personalmente
disegnato: un inferno di cartapesta, specchi e legno.
Lo spettacolo sarebbe stato pronto entro un mese ma i direttori non
avevano ancora deciso quando proporlo al pubblico. L'ombra scura che i
tragici avvenimenti di Capodanno avevano gettato sul teatro sembrava
ancora avvolgere l'Opera Populaire quasi sbiadendo la
luminosità dei suo stucchi, rovinando la seta dei suoi
tendaggi e lo splendore dei suoi marmi.
Il Fantasma dell'Opera aveva deciso e organizzato ogni cosa nei minimi
dettagli, ma non sapeva ancora cosa avrebbe fatto dopo. Non si era mai
dato troppa ansia per il suo futuro, ma quella mattina, osservando
Christine che riposava tranquilla, avvolta tra le lenzuola, si
ritrovò a pensare che doveva cominciare a costruire tutte le
certezze che non aveva mai avuto. Avrebbe voluto vederla sempre
così, serena, placida e meravigliosamente sua...
La fanciulla si mosse senza svegliarsi, girandosi su un fianco e
cercando nel sonno l'uomo che non era più steso accanto a
lei.
Erik scrisse rapidamente un biglietto per i due impresari, ordinando
perentoriamente che uno dei violinisti dell'orchestra venisse
sostituito perché troppo vecchio.
Nel frattempo Christine si svegliò, rimase qualche minuto a
letto crogiolandosi nelle sensazione piacevole del caldo sotto le
coperte e del profumo delle erbe aromatiche lasciate a bruciare nel
braciere sul pavimento di pietra, poi si alzò avvolgendosi
in una vestaglia.
Erano bastati pochi giorni perché l'intesa tra lei e Erik
divenisse perfetta, tanto da non provare più alcun
imbarazzo, alcuna ritrosia, alcuna incertezza: la perfezione che hanno
tutti gli amori appena nati, destinata a consolidarsi o a sfumare con
il tempo. Ma per loro quell'amore sembrava essere l'unico destino
possibile da vivere, anche se il loro orizzonte era denso di nuvole
basse e di miraggi che avrebbero richiesto enormi sforzi per essere
tramutati in realtà.
La ragazza raggiunse Erik chino sul suo scrittoio. Lui non l'aveva
messa a parte dei suoi piani, non di ogni cosa almeno,
perché se lei avesse saputo cosa davvero stava tramando non
lo avrebbe assecondato in quella che certamente le sarebbe sembrata una
pazzia troppo rischiosa.
L'uomo le cinse la vita esile con un braccio e la strinse a
sé appoggiando il capo sul suo petto, la ragazza gli
accarezzò i capelli e sospirò,
«Devo andare...» disse in tono triste. Lui non
rispose, lo sapeva già.
Ci sono sogni contemplati con così tanto ardore, con
così tanta insistenza da sembrare delle vere e proprie
premonizioni. Ogni volta che lei lo lasciava per tornare ai piani
superiori, Erik immaginava un futuro in cui avrebbero avuto una casa,
una famiglia, una vita propria da costruire. E ci pensava
così intensamente da credere che il sogno si sarebbe
avverato già il mattino seguente. Ma ogni giorno rotolava
pigro verso un domani sempre uguale, spingendo la felicità
completa sempre un po' più lontano della sua portata.
«Domani andrà meglio...»
pensò l'uomo, anche quella mattina.
*
La corda tirata troppo a
lungo si era spezzata.
No, non adesso,
maledizione!
Madame Giry prese un grande respiro e si impose di continuare a
camminare. Si tastò il petto tracciando con la punta del
dito la forma del crocifisso del rosario di perle che portava
all'interno del corsetto: Dio non poteva abbandonarla proprio ora.
Si appoggiò al muro e continuò a mandare
faticosamente un piede avanti all'altro.
Devo solo stendermi.
Devo solo riposare.
Mancavano pochi metri per raggiungere la porta della sua stanza eppure
il corridoio sembrò dilatarsi davanti ai suoi occhi mentre
la vista le si appannava. Fece ancora qualche passo sempre
più traballante su gambe sempre più malferme.
Un'improvvisa vampata di calore le salì dal petto al volto
con una scia di rossore che si stendeva dalla scollatura del corsetto
fin sopra alle gote che un attimo dopo sbiancarono di colpo.
Le ginocchia le cedettero come cardini troppo usurati e lei non
sentì altro che il ronzio del suo respiro affannato nelle
orecchie mentre cadeva sul pavimento. Poi fu solo il buio, lampi strani
che fluttuavano dietro le sue palpebre serrate e poco dopo la voce
lontana, lontanissima, di una ballerina che la chiamava in tono
agitato. La sua mente rispose, i suoi pensieri dissero che andava tutto
bene, ma le parole non presero forma sulle sue labbra smunte, il suo
corpo non si mosse, rigido e inerme sul pavimento.
*
Christine cercava di
scacciare la preoccupazione del futuro beandosi della gioia del
presente, del profumo di Erik sulla sua pelle, del ricordo della notte
appena trascorsa tra le sue braccia. Ogni mattina, molto presto,
sgusciava via dalla Dimora sul Lago e tornava nei suoi alloggi. Nessuno
se ne era mai accorto, persino Bertrand ormai aveva smesso di darle il
tormento visto che con quell'ultima recita nell'ufficio dei direttori
si era guadagnata l'approvazione di quell'uomo tanto detestabile che
aveva smesso di sospettare di lei.
Alexandre invece le era parso inquieto e ansioso. In quelle due
settimane le aveva chiesto più volte di fargli incontrare
Erik ma lei si era sempre rifiutata. Temeva che lui avrebbe potuto
considerarlo un tradimento, un azzardo troppo grande e troppo rischioso
per la sua sicurezza, e allo stesso tempo temeva che vedendoli insieme
non sarebbe più stata in grado di mantenere il segreto che
ancora non poteva essere rivelato. Quel segreto al quale cercava di non
pensare perché per il suo giovane cuore diventava
più pesante e spinoso giorno dopo giorno.
La fanciulla raggiunse la sua stanza e sgattaiolò
prudentemente dentro, fece una rapida toiletta e pensò che
avrebbe potuto riposare ancora un paio d'ore.
Si era appena sistemata i capelli quando qualcuno bussò
violentemente alla sua porta,
«Christine! Apri, Christine!» esclamò la
voce sottile e agitata che la fanciulla riconobbe essere quella di
Cloudine, una sua compagna del collegio. Le aprì la porta e
la scrutò perplessa,
«Cosa c'è?» le chiese preoccupata
notando che il viso lentigginoso della sua coetanea era arrossato per
l'agitazione e gli occhi erano lucidi di pianto.
«Meg mi ha chiesto di chiamarti...»
spiegò la ballerina concitata. «Madame Giry... ha
avuto un malore, poco fa... non si è ancora
ripresa».
Christine sussultò. La notizia fu come uno schiaffo in pieno
viso per lei. Si precipitò fuori dalla stanza insieme alla
sua compagna e corse agitata verso la stanza di Eloise.
Aprì la porta con una spinta sgraziata e vide la donna
esanime stesa nel suo letto, con Meg seduta al suo capezzale che
tentava disperatamente di trattenere le lacrime mentre era circondata
dalle altre ballerine che cercavano di rincuorarla con frasi di
circostanza mormorate a mezza voce.
La fanciulla bionda teneva il capo sollevato, le spalle ritte contro lo
schienale della sedia, nella stessa posa dignitosa e sicura propria di
sua madre. Anche in quel momento era chiaro quanto si somigliassero,
quanto fossero entrambe forti e decise, pronte ad affrontare il mondo a
testa alta anche nei momenti più difficili.
Eloise era sempre stata una specie di roccia a cui tutti si erano
aggrappati nei nei loro momenti peggiori, e adesso vederla in quel
letto fu per Christine un vero colpo al cuore. Una certezza che credeva
essere dura come il diamante si era infranta come un cristallo che
aveva rivelato tutta la sua fragilità e il mondo della
giovane sembrò vacillare davanti a quella scoperta: nessuno
è invincibile.
La fanciulla abbracciò Meg e le fece posare la testa sulla
sua spalla. Anche se non erano consanguinee, le due giovani erano come
sorelle, entrambe legate a quella donna dallo stesso immenso e
incondizionato affetto filiale.
«Abbiamo già mandato a chiamare il
dottore,» disse la ragazza bionda con la voce incerta per il
pianto che minacciava di tracimare oltre i suoi begli occhi nocciola,
«ma tu... dov'eri? È un bel po' che non riuscivano
a trovarti»,
Christine si morse il labbro sentendosi colpevole ed egoista.
Così presa dal suo mondo e dalle sue nuove esperienze
sembrava essersi dimenticata degli altri. Si rimproverò di
non essere stata abbastanza attenta da notare quanto la stanchezza e le
preoccupazioni avevano provato l'anima forte di Eloise che infine era
giunta al limite e aveva ceduto.
Il dottore giunse dopo una decina di minuti, fece annusare alla donna
il contenuto di un fiala e lei sollevò debolmente le
palpebre, riacquistando con lentezza coscienza del mondo attorno a
sé, della sua stanza, del volto di Christine chino su di
lei, della mano tremante di sua figlia stretta attorno alla sua.
«È stato un collasso» concluse il
dottore. «Niente di cui preoccuparsi, ma deve stare a riposo
per i prossimi giorni. Cercate di tenerla lontana da affanni e
preoccupazioni, un altro colpo del genere potrebbe non essere
così innocuo»
«Toccherà legarla al letto!»
borbottò Meg pensando al carattere ostinato di sua madre,
alla stessa testardaggine che faceva parte anche del suo modo di essere.
«Staremo molto attente» rispose Christine
ringraziando il medico e accompagnandolo verso l'uscita.
Per quel giorno Eloise rimase a letto. Mangiò poco e non
disse nulla, ma dietro ai suoi occhi stanchi si celavano
un'infinità di pensieri che avrebbero continuato a
strapazzarle il cuore finché tutti i problemi che
circondavano lei e le persone che le stavano care non si sarebbero
appianate.
*
Quella notte Christine non andò a far visita a Erik. Si
incontrarono furtivamente nel pomeriggio, mentre lei tornava dalla
sartoria dove era stata a farsi prendere le misure per il costume che
avrebbe dovuto indossare per il Don Juan Trionfante. Lei gli aveva
raccontato cosa era accaduto quella mattina ad Eloise e gli aveva detto
che quella notte sarebbe rimasta a vegliare su di lei per permettere a
Meg di riposare e di riprendersi dallo spavento.
Durante il pomeriggio Alexandre e Raoul erano stati a far visita a
Madame Giry per informarsi della sua salute, poi erano tornati ad
occuparsi ognuno dei loro affari.
Con il Fantasma dell'Opera che pareva essersi rabbonito e con Eloise
allettata, il teatro sembrava essere una grossa carcassa di marmo e
velluto priva di anima, anche se nessuno sembrava disposto ad
ammetterlo.
La mattina seguente Christine lasciò la stanza di Eloise che
aveva riposato tranquillamente tutta la notte e che aveva riacquistato
colorito.
La fanciulla si recò nella sua camera e si vestì
per uscire. Indossò un pesante mantello di seta scura e
prese un mazzo di fiori che qualcuno aveva lasciato in un vaso,
dopodiché scese nelle stalle.
In mezzo a tutto quel trambusto si erano tutti dimenticati che quello
era il giorno del suo compleanno.
La giovane pagò un cocchiere con una manciata di monete
mentre il sole non ancora del tutto sorto colorava il cielo di Parigi
di riflessi rosati nascosti da una fitta foschia.
«Alla tomba di mio padre, per favore» disse la
ragazza salendo sul calesse e stringendosi un po' più forte
nel mantello per proteggersi dal freddo pungente.
La strada di campagna che portava al cimitero poco fuori il centro
cittadino era piena di pozzanghere e sterpaglie ricoperte di brina. La
foschia serpeggiava sulla ghiaia dando l'impressione che che ogni cosa
fosse sospesa da terra, persino il calesse di legno lucido e nero
sembrava fluttuare percorrendo sentieri immaginari nell'aria.
Il cocchiere si fermò davanti a un grande cancello di ferro
arrugginito.
«Vi aspetto sotto a quegli alberi, mademoiselle»
disse mentre la ragazza scendeva, poi si
allontanò con le ruote che cigolavano
sulla ciottolato.
Christine percorse le vie delimitate da lapidi e monumenti funebri
pensando che al mondo esistevano anime troppo luminose e colorate per
riposare in un posto tanto tetro. Suo padre era una di queste.
Il mausoleo dove riposava Gustave Daae era una costruzione squadrata di
mattoni con il tetto a spiovente, chiusa da una grata di ferro battuto
e preceduta da una scalinata di pietra. Era privo di statue e
ornamenti, solo una scritta con il cognome del musicista in lettere in
bassorilievo campeggiava sulla facciata spoglia.
Christine mise i fiori in un vaso che appoggiò davanti al
cancello e si inginocchiò a terra a pregare.
Pregò così intensamente da non sentire il tempo
trascorrere e il freddo quasi la stordì avvolgendola in un
bozzolo che sembrava tenerla separata dal mondo.
Fu solo quando sentì il suono di un violino che la giovane
si scosse. Non riuscì a individuare il punto da cui
proveniva la musica, per un attimo pensò persino di essersi
suggestionata. Chi poteva mai essere lì nascosto a suonare
per lei?
Erik...
«Erik...» mormorò la giovane mentre
sulle sue labbra affiorava un sorriso intenerito.
Il suo Angelo della Musica, il suo più caro amico e il suo
unico amore era lì a suonare per lei la musica di suo padre:
non avrebbe potuto ricevere regalo di compleanno più bello.
Non voleva nemmeno che lui si mostrasse, voleva che le lasciasse
l'illusione che quella musica fosse una magia scesa dal cielo solo per
lei.
La fanciulla chiuse gli occhi rapita da quella melodia, dalle
sensazioni dolci che le suscitava, ma all'improvviso una voce
tuonò tra la nebbia strappandola a quella magia,
«Christine!» qualcuno gridò il suo nome
e la musica cessò di colpo.
La ragazza sobbalzò e si voltò per vedere
Alexandre che avanzava rapido verso di lei. Quasi non fece in tempo a
riconoscerlo che una figura ammantata di nero si calò
giù dal tetto della cappella e le piombò davanti
nascondendole la sagoma del giornalista che stava per raggiungerla.
Christine riconobbe il profilo di Erik in piedi, di spalle davanti a
lei che sguainava una spada con un ruggito rabbioso.
«No...» mormorò la ragazza talmente
colta di sorpresa da non riuscire a muoversi.
«Maledetto ficcanaso» sibilò Erik mentre
il vento freddo gli gonfiava il mantello.
La giovane si sporse appena oltre la sua spalla per vedere che
Alexandre si era fermato ai piedi della scalinata,
«Aspettate» disse guardando il Fantasma con aria
ferma ma conciliante. «Voglio solo parlarvi. Non siete
così crudele da combattere contro un uomo disarmato, vero
Erik?».
Il Fantasma vacillò. Gli faceva sempre uno strano effetto
sentir pronunciare il suo nome da qualcuno tanto era disabituato ad
ascoltarlo. Sentirsi chiamare per nome da qualcuno gli dava l'illusione
di essere parte del mondo come qualsiasi uomo normale, tuttavia si
chiese come faceva quel ragazzo a sapere come si chiama e si
voltò verso Christine guardandola stupito e leggermente
contrariato.
«Erik, ti prego...» sussurrò lei.
«Cosa vuoi?» borbottò verso il ragazzo
senza che la sua espressione minacciosa si addolcisse e senza abbassare
la spada.
Alexandre si tenne cautamente a distanza, tuttavia lo guardò
diritto negli occhi.
«Voglio sapere cosa state architettando» disse.
«Ero convinto che tu fossi coraggioso ragazzo, ma adesso devo
dedurre che sei completamente pazzo» rispose l'altro.
«Forse, ma non sono l'unico» replicò il
giornalista con una nota di velata ironia nella voce.
Erik restò a guardarlo incredulo. Era davvero coraggioso e
sprezzante. Ed era stato onesto, in un certo senso: avrebbe potuto
portarsi dietro Bertrand o dei gendarmi ma non lo aveva fatto. Era
stato onesto o forse incauto perché, se non fosse stato per
Christine, Erik lo avrebbe ucciso senza pensarci nemmeno un attimo.
Quel ragazzo lo metteva a disagio, il disagio di un cuore che ha
vissuto la sua intera esistenza nella paura e si ritrova davanti a uno
spirito capace di non lasciarsi intimorire. Perché Alexandre
aveva avuto paura, ma non aveva mai permesso che la paura lo
allontanasse dai suoi scopi.
«Quali che siano le mie intenzioni, non ti
riguardano» concluse il Fantasma abbassando la guardia mentre
Christine tratteneva il respiro.
«Perché siete così convinto che al
mondo non c'è nessuno che possa comprendervi?»
insistette Alexandre.
«Proprio tu me lo chiedi? Tu che mi stai braccando come un
cane in casa mia!» esclamò Erik.
«Io sto solo cercando la verità»
«La verità? Ah, per voi altri la verità
è solo ciò che volete vedere. È facile
gridare al mostro quando qualcuno non vede le stesse cose che
vede la gente»
«Voi non siete un mostro». Il ragazzo
scandì la frase lentamente, contro il vento gelido e contro
lo sguardo del suo interlocutore fermo nel suo.
«Se lo credi davvero, Alexandre, lasciami in pace. Lo dico
per il tuo bene» concluse il Fantasma con la voce incrinata
dallo stupore che cercava di non far trapelare.
I due rimasero a fissarsi per lunghi secondi, come a tentare di
scandagliare l'uno i pensieri dell'altro per tentare di capire quale
strana alchimia li faceva sentire così vicini nonostante
fossero nemici, poi Christine avanzò timidamente accanto a
Erik e gli posò la mano sul braccio.
«Forse dovresti ascoltarlo» gli mormorò.
«Provare a fidarti di lui. Lui è...»
«Che cosa?»
«È una brava persona».
Erik sospirò e scese le scale rinfoderando la spada. Si
fermò accanto al ragazzo e si voltò a guardarlo,
«L'unica verità è che voglio vivere la
mia vita, Alexandre» dichiarò con voce ferma.
«E sono disposto a tutto per riuscirci».
Ciò detto il Fantasma si allontanò a grandi
passi, il suo mantello continuò a frusciare tra il nevischio
e la nebbia mentre la sua imponente figura veniva avvolta dalla foschia
per poi sparire come se la sua presenza fosse stata solo l'illusione di
pochi minuti.
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Capitolo 24 *** Il Don Juan ***
Ci ha provato un autista
modenese a mettermi sotto, ma non sono morta...
Qualcuno avrà pensato che fossi scappata ai
Caraibi, qualcuno avrà creduto che finalmente mi avessero
internata, e invece no. Sono semplicemente stata sommersa da studio,
lavoro, rogne burocratiche e analisi mediche tutte insieme.
Rimando le risposte alle recensioni al prossimo aggiornamento
(che spero avvenga prima del 2012 perchè sarebbe un peccato
non arrivare in tempo a postare i capitoli conclusivi del delirio),
intanto ringrazio tutti i seguaci, segugi e seguitori di questa storia
^^
***************
CAPITOLO VENTUNESIMO
il Don Juan
Alla donna la scena parve piuttosto insolita eppure il suo cuore fu
avvolto da un'ondata di tenerezza. Eloise guardava Erik e Christine al
suo capezzale, la ragazza seduta sul bordo del letto e l'uomo in piedi
accanto a lei, come una coppia di sposi andati a far visita a una
vecchia amica. Due anime incapaci di stare lontane, incapaci di
respingersi anche se dai loro volti era chiaro che era successo
qualcosa.
«Vi prego, non ne posso più di vedere musi
lunghi» borbottò Madame Giry massaggiandosi le
tempie.
«E io non ne posso più di vedere certe facce in
giro mentre sono per i miei affari» replicò Erik
brusco lanciando un'occhiata severa verso Christine.
«Ma di cosa stai parlando?» domandò
Eloise corrugando la fronte.
La fanciulla seduta sul letto sospirò
«Ero andata al cimitero a far visita alla tomba di mio padre,
ieri» spiegò scrutando ansiosa il volto della
donna. «Erik era con me, poi è arrivato
Alexandre».
Madame Giry sussultò, lei e Christine si scambiarono una
rapida occhiata mentre Erik sbuffava,
«Quel ragazzo ficcanaso ha delle vere e proprie manie di
persecuzione!» esclamò con un gesto stizzito.
«Senti chi parla!» gli fece eco la donna
rimediandosi un'occhiataccia.
«È così testardo, così
ostinato!» proseguì lui. «Ma a quanto
pare Christine si fida ciecamente, dico bene? Sa persino come mi
chiamo!»
«Sarò pure libera di agire come meglio credo, di
pensare con la mia testa e di accordare la mia fiducia a chi mi
pare!» replicò la giovane.
Madame Giry ridacchiò tra sé e sé
piacevolmente sorpresa di vedere la sua bambina così decisa
e battagliera anche alle prese con Erik.
«Non quando riguarda anche me! Potevi almeno mettermi a parte
di questa tua... concessione di fiducia!» borbottò
lui.
«Non ti ho mai nascosto la mia stima per Alexandre, anzi ti
ho sempre incoraggiato a provare considerarlo sotto una luce diversa.
Ma se trovi che lui sia ostinato e testardo, tu non sei da
meno!»
«Adesso trovi anche che mi assomigli?!»
«Trovo che talvolta dovresti sforzarti di guardare un po'
più in là del tuo naso» concluse
Christine.
«Non c'è niente di più genuino di due
innamorati che bisticciano!» commentò Eloise
sinceramente divertita, anche se l'ultimo commento di Erik sulla
somiglianza con Alexandre le aveva fatto saltare un battito.
Christine sospirò,
«Il dottore ha detto che non devi agitarti, e noi siamo qui a
punzecchiarci come due ragazzini» mormorò
dispiaciuta, poi allungò la mano a prendere quella di Erik
in una tacita di richiesta di tregua, l'uomo ricambiò la sua
stretta e la fissò per qualche secondo.
«Preferirei agitazioni come questa ogni giorno»
rispose Eloise, «piuttosto che un altro tipo di pensieri.
Erik...»
«Sì?».
Madame Giry si morse il labbro come se volesse trattenere le parole che
davano voce a una riflessione che ormai contemplava da diverso tempo ma
che aveva sempre avuto paura di esprimere. Avrebbe fatto male ad Erik
ascoltare quelle parole, così come faceva male a lei
pronunciarle,
«Io credo che tu te ne debba andare» concluse quasi
a fatica, girando il volto in direzione del muro accanto al letto,
incapace di sostenere lo sguardo dell'uomo.
«Come puoi dire una cosa del genere? Proprio tu!»
esclamò lui mentre Christine lo implorava con lo sguardo di
mantenere la calma «E cosa pensi che farei dopo? Oh, no
Eloise, questo teatro è mio, non sono io ad essere di troppo
qui dentro!».
La sola idea di lasciare quel posto che era stata tutta la sua vita fin
da quando era bambino lo terrorizzava più di quanto fosse
disposto ad ammettere. Non era solo un puntiglio, una questione di
orgoglio, per lui vivere lì rappresentava l'essenza stessa
dell'esistere, del respirare, dell'aprire gli occhi e andare in contro
a un giorno nuovo senza sapere cosa sarebbe accaduto.
La donna tornò a guardarlo con aria seria, nei suoi occhi la
durezza si mescolava alla pena che provava pensando a quella situazione,
«Dovresti pensare anche a Christine» gli disse.
«Lei ha diritto a una vita tranquilla... a una vita vera. E
anche tu hai diritto al tuo posto nel mondo».
Erik guardò la fanciulla che non osava parlare e che teneva
lo sguardo basso con espressione confusa.
«Peccato che non ci sia altro posto al mondo in cui io possa
essere me stesso...» sospirò.
«Potresti essere un genio, potresti stupire il mondo
se...»
«Se il mondo mi volesse!»
«Ti prego, non cominciare! Puoi sempre dare al mondo un'altra
chance» disse madame Giry. «Non sei più
un bambino indifeso, smettila di essere così
codardo!»
Erik sussultò e guardò la donna corrugando la
fronte,
«È questo che pensi di me? Che io sia un
codardo?» tuonò rabbioso.
Eloise scattò mettendosi a sedere nel letto,
«Penso che sia ora di smetterla di vivere rinchiuso come una
talpa!» replicò furente.
Christine le posò le mani sulle spalle e la spinse
delicatamente per farla tornare stesa,
«Ti prego, non devi agitarti» le disse in tono
apprensivo, poi si voltò verso l'uomo. «E tu
smettila! In nome di Dio!»
«Non sono io quello che ha cominciato a dire
assurdità!» ribatté Erik.
La giovane sospirò esasperata,
«Molto bene, penso sia arrivata l'ora che noi togliamo il
disturbo» concluse lasciando che Erik si allontanasse
silenziosamente e trattenendosi pochi minuti, fino a quando Madame Giry
non le sembrò essersi tranquillizzata.
Dopo cena Christine raggiunse la Dimora sul Lago. Trovò Erik
intento a ricopiare alcuni spartiti, era così immerso nel
suo lavoro che quasi non la sentì arrivare, fino a quando
lei non lo raggiunse e lo chiamò con voce fioca.
Lui alzò la testa dal leggio e sospirò voltandosi
lentamente verso la ragazza che rimase a qualche passo di distanza,
«Cosa c'è?» chiese lui. «Pensi
anche tu che io sia un codardo?»
«Penso che quando Madame Giry dice qualcosa lo fa
nell'interesse di chi le sta a cuore» rispose Christine
stringendosi nelle spalle.
«Mi sono agitato molto prima... ma è
perché credo che lei abbia ragione. Sono un codardo e
sicuramente tu meriti qualcosa di meglio...»
«Erik, ti prego, non dirlo nemmeno...»
«No, lasciami finire. Ma non è solo per paura che
non riesco a sopportare l'idea di lasciare questo teatro»
ammise. «L'Opera è una parte di me... o forse io
sono sono parte di questo posto». Era così che si
era sentito in tutti quegli anni: un cuore pulsante, pieno di energia
ma che non può vivere separato dal corpo in cui è
racchiuso.
L'uomo si morse il labbro e tese le mani verso la ragazza,
«Ti prego, Christine, abbracciami»
sospirò.
Lei gli si avvicinò e lo strinse forte contro di
sé per fargli sentire tutto il suo calore, tutto il suo
sostegno,
«Io ti amo» gli mormorò. «E
voglio stare con te, qualsiasi scelta farai, in qualsiasi luogo vorrai
vivere».
Erik la baciò con forza, affondando le dita tra i fluenti
riccioli castani.
Le loro vite si appartenevano, in ogni singolo respiro, anche nel
più assopito battito di cuore. E loro ne erano consapevoli,
con una tale violenza che persino la certezza di amarsi alle volte
riusciva a far male.
*
«Quando sarà pronto lo spettacolo?»
domandò Alexandre facendo cadere una zolletta di zucchero
nella sua tazza da tè.
«In meno di un mese. Ma i direttori non lo metteranno in
scena prima di un mese e mezzo» spiegò Raoul
sollevando il piattino di fine porcellana.
Il giornalista annuì con aria distratta, il suo sguardo si
fissò nel vuoto mentre si lasciava sopraffare dalle sue
riflessioni.
C'era qualcosa che bolliva in pentola, il Fantasma non voleva
semplicemente che la sua opera venisse rappresentata, voleva di
più... quella recita sarebbe stata l'occasione per fare
qualcosa, ma cosa?
Sapeva che la risposta avrebbe potuto essere tanto evidente e scontata
che la sua mente non sarebbe mai arrivata a prenderla in
considerazione, così come avrebbe potuto essere una tale
sorprendente macchinazione da non riuscire a prevederla nemmeno se ci
avesse riflettuto per mesi.
Eppure l'altra mattina al cimitero aveva ottenuto una piccola vittoria
su quell'uomo. Lo aveva visto esitare, aveva scorto la sorpresa nel suo
sguardo quando gli aveva detto che non lo credeva un mostro. E il
Fantasma gli aveva parlato non come si fa con un nemico, malgrado ci
fosse tanta diffidenza nel suo sguardo.
Aveva detto che avrebbe persino potuto aiutarlo. Era sincero, lo
avrebbe fatto ma non sapeva come. Non sapeva nemmeno di che genere
d'aiuto lui avesse davvero bisogno. Un complice per scappare dal
teatro? No, probabilmente la fuga non era contemplata nei suoi piani:
il Fantasma dell'Opera sarebbe bruciato vivo insieme al suo teatro
piuttosto che abbandonarlo, di questo Alexandre era più che
sicuro.
O forse non c'era niente da fare, forse quell'uomo tanto geniale non
aveva bisogno di alcun tipo di aiuto, e il giornalista si disse che
questa mania di voler fare a tutti costi qualcosa per lui era solo una
sua personale ossessione. Tutto di Erik lo ossessionava! La voce, i
gesti, lo sguardo, il temperamento. Una sensazione inafferrabile eppure
così forte tanto da essere quasi una certezza, il sentore
che c'era qualcosa tra loro, un legame che si era instaurato
chissà come, chissà perché... qualcosa
che gli era parso talmente assurdo da essere inconfessabile, da credere
di essere davvero impazzito a causa di quella vicenda.
«Alexandre?...» Raoul cercò di
riportarlo alla realtà, lui si scosse e si
stropicciò la faccia.
«Sì, sì, lo so cosa stai per dirmi...
che devo mollare la presa, che questa storia mi farà
ammalare...» blaterò il giornalista scrollando le
spalle.
Il visconte sospirò,
«Ho smesso anche solo di pensarle queste cose»
brontolò. «Contro la tua ostinazione
c'è ben poco da fare. Però ho cominciato a
sentirmi meglio ripetendomi che dopo quella benedetta recita questo
incubo sarà finito. E suppongo che starai meglio anche
tu»
«Beh, dipende da come finirà».
Raoul sospirò,
«Alexandre, amico mio, ho sempre pensato che tu avessi un
cuore d'oro ma, perdona la franchezza, a volte la bontà
indirizzata verso le persone sbagliate diventa stupida»
concluse.
«Non sono un santo, Raoul, ma la bontà, se
c'è, è bontà punto e basta, non
funziona come una lampada che puoi accendere e spegnere quando ti
pare»
«Non ti sopporto quando hai queste uscite così
intelligenti!»
«Ah, sono serio amico...»
«Lo so, ed è per questo che io sono preoccupato,
mi capisci?».
Alexandre sbuffò
«Sono preoccupato anche io, se ti può
consolare» ammise mandando giù un altro sorso di
tè, che preso com'era dai suoi pensieri quasi non aveva
sapore.
Non aveva raccontato a nessuno del suo incontro nel cimitero l'altra
mattina, di come aveva seguito Christine dopo che lei si era rifiutata
più volte di lasciarlo parlare con Erik, di come il breve
dialogo con il Fantasma si fosse rivelato infruttuoso, almeno da un
punto di vista propriamente pratico.
Si disse che sarebbe dovuto andare a parlare con Christine, a scusarsi
se le aveva creato problemi con Erik e se si era intromesso in quello
che sembrava essere un momento così delicato per lei.
Tuttavia, Alexandre decise di finire di bere il suo tè e di
tornare a casa per stare un po' più vicino a sua madre che
ultimamente sembrava sempre più ansiosa e triste ogni giorno
che passava. Gli chiedeva in continuazione notizie su cosa stava
accadendo in teatro, se il Fantasma dell'Opera era tornato a mostrarsi
o se c'era qualche indizio decisivo. Alexandre si era detto che questo
suo interesse per le indagini era solo un modo per tenersi occupata e
per non pensare a ciò che la affliggeva, oppure per
interessarsi a lui ed essere certa che, malgrado la situazione di
precarietà e pericolo, continuasse a mantenere la testa
sulle spalle. Eppure il ragazzo aveva avuto la sensazione che
più lui le raccontava di cosa acceda in teatro
più il malessere della donna aumentava. Alexandre aveva
rinunciato a capire e aveva cominciato a contemplare l'idea di lasciare
Parigi, una volta che quella storia si fosse conclusa. Forse anche a
lui avrebbe fatto bene dimenticare, dopotutto.
*
Un altro paio di settimane trascorse quasi di soppiatto, come se il
tempo si fosse nascosto, travolto dalle tante cose che c'erano da fare.
Più si avvicinava la fine dei preparativi per la nuova
rappresentazione e più le giornate trascorrevano veloci per
tutti quelli che lavoravano nel teatro, sempre più presi dai
loro impegni.
Solo per Alexandre e per Bertrand il tempo sembrava passare come in uno
stillicidio di minuti che trascorrevano incredibilmente lenti. Entrambi
avevano fretta che arrivasse la sera della rappresentazione, ognuno per
motivi diversi.
Quel pomeriggio l'investigatore e il giornalista erano andati ad
assistere alle prove e si erano goduti anche una esilarante sfuriata di
Carlotta Giudicelli che protestava perché la sua parte era
troppo marginale mentre i direttori cercavano di rabbonirla e di
convincerla che quell'opera era solo una sciocchezzuola, una cosa da
poco messa in scena perché serviva allo scopo, promettendole
che non appena avessero sistemato la faccenda del Fantasma lei sarebbe
potuta tornare ad essere l'unica primadonna indiscussa dell'Opera
Populaire.
Nel frattempo, sul palco, i ballerini avevano cominciato a provare le
coreografie che Madame Giry, completamente ristabilita, aveva pensato
per lo spettacolo, mentre mademoiselle Daae faceva la sua timida
comparsa, entrando lentamente da una delle quinte.
«Cominciamo dal duetto del primo atto, vi prego
signori» aveva detto il maestro Reyer richiamando
l'attenzione di Christine e del tenore che l'aveva raggiunta sul palco.
Alexandre fissò la scena pensando che era quanto meno
grottesca e per quanto Ubaldo Piangi fosse vocalmente assai dotato,
risultasse un pessimo Don Juan a causa del suo fisico corpulento e dei
suoi gesti goffi ed enfatici. Poi Christine cominciò a
cantare e le menti di tutti quelli che erano presenti furono come
svuotate da ogni pensiero mentre la voce angelica della fanciulla
riempiva l'aria dello sfarzoso teatro.
Bertrand teneva gli occhi aperti, sicuro che il Fantasma avrebbe potuto
assistere anche alle prove e che se lui avesse prestato molta
attenzione probabilmente lo avrebbe anche scorto nascosto dietro a
qualche tenda, o sul fondo di qualche palco del loggione. Tuttavia, per
quanto l'investigatore si sforzasse di osservare doviziosamente ogni
angolo vuoto non notò alcuna traccia dell'uomo mascherato.
Quello che Bertrand non poteva sapere era che il Fantasma dell'Opera
non aveva alcun bisogno di mettere piede nella platea del teatro o nei
palchi per godersi lo spettacolo.
Quel pomeriggio Erik se ne stava nei suoi sotterranei, nel cunicolo che
correva proprio al di sotto del palco e lì ascoltava la sua
musica prendere forma, le sue canzoni risuonare fino al suo buio e
illuminarlo dell'unica luce che i suoi occhi avrebbero davvero voluto
vedere: lo splendore della voce di Christine che intonava quei versi
scritti appositamente per lei, con la penna intinta nel sangue vivo del
suo cuore pulsante per quell'amore che lo aveva accecato, che aveva
dato fuoco a ogni suo pensiero spingendolo a voler dipingere in musica
una passione tanto grande e devastante.
L'orchestra continuò a suonare quella musica che a tutti
parve meravigliosa, che quasi fece passare in secondo piano la voce
potente di Piangi che aveva cominciato a cantare la sua strofa.
Alexandre osservava la scena sempre più perplesso e rapito
da quella melodia, ma più ascoltava Ubaldo Piangi cantare,
più lo vedeva muoversi sul palco e più si
accorgeva di quanto poco fosse adatto per quel ruolo. Si
grattò il mento pensando che era davvero strano che il
Fantasma, così pignolo riguardo al modo in cui la sua opera
doveva essere rappresentata, lasciasse che la parte del protagonista
venisse interpretata da qualcuno che, per troppi aspetti, era
assolutamente inadatto a rendere bene il personaggio di Don Juan.
«Oh mio Dio...» sussurrò colto da
un'improvvisa rivelazione.
Bertrand si voltò a guardarlo e lo scrutò con
fare inquisitorio,
«Che avete?» gli domandò.
Il ragazzo lo fissò in silenzio per alcuni secondi, poi
scosse il capo,
«Nulla» mentì.
Alexandre aveva capito, ma non sapeva se era una buona idea mettere a
parte Bertrand della sua intuizione. Guardando Piangi così
inadatto in quella parte, il giornalista aveva compreso quali fossero
le reali intenzioni del Fantasma: lui non voleva semplicemente che la
sua opera venisse rappresentata, voleva interpretarla personalmente!
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Capitolo reinserito il 28\12\2011
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Capitolo 25 *** L'anticamera dell'inferno ***
SONO IN RITARDO su un sacco di cose e ho passato l'ultima
settimana a maledire me stessa per la mia pigrizia e per il mio pessimo
rapporto con il tempo! E malgrado ciò sto dedicando
più ore di quanto mi possa permettere a nuove cose
prossimamente-su-questi-schermi visto che oggi ho concluso anche
l'altro lavoretto in corso che stavo pubblicando su questo sito. Onde
non essere in ritardo anche nel postare l'aggiornamento della
fanfiction, vi lascio il nuovo capitolo a una settimana di distanza dal
precedente.
Mi sarebbe piaciuto riuscire a postare la storia con una
cadenza regolare perchè so che i capitoli letti a
troppa distanza l'uno dall'altro diventano dispersivi e si
può perdere il filo e di conseguenza la voglia di seguire la
fanfiction, ma pensavo che questo 2010 sarebbe stato un anno
più facile del precedente e invece non è stato
così, pazienza.Comunque, un GRAZIE DI CUORE
a tutti quelli che leggono, commentano, seguono, preferiscono... non lo
dico per "formalità", ma è che questo fandom
è abbastanza marginale ed è una soddisfazione
sapere che quello che scrivo, su una storia e su dei personaggi che amo
tanto, alla fine riesca a suscitare dell'interesse.
@ Amy: No, non credere che abbia voluto svincolare la domanda
che mi avevi rivolto nella scorsa recensione riguardo alla
probabilità del Master con un uomo. Non rido, è
una domanda interessante. Diciamo che in genere non amo lo slash nelle
fanfiction, da fanwriter ossessionata dall' IC dei personaggi trovo
"sbagliato" scrivere una fanfiction in cui si rende un personaggio
omosessuale quando nella storia originale non lo è... ma
visto che Erik non ha mai conosciuto veramente l'amore di una donna e,
in generale, non ha una grossa esperienza di relazioni extrapersonali,
nel suo caso non sarebbe poi una cosa tanto fuori dal Canon,
cioè alla fine la storia originale lascia molto
all'immaginazione riguardo a come sarebbe Erik a contatto con eventuali
altre persone e non è escluso che possa scoprire di provare
attrazioni che nemmeno lui avrebbe immaginato. Tra l'altro, hai
ragione, amo troppo Erik e questo condiziona irrimediabilmente
l'andazzo delle mie storie su di lui (ma la prendo come una "sfida con
me stessa" per eventuali fanfiction future). Negli ultimi mesi ho
smesso di scrivere fanfiction e mi sono dedicata a racconti originali e
un pò di differenza di approccio l'ho notata (approccio
mentale, tra me e me, si intende) però alla fin fine, se amo
tanto un personaggio che non è mio, ti lascio immaginare
come possa andare a finire con personaggi creati da me! Si, sono limiti
che devo imparare a superare, perchè allo scrivere ci tengo
molto e lo scrivere non è fatto solo di mettere assieme
belle frasi (auspicabilmente) corrette ma è fatto anche di
buone storie che siano interessanti e plausibili, ma questo
è un discorso complesso ed estraneo al contesto quindi evito
un papiro che potrebbe far crollare persone addormentate sulla testiera
ancora prima di arrivare all'inizio del nuovo capitolo.
Contenta che tu abbia apprezzato il "trittico della casa",
Madame, Erik e Christine che batibeccano... pensavo fosse troppo "naif"
come scena ma i momenti di normale vita quotidiana di questi personaggi
sono quelli che amo di più immaginare. In quanto a mr.
O'Loughlin... indiscutibile bonaggine a parte, avevo da poco cominciato
a scrivere la fanfiction e avevo già in mente una
caratterizzazione abbastanza precisa per il nostro giornalista quando
mi capitò di vedere il telefilm Moonlight (che consiglio
caldamente) di cui l'attore di cui sopra è il protagonista,
non lo avevo mai visto prima ma dalle prime inquadrature rimasi
letteralmente sconcertata da quanto assomigliasse fisicamente a come io
immaginavo il nostro Alexandre, poi andando avanti a guardare le
puntate scoprii che il personaggio era anche molto simile al mio per
quanto riguarda il carattere, il modo di parlare, di muoversi... giuro
che è stata una sorpresa!
Eh il modo in cui Erik verrà a sapere la
verità sulla famiglia sarà un tantino
rocambolesco (meglio sarebbe per la sua fragile psiche una roba tipo
puntata di C'è posta per te ma visto che io guardo poca
televisione certe dinamiche mi sfuggono XD). In realtà,
guardando il film, Madame Giry mi sembra una povera vittima del
Fantasma anche lei, divisa tra il timore per il "mostro" e l'affetto
per l'uomo, quegli sguardi intimoriti, quasi servili, quando lo vede
strisciare nell'ombra (una delle prime scene, dove si vede la mano di
Erik che chiude a chiave il camerino di Christine e sullo sfondo Madame
che guarda, zittisce, deglutisce e va via la dice lunga secondo me), il
modo in cui racconta a Raoul la sua storia... uhmm... forse "Eloise"
è molto più fragile di come la rendo io nelle
fanfiction, ma nelle mie storie mi piaceva darle questo ruolo di
"Grillo Parlante" della situazione, del resto immagino che se Erik
è sopravvissuto in gioventù è stato
perchè qualcuno ci ha messo un pò di raziocinio
dove lui metteva solo istinto e passionalità.
Uuuuh i Modena City Ramblers *_* li conosco (in tutti i sensi
visto che siamo compaesani) e li adoro.
@ Sydney Bristow: tu... vai... a Londra! A vedere Love Never
Dies!!! Ok, accantono per un attimo il misto di invidia,
fangherlaggine, entusiasmo, stima e quant'altro e ti faccio i miei
migliori auguri per il viaggio (suppongo sia improbabile che cia un
posto per me in valigia... un posticino? piccino picciò? *_*
no, eh... ). Sono sempre dell'idea che questo era un sequel che "non
s'ha da fare" però da quello che ho visto la
rappresentazione teatrale è veramente spettacolre, forse
ancora di più di quanto lo è POTO. Ho ascoltato
le canzoni fino alla nausea, le musiche sono epiche... i testi un
pò meno, molto semplici e lineari a volte anche un
pò banali, lontani dalla poeticità di quelli di
POTO, ma vabbè, Sir Webber è sempre Sir Webber!
Detto ciò, finisco lo sproloquio. Tornando al "motivo per
cui siamo qui", contenta che la storia continui a piacerti, mancano
ancora un pò di cose prima di arrivare alla fine quindi
TUTTO PUO' SUCCEDERE XD
@ Keyra93: Se non saranno i modenesi stressati dal vedermi in
giro (c'è stato un fugace momento in cui ho preso in
considerazione l'idea di traferirmici a Modena ma poi ho lasciato
perdere) o le manie omicide del Maestro suppongo che sarà il
caldo a farmi fuori -.-'' comunque sia... Ma magari rimanessero
devastati quei due dal loro amore!!! No, faccio una fatica immane a
vederli assieme... lo so, lo so, che per molti (molte?) era COSI' CHE
DOVEVA ANDARE... ma io non ce la faccio. Però, ripeto,
questa storia mi è venuta dal profondo e non ho potuto fare
a meno di scriverla. Il titolo del capitolo... fermo restando che io e
i titoli non andiamo d'accordo (già faccio fatica a trovare
i titoli per le storie figuriamoci per i singoli capitoli!) ma questo
capitolo l'ho chiamato il "Don Juan" perchè è il
capitolo in cui tutti i nodi riguardo alla messa in scena dell'opera
vengono al pettine. Eh BB... ha ancora tanto da fare, bello di zia Elby
sua *_* L'incesto? No... quando avevo pensato la storia mi erano venuti
in mente due possibili "colpi di scena", uno è quello che ho
scelto, cioè che Alex e Erik sono fratelli... un altro
è che Alex si innamorasse (non ricambiato) di Erik, infatti
all'inizio un pò il dubbio poteva venire, nei primi capitoli
c'è un dialogo in cui Raoul chiede all'amico giornalista
qualcosa del tipo "come mai piaci tanto alle donne ma loro a te non
sembrano interessare?", però in realtà no, alla
fin fine Alex è solo uno che si lascia assorbire dalle cose
a cui crede e lui ha effettivamente preso molto sul serio questa
"caccia al fantasma" tanto da spendere per essa ogni energia e
trascurare alle volte persino sua madre malata. Prima o poi
scriverò una storia solo su Carlotta, la trama è
questa: lei è una specie di antesignana di Crudelia Demon
che mette su un allevamento di barboncini per poi squoiarli e farsi un
vestito di pelliccia di barboncino impreziosito da pizzi e perline rosa
U_U
Eh, quando do a un personaggio il nome Alessandra\o o una
qualsiasi delle sue varianti vuol dire sempre qualcosa... che brutta
cosa le manie di persecuzione!
Oh il Musico... il Musico!!! *_* Non che io miri a spargere
la follia, ma è bello sapere che ho fatto interessare
qualcuno a quell'omuncolo *__________* (ecco, ora si scoprono gli
altarini: c'è qualcuno che fangherlo più di
quanto fangherlo il Master... ma questa è un'altra storia!)
********************
CAPITOLO VENTIDUESIMO
L'anticamera dell'inferno
Quella sera Parigi aveva il suo solito aspetto, il solito scricchiolio
delle ruote delle carrozze sul ciottolato riempiva le strade
principali. I soliti gentiluomini affollavano i caffè e le
solite donne di malaffare passeggiavano lentamente per i sobborghi
adescando i passanti. La solita luna restava a guardare, ma il suo
spicchio bianco che illuminava il cielo poteva sembrare un sorriso o un
ghigno rivolto agli uomini che quella sera stavano giocando la loro
partita.
Erano passati due mesi dalla tragica notte di capodanno, dai fatti che
avevano portato lì quei quaranta uomini della gendarmeria,
con le loro facce dure e le loro mantelle blu.
La gente attendeva in fila fuori al teatro mentre il visconte De Chagny
osservava le forze dell'ordine mandate a porre fine una volta e per
tutte a quell'incubo.
L'Opera Populaire era rimasta chiusa per troppo tempo. La culla
dell'arte canora di Parigi aveva taciuto troppo a lungo e la
pubblicità che aveva ricevuto questa nuova rappresentazione
era stata piuttosto massiccia. Quella sera i direttori del teatro
presentavano il Don Juan Trionfante, un'opera in due atti di quello che
avevano detto essere un autore anonimo. Dopo le lunghe settimane di
chiusura tanto era bastato ad attirare il pubblico ignaro del fatto che
quella sarebbe potuta diventare una serata piuttosto movimentata.
La sera del trionfo del Fantasma o dei suoi nemici.
Andrè e Firmin guardarono la platea riempirsi piano piano e
la gente cominciare ad occupare i palchi delle logge laterali. Tutto
aveva una parvenza di normalità, quasi di benessere, se non
fosse stato per i gendarmi appostati davanti all'ingresso, nei corridoi
che portavano alle balconate e dietro le quinte.
«Una serata da tutto esaurito» commentò
Firmin lisciandosi i baffi.
«Catturare il Fantasma e riempire il teatro in un sol colpo:
meraviglioso!» gli fece eco il suo socio, sistemandosi il
panciotto e sedendosi sulla sua poltrona.
«Dopo due mesi ci voleva una ventata di ossigeno e... di
denaro».
Nel frattempo, nel suo camerino, Christine Daae si stava guardando allo
specchio, sistemandosi meglio il corsetto sul seno e notando quando la
gamba restasse scoperta dall'ampio spacco della gonna del suo costume.
«Mio Dio, sembra che indossi solo della
biancheria!» esclamò arrossendo. In quegli ultimi
minuti aveva preferito concentrare le sue preoccupazioni sul vestiario,
altrimenti non sarebbe riuscita a cantare.
La fanciulla aveva paura. Paura di ciò che avrebbe potuto
fare Erik, paura di ciò che sarebbe potuto succedere se
qualcosa fosse andato storto.
«Forse non vuole fare niente» si disse cercando di
calmarsi. «Forse vuole solo dimostrare che ha ancora voce in
capitolo decidendo cosa e come deve essere messo in scena qui a
teatro».
Ma la rosa scarlatta listata di nero era già posata sul
piano della specchiera quando lei era entrata nel camerino per
indossare gli abiti di scena: il Fantasma dell'Opera era uscito dal suo
buio. Lui era lì.
Madame Giry entrò per sistemarle i capelli, pettinandoglieli
all'indietro e raccogliendoli di lato con un grande fermaglio a forma
di rosa rossa, il fiore preferito di Erik.
Alexandre e Bertrand non avevano voluto un posto tra il pubblico,
volevano rimanere dietro le quinte, pronti per ogni evenienza.
Il giornalista non ne aveva fatto parola con nessuno, ma era certo che
quella sera il Fantasma avrebbe fatto la sua comparsa direttamente sul
palco. Erik voleva interpretare la sua opera, Alexandre ne era sicuro
ma non aveva condiviso questo sospetto con il suo collega né
con Raoul, si era detto che forse, solo forse, grazie all'effetto
sorpresa quel pazzo sarebbe riuscito a non rischiare la pelle e
soprattutto, cosa che gli premeva assai più della
sopravvivenza del Fantasma, sarebbe riuscito a non rischiare la pelle
di nessun innocente.
Bertrand non sapeva cosa aspettarsi, ma era sicuro di sé,
sicuro di aver previsto ogni possibile mossa, con dei tiratori pronti
sopra le travi dei macchinisti, con gendarmi in ogni dove e con i suoi
occhi pronti a captare anche la minima anomalia, il Fantasma non
sarebbe scappato, anche a costo di strappargli il cuore dal petto con
le sue stesse mani sopra a quel palco, davanti a tutto il teatro!
«Sembrate compiaciuto» mormorò Alexandre
accostandosi all'uomo che stava spegnendo il suo ennesimo sigaro in un
posacenere di marmo.
«Non dovrei esserlo, amico mio? Sto per concludere la
più significativa indagine della mia carriera, domani voi e
io saremo famosi, saremo quelli che hanno catturato il Fantasma
dell'Opera, e voi potrete dedicarvi alla stesura del vostro
romanzo» concluse l'investigatore.
«Credo che non scriverò nessun romanzo»
«Perché dite così?»
«Ci sono storie che non meritano di essere usate per secondi
fini. Questa è una storia di cui spero di non dover sentire
più parlare. Né di questa storia né di
molti che ne sono stati coinvolti».
Il ragazzo lanciò una furtiva occhiata di disprezzo verso
l'uomo, poi sospirò e si sporse a guardare Raoul, appoggiato
al parapetto nel suo palco, il palco numero 5.
Il visconte sembrava calmo, era stato cortese e cerimonioso con
chiunque gli avesse rivolto la parola, con le tante persone venute a
complimentarsi con lui per aver risollevato le sorti di quel teatro
dopo le numerose settimane in cui era rimasto chiuso. Era parso il
solito giovane tranquillo e misurato, ma i suoi occhi si guardavano
attorno in continuazione, dal suo sguardo era evidente che dentro di
sé fremeva per l'agitazione.
Alexandre guardò l'amico e gli fece un cenno di saluto,
Raoul rispose con un mezzo sorriso tirato e si mise a sedere.
Alcuni macchinisti si sistemarono ai lati del palco reggendo in mano
grossi specchi puntati in direzione delle candele, avrebbero dovuto
muoverli per far dondolare i riflessi della luce e dare l'impressione
dell'illuminazione tremula di un grande fuoco acceso, rappresentato al
centro del palco da un cerchio di fazzoletti rossi tenuti sospesi e
mossi per creare l'effetto delle fiamme scoppiettanti.
Tutto su quel palco richiamava il fuoco, anche i colori usati per
dipingere le impalcature della scenografia, enormi travi di legno che
costituivano un imponente ponte montato in mezzo al palco con due scale
a chiocciola da entrambi i lati. Tutto doveva sembrare avvolto dal
fuoco, il fuoco della passione e il fuoco dell'inferno in cui l'amore
avrebbe trascinato i protagonisti dell'opera.
Un uomo disse ad Alexandre e a Bertrand di farsi più
indietro, altrimenti il pubblico il platea avrebbe potuto scorgerli.
Nel frattempo Madame Giry accompagnò al lato del palco una
fila di ballerine vestite con ampie gonne e corpetti ricamati con
merletti scuri, costumi che ricordavano volutamente l'abbigliamento
tradizionale di alcune zone della Spagna. Anche i costumi dei figuranti
erano tutti di un rosso sgargiante intervallato da rifiniture nere.
Carlotta Giudicelli si sistemò il fermaglio a forma di fiore
che le reggeva i boccoli fulvi. Il fermaglio non era previsto nel
disegno del suo costume ma lei era convinta che fosse un vero tocco di
classe, come ogni singola perlina o millimetro di pizzo del suo
guardaroba! Stava pensando che quella sarebbe stata l'ultima
volta che si trovava a fare qualcosa di così umiliante, ma
se serviva a catturare il Fantasma che l'aveva costantemente denigrata
e maltrattata, allora avrebbe fatto uno sforzo. Anche se già
solo l'idea di sventolare quel ridicolo ventaglio di merletto nero
faceva aumentare in maniera esponenziale la sua emicrania. Era
così... così tetro! Niente trucco, niente abiti
vistosi che mettessero il risalto la sua figura! Quel maledetto del
Fantasma aveva davvero un pessimo gusto!
«Per amor del cielo!» gracchiò la
soprano inveendo contro la sua assistente. «Portate i miei
cagnolini lontano da qui! Non vorrete mica che il Fantasma li rapisca e
me li restituisca imbalsamati!».
Ubaldo Piangi aveva un trucco pesante attorno agli occhi, i capelli
impomatati fermati da una bandana nera, indossava una camicia bianca, e
dei pantaloni neri con una giubba dello stesso colore. Si
accostò alla quinta dove sarebbe rimasto ad attendere il
segnale per entrare in scena.
*
I gendarmi sistemati sulle travi al di sopra del palco erano tra i
migliori tiratori che la polizia di Parigi potesse vantare, uomini
addestrati a reagire e a mantenere la calma anche nelle situazioni
più critiche. Eppure, quella volta, non avrebbero potuto
sparare nemmeno se avessero voluto.
Una corda con all'estremità un nodo scorsoio era caduta
dall'alto, intrappolando le canne dei loro fucili e strappandoglieli
via dalle mani.
Quando quell'uomo ammantato di nero era piombato davanti a loro in
tutta la sua imponente statura e con gli occhi azzurri che
scintillavano di ferocia, la paura li aveva paralizzati. Il Fantasma
non aveva lasciato loro il tempo di riuscire a gridare. Li aveva
colpiti con il calcio dei loro stessi fucili, lasciandoli privi di
sensi, riversi sulle travi.
Ora non gli restava che attendere. Si sentiva fremere dall'entusiasmo e
dall'eccitazione mentre l'odore acre del fumo e della cera delle
candele aveva per lui il profumo del trionfo e della rivalsa.
Sapeva che era pericoloso, sapeva che era da solo contro tutti, ma mai
nessuno avrebbe avuto la meglio su di lui finché rimaneva
tra le pareti del suo teatro. Nessuno di quegli sciocchi aveva il
coraggio necessario ad affrontarlo. Anche Bertrand, anche il visconte
si erano rivelati dei codardi, affidandosi a uomini armati pronti a
colpirlo alle spalle, pur di eliminarlo senza affrontarlo.
«Vigliacchi ipocriti» sibilò Erik
guardandoli dall'alto.
Persino in quel momento li aveva in pugno e loro non riuscivano a
rendersi conto nemmeno del suo sguardo che li spiava.
Ma il cuore dell'uomo si fermò per un istante, la furia
violenta del Fantasma si placò quando il suo sguardo
incrociò la figura esile e aggraziata di Christine
raggiungere le quinte, con la stoffa morbida del vestito che frusciava
nella scia dei suoi passi, sotto i suoi piedini nudi.
Era bella come il Paradiso visto dal fondo dell'Inferno. Ed era sua,
qualsiasi cosa quegli sciocchi codardi volessero pensare, qualsiasi
ardimentosa congettura potessero architettare per portargliela via.
Poi il sipario si alzò e nei pensieri di Erik ogni cosa fu
avvolta dalla musica.
*
Il pubblico, ignaro di tutto, guardò con interesse le figure
raccolte in cerchio in mezzo al palco che ondeggiavano in uno strano
girotondo simile alla danza delle streghe. Poi quei corpi stretti in
circolo si separarono e cominciarono a cantare in coro levando dei
calici all'aria.
«Here the sire
may serve the dam, here the master takes his meat!
here the sacrifical lamb
utters one dispairing bleat.
Poor young maiden!
for the thrill on your
tongue of stolen sweets,
you will have to pay the
bill tangled in the winding sheets!
serve the meal and serve
the maid! serve the master so that,
when tables, plans and
maids are laid Don Juan triumphs once again! »
Un brusio di sconcerto attraversò la platea. Le facce degli
spettatori si deformarono in smorfie di imbarazzo o di disgusto per
quei versi tanto arditi. Ma subito il coro si dileguò
lasciando spazio alla giovane Meg Giry che entrò piroettando
sul palco mentre dal fondo scena fecero la loro comparsa Piangi, nei
panni di Don Juan, e un altro tenore che interpretava il suo servo
Passarino.
La ballerina lanciò una rosa verso Don Juan che
l'afferrò con un sorriso e si inchinò leggermente
al pubblico che lo aveva applaudito, con una grazia quasi impensabile
per un uomo tanto corpulento. Dopo di che cominciò a cantare
con la sua voce potente:
«Passarino
faithful friend, once again recite the plan»
La sua voce era chiara e limpida ma aveva un tono così
inespressivo che tuttavia il pubblico non sembrò notare,
preso dalla curiosità per la recita.
Fu la volta di Passarino:
«Your young
guest believes I'm you
I, the master,
you the man»
il servo si voltò con un ghigno verso il suo padrone
attendendo la risposta:
«When you met,
you wore my cloak,
she could not have seen
your face.
She believes she dines
with me in her master's borrowed place!
Furtively, we'll scoff
and quaff, stealing what in truth is mine.
When it's late and
modesty starts to mellow with the wine.»
Passarino annuì con aria complice, sottolineando
l'entusiasmo per la trappola con ampi gesti delle braccia, poi rispose
come a completare il pensiero del suo padrone:
«You come
home! I use your voice
slam the door like crack
of doom!»
Don Juan si sfregò le mani rispondendo:
«I shall say:
come hide with me! where oh where? of course my room»
il servo ridacchiò
«Poor thing
hasn't got a chance»
e infine Don Juan concluse la strofa:
«Here's my
hat, my cloak and sword. comquest is assured, if i do not forget myself
and laugh».
Dopo aver cantato questi versi, Piangi fece una grossa risata teatrale
e si allontanò con il suo compagno verso il fondo del palco.
Il tenore che interpretava Don Juan si infilò una maschera
di cuoio nero e sparì dietro il fondale di scena mentre
l'uomo che recitava la parte di Passarino si voltò a spiare
Aminta, la giovane che il suo padrone voleva sedurre e che stava
entrando in scena.
Christine avanzò verso il centro del palco, il pubblico
trattenne il respiro per fare silenzio e godersi la magia della voce
della bella fanciulla.
«...no
thoughts within her head but thoughts of joy
no dreams within her
heart, but dreams of love»
Così cantò la ragazza andando a inginocchiarsi
verso la destra del palco e sistemando delle rose che teneva in un
cesto di vimini.
Christine resse la parte meravigliosamente bene, nemmeno un'ombra
passò sul viso quando si accorse di una strana anomalia in
ciò che stava udendo. Qualcuno che non era Piangi era
entrato in scena e stava cantando al posto del tenore.
Piangi era corso dietro le quinte con l'intenzione di bere un sorso
d'acqua prima di tornare sul palco. Ma una figura in nero era piombata
sopra di lui e lo aveva colpito alla nuca lasciandolo svenuto. Una
volta sbarazzatosi di lui, Erik era entrato in scena indossando un
costume identico a quello del tenore ma che sul suo fisico asciutto
riusciva a rendere meglio l'idea del personaggio affascinante e
misterioso che doveva essere Don Juan. I pantaloni di raso nero gli
fasciavano le lunghe gambe muscolose, la camicia sotto la giubba scura
e attillata era mezza aperta sul petto e nei fori della maschera scura
i suoi occhi brillavano quasi come se quelle iridi di ghiaccio
attirassero tutta la luce delle candele.
«Passarino, go
away, for the trap is set and waits for its prey!»
Sibilò il Fantasma coprendosi il volto con il lembo della
cappa. Gli attori non dissero nulla, ma sui loro volti si dipinse il
più profondo sconcerto.
Il pubblico aveva notato la sostituzione, quell'uomo alto e fascinoso
non era certo Ubaldo Piangi, ma il cantante sconosciuto aveva una bella
voce e un bel portamento e tutti si dissero che era di certo
più piacevole alla vista di quello che aveva sostituito.
Evidentemente, si dissero, Piangi aveva avuto un malore e avevano
mandato in scena il suo sostituto che era già pronto per
ogni evenienza dall'inizio dello spettacolo.
Solo coloro che erano al corrente di ciò che si celava
dietro la messa in scena dello spettacolo capirono chiaramente cosa
stava succedendo.
Madame Giry strinse la mano di sua figlia, Meg stava fremendo per la
rabbia e per la paura, mentre sua madre nell'altra mano stringeva la
croce del rosario che di solito portava sotto il corsetto.
Raoul strinse con un fremito il fazzoletto che aveva tra le mani
nell'osservare quell'uomo che si avvicinava a Christine con il passo
cadenzato di un felino pronto a scattare.
Alexandre serrò le mascelle per la tensione mentre mormorava
a se stesso «Lo sapevo... lo sapevo».
Bertrand rimase impassibile a spiare i movimenti dell'uomo ma sul suo
volto era dipinta il più totale sconcerto.
«Allora è più pazzo di quanto mi
aspettassi...» sussurrò sgranando gli occhi mentre
Don Juan ricominciava il suo canto.
«You have come
here
in pursuit of your
deepest urge
in pursuit of that wish
which till now has been silent. Silent.
I have brought you that
our passions may fuse and merge
In your mind you've
already succumbed to me,
dropped all defenses
completely succumbed to me
now you are here with me
no second thoughts.
You've decided...
decided.»
L'uomo mascherato si avvicinò alla fanciulla che come
ipnotizzata dal suo canto era tornata in piedi e si era voltata
lentamente verso di lui guardandolo rapita.
Non si riusciva a distinguere quanto quell'espressione di compito
stupore e di ammirazione appartenesse a Christine o al personaggio che
stava interpretando.
Il Fantasma si avvicinò alla giovane e continuò a
cantare:
«Past the
point of no return
no backward glances:
the games
wÈve played till now are at an end . . .
Past all thought of "if"
or "when"
no use resisting:
abandon thought, and let
the dream descend . . .»
Tutti sembravano rapiti da quella voce dal suo suono basso e suadente
tanto che sembrava che Dio avesse donato a quell'uomo quel timbro
appositamente per raccontare la passione di cui stava cantando.
La fanciulla fissò il suo compagno negli occhi, occhi lucidi
dall'emozione. Nell'ascoltarlo cantare lei si dimenticò di
ogni paura, del pericolo che stava correndo, di quanto fosse folle
tutta quella situazione. Non importava, quello era il suo momento, il
momento che Erik aveva atteso tutta la vita: poter salire sul palco e
sbattere sotto gli occhi del mondo il suo talento, e lo stava facendo
attraverso la musica che avevo composto per lei, attraverso le strofe
che aveva scritto accecato da quell'amore. Non era solo il suo momento,
era il loro momento!
Il Fantasma abbracciò la ragazza premendola contro il suo
petto, la sua voce divenne roca e sensuale mentre intonava gli ultimi
versi della strofa:
«What raging
fire shall flood the soul?
What rich desire unlocks
its door?
What sweet seduction
lies before us . . .?
Past the point of no
return,
the final threshold
what warm, unspoken
secrets will we learn?
Beyond the point of no
return . . .»
Raoul provò un moto di disgusto e di furore nel vedere il
Fantasma così vicino a Christine e si sporse chiedendosi
cosa diamine stessero facendo Alexandre e Bertrand, dove accidenti
fossero i gendarmi, perché nessuno faceva niente.
«Non avete capito!» gracchiò Bertrand al
capitano della gendarmeria che era impalato accanto a lui.
«Quello è il nostro uomo, è il
Fantasma... fate qualcosa!».
Il capitano osservava la scena con aria rapita, troppo preso dal canto
ipnotico del Don Juan. L'investigatore lo scosse in malo modo,
«Sparategli!» tuonò.
«Ora!».
L'ufficiale si stropicciò la faccia come se fosse stato
strappato a uno strano sonno, tutti i suoi uomini sembravano nel suo
stesso stato di rapimento.
«Insomma, vi sembra questo il momento di dilettarvi
nell'ascoltare musica?!» borbottò esasperato
Bertrand. «Esigo che gli spariate, immediatamente!»
«No!» esclamò Alexandre. «No,
è troppo vicino alla ragazza... le farete del
male!».
Sul palco i ballerini vestiti di nero stavano danzando armoniosamente
contro il fondale di scena, mentre il Fantasma si era appena staccato
dalla giovane con una lenta carezza sul braccio, le aveva preso una
mano tra le sue e l'aveva baciata sul finire della strofa.
In quel momento Christine prese fiato e cominciò la sua parte
«You have
brought me
to that moment where
words run dry,
to that moment where
speech disappears into silence, silence . . .
I have come here, hardly
knowing the reason why . . .
In my mind, I've already
imagined our bodies
entwining
defenceless and silent
and now I am here with
you:
no second thoughts,
I've decided, decided .
. .»
«D'accordo» sospirò Bertrand,
«adesso sono distanti, potete ucciderlo!»
«Christine è comunque sulla linea di
tiro» insistette il giornalista con aria astiosa. Era certo
che quell'essere viscido fosse responsabile dello stupro di una
ballerina ma non pensava che fosse disposto a rischiare la vita di una
ragazza per uccidere il Fantasma.
«Nessuno dei miei uomini si assumerebbe la
responsabilità di rischiare di colpire mademoiselle
Daae» concluse il capitano. «Aspettate che sia
nella posizione più adatta».
Bertrand agitò i pugni in aria cercando di reprimere un moto
d'ira,
«Perché lei non scappa? Perché lo sta
assecondando e non ci lascia fare quello che dobbiamo?!»
sibilò.
«Perché non tutti sono disposti a ogni genere di
scelleratezza per raggiungere i propri scopi»
replicò Alexandre voltandosi a guardarlo con aria furente.
Sul palco, il Fantasma e la fanciulla si erano avviati verso le scale
che portavano sull'impalcatura, lui verso sinistra e lei dal lato
opposto, ma continuando a rimanere l'uno di fronte all'altra,
muovendosi all'unisono camminando come se persino i loro passi
facessero parte dell'armonia della musica.
Raggiunsero la sommità dell'impalcatura mentre lei
continuava la sua strofa:
«Past the
point of no return
no going back now:
our passion-play has
now, at last, begun . . .
Past all thought of
right or wrong
one final question:
how long should we two
wait, before we're one.?
When will the blood
begin to race
the sleeping bud burst
into bloom?
When will the flames, at
last, consume us ?»
Non c'era stato un attimo in cui i loro sguardi si fossero allontanati.
Avevano continuato a guardarsi negli occhi come se quelle non fossero
le parole di un'opera, come se non stessero interpretando dei
personaggi. Quella era la voce del loro cuore, la magia del donarsi
incondizionatamente.
Il Fantasma avvolse il mantello attorno al braccio con un gesto fluido
e lo lasciò cadere con noncuranza sul parapetto
dell'impalcatura, poi le loro voci proseguirono all'unisono mentre i
loro corpi si avvicinavano e tornavano ad avvinghiarsi in un abbraccio
languido:
«Past the
point of no return
the final threshold
the bridge is crossed,
so stand and watch it
burn . . .
We've passed the point
of no return . . .»
Raoul batté forte la mano sul velluto che ricopriva il
margine della balconata, quasi vi affondò le unghie nel
vedere le mani di quel mostro percorrere lentamente il profilo del
corpo di Christine, completamente abbandonata a quelle carezze
licenziose.
Quella non era la sua Christine, si disse il giovane, quell'uomo ne
aveva fatto un mostro e lui doveva salvarla.
Il Fantasma fece voltare la ragazza verso di lui e le strinse le mani
nelle sue, poi la sua voce divenne dolce e carezzevole, miele
sull'anima che ricopriva tutto di un velo dorato. Lei
ammutolì e lo fissò commossa mentre lui
riprendeva da solo il canto.
«Say you'll
share with me one love, one lifetime . . .
Lead me, save me from my
solitude . . .»
L'orchestra si interruppe e la musica cessò. Il maestro
Reyer guardò attonito i suoi orchestrali sfogliando
rapidamente lo spartito che aveva davanti: quel brano non era incluso
nella partitura dell'opera.
Bertrand strinse la mano attorno alla spalla del giornalista, scuotendo
il capo con aria sconvolta,
«La Daae non è nostra complice... è
dalla sua parte!» esclamò furioso.
Il ragazzo rammentò le parole che gli aveva detto Erik ormai
diverse settimane prima nel loro strano incontro al cimitero: per voi
altri la verità è solo ciò che volete
vedere.
«Maledetta piccola serpe!» continuò
l'investigatore osservando il suo compagno che non sembrava turbato
più di tanto. «E voi... voi lo sapevate? Da che
parte state Alexandre?»
«Smettetela di agitarvi, non pensate sempre e solo al vostro
tornaconto, Balise! Pensate a ciò che è
giusto...»
«Ciò che è giusto...»
sibilò l'uomo con un ghigno, con uno scatto repentino
estrasse una pistola e prese la mira, ancora prima che il giornalista
avesse tempo di accorgersene.
Nel frattempo l'uomo mascherato continuava a cantare:
«...Say you
want me with you, here beside you . . .
Anywhere you go let me
go too
Christine,
that's all I ask of . .
.»
La frase di Erik rimase in sospeso, interrotta dal suono di uno sparo e
il fischio di un proiettile che passò a pochi centimetri
dalla sua testa andandosi a conficcare nella trave che reggeva il
fondale di scena.
Il pubblico lanciò un grido di stupore e cominciò
ad alzarsi e allontanarsi nervosamente come se temesse che di punto in
bianco pallottole vaganti potessero cominciare a volare nell'aria da
ogni dove.
Se la pallottola fosse volata pochi centimetri più in basso
avrebbe potuto colpire Christine in mezzo alle spalle oppure sfrecciare
oltre il suo braccio e raggiungere Erik al petto.
Era stato solo per l'intervento provvidenziale di qualcuno che aveva
scorto il luccichio metallico dell'arma che veniva estratta da una
fontina nascosta sotto la giacca di Bertrand che il tiro era stato
deviato: Meg Giry aveva agito di impulso lanciandosi contro
l'investigatore e strattonandogli il braccio che nel momento in cui
aveva fatto partire il colpo si era ritrovato inclinato verso l'altro.
Troppo perché il proiettile colpisse la coppia
sull'impalcatura.
Bertrand rimase a guardare incredulo il colpo che aveva mancato mentre
per un attimo ebbe l'agghiacciante sensazione degli occhi del Fantasma
fossero fissi su di lui in uno sguardo di odio e rabbia così
feroce da gelargli il sangue.
«Stringiti a me» sussurrò Erik a
Christine che tremava tra le sue braccia. La ragazza non comprese ma
obbedì aggrappandosi al tessuto della sua giacca.
Con un gesto secco l'uomo estrasse un pugnale con il quale recise una
corda che era legata al parapetto dell'impalcatura. Una botola si
aprì immediatamente sotto di loro, in direzione del foro al
centro del palco dove avevano sistemato il fuoco fatto di strisce di
stoffa.
Il Fantasma e la ragazza sparirono nel nulla, inghiottiti dal suolo.
Bertrand allontanò con un violento spintone la ragazzina che
era rimasta appesa al suo braccio. Meg cadde sul pavimento pensando che
non le importava se quell'essere odioso ora era lì ad
abbaiare come un cane contro di lei, che non le importava se aveva
aiutato il Fantasma a fuggire quando fino a pochi minuti prima lo
avrebbe voluto dietro alle sbarre. Lei conosceva Christine e aveva
capito tutto quella sera mentre li vedeva cantare: la sua amica lo
amava, e questa era l'unica cosa che aveva contato quando si era resa
conto che Bertrand stava per fare fuoco contro di lui, rischiando anche
di colpire la ragazza.
«Sei una maledetta stupida!» continuava a strillare
Bertrand agitandosi nella stretta di Alexandre che tentava di
trattenerlo per timore che si scagliasse contro la giovane.
«Siete un folle, un maledetto macellaio!»
gridò il giornalista. «Come vi è venuto
in mente di sparare? Potevate ucciderli!»
«Vi sarebbe dispiaciuto tanto, veder morire quel mostro e la
sua sgualdrina?!» sibilò l'uomo.
«Non osate mai più toccare mia figlia!»
esclamò Madame Giry accorrendo in soccorso di Meg e
guardando l'investigatore con aria furente. Avrebbe voluto aggiungere
di non osare mai più di provare a far del male a coloro che
amava ma fu interrotta dall'arrivo del visconte che corse trafelato
verso di lei.
«Dove l'ha portata?!» disse il giovane.
«Non sarò certo io a condurvi da lui»
replicò la donna.
«Chiamate i macchinisti!» urlò Bertrand
in tono imperioso. «Fate venire qui tutti i
gendarmi!»
«Che altro avete intenzione di fare?» si intromise
Alexandre.
L'investigatore ghignò e guardò il visconte,
«Voglio trovare quel pazzo e capire cosa ha fatto di tanto
terribile a mademoiselle Daae per costringerla ad assecondare i suoi
terribili piani» disse.
«Io vado con lui!» aggiunse Raoul.
Il capitano dei gendarmi si accostò a Bertrand
«Noi non abbiamo intenzione di seguirvi»
dichiarò. «Non so cosa c'è
lì sotto e io non metterò a repentaglio la vita
dei miei uomini migliori per la vostra caccia all'uomo, i miei tiratori
sulle travi sono stati colti di sorpresa e tramortiti. So che
quell'essere deve essere consegnato alla giustizia, ma sembra che
questa volta la giustizia non abbia i mezzi adatti a
contrastarlo»
«Razza di vigliacchi!» gridò l'uomo
mentre guardava i gendarmi allontanarsi. «E voi visconte?
Avete certo più fegato di loro»
«Naturalmente, io vi seguirò monsieur, per
Christine...»
«No, no, no!» urlò Alexandre in preda
all'esasperazione. «Raoul! Non provare ad assecondarlo, non
capisci che vuole solo convincerti ad aiutarlo?»
«Io andrò in quei sotterranei e stanerò
quel mostro, non voglio convincere nessuno a fare niente, chi vuole
può venire con me, chi non ha il coraggio che resti
qui» concluse Bertrand ritrovando una parvenza di calma.
«Adesso scenderemo in quella dannata botola dove lui
è scomparso e lo ritroveremo!».
Il giornalista prese la testa fra le mani e tentò di
reprimere un grido di frustrazione. Cosa speravano di fare una volta
che lo avessero trovato? Christine non era stata rapita, Christine era
andata con lui di sua spontanea volontà. Raoul avrebbe
davvero ucciso quell'uomo per riprendersi la donna che amava? No, forse
Raoul voleva solo accertarsi che lei stesse bene, ma Bertrand poteva
ucciderlo davvero e magari poteva far del male anche a lei.
«D'accordo, verrò con voi, ma solo per impedirvi
di fare sciocchezze» concluse.
Nell'udire quelle parole Madame Giry ebbe un sussulto,
«No, Alexandre, vi prego non andate!»
esclamò.
Il ragazzo prese sottobraccio la donna e si allontanò mentre
Bertrand cominciava a radunare i macchinisti per trovare il modo di
farsi calare nella botola,
«Madame Giry, capirete che non posso lasciare che Bertrand
trovi Erik...» sussurrò.
«Come fate a conoscere questo nome?»
«Me lo ha rivelato Christine... ma non c'è tempo
adesso. Io devo andare con loro, non posso nemmeno permettere che Raoul
si imbarchi in questa impresa da solo con quel bastardo».
La donna sospirò,
«Ma se trovate Erik, Bertrand potrebbe ucciderlo e se non lo
fa sarà lui a uccidere voi e io non posso permetterlo,
capite?» disse.
Eloise era indecisa sul da farsi, da un lato non poteva permettere che
accadesse qualcosa di male al ragazzo e non voleva che il visconte si
addentrasse in quei sotterranei pieni di trappole. In quanto a
Bertrand, sperava vivamente che rimanesse strangolato dal laccio di
Erik, ma far rischiare la vita a lui significava farla rischiare anche
agli altri due. D'altra parte fare in modo che loro trovassero Erik
senza incappare nei suoi tranelli significava mettere a repentaglio la
vita di tutti.
La donna gemette sopraffatta dal peso di una responsabilità
che stavolta non si sentiva in grado di sostenere, tuttavia doveva
decidersi a fare qualcosa.
«Erik non ci ucciderà, io... mi fido di lui e so
che non è un assassino, che per quanto può essere
adirato sa distinguere chi vuole fargli davvero del male e non siamo
stati né io né Raoul a sparargli alle
spalle» concluse il giovane imbarazzato dal rendersi conto di
quanto quel ragionamento poteva sembrare insensato.
«Il visconte non ha la vostra stessa fermezza e la vostra
stessa lucidità mentale» osservò la
donna.
«Raoul non è il tipo d'uomo che capace di compiere
scelleratezze, è solo preoccupato per Christine e non si
darà pace finché non l'avrà rivista e
non avrà preso atto del fatto che lei ama Erik. Aiutateci,
Madame Giry... so che quei sotterranei sono inespugnabili, potremmo
morire prima ancora di raggiungere il rifugio di Erik se non ci date
una mano»
«Siete un bravo ragazzo, Alexandre» concluse Eloise
con un sorriso stanco. «Vi aiuterò, ma lo faccio
unicamente per il vostro bene, per voi e per nessun altro. Ma
promettetemi che farete tutto il possibile perché nessuno si
faccia male e, qualsiasi cosa possiate vedere o sentire, tenete a mente
ciò che mi avete detto a proposito di Erik».
______________________________
Note:
C'è bisogno di dirlo? Le strofe in corsivo sono
quelle di Point of no return direttamente dal musical di zio Andy.
Naturalmente, vista l'evoluzione della storia Erik non
può strangolare Piangi, quindi ho risparmiato il grassone
che tra l'altro era l'unico innocente che c'è andato di
mezzo, poverino... e non solo per Piangi ma in generale, sappiamo tutti
che le cose non sono andate così, ma ancora una volta ho
dovuto dare una versione riveduta e corretta di una scena del film.
La Carlotta... lo so, l'accenno è troppo breve,
assai lontano da ciò che mi avevate chiesto, però
è SEMPRE LEI! XD
Raoul non ce la può fare!!! Comunque, non sapete
quando mi esalto quando guardo il film e inquadrano la faccia
sconcertata e disgustata del visconte mentre vede Erik e Christine
avvinghiati nel duetto del Don Juan *_* E qui mi sono divertita a farlo
manipolare da BB "Voglio trovare quel pazzo e capire cosa ha fatto di
tanto terribile a mademoiselle Daae per costringerla ad assecondare i
suoi terribili piani"... "e voi visconte? Avete certo più
fegato di loro" bhuahaha... IDIOTA! che lo è stato a
sentire... *ok, fine della parentesi fangherlosa anti-Raoul*.
Meg... dovrà pur servire a qualcosa quella
ragazza! Ho sempre pensato che fosse una che avesse cervello,
più di quanto ne abbia la sua riccioluta amica.
Capitolo reinserito il 29\12\2011
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Capitolo 26 *** Il richiamo del sangue ***
Buona settimana nuova!
Cominciamo con i ringraziamenti al pubblico e la risposta
alle recensioni, per ulteriori sproloqui si rimanda a fine capitolo.
@ Sydney Bristow: peccato per il bagaglio, mi sarei
volentieri allenata a fare la contorsionista per entrare in un trolley
formato mignon! Scherzi a parte... si, beh, la storia di questo sequel
fa un pò acqua da tutte le parti, ma se io perdo il sonno
dientro alle fanfiction non è poi socì
impensabile che uno scrittore abbia fatto un sequel del romanzo di
Leroux e zio Andy ne abbia tratto un'opera, suppongo che zio Andy sia
molto molto affezionato al fantasmone. Sarò molto felice di
leggere la tua tesina se vorrai ^^ è un bell'argomento e
trattarlo attroverso una storia nota come il Fantasma dell'Opera
è sicuramente una cosa interessante (io all'epoca... mon
Dieu! come mi sento vecchia -.-'' analizzai la prima metà
dell'800 attraverso le poesie di Baudelaire *___*) ma cosa ha fatto al
mondo la letteratura francese per farci essere tutti così?
*_* Bene... sto delirando. Christine e Raoul, fosse dipesi da me li
avrei soppressi nella prima riga del primo capitolo... ma
così non ci sarebbe stata nessuna storia... è
odioso dover ammettere che quei due hanno comunque una loro
utilità.
@Amy: lieta che ti sia piaciuto il capitolo e il cammeo della
Divina *_* (non ci crederete ma sto lavorando su di lei... anche se
più che Carlotta, un posto d'onore nell'universo
fanfictionistico dovrebbe essere riservato all'acconciatura della sua
assistente... quella con i capelli a forma di ciambella U_U). Tra
l'altro volevo proprio il capitolo fosse concitato, volevo dare la
stessa idea che da il finale di Point of no return nel musical, anche
se qui succedono cose diverse.
La lotta sui tetti stile The Crow sarebbe bella, ma Erik
è una schiappa con la spada (vedere scena del cimitero)...
no, BB si merita una sorte molto più "filosofica" anche se
quello che ho in mente potrebbe non piacere a tutti.
About i miei originali... il primo che ho scritto qualche
anno fa (in procinto di essere pubblicato qui su EFP, quando lo
avrò riletto e mi sarò convinta che non
è una ciofeca come ricordavo) è ambientato ai
giorni nostri ed è una storia "romantica". Adesso sto
lavorando su una serie di racconti fantasy ma anche questi ambientati
ai giorni nostri... quando sono proprio proprio proprio ispirata,
aggiungo paragrafi a un racconto di vampiri ambientato tra la Roma del
1700, l'Inghilterra di fine '800 e la Venezia dei giorni nostri. Si, mi
tengo allenata diciamo XD
PS: la mia canzone preferita dei Modena è I cento
passi, ma è più una questione "sentimentale" che
non una questione musicale (era il primo brano della prima trasmissione
radiofonica che ho condotto *_*). Giro di vite l'adoro per "l'arguzia"
^^
@ Keyra: Si, fondiamo una setta in onore della Diva!!! Eh il
colpo di pistola per interrompere Erik ci voleva... peccato, mi sarebbe
piaciuto un bacio appassionato sotto lo sguardo stomacato di Raoul!
Si, forse un capitolo tutto sentimento, musica e
avvinghiamenti potevo scriverlo, ma non è tanto una
questione di esigenze di trama, è che ho cercato di
trasmettere un pò di tensione con tutto il lavoro dei
"cattivi" attorno al palco. Forse l'idea era anche quella di dire "Erik
e Christine vogliono solo vivere il loro amore in barba a tutto e
tutti". Piccolo spoiler: Erik non avrà tempo di adirarsi con
Eloise U_U
Meg... Meg... visto il mio amore malato per la storia di POTO
cerco sempre di tirare in ballo quanti più personaggi posso
nelle mie fanfiction e di dar loro un ruolo abbastanza significativo
(vedere cosa combina Carlotta nella precedente fanfiction che ho
scritto XD), quindi qualcosa alla bionda donzella lo dovevo far fare e
mi piaceva che si "riscattasse" per i suoi pregiudizi contro Erik
salvando la situazione dalla furia di BB ^^
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CAPITOLO VENTITREESIMO
Il richiamo del sangue
La paura aveva dita nodose e sottili che gli stringevano il cuore che
pulsava impazzito. Un velo di sudore gli imperlava la fronte e i
muscoli delle gambe tremavano. Ma nonostante questo l'uomo continuava a
correre.
Non stava scappando per nascondersi dai suoi nemici, quegli stessi
nemici che presto sarebbe tornato indietro ad affrontare, non stava
cercando riparo dai segugi che gli stavano dando la caccia. Stava
cercando di mettere in salvo l'unica cosa cara che avesse mai avuto.
Era per lei che aveva paura, era per lei che aveva tremato dopo lo
sparo, quando aveva visto il proiettile conficcarsi in una trave sopra
le loro teste e si era reso conto che quello sparo poteva colpire la
ragazza che gli stava tra le braccia.
Erik aveva calcolato ogni cosa, ma non avrebbe mai potuto pensare che
la determinazione di Bertrand arrivasse a tanto, a sparargli rischiando
di colpire Christine. Avrebbe dovuto sentirsi in colpa per averla messa
in pericolo, ma l'unica cosa a cui riusciva a pensare era a quando
sarebbe tornato indietro e le sue dita si sarebbero strette attorno
alla gola di quel lurido verme e di chiunque si fosse messo di mezzo.
Aveva giurato di non uccidere più, aveva immaginato una vita
diversa, aveva accarezzato l'idea di riuscire a reclamare il suo posto
nel mondo, l'amore che gli era sempre stato negato... ma questo fino a
qualche minuto prima, prima che gli sparassero addosso mentre era con
lei. Sul male fatto a lui poteva sorvolare, tentando di reprimere
l'orgoglio e la prepotenza che lo avevano sempre caratterizzato, ma che
qualcuno rischiasse di fare del male al suo Angelo non poteva
tollerarlo, il Fantasma dell'Opera non avrebbe mai lasciato impunito un
simile oltraggio.
La ragazza gli teneva la mano mentre lui correva, tentava di stare al
passo incespicando sul pavimento di pietra irregolare, senza il
coraggio di fermarsi, di protestare, di chiedergli di rallentare. Lo
seguiva, lasciava che lui la trascinasse nel buio dei sotterranei, nei
cunicoli stretti e freddi, quasi pregando che Dio la rendesse cieca per
non essere costretta a guardarlo in viso quando si sarebbero fermati,
per non vedere gli occhi dell'uomo che amava colmi di rabbia e della
follia che in passato lo aveva tenuto lontano dal suo cuore.
Erik e Christine raggiunsero la Dimora sul Lago dopo quella che
sembrò essere un'eternità. Appena messo piede
sulla sponda di pietra la giovane si accasciò sul pavimento,
strinse le gambe tra le braccia e nascose la testa contro le ginocchia
lasciandosi andare a un pianto colmo di angoscia.
Erik si tolse di dosso la giacca scura e si lasciò scappare
un ruggito incollerito mentre con una mano buttava per aria una pila di
volumi che erano sistemati su una mensola.
«Maledetto!» tuonò cercando di
riprendere fiato.
Nel silenzio che seguì, l'uomo riuscì a sentire i
singhiozzi sordi di Christine. Ognuna delle lacrime che la ragazza
stava versando era un pezzo del suo cuore che si frantumava.
Si voltò a guardarla, la raggiunse e si chinò su
di lei, le fece alzare il viso accarezzandole i ricci scomposti
lasciati liberi dal fermaglio che era caduto durante la corsa,
«Perdonami...» le disse come se solo in quel
momento avesse davvero realizzato il pericolo a cui l'aveva esposta.
La fanciulla strinse le mani attorno alla sua che le stava asciugando
le lacrime con la punta del pollice e sospirò cercando di
ritrovare la calma.
«La pagheranno, amore mio, tutti loro!»
sibilò lui mentre un lampo di furia gli attraversava lo
sguardo.
Christine scosse il capo intrecciando le dita a quelle dell'uomo,
«No... Erik... ti prego» mormorò con la
voce ancora tremula.
Lo sguardo del Fantasma si fece freddo mentre tornava in piedi
allontanandosi dalla stretta della fanciulla,
«Ci sono cose che vanno fatte. Eliminare un pericolo
è una di queste cose» concluse rapidamente, per
poi allontanarsi e cominciare ad armeggiare con delle cose che aveva
conservato in un mobile.
*
Devo inventarmi
qualcosa... devo pensare...
Alexandre camminava davanti a Bertrand e a Raoul. Tenevano il braccio
alzato davanti agli occhi come aveva suggerito loro Madame Giry.
Stavano andando ad affrontare il Fantasma dell'Opera nel suo regno e
sarebbe stato già un miracolo riuscire a sopravvivere tanto
a lungo da trovarlo.
La mente del ragazzo era satura di pensieri e paure, delle immagini
delle ultime ore che vorticavano nella sua mente come scene di un sogno
strano e indecifrabile, come se il suo cervello facesse fatica ad
attribuire un senso a quello che era accaduto: il Fantasma che compare
sul palco, la magia bellissima e spaventosa della sua voce, la
passionalità degli abbracci di Christine, il loro canto
all'unisono, lo sparo e poi la fuga...
Doveva assolutamente inventarsi qualcosa. Bertrand aveva ancora la
pistola, ed era carica. Doveva elaborare una strategia e doveva farlo
prima che arrivassero a destinazione: Bertrand era armato ma Erik era
sicuramente inferocito ed era difficile decidere chi dei due fosse
più pericoloso in quel momento.
«Che intenzioni avete?» domandò Raoul
all'improvviso.
«Bella domanda!» sbuffò Alexandre.
«Non temete, amico mio, se mi sono preso la briga di venire
fin qua giù è perché lo voglio
vivo» asserì Bertrand con un ghigno.
«Non si direbbe...»
«Se prima ho sparato era solo per ferirlo, non per
ucciderlo... se quella sciocca di una ballerina mi avesse lasciato fare
forse a quest'ora...»
«Se Meg Giry vi avesse lasciato fare forse a quest'ora
avreste una ragazza innocente sulla coscienza»
mormorò il giornalista.
«Come siete melodrammatico»
«Smettetela» borbottò Raoul.
«Discutere non ci servirà a niente, pensate
piuttosto a qualcosa da fare... dobbiamo salvare
Christine...».
Alexandre sospirò spazientito e si voltò verso
l'amico
«Raoul, la sorte di Christine è l'ultima cosa al
mondo di cui tu debba preoccuparti! Non hai capito: lui la
ama!» sentenziò in tono irritato.
«E lei ama il mostro, a quanto pare» aggiunse
Bertrand. «Ma meglio accertarcene di persona... per la salute
di mademoiselle Daae, si intende»
«Preoccupatevi della vostra salute piuttosto» lo
schernì il giornalista.
L'investigatore puntò la fiamma della torcia contro il
pavimento, sulla pietra impolverata c'erano delle impronte di due
persone che correvano l'una dietro l'altra.
«Ci siamo...» mormorò l'uomo con un
ghigno compiaciuto.
«Spero che questa volta sappiate tenere a freno il
grilletto» borbottò il giornalista voltandosi a
guardarlo con un'occhiata dura e penetrante.
«Per un attimo avrei giurato che abbiate assunto la stessa
espressione di quel mostro» disse Bertrand.
Erik non è un
mostro... si disse il giovane continuando ad avanzare.
Dopo pochi minuti scorsero una luce provenire dal fondo del corridoio e
sentirono distintamente lo sgocciolio dell'acqua e l'odore dell'umido e
della muffa.
«Spegnete le torce, fate silenzio»
ordinò Alexandre con un filo di voce.
*
Christine era riuscita a rimettersi in piedi, non aveva avuto il
coraggio di dire nulla ma si era fermata alle spalle di Erik e lo aveva
visto fare dei nodi scorsoi a delle corde. Per un attimo nella mente
della giovane si fece strada l'immagine del cadavere di Jospeh Bouquet
che crollava sul palco con il volto deformato dalla paura e la lingua
di fuori.
«Erik, ti scongiuro, ascoltami!» riuscì
finalmente a dire strattonando l'uomo per costringerlo a voltarsi verso
di lei.
«So già cosa stai per dirmi, Christine, e la
risposta è no. Tu non puoi sopportare che io li uccida, ma
io non posso sopportare di saperti in pericolo.» rispose.
«Se fosse stato solo un mio problema avrei potuto sorvolare,
ma sapere che c'è gente che non esiterebbe a farti del male
per colpire me io non posso permetterlo»
«Ma così dimostrerai di non essere migliore di
loro... e poi è Bertrand l'unico responsabile»
«E di quel tuo amico, del giornalista che mi dici? Avrebbe
potuto abbandonare questa impresa, dissociarsi da quel folle macellaio,
ma no! È rimasto qui a sfidarmi in combutta con i miei
nemici!»
«Ti prego tu non puoi... tu non devi fare del male ad
Alexandre! Erik, lui è...».
la frase della ragazza fu interrotta dal rumore dell'acqua smossa
contro le pareti, lo sciabordio leggero di passi che camminavano sotto
la superficie del lago.
Christine ed Erik si voltarono verso l'ingresso del grande antro e
videro tre figure emergere dal buio.
«Guarda, mia cara, abbiamo ospiti»
sibilò il Fantasma con occhi sottili, poi si
voltò verso i tre arrivati e allargò le braccia
con finto fare cerimonioso. «Vi aspettavo, amici miei!
Benvenuti».
Ciò detto, Erik abbassò una leva e la grata che
chiudeva l'ingresso della Dimora sul lago calò pesantemente
con un terribile cigolio metallico pochi centimetri dietro le spalle
dei tre uomini, sollevando schizzi di acqua gelida.
«Sapevo che sareste venuti» continuò
l'uomo, poi guardò Christine. «E tu che mi
chiedevi di risparmiarli! Di usare questa premura a chi non disdegna di
venirmi a braccare fin dentro casa mia!»
«Erik, ascoltate...» tentò di dire
Alexandre.
Il Fantasma dell'Opera saltò oltre la riva piombando in
acqua e dirigendosi verso gli intrusi,
«Sta' zitto ragazzo! Non saresti dovuto venire»
gracchiò.
«Lascia andare Christine!» tuonò Raoul
facendosi avanti con uno scatto deciso. Il giornalista si
voltò verso di lui fissandolo attonito e pensando che gli
slanci di eroismo del suo amico erano l'ultima cosa al mondo che
servivano in quel frangente. Per tutta risposta Erik gli
lanciò uno sguardo di sufficienza,
«Sei talmente un ragazzino viziato, visconte, che non riesci
ad accettare una sconfitta. Christine non è qui contro la
sua volontà» commentò pacato.
Raoul guardò in direzione della ragazza che lo fissava a sua
volta con uno sguardo implorante come a chiedergli di non fare
sciocchezze o a domandargli perdono per aver fatto credere anche lui
che fosse loro complice mentre l'unica cosa che stava facendo era
aiutare Erik a realizzare i suoi piani. A domandargli perdono
perché amava l'uomo che Raoul detestava più di
ogni altra cosa.
«E voi, Bertrand, non dite niente? Avete perso la lingua o
siete buono solo a sparare alle spalle?» proseguì
il Fantasma mentre l'acquamarina dei suoi occhi aveva assunto dei cupi
riflessi color piombo e il suo sguardo sembrava una lama pronta a
trafiggere i loro cuori. I tre uomini ebbero per un attimo la
sensazione di essere completamente disarmati anche se una pistola era
più veloce di un cappio.
Christine era ancora sulla riva a osservare la scena con le mani
strette l'una nell'altra in un gesto quasi di preghiera, con l'angoscia
di chi sa che in quel buio persino Dio non può ascoltare.
«Erik... e così pare che abbiate un
nome» rispose l'investigatore con un'occhiata sprezzante.
«Sarà un piacere scriverlo fuori alla vostra
cella».
Il Fantasma si lasciò sfuggire un ghigno beffardo poi si
avvicinò ad Alexandre,
«Avevi detto che volevi aiutarmi, ragazzo. Bene lasciami il
tuo caro collega e io forse mi dimenticherò quanto tu e il
tuo amico visconte siate stati fastidiosi negli ultimi mesi e vi
lascerò tornare a casa con l'osso del collo
intatto» gli propose.
Il giornalista sgranò gli occhi
«Sapete che non lo farò. Io non ho paura di
voi» concluse in tono solenne.
«Lo so, lo so bene. Ma quello che mi stupisce è
perché ti ostini a difendere questo verme schifoso quando
sai meglio di me che è stato lui ad aggredire quella
ballerina la notte di capodanno».
A quell'affermazione tutti gli occhi dei presenti si puntarono su
Bertrand.
«Che... cosa?...» farfugliò Raoul
sconvolto.
«Volevi giustizia, Alexandre? Lascialo a me»
aggiunse Erik senza badare al visconte che per poco non perse
l'equilibrio per lo sconcerto.
«Voi non siete un giudice, come non lo sono io» concluse
il giornalista puntando gli occhi in quelli del Fantasma.
In quel momento Bertrand si lasciò scappare una risata rauca
e crudele,
«I miei metodi sono sempre sembrati disdicevoli»
commentò, «ma sono solo un uomo disposto a fare
dei sacrifici per perseguire un obbiettivo»
«Il sacrificio non è stato il tuo, razza di
vigliacco!» tuonò Erik con un'espressione furente.
«È stato di quella ragazza, e stuprarla per far
ricadere la colpa su di me non è un sacrificio è
una bestialità che nemmeno uno come me, che vi ostinate a
chiamare mostro, può tollerare!»
«Molto bene» concluse l'investigatore estraendo la
pistola. «Non mi piace conversare con chi è troppo
ostinato. Ora tu verrai con me»
«Avermi vivo è una soddisfazione che non sono
disposto a darti. Dovrai spararmi»
«No...» sussurrò Christine muovendosi a
fatica e calandosi in acqua spinta da una forza che la mandava avanti
per inerzia.
Raoul la guardò con gli occhi colmi di pena,
«Bertrand, mettete via quell'arma»
mormorò sconvolto. Per quanto poteva odiare il Fantasma non
avrebbe mai sopportato l'idea che la sua Piccola Lottie vedesse l'uomo
che amava venir ucciso davanti ai suoi occhi.
«Non vi permetterò di farlo!»
esclamò Christine parandosi davanti alla canna della pistola
quasi senza che gli altri la vedessero arrivare.
Ma fu solo una breve manciata di secondi perché Erik la
spinse via con un gesto repentino, lanciandola tra le braccia di Raoul
e togliendola dal tiro dell'arma.
«Portala via» sussurrò il Fantasma
fissando il visconte negli occhi. Il ragazzo fu abbastanza rapido e
avveduto da afferrare la giovane e stringerla per le spalle prima che
si ribellasse e tornasse davanti a Erik.
«Bertrand, pensate a quello che fate!»
esclamò Alexandre affiancandosi all'investigatore che in
quella breve confusione non aveva abbassato la guardia, ancora indeciso
se sparare e concludere lì la faccenda o tentare di
prendersi la soddisfazione di catturare vivo quel famigerato criminale.
«Pensandoci,» ghignò infine,
«a che serve averti vivo? Il giudice ti manderà al
patibolo nel giro di una settimana!».
Bertrand spinse via Alexandre per impedirgli di intromettersi poi il
click leggero dell'arma che veniva caricata sembrò quasi
rimbombare tra le pareti di pietra, la mano dell'investigatore non
esitò né tremò mentre premeva il
grilletto. Erik non chiuse gli occhi né
indietreggiò ma un istante dopo si pentì di non
aver abbassato le palpebre e di essere stato costretto a guardare la
scena.
Lo scricchiolio metallico del caricatore precedette lo sparo di una
frazione di secondo ma tanto bastò a Christine per
divincolarsi dalla stretta di Raoul e tornare a pararsi tra la canna
della pistola e il petto di Erik.
«No!» gridarono all'unisono tre uomini, ad
eccezione di Bertrand rimasto impietrito per lo shock di aver
nuovamente fallito più che per il rimorso di aver sparato
alla persona sbagliata.
Raoul si gettò sull'investigatore facendolo piegare in
avanti e facendogli cadere la pistola nell'acqua, poi lo spinse via
cominciando a dimenarsi nel tentativo di colpirlo. Quando finalmente
riuscì ad assestargli un colpo in testa lo lasciò
riverso sulla riva privo di sensi e tornò da Christine che
era crollata tra le braccia di Erik.
Un rivolo di sangue scorreva dalla spalla della ragazza lasciando una
scia vermiglia sulla superficie dell'acqua.
«Christine...» chiamò Erik sopraffatto
dall'angoscia.
La ragazza aprì debolmente gli occhi,
«Sto bene...» mormorò con voce spenta
mentre il volto impallidiva.
«Non è grave... non è
grave...» ripeté Raoul sconvolto, tamponando la
ferita con la manica della camicia.
Alexandre era riuscito rimettersi in piedi dopo il colpo di Bertrand
che lo aveva fatto piombare in acqua, arrancando aveva raggiunto Raoul
e Erik entrambi stretti intorno al corpo della ragazza senza forze per
la ferita, il dolore e lo shock.
Fu a malincuore che il Fantasma lasciò scivolare Christine
tra le braccia di Raoul per poi voltarsi con uno scatto furioso verso
il giornalista,
«Sei stato tu!» gridò con la stessa
ferocia di una belva. «Se non fosse stato per te quello
scellerato non avrebbe mai raggiunto casa mia! Se non fosse stato per
la tua maledetta ostinazione! Ti avevo detto di andartene, ti avevo
avvisato, ma ora la pagherai per non avermi ascoltato!».
Così dicendo Erik afferrò il giovane per il
bavaro della giacca e prima che lui avesse tempo di reagire lo spinse
violentemente contro la grata. Alexandre non riuscì a
trattenere una smorfia di dolore mentre la nuca urtava contro il ferro
delle sbarre. L'uomo gli afferrò il tessuto sul davanti
della camicia e lo spinse in alto con una mano facendogli sollevare i
piedi da terra, poi gli strinse le dita dell'altra mano attorno al
collo, sempre più forte fino a quando negli occhi del
giovane non comparve la paura e il suo volto non divenne paonazzo.
«Erik... no, basta...» mormorò Christine
con voce sfinita. «Erik... ti prego».
Alexandre non aveva avuto la forza di chiedere perdono pur sapendo che
ciò che aveva detto il Fantasma era in parte vero, il dolore
di aver fallito, di non essere riuscito a proteggere una ragazza
innocente, stava diventando ancora più forte della paura
della morte. La vista cominciò ad appannarsi mentre l'aria
non passava più nella sua gola stretta nella morsa del
Fantasma.
Christine si aggrappò alla camicia di Raoul e
tentò di mettersi in piedi ma cadde rovinosamente contro il
petto del visconte,
«Erik! No!...» gridò imperiosamente
facendo appello a tutte le sue forze, mentre le lacrime le rigavano il
viso. «È tuo fratello!».
La forza di quel grido scosse il Fantasma ancora di più del
significato di quelle parole che in quel momento avevano
così poco senso per la sua mente sconvolta da ciò
che era accaduto, tuttavia allentò di colpo la presa
lasciando che Alexandre crollasse esanime contro la grata. Il ragazzo
si ritrovò a boccheggiare reggendosi alle sbarre per non
cadere in acqua e tentò di riprendere fiato.
«Fr... fratello?!...» disse tossendo violentemente.
«Come... cosa hai detto? Stai delirando... è il
dolore...» squittì Raoul sgranando gli occhi.
«Christine... dobbiamo portarti da un medico»
commentò Erik rifiutandosi anche solo di valutare la
possibilità che quelle parole fossero vere e concentrandosi
unicamente sul bene della fanciulla.
«Hai sentito cosa ti ho detto?» sussurrò
la giovane guardandolo con decisione mentre si sforzava di tenere gli
occhi aperti.
«Non può essere...» replicò
il Fantasma scuotendo il capo.
La ragazza guardò oltre la sua spalla e osservò
Alexandre avvicinarsi a loro sulle gambe ancora tremanti e con il fiato
corto, muovendosi a fatica con l'acqua che gli arrivava fino alla vita.
«Tu lo sapevi già... lo sentivi...» gli
mormorò la ragazza con un sorriso stanco ma dolcissimo.
Il giornalista deglutì mentre nella sua mente fu come se
fosse esplosa una luce strana che gli stava rivelando di colpo tutto
ciò che in quelle ultime settimane gli era sembrato
così oscuro. Ecco cos'era quello strano legame che sentiva
con Erik, quell'affinità, quel senso di
complicità che gli era apparso tanto irrazionale. Era il
richiamo più antico, quello a cui nemmeno il peggiore degli
uomini può essere sordo: il richiamo del sangue.
Alexandre appoggiò una mano sul braccio di Erik,
«Dobbiamo portarla via, ha bisogno di un medico, ha perso
troppo sangue» gli disse semplicemente.
Il Fantasma scrutò il volto esangue di Christine che ormai
aveva chiuso gli occhi lasciandosi andare a un strano sonno, profondo e
immobile.
Erik la prese tra le braccia e la condusse a riva dove l'avvolse in una
coperta, pensando che per lei avrebbe fatto tutto, anche lasciarsi
aiutare da quelli che fino a poche ore prima considerava suoi nemici.
«Ho la mia carrozza fuori al teatro, possiamo portarla a casa
mia» disse il visconte.
«Casa mia è più vicina»
tagliò corto Alexandre. «E poi... ho bisogno di
parlare con mia madre»
«Non crederai a quello che ha detto?»
esclamò Erik incamminandosi nel cunicolo che spuntava in Rue
Scribe mentre gli altri due lo seguivano. «Era sconvolta e
avrebbe detto qualsiasi cosa pur di impedirmi di ucciderti... ti vuole
così bene che penso che ti taglierei la gola solo per
questo»
«Se credi che sia stato solo un diversivo allora
perché ti sei fermato?» replicò il
giornalista.
«Vi prego, smettetela!» gracchiò Raoul,
voltandosi a guardare Bertrand che giaceva ancora privo di sensi sul
pavimento di pietra, poi richiuse il passaggio segreto alle sue spalle
e si incamminò insieme agli altri due lungo il cunicolo buio
che portava verso l'esterno. Il visconte si sentiva assai prossimo a
svenire, ma non voleva nemmeno immaginare come si sentivano gli altri
che erano con lui!
_________________________________________________
NOTE:
Cosa abbiamo imparato da questo capitolo?
1) che non so scrivere scene d'azione (io lo sapevo
già, ora che lo sapete anche voi mi ritiro nell'angolino per
cinque minuti di vergogna).
2) che non vedo soap-opera e tv in generale, ma ho comunque
una bella dose di conformismo non ancora smaltito riguardo a certi
elementi della trama. Vittorio Alfieri lo diceva che per essere
veramente originali bisognerebbe non aver mai letto nulla.
3) Io e Raoul non andremo mai d'accordo... non ci posso fare
niente...
Tutta la parte di "No! è tuo fratello" non
è una citazione voluta, ma pensandoci dopo un pò
di tempo che l'ho scritta mi ha ricordato la scena de La Maschera di
Ferro (che poi anche lì... Francia, un tizio con la
maschera, un Raoul e una Christine...). Altri cinque minuti di vergogna
anche per questo.
Naturalmente la reazione di Erik e Alex alla notizia non si
esaurisce in questo capitolo, non è che io abbia voluto
creare l'attesa di proposito, ma non ce li vedevo lì a
intavolare una roba tipo puntata di Forum (con tanto di Raoul che
faceva Rita Dalla Chiesa) con Chricrhi in find di vita...
*Fine sproloquio*
Al prossimo capitolo
Capitolo reinserito il 29\12\2011
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Capitolo 27 *** Complicazioni ***
Schifosamente in ritardo
e orribilmente di fretta... talmente di fretta che non ho
nemmeno il tempo di cospargermi il capo di cenere -_-''
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
Complicazioni
Il vuoto ingoiava ogni cosa, dai suoi pensieri, al cigolio delle ruote
della carrozza, al vento freddo che entrava dai finestrini della
vettura.
Erik teneva tra le braccia il corpo esanime di Christine, con le dita
che circondavano il polso sottile della fanciulla per tenere sotto
controllo il battito: le pulsazioni erano deboli ma regolari, lei non
era in pericolo di vita, non ancora almeno, non se avessero medicato al
più presto quella ferita che avevano tamponato alla meno
peggio con un fazzoletto per evitare che la ragazza perdesse altro
sangue. Eppure Erik non riusciva a guardarla, teneva lo sguardo fisso
in un punto impreciso davanti a sé, oltre le spalle dei due
giovani uomini seduti di fronte a lui e lasciava che il vuoto
continuasse ad avvolgerlo per non sentire su di sé gli occhi
di Alexandre che cercavano sul suo volto le tracce di una
verità che il ragazzo aveva accettato ancora prima di
scoprire, e che i suoi pensieri invece rifiutavano persino di
immaginare.
Un fratello, una famiglia. Le risposte che aveva sempre cercato. Tutti
i suoi desideri che prendevano corpo negli occhi limpidi di quel
giovane che solo pochi minuti prima considerava un suo
nemico, quel giornalista ostinato e ficcanaso che aveva
torturato fino allo sfinimento e che aveva quasi ucciso.
No, quella realtà era troppo grande e sconvolgente persino
per il Fantasma dell'Opera!
«Smettila» sibilò Erik in tono irritato,
come se stesse parlando al vento.
«Di fare cosa?» domandò Alexandre,
mentre Raoul corrugava la fronte.
«Di pensare a ciò che stai pensando,
ragazzo».
Il giornalista scosse debolmente il capo,
«Hai davvero così paura di scoprire che quello che
ha detto Christine sia vero?» mormorò lanciando al
Fantasma uno sguardo di sfida.
«Se tua madre fosse la stessa donna che mi ha messo al mondo,
dovresti considerare che è anche la donna che mi ha
abbandonato» replicò l'uomo.
«Se così fosse io non ho nessuna colpa»
concluse secco il giovane.
«Christine può... essersi sbagliata»
ipotizzò Raoul premendo la schiena contro il sedile, come
temendo che la tensione negli sguardi degli altri due potesse
ucciderlo. Era davvero in una carrozza con Christine ferita e il
Fantasma dell'Opera?... Forse si sarebbe svegliato da quell'incubo.
Forse no...
In quel momento la carrozza si fermò davanti al palazzo dove
abitava la famiglia Dubois. Alexandre sospirò pensando che
ora avrebbe dovuto affrontare sua madre, che se ciò che
aveva detto Christine nella grotta era vero, allora c'erano molte cose
che madame Ginette avrebbe dovuto spiegarli: la donna che lo aveva
allevato, che lo aveva amato, che si era presa cura di lui era davvero
la stessa donna che aveva abbandonato suo fratello?
Il giovane ebbe l'impulso di strappare via la maschera di Erik, vedere
cosa c'era di così terribile su quel volto, tanto da
costringere sua madre ad abbandonarlo per poi rimpiangerlo tutta la
vita. Ma si impose di mantenere la calma e di aspettare un momento
più adatto, adesso lui teneva la sua Christine stretta al
petto e quella fanciulla era l'unica cosa di cui dovevano preoccuparsi.
Anche Raoul faceva fatica a controllarsi, la vista della ragazza che
amava esangue tra le braccia dell'uomo che aveva odiato più
di ogni altra cosa lo turbava, ma anche lui si impose di mettere la
salute di Christine prima di tutto il resto e resistette all'impulso di
strapparla dal petto del Fantasma.
Erik osservò la strada deserta e il portone del palazzo, uno
scorcio del mondo da cui si era nascosto, un mondo che mai come in quel
momento suscitava i suoi pensieri peggiori. Tuttavia non
indugiò in simili riflessioni, strinse un po' di
più la ragazza tra le braccia e si incamminò
all'interno dell'edificio preceduto da Alexandre che gli faceva strada
lungo le scale.
Raoul ordinò al cocchiere di andare a chiamare il suo medico
personale e di portarlo lì il più in fretta
possibile, poi entrò anche lui nel palazzo lasciando
sbattere il portone e avviandosi verso l'ultimo piano della palazzina
dove vivevano Alexandre e sua madre.
Il giornalista infilò una pesante chiave di ottone nella
serratura di una porta di legno scuro che si aprì su un
corridoio tappezzato con una fine carta da parati azzurra e arredato
con mobili di mogano.
«Alexandre?» disse una voce femminile dal fondo.
Erik ebbe un sussulto quando oltrepassò l'uscio seguito da
Raoul che richiuse la porta d'ingresso alle loro spalle.
Una donna in vestaglia, con lunghi capelli scuri striati da ciocche
argentate e raccolti in una spessa treccia, fece capolino da una stanza
e andò incontro al figlio.
Madame Ginette si fermò impietrita in mezzo al corridoio
quando scorse l'imponente figura alle spalle del ragazzo. I suoi occhi
si fissarono sgomenti sulla maschera di cuoio che nascondeva
parzialmente il volto dell'insolito visitatore.
Alexandre aprì bocca come per parlare ma ammutolì
di colpo mentre riusciva quasi a percepire il battito del cuore di Erik
alle sue spalle fermarsi per un lungo istante. La reazione di sua madre
valeva più di ogni altra prova.
Raoul scostò indelicatamente il suo amico e fece cenno a
Erik di seguirlo,
«Perdonate l'intrusione e l'irruenza, madame Dubois, ma
Christine ha bisogno di cure» disse semplicemente il visconte
avviandosi verso la camera degli ospiti. Rendersi utile era l'unica
alternativa allo stramazzare svenuto sul pavimento.
Erik passò accanto alla donna senza degnarla di uno sguardo
mentre lei rimase a fissarlo fino a quando non sparì oltre
la porta, poi si voltò a guardare Alexandre con aria
smarrita stupendosi di leggere negli occhi di suo figlio una durezza
che non aveva mai visto,
«So tutto» dichiarò il giovane con voce
fredda. «O meglio ho saputo parte di quello che mi avete
sempre nascosto, il resto esigo che me lo raccontiate ma non
adesso».
Ciò detto Alexandre si avviò per raggiungere la
stanza dove si erano diretti Erik e Raoul insieme a Christine, madame
Ginette trattenne suo figlio afferrandogli la manica del soprabito,
«Aspetta...» gli mormorò con voce
tremula e implorante. «Nemmeno io lo sapevo, l'ho scoperto
quella notte, al ballo di capodanno e...»
«Non importa come e quando, penso che l'unica cosa rilevante
è che mi abbiate fatto credere per anni che piangevate un
figlio morto, quando in realtà lo avevate
abbandonato!» replicò il ragazzo sottraendosi alla
stretta di sua madre e allontanandosi per poi sparire oltre la porta
della stanza.
Erik appoggiò la fronte contro il vetro della finestra e
chiuse gli occhi ascoltando il ticchettio della pioggia che aveva
cominciato a cadere su Parigi e pregando che il rumore dei tuoni in
lontananza potesse sovrastare il brusio doloroso dei pensieri che lo
avevano assalito da quando aveva oltrepassato la soglia di quella casa.
Raoul si sporse a spiare il volto della ragazza che avevano adagiato
sul letto in attesa dell'arrivo del medico. Christine
sollevò debolmente le palpebre e le strizzò
più volte tentando di mettere a fuoco la stanza, ma la vista
era appannata e la testa le doleva in maniera indicibile.
Il visconte la osservò con un moto di ansia mentre lei
tentava di muovere le labbra per parlare,
«Erik...» fu l'unica parola che uscì
dalle labbra smunte.
Con un sospiro Raoul si staccò dal letto e lasciò
che Erik si sedesse al capezzale della giovane.
Christine sollevò lentamente una mano che l'uomo strinse tra
le sue,
«Erik... stai bene?» chiese a fatica.
Il Fantasma sollevò un sopracciglio,
«Amore mio, non sono io ad avere un proiettile in una spalla,
ma avrei preferito un colpo di cannone in pieno petto che un solo
graffio sulla pelle» mormorò con tristezza.
La giovane sorrise,
«Non è niente... starò bene»
gli disse in tono rassicurante.
In quel momento Alexandre entrò precipitosamente nella
stanza e si appoggiò con le spalle contro la porta come a
tentare di chiudere fuori di lì l'angoscia che aveva
cominciato ad attanagliargli lo stomaco.
Christine si voltò a guardarlo e gli fece cenno di
avvicinarsi. Il ragazzo andò verso il letto e si
fermò alla destra di Erik,
«È stata madame Giry a dirmelo»
sussurrò.
«Non parlare Christine, non devi affaticarti» la
interruppe il giornalista in tono apprensivo.
«Il dottore sta arrivando» aggiunse Raoul.
«Smettetela di preoccuparvi per me»
replicò la ragazza. «Voglio che sappiate»
«Christine non...» tentò di dire Erik ma
la giovane lo zittì con uno sguardo così deciso e
penetrante che lui fece quasi fatica a credere che fosse proprio lei.
«È stata Madame Giry a dirmi tutto: madame Dubois
l'aveva accidentalmente sentita mentre parlava di te con Raoul e aveva
capito che tu eri il figlio che lei aveva abbandonato tanti anni prima.
Io e Madame Giry avevamo avuto paura di dirtelo, in mezzo a tutta la
confusione a tutti gli eventi che ci hanno sconvolto in questi mesi non
volevamo aggiungere altre complicazioni ma non potevamo permettere che
voi vi faceste del male, che due fratelli si causassero dolore a
vicenda».
Erik e Alexandre si scambiarono un rapido sguardo indecifrabile,
stavano per dire qualcosa ma Raoul richiamò la loro
attenzione,
«Il dottore è arrivato, sta salendo in
casa!» esclamò indicando la finestra dalla quale
aveva appena visto il medico scendere dalla carrozza ed entrare nel
palazzo. «Tu devi sparire Erik, non puoi farti trovare
qui!»
«Andiamo!» aggiunse Alexandre afferrando l'uomo per
un braccio e trascinandolo via. Lui e Christine si scambiarono una
rapida occhiata colma di tenerezza prima che il ragazzo lo portasse
fuori dalla stanza.
Il giornalista condusse Erik in una camera attigua e chiuse la porta a
chiave. I due restarono ad ascoltare i passi di Raoul che andava verso
la porta per accogliere il dottore, poi sentirono il medico chiudersi
nella stanza con Christine e restarono in attesa.
«Mi avevano raccontato che eri morto» disse
all'improvviso Alexandre fissando tristemente il cerchio di luce
giallastra che una candela disegnava sulla superficie di un tavolino di
ciliegio laccato.
«È la verità. Io non sono il figlio di
tua madre, Alexandre, non sono tuo fratello» rispose Erik in
tono piatto. «I figli sono tali solo quando vengono allevati
dai propri genitori, i fratelli crescono insieme, io e te non siamo
altro che estranei»
«Mia madre ha passato tutta la vita a piangerti, ha sempre
sofferto di crisi di depressione. Anche io trovo orribile quello che ha
fatto, ma sono certo che non è stata una scelta
facile...»
«Nemmeno la mia vita lo è stata. Non chiedere di
mostrare pietà verso chi non ne ha avuta per me»
«Anche io sono arrabbiato con lei in questo momento ma voglio
concederle almeno la possibilità di spiegare, voglio capire
prima di condannare» asserì il giovane in tono
deciso.
Erik gli scoccò un'occhiata penetrante,
«Per te è facile, tu sei il figlio che hanno
amato, la persona brillante... guardati» Erik
indicò i loro riflessi sbiaditi contro l'anta di vetro di
una cristalliera. «Guarda; in questi mesi non c'è
stata una sola persona che non ti abbia stimato, una sola donna in
tutto il teatro che non abbia sospirato per te!»
«Ma tu hai Christine» ribatté Alexandre.
Il Fantasma strinse gli occhi,
«Tu la ami...» asserì con un filo di
voce.
«Non alla tua stessa maniera. La amo come si amano le cose
belle che vanno protette, le voglio molto bene ma il mio affetto o
l'amore di un altro uomo non potrebbe mai competere con ciò
che tu provi per lei, e lei lo sa»
«È la mia vita, la sola cosa che abbia mai contato
davvero nella mia esistenza miserabile e il non essere riuscito a
proteggerla mi fa sentire un maledetto idiota, un buono a
nulla!»
«Anche io avrei voluto proteggerla e anche Raoul, ma devi
ammettere che la tua trovata di piombare sul placo durante la
rappresentazione di stasera è stata piuttosto
folle» disse il giornalista.
«Onestamente, non credevo che Bertrand sarebbe arrivato a
tanto, comunque, hai ragione, sono stato un incosciente e non me ne
pentirò mai abbastanza» borbottò Erik
con un moto di stizza.
«Ormai non è più il caso di
tormentarti, ora devi pensare a Christine»
«Non volevo costringerla a una vita da fuggiaschi insieme a
me, ma temo che dovremmo lasciare Parigi...».
La pioggia si era fatta più fitta, ora martellava incessante
contro le finestre, scrosciando copiosamente sui vetri.
«Puoi contare su di me» disse Alexandre in tono
deciso, parlando al di sopra del rimbombo di un tuono in lontananza.
«Non sei obbligato ad aiutarmi, te l'ho già detto:
non siamo fratelli» rispose l'uomo mettendosi a camminare
nervosamente su e giù per la stanza.
«E invece lo siamo Erik, che tu lo voglia o no. Sono stati i
nostri genitori ad abbandonarti, ma io non commetterò i loro
stessi errori»
«Dio, Alexandre! Sei così altruista da darmi sui
nervi!».
Il ragazzo si concesse una mezza risata,
«Ho sempre saputo che avevi il senso
dell'umorismo!» disse sorridendo.
«E sei anche dannatamente ostinato, quasi
quanto...» aggiunse l'uomo interrompendosi con l'aria di
qualcuno colto in fallo.
«Quanto te» concluse suo fratello guardandolo negli
occhi.
I due restarono in silenzio per lunghi minuti fin quando Raoul non li
raggiunse,
«Che dice il dottore?!» esclamò di colpo
Erik appena lo vide entrare nella stanza notando l'espressione affranta
del ragazzo.
«È fuori pericolo, il proiettile è
stato sparato da una distanza abbastanza ravvicinata e non ha fatto
grandi danni, è riuscito a estrarlo senza fatica e l'ha
medicata. È molto debole perché ha perso molto
sangue ma si riprenderà presto» spiegò
il visconte con voce spenta.
Il Fantasma non fece caso alla sua aria cupa e fece per avviarsi fuori
dalla stanza ma Raoul lo trattenne spingendolo indietro con una mano
all'altezza del petto.
«Che vuoi?» borbottò Erik piccato
«C'è un'altra cosa»
«Cioè?».
Raoul deglutì come se stesse ingoiando un boccone amaro e
strinse i pugni con fare rabbioso,
«Il dottore ha detto che Christine è
incinta» concluse in tono adirato.
«Oh mio Dio...» sussurrò Alexandre
spalancando gli occhi.
Erik ebbe la sensazione che ogni cellula del suo corpo fosse divenuta
di pietra, l'aria non riusciva ad arrivare ai polmoni e gli occhi
confondevano la stanza e il volto del visconte davanti al suo facendo
diventare ogni cosa un misto di macchie sfocate.
«Che cosa hai detto?» farfugliò
incredulo.
«Mi hai sentito benissimo!» esclamò
Raoul. «Come hai osato?!»
«Credi che lo sapessi? Credi che se l'avessi saputo l'avrei
fatta salire su quel palco?!» tuonò il Fantasma
furente.
«No, come hai osato approfittare di lei, della sua
innocenza?» precisò il visconte con il volto che
gli si arrossava per la collera.
«Credi forse che l'abbia costretta? Credi che l'abbia
manipolata per farle fare qualcosa che non voleva? Non ti permetto di
offendermi in questo modo, né di considerare lei uno sciocca
ingenua che si lascia sedurre dal primo arrivato. Io la amo Raoul, e
lei ama me, fattene una ragione!»
«E questo credi ti dia il diritto di disonorarla?!»
«Ah già, perché nel tuo mondo l'amore
è un contratto, una specie di asta, una lotteria per
scegliersi la fanciulla più ricca e più
virtuosa!» esclamò Erik in tono canzonatorio.
«E tutto quello che sapete fare è pensare
all'onore e alle vostre anime che ritornano immacolate dopo aver
recitato un rosario, non importa quanta gente lasciate a morire di fame
fuori dalle vostre case, quanti disgraziati ignoriate e permettete che
marciscano nella loro miseria! Non credere di essere in condizione di
farmi la morale, ragazzino, non pensare di poter giudicare le mie
azioni o quelle di Christine!»
«Perché tu al mio confronto saresti un
grand'uomo?! Tutta Parigi vuole la tua testa mentre di là
c'è una ragazza stesa in un letto con tuo figlio in
grembo!»
«Basta!» tuonò Alexandre allontanando i
due uomini con una violenta spinta.
«Adesso non vorrai prendere le sue parti?!»
esclamò Raoul con fare offeso.
«Come se ci fossero parti da prendere!»
replicò il giornalista esasperato. «L'unica cosa
che conta qui è che Christine adesso ha bisogno di tutto il
nostro affetto, non del suo uomo e di un suo amico che litigano come
cani rabbiosi!»
«Esattamente» tagliò corto Erik.
«Io vado da lei!».
Il visconte lo seguì fuori dalla stanza ma Alexandre lo
trattenne per l'orlo della manica,
«È la loro vita Raoul, temo che tu debba starne
fuori» concluse in tono perentorio.
«Già... dopo questo credo mi ci vorrà
qualcosa di forte» borbottò il ragazzo.
«Per favore, offrimi da bere...».
Il giornalista fece cenno all'amico di mettersi seduto attorno al
tavolino, poi aprì il vano inferiore della cristalliera e ne
estrasse una bottiglia di cognac e due bicchieri a calice larghi e
bassi.
I due giovani bevvero d'un fiato poi si fissarono con un lieve
imbarazzo, con il disagio di chi sa che il proprio migliore amico sta
vivendo qualcosa di troppo grande e complesso per riuscire a
comprenderlo. Alexandre aveva appena scoperto che l'uomo a cui aveva
dato la caccia nei mesi precedenti in realtà era suo
fratello mentre Raoul si era reso conto che non avrebbe mai potuto
avere la donna che amava e che lei aspettava il figlio di un altro.
«Come stai?» blaterò il visconte
versandosi dell'altro liquore.
«Credi davvero che esistano parole per spiegarlo? Tu
piuttosto come stai?» rispose il giornalista con un sospiro.
«Credo che l'unica parola che esista per spiegarlo sia:
annientato»
«Io invece mi sento come se ogni cosa, tutto quello che ho
sempre pensato, tutto quello che ho sempre vissuto, fosse stato fatto a
pezzi e poi rincollato in un modo totalmente diverso da com'era prima.
Mi sento smarrito...»
«Dio, vorrei tornare all'anno in cui ti ho conosciuto...
tutto questo era così lontano e inimmaginabile»
«Le cose vanno sempre in una direzione, Raoul, è
giusto che le vite delle persone si evolvano, cambino...»
replicò Alexandre poggiando il bicchiere sul tavolino.
«D'accordo, ma direi che il destino si è
sbizzarrito con noi nelle ultime ore!» esclamò il
visconte scuotendo il capo.
«Anche questa situazione evolverà, vedrai, prima o
poi le cose si rimetteranno a posto»
«Tu hai trovato un fratello... una persona del tutto
discutibile, ma pur sempre un fratello, io invece ho perso un
amore»
«Non lo hai perso: non lo hai mai avuto. Mi dispiace amico,
sul serio, ma non è la tua ultima occasione di essere
felice, un giorno te ne renderai conto».
Il visconte sospirò,
«Torna a ripetermelo quando sarò un vecchio solo e
ingrigito!» borbottò.
Alexandre gli tirò una pacca affettuosa sulla spalla e
sorrise, in quello stesso momento madame Ginette comparve sull'uscio
della porta.
*
Erik si sedette sul bordo del materasso e accarezzò
dolcemente il viso di Christine, sistemandole alcune ciocche di capelli
che le si erano attaccate sulla fronte. Lei aprì piano gli
occhi e bastarono una manciata di secondi perché il suo
sguardo si facesse lucido di lacrime,
«Oddio... Erik...» mormorò cominciando a
piangere.
L'uomo le sorrise rassicurante,
«Voglio sperare che siano lacrime di gioia» le
disse fingendo una sicurezza e una tranquillità che non
aveva.
«Non lo so...»
«Christine, sono stato un incosciente. Ho desiderato il tuo
amore e la tua vicinanza più di ogni altra cosa, senza
rendermi conto che non avevo nulla da offrirti, ma adesso... non so
cosa farò, ma ti giuro che ogni mio singolo respiro non
avrà altro scopo che quello di renderti felice»
«Io ti amo... questo basta».
Erik le appoggiò una mano sul grembo coperto da una spessa
trapunta che la teneva al riparo dal freddo della notte ormai inoltrata,
«Sì, ma credo che lui abbia bisogno di qualcosa di
più» concluse in tono calmo.
«Andiamo via, lasciamo Parigi, riprendiamoci la nostra vita
dove il mondo non potrà farci del male!»
«Il mondo è pronto a far del male ovunque e a
chiunque, ma se nel nostro destino c'è un po' di pace, la
troveremo, te lo prometto...»
«Grazie...»
«Adesso riposa però»
«Sì, ma... Erik, puoi fare una cosa per
me?» domandò la ragazza stringendo con ansia la
mano dell'uomo.
«Certo» rispose lui mentre le rimboccava le coperte.
«Parla con madame Dubois. Lo so, lo so che è
terribile quello che ha fatto, ma dalle almeno la
possibilità di spiegarti, sarebbe un peccato perdere una
famiglia appena dopo averla ritrovata» disse Christine.
Erik sospirò e alzò gli occhi al cielo,
«Sono le stesse cose che ha detto Alexandre»
borbottò.
La fanciulla accennò un sorriso
«È un ragazzo così meraviglioso che non
c'è da stupirsi che sia tuo fratello»
sospirò per poi chiudere gli occhi e abbandonarsi a un
profondo sonno ristoratore.
*
Madame Ginette camminò lentamente verso il centro della
stanza e si fermò di fronte a suo figlio. L'angoscia e lo
stupore le attanagliavano la gola e le annebbiavano i pensieri, ma si
impose di essere lucida e di trovare le parole adatte.
«Mi dispiace, Alexandre, io non potevo immaginare»
sussurrò.
Il ragazzo scosse il capo,
«Avreste dovuto dirmelo prima» disse.
«Avrei dovuto fare tante cose. Avrei dovuto essere
più forte di tuo padre e non lasciare che mi costringesse ad
abbandonare tuo fratello, ma la mia debolezza non è una
giustificazione»
«Dunque è stato mio padre?»
«Sì. La levatrice disse che era una forma di
infezione delle pelle, qualsiasi cosa fosse sai che tipo d'uomo era tuo
padre, voleva che ogni cosa fosse perfetta, per questo lo ha rifiutato
ed è per questo che si è accanito così
tanto su di te, sul fare in modo che tu diventassi qualcuno».
Alexandre deglutì,
«Io ero il suo risarcimento per il figlio che non aveva
voluto» disse con amarezza.
Raoul gli posò una mano sulla spalla in un gesto di
conforto. Avrebbe voluto trovare qualcosa da dire, qualcosa da fare che
potesse in qualche modo alleviare quella situazione, ma non
poté fare altro che alzarsi e uscire per lasciare a madre e
figlio la loro intimità.
«La vita con lui è stata terribile anche per
me» proseguì madame Ginette ricordando i lunghi
anni trascorsi con suo marito, con quell'uomo che le era sembrato
così perfetto e che invece si era rivelato un despota.
«Ma mai quanto il rimpianto per Erik. Sai come è
stata misera la mia esistenza... ma non voglio la tua pietà
o la sua. Ho dovuto mentirti per dare almeno a te la
serenità che non ho potuto avere io, ora vorrei solo essere
perdonata, ma non so quanto lo merito, non dopo aver visto cosa
n'è stato di lui... il Fantasma dell'Opera... se non fossi
stata tanto meschina la creatura che tutti hanno temuto così
tanto non sarebbe esistita»
«Erik ha solo cercato di riprendersi la sua
vita...»
«La vita che io gli ho tolto, intendi dire. Ma il vero orrore
in tutta questa storia è che avete rischiato di farvi del
male, di spargere il vostro stesso sangue, è un pensiero che
non riesce a darmi pace. Sarò maledetta per
sempre!». Così dicendo Madame Ginette si
voltò e si nascose il volto tra le mani in un moto di
vergogna e angoscia, Alexandre si alzò e le si
avvicinò incerto se consolarla o lasciarla a consumarsi nel
rimorso. Nemmeno lui sapeva cosa fare, cosa pensare, ma in quel momento
la porta si aprì e Raoul entrò trafelato.
«Che altro c'è ancora?!»
sospirò il giornalista in tono esasperato.
«I gendarmi! Con Bertrand! Stanno venendo qui!»
esclamò il visconte.
«Erik!» esclamarono all'unisono Madame Ginette e
suo figlio.
Alexandre si lanciò fuori dalla stanza e raggiunse il
Fantasma che era rimasto in piedi a vegliare su Christine,
«Stanno venendo a prenderti» bisbigliò
il ragazzo per non svegliare la fanciulla addormentata, poi
trascinò Erik fuori dalla camera.
«Cosa diavolo?...» replicò lui seccato.
«Bertrand ha portato i gendarmi qui! Devi
nasconderti»
«Bertrand! Perché non lo avete ucciso?! Ah, tu e
il tuo buonismo!».
Alexandre sospirò stizzito,
«Non ho nessuna intenzione di discutere di etica e omicidi in
questo momento!» replicò.
«Molto bene, allora dovrai farti venire qualche idea prima
che il tuo compare salga le scale insieme ai suoi amici»
borbottò Erik.
«Ma se sei tu quello abituato a sparire nel nulla!»
si intromise Raoul che li aveva raggiunti.
«Questa casa non è il mio teatro»
«Ma per fortuna questa casa è all'ultimo
piano» asserì il giornalista indicando la finestra.
Il Fantasma si sporse fuori e calcolò la distanza dal
davanzale al suolo. Erano al quinto piano di un'enorme palazzina, una
caduta da una simile altezza non gli avrebbe lasciato un solo osso
intatto in tutto il corpo.
«Magnifico! Così se cado non vi farete venire i
sensi di colpa» sibilò.
«Insomma, vuoi muoverti?! Se ti trovano qui non
sarà solo la tua testa che il boia farà
cadere!» esclamò Raoul.
«Non vorrei mai che la lama della ghigliottina rovinasse la
tua chioma dorata, visconte» ghignò il Fantasma.
«Erik! Maledizione!... Sul tetto!»
gracchiò Alexandre un attimo prima che una violenta bussata
alla porta li facesse sobbalzare.
La pioggia aveva certamente reso le tegole scivolose e il giornalista
si rese conto che far arrampicare Erik fuori dalla finestra era una
follia, ma non avevano altra scelta.
L'uomo rivolse ai due giovani uno sguardo beffardo poi, prima che se ne
rendessero conto, sparì con un balzo oltre il davanzale come
se fosse stato risucchiato dal cielo buio della notte.
____________________________
Si... ok... il risvolto "cicognoso" era scontato.
Come omaggio per chi non ha già impungato i
pomodori marci da lanciare all'autrice offro la COLONNA SONORA per
il capitolo (per la serie "si ride per non piangere").
Al prossimo aggiornamento.
Capitolo reinserito il 29\12\2011
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Capitolo 28 *** La fuga ***
Dopo sei ore di studio intensivo, trascorse a mandare a
memoria tutta la terminologia tecnica del linguaggio cinematografico,
l'autrice dichiara di non essere in possesso delle proprie
facoltà mentali, indi rinvia le risposte alle recensioni al
prossimo aggiornamento che, si spera, avverrà in tempi
più rapidi di questo.
Intanto si ringraziano tutti i seguitori
***************************
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
La fuga
«Aprite!» la voce che pronunciò
quell'ordine era aspra e seguì tre pesanti colpi alla porta
di ingresso della casa.
Madame Ginette lanciò un'occhiata nervosa verso suo figlio,
Alexandre le fece cenno di andare ad aprire,
«Manteniamo tutti la calma» sussurrò
assicurandosi che sia sua madre che Raoul udissero la sua
raccomandazione.
La donna si strinse nella vestaglia e aprì il battente
ricordando a se stessa che, se poteva fare qualcosa per il
figlio che aveva abbandonato, quello era il momento di farlo.
«Monsieur Bertrand!» esclamò fingendo
una smorfia di fastidio davanti all'espressione dura dell'investigatore.
«Perdonate il disturbo, madame Dubois»
borbottò l'uomo con un tono tutt'altro che di scusa.
«Na dovete lasciarci passare»
«Non abbiamo niente da nascondere»
replicò lei con fermezza.
«Allora non avrete problemi a lasciare che i signori della
gendarmeria perquisiscano casa vostra»
«Nessun problema» esclamò una voce
tranquilla dal fondo del corridoio. Alexandre avanzò
lentamente verso l'ingresso e Bertrand entrò con uno scatto,
quasi buttando per aria madame Ginette che era ancora davanti alla
porta.
«Dov'è lui?» ringhiò
l'investigatore fissando il giovane con aria truce.
«Lui chi?»
«Erik!».
Alexandre sorrise tranquillo,
«Non ne ho idea» disse con un tono talmente soave
che il volto dell'uomo arrossì per la collera. Nel frattempo
Raoul raggiunse anche lui il corridoio e si avvicinò al
capitano della gendarmeria,
«Che cosa sta succedendo?» chiese.
«Monsieur Bertrand ci ha detto di essere stato con voi nei
sotterranei e che avete aiutato il Fantasma a scappare»
rispose l'ufficiale.
«Uhm, e Monsieur Bertrand vi ha anche edotto riguardo al
fatto che ha ferito mademoiselle Daae e che ha confessato di essere
responsabile dello stupro della ballerina aggredita la notte di
capodanno?» intervenne Alexandre.
«Non ho ferito Mademoiselle Daae, è lei che si
è messa di mezzo mentre cercavo di fermare quel criminale
del Fantasma! In quanto all'aver ammesso lo stupro, lo state affermando
voi, ma non potete provarlo» replicò
l'investigatore allargando uno dei suoi sorrisi melliflui.
«Ero presente anche io. La parola di uno stimato giornalista
e di un visconte di Francia contro la vostra, Bertrand»
aggiunse Raoul.
I gendarmi fissarono basiti l'uomo che strinse i pugni nel tentativo di
trattenersi dall'assestare un colpo sul naso di quel ragazzino
impudente.
«Uno stimato giornalista e un visconte che si stanno rendendo
complici di un assassino!» esclamò.
«Quale rilevanza possono mai avere le vostre
parole?»
«Complici di un assassino?» domandò
Madame Ginette fingendo di non capire.
Il capitano della gendarmeria sospirò
«Monsieru Bertrand sospetta che il visconte e vostro figlio
abbiano condotto qui quell'uomo conosciuto come il Fantasma dell'Opera
insieme a Mademoiselle Daae» spiegò.
«Mademoiselle Daae è qui, ferita da un colpo di
pistola sparato dal nostro amico Bertrand»
borbottò Alexandre. «L'abbiamo portata via dopo
una breve colluttazione nel sottopalco del teatro, in cui il visconte
si è visto costretto a colpirlo dal momento che non voleva
abbassare l'arma. Del Fantasma dell'Opera non sappiamo che dirvi, di
certo non è qui. Controllate pure se volete».
Il capitano annuì e fece cenno ai suoi uomini di ispezionare
la casa. Bertrand seguì i gendarmi durante la perquisizione
preoccupandosi di controllare personalmente ogni stanza, dentro ogni
armadio e sotto ad ogni letto.
«Qui non c'è nessuno» concluse un
gendarme scuotendo il capo.
«Non è possibile! Deve essere da qualche parte!
Con loro!» tuonò Bertrand irritato.
«Ma come vedete, non c'è» concluse
Alexandre scrollando le spalle.
«Impossibile! Non sarebbe mai scappato abbandonando la sua
sgualdrina!»
«Monsieur, moderate i termini quando siete in casa
mia!» tuonò madame Ginette con fare indignato.
«Apostrofare in quel modo quella povera anima che
adesso è inferma in un letto a causa vostra!».
L'investigatore trattenne a stento un moto di stizza, poi
sentì un spiffero soffiare contro la sua nuca e si
voltò di scatto verso una finestra socchiusa,
«La finestra!» esclamò. «Lo
avete fatto scappare da lì! Voglio che degli uomini salgano
a controllare il tetto!».
Una morsa di agitazione strinse lo stomaco di Raoul, Alexandre e sua
madre, tuttavia mantennero la calma mentre il capitano si affacciava al
davanzale e guardava verso l'alto.
«Con tutto il rispetto, monsieur Bertrand, ma è
improbabile che quell'uomo sia scappato da qui»
asserì l'ufficiale. «Piove ancora molto forte e il
tetto sarà certamente troppo scivoloso perché
qualcuno possa arrampicarsi, se il Fantasma ci avesse provato sarebbe
certamente caduto e siamo a un quinto piano! Che il diavolo mi porti se
qualcuno ha avuto il fegato di arrampicarsi su un tetto in una notte
come questa!».
Nell'udire quelle parole madame Ginette pregò tra
sé e sé che non fosse capitato niente a Erik
mentre sgattaiolava fuori e cercò di resistere all'impulso
di affacciarsi a ogni finestra della casa per controllare se fosse
riverso in strada.
«State dimenticando che quell'uomo è stato capace
di sparire nel nulla davanti a un teatro intero!»
replicò l'investigatore in tono spazientito.
«È meglio se mandate i vostri uomini a
controllare»
«Sarebbe un suicidio! Scivolerebbero di sotto! Nessuno
può essere scappato da qui, se lo avesse fatto a quest'ora
avremmo il suo cadavere schiantato sul ciottolato»
protestò ancora l'ufficiale.
Bertrand sbuffò con rabbia, poi si voltò verso
Alexandre e lo guardò con un'occhiata penetrante,
«Perché lo fate? Perché lo state
aiutando? Come diavolo vi è venuta questa malsana idea di
farvi complice di quel mostro?» domandò con
un'espressione più delusa che adirata.
Il giornalista gli si avvicinò con passo lento pensando che,
grazie a Dio, quando Christine aveva urlato a Erik che loro due erano
fratelli, Bertrand fosse privo di conoscenza e che quindi non l'aveva
udita,
«La caccia è finita» gli
mormorò guardandolo negli occhi. «Fatevene una
ragione»
«La caccia non è finita, ragazzo. Lo
troverò. Vivo o morto» sibilò l'uomo.
«Per sicurezza i miei uomini pattuglieranno la
zona» aggiunse il capitano. «Ma voi adesso dovete
seguirci, monsieur»
«Come dite?»
«Dovete venire con me alla gendarmeria»
precisò l'ufficiale. «Monsieur Dubois e il
visconte De Caghy vi hanno mosso accuse piuttosto serie, dobbiamo
quanto meno discuterne».
Bertrand non parve scomporsi,
«Accuse che non possono essere provate, vi ricordo»
asserì tranquillo.
«Se la mettete così nemmeno le accuse che voi
avete mosso a mio figlio e al visconte possono essere provate, anzi mi
pare che le prove raccolte fin qui giochino a loro favore»
borbottò madame Ginette. «Li avete accusati di
nascondere un criminale che di fatto non è nascosto
qui!»
«Vedete, madame, se ne aveste viste tante quante ne ho viste
io sapreste che le apparenze ingannano» concluse freddamente
l'investigatore prima di uscire seguito dai gendarmi.
Alexandre chiuse la porta alle loro spalle e rimase ad ascoltare i loro
passi che scendevano le scale, poi li guardò dalla finestra
uscire dal palazzo e allontanarsi lungo la strada.
Era evidente che Erik non fosse caduto, altrimenti se ne sarebbero
accorti. Probabilmente era rimasto appostato sul tetto, sotto la
pioggia fino a quando non aveva visto i poliziotti andare via.
«Perché non scende? Dove è
finito?!» borbottò Alexandre notando che erano
passati diversi minuti da quando i poliziotti si erano allontanati e
l'uomo non accennava a rientrare, mentre fuori continuava a piovere e
madame Ginette sembrava sempre più ansiosa.
«E se nel frattempo è sceso in strada e qualcuno
lo ha visto?» esclamò la donna preoccupata.
«No, non è così stupido da farsi
vedere! Dannazione è notte fonda e sta diluviando, non
c'è nessuno in strada a parte i gendarmi»
borbottò il giornalista.
«Non è così stupido da farsi trovare ma
è abbastanza pazzo da aver fatto qualche follia»
commentò bieco Raoul.
«E cioè?»
«Scommetto tutti i possedimenti della mia famiglia che
è tornano al teatro» disse il visconte.
Alexandre sgranò gli occhi,
«E perché mai avrebbe fatto un simile
idiozia?!» esclamò.
«Perché, nel caso tu non te ne fossi accorto, il
nostro caro Fantasma è un pazzo!»
«Perché sta rischiando in quel modo?!... Oddio, ha
visto Bertrand e vuole vendicarsi»
«Alexandre, vallo a cercare!» disse madame Ginette
allarmata.
«Non posso, se i gendarmi mi vedono in giro capiranno che lo
stiamo aiutando, o comunque potrebbero insospettirsi»
replicò il ragazzo.
«Ma se uccide Bertrand non farà che complicare la
situazione, ammesso che possa complicarsi più di quanto
già non lo sia!» aggiunse Raoul.
Alexandre si lasciò cadere stancamente su una poltrona,
«Temo che non possiamo più fare altro»
ammise con un sospiro. «Dobbiamo solo aspettare»
«E sperare che Christine non si svegli e non si accorga della
sua assenza» concluse il visconte.
*
Il tetto era pericolosamente scivoloso con tutta quella pioggia che
continuava a cadere. Arrampicarsi fin lassù era rischioso,
ma non per lui. Non per il Fantasma dell'Opera, abituato a scale,
cunicoli bui e umidi e funi. Quelle imprese spericolate erano state il
divertimento della sua infanzia.
Salire, arrampicarsi
fino in cima, sulle statue di bronzo del parapetto a un passo dal vuoto
e a un palmo dal cielo... andare via dal fango e, chissà,
magari anche dal dolore.
Erik era arrivato in cima alla palazzina ed era rimasto rannicchiato
sotto la fitta pioggia che picchiettava pungente sulle spalle e sulla
testa, nascosto dall'acqua scrosciante e dal buio della notte.
Dall'alto aveva visto il piccolo drappello di gendarmi guidati da
Bertrand entrare nel palazzo e uscirne molto tempo dopo. Aveva deciso
di scendere, lo avrebbe trovato, lo avrebbe preso e finalmente avrebbe
liberato il mondo da quell'essere.
Raggiunse con prudenza la strada e si nascose dietro l'angolo
dell'edificio a spiare il capitano dei gendarmi dare disposizioni per
pattugliare il quartiere e tutta la zona vicino al teatro.
Quando la pattuglia si fu allontanata, l'uomo cominciò a
camminare cauto, rasente il muro, facendo molta attenzione a rimanere
sempre nel buio del cono d'ombra proiettato dalle sagome degli edifici.
In fondo alla strada vide uno scorcio della piazza e il profilo del
maestoso palazzo che ospitava l'Opera Populaire, sospirò
mentre si rendeva conto che i suoi vestiti erano zuppi di acqua e per
la prima volta dopo tanto tempo provò paura, quella paura
infantile e spiazzante del bambino che si perde nella folla e non
riesce a ritrovare la mano di sua madre.
La pioggia continuava a cadere, scivolando sul suo viso in grossi
goccioloni dal sapore di ruggine che gli colavano dal mento, come a
ricordargli che ora sì che era soltanto un uomo!
Erik deglutì nervosamente e si terse la pioggia dal viso con
un gesto stizzito, poi sentì una voce provenire da una
viuzza laterale,
«Dovete fare molta attenzione» disse quella voce
che ormai aveva imparato a riconoscere con lo stesso fastidio con cui
il suo fine orecchio da musicista coglieva una nota stonata in una
sinfonia. «Dovete cercare in ogni angolo, dovunque! E per
l'amore del cielo! Non siate spaventati come galline, con ogni
probabilità quell'uomo è disarmato».
Erik spiò silenziosamente Bertrand che impartiva ordini e
raccomandazioni a un piccolo drappello di gendarmi che stringevano
ansiosi le mani attorno alla canna del loro fucile. L'ordine era quello
di sparargli a vista.
Con la coda dell'occhio l'uomo scorse una spessa corda legata alle
estremità di una ringhiera, probabilmente serviva per
stendere il bucato. Sciolse la fune e ne testò la resistenza
poi le fece un nodo scorsoio da un lato e stringendo il cappio tra le
mani avanzò nel buio nella direzione in cui si era diretto
Bertrand.
Due occhi attenti notarono la sagoma scura sfrecciare rapida tra due
palazzine come un'ombra che scompare non appena si sposta
l'inclinazione della lampada. La figura, che reggeva una piccola sacca
di cuoio e che camminava proteggendosi dalla pioggia con un pesante
mantello di lana scura, si lanciò all'inseguimento
dell'ombra e la raggiunse alle spalle.
Erik aveva appena trovato Bertrand. L'investigatore si era fermato
sotto la tettoia di un'edicola a fumare un sigaro fissando davanti a
sé con un'espressione di odio rabbioso, come se fosse
convinto che la città stessa fosse complice del suo nemico,
come se la notte, la pioggia, il buio fossero tutti alleati dell'uomo a
cui stava dando la caccia.
Il Fantasma dell'Opera fece il giro dell'isolato raggiungendo la viuzza
che sbucava alle spalle dell'edicola dove era fermo l'uomo. Il suo
cuore non accelerò di un solo battito, il suo respiro si
mantenne regolare mentre stava per scattare in avanti e lanciare il
cappio in direzione del collo dell'investigatore, ma quasi
inciampò sul ciottolato scivoloso quando una voce alle sue
spalle chiamò il suo nome in un lieve sussurro.
Erik si voltò con uno scatto spaventato per ritrovarsi
davanti Madame Giry avvolta in un mantello ormai zuppo. Con una velata
aria di rimprovero mista ad apprensione, la donna gli
strappò via la corda di mano e lo tirò per un
lembo del mantello,
«Sei pazzo?» mormorò aspramente.
«Vuoi ucciderlo in mezzo a una strada dove potrebbe passare
chiunque e scoprirti! Vuoi davvero finire in prigione?!»
«Diavolo, Eloise! Quando smetterai di pensare che l'unico
scopo della tua vita è salvarmi?»
borbottò lui irritato.
La donna lo trascinò via e si allontanarono a grandi passi
infilandosi in un labirinto di viuzze secondarie dove i gendarmi non
erano ancora arrivati a controllare,
«Quando la tua vita non sarà più legata
a quella di una persona che amo» replicò Eloise.
«Ma credo che questo non accadrà mai, quindi...
lei dov'è?»
«A casa dei Dubois»
«Ah...»
«Sì, so tutto. Il danno insieme alla
beffa» commentò Erik cupo.
Madame Giry si morse il labbro e sospirò,
«Ho delle cose con me» gli disse mostrandogli la
sacca che reggeva tra le mani. «Sono dei vestiti e del
denaro, pensavo vi sarebbero serviti».
I due raggiunsero il palazzo dove abitava la famiglia Dubois, dovettero
aspettare che la pattuglia si allontanasse per entrare.
«Cosa è accaduto nel frattempo nel
teatro?» domandò Erik mentre lui ed Eloise
salivano le scale tremando per il freddo sotto i vestiti bagnati.
«Il pubblico è scappato via, i direttori sono
arrivati a un passo dall'infarto... c'è stata una gran
confusione tra chi voleva venirti a cercare e chi ha pensato che non
fosse il caso di rischiare» rispose la donna scrollando le
spalle.
«Christine aspetta un figlio» aggiunse secco il
Fantasma.
Madame Giry si bloccò per un istante stringendo le dita sul
corrimano di ferro battuto ma non disse nulla,
«Andrà tutto bene» sussurrò
poi.
«Certo...» blaterò Erik con poca
convinzione.
«Oh, mio Dio ti ringrazio!» esclamò
Madame Ginette quando vide Erik comparire sulla soglia, per poi
sobbalzare stupita quando vide Madame Giry alle sue spalle.
«Dove diamine sei stato?!» borbottò
Raoul guardando con aria di rimprovero i vestiti bagnati dell'uomo.
«Hai idea dello spavento che avrebbe preso Christine se si
fosse svegliata?!».
Erik lo fissò con un ghigno canzonatorio,
«Che c'è, visconte? Ti stai affezionando a
me?» borbottò.
Il giovane sospirò di esasperazione poi si offrì
di accompagnare Madame Giry da Christine mentre Alexandre si accostava
a Erik,
«Dobbiamo andarcene» gli disse. «Ho un
piano».
Il Fantasma roteò gli occhi con aria di sopportazione,
«Cos'è che ti fa sentire in dovere di farmi da
balia?» domandò. «Il senso di colpa o
qualche altro maledetto sentimentalismo di cui non riesco ad afferrare
il senso?»
«Ah, ti prego non cominciare! Tu devi lasciare Parigi e non
puoi farlo da solo»
«Nel caso non lo avessi notato, ho imparato a camminare
diversi anni or sono»
«E, sentiamo un po', grand'uomo, dove hai intenzione di
andare?»
«Non ci ho ancora pensato».
Alexandre sospirò,
«Allora se vogliamo optare per il piano migliore direi che
dobbiamo scegliere il mio» concluse.
«Scusa, ma sono stato troppo occupato a scappare dal tuo
amico investigatore e a preoccuparmi di Christine per formulare un
piano che fosse all'altezza dei tuoi lampi di genio!»
replicò Erik aspro.
«Dunque, abbiamo la carrozza di Raoul che ci
porterà fino a casa mia, a Saint-Gaudens... è
dove sei nato» spiegò il ragazzo.
Immagini di un'infanzia mai vissuta soffiarono tra i pensieri di Erik
come brezza primaverile ma l'uomo di costrinse a ignorarle e a rimanere
lucido.
«Dove sarebbe?» chiese asciutto.
«È una piccola cittadina dei Pirenei, a qualche
chilometro da Tolosa, vicino al confine con la Spagna».
Erik sgranò gli occhi,
«È praticamente dall'altra parte del
Paese!» esclamò.
«Sì, ma tu capirai che non c'è
scelta» asserì deciso il giornalista.
«Lì non ci verranno a cercare. È il
posto dove sono cresciuto, dove è sempre vissuta la nostra
famiglia e, con un po' di fortuna, la storia del Fantasma dell'Opera
non sarà arrivata fin lì. Poi appena Christine
sarà in condizioni di viaggiare ti raggiungerà e
una volta tornati insieme deciderete cosa fare»
«Mi stai chiedendo di lasciarla qui?»
«Non te lo sto chiedendo... pensavo ci arrivassi da solo: tu
devi andartene al più presto e lei non è in
condizione di viaggiare, pensavo che la tua mente geniale risolvesse da
sola certi sillogismi».
Erik arricciò le labbra,
«Da come la metti tu sembra che non ci siano altri
modi» concluse.
Alexandre aprì la finestra e guardò fuori,
«Tra qualche ora sarà giorno e sarà
difficile andarcene senza farci scoprire» gli disse.
«Quindi è meglio se decidi in fretta. Io vado a
fare i bagagli, nel caso il tuo poco buonsenso ti facesse ragionare,
almeno sarò pronto per partire»
«Dovresti ascoltarlo» si intromise Madame Ginette,
che in tutto quel tempo era rimasta sulla soglia del salotto a guardare
i due uomini discutere.
«Sì, immagino che voi lo reputiate perfetto e
infallibile in ogni cosa che fa» commentò Erik con
freddezza scoprendosi incapace di voltarsi a guardarla in viso.
La donna entrò nella stanza e gli posò una mano
sulla spalla, lui avrebbe voluto sottrarsi a quel tocco ma non ci
riuscì. Avrebbe dovuto detestarla, aveva odiato e ucciso per
molto meno, ma in quel momento si ricordò che era tutta la
vita che aveva desiderato una semplice carezza materna.
Si stupì quando sentì qualcosa di soffice e
profumato passargli tra i capelli e lambirgli dolcemente il collo e le
spalle: Madame Ginette lo stava asciugando con un telo di ciniglia.
«Lasciatemi stare...» borbottò lui con
voce malferma mentre lacrime strane e inaspettate gli pizzicavano le
ciglia.
«No, è un errore che ho già fatto una
volta e che non ho intenzione di ripetere» rispose lei con
fermezza mentre anche la sua voce si incrinava nel tremore del pianto.
«Non me lo avete ancora chiesto...»
sussurrò Erik .
«Cosa? Il perdono?» domandò la donna.
«Adesso la tua salvezza e quella di Christine è
l'unica cosa di cui mi importa e poi, non ho bisogno del tuo perdono,
sono tua madre e ti amerò con o senza quello».
Madame Giry era inginocchiata al capezzale di Christine, stringeva tra
le mani il suo rosario e pregava. Pregava Dio perché
concedesse a quella fanciulla un po' di pace e un po' di quella
felicità che meritava e perché Erik potesse avere
un'altra possibilità, l'occasione di vivere lontano dalla
rabbia, dall'odio, dalla paura che aveva fatto di lui un mostro.
In quel momento l'uomo entrò nella stanza e si
avvicinò a Eloise,
«Parto...» le disse. «Alexandre mi
accompagnerà fino a Saint-Gaudens, è molto
lontano da Parigi, ma sarò al sicuro»
«È la cosa migliore» convenne lei.
«Già... ma potrei non poter tornare mai
più a Parigi».
Madame Giry appoggiò la sua mano su quella dell'uomo e
sorrise tristemente consapevole che quello era un addio, che l'amico,
il fratello, il figlio, l'affetto che Erik era stato per lei stava per
andarsene,
«Un giorno forse Parigi si dimenticherà del
Fantasma dell'Opera, ma io non mi dimenticherò mai di
te» gli disse.
«Dovresti, ti ho fatto solo male, ti ho messa in pericolo, ti
ho...»
«Sssh, basta. Mi hai voluto bene... a modo tuo, magari, ma lo
hai fatto»,
Erik sospirò. Tra lui ed Eloise non c'erano mai state
occasioni per lasciarsi andare alla tenerezza, per scambiarsi affetto
nel modo in cui sono soliti farlo i vecchi amici.
«Grazie di tutto, Eloise» concluse l'uomo
stringendo la mano della sua interlocutrice.
Lei trattenne a stento le lacrime,
«Ti lascio salutare Christine» concluse sgusciando
via dal suo sguardo prima che la tristezza la potesse sopraffare a
aggiungere altro amaro a una situazione già abbastanza
difficile e dolorosa.
Erik svegliò la ragazza scuotendola dolcemente, lei
aprì gli occhi e lo guardò con espressione
sollevata,
«Ho sentito tanto trambusto prima... so che sono venuti i
gendarmi a cercarti, ho fatto finta di dormire...»
mormorò.
Lui le prese la mano e la baciò con delicatezza
«Christine, io devo partire, devo lasciare Parigi»
disse con voce affranta.
«Lo so...»
«Non voglio lasciarti».
La giovane sorrise teneramente e gli passò la mano tra i
capelli in una carezza amorevole,
«So anche questo, ma non sarà per
sempre» gli disse.
«Sì, quando starai bene potrai raggiungermi
e...»
«E?...»
«E, vorresti sposarmi, Christine?»
domandò lui stringendo un po' di più la mano
attorno a quella della fanciulla. Lei sobbalzò come colta
alla sprovvista,
«Ti amo così tanto che quasi il matrimonio mi
sembra superfluo» disse emozionata. «Ma...
sì, Erik, mille volte sì!».
Dopo lunghi minuti l'uomo si staccò da quel letto con aria
riluttante,
«Non essere triste» gli disse lei.
«È solo per poco, e poi mi lasci in buone
mani»
«Sì, certo. Ma se le mani di un certo visconte
dovessero allungarsi un po' troppo temo che il nostro amico si
ritroverà monco!» scherzò Erik nel
tentativo di stemperare la tensione e la malinconia.
Christine rise,
«Smettila! Lui è un gentiluomo»
esclamò divertita. «Tu piuttosto, stai attento. Ah
già, dimentico che anche tu sei in buone mani. Cerca di
trattarlo bene, Alexandre non è abituato a sopportare il tuo
caratteraccio come lo sono io»
«Beh, allora è arrivato il momento che si
abitui!».
I due si guardarono ridacchiando sommessamente, poi Erik si
chinò di nuovo ad abbracciarla e la baciò con
trasporto,
«Ti amo, Christine. Ti amo» le mormorò
guardandola intensamente negli occhi.
«Ti amo anch'io. Ricordatelo, ogni volta che ti sentirai
solo, che ti sentirai triste» rispose la giovane.
« There will
never be a day when I won't think of you»
canticchiò Erik al suo orecchio prima di lasciare la stanza.
La carrozza aspettava i due fratelli sul retro dell'edificio. Raoul
stava ancora dando istruzioni al cocchiere esasperandolo con una serie
di raccomandazioni mentre Erik e Alexandre sistemavano i pochi bagagli
nel baule.
«Veglia su Christine» mormorò Erik
salutando madame Giry prima di salire in carrozza.
«Esigo che la prima cosa che tu faccia all'arrivo sia quella
di mandarmi un telegramma e dirmi che siete arrivati tutti
interi!» disse madame Ginette abbracciando Alexandre.
«Sì, certo, state tranquilla, maman, è
solo un viaggio, non è la prima volta» rispose il
giovane.
Raoul si avvicinò al suo amico e gli posò una
mano sulla spalla,
«Un lungo viaggio in carrozza con il genio del male... non ti
invidio neanche un po'!» scherzò.
«Tu dovresti cercare di tirarmi su di morale!»
replicò il giornalista.
«Ci sono frangenti in cui un uomo non può essere
tanto diplomatico» asserì il visconte scuotendo il
capo.
«E ci sono uomini che farebbero meglio a perdere l'uso della
parola» borbottò Erik lanciandogli un'occhiata
accigliata.
«D'accordo, d'accordo, andiamo» tagliò
corto Alexandre entrando nella vettura.
Erik si voltò per seguirlo ma madame Ginette lo trattenne
per la manica della giacca,
«Pregherò per voi» gli
sussurrò. «E per il tuo perdono»
«Pregate per Christine» concluse l'uomo sparendo
dietro lo sportello della carrozza senza avere la fermezza di guardare
in viso la donna nemmeno quella volta.
La carrozza riuscì a lasciare Parigi poco prima che
albeggiasse.
Erik era immerso nei suoi pensieri ma sentiva su di sé lo
sguardo curioso di Alexandre,
«La smetti di fissarmi! Mi stai irritando, ragazzo»
borbottò sbuffando infastidito.
«Non è che ci sia molto altro da guardare qui
dentro» replicò il giovane scrollando le spalle.
«D'accordo. Senti, è tutta la notte che sei in
piedi a farmi da balia e architettare fughe da romanzo d'avventura,
perché adesso non dormi, da bravo e mi lasci in
pace?» concluse l'uomo.
Alexandre sospirò,
«Eh, sì. Sarà un viaggio molto molto
lungo» si disse reclinando il capo sullo schienale e
chiudendo gli occhi.
____________________________
Capitolo reinserito il 29\12\2011
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Capitolo 29 *** Nel fondo della speranza ***
Aggiornamento mordi e
fuggi prima della partenza... che parto a fare? E' brutto tempo e pare
lo sarà per tutta la settimana in cui starò via,
suppongo sia la punizione divina per gli aggiornamenti a tempo di
lumaca e per aver disertato le risposte alle vostre recensioni (si,
anche stavolta.... sorry).
Gli aggiornamenti di questa e dell'altra storia in corso sono
sospesi fino a fine mese causa vacanze.
Intanto, grazie a tutti e buon prosieguo d'estate ^^
******************
CAPITOLO VENTISEIMO
Nel fondo della speranza
Quegli occhi erano come i suoi. Gli occhi di Alexandre che guardavano
gli alberi rincorrersi oltre i vetri della carrozza.
Il viaggio era lungo così come i loro silenzi, intervallati
da poche parole che soffocavano le domande che avrebbero voluto
scambiarsi. E tutto quel vuoto lasciava spazio a pensieri che si
facevano sempre più dolorosi nella loro mente.
Erik pensava a Christine che aveva rischiato la vita per la sua follia
e per il suo orgoglio. E pensava che stava scappando come aveva sempre
fatto, quando fino a poco prima si era illuso che l'amore lo avesse
reso un uomo migliore. Non la meritava!
E poi c'erano quegli occhi... no, non erano come i suoi. Erano occhi
buoni che non avevano mai visto un uomo esalare l'ultimo respiro. Ma
erano occhi che avevano domande, che cercavano nel suo sguardo
l'affetto, la gratitudine, la consapevolezza... non meritava nemmeno
lui, quel fratello che stava mettendo in pericolo se stesso per
aiutarlo.
Gli occhi di Erik si arrossarono di lacrime amare, ma lui le
ricacciò indietro e abbassò le palpebre, sognando
di essere un ragazzo, cresciuto con la sua famiglia, che aveva aiutato
suo fratello con i primi studi, che aveva dormito tra le lenzuola
ricamate da sua madre... ma quel sogno si infrangeva come cristallo
appena nella sua mente si faceva strada la realtà,
l'immagine del suo stesso viso che affiorava nei suoi pensieri e gli
ricordava che ormai non poteva avere indietro quello che il destino gli
aveva tolto.
Erik strinse nervosamente le dita attorno all'imbottitura del sedile.
Avrebbe voluto gridare di fermare la carrozza, di tornare indietro, che
era tutto inutile. Sarebbe sempre stato braccato, perché i
veri mostri erano quelli che gli straziavano l'anima, agitandosi nei
suoi pensieri, prendendo forma nel sonno quando alla sera si fermavano
da qualche parte a cercare di riposare.
«Erik cosa c'è?» domandò
Alexandre guardandolo con apprensione.
L'uomo sollevò le palpebre e fissò il giovane.
Ora sapeva perché lo aveva perseguitato tanto: quel ragazzo
gli ricordava quanto fosse sporca la sua anima.
«Dovrei essere morto... vorrei esserlo»
sussurrò cupo. Avrebbe voluto esserlo, anche in quel
momento, quando nel suo cuore germogliavano le speranze fragili
dell'essere marito e padre.
Alexandre deglutì, aveva trascorso gli ultimi giorni a bordo
di una carrozza, dividendo uno spazio angusto con l'uomo che aveva
appena scoperto essere suo fratello, l'assassino che aveva rincorso per
mesi in quel teatro! Avrebbe voluto imparare a conoscerlo, avrebbe
voluto che lui desiderasse di farsi conoscere almeno quanto lui
desiderava aiutarlo, ma non era facile aspettarsi che Erik aprisse il
suo cuore a lui... il figlio fortunato, quello che aveva avuto tutto,
persino la grazia di un bell'aspetto.
«Se tu fossi morto Christine sarebbe infelice, molto
infelice» concluse il giovane con aria grave.
«Lei sarebbe più felice con un uomo come te...
persino con un uomo come il visconte» replicò Erik
secco.
Se solo quel ragazzo avesse saputo quante volte aveva cercato la morte,
quante volte era arrivato così vicino a far fermare il suo
cuore. E ora aspettava un figlio dalla donna che amava ma nemmeno
questo riusciva a portare via le ombre dal suo cuore.
«Ma lei ha scelto te» replicò
energicamente Alexandre.
Il Fantasma non fece subito caso a quelle parole ma poi si accorse di
quanto fossero eloquenti e il volto di Christine riaffiorò
come la luce di un faro in mezzo alla tempesta di amarezza.
«Sei mai stato innamorato, ragazzo?»
domandò al suo interlocutore
«No» ammise il giornalista
«L'amore fa fare cose folli... e forse il fatto che Christine
abbia scelto me è ancora più folle delle pazzie
che ho fatto io per averla».
Alexandre sorrise sarcastico,
«Vuoi darti a tutti i costi una scusa per essere
infelice» commentò aspro. «Forse
perché non hai davvero tutta questa voglia di tenerti
strette le cose che ami».
Erik digrignò i denti e gli lanciò un'occhiata
dura,
«Mi credi un debole? Se io fossi stato debole non sarei
sopravvissuto... ma tu non puoi capire» concluse per poi
additare la maschera che aveva sul viso. «Ci sono cose che
bisogna provare sulla propria pelle».
Il giornalista ammutolì, di un tratto si ricordò
che non sapeva cosa c'era sotto quella maschera, quale era la condanna
che quell'uomo aveva portato sulle spalle in tutti quegli anni. Il
motivo di tutto ciò che stava accadendo loro era una
striscia di pelle nascosta da un'ala di cuoio bianco.
Erik scosse il capo e si voltò per tornare a guardare fuori
dal finestrino, come a lasciare intendere che la discussione era
conclusa, invece Alexandre si gettò in avanti e prima che
l'uomo potesse accorgersene gli strappò via la maschera.
Il cocchiere sentì improvvisamente un tonfo sordo provenire
dall'interno della vettura, ma non pensò nemmeno per un
attimo di fermarsi. Aveva avuto l'ordine di proseguire e non fare
domande e poi, l'uomo mascherato gli faceva abbastanza paura da
impedire alla sua bocca di articolare parole che andassero oltre la
frase “ci fermiamo a far riposare i cavalli”,
quindi proseguì per la sua strada nonostante gli scossoni
che sentiva arrivare dall'interno della carrozza.
Il tonfo che aveva sentito il cocchiere era quello di Alexandre che era
stato scagliato violentemente contro la parete posteriore della
carrozza. Un attimo dopo Erik gli fu addosso con la ferocia di una
belva.
«Come hai osato?!» ringhiò a un palmo
dal viso del giovane stringendolo per il colletto della camicia.
«Cosa credi ti dia il diritto di farmi una cosa del genere?
Non aspettavi altro da quando ci siamo messi in viaggio, vero? Volevi
proprio vedere il mostro? Ebbene, ragazzo tu di mostri non ne sai
nulla».
Dopo un attimo di intontimento Alexandre si scosse e reagì
all'assalto tirando una ginocchiata ad altezza dello stomaco dell'uomo
che capitolò indietro a sua volta finendo contro il sedile.
Il giornalista si rimise seduto muovendosi maldestramente a causa del
forte dolore provocato dalla botta che aveva preso,
“Ora capisco...» disse ansimando mentre una
scintilla di ilarità gli accendeva lo sguardo.
«Non è la tua faccia il problema, è il
tuo pessimo carattere».
Erik era rimasto senza forze per il colpo subito e per la fitta che gli
aveva avvolto la pancia, spinse debolmente via il ragazzo,
«Ridammela...» rantolò indicando la
maschera.
Alexandre gli rivolse una smorfia sprezzante e minacciò di
gettare l'oggetto che gli aveva preso via dal finestrino.
In un impeto di rabbia Erik si alzò e lo colpì di
nuovo facendolo urtare con la testa sul taglio dello schienale del
sedile ma un attimo dopo sobbalzò rendendosi conto di essere
stato davvero troppo violento. Il ragazzo rimase per qualche secondo
immobile, riverso sul sedile con gli occhi chiusi, Erik trattenne il
respiro sperando di non aver commesso l'irreparabile, poi
però Alexandre sollevò lentamente le palpebre.
L'uomo lo guardò aprendo la bocca come per parlare ma si
scoprì incapace di trovare qualsiasi cosa da dire: quel
ragazzo stava tentando di aiutarlo e lui gli aveva fatto del male.
«Capisco...» mormorò Alexandre con voce
spenta ma allargando un sorriso canzonatorio. «Non hai avuto
occasione di picchiarmi quando ero piccolo e ora vuoi recuperare il
tempo perso...».
Erik si lasciò cadere sul sedile reprimendo un sospiro di
sollievo,
«Se ti funziona ancora quella linguaccia lunga che hai allora
non ti ho fatto così male» concluse aspro.
«Mah, magari la prossima volta usa un sacco di fieno al posto
mio» replicò il ragazzo raccogliendo la maschera
che nel mentre era caduta in un angolo della vettura.
Erik la prese tra le mani e la guardò facendo scorrere il
dito sul profilo dello zigomo modellato sulla superficie bianca,
«Ora forse puoi lontanamente immaginare cosa ho dovuto
patire» aggiunse in tono inespressivo.
«Sì, forse... ma è passato del
tempo» replicò Alexandre. «Capita che
qualcuno venga al mondo diverso...»
« Diverso...
ti ringrazio per la delicatezza» lo rimbeccò Erik
con una risatina stizzita.
«Quello che sto cercando di dirti... Dio, non essere sempre
così prepotente! Il fatto che tu sia il fratello maggiore
non ti da il diritto di interrompermi mentre parlo! Dicevo, che quello
che intendevo è che non devi per forza vivere da emarginato,
che non ce n'è più bisogno. Tieniti pure quel
pezzo di cuoio sulla faccia se ti fa sentire più sicuro ma
non usare il tuo viso per giustificare la tua paura del mondo»
«Stai di nuovo giudicando senza capire, ragazzo. Io non ho
paura del mondo»
«Davvero?» mormorò Alexandre in tono di
sfida. «Allora sei rimasto rintanato nei sotterranei
dell'Opera perché ti piaceva il clima?»
«Non avevo scelta» borbottò Erik.
«D'accordo non avevi scelta, ma ora ce l'hai. Quando
Christine si sarà rimessa potrà raggiungerti a
Saint-Gaudens , potreste vivere qui e crescere qui vostro
figlio...»
«Sì... ti piacciono i lieto fine, eh
ragazzo»
«Piantala di prendermi in giro!».
Erik appoggiò il gomito sul bracciolo e scrutò il
suo interlocutore,
«Mi dispiace» disse all'improvviso.
«Per il colpo alla testa? Ah, non preoccuparti, è
già quasi passato» rispose il giovane.
«Mi dispiace per ogni cosa» precisò Erik
notando che fuori il sole cominciava a tramontare. «Ma ora
sta' zitto e vedi di farti una dormita o sarò costretto a
colpirti ancora»
«Bene, immagino sia il tuo modo per dirmi che sei sulla buona
strada per affezionarti a me. Direi che per cominciare può
andar bene» lo canzonò Alexandre.
«Ti ho detto: dormi» borbottò suo
fratello sbuffando e chiudendo gli occhi.
Sì, si stava affezionando a lui. Ma le sue labbra avevano
conosciuto solo parole di rabbia e minaccia per trovare le cose giuste
da dire per confessare un affetto che era affiorato dentro di lui
inatteso e quasi non voluto. Un giorno, forse, avrebbe imparato a non
avere tanta paura di ciò che provava, a non sentirsi fuori
luogo davanti allo sguardo dolce di quel ragazzo... ma in quel momento
il suo cuore aveva bisogno di silenzio.
Alexandre socchiuse gli occhi e spiò il volto di Erik
appoggiato contro la fiancata della vettura, aveva indossato di nuovo
la maschera e le sue labbra si stavano arricciando nell'espressione
imbronciata che assumeva quando dormiva.
Nell'ultima luce del tramonto il giornalista scorse il profilo di un
campanile della chiesa di un paesino che conosceva. Forse entro un
giorno sarebbero arrivati a Saint-Gaudens. E lui avrebbe scritto a sua
madre e a Christine rassicurandole che erano al sicuro. Avrebbe scritto
anche a Raoul dicendogli di portare lì Christine appena
fosse stata in grado di mettersi in viaggio.
Dentro di sé il ragazzo volle concedersi la speranza che
tutto sarebbe tornato a posto.
*
I giorni non avevano forma né suono visti da quel letto, se
non quando sognava. Quando si addormentava poteva vedere i suoi
desideri prendere forma, disegnare il profilo di un casa abitata da
lei, da suo marito e dal loro bambino: un piccoletto pestifero con i
ricci e gli occhi chiari. Ma poi arrivava il mattino e lei si svegliava
con la tranquillità dei sogni che lasciava il posto alla
nostalgia e a tutti i timori che essa portava con sé.
Ogni volta arrivava il domani e lui non c'era, e lui non era
lì. Quell'assenza che rendeva il tempo incredibilmente lento
riempiva il suo cuore di brutti presagi, di sensazioni funeste che non
aveva il coraggio di confessare nemmeno a se stessa. Christine sentiva
che qualcosa sarebbe andato male, ma si diceva che era solo la
tristezza per la lontananza di Erik a farle vedere tutto nero. Non
aveva mai vissuto lontano dal suo Angelo e ora si stava rendendo conto
di quanto la presenza di Erik era necessaria per lei.
Anche quella mattina Raoul era venuto a farle visita e aveva provato a
convincerla a seguirlo nella tenuta della sua famiglia, a trasferirsi
lì finché non sarebbe stata in condizioni di
affrontare il lungo viaggio verso Saint-Gaudens, ma ancora una volta
lei aveva detto di no.
«Non capisco, a casa mia avresti maggiore
assistenza» replicò il visconte dopo l'ennesimo
rifiuto della sua proposta da parte della ragazza.
Christine sorrise ma lo guardò con decisione,
«Ti ringrazio Raoul ma preferisco stare qui»
rispose.
Il giovane sospirò e cedette, si limitò a sedersi
su una poltrona accanto al letto e a fissarla in silenzio,
«Ah, ti prego, togliti quello sguardo di commiserazione dalla
faccia!» esclamò lei a un tratto.
«Scusa... è che... Dio, ti vedo così
triste» si giustificò Raoul.
Lei scrollò le spalle
«Non sono triste, sono preoccupata» rispose.
«Quanti giorni di viaggio ci vogliono da qui a
Saint-Gaudens? Perché non abbiamo ancora loro notizie?
Può essergli successo qualcosa?»
«Christine, Christine... calmati tesoro, avanti. Non si
può stabilire una durata per un viaggio così
lungo, ma tu non devi preoccuparti, Alexandre sa il fatto suo e mi pare
anche che Erik non se la cavi così male».
La giovane sospirò e il visconte dovette trattenersi dal
mordersi la lingua. Il solo pronunciare il nome di quell'uomo lo
innervosiva.
«Ho un brutto presentimento, Raoul» aggiunse
Christine stropicciando nervosamente l'orlo del lenzuolo.
«Non temere, andrà tutto bene» la
rassicurò lui. «E comunque, non devi preoccuparti.
Se anche dovesse accadere qualcosa a Erik, io non ti lascerò
da sola, né te né tuo figlio».
La ragazza sorrise tristemente,
«Sei molto caro Raoul, ma la mia felicità sta
viaggiando su una carrozza diretta verso i Pirenei e se non potessi
raggiungerla temo che il mio cuore non lo sopporterebbe».
Il visconte annuì e si avvicinò alla finestra.
Guardò Parigi muoversi frenetica e il profilo della cupola
del tetto del teatro disegnarsi in lontananza in fondo alla strada,
oltre le case e i lampioni. Si sentì impotente e meschino
davanti alla tristezza di Christine e pensò che non c'era
altro da fare che aspettare che si rimettesse e riportarla dall'uomo
che amava. Un uomo che non era lui.
Restò un'altra ora a parlare con lei, poi si
congedò e tornò a casa sua nella speranza che la
lettura dei documenti sulla gestione del patrimonio della sua famiglia
lo aiutassero a distrarsi.
Madame Ginette entrò nella stanza reggendo un vassoio con il
pranzo che appoggiò su un piccolo tavolino da letto di legno
intarsiato. Aiutò Christine a mettersi seduta con la schiena
appoggiata ai cuscini e le accarezzò il viso. Quella ragazza
era diventata il motivo per cui ogni mattina si alzava dal letto, si
dedicava alla casa e faceva ciò che facevano tutti gli
altri. Il potersi occupare di lei, di rendersi utile alla fanciulla
amata dal figlio che aveva creduto perso, la stava facendo guarire dal
male dell'anima che l'aveva tormentata in tutti quegli anni. E
Christine lo sapeva. Era per questo che aveva rifiutato
l'ospitalità di Raoul ed era rimasta in quella casa. Forse
quella donna non aveva meno bisogno di cure e attenzioni di quanto ne
avesse lei.
«La cameriera oggi ha trovato delle verdure veramente fresche
al mercato» disse madame Ginette. «Ho fatto
preparare una zuppa squisita».
Christine sorrise e assaggiò un cucchiaio dal piatto fumante,
«Avete ragione, madame, è davvero buona»
rispose.
«Vuoi che ti apra un po' la finestra, Christine? Ti
farà bene prendere aria».
La ragazza annuì, la donna scostò le tende e
aprì i vetri, una folata di aria gelida invase la camera.
Fuori era ancora inverno.
«Lascerò aperto solo qualche minuto, non voglio
che ti venga un malanno” aggiunse madame Ginette.
«Grazie, siete molto gentile con me»
mormorò la giovane con sincera gratitudine.
«È il minimo che possa fare» rispose la
donna abbassando lo sguardo sentendosi a disagio. Era stata vigliacca
ed egoista abbandonando suo figlio e ora avrebbe fatto qualsiasi cosa
per poter anche solo minimamente fare ammenda ai suoi errori passati.
Christine finì di mangiare in silenzio, poi la donna
portò via il vassoio con le stoviglie sporche e dopo qualche
minuto tornò nella stanza della ragazza, si mise seduta sul
bordo del letto e la guardò,
«Parlami di lui» le chiese. Tre parole pronunciate
con una tale malinconia che Christine sentì il cuore saltare
un battito.
«Cosa volete che dica una donna dell'uomo che ama?»
rispose arrossendo.
A quelle parole la donna sorrise quasi raggiante,
«Il fatto che tu lo ami già dice molte cose di
lui... cose belle. Ma vorrei sentire di più»
mormorò.
Christine annuì e cominciò a raccontarle la sua
storia dal principio. La storia di una bambina che aveva visto
avverarsi la favola della sua infanzia fino a quando quella favola si
era trasformata in una realtà ancora più
sorprendente di ogni fantasia.
*
L'uomo si guardò intorno con gli occhi sottili di chi cerca
risposte, come se potesse leggere su quelle pareti di pietra strani
linguaggi capaci di rivelargli ciò che voleva sapere.
Dunque era lì che aveva vissuto il Fantasma dell'Opera in
tutti quegli anni, era lì che in quei mesi si era nascosto
da lui facendo fallire i suoi tentativi di stanarlo e facendolo
apparire un incapace agli occhi di pagava la sua parcella da
investigatore!
Bertrand era tornato nei sotterranei e ora stava curiosando
indisturbato tra le suppellettili e gli oggetti della Dimora sul Lago,
lì ad altezza del quarto sottopalco immerso nella tetra luce
di poche candele accese, in quella che gli sembrava essere
più la tana di un animale che il rifugio di un uomo.
Si mosse cauto sul rialzo di roccia che il Fantasma dell'Opera aveva
abbellito tanto da riuscire quasi a dare alla pietra nuda un tocco di
calore umano. Scorse i suoi disegni lasciati in disordine sullo
scrittoio, gli schizzi delle scenografie e dei costumi del Don Juan
ammassati accanto al modellino in scala del teatro.
L'investigatore prese tra le mani le statuine che completavano la
miniatura dell'Opera così sapientemente realizzata in ogni
particolare, poi si voltò e scagliò i piccoli
oggetti lontano facendoli finire in acqua. Continuò a
muoversi per la grotta e vide i ritratti di Christine appesi alla
parete, li staccò per guardarli meglio e rise tra
sé e sé.
«E così il mio mostro è un
sentimentale» disse ad alta voce con una profonda nota di
scherno, poi accartocciò i ritratti e li gettò a
terra.
Si avvicinò all'organo che era appoggiato sullo sperone
roccioso più alto come su una sorta di altare,
toccò i tasti a casaccio e lo strumento emise delle note
sorde che vibrarono nell'aria umida. L'investigatore percorse con le
dita le linee degli intarsi di madreperla e ottone che decoravano le
fiancate dell'organo, poi afferrò un pesante candeliere e lo
scagliò con forza contro la tastiera. Alcuni tasti si
spezzarono e volarono via in una pioggia schegge lucide, poi l'uomo
cominciò a colpire le fiancate di legno fino a quando non le
distrusse completamente, infine scagliò il candeliere contro
le canne di ottone che salivano verso il soffitto di pietra, l'oggetto
ammaccò una delle canne e poi ricadde ruzzolando nell'acqua
verde del lago.
Al Fantasma non piaceva perdere...
Ma c'è sempre
una prima volta!...
“C'è sempre una prima volta”
sibilò Bertrand.
C'è sempre
una prima volta, Erik!
Bertrand prese un altro candeliere e cominciò a scagliarlo
con forza contro ogni oggetto che gli capitava a tiro. Distrusse le
statue, le suppellettili, i bauli. Poi raccolse i libri, le carte e
parte dei pezzi di legno in cui aveva ridotto gli arredi della Dimora
sul Lago, portò tutto sul letto e lanciò una
candela in mezzo alle lenzuola di raso. In meno di un minuto il letto e
tutto quello che c'era sopra prese fuoco.
L'investigatore osservò il piccolo rogo per un po', poi si
voltò e cadde in ginocchio sul pavimento di pietra
sopraffatto dalla rabbia.
A guardarlo con quelle fiamme che ardevano alle sue spalle, disegnando
nettamente il profilo della sua figura piegata a terra sarebbe sembrato
il dipinto di un demonio realizzato da un pittore blasfemo.
«Ti troverò, Erik» promise l'uomo
parlando al vuoto. «Ti troverò».
_______________________________
Informazione di servizio: l'autrice ha adorato scrivere la scazzottata
nella carrozza! XD
Capitolo reinserito il 29\12\2011
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Capitolo 30 *** Le distanze incolmabili ***
Ci eravamo lasciati con Christine inferma e incinta costretta a
rimanere a Parigi sotto la supervisione di madame Ginette, Raoul e
Madame Giry. Erik e Alexandre, olmai al corrente dell'inghippo da
soap-opera che l'autrice sottoscritta ha inscenato, in fuga verso il
paesino in cui sono nati e in cui la famiglia di Alexandre ha sempre
vissuto prima della morte del padre. E "il buon" Bertrand acceccato
dall'ira e dalla voglia di rivalsa...
Poi è arrivato l'Orco cattivo, mi ha rapita e mi
ha tenuta prigioniera nel suo castello a rammendargli i calzini e
preparargli grigliate di carne di giovani vergini. Si, si è
vero! E' stato l'Orco che mi ha portata via! Non è stata
colpa mia!...
No... ok, dovevo inventarmene una migliore. Mi scuso della
lunga assenza e auguro buona lettura ai superstiti ^^
****
CAPITOLO VENTISETTESIMO
Le distanze incolmabili
«Dite che dovremo cominciare a prendere in considerazione
l'idea di...» bisbigliò Raoul fingendo di guardare
fuori dalla finestra.
«Forse dovremmo, non so se le è più
nocivo starsene qui a crogiolarsi nella sua ansia o muoversi e
raggiungere Erik» rispose madame Giry a voce ancora
più bassa.
«Guardate che vi sento» si intromise Christine con
un sospiro, spingendo via le coperte.
La ragazza era stanca. Stanca di avere attorno gente che si preoccupava
per lei, aggiungendo altra ansia a quella che già provava.
Stanca di starsene lì ad attendere notizie che non
arrivavano. Erik e Alexandre non avevano scritto, o se lo avevano
fatto, la loro missiva non era arrivata. Madame Ginette diceva che era
colpa del brutto tempo che stava impazzando su tutta la Francia e che
di sicuro aveva rallentato anche la rete postale, intanto lei era
lì, lontana chilometri dall'uomo che amava, dal padre del
figlio che portava in grembo, con un male che ancora incombeva sospeso
come cielo tempestoso sopra le loro teste.
Eloise si lisciò il velluto scuro della gonna,
«Christine, mia cara, so che vorresti correre da
lui» disse in tono accomodante. «So che vorresti
che tutto si sistemasse, ma è alla tua salute che devi
pensare prima di ogni altra cosa»
«Lo so, non fate altro che ripetermelo, ma io sto bene e sono
perfettamente in grado di alzarmi e di viaggiare»
protestò la ragazza con una fermezza che madame Giry non
ricordava di averle mai visto in viso. Avrebbe voluto sorridere e dirle
quanto era orgogliosa di vederla essere diventata donna, ma l'ansia di
una madre è un metallo assai più duro di tutte le
consapevolezze di una figlia.
«Devo andare, so che devo farlo» insistette
Christine.
Raoul tamburellò con la punta dell'indice sul mento.
Già doveva farlo, e il ragazzo aveva la netta sensazione che
la sua Dolce Lottie sarebbe andata via anche in camicia da notte se
avessero provato a trattenerla oltre. Forse frequentare quell'uomo era
stato ancora più nocivo di quanto potesse pensare!
«Va bene, Christine, hai ragione»
capitolò il visconte anche se lo sguardo duro che ricevette
da madame Giry lo fece quasi spaventare.
«Mi porterai a Saint-Gaudens, Raoul?». Gli occhi di
Christine erano scintille di speranza.
Il giovane visconte pensò che l'avrebbe portata anche in
capo al mondo.
«Credete che sia saggio?» sbottò Eloise
severa.
«Con tutto il rispetto, madame, ma credo che la saggezza,
semmai io ne abbia avuta, mi ha abbandonato la sera in cui ho messo il
nostro amico mascherato su una carrozza per permettergli di lasciare
Parigi».
Non ci volle molto a organizzare il viaggio, non per qualcuno che
disponeva di tasche così profonde come il Visconte De
Chagny.
Raoul, Christine e madame Ginette partirono di buon mattino, quando gli
occhi indiscreti della città di Parigi erano ancora chiusi,
puntati verso il sogno.
La fanciulla aveva chiesto a madame Giry e a Meg di accompagnarla, ma
Eloise aveva detto che era necessario che lei restasse in
città a tenere sotto controllo la situazione e stroncare sul
nascere altri eventuali problemi o pericoli. I buoni propositi di
madame Giry si sarebbero comunque rivelati del tutto inutili,
perché quando la carrozza che avrebbe accompagnato Christine
e il suo piccolo seguito a Saint-Gaudens due ombre nere si mossero
nella loro medesima direzione, e di queste due ombre soltanto una
apparteneva al banco di nuvole gonfie di pioggia.
*
Il vento quasi tagliava le guance e gettava nelle narici un'aria tanto
densa da bruciare nella gola e far lacrimare gli occhi.
Perché Erik volle convincersi che fosse solo il vento freddo
a velargli lo sguardo, quel vento che odorava di erba e di funghi e
dell'acqua limpida dei ruscelli. Vento di montagna che sapeva di
inverno anche nelle giornate più soleggiate.
Aveva immaginato spesso il luogo in cui era venuto al mondo, si era
figurato spiazzi di terra brulla e vicoli contornati da case spoglie.
Altre volte aveva immaginato grandi città immerse nel fumo
delle prime industrie o villaggi fatiscenti sulla riva di laghi
nebbiosi. No, un'idea così bucolica non gli aveva nemmeno
sfiorato la mente, non quando era convinto che nulla di bello avrebbe
mai potuto sfiorare nemmeno per sbaglio la sua esistenza.
Lui e suo fratello erano arrivati a Saint-Gaudens nel pomeriggio ma
avevano atteso che facesse sera per entrare nella cittadina e
raggiungere la casa dei Dubois.
Appena oltrepassata la soglia Alexandre aveva cercato i fiammiferi per
accendere un lume ma Erik lo aveva fermato: non voleva guardare.
Procedendo nella penombra aveva trovato un sofà, si era
disteso e aveva finto di addormentarsi. In realtà non aveva
chiuso occhio, era rimasto sveglio e vigile. Una parte di lui diceva
che era perché non si sentiva sicuro fuori dal suo
nascondiglio, ma in fondo sapeva che voleva solo prendersi altro tempo
per pensare, riflettere su cosa fare quando il giorno lo avrebbe
costretto a guardare in faccia quella vita che avrebbe potuto avere e
che gli era stata strappata.
E il giorno arrivò, quasi in punta di piedi, strisciando
quatto in sottili lame di luce che si allungavano furtive come
sentinelle nemiche, facendo riaffiorare a poco a poco i colori della
carta da parati, le tinte vivaci delle tappezzerie, le forme eleganti
dei mobili e i quadri alle pareti.
Erik fu costretto ad aprire gli occhi su un salotto quadrato arredato
in maniera un po' troppo vistosa, con quell'autocompiacimento con cui
le famiglie benestanti talvolta tentano di ostentare la propria
agiatezza. L'immaginazione, che per lui era sempre stata una luce fatua
capace di illuminare per un attimo gli angoli bui della sua esistenza,
quel mattino compì un lavoro impietoso gettando davanti ai
suoi occhi scene tanto luminose da essere abbaglianti: un pranzo di
Natale consumato in mezzo ad un allegro vociare proprio lì a
quel tavolo, un bambino che ride trascinando un cavalluccio di legno
proprio lì su quel divano, una madre che ricama sentendo il
precettore elencare le doti di suo figlio e... un padre fiero di
sé, di essere riuscito a sbarazzarsi della mela marcia nel
suo cesto di leccornie.
«Prendila come una medicina dal sapore cattivo»
disse una voce nella mente di Erik, una voce che somigliava
sorprendentemente a quella di Christine. «Prendila come una
medicina, all'inizio è tanto amara ma poi ti
aiuterà a stare meglio».
Tanto amara... forse troppo, in un modo che non prospettava alcun tipo
di benessere.
Eloise avrebbe scherzato sul suo pessimismo. Ma Eloise non era
lì, come non era lì nemmeno Christine, tanto che
il ricordo dolce dei suoi baci cominciava a bruciare.
Un rumore sordo giunse dalle scale accanto alla porta del salotto, Erik
sobbalzò guardandosi attorno ma vide solo Alexandre che
entrava zoppicando.
«C'è un'asse rialzata sull'ultimo
gradino» sbuffò il giornalista. «Manco
da troppo tempo per ricordarmelo»
«Grazie per avermelo fatto presente»
commentò Erik in tono asciutto. «Anche io manco da
troppo tempo per ricordarmelo».
Alexandre si passò una mano tra i capelli e nascose uno
sbadiglio. Era spettinato, la camicia sgualcita cadeva in disordine
fuori dai calzoni e i suoi occhi dicevano chiaro e tondo che anche per
lui non la notte non era stata particolarmente rigenerante.
Il viaggio era stato lungo, ma a guardare l'ombra che incupiva lo
sguardo del suo fratello maggiore pensò che il peggio doveva
ancora venire.
«Non metterti a fare il lagnoso!»
esclamò, convinto che l'unico modo efficace di tenere testa
al suo malinconico compagno fosse quello di prenderlo di petto.
«Mi serve una mano».
L'uomo gli lanciò uno sguardo vagamente infastidito,
«Tua madre non ti ha insegnato a vestirti da solo?»
«Oh andiamo! Non sei curioso nemmeno un po'? Aiutami a
cercare in casa, magari troveremo qualcosa su di te».
Erik rispose con uno strano singulto a metà tra un lamento e
una risata di scherno, ma Alexandre lo tirò per un braccio e
lo trascinò fuori al salotto portandolo al piano superiore
dell'edificio.
La casa che Simon Dubois aveva acquistato per sé e la sua
famiglia era una palazzina a due piani. Al pianterreno c'era il salotto
dal quale era stato ricavato anche un piccolo studio, la cucina e un
piccolo alloggio riservato alla domestica. Al piano superiore si
trovavano invece le camere da letto e una grande stanza da bagno con
una vasca di porcellana.
L'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera seguì il
giornalista mentre si muoveva da una stanza all'altra, osservando i
mobili come se si aspettasse che il legno delle ante cominciasse a
parlare per rivelargli dove trovare ciò che stava cercando.
Se Erik era incuriosito dal luogo in cui si trovava non lo diede a
vedere, ma i suoi occhi stavano assorbendo ogni immagine trasformandola
in pensieri gelidi come il nevischio che ricopriva le strade del paese.
Eppure l'odore di quel vento gli piaceva...
La stanza da letto patronale era ampia e quadrata, i mobili erano tutti
in legno di ciliegio e decorati ognuno con i medesimi intagli, come se
fossero stati costruiti tutti insieme.
Erik aveva notato che Alexandre aveva dormito in quella che doveva
essere stata la sua camera, perché il letto della stanza
patronale era ancora coperto dal telo che proteggeva il materasso dalla
polvere e le imposte delle finestre erano ancora chiuse. Evidentemente
il ragazzo conservava ancora una certa soggezione verso i
suoi genitori.
«Ma certo!» esclamò all'improvviso
Alexandre indicando il grosso comò alla sinistra del letto.
Erik camminava svogliatamente dietro di lui e quasi non fece caso a suo
fratello che si era diretto verso il mobile e aveva cominciato a tirare
via un cassetto, facendolo scivolare fuori dal binario e posandolo sul
pavimento.
Il cassetto, come probabilmente il resto dei mobili, era vuoto: la
famiglia Dubois, o almeno quello che ne rimaneva, non contava di
tornare tanto presto a Saint-Gaudens.
Alexandre sollevò il pannello coperto di velluto che faceva
da fondo al cassetto e bussò sul piano di legno duro,
«Ha un doppio fondo, è qui che mio padre
conservava i documenti più importanti. Sai lui era un
notaio, aveva una cura per questo genere di cose»
spiegò.
Erik si chinò ad osservare il cassetto e vide il foro di una
piccola serratura nell'angolo del vano rettangolare,
«Immagino avesse anche cura di conservare la chiave in un
posto difficile da trovare» commentò con un
sospiro.
Alexandre sorrise divertito,
«Aprilo, avanti!» esortò.
L'uomo arricciò le labbra e finse di non capire
«Suvvia, il Signore delle Botole che difficoltà
potrà mai avere nel forzare una serratura così
piccola?» insistette il giornalista.
Erik scrollò le spalle. Se quel giovane sconsiderato voleva
puntare alla sua vanità per convincerlo a fare qualcosa
aveva sbagliato la leva da smuovere.
«Lo stai facendo per me, Alexandre? O è solo un
modo di saziare la tua caparbia curiosità»
sibilò l'uomo, ritrovando per un attimo lo sguardo e il tono
di voce che erano appartenuti al Fantasma.
«Ho vissuto la mia vita in questa casa, all'oscuro di un
segreto che ha rovinato la vita di mia madre oltre che la tua. Penso di
avere il diritto di sapere, come ce l'hai tu»
replicò il giovane.
«Il fatto che io abbia il diritto di sapere non implica che
abbia voglia di farlo».
Il vento fece eco sbattendo conto i fianchi delle montagne, gli
spifferi che penetrarono attraverso il legno delle imposte erano gelidi
come la voce di Erik. Alexandre stava per replicare qualcosa, ma
un'energica bussata di porta lo fece sobbalzare. Si alzò e
si avvicinò alla finestra che affacciava davanti alla porta
della casa, poi aprì le ante quel tanto che bastava a
guardare fuori.
Erik si stupì del tuffo al cuore che aveva provato quando
aveva sentito il bussare alla porta. Aveva paura che qualcuno fosse
riuscito a trovarli, che da Parigi qualcuno li avesse seguiti. Dov'era
finito tutto il suo sangue freddo?
«Oh, no...» sospirò Alexandre
affrettandosi a chiudere gli scuri e allontanandosi dalla finestra.
«Chi è?» chiese Erik in un filo di voce.
Quando suo fratello si voltò a guardarlo aveva un'aria
indecifrabile.
«Tu resta qui!» intimò il giornalista.
«Non fare niente, per nessun motivo»
«Chi è?!» ripeté Erik
allarmato, ma non ottenne risposta, Alexandre corse via verso le scale
che portavano al pianterreno. Dal basso arrivò un'altra
bussata più forte e insistente. Il Fantasma dell'Opera si
chiese se non fosse il caso di tornare e sbrigare le faccende che
l'uomo che ora aveva preso il suo posto non sembrava più in
grado di gestire.
La porta di casa Dubois si aprì con uno scatto, cigolando
sui cardini. La ragazza trovò quel cigolio piacevolmente
melodioso.
«Alexandre! Che piacere rivederti!»
esclamò appena vide il giovane comparire oltre il battente.
«Buona giornata, Corinne» borbottò il
giornalista.
Corinne Moreau non doveva avere più di vent'anni. Setosi
boccoli biondi sfuggivano alla cuffia di lana, i suoi occhi chiari
scintillavano di entusiasmo.
Suo padre era un giudice molto influente ed era amico di vecchia data
della famiglia Dubois. Quando Corinne era poco più di una
bambina, Alexandre veniva a darle lezioni di letteratura e nel sentire
il bel giovane decantare i sonetti di Shakespeare e i versi dei poeti
latini, la ragazzina aveva deciso, fin dall'età di tredici
anni, che avrebbe sposato quel ragazzo. Se lui fosse d'accordo o meno
era un particolare su cui la fanciulla non aveva ritenuto necessario
soffermarsi. Una volta raggiunta l'età da marito, la
ragazza, bella e ricca, non aveva avuto difficoltà a trovare
pretendenti, tuttavia i suoi genitori si erano mostrati felici quando
aveva confidato loro di provare una certa tenerezza per il figlio del
notaio, il padre di Corinne e Simone Dubois ne avevano discusso e
avevano trovato che fosse una splendida idea far fidanzare i ragazzi.
Poi però Simone era morto prima che le famiglie potessero
ufficializzare la questione e Alexandre si era chiesto se non fosse un
obbligo d'onore accettare quel fidanzamento tanto sperato da suo padre,
malgrado il genitore non si fosse mai mostrato all'altezza dell'affetto
di suo figlio. Tuttavia, l'idea di un fidanzamento con quella ragazzina
capricciosa non aveva mai allettato troppo Alexandre, il quale aveva
colto al volo l'occasione di trasferirsi a Parigi e porre fine alla
questione.
Quello che il ragazzo non si aspettava era che Corinne lo stava ancora
attendendo e nel ritrovarsela davanti quella mattina comprese quanto
fosse profonda l'infatuazione della fanciulla. E la cosa non gli
piaceva affatto.
«Ho saputo che eri tornato» cinguettò
Corinne.
«Da chi?»
«Dalla mia cameriera, che lo ha saputo da sua figlia, che lo
ha saputo da suo cognato che fa il custode notturno presso il cimitero
e che ti ha visto arrivare a casa in tarda sera, insieme a un altro
signore».
Alexandre alzò gli occhi al cielo, si era illuso che nessuno
avesse notato Erik, ma nemmeno la notte può nascondere
davvero qualcosa in un paesino come Saint-Gaudens.
«Sono davvero contenta di vederti!» aggiunse
Corinne. Sì, glielo aveva già detto.
«Oh... certo... anch'io» mentì il
ragazzo.
«Non vedo l'ora di sentirti raccontare di Parigi! Di sicuro
lì non fa freddo come da noi, hai sentito che vento oggi?
Non è proprio il caso di starsene all'aperto». Il
giornalista finse di ignorare l'esclamazione della giovane e la velata
richiesta che conteneva, non poteva certo farla entrare in casa.
«Infatti, non saresti dovuta uscire con questo
tempo» disse Alexandre cercando di imprimere a quelle parole
tutta la gentilezza che riuscì a racimolare, ma si accorse
subito dell'espressione prossima al pianto che stava comparendo sul
volto di bambola di Corinne quindi si affrettò ad
aggiungere: «Il mio compagno di viaggio deve ripartire
presto, si è fermato qui solo per una breve sosta ma
è diretto altrove, appena se ne sarà andato
potremo prendere un tè assieme e parlare senza orecchie e
occhi indiscreti».
Lo sguardo della giovane si illuminò quando il suo cuore
innamorato interpretò quelle parole come una manifestazione
palese della voglia che aveva Alexandre di rimanere solo con lei. Presa
dall'entusiasmo, Corinne prese una mano del giovane tra le sue e la
strinse. Lui deglutì.
«Sono così contenta di rivederti!»
«Lo so, lo hai già detto...»
«Oh Alexandre, mi sei mancato» la fanciulla
arrossì. «Io... tutto questo tempo non ho fatto
altro che pensare a quando saresti tornato. Non ho fatto altro che
chiedermi se al tuo ritorno mi avresti voluta ancora».
In quel momento la mente di Alexandre proiettò le immagini
di un sogno in cui lui le gridava che non l'aveva mai voluta, che aveva
per la testa cose talmente grandi che il suo cervello da gallina non
avrebbe compreso nemmeno se gliele avesse spiegate con dei disegni...
ma nella realtà il giovane non poté fare altro
che abbozzare un sorriso e sospirare,
«Dammi il tempo di concludere i miei affari con il mio
ospite, poi avrai tutte le risposte che desideri»
mormorò.
Le risposte ovviamente sarebbero state negative, ma le parole di
Alexandre avevano riempito il cuore della fanciulla di romantiche
speranze e tanto bastò a convincerla a lasciare il ragazzo
ad occuparsi delle sue faccende.
Alexandre si sentì terribilmente meschino, ma doveva
affrontare già abbastanza problemi senza che si
aggiungessero anche quelli dovuti all'ira di una donna
rifiutata.
Erik aveva osservato la scena nascosto dietro la finestra. Aveva scosso
il capo e aveva ghignato di divertimento. Chissà quella
ragazzina cosa avrebbe fatto quando, alla fine di tutto, avrebbe
scoperto che Alexandre non aveva minimamente intenzione di sposarla?
Era talmente abituato a guardare da spettatore le vite degli altri che
non gli era difficile comprendere le persone e ciò che
provavano, ma non c'era bisogno di essere particolarmente abili per
capire che l'infatuazione della giovane per Alexandre non era niente di
più che un capriccio alimentato da fantasie infantili.
Cosa avrebbe fatto lui se Christine lo avesse rifiutato? Non
poté fare a meno di chiederselo, ma non trovò
risposta. Il Fantasma dell'Opera avrebbe scatenato l'inferno, avrebbe
fatto crollare il mondo sotto il peso della sua rabbia. Ma il Fantasma
dell'Opera non c'era più o, se c'era, era ben lontano da
lì...
Irritato dalla voce stridula di Corinne che stava ripetendo per
l'ennesima volta quanto era contenta di rivedere Alexandre, Erik si
costrinse a concentrarsi su qualcosa d'altro per distrarsi e reprimere
l'impulso di gettare addosso alla ragazzina un secchio di acqua gelida.
Guardò la stanza nella penombra delle finestre chiuse e si
ricordò del cassetto, lo raccolse da terra e lo
posò sul letto. Si guardò attorno cercando
qualcosa che fosse utile al suo scopo, trovò un cesto di
attrezzi per il ricamo appoggiato su uno sgabello dietro a un
paravento, prese uno di quei ferri sottili utili per i lavori a maglia
e lo introdusse nel foro della serratura cercando la minuscola leva del
meccanismo di apertura.
Come aveva previsto Alexandre, il Signore delle Botole non
trovò difficoltà.
L'uomo sollevò il doppio fondo del cassetto e vide che
all'interno conteneva diverse cartelle di cuoio piene di fogli, alcuni
ingialliti, alcuni ancora bianchi.
Ciò che cercava stava tra i documenti più vecchi,
lì dove la carta si era fatta fragile e l'inchiostro stava
sbiadendo.
Per quanto sbiadite, però, le parole sul foglio che aveva
trovato in fondo alla cartellina ebbero il potere di fargli sanguinare
il cuore. La mente di Erik tentò di aggrapparsi ai bei
ricordi del volto di Christine, al pensiero di un loro figlio in
arrivo... ma non fu sufficiente.
Evidentemente non bastava un viaggio nel luogo in cui era nato per
colmare le distanze tra lui e la vita che gli sarebbe spettata ma che
non aveva vissuto. E adesso non voleva raccogliere gli spiccioli di
quell'esistenza...
Adesso voleva solo odiare, abbandonarsi alla rabbia come solo il
Fantasma dell'Opera sapeva fare.
Quando Alexandre si liberò della sua sospirosa ospite e
tornò di sopra, trovò la stanza illuminata da una
fioca lampada ad olio ed Erik in piedi davanti al letto con un foglio
tra le mani. Mani che tremavano, vibravano come la corda dell'arco che
si tende caricando il colpo.
Il ragazzo si avvicinò al fratello e senza dire nulla
sbirciò il foglio. Era il certificato di morte di Erik
Dubois, un bambino spirato all'età di quattro mesi.
Quattro mesi... tanto era stato il periodo di tempo in cui suo padre
aveva tollerato la presenza di quello scherzo della natura in casa
sua.
_________________________________
Il siparietto Alexandre vs.Corinne non era previsto, mi è
scappata la penna! Era giusto per stemperare un po' la tensione.
Lo so, sparisco per un tempo insostenibile e poi me ne esco
con un capitoletto di passaggio... ma questa davvero non è
colpa mia, prendetevela con le esigenze di trama.
A presto (promesso)
Capitolo reinserito il 30\12\2011
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Capitolo 31 *** Gli occhi del nemico ***
Ce la posso fare. E se non ce la faccio in questi giorni in cui ho una
voglia matta di scrivere di POTO penso che non ce la farò
mai più...
Grazie ai miei pazientissimi lettori *_*
@ tehangelsee: Contenta che il siparietto ti sia piaciuto, a me ha
divertito moltissimo scriverlo. Prima o poi dovrò scrivere
qualcosa di allegro su Erik, lo facciamo sempre soffrire nelle
fanfiction...
@ Keira: il Maestro è molto contento del fatto che tu voglia
uccidermi, ha detto che se vuoi una mano lui è a
disposizione... Ah, no vedete, Maestro... alla fine mi vuole bene! Me
fa pernacchia al musO. Comunque, per rispondere alla tua
domanda, si, il tempo delle vicende è lo stesso. Alex... io
adoro vessare quel ragazzo, non si era capito? XD
@ pittolaFede: grazie di aver letto anche questa storia ^^ il tuo
livello di masochis... ehm, interessamento, mi fa gongolare come un
nano da giardino XD Ok, torno seria. Grazie per quello che mi hai
scritto *_* tutti questi “brava” tutti assieme
potrebbero anche farmi male =)
CAPITOLO VENTOTTESIMO
Gli occhi del nemico
Blaise Bertrand stava cominciando a trovare quel viaggio di una
lentezza snervante.
Tutti parlavano del treno come una fantastica invenzione che avrebbe
portato l'uomo più velocemente verso il futuro e invece
quella rumorosa macchina a vapore era lenta, scomoda e affollata.
Tremendamente affollata.
Accanto a lui era seduta una donna di mezza età con al
seguito un gregge di figliole tutte intente a ricamare. Come diamine
facessero a infilare il filo di cotone nella cruna dell'ago, in mezzo
agli sballottamenti del vagone, era un mistero che Bertrand aveva anche
trovato interessante, almeno per i primi cinque minuti, poi aveva
cominciato a innervosirsi.
Come diamine facessero le donne a... a essere donne, era
qualcosa che l'investigatore trovava misterioso e frustrante allo
stesso tempo.
Come faceva una prostituta a lasciare la camera di un bordello a testa
alta? Come faceva una cameriera a sopportare le vessazioni della
padrona capricciosa? Come faceva una madre a sopportare i
dolori del parto e mettere al mondo un secondo, terzo quarto figlio?
Come aveva fatto quella ragazzina spaurita che era Christine Daae a
rischiare la vita per quel mostro e a ingannarlo? Probabilmente quella
stupida già portava in grembo il figlio bastardo di
quell'essere...
Naturalmente Bertrand non era un'anima avvezza ai buoni sentimenti,
altrimenti la sua mente avrebbe stroncato sul nascere quella fila di
domande.
L'amore, che assurdità!
Curioso che un cervello tanto abituato a lavorare di logica non avesse
raggiunto un'ovvia conclusione: se si poteva provare odio, odio da
accecare la vista e i pensieri, era giusto supporre che esistesse un
sentimento altrettanto forte ma contrario. Se l'odio era tanto reale
per chi lo provava doveva essere per forza reale anche il suo opposto.
Ma che motivo avrebbe mai avuto di pensare a certe
eventualità? A lui l'odio andava benissimo, con o senza il
corrispettivo contrario.
E l'odio di Bertrand in quel momento avrebbe potuto fare da carburante
a quel treno, tanto era nero e incandescente.
Le sue azioni non avevano mai conosciuto altra ragione. Ed era
così anche quella volta.
Nel momento stesso in cui i direttori dell'Opera Populaire gli avevano
affidato le ricerche del leggendario Fantasma, quell'uomo...
quell'essere, era divenuto suo nemico. Ogni uomo da scovare,
imprigionare, uccidere era suo nemico, e un nemico non merita altro che
odio.
“... e gli amici dei nemici sono miei nemici”
borbottò Bertrand a mezza voce,
“Come dite?” chiese perplessa la donna seduta
accanto a lui
“Niente, pensavo a voce alta”
“Oh, accidenti! Mi è caduto l'ago, non lo
troverò mai in questo vagone...”.
Bertrand celò a sento un ghigno.
Gli amici dei nemici erano suoi nemici. Avrebbe dovuto capirlo fin dal
primo momento che quel giornalista pedante sarebbe divenuto una spina
nel fianco, chiunque avesse un senso troppo elevato della giustizia era
una spina nel fianco per lui, i suoi metodi non sembravano mai giusti,
eppure erano efficaci, sensati, come l'odio. Se Alexandre Dubois non si
fosse messo di mezzo a quest'ora il Fantasma dell'Opera, Erik o come
diavolo si chiamava, avrebbe già avuto ciò che
meritava. Per non parlare poi di quel bamboccio sospiroso del visconte,
perso dietro a una fanciulla che aveva preferito un mostro fuorilegge a
un ricco giovane blasonato.
Ah si! C'erano troppe cose che Bertrand faticava a capire.
L'investigatore li aveva spiati partire. Ormai non aveva più
dubbi sulla loro destinazione, alcuni giorni primi era stato alla
redazione del giornale dove lavorava Alexandre ed era riuscito a sapere
dove aveva abitato la famiglia Dubois prima di trasferirsi a Parigi.
Il visconte e la ragazza erano partiti in carrozza, nel caso Christine
fosse stata male durante il viaggio, avrebbero potuto fermarsi in una
qualsiasi cittadina lungo il tragitto.
Viaggiando in treno Bertrand era certo di arrivare a Saint- Gaudens
prima di loro, ma avrebbe atteso che la famigliola fosse di nuovo
riunita prima di colpire.
La donna e le sue figlie stavano ancora cercando l'ago smarrito, come
se fosse possibile ritrovare un ago sul pavimento di un vagone
ferroviario!
Certa gente sa essere veramente ostinata e Bertrand provava sempre un
certo disagio davanti all'ostinazione altrui.
“Oh monsieur, grazie al cielo!” esclamò
la donna battendo rumorosamente le mani,
l'investigatore la guardò senza capire,
“Il mio ago, è finito sotto la vostra scarpa. Meno
male, altrimenti sarebbe rotolato via”,
Bertrand guardò verso il basso, l'ago scintillava contro la
sua suola.
“Si, madame, è davvero difficile che qualcosa
sfugga quando incontra me” rispose.
La donna giurò di aver visto sul viso dello sconosciuto un
sorriso crudele. Raccolse il suo ago e tornò al suo ricamo.
Quando l'uomo scese a un'altra stazione per prendere una coincidenza,
la donna sentì come se si fosse liberata da un peso, poi si
disse che era stata solo suggestione, che quell'uomo sembrava un
signore così a modo, e non ci pensò
più.
*
Gli occhi si riempivano di ogni cosa.
Erano occhi giovani che del mondo avevano visto così poco!
Christine passava gran parte del viaggio con il viso appiccicato al
finestrino della carrozza. Aveva visto sfilare grandi campagne con
giganteschi mulini a vento, cittadine brulicanti di persone, villaggi
di contadini o pescatori. E alcune volte si era sentita anche un po'
stupida a causa del suo stesso stupore. Per lei l'universo non era
altro che un teatro, i cieli erano soffitti affrescati e le giornate
erano scandite dalle fiamme dei candelabri e delle lampade ad olio.
D'un tratto si ricordò di quando aveva viaggiato insieme a
suo padre. Dopo la morte di sua madre avevano lasciato la Svezia e
avevano girato l'Europa per un po' prima di trasferirsi stabilmente a
Parigi, poco prima che anche suo padre la lasciasse. Ma quei viaggi, le
cose che aveva visto, le città che aveva visitato erano solo
ricordi sfocati. Da molto tempo il mondo aveva smesso di esistere per
Christine.
La fanciulla si chiese se anche Erik non avesse provato le stesse cose
durante il viaggio. Anche per lui, per tanti anni, non c'era stato
nient'altro all'infuori del teatro.
Il pensiero di Erik la fece sospirare.
Raoul sollevò gli occhi dal libro che stava tentando (o
forse fingendo) di leggere e la guardò preoccupato.
“Sto bene” dichiarò la fanciulla prima
che il visconte le chiedesse qualcosa
“Sei stanca? Vuoi fermarti? Hai bisogno di
qualcosa?” chiese lui,
Christine sorrise di tenerezza,
“Ho detto che sto bene” rispose.
I due giovani restarono a fissarsi in un silenzio imbarazzato. In quei
giorni Christine aveva ritrovato tutta la sua timidezza e quei modi di
fare da bambina insicura e spaurita.
Dovette racimolare un bel po' di coraggio per chiedere:
“Raoul, perché lo fai?”,
il visconte sbatté le palpebre in un'espressione perplessa.
La cosa buffa è che nemmeno lui conosceva la risposta a
quella domanda.
“Lo avrebbe fatto chiunque”, la buttò
lì con un'alzata di spalle, con talmente tanta noncuranza da
non riuscire a convincere nemmeno se stesso.
“Non dire sciocchezze!” replicò Christine
“Intendevo dire che lo avrebbe fatto chiunque per una persona
che ritiene importante”. Raoul sentì che stava
arrossendo come un bambino.
Cosa doveva fare? Fingere che lei non fosse importante? Fingere che non
avrebbe fatto ogni cosa per la sua felicità?
Ogni cosa, già. Persino portare una pistola nella tasca,
all'insaputa della sua Dolce Lottie, naturalmente. Portare una pistola,
lui! Lui, che l'odore della polvere da sparo gli faceva venire
l'emicrania! Lui che l'ultima volta che aveva tenuto in mano un'arma da
fuoco era stato anni prima, quando suo padre aveva preteso che il suo
unico figlio maschio lo accompagnasse in una battuta di
caccia... e quando aveva avuto sotto tiro una magnifica lepre
aveva mancato la mira di proposito, tanto gli faceva ribrezzo l'idea di
uccidere!
“Scusa Raoul, ho fatto una domanda stupida” disse
Christine
“Non importa- rispose lui sforzandosi di sorridere- io ne
faccio spesso”.
Entrambi guardarono fuori dal finestrino chiedendosi quanto mancasse
ancora per raggiungere Saint Gaudens. Quel viaggio cominciava a
diventare estremamente difficile.
*
Ad Alexandre non piaceva l'inattività. Cominciava a sentire
la nostalgia del gran trambusto che c'era lì al giornale,
delle chiacchierate con sua madre, della compagnia di Raoul. In un
angolo remoto della sua mente provava anche nostalgia di Bertrand. Non
che rimpiangesse la compagnia di quel criminale, ma non poteva fare a
meno di pensare che le settimane trascorse a indagare sul Fantasma
dell'Opera fossero state le più emozionanti della sua vita.
Se avesse saputo che quella storia lo avrebbe portato a restare
rintanato nella sua vecchia casa con il suo fratello redivivo... ah, al
diavolo! Se lo avesse saputo, avrebbe fatto esattamente le stesse cose.
Era così che doveva essere.
Dopo il ritrovamento dei vecchi documenti di suo padre, del finto
certificato di morte, Erik si era chiuso ancora di più nel
suo mutismo.
L'inattività cominciava a pesare a entrambi.
Dopo alcuni giorni di silenzio, Erik aveva comunque trovato un
passatempo. Si era dedicato a riparare il pianoforte che c'era nel
salotto, un vecchissimo modello di pianoforte a muro.
La sistemazione del vecchio strumento era diventata fonte di
curiosità anche per Alexandre, il quale si era reso conto di
non aver mai sentito suo fratello suonare. Aveva avuto prova delle sue
strabilianti capacità canore la sera della rappresentazione
del Don Juan, ma non aveva mai sentito Erik al pianoforte, tanto che
quando terminò di riparare lo strumento Alexandre
cominciò a gironzolargli attorno in attesa di sentirlo
suonare.
“Chi era il musicista di casa?” domandò
il maggiore dei fratelli Dubois guardando la tastiera
“Nessuno. Penso che il pianoforte fosse già qui
quando i...” Alexandre si bloccò. Non aveva il
coraggio di pronunciare le parole
i nostri genitori.
“Penso che fosse già qui quando la casa fu
acquistata- concluse- Non fu buttato via in previsione di un figlio che
avrebbe preso lezioni di musica, come molti bambini fanno di solito...
ma io della musica non ho mai voluto saperne niente. Non sapevo nemmeno
che fosse rotto”,
Erik annuì vagamente e posò le dita sui tasti
suonando un LA. Il suono che uscì dal pianoforte era debole,
come se anche la musica fosse sommersa dalla polvere degli ingranaggi
interni.
Alexandre arricciò il naso,
“E' vecchio... molto” disse quasi in tono di scusa
“E' un pessimo strumento, suonerebbe male anche se fosse
nuovo” borbottò Erik e si allontanò dal
pianoforte senza aggiungere altro. Suo fratello vide un velo di
tristezza così profonda nei suoi occhi che per un attimo
ebbe paura.
“Christine sarà qui a giorni” gli
ricordò. Quel nome aveva sempre la capacità di
scalfire la coltre di gelo, alle volte Alexandre riusciva persino ad
avere un dialogo accettabile con suo fratello se l'argomento di
discussione era mademoiselle Daae.
“E quando sarà qui?” chiese Erik con un
sospiro sconsolato
“Smettila di comportarti come se non ci fosse futuro!-
replicò Alexandre- Quando sarà qui... la
sposerai, tanto per cominciare!”,
uno strano sorriso infantile increspò le labbra dell'uomo
che era stato il Fantasma dell'Opera. Poi fu di nuovo silenzio.
Il giorno dopo Erik trovò Alexandre immerso nella lettura di
alcune carte, il ragazzo stava leggendo alcuni fogli scritti
in una grafia ordinata. Suo fratello lo fissò per qualche
secondo senza dire nulla, poi lo vide sorridere e borbottare qualcosa.
“Che hai da ridere?” gli chiese, lui
sussultò, non lo aveva sentito arrivare
“Ridevo di me stesso- rispose il giovane- questi sono gli
appunti che ho scritto mentre facevo le ricerche nel teatro”,
Erik allungò una mano per prendere i fogli, ma Alexandre
glieli strappò via dalle dita,
“No, non leggerli, sono solo sciocchezze”
esclamò
l'uomo si sporse in avanti per afferrare il fratello che
però riuscì a spostarsi di lato evitando la sua
presa,
“Vedo che il significato della parola NO continua a esserti
estraneo” protestò
“Non sono abituato a sentirmi dare risposte negative. Adesso,
sarebbe molto meglio per te se tu mi dessi quei fogli di tua spontanea
volontà”,
Alexandre ghignò scuotendo energicamente il capo, Erik si
voltò con uno scatto e si lanciò verso di lui che
scappò correndo verso le scale.
“Che lentezza! Si vede che stai invecchiando,
fratello” disse il giornalista
“Non mi serve rincorrerti. A meno che tu non intenda volare
via dalla finestra, prima o poi dovrai fermarti”.
Alexandre si infilò in tutta fretta nella sua stanza, ma
Erik lo raggiunse prima che avesse il tempo di chiudere la porta a
chiave e gli strappò i fogli da mano, quindi
cominciò a leggere ad alta voce:
“Sono certo
che negli anni a venire tanto si parlerà del Teatro
dell'Opera Populaire di Parigi, della sua grandezza e del suo
prestigio. Ma io voglio raccontare un'altra vicenda, una vicenda che
necessita di essere documentata perché non divenga una
leggenda, perché certi fatti restino fatti e non favole...
Buon Dio, Alexandre, come sei epico!”
“Lo sapevo che lo avresti trovato ridicolo!-
borbottò il ragazzo- Ero intenzionato a scrivere un libro
sul Fantasma dell'Opera, su come lo avremmo stanato... volevo
raccontare la verità”
Erik sospirò
“Beh, allora è meglio che le cose non siano andate
come speravi quando hai cominciato a scrivere queste note. Per i
più, la verità sarebbe stata abbastanza
deludente...” disse lasciando cadere i fogli. Di colpo non
era più tanto curioso di sapere cosa avesse scritto suo
fratello durante quelle settimane, non voleva sapere come appariva
attraverso gli occhi di un nemico.
Alexandre raccolse le pagine che aveva scritto in un tempo che ormai
gli sembrava lontanissimo e si avvicinò alla scrivania.
Sollevò il coperchio del lume e avvicinò i fogli
alla fiamma. La carta prese fuoco, le parole si trasformarono in fumo.
Il giornalista lasciò cadere il fogli nel braciere e li
guardò consumarsi.
“Quella del Fantasma dell'Opera è una bella
storia- mormorò- e sono certo che un giorno verrà
raccontata. Ma non sarò io a farlo”.
*
Per un insieme di fatti curiosi avvenuti durante il tragitto da Parigi
a Saint-Gaudens, la carrozza del visconte De Chagny e il treno di
monsieur Bertrand giunsero a destinazione quasi allo stesso momento.
L'investigatore scese dal vagone, andò alla locanda della
stazione e pranzò senza riuscire ad assaporare il cibo,
tanto era forte il sapore della rivalsa che gli inondava tutti i sensi.
Dopo pranzo restò seduto al tavolo bevendo una generosa dose
di cognac. E attese.
Era completamente preso dalle sue riflessioni quando sentì
dei risolini provenire dalle sue spalle. Si voltò e vide un
gruppo di ragazze sedute a prendere il tè. Quando
guardò nella loro direzione si accorse che le fanciulle lo
stavano fissando.
“Posso fare qualcosa per voi?” chiese con poco
garbo,
le giovani si scambiarono alcune parole sottovoce, poi una di loro si
alzò e andò verso di lui,
“Perdonate, monsieur, mi chiamo Corinne- disse la ragazza
sorridendo- io e le mie amiche non volevamo importunarvi, ma abbiamo
visto quel giornale accanto al vostro cappotto. Venite da Parigi,
vero?”,
Bertrand guardò il cappotto che aveva piegato sullo
schienale della sedia vuota accanto a sé, dalla tasca
interna sporgeva una copia sgualcita di un vecchio giornale che aveva
acquistato alla stazione di Parigi prima di mettersi in viaggio,
“Si, avete indovinato mademoiselle” rispose
sbrigativo
“Oh, io e le mie amiche ogni tanto veniamo qui a prendere il
tè sperando di poter parlare con qualcuno in arrivo da
Parigi”
“Ah, capisco. Scopo della vostra vita è
importunare gli avventori, magnifica occupazione davvero”,
Corinne rise, coprendosi il visino da bambola con la manina candida.
Credeva che quella dello sconosciuto visitatore fosse una battuta.
“Vedete, una persona a me molto cara, un vecchio amico di
infanzia è andato a Parigi a lavorare per un giornale- disse
la giovane- così mi chiedevo se per caso mi potreste far
dare un'occhiata al vostro di giornale, sono assai curiosa”,
a quelle parole qualcosa si accese nella mente di Bertrand,
“Vi riferite forse ad Alexandre Dubois?”
domandò, il tono di colpo si era fatto più cortese
“Proprio lui! Ma allora lo conoscete!”
“Abbiamo condiviso una bella avventura, se così si
può dire”
“Siete venuto a trovarlo? È qui da un paio di
settimane. Speravo di poterlo andare a trovare, ma ha degli ospiti
importanti e mi ha detto che preferisce vedermi quando potremo stare da
soli”, lo sguardo di Corinne si accese di una scintilla di
ostentata malizia, quella di una bambina che vuole fingere di essere
cresciuta.
Bertrand si lasciò scappare una risatina. Conosceva
Alexandre Dubois abbastanza bene da sapere che mai e poi mai avrebbe
provato interesse per quella ragazzina.
“Ospiti importanti, dite?” le chiese fingendosi
stupito
“Oh si, ne sono arrivati altri anche oggi, verso ora di
pranzo. Una carrozza con un blasone. Ospiti importanti, per l'appunto,
avrà fatto molte conoscenze a Parigi! Ma voi... non siete
qui per lui?”
“Non solo per lui, mia cara.- concluse l'investigatore-
Andrò a trovare il nostro caro Alexandre quando
sarà il momento adatto. Prendete pure il mio giornale se
volete”.
*
Raoul pensò che trovava difficile immaginare che il suo
amico Alexandre fosse nato e cresciuto in un posto del genere. Saint-
Gaudens era un luogo grazioso, ma appariva così...
così provinciale.
Mentre il ragazzo era intento a pensare, Christine saltò
giù dalla carrozza.
“Mio Dio! Hai deciso di romperti una gamba?” la
rimproverò Raoul, ma la ragazza non lo ascoltò e
andò a bussare alla porta della casa.
Anche Raoul scese dalla carrozza, per un po' resse con una certa
determinatezza gli sguardi dei curiosi che si fermavano a osservare lo
stemma dipinto sullo sportello della vettura, poi si sentì
cogliere dall'imbarazzo. Non gli capitava mai di destare tutto
quell'interesse e all'improvviso provò una grande voglia di
tornare a casa.
Alexandre aprì la porta e sorrise,
“Benvenuti” disse raggiante.
Christine gli prese una mano tra le sue,
“Sono così contenta di rivederti!”
esclamò
“Anch'io. Specie dopo aver trascorso tutto questo da solo in
compagnia di quella specie di orso” scherzò il
giovane.
Raoul entrò in casa e si chiuse la porta alle spalle, lui e
il suo amico videro Christine correre via, verso le scale.
“Sembra essersi ripresa del tutto- osservò
Alexandre- e tu, mio amico dal cuor malato?”
“Sto ancora meditando su quale sia il modo migliore per farla
finita” scherzò il visconte. La malinconia per
quell'amore sperato e non ricambiato non gli era passata, ma in quel
momento sembrava che intorno ci fosse quasi aria di festa.
*
Erano di nuovo insieme. Insieme.
Era tutto ciò a cui Erik riuscì a pensare mentre
affondava il viso tra i capelli di Christine e ne aspirava il profumo.
Christine si sentiva stanca, a pezzi. La lunga strada l'aveva provata,
la ferita non si era ancora rimarginata del tutto e lei era consapevole
che era stata un terribile azzardo mettersi in viaggio.
“Oh, Erik...” mormorò
“Ritrovarti fa quasi più male che
perderti” disse lui, con il cuore impazzito che martellava
contro le costole.
Il vento soffiò via le nuvole dal loro orizzonte. Un
orizzonte ancora lontanissimo eppure, finalmente, macchiato d'azzurro.
Una nuova tempesta si stava preparando, ma loro non potevano saperlo.
Gli occhi del nemico scrutavano quello stesso orizzonte pronti a
soffiarci contro altre nuvole. Gli occhi del nemico erano
lì, vicini. Vicinissimi...
_____________________________________
Un luuungo paragrafo dedicato al cuoricino nero di Berty era dovuto.
I due fratelli che giocano ad acchiapparello non erano in programma, ma
quanto mi piace farli azzuffare!
Per il resto... ehm ehm... lo so, il finale aperto è da
pazza sadica, ma che ci volete fare? Ho a che fare con uno come Erik e
si sa, chi pratica lo zoppo impara a zoppicare...
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Capitolo 32 *** Di fuoco e sangue - Epilogo ***
Prova provante che non ho mai dimenticato questa storia...
no, non è stata dimenticata, è stata
"scavalcata", in questi giorni sono a casa e mi sono IMPOSTA di
scrivere questo capitolo conclusivo.
Era così che doveva andare... avevo in mente
questo fin dall'inizio, anche se ho cercato di autoconvincermi che era
meglio di no...
Sono contenta di averci messo il punto di conclusione.
Ringrazio tutti quelli che hanno seguito quest'altra
improbabile avventura del Maestro&Co., questa storia riveduta e
corretta dalla sottoscritta...
Confesso che questo ultimo capitolo mi piace molto
"esteticamente", per il modo in cui è scritto più
che per quello che racconta, e quindi voglio dedicarlo a Keyra93,
dalla quale ho ricevuto uno dei più bei complimenti che una
scribacchina squinternata come la sottoscritta potesse ricevere.
****
CAPITOLO VENTINOVESIMO
Di fuoco e sangue
Fuoco.
Le fiamme dilagavano,
rompevano i sigilli del buio. Portavano luce, ma non era
così che doveva essere. Quella luce era rossa e aveva sapore
di sangue.
Sangue e fuoco, artigli
che distruggevano tutto, il suo mondo, la sua vita. Tutto avvolto in
una danza di luce e di morte.
L'Opera Populaire
diventava cenere...
Una voce dal cielo
scivolava sulle spire di fumo e arrivava fino a lui.
“È
così che deve essere... è proprio così
che doveva finire, e lo sai... lo sai... lo sai...”
L'eco di quelle parole
si dissolse nella sua voce che urlava NO.
Nei pensieri di Erik
quello doveva essere lo stesso No che aveva urlato Lucifero mentre
precipitava giù dal Paradiso...
Si svegliò di soprassalto, i pugni serrati attorno alle
lenzuola. Lo sguardo vagò febbrile per tutta la stanza fino
a posarsi sul viso di Christine addormentata accanto a lui. L'uomo
sospirò, contento di non averla svegliata.
Lentamente, con gesti cauti, Erik si mise a sedere in mezzo al letto,
poi si mise in piedi. Con passo felpato raggiunse il catino e si
sciacquò il viso. La penombra che avvolgeva la stanza
confondeva i contorni del suo viso imperfetto.
Sempre attento a non fare rumore, si diresse verso la finestra e
scostò la tenda. Il paese era avvolto da un buio che per un
attimo gli parve amico. Aveva sempre amato il buio, fin da bambino, non
pensava che celasse strani mostri o strane insidie, anzi, il buio lo
proteggeva, celava il mostro agli occhi del mondo perché il
mondo non potesse fare male all'uomo che c'era dietro il volto del
mostro.
Un lampo si accese nei suoi pensieri proiettando in
quell'oscurità le immagini del suo incubo. Vide il fuoco,
sentì l'odore del sangue. Un rivolo di sudore freddo gli
colò lungo il collo.
Hai paura, Figlio del
Diavolo?
Erik afferrò i suoi vestiti, si chiuse nella stanza da bagno
e si rivestì preso alle spalle da una strana e prepotente
voglia di fare qualcosa. Forse anche solo tornare a giocare con il
buio, come faceva un tempo, prima che l'uomo avesse la meglio sul
mostro.
Prima di uscire prese la sua maschera.
Il mondo, dopotutto, non era ancora pronto per i mostri.
Scese cauto le scale, quei gradini scricchiolanti non emisero un solo
suono sotto i suoi piedi. Il Signore delle Botole non si sarebbe fatto
tradire dal legno di una vecchia casa.
Arrivato sull'ultimo gradino, Erik sobbalzò per un rumore
improvviso, un respiro forte proveniente dalla sua destra e quasi perse
l'equilibrio. Si aggrappò prontamente al parapetto della
scala e guardò contrariato nella direzione da cui proveniva
il suono: Alexandre era sdraiato sul divano in una posa scomoda eppure
dormiva profondamente, con ancora i vestiti addosso, le maniche della
camicia risvoltate sui gomiti e il gilet sgualcito.
Erik si avviò verso la porta.
«E adesso dove hai intenzione di andare?» fece,
come dal nulla, una voce impastata di sonno.
L'uomo non si voltò neppure, alzò gli occhi al
cielo e scosse il capo,
«Non imparerai mai a farti i fatti tuoi, ragazzo? Torna a
dormire» borbottò sistemandosi meglio il mantello
sulle spalle. Senza attendere risposta, aprì la porta di
casa e in un attimo fu avvolto dal buio e dal freddo della notte di
montagna.
*
Aveva scelto una strada rischiosa e scomoda. Una strada senza gloria.
Agli occhi di Parigi sarebbe stato sempre e comunque quello che si era
lasciato scappare il Fantasma dell'Opera sotto il naso, ma ormai non
gli importava. La vendetta è vendetta, non ha bisogno del
riscatto. La vendetta è per se stessi, non per gli occhi del
mondo.
Bertrand aveva preso alloggio in una piccola pensione del paese. Letto
scomodo e cibo scadente.
Aveva passato quattro giorni lì. Di notte usciva e metteva
insieme i pezzi del suo piano, in silenzio, al buio. Proprio come un
fantasma...
«Eh, amico mio,» aveva mormorato una sera mentre
spiava il profilo di Erik disegnarsi in controluce dietro la tenda
della camera, un attimo prima che nella casa si spegnessero i lumi,
«ora capisco perché ti piaceva tanto questo
gioco...».
Il primo giorno aveva atteso che fosse notte fonda, che tutti
dormissero, poi aveva raggiunto la casa. Che gran fortuna che fosse
l'ultima infondo alla strada. Che gran fortuna che fosse stata
disabitata per tutti quei mesi e che la porta sul retro che portava
alla cantina fosse marcita.
Quando Bertrand aveva trovato quella via d'accesso aveva cominciato a
credere che tutto quello che stava facendo fosse non solo doveroso, ma
giusto. Era sgattaiolato dentro e, come previsto, aveva trovato uno
scantinato buio e vuoto dove affondavano i pilastri della casa e dove
il soffitto era costituito dalle assi di legno del pavimento del pian
terreno.
Perfetto.
Tutto il resto non era stato difficile. Aveva passato la vita ad avere
a che fare con i delinquenti ed era facile per lui trovarli e trattare
con loro. Una volta li arrestava, poi aveva imparato a usarli: avevano
una loro grande utilità, fornivano informazioni e anche
qualcosa di più, per chi era disposto a pagare.
Il secondo giorno Bertand era andato in un'osteria, aveva scovato a
fiuto quella più malfamata. Erano bastate poche parole
giuste, era bastato offrire un giro di birra e qualche sigaro e,
infine, sborsare qualche franco, per avere le informazioni che gli
servivano.
Il terzo giorno aveva trovato i contrabbandieri e aveva comprato
quattro piccole botti di polvere da sparo (abbastanza piccole
perché riuscisse a trasportarle da solo) e una cassa di
bottiglie di cognac che aveva nascosto nel bosco retrostante la via
dove si trovava la casa.
Il quarto giorno aveva atteso la notte fonda, era tornato in quella
cantina, aveva sistemato le botti di esplosivo accanto ai pilastri e
aveva infilato le bottiglie di cognac sotto le travi, a contatto con le
assi del pavimento.
«Dio benedica i montanari e la loro abitudine di costruire le
case in legno!» si era detto stappando una bottiglia di
liquore e bevendone un lungo sorso per poi lasciarla cadere sul
pavimento.
Protetto dal buio era uscito furtivo dalla cantina stendendo la miccia,
doveva essere lunga, lui doveva essere già lontano quando la
casa sarebbe crollata in mezzo al fuoco.
Si infilò un sigaro tra le labbra, accese il fiammifero
sfregandolo sul tronco di un albero. Accese prima il sigaro, poi la
miccia.
La scintilla di luce cominciò a serpeggiare nel buio.
Vicina, sempre più vicina.
*
Erik sentiva una strana voglia di piangere. In mezzo a quel buio la
felicità era lontana anche se le sue braccia gli sembravano
ancora tiepide del calore del corpo di Christine addormentata contro il
suo fianco.
In mezzo a quel silenzio udiva voci che si sommavano in un laconico
mormorio che piano piano diventava come lo scorrere lugubre delle note
di un requiem.
Si portò le mani alle orecchie in un gesto disperato,
sperando che le voci zittissero. Era stato così felice
quando, quattro giorni prima, Christine era tornata da lui, e adesso
perché gli sembrava tutto così fuori posto? La
sua vita era un sogno fragile pronto a dissolversi con le prime luci
del mattino.
Hai paura, Figlio del
Diavolo?
Sì!
Fosse stata solo la sua vita, non gli sarebbe importato. Fosse rimasto
solo, com'era giusto, sarebbe stato tutto più facile.
Alzò gli occhi al cielo. Il suo sguardo incrociò
il profilo del campanile della chiesa, sulla guglia dorata svettava una
massiccia croce di ferro. Strinse le palpebre.
Con la schiena appoggiata al tronco di un albero, il Fantasma
dell'Opera pregò per la prima volta in vita sua, rivolse a
Dio suppliche e non parole di rabbia.
Fu quando riaprì gli occhi, lunghi minuti dopo, che vide
quella minuscola lingua di fuoco brillare sul terreno, come una stella
cadente che cerca la via per tornare in cielo.
*
Luce, tanta luce. E fuoco dall'odore del sangue.
Nascosto dietro a un cespuglio, abbastanza lontano dalla casa, l'uomo
sognava il suo trionfo e il boato che lo avrebbe annunciato.
La scintilla era a pochi passi dalla porta della cantina quando l'ombra
arrivò rapace a portare via dagli occhi di Balise Bertrand
il suo momento di gloria.
L'ombra era come spuntata dal nulla, aveva spento la fiammella. Nel
silenzio della notte Bertrand poteva sentire gli angeli ridere di lui.
L'ombra restò immobile, Bertrand l'avrebbe riconosciuta
ovunque. Aveva persino un nome... cosa insolita per un Fantasma.
«Erik» mormorò l'investigatore,
pronunciando quel nome come se stesse scagliando una maledizione.
Erik teneva ancora il piede premuto sul terreno, lì dove
aveva spento la miccia. Guardava incredulo i pochi centimetri che
separavano il cordoncino dalla porta della cantina. Sentì un
alito di vento gelargli il sudore sulla nuca.
Se solo fosse arrivato una manciata di secondi più tardi...
«Erik!». La voce di Bertrand lo colse alle spalle,
aveva il tono gioviale di un saluto quasi affettuoso, ma il clik della
pistola che veniva caricata suonava come il respiro della Morte.
«Ho bestemmiato un attimo fa, quando ti ho visto comparire e
spegnere la miccia...» disse l'investigatore. La canna della
rivoltella aveva riflessi cupi nella blanda luce delle stelle, come il
bianco della maschera del Fantasma.
«Bertrand!» ringhiò Erik voltandosi di
scatto verso di lui.
«... ma ora sono quasi contento di vederti»
proseguì l'investigatore. «Tu non sei uomo che
merita di essere ucciso nel sonno, quelli come te vale la pena
guardarli negli occhi mentre tirano le cuoia. Ma più di
tutto, mi piace pensare che lo sai... lo sai che non mi
fermerò, che dopo che ti avrò sparato
accenderò di nuovo quella miccia».
Il vento si era fatto più freddo e spazzava impietoso il
piccolo spiazzo dietro la casa.
«Pensandoci, è davvero un bene che tu sia qui,
Erik. Ho una storia: la fanciulla e i suoi amici lasciano Parigi per
scappare alla persecuzione del Fantasma, ma il Fantasma si mette sulle
loro tracce e li trova. Io lo inseguo, ma non riesco a fermarlo se non
dopo che egli ha già compiuto la sua vendetta facendo
saltare in aria la casa dove si erano rifugiati Mademoiselle Daae e i
suoi amici. Non contavo di uscirne come un eroe e nemmeno mi
importava... ma già che siamo qui, uniamo l'utile al
dilettevole, non ti pare?».
La rabbia stava trasformando il sangue di Erik in un fiume di lava. E
così Bertrand l'avrebbe avuta vinta. E così lui
sarebbe rimasto un mostro per l'eternità... e
così Christine e Alexandre avrebbero pagato con la vita il
loro amore nei suoi confronti...
Hai paura, Figlio del
Diavolo?
Se la furia avesse potuto essere una musica avrebbe avuto quelle note,
il suono dell'urlo che Erik lanciò scagliandosi contro
Bertrand. Non c'era logica in quel gesto, non c'era ragione, non c'era
più nemmeno voglia di vivere, non a quel prezzo, non con
quella colpa sul cuore.
Lo sparo squarciò la notte risucchiandone tutto il buio e
tutto il silenzio e restituendoglieli poi tutti interi in un colpo solo.
Non fu il Fantasma a cadere, fu Bertrand.
Erik rimase impietrito, proteso in avanti, con le gambe pronte a
scattare. Impiegò qualche secondo a realizzare cosa era
successo.
Blaise Bertrand rimase ritto in mezzo allo spiazzo di rena. Sarebbe
parso immobile come una fotografia se non fosse stato per quel rivolo
di sangue che gli scorreva lento da un angolo della bocca.
Dopo qualche secondo pesante come l'eternità, cadde a faccia
in terra, sollevando uno sbuffo di polvere.
Alexandre era in piedi alle spalle di Bertrand, tremava come una foglia
a ogni soffio di vento. Il suo volto era più bianco della
maschera del Fantasma, le mani che reggevano la pistola con la quale
aveva sparato lasciarono la presa come se il peso dell'arma si fosse
fatto di colpo insostenibile.
Ci sono mani che non possono trattenere il peso della Morte. Le mani di
Alexandre non erano fatte per quello...
Erik vide il ragazzo cadere in ginocchio, con gli occhi sbarrati,
puntati sulla pozza di sangue che si allargava accanto al corpo di
Bertrand, e le sue labbra mormorarono un “No”
gonfio di dolore poi finalmente si scosse e corse verso suo fratello,
si gettò in terra accanto a lui e gli cinse le spalle con un
braccio.
«Io... io...». La voce di Alexandre moriva nelle
loro orecchie ancora intontite dal suono dello sparo. «Io...
sono stato... io...».
Il corpo del ragazzo era scosso da fremiti di puro orrore.
Erik lo abbracciò, come un fratello, come un padre, come un
amico. Per un attimo i loro cuori batterono alla stessa maniera, come
cuori che si stanno spaccando.
«Avrei dato ogni goccia del mio sangue perché non
dovessi essere tu a fare questo, fratello»
sussurrò Erik. Voleva trattenere tra le dita l'anima del
ragazzo che sentiva andare via.
«... fratello» ripeté Alexandre.
«Ora è tutto finito».
EPILOGO
«Eravamo andati via da Parigi. Bertrand ci credeva coinvolti
in chissà che complotti criminali e ci ha inseguiti fino
qui, voleva farci saltare in aria... a tanto arrivava la sua follia.
Monsieur Dubois ha dovuto difendere la sua casa, se stesso e
noi». Furono queste le parole che Raoul De Chagny
riferì ai gendarmi per informarli di ciò che era
accaduto. Se non fosse bastata la parola di un visconte di Francia a
bollare Bertrand come un individuo pericoloso e a giustificare i
terribili fatti avvenuti, bastarono comunque poche indagini. Si
scoprì la pessima reputazione che si era guadagnato a
Parigi, il fatto che fosse stato sollevato dal suoi incarico nelle
autorità della capitale e la testimonianza di chi lo aveva
visto parlare con qualche malvivente locale le sere precedenti. Senza
contare che alla vista dei barili di polvere da sparo sistemati nella
cantina di casa Dubois, l'ispettore locale aveva quasi avuto un
mancamento: cose del genere non erano mai successe in quel placido
paesino che era Saint Gaudens.
Erik era rimasto opportunamente nascosto, lontano dalla casa, fino a
quando, in pochi giorni, la gendarmeria non aveva deciso che non c'era
altro su cui indagare: era esattamente tutto come aveva detto il
visconte, non c'era altra spiegazione.
*
Erik era in piedi sull'uscio della porta della camera da letto. Il
volto di Alexandre era pallido tra le lenzuola. Il medico che lo aveva
visitato aveva detto che si sarebbe ripreso e che lentamente sarebbe
guarito anche il suo spirito.
In paese parlavano di lui come un eroe, sui volti di Christine e Raoul
era dipinta la più viva riconoscenza. Solo Erik soffriva in
silenzio per lui e rimaneva ogni notte seduto al suo capezzale,
sperando che suo fratello si riavesse, aprisse gli occhi e cominciasse
a inveire contro di lui.
Voleva sentirgli dire che era tutta colpa sua, che era un mostro capace
solo di rovinare tutto ciò che toccava. Perché
era questo che aveva fatto con lui.
Odiami, Alexandre,
l'odio lava via un sacco di cose...
Una sera Alexandre aprì gli occhi di colpo, nella pallida
luce del lume cercò lo sguardo di Erik e lui
sentì il pavimento venire meno sotto i piedi.
«E adesso cosa farete tu e Christine?»
domandò Alexandre con voce spenta. Erik si sentì
del tutto preso alla sprovvista,
«Alexandre... io...».
Il ragazzo accennò un sorriso,
«Non venirmi a dire che devo imparare a farmi i fatti miei.
Rispondi alla mia domanda» mormorò.
Le labbra dell'uomo si schiusero in una smorfia di stupore,
«Io... intendo sposarla, appena tu ti sarai ripreso... se...
poi non lo so, ti giuro, io non so più nulla»
disse colui che una volta era stato il Fantasma dell'Opera, coprendosi
il volto con le mani.
Alexandre si mise a sedere e posò una mano su quelle di suo
fratello per lasciare che si scoprisse il viso. I due restarono a
guardarsi in silenzio per qualche secondo, quasi stupiti di quanto i
loro occhi fossero uguali. Poi Alexandre strinse un pugno e,
racimolando tutta la forza che aveva, sferrò un sonoro colpo
a Erik in pieno viso.
L'umo scivolò sul pavimento con il labbro rotto e
guardò il ragazzo seduto sul materasso che arrancava per lo
sforzo.
«Sii felice, razza di idiota!» lo ammonì
Alexandre spalancando gli occhi chiari. «Non osare mai
più piagnucolare o piangerti addosso! Non osare...
perché se renderai vano tutto questo, io ti giuro, sarai la
prima persona che imparerò ad odiare. E non osare mai
più dirmi che sono un impiccione... e dirmi che non sono tuo
fratello...».
Erik si sollevò tamponandosi l'angolo della bocca che
già si stava illividendo. Afferrò saldamente la
mano di Alexandre e la strinse in un muto giuramento pieno di promesse
pesanti come il dolore e belle come la felicità.
Alcuni anni dopo, un altro giornalista francese avrebbe tentato
l'impresa che Alexandre finì poi, per ovvi motivi, per
abbandonare: scrivere la vicenda del Fantasma dell'Opera.
Raccontò di un mostro, di un angelo caduto e del suo amore
impossibile. Raccontò che i mostri sono destinati a perdere,
che ci sono luoghi e cuori che la luce non riesce a sfiorare... ma
questa è un'altra storia.
_________________________________
At last...
In questo ultimo capitolo ho voluto dare spazio non tanto
all'aMMore, che tanto lì abbiamo capito come stanno le cose,
quanto alla questione dei due fratelli (sta cosa di aver dato una
famiglia al Maestro mi gasa un sacco, abbiate pazienza). DOVEVA per
forza essere Alexandre a uccidere Berty e non nego che la cosa mi abbia
fatto molto male. Ho sempre pensato che la storia del Fantasma parli di
molte cose, una di queste è la rovina delle cose buone, come
un sentimento come l'amore può diventare odio e follia, come
il genio può traformarsi in pazzia, come l'innocenza
può essere violata con la paura e il dolore... e la mia idea
per questa fanfiction era appunto quella di mantenere questi temi, era
quella che il mio amato Alex sacrificasse la sua anima in nome della
salvezza di Erik e di tutti loro.
Non so se la mia visione di tutto ciò risulta
chiara...diciamo solo che sono fermamente convinta che una persona
buona come lo è questo mio personaggio che tanto ho adorato,
non riuscirebbe a passare sopra con tanta facilità al fatto
di aver ucciso qualcuno anche se, per come si erano messe le cose,
quella appariva come l'unica soluzione.
In quanto al paragrafetto finale... ehm, è la mia
dichiarazione non dico di odio, ma quanto meno di "disaccordo" con il
romanzo il cui modo di porre la storia proprio non riesce a piacermi,
malgrado senza quel certo giornalista francese che si prese la briga di
raccontare in un'unica strabiliante vicenda tutto quello che c'era da
dire sull'amore, sicuramente non saremmo qui.
Detto ciò... chiedo ancora scusa per il terribile
ritardo e rinnovo i miei ringraziamenti a chi ha seguito, letto,
commentato.
Il Maestro è sempre il mio musO e anche se
ultimamente ho poco tempo da dedicargli sono profondamente convinta che
non posso vivere senza scrivere di lui.
Stay Tuned!
... your obidient
servant.
Elby
Capitolo reinserito il 30\12\2011
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